Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LO SPETTACOLO
E LO SPORT
QUINTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Vintage.
Le prevendite.
I Televenditori.
I Balli.
Il Jazz.
La trap.
Il musical è nato a Napoli.
Morti di Fame.
Poppe al vento.
Il lato eccentrico (folle) dei Vip.
La Tecno ed i Rave.
Alias: i veri nomi.
Woodstock.
Hollywood.
Spettacolo mafioso.
Il menù dei vip.
Il Duo è meglio di Uno.
Non è la Rai.
Abel Ferrara.
Achille Lauro.
Adria Arjona.
Adriano Celentano.
Afef Jnifen.
Aida Yespica.
Alan Sorrenti.
Alba Parietti.
Al Bano Carrisi.
Al Pacino.
Alberto Radius.
Aldo, Giovanni e Giacomo.
Alec Baldwin.
Alessandra Amoroso.
Alessandra Celentano.
Alessandra Ferri.
Alessandra Mastronardi.
Alessandro Bergonzoni.
Alessandro Borghese.
Alessandro Cattelan.
Alessandro Gassman.
Alessandro Greco.
Alessandro Meluzzi.
Alessandro Preziosi.
Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.
Alessio Boni.
Alessia Marcuzzi.
Alessia Merz.
Alessio Giannone: Pinuccio.
Alessandro Haber.
Alex Britti.
Alexia.
Alice.
Alfonso Signorini.
Alyson Borromeo.
Alyx Star.
Alvaro Vitali.
Amadeus.
Amanda Lear.
Ambra Angiolini.
Anastacia.
Andrea Bocelli.
Andrea Delogu.
Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.
Andrea Sartoretti.
Andrea Zalone.
Andrée Ruth Shammah.
Angela Finocchiaro.
Angelina Jolie.
Angelina Mango.
Angelo Branduardi.
Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.
Anna Falchi.
Anna Galiena.
Anna Maria Barbera.
Anna Mazzamauro.
Ana Mena.
Anna Netrebko.
Anne Hathaway.
Annibale Giannarelli.
Antonella Clerici.
Antonella Elia.
Antonella Ruggiero.
Antonello Venditti e Francesco De Gregori.
Antonino Cannavacciuolo.
Antonio Banderas.
Antonio Capuano.
Antonio Cornacchione.
Antonio Vaglica.
Après La Classe.
Arisa.
Arnold Schwarzenegger.
Asia e Dario Argento.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Barbara Bouchet.
Barbara D'urso.
Barbra Streisand.
Beatrice Quinta.
Beatrice Rana.
Beatrice Segreti.
Beatrice Venezi.
Belen Rodriguez.
Bella Lexi.
Benedetta D'Anna.
Benedetta Porcaroli.
Benny Benassi.
Peppe Barra.
Beppe Caschetto.
Beppe Vessicchio.
Bianca Guaccero.
BigTittyGothEgg o GothEgg.
Billie Eilish.
Blanco.
Blake Blossom.
Bob Dylan.
Bono Vox.
Boomdabash.
Brad Pitt.
Brigitta Bulgari.
Britney Spears.
Bruce Springsteen.
Bruce Willis.
Bruno Barbieri.
Bruno Voglino.
Cameron Diaz.
Caparezza.
Carla Signoris.
Carlo Conti.
Carlo Freccero.
Carlo Verdone.
Carlos Santana.
Carmen Di Pietro.
Carmen Russo.
Carol Alt.
Carola Moccia, alias La Niña.
Carolina Crescentini.
Carolina Marconi.
Cate Blanchett.
Catherine Deneuve.
Catherine Zeta Jones.
Caterina Caselli.
Céline Dion.
Cesare Cremonini.
Cesare e Mia Bocci.
Chiara Francini.
Chloe Cherry.
Christian De Sica.
Christiane Filangieri.
Claudia Cardinale.
Claudia Gerini.
Claudia Pandolfi.
Claudio Amendola.
Claudio Baglioni.
Claudio Cecchetto.
Claudio Lippi.
Claudio Santamaria.
Claudio Simonetti.
Coez.
Coma Cose.
Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.
Corrado Tedeschi.
Costantino Della Gherardesca.
Cristiana Capotondi.
Cristiano De André.
Cristiano Donzelli.
Cristiano Malgioglio.
Cristina D'Avena.
Cristina Quaranta.
Dado.
Damion Dayski.
Dan Aykroyd.
Daniel Craig.
Daniela Ferolla.
Daniela Martani.
Daniele Bossari.
Daniele Quartapelle.
Daniele Silvestri.
Dargen D'Amico.
Dario Ballantini.
Dario Salvatori.
Dario Vergassola.
Davide Di Porto.
Davide Sanclimenti.
Diana Del Bufalo.
Dick Van Dyke.
Diego Abatantuono.
Diego Dalla Palma.
Diletta Leotta.
Diodato.
Dita von Teese.
Ditonellapiaga.
Dominique Sanda.
Don Backy.
Donatella Rettore.
Drusilla Foer.
Dua Lipa.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Eden Ivy.
Edoardo Bennato.
Edoardo Leo.
Edoardo Vianello.
Eduardo De Crescenzo.
Edwige Fenech.
El Simba (Alex Simbala).
Elena Lietti.
Elena Sofia Ricci.
Elenoire Casalegno.
Elenoire Ferruzzi.
Eleonora Abbagnato.
Eleonora Giorgi.
Eleonora Pedron.
Elettra Lamborghini.
Elio e le Storie Tese.
Elio Germano.
Elisa Esposito.
Elisabetta Canalis.
Elisabetta Gregoraci.
Elodie.
Elton John.
Ema Stokholma.
Emanuela Fanelli.
Emanuela Folliero.
Emanuele Fasano.
Eminem.
Emma Marrone.
Emma Rose.
Emma Stone.
Emma Thompson.
Enrico Bertolino.
Enrica Bonaccorti.
Enrico Lucci.
Enrico Montesano.
Enrico Papi.
Enrico Ruggeri.
Enrico Vanzina.
Enzo Avitabile.
Enzo Braschi.
Enzo Garinei.
Enzo Ghinazzi in arte Pupo.
Enzo Iacchetti.
Erika Lust.
Ermal Meta.
Eros Ramazzotti.
Eugenio Finardi.
Eva Grimaldi.
Eva Henger.
Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.
Fabio Concato.
Fabio Rovazzi.
Fabio Testi.
Fabri Fibra.
Fabrizio Corona.
Fabrizio Moro.
Fanny Ardant.
Fausto Brizzi.
Fausto Leali.
Federica Nargi e Alessandro Matri.
Federica Panicucci.
Ficarra e Picone.
Filippo Neviani: Nek.
Filippo Timi.
Filomena Mastromarino, in arte Malena.
Fiorella Mannoia.
Flavio Briatore.
Flavio Insinna.
Forest Whitaker.
Francesca Cipriani.
Francesca Dellera.
Francesca Fagnani.
Francesca Michielin.
Francesca Manzini.
Francesca Reggiani.
Francesco Facchinetti.
Francesco Gabbani.
Francesco Guccini.
Francesco Sarcina e le Vibrazioni.
Franco Maresco.
Franco Nero.
Franco Trentalance.
Francis Ford Coppola.
Frank Matano.
Frida Bollani.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gabriel Garko.
Gabriele Lavia.
Gabriele Salvatores.
Gabriele Sbattella.
Gabriele e Silvio Muccino.
Geena Davis.
Gegia.
Gene e Charlie Gnocchi.
Geppi Cucciari.
Gérard Depardieu.
Gerry Scotti.
Ghali.
Giancarlo Giannini.
Gianluca Cofone.
Gianluca Grignani.
Gianna Nannini.
Gianni Amelio.
Gianni Mazza.
Gianni Morandi.
Gianni Togni.
Gigi D’Agostino.
Gigi D’Alessio.
Gigi Marzullo.
Gigliola Cinquetti.
Gina Lollobrigida.
Gino Paoli.
Giorgia Palmas.
Giorgio Assumma.
Giorgio Lauro.
Giorgio Panariello.
Giovanna Mezzogiorno.
Giovanni Allevi.
Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.
Giovanni Lindo Ferretti.
Giovanni Scialpi.
Giovanni Truppi.
Giovanni Veronesi.
Giulia Greco.
Giuliana De Sio.
Giulio Rapetti: Mogol.
Giuseppe Gibboni.
Giuseppe Tornatore.
Giusy Ferreri.
Gli Extraliscio.
Gli Stadio.
Guendalina Tavassi.
Guillermo Del Toro.
Guillermo Mariotto.
Guns N' Roses.
Gwen Adora.
Harrison Ford.
Hu.
I Baustelle.
I Cugini di Campagna.
I Depeche Mode.
I Ferragnez.
I Maneskin.
I Negramaro.
I Nomadi.
I Parodi.
I Pooh.
I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.
Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.
Il Volo.
Ilary Blasi.
Ilona Staller: Cicciolina.
Irama.
Irene Grandi.
Irina Sanpiter.
Isabella Ferrari.
Isabella Ragonese.
Isabella Rossellini.
Iva Zanicchi.
Ivan Cattaneo.
Ivano Fossati.
Ivano Marescotti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
J-Ax.
Jacopo Tissi.
Jamie Lee Curtis.
Janet Jackson.
Jeff Goldblum.
Jenna Starr.
Jennifer Aniston.
Jennifer Lopez.
Jerry Calà.
Jessica Rizzo.
Jim Carrey.
Jo Squillo.
Joe Bastianich.
Jodie Foster.
Jon Bon Jovi.
John Landis.
John Travolta.
Johnny Depp.
Johnny Dorelli e Gloria Guida.
José Carreras.
Julia Ann.
Julia Roberts.
Julianne Moore.
Justin Bieber.
Kabir Bedi.
Kathy Valentine.
Katia Ricciarelli.
Kasia Smutniak.
Kate Moss.
Katia Noventa.
Kazumi.
Khadija Jaafari.
Kim Basinger.
Kim Rossi Stuart.
Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.
Klaus Davi.
La Rappresentante di Lista.
Laetitia Casta.
Lando Buzzanca.
Laura Chiatti.
Laura Freddi.
Laura Morante.
Laura Pausini.
Le Donatella.
Lello Analfino.
Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.
Levante.
Liberato è Gennaro Nocerino.
Ligabue.
Liya Silver.
Lila Love.
Liliana Fiorelli.
Liliana Cavani.
Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.
Linda Evangelista.
Lino Banfi.
Linus.
Lizzo.
Lo Stato Sociale.
Loredana Bertè.
Lorella Cuccarini.
Lorenzo Cherubini: Jovanotti.
Lorenzo Zurzolo.
Loretta Goggi.
Lory Del Santo.
Luca Abete.
Luca Argentero.
Luca Barbareschi.
Luca Carboni.
Luca e Paolo.
Luca Guadagnino.
Luca Imprudente detto Luchè.
Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.
Luca Tommassini.
Luca Zingaretti.
Luce Caponegro in arte Selen.
Lucia Mascino.
Lucrezia Lante della Rovere.
Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.
Luigi Strangis.
Luisa Ranieri.
Maccio Capatonda.
Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.
Mago Forest: Michele Foresta.
Mahmood.
Madame.
Mal.
Malcolm McDowell.
Malena…Milena Mastromarino.
Malika Ayane.
Manuel Agnelli.
Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.
Mara Maionchi.
Mara Sattei.
Mara Venier.
Marcella Bella.
Marco Baldini.
Marco Bellavia.
Marco Castoldi: Morgan.
Marco Columbro.
Marco Giallini.
Marco Leonardi.
Marco Masini.
Marco Marzocca.
Marco Mengoni.
Marco Sasso è Lucrezia Borkia.
Margherita Buy e Caterina De Angelis.
Margherita Vicario.
Maria De Filippi.
Maria Giovanna Elmi.
Maria Grazia Cucinotta.
Marika Milani.
Marina La Rosa.
Marina Marfoglia.
Mario Luttazzo Fegiz.
Marilyn Manson.
Mary Jane.
Marracash.
Martina Colombari.
Massimo Bottura.
Massimo Ceccherini.
Massimo Lopez.
Massimo Ranieri.
Matilda De Angelis.
Matilde Gioli.
Maurizio Lastrico.
Maurizio Pisciottu: Salmo.
Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.
Mauro Pagani.
Max Felicitas.
Max Gazzè.
Max Giusti.
Max Pezzali.
Max Tortora.
Melanie Griffith.
Melissa Satta.
Memo Remigi.
Michael Bublé.
Michael J. Fox.
Michael Radford.
Michela Giraud.
Michelangelo Vood.
Michele Bravi.
Michele Placido.
Michelle Hunziker.
Mickey Rourke.
Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.
Miguel Bosè.
Milena Vukotic.
Miley Cyrus.
Mimmo Locasciulli.
Mira Sorvino.
Miriam Dalmazio.
Monica Bellucci.
Monica Guerritore.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nada.
Nancy Brilli.
Naomi De Crescenzo.
Natalia Estrada.
Natalie Portman.
Natasha Stefanenko.
Natassia Dreams.
Nathaly Caldonazzo.
Neri Parenti.
Nia Nacci.
Nicola Savino.
Nicola Vaporidis.
Nicolas Cage.
Nicole Kidman.
Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.
Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.
Niccolò Fabi.
Nina Moric.
Nino D'Angelo.
Nino Frassica.
Noemi.
Oasis.
Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.
Oliver Stone.
Olivia Rodrigo.
Olivia Wilde e Harry Styles.
Omar Pedrini.
Orietta Berti.
Orlando Bloom.
Ornella Muti.
Ornella Vanoni.
Pamela Anderson.
Pamela Prati.
Paola Barale.
Paola Cortellesi.
Paola e Chiara.
Paola Gassman e Ugo Pagliai.
Paola Quattrini.
Paola Turci.
Paolo Belli.
Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.
Paolo Calabresi.
Paolo Conte.
Paolo Crepet.
Paolo Rossi.
Paolo Ruffini.
Paolo Sorrentino.
Patrizia Rossetti.
Patti Smith.
Penélope Cruz.
Peppino Di Capri.
Peter Dinklage.
Phil Collins.
Pier Luigi Pizzi.
Pierfrancesco Diliberto: Pif.
Pietro Diomede.
Pietro Valsecchi.
Pierfrancesco Favino.
Pierluigi Diaco.
Piero Chiambretti.
Pierò Pelù.
Pinguini Tattici Nucleari.
Pino Donaggio.
Pino Insegno.
Pio e Amedeo.
Pippo (Santonastaso).
Peter Gabriel.
Placido Domingo.
Priscilla Salerno.
Pupi Avati.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quentin Tarantino.
Raffaele Riefoli: Raf.
Ramona Chorleau.
Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.
Raul Cremona.
Raphael Gualazzi.
Red Canzian.
Red Ronnie.
Reya Sunshine.
Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.
Renato Zero.
Renzo Arbore.
Riccardo Chailly.
Riccardo Cocciante.
Riccardo Manera.
Riccardo Milani.
Riccardo Scamarcio.
Ricky Gianco.
Ricky Johnson.
Ricky Martin.
Ricky Portera.
Rihanna.
Ringo.
Rita Dalla Chiesa.
Rita Rusic.
Roberta Beta.
Roberto Bolle.
Roberto Da Crema.
Roberto De Simone.
Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.
Roberto Satti: Bobby Solo.
Roberto Vecchioni.
Robbie Williams.
Rocco Papaleo.
Rocco Siffredi.
Roman Polanski.
Romina Power.
Romy Indy.
Ron: Rosalino Cellamare.
Ron Moss.
Rosanna Lambertucci.
Rosanna Vaudetti.
Rosario Fiorello.
Giuseppe Beppe Fiorello.
Rowan Atkinson.
Russel Crowe.
Rkomi.
Sabina Ciuffini.
Sabrina Ferilli.
Sabrina Impacciatore.
Sabrina Salerno.
Sally D’Angelo.
Salvatore (Totò) Cascio.
Sandra Bullock.
Santi Francesi.
Sara Ricci.
Sara Tommasi.
Scarlett Johansson.
Sebastiano Vitale: Revman.
Selena Gomez.
Serena Dandini.
Serena Grandi.
Serena Rossi.
Sergio e Pietro Castellitto.
Sex Pistols.
Sfera Ebbasta.
Sharon Stone.
Shel Shapiro.
Silvia Salemi.
Silvio Orlando.
Silvio Soldini.
Simona Izzo.
Simona Ventura.
Sinead O’Connor.
Sonia Bergamasco.
Sonia Faccio: Lea di Leo.
Sonia Grey.
Sophia Loren.
Sophie Marceau.
Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Stefania Rocca.
Stefania Sandrelli.
Stefano Accorsi e Fabio Volo.
Stefano Bollani.
Stefano De Martino.
Steve Copeland.
Steven Spielberg.
Stormy Daniels.
Sylvester Stallone.
Sylvie Renée Lubamba.
Tamara Baroni.
Tananai.
Teo Teocoli.
Teresa Saponangelo.
Tiberio Timperi.
Tim Burton.
Tina Cipollari.
Tina Turner.
Tinto Brass.
Tiziano Ferro.
Tom Cruise.
Tom Hanks.
Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.
Tommaso Zanello alias Piotta.
Tommy Lee.
Toni Servillo.
Totò Cascio.
U2.
Umberto Smaila.
Umberto Tozzi.
Ultimo.
Uto Ughi.
Valentina Bellucci.
Valentina Cervi.
Valeria Bruni Tedeschi.
Valeria Graci.
Valeria Marini.
Valerio Mastandrea.
Valerio Scanu.
Vanessa Scalera.
Vasco Rossi.
Vera Gemma.
Veronica Pivetti.
Victoria Cabello.
Vincenzo Salemme.
Vinicio Marchioni.
Viola Davis.
Violet Myers.
Virginia Raffaele.
Vittoria Puccini.
Vittorio Brumotti.
Vittorio Cecchi Gori.
Vladimir Luxuria.
Woody Allen.
Yvonne Scio.
Zucchero.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Solito pre Sanremo.
Terza Serata.
Quarta Serata.
Quinta Serata.
Chi ha vinto?
Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)
INDICE NONA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Superman.
Il Body Building.
Quelli che...lo Yoga.
Wags e Fads.
Il Coni.
Gli Arbitri.
Quelli che …il Calcio I Parte.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che …il Calcio II Parte.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Mondiali 2022.
I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I personal trainer.
Quelli che …La Pallacanestro.
Quelli che …La Pallavolo.
Quelli che..la Palla Ovale.
Quelli che...la Pallina da Golf.
Quelli che …il Subbuteo.
Quelli che…ti picchiano.
Quelli che…i Motori.
La Danza.
Quelli che …l’Atletica.
Quelli che…la bicicletta.
Quelli che …il Tennis.
Quelli che …la Scherma.
I Giochi olimpici invernali.
Quelli che …gli Sci.
Quelli che si danno …Dama e Scacchi.
Quelli che si danno …all’Ippica.
Il Doping.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
QUINTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 10 dicembre 2022.
Un urlo per Gli Articolo 31, redivivi e per la prima volta in gara a Sanremo. Stile operazione nostalgia, nonché punto più basso della credibilità di J-Ax, se di credibilità possiamo ancora disquisire. Poco importa dei proclami di una vita (ultimo, solo sei mesi fa), in cui lo zio d'Italia sparava a zero: “Io a Sanremo? Mai. È una promessa che voglio mantenere per i fan”.
“E se prometto poi mantengo”, daje de Ambra, anzichenò. Una mossa giustificata da un freestyle discutibile, letteralmente la definizione di cringe. Del resto, era destino che finisse dentro un Ariston, leggi #LikeaBosch, la canzone per la lavatrice (e poi tutta la serie di elettrodomestici per cui ha realizzato il jingle).
Sì che fa ridere pensare ai brani degli anni d'oro, quando il Festival era l'anticristo. Come 2030, in cui la coppia tirata fuori dalla naftalina (e tornata sulle scene dopo qualche causa legale post scioglimento) immaginava un’Italia futura con ancora Baudo a presentare e persino Bossi vincere, oppure L’Italiano medio, in cui cantavano l'omologazione dello spettatore che si accontentava di un Fiorello televisivo.
Lo stesso Ciuri che presumibilmente li ospiterà in collegamento nella sua Viva Rai2, insieme al resto della compagnia. Allora via le idee, via le certezze, quasi a voler chiedere a Dj Jad che ha già messo piede nella Città dei Fiori (Sanremo 2010 con Fabrizio Moro e Jarabe de Palo) se ci crede per davvero a questo ritorno di fiamma o è solamente un'altra botta e via. A ogni modo niente effetto sorpresa, lo zio è una vita che racconta tutto e il contrario di tutto, esattamente come i politici. J-Ax come Salvini. E alloraaaa? Benvenuti al mio primo San - Remo (vi ricorda qualcosa?).
A proposito di ripensamenti, ricordiamo anche la storia con Fedez, l'ex nemico - amico. La sostanza è che i due, dopo una lite per questioni imprenditoriali (ex soci di Newtopia con l'altro esemplare Fabio Rovazzi), oggi si parlano di nuovo, ma assicura il 50enne - all'anagrafe Alessandro Aleotti - “musica insieme si può fare, ma una società no”. Allora vai di Love Mi, progetto benefico in Piazza Duomo, che quest'estate li ha visti abbracciati e solidali come ai vecchi tempi. Per inciso quei tempi di Comunisti col Rolex, quattro volte disco di platino e vendite ben superiori a quelle del rapper solitario. Come si cambia per non morire...
“Se fallisco faccio il muratore, mica Music Farm”. Tac! Per citare “Il milanese imbruttito”. No, non Music Farm, bensì coach delle prime edizioni di The Voice, vincendone pure una con (l’allora) Suor Cristina. E ancora direttore artistico per una squadra di concorrenti di Amici (insieme a Nek), e più recentemente anche capo del panel dei 100 giudici di All together now (tutte e quattro le stagioni). Lapalissiamo, meglio “l'odore dei soldi al mattino”, altro che napalm (come da film, Apocalypse Now). Coerenza rip.
Intanto che rappa con Jad: “Non siamo un monumento, siamo il piccione che ci caga sopra”. Sipario, sigla. Almeno per il Festival cambiate nome, meglio 41bis.
Dagospia il 17 novembre 2022. COMUNICATO STAMPA
Stasera a “Belve” J-Ax parla di un tentativo di suicidio, di Fedez, racconta un episodio drammatico della sua infanzia e si scontra con la Fagnani.
J- Ax dice alla Fagnani che la sinistra italiana è la più schifosa, e quando la Fagnani le chiede in che senso, J-Ax le parla dei poteri forti: “Una roba che potrebbe fare la sinistra italiana è ribellarsi ad alcune multinazionali che pagano le tasse in Irlanda”.
La Fagnani si inserisce per dire: “Ma senza andare sui massimi sistemi...” J-Ax ribatte: “Quando si parla di certe cose mi interrompono sempre.” Al che la Fagnani: “La interrompo per una questione di noia, non di poteri forti.”
J-Ax poi racconta un episodio inedito di quando in crisi per la droga è arrivato a pensare al suicidio: “L’ho pensato, ma non ho avuto il coraggio, sono arrivato sul punto di prendere il coltello ma non mi sono trafitto.”
E su Fedez quando la Fagnani le chiede in che senso sa essere cattivissimo. J-Ax risponde: “Nei momenti di rabbia ti augura cose che tu non augureresti mai.” E infine fa una dichiarazione drammatica: “Dai 6 ai 14 anni ho subito atti di bullismo, dai pestaggi a quelli psicologici: nel paesino di provincia in cui stavo dicevano che portavo sfiga.”
J-Ax compie 50 anni: «Dietro di me più fallimenti che scelte giuste, ma non cambierei nulla». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 2 Agosto 2022.
Il rapper: «Sono un papà felice (un po’ ansioso) e mi sento realizzato. L’ultima birra l’ho bevuta al mio compleanno di quattro anni fa».
«Quando ero ragazzino uno di 30 anni già mi sembrava vecchio, a 50 era proprio un nonno». J-Ax il fare da ragazzino non l’ha perso, eppure la carta d’identità parla chiaro: Alessandro Aleotti, tra i primi in Italia a fare rap con gli Articolo 31, poi rinato come solista, nella data di nascita ha scritto 5 agosto 1972.
Le fanno effetto i 50 anni?
«A pensarci fa paura, ma per fortuna l’età è un numero. Un tempo davvero avevamo nonni 50enni, adesso il 50enne è un papà. Siamo la prima generazione ad aver ritardato così tanto tutto, ma io di testa non mi sento tanto diverso, forse una certa maturità l’ho raggiunta prima, magari ecco penso un po’ di più prima di agire e sono diventato meno impetuoso».
Dietro di sé cosa vede?
«Più errori e fallimenti che scelte giuste, ma per fortuna non vedo rimpianti. Ho raggiunto il culmine della realizzazione negli ultimi anni e considerato che cambiando ogni errore cambierei il risultato, non cambio nulla».
A che errori si riferisce?
«Scelte sbagliate, dischi sbagliati, esperimenti riusciti male, penso ad esempio a “Sorci verdi” (programma tv che ha condotto nel 2015, ndr.). Come rimpianto personale ho quello di aver perso tempo da giovane dietro dei cliché: droghine, ubriacarsi, fare festa. Evitandole magari avrei avuto più tempo per migliorarmi».
«Droghine» non è riferito alla cannabis, giusto?
«Quella la tiro fuori dal discorso, anche se ormai non fumo più da anni. La droga ponte che porta verso la cocaina è l’alcol, ti fa perdere la testa, fai delle scelte che da sobrio non faresti. Io sono per legalizzare la cannabis o per proibire l’alcol, fate voi».
Continua a non bere?
«Neanche una birra, l’ultima volta credo sia stata al mio compleanno di quattro anni fa. Vedo l’alcol come il padre di tutti i mali, ma come per tutte le cose, la moderazione e l’equilibrio sono la strada vincente».
La pace con Fedez, celebrata anche durante il concerto LoveMi a Milano, ha destato molto entusiasmo.
«La gente ci adora più adesso di prima. A noi il tempo ha dato modo di guardare con gli occhi dell’altro quel che era successo, cosa che in un momento di litigio non si riesce a fare. Poi io sono stato la prima persona, a parte sua moglie, che Fede ha visto dopo la diagnosi di tumore. Quindi siamo passati dal vederci come supervillain a parole di conforto e amicizia».
E nuovi brani insieme?
«Per ora non è in programma, ma non è precluso. Ognuno sta facendo le proprie cose, io sono felice del successo del mio podcast “Non aprite quella podcast” che penso replicherò, ma se prima la risposta era “mai” adesso è “boh”».
Con gli Articolo 31 faceva rap prima che l’Italia scoprisse il rap. Com’era?
«C’erano svantaggi e vantaggi. Eravamo di meno, ma l’Italia è refrattaria alle novità quindi era tutto molto difficile. Però c’era la forza di sentirci nel giusto».
Quando sente parlare di rapper che insultano il pubblico cosa pensa?
«Mi infastidisce che altri artisti debbano dire la loro, io mi faccio i palchi miei ed empatizzo con chi ha appena iniziato: è molto stressante, hai tutti gli occhi addosso. E le cose vengono amplificate, come è stato per Alessandra Amoroso quando ha preferito non firmare un autografo per non scontentare altre persone. Quel che è stato detto su di lei, persona estremamente alla mano, mica una trapper, è vergognoso».
I nuovi rapper si prendono troppo sul serio?
«Anche noi ci prendevamo sul serio, anche se amo l’ironia nella scrittura. C’era chi aveva l’impressione che fossimo dei “pirla colorati” come credo ci abbiano chiamati in un’intervista, ma c’è sempre stata anche roba non colorata. Parlavamo delle stesse cose di cui ora ci si stupisce, quell’immaginario di violenza di strada, misoginia latente che magari arriva solo dalla tipa che ti ha appena mollato e non è misoginia vera, è sempre stato così: non c’è cosa che la generazione precedente non abbia già detto, solo che ora il rap è popolare».
Riascoltando «2030» alcuni versi sembrano profetici. Manca solo «Ambra è il primo presidente donna».
«L’ho incontrata a San Siro da Max Pezzali e le ho detto di muoversi a entrare in politica. In quel pezzo del 1996 ho solo traslato in avanti quel che già accadeva. Però avevo intuito che la Lega, una volta avuto successo, avrebbe finito di prendersela con i meridionali, passando agli immigrati».
Come vive questa estate di campagna elettorale?
«Andrò a votare, ma sappiamo tutti cosa succederà anche se speriamo nel miracolo. La sinistra ha smesso di occuparsi della felicità delle persone, per certi versi è peggio della destra. Deve nascere una roba nuova perché se ho sempre pensato che Salvini sia un politico nel senso più dispregiativo, uno che al potere diventa moderato, ora invece andiamo incontro a qualcosa alla Trump, a guai seri».
In passato ha vissuto il bullismo. Cosa direbbe al sé di allora?
«Di fare ciò che ho imparato dopo: trasformare in energia positiva le vessazioni, che continuano ad arrivare anche da artista, con gli hater».
Avendo un figlio piccolo la spaventa l’idea degli hater?
«La mia generazione non aveva i social, ma moriva di eroina, problema più grosso di TikTok. Non ci sono caduto grazie all’educazione dei miei genitori, quindi meglio educare i figli e non dare la colpa al mondo esterno».
Suo figlio l’ha cambiata?
«Per fortuna penso di essere cambiato prima. Ora sono solo molto più in ansia. Ma quella te la tieni e basta».
Anticipazione da “Oggi” il 29 giugno 2022.
«Inizialmente ci trovavamo d’accordo anche dal lato imprenditoriale. Ma io, a un certo punto, ho capito che voglio fare l’artista e basta. Le nostre visioni sono diventate inconciliabili. Abbiamo litigato e c’è stata molta chiusura da parte di entrambi. Chi ha fatto il primo passo? Lui. Mi ha telefonato per propormi di partecipare al concerto di Milano ma io non gli ho risposto perché avevo bloccato il suo numero. Poi ci siamo finalmente parlati e chiariti. La vita insegna molto, quando ti mette di fronte a problemi seri».
Parola di J-Ax in un’intervista esclusiva (con foto di Oliviero Toscani), a OGGI, in edicola da domani.
«Il nostro riavvicinamento è avvenuto prima. Abbiamo fatto pace tre giorni prima della sua diagnosi», racconta. Definendo così la personalità dell’amico-collega: «Estrema. Può essere estroverso e timido, buonissimo o cattivissimo». Tornerete a fare società? «Impossibile. Ma possiamo ancora fare musica insieme benché diversissimi di carattere.
Arrivato vicino a 50 anni Alessandro Aleotti dice che «addosso non me li sento, a parte il fatto che devo mettere gli occhiali per leggere» e che pensava a quest’età «di essere morto. Per come era impostata la mia vita quando ne avevo 20…». E aggiunge: «Ho qualche macchia: un brutto film, dei dischi non riusciti, un programma. Nelle scelte di vita no: anche gli errori mi hanno portato a essere dove sono adesso e sono contento».
Inoltre parla del figlio Nicolas («È troppo cool per fare la baby dance, lui balla Michael Jackson», della moglie Elaina («Facile essere innamorati quando va tutto bene, più complesso stare insieme da 21 anni ed essere sposati da 15 come è il mio. Aggiungo che per uno che fa il mio mestiere, questi anni valgono il doppio)», e su una futura partecipazione a Sanremo dice: «Io? Mai. È una promessa che voglio mantenere per i fan».
Da leggo.it l'11 maggio 2022.
J-Ax a 360°. Il rapper si è raccontato nel podcast di Luca Casadei "One More Time". L'artista ha raccontato alti e bassi della sua carriera. Un passaggio importante è stata la prima fase del suo lavoro quando ha ricevuto porte in faccia. «Di sana pianta, un disco ad alto budget in cui credevano tutti, giornalisti, casa discografica, produttori. Una previsione di vendita di trecentomila copie, vende trentamila copie. La discografica mi disse: "Non vogliamo più sentir parlare di te". Mi mandano a fare i concerti nelle sagre di paese. Come ho vissuto quel momento? Iniziai a drogarmi come un pazzo, stetti malissimo. Mi drogavo per non pensarci troppo, cominci a dire: "Ho fatto un disco così bello, così scomodo, che il sistema non mi capisce e mi boicotta", le solite stron*ate che i falliti dicono di loro stessi per potersi guardare allo specchio».
Altro argomento molto chiacchierato è il rapporto con Fedez, interrotto bruscamente. «Con Fedez avevo innanzitutto un’affinità artistica. Io sono un artista, quindi la prima cosa che devi fare è toccarmi l'ego in qualche modo. Fedez mi ha detto e me l'ha provato di essere un grande fan dell'album "Domani smetto". Poi ci ha unito l’amore per il punk rock. Fedez mi sembrava e lo è, uno che voleva spaccare il sistema da dentro. Lui mi fece notare che dalla scrittura della canzone al video, facevamo tutto noi. Mi disse: "Finanziamoci da soli le nostre idee". E visto che ci pensavo da tempo, l'ho fatto. Ho provato a fare l’imprenditore con lui, però mi fa ca*are».
E di qui, l'allontanamento: «Pensavo di farcela, ma il pensiero di dovermi alzare e andare a fare la riunione per discutere un contratto che non è nemmeno mio, mi toglieva la serenità. Anche avere dipendenti. E se poi fallisco? Avevo paura per loro, non smetterò mai di vedere il mondo della musica e dello spettacolo, come un posto in cui da domani per qualsiasi stron*ata può finire tutto. Io voglio serenità, sono un paranoico che soffre d’ansia, la sera pensavo: "Quanti dipendenti ho?", invece Fedez diceva che a lui piaceva avere dei dipendenti. Ogni volta che assumevamo uno, mi dicevo: "Questo ha un'altra famiglia che si basa sul fatto che io e Fede andiamo bene o no". Questo è un limite mio e mi sono tolto…anche per altre ragioni, ma una era questa».
Una pagina importante della storia di J-Ax è stata sicuramente quella legata agli Articolo 31. Il cantante ha parlato di quando lui e Dj Jad decisero di prendere strade diverse. L'artista venne aspramente criticato dai colleghi e dai fan per aver messo fine agli Articolo 31: «Avevamo bisogno di prendere strade diverse, ma da lì in poi la scena rap ha iniziato a darmi del venduto. Tutti i rapper di quella generazione lì sono falliti. Riuscire a fare delle hit uscendo dal mio genere mi ha salvato la carriera».
E ancora, episodi simili sono avvenuti a The Voice. «Accettai perché mia moglie guardava la versione americana e mi piaceva. Il mio manager sparò una cifra alta pensando che rifiutassero, e invece accettarono. È stata una grande esperienza. Poi non fui d'accordo con delle scelte della produzione e me ne andai sbattendo la porta, ma col senno di poi li devo ringraziare perché fu indubbiamente una svolta nella mia carriera. Imparai che potevo commuovermi davanti a tutti e non avrebbero riso di me. Non c'è più il personaggio J-Ax. Sono sicuro della mia sessualità e anche se mi commuovo in tv, non me ne frega un caz**».
Valeria Crippa per il “Corriere della Sera” l'1 aprile 2022.
Un mese esatto vissuto sull'ottovolante emotivo. Dalla vetta di étoile del Bolshoi al precipizio dell'addio a Mosca e alla maggiore compagnia russa, fino alla rinascita professionale nel proprio «teatro madre», con la nomina, formalizzata ieri, a «primo ballerino ospite» del Balletto della Scala.
Finalmente Jacopo Tissi riesce a parlare dei giorni più difficili della sua vita in cui tutto si è ribaltato. Un saliscendi angoscioso cui neanche un fuoriclasse della danza come lui sembrava essere allenato e che ora ha il sapore di un lieto fine.
Il contratto concordato con il direttore del ballo Manuel Legris e il sovrintendente Dominique Meyer gli permetterà di danzare in diversi balletti della Scala a partire dalla stagione 2022-2023, ma sarà in scena già in alcune recite di Giselle in luglio. Il 27enne originario di Landriano, in provincia di Pavia, torna così a mettere radici nel teatro dove è nato: il diploma alla Scuola di Ballo, poi una stagione all'Opera di Vienna, quindi nel corpo di ballo scaligero sotto la direzione di Makhar Vaziev che l'aveva poi invitato al Bolshoi.
Proprio in tournée con il Bolshoi, Tissi era tornato alla Scala nel 2018 nella Bayadère di Grigorovich, ma con il Balletto della Scala aveva affrontato la versione Nureyev il 28 gennaio scorso, riscuotendo uno straordinario successo in coppia con Svetlana Zakharova.
Vedendo il bicchiere mezzo pieno, ha fatto appena in tempo a essere promosso étoile prima dello scoppio del conflitto. Come ha lasciato Mosca?
«È stato un susseguirsi rapido di eventi, l'atmosfera a Mosca è precipitata sotto i miei occhi, si respirava l'escalation della guerra anche in città. Seguivo le notizie che ricevevo dalla mia famiglia finché, intorno al 27 febbraio, la Farnesina ha invitato a rientrare gli italiani in territorio russo.
Tornare mi è costato tanto. Ho lasciato in pochi giorni il teatro, i maestri, i colleghi che hanno creduto in me e con cui, in cinque anni a Mosca, ho instaurato un forte legame professionale e personale. È stato molto triste e pesante. Qualcosa di prezioso si è rotto».
Ha temuto per la sua vita, per la sua carriera?
«Niente era più certo, all'improvviso. Vedendo cosa stava accadendo e la posizione assunta dall'Italia non riuscivo più a immaginarmi a Mosca. La mia è stata una decisione consapevole più che una fuga».
Ha postato sui social parole nette contro la guerra
«Voglio ribadire la mia distanza dalla violenza e da qualsiasi forma di aggressione. Credo nell'umanità, nella forza dell'arte, nella parte buona che c'è in ciascuno di noi».
Ancora ieri sul sito del Bolshoi, lei figurava come étoile del teatro. Mentre la russa Olga Smirnova, che ha troncato con il Bolshoi per ballare ad Amsterdam, è stata cancellata.
«Il Bolshoi mi ha dato tanto, mi ha fatto diventare l'artista che sono oggi. Questo distacco mi fa male. E temo che da questa situazione possano nascere odio e discriminazione anche nell'arte. Spero non si criminalizzi la cultura russa in generale».
Ha ballato l'ultima volta a Mosca il 3 marzo, in coppia con Svetlana Zakharova in lacrime: una diva che l'ha sempre sostenuta.
«Sono partito il 4 mattina da Mosca. Ho voluto ballare fino all'ultimo secondo: in Silentium con Zakharova le emozioni mi hanno sovrastato, ci penso ancora. Non l'ho ancora superato. Svetlana è rimasta lì, non so cosa farà. Avevo avvisato il direttore Vaziev e il mio maestro personale, hanno capito la mia scelta».
Lei è la stella di richiamo del gala benefico proUcraina «Pace for Peace», agli Arcimboldi di Milano il 7 aprile.
«Baryshnikov ha mandato un messaggio di unione e armonia: la danza è questo. Al galà danzerò un capolavoro russo Lo spettro della rosa, di Fokine, è la mia Russia».
È curioso: lei torna alla Scala nel 2023, nell'anno del ventennale della scomparsa di un altro grande transfuga russo, Rudolf Nureyev.
«Sì, è una coincidenza incredibile, dovrò affrontare un repertorio a me nuovo. Dobbiamo ancora definire con il direttore Legris il numero delle mie recite alla Scala».
A Mosca ballava quasi cento spettacoli all'anno.
«In questo mese in Italia non ho mai smesso di allenarmi . Certo, la scena mi manca, non vedo l'ora di danzare il 7. Intorno al mio impegno con la Scala costruirò il mio futuro in Europa. Riparto da Milano con una nuova vita. La Scala è casa mia, è sempre stata nel mio cuore».
Valentina Ariete per “la Stampa” il 10 ottobre 2022.
«I finali sono stronzi. Ma lo è anche Laurie Strode!»: basterebbe questa frase per raccontare il film Halloween Ends, 13esimo capitolo della saga horror creata da John Carpenter, nelle sale italiane dal 13 ottobre. Ma sarebbe un peccato: Jamie Lee Curtis, interprete di Laurie da 44 anni, ha dato spettacolo al New York Comic Con dove, presentata da Drew Barrimore, ha celebrato un viaggio professionale ormai inscindibile da quello personale. L'attrice ha tanta voglia di raccontarlo: «Penso che Laurie Strode sia la sorella, l'amica, figlia, nipote di tutti. Rappresenta l'innocenza, la gentilezza.
Quando incontra Michael Myers, che è l'incarnazione del male, cominci a fare il tifo per lei. A questo punto della mia vita non c'è più separazione: Laurie e Jamie sono la stessa cosa. Non avrei fatto nulla nella mia vita senza di lei: mi ha dato una carriera, una famiglia. Le devo tutto. So bene che, quando succederà - ho 64 anni, la matematica non è a mio favore - sul giornale ci saranno queste parole: muore l'attrice di Halloween. È un marchio indelebile».
È sempre stata come Laurie?
«Quando avevo 19 anni per niente: era soltanto un ruolo. Ero più simile al personaggio di Lynda: promiscua e irriverente. All'inizio mi ha attirato questo: non si vestiva come me, non avevamo niente in comune. Lei è quella che tiene il discorso di fine anno. Mi ha costretto a recitare. Halloween era il mio primo film: fingevo di sapere tutto ma non sapevo niente. John mi ha chiesto di renderla vulnerabile. Non sapevo nemmeno fare lo spelling della parola! All'epoca credevo fosse sinonimo di debole.
Poi, quando ho assistito a una delle prime proiezioni con il pubblico, alla scena girata con la steadycam, che all'epoca era uno strumento nuovo, in cui viene ripreso il mio punto di vista, poi si torna sulla casa, poi di nuovo su di me, una donna si alza e urla: non entrare, c'è un killer lì dentro! In quel momento anche tutti gli altri hanno cominciato a gridare. Tutto il pubblico ha condiviso quell'esperienza horror. È in quel momento che ho capito cosa volesse dire John: Laurie doveva essere vulnerabile in modo da potersi affezionare a lei e non volere che le venisse fatto del male. Sono 44 anni che vi preoccupate per me».
All'inizio di questo percorso che consigli le hanno dato i suoi genitori, Janeth Leigh e Tony Curtis?
«Mia madre ha capito presto che ero insicura: mi vestivo come le ragazze che mi sembravano più popolari, perché non sapevo chi fossi. A un certo punto mi ha detto: sii te stessa e basta. Sapeva che era quello di cui avevo bisogno. Mio padre invece, sarò onesta, non lo conoscevo bene.
Ma mi ha detto due cose importantissime per la mia carriera: di non farmi mai riprendere con una lente inferiore ai 50mm, perché non si viene bene. E aveva ragione. La seconda: ogni volta che firmi un contratto ci sono le parole "in perpetuity", che significa per sempre. Il tuo lavoro su quel set è dello studio per sempre. Un monito per ogni volta che scelgo un film. Evidentemente non l'ho ascoltato quando ho girato Virus».
Halloween Ends è l'ultima parte della trilogia firmata da David Gordon Green: come è stato scriverla insieme?
«David, che mi ha fatto conoscere Jake Gyllenhaal, di cui sono la madrina, ha sempre avuto le idee chiare: per lui Laurie non è mai riuscita a superare il trauma. A 17 anni si è salvata, gli amici sono morti, è tornata a scuola e nessuno ha riconosciuto il suo dolore. È diventata la freak, la sopravvissuta.
Per 40 anni ha saputo, senza che nessuno le credesse, che Michael Myers sarebbe tornato. David mi stava proponendo un film su una donna che decide di prendere il controllo della propria vita: ed è coinciso con la nascita dei movimenti #MeToo e #TimeSUp. È stato quasi preveggente. L'ha rifatto con Halloween Kills: mostriamo le persone che si ribellano alla polizia e alle forze dell'ordine. In contemporanea ci sono state le proteste per l'omicidio di George Floyd. Poi c'è stato Capitol Hill».
In Halloween Ends Laurie ce la farà finalmente a uccidere Michael?
«L'intera città di Haddonfield si rivolta proprio contro di lei, la cui vita è stata rovinata da Michael Myers. Mostriamo le conseguenze della violenza sulle persone, come trattiamo le vittime. Questi film sono molto più di urla e sangue: parlano di chi siamo. E Laurie Strode, nonostante tutto, è una che non si arrende mai: penso sia questo il suo messaggio. Non mollare mai. In questo film finalmente sorride. Non credo che l'abbiamo mai vista farlo. Lo fa per un secondo, prima che cada il sigillo sulla saga».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 gennaio 2022.
La cantante Janet Jackson ha raccontato che suo fratello Michael l’ha bullizzata a lungo per il suo peso, definendola un «maiale» quando erano bambini. La star, che è dimagrita e ingrassata più volte nel corso degli anni, ha parlato della crudeltà del fratello e della sua infanzia nella docuserie in quattro puntate di A&E.
«Ci sono stati momenti in cui Mike mi prendeva in giro e mi insultava. “Maiale, cavallo, troia, mucca”. Lui ne rideva e anche io ridevo, ma poi dentro c’era qualcosa che mi faceva male. Quando qualcuno ti dice che sei troppo pesante, ti colpisce».
Jackson ha raccontato che i suoi problemi di peso sono iniziati quando ha ottenuto il ruolo di Penny nella sitcom Good Times degli anni 70. Allora aveva 11 anni. «Sono una mangiatrice emotiva, quindi quando sono stressata o qualcosa mi dà davvero fastidio, il cibo mi conforta. Ho partecipato a Good Times a lì sono iniziati i miei problemi di peso e il modo in cui mi guardavo. Ho sviluppato in giovane età e ho iniziato ad avere un petto, e la produzione lo legava in modo che sembrassi piatta».
Jackson ha raccontato che lei e suo fratello, morto nel 2009 all'età di 50 anni, si sono allontanati man mano che crescevano. Quando è stato accusato per la prima volta di abusi sessuali su minori nel 1993, dal tredicenne Jordan Chandler, che ha affermato che il cantante lo aveva molestato nel suo ranch di Neverland in California, Jackson ha detto di essere stata devastata - e arrabbiata per il suo costo personale.
«È stato frustrante per me», ha detto. «Abbiamo le nostre vite separate e anche se è mio fratello, questo non ha nulla a che fare con me. Ma volevo essere lì per lui, supportarlo il più possibile».
La causa è stata risolta nel gennaio 1994 con un pagamento di 23 milioni di dollari ai Chandlers. «Michael ha finito per dare soldi alla famiglia. Voleva solo che finisse, ma così è sembrato che fosse colpevole», ha detto Jackson.
Ha detto che all'epoca stava per firmare un accordo con la Coca-Cola, in quello che sarebbe stato il più grande accordo di marca della sua carriera. Ma è stato fatto deragliare dalle accuse.
«Quando è uscito, la Coca-Cola ha detto: “No, grazie”. Colpevole per associazione. È così che lo chiamano, giusto?».
Lei e Michael in seguito hanno risposto alle accuse nel loro singolo Scream del 1995. «Era la sua canzone e io ero lì per supportarlo», ha detto.
Ma ha affermato di essere stata bloccata dalla sua squadra. «Sentivo che stavano cercando di renderlo molto competitivo tra noi due. Questo mi ha davvero ferito perché sentivo di essere lì a combattere con lui, non contro di lui. Volevo che tra me e lui fosse come ai vecchi tempi, ma non è stato così. I vecchi tempi erano passati da tempo».
Alcuni anni dopo la sua famiglia ha cercato di mettere in scena un intervento nella sua vita nella sua casa di Las Vegas, con i suoi fratelli di The Jackson 5, ma lui si è rifiutato di ascoltare.
«Non aveva molto da dire, era scostante. Ero davvero sconvolto.
«La mia famiglia ha noleggiato un jet privato e sono venuti per un intervento. Era un modo per avvicinarci di nuovo e lui non ce l'aveva». Ha raccontato che le divisioni erano iniziate decenni fa, quando ha pubblicato Thriller, nel 1982.
«Era Thriller, è allora che tutto ha iniziato a cambiare», ha detto. «Ricordo di aver amato davvero l'album Thriller, ma per la prima volta nella mia vita ho sentito che era diverso tra noi, stava accadendo un cambiamento. Quello è il momento in cui Mike e io abbiamo iniziato a prendere strade separate. Semplicemente non era così divertente come una volta».
Jackson, che ha avuto 10 successi arrivati al numero uno negli Stati Uniti e ha realizzato un totale di vendite record globali di 100 milioni, ha affermato che il suo nome di famiglia l'ha aiutata e ostacolata. «Sono grata perché mi ha aperto molte porte, avere quel nome», ha detto.
«E allo stesso tempo c'è una grande quantità di controllo che deriva dall'avere quel cognome, una certa aspettativa. Volevo la mia identità, non volevo che la gente prendesse questo corpo a causa del mio cognome».
Nel documentario ha discusso a lungo del suo padre prepotente e talvolta violento Joe, morto nel 2018 all'età di 89 anni. «Crescendo, non ho vissuto mio padre come avrei voluto. Non ho mai saputo di che umore fosse, se fosse di umore giocoso. Ma il modo in cui suonava non era nemmeno divertente. Mio padre a volte ci svegliava mettendoci dei fiammiferi tra le dita dei piedi e accendendoli».
· Jeff Goldblum.
Jeff Goldblum, i 70 anni dell’istrionico attore di “Jurassic Park” e “La Mosca”. Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022
Dal talento musicale ai tre matrimoni, tutto sulla carriera e la vita privata dell’attore cult
Origini
Jeffrey Lynn Goldblum nasce il 22 ottobre 1952 a Pittsburgh, in Pennsylvania, da una famiglia ebraica. Ha una sorella e due fratelli, uno dei quali morto prematuramente nel 1972 per un’insufficienza renale a soli 23 anni.
Debutto
All’età di 18 anni Goldblum fa il suo debutto a Broadway nello spettacolo “I due gentiluomini di Verona” di William Shakespeare, prima di dedicarsi prevalentemente al cinema con registi del calibro di Robert Altman, Woody Allen, John Landis e David Cronenberg.
Gelosia sul set
Durante le riprese di “La Mosca” del 1986, Jeff ebbe diversi problemi con le scene intime tra John Getz e Geena Davis, che all’epoca era la sua fidanzata. All’attore fu chiesto addirittura di lasciare il set a causa di reazioni moleste.
Sbarcare il lunario
Al suo arrivo in California, Goldblum dovette trovarsi un lavoro per mantenersi tra un’audizione e l’altra. Per un periodo l’attore fu un rappresentante di matite che riforniva di cancelleria le prigioni del circondario.
Scuola di recitazione
Nel 1981, insieme a Robert Carnegie, Jeff Goldblum fondò la scuola di recitazione Playhouse West di Los Angeles, dove tenne personalmente alcuni corsi di preparazione per aspiranti attori. Tra gli alunni del suo corso compaiono anche Ashley Judd e Jim Carrey.
Relazioni
Goldblum ha all’attivo tre matrimoni e numerose relazioni che hanno riempito le pagine delle riviste di gossip. Dal 1980 al 1986 fu sposato con la collega Patricia Gaul, mentre nel 1987 convolò a nozze con Geena Davis, dalla quale divorzia dopo quattro anni. Negli anni ’90 frequenta la co-star di “Jurassic Park” Laura Dern, mentre nei primi ’00 è legato alla ballerina Catherine Wreford. Nel 2014 arriva il suo più recente sì, che lo sposa alla ginnasta Emilie Livingston, con la quale ha due figli nel 2015 e 2017.
Apparizioni televisive
Negli anni 2000, Goldblum compare in alcune fortunatissime sitcom e serie televisive, tra cui “Friends”, “Will & Grace” e “Glee”.
Uno show tutto suo
Dal 2019 Jeff ha una serie televisiva tutta per sé, ovvero “Il mondo secondo Jeff Goldblum”, docu-serie in cui esplora alcune delle sue più eclettiche passioni, dal gelato ai fuochi d’artificio, passando per i tatuaggi e i puzzle.
Musicista
Nel 2018 Goldblum debutta anche nel mondo della musica come pianista jazz nella band Mildred Snitzer Orchestra, che si esibisce regolarmente a Los Angeles.
Barbara Costa per Dagospia il 23 luglio 2022.
“It’s all about the Benjamins!”, dicono in America: tutto si fa per soldi, tanti soldi, e i Benjamins sono le banconote da 100 dollari, quelle con su Benjamin Franklin… troppo cinico? E che c’è di male? A chi la vogliamo raccontare? Perché non dovrebbe girare tutto intorno ai dollari? Porno compreso? E soprattutto il porno...
Mi fanno ridere, coloro che ogni tanto si alzano, puntano il dito, ammonendo che il porno dovrebbe munirsi di morale. E quale, di grazia? Di quale autorità, modello, religione? La mia no. La tua? Perché, è superiore? Chi lo stabilisce? Tu? E chi cavolo sei tu? Il porno non deve lanciare messaggi, di alcun tipo: il porno ha nella sua anima l’eccitare, ma pure dare disturbo a chi vanta moralità.
Il porno, almeno quello che tratto io, e cioè quello USA rinomato, e cioè quello che i soldi li fa e li fa girare, rispetta se stesso e le leggi, paga le tasse, e ha l’etica del denaro, e del guadagno. O c’è chi pensa che chi sta sui set, o su OnlyFans, ci sta con lo scopo di cambiare il mondo?! Ma il mondo, quando mai è cambiato??! Non è girato sempre intorno al profitto, al denaro, ai Benjamins…? E all’occasione in positivo.
Come nel caso di questa femmina qua, Jenna Starr, 33 anni e protagonista del video porno a tre il più visto su Brazzers negli ultimi mesi. Milioni di views cioè p*ppe, cioè soldi, Benjamins, che si pappa Brazzers, che si pappa Jenna. O credete che Jenna stia lì, a farsi il suo mazzo porno, per cosa, eliminare la fame nel mondo? Deve eliminare la sua, di fame, e i suoi, di problemi, e deve alimentare i suoi, di sfizi. Sicché, io, te, ognuno di noi, qualunque lavoro e reddito abbiamo, non viviamo per dannarci di balzelli e spendere quel che ci rimane in sfizi?
O figli, o alimenti per ex coniugi, dipende da come state messi…
Jenna Starr rappresenta il sogno americano odierno, che non è morto, chi mai lo ha ammazzato, semplicemente non è mai stato quello che Hollywood, e i media pelosi, nel '900 hanno venduto. Jenna è una che lavora da quando aveva 20 anni, cioè da quando ha preso e diploma e abilitazione in cosmetologia. Una estetista, che per un po’ ha girovagato da un datore di lavoro a un altro, mettendo da parte 11 mila dollari. Con questo gruzzolo Jenna si è rifatta il seno, e si è messa in proprio, aprendo un suo centro estetico.
Quel che si direbbe una brava ragazza, o no? Tenace e intraprendente, o no? Sicuro non è stata ad aspettare che i soldi si degnassero di infilarsi da soli nelle sue tasche… Poi Jenna si è sposata, poi Jenna ha divorziato, poi è arrivato il Covid e il suo centro estetico ha chiuso, così Jenna si è messa su OnlyFans per pagarsi affitto e cibo e bollette.
La riapertura post Covid non ha permesso a Jenna di recuperare i soldi persi dalla chiusura della sua impresa, e allora ha chiuso lei, tutto, per aprirsi e di più su OnlyFans che le dava e le dà reddito in crescendo. It’s all about the Benjamins!, specie oggi, che Jenna Starr ha ferma intenzione di lavorarci, nel porno, perlomeno per i prossimi 5 anni, cellulite sul c*lo compresa, poiché oltre misura arrapante per i p*pparoli.
Cosa ha di diverso fare l’estetista, o fare ogni altro lavoro, dal lavorare nel porno? Soltanto il giudizio degli altri. I Benjamins sono gli stessi, anzi, se ci sai fare nel porno non sono indifferenti. Cambia la percezione altrui, soprattutto se sei donna. Ma Jenna Starr, e tutte le altre che, testa sulle spalle e piedi per terra, scelgono il porno al posto di altri lavori, capiscono subito che del giudizio sociale devono fregarsene: “Chi mi giudica non paga i miei conti!”, ti risponde Jenna.
Chi ti giudica, chissà come li fa, i Benjamins… e come li spende, magari in – legittimo – consumo porno… Il porno serio, di serie A americano, se riesci ad arrivarci e a lavorarci, ti permette l’indipendenza economica, e mentale: le ragazze del porno oggi sono imprenditrici di se stesse, lavorano e non per modo di dire. Chi fa porno non lavora tutti i giorni, non ha orari fissi. Se carica su OnlyFans lavora quando lo decide, e in tempi e in modi mentre, se si esibisce sui set, è lì mai meno di 9 ore… I Benjamins li fa, ma deve faticare…
E dove sta esempio più pragmatico di donne – e uomini – che, col porno, conquistano emancipazione? Per noi del porno sono stantie ma peggio sono offensive le parole di Ninja Thyberg, la regista di "Pleasure", film che tratta il porno secondo una fiction – quindi non la realtà – e un punto di vista prettamente personale, nel suo caso frenato da grossi – femministi, patriarcali, paternalistici – (pre)giudizi: “Le attrici porno prevengono quasi tutte dal proletariato”. Ah. Come no.
Pertanto sarebbero delle poverette costrette per soldi. Delle sciagurate senza altra scelta. A parte che quasi tutto il mondo proviene dal proletariato, compresa la sottoscritta e vabbè…, si faccia un censimento tra le attrici e vediamo, quante sono le “poverine” proletarie che fanno porno per necessità! Moana Pozzi era figlia di un ingegnere, James Deen è figlio di due ingegneri NASA, Angela White ha laurea e dottorato, ma che senso ha elencarle??? Si è migliori per il solo fatto di aver avuto il c*lo di nascere nella ricchezza??? Jenna Starr proviene da una famiglia comunissima. Il suo percorso di vita ve l’ho raccontato. In cosa e dove e per quale motivo sarebbe una poveretta?
Da tgcom24.mediaset.it il 10 novembre 2022.
"Ho cercato di rimanere incinta - ha detto l'attrice - è stato un percorso difficile per me, quello di avere un figlio... Ho fatto ricorso alla fecondazione in vitro, bevevo tè cinese, ho tentato di tutto. Avrei dato qualsiasi cosa se qualcuno mi avesse detto, 'Congela gli ovuli, fai un favore a te stessa'. E' che non ci pensi così eccomi qui oggi. La nave è partita".
Jennifer Aniston giura anche di non avere alcun rimpianto oggi: "In realtà mi senso sollevata perché non c'è più, 'Posso? Forse. Forse. Forse'. Non devo pensarci più". La Aniston respinge anche le accuse che le sono state fatte in passato, quella di essere stata egoista e di essere stata lasciata per non aver dato un figlio ai suoi precedenti mariti, Brad Pitt o Justin Theroux. "E' una bugia - ha replicato con fermezza - non ho nulla da nascondere a questo punto".
Per anni Jennifer Aniston è stata al centro del gossip proprio per le sue presunte gravidanze. Ogni volta che metteva su qualche chilo per i magazine americani era incinta. Una volta una rivista pubblicò persino una presunta ecografia delle due gemelle di cui sarebbe stata in attesa. Così l’attrice scrisse un editoriale molto duro nel 2016, pubblicato sull’Huffington Post. Anni dopo al "The Hollywood Reperter" ha confessato: "Prendevo tutto molto sul personale, le voci sulla gravidanza e l’ipotesi del ‘Oh, ha scelto la carriera al posto dei figli’. Ma nessuno aveva idea di cosa mi stesse succedendo personalmente, dal punto di vista medico, perché non posso... posso avere figli? Non sanno nulla, ed è stato davvero doloroso e semplicemente brutto... Quello che i tabloid e i media hanno fatto alla vita privata delle persone lo stanno facendo ora i social media alle persone normali. Anche se non vedo un tabloid da così tanto tempo. Sto ancora avendo due gemelli? Sarò la 'madre miracolosa' a 52 anni? Non so perché ci sia una vena così crudele nella società".
Da leggo.it il 23 novembre 2022.
Jennifer Lopez e Ben Affleck hanno fatto sognare tutto il mondo con la loro storia d'amore. I due si sono fidanzati per la prima volta nel 2002 e si sono lasciati due anni dopo, nel 2004, per poi ritrovarsi nel 2021 e convolare a nozze. Nel frattempo spunta un presunto ex di JLo che avrebbe fatto da esca per nascondere la relazione tra la cantante e l'attore. E che ora 'accusa' JLo.
La love story
La turbolenta, sempre esposta ai media e appassionata love story tra Jennifer Lopez e Ben Affleck, inizia nel 2002. La coppia è tra le più acclamate ad Hollywood tanto che quando due anni più tardi si separa, i fan restano molto delusi.
Ma com'è cominciata tra i due? In realtà nella prima fase della relazione, la cantante e l'attore desideravano rimanere in disparte e quindi hanno cercato in tutti i modi di nascondere la relazione. Jennifer ha utilizzato come "esca", il collega di set, Ralph Fiennes.
Ralph "esca" Fiennes
Proprio durante le riprese del film "Un amore a 5 stelle", scoppiava la passione tra i Bennifer, la coppia che però voleva rimanere segreta, doveva trovare dei modi per depistare i paparazzi. Così approfittò della bella intesa che si era creata con il suo co-protagonista, Ralph Fiennes, sul set del film.
«Una foto in particolare suscitò grande curiosità. I paparazzi ce l'avevano scattata in modo tale che sembrava che io e Jennifer ci stessimo baciando. In realtà lei era innamorata».
Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2022.
Jennifer Lopez ha cambiato cognome ed è diventata Jennifer Affleck. Affleck come il consorte Ben. Lo ha scritto sulla licenza di matrimonio. Apriti cielo. La marea di indignazione è globale ed è ben interpretata dalle parole della scrittrice Jennifer Weiner sul New York Times : «Una donna che prende il cognome del marito mi sembra una sottomissione, un gesto per dire "Io appartengo a lui". In questo momento difficile per il femminismo in America, la scelta è particolarmente scoraggiante».
Jennifer Lopez ha 219milioni di follower , le sue canzoni, come Ain't your Mama , hanno su Spotify anche 400milioni di download, ovvero, J. Lo è un'icona globale, ha un'identità forte, è il marchio di sé stessa e questo, in parte, forse, spiega perché, per anni, invece, non ci siamo chiesti come facesse davvero di cognome Michelle Obama (LaVaughn Robinson, per la cronaca) o spiega perché nessuno si è troppo stupito quando Hillary Rodham si candidò alla primarie Dem come Hillary Clinton. Ivana Zelníková è morta Ivana Trump, nonostante la compresenza di una Melania Trump nata Knauss.
Non è questione di destra o sinistra, per quanto negli Usa uno possa scegliere letteralmente di assumere il cognome del consorte, cosa fatta da Jennifer e dall'80 percento delle spose americane, stando a una rilevazione di The Upshot del Nyt . Magari, Jennifer l'ha fatto in nome della tradizione, o per affetto o forse per comprare su Amazon senza che il suo indirizzo si notasse troppo in giro. Magari, è probabile, l'ha fatto perché, oggi, ti si nota di più se fai qualcosa di politicamente scorretto piuttosto che se fai tutto perbenino e conforme ai valori che avanzano.
Il tema non è solo americano. Noi abbiamo serenamente amato Donna Vittoria Leone o Franca Ciampi. In Regione Lombardia, sono attualmente assessore Letizia Moratti nata Brichetto Arnaboldi e Melania Rizzoli nata De Nichilo senza che nessuno gridi alle derive del patriarcato.
Problemi semmai ne ha avuti chi il cognome se l'è tenuto dopo il divorzio, come Daniela Santanchè nata Garnero, o Marina nata Punturieri che, bersagliata da cause dell'ex, rinunciò al Lante della Rovere solo sposando Ripa di Meana. Ora, l'ex Jennifer Lopez, nella sua newsletter, si è firmata Mrs. Jennifer Lynn Affleck (Lynn, almeno questo, è un nome di proprietà, il secondo) e contro di lei c'è stata una sollevazione senza concessioni al romanticismo.
In un altro momento storico, in un contesto diverso che non sia l'anticipo di Metaverso che sono i social, l'avremmo trovato un pensiero affettuoso verso un amore perso e ritrovato.
Ben, infatti, Premio Oscar per Argo e Good Will Hunting , doveva essere il marito numero tre di Jennifer, ma la lasciò due giorni prima del matrimonio. «Ben è stato il primo a spezzarmi il cuore», dirà lei. I due si sono poi sposati 18 anni dopo, il 16 luglio, a Las Vegas. Al mondo, è sembrato un amore romanticissimo, salvo l'inciampo anagrafico.
Che poi, la verità è che J. Lo resta J. Lo su tutti i suoi social, sulle copertine dei dischi e sui prodotti cosmetici che produce. C'è da scommettere che la crema rassodante J. Lo Body da 65 dollari non cambierà nome in Jennifer Affleck e non per risparmiare sulle vocali stampate sulla confezione.
Nello star system si può essere romantici ma non autolesionisti. L'unica per chiuderla lì e passare oltre, sarebbe che Ben si firmasse da qualche parte Ben Lopez. Basterebbe una story su Instagram e domani i più si dimenticheranno di quest' attentato alla parità di genere. In fondo, è la replica di quanto successo fra il 2004 e il 2014, quando lei prese il cognome del penultimo marito Marc Anthony: era diventata Jennifer Muñiz. Non se n'era accorto nessuno o non ci aveva dato peso nessuno.
Da repubblica.it il 25 luglio 2022.
Una settimana dopo il matrimonio in bianco con Cadillac rosa a Las Vegas, la decisione di Jennifer Lopez di prendere il cognome del neomarito Ben Affleck fa scattare la polemica negli Stati Uniti. In piena luna di miele a Parigi l'attrice, cantante e imprenditrice ha festeggiato oggi i suoi 53 anni, l'anello nuziale al dito, nella città più romantica del mondo. Dall'altra parte dell'oceano però la scelta di J.Lo di firmare la newsletter che arriva ai 219 milioni di seguaci con il nuovo epiteto Mrs. Jennifer Lynn Affleck ha fatto storcere il naso alle femministe.
In particolare la scrittrice americana Jennifer Weiner sul New York Times ha scritto che in un momento difficile per il femminismo in America la scelta di Jennifer Lopez è "particolarmente scoraggiante". Secondo Weiner il riferimento inevitabile è alla Gilead del Racconto dell'Ancella di Margaret Atwood, la teocrazia distopica in cui le donne addette alla riproduzione come la protagonista June Osborne (Elisabeth Moss) prendevano il nome del Comandante a cui erano asservite: "OfFred" o "DiFred".
Negli Usa in realtà la maggioranza delle donne fa cosi: solo il 20%, secondo un'analisi del 2015 della rubrica del Times, The Upshot, continua a tenere il proprio cognome dopo il matrimonio. L'80% assume invece quello del marito, con un gesto che secondo la scrittrice affonda le radici nel sistema patriarcale e le leggi medievali in cui, per tutti gli effetti legali, una moglie perdeva qualsiasi identità individuale nel momento del matrimonio.
Negli Stati Uniti del resto, fino agli anni 70, almeno in alcuni Stati, le donne sposate dovevano usare il cognome del marito per votare, ottenere il passaporto o la carta di credito.
Intanto, incurante delle polemiche, J.Lo festeggia con il suo Ben: dopo l'arrivo su un jet privato, cena a Le Matignan vicino agli Champs-Élysées, due ore su una panchina di un parco ad amoreggiare come fidanzatini di Peynet, poi shopping nel Marais con i rispettivi figli e una tappa al Musee d'Orsay. Ma i gesti contano.
I nomi conferiscono identità. Per Rachael Robnett, psicologa dell'Università del Nevada, "la scelta di J.Lo riflette il maggior status e il potere degli uomini nelle relazioni e nella società". Immaginate per un attimo se Ben Affleck avesse scelto di chiamarsi Lopez: "La gente considera prendere il cognome del marito una simpatica tradizione", ha detto la Robnett: "Ma è in gioco il potere. E il potere conta".
Marzia Nicolini per vanityfair.it il 25 luglio 2022.
Per festeggiare i suoi 53 anni, JLo ha scelto due strade. Per prima cosa si è sposata, dicendo sì in una cappella di Las Vegas all'amore della sua vita, l'attore Ben Affleck. Poi, sensuale e tonica come non mai, ha posato senza veli per la nuova linea di cosmetici JLo Body.
Instancabile, perfezionista, immune al passare degli anni e - anzi - ogni giorno più bella e sexy, Jennifer Lopez non teme rivali in quanto a forma fisica. E così, dopo il successo dei prodotti di skincare viso a firma JLo Beauty, la cantante, ballerina e business woman del Bronx ha deciso di espandere il suo impero commerciale e mettere sul mercato dei lussuosi cosmetici con focus corpo.
Appassionatissima di fitness e danza, Jennifer Lopez è la perfetta dimostrazione di quanto sia importante prendersi cura ogni giorno della propria forma fisica. Per lei, infatti, volere è potere.
Ma oltre al lavoro muscolare, è noto che occorra anche dedicare tempo e risorse alla cura della pelle - specie dopo una certa età, quando la produzione di collagene ed elastina rallenta, portando ai primi problemi di lassità e perdita di tono.
Non a caso il primo prodotto a firma JLo Body prende il nome di FIRM + FLAUNT ed è un balsamo corpo rassodante, levigante e ricompattante, efficace anche contro le smagliature. Scommettiamo che diventerà a brevissimo un best seller? Già, perché tutto quel che tocca Jennifer Lopez diventa oro.
(ANSA il 18 luglio 2022) - Nozze in Cadillac per Jennifer Lopez e Ben Affleck: la cantante e attrice ha sposato il suo due volte fidanzato allo scoccare della mezzanotte tra sabato e domenica in una cappella "drive through" di Las Vegas. Lo ha confermato la stessa JLo dopo che indiscrezioni erano apparse sulla stampa tabloid.
"Dopo aver fatto la fila con altre quattro coppie per ottenere la licenza matrimoniale ce l'abbiamo fatta per un pelo", ha annunciato la Lopez sulla sua newsletter proclamando Las Vegas "la capitale mondiale dei matrimoni".
I figli di entrambe le star erano presenti alle nozze alla Little White Wedding Chapel rimasta aperta per qualche minuto in più oltre lo scoccare dei dodici rintocchi per permettere alla coppia "Bennifer" di scattare qualche foto sulla Cadillac rosa "evidentemente usata dal re in persona". La cappella è una meta obbligata per nozze di celebrità.
Fondata negli anni Cinquanta ha sposato oltre 800mila persone tra cui Frank Sinatra, Judy Garland, Mickey Rooney, Michael Jordan, Britney Spears, Bruce Willis e Demi Moore. Il re sarebbe Elvis Presley che in vita avrebbe posseduto svariate Cadillac rosa. La Lopez e Affleck si erano impegnati a sposarsi lo scorso settembre dopo un ritorno di fiamma della loro relazione sbocciata all'inizio degli anni 2000.
Jennifer Lopez e Ben Affleck, il matrimonio in Cadillac rosa a Las Vegas. La Repubblica il 18 Luglio 2022.
La cerimonia in auto alla Little White Wedding Chapel alla presenza dei figli. JLo: "La notte migliore della nostra vita"
Niente fasti e feste per le nozze di Jennifer Lopez e Ben Affleck. La coppia ha celebrato il matrimonio a Las Vegas su una Cadillac rosa allo scoccare della mezzanotte tra sabato 16 e domenica 17 luglio. La cantante e attrice ha sposato il suo due volte fidanzato nella famosa A little white wedding chapel, una cappella che vanta un 'tunnel dell'amore' drive-through. "Dopo aver fatto la fila con altre quattro coppie per ottenere la licenza matrimoniale ce l'abbiamo fatta per un pelo", ha scritto Lopez sulla sua newsletter proclamando Las Vegas "la capitale mondiale dei matrimoni".
I figli di entrambe le star erano presenti alle nozze nella cappella rimasta aperta per qualche minuto in più oltre lo scoccare dei dodici rintocchi per permettere alla coppia "Bennifer" di scattare qualche foto sulla Cadillac rosa "evidentemente usata dal re in persona".
Il "re" sarebbe Elvis Presley che in vita avrebbe posseduto svariate Cadillac rosa. "Se lo avessimo voluto, ci sarebbe costato extra, e comunque era già andato a lettò, ha scherzato la diva: imitatori del leggendario "re del rock and roll" celebrano di routine matrimoni nelle varie cappelle nuziali della mecca del gioco d'azzardo.
La cappella è una meta obbligata per nozze di celebrità. Fondata negli anni Cinquanta ha sposato oltre 800mila persone tra cui Frank Sinatra, Judy Garland, Mickey Rooney, Michael Jordan, Britney Spears (nel famoso matrimonio durato poche ore), Bruce Willis e Demi Moore. Il re sarebbe Elvis Presley che in vita avrebbe posseduto svariate Cadillac rosa.
Jennifer Lopez, 53 anni il prossimo 24 luglio e al quarto matrimonio, e il 49enne Affleck si erano impegnati a sposarsi lo scorso settembre dopo un ritorno di fiamma della loro relazione sbocciata per la prima volta all'inizio degli anni 2000. Una che aveva mandato in visibilio i fan della coppia, con gli scatti romantici dei due tra una vacanza in barca sulle coste italiane e il red carpet percorso mano nella mano alla Mostra del cinema di Venezia.
Sul sito web OntheJLo, l'attrice e cantante ha raccontato di essere volata a Las Vegas con Affleck sabato e di aver fatto la fila per una licenza di matrimonio insieme ad altre quattro coppie. "Avevano ragione quando dicevano, 'all you need is love' ('tutto quello di cui hai bisogno è amorè)", ha scritto. "Siamo così grati di averne in abbondanza: una nuova meravigliosa famiglia di cinque bambini fantastici e una vita che non abbiamo mai avuto più motivi per aspettarci".
Il parrucchiere Chris Appleton, ha condiviso su Instagram un video della star in abito da sposa, mentre si preparava per il matrimonio. La mattina dopo le nozze, la sposa ha inoltre condiviso un selfie a letto con indosso la sua nuova fede nuziale.
JLo, che ha definito la notte "la migliore della nostra vita", ha raccontato che un altoparlante Bluetooth ha riprodotto la marcia nuziale lungo il 'tunnel dell'amore' drive-through.
Indiscrezioni sulle nozze erano circolate dopo che i nomi di Lopez, che da ultimo ha recitato in Marry me e nel documentario Halftime di Netflix e di Affleck (premio Oscar per Argo nel 2013) erano apparsi sulla licenza matrimoniale emessa sabato dalla Contea di Clark in Nevada.
Le nozze, nella tradizione a stelle e strisce di indossare 'qualcosa di vecchio', hanno incluso "un abito da un vecchio film" per JLo e una giacca dall'armadio di Ben. "Ce l'abbiamo fatta, L'amore è bellissimo. L'amore è gentile, e ora si scopre che l'amore è paziente. Paziente per vent'anni", ha detto ancora lei, evocando una storia d'amore tormentata lungo gli ultimi due decenni.
Dopo aver recitato sul set di Gigli nel 2002 Jennifer e Ben si erano fidanzati una prima volta ma poi il matrimonio era stato cancellato "per l'eccessiva attenzione dei media". "Quando ci siamo trovati a dover reclutare tre diverse finte spose per deviare l'attenzione ci siamo resi conto che c'era qualcosa di sbagliato", avevano detto le due star annunciando nel 2004 la fine del fidanzamento. Poi ciascuno è andato per la sua strada: Affleck ha sposato Jennifer Garner nel 2005, con la quale condivide tre figli. Hanno divorziato nel 2018. JLo è stata sposata tre volte: con Ojani Noa dal 1997 al 1998, con Cris Judd dal 2001 al 2003 e dal 2004 al 2014 con il cantante Marc Anthony, con cui ha avuto due gemelli ora 14enni.
Irene Soave per il "Corriere Della Sera" il 22 giugno 2022.
L'equivalente italiano non sarebbe proprio «loro», meglio semmai «l*i» o «l e i»: il « they » inglese, riferito a una persona sola, indica che è di genere non binario. Non si riconosce, cioè, nei pronomi maschili (he/him) né in quelli femminili (she/her). Così, con «they», Jennifer Lopez si è riferita alla figlia Emme Maribel Muñiz, 14 anni, in un duetto sul palco del Blue Diamond Gala, indetto dalla squadra di baseball losangelina dei Dodgers.
« They », cioè «l*i», ha annunciato la superstar, «sono i miei partner di duetto preferiti [per praticità di coniugazione, noi trascriviamo lo stesso «loro», ndr ]. Chiedo sempre loro di cantare con me, ma non lo fanno quasi mai. Questa è un'occasione speciale.
Loro sono molto occupati e costosi. Ma valgono ogni centesimo», e sul palco, in tuta fuxia e microfono arcobaleno, si presenta Emme Maribel, una dei due gemelli avuti nel 2008 con il cantante Marc Anthony. «L'ultima volta che ci siamo esibite insieme era in uno stadio grande come questo», ha continuato mamma J.
Lo. Ed era il 2020; lo show era quello dell'intervallo del Superbowl, Emme Maribel non aveva ancora 12 anni e il suo aspetto era quello di una bambina che si identificava con una bambina: mossette, abitino bianco, chignon.
Da un anno invece le foto che circolano di Emme la ritraggono con abiti larghi e corti ricci neri. Insieme hanno cantato la hit Thousand Years di Christina Perri; l'evento, le cui foto J. Lo ha condiviso su Twitter, ha raccolto 3,6 milioni per beneficenza, e i video sono virali. Ma non solo per la musica.
La scelta di definirsi con pronomi non binari, in epoca di identità di genere fluida, è sempre meno rara: per il dizionario americano Merriam-Webster «they» era già la parola dell'anno nel 2019 (nel 2018: «giustizia». Nel 2017 post-meToo: «femminismo»). E i 334 linguisti che formano l'American Dialect Society avevano già definito «they» parola del 2015.
Del resto la « e », che consente di crearne gli equivalenti in lingua italiana, è comparsa in quasi tutti gli smartphone. Anche nello star system ci sono precedenti: la supermodella Emily Ratajkowski, a ottobre 2020, annunciò la sua gravidanza in un lungo articolo in prima persona su Vogue , in cui dichiarava che il genere del nascituro (alla nascita poi biologicamente maschio, registrato all'anagrafe come Sylvester Apollo) l'avrebbe dichiarato lui stesso solo quando avesse compiuto 18 anni. J Lo, 52 anni, è forse all'apice della carriera: il successo del documentario sulla sua vita Halftime su Netflix e il ritorno di fiamma con l'amatissimo ex Ben Affleck ripercorrono le tappe del suo sfolgorante passato. Al futuro ci pensa la figlia Emme, sostenuta dalla mamma e da generazioni di nuovi fan coetanei, non a disagio coi pronomi.
Jennifer Lopez e Ben Affleck, nel contratto prematrimoniale l'impegno a fare sesso almeno quattro volte a settimana. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2022.
Le due star sono fidanzate dopo il ritorno di fiamma dell'estate scorsa.
Il ritorno di fiamma fra Jennifer Lopez e Ben Affleck convolerà in uno dei matrimoni più attesi del mondo dello spettacolo. Dopo l'annuncio di nozze imminenti (di cui però non si conosce ancora la data) fra la cantante e attrice e l'attore, ora circolano anche indiscrezioni sul loro contratto prematrimoniale che pare contenga una clausola molto dettagliata anche per quel che riguarda la loro vita intima: stando alle rivelazioni di «Esquire», J.Lo. avrebbe infatti chiesto (e ottenuto) che venga inserito nell'accordo anche l'impegno a fare sesso almeno quattro volte a settimana.
Il motivo della richiesta sarebbe quello di evitare infedeltà e cali del desiderio, garantendo a entrambi di mantenere viva la fiamma della passione, benché forse in modo non del tutto spontaneo. Per quanto la clausola possa apparire bizzarra, fa il paio con quanto aveva chiesto Lopez, 53 anni, nel primo contratto prematrimoniale stilato con Affleck, 49 anni: i due, già fidanzati fra il 2002 e il 2004, avrebbero dovuto sposarsi anche in quell'occasione, ma a quanto pare fra i motivi della rottura ci fu proprio un'altra richiesta della superstar, cioè quella di ottenere 5 milioni di dollari di risarcimento nel caso in cui Affleck l'avesse tradita.
Melissa Panarello per “la Stampa” il 30 aprile 2022.
Una donna diventa ricca perché ha idee geniali e ne sa una più del diavolo. È il caso di JLo, nata Jennifer Lopez, ragazza del Bronx che ha messo su un impero fra musica, cinema, cosmetici e chissà che altro. Dicevo, una diventa ricca perché sta tutto il giorno a capire come far funzionare le cose e quelle riescono: sempre.
Meno fortuna si è avuta con i matrimoni, anche se quello con Marc Anthony non sembra sia andato così male, certo hanno divorziato, ma sono apparsi fino alla fine sempre felici e anche ora che non stanno più insieme, sembrano aver conservato l'amicizia. Però una cosa è certa: più passa il tempo e meno hai voglia di veder naufragare amori e costosi matrimoni, dunque meglio premunirsi.
Quella con Ben Affleck è una storia d'amore eterna, iniziata decenni fa, finita misteriosamente qualche settimana dopo il fidanzamento ufficiale e risbocciata l'estate scorsa, quando i due a passeggio per Capri hanno reso noto di essersi di nuovo innamorati dando ancora una volta spettacolo con i loro corpi fantastici, che più invecchiano e più sono belli, e quell'aria di sesso che si portano dietro anche quando si scambiano castissimi baci.
Si dice che di una coppia riesci a capire subito se hanno l'aria di sapersi ancora rotolare fra le lenzuola insieme oppure no; ogni coppia ha un magnetismo erotico, a prescindere dalla bellezza naturalmente, che dipende solo da quell'odore tipico che ha addosso chi non rinuncia al sano piacere. Lopez e Affleck quell'odore ce l'hanno, e lo senti pure dalle foto patinate fatte per sembrare rubate e invece sono posatissime.
Ieri alcuni giornali hanno scritto che il loro accordo prematrimoniale, documento indispensabile ai ricchissimi che cercano di mantenere intatti i patrimoni, conterrebbe una clausola che riguarda la frequenza dei rapporti sessuali, oltre alla quale non si può scendere: minimo quattro a settimana. Vera o meno che sia, la cosa ha fatto sorridere molti, però è serissima: è la base un buon matrimonio. JLo è una che le cose le sa e quello che sa è che un matrimonio senza sesso è la tomba dell'amore e si va in perdita con tutto, con la dignità prima di tutto e infine proprio con i soldi.
Chissà quante fatiche ci saremmo risparmiate, quanti matrimoni avremmo salvato, a fare come lei. Se avessimo messo in chiaro sin da subito che per meno di tre volte a settimana non ci saremmo mai degnate di raggiungere l'altare oppure che con assillanti richieste di farlo due o tre volte al giorno avremmo potuto fare domanda di divorzio per direttissima, avremmo ancora la fede al dito, la casa di proprietà, i soldi da parte per le vacanze? Non mi sono mai sposata, non saprei, ma ho amiche, conoscenti, leggo storie penose.
I matrimoni funzionano quando si fa molto sesso o quando non si fa per niente ma non si chiede conto all'altro di quel che fa fuori. In ogni caso, i partner devono essere sessualmente appagati, che lo facciano insieme o in separata sede. Chi è infelice sessualmente, è infelice in tutto, non riesce neanche a riempire la ciotola di croccantini del cane, non sa più vestirsi, cammina male, dorme male e in poco tempo perde ogni attrattiva pure per altri potenziali amanti. Chi non lavora non fa l'amore? No: chi non fa l'amore (e vuole farlo -ci sono le persone che hanno scelto liberamente una vita senza sesso) non riesce a fare un bel niente. Il sesso fa splendere.
Oppure sei un illuminato, mediti dalle 4 di mattina, fai una dieta crudista vegana, sei un vero asceta e allora il sesso non ti serve e riesci a splendere comunque. Ma se hai scelto una vita con il sesso e non lo fai, è un colpo al cuore, ti fa sentire brutto, non amato, non voluto, e ti rende odiosa l'altra persona.
Chissà perché, però, ho dato per scontato che sia stata lei a voler inserire l'accordo sul sesso. E se lo avesse fatto lui? Se fosse stato Affleck a chiedere una quantità dignitosa di sesso in cambio di imperitura fedeltà all'impegno preso? Le cose cambierebbero nella percezione, ma non nella sostanza.
Cambierebbe il modo in cui si legge questa notizia perché se a chiederlo è una donna, siamo felici della sua presa di posizione, della sua determinazione a non volere vivere con un uomo che non la guarda e non la tocca più; se a chiederlo è un uomo ci appare come gretto, uno che pensa sempre a quella cosa lì, uno per cui l'amore non conta niente ma gli interessa solo quante volte a settimana si va a letto insieme.
Una donna che fa una cosa considerata fino a qualche decennio fa «da uomo» è ammirevole, un uomo che fa una cosa «da uomo» è da condannare. Certo è che avere il diritto al godimento vale per le femmine e per i maschi, e alle donne da poco è stato consentito dirlo ad alta voce: prima non stava bene.
Per questo ho tutta l'impressione che sia stata una pensata di lei e non di lui: perché va di moda l'empowerment femminile e grandi sono invece le disgrazie che cadono sulla testa dei maschi che si permettono di esprimere ad alta voce desideri primitivi come quello di voler giacere spesso e volentieri con la propria amata. E tutto sono Jennifer Lopez e Ben Affleck, fuorché fuori moda.
Graziella Melina per “il Messaggero” il 30 aprile 2022.
Per evitare le infedeltà e mantenere nel tempo un buon rapporto di coppia, programmare a tavolino la vita intima è del tutto controproducente. Secondo Marco Inghilleri, psicoterapeuta, sessuologo e vicepresidente della Società italiana di sessuologia ed educazione sessuale (Sises), «formalizzare una condizione che non è formalizzabile è impossibile; il matrimonio dovrebbe essere un punto di arrivo di un innamoramento».
Partiamo da qualche punto fermo. Cosa fare per un buon rapporto di coppia?
«Bisogna rimanere fedeli a se stessi sulla base dei nostri bisogni, ovvero alla scelta che abbiamo fatto. Generalmente, gli esseri umani si scelgono perché l'altro nella realtà delle cose è la risposta ad un bisogno, ad una aspettativa».
Quindi, stabilire le regole dell'intimità, con giorni fissi a settimana, e sottoscriverle in un contratto, oltre che bizzarro è inutile?
«Chi lo fa, sta cercando una certezza in una situazione che è umana e proprio perché tale non può essere formalizzata. Sta cercando una rassicurazione in termini contrattuali. Insomma, vuole l'impossibile. Non dimentichiamo che la forma contrattualistica nasce dal fatto che la nostra società è performativa. Le problematiche della sessualità, infatti, sono dovute proprio alla tendenza diffusa a misurare la sessualità, che invece non è misurabile, in termini di performance».
In generale, nella vita di coppia esistono parametri di riferimento, anche a seconda dell'età, oppure un numero di prestazioni standard?
«No, bisogna sapere adattare la storia della coppia ad esigenze di volta in volta più diverse. Cioè, si inizia con tutta una serie di presupposti legati all'innamoramento, ma poi dopo 5 anni, anche per una questione di carattere biologico, il desiderio cala. Entriamo in crisi però solo quando sostanzialmente cerchiamo di parametrare la relazione attuale con i presupposti iniziali».
E quindi che si fa?
«Occorre avere la capacità di trasformare la sessualità da una dimensione erotica ad una di tipo affettivo, ad una manifestazione cioè di amore. In genere, nel rapporto di coppia si parte con la malsana aspettativa di sentirsi amati, ma poi col tempo bisogna riuscire a imparare che amare è più importante di essere amati».
E può bastare per evitare le infedeltà di coppia?
«Innanzitutto, ci permetterebbe di uscire dalla dimensione commerciale del do ut des, che richiede la contrattualità; e poi anche da un ricatto paradossale, cioè ti amo solo se fai quello che io ti dico. Invece, l'amore di per sé è un atto gratuito».
Ma quali sono i segnali di una vita intima non più soddisfacente?
«La problematica sessuale, in assenza di una componente organica, è sempre la testimonianza di una qualche forma di malessere personale o relazionale. Non si può scorporare il rapporto sessuale da una propria organizzazione identitaria. Noi non siamo macchine, siamo esseri umani».
· Jerry Calà.
Jerry Calà, le corna a Mara Venier? "Cosa ho combinato", fuori tutta la verità. Francesca D'Angelo su Libero Quotidiano l'8 agosto 2022sa ho combinato", fuori tutta la verità
A 71 anni, di cui 50 di «libidine, doppia libidine» (ovvero di carriera), Jerry Calà è più scatenato che mai: lo scorso giugno ha lanciato il cd di canzoni Professione Entertainer, da mesi sta girando l'Italia con lo show 50 annidi libidine, che ripercorre la carriera dell'artista ma anche la storia della musica italiana, dopodiché a febbraio inizierà le riprese del suo nuovo film.cor
Dopo tutto questo tempo, non si è ancora stancato del mondo dello spettacolo?
«Uè, lei mi vuole mandare in pensione?».
Non sia mai.
«È il pubblico che non vuole mollarmi! In questi ultimi mesi ho fatto più concerti io, in giro per l'Italia, che i cantanti "veri". Ma lo sa che ai miei spettacoli arrivano anche un sacco di giovani? All'inizio li guardavo e pensavo: "Boh, ora a questi che gli racconto?"».
Appunto: che gli racconta?
«La verità è che sono preparatissimi: conoscono a memoria tutte le battute dei miei film, che continuano a essere programmati alla grande dai canali tv, sia lineari che digitali. Inoltre le nuove generazioni conoscono a menadito la musica di quei tempi, come Io vagabondo, Ho in mente te...».
Come se lo spiega?
«Sono canzoni senza tempo, che sono rimaste attaccate alla cultura e alla tradizione italiana. Non so quanti brani di oggi dureranno altrettanto a lungo... Nel mio show ripercorro i successi degli anni 70, 80 e 90: il mio è un "teatro canzonetta". Dico davvero, infatti chiamerò così il mio prossimo spettacolo. Obiettivo: nobilitare la canzonetta».
Invece cos' è rimasto dell'epoca della "libidine", ossia dei film alla Vanzina e della leggerezza disimpegnata delle sue commedie?
«Direi che è rimasto tutto. Basta guardare i palinsesti tv: film come Sapore di mare, Vacanze di Natale o Bomber sono ancora in onda, mietendo nuovi fan tra i bambini. Addirittura sono nati canali che basano la loro intera programmazione sulle nostre pellicole: penso a Cine34 o a CineComico di Mediaset Infinity».
E dire che all'epoca erano considerati titoli di serie B.
«No, dai! I B-movie erano ben altre commedie: quelle più pecorecce, che andavano di moda prima che arrivassimo noi. Però sicuramente i nostri lavori erano considerati commerciali e si erano inventati anche dei nomi, come il termine cinepanettone, per sminuirli. Alla fine, però, il tempo ci ha dato ragione: siamo ancora qui».
Film così sarebbero ancora possibili?
«No. E qui sta il paradosso: il pubblico continua ad amare il politicamente scorretto dei film Anni 80 che però nessun produttore si sognerebbe più di realizzare. Storie del genere sarebbero subito messe all'indice».
Lei è stato il re degli Anni 70 e 80. Da uno a dieci, quanto se l'è goduta?
«Mi sono divertito davvero parecchio! Soprattutto nei primi film, quando il successo non era ancora arrivato: sparavo battute a raffica, senza preoccupazioni, perché sapevo di non avere nulla da perdere».
Ha dichiarato che senza Mara Venier si sarebbe montato la testa.
«Lei mi ha decisamente tenuto con i piedi per terra! Quando ero all'apice del successo, i miei film erano primi e secondi al boxoffice: io avevo più o meno 30 anni, quindi sarebbe bastato un attimo per perdermi. Mara all'epoca era la mia compagna e mi ha aiutato molto».
Cosa le diceva esattamente?
«Ora mi chiede troppo: mica mi ricordo le frasi precise! Però lei frequentava l'ambiente dello spettacolo da più anni e soprattutto faceva un cinema diverso dal mio. Quindi conobbi artisti importanti e capii che, sì, io avevo successo ma c'era gente anche molto più brava di me».
Si dice che lei non fosse esattamente fedelissimo...
«Quella lì è una leggenda che Mara ama raccontare! Però sicuramente non ero uno stinco di santo: qualche marachella l'ho combinata».
Anche per questo il suo secondo matrimonio è arrivato tardi, ossia nel 2002?
«Diciamo che è stato un insieme di cose. Mi ero stancato del mio girovagare sentimentale e mi sentivo predisposto a trovare una compagna stabile. In quel momento ho incontrato Bettina: una donna che non c'entrava nulla con lo spettacolo, il che mi piaceva molto. Ed è stato subito amore».
Negli Anni 90 la sua carriera si è rallentata: cos' è successo?
«Credo che la ragione sia legata alla mia scelta di sganciarmi dal gruppo Boldi&Vacanze di Natale, per capirci. Avevo voglia di sperimentare nuovi mondi, non solo i film delle feste. Mi sono quindi cimentato con il mio primo (e unico purtroppo) ruolo drammatico nel film Diario di un vizio, poi ho lavorato con Pupi Avati, mi sono aperto alla regia... Umanamente è stata quindi una scelta che mi ha regalato molte soddisfazioni, ma forse commercialmente meno. Sono infatti uscito da un carrozzone che macinava miliardi di lire».
Se potesse tornare indietro, rifarebbe la stessa scelta?
«Non so se prenderei la medesima decisione. Però sono ragionamenti che lasciano il tempo che trovano, anche perché le cose vanno come devono andare. Probabilmente la mia strada doveva essere quella».
La critica aveva apprezzato la sua svolta drammatica. Come mai non ha proseguito su questa scia?
«Io l'avrei fatto volentieri ma non sono mica un produttore cinematografico! Battuta a parte, non ci sono state altre offerte di quel tipo».
Ha pagato il prezzo dei troppi cinepanettoni?
«In parte, forse, ha pesato lo stereotipo. Però bisogna anche ammettere che il film prese molti premi ma incassò poco. Il che era un problema: all'epoca potevi fare il più bel film del mondo ma se cannavi al box office eri finito. Non ti chiamavano più. Oggiè diverso: si perdonano i bassi incassi anche perché ci sono altre fruizioni, come per esempio i passaggi streaming».
Se le proponessero adesso un ruolo drammatico, accetterebbe?
«Certo! Se la storia merita, accetterei al volo. Però la vedo dura: il cinema è ancora fatto da una compagnia di giro molto chiusa. I registi chiamano sempre i soliti attori: bravissimi, per carità! Però sono sempre gli stessi. All'estero è diverso: non c'è questo provincialismo e prendono anche volti con storie artistiche diverse».
Intravede un erede di Jerry Calà?
«Mio figlio».
Non mi cada nel nepotismo, la prego.
«Scherzo, dai! Onestamente non trovo un mio erede. Se però parliamo di simile idea di comicità, allora mi rivedo un po' in Paolo Ruffini (accento a parte)».
Quali comici la fanno più ridere?
«Ficarra e Picone. La loro serie tv Incastrati è fantastica! Hanno trovato una propria chiave comica davvero efficace e divertente».
Pensavo mi dicesse Pio e Amedeo.
«Anche loro sono bravi: ho riso molto con Emigratis. Inoltre sono gli unici che vorrebbero essere ancora politicamente scorretti».
A febbraio torna sul set per girare un nuovo film: di cosa si tratta?
«No, la prego! Sono scaramantico! Svelerò il titolo solo al primo giorno di riprese. Posso però dirle che sarà un film molto originale, ambientato a Napoli».
Jessica Rizzo: "Quel por*** fatto in casa, come ci hanno scoperti": la scabrosa confessione della regina dell'hard. Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.
Era la regina dell'hard casalingo, Jessica Rizzo. Oggi a 57 anni la pioniera del genere ha abbandonato l'attività a luci rosse in prima persona per trasformarsi in manager del settore, facendo o la testimonial di un club privé per single, coppie e scambisti, il celebre "multisala" Atlantis. Intervistata da La Stampa, ricorda i suoi esordi avventurosi, ancora lontani dal business degli anni successivi.
"Veniamo da una realtà piccola come Fabriano - ricorda a proposito della passione condivisa col marito -, e all'inizio facevamo i nostri filmati con maschere e parrucche per renderci irriconoscibili, ma quando la nostra identità venne a galla sollevando scandalo, decidemmo di mostrarci per quello che eravamo". E così nacque un genere, il "por***o fatto in casa": dal 1991 al 2006 ha realizzato ben 250 film. Nella sua biografia Nata Bene (D Editore), racconta come il sesso davanti alla macchina da presa sia stato una sorta di terapia di coppia. Un modo per allontanare le crisi: "Io e mio marito siamo stati i primi a trattare la trasgressione delle coppie, penso che essere leali e sinceri faccia durare un'unione tutta la vita. Se tutto viene fatto alla luce del sole non cominciano i tradimenti". Uno degli scotti da pagare, la rinuncia ad avere figli: "Per motivi di lavoro non avevo tempo e non puoi lasciare un figlio da solo. Non sai neanche come può prendere un lavoro come il mio, avrebbe significato in una mia scelta personale, così ho lasciato perdere".
Dalle cassette registrate in casa e fatte girare con fermoposta tra gli appassionati, la Rizzo è poi passata al cinema a distribuzione professionale, e lì lo scandalo è approdato nella sua Fabriano, nelle Marche. In compenso, è approdata direttamente nella "Hollywood" a luci rosse, diventando lei stessa editrice e produttrice. "Il nostro era un genere realistico, che mostrava buone performance erotiche così come le défaillance dei protagonisti dei video. Mi piace far eccitare le persone, così come il fatto che mi guardino con un certo sguardo, ma poi faccio cose normali: vado a fare la spesa, mi piace mangiare, dormire le mie sette-otto ore a notte, mi piacciono le comodità, e non ho mai fatto sport, se non le passeggiate a primavera".
Franco Giubilei per Lo Specchio – La Stampa il 16 aprile 2022.
Nel vasto mondo della pornografia, la carriera di Jessica Rizzo è di quelle che hanno segnato l'evoluzione casalinga del genere, perché è stata proprio lei, insieme al marito Marco, a fare del sesso amatoriale una categoria di successo in Italia.
«Veniamo da una realtà piccola come Fabriano, e all'inizio facevamo i nostri filmati con maschere e parrucche per renderci irriconoscibili, ma quando la nostra identità venne a galla sollevando scandalo, decidemmo di mostrarci per quello che eravamo», racconta l'ex pornoattrice. L'hard casereccio made in Italy aveva visto la luce, di lì a poco sarebbe diventato una replica credibile e molto meno patinata dei film a luci rosse professionali.
Oggi Jessica Rizzo, 57 anni il prossimo aprile e studi di ragioneria in gioventù, guarda alla sua carriera nel porno con la partecipazione divertita che ne animava le performance vietate ai minorenni.
Due anni fa è diventata testimonial di Atlantis, «Club privé multisala» e multiofferta, dove la clientela, in coppia o in solitario, accorre in cerca di emozioni al buio nelle dark room - stanze oscure, appunto - dove può capitarvi chiunque, si può osservare gli altri far sesso, dedicarsi agli scambi oppure nelle serate a tema per single. C'è continuità nella vita professionale di questa ragazza di provincia che si inventò pornostar nella propria camera da letto in compagnia e collaborazione col marito.
Eugenia, questo il suo vero nome, dal 1991 ha realizzato 250 film hard per mollare il set quindici anni più tardi, ma l'idea del sesso clandestino organizzato, che a inizio attività si era espresso nelle produzioni casalinghe, resiste nel suo mestiere attuale di manager di privé: «Io e mio marito siamo stati i primi a trattare la trasgressione delle coppie, penso che essere leali e sinceri faccia durare un'unione tutta la vita. Se tutto viene fatto alla luce del sole non cominciano i tradimenti».
Un paio di mesi fa è uscita la biografia di Jessica Rizzo, titolo Nata bene, D Editore, in cui racconta come la fantasia esibizionistica di riprendersi con una videocamera abbia illuminato la nuova via all'hard privato. Quanto alla sua dimensione più personale la donna, rimasta accanto alla stessa persona per tutta la vita, racconta che dedica molto del suo tempo libero «agli animali, soprattutto ai cagnolini. Ne ho salvati una quarantina, dalla strada e dal canile, e a casa mia a Roma ne ho cinque. Tre di loro dormono sul mio letto. Non potrei farne a meno».
Non ha mai avuto figli perché «per motivi di lavoro non avevo tempo e non puoi lasciare un figlio da solo. Non sai neanche come può prendere un lavoro come il mio, avrebbe significato in una mia scelta personale, così ho lasciato perdere».
Quando ha intrapreso l'attività di pornoattrice, all'età di 26 anni, eravamo ancora in era predigitale e le videocassette viaggiavano con fermoposta grazie agli annunci sulle riviste incellophanate della sezione a luci rosse delle edicole: «Poi a Firenze conobbi un regista di film amatoriali, girati anonimamente con le mascherine, ma la gente ci riconobbe e a Fabriano scoppiò uno scandalo pazzesco, così abbiamo deciso di toglierci maschere e parrucche».
Il passo successivo portò la Rizzo nella Hollywood delle produzioni contrassegnate a tripla X, col regista di Gola profonda Gerard Damiano. La Rizzo fondò anche una casa editrice che pubblicava una quindicina di testate, a questo punto la trasformazione in imprenditori hard della performer e del marito era compiuta. Il successo di una formula basata sull'eccitazione di chi guarda dal buco della serratura i vicini che fanno sesso raggiunse dimensioni tali da superare, in fatto di vendita, le performance ben più atletiche delle star del porno:
«Il nostro era un genere realistico, che mostrava buone performance erotiche così come le défaillance dei protagonisti dei video. Jessica ammette di sentirsi come Jeckill e Hyde: «Mi piace far eccitare le persone, così come il fatto che mi guardino con un certo sguardo, ma poi faccio cose normali: vado a fare la spesa, mi piace mangiare, dormire le mie sette-otto ore a notte, mi piacciono le comodità, e non ho mai fatto sport, se non le passeggiate a primavera».
Andrea Carugati per "la Stampa" il 18 gennaio 2022.
«Non ho paura di invecchiare, però voglio farlo con grazia, comprando un sacco di maglie con il collo alto, o una bella gorgiera come quella che usa il Joker. L'unica cosa di cui ho paura è la luce in verticale sopra la testa. Essere nudo in piena luce dopo una certa età è come la criptonite per Superman, tutto grida rughe! Vecchiaia! Per il resto tutto bene, grazie». Ecco Jim Carrey, sempre a cavallo tra il serio e il faceto.
Complesso interprete di personaggi comici accompagnati da un'ombra di tristezza e di personaggi tragici accompagnati da un guizzo di allegria. Una carriera sfavillante quella «dell'uomo di gomma», 60 anni oggi, che ha toccato il picco del successo con The Truman Show, per cui ha vinto anche un Golden Globe e che ha rallentato, per sua esplicita scelta, solo nell'ultimo decennio.
L'ultimo ruolo di rilievo al cinema risale infatti a otto anni fa, con il sequel di Scemo e più Scemo, ma non sarà l'ultimo, anzi, in arrivo c'è anche il sequel di Ace Ventura, il film che lo ha lanciato nel firmamento hollywoodiano. Una carriera, la sua, iniziata sui palchi dei piccoli teatri, come comico «in piedi»'. Una strada indicatagli dal padre, con cui lavorava in fabbrica, in Canada, e che come lui aveva una mimica facciale straordinaria e un umorismo innato cui l'attore non ha mai fatto mistero di essersi ispirato.
«Di fatto i personaggi che interpreto sono un'imitazione di mio padre. Un uomo infinitamente gioioso, incredibilmente divertente. Era quasi un cartone animato. Tutto quello che ho fatto in commedia deriva da lui. L'ho amato tanto. Quando si è depresso profondamente ho cercato di aiutarlo facendolo ridere. Lo facevo ridere così tanto da fargli sputare la dentiera. Da quel momento in poi ha cominciato a sognare attraverso di me e per me, e lentamente si è ripreso».
La depressione, altro aspetto ereditato dal padre. «Ne ho sofferto per anni, sono sempre stato onesto al riguardo. Ora non è più la mia compagna costante come è stata in passato, per tanto tempo. Ora quando piove, piove. La differenza è che la pioggia non resta abbastanza da permettere di immergermi e annegare, come invece accadeva prima. Ho imparato a tirare fuori quello che avevo dentro.
Per anni curavo la mia depressione con gli psicofarmaci e per un po' è andata bene, poi un giorno ho capito che stavo solo rimandando il momento della resa dei conti. Prima o poi avrei pagato un prezzo. I medicinali mi facevano sentire bene, ma non mi permettevano di guardarmi dentro, di capire la ragione della mia rabbia. Ero profondamente arrabbiato e frustrato e se tu non dai voce a questi sentimenti, se li reprimi o li sopisci con le medicine, un giorno scoppi.
Ha presente quei poveracci che entrano in una scuola armati fino ai denti e sparano a tutti? È perché hanno represso la loro rabbia e sono scoppiati. Credo che la cosa più importante sia insegnare alla gente ad esprimersi. Insegnare che un uomo può piangere senza che venga considerato un debole. Devi piangere, altrimenti ti ammali».
È dalle difficoltà e dal dramma che nasce la commedia, si usa dire. E Jim Carrey non fa eccezione alla regola del clown triste. Anni fa, quando era ancora un ragazzo, la sua famiglia fu investita da una crisi economica profonda, perse tutto e i Carrey per un periodo andarono a vivere in un caravan, furono costretti ad accettare i lavori più disparati. Jim lasciò la scuola e trovò un lavoro come addetto alle pulizie. Nacque così la sua rabbia. Jim ce l'aveva con tutti. Si salvavano la famiglia e l'amore per la commedia.
«La vita era davvero dura in quel periodo e per cercare di renderla più semplice mi ero fissato un magnifico obbiettivo da perseguire. Diventare una star, conoscere altre celebrità, essere un attore ricercato. Ricordo che mi ero dato cinque anni di tempo per riuscirci. Ne avevo sedici». A poco più di venti aveva già una decina di progetti alle spalle, tra cui Le ragazze della terra sono facili. A venticinque il grande successo, planetario, con Ace Ventura, l'acchiappa animali, di cui ora, con Amazon, sta realizzando il terzo episodio della saga.
Obbiettivo realizzato: anche se con la solita ombra al seguito. Un rapporto con la fama molto conflittuale. Seppur protagonista di film di successo, da The Mask, a Scemo e più Scemo, da Il Grinch a Una settimana da Dio, a quel ragazzino determinato e forgiato nelle difficoltà non è mai riuscito di venire preso seriamente, di essere considerato un attore a tutto tondo, capace anche di ruoli drammatici. Come quelli interpretati in The Majestic, o in Se mi lasci ti cancello, ma soprattutto nell'indimenticabile ritratto di Andy Kaufman, Man on the Moon, snobbato dagli Oscar, come accaduto anche per The Truman Show.
«Non sono i premi che fanno l'attore, ma riceverli fa piacere. Per vincere bisogna giocare a un certo gioco, rendersi disponibili a dinamiche promozionali. Non sono mai stato capace di giocare a quel gioco. L'umorismo e la commedia sono state una medicina per me quando stavo crescendo e a pensarci oggi, tutto sommato, non ho sofferto molto per la percezione che il pubblico ha di me. La cosa importante è che non ho mai avuto il dubbio sulla mia capacità di essere una persona autentica, che è poi tutto ciò che conta nella vita».
Arte e tristezza Dolore e umorismo spesso vanno a braccetto: «Non c'è arte senza tristezza, non c'è arte senza disperazione. La disperazione è come una vagina per il nascituro, come il percorso che un feto fa per venire al mondo, è un tratto di vita necessario e inevitabile. La disperazione può essere devastante se la ignori, se ci bevi sopra, se ti droghi, se ci mangi sopra, se la nascondi dietro a una maschera. Ma se ti permetti di viverla, di viverne le sensazioni, di accettarla, si possono scoprire delle cose bellissime».
Per qualche anno, un po' per curarsi, un po' per ritrovarsi, un po' per processare il lutto dovuto al suicidio della ex fidanzata, Jim Carrey si è isolato, mantenendo aperto il contatto con il mondo attraverso i suoi social, seguitissimi, e si è dedicato alla pittura.
«L'artista era la mia mamma. Quel lato l'ho preso da lei. Mi ricordo che a volte si alzava di notte per fare bellissimi murali sulle pareti delle stanze. Era l'unico spazio nella sua vita dove trovava pace. Per i primi cinquant' anni della mia vita ho fatto il minatore. Ho semplicemente scavato e approfittato del talento dei miei genitori. Poi una notte sono diventato un artista. Ed è stato come tornare ad avere mia madre al fianco. Ora sono felice ed è tutto quello che voglio».
E a 60 anni questo artista con cui si vocifera sia molto difficile lavorare, è tornato ad essere protagonista in una Hollywood che suo malgrado non può prescindere da un talento così raro.
Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 25 novembre 2022.
«Mi piace dire: non solo 25 novembre (oggi è la giornata contro la violenza sulle donne ndr).
La mia storia è iniziata con le Candeggina gang, gruppo di ragazzine ribelli, sbiancanti che negli anni 80 hanno fatto la rivoluzione. Lanciammo da allora la campagna "Tampax gratis". Dopo 42 anni sono molto felice del fatto che hanno abbassato le tasse su quel prodotto».
Jo Squillo era ed è rimasta quella ragazza terribile. Anche ora nel ruolo che si è ricavata come madrina di una associazione impegnata nella tutela delle donne vittime di violenza che si chiama Wall of dolls, il muro delle bambole, attiva in sei città: Milano, Roma, Brescia, Genova, Trieste, Venezia, Portogruaro e presto in arrivo anche in Emilia Romagna.
«Mi piace definirmi un'artivista. Uso la musica, l'arte e la luce che ne deriva per dare voce a chi non ha voce e per dire Non sei sola, come cantiamo nel nuovo singolo delle "Bambole di pezza"».
Wall of dolls è un'esperienza che viene da una tradizione lontana. Perché questa scelta?
«È una tradizione indiana. Ogni volta che una donna veniva violata lì si usava appendere una bambola sul portone per non dimenticare. Non ci si può voltare dall'altra parte di fronte a una brutalità che ci riporta al tempo dei barbari.
Dobbiamo capire come fare a non parlare soltanto ma ad agire. Per questo sono molto orgogliosa che il Senato abbia appena approvato l'istituzione di una commissione bicamerale sul femminicidio. Un traguardo importante dopo tanti anni che ne parliamo e sollecitiamo la politica a intervenire.
«Quando è nata Wall of dolls?».
Sono tanti anni, da quando nel 2015 abbiamo fondato Wall of dolls che, assieme alla presidente Francesca Carolloe alla collaborazione della senatrice Giusy Versace, portiamo avanti iniziative per unire il mondo dell'assistenza, delle associazioni e delle istituzioni. Il muro è presente in molte città e stimola a realizzare progetti importanti affinché si possa essere davvero utili sui territori, portando documentari nelle scuole per sensibilizzare ragazzi, restando vicine ai figli delle vittime: ci sono 2mila orfani lasciati soli dalle istituzioni che in molti casi fanno fatica a mantenersi.
Li abbiamo portati a vedere il mare. Sono sorella di tante donne che si sono salvate per un pelo come Maria Antonietta Rositani, Pinky, Valentina Pitzalis, Lucia Annibali. Donne che portano ancora addosso le loro ferite. Nel mondo della moda, di cui pure mi occupo, abbiamo coinvolto anche aziende importanti come Miroglio che ha donato 5mila abiti. Li abbiamo distribuiti sul territorio a associazioni e centri antiviolenza per dare un'identità nuova di giustizia e rinascita a donne che spesso fanno fatica a guardare in alto, oltre questo dolore».
Trent' anni fa a Sanremo con Sabrina Salerno cantava «Siamo donne. Oltre le gambe c'è di più». Cosa intendeva?
«Sono grata alla vita. Ho scritto oltre 150 canzoni ma questa rimane come emblema di tante generazioni femminili. Un pezzo che racconta quanto siamo diverse, di come dobbiamo poter scegliere di essere ciò che vogliamo. Sanremo è stata la mia seconda vita, una ribellione più pop, destinata non solo alla nicchia punk alla quale mi ero rivolta negli anni '80.
Nel '91 sono andata a presentare un progetto che sembrerebbe semplice. Scelsi Sabrina Salerno. Lei allora era famosissima in tutto il mondo e fu straordinaria ad accettare questa proposta di unione femminile. Fu bellissimo. Da un giorno all'altro ci ritrovammo ad andare in giro scortate per l'effetto dirompente che ebbe quella canzone, nonostante la Rai ci avesse relegato a tarda notte».
Gli anni '90 furono anni di liberazione vera. Molto più di adesso, non trova?
«Certamente. Arrivavamo dagli anni '80 che servirono ad aprire le menti. Abbiamo illustrato una vita diversa. Nel 1991 anche il grande pubblico ne ha colto i primi segnali. Come Candeggina gang partecipammo davvero a tanti eventi.
Non sai a quanti uomini abbiamo abbassato la vista (sorride). Ci siamo presentate senza avere paura della nostra forza anche femminile. Senza rinnegarla. Spesso in quegli anni e ancora oggisi tende a dover giustificare tutto ciò che è femminile. Quasi vergognandosi della propria sessualità. Noi donne siamo l'unica maggioranza a essere trattata da minoranza».
Oggi ci sarebbe spazio per un'altra Cicciolina in parlamento?
«Penso proprio di no. Allora c'era quel genio di Pannella che aveva la cultura e la capacità di essere visionario. L'utopia al potere è quella visione che indirizza alcuni intellettuali. Ora c'è un appiattimento umano che ci porta ad essere incapaci di visualizzare il futuro. Accade nella politica ma anche nella musica e nell'arte, ovunque».
Negli anni '80 lei ha cantato brani con titoli come Skizzo Skizzo o Violentami. Oggi nella società del politically correct, sarà d'accordo, sarebbero improponibili...
«Ci sono persone che ancora non hanno capito e forse non lo capiranno mai. Lì si cantava la debolezza di un uomo che non sapeva fare altro che violentare una donna. Il punk era così: dirompente, dissacrante. Una lezione di vita e una visione artistica che sento ancora dentro di me.
Il politically correct è stato anche usato per mettere a tacere un po' di dissenso. La correttezza dei valori non ha nulla a che vedere col moralismo. Oggi si è moralisti su tutto, salvo poi essere nella vita completamente diversi».
Di recente l'abbiamo vista sul palco di Tale e Quale con Alessandra Mussolini. Secondo lei l'ex onorevole è davvero cambiata o è ancora quella di «meglio fascista che frocio»?
«Io penso si sia redenta e son orgogliosa di averla trasformata in una piccola femminista. Questo è il potere della musica che trasforma le persone. Ho avuto anche il piacere di conoscere sua zia Sofia Loren che è una delle persone più sensibili e divertenti dello star system. Penso Alessandra abbia intrapreso ormai il percorso artistico, non più politico».
Insomma se tornasse a Sanremo e incontrasse Beatrice Venezi come la saluterebbe? Al maschile o al femminile?
«No. Il problema Sanremo non si pone. Amadeus non mi vuole. Me lo ha detto...».
Va bene, immaginando allora che si trovi a Palazzo Chigi a presentare la sua associazione, saluterebbe il premier o la premier?
«Io direi di abolire l'articolo determinativo. (sorride). Guardi, queste in realtà sono questioni che stimolano riflessioni anche giuste. In realtà però preferisco pensare che in primo luogo una persona sia una persona. Come donna, ovviamente, credo sia anche utile interrogarci sul potere femminile che dobbiamo adoperare puntando però più sulla "sorellanza" e senza il bisogno di chiamarci donne con le palle».
Joe Bastianich: «Ho provato l'ayahuasca, mi ha aperto un mondo. Droga? No, è filosofia». Marisa Fumagalli su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.
Musicista, ristoratore, conoscitore di vini, uomo-tv a Masterchef e alle Iene , è «produttivo», come dice lui, in tutto ciò che fa. Anche viaggiando per effetto della sostanza «che sblocca la mente, non è una droga, è una filosofia millenaria»
Joe Bastianich... chi? Scherzi a parte, da dove si comincia un’intervista a un uomo dalle molteplici vite? «Produttivo» a tutto campo, come si definisce nel corso di questo incontro.
Dunque, senza contare gli inizi (laureato al Boston College in Filosofia e scienze politiche e quindi assunto dalla banca Merrill Lynch), l’italo-americano Joe è conosciuto soprattutto come restaurant man che, sulle orme dell’attività di famiglia - ristoratori emigranti di origini istriane -, negli anni ha inaugurato più di venti ristoranti in tutto il mondo e ha fondato la Cantina Bastianich a Cividale del Friuli. «Sono appassionato di vino, m’intendo anche di cucina, ma» avverte «non sono uno chef. La cuoca è mia madre Lidia».
L’altra passione di Joe , 53 anni, è la musica. Vero è che il grande pubblico lo ha conosciuto e apprezzato soprattutto vedendolo in tv, nei panni del temuto giudice di Masterchef ed anche in quelli più sciolti al tavolo di Italia’s Got Talent . Di recente Joe è stato protagonista per Sky Arte di Good Morning Italia, racconto musicale ed enogastronomico lungo il Bel Paese.
L’inarrestabile successo popolare di Joe ha raggiunto la vetta quando ha indossato il completo di Iena nel programma di Davide Parenti. Da inviato ha raccontato l’emergenza dei profughi di guerra in Ucraina, il mondo delle criptovalute e, protagonista di un avvincente viaggio in Perù, ha fatto boom con la formidabile scoperta dell’ayahuasca. Trattasi di un decotto psichedelico a base di diverse piante amazzoniche. «A me ha aperto un altro mondo», dice.
Bastianich, che estate è stata la sua?
«Musicale, per lo più. In tour per l’Italia da nord a sud con la band La Terza Classe. Da giugno a settembre. Canto e suono la chitarra. Il nostro è un concerto carico di gioia e coinvolgimento. Mix di spettacolare Bluegrass (genere musicale tipicamente statunitense ndr ) e di mediterranea solarità. Inoltre, mi sto concentrando sull’apertura di altri ristoranti in Italia e nel mondo. Stati Uniti, soprattutto. È recente la riapertura di Orsone, taverna, ristorante, B&B sui vigneti di famiglia a Cividale del Friuli. Sto preparando anche un nuovo libro sul vino italiano, che uscirà per Mondadori. Del resto, io sono un tipo produttivo...».
Joe instancabile, eclettico e produttivo. Ma, al sodo: una cifra sul giro di affari dell’impero Bastianich?
«Ci crede che non lo so nemmeno io? Faccio e disfo talmente tante cose, moltiplico le mie attività in Italia e nel mondo che mi è difficile quantificare».
Stati Uniti e Italia. Dal suo punto di vista, il meglio e il peggio dell’uno e dell’altro Paese.
«La società statunitense è efficiente e ottimista. Si possono fare tante cose senza gli intoppi della burocrazia. Per il resto, la qualità della vita è oggettivamente scarsa. L’Italia va al contrario: si vive bene, ma se devi organizzare qualsiasi cosa, trovi vari ostacoli che rallentano i tuoi progetti. Inoltre, l’ottimismo scarseggia, regna la gelosia fra chi è in pista nella medesima attività».
Bastianich imprenditore della ristorazione, esperienza fondamentale del suo percorso. Com’è andata?
«È andata che sono nato in una famigli di migranti. Con fatica, i miei hanno aperto il loro ristorante. Crescendo in quell’ambiente ho imparato molte cose - il lavoro, il risparmio - e ne ho fatto tesoro. Poi ho avuto la fortuna di vivere la gloria della ristorazione mediatica. Fondamentale marcia in più per l’attività. E ora, dopo trentacinque anni di ristorazione, posso permettermi, con il supporto dei miei soci, di dedicarmi ad altro e alle mie passioni. Compresa quella del vino che, con la musica, resta un punto fermo».
Le sue preferenze vitivinicole?
«Decisamente sono un bianchista. Non solo per i vini che bevo ma anche per quelli che produco, ricercando l’alta qualità e infondendo il mio tocco personale. Cito, per esempio, il Vespa bianco Bastianich dei Colli Orientali del Friuli. Altri vini? Oltre a quelli delle mia azienda, mi intriga la Malvasia Istriana».
Come giudice di Masterchef, nel valutare i concorrenti, come si differenzia un ristoratore da uno chef?
«Il grande chef è pignolo, attento agli ingredienti, a ogni dettaglio del piatto. Punta alla perfezione. Ovvio che sia così. Io vado oltre al pizzico di sale che manca, la mia valutazione sul piatto è globale».
Parliamo di vita privata. Lei ha una moglie, Deanna Damiano, e tre figli. Quasi ex moglie, stando ai «si dice». È finito anche nella cronaca rosa. Paparazzato con altre donne. Che c’è di vero?
«Mah! La vita è complessa, non tutto può sempre filare liscio. Eppure, mi creda, pur nella frenesia delle mie attività e delle tentazioni, l’importanza della famiglia è un punto fermo».
Insomma, non si sbilancia. Dica, in poche parole, chi è Joe Bastianich.
«Sono ambizioso, curioso, a volte insicuro».
La sua esperienza come Iena. Ha visto l’Ucraina in guerra, che cosa l’ha colpita di più?
«L’impatto con i profughi in partenza, le madri con bimbi in braccio, gli occhi smarriti... Anch’io sono figlio di profughi . I miei lasciarono l’Istria. Altri tempi, altro contesto, eppure non ho potuto fare a meno di pensarci».
Ha fatto scalpore il suo viaggio in Perù, dove ha provato l’ayahuasca, bevanda con effetti allucinogeni. Che in lei, a quanto pare, ha lasciato il segno. Ci spieghi meglio.
«Non si tratta solo di una sostanza, piuttosto di una filosofia, un modo di pensare. È un aiuto alle persone a viaggiare nella mente. Medicina millenaria che sblocca la mente, che fa affiorare le cose nascoste: la creatività, le emozioni. Ti apre un mondo. Attraverso l’ayahuasca ho capito meglio chi sono. Intendiamoci, è un’esperienza molto forte, non è per tutti. È stata percepita come una droga, ma non è così».
A proposito di droga (quella vera,) lei come è messo?
«Niente eroina, né cocaina o altre sostanze. Non c’entrano con Joe Bastianich».
E la politica?
«Non ho votato in Italia, sono cittadino americano. Ciò detto, la politica, come il calcio, non mi interessa».
È stato scritto che lei non farebbe entrare Silvio Berlusconi in un suo ristorante.
«Male interpretato. Non condivido le idee di Berlusconi. Comunque, dopo averlo conosciuto, l’ho trovato pure un tipo simpatico. E a proposito del ristorante, trattasi di un locale pubblico. Quindi, purché si rispettino i dipendenti, chiunque può entrare».
A 53 anni oggi si è nell’età di mezzo. Il suo bilancio provvisorio?
«Poiché il tempo è limitato, cerco di essere il più possibile produttivo. Devo sostenere il corpo e la mente per fare ogni cosa al meglio. Sempre teso verso il massimo risultato».
Per mantenersi in forma pratica yoga. Si considera un bell’uomo?
«Sono stato un bambino grassottello e ciò non ha giovato. Il senso di inadeguatezza mi ha accompagnato per un tratto della vita. Poi mi sono ripreso. Sì, mi alleno ogni giorno. Più che l’estetica, però, mi interessa essere performante, per fare al meglio quello che devo».
Autentici estimatori e adulatori: da quale delle due categorie di persone si sente circondato?
«Sinceramente, accetto tutti. Certo, da parte di chi mi sta vicino, dai miei collaboratori, tengo molto alla stima. Se penso al vasto pubblico, invece, non vado per il sottile. Gli applausi aiutano».
Nella sua vita al galoppo, fra le molteplici attività, le è mai capitato di sentirsi sconfitto?
«Fallire fa parte del gioco. Non si può vincere sempre, e il successo non è mai definitivo. Bisogna saper perdere e poi avere il coraggio e la forza di tornare sulla cresta dell’onda».
Progetti futuri?
«Parecchi. Soprattutto nell’ambito del giornalismo e della tv. Ma sono ancora in fase di definizione».
Francesca D'Angelo per “Libero Quotidiano” il 23 aprile 2022.
E meno male che è antipatico altrimenti, di questo passo, Joe Bastianich andrebbe in onda direttamente a rete unificate. L'ex chef di Masterchef è infatti richiestissimo, manco fosse Alessandro Cattelan (di certo, comunque, se la passa meglio).
Il nostro è infatti in onda su Italia1 come inviato de Le iene, dove passa dal raccontare la guerra a farsi viaggi allucinogeni con l'Ayahuasca; ha appena lanciato il podcast Wine Heroes e, da martedì alle ore 20.40, girerà per l'Italia in Good morning Italia, il nuovo programma di Sky Arte prodotto da Ballandi per la valorizzazione del marchio collettivo Io sono Friuli Venezia Giulia. Al centro, il racconto enogastronomico a ritmo di (buona) musica.
Le manca solo di entrare in politica e gareggiare a Sanremo.
«Politica anche no, grazie. Al massimo, se proprio proprio non sapessi più cosa inventarmi per vivere, mi candiderei a sindaco di Milano: effettivamente potrei dare una mano. Quanto a Sanremo, forse un giorno».
Ci ha già provato a presentare un brano ad Amadeus?
«Eccome, e pure prima, più di una volta. A Sanremo sono stato già come ospite e come giurato, è stato bellissimo, ma è chiaro che il grande sogno è gareggiare. Fosse per me ci andrei subito».
Ma?
«Ho proposto dei brani, uno anche in italiano, ma niente, zero: non mi vogliono bene! (ride, ndr). Pazienza, non si può avere tutto nella vita».
Si vocifera però di un possibile late show con lei alla conduzione: quanto c'è di vero?
«Ci stiamo lavorando. È una mia ambizione: sulla scorta dell'esperienza che sto maturando a Le Iene mi piacerebbe cimentarmi un po' più seriamente con il giornalismo, senza per questo dimenticare la mia passione per la musica».
A proposito, ha smaltito gli effetti psichedelici dell'Ayahuasca?
«Sì, sì. Ma non è una droga: io ne ho usate parecchie e questa è una medicina. Si tratta di un decotto, che si mangia, e ti aiuta ad aprire la mente, ad accedere a nuove parti di te».
Insomma, dai: è una droga.
«Fa meno male dell'alcol, mi creda. E non è una droga, posso garantirglielo perché io ne ho usate parecchie. Ho 53 anni e negli anni 80 e 90 ho sperimentato diversi tipi di droghe. La ganja fa parte della mia vita e alcune droghe continuano a fare parte del mio benessere».
È favorevole alla legalizzazione della cannabis?
«Assolutamente sì. In America è già così e succederà presto anche nel resto del mondo: la cannabis è una medicina naturale che può aiutare molte persone».
A Le Iene si è anche occupato della guerra in Ucraina. Approva il "Fuck Putin" dei Maneskin?
«Il punk che vive in me apprezza molto l'entusiasmo con cui i Maneskin mandano a fanculo la gente».
È stata insomma una sintesi efficace?
«Il tema della guerra è complesso. Putin è ovviamente super negative: sta facendo male a moltissime persone. Allo stesso tempo però non approvo fino in fondo l'imperialismo democratico americano, secondo il quale bisogna impostare le democrazie dei Paesi stranieri a immagine e somiglianza di quella Usa. Io sono più per il "vivi e lascia vivere". Nel mio piccolo cerco poi di fare la differenza».
In che modo?
«A Le Iene abbiamo provato a dare una narrazione più equilibrata della guerra, mettendo l'accento sulla crisi umanitaria. Vedere i profughi che affrontavano il gelo dell'inverno senza una coperta o una tenda mi ha colpito profondamente perché ai miei genitori è successa la stessa cosa, nell'esodo verso l'America dopo la Seconda Guerra mondiale. Inoltre sto lavorando con la Regione per ospitare dei profughi nelle mie tenute in Friuli Venezia Giulia».
Cosa pensa di chi nega la guerra?
«Per me i negazionisti sono come i terrapiattisti. Punto».
Passiamo a Good morning Italia: il programma è anche un modo per raccontare il Paese in ripresa. Chi ha pagato il prezzo più alto della pandemia, la musica o la ristorazione?
«Credo la musica. I ristoratori hanno la resistenza iscritta nel loro dna e, bene o male, si sono inventati qualcosa, mettendo per esempio i tavoli fuori. La musica era invece ferma».
A lei com' è andata? Mi riferisco ai suoi locali: hanno accusato il colpo della pandemia?
«Purtroppo sì. Durante la pandemia ho dovuto chiuderne alcuni. Ora la difficoltà è trovare personale e anche, a causa della guerra, le materie prime. In termini di incassi, il giro di business è calato del 35%. Credo che torneremo alla normalità nel 2025».
È ancora in contatto con il suo ex socio Bartali, condannato per molestie?
«No. Abbiamo comprato le sue quote societarie e, una volta chiusa la causa, abbiamo tagliato i rapporti. Non ci sentiamo più».
Con il ristorante American Barbeque ha inoltre portato la cucina americana in Italia e tra i piatti forti c'è Mac&cheese, la pasta stracotta e stracondita. Non mi vorrà fare credere che gli italiani hanno abboccato?
«Eccome, è il secondo piatto più richiesto di tutto il menu. Lei l'ha mai mangiato? No? E allora, cosa stiamo qui a parlare...».
Ma sia sincero: se qualcuno a Masterchef avesse fatto la pasta stracotta, lei non gli avrebbe lanciato dietro il piatto?
«Certo che sì, ma sono due cose diverse: a Masterchef bisogna cucinare italiano, da me l'ambizione è far apprezzare il cibo americano agli italiani».
A proposito, a Masterchef ci tornerebbe mai?
«Se mi invitano, perché no?»
Senta, qui gira voce che lei è diventato tenero... Possibile?
«In realtà lo sono sempre stato».
Riprovi, grazie.
«Davvero, è la gente che mi ha percepito male».
Guardi che non deve mica vergognarsi. Pure a me danno sempre della giornalista stronza.
«Facciamo allora gli stronzi insieme: andiamo a mangiare la pasta stracotta e parliamo male di tutti quelli che passano... Ci sta?».
· Jodie Foster.
Jodie Foster compie 60 anni: gli esordi, «Taxi Driver», il coming out, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.
La star de «Il silenzio degli innocenti», «Anna and the King» e «Panic Room» è nata a Los Angeles il 19 novembre 1962
L’esordio a 3 anni in uno spot
«Una mia regola? Reinventarsi, sempre. Nella vita e nel cinema». Jodie Foster, che proprio oggi festeggia i suoi 60 anni (è nata a Los Angeles il 19 novembre 1962), ha una lunga e variegata carriera alle spalle. Dopo aver esordito nel mondo dello spettacolo a soli tre anni in alcuni spot pubblicitari (il più famoso, quello per la crema solare Coppertone) si è dimostrata fin da subito una bambina prodigio. A sei anni debutta in una sitcom, «Mayberry R.F.D.», e nei primi anni Settanta grazie alla madre - che all'epoca oltre a lavorare come produttrice le faceva da manager - firma un contratto con la Disney. Ma queste non sono le uniche curiosità su di lei.
Sua sorella le ha fatto da controfigura in «Taxi Driver»
La prima svolta alla sua carriera risale al 1974: Martin Scorsese le offre una parte in «Alice non abita più qui». Due anni dopo il regista la richiama per «Taxi Driver». Jodie Foster, allora tredicenne, recita al fianco di Robert De Niro nei panni di Iris, una prostituta minorenne. Per questo ruolo otterrà la sua prima candidatura all'Oscar come miglior attrice non protagonista e un BAFTA (sempre come miglior attrice non protagonista). Durante le riprese, per volere della madre, l’attrice è stata seguita da uno psichiatra e, per evitarle traumi, è stata sostituita nelle scene più crude dalla sorella ventunenne Connie.
«Guerre stellari», l’occasione mancata
Forse non tutti sanno che Jodie Foster fu presa in considerazione per il ruolo della Principessa Leila Organa in «Guerre stellari», ma al tempo era ancora vincolata alla Disney. Il ruolo andò poi a Carrie Fisher.
La consacrazione con «Il silenzio degli innocenti»
«Taxi Driver», ma anche «Anna and the King», «Nell», «Panic Room»: nel curriculum artistico di Jodie Foster compaiono numerose pellicole importanti che l’hanno resa una star internazionale. La consacrazione è arrivata nel 1991, quando ha interpretato l'agente dell'F.B.I. Clarice Starling ne «Il silenzio degli innocenti» di Jonathan Demme, per cui ha ottenuto il suo secondo Oscar come migliore attrice (il primo lo aveva vinto nel 1989 per il film «Sotto accusa»). Nella pellicola ha recitato accanto ad Anthony Hopkins che, come ha successivamente rivelato, con la sua interpretazione l’ha terrorizzata. «Ero pietrificata - ha raccontato anni fa al Graham Norton Show -. Ero così spaventata dalla sua interpretazione di Hannibal Lecter che l’ho evitato durante tutte le riprese».
L’esordio alla regia
Nel 1991 Jodie Foster esordisce alla regia con «Il mio piccolo genio», film di cui è anche co-protagonista. Nell’ultimo decennio ha diretto alcuni episodi di popolari serie tv («House of Cards - Gli intrighi del potere», «Orange Is the New Black», «Black Mirror») e il film «Money Monster - L'altra faccia del denaro» con Julia Roberts e George Clooney (2016). «Ho avuto tanti padri cinematografici, quello che mi è mancato sono stati esempi di donne al comando nel nostro mondo - ha dichiarato nel 2021 al Festival di Cannes, dove le è stata consegnata la Palma d’oro alla carriera -. Da ragazza se c’era una donna sul set era la truccatrice a parte le attrici. Ho imparato a non aver paura di essere forte, di prendere decisioni. E oggi sono consapevole della responsabilità di essere io un modello».
Vittima di stalking
Ai tempi di «Taxi Driver» Jodie Foster fu vittima di stalking: John Hinckley Jr., un suo fan poco più che ventenne, ossessionato da lei arrivò a perseguitarla anche all'università di Yale (in quel periodo Foster si era presa un periodo sabbatico per portare avanti i suoi studi). Il 30 marzo 1981 Hinckley sparò al Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, ferendo gravemente quattro persone (tra cui lo stesso Reagan), fuori dal Washington Hilton Hotel. Subito arrestato e processato dichiarò di aver voluto attirare l'attenzione dell’attrice, che in seguito a questo episodio rimase profondamente turbata e arrivò a pensare di lasciare per sempre il mondo del cinema.
Il coming out
Da sempre estremamente riservata sulla sua vita privata Jodie Foster ha fatto coming out pubblicamente nel 2013, durante la cerimonia di consegna dei Golden Globes: «Ho fatto coming out nell'era della pietra - ha detto l’attrice, premiata con un Golden Globe alla carriera - se sei stata un personaggio pubblico da prima di imparare a camminare, allora forse il tuo valore più grande è la privacy».
Il matrimonio
L’attrice ha vissuto una lunga storia d’amore, dal 1993 al 2007, con la produttrice Cydney Bernard, conosciuta sul set del film «Sommersby» (1993). Nel 1998 e nel 2001 Jodie e Cydney sono diventate mamme di due figli: Charles Bernard Foster e Kit Bernard Foster. Successivamente, nel 2014, Foster si è sposata con la sua nuova compagna, la fotografa Alexandra Hedison (in passato legata alla conduttrice tv Ellen DeGeneres).
Jon Bon Jovi compie 60 anni: il provino per «Footloose», le origini italiane, il matrimonio che dura da 33 anni, 10 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.
Con la sua band il cantautore originario del New Jersey (è nato a Perth Amboy il 2 marzo 1962) ha venduto oltre 130 milioni di dischi in tutto il mondo
Le origini italiane
«Adesso sento di non dover dimostrare più nulla». E può ben dirlo Jon Bon Jovi alla luce degli oltre 130 milioni di dischi venduti in tutto il mondo con la sua band, con cui ha scritto e inciso hit scala classifiche come «You Give Love a Bad Name», «Livin' on a Prayer», «Wanted Dead or Alive», «Keep the Faith», «Always» e «It's My Life». Il cantautore, originario del New Jersey, il 2 marzo taglia un importante traguardo: compie infatti 60 anni. Nato nel 1962 a Perth Amboy (John Francis Bongiovi Jr. all’anagrafe) è figlio di un barbiere, John Francis Bongiovi Sr., e di una ex coniglietta di Playboy diventata fiorista, Carol Sharkey. La famiglia Bongiovi ha origini siciliane: il bisnonno paterno è nato a Sciacca, la bisnonna paterna a Cianciana.
Quando ha fondato la sua prima band (e i Bon Jovi)
Jon Bon Jovi ha fondato la sua prima band a tredici anni con alcuni amici: si chiamavano Starz (poi Raze) e sono riusciti a tenere un solo concerto perché esisteva già un gruppo con lo stesso nome. La fondazione dei Bon Jovi invece risale ai primi anni Ottanta: nel 1983 una radio locale del New Jersey promosse un concorso, insieme alla St. John's University, per gruppi rock senza contratto discografico. Jon partecipò con il brano «Runaway» (scritto anni prima), registrato con alcuni amici musicisti, e vinse. Il pezzo diventò il successo dell'estate e Jon decise così di dar vita ad una vera e propria band. Conosceva già David Bryan, futuro tastierista, fin dai tempi della scuola. Fu lui a coinvolgere nel progetto il bassista Alec John Such e il batterista Tico Torres. Il chitarrista Richie Sambora infine fu reclutato (al posto di Dave Sabo che entrerà a fare parte degli Skid Row) dopo un concerto del suo gruppo in un locale, notato da Jon e Alec.
Il provino per «Footloose»
Forse non tutti sanno che in quegli stessi anni John partecipò ad un provino per il film «Footloose» (1984): fu scelto per il ruolo di protagonista dalla Paramount, che aveva intenzione di cambiare la sceneggiatura, ma dopo averci pensato un po’ su decise di declinare la parte, che andò a Kevin Bacon.
Le esperienza come attore
Anche se non ha recitato in «Footloose» Bon Jovi ha comunque lavorato come attore in alcuni film e serie tv, da «Ally McBeal» a «Sex and the City». Il suo ultimo impegno davanti alla macchina da presa è «Capodanno a New York» di Garry Marshall (2011) con un cast di superstar (Halle Berry, Jessica Biel, Hilary Swank, Katherine Heigl, Robert De Niro e molti altri).
La bufala sulla sua morte
Il 19 dicembre 2011 Bon Jovi fu vittima di una death hoax, ovvero iniziò a circolare la falsa notizia della sua morte, poi smentita. «È stato surreale vedere le notizie alla tv, la gente che urlava, mia figlia che diceva "babbo, dicono che sei morto" - ha poi raccontato l’artista al Corriere -. Ho dovuto fare una foto con la data, come si fa per i sequestri».
Le opere della Jon Bon Jovi Soul Foundation
Nel 2006 l’artista ha dato vita alla Jon Bon Jovi Soul Foundation, un’organizzazione no-profit che si occupa di offrire casa e cibo ai senzatetto e ai più bisognosi. Tramite la fondazione nel 2011 ha inaugurato il suo primo ristorante a offerta libera, il JBJ Soul Kitchen, in cui i meno abbienti possono pagare il conto con qualche ora di volontariato (oggi i locali della catena sono due). E nel 2012 ha donato un milione di dollari per la ricostruzione degli edifici distrutti dal passaggio dell’uragano Sandy.
Il matrimonio con Dorothea (che dura da 33 anni)
Mentre frequentava la Sayreville War Memorial High School di Parlin, in New Jersey, Jon conobbe Dorothea Hurley, che sarebbe diventata sua moglie qualche anno più tardi. La coppia convolò a nozze in gran segreto a Las Vegas, durante una tappa del New Jersey Tour. Dall’unione sono nati quattro figli: Stephanie Rose (1993), Jesse James Louis (1995), Jacob Hurley (2002) e Romeo Jon (2004).
La passione per il football
Da sempre appassionato di football (è un grande fan dei New York Giants) Bon Jovi ha fondato nel 2004, insieme a Richie Sambora, la squadra dei Philadelphia Soul, vincitori del titolo AFL-Arena Football League nel 2008.
Ha cantato per Obama e Biden
Il 18 gennaio 2009 Bon Jovi (che ha spesso sostenuto attivamente molti politici democratici) ha partecipato al concerto per l'insediamento del presidente Barack Obama cantando «A Change is Gonna Come» in duetto con Bettye LaVette. Si è esibito anche il 20 gennaio 2021 alla festa di insediamento del presidente Joe Biden insieme ai Kings of Suburbia, con cui ha eseguito una cover della canzone dei Beatles «Here Comes the Sun».
Tre lauree ad honorem
Oltre ad aver conquistato importanti riconoscimenti da solo e con la band (dal Golden Globe per la miglior canzone nel 1990 all’inserimento nella Rock and Roll Hall of Fame nel 2018) Bon Jovi può vantare ben tre lauree ad honorem: è Doctor in Humanities (2001, Monmouth University del New Jersey), Doctor of Letters (2015, Rutgers University) e Doctor of Music (2019, University of Pennsylvania).
Laura Rio per “il Giornale” l'8 agosto 2022.
Per la milionesima volta John Landis assiste alla proiezione del suo capolavoro. Non può esserci lui se non ci sono i Blues Brothers. Stavolta l'occasione è il Magna Graecia Film Festival, che si è chiuso ieri sera al porto di Catanzaro Lido. Per il regista di alcune tra le pellicole più celebri della storia del cinema è stata l'occasione per conoscere la Calabria dove non era mai stato. Da presidente della giuria ha premiato come miglior film internazionale Princess of the row di Van Maximilian Carlson, menzione speciale all'attrice Seidi Haarla, protagonista di Scompartimento N.6 di Juho Kuosmanen.
Mister Landis, non è ancora stanco che sotto il suo nome compaia la scritta «il regista di Blues Brothers»?
«No. Dipende dalla prospettiva. Io mi sento molto fortunato del fatto che i miei film continuino ad essere apprezzati dopo così tanti anni. E poi la gente continua a vedere anche Animal House, Una poltrona per due e gli altri che ho girato».
Se fosse costretto a scegliere uno dei suoi film da lasciare nei libri di cinema quale sarebbe?
«È impossibile fare una classifica dei miei film. Sono tutti come dei figli. Sulla base di quali elementi si può decidere che uno è migliore dell'altro? Come si fa a dire se un film di Hitchcock è più bello di uno di Fellini?».
È John Landis che ha creato John Belushi o viceversa?
«Nessuno dei due. Belushi e Dan Aykroyd avevano già ideato i personaggi di Jake ed Elwood. Il nucleo del film era già stato portato in giro da loro nei club di Toronto, Chicago e New York. E poi io conoscevo bene John perché avevo già girato con lui Animal House. Ricordo che Dan era talmente devoto al messaggio di questo film che la battuta siamo in missione per conto di Dio l'ho inserita per prendere in giro questo suo trasporto».
E avevano già ideato il mitico look dark.
«Sì, con quei cappelli, quegli occhiali e le cravatte. Ma quando girammo il film, quello stile non era sufficiente, dovevano creare un nuovo look, così con mia moglie Deborah (Nadoolman) che ha realizzato i costumi, decidemmo che avrebbero indossato i Ray-Ban Wayfarer. Lei andò in giro per i negozi a scovarli perché erano fuori produzione e sul set ne avevano dieci paia per John (che li perdeva sempre) e dieci per Dan».
L'ultimo suo film, «Ladri di cadavere», risale a dodici anni fa. Perché non ne ha più girati?
«Perché in questi anni non ho mai trovato un progetto che fosse veramente interessante. I film che piace fare a me non piacciono agli Studios americani e quelli che loro vogliono realizzare li trovo orribili. Ormai si fanno solo pellicole sui supereroi o saghe da branding. E visto che fare un film richiede un impegno di almeno un anno non sono disposto a lavorare a qualcosa che non mi interessa veramente. Anche perché il successo mi consente di non dover lavorare per forza».
Pensa che oggi film come i suoi non possano essere più proposti anche perché a Hollywood vige il politicamente corretto?
«Il problema non è questo. Ma il fatto che gli Studios o quello che ne resta non sono più disposti a rischiare, ormai sono diventati banche e case di distribuzione. E puntano soltanto ad un prodotto estremamente sicuro dal punto di vista degli incassi. La pandemia ha aggravato la situazione perché la chiusura dei cinema ha colpito un settore già in crisi».
Ma lei dovrebbe aiutare il cinema sfornando un altro dei suoi capolavori.
«Bisognerebbe dirlo a loro».
È vero che ha in mente di fare il sequel di «Un lupo mannaro americano a Londra»?
«Se ne è parlato, ma vedremo. Una cosa non è reale finché non si concretizza».
E ci potrà mai essere una serie tv sui Blues Brothers?
«Assolutamente no».
Lei ha lavorato con due grandi artisti. Qual è stata la differenza nei suoi rapporti con Belushi e Michael Jackson?
«Sono persone molto diverse tra loro. Ho amato enormemente entrambe. John è diventato dipendente dalla droga che poi lo ha ucciso, cosa per cui sono ancora molto arrabbiato. Era un attore dalla formazione classica e sarebbe stato in grado di fare qualsiasi cosa. Jackson era una persona cara ma piena di stranezze. Era doloroso vedere le sue automutilazioni».
Cosa si ricorda di quando girò il video di «Thriller»?
«Mi chiese all'improvviso di farne la regia. Ma io non volevo realizzare un video rock ed è per questo che gli proposi di fare un cortometraggio, tanto è vero che dura quindici minuti. Fu molto semplice lavorare con lui dal momento che faceva tutto ciò che gli chiedevo senza batter ciglio. Incredibile».
Estratto dell'articolo di Fulvia Caprara per “la Stampa” l'8 agosto 2022.
Diventare regista di culto e continuare a comportarsi come se non avesse alcun merito, come se film venerati, che hanno segnato intere generazioni e che ancora adesso non mostrano segni del tempo, fossero frutto di felici casualità, del talento degli attori, del momento storico in cui sono stati concepiti. Dire che John Landis, il regista di The Blues Brothers, Un lupo mannaro americano a Londra, Una poltrona per due, è una persona semplice, priva di qualunque accenno di presunzione, non rende bene l'idea.
Quale consiglio darebbe ai ragazzi che vogliono diventare registi?
«A differenza di altri mestieri, il medico, il dentista, l'idraulico, questo non è un lavoro che si può imparare andando a scuola e poi facendo apprendistato. Per diventare registi c'è bisogno di qualcuno che tiri fuori i soldi per realizzare un film. La novità positiva di questi ultimi 10 anni è che si può girare in tanti modi, fare film con il computer e il telefonino, tutti possono provarci».
Per il cinema, con la crisi delle sale, non è un momento facile. Come andrà a finire?
«Non credo che il cinema abbia problemi, penso che ad averli sia il mondo degli affari, il business che gli ruota intorno. In giro ci sono un sacco di buoni film e di registi talentuosi, ma il mercato attraversa una fase caotica e, se perfino una piattaforma come Netflix ha avuto difficoltà negli ultimi mesi, vuol dire che c'è qualcosa che non va nel sistema dei finanziamenti». […]
Che cosa le piace ricordare di The Blues Brothers?
«Fu un successo inatteso, dovuto in grandissima parte alla musica. In quel periodo andava di moda soprattutto la disco, gli Abba e i Bee Gees, furono John Belushi e Dan Aykroyd, all'epoca grandi star, a voler concentrare l'attenzione sul rythm and blues che adoravano, era la musica di artisti straordinari come Ray Charles e Aretha Franklyn. Fu una scelta inusuale, abbiamo fatto un film folle, ma la colonna sonora è fantastica, e poi qualcosa deve aver catturato l'immaginazione del pubblico».
È l'era del "politically correct", anche a Hollywood. L'Academy ha stilato un decalogo di norme per i film aspiranti agli Oscar. In un clima così avrebbe avuto difficoltà a girare alcuni dei suoi titoli?
«In realtà nei miei film non c'è niente che non risponda alle regole del "politically correct", qualcuno avrebbe da ridire su questo, ma sarebbe una polemica stupida. Penso a Animal House, ambientato nel '62, che quindi ne riflette il clima sociale nei confronti della liberazione sessuale, scherzi e situazioni si riferiscono a quel periodo, sarebbero del tutto fuori luogo in un altro momento. Godard diceva che tutti i film sono politici, la verità è che tutto è politica e che i film hanno una certa autonomia, possono contenere messaggi che qualcuno coglie e altri no. Quanto alle regole, in Usa il razzismo non è finito e i film devono riflettere la realtà».
John Travolta ricorda 'Grease': "Mi ha dato la vita, è iniziato tutto da lì". Silvia Bizio su La Repubblica il 16 maggio 2022
L'attore al festival per presentare 'Gotti' in cui interpreta il boss mafioso di Little Italy e per i 40 anni del cult con Olivia Newton-John: "A 18 anni vidi il musical a Broadway e la mia passione segreta fu quella di interpretare Danny. L'ho fatto al cinema, ed è stata la mia gioia più bella"
John Travolta è la vera star quest'anno sulla Croisette. L'attore è a Cannes per presentare Gotti, il film diretto da Kevin Connolly in cui interpreta il boss mafioso di New York della Little Italy anni 70 e 80 (morto in prigione di cancro a 61 anni nel 2002) e per il 40esimo anniversario di Grease, il musical che ha interpretato con Olivia Newton-John e che ha presentato in versione restaurata in un'affollatissima proiezione sulla spiaggia.
Cannes, come in Pulp Fiction: John Travolta scatenato al concerto di 50 Cent
Non solo, Variety lo ha scelto per il suo primo "Icon Award", premio che gli è stato consegnato durante una grande festa all'Hotel du Cap, con ospiti intrattenuti dal rapper 50 Cent e un video in cui viene celebrato da Barbra Streisand, Oprah Winfrey e Robert De Niro. L'attore e provetto pilota, 64 anni, è arrivato in Costa Azzurra guidando uno dei suoi tre aerei accompagnato dalla famiglia, la moglie Kelly Preston (anche lei nel film, nel ruolo della signora Gotti) e i due figli Ella, 18 anni, e Ben, 7 anni. Lo incontriamo al Carlton Hotel sulla Croisette.John Travolta con la moglie Kelly Preston e i figli Ella e Benjamin (afp)Mr. Travolta, lei ha lavorato per sei anni per realizzare questo film. Cosa l'affascinava tanto di John Gotti?
"Come attore, mi attirava il fatto che Gotti fosse stato un personaggio molto ambiguo e complesso. Si comportava in maniera interessante: c'era la famiglia da una parte e il crimine dall'altra. Una figura divertente, un po' comica, non dico alla Soprano, una serie che mi dicono sia ispirata molto a Gotti, pur non avendo il carisma di James Gandolfini, ma quasi". John Travolta con la moglie Kelly Preston e John A. Gotti (afp)Che ricerche ha compiuto?
"Tantissime. Ho parlato con il figlio John Gotti jr., che è qui a Cannes con noi, con la vedova Victoria e con molte persone che lo conoscevano personalmente. Ho chiesto a tutti: perché gli volevate bene, non era un mafioso? E loro mi rispondevano: è vero, ma Gotti ci ha anche protetti, e ci dava sempre una mano se andavamo in rosso. Certo, Gotti era un gangster, ma uno di quelli per cui tanti fecero il tifo. Gotti svolse perfino attività umanitarie, a modo suo. E la gente credeva in lui".
Anche lei anche svolge lavoro umanitario. Senza la mafia di mezzo.
"Certo, sto parlando di Gotti come attore, come sua maschera, e non voglio difenderlo o giustificarlo. Ma un attore deve sempre provare una 'simpatia' per il personaggio che è chiamato a interpretare. Io come persona, oltre che come celebrità, voglio battermi per i diritti umani e civili, per la giustizia nel mondo".
'Grease', il 40esimo anniversario del musical
È qui a Cannes anche per il 40esimo anniversario di Grease, da lei interpretato accanto a Olivia Newton-John nel 1978, subito dopo La febbre del sabato sera. Un ricordo?
"Ricordi? Un milione. Quando avevo 18 anni vidi quel musical a Broadway e rimasi fulminato. L'anno dopo mi feci avanti e venni ingaggiato dalla stessa compagnia a teatro: non interpretai il ruolo di protagonista, ma una semplice spalla. La mia passione segreta era sempre stata quella di interpretare Danny in Grease. Non avvenne a Broadway ma al cinema. Non posso lamentarmi. Quel musical mi ha dato la vita, davvero. La mia carriera è iniziata da lì, Grease è stata la mia gioia più bella".
Quindi lei è un amante dei classici di Hollywood?
"Certo, è così che sono nato come attore. Il mago di Oz, Yankee Doodle Dandy (Ribalta di gloria) e film così. Sono uno vecchia maniera. Lo ero allora, a vent'anni, e lo sono ancora adesso".
Gotti era anche un damerino, cui piaceva vestirsi con abiti di sartoria. Sembra un tratto che vi accomuna.
"Non lo nego, mi piace vestirmi bene e sono un maniaco delle buone maniere, soprattutto a tavola. È un tratto che ho ereditato da mia madre. Anche se non avevamo molti soldi, ha impartito a me e ai miei fratelli e sorelle modi principeschi. 'Voi non avete niente da invidiare ai reali di Windsor' ci diceva. E io sono venuto su così: tengo molto all'etichetta, sia l'uniforme quando piloto i miei aerei - mia moglie Kelly ogni tanto mi costringe a vestirmi da pilota perché dice che sono molto affascinante - che tutto ciò che indossiamo o facciamo. A me piace la classe. Lo confesso, sono un fanatico della moda e soprattutto dello stile italiano. Le mie origini italiane non mentono, e le sento sempre più forti, anche con i miei figli, man mano che passano gli anni".
A cosa deve il suo enorme successo?
"Alla fortuna, come si dice sempre. Ma diciamo anche che sono tenace per natura, e che riesco a ignorare le interferenze. Sono diventato famoso con due film girati uno dopo l'altro, La febbre del sabato sera e Grease. E ora con Gotti è la quadratura del cerchio. Nel mio prossimo film reciterò in Italia accanto a mia figlia Ella in Poison Rose. Potrei essere più felice?".
Martina Volonté per cinematographe.it il 14 aprile 2022.
Durante il processo per diffamazione che Johnny Depp ha avviato contro la sua ex moglie, sono emersi degli inquietanti messaggi che Depp ha mandato a un suo amico e vicino di casa, Isaac Baruch.
Gli sms sono stati utilizzati dall’avvocato di Amber Heard durante il terzo giorno del processo giudiziario, che si sta svolgendo in Virginia. Nei messaggi Depp ha scritto che sperava che Amber Heard fosse un «cadavere in decomposizione».
I messaggi risalgono al 2016. Nel testo si legge che Depp sperava che il «cadavere in decomposizione di Heard si stesse decomponendo nel fottuto bagagliaio di una Honda Civic». Depp ha anche scritto: «Quella stronza ha rovinato una vita così fottutamente bella che abbiamo avuto per un po’».
Più tardi durante il processo Baruch si è visibilmente commosso quando ha affrontato quelle che ha definito «accuse fraudolente» mosse da Heard contro Depp. «Non è giusto. Non è giusto quello che ha fatto e quello che è successo a così tante persone che ne sono rimaste colpite», ha detto Baruch, esprimendo la sua rabbia per le «foto fasulle scattate» della faccia contusa di Heard, pubblicate sui tabloid e di come l’attrice abbia «inscenato tutto per estorcere e ricattare» Depp. «Non ho mai assistito a qualsiasi tipo di accusa mossa contro di lui».
Messaggi di testo di natura simile tra Depp e l’attore Paul Bettany erano stati precedentemente condivisi durante la causa per diffamazione di Depp contro il quotidiano britannico The Sun, nel 2020.
L’attore ha citato in giudizio l’editore per l’uso del termine «picchiatrice di moglie» in un pezzo incentrato sulle accuse di Heard. In tribunale i messaggi hanno rivelato che Depp ha inviato un messaggio a Bettany dicendo di aver annegato e bruciato la sua ex moglie, scrivendo: «Dopo fotterò il cadavere bruciato per assicurarmi che sia morta». Ha perso la causa.
Bettany è incluso nell’elenco dei testimoni di Depp per il suo processo per diffamazione, iniziato lunedì 11 aprile. Depp ha citato in giudizio l’ex moglie per 50 milioni di dollari per il suo editoriale del 2018 pubblicato sul Washington Post che raccontava le sue esperienze come sopravvissuta ad abusi domestici.
Sebbene non abbia mai menzionato Depp per nome, gli avvocati dell’attore hanno affermato che i riferimenti di Heard al loro cliente erano palesi, aggiungendo che l’editoriale ha danneggiato la carriera e la reputazione di Depp.
L’ex coppia si è incontrata sul set del film del 2011 The Rum Diary e si è sposata nel 2015. Heard ha chiesto il divorzio da Depp nel 2016, ottenendo un ordine restrittivo per violenza domestica contro l’attore e accusandolo di averla abusata fisicamente e verbalmente, mentre era sotto l’effetto di droghe e alcol. Depp ha negato tutte le accuse di abuso.
Da evereye.it il 15 aprile 2022.
Il processo ad Amber Heard per le accuse di diffamazione mosse da Johnny Depp è ormai entrato nel vivo: da giorni in tribunale si assiste all'avvicendarsi di testimoni di entrambe le parti, tra cui anche la terapista dell'ormai ex-coppia, che ha parlato di violenze e abusi reciproci nel corso della tormentata relazione tra le due star.
Dopo la straziante deposizione della sorella di Johnny Depp, infatti, la corte ha ascoltato la testimonianza registrata nei mesi scorsi dalla dottoressa Laurel Avis Anderson: quest'ultima ha raccontato le tormentate sedute di terapia effettuate tra l'ottobre e il dicembre del 2015, durante le quali più di una volta sia Depp che Heard minacciarono di andar via.
Secondo Anderson, abusi e violenze erano all'ordine del giorno, ma avvenivano in maniera reciproca: la terapista ha però escluso che Depp abbia assunto comportamenti violenti con le sue precedenti partner. «Penso che in qualche modo riuscisse a controllarsi. Con Ms. Heard, invece, era costantemente su di giri. Avevano dato il via a quella che io vedevo come una situazione di abusi reciproci» sono state le sue parole.
Secondo Anderson, inoltre, tra i due c'erano enormi problemi di comunicazione, con Heard stessa che ribadiva di non volere il divorzio, ma di desiderare di volere il divorzio: «Lei sapeva che la loro situazione non era salutare». Vedremo quali saranno i prossimi sviluppi: al di fuori dell'aula, intanto, i fan di Johnny Depp si sono accampati per manifestare il proprio sostegno all'attore.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 15 aprile 2022.
L'ex assistente personale di Amber Heard ha testimoniato al processo per diffamazione contro l’attrice e ha detto di non aver mai visto tagli o lividi su Heard negli anni in cui ha lavorato per lei. In una deposizione video pre-registrata, Kate James ha spiegato alla corte di essere stata assunta da Heard nel 2012 come sua assistente personale e di aver lavorato con lei fino al 2015.
Interrogata dagli avvocati di Depp, James ha parlato di come Heard si sarebbe fatta prendere da una «furia cieca» con lei durante i frequenti episodi di abusi. Ha raccontato che uno dei suoi lavori era procurarsi due copie delle riviste che pubblicavano foto o notizie su Heard e conservarle in garage perché non voleva che Depp le vedesse. Una volta Heard «si arrabbiò molto» perché erano in giro.
James ha detto: «È diventata assolutamente una furia. Urlava, urlava, maltrattandomi. Rabbia cieca».
James ha ricordato come la Heard le avrebbe «urlato al telefono» e l'avrebbe sottoposta a «una raffica di messaggi di testo offensivi giorno e notte». Ha detto: «Nel cuore della notte, tra le 2 e le 4 del mattino, iniziava a delirare. Tutto incoerente, senza senso, solo qualcuno contro cui scagliarsi. Nessuna ragione apparente».
Alla domanda se avesse mai visto o saputo di ferite, tagli, lividi, gonfiore o arrossamento sul viso di Heard, James ha detto: «No». Ha detto che «non» ha mai visto Heard con gli occhi neri o ciuffi di capelli strappati dalla testa.
Quando poi James è passata dal lavoro part-time al lavoro a tempo pieno, ha negoziato il suo stipendio con Heard, che ha perso la calma. James ha detto: «Si è alzata di scatto dalla sedia, ha messo la faccia a 2 centimetri dalla mia, dicendomi come osavo chiedere lo stipendio che stavo chiedendo. Sentiva che questo le dava il diritto di sputarmi in faccia», aggiungendo che i 50.000 dollari che aveva chiesto erano la metà del suo solito stipendio.
Un tuttofare che ha assistito all'intera faccenda ne è rimasto «mortificato», ha detto James.
Secondo James, Heard era cattiva con sua sorella Whitney e la trattava «come un cane che prendi a calci». La stessa madre di Heard era «terrorizzata» da lei perché abusava anche di lei.
Tra i farmaci da prescrizione che Heard ha preso c'era il sonnifero Provigil, ma James ha affermato che gli effetti collaterali hanno reso Heard «maniacale». «Era come se avesse preso una sorta di anfetamina. Si muoveva molto velocemente, era iperorganizzata, iperattiva, solo molto, molto iper».
James ha affermato che Heard le ha detto che aveva preso funghi, ecstasy e cocaina e che questo l'ha lasciata "disorientata" e l'ha fatta bere pesantemente. Quando la Heard era ubriaca, «diventava sempre più bellicosa e violenta», ha detto James.
James ha affermato che le insicurezze di Heard sulla sua relazione erano dovute al fatto che «non le piaceva essere lontana dalla presenza fisica di Johnny». James ha detto anche che a Heard non piaceva il gruppo con cui Depp usciva. «Mi ha detto che non le piaceva uscire con i suoi amici perché era noioso ed erano tutti vecchi che suonavano la chitarra e non era interessante per lei».
Alla domanda sulla sua impressione su Depp, James ha detto che era «pacifico, quasi timido, molto silenzioso» e lo ha definito un «gentiluomo del sud totale». Non l'ha mai visto perdere la calma ed era «sempre completamente passivo». Era solita chiacchierare con lui, ma James ha detto che "si fermava immediatamente quando Amber mi la vedeva parlare con lui perché me l’avrebbe fatta pagare».
James poi è stata interrogata da Benjamin Rottenborn, uno degli avvocati di Heard. Ha detto che il lavoro con Heard «non era proprio del mio calibro» perché ha lavorato con «celebrità di alto profilo» e non aveva mai sentito parlare di lei prima.
Quando le è stato chiesto quando si è accorta per la prima volta che c’era qualcosa che «non era giusto nella relazione» tra Heard e Depp, James ha detto: «Non ricordo quando è iniziata. Di solito si lamentava e piangeva a causa delle sue insicurezze all'interno della relazione. Era molto, molto insicura per la maggior parte del tempo e mi chiamava piangendo».
Alla domanda se Heard le avesse mai detto che Depp l'aveva picchiata, James ha detto di no. James ha detto che non ha mai visto danni nemmeno all'appartamento di Depp.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 aprile 2022.
La sorella di Johnny Depp ha testimoniato nel processo per diffamazione che si sta svolgendo in Virginia e che vede l'attore accusare l'ex moglie Amber Heard di diffamazione per un articolo che lei ha pubblicato sul Washington Post in cui lo accusava di molestie domestiche.
Christi Dembrowski, 61 anni, ha raccontato alla giuria della loro educazione a Lexington, nel Kentucky, della madre "irrequieta" Betty Sue e del padre "pacifico" John Christopher Depp. «Nostro padre era un uomo gentile, paziente, affettuoso. Nostra madre era l'opposto, molto nervosa, ansiosa, arrabbiata», ha detto, aggiungendo che i loro genitori erano «due personalità completamente diverse».
Depp a volte guardava a terra mentre sua sorella parlava. Sembrava essere profondamente commosso mentre lei raccontava la loro infanzia. Betty Sue e John Depp hanno poi divorziato nel 1978, quando Johnny aveva 15 anni e Christi 18. Betty è morta di cancro nel 2016 all'età di 81 anni. Depp si è tatuato il nome di sua madre nel 1988. John "Jack" Depp è stato assente per gran parte della sua infanzia. È ancora vivo.
Alla domanda se ci sono state occasioni in cui Heard non è stato gentile con Depp, Dembrowski ha detto che ce n'era una che «è rimasta davvero con me». Erano nell'ufficio di Depp e Christian Dior aveva chiamato dicendo che erano interessati a lavorare con lui. «Johnny ha detto ad Amber che erano interessati a lui. La sua reazione è stata di incredulità e una sorta di disgusto: "gli ha detto perché Dior dovrebbe voler fare affari con te? Loro si occupano di classe e stile e tu non hai stile". È stato offensivo. Lo ha insultato. Ho sentito insulti più volte in realtà».
Alla domanda su cosa avesse detto Heard sull'aspetto fisico di Depp, Dembrowski ha detto che lo ha chiamato «un uomo vecchio e grasso». Dembrowski ha ammesso di lavorare ancora a stretto contatto con suo fratello e in passato è stata definita il suo «manager personale».
«Tua madre si arrabbiava con tuo padre?» ha chiesto l’avvocato di Depp. «Sì», ha risposto Dembrowski. «Come?». «La mamma urlava, gli urlava contro, lo picchiava, lo insultava, quel genere di cose» ha detto Dembrowski.
«Tuo padre ha picchiato tua madre?». «No, papà non ha mai reagito quando la mamma lo ha picchiato o gli ha urlato contro» ha detto Dembrowski. «Fondamentalmente la lasciava urlare. Ha trattato mia madre sempre in modo da mantenere la pace».
«Tua madre come ha trattato te e i tuoi fratelli e sorelle?» ha chiesto l’avvocato. «Allo stesso modo in cui ha trattato papà. Urlava, picchiava, lanciava cose, ci insultava. Ognuno di noi aveva il proprio set di nomi. Alcuni non li vorrei ripetere. Il mio nome era Violetta. Violet era la madre di mio padre e mia madre odiava la madre di mio padre», ha detto.
«Tua madre aveva un nome speciale per Johnny?». «Ne aveva, alcuni da non ripetere», ha detto Dembrowski. «”Un occhio” era il suo preferito. Perché quando era piccolo i dottori pensavano che avesse un occhio pigro, e gli hanno applicato una benda sull'occhio buono per rafforzare l'altro occhio». «Johnny reagiva?». «Quei nomi erano solo uno stile di vita. Ci siamo abituati», ha detto Dembrowski.
«Tua madre si è arrabbiata con te? Fisicamente?». «Sì, ma ero molto tranquilla, molto timida, ho imparato presto a fare un passo indietro. Stare lontano dai guai», ha detto Dembrowski. «Ci picchiava, lanciava oggetti, andava a staccare un ramo da un albero, e ci colpiva con quello. Uno bello e verde. Altrimenti si sarebbe spezzato».
Dembrowski ha aggiunto che sua madre si arrabbiava con Johnny e picchiava anche lui. «E Johnny reagiva quando sua madre lo picchiava?», ha chiesto Chew. «Era un tipico ragazzino, quando veniva ferito piangeva. Per la maggior del tempo voleva solo allontanarsene», ha detto Dembrowski, aggiungendo che non Depp ha mai reagito a sua madre. «Quando era più grande, se lei colpiva o lanciava cose, lui se ne andava nella sua stanza».
Dembrowski ha detto alla giuria che ogni volta che viaggiavano prenotava una camera d'albergo in più per Depp e Heard.
«Quando erano in viaggio volevo assicurarmi che ci fosse una stanza in più perché non era insolito che litigassero». «Nella sua vita ho visto ripetersi le cose. Da bambini, quando iniziavano le discussioni, la nostra prima reazione era andare a nasconderci e allontanarci. Ho riconosciuto quello che per me era un modello della mia infanzia. Volevo assicurarmi che ci fosse un posto dove potesse fare proprio questo».
Quando Dembrowski ha saputo che Depp stava per sposare Heard, ha detto alla giuria di essersi sentita «spaventata». «Ero devastata. Ho cercato di convincerlo ad aspettare ancora un po' e a non correre». Dembrowski ha detto che la squadra di Depp voleva che Heard firmasse un contratto prematrimoniale per "proteggere i suoi figli", ma lei non lo ha fatto: si sono sposati senza.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 aprile 2022.
Gli avvocati di Amber Heard hanno affermato che Johnny Depp l'ha penetrata con una bottiglia di alcol in Australia nel 2015.
Martedì, l'avvocato di Heard, Elaine Bredehoft, ha detto alla giuria nel processo per diffamazione da 100 milioni di dollari di Depp: «L'ha bloccata contro il bar. Le ha scagliato addosso bottiglie e bottiglie. L'ha trascinata a terra sui vetri rotti. L'ha presa a pugni. L'ha presa a calci. Le ha detto che l'avrebbe uccisa, e la odiava. L'ha picchiata. E poi, l’ha penetrata con una bottiglia di liquore».
Mentre l'avvocato parlava, Depp scuoteva la testa come per dire: «No».
Il portavoce di Depp ha negato con veemenza: «Queste affermazioni fittizie non sono mai state fatte all'inizio delle accuse di Amber nel 2016, e sono emerse vantaggiosamente solo anni dopo, una volta che è stata citata in giudizio per diffamazione dopo aver sostenuto nel suo editoriale che era una vittima di "violenza sessuale"».
«Le parole sono fondamentali in un caso di diffamazione e, convenientemente, questa accusa è arrivata solo dopo. Questo segue lo schema delle sue affermazioni elaborate ed erronee che hanno continuato a cambiare ed evolversi nel tempo ai fini dello shock hollywoodiano in cui Amber ha dominato e che ha utilizzato per sfruttare un serio movimento sociale».
Gli avvocati di Depp hanno raccontato come una «profondamente turbata» Amber Heard abbia fatto di tutto per inseguire e corteggiare l'attore, prima di capovolgere la sceneggiatura e rimproverarlo continuamente.
L'avvocato di Depp, Camille Vasquez, ha dichiarato in apertura: «La signorina Heard è una persona profondamente turbata che manipola le persone intorno a lei».
Vasquez ha descritto come si sono incontrati per la prima volta nel 2009 sul set del film The Rum Diary. «Lo ha inseguito, lo ha corteggiato», ha detto Vasquez. «Ha fatto di tutto per conquistarlo interpretando la ragazza affettuosa e ha funzionato: si è innamorato perdutamente di lei».
«Ricorreva alla violenza fisica, gli lanciava oggetti, lo picchiava, gli diceva che era un codardo, non era abbastanza uomo perché non sarebbe rimasto a combattere con lei».
Ma la squadra di Heard ha raccontato una storia molto diversa. L'avvocato Elaine Charlson Bredehoft ha detto alla giuria che Depp è pieno di rabbia ed è «come un demone».
«Vedeva sua moglie Amber come sua madre e sua sorella che odia», ha detto Bredehoft, aggiungendo che la sua rabbia era «alimentata dall'alcol e dalle droghe». Vasquez ha detto che gli amici di Depp hanno visto «bandiere rosse dappertutto» e nel tempo «la vera signorina Heard ha iniziato a emergere».
«Lo rimproverava, gli urlava contro, lui cercava di placarla... ma succedeva sempre di nuovo».
Vasquez ha continuato: «Ha affrontato la signorina Heard nello stesso modo in cui faceva da bambino con la madre, ha cercato di scappare ma il suo tentativo di andarsene ha fatto infuriare la signorina Heard. La signorina Heard ha confuso la violenza e la rabbia con la passione», secondo Vasquez.
«Si scusava con gesti poetici come se la violenza dimostrasse quanto feroce e travolgente fosse il suo amore per lui». Vasquez ha detto: "Quando il signor Depp e la signorina Heard hanno viaggiato insieme, la sua squadra doveva prenotare una stanza in più per lui, per avere un posto dove andare quando la signorina Heard si infuriava».
Vasquez ha detto che il consulente matrimoniale dell'ex coppia avrebbe descritto Heard come «l'aggressore» nella relazione.
Eleonora D'Amore per fanpage.it il 13 aprile 2022.
Johnny Depp e Amber Heard tornano in tribunale per una causa da almeno 50 milioni di dollari. Partito in Virginia il processo per diffamazione della star di Hollywood contro l'ex moglie dopo un editoriale scritto da lei stessa nel 2018 per il Washington Post in cui parlava di violenza domestica e abusi. Gli avvocati di Johnny Depp, Ben Chew e Camille Vasquez, oggi hanno accusato Amber Heard di aver inventato suddetti racconti per agevolare la propria carriera.
Questo perché l'articolo in questione sarebbe stato pubblicato poco prima dell'uscita di "Aquaman", in cui la Heard recitava, e l'avrebbe aiutata a posizionare se stessa come eroina delle donne.
Si è presentata come il volto del movimento #MeToo, la rappresentante virtuosa di donne innocenti in tutto il mondo, donne che hanno veramente subito abusi", ha detto Vasquez, "Le prove dimostreranno che era tutta una bugia".
Vasquez ha aggiunto che l'attrice era una "manipolatrice", che si era preparata alla "performance della sua vita" sul banco dei testimoni.
"Questo processo è il riscatto da un'accusa falsa"
Depp ha citato in giudizio la Heard per 50 milioni di dollari, sostenendo, a sua volta, di essere lui la vittima di questo piano machiavellico che gli ha demolito la carriera. L'avvocato Chew ha sostenuto, infatti, che le accuse di Heard hanno causato gravi danni al percorso professionale di Depp perché ad Hollywood nessuno vorrebbe affrontare l'onta che deriverebbe dall'assumere un attore accusato di violenza domestica. "Le prove dimostreranno che le false accuse della signora Heard hanno avuto un impatto significativo sulla famiglia del signor Depp e sulla sua capacità di lavorare nella professione che amava", ha concluso Chew, "In definitiva, questo processo riguarda il riscatto dal nome del signor Depp di un'accusa terribile e falsa".
Amber Heard ha richiesto 100 milioni di dollari
Il processo dovrebbe durare circa sei settimane, poiché ai giurati verrà chiesto di selezionare una montagna di prove documentali e testimonianze contrastanti per decidere chi sta dicendo la verità. Heard ha accusato Depp di numerosi casi di aggressione, comprese le volte in cui, a suo dire, l'avrebbe afferrata per il collo, lanciata contro un muro e presa a pugni, arrivando al tentativo di soffocarla. La donna ha rilanciato con la richiesta di 100 milioni di dollari a Depp, sostenendo che il suo avvocato l'avrebbe anche diffamata, accusandola di aver messo su una bufala mediatica ai danni del divo.
Depp ha perso una causa nel 2020 contro il quotidiano The Sun nel Regno Unito, quando il giudice ritenne che le accuse della Heard fossero "sostanzialmente vere" e che quindi il giornale non lo diffamava quando lo descriveva come un "picchiatore di mogli".
Johnny Depp accusato dalla Heard: "Abusi sessuali". Redazione su Il Giornale il 14 aprile 2022.
Non solo violenza domestica, ma anche abusi sessuali. È l'ultimo capitolo della guerra senza esclusione di colpi che si sta combattendo in Tribunale tra Johnny Depp e Amber Heard. Le nuove accuse sono emerse nel corso del processo per diffamazione intentato dall'attore contro l'ex moglie.
Secondo i legali della star di Aquaman, Depp l'avrebbe penetrata con una bottiglia di liquore dopo averla tenuta in ostaggio per tre giorni mentre erano in Australia nel 2015. Altri abusi sessuali sarebbero avvenuti nello stesso anno anche alle Bahamas. Ascoltando l'avvocato della Heard mentre descriveva le violenze, Depp scuoteva la testa per negare le accuse, poi respinte anche dai suoi difensori. «Nessuna donna ha mai accusato l'attore di essere stato violento», hanno detto. Gli avvocati dell'ex moglie hanno colpito duro contro il divo di Hollywood ritenuto responsabile di continui «abusi verbali, emotivi, fisici e sessuali». Comportamenti che sarebbero stati innescati da «dall'abuso di droghe e alcol». In aula è stata ascoltata una registrazione in cui Depp si rivolgeva alla Heard con queste parole: «Pensavo di poter mettere via il mostro per sempre». Invece, secondo l'ex moglie, le violenze domestiche non si sono mai fermate. Di questo l'attrice ha parlato in un editoriale sul Washington Post nel 2018. Per il contenuto di questo articolo Depp le ha fatto causa per 50 milioni di dollari sostenendo di avergli rovinato la carriera e di avergli procurato un danno economico. Anche se nell'articolo non veniva mai fatto il nome dell'attore, dopo la sua pubblicazione la Disney lo scaricò per il ruolo del capitano Jack Sparrow nel film campione di incassi «Pirati dei Caraibi». In aula è emerso anche il tema della gelosia di Depp e della sua ossessione per il miliardario Elon Musk, con il quale l'attrice ebbe una relazione dopo di lui. Sul banco dei testimoni si è seduta la sorella della star, che ha ricordato di aver sentito la Heard insultare il marito accusandolo di essere «vecchio e grasso». Ha parlato anche delle violenze sul fratello da parte della loro madre.
Johnny Depp fa causa ad Amber Heard per 50 milioni. Quando lei disse: "Dior ti ha cercato ma loro hanno a che fare con la classe e lo stile e tu no". Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 13 Aprile 2022.
Gli avvocati della ex moglie hanno detto che mostreranno le prove di aggressioni fisiche e sessuali. Il racconto di Christi Dembrowski, la sorella dell'attore sulle violenze subite da bambini da parte della madre, e la commozione dell'ex Pirata dei Caraibi.
È iniziato a Fairfax, in Virginia, il processo contro Amber Heard, accusata di diffamazione dall'ex marito Johnny Depp che chiede 50 milioni di dollari di risarcimento. E, come era prevedibile, con la sfilata dei testimoni, sono cominciati anche a "volare gli stracci".
Johnny Depp e Amber Heard in tribunale, al via il processo per diffamazione contro l'attrice
Il divo hollywoodiano si è presentato in aula con indosso un abito blu e cravatta bianca. Capelli raccolti e giacca grigia per la ex moglie.
La testimonianza della sorella di Johnny Depp
La prima a essere chiamata sul banco dei testimoni è stata la sorella dell'attore, Christi Dembrowski. La donna ha raccontato di come la ex moglie maltrattasse il fratello e delle violenze della loro madre inflitte da bambini, in risposta alle accuse della ex moglie e dei suoi legali contro Depp.
Botta e risposta fra avvocati
Durante la prima udienza, infatti, gli avvocati di Amber Heard hanno detto che le prove dimostreranno le ripetute aggressioni fisiche e sessuali da parte di Depp nei confronti della ex moglie e hanno fornito dettagli estremamente scioccanti.
Mentre l'avvocato parlava, Depp scuoteva la testa come per dire: "No". Il portavoce della star ha negato decisamente le accuse: "Queste affermazioni fittizie non sono mai state fatte all'inizio delle accuse di Amber nel 2016 e sono emerse solo anni dopo, una volta che è stata citata in giudizio per diffamazione dopo aver sostenuto nel suo editoriale che era una vittima di 'violenza sessuale'", ha detto riferendosi all'articolo scritto dall'attrice per il Washington Post nel 2018, in cui si definiva una "figura pubblica che rappresenta l'abuso domestico''. Articolo che è al centro dell'attuale controversia.
Nel testo, non veniva mai fatto il nome di Depp tuttavia quattro giorni dopo la Disney lo scaricò per il ruolo del capitano Jack Sparrow nel franchise multimiliardario dei Pirati dei Caraibi. Stessa cosa avvenuta poi con la Warner Bros. che gli tolse il ruolo di Grindelwald in Animali fantastici 3.
Gli avvocati dell'attrice avevano cercato di far giudicare il caso in California, dove entrambi risiedono. Ma un giudice ha stabilito che Depp aveva il diritto di portare la causa in Virginia perché i server del Washington Post per la sua edizione online si trovano nella contea: secondo i legali dell'ex Pirata dei Caraibi, in Virginia le leggi sarebbero più favorevoli al loro caso.
"Depp deriso dalla moglie"
Christi Dembrowski, 61 anni, ha descritto la relazione instabile dell'ex coppia, dicendo che era "devastata" quando suo fratello che ha tre anni meno di lei decise di sposare l'attrice. "Ho cercato di convincerlo ad aspettare", ha aggiunto, spiegando che litigavano spesso e che lei lo derideva.
Quando Depp disse alla moglie che Dior era interessato a una campagna con lui, era "incredula e un po' disgustata", ha affermato la donna. "Perché Dior dovrebbe voler fare affari con te? Hanno a che fare con la classe e lo stile e tu non hai stile", avrebbe detto Heard.
Dembrowski, che ha aiutato a gestire la carriera di suo fratello, ha detto che quando la coppia viaggiava insieme, lei prenotava una camera d'albergo in più per Depp, da usare nel caso lui e la moglie avessero litigato.
Il contratto prematrimoniale
Inoltre, sempre secondo Dembrowski, l'attrice di Aquaman avrebbe rifiutato di firmare un contratto prematrimoniale. Una affermazione in netto contrasto con quelle degli avvocati difensori di Heard secondo cui era stato Depp a decidere di rinunciare a un accordo prematrimoniale.
I "non ricordo" di Christi Dembrowski
Durante il controinterrogatorio, gli avvocati di Heard hanno chiesto alla donna chiarimenti sull'uso di droghe da parte di suo fratello, presentandole messaggi che lei stessa gli aveva inviato nel febbraio 2014 e nei quali lo esortava a "smettere di bere", "smettere con la cocaina" e "con le pillole".
Dembrowski ha detto che non riusciva a ricordare il contesto e non ha confermato che stava dicendo a suo fratello di smettere con la cocaina nel messaggio. "Probabilmente non stavo scherzando - ha detto - ma forse stavo ripetendo quello che qualcos'altro mi suggeriva di scrivere".
Una madre irritabile e violenta
I legali di Depp hanno chiesto a Dembrowski di parlare della loro educazione e della loro madre, che lei aveva definito "irritabile, nervosa" e spesso "arrabbiata" in un modo che si trasformava in violenza. Betty Sue Palmer, questo il nome della donna, picchiava spesso suo marito e i suoi figli, ha detto la sorella dell'attore. Depp non ha mai reagito e ha sempre cercato di "mantenere la pace", ha aggiunto.
La promessa: "Mai come lei"
E anni dopo, i due fratelli si sono detti che non avrebbero mai trattato le proprie famiglie allo stesso modo. "Dato che eravamo più grandi, abbiamo deciso che una volta che avessimo avuto la nostra casa, non avremmo mai rifatto qualcosa di simile".
La commozione di Depp
Durante la deposizione di sua sorella, Depp è stato visto assumere un'espressione grave, e più volte si è voltato per trattenere le lacrime. E in altri momenti del racconto ha chiuso gli occhi o ha reclinato la testa guardandosi in grembo.
Il processo dovrebbe durare più di un mese e includere, oltre alla testimonianza di Heard e Depp, anche una serie di altri nomi di alto profilo, tra cui l'imprenditore Elon Musk, con cui l'attrice è stata fidanzata, e l'attore James Franco.
Il precedente
Depp ha deciso di trascinare la ex moglie alla sbarra nonostante abbia perso un'altra causa per diffamazione nel Regno Unito, in quel caso però l'imputato era il tabloid The Sun il quale aveva definito l'attore una persona che picchia la moglie. La stessa, inoltre, tempo fa, aveva chiesto a un giudice di respingere la causa contro di lei ma la richiesta è stata negata e Depp ha potuto portarla avanti arrivando in tribunale.
Come scrive Hollywood Reporter il processo potrebbe rivelarsi un'occasione per vendicare se stesso in quella che lui ha definito una truffa da parte dell'ex moglie che gli sta costando il boicottaggio da parte di Hollywood.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 aprile 2022.
Prosegue il processo per diffamazione intentato da Johnny Depp all’ex moglie Amber Heard per l’articolo uscito sul Washington Post nel 2018 in cui la donna sosteneva di essere vittima di abusi domestici. Ieri sul banco dei testimonia è salita l’ex guardia di sicurezza di Depp, Sean Bett, che ha mostrato alla giuria le foto dell’attore dopo le aggressioni dell’ex moglie.
Brett ha raccontato che il primo incidente è avvenuto nel marzo 2015: nella foto si vede l’attore con «zigomi» e «palpebre gonfi». «Depp ne aveva bisogno come prova nel caso in cui la signorina Heard avesse cercato di fare accuse nei suoi confronti».
Il secondo incidente risale al dicembre 2015, quando «hanno litigato e lei lo ha graffiato». «Aveva dei graffi intorno alla zona del naso su uno dei lati del viso e sulla zona delle guance». Alla corte sono state mostrate quindi tre foto, in cui si vedono le lacerazioni sul lato sinistro e destro del naso, un graffio sulla fronte e uno sul mento.
Bett ha affermato che il 21 aprile 2016, in occasione del 30esimo compleanno di Heard, c'è stato un altro litigio perché Depp era in ritardo. Secondo Bett, quando Depp è arrivato, Heard gli ha lanciato un'occhiataccia, si potrebbe dire che era sconvolta dal fatto che fosse in ritardo.
Ad un certo punto hanno avuto «un’altra discussione, lei lo ha colpito in faccia», ha detto Bett, ma il giudice Penney Azcarate ha ordinato che la testimonianza fosse cancellata dal verbale perché resa per sentito dire.
Durante la sua testimonianza, Bett ha confessato la sua ammirazione per la capacità del suo capo di reggere l’alcol. Dopo alcuni drink, «va in modalità Jack Sparrow. È molto simpatico sia che beva o non beva. L'ho visto leggermente ubriaco. Maneggia l'alcol molto meglio di me».
Bett ha ricordato un incidente intorno al 2012 o 2013 quando Heard fece commenti denigratori sugli uomini a un’amica.
Ha detto che mentre la portava in giro, Heard ha detto a un’amica: «Tutti gli uomini sono idioti, non dovresti fidarti di quel ragazzo». Heard si è poi rivolta a Bett e gli ha detto: "Scusa Sean, non tu, non intendevo quello".
Bett ha descritto come Depp e Heard siano passati dall'essere «una coppia amorevole, quasi liceale, storditi l'uno verso l'altro» a litigare tutto il tempo.
Una volta mentre guidava Heard al suo attico dopo una lite con Depp, Bett le disse: «Non può continuare, vi ucciderete a vicenda o andremo in prigione». Heard ha detto: «Lo amo, non lo perderò».
Bett ha detto che la relazione tra Heard e Depp si è trasformata in «costanti litigi». Bett ha detto di essere stato presente quella notte del maggio 2016 in cui c’è stato lo scontro finale tra Depp e Heard nel loro attico prima del divorzio.
Bett e Jerry Judge, un ex dipendente della Depp, hanno sentito le «urla e grida provenire dalla signorina Heard» mentre aspettavano fuori.
Bett ha detto che lui e Judge sono corsi dentro e Heard aveva uno «sguardo di sorpresa» sul suo viso. Ha detto: «Ha urlato che questa è l'ultima volta che mi fai questo. Depp l’ha guardata e ha detto di che diavolo stai parlando?».
«Judge ha picchiettato Depp sul braccio e ha detto capo, andiamocene. Siamo usciti dalla porta principale». Alla domanda se Heard avesse ferite o arrossamenti sul viso, Bett ha detto di no.
Meno di una settimana dopo, Heard ha chiesto il divorzio da Depp e un ordine restrittivo che includeva una foto del suo viso con un livido che, secondo lei, le aveva procurato Depp tirandole addosso un cellulare.
Da fanpage.it il 20 aprile 2022.
Nella giornata di martedì 19 aprile 2022, Johnny Depp ha rilasciato la sua testimonianza nel processo per diffamazione contro Amber Heard. L'attore, come riportato dal Daily Mail, è stato interrogato dai suoi legali, in attesa della giornata di domani, 20 aprile, quando sarà chiamato a rispondere alle domande che gli rivolgeranno gli avvocati della controparte.
Il divo ha confermato quanto già rivelato da sua sorella, ovvero gli abusi subiti da piccolo da sua madre, che nei confronti dei figli avrebbe adottato dei comportamenti violenti. «In casa nostra non avevamo nessun tipo di protezione, dovevamo solo essere fuori dal perimetro d'attacco. Quando si arrabbiava chi le prendeva, solitamente, ero io» così parla Johnny Depp del rapporto con sua madre, Betty Sue Palmer, che si rivolgeva in malo modo ai suoi figli, completamente bullizzati e vessati dalla sua presenza.
La sua adolescenza, quindi, sarebbe stata scandita da continui abusi psicologici e fisici che, nel tempo, hanno anche avuto delle ripercussioni: «Il dolore fisico si impara ad accettarlo, ma è l'abuso emotivo che è lacerante» ha affermato l'attore. Non solo il rapporto con la madre, ma al centro del racconto compare anche il suo legame con il padre, una persona gentile e sempre composta: «Non l'ho mai visto perdere le staffe contro di lei, ha preso a pugni un muro, ma mia madre non l'ha mai toccata» dichiara l'attore, che ha raccontato lo shock subito quando l'uomo, improvvisamente, decise di lasciare casa, gettando sua moglie in una forte depressione.
«Mi disse che ero diventato un uomo, ma queste parole non mi piacquero. Mia madre cadde in una depressione devastante, ha provato anche a suicidarsi, ha inghiottito delle pillole, ricordo i miei zii e i paramedici nel salotto e lei con la bava alla bocca».
Dopo aver parlato del suo passato, Depp è poi passato a riferire quanto è accaduto con sua moglie Amber Heard, sposata nel 2015. Il divo, quindi, ha parlato di «atti criminali atroci e inquietanti» di cui la donna lo avrebbe accusato ma che non corrispondono alla realtà dei fatti.
«Durante la relazione ci sono state discussioni, ma non sono mai arrivato al punto di colpire la signorina Heard, né ho mai colpito nessuna donna in vita mia»: così il divo si difende dalle accuse rivoltegli dalla ex moglie, ribadendo quello che è il suo principale obiettivo: «La verità è l'unica cosa che mi interessa». Dichiarazioni che si contrappongono a quelle degli avvocati della Heard che hanno descritto Depp come un uomo capace di compiere attivi violenti e dipendente da alcol e droghe.
Prima di ascoltare Depp, era stato chiamato a testimoniare Keenan Wyatt, un amico e tecnico del suono con cui l'attore ha lavorato in diverse occasioni, e che era uno dei presenti su un volo da Boston a Los Angeles del 2014, dove Amber Heard dichiara di essere stata maltrattata dal suo compagno. Il teste ha confutato quanto dichiarato dagli avvocati dell'attrice, dicendo che era lei ad avere un tono piuttosto brusco anche nei suoi confronti: «Non ho mai visto Johnny essere violento nei confronti di nessuno».
"Sembrava il Vesuvio...". Così Johnny Depp si è mozzato un dito. Francesca Galici il 20 Aprile 2022 su Il Giornale.
Johnny Depp è tornato a deporre in tribunale nella causa per diffamazione intentata contro la sua ex moglie, alla quale ha chiesto un risarcimento di 50 milioni di dollari.
Prosegue il processo che vede Amber Heard imputata per diffamazione verso il suo ex marito Johnny Depp, che è tornato a deporre in aula per riferire ai giudici la sua testimonianza sulla vita familiare, molto movimentata, dell'ex coppia. Durante la sua deposizione, l'attore ha accusato la sua ex moglie di aver usato violenza contro di lui e di avergli procurato ferite fisiche importanti durante un litigio. Non una novità l'accusa di violenza nelle varie deposizioni effettuate dall'uno e dall'altro. Tutto è partito quando lei, nel 2018, accusò il protagonista di Pirati dei Caraibi di violenza domestica, scrivendolo nero su bianco in un articolo di opinione sul Washington Post. Quell'articolo, stando all'attore e alla sua difesa, avrebbe arrecato un grave danno alla sua reputazione, tanto da richiedere un risarcimento di 50milioni di dollari.
Durante la sua ultima presenza davanti ai giudici, Jhonny Depp ha riferito di un particolare episodio che si è verificato durante il periodo della loro relazione. Depp ha riferito ai giudici di essere stato vicino a un crollo nervoso dopo essersi mozzato un dito con una bottiglia di vodka durante un violento alterco con Amber Heard. "Il dito sembrava come un Vesuvio in eruzione", ha raccontato a proposito dell'incidente che, stando ai suoi ricordi sarebbe avvenuto in Australia nel 2015. Il sangue usciva talmente copioso dalla ferita sul suo dito, che lui avrebbe deciso di lasciare scritti "piccoli ricordi delle menzogne di Amber" in lettere di sangue sulle pareti della casa dove la coppia allora si trovava.
Una scena dai contorni horror, se non splatter, rivelata ai giudici Fairfax, in Virginia, dove è in corso il processo. Nel maggio 2016 la Heard ha chiesto il divorzio affermando che l'allora marito era stato violento con lei. Si sono susseguite accuse da una parte e dall'altra, interviste e testimonianze di chi la coppia l'ha conosciuta bene nel corso degli ultimi anni, fino ad arrivare a quest'ultimo capitolo della saga. Gli avvocati di Amber hanno ritratto Depp come un partner violento e spesso preda dell'alcol e della droga, mentre il team di lui ha descritto la versione di lei come un "falso" e una strategia calcolata per rovinargli la reputazione.
Johnny Depp si è sempre difeso dall'accusa di aver usato violenza contro la sua ex moglie e l'ha ribadito anche nel corso dell'ultima deposizione: "Non ho mai picchiato Amber in quel modo, né ho mai picchiato una donna in vita mia". Johnny Depp ha sottolineato di aver intrapreso la strada legale perché "il mio scopo è la verità". Gli ultimi anni non sono stati facili per Johnny Depp: "Sono stati sei anni difficili, in cui un giorno sei Cenerentola e in un microsecondo diventi il Gobbo di Notre Dame".
Dagotraduzione dal Daily Mail il 21 aprile 2022.
Chiamato a testimoniare nel processo per diffamazione all’ex moglie Amber Heard, Johnny Depp ha confessato di non aver mai visto il film “Pirati dei Caraibi”. L’attore, 58 anni, che oggi tornerà in tribunale per affrontare gli avvocati dell’ex moglie, ha detto alla corte che «crede che il film sia andato abbastanza bene» riferendosi al primo capitolo della saga, La maledizione della Prima Luna, che ha incassato 654 milioni di dollari.
Ieri in tribunale gi è stato chiesto come è cambiata la sua vita dopo il film. «Il capitano Jack Sparrow può fare cose che io non potrei mai fare. Poteva dire cose che io non potrei mai dire. Per me è stato un modo per portare un personaggio al limite e correre un rischio nel farlo».
«Ma ho pensato che se fosse andata a buon fine, Sparrow avrebbe potuto essere un personaggio amato dai bambini di cinque anni come da quelli di 45 anni, 65 anni e 85 -anni nello stesso modo in cui lo è Bugs Bunny».
Alla domanda sulla sua prima reazione alla sceneggiatura, l'attore ha detto: «Pensavo che avesse tutti i tratti distintivi di un film Disney, vale a dire una sorta di prevedibile struttura in tre atti. Il personaggio del Capitano Jack era più simile a un tipo da spavaldo che si dondola a torso nudo e diventava l'eroe».
«Avevo idee abbastanza diverse sul personaggio, quindi ho incorporato i miei appunti nel personaggio e ho dato vita a quel personaggio. Con grande dispiacere della Disney, inizialmente». Ha aggiunto: «Non l'ho visto. Ma credo che il film sia andato abbastanza bene, a quanto pare, e loro volevano andare avanti, fare di più e io stavo per farlo».
«Non è che tu diventi quella persona, ma se conosci quel personaggio nella misura in cui lo conoscevo io, perché non era quello che gli sceneggiatori hanno scritto, quindi non erano davvero in grado di scrivere per lui... Una volta che conosci il personaggio meglio degli sceneggiatori, è allora che devi essere fedele al personaggio e aggiungere le tue parole».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 21 aprile 2022.
Ieri, durante il processo per diffamazione che vede Johnny Depp contro l’ex moglie Amber Heard, la giuria ha ascoltato alcune registrazioni audio realizzate dall’attore di discussioni tra la coppia. In una delle clip trasmesse, Heard dice a Depp: «Non ti ho preso a pugni. Mi dispiace di non averti colpito in faccia con un vero schiaffo. Ti stavo picchiando, non ti stavo prendendo a pugni». Depp le risponde: «Non mi dire come ci si sente a essere presi a pugni». E lei: «Hai partecipato a molti combattimenti, sei in giro da molto tempo. Non sei stato preso a pugni. Sei stato colpito. Scusa se ti ho colpito così, non ti ho preso a pugni. Non ti ho fregato. Ti stavo colpendo, cazzo. Non so quale fosse il reale movimento della mia mano. Stai bene. Non ti ho fatto male, non ti ho preso a pugni, ti stavo picchiando. Sei un fottuto bambino! Cresci Johnny!». A quel punto lui le fa notare che ha iniziato un combattimento fisico. «Ho iniziato un combattimento fisico» ammette lei. «Ne sono uscito», dice lui. «Sei ammirevole».
In un’altra registrazione, lei lo definisce un «cazzo di merda». Gli dice: «Perché non vai a farti fottere. Vai a succhiarti il cazzo. Vecchio pezzo di merda avaro». E poi, riferendosi al figlio di Depp, Jack: «Spero che il patrigno di Jack gli insegni di più sull’essere un uomo».
Ecco gli incidenti affrontati durante il processo.
Incidente della porta del bagno. Sul banco dei testimoni, Depp ha raccontato che una volta, nell’attico di Los Angeles in cui viveva con l’ex moglie, era andato in bagno. «È venuta a bussare alla porta. Non ho risposto. Ero sotto la doccia, non volevo più avere a che fare con quel sarcastico umiliante aggressivo violento vomito tossico». «Continuava a bussare, finalmente sono uscito dalla doccia, ho aperto la porta del bagno più o meno così (mostra uno spazio ristretto con le mani, ndr) in modo da poter avere una buona presa sulla porta nel caso avesse cercato di irrompere. Avevo ragione, lo ha fatto. Ha spinto tutto il suo peso sulla porta cercando di entrare, e io resistevo, non volevo. Quando la porta si è quasi chiusa, ha iniziato a urlare per il dolore “oh le dita dei piedi”. Ho pensato che il suo piede fosse rimasto incastrato sotto la porta. Pensavo fosse ferita, mi sono inginocchiato per dare un’occhiata e lei mi ha mi ha dato una botta in testa con la porta del bagno».
«Sono rimasto completamente sbalordito da una mossa così corrosiva e orribile, quindi mi sono alzato. A questo punto la porta era aperta e ho detto: "Che cazzo era quello?". La prossima successiva è stata il botto, mi ha colpito alla mascella».
Incidente del naso rotto. Nel raccontare un altro incidente, Depp si è alzato in piedi e ha simulato lo scontro in cui lei sostiene di essersi rotta il naso. «Stavo andando nel mio ufficio. Improvvisamente vengo picchiato da dietro. L’istinto primordiale è quello di chinarsi e coprirsi. Mi sono avvicinato proteggendo il volto, ma le sue braccia oscillavano selvaggiamente. Ho alzato e sono riuscita a tenerla abbracciandola per impedirle di colpirmi di più».
A quel punto Heard lo ha accusato di averle rotto il naso con una testata. «Benissimo Johnny, mi hai rotto il naso». Depp ha negato di averle dato una testata e ha detto che si trattava solo di «un contatto accidentale». Lei gli ha mostrato un fazzoletto insanguinato, ma quando lo ha controllato nella spazzatura, si è accorto che si trattava «di smalto per unghie».
Incidente dell’isola. Mentre era alle Bahamas con la figlia Lily-Rose, Depp ha raccontato che l’ec moglie gli ha lanciato una lattina in testa. «La discussione si è intensificata e lei ha sempplicemente allungato la mano, afferrato una lattina di acquaragia, e me l’ha lanciata in faccia. Mi ha colpito proprio alla fronte e all’attaccatura del naso. Fa male».
Incidente dei 30 anni di Amber Heard. Al 30esimo compleanno di Amber Heard, Depp si è presentato alla cena nel loro attico con quasi due ore di ritardo perché trattenuto dai suoi contabili che gli stavano rivelando lo stato delle sue finanze, che ha definito uno «shock».
«Era stata prelevata una somma di denato piuttosto importante, era scomparsa, e dopo aver lavorato per 30 anni nel settore sono rimasto scioccato dal fatto di sapere dove mi trovavo finanziariamente». Depp ha raccontato di aver pensato di vendere alcune delle sue case per sistemare i sui conti.
Durante la cena era stato «freddo» nei confronti di Heard e più tardi si è messo a letto. «La signorina Heard è entrata nella camere mentre ero sdraiato su un lato del letto a leggere. Stava ancora snocciolando tutti i torti che le avevo fatto quel giorno particolare, quanto ero inaffidabile, una persona orribile. Non mi sono impegnato verbalmente, niente. Non ha avuto una sollecitazione da parte mia, si è alzata dal letto, gli ha girato intorno e ha iniziato a colpirmi in faccia, alla testa, al collo, qualsiasi cosa riuscisse a colpire».
«Mi sono alzato dal letto, l’ho presa per le spalle, l’ho fatta sedere e le ho detto che me ne andavo, e per favore di non provare a fermarmi. Lei si è alzata dal letto e mi ha guardato mentre ero sulla soglia della camera. Le ho detto: “Cosa vuoi fare, colpirmi ancora? Vai vanti, colpiscimi. Bam (mima i movimenti). Ne vorresti un altro? Bam. Bene, ora hai finito”. L’ho presa per le spalle, l’ho accompagnata al letto, le ho detto di non seguirmi e me ne sono andato». Erano le 4.30 del mattino.
Cacca nel letto. Depp voleva torna indietro e raccogliere alcune delle sue cose mentre Heard era via per alcuni giorni, ma la sua guardia di sicurezza Sean Bett gli ha detto di non farlo. «Ho ricevuto alcune notizie che erano assurde, grottesche e crudeli. Mi è stata mostrata una foto su quale fosse il problema. Bett mi ha mostrato una fotografia sul suo telefono».
«Era una fotografia del nostro letto e dalla mia parte c’era materia fecale umana, quindi ho capito perché non era un buon momento per andare lì. Inizialmente ho riso. Era così fuori, così bizzarro e grottesco che potevo solo ridere».
Poi il 21 maggio 2016, l’ultima volta che ha visto Heard prima del divorzio, le ha parlato della «questione fecale». «Ha cercato di incolpare i cani. I cani sono Yorkies, pesano circa 2 kg l’uno. Ho vissuto con quei cani per molti anni e anche Hilda Vargas, è una donna che è stata con me per oltre 30 anni, è stata lei a fare la foto, conosceva i cani e sapeva quanto me che non proveniva dai cani».
Riunione finale. Depp ha raccontato che Heard ha inventato affermazioni secondo cui lui l'aveva picchiata. «Stavo camminando verso la cucina per uscire e poi all'improvviso Rocky Pennington (l'amico di Heard) è corso nell'attico e ha iniziato a urlare, lasciala stare Johnny».
«Ero vicino al frigorifero, ero a 5 metri di distanza. Era ancora seduta sul divano. È stato allora che sono inziate le urla». «Sono a 5 metri di distanza. Ha Rocky lì. ''Smettila di picchiarmi Johnny, sta urlando con la sua migliore voce sconvolta. Smettila di picchiarmi”. A quel punto la squadra di sicurezza di Depp, Jerry Judge e Sean Bett, sono entrati nella stanza.
«(Heard) dice che è l'ultima volta che mi colpirai, l'ultima volta che me lo farai». E Depp: «Sono a una buona distanza di 5 metri». Depp ha detto che dopo che Heard ha presentato istanza di ordine restrittivo per violenza domestica nel maggio 2016, ha dovuto raccontare la storia ai suoi figli.
Ha detto: «Ho dovuto avvisarli che potevano venire fuori alcune cose brutte che sicuramente mi avrebbero messo nella posizione di un alcolista violento condito da droghe. E volevo avvisarli prima che venissero avvicinati con la copertina della rivista People a scuola da altri bambini. Volevo essere in grado di spiegare loro che questo sarebbe stato visibile e sarebbe stato ovunque e mi sono scusato con loro per quello che stava succedendo».
Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2022.
«Oggi, per la prima volta, ho la possibilità di parlare». Johnny Depp è seduto in un'aula di tribunale di Fairfax, Virginia, e parla lentamente in un lungo monologo di oltre un'ora, un'intervista-confessione, la prima in 37 anni di carriera perché era sempre stato notoriamente avaro di informazioni su di sé e la sua famiglia.
È un documento straordinario la deposizione di Depp - trasmessa in diretta dalle tv americane e disponibile integralmente su YouTube - davanti alla corte civile americana per la sua causa - diffamazione - all'ex moglie Amber Heard, attrice e modella, con la quale è stato sposato dal 2015 al 2017 e che negli anni lo ha ripetutamente accusato di abusi domestici e diffuso video che lo ritraggono ubriaco e aggressivo. Nel 2018 Heard ha pubblicato un editoriale sul Washington Post definendosi vittima di «abusi sessuali», senza citare mai per nome l'attore, ma l'articolo è comunque alla base dell'attuale procedimento (Depp ha già perso una causa per diffamazione al tabloid The Sun nel Regno Unito).
Depp chiede 50 milioni di dollari come risarcimento danni, l'ex moglie ha risposto con un'altra causa nella quale ne chiede 100.
I famosi capelli lunghi e neri raccolti dietro la nuca in una coda di cavallo, la giacca scura e la camicia scura e la cravatta sgargiante unico tocco di colore, il bel viso un po' gonfio per la vita vissuta per decenni a tutto volume, Depp ha cominciato a parlare. La famosa voce baritonale, il tono monocorde: rievocando senza filtri storie inedite, con franchezza sconcertante. Ecco l'infanzia nel natio Kentucky che pare uscita da una pièce di Tennessee Williams: il mite padre John e la terribile madre Betty Sue che si faceva beffe dello strabismo di Johnny («Mi chiamava orbo, occhiotorto, rideva della benda che dovevo portare sull'occhio sano per allenare quello malato: avevo cinque anni, tuttora sono legalmente cieco dall'occhio sinistro»). Le botte: «Ma quello era semplicemente dolore fisico, impari a subire. Ma quello che distruggeva me, mia sorella, mio fratello, erano gli abusi psicologici».
Le bugie di Betty Sue che inventa marachelle di Johnny mai commesse e lo fa frustare, a cinghiate, dal padre («Ricordo la cintura di cuoio chiaro: anni dopo scoprì che gli dicevo la verità, ero innocente, e mi chiese scusa: è un brav' uomo»), i problemi scolastici, il padre esasperato che lascia Betty Sue («La sua roba era sparita dagli armadi, andai a cercarlo al lavoro pensando che Betty Sue avesse buttato via tutto ma lui mi disse che se n'era andato, non ce la faceva più, e adesso l'uomo di casa ero io. Capii che non avevo il potere di convincerla a cambiare»).
Betty Sue che comincia a trascinare i figli in giro per l'America («Non riusciva a stare ferma in un posto, le scottava la terra sotto i piedi»), Johnny che lascia la scuola e diventa, contro ogni pronostico, attore.
Ma perché ha fatto causa alla ex moglie a sette anni dalla fine della loro storia? «Perché mi è sembrato diabolico che i miei figli (Lily Rose e Jack, avuti entrambi da Vanessa Paradis, ndr), che allora andavano ancora a scuola, si ritrovassero a fare i conti con gente che gli sventolava davanti la copertina della rivista People dove si diceva che ero un violento. Andava sempre peggio. Era mio dovere liberare i miei figli da questa vicenda orrida e falsa: il mio obiettivo è la verità. Non voglio che la gente pensi che sono un falso, che ho mentito: ho detto la verità. Prima sei Cenerentola e poi in una frazione di secondo diventi Quasimodo (il gobbo di Notre Dame, ndr ). L'onestà è il mio orgoglio, la verità l'unica cosa che mi interessa. La verità è la mia ossessione». Depp sostiene che le accuse di Heard sono false, «non l'ho mai picchiata, non ho mai picchiato una donna in vita mia. Questo processo è imbarazzante? No, sto facendo la cosa giusta».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 22 aprile 2022.
Durante il processo che vede Johnny Depp accusare Amber Heard di diffamazione, gli avvocati della donna hanno mostrato alla giuria un video in cui si vede l’attore distruggere due armadietti mentre è ubriaco. Mentre veniva trasmesso il filmato, la Heard sembrava vicina alle lacrime e tremava.
Nel video si sente Depp: «Motherf****! Figlio di puttana!» mentre prende a pugni un muro. Heard chiede: «Cosa è successo?» mentre si sente il rumore di oggetti lanciati e distrutti. Heard dice: «Tutto quello che ho fatto è stato chiedere scusa. Ti è successo qualcosa? Non credo. Hai bevuto tutta questa cosa stamattina? Stai distruggendo merda».
L’avvocato di Heard, Rottenborn ha detto in tribunale: «Questo è a casa tua a West Hollywood. Sei tu nel video. Sei stato violento?». Depp ha detto sul banco dei testimoni: «Chiaramente stavo passando un brutto momento. Non so per cosa, ma essere registrato illegalmente dall'altro si adatta perfettamente a quanto successo con il resto delle fotografie e delle registrazioni su nastro. Ha cercato di nascondermelo e alla fine ha riso e sorriso. Quella era la parte più interessante».
Depp ammette: «Ho aggredito un paio di armadietti ma non ho toccato la signorina Heard». «Potresti essere stato ubriaco?» chiede Rottenborn. «È una possibilità», ha risposto Depp. «Ti sei versato una mega pinta di vino rosso?» chiede Rottenborn. «Una mega pinta? Mi sono versato un grande bicchiere di vino. Ho pensato che fosse necessario», ha detto Depp. E Rottenborn: «Sei più grande di Amber, fisicamente?». «Non lo direi», ha detto Depp.
«Gli standard del gentiluomo del sud non sono nella tua mente in questo momento particolare?» chiede Rottenborn. E Depp: «Ho avuto esperienze in cui a volte uno si allontana dal controllo completo sulle proprie emozioni».
«Non ho cercato di intimidire la signorina Heard. Perché stava filmando? Se era spaventata a morte, perché non se ne è andata?» ha detto Depp. La giuria ha sentito un audio profondamente inquietante di un incidente tra Depp e Heard in cui la stava implorando di ferirlo con un coltello.
Mentre la clip veniva riprodotta, Depp si è asciugato gli occhi con la mano e ha preso un fazzoletto. Heard sembrava essere sull'orlo delle lacrime e in lotta con le sue emozioni.
Nella registrazione Depp e Heard parlano a bassa voce. Depp dice: «Vuoi tagliarmi da qualche parte?». Heard dice: «Solo non tagliarti la pelle, per favore non farlo. Perché dovrei farlo? Per favore, non tagliarti». Depp risponde: «Ho bisogno di te. Tagliami». Si sente bussare alla porta e una governante dice: «Pulizia» - sembra che siano in una stanza d'albergo. Depp le dice di andarsene, aggiungendo: «No grazie, c'è lo sperma sui cuscini».
Depp dice a Heard di «tagliarmi», aggiungendo che Elliot Spitzer, l'ex governatore di New York, «avrebbe risposto». Depp dice: «Mi odi fottutamente». Heard dice: «Metti giù il coltello! Metti giù quel fottuto coltello. Non farlo Johnny». Depp dice che vuole guardare Heard e che il dolore «andrà via». Heard gli dice: «Il coltello è opaco, sarebbe la cosa peggiore del mondo. Troppo doloroso, noioso e sporco».
La corte ha ascoltato altre registrazioni di discussioni tra Depp e Heard. In una Depp dice: «Divento irrazionale quando fai film, divento geloso e fottutamente pazzo e strano e litighiamo molto di più». In un'altra registrazione Depp dice: «Ti ho dato una testata sulla fottuta fronte. Quella non rompe il naso».
In precedenza alla corte è stata mostrata una foto del marzo 2013 in cui si vedeva un bicchiere di whisky su un tavolo e alcune righe bianche di polvere. Depp ha descritto il suo consumo di alcol e droghe giovedì, dicendo: «Ero caduto dal carro mentre stavo facendo Lone Ranger», aggiungendo che «ogni giorno che tornavo a casa c'era un bicchiere di whisky ad aspettarmi».
L'avvocato di Heard, Benjamin Rottenborn, ha chiesto a Depp: «Berresti whisky la mattina?». Depp ha risposto in modo irriverente: «Non c'è l'happy hour in qualsiasi momento?» suscitando risate in tribunale. Rottenborn ha chiesto se le linee bianche fossero cocaina e Depp ha detto che sembrava esserlo.
Rottenborn ha poi parlato dell'amicizia di Depp con l'attore britannico Paul Bettany. Rottenborn ha detto: «Paul Bettany è un buon amico con cui hai fatto uso di droghe?». Depp ha risposto: «Questa è una domanda strana». Depp ha poi ammesso di aver bevuto alcolici, sniffato cocaina con lui e preso pillole insieme.
Depp e Bettany sono amici da anni e hanno recitato insieme nel film di fantascienza del 2014 Transcendence e di nuovo nella commedia d'azione Mortdecai nel 2015. Rottenborn ha letto i testi che Depp ha inviato a Bettany l'11 giugno 2013. Uno di loro diceva: «Bruciamo Amber!!!». Rottenborn ha detto: «Non ti sei fermato. Il testo successivo dice: ''Affoghiamola prima di bruciarla!!!'' Ho letto bene?». Depp ha detto: «Sì».
Rottenborn ha detto: «Vorrei scusarmi con la corte e la giuria per alcune delle parole che userò». Ha letto il messaggio successivo che Depp ha inviato a Bettany che diceva: «In seguito scoperò il suo cadavere bruciato per assicurarmi che sia morta». Rottenborn ha detto: «L'hai scritto sulla donna che in seguito sarebbe diventata tua moglie». Depp ha detto: «Sì».
Rottenborn ha letto un messaggio che Depp ha inviato al cantante Elton John nel 2012 ringraziandolo per il suo sostegno nella sua lotta con la droga. Il messaggio diceva: «Sarei stato inghiottito dal mostro se non fosse stato per te, è un fatto semplice?».
Depp ha detto: «Elton era un caro amico che è stato sobrio per 40 anni, abbiamo avuto discussioni e voleva che mi pulissi, sobrio, quindi in realtà ha mandato un tizio chiamato Charlie Dunnett che ha lavorato con Elton per anni e anni…».
Processo a Johnny Depp, azienda di cosmetici smentisce Amber Heard. Marco Alborghetti il 24/04/2022 su Notizie.it.
Nel processo per diffamazione nei confronti di Amber Heard spunta la testimonianza a sorpresa di un'azienda di cosmetici che smentisce l'attrice.
Durante il processo per diffamazione voluto da Johnny Depp nei confronti dell’ex moglie Amber Heard, l’azienda di cosmetici Milani ha pubblicato un video che smentirebbe la testimonianza dell’attrice.
A Fairfax, in Virginia continua da giorni il processo per diffamazione voluto da Johnny Depp nei confronti dell’ex moglie Amber Heard, e spunta un retroscena su un’azienda di cosmetici che potrebbe cambiare le sorti del processo.
Il team di avvocati dell’attrice ha presentato in aula un kit di trucchi dell’azienda Milani che l’attrice avrebbe usato negli anni del matrimonio con Depp per coprire i lividi delle ripetute violenze domestiche.
Su Tik Tok però l’azienda di cosmetici ha pubblicato un video di 15 secondi in cui dimostra come il trucco in questione utilizzato dall’attrice sia stato rilasciato sul mercato dopo il divorzio della coppia.
La data non corrisponde
Nello specifico, le violenze subite da Amber Heard risalgono al periodo tra il 2014 e il 2016, ma come dimostra il video, il rilascio del trucco risale al 2017, un anno dopo il divorzio.
Una prova che di fatto mette in dubbio la testimonianza dell’attrice. Ricordiamo che nel caso la giuria ritenesse colpevole Johnny Depp, l’attore sarebbe costretto a scontare anni di pena in carcere, ma nel caso fosse prosciolto da ogni accusa, l’ex moglie e il Washington Post che nel 2018 pubblicò le presunte frasi diffamatori dovranno risarcire l’attore per una cifra che si aggira intorno ai 50 milioni di dollari.
Da affaritaliani.it il 26 aprile 2022.
Clamoroso colpo di scena nel processo tra Johnny Depp e Amber Heard. Come se non bastassero le reciproche accuse di violenza, abusi e crudeltà coniugale, spunta anche un video su TikTok ad agitare le acque della causa che sta catalizzando l'interesse di tutto il mondo.
Amber Heard aveva infatti riferito di coprire i lividi sul viso dovuti alle presunte violenze del suo ex marito usando uno specifico fondotinta correttore. A smentirla ha provveduto la stessa azienda produttrice, la Milani, che – appunto con un video su TikTok – ha spiegato che quella specifica linea di cosmetici è stata lanciata nel dicembre 2017, ovvero dopo i fatti denunciati dall'attrice.
Un bel colpo per Johnny Depp, che in questo processo si sta giocando moltissimo, se non tutto. Lui ha denunciato Amber Heard per diffamazione, chiedendole 50 milioni di dollari, mentre lei lo ha controdenunciato raddoppiando la posta, ovvero chiedendone 100.
Soprattutto, però, l'ex Pirata dei Caraibi si sta giocando l'immagine e la carriera, che rischiano di venire irrimediabilmente compromesse da un processo nel quale è uscito veramente di tutto. Verrebbe da citare il famoso “sangue e merda” col quale Rino Formica descriveva la politica, anche perché nell'aula del tribunale si è parlato proprio di questo!
La smentita nei confronti di Amber Heard è un altro punto importante messo a segno da Johnny Depp, che in questo processo integralmente trasmesso dalla tv americana (e su YouTube si trova praticamente tutto), sta sfruttando le sue doti di mattatore. Sono molto eloquenti le parole di Paula Todd, avvocato e docente di giornalismo all'Università di York: «Depp sta letteralmente fornendo una lezione di recitazione ogni volta che sale sul pulpito per deporre», ha detto alla Cbc, aggiungendo che le riprese del processo stanno danno una «massicca amplificazione tecnologica» alla vicenda.
Ricco e famoso, Depp in questa vicenda ha pubblicamente rivelato dei lati nascosti: la sua infanzia molto difficile e la sua sofferenza per come la Heard, dopo un grande amore, sia diventata davvero la sua peggior nemica. Tra i due, è proprio lui che sta uscendo da questo palcoscenico come la vittima, incoraggiando diversi uomini a parlare pubblicamente di vicenda analoghe subite nella propria vita domestica: c'è infatti chi tifa per Johnny Depp, sostenendo che la sua vittoria potrebbe comportare un cambiamento culturale, rispetto a una realtà nella quale queste cause finiscono sempre col dare ragione alle donne.
Certamente sono le donne a subire più frequentemente le conseguenze drammatiche della violenza coniugale, ma caso per caso è necessario l'effettivo svolgimento dei fatti e questa intricata vicenda tra Johnny Depp e Amber Heard sembra davvero molto lontana dalla pagina conclusiva.
Da fanpage.it il 26 aprile 2022.
È il processo dell'anno e da due giorni non si parla d'altro, anche perché c'è proprio lui sotto i riflettori. Nel secondo giorno di testimonianza, Johnny Depp introduce nuovi elementi nella causa per diffamazione da 50 milioni di dollari contro Amber Heard, la sua ex moglie. Il centro della questione sono le accuse di violenza domestica fatte da Amber Heard, e pubblicate sul Washington Post, che hanno avuto un impatto devastante sulla carriera dell'attore.
Johnny Depp mette in fila tutte le accuse, spiegando di aver visto crollare più di 50 anni di carriera: «Dopo le accuse, che hanno fatto il giro del mondo, la gente ha creduto che io fossi una minaccia, un ubriacone alimentato dalla cocaina che picchiava le donne. Dopo accuse di questo tipo, la mia carriera è finita».
Nella sua difesa, Johnny Depp sostiene che ormai l'esito della sentenza non importa perché «dal momento che quelle accuse si sono trasformate in un foraggio per i media, io ho perso. Ho perso e porterò quelle accuse addosso per tutto il resto della mia vita».
Il momento più importante della giornata di ieri è stato rappresentato dalla fotografia che la difesa di Johnny Depp ha mostrato ai giurati: il dito parzialmente mozzato dell'attore. Mentre la coppia era in Australia, con Johnny Depp impegnato con le riprese dell'ultimo Pirati dei Caraibi, Amber Heard lanciò una bottiglia di vodka contro l'attore, causandogli la parziale recisione della punta del dito. Johnny Depp ha sempre raccontato di essersi tagliato in una porta.
«Il sangue zampillava e io penso di essere entrato in una specie, non lo so dire, una specie di esaurimento nervoso. Niente aveva senso per me. Ho mentito a tutti perché non volevo si sapesse che era stata proprio la signora Heard a lanciarmi una bottiglia di vodka addosso e tagliarmi il dito. Non volevo metterla nei guai».
Il punto principale del conflitto tra i due è sempre stato in riferimento ai problemi d'alcolismo dell'attore. Spiega Johnny Depp: «È sempre stata piuttosto brutale nel dirmi che dovevo smettere di bere. Diceva che ero un debole, un disastro completo. Un alcolizzato che sa solo rovinare le cose». E da questi conflitti, si degenerava: «Il suo bisogno di conflitto e violenza esplodeva dal nulla. Ho imparato ad affrontarlo come affrontavo le cose da bambino, ritirandomi».
Amber Heard avrebbe poi dichiarato che Johnny Depp l'ha picchiata perché deriso dopo il tatuaggio "Winona Forever", cambiato successivamente in "Wino Forever". Depp ha smentito:
«Non è mai successo. Perché dovrei offendermi così tanto per qualcuno che prende in giro un mio tatuaggio? Questa accusa non ha nessun senso. La violenza non l'ho mai reputata necessaria».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 26 aprile 2022.
Prosegue in Virginia il processo per diffamazione tra Johnny Depp e l’ex moglie Amber Heard. L’attore ha chiesto 50 milioni di dollari di risarcimento alla donna per averlo diffamato per aver sostenuto nel 2018 in un articolo per il Washington Post di essere vittima di abusi domestici. Heard ha contro attaccato chiedendo all’ex marito 100 milioni di dollari per averla definita una «bugiarda».
Ieri la corte ha ascoltato un audio registrato durante un incontro tra Depp e Heard avvenuto due mesi dopo la richiesta di divorzio, nel luglio del 2016. Nella registrazione si sente l’attore chiedere a Heard di tagliarlo con un coltello: «Hai preso tutto, vuoi il mio sangue, prendilo».
A quel punto la reputazione di Depp era stata distrutta dalle affermazioni di Heard secondo cui era fisicamente violento con lei, e grazie a un livido esibito durante un’udienza in un tribunale di Los Angeles aveva ottenuto un ordine restrittivo contro di lui.
Depp ha detto alla corte di aver ripetutamente chiesto a Heard di tagliarlo perché il suo sangue «era l'unica cosa che non aveva». La corte ha anche ascoltato una conversazione telefonica in lacrime tra Depp e Heard dopo il divorzio in cui lei lo ha sfidato per le sue affermazioni di averlo picchiato. Heard dice: «Dì al mondo che, Johnny Depp, un uomo, è vittima di violenza domestica e guarda quante persone ti crederanno o si schiereranno con te».
La corte ha già ascoltato la registrazione inquietante dell'incidente in cui Depp dice ripetutamente a Heard di tagliarlo, dicendo a bassa voce: «Mi odi fottutamente».
Alla domanda di uno dei suoi avvocati sull'incontro a San Francisco, Depp ha detto che «non è andato particolarmente bene». Ha detto: «Ero piuttosto confuso che mi avesse convocato a quel punto perché tutte le notizie riguardavano il fatto che avrei presumibilmente fatto tutte queste cose orribili».
«L'ho incontrata nella speranza che ritrattasse le sue bugie. In nessun modo era pronta a farlo. Non riuscivo a capire perché ero lì. Mi era stato tolto tutto. I miei figli non potevano sottrarsi al fatto che tutto questo era crollato».
Alla domanda sul perché stesse minacciando di farsi del male, Depp ha detto: «Pensavo che la signorina Heard mi avesse portato a San Francisco, era chiaro, con false pretese. Non so cosa stesse cercando. Avevo un coltello in tasca. Ho tirato fuori il coltello e ho detto qui, tagliami».
«L'unica risposta era qui, tagliami, è tutto quello che mi resta da darti. Non c'era alcuna minaccia per Miss Heard, si trattava di versare il mio sangue, era l'unica cosa che non aveva».
Da ansa.it il 27 aprile 2022.
Amber Heard mostrerebbe sintomi di un disturbo border line della personalità che comporta «uno sforzo estremo per essere al centro dell'attenzione», precedente alla sua unione con l'attore Johnny Depp che ora lo accusa, in un tribunale della Virginia, di avergli rovinato la carriera con false accuse di violenza domestica.
Lo ha detto una psicologa forense, Shannon Curry, al processo, secondo quanto riportato dall'agenzia Pa. Secondo Curry, la Heard soffriva di disturbo borderline di personalità e disturbo istrionico di personalità, che possono comportare «tattiche di manipolazione per cercare di soddisfare i propri bisogni».
Non soffrirebbe invece, come da lei affermato, di disturbo da stress post traumatico (PTSD) dovuto alla sua relazione con Johnny Depp. Sentita al processo, la Curry è stata accusata dagli avvocati di Amber Heard di potenziale pregiudizio, per essere stata assunta da Johnny Depp, accusa respinta dalla consulente.
Da leggo.it il 27 aprile 2022.
Il processo che vede contrapposti Jhonny Depp e la sua ex moglie Amber Heard si arricchisce, ogni giorno di più di nuovi dettagli. I legali dell'attrice hanno diffuso i messaggi che Depp ha mandato al suo amico e collega Paul Bettany che lasciano tutti senza parole. «Amber Heard va bruciata viva», aveva scritto Depp.
Messaggi da far accapponare la pelle. Parole pesanti come macigni in ottica del processo, ma che non smuovono Jhonny Depp dalla sua versione. La stella di Hollywood, infatti ha ribadito: «Sono io la vera vittima di violenza domestica». Spiegando poi la genesi di quelle parole, l’attore ha spiegato: «Mi sentivo vicino a Paul - ha spiegato - perché credevo di condividere lo stesso senso dell’umorismo, un po’ surreale. Quella era una citazione dai Monty Python».
Dopo la rivelazione fatta dai legali della sua ex moglie, Jhonny Depp non ha tardato a scusarsi per le parole emerse. Perché i messaggi non si sono certo fermati lì. «Bruciamo Amber - proseguono - magari affoghiamola prima di bruciarla. Dopo mi fott**ò il suo cadavere per assicurarmi che sia morta». Concetti surreali detti per scherzo, secondo quanto dichiarato dall'attore, ma comunque clamorosamente violenti.
Depp si è, dunque, scusato per i toni ma ha continuato a spiegare che erano messaggi privati: «Dato che sono testi privati, bisogna contestualizzare. È importante sapere che nulla di tutto ciò è stato mai inteso e concepito per essere realizzato. Sì, mi vergogno di averlo diffuso nel mondo come se fosse un burro di arachidi, ma va contestualizzato. Ad esempio, quando parlo di bruciare la signora Heard, lì cito direttamente i Monty Phyton e lo sketch sul rogo delle streghe. È un film che guardavamo tutti quando avevamo 10 anni. È solo umorismo surreale».
L’attore inoltre ha spiegato che Amber Heard disprezzava Bettany: «Soffriva del fatto che eravamo diventati così amici, lo vedeva come una minaccia». Motivazioni che non sembrano comunque giustificare affermazioni del genere. Anche se il «Pirata dei Caraibi» più amato al mondo continua a negare ogni forma di violenza sull'ex moglie e, addirittura, dichiara di essere lui la vittima di violenza domestica.
Da tg24.sky.it il 28 aprile 2022.
Amber Heard è uscita con Elon Musk mentre cercava di riconciliarsi con Johnny Depp nel 2016. Ad affermarlo è Christian Carino, agente della Creative Artists Agency che in passato ha rappresentato la ex coppia. Carino ha deposto nel decimo giorno del processo per diffamazione da 50 milioni di dollari di Depp contro la sua ex moglie. L’agente è famoso anche per essere stato fidanzato con Lady Gaga tra il 2017 e il 2019.
Come riporta il Guardian, Carino ha affermato che Heard aveva «trascorso del tempo» con Musk, il tycoon di Tesla e il proprietario dell'azienda aerospaziale SpaceX, mentre cercava di far risorgere la sua relazione con Depp. I fatti sarebbero avvenuti due mesi dopo che Heard aveva denunciato la violenza domestica contro Depp e la coppia si era separata.
Durante la testimonianza sono stati letti sms scambiati da Heard con Carino nel 2017 in cui l'attrice si dice triste per aver rotto con Musk. «Non eri innamorata e mi hai detto migliaia di volte che stavi solo riempiendo uno spazio», ha scritto Carino a Heard su Musk nel 2017. «Odio quando le cose diventano pubbliche», scrive lei. Carino risponde: «Se non ti piace che la tua vita personale sia sulla stampa, non uscire con uomini famosi. Potresti fermare la cosa se smettessi di uscire con persone super famose».
Musk, che potrebbe essere chiamato a deporre nei prossimi giorni, è stato tirato in ballo negli atti processuali in cui si insinua un rapporto a tre tra l'attrice, il miliardario e Cara Delevingne nel 2016, quando Depp era a Los Angeles per girare un film.
L'agente ha anche testimoniato di non aver mai visto Depp abusare di Heard o di aver visto ferite su di lei, ma che le accuse contro di lui hanno influenzato negativamente la sua carriera. «Le persone non vogliono sapere che qualcuno che ammirano è sotto processo», ha detto Carino.
Secondo la sua testimonianza, riportata dal Guardian, fu lui a far in modo che Heard incontrasse Depp a casa di un amico a San Francisco, nonostante l'ordine restrittivo temporaneo dell’attrice contro Depp. La coppia separata, ha detto Carino, parlò per ore «a pochi centimetri di distanza» nel patio prima di spostarsi in un hotel, dove iniziò una discussione. Heard, sei giorni dopo, ha chiesto un ordine restrittivo contro Depp accusandolo di violenza domestica contro di lei quella notte.
Da ansa.it il 29 aprile 2022.
A dispetto delle attese del pubblico, né Elon Musk né l'attore James Franco dovrebbero testimoniare nel processo per diffamazione intentato da Johnny Depp all'ex moglie Amber Heard. Lo riporta il "New York Post".
Musk ha avuto una relazione con la Heard e Depp era convinto che lei fosse andata a letto con Franco. Amber dovrebbe invece deporre la prossima settimana e l'interrogatorio dovrebbe durare vari giorni. Sia Musk che Franco erano sulla lista dei testimoni di Amber diffusa all'inizio del processo, ma l'avvocato del boss di Tesla, Alex Spiro, ha detto che il suo cliente non si farà sentire dalla giuria del tribunale di Fairfax in Virginia, e lo stesso hanno indicato fonti vicine a Franco.
L'attore era stato coinvolto nel caso durante la querela sporta da Depp contro il "Sun" sulla base di un articolo in cui il tabloid britannico lo aveva definito «uno che picchia le mogli» facendo leva sulle accuse della Heard. Musk avrebbe avuto una relazione con la Heard per circa un anno dopo che il matrimonio con Depp era esploso nel 2016.
Da leggo.it il 29 aprile 2022.
Un fine carriera da incubo per l'attore Johnny Depp, accusato di violenza domestica dall'ex Amber Heard. E ora sul caso interviene anche la testimonianza di Christian Carino, ex agente dell’attore, che ha depositato nel corso del processo che si sta svolgendo in Virginia tra i due ex coniugi dallo scorso 11 aprile. A riportarlo è il magazine americano Variety.
Le accuse di abuso sono costate all’attore l’allontanamento da parte di Disney che ha fatto marcia indietro rispetto alla star dei “Pirati dei Caraibi”. Secondo Carino, che ha rappresentato sia Depp che Heard pur non avendo più rapporti con entrambi, le accuse di abuso nei confronti dell’attore non sarebbero mai state discusse apertamente nell’ambito di Disney.
Ma la scelta di prendere le distanze da lui è stata inevitabile e scontata. Dopo l'ultimo film uscito nel 2017, Depp era stato contattato dalla Disney per prendere parte alla sceneggiatura del sesto film, ma poi è cambiato tutto. «Ho dato vita a quel personaggio, ci ho messo tutto quello che era mio. Ho creduto nel personaggio fino all'ultimo» ha dichiarato l'attore in aula.
Dunque, rimane il dubbio su quando l’azienda ha deciso di escludere Depp dall’eventuale sesto capitolo della saga dei pirati. Secondo i suoi avvocati, sarebbe stato informato della decisione pochi giorni dopo la pubblicazione dell’editoriale di Amber Heard nel 2018 sul Washington Post, nel quale parlava dei presunti abusi domestici.
«Dopo due anni che in tutto il mondo si parlava di me come di un uomo che picchia la moglie, sono sicuro che la Disney stesse cercando di tagliare i ponti per mettersi al sicuro. Il movimento Me Too era in piena attività in quel momento», ha dichiarato Depp. Ma, secondo gli avvocati di Heard, la decisione di Disney sarebbe arrivata ben prima.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 29 aprile 2022.
La guardia del corpo di Johnny Depp, che ha testimoniato ieri al processo per diffamazione in corso in Virginia, ha detto di aver notato ferite e segni sul viso dell'attore mentre il suo matrimonio con Amber Heard diventava sempre più instabile.
Malcolm Connolly ha preso posizione contro l’ex moglie di Depp, dicendo alla corte di aver visto il suo cliente passare dall'essere felice ad essere «tranquillo» mentre Heard diventava più «dominante» ed «esigente».
Testimoniando a distanza dal Regno Unito, Connolly, che ha iniziato a lavorare come sicurezza personale privata di Depp nel 2006, ha detto: «All'inizio [era] tutto amorevole. Tutto era fantastico. Era iniziato il periodo della luna di miele, e sì, è stato bello».
«E' stato bello vedere Johnny di nuovo felice. Amber era adorabile, affascinante - come di solito è - e buona come l'oro». Ma Connolly, che si identifica come un "ufficiale di protezione", ha detto che poi le cose «hanno iniziato a cambiare» tra i due coniugi, che hanno iniziato a litigare più spesso.
«Amber ha iniziato a cambiare. Ha iniziato a diventare un po' più esuberante, esigente. Ho potuto vedere che Amber voleva indossare i pantaloni in questa relazione. Era abbastanza ovvio», ha detto. La guardia del corpo ha aggiunto che Heard «poteva diventare gelida perché le era caduto il cappello» e nel tempo ha assistito a Depp «diventare più tranquillo» mentre Amber «iniziava a diventare scontrosa».
Connolly ha ammesso di non aver mai visto alcuna violenza fisica tra i due, ma ha testimoniato che sentiva Depp e Heard litigare frequentemente. «Riuscivo a sentire Amber urlare. Riuscivo a sentire urla e grida», ha detto, aggiungendo che poteva «per lo più» sentire le urla di Heard e che la coppia litigava «il più delle volte».
E sebbene non abbia mai assistito a violenze, la guardia di sicurezza ha detto alla corte che ha iniziato a notare graffi e ferite sul viso di Depp, mentre non ha mai visto alcun segno su Heard. «Quello che ho notato subito è che la maggior parte di questi segni si stava verificando sul lato sinistro della sua faccia (di Depp)», ha detto Connolly.
«C’erano dei graffi sul suo collo. Forse un labbro grasso nell'angolo, un livido nell'orbita dell'occhio. Stava diventando più regolare. Non ogni settimana, ma stava sicuramente accadendo», ha aggiunto.
Alla giuria è stata quindi mostrata una foto scattata da Connolly durante la luna di miele di Depp e Heard nel 2013. Depp, in posa insieme alla sua ex moglie e ad altre tre persone, sembrava avere ferite visibili e «gonfiore» sul viso.
Quando gli è stato chiesto di descrivere la foto, Connolly ha indicato il «gonfiore sul lato sinistro» del naso di Depp e «sotto il suo occhio sinistro». Alla domanda su cosa pensava fosse successo, la guardia del corpo ha detto: «O ha sbattuto contro una porta, o una porta ha sbattuto contro di lui», provocando una risata dall'aula.
Giovedì, i giurati hanno anche ascoltato brevemente il manager aziendale di Depp, Ed White, che ha affermato di essere intervenuto nel 2016 per risolvere le difficoltà finanziarie di Depp, comprese le tasse non pagate e una stretta di cassa.
Quando ha incolpato Heard per un conto eccessivo che comprendeva più bottiglie da 500 dollari di vino spagnolo Vega Sicilia, gli avvocati di Heard hanno risposto con una raffica di domande sugli eccessi di spesa di Depp, inclusa la spesa di milioni di dollari per sparare le ceneri del giornalista Hunter S. Thompson da un cannone.
La corte ha ascoltato anche una testimonianza che rivelava che Elon Musk ha coperto quasi la metà della donazione dell'ex fidanzata Amber Heard all'American Civil Liberties Union (ACLU) dopo che si era impegnata a donare parte del suo accordo di divorzio multimilionario in beneficenza.
Finora l'attrice ha pagato solo 1,3 milioni di dollari dei 3,5 milioni di dollari che aveva promesso all'ACLU quasi sei anni fa, con i soldi di Musk che ne hanno ricavato una grossa fetta.
Cosa sta succedendo tra i due divi di Hollywood che si accusano a vicenda. Perché Johnny Depp e Amber Heard sono a processo, l’attore: “Indipendentemente dall’esito ho già perso tutto”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Aprile 2022.
Probabilmente passerà alla storia come uno dei processi più mediatici e seguiti di sempre. Non solo perché i protagonisti sono due star di Hollywood, l’attore Johnny Depp, 58 anni, e la ex moglie, l’attrice Amber Heard, 36 anni, ma anche perché è seguitissimo da tutti i media anche con dirette sui social. La questione tra i due è complicata e in più occasioni sono finiti davanti al giudice. Cosa sta succedendo? Il 12 aprile nel tribunale di Fairfax, in Virginia, è cominciato il processo per le accuse di diffamazione rivolte dall’attore Johnny Depp alla ex moglie, l’attrice Amber Heard, con una richiesta di risarcimento di 50 milioni di dollari.
La vicenda inizia anni fa e ha visto spesso i media spostare la loro simpatia per l’uno o per l’altro. Da quando hanno divorziato nel 2016, Heard ha infatti testimoniato in diverse occasioni di aver subito violenze da Depp quando stavano insieme, cosa che Depp ha sempre negato, ribattendo di essere lui la vittima di abusi domestici tra i due. Nonostante si tratti di un processo per diffamazione, infatti, quello che la giuria dovrà decidere è se le violenze sono di fatto mai avvenute, e da parte di chi. Per farlo, si stanno ripercorrendo i trascorsi della coppia dal 2012 al divorzio.
Ed è così che è iniziato l’ultimo processo in cui si susseguono deposizioni di nomi famosi e rivelazioni inquietanti sulla vita di coppia dei due. Le udienze andranno avanti ancora per un mese. Nella sua deposizione Depp ha detto: “Non ho mai picchiato Amber Heard. Ci sono stati litigi e cose del genere, ma non sono mai arrivato al punto di colpire Miss Heard in alcun modo. Nè ho mai picchiato nessuna donna in vita mia. Ho sentito la mia responsabilità di difendere non solo me stesso, ma anche i miei figli, volevo ripulire i miei figli da questa cosa orribile che dovevano leggere sul loro padre che non era vera”.
E ancora: “Mi ha ucciso il fatto che tutte queste persone che avevo incontrato nel corso degli anni hanno pensato che fossi un imbroglione. È strano quando un giorno sei Cenerentola, per così dire, e poi in 0,6 secondi sei Quasimodo. Non me lo meritavo. Sono orgoglioso dell’onestà e della verità. La verità è l’unica cosa che mi interessa, le bugie non ti porteranno da nessuna parte. […] Indipendentemente dall’esito di questo processo, ho già perso. Ho perso quando sono state fatte queste accuse, perché rimarranno con me per sempre. La mia vita è rovinata per sempre”.
Il travagliato rapporto tra Johnny Depp e Amber Heard
Amber Heard e Johnny Depp si erano conosciuti nel 2009, quando lei aveva 23 anni e lui 45, sul set del film The Rum Diary – Cronache di una passione: si erano messi insieme nel 2012 e si erano sposati tre anni dopo, nel 2015. A maggio del 2016, appena 15 mesi dopo, Heard aveva chiesto il divorzio e un ordine restrittivo nei confronti di Depp, presentandosi davanti al tribunale di Los Angeles (dove i due vivevano) con una contusione al viso che, disse, le era stata provocata da un colpo del marito con un iPhone.
Pochi giorni dopo, la rivista People aveva pubblicato in copertina una foto di Heard con il volto segnato da lividi e ferite, che stando alle parole dell’attrice era stata scattata a dicembre dell’anno prima durante quello che lei descrisse come un grave episodio in cui “aveva seriamente temuto per la propria vita”.
Amber Heard accusa di violenze Johnny Depp
L’attrice accusò il marito di averla picchiata in più occasioni. Lui negò tutto. Prima dell’inizio del processo vero e proprio, Heard ottenne un ordine restrittivo temporaneo per l’ex marito, ma decise di non chiedere anche il pagamento temporaneo degli alimenti, una forma di sostegno economico previsto in alcuni casi durante i processi di divorzio. Lo fece in risposta ai media che l’accusavano di aver accusato l’ex solo per guadagnare soldi.
Si susseguirono le dichiarazioni pubblicate dai siti di gossip come TMZ che riportò le testimonianze di due ufficiali di polizia che dissero di aver risposto alla chiamata di Heard la sera in cui lei sosteneva di essere stata aggredita con l’iPhone e di essere intervenuti, ma di non aver visto nessun segno di violenza sul suo volto. Successivamente TMZ pubblicò un video in cui Heard riprendeva Depp visibilmente nervoso e apparentemente ubriaco mentre sbatteva le ante dei mobili, rompeva un bicchiere e reagiva con violenza quando scopriva di essere ripreso, sostenendo però che il video fosse stato pesantemente modificato dalla stessa Heard e che comunque in quella occasione aveva colpito il mobile, non la donna.
Lo stesso sito pubblicò anche le foto di quello che sosteneva fosse il dito di Depp amputato in parte dopo una lite a marzo del 2015, mentre la coppia era in Australia: raccontò che dopo essersi ferito l’attore aveva usato il sangue e della vernice blu per scrivere su uno specchio varie cose, tra cui il nome dell’attore con cui, secondo lui, Heard l’aveva tradito (Billy Bob Thornton). Un altro sito pubblicò la telefonata dell’assistente di Depp che si scusava a nome dell’attore per averla picchiata. Lei rispondeva che succedeva sempre.
Il divorzio tra Johnny Depp e Amber Heard
Prima che il processo cominciasse, a metà agosto del 2016, Heard e Depp trovarono un accordo di divorzio: Heard ritirò le accuse di violenza e la richiesta di ordinanza restrittiva con la clausola che non avrebbe più potuto ripresentarle, e ottenne 7 milioni di dollari da Depp. Heard avrebbe donato i soldi dell’accordo in beneficenza, cosa che fece davvero. Tra i destinatari anche un’associazione che si occupa di violenza contro le donne.
Ma quello era solo l’inizio. Nel 2018, i due tornarono in tribunale, questa volta a Londra, perché Depp aveva denunciato per diffamazione il giornale The Sun, dopo la pubblicazione di un articolo in cui veniva definito “picchiatore di sua moglie”. La legge britannica prevede che chi è accusato di diffamazione (in questo caso il giornale) dimostri la veridicità di quello che ha detto: per questo Heard fu chiamata in tribunale a testimoniare e questa volta raccontò nuovi episodi di violenza. Emersero anche alcuni messaggi in cui Depp scriveva ad amici cose violente e a tratti deliranti contro di lei, per esempio: “affoghiamola prima di bruciarla!!! Dopo mi scoperò il suo cadavere bruciato per assicurarmi che sia morta”. Ha poi detto che era un riferimento a una battuta dei Monty Python.
In quella occasione Depp ne disse di tutti i colori contro la ex dicendo che era una “sociopatica”. Raccontò che la vittima delle violenze in realtà era proprio lui. Disse che era stata lei a tagliargli il dito durante quella famosa lite e che lei, o qualcuno mandato da lei, gli aveva defecato nel letto. Queste storie sono riemerse nel processo in corso in Virginia. Il Processo a Londra terminò con la vittoria del Sun: il giudice stabilì che in più occasioni Depp aveva messo in pericolo l’ex moglie. Depp provò a chiedere un appello e non lo ottenne, ma nel frattempo si era messo in moto un nuovo processo. Nel 2019 infatti Depp aveva fatto causa a Heard per 50 milioni di dollari, accusandola di averlo diffamato all’interno di un suo articolo d’opinione uscito sul Washington Post nel 2018.
Nell’articolo l’attrice non citava espressamente Depp ma diceva di aver subito abusi sin da giovane e raccontava come la società e le istituzioni proteggano gli uomini quando una donna li denuncia. Disse anche che la sua carriera aveva avuto importanti ripercussioni negative: era stata sostituita in un film in cui era stata ingaggiata e anche per una campagna pubblicitaria.
Gli avvocati di Depp dichiararono che anche se non c’era un riferimento esplicito all’attore, era chiaro che stesse parlando di lui. Ce le accuse nei confronti dell’attore erano false e che invece era proprio la sua carriera ad essere stata gravemente danneggiata. Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, Disney aveva deciso di non procedere con la produzione del sesto film della saga dei Pirati dei Caraibi, di cui Depp era protagonista dal 2003.
In risposta, Heard presentò in tribunale un atto contenente un elenco degli abusi subiti da parte dell’ex marito con maggiori dettagli rispetto a quelli già emersi e chiese al giudice di archiviare la causa per diffamazione. Il tribunale però non archiviò la causa e nell’agosto del 2020 Heard rispose citando a sua volta in giudizio Depp e chiedendo 100 milioni di dollari di danni per averla diffamata attraverso le dichiarazioni del suo precedente avvocato, che aveva detto alla stampa che i suoi racconti di abusi erano tutti parte di una truffa.
L’ago della bilancia social
La cosa particolarmente interessante è che i fan dei due si sono schierati nettamente sulla vicenda. Sui social. L’hashtag #JusticeForJohnnyDepp, cioè “giustizia per Johnny Depp”, ha già raggiunto 5 miliardi di visualizzazioni su TikTok, mentre il corrispettivo per Amber Heard è ad appena 21 milioni.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Depp-Heard, il processo per diffamazione da 100 milioni di dollari. GIULIA MERLO su Il Domani il 27 aprile 2022
Dopo il divorzio da Amber Heard e le accuse di violenza domestica, l’ex divo dei Pirati dei Caraibi Johnny Depp porta l’ex moglie in tribunale per riabilitare la sua immagine. Durante le udienze, viste da milioni di spettatori, va in scena il reality show di una relazione tossica
Il loro è stato un matrimonio breve e fotografatissimo: il bad boy più pagato Hollywood, il pirata dei Caraibi Johnny Depp con Amber Heard, attrice di serie televisive e 23 anni meno di lui.
La loro relazione è durata dal 2012 al 2016, il matrimonio appena 15 mesi, celebrato nella villa di lui e poi nella sua isola privata alle Bahamas.
In pieno Metoo, la favola si infrange nel peggiore e più mediatico dei modi.
Nel 2016 Hard ottiene un’ordinanza restrittiva contro il marito dopo essersi presentata in aula con il viso tumefatto, sostenendo che Depp le avesse tirato addosso un cellulare. L’attore ha sempre negato le accuse, sostenendo invece che quella notte ad essere stata violenta fosse lei.
Nel 2017 il divorzio viene finalizzato e di fatto finisce anche la carriera di Depp: canceled, come si dice negli Stati Uniti.
Pochi mesi dopo, infatti Heard scrive un editoriale sul Washington Post in cui sottintende di aver subito violenze fisiche nel corso del matrimonio definendosi «un pesonaggio pubblico che rappresenta la violenza domestica», anche se nell’articolo Depp non viene mai citato.
Il taboloid inglese The Sun lo definisce un «picchiatore di mogli», la cosa finisce in tribunale per diffamazione ma Depp perde, in quello che diventa il primo tempo della sua battaglia per convincere l’opinione pubblica che le accuse a suo carico siano infondate.
Progressivamente, intanto, la sua carriera inizia a frenare: salta il suo contratto con la Warner Bros per il film della saga di Harry Potter, Animali fantastici 3, e Netflix cancella dalla piattaforma statunitense tutti i suoi film e viene espulso anche dal franchise Disney sui Pirati dei Caraibi.
Lui, però, si è sempre detto innocente e ha rifiutato ogni accusa della Heard, sostenuto dalla ex moglie Vanessa Paradis e dalla figlia Lily Rose, che hanno testimoniato in suo favore nel corso del processo inglese.
Oggi, a distanza di cinque anni dal divorzio, è in corso un processo per diffamazione intentato da Depp nei confronti di Heard per un risarcimento del danno da 100 milioni di dollari.
Depp sostiene che la violenta nella coppia fosse la Heard e che le sue accuse nei suio confronti abbiano prodotto la rescissione del suo contratto con la Disney per tutti i futuri progetti.
Amber Heard ha controaccusato Depp chiedendo a sua volta 50 milioni di dollari, perchè lui le avrebbe scatenato contro una campagna online che ha prodotto la fine del suo contratto con due case cosmetiche.
Ora il mondo dei media occidentali è sintonizzato su Fairfax County, in Virginia, dove il processo Depp versus Heard sta riempiendo le pagine dei tabloid e dei giornali di gossip.
ACCUSE E CONTROACCUSE
Come tutti i processi pubblici che riguardano personaggi famosi, il clima in udienza è infuocato: il processo, iniziato il 12 aprile a causa di uno slittamento di quasi due anni dovuto al Covid, dovrebbe durare circa 6 settimane prima delle requisitorie finali.
Secondo Amber Heard, l’ex marito sarebbe stato violento sia fisicamente che verbalmente con lei durante tutta la loro relazione e ha indicato alcuni episodi in cui la avrebbe presa per i capelli e sbattuta a terra.
Depp, invece, sostiene che dei due quella violenta sia sempre stata lei e di non aver mai fatto del male a una donna.
Nella denuncia, si legge che le accuse di abuso sostenute da Heard sarebbero una «menzogna ben architettata» che è costata a Depp la carriera.
Molte delle cose fino ad ora ascoltate nel processo non sono nuove perchè facevano parte anche del processo inglese perso da Depp contro il The Sun, tuttavia i dettagli occupano di nuovo le prime pagine dei giornali, con colpi di scena inaspettati.
BOTTIGLIE E PUGNI SULLE PARETI
Nel corso del processo, a cui non ha ancora testimoniato Amber Heard, è stata ripercorsa la vita e la carriera di Depp.
In particolare, la sorella ha raccontato di come la loro infanzia fosse trascorsa in un clima di violenza domestica: «Mia madre lo picchiava, ma lui non ha mai reagito nemmento quando è diventato più grande».
Depp è stato al centro di un duro contro interrogatorio da parte dell’avvocato dell’ex moglie, che gli ha chiesto del suo abuso di alcool e droghe: «Se qualcuno aveva un problema con il mio abuso di alcol, in qualsiasi momento della mia vita, quello ero io. L'unica persona di cui ho mai abusato è me stesso».
Gli avvocati hanno anche mostrato alla giuria un video registrato da Amber Head in cui si vede Depp, evidentemente ubriaco, che sbatte contro i mobili della cucina: «Ho preso di mira il mobile della cucina, non ho toccato la signora Heard», ha risposto lui, dicendo che se lei era così spaventata non capiva come potesse stare lì a filmarlo di nascosto.
Tra audio e video in cui i due litigano e si accusano ( in uno si sente Heard che si scusa, dicendo «Non ti ho preso a pugni, ti stavo colpendo ma non ti stavo prendendo a pugni»).
Un episodio è tornato al centro del processo, a sostegno della tesi di Depp: dopo la festa per il 30 anni di Heard, i due hanno avuto una nuova lite. Secondo il racconto di Depp, «la signorina Heard è entrata nella camere mentre ero sdraiato su un lato del letto a leggere. Stava ancora snocciolando tutti i torti che le avevo fatto quel giorno, quanto ero inaffidabile, che ero una persona orribile. Io non ho mosso un dito e non ho detto una parola, ma lei mi è venuta addosso e ha iniziato a colpirmi in faccia, alla testa, al collo, qualsiasi cosa riuscisse a colpire». Dopo le botte, lei gli avrebbe lanciato una bottiglia rotta e questa gli è finita sulla mano, quasi amputandogli un dito.
In aula è stata sentita anche la psicologa forense Shannon Curry, assoldata dai difensori di Depp, che ha ritenuto di poter diagnosticare a Heard un disturbo borderline di personalità dopo aver studiato gli atti processuali e un colloquio di 12 ore con la donna.
Il disturbo, secondo la dottoressa, potrebbe comportare «manipolazione per cercare di soddisfare i propri bisogni» e «chi ne soffre può agire in maniera violenta sia fisicamente che psicologicamente. Ed è spesso incline ad abusare dei suoi partner». Inoltre, ha sostenuto che la donna non abbia davvero sofferto di disturbo post-traumatico da stress dopo la fine della relazione con Depp.
IL FONDOTINTA
Altra questione che sembrerebbe sconfessare la versione di Heard. Nel corso delle udienze, l’avvocato dell’attrice ha raccontato che la donna ha sempre portato con sè durante a relazione con Depp un fondotinta per corpire i segni delle botte. Addirittura, è entrato nello specifico dicendo che si trattava di un kit all-in-one della Milani: la compagnia, però, è intervenuta sui social per smentire la versione, mostrando che il lancio di quel particolare tipo di fondotinta è avvenuto nel 2017. Quindi un anno dopo i presunti abusi, che sarebbero avvenuti tra il 2014 e il 2016.
Per ora, nel corso del processo, ha avuto spazio la posizione di Depp e Heard non è ancora stata ascoltata in aula, ma la versione potrebbe velocemente capovolgersi nei racconti di lei.
I SOCIAL
Intanto, il processo è diventato uno degli eventi più seguiti soprattutto su twitter. I sostenitori di Depp hanno lanciato l’hashtag #JusticeforJohnny.
I video delle udienze, invece, sono stati caricati su Youtube e contano decine di milioni di visualizzazioni, soprattutto quelli con le testimonianze di Depp. Nelle prossime settimane, poi, verranno ascoltati come testimoni molti vip, da James Franco a Elon Musk, che sarebbe stato amante di Heard nei primi mesi del matrimonio.
In risultato è quello di un processo senza esclusione di colpi e di domande, con video in aula che raccontano del clima tossico della relazione e della brutalità dei litigi e delle discussioni.
Difficile dire come finirà, proprio perchè manca ancora la posizione di Heard. Tuttavia, il processo si è già trasformato in un grande reality show, in cui è difficile immaginare come uno dei due possa uscire vincitore, se non sul piano economico.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Feci sul letto, minacce, un dito reciso: il processo show Depp-Heard. Francesca Galici il 30 Aprile 2022 su Il Giornale.
I due ex coniugi in aula si scambiano accuse reciproche in relazione agli anni trascorsi insieme ma l'opinione pubblica al momento dà ragione a Depp.
Il processo scaturito dalla denuncia per diffamazione di Johnny Depp nei confronti di Amber Heard regala sempre più colpi di scena. Le udienze in tribunale sono seguitissime sui social e su Youtube e le notizie sul web sono molto lette, non solo dai fan della coppia. Il pubblico si è appassionato a questa vicenda che, di volta in volta, regala colpi di scena e apre scenari impensabili e inimmaginabili, che nemmeno la fantasia del più capace sceneggiatore saprebbe inserire nella sua trama con così rapida sequenza.
Tutto nasce da un articolo scritto da Amber Heard sul Washington Post nel quale, senza mai fare il suo nome, lei ha accusato di violenze domestiche Johnny Depp per il periodo durante il quale lui è stato suo marito. Quell'articolo, secondo i legali dell'attore, gli avrebbe irrimediabilmente danneggiato la carriera e così lui ha deciso di chiederle un risarcimento milionario, per il quale i due si trovano in queste settimane a discutere nel tribunale di Fairfax, in Virginia, dove si prevede che la causa durerà in tutto 6 settimane. La conclusione è prevista tra la fine di maggio e i primi di giugno.
In aula volano accuse pesantissime tra i due coniugi, che ovviamente respingono a vicenda. Johnny Depp ha accusato Amber Heard per un profondo taglio a un dito, con conseguente perdita di un pezzo di carne che è stato poi ricucito, dopo che lei gli avrebbe lanciato una bottiglia di vodka durante una lite. "Sembrava il Vesuvio", ha detto l'attore in tribunale riferendosi alla copiosa fuoriuscita di sangue. E poi ancora ci sono le accuse di percosse mosse dall'attrice, che avrebbe prodotto anche materiale fotografico che, però, stando a Johnny Depp sarebbe solo frutto di un abile make-up scenico. Ma l'attrice ha le prove (incontrovertibili) dell'abuso di alcol e droghe da parte del divo di Hollywood, tra cui un video in cui è evidente lo stato alterato della star de I pirati dei Caraibi.
Ma non solo, perché la difesa di Amber Heard ha prodotto anche un messaggio audio in cui Johnny Depp si cimentava in minacce violente nei confronti dell'allora moglie durante una conversazione con l'amico Paul Bettany. Oltre agli insulti, l'attore parlava di voler bruciare viva la Heard: per quelle parole l'attore si è scusato, parlando di un ipotetico "umorismo surreale". Ma la violenza abbonda da entrambe le parti, perché anche Johnny Depp ha prodotto del materiale audio, in cui l'attrice ammette di averlo picchiato. Ma non solo, perché i legali di Depp sarebbero in possesso di documenti che proverebbero un episodio durante il quale Amber Heard avrebbe defecato sul loro letto come ripicca a seguito di un litigio. Episodio bollato dall'attrice come "brutto scherzo finito male". Al momento, l'opinione pubblica sembra propendere in favore della versione di Johnny Depp ma il processo è ancora lungo.
Johnny Depp e Amber Heard, cinque momenti chiave del processo per diffamazione fra i due attori. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.
Le deposizioni in tribunale nelle ultime settimane stanno prendendo la piega di una fiction, tra «materia fecale» sul letto e accuse reciproche.
Se fosse la sceneggiatura di un film o di una serie tv, forse sarebbe considerata troppo grottesca per essere reale: il processo per diffamazione che vede coinvolti gli attori Johnny Depp e Amber Heard nelle ultime settimane sta calamitando l’attenzione di un pubblico sempre più vasto, seguitissimo su YouTube e dagli articoli dei giornali, come si trattasse proprio di una fiction a puntate. Invece in ballo ci sono l’onore e le sorti delle due superstar, ex coniugi ora alle prese con una maxi causa, tra odio, rancori e accuse reciproche che ogni tanto, stiamo vedendo in questi giorni, vanno oltre l’immaginazione.
Cosa sappiamo del processo Depp-Heard
Il Pirata dei Caraibi Depp, 58 anni, nel 2019 ha chiesto un risarcimento per diffamazione di 50 milioni di dollari alla ex moglie Heard, 36 anni, sostenendo che un articolo da lei scritto e pubblicato sul «Washington Post» l’anno precedente, in cui lo accusava (seppur non nominandolo) di violenze domestiche, gli avrebbe danneggiato irreparabilmente la carriera. E così dal 12 aprile i due siedono nell’aula del tribunale di Fairfax, in Virginia, per un processo della durata prevista di sei settimane.
Il dito mozzato di Depp
Depp e Heard si accusano reciprocamente di violenze fisiche ed entrambi respingono al mittente le accuse dell’altro. Tra i primi episodi rievocati dall’attore durante la sua testimonianza in tribunale (Heard non ha ancora testimoniato, ma dovrebbe farlo la prossima settimana) c’è una lite del 2015 al termine della quale ne sarebbe uscito con un dito mozzato a causa di una bottiglia di vodka lanciata da lei: il dito sanguinava copiosamente, «sembrava il Vesuvio», e un lembo di carne è stato recuperato e avvolto in un fazzoletto per riattaccarlo, ha raccontato Depp, fornendo anche prove fotografiche dell’incidente.
Il video di Depp ubriaco
Heard, ai tempi del divorzio, aveva mostrato le sue foto con il volto tumefatto, ma Depp sostiene si trattasse di finzione realizzata con un’abile opera di make up. L’ex Jack Sparrow nega di aver mai picchiato la ex moglie, pur ammettendo che la loro relazione era molto turbolenta e costellata di litigi. Lato suo c’è da aggiungere anche l’abuso di alcol e droghe, come mostrato in un video prodotto durante il processo in cui l’attore, visibilmente alterato, sbatte i mobili della cucina e si versa un grande bicchiere di vino, prima di infuriarsi quando si accorge che la moglie lo sta riprendendo.
«Amber va bruciata viva»
I legali di Heard, in queste prime fasi del processo, hanno inoltre reso pubblici dei messaggi inviati da Depp all’amico attore Paul Bettany in cui lui insultava pesantemente la moglie, parlando anche di volerla bruciare viva. L’attore si è scusato per i toni, ma ha negato che si trattasse di intenzioni realistiche: «È solo umorismo surreale», ha detto.
La «materia fecale» sul letto
Sul fronte di Heard, invece, sono stati fatti sentire durante il processo dei file audio in cui è lei ad ammettere di averlo picchiato. Ma l’episodio più grottesco finora emerso da un processo che ha già scatenato decine di meme è quello che vedrebbe l’attrice colpevole di aver defecato sul loro letto, infuriata perché il marito era arrivato in ritardo alla sua festa di compleanno e se n’era poi andato dopo il litigio che ne era seguito. Il giorno seguente, ha spiegato Depp, una delle sue guardie del corpo aveva trovato della «materia fecale» sul suo lato del letto. Heard si è inizialmente giustificata dicendo che erano stati i loro due cani a compiere il misfatto, ma Depp ha puntualizzato: «Sono due piccoli Yorkes, raccolgo i loro escrementi e so bene come sono fatti. Non era roba loro». L’attrice ha allora ammesso la sua responsabilità dicendo che si è trattato di «un brutto scherzo finito male».
Le domande sul pene di Depp
Altro momento che ha scatenato ilarità in aula è stata la deposizione di un’altra guardia del corpo dell’attore, a cui è stato chiesto conto di un presunto episodio, risalente al 2015, in cui Depp avrebbe urinato in casa: «Il signor Depp, quando lei l’ha visto, stava tentando di urinare in casa?», ha chiesto l’avvocato di Heard Malcom Connelly. «No», ha risposto la guardia del corpo. «Ma aveva il pene di fuori, non è vero?», ha incalzato l’avvocato. «Credo che mi ricorderei di aver visto il pene del signor Depp», ha replicato la guardia del corpo, provocando risate generali, inclusa quella dello stesso attore.
Il disturbo borderline di Heard
In tribunale è intervenuta anche una psicologa (assunta da Depp): Shannon Curry durante il suo intervento nei giorni scorsi ha sostenuto che Heard soffrirebbe di «disordine borderline della personalità e disturbo istrionico». Sarebbe giunta a queste conclusioni dopo averla esaminata per 12 ore, aggiungendo anche che l’attrice non soffrirebbe di sindrome post traumatica da stress a causa di Depp, come da lei dichiarato. Deposizioni che hanno fatto subito discutere, a cui sono seguite quelle del portiere di un palazzo dove la coppia ha vissuto, secondo cui Depp non si è mai comportato in modo violento.
Franco e Musk non testimonieranno
Le prime settimane del processo sembrano aver spostato l’opinione pubblica in favore di Depp, con tanto di hashtag in sua difesa e petizioni per rimuovere l’attrice dal cast di «Aquaman 2» (con già oltre 2 milioni di firme su Change.org). Un disequilibrio abbastanza fisiologico, visto che finora è stato lui a testimoniare e mancano ancora le parole dirette di lei. Quale sarà la piega che prenderà il processo è dunque presto per dirlo, ma quel che sta emergendo finora mostra perlomeno i comportamenti sopra le righe di entrambi e molti segni di una relazione malsana. Tra i testimoni più attesi non deporranno invece né James Franco né Elon Musk: entrambi erano sulla lista di Amber diffusa all’inizio del processo, ma hanno fatto sapere che non ci saranno.
Dalle dita mozzate agli abusi sessuali: i lati più oscuri (e violenti) del processo Depp-Heard. Erika Pomella il 2 Maggio 2022 su Il Giornale.
Johnny Depp e Amber Heard si stanno fronteggiando in tribunale per la causa di diffamazione: il processo, che è trasmesso in streaming come un vero e proprio evento, sta facendo emergere lati tenebrosi di una relazione malata.
In questi giorni Johnny Depp e Amber Heard si stanno fronteggiando in tribunale nella contea di Fairfax, in Virginia. Il processo più mediatico degli ultimi anni, iniziato ad aprile, andrà avanti probabilmente per numerose settimane e cercherà di far luce sulla relazione sempre più tossica e morbosa tra i due artisti di Hollywood.
Tutto è dovuto alla causa per diffamazione che Johnny Depp ha mosso contro l'ex moglie Amber Heard, rea di averlo definito un uomo violento e abusivo all'interno di un editoriale pubblicato sul The Washington Post. L'attore, che è stato licenziato dalla saga di Pirati dei Caraibi e da Animali Fantastici - I segreti di Silente, ha chiesto un risarcimento di 50 milioni di dollari e in questi giorni sta cercando di dimostrare in aula di non aver mai toccato Amber Heard e di essere stato invece lui vittima degli scatti d'ira della compagna.
Johnny Depp e Amber Heard: gli antefatti
Johnny Depp e Amber Heard si sono conosciuti sul set del film The rum diary - Cronache di una passione, arrivato al cinema nel 2011. L'anno successivo i due formalizzano la loro relazione e cominciano a uscire insieme: per Johnny Depp significa lasciare la compagna Vanessa Paradis, madre dei suoi due figli. Per due anni, come riporta NBC News, la Heard e Johnny Depp continuano a frequentarsi, finché nel 2014 i due si fidanzano ufficialmente. Le nozze hanno luogo nel 2015: una cerimonia privata con gli amici più stretti a testimoniare.
La relazione tra i due, tuttavia, non naviga verso il proverbiale lieto fine. Nel 2016, infatti, Amber Heard annuncia di voler chiedere il divorzio e, con esso, un ordine restrittivo contro il marito che, secondo NBC News, definisce "verbalmente e fisicamente abusivo". Amber Heard diffonde a mezzo stampa immagini che la ritraggono con alcuni lividi sul viso, causati da un iphone che Johnny Depp le avrebbe lanciato contro nel mezzo di una discussione. Nella stessa dichiarazione Amber Heard spiegò di vivere "con la paura che Johnny torni nella nostra casa senza farsi annunciare per terrorizzarmi, fisicamente ed emotivamente". Quando esplode il caso, i media e gran parte della rete decidono di mettersi dalla parte di Amber Heard: Johnny Depp è in tournée con la sua band, i The Hollywood Vampire, e nel frattempo sta elaborando il lutto per la perdita della madre. Nonostante questo l'attore dichiara più e più volte di non aver mai usato violenza contro la moglie.
Sul finire dell'estate i due trovano finalmente un accordo per il divorzio. La storia sembra finire con l'accordo secondo il quale Johnny Depp deve pagare 7 milioni di dollari ad Amber Heard. Somma che l'attrice dichiara di voler devolvere in beneficenza. La storia sembra finita, ma in realtà si tratta solo della punta dell'iceberg. Nel dicembre del 2018 Amber Heard scrive un editoriale per il The Washington Post in cui si legge: "Due anni fa sono diventata un personaggio pubblico che rappresenta l'abuso domestico [...] Ho avuto la possibilità di vedere, in tempo reale, come le istituzioni proteggono gli uomini accusati di abuso. Immaginate un uomo potente come una nave, come il Titanic. Quella nave è una grande impresa. Quando sbatte contro l'iceberg ci sono moltissime persone a bordo che cercano disperatamente di tappare i buchi. Non perché credono o sono interessati alla nave, ma solo perché il loro stesso destino dipende da quell'impresa." A quel punto Johnny Depp decide di denunciarla per diffamazione e, proprio in questi giorni, si sta dibattendo a riguardo.
Una storia di abusi: la testimonianza della sorella di Johnny Depp
Non è la prima volta che Johnny Depp e Amber Heard si affrontano in una sala di tribunale. I due, infatti, si erano già fronteggiati quando Johnny Depp fece causa, nel Regno Unito, contro il The Sun che, riportando le accuse di Amber Heard, si era macchiato, secondo l'interprete di Jack Sparrow, di diffamazione. In quel caso Johnny Depp era uscito sconfitto dalla querelle legale che aveva dato ragione al The Sun. Questa volta, però, Johnny Depp è più che mai determinato a dimostrare che Amber Heard ha mentito nel ritrarlo come "un picchiatore di moglie" e, per farlo, ha chiamato alla sbarra alcune persone che hanno potuto testimoniare la sua indole tutt'altro che violenta.
Tra le varie testimonianze registrate in Virginia c'è stata Christi Dembrowski, sorella maggiore dell'attore, che ha parlato di come la madre di Johnny Depp, Betty Sue Palmer, fosse violenta e abusiva nei confronti dei figli. Come viene raccontato anche da People, la Dembrowski ha raccontato di come lei e Johnny Depp fossero soliti scappare e nascondersi quando la madre diventava violenta nei confronti del padre, che era solito non reagire. "Ci avrebbe picchiato", ha detto la donna, "Ci avrebbe lanciato contro degli oggetti". Poi ha continuato, raccontando: "Niente di quanto accadeva in casa nostra sembrava giusto. Così, man mano che crescevamo, io e Johnny abbiamo deciso che una volta che ce ne saremmo andati, una volta che avremmo avuto una casa nostra, non avremmo mai permesso che qualcosa di simile accadesse ai nostri figli. Noi saremmo stati differenti."
Quando le è stato chiesto se Depp avesse mai risposto o reagito agli abusi e alle umiliazioni della madre - che aveva per lui nomignoli mortificanti - la Dembrowski ha risposto: "No, mai. Era il genere di bambino che si spaventava facilmente e finiva col mettersi a piangere." Nel corso della stessa testimonianza, la sorella di Johnny Depp ha detto alla giuria che Amber Heard era solita chiamare l'ex marito "vecchio grasso". L'intento sembrava quello di umiliarlo, riportando a galla anche gli abusi della madre. Durante la testimonianza della donna, Johnny Depp si è mostrato apertamente commosso e scosso.
Amber Heard sta mentendo? Il caso Milani
La posizione di Amber Heard nel corso di queste prime settimane di processo - in cui si deve ancora udire la sua testimonianza - è peggiorata a seguito di tre eventi principali. La prima è stata la testimonianza della sua ex assistente che ha confermato quanto aveva già detto in passato: ossia che la Heard era un capo abusivo e che, per tutto il tempo in cui aveva lavorato con lei, non aveva mai visto lividi o segni di violenza sul volto dell'attrice. Il secondo elemento che ha minato la credibilità dell'attrice è stata la condivisione di vecchi file audio in cui Amber Heard non solo ammette di essere vittima di scatti d'ira e di aver colpito ripetutamente il compagno, ma deride la volontà di Johnny Depp di denunciare gli abusi. In quell'audio, infatti, si sente Amber Heard ridere e poi dire: "Va, dì loro 'Io, Johnny Depp, un uomo, sono vittima di violenza'. Vediamo in quanti saranno dalla tua parte". Tuttavia il vero punto debole della strategia di Amber Heard, finora, è stato quello legato alla Milani Cosmetics. Durante l'arringa iniziale, infatti, uno degli avvocati di Amber Heard ha mostrato una palette della casa di cosmetici asserendo che l'attrice aveva usato quello specifico make-up per coprire i segni di violenza dal 2014 al 2016, periodo in cui era al fianco di Johnny Depp. Pochi giorni dopo questa affermazione, però, è stata la Milani stessa a postare un video online in cui dimostra che quella specifica palette non è stata messa sul mercato prima del 2017, dimostrando così il fatto che Amber Heard e/o il suo team legale avrebbero mentito su quel particolare dettaglio. D'altra parte Johnny Depp aveva già accusato Amber Heard di aver mentito e falsificato le prove, al punto da usare dello smalto rosso al posto del sangue.
Infine la credibilità dell'attrice è stata messa sotto accusa anche quando il team legale di Johnny Depp, secondo Rolling Stones, ha dimostrato che la Heard non aveva devoluto in beneficenza i sette milioni di dollari che aveva annunciato di aver donato al Children's Hospital di Los Angeles e al American Civil Liberties Union
"Come pensa abbia avuto il ruolo di Aquaman?"
Molte sono state le accuse mosse da Amber Heard contro Johnny Depp: oltre alla violenza fisica e verbale, secondo Rolling Stones Amber Heard avrebbe accusato l'ex marito di violenza sessuale. L'accusa è stata mossa nell'arringa iniziale dell'avvocato dell'attrice: secondo quanto riportato, Depp era ubriaco e completamente fuori controllo quando ha attaccato Amber Heard, cercando di forzarla ad avere un rapporto sessuale, quando il loro matrimonio era già a un passo dalla fine. A quel punto l'avvocato di Johnny Depp si è chiesto come mai questa accusa non sia mai stata resa pubblica prima e secondo lui "quando Amber Heard ha compreso la gravità di quanto aveva affermato è andata nel panico e ha cominciato a parlare di violenza sessuale."
Un'altra accusa mossa contro Johnny Depp è quella di non aver mai tenuto alla carriera di Amber Heard e, anzi, di averla quasi ostacolata nella riuscita della sua ambizione a sfondare a Hollywood come attrice. Un'accusa che Johnny Depp ha rispedito al mittente con una risposta che è diventata già virale: "Come pensa abbia avuto il ruolo di Mera in Aquaman?" Lasciando così intendere che sono stati proprio i rapporti di Johnny Depp con Warner Bros a permettere alla Heard di entrare nel cast dei film della DC Comics. Ruolo che, secondo quanto riportato dal Daily Mail in queste ore, è stato ridotto ad appena dieci minuti sul grande schermo, anche a causa di una petizione online che chiede a gran voce che l'attrice venga rimossa dalla sua posizione, proprio come accaduto a Depp per la saga di Animali Fantastici.
Feci, violenza e sangue: gli abusi di una coppia distrutta
Il processo tra Johnny Depp e Amber Heard è destinato a durare ancora a lungo e l'esito non è così facile da indovinare. Negli ultimi giorni, infatti, l'ago della bilancia sembra puntare verso Johnny Depp, ma è anche vero che Amber Heard non ha ancora dato la sua versione della storia. Sicuramente la sua credibilità è stata messa in discussione, anche grazie a una perizia psicologica condivisa in aula secondo cui l'attrice, stando a quanto scritto da Vanity Fair, soffrirebbe di un disturbo borderline della personalità. Un disturbo che, secondo la specialista forense Shannon Curry chiamata a parlare in aula, porterebbe chi ne soffre ad avere scoppi d'ira e di violenza, sia fisica che verbale. Oltre che a una certa volubilità umorale.
Quello che invece è certo è che, nel corso del matrimonio lampo tra i due divi, che è durato appena quindici mesi, entrambi hanno dato il peggio di sé. Johnny Depp fronteggiando le sue dipendenze tra droghe e alcol, distruggendo mobili e diventando sempre più difficile da gestire, come appare in un video condiviso dai legali di Amber Heard. Nel video si vede Johnny Depp versarsi del vino, imprecare ripetutamente e colpire violentemente i mobili della cucina della casa a West Hollywood dove la coppia viveva quando era ancora sposata. Per i legali della Heard mostrare il video significava mostrare alla giuria tanto il carattere violento dell'attore quanto il suo essere del tutto dipendente dall'alcol. Secondo Insider, però, il video incriminato si è risolto a favore di Johnny Depp, perché dimostrerebbe che anche in preda ai fiumi dell'alcol o alla rabbia, non ha mai colpito la moglie. "Sì, ho assalito un paio di armadietti", ha commentato con sarcasmo, prima di alzare dei dubbi sul fatto che Amber Heard si sentisse intimidita dal suo scatto d'ira. L'attore ha infatti detto: "Non stavo cercando di intimidire Mrs. Heard. Se era intimidita, perché mi stava riprendendo? Se era spaventata a morte, perché non se ne è andata?"
Finora, però, non è mai stato dimostrato che abbia picchiato veramente la compagna. Al contrario Amber Heard avrebbe defecato sul letto del marito, gli avrebbe lanciato contro una bottiglia d'alcol che ha mozzato un dito di Johnny Depp e ha dimostrato una tendenza all'umiliazione, al punto da deridere Depp anche per essere stato scelto da Dior come simbolo di bellezza ed eleganza. Infine è diventato virale un video in cui Amber Heard cambia repentinamente espressione, passando da un sorrisetto divertito a un'aria triste e abbattuta che le ha fatto cadere addosso moltissime critiche e accuse di falsità.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 maggio 2022.
Amber Heard ha licenziato il suo team di pubbliche relazioni ed è passata a una nuova azienda dopo una settimana di «titoli cattivi» durante il processo per diffamazione in cui sta affrontando il suo ex marito Johnny Depp.
La Heard era rappresentata da Precision Strategies, ma ha improvvisamente abbandonato l’azienda a favore della società di consulenza Shane Communications con sede a Los Angeles. La sua speranza è di ricevere una copertura più favorevole, soprattutto questa settimana, in cui sarà lei a salire sul banco dei testimoni. Non le piacciono i brutti titoli» ha detto una fonte al New York Post. Un'altra fonte ha detto al giornale che Heard, 36 anni, è «frustrata dal fatto che la sua storia non venga raccontata in modo efficace».
Da rollingstone.it il 2 maggio 2022. Traduzione e stesura di Gianmarco Aimi.
Il processo per diffamazione da 50 milioni di dollari intentato da Johnny Depp contro l’ex moglie Amber Heard si è trasformato in una serie a puntate che, finora, è di gran lunga più coinvolgente di tante altre che possiamo trovare sulle piattaforme streaming.
In particolare quando l’attore è stato chiamato sul banco dei testimoni a ripercorrere non solo il loro rapporto di coppia, ma anche la sua intera esistenza dall’infanzia agli esordi al cinema, fino al successo planetario ottenuto con film campioni di incassi.
Ma c’è un altro aspetto particolarmente interessante: probabilmente in nessun altro modo si sarebbe riusciti a scavare così a fondo nella sua vita. Infatti, basta scorrere tra i commenti dei video delle deposizioni per capire che le persone si stanno appassionando più al suo passato che alla questioni inerenti al processo.
Un utente su YouTube ha ben sintetizzato questo approccio: «Non sembra nemmeno un caso giudiziario. Questa è una delle più grandi interviste a Johnny Depp di tutti i tempi». E siccome non aveva tutti i torti, abbiamo provato a trascrivere le sue testimonianze come se fossero effettivamente parte di un’intervista immaginaria. Il risultato potrebbe davvero essere la «più grande intervista di tutti i tempi» all’attore americano.
Johnny, come ti senti in questo momento nel quale stai rivelando al mondo molti aspetti della tua vita privata?
Non posso dire di essere imbarazzato, perché so che sto facendo la cosa giusta.
Partiamo dal principio, dalla tua infanzia. Che educazione hai avuto da piccolo?
Ho avuto una infanzia molto “interessante”. Che pensavo fosse normale fino a una certa età. Sono nato in Kentucky, poi ci siamo trasferiti e spostati ancora varie volte quando ero un bambino, e in quel periodo ero sempre solo con mia madre e i miei fratelli. Dovevamo muoverci costantemente e non è mai stato particolarmente piacevole. Ci siamo trasferiti nel Sud della Florida quando avevo circa sette-otto anni, e poi di nuovo in altri posti perché mia madre era piuttosto imprevedibile.
Che madre è stata per voi?
Aveva la capacità di essere crudele con chiunque. Con me, con le mie sorelle Christy e Debbie e con mio fratello Danny. Così come con mio padre. Essenzialmente poteva diventare piuttosto violenta e altrettanto crudele.
Metteva in pratica degli abusi fisici, per esempio dovevi aspettarti che un portacenere ti venisse lanciato per colpirti in testa o di essere picchiato con una scarpa con il tacco, o un telefono, o qualsiasi altra cosa avesse a portata di mano.
Non proprio una madre modello…
Anche per questo in casa nostra non c’erano mai esposti oggetti, per sicurezza. L’unica cosa che si poteva fare davvero era cercare di rimanere fuori dalla sua “linea di tiro”. Ho iniziato a imparare presto a osservarla, e sapevo intuire quando era arrabbiata e avrebbe potuto arrivarmi in testa qualcosa.
Hai parlato di crudeltà, ma fino a che punto si è spinta?
Ci sono varie categorie di violenza fisica e abusi. Lei era costante e sapeva che eravamo tutti scioccati e pronti a proteggerci da eventuali lanci di oggetti.
Ma non sapevi mai cosa sarebbe successo. Gli abusi fisici erano costanti, ma ci sottoponeva anche ad abusi verbali come insulti, bullismo, prese in giro su qualsiasi nostro difetto. Mio fratello portava gli occhiali e quindi era diventato il “quattrocchi”, in più aveva i denti storti e quindi mia madre lo definiva “denti di cervo”. Un gioco psicologico orribile.
In generale che persone erano i tuoi genitori, compreso tuo padre?
In generale molto raffinati. Ma mia madre era originaria del Kentucky orientale, che è dove cresci in baracche dove la gente urla invece di parlare. E infatti fin da piccolo sentivo mia mamma urlare in modo violento a mia sorella. Imparavi da subito a sopportare il dolore. In più anch’io sono nato con una caratteristica piuttosto rara e strana.
Uno dei miei occhi è normalmente sferico, mentre l’altro ha una forma più conica e quindi il mio cervello si è abituato a vedere di più con l’occhio “buono”, il destro. Lo hanno scoperto quando avevo tre-quattro anni. Il sinistro è un occhio più pigro e mia madre mi prendeva in giro per questo, come per qualsiasi cosa potesse umiliarmi. Per un periodo, da bambino, ho anche indossato una benda sull’occhio destro per rafforzare quello pigro. Ma alla fine non ho recuperato molto, e ancora oggi sono legalmente cieco dall’occhio sinistro.
Hai parlato di abusi fisici. Di che tipo?
L’abuso verbale e psicologico che metteva in atto era quasi peggio delle percosse. Quello fisico era solo dolore, perché impari a sopportarlo. Quello psicologico ed emotivo invece ci ha fatto a pezzi.
Che persona era tuo padre?
Un uomo molto gentile, lui è ancora vivo. È tranquillo. Molto timido. Non è una persona conflittuale in alcun modo. E quando mia madre se la prendeva con noi, è sempre rimasto sorprendentemente calmo. Mentre lei inveiva cose orribili verso di noi, lui stava a guardare nonostante ci infondesse dolore. Lui ingoiava. Non c’è mai stato un momento in cui l’ho visto perdere il controllo e aggredirla o picchiarla, così come risponderle male. Solo un paio di volte non si è trattenuto. Aveva gli occhi che zampillavano di rabbia e che fissavano il vuoto, si vedeva che avrebbe voluto prendere a pugni il muro, infatti una volta lo ha fatto e si è frantumato una mano perché era di cemento. Ma comunque non ha mai toccato mia madre e non ha mai litigato con lei. È sempre rimasto un gentiluomo. Ricordo che io, bambino di cinque anni, pensavo tra me e me: perché non la lascia? Era in grado di mantenere una certa compostezza. È un brav’uomo.
Quante volte ha preso a pugni il muro?
Non ho contato quei momenti, ma penso di averlo visto colpire il muro almeno due, tre volte al massimo. Una volta in particolare, quando si è rotto la mano.
Tuo padre ha mai abusato di te e dei tuoi fratelli?
No, mio padre non è un uomo violento. Anche se allo stesso tempo era in una certa misura alla mercé di mia madre. Ricordo quando tornavo a casa da scuola e avevo una brutta pagella o mi ero messo nei guai e lei gli diceva: “John, portalo fuori e prendi la cintura!”. Lui mi portava in garage e non dimenticherò mai questa cintura bianca in pelle spessa degli anni ’70 con la quale mi infliggeva le punizioni. Ma è interessante una volta che continuavo a dirgli che non avevo fatto niente. Glielo giuravo che non era vero, quello che diceva mamma. Lui mi ha punito, ma molto tempo dopo ha scoperto che avevo detto la verità ed è venuto da me e si è scusato per avermi picchiato con la cintura. Ma mia madre non lo faceva apposta, era stata cresciuta così e io non avevo il potere di cambiare quello che aveva dentro.
Com’è finita la relazione fra i tuoi genitori?
Quando mio padre se ne è andato e l’ha lasciata avevo 15 anni e avevo già lasciato la scuola, ero un musicista e suonavo nei club. Una mattina è andato al lavoro come ogni giorno, ma ha fatto le valigie, le ha caricate in auto e non è più tornato. Ore dopo, mia madre è rientrata a casa, erano circa le 3:30 del pomeriggio. Sulla soglia della porta si è guardata semplicemente attorno come se avesse sentito qualcosa. Le ho detto cosa c’era che non andasse e lei ha risposto soltanto: “Tuo padre se n’è andato”. E io: “Sì, l’ho visto andare al lavoro stamattina”. Ma lei ha ribattuto: “No no, se n’è andato…”. Poi è corsa nella loro camera da letto, ha guardato nell’armadio e nell’appendiabiti le sue cose erano sparite. L’ho vista piuttosto sconvolta.
E tu come hai reagito?
Ho preso l’auto e sono andato sul suo posto di lavoro. Mi sono seduto di fronte a lui e gli ho detto: “Sembra che qualcuno abbia rubato tutti i tuoi vestiti dall’armadio”. E lui ha risposto: “Sì sì, è finita… non ce la faccio più. Ora tu sei l’uomo… sei l’uomo di casa”. Non ho provato una bella sensazione in quel momento.
E poi com’è andata?
Mia madre è diventata molto molto ombrosa ed è caduta in una depressione profonda. Un pomeriggio mi sono svegliato, sono andato in soggiorno e l’ho vista barcollare, era debole e si muoveva come al rallentatore (Johnny si alza e mima la scena, proprio come in uno dei suoi film, ndr). Ho subito capito che era successo qualcosa di terribile, aveva della bava che le usciva dalla bocca. E mentre stavo per chiamare mio zio, la porta si è spalancata e due paramedici sono entrati, l’hanno messa su una barella e trasportata in ospedale per una lavanda gastrica. Aveva preso moltissime pillole per cercare di suicidarsi. Quando è uscita era molto cambiata, la depressione era così profonda che la costringeva a vivere sempre sul divano, era molto dimagrita e sembrava più piccola del suo metro e ottanta.
Tu come hai reagito a quella situazione?
In quel momento ho pensato che mio padre avesse avuto un modo codardo di comportarsi. Ero sconvolto. Ma ho cambiato idea su quel periodo quando, dopo alcuni anni, ho parlato con mio padre.
Come mai?
Gli ho chiesto cosa fosse realmente successo, ormai ero più grande. Mi ha raccontato la storia… (Johnny si commuove, non riesce a proseguire nel racconto e passano alcuni minuti prima che riesca a riprendersi, ndr)
Se è un problema, possiamo passare oltre.
Ok ok… Sono stato molto deluso da lui perché credevo che la fuga fosse stata subdola e codarda. Quel giorno non è stato facile, perché mi aveva salutato per andare al lavoro come se niente fosse. Ma dopo fortunatamente ho capito la verità.
Cos’hai imparato da queste esperienze della tua infanzia?
Che mi sbagliavo sulle mie prime impressioni sulla fuga di mio padre dalla famiglia, e di molto. Una delle migliori lezioni che credo di avere imparato l’ho capita quando Vanessa (Paradis, sua ex compagna, ndr) è rimasta incinta. Sapevo esattamente come crescere i bambini, cioè fare l’opposto di quello che hanno fatto i miei genitori. Non ho mai alzato la voce con loro, non ho mai urlato parolacce, non gli ho mai detto un “no” brusco. Gli ho sempre spiegato le ripercussioni delle mie decisioni.
Passiamo alla tua carriera a Hollywood. Come sei finito nel primo film?
Ci sono finito per caso. Ero un musicista a Los Angeles con la mia band, avevo vent’anni. Poi però sono successe alcune cose. La band si è sciolta e quindi mi ero messo a compilare domande di lavoro per negozi di videocassette o di abbigliamento.
Ma Nicolas Cage, che era un amico e attore allora meno conosciuto di oggi, mi ha detto: “Perché non incontri il mio agente? Penso tu sia un attore, potresti farcela”. In quel momento avrei fatto qualsiasi cosa per pagare l’affitto. Ci sono andato, mi ha dato un copione che avrei dovuto leggere al casting di A Nightmare on Elm Street (da noi poi titolato Nightmare – Dal profondo della notte, ndr), e alla fine il regista (Wes Craven, ndr) in qualche modo mi ha preso.
Ma prima di allora non avevo avuto alcun desiderio di fare l’attore, ero solo un musicista. Il fatto che ci fossero persone intenzionate a pagarmi, peraltro una somma che non avevo mai visto in vita mia, 1.200 dollari a settimana, mi ha fatto continuare. Poi ho fatto un altro paio di film stupidi, ma nella mia mente ero ancora un musicista e questo lavoro serviva solo per l’affitto. All’improvviso, però, mi sono trovato avviato su quella strada e da un film sono passato a un altro, fino a una serie tv molto nota, 21 Jump Street (in Italia I quattro della scuola di polizia, ndr). Avevo 22 anni.
Che attore eri allora?
All’inizio ero estraneo a questo mondo, non avevo nessuna grande ambizione. Sono sempre stato abbastanza timido e introverso. Poi è avvenuta una metamorfosi molto strana, sono passato dall’essere uno dei quattro di una band, che si battevano insieme per ottenere un contratto discografico, a provare la sensazione di essere al ristorante con la gente che sussurrava indicandomi. Ero a disagio, molto, non mi piaceva. Anche prima non ho mai voluto essere il cantante della band, avere tutta l’attenzione su di me. E invece, all’improvviso, ero da solo a fare i conti con questo tipo di notorietà. Non credo ci sia un modo per abituarcisi. Non lo so, io non ci sono ancora abituato.
Quando ti sei appassionato alla recitazione?
Quando ho capito che era quella la strada che stavo percorrendo. E quando qualsiasi tentativo di tornare alla musica sarebbe stato inutile. Dopo la notorietà ricevuta da quella prima serie tv, ho realizzato nella mia mente e nel cuore che non ci sarebbe stato un ritorno alla musica. Il successo che avevo ottenuto non volevo usarlo per influenzare la carriera musicale. Ho troppo rispetto per la musica. E così ho assecondato chi mi voleva far diventare un teen idol. In seguito ho iniziato a studiare con vari insegnanti, ho letto libri per conoscere la tecnica. È fantastico studiare, ma ti rendi conto che l’unico modo per imparare è farlo. Però mi sono allenato e ho fatto del mio meglio per elaborare il mio personale approccio verso i vari personaggi.
Su quali personaggi per primi hai portato il tuo personale approccio alla recitazione?
Il primo film in cui mi sono sentito davvero bene e nel quale sapevo cosa fare è quello con la regia di Oliver Stone del 1986 (Platoon, ndr).
In seguito, come sei stato scelto per la saga Pirati dei Caraibi?
Sono passati molti anni… La Disney nel 2004 mi aveva offerto un altro film, Hidalgo, su un uomo a cavallo nel deserto. Ho letto la sceneggiatura e non pensavo facesse per me. Ma ho voluto incontrarli ed è uscita un’altra proposta. In quel periodo mia figlia aveva circa tre anni, non guardavo altro che cartoni animati e film di animazione insieme a lei. Quando ho ricevuto la nuova sceneggiatura, nella mia mente è scattato qualcosa per unire il personaggio con le esperienze di quel periodo. Come Willy il Coyote che prende il masso in testa ma ne esce solo con una benda in testa. In pratica ho incorporato quei parametri tipici dei cartoon nel capitano Jack Sparrow. Ho cercato di arrivare a controllare la “sospensione dell’incredulità” sia sulle sue parole che nei suoi movimenti. Infatti era così ridicolo, riusciva a farla sempre franca e come in un cartone animato poteva fare cose che nessun uomo normale può fare. È stato un modo per allargare le possibilità del personaggio.
La tua versione è piaciuta subito alla Disney?
No, mi sono preso il rischio, ma se fosse andato bene sentivo di essere su una buona strada per creare un personaggio accettato sia da bambini di cinque anni che da persone più adulte, dai 45 agli 85 anni.
La precedente sceneggiatura com’era?
Aveva tutti i segni distintivi di un film Disney, una struttura prevedibile in tre atti e il capitano era più simile a un tipo spavaldo a petto nudo, una sorta di eroe. Avevamo idee molto diverse, quindi ho incorporato quelle caratteristiche dei cartoni e ho dato vita a quel personaggio, in seguito con grande piacere anche di Disney.
In che modo apporti le modifiche ai tuoi personaggi di solito?
Nella preparazione ho sempre avuto lo stesso approccio. Cerco una storia passata sulla quale basarmi. Per Edward mani di forbice ho preso spunto da un cane che avevo in quel periodo e dai bambini di mia sorella. Ho pensato che lui avrebbe visto il mondo con innocenza, senza sapere il significato di certe cose. Un bambino innocente, puro, che sperimenta qualcosa per la prima volta. Così come ho detto, con il capitano Jack Sparrow mi sono ispirato ai cartoni animati. Insomma, è come fare una zuppa. Prendi degli ingredienti e li mischi insieme. Nel suo caso, essendo uno che ha vissuto sulle navi molto tempo, mi sono convinto che forse il suo cervello poteva essere stato un po’ intaccato dal sole, così usavo le gambe come se fosse sempre in mare, e quindi a terra non poteva mai essere stabile, mai stare fermo.
Alla fine come valuti Pirati dei Caraibi?
Non ho visto il film… (sorride sornione, ndr) So che è andato molto bene. E volevo continuare a fare meglio. C’è una grande libertà, se conosci bene il personaggio, infatti non era come lo avevano scritto gli sceneggiatori, quindi devi essergli fedele e aggiungere cose tue. Credevo in quel personaggio con tutto il cuore, anche se all’inizio la Disney era un po’ sconvolta.
Com’è cambiata la tua vita dopo quei film di così grande successo?
Anche se esistevo al cinema già da molti anni, dopo è stato tutto completamente diverso. Io e la mia famiglia nella casa di Los Angeles ci siamo ritrovati persone che cercavano di scavalcare o sfondare il cancello per entrare, alcune addirittura vestite da Jack Sparrow… Da quel momento ho dovuto ingaggiare più personale per la sicurezza, ero preoccupato per i miei figli. È stato allora che, da un solo ragazzo della security, sono diventati diversi. Volevo assicurare l’incolumità dei miei figli a casa, a scuola, a Disneyland, in un centro commerciale… ero seguito da orde di paparazzi. Certo, ho provato lavori peggiori, non posso lamentarmi, ma sì, dopo quei film mi sono reso conto che l’anonimato era ormai completamente perso. È strano affrontare una condizione simile, quando capisci che non potrai più andare al ristorante o a bere un caffè senza che si trasformi in qualcos’altro. Ma è accettabile un po’ di sacrificio e non posso lamentarmi. Non ne ho il diritto. E poi ti permette di pensare in modo creativo su come portare i figli al parco o a vedere un film. Tutto diventa una missione strategica da pianificare, e questo è accaduto soltanto dopo Pirati dei Caraibi.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 3 maggio 2022.
Johnny Depp avrebbe dovuto guadagnare 22,5 milioni di dollari per il suo ruolo nella sesta puntata di Pirati dei Caraibi prima di essere eliminato dal film a seguito di accuse di violenza domestica. L'agente dell'attore, Jack Whigham, ha testimoniato lunedì nel processo per diffamazione di Depp contro l'ex moglie Amber Heard, dicendo alla corte che l'editoriale del 2018 dell'attrice è stato «catastrofico» per la sua carriera. Whigham ha osservato che l’articolo di Heard, pubblicato sul Washington Post nel dicembre 2018, era «piuttosto scioccante perché era la prima volta che sentivo un'accusa di abuso sessuale».
Depp, 58 anni, ha citato in giudizio Heard per 50 milioni di dollari: sostiene che l’ex moglie lo ha diffamato scrivendo il famigerato articolo per il Washington Post in cui si descriveva come sopravvissuta ad abusi domestici e che le sue accuse hanno distrutto la sua carriera. Anche se l'articolo non menzionava Depp per nome, i suoi avvocati affermano che era chiaro che Heard, 36 anni, si riferiva all’attore.
L’agente di Depp, Whigham ha descritto l'impatto negativo e il danno che l’articolo ha avuto sulla reputazione di Depp a Hollywood. «Per quanto riguarda Johnny, è stato catastrofico perché proveniva da un resoconto in prima persona, non da un giornalista, non da qualcuno che osservava, era da qualcuno che diceva “mi è successo”», ha detto l'agente.
Nei due anni successivi alla pubblicazione dell'editoriale, tra dicembre 2018 e ottobre 2020, Depp non è apparso in nessun film, ha detto Whigham alla corte. Ha detto anche che l'attore aveva ottenuto un contratto da 22,5 milioni di dollari con la Disney per riprendere il ruolo del Capitano Jack Sparrow in Pirati dei Caraibi 6, ma che nel 2019 è venuto a sapere che lo studio non lo avrebbe scelto per la nuova puntata.
La Disney ha infatti deciso di andare in una «direzione diversa», ha detto Whigham, e stava cercando di sviluppare un "progetto Pirates" per l'attrice Margot Robbie. Il film deve ancora essere realizzato.
Whigham ha notato che anche quando Depp è stato scelto per il dramma indipendente Minimata, dopo l'uscita dell'articolo il film ha avuto difficoltà. Whigham ha detto: «L'editoriale è uscito a dicembre proprio mentre stavamo partendo per le vacanze di Natale. Minimata avrebbe dovuto iniziare (le riprese) a gennaio. È stato molto, molto difficile tenere insieme Minimata».
«Il finanziamento è diventato traballante, il compenso di Johnny è sceso per salvare il film», ha aggiunto l'agente. Whigham ha detto che dopo l'editoriale «è stato impossibile procurargli un film in studio su cui lavorare».
Durante la testimonianza di Whigham, la corte ha sentito parlare di quanto Depp ha guadagnato per altri film. Per City of Lies, il film del 2018 sulle indagini sulla morte dei rapper Biggie Smalls e Tupac Shakur, Depp ha guadagnato 8 milioni di dollari. Depp è stato pagato 10 milioni di dollari per il film del 2017 Murder on the Orient Express.
Per Animali fantastici 2 - I crimini di Grindelwald, lo spin-off dei film di Harry Potter uscito nel 2018 e interpretato da Depp nel ruolo principale di Gellert Grindelwald, è stato pagato 13,5 milioni di dollari.
Depp ha guadagnato 3,5 milioni di dollari per la commedia drammatica del 2018 The Professor e 1 milione di dollari per Waiting for the Barbarians, l'adattamento del 2019 del romanzo di JM Coetzee. E ancora, 3 milioni di dollari per Minimata, uscito nel 2020, ha detto Whigham alla corte.
Quindi tra il 2017 e il 2020 Depp ha guadagnato un totale di 38 milioni di dollari. Durante il controinterrogatorio, l'avvocato di Heard, Elaine Bredehoft, ha messo in dubbio le affermazioni di Whigham secondo cui il lucroso contratto tra Depp e Disney per il nuovo film era un affare fatto.
«Hai una spiegazione del perché non c'è nemmeno un pezzo di carta... niente che suggerisca che il signor Depp era stato assunto in Pirates 6 come Jack Sparrow?» lei chiese.
Whigham risponde: «Abbiamo lavorato su molti accordi in cui non c’era un contratto, era un accordo verbale».
A dare credibilità alla testimonianza di Whigham è stato poi Richard Marks, avvocato ed esperto dell’industria dell’intrattenimento. «L'editoriale ha danneggiato il signor Depp, ha creato una situazione di annullamento se vuoi, ha danneggiato la sua reputazione e la sua capacità di trovare lavoro nell'industria di Hollywood».
Da vanityfair.it il 3 maggio 2022.
Decisamente non è un periodo facile per il cinquantottenne Johnny Depp. Proprio in questi giorni il divo sta affrontando in Virginia il processo per diffamazione da lui intentato contro l'ex moglie Amber Heard, 36, per un editoriale sul Washington Post in cui lei l'accusava, senza mai citarlo direttamente, di violenza e abusi domestici. Entrambi gli attori nel processo in corso rinnegano il ruolo di carnefice, entrambi scaricano ogni colpa sull'altro.
Ma ora un'altra ex di Depp, Jennifer Grey, diventata famosa grazie al ruolo di Frances “Baby” Houseman in Dirty dancing, ha deciso di raccontare quanto sia difficile avere una relazione con il divo. Non in tribunale, bensì nel suo libro di memorie, in uscita il 3 maggio, Out of the corner. L'attrice ebbe una breve storia con Depp alla fine degli anni Ottanta. Dopo il primo incontro i due iniziarono a frequentarsi regolarmente e l'attore, dopo due sole settimane, le aveva già chiesto di sposarlo.
Ma via via che la relazione andava avanti - si legge nel libro - il rapporto tra i due diventava sempre più complicato: «All'inizio Johnny era così bello, divertente, dolce». All'epoca il divo «faceva il pendolare ogni settimana avanti e indietro da Vancouver». Ma a un certo punto cominciò «sempre più regolarmente a mettersi nei guai: risse nei bar, scaramucce con la polizia. Iniziò a perdere i suoi voli per tornare a Los Angeles dopo aver dormito troppo e, quando tornava a casa, si mostrava geloso e paranoico per quello che “avevo combinato” mentre lui non c’era».
Grey decise di interrompere la relazione a pochi giorni dal 29esimo compleanno di Depp, dopo l'ennesima «sparizione» ingiustificata di lui: era partito senza dire dove stesse andando, non si era fatto sentire per giorni e non aveva cercato in alcun modo di mettersi in contatto con la fidanzata. A far naufragare la relazione, insomma, sarebbero stati i «lati oscuri» di Depp.
Lati oscuri che sono al centro del nuovo processo intentato dal divo contro l'ex moglie Amber Heard. Anche la loro è stata una storia breve. Il matrimonio è durato appena un anno (dal 2015 al 2016). Ma udienza dopo udienza, Johnny e Amber continuano a rivelare al mondo un legame da incubo fatto di violenze, sangue, droghe, alcol e degrado. Comunque andrà a finire, il divorzio tra Johnny Depp e Amber Heard, che è iniziato il 12 aprile e andrà avanti probabilmente per un altro mese, sarà ricordato come uno dei peggiori della storia.
Con conseguenze probabilmente irreparabili per l'immagine di entrambi. Il Web chiede che lei sia tagliata fuori dal cast di Aquaman 2, lui nei mesi scorsi ha già perso il ruolo di Jack Sparrow nella saga di Pirati dei Caraibi ed è stato cancellato da Animali Fantastici 3. E ora, a gettare nuove ombre sul divo, arriva il memoir dell'ex fidanzata Jennifer Grey.
Depp contro Heard, il giudice rifiuta archiviazione del caso. Continua lo scontro tra la coppia hollywoodiana. La Repubblica il 3 Maggio 2022.
La giudice al processo per diffamazione di Johnny Depp contro l'ex moglie Amber Heard ha respinto la richiesta degli avvocati di lei per l'archiviazione del caso.
Penny Azcarate ha detto che sono state presentate finora prove sufficienti per permettere al procedimento di andare avanti. La richiesta dei legali di Amber era una quasi formalità una volta conclusa la fase del processo in cui il querelante presenta le sue prove.
Il processo è in corso a Fairfax, in Virginia, alle porte di Washington. Depp chiede 50 milioni di dollari di danni sulla scorta di un articolo di opinione sul Washington Post a firma di Heard in cui l'attrice si è presentata come vittima di violenza domestica.
Dopo le polemiche contro il sistema Hollywood, che secondo l'attore lo avrebbe "boicottato", Johnny Depp tornerà sul set, in Francia, per interpretare re Luigi XV di Borbone, detto il Beneamato, al fianco dell'attrice e regista Maïwenn che dirigerà anche. ll nuovo film in costume, Jeanne Du Barry, sarà lanciato per le prevendite al mercato di Cannes a metà maggio. Si tratta della storia di Jeanne Bécu, una donna nata in povertà salita nei ranghi della corte di re Luigi XV dopo essere diventata la sua amante. Tra i protagonisti ci saranno anche Louis Garrel, Pierre Richard e Noemie Lvovsky. La data di inizio riprese non è ancora stata resa nota.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 4 maggio 2022.
Amber Heard è sembrata vicina alle lacrime ieri durante la testimonianza della dottoressa Dawn Hughes, psicologa clinica e forense ed esperta di violenza domestica, che ha fatto la sua deposizione davanti al giudice e alla corte chiamati a decidere sulla causa per diffamazione intentata da Johnny Depp all’ex moglie.
La dottoressa Hughes ha detto che le donne iniziano relazioni violente per le giuste ragioni, ma lentamente il loro partner si trasforma. La dottoressa ha delineato casi orribili in cui afferma che Heard le ha parlato della violenza sessuale commessa su di lei da Depp.
Ha detto che quando Depp «era ubriaco, l'ha lanciata (Heard) sul letto, le ha strappato la camicia da notte e ha cercato di fare sesso con lei». «L'ha costretta a fargli sesso orale perché era arrabbiato. Questi non erano momenti amorosi, questi erano momenti dominanti».
In un'altra occasione, ha «eseguito una perquisizione in una cavità», ha detto la dottoressa Hughes. Ha detto che «stava cercando droghe», aggiungendo che Depp pensava che fosse «accettabile strapparle la camicia da notte e infilarle le dita nella vagina in cerca di cocaina». Un'altra volta Depp ha messo le dita nella vagina di Heard e l'ha «spostata violentemente in giro».
Secondo la psicologa Hughes Johnny Depp la spingeva, la soffocava e la prendeva a calci nella schiena.Heard ha sofferto «per lo più lividi», tagli e «dolore vaginale» a causa di alcune aggressioni sessuali. Heard ha detto di aver perso conoscenza due volte dopo i litigi con Depp, in Australia e nel dicembre 2015.
Hughes ha poi raccontato che Depp «non voleva che la moglie mostrasse nudità» o facesse vedere il seno durante le riprese, non voleva che recitasse con certe persone per via della sua «invidia ossessiva». Considerava l'ambizione di Heard come «qualcosa di negativo» e «la sminuiva insistentemente», dicendole che «non aveva bisogno di mostrare le sue tette e il suo culo».
Secondo Hughes Depp avrebbe chiamato «quasi tutti gli attori» con cui Heard ha lavorato dicendo loro: «Ho gli occhi laggiù, ho gli occhi sul set». «Ha cercato di controllare ciò che indossava. Le diceva spesso che “nessuna mia donna si veste da puttana”».
Una volta, prima di un’audizione, Depp ha chiesto a Heard: «Uscirai con quelle tette e culo?». Così lei ha dovuto indossare «jeans da mamma» in modo da non sembrare «provocante». Heard ha ppoi subito numerose «accuse di infedeltà». Tutto ciò ha avuto un effetto «drastico» su Heard e l’attrice ha perso i ruoli perché era difficile per lei fare un'audizione.
Il dottor Hughes ha raccontato che durante un viaggio in aereo privato da Boston a Los Angeles nel 2014, Depp è andato su tutte le furie perché Heard stava girando con James Franco in quel momento. «Lei (Heard) sale sull'aereo, (Depp) inizia a parlare di James Franco, facendo molti commenti sprezzanti, tipo “spero che ti sia divertita con le tue scappatelle”. C'è stata una discussione e quando si è alzata per andarsene, lui le ha dato un calcio nella schiena e lei è andata avanti»·
Per la dottoressa Hughes è come «risucchiare l'ossigeno dalla stanza: prima che tu te ne accorga stai soffocando». Inoltre molte vittime provano vergogna per l'abuso che ha un «effetto aggravante» su di loro.
La dottoressa Hughes ha detto alla corte di aver condotto una valutazione forense di Heard coinvolgendo l'esame di documenti nel caso e testando e intervistando la stessa Heard per 22 ore di persona e due volte su Zoom. Inoltre, ha parlato con i medici di Heard e con la sua defunta madre. La dottoressa Hughes ha detto che la sua conclusione è stata che il resoconto di Heard era «coerente su ciò che sappiamo sulla violenza del partner intimo».
Nel caso della Heard il suo abuso è stato caratterizzato da: violenza fisica, aggressione psicologica, violenza sessuale, controllo coercitivo e «comportamenti di sorveglianza». La dottoressa Hughes ha detto di aver diagnosticato a Heard un disturbo da stress post-traumatico e la causa era «la violenza intima del partner da parte del signor Depp».
La testimonianza è stata resa dopo che gli avvocati di Heard hanno chiesto al giudice di archiviare il caso, ma il magistrato ha respinto la richiesta.
La prima deposizione di Amber Heard nel processo contro Johnny Depp. Redazione online su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2022.
L’attrice depone al processo: «Mi ha cambiato la vita», «Non dimenticherò mai la prima volta che mi ha picchiata. Mi ha cambiato la vita».
«Non dimenticherò mai la prima volta che mi ha picchiata. Mi ha cambiato la vita. All’inizio ho riso, pensavo che scherzasse»: così Amber Heard ha descritto quello che a suo dire sarebbe stato il primo episodio di violenza dell’attuale ex marito Johnny Depp che le sta facendo causa per diffamazione.
«Mi aveva preso a schiaffi senza una ragione mentre avevamo una conversazione normale, seduti sul divano» e «c’era un barattolo di cocaina vicino», ha detto la Heard nel primo giorno della sua deposizione nell’aula di Fairfax in Virginia. Mortificato e singhiozzando Johnny poi si sarebbe scusato: «Non lo farò più, diceva: pensavo di aver messo a bada questo mostro».
La testimonianza si è chiusa per la serata dopo che la Heard ha raccontato di un turbolento viaggio in barca alle Bahamas con i due figli di Johnny Depp. L’attore era nervoso e di frequente ubriaco anche perché era sul punto di vendere il suo yacht alla scrittrice J. K. Rowling. La figlia Lily-Rose era a sua volta turbata per le intemperanze paterne e Depp aveva dato la colpa a Amber, ha testimoniato l’attrice, che a suo dire avrebbe fatto la spia con i due ragazzi.
La Heard ha detto che in quell’occasione Depp minacciò di ucciderla: «Mi prese per il collo e restò così per un minuto dicendo che avrebbe potuto ammazzarmi e che ero un imbarazzo per lui». Amber poi lasciò lo yacht in elicottero con la figlia di Johnny in lacrime. Questo racconto ha provocato la reazione più forte da parte di Depp in tutta la giornata: quando l’avvocato di Amber ha mostrato alla corte sms che lui aveva mandato a lei dopo la partenza, l’attore ha scosso la testa e detto «wow».
Estratto da repubblica.it il 5 maggio 2022.
[…] «Sono qui perché il mio ex marito mi ha fatto causa. Non ho parole per descrivere quanto è orribile», ha detto l'attrice. «Faccio fatica a trovare le parole per descrivere quanto questo sia doloroso. È orribile per me stare qui per settimane e rivivere tutto», ha detto la star di Aquaman la cui deposizione dovrebbe durare parecchi giorni.
«Eravamo innamorati» ha raccontato rispondendo alle domande del suo team legale. Amber Heard ha aggiunto, trattenendo le lacrime, che stare con Depp «era una assoluta magia». «Sentivo che quell'uomo mi conosceva, mi vedeva, come nessuno prima di lui», ha sottolineato l'attrice parlando del viaggio fatto con il compagno per promuovere nel 2011 il film The rum diary in cui avevano recitato entrambi.
«Quando ero con Johnny mi sentivo la persona più meravigliosa del mondo. Mi faceva sentire vista. Mi faceva sentire come se valessi un milione di dollari», ha proseguito Heard, precisando d'altra parte che la relazione era in quella fase ancora segreta perchè l'attore non aveva ancora ufficialmente rotto con Vanessa Paradis, la madre dei suoi due figli. […]
Dall’Ansa.it il 5 maggio 2022.
«Non dimenticherò mai la prima volta che mi ha picchiata. Mi ha cambiato la vita. All'inizio ho riso, pensavo che scherzasse». Così Amber Heard ha descritto quello che a suo dire sarebbe stato il primo episodio di violenza dell'attuale ex marito Johnny Depp che le sta facendo causa per diffamazione. «Mi aveva preso a schiaffi senza una ragione mentre avevamo una conversazione normale, seduti sul divano» e «c'era un barattolo di cocaina vicino», ha detto la Heard nel primo giorno della sua deposizione nell'aula di Fairfax in Virginia. Mortificato e singhiozzando Johnny poi si sarebbe scusato: «"Non lo farò più", diceva: "Pensavo di aver messo a bada questo mostro"».
La testimonianza si è chiusa per la serata dopo che la Heard ha raccontato di un turbolento viaggio in barca alle Bahamas con i due figli di Johnny Depp. L'attore era nervoso e di frequente ubriaco anche perché era sul punto di vendere il suo yacht alla scrittrice J. K. Rowling. La figlia Lily-Rose era a sua volta turbata per le intemperanze paterne e Depp aveva dato la colpa a Amber, ha testimoniato l'attrice, che a suo dire avrebbe fatto la spia con i due ragazzi.
La Heard ha detto che in quell'occasione Depp minacciò di ucciderla: «Mi prese per il collo e restò così per un minuto dicendo che avrebbe potuto ammazzarmi e che ero un imbarazzo per lui». Amber poi lasciò lo yacht in elicottero con la figlia di Johnny in lacrime. Questo racconto ha provocato la reazione più forte da parte di Depp in tutta la giornata: quando l'avvocato di Amber ha mostrato alla corte sms che lui aveva mandato a lei dopo la partenza, l'attore ha scosso la testa e detto «wow».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 5 maggio 2022.
Durante la sua testimonianza al processo per diffamazione in corso in Virginia, Amber Heard ha raccontato due episodi di violenza già in parte anticipati dai testimoni nelle scorse settimane: quello in cui, a suo dire, Johnny Depp le avrebbe infilato le dita nella vagina in cerca di cocaina, e un altro in cui l’attore avrebbe tenuto il suo cane fuori dal finestrino in un accesso di rabbia.
Nel maggio del 2013, Heard e Johnny Depp erano in vacanza in roulotte a Hicksville, in California, vicino Joshua Tree. Una notte erano seduti intorno a un falò, e una donna vicina a Heard, sotto l’effetto dell’MDMA, aveva poggiato la testa sulla spalla dell’attrice. «Johnny si è arrabbiato. Pensavamo stesse scherzando. La donna gli ha detto ridacchiando: “Ehi amico, cosa stai facendo?”. E lui: “pensi di toccare la mia fottuta ragazza? Quella è la mia fottuta ragazza”».
«Lei ha iniziato a piangere e ha alzato la mano. Johnny l’ha afferrata per il polso, l’ha attorcigliato e l’ha tirata a sé. Poi le ha detto: “Sai quanti chili di pressione ci vogliono per rompere un polso umano?”. Lei piangeva». A quel punto Heard è intervenuta e ha riportato Depp nella roulotte. «Johnny mi ha detto che non sono stata onesta sulla mia relazione con quella donna».
Quando la coppia è tornata nella roulotte, poi, lui ha continuato ad accusarla di mentire. «Ha iniziato a distruggere le cose. Ha preso qualcosa sul tavolo e l’ha gettato contro l’armadietto di vetro». «Urlava contro di me, alla fine sono tornata nella zona della camera da letto e lui mi ha seguita. Stava cercando qualcosa. Sono andata in bagno e quando sono uscita mi ha chiesto dov’era e da quanto tempo lo stavo nascondendo». «Mi ha detto: “sai di cosa sto parlando, cazzo, sii onesta con me. Dove la stai nascondendo?”». Poi «ha iniziato ad accarezzarmi, mi ha strappato il vestito. Mi ha afferrato il seno, mi ha toccato le cosce, mi ha strappato le mutande e ha iniziato a cercare nella cavità. Ha detto che stava cercando la sua cocaina, la sua coca».
Mentre piangeva, Heard ha ricordato: «Mi ha infilato le dita dentro. Sono rimasta semplicemente lì, a fissare quella luce, non sapevo cosa fare. Ha girato le dita».
Heard ha poi raccontato che a marzo del 2013 Depp era «davvero pazzo» e che lui la accusava di avere altre relazioni. Un giorno Heard aveva dovuto chiamare la sorella di Johnny, Christi, per farlo uscire di casa. Ma una volta in macchina le cose avevano preso brutta piega.
«Aveva il finestrino abbassato. Ad un certo punto ha iniziato a ululare fuori dal finestrino e ha afferrato Boo il suo cane, un Yorkie leggermente più grosso. Lo prende e lo tiene fuori dal finestrino dell'auto in movimento. Ulula come un animale mentre tiene il cane fuori dalla finestra.
«Tutti in macchina si sono bloccati. Nessuno ha fatto niente. Anch'io ero combattuta su cosa avrei dovuto fare. Non volevo fare niente che gli facesse lasciare andare il cane. Nessuno ha fatto niente. Alla fine gli ho rimesso le braccia nel veicolo e ho riportato il cane sul sedile».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 5 maggio 2022.
Erin Falati, infermiera personale di Amber Heard, ha testimoniato al processo per diffamazione tra Johnny Depp e l’ex moglie. Interrogata da uno degli avvocati di Depp, ha parlato dei suoi appunti sul trattamento seguito da Heard dal loro primo incontro nell’agosto del 2014.
Nei suoi appunti, l’infermiera scrive che Heard «riporta una storia di abuso di sostanze, inclusa una dipendenza da cocaina e liquori». «Heard non fuma, ma riferisce di bere “1-3 bicchieri di vino rosso al giorno”», aveva scritto la donna.
Ancora dagli appunti: «Ha una storia familiare di abuso di sostanze, sia la madre che il padre sono diventati dipendenti da stimolanti. La cliente ammette una storia di ansia, disturbo alimentare, disturbo da deficit di attenzione, disturbo bipolare, problemi di codipendenza e insonnia occasionale».
«Il cliente si identifica come bisessuale ed era sposato con una partner femminile prima della relazione attuale». Gli appunti aggiungono che Heard aveva «sperimentato di recente una maggiore agitazione e ha avuto diversi scoppi di rabbia. Il suo umore è stato instabile».
Alla domanda su cosa significasse "labile", Falati ha detto: «La labilità emotiva è quando le emozioni ruotano su un pendolo, vedi qualcuno triste e passa rapidamente alla felicità estrema, è come un pendolo».
Falati ha spiegato, sempre partendo dai suoi appunti: «La cliente ha espresso preoccupazione per il marito e il dottor Kipper (il medico personale di Depp) è nervosa per il fatto di essere sola mentre il marito lavora (sul set di un film a Londra) e ha affermato di avere difficoltà ad affrontare i sentimenti di insicurezza e gelosia quando non è in presenza del marito».
In una nota del 29 agosto 2014, Falati ha detto che durante la cena Heard ha parlato della sua «confusione» perché pensava che Depp volesse che «eliminasse la carriera di attrice» e rimanesse a casa. Alla domanda se avesse mai avuto l'impressione che Depp volesse che Heard smettesse di recitare, Falati ha detto: «Non ricordo che fosse un sentimento».
Nelle note mediche di Falati del 2 settembre 2014, ha scritto che Heard ha riportato «difficoltà con problemi di gelosia e ansia per la fama del fidanzato e la capacità di interagire spesso con le donne». Falati ha detto alla corte di aver ricordato un «senso generale di gelosia e problemi di ansia emersi nel corso degli anni».
Falati ha poi parlato di un episodio del 2015, quando aveva trovato Heard con il labbro sanguinante dopo una discussione con Depp. «Heard ha affermato che si trattava di una ferita subita in una discussione tra lei e il marito. Ha detto che la sua testa era contusa e che aveva perso ciocche di capelli durante l’alterco».
Falati infine ha parlato della partecipazione di Heard al Festival di Coachella nel 2016, durante il quale «la cliente ha ammesso di aver fatto uso di droghe illecite e ha affermato di aver ingerito funghi allucinogeni e MDMA contemporaneamente e di essere stata “sballata per almeno 24 ore di fila”».
Il racconto dell'orrore dell'attrice. Amber Heard racconta le violenze nel processo con Johnny Depp: “Mi ispezionò con le dita per cercare la droga”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 5 Maggio 2022.
“Non dimenticherò mai la prima volta che mi ha picchiata. Mi ha cambiato la vita. All’inizio ho riso, pensavo che scherzasse”. Con queste parole è iniziata la deposizione di Amber Heard, 36 anni, nel tribunale di Fairfax in Virginia nel processo intentato dall’ex marito Johnny Depp, 58 anni, che l’accusa di diffamazione, con una richiesta di indennizzo di 50 milioni di dollari. Sembra un brutto film quello che tra le lacrime ha raccontato ai giudici. Dopo tre settimane di deposizioni, tra cui quella di Depp, per la prima volta tocca a lei parlare. Sin dalle prime luci del mattino la folla di fan di entrambi gli attori hollywoodiani era già in fila per accaparrarsi i posti in tribunale e seguire da vicino le deposizioni. Una cosa è certa: da questo processo le carriere di uno dei due o di entrambi usciranno distrutte.
Herad ha raccontato ai giudici quella prima volta che sarebbe stata picchiata dall’attore. Mi aveva preso a schiaffi senza una ragione mentre avevamo una conversazione normale, seduti sul divano. Al terzo schiaffo mi ha fatto perdere l’equilibrio. Ho riso perché non sapevo che altro fare. Pensavo fosse uno scherzo. E lui mi ha detto: ‘Pensi di essere una stronza divertente?'”. “Sapevo che era sbagliato e dovevo lasciarlo – ha detto – Questo è ciò che mi ha spezzato il cuore. Non volevo abbandonarlo”.
L’attrice ha raccontato che quella lite era sfociata per via del tatuaggio sbiadito di Depp che aveva fatto per la ex, Winona Rider. “Wino Forever”, si leggeva sul braccio dell’ex marito. E alle domande di lei Depp avrebbe perso le staffe.
Il racconto dell’attrice è ricco di dettagli come quel “barattolo di cocaina vicino, sul tavolo”, a cui sarebbe seguito il sentimento di Depp, che avrebbe detto: “Non lo farò più, diceva: pensavo di aver messo a bada questo mostro”. Heard ha raccontato di aver provato a credere che lui le stesse dicendo la verità e che non l’avrebbe più picchiata ma che in cuor suo sapeva che l’unica soluzione era lasciarlo. “Sapevo che non potevo semplicemente perdonarlo — ha proseguito —, giusto, perché questo significa che accadrà di nuovo. Avevo il cuore spezzato”.
“Volevo credergli, quindi ho scelto di farlo. Era l’amore della mia vita, ma a un certo punto il Johnny che amavo era sotto tutte queste cose orribili”, ha detto. Poi l’attrice ha descritto quando era stata aggredita sessualmente da Depp che cercava la droga: “Mi ha strappato la parte sopra del vestito, poi la biancheria intima e ha continuato ‘cercando nella cavità’. Diceva di cercare la sua cocaina. Come avrei potuto nasconderla? Non aveva senso che stesse insinuando questo. Ha infilato iniziato a girare le dita dentro di me. Ricordo di aver pensato che Johnny avrebbe cambiato idea: quella sera sono andata a dormire e il giorno dopo sembrava che tutto fosse tornato alla normalità. Non ricordo di avere avuto più alcuna conversazione con lui sull’accaduto. Tutti ridevano e si divertivano e io mi sentivo così sola perché nessuno sapeva che cosa fosse successo”.
Mentre l’ex moglie raccontava, Depp ha seguito tutto seduto in aula, guardando verso il vuoto. Poi il racconto del viaggio dell’orrore alle Bahamas con i figli di Depp. L’attore pare fosse nervoso e di frequente ubriaco anche perché era sul punto di vendere il suo yacht alla scrittrice J. K. Rowling. La figlia Lily-Rose era a sua volta turbata per le intemperanze paterne e Depp avrebbe incolpato di questo la Heard, rea di avergli messo i figli contro parlando di lui in modo negativo. L’attrice di Aquaman ha dichiarato che in quell’occasione Depp riempiva di frequente tazze di caffè con l’alcol, per nascondere la sua dipendenza ai figli, e durante l’ennesima lite minacciò di ucciderla: “In pochi secondi mi rendo conto che ha spostato l’attenzione su di me, mi sembrava molto arrabbiato. Ha chiesto a Lily-Rose di andarsene e lei se n’è andata piangendo, in preda a un attacco di panico. Iniziò ad ad accusarmi di averlo chiamato ubriacone davanti ai suoi figli. Mi prese per il collo e restò così per un minuto dicendo che avrebbe potuto ammazzarmi e che ero un imbarazzo per lui”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Estratto da un articolo di Stefano Citati per il Fatto Quotidiano il 6 maggio 2022.
Il pirata mite veste completi da narco-boss di Calì, la regina-“merdosa” risponde con castigati corredi business-style che sottolineano l’algida bellezza affranta. Combattono in un’aula dalle linee squadrate e colori tenui. Il “defamation trial” si svolge in Virginia, a Fairfax: le armi sono parole taglienti, dettagliate relazioni di psicologi, avvocati con parcelle milionarie, registrazioni audio e video, e sterco. […]
Lui sui social vince qualche milione di like a zero, per ora, con scuorno dell’onda del #metoo, lei galleggia ancora nelle procelle del processo che la vedono sulla difensiva, dunque tanto più agguerita. La posta in gioco sono la reputazione, la dignità e decine di milioni di dollari, o quel che resterà, pagate le parcelle di avvocati e team di pr. Depp contro Heard rappresenta il lato ludico-voyeutiristico del legal drama all’americana. Un format che si nutre di classici l’Oltreoceano con schiere di giurati da tastiera che sfornano meme feroci e gadgettistica improbabile e fantasiosa come la Barbie-Heard avvolta nella pupù apparsa sui social con lo slogan “fecal attraction”.
Mercoledì sera è toccato per la prima volta ad Amber prendere la parola. […] «Quando è in buona, Johnny è incredibile, ma il Johnny sotto oppiacei, e il Johnny sotto quaalude (un simil-barbiturico) è molto diverso dal Johnny sotto Adderall (farmaco per la concentrazione) e cocaina: e io avevo imparato quale Johnny mi trovavo davanti…».
Estratto da un articolo di Matteo Persivale per il Corriere della Sera il 6 maggio 2022.
«Mi ha tirato addosso una bottiglia, e mi ha mancata, per fortuna. Poi però si è avvicinato con la bottiglia rotta e me l’ha puntata al collo… c’era vetro sul pavimento, dappertutto… mi nascondo dietro il bancone del bar e sento vetri che si spaccano dappertutto… poi ha finito le cose da tirarmi addosso perché non ho più sentito vetri scoppiare contro il muro… alla fine mi ha strappato la sottoveste, ero nuda… mi gridava contro, diceva che mi odiava, che gli avevo rovinato la vita… gridava cose come ti uccido... Non ho mai avuto tanta paura in vita mia».
Amber Heard parla lentamente, tra le lacrime, schiarendosi la voce tra una frase e l’altra, raccontando la sua versione. Ieri è stato il quindicesimo giorno del processo che sta mostrando al mondo, in diretta tv e in streaming via internet, le scene da un matrimonio hollywoodiano, tutto quello che normalmente viene celato al pubblico ma che in questo processo per diffamazione, Johnny Depp contro l’ex moglie Amber che negli anni lo ha ripetutamente accusato di abusi domestici, e ha diffuso video che lo ritraggono ubriaco e aggressivo […].
Le prime due settimane del processo civile davanti alla corte di Fairfax, in Virginia, sono state quelle del lunghissimo monologo di Depp, che ha dipinto Heard come una bugiarda interessata solo ai suoi soldi.
Adesso tocca a lei. Sono state due settimane molto negative per la sua immagine: Depp ha mostrato la foto del suo letto nel quale lei aveva collocato delle feci; la donazione in beneficenza milionaria che Heard aveva promesso non è mai stata versata, e molto altro. Un disastro di comunicazione che ha indotto Heard a licenziare con effetto immediato i suoi consulenti di comunicazione, la famosa (e costosissima) Precision Strategies fondata dalla ex direttrice della campagna elettorale di Barack Obama. Heard ora si affida a Shane Communications, altra potenza, ma è molto inusuale cambiare consulenti a metà processo, chiaro segnale di difficoltà. Su Twitter, l’hashtag #AmberHeardIsALiar che le dà della bugiarda è stato utilizzato in più di 31.000 tweet, eclissando l’hashtag #IStandWithAmberHeard che la difende e che ne ha poco più di 21.000. Su TikTok, l’hashtag #JusticeForJohnnyDepp è salito alla cifra di oltre 7,6 miliardi di visualizzazioni. Anche l’hashtag #JusticeForAmberHeard ha 26,5 milioni di visualizzazioni.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 6 maggio 2022.
Attimi di tensione al processo per diffamazione in corso in Virginia tra Johnny Depp e l’ex moglie Amber Heard: terminata la prima parte della sua deposizione, l’attrice è scesa dal banco dei testimoni mentre Johnny Depp si è alzato e si è diretta verso di lei.
L’attrice ha subito fatto un passo indietro ed è sembrata terrorizzata, mentre gli agenti del tribunale si sono immediatamente girati verso Depp e lo avvertito di stare lontano. A quel punto l’attore si è voltato dall’altra parte, ha alzato le spalle e ha sorriso.
Heard è stata condotta al lato della stanza dai funzionari del tribunale prima che Depp entrasse dalla porta sul retro per una sigaretta durante la pausa di 15 minuti. L'ex coppia ha per lo più evitato il contatto visivo durante il processo. Durante la testimonianza di Heard, Depp è stato visto curvo su un taccuino dove scriveva appunti e scarabocchiava.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 6 maggio 2022.
Amber Heard è scoppiata a piangere sul banco dei testimoni quando ha ricordato come l’ex marito, Johnny Depp, l’ha aggredita sessualmente con una bottiglia di liquore.
La presunta aggressione è avvenuta nel marzo del 2015 in Australia, nella casa in cui vivevano durante le riprese di Pirati dei Caraibi 5. Si tratta dello stesso episodio in cui Depp ha denunciato di aver quasi perso il dito perché Heard gli avrebbe lanciato una bottiglia di liquore. Heard ha testimoniato di non aver assistito al taglio della punta del dito di Depp.
Sul banco dei testimoni, singhiozzando, Heard ha raccontato che Depp era su di giri perché aveva preso 8-10 pillole di MDMA. Aveva iniziato ad accusarla di andare a letto con Eddie Redmayne (la sua co-protagonista in The Danish Girl), e di tradirlo. Poi ha chiamato il suo agente, e altre persone, «urlando contro di loro. Aveva la sensazione che le persone gli avessero rubato dei soldi».
Poi sono scesi al piano di sotto. «Mi ha sbattuta contro il muro, vicino all’angolo cottura. Mi ha sbattuto contro i frigoriferi, l’ho spinto via. Mi chiamava “puttana, troia, culo grasso”. Mi stringeva il collo. È diventato brutto. Ha detto che tutti lo avevano messo in guardia contro di me, che non piacevo a nessuno». A quel punto Depp l’ha lanciata dall’altra parte della stanza.
«Sono atterrata su un tavolo da gioco. Si è messo sopra di me sul tavolo da gioco e mi ha preso a pugni in faccia. Abbiamo lottato. Poi ha preso una bottiglia, io glie’ho sfilata e l’ho rotta a terra tra di noi. Questo lo ha fatto infuriare. Ha iniziato a urlare. Mi ha buttata a terra. Quando mi sono rialzata da terra aveva una bottiglia in mano, me l’ha lanciata, mi ha mancato. Aveva una bottiglia rotta in mano, mi ha detto che mi avrebbe tagliato la faccia».
Heard ha raccontato poi di essersi trascinata nell’area bar, l’unica che offriva una via d’uscita. «Ricordo che i miei piedi scivolavano sulle piastrelle mentre lui mi sbatteva dal muro al piano di lavoro. Aveva la mia camicia da notte e me l'ha strappata dal petto».
«Ha i miei seni in mano, la mia camicia da notte si è completamente tolta, mi è stata strappata via, ero nuda. Mi urla contro, mi odia fottutamente, gli ho rovinato la vita. Ancora ed ancora. Comincia a prendere a pugni il muro vicino alla mia testa, tenendomi per il collo».
«Ad un certo punto è sopra di me, urlandomi “ti odio fottutamente, mi hai rovinato la vita del cazzo”». «Lo guardo negli occhi e non lo vedo più. Non era lui, era nero. Non sono mai stata tanto spaventata in vita mia. Mi stava guardando. Stavo cercando di mettermi in contatto con lui, per dirgli in qualche modo che ero io».
«La mia testa sbatteva contro la parte posteriore del bar e non riuscivo a respirare. Ricordo di aver cercato di alzarmi per dirgli che mi stava davvero facendo del male. Non riuscivo a respirare. Non riuscivo a mettermi in contatto con lui. Non riuscivo ad alzarmi».
L’attrice si è dovuta interrompere, perché sopraffatta dall'emozione sul palco. «La cosa successiva che ricordo era che ero piegata all'indietro sul bar, stavo fissando la luce blu. La mia schiena era sul piano di lavoro. Pensavo mi stesse prendendo a pugni. Ho sentito questa pressione sul mio osso pubico e potevo sentire il suo braccio che si muoveva. Sembrava che mi stesse prendendo a pugni. Potevo solo sentire questa pressione».
«Non ricordo cosa ho detto, ricordo solo di essere stata immobile, di non volermi muovere. Ricordo di essermi guardata intorno per la stanza, di aver guardato tutte le bottiglie rotte, i vetri rotti e ricordo che non volevo muovermi perché non sapevo se era rotta, non sapevo se la bottiglia che avevo dentro di me era rotta».
«Non riuscivo a sentirlo, non sentivo dolore, non sentivo niente. Ho visto così tanti vetri rotti che non sapevo se fosse rotto o meno e ricordo di aver pensato per favore fa che non sia rotto. Non so come sia finita. Non so come sono scesa dal piano di lavoro».
«Ricordo solo di essere stata in bagno. Ricordo i conati di vomito, il suono che faceva la mia voce. Ho perso il controllo della mia vescica. Ricordo che avevo solo conati di vomito, c'era sangue sul pavimento».
Quando poi si è svegliata il giorno dopo, ha trovato la casa distrutta. Depp non aveva dormito, c’era un pene gigante disegnato su un dipinto, un tavolo ribaltato, vetri rotti ovunque, scritte col sangue. Lui «aveva la mano avvolta negli stracci, l’ha scoperta e me l’ha fatta vedere: “guarda cosa mi hai fatto”». Poi si «è tolto il pene dai pantaloni e ha fatto pipì contro il muro di casa». Heard ha poi mostrato le foto scattate il giorno seguente alla casa.
Il team di Depp ha affermato che le storie di abusi dell'attrice si sono evolute con «dettagli nuovi e convenienti» e hanno in programma di esporre le sue bugie durante un controinterrogatorio.
Da corriere.it il 6 maggio 2022.
«Johnny sotto l’effetto di speed è diverso del Johnny sotto oppiacei, che è diverso da quando ha preso Adderall e cocaina, e diverso dal Johnny del quaaludes. Imparai a fare attenzione alle diverse versioni di lui». Un uomo dalle molte personalità a seconda del tipo di droga che prendeva, sospettoso e accecato dalla gelosia al punto da diventare violento: questo il ritratto di Johnny Depp tracciato dalla ex moglie Amber Heard al processo per diffamazione in corso a Fairfax in Virginia.
Geloso perché pensava che la allora compagna avesse flirtato con una donna al Gala del Met, Depp l’avrebbe picchiata al ritorno in albergo. Geloso anche di James Franco: sospettando una loro relazione sul set di «The Adderall Diary», la schiaffeggiò e umiliò durante un volo da Boston a Los Angeles. «Pensai a quel punto che dovevo lasciarlo», ha detto Heard.
«Pensavo che mi avesse rotto il naso»
Nel 2014, appena fidanzati, Johnny e Amber erano andati mano nella mano al gala del Met, lui in cravatta bianca e ghette, lei in abito dorato da sirena e un diamante da centomila dollari al dito. La coppia era sfilata sorridente sotto i flash dei fotografi, ma tutt’altra scena attendeva lei al ritorno in albergo. «Litigammo. Mi prese per il collo, tirò contro una bottiglia che spaccò un lampadario e mi colpì in faccia con forza. Pensavo che mi avesse rotto il naso». Heard ha attribuito le violenze di Depp al suo abuso di alcol e di droga che gli cambiavano la personalità.
La gelosia nei confronti di Franco fu la scintilla per un’altra scenata: «Mi diede della sgualdrina per aver girato scene d’amore. Durante un volo da Boston a Los Angeles mi umiliò davanti agli altri a bordo. Nessuno disse nulla. Nessuno alzò un dito anche dopo che mi aveva preso a calci con lo stivale». Depp poi si chiuse in bagno e perse i sensi.
In quel periodo Amber aveva cominciato a documentare il comportamento del partner «perché Johnny», ha spiegato, «quando tornava in sé, non ricordava più nulla». Una di queste registrazioni, fatta proprio su quel volo, è stata fatta ascoltare in corte: si sente Depp che «ulula come un animale».
Fu allora che Amber «cercò in sé la forza di lasciarlo». Tornata da sola a New York si iscrisse a Al-Anon, un gruppo di sostegno per persone i cui cari hanno problemi di dipendenze. Depp venne a cercarla per scusarsi: «Lo ripresi con me a condizione che sarebbe andato in clinica a disintossicarsi».
Marzia Nicolini per Vanity Fair il 7 maggio 2022.
Per chi ancora non lo sapesse, Johnny Depp e Amber Heard sono in tribunale dopo che l'attore di Hollywood ha fatto causa all'ex moglie per diffamazione, a seguito di un editoriale del Washington Post apparso nel 2018, nel quale l'attrice raccontava degli abusi domestici subiti.
Il processo, decisamente mediatico, ha avuto inizio l’11 aprile scorso (il 9 aprile Amber Heard ha annunciato sulla sua pagina Instagram che sarebbe rimasta offline per la durata del processo). Alcuni spezzoni delle testimonianze rilasciate dai due attori sono circolate in rete, in particolare su YouTube, TikTok e Instagram. I commenti lasciati dai follower dei vari canali social sono per la stragrande maggioranza pro Johnny Depp. Si va dal «Free Johhny» al «Giustizia per Johnny Depp».
Ma i follower non si stanno limitando a queste frasi. Moltissimi utenti, infatti, si stanno accanendo contro Amber Heard, in un crescendo di astio allarmante. «Non riesco proprio a capire come una persona possa mentire spudoratamente a questo livello, specialmente in un'aula di tribunale, distruggendo la vita di una persona innocente solo e soltanto per il proprio tornaconto. Ha un che di disumano», scrive un utente YouTube. E un altro aggiunge: «Una bugia dopo l'altra. Il modo in cui viene ancora sostenuta dalle persone è disgustoso. Non ha mai avuto prove, al contrario di Johnny. Ma per il fatto che ha pianto sembra che la vittima sia lei».
Secondo gli esperti che stanno seguendo il caso da vicino è troppo facile affidarsi a questi commenti pro Johnny Depp. Se nessuno di noi può ergersi a giudice in questa vicenda, vero è che dalla corrispondenza intercorsa tra Depp e Heard, ma anche tra l'attore e i suoi amici e familiari, emerge il ritratto di un uomo alle prese con serie dipendenze da alcol e droghe, da lui stesse riconosciute. Per il resto, aspettiamo che il processo si concluda prima di sparare a zero contro Amber Heard.
Da axios.com il 17 maggio 2022.
Il processo per diffamazione tra gli attori ed ex coniugi Johnny Depp e Amber Heard ha rapidamente attirato più attenzione online di notizie ben più importanti e pressanti per il Paese, tra cui la decisione della Corte Suprema trapelata e la guerra della Russia in Ucraina.
Mentre l'America è appesa all’imminente verdetto della Corte Suprema sull'aborto, molti altri occhi sono puntati sugli sviluppi del processo Depp-Heard.
Secondo i dati esclusivi di NewsWhip, gli articoli sul processo, iniziato il 12 aprile, hanno generato più interazioni totali sui social media (like, commenti, condivisioni) rispetto alla copertura dell'aborto e della Corte Suprema o dell'inflazione.
In termini di articoli, il processo ha superato tutti gli altri principali argomenti di attualità.
Secondo i dati di Google Trends, nell'ultimo mese le ricerche sul motore di ricerca di Amber Heard sono state il doppio di quelle su Elon Musk. Ci sono state quasi quattro volte più ricerche per il suo nome che per l'aborto o la Corte Suprema.
Il processo si basa su una causa per diffamazione che Depp ha intentato contro la Heard, dopo che quest'ultima ha scritto un articolo sul Washington Post sugli abusi domestici che, secondo Depp, avrebbe danneggiato irrimediabilmente la sua carriera. Anche la Heard ha presentato una controdenuncia.
Ognuno dei due accusa l'altro di maltrattamenti domestici, con accuse pesanti che sono state lanciate in entrambe le direzioni.
I canali di intrattenimento stanno trattando l'evento come fosse il loro Super Bowl.
"Per noi è un record assoluto", ha dichiarato Rachel Stockman, presidente del network Law&Crime. La media giornaliera di spettatori sull'applicazione Law&Crime è 50 volte superiore a quella precedente al processo. Solo sul canale YouTube di Law&Crime c'è circa un milione di spettatori all'ora del processo.
Una semplice ricerca su Google per "A che ora inizia il processo ad Amber e Johnny" produce decine di risultati da parte di testate di alto livello su come e quando guardare il processo, un trucco di coinvolgimento del traffico che le testate giornalistiche usano di solito per i grandi eventi, come appunto il Super Bowl. Secondo i dati di SimilarWeb, alcuni dei maggiori siti di notizie sull'intrattenimento stanno registrando un massiccio aumento del traffico in seguito al processo.
I siti web di People, Us e New York Post hanno registrato un aumento del traffico rispetto all'anno precedente, rispettivamente del 9%, 16% e 22% per il mese di aprile.
Il processo è diventato virale sui social media, grazie alle telecamere del tribunale che hanno ripreso ogni momento per il pubblico, trasformandolo in meme e clip virali online.
Decine di fotomontaggi e meme stanno guadagnando una grande popolarità online, come il meme virale della faccia piangente di Amber Heard che ha invaso TikTok, Snapchat e altri social, e le clip di Johnny Depp che passa scarabocchi al suo avvocato in tribunale.
Il quadro generale: I drammi giudiziari, soprattutto quelli che vedono protagoniste le celebrità, sono da tempo un punto fermo dell'appetito mediatico americano, ma questo si distingue come il primo grande processo a diventare virale nell'era di TikTok.
"Il consumo del pubblico è cambiato per processi come questo", ha detto Stockman, riferendosi a quanto fossero diversi i numeri anche solo un anno fa durante la copertura del processo a Derek Chauvin da parte del network Law&Crime lo scorso giugno.
Per questo processo stiamo registrando un numero di spettatori 10-15 volte superiore rispetto al solito su tutte le piattaforme, ma soprattutto su YouTube". ... Stiamo vedendo un pubblico sempre più numeroso su Twitch".
Tra le righe: Molti dei filmati più virali prendono in giro la Heard, mettendo in risalto lo spin mediatico a favore di Depp.
L'hashtag #giustiziaperjohnnydepp ha superato i 10 miliardi di visualizzazioni, secondo Wired, mentre l'hashtag #justiceforamberheard ne ha 39 milioni.
Sì, ma: Sebbene molti dei contenuti virali siano intesi come divertenti, le sopravvissute agli abusi domestici e alle aggressioni non ridono. Alcuni dicono che il volume esaustivo di meme, clip e battute condivise online sul processo ha aggravato il loro trauma. TikTok afferma di aver rimosso i video che violano le sue politiche denigrando le vittime di tragedie violente.
La conclusione è che: I social media sono il proprio tribunale dell'opinione pubblica, anche se le prove non corrispondono ai meme.
Da ansa.it il 17 maggio 2022.
Soltanto Johnny Depp pensa che nell'op-ed (l’editoriale) del 2018 sul Washington Post la sua ex moglie parlasse di lui. Lo ha detto, al processo per diffamazione in corso a Fairfax, Virginia, Amber Heard da cui la star di “Pirata dei Caraibi” vuole 50 milioni di dollari di danni. L'attrice, che è al centro del controinterrogatorio dei legali di Depp, ha detto anche che Johnny, negli ultimi tempi del loro matrimonio, soffriva di allucinazioni durante i loro alterchi. «Parlava con persone che non erano nella stanza. Era spaventoso. Non sono sicura se era arrabbiato con me o se era convinto che il tizio che diceva di avere visto con me era nella stanza», ha detto Amber, alludendo alla gelosia dell'allora consorte.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 maggio 2022.
Amber Heard ha finalmente ammesso di non aver versato, come promesso, i 3,5 milioni di dollari all’Aclu. Durante la sua testimonianza di ieri, l’attrice ha spiegato che ad impedirle di effettuare il versamento è stata proprio la causa intenta dall’ex marito per 50 milioni di dollari. Fino ad oggi Heard aveva sempre garantito, anche sotto giuramento, di aver donato l’intera somma promessa.
«Intendo onorare pienamente tutti i miei impegni. Mi piacerebbe che Johnny smettesse di farmi causa, così potrei» ha detto l’attrice alla corte. Terence Dougherty, Chief Operating Officer e General Counsel dell'ACLU, aveva già testimoniato che finora Heard o chi per lei aveva donato 1,3 milioni di dollari.
Di quei soldi, Heard ha contribuito con 350.000 direttamente a dicembre 2018 e da allora non ha più pagato. 100.000 dollari sono stati pagati da Depp e altri 350.000 dollari provenivano da un fondo di Fidelity, una società di investimento. Un altro pagamento di 500.000 dollari proveniva da un conto presso la società di investimento Vanguard, che Dougherty ha affermato di «credere fosse un fondo istituito da Elon Musk».
L'avvocato di Heard, Elaine Bredehoft, ha chiesto perché Heard ha accettato un accordo di 7 milioni di dollari da Depp. «Non mi importava dei soldi. Mi è stato detto che se non avessi acconsentito a un numero che poteva essere ribaltato, non ci saremmo mai accordati. Ho preso molto meno di quello che offrivano e di quello a cui avevo diritto».
Heard ha detto che ha donato i soldi in beneficenza perché «non è mai stata interessata ai soldi di Johnny». «Volevo solo la mia sicurezza e il mio futuro e lui l'ha compromesso... Volevo che mi lasciasse in pace. Lo dico dal 2016».
Heard ha anche raccontato come ha incontrato il suo ex fidanzato Elon Musk: il 2 maggio 2016 lei e Depp erano stati invitati al Met Gala dallo stilista Ralph Lauren ma Depp non si era presentato, così Heard era andata al gala da sola. Heard ha detto di aver incontrato un uomo di nome "Elon" che in seguito ha capito essere il miliardario di Tesla Elon Musk.
Ha detto: «Non l'ho riconosciuto fino a quando non abbiamo iniziato a parlare. Mi aveva ricordato che ci eravamo già incontrati una volta. Abbiamo parlato sul tappeto rosso in fila d'attesa. Sembrava un vero gentiluomo». Heard ha detto che in seguito è diventata amica di Musk. Ha iniziato a frequentare il fondatore di Tesla subito dopo e nell'agosto dell'anno successivo si erano lasciati.
Ha poi testimoniato sui metodi che ha utilizzato per coprire i suoi lividi, «nessuna donna vuole andare in giro con un livido», per questo bisogna «ghiacciarlo subito per ridurre il gonfiore». «È molto gestibile se lo ghiacci, anche l’arnica è un ottimo rimedio. Se vuoi coprire un livido, metti prima il fondotinta, il correttore, inoltre ho usato un kit per il trucco teatrale che ho chiamato il mio kit per i lividi», kit che in seguito ha mostrato alla giuria.
Infine, interrogata dal suo avvocato sull’episodio della cacca nel lato del letto di Johnny Depp dopo una discussione il giorno del suo trentesimo compleanno, Heard ha detto che il colpevole è stato sicuramente uno dei cani di Johnny che «aveva problemi di controllo intestinale». Ha raccontato che il cane era sul letto mentre lei faceva le valigie per andare al Coachella e probabilmente è stato quello il momento in cui l’animale ne ha approfittato e si è liberato. Ha negato di aver orchestrato uno scherzo per l’ex marito.
Deborah Ameri per oggi.it il 18 maggio 2022.
Un altro doloroso giorno sul banco dei testimoni per Amber Heard. E un altro giorno di retroscena che raccontano di una coppia disfunzionale, destinata ad autodistruggersi.
I legali di Johnny Depp (che ha citato la ex per diffamazione) hanno terminato il controinterrogatorio dell’attrice accusandola di aver picchiato una sua ex nel 2009 e di aver tradito Depp con James Franco.
Camilla Vasquez, legale dell’attore, ha ricordato in aula l’arresto di Amber Heard nel 2009. L’attrice avrebbe assalito l’allora fidanzata Tasya van Ree, colpendola su un braccio e poi strappandole di dosso una collana. Dopo l’arresto però le accuse caddero, probabilmente van Ree non sporse denuncia. Heard ha negato con forza l’accaduto, perdendo un po’ della sua compostezza.
L’AMICO INCOLPA LUI – Tillett Wright, amico della coppia, è apparso via video e ha testimoniato che l’abuso di alcol e droghe trasformava Depp in un essere «misogino e crudele». Depp gli aveva anche confessato che le sue dipendenze gli avevano già causato problemi nelle precedenti relazioni ma che a lui non piaceva la vita da sobrio. «Adesso siamo sposati, posso darle un pugno in faccia e nessuno può fare niente», gli avrebbe riferito dopo il matrimonio con l’attrice.
LA VISITA DI JAMES FRANCO – La sera del 22 maggio 2016 l’attore James Franco va a trovare Heard. Il giorno prima Depp avrebbe scagliato contro l’ex moglie un cellulare, colpendola in faccia. Lei aveva risposto cambiando tutte le serrature della loro residenza.
L’accusa sostiene che Franco e Heard avessero una relazione, ma l’attrice ha spiegato che Franco era un amico, lei aveva bisogno di sostegno, non sapeva a chi rivolgersi e Franco, che abitava a due passi, era andato a offrirle appoggio morale. Depp ne era gelosissimo fin dall’inizio. Come, del resto, era geloso di chiunque si avvicinasse alla moglie.
IL DIARIO – Lo chiamano “love journal”, è un diario dove sia Amber che Johnny si scrivevano a vicenda. Contiene messaggi d’amore, di scuse, di passione. Purtroppo, sono state mostrate solo le note dell’attrice. In una scrive: «Ho visto in te la vera amicizia e il vero rispetto ma vorrei lo stesso farti a pezzi, divorarti e assaporarti». In altre note lo definisce un “marito amorevole” e chiede scusa per avergli fatto del male.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 maggio 2022.
Il processo tra Johnny Depp e Amber Heard ha fatto nascere una nuova star: l’avvocato Camille Vasquez, 37 anni, che negli ultimi due giorni si è occupata di contro interrogare Amber Heard. Il legale di Depp ha conquistato un enorme seguito online, e i fan hanno alimentato le voci che tra i due sia in corso una storia d’amore. Ieri, mentre usciva dal tribunale, una giornalista di TMZ le ha chiesto a bruciapelo: «Stai uscendo con Johnny Depp? Se ne parla online. Puoi mettere le cose in chiaro, sì o no?». In tutta risposta, Vasquez ha ridacchiato.
I fan di Depp stanno elogiando l'avvocato per il suo lavoro in difesa dell'attore, twittando foto di sé stessi che indossano magliette e meme "I heart Camille Vasquez" che la ritraggono come il dio nordico del tuono e il personaggio Marvel Thor.
Stanno persino preparando dei TikTok su canzoni pop romantiche in cui i due si scambiano sguardi, si tengono per mano e parlano da vicino.
I due erano tutti sorridenti quando sono entrati nel tribunale del circuito della contea di Fairfax mercoledì, un giorno dopo essere stati fotografati mentre si abbracciavano in una foto ampiamente condivisa sui social media.
Ma chi è Camille Vasquez? Nata nel luglio del 1984 da due emigrati colombiani, Leonel e Marillia Vasquez, si è laureata alla University of Southern California in Arte, comunicazione e scienze politiche nel 2006. Ha frequentato la Southwestern Law School di Los Angeles dal 2007 al 2010 e ha lavorato in uno studio legale prima di entrare a far parte del suo studio attuale, Brown Rudnick LLP, come associata. Non ha profili pubblici sui social media.
Johnny Depp e Amber Heard: al processo la versione dell’attrice, tra smentite, gli ex e Kate Moss. Redazione online su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.
Riprende l’udienza. È Heard che racconta la sua versione della storia tra qualche bugia, testimoni e ricostruzioni non sempre chiare
A Fairfax, in Virginia, è ricominciato uno dei processi più seguiti degli ultimi tempi, quello per diffamazione intentato da Johnny Depp , 58 anni, contro la ex moglie Amber Heard , 36.
Ora è l’attrice a raccontare la versione della storia in un controinterrogatorio che aggiunge altri particolari scioccanti di una relazione dai tratti violenti e tossici , che, atterrata sul banco della Corte, è diventata di dominio pubblico.
Video, audio e dichiarazioni ci hanno fatto conoscere dettagli sconvolgenti di questo matrimonio– presunti atti di violenza fisica da entrambe le parti, droga, ripicche inimmaginabili, come feci umane sul letto –, trasformando una tragedia personale in uno spettacolo da seguire su Youtube, su Tik Tok, e perché no, con l’ultimo meme arrivato via messaggio.
Questioni di beneficienza
Nella sua deposizione, Heard ammette di aver mentito. Aveva raccontato più volte di aver donato i sette milioni ottenuti dal divorzio con Depp all’ACLU, un’organizzazione non governativa che si batte per i diritti civili, e al Children Hospital di Los Angeles. Alla domanda insistente dell’avvocato dell’attore, la Heard ha ceduto, dicendo che, in effetti, non era vero. Non l’ha fatto, dice, perché l’ex marito l’ha citato in giudizio per 50 milioni di dollari nel marzo del 2019: «Intendo onorare tutti i miei impegni. Mi piacerebbe che Depp smettesse di farmi causa, così posso farlo».
Amici-amori
Heard ha chiamato a testimoniare l’attore James Franco che Depp accusa di essere stato un amante. Lei smentisce definendolo «solo un amico», un vicino di casa. Heard ha chiamato a testimoniare anche Elon Musk, con cui aveva avuto una breve relazione. Nessuno dei due sembrerebbe aver accettato l’invito.
Sulla questione «amore o amicizia?» con Franco, durante l’interrogatorio è stato fatto vedere un video di una telecamera di sicurezza dell’ascensore di casa Depp-Heard, la sera prima che lei chiedesse il divorzio, in cui si vede l’attore appoggiare la testa sulla spalla della Heard, prima di entrare nell’attico. Lei dice che l’amicizia con Franco sarebbe stata un’ossessione per Depp che pensava ci fosse una storia tra i due. Dice: «Era mio amico. E viveva nella porta accanto, letteralmente nella porta accanto. E io, francamente, avevo esaurito la mia rete di supporto con i miei soliti amici ed ero felice di accogliere quanta più amicizia possibile in quel momento».
La ex Kate Moss
Un’affermazione di Amber Heard potrebbe portare sul banco dei testimoni anche la top model Kate Moss, ex fidanzata di Johnny Depp degli anni ‘90. L’attrice dice di ricordare che qualcuno le ha detto che in passato Depp avrebbe spinto un’ex ragazza, «credo fosse Kate Moss, l’avrebbe spinta giù per le scale».
Un’affermazione che potrebbe diventare un autogol per la Heard. Infatti, gioiscono gli avvocati di Depp che vorrebbero chiamare la top model sul banco dei testimoni, sapendo che i due hanno sono rimasti in buoni rapporti.
La sorella
Ha testimoniato anche la sorella di Amber Heard, Whitney Henriquez. Ha detto diverse cose, tutte molto pesanti. Racconta di aver fatto uso svariate volte di cocaina con Depp. Poi, prosegue affermando che per difenderla dal marito che era andato verso di lei con fare minaccio, Heard l’avrebbe preso a schiaffi e lui l’avrebbe afferrata per i capelli.
Quel fazzoletto in aula
In ultimo, molti spettatori del processo hanno notato una cosa bizzarra durante la deposizione di Amber Heard. Si vede l’attrice portare al naso un fazzoletto, aprirlo e con un dito chiudersi una narice. Poi, sembrerebbe aspirare con l’altra qualcosa dentro il fazzoletto.
Che cosa stesse facendo non lo può sapere nessuno, ma in molti hanno pensato si trattasse di droga. Anche se il buon senso fa pensare che sarebbe molto strano sniffare in un’aula di tribunale.
Matteo Furina per lascimmiapensa.com il 20 maggio 2022.
Durante l’ultima sessione del processo per diffamazione che si sta tenendo tra Johnny Depp ed Amber Heard è stata ascoltata Ellen Barkin, ex fidanzata dell’attore di Pirati dei Caraibi. L’attrice che ha recitato in film come The Big Easy. Brivido seducente, Johnny il bello e Ocean’s Thirteen, ha detto di aver incontrato Depp nel 1990 e la loro amicizia platonica si è trasformata presto in una breve relazione sessuale, che tuttavia non le ha lasciato un bel ricordo.
Parlando in una deposizione preregistrata, girata nel 2019, la Barkin ha detto: "È un uomo geloso, opprimente. Dove vai? Con chi vai? Che cosa hai fatto ieri sera? Avevo un graffio sulla schiena una volta che lo ha fatto arrabbiare molto, perché ha insistito sul fatto che provenisse da un mio rapporto sessuale con una persona che non era lui".
La Barkin, che è apparsa al fianco di Johnny Depp in Paura e delirio a Las Vegas, ha aggiunto di averlo visto in situazioni “fuori controllo” ed era ubriaco “molto spesso”. Beveva sempre o fumava una canna – ha detto - Ha anche raccontato di un’occasione nella quale l’attore le ha lanciato una bottiglia di vino contro durante un litigio.
Un racconto molto simile è arrivato anche da un’altra ex fidanzata di Johnny Depp, Jennifer Grey. L’attrice di Dirty Dancing infatti, nel suo libro di memorie Out of the Corner, ha parlato della relazione con la star di Pirati dei Caraibi, spiegando come non fosse stata proprio idilliaca.
Johnny faceva il pendolare ogni settimana avanti e indietro da Vancouver, ma aveva cominciato sempre più regolarmente a mettersi nei guai: risse nei bar, scaramucce con la polizia. Aveva iniziato a perdere i suoi voli per tornare a Los Angeles dopo aver dormito troppo o, quando tornava a casa, diventava geloso e paranoico per quello che avevo combinato mentre lui non c’era. Ho attribuito il suo cattivo umore e la sua infelicità al fatto che si sentiva frustrato e impotente dal fatto di non poter uscire dalla serie TV 21 Jump Street
Dal corriere.it il 20 maggio 2022.
A Fairfax, in Virginia, è ricominciato uno dei processi più seguiti degli ultimi tempi, quello per diffamazione intentato da Johnny Depp, 58 anni, contro la ex moglie Amber Heard, 36.
Ora è l’attrice a raccontare la versione della storia in un controinterrogatorio che aggiunge altri particolari scioccanti di una relazione dai tratti violenti e tossici, che, atterrata sul banco della Corte, è diventata di dominio pubblico.
Video, audio e dichiarazioni ci hanno fatto conoscere dettagli sconvolgenti di questo matrimonio – presunti atti di violenza fisica da entrambe le parti, droga, ripicche inimmaginabili, come feci umane sul letto –, trasformando una tragedia personale in uno spettacolo da seguire su Youtube, su Tik Tok, e perché no, con l’ultimo meme arrivato via messaggio.
Questioni di beneficienza
Nella sua deposizione, Heard ammette di aver mentito. Aveva raccontato più volte di aver donato i sette milioni ottenuti dal divorzio con Depp all’ACLU, un’organizzazione non governativa che si batte per i diritti civili, e al Children Hospital di Los Angeles. Alla domanda insistente dell’avvocato dell’attore, la Heard ha ceduto, dicendo che, in effetti, non era vero. Non l’ha fatto, dice, perché l’ex marito l’ha citato in giudizio per 50 milioni di dollari nel marzo del 2019: «Intendo onorare tutti i miei impegni. Mi piacerebbe che Depp smettesse di farmi causa, così posso farlo».
Amici-amori
Heard ha chiamato a testimoniare l’attore James Franco che Depp accusa di essere stato un amante. Lei smentisce definendolo «solo un amico», un vicino di casa. Heard ha chiamato a testimoniare anche Elon Musk, con cui aveva avuto una breve relazione. Nessuno dei due sembrerebbe aver accettato l’invito.
Sulla questione «amore o amicizia?» con Franco, durante l’interrogatorio è stato fatto vedere un video di una telecamera di sicurezza dell’ascensore di casa Depp-Heard, la sera prima che lei chiedesse il divorzio, in cui si vede l’attore appoggiare la testa sulla spalla della Heard, prima di entrare nell’attico.
Lei dice che l’amicizia con Franco sarebbe stata un’ossessione per Depp che pensava ci fosse una storia tra i due. Dice: «Era mio amico. E viveva nella porta accanto, letteralmente nella porta accanto. E io, francamente, avevo esaurito la mia rete di supporto con i miei soliti amici ed ero felice di accogliere quanta più amicizia possibile in quel momento».
La ex Kate Moss
Un’affermazione di Amber Heard potrebbe portare sul banco dei testimoni anche la top model Kate Moss, ex fidanzata di Johnny Depp degli anni ‘90. L’attrice dice di ricordare che qualcuno le ha detto che in passato Depp avrebbe spinto un’ex ragazza, «credo fosse Kate Moss, l’avrebbe spinta giù per le scale».
Un’affermazione che potrebbe diventare un autogol per la Heard. Infatti, gioiscono gli avvocati di Depp che vorrebbero chiamare la top model sul banco dei testimoni, sapendo che i due hanno sono rimasti in buoni rapporti.
La sorella
Ha testimoniato anche la sorella di Amber Heard, Whitney Henriquez. Ha detto diverse cose, tutte molto pesanti. Racconta di aver fatto uso svariate volte di cocaina con Depp. Poi, prosegue affermando che per difenderla dal marito che era andato verso di lei con fare minaccio, Heard l’avrebbe preso a schiaffi e lui l’avrebbe afferrata per i capelli.
Quel fazzoletto in aula
In ultimo, molti spettatori del processo hanno notato una cosa bizzarra durante la deposizione di Amber Heard. Si vede l’attrice portare al naso un fazzoletto, aprirlo e con un dito chiudersi una narice. Poi, sembrerebbe aspirare con l’altra qualcosa dentro il fazzoletto.
Che cosa stesse facendo non lo può sapere nessuno, ma in molti hanno pensato si trattasse di droga. Anche se il buon senso fa pensare che sarebbe molto strano sniffare in un’aula di tribunale.
Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2022.
«Johnny Depp contro Amber Heard» non verrà ricordato soltanto come un processo per diffamazione ma come un grande film, uno dei più grandi della carriera di Depp, un successo globale gigantesco: la diretta in streaming su YouTube, gli «highlights» come per le partite di calcio che in un quarto d'ora sintetizzano la giornata, una quantità di interazioni sui social media che ha cancellato la guerra in Ucraina, l'inflazione-record, il Covid, l'aborto che presto tornerà illegale negli Usa, la difficoltosa scalata a Twitter di Elon Musk, i guai di Joe Biden.
Toccherà a politologi, massmediologi e sociologi decifrare la differenza enorme tra l'engagement del processo Depp-Heard e le altre drammatiche vicende dell'attualità: resta un fatto, è difficile non restare ipnotizzati dal dibattimento che per una volta mostra la realtà dietro la spessa cortina di ottime e abbondanti agenzie di pubbliche relazioni che gestiscono l'immagine dei divi di Hollywood: «Depp contro Heard» conferma tutto quello (di male) che milioni di persone hanno sospettato sullo star system (c'è anche la docuserie: «Johnny Depp contro Amber Heard - Il processo», adesso su Discovery+ solo per gli abbonati, da mercoledì 25 maggio in prima serata sul canale Nove).
Nel 2018 Heard aveva pubblicato un editoriale sul Washington Post definendosi vittima di «abusi sessuali».
Lui ha fatto causa, chiede 50 milioni di dollari come risarcimento danni, l'ex moglie ha risposto con un'altra causa nella quale ne pretende 100.
È lo show degli avvocati: la star è la 36enne avvocata di Depp, Camille Vasquez dell'ottimo (e costosissimo, sui mille dollari l'ora) studio Brown Rudnick di Los Angeles, che ha più volte messo nell'angolo Heard, facendola cadere in contraddizione e minando la pietra angolare del processo, cioè la fiducia della giuria nelle sue accuse.
Vasquez con tono freddamente clinico ha passato giorni di contro-interrogatorio seminando dubbi sulla credibilità dell'attrice, e accusandola di essersi inventata non soltanto i racconti delle percosse ma anche di aver falsificato le fotografie usate come prova.
Qualche esempio di Vasquez (i social le attribuiscono una relazione con Depp in base alla foto del loro abbraccio in aula, lei interrogata fuori dall'aula non ha risposto) in azione: Heard dice che una volta lui le ruppe il naso, le spaccò il labbro e le fece gli occhi neri. Vasquez le mostra fotografie e immagini della sua ospitata a un popolare talk show, 24 ore dopo. «Non vedo ferite, può indicarle alla giuria?», sibila. Heard arranca, e spiega che ha ottimi truccatori. C'è una foto di un tavolo dove Depp avrebbe sniffato cocaina. «Non vedo la cocaina».
Heard cade nella trappola: «Con tutto il rispetto, non so se sa come funziona. Quando sniffi cocaina ti entra nel naso». «Vedo anche un applicatore di assorbenti interni. Appartiene al signor Depp?», ribatte Vasquez senza pietà. Heard peggiora la situazione: «Serve per sniffare, credo che mia sorella gli abbia insegnato a usarlo».
Vasquez: «Il portacenere è pulito. Mr Depp è un forte fumatore». E ancora: «Perché ha scattato le foto e le ha subito mandate a un suo amico?... Nel 2018 ha promesso i 7 milioni di dollari ricevuti per il divorzio a due associazioni benefiche. Li ha versati?». «Non ancora». E così via, creando un film parallelo a quello di Depp aggressore, quello di Heard «Gone Girl» che fabbrica prove a carico del marito, con il sangue dal naso delle fotografie che in realtà è smalto per unghie rosso sangue.
Non c'è partita con gli avvocati di Heard - Benjamin Rottenborn, Adam Nadelhaft e Elaine Bredehoft - che hanno fatto una serie impressionante di gaffes, la più famosa quella di Nadelhaft che si rende conto che una sua domanda gli si ritorcerà contro e fa un'obiezione a se stesso, lasciando allibita la povera giudice Penney Azcarate seppellita di solito dalle obiezioni a raffica del team di Depp, bravissimo a spezzare il ritmo del dibattimento quando le cose buttano male (Bredehoft almeno sa fare una buona imitazione del tono di voce baritonale di Depp, che ha fatto sorridere perfino l'attore).
Da rivistastudio.com il 23 maggio 2022.
Anche se non è ancora finito, è già entrato nella storia della cultura pop. Iniziato il 12 aprile a Fairfax, in Virginia, il processo Depp vs Heard scaturito dalla denuncia di diffamazione fatta da Johnny Depp contro l’ex moglie Amber Heard sta quasi per finire. L’attore e l’attrice si accusano a vicenda di essere stati fisicamente violentati durante il loro matrimonio, durato dal 2015 al 2017.
Anche se sembra che l’intero popolo di TikTok si sia schierato dalla parte dell’attore, generando una miriade di trend ispirati alle dichiarazioni di Heard (tanto che in molti stanno iniziando a contestare questo atteggiamento, facendo coincidere l’evento con la fine dell’era #metoo o sottolineando come il processo abbia aperto “le porte dell’inferno“), siamo ancora lontani dal sapere la verità. Forse.
L’ultima notizia su uno dei processi più mediatici della storia riguarda la presenza di Kate Moss: l’attrice parlerà mercoledì 25 maggio. Secondo quanto riportato dal New York Post, Moss potrà testimoniare grazie a un passo falso di Heard, che ha parlato dopo Depp. In una sua testimonianza ha affermato: «Ricordavo informazioni che avevo sentito, ricordavo che aveva spinto una sua ex ragazza, credo fosse Kate Moss, giù per le scale».
Quanto l’attrice ha citato la modella, Benjamin Chew, l’avvocato di Depp, ha fatto un gesto come per dire «evvai!». Visto che l’ha citata, ora Kate Moss (48 anni) può essere chiamata a testimoniare, e Depp è certo che starà dalla sua parte, come ha sempre affermato pubblicamente.
Johnny Depp, la difesa di Courtney Love: «Nel 1995 mi ha salvato la vita dopo un’overdose». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2022.
Il processo per diffamazione dell’attore contro l’ex moglie Amber Heard è entrato nell’ultima settimana di dibattimento e la vedova di Kurt Cobain ha voluto prendere posizione. Anche Eva Green si è schierata su Instagram con la star de «I Pirati dei Caraibi».
Non si è presentata sul banco dei testimoni, ma Courtney Love ha voluto comunque dire la sua sul processo Depp-Heard, che è entrato nell’ultima settimana di dibattimento (le argomentazioni conclusive sono attese per il 27 maggio). Attraverso una serie di video pubblicati su YouTube, la cantante ha infatti raccontato di quella volta in cui la star de «I Pirati dei Caraibi» le salvò la vita quand’era andata in overdose all’esterno del Viper Room, l’iconico locale sul Sunset Strip di Hollywood di cui Depp era co-proprietario e che negli anni ’90 era un punto di riferimento per le celebrità. «Non voglio davvero esprimere giudizi pubblicamente - ha esordito la 57enne Love nel primo filmato - . Voglio solo dirvi che Johnny mi ha fatto la rianimazione cardio polmonare nel 1995, quando sono andata in overdose fuori dal Viper Room».
Già nel 2006, in un’intervista al «Guardian», la cantante aveva parlato di quest’episodio, accaduto un anno dopo il suicidio del marito Kurt Cobain, che aveva sposato nel 1992 e da cui aveva avuto una figlia - Frances Bean - che all’epoca aveva appena 3 anni. E proprio la bambina è stata oggetto delle premurose attenzioni di Depp che nel corso degli anni ha cercato di aiutarla a trovare un equilibrio fra la prematura scomparsa del leggendario frontman dei Nirvana e la dura battaglia della madre contro la dipendenza. «Quando ero strafatta e Frances era alle prese con tutti quegli assistenti sociali, Johnny le ha mandato una lettera di quattro pagine, che lei non mi ha mai fatto vedere», ha continuato la Love nella sua confessione social. Non bastasse, l’attore ha anche invitato spesso Frances alle prime dei suoi film.
«Mandava la sua limousine a prendere mia figlia a scuola, per portare lei e le sue amiche a vedere “I Pirati dei Caraibi” - ha raccontato sempre la cantante -. Lo ha fatto un sacco di volte e alle prime dei film le faceva riservare una poltrona con il suo nome sopra. Io non ho mai visto quei film, ma Frances li adorava. Quando aveva 13 anni, mi ha detto “Mamma, lui mi ha salvato la vita. E lo ha poi detto di nuovo». Pur schierandosi dalla parte di Depp nel processo di diffamazione contro l’ex moglie, la Love ha però ammesso di provare empatia per Amber Heard, pur auspicando che alla fine la giustizia faccia il suo corso. «Sono stata la donna più odiata d’America. Sono stata la donna più odiata del mondo prima di Tik Tok…Ho molta empatia per come deve sentirsi Amber. F*** amico, puoi immaginarti (come sia) essere lei?».
Quella della vedova di Cobain non è però la sola voce che in queste ore si è levata a favore di Depp. Anche l’attrice Eva Green - che ha lavorato con l’attore in «Dark Shadows» - ha voluto dire la sua e lo ha fatto con un post pubblico su Instagram. «Non ho dubbi sul fatto che Johnny riuscirà ad emergere con il suo buon nome e che il suo cuore meraviglioso sarà rivelato al mondo - ha scritto la Green a corredo di una foto insieme l’attore - e la vita sarà migliore di quanto non sia mai stata per lui e la sua famiglia».
Dagospia il 24 maggio 2022. Il post è apparso per la prima volta sul New York Times.
………..
In un altro spettacolo vergognoso, la verità non ha importanza per i fan rabbiosi di Johnny Depp. I fan di Depp assomigliano ai fan di Trump nella loro cieca lealtà e volontà di mettere da parte fatti brutti sul loro eroe. Depp è rinchiuso in una tremenda resa dei conti con l'ex moglie Amber Heard in un'aula di tribunale in un sobborgo di Washington, un processo che un insider mi ha descritto come "processo di O. J. sotto cocaina".
Come i fan di Trump, i fan di Depp si comportano come se fossero in una setta. Liquidano le affermazioni di Heard sulla violenza domestica una bufala e fanno il tifo per l'avvocato di Depp Camille Vasquez, in una sorta di Colosseo online, ogni volta che fa una domanda difficile su Heard.
Heard si è aggiunta all'atmosfera del circo quando ha licenziato il suo rispettato studio di pubbliche relazioni e ha assunto un guru delle pierre che è stato lui stesso accusato di comportamenti sessuali inappropriati.
Heard e Depp hanno condiviso le storie più umilianti e disgustose di una relazione in cui hanno chiaramente tirato fuori il peggio l'uno dall'altro. Qualunque cosa decida la giuria, un uomo che una volta era il Re del Cool ora sembra un guscio abrasivo e lavato di se stesso.
Ha incolpato l'editoriale di Heard sul Washington Post, in cui ha affermato di essere stata vittima di abusi domestici senza nominare Depp, per aver danneggiato la sua carriera di pirata. Ma la Disney aveva già spento i riflettori dopo un incidente del 2015 quando Heard ha falsificato i documenti per contrabbandare i loro Yorkshire terrier in Australia, dove era stato girato il quinto capitolo del franchise "Pirati dei Caraibi", e poi, quando è stato catturato, ha rimandato i cuccioli in California su un aereo privato. La Disney era anche arrabbiata per l'incidente in cui una parte del dito di Depp è stata tagliata durante una lite coniugale e le riprese hanno ritardato.
Circondato da adulatori, Depp si è illuso che il suo uso di alcol e droghe non stessero sconvolgendo la sua carriera, le sue relazioni e la sua vita. Contrariamente alla sua immagine disinvolta, era arrabbiato e geloso, hanno testimoniato coloro che lo conoscevano. Il suo ex business manager ha testimoniato che la star stava buttando via soldi, spendendo $ 300.000 al mese per il personale e migliaia al mese per farmaci da prescrizione.
Bruce Witkin, un ex amico di Depp, ha descritto il velo di finzione che lo circonda. "Le persone sul libro paga non diranno molto", ha detto. "Ci proveranno, ma non vogliono perdere il lavoro".
In tutto il mondo, i fatti privati sono di gran moda. La verità non ha importanza.
Dagotraduzione dal “Daily Mail” il 24 maggio 2022.
Prosegue il processo tra Johnny Depp e Amber Heard in Virginia. Ieri sul banco dei testimoni è salito il dottor Roger Moore, esperto del team legale di Heard. Il dottore è stato chiamato a relazionare sull'incidente in cui Johnny Depp ha perso un pezzo di dito. L'attore sostiene di essersi tagliato perché l'ex moglie gli ha tirato una bottiglia di vodka, lei al contrario dice che si è ferito da solo con un telefono.
Secondo il dottor Moore l'idea che il dito di Depp sia stato tagliato via con una bottiglia «non è compatibile» con le prove per il tipo di lesione descritto. Il dottor Moore ha spiegato che non c'erano ferite sul dorso del dito, né sul dorso della mano.
Il dottor Moore ha poi riferito che non sembrava che l'infortunio fosse accaduto mentre Depp aveva la mano distesa: «In quella posizione, se la bottiglia avesse colpito il dito, avrebbe colpito l'unghia e l'unghia non si sarebbe ferita. Questo non è coerente con quel tipo di infortunio».
Alla giuria sono state mostrate foto grafiche del dito ferito di Depp e raggi X che, secondo il dottor Moore, mostravano molteplici minuscoli frammenti di osso nella punta e una "frattura comminuta" (con molti frammenti) associata a una lesione da schiacciamento. Tali lesioni da schiacciamento potrebbero essere causate da un dito intrappolato in una porta scorrevole o nella portiera di un'auto.
Alla domanda se la descrizione di Depp dell'incidente fosse compatibile con le prove fotografiche, il dottor Moore ha spiegato di no.
Depp ha affermato che la bottiglia «è esplosa» dopo aver colpito la sua mano, ma l'assenza di ferite da vetro sulla sua mano suggerisce che non sia andata così. Il dottor Moore ha aggiunto: «Questa ferita non sembra essere una lacerazione da vetro».
L'avvocato di Depp, Camille Vasquez, ha quindi controinterrogato il dottor Moore; Vasquez ha chiesto al dottor Moore: «Non puoi determinare quale oggetto ha causato la ferita al suo dito?». Il dottor Moore ha detto: «Non riesco a determinare quale oggetto sia stato. Posso dire con sicurezza che il meccanismo descritto della bottiglia non era compatibile...».
Vasquez ha mostrato le foto della giuria dell'area del bar della proprietà che Depp e Heard hanno affittato in Australia, dove è avvenuta la rissa. Hanno mostrato una bottiglia di vodka rotta e un fazzoletto insanguinato con gocce di sangue intorno. Il dottor Moore ha convenuto di non aver considerato le foto come parte della sua analisi.
È stato poi il turno del Dr. David Spiegel, un esperto di scienze comportamentali, che ha testimoniato sull'uso di droghe e alcol e sulla violenza di un partner intimo. Ha detto che Depp ha mostrato un «disturbo da uso di sostanze».
Secondo Spiegel, l'abuso di alcol e cocaina di Johnny Depp ha influenzato la sua capacità di attenzione e memoria al punto che l'attore ha bisogno che le sue battute gli vengano suggerite con l’auricolare. Il dottor Spiegel ha dichiarato di aver richiesto un colloquio con Depp due volte, ma entrambe le volte gli è stato negato.
Intanto, la modella Kate Moss testimonierà mercoledì prossimo, in collegamento video. Moss è stata chiamata in causa dalla stessa Heard e quindi la sua deposizione è stata giudicata ammissibile. L’attrice ha avuto una relazione con Depp tra il 1994 e il 1997.
Processo Depp contro Heard, attesa la testimonianza di Kate Moss. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2022.
L’ex top model si collegherà in videoconferenza mercoledì 25 maggio. Heard l’ha menzionata due volte nel corso delle sue deposizioni: «L’ha spinta giù dalle scale».
Il processo per diffamazione intentato da Depp contro Heard è giunto alle battute finali. E’ iniziata l’ultima settimana di dibattimento: ora è il momento delle testimonianze. Le premesse non escludono ulteriori colpi di scena. Infatti domani, 25 maggio, è attesa la deposizione di Kate Moss.
L’ex modella britannica si collegherà in videoconferenza all’aula del tribunale di Fairfax, in Virginia, per chiarire la sua versione dei fatti. La sua chiamata in causa è giustificata dalla relazione che Moss ha avuto con Johnny Deep tra il 1994 e il 1997, tanto che Heard l’ha menzionata due volte nel corso delle sue deposizioni. Alcune fonti hanno rivelato a People che Kate Moss testimonierà a favore dell’attore. L’averla tirata in ballo, quindi, potrebbe essere controproducente per l’ex moglie.
La prima volta che Kate Moss è comparsa nei verbali del processo è stato nel 2020. Heard sosteneva di aver sentito delle voci secondo cui Depp avrebbe spinto giù dalle scale la donna nel periodo in cui stavano insieme. Il suo nome è stato fatto di nuovo dall’attrice statunitense all’inizio di maggio a proposito di una lite avvenuta con il marito in presenza della sorella di lei, Whitney Henriquez. L’attrice ha raccontato che Henriquez «si è messa in mezzo per cercare di fermare» la furia di Johnny. La donna si trovava «in cima alle scale e dava le spalle alla rampa - ha continuato Heard - questo mi ha fatto pensare all’incidente di Kate Moss, ancora fresco nella mia mente».
Con questo racconto Heard ha tentato di spiegare il motivo di un’ aggressione risalente al 2015 ai danni dell’ex marito. Per evitare la temuta caduta dalle scale della sorella, l’attrice ha colpito in faccia Depp «per la prima volta». «Dall’inizio della nostra relazione non avevo mai sferrato un colpo», aveva aggiunto. La sorella di Heard ha confermato l’alterco sul banco dei testimoni, dichiarando che Depp l’avrebbe colpita per poi continuare a sfogarsi sulla moglie «colpendola ripetutamente».
Se è vero che sulla caduta dalle scale di Kate Moss non ci sono certezze, è noto invece che il 13 settembre 1994 Depp venne arrestato con l’accusa di aver devastato l’hotel di New York in cui alloggiava proprio con la modella. La polizia aveva dichiarato di essersi trovata di fronte un Johnny Depp in «stato di alterazione», forse da droga o alcol, e Moss illesa. All’epoca, il giudice aveva fatto cadere le imputazioni e l’attore aveva risarcito l’hotel per i danni causati.
Non ha deposto in udienza ma ha deciso di esprimersi a favore di Johnny Depp la cantautrice americana Courtney Love. «Johnny mi ha fatto la rianimazione cardio polmonare nel 1995, quando sono andata in overdose fuori dal Viper Room», ha detto in un video pubblicato su YouTube. Love ha però dimostrato di comprendere lo stato d’animo di Amber Heard in questo momento: «Sono stata la donna più odiata del mondo prima di Tik Tok…Ho molta empatia per come deve sentirsi Amber. Puoi immaginarti (come sia) essere lei?».
Chiara Barison per il corriere.it il 25 maggio 2022.
«Non mi ha mai spinto giù dalle scale». La testimonianza che tutti stavano aspettando è arrivata: Kate Moss oggi ha difeso Johnny Depp. È apparsa nel tribunale di Fairfax, Virginia, in videocollegamento dalla contea di Gloucestershire con una camicia accollata e una giacca nera. In poche parole ha definitivamente smentito l'accusa di Amber Heard.
Dopo il giuramento, Moss sembra reagire tranquilla di fronte alle domande preliminari sulla sua relazione con l'attore americano poste da Ben Chow, uno degli avvocati di Depp. L'errore sull'anno in cui è iniziato il loro fidanzamento tradisce forse un po' di emozione. «Siamo stati insieme dal 1993», esordisce, ma si corregge subito «dal 1994 al 1998».
Ricorda poi la caduta che ha dato adito ai pettegolezzi sulla presunta violenza di Depp nei suoi confronti. All'epoca della loro relazione, Moss e Depp si trovavano in vacanza in Jamaica quando «durante un temporale sono scivolata dalle scale e ho battuto la schiena», ha ricordato la modella. Depp, che era già uscito, è tornato indietro sentendo le grida di dolore. «Johnny è corso ad aiutarmi, mi ha portato in camera e fatto vedere da un medico», ha concluso.
Giampiero De Chiara per “Libero quotidiano” il 25 maggio 2022.
In un bel film, ormai di trenta anni fa, "I Protagonisti" di Robert Altman, il protagonista, (un capo sceneggiatore e produttore di una grande compagnia hollywoodiana), spiega ad uno dei suoi collaboratori che gli bastano soltanto 25 parole per capire se un soggetto propostogli può diventare un film.
Alla luce di quello che sta emergendo nel processo che vede Johnny Depp accusare l'ex moglie, l'attrice Amber Heard, di diffamazione per un articolo pubblicato nel 2018 sul Washington Post, sembra che ne bastino anche meno di 25 per creare, da questa surreale storia giudiziaria, un film di successo. Lei lo accusa di violenze domestiche e lui per questo le ha chiesto 50 milioni di dollari in cambio.
Su questa disfida giudiziaria, sentimentale (lei sui social ha dichiarato alla vigilia del dibattimento di «aver provato sempre amore per lui...») e umana, è facile ricordare commedie grottesche come La guerra dei Roses di Danny De Vito, con Michael Douglas e Kathleen Turner, e quel piccolo gioiello dei fratelli Coen Primati sposo poi ti rovino (terribile traduzione italiana del più adatto Intolerable Cruelty) con un fascinoso George Clooney e la bellissima Catherine Zeta Jones.
Qualche produttore hollywoodiano starà già prendendo appunti e avrà mandato qualcuno a seguire il processo. Il film, infatti, sembra già bello e pronto: basta leggere le cronache giudiziarie per scoprire le più tragiche miserie umane che si creano quando una coppia si lascia in malo modo, per di più quando si tratta di due dividi Hollywood.
Storie che è vero sfiorano il ridicolo, ma anche la disperazione umana, l'abbandono, il male di vivere e la depressione di chi è arrivato in cima al mondo e non sa più cosa fare, se non scendere desolatamente sempre più giù.
La figura chiave, chi la fa da padrone, è proprio Johnny Depp che, secondo molti addetti ai lavori, sta interpretando il ruolo migliore della sua lunga e proficua carriera cinematografica o perlomeno degli ultimi suoi traballanti anni lavorativi. Nelle pieghe di questo resoconto a metà tra il ridicolo e l'osceno (dita nella vagina per cercare coicaina, penetrazioni tramite bottiglie di liquore), ecco spuntare anche una sorta di lieto fine, posticcio.
Già perché l'ultimo dei tanti colpi di scena è la presunta love story tra il protagonista di Edward mani di forbice e il suo avvocato Camille Vasquez. Figlia di due emigrati colombiani, 37 anni, la donna è associata nello studio legale che si occupa di Depp ed è stata lei che ha contro-interrogato Amber Heard. Le sue domande, il suo eloquio, la sua fermezza sono piaciute molto.
I fan dell'attore hanno iniziato a credere e a far girare le voci che tra i due sia in corso una storia d'amore. Soltanto pettegolezzi da tabloid. Ma quando, mercoledì scorso 18 maggio, il legale è uscita dal tribunale, una giornalista di TMZ (il sito Usa specializzato in gossip) le ha chiesto: «Stai uscendo con Johnny Depp? Se ne parla online. Puoi mettere le cose in chiaro, sì o no?».
La Vasquez, già da consumata attrice come lo sono tutti gli avvocati di questi mega-processi mediatici, non ha proferito parola. Ha soltanto ridacchiato. Lasciando così la possibilità di poter immaginare e interpretare a chiunque abbia voglia di appassionarsi a questo racconto.
Una storia che è una vera e propria telenovela. Tutto parte da quella lettera pubblicata dal Washington Post nel 2018. Una lettera che ha causato all'attore gravi ripercussioni alla sua carriera. Di contro poi Amber Heard ha chiesto 100 milioni di dollari all'ex consorte.
Ma nonostante ci siano in ballo così tanti soldi la donna ha continuato a mandare messaggi di pacificazione, se non di amore: «Speriamo che quando questo caso si concluda, io possa voltare pagina e anche Johnny. Ho sempre conservato amore per Johnny e mi provoca grande dolore dover vivere i dettagli della nostra vita comune di fronte al mondo». È chiaro che sia tutta una strategia concordata con i suoi avvocati, ma tutto fa brodo per appassionati e mass media.
Rolling Stone, il celebre magazine Usa, ha evidenziato come il processo, «si è trasformato in una serie a puntate che, finora, è di gran lunga più coinvolgente di tante altre che possiamo trovare sulle piattaforme streaming». E questo nuovo legal drama è così appassionante, «perché in nessun altro modo si sarebbe riusciti a scavare così a fondo nella vita di Johnny Depp», scrive sempre Rolling Stone.
Il giornale mette in risalto anche il momento chiave, quello in cui il racconto dell'attore sfiora vette introspettive, mai immaginate. È quando l'interprete di Jack Sparrow (il capitano della saga cinematografica dei Pirati dei Caraibi), viene chiamato «sul banco dei testimoni a ripercorrere il suo rapporto di coppia, ma anche la sua intera esistenza dall'infanzia agli esordi al cinema, fino al successo planetario».
Ne esce così un ritratto cupo, triste, di loser che però trova il riscatto diventando un divo, per poi tornare triste e depresso a combattere col suo "buio nell'anima". Picchiato dalla madre, abbandonato dal padre, appare sul banco dei testimoni un Depp imbolsito (ma chiunque vorrebbe arrivare a 58 anni nelle sue condizioni fisiche) con la mano che, nei momenti più intimi, passa tra i capelli ancora fluenti, con la voce che cambia intonazione, a seconda degli episodi ricordati e con gli occhiali da sole che a volte indossa per mascherare la sua evidente commozione. Una prova sicuramente da grande attore. Una "interpretazione" che ha ricordato quella di un altro grande attore.
Un amico di Depp, ma anche il suo mentore e un artista che è fonte di ispirazione ancora per tutti quelli che decidono di fare questo mestiere: Marlon Brando. Viene così alla mente quando la star di Ultimo tango a Parigi fu testimone nel processo (primi anni 90) che vedeva suo figlio Christian accusato, e poi condannato per omicidio, di aver ucciso il fidanzato della sorella. Marlon Brando ne uscì come un padre assente, terribile e pieno di dolore. Brando non si riprese più da quell'episodio. E Depp rischia più o meno la stessa cosa: che questo processo sia la sua ultima grande interpretazione.
Dagotraduzione dal Dailymail il 25 maggio 2022.
La più iconica storia d'amore degli anni Novanta, quella tra la top model Kate Moss e la star di Hollywood Johnny Depp, tornerà sotto i riflettori oggi, quando lei testimonierà per lui in collegamento video con il tribunale di Fairfax, in Virginia, nella causa di diffamazione intentata dall’attore nei confronti dell’ex moglie Amber Heard.
Un tentativo disperato dell’ex “Pirata dei Caraibi” per cercare di ripulire la propria reputazione infangata dalle accuse di essere stato un partner violento e un picchiatore di donne, così come emerso dal precedente processo celebrato a Londra. Questo è un processo mediatico, una guerra a colpi di rivelazioni e gossip sulla vita della star di Hollywood che sta avvincendo il mondo.
Kate Moss al contrario delle attrici Vanessa Paradis e Winona Ryder non era tra le ex di Depp che avevano rilasciato dichiarazioni contro di lui nel caso di Londra. Ma visto che la Heard la scorsa settimana ha riferito che Depp una volta avrebbe spinto giù dalle scale Kate Moss quando erano insieme, il team legale di Depp ha colto al balzo l'opportunità di chiamarla per fare una confutazione.
C’è grande attesa per la testimonianza di Kate Moss. Lei e Depp sono stati una coppia leggendaria: una potente combinazione di bellezza e freddezza. A unirli, oltre all’attrazione irresistibile, la poesia, i narcotici e l'alcol.
Quando si sono incontrati, lui aveva 31 anni, lei 20. La loro storia iniziò al Cafe Tabac nell'East Village di New York nel febbraio 1994, quando Depp e Moss furono presentati da un giornalista amico comune.
La modella ha raccontato in seguito di quell’incontro: «Ho saputo da quel momento che saremmo stati insieme. . . Ci siamo semplicemente seduti e abbiamo detto sciocchezze, e da quel momento non volevamo separarci più».
Maureen Callahan, autrice del libro “Champagne Supernovas”, ha scritto dell'incontro: «Hanno bevuto qualcosa, della coca cola e poi sono andati in una stanza d'albergo, dove si sono rintanati fino al giorno successivo a causa di una tempesta di neve».
Nel corso della loro storia d'amore durata quattro anni, restano celebri le pazzie delle due star: lui che regala a lei una collana di diamanti che però aveva nascosto tra le natiche, le stanze d’albergo distrutte durante le loro notti di eccessi, quella volta che fecero il bagno riempiendo la vasca con 36 bottiglie di champagne. I voli a bordo di un jet privato, dall'hotel Ritz a Parigi allo Chateau Marmont e al Viper Room, il night club che lui possedeva a Los Angeles.
Ispirata da Depp, Kate iniziò ad amare il look vintage che contribuì a renderla un’icona. Racconta Maureen Callahan: «Kate e Johnny erano la coppia più chic e drogata dai tempi di Keith Richards e Anita Pallenberg — l'epitome del cool nella cultura Trainspotting; ma Kate era spesso nervosa con Johnny, temeva i suoi umori».
Una fonte, che era con Kate il giorno del suo 21esimo compleanno, ricorda la storia d'amore in modo diverso. «Lei era semplicemente molto dolcemente e completamente innamorata di lui. Non riusciva a smettere di parlare di Johnny e di quanto fosse meraviglioso per lei, di come si prendeva cura di lei, la proteggeva e la istruiva».
La leggenda narra che Depp l'avrebbe incontrata a Parigi, portandola in una suite da 18.000 sterline a notte al Ritz, anche se aveva il suo appartamento in città. Faceva tutto parte della sua cultura di "gentiluomo del sud" che sapeva come trattare una signora. Fecero l'amore in ognuna delle 63 camere da letto dello Chateau Marmont.
Moss in seguito ha raccontato: «Non c'è nessuno che sia mai stato davvero in grado di prendersi cura di me. Johnny l'ha fatto per un po'. Ho creduto a quello che ha detto».
Moss sperava che si sarebbero sposati. . . ma proprio a quel punto, era il 1998, lui la scaricò. L’attore fa poi l’incontro della sua vita, con l’attrice francese Vanessa Paradis. E nel giro di tre mesi la coppia aspetta un figlio. Kate per sua stessa ammissione, pianse «per anni». E c’è chi pensa che si amino ancora.
Dagonews da dailymail.co.uk il 26 maggio 2022.
Al processo per diffamazione di Johnny Depp è stata mostrata una foto dell'attore con un segno sotto l'occhio il giorno prima che Amber Heard lo avrebbe preso a pugni durante la loro luna di miele del 2015.
Depp ha protestato dicendo che sarebbe stata una "luce laterale" a creare un effetto visivo, ma l'avvocato di amber heard ha puntualizzato che le foto - che mostrano Depp con in braccio un bambino - non sono state scattate di lato: "Qualunque segno sia, scottatura solare, ombra, avevi lo stesso segno prima di salire sul treno". Depp ha risposto: "È piuttosto difficile scottarsi sul treno".
Alla corte è stata mostrata un'altra copia della foto di Depp a bordo dell'Orient Express pubblicata su Facebook. Depp afferma: "Sembra che gli occhi siano stati photoshoppati". Alla giuria è stata mostrata una foto di Depp e Heard in posa con lo staff dell'Orient Express. Depp ha detto che ha mostrato il suo occhio "un po' sporgente". All'attore è stato chiesto se l'immagine fosse stata Photoshoppata come affermato da Heard. Lui ha risposto: "Ci sono troppe persone coinvolte nello scatto".
Dagotraduzione dal Daily mail il 26 maggio 2022.
Johnny Depp ha aperto il suo cuore sul banco dei testimoni descrivendo che cosa ha significato per lui ascoltare la testimonianza della sua ex Amber Heard, che punta il dito su di lui accusandolo di essere un uomo violento che l’ha abusata.
"È stato insano, pazzesco ascoltare queste accuse atroci di violenza, violenza sessuale di cui lei mi ha accusato".
"Non credo che a nessuno piaccia doversi aprire e dire la verità, ma ci sono momenti in cui farlo è semplicemente necessario perché la situazione è sfuggita al controllo.
'È stato orribile. Ridicolo, umiliante, brutale oltre ogni immaginazione, crudele e tutto falso.'
Depp ha continuato dicendo che nessun essere umano è perfetto, ma ha insistito: "Non ho mai commesso abusi sessuali, fisici, tutte queste storie assurde e oltraggiose su di me, con cui convivo da sei anni, aspettando di far emergere la verità.
"Quindi non è facile per nessuno di noi, lo so, ma qualunque cosa accada ho detto la verità e ho parlato di quello che ho dovuto sopportare per sei anni".
Quando la corte ha interrotto l’udienza per il pranzo, il giudice Penney Azcarate ha scherzato con Depp: "Non rompere nulla mentre esci", buttandola sul ridere.
Nella sua testimonianza precedente, Depp ha ricordato l'incidente con Kate Moss in cui è scivolata giù per le scale durante una vacanza in Giamaica. Kate Moss che ha testimoniato questa mattina collegandosi da remoto con l’aula, ha affermato che Depp non l'ha mai spinta giù per le scale, come aveva affermato Heard sul banco dei testimoni.
'Come ha testimoniato Kate Moss, molti molti anni fa, quello che è accaduto è esattamente quello che ha detto. Ricordo di aver parlato con Miss Heard proprio di quell'incidente a causa della pioggia battente perché pioveva molto forte il giorno in cui Kate è scivolata", ha detto Depp. "Le ho ricordato la storia."
'La signorina Heard ha preso la storia e l'ha trasformata in un brutto incidente tutto nella sua mente. Non c'è mai stato un momento in cui ho spinto Kate giù da una rampa di scale, eppure lei l’ha detto per tre volte.'
L'avvocato di Heard Benjamin Rottenborn ha sottolineato che Heard ha semplicemente detto di aver sentito questa "voce".
"Cos'è una voce?" ha replicato Depp: "Semplicemente eravamo in Giamaica, avevo lasciato il nostro bungalow circa tre minuti prima di lei, ero fuori e la pioggia inizia a scendere come se fosse un monsone.
Ricordo di aver visto Kate uscire dalla porta e c'erano tre scalette di legno, è caduta battendo la schiena. Era ferita, piangeva. Sono corso verso di lei e l'ho afferrata per assicurarmi che stesse bene.
«Ecco fatto, questa è tutta la storia ", ha detto Depp.
Anche questa volta è stato fatto riferimento al film Aquaman, in cui ha recitato Amber Heard. Lei nelle scorse settimane si era lamentata perché il suo ruolo era stato ridimensionato a causa delle accuse da parte di Depp. Walter Hamada, il presidente della DC Films per la Warner Bros., ha al contrario testimoniato che, ciò era avvenuto non a causa della cattiva pubblicità provocata dai problemi con l’ex marito, ma per la poca chimica che aveva con il suo collega Jason Momoa.
In aula Johnny Depp ha spiegato di aver aiutato Amber ad ottenere il ruolo: “Mi ha chiesto se potevo parlare con loro [i produttori]. Avevo un contratto per più film con la Warner Bros., quindi eravamo in affari insieme, quindi conoscevo queste persone. Ho fatto una telefonata e ho parlato con tre dirigenti Warner di alto livello: Kevin Tsujihara, Sue Kroll, Greg Silverman. Posso solo dire che alla fine ha ottenuto la parte nel film. Ho frenato le loro preoccupazioni in una certo senso”.
Gli avvocati dell’attrice hanno chiesto al divo se avesse provato a far licenziare la sua ex, dopo la loro separazione, mostrando un messaggio che lui aveva inviato alla sorella e nel quale diceva: “Voglio che venga rimpiazzata nel film di WB”.
Lui ha detto:
“Onestamente, mi sono sentito responsabile di essere andato da quelle persone e di aver dipinto un quadro così bello. Ho sentito che era mia responsabilità spiegare la verità alla Warner Bros. su ciò che avrebbero dovuto affrontare in futuro, ovvero due franchise che avrebbero causato problemi l’uno all’altro, soprattutto perché … qualsiasi notizia, qualsiasi organo di stampa, tutte le notizie che sono uscite su di me in quel momento mi hanno trasformato in, sai, io ero Charles Manson; ero la cosa peggiore al mondo e loro continuavano ad arrivare, era come un fuoco continuo”.
Assia Neumann Dayan per “la Stampa” il 26 maggio 2022.
«Garbo talks» è stata la frase scelta per pubblicizzare il primo film sonoro di Greta Garbo: sebbene fosse l'attrice più famosa al mondo, nessuno l'aveva mai sentita parlare. La sua prima battuta fu: «Dammi un whisky, ginger ale a parte, e non essere tirchio amico». Ieri è arrivato il momento di uno strillo aggiornato, per quello che si profila essere un caso Bebawi senza il morto, «Moss talks»: Kate Moss parla, nessuno si era mai accorto avesse una voce.
Moss è stata chiamata a testimoniare nel processo Depp vs Heard, che riassumo brevemente per chi fosse stato in vacanza su Marte: Johnny Depp fa causa all'ex moglie Amber Heard per diffamazione, avendo lei pubblicato un editoriale sul Washington Post nel 2018 in cui si definiva vittima di abusi domestici. Lui quantifica il danno in 50 milioni di dollari, lei controdenuncia chiedendo il doppio della cifra, sostenendo che la sua luminosa carriera è stata distrutta, carriera la cui miglior prova attoriale è stata affidata alle testimonianze in tribunale, dicono i maligni.
Le udienze tenute fino ad oggi fanno sembrare «La guerra dei Roses» un film per bambini: viene fuori che gli assegni milionari che Heard diceva di aver donato in beneficenza non siano mai stati dati né al Children's Hospital Los Angeles né all'American Civil Liberties Union, che lui era spesso strafatto e che avrebbe abusato di lei in modi orrendi, si sono avvicendate perizie psichiatriche ed è stato detto di tutto, fino a che Heard fa un passo falso: cita Kate Moss.
Ci si aspettava quasi che da un momento all'altro si mettesse a urlare: «You can't handle the truth». Heard durante la testimonianza del 5 maggio dice che era stata costretta a prendere a schiaffi il marito perché aveva paura che buttasse giù dalle scale sua sorella, e proprio in quel momento si sarebbe ricordata di quelle voci che giravano su Depp che spinge giù dalle scale Kate Moss durante una vacanza in Giamaica.
Quando Heard nomina Moss, l'avvocato di Depp non trattiene l'entusiasmo, la rete impazzisce e seziona in meme ogni singolo frame. Ieri la top model è apparsa in videocollegamento in aula: un po' Lana Turner, un po' Rebecca-la prima moglie, con una voce che non è all'altezza degli zigomi, ma con gli zigomi ancora all'altezza del suo passato.
Per l'occasione, Heard sfoggia l'acconciatura di Kim Novak in Vertigo e sceglie di puntare tutto sul gloss illuminante per gli zigomi: a margine, si è anche molto favoleggiato sul fatto che Heard riproducesse gli outfit dell'ex marito. Moss racconta dell'episodio giamaicano e mette fine ai pettegolezzi: pioveva forte, lei era scivolata, si era fatta male alla schiena, urlava, lui l'aveva soccorsa, nessuna spinta, nessun tentato omicidio, nessuna scala a chioccola di hitchcockiana memoria.
«Non mi ha mai spinto, preso a calci o buttato giù dalle scale», dice lei. Heard ha fissa l'espressione Margo Channing, Depp guarda il monitor con la testa bassa, e non capisco perché la regia di questo processo non sia stata affidata a Scorsese o a De Palma.
La cosa più interessante è la domanda dell'avvocato di Depp, che è il grande non detto: «Come mai ha deciso di testimoniare oggi?». Gli avvocati di Heard fanno un'obiezione da manuale, e noi non sapremo mai perché Moss è lì. Io e tutta la mia generazione abbiamo sperato che lei dicesse che era lì perché lo amava ancora, e noi finalmente ci saremmo sentiti ancora giovani e belli.
Ieri Depp ha testimoniato nuovamente, dichiarando che avrebbe aiutato l'ex moglie a ottenere la parte in Aquaman contrariamente a quanto sostiene lei, cioè che ce l'aveva fatta da sola. La partita si è spostata sul merito, e non c'è niente che ammazzi di più la reputazione della raccomandazione familiare.
Da tg24.sky.it il 27 maggio 2022.
L'attrice ha pianto sul banco dei testimoni a Fairfax, in Virginia, dove oggi si è chiusa la fase dedicata alle deposizioni. "Voglio solo ritrovare la mia voce", ha detto prima di essere incalzata dai legali dell'ex marito.
È scoppiata in lacrime nell’aula di tribunale che ospita il processo in cui è accusata per diffamazione dall’ex marito Johnny Depp. Il pianto di Amber Heard sul banco dei testimoni è stato il momento più intenso dell’ultimo giorno dedicato alle deposizioni nel caso che vede opposti i due divi di Hollywood e le loro accuse reciproche.
«Come cittadina americana ho diritto a raccontare la mia storia – ha detto Heard -. L'unica cosa che voglio è riavere la mia voce». Depp chiede 50 milioni di dollari come risarcimento per i danni che a suo dire la sua carriera avrebbe subito da un editoriale pubblicato nel 2018 dal Washington Post a firma dell’ex moglie. Nell’articolo Heard si autodefiniva personaggio pubblico che rappresentava le vittime di violenza domestica.
Un articolo che, secondo l’attrice, avrebbe procurato non pochi problemi anche a lei: «Ogni giorno sono molestata, umiliata, minacciata. Anche fuori da questa corte. C'è gente che mi vuole uccidere e me lo dice tutti i giorni. Gente che vuole mettere la mia bambina nel microonde e me lo fa sapere», ha aggiunto a proposito della figlia, Oonagh Paige, nata in aprile attraverso una madre surrogata.
«Johnny mi minacciò, mi promise che avrei pensato a lui ogni giorno», ha aggiunto l'attrice, prima di essere fermata da un’obiezione dei legali di Depp, che intanto sogghignava e scherzava con il suo team di avvocati.
«Le tue menzogne sono state messe davanti agli occhi del mondo», l'ha attaccata Camille Vasquez, avvocata di Johnny Depp che i fan dell’attore vorrebbero sua nuova partner sentimentale. «Se tu dicessi la verità, sapresti rispondere», ha proseguito implacabile Camille, dopo che Heard non aveva saputo riconoscere una foto di vino versato che sarebbe stata scattata nel 2016 nell'attico di Depp dopo una lite tra i due.
Dagotraduzione da Dailymail il 27 maggio 2022.
Nelle battute finali della causa di diffamazione intentata da Johnny Depp nei confronti dell’ex Amber Heard che l’aveva etichettato come un violento, tutta l’attenzione è sulla grande rivelazione di questo processo, l’avvocato difensore di Depp: la giovane e brillante Camille Vasquez, che è riuscita a gettare ombre e creare dubbi sulle dichiarazioni dell’ex de Il Pirata dei Caraibi”.
Vasquez, ha iniziato la sua arringa finale etichettando Amber Heard come "abusatrice".
«C'è un aggressore in quest'aula ma non è il signor Depp. C'è una vittima di abusi in questa corte, ma non è la signorina Heard", ha detto Vasquez. "La signorina Heard è in effetti l'abusante e il signor Depp è l'abusato."
Vasquez ha citato i resoconti degli esperti che hanno diagnosticato a Heard un disturbo borderline di personalità e ha definito l'attrice una "persona profondamente turbata" che è "disperatamente alla ricerca di attenzione e approvazione".
Sono passati sei anni dal giorno in cui Amber Heard ha presentato un ordine restrittivo contro Depp, che a detta di Vasquez, "ha rovinato" la vita dell'attore.
"Il 27 maggio 2016 la signorina Heard è entrata in un tribunale di Los Angeles, in California, per ottenere un ordine restrittivo nei confronti del signor Depp dichiarando di essere una sopravvissuta alle violenze domestiche".
Continua l’arringa di Vasquez:
“Oggi, il 27 maggio 2022, esattamente sei anni dopo, chiediamo di restituire al signor Depp la sua vita dicendo al mondo che lui non è il molestatore che Miss Heard ha dipinto e di ritenere Miss Heard responsabile delle sue bugie."
"Sei anni fa la signorina Heard ha presentato una falsa denuncia di violenza domestica contro il marito con cui stava da un anno e tre mesi. Era una messa in scena: ha anche avvertito i paparazzi.
"Sapevano dove si sarebbe fermata" per farsi fotografare il suo livido, ha detto Vasquez.
"Le foto hanno catturato proprio ciò che lei voleva: l'immagine di una donna maltrattata. Il livido sul suo viso è apparso sei giorni dopo aver visto il signor Depp. Era una bugia, lei lo sapeva, il signor Depp lo sapeva e molti testimoni che l'hanno vista quella settimana lo sapevano. Il mondo ha visto solo ciò che lei voleva che gli altri vedessero”.
Alla corte è stata mostrata la copertina di People Magazine che mostrava la faccia contusa di Heard.
"Due anni dopo, nelle interviste per promuovere il ruolo più importante della sua carriera - la signorina Heard si è presentata come un personaggio pubblico che rappresenta la violenza domestica", ha detto.
Vasquez ha dichiarato anche che le accuse di Heard sono "non plausibili, un vero atto di crudeltà per le vere vittime di abusi".
Quale sarà il verdetto?
Matteo Persivale per il “Corriere della Sera – Sette” il 27 maggio 2022.
I dialoghi fanno impressione: «Si è versato una maxipinta di vino», «sei solo un avanzo di night, una ex spogliarellista alla canna del gas», «lui se ne girava per la casa con l’affare sempre di fuori», «bevevo whisky di mattina perché l’happy hour è a tutte le ore», «affoghiamola prima di bruciarla!!!... Dopo, mi fotterò il suo cadavere carbonizzato per assicurarmi che sia morta».
Le prove a carico incutono paura: le registrazioni audio surrettizie sempre gracchianti e disturbatissime, i filmati col cellulare occultato nel tinello della villona di lusso, lo specchio schizzato di sangue, le gigantesche “piste” di cocaina tipo quelle Al Pacino in Scarface ma vere, le fotografie del divo con la barbetta unta e i capelli neri lunghi steso sulla barella come un Cristo del Mantegna – non morto ma soltanto ubriaco, coperto di sangue solo perché si è mozzato un dito con una bottiglia di vodka nel suo personale, autoinflitto Golgota che gli è costato la reputazione, la carriera, i contratti (cancellati) da
decine di milioni di dollari.
«Johnny Depp contro Amber Heard» camuffato da processo civile titilla gli istinti più bassi di chi sospettava, sì, che Hollywood fosse la Babilonia del nostro tempo ma sperava che almeno le trame dei suoi scandali fossero opera degli sceneggiatori da Oscar, non di quelli presi in prestito dalle soap opera e dai film horror di serie Z.
Depp contro (anzi «versus» come latineggiano gli americani) Heard rassicura però chi ha sempre avuto una visione apocalittica della celebrità, del denaro, dell’America. Consola gli intellettuali sedotti (e per questo afflitti da sensi di colpa) dallo show quotidiano in diretta (anzi «live») via TikTok, Twitter, Facebook, YouTube, Instagram perché questa estasi del trash conferma almeno che Wittgenstein aveva ragione: «La logica riempie il mondo, i limiti del mondo sono anche i suoi limiti».
I limiti della logica sono risultati evidenti dal primo giorno del processo, dalla prima udienza davanti alla corte civile dello Stato della Virginia per la causa – diffamazione – intentata da Johnny Depp contro l’ex moglie Amber Heard, attrice e modella con la quale è stato sposato dal 2015 al 2017 e che negli anni successivi lo ha ripetutamente accusato di abusi domestici e diffuso video che lo ritraggono ubriaco e iracondo.
Nel 2018 Heard aveva pubblicato un editoriale sul Washington Post definendosi vittima di «abusi sessuali», senza citare mai per nome l’attore, ma era impossibile non riconoscerlo: l’articolo è alla base dell’attuale procedimento. Depp chiede 50 milioni di dollari come risarcimento danni, l’ex moglie ha risposto con un’altra causa nella quale ne vuole 100.
La carriera di lui, 59 anni a giugno, è ormai ampiamente deragliata, niente più Pirati dei Caraibi (verrà rimpiazzato nei prossimi film da una donna, Margot Robbie), niente più Animali fantastici di J. K. Rowling (al suo posto ora c’è il family man Mads Mikkelsen), e quando sia la Disney sia la Warner ti scaricano la situazione appare al capolinea.
Malconsigliato, ha peggiorato le cose intentando causa per diffamazione al tabloid The Sun nel Regno Unito che l’aveva definito un picchiatore di donne, perdendo male e finendo pure sculacciato verbalmente dal giudice.
Adesso il processo in Virginia grazie a una serie di decisioni sensate da parte di Depp (ha scelto avvocati ottimi) e di errori di lei (ha scelto avvocati pessimi) si è trasformato in uno show cruento ma dall’enorme successo di pubblico.
I social media sempre ansiosi di scrivere male di qualcuno si sono avventati sulla vicenda, «Team Johnny» contro «Team Amber». Lui pareva indifendibile ma nei primi giorni di deposizione ha parlato della sua infanzia e gioventù disastrata: a lungo, con franchezza, senza fare sconti a nessuno, neanche a sé stesso, per la prima volta nella sua vita pubblica.
Lei che partiva come l’eroina femminista delle donne maltrattate si è contraddetta su particolari importanti, ha dovuto ammettere che la donazione in beneficenza dei milioni ottenuti da lui per il divorzio non è stata fatta, e le immagini del talamo nuziale nel quale lei per sfregio al marito collocò delle feci restano indimenticabili per chi ha avuto la sfortuna di vederle.
Si è così scatenata l’analisi minuto per minuto del processo in mondovisione digitale via social: le osservazioni degli esperti di linguaggio del corpo, le teorie cospiratorie, il tifo da stadio fuori dal tribunale.
Ogni singolo fotogramma analizzato in modo maniacale, tipo le immagini dell’attentato a Kennedy a Dallas: un teatro dell’assurdo nel quale anche Heard che si soffia il naso davanti al giudice viene accusata, con abbondanza di replay, di non essersi soffiata il naso ma di aver inalato qualcosa, da un oggettino celato nel fazzoletto bianco.
Heard ha licenziato con effetto immediato (ormai era tardi) i suoi consulenti di comunicazione, la famosa (e costosissima) Precision Strategies fondata dalla ex direttrice della campagna elettorale di Barack Obama. Ora si affida a Shane Communications, altra potenza del settore. Fuori dal tribunale, il circo dei fan con cartelloni e trombette.
Su Twitter, l’hashtag #AmberHeardIsALiar che le dà della bugiarda è stato utilizzato in più di 31.000 tweet, eclissando l’hashtag #IStandWithAmberHeard che la difende e che ne ha poco più di 21.000.
C’è anche il doc in due parti Johnny Depp contro Amber Heard – Il processo, trasmesso inizialmente su Discovery+ solo per abbonati, ma mercoledì scorso andato in chiaro in prima serata sul canale Nove.
La prima sorpresa è stata la confessione di Depp: «Oggi, per la prima volta, ho la possibilità di parlare». Un monologo di ore, il primo in 37 anni di carriera perché era sempre stato notoriamente avaro di informazioni su di sé e la sua famiglia: l’infanzia nel natìo Kentucky che pare uscita da una piéce di Tennessee Williams con il padre mite e imbelle, e la terribile madre che si faceva beffe dello strabismo di Johnny («Mi chiamava orbo, occhiotorto, rideva della benda che dovevo portare sull’occhio sano per allenare quello malato: avevo cinque anni, tuttora sono legalmente cieco dall’occhio sinistro»). Le botte: «Ma quello era semplicemente dolore fisico, impari a subire».
«Siamo in quest’aula perchè mi è sembrato diabolico che i miei figli (Lily Rose e Jack, avuti entrambi da Vanessa Paradis; ndr), che allora andavano ancora a scuola, si ritrovassero a fare i conti con gente che gli sventolava davanti la copertina della rivista People dove si diceva che ero un violento... Non l’ho mai picchiata, non ho mai picchiato una donna in vita mia. Questo processo è imbarazzante? No, sto facendo la cosa giusta».
Di imbarazzante, almeno per il sistema hollywoodiano, c’è l’assoluta trasparenza, una dose non abituale di verità: la parata senza fine di “assistenti personali”, autisti, tuttofare, galoppini. Coloro che avrebbero in realtà una sola mansione, al di là delle etichette: evitare che il loro principale finisca ripetutamente nei guai.
La sofisticata infrastruttura di pubbliche relazioni del complesso sistema – vecchio come Hollywood – che ha industrializzato la celebrità da oltre un secolo dipinge noti beoni come modelli di temperanza, fornicatori seriali come mariti modello, overdosi improvvise e quasi letali vengono derubricate a ricoveri «per disidratazione», dipendenze all’ultimo stadio risolte in remote e esclusivissime cliniche nel deserto dell’Arizona. Lo stesso sistema che occulta diffusissime bi e omosessualità dietro paraventi benissimo realizzati con dovizia di apparenze etero, donne dello schermo, «matrimoni bostoniani».
Si tratta degli ottimi (e ottimamente retribuiti: gli orari sono pessimi e lo stress elevato) professionisti che fanno sì che il gossip resti per l’appunto gossip, e che si prodigavano perché al massimo i segreti finissero in un romanzo della compianta Jackie Collins.
Invece Johnny Depp, uomo-azienda da due miliardi e mezzo di dollari fatti incassare al botteghino in una carriera piena sì di kolossal ma anche di tanti piccoli film indipendenti (di Gilliam, Kusturica...), si è sempre esposto alle intemperie della celebrità senza protezioni, accompagnandosi ogni volta a donne famose (Kate Moss, Winona Ryder, Sherilyn Fenn, Vanessa Paradis) che in qualche modo l’hanno sempre protetto.
Fino alla giovane semisconosciuta Amber Heard, al divorzio infernale, alla gogna legal-mediatica del tribunale di Fairfax, Virginia, ad alto tasso di verità.
Il "gioco perverso" di Amber Heard: in tribunale veste come Johnny Depp. Anna Lupini su La Repubblica il 27 Maggio 2022.
Stessa cravatta, stesso colore di tailleur, stessa acconciatura. Durante il processo più seguito dell'anno, l'attrice avrebbe indossato in aula abiti ispirati a quelli vestiti dall'ex marito il giorno precedente. Secondo gli osservatori social sarebbe "un gioco perverso" messo in scena per umiliarlo. Ecco perché.
Aleggia un ulteriore sospetto sulla testa di Amber Heard, accusata dal tribunale mondiale dei social di copiare quasi ogni giorno gli abiti indossati in aula Johnny Depp, mentre prosegue il processo per diffamazione da 100 milioni di dollari dell'attore contro la sua ex moglie. Heard, 35 anni, e Depp, 58 - che sono stati sposati dal 2015 al 2016 - si stanno affrontando in tribunale in un crescendo di accuse durissime, senza esclusione di colpi. Alla fine del processo si dovrà stabilire se il memoriale dell'attrice del 2018 pubblicato sul Washington Post, in cui accusava l'attore di abusi domestici, fosse diffamatorio nei riguardi di Johnny Depp, che ha respinto ogni accusa e chiesto almeno 50 milioni di dollari di danni e 350 milioni di risarcimento.
Ovviamente, non poteva sfuggire ciò che le due star hanno indossato ogni giorno in tribunale, e così molti osservatori in tutto il mondo hanno notato che l'attrice indosserebbe di proposito abiti simili a quelli che vestiva il suo ex marito il giorno precedente, mettendo in scena un perverso gioco di specchi.
I fatti che supportano questa tesi, ampiamente discussa su Twitter e Tik Tok, sono i seguenti:
Il primo giorno del processo - l'11 aprile - Depp indossava una cravatta di Gucci, con un calabrone. Due giorni dopo - il 13 aprile - Heard sfoggiava una cravatta molto simile. Difficile credere che potesse trattarsi di una coincidenza.
E così, giorno dopo giorni, ecco spuntare i parallelismi: anche l'abito grigio che Depp ha indossato per il primo giorno del processo l'11 aprile, è stato replicato da Heard il 12 aprile.
L'imitazione non si limiterebbe agli abiti, ma riguarderebbe anche l'hair look: il 18 aprile, Depp si è presentato in tribunale con i capelli raccolti in una coda di cavallo, e il giorno successivo, il 19 aprile, Heard aveva le sue lunghe ciocche acconciate in modo simile.
Su Twitter i commenti sono fortemente critici verso Amber, definita "una donna con la testa malata", "spaventosa e manipolatrice" e addirittura "disgustosa". "Amber Heard che copia tutti gli abiti di Johnny Depp è un continuo tentativo di tormentare la sua vittima", ha scritto un'altra persona. "Non pensavo potesse essere più vile."
Anche su TikTok i video che mettono a confronto i look hanno milioni di visualizzazioni.
Ma c'è di più. E non riguarda soltanto l'abbigliamento e i look, diventati terreno di scontro tra i due ex. La sorella dell'attore, Christi Dembrowski, ha testimoniato in tribunale di aver sentito Amber insultare Depp per il suo senso dello stile. "Johnny ha detto ad Amber che aveva appena avuto un incontro con Dior e che erano interessati a lui - ha raccontato - La sua reazione è stata di incredulità e disgusto e ha detto: 'Dior, perché Dior dovrebbe voler fare affari con te? Riguardano la classe e riguardano lo stile e tu non hai stile'". Questo comportamento di Amber dunque, secondo gli osservatori, sarebbe una forma di pubblico dileggio. Certo, la scelta del look difficilmente potrà trasformarsi in un capo di accusa, ma questo comportamento aiuta a delineare la personalità di Amber Heard. D'altro canto, come diceva Oscar Wilde: "solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze".
Dal Daily Mail il 31 maggio 2022.
Johnny Depp è salito sul palco della Royal Albert Hall di Londra accanto al chitarrista Jeff Black. Depp ha ricevuto una standing ovation dal pubblico presente, con il cantante britannico Tom Jones tra coloro che hanno assistito alla performance. Depp è stato visto lasciare il locale stringendo in mano una borsa contenente un barattolo etichettato "Purple Unicorn" - una rara varietà di marijuana ha lo stesso nome. Dopo lo spettacolo, la star di Hollywood ha incontrato i fan fuori dal locale, posando per le foto e firmando autografi.
Depp è stato fotografato mentre saliva i gradini del 100 Queen's Gate Hotel London, dove le suite costano fino a £ 2.390 a notte. Non è chiaro se Depp starà lì durante la sua visita a Londra. La sua apparizione arriva mentre i giurati che deliberano sulle accuse di diffamazione in duello di Depp e Heard dopo non essere riusciti a raggiungere una risoluzione nel processo ampiamente seguito di sei settimane. La giuria di sette persone ha deliberato per circa due ore venerdì prima di aggiornarsi per il fine settimana festivo del Memorial Day degli Stati Uniti.
Il caso di diffamazione da 100 milioni di dollari tra Johnny Depp e Amber Heard è così complicato che il foglio del verdetto contiene 42 domande a cui la giuria deve rispondere prima di emettere un verdetto. Il documento è stato rilasciato dal tribunale di Fairfax, in Virginia , e mostra che ci sono 24 domande per le affermazioni di Depp e 18 per quelle di Heard.
Depp vuole $ 50 milioni da Heard per averlo presumibilmente diffamato con un editoriale sul Washington Post nel 2018 in cui affermava che era una sopravvissuta ad abusi domestici.
Heard ha controcitato per $ 100 milioni sostenendo che l'avvocato di Depp l'ha diffamata sostenendo che le sue accuse erano una "bufala di abuso"
I giurati riprenderanno le deliberazioni martedì, con un verdetto imminente nei prossimi giorni.
Johnny Depp dimentica il processo contro Amber Heard e vola in Europa: rischia di saltare il verdetto. Il Tempo il 31 maggio 2022.
A sorpresa, nel bel mezzo di un processo tra i più tossici che gli Usa ricordino, Johnny Depp è volato OltreAtlantico e si è esibito a sorpresa domenica sera a Sheffield insieme al chitarrista rock, Jeff Beck. Secondo il Telegraph, la star ha intrapreso un tour musicale nel Regno Unito e potrebbe non essere presente, martedì, quando si riunirà di nuovo la giuria del processo per diffamazione contro la ex moglie Amber Heard che nel 2018, in un articolo del Washington Post, lo aveva accusato (pur senza mai citarlo) di violenza domestica; e potrebbe rendere nota la sentenza. Ma Johnny Depp sembra non aver voluto attendere in Usa il verdetto (rischia di dover pagare una ’bolletta' milionaria perché lui ha chiesto danni per 50 milioni di dollari ma lei ha replicato chiedendogliene il doppio).
L’attore, che era un musicista prima di cominciare a recitare, domenica sera ha lasciato di stucco e deliziato gli spettatori e pare che abbia intenzione di unirsi al chitarrista britannico per il resto dei suoi concerti nel Regno Unito. A Sheffield ha suonato un pezzo del 2020 registrato con Beck, Isolation, un remake della canzone di John Lennon, oltre a cover di What’s Going On di Marvin Gaye e Little Wing di Jimi Hendrix. Secondo il quotidiano britannico, la Royal Albert Hall di Londra, dove Beck suonerà due volte questa settimana, ha scelto di rafforzare le misure di sicurezza dopo aver appreso che Depp sarà presente a entrambi gli spettacoli. Si temono infatti tensioni o magari proteste legati alla presenza della star.
Il processo è stato un evento mediatico: entrambi ne sono usciti a pezzi nel raccontare (loro e i testimoni) una vita fatta di confusione, abbandono agli eccessi e degrado. Ma ha acceso un interesse planetario: le udienze hanno raccolto per tutte le sei settimane folle di fan (e detrattori) all’esterno del tribunale a Fairfax, in Virginia: decine di persone in attesa d’intravedere i due protagonisti (a volte, entrando o in uscita, Depp si affacciava dal finestrino dell’auto) o magari di essere tanto fortunati da ottenere uno dei 100 ’pass' per entrare nell’aula e sedersi ad ascoltare gli imbarazzanti racconti di liti furiose o episodi incresciosi. Ma è su Internet che la battaglia legale ha fatto furore, tutta a vantaggio di Depp. L’hashtag più popolare, #JusticeforJohnnyDepp, ha ricevuto più di 15 miliardi di visualizzazioni su TikTok. Mentre quello ’gemello' ma legato alla moglie, #JusticeforAmberHeard, solo 51 milioni di visualizzazioni. Heard ha detto anche in tribunale di aver ricevuto insulti e «migliaia» minacce di morte.
Depp-Heard, rinviato il verdetto finale del processo. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2022.
Dopo 9 ore di camera di consiglio la giuria ha deciso di rinviare la discussione della causa per diffamazione a domani.
I sette membri della giuria sono stati in camera di consiglio più di nove ore ma del verdetto della causa Depp contro Heard ancora non c’è traccia: la discussione proseguirà domani 1° giugno a partire dalle 9 del mattino in Virginia (nel primo pomeriggio in Italia). Secondo gli esperti, la decisione dovrebbe arrivare entro giovedì 2 giugno.
Il processo per diffamazione intentato da Johnny Depp contro l’ex moglie Amber Heard si è concluso venerdì 27 maggio, ma l’elaborazione del verdetto sembra complicata. La giuria nominata per la causa più seguita dell’anno è composta da 5 uomini e 2 donne. Gli uomini sono suddivisi in quattro di origini asiatiche under 40 e uno bianco di circa 60 anni. Le due donne invece hanno tra i 20 e i 50 anni. Le identità di tutti i giurati resteranno segrete fino a un anno dalla fine del processo. Infatti, nonostante tutte le udienze siano trasmesse in diretta streaming, nessuna delle due telecamere presenti in aula è stata mai puntata sulla giuria proprio per garantirne l’anonimato.
La giudice Penney Azcarate è uscita per comunicare agli avvocati delle parti presenti in aula la prima domanda della giuria, alle prese con la compilazione un lungo questionario. La diffamazione per cui ha agito il protagonista de I pirati dei caraibi è in tutto l’editoriale o solo nel titolo? I legali, dopo una breve consultazione hanno risposto che la denuncia si riferisce solo al titolo dell’articolo pubblicato nel 2018 sul Washington Post (I spoke up against sexual violence and faced our culture’s wrath. That has to chang, Mi sono fatta avanti contro la violenza sessuale e ho affrontato l’ira della nostra cultura. Tutto questo deve cambiare).
Negli Stati Uniti, per agevolare i membri della giuria nell’elaborare la propria decisione viene loro fornito un questionario in cui è stato specificato che, affinché sussista la diffamazione, «deve essere provata in modo chiaro e convincente che ogni dichiarazione sia stata pubblicata: a) nella consapevolezza che fosse falsa; o b) nonostante la forte consapevolezza che l’affermazione potesse essere falsa.
Dopo che la giuria avrà preso la sua decisione, la giudice ha concesso alle parti in causa un’ora di tempo per raggiungere il tribunale di Fairfax, in Virginia. Fonti vicine a Depp hanno dichiarato che l’attore non sarebbe stato presente se la lettura del verdetto fosse avvenuta oggi siccome si trova ancora in Inghilterra, dove si è esibito al concerto di Jeff Beck. Secondo quanto riferiscono i media statunitensi, a differenza delle ultime sette settimane, i fan di Depp in attesa davanti al tribunale erano solo una trentina. Qualcuno indossava anche il cappello di Jack Sparrow.
Johnny Depp e il dito mozzato: accuse ad Amber Heard nell'ultimo giorno di deposizione. Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 26 aprile 2022.
L'attore in aula ha rievocato l'episodio del 2015. Un testimone racconta la scena "horror" e di come abbia ritrovato il pezzetto di carne fra vetri e sangue. Il rammarico del divo: per colpa della mia ex non ho potuto dare l'addio adeguato a
La punta di un dito mozzata avvolta in un asciugamano di carta spiegazzato. Odore di alcol denaturato per tutta la casa. Vetri rotti, strisce di sangue sul tappeto e sulle pareti: questa la scena 'horror' che si presentò nel 2015 a Ben King, il gestore di una casa in Australia, teatro di una delle più cruenti battaglie coniugali tra Johnny Depp e Amber Heard. L'uomo, un cittadino britannico che amministra anche una casa di Depp a Londra, ha deposto nel tribunale di Fairfax in Virginia nel quarto e ultimo giorno dell'interrogatorio dell'attore che accusa l'ex moglie di avergli rovinato la carriera.
La casa - ha raccontato King che era stato chiamato sul posto dopo la lite - era in condizioni disastrose, con danni stimati sull'ordine dei 50mila dollari: mobili danneggiati, una scala di marmo sbrecciata, "nulla era intatto". L'attrice "singhiozzava istericamente". Secondo la versione di lui, lei gli aveva tirato addosso una bottiglia di vodka provocandogli la perdita della punta di un dito. Amber sostiene invece che Johnny si sarebbe ferito da solo, sbattendo un telefono contro una parete.
In qualunque modo siano andate le cose, mentre il medico personale di Depp, David Kipper, "rovistava nella spazzatura" in cucina, King avrebbe trovato il pezzetto di carne mozzato in un asciugamano di carta intriso di sangue nei pressi di un mobile bar e lo avrebbe messo in una busta di plastica per portarlo in ospedale. Il frammento è stato poi riattaccato chirurgicamente.
Depp, che chiede all'ex moglie 50 milioni di dollari, afferma che Amber gli ha distrutto la carriera scrivendo un articolo sul Washington Post in cui, senza nominarlo esplicitamente, la donna afferma di esser stata vittima di violenza domestica.
Testimoniando ieri, l'attore ha detto di aver appreso da una intervista di un executive della Disney uscita due giorni dopo l'articolo di Amber, che non sarebbe tornato a recitare in un potenziale sesto film del franchise Pirati dei Caraibi. Stessa cosa avvenuta poi con la Warner Bros. che gli tolse il ruolo di Grindelwald in Animali fantastici 3.
L'attore ha aggiunto che avrebbe voluto girare un ultimo film vestendo i panni del capitano Jack Sparrow, da lui interpretato, per dare al personaggio "l'addio che meritava".
Johnny Depp vince contro Amber Heard: è stato diffamato dalla ex. Risarcimento da 10,4 milioni di dollari. "Mi è stata restituita la vita". Giovanni Gagliardi su La Repubblica l'1 giugno 2022.
La star di Aquaman: "Delusa oltre ogni aspettativa". La giuria riconosce l'attacco della ex moglie attraverso il Washington Post. Ma anche l'attore dovrà pagare due milioni per lo stesso reato.
Vittoria su (quasi) tutta la linea. La corte di Fairfax in Virginia ha dato ragione a Johnny Depp: la ex moglie Amber Heard lo ha diffamato e dovrà pagargli 15 milioni di dollari di danni. È una vittoria schiacciante quella ottenuta dall'ex 'Pirata dei Caraibi' che però, a sua volta, è stato riconosciuto colpevole di aver diffamato la ex moglie.
I primi commenti di Johnny e Amber
"Sei anni fa la mia vita, quella dei miei figli, delle persone a me care e quelle che per anni mi sono state vicine e hanno creduto in me, sono cambiate per sempre. In un battito di ciglia. Sei anni dopo la giuria mi ha ridato la vita", ha scritto la star 58enne su Instagram.
"Fin dall'inizio - ha aggiunto Depp - l'obiettivo di questo caso è stato rivelare la verità, indipendentemente dall'esito. Svelare la verità era qualcosa che dovevo ai miei figli e a tutti coloro che sono rimasti al mio fianco. Ora - conclude - mi sento in pace sapendo di averlo fatto".
Di tutt'altro umore, comprensibilmente, l'attrice: "La delusione che provo oggi supera qualsiasi parola", ha detto Amber Heard dopo il verdetto. "Avevo portato una montagna di prove, ma non sono state abbastanza per resistere alla sproporzionato potere e influenza del mio ex marito", ha affermato osservando che il verdetto rappresenta "un ritorno all'epoca in cui una donna che avesse osato parlare contro la violenza domestica veniva pubblicamente umiliata".
La sentenza milionaria
La giuria ha stabilito il risarcimento che Amber dovrà pagare all'ex marito: 15 milioni di dollari. Una cifra inferiore ai 50 milioni chiesti dall'attore, ma pur sempre gigantesca e più del doppio degli alimenti ricevuti al momento del divorzio. Dei 15 milioni che deve pagare Heard, 10 sono a titolo di risarcimento danni e 5 sono danni "punitivi".
Secondo quanto prevede la legge della Virginia, però, i danni punitivi vengono ridotti a 350mila dollari. Questo significa che Depp otterrà poco più di 10 milioni di dollari (10,4).
Anche l'attore dovrà però risarcire Amber Heard, seppure in misura minore di quanto toccherà a lei. I giurati hanno assegnato infatti alla donna un compenso di 2 milioni di dollari, per quando l'avvocato dell'ex marito ha definito "un imbroglio" le sue accuse. In breve, nella complicata vicenda giudiziaria, la giuria ha stabilito che i due ex coniugi si sono diffamati a vicenda. Dunque, a conti fatti, a Depp andranno 8 milioni e 350mila euro.
La gioia degli avvocati
I fan di Johnny Depp che si erano radunati davanti al tribunale in attesa di conoscere il verdetto hanno accolto con applausi gli avvocati che hanno difeso l'attore. "Il verdetto di oggi conferma ciò che avevamo affermato sin dall'inizio, ovvero che le affermazioni contro Johnny Depp sono diffamatorie e non supportate da alcuna prova. Siamo grati, così grati alla giuria per la loro attenta deliberazione, al giudice e al personale del tribunale", ha detto Camille Vasquez, che ha difeso l'attore insieme a Ben Chew.
Il team legale dell'ex 'Pirata' è stato "veramente onorato" di difendere l'attore, ha aggiunto Chew, "contento che il processo sia stato apprezzato da chi è a favore della verità e della giustizia".
Sei settimane di processo
Il verdetto è stato raggiunto dai sette membri della giuria, dopo sei settimane di processo e 13 ore di deliberazioni in camera di consiglio. L'attrice di Aquaman ha accolto a capo chino la lettura della sentenza. Johnny è ancora in Gran Bretagna e poco prima della lettura del giudizio a lui favorevole era stato fotografato in un pub di Newcastle.
L'articolo diffamatorio
Amber e Johnny, si erano conosciuti nel 2011 sul set di The Rum diary. Il matrimonio venne celebrato nel 2015 nella loro casa di Los Angeles. Decisero poi di sposarsi nuovamente alle Bahamas, ma l'unione naufragò l'anno dopo, quando lei ottenne un'ingiunzione della magistratura per evitare che l'ex marito, accusato di violenze domestiche, le si potesse avvicinare.
Al centro della causa che si è conclusa oggi, c'era un articolo firmato da Amber due anni dopo, sul Washington Post intitolato: "Ho parlato contro la violenza sessuale e dovuto far fronte all'ira della nostra cultura. Questo deve cambiare". Senza mai nominare l'ex marito, l'attrice si era definita "una figura pubblica che rappresenta la violenza domestica".
Cinema, Johnny Depp contro la 'cancel culture': "È fuori controllo, nessuno è al sicuro"
Depp, però, si era sentito chiamato in causa e aveva querelato la ex chiedendo 50 milioni di dollari come danni. Amber aveva rilanciato con una controquerela da 100 milioni di dollari, quando un avvocato del suo ex aveva definito le sue accuse "un imbroglio".
Le accuse del Sun
Sempre nel 2018, sul tabloid britannico Sun, Depp venne inoltre descritto come un "uomo che picchia la moglie". La definizione fu al centro di una nuova causa.
Le foto shock
Durante il processo, tra le altre cose, Amber Heard e i suoi legali mostrarono una foto con la "colazione" di Depp: quattro strisce di cocaina già pronte, tagliuzzate con la carta di credito. Una pinta di whisky e Red Bull. La scatolina di metallo per le droghe. Poi un'altra istantanea scattata dall'attrice, in cui Johnny sembra collassato a terra, apparentemente dopo un cocktail di sostanze stupefacenti e super alcolici. Insomma, secondo Heard, Depp era "un uomo spesso totalmente fuori controllo".
La sconfitta
La causa si chiuse il 2 novembre del 2020, con una sentenza a favore del giornale e, quindi, totalmente sfavorevole a Depp. Nelle ore subito dopo la sentenza sui social era diventato trending topic l'ashtag #JusticeForJohnnyDepp.
L'ex moglie non aveva voluto commentare la sentenza ma, come riportava il Daily Mail, aveva organizzato una festa con parenti e amici con palloncini, gadget e un’enorme bottiglia di champagne gonfiabile.
Il licenziamento da 'Animali fantastici'
L'attore provò a fare appello, ma la richiesta fu negata. Nello stesso periodo fu rimosso dal cast della saga Animali Fantastici. Al suo posto venne scelto Mads Mikkelsen.
L'esultanza dei fan
Il processo che si è svolto in Virginia, ad altissimo contenuto mediatico, è stato il primo dell'era TikTok e ha visto i social nettamente schierati a favore di Depp. È stato anche uno dei più clamorosi in una corte civile dell'epoca #MeToo.
All'esterno del tribunale, ad attendere la sentenza, si era radunata anche una piccola folla, nulla rispetto alle giornate "calde" del processo, con tanto di cartelloni decorati con cuoricini e scritte "Giustizia per Johnny".
(ansa)C'è stato anche un colpo di scena finale, quando la giudice Penny Azcarate ha rimandato la giuria in camera di consiglio, perché non aveva assegnato una cifra compensatoria della diffamazione.
"Il meglio deve ancora venire e un nuovo capitolo è finalmente iniziato", ha scritto Depp in un comunicato che conclude con una citazione di Seneca: "Veritas numquam perit. La verità non muore mai".
"Diffamato dall'ex moglie". A Johnny Depp 15 milioni. Valeria Robecco su Il Giornale l'1 giugno 2022.
Amber Heard è responsabile di diffamazione nei confronti dell'ex marito Johnny Depp. Dopo sei settimane di processo nel tribunale di Fairfax in Virginia dove i due attori si sono affrontati a colpi di dichiarazioni, registrazioni audio e video, sms e foto, Depp ha vinto la causa multimilionaria negli Usa. La giuria ha raggiunto - in circa 13 ore di camera di consiglio - un verdetto sulla doppia causa di diffamazione in sede civile, quella di Depp contro l'ex moglie per avergli rovinato la carriera con un articolo sul Washington Post del 2018 in cui lei, due anni dopo il divorzio, aveva detto di essere stata una vittima di violenza domestica, e la contro-denuncia della Heard, dopo che un avvocato dell'ex marito, Adam Waldman, aveva definito «una invenzione» le sue accuse. Depp aveva chiesto 50 milioni di dollari di danni, la Heard invece ne voleva 100: la giuria ha deciso che lui dovrà ottenere dall'ex moglie 15 milioni di dollari (10 per risarcimento danni e 5 come danni punitivi). Come consolazione lei ha ottenuto due milioni di risarcimento danni e nessun danno punitivo.
A prescindere dal verdetto finale, comunque, Depp aveva già vinto sul fronte dell'opinione pubblica, raccogliendo un esercito di sostenitori e almeno in base alle interazioni sui social, è stato di gran lunga in vantaggio per tutta la durata del processo. L'hashtag #JusticeForJohnnyDepp ha iniziato a fare tendenza con oltre 40mila tweet, e quattro milioni e mezzo di persone hanno firmato una petizione per chiedere di rimuovere completamente la Heard da Aquaman. «Qualunque cosa accada, JD ha vinto nella corte dell'opinione pubblica e quella era la cosa più importante per lui», ha scritto un suo fan. Depp non era presente alla lettura del verdetto perché si trova ancora in Gran Bretagna, dove ieri l'altro ha suonato con Jeff Beck alla Royal Albert Hall di Londra (e ha invitato l'ex Kate Moss ad applaudirlo). «A causa di impegni di lavoro presi prima del processo fisicamente non sarà in aula, ma si collegherà per guardare l'esito dal Regno Unito», ha spiegato una fonte vicina all'attore, che poco prima del verdetto è stato fotografato in un pub di Newcastle. Imbracciando la chitarra e salendo sul palco di tre concerti dell'amico (il primo a Sheffield e gli altri due a Londra), Depp è tornato alle origini mentre a Cannes sono state presentate anticipazioni del suo nuovo film francese Jeanne du Barry in cui ha la parte di Luigi XV.
Heard invece ha ascoltato in aula a Fairfax la decisione della giuria e poco prima del verdetto un suo portavoce ha commentato l'assenza dell'ex marito dicendo: «Dimostra quali sono le sue priorità. Johnny suona la chitarra in Gran Bretagna mentre Amber aspetta un verdetto in Virginia. Depp porta in tournée il suo cinismo e la sua mancanza di serietà». Heard in questo periodo si è ritirata nella sua «casa santuario» nel deserto della California con la figlia di un anno Oonagh Paige, mentre l'anno prossimo tornerà sul grande schermo per il sequel di Aquaman (sia pure con una parte ridotta e questo al processo è stato usato dai suoi avvocati per dimostrare che Johnny le ha rovinato la carriera), oltre ad avere in cantiere altri due film: Run Away With Me e In the Fire. La giuria - cinque uomini e due donne, la cui identità resterà segreta per un anno alla luce dell'attenzione spasmodica dei media come richiesto dalla giudice Penney Azcarate - è tornata in un primo momento in camera di consiglio perché i giurati non avevano assegnato una cifra compensatoria della diffamazione.
Lo sfogo di Depp dopo la vittoria: cosa ha scritto su Instagram. Francesca Galici su Il Giornale l'1 giugno 2022.
Johnny Depp non era in aula quando il giudice ha letto la decisione della corte nel processo contro la sua ex moglie, Amber Heard. In realtà, Johnny Depp non è nemmeno negli Stati Uniti. Il popolare attore, infatti, si trova nel Regno Unito per motivi di lavoro ed è da lì che ha pubblicato un post sui social, un lungo scritto al quale ha affidato le sensazioni degli ultimi sei anni di vita, da quando la sua ex moglie ha pubblicato l'articolo che, a detta del tribunale di di Fairfax, in Virginia, è stato diffamatorio nei confronti dell'attore.
"Sei anni fa, la mia vita, la vita dei miei figli, la vita delle persone a me più vicine e anche la vita delle persone che per molti, molti anni mi hanno sostenuto e creduto, è cambiata per sempre. Tutto in un batter d'occhio. Accuse false e molto gravi mi sono state rivolte tramite i media, il che ha innescato una raffica d'odio nei miei confronti, anche se non sono mai state mosse accuse contro di me", scrive Johnny Depp in quella che è una vera e propria lettera, uno sfogo doloroso che cela in sé il sollievo di aver dalla propria la ragione della giustizia.
"Tutto questo aveva già fatto il giro del mondo due volte in un nanosecondo e ha avuto un impatto devastante sulla mia vita e sulla mia carriera", ha aggiunto l'attore di Pirati dei Caraibi. Ora, però, scrive Depp, "la giuria mi ha restituito la mia vita. Sono veramente umiliato. La mia decisione di portare avanti questo caso, conoscendo molto bene l'altezza degli ostacoli legali che avrei dovuto affrontare, e l'inevitabile spettacolo mondiale della mia vita, è stata presa dopo aver riflettuto a lungo".
L'obiettivo dichiarato da Johnny Depp è sempre stato uno: "Rivelare la verità, indipendentemente dall'esito. Dire la verità era qualcosa che dovevo ai miei figli". Tantissime le dimostrazioni d'affetto nei suoi confronti durante le sei settimane di dibattimento e oggi Johnny Depp ringrazia tutti, anche i giudici e la corte che ha lavorato al suo caso. In quella lettera, poi, aggiunge: "Spero che la mia ricerca della verità abbia aiutato gli altri, uomini o donne, che si sono trovati nella mia situazione". In chiusura, quello che sembra un grido di liberazione: "Il meglio deve ancora venire e un nuovo capitolo è finalmente iniziato. Veritas numquam perit, la verità non muore mai".
Johnny Depp ha vinto la battaglia legale contro Amber Heard. Il Domani l'01 giugno 2022
La giuria ha espresso il suo parere, dopo essersi riunita in camera di consiglio a Fairfax, in Virginia, per circa 12 ore di deliberazioni. Johnny Depp non era presente in aula al momento del verdetto
Amber Heard dovrà pagare 15 milioni di dollari per risarcimento danni all’ex marito Johnny Depp: è una cifra inferiore ai 50 milioni chiesti dall’attore ma è pur sempre più del doppio degli alimenti ricevuti al momento del divorzio. È finita così la battaglia legale tra i due. La giuria ha espresso il suo parere, dopo essersi riunita in camera di consiglio a Fairfax, in Virginia, per circa 12 ore di deliberazioni.
Depp non era presente in aula alla lettura del verdetto perché si trova ancora nel Regno Unito dove soltanto ieri, martedì 31 maggio, ha suonato insieme a Jeff Beck alla Royal Albert Hall di Londra. Lo ha confermato, prima dela sentenza, una fonte vicina all’attore.
Un’assenza, quella di Depp, che ha subito suscitato la reazione dell’entourage di Heard. Un suo portavoce ha commentato: «La sua assenza dimostra quali sono le sue priorità. Johnny suona la chitarra in Gran Bretagna mentre Amber aspetta il verdetto in Virginia. Depp porta in tournée il suo cinismo e la sua mancanza di serietà».
In mattinata, la giuria composta da sette giudici, cinque uomini e due donne, aveva aggiornato i lavori perché non aveva trovato l’unanimità. L’intero processo è durato sei settimane e dal punto di vista mediatico l’attenzione è stata altissima, soprattutto per le testimonianze dei due personaggi.
LA RELAZIONE E LE ACCUSE
La relazione tra Depp e Heard è andata in scena dal 2012 al 2016, il loro matrimonio solo 15 mesi. Nel 2017 arriva l’ufficialità del divorzio, dopo che nel 2016 Heard aveva ottenuto un’ordinanza restrittiva contro l’ex marito dopo essersi presentata in aula con il viso tumefatto, sostenendo che Depp le avesse tirato addosso un cellulare. L’attore ha sempre negato le accuse, sostenendo invece che quella notte ad essere stata violenta fosse lei.
Dopo qualche mese la donna aveva anche pubblicato un editoriale sul Washington Post in cui sottintendeva di aver subito violenze domestiche. Accuse che colpiscono Depp e la sua fama, di fatto frenando la sua carriera.
Ma l’attore si è sempre definito innocente, accusando invece l’ex moglie di violenze e intentando un processo per diffamazione ai danni di Heard, per il quale richiedeva un risarcimento da 50 milioni di dollari a causa della perdita di progetti di lavoro importanti. Heard, come risposta, aveva contro richiesto un indennizzo da 100 milioni di dollari.
Johnny Depp, "ad ogni costo": vince in tribunale e spenna Amber Heard, 15 milioni di risarcimento. Libero Quotidiano l'02 giugno 2022.
Amber Heard ha diffamato Johnny Depp e per questo dovrà pagare un totale di 15 milioni di dollari, 10 come compensazione dei danni e 5 per i danni veri e propri. Anche Depp ha però diffamato l'ex moglie e le dovrà 2 milioni di dollari.
Dopo tanta attesa, mediatica e non solo, si è chiuso il processo Depp-Heard con la decisione dei 7 giurati della Corte di Fairfax, Virginia. Alla lettura della sentenza, slittata di circa mezz'ora perché mancava sul documento ufficiale la parte relativa alla quantificazione dei danni, era assente l'attore: occhi bassi e pianto trattenuto a stento per l'attrice che invece ha assistito al verdetto.
La complicata vicenda giudiziaria si chiude così con una sentenza che sembrerebbe premiare Depp e che invece ricostruisce il quadro di un rapporto difficile con i due ex coniugi che si sono diffamati a vicenda.
Deep aveva citato l'ex moglie in tribunale, chiedendo 50 milioni di dollari di danni, dopo un articolo da lei scritto nel 2018 sul Washington Post nel quale si autodefiniva come una "figura pubblica vittima di violenza domestica". Sebbene Depp non venisse citato esplicitamente nell'articolo, l'attore sostenne di avere subito un grave danno alla sua carriera. Heard a sua volta controdenunciò l'ex marito per diffamazione, con una richiesta di risarcimento di 100 milioni di dollari, dopo una dichiarazione fatta dal legale di Depp riguardo alle accuse di abusi.
"La delusione che sento oggi va al di là di ogni parola. Ho il cuore spezzato dal fatto che la montagna di prove non è bastata davanti allo spropositato potere e influenza del mio ex marito", ha scritto in una nota pubblicata sul suo account Twitter Amber Heard.
"Sono ancora più delusa - si legge ancora - da cosa significhi questo verdetto per le altre donne. È una battuta d'arresto. Porta indietro l'orologio a un tempo in cui una donna che parlava apertamente poteva essere umiliata pubblicamente". Secondo l'attrice inoltre, il verdetto "respinge l'idea che la violenza contro le donne debba essere presa sul serio".
Toni diversi quelli di Depp. "Sei anni fa la mia vita, quella dei miei figli, delle persone a me care e quelle che per anni mi sono state vicine e hanno creduto in me, sono cambiate per sempre. In un battito di ciglia". "Sei anni dopo la giuria mi ha ridato la vita", ha scritto in un post su Instagram.
"Fin dall'inizio - scrive l'attore - l'obiettivo di questo caso è stato rivelare la verità, indipendentemente dall'esito. Svelare la verità era qualcosa che dovevo ai miei figli e a tutti coloro che sono rimasti al mio fianco. Ora - conclude - mi sento in pace sapendo di averlo fatto".
Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 giugno 2022.
Amber Heard potrebbe perdere tutto: carriera e soldi. La condanna del tribunale di Fairfax, in Virginia, la lascia con un debito di 8,35 milioni di dollari da versare all’ex marito Johnny Depp.
Secondo gli esperti «a Hollywood non c’è modo di tornare indietro per Heard», e l’attrice, dopo le sei settimane di processo, è stata definita «troppo icky (schifosa) per uno studio». Come farà a pagare Depp?
Durante il processo Heard ha fatto sapere di essere stata gravemente danneggiata dal processo, confessando che la citazione in giudizio di Depp le ha impedito di versare i 7 milioni di dollari promessi a enti di beneficenza.
L’attrice adesso si trova ad affrontare una serie di problemi: la sua carriera è congelata (una petizione online che chiede la sua cancellazione dal film Aquaman2 ha ottenuto 4,5 milioni di firme), le sue finanze, almeno a quanto detto durante il processo, sono in rosso, e l’enorme solidarietà ricevuta da Depp potrebbe spingere le aziende e i marchi a evitarla.
Per onorare i suoi debiti, potrebbe essere costretta a vendere i suoi beni, tra cui un rifugio rurale da 570.000 dollari nella Yucca Valley e una Range Rover che ha ottenuto dal divorzio con Depp. La domanda principale, però, resta: come farà Heard a coprire l'enorme conto dei danni, da pagare entro 30 anni?
Secondo l'avvocato Sandra Spurgeon dello Spurgeon Law Group a Lexington, nel Kentucky, Depp potrebbe rinunciare o negoziare un importo minore.
Ma se lui la costringesse a pagare l'intero conto, Heard potrebbe appellare la sentenza sui danni. Anche se un ricorso con un nuovo giudice potrebbe finire a suo favore, dovrà comunque pagare l'intero importo mentre il ricorso è in sospeso, il che potrebbe costringerla a dichiarare bancarotta.
Una terza opzione, secondo la collaboratrice legale di CBS News Jessica Levinson, è pignorare i suoi futuri guadagni: una parte dei suoi cachet per film o programmi potrebbe finire nelle casse di Depp fino a quando il debito non sarà stato coperto.
Silvia Morosi per il corriere.it il 2 giugno 2022.
Il verdetto è arrivato, dopo settimane di attesa e tre lunghi giorni di deliberazione. Nel maxi processo per diffamazione che ha visto protagonisti Johnny Depp e Amber Heard, la giuria del tribunale di Fairfax, in Virginia, ha condannato l’attrice 36enne al risarcimento: in tutto, Heard dovrà pagare 10,4 milioni di dollari all’ex marito (contro i 50 milioni che quest’ultimo le aveva chiesto per un articolo da lei scritto nel 2018 sul Washington Post nel quale si autodefiniva come una «figura pubblica vittima di violenza domestica»).
«La giuria mi ha ridato la vita. Sono davvero onorato», ha detto in tono trionfante Depp dopo il verdetto, seguito in un pub di Newcastle. «La delusione che provo oggi supera qualsiasi parola», il commento affidato ai social da Heard, presente in aula. «Avevo portato una montagna di prove, ma non sono state abbastanza per resistere alla sproporzionato potere e influenza del mio ex marito». L'attrice - ha dichiarato al New York Times il portavoce Alafair Hall - ha ora intenzione di ricorre in appello contro la sentenza che l'ha condannata.
Querela e contro-querela
Amber e Johnny si erano conosciuti nel 2011 sul set di The Rum Diary: la loro unione del 2015 era naufragata nel 2016 quando lei aveva chiesto il divorzio ottenendo anche un'ingiunzione della magistratura per evitare che l'ex marito le si avvicinasse. E all'accusa di diffamazione da parte di Depp, Heard aveva risposto con una contro-querela: l'avvocato di lui, Adam Waldman, aveva definito «un imbroglio» le sue accuse.
Un processo «omicidio-suicidio»
Il processo che si è appena chiuso - che ha messo in secondo piano il tema delle violenze, dando spazio "solo" al tema della diffamazione - non ha giovato alla carriera di nessuno dei due attori coinvolti. Se da un lato Depp ha sempre sperato che la vittoria finale potesse aiutarlo a ripristinare la sua reputazione, «entrambi lavoreranno di nuovo, ma ci vorrà del tempo perché un grande studio di produzione torni a scommettere su di loro dopo i dettagli emersi sul loro breve matrimonio in un processo seguito da milioni di persone», spiega l’ex avvocato dello spettacolo Matthew Belloni su Puck, come riporta l’Ap.
«Un bagaglio personale che si è rivelato troppo sgradevole per la carriera di entrambi». Non è un caso quindi se Eric Rose, esperto di comunicazione e gestione delle crisi a Los Angeles, ha definito il processo un «classico omicidio-suicidio», in termini di danni a entrambe le carriere.
In attesa del verdetto, l’opinione pubblica si era già divisa e schierata: come riporta un lungo editoriale pubblicato su Variety, la carriera di Depp «era in declino ben prima che uscisse l’editoriale di Heard». Opinione condivisa in aula anche da Tracey Jacobs, l’ex agente di Depp: «La sua stella si era già offuscata», ha ricordato parlando dell'allontanamento dai franchise di Pirati dei Caraibi e Animali Fantastici determinati dalle sue dipendenze (ammesse in passato) e dalle difficoltà nel lavorare con lui.
L’opinione pubblica contro Heard
Cosa succederà, invece, alla carriera di Heard? L’attrice sarà impegnata nei prossimi anni in Run away with me e In the fire, e l ’anno prossimo tornerà sul grande schermo per il sequel di Aquaman (con una parte ridotta, argomento utilizzato al processo dai suoi avvocati per dimostrare come Depp le abbia rovinato la carriera).
E, come se non bastasse, una petizione lanciata su Change.org dai fan di Depp per fare pressione su Dc Comics e Warner Bros ha addirittura chiesto di escluderla dal film, arrivando a superare l’obiettivo di 4,5 milioni di firme. Gli stessi fan che, nei giorni del processo, si sono radunati fuori dall’aula di tribunale per sostenere l’attore e «guardare con divertimento, come ai tempi del Medioevo, una donna fatta a pezzi in pubblico» (qui la spiegazione del fenomeno sociale del «trainwreck»), ha osservato sul New York Times Jessica Bennett nell'articolo «Perché nessuno ha vinto nel processo?».
In passato l'attrice aveva denunciato: «Ho dovuto lottare duramente perché mi tenessero nel film, non volevano farmi tornare. E comunque, alla fine, il mio ruolo è stato fortemente ridimensionato. Mi era stata data una sceneggiatura, poi sostituita da versioni successive nelle quali diverse scene d’azione che coinvolgevano il mio personaggio erano state eliminate. In pratica, hanno tagliato tantissimo del mio ruolo».
«Il bisogno di sorellanza»
Sono tanti anche i nomi del mondo dello spettacolo che hanno supportato l’attore, come il musicista Ryan Adams - a sua volta accusato e poi scagionato da diverse accuse di molestia sessuale - che ha commentato il post con cui Depp ha accolto il verdetto con un cuore e una fiamma.
Meno, invece, i supporter che si sono espressi a favore di Heard, come la comica Amy Schumer: «Ogni donna che sceglie di comportarsi come un normale essere umano deve sapere che le armi dello status quo la tratteranno come fosse una sporca barzelletta… Avrà bisogno di sorellanza», ha scritto su Instagram, riportando una celebre frase della scrittrice e giornalista femminista Gloria Steinem.
Perché, non è l'unica a sostenerlo, il verdetto potrebbe riportare indietro, di decenni, i risultati raggiunti e convincere molte donne a non denunciare le violenze subite per non incorrere in pericolose (e costose) cause di diffamazione.
Dal processo Depp-Amber una lezione anche per i giudici italiani. GIUSEPPE SALVAGGIULO su La Stampa su Il Corriere della Sera il 2 giugno 2022.
Fairfax è una città di 25mila abitanti scarsi in Virginia, Usa. Penney S. Azcarate, un passato da marine nella prima guerra del golfo, è giudice della corte distrettuale di Fairfax, diventata famosa per il processo hollywoodiano tra gli ex coniugi Johnny Depp e Amber Heard. Lei accusava lui di maltrattamenti; lui accusava lei di diffamazione. Indipendentemente dall’esito (ha vinto lui 15-2 milioni di dollari di risarcimento, milione più milione meno), il processo è stato per sei settimane un evento mediatico negli Stati Uniti e di rimbalzo in tutto il mondo. Il merito (o la colpa) è della giudice Azcarate. Rompendo la tradizione americana restrittiva sulla narrazione televisiva dei processi (nel nostro immaginario ci sono i disegni degli imputati nell’aula, raramente le immagini come nel caso O.J. Simpson), ha consentito la trasmissione in diretta streaming delle udienze. Sebbene il prodotto non fosse tecnicamente sofisticato (due telecamere della corte in aula, niente effetti speciali), la vicenda ha rapidamente coinvolto e polarizzato l’opinione pubblica grazie a ingredienti degni di una sceneggiatura di Netflix. Il periodico Variety, che ha monitorato gli ascolti, ha riscontrato un crescente interesse. L’ultima udienza è stata seguita da 1,2 milioni di persone, il doppio della prima. Nelle sei settimane di udienze, in tempo reale frammenti di testimonianze e arringhe venivano viralizzate sui social network. Da YouTube a TikTok, i video hanno invaso la mediasfera. Inevitabilmente, la proiezione mediatica ha cambiato anche le strategie processuali. I team legali hanno ingaggiato spin doctor per orientare l’opinione pubblica in favore del proprio cliente, confidando che ciò potesse alla lunga influenzare, anche inconsciamente, la giuria. Il caso ha riacceso il dibattito sul processo mediatico. Michele Dauber, docente alla facoltà di legge di Stanford, ha obiettato: «Permettere la messa in onda di un processo è la decisione peggiore a cui si possa pensare in un contesto di violenza domestica e abusi sessuali». Gli avvocati hanno dato battaglia in aula con diverse strategie. Heard Elaine Bredehoft, avvocato di Amber, ha provato a fermare le trasmissioni; al contrario Ben Chew, avvocato di Depp, era favorevole, argomentando che era stata la donna a mediatizzare il caso, con un articolo su un giornale da cui era scaturita la querela (per la verità, in quell’articolo Depp era evocato ma non nominato). La corte ha scelto di consentire la più ampia conoscenza della vicenda da parte dell’opinione pubblica, anche per evitare che la stampa ricorresse a metodi spregiudicati per procurarsi gli atti processuali. Nei mesi scorsi, il tribunale di Bologna aveva consentito la trasmissione su YouTube del processo sulla strage del 2 agosto 1980. Ma sono eccezioni: in Italia la pubblicità dei processi è garantita solo da Radio Radicale. Eppure qualcosa si muove. Con la stessa motivazione della giudice della Virginia, e per coincidenza proprio nel giorno della sentenza della corte di Fairfax, a un continente di distanza il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha emesso un provvedimento organizzativo in materia di comunicazione giudiziaria che segna una svolta nello stantio dibattito scaturito dall’approvazione, sei mesi fa, della riforma Cartabia rubricata, non del tutto propriamente, alla voce «presunzione di innocenza». La circolare Cantone applica la riforma smarcandosi da automatismi e rigidità proibizionistici. Contestualizza la preoccupazione della Cartabia di salvaguardare dignità, reputazione e riservatezza delle persone coinvolte in vicende giudiziarie in una lettura sistematica del regime di segretezza e pubblicità delle informazioni di fonte giudiziaria. E traduce in prassi un principio già affermato sia dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che dal procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani. Entrambi, infatti, «si sono espressi ritenendo configurabile un legittimo interesse dei giornalisti a ottenere copie di atti processuali non più coperti da segreto, sia pure utilizzando necessarie cautele a tutela dei terzi interessati». Analoghe aperture «al corretto esercizio del diritto di cronaca» erano venute, sia pure prima della riforma del 2021, dai procuratori di Napoli Giovanni Melillo (ora procuratore nazionale antimafia) e di Potenza Francesco Curcio. Ora Cantone, combinando alcuni articoli del codice di procedura penale, istituzionalizza la facoltà (non il diritto automatico) per i giornalisti di accedere ad atti giudiziari non più segreti come ordinanze cautelari, decreti di perquisizione e sequestro. Stabilisce criteri «per l’esercizio del diritto/dovere di informazione», impone «la specificazione delle ragioni che rendono necessaria la conoscenza diretta dell’atto processuale», fissa limiti «ricavabili da altre norme dell’ordinamento, nonché dal codice della privacy». «In particolare a titolo esemplificativo – scrive Cantone – l’ostensione dell’atto non deve interferire con le indagini in corso, non deve ledere i diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o di terzi, non deve comportare comunicazione di dati sensibili o di notizie o immagini potenzialmente lesive della dignità e riservatezza delle vittime e delle persone offese dei reati, a maggior ragione se si tratta di minori». Più in generale, la disponibilità di informazioni giudiziarie non rappresenta per il giornalista una «licenza di uccidere». Restano ferme tutte le norme sui limiti del diritto di cronaca. Ma il metodo Cantone sposta la linea del fronte da monte (accesso alle informazioni) a valle (uso che se ne fa). Si tratta di uno spostamento copernicano: da un’impostazione blindata sulla proibizione a una fondata sulla responsabilità professionale, giudiziariamente filtrata e deontologicamente sorvegliata. Non mancheranno proteste (gli avvocati hanno già sollevato timori auspicando «massima oculatezza», e lo stesso Cantone ne dà conto nel suo provvedimento) né difficoltà applicative. Tempi, modi, discrezionalità delle autorizzazioni di un procuratore ai giornalisti dovranno essere valutati con attenzione. Certo vietare – non solo in questo campo - è più facile. Ma anche ipocrita, perché consente di salvare la coscienza collettiva facendo finta di non vedere il mercato parallelo che inesorabilmente si sviluppa all’ombra di norme draconiane e impettiti gendarmi, in una notte in cui tutte le notizie sono nere. Le scelte della giudice Azcarate e del procuratore Cantone sono rischiose. Gli argomenti controvertibili. Gli esiti non scontati. La comunicazione non è un pranzo di gala. Ma negare la conoscenza delle vicende giudiziarie all’opinione pubblica in ossequio a un cieco proibizionismo non è gratis. I processi segreti sono tipici dei regimi totalitari, quelli pubblici delle democrazie.
Johnny Depp e Amber Heard, un processo-reality tra droga, lusso e volgarità: l’altro volto di Hollywood. Matteo Persivale su il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.
Scene da un matrimonio, il film per la tv di Ingmar Bergman del 1973, quasi mezzo secolo dopo rappresenta ancora il sommo esempio del modo in cui l’arte può raccontare la disgregazione di un amore attraverso il sublime. Le scene dal matrimonio Depp-Heard, in diretta tv e in streaming su YouTube, Facebook, Twitter, TikTok («trial by TikTok», processo via TikTok l’ha ribattezzato la solitamente pacata Bbc) per sei settimane dal tribunale della Virginia nel quale ieri sera è stato pronunciato il verdetto dei sette giurati, purtroppo non avevano niente di bergmaniano, niente di sublime, solo l’oceano di volgarità delle reciproche accuse di violenza, l’abuso di droga e alcol, i messaggini irriferibili, il duello dei periti da 600 dollari l’ora (quelli a buon mercato) o 1.000 dollari (quelli più costosi). Le interazioni sui social media hanno cancellato la guerra in Ucraina, l’inflazione-record, il Covid, l’aborto che presto tornerà illegale negli Usa, la scalata a Twitter di Elon Musk: Depp contro Heard 24 ore su 24, con il canale dedicato alla diretta, Law & Crime, ha polverizzato un record che a nessuno sembrava possibile, superando il miliardo di clic su dirette, siti internet e quotidiani, serotini riassunti della giornata di dibattimento. Per sei settimane il mondo ha potuto guardare in diretta il reality show — più freak show da circo di una volta che reality, in effetti — di tutto quello che avevamo sempre sospettato su Hollywood nei momenti di pessimismo: soldi, droga, alcol, aerei privati, alberghi di lusso, sganassoni, e un’infinita sfilata di galoppini, «assistenti», avventizi, parrucchieri, truccatrici, portieri, cascherini, la variegata fauna di coloro che circondano le «celebrities» creando — quando funziona, cioè non in questo caso — un cordone sanitario che li distacca e li protegge dal mondo esterno. Lei: «Si è versato una maxipinta di vino». Lui: «Sei solo un avanzo di night, una ex spogliarellista alla canna del gas». Lei: «Se ne girava per la casa con l’affare sempre di fuori». Lui: «Bevevo whisky di mattina perché l’happy hour è a tutte le ore». Lui, nei messaggini a un amico: «Affoghiamola prima di bruciarla!!!...». Il portiere che nega di aver visto Heard ferita, ma lo fa collegato in remoto, dalla sua auto, fumando una grossa sigaretta elettronica che riempie di una fitta nebbia l’abitacolo. Gli unici sono stati quelli della lunga confessione di Depp sulla sua infanzia e gioventù, argomenti dai quali si era sempre tenuto lontanissimo in 37 anni di carriera hollywoodiana. L’infanzia nel natio Kentucky come una pièce di Tennessee Williams: il padre debole e la madre mostruosa che si faceva beffe dello strabismo di Johnny («Mi chiamava orbo, occhiotorto, rideva della benda che dovevo portare sull’occhio sano per allenare quello malato: avevo cinque anni»), le botte, le cinghiate («Ricordo la cintura di cuoio chiaro»), il padre che abbandona i figli e la rassegnazione di Johnny («Capii che non avevo il potere di convincerla a cambiare»). E poi la parata di esperti, i periti di parte. L’esperto di «big data» che ammette di non saper determinare con precisione la cosa per la quale è stato chiamato (da Heard). L’ex agente di Depp che tra un sorso e l’altro d’un beverone a base di caffè liquida la fine della sua carriera da star con «aveva debiti, arrivava in ritardo, ma non tocca più a me venderlo». L’esperto mandato da Heard che spiega «guadagnò 1 milione per Aquaman, 2 milioni per Aquaman 2, la sua stella era in ascesa», poi però l’esperto mandato da Depp affonda la tesi, «se il suo momento da “è nata una stella” era nel 2018, perché subito dopo venne pagata solo 200 mila dollari a episodio per un telefilm?». Il linguaggio brutale di Hollywood del box office e del potere temporale che da esso deriva, almeno fino a una causa civile di sei settimane, lei e lui con gli sguardi che sprizzano odio e disprezzo, una causa con un vincitore e due sconfitti, strana la vita delle star di Hollywood anche in questo caso.
Perché Johnny Depp ha vinto. E perché Amber Heard avrebbe perso comunque. Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 3 Giugno 2022.
I sette giurati del tribunale di Fairfax, in Virginia, hanno deciso: le accuse di violenze domestiche di cui l’attrice scrisse sul «Washington Post», riferendosi senza nominarlo all’allora marito, sono diffamatorie. E per questo dovrà pagare 10 milioni di dollari di risarcimento danni. Matteo Persivale racconta come si è arrivati a questa sentenza. Mentre Chiara Severgnini spiega perché il web aveva stabilito molto prima la colpevolezza di lei
Sì, quanto affermato da Amber Heard era falso. Sì, aveva un’implicazione diffamatoria nei confronti di Johnny Depp. Sì, l’implicazione diffamatoria è stata progettata da Amber Heard. E sì, Johnny Depp ha dimostrato con prove chiare e convincenti che la signora Heard ha agito con vera malizia. Rispondendo alle domande della giudice Penney Azcarate, i sette giurati del tribunale di Fairfax, in Virginia, hanno deciso: le accuse di violenze domestiche di cui Amber Heard scrisse in un articolo sul Washington Post, riferendosi senza nominarlo all’allora marito Johnny Depp, sono diffamatorie. E per questo dovrà pagare 10 milioni di dollari per risarcimento dei danni. Matteo Persivale ci spiegherà in questo episodio del podcast «Corriere Daily» come si è arrivati a questa sentenza, dopo un processo che un bel pezzo di mondo si è fermato a guardare. Mentre Chiara Severgnini ci dirà perché Amber Heard avrebbe perso anche se avesse vinto.
FullscreenDepp-Heard, perché Amber ha perso? (nel processo più pazzo del mondo). Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2022.
I lividi, le foto senza data, i video (e Kate Moss): così l’avvocata di Depp ha messo in crisi Heard.
La nave pirata di Johnny Depp — avvocati di lusso, periti da mille dollari l’ora, Kate Moss testimone a sorpresa come nei vecchi telefilm di Perry Mason, la bizzarra sfilata di deposizioni raccolte tra assistenti, ex agenti, portieri delle ottime e abbondanti dimore hollywoodiane — è arrivata in porto contro ogni pronostico della vigilia, dopo le sei settimane di navigazione attraverso il processo più pazzo del mondo (il New York Post ieri in prima pagina lo definiva così, «bonkers») in diretta streaming che ha ipnotizzato i social media.
La causa
Ma come ha fatto Depp a vincere una causa per diffamazione che la maggior parte degli esperti considerava difficilissima? La Costituzione americana riserva alla libertà di parola un ruolo straordinariamente importante: sui personaggi pubblici si può dire e scrivere di tutto o quasi grazie alla sentenza della Corte Suprema «New York Times Co. v. Sullivan» (1964). I personaggi pubblici come Depp sono considerati legittimo bersaglio a meno che le critiche siano state fatte con «actual malice», con dolo effettivo, mentendo sapendo di mentire per recare danno, ostacolo difficilissimo da superare per gli avvocati. Ma una delle prime cose che insegnano nelle facoltà di Legge dei Paesi come l’America nei quali vige la tradizione della common law è il principio falsus in uno, falsus in omnibus : il testimone che mente su qualcosa non è più credibile. Ecco allora che la strategia del Team Depp, semplice e rischiosa, è stata quella di seminare dubbi sulla credibilità dell’ex moglie Amber Heard, e perfino sulla sua buona fede. E i sette giurati hanno deciso che Heard ha agito con «actual malice», «dolo effettivo», nei confronti di Depp, calunniandolo.
I legali
Il dibattimento sarà studiato nelle facoltà di Legge come ai suoi tempi lo fu quello di O.J. Simpson: gli avvocati di Depp, capitanati da Camille Vasquez, hanno fatto ammettere sotto giuramento a Heard che la donazione in beneficenza di 7 milioni di dollari (ricevuti da Depp al momento del divorzio) promessa non è mai avvenuta. E l’attrice, molto irritata, si è impelagata in una discussione sul significato letterale di «promettere» che non le ha giovato. Altri momenti decisivi: le bugie inutili. Heard che prima nega il suo coinvolgimento poi ammette che i video delle sue liti con Depp girati di nascosto non sono stati mandati «personalmente» da lei al sito scandalistico Tmz ma solo lei e i suoi avvocati avevano i video. Heard che insiste di non aver avvisato i paparazzi di una sua apparizione in tribunale con un livido sul viso.
La giuria
Perché sabotare così la propria credibilità? Mistero. Così, quando la giuria ha visto prove spiacevoli come i metadati spariti dalle fotografie digitali dei presunti lividi lasciati da Depp sul suo volto (il sospetto è che fosse uno stratagemma per non far vedere che le foto erano state alterate), la conclusione è stata: Heard mente sulle cose piccole. E su quelle grandi? Era davvero l’unico dubbio da non suscitare nella giuria, che aveva peraltro già visto l’orribile foto delle feci da lei lasciate nel letto di Depp (sosteneva che fossero dello Yorkshire, del peso di 2 kg). Che dire dell’ospitata a un famoso talk show, dove apparve in ottima forma, meno di 24 ore dopo che, secondo lei, Depp l’aveva pestata a sangue lasciandole occhi neri e naso sanguinante? I testimoni che hanno giurato di non aver mai visto lividi o segni di percosse sul suo volto? E così via, in una serie di vittorie per Depp culminata con la testimone a sorpresa Kate Moss che la scorsa settimana ha smentito Heard («Non mi ha mai picchiata e non mi spinse mai giù dalle scale»), l’ultima mossa vincente degli avvocati dell’attore. Ieri la foto di Moss — che è andata a trovare Depp nel backstage del suo concerto alla Royal Albert Hall lunedì sera — era in prima pagina del Daily Mail: «È stata lei a salvare Johnny?».
M. Per. per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2022.
Tarana Burke, co-fondatrice del mo-vimento #MeToo, ha dichiarato dopo l'annuncio della sentenza del processo Depp-Heard: «Il modo in cui #MeToo è stato cooptato e manipolato durante il processo "Johnny Depp contro Amber Heard" è una catastrofe tossica e una delle più gravi diffamazioni del movimento che abbiamo mai visto.
Nelle ultime sei settimane ci siamo trovate di fronte a vere e proprie prese in giro del tema degli abusi, della vergogna e della colpa. Innumerevoli titoli che proclamano la morte di #MeToo. Notizie piene di click bait e, come conseguenza, le sopravvissute coperte di ridicolo.
Quello che non abbiamo visto, però, sono titoli e conversazioni che chiedono, cosa dobbiamo fare per evitare che qualcun'altra debba dire #MeToo? Quello che abbiamo sperimentato nel processo Depp-Heard è un caso di studio su come i movimenti sociali e politici vengano usati in modo improprio, e usati come armi contro le persone che dovrebbero proteggere.
Ma c'è una cosa più grande di questa sentenza, di questo processo, e di questa giuria: c'è un movimento composto da milioni di sopravvissute che lottano per la loro dignità e il loro diritto a chiedere giustizia.
E c'è un Paese che deve ancora fare i conti con il motivo per cui è così concentrato sul dolore e sull'angoscia della violenza, piuttosto che sui modi per risolverla. #MeToo è il più grande riconoscimento di sempre, da parte dei sopravvissuti, di quanto la violenza sessuale sia pervasiva.
Da quando l'hashtag è diventato virale, molte cose si sono spostate verso narrazioni sfumate sulla sopravvivenza e sull'impatto diffuso e a lungo termine della violenza sessuale».
Elaine Bredehoft, avvocata del team di Amber Heard, ha detto alla Nbc che per colpa delle riprese tv del processo diffuse dai social media l'aula di tribunale è diventata «uno zoo» e che il verdetto ha mandato «un messaggio orribile» (su TikTok hashtag come #JusticeforJohnny et similia sono stati visti 19,8 miliardi di volte, mentre i video di #JusticeforAmberHeard sono stati visti 81 milioni di volte, ndr).
«Come poteva la giuria sfuggire all'influenza dei social? - ha aggiunto Bredehoft - Tornavano a casa tutte le sere. Hanno famiglia. Le famiglie sono sui social. Abbiamo avuto una pausa di dieci giorni nel mezzo del processo. Non è possibile che non possano esserne stati influenzati.
È come il Colosseo nell'antica Roma, ero contraria alla presenza delle telecamere nell'aula del tribunale, l'ho fatto mettere agli atti per la natura delicata di questo procedimento. Ma le telecamere hanno trasformato tutto in uno zoo». Bredehoft ha anche detto che farà appello.
Amber Heard "fregata dalla sorella", il giudice sotto anonimato rivela: perché ha vinto Johnny Depp. Libero Quotidiano il 04 giugno 2022.
Su Tik Tok si è palesato, protetto dall'anonimato, un uomo che dichiara essere uno dei sette giudici che hanno deliberato sul caso più seguito negli ultimi tempi, quello tra gli attori Jonny Depp e Amber Heard. Il presunto giudice nel video da ragione alla star di Pirati dei Caraibi affermando che la Heard, all'interno della coppia, sarebbe la vera manipolatrice.
"Voglio rimanere anonimo, ma voglio condividere alcune considerazioni riguardo il processo”, afferma il giudice misterioso. Dopo essersi complimentato con la legale di Depp, l'ormai famosissima Camille Vasquez con la quale si pensa l'attore abbia intrapreso una relazione, ha criticato la sorella di Heard, Whitney. Quest'ultima ha testimoniato in suo favore ma: "Sembrava che stesse appoggiando Amber per costrizione, che fosse stata manipolata da lei. Sembrava che non volesse neppure essere lì". Secondo il giudice infatti Whitney non avrebbe detto la verità poiché costretta dalla sorella a proteggerla.
L'anonimo ha poi dichiarato che, secondo lui, anche mentre l'attrice testimoniava le sue dichiarazioni contro Depp erano tutte una farsa: "Tutto sembrava così finto, come quando cercava di guardarmi negli occhi, facendomi sentire a disagio, tanto che ho smesso di guardarla, quando rispondeva”. Il giudice ha poi aggiunto: “Ho continuato ad ascoltarla e sembrava che stesse mentendo a tutto spiano". Un utente di Tik Tok gli ha poi domandato se le sue teorie fossero basate anche sulla sua esperienza personale e lui ha risposto sì: “Lei mi ricordava una mia ex, quando mi manipolava”.
Dagotraduzione da Daily Mail
Ora spunta un uomo che afferma di essere uno dei sette giurati che hanno espresso il verdetto nel processo più famoso degli ultimi tempi, quello della star Johnny Depp contro l’ex moglie Amber Heard, vinto clamorosamente dell’ex “Pirata dei Caraibi.
E svela le motivazioni che hanno spinto la giuria popolare a condannare la Heard. Secondo l’uomo che ha pubblicato un video su TikTok dicendo però di voler rimanere anonimo, i giurati durante il processo hanno avuto la sensazione che Heard fosse inaffidabile e “istigatrice” delle violenze coniugali e che trovavano Depp molto più credibile.
È difficile stabilire se l’uomo sia davvero uno dei giurati del processo, visto che i nomi dei giurati sono stati sigillati per un anno dalla fine del processo, ma i membri della giuria possono farsi avanti volontariamente e parlare delle proprie esperienze.
“Qual è stato il momento in cui hai pensato: se sta mentendo su questo, sta mentendo su tutto?”, ha chiesto un utente di TikTok.
L’uomo ha risposto: “Direi, il fatto della donazione in beneficenza”.
Heard infatti aveva promesso di donare metà della somma corrispostale da Depp nell’accordo di divorzio, 7 milioni di dollari, all'ACLU, ma Terence Dougherty, direttore operativo e consigliere generale dell'ACLU, nella sua testimonianza ha detto che ciò non è mai avvenuto.
Quando è stata interrogata sulla bugia, la Heard ha affermato di aver usato la parola "donato" e "promesso" come sinonimi, un commento che, secondo l’anonimo giurato, sarebbe stato accolto con incredulità dagli avvocati di Depp.
L'utente di TikTok ha quindi elogiato l'avvocato di Depp, Camille Vasquez - dicendo che "ha fatto un ottimo lavoro" - ed è stato critico nei confronti della sorella di Heard, Whitney, che ha testimoniato per Amber.
"Sembrava sostenere sua sorella per obbligo", ha detto il presunto giurato.
"Non sembrava che volesse essere lì."
Alla domanda se la giuria "odiasse" Heard, il giurato ha risposto: "Non la odiava, ma la maggior parte di giurati non provavano empatia".
I giurati, a Fairfax, in Virginia, hanno trascorso sei settimane ad ascoltare le prove e poi 12 ore a valutarle prima di emettere il verdetto finale mercoledì pomeriggio, che ha dato ragione a Depp.
"Oggi è stato il mio ultimo giorno in cui sono stato giurato nel processo Amber Heard-Johnny Depp", ha iniziato il giurato, nella sua prima clip di TikTok.
"E vorrei rimanere anonimo, ma ho pensato di dare un'idea dei miei pensieri sul processo."
L’uomo ha detto che non era particolarmente informato sull'attrice texana, 36 anni, né su Depp, 58, prima dell'inizio del processo.
"Non seguo molto la cultura pop, quindi non ero davvero un fan di Johnny Depp o Amber Heard, quindi sento di poter essere stato piuttosto imparziale sull'intera faccenda", ha detto.
"Ma fin dall'inizio, quando Amber Heard stava testimoniando, tutto sembrava così fuori luogo dal modo in cui continuava a guardarmi negli occhi, e mi ha messo estremamente a disagio, al punto che non l'ho più guardata, quando lei rispondeva.
"Mi limitavo ad ascoltare attentamente, e tutto ciò che stava dicendo mi sembravano cazzate".
Il presunto giurato ha detto che, dopo la fine del processo, è andato su TikTok e "mi sbalordisce come ogni singola persona sembrava commentare quanto fosse strano" il suo sguardo.
"Questa era la mia sensazione istintiva", ha detto.
“Amber Heard. Che pazza”.
Un utente di TikTok ha commentato: “Mi sono sentito male per voi ragazzi”.
Lui ha risposto: "Non potevo nemmeno più guardarla".
In un secondo video, gli è stato chiesto come si sentiva riguardo all'avvocato di Heard, Elaine Bredehoft, "che sostanzialmente ha accusato tutti voi giurati di non rispettare le regole?".
Il giurato ha risposto: “Sto cercando di guardarla con empatia e comprensione”.
«Non sono sicuro che voi ragazzi abbiate notato quanto Amber Heard stesse manipolando Johnny Depp”. “Non avrebbe mai potuto ammettere di essersi sbagliata”.
“Da come gli parlava nelle registrazioni: lei non ha mai ammesso di aver fatto qualcosa”.
“E lo ha portato al processo”.
L’uomo poi ha continuato: “Sembra che noi esseri umani portiamo naturalmente nella tomba le nostre verità personali quando non possiamo ammettere di avere torto”.
“Quindi sento che è ciò che la sua squadra sta faceno ora, è una campagna diffamatoria, per non ammettere di essere colpevoli. Perché se dovessero solo nascondersi e accettare il verdetto, in un certo senso agli occhi del pubblico potrebbe essere visto come un'ammissione di colpa”.
“Quindi penso che questo sia solo il loro modo di cercare di farsi strada con le unghie e con i denti nel tentativo di salvare la dignità, in qualche modo, per Amber Heard."
Un utente di TikTok ha chiesto anche se è ha agito per esperienza personale.
"Sì, mi ha ricordato una mia relazione, come il mio ex partner era solito tentare di manipolare", ha detto.
"Mi sono fidato del mio istinto."
Gli è stato poi chiesto in dettaglio come gli altri quattro uomini e due donne hanno deciso l'importo del risarcimento.
Depp ha fatto causa per 50 milioni di dollari di mancati guadagni in seguito alla pubblicazione di un articolo sul Washington Post scritto da Amber Heard sulla loro relazione (anche se Depp non era mai nominato) che avrebbe danneggiato la sua carriera;
Heard ha contro-citato in giudizio Depp per 100 milioni. La giuria ha assegnato a Depp 15 milioni di dollari - 10 milioni di risarcimento danni e 5 milioni per la sanzione per diffamazione.
Secondo lo statuto della Virginia, i danni punitivi di Depp sono limitati a $ 350.000, per un totale di poco più di 10 milioni di dollari.
Heard ha ricevuto 2 milioni di dollari risarcimento danni. "Amber Heard ha ricevuto due milioni di dollari in questo caso per un paio di ragioni diverse", ha spiegato il giurato.
"Se ricordi, in questo processo ha anche citato in giudizio Johnny Depp per diffamazione, a causa delle dichiarazioni degli avvocati di Johnny. Che stavano affermando che Amber avrebbe messo a soqquadro l'appartamento per farlo sembrare molto peggio agli occhi della polizia”.
Alla domanda sul motivo per cui non hanno assegnato a Depp l'intero importo di 50 milioni di dollari, ha risposto: "L’importo è irrealistico e non tutti i giurati hanno concordato sugli importi. E’ stata trovata una via di mezzo”. In ogni caso, il presunto giurato ha voluto rimarcare che quasi tutti sentivano che Depp fosse più credibile.
Johnny Depp e Camilla Vasquez? "Prima del processo...": voci piccanti sulla star e il suo avvocato. Libero Quotidiano il 03 giugno 2022
Il caso diventato virale su TikTok e che ha tenuto incollate alla televisione milioni di persone è quello tra i due attori Jonny Depp e l'ex moglie Amber Heard. La coppia finita in tribunale a causa di un matrimonio pieno di orrori e di scheletri nell'armadio, ha visto la vittoria della star di Pirati dei Caraibi sull'attrice di Aquaman. Merito anche dei nove legali che hanno sostenuto e difeso Depp nelle sette settimane di udienza. Una fra tutte, però, si è distinta: Camille Vasquez.
In meno di venti minuti dall'inizio del processo tutti parlavano di lei, avvocatessa specializzata in cause per diffamazione, ha letteralmente distrutto Amber Heard e il suo tentativo di mettere in cattiva luce Depp. Il suo controinterrogatorio è stato di vitale importanza tanto da diventare virale nelle dirette televisive attirando tutta Hollywood a sé. Proprio grazie a questa popolarità si sarebbe anche iniziato a pensare a una liaison tra Camille e Depp. Secondo le indiscrezioni potrebbe essere nato un rapporto di intimità tra i due durante la preparazione del processo. E, in effetti, la confidenza tra i due in aula è ai massimi livelli...
Quando venne chiesto a Camille se il rapporto con il suo cliente fosse andato oltre la professione, a onor del vero, lei ha drasticamente smentito ogni voce bollandole come prive di ogni fondamento e buonsenso. Secondo quanto ha affermato si tratterebbe quindi solo ed esclusivamente di 'lavoro'. Se così fosse, però, non si potrebbe sicuramente biasimare Depp in quanto la Vasquez vanta una bellezza disarmante oltre che un astuzia fuori dal comune. Chissà se ci saranno altri sviluppi su questo nuovo e piccante 'caso'.
Il processo Depp è stato uno show? Sì, ma da noi la gogna arriva prima dell’aula. A chi si indigna per l'esposizione mediatica della vicenda americana, bisogna ricordare che in Italia l’esposizione delle bestie in gabbia avviene quasi esclusivamente prima del dibattimento. Nella fase nella quale dovrebbe invece imporsi la più assoluta segretezza degli atti. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 3 giugno 2022.
Dunque un banale processo per diffamazione sarebbe, numeri alla mano, il processo del secolo. L’hashtag che inneggiava alle ragioni del bel tenebroso è stato cliccato, dicono, un miliardo e 200mila volte. I video delle udienze non hanno rivali in termini di visualizzazioni sulla rete. Media di tutto il mondo, per conseguenza, hanno dato alla vicenda ed al suo esito il massimo rilievo.
È del tutto ovvio che la notorietà planetaria dei protagonisti da un lato, e la strettissima privatezza delle tematiche trattate dall’altro, abbiano costituito la miscela esplosiva che ha fatto deflagrare questa formidabile, morbosa attenzione della pubblica opinione. Piaccia o meno, nulla può funzionare meglio, in termini di attenzione mediatica, che consentire di guardare dal buco della serratura la vita privata di un idolo.
Quello su cui però sarebbe utile – e forse doveroso – soffermarsi, è come tutto ciò possa conciliarsi con un processo, e dunque con la serenità ed equità del suo svolgimento e della sua decisione. Il tema è annoso, e ci interroga su una questione cruciale: quali siano, o meglio quali debbano essere in una società democratica i limiti di esposizione mediatica di un processo. Ma una riflessione si impone. Questo che da più parti è stato definito “uno zoo”, era un dibattimento, cioè una fase procedimentale fatta di udienze pubbliche, dove la prova si forma davanti al giudice che ne governa le regole, ed alla giuria popolare che pronuncerà la sentenza. Un processo civile (cioè destinato a concludersi con sanzioni risarcitorie, non con pene detentive), ma per il resto del tutto assimilabile ad un processo penale.
Nulla a che fare – questa è la riflessione – con la vergogna alla quale siamo abituati nel nostro Paese, dove l’esposizione delle bestie in gabbia avviene quasi esclusivamente prima del dibattimento, cioè prima della fase pubblica della vicenda giudiziaria. In Italia, come è noto, l’attenzione morbosa, l’interesse mediatico, il dibattito sui media e sui social, e dunque il giudizio sociale di innocenza o di colpevolezza, si consuma sempre nella fase nella quale dovrebbe invece imporsi la più assoluta segretezza degli atti.
Viene perciò da sorridere, ed anche forse da indignarsi, nel leggere commenti pensosamente critici sulla indubbia sguaiataggine di questa vicenda processuale americana, pensando però ai giochi al massacro che qui si consumano su persone solo indagate, assistite inutilmente dalla presunzione costituzionale della propria innocenza, e svergognate – per esempio – nelle loro conversazioni telefoniche squadernate sui giornali o nelle “inchieste” giornalistiche televisive, mesi o spesso anni prima del processo, a seguire il quale, ovviamente, non andrà più nessun cronista, come infatti puntualmente accade nelle nostre aule giudiziarie.
È comprensibile che i difensori della signora Amber Head abbiano attribuito alla idolatrata notorietà di Depp, e dunque alla forse imprudente decisione di ammettere le telecamere in aula, l’esito sfavorevole del processo deciso da una giuria inevitabilmente condizionata da un simile putiferio. Ma chissà cosa direbbero i colleghi se sapessero che qui in Italia le conversazioni telefoniche le avremmo lette ben prima del dibattimento sul Fatto Quotidiano, i video delle liti casalinghe presentate con orgoglioso ghigno digrignante da Sigfrido Ranucci su Report, mentre Kate Moss sarebbe stata previamente intervistata da Barbara D’Urso su Canale 5; e tutto ciò in nome del diritto di cronaca e del diritto della pubblica opinione ad essere informati. Chissà cosa direbbero, se sapessero che la loro assistita sarebbe stata processata e verosimilmente condannata anni prima del processo, ed a prescindere da esso.
Prima del quale sarebbero stati già pubblicati almeno un paio di libri contenenti tutti gli atti coperti da segreto; mentre sulla vicenda sarebbe stata prodotta – sempre prima del processo – una serie televisiva dal titolo, chessò, “Mafia Casalinga”. E chissà cosa direbbero se sapessero che qualunque proposta di legge volta a prevenire simili vergogne, sarebbe naufragata a furia di girotondi e manifestazioni contro le “leggi bavaglio”. Voi, cari colleghi, protestate, non senza ragione, per questa celebrazione mediatica planetaria del processo; ma credetemi, per come siamo messi noi qui, non riusciamo a fare altro che invidiarvi.
Mattia Feltri per “La Stampa” il 4 giugno 2022.
Imperversa una domanda: la vittoria in tribunale di Johnny Depp contro Amber Heard, segna la fine del #metoo?
Ma quello che mi domando io è se esista una risposta giusta a una domanda sbagliatissima.
Il processo serviva a stabilire se Heard avesse diffamato Depp dandogli del violento, ed è diventato un giudizio universale sugli uomini e sulle donne, se gli uomini accusati siano tutti colpevoli, ovvero porci maneschi prevaricatori, e le donne accusatrici tutte vittime, ovvero succubi di una cultura brutale e bestiale.
O, all'opposto, se tutti gli uomini accusati siano diffamati e se tutte le donne accusatrici siano infide bugiarde. Ha vinto Depp, e la sua assoluzione è l'assoluzione di tutti gli altri? E ha perso Heard, e la sua condanna è la condanna a tutte le altre?
Il dibattito dimostra quanto sia posta male la questione, quanto pretendano una parte e l'altra, rappresentate da cortei di supporter con cartelli e cori fuori dal palazzo di giustizia, una resa dei conti spietata, e non per quello che si è fatto, ma per quello che si è e si simboleggia, per nascita, per classe sociale, per genere, per colore della pelle. Un approccio filosofico che abbiamo ben visto, qui in Europa, nel Novecento.
I nemici del #metoo esultano e i sostenitori si affliggono e protestano, ma siccome la questione è seria, se fosse un dibattito serio il processo non l'avrebbe spostato di un millimetro, né con un verdetto né con l'altro. Del processo in sé a un certo punto non importava più a nessuno, importava del processo in funzione di una generale battaglia di giustizia, o più precisamente di una generale e cieca vendetta.
DOPO LA CONDANNA DELL’ATTRICE. Nel processo Heard-Depp la verità è diventata un pantano. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 03 giugno 2022
Nessuno saprà mai cosa è successo davvero, ma ci sono alcune cose che sono vere al di là della sentenza e che ci lasciano addosso la sensazione appiccicosa di aver partecipato a uno spettacolo pietoso che non ci riguardava
É finita come era chiaro che sarebbe finita e come non sarebbe dovuta finire, ovvero con una sentenza che decreta un vincitore – Johnny Depp – e che però, in fondo, dice che qualcosa ha vinto anche Amber Heard. Una sentenza che è il contrario di come sarebbero dovute andare le cose: dovevano perdere entrambi.
Lo spiega bene l’analista legale Danny Cevallos in un lungo articolo su Nbc News, in cui analizza il processo da un punto di vista tecnico e sostiene che la giuria abbia sbagliato tutto. Perché se è vero che l’ormai famoso articolo sul Washington Post in cui Amber Heard faceva riferimento agli abusi domestici subiti era diffamante, è vero che Amber Heard ha sempre mentito. Su tutto. Che non c’è mai stato un maltrattamento fisico o psicologico, che ogni singolo racconto e aneddoto è stato architettato per distruggere il suo ex marito.
Perché sarebbe bastato credere ad un solo racconto per stabilire che le sue parole non fossero diffamanti. Ma dal momento che non è stata creduta in nulla e si è ritenuto che abbia agito con dolo effettivo, non è ben chiaro perché abbia vinto contro l’ex avvocato di Johnny Depp, Adam Waldman, che l’aveva accusata di aver architettato un imbroglio ai danni di Depp e che accanto a Depp aveva perso la causa contro il Sun in Inghilterra.
Insomma: Depp è un picchiatore per la corte inglese, la vittima di un imbroglio per la corte americana. Amber Hard è una diffamatrice perché ha mentito sugli abusi e una diffamata perché è stata accusata di aver inventato gli abusi. Ecco perché non dovevano esserci vincitori ma solo sconfitti. Perché in questo processo a porte spalancate e forse senza neppure un tetto e le pareti, la verità è sempre stata un pantano.
Nessuno saprà mai cosa è successo davvero. È difficile perfino interpretare gli equilibri su cui si reggono le nostre, di relazioni, figuriamoci quanto può essere complesso comprendere i disequilibri su cui si è schiantata la relazione tra due attori che hanno raccontato di dita mozzate, feci nel letto e droga a colazione.
AUTOPSIA DI UN MATRIMONIO
Ci sono però alcune cose che sono vere, al di là di una sentenza che decreta un vincitore quasi assoluto, lasciandoci addosso la sensazione appiccicosa di aver partecipato a uno spettacolo pietoso, che non ci riguardava. É vero, per esempio, che questo processo non sarebbe mai dovuto finire in tv e su Youtube, che nessuno dei due avrebbe mai dovuto avere una telecamera puntata addosso a coglierne smorfie, sorrisi, stizza e complicità con gli avvocati.
È vero che si doveva evitare l’autopsia di un matrimonio, perché il rischio di buttare nel cesso la buona pratica di non esporre al tribunale del popolo chi racconta abusi domestici (chiunque esso sia) dovrebbe rimanere un cardine imprescindibile del buonsenso. Perché il rischio è esattamente ciò che si è verificato. Ovvero, che la giustizia diventi tifo.
Che chi racconta gli abusi non indossi il vestito della vittima perfetta, ma che sia –magari – un’attrice algida, bellissima, con lo sguardo duro e pettinature da severa istitutrice. Che sia ambigua, anche, che racconti perfino bugie, che dia l’idea di essere stata anche parte attiva in una relazione disfunzionale e non la fragile soccombente. Che non sia simpatica. Che abbia tentato di raccontare una storia malata come una storia in cui c’era un malato e basta.
Non dovevamo vedere il suo pianto asciutto, perché avevamo già deciso che mentiva e che non ci era simpatica. Che ogni suo sguardo e parola erano falsi e maldestri. Non bisognerebbe mai esporre nessuno che parla di abusi a tutto questo. Perché gli abusi, il racconto degli abusi, sono materia da maneggiare con attenzione, rispetto e prudenza fino all’ultimo, anche quando non ci convincono, anche quando ci sembra che qualcosa non torni, anche e soprattutto quando – come in questo caso – i fatti suggeriscono un’escalation di follia reciproca.
Tutto si è giocato sull’emotività, sulla delegittimazione della Heard, sulla lapidazione pubblica a colpi di tweet, meme, video, hashtag e fanbase. Per mesi ho assistito allibita alla scelta chirurgica delle foto da abbinare agli articoli sul processo, foto in cui Depp era quasi sempre sorridente, rassicurante la Heard cristallizzata in smorfie sadiche e deformanti. Inutile dire che se fosse stata la Heard a ridersela continuamente con i suoi avvocati, la lettura sarebbe stata: guardate come è beffarda. I sorrisi di Depp invece sono stati letti come la sua leggerezza sicura di fronte alle isterie di una pazza.
VITTIME E CARNEFICI
E a proposito di stato mentale vero o presunto, va aperto un altro capitolo. Depp ha ingaggiato una psicologa forense per interpretare la personalità della ex moglie. La diagnosi è stata disturbo borderline di personalità e disturbo istrionico. Depp, a sua volta, ha ammesso dipendenze da varie sostanze, dipendenze ampiamente documentate da filmati e foto.
Dunque, se tutto questo è vero, si tratta di due persone con dei problemi da risolvere. Eppure nessuno ha mai giudicato Amber Heard come una persona che andrebbe aiutata, vittima dei suoi stessi mostri, di un disturbo che andrebbe trattato da esperti. Lei è una megera sadica e opportunista con cui la vita doveva essere un inferno.
Dall’altra parte, invece, c’è un attore idolatrato, amato da tutte le generazioni, ormai non più giovanissimo, imbolsito, che fa un po’ malinconia perché, poverino, è vittima dei suoi mostri. Se li è trascinati dietro tutta la vita, povero uomo. E qui bisognerebbe aprire un’altra parentesi, ovvero su come la droga e le dipendenze siano fascinose e malinconiche nel ritratto maledetto dei famosi milionari e di come siano roba “da marcioni” nei poveri cristi, ma ci perderemmo.
Non ci perdiamo, però, se fissiamo un punto: la vita con una persona che ha dipendenze da alcol, psicofarmaci, cocaina non è una passeggiata nel bosco, ma questo, se quella persona si chiama Johnny Depp, sembra non avere alcun peso. «Cambiava personalità a seconda della droga che prendeva», ha raccontato Amber Heard. E in questo caso è difficile pensare che mentisse. Abbiamo visto le foto delle sue “colazioni”. Il suo dormire a terra stordito dalle sostanze. I calci ai mobili della cucina, le urla.
Ma l’idea romantica del maledetto – alla fine – cancella il sospetto che tutto questo possa diventare un atteggiamento abusante. Lo si assolve anche se lui ha 33 anni più di lei, anche se ha avuto una vita per disintossicarsi, anche se una persona che ha quelle dipendenze dovrebbe sapere bene che le relazioni, se non ci si cura, sono una palude piena di rischi, specie perché in quella palude si trascina sempre qualcuno con sé.
Ma Johnny, che avesse ragione o torto o metà e metà, era invincibile. Le ex compagne famose lo hanno difeso con affetto e onestamente si fa fatica a credere che nessuna di loro abbia mai patito quel suo abbrutimento, ma si sa, il tempo ingentilisce i ricordi (Kate Moss che racconta di essere scivolata sulle scale durante un temporale non era molto più credibile di Amber Heard che finge di cadere dalle nuvole quando le chiedono se abbia girato delle foto di Johnny strafatto a Tmz).
Molti attori e personaggi famosi lo hanno difeso. Perfino la sua avvocata Camilla Vasquez è diventata protagonista di una fantasia romantica («lei e Johnny si amano», dicevano i fan).
I MEDIA E AMBER HEARD
La stampa, con Amber Heard, è stata spietata. Non le ha perdonato nulla, ha analizzato perfino il suo linguaggio non verbale scorgendo bugie nelle labbra troppo serrate, ha ripescato vecchie storie dimenticando le vecchie storie di Johnny, ha assecondato la violenza dei social, ha ritenuto che in Amber Heard esistessero solo furbizia e malafede, come se anche la furbizia e la malafede non potessero essere immerse in una fanghiglia torbida assieme a molte verità.
Intendiamoci. Amber Heard non andava creduta aprioristicamente come nessuna presunta vittima, per giunta, ma andava ascoltata come ogni presunta vittima meriterebbe. Andava ascoltata con il rispetto che le si doveva, con la presunzione di innocenza che le si doveva, con il pudore che si doveva a lei e a tutta questa vicenda.
E no, non è vero che «adesso le donne faticheranno ad esser credute». Amber Heard, se ha mentito come stabilito dalla verità processuale, non rappresenta tutte le donne, rappresenta sé stessa, esattamente come Johnny Depp con i suoi mostri inseparabili non rappresenta tutti gli uomini, ma solo se stesso. Non è neppure la prima donna che mente, e non è questo il punto. Il vero passo indietro, in questo processo, lo ha fatto la capacità di ascolto. Tra il pirata fragile e la sciacquetta opportunista abbiamo deciso fin da subito che la seconda non avrebbe avuto scampo. Perché, come dice il pirata: «Figliolo, sono il capitano Jack Sparrow, comprendi?».
SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.
Amber Heard e l’odio online per le donne. Chiara Severgnini su Il Corriere della Sera il 3 Giugno 2022.
Il processo a Johnny Depp in Rete si è trasformato in «Tutti (e tutte) contro Amber Heard». E l’odio che l’ha investita riguarda tutte le donne, al di là del dolo effettivo che la giuria ha riconosciuto.
Perché il processo «Johnny Depp contro Amber Heard», in Rete, si è trasformato in «Tutti (e tutte) contro Heard»? L’odio verso l’attrice, poi giudicata colpevole di diffamazione, ha iniziato a montare fin dai primi giorni e ben presto ha assunto dimensioni grottesche. YouTube, TikTok, Instagram e Twitter si sono riempiti di giudizi crudi e minacce vomitevoli. Ora che la giuria popolare ha dato ragione a Depp, poi, gli haters sono ancora più agguerriti (e compiaciuti).
Gli algoritmi dei social, affamati di contenuti polarizzanti, ci hanno messo del loro. Ma questa violenza verbale affonda le sue radici nelle pieghe più profonde della nostra società. La Rete fa ai nostri istinti peggiori ciò che gli specchi dei luna park fanno ai nostri corpi: li esaspera, li ingigantisce. Ha il potere di slatentizzare pulsioni collettive che in realtà fanno già parte di noi. Come la misoginia. Dal processo sono emerse molte verità sgradevoli, su Heard. Ma anche Depp non ne è uscito bene, tra problemi con l’alcol e atteggiamenti violenti. La Rete, con lui, è stata comprensiva e compassionevole. Con lei, invece, è stata spietata. Perdonare gli uomini ci viene facile, ma odiare una donna ancora di più. Soprattutto se la sua condotta non è certo irreprensibile. Per questo, prima ancora del verdetto, Heard era già colpevole agli occhi della Rete. Per questo, secondo molti, ora merita di essere umiliata.
Parlarne è fondamentale, perché l’odio che l’ha investita ci riguarda tutte, al di là del dolo effettivo che la giuria ha riconosciuto. Online, ogni donna è sempre a un passo di distanza da un insulto. Per constatarlo, non serve essere una star. Pochi giorni fa, ho scritto un articolo sul processo per cui ho intervistato due esperte («Perché la Rete ha già deciso che Heard è colpevole?»). Tutte e tre siamo state bersagliate sui social. Ho chiesto a uno degli odiatori: «A cosa servono gli insulti a Heard?». Ha eluso la domanda: «Se li è meritati». La Rete che odia le donne non dubita delle proprie ragioni.
Il processo Depp e la causa delle donne dopo il #MeToo. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2022.
Adesso il rischio è di perdere di vista la tragedia vera di tante vittime di violenze che non osano denunciare.
Avendo fatto il giurato in un tribunale americano, ne ho ricavato un profondo rispetto per il modo in cui maturano i verdetti delle giurie popolari. Nel processo «Depp contro Heard» è stata raggiunta questa conclusione: l’attrice ha diffamato l’ex marito, ha agito con dolo per danneggiarlo. Semplificando un verdetto un po’ più complesso e bilanciato, ha vinto lui e ha perso lei. Ma questa non era più una vicenda privata, non soltanto. Aveva appassionato l’opinione pubblica, soprattutto il mondo giovanile. Molto prima che decidessero i giurati, un altro verdetto era stato pronunciato sui social media. Una petizione per «cancellare» Amber Heard dai suoi prossimi impegni di attrice aveva raccolto quasi cinque milioni di firme, mentre il processo era ancora in corso. È anche per questo che la conclusione viene giudicata come un colpo contro il tipo di femminismo rappresentato da #MeToo. Forse era inevitabile arrivare qui. Quel movimento era partito da un’esigenza fondamentale: denunciare, contrastare, estirpare il sessismo, a cominciare dalla piaga delle violenze o delle molestie contro le donne, in famiglia o nei luoghi di lavoro. Tra i primi casi agli albori del movimento c’erano state anche delle «donne del popolo», coraggiose quanto sconosciute. Ma rapidamente #MeToo aveva conquistato visibilità perché se n’erano impadronite delle celebrity di Hollywood. Come per altre cause progressiste — vedi i campioni multimilionari Black dello sport che boicottavano l’inno nazionale in nome dell’antirazzismo — quando le «avanguardie rivoluzionarie» sono una élite iper-privilegiata, eccitano risentimenti e contro-reazione da altre parti della società. #MeToo si era distinto anche per l’uso dei social media come tribunale di piazza, inappellabile, con il potere di emettere condanne sommarie, sospendendo la presunzione d’innocenza e le regole del diritto.
I suoi limiti erano stati avvertiti con inquietudine da alcune femministe storiche, che intuivano il suo innesto sulla tradizione puritana e sessuofobica degli Stati Uniti. Tra le prime voci critiche ci fu la scrittrice canadese Margaret Atwood, autrice di The Handmaid’s Tale, storia ambientata in una società totalitaria dove le donne sono proprietà dello Stato, il desiderio e il piacere sono banditi, l’atto sessuale è rigidamente pianificato a fini di procreazione. Una distopia ispirata al fondamentalismo puritano dei Padri Pellegrini che furono all’origine degli Stati Uniti. Di fronte al fenomeno #MeToo, Margaret Atwood pubblicò una lettera aperta molto polemica, di cui oggi torna in mente questo passaggio: «La mia posizione fondamentale è che le donne sono esseri umani, con tutto il ventaglio di comportamenti santi e diabolici che questo comporta, inclusi gli atti criminali. Non sono angeli incapaci di commettere il male. Se lo fossero, non avremmo bisogno di uno Stato di diritto col sistema giudiziario. Né credo che le donne siano come bimbi incapaci di prendere decisioni morali. Se lo fossero, ci ritroveremmo nell’Ottocento quando le donne non potevano essere titolari di proprietà, studiare all’università, decidere sulla riproduzione, e votare. Ci sono delle forze che la pensano così in America, ma di solito non sono considerate femministe. #MeToo è un sintomo di un sistema legale che non funziona. Troppo spesso, delle donne e altre vittime di abusi sessuali non sono riuscite ad avere giustizia attraverso le istituzioni o dentro le aziende, per cui hanno usato un altro strumento: Internet. Le stelle sono cadute dal cielo. Questo è stato molto efficace, ed è stato visto come un grande risveglio. Ma poi? Si può scegliere di far funzionare meglio la giustizia; oppure di farne a meno. Se aggiriamo il sistema legale, che cosa lo sostituirà? Quali saranno i nuovi poteri? Nei tempi estremi vincono gli estremisti. La loro ideologia diventa una religione, chiunque non scimmiotti le loro opinioni è visto come un eretico, un traditore, i moderati vengono eliminati».
Sulla stessa lunghezza d’onda, in Francia ci fu il cosiddetto «appello di Catherine Deneuve», che in realtà aveva cento firmatarie tra cui la grande filosofa Elisabeth Badinter. Prendeva proprio le mosse dal caso più celebre e più turpe di Hollywood: «Lo stupro è un crimine. In seguito allo scandalo Weinstein c’è stata una legittima presa di coscienza delle violenze commesse sulle donne, in particolare nel mondo del lavoro, dove certi uomini abusano del loro potere. Era necessaria. Ma quella liberazione della parola oggi si rovescia nel suo contrario: ci si chiede di parlare secondo le regole, di tacere ciò che disturba, e quelle fra noi che rifiutano i diktat sono trattate come delle traditrici, delle complici! È tipico del puritanesimo: fa suoi gli argomenti di protezione delle donne per incatenarle alla condizione di eterne vittime, poveri piccoli oggetti dominati dai diavoli fallocrati, come ai bei tempi della stregoneria. #MeToo ha scatenato sulla stampa e i social media una campagna di delazioni e di accuse pubbliche contro individui che, senza avere la possibilità di rispondere né di difendersi, sono stati catalogati come aggressori sessuali. Questa giustizia sbrigativa ha già fatto delle vittime, uomini sanzionati nella loro professione, costretti a dimettersi, talvolta solo per aver toccato un ginocchio, tentato di rubare un bacio, per aver parlato di cose intime in una cena di lavoro o per aver mandato un messaggio a sfondo sessuale a una donna con cui l’attrazione sessuale non era reciproca. La corsa febbrile a mandare i maiali al mattatoio, lungi dall’aiutare le donne a liberarsi, in realtà serve gli interessi dei nemici della libertà sessuale, gli estremisti religiosi, i reazionari, gli eredi di una morale vittoriana secondo i quali le donne sono esseri diversi, bambine col viso di adulte, in cerca di protezione...».
Ricordo Atwood, Badinter, Deneuve e tante altre femministe perché avevano intuito con anni di anticipo il pericolo di un esito alla Depp-Heard. Le rivoluzioni hanno in sé il germe della contro-rivoluzione. È bastato che il «pirata» Depp apparisse nel ruolo di una vittima, per far scattare l’identificazione e l’impulso di protezione in milioni di fan. Chi ha usato per anni il falò pubblico delle condanne sommarie, delle sentenze emesse dalla piazza digitale inferocita, deve mettere in conto il rischio che prima o poi l’ingranaggio divori chi lo ha inventato. Adesso il rischio, se dovesse davvero estinguersi #MeToo, è di perdere di vista una tragedia vera. Tante donne continuano ogni giorno ad essere vittime di violenze che non osano denunciare. Qualche celebrity arrivista e opportunista, che ha barato al gioco, danneggia chi non ha né il glamour né il potere né il denaro per ottenere giustizia.
È indispensabile aggiungere che l’Italia non è l’America. Se lo sfondo culturale del puritanesimo anglosassone ha visto attecchire delle forme estreme di «caccia ai peccati del maschio», in Italia il sessismo è ancora diffuso, tollerato, protetto da indulgenza, omertà e complicità, fino a generare la terribile scia dei femminicidi. Per evitare che la causa delle donne sia travolta dalle bassezze di Amber Heard, bisognerebbe far funzionare lo Stato di diritto. Per proteggere chi ne ha bisogno, per fare giustizia, quello è ancora lo strumento migliore che sia stato creato. Cosa fare prima di arrivare all’approdo estremo che è un’aula di tribunale? L’educazione al rispetto, che comincia in famiglia, è la migliore prevenzione.
Arianna Farinelli per “la Repubblica” il 3 giugno 2022.
La sentenza che ha condannato l'ex moglie di Johnny Depp, Amber Heard, nella causa per diffamazione intentata contro di lei dall'attore, potrebbe avere ripercussioni che vanno ben oltre l'aula giudiziaria. Già due settimane fa il New York Times scriveva che questo processo potrebbe decretare la morte definitiva del Me Too e un generale deterioramento dei rapporti tra i generi.
Il movimento era nato all'inizio degli anni duemila per denunciare gli abusi sessuali subiti dalle donne nei luoghi di lavoro ed era diventato globale dopo il caso del produttore cinematografico Harvey Weinstein.
Negli anni il MeToo ha finito per travolgere non solo il mondo del cinema ma anche quello della finanza, della politica, dello sport, della musica, della scienza, delle grandi compagnie tecnologiche, come Uber e Google, e dei media tradizionali con decine di uomini in posizioni di potere rimossi dai loro incarichi. Il movimento, però, è stato accompagnato anche da forti polemiche.
In molti casi, infatti, la responsabilità degli accusati viene sancita a priori, senza un reale accertamento dei fatti e senza una reale dimostrazione della veridicità delle accuse.
Ci sono stati casi famosi come quello di Woody Allen, accusato di molestie dalla figlia Dylan, che hanno diviso l'opinione pubblica e decretato la fine della carriera del regista, almeno negli Stati Uniti.
Se l'America è anzitutto la rappresentazione che dà al mondo di se stessa, un film e una serie televisiva spiegano bene la parabola del movimento. Il primo, Bombshell , denunciava senza se e senza ma la cultura di sessismo e molestie perpetrata dal direttore del canale televisivo Fox News.
La seconda, The morning show , ispirata alla vicenda del popolare conduttore televisivo Matt Lauer, si poneva con occhio più critico nei confronti della questione: dal necessario accertamento delle accuse al problema del consenso, ai benefici di carriera di cui hanno potuto godere alcune vittime, alla complicità delle donne di potere che per anni hanno coperto i colleghi maschi.
Torniamo a Heard e Depp: la conclusione di questo processo ha decretato la fine del MeToo? Da ora in poi sarà più difficile per una donna vittima di abuso essere creduta? Dopo il caso Weinstein c'era stato un aumento delle denunce da parte delle donne.
Allo stesso tempo erano aumentati anche i casi di uomini accusati di molestie che intentavano cause per diffamazione. Le donne che hanno denunciato sono state spesso travolte da un'ondata di misoginia - cosa che è accaduta anche ad Amber Heard, distrutta mediaticamente dai fans dell'ex marito, e in maniera minore alla professoressa Christine Blasey Ford che accusò di molestie il giudice della Corte Suprema Bret Kavanaugh.
Il movimento non è esente da parossismi che ne hanno fiaccato l'intento delle origini. Nei luoghi di lavoro, a seguito del MeToo, la paura di una qualsiasi denuncia ha spinto molti uomini a non rimanere mai soli con le colleghe, non chiudere la porta dei loro uffici, non condividere il pranzo o l'aperitivo dopo il lavoro.
D'altra parte, il discredito che ha colpito alcune accusatrici rischia di travolgere tutte coloro che hanno subito molestie e che hanno il sacrosanto diritto di denunciare. In tutto questo i rapporti tra i due generi si sono tutt' altro che normalizzati e, a parte gli abusi sessuali, rimangono aperte altre questioni molto spinose, soprattutto nel mondo del lavoro.
Le donne continuano ad essere pagate meno rispetto ai colleghi maschi (a parità di funzioni una donna americana viene pagata in media solo 80 centesimi per ogni dollaro ricevuto da un uomo) ed è molto più difficile per le donne accedere alle promozioni e diventare Ceo di una compagnia, soprattutto se crescono dei figli.
La domanda, quindi, non è tanto se il MeToo sia morto o meno ma è cosa possiamo fare per raggiungere veramente la parità dei diritti tra i generi. Il femminismo non è l'odio verso gli uomini, anche se negli anni Settanta c'era un femminismo radicale che voleva sostituire il patriarcato con il matriarcato. Qualsiasi società in cui i rapporti tra i generi siano sbilanciati a favore degli uni o degli altri, è una società sbagliata, manchevole e destinata al fallimento.
Ora è tempo di azzerare il punteggio delle sconfitte e delle vittorie e ricominciare da capo chiedendoci anzitutto cosa possiamo fare gli uni per le altre e per le generazioni che verranno. Come scrive Chimamanda Ngozi Adichie, dovremmo cominciare anzitutto lavorando sulla cultura, crescendo i nostri figli e le nostre figlie in modo diverso.
E contemporaneamente dovremmo agire sulle politiche pubbliche a cominciare dalla parità di salario, l'accesso alle promozioni, il sostegno alle donne che hanno una famiglia e, finalmente, un maggiore coinvolgimento degli uomini nella crescita dei figli. Il nuovo senso del MeToo potrebbe essere questo: anch' io voglio lavorare per cambiare le cose e dare a tutti, indipendentemente dal genere, le stesse opportunità.
Miriam Romano per “Libero Quotidiano” il 3 giugno 2022.
Una sentenza diversa da tutte quelle degli ultimi processi venuti alla luce delle cronache per questioni legate alla violenza di genere. A dispetto della rilevanza mediatica del processo, dovuta alla notorietà delle parti, il caso che ha coinvolto l'attore Johnny Depp, che ha ottenuto un risarcimento di 15 milioni di dollari che dovrà versargli l'ex moglie Amber Heard colpevole di averlo diffamato accusandolo di violenze, accende i riflettori su uno spaccato di casistiche diverse. Quelle in cui sono gli uomini le vittime di trame orchestrate dalle donne per altri fini.
A fare compagnia al povero Depp, ci sono centinaia di altri maschi, contro cui si innesca il meccanismo delle accuse legate a presunte violenze nei confronti di mogli che si dicono oppresse.
Quando in realtà, spesso e volentieri, sono più carnefici che vittime. «È una sentenza un po' nuova rispetto a quelle degli ultimi tempi. La denuncia per violenze da parte delle donne è diventata sempre più diffusa.
Non raramente è uno strumento con il quale agendo penalmente e denunciando il marito si cerca di avere o più soldi nell'ambito di un procedimento per divorzio o di avere i figli con sé con un marito relegato al ruolo di padre», spiegano Antonella Izzo e Teresa Devercelli, due avvocatesse del "Family Team" dello studio Bvsa di Milano.
Tante volte accusare il marito di violenza è un tentativo di depistaggio. Utile a distogliere l'attenzione da altri elementi e focalizzarsi su presunte aggressioni. Quando la parola violenza rimbomba all'interno dell'aula di un tribunale, è difficile che i mariti la spuntino. «Quando emerge il tema delle violenze, diventa un boomerang all'interno di un processo», spiegano le esperte.
Al contrario, le vere vittime di maltrattamenti spesso non denunciano. «Purtroppo, accade che le donne che effettivamente subiscono delle violenze non le denunciano. E a volte è anche difficile per loro identificare i maltrattamenti effettivi. Sono quasi sempre quelle che le utilizzano come arma a proprio vantaggio a parlarne senza remore».
E agli uomini messi alla gogna per una finta o esagerata accusa, cosa accade? «Sono le vere vittime. Accusati di qualcosa che non hanno mai fatto. All'improvviso si sentono dire cose che non corrispondono alla verità. Allora iniziano a ripensare alla loro vita coniugale, a ripercorrere le tappe, i momenti salienti.
Molto spesso, a quel punto i mariti si rendono conto in un lampo che in realtà non erano loro i carnefici del matrimonio, ma "era lei". Capiscono che non erano stati loro a fare violenza, ma anche anzi molto spesso i comportamenti "sbagliati" provenivano dalla moglie. "Io tornavo a casa e lei urlava, non era mai disponibile". E altri mille comportamenti da mogli sicuramente non amorevoli».
Messi spalle al muro, con la parola violenza puntata come una pistola alla tempia, gli uomini temono che da quella spirale di accuse non ne usciranno... «Si spaventano anche se non c'è nulla di vero. Consci di quale direzione prendono gli altri casi di violenza in genere. Ci vorrebbe più responsabilità da parte dei legali e della magistratura.
Il singolo caso di presunta violenza che viene denunciata va contestualizzato all'interno del matrimonio. L'avvocato deve rendersi conto che una denuncia per maltrattamenti è una denuncia forte. Devi stare molto attento. Non si può decidere sempre per partito preso.
Spesso sono gli avvocati a caldeggiare le accuse, cercando di conquistarsi un punto a proprio favore in un processo. Ma sono situazioni delicate, dove spesso sono coinvolti anche i minori. Per questo va posta molta più attenzione. La sentenza a favore di Johnny Depp ha ridimensionato il fenomeno del Me Too che aveva prodotto troppe storture nel sistema».
La sconfitta delle talebane del Metoo. Francesco Maria Del Vigo il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.
Quello tra Johnny Depp e Amber Heard non è solo uno dei processi più mediatici della storia recente. Ma è un processo al nostro tempo e alle sue ossessioni.
Quello tra Johnny Depp e Amber Heard non è solo uno dei processi più mediatici della storia recente, che indaga la loro pubblicissima - e alquanto sbilenca - vita privata. Ma è un processo al nostro tempo e alle sue ossessioni. Ossessioni che, in taluni casi, trasformano il diritto in rovescio, piegano la giustizia deformandola in una vendetta ideologica che sfoga sul singolo una presunta colpa collettiva di genere. Il processo Depp-Heard è la massima ascesa e la conseguente rumorosa caduta del talebanismo femminista del #MeToo. Che non è il sacrosanto diritto di denunciare il proprio aggressore, ma l'idea che dietro ogni uomo si nasconda necessariamente un molestatore. Il pregiudizio, prima strisciante e poi sfacciato, che un essere umano maschile - nel caso di Depp con le imperdonabili aggravanti di essere eterosessuale, bianco, famoso e ricco - sia necessariamente un predatore. Se la parte più moderata del movimento ha contribuito a rompere il muro di omertà e sbriciolare lo stigma che ancora avvolgeva le donne che denunciavano una violenza, la parte più estrema, più visibile, chiassosa e quindi più influente, ha di fatto sancito un codice penale del politicamente e sessualmente corretto nel quale vige sempre la presunzione di colpevolezza. E, badate bene, qui non c'entrano maschilismo e femminismo, ma un'opinione pubblica mainstream ostaggio di un pregiudizio maschiofobico. Gli occhiutissimi difensori dei diritti Lgbtq+, di fronte a questo tipo di discriminazioni vengono immediatamente colpiti da assoluta cecità.
Paradossalmente, alla luce di quello che ha stabilito la corte di Fairfax, Amber Heard calunniando Johnny Depp ha anche, di riflesso, danneggiato la causa di tutte le donne che sono state realmente vittime di violenze. Qui non si tifa per Johnny Deep che, per sua stessa ammissione, in vita sua ne ha combinate di tutti i colori: i processi non sono stadi nei quali sfogare la propria tifoseria, anche se in Italia siamo abituati a questa incivile canea da più di vent'anni. A noi interessa che, con un processo così clamoroso e una sentenza altrettanto importante, possa fermarsi lo sputtanamento ingiustificato che da anni ormai macina vittime e distrugge carriere. Vittime che nessun #MeToo si prende la briga di difendere.
Con il "caso" Johnny Depp fallisce il Me Too. Francesco Giubilei su Il Giornale il 2 giugno 2022.
Il processo più discusso e mediatico dell’anno tra Johnny Depp e Amber Heard si è concluso con la condanna all’attrice statunitense a risarcire con 15 milioni di dollari l’ex marito per averlo diffamato. Sebbene anche Johnny Depp debba pagare un compenso di 2 milioni, la sentenza rappresenta un’indubbia vittoria per l’attore divenuto celebre per la sua recitazione nel film “I pirati dei Caraibi”.
Si è trattato di una lunga vicenda mediatica e giudiziaria che ha messo sulla pubblica piazza la vita personale dell’ex coppia spogliando entrambi della loro privacy ma che sancisce un principio molto importante. Il valore dell’esito del processo non è tanto da un punto di vista mediatico quanto per ciò che si afferma: le accuse false e diffamatorie non hanno sesso e la verità processuale non deve e non può tenere conto di pregiudizi ideologici o della narrazione per cui un uomo accusato di violenze deve per forza essere colpevole.
Johnny Depp non è uno stinco di santo e, anche alla luce di quanto emerso dal processo, è tutt’altro che un modello, così come non può essere un modello la società hollywoodiana basata su eccessi, dissolutezza, uso smodato di alcol e sostanze stupefacenti. Eppure la sentenza della corte di Fairfax in Virginia difende un principio purtroppo passato in sordina negli ultimi anni: l’opinione pubblica dovrebbe smettere di mettere alla gogna una persona in base ad accuse non provate.
I casi di personaggi pubblici la cui reputazione è stata distrutta per essere stati tacciati di reati poi rivelatesi infondati sono numerosi, nell’epoca del Me Too è sufficiente un’accusa particolarmente odiosa come quella di violenza per distruggere la vita privata e professionale di una persona. Se poi tali accuse sono rivolte nei confronti di una personalità nota, viene gettata in pasto all’opinione pubblica con una gogna mediatica inversamente proporzionale alla visibilità che anni dopo otterrà per un'assoluzione in un eventuale processo. Ciò non significa che non vi siano casi di violenze o molestie, fenomeni purtroppo ancora troppo diffusi nella nostra società su cui è necessario tenere alta l’attenzione e condannare senza esitazione quando avvengono.
Il caso di Johnny Depp contraddice però ogni principio di garantismo e testimonia una mentalità sintetizzata dal commento di Amber Heard dopo la sentenza che portato avanti la stessa narrazione affermando che stiamo assistendo al "ritorno all'epoca in cui una donna che avesse osato parlare contro la violenza domestica veniva pubblicamente umiliata".
Di tutt'altro tenore il commento di Johnny Depp: “Spero che la mia ricerca della verità sia stata d'aiuto ad altri, uomini o donne, che si sono trovati nella mia situazione, e che coloro che li sostengono non si arrendano mai. Spero anche che ora si torni a parlare di innocenza fino a prova contraria, sia nei tribunali che nei media”. Sarà la volta buona?
Così Depp ha festeggiato dopo la vittoria contro l'ex moglie. Francesca Galici su Il Giornale il 2 giugno 2022.
Johnny Depp non c'era a Fairfax al momento della lettura della sentenza della corte, che gli ha dato ragione per l'accusa di diffamazione mossa nei confronti della sua ex moglie Amber Heard. A differenza di Depp, l'attrice si trovava in aula e la sua espressione è rimasta impassibile per tutta la durata dell'udienza, per poi sfogarsi in un momento successivo, dicendosi "delusa oltre ogni parola". La corte per aveva fissato in 10milioni di dollari il risarcimento nei confronti di Johnny Depp e a quelli aveva aggiunto 5milioni di danni "punitivi". Ma questi ultimi sono stati ridimensionati dal giudice Penney Azcarate, che li ha ridotti a 350mila, applicando il tetto massimo previsto per i danni punitivi nello Stato della Virginia.
Comprensibile la soddisfazione di Johnny Depp per la decisione della corte e anche la voglia di far festa non appena venuto a conoscenza del verdetto. Si trovava in un pub di Newcastle, dove tantissime persone si sono radunate per omaggiare l'ex pirata dei Caraibi, che non si è sottratto ai festeggiamenti. L'assenza di Johnny Depp era stata fortemente criticata da un portavoce di Amber Heard prima della lettura del dispositivo: "La sua assenza dimostra quali sono le sue priorità. Johnny suona la chitarra in Gran Bretagna mentre Amber aspetta un verdetto in Virginia. Depp porta in tournée il suo cinismo e la sua mancanza di serietà".
In realtà, l'attore si trova del Regno Unito per motivo di lavoro, che ne hanno giustificato l'assenza. In tutte le altre fasi del dibattimento, infatti, Johnny Depp è sempre stato presente nel tribunale di Fairfax, dove si sono spesso radunate alcune decine di persone per supportare i propri beniamini in questa difficile e spietata guerra legale. Anche ieri erano presenti tantissimi sostenitori, molti dei quali per Johnny Depp. Non appena è stata resa nota la vittoria del loro beniamino, i fan si sono lasciati andare ad applausi liberatori. Uno scrosciare di mani che si è ripetuto anche quando gli avvocati dell'attore sono usciti dal tribunale.
"Il verdetto di oggi conferma ciò che avevamo affermato sin dall'inizio, ovvero che le affermazioni contro Johnny Depp sono diffamatorie e non supportate da alcuna prova. Siamo grati, così grati alla giuria per la loro attenta deliberazione, al giudice e al personale del tribunale", ha detto Camille Vasquez, che ha difeso l'attore insieme a Ben Chew. Il team legale di Depp è stato "veramente onorato" di difendere l'attore, ha detto Chew, "contento che il processo sia stato apprezzato da chi è a favore della verità e della giustizia".
Johnny Depp, evviva! La sentenza che ha ribaltato il Me Too: perché è una decisione fondamentale. Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 4 giugno 2022
L'ipocrisia del Me Too è stata ribaltata. Merito della sentenza più attesa d'America, quella che ha chiuso il processo mediatico che nelle Tv è riuscito a battere, per ascolti, persino le maratone sulla guerra. Johnny Depp ha vinto il processo contro l'ex moglie Amber Heard, riconosciuta colpevole di aver diffamato l'ex marito. Depp riceverà un risarcimento di 15 milioni di dollari. Il verdetto è stato raggiunto all'unanimità dai 7 membri della giuria guidati da un giudice donna, Penney Azcarate, dettaglio non di poco conto.
Perché parlo di ribaltamento del Me Too? Questo processo ci ha detto che la donna non è sempre la vittima e non è così scontato che se piagnucola davanti alla Corte, dietro a lei c'è sempre un maschio violento da condannare senza se e senza ma. Ma cos'è stato il Me too? Una campagna di opinione per spingere una quantità di donne, soprattutto delle classi alte, a una azione travolgente e di massa di delazione, per trasformare in crimini i contrasti fra maschi e femmine. Non c'entra nulla il me too ("anch' io", è la traduzione in italiano) con la lotta alla violenza sessuale. La violenza sessuale è un reato; i dissidi di coppia, o gli scambi di favori tra potere e sesso, sono una cosa del tutto diversa, che coinvolge le capacità delle donne e degli uomini di gestire le proprie relazioni nel modo migliore. O nel modo più conveniente, che non c'è niente di male. Dico meglio: permette loro di essere liberi.
L'aggressione sessuale, lo stupro, l'inaudita violenza espressa da un uomo, o più uomini, che con la loro forza fisica costringono una ragazza disperata a subire un atto sessuale, non possono mai essere confusi con i giochi di potere o di seduzione, o con le liti in famiglia. Confonderli è un abominio. Perché minimizza e banalizza la violenza sessuale, che è il più orrendo dei reati, dopo l'omicidio. La sentenza Depp ci aiuta a superare questa clamorosa ipocrisia esaltata dai giornali e dalle Tv negli ultimi anni. E aiuta le donne a capire che a loro si chiede forza e capacità di discernimento. Come agli uomini. E che non è ricorrendo a una toga che possono appianare le controversie matrimoniali o i rapporti ambigui con il capoufficio.
AMBIGUITÀ - Vedete, è proprio in questa parola (ambiguo) che sta la chiave di volta. Può la giustizia stabilire con certezza (con certezza: è il suo dovere) in cosa consista una ambiguità, e da che parte oscilli? Può decidere che in presenza di una relazione ambigua - per motivi storici, per ideologie, o per pressappochismo - esista comunque una responsabilità maschile e non femminile?
Il Me too, per come io lo ho capito è esattamente questo. Un modo di pensare che stabilisce la debolezza della donna. La sua inferiorità. Esclude l'uguaglianza, la parità. Condanna la donna ad una condizione di subalternità permanente e naturale, e per questa ragione ne tutela le debolezze e le incapacità di esprimersi e di volere.
ANTIFEMMINISMO - Il me too, a mio modestissimo avviso, è il contrario esatto del femminismo. Dico di più: è una reazione al vecchio femminismo combattente e un modo per eliminarlo e far tornare la civiltà verso la vecchia società con la donna sottomessa. Perché il problema è esattamente questo. Dovremmo smetterla di denunciare a prescindere la malvagità e la superiorità del maschio. Il problema non è quello di tagliare i coglioni all'uomo. Il problema è di riportare la donna alla propria altezza. In posizione paritaria, o talvolta anche di dominio. Capace di battersi, imporsi, decidere, dettare. In grado di duellare con l'uomo. Non costretta a piangere tra le braccia di un giudice. Speriamo che la sentenza Depp spazzi via questa parentesi oscurantista. E che le donne possano tornare in prima fila. Dobbiamo qualcosa a Depp. E alla signora giudice che non si è fatta impietosire dalle lacrime e ha affermato verità e giustizia.
Johnny Depp, il giudice riduce il maxi-risarcimento: quanto dovrà pagare Amber Heard. Le tappe del processo. Il Tempo il 02 giugno 2022.
Il giudice Penney Azcarate del tribunale di Fairfax, Virginia, ha ridotto a 350.000 dollari i 5 milioni di danni «punitivi» che la giuria ha inflitto a Amber Heard nel processo contro l’ex marito Johnny Depp. In tutto, la Heard deve quindi pagare 10,4 milioni di dollari a Depp (10 milioni sono i danni a titolo di risarcimento). Azcarate ha applicato il tetto massimo previsto per i danni «punitivi» nello Stato della Virginia, pari a 350.000 dollari. Il processo che ha focalizzato l'attenzione dell'America è scaturito da un articolo scritto nel 2018 per il ’Washington Post’ dalla Heard che si definiva «Un personaggio pubblico vittima di abusi domestici».
A iniziare la causa, per «diffamazione implicita», è stato proprio Depp, che ha citato in giudizio l’ex moglie chiedendole un risarcimento di 50 milioni di dollari. Nell’articolo, infatti, Heard faceva riferimenti alle accuse di abusi che lei aveva presentato nel 2016, dopo la fine del loro matrimonio. La risposta di Heard non si è fatta attendere ed è partita una conseguente causa di diffamazione contro Depp e la richiesta di risarcimento di 100 milioni di dollari per un articolo pubblicato sui Mail Online nel 2020 in cui l’avvocato dell’attore definiva una «bufala» l’accusa mossa dalla donna. Da lì si è arrivati a un processo di sei settimane che si è tenuto a Fairfax, in Virginia, dove il team legale dell’attore ha chiesto alla giuria di «restituire la vita al signor Depp». Il processo non riguardava i soldi, ma la reputazione dell’attore, hanno detto i legali, che hanno chiesto ai giudici di «liberarlo dalla prigione in cui ha vissuto negli ultimi sei anni». Nella sua argomentazione conclusiva, l’avvocato di Heard, Ben Rottenborn, ha affermato che la causa non riguardava la reputazione di Depp, ma faceva parte di una campagna diffamatoria in corso lanciata dall’attore dopo che Heard aveva chiesto il divorzio.
Durante sei settimane di testimonianza al Fairfax County Circuit Court in Virginia, la giuria ha ascoltato amici, tra cui la top model Kate Moss, membri della famiglia, medici, terapisti e personale che ha lavorato e trascorso del tempo con l’ex coppia. Anche Depp e Heard sono stati ascoltati due volte ciascuno e per diversi giorni hanno fornito resoconti diversi del loro rapporto alla giuria. In tribunale sono state dettagliate le loro discussioni. A parte la presunta violenza fisica, le accuse contro Depp includevano quella di aver tenuto il cane fuori dal finestrino di un’auto in movimento e di aver dipinto messaggi con il sangue sul muro di una casa in Australia dopo essersi mozzato il dito. Lui, a sua volta, ha accusato Heard di aver defecato nel loro letto e di aver simulato ferite sanguinanti usando lo smalto per unghie. In quanto querelante, ovvero la persona che ha avviato il procedimento giudiziario, Depp è stato il primo dei due a testimoniare, dicendo alla giuria di essere «ossessionato dalla verità » e sostenendo che è stato lui a essere stato vittima di abusi domestici durante la sua relazione con Heard, non il contrario. Ha definito le accuse della sua ex moglie contro di lui «efferate e inquietanti», dicendo che avevano «permeato» l’industria dell’intrattenimento
Quando Heard ha preso posizione, ha avanzato diverse accuse di abusi fisici e sessuali contro Depp, scoppiando in lacrime mentre ne spiegava alcuni in dettaglio. Ha detto alla corte che il suo ex marito era stato geloso degli attori che sono stati suoi co-protagonisti, tra cui Eddie Redmayne, Billy Bob Thornton e James Franco, e che durante un presunto abuso ha temuto per la sua vita. Durante il processo, un terapeuta di coppia ha detto alla corte che la coppia aveva commessi «abusi reciproci», mentre due psicologi hanno fornito resoconti diversi sul fatto che Heard soffrisse o meno di disturbo da stress post-traumatico a causa di abusi o avesse un disturbo della personalità. Un esperto finanziario ha stimato che Depp avesse subito una perdita di guadagno di circa 40 milioni di dollari a causa delle accuse di Heard e molte delle sue guardie di sicurezza e membri del personale hanno confermato le sue affermazioni secondo cui in alcune occasioni la sua ex moglie era violenta nei suoi confronti.
I giurati dei Caraibi. Quelli che esultano per Johnny Depp sono malati di mente, quasi come le tifose di Amber Heard. Guia Soncini su L'Inkiesta l'1 giugno 2022.
La giuria ha dato ragione all’attore nella causa di diffamazione nei confronti dell’attrice ed ex moglie. Dovrebbero tutti farsene una ragione, quel che pensiamo noi non importa.
Se permettete cominciamo da Samantha Geimer. Quando si chiamava Samantha Gailey, nel 1977, Roman Polanski la drogò e, secondo la legge americana, la stuprò. Fece qualche settimana di galera e poi, saputo che il giudice non aveva intenzione di rispettare l’accordo transattivo tra lui e la vittima, fuggì all’estero. Non è mai più tornato negli Stati Uniti.
Da quando il moralismo americano è impazzito, e ha deciso che qualunque comportamento maschile improprio va punito scriteriatamente e retroattivamente, Geimer passa molto del suo tempo sui social a difendere Polanski, stigmatizzare la ricerca di fama dei giudici, e spiegare quanto sia sbagliato il vittimismo.
Mercoledì mattina, tredici ore prima della sentenza, Geimer ha twittato così: «Mi aspetto che tutti sbrocchino, riguardo al verdetto Depp/Heard, invece di accettare che non sta a noi decidere, e non importa cosa “proviamo” a riguardo. La giuria ha ascoltato tutto e ora decidono loro. Fine della storia, fatevene una ragione. Quel che pensate non importa».
Mai parole furono più sagge e più inascoltate, ve lo dico anche se sto scrivendo questo articolo a sentenza letta da due minuti.
La sentenza della giuria è: Amber Heard deve pagare a Johnny Depp cinque milioni di danni compensativi e dieci di danni punitivi, Johnny Depp due milioni a Amber Heard perché una delle dichiarazioni dei suoi avvocati è stata giudicata diffamatoria. (Lei deve dare a lui solo dieci milioni e trecentocinquantamila dollari, giacché la giudice ha ridotto l’entità dei danni punitivi.)
Conosco le leggi del mondo e ve ne farò dono: nelle prossime ore sarà un pieno di letture sui passi indietro del MeToo, sulle donne da cui si pretende uno standard di attendibilità più alto, sul tifo, i bot, la pressione dell’opinione pubblica.
Già c’è la dichiarazione post-sentenza di Amber Heard, che dà la colpa ai maggiori «potere, influenza, e controllo» del suo ex marito che avrebbero vinto sulla sua montagna di prove. E già c’era l’articolo di Monica Lewinsky, che ogni volta che scrive un rigo mostra come essere stata al centro d’una narrazione popolare non t’insegni niente sui meccanismi della stessa: su Vanity Fair, Lewinsky ha scritto di quant’è misogino contrapporre l’avvocatessa di Depp e Amber Heard (la mora e la bionda, ma Lewinsky non conosce Pippo Baudo). E questo prima che la bionda perdesse: figuriamoci ora.
Certo che quelli che nei commenti alla diretta YouTube del Law&Crime Channel (tra i tre e i quattro milioni di spettatori durante la lettura della sentenza) esultano per Johnny Depp sono malati di mente, ma lo sono come lo sono le tifose di Amber Heard: tutte le tifoserie e le militanze sono fesse e ottuse, per non accorgersene bisogna essere tifosi o militanti.
E certo che una giuria che non si fa commuovere da Amber Heard che sostiene di non aver venduto alcun filmino (di Johnny Depp che si versava vino e sbatteva cose) fatto col suo cellulare e misteriosamente finito proprietà intellettuale di Tmz, sito di pettegolezzi, che una giuria che non dà per scontato che sia l’uomo del caso quello brutto e cattivo, certo che significa che è finita la breve ma densa epoca della prepotenza vittimista da parte di noialtre equipaggiate di vagina (o che percepiamo di averne una).
Ma è uno dei mille segnali. Fino all’anno scorso dirti sofferente, ove vaginamunita, ti garantiva una carriera; quest’anno, l’unica ad aver fatto carriera con le sue sofferenze l’ha fatta perché è la fidanzata d’un cantante famoso. Non è una brutta notizia, per le donne: significa che si torna a dover combinare qualcosa, oltre a frignare, per farsi notare.
Quando la signora Heard attribuisce a Johnny Depp «potere, influenza, e controllo», dimentica un dettaglio. Quel dettaglio per il quale lei, alle domande dell’avvocatessa di lui, si girava verso la giuria a rispondere, nell’evidente quanto fallimentare tentativo di gattamorticamente sedurli, di usare quell’empatia che qualche rivista femminile le ha raccontato essere l’arma di fine di mondo. Quel dettaglio per il quale lui è rimasto in Inghilterra e non si è fatto inquadrare alla lettura della sentenza; è Johnny Depp, coi suoi film hanno fatto i parchi a tema: decide lui quando intrattenerci. Il dettaglio è: lui è uno che negli ultimi trenta e qualcosa anni è diventato Johnny Depp, lei è una che si è fidanzata un po’ con chiunque ed è rimasta nessuno.
Se pensate che questa sia un’affermazione maschilista, mi duole comunicarvi che siete scemi. La valuta non sono i gameti: la valuta è la fama. Fanno il cinema entrambi, diventare una star è stato alla portata di entrambi, e solo uno dei due c’è riuscito. Certo che questo gli ha dato un vantaggio, in quello spettacolo d’arte varia che è stato questo processo, ma vale anche la lettura contraria: in questo processo, Johnny Depp ha dimostrato come risponde alle domande d’un avvocato ostile una star, e che è perché sai reggere il palco così, che diventi star.
E lei ha dimostrato, boh: che in comune con l’ex marito ha un gusto improbabile per le pettinature? Che se ti contraddici poi la giuria non ti crede? Che nel decennale di Gone Girl siamo piene di aspiranti eredi di Amazing Amy?
Tutti e due, comunque, sono meno disturbati di chi cancelletta di credere all’uno o all’altro. Non so spiegarvelo più chiaramente di Samantha Geimer: non importa a nessuno a chi crediate voi, tra due tizi che neppure conoscete e il cui matrimonio è evidentemente stato un disastro le cui vere dinamiche sono probabilmente nebulose persino per gli ex coniugi protagonisti. Ma soprattutto: perché pensate che la vostra fiducia faccia la differenza, razza di mitomani?
Giustizia civile. Il caso Depp-Heard e la sacrosanta presunzione d’innocenza. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 6 Giugno 2022.
Il processo che ha coinvolto i due attori dimostra come l’informazione libera e completa la possa fornire solo un pubblico procedimento giudiziario con il pieno contraddittorio dei difensori delle parti, e non le intercettazioni o gli stralci accuratamente scelti da uno dei contendenti e dati in pasto ai giornali.
Il verdetto del processo civile tra Johnny Depp e Amber Heard ha sviluppato sulla stampa progressista italiana foschi e pessimistici commenti che da Arianna Farinelli a Gianni Riotta su Repubblica, sull’onda di New Yorker e New York Times hanno intravisto in esso il punto di rottura della lunga battaglia iniziata qualche anno fa col movimento #MeToo, la rivincita di una latente misoginia per cui «il prestigio e l’autostima di un uomo di successo valgono più della salvaguardia e della dignità di una donna», come ha scritto A.O. Scott sul principale quotidiano statunitense
Ha destato particolare sensazione la valanga di adesioni all’hashtag #justicefordepp su Twitter e su vari social cui alcuni hanno attribuito un ruolo non indifferente nell’esito della causa intentata da Johnny Depp all’ex moglie.
Un’enfasi non giustificata, forse frutto di un riflesso condizionato, che tuttavia merita una riflessione sui luoghi comuni che regolano l’informazione e sul ruolo devastante dei social sulla realtà giudiziaria.
Quanto al primo punto, un processo civile è un processo civile, un istituto che vive di regole proprie e ben diverse da quello penale, anche se il gusto degli americani verso il duello e la spettacolarizzazione lo rendono simile a quello penale con il dibattimento incentrato sugli interrogatori delle parti e dei testimoni. Quello che in Italia sarebbe stata una noiosa questione di citazioni e di verbali scritti, negli Stati Uniti è diventato un serial televisivo di strepitoso successo.
Così, legittimamente, qualcuno può chiedersi se l’epilogo sia stato l’elaborazione di una sceneggiatura in cui ha contato il carisma dei contendenti più che una ragionevole sentenza.
Del resto una quarantina d’anni fa in Kramer contro Kramer, storia cinematografica di una contesa giudiziaria tra due genitori per un bambino, un gigionesco Dustin Hoffman trionfava su una fredda e antipatica Meryl Streep. Nei film succede, ma nella realtà gli ultimi anni ci avevano abituati a esiti ben diversi in cui le ragioni delle donne vittime finivano per prevalere su quelle degli accusati maschi, anche in situazioni di estrema ambiguità. E infatti la vittoria di Depp, pur a sua volta condannato per diffamazione circa una dichiarazione di un suo avvocato contro le macchinazioni della moglie, è stata accolta con grande stupore
Nel caso Depp vs Heard va detto che l’oggetto non erano accuse penali di abusi che mai la donna ha formalmente mosso all’ex marito, ma assai più semplicemente un editoriale a firma di Heard contro la violenza sulle donne che l’attrice, peraltro, premetteva di aver sperimentato ancor prima di conoscere Depp.
Nell’articolo, Heard scriveva che il fatto di essersi pronunciata contro gli abusi aveva suscitato «la collera del potere» e che aveva sperimentato in prima persona come le istituzioni proteggano «gli uomini accusati di abusi».
Il riferimento della donna era a una precedente azione giudiziaria mossale da Depp in Inghilterra tramite uno dei suoi avvocati che l’aveva accusata di aver ordito false denunce. Il giudice inglese gli aveva dato torto come del resto quello americano che sul punto lo ha condannato. Nelle espressioni dell’ex moglie, l’attore aveva individuato un riferimento diffamatorio alla propria persona e aveva querelato.
Dunque si trattava in breve di valutare se le affermazioni, piuttosto generiche, della donna rientrassero o meno nella libertà di esprimere un’opinione, cosa che invero non sarebbe dovuta risultare difficile per un discreto avvocato.
Invece Heard ha clamorosamente perso per aver voluto trasformare un’ordinaria causa di reato a mezzo stampa in un surrogato di un processo penale contro il marito per maltrattamenti.
Lo ha perso perché ciò che è uscito fuori è stato il terribile racconto di un legame tossico in cui entrambi i coniugi sono stati vittima e carnefice dell’altro: l’impossibilità di addossare un presunto crimine al marito ha rovesciato su Heard l’accusa di inaffidabilità e dunque di avere agito con dolo («malice») contro Depp.
Una verità banale che disvela l’ambiguità del male che si cela in molti legami di coppia ma che fa clamore perché dissolve una verità che negli ultimi anni era diventata la chiave unica di lettura di vicende analoghe: l’indiscussa condizione di vittima della donna.
Questo rovescio di fortuna, secondo molti tra cui l’editorialista del New York Times A.O. Scott, sarebbe da attribuire alla seduzione esercitata da Johnny Depp per cui i giurati avrebbero votato il personaggio e non il persecutore, il falso Capitan Barrow piuttosto che valutare il vero mascalzone.
E qui va esaminato il secondo profilo della questione: gli effetti costituiti dal processo mediatico consentito dalle riprese tv dell’intero dibattimento. In molti si dicono convinti che senza le telecamere l’esito sarebbe stato diverso: lo credo anch’io, ma io ritengo che questo sia stato un effetto positivo con qualche insegnamento anche per la realtà giudiziaria italiana.
Seguendo da vicino un dibattimento duro e spietato, incentrato su contro esami serrati e a volte spietati, il pubblico si è formato un’opinione del tutto diversa da quella rappresentata da un movimento d’opinione molto diffuso e capace di condizionare i media.
Depp ha manipolato l’opinione pubblica o gli spettatori, e i giurati hanno colto l’essenza della questione una volta che hanno potuto assistere a un processo senza limitarsi alle versioni di comodo.
Veniamo all’Italia: se si fosse trattato di un classico processo penale fino a qualche tempo fa l’opinione pubblica sarebbe stata informata dalle indiscrezioni fatte filtrare dalle indagini da inquirenti loquaci, che avrebbero fatto coincidere le loro tesi con l’unica realtà possibile tramite il sostegno della stampa amica.
Da qualche mese, il fenomeno si è molto attenuato perché un’apposita legge sulla presunzione d’innocenza in esecuzione di una direttiva europea lo proibisce, consentendo solo anodini comunicati ufficiali rilasciati dai capi delle procure su vicende che gli stessi ritengano essere di pubblico interesse.
La riforma viene bombardata dai magistrati e dalla stampa, improvvisamente orfana di abboccamenti privati e non di rado intimi con i pubblici ministeri, in nome della libertà di stampa e del diritto di informare.
Ebbene, il processo Depp dimostra come l’informazione libera e completa la possa fornire solo un pubblico processo con il pieno contraddittorio dei difensori delle parti, e non i bocconi accuratamente scelti da una solo dei contendenti da lanciare ai presunti segugi dell’informazione, ridotti a cani da riporto delle idee dell’accusa.
Il caso in questione conferma che è un bene, nonostante le lamentele e le lacrime di coccodrillo di stampa e magistratura, che le indagini restino segrete e che l’informazione sia centellinata fino a quando non arriva un pubblico contraddittorio.
Un’informazione esauriente e moderna richiede avvocati che, come i colleghi americani, abbiano il gusto della battuta, la capacità di stendere un comunicato e di inventare frasi sintetiche ed efficaci, rinunciando al funereo gergo curiale, ma intanto il caso Depp ha squarciato un velo su certe ipocrisie. E non è poco
Alberto Simoni per “la Stampa” il 7 giugno 2022.
Allo studio legale Brown Rudnick sono elettrizzati e per nulla sorpresi. Al massimo preoccupati di perderla. «Molti hanno visto quel che noi sapevamo da anni: Camille Vasquez è una star», è il commento rilasciato al «New York Post» esaurita la sbornia da successo nel tribunale di Fairfax nella querelle fra Johnny Depp e Amber Heard.
E quel successo ha il volto, la tenacia, la preparazione, la determinazione di Camille Vasquez, 37enne di origini ispaniche, associata dello studio nella sede californiana di Orange County, che ha trasformato sul banco degli imputati Amber Heard in una bugiarda, abbandonata dagli amici, incapace di tenere una parte in un film senza invocare il nome dell'ex marito Depp: «Se qui c'è una che ha fatto degli abusi, quella è lei Miss Heard», ha detto chiudendo la sua arringa difensiva la scorsa settimana poche ore prima del verdetto che ha condannato l'attrice di Aquaman per diffamazione per un articolo uscito sul Washington Post nel 2018.
Storia triste, fatta di violenza, verbale e non, di eccessi, di dettagli pruriginosi che ha tenuto l'America con il fiato sospeso e diviso il Paese. Neanche tanto diviso in verità. Almeno non nelle piazze, virtuali e fisiche. Fuori dal tribunale di Fairfax, in Virginia, c'erano solo i fan di Johnny Depp.
Eppure man mano che il processo si allungava fra deposizioni, testimonianze, perizie degli esperti e affilati controinterrogatori spuntavano persino i fan di Camille Vasquez, laurea con lode nel 2006 alla Southern California University, specializzazione nel 2010 e carriera folgorante dentro lo studio.
Il video in cui infila una sequenza impressionante di «obiezione vostro onore» (quasi tutte accolte) su TikTok è stato visto 541 milioni di volte; una fan si è tatuata frasi e look della Vasquez sul braccio e gli adulatori del dannato Depp si sono persino fatti cullare dal sogno che fra la giovane avvocata e l'attore 58enne ci fosse qualcosina in più del rapporto fra cliente e avvocato, come se fosse un film e non il mondo reale quello che contava.
Colpa degli abbracci in aula, lei occhi chiusi, mani attorno al collo di lui; o ancora lui che le sussurra paroline nell'orecchio. Sogni però. Doppia smentita degli interessati. E foto di lei postata ad hoc con il fidanzato Edward Owen.
Abbracci, e mani che si sfiorano, sorrisi complici sono stati parte dello show, del copione con cui Vasquez e gli altri avvocati (lei era «solo» parte del team, anche se poi è finita per far apparire gli altri delle comparse) avevano deciso di addolcire il tenebroso e burbero Depp: meglio trasferire ai giurati l'immagine di un eroe romantico che quello di uno spietato e cupo attore dal passato torbido.
Ha funzionato così bene, e così bene hanno funzionato i controinterrogatori di Camille, che ora si è scatenata la corsa ad assumerla e a strapparla alla Brown Rudnick. Gli studi più in vista di Hollywood la vorrebbero in squadra con loro. Le televisioni - già durante il processo - hanno provato a strapparle contratti, interviste. Faranno carte false, e sono pronti assegni importanti per lei: dal mondo del diritto e da quello delle tv.
Soprattutto per lei sarà pronto un posto di «partner» e non più di associato nello studio che sceglierà. In aula al fianco di Depp ci è arrivata come associata, anche se - sospettano alcuni - la promozione a partner era già in vista. Nessun professionista avrebbe mai lasciato un caso così importante, mediaticamente decisivo, in mano a una semplice associata. Anche se così dotata di talento, tanto che nel 2021 il suo nome era già nella lista degli avvocati da tenere d'occhio.
Ma tant'è quella era la sua qualifica quando ha infilato le unghie nell'animo della bionda Amber Heard: «Dove sono le prove degli abusi che ha subito? Perché non c'è uno straccio di certificato medico? È vero che ha manomesso le foto per fare evidenziare lividi?». Spietata e chirurgica nell'affondare il colpo.
All'attrice ha ricordato che nessuno è venuta a soccorrerla, dove sono le sue amiche? Solo la sorella si è presentata. Donna contro donna. E piccoli trucchi per evidenziarne menzogne e cabotaggi. «Non aveva detto che avrebbe devoluto parte dei soldi del divorzio alla American Civil Liberty Unions?», ha detto rimarcando che l'associazione per i diritti civili attende ancora l'assegno. E quell'altra a balbettare: «Ho avuto qualche intoppo...».
Il sorriso di chi sta dominando contro gli occhi impauriti e il capo abbassato di chi sta soccombendo. «È uno squalo e la sua performance al processo l'ha dimostrato», ha detto il principe del foro Judd Burnstein. Ora a Camille non resterà che scegliere cosa fare da grande.
Johnny Depp ha avuto ragione: si chiama giustizia. Francesca Galici il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
Un tribunale americano ha raggiunto la verità giudiziale sulla causa tra Amber Heard e Johnny Depp: lui ha ragione.
Amber Heard ha diffamato Johnny Depp: questa è una verità giuridica. Ogni altro commento "si, ma...", decade davanti alla decisione di una corte che ha preso la sua decisione, documenti e prove alla mano. L'articolo scritto dall'attrice contro il suo ex marito è stato l'inizio di un travaglio mediatico per l'ex pirata dei Caraibi, da quel momento diventato un reietto della società. Niente più contratti per lui, niente più sponsor, niente più lavoro. Amber Heard era diventata una paladina del Me too, movimento ora silenzioso davanti alla decisione della giuria.
Johnny Depp ha vinto perché Amber Heard ha mentito. Questo è, in sostanza, il riassunto di quanto accaduto nel tribunale di Fairfax in Virginia, che non è stato chiamato a decidere sull'effettiva esistenza o meno delle molestie o delle violenze. La corte e il giudice della Virginia hanno messo un punto fermo in tutta questa vicenda: l'articolo di Amber Heard in cui, pur senza mai nominarlo, veniva accusato di molestie è stato diffamatorio nei confronti di Johnny Depp. Certo, che quello sia stato un matrimonio "malato" nessuno lo mette in dubbio e sono stati gli stessi ex coniugi a dimostrarlo, portando alla corte (e davanti a milioni di persone di tutto il mondo) testimonianze sconcertanti sulla loro vita privata.
Dita mozzate, feci sul letto, ubriacature, insulti e ogni possibile bassezza immaginabile. Ognuno dei due ha cercato di screditare l'altro davanti alla corte, portando in scena un teatrino splatter dell'assurdo che nemmeno la peggior sceneggiatura degli horror di serie B sarebbe riuscita a immaginare. Ma per quanto possano essere state brutali le litigate tra gli ormai due ex coniugi, per quanto Johnny Depp possa essere stato ubriaco o alterato da sostanze, la corte di Fairfax ha stabilito che Amber Heard, con il suo articolo, l'ha diffamato. E dovrà anche versare oltre 10 milioni di risarcimento.
Il vittimismo femminista integralista, che ora accusa il tribunale di Fairfax di aver fatto perdere credibilità alle donne perché non ha dato ciecamente ragione ad Amber Heard, dovrebbe forse puntare il dito contro la stessa attrice. O, ancora meglio, scemare così com'è nato, perché non è una sentenza che fa perdere dignità e credibilità a tutte quelle donne che, onestamente, denunciano anche pubblicamente gli abusi e i soprusi subiti dagli uomini. E allo stesso modo, chi oggi si indigna per la riabilitazione mediatica di Johnny Depp e l'affossamento di Amber Heard, dov'era quando a essere massacrato è stato l'attore? La giustizia è tale solo quando non usa due pesi e due misure. Qualunque altra considerazione di modo diventa, paradossalmente, discriminatoria.
Gli avvocati di Johnny Depp fanno sapere che l'attore potrebbe rinunciare agli otto milioni di dollari della condanna ad Amber Heard. Dagotraduzione da Daily Mail l'8 giugno 2022.
Gli avvocati di Johnny Depp questa mattina sono apparsi in più trasmissioni per ribattere alle parole di Amber Heard sul fatto che il processo per diffamazione vinto dall’ex marito sia ingiusto.
I legali dell’attore, Camille Vasquez e Benjamin Chew, sono intervenuti a TODAY, Good Morning America e poi sulla rete Law and Crime, che ha seguito il processo.
Il team di avvocati dell’ex Pirata dei Caraibi ha fatto sapere quanto Johnny sia felice per la vittoria e ha detto che l’attore "non sorrideva così da sei anni" – cioè da quando sono iniziati i guai con la ex, Heard.
Vasquez e Chew hanno anche criticato l'affermazione di Heard secondo cui l’attrice avrebbe perso il processo perché lui è più potente e popolare di lei. “È’ "assolutamente falso" che i social media abbiano avuto un ruolo”, hanno spiegato gli avvocati. Secondo loro, semplicemente, alla giuria non è piaciuta Amber perché, a differenza di Johnny, non si è presa la responsabilità di nulla”.
I due legali hanno quindi fatto sapere che l’attore potrebbe anche rinunciare agli 8 milioni di dollari che Amber è stata condannata a pagare. La legale dell’attrice ha fatto sapere che lei non può permetterselo e che avrebbe presentato ricorso.
Alla domanda se avrebbero rinunciato o meno alla sentenza, gli avvocati di Depp hanno dichiarato: “Non è stata una questione di soldi per il signor Depp. Si trattava di ripristinare la sua reputazione e l'ha fatto”.
E poi: "La mia sensazione è che avesse molto a che fare con la responsabilità. Johnny ha avuto i suoi problemi, è stato molto sincero riguardo ai suoi problemi di alcol e droga, è stato sincero su alcune cose infelici che ha scritto, in netto contrasto con la signora Heard, che non sembrava... o almeno la giuria potrebbe aver percepito che non si è assunta la responsabilità di nulla", ha detto Chew.
"Penso che questo abbia fatto la differenza."
Vasquez ha aggiunto: "La chiave della vittoria è stata il fatto di concentrarsi sui fatti e sulle prove e sull'opportunità di Johnny di poter dire per la prima volta la verità sui fatti. Ha potuto raccontare cosa è successo davvero alla giuria e al pubblico”.
Martedì, gli avvocati di Heard hanno rilasciato una dichiarazione in cui criticavano il "tour della vittoria" della squadra di Depp dalla conclusione del processo. Hanno detto anche che così si stanno reprimendo i diritti delle donne.
Gli avvocati della difesa di Depp hanno ribattuto: «È deludente. Stiamo solo parlando di quello che è successo in questo caso e i fatti hanno dato ragione a Johnny”.
"Il verdetto parla da sé", ha detto Vasquez a Good Morning America.
Vasquez ha poi spiegato: "La violenza domestica non ha un genere".
Camille Vasquez che è diventata una star grazie al processo, a proposito della sua improvvisa fama, ha spiegato che sarebbe felice se ciò che le è successo possa ispirare le ragazze a proseguire gli studi e a intraprendere una carriera legale.
"È stato travolgente e surreale, ma [se] posso incoraggiare le giovani donne a rimanere a scuola e magari ispirarle a intraprendere una carriera legale, allora ne vale la pena", ha detto.
Martedì, Johnny è andato su TikTok per ringraziare i fan per il loro incrollabile supporto durante il processo.
L’ex Amber Heard ha quindi rilasciato una dichiarazione definendo il gesto di Depp inappropriato.
L’attrice ha detto: “Mentre Johnny Depp dice che sta 'andando avanti', i diritti delle donne stanno andando indietro.
"Il messaggio del verdetto alle vittime di violenza domestica è... abbiate paura di alzarvi in piedi e parlare apertamente".
Depp aveva intitolato il suo video di 30 secondi: "A tutti i miei sostenitori più preziosi, leali e incrollabili. Siamo stati ovunque insieme, abbiamo visto tutto insieme. Abbiamo percorso insieme la stessa strada.
'Abbiamo fatto la cosa giusta insieme. E ora, andremo avanti tutti insieme.
'Voi siete, come sempre, i miei datori di lavoro e ancora una volta non ho modo di ringraziarvi, se non semplicemente ringraziando. Quindi grazie.
"Il mio amore e rispetto, JD".
La Heard perde processo e lavoro. L'attrice, paladina delle femministe, vittima dell'ipocrisia buonista: fuori dal cast di Aquaman 2. Francesca D'Angelo per “Libero quotidiano” l'8 giugno 2022.
Oltre al danno (e che danno, visto che si parla di 10,4 milioni di dollari), la beffa. All'indomani della sconfitta in tribunale contro l'ex marito Johnny Depp, Amber Heard rischia di restare a piedi. Lo hanno detto ieri i ben informati del web, secondo i quali l'attrice verrà tagliata sia dal sequel Aquaman 2 che dal film The lost kingdom, ma soprattutto lo dicono i precedenti.
Si prenda per esempio Kevin Spacey: accusato di abusi, è ormai fermo da anni. E che dire di Will Smith? Il suo ceffone agli Oscar gli è valso il congelamento di tutti i suoi ingaggi presenti e futuri. Così ora tocca alla Heard e, lasciatecelo dire, non è affatto giusto. Non lo era infatti per Kevin Spacey né per Will Smith, e non lo è a maggior ragione nemmeno per Amber.
Hollywood dovrebbe iniziare a distinguere tra vita privata degli artisti e carriera professionale, invece niente. Ormai al tribunale vero si aggiunge puntualmente quello mediatico la cui pena è la radiazione dall'Olimpo delle star. L'accusa: lesa maestà. Chi si macchia di reati come diffamazione o violenza uccide infatti l'immagine perfetta di Hollywood: non ne rispetta gli assoluti standard morali e dunque torna a casa, tra i comuni mortali. La Heard, che stupida di certo non è, aveva già fiutato il pericolo: nel corso del processo aveva accusato la major Warner di aver ridotto progressivamente il ruolo del suo personaggio in Aquaman, con l'avanzare del processo intentato da Depp.
A quanto pare nel final cut (il montaggio finale), Amber apparirebbe solo per 10' in tutto. Insomma, pochino. La Warner però si era difesa spiegando che la presenza della Heard era stata concordata mesi prima del processo, in fase di sceneggiatura, e tra le ragioni del suo ridimensionamento ci sarebbe la scarsa chimica con il protagonista Jason Momoa.
Ora, però, il personaggio della Heard potrebbe sparire del tutto: secondo indiscrezioni, morirebbe di parto. I fan? A quanto pare approvano: nel corso del processo gli americani hanno dato vita a una petizione per togliere tutti i ruoli ad Amber, arrivando a raccogliere ben 4,5 milioni di firme.
Ora, al di là della constatazione che in America hanno poco a cui pensare, tale pregresso rende attendibili le indiscrezioni sull'imminente fine della carriera artistica della ex moglie di Depp. La nostra esce quindi distrutta dal processo e - è il caso di ribadirlo - ingiustamente. La faccenda di cui è stata protagonista è infatti molto complessa e non si può certo liquidare con un «si è inventata tutto».
Tanto per cominciare né Amber né Depp stanno esattamente bene: tra trascorsi di droga e dipendenze varie, nessuno dei due è un modello di equilibro. Vi ricordiamo che una avrebbe fatto, per ripicca, la cacca nel letto e l'altro avrebbe cercato di penetrarla con una bottiglia di liquore. Non sono cose proprio all'ordine del giorno (e meno male...).
In secondo luogo, per la giustizia americana lei è stata riconosciuta colpevole di diffamazione ma non di essersi inventata tutto: le violenze possono esserci state, eccome.
Nel processo appena conclusosi la giuria era infatti stata chiamata a esprimersi sul reato di diffamazione, non su quello di violenza domestica. L'errore di Amber sta dunque nell'aver accusato il marito (pur in maniera anonima) prima che qualsiasi sentenza corroborasse le sue accuse e, nel farlo, ha danneggiato la carriera del marito, che da quel momento ha perso una serie di film.
Più che cercare uno scoop, Heard avrebbe dovuto denunciare il marito. Purtroppo ha scelto la strada sbagliata e ora ne paga le conseguenze. Il paradosso però è il seguente: lei è "il mostro brutto e cattivo" perché, con le sue parole, ha rovinato il lavoro di Depp. Il quale però le sta restituendo pan per focaccia. Siamo davvero sicuri che ci sia davvero un vincitore, in tutto questo?
2 . Amber Heard critica Johnny Depp per aver pubblicato un montaggio su TikTok ringraziando i suoi fan per il loro sostegno e dichiara che "i diritti delle donne stanno andando indietro" a seguito del verdetto del processo per diffamazione
Depp si è unito a TikTok martedì per pubblicare una clip di 30 secondi ringraziando i suoi fan, dicendo loro: "Andremo avanti tutti insieme"
Il video - il suo primo sulla piattaforma - ha ottenuto più di 200.000 visualizzazioni nei primi 15 minuti di permanenza online
Poco dopo, l'ex moglie Amber Heard ha rilasciato una dichiarazione in risposta, dicendo: "Mentre Johnny Depp dice che sta" andando avanti ", i diritti delle donne stanno andando indietro".
Depp è stato il vincitore del suo processo per diffamazione di successo contro Heard, che è stato divorato su TikTok - con il 58enne il favorito indiscusso
Dagotraduzione da Daily Mail l'8 giugno 2022.
Amber Heard ha reagito con disgusto al suo ex marito Johnny Depp che cantava per la sua vittoria nel processo per diffamazione, dopo essersi unito a TikTok per ringraziare i suoi fan per il loro supporto e proclamare che stavano "andando avanti".
L'attore 58enne ha pubblicato martedì sulla piattaforma una compilation di video, dove ha già collezionato 5,1 milioni di follower, che lo hanno mostrato mentre arrivava in tribunale davanti a una folla di fan.
Il TikTok mostra anche clip di lui che suona la chitarra sul palco con la band del suo amico Jeff Beck in seguito.
Depp dice: "Andremo avanti tutti insieme".
Heard martedì sera ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: "Mentre Johnny Depp dice che sta" andando avanti ", i diritti delle donne stanno andando indietro.
"Il messaggio del verdetto alle vittime di violenza domestica è... abbiate paura di alzarvi in piedi e parlare apertamente".
Depp aveva sottotitolato il video di 30 secondi: "A tutti i miei sostenitori più preziosi, leali e incrollabili. Siamo stati ovunque insieme, abbiamo visto tutto insieme. Abbiamo percorso insieme la stessa strada.
'Abbiamo fatto la cosa giusta insieme, tutto perché ci tenevi. E ora, andremo avanti tutti insieme.
'Voi siete, come sempre, i miei datori di lavoro e ancora una volta non ho modo di ringraziarvi, se non semplicemente ringraziando. Quindi grazie.
"Il mio amore e rispetto, JD".Il video è stato visto 200.000 volte nei primi minuti di essere online.
Il processo è durato diversi mesi e ogni minuto è stato divorato dai fan di TikTok. Depp era l'indubbio favorito, dominando hashtag e tendenze sulla sua ex moglie.
Martedì, gli utenti lo hanno accolto a braccia aperte nell'app.
"IL PRIMO TIKTOK DI JOHNNY!" uno proclamato nella sezione commenti.
"Siamo sempre con te Johnny!" disse un altro.
Nel frattempo, la famosa avvocato di Depp, Camille Vasquez, è stata promossa nel suo studio legale.
È stata una star del processo e oggetto di innumerevoli meme e video di TikTok.
In un annuncio, l'azienda ha dichiarato: "Vasquez era un membro chiave della squadra di contenzioso che ha vinto un verdetto della giuria il 1 giugno 2022 per l'attore Johnny Depp nel suo processo per diffamazione contro l'ex moglie Amber Heard".
Il CEO dell'azienda ha dichiarato: "Storicamente, abbiamo riservato questo annuncio per la fine del nostro anno fiscale.
"Ma la performance di Camille durante il processo a Johnny Depp ha dimostrato al mondo che era pronta a fare il passo successivo ora.
"Siamo incredibilmente orgogliosi di lei e non vediamo l'ora di ciò che realizzerà come nostro nuovo partner." l'8 giugno 2022.
Depp ha citato in giudizio Heard per diffamazione per un editoriale che ha scritto in cui descriveva la sopravvivenza di abusi domestici.
La giuria ha stabilito che lei lo ha diffamato suggerendo erroneamente di aver abusato di lei.
Heard è stato condannato a pagare a Depp 8 milioni di dollari al netto delle detrazioni. Ora ha detto che non può permettersi di pagare.
Heard ha denunciato il verdetto come una battuta d'arresto per le vittime di violenza domestica.
Ha detto che ha solo dimostrato quanto sia potente e popolare Depp e che l'ha abusata durante il loro breve matrimonio.
Johnny Depp di nuovo in tribunale per una rissa su un set nel 2017. La Repubblica l'11 Giugno 2022.
Il location manager di 'L'ora della verità' lo ha accusato di averlo picchiato nel corso della lavorazione del film. Il divo: "Legittima difesa".
Non c'è pace per Johnny Depp. Dopo il clamore mediatico planetario sollevato dal processo contro la ex moglie Amber Heard, dal quale è uscito vincitore, l'attore dovrà tornare in tribunale. Stavolta non per questioni legate al matrimonio ma per una rissa del 2017.
Lo riporta il giornale economico messicano El Financiero, secondo il quale Depp sarebbe stato citato in giudizio da Gregg Brooks, il location manager (ovvero il professionista che si occupa di individuare i set migliori per le riprese) del film L'ora della verità, diretto da Brad Furman.
Brooks ha raccontato di aver rimproverato l'attore, durante la lavorazione del film, per una scena che, a suo giudizio, avrebbe interpretato in modo non corretto e Depp, in preda all'ira, lo avrebbe picchiato per ben due volte gridando che non era lui a dovergli dire cosa fare e come farlo. L'aggressione, avvenuta il 13 aprile del 2017, si sarebbe conclusa solo grazie all'intervento di un agente di polizia.
Depp, che aveva affermato di aver agito solo per legittima difesa, dovrà comparire in tribunale a Los Angeles il prossimo 25 luglio e sarà assistito dallo stesso team legale del processo Heard, composto dagli avvocati Benjamin Chew e Camille Vasquez.
Da repubblica.it il 12 giugno 2022.
Non c'è pace per Johnny Depp. Dopo il clamore mediatico planetario sollevato dal processo contro la ex moglie Amber Heard, dal quale è uscito vincitore, l'attore dovrà tornare in tribunale. Stavolta non per questioni legate al matrimonio ma per una rissa del 2017.
Lo riporta il giornale economico messicano El Financiero, secondo il quale Depp sarebbe stato citato in giudizio da Gregg Brooks, il location manager (ovvero il professionista che si occupa di individuare i set migliori per le riprese) del film L'ora della verità, diretto da Brad Furman.
Brooks ha raccontato di aver rimproverato l'attore, durante la lavorazione del film, per una scena che, a suo giudizio, avrebbe interpretato in modo non corretto e Depp, in preda all'ira, lo avrebbe picchiato per ben due volte gridando che non era lui a dovergli dire cosa fare e come farlo. L'aggressione, avvenuta il 13 aprile del 2017, si sarebbe conclusa solo grazie all'intervento di un agente di polizia.
Depp, che aveva affermato di aver agito solo per legittima difesa, dovrà comparire in tribunale a Los Angeles il prossimo 25 luglio e sarà assistito dallo stesso team legale del processo Heard, composto dagli avvocati Benjamin Chew e Camille Vasquez.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 15 giugno 2022.
Amber Heard ha ammesso di «amare assolutamente» il suo ex marito Johnny Depp, nonostante lo abbia nuovamente accusato di averla sottoposta ad abusi fisici durante la loro relazione. L’attrice ha detto infatti che l’assenza di ferite visibili non voleva dire che le sue affermazioni fossero «false» o una «bufala».
L’attrice 36enne ha parlato ancora una volta del suo matrimonio con Depp durante un’ampia intervista al Today Show con Savannah Guthrie che è stata trasmessa a puntate. Venerdì la rete trasmetterà l’intervista per intero.
Durante l’intervista Heard ha parlato dei suoi sentimenti per Depp, sostenendo di «amarlo ancora assolutamente» anche se si rifiuta di ritirare le accuse nei suoi confronti. Nonostante la pronuncia della giuria della Virginia, che l’ha ritenuta colpevole di diffamazione, Heard ha ribadito che l’ex marito l’ha picchiata, e l’ha accusato di aver mentito quando sul banco dei testimoni ha dichiarato di non averla mai toccata. «Ha detto che non ti ha mai picchiato. È una bugia?» ha chiesto Guthrie. E Heard: «Sì, lo è». E ha aggiunto: «Fino al giorno della mia morte rimarrò fedele a ogni parola della mia testimonianza».
Guthrie le ha quindi chiesto se fosse ancora innamorata dell’ex marito. «Sì. Assolutamente. Assolutamente. Lo amo. Lo amavo con tutto il mio cuore e ho fatto del mio meglio per far funzionare una relazione profondamente interrotta. E non potevo. Non provo alcun rancore nei suoi confronti. So che potrebbe essere difficile da capire oppure potrebbe essere davvero facile da capire se hai mai amato qualcuno».
Secondo l’attrice i giurati del processo si sono lasciati ingannare dalla bravura di Depp, che ha definito «un attore fantastico», «un uomo che è riuscito a convincere la giuria di avere le forbici al posto delle mani» (riferendosi al film "Edward Mani di forbice). Secondo Heard, inoltre, gli avvocati di Depp hanno utilizzato testimoni che erano «impiegati retribuiti» di Depp per «distrarre la giuria dai problemi reali». Inoltre secondo l’attrice la decisione della giuria è stata influenzata da quella che ha definito «rappresentazione sleale sui social media».
Heard ha anche parlato dei suoi piani per il futuro, annunciando che ora intende essere una «mamma a tempo pieno» per sua figlia di un anno, Oonagh Paige.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 giugno 2022.
In un’intervista esclusiva che andrà in onda stasera sulla Nbc, Amber Heard ha raccontato di aver presentato al giudice della Virginia un “raccoglitore” pieno di appunti raccolti dal suo terapista a partire dal 2011 sugli abusi a cui l’ha sottoposta Depp. L’attrice ha raccontato che il giudice non ha ammesso il documento tra le prove perché lo ha ritenuto frutto di un «sentito dire».
Heard però ha consegnato il diario alla rete tv, che stasera manderà in onda un’intervista esplosiva con Savannah Guthrie. Heard ha rivelato che gli appunti presi dal suo terapeuta descrivono in dettaglio i casi in cui dice che Johnny Depp «l'ha colpita, l'ha lanciata contro un muro e ha minacciato di ucciderla».
In un'esplosiva anteprima di 20 minuti dell'episodio di Dateline, sono stati mostrati gli appunti presi dal terapeuta di Heard durante le loro sessioni. Guthrie, 50 anni, ha rivelato che contenevano diverse descrizioni della violenza che l'attrice dice di aver subito. Secondo Guthrie e Dateline, a cui è stato concesso l'accesso al cosiddetto "raccoglitore", le note contengono descrizioni di violenze risalenti al gennaio 2012, quando «Heard ha detto al suo terapeuta che Depp "l'ha colpita, l'ha gettata a terra"». Otto mesi dopo «le ha strappato la camicia da notte, l'ha gettata sul letto» e poi nel 2013 «l'ha lanciata contro un muro e ha minacciato di ucciderla», c’è scritto nelle note.
Nonostante sia stata giudicata colpevole di diffamazione, Heard continua ad accusare pubblicamente il suo ex coniuge di abusi fisici e sessuali, ma ha detto a Dateline che non sta cercando «vendetta» contro di lui. «Una cosa che posso dirti è che non sono vendicativa», dice nell'anteprima di Dateline. «Sarebbe un modo davvero pessimo per vendicarsi».
«Per quanto sciocco sia dirlo ad alta voce, il mio obiettivo - l'unica cosa che posso sperare a questo punto... voglio solo che le persone mi vedano come un essere umano». Incalzata da Guthrie sulla testimonianza resa da diversi testimoni che hanno affermato di aver «visto Heard istigare alla violenza» Depp durante la loro relazione, l'attrice ha risposto insistendo sul fatto che «non ha mai dovuto istigarlo» e che ha sempre e solo «risposto», e di essere stata violenta nei confronti dell'attore solo «per far fronte» agli abusi a cui lei sostiene che l'abbia sottoposta.
«Quando vivi nella violenza e diventa normale, come ho testimoniato, devi adattarti, adottare strategie per affrontarla», ha detto. «Se questo avesse significato, come ho testimoniato, la differenza tra un naso rotto o una guancia dolorante, lo avrei fatto». Ha aggiunto: «Sono stata colpita per molto tempo prima di sapere come difendermi».
Guthrie ha sottolineato che Heard è l'unica donna ad essersi fatta avanti con accuse di abusi contro Depp, chiedendosi perché nessun altro abbia parlato. «Guarda cosa mi è successo quando mi sono fatta avanti. Vorresti?» Heard ha ribattuto.
In una dichiarazione rilasciata a Dateline, il team legale di Depp ha criticato la Heard per aver continuato a trasmettere le sue accuse in modo così pubblico, anche dopo la conclusione del processo: «È un peccato che l'imputata e il suo team siano tornati a ripetere, reinventare e ribattezzare questioni che sono già state decise dalla Corte e un verdetto che è stato deciso all'unanimità e in maniera inequivocabile da una giuria a favore di Johnny».
Heard ha insistito sul fatto che «rimarrà fedele alla sua testimonianza del giorno della sua morte», ripetendo il linguaggio usato nell’editoriale del Washington Post e descrivendosi come una «sopravvissuta». «Io [rimarrò fedele alla mia testimonianza] fino al giorno della mia morte. So cosa mi è successo. Sono qui come una sopravvissuta», ha detto. «Fino al giorno della mia morte rimarrò fedele a ogni parola della mia testimonianza».
Heard afferma di non aver mai voluto che le sue accuse di abusi contro Depp andassero in onda così «pubblicamente», insistendo sul fatto che non avrebbe mai voluto andare in giudizio, ma che «non aveva scelta» perché il suo ex coniuge le ha fatto causa.
Nonostante continui a trasmettere le sue accuse, Heard insiste sul fatto che non vuole altro che andare avanti con la sua vita, dicendo a Guthrie: «Non vedo l'ora di vivere la mia vita e ne ho una lunga, spero, di fronte a me. E continuerò a percorrerla a testa alta».
Valentina Ariete per "La Stampa" il 18 giugno 2022.
«Il pianto, le espressioni facciali che aveva, lo sguardo fisso sulla giuria. Eravamo tutti molto a disagio. Rispondeva a una domanda e piangeva, e due secondi dopo diventava ghiacciata. Alcuni di noi hanno usato l'espressione "lacrime di coccodrillo"»: a parlare è uno dei giurati del processo per diffamazione intentato (e vinto) da Johnny Depp contro l'ex moglie Amber Heard.
In un'intervista rilasciata in esclusiva alla trasmissione Good Morning America, il membro della giuria che ha condannato l'attrice a risarcire il divo con 10,3 milioni di dollari per un articolo a sua firma del 2018 sul Washington Post in cui si definiva «simbolo delle donne vittime di violenze domestiche», ha spiegato le ragioni che hanno determinato il verdetto. «Gran parte della giuria - ha detto - ha ritenuto che ciò che stava dicendo Depp fosse più credibile, è apparso più sincero nelle risposte alle domande. Il suo stato emotivo era molto stabile per tutto il tempo».
L'intervista arriva a poche ore dalla messa in onda di un'altra attesissima intervista, quella della Nbc ad Amber Heard, un colloquio di cui in questi giorni sono state date alcune anticipazioni. Tra queste anche le sue parole sulla giuria che, a suo avviso, sarebbe stata influenzata dalla massiccia campagna social a favore di Johnny da parte dei suoi fan: «Penso che anche per il giurato più ben intenzionato sarebbe stato impossibile evitarlo», ha detto Amber.
Ma il membro della giuria sentito da Good Morning America ha respinto l'accusa: «Ci siamo basati sulle prove. Io e gli altri giurati non usiamo Twitter o Facebook. Altri che ce l'avevano, hanno fatto in modo di non parlarne». E ha poi aggiunto: «Penso che la verità sia che si offendevano l'un l'altro, non credo che questo metta nessuno dei due dalla parte del torto o della ragione. Non c'erano prove sufficienti che supportavano ciò che Heard aveva affermato», e cioè che si potesse parlare di violenza domestica.
Determinante nella decisione sarebbe stato però lo scoprire la rivelazione che Amber Heard non aveva ancora donato in beneficenza i soldi del suo accordo di divorzio, 7 milioni di dollari, nonostante avesse affermato il contrario. Nell'intervista alla Nbc Amber ha anche rivelato di amare ancora Depp: «Lo amo. L'ho amato con tutto il mio cuore e ho fatto del mio meglio perché la nostra relazione profondamente danneggiata potesse funzionare. Ma non ci sono riuscita».
Da leggo.it il 19 giugno 2022.
Yacht di lusso, dipinti di Leonor Fini e tanto altro. Così l'attore hollywoodiano Johnny Depp ha dilapidato un patrimonio milionario in 13 anni. Per lui più di 30mila euro al mese di vino che si aggiungono a tantissime altre spese folli che lo hanno portato a «fumare» 500 milioni di dollari.
E tutto questo, nonostante sia stato uno degli attori più pagati al mondo, con 300 milioni di dollari per le sue apparizioni nel franchise dei Pirati dei Caraibi della Disney e 68 milioni di dollari per aver interpretato il Cappellaio Matto di Tim Burton, lo porta vicino al tracollo finanziario.
Secondo il suo ex manager, il suo patrimonio netto complessivo potrebbe aver raggiunto i 650 milioni di dollari nel corso della carriera. Ma adesso le cifre sono ben altre: si stima che sia di 150 milioni di dollari.
Depp ha accusato i suoi ex dirigenti aziendali di The Management Group (TMG) di aver gestito male i suoi soldi. TMG lo ha citato in giudizio e l'attore si è accordato nel 2018 per una somma non rivelata. L'attore di Hollywood ha poi donato all'ormai ex moglie Amber Heard, 7 milioni di dollari per il loro accordo di divorzio, che si è impegnata a donare a buone cause. Nel 2020 ha citato in giudizio il tabloid britannico The Sun per diffamazione, ma ha perso la causa ed è stato condannato a pagare le spese legali della pubblicazione di 840.000 dollari.
TMG, che ha gestito i soldi di Depp tra il 1999 e il 2016, ha affermato nella controquerela che l'attore ha fatto esplodere la sua fortuna spendendo 2 milioni di dollari al mese per il suo stile di vita esagerato. Nel 2017, The Hollywood Reporter ha soprannominato Depp «una star in crisi» per aver speso gran parte dei 650 milioni di dollari che aveva guadagnato nei 13 anni precedenti. Depp è stato bollato come «fuori controllo» per aver sprecato i suoi soldi in acquisti stravaganti, incluso il calo di oltre 5 milioni di dollari per acquistare tre isole alle Bahamas.
La società che gestiva il suo denaro ha inoltro affermato che Depp ha speso 30mila dollari al mese (360 mila dollari l'anno) per il vino. Nel 2018 Depp ha detto a Rolling Stone : «È offensivo dire che ho speso 30mila dollari in vino, perché era molto di più». La controquerela sosteneva di aver speso 75 milioni di dollari per l'acquisto e la decorazione di 14 case, 18 milioni di dollari per l'acquisto e il rinnovo di uno yacht da 150 piedi e 3 milioni di dollari per sparare alle ceneri del suo idolo d'autore Hunter S. Thompson da un cannone. La star in seguito li ha corretti, dicendo che erano più di 5 milioni di dollari.
Il suo ex gestore del denaro ha affermato che ogni mese Depp spendeva 100mila dollari per un medico per guarire dalle sue dipendenze e 200mila dollari per viaggi in jet privato. Si dice che abbia pagato a un tecnico del suono 100mila dollari all'anno per fargli ascoltare le sue battute sul set e 10mila dollari al giorno (1,8 milioni di dollari all'anno) per la sicurezza. L'amore per l'arte della star gli è costato anche una piccola fortuna. Secondo quanto riferito, ha acquistato tre dipinti di Leonor Fini da una galleria d'arte di New York City, per un totale di 565mila dollari.
Secondo quanto riferito, l'attore ha speso ingenti somme in regali stravaganti per Amber Heard in particolare, tra cui una Ford Mustang del valore di 150mila dollari e un libro di Ernest Hemingway del valore di 155mila dollari. Depp ha due figli con la sua ex fidanzata, Vanessa Paradis. Anche se non ha sposato l'attrice e cantante francese, si è offerto di sostenerla finanziariamente quando si sono separati, anche se non è chiaro quanti soldi passi all'ex compagna. In compenso è noto che abbia speso 4,5 milioni di dollari per la casa in cui vive adesso Vanessa Paradis.
Nonostante la sua generosità nelle relazioni, l'ex gestore del denaro di Depp ha respinto le affermazioni della star secondo cui ha anche donato una parte della sua ricchezza in beneficenza. «Non ricordo di aver firmato grandi assegni di beneficenza», ha detto Joel Mandel nella sua deposizione di gennaio. «Era più nel suo stile presentarsi a un evento o prestare il suo nome a qualcosa piuttosto che firmare un assegno». La star di Pirati dei Caraibi ha sempre difeso le sue scelte: «Sono i miei soldi - ha dichiarato in passato al Wall Street Journal nel 2017 -. Se voglio comprare 15mila batuffoli di cotone al giorno, è una mia scelta».
Johnny Depp è andato domenica 5 giugno insieme a circa 20 amici al Varnasi, noto ristorante indiano di Birmingham. E il conto è stato solo l'ultima follia di un uomo che ha evidenti problemi a gestire il suo patrimonio. La cena etnica è costata ben 60mila dollari.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 20 giugno 2022.
Durante la sua intervista con il programma della Nbc “Dateline”, Amber Heard ha lasciato intendere che le ex di Johnny Depp sono troppo spaventate per accusarlo pubblicamente di violenza.
L’attrice si è fatta intervistare da Savannah Guthrie per la prima volta dopo la sentenza del tribunale di Fairfax, in Virginia, che l’ha condannata per diffamazione a risarcire l’ex marito con 10,4 milioni di dollari. Durante la registrazione, Guthrie ha sottolineato come Heard sia stata l’unica donna ad essersi fatta avanti con accuse di abusi nei confronti di Johnny Depp.
Secondo Heard il motivo è semplice: «Guarda cosa è successo a me quando mi sono fatta avanti. Lo faresti?». L’attrice ha ribadito che lei stessa era «terrorizzata» quando ha deciso di raccontare la sua storia.
L'unica ex di Johnny Depp che ha testimoniato al processo, Kate Moss, ha negato che l'attore l'avesse spinta giù dalle scale, anzi ha raccontato che Depp l'ha soccorsa e l'ha aiutata.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 22 giugno 2022.
Amber Heard è in trattative per scrivere un libro rivelatore sulla sua storia. L’attrice, che è stata condannata dal tribunale di Fairfax a risarcire 8,3 milioni di dollari di danni all’ex marito per averlo diffamato con un articolo sul Washington Post uscito nel 2016.
Una fonte vicina alla star ha raccontato a "Ok! Magazine" che Heard è «al verde» e non è «in grado di rifiutare i soldi». Non solo: «considera la sua carriera a Hollywood finita» e «non ha nulla da perdere» dopo questi mesi disastrosi e «vuole raccontare tutto. È già in trattative ed è entusiasta».
Heard aveva già confessato al suo avvocato di non potersi permettere di pagare a Depp gli 8,3 milioni di dollari a cui è stata condannata. A conferma delle sue difficoltà, dopo il processo l’attrice è stata avvistata a fare shopping da TJ Maxx a New York, un grande outlet dell’abbigliamento.
Secondo Dror Bike, avvocato divorzista di New York e autore di bestseller, scrivere un libro e tornare di nuovo sulle sue affermazioni potrebbe metterla nei guai. «Se supera il limite, il che è probabile, non c’è dubbio che verrà trascinata in un’altra causa per diffamazione e finirà di nuovo in tribunale».
Sull’altro fronte, Depp potrebbe anche decidere di rinunciare ai soldi. I suoi avvocati hanno lasciato intendere che l’attore ha fatto causa all’ex moglie per ristabilire la verità, e non per ottenere denaro.
La risposta di Johnny Depp all'assoluzione: un disco rock. Paolo Giordano il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.
Più rock di così. Mentre litigava in tribunale con l'ex amore Amber Heard, Johnny Depp si è innamorato artisticamente di Jeff Beck.
Più rock di così. Mentre litigava in tribunale con l'ex amore Amber Heard, Johnny Depp si è innamorato artisticamente di Jeff Beck, chitarrista di rara efficacia, troppo selvaggio per diventare come Jimmy Page dei Led Zeppelin (amici d'infanzia, alla fine dei '60 suonarono pure insieme negli Yardbirds) ma stabilmente inserito tra i maestri della sei corde. Dopo qualche concerto insieme, hanno deciso che sì, a metà luglio pubblicheranno un disco nel quale suonano entrambi. «Si intitola 18 perché Johnny e io abbiamo davvero riacceso il nostro spirito giovanile», ha detto Beck che domani compie la bellezza di 78 anni. Nel disco ci saranno cover e inediti, uno dei quali è già uscito (scritto da Depp): la cupa ballatona This is a song for Miss Hedy Lamarr, dedicata alla prima attrice a fare un nudo integrale sul set e poi passare alla storia come inventrice (suo un brevetto decisivo per le reti wireless). Beck e Depp, una strana coppia, direte, ma poi mica tanto strana. Johnny Depp, che ha appena compiuto 59 anni, nel 1997 ha aiutato gli Oasis a scrivere Fade In-Out e, tra l'altro, nel 2015 è entrato negli Hollywood Vampires di Alice Cooper con Joe Perry degli Aerosmith. Rock suonato come si deve. In poche parole, questo disco è la prima risposta di Johnny Depp all'assoluzione nel processo che (forse) smontato gli eccessi del Me Too. E non è una cosa buttata lì. L'attore e il chitarrista suoneranno dal vivo pure in Italia: il 18 luglio al Vittoriale di Gardone Riviera, il 20 al Pordenone Blues Festival e il 21 a Cattolica. Più rock di così.
Barbara Costa per Dagospia il 16 luglio 2022.
Appena l’ho saputo, ho pensato: Johnny Depp non conosce limite né vergogna. Perché ce ne vuole, di coraggio, e faccia tosta, per mettersi a schitarrare coi Grandi!!! Va bene che i soldi, la fama, ti soddisfano ogni capriccio, e però… Però mi sbagliavo. In pieno. Se Johnny Depp come attore non si discute, come chitarrista… pure. È uscito "18", il disco di sua santità Jeff Beck con Johnny Depp, e io mi inchino e lo riconosco: a Johnny Depp chitarrista non gli rimproveri nulla, tantomeno la presunzione di mettersi a suonare brani rock leggendari a fianco di leggende viventi.
Ci si mette perché lo sa fare. Perdio! Depp musicista ha il pregio inattaccabile di zittirti: perché dimostra ciò che dice. Anzi, che non dice. Lui fa. Alla batteria, sui testi, alla voce, al basso, alle tastiere, ma di più ed è magnifico, alla chitarra. Ce ne fossero, come lui! È musicalmente (s)porco. È un dannato. Cioè è uno che dannatamente sa come si fa. Padrone dei suoi mezzi. C’è una legge, nel rock, da celebrare, e pochi lo sanno fare: è la legge di Jimmy Page.
Per essere un chitarrista come si deve, devi saper imbracciare la chitarra "bassa", a mo' di pistolero, da fuorilegge, giù, sulle p*lle, calata, così va portata: così va suonata. È la legge Jimmy Page. Johnny Depp la abbraccia come Page comanda, da canaglia, pirata, mica è facile: è una roba che non spesso notano, devi essere una groupie fatta e finita, a occhio temprato, tipo la sottoscritta, per afferrarlo… Non puoi sbagliare, è il clitoride che te lo dice. Ti batte, nel sesso, ti salta, su e giù, al ritmo delle vibrazioni, tutto felice. Quando cominci a gocciolare umida, che ti si appiccicano le cosce… è a quel punto, che capisci quanto un chitarrista può esser bravo, e animalesco, a sbattertelo dentro.
Le mani di un chitarrista sulla sua chitarra, sono le mani su un corpo di donna, e va da sé che il preferito – la lista dei preferiti – mica è obbligo sia riempita da chi della chitarra è dio. Lo stesso Johnny Depp se lo dice da solo, che lui è “un caz*one di mezza età, occasionalmente attore”, un gentiluomo del sud degli Stati Uniti la cui vita è cambiata irreversibilmente un pomeriggio del 1975, quando lui ha visto suonare dal vivo gli Aerosmith. Da lì, se è riuscito a “estorcere 25 dollari a mia madre per comprarmi una chitarra elettrica Decca”, ha poi al negozio “rubato il disco degli Aerosmith e il libro per imparare gli accordi”, per chiudersi in casa a provare “e suonare suonare suonare”.
A 13 anni Johnny Depp mette su una band, poi altre, e nella sua non natia Florida da rocker in erba riscuote tutt’altro che misero successo. È qui che Johnny Depp incontra il suo amicone per la vita, il futuro Marilyn Manson. Se Johnny Depp a 14 anni non è più vergine e ha già provato “ogni tipo di droga in giro, con fottutissimo gusto”, non finisce la scuola per tentare di diventare rockstar davvero, e dove i giochi rock si fanno e si disfano: in California.
E ci vive in macchina, in case equivoche con delinquenti, si becca le piattole, e come rocker se lo filano in pochi e, tra questi, il nuovo ragazzo della sua prima ex moglie, Lori Anne. Costui fa l’attore, ha zii italiani famosi che di cognome fanno (Ford) Coppola, e si chiama Nicolas Cage. È lui che pressa Depp a mollare la chitarra, e a provarci, col cinema. Cinema che, a differenza del rock, paga. E ripaga.
Il primo film di Depp è "Nightmare – Dal Profondo della Notte", di Wes Craven, horror la cui parte Depp impara in poche ore. Da lì, una catena di successi in celluloide che conoscete ben meglio di me. E la chitarra? E il rock? Sebbene Depp in più di un suo film la suoni, perché in verità mai l’ha attaccata al chiodo, da anni è membro degli Hollywood Vampires che, per chi non lo sa, è un super gruppo rock nato dalla mente di Alice Cooper, e oggi composto a formula fissa da Cooper, Joe Perry e… Johnny Depp.
Alla faccia (basita) di critici musicali più accidiosi, gli Hollywood Vampires non sono il giocattolo di superstar annoiate. Sono una band seria, e basta procurarsi i loro dischi per darmi ragione. Su YouTube guardate – e ascoltate – quel video in b/n con Johnny Depp che seduto su un divano suona la chitarra, e ti percuote e ti stende… con Alice Cooper che gli gironzola intorno.
Johnny Depp è uno che non abbandona gli amici: se è corso a girare quell’orgia con Marilyn Manson e due bonazze nel video clip di Manson "Kill4Me" (ma dove sta l’esplicito in questa orgia, me lo dite??? naaa…) Johnny Depp ti divora, e ti fa innamorare, nella cover "You’re So Vain" di Carly Simon dove, per Marilyn Manson, suona la batteria e – mamma mia!!! – la chitarra. Manson e Depp rendono You’re So Vain cattiva a bestia. Quando litigò col suo chitarrista Twiggy Ramirez, Manson offrì a Johnny Depp – suo partner di bevute, di pornostar (sono stati entrambi a letto con Traci Lords), e di innominabile altro… – il posto da chitarrista nella band.
Depp non accettò perché gli sarebbe stato impossibile conciliare gli impegni da attore con i tour di Manson. Non tutti sanno che Johnny Depp ha aiutato quella svalvolata di Courtney Love vedova Cobain quand’era più svalvolata che mai. Non solo l’ha salvata da un’overdose “facendomi la rianimazione cardiopolmonare”, ma si è occupato della figlia Frances, “con io strafatta, e Frances piccola, alle prese con gli assistenti sociali”. Il signore mio Dio Keith Richards è per Depp modello di vita e su Keith Richards ha modellato Jack Sparrow: “L’unica cosa che gli ho insegnato”, puntualizza Richards, “è come voltare un angolo quando sei ubriaco: senza mai staccare la schiena dal muro”.
Se non invidio a Johnny Depp il fatto di scrivere su una Olympia – e solo con gli indici – darei qualsiasi cosa per vedere la sua collezione di chitarre. Qualsiasi cosa. I giornalisti a cui piace fare i conti in tasca a Depp per notificargli la sua prossima rovina economica, la piantino nella loro ridicolaggine: il signor Johnny Depp è straliberissimo di spender i suoi soldi come stracaz*o gli pare, e tanti li ha spesi per più di 70 chitarre le più pregiate! E rare! C’ho una voglia depravata di toccarle che mi mangia viva.
Da Amica.it il 29 giugno 2022.
Per essere una che, per quasi due decenni, è stata al centro della scena di Hollywood, di lei si sa molto poco. Certo, tra la fine degli anni 80 e per tutti i 90 – la sua epoca d’oro – non c’erano i social. Ma Winona Ryder non ha mai amato molto parlare di sé. Schiva e quasi patologicamente riservata, l’attrice non ha mai voluto commentare ciò che le accadeva fuori dal set. E siccome accanto a lei ci sono stati alcuni dei divi più amati del cinema, la curiosità non ha fatto altro che crescere. Ora, a 50 anni, Winona si sente sufficientemente a suo agio per parlare di sé. E la prima domanda non può che essere sul suo fidanzato più famoso, Johnny Depp.
Intervistata da Harper’s BAZAAR’s America, l’attrice, riportata al successo da "Stranger Things", ha spiegato di aver vissuto dei momenti molto difficili dopo la fine della sua relazione con Johnny Depp. Loro, che avevano iniziato a progettare le nozze 5 mesi dopo essersi conosciuti, sono stati insieme per 4 anni, fino al 1992. Ed erano la coppia “it” di Hollywood dei primi anni 90. The bad boy and the innocent girl. Praticamente perfetti. Per questo, quando la storia è finita, l’attrice ci ha messo molto tempo per rimettere insieme i pezzi della sua vita. Non prima, però, di aver attraversato un periodo molto buio.
«Quella è stata la mia versione di vita reale di Ragazze interrotte», spiega Winona Ryder. Il riferimento è al film del 1999 di James Mangold in cui interpretava una giovane donna ricoverata in un ospedale psichiatrico (è il film che ha dato l’Oscar ad Angelina Jolie). È grazie a «un’incredibile terapista», che l’ha incoraggiata a immaginare la versione più giovane di se stessa e provare a essere gentile con lei, se è riuscita a superare la rottura con Depp.
«Ricordo che ero sul set per girare le scene in cui il mio personaggio viene torturato in una prigione cilena [sta parlando del film La casa degli Spiriti (1993) di Bille August, ndr]. «Guardavo questi finti lividi e tagli sul mio viso e faticavo a vedermi come questa ragazzina. “Tratteresti questa ragazza come stai trattando te stessa?” Ricordo di essermi guardata allo specchio così truccata e di aver detto: “Questo è quello che sto facendo a me stessa dentro di me”. La verità è che non mi stavo prendendo cura di me stessa».
Un aiuto inaspettato è arrivato anche da parte di una collega su un altro set. Quello di L’età dell’innocenza (1993) di Martin Scorsese. È stata Michelle Pfeiffer a consolarla e a supportarla in quel periodo così travagliato. «Mi ricordo che Michelle mi diceva, “Passerà”. Ma non riuscivo a crederci», prosegue Winona Ryder. Che poi ammette. «Non ne avevo mai parlato prima. C’è una parte di me che è molto riservata. Ho un posto nel mio cuore per quei giorni. Ma per quelli più giovani, che sono cresciuti con i social media, è difficile da descrivere».
In realtà, i rapporti tra Winona Ryder e Johnny Depp sono rimasti ottimi anche dopo la rottura. Tanto è vero che, quando nel 2016 Amber Heard ha accusato il divo di abusi domestici, tra i primi a difenderlo c’è stata proprio la sua ex fidanzata. «Posso parlare solo in base alla mia esperienza, che è stata molto diversa da quella che viene detto», aveva detto in un’intervista a Time. «Non è mai stato, mai così nei miei confronti. Non è mai stato violento nei miei confronti. Lo conosco solo come un ragazzo davvero buono, amorevole e premuroso, che è molto, molto protettivo nei confronti delle persone che ama».
Infatti, Winona Ryder era disposta a testimoniare in tribunale a Londra a favore dell’ex. «È difficile e sconvolgente per me venire a patti con quello che è stato detto. È passato molto tempo, vero, ma siamo stati insieme per quattro anni. Ed è stata una relazione molto importante per me. Immagina se qualcuno con cui uscivi quando eri – avevo 17 anni quando l’ho incontrato – fosse accusato di questo. È semplicemente scioccante. Non l’ho mai visto essere violento nei confronti di una persona».
Oggi la vita sentimentale di Winona Ryder è molto più stabile. Dal 2011 l’attrice fa coppia fissa con lo stilista Scott Mackinlay Hahn. 51 anni, è il fondatore di Loomslane, una linea ecologica e socialmente consapevole. Si è fortemente impegnato, per esempio, per produrre cotone riducendo al minimo l’impatto sull’ambiente.
Secondo quanto riporta la stampa americana, la coppia, che ha fatto il suo debutto sul red carper solo nel 2016, alla prima di Stranger Things, non ha intenzione di sposarsi. «Winona ha trovato la sua anima gemella in Scott, che è un vero gentiluomo e di successo. Come lei, non ama la ribalta, ma godersi quanto ottenuto in maniera discreta».
Da corriere.it il 4 luglio 2022.
Il team legale di Amber Heard ha chiesto che il verdetto emesso contro di lei nel processo per diffamazione intentato dall’ex marito Johnny Depp venga interamente annullato, incluso il risarcimento di oltre 10 milioni di dollari che le è stato richiesto.
La nuova mossa nella disputa fra i due attori che ha avuto altissima attenzione mediatica negli ultimi mesi è giustificata, secondo Heard, dalla mancanza di prove che hanno portato alla sua condanna. L’attrice sostiene inoltre che il verdetto contro di lei è stato eccessivamente pesante, considerato che entrambi sono stati ritenuti colpevoli di essersi diffamati a vicenda.
In un documento di 43 pagine depositato lo scorso venerdì i suoi avvocati ritengono anche che vi sia stato un errore nel registrare l’anno di nascita di uno dei giurati che hanno preso parte al processo: elencato come nato nel 1945, il giurato sarebbe invece «chiaramente nato dopo il 1970», una discrepanza che solleverebbe dubbi sull’adeguatezza con cui i giurati sono stati controllati.
Il ricorso da parte di Heard era atteso: l’avvocato a capo del team legale di Depp - che nel frattempo ha ripreso le attività da musicista e verrà in concerto anche in Italia - ha accolto la mozione dichiarando semplicemente: «Era quello che ci aspettavamo, solo più lunga, ma non più sostanziale»
Amber Heard-Johnny Depp: respinta la richiesta dell’attrice di un nuovo processo. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 13 luglio 2022.
La richiesta da parte di Amber Heard di annullare il verdetto che la obbliga a pagare 10 milioni di dollari all’ex marito Johnny Depp e di rifare un nuovo processo è stata respinta: la giudice della Virginia che si occupata della seguitissima disputa legale Penney Azcarate ha negato all’attrice di annullare il processo, spiegando fra le varie cose che non vi sarebbero stati vizi di forma nello svolgimento, come sostenuto dagli avvocati di Heard. Secondo l’attrice uno dei giurati non era stato propriamente controllato, ma, ha detto la giudice, il problema avrebbe dovuto essere sollevato prima e non sono state presentate prove a sostegno di un tale vizio di forma.
A giugno la star di «Aquaman» è stata condannata a pagare oltre 10 milioni di dollari nella causa intentata da Depp per diffamazione. I suoi legali avevano chiesto di annullare il processo per mancanza di prove e anche perché uno dei giurati non avrebbe dovuto partecipare in quanto la convocazione sarebbe stata mandata al padre, con lo stesso nome e lo stesso indirizzo di residenza. La giudice ha però stabilito che «non ci sono prove di frode o errori» da parte del giurato e che il verdetto deve quindi rimanere valido.
Azcarate ha inoltre osservato che entrambe le parti avevano accettato tutti i giurati all’inizio del processo: «Un giusto processo è stato garantito e riservato a tutte le parti», ha scritto.
Beatrice Pagan per movieplayer.it l'8 luglio 2022.
Johnny Depp tornerà su un set cinematografico in occasione del film La Favorite, in cui avrà la parte di Re Luigi XV.
Il progetto, secondo quanto svelato dalle fonti di Bloomberg, sarà sostenuto economicamente da Netflix.
Il lungometraggio è il primo che vede coinvolto Johnny Depp dopo il processo che lo ha visto protagonista insieme all'ex moglie Amber Heard, che ha accusato di diffamazione. Gli avvocati della star, in tribunale, hanno ottenuto una sentenza a favore della loro tesi che sosteneva ci fossero stati dei danni significativi sulla carriera dell'ex protagonista di Pirati dei Caraibi dopo la pubblicazione di un articolo in cui Amber parlava delle violenze subite.
La Favorite sarà diretta da Maïwenn e dovrebbe arrivare nei cinema francesi nel 2023, venendo distribuito in streaming su Netflix 15 mesi dopo. Le tempistiche del debutto internazionale, invece, non sono state svelate. Le riprese si svolgeranno in estate e dureranno per oltre tre mesi in luoghi molto suggestivi come il castello di Versailles. LeBesco, inoltre, avrà la parte di Madame du Barry.
Amber Heard non si arrende e tira in ballo la libertà di espressione. Francesca Galici il 23 Luglio 2022 su Il Giornale.
Per evitare la bancarotta, Amber Heard ha deciso di ricorrere in appello contro Johnny Depp, rinunciando così all'accordo extragiudiziale
Amber Heard ci riprova e, dopo che il suo ricorso è stato respinto, la star di Aquaman ha deciso di ricorrere in appello nel processo che la vede chiamata alla sbarra dal suo ex marito Johnny Depp con l'accusa di diffamazione. Il tribunale di Fairfax, in Virginia, a detta dell'attrice avrebbe emesso una sentenza che non è in linea con il Primo emendamento, condannandola al pagamento di 10 milioni di euro in favore dell'ex marito. Amber Heard, dopo aver fallito con il primo ricorso perché, a dire dei suoi legali, ci sarebbe stato un vizio nel procedimento, ha deciso di tentare un'altra strada. L'obiettivo è quello di evitare la bancarotta, che per l'attrice è dietro l'angolo.
Con la prima sentenza del processo, infatti, il giudice di Fairfax ha quantificato in 10milioni di dollari l'ammontare del risarcimento al quale Amber Heard è obbligata nei confronti di Johnny Depp. Al netto dei 2 milioni di indennizzo ai quali è stato condannato l'attore di Pirati dei Caraibi, diventano 8. Una cifra comunque elevata che, come fa fatto sapere una portavoce di Amber Heard, non sarebbe nelle disponibilità dell'attrice. Anche perché a quegli 8 milioni si devono aggiungere le spese legali molto alte alle quali è tenuta la star di Hollywood. Per queste ragioni gli avvocati hanno concordato con l'attrice di andare in appello invocando il Primo emendamento della Costituzione, ossia la libertà di espressione entro i cui paletti, a detta dei legali, rientrerebbe l'articolo oggetto di querela. In quel pezzo, pubblicato sul Washington Post, Amber Heard si definiva una "sopravvissuta alla violenza domestica". L'attrice non fa mai il nome dell'ex marito ma alcuni dettagli riportati rendono la sua identificazione non equivocabile. Per questa ragione Johny Depp ha deciso di ricorrere al tribunale e, almeno stando alla prima sentenza, non ha avuto torto.
Johnny Depp ha avuto ragione: si chiama giustizia
Eppure, appena pochi giorni dopo la conclusione del processo, sembrava che la vicenda potesse concludersi in modo diverso. Ben Chew, uno degli avvocati di Johnny Depp, riferì pubblicamente che il suo assistito era pronto a rinunciare ai soldi di sua moglien per raggiungere un accordo extragiudiziale, perché il suo obiettivo non era un rimborso economico ma la riabilitazione pubblica. La condizione posta era che Amber Heard rinunciasse all'appello. Tuttavia, ora che l'attrice ha deciso di fare questo passo, difficilmente l'ex marito adempirà a quell'impegno e si preannuncia un'altra sfida lega infuocata.
DAGONEWS l'1 agosto 2022.
Marilyn Manson ha inviato una serie di messaggi a Johnny Depp nel 2016 confrontando la moglie Lindsay Usich con Amber Heard.
Manson scriveva: «Ho un’Amber 2.0. Sono fottutamente stressato. Non so se sei tornato, ma ho bisogno di asilo da qualche parte perché penso che la polizia potrebbe venire da me. Ha detto che l'ho picchiata e ha dato alla polizia il mio indirizzo. E ha detto che ho delle droghe qui. La polizia verrà qui per farmi un ordine restrittivo».
Dal canto suo Depp rispondeva dando della “stronza” ad Amber Heard e consigliando all’amico di non prendersela e di rimanere calmo: «Non devi darle quello che vuole.
È un comportamento sociopatico fottutamente reale, fratello mio!!».
Non solo. Oltre a sfogarsi con l’amico Depp, il cantante gli proponeva anche di fargli conoscere una nuova fan, assicurandogli che si trattava di una maggiorenne.
I messaggi di testo sono stati resi pubblici durante il fine settimana, quando sono stati aperte migliaia di pagine di documenti archiviati nel processo per diffamazione tra Depp e Heard.
Antonella Catena per style.corriere.it il 16 luglio 2022.
Mickey Rourke, 69 anni (il 16 settembre ne compie 70), maledetto quando era uno dei sex symbol degli Anni 80 e maledetto oggi. L’attore, intervistato in tv, ha sparato a zero contro Tom Cruise e Amber Heard. Ecco cosa ha detto e, soprattutto, perché…
Lui è “irrelevanet”. Lei era a caccia del miglior partito. Loro sono, rispettivamente, Tom Cruise e Amber Heard. A «parlare male di loro» è Mickey Rourke, professione ex bello/maledetto/talentuoso di Hollywood…
L’ex seduttore disperato di 9 settimane e 1/2 il 16 settembre compirà 70 anni. Il suo volto non è più quello di un tempo… da tanto tempo. La sua carriera nemmeno. Ma resta uno dei sex symbol dei mitici Anni 80 da cui non vogliamo liberarci proprio mai. E allora eccoci ad ascoltarlo…
Intervistato dal giornalista Pier Morgan per la sua trasmissione tv Uncensored, l’ex bellissimo non si è censurato affatto. Ed è partito prima bocciando l’interpretazione del collega/rivale. Tom Cruise, non solo sarebbe un attore «irrevelant», noi diciamo insignificante, di Top Gun: Maverick. No, Mickey aggiunge, come prova della sua affermazione, «sono 35 anni che interpreta sempre lo stesso ruolo».
Insomma, bocciato! Il successo mondiale del film, con gli 11 milioni di euro incassati in Italia e e il miliardo di dollari ampiamente superato i nel mondo? «Non significa niente. Lui fa la stessa cavolo di parte da 35 anni. E questo io non lo ammetto. Non l’ho mai fatto, ma perché non mi interessano i soldi o il potere
Chi fa queste scelte, non ha il mio rispetto. Guardate invece Al Pacino. O i lavori di Chris Walken, Robert De Niro, Richard Harris e Ray Winstone… Sono loro i miei idoli. È questo il tipo di attore che ho sempre voluto essere. Come Monty Clift e Marlon Brando nella loro epoca». Il conduttore, gli chiede, per «riassumere»: «Ma quindi non credi che Tom Cruise sia un buon attore?». Risposta: «Penso davvero che non entrerà nella storia del cinema. È un attore insignificante»…
L’attore non si è fermato a Cruise, però. Alla bocciatura di Maverick, segue quella di Amber Heard. L’ex moglie che ha trascinato l’ex marito Johnny Depp in tribunale, perdendo la causa e finendo triturata dall’uragano mediatico.
Amber heard è stata definita da Mickey Rourke una gold-digger, una a caccia di un marito ricco. L’aveva trovato in Johnny Depp, che ha appena vinto la causa che lei gli aveva intentato, accusandolo di violenza domestica.
Durante la stessa intervista, per l’attrice di Acquaman, usa il termine «gold-digger». Che letteralmente significa cercatore d’oro, ma nel linguaggio comune hollywoodiano (e non solo) significa una a caccia del miglior partito. Finanziariamente parlando… La bionda Amber l’avrebbe trovato nel pirata Jack Sparrow…
«Conosco Johnny da anni, anche se no posso definirlo un amico intimo. Quello che mi sento di dire è che anch’io una volta sono stato accusato ingiustamente. E la cosa mi ha bloccato dal punto di vista professionale per anni. Diciamo che sono rimasto vittima di questa errata cattiva reputazione.
Alla fine è emersa la verità, ma intanto erano passati anni e io avevo perso film e occasioni di lavoro. Ecco perché mi sento vicino a chi è rimasto vittima di una gold digger come Johnny… Perché è questo che è lei, una fottuta dannata gold-digger»…
Tra Johnny Depp e Amber Heard sappiamo come è andata. Il tribunale ha rispedito al mittente tutte e tre le accuse della donna di violenza domestica. Dando ragione al divo, ha stabilito che lei dovrà pagare 15 milioni di dollari. Lui ha commentato: «Mi hanno restituito la vita». Lei, da allora, sta chiedendo l’annullamento della sentenza.
Da corrieredellosport.it l'1 agosto 2022.
Amber Heard starebbe lasciando il deserto della California, dove avrebbe messo in vendita la sua lussuosa dimora, stando a quanto rivelato dal sito Tmz. La casa nella Yucca Valley sarebbe stata venduta per poco più di un milione di dollari. La vendita sarebbe avvenuta il 18 luglio scorso. La proprietà sarebbe stata acquistata nel 2019 tramite un fondo anonimo , che avrebbe dei collegamenti con l'attrice. Tmz ha affermato di aver contattato il nuovo proprietario dell'immobile, che avrebbe confermato di aver avuto contatti con alcune persone vicine all'attrice, ma mai personalmente con lei.
Amber Heard vende la sua casa
Con la vendita la diva avrebbe registrato un profitto di circa 480mila euro, rispetto al prezzo di acquisto avvenuto prima della pandemia. La Heard, dopo aver perso la causa contro Johnny Depp, è stata condannata anche ad un risarcimento di 8 milioni di euro circa che dovrà versare all'attore. Nelle scorse settimane è arrivata la decisione dell'attrice di appellarsi. I suoi legali hanno assicurato che potrà pagare l'ingente somma, anche se i rumors su una sua imminente bancarotta si rincorrono in rete.
Da tgcom24.mediaset.it il 2 agosto 2022.
La guerra tra Amber Heard e Johnny Depp non è ancora finita e non è bastato nemmeno il processo fiume finito con la condanna dell’attrice a pagare oltre 10 milioni di dollari all’ex marito per averlo diffamato.
Il team di avvocati dell'ex moglie del "Pirata" sostiene infatti, come è emerso da nuovi documenti legali appena resi pubblici, che Depp soffra e abbia sofferto di disfunzione erettile e che tale problema possa aver contribuito al suo comportamento violento.
"Sebbene il signor Depp preferirebbe non rivelare la sua condizione di disfunzione erettile", si legge nei documenti legali ottenuti da Page Six: "Tale condizione è rilevante per la violenza sessuale ai danni di Amber Heard, compreso l'uso di una bottiglia per violentarla...".
Sembra anche che gli avvocati di Depp abbiano dovuto evitare che venisse accolta la richiesta del team di Amber di portare in tribunale le cartelle cliniche di Johnny come prova, con la lista completa di medicinali tra cui ‘Nexium, Cialis e Valtrex’ contro i “disturbi erettili”.
Il tutto mentre erano impegnati anche a non rendere pubblici i messaggi scambiati tra il loro cliente e Marilyn Menson e contenenti minacce e volgarità.
Dal canto loro, come emerge dai recenti documenti pubblicati, i legali dell'attrice hanno dovuto bloccare il tentativo di Depp di portare in tribunale alcuni scatti dell'ex moglie nuda, risalenti alle sue performance come ballerina ancora prima di conoscerlo, come prova "malevole che Ms Heard sia stata in passato una escort". Insomma non sembra esserci fine e tra accuse e controaccuse, nella guerra tra i due attori continuano a emergere nuovi e sconcertanti elementi.
Processo Depp-Heard, diffuse su Twitter le prove scartate dalla giudice. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 2 agosto 2022.
Tecnicamente, il processo Depp contro Heard (causa civile CL-2019-2911, «John C. Depp, II v. Amber Laura Heard», County Circuit Court di Fairfax, Virginia) è stato celebrato dall’11 aprile al 1 giugno 2022. Mediaticamente, pare destinato a non finire mai. Non è bastato il verdetto, clamoroso, che ha condannato entrambi per diffamazione: lei a versare un risarcimento di 15 milioni di dollari (ridotti a 10 milioni e 350mila) e lui a un risarcimento di 2 milioni. La legge della Virginia, in nome della trasparenza, permette dopo il verdetto della giuria di desecretare le carte – presentate dalle parti – che il giudice aveva ritenuto per vari motivi inammissibili. Un’avvocata e commentatrice (su Twitter) del processo, apertamente schierata con il «Team Johnny», ha pagato (tramite crowdfunding) i circa tremila dollari necessari per le spese di cancelleria (50 cent a pagina) e ha così ottenuto le oltre 6600 pagine, digitalizzate in 48 file in formato .pdf che hanno in queste ore ravvivato l’agosto delle opposte fazioni di tifosi, tornando a riaccendere la pira sulla quale far ardere l’effigie della «celebrity» nemica.
Non era bastato il processo, che mostrò al mondo le scene da un matrimonio da incubo, il «Chi ha paura di Virginia Woolf?» dell’era digitale, la «Guerra dei Roses» che possiamo permetterci (o, forse, che ci meritiamo). Non erano bastate le immagini delle feci lasciate nel letto di lui e da lei fotografate, i messaggini nei quali lui a un amico esplicitava farneticanti scenari horror di omicidio e altre violenze ai danni di lei, non erano bastate le settimane che avevano lasciato sbirciare al mondo cosa c’è dietro ai matrimoni dei ricchi e famosi nelle loro ville tra le dolci palme di Bel Air. Ecco adesso le 6600 pagine di materiale giudicato irrilevante o fuorviante dalla giudice, gettate in pasto agli utenti dei social media, specialmente di Twitter, per un ulteriore round del match di pugilato digitale a suon di hashtag.
«Team Amber» ora pretende le scuse, gli altri rincarano la dose di accuse già sentite, entrambe le parti grufolando tra i pdf cercano di estrarre il tartufo della nuova rivelazione capace, nelle loro speranze, di rovesciare il verdetto o di aggravare ulteriormente la posizione di lei (già peraltro ridotta sul lastrico dal processo). Sfogliando freddamente le carte, sorge invece l’impressione che la meticolosissima giudice Penney Azcarate, che impose al processo un ritmo molto poco televisivo con numerose interruzioni (e fece imbizzarrire i tifosi a casa), abbia optato per la soluzione più sensata cassando il materiale che emerge ora: che appare più greve, e prurignoso, che legalmente rilevante.
Per esempio, gli avvocati di Heard volevano utilizzare come prova le ricette di vari farmaci per curare la disfunzione erettile della quale soffriva Depp: a dir loro, avvaloravano la testimonianza della loro cliente secondo la quale Depp, impotente, avrebbe abusato di lei con una bottiglia. Sempre gli avvocati di Heard avrebbero chiesto di ammettere come prova i messaggini tra Depp e la rockstar Marilyn Manson, anche lui nei guai per il #metoo. Gli avvocati di Depp, invece, avrebbero chiesto alla giudice di mostrare alla giuria vecchie foto di Heard nuda, per avvalorare la tesi che prima di diventare attrice avrebbe lavorato come «danzatrice esotica», cioè spogliarellista (negli Stati Uniti è frequente eufemismo per indicare una escort). Tra le novità: la sorella di Heard avrebbe detto a un’amica che fu in effetti l’attrice a tranciare la falange del dito della mano di Depp con una bottigliata, elemento grave ma cassato dalla giudice perché non sono ammissibili in aula testimonianze di seconda e terza mano. L’attrice, oltre a risarcire l’ex marito, deve anche pagare le parcelle milionarie dei suoi avvocati e quelle delle due agenzie di pubbliche relazioni: rischierebbe la bancarotta, secondo il New York Post, e starebbe per vendere casa.
Tra gli elementi non rilevanti per il verdetto ma sicuramente interessanti, le comunicazioni via email tra gli avvocati, nei quali emergono tensioni, accuse di sessismo e di malafede. Heard per esempio avrebbe cercato di sottrarsi a una deposizione nello studio dei legali di Depp ipotizzando che non fossero vaccinati: la risposta, molto severa, del generalmente pacato Ben Chew, si conclude però con l'educatissimo, e un po' antiquato, commiato «very truly yours».
Davide Sica per cinema.everyeye.it il 4 novembre 2022.
Nel processo in cui Amber Heard è stata condannata per diffamazione nei confronti dell'ex marito Johnny Depp e al pagamento di 15 milioni di dollari, la star di Pirati dei Caraibi è stata a sua volta condannata al pagamento di 2 milioni per l'affermazione di un avvocato del suo team, che definì un 'imbroglio' le accuse di Heard.
Sono proprio i 2 milioni di dollari che Johnny Depp dovrebbe pagare a Heard al centro della richiesta d'appello presentata dal team legale dell'attore. Nella memoria di 44 pagine presentata da Depp, gli avvocati della star ritengono che l'attore non dovrebbe essere ritenuto responsabile per il pagamento dei 2 milioni di dollari decisi dalla giuria nella sentenza dello scorso mese di giugno. Proprio in estate è stato annunciato che Amber Heard scriverà un libro su Johnny Depp.
Nel frattempo i documenti definiscono la controquerela di Heard 'irrimediabilmente viziata' e suggeriscono che la corte 'avrebbe dovuto accogliere la mozione del signor Depp per un giudizio sommario'.
"In primo luogo il signor Depp non può essere ritenuto responsabile per le dichiarazioni del signor Waldman [l'avvocato che pronunciò la frase], dal punto di vista giuridico. La signora Heard ha cercato di ritenere il signor Depp responsabile per la dichiarazione di Waldman del 27 aprile in base alla mera teoria di responsabilità indiretta, sostenendo che il signor Depp era responsabile semplicemente perché il signor Waldman era stato trattenuto dal signor Depp come suo avvocato e quindi suo agente.
Il signor Waldman è un consulente indipendente, la cui presunta condotta illecita non è automaticamente imputabile al signor Depp. D'altro canto, molte autorità sostengono la limitazione della responsabilità di un cliente per presunta condotta illecita da parte di un avvocato e la Corte dovrebbe imporre lo stesso limite anche in questo caso".
Un nuovo capitolo della querelle giudiziaria che ha visto la vittoria di Johnny Depp al processo contro l'ex moglie Amber Heard.
Johnny Depp e Joelle Rich si sono lasciati: finita la relazione con la sua avvocata britannica. Maria Teresa Veneziani su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.
L’attore ha appena concluso la sua relazione con Joelle Rich, la legale inglese che lo aveva difesa nella causa per diffamazione con cui usciva da diversi mesi, secondo People
Non c’è MeToo e neo-femminismo che tenga: l’attrazione fatale per il bello e dannato resiste. E pazienza se l’amore dura solo pochi mesi. Secondo la rivista «People», Johnny Depp ha appena concluso la sua relazione con Joelle Rich, l’avvocata inglese con cui usciva da diversi mesi. E pensare che soltanto poche settimane fa, una fonte bene informata assicurava che l’interprete del pirata Jack Sparrow era «sinceramente felice» della sua nuova storia.
La scintilla tra l’attore americano e l’avvocato Joelle Rich, 37 anni, sarebbe scoccata proprio in occasione del processo contro« The Sun» (Depp aveva denunciato il tabloid per diffamazione a proposito di un articolo del 2018 che lo definiva «picchiatore di mogli»). Joelle, partner del prestigioso studio Schillings, faceva parte del team di avvocati che nel 2020 lo difese. Nonostante la causa persa, Depp aveva subito il fascino di Joelle.
E Rich non sarebbe l’unica avvocata ad aver subito il fascino di Depp. Per un periodo il gossip gli ha attribuito una love story con Camille Vasquez, la legale che lo difese durante il processo per violenza domestica contro l’ex moglie Amber Heard (sei anni di battaglie legali terminate nell’assoluzione dell’attore, il quale dovrà essere risarcito da Heard per 15 milioni di dollari). Ma sempre secondo «People», la nuova fiamma di Depp non era Vasquez bensì Rich, vista lasciare il tribunale con lo stesso veicolo dell’attore. I primi incontri discreti tra i due sarebbero avvenuti in un hotel.
La biografia di Joelle Rich documenta che vive a Londra. Per lo studio Schillings si occupa di «aiutare individui e famiglie di alto profilo a proteggere la loro privacy e reputazione», con una «competenza in materia di diffamazione, privacy e contenzioso sul copyright». Dopo la laurea in giurisprudenza conseguita all’Università di Birmingham, in Inghilterra, ha studiato alla BPP Law School di Londra dal 2006 al 2007. Sposata (e madre di due figli), l’avvocato sarebbe in procinto di divorziare.
Intanto, il 59enne Depp fa il modello per il brand di moda di Rihanna Savage X Fenty (mossa che da una parte ha già fatto scattare indignazione online e inviti a boicottare il marchio della cantante). L’attore ha già filmato il suo cameo in passerella, con lo show che verrà trasmesso su Prime Video di Amazon il 9 novembre.
· Johnny Dorelli e Gloria Guida.
Gloria Guida e Johnny Dorelli: «La differenza d’età pesa, ma sono stata felice. Io tradita? L’ho pensato». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 10 Luglio 2022.
Insieme da 43 anni, dal 1979. Lei aveva 22 anni ed era «la liceale» o «la novizia» delle commedie sexy, lui 42, star di «Aggiungi un posto a tavola» e di «Canzonissima». «Fu lei, in scena, a darmi a sorpresa un bacio vero»
«Stiamo insieme dal 1979. Sono 43 anni. Tanti». Gloria Guida fa un sorriso enorme e i suoi celebri occhi azzurri sembrano allagarsi di ricordi. Johnny Dorelli riposa nella stanza accanto. Ultimamente, non è in gran forma. Lei va a bussare alla sua porta: «Dorellino... Dorellino...». E intanto racconta: «Era il 4 novembre 1979. Avevo 22 anni. Lui 42». Ai tempi, lei era «la liceale», «l’infermiera di notte» o «la novizia» delle commedie sexy che turbavano gli italiani, lui era la star di «Aggiungi un posto a tavola» e di «Canzonissima», aveva vinto due Sanremo con Domenico Modugno e aveva girato una ventina di film, incluso «Arriva Dorellik» di Steno. «Il primo incontro, per me, non fu dei più belli: ci vedemmo a una prova di Accendiamo la lampada, che sarebbe stato il mio debutto in teatro e la nostra lampada magica. Avevo davanti Pietro Garinei, Gino Landi, Iaia Fiastri e Johnny Dorelli: tutti monumenti. Ero inesperta, terrorizzata. Le mani mi scivolavano da sole verso terra». Johnny tira su la testa dal suo riposino pomeridiano: «Alla fine, dissi: che ne pensa la signorina Guida di questa lettura?». Gloria: «Volevo sprofondare. Non capii che era il suo modo per mettermi a mio agio».
Johnny, che pensò vedendola?
«Gran gnocca».
Gloria: «Credevo che ti avessi colpito per la timidezza, l’ingenuità».
Johnny: «Eri vestita solo di giri di perle».
Gloria: «Ma sotto avevo una tutina trasparente! Lui mi sbirciava sempre, stavo in scena e vedevo spuntare il suo naso dalle quinte. Era un birbone».
Che cosa vi ha tenuto uniti per 43 anni?
Johnny la guarda. Le dice: «È che sei diventata una rivelazione. Una donna straordinaria».
A Gloria vengono gli occhi tremuli. Sposta l’emozione verso qualcosa di neutro. Dice: «Credo ci abbia tenuto insieme il dialogo. Nei momenti di difficoltà, siamo sempre rimasti uniti, parlando, chiarendoci. Mi fa rabbia vedere i giovani che si separano subito, che non hanno voglia di lottare».
Il momento più emozionante del vostro amore?
Johnny: «Quando è nata Guendalina. Ero in sala parto. È stato bellissimo».
Gloria: «Splendido: c’è stato uno svenimento e non era il mio, era lui».
Cosa successe dopo il primo incontro in teatro?
Gloria: «Lui si era appena separato da Catherine Spaak, avvertivo che provava qualcosa per me, ma che aveva paura, usciva da una situazione tosta, aveva un figlio piccolo, più un altro più grande da Lauretta Masiero».
Johnny: «Ogni sera, in scena, dovevamo baciarci e, ovviamente, era un bacio finto. Lei stava sotto un velo e il pubblico non se ne accorgeva. Una sera, invece, mi ha messo la lingua in bocca. Una roba che non mi era mai successa».
Gloria: «Mi sono fatta coraggio».
Primo appuntamento?
Johnny: «La invitai al cinema. Una serata normale».
Gloria: «Mica tanto. Pioveva. Impermeabile. Ombrello. Entriamo a film già iniziato. Era buio. Vado avanti. Non lo sento più. Mi giro e stava abbracciato a una colonna: l’aveva presa in pieno. Troviamo posto e mette la mano sulla pelata di un tizio. Dopo, saliamo in macchina, guarda fuori dal finestrino, ma il finestrino era chiuso e sbam, batte la testa».
Johnny fa cenno di non crederle. Reclina la testa. Lo lasciamo riposare. Lei: «Era un po’ un bambino, anche se era più grande di me. Queste sono le cose che mi hanno fatta innamorare. Mi sono trasferita da lui subito. E con lui mi sono divertita tanto: andavamo in Sardegna in barca, era sportivo, giocava a tennis, mi coinvolgeva, faceva sci, andava sott’acqua a pescare i ricci». Silenzio. «Sono cose che oggi sono solo un ricordo. Con gli anni capisci quanto pesi la differenza d’età, ma sono stata e sono felice così».
Quanto la preoccupava che fosse più vecchio, che avesse due ex, ognuna con un figlio?
«Ci pensavo, ma i figli furono carini con me. Fu proprio Gabriele a chiedermi “quest’estate andiamo in vacanza tutti insieme?”. E quando Catherine, la mamma, si trasferì in Francia, venne a stare da noi».
Johnny nelle interviste è sempre stato fra il burbero e il timido, perché?
«Non è uno che si apre ed era stato tanto bersagliato dalla stampa. Mi diceva: c’è un fotografo che ci segue. E io: allora? Mica facciamo qualcosa di male. È sempre stato un po’ orso, non usciva mai la sera, ma questi 43 anni sono volati senza che me ne rendessi conto. Con alti e bassi. Non è stato sempre tutto bello. Lui era un uomo che piaceva, faceva tournée sei mesi all’anno e io mi trovavo a casa con la bambina e il papà che si vedeva solo il lunedì, quando i teatri sono chiusi. Restare uniti è stato complicato, ma ho sempre saputo che amava solo me».
Lo ha sospettato di infedeltà?
«L’ho pensato, a volte, come credo che lui lo abbia pensato di me».
Lui ha detto al «Corriere»: «Il segreto di un amore lungo è rigare diritto». Che intendeva?
«Avere rispetto uno dell’altro. Evitare di tradirsi».
E quanto avete litigato?
«Litigare e fare pace tiene vivo il rapporto. Sbattersi la porta in faccia e piano piano riaprirla fa bene. Litigavamo per sciocchezze: perché anche in vacanza lui era sempre al telefono o perché io ero gelosa».
Lui è stato geloso?
«Sì, ma per orgoglio non l’ha mai ammesso».
Ha girato l’ultimo film nel 1982, «Sesso e volentieri», di Bruno Corbucci e accanto a suo marito. Perché si ritirò?
«Volevo seguire mia figlia. Prima che nascesse, io e Johnny abbiamo lavorato insieme anche in teatro, abbiamo fatto “Se devi dire una bugia dilla grossa”, e in tv, a “Finalmente venerdì”, ci capivamo al volo, venivano fuori cose fuori copione. Potevamo diventare come Vianello e Mondaini, ma non abbiamo voluto. Invece, i ruoli che proponevano a me da sola erano sempre quelli sexy».
È stata il sogno erotico di tanti italiani, che effetto le fa?
«I film fatti non li rinnego, avrei evitato volentieri qualche doccia. Col senno di poi, mi dico che avrei potuto fare qualcosa per non sparire, ma la gente mi ferma ancora per strada e ora sto girando una commedia di Francesco Patierno, “Improvvisamente Natale”, con Abatantuono: non avrei immaginato che, dopo 40 anni lontana dal cinema, mi arrivasse una proposta».
Anni fa confessò che suo marito temeva un suo ritorno ai set perché aveva paura di sentirsi trascurato.
«Viene da un mondo in cui il maschio lavora e la moglie lo aspetta, credo che non gli avrebbe fatto piacere, ma ero così innamorata che prima c’era lui e poi venivo io».
Perché vi siete sposati due volte, in Municipio nel 1991 e in chiesa nel 2011?
«Johnny dice: il sindaco di Olbia si era dimenticato troppe cose importanti e l’abbiamo dovuto rifare».
Johnny Dorelli, quanto ci manca (25 anni dopo): artisti come lui non ci sono più. E si sente. Giorgio Carbone su Libero Quotidiano il 28 aprile 2022
Il 20 febbraio scorso Johnny Dorelli ha compiuto 85 anni. Tanti auguri. Anche se è passato un quarto di secolo dall'ultima apparizione televisiva (la serie Due per tre) Dorelli è rimasto nell'immaginario degli italiani, perché ha abitato la canzone quando era al suo top (Volare) e la tv (Johnny sette) quando ancora non si faceva zapping, il cinema italiano (Pane e cioccolata, L'Agnese va a morire) quando era il migliore del mondo. La scorsa settimana se n'è andata Catherine Spaak che fu sua compagna nel periodo (per entrambi) di maggior successo e il ricordo non poteva non andare alla "prima volta insieme", l'operetta della Vedova allegra in tv dove simulavano un amore che galoppava già nella realtà e avrebbe dato loro un figlio. Dorelli ebbi modo d'incontrarlo alla fine degli Anni 80 durante le riprese della Trappola di Carlo Lizzani. Alla domanda di rito (i suoi progetti per l'avvenire) lui rispose abbastanza perplesso: «Mah, progetti, in fondo ho già 50 anni...». Ma come, pensava già al prepensionamento? In effetti forse ci pensava. Perché era nello show business da quando aveva 16 anni. Da quando il padre (noto cantante italiano in America col nome di Nino D'Aurelio) l'aveva presentato a Frank Sinatra. Da Sinatra a Teddy Reno in meno di un anno.
ED È SUBITO SUCCESSO
Il cantante (ma soprattutto grande manager) triestino butta il diciannovenne d'America (ma nato a Meda) nel suo show tv ed è subito successo. Il pubblico lo ama subito, i discografici meno (all'epoca imperavano i tenorini come Claudio Villa e Tajoli). Ma debbono convincersi per forza quando a 22 anni Dorelli vince il festival di Sanremo con Nel blu dipinto di blu (in coppia con Modugno). L'anno dopo, sempre con Modugno, fa il bis con Piove. È allora che un grande regista tv, Daniele D'Anza, crede in lui come attore e lo impone come protagonista nel romanzo a puntate Tempo di musica. «Dorelli- dice- l'ho scelto perché ha un'aria irrimediabilmente remissiva» (lo sceneggiato è ambientato durante il fascismo e Johnny fa il buon italiano che si fa senza convinzione tutte le guerre fasciste, mentre i fascistissimi se ne stanno a casa).
La trasmissione ha vita breve ma intanto Johnny s' è imposto in una triplice veste che pochi uomini di spettacolo nostrano sono in grado di ricoprire. Canta bene (tra i migliori) recita disinvoltamente (anche se il meglio lo darà nel cinema dieci anni dopo) è un simpaticissimo intrattenitore (Johnny sera). Nella vita privata è abbastanza schivo, dribbla sistematicamente i professionisti del gossip. Ma non riesce a tenere celata la notizia quando Catherine Spaak (la seconda donna importante della sua vita, la prima è stata Lauretta Masiero) rimane incinta. Comunque il gossip con lui non ha mai riempito molte pagine.
LA VITA SENTIMENTALE
Nonostante le (probabili) molte occasioni, la sua vita sentimentale è stata quella di un monogamo (lunghi periodi con la Masiero e la Spaak e un matrimonio quello con l'attrice Gloria Guida che resiste bellamente da 40 anni). Il terzo Johnny (dopo il cantante e l'entertainer) arriva quando ha quasi 40 anni. Un regista che fa poco cinema, Franco Brusati, in Pane e cioccolata ne scopre il lato oscuro. Ne fa un faccendiere milanese nell'Italia che si è svegliata dall'euforia del boom e s' è convertita alla politica delle mazzette e dei coltelli nella schiena. Nel 1977 con Il mostro diventa ancora più "nero": fa il padre, non incolpevole, di un serial killer (chissà se l'ha fatto vedere al figlio Gianluca, divenuto ottimo cantante). Poi forse spaventato ritorna al Johnny rassicurante e remissivo. Fa il maestro nel Cuore e lo Zeno nella Coscienza sveviana. Alla suocera che lo definisce «l'uomo migliore della casa» risponde dorellianamente: «Sono anche rimasto l'unico».
José Carreras: «Un film su Caruso segnò il mio destino». Giuseppina Manin su Il Corriere della Sera il 30 Dicembre 2021. La superstar della lirica canterà con la Filarmonica di Verona per il concerto di fine anno: «Ho vissuto il franchismo, papà fu punito. Fiero del mio impegno contro il cancro».
«Ho scoperto il canto guardando un film» confessa José Carreras, superstar della lirica, con Domingo e Pavarotti protagonista di un trio tenorile che ha conquistato il mondo. Stasera, la sua voce suntuosa e vellutata tornerà a spiegarsi per il concerto di fine anno al Filarmonico di Verona, sotto l’egida di quell’Arena che l’ha visto tante volte protagonista. «Torno dopo 22 anni con un programma di operette, zarzuele, canzoni. All’Arena sono legato da grandi ricordi, la Carmen del 1984, 20mila persone sugli spalti, regia di Bolognini. Altri tempi…».
Ma qual era il film che segnò il suo destino?
«Il grande Caruso con Mario Lanza. Quando lo vidi non sapevo nulla di nessuno dei due, avevo 6 anni, al cinema ci andavo al pomeriggio, due film al prezzo di uno. Il secondo non lo vidi, Caruso mi infiammò talmente che, appena uscito, mi misi a cantare».
Cosa la colpì così tanto?
«La voce, le canzoni, il fatto che venisse da una famiglia di Napoli povera come la mia di Barcellona. Mio padre, maestro di scuola, aveva perso il posto perché repubblicano nell’epoca di Franco. Mia madre, parrucchiera. Un’infanzia povera ma piena d’amore, di valori importanti che restano per sempre. Quando a casa annunciai che avrei fatto il cantante, nessuno cercò di dissuadermi. Prova, mi dissero».
E lei provò
«L’anno dopo ero iscritto al Conservatorio. Poco dopo alla radio cantai La donna è mobile. Un bimbo in braghette che canta Rigoletto! A 11 il debutto a Liceu con De Falla, un ruolo per voce sopranile qual era la mia allora. Montserrat Caballé mi notò, mi invitò a cantare con lei nella Norma. Stavolta da tenore. E tutto cominciò…»
Cosa è rimasto di quel bambino audace?
«La passione per la musica. La gioia di esprimermi cantando a 75 anni è sempre intatta. Sono stato fortunato. Ho realizzato i miei sogni, ho cantato nei primi teatri del mondo, con i direttori più grandi, da Karajan a Bernstein, da Abbado a Muti a Chailly».
Ricordi?
«Di Karajan si diceva fosse un dittatore, per me solo un gran professionista. A Salisburgo era il primo a arrivare, l’ultimo ad andarsene. Muti lo apprezzo per i suoi modi diretti, Abbado per la capacità di guidarti con tatto e umanità. Sotto la sua guida debuttai alla Scala nel Ballo in maschera. Avevo 28 anni, le gambe mi tremavano, fu bellissimo».
Con Bernstein incise «West Side Story».
«L’unica volta che ho avuto a che fare con un direttore compositore. Lenny era un vulcano, sprigionava musica da ogni poro. A ogni aria mi veniva in mente il film visto da ragazzo, innamorato come tutti, di Natalie Wood. Penso di andare a vedere il film di Spielberg».
Attuale anche «Madres Paralelas» di Almodóvar, dove si cercano le ossa dei morti per la libertà. Com’era quella Spagna divisa?
«Lo è ancora. Il Partito Popolare, di destra, fa di tutto per cancellare la memoria. Una censura che ho vissuto anch’io, a scuola sui libri era scritto solo quello che Franco voleva. Tra le parole cancellate, il nome di Mozart. La cultura faceva paura, e ancora la fa, perché aiuta a ragionare con la propria testa. Meglio seppellirla, come le ossa dei repubblicani. Almodovar fa bene a invitare a scavare. Bisogna che i giovani sappiano quello che è successo».
A 40 anni la sua carriera fu interrotta dalla malattia...
«Mi sentii male durante le riprese della Bohéme di Comencini. Leucemia, i medici dissero che avevo una probabilità su 10 di cavarmela. Mi aggrappai a quell’unica con tutte le forze. Mi hanno guarito i medici, l’affetto dei miei cari, di tante persone sconosciute. E la musica. Non mi ha mai lasciato. Ascolto di tutto, opera ma anche pop. Amy Winehouse mi dà grandi emozioni».
Come ha ricominciato a cantare?
«Con un concerto per la mia città. E con una Fondazione ormai diventata una rete di donatori di midollo osseo. Ne sono molto fiero, è lo spartiacque della mia vita».
Da quella svolta sono nati anche i Tre Tenori
«Una follia fortunata, tre tenori diversi vocalmente e fisicamente: Luciano con la sua mole, i suoi modi estroversi, Placido sempre pronto a aiutare gli altri. Un’intesa fantastica, di leale competizione».
E l’intesa artistica e amorosa con Katia Ricciarelli?
«Ci sentiamo, a Katia resto legato da grande affetto. Per lei solo parole belle».
Barbara Costa per Dagospia il 23 ottobre 2022.
30 anni di porno! Complimenti a Julia Ann, grandissima porno star, e una tra le pochissime giunta a spegnere 30 candeline di porno sc*pate! Julia Ann, 53enne vorace, e tra le attrici milf più quotate, e che fiera e divertita dice che una bella parte della sua attuale fanbase è composta da ragazzi che, quando lei ha aperto le gambe al porno la prima volta, nemmeno erano nati!
Seducentissima Julia Ann, e prendiamoci la patriottica porzione di merito in tale pornografico asso: Julia ha genitori italiani! Il suo nome vero è Julia, il suo cognome vero è Tavella, cognome che i fan del porno più in età e ferrati ci scommetto ricordano da lei rilasciato in alcune sue originarie prove porno, ma poi subito abbandonato perché per niente… armonico.
Bando alle ciance: al solo mormorare il nome Julia Ann i peni dei pornomani dai peli bianchi si emozionano nelle mutande: i caldi ricordi che questa femmina scatena… facial compresi, facial che i fan di Julia poco amano, e per le sue smorfie a ricevere lo sperma, ma lei ve l’ha spiegato: mai ha superato la paura d’uno "sparo" sbagliato, dritto negli occhi, e che brucia e fa male!
Il 1992 è l’anno d’esordio di Julia Ann, l’anno in cui gira "Hidden Obsessions", porno pensato scritto e diretto dal Maestro Andrew Blake, e film in cui Julia addenta un lesbo per cui vince un Oscar del Porno… ma Julia come ci arriva, già con la sua primissima performance, nel porno che conta? Julia Ann è una californiana cresciuta a Idyllwild, un posto alla periferia di tutto, con mamma e papà che lavorano, e lei lasciata alle cure della nonna. Finita la scuola privata, Julia va a Los Angeles e fa la modella ma non è la moda che le dà i primi guadagni: lei si fa un nome nel ramo delle… lottatrici di fango!
È dandoci sotto in sudicie lotte tra femmine in bikini, con intorno torme di maschi scalmanati, che Julia Ann si fa valere. Leggenda vuole che la bionda futura diva del porno a una festa in spiaggia incontri un’altra bionda con la medesima voglia di spaccare il mondo: il suo nome? Janine Lindemulder, ed ecco che i peni dei miei lettori più "anta" fanno un’altra capriola, festosi e scoppiettanti, al ricordo di quest’altra porno virago, Janine, che, con Julia, forma il pazzesco duo di strip-tease "Blondage".
Non passa molto tempo che queste due bombe del sesso dai boss del porno vengano notate: Andrew Blake fa giungere a Janine lo script di Hidden Obsessions, Blake la vuole protagonista, Janine ci vuole dentro pure Julia: la scena delle due che giocano con sex toys di ghiaccio infilandoseli ovunque, goccianti sulle loro grazie eccitate, fa scuola e storia del porno. Il secondo porno di Julia è con Rocco Siffredi, un capitolo del suo "Casanova".
Julia e Janine diventano simbolo della "Vivid", la più rinomata agenzia porno dei '90s, l’agenzia che lo stesso Rocco rievoca come vi si fiondasse a ogni chiamata di set, perché garanzia di pornate eccezionali. E agenzia avente questa regola ferrea: si gira solo col preservativo! E per sventare l’AIDS, prima che il porno si dotasse di indubbi e obbligatori test bisettimanali incrociati a un rigido tracciamento web dello stato di salute di ogni performer (e uso di condom che nel porno qualcuno rivorrebbe doveroso ma che non renderebbe possibile realizzare il genere più girato e richiesto e cioè il gonzo, l’all sex il più sostenuto e rude, e sesso gonzo che, col condom, provocherebbe pericolose e feroci irritazioni a vagine e ani).
Julia Ann è riuscita in 3 decenni a primeggiare in un porno mai fermo né uguale a sé stesso. Lei ha iniziato che c’erano ancora le videocassette, il porno lo trovavi o lì, o in sporadici cinema a luci rosse, ma soprattutto le attrici non erano delle imprenditrici, dei brand, come sono oggi. 30 anni fa della tua promozione, e look, e a farti diventare una star, pensava l’agenzia: un’attrice non era autonoma in nulla.
Guadagnava cifre altissime, e però, dopo i 30 anni, era prepensionata. L’ascesa delle milf nel porno si deve alla "resistenza" di Julia e della sua generazione di attrici: chi non s’è ritirata caparbia ha continuato, forte come Julia di fan che non l’hanno mai tradita. E forte d’un corpo che ha resistito e che sa il fatto suo con idoneo aiuto chirurgico ed estetico (Julia ha rifatto seno, labbra, e naso, quest’ultimo dopo il calcio di un cavallo).
Julia ha retto 30 anni e non ha alcuna intenzione di smettere (“il sesso di una donna entra davvero in gioco con la maturità”) e di più ha persistito alla cattiva nomea che cade sulle donne del porno. Lei non si è mai sentita sporca, sbagliata, usata, abusata. Ha fatto ciò che voleva – e vuole – fare e, ovvio, in 30 anni, ha affrontato cadute e periodi no. Ha un divorzio alle spalle, e non ha figli. Julia Ann è tra le rare pornoattrici americane riuscita a entrare nel mercato porno più grande – e ricco – al mondo, quello giapponese.
Come è stata tra le prime a venire a mettersi alla prova in Europa valutandolo un porno diverso – per approccio al sesso e teorico e filmato – ma non minore di quello USA. Ha in bacheca 12 Oscar del Porno, è 3 volte consecutiva Best Milf, e i suoi video più recenti su Pornhub fanno views a milioni. Qual è la sua scena più hard? Quella con Manuel Ferrara, un anal pluri orgasmico alla cui fine si ritrovò con un labbro ferito e un grosso livido, affatto rammentandosi come se li era procurati.
Julia Roberts, Martin Luther King pagò il conto dell’ospedale per la sua nascita. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2022.
Julia Roberts ha rivelato che il reverendo Martin Luther King pagò il conto dell’ospedale il giorno della sua nascita, un anno prima che il leader dei diritti civili fosse assassinato, poiché la sua famiglia non poteva permetterselo. Lo riporta la Cnn. La star di Hollywood ha raccontato che la moglie di Martin Luther King, Coretta Scott, un giorno chiamò i suoi genitori, Betty Lou Bredemus e Walter Grady Roberts, che avevano ad Atlanta una scuola di teatro chiamata Actors and Writers, per chiedere se i loro figli potessero entrarvi «poiché avevano difficoltà a trovare un posto che li accettasse». La madre di Roberts accettò immediatamente e da allora nacque un’amicizia coi coniugi King. Così, quando l’attrice venne alla luce, il 28 ottobre 1967, il leader pagò il conto dell’ospedale. «Ci hanno aiutato a uscire da una situazione difficile», ha raccontato la vincitrice dell’Oscar per «Erin Brockovich».
Julia Roberts, Martin Luther King pagò il conto dell’ospedale per la sua nascita. Maria Volpe su Il Corriere della Sera l'1 Novembre 2022.
La star di Hollywood in una intervista sulla CNN: «Le nostre famiglie erano amiche I miei genitori presero i figli dei King nella loro scuola di teatro. Poi quando nacqui io Martin e la moglie Coretta, aiutarono i miei genitori a uscire da una situazione difficile»
La rivelazione di Julia Roberts, che il 28 ottobre ha compiuto 55 anni, ha fatto il giro del mondo: ha raccontato che il grande Martin Luther King , scoprì i costi ospedalieri della sua nascita e “Aiutò la mia famiglia a uscire da una situazione difficile, pagando il conto dell’Ospedale per la mia nascita». Tutto ciò accadde pochi mesi prima che il leader dei diritti civili fosse assassinato. assassinato solo pochi mesi dopo (4 aprile 1968).
In un’intervista sulla CNN, la star di Hollywood racconta cosa accadde dopo la sua nascita. Roberts ha raccontato che, nei primi Anni Sessanta, la moglie di Martin Luther King, Coretta Scott, un giorno chiamò i suoi genitori, Betty Lou Bredemus e Walter Grady Roberts, che avevano ad Atlanta una scuola di teatro chiamata Actors and Writers, per chiedere se i loro figli potessero entrarvi «poiché avevano difficoltà a trovare un posto che li accettasse». Infatti le leggi razziali e la segregazione erano ancora una dura realtà al tempo, e i bambini neri non potevano entrare nelle scuole dei bianchi. I genitori dell’attrice accolsero con grande piacere i piccoli King. Così, in segno di riconoscimento, poi, l’attivista politico scelse di pagare il conto dell’ospedale e permettere ai genitori di Julia Roberts di godersi la nascita della figlia senza pensare alle difficoltà economiche.
Nacque una vera intensa amicizia tra i genitori di Julia e i coniugi King. Così, quando l’attrice venne alla luce, il 28 ottobre 1967, in un ospedale a Smyrna, Georgia, un sobborgo dell’Atlanta, il leader pagò il conto dell’ospedale. «Ci hanno aiutato a uscire da una situazione difficile», ha raccontato la vincitrice dell’Oscar per «Erin Brockovich».
In un video si vede la giornalista Gayle King che fa la domanda diretta all’attrice: «Chi ha pagato il conto dell’Ospedale quando sei nata?». E lei risponde «La famiglia King. La mia famiglia non poteva permetterselo». (Appare poi la scritta: «In onore dei 55 anni di Julia Roberts, su twitter i fan hanno voluto ricordare questo speciale evento privato)
Marco Consoli per “La Stampa” l'1 settembre 2022.
«Quando sono venuta la prima volta al festival di Venezia era il 1986, ero protagonista di una soap opera intitolata Così gira il mondo. Se all'epoca mi avessero detto che un giorno sarei tornata qui nella giuria del Concorso, credo che mi sarei gettata in un canale dalla felicità».
E Julianne Moore, 62 anni portati magnificamente, torna al Lido, addirittura da presidentessa del consesso formato dalla regista francese Audrey Diwan, fresca vincitrice del Leone d'oro con La scelta di Anne, l'attrice iraniana Leila Hatami (Una separazione), i registi Leonardo Di Costanzo (Ariaferma), Mariano Cohn (Finale a sorpresa), Rodrigo Sorogoyen (Madre), e dello scrittore Kazuo Ishiguro (qui si vedrà Living, da lui sceneggiato).
In tempi di crisi del cinema in sala, indebolito dalla pandemia ma secondo molti soprattutto dallo streaming (e Netflix oltre al film d'apertura, White Noise, ha ben 4 film in concorso), Moore sottolinea: «Troppo spesso si parla della settima arte dal punto di vista commerciale.
E se i mezzi di distribuzione cambieranno sempre e hanno a che fare con l'evoluzione tecnologica, quello su cui è importante concentrarsi è l'aspetto creativo. L'arte non cambia e le persone continueranno sempre a sentire il desiderio di raccontare storie per condividerle.
Per questo i festival hanno una straordinaria importanza, non soltanto perché rappresentano la possibilità di vedere il meglio di una selezione affinata da curatori competenti, ma anche di scoprire nuovi autori, sceneggiatori e attori. In un mondo in cui le nostre vite sono pianificate nel minimo dettaglio e in cui tutti sappiamo sempre cosa stiamo per vedere in sala, è magnifico abbandonarsi con altre persone a qualcosa di totalmente inatteso».
Interprete di straordinarie pellicole come America Oggi, Magnolia, Lontano dal paradiso e Still Alice da spettatrice Moore sa cosa chiede alla visione: «Trovo immensamente gratificante guardare pellicole in lingue diverse dalla mia, mi permette di concentrarmi su ciò che mi interessa di più: osservare i personaggi come esseri umani e lasciarmi trascinare da ciò che mi fa identificare col mio prossimo e accelera i battiti del mio cuore».
Lasciando la porta aperta alle sorprese: «Come quando avevo 10 anni e andavo nel cinema della piccola città dell'Alaska in cui ho vissuto per un po' (il padre era in servizio nell'esercito americano, ndr). Vedevo film come Gli Aristogatti, poi un giorno ho visto Minnie e Moskowitz di John Cassavetes. Ne sono rimasta sorpresa e mi sono chiesta quale fosse il mio posto nel mondo. Credo che questo sia il dono che si può ricevere da un bel film».
Justin Bieber, la sindrome di Ramsay Hunt e le nuove regole della comunicazione. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2022.
Il cantante ai suoi 240 milioni di follower nell’impressionante video, con metà volto bloccato, un occhio che si chiude e si apre fuori controllo: «Si tratta della sindrome di Ramsay Hunt , devo cancellare le date del mio tour».
Se i 240 milioni di follower di Justin Bieber fossero una nazione sarebbero la quinta più popolosa del mondo dopo Cina, India, Stati Uniti e Indonesia. Così quando Bieber, che è il capo di Stato di questa gigantesca entità transnazionale, si è ammalato, ha scelto la trasparenza totale: una «story» su Instagram. «Ho questo virus che attacca il nervo del mio orecchio e i miei nervi facciali, e ha causato la paralisi del mio viso — dice Bieber, 28 anni, nell’impressionante video, con metà volto bloccato, un occhio che si chiude e si apre fuori controllo —. Come potete vedere, dalla parte di quest’occhio non riesco a muovere la palpebra. Non riesco a sorridere da questo lato della mia faccia. Questa narice resta ferma. Devo cancellare le date del mio tour: come è ovvio, non sono fisicamente in grado». Si tratta della sindrome di Ramsay Hunt, ha spiegato il cantante (viene causata dal virus Herpes Zoster responsabile della varicella che resta «dormiente» per anni e può, più avanti nel tempo, riattivarsi e scatenare questi sintomi).
Le nuove regole della comunicazione
A chi pare strano che un artista musicale amatissimo dal suo pubblico (150 milioni di dischi venduti) scelga un modo al 100% senza filtri di annunciare una malattia seria bisogna ricordare che le regole della comunicazione — per tutti: aziende, cantanti, sportivi, politici — sono cambiate radicalmente nell’ultimo decennio con l’avvento dei social media, e che specialmente un personaggio uscito come lui da YouTube non poteva, non può, gestire la comunicazione come facevano i suoi colleghi del secolo scorso. Bieber aggira costosissime agenzie di pubbliche relazioni, evita consulenti d’immagine, prende in mano il telefono e racconta sé stesso — in questo caso la sua malattia — da protagonista assoluto del reality show della sua carriera, aggirando i media tradizionali. È abituato a fare da solo: canadese, di umili origini, da bambino cantava in strada a Stratford, Ontario, ventimila abitanti, e suonava la chitarra (c’è una foto famosa del piccolo «busker» con la magliettina gialla e un cappello blu da baseball troppo grande). Cantava e ballava sempre: nella sua cameretta, nel tinello di casa. Pattie Mallette, mamma single — ebbe Justin diciottenne, dopo un’adolescenza di abusi e problemi di dipendenze — filmava tutto e caricava su YouTube. Pochi mesi dopo Scooter Braun, manager di talenti come Ariana Grande e Demi Lovato, lo portò con sé in America, gli fece incidere «One Time», il suo primo successo, e da lì è cominciata una delle carriere più rapide della storia della musica leggera.
I problemi di dipendenze superati con l’aiuto della moglie
I critici di una volta si domandavano se il successo avrebbe retto il passaggio attraverso la pubertà e il cambiamento/abbassamento della voce, non capendo che quello delle ottave e dell’estensione vocale è un parametro vecchio. Bieber avrebbe aggirato anche quell’ostacolo, continuando la carriera con una voce diversa da quella che l’aveva reso famoso, e sempre raccontando sé stesso in diretta, i problemi di dipendenze superati con l’aiuto della fede e della moglie Hailey (modella e nipote di Alec Baldwin), come ha spiegato l’anno scorso con la solita franchezza a GQ americano: «Avevo la sensazione di desiderare sempre di più, senza freni, perché pur avendo ottenuto tutto questo successo mi sentivo comunque triste e stavo ancora male. E ho ancora di questi problemi irrisolti. Pensavo che il successo avrebbe cambiato tutto in meglio e per me la droga era un tranquillante, un modo per continuare a farcela... quanto vale tutto il successo del mondo se poi alla fine ti senti sempre vuoto dentro?». C’è un verso della Bibbia che cita spesso: «La verità vi farà liberi», Giovanni, 8:32.
Dagotraduzione dal Washington Post il 13 giugno 2022.
La scorsa settimana, Justin Bieber ha pubblicato un video su Instagram in cui non solo ha condiviso la sua diagnosi (è affetto dalla sindrome di Ramsay Hunt), che gli ha lasciato metà del volto paralizzato, ma l’ha anche mostrata.
«Come puoi vedere, con quest’occhio non sbatto le palpebre. Non riesco a sorridere da questo lato della mia faccia. Questa narice non si muove», ha detto con un aspetto esausto il cantante canadese.
La notizia, arrivata pochi giorni dopo la cancellazione di molti dei suoi concerti, ha provocato un'ondata di auguri per Bieber, 28 anni, che era nel bel mezzo del tour per il suo quinto e sesto album in studio, "Changes" (2020) e "Justice" (2021).
Alcuni potrebbe dire che pubblicare le proprie battaglie con la salute perché 241 milioni di follower possano vederle è una mossa audace, specialmente quando, in una certa misura, la tua carriera professionale dipende dal tuo aspetto fisico. Ma Bieber è solo uno dei tanti personaggi pubblici che di recente sono stati espliciti sulla loro salute.
Quest'apertura non è sempre stata incoraggiata. Nel libro di memorie di Selma Blair, "Mean Baby: A Memoir of Growing Up", pubblicato il mese scorso, l'attrice 49enne descrive la sua diagnosi di sclerosi multipla (SM). «I miei medici mi hanno esortato a non renderla pubblica», ha scritto. Le hanno detto: «”Sei un'attrice; il tuo corpo, la tua voce, è tutto ciò che hai”». Blair è andata avanti comunque, pubblicando tutto su Instagram nel 2018.
Queste rivelazioni arrivano in un momento in cui i personaggi pubblici hanno un contatto più diretto con i fan grazie ai post sui social media, ai loro live streaming e alle storie intime che condividono con i loro follower. Anche se le celebrità possono aver scelto in passato di tenere i loro problemi medici lontano dal pubblico, oggi molti sembrano credere che i benefici - aumentare la consapevolezza su alcune condizioni mediche e gestire la narrazione sulla propria salute - superino i costi.
In questi spazi online, la cantante 27enne Halsey può pubblicare un video di se stessa che indossa un cardiofrequenzimetro e parlare di problemi di salute postpartum ed endometriosi a milioni di follower, con la facilità con cui invia un messaggio a un amico. La comica Lilly Singh può condividere dal suo letto d'ospedale che le sue «ovaie hanno l'AUDACIA di scatenarsi». E Hailey Bieber, la moglie di Bieber, può raccontare ai suoi fan di essere stata portata d'urgenza al pronto soccorso a marzo per un coagulo di sangue, offrendo allo stesso tempo prove di prima mano che adesso sta bene.
Per quanto riguarda la condizione di Justin Bieber, «se la nascondesse, provocherebbe curiosità e domande sulla sua salute. A volte non fare qualcosa è più rischioso che farla», dice Christine Kowalczyk, professoressa associata che studia celebrità e branding alla East Carolina University. «Se la gente viene a sapere che sta cancellando gli spettacoli, e lui è aperto e onesto sui motivi, le persone torneranno ai suoi concerti».
Kowalczyk afferma di aver osservato un cambiamento negli ultimi dieci anni circa sulla trasparenza nell'industria dell'intrattenimento. Indica come esempio l'editoriale del New York Times del 2013 di Angelina Jolie sul cancro al seno. Nel saggio, Jolie, che nel 2016 ha sofferto di una paralisi facciale simile a quella di Bieber, ha rivelato la sua decisione di sottoporsi a una doppia mastectomia preventiva dopo aver scoperto di avere una predisposizione genetica al cancro al seno e alle ovaie. «Ne sto scrivendo ora perché spero che altre donne potranno beneficiare della mia esperienza», ha detto.
Gli studi, e tra questi ce n’è uno che ha esaminato in modo specifico la risposta alle notizie sul trattamento preventivo di Jolie, hanno suggerito che queste rivelazioni possono stimolare tra il pubblico una maggiore ricerca di informazioni e screening per le malattie.
«Molte celebrità hanno accesso a medici che il pubblico potrebbe non conoscere», afferma Kowalczyk. «Fa bene all'educazione e alla consapevolezza».
Parlare di una malattia può anche essere un potente atto di patrocinio. Halsey ha parlato al Blossom Ball 2018 per la ricerca sull'endometriosi. Selena Gomez ha contribuito a raccogliere quasi mezzo milione di dollari per la ricerca sul lupus, di cui è affetta. E una più ampia consapevolezza dell'alopecia di Jada Pinkett Smith, una condizione autoimmune che causa la caduta dei capelli, ha portato a numerosi appelli per porre fine allo stigma attorno alla malattia.
Chris Smit, co-fondatore e co-direttore di DisArt, una società di produzione focalizzata sulla cultura della disabilità, vede l'annuncio di Justin Bieber sulla sua disabilità temporanea come un'opportunità per informare il pubblico. «Sta dimostrando che non dobbiamo avere paura della disabilità, che non dobbiamo fingere che la disabilità non esista», dice.
Gran parte della conversazione tradizionale sulla disabilità si trasforma in ciò che Smit chiama "superare le narrazioni" oppure si trasforma in una sorta di spettacolo. «Non credo che spendiamo abbastanza delle nostre energie pensando all'esperienza reale vissuta dai disabili», ha detto.
E forse se lo facessimo, suggerisce, la risposta all'esperienza di Bieber sarebbe leggermente diversa. Smit, che è disabile, ha notato alcuni commenti su quanto sia coraggioso Bieber per aver postato le sue condizioni sui social media. «Nella mia cultura, quello non è coraggio», dice. «È solo vivere».
Ida Di Grazia per leggo.it il 29 gennaio 2022.
GF Vip, il dolore di Kabir per la morte del figlio: «Ho provato a prevenirlo ma ho fallito». Studio in lacrime. In settimana l'attore ha raccontanto con grande umiltà e senza cadere in facili pietismi, il suicidio del figlio Siddharth e durante la diretta di venerdì ha spiegato le sue sensazioni.
Kabir Bedi è tra i concorrenti del Grande fratello Vip più amati dal pubblico. Durante la diretta di venerdì 28 gennaio Alfonso Signorini ha voluto parlare con lui affinchè raccontasse in diretta la sua storia e in particolare la scomparsa del figlio Siddharth, morto suicida a causa della schizofrenia: «Era molto sensibile, era un genio di 25 anni perchè aveva una grande capacità mentale. Sentiva di non avere più significato, per lui la vita non significava nulla, non sentiva più il sapore del cibo e in un momento di lucidità mi aveva detto che voleva togliersi la vita. Ho provato a prevenirlo ma ho fallito. Per un genitore perdere un figlio quando ha tutte le possibilità nel mondo non posso dirvi quanto mi tocca».
Il figlio prima di togliersi ha lasciato un biglietto d'addio ai genitori «Non sentitevi in colpa è il mio modo di riprendere il controllo». Studio commosso e in silenzio religioso mentre kamir continua il suo racconto: «Il grande problema della schizofrenia è che è difficile. Giovani di 25 anni, normalmente uomini, normalmente intelligenti, improvvisamente scattano e perdono la lucidità.
Quando perdono questa lucidità, non accettano che loro hanno un problema e diventa un problema ben più grande. Al tempo non c'erano le medicine che ci sono oggi, in quel tempo non funzionavano le medicine per lui. Ora c'è speranza, voglio dare speranza».
E la speranza arriva attraverso un momento molto specifico: «Ero in un hotel a Gerusalemme - racconta Kabir - stavo girando un film "Ashanti" (un film del 1979, diretto da Richard Fleischer, con Kabir Bedi e Michael Caine ndr.), ero nella mia stanza, dormivo e sognavo di camminare in posto che aveva un cielo rosso, la terra era viola.
Improvvisamente mi sono svegliato e ho visto due forme sopra me come fazzoletti trasparenti che ballavano su di me. Io non avevo paura ho chiesto loro se era tutto ok, loro hanno continuato a danzare in un'altra stanza, sono spariti dietro le tende, io aperto queste tende e ho visto Gerusalemme come forse l'ha vista Gesù. Non c'era modernità, la nebbia l'aveva coperta, sopra la nebbia si vedevano solo le cupole.
Erano le 5 del mattino era una visione magine e queste forme mi hanno portato lì per farmi vedere questa città con una grande forza spirituale. Sono convinto che esiste un mondo in cui i nostri spiriti possano andare, non sono sicuro che restino così o si reincarnino. Mio figlio è sempre dentro il mio cuore, lo ricordo ogni giorno».
GfVip, Kabir Bedi in lacrime in diretta: "Perché mio figlio si è suicidato, ho fallito". Libero Quotidiano il 29 gennaio 2022.
"Mio figlio si è suicidato". Kabir Bedi, da poche settimane entrato al Grande Fratello Vip, sconvolge la casa di Cinecittà e i telespettatori del reality condotto da Alfonso Signorini su Canale 5. L'attore indiano, storico interprete di Sandokan, piange in diretta e non nasconde il dolore impossibile da superare per la sorte del figlio Siddarth. "Ho provato a prevenirlo ma ho fallito", spiega tra le lacrime e i singhiozzi.
Raccontando la sua storia, Bedi ha svelato il dramma della schizofrenia del figlio: "Era molto sensibile, era un genio di 25 anni perché aveva una grande capacità mentale. Sentiva di non avere più significato, per lui la vita non significava nulla, non sentiva più il sapore del cibo e in un momento di lucidità mi aveva detto che voleva togliersi la vita. Ho provato a prevenirlo ma ho fallito. Per un genitore perdere un figlio quando ha tutte le possibilità nel mondo non posso dirvi quanto mi tocca".
Siddarth ha lasciato un biglietto d'addio ai genitori: "Non sentitevi in colpa è il mio modo di riprendere il controllo", ha scritto a madre e padre. "Il grande problema della schizofrenia - ha sottolineato ancora l'attore, nel silenzio commosso dello studio - è che è difficile. Giovani di 25 anni, normalmente uomini, normalmente intelligenti, improvvisamente scattano e perdono la lucidità. Quando perdono questa lucidità, non accettano che loro hanno un problema e diventa un problema ben più grande. Al tempo non c'erano le medicine che ci sono oggi, in quel tempo non funzionavano le medicine per lui. Ora c'è speranza, voglio dare speranza".
Una speranza che è anche spirituale. E Bedi, per dare forma a questo pensiero, ha raccontato un aneddoto risalente al 1979; "Ero in un hotel a Gerusalemme, stavo girando un film Ashanti , ero nella mia stanza, dormivo e sognavo di camminare in posto che aveva un cielo rosso, la terra era viola. Improvvisamente mi sono svegliato e ho visto due forme sopra me come fazzoletti trasparenti che ballavano su di me. Io non avevo paura ho chiesto loro se era tutto ok, loro hanno continuato a danzare in un'altra stanza, sono spariti dietro le tende, io aperto queste tende e ho visto Gerusalemme come forse l'ha vista Gesù. Non c'era modernità, la nebbia l'aveva coperta, sopra la nebbia si vedevano solo le cupole. Erano le 5 del mattino e queste forme mi hanno portato lì per farmi vedere questa città con una grande forza spirituale. Sono convinto che esiste un mondo in cui i nostri spiriti possano andare, non sono sicuro che restino così o si reincarnino. Mio figlio è sempre dentro il mio cuore, lo ricordo ogni giorno".
Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 aprile 2022.
Sesso, droga e rock'n'roll sono tutti protagonisti di un nuovo emozionante libro di memorie della bassista dei The Go-Go Kathy Valentine.
Valentine, 63 anni, parla della sua prima infanzia difficile ad Austin, in Texas, e della vita con il gruppo rock di sole donne nel suo libro “All I Ever Wanted: A Rock'n'Roll Memoir”.
Pioniere in un'industria dominata dagli uomini, le Go-Go's - note per successi come We Got the Beat e Our Lips Are Sealed - sono state accolte dai loro coetanei maschi, ma hanno dovuto affrontare l'opposizione di dirigenti e giornalisti che non le hanno prese sul serio e hanno soprannominato il gruppo “le brave ragazze del pop”, nonostante il loro modo di vivere da dure.
«Se le “brave ragazze del pop” hanno preso l'acido, vomitato per terra in ristoranti alla moda, tradito i loro fidanzati, scattato brutte Polaroid, fatto sesso con ragazze, guardato porno marginale e sono rimaste sveglie tutta la notte a scrivere canzoni e suonare la chitarra, beh, forse la loro stupida etichetta avrebbe potuto adattarsi», scrive Valentine.
Per Valentine, lo stile di vita rock'n'roll è iniziato durante l'infanzia.
Nata ad Austin, in Texas, dall'età di due anni Valentine è stata cresciuta da una madre single che si divertiva a essere una ribelle. Già nei primi anni di vita di Valentine è venuta a contatto con sesso e alcol, e gli spacciatori e gli avventurieri locali potevano andare a casa loro senza problemi.
«Era LSD ma lo chiamavano con nomi da caramella: Orange Sunshine, Windowpane, Clear Light», dice ricordando le droghe che assumeva allora. Valentine aveva solo 12 anni quando fu trovata ubriaca nel giardino di un vicino e portata a casa da sua madre, che non riuscì a disciplinare sua figlia.
Nello stesso anno ha fatto sesso per la prima volta con il fratello di 14 anni di un'amica. Pochi mesi dopo ha abortito. A 14 anni è stata violentata.
Una svolta importante nella sua vita è avvenuto nel 1973, quando stava visitando la famiglia di sua madre nel Regno Unito. Top Of The Pops era attivo e Valentine ha posato gli occhi sulla donna che sarebbe diventata la sua ispirazione. «Avevo 14 anni, ed eccola lì: Suzi Quatro, una bassista che guida un gruppo rock di ragazzi», scrive la rocker.
«Vederla fare quello che avevo visto fare solo agli uomini ha cambiato tutto. Da quel momento, ho avuto un obiettivo: essere in una band di kick**s con una banda di ragazze che la pensano allo stesso modo e rivendicare la vita che volevo per me».
Ha imparato a suonare la chitarra dal fidanzato di sua madre e nel 1978 si è trasferita a Los Angeles per seguire il suo sogno. Nel 1980 ha debuttato sul palcoscenico con i Go-Go's. Una band tutta al femminile che si era formata due anni prima sulla scena punk di Los Angeles.
La formazione originale era composta da Belinda Carlisle, Charlotte Caffey, Jane Wiedlin, Gina Schock e la suonatrice di base originale Margot Olavarria, ma secondo quanto riferito la band era diventata scontenta dell'atteggiamento di Olavarria nei confronti delle prove e aveva scelto Valentine come sostituto.
La nuova formulazione è stata un successo. L'anno successivo le Go-Go hanno firmato per la IRS Records e nel 1982 erano in tour con i Police.
Nel 1982 il loro album di debutto “Beauty and the Beat” è stato un successo a sorpresa e ha scalato le classifiche statunitensi per sei settimane. Trent'anni dopo, l'album è apparso nell'elenco dei 500 migliori album di tutti i tempi della rivista Rolling Stone.
Nel libro Valentine condivide storie colorate della vita in tour. Una volta le Go-Go le hanno spruzzato della crema da barba e le hanno messo un vibratore su per il sedere per divertirsi.
Un’altra volta ha passato tutta la notte con Rod Stewart durante una festa.
Guardando indietro, Valentine ha detto al Daily Telegraph di essere una tossicodipendente «ad alto funzionamento» e di essere stata fortunata. «Non sono stato sbattuta in prigione. Non sono impazzita. Non ho ucciso nessuno e non ho avuto un incidente d'auto. Non sono mai diventata una terribile pillola o eroinomane o cose da cui è difficile riprendersi», ha detto.
Tuttavia, le droghe sono state in parte responsabili dello scioglimento della band nel 1985. Pesarono anche alcune controversie sui soldi. Dopo aver lasciato la band, Valentine si è indebitata ed è diventata alcolizzata. Ora è sobria da 33 anni.
Le Go-Go's si sono riunite l'anno scorso per esibirsi alla 36a cerimonia annuale di presentazione della Rock & Roll Hall Of Fame, ponendo fine a un periodo teso per la band.
«La Hall of Fame ci ha aiutato a superare e curare molte cose, è successo nel momento perfetto», ha detto all'Irish Examiner.
«Li ho citato in giudizio quando hanno formato una nuova partnership e mi hanno tagliato fuori. Gina ha anche citato in giudizio Charlotte (Caffey), c'erano molte cose brutte dietro le quinte. Anche il documentario di The Go-Go (semplicemente intitolato The Go-Go's) ha avuto molto a che fare con la guarigione dei rancori passati. Le persone soffrivano da 30 anni, eravamo cinque giovani persone incasinate che non erano compassionevoli o emotivamente mature».
All I Ever Wanted di Kathy Valentine è pubblicato da Jawbone (£ 14,95)
Katia Ricciarelli, le uscite orrende e razziste su gay, disabili e omosessualità sono inaccettabili sulla tv generalista. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 6 gennaio 2022. La soprano si è distinta per insulti senza filtro che denotano anche mancanza di pudore e saggezza per una donna di 75 anni: forse farebbe meglio a frequentare altri lidi. Certo la diretta non ammette errori, non c’è il Ctrl+Z, annulla quello che hai appena fatto, torna indietro, cancella l’errore madornale che ti è uscito dalla bocca. Però Katia Ricciarelli dovrebbe andare in onda almeno con 15 secondi di ritardo (il Gf Vip in diretta su Canale 5, lei in streaming su Dazn), quelli necessari a tagliare quei pensieri orrendi che il suo cervello elabora e la sua bocca sputa fuori come sentenze. In questi quattro mesi le uscite stonate del soprano sono state tante, troppe. «Vai a scuola al tuo Paese» ha detto a Lulù Selassiè (che per altro è italiana, quini il suo Paese è lo stesso dove ha fatto le elementari Katia Ricciarelli). E poi «scimmia», sempre rivolto a lei; Alex Belli che sembra «un po’ ricchione», e ancora rivolta alle tre Principesse (per mancanza di regno) che «sembrano tre paralitiche» con l’aggravante che le è uscita davanti a Manuel Bortuzzo in sedia a rotelle. Alfonso Signorini sostiene di volere un Grande Fratello Vip «meno bacchettone, non appena parliamo abbiamo il terrore, diciamo “oddio che cosa ho detto”». La differenza la fanno però il luogo e la platea, espressioni infelici davanti a milioni di spettatori, frasi da bar si diceva una volta, ma forse oggi sarebbe meglio dire frasi da tv.
La convivenza forzata (un lockdown infinito), le telecamere sempre accese, mettono spesso in luce il peggio. Mentre su Instagram è tutto un filtro, la tv in diretta quei filtri non li ha. Un bene, ma anche un male perché la via di mezzo oggi è sempre quella meno battuta. A una certa età (75 gli anni di Katia Ricciarelli) poi dovrebbe vincere il pudore, la saggezza; c’è un tempo per l’esibizione e poi quello in cui fai migliore figura a non prendere la tessera di certi circoli che aspirano solo alla visibilità. Katia Ricciarelli ha detto che non trovava più stimoli per andare avanti, mentre «qui, nella casa, ho ripreso a sognare». Per onestà avrebbe dovuto dire che l’unico stimolo a farsi spiare 24 ore su 24 è il generoso assegno di Mediaset per stare lì (migliaia di euro a settimana).
Kasia Smutniak: «Una donna premier? Sì, se ha una visione inclusiva». Quando è lassù, tra le nuvole, Kasia Smutniak si sente a casa. Perché "tutto diventa relativo" confessa l'attrice che ha il brevetto di pilota. Ora è al cinema con "Il colibrì", appena presentato alla Festa del Cinema di Roma. Femminista, spirituale, fa sentire la sua voce sui social. E sul premier donna...MICHAELA K. BELLISARIO su Io Donna il 15 Ottobre 2022.
Quando ci incontriamo è una di quelle giornate che anticipano prepotentemente le sensazioni d’autunno: Kasia Smutniak si presenta con una tisana in mano, il look casual da fine settimana nella sua casa di campagna fuori Roma, il viso al naturale e i lunghi capelli castani portati sciolti sulle spalle.
Diversi dal biondo foliage, e un po’ disordinato, di Marina, il personaggio che interpreta in Il colibrì, il film diretto da Francesca Archibugi che ha aperto la Festa del Cinema di Roma (in corso fino al 23 ottobre), ispirato al libro omonimo di Sandro Veronesi.
La storia della pellicola ruota intorno alla vita di un medico, Marco Carrera (ha il volto di Pierfrancesco Favino), che sopporta in maniera stoica i colpi bassi della vita e si macera nell’ossessione di un amore mai consumato per un’amica di gioventù. Marina ne è la moglie. “Il colibrì” mette tutta la sua energia nel restare fermo, si racconta nel libro e nel film.
«Avevo quasi timore di affrontare questo personaggio per non sciupare l’idea immaginaria che mi ero fatta leggendo il libro. Ma poi Francesca ha voluto dare uno spessore più tragico al suo carattere e mi è sembrato interessante darle forma» racconta l’attrice di origine polacca, 43 anni, protagonista di pellicole di successo come Perfetti sconosciuti. E di serie come Domina in cui interpreta l’imperatrice Livia Drusilla (sta girando la nuova stagione per Sky, la prima è ora in chiaro su La7).
Sposata con il produttore Domenico Procacci, Kasia Smutniak ha due figli, Sophie di 18 anni, nata dalla relazione con l’attore Pietro Taricone, e Leone, 8.
«Sono atea, ma mi sento spirituale»
Lei com’è nella vita?
Sono l’esatto opposto (sorride). In realtà il film è quasi spirituale, anche se poi, certo, ognuno ci vede quel che vuole. Lo stare fermo, immobile, come ho imparato dai monaci buddisti (l’attrice ha realizzato una scuola in Nepal con la Pietro Taricone onlus, ndr), non significa non essere presenti, ma al contrario avere la capacità di percepirsi e percepire. Senza dover dimostrare niente.
Si sente spirituale?
Sono atea, ma se si intende una persona che fa ricerca sì, lo sono. La spiritualità è miglioramento di sé stessi, è comprensione del mondo che ci circonda. Tornando al suo personaggio, Marina è forse l’unica che si spoglia della narrazione del destino prestabilito. Ma poi sembra scappare anche da sé stessa. Ha una personalità complessa. Mi sono ispirata a una persona che conosco. Forse qualche anno fa non l’avrei saputa affrontare. Anche noi attori cambiamo e rispondiamo in maniera diversa a un ruolo. Dipende sempre dal momento della vita che stiamo attraversando.
Mette tanto del suo vissuto interiore nei film?
A volte sì, a volte il minimo indispensabile, a volte penso che avrei potuto dare di più o che non ne valeva la pena. Chi guarda un film, però, non sempre riesce a capirlo.
Altro tema del film è l’eutanasia: è favorevole o contraria?
Sono favorevole. È però impensabile immaginare cosa si farebbe se capitasse proprio a noi: nella vita il dolore è imprevedibile. Nel film c’è, però, anche il riscatto, il sogno di un mondo migliore rappresentato dalla nipote di Marco Carrera, Miraijin, che in giapponese significa l’uomo nuovo. Lei è molto attiva su Instagram con 460mila follower.
Prima delle elezioni ha difeso il diritto all’aborto con un endorsement a Emma Bonino. Il suo partito non ha raggiunto la soglia minima del 3 per cento.
Tutto cambia, ma non quello in cui credo. Mi espongo su temi che mi interessano, ho la possibilità di essere ascoltata. I miei post sono pensati e ne sento la responsabilità.
Come vede una premier donna alla guida del governo?
Non ne faccio una questione di genere. Non mi interessa e mi sembra una semplificazione quasi infantile nel dibattito generale. Certo, da una donna mi aspetto una maggiore sensibilità su diritti già acquisiti come ad esempio quello sull’aborto, da una donna mi aspetto “una difesa” dei bambini, delle donne e degli uomini che muoiono quotidianamente nel Mar Mediterraneo ormai da anni, mi aspetto una visione di un mondo unito e inclusivo che non lasci indietro nessuno. Quindi la risposta è sì, mi piacerebbe vedere una donna premier che abbia questa forza e questo coraggio.
Si definirebbe femminista Kasia Smutniak?
Sì, anche se la domanda andrebbe capovolta, credo sia arrivata l’ora di includere anche gli uomini nel dibattito culturale. Noi donne ci mettiamo in discussione da sempre, ci siamo analizzate. E loro? Oggi si parla con insistenza di presa di coscienza, di consapevolezza, ma manca la loro riflessione, il loro è il tassello che non c’è. Con il rischio che rinneghiamo e ripetiamo i soliti errori.
È considerata un simbolo del body positive. Ha preso posizione contro i giudizi superficiali dei social, sulla vitiligine, la sua malattia autoimmune, dichiarando di sentirsi “forte, amata, bella dentro e fuori”. A 43 anni come percepisce la bellezza?
Non sono ostile ai cambiamenti del mio corpo. Non mi vedo “invecchiata”, ma matura. Adesso vedo più aspetti positivi che negativi. Soprattutto se mi guardo indietro. Sono andata via di casa a 15 anni, a 16 ero già indipendente. Oggi, a 43, sento di aver fatto tanta strada e di non dover dimostrare niente a nessuno. Ho passato buona parte della vita a dover essere più intelligente, più forte, più preparata. Per fortuna, nel frattempo, la società è andata avanti. Non posso pensare di ricominciare daccapo. Nascondere il tempo che passa sarebbe come rinnegarsi.
È nata in Polonia e a 16 anni aveva già il brevetto da pilota di alianti. Quattro anni fa ha ottenuto quello di pilota di aerei. Cosa prova quando vede la Terra dall’alto?
Volare è concedersi un punto di vista diverso. Lassù c’è sempre il sole e quello che c’è sotto, nella Terra, perde di importanza, si relativizza in un istante. Quando sono in volo non penso al passato e al futuro, ma solo al percorso di viaggio che devo portare avanti e quindi è una dimensione perfetta, ti porta a vivere l’adesso, e a stare nel presente. iO Donna
Buon compleanno Kasia Smutniak, una donna esempio di coraggio. La vita di Kasia Smutniak, 43 anni il 13 agosto, è stata ricca di grandi soddisfazioni ma anche di dure prove, dalla perdita del compagno Pietro Taricone, padre di sua figlia Sophie, all'accettazione della vitiligine. Che oggi però, usa come punto di forza per sprigionare una bellezza unica. Alessandra D'Acunto su La Repubblica il 13 Agosto 2022.
Attrice e modella, donna forte e malinconica. Il 13 agosto Kasia Smutniak compie 43 anni: polacca di nascita, vive in Italia dal 1998, dove ha ottenuto la nazionalità. È mamma di due figli, Sophie, che a settembre festeggerà il 18esimo compleanno, avuta con il compianto Pietro Taricone, scomparso nel 2010 in un tragico incidente di paracadute. Un duro colpo per Kasia e la loro bambina. L'anno successivo, Smutniak incontra un nuovo amore, il suo attuale marito, produttore di Fandango, Domenico Procacci. La coppia si sposa nel 2019, dopo aver accolto il piccolo Leone, che oggi ha 8 anni.
Volto televisivo e cinematografico apprezzato per ruoli sfaccettati e sempre intensi, Kasia ha dichiarato di non accettare più personaggi che non le corrispondano veramente. "Devo raccontare storie in cui credo. Il tempo del mio lavoro, quello che tolgo alla mia famiglia, ai miei figli, alla mia vita, deve essere dedicato a qualcosa di importante" ha detto in un'intervista rilasciata a Lampedusa, dove ad agosto è stata ospite della rassegna "Il vento del Nord". Qui è stato proiettato 3/19, il film di Silvio Soldini in cui interpreta una donna in carriera entrata in crisi dopo un grave incidente d’auto. Smutniak è impegnata inoltre nelle riprese della seconda stagione della serie Domina, dove veste i panni di Livia Drusilla, consorte dell’imperatore romano Augusto.
In passato testimonial di vari brand, da Fendi a Falconeri, oggi Kasia Smutniak è più impegnata come attrice che non come modella, pur continuando ad essere protagonista di shooting e copertine patinate. Dall'aria dolce e tenebrosa, tra i tratti distintivi della sua bellezza c'è la vitiligine, la malattia autoimmune che si manifesta con macchie bianche sulla pelle, su di lei visibile soprattutto sulle mani. Recentemente, Kasia si è scagliata contro una testata che l'aveva umiliata con titoli sensazionalistici quali: "Come si è ridotta" o "Irriconoscibile dopo la malattia".
La vitiligine per Kasia, che ha visto la patologia manifestarsi in età adulta, ha richiesto certamente un percorso di accettazione, che oggi però condivide, con l'aiuto dei social, con i tanti nella stessa condizione. Smutniak, insieme ad altre famose come la modella Winnie Harlow, stanno contribuendo alla normalizzazione di quelli una volta considerati difetti o debolezze, al contrario facendone punti di forza e leva per sprigionare una bellezza unica.
Kasia Smutniak e la vitiligine: "Irriconoscibile? Mi sento forte, amata e bella". Giulia Mattioli su La Repubblica il 23 Febbraio 2022.
L’attrice riporta i titoli di alcuni siti che raccontano con toni drammatici ed esasperati la sua malattia della pelle, distorcendo la realtà: “La mia non è una storia tragica”.
"Ho scoperto sulla mia pelle, cosa sono i clickbite, la pseudoinformazione che fa leva sull'aspetto emozionale, distorcendo la realtà", scrive Kasia Smutniak su Instagram pubblicando un post composto da screenshot di vari siti online. Si tratta di titoli di articoli che parlano di lei e della sua malattia, la vitiligine, e di come la condizione l'avrebbe "ridotta".
"Distrutta dalla malattia", "irriconoscibile", "l'assurda rivelazione". Sono questi i toni esasperati con cui alcuni siti riportano notizie che distorcono la realtà, e contro le quali l'attrice si scaglia in un lungo post. "Anni fa un dottore tibetano mi ha detto che sono come un serpente, mi sto trasformando, sto cambiando pelle. All'epoca non volevo 'trasformarmi', pensavo tutto dipendesse dalla mia volontà. Però allo stesso tempo ero attratta dalle unicità degli altri. La mia non è una storia né triste né tragica né tantomeno orripilante. È stato un percorso lungo ma bellissimo, a tratti anche comico. Ne ho condiviso solo un pezzetto, portando avanti un messaggio positivo e sperando che la mia testimonianza potesse dare forza a tante persone con la mia stessa particolarità o senza".
Kasia Smutniak da tempo ha deciso di aprirsi e raccontare la sua esperienza con la vitiligine, che si è manifestata all'età di 33 anni, descrivendo il percorso di accettazione che le ha permesso di tornare ad amare la sua pelle. "È stato bello scoprire quanta importanza diamo alle nostre fragilità, quanto queste possano plasmare le nostre vite e quanto è bello liberarsene. Passare oltre, evolvere, cambiare non solo la pelle ma anche la percezione che abbiamo di noi stessi... Mi sento forte, amata e bella, dentro e fuori. Però vorrei andare oltre questa semplificazione", prosegue sui social.
L'attrice specifica che questi articoli non hanno particolare effetto su di lei, ma sottolinea come una tale descrizione della vitiligine possa essere dannosa per chi sta "affrontando un percorso, pieno di dubbi, difficoltà e dolore".
A queste persone Kasia Smutiniak rivolge un messaggio diretto: "Non mollare, non farti condizionare dalla stupidità degli altri, non ne vale la pena, capisci? La Smutniak sta da Dio! E te lo dice lei di persona. Guarda oltre, scava dentro di te, scoprirai la forza e la bellezza che nessuno potrà mettere più in discussione. 'Cambia la pelle'. Sii serpente".
Numerosi i commenti che esprimono solidarietà, ma anche di utenti che raccontano la loro esperienza con la vitiligine, tra percorsi di accettazione, skin-positivity e racconti. Il post diventa uno spazio in cui parlare di una condizione che, nonostante alcuni titoli attira-click, sta vivendo un importante processo di normalizzazione mediatica, che sta aiutando molte persone a viverla con serenità, come fa Kasia Smutniak.
Kasia Smutniak e la vitiligine: «Mi sento forte, amata e bella. Sto da Dio». Laura Martellini su Il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2022.
L’attrice, moglie del produttore Domenico Procacci, lancia la sua personale sfida con un post su Instagram: «Scava dentro di te, scoprirai la bellezza che nessuno potrà mettere in discussione».
Un post che in tempi di body shaming ha una forte risonanza, e tanto più risuona se a vergarlo è un’attrice di una bellezza che non lascia spazio ad alcun dubbio: Kasia Smutniak, moglie di Domenico Procacci, uno dei produttori cinematografici italiani più apprezzati. Bella, famosa. E affetta, si scopre grazie a riviste con pochi scrupoli, da vitiligine. Il disturbo della pigmentazione della pelle causa la comparsa di chiazze bianche in varie parti del corpo. E se c’è chi della malattia ha fatto uno spunto da virare in positivo — si pensi alla canadese Winnie Harlow, modella per Desigual, la bocca cerchiata di bianco sul perfetto ovale scuro — adesso è l’italo-polacca Smutniak a spazzare via ogni complesso dopo articoli non troppo teneri, che lei stessa rilancia. Senza problemi: «”Come si è ridotta”, “irriconoscibile”, “tragedia” sono spesso le parole che vengono accostate al mio aspetto fisico. Beh anche questo mi fa sorridere. Perché in realtà mi sento forte, amata e bella, dentro e fuori».
«Anni fa un dottore tibetano mi ha detto che sono come un serpente, mi sto trasformando, sto cambiando pelle. All’epoca non volevo `trasformarmi´, pensavo tutto dipendesse dalla mia volontà. Però allo stesso tempo ero attratta dalle unicità degli altri. La mia non è una storia né triste né tragica né tantomeno orripilante. È stato un percorso lungo ma bellissimo, a tratti anche comico. Ne ho condiviso solo un pezzetto, portando avanti un messaggio positivo e sperando che la mia testimonianza potesse dare forza a tante persone con la mia stessa particolarità o senza» scrive l’attrice. «È stato bello - prosegue - scoprire quanta importanza diamo alle nostre fragilità, quanto queste possano plasmare le nostre vite e quanto è bello liberarsene. Passare oltre, evolvere, cambiare non solo la pelle ma anche la percezione che abbiamo di noi stessi. Quindi figuriamoci quanto poco impatto possa avere su di me, ora, un articolo di un giornale... ».
Talmente serena, da dare forza agli altri: «Penso a chi sta affrontando un percorso, pieno di dubbi, difficoltà e dolore, che legge un articolo del genere, magari la mattina facendo colazione e scopre qual è stata la vera tragedia nella vita di una certa Smutniak (Sputnik, Smushtac, Muniack.. fai tu). A questa persona rivolgo le mie parole: non mollare, non farti condizionare dalla stupidità degli altri, non ne vale la pena, capisci? La Smutniak sta da Dio! E te lo dice lei di persona. Guarda oltre, scava dentro di te, scoprirai la forza e la bellezza che nessuno potrà mettere più in discussione. “Cambia la pelle”, sii serpente». L’attrice conclude con un post scriptum: «Così ho scoperto sulla mia pelle cosa sono i clickbait (le notizie acchiappa clic, ndr), la pseudoinformazione che fa leva sull’aspetto emozionale, distorcendo la realtà. Se ne parla poco o niente. Ma forse dovremo cominciare». A vederla nelle foto senza trucco, non si fatica a solidalizzare con lei e a sentirsi parte di quel riscatto che riguarda un po’ tutte. La vitiligine, i fianchi abbondanti, le rughe eccessive: «Cambia le pelle, sii serpente..».
Barbara Costa per Dagospia il 13 novembre 2022.
Kate Moss, come hai potuto? Tu!!! Con uno “scoppiato” simile!?!?! OK, ex scoppiato, e ex tuo fidanzato, ma come si può sopportare Pete Doherty per 2 anni? Per amore??? Va bene, capita a tutte di perdere la testa per quelli sbagliati, tutte abbiamo fatto le nostre cavolate e tu oggi, Kate, sembri aver messo giudizio, e io no, però io oggi lo so, chi è stato Pete Doherty. E non per gossip ma per quanto Pete Doherty narra in "A Likely Lad" (Likely???), la sua autobiografia, fresca di traduzione italiana (Il Castello editore).
Chiunque voglia sapere cosa significhi essere un tossico sfasciato d’alcool ma molto di più di eroina e crack, in queste pagine trova soddisfazione. Di quanto si possa diventar paranoici, e indolenti, petulanti, sbruffoni e sfarzosi cantanti rock azzeccanti hit, e però in ogni angolo del globo conosciuti perché si ha il destino/c*lo che la più nota donna al mondo, Sua Altezza Kate Moss, si innamori di cotanto soggetto. Un rocchettaro mica male, uno pure di buone letture, capace di mettersi contro il sistema, ma col cervello fritto da ero e crack. E non saltuariamente da coca. E ketamina.
Signori, guardiamoci negli occhi: poche sono le droghe che danno dipendenza pari a ero, e a crack. E che succede se uno quale Pete Doherty, ne fa un uso massiccio e parallelo? F*tte sé stesso e gli altri. Nell’80 per cento della sua autobiografia – invero, della sua vita – Pete Doherty è fuori. Di testa. Totale. Svitato. Sconnesso. Andato. Vive di droga, e per iniettarsela, l’ero, e per fumarselo, il crack. Cucchiaio e laccio e aghi, e pipette, sono a lui inseparabili, come per 2 anni sono lui e Kate Moss.
Un colpo di fulmine, Kate gli dà le chiavi di casa sua all’istante, visto che i loro incontri clandestini durano niente data la strabordante notorietà di lei. Presentazioni in famiglia (e il padre di Pete chiede alla Moss di cosa si occupi, vi rendete conto????) e convivenza nelle magioni di lei, e come convivono Pete e Kate? Quando sei icona mondiale e per te stessa e non perché sei la moglie/figlia/amichetta di, sei tu, Kate, che mantiene entrambi.
Anche perché il tuo bel fidanzato Pete – oltre a sc*parti da dio, voglio sperare – altro non fa che farsi e vegetare sul letto, a guardare la TV, servito e riverito dai domestici di casa Moss. E Pete ha la faccia tosta di lagnarsi, di Kate, e dei suoi amici! Kate che, in quanto "Kate Moss", è spesso via, in ogni parte del mondo, a lavorare!, Kate che quando è a casa fa vita semplice, fa la mamma, mentre Pete, tra una pera e una pippata (quando Kate non c’è, casa Moss è bivacco di tossici: l’attimo che Kate lo scopre – e glielo spiffera la governante – per Pete sono caz*i amari), e strimpella la chitarra, compone (anche coi versi di Kate), e non fa il padre dei 2 figli concepiti in giro.
Un tossico mente. Sempre. E dà sempre la colpa agli altri. Per ogni cosa. Ma in questa autobiografia Doherty ci tiene a svelarsi brutale, e sentite che spiegazioni: chi è stato – lo urla una Moss fuori dalla grazia divina – a consegnare al "Daily Mirror" la foto famigerata di lei che sniffa coca? Foto che pone Kate mesi in un ipocrita bando, e a uscirne in rehab. Chi è stato? “Due pusher del Bangladesh, spariti dopo averci incassato 300 mila sterline”.
Ci crediamo?! E la foto poi virale, di Pete con le pupille rovesciate, è post dose? Macché, “sono io prima di uno starnuto”. Vabbè. E sei stato tu, Pete, a sfregiare Carl, tuo coautore e chitarrista, fino a cavargli un occhio? No, è stato Carl, “ad accoltellarsi la faccia, da solo, urlando allo specchio, una automutilazione da film horror” e perché Pete è andato a letto con la di Carl fidanzata, forse, Pete non se lo ricorda, era in trip. E la foto di tu, Pete, sul "Sun", che pare proprio tu stia bucando una ragazza priva di sensi? Io non stavo bucando nessuno, precisa Pete, mai fatto (nemmeno a Amy Winehouse, suo grande amore dopo Kate), e quella lì “è una mia amica, e quella foto lì è una sorta di progetto artistico”.
Il tossico Pete Doherty finisce in galera più volte, ma ogni volta è colpa o di qualcun altro o della sfiga. La foto di lui che sembra farsi dentro le sbarre? Che ha usato droga in prigione è vero, ma sulla foto, lui non c’entra nulla, “me l’hanno scattata in cella, mi stavo lavando i denti, si sono nascosti lo smartphone nel c*lo”.
È sempre colpa altrui, della polizia che ce l’ha con lui, ma scusa, Pete: come secondo te avrebbero dovuto reagire, i poliziotti, con te che pisci per tutta la centrale? Con un applauso??? Ma quanto sta suonato uno che si fa innestare impianti sottocutanei blocca eroina, e però si fuma cocaina, e si lagna che non “scende”…?
Kate Moss lascia Pete Doherty e gli spezza il cuore facendogli a pezzi una chitarra Gibson anni '30 e dando fuoco a Paddy, il suo orsacchiotto d’infanzia. E non tanto per le corna che Kate scopre, ma perché chi è fuori dalla droga non può più stare con chi ne è dentro. Dalle sue magioni Pete passa alle topaie, meglio non può permettersi: ha grossi debiti con i pusher.
Debiti che gli ripagano gli odiati tabloid, con foto di Pete che si buca date ai pusher che se le rivendono ai tabloid per 11 mila sterline, e con interviste in cui Pete di Kate dice peste e corna, falsità, le stesse che tante sue ex, e specie se da una botta e via, hanno sui tabloid malignato su di lui (“Pete piange dopo ogni orgasmo”, “Pete lo fa a tre”, “Pete va con gli uomini”), ma a Pete gli uomini non sono mai piaciuti.
Con Kate Moss non si sente da tempo. Ora Pete Doherty è pulito, e sposato, con Katia, videomaker. Pete ha messo su peso ed è il "Pigman", coniato per lui da Carl, per la sua insaziabilità di cibo. Pete ci promette nuovi dischi, e di mangiar meno, le paparazzate della sua panza spuntano impietose accanto ai vecchi posati di alta moda, possibili grazie a Kate… mi fermo qui, sennò qualche purista m’accusa di bodyshaming, e potrebbero iniziare a girarmi sul serio, anche se Pete Doherty, coi suoi piagnistei da ex fattone “in qualsiasi accezione del termine”, me l’ha fracassate.
Kate Moss, dai look ai regali hard di Johnny Depp in un’intervista senza veli. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l'1 Settembre 2022
La modella In un video realizzato per il magazine British Vogue racconta una serie di aneddoti legati alla sua carriera. Compreso quello legato all’attore che durante la loro relazione le regalò una collana di diamanti. E gliela diede in un modo molto particolare
Kate Moss torna a parlare del suo ex Johnny Depp. E lo fa in un modo molto particolare e mai banale, come le si addice. In un video creato per il magazine anglosassone British Vogue, ha parlato di molti aneddoti. Nel video la modella sfoggia un completo maculato di Stella McCartney da oltre 1300 euro. E un ricordo in particolare ha colpito l’immaginario dei social. Dove è stato subito riportato e commentato. Guardando una sua foto e descrivendo un look tra i preferiti la top model ha raccontato di come la collana di diamanti che portava al collo nello scatto fosse un dono di Depp. E anche come le fosse stata donata in una maniera inusuale.
Il gioiello era stato poi indossato (come si vede nella foto del video) in occasione del CFDA Fashion Awards a New York nel 1995 come accessorio (insieme con un paio di Manolo Blahnik) per completare il suo abito preferito di John Galliano. «Quella è la collana di diamanti che mi aveva regalato Johnny, sono stati i primi diamanti che io abbia mai posseduto». Per consegnarli alla modella ha usato però un modo non certo usuale li ha estratti dal suo corpo. La modella nel video racconta nel dettaglio l’accaduto: «Stavamo andando a cena fuori e a un certo punto si è girato e mi ha chiesto di dare un occhio al suo fondoschiena».
Quello della collana di diamanti non è però l’unico ricordo citato dalla super top dalla bellezza intramontabile. Nel filmato Moss si è soffermata su alcuni suoi look scelti per certe occasioni. Incluso il celebre abito trasparente indossato nel 1993, una creazione che secondo lei la faceva sembrare nuda solo a causa del flash della fotocamera. Non è mancato poi un riferimento al look sfoggiato al Glastonbury Music Festival nel 2005, quando indossava stivali di gomma e un paio di shorts di Alexander McQueen. Outfit ancor oggi di tendenza. E ancora. Eccola raccontare la sua sfilata preferita, quella di Vivienne Westwood nel 1993 quando le era stato chiesto di mangiare il gelato mentre camminava in topless.
Kate Moss si racconta: «Cocaina, esaurimenti. E quella richiesta di spogliarmi, a 15 anni, che mi aprì gli occhi». Paola De Carolis su Il Corriere della Sera il 24 Luglio 2022.
Kate Moss si è raccontata in una rarissima intervista personale alla Bbc: gli esordi («Mi sentivo vulnerabile e terrorizzata»), la bellezza («Per mia madre non ero fotogenica»), la fama, i problemi con la droga. E Johnny Depp: «Ho testimoniato a suo favore perché conosco la verità su di lui».
È stata l’immagine in carne, ossa e leggenda della Cool Britannia, di quella Gran Bretagna positiva, ottimista e creativa dell’inizio del nuovo millennio, è stata il viso degli anni 90 e la portabandiera del look magro e androgino definito l’heroin chic, eppure dietro lo sguardo spavaldo e intrepido che ha bucato milioni di obiettivi si celavano insicurezza, paura e solitudine.
Si è sentita «oggettificata»?
«Sì, completamente. E vulnerabile, terrorizzata».
Notoriamente restia a parlare di sé e la sua vita privata, Kate Moss si è raccontata alla Bbc per il programma radiofonico Desert Island Disc.
Ha ricordato gli esordi e la sorpresa nell’essere «scoperta» a 14 anni dalla scout Sarah Doukas, le brutte esperienze quando era alle prime armi, la magrezza — «mai stata anoressica, ero magra di natura e perché durante i servizi fotografici non ci davano da mangiare» — i problemi con la droga e il nuovo equilibrio raggiunto ora, a 48 anni.
Icona da migliaia di copertine e campagne pubblicitarie in tutto il mondo, Moss da adolescente non si considerava bella.
«Non credevo di avere le doti necessarie», ha raccontato. «Non avrei mai detto a nessuno voglio fare la modella, perché mi sarebbe sembrato un atteggiamento vanitoso, come dire credo di essere bella che invece non ho mai pensato».
Lei e la madre si guardarono stupite di fronte alla proposta di Doukas — la madre Linda le disse «non mi sembri particolarmente fotogenica» – ma decisero di buttarsi nella nuova avventura.
Una volta ingaggiata dall’agenzia Storm, però, Kate si ritrovò sola. Girava per Londra da un appuntamento all’altro accompagnata solo dallo stradario — «È stato faticoso» — incappando a volte in individui poco raccomandabili, come il fotografo che voleva utilizzarla a 15 anni per un catalogo di biancheria.
«Mi disse: togliti la maglietta. Me la tolsi, ero molto timida, piena di insicurezze sul mio corpo. Poi mi disse: togliti il reggiseno. E mi sono sentita dentro che qualcosa non andava, così ho preso le mie cose e sono scappata via. Ora so distinguere da lontano chi va bene e chi no».
Nel giro di pochi mesi la carriera di Kate decollò: la copertina della rivista «Face» prima, poi la campagna pubblicitaria per «Calvin Klein».
Ma se le immagini sono rimaste leggendarie, l’esperienza fu difficile, tanto che prima del servizio fotografico in topless, al fianco di Mark Wahlberg, fu costretta a prendere il valium e successivamente soffrì di un esaurimento nervoso.
Se all’epoca dell’heroin chic non aveva mai fatto uso di eroina, Moss rimase scottata nel 2005 dallo scandalo sulla cocaina con le fotografie sulla prima pagina del Mirror: rischiò di perdere la figlia Lila, che oggi fa la modella (ed è stata il primo ingaggio dell’agenzia creata nel 2016 da Kate).
Se è vero che in quel periodo faceva uso di stupefacenti, le critiche che la coinvolsero e che rischiarono di distruggere la sua carriera sapevano di «ipocrisia»: «tutti quelli che conoscevo prendevano cocaina», ha sottolineato, precisando di essere stata «utilizzata come capro espiatorio».
Se ha testimoniato in difesa di Johnny Depp è perché – ha precisato – «credo nella verità e nella giustizia. Conosco la verità su Johnny. So che non mi ha mai preso a calci o spinto giù per le scale».
· Katia Noventa.
Katia Noventa: dall’esordio a “Telemike” a Fiorello e al giornalismo, ecco cosa fa oggi. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 28 Novembre 2022.
Dagli esordi con Mike Bongiorno al grande successo di “Karaoke”: laureata in pedagogia, per lei ora una passione per la moda. Oggi scrive articoli per “Il Giornale”
Gli esordi
Il suo vero nome è Katiuscia, ma è più conosciuta come Katia Noventa: ha compiuto 56 anni il 24 novembre ed è stata una delle donne più amate dello spettacolo negli anni ’90. Dopo essersi laureata in pedagogia e aver sfilato, in Italia e all’estero, per marchi come Armani, Versace e Valentino, è diventata famosa in tv grazie al mitico Mike Bongiorno che la volle nella sua trasmissione di successo “Telemike”.
Karaoke
Dal 1992 al 1994 Noventa affianca Fiorello nella conduzione del popolare show itinerante di Italia 1 Karaoke. Da lì in poi, Katia Noventa, la sua carriera è stata in grande ascesa, sia come showgirl ma anche come conduttrice tv.
La politica
Katia Noventa, ha tentato di intraprendere la carriera politica. In occasione delle elezioni regionali in Veneto del 2020, si è candidata con Forza Italia a sostegno di Luca Zaia nella circoscrizione di Padova. “La mia scelta di candidarmi nasce da una concatenazione di circostanze che vede una disponibilità da parte del partito, ma soprattutto quello che mi ha fatto decidere è stata la spinta e l’affetto di vari amministratori e dei miei amici veneti che nella mia città mi hanno spronato ad accettare questo impegno. Credo che questo momento della mia vita sia perfetto perché mi piacerebbe essere al servizio degli altri e non credo che ci sia un posto migliore della mia terra dove sono nata e dove risiedono le mie radici. In particolar modo Padova rappresenta il fulcro della mia vita con la famiglia, gli affetti e i miei luoghi del cuore” aveva spiegato Noventa a “Chi”.
La vita privata
Katia Noventa è stata a lungo fidanzata con il fratello di Silvio Berlusconi, Paolo , la loro famosa storia d’amore è durata dal 1993 al 2000. Subito dopo ha frequentato il collega giornalista Michele Cucuzza fino al 2001
Giornalista
Oggi, come si capisce dal suo profilo Instagram ufficiale, lavora come giornalista nel quotidiano “Il Giornale”. Si occupa di moda e lifestyle.
L’amore per i cani
#BiancaeBerni e #lovemydogs: con questi due hashtag ricorrenti la Noventa mostra al pubblico social i suoi cani. Che le tengono compagnia quotidianamente.
Alle sfilate
Noventa, per passione ma anche per lavoro, non manca mai alle sfilate della Fashion Week di Milano: e spesso di fa fotografare con amiche della televisione, come è avvenuto con Alba Parietti.
Barbara Costa per Dagospia il 19 novembre 2022.
Che succede se cresci in una famiglia cattolica ultra osservante, che non ti permette di uscire da sola né coi tuoi amici fino a 18 anni, e che solo a 18 anni ti permette di possedere un cellulare, su cui però esige e ripone localizzazione assillante?
Può accadere che diventi una donna indipendente, padrona di una sessualità veicolo di ribellione su un’educazione esasperatamente rigida, e altresì una figlia che in realtà ha perculato i suoi genitori, perché sì che se l’è tenuta stretta, davanti, ma solo lì, e "solo" fino ai 19 anni, quando ha fatto spezzare l’imene, ma, dietro, vergine il suo ano non lo era da prima, ché più di un "peccaminoso" pisello lì ha avuto agio e permesso, beffando il controllo di mamma e papà.
Mamma e papà della 25enne Kazumi, star di OnlyFans, una che grida ai quattro venti – cioè a ogni intervista – che lei col sesso home-made ricava cifre iperboliche (migliaia di euro, e al giorno, ma chi ci crede…?!?!), e mamma e papà che neanche ora che la loro figliola è social famosa, sanno bene in che consista il lavoro della loro creatura. Kazumi è nata in Kuwait e dai suoi genitori filippini è stata portata a Los Angeles e quando aveva 2 anni, e oggi, che si vanta ovunque e con chiunque quanto il sesso l’abbia resa ricca, vive a soli 15 minuti dal luogo in cui è cresciuta, e però in un attico.
Non si hanno recenti notizie del suo ultimo fidanzato con cui pompava sui media di stare in relazione poli amorosa, ma così "aperta" che lei, Kazumi, regalava a lui, e a compleanno e a Natale, sc*pate con prostitute in bordelli legali. Lui a sc*pare in sessioni da Kazumi pagate extra compresi, lui ai bordelli portato e ripreso da lei. Kazumi esprime la sua filosofia di vita su ogni podcast e/o testata che la contatta, e fiera rivela che, se lei ha iniziato a lavorare col sesso lasciando il suo posto da impiegata, l’ha fatto per farsi i soldi per rifarsi tette e sedere come piace a lei: a brazilian style.
Obiettivi a suo dire raggiunti con facilità. Con siffatte curve ha trovato più motivazioni nel col sesso seguitare, e editare performance porno che – a suo dire – le fruttano tanti ma tanti soldoni. Porno di cui Kazumi riconosce di non eccellere in cow-girl ma di primeggiare in gang bang, genere in cui Kazumi brillava fin da quando in sex club porgeva la sua vagina a più peni in sequenza.
Una progressione di coiti che le ha fatto raggiungere il record personale di 50 uomini in una gang bang (!!!) e uomini che tra le sue gambe sono passati in più di 500: il numero balla perché Kazumi ne ha segnati fino al 98esimo, cioè fino a quando un suo ex non ha scoperto la lista e gliel’ha distrutta.
Kazumi si propone il sostanzioso obiettivo di arrivare a 30 anni con un carnet sessuale di oltre 1000 uomini, e il suo scopo pare affatto irreale. Kazumi sa come spararle grosse ai media per vendersi: lei sa benissimo che è lo stare senza sosta nella luce si spera virale dei social il solo modo per stare a galla nella fama impalpabile che dà il web (lei ha 7 profili TikTok e 7 IG, anche se Meta ogni tanto glieli chiude, porna distribuendosi su più piattaforme, e è stata presa da Brazzers!).
Questa ragazza imprenditrice del suo sesso pone il suo esibizionismo e sfacciata promiscuità a manifesto emancipante: “Io vivo per l’attenzione altrui”, dice Kazumi, “e mi piacciono gli uomini e mi piace farci sesso, e mi basta che abbiano un pene normale. Non lo faccio mai senza condom e non mangio mai prima perché mi mette sonno!!!
Io lo faccio per mio piacere, e perché voglio rimuovere lo stigma posto sulle donne che hanno svariati partner sessuali. Nessuno ha diritto o ragione di darmi della cagna e della tr*ia. E nessuno dovrebbe vergognarsi di comprare del sesso. Sia online che reale. E infatti: sappiamo cucinare, ma ci piace anche andare a cena fuori. Sappiamo svagarci gratis, eppure paghiamo canali tv, e tutto ciò che ci diverte. Così è col sesso. Lo facciamo per amore, lo facciamo per godere, e se ci va di pagarlo, che c’è di male?”.
L'intervista alla "nuova Irma Testa". Khadija Jaafari, il grande sogno della baby campionessa del film ‘Californie’: “Voglio combattere per l’Italia”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Aprile 2022.
Deve esserci qualcosa. Qualcosa che succede in fretta quando Khadija entra in quella specie di capannone, uno stanzone alto alla fine di una strada che sale e che parte dai vicoli stretti della Provolera. Qualcosa di magnetico, che colpisce e arriva dritta, che interviene quando questa ragazzina entra alla Boxe Vesuviana: per prima cosa si guarda attorno, scopre l’esistenza di qualcosa che non aveva mai visto, si allena fino a vincere, conquista titoli e pure un paio di registi che non erano lì per lei, diventa protagonista di un film che da domani arriva nelle sale. Californie è stato premiato al Festival di Venezia alla giornata degli autori, girato a Torre Annunziata, protagonista questa ragazzina di 14 anni nata in Marocco che per semplicità qui chiamano Caterina.
Tutto così affrettato, veloce per Khadija che in arabo vuol dire “figlia prematura”. Khadija Jaafari per cinque anni è stata seguita e filmata a intervalli neanche troppo regolari dai registi Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman che stavano girando Butterfly, ispirato e interpretato dalla prima pugile italiana alle Olimpiadi e prima medagliata Irma Testa, e che rimasero colpiti da questa ragazzina che allora aveva 9 anni. La ripresero già allora e poi sul modello Boyhood ne hanno fatto un film, il romanzo di formazione di Jamila: neanche adolescente, che sogna e si isola, combatte e lavora, aggredisce e fugge. Una storia di periferia e cattive strade, assistenti sociali, parrucchiere, maestri di boxe, lavoro nero e dispersione scolastica, voglia di riscatto e tentazione di mollare tutto. “La storia del film è inventata. Jamila non fa più pugilato, lavora, io invece non ho mai lavorato in vita mia, ho fatto solo il film. Io e lei siamo uguali di carattere ma lei ha tutti altri obiettivi. Il mio obiettivo è la boxe, voglio andare in Nazionale”, dice Khadija a Il Riformista.
E invece per adesso non se ne parla: non ha la cittadinanza anche se “mi sento più torrese che marocchina”. Il padre macellaio partì dal Marocco il giorno prima che la figlia nascesse, settembre 2007, a Casablanca. Francia, Italia, quindi a Torre Annunziata, dove otto anni dopo è riuscito a far arrivare la moglie, i figli, e dove è nato un altro bimbo ancora. È sempre il padre a portare il figlio grande in palestra. E un giorno ci va anche Khadija che si siede in disparte e guarda, guarda qualcosa che non aveva mai visto. “Ti piace?”, le chiede il maestro. Lei fa sì e comincia a correre. “Domani vieni in tuta allora”. E così comincia.
“Non sapevo neanche dell’esistenza del pugilato. Quando metto i guantoni mi sento a casa, non si può spiegare”. È diventata campionessa italiana, a maggio 2021, School Girl sul limite dei 54 chili. Il maestro è “u’maestr’” Lucio Zurlo, personaggio iconico. “È come un nonno per me, a lui racconto tutto, lui e il maestro Biagio (figlio di Lucio, ndr) sono come di famiglia”. Era il 1960 quando “u’maestr” fondò l’Oplontis diventata Boxe Vesuviana, quartiere della “Polveriera” dalla Real Fabbrica d’Armi, cinque volte con atleti alle Olimpiadi. Ammette di aver dovuto superare un pregiudizio prima di allenare le donne. “Non ero favorevole, ma neanche a dirlo ho avuto per un periodo più donne che uomini e tante mi hanno dato tante soddisfazioni, la più grande naturalmente è stata Irma Testa. Oggi credo che le donne siano più forti degli uomini: quando decidono di fare una cosa la fanno e sono più adatte al sacrificio. In allenamento mettono una rabbia e una determinazione che gli uomini hanno perso. Caterina era terribile, e un po’ lo è ancora, ma è brava, istintiva. Spero possa combattere per l’Italia, sarebbe un peccato se dovesse combattere per il Marocco per puntare a qualcosa di grande”.
Il maestro la vede come una seconda Irma Testa, tra l’altro fresca vincitrice del Thailand Open, idolo di Khadija. “Non ho parole per definirla. Vorrei diventare come lei – sogna la 14enne – Mi piace tutto di lei: la tecnica, il carattere, la simpatia. Abbiamo fatto un paio di volte sparring. Mi ha detto che sono brava e anche che potrei fare di più”. Ma niente nazionale per il momento: il testo base sulla riforma della cittadinanza Ius Scholae – per i bambini arrivati in Italia prima di aver compiuto 12 anni, dopo 5 anni di scuola – è stato appena approvato in Commissione alla Camera, ci vorrà tempo. Dello Ius Soli (altra casistica però) si parlò di nuovo un po’ dopo le Olimpiadi e poi addio. “Quando ho scoperto che non potevo partecipare agli Europei ho smesso per qualche tempo. Non credevo più nel pugilato. Ora ho capito che devo lottare, il mio obiettivo resta la Nazionale”.
Anche se, e sempre molto velocemente, il cinema pure continua a farsi avanti: Khadija Jaafari ha firmato da poco un nuovo contratto per una grande società cinematografica. Un altro ruolo da protagonista, un’altra bambina straniera in Italia, le riprese partono a giugno. Quando ha visto per la prima volta Californie Khadija si è emozionata alla scena della vittoria del fratello al primo match. Ha pianto lei, si è girata: piangeva tutta la famiglia. “All’inizio del film sono proprio io: una ragazza molto aggressiva, il bullismo a scuola e io che non mi sapevo difendere. Mi dicevano di tornarmene in Marocco e cose del genere. E io a ogni parola menavo, mi arrabbiavo, mi mettevo a piangere. Il pugilato mi ha calmata, riesco a controllarmi, sono cambiata davvero tanto grazie a questo sport”. Californie sarà presentato a Napoli sabato 23 aprile con i registi e la protagonista. Qualcosa continua a succedere: qualcosa di magnetico, con dentro un viaggio, i sacrifici, i sogni, una possibilità oltre il mare, la giovinezza e il talento. Anche questa è California.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Kim Basinger compie 69 anni: il primo matrimonio, le seconde nozze con Alec Baldwin (e il tormentato divorzio), storia dei suoi amori. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l’8 Dicembre 2022
La star di «9 settimane e ½» e «L.A. Confidential» è nata ad Athens, in Georgia, l’8 dicembre 1953
Il compleanno
Sex symbol degli anni Ottanta, attrice premio Oscar (per «L.A. Confidential» nel 1998) ed ex modella statunitense Kim Basinger - nata ad Athens in Georgia l’8 dicembre 1953 - proprio oggi compie 69 anni. Una carriera, la sua, costellata di film, alcuni diventati veri e propri cult come «9 settimane e ½» di Adrian Lyne (1986) in cui ha interpretato la sexy Elizabeth McGraw e «Batman» di Tim Burton (1989), in cui era la fotocronista Vicki Vale. Ma nel corso degli anni si è parlato di lei anche per la sua vita privata, finita spesso sotto i riflettori.
Gli inizi come modella
Negli anni Settanta Kim Basinger inizia a lavorare come modella, ma non ha mai amato questo lavoro. «Era molto difficile passare da un appuntamento all'altro e dover sempre fare i conti con il mio aspetto. Non potevo sopportarlo. Mi sentivo soffocare», ha dichiarato una volta in un’intervista. In quegli anni - dopo essersi trasferita a New York - frequenta corsi di recitazione e si esibisce come cantante nei club del Greenwich Village. Alla fine del decennio incontra il fotografo Dale Robinette con cui vivrà un’intensa storia d’amore.
Il primo matrimonio
Nel 1980, sul set del suo primo film «Paese selvaggio», Kim Basinger e il truccatore Ron Snyder si innamorano e, dopo poco, convolano a nozze. Snyder, durante il matrimonio, lascia il lavoro e cambia il suo cognome in Britton (come raccontato nel libro di memorie «Longer Than Forever», pubblicato nel 1998), ma l’unione nel 1989 naufraga.
Il flirt con Prince
Alla fine degli anni Ottanta Basinger viene avvistata accanto a Prince, autore della colonna sonora del film «Batman». I due registreranno insieme una nuova versione della canzone «Scandalous» (contenuta nella pellicola), «Scandalous Suite Sexual», e un disco, «Hollywood Affair». Una relazione travolgente: Basinger arriverà a lasciare Hollywood per trasferirsi a Minneapolis, per vivere insieme al cantautore.
L’incontro con Alec Baldwin
Tra Kim Basinger e Alec Baldwin galeotto fu un altro set: quello di «Bella, bionda...e dice sempre sì» (1991). I due attori, che daranno vita ad una delle coppie più amate e invidiate dello star system (verranno anche omaggiati con un cameo in un episodio dei Simpson nel 1998), si promettono eterno amore nel 1993. L’anno successivo saranno di nuovo insieme sul set per «Getaway».
Un divorzio turbolento
Dall’unione tra Kim Basinger e Alec Baldwin il 23 ottobre 1995 nasce una figlia, Ireland Eliesse Baldwin. Che, quando i genitori decidono di separarsi nel 2000, finirà al centro di un’aspra battaglia legale durata sette anni (Baldwin, che ha dovuto lottare non poco per continuare a vedere e a frequentare la figlia, ne ha parlato diffusamente nel suo libro del 2008 «A Promise to Ourselves: A Journey Through Fatherhood and Divorce»).
Un nuovo amore
Dopo il divorzio da Baldwin si è vociferato di un flirt tra Kim Basinger ed Eminem (durante le riprese di «8 Mile», nel 2002), smentito più volte dal rapper. A qualche anno di distanza però sarà un nuovo set a fare da scenario ad un nuovo amore: quello con l’hair stylist Mitch Stone, con cui Basinger fa coppia ancora oggi.
Kim Rossi Stuart, la vita sul set e la passione per i cavalli: "Montare è come camminare". Luca Fraioli su La Repubblica il 5 Novembre 2022.
L'attore (attualmente nei cinema come protagonista e regista di Brado) ha ricevuto a Fieracavalli a Verona il premio Horse Friendship, dedicato alla memoria della giornalista di Repubblica Federica Lamberti Zanardi, per aver, con la sua pellicola, “saputo raccontare la realtà di una storia difficile, di un padre ruvido, di un figlio e di un cavallo dal temperamento indomito… un racconto tanto schietto quanto toccante dell’atavica relazione tra uomo e cavallo”
“Quando vai veloce e cadi, ruzzoli. Andavamo al galoppo lanciato: ruzzolammo sia noi che i cavalli. E nessuno si fece male”. Quella corsa notturna nei campi, in sella insieme al padre è uno degli elementi autobiografici che Kim Rossi Stuart ha disseminato nel suo ultimo film Brado. “Non è la mia storia”, ci tiene a precisare l’attore e regista, “ma dentro ci ho messo un mondo che ho conosciuto bene, quello dei cavalli, e altre cose che mi sono capitate”. Come la scena finale appunto: il padre che dice al figlio: “Pensa se a questa velocità inciampassimo in una rete dei pastori”. E pochi secondi dopo la caduta. Quindi le risate, il rimettersi in sella e via di nuovo al galoppo verso la Luna.
Kim Rossi Stuart ha ricordato quell’episodio nella giornata inaugurale di Fieracavalli Verona, quando ha ricevuto il premio Horse Friendship, dedicato alla memoria della giornalista Federica Lamberti Zanardi, per aver, con la sua pellicola, “saputo raccontare la realtà di una storia difficile, di un padre ruvido, di un figlio e di un cavallo dal temperamento indomito… un racconto tanto schietto quanto toccante dell’atavica relazione tra uomo e cavallo”.
Kim Rossi Stuart, lei va ancora a cavallo?
“Per me montare è come camminare. Mi viene naturale, perché l’ho appreso in modo radicale e profondo quando ero bambino. Ma i cavalli non fanno più parte della mia vita. Quando ho iniziato a lavorare sono partito e mi è capitato di montare solo per esigenze cinematografiche. Sono stato un ragazzino anche un po’ troppo costretto a montare, quattro ore al giorno sulla sella… forse sono andato in overdose. E pur continuando ad amare i cavalli, non mi è più interessato montarli. Certe volte però, se c’è un cavallo in un paddock mi viene voglia di salirci su a pelo, senza sella e senza finimenti, un po’ come il ragazzo protagonista fa a un certo punto del film”.
A proposito dei giovani protagonisti, come ha fatto a trovare attori capaci di stare in sella e saltare?
“Non è stato facile. Saul Nanni era andato a cavallo qualche volta col papà da ragazzino. Poi all’avvicinarsi delle riprese si è chiuso sei mesi in un maneggio, mattina e sera a spalare letame e a montare. E’ stato grandioso e coraggioso: durante le riprese in pochissime occasioni abbiamo usato controfigure”.
Incidenti?
“Beh sì. Una volta è caduto e si è anche fatto male, rompendosi la clavicola. Abbiamo interrotto le riprese per due mesi”.
Per il ruolo di Anna, l’istruttrice di equitazione che prepara padre, figlio e cavallo alla gara, ha invece dovuto cercare nel mondo dell’equitazione.
“Esatto. Viola Sofia Betti è una bravissima amazzone. Si è misurata con la recitazione ed è stata straordinaria. I ragazzi sono stati i pilastri che hanno sostenuto il film”.
Parliamo invece dei cavalli “attori”: finito il periodo d’oro dei film in costume e degli spaghetti western, il cinema italiano è ancora attrezzato per portare questi animali su set?
“Assolutamente no. E’ stato un miracolo chiudere il film e portare a casa tutte le scene con i cavalli, anche a costo di modificare il copione in corso d’opera adattandolo a quello che succedeva sul set. Perché gli animali non facevano nulla di quel che avrebbero dovuto fare secondo la sceneggiatura. Ormai i grandi di questo mestiere, penso a Mario Luraschi, sono all’estero”.
Nel film si respirano atmosfere tipiche di una certa letteratura “western”, da Cormac McCarty a Kent Haruf. Un riferimento voluto?
“Me lo hanno detto, ma in realtà Brado nasce da una mia raccolta di racconti, Le guarigioni, molto personali, che partono tutti o dalla mia pancia o dalla mia testa”.
E’ un film anche molto duro. Ci si aspetta la classica storia dell’allevatore che scommette sul brocco di turno trasformandolo in campione…
“Vero, inizia come film di genere. Ma a tre quarti il genere viene abbandonato, perché sarebbe stato prevedibile e scontato, per andare ad approfondire una tematica vicina al tema della morte. La struttura in questo senso è simile a quella di Million Dollar Baby. E mi chiedo come verrebbe recepito oggi un film simile: quando uscì, quasi vent’anni fa, non ci si sottraeva a certe tematiche. Oggi dal racconto cinematografico si sta amputando tutto ciò che appartiene all’asprezza della vita. Sia chiaro: non mi interessa di raccontare il male, spesso ci si compiace nel farlo. Quello che io ho perseguito con questo film è far emergere la dolcezza della vita: e spesso la sofferenza è un passaggio, prima di arrivare alla dolcezza”.
Paesaggi aspri, personaggi spigolosi. E manca anche il lieto fine.
“Per me un lieto fine questo film ce l’ha. E’ la pacificazione: il figlio e il padre che si ritrovano in uno sguardo e in un sorriso eterni. Come quella galoppata nella notte”.
Kim Rossi Stuart al cinema con "Brado". "Ho fatto pace con mio padre e con la mia vita". Arianna Finos su La Repubblica il 19 Ottobre 2022
L'attore e regista è al terzo film dietro alla macchina da presa. Esplora il rapporto tra genitori e figli. E dell'incontro con Ilaria Spada che ha sposato nel 2019 racconta: "È arrivata e mi ha ribaltato"
Brado è il film della riappacificazione, dice Kim Rossi Stuart, che consegna al pubblico in sala il suo terzo film da regista, western esistenziale incentrato sul rapporto tra un padre e un figlio, una fattoria e una gara di cavalli, un rapporto ritrovato e un doloroso intensissimo addio. Un film riuscito. E l'attore e regista - camicia di jeans, un tè che sorseggia nel baretto del MAXXI di Roma - lo sguardo pacificato ce l'ha per davvero.
"Questo film viene come una novità per me, proprio nel modo di viverlo e in relazione all'esterno, alle persone. Qualcosa che ha a che fare con il percorso umano, ma anche con ciò che accade sul pianeta. I segnali inquietanti dell'ambiente, della politica e delle guerre sono anche l'occasione per ricordarci di assaporare appieno la vita, vivere ogni giorno come l'ultimo. Quindi questo film lo affronto in modo diretto, senza filtro. Mi sono messo al telefono e ho chiamato a una proiezione persone che stimavo e che mi sarebbe piaciuto conoscere. La risposta è stata bellissima, emozionante sentire i messaggi del giorno dopo, mi risale la commozione (gli occhi grigi s'inumidiscono ndr), avere la sensazione che questo film tocchi nel profondo qualcosa di importante. E poi l'altro giorno c'è stata l'anteprima al Kum Festival di Massimo Recalcati, 620 persone, una reazione bellissima. Inizio a convincermi che Brado abbia qualcosa di speciale, che metta lo spettatore di fronte a cose non così consuete".
È un film fatto per il pubblico.
"Sì, all'interno di una struttura di genere, impresa sportiva o western, capace di trascinare il pubblico nel suo essere non ostico o intellettuale, io parlo di libertà. Il genere lo tradisco per andare più nel profondo possibile, per raccontare una relazione tra un padre e un figlio, in cui c'è una scena di quattro minuti in cui lo spettatore è messo di fronte a una sofferenza molto vera, ma anche in quei minuti c'è qualcosa di luminoso. Non mi piace il cinema che si compiace del pessimismo, del male, della sofferenza. Quei 4 minuti di sofferenza sono fornace essenziale al processo di realizzazione di un metallo pregiato".
All'inizio della storia padre e figlio sono molto distanti.
"Apriamo con le uova nel paniere già rotte da tempo. E la cosa è il cuore del film, il bisogno di ricucire di entrambi, la difficoltà di farlo, la condizione di un figlio che venendo al mondo si ritrova carico di tutte le ferite che non hanno nulla a che vedere con la sua identità, ma con la storia di chi lo ha preceduto, quindi di suo padre, del nonno e dicendo. Il film si interroga sul modo in cui spezzare questa catena. Un tema che lega i miei primi tre film, diversi tra loro, in un percorso che si chiude. Il ragazzo probabilmente è il più maturo tra i due e crea un sentiero tra l'odio e le bordate per arrivare al traguardo di riabbracciarsi e di perdonarsi, di accettarsi per quello che si è, rispettare il fatto che un padre, a sua volta è stato figlio, di rispettare i suoi errori, provare tenerezza per gli errori del proprio padre. A quel punto, finalmente liberi, ci si può cominciare a confrontare con la propria identità più autentica".
Ha detto che è film di pacificazione.
"Sì, c'è un senso di pacificazione con la figura paterna e con anche l'idea del lutto, della perdita. C'è uno sguardo e un sorriso tra questi due che per me rappresenta l'eternità. Presuntuosamente mi sto cominciando a fare l'idea che non la dà solo a me questo senso di pacificazione".
Sensibilità ma anche forza nel volere proseguire verso una direzione senza farsi troppo pressare dall'ambiente, dagli altri.
"E molto semplice perché io ho iniziato a fare il suo mestiere prestissimo e a studiare prestissimo. E a ttra i 14 e i 15 anni ho cominciato a fare una scuola di recitazione che era molto vicina a una sorta di psicanalisi di gruppo. Un gruppo bellissimo di giovani guidati da un insegnante, si chiamava Beatrice Bracco. Non procedeva per questioni estetiche formali, mandava nel fondo dell'animo umano. Quindi questo imprinting mi è rimasto e mi ha dato una chiave di accesso a questo mondo a questo mestiere. E la chiave è rimasta sempre quella per cui, dopo le prime cose, magari più commerciali che per carità hanno il loro diritto di esistere, che sono fondamentali e le faccio vedere ai miei figli, soprattutto a Ettore che è più grande e comprende di più. Ma questo meccanismo non cominciava a essere più per me, cioè cominciava a essere un po troppo frequente, facevo cose che non mi permettevano di andare a fondo all'animo umano. Avevo bisogno di un confine netto. Detto bene, qui mi fermo e mi sono fermato a vent'anni".
Non deve essere stato facile.
"No, ma non potevo fare una scelta diversa. Cioè io mi ricordo ancora quando stavo in viale Giulio Cesare a Roma: c'è ancora in un'immagine nitida di un momento preciso in cui mi son detto a 'me quello non interessa'. Cosa mi interessa di questo mestiere? E l'ho associato a qualcosa che aveva a che fare con la sanità pubblica.Mi interessa che questo mestiere mi dia la possibilità di comunicare, di trasmettere cose positive nel senso non necessariamente risate e mandolini, ma cose positive, fatti che hanno a che vedere con la crescita, con un nutrimento buono da dare a uno spettatore. Quindi è stato per me semplicissimo. Non è che ho dovuto fare battaglie con me stesso, non c'era altra strada per me, così come oggi. Poi. Poi per carità qualche compromesso nella vita l'ho fatto anch'io, una casa me la sono dovuta comprare. E una famiglia la devo mantenere. Quella è la priorità, quindi in questo momento è tosta".
Quanto è stato importante l'incontro con Ilaria Spada, donna solare e simpatica? Possiamo dire che è un incontro che ha cambiato la tua vita in positivo...
"Mi ha sradicato. È arrivata e mi ha ribaltato. È stato un innamoramento. E mi ha tolto proprio qualsiasi filtro razionale. È stata una roba che è arrivata, è stata irresistibile. È molto simpatica,è vero ma dentro casa bisogna....vabbè, puntini, puntini.... Però lei è così, lei è molto difficile che entri in contatto con la depressione, la tristezza, la malinconia. Ilaria è solare per natura".
Ripercorriamo il tragitto fatto da regista, da "Anche libero va bene" a "Tommaso".
"Il primo film è stato un parto, avevo 34 anni. Volevo girare il primo film a vent'anni, ma non me l'hanno fatto fare 'arriverà il momento...' ma non arrivava mai, non ho saputo impormi. Però credo che le cose arrivino anche quando sono mautre. Quel film era sulla crescita puberale e quindi su anche sul desiderio. E avevo voglia di esplorare il desiderio, proprio il mio desiderio, in quel caso anche ahimè, frustrato, perché c'era una madre assente. Nel secondo, Tommaso, volevo raccontare la mente, la prigionia della mente, la prigionia del pensiero. Il film è tutto, anche formalmente, come un incapsulare il personaggio all'interno di una sfera di incomunicabilità. Quel film ha diviso, aveva un nucleo sperimentale. Mi piace pensare alla battuta che ha fatto il mio amico Gianni Amelio 'guarda questo film non l'ha capito neanche chi lo ho molto apprezzato'".
Continua a lavorare anche come attore.
"Sì, ho giarto una serie in Belgio, mi sono divertito molto, sette mesi di set, si chiama Everybody love diamonds, è una sorta di I soliti ignoti di oggi, ambientato quasi tutto ad Anversa. Riprende una storia vera di un italiano, il mitico Notarbartolo che ha fatto un furto epocale".
E ora?
"Gli ultimi quattro anni sono stati furiosi, la preparazione di Brado è stata faticosissime, sono quattro anni che macino come un pazzo. Ora voglio accompagnare il film nel mondo, a fine novembre sarò in Brasile".
Quando le persone la fermano per strada per cosa lo fanno visto che la sua filmografia è larga...
"Più o meno i nomi sono Tommaso, un po' meno Anche libero va bene, e moltissimo Vallanzasca, Le chiavi di Casa, Romanzo criminale, Cosa sarà. Ma ovviamente, in cima a tutti c'è, ancora, non solo in Italia, Fantaghirò, l'immortale".
C.R. per “il Messaggero” il 23 luglio 2022.
Treccine bionde, un cuore tatuato sotto l'occhio destro e una catena d'oro al collo. È Giacomo Seydou Sy, nipote dell'attore Kim Rossi Stuart, 28 anni arrestato il 18 luglio dai carabinieri in via Prenestina per tentata rapina, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali. Tutto è cominciato quando un passeggero del tram 14 ha segnalato alle forze dell'Arma di aver subito un'aggressione a scopo di rapina del marsupio a bordo del mezzo da parte di Sy.
Una volta allontanato l'aggressore e scesa dal veicolo, la vittima ha raccontato di essersi accorta che Sy la stava seguendo. Di qui, la situazione sarebbe degenerata quando all'arrivo dei gendarmi il giovane, in evidente stato di agitazione, avrebbe reagito con violenza alle manovre dei carabinieri costringendo uno di loro a utilizzare il taser in dotazione per bloccarlo. Non è la prima volta che Giacomo Seydou Sy viene detenuto in carcere. Nel luglio del 2018 era stato arrestato per aver rubato 60 euro. E nel maggio del 2019, nonostante avesse finito di scontare la pena, la permanenza dietro le sbarre di Rebibbia era continuata per un'altra condanna precedente.
Ma il suo passato nel tunnel della tossicodipendenza e la sua diagnosi di disturbo bipolare illuminano altri dettagli dietro gli episodi di detenzione del 28enne. La storia di un ragazzo con la passione per la boxe e per la musica rap, finito fuori strada per via di amicizie sbagliate e della scoperta della cocaina.
All'inizio del 2022 un'assidua battaglia legale condotta fino alla Corte europea dei diritti dell'uomo dalla madre, l'attrice e scrittrice Loretta Rossi Stuart, sorella dell'attore Kim, si è conclusa con la concessione da parte dei giudici di Strasburgo del risarcimento di 36.400 euro per danni morali, avendo stabilito che «nonostante la salute mentale di Sy fosse incompatibile con la prigione l'uomo è restato due anni a Rebibbia, in un contesto caratterizzato da cattive condizioni carcerarie e senza una terapia per rimediare ai suoi problemi ed evitare che si aggravassero». Per il momento, l'arresto è stato convalidato. Ma solo le indagini stabiliranno come è andata.
Da repubblica.it il 28 luglio 2022.
"Chi sarà responsabile di ciò che può succedere all'interno del carcere?". A dirlo è Loretta Rossi Stuart, la mamma di Giacomo Seydou Sy, il ragazzo affetto da bipolarismo e arrestato nei giorni scorsi per tentata rapina a Roma, in una dichiarazione alla stampa.
"In qualità di amministratrice di sostegno, e quindi responsabile e in dovere di vigilare su Sy Giacomo Seydou, nonché come madre, io domando: un ragazzo con diagnosi di disturbo bipolare borderline - spiega - dopo essere stato trattenuto in carcere un anno deleterio per il suo stato psichico, grazie ad un ricorso alla Cedu viene finalmente affidato ad una valida Rems presso cui è in atto un percorso di recupero positivo".
La madre prosegue: "È ancora fragile rispetto alla dipendenza da sostanze, riesce ad allontanarsi dalla struttura e, avendo fatto uso, compie atti illeciti in stato di squilibrio mentale (è un paziente a doppia diagnosi soggetto a deliri e psicosi innescati dall' uso di stupefacenti); viene arrestato, il giorno dopo è condotto dalla polizia penitenziaria al pronto soccorso del Santo Spirito, con evidenti segni di autolesionismo, ed è attualmente in un reparto di Regina Coeli dove, in tale stato psicotico, è esposto ed espone gli altri a situazioni di conflittualità difficilmente controllabili".
"Avrei pensato - sottolinea Loretta Rossi Stuart - visti i pregressi, che sarebbe stato urgentemente ricondotto nel luogo di cura a cui era affidato. La domanda ora è: chi sarà responsabile di ciò che può succedere all'interno del carcere?".
L’ingiusta detenzione del nipote di Kim Rossi Stuart, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia. Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera il 24 Luglio 2022.
La Corte europea dei diritti dell’uomo e il caso di Giacomo Seydou Sy, incarcerato a Rebibbia: «Tenuto in cattive condizioni e senza una terapia». La battaglia della madre, l’attrice e scrittrice Loretta Rossi Stuart
È stato richiuso a Rebibbia quando le sue condizioni di salute mentali avrebbero imposto una struttura dove poter essere curato. La vicenda di Giacomo Seydou Sy, denunciata più volte dalla madre Loretta Rossi Stuart, attrice, scrittrice e sorella dell’attore Kim, ha portato l’Italia ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per averlo trattato in modo inumano.
La Corte di Strasburgo, che ha fissato un risarcimento di 36.400 euro per danni morali, ha stabilito che «nonostante la salute mentale di Sy fosse incompatibile con la prigione, l’uomo è restato due anni a Rebibbia, in un contesto caratterizzato da cattive condizioni carcerarie e senza una terapia per rimediare ai suoi problemi e evitare che si aggravassero». Sy, 28 anni, una passione per il pugilato, affetto da turbe della personalità e bipolarismo, doveva essere detenuto in una Rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Strutture con meno posti di quelli che servirebbero, il caso di Sy purtroppo non è l’unico, e anche questo ha spinto la madre a rendere pubblica la sua situazione.
Giacomo Seydou Sy viene arrestato nel luglio 2018 per furto e resistenza alle forze dell’ordine. Le sue condizioni di salute, non compatibili con il carcere sono note, ma viene lo stesso messo in detenzione preventiva a Rebibbia. Tutte le valutazioni successive confermano la sua pericolosità sociale e una condizione che lo rende parzialmente irresponsabile degli atti che commette, ma anche che deve scontare la pena in una struttura dove può essere curato. Quando viene condannato, il giudice dipone gli arresti domiciliari, che però il ragazzo con rispetta e così ritorna in carcere. Il 7 aprile 2020 la Corte di Strasburgo intima all’Italia di trasferirlo in una struttura adatta, e adesso è arrivata la condanna per non averlo fatto. «I governi — scrivono i giudici della Cedu — hanno l’obbligo di organizzare il sistema penitenziario in modo da garantire il rispetto della dignità dei detenuti, indipendentemente da qualsiasi difficoltà finanziaria o logistica».
È stata soprattutto la madre a impegnarsi perché i diritti del figlio fossero rispettati. Nell’agosto 2019 lanciava il suo appello accorato: «Mio figlio è esasperato, è come una bomba pronta a esplodere. Resiste ma è consapevole che il carcere non è il suo posto. Ha dei sogni, vuole fare il pugile alle Olimpiadi. Può essere recuperato, ma solo se curato come merita». Il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella, osserva dopo la decisione della Corte che questo caso «dimostra un cortocircuito istituzionale nel nostro Paese inaccettabile. Nella sua decisione la Cedu non risolve solo un singolo caso, ma dà indicazioni su un “percorso” che Governo e Parlamento devono seguire per evitare altre condanne e nuove violazioni dei diritti fondamentali».
· Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.
Douglas, la saga: Kirk, Michael (e gli altri) tra successi, matrimoni e scandali. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2022.
Dal capostipite (morto il 5 febbraio 2020) alle nuove generazioni: storia di una delle dinastie più popolari di Hollywood
Icona di Hollywood
Il 5 febbraio 2020, alla ragguardevole età di 103 anni, se ne andava Kirk Douglas, capostipite di una delle più popolari dinastie di Hollywood (padre di Michael Douglas, che proprio oggi compie 78 anni, dei produttori Joel Douglas e Peter Douglas, e di Eric Douglas). Nato il 9 dicembre 1916 da una coppia di immigrati ebrei bielorussi Issur Danielovitch (questo il suo vero nome all’anagrafe) esordì nel cinema grazie a Lauren Bacall, che lo segnalò al produttore del film del 1946 «Lo strano amore di Marta Ivers». Nel corso della sua lunga carriera - più intensa negli anni d’oro del cinema classico tra gli anni Cinquanta e Settanta - ha interpretato numerosi ruoli da «duro» (come in «Orizzonti di gloria» di Stanley Kubrick, «Spartacus», «Sfida all’O.K. Corral») e, nominato agli Oscar tre volte, ha ricevuto nel 1996 la prestigiosa statuetta alla carriera.
Il primogenito, Michael
Kirk Douglas si sposò due volte: la sua prima moglie (1943-1951) fu l'attrice britannica Diana Dill (morta nel 2015 per un tumore), da cui nel 1944 ebbe il suo primogenito, Michael. Vincitore di due Oscar, 4 Golden Globe, un Premio BAFTA e un Premio Emmy l’attore - tra i sex symbol degli anni Novanta - nel corso della sua carriera ha recitato in numerose pellicole di successo (come «Attrazione fatale», «La guerra dei Roses», «Basic Instinct», «All'inseguimento della pietra verde», «Wall Street», «Un giorno di ordinaria follia»). Nel 2003 ha lavorato in «Vizio di famiglia» accanto a suo padre Kirk e a suo figlio Cameron, avuto nel 1978 dalla produttrice Diandra Luker (sua prima moglie dal 1977 al 1995). Il matrimonio fallì per colpa dei numerosi tradimenti di lui (ha ammesso in seguito di aver sofferto di dipendenza sessuale), e in seguito al divorzio arrivato nel 2000 Michael dovette pagare alla moglie circa 45 milioni di dollari. Nello stesso anno l’attore convolò a nozze con la sua nuova compagna, Catherine Zeta Jones, che sarebbe poi diventata madre di Dylan Michael (2000) e Carys Zeta (2003). I due sono sposati ancora oggi, nonostante le difficoltà che hanno dovuto affrontare: su tutte il cancro che ha colpito Michael nel 2010 (alla lingua, anche se inizialmente dichiarò di aver avuto un tumore alla gola).
Il produttore Joel
Meno conosciuto dal grande pubblico l’altro figlio di Kirk avuto insieme a Diana Dill: Joel (classe 1947). Ha scelto di non seguire il padre e il fratello maggiore nella recitazione, preferendo dedicarsi alla produzione (ha co-prodotto ad esempio «Il gioiello del Nilo» e «All'inseguimento della pietra verde»), ed è stato anche assistente alla regia di «Qualcuno volò sul nido del cuculo» (prodotto da Michael e diretto da Milos Forman nel 1975). Alle spalle ha quattro matrimoni: è convolato per la prima volta a nozze nel 1968, con Susan Jorgensen mentre nel 1975 sposò Judith Corso. Patricia Reid invece è diventata sua moglie nel 1986 mentre le sue nozze più recenti sono quelle con Jo Ann Savitt, durate dal 2004 alla morte di lei nel 2013.
La tragedia di Eric
Nel 1954 Kirk Douglas si risposò con la produttrice Anne Buydens (che il prossimo 23 aprile compirà 102 anni) conosciuta sul set di «Atto d'amore» tramite un amico comune: lui ai tempi era fidanzato con la giovane attrice Pier Angeli (che lasciò per inseguire il nuovo amore) e lei era una pr che viveva a Parigi. «È entrata a far parte della produzione, ci siamo corteggiati in Francia e in Italia, e dopo la invitai negli Stati Uniti», ha raccontato Douglas. Da lei ebbe altri due figli: nel 1955 nacque Peter Vincent, chiamato così in omaggio al pittore Vincent Van Gogh (che Kirk interpretò nel film del 1956 «Brama di vivere»). Anche lui è diventato produttore come il fratellastro Joel, e ha avuto quattro figli dal matrimonio - unico - con Lisa Schoeder (Kelsey, Ryan, Tyler e Jason Douglas). Eric invece, l’ultimogenito nato nel 1958, ha provato a fare carriera nel mondo dello spettacolo ma non è mai riuscito a raggiungere lo stesso successo di suo padre e dei suoi fratelli (si considerava la «pecora nera della famiglia Douglas», cosa su cui ha molto ironizzato nei suoi anni come stand-up comedian nei comedy club di New York). Ha lottato per anni contro l’ingombrante eredità legata al suo cognome, cadendo anche nella trappola di alcool e droga: è stato arrestato più volte negli anni Novanta per guida sotto l’effetto di sostanze, nel 1994 fu fermato per possesso di cocaina e due anni dopo la polizia trovò nel suo appartamento di Hell's Kitchen, a Manhattan, undici fiale di crack e un migliaio di pillole di Xanax. Morì il 6 luglio 2004 per un’overdose accidentale: il suo corpo fu ritrovato da una cameriera e l’autopsia rivelò che il decesso era stato causato dagli effetti combinati di alcol, tranquillanti e antidolorifici. Alcune settimane prima della sua morte era tornato in un centro di riabilitazione nello stato di New York, cosa che aveva fatto più volte nel corso degli anni. Lo stesso Kirk aveva raccontato in un’intervista del 2009 di aver portato il figlio in una ventina di rehab, senza successo. «Continuo a chiedermi se avrei potuto fare di più di quello che ho fatto. Ma credo che a volte non ci sia proprio niente da fare».
La caduta e la rinascita
Anche Cameron Douglas - figlio di Michael e Diandra Luker - in passato ha dovuto fare i conti con gli stessi demoni di suo zio Eric: è stato arrestato più volte per reati legati all’uso di sostanze stupefacenti. Nel 2010 è stato condannato a cinque anni di carcere per possesso di eroina e spaccio di metanfetamina e cocaina e, una volta dietro le sbarre, si è dichiarato colpevole di possesso di droga (la sua pena è quindi stata prorogata). È stato rilasciato nel 2016 e il carcere, a detta di Michael (che in un’intervista al Mirror si è autodefinito un «cattivo padre» per «non essergli stato abbastanza vicino»), lo ha in un certo senso «salvato», come ha spiegato in un’intervista al New York Post: «Senza quella condanna magari a quest’ora sarebbe già morto, qualcuno avrebbe potuto ucciderlo. Penso che così gli sia stata data l’occasione per cominciare una nuova vita». Oggi Cameron si è lasciato tutto alle spalle: ha incontrato la sua attuale compagna Viviane Thibes, è diventato due volte papà (di Lua Izzy e Ryder T. Douglas) e ha raccontato la sua giovinezza difficile nel libro «Long Way Home», pubblicato nel 2019.
Da gazzettadiparma.it il 19 aprile 2022.
"Io questa storia del gay-vittima non l’ho mai tollerata. Non mi ci riconosco. Vissi la mia infanzia in Svizzera e poi in Belgio, non sempre erano rose e fiori. C'era qualcuno che mi dava del gay e mi insultava. Ma io non porgevo l’altra guancia, piuttosto che seguire il Vangelo seguivo l’Antico Testamento e rispondevo per le rime.
Per capirci, se mi picchiavano, mi difendevo e menavo anche io. Parliamo delle elementari e del ginnasio alla scuola europea. Non ero uno che porgeva l’altra guancia. Ovviamente era tutto sbagliato, sia l’aggressione che la contro-aggressione. Ma allora ragionavo cosi".
Lo ha dichiarato Klaus Davi, intervistato da Eleonora Daniele a "Storie Italiane" su Rai 1 . "Sono sempre stato di scorza dura. Qualche anno fa decisi di candidarmi a San Luca in Aspromonte (RC). Non si votava da 11 anni per le infiltrazioni mafiose. Tutti mi dicevano "ma sei pazzo, ti candidi nel cuore della Ndrangheta?". Tutti mi scoraggiavano. Mi sono presentato alla comunità e ho detto: "mi candido".
All’inizio non è stato facile. Ma poi mi sono imposto ed è nato un bellissimo rapporto con quella stessa comunità. Fui eletto in consiglio comunale contro tutte le previsioni. Con molto tatto qualcuno mi chiedeva "ma è vero che sei gay?" e io rispondevo "sì, ma anche noi gay abbiamo le palle!"", ha aggiunto poi Davi.
La Rappresentante di Lista: il nostro queer pop, un’etichetta per sfuggire alle etichette. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022
Il duo formato dalla cantante Veronica Lucchesi e dal polistrumentista Dario Mangiaracina: in «Ciao Ciao» parliamo di apocalisse ma il brano viene spesso frainteso.
Il cammino verso la fine del mondo al ritmo di un allegro disastro. La Rappresentante di Lista (LRDL) ha fatto ballare mezza Italia con Ciao Ciao, il brano che è andato ben oltre il settimo posto del Festival di Sanremo. Una musica leggerissima su un tema dal cuore nero: «Il brano parla di apocalisse ed ecologia, il cambiamento climatico è qualcosa che ci spaventa in prima persona, ci piace quest’idea che la musica abbia il potere apotropaico di scacciare via le paure. Allo stesso tempo ci divertiva creare questo contraltare tra una musica travolgente, un ritmo coinvolgente e in chiave opposta la catastrofe che veniva raccontata nel testo, una fine del mondo incombente in cui a poco a poco salutiamo anche le parti del nostro corpo, ciao ciao», spiegano la cantante Veronica Lucchesi e il polistrumentista Dario Mangiaracina che sono diventati coppia artistica più di 10 anni fa.
Ci arriva voce che al comizio di S4lvini il dj abbia messo #ciaociao. La nostra maledizione sta per abbattersi su di te, becero abusatore di hit. ?
Forse non tutti hanno colto il significato profondo del testo... «Sapevamo che questo brano avrebbe avuto diversi livelli di lettura come un titolo di giornale è inevitabilmente più superficiale rispetto alla complessità della storia raccontata nell’articolo. Il ritornello effettivamente è così trascinate che può essere frainteso, ma non è detto che sia un male. Oscar Wilde temeva che la sua opera a un certo punto non potesse più essere fraintesa...». Forse nel misunderstanding è caduto anche Salvini che a un suo comizio ha usato Ciao Ciao come colonna sonora: «La nostra maledizione sta per abbattersi su di te, becero abusatore di hit» , la loro risposta tranciante. Mondi lontanissimi del resto, come testimoniava il pugno chiuso esibito sul palco dell’Ariston.
Loro stessi hanno definito la loro musica «queer pop» : «È un modo per dire che non abbiamo generi musicali, un’etichetta per sfuggire alle etichette, la nostra è musica obliqua con riferimenti che vanno da Vivaldi a Brian Eno, dall’opera lirica a Fatboy Slim, la nostra fluidità è non avere un genere preciso, ma saltare da un suono all’altro, ci aiuta a raccontare la complessità del mondo che immaginiamo nelle nostre canzoni».
Alle spalle La rappresentante di Lista ha già due Festival di Sanremo, nel 21 e nel 22: «L’anno prima ero più spaventata — spiega Veronica —, non conoscevo quel mondo, non ero pronta a quel tipo di esposizione e a quel tipo di giudizio attento a tutto». Quest’anno un’altra musica: «Ci siamo goduti tutto il Festival, dalle sporadiche battute con Amadeus agli incontri con Gianni Morandi nei camerini: meno stress, più divertimento», aggiunge Dario. L’anno prossimo? «Se abbiamo una certezza nella vita è che non lo faremo».
Il successo raggiunto non deve diventare un’ossessione per Veronica: «Non è necessario essere sempre presenti, fa bene anche stare dietro le quinte, alimentare l’energia e il fuoco artistico anche con il silenzio. Non voglio parlare sempre, ma anche ascoltare dove va il mondo, dove va la nostra umanità. Io faccio musica per un’urgenza personale, per mettere a tacere desideri che non so se sono miei o indotti, una sensazione che mi rende insoddisfatta e infelice anche se vivo esperienze da privilegiata. Vorrei trovare una sorta di pace, di Nirvana. E faccio musica perché mi piacerebbe che questa serenità la toccassero tutti». Dario ostenta proprio questa serenità: «Suonare nei piccoli club non mi spaventa, l’adrenalina del palco dell’Ariston è molto simile a quella del palchetto di periferia, davanti a 10 milioni o a 400 fan le sensazioni si equivalgono».
Nei loro testi gli argomenti ricorrenti sono il corpo, le relazioni, la femminilità, la famiglia, la terra, la natura. Il loro ultimo singolo è Diva , un invito all’accettazione di sé e all’autodeterminazione: «Una spinta a prendere coscienza della propria identità, a fare scelte libere, senza tenere conto del giudizio vuoto e sterile che viviamo in era social, quello che ci abbatte e ci butta giù, quei commenti che non aiutano a vivere il proprio corpo come strumento per fare esperienze della vita, ma piuttosto come barriera, come scudo da coprire. Quando invitiamo a essere dive e divi non parliamo del divismo dei riflettori o del palcoscenico di Instagram, siamo ben lontani dalla filosofia becera e angosciante dei social».
Da open.online il 7 agosto 2022.
Dopo il botta e risposta tra il duo La Rappresentante di Lista e il leader della Lega, Matteo Salvini, i cantanti spiegano il vero significato della canzone Ciao Ciao.
Il testo in questione «parla di apocalisse ed ecologia. Il cambiamento climatico è qualcosa che ci spaventa in prima persona, ci piace quest’idea che la musica abbia il potere apotropaico di scacciare via le paure», spiegano in un’intervista al Corriere della Sera.
La coppia artistica, formata dalla voce di Veronica Lucchesi e i polistrumentista Dario Mangiaracina, ci tengono poi a sottolineare come abbiano creato intenzionalmente il «contraltare tra una musica travolgente, un ritmo coinvolgente e – in chiave opposta – la catastrofe che viene raccontata nel testo, una fine del mondo incombente in cui a poco a poco salutiamo anche le parti del nostro corpo». Quando hanno ideato il brano erano consapevoli che avrebbe incontrano livelli di lettura diversi. «Il ritornello effettivamente è così trascinate che può essere frainteso, ma non è detto che sia un male. Oscar Wilde temeva che la sua opera a un certo punto non potesse più essere fraintesa», commentano.
Lo scontro con Salvini
Tutto questo nasce a seguito di un comizio a Bari di Salvini in cui al termine dell’evento è partita Ciao Ciao. «La nostra maledizione sta per abbattersi su di te, becero abusatore di hit», hanno scritto così La Rappresentante di Lista su Twitter. Immediata, sempre via social, è arrivata la replica del leader del Carroccio: «Cara Rappresentante, onestamente non ci ho fatto caso visto che ero in mezzo a tantissima bella gente. Sperando che la maledizione non abbia effetti, confesso (mea culpa) che la tua #ciaociao mi piace parecchio». Si tratta quindi di una canzone che si presta a più interpretazioni. Lo stesso duo artistico, nonostante non abbia apprezzato di essere stato ascoltato a un incontro della Lega, ha sottolineato come la loro sia una musica «queer pop», ovvero senza genere musicale, obliqua e che sfugge a etichette di ogni tipo.
Sofia Mattioli per “la Stampa” il 25 giugno 2022.
«Il potere del pop risiede nel giocare con più livelli di lettura. Anche se prendi solo il ritornello è una scelta». Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, sono dal 2011 menti e corpi de La Rappresentante di Lista. Nel Ciao ciao sanremese, certificato doppio Disco di Platino, il duo aveva condensato «la fine del mondo e crisi personali e sociali», uno spazio aperto per apocalissi tra messaggi ambientalisti e sarcastici addii su TikTok.
Ora, con il nuovo singolo Diva, il duo di base a Palermo indaga uno degli archetipi più abusati del cinema quello della diva, trasformandolo in un inno al self love. «Dobbiamo tornare a essere protagonisti, vivere con una fantasia che non c'è stata culturalmente insegnata».
Nell'ultima intervista il focus era vivere in una perenne distopia. Dario. «Abbiamo visto la fine distopica non solo a Sanremo ma nel resto del mondo. Nello stesso periodo in cui scrivevamo Ciao Ciao, a ottobre dell'anno scorso, avevamo già gettato le prime basi per Diva. Sono in fondo sorelle, anche se è difficile dire in cosa si somigliano. Forse l'attitudine ad affrontare temi complessi con un ritmo leggero, anche una melodia travolgente può portare quel magone allo stomaco».
Quali temi?
Veronica. «Diva parla di amor proprio, del rispetto verso di sé, avere un'autodeterminazione che ci aiuti a essere protagonisti e non schiavi di logiche altrui. Riuscire a portare questi temi in un vortice che è quasi una festa, è trovare nella musica non dico una soluzione ma una forza per cambiare le cose. Dentro c'è anche il tentativo di rivalutare tutto ciò che è direzione diversa rispetto a quella che ci farebbe vincere a ogni costo, il potere dell'errore. E' un brano sul liberarci da pressioni sociali e autoinflitte».
Quando parliamo di divismo e successo cosa lasciamo in ombra?
D:.«Abbiamo vissuto anche noi dopo il successo di Ciao Ciao l'opinione degli altri secondo cui quando arrivi al successo hai tutto. Lo stereotipo secondo cui arrivare a un successo personale ti conduca all'apice della vita è erroneo, può essere vacuo se non c'è una consapevolezza del percorso fatto».
Avete avvertito pressioni dopo Sanremo?
V: «Personalmente no, noi dimostriamo, scriviamo delle nostre fragilità, è come se fosse un antidoto. Ci siamo però interessati al fallimento, abbiamo letto Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano di Jude Ellison Sady Doyle e il messaggio è che c'è spesso un vero massacro mediatico contro personaggi dello spettacolo, ha una grande risonanza online e offline. E' lo specchio della scarsa empatia che si ha verso il dolore altrui».
Spesso raccontate l'arte di mobilitare le coscienze attraverso la creatività, l'«artivismo». A che punto siamo oggi?
D. «Ora il discorso politico è spostato su piazze virtuali: da un lato è un bene, dall'altro plasma in modo diverso gli incontri. Io sono in perenne ascolto. C'è bisogno di corpi collettivi. Soprattutto ora: a Palermo, la città che abbiamo eletto come casa, alle ultime elezioni ha vinto una parte a destra il cui operato non aveva giovato alla città. Per risposta tutta la schiera di artisti si era raccolta per superare insieme i limiti della politica, ora non so dove andremo. Spero che emergano presto movimenti che possano riprendere questa città, anche noi in passato abbiamo preso parte a politiche di riappropriazione di spazi e luoghi dell'arte».
E per quanto riguarda i diritti civili? Perché è importante la mobilitazione attiva questo mese al Pride?
D: «E' un momento incredibile di rivendicazione e di lotta, di libertà e rabbia condiviso non dalla comunità Lgbtq+. Il pride è riuscito negli anni a raccogliere e far confluire altre istanze importanti. Ha un grande potere ancora.. Se penso che, in campagna elettorale, ancora vengono ancora portati avanti attacchi alla community Lgbtq+ raccogliendo consensi quasi non ci credo. Al pari delle urla di giubilo quando è stato affossato il DDL Zan. C'è tanta tristezza nella classe politica».
A proposito di corpi che affollano le piazze, il corpo è stato da sempre al centro della vostra ricerca, ancor prima da attori che da musicisti
V: «Dobbiamo riprenderci il corpo, i corpi sono vittime, in crisi continua, sottoposti al canone della bellezza attraversa tantissime epoche, ce lo portiamo dietro dai primi dipinti. Anche al lavoro il corpo è massacrato, soprattutto se sei donna, senti che devi essere performante, colmare sempre di più il vuoto causato dalla disparità di genere. Ed è una logica tossica»
La risposta?
D: «Uscire fuori, trovare appigli in una comunità. Anche un concerto è una delle occasioni che abbiamo per respirare insieme, avere un unico corpo. Nell'allestimento pensando al tour abbiamo optato per specchi per fare il modo che niente accada sul palco senza il pubblico. Il resto é pura energia».
Laetitia Casta: «Io, Marianna un po’ selvaggia. Accorsi? Sposarmi non mi interessava». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022.
La modella e attrice francese: «Sono cresciuta in mezzo alla foresta, senza tv e amici. Già da piccola soffrivo il maschilismo. Non mi sento una parigina».
«Sì, ho baciato una donna quando ero molto giovane, ma era allenamento, come fare jogging, giusto per arrivare preparata al bacio con un ragazzo e fare bella figura». Laetitia Casta, 44 anni, supermodella e attrice, Marianne di Francia — allegoria della Repubblica impersonata prima di lei, tra le altre, da Brigitte Bardot — si stupisce dell’eco che hanno avuto quelle parole rilasciate in una recente intervista. «Tutti i bambini da piccoli esplorano la sessualità, giocano “al dottore” — spiega in un bar parigino, nel quartiere Alésia —. Non trovo che la mia vita sia così diversa da quella degli altri: vivo in quartiere abbastanza popolare e non mi sento una parigina».
Ma lei è la Marianne. Non le sembra di rinnegare questa investitura?
«Ho detto solo che non sono una parigina, anzi sono l’opposto. Loro si preparano per ore, ma stando attente che sembri casuale: sono artificiali. Io sono un essere animale, nata in Normandia, in un posto talmente sperduto che nessuno sa dove sia. Ci sono stata fino a 10 anni, poi la famiglia si è trasferita in periferia a Parigi, dove ho scoperto cosa era un cinema o un centro commerciale».
Non c’era mai stata?
«I primi film li ho visti quando sfilavo, nelle sale d’attesa degli aeroporti. Sono cresciuta in mezzo alla foresta, senza televisione e senza amici. I miei genitori lavoravano tutto il giorno, mio padre in una impresa edile, mamma in una conceria. Vivevo nella natura: conosco tutti i fiori e le piante».
La mancanza di soldi era fonte di preoccupazione?
«Eravamo sereni, abituati al necessario. Mio padre mi ha insegnato una massima che ho riscontrato da adulta: «Quando hai bisogno di aiuto, chiedi a chi ha poco, perché ha una empatia maggiore”».
Ha interrotto gli studi. La cultura è un complesso?
«Per un po’ lo è stato: per compensare ho letto più di tanti altri. Ora sono serena».
Quando ha scoperto di essere più bella delle altre?
«Mai. I miei genitori non mi hanno fatto complimenti. Con i miei figli faccio lo stesso, parlo delle loro reali qualità. Il mio mondo interiore è più interessante: quando mi hanno fatta sentire un oggetto del desiderio sono scappata».
Quando ad esempio?
«Da Victoria’s Secret. Avevo 19 anni, ma mi è bastato poco per capire che era tutto vacuo. Fui io a portare la fotografa Dominique Issermann, che realizzò con me, Gisele e altre top model scatti d’autore in bianco e nero. La nuova consapevolezza, nel caso di Victoria’s Secret, l’ho innescata io».
Leggenda che è stata scoperta in spiaggia a 14 anni?
«Stavo facendo un castello di sabbia con la mia sorellina, è passato un fotografo e mi ha chiesto dove erano i miei genitori, per portarmi a Parigi».
Solito copione: «Non se ne parla , devi studiare»?
«No, erano incuriositi dalla proposta. La prima campagna seria l’ho fatta con Ralph Lauren a New York, a 16 anni. Io e lui ci somigliamo: come me è cresciuto con poco».
Ha creato lui «la» Casta?
«Insieme a Herb Ritts: aveva le sue storie dentro la testa e io ne ero l’interprete».
Soggezione dell’obiettivo?
«Sono timida, ma davanti all’obiettivo mai. Il nudo è una cosa pulita. Basta pensare ai quadri più belli: L’origine du monde di Courbet ci mostra il potere femminile».
Lei è una femminista?
«Lo sono naturalmente. Da piccola soffrivo il maschilismo che si respirava in Corsica. Insistevo con papà perché mi portasse di notte a pescare: mi ritrovavo a dormire sugli scogli, ero fiera di me».
Ha sempre voluto dimostrare di avere carattere?
«Mio padre mi mandava a scuola con la febbre. Credo che tutto dipenda dalla mia forza, anche la bellezza: sono diventata famosa quando la perfezione era la Schiffer».
Ha detto: «La polemique italienne sui chili di troppo mi annoia».
«Un argomento da tabloid di serie B. Mi sono affermata nonostante i difetti. Anzi, grazie a loro».
Fa meditazione?
«No»
Pratica yoga?
«No, mi annoia molto».
Cosa le fa paura?
«Essere ingabbiata, costretta a fare o dire qualcosa»
Ha avuto quattro figli da tre compagni . Anche questa è libertà?
«Ho deciso di diventare madre a 23 anni. All’epoca non era di moda mostrare i pancioni, ma il lavoro non ne ha risentito».
Stefano Accorsi.
«Non ci siamo mai sposati, non ero interessata al matrimonio. Poi ho cambiato idea».
Per lei il tema della conciliazione non esiste?
«Vita pubblica e privata non si devono sovrapporre o ostacolare. La famiglia è come il circo: viaggia con me».
Oggi lei chi è?
«Un’attrice affascinata dai registi complessi, un po’ pazzi: i matti fanno uscire la luce, perché sono “rotti”. Vorrei lavorare con Nanni Moretti».
Proposte indecenti?
«Ogni donna ne riceve una: io ho detto no e non mi è accaduto nulla di male. Per rifiutare bisogna avere i valori, primo tra tutti il pudore. Se conosco una persona non voglio sapere subito tutto».
Ha avuto ciò che lei voleva?
«Ci difendiamo dalle molestie, ma sono più subdole le ambizioni: gli uomini sanno da piccoli che avranno il loro posto, ma non sono maturi. Noi dobbiamo andare a trovarlo e quando arriviamo siamo pronte».
In mezzo a tanta concretezza ha mai sognato?
«Ho lavorato troppo giovane e non sono cresciuta. Sogno di non crescere più».
Il medico di Lando Buzzanca: «Oggi è senza denti e pesa 50 kg. Io non riesco a mettermi in contatto con lui dall’aprile 2021». Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.
Fulvio Tomaselli spiega perché ha reso pubbliche le condizioni di Lando Buzzanca, ricoverato al Policlinico Gemelli: «Soffriva di afasia e per un attore non è il massimo. È come per un pianista perdere una mano»
«Oggi di Lando Buzzanca resta un 10% di quello che era. In tutti i sensi. Era alto 1 metro e 87 centimetri e pesava 83 chili. Fino al 2021 aveva un fisico perfetto, al di là della sua arguzia e della sua simpatia. Oggi è un uomo rattrappito, emaciato, senza denti e peserà sì e no 50 chili. Una sua gamba è quanto il mio braccio»: sono queste le parole che usa Fulvio Tomaselli per descrivere le condizioni di salute del suo assistito, oggi ricoverato al Policlinico Gemelli, dopo una caduta dalla sedia a rotelle nella Rsa (Residenza sanitaria assistenziale, ndr) in cui si trovava da un anno circa. «Quale sia non posso dirlo e comunque ha poca importanza. Le Rsa non sono luoghi di cura».
Perché abbia fatto quel lungo post sui social lo spiega direttamente Tomaselli: «Io non riesco a vedere Lando dal 21 aprile dello scorso anno. Ma lavorando da 50 anni nella sanità riesco ad avere notizie indirette sulle sue condizioni di salute . E quando mi hanno raccontato come è arrivato al Gemelli due settimane fa, non ci potevo credere. Ieri poi Francesca (Della Valle, la compagna, ndr) è riuscita a fargli visita e ne ho avuto conferma: sonnecchiava, ha mangiato a fatica, aveva piaghe da decubito e a lei ha bofonchiato: “Portami via”».
Ma cosa è accaduto il 21 aprile del 2021? « Lando, la notte dopo la somministrazione della seconda dose di vaccino anti Covid all’Auditorium, ha avuto un malore ed è caduto — ricorda Tomaselli —. È stato trovato la mattina seguente in terra dalla cameriera. Non voglio dire che la causa sia il vaccino, magari sarebbe caduto lo stesso. Ma dopo che venne chiamata l’ambulanza, Lando fu portato all’ospedale Santo Spirito di Roma. Io chiamai per mettermi a disposizione dal momento che conoscevo la sua storia clinica, ma da allora non ho più potuto mettermi in contatto con lui».
La conoscenza tra Buzzanca e Tomaselli risale a otto anni fa. «Era il 2014 quando mi cercò per risolvere dei problemi vascolari – spiega ancora il dottore -. Io sono un angiologo e lui voleva fare prevenzione, per questo aveva anche fatto logopedia. Lando soffriva di afasia, ovvero non riusciva a pronunciare le parole. E questo per un attore non è il massimo. È come per un pianista perdere una mano. Ma non ho mai visto in lui segni di demenza senile, come non ho mai visto nessun certificato medico che lo attesti. Tanto che nonostante i tentativi, Buzzanca non è stato interdetto dal giudice tutelare, ma ha un amministratore di sostegno. Che poi la legge che lo istituisce, la 6 del 2004, sia da abolire, anche per salvare Nando, è un altro discorso».
Clarida Salvatori per il “Corriere della Sera” il 25 novembre 2022.
«La tragica ombra di se stesso, rannicchiato in un letto, scheletrico, sfinito, drammaticamente lucido».
Quasi impossibile, ricordandolo nei suoi film o mentre calcava un palcoscenico, credere che queste parole siano riferite all'attore Lando Buzzanca, 87 anni. Eppure ne parla in questi termini il suo dottore Fulvio Tomaselli, in un post su Facebook: «Vorrei farvi vedere le immagini di Lando, ricoverato d'urgenza al Policlinico Gemelli dall'8 novembre. Non mi ferma la privacy, ma il rispetto per una icona italiana famosa nel mondo. Le "amorevoli cure" dichiarate nel ricovero in Rsa dal 27 dicembre hanno travolto un uomo che un anno fa camminava e parlava».
A sottolineare il tutto lo sfogo della sua compagna Francesca Della Valle: 36 anni più giovane di Buzzanca, al suo fianco da 6. «La Rsa in 11 mesi ha distrutto Lando. Ora è ricoverato al Gemelli, dove è curato per denutrizione e piaghe da decubito. Spero non sia troppo tardi! - scrive su Facebook -.
Chi ha "imprigionato" un uomo sano, forte e libero come lui è l'applicazione della legge 6/2004 (la norma che ha introdotto l'amministratore di sostegno, ndr ). Un amministratore in linea con i figli, con il beneplacito di un giudice tutelare, hanno fatto di tutto perché Lando non tornasse a casa. Questa è verità documentata. Il resto è vergogna».
Riferimento esplicito ai figli di Buzzanca che durante la pandemia si erano rivolti a un giudice tutelare perché assegnasse un amministratore di sostegno per il patrimonio al padre. «Ctu ed esami - aveva spiegato Massimiliano - hanno confermato problemi di capacità comprensiva e mnemonica». Le condizioni di Buzzanca oggi non sono gravi e non è in pericolo di vita. Ma a influire sulla sua salute sono l'età e il suo stato psico-fisico generale. Anche l'infezione che era stata riscontrata al suo ingresso in ospedale è in via di guarigione e le dimissioni sono previste a breve.
Il figlio di Lando Buzzanca: «Papà c’è ancora, ma la sua testa non c’è più. Pagherei perché mi riconoscesse». Storia di Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.
Dopo il post su Facebook del dottor Fulvio Tomaselli sulle condizioni di salute di Lando Buzzanca, da giorni ricoverato al Policlinico Gemelli dopo la caduta da una sedia a rotelle, parla Massimiliano, attore, 59 anni, figlio del grande interprete cinematografico e teatrale.
Ha avuto modo di vedere il post del dottor Tomaselli, il medico di suo padre? «Il post l’ho visto. Sul fatto che Tomaselli sia il medico di mio padre... Ho sempre accompagnato papà a tutte le visite, specie negli ultimi anni perché non volevo che guidasse. Tomaselli: mai visto né sentito. E in casa non ci sono sue ricette o sue fatture per le prestazioni sanitarie. Ho deciso di presentare una denuncia querela alla procura e all’Ordine dei medici perché esiste il diritto alla privacy per tutti e non è possibile che certa gente parli e sparli della salute di mio padre sui social».
Proviamo a riavvolgere il nastro, a tornare a un anno fa, e a capire come Lando Buzzanca finisce in una Rsa (Residenza sanitaria assistenziale)? «Finisce in una Rsa per decisione dell’amministratore di sostegno, dopo la caduta in casa, dopo le dimissioni prima dall’ospedale Santo Spirito, dove viene portato in ambulanza, e poi dal Santa Lucia, dove era stato trasferito per la riabilitazione. Quello stesso giorno purtroppo io ebbi un incidente stradale piuttosto grave, in cui riportai la frattura di otto costole e un pneumotorace. Quindi riuscii a rivederlo quando era già nella residenza».
Ha avuto sentore che suo padre stesse male nella Rsa? «No, anche perché ci venne consigliata dalla moglie di Carlo Delle Piane: lì era stato ricoverato anche lui. Però quando lo rividi effettivamente mi era apparso dimagrito e chiesi al personale della struttura, ma mi fu detto che era normale per un uomo della sua età e con le sue problematiche cardiache».
Quando ha cominciato a notare un peggioramento delle sue condizioni di salute? «Da anni non era più come prima. Quando nel 2016 aveva partecipato a Ballando con le Stelle, tanti colleghi mi avevano chiamato per chiedermi come stava perché lo vedevano “diverso”. E già da allora lui girava con un bigliettino nella tasca in cui era scritto il suo nome, il cognome, l’indirizzo di casa e il mio numero di cellulare. Ma, da grande attore quale era, riusciva sempre a dissimulare. Poi dopo la caduta del 2021 è peggiorato: ha perso lucidità, ha cominciato a non riconoscere più nessuno, a parlare per lallazioni, proprio come i bambini».
Il medico, e non solo lui, sostiene però che Lando Buzzanca sia ancora lucido. «A papà è stata diagnosticata una demenza senile grave, uno stato che è partito dall’afasia. Papà c’è ancora, ma la sua testa non c’è più. E per questo ho dei sensi di colpa fortissimi: continuo a chiedermi se non avessi potuto accorgermi prima di quello che gli stava accadendo, se non avessi potuto fare di più. E il solo pensiero di essere accusato di fargli del male mi fa una grande rabbia... Anche perché è una persona e una personalità talmente immensa che non si può pensare che dietro ci sia un complotto e che passi inosservato. Il personale dell’Rsa, i medici del Gemelli, se avessero avuto un solo dubbio su eventuali maltrattamenti, per altro ai danni di un personaggio pubblico, ci avrebbero già denunciato ai carabinieri e avremmo i fucili puntati contro».
Da quando è ricoverato al Gemelli ha avuto modo di vederlo? «L’ultima volta 24 ore fa. Quando è arrivato dormiva agitato e si lamentava. Aveva un ematoma sulla fronte. Ieri invece dormiva sereno».
Dopo il ricovero, cosa lo aspetta? «Credo un percorso in una struttura riabilitativa. Poi spero possa tornare a casa, dove ci siamo trasferiti per stare con lui e dove stavamo già preparando la sua stanza per accoglierlo come in una camera di ospedale, con monitor, ossigeno e infermieri ad assisterlo».
Ha avuto modo di capire cosa sia accaduto in Rsa? Come suo padre sia caduto? «Ho avuto modo di vedere come lavorano, quanto sono attenti e mi sono risposto che una distrazione può capitare a chiunque. Certo mi chiedo perché proprio a mio padre. Ma se io faccio causa alla struttura, rovino un lavoratore, perché verrà certamente licenziato, e io con i soldi che ottengo che me ne faccio? Una vacanza? Papà mi ha insegnato che chi lavora va sempre tutelato».
Se Lando potesse parlarle ancora una volta... «Pagherei perché mi riconoscesse e mi chiamasse ancora una volta Massimiliano. Lui non ha mai abbreviato il mio nome, mi ha sempre chiamato Massimiliano. Cosa mi direbbe? Professionalmente mi farebbe i complimenti per il mio percorso. Personalmente mi pregherebbe: “Se mi vedi senza dignità, lasciami andare”».
Lando Buzzanca ricoverato in ospedale. Il figlio: "Denuncerò il medico per violazione della privacy". Redazione Spettacoli su La Repubblica il 25 Novembre 2022.
Malato da tempo, l'attore ha perso trenta chili negli ultimi mesi. Dopo una caduta nella rsa dove era ricoverato si è sottoposto a tre tac
Lando Buzzanca è ricoverato dall'8 novembre al policlinico Gemelli di Roma. L'attore è stato trasportato d'urgenza nell'ospedale dopo essere caduto dalla carrozzina nella rsa dove era ricoverato. Lo ha raccontato il figlio Massimiliano aggiungendo che l’attore, 86 anni, ha battuto la fronte: "Per questo si sono rese necessarie tre tac, anche se non ci sono stati traumi", ha spiegato. Molto più preoccupante il quadro presentato da Fulvio Tomaselli, amico e medico dell'attore. Medico a cui potrebbe arrivare una denuncia proprio da parte del figlio che lo accusa "di aver violato la privacy della famiglia".
Il medico dell'attore: "È sfinito, scheletrico e rannicchiato in un letto"
"Buzzanca dopo le 'amorevoli cure' in una rsa, è sfinito. Un anno fa parlava e camminava, ora è scheletrico e rannicchiato in un letto", ha detto il dottor Tomaselli. "Vorrei farvi vedere le immagini di Lando Buzzanca, ricoverato d'urgenza al Policlinico Agostino Gemelli dall'8 novembre", ha aggiunto. L'attore avrebbe perso 30 chili negli ultimi mesi.
In merito alle dichiarazioni - "Lo hanno sequestrato per annientarlo" - rilasciate da Francesca La Vacca, compagna di Lando Buzzanca, Massimiliano ha invece fatto sapere: “C’è una sentenza in appello che dice che la signora La Vacca non ha diritti nei confronti del signor Buzzanca e che non è neanche da considerare una compagna. Rilasciare dichiarazioni del genere è un comportamento moralmente censurabile, indegno di un essere umano. Evidentemente il cognome ‘Buzzanca’ fa gola a tante persone. Sono una furia, ecco perché ho dato immediatamente mandato agli avvocati di agire, affinché tutta questa storia finisca. Se papà fosse stato lucido avrebbe reagito con violenza di fronte a queste meschinità, per lui la famiglia non si tocca. E se ci fosse vero affetto nei suoi confronti, come qualcuno dice, sarebbe stato protetto e non messo alla mercé di questi leoni da tastiera che si permettono di scrivere falsità sui social”.
La carriera di Lando Buzzanca
Grazie soprattutto ai film girati negli anni Settanta, Lando Buzzanca è stato a lungo visto attraverso lo stereotipo del maschio italiano, attore spesso impegnato nei ruoli del tipico siciliano, amante o marito geloso. Questo nonostante gli inizi promettessero una carriera di diverso spessore dopo che nel 1961 Pietro Germi lo chiamò prima per interpretare il personaggio di Rosario Mulè in Divorzio all’italiana e poi nel 1964 per quello di Antonio in Sedotta e abbandonata.
Nato nel 1935 a Palermo in una famiglia di attori (lo erano sia il padre che lo zio), Buzzanca si è trasferito a Roma quando aveva 17 anni. Nella capitale ha frequentato i corsi di recitazione all’Accademia Sharoff, di cui è poi divenuto presidente onorario, e ha cominciato con il teatro, prima di dedicarsi al cinema.
Proprio per quella caratterizzazione del tipico maschio siciliano, anche un po’ tonto, Buzzanca è stato relegato dalla critica cinematografica tra i caratteristi, anche se dopo l’inizio con Germi nel 1967 lo volle anche Alberto Lattuada per interpretare il suo film Don Giovanni in Sicilia.
Lando Buzzanca, dalla tv alla commedia sexy
Gli anni Settanta si aprono per Buzzanca con il successo in televisione del programma, in coppia con Delia Scala, Signore e signora in cui si ricorda la battuta “mi vien che ridere” che diventerà un tormentone. Poi ecco i film che consolideranno la sua immagine di maschio ruspante, alcuni caratterizzati da una vena comica che incontra il favore del grande pubblico: Homo eroticus di Marco Vicario, la commedia sexy Il merlo maschio (1971) e Quando le donne persero la coda (1972) entrambi per la regia di Pasquale Festa Campanile, e poi i film in cui tratteggia personaggi realmente esistenti come Il sindacalista di Luciano Salce (1972) e All’onorevole piacciono le donne, di Lucio Fulci (1972) e L’arbitro di Luigi Filippo D’Amico (1974).
E ancora, Jus primae noctis, ancora nel 1972 con Pasquale Festa Campanile, L’uccello migratore di Steno (1972), Io e lui di Luciano Salce (1973) e La schiava io ce l'ho e tu no di Giorgio Capitani (1973). In totale, nel decennio girerà 21 film molti al fianco delle attrici più desiderate e famose del momento, da Claudia Cardinale a Catherine Spaak, da Barbara Bouchet a Senta Berger e Joan Collins.
Le commedie sexy negli anni Ottanta divennero una moda, ma Buzzanca a un certo punto si rifiutò di continuare ad alimentare l’immagine del maschio italiano e in particolare siciliano, preferendo al cinema la radio in cui, per alcuni anni, fu conduttore di programmi di grande successo come Gran Varietà e Buzzanco, proiezione radiofonica del personaggio inventato per la tv a Signore e signora.
Buzzanca e il successo con le fiction
Dopo alcuni anni di attività in teatro, nel 2005 Buzzanca torna alla tv con la fiction Mio figlio, in cui interpreta il padre di un ragazzo omosessuale con enorme successo di pubblico. Nel 2007 lo vuole per I Viceré il regista Roberto Faenza, grazie al quale ha vinto il Globo d’oro come miglior attore. Della serie Mio figlio è stato realizzato il sequel Io e mio figlio – Nuove storie per il commissario Vivaldi, andato in onda nel 2010 stesso anno di Lo scandalo della Banca Romana e Capri 3.
Lando Buzzanca è stato sposato con Lucia Peralta per 57 anni. Dal loro matrimonio sono nati Massimiliano e Mario. Nel 2016 l’attore ha conosciuto la sua nuova compagna, Francesca Della Valle, di 35 anni più giovane.
Lando Buzzanca, il medico replica al figlio dell'attore: "Cerco solo di restituirgli la dignità". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 26 novembre 2022.
Con un lungo post su Facebook Fulvio Tomaselli racconta la sua versione dei fatti dopo le minacce di querela, da parte del familiare, per violazione della privacy
Una nuova puntata si aggiunge alla triste vicenda che da qualche giorno vede protagonista Lando Buzzanca. Fulvio Tomaselli, che si definisce medico di fiducia dell'attore, reagisce alle minacce di querela per violazione della privacy che gli ha mosso Massimiliano, il figlio dell'attore 87enne ricoverato dal 27 dicembre del 2021 in una Rsa romana e di recente al policlinico Gemelli di Roma a causa di una caduta, dopo le notizie pubblicate sulla sua salute. E, scrivendo un lungo post su Facebook racconta la sua versione dei fatti.
"Scusami Lando - scrive Tomaselli - se cerco di ridare dignità alla tua persona, se cerco da mesi di riportarti a casa tua per farti avere cure che non potevano esserti date, perché ricoverato in luogo non idoneo a questo. La tua famiglia dice che cerco pubblicità, forse la calunnia peggiore; e da che pulpito giunge la predica! Scusami - prosegue il medico - se non ci sono riuscito, permettendo un tuo deperimento fisico e del linguaggio terrificante, per averci provato da maggio 2022 la tua famiglia ha fatto di tutto per screditarmi, assistendo alla tua tragica caduta libera. Ho interpellato l'assessorato alla salute, che ha inviato medici Asl a vederti".
"Scusami se non ho avuto la forza di continuare a curarti da vicino, ma non mollerò, le responsabilità verranno a galla. Cercano di girare il tutto in gossip è senz'altro più appetitoso. Ora 'grazie' a una caduta dalla carrozzina sei in una struttura eccezionale che farà di tutto per ridarti parte di quello che hai perduto e ti dimetterà; e poi? Questa atroce domanda ci risuona nelle orecchie".
Lando Buzzanca compie 87 anni: dall’amore per Lucia e Francesca al mistero sulle sue condizioni di salute. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 24 Agosto 2022
E uno dei più grandi attori italiani viventi. Dopo la morte della moglie Lucia, al suo fianco per più di 50 anni, non aveva più la forza di vivere. Poi ha incontrato la sua attuale compagna
Situazione pericolosa
Nato in Sicilia nel 1935, Lando Buzzanca, tra i più grandi attori italiani viventi, compie 87 anni il 24 agosto. All’età di 17 anni un giovanissimo Lando parte per Roma, nella speranza di poter diventare un grande attore. Arrivato nella capitale, si iscrive alla famosa Accademia Sharoff dove studia a capofitto per farcela: a quei tempi per arrivare alla fine del mese Lando svolgeva tante attività, tra questi anche quello del gigolò. A raccontarlo è stato lo stesso Lando: un giorno, dopo essere finito in una situazione molto pericolosa, decise di mollare tutto e dedicarsi esclusivamente al mestiere di attore.
L’amore
Nel 1956 Lando si è sposato con Lucia, donna con cui è rimasto per 57 anni. Dopo la morte della moglie, avvenuta nel 2010, Lando aveva perso la forza e la voglia di vivere tanto che nel 2013 avrebbe provato anche a togliersi la vita, non riuscendoci. A salvarlo dal baratro è stato l’incontro con la sua attuale compagna, di 35 anni più giovane, Francesca Della Valle.
L’incidente
La compagna Francesca Della Valle ha reso pubblico un incidente avvenuto all’attore, ricoverato nell’aprile 2021 all'ospedale Santo Spirito di Roma. Stando al suo racconto, l'attore siciliano sarebbe rimasto vittima di un incidente domestico a causa del quale ha riportato un trauma cranico. "L'incidente domestico si è verificato il giorno dopo il vaccino, il 21 aprile - ha detto in un'intervista rilasciata a Fanpage - era contento di farlo, perché per lui era un grido di libertà. Lando, però, era debilitato ed è caduto, riportando un trauma cranico. Ci tengo a evidenziare che il malore è stato causato dal fatto che fosse debilitato da un punto di vista psicofisico, non dal vaccino".
Lo sfogo del figlio
Il 7 agosto è arrivato uno sfogo lungo e articolato quello che Massimiliano Buzzanca, figlio di Lando, celebre attore palermitano, ha affidato a Facebook per smentire le notizie che vogliono il padre ricoverato in una rsa, "detenuto, segregato, contro la sua volontà". Frasi pubblicate da Dagospia e riferite dalla fidanzata di Buzzanca. "L’unica cosa vera, di quell’articolo, è che Lando Buzzanca, mio padre, è ospite di una rsa, per una serie di complicazioni fisiche e mediche, intervenute successivamente al suo incidente dello scorso 21 aprile 2021”.
Comparsa in Ben Hur
La sua carriera iniziata negli anni ’50 come comparsa per un film importantissimo come Ben Hur. A Roma è riuscito a farsi strada iniziando con un grande maestro come Pietro Germi nel suo Divorzio all’Italiana, datato 1961.
Laura Chiatti, 40 anni: l’amicizia con Scamarcio, l’amore con Bocci e i due figli. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 15 Luglio 2022.
L’attrice venerdì 15 luglio compie 40 anni. Modella, doppiatrice, attrice di film famosi come «Ho voglia di te», «Io che amo solo te», «Romanzo di una strage». Sul suo profilo Instagram tante foto di famiglia
Mamma commessa, papà operaio
Laura Chiatti è nata a Castiglione del Lago, Perugia, il 15 luglio 1982. Venerdì 15 luglio compie dunque 40 anni, come si dice, l’età più bella per una donna. E di bellezza lei ne ha tanta. Nasce dunque in un paesino umbro, da mamma commessa in un negozio d’abbigliamento e papà operaio metalmeccanico. Laura ha studiato canto dall’età di 11 anni, ma era molto timida e faceva fatica ad esibirsi. L’obiettivo della macchina fotografica invece la attrae. Tanto che a 16 anni si è aggiudica il concorso Miss Teenager Europa. Da allora decolla la sua carriera di modella prima, e poi di attrice.
Il marito Marco Bocci
Marco Bocci e Laura Chiatti si sono dati il primo bacio il 6 dicembre 2013. Una data talmente importante che l’attrice ha deciso di farsela tatuare sul braccio destro. Nel 2014 hanno ufficializzato il loro fidanzamento e sono subito diventati una coppia molto glamour e paparazzata. I due si sono presto sposati: il 5 luglio del 2014, nella Basilica di San Pietro, a Perugia. L’attrice già attendeva il primo figlio, Enea, nato poi il 22 gennaio 2015. E già l’8 luglio 2016 è nato il secondo figlio, Pablo.
Gli ex fidanzati (il più famoso Francesco Arca)
Laura Chiatti, di una bellezza mozzafiato, ha avuto fidanzati noti e le sue relazioni hanno sempre tenuto banco sulle copertine dei giornali. Nel 2006 ha avuto una breve relazione con il regista e attore Silvio Muccino, prima di innamorarsi del modello e attore Francesco Arca, con cui è stata legata fino al 2009. Dal 2010 al 2013 ha avuto una storia con il cestista Davide Lamma e nel 2014 ha incontrato il suo futuro marito Marco Bocci. Tra lei e Arca è rimasto un ottimo rapporto, una profonda amicizia che ora coinvolge anche gli attuali partner, Marco Bocci e Irene Capuano. Tanto che la compagna dell’ex tronista, ha scritto su Instagram a proposito di Laura Chiatti: «Ci vogliamo davvero bene. I nostri bambini stanno crescendo insieme».
Il compagno di set, Riccardo Scamarcio
Laura Chiatti - Riccardo Scamarcio: due belli, due bravi attori, due amici. Hanno spesso recitato insieme. Tutto è cominciato con «Ho voglia di te» nel 2007, tratto dall’omonimo romanzo di Federico Moccia, e divenuto famoso per aver contribuito a lanciare la moda di agganciare i lucchetti a Ponte Milvio, a Roma, come gesto d’amore (vedi la foto qui sotto). Dopo quattro anni si sono ritrovati a girare insieme « Manuale D’Amore 3» nel 2011 di Giovanni Veronesi e poi nel 2015 « Io che amo solo te», tratto dall’omonimo romanzo di Luca Bianchini e nel 2016 «La Cena di Natale» «Ogni volta che mi propongono un film chiedo, “chi è la partner femminile? perché Laura Chiatti sarebbe perfetta” . Qualunque sia il film, perché Laura è versatile, bravissima nella commedia, non si lamenta mai e sul set ridiamo come matti», raccontava Scamarcio qualche tempo fa, svelando qualcosa del loro legame. Ed è stata proprio Laura nel luglio 2020 a parlare dell’imminente paternità di Scamarcio: «Sono sicura che impazzirà. Ci conosciamo da 20 anni, siamo come fratelli, ha un’anima profonda. Sono felice per lui, sarà un padre pazzesco».
Il profilo su Instagram seguitissimo
Laura Chiatti è su Instagram 4. Ha un profilo seguito da 1,1 milioni di persone. Sul suo profilo sono molti gli scatti e gli autoscatti che la ritraggono tra momenti lavorativi e di svago, ma sono molte anche quelle dedicate alla sua famiglia. Seguendola si può dunque rimanere aggiornati su tutte le sue attività dentro e fuori dal set.
Doppiatrice anche di Rapunzel
In pochi conoscono l’attività di doppiatrice di Laura Chiatti. Per la bellissima favola Disney, «Rapunzel», l’attrice umbra ha inciso la canzone più rappresentativa della colonna sonora in coppia con Max Giusti. E ha dato la voce anche per un altro celebre film animato, «Pets»,(ha dato la voce a Gidget, la cagnolina bianca innamorata del protagonista).
Gli esordi, «Compagni di scuola»
I primi passi nel mondo dello spettacolo, Laura Chiatti li ha mossi quando aveva soltanto 12 anni, nel 1994, partecipando al programma «Karaoke» condotto da Fiorello. Nel ‘98 Laura ha debuttato sul grande schermo entrando nel cast del film, diretto da Antonio Bonifacio, «Laura non c’è». Nel 1999 l’attrice umbra ha recitato in «Vacanze sulla neve» e «Pazzo d’amore». Il 2000 è stato l’anno della svolta per Laura, che si è confermata al cinema con «Via del Corso», e ha esordito in televisione entrando nel cast della soap di Rai3, «Un posto al sole». L’anno successivo ha lavorato su Rai2 in «Compagni di scuola», che vedeva tra i protagonisti anche Riccardo Scamarcio, Brando De Sica e Massimo Lopez. Nel 2002 Laura ha recitato in «Carabinieri», e nel 2004 entra nel cast della fiction di Rai1, Incantesimo 7
L’interpretazione della vedova Calabresi
Nel 2005 Laura Chiatti torna sul grande schermo recitando al fianco del ballerino Kledi in «Passo a due»; e in «Mai + come prima», di Giacomo Capriotti. L’anno dopo l’attrice lavora alle riprese di «L’amico di famiglia», sotto la guida del Premio Oscar Paolo Sorrentino, e alla pellicola diretta da Francesca Comencini, «A casa nostra» .Tra il 2007 e il 2012 colleziona una serie di partecipazioni tra i protagonisti dei film più celebrati di quel quinquennio. Da «Ho voglia di te», a «Il caso dell’infedele Klara» di Roberto Faenza, passando per «Baaria» di Giuseppe Tornatore . Senza dimenticare l’interpretazione offerta in «Romanzo di una strage», 2011, di Marco Tullio Giordana: Laura Chiatti ha dato il volto a Gemma Calabresi, la vedova del commissario assassinato interpretato da Valerio Mastandrea.
«Io Loro e Lara» di Verdone
Una divertentissima commedia, pluripremiata, di e con Carlo Verdone che interpreta un prete in crisi, padre Carlo. Nel cast grandi attori: Laura Chiatti, che dà il volto alla protagonista Lara che instaura un rapporto ambivalente con il protagonista don Carlo; e poi Anna Bonaiuto; Marco Giallini; Angela Finocchiaro
I 40 anni, i compleanni, quella bambina....
«Tra poco è il mio compleanno .... amo postare ogni anno una foto di quando ero piccola perchè di quella bambina ho conservato quasi tutto... tanti auguri a me, che se potessi tornare indietro sceglierei di ripercorrere ancora la stessa identica strada». Questa la frase insieme alla foto, postata nel 2021 da Laura Chiatti prima del suo compleanno. Chissà quest’anno....
L’amore più grande, la famiglia
Laura posta spesso foto della sua famiglia, accompagnate da grandi frasi d’impatto. Questa foto della famiglia il giorno di Natale, aveva un messaggio profondo: «La famiglia è lo specchio in cui Dio si guarda e vede i due miracoli più belli che ha fatto: donare la vita e donare l’amore ...». Un’altra foto che ritraeva la sua famiglia felice, sempre sul suo profilo Instagram, era accompagnata da questo testo: «Se vuoi cambiare il mondo, vai a casa e ama la tua famiglia» (Madre Teresa di Calcutta)
Rita Vecchio per leggo.it il 20 settembre 2022.
«Sempre grata a Non è la Rai, ma a volte anche basta (scherza, ndr). Cerco di non parlarne, ma è impossibile. Non è la Rai è incancellabile. Sognavo di fare l’interprete quando mi presentai al provino per potermi pagare gli studi. Andai con mia madre. Dietro la telecamera, Gianni Boncompagni e Irene Ghergo (ideatori del programma, ndr). Avevo 19 anni, il destino stava segnando la mia strada. Anche se, fin da piccola, stavo ore allo specchio a ballare e a registrare spot finti con il mangianastri». Sono passati trent’anni, Laura Freddi adesso ne ha 50. È una mamma felice, dopo alti e bassi. Ed è ospite fissa a “Oggi è un altro giorno” da Serena Bortone su Rai1.
Chi è Laura Freddi?
«Mi vuole male se inizia con questa domanda (ride, ndr). Non amo descrivermi, ma ci provo. Sono vera e leale. Un’ottimista, anche se Ginevra (quattro anni e mezzo, figlia avuta dal compagno Leonardo D’Amico, ndr) mi ha cambiata. Ho più paure».
E i difetti?
«Sono diplomatica. Anche se esserlo, nel mio mondo, non è poi tanto un difetto».
Il suo mondo è la tv. Lei inizia con un programma diventato cult.
«Facevo già tv. Mi ricordo con un ciuffo cotonato in testa. Era una trasmissione sportiva, registravamo di sera a Napoli. Io andavo ancora a scuola, e prendevo l'aereo all’alba per essere puntuale a lezione a Roma l’indomani».
Tra perbenismo e politically correct, cosa sarebbe oggi Non è la Rai?
«Già all’epoca eravamo l'immagine della Lolita. Eravamo criticate, eravamo considerate il male, il demonio, ci accusavano di andare in onda nude. In realtà non era così, non eravamo nemmeno truccate. Chi voleva vederci la malizia, la vedeva. Oggi non so se sarebbe peggio Non è la Rai o certi reality».
Però lei a un reality ha partecipato.
«L’ho dovuto fare per soldi. Non mi vergogno. Non lo avrei fatto e all'inizio non reggevo l'idea di stare chiusa. L’ho poi rivalutato, "Il Grande Fratello" (nel 2016 come concorrente, nel 2021 come opinionista, ndr) mi ha avvicinato a un pubblico più giovane. Ho passato momenti belli e brutti. Dopo Buona Domenica mi hanno messo nel dimenticatoio. Ma poi, sempre in calcio d’angolo, arrivava il ricordo di Non è la Rai, con cui sono rimasta nel cuore della gente. E devo dire, anche molto legata ad alcune ragazze, come Cristina Quaranta (tra le nuove concorrenti del GF Vip, ndr)».
Il momento più basso?
«Quello in cui ho perso tutto. Una causa di lavoro lunga 12 anni che si poteva evitare, se non fosse stato per l’avidità e la cattiveria delle persone. Ce l’ho fatta grazie a me, alla mia famiglia e alla devozione a Padre Pio».
Come Bruganelli. A proposito, il suo nome è ancora legato a quello di Paolo Bonolis.
«Nonostante siano passati anni. Sua moglie Sonia non vuole che la si identifichi come “la moglie di”. La capisco bene perché anche io sono ancora definita "la ex di”. Non sono mancate nemmeno lì le illazioni. Ma la gente è invidiosa. E noi siamo più abituati alle cattiverie».
Le diede dei consigli?
«In realtà non so chi fosse la primadonna tra me e lui a quei tempi. Iniziai a fare “Segnali di fumo” per Videomusic, con Caparezza che allora era Mikimix, girato in un garage a Milano. E Paolo non era tanto d’accordo. Agli inizi mi dicevano che non andavo bene, che non sapevo presentare. E io mi ripetevo che non ero una stupida e che dovevo farcela, che dovevo imparare».
C’è una donna dello spettacolo che guarda con ammirazione?
«Ci sono tante donne. Da Raffaella Carrà, di cui ricordo l’umiltà che solo i grandi hanno, a Heather Parisi, a Lorella Cuccarini, una terminator di energia, tra figli e lavoro».
Ma lei cosa sogna?
«Vorrei condurre (finalmente) un programma mio. E mi piacerebbe tornare in teatro».
Anna Maria Piacentini per “Libero quotidiano” il 22 giugno 2022.
Alla cerimonia dei Nastri d'Argento stravince Laura Morante a cui vengono assegnati due premi dal presidente Laura Delli Colli: il primo all'attrice, il secondo alla regista per aver girato due film di successo. Ora la chiamato la regina di cuori, perché il pubblico ama i film che interpreta e non manca mai di regalarle un applauso. E lei ringrazia con gentilezza ed eleganza, quasi sorpresa di tanto clamore. Insomma: benvenuti nel mondo di un'attrice di talento che non si è mai montata la testa.
E mentre il pubblico è sempre più affamato di storie con intrecci complessi e personaggi a tutto tondo, eccola ancora protagonista al cinema, a teatro e nelle grandi serie tv. E per chi avesse nostalgia di vedere grandi attori attrici e registi, ma anche "mostriciattole" di nuova generazione, tutte seni rifatti e facce gonfie pronte a scoppiare, la serata dei Nastri, andrà in onda questa sera su RaiMovie. Ma cominciamo dall'inizio.
Cosa preferisce: l'importanza di chiamarsi Laura o l'attrice nata sotto il segno del genio?
«Mi considero un'attrice felice del suo percorso. Non getto via nulla, ho sempre fatto ciò che amavo. Certo è capitato qualche ruolo che mi sembrava non mi appartenesse, ma ho messo la stessa passione che ho messo in tutti gli altri».
Quando ha cominciato?
«Ero una ragazzina, allora facevo la ballerina. Poi ho iniziato a lavorare nel cinema. Una volta i registi li chiamavano autori perché affrontavano il cinema in modo più appassionato. Non è stato facile, i registi mi odiavano, il mio aspetto non piaceva forse perché ero molto timida e non suscitavo entusiasmi. Poi si cresce e si impara ad avere coraggio».
Felice di quei film?
«Beh ogni tanto ho dovuto accettare ruoli meno centrali... non sono mai stata una star».
Questo lo dice lei! Certo che non solo è bravissima e ha talento è anche molto semplice in un mondo dove basta spogliarsi per credersi una star. Certe donne sono ridicole!
«Invece?».
Lei è l'opposto. I ruoli che spesso ha nei film sono sempre di grande impatto sul pubblico, ha lavorato con i più grandi attori e registi: da John Malkovich a Jean Louis Trintignant, dal regista Mario Monicelli a Nanni Moretti e Carlo Verdone, tanto per citarne alcuni. Ma se potesse interpretare il remake di un vecchio film che ruolo sceglierebbe?
«Un ruolo alla Betty Davis o alla Rossella O' Hara. Sa cosa rimpiango? Che non mi hanno mai affidato ruoli appassionanti. Forse lo ha fatto solo Michele Placido in Un viaggio chiamato amore».
Intanto vince anche a teatro: ripropone lo spettacolo Io Tosca, per la regia di Daniele Costantini. E sta girando con Gabriele Muccino, giusto?
«Sì, la seconda stagione di A casa tutti bene, sono contenta di essere ancora sul set con Muccino. Sono stata al festival di Cannes per il film Masquerade diretto da Nicolas Bedos dove ho un ruolo molto interessante. Anche questa storia diventerà una nuova serie televisiva».
Insomma, ora le donne si prendono sul serial. E a pensarci bene causa covid le serie tv sono molto più avanti del cinema per quanto riguarda la parità di genere. È d'accordo? (ride)
«Molte protagoniste femminili dominano in tv. E le assicuro che certe attrici sono davvero brave. Sì, le serie funzionano».
E un suo film nei panni della regista quando lo vediamo?
«Presto, sarà tratto da un episodio del mio libro Brividi immorali».
Insomma, un bel progetto in questi momenti dove la guerra impazza in Ucraina. Anzi, può darmi un suo parere su ciò che sta accadendo: armi sì o no?
«È terribile! Come si può parlare ancora di guerra ed essere contro l'invio di armi?».
Della sua vita privata non si parla mai. Confessi, è felice?
«Sono sposata da 20 anni con lo stesso uomo... credo proprio di sì».
Quando girò il suo primo film Ciliegine, ci raccontò che l'avevano aiutata a produrlo il suo ex marito, i suoi amici più cari e l'attuale marito Daniele Costantini. Che valore da all'amicizia e ai sentimenti?
«Un grande valore. Sono rimasta amica del mio ex marito, mantengo sempre i rapporti con tutti i miei amici e le amiche. Per loro ci sono sempre. Il rapporto è reciproco. Ma non sono una che si lega facilmente alle persone, sono una donna riservata. Però è bello poter contare su chi ti vuole bene e che ti stima. La vita vera è anche questo».
Laura Morante: «La Palma a Cannes? Nanni Moretti mi escluse. E da allora non siamo più amici». Valerio Cappelli, inviato a Cannes, su Il Corriere della Sera il 24 maggio 2022.
L’attrice torna a Cannes per «Masquerade» con Isabelle Adjani, ma non le manda a dire al regista romano: «Ci facciamo gli auguri di compleanno e poco altro».
Laura, ricorda la premiazione? Era il 2001, l’Italia non vinceva a Cannes da 23 anni. Laura Morante, la Signora del cinema italiano, era la protagonista di La stanza del figlio di Nanni Moretti. C’è tornata altre volte al Festival. Ma quella fu la volta della Palma d’oro.
Ricordi?
«Non posso averli perché non ero alla premiazione, unica del cast. Perché? Bisogna chiederlo a lui, Nanni. Suppongo che non voleva che ci fossi. Non abbiamo mai chiarito l’episodio. Ogni tanto ci sentiamo, ci facciamo gli auguri per il compleanno, ma non è che siamo amici, lo eravamo vent’anni fa».
Ma come ricorda quel film?
«Un lavoro infinito dove è successo di tutto, interrotto per lo sciopero delle maestranze e per una crisi creativa di Nanni durata due-tre settimane. Giravamo ad Ancona, passò talmente tanto tempo che iscrissi là mia figlia a scuola».
Ora a Cannes è in Masquerade, con Isabelle Adjani.
«Lei fa un’ex attrice che in Costa Azzurra mantiene un gigolò che era stato il mio amante con cui organizzo una truffa, assieme a Marine Vacht. Siamo tre, gli artefici della truffa per incastrare e spillare soldi a un ricco signore. Ci sono tanti colpi di scena. Mi è piaciuto molto lavorare con il regista Nicolas Bedos, è anche un attore formidabile che si sottrae al ricatto sullo spettatore».
Cioè?
«Per essere definito un buon film, devi andare nei sobborghi di una grande città, fare lunghi piani sequenza e usare pochi dialoghi. Ma Guerra e Pace è un capolavoro a prescindere dal luogo. In qualunque altra disciplina artistica sarebbe ridicolo: al cinema no. Ci sono tanti equivoci sull’importanza delle idee».
Si spieghi.
«Quando Dostoevskij scrisse L’idiota, c’erano già stati altri romanzi sullo stesso tema. L’idea è una piccola porzione. L’arte non si fa con le idee ma contro le idee. L’idea ce l’ha anche un imbecille, finisce sul commerciale, è tiranna. Alain Resnais fece un film su uno che non riesce a baciare sulla bocca, Pas sur la bouche. Lì non c’è l’idea, ma è un capolavoro».
Isabelle Adjani dice che Cannes è un’orgia di alto livello, nella scalinata rossa si sale verso il sacrificio o la consacrazione.
«Io sono stata anche madrina, c’è un’organizzazione ferrea, scrupolosa, precisa. C’è il mercato. Una bella bolgia. Ma tendo fin dagli inizi a non prendere il cinema troppo seriamente. Ho fatto questo mestiere obtorto collo. Tra un buon libro o un buon film, scelgo sempre un buon libro. Non ho mai avuto la percezione di Isabelle Adjani perché non sono mai stata una star come lei».
La storia dell’obtorto collo…
«Laura Betti mi prese sotto la sua ala protettrice. Io ero inesperta, ingenua, le suscitavo simpatia. Girava in Francia Rossini Rossini di Monicelli e mi venne a trovare, io per dieci anni, dal 1988 al ’98 ho vissuto a Parigi. La prima cosa che mi disse fu: ti fa sempre così schifo il cinema? L’ho preso sottogamba, anche stupidamente. E’ il mestiere che mi ha permesso di vivere».
Questo prescinde dalla sua ansia leggendaria?
«L’ansia viene dalla timidezza che ora ho superato, dal bisogno di sentirmi protetta, e mi dà stress la mondanità. Ricordo il viaggio in treno per Cannes, ero ragazza, per La tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci. Sul set mi diceva: ti rendi conto la cosa importante che stai facendo? Volevo scendere a ogni fermata. Mi consolava Lina Taviani, la costumista moglie di Paolo (per me sono sono stati una famiglia). Un’altra volta il mio ex marito non mi volle accompagnare, andai da sola ed ebbi un attacco d’ansia terribile. Non riuscii a trovare un volo di ritorno, non dormii tutta la notte. La mattina presi un sonnifero e non mi svegliai in tempo per la serata. Corsi trafelata verso il palazzo, mettendomi un abito qualunque. Le porte erano chiuse. Però mi unii alla cena dopo la proiezione, c’era Jim Jarmusch, scoppiò una rissa con Johnny Depp. Io dissi: ma chi è Johnny Depp? Karl Baumgartner, il produttore di Kusturica che era mio amico mi disse: cambia mestiere. Però era anche bello andare a quelle feste».
E il tappeto rosso?
«Ecco, lì ho una idiosincrasia. Sono finita su Blob per come ci correvo, era una cosa un po’ ridicola, gli attori si fermano per farsi le foto. Ma Cannes è una specie di famiglia, ci sono stata tante volte, la prima avevo 24 anni».
Ora che abito indosserà?
«È sempre un problema, passata una certa età hai sempre meno voglia di vestirti in un certo modo. Però grandi stilisti mi hanno sempre aiutata».
Rimpianti cinematografici?
«Non per un film non fatto, ma per non avere osato, per essermi tirata indietro per paura. Per non aver sostenuto l’esame di latino pregiudicandomi il liceo classico, per non essermi presentata al provino di danza (le mie origini) necessario ad entrare nella compagnia italiana di Carolyn Carson. Io ero la dimostratrice, c’era una principiante: lei si presentò, io me ne andai pensando di non essere all’altezza. Ai miei figli dico, non abbiate paura di fallire».
Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 18 marzo 2022.
A sentir lei, la sua è una vita punteggiata di fallimenti, però divertenti, e anche di qualche rimpianto. Eppure, Laura Morante ha all'attivo un centinaio di film da attrice, un David di Donatello per La Stanza del figlio di Nanni Moretti, due film da regista, un libro di racconti scritto tardivamente dopo i 60 per pudore, avendo lei il cognome della zia Elsa. E ha due ex mariti, più uno in carica e da ognuno un figlio (le due femmine, Eugenia Costantini e Agnese Claisse, sono anche loro attrici).
Al momento, è una matriarca nella serie di Gabriele Muccino A casa tutti bene su Sky ed è reduce dalla tournée di Io Sarah, io Tosca , uno spettacolo fortemente voluto, scritto da lei stessa per poter girovagare in pandemia con un cast snello e per l'ossessione che l'era venuta in lockdown di capire chi fosse davvero Sarah Bernhardt, la prima diva, la più eccentrica, la persona più lontana da lei che si possa immaginare: «Era dispotica, caustica, assetata di celebrità. Leggevo le sue biografie e pensavo: la detesto».
E dunque cos' ha spinto un'antidiva come lei a voler raccontare la più esibizionista delle dive?
«La sua autobiografia è così piena di lacune e bugie clamorose che mi chiedevo: perché mente? Perché occulta? Ho letto tanto, incrociato dati e ho creduto di aver trovato filo di Arianna per capire chi era. Mi ci sono affezionata andando alla ricerca delle sue ferite e insicurezze. Non ha mai conosciuto il padre, era figlia di una cortigiana, aveva due sorelle morte giovani. Il suo motto era quand même , "nonostante tutto", come a dire "in ogni caso, combatto"».
E lei ha avuto il suo «nonostante tutto»?
«Ognuno lo ha, ma il tema a è far tesoro dei fallimenti. Una cosa che dico sempre ai figli è: nessun fallimento, negli anni, è un fatto tragico, invece, le cose che non avete osato fare vi perseguiteranno per sempre. Le sconfitte sono anche divertenti, una vita senza sconfitte è una vita senza interesse».
Mi dica un fallimento divertente e un rimpianto.
«Finite le medie, sognavo il Liceo Classico, ma non osai affrontare l'esame di ammissione di latino. Quella mattina, mia madre mi chiede "dove vai?". Eravamo tanti figli, otto, non è che i genitori seguissero tutto. Lei, mezz' addormentata, mi fa: declinami rosa rosae . Sbagliai e non ebbi il coraggio di dare l'esame. Invece, da ragazza, volevo fare la ballerina classica, partii per Roma e fui respinta all'accademia. Fu un dolore, ma ormai ero lì, ripiegai sulla danza contemporanea ed entrai nella compagnia dei Danzatori scalzi di Patrizia Cerroni: diventai professionista, mentre con l'accademia sarei diventata al massimo insegnante».
E grazie a Cerroni incontrò Carmelo Bene.
«Erano amici, lui mi chiese in prestito per uno spettacolo, ma quando Patrizia mi reclamò, Carmelo si rifiutò di lasciarmi andare, addirittura, mi chiuse in teatro. I bracci di ferro lo divertivano. Apposta non ci pagava. Diceva che già lavorare con lui era un onore. Io bussavo al suo camerino, sventolavo il libretto dei lavoratori e cantavo "el pueblo unido jamás será vencido". Gli feci anche una vertenza sindacale, la vinsi e lui mi riprese l'anno dopo».
Il carattere indomito ce l'ha perché con sette fratelli o si soccombe o ci s' impone?
«Non solo era una famiglia con tanti figli, ma non abbiamo mai concluso un pranzo senza che arrivassero tre o quattro persone: in questa confusione, per avere attenzione, bisognava sgomitare e io ero patologicamente timida. Per entrare in un negozio, mi veniva il batticuore. Lasciare casa e Grosseto, da sola, a 17 anni fu una cosa gigantesca, ero chiusa, non avevo amici, forse, me ne sono andata perché sapevo che, se non l'avessi fatto presto, non l'avrei fatto più. Il primo anno fu di solitudine disperata, però, ho resistito nonostante tutto».
Che educazione aveva avuto?
«Papà e mamma erano l'opposto uno dell'altro: lui aveva senso del dovere, appassionato del lavoro di scrittore e giornalista, amante dei libri; lei aveva una scala di valori rovesciata, la lotta per la vita non la interessava, disprezzava la scuola in modo assoluto. Se si accorgeva che non ci eri andata diceva: hai fatto bene».
Come arrivarono il cinema, il debutto con Giuseppe Bertolucci in «Oggetti smarriti» e subito dopo, «La tragedia di un uomo ridicolo» del fratello Bernardo?
«Nelle pause da ballerina, facevo comparsate nei teatrini off per guadagnare. Giuseppe mi vide e volle farmi un provino. Per anni mi considerai una ballerina mezza fallita prestata al cinema. A casa nostra, poi, i personaggi mitici erano scrittori, intellettuali, non gli attori».
Da bambina, disse no al «Decameron» di Pier Paolo Pasolini, come andò?
«Avevo otto o nove anni, avevo conosciuto Pasolini con zia Elsa. Mi telefonò per chiedermi se volevo fare quel film. Risposi: devo chiedere ai miei genitori. E lui: lo sto chiedendo a te. Questa cosa non mi piacque. Decise Elsa. Diceva: è una bambina, si rovinerà».
Che rapporto ha avuto con sua zia?
«Sono stata la sua prediletta. Quando avevo undici o dodici anni mi volle a Roma con lei, poi mi rimandò indietro, perché come molti ragazzini ero sonnambula e la notte camminavo e parlavo per casa. Tempo dopo, decise di chiudere con la mia famiglia. Litigava sempre con papà, avevano discussioni di ore su cose ideologiche, gusti letterari. Tipo, a un certo punto, a lei non piaceva Kafka di cui papà era grande ammiratore. Insomma, piano piano, lei escluse quasi tutti i membri della famiglia, tranne mio fratello Daniele».
Lo zio Alberto Moravia invece?
«Da bambina, lo ricordo poco. Ci siamo ritrovati quando era critico cinematografico e io cominciavo a recitare. Gli piaceva parlare coi giovani, era curioso e di accesso più facile rispetto a Elsa. Ci siamo frequentati finché non è morto».
Nel 2018, lei ha pubblicato «Brividi immorali». Perché un libro così tardi?
«Scrivere è una cosa che non ho osato fare per molto tempo. A casa, quasi tutti hanno scritto o pubblicato e il confronto era difficile. Rimandavo, rimandavo. Poi, l'editrice Elisabetta Sgarbi ha insistito per anni. Mi sono sottratta, ma tornava sempre alla carica».
La svolta al cinema qual è stata?
«Essere entrata dall'ingresso principale mi ha evitato la gavetta lunga, ma sono rimasta povera per molto tempo Facevo uno o due film all'anno, era nata la prima figlia. Quando già avevo fatto Bianca con Nanni Moretti, venne una giornalista a casa. L'appartamento era molto modesto, con una libreria scassata, un divano sbilenco. Mi chiese: scusi, vive così per motivi politici?».
Una volta, ha detto che due terzi dei film li ha fatti per soldi. Esagerava?
«Non molto. Quando lo dissi a John Malkovich, mi rispose: io ne salverò due o tre».
Malkovich è stato uno dei tanti stranieri che l'hanno diretta.
«Avrò girato un centinaio di film, molti mai usciti in Italia. Quello era bellissimo, Dancer Upstairs . Il produttore spagnolo non mi voleva. Malkovich lottò e lottò, poi mi scrisse una lettera: mi spiace, ma non riuscirò ad averti. Un anno dopo, mi chiama e dice: vieni subito a Madrid per un provino, forse convinciamo il produttore. La spuntò, ma fece scrivere nel suo contratto che i tre protagonisti saremmo stati io, Javier Bardem e Juan Diego Botto».
Capitano spesso opposizioni così feroci?
«Ho cominciato col cinema d'autore, chi era attento al botteghino mi detestava. Per Bianca, non ero considerata abbastanza commerciale dal produttore che disse a Nanni: prendi chiunque, ma non lei. Dico sempre alle mie figlie che questo mestiere va fatto seriamente, ma non va preso sul serio, se no, è la rovina».
Fra i tanti registi che l'hanno diretta, inclusi Monicelli, Salvatores, Placido, Avati, Virzì, Luchetti, chi le ha insegnato di più?
«Insegnano di più i cattivi film: recitare bene in un buon film è relativamente facile, viceversa è difficilissimo. Il film con l'atmosfera a me più congeniale è Cuori di Alain Resnais, era come un mondo parallelo da cui non volevo uscire».
Ha fatto tanti film comici, «Ferie d'agosto», «Turné», «L'amore è eterno finché dura», «Bob & Marys»... Ma si pensa sempre a lei come attrice drammatica, perché?
«Non lo so, forse per l'aspetto. Tanti anni fa, Monicelli mi disse: smettila di fare ruoli drammatici, tu sei attrice comica, te lo dico che io che ho scoperto Monica Vitti. Ma non ci ha creduto nessuno. Quando ho scritto ruoli io, li ho scritti umoristici, ma quando altri mi chiamano, devo fare quello che chiedono loro».
Alla protagonista del suo «Ciliegine» attribuì «l'androfobia». La paura di essere delusa dal maschio lei l'ha avuta?
«Non credo. Mi sono sposata due volte, ho un compagno da tanto tempo».
Ha tre figli, l'ultimo adottato, quanto è mamma Laura Morante?
«Parecchio. Avrei anzi voluto avere più figli. Nel primo tema alle elementari scrissi: da grande, voglio fare la ballerina e avere tanti figlioli».
Le figlie avevano remore a intraprendere la sua stessa carriera?
«Eugenia, la più grande, l'ho dovuta spingere. Temevo che lo desiderasse e non osasse, lei negava, ci ho messo anni a farglielo confessare».
Da che cosa intuiva la vocazione?
«A differenza mia, è una vera cinefila, guarda migliaia di film. Sarebbe anche un'ottima regista, ha scritto un corto splendido. Agnese è anche musicista e sono felice che entrambe abbiano più frecce nell'arco: dover essere scelti è gratificante ma può essere vagamente umiliante».
Ferzan Ozpetek inserì fra le bellezze italiane «i colori di Laura Morante». Lei che rapporto ha col tempo che passa?
«Se ogni tanto potessi fermarlo, mi farebbe anche piacere, ma non si può. Allora, penso che un tot di rughe non mi proibiscono di godermi una matriciana né una giornata di sole
Laura Pausini non canta “Bella ciao” in tv: travolta dagli insulti della sinistra. Il Tempo il 13 settembre 2022
Laura Pausini, ospite nel programma tv spagnolo El Hormiguero, ha scatenato una polemica, soprattutto sui social, per aver rifiutato di intonare “Bella ciao”, molto nota in Spagna anche per la serie tv La Casa di Carta, spiegando di non voler cantare «canzoni politiche». Nel video si vede Laura Pausini con gli altri protagonisti dello show mentre prova a cantare con loro “Cuore matto”. Quando i suoi colleghi spagnoli iniziano a intonare “Bella ciao”, lei li blocca immediatamente spiegando di non voler cantare canzoni politiche, «e questa è una canzone molto politica». Centinaia i commenti sulla pagina Facebook dell’artista, la maggioranza di critica per il rifiuto.
«Bella ciao è un inno contro le tirannie, quale politica?», scrive un utente. Un altro rincara: «Bella ciao non è un canto politico! È un canto di libertà, o dovresti tornare alle elementari oppure sei anche tu dalla parte dei fascistelli. È un canto di liberazione dalla guerra e dai nazifascisti, non capisco perché non si debba esser d’accordo con i contenuti di questo canto». Oltre alle accuse di essere fascista ci sono anche commenti di sostegno alla cantante: «Ammiro la sua scelta di non fare politica come fanno tanti suoi colleghi, ma di rimanere fedele al suo ruolo di artista pura», scrive una fan. «Da oggi l’ammiro come non ho mai fatto prima... ha scelto di essere libera di scegliere», commenta un altro.
Pausini è stata costretta a replicare pubblicamente: «Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra. Canto quello che penso della vita da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta mi sembra ovvio per. Non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica. Non si inventino ciò che non sono».
Elisabetta Murina per fanpage.it il 13 settembre 2022.
Ospite della tv spagnola, Laura Pausini fa scoppiare la polemica. La cantante si è rifiutata di cantare Bella Ciao, simbolo della Resistenza Partigiana, durante un popolare quiz show. "E’ una canzone molto politica e io non voglio cantare canzoni politiche", ha replicato quando le è stato chiesto di intonare il ritornello. Immediati i commenti e le critiche sui social dopo la sua decisione.
Laura Pausini si rifiuta di cantare "Bella Ciao"
Laura Pausini è stata ospite del popolare programma spagnolo El Hormiguero e, durante la puntata, ha preso parte a un gioco in cui i concorrenti dovevano intonare un brano che contenesse la parola Corazon, il cui significato è Cuore. Dopo aver scelto alcune canzoni in spagnolo, lingua che conosce molto bene, l'artista è passata all'italiano cantando il ritornello di Cuore Matto di Little Tony.
Nessuno dei presenti però sembrava riconoscerlo, così il conduttore Pablo Motos ha intonato Bella Ciao, coinvolgendo il pubblico e quasi aspettandosi che la sua ospite facesse altrettanto.
Ma cos' non è stato: "E’ una canzone molto politica e io non voglio cantare canzoni politiche", ha detto la Pausini rifiutandosi di canticchiare il brano, simbolo della Resistenza Partigiana, inno della lotta al fascismo e di recente associato alla popolare serie spagnola La Casa di Carta. Il padrone di casa non ha insistito e il gioco è poi andato avanti. Il momento però non è di certo passato inosservato sui social.
La polemica immediata sui social
Sui social è scoppiata subito la polemica e sono diversi coloro che si sono schierati duramente nei confronti di Laura Pausini. Adriana Lastra, deputata socialista, ha scritto via Twitter: “Rifiutarsi di cantare una canzone antifascista dice molto della Signora Pausini e niente di positivo”. Anche il deputato socialista del Parlamento Europeo, Ibán García, non ha risparmiato critiche: “Nè con i democratici, nè con i nazisti. Uguale”.
Non canta "Bella ciao": Laura fascista. C'è da scommetterci che avrebbe risposto uguale anche se le avessero chiesto di cantare Faccetta nera oppure El Pueblo Unido Jamas Sera Vencido. Paolo Giordano il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.
C'è da scommetterci che avrebbe risposto uguale anche se le avessero chiesto di cantare Faccetta nera oppure El Pueblo Unido Jamas Sera Vencido oppure qualsiasi altro brano dal forte connotato politico. Invece ha scelto di non cantare Bella ciao ed è finita nel tritacarne dei social. Riassunto. L'altro giorno Laura Pausini ha partecipato al programma tv spagnolo El Hormiguero, nel quale si è ritrovata a dover cantare un brano con la parola «corazon». Lei ha intonato Cuore matto di Little Tony ma nessuno sembrava riconoscerla e allora il conduttore ha intonato Bella ciao, famosa in Spagna anche perché compresa nella serie Netflix La casa di carta. Laura Pausini ha risposto come avrebbe risposto per qualsiasi altra canzone a chiaro contenuto politico: «Troppo politica, non mi piace cantare canzoni troppo politiche». Apriti cielo. Il conduttore è andato avanti come se niente fosse. Ma i social, si sa, non perdonano. E hanno iniziato a mitragliare accuse totalmente campate per aria fino alla classica «sei una fascista». Su Facebook un fan ha scritto: «Mi ha fatto vergognare, con il suo rifiuto a cantare Bella Ciao. Vuol dire non conoscere le radici della sua terra. La canzone ha una storia e una prima versione che era il canto delle mondine, sfruttate e maltrattate. Bella Ciao è il canto che da la voce agli oppressi. Ha perso una buona occasione peccato». Tanto rumore per nulla. Dopo poco Laura Pausini ha scritto sui suoi social ciò che era già ovvio a chiunque la conosca, ossia che «non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra. Canto quello che penso della vita da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta sembra ovvio a tutti. Non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica. Non inventate ciò che non sono». Il caso è chiuso, ma rimane aperto quello legato ai pregiudizi, ai riflessi condizionati di chi valuta tutto con un unico metro, quello della propria appartenenza politica. Come già accadeva negli anni Settanta, chi non si schiera è automaticamente un «nemico». Non importa che un artista popolare scelga di non avere riflessi politici in pubblico, la sua neutralità equivale a una dichiarazione, a una scelta di campo. È uno dei controsensi del Novecento che ancora non si sono appianati nonostante generazioni di artisti li abbiano denunciati. E, nonostante la vorace tendenza a guardare il futuro, sembra che su questo i social restino implacabilmente legati al passato. Dopotutto, le piaghe ideologiche sono le più difficili da rimarginare.
Da il Messaggero il 14 settembre 2022.
«Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra». Stop. Così Laura Pausini spiega il suo no a chi, durante un programma sulla tv spagnola (El Hormiguero, il formicaio), le chiede di interpretare Bella ciao. «Niente politica» risponde l'artista romagnola, che sceglie invece di intonare Cuore matto (il gioco consisteva nel cantare un testo che contenesse la parola corazòn, cuore appunto).
Un rifiuto che ha scatenato polemiche sui social, con alcuni utenti che hanno dato alla cantante della «fascista». «Canto quello che penso della vita da 30 anni replica lei Che il fascismo sia una vergogna assoluta mi sembra ovvio». Ma, precisa, «non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica. Non si inventino ciò che non sono».
Ivan Rota per Dagospia il 14 settembre 2022.
“Ciao Pausini, la tazza della Pausini, ma infilatela nel culo la tazza. Ah bella ti sei messa a vendere le tazze anche quando fai i concerti, ma non ne hai abbastanza dei miliardi Ma v*** va” . Non solo le polemiche per il rifiuto di cantare “Bella Ciao”, la cantante deve fare i conti con l’invettiva di Maurizia Paradiso che in un video lancia e spacca la tazza con l’effigie della cantante. Ma sarà vero che la Pausini vende tazze durante i suoi concerti? La Paradiso ne è convinta e le sue espressioni sono molto colorite. Un’altra domanda? Ma la Pausini ha fatto qualcosa alla ex diva di programmi e film hard? Pare che a un concerto non l’abbia salutata
Riccardo Canaletti per mowmag.com il 14 settembre 2022.
Laura Pausini è in Spagna, a El Horminguero, un quiz show televisivo spagnolo. Forse esaltati dalla fama del tributo a Bella Ciao nella serie TV targata Netflix La Casa di Carta, le chiedono di cantare la canzone simbolo della Resistenza, almeno nell’immaginario comune. Ma lei preferisce evitare, “è una canzone molto politica e non voglio cantare canzoni politiche”.
Pioggia di critiche e polemiche nei social, tra le tante: “"Se considera Bella Ciao come una canzone politica, intesa come di parte, essendo esclusivamente antifascista e antinazista ma di tutte le parti politiche che presero parte alla Resistenza dai comunisti ai cattolici ai liberali, le consiglio un ripasso delle basi della Costituzione italiana", anche se non abbiamo individuato il collegamento tra il rifiuto della cantante e l’ignoranza della Costituzione italiana (anzi, semmai è il contrario).
In seguito alla bufera precisa: “Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra. Non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica”. Saverio Tommasi, su «Fanpage», prova a rimproverarla: “Laura Pausini, ti spiego perché di Bella Ciao non hai capito niente”. Tra i tanti motivi (“Bella Ciao è una canzone d’amore”, “Bella Ciao è la canzone su cui si fonda la nostra Costituzione”, cose così), anche bambini lanciati in aria dai nazisti per evitare che sparandogli il proiettile, trapassando la carne, rimbalzasse contro il soldato. Bella Ciao simboleggia la resistenza contro tutto questo, secondo Tommasi.
Noi abbiamo pensato di chiedere un parere a uno storico di professione, così da evitare articoli lanciati per la tangente, pieni di informazioni sensazionalistiche e colorate sulla guerra, a cui poi aggiungere un po’ di sentimentalismo, q.b., per criticare chiunque non voglia cantare una canzone. Cosa si sta provando a dire, che chi non canta Bella Ciao non condanna i crimini nazifascisti?
Magari che è fascista a sua volta, perché Bella Ciao non è di parte? Non la pensa così Giordano Bruno Guerri, storico esperto del periodo fascista, a cui ha dedicato svariati libri. “Io trovo che ognuno fa secondo il proprio criterio liberamente. La Pausini la ritiene un segno politico, e in parte lo è. Quindi non mi sentirei di accusare nessuno per non averla cantata.”
Allora chiediamo della presunta neutralità di Bella Ciao. Non è solo una canzone antifascista? “Direi proprio di no. Bella Ciao è sempre stata un simbolo di sinistra. È stata prima una canzone della Resistenza, ma ora è una canzone di sinistra. Se la signora non si sente di sinistra ha tutto il diritto di non cantarla, come avrebbe il diritto di non cantare l’inno nazionale se non si sentisse italiana”.
Con buona pace per i piagnistei di molti, sembra che anche stavolta non si possa dare a qualcuno del fascista solo per aver rifiutato di cantare un canto popolare fortemente ideologizzato. Senza contare, poi, che la richiesta è arrivata nel contesto di uno show televisivo, dove Bella Ciao non è molto differente da Azzurro o Che sarà. Forse gli apologhi del canto partigiano dovrebbero imparare a scegliere meglio le loro battaglie, anche perché non dovrebbe sembrar loro di buon gusto vedere che la canzone simbolo dell’antifascismo viene usata come motivetto italico per far cantare in coro i cugini iberici, senza pensare al significato.
DAGOSELEZIONE il 14 settembre 2022. TWEET SULLA PAUSINI CHE RIFIUTA DI CANTARE BELLA CIAO
O'Cardinal@OCardinal17
Senza la Resistenza e lo spirito di canzoni come #BellaCiao la signora #LauraPausini cantava co cazz
LauraV.@Vatuttobene_
Vabbè, l'importante è che si rifiuti di cantare. #LauraPausini
ApocaFede@DrApocalypse
Come volevasi dimostrare, #Salvini ha applaudito #LauraPausini per essersi rifiutata di cantare #BellaCiao. “Stima”, ha scritto. Non voleva “essere strumentalizzata” e ha chiaramente finito per servirsi su un piatto d’argento. D’altronde Bella Ciao NON è mai divisiva, a meno che.
dott. Meco & mr. Joni@mr_meco
Nel frattempo il neurone nel cervello di Laura Pausini canta “La solitudine” #LauraPausini #BellaCiao
tiù@CatiaMamone
#laurapausini non legge la Costituzione perché è troppo antifascista.
BufalaNews@Labbufala
Vediamo il lato positivo del fattaccio, almeno non ha stonato anche con Bella Ciao. #LauraPausini
Il Grande Flagello@grande_flagello
Basta accanirsi su #LauraPausini. Ricevere la sima di Salvini è una punizione più che sufficiente #BellaCiao
Frances C. @Frances51070652
La cosa divertente è che ha ottenuto esattamente l'effetto contrario. Genio!!! #LauraPausini
Giuseppe Candela@GiusCandela
Jovanotti, Incontrada e Pausini hanno lo stesso ufficio stampa. Tre su tre. Ora potrebbero unire tutto: mettere un Fratino che canta Bella Ciao su Vanity.
Davide Maggio@davidemaggio
Ehi, sono preoccupato per quei colleghi che se #BellaCiao non l’avesse cantata qualcun altro al posto della Pausini avrebbero sprecato fiumi di inchiostro. Invece adesso cos’è?! Hanno paura di essere rimproverati?! Di perdere l’invito al prossimo evento? Sul prossimo volo?!
Madame A. @MadameA02
"Bella Ciao" non è una canzone politica ma è una canzone Antifascista. Le basi! #laurapausini
Pietro Raffa@pietroraffa
"Bella ciao" è un pezzo della Resistenza.
Un brano che dovrebbe appartenere a tutti gli italiani. I
l fatto che per una star internazionale come #LauraPausini sia considerato di parte lascia molta amarezza.
p.s. E comunque Marco era palesemente antifascista
giuly_viola84@Giuly_Viola84
#LauraPausini si è rifiutata di cantare #BellaCiao perché è una canzone politica.
Vorrei dire alla Pausini che Bella Ciao è una canzone antifascista e per noi italiani dovrebbe essere motivo di orgoglio e unità perchè l'antifascismo è il valore fondante della nostra Costituzione.
giovanni mercadante @giuvannuzzo
Ricordiamolo sempre: #bellaciao è una canzone divisiva solo se sei fascista. #LauraPausini
Monica Napoli@Monicanpl
Pessima figura di Laura Pausini. Non ha cantato Bella Ciao perché troppo “politica”.
Ha mostrato solo tanta ma tanta ignoranza. Che vergogna! #laurapausini
BufalaNews@Labbufala
#LauraPausini rifiuta di cantare la sigla di Peppa Pig.
tiù@CatiaMamone
#LauraPausini non usa le frecce della macchina perché dovrebbe scegliere tra destra e sinistra.
Marco Noel@MarcoNoel19
Una mattina mi son svegliata e Marco ciao Marco ciao Marco ciao ciao ciao. #LauraPausini
Matteo Capponi@pirata_21
Quando c'era LVI il treno delle 7:30 senza Marco arrivava in orario. #LauraPausini
M49@M49liberorso
Ha fatto bene Marco ad andarsene e non tornare più #LauraPausini
Luca Fois@foisluca84
Alla fine il Marco della canzone era Marco Rizzo. #LauraPausini
Il Grande Flagello@grande_flagello
Non posso più dividermi tra te il partigiano #LauraPausini #BellaCiao
gigi@gigi52335676
Un'unica nota di Bella Ciao vale più di tutta la discografia di #LauraPausini
Mangino Brioches@manginobrioches
Anche non cantare è politico. Spiegateglielo. #BellaCiao #Pausini
Mariase@MariaServidio2
Laura Pausini non preoccuparti ché "Bella Ciao" la cantiamo noi! Tu canta "Faccetta nera" #LauraPausini
Lucillola@LucillaMasini
Laura Pausini si rifiuta di cantare Bella Ciao perché è “Troppo politica”. Quando invece scriveva "Parlateci di Bibbiano" non voleva attaccare il PD, giusto? #LauraPausini #BellaCiao #Bibbiano #elezioni #13settembre #fascismo
Cerini Stefania@cerini_stefania
#LauraPausini mi ricorda quelli che dicono che non sono né di destra, né di sinistra e, in genere, sono di destra.
FakeNews24@FakeNews_24
+++ #LauraPausini cantera "Bella Faccetta Nera" per par condicio +++
Fiodor@Fiodor1976
laura pausini rifiuta di cantare "bocca di rosa" di fabrizio de andrè: "sono allergica ai fiori". #LauraPausini #bellaciao #ammuzzo
RitaMiscuglio#facciamorete@ritarimix
#LauraPausini ha detto quello che direbbe un fascio di #BellaCiao , la sola cosa "politica" è stata la sua presa di posizione..
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.
Se alla tv spagnola Laura Pausini avesse cantato «Bella Ciao», oltretutto a meno di due settimane dal voto, i politici e i commentatori di destra le avrebbero dato della comunista e oggi tirerebbero fuori le foto di lei che serve i tortellini a qualche festa dell'Unità o i ritagli di giornale del maggio scorso in cui i profughi cubani la definivano filocastrista.
Poiché invece si è rifiutata di farlo per evitare strumentalizzazioni di parte, è stata strumentalizzata da entrambe le parti, con la destra che adesso la considera Giovanna D'Arco e la sinistra Claretta Petacci.
Con maggiore prontezza di spirito, ma non è facile averla in certi momenti, forse avrebbe potuto intonare quella meravigliosa canzone dedicandola al popolo ucraino invaso da Putin. Avrebbe sparigliato le carte e spostato un po' il tiro, mentre la decisione di non cantarla le ha tirato addosso accuse di vigliaccheria e di fascismo che francamente appaiono esagerate.
«Bella ciao» inneggia all'amore e alla libertà, e chi ne ha fatto la colonna sonora della propria esistenza dovrebbe riconoscere a tutti la libertà di cantarla o di non cantarla, senza sottoporre l'una o l'altra scelta al verdetto di un autoconvocato tribunale della Storia intento a misurare il tasso di ideologia degli interlocutori. È davvero un peccato che la canzone italiana più conosciuta al mondo dopo «Volare» venga percepita solo in Italia per ciò che non è: un canto di parte. Vado a sentirmi «Bella ciao». In cuffia, così non disturbo nessuno.
Cesare Zapperi per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.
«Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra. Canto quello che penso della vita da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta sembra ovvio a tutti.
Non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica.
Non inventassero ciò che non sono». Con queste parole, in risposta a un post del profilo twitter del sito spagnolo 20minutos, Laura Pausini replica alle polemiche che l'hanno investita dopo il rifiuto di intonare Bella ciao («perché è una canzone politica», la sua spiegazione a caldo) nel corso di una trasmissione televisiva spagnola.
Il mondo dei social è esploso, fra favorevoli e contrari alla scelta della cantante emiliana, mentre dal mondo della politica italiana si sono levate poche voci. Tra chi apprezza il «gran rifiuto» c'è Matteo Salvini. «Io adoro Laura Pausini, e ha diritto di cantare quello che preferisce - ha detto il leader leghista a L'aria che tira su La7 - Non è che se uno non canta Bella ciao è un reietto. Semplicemente l'ha ritenuta una canzone politicamente strumentalizzata, sbagliando, da una parte politica perché la liberazione del Paese dall'oppressione nazi-fascista è una conquista di tutti.
C'erano bianchi, verdi, rossi...». Salvini si erge a difensore dell'artista emiliana e ne fa una questione di principio: «A me piacciono coloro che non si allineano al politicamente corretto, lei fa la cantante, non è che deve schierarsi, deve essere ammirata per la sua voce».
Non è dello stesso avviso Nicola Fratoianni. Il leader di Sinistra italiana si rivolge direttamente a Pausini su Facebook: «È vero, Bella ciao è anche una canzone politica, ma è soprattutto una canzone d'amore. Amore per la libertà e per il nostro Paese, un amore tanto forte da dedicargli la vita fino all'estremo sacrificio.
L'unico elemento su cui può essere divisiva Bella ciao è tra chi scelse la libertà e chi avrebbe preferito il nazifascismo. Una scelta su cui immagino e spero che siamo tutte e tutti d'accordo».
Dal mondo dello spettacolo arriva la stroncatura del conduttore e autore televisivo Pif: «Pensare di non cantare Bella ciao , per non voler prendere posizione, è una gran minchiata. Quando ti rifiuti di cantarla hai già preso posizione». Più comprensivo il cantante Simone Cristicchi: «Posso capire la scelta della Pausini, ci sono cantanti che non vogliono dichiararsi politicamente e Bella ciao è una canzone che è stata spesso demonizzata e messa al centro di numerose polemiche. Questo però non significa che la Pausini sia per forza di destra».
La cantautrice Silvia Salemi concorda: «Un'artista come Laura Pausini non può identificarsi in alcun colore politico e forse fa anche bene a non volersi identificare con una canzone che ha una storia ed è un monumento della musica che tutti rispettiamo».
Sui social, invece, i toni sono più accesi. «Laura Pausini mi ricorda quelli che dicono che non sono né di destra, né di sinistra e, in genere, sono di destra» scrive un'internauta. Qualcuno cita un precedente intervento dell'artista: «Laura Pausini si rifiuta di cantare Bella ciao perché è "troppo politica".
Quando invece scriveva "Parlateci di Bibbiano" non voleva attaccare il Pd, giusto?». Ma un altro caso potrebbe aprirsi sul nome di Chiara Ferragni che tra le storie di Instagram ha condiviso il post di «apriteilcervello», profilo che si definisce «antifascista, antirazzista e support Lgbt+». L'influencer si limita a scrivere «da leggere tutto», ma il contenuto non piacerà a tutti visto che è molto critico nei confronti del centrodestra: «Le elezioni, che per molti porteranno alla formazione di un nuovo "governo corrotto" per milioni di noi sono l'inizio di tutt' altro».
Dura la replica del senatore di FdI Ignazio La Russa: «Nel "vecchio governo corrotto" di sicuro Fratelli d'Italia non c'era mentre da 10 anni nei governi ci sono sempre stati, senza aver mai vinto, tutti gli amici politici della Ferragni».
Da adnkronos.com il 16 settembre 2022.
"La canterei? No, è una canzone troppo politica". Così Eros Ramazzotti risponde ai giornalisti che, alla fine del concerto in Plaza de Toros, a Siviglia, lo stuzzicano su 'Bella ciao'. Eros scherza, commentando l’invito declinato, durante una trasmissione tv spagnola, dalla ‘collega’ Pausini a cantare la canzone simbolo della Resistenza. E da qui, in Spagna, dove 'Bella ciao' è diventata una hit per 'La Casa di Carta', aggiunge tornando serio: "No dai, non è che ‘Bella ciao’ sia troppo politica. Secondo me Laura ha fatto bene - sottolinea - in questo periodo non dobbiamo cantare canzoni né di destra né di sinistra né di centro. Non facciamo politica, facciamo musica".
Michela Morsa per open.online.it il 16 settembre 2022.
Laura Pausini torna sul suo discusso rifiuto di cantare Bella Ciao, bollata come «canzone politica» durante la sua partecipazione a un programma televisivo spagnolo. Con un post su Twitter, in italiano e in spagnolo, la cantante tenta di spegnere le polemiche esponendo il suo punto di vista.
«In una situazione televisiva estemporanea, leggera e di puro intrattenimento, ho scelto di non cantare un brano inno di libertà ma più volte strumentalizzato nel corso degli anni in contesti politici diversi tra loro. Come donna, prima che come artista, sono sempre stata per la libertà e i valori ad essa legati.
Aborro il fascismo e ogni forma di dittatura. La mia musica e la mia carriera hanno dimostrato i valori in cui credo da sempre», scrive Pausini. «Volevo evitare – aggiunge – di essere trascinata e strumentalizzata in un momento di campagna elettorale così acceso e sgradevole. Purtroppo non è stato così. Rispetto il mio pubblico e continuerò a farlo, con la libertà di scegliere come esprimermi».
Mirella Serri per lastampa.it il 16 settembre 2022.
«Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra». È stata categorica Laura Pausini quando si è rifiutata di intonare "Bella Ciao" dopo un'intervista alla tv spagnola.
La richiesta di cantare quello che si può considerare l'inno della Resistenza sarebbe stata, secondo la cantautrice di Faenza, una richiesta di parte. E così ha scatenato un vespaio, infinite le polemiche (Pif è stato categorico: che «gran minchiata!»).
Poi però, proprio dopo aver sollevato un polverone, Laura ci ha ripensato e ha twittato di non aver voluto eseguire un «brano inno di libertà ma più volte strumentalizzato in contesti politici diversi Aborro il fascismo e ogni tipo di dittatura».
Parole sante, ma forse arrivate con troppo ritardo. E non cancellano il dubbio che per la cantante "Bella Ciao" sia un inno di parte piuttosto che partigiano.
A condividere il fatto che Laura si era sottratta a una "strumentalizzazione", infatti, è stata ieri su questo giornale Flavia Perina. La libertà per la Perina è quella di non cantare.
Secondo lei, a sostenere la legittimità della pretesa di esibirsi nel canto resistenziale sarebbero gli amanti degli «ordini da caserma», di un mondo che apprezza le «canzoni obbligatorie, gli alzabandiera obbligatori, il credere-e-obbedire». No, cara Flavia, non è così. "Bella Ciao" è "di sinistra"? Di sicuro questa non può essere considerata la sua connotazione principale: la lotta partigiana non è stata un'esclusiva della sinistra e si tratta di un canto che inneggia alla lotta per la libertà.
"Bella Ciao" è divisiva? Sì, lo è. Fin dall'inizio quel motivo ha diviso il popolo della resistenza al nazifascismo dalle camicie nere e brune. Ha diviso gli italiani che si sono battuti o hanno approvato la nascita della Repubblica e della Costituzione antifascista dai nostalgici del Ventennio e dai criptofascisti odierni. Ma non si tratta di due "parti" con uguale dignità, impegnate in una contesa al fioretto.
Dopo la sconfitta del fascismo, le idee dei suoi adepti non hanno più diritto di cittadinanza, non si possono mettere sullo stesso piano i combattenti per la libertà e coloro che andavano «a cercar la bella morte» a Salò, i repubblichini e i partigiani. "Bella Ciao", molto amata in Spagna perché rilanciata dalla serie di successo "La casa di carta", rappresenta la nuova Italia nata dalla guerra partigiana la quale, tra l'altro, ci ha liberato dall'invasione straniera.
«Da qualche tempo va diffondendosi una tesi revisionistica...secondo cui è ora di finirla con la contrapposizione troppo netta fra fascismo e antifascismo questo vuol dire metterli sullo stesso piano»: una considerazione molto attuale scritta anni fa dal grande filosofo e politologo Norberto Bobbio. Un'analisi che ha qualcosa da dirci anche rispetto all'attuale polemica su "Bella Ciao".
Come mai in tutto il mondo questa canzone è diventata simbolo di opposizione alle dittature, alla violenza, alle sopraffazioni, mentre proprio in Italia, dov' è nato, c'è ancora chi può ritenerlo un canto fazioso?
Forse più che a quelle strofe dobbiamo guardare a cos' è l'Italia di oggi: un Paese, questo sì, ancora diviso, un paese dove quasi otto decenni dopo il varo della Costituzione democratica, il suo ripudio della dittatura in qualsiasi forma non è stato ancora introiettato da tutti.
Perfino tutt' oggi c'è chi mette in "contrapposizione" quanti si riconoscono nella Resistenza e nella Costituzione e quanti non ne accettano i valori fondamentali. Ma parlare di destra e di sinistra, in questo senso, è una colossale mistificazione.
La libertà politica è uno dei massimi principi della Carta. Invece prendere le distanze dalla Resistenza, dalla festa del 25 aprile, dal rifiuto del fascismo quale sia la forma in cui si presenta, dai principi della convivenza civile, tutto ciò non è legittima destra, cara Pausini e cara Perina, è porsi fuori dal contesto democratico e non ha alcuna dignità "paritaria". Non si può rimanere neutrali fra la democrazia e la dittatura.
La prima rappresenta una frattura con il passato fascista e l'inizio di un nuovo corso, irreversibile (si spera). La seconda, con la privazione delle libertà politiche, con le leggi razziali, con il mito della guerra sola igiene del mondo, è una pagina nera e chiusa, senza alcun diritto di tribuna nell'Italia di oggi. Ma da qualcuno, e di questi tempi anche da qualcuno di troppo, questo concetto elementare ancora non è stato digerito.
Esiste ancora la libertà di dire di NO senza essere messi alla gogna? Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 15 Settembre 2022
Laura Pausini in questi giorni è al centro delle polemiche per il suo no deciso a intonare, durante un’ospitata a El Hormiguero, un popolare quiz della tv spagnola, Bella Ciao. Per questo No libero all’inno partigiano, la cantante italiana più famosa nel mondo, è entrata all’interno di una violenta spirale di critiche ed insulti. “E’ una canzone molto politica e io non voglio cantare canzoni politiche”, ha obiettato la cantante che per questo è stata sommersa dalle polemiche sui social.
Una tempesta mediatica che ha costretto la stessa Pausini a intervenire sulla vicenda con un Tweet : “Non canto canzoni politiche né di destra né di sinistra. Quello che penso della vita lo canto da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta mi pare una cosa ovvia. Non voglio che qualcuno mi usi per fare propaganda politica. Non inventate ciò che sono”. Invece di calmare le acque ha innescato uno tsunami.
Io personalmente mi chiedo se sia ancora lecito poter fare scelte senza dovere necessariamente salire sul banco degli imputati a doversi giustificare . Uno dei pochi colleghi che ha sostenuto la Pausini è stato Simone Cristicchi che ha scritto : “Ma se la Pausini l’avesse cantata probabilmente si sarebbero scatenate altre polemiche, come è successo a me con ‘Magazzino 18’, quando fui attaccato dall’estrema sinistra perché ho raccontato i crimini commessi sul confine orientale nel dopoguerra dai partigiani di Tito. A me hanno dato del fascista per anni non solo sui social, ma anche nei teatri”.
Se c’è una cosa in cui l’Italia riesce benissimo è la strumentalizzazione politica che deriva da ogni scelta personale. Ogni azione diventa oggetto di critica se non si incasella nella posizione giusta del pensiero unico dominante. Se pensavamo che il caos ridondante di un cartone con dei maialini avesse lasciato spazio a programmi e temi importanti da campagna elettorale, il caso Pausini ci smentisce . Una boulevard di attacchi e rimandi al fascismo e comunismo, in una storia in cui la stessa Laura non ci sarebbe voluta entrare.
Mi fa sorridere che gli stessi che stanno bollando la Pausini come fascista ,siano gli gli stessi che fino a ieri la esaltavano come artista arcobaleno, femminista, paladina delle donne, dei diritti. La sinistra ti loda se non esci dal recinto che viene tracciato. Come sconfini ti linciano.
Tra tutti gli ambasciatori di odio democratico verso Laura quello che mi ha suscitato più sdegno è stato il cantautore Pierpaolo Capovilla, quello che in un’intervista rilasciata a Rolling Stone si è definito: “Sai, io sono un compagno, un comunista, un vetero-marxista”. Partiamo da qui che dovrebbe essere la fine. Il compagno Capovilla scrive sui suoi social: “La vergogna della canzone italiana nel mondo, che possa sparire per sempre. Non c’è più dignità, né orgoglio, nella nostra storia. Che schifo che fai, canzone italiana. Sprofonda nel tuo bel mare. Libera il mondo.”
Come se non bastasse ha rincarato la dose nei commenti sulla sua pagina Facebook:”Che vada a farsi fottere la canzone Italiana. Oggigiorno non serve a nessuno, se non a chi la canta. Che si vergogni, Laura Pausini, e tutte e tutti quelli come lei. Gente senza storia, senza dignità, senza niente di niente se non il conto in banca. Voglia di bestemmiare”. Parole di una violenza inaudita. Capovilla si è poi scusato e ha scritto :” sto esagerando, troppa rabbia addosso, troppo risentimento, basta così”.
"Se avesse cantato Bella Ciao l'avrebbero strumentalizzata": Cristicchi sta con la Pausini. Ignazio Riccio il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.
Il cantautore romano si schiera a favore della collega e ricorda quando fu attaccato dalla sinistra perché racconto i crimini dei partigiani di Tito
Non si placano le polemiche per la scelta della cantante Laura Pausini di non esguire il brano Bella ciao in uno show andato in onda su una tv spagnola. “È una canzone politica – si è giustificata la famosa interprete italiana – e io non mi schiero a favore di nessuno”. Una decisione che ha attirato l’attenzione di diversi artisti, molti dei quali hanno pubblicamente criticato il suo gesto. Non tutti, però, la pensano allo stesso modo; c’è chi l’ha difesa in maniera netta. “Posso capire la scelta della Pausini – ha dichiarato all’agenzia Adnkronos il cantautore romano Simone Cristicchi – ci sono cantanti che non vogliono dichiararsi politicamente e Bella ciao è una canzone che è stata spesso demonizzata e messa al centro di numerose polemiche. Questo però non significa che la Pausini sia per forza di destra”.
Sui social media si è alimentata la solita caccia alle streghe, ma Cristicchi non ci sta, seppure ha evidenziato qual è il suo pensiero completo.“Bella ciao – ha continuato – è una canzone che appartiene a tutti, quindi non ha un colore politico. Se la gente studiasse la storia saprebbe che quella canzone rappresenta non soltanto la fazione dei partigiani di sinistra ma anche una serie di altre formazioni partigiane che non erano necessariamente di sinistra”. E, poi, ha aggiunto:“Ma se la Pausini l'avesse cantata probabilmente si sarebbero scatenate altre polemiche, come è successo a me con 'Magazzino 18', quando fui attaccato dall'estrema sinistra perché ho raccontato i crimini commessi sul confine orientale nel dopoguerra dai partigiani di Tito. A me hanno dato del fascista per anni non solo sui social, ma anche nei teatri”.
Cristicchi ha ricordato di aver cantato tante volte Bella ciao, “il primo maggio insieme al coro dei Minatori di Santafiora e in tante altre occasioni dove si ricordava il sacrificio dei partigiani italiani nella lotta di liberazione dal nazifascismo. Io non avrei avuto problemi a cantarla”.
Da liberoquotidiano.it il 27 maggio 2022.
Laura Pausini ha fatto infuriare i suoi fan cubani. Il motivo? La cantante, recentemente risultata positiva al covid, è stata sorpresa in compagnia di un gruppo di membri del controspionaggio di Cuba. Si tratterebbe delle forze speciali fondate da Fidel Castro nel 1959 che, secondo le voci più critiche, verrebbero utilizzate dal governo per reprimere il dissenso della popolazione. Non l'avesse mai fatto! La foto ha iniziato a circolare ora sul web e i suoi fan cubani, esuli a Miami, non l'hanno presa bene. Hanno iniziato una vera e propria rivolta contro la cantante italiana.
I fatti risalgono al 21 maggio ma sono diventati di dominio pubblico solo ora grazie alla segnalazione della pagina Instagram Iconografie XXI. L'agenzia stampa spagnola EFE ha seguito la protesta organizzata da Virgilia Mombisa avvenuta nel quartiere Little Havana, qui i manifestanti hanno dato il via a una manifestazione eclatante, distruggendo i cd della Pausini con un rullo compressore e agitando cartelli con su scritto: "Laura Pausini, castrista, comunista, amica di Diaz-Canel".
Di fronte a una rivolta così inaspettata la cantante non ha tardato a rispondere: "Ah quindi chi va a Cuba alimenta la dittatura? Non sapevo che funzionasse così. E allora se vieni in Italia che cosa alimenti? La pizza?". D'altronde si sa, a Laura Pausini non la politica non è mai interessata. Proprio pochi giorni fa la cantante ha dovuto cancellare all'ultimo un importante evento a Miami a causa della sua positività al Covid. È meglio però, che per un pò di tempo, Laura si tenga distante da questa città della Florida.
Laura Pausini, nel film il divismo di un’antidiva della canzone. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.
Il film «Laura Pausini - Piacere di conoscerti» ripercorre la carriera della «ragazza di Solarolo». A partire da una domanda: che vita avrebbe vissuto se, nel 1993, non avesse vinto il Festival di Sanremo?
Il divismo di un’antidiva. Si potrebbe riassumere così, in maniera spiccia, il senso del film Laura Pausini-Piacere di conoscerti , rimuginato dalla stessa cantante per sopportare il blackout imposto dalla pandemia, scritto con Monica Rametta e Ivan Cotroneo, prodotto da Endemol Shine Italia (Amazon Prime Video). La regia è dello stesso Cotroneo e scelta non poteva essere più felice, tanto è rispettosa degli aspetti più sensibili della cantante romagnola, ora famosa in tutto il mondo. C’è una domanda che ossessiona la Pausini e tiene unito tutto il racconto: che vita avrebbe vissuto se, nel 1993, non avesse vinto il Festival di Sanremo? Le immagini di quel Festival sono tenere e impietose: Laura canta «La solitudine», scortata da Pippo Baudo che ne intuisce subito le potenzialità, ma sul palco è ancora goffa e impacciata, con un vestito della festa che fa molto «ragazza di Solarolo», provincia di Ravenna.
La parte più interessante del film è proprio quella giocata su questo doppio registro. Da una parte, la ragazzina che studia all’istituto tecnico (come diventare ceramisti), frequenta l’oratorio, la sera accompagna il padre al piano bar (ma ricordo che a quel Sanremo Baudo esaltò la professionalità della giovane interprete). Dall’altra, gli strabilianti successi di pubblico, dalla prima volta a San Siro fino alle affermazioni internazionali, specie nel mondo latino-americano. La preoccupazione della Pausini (specie nel dialogo con i genitori) è che in lei ci siano due personalità separate, madre e artista. Vorrebbe essere una sola donna, con tutte le fragilità (quel senso di solitudine che ti assale anche quando lo stadio è stracolmo di fans), le paure (magari di non passare troppo tempo la figlia), i dubbi (sono attorniata da persone che mi dimostrano affetto solo perché sono famosa?) che accompagnano la vita di una pop star che non ha dimenticato le sue radici.
«Se non fossi stata Laura Pausini...» Arriva il film autobiografico. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.
Il 7 aprile esce in 240 Paesi nel mondo, su Prime Video, «Laura Pausini, piacere di conoscerti»: la famosa popstar svela ricordi, aneddoti e la parte più privata di se stessa.
Da tempo sappiamo che sta per arrivare un lungometraggio su Laura Pausini, con Laura Pausini, di Laura Pausini. La sua essenza, insomma, anche se l’idea è piuttosto originale. Non racconta solo la vita della grande pop star internazionale, ma anche la storia di cosa avrebbe potuto essere Laura se... se non avesse fatto la cantante, se non avesse vinto Sanremo.... se fosse rimasta a Solarolo. Dal 7 aprile in 240 Paesi nel mondo si potrà vedere questo film da una idea originale di Pausini, scritto da Ivan Cotroneo, Monica Rametta e Laura Pausini, diretto da Ivan Cotroneo. La regina del pop italiano per la prima volta è davanti alla macchina da presa, in un progetto che conferma il suo amore per il cinema e che svelerà al pubblico la sua vera anima, attraverso scorci inediti della sua vita privata e professionale. Ma mostrando anche un’altra Laura: quella che avrebbe potuto essere.
«Se non avessi vinto Sanremo..»
In una recente intervista, proprio su 7, realizzata dalla scrittrice Teresa Ciabatti, si poteva leggere: «Cosa sarebbe successo se non avessi vinto Sanremo?» si chiede Laura Pausini dall’età di diciotto anni, da quando cioè trionfa al Festival con La solitudine, dando avvio a una carriera di successi, premi, milioni di dischi venduti nel mondo. Da ventinove anni Laura Pausini è la più importante cantante italiana. Di recente è stata a Sanremo come super ospite con Scatola, l’ultimo singolo scritto insieme a Madame. Prossimamente, con Alessandro Cattelan e Mika, presenterà l’Eurovision, e il 7 aprile, appunto, uscirà su Prime Video il film «Laura Pausini, piacere di conoscerti». Con una domanda che Laura si pone da anni: che vita avrei potuto avere?
L’infanzia a Solarolo, nel Ravennate
E allora il film torna indietro a Solarolo (provincia di Ravenna), a mamma Gianna, maestra d’asilo, a papà Fabrizio, cantante di pianobar. E poi, come ammette la stessa Pausini: se il fidanzatino dell’epoca, il famoso Marco, non l’avesse tradita, lei non avrebbe scritto La solitudine, non avrebbe vinto Sanremo, e il suo personale sliding door chissà dove l’avrebbe portata. Oggi Pausini, con oltre 70 milioni di album venduti, è una delle artiste italiane più apprezzate al mondo. Ha vinto un Golden Globe per la Miglior Canzone Originale per «Io sì», ed è la prima donna nella storia della musica italiana nominata agli Academy Awards, per la stessa canzone, da lei interpretata durante la cerimonia degli Oscar 2021 a Los Angeles e seguita in tutto il mondo.
"Ora la Pausini ritrova Laura. Così racconto le mie due vite". Paolo Giordano il 6 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il docufilm "Piacere di conoscerti" esce in 240 Paesi. "Un viaggio per capire che non conta solo vincere".
Insomma qui ci sono le due Pausini. Quella famosa in tutto il mondo. E quella che, se a fine febbraio 1993 non avesse vinto il Festival di Sanremo con 7.464 voti e una canzone decisiva (La solitudine), avrebbe continuato a fare pianobar, oppure sarebbe diventata architetto, oppure avrebbe fatto entrambe le cose. Si incontrano in Laura Pausini - Piacere di conoscerti, il docufilm che domani 7 aprile esce in 240 paesi del mondo su Prime Video, prodotto da Endemol Shine Italy per Amazon Studios, scritto da Ivan Cotroneo (anche regista) e Monica Rametta su idea che la stessa cantante ha fissato sulle note del suo cellulare. «L'idea mi è venuta proprio in piena notte», spiega lei che, quando parla, è dolcemente torrenziale e, se accenna alla musica, conferma di aver conservato la stessa passione adolescente: «Anche nel film si vede che, cantando Destinazione Paradiso di Grignani, ho lo stesso entusiasmo, la stessa gestualità sia in una trattoria che sul palco di uno stadio. L'unica differenza è che da una parte c'erano poche persone, dall'altra decine di migliaia». Le sliding doors della vita. Ma un filo conduttore comune.
Qual è, Laura Pausini.
«La realizzazione di noi stessi, che non è la fama ma il carattere che abbiamo».
Oggi spesso si pensa il contrario.
«Ci insegnano a tentare di essere i primi della classe, ma non c'è solo quello».
Qualcuno potrebbe dire che, beh, è facile dirlo adesso dopo esser diventata una popstar famosa in tutto il mondo.
«Proprio per questo ho voluto fare questo viaggio introspettivo che spiega che la realizzazione non dipende da un premio che si ha sul comodino di casa. Bisogna conoscere la vittoria ma anche la sconfitta. Perciò non volevo un documentario autocelebrativo e basta».
Quando lo ha realizzato?
«Beh l'incontro fondamentale è stato quello con mia figlia Paola e il rapporto che ho con lei. Sono contenta che, quando sono tornata a casa dopo aver vinto il Golden Globe e dopo aver perso l'Oscar, io avevo lo stesso sguardo, ero la stessa persona».
Un messaggio decisivo.
«Però sono preoccupata che lei, come tantissimi altri, sia molto legata al mondo dei like, della fama. L'importante è capire che, per averla davvero questa fama, bisogna partire da altro. Non bisogna focalizzarsi solo sull'immagine perché c'è tutto il resto, ossia la vita vera».
Però vincere piace sempre.
«Però mi vien quasi da dire che non voglio più essere nominata per un premio, mi viene troppa ansia. Dopo la nomination all'Oscar sono entrata in crisi perché mi sono detta: E se lo vinco dopo che cosa faccio di più?. Oltretutto, a 47 anni, inizio a sentire delle pressioni, legate anche all'età».
Anche a Hollywood le dive lamentano la stessa cosa.
«Ma forse è sempre stato così. Quando ho vinto Sanremo, dicevano per fortuna arriva una giovane. Dopo a me hanno fatto un contratto da un solo disco, mentre agli artisti uomini, che non avevano neanche vinto, il contratto era per tre dischi. Dicevano che gli uomini avevano una carriera più lunga e le donne che funzionavano in quel periodo, come la Mannoia, cominciavano a essere 40enni».
E oggi?
«So che in molti Paesi i giornali femminili non concedono la copertina ad artiste che abbiano superato i 40 anni. E anche i discografici consigliano di strizzare l'occhio alle nuove generazioni facendo collaborazioni e cose del genere».
Anche lei ha appena pubblicato Scatola scritta con Madame che ha 20 anni.
«La mia scatola l'ho trovata in soffitta dai miei: dentro c'erano oggetti della mia adolescenza che mi hanno risvegliato i ricordi. Poi è arrivato il testo di Madame, che ho modificato ma che sembrava scritto apposta. Come per La solitudine, era una canzone scritta da altri senza sapere di raccontare davvero la mia storia. Così l'ho scelta».
Davvero Laura Pausini cantava Billie Jean a squarciagola come dice il testo di Scatola?
«In realtà Madame aveva scritto un altro titolo di canzone, ma io l'ho sostituita ricordando quando mia mamma si lamentava del baccano che facevo in casa quando ascoltavo Michael Jackson».
In «Piacere di conoscerti» lei recita tutte e due le Laura. Ha pensato di farsi «interpretare» da qualche altra attrice?
«Mai pensato a nessun'altra al posto mio».
Però avrà pensato di recitare in qualche film.
«Non sono un'attrice, sono una cantante. Già in questo film gli attori veri mi hanno cazziato perché cambiavo le battute e li disorientavo. Però in passato Zeffirelli mi ha chiesto di fare la Callas nel suo film. Lo ricordo bene, eravamo al Pavarotti and Friends. Poi altri tre registi mi hanno proposto ruoli, ma ho sempre detto di no. Chi sono? Non ho chiesto loro se posso dirlo quindi non lo dico».
Non le resta che fare un nuovo disco.
«Sono due anni che ci lavoro senza risultato. Di solito parto dal titolo e stavolta non ho neanche il titolo. In teoria vorrei farlo per l'autunno, ma ho accettato talmente tanti impegni che non sarò libera fino a giugno. Ed è difficile riuscire a registrare tutti i brani in così poco tempo. Poi magari succede, chissà. Resta in ascolto del 2004 l'ho chiuso in poche settimane».
Allora pensiamo all'Eurovision Song Contest di Torino, che presenterà con Mika e Alessandro Cattelan. A proposito, quanti vestiti cambierà durante lo show? Si dice tanti.
«Vorrei proprio sapere chi diffonde queste fake. Ho accettato di farlo perché ci sono Ale e Mika. E ho pure trattato per ridurre a tre i cambi abito. In origine avrebbero dovuto essere quattro».
Dopo tutto questo tour de force sposerà finalmente Paolo?
«Avremo dovuto farlo l'anno scorso ma c'era il Covid. Ora aspettiamo di trovare un'altra data possibile».
Laura Pausini: «Se Marco non mi avesse tradita, non avrei vinto Sanremo a 18 anni». Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2022.
Nell’intervista per 7 in edicola dal 25 febbraio con Teresa Ciabatti, Laura Pausini racconta «un’altra me», ripercorre vita e carriera in occasione dell’uscita del film «Laura Pausini, piacere di conoscerti» su Prime Video il 7 aprile. E ricorda quel tradimento da parte di Marco, fidanzato e compagno di scuola.
Laura Pausini, 47 anni, è nata a Faenza. Ha un compagno, Paolo Carta, e una figlia, Paola, 9 anni
«Cosa sarebbe successo se non avessi vinto Sanremo?» si chiede Laura Pausini dall’età di diciotto anni, da quando cioè trionfa al Festival con La solitudine, dando avvio a una carriera di successi, premi, milioni di dischi venduti nel mondo. Da ventinove anni Laura Pausini è la più importante cantante italiana. La più amata, la più acclamata. Di recente è stata a Sanremo come super ospite con Scatola, l’ultimo singolo scritto insieme a Madame. Prossimamente, con Alessandro Cattelan e Mika, presenterà l’Eurovision, e il 7 aprile uscirà su Prime Video il film Laura Pausini, piacere di conoscerti (scritto con Ivan Cotroneo e Monica Rametta) che ripercorre la sua carriera e racconta una Laura alternativa, quella che sarebbe stata se non avesse vinto Sanremo. La risposta alla domanda che si pone da anni. E allora torniamo indietro, torniamo a Solarolo (provincia di Ravenna), a mamma Gianna, maestra d’asilo, a papà Fabrizio, cantante di pianobar. Torniamo alla ragazzina che fin dall’età di otto anni fa pianobar col padre nei locali della Romagna.
La Laura del film, ovvero la Laura non famosa, quella che poteva essere senza la vittoria di Sanremo, le è piaciuta?
«Mi ha emozionato».
Cosa si porta dietro della vita di prima?
«Per esempio le amiche: Cristina, Elisa, Lorena e Erika. Non ci siamo mai perse, le volte che torno a Solarolo d’estate facciamo ginnastica in piscina, d’inverno zumba nella palestra della nostra vecchia scuola elementare. Ci siamo date il nome di The Sincronette, ma mica andiamo in sincrono, chiacchieriamo, loro mi aggiornano sulle novità del paese, chi si è sposato, chi ha avuto figli».
Il lavoro delle sue amiche?
«Cristina orafa, Elisa panettiera, Lorena impiegata, Erika operaia».
Ricordi?
«Abbiamo fatto le scuole insieme dall’asilo. Alle superiori ci siamo separate, a Solarolo non ci sono superiori. Ma prendevamo il treno insieme, quel treno delle 7.30. Fino a Castel Bolognese dove c’era il cambio e ognuna andava per la sua direzione».
«LUI SOSTIENE DI NON AVERMI TRADITA. IO PERÒ POSSO DIRE NOME E COGNOME DELLA RAGAZZINA, AULA IN CUI SI SONO BACIATI, POSIZIONE PRECISA: SOTTO LA CARTA GEOGRAFICA DELL’ITALIA»
Su quel treno c’era anche Marco
«Tanti giornali e trasmissioni tv lo hanno rintracciato per raccontare la nostra storia. Lui ha detto di no ogni volta, è molto riservato».
Perciò tutto vero, tradimento incluso?
«Io lo ringrazio sempre: “Se non mi avessi tradito, non sarei diventata cantante” ».
E lui?
«Lui sostiene di non avermi tradita. Io però posso dire nome e cognome della ragazzina, aula in cui si sono baciati, posizione precisa: sotto la carta geografica dell’Italia».
Nelle canzoni lei mette il suo vissuto.
«Io canto quello che conosco. Devo identificarmi. Mi succede persino coi film. Al liceo guardavo Twin Peaks e volevo essere Laura Palmer. M’immaginavo sulla spiaggia, avvolta nella plastica, con Marco che veniva a salvarmi».
Impossibile cantare esperienze che non conosce?
«Andando via dalla vita normale a diciotto anni è molto quello di cui non ho esperienza diretta».
Esempio?
«Mai capitata la storia di una notte e via, solo lunghi fidanzamenti. Così se mi propongono canzoni che parlano di una notte di sesso, un’unica notte, io non le canto, non riesco».
Altro?
«Fino a diciott’anni avevo il divieto di andare in discoteca. Dopo Sanremo, tornata a Solarolo, i miei amici mi portano a Il Gufo. Appena entro, prima volta per me in discoteca, il dj dice al microfono: “E adesso è arrivata anche Laura Pausini”».
Anche?
«Prima di me era arrivato Loris Capirossi ».
Da quel momento frequenta le discoteche?
«Mai più messo piede. Mi vergogno a ballare davanti a tutti».
«HO LE STESSE AMICHE DA SEMPRE, UNA FA L’ORAFA, LE ALTRE LA PANETTIERA, L’IMPIEGATA E L’OPERAIA. CI CHIAMIAMO LE SINCRONETTE»
Ulteriori rinunce?
«Le sere d’estate a Cervia: magari i miei amici andavano al Lunapark, al calcinculo, e io a cantare al pianobar con mio padre – ma lo volevo io».
Sente di essersi persa qualcosa?
«Molto lo sto recuperando con mia figlia: siamo state tre volte a Disneyland Orlando, e una a Disneyland Paris».
Tornando al pianobar con suo padre: da subito il sogno era diventare cantante?
«Anche arredatrice, truccatrice, catechista, commessa. Noi amiche fantasticavamo: “Magari fare la commessa”, a Solarolo c’era un grande negozio di abbigliamento, bellissimo».
La catechista?
«I ragazzi che facevano catechismo a noi bambini erano gentili. Mi dicevo: da grande voglio diventare come loro. Poi d’estate andavamo al campo scuola in montagna».
E?
«La sera chiacchieravamo coi preti, io ero quella delle domande scomode».
Una domanda?
«Perché i gay non possono sposarsi?».
Risposte?
«A parte che erano cose che volevano sapere tutti ma non avevano il coraggio di chiedere, a parte questo, Don Antonio rispondeva a ogni domanda. Ai miei genitori, agli amici d’infanzia e a Don Antonio Gamberini devo chi sono, la donna che sono diventata».
Chi è Laura Pausini?
«Una persona disciplinata».
«TENGO OGNI COSA DI MIA FIGLIA PAOLA, DAI TEMI AI DENTI (TUTTI): IO HO POCHISSIME FOTO DI ME DA PICCOLA E HO PAURA DI PERDERE LA MEMORIA. GIÀ MI STA CAPITANDO...»
La sua paura più grande?
«Vent’anni fa che mi cambiasse la voce».
Oggi?
«Perdere la memoria».
Motivo?
«Di recente mi dicevano: “Ti ricordi quella volta a Brisighella?” E io “mai stata a Brisighella”, invece c’ero stata, diverse volte, ma non lo ricordavo. Mi succede con luoghi e persone. Avendo viaggiato tanto e incontrato molta gente forse la mia memoria è quasi piena».
Quindi?
«Da quando è nata Paola m’impegno affinché l’intera memoria sia per lei».
Come?
«Le scatto tante foto, lei non ne può più. Ma penso a me che ho pochissime foto da bambina e le vorrei. Per il film siamo riusciti a recuperare i filmati delle serate di pianobar grazie al fan club di mio padre».
Non è rimasto niente della sua infanzia?
«Ho trovato una scatola nella soffitta dei miei genitori. Dentro gommine da cancellare, un braccialetto con scritto Laura, e altri piccoli oggetti di nessun valore. Poi c’è ancora Valentina, la mia bambola che ho passato a Paola, mia figlia».
Regalo gradito?
«Non ci ha mai giocato, abbandonata in mezzo al mucchio di pupazzi».
Cosa conserva lei di sua figlia?
«Temi, disegni, denti».
Primo dentino?
«Tutti».
Il momento in cui Paola ha capito di essere figlia di Laura Pausini?
«A un anno. Guardava la televisione dove c’ero io che cantavo. Si è alzata, ha messo lo mano sullo schermo, cercava di carezzarmi».
Ama le sue canzoni?
«Lei ha i suoi idoli».
Un idolo di Paola?
«Matteo Romano. Dopo l’esibizione a Sanremo l’ho chiamata per chiederle se avessi cantato bene. Risposta: “Quando canta Matteo?”».
A quel punto?
«Ho bussato al camerino di Matteo Romano per chiedergli di fare un video di saluto per mia figlia. Lui è stato gentilissimo ».
Gentilissimo con Laura Pausini?
«Non tutti lo sono».
La spaventa che un giorno Paola possa leggere commenti negativi su di lei?
«Le ho spiegato che si può piacere e non piacere. Qualcuno le dirà: tua mamma canta male. Su internet troverà: mamma buona, mamma cattiva,mamma bella, mamma brutta, mamma che dice le parolacce. Troverà fotomontaggi, insulti. E no, non deve spaventarsi».
Già successo?
«A scuola un bambino le ha detto: “La musica di tua mamma non mi piace”».
Reazione di sua figlia?
«“Fatti tuoi”. In realtà non so se lei sia davvero forte oppure la sua è una corazza. Voglio capire».
In che modo?
«Parlando».
A chi è dedicata Scatola ?
«Madame l’ha scritta vedendo un mio post con le amiche, le Sincronette, appunto ».
Per Laura chi è il tu della canzone?
«La me stessa ragazzina».
La differenza con la ragazza di allora?
«All’epoca saltavo sul letto sulle note di Billie Jean, e mia madre mi urlava di scendere sennò rompevo le doghe – come racconta la canzone – adesso faccio ballo a casa, col maestro prepariamo degli spettacoli. Abbiamo iniziato da poco Grease, ho già comprato su Amazon il vestito di Sandy, 44 euro».
Montate le coreografie per lo spettacolo finale?
«Sì».
Dove e per chi?
«In salotto, per mio marito e mia figlia che devono darmi il voto con la paletta».
Ultimo voto di Paola?
«5»
Madame.
«L’ho vista a Sanremo e mi ha colpito, mi sembrava me a diciotto anni. Le ho scritto su Instagram non sapendo neppure se mi seguisse».
Ha risposto?
«Subito».
Laura e Madame oggi?
«Spesso la chiamo perché non capisco delle parole».
Tipo?
«Ho fatto l’elenco delle parole che non sapevo e ho imparato da lei: boomer, cringe skitt, goat. “ Tu sei goat” mi diceva. E io pensavo capra, credevo che mi stesse dicendo capra. Dopo mi ha spiegato: “Greatest of all times”».
Meglio.
«Da Madame andava bene pure capra».
Lei è la cantante di maggiore successo da quasi trent’anni in Italia e nel mondo.
«All’inizio dicevo che si trattava di fortuna, ora dico che c’è tanta disciplina. Da subito, a diciott’anni, se mi invitavano in una trasmissione che so, a Bruxelles o a Lisbona, biglietto aereo classe economy, non accompagnatori, io andavo. Sono andata ovunque. Non ho mai rifiutato niente».
Qualcuno rifiuta?
«Se non ci sono i dovuti confort, molti rinunciano».
Situazioni particolari in cui si è trovata?
«In Germania, durante una trasmissione televisiva del mattino. Io canto e a un certo punto entrano delle galline. Ora io ho una certa paura dei volatili, ma ho finito comunque di cantare la mia canzone».
Era stata avvisata delle galline?
«No. In seguito ho scoperto che in quella trasmissione era la norma avere animali in studio, galline, conigli. So di miei colleghi che sono andati via rifiutandosi di cantare».
Altre situazioni?
«In Messico, ancora durante una trasmissione televisiva, avevo diciannove anni. Oggi grazie a Coco (ndr cartone animato) conosciamo l’idea di morte della cultura messicana, al tempo no. Nessuno di noi sapeva che per loro il giorno dei morti è una festa gioiosa. E dunque, giorno dei morti, io che canto nello studio televisivo, quando entrano persone vestite da morti e da zombie che mi circondano».
Lei?
«Ho continuato a cantare».
Conclusione?
«A fine canzone il conduttore mi chiede: “Laura, come ti vedi da morta?”»
Risposta?
«Yo no quiero morir».
Ovvero?
«Io non voglio morire».
Marco Vigarani per corriere.it il 7 Luglio 2022.
Negli ultimi anni il corpo umano, in particolare quello femminile, è al centro di un’importante dibattito che punta a rivalutarne la bellezza a prescindere dalle imperfezioni che possano renderlo poco in linea con i canoni proposti dallo showbusiness.
Si parla spesso di body positivity ma dare segnali concreti è ancora più importante. Un gesto significativo in queste ore è arrivato da Giulia Provvedi, metà del duo modenese “Le Donatella” insieme alla sorella Silvia. La cantante e showgirl classe 1993 ha infatti pubblicato su Instagram una sua fotografia in bikini in due versioni: la prima con una pelle liscia e perfetta, la seconda mostrando i segni della cellulite sulle gambe.
Successo social
«Con o senza difetti sono sempre io - ha scritto a corredo delle immagini l’artista emiliana -, voi come mi preferite? Giulia 1 o Giulia 2? Quello che penso io è che è sempre più bella una vera imperfezione che una finta perfezione. Perfection does not exist”. Da tempo attiva contro ogni forma di body shaming (la discriminazione di una persona sulla base del suo aspetto fisico) Provvedi ha voluto mostrare pubblicamente i suoi difetti pur potendo nasconderli in pochi istanti con l’utilizzo di un semplice filtro, consapevole di quanto questa scelta possa essere d’aiuto ad altre donne nell’accettazione delle proprie imperfezioni.
L’artista che in passato ha partecipato a programmi come “X Factor” e “L’Isola dei Famosi” ha subito ricevuto apprezzamenti e sostegno per la sua decisione, a partire da quello di alcune colleghe. Questo il commento della showgirl Samantha De Grenet: “Non è l’ imperfezione che ti rende meno bella...semmai un difetto può renderti unica”. L’ex concorrente del Grande Fratello Marina La Rosa ha aggiunto: “Guarda io ti amavo già ma con questo post sei diventata il mio idolo assoluto. Brava, brava e brava!!”.
Lello Analfino: «Ragazzi attenti, non seguite i cantanti che inneggiano alle mafie». Emanuele Coen su L'Espresso il 2 Agosto 2022
Irriverente e guascone, il cantautore siciliano, leader dei Tinturia, ha inventato un genere tra pop, rock, ska, rap, reggae e folk. “Ma ora voglio uscire dalla mia comfort zone”
«Pippo Baudo, Garibaldi e Goethe/ Sciascia, Pirandello e Camilleri/ Sono passati terremoti e frane/ I poveretti c’hanno i macchinoni/ Le facce dei politici ruffiani/ L’abusivismo, i vincoli e i condoni». È diventato un inno la canzone “92100”, che si intitola come il codice postale di Agrigento. La città di Lello Analfino, 49 anni, il cantautore irriverente e guascone che insieme alla sua band, i Tinturia (che in dialetto vuol dire “monelleria” o anche “pigrizia”), da metà anni Novanta porta in giro per l’Italia un genere musicale che lui definisce “sbrong”: un mix tra pop, rock, ska, rap, reggae e folk. Sei album e tanti concerti, molti dei quali fuori dai confini della Sicilia. La canzone “92100” è la sintesi efficace di questa terra dei paradossi, che condensa come nessun’altra sublime e osceno, onestà e illegalità, coraggio e criminalità.
«Devo molto ai siciliani: mi hanno esportato come un prodotto regionale», ironizza Analfino da casa sua a Palermo, su Zoom, barba brizzolata e sorriso sincero. Tra i conterranei affascinati dal suo talento due non passano inosservati: Salvo Ficarra e Valentino Picone. «Il loro primo film, “Nati stanchi”, l’hanno scritto ispirandosi alle mie canzoni. Questo mi salda a loro in maniera irreversibile», sottolinea il cantautore, che ha composto anche il brano “Cocciu d’amuri” per il film “Andiamo a quel paese” del duo comico, grande successo di qualche anno fa. Un sodalizio di lunga data: prima di questa intervista Lello e Salvo hanno trascorso la domenica sotto lo stesso ombrellone sulla spiaggia di Mondello, in una pausa delle riprese della seconda stagione di “Incastrati”, la serie tv Netflix firmata Ficarra e Picone. «Non sono mai cambiati: li ho conosciuti quando andavano nei locali per centomila lire a serata. Oggi, che sono quello che sono, restano identici. Avrebbero potuto trasferirsi altrove, invece sono rimasti in Sicilia e hanno fatto crescere qui i loro figli, con tutti i problemi che possono avere i nostri ragazzi», prosegue Analfino.
Anche lui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza ad Agrigento, prima di spostarsi a Palermo per frequentare la facoltà di Architettura, laureandosi nel 2004. La madre Giugia, vezzeggiativo di Gerlanda, gli ripeteva: «Chi ha fari cu ‘sta musica?», preoccupata per l’incerto futuro artistico del figlio. «Ero molto pigro, mi piaceva fare casino e la mia grande passione, unica e grande, era ed è la musica», continua il cantautore, che prima si definisce autodidatta e poi ammette che il suo primo maestro di pianoforte fu Franco Finestrella, l’autore della canzone “Nicuzza Duci”, caposaldo della musica folk siciliana. «A mia madre il maestro disse: “Non è cosa di studiare musica, lei perde tempo”. E aveva ragione perché la musica non volevo studiarla ma la volevo fare», continua Analfino. Ironia della sorte, diversi anni dopo il cantautore ha interpretato “Nicuzza Duci” in uno show su Canale 5, facendola uscire dai circuiti folk.
Se vuoi fare il cantautore non è facile vivere nella provincia siciliana, oggi come ieri. E la gavetta rischia di allungarsi a dismisura. «Come diceva Pirandello, Agrigento è una città bellissima piena di difetti, isolata dal resto del mondo», afferma Analfino: «Questo ha influito anche sulla mia carriera: quando ho cominciato con i Tinturia partivamo in sei, in treno, per suonare a Firenze, Roma, Benevento. Per arrivare a Milano servivano ventiquattr’ore, nove solo per raggiungere Messina. Non era un viaggio ma un’epopea. Oggi purtroppo non è così diverso».
Malgrado tutto, però, Agrigento e la Sicilia continuano a sfornare talenti. «Quando qualcuno chiedeva ad Andrea Camilleri: “Come mai in una provincia così povera ci sono così tanti scrittori?”, lui rispondeva con il suo vocione: “Perché scrivere non costa niente”.
Qui sono nati Camilleri, Sciascia e Pirandello ma abbiamo sempre un problema con le case abusive e i condoni», aggiunge Analfino, che porta la sua testimonianza personale: «Sono figlio di un imprenditore: mio padre, negli anni Settanta-Ottanta, costruì due palazzi abusivi ad Agrigento. Invece di arrestarlo lo fecero condonare. Scendevano in Sicilia Spadolini o Andreotti e venivano a battere cassa. “Avete costruito in maniera irregolare? E allora condonate”, dicevano. Se avessero arrestato mio padre dopo il primo palazzo abusivo, non credo che ne avrebbe costruito un secondo. C’è stata una mano politica leggera, che ha lasciato fare».
L’intreccio tra politica e criminalità organizzata segna il destino di questa regione. A trent’anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio quanto è forte la cultura mafiosa in Sicilia? «È straforte. Bisogna spingere sulle nuove generazioni, attratte da artisti che inneggiano alle mafie, a una vita fatta di soldi e belle donne. Non si tratta solo dei cantanti neomelodici, ma è un fenomeno che trova terreno fertile in quell’ambiente. Quando ero piccolo i miei amici, figli di avvocato e notaio, non ascoltavano la musica neomelodica. Oggi i figli della stessa classe sociale ascoltano quella musica. La cultura mafiosa è innanzitutto il disamore per la terra che ci ospita, il mafioso ama solo i soldi e il potere. Non finisco mai un concerto senza ricordare che, finché Matteo Messina Denaro non verrà assicurato alla giustizia, avremo un gap da colmare nei confronti dei territori più civili».
L’impegno continua, ma Analfino alla soglia dei cinquant’anni ha deciso di cambiare rotta con la sua musica. Di recente è uscito “Mi fai stare bene”, il singolo che anticipa il nuovo album da solista senza i Tinturia, dal titolo emblematico “Punto e a capo”, in uscita il 9 settembre. I suoni elettronici e la scelta dei testi in italiano segnano l’approdo al pop. «Non voglio svincolarmi dalla cultura siciliana ma uscire dalla mia comfort zone. Sono abituato alla gente che mi applaude perché mi conosce. Non mi basta più, voglio tornare a suonare in un pub con trenta persone. O la va o la spacca», aggiunge.
Con il passaggio alla maturità anche i sentimenti cambiano. Cos’è l’amore a cinquant’anni? «È la consapevolezza di aver vissuto una vita dissoluta, fatta di ubriacature, di droghe anche se leggere, di nottate. E rendersi conto che la vita si trasforma. L’amore non è guardare e bramare ogni donna, ma meritare ogni giorno quella che ami, che hai capito che ti ama. Come dice Piero Pelù: “L’amore è il mio corpo che cambia”».
· Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.
Francesco D’Angelo per “Libero quotidiano” il 13 aprile 2022.
Leonardo Pieraccioni si fa prete. E sarà un bordello. A grandi linee è questa la trama del film Il sesso degli angeli, nelle sale (e solo lì, ci tiene a precisare 01 Distribution) dal 21 aprile: una commedia, ovvio, ma soprattutto una vera e propria bischerata dove, tra una battuta e l'altra, Pieraccioni parla di preti indotti in tentazione, sesso e case chiuse. Il nostro interpreta infatti don Simone che riceve in eredità dallo zio (il diavolaccio Massimo Ceccherini) un bordello in Svizzera.
Occhio che qui qualcuno si arrabbia...
«Ma no! Una volta che ho finito di scrivere la sceneggiatura, l'ho fatta leggere a degli amici sacerdoti e sa cosa mi hanno detto? "Bello, però mi aspettavo qualcosa di più pruriginoso". "Eh, no! Proprio te mi dici una cosa del genere?", ho fatto io!».
Ma non vivevamo in tempi di politicamente corretto?
«Sì, certo. Infatti prima eravamo più pecorecci. Oggi alcune battute ruspanti de Il ciclone non si potrebbero nemmeno pensare anche se, bisogna dirlo, c'è stato un momento in cui noi attori abbiamo esagerato un po'».
E quindi?
«Quindi noi all'epoca abbiamo esagerato, ma ora si eccede in senso opposto. C'è un divario tra come vogliamo rappresentarci e come poi parliamo realmente nel privato: se qualcuno leggesse le nostre chat su whatsapp o ascoltasse le conversazioni alle cene di famiglia, ci arresterebbe in massa. Credo però sia una fase di passaggio: tra un paio di anni si troverà il giusto equilibrio».
Lei ha avuto mai problemi?
«Finora no: la mia ironia non è aggressiva. Le mie sono bischerate, ho la patente del Pierino della situazione. Mi si perdona tutto sempre».
Bene, allora veniamo al dunque: lei è favorevole o contrario al celibato dei preti?
«A mio avviso i preti dovrebbero assolutamente sposarsi».
E alle case chiuse?
«Andrebbero riaperte in Italia. Vedo così tante ragazze, sulle strade di campagna, buttate lì, con il cellulare in mano... È uno spettacolo tristissimo. Riaprendo le case le si aiuterebbe, creando tra l'altro un indotto notevole in termini di tasse. Però i bordelli dovrebbero essere gestiti da direttori capaci, come quello che ho conosciuto in Svizzera, quando stavo preparando il film».
Cosa ha scoperto di questa realtà?
«Questo direttore svizzero mi ha spiegato che ci sono delle ragazze che scelgono, effettivamente, questo mestiere. Però, alla fine, nessuna è contenta e tutte, come mostro nel film, hanno sempre un piano B».
Bisogna insomma sfatare il mito (un tantino maschilista) che le donne sono felici di prostituirsi?
«Non so se sia maschilista o meno, però secondo me vivono con un fondo di amarezza. La stessa Pretty Woman sognava il grande amore. Personalmente ho sempre visto la figura della prostituta come una persona che si è persa un po'... e mi suscita più che altro molta tenerezza».
Capitolo fede: lei crede?
«Mi sento a metà strada tra San Tommaso e Margerita Hack. Credo quindi che la mia risposta sia un grande... boh. Però semi dovesse apparire Dio, mi butterei a terra e, da bravo commediante, Gli direi: "C'ho sempre creduto!"».
Alcuni comici lamentano che la categoria viene snobbata dai premi che contano. Lei che dice?
«Una volta chiesi a Rocco Papaleo: "Preferiresti la gente che va a vedere i tuoi film oppure tre David di Donatello e cinque Nastri d'argento?". E Lui: "Ma perché me lo chiedi? Ma la gente! Anche se mi sputano in faccia, io preferisco la gente!". Sottoscrivo. Noi siamo dei cialtroni, non ambiamo ai premi ma a fare stare bene la gente».
Stavolta, però, fare alti incassi sarà dura visti i tempi...
«Ma non hanno mica rimesso i pop corn? Mi dico che ci sono: e allora, avanti tutta! Il momento è chiaramente quello che è, lo so, ma bisogna difendere la sala in tutti i modi: meglio un pubblico di sole 30 persone ma in sala».
Chiudo con una domanda obbligatoria: cosa pensa della reazione di Will Smith?
«Agli Oscar avevano appena finito di invocare la pace e l'amore universale e lui che fa? Si alza e dà una crocca in faccia a Carlo Conti... non va bene! Battuta a parte, Smith ha fatto una grande cavolata.
Se a Chris Rock avesse risposto con un'altra battuta, sarebbe diventato l'eroe di Hollywood. Tra l'altro il vero schiaffo ti arriva quando il pubblico in sala non ride... Alla fine, il vero comportamento da Oscar è stato paradossalmente di Rock che non ha reagito».
Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi, storia di un grande amore nato sul set. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.
Galeotto tra l’attrice e il regista fu il film del 2007 «Una moglie bellissima»: le tappe della loro relazione, da cui nel 2010 è nata Martina.
«Una moglie bellissima»
«Andavo alla stazione, mi partì il treno. Mentre aspettavo, non c’erano Facebook o Instagram, vidi una rivista con una ragazza meravigliosa, con un costume da bagno particolare. La comprai e dissi al mio costumista che uno degli scatti doveva avere questa specie di costume. Lui mi rispose: “Sì, tu mi parli del costume ma non sappiamo ancora chi è la protagonista”. Io replicai: Chiamiamo questa, così ci facciamo portare anche il costume”. E andò così». Ecco come a Leonardo Pieraccioni (sono sue le parole appena citate, affidate qualche anno fa al settimanale Oggi) venne l’idea di scegliere come protagonista del film del 2007 «Una moglie bellissima» (che si potrà rivedere su Cine34 sabato 29 gennaio alle 19.04) Laura Torrisi, con cui il regista toscano ha vissuto un’intensa storia d’amore.
Ex gieffina
Di origini siciliane (è nata a Catania il 7 dicembre 1979) ma pratese d’adozione al tempo del film Laura Torrisi aveva già avuto alcune esperienze nel mondo dello spettacolo: nel 1998 aveva partecipato alla cinquantatreesima edizione di Miss Italia, giungendo tra le finaliste, e nello stesso anno aveva ottenuto una piccola parte ne «Il signor Quindicipalle» di Francesco Nuti. L'anno successivo aveva recitato in «Lucignolo», pellicola diretta da Massimo Ceccherini, ma la grande popolarità sarebbe arrivata soltanto nel 2006: Laura infatti partecipò come concorrente alla sesta edizione del Grande Fratello, reality show condotto da Alessia Marcuzzi su Canale 5 (fu eliminata in semifinale). «Sono rimasta abbastanza traumatizzata da quell'esperienza - avrebbe poi raccontato a distanza di anni a Il Giornale -. Non fa parte di me. Nella casa sono stata remissiva, non è uscito per niente il mio carattere. È andata decisamente meglio col cinema».
La figlia Martina
In «Una moglie bellissima» Leonardo Pieraccioni interpreta Mariano Stoppani, commerciante di frutta e verdura sposato con la bellissima Miranda da alcuni anni. Un giorno l'affascinante fotografo Andrea (interpretato da Gabriel Garko), rimasto folgorato dalla bellezza della donna, le propone di posare per il calendario sexy della nota rivista «Beautiful Life!», evento che sconvolgerà completamente la vita (fino a quel momento tranquilla) di Mariano e Miranda. Quando uscì al cinema la pellicola ottenne un grandissimo successo (divenne il secondo film più visto in Italia durante il periodo natalizio del 2007 e il film più visto anche nel primo weekend del 2008) e quell’amore appena sbocciato sul set tra Pieraccioni e Torrisi proseguì anche lontano da riflettori. «Lui è sempre stato un paradigma di normalità - ha raccontato Laura a Vanity Fair -, ed entrambi cercavamo di condurre una vita ordinaria. Non abbiamo mai sgomitato per una copertina, non abbiamo mai fatto a gara per parlare di noi». Nel 2010, il 13 dicembre, la coppia ha dato il benvenuto alla prima figlia: Martina.
La rottura
A quasi sette anni dal primo incontro, nel 2014, in seguito alla pubblicazione su Chi di un presunto tradimento, con le immagini di Laura Torrisi in compagnia di un altro uomo , è arrivata la conferma ufficiale della separazione tra l’attrice e il regista de «Il ciclone»: «In merito alle ultime notizie che ci riguardano vogliamo fare dei chiarimenti. La storia tra noi è finita da tempo, come molti di voi avevano intuito - si legge nel messaggio pubblicato all’epoca dalla coppia su Facebook -. Le nostre vite sentimentali si sono divise, ma è rimasta immutata la stima e la fiducia reciproca di una vita genitoriale insieme che ci auguriamo con tutto il cuore continui ad essere felice come adesso. E questa è la cosa che più ci interessa». Qualche anno dopo in un’intervista a Vanity Fair Pieraccioni ha speso soltanto parole d’affetto per l’ex compagna: « Con Laura sono arrivato al venticinquesimo della maratona. E se non sono arrivato in fondo con lei, vuol dire che per me è impossibile. Lei era perfetta, fisicamente, mentalmente: una ragazza di provincia come me, che ama parlare del pizzicagnolo e vivere in campagna. Una così non mi ricapita più».
Ottimi rapporti dopo la separazione
Nonostante non siano più una coppia oggi Laura Torrisi e Leonardo Pieraccioni (che in anni recenti hanno ritrovato l’amore accanto ad altre persone) sono in ottimi rapporti: i due sono uniti dall’amore per la figlia Martina. «Di solito decidono quasi tutto babbo e mamma insieme ed i figli si adeguano, con i figli di genitori separati invece spesso si crea una coppia buffa, sbilanciata, non c'è davvero un capo assoluto, o meglio ci dovrebbe essere ma poi si finisce per diventare dei compagni di viaggio molto democratici - raccontava il regista toscano ai suoi follower su Instagram -. A volte con questi figli siamo troppo indulgenti, probabilmente per farci perdonare il nostro amore finito, o forse solo per rassicurarli che con loro non finirà mai».
La risposta di Levante al medico che ha chiesto al suo compagno “dov’è la mamma?”. Nextquotidiano.it il 5 maggio 2022.
La cantante, il suo compagno e la piccola Alma si erano recati dal medico per un esame. Ad accompagnare la bimba nella stanza dello studio è stato il papà e il dottore ne è rimasto quasi “sorpreso”
“Dov’è la mamma?”. Una domanda che può apparire banale dietro cui, però, si nascondono vecchi retaggi non al passo con i tempi. A raccontare questa vicenda è la cantante Levante, all’anagrafe Claudia Lagona, che su Instagram ha voluto parlare di quella richiesta fatta dal medico che stava per eseguire un esame di routine – un elettrocardiogramma – su Alma, la piccola nata pochi mesi fa dalla relazione tra la cantautrice siciliana e il suo compagno Pietro Palumbo. E proprio la sola presenza dell’uomo ad accompagnare la neonata è stata la “pietra dello scandalo”.
L’episodio è accaduto nella giornata di ieri, quando Levante e il suo compagno si sono recati dal medico per far sottoporre la piccola Alma a un esame diagnostico cardiaco. All’interno della stanza, con i braccio la bimba, è entrato solamente il padre. E da lì la domanda del medico che ha provocato la reazione indignata della cantante.
“ECG di Alma. Io in sala di attesa. Pietro entra con la bambina e il dottore chiede della mamma. O ci fate entrare entrambi, oppure non domandate. Alma ha una mamma e un papà, ma nel caso in cui uno dei due non ci fosse (soprattutto io) non dovrebbe essere un problema per nessuno”.
Una domanda che, nel 2022, non dovrebbe essere più fatta. Levante si è sempre esposta in favore della parità di genere e ha spesso sottolineato come alcune differenze – anche dialettiche nel racconto e nelle azioni della quotidianità – siano figlie di vecchi retaggi culturali. E il caso del medico “sorpreso” per l’assenza della madre (che in realtà era in sala di attesa visto che le norme anti-Covid impediscono la presenza di entrambi i genitori all’interno di una stanza in un centro medico) sembra essere l’esatta descrizione di quel portone culturale non ancora scardinato.
Levante protesta su Instagram: "Il medico non ha visitato mia figlia con il mio compagno". La Repubblica il 4 maggio 2022.
L'artista racconta sui social che il dottore non ha voluto visitare la loro bambina Alma Futura alla presenza del papà e ha chiesto della mamma.
Levante, pseudonimo di Claudia Lagona, racconta in una storia su Instagram di un episodio poco piacevole avvenuto con la sua bimba in uno studio medico. Il suo compagno è entrato con la loro bambina Alma, nata lo scorso febbraio, nella sala per una visita medica ma il dottore ha chiesto della mamma. Il commento di Levante è arrivato subito sui social: "Alma ha una mamma e un papà, ma nel caso in cui uno dei due non ci fosse (soprattutto io) non dovrebbe essere un problema per nessuno". E poi aggiunge: "Se passeggio con mia figlia e la fame chiama, mamma Levante non perde tempo e sfama la sua piccolina per strada definendolo un atto splendido in luogo pubblico."
E appare subito il commento su Instagram: "Atti splendidi in luogo pubblico. Rido molto più di prima. Piango anche, ma non più come prima. Sto scrivendo un disco che sento essere meraviglioso, perché sto crescendo e crescere è meraviglioso. Alma e io siamo inseparabili, per questioni biologiche e non. Per qualsiasi appuntamento con me riservate un buco per il passeggino".
Questo racconta nel suo ultimo scatto con la sua piccola, nata dall'amore per Pietro Palumbo, avvocato di origini siciliane, al quale è legata da due anni circa, dopo essere stata sposata nel 2015 con il musicista Simone Cogo e aver avuto una storia con il cantautore Diodato, conclusa nel 2019.
Levante e la maternità: «Mi sento una matrioska, ma non cambierà la vecchia vita, diventerà più piena». Giulia Caminito su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.
«Quando ho scoperto di essere incinta era troppo tardi per prendere una strada diversa e l’ho accettata», racconta la cantautrice. La nascita prevista il 15 febbraio, «sarà Acquario, speriamo». «Ora sento di essere in un cambiamento morbido». Dialogo fra trentenni sulla necessità (o no) di essere madri
Claudia Lagona, vero nome della cantautrice Levante, 34 anni, di Caltagirone, incinta della bimba che nascerà a metà febbraio.
Questa intervista è il servizio di copertina del nuovo numero di 7 in edicola venerdì 28 gennaio: la cantante è stata intervistata dalla scrittrice Giulia Caminito. La proponiamo online per i lettori di Corriere.it, insieme all’intervento della psicologa, pedagogista e accademica italiana Silvia Vegetti Finzi. Buona lettura
Levante ha appena finito di lavorare alla colonna sonora del film di esordio di Pilar Fogliati, ha lanciato in estate un nuovo singolo e pubblicato il suo ultimo romanzo. Non sembra volersi fermare mai. Intanto una gravidanza inattesa, un cambiamento del corpo e dei ritmi che fanno ripensare a quando a essere bambina era lei. Una cantautrice molto legata alle parole, una autrice di libri per osmosi e un futuro da costruire, una donna in attesa di quello che verrà.
Come sta, intanto?
«È un momento inaspettatamente bello, mi sento come una matrioska. Maternità è una parola che mi stranisce, perché mi sento sempre figlia. Non ho cercato di diventare madre e ho scoperto tardi di essere incinta, al terzo mese. Avevo paura fosse invalidante, invece ho saltato su e giù dal palco fino a quale mese fa. Se fosse stato diverso mi sarei buttata giù probabilmente, l’avrei vissuta male. Essere incinta vuol dire che tante cose cambiano e invece io ho cercato di non cambiare nulla intorno a me, mi sono ributtata nella musica».
Ha detto una volta che era più forte di lei: non riusciva proprio a pensare ai figli. Io anche vedo la possibilità di avere figli come qualcosa di estremamente distante, quasi nebuloso, astratto. Nel suo caso poi cosa è cambiato?
«Quando l’ho detto in realtà ero già incinta e non lo sapevo. In qualche modo le cose sanno trovarti. Non avevo necessità di essere madre, anzi mi sono sempre vista nel mio futuro come una donna anziana, sola e felice con i miei anelli, i libri, la musica. Poi il 15 luglio arriva la notizia, faccio il test ed è positivo e io sorrido, inizio questo viaggio. Mi chiedevo da tempo, inconsciamente, che donna sarò? Mi sembra infatti che le donne a un certo punto della loro vita se lo chiedano. Il destino ha risposto per me, era troppo tardi per prendere una scelta diversa e io l’ho accettato. Oggi mi dico: questa è la mia vita. Questa novità non cambierà la vecchia vita, la riempirà, diventerà più affollata, piena».
«CON MIA MADRE HO UN RAPPORTO PROFONDAMENTE SUPERFICIALE. ABBIAMO MOLTI NON DETTI E NON ABBIAMO PARLATO DEL MIO STATO»
Sia nell’ultima canzone Dall’alba al tramonto che nell’ultimo romanzo E questo cuore non mente (Rizzoli) affronta i poli opposti dell’inizio e della fine. Sta vivendo anche il suo diventare madre come una fine e un inizio?
«Sento di essere in un cambiamento morbido, per quanto io mi sia trasformata fisicamente e psicologicamente. Sono in una nuova me per certi versi, infatti non mi conoscevo così pacata e rilassata, capace di attendere. Ho un carattere forte, muscolare, che però è come alleggerito dalla gravidanza. Non vedo questa nascita come la fine di una vecchia me. La vedo come una sorta di trasloco: porto me stessa in una nuova casa. Mi sono chiesta come si affronta una nuova vita di solito? Facendo le valigie. E così anche questa volta. Io ho avuto molte vite nella mia, e ho ricominciato tante volte con una valigia in mano, e anche ora l’ho riempita, la tengo stretta. Alle mille me, se ne aggiunge una».
Quando nascerà la bambina?
«Il 15 febbraio, e sarà Acquario, speriamo. Per fortuna non sarà Gemelli».
Io sono Gemelli.
«Ahia (ride). Credo moltissimo che i pianeti influenzino il nostro venire al mondo, il fatto che nasciamo in un luogo e in un momento preciso. Le donne Acquario si dice che siano serene, simpatiche. E forse lo sarà anche lei, nascerà fortunata, in una coppia equilibrata ed ironica».
«AL FESTIVAL DEGLI SCONOSCIUTI, TEDDY RENO MI DISSE CHE ERO BRAVA, AVEVO TALENTO, MA ERO TROPPO “CONSOLIANA”... IL PUNTO È CHE SONO FIGLIA DI QUEGLI ASCOLTI. C’È STATA CARMEN CONSOLI NELLA MIA MUSICA E POI L’HO ABBANDONATA, COME SI LASCIANO I MAESTRI»
So che è cresciuta in una famiglia a maggioranza femminile e che ha un rapporto di amore silenzioso con sua madre, avete parlato della maternità?
«Io e mia mamma abbiamo un rapporto profondamente superficiale, non ci diciamo mai nulla di emotivo, come stiamo o siamo state, e tutto rimane in superficie con degli sguardi e dei piccoli gesti. Abbiamo molti non detti e non abbiamo parlato della mia maternità. Non amo affrontare con mia madre argomenti seri e impegnativi, forse perché ho la cattiva abitudine di avere il controllo sulle parti più fragili di me. So che a parlarne una di noi due piangerebbe, di gioia o di dolore. Ho già visto tanto piangere mia madre quando ero bambina e non voglio più farlo. Io e lei silenziosamente sappiamo».
Spera che anche sua figlia sarà una capatana , una capitana come era lei da bambina quando si faceva notare già alle recite scolastiche?
«Sto pregando tutti i giorni perché lei non mi somigli e somigli al padre. Io sono nata prepotente e poi a nove anni, dopo la morte di mio padre, sono diventata una bambina addolorata. Quando mio padre muore, mi crolla addosso la famiglia, ognuno prende la sua strada, viviamo momenti molto bui e io divento la madre di mia madre. Sono cresciuta più introversa. Auguro a mia figlia di essere morbida, meno leader e più parte del gruppo. Non essere come me: la bambina fastidiosa che vuole comandare. Mi detesto rivedendomi nei filmini delle recite e provo vergogna».
Sto leggendo gli scritti sull’infanzia di Elsa Morante e lei dice di essere stata quella bambina molesta che vuole decidere tutto per gli altri, e poi rimane sola, nessuno le fa le sue confidenze.
«Eh, esatto. Io vorrei mia figlia fosse la confidente e non la capatana ».
A proposito di una grande scrittrice come Morante. Quali sono le sue maestre musicali e letterarie?
«Letterarie devo dire poche, sono cresciuta leggendo un po’ a caso, la letteratura mi ha ispirata in maniera caotica, ho scoperto di recente alcune scrittrici come Goliarda Sapienza ed Elena Ferrante. Invidio chi ha i propri riferimenti forti letterari e ne conosce intere monografie. Musicalmente sono da sempre più centrata e le donne sono state per me vere maestre. Nei suoi vent’anni Carmen Consoli ha rivoluzionato il panorama musicale, era una ragazzina che portava Catania in tutta Italia. Io ero fierissima di lei, seguivo tutto quello che faceva e ho scoperto altre donne che ho fatto mie come Alanis Morisette, Tori Amos, Janis Joplin, Mina. Mi hanno cambiato lo sguardo, erano ribelli, incazzate, dirette. Ho amato anche gruppi come gli Afterhours e i Verdena, ma l’impronta è stata femminile».
Quando ha iniziato a cantare e come si è smarcata poi da alcune maestre “ingombranti”?
«Ho iniziato prestissimo. Il primo provino l’ho fatto a tredici anni e da Catania siamo arrivate ad Ariccia, dove c’era un festival a cui mi aveva iscritta mia zia Tiziana - ha sempre creduto in me. Si chiamava il Festival degli sconosciuti. Salgo sul palco, ho le dita massacrate perché suonavo da poco la chitarra, e faccio i miei due pezzi da sei minuti l’uno. Teddy Reno mi dice alla fine che sono brava, ho talento, ma sono troppo “consoliana”. Il punto è che io sono figlia di quegli ascolti, c’è stata Consoli nella mia musica e poi l’ho abbandonata, come si lasciano i maestri per diventare sé stessi. All’uscita di Alfonso nel 2013 subito è partito il confronto».
Poi avete anche collaborato nella canzone Lo stretto necessario .
«Sì e io ho pianto, perché Carmen cantava una mia canzone e perché le dicevo insieme addio, quella me “consoliana” era finita. Mentre registrava la sua parte, Carmen mi disse che aveva cambiato il controcanto perché le nostre voci erano simili. E qui torna il discorso di chi siamo e dove nasciamo, due donne siciliane della stessa città sono condizionate dal dialetto, da quelle voci roche, che sono le nostre: simili e diverse insieme. L’impegno e la forza di volontà mi hanno resa Levante e non la ragazza catanese con la chitarra».
A me non riesce ancora la prospettiva della madre, quando scrivo nei romanzi di madri lo faccio come figlia, incastrata nello sguardo sul materno piuttosto che nello sguardo del materno, interno, attraversato. Ora che le cose sono diverse per lei, pensa che scriverà un romanzo sull’esperienza della maternità?
«Spero di non farlo. Gli altri tre romanzi che ho scritto non servivano a nessuno se non a me. Non faccio questo di mestiere, ma avevo un sogno nel cassetto. I miei libri approfondiscono i dischi, sono una realtà aumentata della mia musica. Mi imbarazzo quando mi chiamano scrittrice, perché per me è come quando dipingo, mi piace farlo, è qualcosa che appartiene anche a mia madre, ma non direi mai che sono una pittrice. Ogni tanto dipingo e ogni tanto scrivo libri».
Ho visto che ha collaborato di recente a una linea di gioielli che si chiama Odissea, e ho avuto anche questa volta l’impressione che lei sappia farsi riconoscere in tutto ciò che fa.
«Non mi impegno mai in cose che non mi somigliano e non so difendere. Lo faccio per creare qualcosa di bello, qualcosa che sia parte di me. Per questo rifiuto i guadagni furbi, e cerco i legami. Come nel caso dell’Odissea, è il primo libro che ho letto. Era nella libreria di famiglia ed è parte della mia terra. C’erano l’ Odissea e l’ Iliade , con una copertina favolosa, era l’edizione del ginnasio di mio padre».
Sembra avere un amore per il bello. Ho sempre apprezzato il suo stile eclettico, vivo.
«La mia è quasi una ossessione estetica, una tensione alla bellezza che cerco continuamente. Anche casa mia è così, è caotica, piena di cose ma insieme tutto quello che c’è e come io lo dispongo crea una composizione che mi appaga».
E questa tensione estetica come si trasformerà da madre?
«Non lo so, so soltanto che ho terrorizzato tutti i parenti (ride) perché non mi facciano regali che poi di sicuro non metterò alla bambina. Vedremo».
Ha confessato che tiene sempre almeno un paio di quaderni in borsa per la scrittura, come funziona?
«Li tengo in borsa e poi quando termino un disco, anche se il quaderno è mezzo vuoto, devo archiviarlo tra le cose fatte. Ho un quadernino rosso, che mi hanno regalato a Natale anni fa, e da poco ho ripreso a usarlo. È il quaderno dedicato al nuovo disco, ho cominciato a riempirlo a inizio pandemia, era marzo 2020 ed io ero sola nella mia casa di Torino. Mi sono impegnata a finire il mio ultimo romanzo e il quaderno rosso è stato messo in stand-by, poi ho fatto il tour e di nuovo è stato accantonato, a settembre ho scritto la colonna sonora per un film - su un altro quaderno perché tengo separata la scrittura per me da quella degli altri. Ora finalmente sono tornata al quaderno rosso, al mio nuovo album».
Com’è la Levante che verrà?
«Non lo so, so però che non vedo l’ora di essere una madre, mi rendo conto che tutte le mie paure erano solo supposizioni. La vita prende delle pieghe e tu ti pieghi con lei. La cosa che più mi preme è riprendere il mio cammino artistico. Sono devota al lavoro, faccio un lavoro che è un sogno e sono una grande sognatrice. Ho bisogno di canalizzare la creatività che mi abita, di continuare il mio percorso e la bambina lo continuerà con me. Non voglio rinunciare a niente e voglio insegnarle che non c’è bisogno di rinunce per essere madre. Mia madre è rimasta incinta la prima volta a diciassette anni e ha continuato arrivando a quattro figli, e ha sempre fatto la casalinga perché mio padre aveva un buon lavoro. Questa cosa mi fa impazzire perché mia madre è piena di talento ed è intelligentissima. So che non le è pesato e che lo ha scelto, ma questa scelta pesa su di me. Non sarò quel tipo di madre, non sarò quella che si sacrifica».
*Giulia Caminito, 34 anni, scrittrice romana, è l’autrice di questa intervista. con il suo terzo romanzo, l’acqua del lago non è mai dolce, (bompiani) ha vinto il premio campiello ed è stata finalista allo Strega 2021
Liam Neeson compie 70 anni, 9 cose che non sapete di lui. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 7 giugno 2022.
L’attore irlandese, prima di diventare una star, ha avuto un’adolescenza molto articolata.
Pugile dilettante
La carriera di Liam Neeson, nato a Ballymena, in Irlanda del Nord, il 7 giugno 1952, ha seguito una traiettoria affascinante: dai drammi come «Schindler’s List» del 1993 (sette statuette, tra cui miglior film e miglior regia e una nomination per Neeson) e «Rob Roy» del 1995, dal 2008 l’attore è passato ad action movie adrenalinici come «Taken - Io vi troverò», in cui interpreta Bryan Mills, un agente dell’intelligence specializzato in operazioni paramilitari che deve trovare la figlia scomparsa, la cui minaccia «Ti troverò e ti ucciderò» è diventata un cult. Non tutti sanno però che Neeson più che alla recitazione puntava al pugilato. Nel 2014, il divo ha ricordato quando, a nove anni, alla messa della domenica, il suo parroco, padre Alex Darragh, annunciò di aver messo in piedi una palestra dove imparare a boxare. «Aveva due paia di robusti guantoni da boxe logori, e un libro su come boxare. Sei anni dopo — lo dico con molto, molto orgoglio — il nostro era diventato uno dei migliori club d’Irlanda. Ho ancora amici molto cari di quegli anni». Alcuni traumi subiti sul ring quando ha tra i 15 e i 17 anni, spingono Neeson ad abbandonare i guantoni per proseguire gli studi di recitazione.
Addetto ai carrelli elevatori
Dopo il liceo, Liam si iscrive alla Queen’s University di Belfast con indirizzo fisica e informatica. Vuole fare l’insegnante e per alcuni anni salirà in cattedra, fino a quando un episodio lo costringerà ad abbandonare la professione. Succede quando un ragazzino di 15 anni che stava disturbando la classe, tira fuori un coltello e minaccia Neeson. La rezione dell’attore è violentissima: prende a pugni il giovane. Neeson spiegherà, dopo le scuse, di essersi sentito minacciato: purtroppo la violenza ha sempre fatto parte della sua vita. Per mantenersi, Liam si rimbocca le maniche e svolge diversi lavori come il camionista e l’addetto ai carrelli elevatori nel birrificio della Guinness. Nel frattempo continua a coltivare la sua passione per la recitazione ed entra nel Lyric Players Theatre di Belfast.
«Miami Vice»
Dopo alcuni piccoli ruoli nei primi anni ’80, Neeson approda a Hollywood, dove interpreta film come «Excalibur» del 1981 e «Il Bounty» del 1984, al fianco di Anthony Hopkins e Mel Gibson. Appare anche in «The Mission» (1986) con Jeremy Irons e Robert De Niro. L’amicizia con De Niro gli vale un ruolo in un episodio del 1986 di «Miami Vice». Bob lo presenta a un’agente di casting di nome Bonnie Zimmerman, il quale aiuta Neeson a ottenere una parte nella serie tv, nel ruolo del terrorista dell’IRA Sean Carroon.
L’amore con Dame Mirren, la morte di Natasha
Sul set di «Excalibur» Neeson conosce Helen Mirren con la quale intreccerà una relazione che durerà 4 anni. Il grande amore della sua vita sarà però l’attrice Natasha Richardson, figlia di Vanessa Redgrave e Franco Nero, conosciuta a Broadway sul palco dell’opera teatrale Anna Christie nel 1993. Si sposeranno il 3 luglio dell’anno dopo. Un’unione da cui nasceranno due figli, Michael, classe 1995, e Daniel, 1996. Innamoratissimo della moglie, quando lei muore prematuramente a causa di un trauma cranico subito per una caduta dagli sci nel 2009. Neeson, che autorizza la donazione degli organi della moglie, precipita in una spirale di alcol e droga da cui uscirà solo nel 2013. A proposito di quel periodo, tempo dopo ricorderà: «Ero solo e bevevo troppo, ho iniziato quando Natasha è morta».
Successo e ruoli mancati
A dare notorietà a Neeson è il ruolo da protagonista nel film di Steven Spielberg «Schindler’s List» (1993), che ha alla meglio sugli altri candidati alla parte: Kevin Costner, Mel Gibson e Warren Beatty. La pellicola vince 7 premi Oscar, tra cui miglior film e miglior regia, e lancia la carriera dell’attore che reciterà in molti altri lungometraggi di successo, come «Michael Collins (1996)», «Les Misérables» (1998), «Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma» (1999), in cui interpreta il ruolo del cavaliere Jedi Qui-Gon Jinn, il dramma biografico «Kinsey» (2004), il blockbuster «Batman Begins» (2005), dove interpreta Ra’s al Ghul, fino alla serie di thriller d’azione «Taken» (2008–2014). Neeson avrebbe dovuto interpretare l’iconico James Bond in «Golden Eye» nel 1995, ma la parte andò poi a Pierce Brosnan. È stato anche candidato al ruolo di Van Helsing in «Dracula», ma gli studios scelsero poi Anthony Hopkins. Steven Spielberg lo avrebbe voluto come Lincoln nell’omonimo film. I ritardi delle riprese resero impossibile la sua partecipazione: la parte fu così assegnata a Daniel Day-Lewis (antagonista di Neeson in «Gangs of New York», 2002, di Martin Scorsese), che vinse il suo terzo Oscar.
Sponsor con il ferro da stiro
Neeson ha 3 sorelle di nome Elizabeth, Bernadette e Rosaleen. Nel 2012, per aiutare la sorella maggiore a lanciare la sua nuova lavanderia nella loro città natale, Ballymena, nell’Irlanda del Nord, la star ha trascorso più di due ore a stirare le camicie per i clienti.
Esperienze estreme
Per entrare al meglio nella parte del protagonista del survival movie del 2012 «The Grey», Neeson si è preparato mangiando carne essiccata di lupo. Per abituarsi alle rigide temperature del set all’aperto ha inoltre raccontato di essersi fatto lunghe docce per abituare il corpo: «Avevo visto un documentario su un tizio che aveva nuotato nell’Antartico da un iceberg all’altro — ha raccontato —. Prima di farlo era rimasto sotto una doccia gelata per 10 minuti. L’ho fatto anch’io, per sette minuti, e ha funzionato». La star ha anche ricordato che, a causa del gelo, «il collegamento tra cervello e bocca non funzionava bene. Capitava anche agli altri. Il regista si arrabbiava perché credeva non avessimo imparato le nostre battute».
L’acrofobia
Nonostante negli ultimi anni si sia reinventato come una star d’azione, Neeson ha il terrore di una cosa: l’altezza. L’attore soffre infatti di una grave acrofobia e ha persino scherzato con Jay Leno dicendo che persino «un tappeto un po’ spesso può farmi venire le vertigini». Alla rivista «People» ha confessato: «C’è chi potrebbe impazzire per un serpente o un ragno. Io no: raccolgo i ragni e li metto fuori e cose del genere. Ma mettimi su una sedia per aggiustare una lampada o qualcosa del genere, e allora, boom!».
Contro le armi da fuoco
Liam Neeson si è più volte espresso a favore del controllo delle armi da fuoco negli Stati Uniti. Una posizione per la quale è stato aspramente criticato visto il suo ruolo in film violenti come «Taken». Critiche a cui Neeson ha risposto sostenendo che «guardare film sui cowboy non mi ha trasformato in un assassino». Le armi usate sul set di «Taken» sono fornite dalla società Para USA, che in risposta alle affermazioni dell’attore ha dichiarato: «Non forniremo più armi da fuoco da utilizzare nei film con Liam Neeson e chiederemo ai nostri amici e partner di Hollywood di astenersi dall’associare i nostri brand e prodotti ai suoi progetti». Considerate le sue opinioni in merito, c’è da credere che l’ineffabile Neeson non abbia fatto un plissé.
· Liberato è Gennaro Nocerino.
Clamorosa gaffe della Siae: così ha svelato l'identità del rapper Liberato. Sul sito della Siae il nome del producer napoletano Gennaro Nocerino è stato associato a quello del misterioso rapper, che dal 2017 canta con il cappuccio in testa. Novella Toloni su Il Giornale il 27 Luglio 2022.
Dal 2017 nascondeva la sua identità alimentando il mistero su di sé e incuriosendo i fan. Ma è bastata una "gaffe" della Siae per smontare una carriera lunga cinque anni e con all'attivo tre album. Liberato, il popolare rapper napoletano, che da anni canta con un cappuccio in testa altri non è che Gennaro Nocerino. Il nome non dice niente, ma la sua identità svelata ha creato un vero e proprio terremoto sui social network.
Come Miss Keta, la rapper che si nasconde dietro occhiali e velo sul volto, Liberato era rimasto l'unico artista della scena pop e rap italiana a nascondere il suo volto. Un modo per attirare l'attenzione e alimentare l'interesse del pubblico oltre la musica. Dal momento del suo esordio musicale, teorie e voci si sono rincorse per capire chi si nascondesse sotto il cappuccio. Qualcuno sosteneva che si trattasse di un ex carcerato, altri che sotto il cappuccio ci fosse Livio Cori o Wad.
Lui, Liberato, non ha mai confermato né smentito le supposizioni dei fan. In compenso ci ha pensato la Siae a smontare un mistero lungo cinque anni. La Società Italiana degli Autori ed Editori ha rivelato per sbaglio la sua identità, associando una sua canzone al producer napoletano Gennaro Nocerino, meglio conosciuto come "Herr Styler" nel mondo della musica elettronica. E sui social gli utenti si sono scatenati: "Abbiamo capito che dietro Liberato c'è Gennaro Nocerino. Non ci resta che scoprire chi cazz è 'sto Gennaro Nocerino!?", "Per me Liberato rimarrà sempre un napoletano bello come il sole, no hate su Gennaro Nocerino però chi schifu", "Liberato è un progetto. Non è solo Gennaro Nocerino, ma si sa da anni. E va bene così".
Sempre secondo la Siae, Liberato sarebbe il terzo componente del trio elettronico Future Romance, composto dai producer Fiorius, Bawrut e, appunto, Gennaro Nocerino. Ma visto quello che sta succedendo sul web, il fatto che la sua identità sia stata rivelata erroneamente dalla Siae non cambia l'interesse verso l'autore. Per qualcuno, però, dietro alla "rivelazione" ci sarebbe una manovra pubblicitaria. "Calcolando che l'ultimo album uscito ha avuto un successo nettamente minore a quello precedente, perché palese un organizzazione come quella che sta dietro Liberato trova modo per far parlare di sé", ha ipotizzato un fan su Twitter. Quello che è certo è che il nome di Liberato continua a impazzare sui social.
Svelata l’identità di Liberato? I sospetti su Gennaro Nocerino. Il Domani il 27 luglio 2022
A risolvere il mistero potrebbe essere un documento della Siae. L’ultima apparizione in pubblico di Liberato risale al 20 luglio in un concerto a Procida
Se lo chiedono tutti chi sia e ora, forse, conosciamo veramente l’identità del cantante Liberato che ha sempre tenuto nascosto ai suoi milioni di fan. Potrebbe averla svelata la stessa Siae, la società che gestisce i diritti d’autore dopo che in un documento ha inserito tra gli autori del brano “Future Romance” Bawrut e Liberato, ma il nome del cantante campano invece non compare nel video pubblicato su Youtube.
Sulla nota piattaforma video è presente il nome di Gennaro Nocerino, che non compare invece nel documento della Siae. Per diverse testate e migliaia di fan, quindi, è proprio lui a essere il noto cantante campano Liberato. Tuttavia tra gli autori del brano Future Romance c’è anche uno sconosciuto non iscritto. Se si effettua una ricerca con il nome di Gennaro Nocerino negli archivi della Siae, compare una sola canzone dal titolo “Rose Noir” e affianco al suo nome è specificato “non iscritto”.
Ad avvalorare la tesi, però, c’è già un precedente: i due autori (Bawrut e Liberato) hanno già pubblicato un singolo nel 2021 dal titolo “Je ‘o tteng e t’o ddòng”.
CHI È GENNARO NOCERINO?
Gennaro Nocerino è di origine campane ma ha vissuto tra Tokyo e Parigi. Nella sua carriera musicale ha fatto parte del duo Herr Styler, tenendo sempre l’identità nascosta. «Siamo gli Herr Styler e abbiamo un’immagine misteriosa ed enigmatica perché si vende di più», aveva dichiarato il duo nel 2010. Nelle interviste i musicisti si facevano chiamare G. e S., proprio per non rivelare indizi su di loro.
Ora di Herr Styler rimane una pagina su Soundcloud e una serie di video musicali pubblicati su Youtube. Gli account Facebook e Twitter sono stati cancellati e l’ultima canzone risale a circa sette anni fa.
LE ALTRE IPOTESI
In passato a Liberato sono stati accostati diversi nomi. Primo fra tutti quello del rapper dei Quartieri Spagnoli Livio Cori, oltre al regista dei suoi videoclip Francesco Lettieri, e il poeta Emanuele Cerullo. Tanti indizi ma nessuna conferma, dato che anche Gennaro Nocerino ha sempre tenuto un “profilo basso” nella sua carriera musicale.
Sui social i fans ipotizzano di tutto e c’è anche chi esce fuori dal coro: «Io vorrei sapere il nome del manager...un genio... cioè secondo me Liberato non è una persona, ma un gruppo di geni che hanno creato un concept vincente-siete grandi», si legge come commento sotto a una foto pubblicata dall’account Instagram di Liberato.
L’ultima apparizione in pubblico del cantante risale allo scorso 20 luglio in un concerto nell’isola di Procida suonato su una zattera lontano dalla spiaggia. È apparso come al suo solito con cappuccio e mantello per evitare di essere riconosciuto. In un mondo di apparizione chissà se il suo segreto è proprio il mistero.
La svolta nel mistero del fenomeno pop partenopeo. Chi è Gennaro Nocerino: il performer, cantante e producer napoletano: “È lui Liberato”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 26 Luglio 2022.
Il mistero di Liberato, il cantante anonimo napoletano diventato negli ultimi anni un vero e proprio fenomeno pop, sembra essere stato definitivamente risolto grazie a un video pubblicato su Tik Tok in cui si mettono in fila uno dietro l’altro una serie di prove, alcune più convincenti altre meno, insieme con informazioni già note che hanno portato alla notizia, una specie di scoop che è rimbalzato sui social diventando in pochi minuti virale: Liberato è (sarebbe) Gennaro Nocerino.
L’account Alex Valenty ha messo insieme una serie di indizi: a partire dall’affinità tra le voci dei due, agli autori accreditati da Google alla canzone We Came from Napoli, all’incrocio dei dati SIAE su un progetto, ai movimenti sul palco dei due, alle sopracciglia perfino. Una specie di inchiesta che avevamo riassunto qui. “Finalmente, dopo anni di congetture e ricerche, svelata l’identità di chi si cela dietro al rapper incappucciato dei record: LIBERATO. Il suo nome è Gennaro Nocerino, ed è stato scoperto grazie al sito della Siae. Il cantautore napoletano in passato era stato accostato a: Livio Cori, Emanuele Cerullo e poi a Wad e infine c’era la leggenda che fosse un carcerato ‘in semi libertà’. In realtà Liberato è il performer Gennaro Nocerino”, ha riassunto The Pipol Gossip.
Quello di Nocerino, anche rispetto ad altri nomi presi in considerazione, è un profilo sconosciuto al grande pubblico seppur noto e accreditato nel giro di musica elettronica. È un producer, tastierista, cantante e autore napoletano. Ha fondato con Fabrizio Marco Maiolino, napoletano anche lui, il duo Herr Styler, e successivamente il progetto solista Hot Spell. Ha collaborato con Bwarut, Delaporte, K-Conjog, e la realizzazione della colonna sonora per il videogioco Detective Gallo. Ha vissuto per anni tra Parigi, Napoli, Tokyo e Madrid.
Nocerino così presentava il progetto Hot Spell al sito DLSQ: “Letteralmente vuol dire ‘un attimo di bel tempo’ però se non lo sai lo leggi solo come ‘Incantesimo Bollente’ e pensi a qualcosa di caldo e vagamente sexy. Me lo sono rubato dal nome di un capitolo di un libro di David Mitchell. (Ho scoperto negli anni di essere parecchio meteoropatico)”.
Nocerino era stato anche tra gli artisti attenzionati dal giornalista Gianni Valentino nel suo libro-indagine Io non sono Liberato, edito da Arcana. Nocerino si era rifiutato di rilasciare dichiarazioni. “Un napoletano nomade”, lo definiva il giornalista, un “compositore estroverso e meteoropatico”, collaboratore di diverse produzioni cinematografiche in Francia, residente a Madrid all’epoca della pubblicazione di Io non sono Liberato. Valentino aveva anche scritto dell’incrocio delle identità di Liberato e Nocerino a partire dai dati forniti dalla SIAE, aspetto che non esclude la possibilità che Liberato possa essere un progetto corale, collettivo.
“Quando militava nel duo Herr Styler era in catalogo per La Tebwa/La Belle Records. Dopo lo sfratto da casa Herr Styler, Nocerino ha ideato il brand Hot Spell e un suo brano, We Are The Ones, è parte della colonna sonora del lungometraggio Louisiana di Roberto Minervini, presentato al Festival di Cannes 2015 nella sezione Un Certain Regard”. Nocerino è stato ideatore della label La Belle con Romain Coulon e Stan Ramsay della Tebwa Entertainment e con Golden Bug. “E proprio sul portale dell’etichetta Tebwa, infine, risultano in catalogo tutte le sei copertine dei singoli pubblicati da LIBERATO […] c’erano una volta le copertine … Perché un giorno di luglio 2018 hanno cancellato la pagina in oggetto”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Il fenomeno pop. “Liberato è Gennaro Nocerino”: lo scoop sull’identità del cantante napoletano anonimo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 26 Luglio 2022.
Dopo anni di mistero un’altra pista, un’altra ipotesi, forse una scoperta. Liberato è Gennaro Nocerino. La notizia, un potenziale scoop che sta facendo il giro del web è comparsa in un post sull’account Tik Tok dell’utente Alex Valenty – non proprio un influencer considerati gli appena 210 follower. La notorietà dell’account è però destinata a crescere rapidamente: la notizia dell’identità svelata di Liberato ha fatto rapidamente il giro dei media piazzandosi tra le tendenze su Twitter. Il cantante napoletano è stato al centro di una grande attenzione mediatica negli ultimi anni, si è sempre mosso nell’anonimato, coperto da un cappuccio anche nei concerti, accompagnato da sosia.
“Finalmente, dopo anni di congetture e ricerche, svelata l’identità di chi si cela dietro al rapper incappucciato dei record: LIBERATO. Il suo nome è Gennaro Nocerino, ed è stato scoperto grazie al sito della Siae. Il cantautore napoletano in passato era stato accostato a: Livio Cori, Emanuele Cerullo e poi a Wad e infine c’era la leggenda che fosse un carcerato ‘in semi libertà’. In realtà Liberato è il performer Gennaro Nocerino. Adesso via il cappuccio copri volto … Questa volta non ci sono dubbi: Il cantante ‘fantasma’ Liberato non potrà più celarsi dietro Gennaro Nocerino”, il post trionfante dell’account social di The Pipol Gossip che ha rilanciato questa sorta di inchiesta via Tik Tok tutta da verificare.
Alex Valenty ha messo in fila una serie di indizi che definisce “le prove”. Prima delle immagini live di concerti dal vivo di Herr Styler (aka Hot Spell aka Gennaro Nocerino): sostiene che la voce è la stessa di Liberato – è la prova meno convincente. L’account suggerisce quindi di cercare su Google il testo della canzone We Come From Napoli: nella stringa finale degli autori spunta il nome di Gennaro Nocerino. Quindi spiega come nel 2019 sia uscito il progetto Future Romance di Fiorius, Bawrut e Gennaro Nocerino: “Sul sito della SIAE però tra gli autori risultano FIORIUS, BAWRUT (Borut Viola) ma non Gennaro Nocerino. Indovinate chi risulta sul sito SIAE?”. Nocerino secondo la tesi è iscritto alla SIAE come Liberato.
Il video su Tik Tok mette allora in fila altri due indizi: i movimenti sul palco di Nocerino/Hot Spell sarebbero uguali a quelli di Liberato così come sarebbero praticamente identiche le sopracciglia dei due. Alex Valenty già cinque giorni fa aveva pubblicato un contenuto con la scritta “Tana per Liberato”. Nocerino era stato anche tra gli artisti attenzionati dal giornalista Gianni Valentino nel suo libro-indagine Io non sono Liberato, edito da Arcana. Nocerino si era rifiutato di rilasciare dichiarazioni. “Un napoletano nomade”, lo definiva il giornalista, un “compositore estroverso e meteoropatico”, collaboratore di diverse produzioni cinematografiche in Francia, residente a Madrid all’epoca della pubblicazione di Io non sono Liberato.
“Quando militava nel duo Herr Styler era in catalogo per La Tebwa/La Belle Records. Dopo lo sfratto da casa Herr Styler, Nocerino ha ideato il brand Hot Spell e un suo brano, We Are The Ones, è parte della colonna sonora del lungometraggio Louisiana di Roberto Minervini, presentato al Festival di Cannes2015 nella sezione Un Certain Regard”. Nocerino è ideatore della label La Belle con Romain Coulon e Stan Ramsay della Tebwa Entertainment e con Golden Bug. “E proprio sul portale dell’etichetta Tebwa, infine, risultano in catalogo tutte le sei copertine dei singoli pubblicati da LIBERATO […] c’erano una volta le copertine … Perché un giorno di luglio 2018 hanno cancellato la pagina in oggetto”.
Valentino aveva anche scritto dell’incrocio delle identità di Liberato e Nocerino a partire dai dati forniti dalla SIAE, aspetto che non esclude del tutto la possibilità che Liberato possa essere un progetto corale, collettivo. La notizia della presunta identità svelata ha fatto rapidamente il giro dei media. Lo scoop è entrato subito tra le tendenze sui social network.
Chi è Liberato
Liberato si può definire un vero e proprio fenomeno pop. È cominciato tutto con la pubblicazione, nel febbraio del 2017, con la pubblicazione del video della canzone 9 MAGGIO. Da subito sono chiari ed espliciti i riferimenti: paesaggi napoletani, la SSC Napoli, il mondo ultras, la cultura urban, riferimenti ai neomelodici. Il 9 maggio dello stesso anno esce il secondo singolo con un altro video, diretto dal regista Francesco Lettieri che aveva già diretto la prima clip. Il 9 maggio del 2018 il concerto sul Lungomare di Napoli. Un anno dopo la pubblicazione del primo album omonimo. Il secondo lavoro in studio, Liberato II, è stato pubblicato lo scorso 9 maggio 2022. Solo una settimana fa l’artista anonimo aveva tenuto un concerto interamente filmato al largo di Procida: Miez ‘O Mare. Il mistero non si può dire completamente risolto, la pista incuriosisce.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
"A 62 anni non cambierei la mia vita con nessun'altra". Paolo Giordano il 5 Giugno 2022 su Il Giornale.
A Campovolo centomila persone per la ripartenza del rocker Ligabue: "La mia riflessione durante il Covid".
Reggio Emilia. Mai visti tre anni senza Ligabue sul palco.
«Il Covid ha avuto strani effetti su ciascuno di noi».
E su di lei?
«Non avevo mai provato la sensazione di chi non ha la più pallida idea di che cosa stia per accedere. E quando non si capisce da che parte arriverà il futuro, di solito le reazioni sono due: o ti guardi di fianco o ti guardi indietro. Io mi sono guardato indietro».
E ha scritto la sua autobiografia.
«Ho srotolato 62 anni di vita come se scorresse passo dopo passo».
Anche ieri sera lo ha fatto nella neonata Rcf Arena di Campovolo, a pochi chilometri da Reggio Emilia e ancora meno dalla sua Correggio, con 103mila biglietti venduti per l'esattezza. Un bel colpo d'occhio, siamo sinceri, nonostante nel pomeriggio l'asfalto fosse incandescente come le dune nel Sahara.
In tre ore Luciano Ligabue ha snocciolato il proprio repertorio, dall'ultimo singolo Non cambierei questa vita con nessun'altra fino a Sogni di rock'n'roll che ha chiuso il concerto con il protagonista in passerella a prendersi gli ultimi applausi. Come si diceva 30 anni fa, quando iniziava a farsi conoscere anche al di là della Via Emilia, Ligabue ha «ballato sul mondo», sul suo mondo che è fatto di tradizioni e di sapori di casa, di musica come una volta e di passioni che non hanno tempo perché chi fa rock con basso, chitarra e giubbotto di pelle avrà sempre la stessa attitudine anche se sembra vintage o deja vu. Si capisce anche dagli ospiti che Ligabue ha voluto con sé sul palco: sono tutti i riflessi della sua «way of life», del suo modo di intendere la vita. Loredana Bertè arriva in Ho smesso di tacere. Eugenio Finardi in Musica ribelle. Gazzelle in L'amore conta perché «avevo sentito una sua versione al piano di questo brano e mi era piaciuta». Elisa è ovviamente nella fortissima A modo tuo. E De Gregori canta con Ligabue Buonanotte all'Italia nell'incontro più riuscito. Più di quello con Mauro Pagani ne Il mio nome è mai più (assente l'infortunato Pelù, caduto l'altra sera sul palco dell'Alcatraz a Milano).
Ma lo spettacolo è anche in platea dove un pubblico che arriva da tutta Italia, isole comprese, parla davvero la stessa lingua nei gesti, nella mimica, persino nell'abbigliamento. È il «popolo di Ligabue», quello che si ferma un attimo prima degli eccessi e canta tutto a memoria per tre ore, dicesi tre ore, finché si spengono le luci e finisce anche il quarto Campovolo di Ligabue.
Qual è l'effetto che fa un concerto così?
«È arrivato dopo la sosta obbligata. Nei momenti di pausa dovuti al lockdown, mi ero accorto che nel corso della mia carriera avevo pubblicato troppo e avevo caricato troppo a testa bassa. Questa è la ripartenza, che poi proseguirà con i cinque concerti all'Arena di Verona a settembre e le quattro date in Europa a ottobre».
Uno dei momenti più intensi è stato «Buonanotte all'Italia» in duetto con Francesco De Gregori.
«Invecchiando divento sempre più sentimentale. Quello è un brano che raccoglie le mie riflessioni di amore per l'Italia ma anche il disprezzo che provo per le cose che non vanno. In fondo, questo brano e il disco Made in Italy descrivono questo stato d'animo».
A metà concerto c'è «Il mio nome è mai più», incisa nel 1999 con Piero Pelù e con Jovanotti, che ha detto: «Allora con il ricavato abbiamo potuto costruire tre ospedali, ma oggi non si vendono più dischi e quindi un'operazione del genere sarebbe molto meno utile».
«Nel libretto di quel cd singolo c'era la mappa di tutte le guerra che in quel momento erano in atto nel mondo. E noi cantammo quel brano con un totale coinvolgimento sentimentale, lo stesso che ho oggi quando leggo che la spesa mondiale per le armi non è mai stata così alta. La nostra tanto decantata civilizzazione è in realtà un'involuzione: con il nostro armarci siamo una bomba che si innesca sempre di più. Un'operazione come Il mio nome è mai più si potrebbe fare anche oggi? Penso di sì, anche se senza la vendita del supporto fisico non ci potrebbero essere gli stessi ricavi. Ciò che conta, alla fine, è il messaggio che lanci».
E quello della Kalush Orchestra? Hanno venduto all'asta per 900mila euro il premio dell'Eurovision e, con il ricavato, hanno comprato un drone per l'esercito ucraino.
«Ogni scelta è rispettabile, non mi sento di giudicare».
Ha iniziato il concerto con «Non cambierei questa vita con nessun'altra».
«Ho scritto quel brano dopo aver finito il mio ultimo libro e lo penso davvero».
Però c'è stato un momento nel quale avrebbe scambiato la propria vita con quella di qualcun altro?
«È una conclusione alla quale sono arrivato dopo aver capito che spesso vediamo le vite degli altri, le giudichiamo perfette ma poi in realtà non lo sono».
A metà concerto ha voluto Eugenio Finardi per «Musica ribelle».
«Dopo che è uscito il mio disco d'esordio a inizio anni Novanta, uno dei miei primi concerti fuori da Correggio fu con lui a Milano. Io e la band suonavamo prima che lui iniziasse il proprio show. Aveva convinto Angelo Carrara a produrmi e quindi tra di noi c'era una sorta di sintonia. Di certo quel brano negli anni Settanta era una sorta di chiamata alle armi, un invito a svegliarsi e a darsi da fare».
Oggi, quasi mezzo secolo dopo quel brano di Finardi, la musica è sempre meno ribelle e sempre meno condivisa. Perciò i concerti come quello di ieri sera a Campovolo sono la fotografia di un gigantesco rituale collettivo che potrebbe diventare sempre meno diffuso. Non perché il pubblico abbia cambiato idea. Ma perché sono sempre meno gli artisti che possono vendere centomila biglietti per un solo concerto.
UNA STORIA. Il calcio, i pugni e la musica nell’autobiografia di Luciano Ligabue. LUCIANO LIGABUE, musicista, su Il Domani il 02 maggio 2022.
Da piccolo rimango sconvolto per la storia di Ermanno Lavorini. È la prima volta che un bambino viene rapito.
Per farmi riprendere, Giuanin e la Rina, i miei genitori, decidono di iscrivermi nei Pulcini della Correggese, che, a quanto pare, “lo sport fa bene”. Fino a oggi ho giocato a calcio nei cortili, in piazzetta, lungo i corridoi, per strada, ai giardinetti, nei prati e su qualsiasi fondo (ghiaia, erba medica, asfalto, acciottolato, sabbia), ma qui è come passare da “Tiramolla” a “Diabolik”.
Continuo a pattugliare il juke-box della gelateria dove le mettono su i ragazzi più grandi. Beatles e Stones, Beatles e Celentano, Beatles e Dylan, Beatles e l’Equipe 84, Beatles e poi, dài, Let It Be, lascia che sia.
In questa fine di gennaio fa un freddo becco e viene subito buio, per cui tocca spesso giocare in casa e non è la stessa cosa. Oggi è andata così, e a un certo punto ho lasciato gli altri tre da Mauri (che sua mamma è un martello e fa due palle quadre e non toccate lì e state buoni là e perché non giocate a Monopoli?), sono rientrato e mi sono buttato sul letto con il nuovo “Comandante Mark”, che Michele Strogoff mi tocca leggerlo per la scuola e adesso anche no.
A cena Giuanin ha qualche nuvola sulla testa e Marcello se ne sta al solito sulle sue, mentre l’Ermelina e la Rina, mai troppa voglia di musi, strepitano e ciabattano avanti e indietro dalla cucina. Poi però il telegiornale le zittisce e si sentono solo le forchette toccare i fondi dei piatti. Il giornalista sta parlando di un bambino in Versilia. Il nome che ripete è Ermanno Lavorini.
È stato visto per l’ultima volta ieri, subito dopo pranzo, quando è uscito con la bici. Poi è arrivata una telefonata, alle cinque e quaranta di pomeriggio. Faceva già buio.
«Chi parla?».
«Lavorini».
«Intendo personalmente».
«La figlia».
«Suo fratello non rientra a casa. Anzi, rientra dopo cena».
«Come dopo cena? Aspetti che chiamo mio padre».
«Non si muova. Dica a suo padre di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia».
RAPITORI
Il dialogo al telefono riportato dalla sorella di Ermanno posso ripeterlo a memoria. È la prima volta che un bambino viene rapito. In questi giorni, alle otto e mezza di sera, la luce del televisore sfarfalla in ogni casa d’Italia le stesse immagini.
I Lavorini a Viareggio hanno un negozio di telerie, quasi come quello dei miei, ed Ermanno, i suoi genitori e sua sorella ci sembrano ancora di più parenti nostri.
Tra amici ne parliamo poco, ma se un signore ci passa vicino mentre giochiamo, c’è sempre qualcuno di noi che allarga gli occhi e stringe le labbra finché non diventano bianche. Poi fa finta di niente ma intanto tutti l’abbiamo visto farsela sotto. Se là fuori ci sono adulti che possono, senza volere, togliere la vita a un bambino mentre insegue una rana, ora sappiamo essercene anche altri capaci di rapire, forse di uccidere, uno di noi. Uno di noi che, intanto, proprio non riescono a trovare.
Come se non bastasse, questa storia sembra nasconderne altre di cui non ci vogliono far sapere, qualcosa di intricato e incomprensibile. Quando chiedo spiegazioni a mio padre, ogni volta mi sento dire: «Lascia stare».
Dormo poco e male, ogni rumore nella mia cameretta mi fa immaginare il peggio. Qualche volta striscio nella stanza dei miei e sottovoce prego la Rina di farmi un po’ di posto nel suo lato del letto, ma piano, che Giovanni non senta o s’infuria.
Quando in un altro telegiornale annunciano il ritrovamento di Ermanno, dicono che in realtà è stato rinvenuto il suo corpo. Su una spiaggia, in mezzo a sterpaglie e rifiuti. Pensano sia sempre stato lì da quella telefonata a fine gennaio.
Quaranta giorni fa.
LA FUGA
Ho appena salutato gli amici, ci sparpagliamo tutti come in ogni altra uscita da scuola. L’altroieri ho fatto nove anni ed è stato bello perché mi hanno regalato il proiettore Festacolor che così adesso il Politeama me lo faccio in casa (vabbè, non c’è l’audio e sono solo sequenze di diapositive da far sfilare a mano, ma la notte scorsa l’ho passata in piedi e gli ho bruciato le batterie).
I miei sapevano che lo puntavo da tempo, mi sa che me l’hanno regalato stavolta perché pensi un po’ meno a Viareggio. La primavera sembra in anticipo e le giornate si sono già un po’ allungate; faccio i conti con quanto pomeriggio potrò avere per me – ci hanno dato pochi compiti – e decido di festeggiare avviandomi verso la drogheria per un laccio di liquirizia.
Dopo pochi passi, però, una mano mi stringe una spalla e una voce
nasale mi chiede: «Come stai?».
Mi giro e trovo la faccia di questo signore troppo vicina alla mia, baffi alla messicana, sopracciglia a cespuglio e il fiato che gli puzza come il pattume di una settimana. È lo stesso tipo di scossa di quando ho messo la lingua sulla punta di una pila, ma cento volte più forte. Schizzo a razzo
sotto i portici. Lo zaino mi rimbalza sulla schiena, io stesso rimbalzo su un altro signore, un bestione che me ne urla dietro un bel po’.
Sbatto contro sacchetti della spesa, manubri, sedie di bar, borsette, gambe; mi infilo in un paio di varchi fra ragazzi che parlano fra loro e nella coda fuori dalla farmacia; le imprecazioni alle mie spalle diventano lontane in un attimo.
Non mi giro neanche se mi pagano ma spero che qualcuno là dietro faccia l’eroe, sgambetti il rapitore, gli salga in piedi sulla schiena e lo tenga lì, a terra, come la preda abbattuta in un safari. Io intanto stabilisco il nuovo record di percorrenza tra via Roma e via Carlo Quinto e mi lancio senza più fiato sulla porta del negozio dei miei, spalancandola sulla schiena di una cliente che esplode nel verso del tacchino e poi, dolorante, viene fatta sedere, un bicchiere d’acqua e un milione di scuse.
Giuanin mi guarda con il suo: “Io e te ne parliamo più tardi”.
Quando viene fuori che il signore dal fiato fetido è il padre di un mio compagno di classe e mi voleva solo salutare, il mio, di padre, vuole effettivamente parlarne con me.
Formazione delle nuvole di Tullio Pericoli, 1997, © Tullio Pericoli
IL CALCIO
Forse è proprio per questo mio periodo difficile che Giuanin e la Rina decidono di iscrivermi nei Pulcini della Correggese, che, a quanto pare, “lo sport fa bene”. Fino a oggi ho giocato a calcio nei cortili, in piazzetta, lungo i corridoi, per strada, ai giardinetti, nei prati e su qualsiasi fondo (ghiaia, erba medica, asfalto, acciottolato, sabbia), ma qui è come passare da “Tiramolla” a “Diabolik”. Una vera tenuta,
vere scarpette, un campo che non finisce più e palloni che finalmente non sono di gomma. Palloni non più così leggeri da cambiare direzione al primo colpo di vento o al primo tiro che viene bene. Questi a colpirli di testa si prende il rinculo. Palloni per grandi.
Ho il mio angolo nello spogliatoio e il mio numero sulla maglietta. Anche se non sono mancino mi hanno messo all’ala sinistra e mi hanno dato l’undici proprio come Mario Corso. Tengo giù i calzettoni come lui. Se Marco viene a vedere una partita sarà contento.
Dallo spogliatoio si sente il cigolio della carriola del gesso con cui il custode tira, sempre un po’ storte, le righe entro cui dobbiamo stare. L’odore acre e pungente dell’olio di canfora sembra di averlo sempre addosso a segnalare al mondo che siamo “calciatori”, e io calciatore mi sento già dal venerdì, quando, subito dopo la “Hit Parade” di Lelio Luttazzi, pedalo con il cuore in gola a vedere la bacheca delle convocazioni.
A ogni ingresso in campo, fatico a convincermi dell’esistenza di un fondo così spianato, con un’erba che è come la moquette pelosa in certe case di ricchi. Le porte sono davvero regolamentari e la rete ferma il pallone e c’è la recinzione appena un metro oltre il fallo laterale e oltre quella recinzione le tribunette e su quelle tribunette sempre qualcuno a guardarci. Il calcio. Sì, il calcio.
PAPÀ FA A BOTTE
«Ma tu per che squadra tieni, papà?».
Con le mani sul volante e lo sguardo sulla strada risponde: «Non tengo per nessuna squadra. Tengo solo i conigli», e poi ride di quella battuta. Deve averla sentita da un cliente contadino e da allora se l’è giocata spesso sghignazzando ogni volta.
Sono sicuro che vorrebbe vedermi ridere di più alle sue uscite ma non c’è niente da fare: io e lui siamo proprio diversi. Ci viene difficile parlarci. Spesso, come oggi, mi porta con sé per le sue vendite porta a porta, e in ogni bar o distributore in cui ci fermiamo deve provare ad attaccare bottone con chiunque gli capiti a tiro.
A voce sempre troppo alta declama una barzelletta o una freddura del suo repertorio. Quando vedo che chi ascolta non reagisce, o se reagisce è per commiserarlo, mi dispiace sempre per lui. E faccio male, perché a Giuanin non gli frega proprio niente, e subito dopo, di fronte al cliente successivo, torna a tirare fuori il suo show.
A sua volta lui si dispiace per me, lo so, per la mia timidezza. Che tutte le mie scorribande da via Pál non riescono a nascondergliela. Mi vorrebbe più sciolto. Meno legato.
L’ho visto fare a botte un paio di volte, mio padre. La prima non è neanche stata una rissa ma un lampo. Ha mollato un cazzotto in faccia a uno più grosso di lui, quello è rimasto a terra qualche secondo e quando si è rialzato ha preferito non reagire e andarsene.
«Cosa ti aveva fatto, papà?».
«Lo so io».
Nella seconda, invece, Giuanin ne ha prese un bel po’. In un impulso da Lancillotto si è messo contro un paio di ragazzi,
vent’anni o giù di lì, che hanno fatto una battuta stupida sulla Rina. A me non è sembrata una cosa tanto cattiva ma lui non l’ha vista così, e siccome dice sempre “chi picchia per primo picchia due volte”, per primo ha picchiato.
Ma quelli erano in due.
QUELLO CHE C’È DA FARE
Lo fissavo più tardi, mio papà, di spalle, seduto sul letto, con la mamma a massaggiargli la bocca dello stomaco e lui a tentare di respirare a fondo. Sporgevo appena la testa per non farmi vedere, e mentre lo guardavo pensavo a chissà quante volte gli era già capitato di pestare e venire pestato in momenti più duri, per motivi più drammatici. Le volte in cui aveva visto ciò che aveva visto e difeso ciò che andava difeso. Le volte in cui si era convinto a credere solo in ciò che toccava con mano.
Se parliamo di credere, i miei non credono in Dio, e di conseguenza il Natale resta sempre fuori da casa nostra. La Rina e l’Ermelina, in combutta, sono riuscite dopo infinite insistenze a ottenere il permesso per un alberello.
È di plastica, alto poco più di un metro, e “non deve” tenere i pacchi sotto di sé perché “i regali si fanno solo per Santa Lucia o la Befana”.
I miei sono comunisti. Io però proprio non so cosa voglia dire e un giorno faccio a Giovanni una domanda che era meglio di no: «Papà, ma noi siamo comunisti perché viviamo in un comune?».
Non l’ho mai fatto ridere così tanto.
Una cosa comunque l’ho capita: Giuanin e la Rina mai e poi mai vivrebbero come in Russia.
Però, mi dicono, qui da noi quella parola significa che ci dobbiamo aiutare tutti, specialmente i più deboli. Un giorno vedo lei cercare di ingoiare le lacrime e lui stringere il tovagliolo in un pugno mentre il telegiornale racconta di una bomba fatta scoppiare in una piazza che si chiama piazza Fontana.
Chissà cosa si portano dentro mentre, come ripete sempre Giuanin, “as fa col c’a ghe da fer”. E loro lo fanno, quello che c’è da fare, lo fanno sempre.
Quella frase è la barra che dirige la loro barca, ed è una barra che tengono con due dita, fischiettando. Sarà perché questi, anche se ormai alla fine, sono pur sempre gli anni Sessanta.
MUSICA
E le canzoni fioccano.n Le sento per radio dall’unico canale accessibile, la Rai. Le vedo cantare in bianco e nero a “Canzonissima”, “Sanremo”, il “Cantagiro” e “Un disco per l’estate”. Continuo a pattugliare il juke-box della gelateria dove le mettono su i ragazzi più grandi. Beatles e Stones, Beatles e Celentano, Beatles e Dylan, Beatles e l’Equipe 84, Beatles e poi, dài, Let It Be, lascia che sia.
Ma ora, in casa, è finalmente arrivato quel coso di plastica arancione che avevano tutti tranne noi: il mangiadischi. Ha l’aspetto di un giocattolo ma con lui si fa molto sul serio: adesso posso decidere io quando ascoltare o riascoltare la musica senza dovere aspettare i capricci della radio o della tv. Posso sentirlo gracchiare i quarantacinque giri dei miei: Il mondo, Se telefonando, Occhi di ragazza, Insieme a te non ci sto più. Posso farlo quando voglio, per il numero di volte che voglio.
La musica ce l’ho finalmente in mano. Posso toccarla. I dischi mi restano attaccati alle dita.
Li metto su io per te, Rina, quelli che fanno bene a mio fratello. Tu pensa solo a farlo crescere bene dentro di te, alla musica penso io. Mio fratello. Già. Nella tua pancia. Pronto a venire al mondo dieci anni dopo quella volta in cui hai rischiato la pelle per me.
Questo brano è tratto da Una storia, il libro di Luciano Ligabue edito da Mondadori, disponibile dal 3 maggio
LUCIANO LIGABUE, musicista. Luciano Ligabue (Correggio, 1960) con ventidue album, tre film e sei libri (Fuori e dentro il Borgo, La neve se ne frega, Lettere d'amore nel frigo, Il rumore dei baci a vuoto, Scusate il disordine, È andata così, scritto con Massimo Cotto) ci tiene compagnia da più di trent'anni.
Ligabue: «Al Campovolo saremo più di centomila. La rivalità con Vasco Rossi? Una storia da cui mi è venuta una grande sofferenza». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l'1 maggio 2022.
La rockstar presenta la sua autobiografia, «Una storia». «Ho tenuto in mano il mio figlio morto: pesava un chilo». «Non pensavo che Certe notti avrebbe avuto tanto successo. Credo in Dio, il mondo deve essere regolato dalla giustizia».
Luciano Ligabue ha davanti un piatto di salumi e gnocco fritto — «ma non sono un grande mangiatore, da bambino le suore mi imboccavano a forza e io vomitavo...» — e le bozze della sua autobiografia: 500 pagine intitolate semplicemente «Una storia».
Lei scrive di essere nato bluastro, e che in America l’avrebbero definito born blue: nato triste. In effetti nel libro c’è una vena di tristezza, di malinconia.
«C’è nella mia vita. E nelle mie canzoni. Mi porto dentro da sempre un senso di colpa, un pensiero di troppo. Sarà il retaggio cattocomunista. Per questo ho scritto Una vita da mediano. Una delle tante canzoni fraintese».
Perché?
«Il senso è che nonostante il successo sono ancora qui, a correre, a lottare, a fermare l’avversario e far ripartire il gioco: come Bedin, come Oriali, come Cambiasso. Senza Cambiasso noi interisti non avremmo mai vinto il Triplete».
A un anno e mezzo lei rischiò di morire di peritonite.
«Se ne accorse un medico, che era per caso nella farmacia dove mia mamma mi aveva portato. Ma l’unico ricordo è la cicatrice. Mi ricordo invece quando a cinque anni rischiai di morire per un’operazione sbagliata alle tonsille».
Se ne accorse sua madre.
«La Rina aveva preteso di passare la notte con me in ospedale. Mi scossero, e vomitai tutto il sangue che stavo ingurgitando. Emorragia. Mancava il plasma del mio gruppo, me lo donò una suora. Forse il senso di colpa viene anche da lì, dal sangue della suora...».
Il primo ricordo in assoluto qual è?
«Un divano a scacchi, arlecchinesco. L’unica nota di colore in una casa in bianco e nero. Bianco era il lenzuolo che separava il mio letto da quello dei genitori, nella stanza dove dormivamo tutti insieme».
Suo nonno Marcello è una figura importante della Resistenza reggiana.
«Sì, ma io lo scoprii per caso, dal mio insegnante delle medie, quando lui era già morto, di 25 aprile. Non ne parlava mai, e mai ho respirato rancore o spirito di vendetta verso i fascisti. Prima della guerra il nonno tentava di mettere su un banchetto da merciaio, ma ogni volta le camicie nere lo costringevano a chiudere, con i manganelli e l’olio di ricino; lui però rifiutò sempre la tessera del partito. Durante la Resistenza vennero a bussargli a casa, per dirgli che avevano ucciso suo figlio, mio zio Bruno, partigiano».
E lui?
«Rispose in dialetto: An ghe dubi , non c’è dubbio. Come a dire: non ci credo, è una trappola».
Come finì?
«Era una trappola: volevano indurlo ad andare da Bruno, e a svelare così il suo nascondiglio. Per fortuna il nonno non si mosse».
Lo zio era morto?
«No. Gli avevano ucciso davanti agli occhi il suo migliore amico, Luciano Dodi: una via di Correggio oggi porta il suo nome. Zio Bruno si nascose nel fieno. Un tedesco rovistò col forcone per stanarlo, ma lo sfiorò appena».
Correggio, prima che per lei, era nota per la saponificatrice.
«Leonarda Cianciulli: il primo serial killer italiano. Conosceva bene mia nonna Ermelina, aveva invitato pure lei a casa per un caffè... Ma la nonna si considerava, e forse era, invulnerabile grazie al suo talismano, la pelle di biscia. C’è anche una vena esoterica nella mia storia: il numero 7 che ricorre, la doppia elle del nome che ho voluto dare anche ai miei figli: Lorenzo Lenny, Linda, Leon».
Lei è del 13 marzo 1960.
«Meno di quattro mesi dopo, la polizia sparò sugli operai: i morti di Reggio Emilia».
Anche suo padre, come il nonno, faceva l’ambulante.
«Ma poi divenne socio di una sala da ballo: il Foxtrot di Carpi. Lì vidi il primo concerto della mia vita».
Chi suonava?
«Un uomo alto come me; che però avevo dodici anni. Brutto, pelosissimo. Poi salì sul palco, e mi apparve forse bello, di sicuro enorme: i musicisti sparirono, esisteva soltanto lui. Era Lucio Dalla».
Siete rimasti in contatto?
«Vent’anni dopo mi telefonò per dirmi: “Ho ascoltato questa tua canzone,Certe notti . Il tuo album venderà 700 mila copie”. Clic. Non aggiunse altro».
Si sbagliava per difetto: di copie quell’album, Buon compleanno Elvis, ne vendette un milione e mezzo.
«Ma Lucio mi rese felice. Del resto, devo a lui la sopravvivenza durante l’anno più brutto della mia vita: il militare a Belluno, tra prevaricazioni inutili e crudeltà volgari, insulti e gavettoni di piscia di mulo. Per resistere ascoltavo Futura di Dalla, oltre a Patriots di Battiato. E leggevo Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli».
Anche lui di Correggio.
«Io abitavo al secondo piano, lui al quinto. Quel suo libro fece scandalo, anche perché, nella terra di don Camillo e Peppone, Tondelli era collocato dalla parte di don Camillo: il fatto che avesse scritto un romanzo da Feltrinelli, sequestrato per oscenità, fu uno choc. Scendeva le scale radente al muro, con un cappellaccio nero: si vedeva che stava già male. Una sera dovetti saltare uno dei miei primi concerti, avevo la febbre, e feci una cosa che non facevo mai: andai a letto presto. Sentivo rumori strani, sedie trascinate. Era Tondelli che stava morendo».
Lei da che parte stava?
«I miei genitori erano comunisti, ma io andavo in chiesa. Mi confessavo».
Crede ancora?
«Sì. Non può non esistere una linea di giustizia che regola il mondo».
E in politica da che parte sta?
«Sono cresciuto al tempo in cui comunista non era ancora una parolaccia: mi commossi quando sentii Gaber cantare Qualcuno era comunista, ne ho fatto anche una mia versione. Oggi voto Pd, ma a fatica. Fatico a seguire Letta in questa convinzione che per fermare la guerra in Ucraina si debbano mandare altre armi».
Armi per resistere all’invasore. E per costringere Putin a un compromesso.
«Si figuri se non sento l’idea di resistenza. Ma se poi il compromesso non arriva? Altre armi serviranno solo a fare altri morti».
Lei scrisse una canzone contro la guerra del Kosovo, Il mio nome è mai più, con Piero Pelù e Jovanotti.
«E ci hanno coperti di merda. Tutti sollecitavano i musicisti a fare qualcosa, anche da Palazzo Chigi, dove c’era la sinistra. Ma noi non facemmo quello che si aspettavano. Sono sempre stato contro la violenza, in qualsiasi forma. Fu il cd singolo più venduto nella storia della musica italiana. Dovemmo pagare l’Iva. Ma con il resto Gino Strada costruì due ospedali in Afghanistan».
Per lei il successo non arrivò subito.
«Ho fatto il primo concerto a 27 anni: l’età in cui i grandi del rock muoiono».
Come mai?
«Accompagnato dal mio amico Claudio Maioli, facevamo collezione di rifiuti. “C’è ancora molto lavoro da fare”, “magari possiamo sentirci più avanti”, o anche, più direttamente: “Le tue canzoni fanno schifo”. “C’è troppo Guccini” disse un produttore; e stava parlando di Balliamo sul mondo ...”».
Decisivo fu il concerto di Battiato.
«Ero sotto il palco con la mia ragazza di allora, che nel libro chiamo Morena. Ero stato a stecchetto per un anno: gli ormoni erano rifrullanti. Arrivano due donne splendide, ne avverto la carica erotica, che però è tutta concentrata su Battiato. “Quant’è bbono!” grida una. E l’altra: “Me lo farei subito!”. Battiato: non proprio un sex symbol. Magari faccio il cantante, ho pensato».
Da lì a qualche anno i reggiseni li tiravano a lei.
«Sono sempre stato timido. Ma sul palco diventavo sicuro di me, sfrontato, sfacciato. Una medicina che fa effetto per due ore e mezza, che fa star bene me e gli altri. All’inizio cercavo nel pubblico i miei amici e li vedevo abbassare gli occhi: non mi riconoscevano».
Quanti concerti ha fatto?
«Ottocento. Ma sono fermo da tre anni. Si ricomincia il 4 giugno: aspetto più di centomila persone al Campovolo, la vecchia pista di prova di fronte alle Officine Reggiane».
Primo concerto?
«Mi dicono che devo esibirmi prima di Gino Paoli. In realtà Gino Paoli non lo incrocio neppure: è ancora pomeriggio, sole alto, clima tristissimo. Canto tre canzoni mie, ma che in realtà non mi appartengono: sono storie di persone che non conosco. Prostitute, tossiche...».
Anche nel libro lei racconta due storie di droga.
«Un mio amico è uscito dall’eroina. Un altro dalla cocaina, ma è caduto in depressione e si è gettato dal terrazzo. È un’esperienza che ho sempre evitato».
Secondo concerto?
«All’inaugurazione di una rosticceria. Canto Vaselina blues, per il disgusto di un cantautore di Correggio, indispettito dall’argomento. Andrà così anche al Costanzo Show...».
Così come?
«Dopo il primo successo, nel 1991, mi invita Maurizio Costanzo. Siccome ho portato la chitarra, mi chiede la canzone recensita con entusiasmo da Paolo Zaccagnini sul Messaggero: Figlio di un cane . Applauso fiacco. Costanzo commenta: di questo Ligabue sentiremo parlare a lungo. Applauso più convinto. Poi Costanzo chiede un giudizio a Carlo Croccolo, l’attore, pure lui disgustato: “Preferisco le canzoni in cui non si parla di preservativi rotti”. Al che sale sul palco Leopoldo Mastelloni, che solidarizza, mi abbraccia, e mi chiede di cantare con lui “’nnu brano rock”. Facciamo Dylan? “No, uno famoso”. Così cantiamo Oje vita, oje vita mia ...».
A scoprirla fu Pierangelo Bertoli.
«Quando gli feci sentire la cassetta con Sogni di rock’n’roll la estrasse e la gettò via. Ma quando subito dopo gliela suonai, a testa bassa, cambiò idea. E la volle nel suo disco».
Lei nel libro racconta la morte di Bertoli come quella di un filosofo greco.
«Negli ultimi giorni era costretto dal dolore a stare a pancia in giù. La sua Bruna gli teneva il capo sulle gambe. Pierangelo le disse: sei stata la cosa migliore che mi potesse capitare nella vita. Poi, con uno sforzo enorme, alzò la testa e la cercò con gli occhi: Amor... a vagh. Amore, vado».
Anche Pavarotti è delle sue parti.
«Si esibì al Tropical, l’altro locale gestito dai miei, a Rovereto sul Secchia: una delle prime discoteche emiliane. Mia mamma riferì che era un gran bell’uomo. Non poteva immaginare che avremmo cantato insieme».
Come andò?
«Un giorno mi telefonano: Pavarotti è a Merano, da Chenot, per disintossicarsi dal cibo; ma si annoia, vuole fare le prove. Arrivo a Merano, salgo in camera, e avverto un profumo inconfondibile. Pavarotti scosta la tendina e mostra due salami lunghi come missili. Il frigobar era pieno di caciotte comprate in autogrill. Aveva trasformato Chenot in un centro di intossicazione».
Come furono le prove?
«Un disastro. Pavarotti detestava le prove, preferiva giocare a carte. Anche sul palco non riusciva ad adattarsi al ritmo della batteria. Ma quando, davanti alla gente, cominciò a cantare, fu una trasfigurazione. La sua voce, quella vera, copriva il volume dei miei monitor, cioè dei suoni sparati dagli amplificatori. Un’esperienza non umana».
Quando lo vide l’ultima volta?
«Andai a trovarlo poco prima che morisse. Era già in sedia a rotelle, e continuava a insegnare. Rimproverava un allievo perché non “abitava” le parole, non le scandiva. Ha notato che Pavarotti è l’unico tenore di cui si capiscono tutte le parole? Lui, però, non è delle mie parti».
È di Modena.
«È strano che al confine tra Modena e Reggio, tra Carpi e Correggio, non ti chiedano il passaporto. Sono due mondi diversi. Di là Porsche e champagne, ostentazione e arte di godersi la vita: gente che il sabato va a Parigi per andare dal parrucchiere. Di qua contadini, operai, sportelli bancari. Noi reggiani siamo sparagnini, schisci, quasi piemontesi».
Lei che lavoro faceva?
«Impiegato all’Arci spettacolo. Un giorno arriva un cantautore che parla un italiano ricercato, con in mano una bottiglia di grappa, a chiedermi di fargli da manager: era Vinicio Capossela. Non lo convinsi. Se ne andò, portando via la bottiglia: non l’aveva finita».
E poi?
«Quando chiuse il Tropical, mio padre rilevò il Centro Deposito Pellicce: un bunker refrigerato dove d’estate si tenevano al fresco le pellicce delle signore emiliane. Ce l’abbiamo ancora quel bunker, non lo vuole comprare nessuno, se davvero scoppia la guerra nucleare tornerebbe utile... Io facevo un po’ da contabile, un po’ da custode. Guardiano delle pellicce. Ovviamente mi annoiavo a morte. Ne approfittavo per scrivere canzoni».
Come nasce Certe notti?
«Dall’inquietudine. Dall’irrequietezza. Sono le notti in cui devi uscire perché non sei in pace con te stesso, cerchi di risolvere qualcosa. Anche quella è una canzone fraintesa. Quasi tutte nascono da un disagio personale che mi consente di far arrivare agli altri quel che provo. Non pensavo che avrebbe avuto tanto successo, credevo che il produttore avrebbe puntato su Vivo morto o X ».
Una fuga notturna le salvò la vita.
«Era il primo agosto del 1980, un venerdì. Avevo una licenza dal militare, e con due amici storici decidiamo di andare a Rimini, in cerca di ragazze. L’idea è partire la mattina dopo in treno da Bologna: l’autostrada sarebbe stata murata. Invece cambiamo idea e andiamo in macchina la notte stessa. Il mattino ci svegliamo con le immagini della strage in stazione. Ci ho ripensato quando ho fatto il secondo film, Da zero a dieci».
Il primo è Radiofreccia.
«Nato dalle radio libere, e dal giro del bar Tubino. La formazione da bar era maschilista, ma segnata da figure mitiche. Ballisti clamorosi. Come Savana, che nel deserto faceva da guida a Rommel; o almeno così raccontava. “Savana, da che parte andiamo?”. “Io vado di là, te fai come vuoi!”. Ovviamente aveva ragione Savana: “Io poi sono tornato; Rommel, non so”. O come Otorino (si chiamava proprio così): sosteneva di parlare con i morti, e girava col registratore con le voci incise. “Chi hai oggi, Otorino? Cesare, Napoleone?”. E lui: “Oggi ho Berlinguer, sentite, dice: basta con la Russia!”. “Otorino, ma sembra la tua voce...”. Ovviamente era sempre lui: la modulava a seconda dell’epoca e del personaggio».
E A che ora è la fine del mondo? da cosa nasce?
«Dalla vittoria di Berlusconi nel 1994».
È vero che all’apice del successo lei voleva ritirarsi?
«È vero. Non mi andava di essere etichettato come rocker, di quelli costretti a girare sempre con gli occhiali scuri. Non mi andava di vedere i paparazzi pure a Correggio. Di farmi un nemico a ogni “non posso”. Di avere qualcuno dall’altra parte in attesa di qualcosa da me. Di sentire che avere successo significa svendersi. E poi il solito senso di colpa».
Invece?
«Invece mi sono reso conto che potevo fare canzoni per il piacere di farlo. E ho scritto Sulla mia strada: “Sono vivo abbastanza...”».
Lei ha sposato un’amica d’infanzia.
«A Donatella avevo dato una manata in faccia giocando a nascondino. Non l’avevo fatto apposta, ma lei aveva pianto tanto, e non per il dolore. L’ho ritrovata dopo anni. Una persona meravigliosa. Insieme abbiamo sofferto e siamo stati felici, abbiamo perso due gemelli e abbiamo avuto Lorenzo Lenny, il mio primogenito».
E lei l’ha lasciata.
«Un senso di colpa lacerante. Un trauma per lei e per me. Ma avevo incontrato Barbara. E non potevo mentire a tutti, a cominciare da me stesso».
Con Barbara ha avuto una figlia, Linda, e un figlio nato morto, Leon.
«Ce lo fecero vedere. Me lo ritrovai in mano: un affarino di un chilo. Aveva i tratti della mamma. La voce di bambina della Barbara disse: è perfetto. L’ho fatto seppellire in un cimitero che ha un angolo chiamato degli angeli. All’inizio la Barbara ci andava tutti i giorni. Si sentiva come se il suo corpo fosse diventato marcio, incapace di dare la vita... Un pensiero ingiusto, ma il suo “sentire” la faceva stare così. Solo chi ci è passato lo capisce».
Lei racconta anche la morte di suo padre.
«Dopo l’intervento al fegato, un medico ci dice: lo volete vedere? Certo che sì. Solo che non ci porta da Giuanin, mio padre; ci mostra il tumore, le viscere, i segni infetti del male che l’avrebbe ucciso... Mia madre si sente svenire, mio fratello Marco stringe i pugni... Lui, Giuanin, non si lamentava mai. Non voleva disturbare. Un altro medico ci disse: preparatevi a un mese di calvario. Se ne andò il giorno dopo. Quand’ero ragazzo mi ripeteva: I musicista in tut di mort ed fam».
I musicisti sono tutti morti di fame.
«Eppure fu lui, Giuanin, a regalarmi la prima chitarra».
Lei fu operato quando perse la voce.
«La persi sul palco. Non ne sono sceso, non l’ho mai fatto; ma fu il concerto peggiore. Una grande paura. Barbara, che alla parte esoterica della vita ci crede, dice che l’ho persa per aver dato voce all’operaio di Made in Italy, il mio terzo film. Forse non c’entra niente; ma mi piace pensarlo».
Nel libro lei attribuisce la rivalità con Vasco Rossi ai giornalisti. È davvero tutta colpa loro?
«È una storia da cui mi è venuta una grande sofferenza. Ma nulla e nessuno riusciranno a farmi diventare antipatico Vasco Rossi. L’ho sempre rispettato, e lo rispetterò sempre».
Lei è davvero timido, come dice?
«Sì. Nessuno mi crede, ma è vero. È come vivere con il freno a mano tirato; ma ti crea un mondo interiore più ricco».
Dicono pure che sia un tipo riservato.
«Dopo questo libro, e dopo questa intervista, non potranno più dirlo».
Barbara Costa per Dagospia il 3 luglio 2022.
Chi di voi è mai stato in Kirghizistan? Confesso che me lo sono dovuto andare a cercare, questo stato, dove sta, e mi scuso con tutti i possibili Dago-lettori kirghizistani… e questo è il vostro porno biglietto da visita??? Dio, che splendore! Ditemi come non provare invidia, per quel serpentello bianco raggomitolato, beato, e pago, su corpo e pelle di Liya Silver, 23 anni, attrice porno con già importanti premi al suo attivo.
Quel serpentello che deliziato si insinua tra le sue curve, gambe e seni, serpentello furbamente ammantante e sesso e capezzoli… e serpentello che per brevi istanti ha mitigato la mia letale fobia per ogni animale che striscia lumache comprese ma che importa, se mente e occhi non si staccano, non vedono, non bramano che lei, Liya Silver, che ovvio in verità non si chiama così, ma Kristina Shcherbinina…?
Al porno spettano giorni radiosi e esaudenti e di sesso sudanti se si affida a ragazze simili e, sebbene l’ondata la più travolgente di grazie ex sovietiche sui lidi del porno occidentale si sia verificata a fine anni '90, non mancano presenti avvenenze che ogni anno sfranano le loro porno arsure su corpi di femmine e maschi, al tempo stesso entusiasmando menti e peni e clitoridi di spettatori porno i più pretendenti.
Liya Silver ha iniziato nel porno 3 anni fa, e se poco se ne trova e vede sui siti free e no, è perché lei gira poco porno per convinta decisione personale: pornare più giorni continui la stressa e ne prosciuga la motivazione, e poi Liya è scaltra e si dà unicamente a case porno di grido. È per il porno "Liya 4 You", dello storico marchio Dorcel, che Liya ha già in bacheca due Oscar, uno come Miglior Attrice non USA, l’altro come miglior scena etero internazionale. Liya è figlia di genitori separati, in Kirghizistan è nata e vissuta con la madre fino al diploma di scuola superiore, per poi trasferirsi dal padre a San Pietroburgo.
È stato grazie a una sua amica (o amante…?) che Liya si è intrufolata nel porno, quello europeo di fascia altissima, perché Liya è un membro "JulModels", agenzia porno tra le più attive e fattive in Europa, con sede a Budapest, e agenzia creata e guidata da una gran donna, l’ex pornostar Julia Grandi. Liya ha già lavorato con professori del porno quali Alberto Blanco e Manuel Ferrara, e pure Rocco Siffredi vi ha messo porno occhi e mooolto altro addosso, e chi si è perso il trio tra Liya, Rocco e Martina Smeraldi, rimedi subito! I porno FFM (ragazza-ragazza-ragazzo) sono tra i più lodati di Liya, e specie nei frame in cui la mettono in mezzo e ne suggono ogni parte non risparmiandole niente, leccandola in profondo, e all’infinito… Con Liya, sono da poco usciti - e meritano plauso e più di una sosta - un porno "Big Natural Tits" e un "jeans porn" by Brazzers.
Come se non bastasse la sua devastante bellezza, Liya Silver ricalca il mio ideale perché come me non crede nel tradizionale rapporto di coppia, e lo considera noioso. Lei è entrata nel porno dopo la fine di una relazione “che mi ha molto delusa, era una vita a due deprimente!”, e finalmente una che lo dice, che è nel settore per i soldi che il porno le dà e per la libertà che se sei una ragazza con la testa sulle spalle e i piedi piantati per terra sai come gestire e far fruttare.
Liya - fermamente e pubblicamente antiputiniana - dichiara di prendere la vita come viene, e non fa piani per il futuro: “Mi fido solamente del destino. Cambio idea ogni settimana, e prendo decisioni in mezz’ora”. E che significano i grossi tatuaggi, il leone che ha sul petto, e la corona di peonie a fascia della coscia sinistra? “Proprio nulla: sono due tatuaggi che piacevano a due miei ex fidanzati”.
Barbara Costa per Dagospia il 6 novembre 2022.
“È stupenda!”, “il suo corpo è la perfezione, incredibile”, “è la Ana de Armas del porno!”, “a me ricorda Jessica Alba”, “sì, sì, sì, con quel corpo, e quel viso, sarà la nuova Tori Black!!!”, “si sa quando escono le sue nuove scene?”, “ehi, ma… niente anale???”.
I fan del porno sono in trepidazione, fibrillazione, in spasmodica ricerca di notizie su questa ghiottoneria, questa new entry porno attiva da pochi mesi. La ragazza si chiama (in arte) Lila Love, ha 23 anni, e giù le mani, che è italo-americana!!! In quel fiabesco incontro di cellule c’è un 50 per cento di italianità!!!
Lila – e su alcuni siti si targa Lilah – in Connecticut è nata e cresciuta e ha studiato e da secchiona, visto che ha terminato le superiori con un anno di anticipo, e ha in tasca pure una laurea in biologia. Studi che si è pagata facendo la spogliarellista, occupazione a lei faticosa che ha lasciato un anno fa per far ciò che molte femmine (ma pure maschi) optano: farcela da soli sul web!
Lila ha iniziato con la cam, ricavandoci – a suo dire – già dalla prima sera i suoi guadagni, poi ha virato per performance porno amatoriali con un ex (le riconosci, sono le scene girate con un nerd, e lei ha i capelli più scuri) per essere 6 mesi fa contattata da "Zen Models", porno agenzia statunitense fondata e gestita da una donna, Veronica Madjarian, e sì, agenzia di recente "chiacchierata" perché è la medesima che ha offerto ad Amber Heard i milioni che Heard deve a Johnny Depp, e ovvio in cambio di… "aprirsi" al porno.
Al contrario della Heard che a Zen Models non mi sembra abbia risposto, Lila ha accettato di far parte di tale scuderia e le scene porno che stanno sommergendo i siti con le sue grazie all natural sono le sue di debutto. Ma attenzione: quando scrivo all natural non mi riferisco solo al corpicino senza il minimo difetto di Lila, o meglio, mi riferisco a una parte in particolare, perché… dai una sbirciatina tra le sue gambe! Se la signorina non ha mentito e cioè non è ricorsa al chirurgo per farsele piallare, come fanno tante ma tante sue porno colleghe… allora è vero, allora sono vere, Lila ha le labbra vaginali simmetriche!
A differenza della quasi totalità delle donne, che sfoggia labbra asimmetriche nel suo intimo, Lila fa parte di quell’esiguo numero di femmine che là sotto sono levigate, spianate, livellate, pareggiate, e per volere di madre natura. Avere le labbra vaginali asimmetriche non è un difetto, macché: è la norma.
Ma nel porno questa norma è stata stravolta negli anni '90 da chi comandava nella moda e che, alle top model, imponeva un perfettissimo allineamento intimo. Non sono state poche le modelle che sono corse e ricorse al chirurgo e così adeguarsi a un diktat prepotente pure nel porno. Oggi non è più così, e il possesso di labbra vaginali simmetriche – naturali e no – non è più porno requisito per sfondare, e meno male.
Correte a rimirarvi le scene hot di Lila Love (mmm… ragazza, mi sa che urge cambiare nome! Sia Lila sia Love sono scelte nel porno strausate, scelte abusate, ma chi glielo ha consigliato tale alias? Ricalca vari già in giro, e di pornostar già famose, per non parlare del porno home-made, dove v’è addirittura un omonimo a specchio, Love Lilah… la confusione nel porno non va bene! Si è in tanti e bisogna distinguersi!) perché Lila ha non imminenti e però prorompenti progetti per il futuro: ora il porno, a gennaio si parte per Los Angeles e per lì restarci (Lila non ne può più del pendolarismo da Tampa, dove attualmente vive), e mica è facile trasferirsi con 3 bambini!
Lila Love è la mamma di tre piccoli… conigli, che hanno un anno, e si chiamano Penault, Mini e Simon e che, non solo abitano – e pretendono – una stanza personale in casa con lei, ma che rappresentano le basi dove gli onorari porno dovranno edificare e fruttare. Lila ha intenzione di aprire un… non ho capito bene se un rifugio per conigli maltrattati o un gran allevamento o tutt’e due, vabbè, comunque di mettersi a capo di siffatta impresa, e coi soldi del porno, si capisce, e quali sennò?
Michele Auriti per “Oggi” il 9 aprile 2022.
Attrice, imitatrice, autrice. Liliana Fiorelli, interprete nella serie di Rai 1 Noi, è un talento in continua evoluzione. E una donna che non si pone confini, come qui racconta con sorprendente verità.
La sua Chiara nella fiction è un personaggio estremo, con follie e cambi d’umore.
«Anch’io non ho paura di sfidare i limiti. Chiara è la mia parte dispettosa e provocatoria, un essere umano in ricerca. Io alla fine credo di essermi trovata, ma come lei ho passione per il corpo, la sessualità e l’istinto».
Si è mai data limiti in amore?
«Non amo le etichette. Sono utili per il consumatore, servono per i prodotti in vendita. Credo che la sessualità, come l’affettività e l’amore, siano percorsi in divenire. Guardando indietro, posso dire di aver amato con diversa sfumatura, ma stessa intensità, sia uomini sia donne».
Confesso, faccio fatica a capire.
«Uso l’aggettivo fluido nel senso di spontaneo, per ciò che riguarda l’orientamento sessuale. Ma sono estremamente fedele e monogama. Protettiva nei confronti dell’amore che coltivo come un fiore. Non vorrei mai che, con relazione fluida, si intendesse una relazione inconsistente, di quelle che i cattivi genitori bollano come “una fase che passerà”. Usando un termine più o meno equivalente potrei definirmi queer, al pari di Ariana DeBose che ha vinto l’Oscar come miglior attrice non protagonista. Mi sono distaccata dall’abitudine a dare o ricevere piacere in un certo modo, ho abbandonato quello che credevo di sapere. Ho fatto un viaggio».
Ha scelto l’altro sesso perché gli uomini l’avevano delusa?
«Assolutamente no. Nessun sesso crea delusione, casomai le persone sono deludenti».
La prima volta?
«Mi sono invaghita della mia compagna di giochi alle medie. Con lei provavo un senso di appagamento totale, non avevo bisogno di riempire il silenzio. Quella è stata l’illuminazione.
Più avanti ho avuto una relazione con un ragazzo che è ancora un mio carissimo amico, quindi con una donna molto più grande, una persona estremamente formativa per me. Avevo 25 anni. Il bello di una relazione omosessuale è che hai a che fare con un tuo simile ed è come guardarsi allo specchio. Da allora mi sono detta che volevo essere accolta in un posto comodo, con un uomo o con una donna. L’amore non deve spiegazioni».
Adesso è in coppia?
«Sono legata a un uomo speciale, ma non mi chieda il nome. Viviamo una fase delicata. Il più grande regalo è lasciarsi andare senza perdere se stessi, tenersi per mano senza costringersi».
Le persone che amano come lei una volta si chiamavano bisex.
«È un’espressione limitante, perché contiene la parola sesso. Come se dovessimo essere esposti in una vetrina erotica. Il termine “fluido”, e anche queer, raccontano una possibilità rispetto al futuro che non è incasellabile ma legata al flusso della vita. Non contiene errore né giudizio. Essere fluida mi rende aperta nei confronti del prossimo, dell’inatteso. Dell’amore e basta. Il poeta Walt Whitman diceva: “Contengo moltitudini”. Ma senza il conflitto della contraddizione, senza il dispiacere. La fluidità è tutto fuorché confusione. Quando si è felici si è orgogliosi. Per questo esiste la parola pride: chi è orgoglioso di sé non è confuso».
Mamma giornalista e papà psicologo. I genitori che ruolo hanno avuto in questo suo stare al mondo?
«Mamma mi dice “Ti ho educato all’europea”, e in effetti a 18 anni ero fuori casa, ho fatto qualsiasi lavoro e costruito la mia personalità. No, non hanno mai avuto niente da ridire, se questa era la domanda».
Pensa che i Millennials, ai quali il concetto di fluidità sembra congeniale, stiano costruendo un mondo nuovo?
«Le ultime generazioni ci stanno insegnando il valore dell’inclusione. Per loro è del tutto normale chiedere a un adolescente: “Stai con un ragazzo o con una ragazza?”».
Ho letto che lei, in futuro, si vede moglie e madre. Una visione tradizionale, alla fine.
«Questi ruoli richiedono consapevolezza e senso di responsabilità. Bisogna trovare il giusto compagno di viaggio e sapere bene quello che si vuole. Per me i lavori sono in corso».
Liliana Cavani: «Dov’è l’anima?» mi chiese una donna in lacrime. Io prego. Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2022.
Di famiglia atea. Tre film su Francesco. Poi sulle clarisse, su de Foucauld, su De Gasperi. E ora «L’ordine del tempo» di Rovelli.
Regista senza età, Liliana Cavani ha già messo in cantiere un altro film: «Lo girerò a settembre». Non pare un caso che s’intitoli L’ordine del tempo. Sarà tratto dall’omonimo saggio del fisico Carlo Rovelli. Cavani lo vede scorrere, il tempo, dalle finestre della sua casa di Trastevere, affacciata sull’Isola Tiberina che da almeno 2.500 anni divide in due il fiume di Roma. A volte le capita persino di anticiparlo, come quando nel 1964, con Gesù mio fratello, fece conoscere a tutti («a me per prima: non sapevo nulla di lui») la figura di Charles de Foucauld, l’ufficiale francese di cavalleria che divenne frate trappista e si ritirò da eremita a Tamanrasset, nel Sahara algerino, dove morì nel 1916: il prossimo 15 maggio papa Francesco lo proclamerà santo. «Ma non credo che la tv riproporrà quel documentario».
Approdò in Rai nel 1961, al pari del direttore generale Ettore Bernabei.
«A ogni mia inchiesta, tremava. La prima puntata di La casa in Italia durava 50 minuti. L’ultima, a forza di tagli, 20».
Lo credo: Bernabei era l’uomo di fiducia di Amintore Fanfani. Piano Ina casa.
«Non avevo mai visto Napoli: i bimbi vivevano per strada, senza mutande. A Matera la gente stava nelle grotte con le pecore. Le scene delle borgate romane commossero Paolo VI: regalò un alloggio a una coppia. Era costretta con quattro figli in due stanze, eppure ospitava una madre mendicante con il figlioletto».
Lei è l’unica regista ad aver dedicato tre opere a Francesco d’Assisi. Perché?
«Tutto nacque nel 1966 da un libro pubblicato 70 anni prima da un medievista protestante di Ginevra. Era all’Indice. Mi capitò in mano per caso. Meraviglioso. Ne parlai in Rai con Angelo Guglielmi. Si entusiasmò, ma aveva a disposizione solo 30 milioni di lire. Trovò un produttore, Leo Pescarolo, che voleva fare il suo primo film. Una troupe di sette persone e appena cinque settimane di lavoro. Ad appoggiarmi c’era Pier Emilio Gennarini, braccio destro di Bernabei».
Bernabei mi confidò che gli diceva: «Occhio a chi ci prendiamo in casa, Gennarini!». E lui: «Tranquillo, direttore, questo è un democristiano di ferro». E Bernabei: «Ma almeno crede in Dio?».
«Per sponsorizzare il mio Francesco, Gennarini organizzò una proiezione segreta con i fanfaniani e un ex avvocato molto amico di Giulio Andreotti e Alberto Sordi, Francesco Angelicchio, il primo prete italiano dell’Opus Dei, ordinato dal futuro santo Josemaría Escrivá de Balaguer. Fu lui a salvare il film dal rogo».
Lo intervistai nel 2008 e mi parlò benissimo di Liliana Cavani. Morì nel 2009.
«Mi telefonò un nipote: “Lo zio mi ha chiesto di avvisare pochi amici dopo la sua scomparsa. Lei è fra costoro”».
Ma non era atea?
«Non posso dire di esserlo. Vengo da una famiglia laicissima di Carpi, questa sì atea. Il nonno materno, un sindacalista socialista, chiamò i figli Libero e Libera. Però feci la prima comunione e la cresima. Nel 2005 fui chiamata in Vaticano a presentare ai cardinali l’enciclica d’esordio di Benedetto XVI, Deus caritas est».
Filiberto Guala, il primo amministratore delegato che poi si fece trappista, Gennarini e Bernabei assunsero in Rai molti non credenti. Non è strano?
«Le cose strane capitano. Io entrai per concorso. Era il 1960. Ci presentammo in 11.000 per 30 posti. Dopo lo scritto, ci avevano ridotti a 130. Gennarini mi fece diventare aiuto regista di Dino Risi, che girava documentari per la tv. Venivo da lettere antiche e mi ritrovai a occuparmi di Terzo Reich, Vichy, Pétain, Resistenza. Posso dire che la storia del Novecento l’ho imparata dai miei programmi».
Girò «Clarisse», sulle suore di clausura. Cos’è? Fascinazione per il divino?
«No. Ma quelle monache sono la quintessenza dell’umano. Per loro tutto è sacro. Lo trovo stupendo. Avevo in animo anche una fiction su santa Francesca Cabrini, patrona dei migranti. È saltata».
Ha ripiegato su Alcide De Gasperi.
«La serie tv non andava in onda. Conoscevo la segretaria di Pier Ferdinando Casini. Convinse il presidente a proiettarla alla Camera. E in Rai cadde l’embargo».
Maria Romana, la figlia di De Gasperi, mi disse: «Far morire la Dc fu una follia. Fossi stata nei panni di Mino Martinazzoli, mai avrei firmato l’atto di decesso».
«Fui tra i fondatori dell’Ulivo. Il meglio della Dc cercammo di salvarlo. Sono legata alla figura di Odoardo Focherini, nato come me a Carpi. Salvò dalla deportazione 110 ebrei. Fu catturato dai nazifascisti. Morì nel lager di Hersbruck. Oggi è beato. Il suo nome figura fra i Giusti delle Nazioni nello Yad Vashem».
La sua è una spiritualità inquieta.
«Sono religiosa».
Come Roberto Rossellini, sul quale in Vaticano malignavano: «È al servizio di Propaganda Fide». Perché faceva tanti figli con donne diverse e li battezzava.
«I figli non mi mancano. Ho ricordi troppo brutti di mio padre. Non mi disse mai brava. Lasciò mia madre per un’altra donna, perciò decisi di adottare il cognome della mamma. Rifiutai una cinepresa che voleva donarmi per rappacificarsi».
Ha mai sentito il bisogno di pregare?
«Ma io prego».
Monsignor Angelicchio mi raccontò che il cardinale Achille Silvestrini gli rivelò: «In punto di morte Federico s’è confessato». Parlava di Fellini.
«Conoscevo Silvestrini. Non so se avrò mai un confessore. Sento il desiderio di capire ciò che le parole non possono spiegare. Chimicamente, la morte non esiste, perché diventiamo un’altra cosa. L’abbiamo schiacciata, vilipesa, la morte. San Francesco la chiamò sorella e la accolse sorridendo, come un fatto logico».
Da quanti anni non torna a Carpi?
«Ci sono stata in autunno. Ho un cugino cui voglio bene e tanti amici. Non c’è più il cinema Fanti, dove la mamma mi portava già a 3 anni. L’amore per il grande schermo è nato lì. E ancora resiste».
Guarda i film sul piccolo schermo?
«No, vedo le serie tv in casa di amici. Mi sono piaciute Chiami il mio agente! e The Crown. Ma non sono abbonata né a Netflix, né ad Amazon Prime, né a Sky».
Fedele al suo rapporto con la Rai.
«Non esiste più. C’era quando stavo in consiglio d’amministrazione, con Enzo Siciliano presidente. Durò appena 18 mesi. Dopodiché Massimo D’Alema prese il posto di Romano Prodi al governo».
Che cosa ama vedere in televisione?
«Il cinema inglese. Tentai d’introdurre in Rai la linea portata nella Bbc da David Puttnam, produttore di Fuga di mezzanotte, Momenti di gloria, Urla del silenzio e Mission: meno film americani, più film europei. Sarebbe potuto nascere il nuovo cinema italiano».
Ma da noi è pieno di registi esordienti.
«Nel nostro Paese si girano 15o film all’anno. Non so se sia un bene. Magari ne basterebbero 50, a condizione che fossero sofferti, sentiti, necessari».
Non c’entreranno le Italian film commissions e le norme sul tax credit?
«Beh, di sicuro c’entrano i contributi pubblici, il che è positivo. L’autore è innocente. Però non so che cosa accada intorno a lui. Preferisco non indagare».
Sa dirmi perché i figli dei maestri quasi mai superano i padri? Penso ad Alessandro Gassman o a Christian De Sica.
«È un disegno che ci sfugge. Si nasce un po’ qua, un po’ là... Se dovessi salvare un solo film italiano, sceglierei L’oro di Napoli di Vittorio De Sica».
Ma il suo regista preferito chi è?
«Ingmar Bergman. Mi ha insegnato il cinema a basso costo e la scelta degli attori. Per Galileo andai a Londra. Un’agenzia mi presentò Cyril Cusack, che veniva dall’Abbey Theatre. Pensai: eccolo! Senza di lui, sarebbe stato un altro film. Bernabei lo rifiutò. Fu venduto alla Cineriz, che lo cedette a Mediaset. Più visto».
Nel 1968 presentò «Galileo» a Venezia mentre i carri armati sovietici soffocavano nel sangue la Primavera di Praga.
«Che facciamo al Lido?, corriamo ad aiutare i cecoslovacchi, gridavo ai contestatori. Ho pensato la stessa cosa per l’Ucraina. Vorrei essere a Kiev. Vedo qualcosa di terribile: l’immoralità. Tucidide, V secolo avanti Cristo, nella Guerra del Peloponneso scrive che gli dei ce la faranno pagare. Rimane solo il Papa a sgolarsi, poveretto. San Francesco parlava di fraternitas nel 1200, la Rivoluzione francese di Fraternité. Il progresso mi ha deluso».
I russi lei li ha conosciuti bene.
«Non questi russi. Ai tempi di Michail Gorbaciov mi chiamarono a presiedere il Festival cinematografico di Sochi. Videro per la prima volta i miei film: Il portiere di notte, Al di là del bene e del male, Francesco. Finita una proiezione, si alzò una donna del popolo e chiese: “Dov’è finita l’anima? Non c’è più nella nostra cultura”, e si asciugava le lacrime».
Crede che Liliana Segre potrebbe vedere con serenità «Il portiere di notte»?
«Difficilmente. Bisogna prenderlo per quello che è: il percorso psicologico di una donna che, ritrovato colui che l’aveva seviziata nel lager, ne resta soggiogata. Una storia vera, narratami da un’ex partigiana milanese scampata ad Auschwitz. “Non perdonerò mai ai nazisti d’avermi fatto incontrare una parte di me che non avrei voluto vedere”, si colpevolizzava».
S’immaginava i successi che ha avuto?
«A dire il vero, da filologa della lingua arrivai a Roma nel 1959 avendo nelle tasche del loden i titoli dei testi da consultare nella Biblioteca Vaticana per scrivere un’edizione critica dei Commentarii di Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II».
Qualcuno dei suoi attori si fa vivo?
«Charlotte Rampling e Mickey Rourke a Natale mi telefonano per farmi gli auguri. Charlotte volle che fossi io a presentarla al Festival di Berlino, quando le diedero il premio alla carriera. Proiettavano Il portiere di notte. Ci aspettavamo fischi sonori, volevamo uscire prima che si accendessero le luci in sala. Invece ci coprirono di applausi. Il mondo va avanti».
· Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.
Estratto dell'articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 5 dicembre 2022.
Il 27 agosto Pasquale Petrolo, in arte Lillo, comico, ha compiuto 60 anni.
Una botta?
«E che botta. Ancora non ci credo. Non riesco a dirlo questo numero: sono un immaturo cronico». […]
Ha appena pubblicato un libro a fumetti, La banda delle mezze calzette, in cui affronta il tema del bullismo: è stato anche un suo problema?
«Sì. Da piccolo ero obeso e mi prendevano in giro pesantemente. Quel tipo di offese uno se le porta dietro a lungo».
È vero che ha vissuto più volte fasi di depressione?
«Sì. Per questioni personali o familiari mi è successo. Mi hanno salvato l'ironia e l'autoironia. E il non piangersi addosso».
Visto il lavoro e la vita che fa l'equivoco più frequente sul suo conto qual è o qual è stato?
«Quando io e Greg facevamo i concerti con i Latte e i suoi derivati, sul palco ero agitatissimo, una mina impazzita che si muoveva sempre e comunque, e faceva qualsiasi cosa. Così tutti si convinsero che io pippassi cocaina come un matto».
E invece?
«Niente. Quelle poche volte che ho provato al massimo uno spinello sono stato dieci volte peggio di tutti. Su mio fisico le sostanze fanno questo effetto. Per me la droga migliore è la passione».
[…] Con il successo di questi anni le sono capitati episodi particolarmente imbarazzanti?
«Certo. A ottobre 2020 ho avuto il Covid-19 che per tre giorni mi ha fatto finire in terapia intensiva. Appena arrivato, e prima della visita del primario, un infermiere si avvicina: Ti seguo sempre, mi fai ridere un sacco. Non dico una foto, che adesso stiamo tutti con le mascherine, ma un disegno me lo fai? Certo, gli dico. Poi il primario mi visita e mi dice che stavo peggiorando. A me viene un colpo, ma subito dopo viene l'infermiere: Lillo, senti siccome ho saputo che vai in terapia intensiva, e non si sa se torni, il disegno me lo faresti subito?».
Gliel'ha fatto?
«Sì. Che dovevo fare?».
In radio lei e Greg da anni date il titolo di A cazzaro ai personaggi più diversi. Oggi, si fa per dire, chi se lo merita di più: chi dice che Achille Lauro sia un grande cantante? O il sindacato dei giornalisti del Tg1 che ha parlato di Fiorello su Rai1 come di uno sfregio?
«Ahahahaha... Ma nooo... La verità e che anch' io a volte dico cose che il giorno dopo mi sembrano cazzate, quindi quel marchio vale un po' per tutti».
[…] Seriamente: qual è la cazzata più grande che ha fatto?
«Buttare quattro anni della mia vita dentro una sala da biliardo. Dai 16 ai 20 ho fatto solo quello. Studiavo pochissimo e giocavo ore e ore sul panno verde».
[…] Giocava a soldi?
«No, ma solo perché non li avevo».
[…] Un lusso che si è concesso?
«Una bella casa in Maremma e quella dove vivo a Roma, alla Balduina. Nient' altro».
Uno simpatico come lei quand'è che diventa un po' stronzo?
«Spesso. Pur di dire una battuta rischio quasi sempre di far arrabbiare qualcuno».
L'ultimo volta che l'hanno mandata a quel paese?
«Tre minuti fa, mia moglie. Diciamo per questioni di gestione degli spazi in casa».
[…] A 610 su Rai Radio2 non fate più la gag con il personaggio di Superpazza, il supereroe gay: colpa del politically correct?
«Esatto. L'aria che tira condiziona moltissimo. A Rai2 ci stanno molto attenti, certi sketch ci chiedono di non farli. Solo che a me sembra una forma di razzismo questa super tutela: se uno vuole ridere di un etero deve poter fare altrettanto con un gay». […]
Lillo supereroe nella serie nata dal successo di Posaman: «Da piccolo ero povero, non potevo permettermi il costume da Batman». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.
Dal 5 gennaio su Prime Video «Sono Lillo», serie in otto episodi nata dal successo di Posaman: «Nel personaggio le mie paure e una rivincita»
«Non avevo mai immaginato, nei miei sogni più strampalati, di diventare supereroe, raccontando me stesso», dice Lillo. Lo fa nella serie «Sono Lillo», in anteprima alla Festa del cinema, otto episodi con la regia di Eros Puglielli, disponibile dal 5 gennaio su Prime Video.
Come nasce il progetto?
«Nasce dal successo di Posaman, che era la molla che doveva far ridere i concorrenti al game show "Lol-Chi ride è fuori". Con Greg abbiamo successo, ma non avevo mai avuto un successo iper pop come questo, che piace ai bambini e agli anziani. Mi hanno chiesto una serie da un personaggio che aveva sei pose, un piccolo repertorio di effetti speciali, una roba da venti secondi con protagonista un tipo che un po’ c’è e un po’ ci fa. Invece abbiamo trovato una chiave di racconto».
Qual è?
«C’è mia moglie interpretata da Sara Lazzaro che non ne può più di me e delle mie stranezze e mi lascia. Gli amici sono personaggi improbabili che mi ruotano intorno. In questa bizzarra avventura abbiamo creato una realtà alternativa dove Testaccio echeggia Brooklyn. Per dire qualcosa di vero è necessario inventare delle bugie e creare nuovi mondi».
I fumetti l’hanno ispirata?
«Sono appassionato di fumetti, vengo da quel mondo lì. La metafora del supereroe è importante, da ragazzo avevo pensato di creare Normal Man, la storia di un tipo che diventa cento volte più forte e intelligente ma invece è cento volte più stupido, e diventa normale. Per timore reverenziale, i miei supereroi sono assurdi, ho troppo rispetto per quelli veri».
Diceva che è se stesso.
«Sì, con le mie insicurezze, le mie paure. Sono io, trasportato nel Metaverso. In ogni situazione partivo da una domanda: come avrei reagito io nella vita? Ho vissuto situazioni che potrebbero sembrare esagerate».
Tipo?
«Un vigile urbano fermandomi mi ha riconosciuto: mi ha detto sei un grande e mi ha fatto una multa pazzesca, mi ha controllato pure il triangolo, e intanto mi diceva sei il numero uno. A un certo punto divento un po’ il nemico di me stesso. Qui è tutto autoironico, intrattenimento con molta improvvisazione. Mi piace il surreale che prende spunto dal reale. Non è una storia egoriferita, anzi è corale, partecipano i miei amici».
Chi sono?
«Pietro Sermonti fa l’agente di cinema, è ossessionato dal biglietto da visita, lo dà anche alle piante e dice, se non hai un tormentone non sei un comico; Marco Marzocca è rimasto al mondo fantasy di draghi, elfi e maghi. Poi Cristiano Caccamo fa mio fratello. Ci sono Valerio Lundini che veniva agli spettacoli di Lillo & Greg, che riprendiamo a marzo, ci veniva sempre a trovare, aveva 13 anni, era il nostro figlioccio, pieno di idee. Corrado Guzzanti sarà guest star in una puntata».
Lei com’era da piccolo?
«Sono cresciuto a Tor Pignattara, papà poliziotto, mamma casalinga. Non c’erano soldi per comprarmi il costume di Batman e allora mi toccava uno squallido vestitino in prestito dagli amichetti, un principe che non aveva nemmeno la spada. Potevo acquistare un solo fumetto alla settimana, e quel pomeriggio era meraviglioso. Ero timido, curioso, solitario. Mia madre si preoccupava, a casa venivano a trovarla le amiche con i figli e mi diceva, perché non giocate insieme? Ma io avevo già il mio programma. Avevo due personaggi immaginari che creavo con delle smorfie guardandomi allo specchio, Pandor che mi diceva dove sbagliavo, e Pitteride dove sorridevo come Joker, era la parte sdrammatizzante. Da lì raccontavo storie».
La pandemia ha cambiato il modo di ridere?
«Ridere ora è un bisogno fisico, come andare in bagno o mangiare. Gli spettacoli comici sono sold out. Tanti anni fa con Greg facemmo uno spettacolo per soli anziani: non ridevano mai, stavo sbottando, Greg si travestì da vecchietto e mi disse, giovanotto non mi fai ridere».
Traduzione?
«Non bisogna mai prendersi troppo sul serio».
"Le debolezze della gente sono un pozzo di comicità". Regista e attore di "Gli idoli delle donne", il socio di Greg spiega come lavora: "Rendo surreale la realtà quotidiana". Laura Rio il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.
Anche da questo film la Calabria esce come terra vittima della malavita. Sì, però se il cattivo è Corrado Guzzanti e si scherza sui narcotrafficanti pasticcioni, ci si fa sopra una risata. Del resto Lillo, all'anagrafe Pasquale Petrolo, ha origini calabresi: suo padre è di Siderno, in provincia di Reggio. Ospite abituale del Magna Grecia Film Festival che si è tenuto nei giorni scorsi a Catanzaro Lido, è stato premiato come miglior attore per la commedia Gli idoli delle donne, di cui è regista (insieme a Eros Puglielli) e protagonista con il compagno di sempre Greg. E i suoi fan non si offendono certo per come viene dipinta la loro terra nella commedia proiettata su un maxischermo davanti al mare.
Lillo, dopo il passaggio nelle sale, la pellicola è approdata da pochi giorni su Prime Video e, tenendo conto della crisi disastrosa del cinema italiano, ha incassato abbastanza bene.
«Sì. Siamo contenti. L'importante è fare cose che piacciono: in questo film abbiamo mischiato tutti i generi che amiamo, commedia, spy movie, grottesco, thriller, horror demenziale. È un collage di citazioni di 007, Indiana Jones, American Gigolò e delle serie sul narcotraffico sudamericano».
Un puro divertimento che, in fondo, trasmette qualche messaggio.
«Certo, che bisogna stare attenti ai pericoli della società dell'immagine. Ci sono mie conoscenti che quando le incontro non le riconosco, da come si sono rifatte pur di farsi un selfie. Il film racconta di un gigolò bellissimo (interpretato da Francesco Arca) che quando si risveglia dopo un incidente si ritrova con il mio corpo. E va a lezione dal guru dei gigolò (Greg) per reimparare il mestiere».
Insomma, nel film c'è una parte della sua vita...
«Non quella sul gigolò ovviamente... Ma quella di chi deve fare i conti con un fisico particolare, certamente. Da ragazzino ero più grasso di adesso e ne soffrivo. Allora per far colpo sulle ragazze cercavo di far ridere».
E sulla simpatia ha poi costruito il suo mestiere.
«Prendo spunto da ciò che mi capita, da quello che succede nella realtà, dai pregi e dai difetti delle persone e li rendo il più surreali possibile. Le debolezze della gente sono un pozzo di comicità».
Però si tiene lontano dalla politica.
«Perché non fa parte del mio mondo. E poi è fin troppo comica da sola».
Da più di trent'anni fa coppia fissa con Greg. Chi è per lei il suo sodale?
«È la persona con la quale ho condiviso tutta la mia carriera. Il suo pregio? La grande creatività. Il difetto? È ritardatario, mi ha fatto passare le pene dell'inferno, ma ora è un po' migliorato».
Al Magna Grecia Film Festival ha diviso il palco con il suo mito, John Landis.
«È stato fantastico. Lui è il maestro assoluto. Ho imparato tutto da lui. The Blues Brothers è la fusione di tutto ciò che amo, la comicità demenziale e la mia musica preferita. Quel film mi ha folgorato da ragazzino, l'avrò visto 150 volte. Tutto ciò che ripropongo dal punto di vista fisico lo devo a John Belushi che vidi per la prima volta in Animal House. Una volta per imitarlo ho spaccato la chitarra di un mio amico. Per fortuna non era di grande valore...».
Ed è stato un bravo allievo: decine di film, spettacoli, programmi tv, libri, dischi, pubblicazioni, fumetti. E una popolarità ancor più grande raggiunta in età matura grazie alla serie Lol.
«Sono cose che capitano, a tanti artisti. Anche Anthony Hopkins ha incontrato una nuova popolarità quando ha interpretato Hannibal Lecter... Comunque, se ti capita a 30 anni è meglio...».
E alla vigilia dei sessant'anni (che compirà il 27 agosto), che cosa desidera ancora?
«Non ho mai ragionato in termini di età. Spero solo di avere ancora tanto tempo e tanta energia per continuare a fare questo lavoro e tutte le cose che mi piacciono. Non ho mete da raggiungere e non le ho mai avute. Da sempre vivo alla giornata. Se una cosa che mi diverte arriva al successo sono contento, altrimenti non me la prendo».
E Lol è certamente un successo. Su Prime Video ci sarà uno special per Natale, una reunion con le guest star tra cui lei e poi una serie incentrata sul tormentone «Io so Lillo».
«Sì, racconterà di uno che non sono io ma sono io. Insomma, sono in un multiverso, e vado in crisi dopo il successo ottenuto in tv. Si parla del mondo degli attori e del mondo dell'amore».
E intanto sta girando un nuovo film a Roma.
«A Piazza Vittorio, il quartiere multirazziale di Roma, e questo dice tutto».
Tra i giovani comici chi considera suo erede? Forse Valerio Lundini, che è anche nel cast di Gli idoli delle donne?
«Valerio l'abbiamo cresciuto noi, ci veniva sempre a vedere quando suonavamo con il nostro gruppo rock demenziale Latte & i Suoi Derivati: avrà avuto 12 o 13 anni. Era diventata la nostra mascotte. Fin da ragazzo era così, proprio com'è adesso, non poteva fare altro nella vita».
Con lui sta emergendo una nuova generazioni di comici.
«Ci sono dei bravissimi stand-up comedian che poi, detto in italiano, sarebbe semplicemente cabarettisti. Sanno sperimentare, hanno uno stile più moderno. Io sono rimasto affezionato a Cochi e Renato, ma vedo grande fermento in giro. Comunque Corrado Guzzanti resta il Maradona della comicità».
Michela Auriti per “Oggi” il 5 maggio 2022.
Cosa sia Lillo senza Greg è noto: il fenomeno di Lol, tra un tormentone come “So’ Lillo” e l’irresistibile Posaman. Cosa sia Greg senza Lillo è invece un tema meno indagato. L’altra metà del popolare duo comico approda al cinema con Vecchie canaglie (dal 5 maggio) e su Sky Cinema con (Im)Perfetti criminali (dal 9 maggio e in streaming su Now). Intanto si concede a questa rara intervista da “single”.
Ogni tanto la coppia scoppia. Vi dividete.
«È anche il segreto della nostra longevità. Lillo si dedica di più alla tv e al cinema che sono la sua passione, io al teatro e ai miei concerti. Con qualche eccezione come questi due film. Allontanarsi ogni tanto è anche una buona regola per far durare le coppie in generale».
Greg, la tv le piace poco.
«Nel Duemila facemmo Telenauta ’69, programma tutto nostro. Se avessi un’opportunità simile, andrei in tv volentieri. Ma per un’ospitata no».
Come si sta senza Lillo?
«Un filo di sicurezza in meno. Quando vai da solo c’è la domanda: “Piacerà questa cosa che faccio?”. In due siamo collaudati e affiatati».
In tutte le coppie comiche, c’è una parte più popolare. Nella vostra è Lillo: problemi di gelosia?
«No, perché è sempre stato così. Io in scena sono più serio, algido. Lillo invece ha questa dote soprannaturale di far ridere. Se dovessimo paragonarci agli attori comici di una volta, lui è Paolo Panelli e io Walter Chiari».
Lol le è piaciuto?
«L’idea di far ridere per forza con battute di repertorio è lontana dal mio genere di umorismo. A me piace costruire lo spettacolo. Comunque, la popolarità di Lillo torna anche molto utile: già prima la gente affluiva a teatro, ma ora ne viene molta di più (dall’11 maggio, la coppia è all’Olimpico di Roma con Gagmen, ndr)!».
Come fate a lavorare insieme? Chi è il braccio e chi la mente?
«Io sono quello che scrive, ma lascio a Lillo lo spazio di modellarsi. Ha una memoria labile, per lui è un’impresa imparare un copione. Così devo sfruttare questa sua caratteristica e lasciargli la possibilità di cambiare, togliere, aggiungere».
Quindi è lei, Greg, il deus ex machina
«Dipende dall’indole diversa. Lillo è accidioso, vorrebbe andare sempre sul sicuro: “Ma quello l’abbiamo già fatto, ha funzionato, ripetiamo!”. Io invece sono compulsivo, devo per forza scrivere delle cose.
Però l’idea del film Gli idoli delle donne, quella del gigolò che ha un incidente e deve farsi la plastica, è venuta a Lillo. Solo che poi non gli va di scrivere. In fondo il suo ideale di serata è a casa, pantofole e serie tv. A me invece piace uscire per cena, andare a teatro».
Mai pensato di separarvi come i Beatles?
( ride). «No, no. La coppia regge sul ricatto reciproco. Ognuno dei due ha fotografie che non vorrebbe fossero diffuse. Ci minacciamo».
Vi siete conosciuti in una casa editrice di fumetti, anno 1986, che poi fallì.
«E ci siamo ritrovati con una mano davanti e una di dietro. Allora fondammo una band di musica comica e così nacquero Latte & i suoi derivati. Io e Lillo eravamo i frontmen. Poi, nel 1997, ci proposero la prima edizione delle Iene ».
Da otto anni è sposato con Nicoletta. L’ha definita «la mia fortuna»», in che senso?
«Nel senso che ci sono cose che mi danno tutti i giorni la gioia di vivere. Una è il rock ’n’ roll, l’altra è Nicoletta».
Non vuole né figli né cani, ho letto.
«C’è chi è portato per avere figli e chi no. A me bastano i gatti».
Quali comici le piacciono?
«Bergonzoni, Valerio Lundini, Stefano Rapone, Corrado Guzzanti».
Mancano i più popolari: Fiorello, Crozza, Littizzetto.
«È come quando mi chiedono dei Måneskin. Non è il genere di musica che ascolto io, perciò mi lasciano indifferente. E non si tratta di popolarità, ame Totò e Sordi sono sempre piaciuti. Ma il nostro umorismo è surreale, si rifà al filone ebraico americano, Groucho Marx, e poi Petrolini, Cochi e Renato, Felice Andreasi, i Giancattivi».
Dica una cosa che non sopporta di Lillo.
«La pigrizia, appunto. Potrebbe fare davvero tante cose in più».
E di se stesso?
«Ho la fortuna di avere un lavoro che coincide con la mia passione. Quando lavoro compongo musica, disegno, scrivo. Equando sono in relax, compongo musica, disegno, scrivo. Non stacco mai. Ma non sopporto la mia iperattività».
Dagospia il 13 aprile 2022. Estratto dell’articolo di Francesco D'Errico per “Panorama”, pubblicato da “La Verità”.
«Ogni donna è diversa ed è attratta da uomini diversi: ci sono quelle cui basta un corpo statuario, una bellezza da dio greco, anche se poi magari l'uomo che le attrae non è in grado di dire nulla di intelligente, e ci sono altre a cui magari dell'aspetto fisico non importa un fico e si concentrano sul cervello. Ecco, io preferisco queste, anche perché se avessi fatto affidamento sulla bellezza forse non sarei andato troppo lontano».
Greg, al secolo Claudio Gregori, spiega così, a Panorama, il tema della commedia Gli idoli delle donne, in arrivo al cinema dal 14 aprile, scritto, diretto e interpretato insieme al socio di vecchia data Lillo, ovvero Pasquale Petrolo, con cui fa coppia dagli anni Ottanta.
Il film ruota attorno alla figura di Filippo (Francesco Arca), il gigolò più desiderato di Roma, che riesce ad ammaliare con la sua bellezza le clienti anche se quando apre bocca infila una serie di luoghi comuni capaci di spegnere ogni desiderio sessuale. Un giorno però l'uomo prende un taxi e ha un incidente, da cui si salva miracolosamente rimanendo orribilmente sfigurato; per sua fortuna un chirurgo plastico lo ricostruisce, cambiandogli per sempre i connotati e rendendogli l'aspetto di un uomo bruttino (Lillo).
Guarito ma incapace di conquistare le ex clienti, Filippo chiede aiuto a Max (Greg), un ex gigolò che si è ritirato a vita privata ed è in grado di addestrare i propri discepoli circa le tecniche di seduzione, compreso il famoso «soul gazing», lo sguardo che rapisce l'anima. [...]
Chi tra voi due ha avuto più fortuna con l'altro sesso?
Greg: «Se parliamo di avventure penso che entrambi ne abbiamo avute più di quanto ci saremmo immaginati. Io però ho avuto una gran fortuna nell'incontrare mia moglie».
Lillo: «Io non ho mai creduto nella fortuna, ma sono stato a lungo molto timido. Una volta ricordo che per evitare l'imbarazzo dell'avvicinamento lento alla sua bocca ho baciato una ragazza muovendomi talmente di scatto che nell'impatto mi sono spaccato il labbro!».
Greg: «Lillo è un maestro del rimorchio. Dopo i nostri concerti con Latte & i Suoi Derivati andavamo a vederlo in azione.
Se la ragazza che voleva conquistare diceva "ascolto Beethoven", lui rispondeva subito "Beethoven è eccezionale". Ma se poi lei aggiungeva "lo ascolto per lavoro, in realtà mi fa schifo", Lillo subito correggeva il tiro dicendo: "Infatti, è incredibile come abbia avuto successo nonostante la sua incompetenza". Era sempre divertente vedere quanto riusciva a contraddirsi pur di conquistarla».
Qual è una frase che usereste per impressionare una donna?
L: «Ma non mi trovi un figo pazzesco?».
G: «Come dico nel film: "Tu mi hai fatto un sortilegio perché ti vedo bella e ogni volta che ti incontro penso che non potresti essere più bella di così e ogni volta mi contraddici"».
E cosa apprezzano le donne in voi?
L: «Ovviamente la modestia...».
G: «I miei punti forti sono l'arguzia e il senso dell'umorismo, oltre al mio modo di fare ispirato ai film di Cary Grant che guardavo da ragazzino. Cose come il baciamano, l'apertura della portiera della macchina. Non sembra, ma le donne rimangono colpite da questi gesti».
Il personaggio di Greg insegna a Lillo il «soul gazing». Come si mette in pratica?
G: «Il soul gazing l'ho appreso da un mio compagno di scuola, che era un bel ragazzo, ma non irresistibile. Era talmente bravo che l'ho visto rimorchiare e concludere con ragazze insospettabili. Il segreto? Lui si innamorava sinceramente della ragazza incontrata a una festa e la voleva conquistare, e con lo sguardo riusciva a trasmettere questo sincero interesse per lei». [...]
Ma come scrivete le sceneggiature?
G: «Allo stesso modo in cui scriviamo altre cose come il programma radio 610. Io sono compulsivo e scrivo a rotta di collo, e tante idee non vengono sviluppate. Scrivo molte gag e giochi di parole, mentre Lillo è un mago del riciclaggio e magari ripesca battute divertenti che tornano utili».
Quali sono le vostre commedie o i comici preferiti?
G: «Non è facile rispondere, ma dovrei dire Mel Brooks, perché Woody Allen fa un sacco di film in cui c'è parecchia paccottiglia, mentre Mel Brooks ne ha girati meno e forse (a parte l'ultimo) mi sono piaciuti tutti, a cominciare da Frankenstein Junior e Alta tensione.
Amo anche Billy Wilder. Ma mi ispiro più alla tv e al teatro che al cinema: a gruppi come Cochi e Renato e i Giancattivi, ma anche attori come Walter Chiari e Felice Andreasi».
L: «Ci sono moltissime commedie americane e italiane che amo: Hollywood Party di Blake Edwards per citarne una, ma anche Guardie e ladri con Totò e Aldo Fabrizi».
Avete mai usato il successo per sedurre una signora?
L: «No, non credo che mi renda sexy. Io sono estremamente timido e piuttosto goffo».
G: «Se l'ho usato per sedurre l'ho fatto involontariamente, perché se hai una certa fortuna, come quella ottenuta suonando nei locali o per il teatro, le persone ti apprezzano per ciò che fai e non per chi sei, sono affascinate dalla tua personalità. Che poi è quello che determina il tuo successo».
Ora che Lillo ha avuto un enorme gradimento con Lol non è che vi separerete come i Beatles?
G: «No, noi ci siamo sempre lasciati liberi di lavorare da soli: a lui piace molto fare cinema e programmi tv, mentre a me fare musica e teatro oltre che la radio. Da un certo punto di vista ora potremmo sfruttare bene il suo successo, magari per attirare più gente al nostro spettacolo teatrale».
L: «Ma perché, i Beatles si sono separati?».
Linda Evangelista: «Sfigurata dalla criolipolisi, scotch ed elastici in volto per tornare davanti all'obiettivo». Paola De Carolis su Il Corriere della Sera il 19 Agosto 2022.
La top model torna sulla copertina di Vogue Uk e racconta l'incubo del trattamento non chirurgico per la rimozione del grasso («mi ha deformata») e i «trucchi» dietro alle foto del servizio sul giornale: «La linea della mia mandibola, il mio collo, nella vita reale non sono così. Ma siamo qui per creare i sogni, credo sia permesso»
La copertina di Vogue Uk con Linda Evangelista e una foto recente della ex top model (da Instagram)
LONDRA — «Di nuovo in fiore: la rinascita dell’indomabile Linda Evangelista».
È lei, la leggenda, la supermodella del «non ci alziamo per meno di 10.000 dollari al giorno», la top che come Cindy, Naomi e Claudia a lungo non ha avuto bisogno di un cognome e che una volta era un grado di conquistare 60 copertine in un anno solo. Il tempo non ha sbiadito il suo sorriso, il suo sguardo, i suoi occhi azzurri ma dal servizio fotografico, e dal lungo testo che lo accompagna, emerge la realtà dietro il mito: la storia di una donna che per ritrovare la forma si è sottoposta a un trattamento che l'ha «sfigurata» , che con il tempo si è vista dimenticare professionalmente e che si è trovata a dover spiegare al figlio perché non rideva più. La cover di Vogue rappresenta un ritorno e una rivincita: le immagini che la restituiscono al suo pubblico bellissima come sempre celano un'altra verità.
A 57 anni, Evangelista si considera «deformata». Dopo una vita sulle passerelle, e soddisfazione di milioni di occhi puntati su di lei, è stata costretta a nascondersi. Le sessioni di coolsculpting (criolipolisi) cui si era sottoposta per la rimozione del grasso hanno innescato una reazione avversa che ha causato gonfiori inguaribili. Iperplasia adiposa paradossa, hanno diagnosticato i medici, una conseguenza rara ma catastrofica.
«Se avessi saputo che tra le controindicazioni c'era la possibilità di perdere il lavoro, di non poterti guardare più allo specchio e di cadere in una depressione così profonda che ti odi non avrei mai rischiato», spiega con sarcasmo.
Il procedimento legale contro la Zeltiq Esthetics si è concluso con un accordo stragiudiziale.
Dopo cinque anni nell'ombra, è stanca di nascondersi. Non vuole vergognarsi più, precisa: sente il bisogno di un nuovo inizio nel segno dell'onestà. Ecco allora spiegati i trucchi dietro le immagini. Gli zigomi e il mento sono stati scolpiti con «scotch ed elastici». «La linea della mia mandibola, il mio collo nella vita reale non sono così, ma non posso andare in giro con scotch ed elastici». «Sto cercando», racconta, «di volermi bene così come sono». Non è forse assurdo, allora, ricorrere a uno stratagemma per sembrare perfetta nel servizio? «Credo che per le foto sia permesso. Siamo qui per dare vita ai sogni».
Posare le ha fatto bene: «In queste foto sono state temporaneamente cancellate le mie insicurezze e ho potuto fare ciò che adoro».
Guarita mentalmente? «Assolutamente no, ma sono grata per il sostegno che ho ricevuto dai miei amici e dall'industria». Il figlio Augustin James, quasi sedicenne (il padre è l'imprenditore e collezionista francese Francois-Henri Pinault), le ha promesso di prendersi cura di lei, ma «quale genitore vuole essere un peso per il proprio figlio?», si è chiesta tra le lacrime. Tuttora non sopporta di guardarsi allo specchio o di essere toccata. «Mi manca moltissimo il mio lavoro, ma cosa posso fare? Sarà difficile lavorare con gonfiori e sporgenze...»
Linda Evangelista sfigurata dalla criolipolisi torna in copertina: "Ma questo non è il mio vero volto". La Repubblica il 19 Agosto 2022. Dopo il patteggiamento per i danni subiti in seguito al trattamento estetico, la modella posa per Vogue raccontando l'utilizzo di elastici e nastro adesivo sul volto per ricostruire la sua iconica immagine: "Le foto esistono per creare dei sogni".
Il ritorno alla vita di Linda Evangelista, la "rinascita" come la definisce la giornalista Sarah Harris per British Vogue dove la modella posa per la storia di copertina del numero di settembre, è stato un lungo processo di accettazione. Sei anni fa la 57enne si era sottoposta a un trattamento estetico di criolipolisi, alcuni mesi dopo la rara reazione con l'insorgenza di protuberanze dal collo, dalle braccia, dalle gambe, ovvero da tutte quelle zone trattate. Poi il silenzio e l'uscita di scena fino al ritorno social con la denuncia dell'incidente.
In seguito l'ex super top sceglie il magazine People per farsi vedere per la prima volta e raccontare tutta la storia. All'inizio dell'estate, infine, il primo scatto di moda per lanciare la sfilata celebrativa dei 25 anni della borsa baguette di Fendi. A fotografarla è l'amico Steven Maisel, lo stesso dal quale si è fatta immortalare per il servizio di British Vogue.
Senza mai mostrare collo e corpo (zone colpite dalle conseguenze del trattamento), affidando tutto al potere del suo iconico volto, la modella posa indossando sempre cappelli abbinati a foulard o balaclava (che è poi la grande tendenza del prossimo inverno). "Questi non sono il mio mento e il mio collo nella vita reale", precisa nell'intervista spiegando che per questo servizio fotografico il make-up artist Pat McGrath ha utilizzato elastici e nastro adesivo per sostenere il volto e restituire alla modella l'aspetto di un tempo.
"Sto cercando di amarmi per quella che sono ma le foto, beh ho sempre pensato che le foto esistono per creare delle fantasie, dei sogni. Penso non ci sia niente di male. Tutte le mie insicurezze vengono risolte in queste foto", aggiunge come a giustificare una perplessità della giornalista che si domanda quanto questo processo, in tempi di body positivity, sia sano e soprattutto quanto alterare la realtà faccia bene alla modella ora che sta attraversando la delicata fase dell'elaborazione.
Intanto nelle scorse settimane Evangelista aveva comunicato di aver raggiunto un accordo extragiudiziario con Zeltiq Aesthetics Inc., la società a cui fa capo lo studio di dermatologia dove in sette sessioni, tra agosto 2015 e febbraio 2016, si era sottoposta ai trattamenti di criolipolisi. La modella aveva chiesto 50 milioni di dollari di danni come risarcimento per non esser stata più in grado di lavorare da allora.
Linda Evangelista, il ritorno sulla cover di People: "Non voglio più nascondermi". L'ex modella aveva denunciato di essere rimasta sfigurata dopo un trattamento estetico. Dopo cinque anni di assenza dalla vita pubblica torna per raccontare quello che definisce un incubo. La Repubblica il 16 Febbraio 2022.
A settembre il nome di Linda Evangelista aveva fatto il giro del mondo, la super top - tra le più amate degli anni Novanta - aveva denunciato di essere rimasta sfigurata dopo un trattamento estetico di criolipolisi. Ora, a distanza di cinque mesi da quell'annuncio, sceglie di tornare a farsi vedere posando per People, dopo essersi lungamente assentata dalla vita pubblica e professionale.
Per la prima volta dopo la denuncia Evangelista appare in esclusiva per il magazine americano e racconta quello che definisce il suo "incubo" iniziato oltre cinque anni fa. Ora, come si legge sulla cover, l'ex modella non vuole più nascondersi ed è pronta a raccontare il dolore fisico ed emotivo che ha segnato gli ultimi anni della sua esistenza.
"Amavo sfilare in passerella, oggi ho paura di imbattermi in qualcuno che conosco - racconta tra le lacrime al giornalista Jason Sheeler - non posso più vivere così, nascondendomi e vergognandomi. Semplicemente non voglio più vivere nel dolore. Sono finalmente pronta a parlare".
Il resto è un racconto dettagliato di come lentamente il suo corpo si sia trasformato sotto gli effetti della criolipolisi. Tre mesi dopo il trattamento i primi rigonfiamenti appaiono su collo, cosce e busto, le stesse zone sulle quali era intervenuta per dimagrire. Prima di recarsi da un medico, Evangelista pensa di mettersi a dieta e di fare più esercizio. Ma più il tempo passa più il corpo si gonfia. Poi arriva il consulto medico e la diagnosi di iperplasia adiposa paradossale, una rara conseguenza dell'intervento.
"Non mi guardo più allo specchio. Quello che vedo non mi assomiglia", aggiunge spiegando che i rigonfiamenti emersi sono delle sporgenze dolorose che hanno mutato anche la sua postura. "Non riesco più ad appoggiare le braccia lungo i fianchi. Non credo che nessuno stilista vorrebbe vestirmi così".
Al percorso di recupero fisico l'ex modella ha affiancato anche un percorso legale per il risarcimento dei danni subiti dall'azienda responsabile del trattamento. Ora, accettando di mostrarsi e raccontando la sua vicenda, intraprende anche un percorso di accettazione che, spiega, spera possa essere utile ad altre persone che come lei hanno affrontato situazioni simili. "Non mi riconosco più fisicamente, ma non mi riconosco più nemmeno come persona", conclude. "Lei è come se fosse scomparsa". Lei è Linda Evangelista.
Federica Bandirali per corriere.it il 17 febbraio 2022.
Negli anni Novanta era una delle donne più fotografate al mondo. Ma adesso, da quasi cinque anni, la ex top model Linda Evangelista vive in isolamento. Dopo un lustro in «auto-clausura» ha deciso di parlare, di spiegare che cosa l’ha portata ad allontanarsi da tutto e tutti, condividendo la sua storia, «il suo incubo», attraverso un’intervista in esclusiva al settimanale «People». Alla rivista Evangelista, 56 anni, parla del dolore emotivo e fisico in cui vive.
Che cosa è successo? Si è sottoposta a sette sedute di coolsculpting (criolipolisi) — un trattamento non chirurgico e non invasivo, che aiuta a ridurre gli accumuli di grasso localizzati utilizzando il freddo — che l'hanno lasciata «permanentemente deformata» e «brutalmente sfigurata». Da qui il baratro.
La modella ha iniziato una causa a settembre 2021 citando in giudizio la società di coolsculpting, Zeltiq Aesthetics Inc., alla quale chiede 50 milioni di dollari di danni, sostenendo di non essere più stata in grado di lavorare dopo le sedute del trattamento in questione che sono avvenute nello studio di un dermatologo da agosto 2015 a febbraio 2016.
Le lacrime
«Mi piaceva molto stare al centro dell’attenzione, come lo ero quando sfilavo. Ora ho paura di imbattermi in qualcuno che conosco — confessa alla rivista tra le lacrime —. Non posso più vivere così, nascondendomi e vergognandomi. Semplicemente non posso più vivere chiusa in questo dolore». Dopo tre mesi dalle sedute del trattamento, Linda Evangelista ha iniziato a notare rigonfiamenti sul mento, sulle cosce e nella zona del reggiseno: quelle stesse aree che avrebbe voluto rimpicciolire con la criolipolisi e invece stavano diventando dure e insensibili.
«Ho cercato di capire da sola che cosa stava succedendo perché pensavo di fare io qualcosa di sbagliato — dice Evangelista, che ricorda come decise di iniziare una dieta e di aumentare gli allenamenti fisici —. Ma nulla cambiava, anzi. Tutto andava peggiorando». Tanto da spingerla, nel 2016, a rivolgersi al suo medico di fiducia che le ha comunicato la diagnosi: iperplasia adiposa paradossa, un effetto collaterale raro («colpisce circa l’1% di chi si sottopone a questo trattamento») che aumenta il volume delle cellule adipose nelle parti del corpo trattate invece di diminuirlo.
Le liposuzioni
Evangelista sostiene che quando il suo medico ha contattato la società estetica che le ha praticato il trattamento, raccontando cosa era successo, l'azienda «si era offerta di sistemare le cose» pagandole la liposuzione con un chirurgo scelto da loro, uno specialista nel campo dei danni da iperplasia adiposa paradossa.
Ma pare che per risolvere i problemi con la liposuzione Zeltiq le avrebbe chiesto di firmare un accordo di riservatezza. Cosa che ha rifiutato. E così si è pagata da sola le liposuzioni: due su tutto il corpo. La prima fatta nel giugno 2016 e la seconda nel mese di luglio del 2017.
«Ho sempre saputo che sarei invecchiata»
«Comunque non andava meglio, i rigonfiamenti erano ancora presenti. Anche la mia postura è stata influenzata perché non riesco più ad appoggiare le braccia lungo i fianchi» racconta alla rivista. Risultato: «Non mi guardavo più allo specchio», ha sottolineato. Oggi Linda prova a riprendere in mano la sua vita, riconquistando la fiducia in se stessa. «Perché sentiamo il bisogno di fare queste cose ai nostri corpi? Ho sempre saputo che sarei invecchiata».
Adesso non si riconosce fisicamente. È come se si sentisse di essere un’altra persona. Non quella che ha calcato le passerelle ed è stata la protagonista di tante copertine. «La Linda Evangelista top model è quasi scomparsa», riflette sconsolata, cercando di superare le paure per affrontare nel migliore dei modi il futuro che ha davanti.
Estratto dell’intervista a Lino Banfi di Francesco D'Errico per “Panorama” pubblicato da “la Verità” il 4 maggio 2022.
«Qualcuno mi ha proposto di fare il dizionario Italiano-Banfiota: un compendio di tutte le mie battute celebri.
Quella che viene citata di più?
«Ti spezzo la noce del capocollo». Non vuol dire niente ma fa ridere, e io sono fiero di essere entrato con il mio linguaggio nei modi di dire della gente».
Lino Banfi si gode quella popolarità che attraversa le generazioni regalatagli da quasi 60 anni di carriera, dagli esordi nell'avanspettacolo alle pellicole di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, passando per l'enorme successo delle commedie sexy anni Ottanta, la collaborazione con grandi registi come Steno e Dino Risi, le conduzioni e i tanti successi di film in tv, in cui si inseriscono i 18 anni di Un medico in famiglia.
Nonostante i suoi 85 anni l'attore non pensa minimamente ad andare in pensione: «Ogni due o tre anni mi viene un'idea, forse perché a furia di tirarmi schiaffi sulla testa il cervello è ancora giovane». Ora arriva al cinema dal 5 maggio con Vecchie canaglie, commedia corale diretta e interpretata da Chiara Sani.
«Racconta la storia», dice Banfi al telefono da Roma, «di un gruppo di anziani (gli altri sono Andy Luotto, Pippo Santonastaso, Gino Cogliandro, ndr) che vivono in una casa di riposo, un po' maltrattati dalla direzione e dal primario (Andrea Roncato). Quando vengono a sapere che la proprietaria (Chiara Sani) vuole vendere l'immobile per fare una speculazione edilizia e sbatterli fuori, decidono di ribellarsi. E il mio personaggio, Walter, un po' più cattivo degli altri, decide di chiedere aiuto al figlio Renny (Greg) che campa di traffici loschi e, come dico nel film, vive una vita che assomiglia al nome della presidente dell'Unione Europea: borderline».
Il suo Walter è piuttosto incazzoso. Quanto le somiglia?
«È vero che in vecchiaia si diventa più cattivi, anche se secondo me è stato il Covid a renderci tutti guardinghi nei confronti degli altri. Il personaggio l'ho fatto un po' mio: anch' io a volte mi inchezzo, soprattutto quando do fiducia a una persona e poi questa viene tradita. Anche se non arrivo a dare in escandescenze. Il vantaggio di essere vecchi è che puoi fare qualsiasi battuta e ti viene perdonato tutto».
[…] A proposito di grandi maestri, quali sono stati i suoi?
«Sicuramente Alberto Sordi, con cui ho lavorato in Detenuto in attesa di giudizio. Vederlo recitare in quel film è stato come andare all'università. Siamo diventati amici e anni dopo mi prendeva in giro e mi chiamava a' nonnè..., perché facevo nonno Libero in Un medico in famiglia. Lui che aveva 16 anni più di me!».
E le commedie sexy che le diedero tanto successo?
«Fu un bel periodo e io mi godevo la nomea di essere l'uomo che aveva toccato le donne più amate in Italia: Edwige Fenech, Barbara Bouchet, Gloria Guida e molte altre».
Come faceva a mantenere il sangue freddo?
«Facevo tutto con garbo, non lasciavo trasparire nessuna emozione e mi ha fatto piacere il rispetto che ho sempre avuto da parte loro, perché sapevano che le toccavo solo perché lo prevedeva il copione. Ero professionale, ma mi veniva facile perché ero molto innamorato di mia moglie Lucia. Però secondo me quei film aiutavano anche alcuni spettatori».
In che senso?
«Se uno non era bello e si considerava sfortunato in amore, vedendo che uno come Banfi poteva conquistare donne così belle, si tirava su il morale. E poi capiva una cosa: che il primo potere di seduzione nei confronti di una donna è quello di farla ridere».
Ho rivisto di recente Dio li fa e poi li accoppia, in cui lei interpretava un omosessuale. In una scena c'è una coppia gay straniera e lei chiede come mai parlino italiano. Uno dei due risponde: «Parlo italiano perché Ricchione». E lei: «Anch' io Ricchione ma non parlo olandese!». E l'altro dice: «No, io ogni anno vado a Ricchione, Rimini»
L'equivoco fa ridere, ma oggi probabilmente quella battuta farebbe arrabbiare molte persone.
«Penso che questa ossessione per la correttezza politica sia un po' esagerata. Certo, le cose sono cambiate tantissimo, se pensa che io ho iniziato a esibirmi facendo le imitazioni di Nat King Cole e Louis Armstrong. Mi mettevo una calza nera in testa e sembravo ancora più brutto di quel che sono. Se uno facesse una cosa simile oggi lo massacrerebbero».
Che ricordi ha di quel film con Johnny Dorelli?
«Ero orgoglioso di lavorare con Johnny e con Steno, il regista di film con Totò e Fabrizi, come lo sarei stato poi di girare Il commissario Lo Gatto con Dino Risi. Ricordo che chiesi a Steno e agli sceneggiatori di inserire una scena in cui mi confessavo da Dorelli e gli dicevo di volermi suicidare per il mal d'amore, chiedendogli di vestirmi da sposa nella cassa da morto. Quella pellicola ha 40 anni e penso fosse molto in anticipo sui tempi».
Quali sono gli altri film di cui va fiero?
«Il primo da protagonista, Il brigadiere Pasquale Zagaria ama la mamma e la polizia. La gente si domandò chi fosse quel comico che parlava quel dialetto strano. Ed ebbe un gran successo. E poi Vieni avanti cretino: con Salce mi trovai benissimo, era un attore anche lui. Piazzava la cinepresa e io andavo a ruota libera».
Lei è romanista. Dica la verità: le piace Mourinho?
«Sì perché quando si inchezza mi fa sempre ridere. E poi Mou è un'espressione del dialetto pugliese che vuol dire "adesso". Infatti a volte dico a mia moglie: Mou vieni qua, che ti abbraccio!».
Maria Elena Barnabi per Gente il 26 novembre 2022.
«Quando a ottobre ho sentito la notizia dello schianto sulla A4 del furgone dell’associazione Centro 21 onlus di Riccione (i sei occupanti sono tutti morti, ndr) ho fatto una cosa che mi ricorderò per sempre», racconta Linus. «Ho subito mandato un messaggio al mio amico Massimo Pironi: lui era il presidente di quella onlus che si occupa di ragazzi con la sindrome di Down, e mi avrebbe detto tutto. Non mi ha risposto. Dopo ho saputo che dentro quel van c’era anche lui. Quel messaggio è ancora lì senza risposta».
Linus dice tutto questo guardandomi dritto in faccia con quei suoi occhi chiari, ma io distolgo lo sguardo perché un po’ mi commuovo. Una cosa così è successa anche a me, forse a tutti: credere vivo un amico che invece era già morto. E in quel momento capisco perché Linus, che fa radio da quasi cinquant’anni, rimane una delle voci più ascoltate d’Italia: perché ti racconta cose che sono anche tue.
Siamo nel suo ufficio all’ultimo piano di via Massena a Milano, dove ci sono gli storici studi di Radio Deejay, ma anche quelli di Radio Capital e Radio m2o, cioè del polo radiofonico del gruppo Gedi, di cui Pasquale Di Molfetta (il vero nome di Linus), 65 anni, è direttore editoriale. Di origini pugliesi, nato a Foligno ma cresciuto nell’hinterland milanese, Linus è senza dubbio oggi una delle figure più di spicco della radio italiana. Ha iniziato negli Anni 70 mentre faceva l’operaio («La fame aiuta», dice lui), nel 1984 è entrato a Radio Deejay e ne ha assunto la direzione un decennio dopo.
Da 31 anni va in diretta tutte le mattine con il suo programma Deejay Chiama Italia e decide il futuro dei suoi speaker, da Fabio Volo ad Alessandro Cattelan, da La Pina al Trio Medusa. La scusa per vederci è la festa di Natale di Radio Deejay (sarà l’1 dicembre al Fabrique di Milano): l’incasso dei biglietti, andati a ruba in meno di tre minuti, sarà devoluto all’associazione Centro 21 onlus di Riccione.
Linus, cominciamo dall’inizio: hai detto che dei tuoi anni di operaio ti ricordi il freddo.
«Negli Anni 70 il freddo era vero, tangibile, mettevo la calzamaglia sotto i jeans. Ma era anche un freddo dentro, che non passava. Non volevo continuare a fare l’operaio, ma il mondo delle radio era così precario. Ero sempre senza soldi. Per dire: per andare negli studi di una piccola radio di Bollate, siccome non avevo l’auto, rubavo le biciclette».
Poi ti è arrivata la chiamata di Claudio Cecchetto: Radio Deejay ti voleva. E hai svoltato.
«Avevo detto alla mia fidanzata che dopo le vacanze avrei mollato la radio e mi sarei trovato un lavoro vero. E invece...».
E invece hai iniziato una carriera lunghissima. Molti dei tuoi ex colleghi ora sono star televisive. Non hai mai pensato che al posto di Amadeus a Sanremo ci potresti essere tu?
«Se la mia carriera avesse avuto un altro percorso... Invece sono qui e ho fatto altre cose: io non ho quella credibilità nazionalpopolare che serve per la Tv che fa lui».
Amadeus era così già da ragazzo?
«Sì, è sempre stato più “vecchio” della sua età anagrafica. Gli è sempre piaciuto porsi in modo rassicurante. È nato per fare Raiuno. È stato bravo e determinato. Sa che cosa sa fare e cosa no».
E per quelle che non sa fare, chiama Fiorello.
«E per farlo bisogna avere pazienza perché Fiorello ti toglie l’anima. È veramente il tipico artista: umorale, imprevedibile, super sensibile. Un giorno ti dice sì, l’altro no. Stargli dietro è un lavoro e Amadeus è stato una goccia cinese».
L’altro ex ragazzo magnifico di Radio Deejay è Gerry Scotti.
«Gerry è il più bravo di tutti noi. Ha quel guizzo di follia, quell’esuberanza e quel carisma che lo rendono unico. Ma sa anche essere molto scorbutico. Poteva lanciarsi di più, credo. Ha fatto una carriera bellissima, ha guadagnato tanti soldi».
E si dice che per Gerry Scotti i soldi siano importanti…
«Lo dice sempre lui stesso. E noi scherziamo tantissimo di quella volta che nel 1985 andammo a Lecce per fare una serata in discoteca a Pasqua. L’aereo era carissimo, il treno ci metteva troppo, e allora Gerry mi disse: “Andiamo in auto, ma non con la mia che è a benzina e consuma. Prendiamo quella di tuo fratello, che è diesel”. E così usammo la Golf di Alberto e Gerry guidò come un pazzo. Ma io dico: puoi andare in auto fino a Lecce?».
Ti mancano quegli anni?
«Degli Anni 80 non mi manca niente. C’era qualcosa che non andava, che mi rendeva inquieto. Preferisco gli Anni 90: ero più sicuro di me».
Quest’anno Radio Deejay ha fatto 40 anni. E tu?
«Ad aprile saranno 47 di radio. Ho iniziato nel 1976».
Chi è il tuo erede?
«Non so neppure se c’è. Un giorno arriverà uno più bravo di me».
Cos’hai di speciale? Perché ti ascoltiamo tutte le mattine da trent’anni?
«Perché sono un rompiscatole, e per primo con me stesso. Ho una buona memoria e una grande curiosità che mi porta a informarmi di tutto. Se però mi rendo conto che non ho dato il massimo, rimango di umore pessimo per tutta la giornata. E poi ho la fortuna di lavorare con Nicola».
Nicola Savino, il tuo partner in radio da ventisei anni.
«Io da solo valgo 8, in coppia con lui 10. Io faccio il perfettino e poi lui arriva e mette a nudo le mie manie e le mie debolezze. Mi fa diventare più simpatico».
Tu antipatico? Giammai. Sono calunnie!
«Ma infatti. Sono la persona più buona del mondo».
Però sei tagliente.
«Questo è un vanto, l’ho preso da mia mamma: è una cosa tipica dei pugliesi, non ti fanno passare niente senza un piccolo commento acido. Sono così anche con mia moglie Carlotta (hanno due figli, Filippo, 26 anni, e Michele, 19, ndr): a volte sembriamo Sandra e Raimondo».
Nel 2023 ti scade il contratto. Poi?
«Tra un anno saremo seduti a decidere. Troveremo sicuramente un accordo».
Contano molto i soldi?
«Per me niente. Per quello ne guadagno tanti. Non ho mai fatto questioni di soldi con nessuno».
L’ipotesi di buttarti in politica come sindaco di Milano?
«Pura fantapolitica. Una boutade».
Beh, bisognerà trovarti qualcosa da fare se l’anno prossimo non ti rinnovano il contratto.
«Ho imparato che non bisogna mai fare progetti. Il futuro è una parola che non esiste. Il futuro è oggi».
Oggi il tempo è bello. Sei venuto in Porsche?
«Esattamente. Se era brutto, mica la tiravo fuori dal garage. Si rovina».
Linus: «Mio fratello Albertino? Sono contento che ora abbia la sua radio. Non dimentico il freddo di quando facevo l’operaio». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022
Il direttore artistico di Radio Deejay. «Mio figlio Michi sarà il miglior dj dei prossimi vent’anni». L’addio ai microfoni: «Non ho ancora firmato il rinnovo». Gli ospiti in radio: «Kobe Bryant mi disse che era un mio fan. Fonzie di Happy Days creò il caos in radio»
Chi la chiama Linuccio?
«Mio fratello e mia sorella. E un pochino il mio migliore amico, Jager. Anche io mi chiamo Linuccio quando parlo con me stesso».
Chi la chiama Pasquale?
«Quelli che pretendono di essere in confidenza con me, ma non mi conoscono, altrimenti saprebbero che neppure mia madre mi chiamava così».
E sua moglie Carlotta?
«Lei Linusc , con la esse romagnola».
Pasquale Di Molfetta detto Linus compie 65 anni il 30 ottobre e ne dimostra dieci di meno. Figlio di Michele, artigiano che costruiva e vendeva cornici porta a porta, e di Maria, casalinga pragmatica di Canosa di Puglia (come il marito), fa radio dal 1976. Direttore storico di Radio Deejay (dal 1994), oggi guida il polo radiofonico del gruppo Gedi.
Se le dico casa?
«Ho trascorso metà della mia vita a Paderno Dugnano, dove ci siamo trasferiti quando avevo due anni e mezzo, l’altra metà a Milano. Mi sento milanese. Spesso mi esprimo in automatico con frasi come “Va a ciapà i ratt”...».
Il primo ricordo di Milano?
«Ero un bambino asmatico e i miei genitori mi ci portavano per le cure. Venivo in treno con mamma o in Lambretta con papà: stavo in piedi davanti, mentre lui guidava, fumava e mi spiegava quello che vedevamo. Ho queste visioni di Milano molto luminosa, molto bianca, compresi i marmi della Stazione Centrale! Ricordo strade larghe, tanta luce, tanta gente».
È più andato da Sgaramella, il bar dove suo padre la trascinava quando giocava a carte?
«Ci passo davanti ogni tanto. Andare a Paderno Dugnano significa tre cose: trovare mia sorella, che sta ancora lì, i miei al cimitero o prelevare Jager per un giro in bici. Sgaramella è sempre lì, ha cambiato nome cento volte».
Ai tempi suo padre aveva 45 anni, e le sembrava già anziano. Che effetto le fa, oggi?
«Continuo a fare paragoni. Io somiglio molto a mia mamma, come carattere e nei lineamenti. Lei è morta a 66 anni ed era nata nel ‘23. Io nel ‘23 avrò 66 anni. Questa simmetria di numeri al contrario mi inquieta».
Ha mai fatto un regalo simbolico ai suoi?
«Loro andavano poco in vacanza. Un po’ perché non se lo potevano permettere, un po’ perché mia madre non la smuovevi. Poi ho affittato una casa in montagna per un anno, e lei c’è andata un mese d’estate. Credo si sentisse come la moglie di Kennedy».
Ha fatto in tempo a vedere il suo successo?
«Il successo sì, nel 1984 facevo già Deejay Television. Se n’è andata nell’89 e non ha fatto in tempo a vedere nessuno dei nipoti. Ma è riuscita a vedere me e mia sorella sposati: per lei era un gran traguardo».
Un’immagine che le fa ancora tenerezza?
«Un martedì mattina mio padre ci chiama dicendo che stava male, il giovedì mattina è mancata. In ospedale non era più la mamma poco affettuosa cui eravamo abituati. A un certo punto mi chiede di andare a casa sua e controllare sotto il materasso dov’era il suo borsellino: dentro c’erano 30 milioni di lire. Le loro finanze erano sempre state precarie, ma lei era riuscita a risparmiare negli ultimi anni di nuovo benessere, privandosi di chissà quali cose».
Lei si spende molto per Milano. Penso solo alla Deejay Ten, che organizza dal 2005. Le piacerebbe diventare sindaco?
«Mi piacerebbe nel senso che a me piace gestire le cose e quello del sindaco, alla fine, è un lavoro gestionale, si è un po’ spogliato delle valenze politiche. Gestire le cose vuol dire gestire le persone, che è quello che faccio a Radio Deejay dalla fine del ‘94. Dunque sarebbe divertente, mia madre sarebbe contenta».
Chi è il sindaco che le è piaciuto di più?
«Dal punto di vista dell’apertura culturale Milano è cambiata con Pisapia. Poi ho rivalutato la Moratti: l’ho conosciuta meglio ed è una persona molto capace e di spessore. Ma la rivoluzione l’ha fatta Beppe Sala».
Un difetto di Milano?
«Oggi la creatività viene vissuta come coniugazione di business, moda e design. Ma così è lontana dalle persone. Noi siamo stati la città di Leonardo da Vinci, caspita! Ora invece siamo la città di Armani, al quale non mancherei mai di rispetto, ma lui per primo prenderebbe le distanze da questo paragone».
Ha un legame fortissimo con Riccione, città di sua moglie e appendice estiva di Radio Deejay. Il sindaco lo farebbe lì o a Milano?
«Meglio Milano: Riccione è troppo piccola e avresti sempre davanti un elettore che ti rinfaccia quel che stai o non stai facendo!».
Fa la radio da quasi 50 anni. «Fino a quando» vuole continuare, per citare il suo libro?
«La gente è convinta che lo abbia scritto come provocazione, ma è un pensiero che mi accompagna tutto il giorno. Le cose belle prima o poi devono finire e non voglio che succeda a sfumare. Nel 2023 mi scade il contratto: mi hanno già proposto un rinnovo di 5 anni, ma non ho ancora firmato. Comunque non è detto che ci arrivi al 2023, no?».
Se togliamo Radio Deejay, chi è Linus?
«Non credo di essere molto diverso da chi ero prima di diventare famoso. Sono una persona che ha bisogno di sentirsi benvoluta».
Dei «Ragazzi di via Massena» molti hanno sfondato in tv. Ha un rammarico?
«Sarei bugiardo se dicessi che non ho quel tipo di rammarico. Ma non perché la tv sia piu bella della radio: è che a volte ho un po’ di frustrazione nel percepire il mondo radiofonico come se fosse di Serie B».
Un ricordo di quando faceva l’operaio, tagliando e incollando grandi fogli di kevlar?
«Il freddo terrificante. Lavoravamo in un capannone, d’inverno ero costretto a indossare calzamaglia, jeans, quattro maglioni uno sopra l’altro. Avevo 18-19 anni e il mio sogno era avere un lavoro qualunque nel quale potermi vestire come un ragazzo della mia età».
La Porsche quando è arrivata?
«Tardi, mi ha incoraggiato Nicola Savino , a me imbarazzava. La prima l’ho comprata 5-6 anni fa, il colore più discreto possibile, coupé normale. L’ho rivenduta con seimila chilometri. Ora ho una Porsche Targa, quella che volevo davvero. Quando facevo le superiori a Cesano Maderno c’era un tale con un Carrera Targa arancione che mi sembrava venisse da Marte».
Perché la usa così poco?
«Per me è come aver comparto un’opera d’arte. Mi obbligo a usarla una volta alla settimana per venire alla radio: 4 chilometri ad andare e 4 a tornare. Non la uso nemmeno per andare a Riccione, poi diventa scomoda».
Parliamo di Carlotta. Quando l’ha conosciuta aveva 16 anni. Vi siete messi insieme cinque anni dopo. È una storia romantica.
«Sì, è vero. Mi chiedo ancora cosa abbia trovato in me: non potremmo essere piu diversi. Lei era così carina, io veramente uno sfigato».
Che cosa è per lei?
«Il mio equilibratore. Ho un’inclinazione alla cupezza che ho preso da mia mamma. Ho bisogno di stare con la gente. Carlotta è socievole, solare, positiva e mi compensa».
I figli vivono ancora con voi?
«Fino a qualche mese fa Michele, il piccolo, viveva a Madrid, dove faceva il liceo, e Filippo, il grande, a Milano con altri due amici. Filo a breve dovrebbe trasferirsi a Roma per lavoro e così ha deciso di tornare con noi. Lo stesso Michi. Così io e mia moglie ci siamo ritrovati tutti in casa: in certi momenti è complicato».
Nessuno ha seguito le orme del padre?
«Michi diventerà il più bravo dj dei prossimi 20 anni. Con lui l’accordo è che comunque deve fare l’università e un percorso convenzionale: di fianco può fare quello che vuole».
E se le dicesse che vuole lavorare a Rtl?
«Gli chiederei se è impazzito! Per adesso sta imparando il mestiere da m2o, con mio fratello Albertino, che è il direttore artistico».
Com’è fare il capo del proprio fratello?
«La cosa piu complicata del mondo... Sono contento che adesso abbia la sua radio. Io, come suo direttore editoriale, lo guardo e lo lascio fare. Prima avevo spesso l’atteggiamento del fratello maggiore che rompe le scatole».
L’ospite che l’ha emozionata di più?
«Peter Gabriel, per fascino e umanità».
Quello che ha agitato di più la palazzina?
«Henry Winkler: Fonzie di Happy Days. Sono venuti da tutti i piani per foto e autografo».
L’intervista più bella?
«A Kobe Bryant, per la sua capacità di essere sia uomo di spettacolo che persona molto semplice. Quando è venuto da noi, una decina di anni fa ed era già famoso, si ricordava di me: a 15 anni era in italia e mi guardava a Deejay Television. È stato un ribaltamento dei ruoli bizzarro ed emozionante».
Farebbe il giudice a «X Factor»?
«No, perché non mi piace questa spettacolarizzazione del giudizio. Il programma è fantastico, ma non ritengo di essere così esperto da dire tu vai bene o non vai bene. Semmai sono in grado di dire con buona approssimazione se una canzone sarà un successo o no».
Chi è il cantante più grande di tutti i tempi?
«Elvis».
Se le dico dipingere?
«Meglio: disegnare. Ho avuto ospite Zerocalcare e lo invidio. Fa quello che avrei sempre voluto fare. Startene nella tua stanza con la radio accesa e disegnare per me significava il paradiso, il lavoro più bello del mondo».
E se chiedessimo a Linuccio di disegnare la sua famiglia, cosa farebbe?
«Disegnerebbe qualcosa tipo il Quarto Stato di Pellizza da Volpeda, con tanta gente, perché la mia famiglia è molto allargata, non riesco a pensare solo a noi quattro. Mi piace pensare che lì dietro ci sono le famiglia di ognuno di noi e poi le loro famiglie e poi gli amici di quando ero piccolo. E così via...».
Sofia Mattioli per “la Stampa” il 18 luglio 2022.
In tempi in cui la libertà di autodeterminazione e il corpo delle donne sono costantemente sotto attacco (non solo negli Stati Uniti), a nemmeno un mese dal giorno in cui la Corte Suprema statunitense ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade, ogni inno al potere del corpo è un messaggio di resistenza, il corpo è tutto ciò che abbiamo.
Per questo, e non solo, il nuovo album Special di Lizzo, superstar multiplatino, vincitrice di 3 Grammy, incoronata «Entertainer of the Year» da Time e Entertainment Weekly nel 2019, è un condensato di inni al self love che sembrano uscire dallo specchio e diventano cori universali, collettivi, condivisi. Realizzato in tre anni in studio e apparentemente lontano dall'attualità, fa i conti con messaggi universali.
Virali, se si pensa che il singolo About Damn Time che anticipava il disco, inno alla self-confidence da oltre 228 milioni di streaming nel mondo, ha raggiunto la #2 della Billboard Hot 100 e su TikTok ci sono più di 4 milioni di utilizzi del suono.
«I producer Ricky Reed e Blake Slatkin - racconta Lizzo - mi hanno detto: "Abbiamo un brano davvero interessante". Ho risposto che l'avrei ascoltata al telefono, ero stata in studio per tre anni!
In dieci minuti ero lì. Il resto è storia, è l'ultima che ho realizzato dell'album, forse c'è un elemento di urgenza in più rispetto alle altre canzoni".
Icona mondiale della body positivity, Lizzo con i 12,8 milioni di follower su Instagram è ispirazione quotidiana per una platea immensa, stimolo a definire e colmare di nuovi significati parole, spesso introiettate dal pinkwashing o svuotate dal marketing, come self-acceptance e empowerment.
«Potrei scrivere un libro intero in merito ai suggerimenti da dare a chi vorrebbe amare se stesso, ma non trovo il coraggio», dice. «Ho capito che il self-love è una destinazione, è la tua vita, tutti i giorni cambierà quello che pensi di te, è così che funzionano la nostra mente, i nostri sentimenti».
Nel video di About Damn Time- che ha sbriciolato ogni classifica e soundtrack di una challenge su TikTok replicata da un plotone di celeb da Selena Gomez a Reese Witherspoon o Shiloh Jolie Pitt- Lizzo imprime la sua impronta a tutto ciò che tocca. Nonostante i numeri da capogiro Lizzo continua a raccontare un percorso intimo di crescita, il suo, intimo e collettivo allo stesso tempo.
L'amore per se stessi passa attraverso passi di consapevolezza, coraggiose riappropriazioni del desiderio e si libera da gabbie e male gaze, lo sguardo maschile sulle donne. Ancor più Lizzo non ha paura di cadere davanti agli occhi dell'immensa platea, online e offline. «È importante ricordare che su un palco, su TikTok o in qualsiasi modo io mi presenti, chi guarda vede solo una parte.
Anche la mia musica è una parte, Lizzo, la performer, la diva, vi invito nella mia vita attraverso i social, ma c'è una gran parte di me che la gente non conosce e molti non conosceranno mai».
A proposito dell'hate speech online aggiunge: «Non sono stata su Twitter per un po', ma sono tornata: non mi interessano gli hater, sono diventata più brava a leggere i commenti negativi perché sono in realtà stupidi». Ancora a proposito di percezione collettiva continuamente filtrata da numeri, data, visualizzazioni e like, Lizzo prosegue: «Non so quello che succederà, quello che posso dire è di non guardare il viaggio di nessun altro, non far sì che il percorso di qualcun altro ti definisca. Rispetta il tuo tragitto, stai facendo del tuo meglio. Niente di quello che vedi online è vero, tutti affrontano le loro battaglie».
L'album Special con echi alla disco stroboscopica, sample dei Coldplay e dei Beastie Boys, flauti ma anche rimandi al funk e all'R&B come formule che innescano cambiamenti collettivi è un lavoro maturo, invito continuo a cogliere il potere rivoluzionario di una radio accesa o di una playlist.
«Credo che la disco music e il funk negli anni Settanta e Ottanta siano stati di grande aiuto, la gente aveva bisogno di quella musica. Ora ci troviamo in un'altra era in cui la gente ha ugualmente bisogno di musica per risollevarsi e sentirsi meglio. Nel brano About Damn Time ci sono rimandi all'energia di Juice ma a un livello superiore, io mi sono elevata, la mia consapevolezza è all'apice. Sento che quello che ho da dire è urgente, spero che chi senta il brano, si possa cantarlo, immedesimarsi e sentirsi meglio».
Con uno show su Amazon Prime, Watch Out For The Big Grrrls, e una linea di shapewear, «YITTY», il cui nome si basa sui principi dell'amore, della sicurezza e dell'accettazione di se stessi, Lizzo ha espanso il suo universo. Il focus, però, rimane il potere catartico innescato da una performer sul palco. Lizzo celebrerà l'uscita dell'album iniziando il suo più grande tour di sempre in Usa, The Special Tour, dal 23 settembre, con Latto come special guest. «Sono soddisfatta, non ho potuto dire nulla sui progetti per molto tempo, ora è tutto fuori. È il mio anno».
Il compleanno dello Stato Sociale: «Gli altri indie? Venduti al capitalismo». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.
Il gruppo ha appena pubblicato la prima edizione in vinile del loro primo album, «Turisti della democrazia»: «I nostri concerti da 1 a 5 euro; c’è crisi e non puoi chiederne 40».
Questi turisti ne hanno fatta di strada. Nel 2012 Lo Stato Sociale, il collettivo musicale bolognese, pubblicava «Turisti della democrazia», il loro album di debutto in cui il suono lo-fi e l’estetica indie sposavano ironia, impegno e melodia. Duecento concerti in 19 mesi li proiettarono ai vertici di quel movimento indie che ribolliva sotto le ceneri di una musica italiana ferma ai big degli anni 90 e ai talent show. Da lì per i regaz arrivano tour sempre più importanti e nel 2018 il successo nazional-popolare di Sanremo con «Una vita in vacanza», la partecipazione del frontman Lodo Guenzi a «X Factor», libri e altri traguardi. Per celebrare la ricorrenza Alberto «Albi» Cazzola, Francesco «Checco» Draicchio, Lodovico Guenzi, Alberto «Bebo» Guidetti, Enrico «Carota» Roberto (e dietro le quinte Matteo Romagnoli), hanno appena pubblicato la prima edizione in vinile di quell’album e «Turisti della democrazia: il bootleg», una selezione live tratta da quel tour.
«Non abbiamo un buon rapporto con i compleanni normali, ma questa è una ricorrenza collettiva. Ci piace celebrare una cosa fatta con le persone che amiamo», dice Albi. Lodo apre il cassettone della memoria: «Checco nudo con la testa in un ascensore. Un concerto in provincia di Arezzo: non c’era nessuno, nonostante fossimo stati già ospiti di Radio2, presi freddo e me la stava facendo addosso. A Sassocorvaro una discussione/rissa con un fascista che mi minacciava con una bottiglia: ci hanno visti 5 ore dopo, lui mi abbracciava piangendo. I due anni migliori nella vita di tutti noi». Il titolo citava un famigerato discorso di Berlusconi al Parlamento europeo nel 2003 , quello in cui diede del kapò a Schulz... «Siamo cresciuti in quel marasma anti-Berlusconi e l’opposizione a quel tipo di politica era nel dna del nostro percorso di crescita — spiega Albi - . Volevamo però un titolo che andasse oltre il citazionismo e visto che eravamo in tour da tempo ci sentivamo turisti in giro per l’Italia».
In quei brani c’era uno sguardo critico, a volte feroce, verso una società e una politica che, anche viste da sinistra, erano deludenti, c’erano gli scandali sessuali di Berlusconi, le politiche del lavoro che aprivano alla flessibilità, le morti violente di Federico Aldrovandi e Carlo Giuliani, il capitalismo predatorio delle multinazionali. E la loro stess generazione non ne usciva bene, vedi l’impietoso ritratto di «Mi sono rotto il cazzo». «È stata l’ultima volta in cui al centro del titolo di un disco non c’è stata la relazione fra un individuo e la sua controparte amorosa, ma quella fra individuo e la società — analizza Lodo —. È stato l’ultimo momento in cui c’era la libertà di dire la verità sulle relazioni personali che facevano schifo o sul poter dire che anche se appartieni a una minoranza non sempre hai ragione perché quello che ti definisce non è il da dove vieni ma dove vai e con chi». Il tema della dignità del lavoro è tornato centrale in questi mesi. «Però si parla del tema solo per un’uscita sgradevole di un imprenditore o di un influencer, di chi ha potere o soldi — dice Guenzi —. Segnale di un popolo che chiede di essere schiavo». Approfondisce il tema Bebo: «Manca un costrutto ideologico: oggi è un mondo di influencer che moltiplica all’infinito il culto della personalità».
Non è solo una provocazione quella del biglietto a 1 euro la scorsa settimana allo Sherwood Festival a Padova o a 5 euro per la data di Roma del 16 luglio. «È coerente con quello che predichiamo. Se non sei Jeff Bezos e se non vivi su Marte vedi che là fuori c’è il disastro e fai pagare 40 euro un biglietto? Noi non lo facciamo», spiega Bebo. Aggiunge Albi: «Devi fare delle rinunce economiche su quello che chiedi, ma anche in termini di allestimento dello show. Bisogna pensare a eventi popolari e non solo a eventi straordinari. Questo porta a ridare attenzione alle canzoni e alle idee». L’esplosione del mondo indie ha avuto diversi momenti cardine: c’è chi cita «Il sorprendente album d’esordio de I Cani», chi l’esplosione dei Thegiornalisti, chi la loro partecipazione a Sanremo. «Lo dico con un po’ di presunzione ma credo sia stato più importante il nostro ruolo — afferma Guenzi —. Gli altri sono casi di inserimento di qualcosa di nuovo in un meccanismo che esisteva già, e cioè il pop». In quell’album, «Sono così indie» ironizzava sui tic del movimento. «Noi siamo ancora indipendenti, ma abbiamo visto l’assalto alla diligenza delle major, la diligenza ha capito che i cavalli erano buoni e li ha comprati — precisa Guidetti —. Il capitalismo ripete se stesso».
Non fu un cedere alle logiche nemiche: «Siamo bravissimi a truffare tutti imparando a usare i codici di luoghi lontani da noi — sottolinea Guidetti —. Ora le cose a cui stiamo lavorando hanno la stessa voglia di rompere le scatole, ma se allora c’era ingenuità ora c’è, pur garbata, efferatezza». Non hanno mai tentato la via del tormentone estivo... E anche per questa stagione nulla da fare. «Non abbiamo ancora trovato l’idea giusta per usare quel codice contro se stesso — conclude Lodo —. Se mai succederà sarà un segnale di vecchiaia ma non di senilità, ovvero di padronanza degli strumenti e non di rincoglionimento».
Bertè invita la Meloni a vergognarsi: ma perché? Da Loredana Bertè l'ennesimo attacco strumentale contro il centrodestra e Giorgia Meloni: la sinistra scomposta che non sopporta di perdere. Francesca Galici il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.
Così, de botto, da Loredana Bertè è arrivata la fiammata contro Giorgia Meloni. No, scusate, non si può dire. Diciamo che, d'improvviso, la cantante è andata su Instagram e ha pubblicato una storia in cui attacca Giorgia Meloni per la fiamma nel simbolo di Fratelli d'Italia. Che uno si chieda se sia accaduto dell'altro dopo le polemiche dei giorni che hanno preceduto ferragosto, se ci sia stato qualche altro politico che ha avanzato testi forzate pur di screditare quello che i sondaggi danno come primo partito del Paese. Niente, zero, silenzio assoluto. Ed è pure comprensibile che sia così, visto che il termine massimo per la presentazione dei simboli era il 14 agosto agosto. E considerando anche il fatto che il Viminale, a seguito dei controlli, non ha ravvisato alcuna irregolarità nel simbolo di Fratelli d'Italia, qualunque polemica su fascismo et simili può considerarsi meramente strumentale.
"Si vergogni, lei non ha nulla di onorevole": Bertè attacca la Meloni
Ma niente, Loredana Bertè probabilmente non vedeva l'ora di entrare a far parte del club degli artisti che, a caso, scelgono uno dei leader del centrodestra (o tutti, dipende dai momenti) e si inventano qualunque cosa pur di contribuire alla scomposta campagna elettorale del Partito democratico. O forse è il Partito democratico che copia gli artisti che, senza argomenti e conoscenza politica, imboccano la via dell'odio verso chi la pensa diversamente? In ogni caso, sono tutti imbarazzanti.
Il passatempo dei vip di sinistra? Offendere il centrodestra
"Quando una senatrice come Liliana Segre chiede che sia cancellata dal suo logo quella fiamma che ricorda chiaramente il fascismo e le sue conseguenze, lei la rimuove e basta, senza arrampicarsi sugli specchi con scuse improbabili. Lei la rimuove, ha capito?", dice con arroganza la cantante nel video. Ancora una volta, i sedicenti democratici cercano di imporre il proprio pensiero. Non dovrebbe più stupire, e invece... E poi, non è nemmeno ben chiaro perché Loredana Bertè inviti Giorgia Meloni a vergognarsi. Non è mica lei che ha inserito nelle sue liste dei candidati che negano l'esistenza di Israele, che verso questo Paese esprimono un rancore atavico e che inneggiano alle rivoluzioni bolsceviche. O no?
Che poi, alla fine, al di là dei discorsi politici, basterebbe dare uno sguardo al profilo di Loredana Bertè per capire il perché di questo attacco, anche se ormai fuori tempo massimo. Gli ultimi 5 reel pubblicati da Loredana Bertè non hanno superato le 50mila visualizzazioni. Quello su Giorgia Meloni è quasi a 800mila. A voi le conclusioni.
Estratto dell’articolo di Mattia Marzi per “il Messaggero” il 21 agosto 2022.
[…] Loredana Bertè: «No. Non sono mai stata una signora e mai lo sarò. Anche a distanza di quattro decenni questa canzone continua a essere il mio manifesto. E se devo dire una cosa, la dico».
Si ricorda il preciso istante in cui Fossati gliela fece ascoltare per la prima volta?
«Fu Mimì (la sorella Mia Martini, ndr) a organizzare tutto. Fossati in quel periodo lavorava negli Stati Uniti, affidandosi solo a musicisti internazionali. Mi chiamò per farmi andare da lui ad ascoltare il pezzo. Sembrava la mia autobiografia. Decisi di inciderlo. In studio fu quasi un gioco. Ivano mi diede il foglio e io iniziai a leggere la strofa improvvisando. Come spesso accadeva con lui, fu buona la prima. Mimì registrò il controcanto. Se non fosse stato per lei, Non sono una signora non sarebbe mai esistita».
[…] «Volevo fare un inno all'emancipazione femminile […] Come il fatto di chiamare signore le donne sposate e catalogare le altre come signorine a vita. Non avviene la stessa cosa con gli uomini: nessuno chiamerebbe uno scapolo attempato signorino. […]».
[…] Signora, però, ad un certo punto lo è stata per davvero. Due volte. Prima nel 1983, quando sposò Roberto Berger (figlio dell'imprenditore miliardario Tommaso, ndr). Poi nel 1989, quando disse sì al re del tennis Björn Borg. Quei vestiti hanno mai fatto per lei?
«Nel senso classico del termine, no. Con Berger ci sposammo alle Isole Vergini e per l'occasione indossai una veste bianca e una coroncina di fiori in stile hippie. Con Borg, invece, scelsi un velo rosso. Conosce altre donne che si sono sposate conciate in quel modo? (ride)».
[…] Che moglie è stata Loredana Bertè?
«Ho provato a essere una compagna di vita per Björn e una madre per suo figlio Robin. Ce l'ho messa davvero tutta per costruire una famiglia con l'uomo che amavo. Per lui lasciai tutto e mi trasferii in Svezia, prima di capire che l'amore è sopravvalutato: ti invade e ti finisce. Dopo l'ennesima lite furibonda fuggii a prendere aria sul molo. Era l'alba. Rimasi come ipnotizzata dal paesaggio del Mar Baltico. In spiaggia scrissi Da queste parti stanotte, che suonava come un addio: fu la colonna sonora della fine di quel matrimonio».
[…] Rimpiange il fatto di non aver avuto figli e di non poter lasciare a nessuno qualcosa di suo?
«Ci penso spesso. Ne avrei tanto voluto uno, di figlio. Avevo anche scelto il nome: Lupo. Le circostanze lo hanno impedito. Oggi vedo come figli i miei fan. E il mio lascito per i posteri sarà la mia musica».
Lorella Cuccarini a teatro "Sarò di nuovo una cattiva". Nicola Santini su L’Identità il 24 Novembre 2022
Da poco più di due anni, su Canale5, la vediamo saldamente nel cast di Amici di Maria De Filippi, dove ricopre il ruolo di coach di canto. Ma Lorella Cuccarini non aveva mai nascosto quanto le mancasse il teatro e che, non appena fosse riuscita a incastrare i suoi vari impegni in agenda, sarebbe tornata a calcare quel palcoscenico a lei più congeniale. Detto, fatto. A otto anni dall’esordio della prima edizione, rieccola protagonista assoluta del rifacimento di Rapunzel il Musical, che debutterà il prossimo 2 dicembre al Teatro Brancaccio di Roma, dove resterà in scena fino all’8 gennaio. Nello spettacolo, la Cuccarini vestirà i panni della perfida Gothel, scaltra e affascinante matrigna di Rapunzel.
"E’ stato stimolante, per me, misurarmi per la seconda volta con il ruolo di una donna cattiva, ben diversa da tutti gli altri interpretati nel corso della mia carriera- ha raccontato Lorella, aggiungendo- In tutti questi anni ho sentito tantissimo la mancanza del teatro, perché sera dopo sera ti permette di percepire le emozioni del pubblico che si trova a pochi passi da te. E’ una sensazione indescrivibile che sono felicissima di provare provare nuovamente". E mentre in un futuro non troppo lontano potrebbe arrivare il tanto atteso one-woman-show dedicato al suo brillante percorso, già raccontato nel libro "Ogni giorno il sole" edito da Piemme, la showgirl più amata dagli italiani per il momento preferisce dedicarsi esclusivamente al presente. D’altra parte, questo spettacolo ha avuto un ruolo importante nella recente storia del centro di produzione teatrale, sotto l’egida di Viola produzioni.
È di fatto la sua genesi. Nel maggio del 2014 Alessandro Longobardi conobbe Maurizio Colombi regista, autore milanese che stava sviluppando un nuovo progetto. Da quell’incontro, in un bar vicino alla stazione di Milano, si pose il seme che diede i suoi frutti, come il ritorno di Lorella Cuccarini in
teatro, la nascita del Centro di produzione sopra citato e della squadra di professionisti che mise la sua sede operativa nel prestigioso Teatro Brancaccio e nel nascente spazio Impero, dove furono realizzate nel tempo sale prova e un’accademia di teatro.
E poi l’amicizia, nel lavoro e nella vita, dei due propulsori del progetto Rapunzel il musical ovvero Colombi e Longobardi; quest’ultimo, che dal 2012 aveva diretto le prime due stagioni del Teatro
Brancaccio, comprese che il passaggio verso la produzione di grandi spettacoli popolari era obbligato, sia per quadrare la gestione economica del teatro Brancaccio che per dare un senso compiuto a quel lungo e periglioso viaggio intrapreso nel 2001 per creare una filiera produttiva ove programmazione, produzione e distribuzione convivessero.
Nel 2020 il Covid, devastante per il settore dal vivo, congela questa realtà. Oggi si ripete la sfida per riportare gli spettatori in teatro. Si conferma il gruppo creativo della prima edizione del 2014, che mantiene intatta la sua armonia e dà valore alla tradizione delle esperienze artistiche e artigianali nostrane.
Rapunzel il musical tutto italiano, scritto da un gruppo di autori diretti da Maurizio Colombi, è una versione della celebre fiaba dei fratelli Grimm che viene rielaborata trasformando Gothel, sorella di Grethel e matrigna di Rapunzel, in protagonista principale e trasponendo tutta l’opera nel genere musical. Dopo il successo delle recite romane, lo spettacolo iniziò il tour tra i principali teatri italiani per due strepitose stagioni, diventando a buon diritto un classico del musical, amato da grandi e piccini e acclamato da più di 150.000 spettatori.
Ad otto anni dal suo primo debutto, questo family show guarda alle nuove generazioni, le quali mai come adesso nel post Covid hanno bisogno di tornare a vivere le emozioni di un grande spettacolo dal vivo, da condividere con la proprie famiglia e gli amici. Rapunzel il musical cattura l’attenzione degli spettatori di ogni età per vivere, cantare e ridere tutti insieme.
Il progetto scenografico è di Alessandro Chiti che rilegge in chiave moderna le ambientazioni della fiaba medievale. Accanto alla Cuccarini, nei panni di Phil e Rapunzel ci saranno Renato Crudo e Serena Scartozzoni. Subito dopo Roma, il musical andrà in scena a Milano, al Teatro Nazionale, dal 13 al 29 gennaio.
Lorella Cuccarini e la nuova vita da youtuber: «Le mie interviste sul web ai vecchi colleghi e amici». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 9 Settembre 2022.
La ballerina e attrice: «Per frequentare le lezioni mi misi a fare la segretaria e per un anno anche le pulizie». «Mi racconto online, con Marco Columbro mi sono commossa».
Possiamo definirla «un’autobiografia sotto forma di tanti video»?
«Ma sì, è vero. Due mesi fa ho deciso di aprire un mio canale ufficiale Youtube perché volevo spazio. Spazio e tempo per parlare dei miei amici, delle persone che sono state importanti nella mia carriera. Non sono nuova alle interviste: Domenica In e La vita in diretta sono state due palestre eccezionali».
E così adesso ogni martedì e venerdì lei manda in onda video-interviste da casa. A giovani talenti, spesso scelti da «Amici», e a persone cruciali nel suo percorso.
«Ha visto l’intervista a Marco Columbro? Mi sono commossa io stessa. Quattordici anni trascorsi fianco a fianco lasciano il segno. Funziona così: ho una piccola squadra che lavora con me, facciamo le scalette di volta in volta e in poco più di due mesi abbiamo raggiunto due milioni di visualizzazioni. Ora, io non me ne intendo, ma gli esperti dicono che non è male come risultato».
Specie se parliamo di Lorella Cuccarini, non di una Youtuber. Però...
«Ma no, a 57 anni e con quattro figli mica posso mettermi a fare seriamente la Youtuber o l’influencer. Credo che le mie mini-trasmissioni abbiano successo perché dietro c’è una persona con la mia storia: danza, musica, televisione, teatro. Quando, per esempio, intervisto Franco Miseria (famoso coreografo, ndr.) non parlo tanto di me quanto del suo lavoro. Certo, c’è anche la mia storia, ma mi piace mettermi da quest’altro lato della telecamera».
È come se Lorella Cuccarini si stesse facendo una «tv» autonoma. Sul modello di Bobo Vieri o dello stesso Fedez. Possiamo dire così?
«Non esageriamo. È che nella televisione tradizionale spesso si hanno pochi minuti a disposizione, qui abbiamo tanto tempo. Un esempio: sono andata a cercare la mia prima insegnante di danza, Lydia Turchi. Parlando a lungo, è riaffiorato un episodio che avevo del tutto scordato. Una volta lei mi vide appoggiare un piede sull’altro e io dissi che volevo provare nell’altro piede lo stesso dolore che sentivo in quello posato sopra. Il raso delle scarpette si macchiò di sangue: la danza è fatica, i lustrini non devono abbagliare».
È stata dura?
«Per frequentare le lezioni di danza mi misi a fare la segretaria di quella scuola. E un anno feci pure le pulizie. Alla sera mi toglievo le scarpe grosse e mettevo quelle di raso. Non eravamo ricchi, la televisione mi ha dato molto ma adesso in questo spazio recupero qualcosa di più».
Per esempio le persone per lei importanti. Un nome su tutti: Marco Columbro.
«Quando ci capitava di dover cantare in diretta, lui non prendeva mai il tempo giusto. Allora io gli dovevo dare un pizzicotto sulla schiena. Alla fine della stagione era pieno di lividi. Quante sciocchezze hanno scritto su di noi. Dicevano che stavamo insieme, quando eravamo, e siamo ancora oggi, due ottimi amici».
Il «Caffé con» (così si chiama il format) lo ha preso anche Manuel Franjo. Famoso ballerino ai tempi di «Fantastico».
«Ha conservato il suo spirito da ragazzino».
Lorella, lei sembra intenzionata a prendere molto seriamente questo progetto online, è così?
«Faccio con serietà ogni cosa, così anche questa per me è importante. Riflettevo che questo format può crescere in molti modi, per esempio si può aumentare l’interattività con il pubblico. Ma lo sa che ci guardano persone dai 15 ai 70 anni? È fantastico».
Nell’altro «filone» del format, chiamato «Dimmi di te», compaiono giovanissimi talenti.
«Partecipando ad Amici mi sono resa conto che non è affatto facile per molti di loro. Alcuni, prendendo parte alla trasmissione, hanno perso il supporto delle famiglie. Ad altri è successo il contrario».
Il prossimo caffé con chi lo prenderà?
«Con Beppe Vessicchio, grande signore d’altri tempi ma persona molto complessa, con una storia personale che va raccontata».
Ma Heather Parisi non la inviterà?
«Anche se volessi, non saprei come contattarla, perché mi ha bloccata da tutte le parti. Chissà, forse inaugurerò un nuovo format, “Le interviste impossibili”, e allora ci sarà spazio anche per lei».
· Lorenzo Cherubini: Jovanotti.
Teresa Cherubini: «Quei due disegni che nessuno ha mai visto (nemmeno papà)». Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.
In un diario ha raccontato il suo Jova Beach Party: i genitori, gli artisti, lo staff e sé stessa. Storia della figlia di Jovanotti. E dell’unica striscia che non è riuscita a finire
«Come posso tirare le conclusioni di un’estate così fuori dall’ordinario?» scrive Teresa Cherubini, 23 anni, autrice del diario a fumetti all’interno del libro La luce nei tuoi occhi - Il racconto del Jova Beach Party (foto di Michele Lugaresi, edizione Mondadori). Questo libro, che esce in concomitanza con il nuovo singolo di Jovanotti, Se lo senti lo sai , anticipa Il disco del sole (9 dicembre). Tappa dopo tappa, da Lignano Sabbiadoro a Bresso, passando per Castelvolturno, 600mila spettatori, Teresa racconta i protagonisti del tour, restituendo col disegno - personalissimo, esatto, poetico - la gioia e il senso di giovinezza collettivo che al Jova Beach Party, solo al Jova Beach, non è mai questione di età reale. Nei fumetti del libro tuttavia c’è qualcosa di più, qualcosa di profondamente sentimentale: quello di Teresa difatti è anche lo sguardo di una figlia, poiché Jovanotti è suo padre.
Così Teresa disegna il babbo, la mamma, i musicisti, lo staff, sé stessa. Ed è proprio nella rappresentazione di sé che maggiormente viene fuori la visione poetica: grazia, desiderio di invisibilità, attenzione al mondo, malinconia (di fine: estate, scuola, quel che sia, trattasi di sentimento innato), tutta la tenerezza di questa giovane artista nata e cresciuta a Cortona. Nella normalizzazione dell’eccezionale, che è forse la sua vita dalla nascita.
Jovanotti al mare con Teresa bambina
Disegnare?
«Fin da piccola, spesso col babbo».
Nel senso?
«Io gli dicevo cosa disegnare, e lui lo faceva».
In una foto postata sul suo profilo Instagram nel 2018 con Teresa ormai cresciuta
Esempio?
«Un cavallo a pois con tre teste».
Apprendistato all’immaginazione?
«Stimolo a non porre limiti. Oltre alla possibilità di unire universi lontani».
Ovvero?
«Mettere insieme cose diverse che in genere non stanno insieme. Avvicinarle, mischiarle. Capire che non funzionano o magari decidere che per te, solo per te, possono stare unite».
La tavola che apre La mia estate al Jova Beach Party, il diario a fumetti di Teresa Cherubini
In caso di errore?
«Benvengano gli errori».
Un errore di Teresa Cherubini?
«Iscrivermi a ingegneria biomedica». Per diventare? «Volevo fare il chirurgo».
Un’altra tavola del diario di Teresa Cherubini
Invece?
«Durante quell’anno, dopo le lezioni, lavoravo al teatro dell’università come costumista. Lì capisco che voglio fare qualcosa di artistico. Decido perciò di lasciare ingegneria biomedica per iscrivermi alla New York School of Visual Arts, fumettistica».
Reazione dei suoi genitori?
«Il problema è che io sono molto convincente. Perciò li avevo convinti benissimo che medicina fosse la mia strada: dando motivazioni, mostrandomi sicura».
Ma?
«Per la Teresa che avevano conosciuto loro fin lì aveva più senso l’Accademia d’arte».
Jovanotti esce dalla Cattedrale di Cortona con la moglie Francesca Valiani (S) e la figlia Teresa dopo il matrimonio celebrato il 6 settembre 2008 (Ansa)
Che Teresa era?
«Quella del cavallo a pois, quella che disegnava ogni giorno in cameretta».
Nel diario del libro lei diventa personaggio. Quando e come si trova?
«Te stesso sei la prima cosa che vedi e su cui ti eserciti. Io mi facevo i video sul telefonino e mi ridisegnavo. Studiavo le espressioni, i dettagli».
Quanto esercizio per trovare Teresa fumetto?
«Ho iniziato seriamente in Accademia, col fumetto autobiografico».
In una tavola del libro c’è Teresa a diverse età: la crescita in quattro facce.
«Si accorciano e si allungano i capelli, via il ciuccio, arrivano gli occhiali».
Con la moglie Francesca e la figlia Teresa, anni fa, a passeggio per Milano (Olycom)
Teresa fumetto dunque?
«Capelli e occhiali sono la mia chiave visiva. Questi elementi insieme dicono che sono io».
I capelli che sono gli stessi di suo padre fumetto.
«Io e il babbo abbiamo gli stessi capelli dentro e fuori il fumetto».
Per disegnare suo padre?
«Molti fogli buttati. La difficoltà più grande è il naso. Lui ha un naso particolare, diverso dal mio, un naso che non avevo mai disegnato prima».
Gianni Morandi con la famiglia Jovanotti
Nel suo disegno quanto c’è Jovanotti e quanto suo padre?
«Sarebbe come voler separare Batman da Bruce Wayne. Quei due uniti sono la verità del personaggio».
Raccontiamo il padre: Jovanotti durante l’infanzia di Teresa?
«Molto presente, talmente presente che partecipava alle attività scolastiche».
Tipo?
«In terza media mettiamo in scena Grease . Il babbo ci porta i microfoni, si occupa della parte tecnica. Un giorno si presenta direttamente con i suoi tecnici».
Compagni di classe sorpresi?
«Abituati. All’asilo ci aveva fatto passare una giornata intera in sala d’incisione con lui e i musicisti. Alle elementari ci aveva caricato su un pullmino per portarci a un concerto».
Tornando a Grease .
«Prima di entrare in scena il babbo ci microfona».
Interviene nella messinscena?
«Quella era opera della professoressa d’inglese, e mai lui si sarebbe permesso di mettere bocca».
Il momento esatto in cui Teresa capisce di essere figlia di Jovanotti?
«Non esiste. Lui era famoso da prima che nascessi, quindi io non ho mai vissuto altra dimensione».
La copertina di La luce nei tuoi occhi — Il racconto del Jova Beach Party (Mondadori), foto di Michele Lugaresi, diario a fumetti di Teresa Cherubini
Sensazioni?
«Una delle cose più belle di essere figlia di mio padre è vedere la gente felice ai concerti. Quel mare di gente felice».
Quest’anno, come racconta nel fumetto, lei con sua madre va a tutte le tappe tranne una.
«Roccella Jonica. Succede che a Cortona troviamo dei gattini. Siccome il nostro veterinario non poteva tenerli, siamo rimaste a casa noi. Erano piccolissimi, e dovevano prendere il latte dal biberon ogni due ore».
Reazione di Jovanotti?
«Ha capito l’emergenza».
Primo gatto della vita?
«Fifa: rosso e cieco».
Chi è Teresa Cherubini?
«Fumettista, gattara».
La sua famiglia le ha dato libertà d’immaginazione e libertà di essere quello che voleva diventare: anche nel vestirsi?
«Ho il mio stile».
Nello specifico?
«Maglioni, magliette, jeans».
Accetta consigli?
«Se mamma dice: "Questo maglione non ti sta bene" l’ascolto».
Nel fumetto lei racconta la novità di quest’anno: le entrano i vestiti di scena di suo padre.
«Non solo: per la prima volta non sono unicamente di scena, ma mettibili anche fuori».
Quelli dei tour precedenti non lo erano?
«La gonna con la faccia gigante di mio padre sul davanti?».
Quest’anno?
«Quest’anno ci siamo vestiti da pirati».
Personaggi preferiti dei fumetti?
«Batman, Robin, Spiderman».
Da sempre?
«Sono cresciuta con le principesse Disney».
Abbandona le principesse per i supereroi?
«C’è posto per tutti. Ancora oggi, se posso, mi riguardo Cenerentola».
Prima dell’estate, prima del Jova Beach, lei ha attraversato un periodo difficile, (tumore del sistema linfatico). Ha disegnato quei giorni?
«All’inizio ci sono stati due disegni, due tentativi di elaborare la malattia, che però non ha visto nessuno, nemmeno i miei genitori».
Una foto di Teresa postata dal padre con un testo che cominciava così: «Per gli ultimi sette mesi ho tenuto un segreto...»
Dove sono?
«Nascosti».
Di lei suo padre ha detto: «Teresa ha avuto una forza sorprendente. Io ero così ammirato».
«Me lo diceva spesso. Mi faceva piacere».
Un gesto, un istante di quei mesi?
«Tanti gesti e tanti istanti. Siamo stati noi tre insieme».
Disegnerà mai ciò che ha vissuto?
«Preferisco i racconti di formazione. La mia tesi di laurea è la storia di una ragazza nata e cresciuta in città che si trasferisce in campagna dove è costretta a affrontare vari ostacoli».
Quali?
«Sistemare la casa diroccata, piantate l’orto. Uno dei suoi problemi è: come far crescere le verdure».
Come far crescere le verdure?
«Nella teoria io ne sarei capace, mio nonno me lo ha insegnato. Lui ha un orto immenso, e riesce a far crescere tutto quello che in natura può crescere. Nella pratica però ho qualche difficoltà, le piante mi muoiono facilmente».
A proposito di crescita: nei fumetti passa il tempo?
«Già da bambina io disegnavo mia madre. A ogni compleanno le regalo un ritratto, ogni anno diverso. Ma c’è qualcosa che rimane uguale nel tempo, che è uguale dall’inizio: i capelli e la forma del viso».
Forma del viso?
«Arrotondata».
Quindi?
«Quei capelli e quella forma del viso sono mamma».
Figlio del pop. Jovanotti è il mitomane che sognavamo da bambini. Guia Soncini su L'Inkiesta il 13 Settembre 2022
Cronaca di un’illuminazione alla serata finale del JovaBeachParty: i grandi non somigliano a nessuno prima di loro, sono difficili da classificare e per fortuna sfuggono al facile gioco dell’analogia
«Cantami l’ira funesta, la pace, l’amore, l’estate»: succede sabato, quando è buio da poco, e sul palco del JovaBeachParty c’è Tommaso Paradiso, e Lorenzo sta rappando sopra una sua canzone, perché ogni tanto ti ricordi delle cose che volevi fare da giovane promessa e le tiri fuori col lusso indolente dell’ormai venerato maestro, e quindi lui ha scritto qualche rigo di rap che forse è un editoriale e forse no, e arriva l’ira funesta e io come tutti quelli che hanno più istruzione che cultura penso «ah, Omero» – e mi odio.
L’espressione più abominevole del presente è «è il nuovo». Virzì è il nuovo Altman, la Fanelli è la nuova Vitti, il JovaBeachParty è il nuovo Woodstock, Carlo è la nuova Elisabetta, Conte è la nuova Dc, Piccioli è il nuovo Lagerfeld, Only Murders in the Building è il nuovo Woody Allen, Paolo Giordano è il nuovo Martin Amis, Ilary Blasi è la nuova Ivana Trump, Lorenzo è il nuovo Sugarhill Gang o forse il nuovo Omero sebbene un attimo prima mi fosse parso evidente che mirava a essere il nuovo Ariosto: quand’è che abbiamo smesso di produrre categorie critiche e siamo diventati capaci solo di dire cosa somiglia a cosa? Se tutto quel che la critica culturale sa fare è produrre pigre analogie, allora tanto vale un algoritmo. Se di niente sappiamo dire che non somiglia a niente che esistesse già, cosa diamine produciamo roba nuova a fare?
Frank Sinatra non somigliava a nessuno. «Ne nasce uno ogni epoca, e doveva nascere proprio nell’epoca mia?», esalò una volta Bing Crosby, che pure non era uno che nella storia della musica fosse destinato al rilievo di Sandy Marton.
Quest’estate ho pensato tantissimo a Frank Sinatra, e a quelli che è difficile catalogare, a quelli che non sono il nuovo qualcuno, e non solo perché hanno lavorato in epoche in cui la critica culturale non aveva ancora rinunciato al suo compito e smesso di cercare di capire il mondo: perché erano loro che sfuggivano alle catalogazioni. Il crooner elegante che diceva «canto col cazzo nella voce», il cantore della bella vita che era cantore della classe operaia. Lo disse Bruce Springsteen al suo ottantesimo compleanno, quando ancora si riuscivano a dire cose più articolate di «Tizio è il nuovo Caio».
«Il mio primo ricordo di Frank è la sua voce che esce, di domenica pomeriggio, dal juke-box d’un bar buio in cui io e mia madre eravamo andati a cercare mio padre, e lei che dice “ascolta, è Frank Sinatra, è del New Jersey”. Era una voce in cui c’erano brutto carattere e vita, bellezza, esaltazione, un indecente senso di libertà, sesso, e una cupa consapevolezza di come andasse il mondo. Era un pugno e un bacio, ma a colpirmi era la profonda tristezza della voce di Frank; e, benché la sua musica sia diventata sinonimo di abiti da sera, bella vita, i migliori liquori, donne, sofisticatezza, la sua voce da blues aveva sempre il suono della peggior sfortuna e degli uomini che, tardi la sera, con gli ultimi dieci dollari in tasca, cercano di escogitare un modo di cavarsela».
Quella cosa lì mi manca persino più dei nuovi Frank Sinatra che non vedo a frotte (forse Robbie Williams?): mi manca un critico culturale (che non sarebbe neppure il mestiere di Springsteen, ma non cavilliamo) il quale, invece di dire «Liam Gallagher è il nuovo Frank Sinatra», ci sappia evocare un mondo, costruircelo in due minuti di discorso, farci dire cazzo, sì, come ho fatto a non pensarci, come ho fatto a vedere solo il tizio che sapeva portare lo smoking e non quello che lo portava continuando a parlare a chi aveva il problema di procurarsi una camicia stirata.
Il talento è quella roba lì: vedere nelle cose vecchie nuove idee. Replicarsi sembrando sempre appena inventati. Notare l’angolo cieco del margine del pezzettino non illuminato dell’opera, dell’artista, della dinamica che credevi di conoscere a memoria.
Forse è perché mi cerco un talento, che non riesco più a guardare roba nuova. Che torno agli stessi concerti, che rivedo gli stessi sceneggiati, rileggo gli stesso libri, gioco a nuovi Spelling Bee tenendo in sottofondo sempre gli stessi vecchi film, sapendo che arriverà un dettaglio a colpirmi come fosse nuovo. Ma non: ah, guarda, è il nuovo qualche-altro-film. A ogni replica, ogni opera d’un qualche valore mi pare la nuova sé, quella di cui non m’ero accorta. Se ogni volta che vedo un vecchio Allen ci trovo dettagli che avevo trascurato, che me ne faccio della nuova serie che lo omaggia?
Sabato, mentre Lorenzo chiudeva il suo tour fuori Milano, uno che seguo su Twitter era a vedere Billy Joel al Madison Square Garden, il solito concerto col solito repertorio che Joel fa nel solito posto da anni, e il tizio twittava che la risposta del pubblico ogni volta che Joel attaccava una delle sue strasentite canzoni era: figata, fa un altro pezzo che conosco e che mi piace, fa addirittura i pezzi famosi di Billy Joel, cosa potevo volere di più.
Forse siamo tutti lenti di riflessi, di sicuro lo sono io, ed è per quello che quando vado al finale di stagione del JovaBeachParty, ed è un concerto che ho già visto tre volte e sono in grado di dire agli amici ah sì, qui fa l’aerobica di Jane Fonda mettendo i dischi dei Blur e ci si può andare a prendere da bere, però guardate che qui fa una sleppa delle mie sue canzoni preferite e guai a voi se m’interrompete mentre squarciagolo, forse è per quello che ogni dettaglio fin lì non notato mi sembra un dettaglio che converga nella sintesi che ne fa Lorenzo sul finale tommasoparadisico, «a cavallo del pop oltre i confini del mondo», ed è a me – tarda – che servivano molte repliche per capirlo.
«Scrivo rime baciate perché mi piace baciare», rappa Lorenzo su Paradiso, e mi viene in mente quel critico che settant’anni fa scrisse che per Sinatra un microfono valeva quanto una ragazza che aspettasse d’essere baciata, e intanto quello (quello Lorenzo, no quello Frank) ariosteggia ma pure rowlingheggia ma pure risponde senza citarle alle stronzate di chi, pur d’infilarsi nella polemica del giorno e fare tanti bei clic, s’è negli ultimi mesi impegnato a fingere di credere che il problema del pianeta o anche solo della penisola fossero i concerti. Mica dice che è a cantare in un aeroporto privato per mettere in pausa per un giorno i decolli inquinanti (sarebbe una paraculata stupenda, peccato); finge di parlar d’altro, giacché è lontano dal trending topic pretestuoso – sia esso ecologista o altro – che ha senso mirare: «Stasera volano schiaffi, fatevi sotto babbani, noi siamo i figli del pop e non abbiamo paura: di ritornelli leggeri, di amore, di avventura».
Forse è solo che siamo arrivati dopo. Siamo il nuovo qualcuno perché ormai il pop come lo concepiamo esiste da più di sessant’anni, e l’altro giorno ho visto un film in cui qualcuno sembrava dovesse buttarsi da una scogliera, e ho pensato «Ah, Butch Cassidy», ma che colpa ne abbiamo se siamo nati dopo e sul territorio immaginifico della fuga buttandosi dalla scogliera avevano già pisciato altri.
Forse possiamo solo provare a mettere del nostro nella tradizione, ad aggiungere un dettaglio che illumini nuovi angoli dei classici, «io non sono Mozart e tu non sei Picasso, io son Lorenzo e Saturnino sta suonando il basso: apprezzo ciò che è stato e ne farò tesoro ma ancora c’è da farne di lavoro» diceva un disco di quand’eravamo giovani e arroganti.
Quando eravamo grandiosamente mitomani, e meno male che qualcuno lo è ancora e mette su audaci imprese e si sorbisce il contraccolpo dei più fastidiosi, che mica sono gli umili: sono quelli la cui mitomania è in scala minore, la cui ambizione è moltiplicare i clic, sono i micromegalomani che vogliono ricamare sullo scandale du jour, mica proclamarsi imperatore. Quando Sinatra andava alla Casa Bianca, il nome in codice che usavano per lui i servizi segreti era «Napoleon».
Luca Puccini per “Libero quotidiano” il 24 agosto 2022.
«È qui la festa?». No, semmai è qui l'esposto. Nel senso che la procura di Lucca ha aperto ufficialmente un'inchiesta sul "Jova beach party", il concertone di Jovanotti in programma tra il 2 e il 3 settembre a Viareggio, sulla spiaggia del Muraglione. Un evento che sono anni si trascina uno sciame di polemiche e diatribe, specie quelle scatenate dal mondo ambientalista.
Ché prima era il fratino, il piccolo uccello trampoliere che nidifica tra le dune e a cui (evidentemente) non piace la musica pop, e adesso sono le piante della spiaggia che contrastano l'erosione costiera e se Jovanotti strimpella con la chitarra sul palco in mezzo alla rena vai a capire che fine fanno.
È che qualche giorno fa i soliti attivisti che non si può toccare più nulla hanno bussato alla porta della procura di Lucca con in mano uno studio del professor Giovanni Braccaro (uno che insegna all'università di Trieste) e hanno firmato un esposto contro il concerto del Jova nazionale.
Il rapporto di Braccaro riguarda il «campionamento della vegetazione psammofila realizzato nell'area del Muraglione di Viareggio a inizio agosto» (cioè i famosi arbusti di cui sopra) e niente, gli zelanti magistrati toscani l'hanno recepito e hanno iniziato a lavorarci (ossia a indagare) su. Un atto dovuto, trapela, e il fascicolo è stato aperto contro ignoti: vuol dire che nessuna persona, né fisica né giuridica, nemmeno Jovanotti o la sua band, risultano attualmente iscritti al registro degli indagati.
Però l'ipotesi di reato mica è una bazzecola: è una (possibile) violazione dell'articolo 733-bis del Codice penale, quello rubricato come «Distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto». Si rischiano fino a diciotto mesi di carcere (che sono più di un anno) e una multa che comunque non può andare sotto i 3mila euro. Diciamocela tutta: Jovanotti mica si è alzato una mattina e ha detto sai-che-c'è-vado-a-suonare-al-Muraglione. Dài, siamo seri.
Prima di mettere in cartellone la data di Viareggio ha chiesto una marea di permessi. A chi di dovere per la sicurezza, al Comune per l'occupazione del suolo pubblico. Ecco, appunto, il Comune. Il sindaco di Viareggio, Giorgio Del Ghingaro, che è una persona pratica e, a quando pare, pure stufa di sentire le stesse lamentele che si ripetono ogni anno, ha chiuso (per chi voglia chiuderla lì, poi il filone giudiziario chissà) la questione nell'arco di un amen, su Facebook, pubblicando due paginette di via libera all'evento firmante nientepopòdimenoche dall'Arpat, al secolo l'Agenzia regionale per la protezione del territorio ambientale della Toscana.
C'è scritto, in quel documento che si può vedere con qualche semplice click sul computer, che l'organizzazione del tour 2022 del Jova beach party ha tutte le carte in regola, che la spiaggia del Muraglione non è un habitat naturale e che le specie vegetali che lì sono stanziate (ce ne sono, ci mancherebbe, ce ne sono ovunque) non sono specie protette. «E con questa comunicazione possiamo considerare conclusa l'ennesima polemica estiva, buona giornata», chiosa Del Ghingaro.
Tra l'altro, sul report dell'Arpat c'è pure una sezione fotografica, viene specificato che «la zona in cui è previsto il concerto è fortemente antropizzata per la presenza di un muro che delimita l'area e che la separa dal porto di Viareggio e pertanto non rientra nella classificazione degli habitat naturali dunali» nonché che le piante in questione sono l'eringio marittimo, l'euforbia marittima, l'erba medica marina e l'ammofila arenaria: tutte specie non protette.
C'è anche il logo della Regione, su quei fogli: in quanto a ufficialità dovrebbe bastare. Invece no. Invece adesso, a qualche chilometro più a est di quel litorale, cioè a Lucca, in procura, c'è un caso aperto su un concerto che, tra parentesi, non è ancora stato fatto (e che, però, stima un afflusso di almeno 80mila persone in due giorni) perché qualche associazione di verdi ha chiesto a qualche magistrato, che non ha potuto dire di no, di spulciare delle carte che sono tranquillamente disponibili sui social.
Jova Beach Party, dietro le quinte dello show di Jovanotti: il trucco di Teresa, la scelta tra i 150 abiti e sette litri d’acqua. Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022.
Dodici ore sotto il palco: gli esercizi al risveglio, le improvvisazioni con la chitarra sotto la tenda con l’amaca, i dubbi sulle scarpe.
Quello che succede sul palco si capisce a fondo solo spiando dietro le quinte. Giuliano Sangiorgi che salta in braccio a Jovanotti come se fosse il fratellone che non vede da mesi. I due che si lasciano prendere in giro da Checco Zalone davanti a 30mila persone. Un trio inedito improvvisato, senza nemmeno la rete di salvataggio delle prove, con Gianni Morandi e Biagio Antonacci. L’energia esplosiva di Lorenzo che sta in scena 8 ore e anche quella di un pubblico che sta sotto il sole una giornata intera. Il backstage del Jova Beach Party — un tour di 21 date in 9 spiagge (un aeroporto, un ippodromo e un prato in montagna) — è lo specchio giusto per interpretare lo spettacolo.
Ore 7.30: i preparativi
A Barletta la giornata comincia presto. I primi fan sono davanti ai cancelli alle 7.30. Asciugamani sull’asfalto del lungomare, scatta una mano a scopa con le carte napoletane, una scrollatina ai social, un selfie. «Oltre all’emozione del concerto, è bello anche passare tutta la giornata con gli amici», dice Alessandro, 22 anni. Viene da Trani, dietro l’angolo. Giulia, invece, ha fatto quasi 700 chilometri per esserci. È partita due giorni prima da Siracusa in macchina con la sorella Federica che ha 15 anni ed è al primo concerto della sua vita: «Mio padre mi dedicò Per te quando nacqui: i miei 26 anni con Jova sono iniziati così». In zona transenne c’è anche Angela, pensionata di Cori, provincia di Latina: «Jova è Jova, l’ho visto crescere, come artista e come persona, da quando era un ragazzino. E poi c’è anche Morandi... quindi doppio consenso». In parallelo alla migrazione dei fan, si mette in moto la giornata di Lorenzo.
La sveglia è alle 7, un po’ più tardi il giorno dopo il concerto («Non mi spengo prima delle 4 del mattino») e subito allenamento, senza passare dalla colazione. «Faccio esercizi per attivare il corpo, respirazione... Un po’ navigo a vista e come mia figlia ha imparato a fare l’uncinetto con i tutorial di YouTube, io seguo quelli americani di biohacking, e un po’ ascolto gli esperti». Uno staff di fisioterapisti — Fabrizio Borra e i figli Daniele e Luca — lo segue come se fosse un atleta: esercizi personalizzati, massaggi post concerto, controlli del livello di idratazione. «È un’esperienza estrema e devo sempre stare bene». Fra acqua e tereré, il mate argentino che in estate si prepara a freddo, arriva a 7-10 litri di liquidi al giorno; durante lo show consuma 7 borracce, una con un cucchiaino di sale da cucina. «La fatica di questo tour è anche responsabilità. Quando faccio i miei giri in bici in solitaria mi fermo quando voglio. Qui sono imprescindibile». Anche la dieta è studiata: «Ci vuole un equilibrio che si basa sulla cura: non è che dopo il concerto esco a farmi pizza e birra. Per rendere al meglio, concentro tutti i pasti in 8 ore». Attorno alle 10 la colazione a base di yogurt o latti alternativi, frutta secca e semi. Verso le 11 pranzo leggero con pesce o uova e verdure, niente carne o carboidrati. Alle 18 una cena simile. «Non sono integralista, nessun -ismo, ma ho capito che se mangio certi alimenti sono meno in forma».
Ore 15.30: i protagonisti
Jova arriva per le 13.30. Il primo compito è la scaletta, scritta rigorosamente a mano e fotocopiata per band e tecnici. «Più che un festival è una festa. La gente si fida di Lorenzo e delle sue scelte. Lo si capisce dalle reazioni: tutti ballano e si fanno coinvolgere anche da ospiti sconosciuti», commenta il manager Marco Sorrentino. No Jova, no Beach Party. Non è un format rivendibile. È qualcosa a sua immagine e somiglianza. C’è dentro il suo mondo, la sua curiosità, il suo penso positivo, l’inclinazione alla sfida e al guardare altrove, al mettere assieme quello che altrimenti non ci starebbe. A l sancta sanctorum di Lorenzo, protetto da un canneto, si accede passando sotto la bandiera salgariana delle tigri di Mompracem. Al centro c’è una yurta: un’amaca per riposare sotto lo sguardo di Nostra Signora di Guadalupe, un divano, un tavolo con frutta secca, spezie, sali minerali e rimedi per la voce. A fianco c’è il guardaroba 150 capi unici in stile pirata-chic firmati da Maria Grazia Chiuri, direttore creativo di Dior - e uno spazio per il management e la comunicazione curata da Dalia Gaberscik. Fuori altre tre tende da accampamento nomade: una per gli artisti ospiti (oltre 160, da 35 Paesi diversi), una per la band e una zona attrezzata come sala prove che è il polmone artistico e di scambio umano.
Nel backstage del «Jova Beach Party» Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, prova con i musicisti
Dal primo pomeriggio il backstage diventa un porto di mare. Il sindaco di Barletta consegna la tshirt con il nome della città; un saluto a Benedetta Pilato, campionessa mondiale di nuoto. Alle 15.40 sale sul palco per la prima volta. «Siamo un mare di fronte a un mare. Che flash... Buon viaggio!». Già che c’è prende la chitarra acustica e canta. Si moltiplica, è sempre acceso, energia contagiosa. «Dopo due anni di compressione, la molla si è liberata. Nel pubblico senti voglia di fare festa e quest’anno chi fa il mio mestiere gode come un pazzo». Glielo si legge in faccia. È una maratona, una prova fisica estrema, ma lui si diverte come se fosse la sposa al matrimonio. Presenta e duetta con gli ospiti dello Sbam, il palco riservato a dj e musica elettronica, e con quelli del Kontiki, emergenti e suoni dal mondo. Scende da uno stage e spunta su un altro muovendosi con la bici elettrica, seguito come un’ombra dal suo personal Emiliano Segatori. Alle 17, family time. Arrivano Francesca Valiani, la moglie (sul suo Instagram le dirette dello show con Pov dal palco), e Teresa, la figlia. Dibattito sulle scarpe di Lorenzo, Teresa prende in giro il babbo, ma non lo convince al cambio. Poco prima dello show sarà lei a truccarlo in stile nativo americano fluo. Attorno alle 18 il clima nel backstage è frizzante. Si improvvisa con i piedi nella sabbia, l’evoluzione della schitarrata in spiaggia attorno al falò. Il clima è quello, ma il livello è da professionisti cui basta uno sguardo d’intesa per cambiare tempo, adeguare la tonalità. Arriva Checco Zalone. Si unisce Giuliano Sangiorgi . L’ironia del comico e la generosità del leader dei Negramaro accendono il momento. Il designer Fabio Novembre balla scatenato. Il giorno dopo toccherà a Biagio Antonacci mescolarsi. Verso le 19.15 si presenta Gianni Morandi, ospite fisso. «Pagherei per stare là nel mezzo con l’asciugamano sulla sabbia... Sono travolto da un’ondata di affetto. Una nuova fase della mia carriera? È sempre come la prima».
I preparativi per lo spettacolo nel backstage del «Jova Beach Party»
Ore 20: lo show
Che caldo. La security spruzza acqua vaporizzata con dei cannoni e ci si tuffa fra le onde. Si ascolta musica dal vivo stando a mollo sotto l’occhio di 30 bagnini sulle torrette e sulle moto d’acqua. «Che bello vedere qualcosa di nuovo — dice Alessandro, magazziniere, 22 anni — in una città statica e famosa più per la cronaca nera come la mia Barletta... Uno spunto per noi giovani per non fuggire al nord».
Il JBP è geograficamente democratico. Arriva dove i grandi concerti non arrivano e ci si accontenta delle feste di piazza. «Ci vogliono 5 giorni per allestire e 2 per smontare e pulire. È una produzione da 20 milioni di euro, 150 persone in tour e altre 1.000 prese in loco a ogni data», spiega il promoter Maurizio Salvadori di Trident. La nave pirata non ha trovato mare calmo e i tormenti di Lorenzo sono arrivati anche sui social. Proprio sui lavoratori c’è stata polemica: a Fermo, il weekend dopo Barletta, l’ispettorato del lavoro ha trovato 17 operai in nero, poi regolarizzati con una multa dalle 4 ditte che li impiegavano. Le associazioni ambientaliste locali parlano di impatto negativo sul delicato ecosistema delle spiagge. «Sono polemiche pretestuose, con il Wwf abbiamo monitorato ogni criticità possibile — conclude Salvadori —. Quello che conta è che veicoliamo un messaggio di sensibilizzazione importante e che lasciamo le spiagge più pulite di come le abbiamo trovate».
Jova si infila nel guardaroba per un ultima volta. Esce che pare Jack Sparrow. Ancora un selfie — e se in zona c’è Morandi offre lezioni di inquadratura —. Un altro ancora. Gli saltano addosso ma non c’è tensione. Un ultimo scatto. E via sul palco. Il resto è show. E quello va vissuto lì, in presenza, fra sabbia e decibel, scottature e birra, abbracci e cori.
Da corriere.it il 15 agosto 2022.
«Raga non chiedete più se andrò anche io a qualche Jovabeachparty. Non ci andrei manco morto». Così il rapper Gemitaiz attacca Jovanotti, condividendo il suo pensiero con 1,4 milioni di follower. «Trovo che Jovanotti sia un pagliaccio e porti in giro un carrozzone di qualunquismo cosmico. 60 o 90 euro per vederlo saltare vestito da pirata mentre passa da Benny Benassi ai Queen».
Il rapper non si risparmia con gli attacchi e aggiunge: «Avrà anche fatto del bene quando ha cominciato ma da tempo è l’emblema del ribelle che ha appena visto il cash, si è venduto alla qualunque. Gemitaiz cavalca l’onda della bufera scatenatasi su Jovanotti negli scorsi giorni. Ma non tocca il tema ambientale, si ferma solo al parere personale.
Da corriere.it il 4 agosto 2022.
Ieri pomeriggio, il personale dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ascoli Piceno ha ispezionato il cantiere di allestimento del palco e dell’area concerto del «Jova Beach Party», nella località di Lido di Fermo. Nel corso dell’ispezione sono state controllate 19 aziende, nessuna delle quali aveva sede legale nella provincia.
I lavoratori di cui sono state acquisite informazioni sono 55: di questi, 17 (sia italiani che stranieri) erano in nero. Nei confronti delle 4 ditte per cui operavano — tutte appartenenti al settore del facchinaggio — l’Ispettorato ha emesso provvedimenti di sospensione dell’attività, con decorrenza immediata.
Brunella Bolloli per liberoquotidiano.it il 4 maggio 2022.
Ragazzo fortunato, Lorenzo Jovanotti. I segugi di Report gli sono stati alle calcagna per settimane quando ha lanciato il suo Jova Beach Party, volevano trovare a tutti costi qualche pecca nell'organizzazione del suo mega evento in spiaggia; erano convinti che l'autore di una Nuova Era e i suoi fan avrebbero distrutto riserve naturali e lasciato tracce tipo Conan il Barbaro al termine dei concerti.
Sigfrido Ranucci aveva già studiato una puntata delle sue, con quei servizi da cui si esce marchiati a vita, guarda quello cosa combina, che spreco, che sporcizia, ambientalista si fa per dire, eccetera.
E, in effetti, poi, qualche polemica sugli alberi tagliati a Ravenna c'è stata, ma la verità è che Report ha scavato a caccia di scheletri nell'armadio «e invece non ha trovato nulla», ha detto ieri Lorenzo presentando, alla Bicocca di Milano, l'edizione 2022 che si chiama "Ri-party-amo" e consta di un tour in 24 tappe e oltre 10mila volontari per pulire 20mila mq di spiagge e fondali, con la collaborazione di Wwf e Intesa Sanpaolo («perché anche la transizione ecologica ha un costo»).
Lo "sciamano" della musica ha assicurato: «Il mio evento è sostenibile, niente plastica, solo acqua solo in lattina». Perfino Report ha dovuto arrendersi.
Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 5 agosto 2022.
Blitz dell'Ispettorato del Lavoro e dei carabinieri al «Jova Beach Party» a Lido di Fermo, nelle Marche, dove oggi è prevista la settima tappa del tour di Jovanotti cominciato il 2 luglio a Lignano Sabbiadoro e che terminerà il 10 settembre all'aeroporto di Bresso (accanto a Milano). A seguito delle verifiche ispettive, effettuate mercoledì, quattro ditte distinte dall'organizzazione (sul totale delle 15 che operano nel tour) sono state sospese perché, secondo i controllori, facevano lavorare in nero 17 addetti, tutti impiegati nel settore facchinaggio.
Ieri però le sospensioni sarebbero state revocate a tre delle aziende e la situazione è tornata rapidamente alla normalità, tanto che i dipendenti delle ditte sospese - nessuna delle quali marchigiana - hanno lavorato regolarmente.
«Si è trattato di ciò che va sotto il nome di "inadempienze formali" e in breve tempo sono stati prodotti i documenti mancanti che hanno motivato le sospensioni» spiega Massimo Salvadori, fondatore e amministratore delegato di Trident, l'agenzia che produce i concerti di Jovanotti da circa un trentennio e su cui, invece, non è stata riscontrata alcuna irregolarità.
«I controlli sono durati cinque o sei ore e tutte le aziende e tutti i lavoratori direttamente contrattualizzati da Trident erano a norma. Le irregolarità contestate e sanate riguardavano solo le ditte contattate specificamente per la data di Fermo», premette Salvatori, un'istituzione nel campo musicale e una fila interminabile di concerti organizzati dagli anni Settanta: Michael Jackson, Simple Mind, Genesis, Pooh, De Andrè, Renato Zero.
La sospensione è nata dal fatto che le ditte individuate dai «local promoter» di Lido di Fermo non avevano comunicato alle autorità la provenienza dei lavoratori, chiamati da tutta Italia. «Ma la norma è chiara: c'erano 24 ore di tempo per farlo e appunto ci si è riusciti oggi (ieri per chi legge, ndr) » afferma il manager, mostrando uno delle revoche indirizzati a tre aziende, «le sole che, a quanto ci risulta, erano state sospese».
Ma perché i ritardi in queste comunicazioni alle autorità? Salvatori elenca le cifre che riguardano il tour di Lorenzo Cherubini, «una produzione con 21 date che spostano 150 persone. Ma in ogni località sono oltre 1.000 i lavoratori coinvolti, tra facchini e security. Si è trattato, appunto, di inadempienze formali rispetto a cifre molto grosse. Il concerto si terrà normalmente».
Francesco Maria Del Vigo per il Giornale il 6 Agosto 2022.
Alla fine hanno fatto perdere la pazienza anche a lui, l'emblema deambulante e danzante del buonismo, l'uomo sempre, inspiegabilmente, immotivatamente e a volte anche fastidiosamente «positivo», nel senso del pensiero e non dello stramaledetto Covid. Alla fine anche Jovanotti nel suo piccolo - che piccolo non è visto che raccoglie centinaia di migliaia di spettatori in tutta la Penisola - si è incazzato.
Seppure tardivamente e con le parole sbagliate. Piccola premessa necessaria: Lorenzo Cherubini sta spopolando con il Jova Beach Party, un megatour, con un sacco di ospiti, sulle spiagge italiane che macina un successo dopo l'altro.
Una specie di Festivalbar a immagine e somiglianza di Jovanotti, un rave party politicamente corretto e a portata di famiglia, una Gardaland musicale. Però - ormai è prassi consolidata -, in Italia quando hai troppo successo e le cose ti vanno troppo bene, in qualche modo, anche se sei il buonistissimo Jovanotti, diventi bersaglio di critiche e odio sociale.
Così, Cherubini, è stato infilzato con due accuse: aver utilizzato dei lavoratori in nero nel montaggio dei palchi (accusa smentita) e, soprattutto, aver inquinato i lidi tricolori con i suoi mega raduni. Anzi, per la precisione, è stato accusato di «greenwashing», parola così antipatica da meritare di finire subito nella spazzatura (ovviamente differenziata).
Insomma, il buonista è finito buonistizzato. E ha iniziato a strillare.
«Se voi, econazisti che non siete altro, volete continuare ad attrarre l'attenzione utilizzando la nostra forza, sono fatti vostri. Il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell'ambiente», ha attaccato il cantante toscano. Posto che il nazismo è una cosa ben più seria di queste piccole bagatelle e bisognerebbe iniziare a pesare le parole, è giusto precisare che Jovanotti scopre i fondamentalisti dell'ecologia solo ora che toccano i suoi interessi.
Il profeta della «grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa», l'artista del «cancella il debito» che prestò pure una canzone a una campagna elettorale del Pd, all'improvviso si desta dal torpore e scopre che anche tra i «buoni» esistono i cattivi.
Non aveva fatto un plissè quando gli stessi esaltati gretini avevano detto no alla Tav, alla Tap o al nucleare. Ma appena toccano la sua «grande opera» va su tutte le furie e denuncia le storture dei talebani dell'ambientalismo. Privilegi di un «ragazzo fortunato».
Mario Tozzi per “la Stampa” il 9 agosto 2022.
Caro Lorenzo, non ci conosciamo personalmente, ma ti scrivo in relazione al tuo Jova Beach Party e alle polemiche che si stanno scatenando per la tua risposta piccata alle critiche di cittadini e associazioni. Mi permetto di darti del tu come a un amico di lunga data, visto che seguo con attenzione e simpatia il tuo percorso musicale e umano almeno da «Serenata Rap», cioè da quasi trent' anni.
Premetto che mi piace molto la tua evoluzione artistica e ho apprezzato anche una certa inclinazione globale di alcuni brani, come per esempio «L'ombelico del mondo». Tutto questo per dire che non c'è ombra di pregiudizio nella mia analisi. E così vengo subito al punto: noi tutti amiamo coniugare natura e cultura, arte e ambiente, musica e paesaggio.
Direi che ci viene spontaneo, sia quando ne godiamo, sia quando ne siamo protagonisti. Nel mio piccolissimo, io non sono certo contrario e ho fatto spettacoli di parole e musica con Niccolò Fabi nelle Grotte di Castellana e con il jazzista Enzo Favata anche nelle spiagge più intatte di Sardegna. Quindi il connubio mi piace.
Il problema infatti non sta nella manifestazione in sé, ma negli impatti, che, come si vede chiaramente nelle foto del JBP dall'alto, sono dirompenti, semplicemente per il numero di individui che vi partecipano: un conto sono cento persone, un altro cinquantamila. Un recente studio del Cnr ha stimato che, dalle spiagge del Parco Nazionale dell'Arcipelago di La Maddalena, ogni bagnante che passa una giornata al mare porta via con sé, volente o nolente, dai 50 a 100 grammi di sabbia.
Lo studio è stato elaborato per la famosa spiaggia di Budelli che veniva sistematicamente depredata delle sue sabbie rosa e che è stata chiusa all'accesso proprio perché, comunque, dieci bagnanti trasportavano inconsapevoli altrove almeno un chilo di sabbia al giorno. Moltiplica questa cifra per le tue diecimila o cinquantamila persone e vedi a che montagna di sabbia si arriva, senza contare che si balla e ci si agita, aggiungendo erosione a erosione. Anche se solo per una giornata.
Il primo elemento di critica sono dunque i numeri, non sostenibili da alcun sistema naturale, specialmente se delicato e fragile. E il secondo elemento è proprio il luogo: le linee di costa sono quanto di più delicato esista sul pianeta e sono compromesse soprattutto in Italia. Oggi le nostre coste sabbiose sono spesso in via d'erosione, mentre quelle alte, di falesia, finiscono per subire i colpi delle maree, sempre più disastrosi anche a causa delle frequenti tempeste.
In Italia circa il 40 per cento delle spiagge è sottoposto a un'erosione costante e l'esito di questo processo è che rischiano di andare perdute, se non si interviene incisivamente. A patto di non affidarsi alle solite opere: moli, pennelli, scogliere artificiali o addirittura rimpinguare la spiaggia con camion di sabbia presa chissà dove e scaricata lungo la costa. Ci si dovrebbe, invece, affidare al ripascimento naturale guidato, ma per questo ci vogliono tempi lunghi, opere dolci e tranquillità.
Non meno dannoso è l'uso malsano che facciamo della spiaggia, che in Italia è particolarmente deleterio. La duna, per esempio, è stata cancellata ormai su quasi tutte le decine di migliaia di chilometri del confine marino; la gran parte delle praterie sommerse di Posidonia è stata ormai divorata; la sterminata foresta che un tempo andava da Ventimiglia a Trieste facendo il giro di tutte le coste è scomparsa ormai da almeno duemila anni. Solo il 29 per cento delle coste italiane, circa 2.200 ettari, è libero da insediamenti e può essere considerato un paesaggio integro.
Il 60 per cento è già stato oggetto di un'occupazione intensiva che ha portato alla cancellazione della duna e della macchia, sostituite da costruzioni a tappeto e stabilimenti balneari in cemento armato. Il restante 11 per cento è in via di occupazione. Le coste sono un patrimonio che noi diamo per scontato, ma che sta andando perduto senza che nemmeno ce ne accorgiamo.
Non sembra poi una delle migliori idee passare con le ruspe prima dell'evento o imporre un megapalco di quelle dimensioni con tutte le opere temporanee, ma pesanti, che richiede. E le opere di compensazione servono relativamente, perché agli impatti resistono solo gli ecosistemi resilienti e, per ciò sopra esposto, in Italia gli stessi sono allo stremo, specie lungo le coste.
È vero che il Wwf si è fatto garante della mitigazione degli impatti, visto che tanto i comuni avrebbero comunque autorizzato gli eventi. Ma come membro del Consiglio Scientifico devo rivelarti che, insieme ad altri, avevo fatto presenti le mie perplessità.
C'è poi un aspetto culturale di fondo che non va trascurato: trasformando gli ambienti naturali in luoghi per eventi di massa si potrebbe dare l'idea che la natura e il paesaggio siano, in fondo, modificabili costantemente dai sapiens anche per esigenze che non sono di immediata sopravvivenza, pur riconoscendo il valore assoluto della musica. Ma ci sono luoghi deputati per quelle manifestazioni, anche giganteschi: stadi, palazzetti, piazze municipali e quant' altro.
E se è vero che si tengono eventi nell'Arena di Verona o in siti archeologici, è pure vero che i Pink Floyd a Pompei il pubblico non ce lo avevano e che i numeri sono comunque molto più bassi. Il problema sono i numeri, ma certo non per danneggiare le persone che vogliono godere della tua musica, solo per evitare di lanciare un messaggio diseducativo, che qualsiasi cosa si può fare sempre a spese dell'ambiente.
Ciascuno di noi sbaglia benissimo da solo e i consigli so dove posso mettermeli, ma davvero non devi pensare che ci sia una pattuglia combattiva di eco-nazisti, come li hai chiamati, che vuole distruggere la tua iniziativa per invidia sociale. Se pure ci sono voci estreme, ci sono anche altri, ecologisti di lunga data come me, che studiano l'ambiente da un punto di vista scientifico e che ne hanno viste abbastanza per suggerirti di rinunciare a questo progetto e rimodularlo legandolo a vere iniziative di compensazione ambientale: dalle emissioni clima alteranti che un evento ha sempre e comunque, alla piantumazione di alberi seguita e certificata, alla restaurazione di dune e praterie di Posidonia, alla difesa dell'avifauna e delle tartarughe marine.
Chi se frega del fratino, mi potresti dire, o delle tartarughe. Ma faresti un errore: in questo mondo c'è un posto per la zanzara e uno per il pipistrello, uno per il fratino e uno per la medusa, solo noi sapiens pigliamo il posto di tutti gli altri, prepotenti e invasivi come siamo. Non realizziamo che, se si estingue una specie, l'effetto è a domino e, prima o poi, si estinguono anche le altre. In fondo la ricchezza della vita sulla Terra è data dalle sue singole componenti, esattamente come la sicurezza di un aeromobile è garantita a partire dall'ultima vite della macchinetta per scaldare i pasti a bordo: non sai mai come si mettono le cose, se fai finta di niente. Mi congedo nell'illusione che le mie parole servano almeno a un ripensamento e una discussione non ostile e addirittura serena. Tuo.
(ANSA il 10 agosto 2022) - "L'altro giorno ho chiamato 'econazisti' quei mitomani pericolosi che polarizzano violentemente la grande questione dell'ecologia dentro a piccoli brand personali non accreditati se non da loro stessi e dai like rimediati a vanvera.
Li ho chiamati econazisti perché essi lo sono": si apre così il lungo post con cui Jovanotti su Facebook risponde al professor Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico, che in una lettera aperta indirizzata proprio a Lorenzo Cherubini, e pubblicata ieri sul quotidiano La Stampa, sostiene che i "concerti con 50mila persone non sono sostenibili da alcun sistema naturale".
(ANSA il 10 agosto 2022) - "Sei Jovanotti e invece di proteggere le spiagge proteggi i tuoi tweet": nuove accuse su Twitter, nei confronti del cantante, 3,7 milioni di follower, accusato di aver 'lucchettato' il suo profilo, rendendolo accessibile solo ai follower confermati.
Quella di oggi è solo l'ultima polemica nei confronti dell'artista, accusato di distruggere l'ecosistema delle spiagge che ospitano i concerti del suo Jova beach party.
Lorenzo Cherubini ha risposto ai suoi detrattori con una lunga diretta Instagram dal lido di Fermo, dando degli "econazisti" a chi lo critica e sottolineando che "il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell'ambiente".
Oltre 20mila persone hanno firmato su change.org, intanto, una petizione che dice 'No ai grandi eventi su spiagge e siti naturali', lanciata da associazioni ambientaliste e animaliste come ENPA, Lav, Marevivo Onlus e Sea Shepherd Italia.
Jovanotti difende di nuovo il suo 'Beach Party': "Gli econazisti sono mitomani pericolosi". Lorenzo Cherubini replica alle critiche per i suoi concerti in spiaggia con il tour 'Jova Beach Party'. E risponde al geologo Mario Tozzi. La Repubblica il 10 Agosto 2022.
Jovanotti insiste: "Gli econazisti sono mitomani pericolosi". Il cantante replica alle critiche ricevute per i concerti in spiaggia. "L'altro giorno ho chiamato econazisti quei mitomani pericolosi che polarizzano violentemente la grande questione dell'ecologia dentro a piccoli brand personali non accreditati se non da loro stessi e dai like rimediati a vanvera. Li ho chiamati econazisti perché essi lo sono". Comincia così il lungo post con cui Jovanotti su Facebook risponde al professor Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico, che in una lettera aperta indirizzata proprio a Lorenzo Cherubini, e pubblicata ieri sul quotidiano La Stampa, sostiene che: "I concerti con 50mila persone non sono sostenibili da alcun sistema naturale".
Al geologo, autore dell'articolo Caro Jovanotti, stavolta sbagli, Jovanotti replica: "Seguo il tuo lavoro di scienziato e di divulgatore da tanto tempo e mi ricordo quando nel 2019 hai difeso le nostre feste in spiaggia, non capisco quindi cosa sia cambiato nel frattempo". E continua: "Così come nel 2019 tutto è stato fatto bene in collaborazione con Wwf (io non ho competenze specifiche, loro ne hanno), anzi ancora meglio. Abbiamo tutti i permessi delle autorità competenti, locali, regionali e nazionali - ricorda Cherubini, che farà tappa venerdì e sabato a Roccella Jonica con il Jova Beach Party - un lungo lavoro di monitoraggio e ricerca da parte del Wwf nazionale, che ha coordinato un team di tecnici ed esperti, ha scandagliato ogni metro quadro e valutato tutte le questioni perché tutto si svolgesse sempre in aree senza criticità ecologica di nessun tipo".
"Io davvero, per quello che ho potuto verificare e fidandomi di gente esperta che ci affianca in questa avventura, non ho niente di cui pentirmi" sottolinea ancora l'artista, spiegando: "le spiagge dove suoniamo sono luoghi popolari sempre pieni di gente" e che "non andiamo mai, nemmeno una volta, in luoghi dove c'è la possibilità di nidificazione del fratino o presenza di caretta caretta o altre specie animali o vegetali protette" e, anzi, che "la spiaggia di Lido di Fermo non é più 'naturale' di Hyde Park o del prato di San Siro". Per questo: "fare di JBP un bersaglio ecologista è semplicemente assurdo. Questa cupezza da santa inquisizione che qualcuno vuole infondere al tema ambientale usando JBP - conclude Jovanotti - è controproducente soprattutto per l'ambiente". Per questo il cantante invita il geologo Tozzi "a vedere di persona quello che facciamo".
Fioccano intanto le accuse su Twitter: "Sei Jovanotti e invece di proteggere le spiagge proteggi i tuoi tweet". Nuove accuse su Twitter, nei confronti del cantante, 3,7 milioni di follower, accusato di aver 'lucchettato' il suo profilo, rendendolo accessibile solo ai follower confermati. Quella di oggi è solo l'ultima polemica nei confronti dell'artista, accusato di distruggere l'ecosistema delle spiagge che ospitano i concerti del suo Jova Beach Party. Cherubini ha risposto ai suoi detrattori con una lunga diretta Instagram dal lido di Fermo, dando degli econazisti a chi lo critica e sottolineando che "il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell'ambiente". Oltre 20mila persone hanno firmato su change.org, intanto, una petizione che dice 'No ai grandi eventi su spiagge e siti naturali', lanciata da associazioni ambientaliste e animaliste come Enpa, Lav, Marevivo Onlus e Sea Shepherd Italia.
"Voi econazisti dovete finirla...": la rabbia di Jovanotti. Francesca Galici il 5 Agosto 2022 su Il Giornale.
Dopo le polemiche, il cantante ha replicato a tutte le accuse che gli sono state mosse nelle ultime settimane per i Jova Beach Party
Dopo giorni di attacchi, Jovanotti ha deciso di replicare alle critiche per il suo Jova Beach Party che si avvia alla conclusione dopo un tour che ha toccato numerose spiagge in tutta la penisola. Il cantautore è stato molto chiaro nel suo intervento social: niente lavoro in nero al Jova Beach Party né greenwashing. Jovanotti non si è limitato a un post ma ha realizzato una diretta per i suoi follower per replicare punto per punto alle accuse che gli sono state mosse. Il cantante in questi giorni si trova a Fermo, dove domani salirà nuovamente sul palco, e ha voluto fare il punto con chiarezza sulla situazione, respingendo accuse e sospetti, dopo il blitz dell'ispettorato del lavoro di Ascoli Piceno. Questione già chiarita ieri, immediatamente dopo la diffusione della notizia.
Nel suo intervento replica anche a chi punta il dito sui rischi per l'ecosistema e non usa mezzi termini dopo settimane di attacchi: "Se voi, econazisti che non siete altro, volete continuare ad attrarre l'attenzione utilizzando la nostra forza, sono fatti vostri. Il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell'ambiente". Lo sfogo di Jovanotti è duro e senza troppi giri di parole, arriva all'indomani della diffusione della notizia della sospensione dell'attività per quattro ditte coinvolte nel mega-evento, per la presunta presenza di 17 lavoratori coinvolti nel progetto che sarebbero stati non in regola. Già nella serata di ieri la Trident, la società che da sempre produce e organizza i live di Jovanotti, aveva smentito il lavoro nero, parlando di "inadempienze formali" peraltro subito sanate. Notizia, questa, che ha trovato scarso risalto in confronto a quella del lavoro nero.
Su questo punto, Jovanotti non transige: "Il lavoro nero per me è una piaga enorme, una cosa molto seria. Lavoro con la Trident e Salvadori dal 1988, e da allora abbiamo fatto tournée grandi e piccole, discoteche, locali, bar, stadi e non abbiamo mai avuto una contestazione sul piano della legge del lavoro. Ma so che siamo nell'occhio del ciclone: il Jova Beach porta grandi eventi in piccole realtà mettendo in moto il livore locale e micro vendette in qualche modo politiche". Insieme a Jovanotti, nella diretta c'era anche Maurizio Salvadori della Trident, che ha spiegato: "Si tratta di un'accusa veramente pesante, per chi cerca di lavorare sempre al meglio: non esiste lavoro nero al Jova Beach Party, può esistere qualche infrazione formale. Ci hanno dato 1400 euro di multa perché non avevamo transennato l'area del cantiere, in una parte mancava il nastro bianco e rosso, probabilmente si era strappato, e pagheremo". Quanto ai 17 lavoratori non in regola, "le tre società interessate hanno oblato in dodici ore, sono risultate in norma e stanno lavorando nel cantiere, anche i 17 lavoratori sono qui e stanno lavorando". Tutto chiarito, quindi, ma non per il cantante, che ha voluto buttare fuori tutta la rabbia accumulata nelle scorse settimane.
Jovanotti non esita a parlare di killeraggio nella diffusione della notizia, evidenziando una profonda ferita per quanto accaduto: "Sappiamo come funzionano certe notizie: un'agenzia che esce alle 19 è fatta apposta per non dare il tempo di replicare, è un modo per provare a farti male, una tecnica collaudatissima che si utilizza perché poi, il giorno dopo, quando i giornali sono usciti, la replica è una notizia data due volte". Jovanotti non le manda a dire anche a chi parla di greenwashing, accuse rilanciate da diverse associazioni ambientaliste tra cui Italia Nostra: "Il Jova Beach Party non mette un pericolo nessun ecosistema, non devastiamo niente, le spiagge non solo le ripuliamo, ma le portiamo a un livello migliore di come le troviamo. Il Jova Beach non è un progetto 'greenwash', parola che mi fa cagare così come mi fa schifo chi la pronuncia, perché è una parola finta, è un hashtag e gli hashtag sapete dove dovete metterveli".
(ANSA l'11 agosto 2022) - "Prima di tutto grazie Lorenzo per la tua risposta gentile e argomentata: questo nostro scambio è già un primo risultato. Stante la buona fede di entrambi, non avremo difficoltà ad intenderci di fronte a una birra, magari in spiaggia. Diversità di vedute ne abbiamo, ma questo è il bello dei sapiens. Ti auguro ogni bene, attendo un tuo invito".
Così il geologo Mario Tozzi risponde a Jovanotti, che ieri aveva pubblicato su facebook un lungo post dove aveva a sua volta risposto al divulgatore scientifico che, su 'La Stampa', gli aveva fatto notare che "concerti con 50mila persone non sono sostenibili da alcun sistema naturale". "Dove vuole Prof! L'aspetto!" la risposta a Tozzi di Jovanotti, che ieri aveva già invitato il geologo a uno dei suoi 'Jova beach party'.
Il dibattito. Jovanotti e le polemiche sui Jova Beach Party: gli ambientalisti econazisti, Mario Tozzi, il Fratino, le spiagge. Antonio Lamorte su Il Riformista l'11 Agosto 2022
L’ombelico del mondo della musica e dell’ambiente è diventato l’ombelico del mondo di una rissa senza esclusione di colpi: da una parte chi accusa l’altra di greenwashing, dall’altra chi accusa la prima di “econazismo”. E così il Jova Beach Party ha smesso di essere solo una festa con centinaia di migliaia di partecipanti a ballare sulle spiagge dal nord al sud dell’Italia per diventare terreno di scontro, frecciatine e accuse pesanti, autorizzazioni e morale, proteste e difese. Il tutto al tempo dei social e dell’impegno a favore dell’ambiente.
Il Jova Beach Party è alla sua seconda edizione: la prima nel 2019, si era chiusa con 100mila spettatori all’aeroporto Linate di Milano. 21 le date in tutta Italia, nel tour 2022, da inizio luglio fino a inizio settembre. Il primo dei 10 comandamenti del Party è: “Rispetta e difendi la spiaggia e il mare. Raccolta differenziata, no plastica, no cicche per terra”. E quindi le critiche ai concerti colpiscono al cuore un progetto che si basa nella musica e nell’ambiente, divertimento e tutela, ballo ed ecologia.
A partire da luglio si sono diffuse, per poi moltiplicarsi, le critiche contro l’evento. Influencer e associazioni non solo hanno criticato il Jova Beach Party ma lo hanno tacciato di Greenwashing, una definizione di eventi che indica iniziative che si danno un tono o si rivestono di una veste ambientalista ma che di ambientalista hanno poco anzi nulla. Le proteste hanno accusato il Party dell’uso delle lattine; di spianare le spiagge; di trasportarci sopra un enorme mole di materiale, tra palco e attrezzature, e di persone; di danneggiare aree naturali e le specie animali che ci vivono; di inquinamento acustico.
Last but not least, gli sponsor: Fonzies: che vende pacchetti di patatine in plastica; A2A: società di multiservizi che utilizza termovalorizzatori che gli ambientalisti chiamano inceneritori, Fileni: che gli ambientalisti accusano di allevamento intensivo – e Jovanotti da tempo si è dichiarato vegano. Le associazioni e gli influencer ecologisti criticano duramente l’artista per le scelte a loro dire incoerenti con il proposito e il progetto del Beach Party che aveva attirato critiche ancora prima di partire: l’alpinista Reinhold Messner già ad aprile 2019 criticava il concerto sul Plan de Corones, a 2275 metri di altitudine, che si sarebbe tenuto l’agosto di quell’anno. Fosse stato per lui, disse, l’avrebbe vietato. E non fu l’unico a esprimersi in questi termini. Lo stesso anno le critiche delle associazioni ambientaliste avevano messo al centro il Fratino, piccolo uccello che nidifica sulle spiagge europee, che sarebbe stato messo a loro dire in pericolo dal JBP.
Dure, in questi giorni, e per esempio, anche le associazioni Lipu Calabria, Italia Nostra, Marevivo sezione Lamezia Terme e Rifiuti Zero Lamezia Terme secondo le quali “non esistono concerti ecosostenibili in spiagge o aree naturali, anzi”. Le due specie a rischio di estinzione, Fratino e Caretta Caretta, “per vivere e riprodursi hanno bisogno della spiaggia, non possono farne a meno, sulla spiaggia depongono le loro uova e lo fanno da migliaia di anni, prima ancora che Jovanotti si inventasse questa ‘grande figata’ – fanno sapere le associazioni – Tutte le coste italiane, sabbiose o rocciose che siano, sono aree preziose per la biodiversità, d’estate subiscono una forte pressione antropica e i mega eventi in spiaggia, aggravano notevolmente la già precaria conservazione di questi siti, fonte di grave disturbo per la fauna selvatica”.
Il dibattito ha compiuto un ulteriore step negli ultimi giorni. Prima Jovanotti stesso si era sfogato con un video sui social – “Venite a vedere, è tutto in regola. Le spiagge non solo le ripuliamo, ma le riportiamo a un livello migliore di come le abbiamo trovate. Non è un progetto ‘greenwash’, una parola che mi fa schifo come chi la pronuncia. Siete eco-nazisti” – e dopo il geologo Mario Tozzi ha scritto un articolo in forma di lettera intitolato “Caro Jova stavolta sbagli” per il quotidiano La Stampa.
Il problema, ha scritto lo scienziato, “non sta nella manifestazione in sé, ma negli impatti, che, come si vede chiaramente nelle foto del JBP dall’alto, sono dirompenti, semplicemente per il numero di individui che vi partecipano: un conto sono cento persone, un altro cinquantamila. Un recente studio del Cnr ha stimato che, dalle spiagge del Parco Nazionale dell’Arcipelago di La Maddalena, ogni bagnante che passa una giornata al mare porta via con sé, volente o nolente, dai 50 ai 100 grammi di sabbia”.
La lettera continua spiegando che il secondo elemento di critica è il luogo: “le linee di costa sono quanto di più delicato esista sul pianeta e sono compromesse soprattutto in Italia”. E sul WWF, che “si è fatto garante della mitigazione degli impatti, visto che tanto i comuni avrebbero comunque autorizzato gli eventi. Ma come membro del Consiglio Scientifico devo rivelarti che, insieme ad altri, avevo fatto presenti le mie perplessità”. Infine un elemento culturale, dannoso per l’ambiente, quello che porta pensare alla natura come modificabile a seconda delle esigenze dell’uomo.
Alla lunga lettera di Tozzi Jovanotti ha risposto con un’altra lunga lettera, pubblicata sulle colonne dello stesso quotidiano e sulla sua pagina Facebook. Ha rimandato al mittente tutte le critiche. “Le spiagge dove suoniamo sono luoghi popolari sempre pieni di gente (fosse per me la spiaggia di Budelli di cui tu scrivi e simili andrebbero proprio rese inavvicinabili , tipo gioconda al Louvre , guardare non toccare ). I ‘nostri’ sono luoghi urbanizzati, sono aree dove le ruspe ci passano quasi tutte le mattine da maggio a ottobre anche senza JovaBeach. Noi in più le curiamo bene e quando andiamo via sono meglio di come le abbiamo trovate. Non andiamo mai , nemmeno una volta, in luoghi dove c’è la possibilità di nidificazione del fratino o presenza di caretta caretta o altre specie animali o vegetali protette. A me il fratino sta a cuore, penso di essere uno dei tre italiani che ne conosceva l’esistenza prima del 2019 quando noi lo portammo agli onori delle cronache. Chi scrive frasi tipo ‘JBP distrugge ambienti naturali’ non ha mai prodotto nessuna prova a sostegno e non sa cos’è un ambiente naturale. Quando ho chiesto a WWF se era vero che per JBP avessimo spianato dune naturali mi hanno mostrato documenti che certificano che le dune naturali nelle spiagge dove suoniamo non ci sono più da decenni e spesso non ci sono mai state, e prima della costruzione di frangiflutti artificiali non c’era neanche la sabbia: la spiaggia di Lido di Fermo non é più ‘naturale’ di hyde park o del prato di San Siro”.
Gli “econazisti”, come li ha chiamati, dice di averli invitati a vedere senza che nessuno sia mai arrivato. “Fare di JBP un bersaglio ecologista è semplicemente assurdo, perché la verità è proprio che noi siamo la più grande iniziativa che parla di ambiente mai fatta in Italia. Nei prossimi mesi WWF con le finanze messe a disposizione da Intesa San Paolo realizzerà un progetto di pulizia e ripristino ecologico di 20 milioni di metri quadri di ambienti a rischio nel paese. Mi dovete bruciare in piazza perché io smetta di sostenere quello che ti sto dicendo : le nostre feste sono una bella cosa e fatta bene“. La corrispondenza si è conclusa con la promessa di un incontro tra Jovanotti e Tozzi. Non è detto che la polemica sia però chiusa.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Francesco Borgonovo per “la Verità” l'11 agosto 2022.
Gli ultimi due anni hanno confermato ciò che da tempo sospettavamo: una delle principali caratteristiche degli artisti italiani è il conformismo. Sono pochissimi ad avere il coraggio di prendere l'onda di petto, i più si limitano a seguire la corrente. Il governo decreta che tutti si devono barricare in casa?
Loro si prodigano a registrare video dal salotto grande più di un monolocale per assicurarsi che il popolo obbedisca. Il governo decide di imporre il green pass? Loro immediatamente s' accodano ad applaudire via social.
Quindi tutti si uniscono a sventolare bandiere ucraine, o a gridare contro il pericolo del fascismo di ritorno. E poi, ovviamente, c'è la battaglia più importante di tutte, quella che da decenni rapisce cuori e menti di ogni impegnato che si rispetti: la difesa dell'ambiente. Non c'è attore che non abbia fatto professione di fede green, da Alessandro Gassmann a Stefano Accorsi.
Non c'è cantante che non si dichiari ecosostenibile, ecocompatibile e biodegradabile. Negli ultimi giorni c'è la fila a sottoscrivere l'appello sul clima sponsorizzato da Repubblica, che ha raccolto circa 130.000 firme: ogni mattina una nuova stella offre il proprio appoggio incondizionato. Si mettono tutti sulla scia, le celebrità, e se qualcuno si permette di pizzicarle notando qualche incoerenza - vedi il caso Jovanotti - vanno su tutte le furie e tirano fuori addirittura l'econazismo: perché va bene essere ecologisti, ma il verde che conta di più resta comunque quello dei biglietti da cento euro.
Il punto, infatti, non è che gli artisti non debbano schierarsi in difesa della natura, ci mancherebbe altro.
A infastidire è la disponibilità all'appecoronamento che mostrano ogni volta, la necessità che avvertono di proferire banalità e di limitarsi alla superficie, affidandosi a pensierini precotti e massificati. Possibile che non ci sia qualcuno capace d'appassionarsi alle cause mostrando un minimo d'indipendenza di pensiero? (O, meglio, qualcuno c'è, ma è sempre il solito paio di anticonformisti, su tutti gli altri cala la notte).
Risulta tuttavia consolante sapere che - da qualche parte nel globo - esistano anche menti creative in grado di scavalcare la sceneggiatura stantia veicolata dal discorso dominante, dotate di quel minimo di curiosità e di fegato che consente di muoversi in territori leggermente meno esplorati. È il caso di Oliver Stone, mostro sacro del cinema vincitore di tre Oscar, quattro Golden Globe e una montagna di altri premi di ogni ordine e grado. Stone è noto da sempre per le posizioni radical.
Alcuni dei suoi film più celebri - da Platoon a Wall Strett a Jfk - sono immersioni nel lato in ombra dell'America, roba che ha mandato in sollucchero generazioni di attivisti. Da qualche tempo, però, il regista non è più tanto gradito alla pletora di liberal che affolla Hollywood. Il fatto che abbia deciso di intervistare o raccontare alcuni dei principali supercattivi in circolazione (Hugo Chavez e Vladimir Putin, per dire) lo ha reso leggermente problematico per i produttori abituati alle tirate ambientaliste di Leonardo Di Caprio e di altri engagé col jet privato.
A peggiorare la situazione c'è il fatto che si sia schierato con tutte le forze dalla parte di Julian Assange, e che non abbia grande simpatia per beniamine della sinistra come Hillary Clinton (in una recente intervista con The Independent l'ha definita «un uomo»). Senza contare, inoltre, le feroci critiche che ha rivolto alla cosiddetta «cancel culture» tanto cara agli attivisti illuminati statunitensi: «La disprezzo», ha dichiarato il cineasta in una recente intervista.
«Sono sicuro di essere stato cancellato da alcune persone per tutti i commenti che ho fatto. è come una caccia alle streghe. È terribile la censura americana in generale. L'America, poiché è un impero in declino, sulla difensiva, è diventata molto sensibile a qualsiasi critica.
Guardate cosa sta succedendo nel mondo con YouTube e i social media Twitter è il peggiore. Hanno messo al bando l'ex presidente degli Stati Uniti. È scioccante!».
Non sorprende, viste le premesse, che anche la sua ultima opera non sta godendo della pubblicità che potrebbe meritare, e che otterrebbe se rientrasse nei canoni del moralmente corretto. Nelle prossime settimane, infatti, Stone sarà alla Mostra del cinema di Venezia e presenterà un documentario intitolato Nuclear.
Si tratta di un lavoro militante, come no, e anche profondamente ambientalista.
Ma - ecco la sorpresa - del tutto a favore dell'energia nucleare. «Ci lavoro da quasi due anni con l'enorme aiuto di Joshua Goldstein, coautore di A Bright Future», ha scritto il regista sul suo profilo Facebook. «Ormai, sono sicuro che sappiate che questo è un argomento a favore dell'energia nucleare come soluzione realistica delle difficoltà che ora affrontiamo nella produzione di energia pulita per la nostra esistenza qui sul pianeta Terra. Questa è un'energia che non solo salverà il pianeta ma ci permetterà di prosperare su di esso. E sebbene sia da tempo considerata pericolosa nella cultura popolare, è, di fatto, molto più sicura del carbone, del petrolio e del gas».
Il film durerà un'ora e quarantacinque minuti e si propone di smontare molte delle «meschine argomentazioni» utilizzate da chi contesta l'atomo per partito preso. Secondo Stone, infatti, sostenere le centrali è un gesto di grande rispetto per la natura e il creato. Egli è convinto che le energie rinnovabili funzionino, ma non bastino. «L'energia nucleare fornisce la risposta che l'eolico e l'energia solare semplicemente non possono fornire», dice Stone. «Entro vent' anni, gli Stati Uniti possono convertirsi, riducendo drasticamente i gas serra e decarbonizzando l'economia. Solo la paura ci trattiene». Ecco, la paura.
Forse è proprio questa a spingere i nostri intellettuali verso la più smaccata sottomissione all'ovvietà regnante. Hanno paura di perdere i loro privilegi, e si rifugiano nelle confortanti braccia dell'obbedienza. Niente di inedito o troppo sconvolgente, per carità: per la ribellione, quella vera, serve un'altra tempra.
Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” il 22 giugno 2022.
Jovanotti ha pubblicamente raccontato la storia di Teresa, l'amatissima figlia che a 22 anni, nell'estate 2020, ha ricevuto la diagnosi di linfoma di Hodgkin. Un tumore del sistema linfatico. Nei primi mesi del 2021, l'annuncio della guarigione.
Sempre contro un cancro del sangue, negli ultimi tempi, ha lottato e lotta Sinisa Mihajlovic, l'allenatore del Bologna, trattato per una leucemia mieloide acuta nel 2019. Chemio e trapianto di midollo da donatore non familiare.
«Quel giorno sono nato per la seconda volta» il commento di Sinisa. Lo scorso marzo, è stato lui stesso a parlare di una recidiva e di un nuovo progetto di cura, che questa volta prevede un'infusione di Car-T, i linfociti del paziente ingegnerizzati per diventare soldati contro la leucemia.
Poi, nei primi mesi dell'anno, è stata la volta di Alessandro Baricco, scrittore, che attraverso i social ha informato tutti di avere una leucemia mielomonocitica cronica. E che si sarebbe sottoposto a trapianto di cellule staminali donate dalla sorella Enrica. «Donna - ricorda il romanziare - che ai miei occhi era già piuttosto speciale prima di questa avventura, figuriamoci adesso». Dopo tre settimane dal trapianto all'Istituto Candiolo vicino a Torino è tornato a casa.
IL CORAGGIO Qualche giorno fa, il musicista Giovanni Allevi, ha scritto che stava cercando di tradurre in note questa parola «dal suono dolce, ma non per questo meno insidiosa»: mieloma. Da tre mesi soffriva di un terribile mal di schiena. Dopo esami e controlli si è scoperto di avere un mieloma, è un tumore che colpisce un tipo particolare di cellule del midollo osseo, le plasmacellule.
Sono i volti noti (che hanno avuto il coraggio di raccontarsi) delle malattie onco-ematologiche, tumori del sangue: 30 mila nuovi casi l'anno in Italia, che colpiscono a tutte le età. Anche se, con poche eccezioni, si presentano più frequenti nell'anziano.
Grazie alla ricerca adesso i pazienti hanno più probabilità di guarire o convivere per anni con la malattia grazie a una buona qualità di vita. Il nostro Paese può contare su un'Ematologia tra le migliori del mondo. E non da oggi. Un luminare del campo è stato il professor Franco Mandelli fondatore, tra l'altro, dell'Associazione Italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma (Ail.it) che ieri ha celebrato Giornata Nazionale per la lotta contro queste patologie. Mandelli aveva intuito con chiarezza l'importanza, oltre che della ricerca e della cura, anche del volontariato. E quest' anno l'Ail è anche impegnata nell'ambito del conflitto in Ucraina per consentire ai malati di curarsi nel nostro Paese e per inviare materiale sanitario richiesto dagli ematologi «con i quali siamo in contatto», come ha ricordato il presidente Pino Toro ricevuto con una delegazione al Quirinale da Sergio Mattarella.
L'INSEGNAMENTO Oggi i volontari dell'associazione superano di poco i ventimila, solo a Roma se ne contano 1670. «Il professor Mandelli ricorda Maria Luisa Rossi Viganò, Presidente di Ail Roma mi ha insegnato a essere una volontaria. E a osare, come lui ha fatto sempre nel corso della vita. Oggi ci troviamo un impero costruito da lui per il pubblico, per gli ospedali, per le case alloggio, per tutto quello che serve a traghettare le persone dallo status di malato a quello di guarito. Perché di guariti oggi ce ne sono molti».
Due sono le ultime realizzazioni di Ail Roma a favore dell'Ematologia del Policlinico Umberto I, diretta dal professor Maurizio Martelli: il nuovo Pronto soccorso di Ematologia di via Benevento e il Giardino di Silvana, un abbraccio che i volontari dell'Ail hanno voluto donare ai malati e ai loro familiari per rendere meno dura l'attesa tra un prelievo e una visita. Un piccolo spazio fiorito e profumato, intitolato alla dottoressa Silvana Bedini, assistente per oltre 30 anni del professor Mandelli e volontaria Ail.
Che ha voluto, con un lascito testamentario, proiettare il suo impegno al di là dei confini della sua vita.
LE SALE «Il Pronto soccorso ematologico di via Benevento, oggi diretto dal dottor Corrado Girmenia ricorda la presidente Viganò - è un'interfaccia diretta tra struttura ematologica e territorio che assiste sia i pazienti già seguiti per malattie del sangue, che le persone con sospetta nuova diagnosi. Offrendo loro una corsia preferenziale». Il nuovo pronto soccorso Ematologico dell'Umberto I, inaugurato alla presenza di Alessio D'Amato, assessore alla Sanità della Regione Lazio e di Barbara Funari, assessore alle Politiche sociali e alla salute di Roma Capitale, è dotato di 6 sale a un letto, 5 box a un letto e un open space per 3-4 barelle. Ogni anno sono oltre 2.400 gli accessi al pronto soccorso ematologico dell'Umberto I, che segue attualmente circa 2.500 pazienti in terapia attiva.
Jovanotti e l’omaggio alla figlia Teresa che ha sconfitto il tumore: «Ha dimostrato una forza incredibile: è stata strepitosa». di Redazione Onlibe su Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.
Il cantante, ospite di Mara Venier ha raccontato la battaglia della 23enne.
Un omaggio al coraggio incredibile della figlia. Teresa è l’orgoglio di papà Jovanotti , ospite di Mara Venier a Domenica In. Il cantautore ha raccontato la battaglia della ragazza, 23 anni che ha sconfitto un tumore, il linfoma di Hodgkin: «Teresa ha avuto un momento di difficoltà qualche mese fa e ha dimostrato una forza... È stata strepitosa». Lo scorso anno la giovane aveva raccontato sui social il suo percorso di guarigione dal linfoma di Hodgkin: «Dopo mesi di ansie e paure la storia è finita, e posso raccontarla, perché da ieri, 12 gennaio 2021 sono ufficialmente guarita. Per un certo verso il cancro è una malattia molto solitaria, ma il supporto di chi ti sta vicino è fondamentale per superarla, io non ce l’avrei fatta senza di loro. La paura non è andata via, e ci vorrà del tempo perché possa fidarmi di nuovo del mio corpo, ma non vedo l’ora di ricominciare a vivere».
Il racconto della figlia
E continuava «Tutto è iniziato ad agosto del 2019 con uno prurito alle gambe. Non ci ho dato peso pensando che sarebbe andato via con il tempo, ma non è stato così. I mesi passavano e non faceva che peggiorare. A giugno 2020 si era sparso per tutto il corpo, non riuscivo a dormire più di un paio d’ore a notte, avevo la pelle piagata. Quando mi si é ingrossato un linfonodo sono il braccio ho capito che era qualcosa di più serio e questo ha portato finalmente ad una diagnosi e ad un piano di cure». Teresa raccontava di aver fatto «6 cicli di chemioterapia» all’Istituto Europeo di Oncologia a Milano, che non le hanno fatto cadere i capelli del tutto. «Ma il 9 dicembre dopo l’ultimo trattamento ho deciso di rasarmi come segno di un nuovo inizio» concludeva, ringraziando tutto lo staff medico e papà Jova e mamma Francesca
Ragazza fortunata. L’estate del 1992, il mio bikini e l’album perfetto di Jovanotti. Guia Soncini su L'Inkiesta l'8 Aprile 2022
Oggi Lorenzo Cherubini non potrebbe scrivere un pezzo su un virus mortale che si trasmette scopando o su «questa falsa divisione tra puttane e spose» perché verrebbe linciato dai soloni di Instagram. Beati noi che 30 anni fa abbiamo potuto cantare a squarciagola sul pontile i suoi versi d’amore.
Se io potessi, sarei sempre in vacanza. Se io fossi capace, scriverei Il cielo in una stanza. Era la primavera del 1992: la prima primavera in cui abitavo da sola, la prima primavera in cui non sapevo cos’avrei fatto da grande, la prima primavera in cui compravo quei Dolce e Gabbana delle sfilate senza il minimo dubbio che giù dalle passerelle sarei sembrata un mignottone.
Quando uscì, nell’aprile del 1992, non sapevamo che quel disco parlasse di noi (una cosa che capisci solo invecchiando è che le cose che parlano di te non lo capisci quasi mai al presente, che parlano di te). Adesso, trent’anni dopo, possiamo far pace col nostro essere stati ragazzi fortunati. Quelli che potevano essere mediocri. Slacker. Giovani carini e disoccupati. Senza inferni da cui salvarsi (la guerra, il terrorismo, quasi neanche l’eroina: a Bologna le pere se le facevano solo i fuori sede, e mica frequentavano gli stessi posti di noi che facevamo sempre vacanza).
Ma, se devo dirla tutta, qui non è il paradiso: all’inferno delle verità io mento col sorriso.
Lorenzo 1992 è il primo e l’ultimo disco di Lorenzo Jovanotti. Il primo coi temi importanti o presunti tali (l’Aids! Siddharta! L’Europa unita! L’immagine stereotipata della donna! Il Vaticano! La Dc! Le raccomandazioni! Le tette rifatte! La satira della religione televisiva coi campionamenti degli spot! Il razzismo! «Oh ragazzi, lo so che è strano parlare di queste cose quando si balla»: aveva venticinque minuscoli anni e già faceva l’opera e la critica dell’opera, l’emittente e i riceventi, il performer e il pubblico).
L’ultimo non bulimico: dodici canzoni, non sono le sei di Via Paolo Fabbri 43 ma stanno comunque sotto i cinquanta minuti, cinquanta minuti che più o meno ora è la durata d’un remix d’un qualunque pezzo nuovo. Nel bilancio delle entrate e delle uscite, il Cherubini venticinquenne aveva in sintesi quel che il cinquantacinquenne ha in portamento.
Il primo e l’ultimo disco, dicevo, in cui illude la critica d’essere un analfabeta che, se scrive «non c’è niente che ho bisogno», non lo scrive per la metrica ma perché non ha concluso con profitto le elementari. Il primo e l’ultimo disco in cui non chiede il permesso per prendersi un ruolo che la società civile non ha intenzione di regalargli, e rifiuta quello di cantautore che passeranno i successivi trent’anni a offrirgli: «Questo è il nostro quinto album, non sono un cantante: faccio il rap».
«Chi crede ancora che il rap in Italia sia rappresentato da Jovanotti è senza dubbio male informato», aveva scritto una settimana prima dell’uscita di Lorenzo 1992 il sempre lungimirante critico di Repubblica, procedendo poi a elencare decine di rilevantissimi nomi che nei decenni successivi non avrebbero lasciato una traccia neanche minuscola nella cultura popolare italiana (come molti, oggi quel critico porterebbe volentieri l’acqua con le orecchie al Lorenzo venerato maestro: del senno di poi son piene le critiche culturali).
Oggi Lorenzo 1992 non verrebbe scritto, e non perché a cinquant’anni non si scrivono le cose che si scrivevano a venti (se non si è completamente imbecilli). Non verrebbe scritto perché non puoi più scrivere una canzone su un virus mortale che si trasmette scopando (cioè l’unica cosa che ti interessi a vent’anni) in cui ci siano versi efficaci come «E la data del vaccino e della sua grande scoperta è ancora lontana, sia per chi va con la santa che per chi va con la puttana»: oggi la prima cosa che pensi è che poi ti linciano su Twitter, e chi te lo fa fare. (C’è persino un verso sulle italiane che non somigliano a Moana perché il sesso non lo fanno per soldi: pensa oggi).
Il mio principale ricordo dell’estate 1992, credo d’averlo già raccontato un milione di volte (sono entrata nell’età delle rievocazioni già da un bel pezzo), siamo noi ragazze in bikini sul ponte della barca, e il Lorenzo 1992 in diffusione è arrivato a «a volte penso, vorrei, lo sai, esser stato il primo, ma poi ci penso e alla fine è lo stesso perché, perché tanto non l’hai mai fatto come l’hai fatto con me», e noi squarciagoliamo commosse chiaramente chiedendoci perché a noi mai nessuno dica queste perfezioni romantiche, e il mio flirt di quell’anno mastica cubetti di ghiaccio borbottando «ammazza che paraculo questo».
Il 1992 è lontanissimo e presentissimo, e non solo perché a me non entrano più quei bikini, ma perché «questa falsa divisione tra puttane e spose» è un tema che il femminismo di Instagram ancora non è riuscito a risolvere (nota a margine: il 1992 sarà anche l’anno del tour Jovanotti/Carboni, praticamente è come quell’anno in cui in America nacquero sia Jack Nicholson sia Warren Beatty, e non ce ne fu più per nessuno).
È lontanissimo perché Sanremo faceva sedici milioni di spettatori chiudendo la serata alle undici. È presentissimo perché a un certo punto di quel disco Lorenzo cantava «Andreotti che ogni frase ti ci mette una battuta con il pubblico che applaude anche se non l’ha capita»: è praticamente oggi, solo che Andreotti questa pantomima da talk show la faceva meglio degli emuli falliti di questo secolo.
Tempo: quando stai bene lui va via come un lampo, quando t’annoi un attimo sembra eterno. Oppure: un giorno sembra l’ultimo, un altro è da impazzire (il testo su Google dice «imbastire», ma i miei vent’anni squarciagolavano «impazzire», e se i vent’anni non hanno ragione sulle canzonette, non so proprio su cosa).
Annalisa Cuzzocrea per "la Stampa" il 10 febbraio 2022.
«La musica c'è sempre stata, anche in questi due anni. È ascoltarla insieme che fa la differenza». Jovanotti sa che i suoi dischi sono quella cosa lì: le canzoni che balli in una danza collettiva, come accadrà dal 2 luglio in poi quando ripartirà il Jova Beach party e le spiagge d'Italia faranno festa; quelle che ascolti con qualcuno, magari solo in due, ma dividendo le cuffie come si faceva una volta.
È in questo che Sanremo ha interpretato «lo spirito del tempo»: ha riportato in vita «un rito collettivo, ha fatto sì che per una settimana non parlassimo più di quel che ha dominato le nostre vite in questi anni, che saranno anche solo due, ma sembrano 300».
Lorenzo appare su Zoom dalla sua casa di Cortona. Sul volto l'energia di chi si è chiuso in studio a provare i pezzi nuovi del disco del Sole (alle canzoni dell'Ep Primavera se ne aggiungeranno tra poco almeno altre cinque), dietro di sé i mille colori di una carta da parati modello giungla.
Nella stanza ci sono i cappelli, le chitarre, i tappeti preferiti, come quello che gli ha regalato a Natale la moglie Francesca. I libri in cui si è immerso per continuare a viaggiare da fermo: «Sono stato ovunque: in Iran, Cina, tre volte in Antartide, e ho scoperto il Polo Nord!».
«Sanremo è stata una botta», racconta subito. «Me ne accorgo da come mi sveglio al mattino». Un'emozione come per tutto quello che si può vincere o fallire. Perché «gli artisti sono acrobati, vivi sul filo, sai che puoi cadere da un momento all'altro. Quando inizi non ci pensi: c'è un elemento di ingenuità che bisogna sempre mantenere. Se fai un disco che sai già com' è, rischi che suoni trombone: è il peggio che ti possa succedere».
Mentre il pop «funziona quando è ingenuo, quando c'è dentro una scoperta. I cantanti imparano sempre qualcosa. Non insegnano niente».
Cosa c'era di diverso in questo Sanremo?
«Ho sentito subito che vibrava bene. Un Paese che non ha musica dal vivo da più di due anni è un Paese cui è mancato qualcosa di profondo, al di là della giusta questione del settore in crisi. È un bisogno che è rimasto seppellito. E Sanremo è stato perfetto: sono così rari i momenti in cui tante persone decidono di guardare insieme una diretta. Oltre al mondiale di calcio non mi viene in mente nulla. Nella frammentazione delle nostre vite, oggi che passiamo serate a cercare di decidere cosa guardare on demand per poi non guardare niente, è stato come ritrovarsi». Sul podio, insieme a Gianni Morandi con la canzone che hai scritto per lui, sono saliti Mahmood e Blanco ed Elisa, arrivati al primo e al secondo posto. «Ed è stato perfetto così. Il podio più bello di sempre. Tre generazioni, tre mondi musicali diversi, ma col respiro giusto: Morandi vecchia scuola, ma non antico; Mahmood e Blanco con un pezzo che parla anche alla generazione di Gianni; Elisa che è un'artista fantastica. Anche la successione, perfetta. Alchemica».
Com' è nata l'amicizia con Morandi?
«Ci siamo incontrati in alcune trasmissioni televisive, tantissimo tempo fa. E lui è sempre venuto ai miei concerti. Al Jova Beach Party è salito a cantare sul palco ed è stato bellissimo. Così quando ha avuto l'incidente gli ho mandato un messaggio. L'ho sentito giù, era come "demorandizzato". Impaurito da questa cosa che gli era successa. L'ho richiamato dicendogli: "Ho un pezzo per te, se lo canti tu si fa notare"».
Lì è scattata l'amicizia, con L'allegria?
«All'inizio non era convinto. È un pezzo tirato, quasi punk, molto parlato. Gli ho detto: "Proviamoci". E il giorno in cui ci siamo ritrovati in studio a Milano si è sbloccato qualcosa. In lui, ma anche in me. Abbiamo cantato e riso come dei pazzi. Lui non riusciva, io gli insegnavo, poi imparavo io. Uno di quei giorni in cui dici: che bella la vita».
Gliel'hai regalato perché guarisse dalla paura?
«Gliel'ho regalato perché funzionava. La musica è sempre la risposta. Per lui come per me, è lavoro. È quello che ci guarisce perché ci dà dignità, ci fa sentire parte del mondo, importanti, accettati. Invece di stare a casa a fare la fisioterapia, si è messo a lavorare».
Sia L'Allegria che Aprite tutte le porte, ma anche Il Boom, La Primavera, sono pezzi che sanno di ripartenza.
«Per me è come un dopoguerra. Come la foto di Times Square con i due che si baciano. È la musica di cui sento il bisogno in questo momento. Credo di essere il cantante italiano che ha fatto più pezzi da ballare e così è stato per Sanremo. Gianni mi ha detto che voleva andare in gara, non da superospite. Non voleva una canzone da reduce, che facesse scattare un ricatto emotivo, ma un brano che portasse il sole».
Sanremo ha premiato un ragazzo di 18 anni e ha consacrato musica nuova. Il che sembra contraddire quanto avvenuto la settimana prima in Parlamento: la politica che fa mille giri per poi riaffidarsi a due grandi vecchi come Draghi e Mattarella.
«Nella musica i centri di potere sono caduti. Una volta tutto era in mano alle grandi case discografiche, ora puoi arrivare a 19 anni da una provincia italiana e sfondare con mezzi di produzione accessibili a tutti. Lo stesso vale per la distribuzione, metti il brano su internet e se funziona hai vinto.
La disintermediazione della musica ha fatto sì che il talento, le idee si facciano strada senza bisogno di passare da un centro di potere. Una volta l'America si sentiva al centro del mondo e aveva inventato la categoria della World music, parola inutile che definiva tutto quello che non era anglofono. Adesso non esiste più perché nella classifica di Billboard ci sono gruppi colombiani, musica della Nigeria. Un ragazzino di Lagos può accendere il telefonino e fare una hit mondiale. O può succedere una cosa bellissima come quella dei Måneskin».
Ti piacciono?
«Ottengono effetti positivi a tutto campo: riescono a far dire ai nostalgici del rock: è tornato il rock. Mentre i ragazzini che non conoscono i Red Hot o i Led Zeppelin scoprono qualcosa di nuovo. Hanno fatto qualcosa che era difficile immaginare, tranne per qualcuno: loro. Guardandoli nelle prime performance vedi che ci credono, che gli piace, che sono devoti a quello che fanno. Non sono lì per farsi vedere con l'aereo privato o le scarpe fiche, sono lì perché amano la musica. E la verità è più forte di tutto. Se sei autentico, sfondi».
A proposito di disintermediazione, in politica non ha tanto aiutato il rinnovamento. Anzi.
«Non è il tempo giusto, questo, per cercare qualcosa di nuovo. Stiamo vivendo un momento difficile in cui è stato normale riaffidarsi a Mattarella. C'era bisogno di affidabilità e questa scelta mi è sembrata anche saggia, dopo la paura, il senso di pericolo che abbiamo attraversato.
Adesso ci sono i vaccini e quasi non ci pensiamo, ma c'è stato un momento in cui sapevi che se ti ammalavi morivi. Ho trovato Mattarella perfetto in alcuni passaggi critici. Da solo davanti all'altare della patria ha incarnato la sacralità del Paese: penso che invece di lamentarci dovremmo essergli grati. E che arriverà il tempo in cui la politica saprà rinnovarsi».
Dopo il lockdown, la dad, la chiusura, i giovanissimi sono tornati nelle piazze. Qualche settimana fa trovando manganelli, invece che ascolto. Tua figlia Teresa ha 23 anni, conosci questa generazione da vicino. Cosa pensi di quest' onda?
«Penso che quello che hanno vissuto sia stato più duro di quel che possiamo percepire e che le conseguenze potrebbero avere una lunga coda. Ma la presenza dei ragazzi in piazza dimostra la voglia di recuperare fiducia nel proprio corpo come strumento di condivisione. Il vero messaggio è essere lì.
Ognuno faccia il suo lavoro, cercando di capire come recuperare il tempo perduto. Ma io sono fissato con questa cosa: siamo tutto insieme, corpo spirito anima, inscindibili. Protestare significa essere vivi».
Leggi poesie su Instagram, ne hai portata una a Sanremo. Ha a che fare con il lavoro di scrittura per la tua musica?
«La poesia è sempre stata una presenza, addirittura a scuola, ma ne ho assunto dosi massicce in questi ultimi due anni. Rafforza le difese emotive. Poi a Sanremo ho sbagliato, non ho spiegato bene perché ho definito Mariangela Gualtieri "un poeta": dopo aver letto una sua raccolta le avevo scritto, "Cara poeta", e lei aveva detto che amava essere definita così».
Cercavi di sottolineare il significato universale della parola, ma chi cerca sempre l'errore ha pensato volessi svilire il suo essere donna non dicendo poetessa.
«Su Internet ci sarà sempre qualcuno pronto a indignarsi. Non mi sorprende e anzi mi interessa: sono sintomi, segnali. Lo scontro sulle parole è dato dal fatto che sono tornate al centro. Pensavamo non avremmo scritto più nulla e invece continuiamo a scrivere. E mi interessa molto anche il tema della lingua che cambia. Perché è qualcosa che arriva dal basso, cambia anche se non vuoi, per strada dove la gente la usa. Gli accademici possono intervenire solo dopo, a registrare quanto già successo, non possono guidarla. A volte sulle parole litigo con Teresa: lei mi corregge, io le do retta. Solo una cosa le dico sempre rispetto ai ruoli e ai generi, che loro - a vent' anni - vivono molto diversamente da noi: "Mi auguro solo che per affermarti tu non debba assumere degli atteggiamenti maschili perché sono quelli dominanti". L'atteggiamento maschile è pieno di falle, di buchi. Ha imposto nel linguaggio parole belliche riferite a tutto. Anche alla malattia, che non è una lotta, una guerra, perché non c'è chi vince e chi perde. È una cosa che capita. Bisogna cambiare questo linguaggio. Se lo facciamo, cambia la realtà».
Lorenzo Zurzolo: «Mi lascio guidare solo dalla passione». MARIA LAURA GIOVAGNINI su Io Donna.it il 18 giugno 2022.
“Farai strada” gli disse Giorgio Albertazzi quando aveva 14 anni. E non sbagliava: a 22, l'attore di "Baby" è fra i protagonisti di "EO" di Jerzy Skolimowsky, premiato a Cannes. Il suo segreto? Non usare mai strategie. Anche a costo di deludere i suoi follower di Instagram...
Giorgio Albertazzi gliel’aveva detto: «Tu farai strada!». Ma lui, a 14 anni, era concentrato sull’impersonare Pinocchio a teatro e non aveva prestato attenzione alle parole di quell’intimorente Mangiafuoco… «Mi è tornato in mente da poco» racconta Lorenzo Zurzolo, che di anni ora ne ha 22. E non è difficile immaginare il motivo: l’eroe dei teen drama (Baby, Sotto il sole di Riccione) è fra i protagonisti di EO, il film di Jerzy Skolimowski che si è aggiudicato il Premio della Giuria al Festival di Cannes, nei cinema italiani la prossima stagione.
Storia di un asino
«È la storia di un asino che passa di mano in mano: all’inizio lavora in un circo in Polonia, chiuso per le proteste degli animalisti. Spedito al mattatoio scappa, viene rapito, finché arriva in Italia e si ritrova dimenticato in un autogrill. È lì che lo raccolgo io: sono un prete che sta tornando alla villa di famiglia per affrontare la matrigna».
Un prete? E le sue fan?
(ride) Eh, un prete sui generis, uno che ha combinato qualche guaio…
La matrigna è Isabelle Huppert.
Mi ha colpito come avesse il controllo di tutto: si rendeva conto esattamente del risultato nell’obbiettivo di qualsiasi suo gesto, eppure era di una spontaneità, di una credibilità totale. Non che mi sia stupito, la sua fama la precede.
Conosceva, invece, Skolimowski? Era un regista di culto dei cineforum “con dibattito” anni ’80. Giurassico, per lei.
Avevo visto uno dei suoi film più recenti, Essential Killing (Leone d’argento alla Mostra di Venezia 2010, ndr) e, dopo il provino, ho recuperato i precedenti. Appena saputo che cercava un attore italiano, avevo mandato un self tape.
Il ricordo più prezioso del Festival?
Tanti! Essere lì, fra i colossi del cinema, è stata la realizzazione di quel che sognavo da bambino (ho iniziato a recitare a sette anni). Fra gli altri, ho conosciuto Xavier Dolan (canadese, premiatissimo enfant prodige della regia, ndr): un giorno, per caso, avevo aperto Instagram e mi ero accorto che mi seguiva, aveva messo un like. Chissà come mi ha scoperto. In realtà, io non frequento molto i social, li uso solo come vetrina lavorativa, non amo condividere il resto.
Insolito, per uno della sua generazione.
Vedo amici diventati più influencer che attori, e lavorano tanto grazie a questo, ma – per quel che voglio fare io – questo aspetto non è importante. Skolimowski non mi ha certo cercato su Instagram né mi ha scelto per il numero dei follower (che comunque sono quasi un milione e mezzo, ndr).
Cos’è che “vuol fare lei”?
Solo quello che istintivamente mi piace, senza strategie. Lavorare con Dolan, appunto, o con Leos Carax (Holy Motors, grandioso!) o con Gaspar Noé (ah, il suo Climax!). Adoro i thriller psicologici alla David Lynch, adoro le storie estreme: in questo periodo vado pazzo per The Boys, la serie su Amazon Prime in cui i Supereroi sono i cattivi della situazione, viziati dalla celebrità. Spero di avere presto un ruolo simile a quello di Homelander, il protagonista. Del resto, se uno possedesse davvero i superpoteri, oggi si metterebbe a salvare il mondo? Mah…
Ha gusti cinematografici sofisticati.
A casa si vedevano film quasi ogni sera. Ricordo ancora la visione collettiva di La vita è bella: quanto ho pianto! Adesso che sono andato a stare per conto mio, ho creato una megalibreria: sono un collezionista di dvd e di fumetti, proprio come mio padre.
I suoi hanno sempre appoggiato la sua scelta?
Mamma, che ha una società di produzione e organizza eventi, è stata la mia prima fan. Papà, giornalista Rai, era abbastanza contrario: tiene molto allo studio e mi ripeteva “Se prendi un debito al liceo – frequentavo il linguistico – non fai più l’attore”. All’inizio era un gioco (a sette anni ho girato uno spot con Francesco Totti e per me, che sono romanista, è stata un’esperienza… assurda!). Qualche fiction come Don Matteo e, a 12 anni, la svolta: con Una famiglia perfetta di Paolo Genovese ho capito che non potevo fare a meno del set, senza mi sentivo male.
E a quel punto?
Mi sono iscritto alla scuola di teatro di Guido Governale e Veruska Rossi, fondatori della prima compagnia di attori minorenni d’Italia. Con loro ho portato in scena il Pinocchio e Cattivi ragazzi, ambientato in un carcere minorile.
Non ha pensato di scegliersi un cognome d’arte?
No, mai. A 18 anni è arrivato Baby, non ho più smesso di lavorare. Non mi è rimasto tempo neppure per frequentare l’accademia, mi devo limitare a qualche workshop.
Che metodo predilige? Stanislavskij, Lee Strasberg, Sanford Meisner?
Sono un tipo pratico: vado sul set – o sul palco – e recito.
Più distaccato alla Marcello Mastroianni che identificato col personaggio alla Robert De Niro, quindi.
Tengo sempre presente l’osservazione di Laurence Olivier a Dustin Hoffman, che – durante le riprese di Il maratoneta – si ammazzava di fatica per essere credibile: perché non ti limiti a recitare? (ride). Non credo ci sia una strada assoluta per tutti e per tutto: a volte alcune interpretazioni ti richiedono di entrare dentro l’emozione, in altri casi ci puoi arrivare con la tecnica. Non è che se interpreto un tossico, devo drogarmi…
Prossimi impegni?
Fino a novembre le riprese di una serie Rai diretta da Francesca Archibugi (tratta da La storia di Elsa Morante, ndr) e ho già finito di girarne un’altra per Amazon Prime, Prisma di Ludovico Bessegato, nonché un film che uscirà nel 2023. Ma dal 13 luglio sarò su Netflix con Sotto il sole di Amalfi, sequel di Sotto il sole di Riccione.
Qualche anticipazione?
Vincenzo, il ragazzo ipovedente che impersono, è cresciuto, ha abbandonato tante insicurezze, diventerà pure spericolato. Vittima di una madre apprensiva e di una fidanzata che sta diventando come la madre (Isabella Ferrari e Ludovica Martino, ndr), vuol dimostrare che riesce a cavarsela da solo. In genere al cinema gli ipovedenti indossano gli occhiali da sole, qui abbiamo cercato di ridurne l’uso al minimo. Mi ha ispirato molto l’interpretazione di Vittorio Gassman in Profumo di donna.
La sua vita pare brillante: un lavoro creativo, il successo… Qualche lato negativo?
Non posso più uscire in pigiama a prendermi una birra? Capirai!
E fra trent’anni, Lorenzo? Come si immagina?
Con una famiglia (al momento sono single), dei figli. In una bella casa sulle colline di… Hollywood (ride).
iO Donna
Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 22 maggio 2022.
L'inizio, seduti intorno a un tavolino all'aperto di un bar di piazza Euclide, a Roma, è quasi con il botto. Parlando di età e professione, Loretta Goggi rispetto a tante sue colleghe dice cose normalissime, quindi straordinarie: «Non sono giovane e non voglio esserlo. Ho quasi 72 anni, ho iniziato a lavorare a 10, non sono rifatta, e so che posso reggere ancora la scena.
Ma non con il varietà. Per quello dovrei fare del giovanilismo e quello, a me, non piace. Voglio vivere la mia età e concentrarmi sui miei interessi di oggi: il prossimo, l'amore, la fede».
Impegnata adesso come attrice (per la tv nel 2021 ha recitato in Ritorno al crimine di Massimiliano Bruno e Fino all'ultimo battito di Cinzia Th Torrini, e nel 2022 in Più forti del destino di Alexis Sweet; per il cinema nel 2020 ha girato Burraco fatale di Giuliana Gamba e nel 2021 Glassboy di Samuele Rossi) e come giudice di Tale e Quale show di Rai1, l'artista romana, classe 1950, vedova (il marito Gianni Brezza, coreografo e regista, è morto nel 2011), senza figli, all'appuntamento è arrivata puntualissima. Elegante e sorridente.
Come se l'è passata negli ultimi anni?
«Bene. Mi sono guardata dentro. Un po' ho lavorato e un po' ho fatto pizze e dolci. Un po' troppo. Sono ingrassata».
Stefano Coletta, però, direttore Intrattenimento Prime Time e responsabile ad interim di Rai1, pochi giorni fa le ha nuovamente offerto di fare un programma in prima serata.
«È vero, forse perché così le rughe si vedono di meno... Scherzo, sono onorata. Lui è molto propositivo, e credo sia anche sincero. Però io cose celebrative non voglio farne. Ho già detto di no a queste serate sul filo della memoria».
Come siete rimasti?
«Ci risentiremo. Non ho fretta».
Non ha rilanciato?
«Gli ho chiesto cosa gli piacerebbe fare con una come me, oggi. Non rinnego il passato, ovvio, però vorrei esprimermi in maniera più articolata. Vedremo. Intanto mi ha regalato un libro di Lidia Ravera, che ha per protagonista una donna della mia età».
Di fare qualcosa simile a un talk se la sentirebbe?
«Non lo so, sono sincera. Ultimamente tornare a recitare mi ha dato tante soddisfazioni, anche se con il varietà guadagnerei molti più soldi. La tv, però, è molto cambiata. Difficile fare un programma dove il talento sia più importante di tutto il resto».
E come ci sta in un mondo così?
«Faccio la giurata. Ci sono e non ci sono. È un po' da vigliacchetta, ma è così».
Suo marito le diceva spesso che doveva liberarsi dai complessi: quali?
«Li avevo e li ho ancora: non mi sono mai sentita bella, interessante, misteriosa... Mai stata una che attira gli uomini, sono più da pacca sulla spalla. Anche il nome, diceva Gianni facendomi tanto ridere, non ti chiami Lorona, ma Loretta».
È stata la prima in tante cose: a condurre Sanremo, a guidare un varietà da sola, a lasciare la Rai per Canale 5, a imitare... Una vita così, iniziata a 10 anni, ha fatto in tempo a sognarla?
«No. Io a quell'età ho iniziato a vivere in un sogno: ero sempre in costume, come a Carnevale. E tutti mi coccolavano. Durò poco, però. A 16 anni, magra come un chiodo, piatta, non ero né bimba né donna e andavano fortissimo ragazze come Ornella Muti, Agostina Belli... Pensai fosse finita. Poi nel 68 Anton Giulio Majano cercava una come me per La freccia nera e tutto cambiò».
Che c'è voluto per arrivare fin qui?
«Un mix di talento, fortuna e incoscienza. I miei non hanno mai deciso per me, ho sempre fatto tutto da sola. Mio padre (Giulio Goggi, dipendente della Camera, ndr) desiderava che io cantassi, era un appassionato di musica, ma dopo gli sceneggiati non pensava che durasse. Però mi ha sempre dato fiducia».
Cosa l'ha guidata?
«La voglia di liberarmi in quel modo da insicurezza e timidezza per fare cose che nella vita vera non sarei mai riuscita a concretizzare. Il lavoro è sempre stato come una terapia per me. Mi ha aiutato a non tenermi tutto dentro».
Saper fare tante cose è stato mai un problema?
«Certo. Nessuno mi dava credito: se canti non puoi fare le imitazioni, se presenti non puoi recitare e via negando. Ma perché? Poi nel 1972 scoprii Liza Minnelli e mi feci una promessa: fare solo quello che voglio. Mi è andata bene. A parte l'ultimo tour teatrale, nel 2013, con Gipsy».
Che intende dire?
«Un gran successo, sempre sold out, ma il produttore non mi ha pagata. Il teatro è la cosa più bella che c'è, la gente esce di casa per te, ma non lo farò più. Alla mia età girare con la valigia, dormire da sola in albergo, mangiare in camera davanti allo specchio, è triste. E se poi non ti pagano... Comunque, se rinasco, voglio fare la ballerina classica».
Quanti no ha detto?
«Tantissimi. Una Domenica In nel 1985, un secondo e terzo Sanremo da conduttrice nel 1986 e 1987, Ok, il prezzo è giusto! nel 2000, la candidatura con il Partito Radicale di Pannella. Prima di Cicciolina ovviamente».
Li ha pagati?
«Un po'. Un dirigente Rai disse in giro che avevo un carattere difficile».
Un po' è vero?
«Io ho sempre gestito la mia carriera con la massima libertà. Se una cosa mi convinceva, la facevo. Altrimenti, niente. Per questo non ho mai firmato esclusive».
Mai pentita?
«Sì. Del no a Bibi Ballandi quando propose di occuparsi di me con un accordo simile a quello di Lucio Dalla e Gianni Morandi».
Perché dopo il clamoroso successo di Maledetta primavera nel 1981 non fece tour né altro?
«Mi offrivano di fare solo le piazze e io non volevo saperne. Con mia sorella Daniela avevo ricordi pazzeschi: ci facevamo un mazzo così per ballare, cantare e imitare e il pubblico come ci vedeva: A bbbone...».
E poi dieci anni dopo smise di fare dischi: perché?
«Nel 1991 avevo un album pronto che non uscì nel momento giusto, quando conducevo Festa di compleanno su Telemontecarlo. Io in tv cantavo quelle canzoni e il disco non c'era nei negozi. Smisi in polemica con la casa discografica».
La sua erede?
«Paola Cortellesi, anche se lei ha fatto scelte più elitarie delle mie. E anche Virginia Raffaele».
È vero che con sua sorella ha scritto un soggetto per una serie?
«Sì. Una specie di Tinder senza algoritmo, gestito da persone in carne e ossa, per trovare il partner alle donne di una certa età. Piaceva a Paolo Bassetti della Endemol, poi lui è andato via dalla società e non si è fatto più niente. Ne abbiamo anche un altro che presenteremo a Maria Pia Ammirati di Rai Fiction. Protagonisti sempre settantenni che si ritrovano a ricominciare da zero».
Quando è morto suo marito com' è stato per lei?
«Traumatico. Niente aveva più senso. Ho avuto problemi con la tiroide, sono ingrassata, ciondolavo per casa depressa. Mi hanno aiutato la fede e mia sorella che mi ha trascinato in Argentina per un viaggio. Lì sono tornata a vivere».
Senza di lui non è più andata in mare con la barca?
«Sì. Era la nostra passione. L'ho venduta. Non me la sono più sentita».
Se l'agenzia per donne sole di una certa età esistesse davvero, si iscriverebbe?
«No, mai. Mio marito è dentro di me. Con lui ho vissuto 32 anni meravigliosi. Non cerco altro».
Dagospia il 28 settembre 2022. Da I Lunatici – Radio 2
Lory Del Santo è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andra Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 più o meno tra l'una e le due e trenta.
La Del Santo ha parlato un po' di se: "Ho passato un'estate in ritirata. Senza ricerca di feste, gente, avevo bisogno di una cosa intima, isolata, monacale. Avevo bisogno di essere ignorata. Sono sempre tutti pronti a giudicare, se ti pettini male, ti vesti male, la gente non si fa i fatti suoi, è un incubo. Ti misurano la pesa. Ogni cosa. Certe cose dipendono sempre da come vengono dette. E dall'intenzione che uno ci mette".
Lory Del Santo ha parlato del rapporto con sua madre: "Mia madre ha avuto un ictus, da circa nove anni non riesce più a fare le cose normali. Ma prima, una volta andammo in una trasmissione televisiva in cui invitarono anche lei. Prima di andare in diretta, mi guardò da dietro e mi disse 'eh, vedo che anche tu stai invecchiando'. Era il momento giusto per dire una cosa del genere?
Perché lo dici? Come se io non lo sapessi. Io ho imparato a sopportare qualsiasi cosa. Ci sono delle persone che ogni giorno vogliono boicottare la mia giornata. Sono poche, nell'ambito familiare. Non le posso allontanare. Lo fanno di proposito, io sono sorridente, cerco di aggrapparmi a quei pochi bagliori di felicità e di voglia di vivere. E loro come dei martelli insistono. Io resisto parlando con me stessa. Ho capito che sono la mia migliore interlocutrice. Non esiste la solitudine se capisci che puoi parlare con te stesso".
Ancora sul rapporto con i suoi genitori: "Mio padre è morto quando avevo tre anni. Mia madre, invece, non per colpa sua ma per il suo carattere, non per colpa della guerra, della situazione, della povertà, del fatto che non parlava, non sapeva guidare, è stata fredda. Aveva il suo mondo. Avere un figlio per lei era importante ma solo per dirgli che doveva studiare e trovarsi un lavoro. L'unico suo obiettivo era questo. Non c'erano altri interessi, dialoghi. Hai mangiato, hai dormito, hai studiato, fine. Io penso che se fossi andata in un collegio sarebbe stato uguale. Non è stata partecipe della mia vita, in nessun senso. Se non per criticare. E' stato un rapporto per me umanamente inesistente ma le ho sempre voluto bene perché lei ha sempre lavorato. L'unica volta che l'ho vista seduta aveva settant'anni e ha detto 'mah, mi sa che comincio a invecchiare'".
Sulla sua vita: "Volevo fuggire da casa, aspettavo di compiere diciott'anni per andarmene. Sono sparita appena diventata maggiorenne. Roma e Milano erano il mito. Roma per il cinema, Milano per la moda. Sono andata, mi sono buttata, sentivo dentro una spinta. Dovevo andare nel centro, dove accadeva qualcosa. E' stato difficile, senza una famiglia che ti dia un minimo di stabilità, sono andata senza una lira, in balia dei venti. E' stata dura ma ne è valsa la pena. Se qualcuno ha mai provato ad approfittarsi di me? Ma certo, milioni. Capita di inciampare".
Lory Del Santo ha raccontato poi cosa l'ha aiutata a superare le tragedie familiari che l'hanno segnata: "Come si avanti dopo tragedie del genere? Ti aggrappi alla filosofia della vita. Quando nasci compi un percorso con delle persone, ma non è un percorso completo. Devi già sapere che quel percorso è una frazione della tua vita. E tu lo devi già sapere. Se non sei consapevole di questo non puoi superare nulla. Io la vedo così, poi ci sono tante altre possibilità filosofiche che aiutano. E poi non si deve essere egoisti.
Se tu perdi una persona importante della tua vita, ma ce n'è un'altra, non puoi dargli dolore. Bisogna vivere anche per le altre persone che hanno bisogno di te, della tua presenza. E' molto difficile all'inizio. Bisogna giocare con la vita. La vita è un gioco. E' un gioco che tu devi fare positivamente. E' un gioco dove tu non possiedi nulla. Prendi in prestito delle cose e poi le devi lasciare. Non possediamo nulla. Ci è stata data la possibilità di giocare, dobbiamo giocare. E non sappiamo quanto dura la partita".
Sull'amore: "Sono sempre fidanzata. C'è stato un momento di crisi. Il primo, in tutti questi anni. Per me è stato veramente grave. C'è stata una lontananza di un mese e mezzo. Poi ho pensato che è inutile chiudere una storia se non è veramente finita. Finché non son finite devi andare avanti, una relazione va protetta e salvata, soprattutto quando è lunga. Certo ogni tanto qualcuno deve fare un piccolo passo. A volte ci si siede nelle relazioni, subentra l'abitudine, uno dà tutto per scontato. Io ho voluto dare una svegliata, non sono un oggetto e neanche un soprammobile. Ho messo in chiaro queste cose e per ora pare si vada avanti".
Da corrieredellosport.it il 27 aprile 2022.
Lory Del Santo nuovamente protagonista all'Isola dei Famosi grazie ai suoi racconti shock: la naufraga ha riferito nelle scorse ore ai suoi compagni di aver rischiato la vita quando è andata a trovare un celebre cantante in Australia. In vena di confidenze, la showgirl ha dichiarato: "Ho rischiato di morire in mare. Bob Dylan stava facendo un tour a Melbourne e Sydney". La regista, fan sfegatata dell'artista americano, decise quindi di andare ad incontrarlo. "Conoscevo benissimo la sua prima bodyguard e mi ha fatto soggiornare nello stesso albergo di Bob e conoscerlo".
Stando alle rivelazioni dell'ex star del Drive In, la guardia del corpo l'avrebbe invitata a fare il bagno in mare: "L'acqua mi arrivava alle ginocchia. Ho fatto un passo e la corrente mi ha portato in mezzo al mare". Ad abbattersi contro Lory "un'onda di 5 metri". "Mi ha portata al largo lontanissima dalla spiaggia", ha aggiunto la Del Santo, per poi proseguire il suo racconto adrenalinico dicendo che il bodyguard le urlò di non nuotare verso la spiaggia, piuttosto di andare di traverso. In quei momenti concitati il suo pensiero è stato quello di morire, invece la soubrette, grazie a quel consiglio è riuscita a salvarsi. "Non mi scorderò mai di quei momenti", ha commentato a conclusione del racconto.
Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 31 luglio 2022.
Lory Del Santo, qual è il momento in cui capisce che è diventata famosa?
«Anni ’80, con la magica combinazione di stare in tv con Renzo Arbore a Tagli, ritagli e frattaglie e di stare con l’arabo».
Il saudita Adnan Khashoggi, miliardario fra i più ricchi del mondo.
«Ero a Parigi in discoteca, uno sconosciuto mi fa: vieni a Saint Tropez che ti presento un amico? Non ci ero mai stata, vado, ma mi pago il biglietto. Ho pensato: se paga lui, poi, chi sa. Arrivo su questo yacht enorme, il Nabila: mai visto una cosa del genere. Il giorno dopo, la barca era sul Corriere, presentata come la più grande del mondo. Al che, ci sono rimasta».
Com’era Khashoggi?
«Un giocoliere, divertente, non alto, rotondetto. Rideva sempre, aveva occhi furbastri. Misi a frutto l’inglese imparato coi libricini “cento frasi fatte”. Ci avevo speso le notti a studiare: volevo fare la modella a Londra, a Parigi. Comunque, stemmo insieme sei mesi, mi aveva messo sotto il suo ombrello, ma dovevo stare attenta a non uscirne. Invece, mi feci fotografare dal marinaio sul Nabila e uscii su tutti i giornali del mondo. Pensai: quando mi capiterà un’occasione così? Avevo già il senso della pubblicità».
Così diventò famosa e perse lo sceicco.
«Non si fidava più di me. Ma avevo scelto io di non stare più nella gabbia d’oro: andare col suo autista da Dior a scegliere quello che volevo non mi bastava, non era quello il mio sogno. Io volevo affermarmi, non essere la sconosciuta sotto l’ombrello. In più, lui mi aveva tradito. Avevo visto un’altra in barca, di notte. Sentii di non essere importante per lui e feci la foto».
Che ne è dal famoso rubino da 300 milioni di lire che lui le regalò?
«Era un semplice collier con un rubino piccolo, un rubinetto rosso a forma di cuore. Poi, nei secoli, si è trasformato in qualsiasi cosa e, a Roma, mi fu rubato».
Qual è il primo ricordo da bambina?
«Mio padre nella bara. L’unico ricordo che ho di lui. Non mi spiegavo perché dormisse in un letto che non era il suo. Avevo tre anni e mezzo. Il secondo ricordo è mia madre che non mi capiva. Quanti ricordi uno può avere? I miei sono tutti di mia madre che non mi capiva. Non ha mai avuto fiducia in me, non mi ha creduta per tutta la vita».
Siamo a Povegliano Veronese, primi anni ’60.
«Sono nata nella stalla, papà, contadino, voleva diventare allevatore e aveva sei mucche. In casa, non c’erano i vetri alle finestre, sono nata e quasi morta di broncopolmonite. Poi, mamma resta vedova e povera, con due figlie. Andava nei campi a cercare lavoro, non l’ho mai vista seduta a far nulla».
Lei che bimba è stata?
«Paurosa. Avevo paura di sbagliare ed essere punita. Sono cresciuta nell’idea di essere un peso. Se sognavo qualcosa, era fuggire e non essere mai più di peso a nessuno».
Come arrivano la moda, la tv?
«Guardavo le modelle sulle riviste, pensavo: come sono belle. Ed ero maniaca dei film. Sono partita dicendo che mi sarebbe bastato poco. Col poco, sono sempre stata felice. Non posso dimenticare il momento in cui sono entrata alla Rai per la prima volta: avevo la pelle d’oca. Poi, feci la comparsa in un film di Dino Risi: passando dalle porte secondarie, parlando col fotografo di scena, facendo cose assurde. Ma ero felice anche delle cose più piccole: sono stata per tutta la vita la bambina con grandi occhioni, felice di qualsiasi cosa accadesse».
Come arriva Arbore?
«Mi vide al ristorante, Luciano De Crescenzo mi seguì in bagno, mi disse: vuoi venire in tv per fare una che porta il caffè? Pensai: portare un caffè in tv e mi pagano! Per me, avevo già realizzato il mio sogno. Quando Fiorucci mi scelse per la sua campagna pensai: wow. Ho vissuto un’avventura incredibile e dopo tanti anni sono ancora qua. La soluzione è resistere: se resisti, non è più che hai avuto fortuna, ma che hai avuto tenacia».
Perché adesso è a Los Angeles?
«Ho preso una casa per due mesi: due miei ex, molto più giovani, rimasti miei amici da una vita sono tutti e due qui, accasati. Uno l’ho conosciuto che compiva il giorno dopo 16 anni. Eravamo da Ugo Tognazzi a Fregene, lui era molto bello, suo padre era attore di spaghetti western e mi faceva la corte, ma vinse il ragazzo».
Ma era minorenne.
«Era alto uno e novanta, aveva fatto una serie tv, si ricorda Love me Licia? Era quello col ciuffo colorato. L’altro aveva 19 anni. Oggi, sono due begli uomini eclettici, intelligenti. Mi piace qua. Sta per arrivare Marco Cucolo, il mio fidanzato, mi addolora che mi dicano: stai ancora con quello lì? Sa le solite critiche…».
Perché ha 33 anni meno di lei, è senz’arte né parte?
«Io per tutta la vita ho seguito gli uomini, erano loro quelli con un lavoro imprescindibile e io andavo dove loro andavano. A un certo punto, ho deciso che ero io quella che voleva essere seguita. Marco non sa che fare di sé, lo so, ma va bene così. Di recente, dopo l’Isola dei famosi, abbiamo fatto un ceck up del rapporto, gli ho detto: non sia mai che devo sentire la frase “per causa tua non ho fatto carriera”, tu puoi fare quello che vuoi. E lui: ma io sono felice così».
Gianni Agnelli era uno di quelli che lei doveva seguire?
«L’ho frequentato per due anni, voleva che fossi sempre lì: a Parigi, a Torino, in barca… Mi voleva alle sue cene per soli uomini, con lui, Jas Gawronski, Mario d’Urso... Credo che tanti uomini mi hanno voluta perché sono di compagnia, rispettosa, non pretendo nulla. Non sono mai stata con qualcuno per un ritorno economico, ho amato l’unicità, l’intelligenza, l’eclettismo. Se c’è un uomo irraggiungibile, mi piace dire: l’ho conosciuto».
Con Donald Trump è stata o no?
«Ho perso l’occasione. Era molto divertente. Stavo arredando una casa. Chiama e gli dico che ero tutto impolverata, è arrivato, gli operai pensavano fosse mio marito, chiedevano a lui che fare e lui rispondeva. Io, nella vita, mi sono divertita. Con Trump, con George Harrison, con Dodi Al Fayed».
Quanto tempo con George Harrison?
«Tre giorni. Fece chiudere la piscina di un hotel 5 stelle per stare da solo con me. Face arrivare sushi, fu pazzesco. Parlammo per ore».
Dodi Al Fayed?
«Fu l’estate prima di Diana. Lo conobbi al Byblos di Saint Tropez. Stemmo insieme per un long weekend. Mi presentò addirittura suo padre. Andai nel loro albergo di Parigi, il Ritz, ma a me importava di più il mio lavoro: ho preso queste storie come avventure che arricchivano la mia vita. A Stavros Niarchos ho detto no: capii che sarei stata uno sfizio».
Eric Clapton, invece, le regalò l’anello di fidanzamento.
«Con lo zaffiro blu e i brillanti, come Carlo con Diana. Siamo stati insieme cinque anni. A Milano, mi ritrovo a cena seduta vicino a questo musicista barbone. Non sapevo chi fosse, gli do il numero. Il giorno dopo, il Corriere della Sera parlava del suo concerto di grande successo».
Di nuovo il Corriere. Questa è ruffianeria.
«Le giuro che leggere tutti i giorni il Corriere è stata la mia fortuna: per avere una conversazione con questi uomini interessanti, dovevo essere informata e questo ha fatto la differenza. Comunque, con Eric poi successe quello di cui non voglio parlare».
Il vostro Conor, cinque anni, che cade dal balcone e muore.
«Il destino è fatto di secondi. Due secondi prima, non sarebbe successo. Chi sa quante volte per due secondi le cose invece non sono accadute e magari sono rimasta viva io. Ora, vado avanti pensando: ci sono ancora. Se no, entri in depressione e non ne esci più. È come essere seppellito vivo, ti buttano col badile la terra sopra e tu vedi tutto, ma quando vanno via tu, con un dito, riesci a liberarti. Vedo questa immagine di continuo. Vedo che, nonostante tutto, tiro fuori le dita e sopravvivo».
Quante volte ha sentito la terra sulla faccia?
«Più di una. Lì fu il destino. Poi, con Loren, la disgrazia».
Si è suicidato a 19 anni, due anni fa. Soffriva di anedonia.
«Gliel’hanno diagnosticata postuma. Io ho sempre solo pensato che fosse speciale, perché era bravo, buono, non si è mai drogato o avuto brutte amicizie. Come potevo immaginare una malattia mentale? A scuola, gli insegnanti mi dicevano: sta sempre da solo, ma è bravo. L’unica anormalità era che era troppo intelligente: parlava poco, ma se parlava, diceva cose fulminanti».
Aveva mai conosciuto suo padre, il tedesco Dennis Schaller?
«Non gli interessava farlo. Ha studiato a Miami, lì c’era un suo fratello e non l’ha voluto conoscere, anche se la mamma del ragazzo era Ingrid Casares, nel frattempo diventata la fidanzata di Madonna. Una volta, Madonna mi scrisse per invitarci a New York: ci teneva che i due fratelli s’incontrassero. Loren rispose: I’m not interested».
Di figli, lei ne ha persi tre.
«Ho perso anche quello di Richard Krajicek, il tennista. È nato a Milano, prematuro ma perfetto, è morto in due settimane per un’infezione. Con Richard ho sofferto molto, per questo e non solo. Mi tradì. E fu lui a lasciarmi. Mi disse: in campo, devo concentrarmi per essere il numero uno, invece, penso a te e mi distraggo. Disse: la nostra storia deve finire. Ho pianto per mesi, ho pianto in tutti i taxi di New York. Quando mi stava passando, lui ritornava perché non riusciva a stare lontano».
Chi l’ha amata di più?
«Qualcuno rimasto segreto, che ha accettato tutto, anche che avessi figli da altri e mi ha amata solo per avermi al suo fianco, senza che ci fosse un rapporto fisico. I miei figli, che non hanno avuto un padre, hanno avuto lui, che li ha amati come fossero suoi. È stato un amore puro perché i nostri accordi non potevano essere compromessi: non poteva esserci il tradimento».
Perché non si è mai sposata?
«Perché, quando finisce, si parla sempre di denaro e non mi è mai interessato il denaro».
A 63 anni, qual è il bilancio della sua vita?
«Mi è piaciuta e non rinnego nulla perché l’ho vissuta sempre nella verità».
"Dalle feste per bambini a Striscia: vi racconto tutto". Edoardo Sirignano l'1 Aprile 2022 su Il Giornale.
L’inviato di Striscia La Notizia Luca Abete parla del suo tour motivazionale per i giovani, nonché degli inizi della sua carriera da animatore di matrimoni.
Luca Abete racconta del suo passato, degli inizi della sua carriera da animatore nei matrimoni. L’inviato di Striscia La Notizia rivela come non abbia mai smesso di sentirsi clown e di utilizzare la propria autoironia per trasmettere valori.
Sono giorni particolari per il mondo. Come li sta vivendo?
“Il Covid sembrava essere l’incubo che non finiva mai. Adesso andiamo ad aggiungerci altre apprensioni, che mi auguro terminino presto. Siamo di fronte a qualcosa di inimmaginabile, ingiustificabile. Tutti dovremmo riappropriarci un attimo della capacità di confrontarci e di capire quanto il bene comune possa passare dalle singole azioni di ognuno di noi”.
Come ha vissuto i giorni della pandemia e del lockdown?
“Il lockdown è stato incredibile, uno dei momenti più stravolgenti per la collettività. Ho trascorso quei giorni in casa e per fortuna ho un po' di giardino. Mi sono dedicato al lavoro, pur facendolo a distanza e utilizzando i nuovi strumenti a disposizione. Avevamo grosse difficoltà, però, a incontrare i truffatori che giravano. Nonostante ciò, non abbiamo rinunciato mai a fare compagnia a tanti italiani chiusi in casa. Una grandissima gioia e soddisfazione”.
Cosa si può fare per aiutare i giovani a venir fuori da anni difficili?
“I ragazzi vivono tuttora un periodo di incertezza. Il futuro fa paura ai giovani di qualunque generazione. Il momento che viviamo non aiuta a distendere le ansie. Il Covid ha messo a dura prova l’attività sociale. Ha portato i ragazzi non solo a doversi preoccupare di un esame o di un’interrogazione, ma si è aggiunta la difficoltà di vivere in una fase in cui comunque avevano tanta voglia di fare. Oggi la crisi internazionale crea problemi di preoccupazione anche dal punto di vista economico e quindi di ricaduta sul mondo del lavoro. Per i giovani, quindi, essere preoccupati è normalità”.
Abete è protagonista con un tour motivazionale. La sua infanzia è stata facile?
“È stata abbastanza tranquilla, normale, in una famiglia come tante che viveva di cose semplici. Ho vissuto gli anni della crescita nella mia città, Avellino, una piccola realtà. Sono sempre stato un ragazzino timido e riservato. La voglia di conoscermi in profondità, poi, mi ha spinto a una sperimentazione costante che mi ha portato a essere quello che sono. La mia famiglia mi ha sempre supportato, mi ha insegnato i valori della legalità, della correttezza, del rispetto per il prossimo, per le donne, per ciò che siamo noi stessi. Devo dire grazie a chi mi ha cresciuto perché se oggi riesco a fare le cose in un certo modo è anche merito loro”.
Chi è stato il primo a credere nel suo talento?
“I bambini. Nella mia città ho cominciato l’attività da animatore per guadagnare qualche soldino mentre studiavo all’università. Sono stati i miei piccoli fans, quelli che mi volevano alle loro feste, a farmi appassionare al mondo dello spettacolo. Mi facevano capire quando era il caso di correggere il tiro e quando invece il contrario”.
Come è iniziata la sua carriera?
“Facendo l’animatore, poi sono passato ai matrimoni. Qualcosa di semplice, non prestigioso. Nonostante ciò l’ho fatto sempre con grande serietà. Pian piano ho cominciato a sperimentarmi nel ruolo di clown e dopo averlo fatto per qualche anno ho capito che non volevo fare l’architetto, ma che piuttosto mi sarebbe piaciuta un’esperienza televisiva. Ho messo su, quindi, un format per bambini su un’emittente locale e da lì sono poi diventato l’inviato di Striscia”.
Che idea si è fatto della politica italiana? Cosa ne pensa di Mario Draghi?
“È difficile esprimere un’opinione sulla politica in generale perché si finirebbe con l’essere troppo vaghi. Le istituzioni hanno un ruolo importante e le criticità che vivono non sono poche. Molto spesso critico la ricerca del colpo a sensazione. Alcuni politici sono più impegnati a racimolare consensi sui social che lavorare in un certo modo. Ci sono tante cose su cui si potrebbe lavorare meglio. Ovvio che il momento non è facile e ci sono figure come Mario Draghi, tecnici, che portano il loro contributo seguendo quella che può essere la loro azione. Quando c’è da dire che qualcosa non va è giusto farlo, pur avendo sempre rispetto nei confronti di chi governa”.
Tra i vari Conte, Salvini, Meloni, chi preferisce?
“C’è sempre qualcosa che salvo e qualcosa che non approvo. Nascendo dal volontariato, dall’associazionismo ed essendo vicino ai problemi della gente che ci scrive, mi rendo solo conto che c’è tanto da fare”.
Tornando a Striscia e alla sua esperienza televisiva, quale l’errore più grande della carriera?
“La giacca di velluto. È troppo calda in estate ed è purtroppo troppo fredda in inverno. Ci vorrebbe una giacca con l’aria condizionata o con un tessuto termico in grado di gestire gli sbalzi”.
Quale, invece, il rimorso?
“Con il mio staff, mi dedico giorno e notte a dare risposte ai miei conterranei, a cercare punti di incontro tra i problemi e il trovare soluzioni. Il rimorso che ho è che nonostante facciamo molto, vorrei sempre ancora di più. Mi sento poco personaggio televisivo e molto amico dei cittadini che posso aiutare in qualche modo”.
Abete è stato esposto fin troppo al pericolo. Quali sono le sue paure più grandi?
“Ormai sono abituato al pericolo. Abbiamo imparato a gestire le situazioni più delicate e proviamo a mettere in campo qualche precauzione. Penso di essere un’incosciente razionale. Ho un pizzico di follia che mi porta laddove nessuno andrebbe, ma allo stesso tempo ho una razionalità che mi induce a gestire con freddezza anche i momenti più complicati. Questo è il mio talento, la mia fortuna”.
Può rivelare qualche curiosità tra i conduttori di Striscia. Chi è il suo preferito?
“Ognuno ha caratteristiche specifiche. Ero molto legato a Ficarra e Picone, ho grandissimo rispetto per Michelle Hunziker, artista straordinaria. Gerry Scotti è un mostro sacro della televisione, una figura di presentatore con un carisma come pochi. Ezio Greggio e Iacchetti sono la storia del programma. Ci sono, poi, i nuovi, quelli che sono di passaggio, che creano una ventata di freschezza. Pur essendo inviato dal 2005, continuo a sentirmi spettatore di Striscia e quindi ho rispetto per tutti”.
Chi ritiene un maestro?
“Non ho un cantante o un attore preferito. C’è una persona alla quale devo molto: Antonio Ricci. Non solo perché ha dato un’opportunità a un conduttore di un programma per bambini di provincia, ma per gli insegnamenti che porterò con me. Quando sono stato in prova, mi ha sempre detto non dimenticare mai il clown che sei. Non smettere mai di essere autoironico. Mettiti sempre in gioco”.
Ha mai pensato a un futuro senza Striscia?
“È difficile immaginarlo. Chi mi conosce già sa che ero così quando non avevo la giacca verde e il marchio di Canale 5. Sono nato come un guerriero che lotta contro le ingiustizie, che non digerisce le cose brutte e si batte per un ideale di rispetto e civiltà. Grazie a Striscia riesco a fare ciò che ho sempre sentito dentro. Avrei difficoltà a vedermi altrove”.
Quali i progetti per il futuro?
“Dal punto di vista lavorativo faccio già tantissimo. Sono impegnato con Striscia nove mesi, con il tour motivazionale un anno intero. Ci sono, poi, gli incontri nei luoghi di aggregazione, nelle università, nelle scuole. Mi piacerebbe sperimentare nuove forme digitali per produrre un qualcosa che possa abbracciare un target sempre più ampio, trasmettendo valori come il coraggio, la capacità di ritrovarsi più vicini anche se non ci si conosce. Sono opportunità che mi piacerebbe sviluppare con iniziative e progetti”.
Da ilnapolista.it il 19 giugno 2022.
Il Messaggero intervista Luca Argentero. 44 anni, torinese, è entrato nel mondo dello spettacolo nel 2003 partecipando alla terza edizione del reality Grande Fratello. Negli ultimi due anni ha avuto grande successo con la serie di Rai1 “Doc-Nelle tue mani”.
Gli chiedono quali erano i suoi riferimenti da ragazzo.
«Di tipo sportivo. Il mio idolo è sempre stato Alberto Tomba. Lui e Andrè Agassi».
Tomba, l’alpinista Walter Bonatti e il ciclista Luisin Malabrocca sono i protagonisti del suo spettacolo teatrale del 2019 “È questa la vita che sognavo da bambino?”. Malabrocca, nel dopoguerra, capì che arrivare ultimo al Giro d’Italia, conquistando la Maglia nera, gli dava maggiori vantaggi. Spiega perché ha raccontato un antieroe come lui.
«Perché aveva capito il sistema e come fotterlo. Un antesignano del marketing».
Parla degli inizi del suo percorso artistico, subito dopo il Grande Fratello.
«Il mio approccio era esclusivamente speculativo. Ho cercato di sfruttare la popolarità del Grande Fratello per avere tutti i benefici possibili, soprattutto economici, e tornarmene a casa con la pancia piena. Che poi si sia trasformata in altro, è puramente incidentale. All’epoca ragionavo con il rastrello: prendevo tutto senza selezionare nulla. Poi, all’improvviso, nel 2005 mi hanno offerto di fare l’attore e ha funzionato. Io neanche ci pensavo».
Aver partecipato al Grande Fratello è stato un peso da cui emanciparsi?
«Per me non è mai stato un problema. Per un giornalista o un grande regista, invece, quella cosa lì ci sarà sempre. Mi consola che tanti di quelli che mi seguono al cinema o in tv, all’epoca del GF non erano nati, quindi ne sentono parlare solo in qualche intervista».
Qualcuno nel mondo del cinema il naso l’avrà sicuramente arricciato.
«Certo. I più autoriali ma anche i meno aperti mentalmente. Alla fine io ho lavorato con Ozpetek, Comencini, Risi, Placido, quindi…».
Indica proprio Ozpetek come quello che lo ha segnato di più.
«Ferzan, ovviamente. L’indulto, diciamo così, nel 2007 fu lui a firmarlo. Con Saturno contro tutti si accorsero di me. Lui è il mio punto di svolta».
L’idea che il pubblico si è fatto di lei è quella giusta?
«Non saprei. Di sicuro non mi scambiano per un altro: Claudio Santamaria mi ha raccontato che ogni tanto lo prendono per Fabio Troiano».
Nel 2004 posò per il calendario di Max: cosa ha comprato con quelle foto sexy?
«Più o meno gli infissi del casale a Città della Pieve, in Umbria».
Luca Argentero: barman prima di diventare famoso, i due matrimoni e gli altri 8 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.
L’attore compie oggi 44 anni e sarà presto il protagonista di «Le Fate Ignoranti».
Il compleanno
Ha all’attivo 30 film per il cinema (tra cui «Saturno contro», «Solo un padre», «Diverso da chi?», «Noi e la Giulia», «Lezioni di cioccolato»), serie tv e fiction (da «Carabinieri» a «Doc - Nelle tue mani»), due tournée teatrali («Shakespeare in Love» e «È questa la vita che sognavo da bambino?»): parliamo ovviamente di Luca Argentero, che proprio oggi compie 44 anni. Ecco una serie di curiosità poco note sull’attore, nato a Torino il 12 aprile 1978, in attesa di rivederlo in «Le fate ignoranti - La serie» (tratta dall’omonimo film cult diretto nel 2001 da Ferzan Özpetek), in arrivo il 13 aprile in streaming su Disney+.
Al Grande Fratello
Nel 2003 a 24 anni Luca Argentero - che all’epoca lavorava come barman - partecipò alle terza edizione del Grande Fratello. Al termine del reality si classificò al terzo posto (la vincitrice fu Floriana Secondi, seguita da Victoria Pennington) e negli anni successivi non ha mai rinnegato l’esperienza che gli ha regalato la popolarità: «Ero un ragazzo allora, ricordo l'esperienza sempre con affetto. Mi ha portato a fare probabilmente tutto quello che ho fatto in questi anni, soprattutto le prime cose. Poi da lì, dalle prime cose a oggi, ci sono 10 anni di lavoro, lungo e scrupoloso. Per me aveva senso a 24 anni, sconosciuto, studente, non avevo nulla da perdere».
L’esordio con «Carabinieri»
Dopo aver posato per il calendario sexy del mensile Max, e dopo aver lavorato per qualche tempo come modello, nel 2005 Argentero ha esordito come attore: ha interpretato il ruolo di Marco Tosi dalla quarta alla sesta stagione di «Carabinieri».
Il successo con «Saturno contro»
«Esiste un prima e un dopo Ferzan» ha detto qualche mese fa Luca Argentero a Domenica In a proposito del film che gli ha cambiato la vita, «Saturno contro» di Ferzan Özpetek (in cui ha interpretato Lorenzo Marchetti, ruolo che gli è valso il Premio Diamanti al Cinema): «Il mio unico pensiero era “speriamo di essere all’altezza”, ma la mano di Ferzan è stata meravigliosa». Con il regista ha ancora oggi un ottimo rapporto: «È speciale perché a prescindere dal rapporto lavorativo è diventato un amico negli anni. Mi sono sempre affidato a lui per dei consigli anche extra lavorativi (e ha sempre ragione tra l’altro)». I due hanno lavorato insieme anche ne «Le fate ignoranti - La serie».
Candidato ai David di Donatello
Grazie al film del 2009 «Diverso da chi?» per la regia di Umberto Carteni (in cui ha prestato il volto a Piero, conteso in un triangolo amoroso tra Remo/Filippo Nigro e Adele/Claudia Gerini) Luca Argentero ha ottenuto la sua prima candidatura al David di Donatello come miglior attore protagonista. Nel curriculum dell’attore c’è anche un’altra candidatura, ai Nastri d’Argento, sempre come migliore attore protagonista per la pellicola di Michela Andreozzi «Brave ragazze» (2020).
«Mangia prega ama» con Julia Roberts
Luca Argentero ha recitato anche in una produzione internazionale accanto a Julia Roberts: è successo nel 2010, il film era «Mangia prega ama» di Ryan Murphy. «Di Julia Roberts - raccontava ai tempi l’attore in un’intervista a Sorrisi - ho avuto solo il meglio. Confesso che mi aspettavo divismo e distanza, invece ho trovato una grande professionista, che ha obbedito al regista senza batter ciglio, persino quando ha dovuto mangiarsi chili di trippa al sugo bollente alle otto di mattina». Inoltre «appena finite le riprese correva dai bambini. Con loro era tenerissima».
Le Iene
Nel 2011 l’attore è stato co-conduttore delle Iene al fianco di Ilary Blasi e Enrico Brignano. Sempre a proposito delle sue esperienze televisive è stato anche giudice per due anni consecutivi (2013-2014) del talent di Maria De Filippi Amici.
La onlus 1 Caffè
Dal 2012 Luca Argentero è vicepresidente della onlus 1 Caffè che ripropone la tradizione del «caffè sospeso» a scopo benefico. Ma non solo: «All’inizio siamo stati ispirati dal caffè sospeso, e ci piace di l’idea di lasciare un caffè pagato a chi è meno fortunato di noi. Poi abbiamo notato come prendere un caffè sia una facile occasione di incontro, e che davanti a un caffè spesso nascano buone idee, amicizie, progetti. Infine, forse il motivo più importante: abbiamo scoperto che iniziare la giornata con una piccola buona azione ci dà tanta energia. Non potevamo tenerci per noi tutto questo. Ed ecco che è nata 1 Caffè: per far sì che tutti scoprano che donare ogni giorno è gratificante, energetico, e può migliorare il mondo».
Il primo matrimonio
Nel 2009, dopo cinque anni di fidanzamento, l’attore è convolato a nozze con l’attrice e doppiatrice Myriam Catania (che ha partecipato al Grande Fratello Vip nel 2020), conosciuta durante «Carabinieri». La coppia si è poi separata nel 2016, «con grandissimo amore e rispetto reciproco». «Abbiamo passato insieme gli anni più belli della nostra vita, dai 24 ai 35 - ha raccontato lei nella Casa di Cinecittà -. È il periodo più bello che ci sia, il più entusiasmante, dove si rischia di più, dove si ha di più. Luca è stato un grande compagno, parlerò sempre bene di lui».
La dichiarazione d’amore in diretta tv
«È una donna incredibile e speciale che si prende cura di me e di nostra figlia Nina Speranza. Nulla sarebbe così perfetto se non fosse per lei. È la donna più bella che io abbia mai visto. È un vulcano. Intraprendente, un’imprenditrice, una grande lavoratrice. Si prende cura di noi in ogni modo possibile come a nessuno verrebbe in mente. Ti porta a essere la migliore versione di te stesso per starle accanto nel modo giusto». Una dichiarazione d’amore in piena regola quella che Luca Argentero ha fatto lo scorso gennaio a sua moglie, Cristina Marino, in diretta a Domenica In. In seguito alla rottura con Myriam Catania Argentero - sul set di «Vacanze ai Caraibi» (2015) - ha incontrato la sua attuale compagna, da cui nel 2020 ha avuto la piccola Nina Speranza. Il 5 giugno 2021 i due attori si sono sposati a Città della Pieve (località di cui Luca si è innamorato girando «Carabinieri»), dove risiedono da tempo.
Luca Argentero: «Il Grande Fratello? Una storia vecchia. La verità è che volevo fare lo sciatore (o il tennista)». Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2022.
L’attore sul palcoscenico con «È questa la vita che sognavo da bambino».
Luisin Malabrocca, Walter Bonatti, Alberto Tomba. Tre eroi sportivi, tre vite straordinarie. Come quella di Luca Argentero, che di questi “eroi” è il cantore nello spettacolo “E’ questa la vita che sognavo da bambino?”. Prima tappa Torino (19-20, Teatro Colosseo), poi Milano e tante altre città italiane. «E’ questa la vita che sognavo da bambino?” è la domanda che mi sono fatto compiuti i 40 anni, trovandomi a riflettere sui miei modelli e sulle influenze che mi hanno portato alla mia vita di oggi, una vita per certi versi eccezionale. Questi tre personaggi, in maniera diversa, mi hanno ispirato e mi sono stati a fianco, contribuendo a rendermi quello che sono. Nell’ordine, Luigi Malabrocca, l’”inventore” della “Maglia Nera”, il ciclista che correva per arrivare ultimo: da lui ho imparato che per vincere non è necessario arrivare primi; poi Alberto Tomba, il mio idolo assoluto: mi ha insegnato che vincere è importante, ma ancora di più lo sono le emozioni che la vittoria può trasmettere. Walter Bonatti rappresenta la mia storia familiare. La mia è una famiglia di alpinisti e maestri di sci. La montagna è il mio ambiente naturale, l’alpinismo la metafora perfetta della vita: arrivare in vetta per sfidare i propri limiti».
In televisione ha interpretato, tra i molti personaggi, anche un altro sportivo, Tiberio Mitri.
«La sua è una storia un po’ meno ispirazionale, Mitri divenne celebre non solo per le sue vittorie ma per la relazione Fulvia Franco, Miss Italia 1948. Non vinse così tanto da essere annoverato tra i grandi della boxe italiana. Certo, rimase in piedi contro Jake LaMotta ma non fu mai campione del mondo. E a livello personale aveva molte più ombre che luci, come spesso accade nelle storie di riscatto. Veniva da una famiglia povera, dissestata; e nonostante sia stato uno dei più forti pesi medi di tutti i tempi, quella di Mitri è stata una parabola personale e sportiva piuttosto triste».
La sua di oggi è la vita che sognava da bambino?
«Per niente. I miei sogni erano legati allo sport, come per molti ragazzi. Mi sono reso conto in fretta che non sarei mai diventato un campione: né un fortissimo tennista né un grande sciatore, i miei sport preferiti. Dopodiché ho tentennato su cosa fare fino all’università. Mi sono iscritto a economia e ho deciso che avrei fatto l’imprenditore, l’imprenditore di me stesso. In qualche modo ci sono riuscito».
Da imprenditore ha “inventato” la Onlus “1 caffè”: che cosa fa?
«L’idea trae ispirazione dalla tradizione napoletana del “caffè sospeso”, il caffè è il simbolo di un gesto quotidiano semplice. Quante volte ripetiamo in un giorno: “vieni, ti offro un caffè”. Così, col mio socio di sempre e amico di università, Beniamino Savio, abbiamo creato una piattaforma digitale dove ogni settimana presentiamo una piccola associazione che fatica a trovare fondi, a farsi conoscere. Offriamo noi per primi il nostro “caffè”, un contributo, poi lasciamo la possibilità, a chiunque lo voglia, di fare altrettanto. Andiamo avanti così da dieci anni, durante i quali abbiamo aiutato più o meno 800 associazioni».
Ne ha fatta di strada da ex concorrente del Grande Fratello.
«E’ stata una parte del mio percorso, il primo passo nel mondo dello spettacolo. Ma vedo più connessione con l’esperienza che feci subito dopo, la serie tv “Carabinieri”. Il Grande Fratello è stato divertente, ma è qualcosa che è successo quasi vent’anni fa. Sono legato ad altri incontri, a registi come Ozpetek, Placido o Marco Risi; a storie che reputo speciali, e che anche il pubblico ha apprezzato, commedie come “Solo un padre”, “Diverso da chi?”, “Lezioni di cioccolato”. Ho una valigia piena di bei ricordi».
A teatro si è fatto le ossa con Shakespeare, in love (2010).
«Non era la trasposizione teatrale del film, ma una raccolta di una quindicina di monologhi da commedie e sonetti di Shakespeare sull’amore e le sue declinazioni. Un progetto sperimentale in cui mi gettai a capofitto, imparando moltissimo ma forse senza strumenti sufficienti ad affrontare un percorso impegnativo. Ero terrorizzato, mi ha fatto crescere molto».
L’emozione di salire sul palco c’è ancora?
«Impossibile il contrario, anzi oggi è più forte che mai dopo la lunga assenza degli eventi live. Andare a un concerto, al cinema, ad una mostra: sono momenti che abbiamo aspettato a lungo, non può che essere emozionante poter riviverli».
Non abbiamo fatto in tempo a tornare alla normalità che una guerra ha terremotato il mondo.
«E’ tutto talmente in divenire che non riesco ancora a fare valutazioni precise».
Dopo l’enorme successo della serie “Doc – nelle tue mani”, Argentero sarà protagonista della fiction “Le fate ignoranti”.
«Uscirà il 13 aprile su Disney+, è la trasposizione del film di Ozpetek del 2010. Un progetto al quale sono stato felice di partecipare. Non dovrei dirlo, se mi sente il produttore mi prende in parola, ma il piacere di lavorare con Ferzan è tale che lo farei gratis».
Sogni nel cassetto?
«Dopo la nascita di mia figlia, Nina Speranza, sono appagato. Il mio sogno è che la mia vita vada avanti così, esattamente com’è».
Cristina Marino, attrice e moglie di Luca Argentero: «Io la donna più invidiata d’Italia? Mi sembra che anche a lui sia andata benissimo». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera 26 gennaio 2022.
L’attrice è sposata con Luca Argentero e con lui ha avuto Nina, 2 anni: «Non vogliamo che diventi argomento da bar, quando capirà e se vorrà chiederà lei di essere mostrata sui social». In un libro spiega il «metodo» Befancyfit: «Stare bene è uno stile di vita, con una disciplina rigorosa».
«Se fossi stata gelosa non avrei potuto sposare Luca Argentero , sarei stata matta!» così Cristina Marino, 30 anni, milanese, imprenditrice, attrice e influencer, racconta — sorridendo — di suo marito e della gestione della sua popolarità. Cristina si sta godendo qualche giorno di relax al caldo con la sua famiglia, il marito (l’attore del momento) e la figlia Nina Speranza, nata a maggio 2020. «Su di lui sono tranquillissima, assolutamente — racconta — ma mi irrita la mancanza di rispetto di alcune donne».
Mi scusi in che senso?
«Mi indispongono le donne che davanti a me palesemente sono invadenti, che urlano “Oddio ti amo”, “Oddio che bello”, come se io di fianco, per esempio, non ci fossi. Non sono frasi giustificabili solo perché è famoso. Ci sono tanti modi per manifestare il proprio essere fan, ben venga quello educato».
Argentero alla presentazione della serie Doc. Nelle tue mani (Ansa)
Che papà è Luca Argentero?
«Luca è un papà incredibile. Siamo nella fase in cui Nina è innamoratissima di suo padre, se lo abbraccio lei mi manda via. È un papà molto presente e fa esattamente quello che faccio io. Nina, nonostante io sia davvero una mamma presente, ha un “mammo” a casa: le prepara da mangiare, la cambia, la fa giocare e le fa fare il bagnetto».
Avete scelto di non mostrare Nina Speranza sui social. Come mai?
«Nina è la bambina più bella che abbia mai visto, e mi spiace non farla vedere al mondo. Ma la gente non sa dosare le parole e non ho voglia che diventi argomento da bar. Al momento è così: quando capirà e se vorrà mi chiederà lei di essere mostrata sui social. Adesso di mostrare la sua prima pappa, la sua doccia, il suo giocare non ci va».
Sul suo account Instagram, seguito da 550 mila follower, sotto ogni foto con il marito le scrivono che lei è la donna più invidiata d’Italia. Cosa risponde?
«La risposta sincera è che anche lui è caduto in piedi! Sono senz’altro fortunata, infatti ho scritto su Instagram che ogni donna meriterebbe un Luca Argentero. Ma mi sembra che anche a lui sia andata benissimo».
Che 2021 è stato quella della coppia più amata e seguita del momento?
«Il 2021 è stato un anno concitatissimo sia per me che per Luca. Abbiamo lavorato tanto, ci siamo sposati, io ho scritto un libro e Luca è stato sul set per tanto tempo. Così, appena finiti i suoi impegni di lavoro, siamo partiti».
Argentero e Marino neo sposi con in braccio la piccola Nina
La vita da set Cristina la conosce bene perché nel 2015, dopo aver preso parte ad altri film in ruoli minori, arriva nel cast del cinepanettone Natale ai Caraibi. E proprio qui incontra Luca Argentero, che ha sposato l’anno scorso e da cui ha avuto la piccola Nina. Ora si prepara all’uscita di una serie (Makari 2, dal 7 febbraio) e di una commedia con Paolo Ruffini.
Come è stato tornare sul set da mamma?
«Un inferno. Io faccio fatica a stare lontana da casa: ho dovuto girare Makari 2 a Erice, in Sicilia, e mia figlia non poteva venire. Troppo complicato. Così ho fatto la pazzia di fare andata e ritorno da Milano in giornata. Per stare con la mia famiglia».
Lei è una donna indipendente e determinata. La sua piattaforma Befancyfit, che propone un vero e proprio stile di vita, secondo cui stare bene con se stessi non è e non deve essere un sacrificio, racchiude molto di lei?
«Befancyfit è nata come voglia di condividere la mia grande passione per il fitness. Pubblicavo su Instagram i miei allenamenti, il mio profilo social cresceva e tutti mi chiedevano le modalità dei workout. Quello che cerco di trasmettere è che stare bene è uno stile di vita, con una disciplina rigorosa, che impone di autogestirsi con corsi studiati ad hoc per gli utenti».
Lei ha scritto anche un libro su questo metodo, molto amato anche dalle star.
«Il metodo Befancyfit , questo il titolo, è nato dall’esigenza di avere un manuale in cui si spiega questo stile di vita. Il tutto è racchiuso nella mia frase preferita del libro, “non è il risultato finale che fa la differenza ma la decisione iniziale”».
Luca Barbareschi, pornostar per Polanski. "Accetto solo ruoli giusti, e questo sarà divertente". I progetti dell'attore, regista e produttore tra cinema tv e teatro. E l'annuncio di una serie biografica su Giannini, il fondatore di Bank of America. La Repubblica il 24 Luglio 2022.
Sarà una pornostar in declino nel prossimo film di Roman Polanski The Palace, "è molto divertente" dice Luca Barbareschi, che pur con mille progetti da produttore non si tira indietro quando trova "il ruolo giusto", ma dev'essere proprio quello giusto perché "ho il complesso di essere invecchiato". E annuncia un film su Amadeo Peter Giannini, il fondatore della Bank of America, "un visionario, un illuminato, un uomo pazzesco". In una lunga conversazione con l'agenzia Ansa, Barbareschi elenca una lista di progetti da far paura - ma non a lui - che spaziano dal cinema al teatro alle serie tv.
"Sono un avido lettore. Mentre preparavo la fiction su Adriano Olivetti, mi sono messo a studiare i grandi protagonisti dell'economia del Novecento. E ho scoperto Amadeo Peter Giannini, un visionario, un illuminato, un uomo pazzesco. Sono volato in America e dalla Fondazione a lui dedicata mi hanno dato subito i diritti per raccontarne la storia". Si intitolerà Il banchiere degli ultimi il biopic dedicato al fondatore della Bank of America, "sono anni che ci penso ma i progetti arrivano al 'loro' momento giusto" racconta l'attore e regista che produrrà le sei puntate con la sua Eliseo Fiction. "Nel progetto - continua - ora è entrata ufficialmente anche la Rai e avremo un importante partner statunitense. Saremo sul set a fine 2023 e inizio 2024, in Italia e Usa".
La storia di Amadeo Peter Giannini raccontata da Giorgio Chiarva
Tutto parte nella California del 1906, quando un devastante terremoto si abbatte su San Francisco. Migliaia di contadini e piccoli negozianti sono ridotti sul lastrico. C'è però un uomo tra le macerie che trasporta una gigantesca cassaforte su un carro, con due milioni di dollari in oro. Sono le riserve della Bank of Italy da lui fondata due anni prima. Gli altri istituti assicurano che riapriranno entro sei mesi. Ma per allora non ci sarà più niente, dice lui. Così Amadeo Peter Giannini (1870-1949), immigrato di origini genovesi, tira giù l'insegna malconcia della Bank of Italy, va al porto, e sotto ci scrive: "Aperti, come al solito". E si mette a prestare soldi senza garanzie a chi ha perso tutto. "È sicuro che all'unica persona che sta dando loro la possibilità di ricostruirsi una vita, restituiranno fino all'ultimo centesimo", dice Barbareschi. È un trionfo e North Beach, il quartiere italiano, grazie ai prestiti della Bank of Italy è il primo a essere ricostruito. Quando le altre banche riaprono, moltissimi ritirano i propri risparmi per portarli alla banca di "quel galantuomo di Giannini". Così, dando credito ai più piccoli, agli ultimi, a tutti coloro che non erano mai entrati in banca e che nessuna banca avrebbe fatto entrare, la Bank of Italy, ribattezzata poi Bank of America, diventa la più grande del mondo. Ma non solo. "In un bar Giannini conosce un siciliano. E' convinto che alla gente servano storie felici e finanzia il suo primo film. Quell'uomo è Frank Capra. Farà lo stesso con Charlie Chaplin e con un gigante come Walt Disney".
La sua, prosegue Barbareschi, "è la storia di un banchiere che pensa non alla finanza speculativa, ma alla crescita intellettuale, spirituale ed economica di un Paese. Giannini è un altro eroe positivo italiano, uno che credeva nel potere delle idee. Non come oggi che guadagna uno solo e intorno fame per tutti". Per il cast si punta a un appeal internazionale. "Io? Vediamo se ci sarà un ruolo giusto. Ho il complesso di essere invecchiato - dice - Nel prossimo film di Roman Polanski, The Palace con Mickey Rourke, interpreto una pornostar che si è ormai ritirata. È molto divertente. Uscirà con 01 tra il 12 e il 18 gennaio".
Tra i progetti in arrivo c'è poi la nuova serie sul calcio con Francesco Montanari, Il grande gioco, su Sky a ottobre, "di cui stiamo già preparando la seconda stagione". Per la Rai, Blackout con Alessandro Preziosi, e "giriamo adesso La lunga notte, serie sugli ultimi tre mesi del fascismo. Un periodo italiano molto simile a oggi: tutti contro tutti, tutti che tradiscono tutti e tutti che trovano un capro espiatorio". E ancora, c'è il set del "mio nuovo film da regista, Il penitente, scritto da David Mamet". Quanto alla stagione del suo Teatro Eliseo, "dopo l'ingresso di Intesa SanPaolo nella Fondazione e altri gruppi in arrivo, se parte, parte a gennaio, con una rivoluzione copernicana. Sarà il primo vero teatro nel metaverso".
C'era una volta il Teatro Eliseo. Report Rai PUNTATA DEL 06/06/2022 di Giulia Presutti
Dal 20 gennaio scorso uno dei più importanti teatri d’Italia ha chiuso i battenti: L'Eliseo
L’Eliseo di Roma è in vendita per 24 milioni di euro sul sito di un’agenzia immobiliare. Proprietario e direttore artistico è Luca Barbareschi, attore, produttore, ma anche ex politico. Negli anni al suo Eliseo sono stati assegnati cospicui finanziamenti pubblici, come quello da 8 milioni di euro inserito nella Legge di Bilancio 2017, con la motivazione dei festeggiamenti per i 100 anni dalla nascita del teatro. A indagare bene, però, si scopre che il centenario era già stato festeggiato, diversi anni prima.
IN SCENA! di Giulia Presutti Immagini di Chiara D'Ambros e Tommaso Javidi Montaggio di Andrea Masella e Michele Ventrone Grafiche di Michele Ventrone
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Dal 20 gennaio scorso uno dei più importanti teatri d’Italia ha chiuso i battenti: è l’Eliseo, nel centro di Roma. L’edificio del 1910 è pubblicizzato sul sito di un’agenzia immobiliare: in vendita per 24 milioni di euro.
GIULIA PRESUTTI Questo è l’atto d’acquisto dell'Eliseo.
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Sì, sì lo conosco.
GIULIA PRESUTTI Secondo lei qualcuno offrirà 24 milioni per un teatro che quattro anni fa è costato 7 milioni e 2?
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Sì.
GIULIA PRESUTTI Chi gliel'ha offerti?
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Non glielo dirò mai. Per rispetto di una trattativa che è privata. Ci sono due offerte. Una che mi vorrebbe tener dentro come direzione artistica e continuare, è un gruppo internazionale molto importante. L'altra è commerciale puro
GIULIA PRESUTTI Quindi non si farebbe più del teatro.
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Ci morirei.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Durante la pandemia l’Eliseo ha preso 700 mila euro di ristori ma non ha svolto alcuna attività e ha tenuto i dipendenti in cassa integrazione. Poi li ha licenziati, una decisione presa già prima dell’arrivo del Covid.
STEFANIA MINCIULLO - EX DIPENDENTE ELISEO SRL Nel febbraio del 2020 a noi ci era già stato comunicato che probabilmente saremmo stati licenziati. Le mie colleghe della biglietteria hanno avuto il compito di contattare gli abbonati e fare dei voucher.
GIULIA PRESUTTI Però il teatro ora ha chiuso quindi non si può utilizzare
STEFANIA MINCIULLO - EX DIPENDENTE ELISEO SRL No. GIULIA PRESUTTI Lei voleva chiudere già prima del covid.
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Io ho licenziato i lavoratori perché per evitare di lasciarli con la fame gli ho detto ho la sensazione che non ci daranno mai più una lira, perché c'è una guerra politica contro Barbareschi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma Barbareschi è abitualo all’agone politico. Ha sempre unito un grande attivismo culturale a quello parlamentare. Attore, direttore artistico, sceneggiatore, produttore e proprietario di teatri, l’ Eliseo. E’ figlio di un partigiano, pur definendosi socialista, ha indossato tra il 2008 e il 2013 le casacche del CentroDestra, del popolo delle Libertà prima, poi ha seguito Gianfranco Fini in Futuro e Libertà. Infine è sbarcato nel gruppo misto. Però è sempre stato un bastian contrario, ha rotto le scatole anche all’interno dei suoi partiti. Personaggio istrionico, anche invidiato, perché da proprietario dell’Eliseo nonostante i costi superassero di gran lunga gli incassi della vendita dei biglietti è riuscito ad cospicui contributi pubblici. E’ riuscito a festeggiare due volte un centenario provocando le invidie dei manager degli altri teatri. Giulia Presutti
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Attore, produttore, ma anche politico navigato: partendo da alleanza nazionale ha attraversato vari partiti di centrodestra. Da proprietario dell’Eliseo negli anni si è aggiudicato cospicui finanziamenti pubblici.
ALESSANDRO TOPPI - GIORNALISTA Prende 481.151 euro nel 2015, 514.831 euro nel 2016 più 250mila euro di Progetto speciale
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO quindi in più
ALESSANDRO TOPPI - GIORNALISTA Sì e 550 mila euro e 869 nel 2016 quindi è in crescendo.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO E poi cresce ancora fino ai 636 mila euro del 2019 e del 2020. Alessandro Toppi segue i flussi dei fondi ministeriali e ha calcolato il totale ricevuto dall’Eliseo: dal 2015 tre milioni e sei. Ma oltre a questo l’Eliseo ha preso anche finanziamenti straordinari: nel 2017 con un emendamento bipartisan alla legge di Bilancio il Parlamento ha stanziato a favore del teatro di Barbareschi otto milioni di euro. Il motivo? Le celebrazioni per i 100 anni dalla nascita.
ALESSANDRO TOPPI - GIORNALISTA In realtà ci si accorge che il centenario l'Eliseo lo ha già festeggiato nel 2000.
GIULIA PRESUTTI È nato nel 1900 o nel 1918 l’Eliseo?
ALESSANDRO TOPPI - GIORNALISTA L'Eliseo è nato nel 1900 e si chiamava Arena Nazionale dato che dà su Via Nazionale, nel 1918 si chiama per la prima volta teatro Eliseo.
GIULIA PRESUTTI Ok, quindi per l’onomastico 8 milioni di euro?
ALESSANDRO TOPPI - GIORNALISTA per un finto compleanno già festeggiato.
GIULIA PRESUTTI Si è scoperto che il centenario era già stato festeggiato.
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO No, era già stato festeggiato in maniera fittizia prima da un pazzo. Ma io non posso…
GIULIA PRESUTTI Quindi il festeggiamento vero è quello…
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Nostro, certo. Hanno fatto un francobollo, lo vuol vedere? No, perché poi uno perde la pazienza. Questo è un francobollo fatto dallo Stato per il centenario.
GIULIA PRESUTTI Chi è il pazzo di prima che ha festeggiato il centenario?
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Non lo so io qualcuno prima di me.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO A festeggiare il primo centenario dell’Eliseo nel 2000, c’erano star dello showbusiness e politici del calibro di Gianni Letta e dell’allora premier Giuliano Amato. All’epoca nessuno poteva immaginare che 18 anni dopo Barbareschi avrebbe fatto il bis utilizzando fondi pubblici. Un fatto che suscita la perplessità degli altri manager teatrali.
MASSIMO ROMEO PIPARO - DIRETTORE ARTISTICO TEATRO SISTINA Una vicenda abbastanza irripetibile, credo, purtroppo…Io spero che per i 100 anni del Sistina mi diano 8 milioni, anche 9.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Barbareschi ci riprova appena due anni dopo. L’occasione è quella del decreto Milleproroghe. Il Parlamento deve convertirlo in legge e all’interno c’è anche un emendamento a favore dell’Eliseo da 12 milioni di euro. Barbareschi lo segue addirittura in Parlamento dove da ex politico si trova a suo agio.
MANUELE BONACCORSI Chiede un finanziamento?
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO E certo, ma ci era già stato fatto, per due anni, poi lo hanno interrotto un anno quando è arrivata la Lega.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Infatti staziona davanti alla sala del mappamondo per presidiare i suoi interessi fermando tutti i parlamentari che passano. Intanto però si lamenta dei politici.
VOCE Accantonato, grazie
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Da 5 anni combatto con Franceschini, cioè non è possibile capisci? Siamo in mano alla Raggi, un’idiota, Mattarella m’ha messo nel comitato cultura 2030 e chiudiamo l’Eliseo?
GIULIA PRESUTTI A causa della pandemia l’emendamento da 12 milioni non è passato, una delusione anche per la vicepresidente della commissione Bilancio Stefania Prestigiacomo, ex collega di partito di Barbareschi che lo aveva aiutato anche ad ottenere gli 8 milioni nel 2017.
STEFANIA PRESTIGIACOMO – COMMISSIONE BILANCIO CAMERA DEI DEPUTATI Sono stata sensibile al grido di dolore di Barbareschi perché mi sembrava una cosa bella.
GIULIA PRESUTTI Secondo lei è giusto che si assegnino fondi ad un teatro con una legge dello stato, un teatro quando il mondo dello spettacolo in generale è in sofferenza?
STEFANIA PRESTIGIACOMO – COMMISSIONE BILANCIO CAMERA DEI DEPUTATI È una regola generale quella che non dovrebbero esserci interventi microsettoriali però poi durante la legge di Bilancio il Parlamento decide in autonomia alcuni interventi di assegnarli.
GIULIA PRESUTTI È un po’ uno strappo alla regola?
STEFANIA PRESTIGIACOMO – COMMISSIONE BILANCIO CAMERA DEI DEPUTATI No no è un’eccezione che è diverso.
LUCA BARBARESCHI Non c’è stata nessuna forzatura. Sono stati dati soldi per i presepi, per qualsiasi cosa. Giustamente.
GIULIA PRESUTTI Noi non abbiamo visto altri gestori di teatri in Parlamento.
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Perché non sono capaci di fare questo mestiere.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Sulla vicenda degli 8 milioni è intervenuto il Consiglio di Stato, che li ha giudicati “in contrasto con l’art. 3 della Costituzione” perché si tratterebbe di una sovvenzione ad un’unica impresa, attribuita “al di fuori delle regole generali di assegnazione di fondi ai teatri”. Adesso si attende il giudizio della Corte Costituzionale.
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO se lo Stato fa una legge io prendo i soldi, se lo stesso Stato scrive male una legge è un problema dello Stato, non è un problema mio, fine.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO A interpellare la giustizia sono stati i teatri privati romani, tra i quali c’è anche lo storico Quirino, che è detto “tempio della prosa” ma dal Ministero prende appena 54 mila euro.
GIULIA PRESUTTI Voi li avete mai presi 8 milioni?
GEPPY GLEIJESES - PRESIDENTE ONORARIO TEATRO QUIRINO Ma assolutamente no, e noi abbiamo fatto 150 anni veri. Nonostante le difficoltà e i pochi denari che ci vengono assegnati il Quirino è aperto, gode di buona salute.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO L’Eliseo invece dall’ultimo bilancio disponibile risulta avere accumulato 7 milioni e 300 mila euro di debiti.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Con cosa li paga se il patrimonio netto è negativo per quasi 3 milioni di euro? Questa non ha più capitale.
GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO La società ha chiuso in perdita eppure dal 2015 al 2020 aveva ricevuto 13 milioni di euro di contributi pubblici.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Nel 2015 ha perso 300mila euro, nel 2016 un milione tre, nel 2017 guadagna un milione e tre ma con 4 milioni e tre di contributi pubblici e quindi senza contributi pubblici avrebbe perso due milioni e mezzo. Lo stesso nel 18
GIULIA PRESUTTI Quindi è un paradosso perché quei contributi sono andati a vuoto
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO I contributi sono andati a coprire costi, non sono andati a implementare i ricavi. I dati sono eclatanti.
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Il costo dell'Eliseo a regime è 4 milioni e 2, 4 milioni e 3
GIULIA PRESUTTI Io volevo chiedere se mi può spiegare a cosa fanno riferimento questi costi
LUCA BARBARESCHI – PROPRIETARIO TEATRO ELISEO Tutto, abbiamo dalla manutenzione, i vigili del fuoco ogni giorno, abbiamo la comunicazione, abbiamo le produzioni. Vedo che sta tentando di farmi le pulci.
GIULIA PRESUTTI No, le sto facendo le domande
LUCA BARBARESCHI Io le darò il bilancio e le do i costi del Teatro Eliseo. Purtroppo per tutte le malelingue è impossibile truffare perché questi costi sono verificati dal ministero.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’abbiamo chiesta la rendicontazione, ma il Ministero ci ha inviato voci generiche non gli importi. La nostra Giulia era rimasta colpita, leggendo i bilanci, che i costi superavano di oltre un milione gli incassi provenienti dalla vendita dei biglietti. Questo fa intuire quanto sia importante ricevere contributi pubblici. Sarebbero 13 milioni in 5 anni di esercizio. Ora per quello che riguarda invece i contributi del Fus, Fondo unico dello spettacolo, Barbareschi ha anche incassato quelli che sono stati rilasciati durante la pandemia. Lo hanno percepito anche altri solo che a differenza di altri Barbareschi non avrebbe svolto attività nel suo teatro dunque dovrebbe restituirli. Poi ci sono gli 8 milioni del centenario. Qui barbareschi è stato in qualche modo imputato per traffico di influenze illecite con il suocero Andrea Monorchio, che era l’ex ragioniere dello Stato. Poi però sono stati assolti perché il fatto non sussiste. Scrive il giudice che non sono state utilizzate come da procedura penale delle intercettazioni che appartenevano ad altro procedimento in cui era coinvolto Monorchio nelle quali si ascoltava l’ex ragioniere cercare di far ottenere dei finanziamenti a Barbareschi. Questo dovevamo per dovere di cronaca.
Riccardo Bocca per “TPI - The Post Internazionale” il 25 marzo 2022.
Luca Barbareschi è un uomo brillante, appassionato, talentuoso, pronto per le sue idee a rischiare pesante. Ma lo stesso Luca Barbareschi, 66 anni il prossimo 28 luglio, nato a Montevideo da un padre imprenditore e una madre che ha cambiato vita e casa quando lui aveva soltanto sette anni, e anche un personaggio ruvido, tendente al rissoso, campione a volte di un’arroganza che lo include a pieno diritto nell’elenco dei cattivi.
Esistono insomma due Barbareschi, ed entrambi - poco prima che Vladimir Putin sconvolgesse il mondo gia stremato dal Covid invadendo l’Ucraina - hanno vinto una battaglia scivolosissima con la giustizia. L’accusa rivolta al regista, attore, conduttore, produttore televisivo e cinematografico, ex politico e non so cos’altro ancora, era di avere intascato illegittimamente dallo Stato 4 milioni di euro per quel teatro Eliseo di cui e proprietario a Roma.
Una storiaccia a base di presunte pressioni su parlamentari ed esponenti del ministero dell’Economia sfociata nel più morbido degli happy end: «Il fatto non sussiste», ha stabilito il giudice monocratico del tribunale capitolino. Dopodiche Barbareschi ha festeggiato a modo suo: attaccando. «Per cinque anni», ha dichiarato, «sono stato messo alla gogna: ora faro causa allo Stato».
Se e per questo, sei stato anche prosciolto nel 2020 dall’accusa di avere rubato 813 mila euro tra poltroncine, moquette, condizionatori, sipari e altri materiali appartenuti alla precedente gestione dell’Eliseo. Togli per una volta la maschera da duro un po’ carogna e racconta la tua sofferenza.
«Ci tengo a dire che tutto quello che ho fatto per il teatro Eliseo non deriva dalla smania di potere. Odio il potere fine a se stesso. Sono stato spinto, piuttosto, da una voglia di restituzione affettiva alla comunità.
Altrimenti con i 14 milioni di euro che ho incassato vendendo a Cola- ninno una mia azienda informatica sarei andato a veleggiare ai Caraibi assieme a qualche bella figa. Non l’ho fatto e sono stato pugnalato alle spalle con ferite profonde».
Pugnalato da chi?
«Dalla politica e da tutti i colleghi del mondo dello spettacolo. Non c’è stato nessuno al mio fianco, quando e arrivato il momento di dire “nessuno tocchi Barbareschi”. O meglio, “nessuno tocchi il teatro Eliseo”...».
Fatto sta che con certi personaggi risarciti dalla giustizia le folle empatizzano. Nel tuo caso no, invece: al di la dei tuoi meriti professionali risulti antipatico. Perche?
«Non risulto antipatico al pubblico. Altrimenti In barba a tutto, il programma che ho condotto l’anno scorso in seconda serata su Rai3, non avrebbe avuto un milione di telespettatori.
Sto sul cazzo a un gruppo ristretto di gauche au caviar che combatterò per tutta la vita. Sono quelli che stanno distruggendo il cinema italiano, il teatro italiano, quelli che non si battono affinchè la fiction italiana non sia ridotta a un gruppo di multinazionali - alle quali tutti hanno venduto, tranne il sottoscritto - per usare la Rai come un bancomat».
E vai di provocazione. Di recente, per non farti mancare nulla, a chi chiedeva a te ebreo se anche tua moglie lo fosse, hai risposto: «No. Lei e calabrese, che e peggio». E proprio necessario offendere?
«Ma no. Il problema della political correctness e la fine del senso dello humour. Penso per esempio al #MeToo e tutto questo branco di idioti della cultura post-moderna. Baudrillard, Derrida e Foucault ti dicono cose che non potrai mai capire, quindi chi e cresciuto con questa mentalità non può che diventare cretino. E senza senso dell’umorismo».
Non è, più semplicemente, che non ce la fai a scendere a patti con la tua aggressività? Anni fa hai mezzo menato un inviato de “Le iene” che ti rinfacciava di essere un campioncino di assenteismo quando facevi il parlamentare.
«Quello non sa ciò che dice».
Lo hai picchiato.
«Gli ho spaccato il naso, a Filicudi. Ma tutto sta nel come in tv monti le scene. Hanno tagliato la parte in cui lui da addosso alla barca, cade mia figlia, batte la testa ed esce il sangue. Sono convinto che se il pubblico avesse visto quelle immagini si sarebbe alzato al grido di “Staccagli la testa”...».
Roberto D’Agostino invece lo hai trascinato per i capelli perche, parole tue, «continuava a insultarmi e non faceva ridere». Cosa ti aveva fatto?
«Assegnava lo Zucchino d’oro a Domenica in. E già che c’era mi insultava. Allora, mentre in diretta cantava il coro dell’Unicef, l’ho accompagnato a modo mio per i corridoi della Dear».
E lui?
«Sono alto un metro e novanta. E’ stato zitto».
Cosa ne pensi, oggi, di D’Agostino e del suo sito Dagospia?
«E l’unica fonte di comunicazione italiana. Se vuoi trovare una notizia in anteprima la trovi li. In questo e bravissimo».
Avete fatto pace, insomma.
«Ci sentiamo ogni tanto. Non sono un tipo rancoroso».
Sei un tipo che spara a zero. Quanto ti e costato comportarti cosi?
«Tanto con i mediocri, pochissimo con i numeri uno».
Con certi potenti sei dolce come lo zucchero filato. Hai detto della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: «La stimo infinitamente. E una donna straordinaria, in buona fede e perbene». Roba da diabete.
«E vero. Ho un debole, per lei. La conosco da tanti anni e sono convinto che sia davvero in buona fede. Il grande rischio, essendo lei una persona diffidente, e che si circondi di persone amiche ma non altrettanto preparate».
Tuo padre era un partigiano bianco e tu flirti con una leader come Meloni che non ha rinnegato a dovere il fascismo.
«Giorgia non e una teppista fascista. Non lo e nella testa».
Parlando della tua, di testa: cosa ti ha spinto a candidarti alle elezioni politiche del 2008, riuscendo peraltro a farti eleggere nelle file del Popolo della libertà?
«Penso che la funzione di un cittadino sia quella di mettersi al servizio del proprio Paese e di essere sempre disposto a pagare: anche per le proprie trasgressioni».
Ti sei candidato in un collegio sardo. Cosa c’entravi con la Sardegna?
«I sardi mi sono molto simpatici».
Ah beh, allora.
«La verità e che potevo scegliere tra Liguria e Sardegna, ma i liguri mi irritano fisicamente. Sono un po’ tutti come Beppe Grillo».
Poi sei diventato vice presidente della Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni. Cosa ne sapevi di poste e trasporti?
«In effetti e stata una follia, unire i due ministeri. Ma sulle telecomunicazioni mi magno ancora molta gente».
All’epoca eri un fedelissimo di Gianfranco Fini, ex Movimento sociale italiano, ex presidente di Alleanza nazionale, fondatore di Futuro e liberta nonchè presidente della Camera. Che politico e stato?
«Gli ho voluto molto bene e credo che lui ne abbia voluto altrettanto a me. Gianfranco e stato un politico solitario, timido, astenico, grande oratore ma non seduttore di folle. Ha vissuto la politica con passione e al tempo stesso con poca empatia verso il popolo. Come Massimo D’Alema. D’Alema non ama il popolo, D’Alema detesta il popolo».
Fini non e finito bene. Travolto dalle grane di famiglia, dimenticato da tutti. Anche da te.
«Non e vero. L’ho difeso in televisione e sui giornali. Gli ho anche telefonato e sono dispiaciuto per quello che gli e successo. Ciò non toglie che all’epoca mi sia incazzato con lui».
Per cosa?
«Potevamo avere un centrodestra coeso e non avrei fatto la pelle a Silvio Berlusconi per fatti privati. Le donne le hanno trombate tutti. Potrei fare l’elenco dettagliato con i nomi dei leader politici italiani e delle star che ci ritroviamo ancora oggi tra i coglioni perchè sono state le loro amanti. Del giudizio morale, se si parla di persone adulte e consenzienti, non me n’e mai fregato un cazzo, e appunto su questo litigai con Gianfranco. Il tema politico, allora, non era certo quello delle olgettine».
Il tema politico e giudiziario, per Berlusconi, era che Karima El Mahroug detta Ruby Rubacuori era minorenne.
«Ma Ruby non era minorenne! Aveva 17 anni! A 17 anni le ragazze la danno come se non ci fosse un domani. Nei miei camerini ho avuto volontarie anche di 16. Poi uno puo dire di no».
Resta una pagina squallida. Per te, invece, qual e stato l’episodio peggiore del tuo periodo politico?
«Due giornate dedicate dal nostro Parlamento alla lingua insubra e a citazioni in insubro della Divina commedia. Due giorni, in totale, per decidere se inserire o meno l’insubro nelle scuole».
Guardando nello specchietto retrovisore si può dire che te la potevi risparmiare, questa avventura a Palazzo?
«No, e stata arricchente. E ho voluto, tra le altre cose, la legge contro la pedofilia».
Un problema cronico della nostra politica e quello dell’incoerenza: figlia piu del cinismo o della vigliaccheria?
«Dalla vigliaccheria».
Anche tu pero hai fatto la tua parte, in quanto a incoerenza. Prima delle elezioni del 2008 avevi dichiarato: «An in Rai ha portato solo mignotte». Poi sei entrato in Parlamento e hai detto che il centro-destra doveva «occupare con nomine fresche la Rai».
«Non sono stato incoerente. In quel caso il tema non era l’occupazione della Rai bensì le mignotte. Per il resto non mi scandalizza che la politica occupi militarmente il servizio televisivo pubblico. Mi scandalizzo se mette dei cretini, degli incompetenti che fanno danni».
A proposito di competenze: uno che di televisione ne capisce e Berlusconi. Gli eri cosi caro che ti veniva a fare visita in camerino a teatro. Con lui a capo dell’allora Fininvest hai anche condotto con successo dal 1989 al 1994 su Retequattro il talk-trash matrimoniale “C’eravamo tanto amati”. Qual e il tuo giudizio su di lui come politico?
«Un giorno eravamo in Parlamento e mi disse: “Ma non ti stai annoiando”? Il suo problema e che non e appassionato allo Stato».
Lo hai detto anche a lui?
«Gliel’ho detto tante volte».
E come ti ha risposto?
«Lamentandosi che in politica tutto e difficile. Lo capisco. E un imprenditore, uno abituato a decidere le cose e farle».
Come hai interpretato la sua decisione di proporsi a 85 anni per la presidenza della Repubblica, salvo poi dover rinculare? Delirio di onnipotenza, non comune slancio o arroganza senile?
«Lui ama le sfide, e gli va dato atto che nella vita le ha vinte tutte. Non mi dicano che come candidato era meglio Frattini, di Berlusconi: l’unico, per inciso, ad avere capito subito che la primavera araba era una stronzata».
Ancora più affettuoso ti sei dimostrato nei confronti di un super potente come Mario Draghi. Hai detto: «Se Draghi dice una cosa, la fa. Mi fido». E questo il potere che ti piace? Quello di un ex banchiere che si impossessa del Palazzo e mette il guinzaglio a tre quarti della politica?
«Venivamo da un periodo in cui c’era gente in giro capace di sostenere che “uno vale uno”. Gente a cui non ho creduto nemmeno per un quarto d’ora. Draghi parla l’inglese, sa cosa sono i financials e se alza il telefono e parla con Angela Merkel non sembra un analfabeta. Direi che e un vantaggio, per l’Italia».
Ti vedrei bene anche nelle file renziane: un po’ destrorse, un po’ spregiudicate, illuminate dal genio autolesionista di un leader maestro nel seminare il caos con percentuali di partito risibili. Non trovi punti di contatto tra te e il leader di Rignano, con il tuo fare e disfare nello spettacolo e in politica?
«Si. Trovo che Matteo Renzi sia intelligente, molto intelligente. E poi e preparato, quando parla non dice cazzate. L’unico consiglio che vorrei dargli e di non rilasciare più un’intervista in inglese. Deve fottersene. E un italiano sveglio e tanto basta».
Gli basterà anche per riconquistare il favore degli elettori?
«Sono convinto che sulla lunga distanza Renzi verrà fuori di nuovo alla grande. Accadrà quando spariranno i mandarini inutili come D’Alema».
Ancora D’Alema? Ma allora e una fissazione.
«Perchè e un uomo cattivo, non e un uomo buono».
Renzi invece e buono.
«Renzi si e battuto per battaglie importanti».
Restando in zona poteri e potenti. Oggi chi incarna il potere vero, profondo, inossidabile, in Italia?
«La massoneria francese».
E chi ne fa parte?
«Parecchi. Non io. D’altronde siamo una nazione che ha ceduto ai francesi Telecom e Sparkle (società specializzata in cavi di trasmissione intercontinentali, nda). E come se in Gran Bretagna British Telecom cedesse i suoi servizi ai polacchi o a noi italiani.
Chiunque osasse proporre una cosa del genere alla House of Lords verrebbe sbalzato in automatico fuori».
Certo tutt’altra realtà, rispetto al pianeta del teatro dove da decenni dirigi, reciti, produci e gestisci. Tutti sanno che il vostro e un campo povero, eppure la politica insiste con le sue ingerenze. Cosa ci guadagna?
«Niente. Ma ci considera talmente dei mentecatti da romperci comunque le palle».
Hai detto, come atto di gratitudine verso il palcoscenico: «Non ci fosse stato il teatro, sarei diventato un delinquente». Perche?
«Perchè le violenze sessuali subite e la vita di merda che ho dovuto affrontare da ragazzino mi facevano sentire arrabbiato con il mondo. Il teatro mi ha non solo fatto stare meglio, ma anche diventare un uomo migliore».
Certo la tua gioventù milanese e stata quella che e stata. Compresa la confidenza con le droghe. Quando ti sei accorto di avere toccato il fondo?
«Non ho toccato il fondo, non sono mai stato un degradato, pero a New York negli anni Settanta ho capito il pericolo vero. Uno dei miei migliori amici, Andrea Ballo, e morto impiccandosi davanti a me al Chelsea Hotel».
Come ne sei uscito?
«Mi sono fatto aiutare da psicologi e persone a me vicine. Sono anche stato in cura una settimana alla clinica Priory di Londra. La droga per me aveva un ruolo simile a quello che ha avuto per il caro Walter Chiari. Era distruttiva. Quando mi drogavo mi chiudevo dentro una stanza e per tre giorni non volevo vedere nessuno».
Litigando al telefono con Alberto Barbera, nel periodo in cui guidava il Festival del Cinema di Venezia, hai scolpito un ritratto abbastanza impressionante della tua vita: «Portatore sano di forfora», dici di avergli urlato, «quando tu ti facevi le seghe a Torino io chiavavo Beverly Johnson, pippavo con Lou Reed al night club Max’s Kansas City, aravo con il cazzo il mondo e guadagnavo miliardi». Maleducazione a parte, un manifesto dello spappolamento.
«Barbera mi aveva mandato una lettera in cui scriveva che non facevo parte del suo giro di amici e quindi non prendeva il mio film. La reazione al telefono e stata un paradosso. Era come dirgli: cosa abbiamo in comune io e te?
Io a 18 anni ho scritto il primo film, da ventenne ho vinto al festival di Venezia, abitavo con un genio come Oliviero Toscani che a 29 anni era considerato dio, a New York nella confusione ho perso quattro quadri di Andy Warhol, per non parlare di mille altre avventure. Cosa ne poteva sapere uno come lui che stava nella Federazione dei giovani comunisti?
E non per la Fgci in quanto tale, ma perchè quella mentalità da Fgci e la stessa per cui nel 2019 ho vinto da produttore a Venezia con J’accuse di Roman Polanski e non e stato neppure candidato ai David di Donatello».
Sempre e comunque risse, polemiche. Con queste premesse che padre sei stato con i tuoi sei figli: rompiballe o tollerante?
«Da una parte rompiballe. Hanno sempre saputo che finiti gli studi avrebbero dovuto arrangiarsi senza i miei soldi. Non e cattiveria, e la scelta più sensata dopo avere pagato le migliori scuole e fatto in modo che imparassero le lingue. Poi c’è il lato tollerante, che consiste nell’avere rispettato qualunque loro scelta, anche in campo sessuale».
E tu, al di la delle sparate da guascone, come sei in amore? Orsacchiotto insospettabile o proprio mascalzone?
«Sono un maiale romantico».
Una follia fatta per passione?
«Ho fatto di tutto».
Troppo generico.
«Sono andato più di una volta avanti e indietro da New York in giornata per scoparmi una di cui ero pazzo. Oppure, quando stavo iniziando a risparmiare un po’, ho speso 4 mila dollari per volare in prima classe a Honolulu e poi noleggiare un aereo privato con la modella meravigliosa che stava con me. O ancora: per raggiungere una ragazza ho guidato un elicottero senza brevetto».
Adesso, per tua stessa ammissione, e nel teatro che investi una quantità enorme di energie. D’altronde a novembre 2021, in piena pandemia, anche il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha riconosciuto che «in teatro si respira la vita». Ti ha emozionato?
«No, perchè Franceschini non e mai entrato dentro un teatro in vita sua. Non solo: da lui sto ancora aspettando una risposta. Vorrei sapere perchè in sei anni il mio Eliseo ha ricevuto finanziamenti per circa 4 milioni di euro mentre altri teatri ottengono cifre clamorosamente superiori».
Discorsi inimmaginabili quando a Milano nel 1981, carico di talento e con una gamba ingessata, recitavi al Teatro dell’Elfo la rivisitazione del Sogno di una notte di mezza estate. Con te c’erano Claudio Bisio, Giuseppe Cederna, Elio De Capitani. Cosa rimpiangi di quella stagione?
«Il fatto di avere rivoluzionato la scena del teatro milanese piazzando delle sedie in un garage. Al Piccolo Teatro si svenavano, per questo. Legavano alle sedie gli operai della Breda per fargli vedere L’anima buona di Sezuan di Brecht».
Il più popolare del gruppo dell’Elfo e diventato Bisio. Era il più talentuoso?
«No, era il meno talentuoso».
Bisio si e affermato alla grande.
«Il trionfo della mediocrità. Comunque Bisio non e un comico, e una spalla. E l’ho fatto pure recitare in un film».
Il regista dello spettacolo dove avevi la gamba ingessata si chiamava Gabriele Salvatores, in seguito premio Oscar con Mediterraneo. Eravate craxiani di ferro.
«Come no. Lui si e anche candidato, con il Psi. Mentre dirigevo Uomini e topi di Steinbeck, al Teatro Carcano, disse nella sala vuota: “Quando sento parlare di cultura, metto mano alla pistola”. Non lo voto nessuno».
Lo accusi di avere rinnegato la sua fede politica.
«Una volta a Roma, davanti all’Hotel Locarno, gliene ho dette di tutti i colori. Anche perchè Claudio Martelli, tramite l’allora sindaco di Milano Carlo Tognoli, aveva giustamente fatto avere all’Elfo tantissimi soldi. Eppure Gabriele, quando tutti sono scappati dai socialisti, ha detto che veniva dai centri sociali».
La Milano di Craxi, era una mangiatoia dove banchettavano gli amici del Psi. Agli altri restavano le briciole.
«Mica tanto. C’erano le cordate. Funzionava cosi: dato un miliardo di vecchie lire, la stecca era di 100 milioni. Poi veniva suddivisa in base ai risultati elettorali. La narrazione di Mani Pulite rimane pero che Craxi ha rubato mentre gli altri erano tutti onesti».
Ti associ, in pratica, a coloro che per i trent’anni di Tangentopoli sono tornati a criticare l’opera di pulizia svolta a inizio anni Novanta dai magistrati.
«E stato un colpo di Stato americano».
E oggi? Credi che la magistratura abbia un peso eccessivo, negli equilibri della democrazia italiana?
«Uno dei maggiori drammi in Italia, oltre a quello di avere una carta stampata penosa, e costituito dalla magistratura, che certo e necessaria ma può provocare danni enormi alla tua reputazione».
Quindi?
«Quindi ti dico che ho comprato i diritti dei due libri-intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara per farne una serie televisiva. Non che voglia trasformare Palamara in un eroe. Lui e un po’ come Tommaso Buscetta: faceva parte di un sistema e ne e uscito».
Ci sarebbe anche da riflettere, a proposito di giustizia, sul fatto che pochi mesi fa abbiamo visto Denis Verdini, condannato per il crac del Credito cooperativo fiorentino, scrivere la sua road map per la presidenza della Repubblica di Silvio Berlusconi (condannato per frode fiscale) in una lettera a Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. E normale?
«Per quanto mi riguarda, voi giornalisti potete ficcarvi tutte queste cose nel culo».
Perfetto.
«E ti spiego perchè. Questo e giornalismo di bassa lega. Dell’Utri ha fatto anni di carcere per cosa? Perchè non poteva non sapere? Saro garantista tutta la vita. Marcello poi e uscito e aveva ragione lui. Sono anche andato a trovarlo, gli voglio molto bene».
Ti sento carico, Luca. Tranquillizzaci. Dicci che non vuoi tornare in politica.
«Può essere».
Come «può essere»? Potresti tornare?
«Il problema e decidere con chi schierarmi. Avrei un’idea ma non me la fanno realizzare. Ho chiesto al segretario Corrado De Rinaldis Saponaro di darmi il Partito repubblicano italiano, che attualmente e una Bugatti in garage. Si potrebbe creare una bella squadra e arrivare a una forza elettorale da 6, 7 per cento. Senza personaggi dello spettacolo. Non li frequento nemmeno: parlano soltanto di quanto sono stati bravi nel loro ultimo spettacolo».
S. G. per "il Messaggero" il 22 Febbraio 2022.
Nessuna influenza illecita, nessuna azione illegale. L'attore Luca Barbareschi è stato assolto dal Tribunale nell'ambito del procedimento legato all'inchiesta sui fondi destinati al teatro Eliseo. Era accusato di traffico di influenze illecite. Assolti anche l'ex ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio, e il giornalista Luigi Tivelli.
«Non ho corrotto né pagato nessuno - aveva dichiarato l'attore - Sono colpevole di quello che sto facendo da anni: bussare alle porte dei politici per portare attenzione sulla vita culturale di questo Paese. Ma non credo sia una colpa, lo fanno tutti i maggiori teatri italiani».
L'ACCUSA Al centro dell'accusa, il finanziamento da 4 milioni di euro incassato a favore del teatro Eliseo. Gli inquirenti sostenevano che fossero state esercitate pressioni illecite per fare ottenere al teatro il denaro dalla Finanziaria del 2017. Secondo l'ipotesi della procura quei soldi erano stati ottenuti grazie ad un'attività di influenza nei confronti di alti funzionari del ministero dell'Economia e della presidenza del Consiglio, fino a toccare parlamentari di diversi schieramenti.
La contropartita sarebbe stata una promessa di denaro. Secondo l'accusa, infatti, Barbareschi avrebbe promesso a Tivelli 70mila euro. Lui avrebbe quindi trattato con l'ex ragioniere generale dello Stato, Monorchio, riuscendo a condizionare alti dirigenti e cercando di esercitare pressione su politici e ministri.
LA DIFESA Il legale dell'attore, l'avvocato Paola Balducci, ha espresso «grande gioia per la conclusione del processo relativo al traffico di influenze, con una formula liberatoria». Il legale ha sottolineato che si tratta di un «processo, iniziato nell'aprile 2017, che ha portato tanti dispiaceri personali e grandi difficoltà all'azienda per una vicenda che di fatto è inesistente.
Un'attesa traumatica e troppo lunga per un cittadino. Un esito che arriva forse in ritardo, visti i danni creati al Teatro Eliseo, simbolo di Roma e della cultura italiana. Ma finalmente, dopo cinque anni, Barbareschi può tornare a sentirsi libero da ogni capo d'accusa. Giustizia è fatta ed è stata sancita con la formula più scagionante di tutte: il fatto non sussiste».
GLI ARREDI Barbareschi nel novembre del 2020 era stato prosciolto dal gup anche dall'accusa di appropriazione indebita di beni del teatro per un valore complessivo di 813mila euro. Era accusato di avere sottratto sipari, condizionatori, moquette, poltrone Frau e altri arredi appartenuti alle società che, prima dell'attore, avevano gestito l'Eliseo. La procura aveva chiesto il rinvio a giudizio, ma il gup lo aveva prosciolto. I fatti risalivano al 2016.
Eliseo, Barbareschi: "Ho vinto sull'invidia sociale. Ma ora chiederò i danni allo Stato". Luca Barbareschi su La Repubblica il 23 febbraio 2022.
Assolto dall'accusa di traffico di influenze, l'attore e direttore artistico del teatro romano passa all'attacco. "Ora voglio sapere il perché di questo accanimento contro di me".
Luca Barbareschi è fiume in piena, dove la gioia per la vittoria in tribunale quasi viene sopraffatta dalla rabbia per aver dovuto affrontare una battaglia che si sarebbe "ben volentieri risparmiato in termini di tempo e di denaro" e dalla tristezza per "un Paese divorato dall'invidia sociale", come lamenta e al tempo stesso denuncia intervistato dopo la sua assoluzione "perché il fatto non sussiste" nel procedimento giudiziario relativo al reato di 'traffico di influenze' legato alle accuse sui fondi ottenuti per la celebrazione del centenario del teatro Eliseo, di cui è direttore artistico, nonché proprietario attraverso una sua società.
Assolto Luca Barbareschi, lui: “Ho subito 5 anni di gogna, chiederò i danni”. Cade l'accusa a carico dell'attore di traffico di influenze illecite nell’ambito dell’inchiesta sui fondi al teatro Eliseo. Il Dubbio il 22 Febbraio 2022.
«È paradossale: per un fatto che non sussiste sono stato messo alla gogna per cinque anni, quasi una pena capitale. Un danno enorme, per il quale farò causa allo Stato». Luca Barbareschi commenta così, a LaPresse, la decisione del giudice monocratico del Tribunale di Roma di assolverlo – con la formula “perché il fatto sussiste” – dall’accusa di traffico di influenze illecite nell’ambito dell’inchiesta sui fondi al teatro Eliseo, di cui è proprietario e direttore artistico.
«Ho avuto problemi con le banche, perché per loro l’aspetto reputazionale è un ’must’. Questo è un danno che va ad aggiungersi a quello psicologico», rimarca l’attore e regista 65enne, che pone l’accento anche su un altro aspetto. «Mi hanno tolto cinque anni di vita, cinque anni su 40 di vera vita lavorativa. Non potevo fare trasmissioni in tv, i miei film sono stati rifiutati da festival importanti, la mia carriera da attore è stata devastata, i miei anni migliori…», si sfoga Barbareschi. E ancora: «Non ho ricevuto nessuna solidarietà dal mio mondo e dai miei colleghi, la gratitudine è sempre del giorno prima. Solo chi lavora con me e chi mi vuole bene mi è stato veramente vicino. Dagli altri, solo il grande silenzio dei ruffiani. Ma adesso devo perdonare», dice. E pensare al futuro dell’Eliseo che è ancora appeso a un filo: «Gualtieri mi aveva promesso una mano, ora è diventato sindaco. Voglio capire se la città vuole questo teatro», dice, sollecitando un incontro anche con il ministro della Cultura Dario Franceschini e il presidente della Regione Nicola Zingaretti.
«Attualmente l’Eliseo è chiuso in attesa di fondi congrui», spiega ancora l’attore. «Altri teatri hanno preso risorse pubbliche per dieci, venti volte quelle assegnate all’Eliseo. Dal 2015 al 2020 il Biondo di Palermo ha avuto oltre 32 milioni di euro, il Metastasio di Prato 20, lo Stabile di Catania e il Friuli di Trieste circa 19, l’Umbria di Perugia quasi 17, il Piemonte di Torino e il Parenti di Milano circa 12. L’Eliseo ha ricevuto 4,7 nello stesso periodo. Per non parlare dei teatri nazionali: oltre 78 milioni alla Fondazione Piccolo di Milano, quasi 58 alla Fondazione Teatro Torino, oltre 50 all’Ert di Modena, 49 al Teatro di Roma commissariato per anni», rimarca Barbareschi snocciolando alcuni numeri.
L’ultima riflessione è sulla giustizia in Italia: «Per difendermi ho speso 600mila euro in cinque anni di avvocati. Solo i ricchi si possono difendere in questo Paese? Forse capiremo solo con il referendum se l’Italia è pronta per un rapporto sano tra imprenditoria e giustizia. Serve una riforma della giustizia, questa cosa non può non cambiare, perché oggi – conclude – basta una mela marcia nella magistratura per distruggere tutta la frutta».
Giampiero Mughini per Dagospia il 22 febbraio 2022.
Caro Dago, sono uno che nella sua vita s’è dato regole ferree. Una di queste è starmene zitto quando sui giornali compare la notizia che uno dei miei amici è stato preso a bersaglio dai magistrati d’accusa. Robert Musil scriveva che una delle caratteristiche del cretino è dare addosso ai magistrati quando sanzionano un tuo amico, elogiarli sperticatamente quando se la prendono con un tuo nemico. Ecco, di quella caratteristica io non partecipo.
E dunque quando apparve sui giornali la notizia che il mio amico Luca Barbareschi era imputato nientemeno che di avere brigato illegalmente per ottenere un ausilio di 4 milioni per la gestione del suo Teatro Eliseo non ho aperto bocca. Adesso che i giudici terzi lo hanno assolto da quella accusa, sarò felice di scegliere un vino adeguato nel ristorante di Monteverde dove da alcuni giorni avevamo fissato che ci saremmo incontrati. Nel ristorante di Carlo dove andremo c’è da scegliere tra 12,500 bottiglie e dunque berremo adeguatamente.
E dire che avrei motivi di che lamentarmi con Luca. Lui mi contende il primato a chi di noi due è il più antipatico del reame agli occhi dei rigorosissimi sacerdoti del bene, e quel primato spesso me lo toglie. Sui giornali lo trattano il più delle volte come un poco di buono, e laddove a me sembra che lui peni non poco a rendere possibile la sopravvivenza del famoso teatro di via Nazionale, che si batta come un leone a cercare di far sì che i soldi in entrata siano superiori a quelli in uscita.
Gli nuoce, questo è ovvio, che lui non si inchini nemmeno un po’ al “luogocomunismo” di sinistra; né più né meno del sottoscritto. E poi c’è che Luca è fumantino mica poco. Una volta si arrabbiò con me perché lo avevo definito come uno che i giornali di sinistra trattavano al modo di uno che fosse stato colpevole di aver fatto del male a dei bambini ebrei. Lui se la prese perché è un po’ ebreo, anche se non mi pare al cento per cento. La mia era una osservazione amicale nei suoi confronti, ma lui la prese male. E una volta che mi invitò a una sua trasmissione esordì dicendo che mi aveva invitato benché non gli risultassi simpatico.
C’è ancora un ultimo motivo per cui Luca a me sta simpatico. Perché la sua vita personale s’è a un certo punto intrecciata con quella della per me indimenticabile Marina Ripa di Meana, nel senso di un importante rapporto sentimentale durato sette anni con la figlia di Marina. Lucrezia. Oggi da Carlo brinderemo anche in memoria di Marina.
Luca Barbareschi: «Mia moglie Elena è una macchina da guerra. I figli? Potrei averne 800». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2022
L’attore: «A sei anni viaggiavo in aereo da solo». La moglie Elena: «È una macchina da guerra». I progetti: «Voglio portare il metaverso a teatro». L’America: «Le serate con David Bowie, Toscani e Warhol»
È ebreo praticante?
«Abbastanza».
Rispetta la kasherut?
«Sono molto zigzagante, ma quando lo faccio per qualche giorno mi sento molto meglio».
E lo Shabbat?
«Lo Shabbat è sacro».
Davvero non lavora il sabato?
«Solo la sera, a teatro. In realtà non dovrei andarci il venerdì dopo il tramonto, ma faccio un’eccezione. Alle 22 finisco e torno a casa».
Anche sua moglie, Elena Monorchio, è ebrea?
«No, lei è calabrese, che è peggio: è molto ortodossa. Ma insieme facciamo Shabbat, Chanukkah, Pesach e la Conta dell’Omer».
Essere praticante non le ha impedito di inciampare, più di una volta.
«Solo chi cade si può rialzare».
Delle sue cadute ha fatto uno spettacolo.
«E un libro: Cercando segnali d’amore nell’universo».
È vero che è stato in una clinica del sesso?
«No, mai stato».
In una clinica per dipendenze?
«Nemmeno. Ma prendo sul serio gli errori e quando a 20 anni mi sono accorto di avere un problema con la droga, sono andato a Londra da Andy Zamar a farmi aiutare. Sono stato con lui un giorno».
Luca Barbareschi è elegantissimo nel suo ufficio al terzo piano dell’Eliseo di Roma, teatro che ha acquistato nel 2015 e che adesso ha messo in vendita per 24 milioni. È circondato dai libri, dalle chitarre, dalle fotografie che raccontano quasi cinquant’anni di carriera artistica, vissuti (talvolta) orgogliosamente sopra le righe.
Riavvolgiamo il film della sua vita. Prima scena.
«Montevideo, la spiaggia d’inverno. Mio papà e mia mamma che ancora si amano, io piccolino e il cane lupo Whisky. Dormivamo in un seminterrato, da un antiquario ebreo che ci prestava i mobili, ma li cambiava ogni settimana».
Perché l’Uruguay?
«Mio padre era ingegnere civile, lavorava per l’Edison. Avevo genitori fantasiosi: suonavano la fisarmonica, il pianoforte, la chitarra... Era un mondo vivo e divertente».
Cambiamo scena. Veniamo in Italia.
«È appena nata mia sorella. Mia madre una mattina mi dice: “Vado a Roma perché mi sono innamorata di un altro”. “E io?”, chiesi. Lei: “Eh sì, adesso mica andiamo tutti a Roma in vacanza...”. Mi sembrò ragionevole, avevo sei anni. Il problema è che l’ho rivista dieci anni dopo. Mi hanno cresciuta due zie di 85 anni».
E suo padre dov’era?
«In Arabia Saudita per lavoro. Mi metteva su un aereo della Middle East Airlines che entrava a Beirut e da lì proseguiva per Gedda. Ero molto indipendente, da quando avevo sei anni...».
Mi faccia un esempio.
«Andavo a scuola da solo. Il tram costava 70 lire, ne davo cento e avevo il resto di trenta. Con le 10 lire facevo il sacchetto e andavo in banca, dove ne guadagnavo 50 sul cambio».
Il teatro quando arriva?
«Da adolescente. Conoscevo Valentina Fortunato, che era stata salvata da mio padre durante la guerra. Andavo a vederla con la Compagnia degli Associati, c’era anche Sergio Fantoni. Avevo 12-13 anni e una rabbia formidabile. Non fosse per il teatro, sarei diventato un delinquente».
Un po’ iracondo è rimasto. Ha più sentito Filippo Roma, l’inviato delle «Iene» che ha aggredito due volte?
«Sì, lo abbiamo buttato giù dalle scale un’altra volta», ride. «No, lo abbiamo accompagnato alla porta», lo corregge l’assistente Maria Letizia Maffei.
Neppure Roberto D’Agostino trattò bene, la volta che lo trascinò per i capelli...
«Continuava a insultarmi, non faceva ridere».
Adesso siete amici?
«Non puoi essergli amico. Però c’è rispetto».
Fermi un’immagine del periodo americano.
«Max’s Kansas City. Siamo io, Oliviero Toscani, Mick Jagger, David Bowie, Lou Reed ed Andy Warhol. Ero il protagonista di Almost Famous».
Com’era finito in quel giro?
«Grazie a Oliviero Toscani, di cui avevo fatto l’assistente a Milano: con il mio amico Andrea Ballo gli cambiavamo le pellicole. A New York mi mise a disposizione un loft alla Carnegie Hall, dentro il regno di Judi Garland».
È di quegli anni l’intervista a Steven Spielberg al quale disse di voler diventare come lui.
«Aveva 30 anni, io 20. Gli chiesi: come faccio a diventare come te? E lui: take a piece of paper, write a movie and do it (prendi un pezzo di carta, scrivi un film e giralo, ndr). Quando l’ho rivisto ai David di Donatello, mi sono avvicinato e sono scoppiato a piangere».
Ha fatto troppe cose, la costringo a scegliere. Una regia teatrale?
«Uomini e topi di Steinbeck, avevo 23 anni, al Carcano di Milano. Dovetti discutere con Erik Lindner, il più duro agente letterario d’Europa, per convincerlo del mio adattamento».
Una cinematografica?
«Ardena, primo film da regista e attore. C’è dentro tutta la storia della mia famiglia. Misero i picchetti davanti al Barberini per non fare entrare la gente. Ci ho sofferto».
Una produzione?
«Adriano Olivetti, ma anche Io sono Mia. E poi J’accuse di Polanski, e non perché abbiamo vinto il César e il Leone d’argento, ma è forse il più bel film sull’antisemitismo».
Della tv cosa tiene?
«C’eravamo tanto amati: mi sono proprio divertito. Ancora unico caso nella storia di format italiano venduto in America, prodotto da un italiano che lo ha pure condotto. Ero una star».
E com’è la vita da star?
«Bellissima. Vivevo in un attico sul Sunset Boulevard sullo stesso piano di Whoopi Goldberg, avevo l’aereo privato per le convention, un’auto a disposizione h24 e viaggiavo solo in top class in aereo, quando ancora mi facevano fumare il sigaro. Ero veramente viziato».
Un progetto per il futuro?
«Fare dell’Eliseo il primo teatro con il metaverso. Così in platea ci può stare un milione di persone. Tu spettatore scegli quello che vuoi: puoi diventare Amleto, o sederti accanto a lui».
Quando parte?
«Ci siamo quasi. Intesa Sanpaolo è un grandissimo partner: Stefano Barrese e Stefano Lucchini sono stati due uomini di grande visione».
Scusi, ma è sicuro di voler vendere?
«È il mio paracadute. Il brand Eliseo Entertainment ha fatturato anche 56 milioni, ma il teatro ne perde quattro l’anno. Ho già più di un acquirente molto interessato».
E se non le lasceranno fare il direttore artistico, cosa farà? Se lo chiedeva pochi giorni fa Emilia Costantini sul «Corriere».
«Allora non farò più teatro in vita mia».
Sì, vabbè. Il ricordo più bello della sua esperienza in Parlamento?
«Le celebrazioni per i 150 anni della Repubblica. Sono entrato con al braccio il Tricolore del mio papà, partigiano bianco».
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Ha fatto dei bei record di assenze.
«Questo è il solito populismo cretino. Se sei in missione o stai facendo altri lavori non puoi essere presente. Lo stesso capogruppo ci diceva che non serviva esserci tutti, ne bastavano 20».
Fini l’ha più sentito?
«Una volta. Non ci siamo lasciati in buona, ma ogni volta che mi hanno chiesto di lui ne ho parlato bene».
Prende la pensione da parlamentare?
«Sì, 700 euro. Ma è peggio l’altra pensione: duemila euro dall’Enpals, l’ente dei lavoratori dello spettacolo. Pensi che certi anni ho versato anche un miliardo: guadagnavo molto e ho sempre pagato le tasse. Ma non mi lamento: c’è chi ha pensioni più ridicole, con lavori più faticosi».
È del periodo parlamentare la fondazione contro la pedofilia. Perché l’ha chiusa?
«Era nata all’inizio del mio mandato politico e l’ho chiusa alla fine perché avevo fatto quello che potevo, costruito una casa di accoglienza in Sardegna, istituito la giornata nazionale della pedofilia, che rimarrà a vita il 5 maggio, data di nascita di mia figlia Eleonora».
Se pensa ai preti che la molestarono da bambino che sentimento prova?
«Di pietà e di tristezza. Ma sarebbe ingiusto dire che la pedofilia è solo clericale. Spesso nelle famiglie l’orco è il papà. Ho visto con la Polizia postale cose che non avrei mai immaginato».
Perché è indulgente con Polanski, condannato per violenza sessuale di una tredicenne?
«Questa tredicenne ne dimostrava 17 e lei stessa ha detto di non essere stata stuprata. Gli americani hanno rovinato la vita a un genio».
Ha sei figli.
«Cinque. Lei si riferisce a Michael, che ha 48 anni e fa l’avvocato: ho scoperto la sua esistenza vent’anni fa a un party a New York, me l’ha confessato una ex. Sono pentito di averlo rivelato».
Perché?
«I figli sono quelli che cresci, con i quali c’è una tensione emotiva importante. Per come vivevo in quegli anni potrei averne altri 800».
Beatrice, Eleonora e Angelica le ha avute dal primo matrimonio con Patrizia Fachini. Maddalena e Francesco Saverio da Elena Monorchio. Si sente un padre diverso, oggi?
«Spero migliore. Con le prime ero come un agente segreto: se mi chiamavano per fare le pose in un film io correvo. C’era il lavoro, poi il lavoro, poi il lavoro. Dovevo mantenere la famiglia».
Leviamoci il pensiero: ha detto anche agli ultimi che non lascerà loro nulla in eredità?
«Certo, lo sanno. Vivono in casa mia, non a casa loro. Li proteggo fino alla laurea».
Chiudiamo in bellezza: sua moglie. Quando ha capito che era «lei»?
«Durante un viaggio in barca alle bocche di Bonifacio, mare forza 7, io al timone. “Ora vomita e la scarico”, pensavo. E invece lei sparisce per un’ora sottocoperta e torna su con la pasta con la ‘nduja al dente. Una macchina da guerra».
Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 2 ottobre 2022.
Musica e puttanate. Questi che Renzo Arbore consigliò a Luca Barbarossa, dodici anni fa, per la buona riuscita della prima stagione di Radio2 Social Club, il popolare programma radiofonico appena tornato su Rai Radio2 (va in onda dal lunedì al venerdì, dalle 10.30 in poi). Come sempre, al fianco del cantautore e conduttore romano, c'è l'esilarante Andrea Perroni, 42 anni, anche lui romano e di sicuro titolare della seconda parte del suggerimento.
Arbore non sbaglia mai?
«Il Maestro ha sempre ragione. Noi siamo dispensatori di leggerezza. Il nostro è un club dove ridere, incontrare gente interessante, e fare musica».
Dodici anni fa per lei la radio fu un Piano B perché con la musica le cose non andavano tanto bene, c'era la crisi della discografia, i dischi non si vendevano più?
«La crisi c'era, ma non ho mai pensato che il Social Club potesse sostituire la mia attività principale. E all'epoca mai avrei pensato a uno sviluppo del genere per il nostro show: prima in onda nel weekend, poi ogni giorno, la tv, gli speciali, i social...».
L'omaggio a Buena Vista Social Club, il film di Wim Wenders è un'idea sua?
«Mia e di Valentina Amurri, autrice che per anni mi ha spinto a fare un programma così».
Aveva fatto altre esperienze in radio?
«Solo una rubrica in Tornando a casa di Radio1 con Enrica Bonaccorti. Raccontavo i retroscena delle canzoni famose».
La cosa più importante che ha capito in questi anni con il Social Club?
«Quando scrivo canzoni mi isolo, in radio invece ho scoperto il valore della squadra. E la musica aiuta sempre, quasi sempre».
Qualche ospite ha fatto resistenza?
«Solo quelli che fanno musica ma non sono musicisti. Gli altri sentono che siamo professionisti e si lasciano andare. James Taylor è entrato che doveva fare un pezzo chitarra e voce, ne ha cantati sei con la nostra band. Tony Hadley, ex Spandau Ballet, non voleva più andar via».
Adesso si sente più conduttore o cantautore?
«Mi sento un artista fortunato che grazie alla radio è riuscito a farsi conoscere meglio dal pubblico. Quando uno canta e basta c'è il rischio che chi ascolta possa idealizzarti un po'. Parlando viene fuori tutto, anche la parte cazzara».
Quindi in passato è stato equivocato?
«A volte. Da giovane, quando arrivai primo in classifica, la discografia voleva trasformarmi nel nuovo Miguel Bosé quando io sognavo di fare Bob Dylan. Fare l'idolo delle ragazzine non era roba per me. Infatti non andavamo tanto d'accordo, io e i discografici».
E quando nel 1998 le offrirono di interpretare il personaggio del Dottor Lele in un Medico in famiglia, serie di Rai1 di enorme successo, come andò?
«Chi gliel'ha detto?».
Come andò?
«Rifiutai cortesemente (alla fine il ruolo fu preso da Giulio Scarpati, ndr). E non ha idea di quante altre offerte mi siano arrivate in tutti questi anni. Ma recitare non è il mio mestiere, a stento riesco a fare me stesso. E poi amo troppo il cinema. Io al massimo potrei scrivere qualcosa per un film».
L'anno scorso, per i suoi 60 anni, ha pubblicato Non perderti niente, un romanzo autobiografico: per caso diventerà una serie o un lungometraggio?
«Per ora, no. Ma nei miei concerti racconto tanto di quello che ho messo nel libro. In fondo canto perché scrivo, non avrei mai fatto l'interprete».
Pubblicherà ancora?
«Sì, ma stavolta uscirò dalla mia vita. Sarà un romanzo di genere sci-fi (abbreviazione di science fiction, ndr) e spero possa diventare una serie o un film. Mi piacciono le storie distopiche in cui il futuro è già qui. Tipo catastrofi climatiche, inquinamento dei mari, plastica ovunque... Adesso, però, è presto per parlarne».
Visti i periodi di alti e bassi ha mai pensato di mollare?
«No, mai. Ho sempre pensato che avrei potuto fare solo questo. Sapendo che avrei potuto avere anche momenti difficili. Che ho avuto».
Si riferisce a quando faticava ad arrivare a fine mese?
«Sì. Fra l'81 e l'86, dopo il primo Sanremo, le cose non giravano benissimo e con i soldi stentavo a pagare l'affitto. È stata dura, ma la passione aiuta sempre».
A proposito di soldi, adesso come li investe?
«Sono una frana. Non sperpero, ma è meglio se ci pensa mia moglie. E poi siamo una famiglia numerosa e impegnativa».
Tanti suoi colleghi comprano case da tutte le parti.
«Noi viviamo a Roma, in una bella casa, in affitto da 41 anni. Il mio investimento è vedere i figli felici e sostenere i loro sogni».
Il figlio surfista che vive in Portogallo ha finito gli studi?
«Si è laureato in Economia a marketing e adesso, con il suo primo contratto, potrebbe andare in Cina o in America. Gli altri due figli studiano a Roma».
È stato nove volte al Festival di Sanremo: quest' anno farà cifra tonda?
«Mai dire mai. Su quel palco, però, bisogna avere qualcosa da dire. Di sicuro ospiterò tutti i giovani».
Nel libro ha scritto di aver sofferto molto per l'ansia: oggi?
«Ormai ci esco a cena insieme (ride). Vado in onda e sul palco con gioia, una volta no. Ero sempre molto preoccupato. La vecchiaia serve anche a questo».
I 60 anni hanno lasciato il segno?
«A padel dico ancora la mia».
Ha mollato il tennis?
«Cerco campi sempre più piccoli...».
A pregiudizi come sta messo?
«Bene. Grazie alla radio, meglio di prima. Il mio è un ambiente dove ci si conosce superficialmente. Ci si incrocia, ci si saluta, vediamoci... Con il Social Club ho avuto la possibilità di conoscere meglio tanti colleghi».
Chi l'ha sorpresa?
«Tutti dicono che Francesco De Gregori abbia un carattere molto difficile. Da stronzo. Al Social Club è venuto spesso ed è sempre stato generoso, facendo canzoni come Una carezza in un pugno di Adriano Celentano, Non dimenticare le mie parole del trio Lescano, Pietre di Antoine. L'ultima volta, ridendo, mi ha detto: Mi fate diventare troppo buono. A volte certe voci sugli artisti girano con insistenza ma non sono vere. Magari uno ha solo detto che non vuole fare certe cose».
A lei è mai capitato?
«Certo. Quando in tv provano a farti fare di tutto...».
Tipo?
«Uno ha una canzona drammatica da presentare e gli chiedono di fare il giochino. Roba così».
È vero che online gioca in maniera ossessiva a scacchi?
«Sì, sono malato. Sono una pippa, ma gioco con altri squinternati come me di tutto il mondo. Gli avversari me li sceglie l'algoritmo».
Il Social Club potrebbe davvero sbarcare in tv, in seconda serata?
«Perché no? Ci vorrebbe un'azienda, però, qualcuno che decida. In Rai cambia tutto ogni mese e nessuno si prende responsabilità. Quest' estate in tv, su Rai2, con il Best of delle puntate dell'anno abbiamo fatto il 4,26 di media, a volte il 6. Alle 8.50 del mattino».
Ha scritto che da giovane era sempre pronto a ribellarsi: oggi?
«Non sono cambiato, credo sempre nelle stesse cose: solidarietà, rispetto, memoria. Ma si nasce incendiario e si muore pompiere».
Luca Barbarossa: «Non arrivavo a fine mese. Un rimprovero di Morandi mi ha fatto vincere Sanremo». Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera l'8 Agosto 2022.
Il cantautore romano, che con «Portami a ballare» ha vinto il Festival di Sanremo nel 1992: «Portai a cena mia madre Annamaria con Giorgio Gaber e Ornella Vanoni»
Da ragazzo quali erano le sue armi di seduzione?
«Una. È là, sul divano».
La chitarra?
«Ovvio. Vedi uno che canta e suona, gli vanno dietro le ragazze e dici: io nella vita voglio fare quello. Con il mio amico Mario ci esibivamo a piazza Navona o anche a Barcellona quando abbiamo fatto il giro d’Europa: eravamo giovani, carini, simpatici. Non stavamo per strada perché ce la passavamo male o eravamo disperati. Per noi era una lunga vacanza e con quel mestiere ci campavamo, facevamo soldi per proseguire il viaggio. Ma non sono mai stato un latin lover, gli anni Settanta erano così: ci si incontrava, ci si annusava e se ci si piaceva si faceva un tratto di strada insieme».
Ha imparato a suonare per rimorchiare?
«No, la musica mi piace punto e basta. Ne ascoltavo tanta, soprattutto americana. E volevo imparare a suonare le canzoni. Prima scherzavo. Per favore, lo dica: Barbarossa scherza spesso. Quando le persone leggono non sentono l’intonazione della voce, non ti vedono ridere. Come distinguono le battute? Me lo sono chiesto mentre scrivevo il mio libro. E ho capito l’importanza delle emoticon». Luca Barbarossa, cantautore e conduttore radiofonico, ha intitolato il suo esordio letterario Non perderti niente e lo ha pubblicato nel 2021, per i sessant’anni. Ora lo porta in tour, mischiando ricordi e canzoni. «Non è un’autobiografia perché non sono né Napoleone né Frank Sinatra. È concentrato sulla mia adolescenza, tipo romanzo di formazione».
Una storia che le piace condividere?
«Io, Venditti e il Banco del Mutuo Soccorso eravamo a suonare al Pincio, in una serata organizzata dal Pci. A un certo punto Benigni prese in braccio Berlinguer. Il gesto sorprese, divertì e intenerì. Quella è una stagione che merita di essere raccontata. Diamo tutto per scontato, ma i ragazzi non guardano i tg, non leggono i quotidiani. Pensano ad altro. Siamo noi genitori a dover fare un piccolo sforzo in più, a parlare di quello che non hanno vissuto».
Ha tre figli. Che padre è?
«Avere un papà che sta in radio o in tv per i miei ragazzi deve essere una bella rottura... È un mio cruccio. A casa cerco di non parlare di me e di dare più importanza a loro. Assecondo le passioni ma senza viziarli. Valerio, il maggiore, ama il surf, così invece di frequentare l’università a Roma l’ha fatta in Portogallo, davanti all’oceano. A Flavio piace suonare, è bravissimo. Studia musica, non è come me che sono autodidatta. Margot ha 12 anni e tanti interessi. Sono bravi, seri, hanno voglia di fare non appartengono alla generazione degli Sdraiati di Michele Serra».
Una delle sue passioni è il tennis. È bravo?
«Ho iniziato negli anni d’oro di questo sport in Italia. Avevo la stessa insegnante di Panatta. Ma per diventare professionista ci vogliono doti un po’ più spiccate delle mie. Poi mi sono trasferito in campagna e la musica ha preso il sopravvento».
Che adolescente era?
«Difficilotto. Un ribelle che scappava da casa e non tornava per settimane, mesi. Sparivo, me ne andavo in Inghilterra, in America».
Organizzava anche un cineforum nella sezione del partito a Mentana, dove viveva.
«Ci credevo. Se guardo indietro, con tenerezza, mi sembro matto. I miei coetanei andavano in discoteca e rimorchiavano, io proiettavo film. Quell’attivismo politico è un po’ il volontariato di oggi che ammiro: ripulire boschi e spiagge, assistere chi ne ha bisogno».
Cosa è rimasto di quel ragazzo?
«Moltissimo. Non eravamo comunisti perché credevamo nei gulag o in Stalin. Eravamo comunisti perché sennò eri colluso con Andreotti, la mafia, le stragi di Stato. Diceva Gaber: “Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggiore partito socialista d’Europa... perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica”. Non ci stavo a quello scempio. Dal Pci sono passato a una sinistra piu socialdemocratica. Ma la verità, come canta De Gregori, è che sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai. A me stanno a cuore istanze che l’altra parte vive come incubi: diritto all’aborto, ius soli, ddl Zan. Comunisti si rimane tutta la vita, anche se il sogno si è infranto per chi ha avuto l’onestà di ammetterlo e di documentarsi».
Ha conosciuto Giorgio Gaber?
«Sì, è stato un privilegio. Da ragazzino andavo ai suoi spettacoli. Negli anni 90 sono diventato amico di sua figlia Dalia e mi è capitato di frequentare casa loro a Milano, in Versilia. Ricordo una sera, andammo prima in teatro da Giorgio, poi ci aspettava Ornella Vanoni a cena. C’era anche mia madre Annamaria, una barricadera. Erano gli anni in cui Berlusconi era il male assoluto. Sentire Gaber, disincantato, che non faceva sconti a nessuno, ci colpì. Poi, in camerino, con la bellissima faccia appesa, l’asciugamano intorno al collo, ci chiese: “Un po’ qualunquista?”. Sembrava un bambino che ha fatto una marachella e si aspetta il rimprovero. La sua enorme onestà intellettuale gli imponeva di mettere in gioco se stesso e le sue convinzioni».
Quante volte è stato a Sanremo?
«Nove. Potrò mai essere perdonato?».
Ci vorrebbe una emoticon con la faccina che ride.
«All’Ariston si presentano canzoni inedite. Ed è un merito del Festival. Non è che non abbia difetti però la possibilità te la dà. Passame er sale, che ho cantato nel 2018, è una ballata dialettale romana che nessuna radio trasmetterà mai se non qualche emittente che tifa Roma. Oggi si possono fare dei percorsi alternativi. Ma negli anni 80, quando ho cominciato io, al sistema e ai discografici mancava la fantasia. Sanremo era un po’ il talent dell’epoca: o la va o la spacca».
Il Festival lo ha vinto nel ’92 con «Portami a ballare».
«Ma io volevo cantare Cuore d’acciaio, più impegnato. Furono Morandi e Dalla a dirmi: ”Devi toglierti la puzza sotto al naso”».
La sua prima volta nell’81 con «Roma spogliata». Gliel’ha mai detto a Venditti che era l’anti «Roma capoccia»?
«No. Ho vissuto gli anni di piombo, ho visto persone morire durante le manifestazioni, lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo, sulla schiena dei miei amici. Io li ho schivati per un pelo. La città era fuoco e fiamme. Antonello, invece, parlava di Roma come in un sonetto dell’800: il cupolone, la santità, la maestà, la carrozzella. Ho capito dopo che quella canzone andava oltre la Storia, era una dichiarazione d’amore. Pensavo che Venditti, ascoltando Roma spogliata, avrebbe stanato la mia rabbia. Invece è entrato in studio mentre la incidevo. Ha detto: “Bella, posso suonare il pianoforte?”. Io, un verme, in un attimo ero diventato un suo grande fan».
Dopo quel successo la crisi. Perché?
«Per azzeccare una seconda canzone, Via Margutta, passarono 5 anni. Nel frattempo, con la mia chitarra e un sacco a pelo, ero entrato in questa casa e dovevo pagare l’affitto: 365 mila lire al mese. All’inizio tutto ok. Poi ho cominciato ad avere problemi con la mia casa discografica, la Fonit Cetra, il mio primo album non era andato bene, non avevo continuità...».
Come viveva?
«Sono stati anni difficili, mi sono rimesso a suonare nei locali, avevo quel briciolo di nome che mi permetteva di non fare piano bar. Non arrivavo a fine mese. Per farmi abbassare l’affitto ho ridato indietro una stanza alla proprietaria dell’appartamento».
Come si è ripreso?
«L’angoscia di rimanere senza soldi l’ho sempre avuta, forse come tutti quelli che sono andati presto via di casa. Quest’ansia mi ha spinto a cercare una strada per venirne fuori. La svolta arrivò con L’amore rubato».
Nell’88, di nuovo a Sanremo. Raccontava di una violenza sessuale. Scatenò l’ira delle femministe e non solo.
«Mi accusarono di sfruttare un dramma delle donne per soldi. Ero schiacciato dalle polemiche. Per fortuna non tutti la pensavano così. Conservo il telegramma che mi inviarono Dario Fo e Franca Rame nella serata finale. Dicevano che attraverso la denuncia di un uomo passa la questione femminile. Mi diedero forza».
Così riuscì a scrollarsi di dosso l’immagine del ragazzo della porta accanto?
«Non ce l’ho con i bravi ragazzi, ma con la banalizzazione. Quando fai un mestiere pubblico ti affibbiano un’etichetta alla quale devi corrispondere. All’epoca me la vivevo male: volevo essere Bob Dylan e pretendevano di farmi diventare Miguel Bosé».
Non si è mai arreso?
«Mi trovavo a mio agio fra le difficoltà. La fatica quotidiana di scrivere canzoni più belle di quelle che avevo già composto mi era più congeniale dell’essere l’idolo delle folle. Della serie: stai nella giostra come un criceto e fai girare la ruota. La nostra è una vita da artigiani, se non stai attento chiudi bottega. Il successo è solo un incidente di percorso».
Si è reinventato con Radio2 Social Club. Quale artista è stato il più sorprendente?
«Lucio Dalla. In realtà ci conoscevamo già bene. In radio si viene gratis. Lucio era un gigante. Il manager avrebbe potuto dire: “Canta un solo pezzo e lo paghi”. Invece Lucio si è seduto, la sigaretta accesa, ha chiesto: “Cosa volete che canti, Caruso?”. Eravamo increduli. Tornò spesso. Non faceva questo mestiere per soldi, ma perché gli dava gioia. Era un jazzista. Un musicista ha istinto, passione e se la tira meno di tanti altri».
De Gregori, invece, non voleva venire.
«Dice che l’ho fatto diventare buono con il Social Club. All’inizio mi ha detto di no. Poi ha iniziato ad ascoltarci e mi ha chiesto di partecipare. Alla fine era diventato di casa. Un 8 dicembre eravamo io, lui, Giorgio Faletti e un rumorista che imitava il suono delle palline che si rompono mentre fai l’albero di Natale. Una puntata da ricordare».
Un fisico bestiale. I 60 anni di Luca Carboni e i favolosi dischi dell’adolescenza (che non capivo). Guia Soncini il 13 Ottobre 2022 su L'Inkiesta.
Ho passato il secondo anno di liceo a ripetere convinta testi che non comprendevo, ma quelle canzoni sono nel mio dna più di tante altre cose accadute dopo perché a quell’età siamo come carta assorbente
Sì, lo so cosa vi hanno detto di dire per atteggiarvi a critici culturali: che non conta il «cosa» ma il «come». Non è che non sia vero – altrimenti come distingui la My Way di Sid Vicious da quella di Frank Sinatra – ma poiché alla fine non contano né il cosa né il come, ma solo il sentimentalismo e il complesso sistema di leve e madeleine per cui certi consumi ci si appiccicano, c’è una cosa che conta ancora di più: il «quando».
Per quanto sia stato rilevante nella mia vita Ivano Fossati – a vent’anni non ascoltavo praticamente altro – non potrà mai esserlo quanto Sandy Marton. So che, se dovesse leggere questo rigo, Fossati chiamerebbe l’avvocato (e farebbe bene), ma non è colpa di nessuno: People from Ibiza è uscita l’estate dei miei undici anni, e non sei mai più carta assorbente quanto lo sei tra le medie e il liceo; nulla di ciò che consumi dopo lascia tracce nel tuo dna come le frasette che trascrivi sul diario in quegli anni, nessun saggio sottolineato e citato da grande, o fiaba della buonanotte che ti leggevano all’asilo, ti segna come ti segnavano i testi delle canzoni pubblicati su Tutto Musica e Spettacoli.
E quindi io ieri mattina non ho acceso il telefono, perché sapevo cosa sarebbe successo. Sapevo che quello lì è nato dieci anni e una settimana prima di me, e che quindi qualcuno mi avrebbe scritto «Oh, ma hai visto che Luca Carboni compie sessant’anni», e non ero pronta a guardare l’abisso dentro di me e ad ammettere che le commesse dei negozi del centro che vivono a mezze giornate di Ci stiamo sbagliando sono state più importanti, per la mia formazione, dei linotipisti di Com’è profondo il mare, che sarà anche un disco cui mi sono più dedicata da grande ma è uscito che non avevo neanche cinque anni, cosa volevi che capissi, cosa volevi che immagazzinassi, cosa volevi che citassi con gli uniposca sul diario di Snoopy.
C’è una cosa che è evidente, ripercorrendo i Carboni della mia preadolescenza ma pure quelli della mia adolescenza, rimettendo a tutto volume quel che squarciagolavamo da piccole e ancora ci commuove da grandi: che noialtre avevamo una tensione a diventare grandi che le quindicenni di oggi hanno completamente perduto (per colpa dei genitori, decisi a trattarle come gente bassa ma con tutto da insegnarci, mica con tutto da imparare).
Non avevo idea di cosa cantavo, quando quattordicenne ripetevo «con i suoi m’ama non m’ama, oddio non m’ama più, coi suoi se deve partire un bacio che sia di quelli che non scordi più»: sapevo quello cui tendevo, sapevo dell’amore quel che ne sapeva Giulietta Capuleti, ma con la botta di culo di non morire della mia inadeguatezza alle cose del mondo.
Ho passato il secondo anno di liceo a ripetere convinta testi che non potevo capire, a canticchiare dolente che Luca si buca ancora senza aver mai visto un eroinomane se non nelle pagine di quel romanzo tedesco con la copertina gialla, ad amare sopra ogni altra di quell’album quella che raccontava mondi che non erano il mio: «E dicevi dai, dai che facciamo un bambino».
Oggi nessun cantante che volesse piacere alle liceali pretenderebbe da loro una tensione all’adultità, sarebbe lui che si finge quindicenne per andar loro incontro. Che fortuna pazzesca aver avuto quindici anni quando gli album contenevano Chicchi di grano.
Quando Luca Carboni pubblica il suo album più bello io ho diciannove anni, vivo a Roma da pochi mesi, e sono impegnata a far finta di non essere di Bologna (a far finta di essere chiunque altro). Sì, mi accorgo di Ci vuole un fisico bestiale (Francesca Reggiani faceva alla tele una fantasmagorica imitazione di Alba Parietti che la cantava con la premessa «Questa è una canzone che mi hanno insegnato i miei amici filosofi Nietzsche, Kant, e Beckenbauer»). E anche di La mia città: «Mi dispiace signora mia, è solo uso foresteria» parlava di me, non era più tensione al futuro ma iperrealismo. Non sono più carta assorbente, non è colpa di nessuno, è andata così, mi sono persa per strada Carboni e la voglia di crescere: sono impegnata a trovare un appartamento non uso foresteria.
Quindi Mare mare per me non è uscita nel 1992: è uscita nel 2011, quando Carboni l’ha fatta con Cremonini e Jovanotti all’Arena di Verona, e io ho passato quei minuti a chiedermi ma io perché non passo le giornate ad ascoltare questo cazzo di capolavoro (cosa che poi ho diligentemente fatto nei successivi dieci anni: l’unico vero vantaggio del digitale è che puoi ordinargli la ripetizione d’una canzone invece di doverti mettere lì a tornare indietro con la puntina sul vinile e farti una musicassetta interamente con un’unica canzone ripetuta).
E adesso che siamo tutti vecchissimi, adesso che i quindicenni ascoltano delle porcherie e la ragione per cui lo penso è che è vero ma è anche che tutte le vegliarde della storia dell’umanità hanno pensato vuoi mettere ai miei tempi, adesso che le ragazze che sghignazzano e fanno sentire Carboni solo, adesso che quelle ragazze non posso più essere io, adesso «cosa son venuto a fare, ho già un sonno da morire» è forse il verso che mi assomiglia di più nella storia della musica leggera, e quindi è andato tutto come doveva: che Carboni mi stava aspettando, mentre io attraversavo il mondo.
Luca Carboni compie 60 anni: ha fatto il commesso, la passione per la pittura, come sono nati i suoi successi, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 12 ottobre 2022.
Il cantautore di «Farfallina» e «Mare Mare», nato a Bologna il 12 ottobre 1962, ha dato il via alla sua carriera negli anni Ottanta
Ha lavorato come commesso
Da «Farfallina» a «Mare Mare», da «Ci vuole un fisico bestiale» a «Luca lo stesso»: festeggia proprio oggi 60 anni il cantautore Luca Carboni. Nato a Bologna il 12 ottobre 1962, figlio di un impiegato in un’azienda di giocattoli e di una casalinga, ha coltivato la sua passione per la musica fin da piccolo: amante dei cantautori italiani, da Lucio Battisti a Francesco De Gregori, ha imparato a suonare il pianoforte a 6 anni. Forse non tutti sanno che a 18 anni, per potersi permettere gli strumenti e l’impianto audio per i concerti con la sua band dell’epoca (i Teobaldi Rock), ha lavorato come commesso in un negozio di calzature e abbigliamento di lusso del centro di Bologna (Beltrami in via Rizzoli). E questa non è l’unica curiosità su di lui.
Quel testo lasciato all’Osteria
Un testo scritto da Luca Carboni, lasciato all'Osteria da Vito (all'epoca ritrovo del mondo musicale bolognese), finisce nei primi anni Ottanta tra le mani di Gaetano Curreri degli Stadio. Che, colpito, propone al futuro cantautore di scrivere un brano per l’album «Stadio» (sarà «Navigando controvento»).
La collaborazione con Lucio Dalla
La spinta a cantare le canzoni che scriveva invece a Carboni la darà Lucio Dalla, che - con lo pseudonimo Domenico Sputo - parteciperà (sax e cori) all’album d’esordio del cantautore: «...Intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film» (1984). La collaborazione tra i due artisti andrà avanti anche negli anni successivi. «Gli ho sempre fatto sentire quello che creavo, gli piaceva quasi tutto, ma ci sono stati momenti in cui abbiamo discusso, litigato - raccontava nel 2018 Carboni a Vanity Fair -. Lui mi smontava filosoficamente il pezzo, l’approccio, il contesto, la frase. E quindi oggi penso: cosa direbbe Lucio? Facevamo un gioco, lui e io: ogni volta che usciva un brano nuovo a Sanremo, o alla radio, provavamo ad analizzarlo, riscriverlo, migliorarlo. Giocando con Lucio ho imparato come dare forza alle parole su una musica, quando togliere, quando aggiungere».
Silvia lo sai
Nei suoi brani raffinati e malinconici Luca Carboni ha spaziato tra diversi mondi, raccontando l’amore, ma anche crisi generazionali, attualità e ritratti di vita. Una delle canzoni più intense, profonde e amate della sua produzione è «Silvia lo sai» (il suo primo successo insieme a «Farfallina», anno 1987), in cui il cantautore parla della relazione tra Silvia e Luca che finisce perché Luca fa uso di eroina. Il nome del protagonista maschile della storia è stato scelto per una questione metrica del testo: «Mi serviva un nome che facesse rima», ha spiegato Carboni in un’intervista ad Elle nel 2015.
Mare Mare
Com’è nata «Mare Mare», canzone con cui Luca Carboni ha vinto il Festivalbar 1992? Le musiche sono state scritte all’Isola d’Elba, ha svelato il cantautore (che sull’isola aveva una casa in affitto tutto l’anno «perché per lavorare e per essere creativo cerco sempre il mare vicino e se possibile in inverno o autunno») in un’intervista a Rolling Stone: «Lì dunque ho scritto le musiche di Mare mare, avevo tutte le tastiere, registravo provini, poi rimase un anno ferma questa musica, senza un’idea di testo, testo che scrissi quando iniziammo a registrare, così come feci con Ci vuole un fisico bestiale, per la quale avevo, allo stesso modo, già pronta la musica. Nel caso di Mare mare il testo era nato verso maggio, ero stato a Riccione e stavo rientrando a Bologna, ero sul lungomare, in auto e ho visto un piano bar che stavano montando per la serata, c’erano dei ragazzi che stavano sistemando e io mi sono fermato, ho accostato e sono sceso ad ascoltare le prove di questo piano bar e da lì mi è venuto in mente il testo».
L’inno alla Patrona del basket
Luca Carboni, insieme a Iskra Menarini e Andrea Mingardi, ha interpretato di recente l’inno dedicato alla santa patrona del basket (sport di cui è un grande appassionato), la Madonna del Ponte di Porretta Terme. Il brano si intitola «Nostra Signora dei canestri», ed è stato scritto da Andrea Mingardi e da Maurizio Tirelli.
Luca Carboni pittore
Ha cominciato negli anni Ottanta disegnando le copertine dei suoi dischi. Poi ha riempito di schizzi i suoi taccuini, accanto ai testi di quelli che sarebbero diventati i suoi più grandi successi. E ancora oggi dopo più di trent’anni Luca Carboni continua a tenere in mano matite e pennelli. «Ho sempre avuto con me taccuini e bloc-notes per fissare le immagini, ho moltissimi appunti di quadri che non ho mai realizzato, piccoli studi e idee - ha raccontato il cantautore al Corriere -. È stata una cosa molto intima ma anche molto intensa, ci ho dedicato tantissimo tempo. Poi è chiaro: durante le tournée era molto difficile fermarsi a dipingere, ma anche quando nasceva un album nuovo davo molto spazio al disegno e alla pittura. Non cerco di mettere le mie canzoni nei quadri ma i quadri possono rivelare quello che nelle canzoni non c'è». Appassionato di arte contemporanea («Ho riscoperto dopo i vent'anni la storia dell'arte, dall'amore per la pop art alla scoperta dei metafisici fino a Giorgio Morandi») lo scorso anno ha esposto le sue opere a Mantova in una retrospettiva, la sua prima personale.
Vita privata
Luca Carboni, da sempre molto riservato sulla sua vita privata, è legato dal 1989 a Marina Vanni, da cui ha avuto il figlio Samuele.
Paolo Kessisoglu: «Mia moglie Sabrina Donadel rifiutò il primo invito a cena. Con Luca Bizzarri non facciamo le vacanze insieme, ma c’è alchimia». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 6 Luglio 2022.
Il conduttore: «Sono diventato vegetariano per amore di Sabrina». Con Luca Bizzarri «all’inizio non ci prendemmo, però poi arrivò un’alchimia che dura ancora adesso».
Il cognome Kessisoglu ha radici armene, ormai lo sanno tutti.
«Mio nonno, padre di papà, arrivò a Genova durante la prima guerra mondiale. Fuggì dal genocidio. Aprì un negozio bellissimo: tessuti, pezzi di porcellana fina, opere d’arte delicate».
Fu quello il suo primo parco giochi, da bambino nato nel 1969?
«Ricordo quando con mia sorella stiravamo la carta per impacchettare quelle cose preziose: la prendevamo ognuno da un lato e la tiravamo a lungo, perché bisognava poi riutilizzarla».
Intanto il giovane Paolo suonava la chitarra.
«Ero un talento, oggi direi molto bravo. Mai avrei immaginato, un giorno, di suonare sul palco Smoke on the water assieme ai Deep Purple».
Quando è successo?
«Luglio 2008: per la rivista GQ raccontavo alcuni grandi concerti. Al teatro Smeraldo di Milano arrivava la band leggendaria e io mi ero messo d’accordo con un agente che diceva di conoscere benissimo lo staff dei Deep Purple. Peccato che poco prima dell’inizio, Steve Morse, il chitarrista, mi si avvicinò e mi disse: “Ma tu chi sei? E, soprattutto, che cosa ci fai qui?”».
Come andò a finire?
«Gli spiegai tutto, scoprii che loro non sapevano niente ma alla fine mi fecero suonare sul palco. Ma io ho suonato anche con Joe Satriani e con Stefano Bollani. Insomma, non sono male».
Però da ragazzo il teatro ebbe la meglio. L’incontro con Luca Bizzarri?
«Al provino per entrare allo Stabile di Genova. Da trecento si passava a una manciata di candidati, lui mi passò davanti e io gli dissi: “Dai, ci vediamo domani”. Lui rispose: “Io sì, tu boh”».
Modesto.
«Ma anche io ero presuntuoso: inutile girarci intorno, se fai questo mestiere è perché sei insicuro e cerchi qualcosa che trasformi in arte la sua debolezza. All’inizio non ci prendemmo, però poi arrivo un’alchimia che dura ancora adesso. Non facciamo le vacanze insieme e siamo capaci di fare centinaia di chilometri in auto senza dirci una parola. Però quando siamo in scena avviene la magia. Le battute vengono da sole».
È difficile fare battute in un clima come questo, così politicamente corretto?
«Ormai non si può più scherzare su niente».
Per esempio?
«Premetto: la nostra è un’autocensura preventiva. Sappiamo che certe categorie percepite come “penalizzate” sono territorio sensibile e allora ci buttiamo sui politici. Ma è un peccato, perché la battuta non denigra mai nessuno, è solo un esercizio di stile. Alcuni comici come Ricky Gervais scherzano per esempio sull’alcolismo: qui da noi per carità, non si può».
Ma allora un duo come il vostro, fondato sul graffio e sul politicamente scorretto, come fa?
«L’intelligenza è anche saper capire i tempi che viviamo. Questo è un periodo molto caldo per certe rivendicazioni e noi dobbiamo capirlo, senza forzare nulla. Certo, se davvero un giorno ci si troverà a non poter più fare battute su niente vedremo. Adesso bastoniamo i politici, specie a Dimartedì nello spazio che ci ha dato Floris».
Qualcuno ha mai alzato il telefono?
«Renzi, ma per congratularsi. È intelligente e ci sa fare. Poi un giorno mentre scendevo dal treno mi sento dire alle spalle: “Ahò, ma la smettete de’ perculà tutti?”. Era Alessandro Di Battista».
Dieci anni (o quasi) alla conduzione delle Iene e ancora avete sete di sangue?
«Lì però chiamavano soprattutto le grandi aziende che si sentivano danneggiate, non i politici. E Mediaset non ci ha mai censurato. Nemmeno quando ironizzammo sul Grande Capo».
Berlusconi?
«Sì, il giorno dopo squillò il telefono. Era lui. Si complimentò e di scusò perché non riusciva a venire in trasmissione perché aveva da fare».
Ormai la suscettibilità si è spostata nel sociale.
«L’altro giorno mi è capitato sotto gli occhi un post di una influencer che sosteneva che le mestruazioni sono bellissime, che sono un dono del cielo, che nessuno si deve permettere di bullizzare una donna con il ciclo. Ora, a me questo sembra una follia. Intanto, perché le mestruazioni devono essere una cosa bella o brutta? Sono una cosa naturale, punto. Chi bullizza una donna con il ciclo è un cretino. Mi pare che stiamo trasformando troppe cose in un problema».
Che sintomo è?
«Questo orgoglio così urlato e così “comunicato” a me non dà un’idea di forza».
Un esempio al contrario?
«Paolo Villaggio. Ero accanto a lui quando la Rai organizzò la conferenza stampa per presentare la stagione di Carabinieri a cui partecipava anche lui. Un giornalista gli chiese che cosa lo avesse spinto a recitare in quel ruolo e Villaggio rispose così: “È un marchettone e io avevo bisogno di quattrini”. Un gigante».
A proposito di sincerità, con il format dei «Cugini merda» lei e Bizzarri ne avete dette di ogni a tutti.
«Uh, a Maria De Filippi, per dire, che si sganasciava dalle risate quando la prendevamo in giro per il suo legame con Costanzo. O a Ilona Staller, che fu spiritosissima. Ma quando andammo a casa di Rocco Siffredi fu l’apoteosi».
Racconti, racconti.
«Intanto ci ricevette nella sua casa romana piena di gigantografie. Di lui con la famiglia, certo, ma anche di lui al lavoro. E ho detto tutto. Bene, quando finimmo l’intervista ce ne andammo ma lui ci rincorse per le scale: “Aspettate, non vi ho dato il mio ultimo film”. Ora, lei può immaginare com’era la copertina dell’ultimo dvd del film di Siffredi. Provammo a dire: “Ma no, grazie, lo compreremo, vogliamo sostenere il cinema italiano”. Niente. Io misi il dvd in valigia e pensavo fosse finita lì. In aeroporto, però, la polizia chiese di ispezionare il mio bagaglio. Quando cominciai a farfugliare cose tipo “è per lavoro, è per una intervista”, i poliziotti scossero la testa con indulgenza: “Dicono tutti così”».
E poi avete fatto Sanremo con Gianni Morandi.
«Ma lei l’ha visto mai Morandi che fa l’imitazione di Mogol?»
Un uomo, una leggenda.
«Di più. Ora, lei deve sapere che Morandi racconta sempre di quel periodo in cui ebbe un calo di popolarità dovuto all’ascesa dei cantautori e al declino dei cantanti. Poi, come sappiamo, si riprese alla grande e la sua fama non si è più fermata. Però quella esperienza di blackout lo ha talmente segnato che oggi lui non dice mai no alla richiesta di un autografo. Tanto è vero che una volta dal benzinaio scese dalla macchina per farsi fare una foto con un fan e quando lo avvisarono che qualcuno gli stava portando via l’auto lui non fece un plissé».
Grandissimo.
«Una delle persone più intelligenti, talentuose e amabili che abbiamo. La sera della prima di Sanremo lui alle sette e mezza non si trovava. Non sapevamo dove fosse, lo cercammo ovunque, poi scoprimmo che era tra la folla a firmare autografi e a farsi le foto col pubblico».
In quella edizione c’erano anche Belén Rodríguez e Elisabetta Canalis.
«Gareggiavano a chi arrivava più in ritardo».
Che iena.
«Ma no, sono bravissime».
Momento verità: non è che Le Iene hanno un po’ esagerato con quel metodo da Inquisizione televisiva?
«Allora, questa la voglio dire bene. Il punto è che quando un format funziona non puoi cambiarlo. Ma non ogni situazione si adatta a quella “scatola”. Ci sono casi che valgono un’ora di servizio e casi che non reggono quel format. Allora, sì, forse hanno esagerato, ma nel ripetersi».
Che iena improvvisamente mansueta.
«Ma è vero, dai. La televisione non è una cosa facile. Per dire, uno vede una puntata di Camera Cafè e pensa che dire due battute in piedi sia una sciocchezza. Ma noi arrivavamo a girare fino a cinque episodi in un giorno e non c’era montaggio. Anche le guest star come Gassman e Haber sbarellarono, perché non si aspettavano una formula così teatrale. Era complicato pure per noi, tanto è vero che scrivevamo il copione su dei fogli che poi appendevamo nella macchinetta del caffè, il cuore di tutta la sit-com».
Come guest star avete avuto grandi nomi.
«Violante Placido non venne presa al provino e ci tenne il muso per anni. Scherzando, ovviamente. Ma era un set molto duro. C’era il capoprogetto, Christophe Sanchez che andava in giro con una mazza da baseball. Avviso per quelli dei social: era per scherzare, non l’ha mai usata su nessuno, tranquilli, nessuno si è fatto male».
Oggi bisogna spiegare tutto.
«Non si sa mai».
Come ha conosciuto sua moglie, Sabrina Donadel?
«Era amica di Tamara Donà che a sua volta era amica di Luca. Mi feci dare il suo numero e la chiamai per invitarla a cena. Mi disse di no. Poi mi chiamò lei, per invitarmi a una festa a casa sua. Risposi: “Non ho tempo, sono molto impegnato, grazie”. Infine accadde che venimmo invitati tutti e due a una cena alla quale decidemmo di andare all’ultimo minuto. E insomma, siamo sposati e la nostra Lunita ha 19 anni».
È vero che lei è diventato vegetariano seguendo l’esempio di Sabrina?
«Sì, l’idea è partita da lei e io l’ho seguita. Abbiamo passato quindici anni da vegetariani integralisti, poi abbiamo allentato un po’ il rigore e oggi un po’ di pesce lo mangiamo».
E infine c’è la bicicletta.
«Abbiamo organizzato una biciclettata di 24 ore con grandi campioni e personaggi dello spettacolo per raccogliere i fondi destinati all’ospedale Gaslini di Genova. Trentamila euro».
Ma che iena buona.
«La stagione televisiva non è ancora ricominciata».
Marco Giusti per Dagospia il 29 novembre 2022.
Da tempo, veramente da mesi, Luca Guadagnino voleva dare a Dagospia e a me un'intervista esclusiva. Legata al suo ultimo film, "Bones and All", ormai uscito in sala, ma non solo.
Perché per Luca il suo cinema non è mai solo quello che è in sala, ma è sia quello, certo, sia il prossimo che ha già finito, "Challengers" con Zendaya, che vedremo probabilmente a Venezia, sia il nuovissimo e segretissimo che deve girare a marzo, sia il sequel di "Call Me by Your Name" che prima o poi farà, sia la serie che ha scritto tratta da "Brideshead Revisited" di Evelyn Waugh.
Come sono i tanti film che sta producendo, l'opera seconda di Pietro Castellitto, quella di Edoardo Gabbriellini, il secondo film della georgiana Dea Kulumbegashvili, che ha scoperto da giurato al Festival di San Sebastian per il suo "Dasatskisi", che considera un capolavoro e che ha premiato con ben tre premi, sia un documentario animato segretissimo che sta realizzando un collettivo di ragazze, Muta.
Sia tutti i film che vede e rivede. Attentissimo. Perché ogni volta che parlo di cinema con Luca, trovo le sue osservazioni più da critico, da studioso, che da regista. E lui ricorda perfettamente le inquadrature, il montaggio, le luci di quel che vede. E è vero che non gli piace quasi niente, ma è vero pure che gli piacciono moltissimi film che lo hanno formato e che riscopre.
E non è mai prevenuto rispetto a un film. I registi, spesso e volentieri, parlano solo di sé. Si sa. Per Luca è impossibile anche parlare di sé senza parlare di quello che ha visto e di quello che ama. Come lo è sempre stato per tutta una sciagurata generazione di critici che ha pensato di vivere col cinema. Credo che sia per questo che ogni dialogo con Luca finisce poi per toccare, fluidamente, il cinema e i film che amiamo.
Un confronto quasi giovanile (anche se...) come si faceva un tempo. Che continua anche tutta una giornata. Quello che leggete sotto è la sbobinatura dell'intervista che ho fatto sabato scorso a Luca Guadagnino nella sua giornata romana, che è poi proseguita con presentazioni nei cinema dove si proiettava il suo film. Un lavoro, ma anche un gran divertimento, perché non ho ben capito dove iniziasse e finisse l'intervista.
Luca, perché fai cinema?
Ah che domandona! Perché mi piace, potrei dire perché non saprei fare altro ma non è vero, so fare parecchie cose. Potrei dire perché è la mia vita ma è una risposta un po’ banale. Perché mi viene bene potrebbe essere un po’ arrogante, perché mi piace farlo con le persone con cui mi piace farlo forse è la più giusta delle risposte.
Per quanto faticoso, scomodo, fare cinema corrisponde al mio sentimento della compagnia, al mio sentimento dello sperimentare le cose. Vedere la cosa che diventa piano piano un oggetto finito come un film, che però è immateriale, mi affascina molto. Le mie pellicole le vedo solo quando vengono presentate la prima volta al pubblico, poi non le vedo più.”
Provi piacere a vedere i film?
“I film degli altri moltissimo, i vecchi film più che altro. Non riesco a provare nel cinema contemporaneo un piacere come quello che provo rivedendo certi film. Mi accuserai di “trombonismo” ma ho rivisto “Narciso nero”, incredibile. Poi ho rivisto “Donne in amore”, capolavoro assoluto, straordinario.”
“Donne in amore” non piace a tutti.
Questo è snobismo, il film è un capolavoro. C’è una scena in cui Alan Bates e Oliver Reeds si parlano. C’è un’inquadratura in cui fa campo e controcampo con tre specchi e man mano frattura queste identità sempre di più.
Il terzo film che non avevo mai visto è uno di Claude Chabrol che si chiama “Betty”, è salito da zero alla top ten dei film preferiti. L’ho scoperto quest’estate e l’ho continuato a vedere durante tutto l’autunno. Non ho ancora capito come l’ha fatto.”
Quando vedo “Bones and All” perché mi piace?
“Non lo so, non deve piacere. Forse ti identifichi nella ragazzina cannabile. Non ti vedi condannato come Timothée Chalamet, te magni Timothée.”
Il lato romantico da cosa viene?
“So che nella sceneggiatura che avevo letto c’era molto meno romanticismo, è stato una cosa che ho chiesto allo sceneggiatore di portare fuori con più vigore. Il romanticismo è un sentimento di mancanza, ti manca una cosa, ti batte il cuore. Il pieno e il vuoto nel cinema funziona sempre. Il romanticismo corrisponde a questa necessita di pieno e di vuoto, di mancanza e di soddisfazione. È un’utopia.”
C’è un’alchimia tra i due protagonisti Taylor Russell e Timothée Chalamet
“Una cosa di cui sono soddisfatto è che quando metto insieme un gruppo di attori, anche in “We Are Who We Are”. Sono un bravo padrone di casa, riesco a fare in modo che le persone si sentano a loro agio. Si crea una bella dinamica di compagnia. Il risultato è che gli attori si comportano come una compagnia teatrale affiatata da cicli di repliche per tanti anni. Questa è una cosa bellissima.”
Ti capita sempre questo?
“Da un po’ di tempo sì, sono fortunato.”
È merito tuo?
“Sicuramente ha a che fare con il fatto che io conquisto la fiducia degli attori. Gli attori sono bestie strane, sono persone che hanno una necessità tremenda di essere guardati, sono un po’ traditori, un po’ puttane. Hanno bisogno di essere visti da tutti i loro registi, da tutto il loro pubblico. I miei attori sono sempre stati molto generosi e fedeli. Non so se sia un merito mio.”
È anche forse il fatto che tu fai film tuoi, che tu sia un produttore?
“Alcuni sono film su commissione, “Call me by your name” non volevo farlo e alla fine ho deciso di farlo per fare un regalo a un mio amico Peter Spears che aveva opzionato il libro e poi per tanti anni non riusciva a farlo, l’unico modo era che lo facessi io. Questo film, “Bones and All” è un film che mi è stato proposto dallo sceneggiatore però nel momento in cui io decido di fare un film non ce n’è per nessuno. Diventa mio al 100%.”
Perché?
“Io non credo che sia autore avendo scritto la sceneggiatura, è un equivoco.”
Quando si diventa autori?
“Si è autori quando si sviluppano una sorta di ‘segni’ che tornano e ritornano. Penso a “Betty”, Chabrol è un grande regista della borghesia. È anche un grande autore, forse uno dei più grandi.”
Diventi autore con la messa in scena?
“Sono convintissimo di questo. Alfred Hitchcock, Howard Hawks o John Ford cosa sarebbero? Sono maestri che non hanno scritto neanche un film il cui linguaggio è inconfondibile e senza di loro il film non sarebbe lo stesso.”
Non scrivi mai?
“No. Ho scritto una serie televisiva dal romanzo di Evelyn Waugh “Ritorno a Brideshead” che però non si è fatta. Era un’occasione”
Come va, nella nuova Hollywood, con tutte queste regole sull’inclusione?
“Io non ho problemi, quando sono uscite le regole dell’inclusione e ho visto i parametri: bisogna avere una quota di donne, una quota di LGBTQ+, una quota di diversità etnica, e tutte queste cose qua mi sono un po’ stupito.
Queste regole sono state scritte per partecipare alla gara degli Oscar. Uno può decidere di fare un film e non essere candidato agli Oscar ma ciò che mi aveva sorpreso è che tutto il mio lavoro, da quando avevo 18 anni, è stato fatto senza voler rispettare delle regole, il mio è un cinema contaminato da tutte queste individualità che esprimono una forma di diversità.”
Ce l’avevi già?
“Ci sono i brasiliani, i thailandesi, gli omossessuali incluso me stesso, ci sono gli eterosessuali.”
Sei anche africano.
“Sono anche africano perché mia madre è algerina. Non lo capisco. Ho sempre vissuto nella misura in cui il mondo era plurimo. Il problema è che forse in America, forse nell’industria hollywoodiana in effetti non era così.”
Riesci a sopravvivere ad Hollywood?
“Io vivo a Milano. Non ho mai vissuto a Los Angeles, vado in albergo. Non ci vivrei mai, non è la quotidianità che mi corrisponde. Però è un’industria importante, così piena di opportunità. È molto intelligente con tutte le sue ottusità. Produce ancora oggi prototipi.”
Quanti premi ha vinto “Bones and All”?
“Credo due, il Leone d’argento per la regia e il premio Mastroianni per Taylor Russell. Abbiamo avuto due candidature ai “Gotham”, tre agli “Spirits awards” e alcune nomination per le musiche.”
Quante cose devi fare l’anno prossimo?
“Challengers” è un film che ho quasi finito. Ho ascoltato la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross che hanno quasi completato. Tra pochissimo comincia il mix qui a Roma. È straordinaria. Ho chiesto musica elettronica. Quando vedrai il film sembra stare dentro un rave.”
Pensi che aver visto troppi film in streaming ci abbia cambiato come gusto?
“Thomas Rothman, il capo della Sony, dice che lo streaming è quello che era un tempo lo ‘straigth to video’, cioè quei film che non passavano dalla sala. Da chi faceva cinema erano considerati da serie B. La sua è una provocazione, un grosso snobismo, la Sony è l’unica casa di produzione che non ha fatto nessuna uscita in sala in contemporanea con lo streaming. La Warner Bros. ha fatto uscire nello stesso giorno in sala e su “HBO Max” ed è stato visto con un vulnus incredibile da parte dell’industria e da parte di molti autori.
Ci fu una presa di posizione di Spielberg. Rothman dice di essere nel business del cinema dei film che escono in sala e quando sono entrati in sala hanno una percezione che dopo fa vivere queste pellicole con un’eredità della loro identità che sviluppa in un modo diverso rispetto allo streaming. Come dargli torto. Ci sono dei canali streaming che producono una quantità enorme di film che, se ti dico dieci titoli, non te ne ricordi neanche uno.
La validazione di un film che esce in sala è un’altra cosa. Chi fa cinema e chi lo distribuisce se n’è accorto. Perché funzioni sullo streaming deve essere uscito in sala. Se no è come non esistesse. Siamo stati disabituati? Un po’ di problemi il Covid li ha creati. Un timore, una sorta di schizzinosità all’idea di alzarsi e uscire da casa. D’altro canto la serialità streaming non può essere paragonata al cinema.
Uno dei punti in cui ero in polemica silenziosa con il maestro Bernardo Bertolucci era che lui adorava le serie. Una volta vedemmo insieme un episodio di “Mad Men”, lui ne andava pazzo, io la trovavo molto povera. La sceneggiatura era più patinata, grazie al denaro, a quelle prodotte dalla Rai. Bernardo però aveva ragione su una cosa su cui gli avevo dato torto.”
Cioè?
“Lui era pazzo di ‘Happy Together’ di Wong Kar-wai e io quel film quando lo vidi rimasi un po’ così: tutto stile niente sostanza. Sono stato a Buenos Aires e casualmente sono finito nel set dove finisce il film, nelle cascate dell'Iguazú e ho vissuto quel mondo argentino dal punto di vista di Wong Kar-wai. Ho capito che era un film straordinario. Aveva ragione.”
A volte uno sbaglia.
“Bisogna riconoscere i propri errori.”
· Luca Imprudente detto Luchè.
Paolo Giordano per “il Giornale” il 13 aprile 2022.
Imprudente di (cog)nome e di fatto. In cima alla classifica dei fischi più venduti della settimana c'è Dove volano le aquile, il disco di Luca Imprudente detto Luchè, napoletano di Marianella, classe 1981, che tra i punti di riferimento del rap italiano è quello rimasto troppo dietro le quinte.
«Non mi sento apprezzato per tutto ciò che ho fatto in questi anni». In effetti. Fondatore dei seminali Co' Sang, sciolti nel 2012, Luchè ha realizzato dischi da solista, ha collaborato con il fior fiore dell'hip hop, da Emis Killa a Clementino a Guè senza ottenere quel riconoscimento popolare che, diciamola tutta, si merita. «Forse perché io non ho mai ceduto alle tentazioni del pop e sono rimasto legato alla musica con la quale sono cresciuto», dice ora.
Perciò ha preparato un album kolossal anticipato da tre monologhi che riassumono il suo pensiero e che sono stati letti da Marco D'Amore, Belén Rodriguez e Alessandro Siani. Un piccolo prologo rispetto a 16 brani nei quali i suoni sono decisamente originali e all'avanguardia e i feat. attraversano l'orizzonte della musica leggera, da Madame a Elisa passando per Marracash, Noyz Narcos e Guè. Oltretutto, Luchè sarà in tour dal 19 novembre (al Forum di Assago il 21).
«Dopo solo un dissing con Salmo, su Instagram mi sono arrivati oltre duecentomila follower in più. Chissà che cosa sarebbe successo in passato se si fosse parlato più di me e della mia musica?». In effetti è la domanda delle domande: quanto conta la popolarità nell'affermazione di un talento? Molti si sono già dati una risposta: «Ma li ho visti diventare uguali a quelli che criticavano a inizio carriera».
Per fortuna Luchè no. E il suo disco Dove volano le aquile segue in effetti una rotta molto alta ma sempre assai riconoscibile perché originali si resta anche quando si inizia a giocare un altro campionato.
· Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.
Renato Franco per “Oggi” il 28 novembre 2022.
«Quando si tradisce il maschio è passionale, la donna è zoccola». Potrebbe essere questo il manifesto della comicità di Checco Zalone, quindi se vi inorridisce non leggete questo pezzo ed evitate il suo nuovo spettacolo... Ma la sua forza è proprio qui, nella satira politicamente scorretta, nell’ironia che ti fa vergognare di ridere: doppi sensi e volgarità, maschilismo e razzismo sono le leve per mettere in scena i suoi paradossi perché Checco Zalone mostra le contraddizioni della società contemporanea, abbatte i luoghi comuni cavalcandoli, si traveste da alfiere del conservatorismo ma è il cavallo di Troia per mettere a nudo il perbenismo di facciata in cui siamo immersi.
Prodotto da Arcobaleno Tre e MZL, il suo Amore + Iva sarà in tour per un anno (100 mila biglietti già venduti solo su TicketOne, sold out le date di Bologna, Torino, Milano, Roma e Napoli); l’impianto è quello consolidato: un intreccio di personaggi e canzoni che si inseriscono in un quadro di lezioni d’amore (a cui rimanda il titolo dello show) divise per capitoli come se fosse un professore che spiega davanti alla lavagna.
Il numero più volgare, e dunque migliore, è quando si mette il frac del maestro Muti («detesto i superlativi, chiamatemi genio: va benissimo»), direttore d’orchestra che si trova un po’ spaesato in un’atmosfera teatrale così pop, lui che è abituato a vedere donne in cincillà e visone. E la forza del personaggio è proprio in questo scontro tra alto e basso, tra musica classica e epopea trash. Così la favola di Pierino e il lupo diventa Pierino e la supplente di Alvaro Vitali, i notturni di Chopin vengono declinati per mano destra, oppure sinistra, «ma ora vi parlerò di Segovia...». C’è un accenno d’opera e il maestro è contrariato: «Che cazzo dicono queste invasate sul palco? Orietta Berti si capisce, Iva Zanicchi si capisce, Madame si capisce… All’opera non si capisce mai niente. Vabbè mi pagano un botto, dite quel cazzo che vi pare».
Altro pezzo forte è il Vasco Rossi salutista, «ex drugs and rock ‘n’ roll». In vestaglia, quasi dimesso, ora lui ha altri valori, tipo quello dell’emoglobina a cui badare, perché ormai è ossessionato dalle analisi del sangue («ti ricordi che belle canzoni scrivevi quando ti drogavi?»). Quindi immaginate la soddisfazione quando trova nel deep web le analisi di Ligabue e scopre che sono peggio delle sue. Ora basta, si cura con le erbe, altro che marijuana, lui è tipo da passiflora. Imperdibili anche le sue lezioni d’amore come quando il prof. Zalone immagina
L’adozione di una famiglia arcobaleno in un orfanotrofio di Predappio: «Per il progressista la coppia gay resta gay e il bambino resta etero, non è contagioso», ma il piccolo Italo («sono un bambino, sono cristiano, voglio una famiglia tradizionale!») chiede una famiglia «a posto, quella in cui il marito lavora e la sera va a zoccole, mentre la moglie sta a casa». Le scarta tutte e solo alla fine si convince a incontrare una coppia arcobaleno in crisi, perché a uno piace vivere nella villa di Los Angeles e l’altro preferisce Saint-Moritz; uno sceglie l’aereo, l’altro lo yacht. «Vero Dolce?», «Sì Gabbana». Quando gli promettono l’ultimo modello di smartphone il bambino non ha più dubbi. Meglio ricco e arcobaleno che povero e tradizionale.
Cambia il contesto ma il finale fa sempre riflettere nello sketch in cui c’è la signora bene borghese che vuole adottare una donna ucraina, peccato che siano andate a ruba e sono rimaste solo le siriane «che però si intonano male con il parquet scuro». Finalmente ne salta fuori una che fa al caso suo: «Ma non si può chiamare Maria, a Bari fa poco profugo» finché non viene il momento di sbarazzarsene, «perché non vedo più l’orrore della guerra nei tuoi occhi». Insomma anche la solidarietà ha una data di scadenza.
Feroce anche il Putin che spiega a modo suo il motivo della guerra in Ucraina, le dimensioni (ridotte) del pene: «Da qui nasce la mia grande amicizia con il popolo cinese. Non avete idea la vergogna a calcetto, mai urinato in Autogrill. Quando ho scoperto che in Ucraina c’era un chirurgo che fa l’allungamento del pene ho detto a un mio generale: “Bisogna fare un’operazione speciale”. Mi sa che non ha capito».
Accompagnato da quattro musicisti e due performer (bravissime, Alice Grasso e Felicity), lo spettacolo è anche intessuto di canzoni. Il tempo delle mele non può che essere «il tempo delle Meloni», «Vincenzina davanti alla fabbrica» di Jannacci viene trasformata in «Vincenzina davanti allo smartphone» adattata all’influencer che «si può guadagnare la pagnotta solo se fa la mignotta», L’arteriosclerosi è un duetto tra Mina e Celentano in cui si rinnovano ogni giorno il loro amore perché non si riconoscono. E poi i classici: Angela, Uomini sessuali e Samba Del Culu Piatto che parla di una ragazza nera senza culo e di cui Checco Zalone va molto orgoglioso: «In una sola canzone sono riuscito a fare blackface, catcalling e body shaming».
Borghesia più Iva. Checco Zalone ha capito che gli italiani si conquistano con le battute a prova di scemo. Guia Soncini su L’Inkiesta l’11 Novembre 2022.
Il personaggio di Luca Medici potrebbe aver rieducato questo paese. Nel suo nuovo spettacolo “Amore+Iva”, così come in tutta la sua carriera, mette gli spettatori davanti allo specchio della realtà e li costringe a pensare «ma forse posso provare a fare un po’ meno schifo»
E se Luca Medici avesse rieducato gli italiani? Se Checco Zalone avesse fatto quel che non era riuscito al Fantozzi di Villaggio o al Lorenzo di Guzzanti: farli guardare allo specchio e, invece di dire «non mi somiglia per niente», pensare «ma forse posso provare a fare un po’ meno schifo»?
Ci penso quando, a Firenze, “Amore+Iva” viene preceduto da una gentile signorina che dagli altoparlanti dice che è vietato filmare e fotografare. Penso: figurati, senza il servizio di sequestro dei cellulari di cui si servono Chris Rock o Dave Chappelle. Penso: figurati, con la disciplina degli italiani.
Poi lo spettacolo comincia, con un filmato di Zalone truccato da Putin, che dice che se qualcuno fa foto sgancerà l’atomica sull’Italia, e va avanti per due ore di personaggi e canzoni e piccoli capolavori e lungaggini e pubblico che non sa le parole di “Poco Ricco” (voi Ragady non ve lo meritate), e nessuno mai fa una foto col telefono. Se leggete quest’articolo dal futuro – un futuro in cui l’umanità si sia redenta – sappiate che, nel 2022, dire che eravamo stati due ore senza fare foto è come dire che eravamo stati due ore senza respirare.
Tutta la platea ubbidisce a un precetto senza bisogno di costrizioni o minacce (a meno che non abbiano creduto a quella dell’atomica), e io penso che forse volevamo quello: una disciplina che ci facesse ridere. O forse il vero miracolo italiano è un tizio della remota provincia pugliese che, invece di andare dai suoi difettosi connazionali e dir loro ma-non-si-vergogna, ha preso delle schegge di specchio e le ha disposte in una foggia che non permettesse più loro di pensare quel che avevano pensato con Fantozzi: non parla di me, parla del mio vicino di posto.
Checco Zalone parla di te che lo guardi, e ne parla indifferentemente dicendotelo, che quello lì sei tu, o fingendo che io sia un altro. «Bisognerà spiegare questo titolo, perché spesso ci sono dentisti in sala. Allora, cos’è l’Iva, cari dentisti. Imparate questa parola: fattura». Parla di te e ogni tanto finge anche di somigliarti: «Il credito Iva: la più bella sensazione che possa capitare a un uomo di mezz’età dopo la pugnetta». Ti dice: faccio schifo come te, e tu fai schifo come me pure se tu hai i ticket restaurant e io sono un giullare multimilionario.
«Vedo facce da aliquota al 20, gente che beve prosecco, che si smezza l’account di Netflix»: Ragady è la contessa della “Pazza gioia” di Virzì, è un «siete brutti, siete poveri» che non è più battuta d’aristocratica mitomane ma di rapper brianzolo, uno così concentrato su di sé che non si accorge che c’è la pandemia, per lui il 9 marzo 2020 è il giorno in cui gli si è rotto lo schermo dell’iPhone. Se non sei il rapper, sei quello che di solito gli porta la pizza, «il solito bangladino o il solito laureato calabrese».
O magari sei la militante che s’indignerà. Per l’orfano fascista che vuole sì una famiglia tradizionale, ma mica povera come la coppia di aspiranti genitori molisani: lui è contadino; lei, a «Che lavoro fai?», risponde che mica lavora, sta a casa: «Da noi ci sta lu sessism’, è bell’».
Per gli LGBTQ, «quella comunità che puoi avere tutte le identità che vuoi con un solo account». Per tutti i concetti di fantasia che con maledetto automatismo catalogo mentre guardo, prevedendo scandali da tre quarti d’ora: Bocelli è abilismo, Riccardo Muti è sessismo, la fiaba calabrese è transfobia, Gilda di Bari è razzismo – potrei andare avanti per venti righe, ma insomma avete capito.
Gilda di Bari la conosciamo tutti. È la signora della cerchia dei bastioni coi fiori nel cestino della bici. È l’intellettuale che twitta di non dormire scossa dal pensiero dei profughi. È l’organizzatrice di raccolte di beneficenza tutta giuste cause e colori spenti. Gilda di Bari vuole adottare un profugo ucraino, ma sono finiti. «Vuoi una famiglia di profughi siriani?», «C’ho il parquet scuro, non staccano». Gilda di Bari siamo noi, che ci specchiamo e vorremmo dire «Non mi somiglia per niente», ma non possiamo perché, piangendo, ci viene da ridere: ballo anch’io se balli tu.
E se gli italiani non ci fosse più speranza di rieducarli? Ci penso ossessivamente da mesi, mi chiedo se siamo più ignoranti del nonno di Antonio Pascale che rischiava di venire fucilato dai suoi stessi generali perché, durante la prima guerra mondiale, non capiva gli ordini: parlava solo dialetto. Di sicuro siamo più velleitari, ci sentiamo colti perché sappiamo che non si dice «a me mi». Ma siamo sempre quella roba che diceva Orson Welles a Pasolini: la borghesia più ignorante d’Europa.
E improvvisamente a Firenze mi ricordo il giorno esatto in cui ho cominciato a rifletterci. Un sabato di fine luglio, quando sulla spiaggia di Barletta c’era Luca Medici ospite di Lorenzo Cherubini, e facevano insieme un paio di canzoni, e io protestavo – con loro e poi con voi – perché non avevano cantato Poco Ricco; ma era perché come al solito mancavo il punto. Il punto era la reazione della folla ad Angela.
Angela viene dal primo film di Checco Zalone, ed è un brano melodico. Il fatto che sia melodica basta, alla platea, a trattarla come una canzone d’amore. Non c’era nessuna differenza tra il modo in cui il pubblico pugliese si dondolava su “Angela” e quello in cui si sarebbe, tre ore dopo, commosso su “A te”. D’altra parte, se abbiamo preso per canzone d’amore una che diceva «Ti proteggerò dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai», possiamo equivocarne anche una che dica «faccio la pipì, faccio la pupù, ma con la mia mente sto costantemente ad Angela».
Luca Medici lo sa, sa quant’è lordo e netto il nostro non capire niente di niente, sa che la nostra ottusità è un grande indifferenziato in cui “La vacinada” può venire presa per sessista e “Angela” per romantica; e quindi, quando canta “Gli uomini sessuali” e arriva al punto «quanta gente che vi attacca solo perché non vi piace la patacca», aggiunge: Baglioni, sei finito.
Un’ora prima, in uno dei pezzi migliori dello spettacolo, ha fatto Riccardo Muti. Ci sarebbe da fare un discorso sull’epoca dei sosia, su come non abbiano più senso imitazioni che ci facciano dire «uh, come gli somiglia» in anni in cui tutte le serie tv sono storie vere interpretate da sosia del Bagaglino (che però si danno un tono, imperdonabilità che il Bagaglino vero non commetteva). E su come quindi vada benissimo Riccardo Muti – uno che nessuno in platea sa come parli e quasi neanche che lavoro faccia – perché quello che stai facendo non è un “The Crown” dei direttori d’orchestra: è inventare un personaggio.
A un certo punto il Riccardo Muti dell’invenzione zaloniana dice «Molfetta, città a cui ho dato i natali», e in platea rido quasi solo io. Conosco l’obiezione: a un certo punto, quando scrivo di qualche consumo culturale, c’è sempre un momento in cui dico al pubblico «sì, ma tanto voialtri questo film, questo libro, questo disco non lo capite», sono insopportabile. Però il silenzio che accoglie quella battuta è inequivocabile: in una platea d’una città non particolarmente arretrata, nella nazione con la borghesia più ignorante d’Europa, nessuno capisce cosa ci sia da ridere se sei tu a dare i natali alla città che ha l’onore d’essere il tuo luogo di nascita.
Checco Zalone arriva quasi cinquant’anni dopo Elide Catenacci, il personaggio di “C’eravamo tanto amati” che diceva «Non pozzo magna’ idrocarburi». Oggi rideremmo, o siamo così abituati a un lessico sciatto e approssimativo che non ci rendiamo conto che si chiamano «carboidrati», non ci rendiamo conto che dovremmo ridere della sua ignoranza? Oggi quella battuta lì dovrebbero didascalizzarcela; e infatti, quando il manager di Ragady gli dice «sei cresciuto nell’opulenza», Checco Zalone risponde: Brianza, si chiama Brianza. Oggi, se vuoi essere un comico poco ricco, le battute sofisticate devi costruirle a prova di scemo. Luca Medici lo sa e, piangendo, gli viene da ridere.
Paola Italiano per “la Stampa” l’8 novembre 2022.
«Nel mio show si parla di integrazione, adozione, diritti civili. Mi aspetto polemiche». Sarà serio? «E che se non c'è manco una polemica poi chi viene a vederlo?». Sollievo. Checco Zalone è ancora Checco, anche 11 anni dopo l'ultimo tour teatrale.
Da stasera a Firenze girerà l'Italia con "Amore + Iva", preceduta da tre date zero a Senigallia dove il sollievo è stato tutto suo per l'entusiasmo con cui è stato accolto: perché Checco è ancora Checco, ma i tempi sono cambiati dai suoi esordi, quando l'Italia gli concesse la deroga di poter scherzare - lui soltanto - su tutto quello che vuole. Oggi però una battuta cattiva o infelice può scatenare uno shitstorm da seppellire una carriera. O una battuta non capita, presa letteralmente: l'ironia è la vittima più ricorrente dell'analfabetismo funzionale da social. Checco era arrivato a un passo dal patibolo per "Tolo Tolo", ultimo successo al cinema in cui usava gli stereotipi sul razzismo per ridicolizzarlo, ma a qualcuno è stato necessario spiegarlo due volte.
Checco, ora torna a parlare di migranti. Come?
«L'idea è scattata quando una signora che voleva adottare una famiglia ucraina era disperata perché erano finite. Mi ha detto: "Aiutami, sono rimaste solo le siriane". Volevo parlare dell'ipocrisia un po' borghese che ci ha pervasi».
Parlerà di Putin?
«Lo imiterò. Credo di essere il primo. Un Putin inedito che potrebbe far scaturire polemiche, perché è buono».
Buono?
«Si redime, diciamo».
Non lo vorrà mica rendere simpatico?
«No, calmi tutti. Non buono: che fa riflettere. C'è una citazione chapliniana. Ma nessuna assoluzione».
E in che lingua lo fa parlare?
«In bitontino. Una grammelot di accenti della provincia di Bari che ricordano il russo».
Parlerà di sbarchi?
«Sì, e tiro fuori addirittura Gregor Mendel, il padre della genetica. Anche se quando lo cito nessuno sa di chi parlo».
Diritti civili: cosa dobbiamo aspettarci?
«Racconto la storia di un'adozione da parte di una famiglia arcobaleno in un orfanotrofio di Predappio. Come finirà con il bambino di Predappio? Accetterà il padre?».
Questo governo renderà più facile o più difficile il suo lavoro?
«Più interessante. Quando c'era Berlusconi in auge ha dato da mangiare a sfilze di comici. Mi aspetto tanto».
Qualcosa l'ha già colpita del governo Meloni?
«Non ho visto la tv. Giuro, non è un modo di sottrarmi a una domanda scomoda. Forse mi ha colpito, positivamente, la capacità di comunicazione».
Migranti, diritti. E la questione femminile?
«C'è una parte dello show in cui mi concedo un sano maschilismo, perché abbiamo al governo una donna e il pubblico apprezza tantissimo il sessismo».
Rispetto all'ultimo tour teatrale del 2011 cosa è cambiato?
«Oggi è molto più difficile trovare prede. I personaggi che si danno ai social, che si rendono reperibili, risultano molto meno interessanti. Nel 2011 l'apice dello spettacolo era l'imitazione di Saviano: ma allora era davvero irriverente prenderlo per il culo. Oggi chi puoi prendere in giro senza risultare banale, scontato?».
Le è capitato di scrivere battute che poi ha preferito togliere?
«Sì. C'è un pezzo che abbiamo cambiato. Era una parte molto ardita, l'ho vista in prova e non me la sono sentita di farla, anche per una mia incolumità fisica. Un personaggio di nome deejay Kalashnikov, che parla come parlava quello di Superclassifica Show. Faceva tanto ridere, ma io ho anche famiglia. Però non temo la critica, la polemica, i messaggi sui social: io non ci sono manco, sui social. Anzi, ho capito che questo rende interessante l'oggetto di cui si discute».
Non si è mai pentito di una parodia?
«Quella di Michele Misseri tanti anni fa. Era eccessiva. Dopo ho imparato a limitarmi, a trovare una linea di confine tra ciò che è simpatico e ciò che è inopportuno».
Non ha scelto una strada facile parodiando nello show una canzone tristissima di Enzo Jannacci come "Vincenzina davanti alla fabbrica".
«Ho pensato alle Vincenzine di oggi, che sono le influencer e ho scritto "Vincenzina e lo smartphone". Ma ho scritto anche una canzone per Celentano e Mina, non so perché non l'hanno voluta».
Titolo?
«"L'arteriosclerosi". È la storia di due persone di 80 anni che rinnovano ogni giorno il loro amore perché non si riconoscono. Io l'ho trovata romanticissima».
Ma lei che musica ascolta?
«Il giaaaaas (lo pronuncia così, ndr). E il cantautorato, anche i nuovi, come Mahmood: faccio anche Vasco che interpreta una canzone di Mahmood su armonia degli Angeli. E mi piace tanto Bollani, vorrei essere lui e suonare come lui».
Anche lei però se la cavicchia come musicista.
«Ho passato tutta la pandemia a suonare il pianoforte. Il mio amico Francesco De Gregori, che mi invita spesso a casa sua, dice che dovevo fare il pianista e non quelle cagate che faccio. E siccome è De Gregori glielo lascio dire».
I giovani apprezzano?
«Ho un nuovo personaggio che funziona con i ragazzi, ma hanno riso tantissimo anche sulla parodia del Maestro Muti, pur non conoscendolo».
Sarà in tour per un anno, e c'è tanta attualità nello show, non teme questi tempi mutevoli?
«Non ho un piano B, quindi lunga vita a tutti quelli che prendo per il culo».
Perché Amore+Iva?
«John Lennon scrisse che l'amore che dai è uguale all'amore che prendi: è lo schema dell'Iva, questa la mia intuizione drammaturgica».
Quindi nessun problema con Equitalia?
«Tutto benissimo. I conti con il fisco li ho sistemati con i soldi guadagnati agli esordi».
È molto ricco?
«L'unico bene di lusso che ho è un pianoforte Fazioli. Mi hanno detto che lo abbiamo solo io e Pippo Baudo. E con questo show avrei potuto guadagnarci di più».
Cioè?
«Ho scelto i teatri invece dei palazzetti, è stata una volontà che Lucio Presta ha rispettato: volevo stare più vicino al pubblico, nei palazzetti gli spettatori ti vedono su uno schermo».
E la crisi del cinema? Moretti parla di tanti film brutti, lei come la vede?
«Si sono moltiplicati i contenitori, ma forse i contenuti non sono all'altezza. C'è troppa roba. Io vedo mia madre, donna analogica di 70 anni, che va su Prime, Netflix Ma sono cazzi loro, io adesso mi occupo di teatro».
Accuse di plagio contro Checco Zalone. Erika Pomella il 27 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Sole a catinelle è uno dei film più amati con Checco Zalone, ma sulla pellicola è arrivata una pesante accusa di plagio. Sole a catinelle è il film di Gennaro Nunziante con protagonista Checco Zalone che andrà in onda questa sera alle 21.22 su Canale 5. Realizzato con un budget relativamente basso, il film ha avuto un buon successo. Come riporta Coming Soon è stato anche oggetto di un remake spagnolo nel 2018 per mano del regista Dani de la Orden.
Sole a catinelle, la trama
Checco (Checco Zalone) è un meridionale trapiantato al nord che, di punto in bianco, si trova con la vita a pezzi. Dopo aver deciso di abbandonare il lavoro e aver collezionato vari insuccessi come venditore di aspirapolveri, le sue proprietà vengono pignorate mentre si accumulano i debiti a suo nome, al punto che la moglie Daniela (Miriam Dalmazio) decide di lasciarlo e di portare via il figlio Nicolò (Robert Dancs). Daniela, che intanto ha perso il lavoro nella fabbrica in cui lavorava a causa dei giochi dei potenti, accetta però che Nicolò passi l'estate con il padre.
Con l'intento di consolare il figlio e di dimostrargli di non essere un vero e proprio fallito, Checco promette a Nicolò delle vacanze piene di comodità e lussi, ma i due finiscono da una vecchia zia particolarmente tirchia, in Basilicata. L'estate sembra essere un insuccesso, ma poi di punto in bianco sulla strada di Checco e Nicolò arriva la francese Zoé (Aurore Erguy), che rimane colpita da come la schiettezza di Checco faccia bene al figlio, affetto da mutismo selettivo. Così la donna invita l'uomo e Nicolò a passare l'estate nella sua villa lussuosa. E sarà proprio qui che Checco incontrerà l'uomo responsabile del licenziamento di Daniela (Marco Paolini).
Le accuse di plagio contro Checco Zalone
Nonostante oggi sia riconosciuto come uno dei migliori film della produzione che vede Checco Zalone come protagonista, Sole a catinelle è andato incontro anche a dei problemi con la legge per un'accusa di plagio. Come viene raccontato da Cinema Fanpage, nell'aprile del 2015 è stato presentato un espostato alla Procura di Taranto, in cui lo scrittore Alex De Vietro denunciava Sole a catinelle per plagio. Nell'esposto firmato dall'avvocato Fabrizio Lamanna si leggeva che Sole a catinelle "riprenderebbe pedissequamente il nucleo individualizzante di un manoscritto di creazione del De Vietro depositato in data 13 giugno 2012, presso l'ufficio Siae."
La pietra dello scandalo sarebbero tre scene di Sole a catinelle che secondo De Vietro sarebbero uguali a quelle che si trovano nel suo manoscritto. Nello specifico, De Vietro ha indicato le scene in cui il protagonista cerca offerte di lavoro su un giornale, quella in cui viene assunto come venditore porta a porta e, infine, il "contrasto" con i consulenti porta a porta. Stando a quanto si legge sempre su Cinema Fanpage, tra De Vietro e la Taodue - la casa di produzione del film di Zalone - c'era già stato un contenzioso l'anno precedente. Quando le accuse di plagio sono venute a galla Checco Zalone ha usato il suo profilo Facebook per rispondere con ironia alla notizia di un possibile plagio. Come si legge su Il Mattino, il protagonista di Sole a catinelle avrebbe scritto: "Quindi cari sceneggiatori se scrivere una storia in cui il protagonista alla fine muore sappiate che i diritti sono dei sig. Marco, Matteo, Luca e Giovanni", riferendosi agli autori dei Vangeli.
Da repubblica.it il 28 ottobre 2022.
Il ballerino e coreografo Luca Tommassini, collaboratore di Madonna, che ha fatto ballare tanti attori del cinema italiano (da Verdone ad Accorsi), protagonista di diverse stagioni di Amici e X Factor, ha raccontato la sua difficile infanzia con un padre violento alla trasmissione su Rai 1 Oggi è un altro giorno dove era presente anche la mamma Pasqualina.
"Una volta ha colpito mia mamma- ha detto Tommassini raccontando un episodio in cui il padre aveva colpito la mamma - e poi in ospedale mi hanno costretto a mentire e dire che non era stato lui, non siamo mai riusciti a fare le denunce perché avevamo, io e mia mamma, contro tutta la famiglia".
Tommassini aveva 8 o 9 anni quando è successo questo. "Mia mamma è la mia guerriera, mi ha insegnato a non abbassare mai la testa". Il rapporto con la mamma è stato fondamentale per il coreografo che grazie a lei è riuscito a coronare il suo sogno di diventare ballerino, in un'intervista di qualche anno fa ci aveva raccontato della prima volta che aveva ballato alla notte degli Oscar: "Guardavo in platea: sembravano cartonati e invece c'era tutta Hollywood, ogni tanto incrociavo gli occhi di qualcuno ma dovevo rimanere immobile. Non riuscivo a stare fermo e allora pensavo a mia madre che nella vita avrebbe voluto fare la ballerina e non ha potuto farlo. Ogni volta che vado in scena penso di portarmi pure lei e tutti i sacrifici che ha fatto".
In passato parlando del padre aveva detto: "Usava molto le mani e mandò diverse volte mia madre in ospedale. Una volta mi tirò in faccia un posacenere di cristallo, di quelli anni Settanta, quadrati. Non parlai per settimane. Mi portarono da uno psicologo per superare questo mutismo: ovviamente di nascosto da mio padre.
Il giorno che scoprì che mi ero iscritto alla scuola di ballo, venne a pranzo, per rimproverarci. Mia madre iniziò a difendermi. Lui stava urlando, prese una bottiglia d’acqua di vetro, la spaccò contro un muro e andò contro mamma. Io mi misi in mezzo e per la prima volta gli urlai in faccia: Vattene, vattene!'. Finché non se ne andò".
La danza per Tommassini, 52 anni, è stata la salvezza. "Il ballo mi ha salvato la vita, sono nato in una zona di Roma (Pineta Sacchetti, ndr) dove - come ho scritto nel mio libro Fattore T - era vietato sognare, invece io mi sono concesso di sognare. La musica e la danza mi hanno fatto fare dei viaggi fuori di me.
Sono cresciuto con musical come Saranno famosi, Flashdance, Footloose, Staying alive. Per me erano ossigeno, vedere persone come me ma con qualcosa di magico e io ho cercato realizzare quella magia. Appena ho messo da parte abbastanza soldi sono partito per gli Stati Uniti che era il sogno anni Ottanta e sono andato lì a studiare".
Alvaro Moretti per “il Messaggero – MoltoDonna” il 26 maggio 2022.
Avviciniamoci con pudore, il massimo consentito per chi deve chiedere qualcosa di molto intimo e doloroso a una persona così solare come Luca Tommassini.
Lui stesso, però, a un certo punto della sua vita ha deciso che il passaggio dal dolore ai lustrini e al successo lo doveva affrontare; il vissuto metterlo a disposizione di chi la violenza in famiglia, le botte e gli insulti su tua madre o su te stesso, la vive qui e ora.
Nella serata di Women for Women, il premio di cui parliamo qui sotto, affida a un attore, Luca Capuano gli appunti disordinati di una confessione. Una serata bella, quella dei premi, di gente pronta a capire a empatizzare.
E così l'uomo irriso e bullizzato a Primavalle, da un padre violento e compagni di strada ignoranti, è qualcosa di diverso da quello che fece ballare Madonna; che ha danzato per il suo mito Michael Jackson, il direttore artistico del più bell'X Factor del mondo e di Amici.
Che effetto le ha fatto sentire le sue parole, la sua storia interpretata?
«La sera prima dell'evento ho visto Luca, ed è stata una botta: ha cucito quei pensieri come una coreografia sulla mia vita. Ho avuto un crollo, ma la sera del premio non volevo nuovamente scoppiare in lacrime, come mi capita in tv. Dopo quel monologo gli abbracci dei vip in sala non erano più gli stessi».
Le ferite di quella violenza subita in casa non si cicatrizzano.
«Speravo di averla superata. Per 35 anni ho evitato di pensare alle scene di mia madre che, per proteggermi da un uomo che non nominava mai il mio nome, si prendeva le botte. Ho pensato solo al sogno che avevo dentro la testa come musica.
Quando da casa andavo alla palestra di Enzo Paolo Turchi e Carmen Russo per ballare, intorno mi urlavano a frocio, ma il volume della mia musica nella testa lo sapevo alzare: non ce l'avevo il walkman.
Poi ho solo lavorato, ogni giorno per diventare quello del tour di Madonna, il partner di Geri Halliwell, l'italiano che ha danzato con Michael Jackson, quello che diventa il direttore artistico di X Factor con i complimenti di Simon Caldwell, l'inventore. Le cicatrici si sono riaperte scrivendo il libro sulla mia vita: da allora non ho più evitato di guardarmi indietro, sono tornato il ragazzo di Primavalle con i sogni nati con mamma guardando Raffaella Carrà o la Cuccarini alla tv...».
Ne parla quando può, perché?
«Perché dobbiamo educare gli uomini, dobbiamo raccontare che i sogni esistono e possono essere realizzati. E perché un graffio o un singolo schiaffo segnano per sempre, condizionano la vita di un bambino o di una mamma».
Quando parla così duramente di suo padre che reazioni riceve dalla sua famiglia?
«Un mio cugino carnale, si definisce così, commenta sempre i miei post dicendo che non è vero niente, che Zio Mauro non era un violento. La verità è che questi soggetti godono della protezione dei circuiti familiari anche oltre ogni logica ed evidenza. Difendono l'indifendibile. Se lo odio ancora dopo la sua morte un perché c'è».
Che tipo è mamma Lina?
«Una donna celebrativa, ma anche un giudice severo, una dura: ha difeso i miei sogni ed è finita in coma per farlo. Lei diceva non ti girare e prendeva le botte lei. Vedi mi viene da piangere (dice asciugandosi gli occhi, ndr), rivivo la scena. Mi fa fatica, ma devo farlo. Diceva io resto qui a Primavalle, io non ce l'ho fatta ma tu lo devi fare per me e per te. Ho conquistato il mondo perché vengo da lì».
Una vita, la sua, segnata da figure femminili.
«Gli occhi e le mani di una donna sono famiglia per me. Quelle di Lina, quelle di Madonna, di Lorella Cuccarini o Laura Pausini. Sto recuperando il rapporto con gli uomini, l'altra metà del cielo: mi faceva impressione sentire il mio nome pronunciato da un uomo, come sta facendo lei ora. Mi chiedo se ti stia rivolgendo proprio a me».
Cosa sognava a Primavalle?
«Era come avere una wishlist sul frigo: ballare con Madonna, Whitney Houston, Michael Jackson, Whoopi Goldberg, ballare agli Oscar, ballare ai Grammy. Tutte cose depennate. Io mi trovo bene con le donne alfa. E ci metto pure Pausini, Giorgia, Lorella, Heather Parisi e Raffaella Carrà. Che ha molto in comune con Madonna».
Cosa?
«Talenti coltivati: Raffaella non era nata per ballare o cantare, era un'attrice. Ma viaggiava: a volte spariva e scoprivi che era a Broadway o Parigi o Londra a scoprire cosa c'era di nuovo da imparare nello showbiz. Anche l'ombelico nudo l'ha scoperto chissà dove. Una rivoluzionaria icona del cambiamento, come Mina».
Madonna, invece?
«Se sono direttore artistico lo devo a lei, ai suoi show. Ma con lei è amicizia vera: sono giornate sul divano con la testa sulla spalla e due spaghetti al burro. O il primo Natale a Los Angeles. Ero solo e lei mi fa: Non lo sei più, stai con me e mio fratello. Maniacale nell'inseguire sogni come fossero ossessioni: voleva essere Evita, per esserlo ha passato anni a studiarla, mi ha trascinato alla Casa Rosada. Ma, pur gelosa, mi ha concesso di ballare con Michael Jackson».
Ha lavorato alle coreografie di Le Fate Ignoranti di Ozpetek.
«Merito di Madonna: si innamorò del Bagno Turco, e di Alessandro Gassmann, e gli presentai Ferzan. Se dovessero fare un film sulla mia vita, lascerei tutte le scelte a Ozpetek».
Lei collabora con Pangea.
«Nella mia vita ho scelto di restituire, cercare di aiutare bimbi e mamme vittime come me. Ho incontrato Silvia Redigolo e Luca Lo Presti di Pangea: sono dalla parte giusta del mondo. Aiutano migliaia di donne e bimbi in tutto il mondo.
Ma mi ha colpito accompagnarli in una casa famiglia segreta in Sardegna. Lì portano, anche di notte, le vittime della violenza: ti sfamano, ti accolgono. Alcuni bambini li tengono per mesi perché non possono, letteralmente, ascoltare la voce di un uomo senza restarne traumatizzati. Aiutarli è avvicinarsi a Dio, credo quella sia la culla più bella che ho visto».
Da 4 anni però a Primavalle c'è un murale dedicato a Luca.
«Mi ha scioccato: non ci credevo. Da quella zona sono scappato a 16 anni, non sono più tornato. Abbiamo anche perso la casa per i debiti di mio padre. David Pompili, artista della zona, ha avuto l'aiuto di tante persone di lì che nemmeno mi conoscono ma mi stimano. Se penso a quello che m' hanno detto e fatto su quelle strade, mentre andavo dal mio vero padre, Enzo Paolo Turchi. E il grazie lo devo anche a Carmen Russo che mi ha letteralmente insegnato la dizione italiana. E la cosa più bella è che quel murale non è stato mai sfregiato da nessuno».
A proposito di molestie, il caso alpini.
«Vedo gente scrivere post super fighi, poi tornare indietro di 50 anni per giustificare robe così. Via i fiaschi, un format nuovo: fatelo organizzare a me, il raduno: non c'è da fare un passo alla volta, si deve correre».
Si deve educare.
«A breve avrete una sorpresa: terremo dei corsi con complici importanti, parleremo ai ragazzi. Ma va educato anche il mondo a non scegliere per categorie, specie quelle sessuali.
Io non sono inscatolabile in format sessuali: mi sono innamorato di persone varie, come sono vari i colori con cui mi tingo i capelli. L'ignoranza c'era quando ero bambino, ora non la tollero più. Oggi sono un uomo risolto e i problemi li lascio a chi se li fa. Anche se...».
Anche se...
«Sono fortunato: avevo un sogno, chi non ce l'ha pensa sia preferibile perdere la vita che rivivere il dolore della violenza».
Luca Zingaretti è «Il re»: ex calciatore, attore quasi «per caso» e altri 8 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 18 Marzo 2022.
L’attore torna su Sky: nato a Roma l’11 novembre 1961 ha ottenuto un grandissimo successo nei panni di Salvo Montalbano nella serie televisiva «Il commissario Montalbano». Ma non solo.
«Il re»
A partire dal 18 marzo su Sky Atlantic (e in streaming su NOW) Luca Zingaretti si calerà nei panni di Bruno Testori, controverso direttore di un carcere di frontiera - il San Michele -, nella serie «Il Re», otto episodi diretti da Giuseppe Gagliardi. È uno dei primi prison drama italiani, che vede nel cast anche Isabella Ragonese (agente della polizia carceraria del San Michele), Anna Bonaiuto (il pubblico ministero che indaga sulla rete di illeciti e connivenze che fanno capo a Testori), Barbora Bobulova (l’ex moglie del personaggio interpretato da Zingaretti), e Giorgio Colangeli (Iaccarino, comandante della prigione, molto amico di Bruno Testori). «Non voglio dire che è un cattivo: non lo giudico, mi sono soffermato sulle ragioni del suo agire; anche la persona più terribile ha delle motivazioni. Bruno pensa di avere una missione. Nel suo delirio di onnipotenza crede di amministrare la giustizia: va al di là del terzo grado di giudizio. Bruno visto da fuori è terribile, da dentro è un uomo con l’ossessione del controllo» ha raccontato al Corriere Zingaretti, tra gli artisti del panorama italiano più amati e popolari. L’attore e regista nel 2000 ha fondato una casa di produzione - la Zocotoco -, nata con lo scopo principale di diffondere l’attività artistica e culturale (nel 2021 ha lanciato «Le indagini di Lolita Lobosco»). Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.
Ex calciatore
Nato a Roma l’11 novembre 1961 Luca Zingaretti si è avvicinato alla recitazione quasi per caso: accompagnò un amico ad un provino per l’Accademia d’arte drammatica. Andò a finire nel più classico dei modi: lui fu preso, l’amico no. «Iniziai quasi per dovere, mi pareva brutto sottrarmi - ricordava in un’intervista al Corriere -, poi sono stato catturato dalla magia del teatro e ho iniziato a desiderare il cinema, che non arrivava mai. Il mestiere è diventato uno stile di vita, ha coinciso con la vita». Forse però non tutti sanno che qualche mese prima il futuro interprete del commissario Montalbano aveva tentato la carriera calcistica, nelle file del Rimini («Rinunciai alla carriera da calciatore. Non fu un grande sacrificio: giocavo nel Rimini, ma la fidanzata, la politica e il teatro mi chiamavano a Roma»).
Il fratello in politica e l’impegno giovanile
Luca Zingaretti (nato nel 1961) è il fratello maggiore di Nicola Zingaretti (classe 1965), presidente della regione Lazio ed ex segretario del Partito Democratico. Anche l’attore da giovane è stato impegnato in politica: ha militato nelle file del Partito di Unità Proletaria per il Comunismo («Facevo attacchinaggio, dipingevo striscioni e parlavamo, parlavamo...C’era una capacità di leggere le cose che oggi manca», raccontava al Corriere).
Gli inizi tra teatro e cinema
«Ho cominciato con il teatro, nel gruppo di Luca Ronconi, ma ho sempre sognato anche il cinema - raccontava Zingaretti ad Aldo Cazzullo a proposito dei suoi inizi -. Ho studiato De Niro, Al Pacino, Volonté, Mastroianni. Una sera venne a vedermi un giovane aiuto-regista, Ferzan Ozpetek, e mi portò da Marco Risi, che stava girando Il branco: una storia dura e vera, la violenza di gruppo contro due turiste tedesche». Il film andò alla Mostra del Cinema, ma non fu compreso: «Lo portarono a Venezia, in giuria c’era Uma Thurman, che non capì, cominciò a urlare e a inveire contro di noi. Non si parlò d’altro, il pubblico fischiò il film, io corsi in albergo a Malamocco - non mi potevo permettere di stare al Lido o a Venezia - a piangere. Mi pareva di aver perso la grande occasione». Non poteva saperlo, ma di grandi occasioni ne sarebbero arrivate molte altre.
Montalbano sono!
Dal 1999 Luca Zingaretti è il volto del commissario di polizia Salvo Montalbano nella serie «Il commissario Montalbano» tratta dai romanzi di Andrea Camilleri (già insegnante dell’attore ai tempi dell’Accademia d’arte drammatica). Zingaretti ha anche diretto gli ultimi titoli - «Salvo amato, Livia mia», «La rete di protezione» e «Il metodo Catalanotti» - insieme ad Alberto Sironi (storico regista degli episodi di Montalbano scomparso nel 2019). Fu proprio lui a sceglierlo per interpretare il personaggio che gli avrebbe regalato la popolarità.
Da Pietro Nenni a Paolo Borsellino
Negli anni Luca Zingaretti ha vestito anche i panni di numerosi personaggi realmente esistiti: è stato Pietro Nenni nella miniserie televisiva «Il giovane Mussolini» (1993), don Pino Puglisi nel film «Alla luce del sole» di Roberto Faenza (2005), Giorgio Perlasca nella miniserie diretta da Alberto Negrin (2002), Adriano Olivetti ne «La forza di un sogno» di Michele Soavi (2013) e Paolo Borsellino ne «I 57 giorni» di Alberto Negrin, realizzato nel 2012 in occasione del ventesimo anno della scomparsa di Giovanni Falcone. Il ruolo di Borsellino è forse quello che l’ha cambiato di più: «Quando preparo un ruolo, studio, parlo con tante persone. La madre, i figli mi hanno accolto come in famiglia - raccontava nel 2017 a Candida Morvillo -. Lui era talmente grande che mi venne un senso di inadeguatezza. Noi pensiamo che gli eroi non provino paura, ma ne hanno quanto noi, solo che sanno dominarla perché hanno una motivazione e io ho capito la sua: era innamorato della vita, amava fare il bagno in mare, amava la compagnia. Negli ultimi 57 giorni sapeva di essere braccato, ma era un eroe perché non ha fatto nulla per sottrarsi, anche se per lui la vita valeva tanto».
Nastro d’argento
Nel 2010 Zingaretti ha vinto il suo primo Nastro d'argento come migliore attore non protagonista (condiviso con Ennio Fantastichini), grazie ai ruoli in «La nostra vita» di Daniele Luchetti e «Il figlio più piccolo» di Pupi Avati.
Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana
L’11 febbraio 2003 l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha insignito l'attore dell'onorificenza di Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.
Generale romano in «Asterix & Obelix»
Nel 2012 Luca Zingaretti ha interpretato un generale romano nella produzione internazionale «Asterix & Obelix al servizio di Sua Maestà», film diretto da Laurent Tirard.
«Alla ricerca di Nemo»
Luca Zingaretti nel corso della sua carriera ha svolto anche l’attività di doppiatore: è sua ad esempio la voce di Marlin, padre del pesciolino Nemo, nel lungometraggio d’animazione della Pixar «Alla ricerca di Nemo» uscito nel 2003 (che gli è valso il Nastro d’argento per il miglior doppiaggio maschile). Ha ripreso il ruolo anche nel sequel/spin-off «Alla ricerca di Dory» (2016). Nel 2021 invece ha doppiato Bruno, lo zio di Mirabel Madrigal, nel film targato Disney «Encanto».
L’amore con Luisa Ranieri
È sentimentalmente legato dal 2005 all'attrice Luisa Ranieri, conosciuta sul set della miniserie televisiva «Cefalonia»: «Lei mi disse subito: “Non mi interessa un amore da set” - ha raccontato l’attore in un’intervista al Corriere -. Intendeva dire una di quelle storie occasionali: lui protagonista, lei protagonista, 50 persone a disposizione, e poi al ciak finale finisce proprio tutto. Ma io l’ho corteggiata a lungo, con tanta fatica e altrettanto divertimento. Si girava a San Vito Lo Capo: luogo propizio. Le facevo trovare fiori dappertutto: nella roulotte, in camerino, in hotel; prenotavo il ristorante solo per noi e lo riempivo di fiori. Non ci siamo più lasciati». La coppia (che ha avuto due figlie, nel 2011 e nel 2015) è convolata a nozze nel 2012, con rito civile, nel castello di Donnafugata, iconica location legata al commissario Montalbano. Zingaretti ha alle spalle un altro matrimonio: quello con la giornalista e scrittrice Margherita D'Amico (da cui si è separato nel 2004).
· Luce Caponegro in arte Selen.
L'intervista al Corriere della Sera. Da suora a pornostar, Selen si racconta: “Mio figlio mi ha detto: Non hai sbagliato, sei stata te stessa”. Roberta Davi su Il Riformista il 29 Marzo 2022.
Luce Caponegro oggi ha 55 anni ed è single da 6. Gestisce un centro estetico a Ravenna, città dove vive con il secondo figlio. Ormai da tanto tempo non è più Selen, star del cinema hard e icona del porno degli anni ‘90.
Eppure in molti la ricordano per quel periodo della sua vita, durato 8 anni, nonostante abbia fatto anche tv, cinema e teatro. Una ‘parentesi’ che racconterà nel suo libro ‘Da bambina sognavo di volare’, come ha raccontato lei stessa in un’intervista al Corriere della Sera.
“Voglio prendermi cura dell’anima delle persone”
“Ho lavorato 8 anni nel mondo dell’hard e 19 in quello dello spettacolo sia con Mediaset che con la Rai. Ho fatto anche teatro e la dj ma chissà perché sono ricordata principalmente come star dell’hard che è stata candidata tra l’altro ai più famosi festival del cinema vincendo moltissimi premi. Ma questo è stato solo un pezzo di me che ho vissuto tra luci e ombre” sottolinea l’ex attrice. Fino alla decisione, dopo queste esperienze, di andare ‘alla ricerca della normalità’ e di aiutare le donne a sentirsi più felici nella loro fisicità. Un nuovo inizio segnato anche dalla nascita di Gabriele, che oggi ha 15 anni, arrivato vent’anni dopo il primo figlio.
Ma le sue ‘varie vite’ non sono ancora finite, con dei progetti ancora in cantiere. Oltre al libro, che deve ancora terminare (‘Non manca tantissimo per chiuderlo’, sottolinea), ne ha uno legato alla crescita spirituale e l’altro all’estetica. “Sento che per me è in arrivo un altro cambiamento, mi accingo ad una sorta di salto quantico” racconta nell’intervista. “Oggi voglio prendermi cura dell’anima delle persone perché l’essere umano mi affascina.” Non è che sta pensando di farsi suora?, le chiede l’intervistatore. “C’è stato un momento della mia vita in cui volevo farlo ma ora col senno di poi mi dico: meno male che non l’ho fatto. Avrò avuto 25 anni” ammette. “Al di là di quelle che sono state le mie trasgressioni ho sempre avuto un’etica profonda e vedendo un mondo che di etica non ne ha molta mi domandavo: ma qui io cosa ci sto a fare?” Crede nella figura della Vergine Maria, sottolinea; recita il rosario e, in quei momenti, “sento di poter parlare con lei.”
“Sei stata te stessa”
Luce Caponegro aveva 18 anni quando incontrò il talent scout di Playboy che la convinse a posare per la rivista. E alla se stessa di allora, ‘ingenua, idealista e sensibile’, direbbe di inseguire sempre i suoi sogni. “Ma la metterei in guardia e le consiglierei di non fare i film hard– dice- perché quella scelta ti lascia un marchio indelebile nel tempo anche per quanto riguarda l’amore”.
Una carriera, quella di attrice nei film hard, che ha dovuto anche raccontare al figlio più piccolo e per cui si era preparata andando da uno psicologo. Una conversazione affrontata quando è stato lui a chiederle se nella vita avesse mai commesso degli sbagli. “Lui, che all’epoca aveva 11 anni, si è posto in un modo delicato e con grande intelligenza e sensibilità ha gestito quella conversazione e poi mi ha detto: ‘Io so che persona e che mamma sei, non mi importa nulla del tuo passato’” ha raccontato nell’intervista al Corriere. Qualche mese dopo, tornando sull’argomento, le ha detto che non aveva sbagliato nel suo passato “ma ero stata semplicemente me stessa ed ero stata anche molto coraggiosa.” Luce- Selen ne è convinta: “Sono molto orgogliosa di lui e sono convinta che se una cosa sono riuscita a fare bene nella vita è stato fare la mamma”. Roberta Davi
Domenico Basso per corrieredibologna.corriere.it il 29 marzo 2022.
È in uscita il libro «Da bambina sognavo di volare». Una donna, tante vite. Ma quella che l’ha resa famosa è stata quella trascorsa sui set a luci rosse. Luce Caponegro oggi ha 55 anni, ma il periodo in cui è stata Selen, sogno di molti italiani a metà degli anni Novanta, l’ha connotata fortemente nonostante si parli solo di 8 anni della sua vita artistica che ha poi contemplato altri 19 anni di televisione, cinema e teatro. Da 15 anni si occupa di estetica e benessere e da 10 ha aperto un centro estetico a Ravenna, un posto che porta il suo nome e dove ha scelto di aiutare le donne a volersi bene.
Un centro specializzato in trattamenti viso e corpo rigenerativi. Luce per le sue clienti, tra queste anche rampanti imprenditrici, è prima di tutto una consulente di bellezza ma anche una confidente. È un sabato quando ci sentiamo e lei ha terminato da poco il suo lavoro. Rientrata a casa si concede un bicchiere di vino rosso e dei crostini, è il suo premio per un’altra giornata di lavoro. Lei sta scrivendo un libro sulle sue varie vite.
A che punto è?
«Non manca tantissimo per chiuderlo, ma non riesco ad andare avanti. Diciamo che manca ancora una parte, quella del periodo che incuriosisce di più la gente. Sembra quasi che la mia mente abbia resettato completamente quegli anni. Faccio fatica a ricordare le date, le persone, i luoghi».
Voglia di dimenticare quel periodo?
«No, non è per quello. Ho lavorato 8 anni nel mondo dell’hard e 19 in quello dello spettacolo sia con Mediaset che con la Rai. Ho fatto anche teatro e la dj ma chissà perché sono ricordata principalmente come star dell’hard che è stata candidata tra l’altro ai più famosi festival del cinema vincendo moltissimi premi. Ma questo è stato solo un pezzo di me che ho vissuto tra luci e ombre. In effetti in quel periodo ero Selen che significa Luna e poi mi sono incamminata verso il mio nome di battesimo, Luce. Dopo tanti anni nello spettacolo in tivù e nel cinema è iniziata una svolta e sono andata alla ricerca della normalità e qui ho capito che volevo aiutare le donne ad essere più felici nella loro fisicità, un aiuto comunque legato all’anima. A questo nuovo inizio si è aggiunta la nascita del mio secondo figlio, Gabriele».
Ha già in mente il titolo per il libro?
«Sì, quello è già deciso: “Da bambina sognavo di volare”. Io da ragazzina sognavo davvero di volare, lo facevo quasi tutte le notti, era bellissimo poter muovere le braccia e avere il potere di alzarsi da terra.Dopo quei sogni ero quasi convinta di essere una bambina con dei poteri speciali».
Ma adesso Luce che progetti ha?
«Ho tre obiettivi: finire il libro e per questo devo assolutamente pormi una data e dare corpo a due progetti di cui uno legato alla crescita spirituale e al cambiamento e l’altro all’estetica. Le dico anche una cosa che non ho mai detto. Sento che per me è in arrivo un altro cambiamento, mi accingo ad una sorta di salto quantico».
Dunque restando allineati nell’immagine di una donna con tante vite sembrerebbe che ne stia arrivando un’altra. Giusto?
«Oggi sento che questa vita mi sta stretta. In questi anni ho fatto molti sacrifici, ho lottato contro i pregiudizi di chi mi vedeva ancora Selen e non riconosceva Luce e i suoi sforzi. Io sono una persona che non guarda quello che le conviene ma seguo il mio sentire e il mio bisogno di evoluzione. Ecco che allora ho bisogno di intraprendere nuovi percorsi».
Dunque una nuova svolta lavorativa?
«Oggi voglio prendermi cura dell’anima delle persone perché l’essere umano mi affascina. Molti sono ingabbiati in una vita che non gli appartiene più e per questo soffrono e hanno bisogno di essere aiutati a trovare la strada per la felicità».
Sembra quasi il pensiero di qualcuno che vuol diventare un salvatore di anime. Non è che sta pensando di farsi suora?
(ride) «C’è stato un momento della mia vita in cui volevo farlo ma ora col senno di poi mi dico: meno male che non l’ho fatto. Avrò avuto 25 anni. Al di là di quelle che sono state le mie trasgressioni ho sempre avuto un’etica profonda e vedendo un mondo che di etica non ne ha molta mi domandavo: ma qui io cosa ci sto a fare?
Io credo nei grandi ideali e nei grandi moti dello spirito, anche la mia trasgressione giovanile in fondo è andata in questa direzione, è stato il desiderio di conoscere e di superare dei limiti e di rigettare l’ipocrisia che era tipica di un periodo in cui la sessualità veniva negata, era considerata un tabù. Io invece ero curiosa di esplorarla la sessualità e spesso questo si scontrava anche con una cultura in cui vigeva la regola vizi privati e pubbliche virtù».
Ma quando ha sentito il richiamo della Madonna?
«Io credo nella figura della vergine Maria, recito anche il rosario e in quei momenti sento di poter parlare con lei. Ho anche una compagna di scuola che è diventata suora di clausura il che magari fa sorridere perché nella stessa classe c’è chi è finito in un set hard e chi in convento. Un giorno sono andata a trovarla perché mi aveva scritto una lettera dove mi diceva che aveva voglia di rivedermi. È stato un incontro meraviglioso, ci siamo abbracciate e abbiamo pianto. Lo definirei un incontro tra due cuori e quello che mi ha fatto bene all’anima è stato che non ha giudicato la mia vita».
Se Luce oggi incontrasse se stessa a 18 anni nel giorno cui un talent scout di Playboy la convinse a posare per quella rivista cosa le direbbe?
«Ricordo bene quel giorno. Ero alla Bassona che è una riserva naturale. Per prima cosa la abbraccerei forte perché rivedo una ragazza ingenua, idealista e sensibile. Poi le direi di inseguire sempre i suoi sogni. Ma la metterei in guardia e le consiglierei di non fare i film hard perché quella scelta ti lascia un marchio indelebile nel tempo anche per quanto riguarda l’amore».
A proposito di amore oggi Luce è legata affettivamente a qualcuno?
«No, sono una donna libera e la libertà per me è di fondamentale importanza. Potrei rinunciarvici solo se trovassi un uomo veramente speciale. Sono single da sei anni e non faccio nulla per cercare l’uomo giusto. Se deve arrivare arriverà».
A compensare questo vuoto però ci sono i figli.
«Loro sono tutto per me, uno ha 15 anni e l’altro 35. Io col più piccolo, Gabriele, sono molto presente, mi piace molto fare la mamma. Con Gaby parliamo tanto e il nostro è un rapporto molto nutriente».
Com’è stato raccontare del suo passato di attrice hard al figlio più piccolo?
«Mi ero preparata per quel momento andando da uno psicologo, passavano i giorni e aspettavo quello giusto, l’occasione più adatta. Poi però è stato lui ad anticiparmi chiedendomi se nella vita avessi fatto degli sbagli. Lui, che all’epoca aveva 11 anni, si è posto in un modo delicato e con grande intelligenza e sensibilità ha gestito quella conversazione e poi mi ha detto: “Io so che persona e che mamma sei, non mi importa nulla del tuo passato”.
Poi qualche mese dopo è tornato sull’argomento dicendomi che non avevo sbagliato nel mio passato ma ero stata semplicemente me stessa ed ero stata anche molto coraggiosa. Sono molto orgogliosa di lui e sono convinta che se una cosa sono riuscita a fare bene nella vita è stato fare la mamma».
Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" il 21 gennaio 2022.
Una casa di Ancona, senza televisione per scelta. Lucia in bozzolo e i suoi fratelli più grandi, Giuseppe, Paolo e Anna, intrattenuti a cena da papà Giancarlo detto Gianni. Interno sera.
«Ferroviere, poi iscritto a Economia e Commercio su incitamento di mia madre, che in famiglia è riuscita a far laureare tutti tranne me, infine assessore all'urbanistica. La tv entrava e usciva dal salotto per non darci dipendenza».
Usciva, soprattutto.
«E allora mio padre a tavola raccontava storie bellissime: si era inventato un personaggio, Sterlacchino, ogni giorno un'avventura diversa».
E le rare volte in cui si guardava un film, il film non finiva mai.
«Interveniva mamma e, zac, lo interrompeva: tutti a letto! Io mi ero allenata a stopparlo da sola, tra me e me, per non rimanerci troppo male».
Però poi quella trama non poteva restare appesa con le gambe a penzoloni come in una favola di Rodari, da qualche parte doveva per forza andare a cercare un finale, come un copione che rotola verso i titoli di coda. E quindi tutte le storie spezzate dell'infanzia Lucia Mascino le ha raccolte e conservate per completarle da grande a teatro (il primo amore, correva il 1997, 25 anni di opere rappresentate da Italo Calvino a Lucia Calamaro, «Smarrimento» è un monologo in tournée in questi giorni, passando attraverso Filippo Timi, l'amico di una vita), alla tv (i nuovi episodi dei «Delitti del Bar Lume» sono appena tornati in onda su Sky), al cinema. Premio Tognazzi, Magnani (per il sottile «Amori che non sanno stare al mondo» di Francesca Comencini) e Mezzogiorno, gli indimenticati complimenti del totem irraggiungibile Mariangela Melato a Roma, in camerino al Quirino, anni fa («Eravamo appena usciti dalla scena con Filippo, sottolineò la nostra chimica, se ne andò lasciandoci stupiti ed emozionati»).
Una, nessuna e centomila Mascino. Lucia, attrice è nata o diventata?
«Lo sono diventata senza sapere di esserlo da sempre, forse. È stato un percorso lunghissimo, come tirare fuori una figura da un blocco di marmo. Le canzoni di De André con la loro svagata malinconia erano la colonna sonora dei miei pomeriggi. Totò, che mi ricordava mio nonno Lillo, e Manfredi, che somigliava allo zio Bibo, avevo la sensazione che fossero persone di famiglia. Mio padre sembrava un incrocio tra Bud Spencer e Terence Hill.
E alla Giuggiola, l'amatissima casa colonica di villeggiatura al Conero dall'improbabile stile affastellato, transitavano personaggi straordinari: zia Alba, tornata dall'Argentina dopo quarant' anni con una parlata tutta sua, nonna Elsa appassionata di filosofia e negata ai fornelli, una volta scolò un unico enorme gnocco che venne tagliato a fette nel silenzio generale; nonna Dalia di forte presenza e modi antichi, che chissà perché non pronunciava la parola piede, preferiva dire estremità, zia Carmen che discuteva di cose di adulti che non capivo bene, ognuno dentro la sua storia ma versandone un po' dentro quelle degli altri. E Virna Lisi: sento parlare di lei da sempre».
Ineguagliabile Virna.
«In casa la si nominava con affetto, come se fosse un'amica, una persona cara. Una volta l'ho incontrata a Fiumicino, gessato e occhiali scuri, affascinantissima, stava andando a Cannes a fare la giurata. Quando è mancata ero dal meccanico con l'auto rotta, diretta nel Nord-Est a portare le poesie di Leopardi. All'improvviso è svanito tutto. Nulla per caso: Stefania, la truccatrice che mi ha preparato per la serie in uscita a primavera su Amazon, era la truccatrice storica di Virna».
Però all'inizio di questo film la sceneggiatura è un'altra, niente a che vedere con cerone e assi del palcoscenico: 16 esami dati alla facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali.
«Ho 19 anni e la morte improvvisa di papà mi scaraventa altrove. Mi è appena capitato di incontrare il teatro, il luogo magico dove far confluire le mie energie più libere: seguo un laboratorio a Numana due sere alla settimana, una cosa fisica di gruppo, pura improvvisazione, che vorrei andasse avanti per tutta la notte. Non mi stanca mai. Inizio il corso a marzo, papà se ne va a luglio. È il punto di frattura, mio e famigliare. Quel lutto apre il recinto: liberi tutti. A mente fredda, la leggo così: per la recitazione sentivo attrazione ma anche timore. Il momento in cui papà voleva che suonassimo gli strumenti, dai Lucia fai sentire la tua canzone, per me era un rito di terrore.
Quando la domenica a messa vedevo qualcuno che saliva sul pulpito per leggere, trasecolavo: ma come fa ad avere il coraggio di esporsi così davanti a tutti? Però quando a furia di insistenze riuscivano a stanarmi dall'angolo, quando io stessa vincevo le mie resistenze, ero contenta: mi sentivo al mio posto. E stare al centro dell'attenzione, da quel momento in poi, diventava naturale. È così anche oggi: un po' di pudore sullo sfondo rimane sempre, ma il piacere di quello che viene dopo prevale sulla paura di ciò che c'è prima».
Il teatro come stratagemma necessario per sopravvivere, più che una scelta.
«Mi iscrivo, di nascosto da mia madre, al Centro di ricerca e sperimentazione di Pontedera. In mezzo a quel dramma famigliare non mi riconosco l'autorità di dire: ciao, io vado. Arriva il giorno in cui devo andarmene, non ho scampo. Scrivo una lettera, gliela consegno. Lei la legge, serissima, davanti a me. Alza gli occhi, mi guarda: quando parti, chiede. Adesso, rispondo».
Sboccia, su terreno evidentemente fertile, una carriera poliedrica, varia, uguale a poche altre. Attrice sui generis, la definiscono, anomala, ibrida. È una descrizione in cui si riconosce?
«L'ibrido cerca forma, quindi non mi dispiace. Il tipo di teatro da cui parto è sperimentale, un rito pagano che non ha niente a che vedere con il racconto di una realtà. Però mi fa bene. Da lì, scaturisce tutto. Sono un miscuglio che ogni tanto, dopo molti anni, si chiede: cambiando tanti ambienti ho disperso energie oppure invece ho imparato a parlare tante lingue? Questo mio essere cangiante è segno di eclettismo o di una crisi d'identità perenne...?».
E cosa si risponde?
«Che è tutte e due le cose insieme: di necessità, virtù. Ho fatto cose folli con Filippo Timi, incontrato in un centro sociale a Bologna mentre cercava di fare la ruota senza mani: l'Amleto in spaccata, "Favola" en travesti , "Promenade de Santé" di Piccioni. Ho variato stili e generi, mezzi e autori. La prima volta che ho fatto tv, con un po' di puzza sotto il naso lo confesso, era perché dovevo sopravvivere: non c'erano le serie belle di adesso, non esisteva il Bar Lume.
Con la "Mamma imperfetta", il primo ruolo da protagonista, ho cambiato opinione. La prima volta che ho fatto cinema, a Trieste con "Tartarughe sul dorso", è stata una folgorazione. Da lì in poi il mio cammino è stato tutto un percorrere territori inesplorati. Forse c'è qualcosa di anomalo ma non lo vedo come un difetto: penso che sia strano il contrario, non aver voglia di cambiare. Mai avuto il mito del percorso della notorietà, mai».
Continuerà a fare la zingara senza fissa dimora per sempre?
«Chi è molto identificabile in un ruolo è rassicurante, mi rendo conto. Il mio obiettivo è fortificare il mio girovagare, passare dalla serietà assoluta al grottesco, frequentare il più spesso possibile testi che toccano il comico e il tragico insieme. È una indefinizione che toglie chiarezza a chi ti guarda, ma anche un'enorme libertà. Con un sano retrogusto di stupore. Tutt' oggi mi sorprendo: ma davvero io faccio questa bellissima cosa qua?».
Sta portando in giro a teatro «Smarrimento». Qual è, Lucia, il suo più grande smarrimento?
«Smarrirsi è l'unico posto dove valga la pena di andare, ha scritto Tiziano Scarpa. Ed è vero: nulla come mettere in discussione l'idea che ho di me, mi fa sentire la terra che trema sotto i piedi. Spostarmi da Ancona a Roma mi ha provocato un profondo smarrimento, quando nel 2005 ho lasciato tutto perché con il teatro non riuscivo a campare mi sono sentita irrimediabilmente smarrita. Ho resistito pochissimo: era impossibile stare senza».
Lì rientra in scena, co-protagonista delle vostre vite parallele, Filippo Timi.
«Filippo a quei tempi mise su una compagnia teatrale e scrisse un personaggio apposta per me. Non lo dimentico».
Chi è Timi per lei, Mascino: un amico, un amore, un fratello, un rivale, un alter ego? «Quando non sta bene, io sto male. È più un parente di un amico, quasi un fratello. Quello con Filippo è un rapporto complessissimo che prevede che, quando lavoriamo insieme, l'amicizia venga sospesa, è in stand-by. "Promenade de Santé" è stata la celebrazione di una relazione lunga venticinque anni, in cui convivono tutti i santi giorni confronto e genuina generosità».
Cosa gli invidia?
«La capacità di rigenerarsi dopo le batoste e ripartire con fiducia cieca».
Non c'è il rischio, giocando con tanti ruoli, di perdersi dietro le maschere e non ritrovare più la propria espressione autentica?
«Non mi aggrappo ai personaggi: non è un rischio che sento di correre».
Con chi le piacerebbe lavorare?
«Con Margherita Buy, un'attrice che si lascia attraversare, e Paolo Sorrentino: "È stata la mano di Dio" è un film intimo e commovente. Con gli impossibili: Pedro Almodóvar, i fratelli Coen, quel gigante di Olivia Colman».
Eppure lei sembra la gemella nostrana della generazione di americane duttili e talentuose, all'occorrenza serie o stralunate: Greta Gerwig, Lena Dunham, Kristen Wiig.
«Nei miei sogni più sfrenati immagino che mi vedano recitare nel personaggio di Claudia in "Amori che non stanno stare al mondo"».
E se tornasse indietro rifarebbe tutto, compresa la ruota senza mani assieme a Timi? «Tutto. L'arte non era una possibilità. Era l'unica scelta possibile».
· Lucrezia Lante della Rovere.
Arianna Finos per “la Repubblica” il 24 settembre 2022.
Lucrezia Lante della Rovere è a Ferrara, «giro un docufilm su Lucrezia Borgia per i ragazzi. Sono l'attrice, la Borgia, ma anche una serie di icone cinematografiche che raccontano, da Maleficent a Audrey Hepburn». Sugli scaffali sta per arrivare Apnea, autobiografia (Piemme) che parte dalla foto di nozze dei genitori, passando per l'infanzia difficile, gli amori famosi, da Barbareschi a Malagò, il palcoscenico, i figli, la vita e la morte.
Perché "Apnea"?
«Ho vissuto una vita in apnea, cercando di ingoiare il pianto. Facevo tutte le esperienze con paura, mancanza di respiro, angoscia, senso di inadeguatezza, con questi genitori che erano così diversi. Spesso facevo finta di trovarmi a mio agio e mi mettevo delle maschere, in realtà ero sempre sull'orlo del baratro, la sensazione di mancanza di respiro. A 17 anni dovevo andare a una delle mie prime trasmissioni, da Maurizio Costanzo, a cui mia madre aveva tirato la torta in faccia due mesi prima. Ero terrorizzata, non dormivo. Mia madre disse "prendi questo, lo prendo anche io". Era Xanax. E all'improvviso mi accorsi che si poteva respirare nella vita».
Con lo Xanax?
«Sì, perché lì ho capito che vivevo in uno stato psicofisico che non andava bene. È un po' il mio stato. Poi però ho trovato il mio respiro. Ho sempre avuto paura di sbagliare, all'asilo sorridevo e facevo finta di capire. Sono stata raccontata, come tutti, in mille modi. Questa è la mia versione. Una versione intima».
L'infanzia è stata dura, nel monolocale sotto l'attico di sua madre.
«Sono cresciuta in una realtà dicotomica. Papà nobile, ma senza mezzi, problemi di alcol e manesco. Mia madre che comprava le stoffine e si faceva fare i vestiti dalla portinaia. Poi era andata sull'appartamento sull'Appia. Si mangiava la vita, ma viveva al di sopra delle sue possibilità».
Le piaceva fare la modella?
«No, ma mi rendeva autonoma. Non stavo bene in entrambe le famiglie, un'anima in pena in fuga perenne. Dovevo mettermi "il carciofo in testa", come diceva mamma, trovare l'indipendenza».
Sua madre non le ha tirato torte in faccia ma gliene ha fatte tante: le regala una volpe per l'invito alla Scala e poi si mette fuori in una bara per protestare contro le pellicce, il servizio fotografico con i feti finti che precede il suo di mamma.
«Lei era così. Le mamme vanno perdonate. La sua malattia, 16 anni, mi faceva pensare di dover trovare un modo con lei. Quando stava bene lo scontro era feroce».
Cos' ha pensato del suicidio assistito di Godard?
«Riuscire lucidamente a prendere questa decisione significa avere le palle quadrate».
Sua madre fece un video sulla sedazione profonda poco prima di morire.
«Era un video forte. Lei non ha avuto suicidio assistito, la sofferenza se l'è fatta tutta, stava per morire. Ma la sua battaglia "dateci la dignità per morire", era giusta».
Al funerale le mise le corna di Maleficent.
«È vero, siamo finiti anche su una indignata Famiglia cristiana . Ero distrutta dal dolore, i paparazzi fuori... le abbiamo messo un suo cappello: quale uscita di scena migliore? Lei mi ha insegnato la provocazione».
I libri di sua madre sono stati terremoti.
«Lei era il terremoto. I miei primi quarant' anni lo lessi sotto il banco di scuola. Mi colpì la questione degli aborti, non me ne aveva parlato. Non c'era dialogo tra noi, mi sgridava se dormivo col fidanzato. Era spregiudicata, ma non con me».
Lei racconta amori e crisi con Giovanni Malagò, padre delle sue due figlie e con Luca Barbareschi.
«Ma sono affettuosa, non racconto pettegolezzi o scandali. Sono persone che mi hanno formata e con cui io forse non sono riuscita a stare, con le mie paure e gelosie. Siamo amici».
Malagò era ossessionato da Agnelli, la telefonata mattutina.
«Giovanni è abbastanza spiritoso. Che a vent' anni parlasse con Agnelli è un onore. Lui è il presidente del Coni e deve parlare di cose serie, ma per me gli fa piacere. Aveva già obiettivi chiari, io ero una ragazzina che non sapeva dove sbattere la testa. Lui si bastava, io no. Era solido, io mi sono innamorata e disamorata della sua solidità. Ero anche in cerca d'altro».
Luca Barbareschi?
«Ha letto brani. Dice che vuole il libro con la dedica».
Pensa spesso a sua madre?
«Moltissimo, più passano gli anni e più mi ci riconosco. Il libro si apre e chiude con la foto delle nozze dei miei, io vengo da lì».
Oggi è serena?
«Abbastanza. A 56 anni ho trovato un mio equilibrio. La vita è sempre molto più forte di noi, ma oggi ho gli strumenti per affrontarla un po' meno in apnea».
· Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.
Pacifico: un affresco autobiografico per raccontare la mia famiglia. Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.
«Io e la mia famiglia di barbari» (La nave di Teseo) racconta le traiettorie familiari della larghissima tribù di zii e cugini del musicista. In attesa di un nuovo album.
La parola è il mestiere di Pacifico. La sa manovrare e la dirige verso le canzoni che poi interpreta, la infila per dare spessore ai brani di altri (da Gianna Nannini a Malika Ayane, da Adriano Celentano a Francesco Gabbani) o la trasforma in pagine letterarie. È da poco uscito Io e la mia famiglia di barbari (La nave di Teseo), il suo secondo romanzo, un affresco autobiografico, popolato dai personaggi della storia della sua famiglia, dai genitori Guido e Pia alla larghissima tribù di zii e cugini, vizi e virtù, amori e rancori, che raccontano anche l’Italia degli anni 70-80.
«È come se avessi radunato la famiglia in cui sono cresciuto per un ultimo scatto, ho raccontato la parte lieta tenendo il dolore nascosto per pudore. È nato da mia mamma che mi ha raccontato un aneddoto di quando bambina andò all’opera con sua mamma e mi ha chiesto di scriverlo. Pensavo di farlo solo per lei ma poi ho iniziato a radunare ricordi e idee. E poi, per dirla come in Interstellar, siamo ricordi per i nostri figli: vedo che mio figlio si chiede già cosa dovrà fare di me quando invecchierò, come faccio io con mamma adesso».
Quell’insieme di personaggi potrebbe essere anche un concept album, una canzone, un parente. «Ci ho pensato e se guardo i personaggi ognuno di loro ha una propria musica: ne uscirebbe un musical. Adesso però la canzone mi sta portando verso la melodia e verso testi semplici con più livelli di lettura. La canzone è un prodigio di sintesi, è capace di raccontare un’epoca in dieci righe. Il romanzo è un gigante che non perde di vista nessuno».
Pacifico sarà protagonista di una serata della Milanesiana il 10 giugno. Il tema è quello della canzone popolare, ci sarà il concerto del Coro delle Mondine di Novi e dei Fluxus, ma lui sarà impegnato con la parola letta: «Il tema dell’edizione di quest’anno sono le omissioni, quindi ho scelto di parlare di quello che non è entrato nel racconto di famiglia: ci sono omissioni buone, racconti che non ho voluto sottolineare; e altre che invece non ho messo perché avrei preferito non saperle».
La musica non è in un angolo. «Ho un po’ di canzoni ma devo trovare la lucidità per metterle tutte insieme in un album. In pandemia non ho scritto e se qualcosa di quel periodo sarà filtrato sarà magari una sensazione di incertezza. Le canzoni hanno bisogno di un salto poetico perché oggi la realtà è rappresentata costantemente altrove: Paolo Conte dice che bisognerebbe scrivere solo di cose inventate e lasciare la realtà altrove».
Fabio Fabbretti per davidemaggio.it il 16 maggio 2022.
E’ Luigi Strangis il vincitore di Amici 2022. Il cantante calabrese, voluto nel talent di Maria De Filippi da Rudy Zerbi, ha sbaragliato la concorrenza degli altri finalisti, aggiudicandosi la vittoria che gli vale il montepremi in palio di 150 mila euro in gettoni d’oro. A stabilirlo è stato il pubblico da casa tramite televoto.
La finale ha visto Luigi dominare nel circuito canto, dove man mano sono “caduti” Albe, Sissi e Alex, dando vita con quest’ultimo ad un testa a testa che per molti valeva come una finalissima anticipata (percentuali televoto: 51.4% vs 48.6%). Il cantante, vinta la gara nella sua categoria, se l’è poi vista con Michele, che a sua volta ha battuto nella gara di danza Serena. Lo scontro decisivo canto contro ballo ha portato in trionfo il cantante (76.4% vs 23.6%).
Nel corso della serata, Luigi si è aggiudicato anche il Premio delle Radio per il brano Tienimi stanotte, che è risultato l’inedito di Amici con più preferenze.
Chi è Luigi Strangis, il vincitore di Amici 2022
20 anni, cantante polistrumentista, nato a Lamezia Terme (Catanzaro), dove vive con i genitori e il fratello. Inizia a suonare la chitarra a 6 anni grazie al padre che gli faceva ascoltare musica americana. Nonostante la giovane età si è esibito numerose volte dal vivo nelle zone limitrofe della sua città. Collabora anche con uno studio di registrazione dove arrangia brani per altri artisti. Entra nella scuola di Amici 21 a settembre durante la prima puntata, esibendosi con l’inedito Vivo.
Pubblicazioni:
- Vivo prodotto da Brail
- Muro e Partirò da zero prodotti da Michele Canova
- Tondo prodotto da Katoo
- Tienimi stanotte prodotto da Luigi e Gabriele Cannarozzo
Etichetta indipendente 21co
"Vorrei ringraziare tutta la mia famiglia e tutti i coach, che mi hanno fatto crescere", dice l'interprete calabrese. "Devo, inoltre, ringraziare infinitamente te, Maria, per quello che mi hai dato. Oggi sto bene e se sto bene è grazie a te". Luigi Strangis, chi è il vincitore di "Amici"
L'intervista a Luigi Strangis, dalla vittoria di Amici al suo primo Ep. Il cantautore, calabrese doc, racconta l'esperienza nel talent e la sua musica. MARIA ASSUNTA CASTELLANO su Il Quotidiano del Sud il 20 maggio 2022.
CANTAUTORE, musicista e polistrumentista, Luigi Strangis è il vincitore dell’ultima edizione di Amici. Ma soprattutto è un calabrese doc. Lo abbiamo visto alla chitarra, alle percussioni, al pianoforte e al contrabbasso. Sempre diverso e mai scontato.
Si è cimentato in cover di canzoni che hanno fatto la storia della musica ma anche nei suoi brani che scrive, compone e arrangia. Il 3 giugno finalmente uscirà “Strangis”, il suo primo ep, su etichetta 21co e distribuito da Artist First. Ep di debutto per Luigi Strangis.
Che cosa rappresenta per lei?
«Rappresenta me e la mia personalità. A me piace sempre cambiare genere e cambiare stile ma soprattutto mi piace la libertà d’espressione. Questo è un po’ il pensiero che vi è racchiuso».
Come mai ha deciso di chiamarlo con il suo cognome?
«Un po’ per onorare anche la mia famiglia e mio padre che mi ha sempre sostenuto sin da bambino».
C’è una canzone di questo ep alla quale è più legato?
«Sicuramente “Tienimi stanotte”, non perché è l’ultimo singolo ma perché ha una magia particolare. Ogni volta che la canto mi emoziono, riesce a farmi staccare un po’ dalla realtà e a volte ne sento il bisogno».
Tutto arriva dopo la vittoria ad Amici. Se lo aspettava o ci sperava solamente?
«Ci speravo e basta. Siamo anche scaramantici noi calabresi. In realtà mi godevo il momento, non pensavo ad altro, a quello che poteva accadere dopo».
Ha un ricordo particolare di questi mesi nella scuola di Amici?
«Sicuramente tutti i confronti con Maria (De Filippi; ndr) che mi hanno aiutato ad aprirmi, a parlare un po’ di me, a lasciarmi andare e non nascondermi. Ma anche cantare “Muro” sul tetto, per la cultura rock cantare sul tetto è qualcosa di meraviglioso. Ho tantissimi ricordi, sono 8 mesi di ricordi, un pezzo di vita».
Ad Amici ricordiamo tutti la sua improvvisazione con Alex Britti.
«Ecco, questo è un altro bellissimo ricordo».
Britti è rimasto molto colpito dalla sua bravura. Vi siete sentiti dopo la vittoria del talent?
«Purtroppo no, ho avuto poco tempo, sto facendo un sacco di cose ma spero ci sia l’opportunità di sentirlo».
La Calabria intera l’ha sempre sostenuta ad Amici, in particolare la sua Lamezia Terme. Basti pensare alle migliaia di persone in piazza a seguire la finale e festeggiare per la sua vittoria. Quanto è importante per lei la sua regione?
«Direi tantissimo. E poi a Lamezia, ho visto pochissime volte un calore come quello del giorno della vittoria in piazza. Quindi per me è un onore tutto questo perché sento tanto calore, che percepivo già guardando i video di quella sera. Un calore immenso di una città che ho vissuto e che amo».
È già tornato a casa?
«Sono tornato ma per pochissimo tempo. È stato strano, rivedere le persone, i familiari dopo 8 mesi ma è stato bellissimo».
La prima cosa che ha fatto rientrato a casa?
«Ho abbracciato papà».
Restando in Calabria, c’è qualcuno che la paragona a un piccolo Brunori. Cosa ne pensa? Le piacerebbe collaborare con lui?
«Dario Brunori è una persona che stimo un sacco, lo ascolto da quando ha iniziato e spero di conoscerlo presto. È perciò un complimento quello che mi dicono. Anche se spero di trovare la mia identità. Per questo vorrei prima affrontare il mio percorso da solo per poi arrivare alle collaborazioni. Sicuramente sarei onorato di collaborare con lui».
È prevista una tournée e magari una tappa in Calabria?
«Ci sono un po’ di cose in cantiere ma non spoilero nulla».
Ci possiamo sperare?
«Certo!».
Sui social Rudy Zerby le ha scritto che aspetta gli occhiali che gli aveva promesso. Quando avverrà questa consegna?
«Appena ci sarà modo di vederci glieli darò subito (ride; ndr)».
Non sarà difficile separarsi da quegli occhiali?
«Tanto difficile. Anche perché non ne ho una copia, tutte le volte che li ho indossati, anche a Lamezia, erano sempre gli stessi».
Tra l’altro ha lanciato una vera e propria moda.
«La cosa assurda è che tutto non è nato da una moda. Li ho visti, mi sono piaciuti e ho iniziato a indossarli ma senza pensare che a qualcun altro potessero piacere. Anzi, addirittura qualcuno mi diceva che erano proprio brutti. Ma io, come sempre, ho fatto ciò che ho voluto».
Luisa Ranieri: «Napoli, Bari, vi racconto come il Sud sta cambiando». Dario Di Vico su Il Corriere della Sera il 27 Maggio 2022.
«La mia città è feroce, ma la sua gentilezza cruda è genuina. La Puglia è più dolce e protettiva». L’attrice che sta girando la nuova serie di Lolita Lobosco parla delle prospettive del Meridione e del suo legame con queste terre.
Lolita Lobosco è un «cervello di rientro», direbbero i sociologi, perché ha rimesso piede come vicequestore della squadra mobile di Bari dopo un lungo periodo di lavoro al Nord, per la precisione a Legnano. Luisa Ranieri, che proprio in questi giorni è in Puglia per girare da protagonista la nuova serie televisiva dedicata a Lolita, si considera anche lei un’emigrata, anche se di corto raggio. È profondamente connessa al Sud e alla sua Napoli, ne conosce le contraddizioni e non è affatto indulgente, crede fermamente che un’evoluzione della società meridionale sia legata a un diverso ruolo delle donne. E nei suoi giudizi è facile rintracciare un leitmotiv: la mancanza dello Stato, l’assenza di un soggetto istituzionale che sia presente ovunque e si dia da fare per sviluppare l’economia o per far rispettare la legalità.
Lolita in fondo somiglia molto a Luisa Ranieri, si identifica ed è un servitore dello Stato e con i suoi comportamenti sembra esprimere anche la cultura e la sensibilità sociale dell’attrice che la interpreta. Ed è con lei (l’attrice) che parliamo delle prospettive del Sud, dei suoi ritardi, delle virtù e della forza dei suoi simboli.
Il Sud subisce ogni anno un consistente drenaggio di capitale umano. Tantissimi giovani meridionali, si calcola il 23%, scelgono il Nord e disertano le università del Sud. C’è chi dà la colpa agli atenei meridionali, chi più rassegnato sostiene che nel Meridione resteranno solo gli anziani. Dove sta la ragione?
«Sono andata via dalla mia Napoli a 20 anni. Prima a Milano, poi a Parigi e alla fine mi sono fermata a Roma. Affascinata dal teatro non ho finito gli studi di giurisprudenza che avevo iniziato e non ho più ripreso, ma credo che alcune nostre università costituiscano delle eccellenze e penso sicuramente alla Federico II di Napoli. Sono anche convinta che i giovani meridionali che affollano gli atenei della Lombardia, dell’Emilia e del Piemonte lo facciano non perché al Sud non ci siano le competenze e la didattica sia scadente, lo fanno perché le famiglie e loro stessi sanno benissimo che studiando al Nord c’è uno sbocco più immediato. Molta più possibilità di trovare lavoro subito».
Nella nostra società il confronto Nord-Sud è quotidiano. I dati sulla raccolta differenziata segnalano una distanza incredibile tra Lombardia e Sicilia - per fare un esempio -mentre la risposta al Covid sotto forma di adesione alla campagna di vaccinazione ha mostrato un Sud più responsabile. La Puglia per terze dosi ha superato l’Emilia Romagna. Eppure all’inizio si temeva il contrario.
«È vero e mi fa piacere che il Sud abbia sorpreso i pessimisti e i no vax. Nella primissima fase dell’infezione la gente che andava a cantare sui balconi mi aveva commosso, quell’abbraccio emotivo che si stabiliva tra persone che dovevano osservare il distanziamento mi aveva colpito. Anche perché la distanza sociale colpiva al cuore l’essenza stessa della meridionalità, la sua apertura verso gli altri. Poi con il passare dei mesi si è fatta strada nella popolazione l’idea che le cose stessero peggiorando e che ci stessimo inguaiando, che qui non avevamo tanti ospedali come al Nord e quindi è maturata sul campo una responsabilità civile forse maggiore che altrove. È il modo migliore che hanno i meridionali di rispondere alla mancanza dello Stato».
«LE UNIVERSITÀ DEL SUD SONO ECCELLENZE, PENSO ALLA FEDERICO II. E SE I RAGAZZI DEL MERIDIONE VANNO A STUDIARE AL NORD È PERCHÉ LE FAMIGLIE SANNO CHE LÀ TROVARE LAVORO È PIÙ FACILE»
Lei è nata a Napoli, vi ha girato dei film e ora sta lavorando per la tv a Bari. Che differenze trova tra le due città?
«Tante. Napoli è più aggressiva, ruggisce. Non a caso da quell’atmosfera di contrasti anche violenti sono emersi scrittori, registi, personalità artistiche. Il dramma inevitabilmente forgia. Napoli è un unicum di colori, caos, vitalità ma è anche una città feroce. Quando ci vado ho nelle prime 48 ore quasi una sensazione di paura e poi quando mi allontano sento il bisogno di tornare. Tutto è amplificato: il traffico, la gente che urla, come ci si veste e come ci si muove. Anche la gentilezza è più cruda, non ha tratti borghesi. Penso che Napoli non sia replicabile, non è globalizzabile».
Bari invece...
«La Puglia è decisamente più dolce, la trovo protettiva, quasi materna. I baresi hanno toni più morbidi. Un temperamento diverso. E anche il peso della criminalità si avverte meno che a Napoli. Ho trovato i baresi molto attaccati al loro dialetto, c’è un legame identitario con il suono delle parole. Amo i dialetti, li studio quando riesco perché sanno realizzare una connessione profonda con la pancia delle persone. Adda passà ‘a nuttata è un’espressione che tradotta in italiano perderebbe la sua forza e insieme non trasmetterebbe lo stesso sentimento di speranza».
Una delle grandi sorprese del Sud è la bassa demografia. Non ci sono quasi più differenze con il Nord. Come è potuto succedere?
«È vero, è qualcosa di incredibile. Prima a Napoli il numero minimo era di tre figli per nucleo. Adesso conosco tante famiglie con un figlio o addirittura zero. Credo che pesi sui mancati genitori un’eccessiva preoccupazione sul futuro e poi si è sviluppato anche un certo egoismo, quasi che i figli togliessero gusto alla vita. Costringessero a troppe rinunce. Non so dire tra i due sentimenti quale prevalga ma la rinuncia grande, quella ai figli, è legata anche a un modello che ci è stato inculcato. Esisti se hai e se possiedi, se performi. Non ti puoi fermare».
Nel film di Sorrentino, «È stata la mano di Dio», lei interpreta una donna che impazzisce proprio perché non riesce ad avere figli.
«È una donna che vede cose che gli altri non vedono. Non avere figli diventa per lei un dolore insuperabile nel quale si identifica e si perde. Sorrentino assegnandomi quella parte mi ha fatto un grande regalo. In genere mi offrono ruoli più consolidati o di amica della porta accanto o di donna sexy, in quello ho visto qualcosa di differente. “È un personaggio che ti darà tantissimo”, mi aveva detto saggiamente mio marito Luca. E dopo aver letto la sceneggiatura aveva aggiunto ridendo: “Se non vai tu, vado io”».
Torniamo a passare in rassegna il Sud. Fuori dalle grandi città come Bari e Napoli cosa vede? La stessa ricchezza di umori, le medesime passioni o più disincanto, nostalgia, fatalismo?
«Posso parlare della Calabria dove ho avuto modo di girare. Ho visto una condizione diversa da Napoli e dalla Puglia, un territorio abbandonato a sé stesso. Sulla Sila mi è capitato di vedere una frana recintata e lasciata marcire così da 20 anni. La sensazione è che lo Stato fatichi ad essere presente ovunque nel Sud. E anche per questo amo il personaggio di Lolita, lei è lo Stato. È intransigente, conosce le contraddizioni del Sud e non se le nasconde. È figlia di un contrabbandiere di sigarette, dialogando con sua madre che aveva una piccola attività in nero la mette sull’attenti sostenendo che le regole devono valere per tutti. Ed è importante che Lolita per farsi rispettare non si sia dovuta travestire. È lo Stato ma è anche donna-donna, non deve rinunciare a niente per essere autorevole con i suoi colleghi, con i superiori o con le persone che vengono coinvolte nelle indagini».
«CREDO CHE SOTTO I COLPI DELLA PANDEMIA AVER AVUTO A DISPOSIZIONE UNO STRUMENTO COME IL REDDITO DI CITTADINANZA SIA STATA PER MOLTE FAMIGLIE IN DIFFICOLTÀ UN’ANCORA DI SALVEZZA, MA È CHIARO CHE NON PUÒ DURARE IN ETERNO»
Lo Stato però spesso deve retrocedere davanti alla forza della criminalità organizzata anche perché si trova davanti al consenso che i fuorilegge trovano nella popolazione.
«Non voglio dare lezioni o tirar fuori analisi originali sulla criminalità, dico solo che la dobbiamo allontanare dalle giovani generazioni. Dobbiamo offrire ai giovani del Sud formazione e occupazione per togliere spazio alla mafia e alla ‘ndrangheta. Poi la criminalità sappiamo che esiste anche al Nord, ci sono fior di inchieste giudiziarie che lo attestano, non è una prerogativa del Sud. Ma da noi spesso riesce a catturare l’appoggio popolare perché sembra supplire all’assenza dello Stato, si insinua nelle contraddizioni di chi non ha lavoro o fatica a chiudere il mese. Si offre come sostegno».
In questa legislatura è stato istituito un sussidio che si chiama reddito di cittadinanza rivolto in particolare a dare risposte alla povertà nel Sud. C’è una discussione ancora ampia sulla sua efficacia e sul senso stesso di una misura forzatamente assistenziale, lei cosa ne pensa?
«Onestamente credo che sotto i colpi della pandemia aver avuto a disposizione uno strumento come il reddito di cittadinanza sia stata per molte famiglie in difficoltà un’ancora di salvezza, ma è chiaro che non può durare in eterno. Nel breve termine sì, ma poi ci deve essere una prospettiva di lavoro. E a quanto capisco questa seconda gamba, come la chiamano, non ha funzionato, non ha portato le persone in difficoltà a trovare un’occupazione dignitosa. Ho letto che il presidente del Consiglio Draghi ha parlato di rilanciare i porti, mi pare una giusta prospettiva».
È scomparso di recente uno studioso inglese, Percy Allum, che aveva dedicato molto tempo a studiare Napoli, aveva ripreso le analisi di altri studiosi che avevano parlato di familismo amorale e aveva studiato l’economia del vicolo. Come vede la famiglia del Sud degli anni Venti?
«So bene come la famiglia sia un teatro di incredibili e dolorose contraddizioni. Ad esempio ormai è diventato un posto dove un giovane resta parcheggiato fino a 30 anni facendo finta di averne sempre 16. Personalmente credo che la famiglia possa migliorare, nel Meridione come altrove, grazie innanzitutto a una maggiore indipendenza economica delle donne. Nella sua storia Napoli è matriarcale, comandano le donne anche se poi non lo fanno vedere per salvare le apparenze. E io vengo da una famiglia di donne, sono stata cresciuta da un secondo padre ma il potere decisionale in casa lo esercitava mia madre. Che mi ha sempre trasmesso l’idea di essere autonoma, indipendente da un uomo. La bellezza dura poco, l’intelligenza di più, mi ripeteva».
«I BAMBINI DEL SUD CHE MANGIANO CIBO-SPAZZATURA SONO UNO SCHIAFFO AI NOSTRI ALIMENTI INVIDIATI NEL MONDO. MI STUPISCE CHE ANCHE DA NOI SI FACCIANO MENO FIGLI DI PRIMA»
Come sta affrontando il Sud i temi della diversità? Crede che ci sia ancora discriminazione sessuale?
«Direi proprio che non è più accentuata che altrove. Anzi, a Napoli la figura del femminiello sia nell’arte sia nella vita di tutti i giorni è stata sempre presente e accettata. Almeno tra il popolo, tra i borghesi non so».
Tra le tante contraddizioni del Sud c’è quella di una preoccupante avanzata dell’obesità giovanile nella patria della dieta mediterranea.
«Il ricorso al cibo-spazzatura da parte dei giovani è quasi un dramma e uno schiaffo per una terra che produce il cibo che tutto il mondo ci invidia. Si deve intervenire. E nel nostro piccolo, con la società di produzione che abbiamo creato con mio marito Luca, qualcosa abbiamo fatto. Un cartone animato sulla sana alimentazione dei bambini che andrà prossimamente su Rai Yoyo ed è stato prodotto tutto a Napoli. In città sta nascendo un piccolo distretto dell’animazione che utilizza giovani talenti che fanno la spola e si alternano tra il Golfo di Napoli e l’estero».
Nel mondo dello spettacolo il protagonismo e la soggettività femminile stanno facendo passi in avanti oppure no?
«Purtroppo la seconda che ha detto! È assurdo ma le donne sono pagate di meno degli uomini, e di tanto. Trovo incredibile poi che per trovare attori disposti a recitare in un ruolo di coprotagonista della serie di Lolita la produzione abbia dovuto faticare prima di individuare la persona giusta. Ancora è forte l’idea che un uomo debba avere per forza il nome per primo sul cartellone. È agghiacciante ma nell’anno di grazia 2022 è ancora così».
Un’ultima domanda. Cosa pensa della ministra Mara Carfagna che proprio di recente ha organizzato un importante summit di governo sul Sud a Sorrento?
«La conosco poco e non sono in grado di esprimere giudizi. Da quello che leggo si sta costruendo un suo spazio. Mi pare una figura politica che sta cercando anche di affermare un punto di vista femminile. E ce n’è bisogno».
Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 27 marzo 2022.
Quella di Luisa Ranieri verso Los Angeles è una partenza thriller: «Ho avuto mille imprevisti, un virus intestinale fino all'ultimo tampone non ci credo. Ormai si vive così, con l'ansia che quel che dici la sera non valga la mattina dopo. Quando Sorrentino ci ha detto "venite a vedere gli Oscar" pensavo a uno scherzo. Sono contenta di festeggiare Paolo, che amiamo tutti. Lo sono come attrice, donna, napoletana. Per me è un giro di giostra».
Cos’ha messo nella valigia?
«Pochissimo, il vestito lo porta lo stilista. Due jeans, due t-shirt, una camicia bianca e una giacca nera, può sempre servire».
Da quanto non tornava negli Stati Uniti?
«Da febbraio, invitata da uno stilista a New York. Non era la città che ricordavo, mi è parsa sottotono».
Il cinema hollywoodiano ha nutrito il suo immaginario?
«Poco. Non sono cresciuta con il mito americano o dell'estero. Cercavo una carriera nel mio Paese. Da zia Patrizia ad andare a Hollywood, è un cerchio che si chiude».
Come è diventata la zia Patrizia, bella, depressa, in un mondo a sé?
«La mia agente mi manda al provino pensando siano poche scene, ero sul set di Lolita Lobosco. Giriamo quella dell'ospedale psichiatrico, Paolo mi sceglie. Si scopre che il ruolo era più lungo, ho dovuto incastrare i due set. È stato un dono. Nessuno aveva mai pensato a me per una donna con un disagio mentale, e tu non sei davvero bravo se non hai un ruolo per dimostrarlo».
Le scene di nudo?
«Sono molto timida, con l'età, ne ho 48, ho imparato a voler bene ai miei difetti. È stato difficile, ma sono stata protetta da un set blindato».
È stato più facile del set di "Eros" con Antonioni?
«Non c'è paragone. All'epoca ero giovane, fu una esperienza traumatica. Sono stata male, durante e dopo. Mi sentivo invasa, esposta. Ero acerba come attrice e non sapevo proteggermi. La recitazione era soffocata dal corpo. Oggi ho la corteccia dell'esperienza. Ma ho grande affetto per quella ragazza e gratitudine per il maestro Antonioni, con lui ho fatto un salto professionale».
Ha lavorato con Antonio Capuano in "L'amore buio", l'ha ritrovato come personaggio.
«L'ho subito riconosciuto leggendo la sceneggiatura».
Rispetto al Fabietto del film, quale è stata la frase che Capuano ha avuto per lei?
«Ci incontrammo per il film da Ciro a Mergellina. "Madonna e che faccio di te? Si troppo bella, troppo giovane, ma va, va". Non era un complimento, cercava una mamma per questa ragazza e la cercava anonima. Ma il giorno dopo mi ha richiamato: "Se ti metto una parrucca e t'invecchio va buono?" Gli ho detto di sì».
Capuano chiede a Fabietto "ma tu ce l'hai una cosa da raccontare?". Lei ce l’ha?
«Oggi lo so, ma non mi va di condividerlo. Avevo un'urgenza di esprimermi, tirare fuori l’energia».
Fulvia Caprara per “la Stampa” il 9 gennaio 2022.
La Zia Patrizia bella e disperata, in contatto diretto con il soprannaturale, nel film di Paolo Sorrentino (oggi in corsa per i Golden Globes) E' stata la mano di Dio. La domestica altera e pragmatica di 7 donne e un mistero di Alessandro Genovesi. L'investigatrice single, acuta e sensuale, della serie tv Le indagini di Lolita Lobosco.
E la donna che, in una serata romana di pioggia, va a teatro cercando di mimetizzarsi nel pubblico, scarpe basse, giubbotto impermeabile, capelli raccolti e mascherina nera sotto uno sguardo che tiene sempre insieme luce e malinconia. Alla fine, dopo i commenti e i saluti, Luisa Ranieri se ne torna a casa, dalle sue bambine, sotto l'ombrello, mano nella mano con il marito Luca Zingaretti.
Non ci sarebbe nient' altro da aggiungere, anzi, come cantava De Gregori, «non c'è niente da capire», se non fosse che Ranieri ha anche un sacco di pensieri interessanti, sul suo lavoro, sulle donne, su quello che tutti stiamo vivendo.
Com' è andato l'incontro con il personaggio di Patrizia?
«Sorrentino ha una maestria speciale, non solo nel modo di girare, ma anche nella scrittura. Leggere il copione è stato come vedere il film, il mio ruolo era già molto preciso, Paolo mi ha presentato la zia e io l'ho presa così come me l'ha data, vedendola, da subito, come una figura reale, una donna con un immaginario che non trova concretezza nella realtà. Sul set mi sono lasciata guidare, mettendomi a disposizione del personaggio».
Che cosa lega il protagonista Fabietto alla zia Patrizia?
«Oltre a provare attrazione, Fabietto nota il suo anticonformismo, lei è capace di farlo sorridere e di sorprenderlo. A sua volta Patrizia è attirata da Fabietto perchè sente che lui può capirla, e poi vuole tanto dei figli e quindi, nel rapporto, c'è qualcosa che riguarda la sua aspirazione alla maternità».
Come ha affrontato la scena di nudo?
«Mi era già capitato, con Michelangelo Antonioni, quando ho recitato nell'episodio del film corale Eros, però allora avevo 27 anni, adesso sono più consapevole e in un'altra fase della vita. Nessun attore vuole sentirsi senza pelle, ma quella sequenza di E' stata la mano di Dio era fondamentale per rendere il distacco di Patrizia dalla famiglia, il suo essere estranea all'allegria degli altri».
Come Sorrentino lei è una napoletana che ha lasciato Napoli, come vive questa separazione?
«Mi sono ritrovata in quelle sensazioni contrastanti, il desiderio e insieme la tristezza di andare via. Noi napoletani abbiamo un rapporto sanguigno con la città, la voglia di tornare non si spegne mai, quelli che vanno via sono, come dice Erri De Luca, "Napolidi"».
In questi giorni è nelle sale con la commedia nera 7 donne e un mistero con 7 attrici al centro della scena: esiste la competizione fra donne?
«Certo che esiste, però, tra donne intelligenti, diventa una forza positiva invece che negativa. Nel film siamo state brave, siamo arrivate sul set con la voglia di condividere, di dimostrare che pure le donne possono fare squadra. Come in tutte le relazioni, abbiamo vissuto la fase in cui ci si annusa, quella in cui ci si confronta con le difficoltà e quella della rappacificazione. D'altra parte, proprio nelle difficoltà, le donne sono capaci di tirar fuori il meglio, noi l'abbiamo fatto, anche dal punto di vista umano».
C'è molta attesa per il ritorno in tv della sua Lolita Lobosco.
«A fine febbraio cominciamo a girare la nuova serie, sei puntate che credo andranno in onda entro l'anno, le riprese terminano a fine luglio. Sono contenta di tornare a essere Lolita, è un personaggio che mi sono scelta e in cui, per vari aspetti, mi sono riconosciuta, sento che le donne lo amano, mi diverto tanto a interpretarlo».
Per le donne è arrivato il momento della rivincita?
«Non credo sia un periodo di rivincita, abbiamo ancora un sacco di strada da fare, però ci sono buoni segnali, come quello di un film corale con tutte super-protagoniste, insomma siamo sulla strada giusta. Poi, però, per cambiare davvero le cose importanti, ci vogliono le leggi e l'educazione civica».
Una donna al Quirinale. Che ne dice?
«Sarebbe bello se si facesse un gesto di questa portata. Ovviamente non solo perchè verrebbe scelta una donna, quello che conta, a prescindere dal sesso, è che alla guida del Paese ci sia una persona con un profilo alto, imparziale, capace di rappresentare tutti. Secondo me ci sono donne che possiedono queste caratteristiche, e sarebbe giusto se gli venisse data l'occasione di mettersi alla prova».
E' madre di due bambine, domani si torna a scuola, tra molti dubbi e preoccupazioni. Che cosa si augura?
«Oggi ho portato le mie figlie a fare il vaccino, con la speranza che non perdano un solo giorno di scuola. Andarci è importante, è la fase più bella della vita, il momento di aggregazione, di gioco, di esplorazione, delle prime relazioni con l'altro sesso. L'anno scorso la mia figlia più grande è uscita devastata dall'esperienza della Dad, è stato un periodo pesante, ho visto lei e le sue coetanee perse, e i genitori più persi di loro, sull'orlo di una crisi di nervi. Vacciniamo i figli contro altre malattie, vacciniamoli anche per evitare il Covid».
La Zia Patrizia ha un incontro ravvicinato con il Monaciello. Se succedesse a lei, che cosa gli chiederebbe?
«Ho avuto tanto, lo ringrazierei, e mi piacerebbe che facesse sparire il Covid, dandoci la possibilità di tornare alla vita di prima, di incontrare gli altri in tranquillità, di viaggiare, e di toglierci questa benedetta mascherina».
Maccio Capatonda: «Il mio amore per Ilaria Galassi, la ragazzina di Non è la Rai». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022
Il comico ha pubblicato «Libro 2», una comicità che si muove tra i cieli rarefatti dell’assurdo
La storia di un uomo sgozzato da un termosifone, la risoluzione del dubbio se è nata prima l’acqua o la bottiglia (è giusta la prima), «le skills» necessarie a individuare una porta e a come aprirla, i consigli di lettura, a partire dal libro Come imparare a camminare in pochi semplici passi. L’antologia della comicità surreale è concentrata nel nuovo lavoro di Maccio Capatonda, Libro 2 (Mondadori), che arriva dopo il debutto con Libro, titolo che toglie ogni dubbio su cosa il lettore abbia tra le mani. La cifra di Maccio Capatonda è quella che mette anche nei suoi video, una comicità che si muove tra i cieli rarefatti dell’assurdo. «La comicità surreale è il mio modo di combattere la realtà stessa, di cercare una fuga dal mondo. Fin da bambino io trovavo la realtà limitata a due aspetti: o era noiosa o era dolorosa, quindi ho cercato di rimescolarla, di prenderla in giro, di farne una parodia: tutte tecniche che cercano una fuga dalla realtà e allo stesso tempo la criticano, la mettono in discussione. In fondo faccio quello che fanno tutti, l’epoca di oggi è fatta di persone che continuamente cercano di fuggire dal quotidiano: attraverso i social, attraverso i videogame, i film, internet».
Nel suo «Libro 2» scrive: «A furia di scacciare la noia stiamo diventando dipendenti dalla non noia. E cioè dalla sovrabbondanza di stimoli, da cui deriva la scomparsa del dialogo interiore e della vera spinta a non annoiarci».
«È un meccanismo di cui io stesso sono vittima, il fatto di aver paura della noia ci allontana da noi stessi, dai nostri desideri. Penso che avere dei momenti in cui si sta da soli, in cui non si hanno stimoli, sia importante per capire chi siamo veramente, cosa vogliamo, cosa desideriamo. In caso contrario quello che pensiamo di volere ci è sempre preventivamente suggerito dalle offerte che riceviamo, non da quello che pensiamo noi liberamente. Io ogni tanto faccio un digiuno: solo così ti rendi conto che l’assenza delle cose è quello che davvero ci manca, tutti dobbiamo avere delle mancanze per capire cosa vogliamo. Eppure siamo una società individualista, riflesso del consumismo e del capitalismo».
Come uno dei tanti paradossi di cui è intessuto il libro... Otto anni fa ha disegnato un ritratto spietato e sarcastico dell’italiano medio. Oggi siamo cambiati?
«Direi che è sempre uguale. L’italiano medio — che poi sono anche io — vive un conflitto interiore tra due anime in lotta: quella totalmente menefreghista, che cerca solo sesso e potere, droga e soldi; e quella che aspira ad essere parte di una comunità, impegnata socialmente e politicamente, attenta alla tutela dell’ambiente. Alla fine è ancora così: si possono alternare entrambi gli aspetti, lamentarci, criticare, ma non impegnarci abbastanza nel risolvere individualmente i problemi».
Racconta anche la sua passione per Ilaria Galassi, una delle ragazzine di «Non è la Rai».
«Io sono cresciuto con la tv, in realtà mia mamma era lei. Guardavo tutto, Non è la Rai, i film di Troisi e Verdone, Quelli della notte di Arbore, Benigni: io vedevo tutta la tv, era la mia fuga della realtà. Non è la Rai era la parentesi adolescenziale, onanistica che però io avevo già superato; io cercavo l’amore platonico, cercavo l’anima gemella e l’avevo trovata in Ilaria. Andai diverse volte fuori dagli studi del programma con la telecamera: Ilaria mi chiamo Marcello, volevo dirti che ti amo. Ti amo e infatti non mi sono mai masturbato pensandoti. Lei mi salutò carinamente. Poi ho riguardato il video: schermo totalmente bianco, sull’obiettivo della telecamera avevo lasciato il tappo...».
È cresciuto con la tv nella tentacolare Chieti...
«Una città iper-tranquilla, a tratti noiosa; la mia salvezza è stato il mondo del cinema. Avevo 9 anni quando ho visto Ritorno al futuro e mi sono fatto regalare una telecamera perché ero affascinato da quel lavoro: ricreare dei nuovi mondi che a Chieti non esistevano. Ho iniziato a girare i miei primi video, facevo succedere le peggio cose a Chieti, omicidi, scene horror, uno dei primi lavori era Jason a Chieti, ispirato alla saga di Venerdì 13. Crescere a Chieti mi ha permesso di lavorare di fantasia, di rifugiarmi in un mio mondo di comicità demenziale, mi ha permesso di trovare una evasione creativa».
La prefazione di libro è di Frassica, maestro del surreale. Per lei è come una laurea?
«Sono un suo adepto da sempre, ho assorbito negli anni della crescita la sua comicità surreale. Per me questa sua prefazione è una certificazione, un attestato, un bollino, fra l’altro gliel’ho chiesta il giorno prima di mandare in stampa il libro».
Aveva paura rifiutasse?
«No, è che questo libro è stato scritto in 4 minuti....».
Il prossimo impegno?
«Una vacanza lunga sei anni».
Maccio Capatonda è il vincitore di Lol2: «Faccio ridere? Ma io mi sento inadeguato e a disagio». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 4 marzo 2022.
Il comico ha battuto Corrado Guzzanti e Virginia Raffaele.
Dunque Lol non lo ha fatto ridere. «In realtà un botto di situazioni mi avrebbero fatto ridere — sorride finalmente libero Maccio Capatonda —, a partire dall’ultima battuta di Corrado Guzzanti. L’unico modo per resistere è stato estraniarsi totalmente dal gioco, una delle mie tecniche era quella di dormire mentalmente per non ascoltare». La seconda edizione del format prodotto da Endemol Shine Italy per Prime Video si è conclusa con un duello, Virginia Raffaele contro Maccio. Nessuno che rideva. È intervenuto Corrado Guzzanti (eliminato poco prima) e ha iniziato uno show concluso con un numero di magia: «Prendi una carta senza farmela vedere, ti piace? Dai tienila, te la regalo». Virginia ride, Maccio vince. Capatonda era partito più lento, ma nelle ultime due puntate ha tirato fuori il meglio. Le sue battute sono tagli di Fontana, arrivano secche, all’improvviso, tra non sense e giochi di parole, la faccia sempre imperturbabile. Maestro nella sua comicità costruita su sketch pensati e montati, rispetto agli altri tre fenomeni (Guzzanti, Forest, Virginia Raffaele) sembrava patire «la diretta» ma poi ha sfoggiato numeri di alta scuola con i suoi finti trailer («Il doppiatore fannullone» che si scorda di dare la voce a un attore; «Lo speaker smemorato» che dimentica tutto) e con i suoi libri demenziali tipo «La bacinella: come riempirla, come svuotarla, dove tenerla» e l’imperdibile «Imparare a camminare in pochi semplici passi».
Chi l’ha messa più in difficoltà?
«Corrado su tutti, è il mio mito di quando ero ragazzino, quello che si avvicina di più alle corde del mio umorismo. Insieme a lui anche Virginia Raffaele e il Mago Forest, uno che ti spiazza, ti fa ridere per la sua capacità di improvvisazione folle. Una menzione speciale invece per Max Angioni con cui ho trovato un grande feeling».
Era più importante partecipare o vincere?
«L’importante era partecipare a lungo. La vittoria non è indice di bravura; l’obiettivo era invece cercare di far ridere, spendersi, partecipare attivamente».
Lol 2, le pagelle definitive: Virginia Raffaele funambola fuoriclasse (voto 7,5), Del Bufalo, che mestiere fa? (4,5)
E lei quando ha capito che faceva ridere?
«A 10/11 anni ho iniziato a fare il videomaker, avevo il sogno di girare film horror o drammatici, mentre come hobby facevo degli sketch comici per gli amici. Da una parte c’era il regista impegnato, dall’altra l’intrattentore nel tempo libero. Però i miei film horror in realtà facevano ridere e ho scoperto presto che fare qualcosa che non ti riesce provoca il trash. Questa vena demenziale e surreale si è trasformata in un lavoro quando la Gialappa ha visto alcuni miei video comici e mi ha chiamato in tv a Mai dire. Da lì è partito tutto, anche se mi sento perennemente impreparato: io non ho ancora scoperto di far ridere e cerco sempre di colmare questa mia mancanza; è questo il motore della mia comicità, mi sento sempre un po’ inadeguato a fare questo lavoro».
È una tragedia essere un comico?
«Per quanto mi riguarda è vero, ho un lato melanconico, vivo continuamente con un senso di inadeguatezza e disagio addosso, sto sempre a scervellarmi, a farmi paranoie mentali sul mondo, a riflettere sulla condizione umana. Questo modo di porsi dà dignità alla mia professione di comico: anche se può sembrare, non sono uno che fa cazzate a vanvera. Io sulle cose che faccio ci sputo l’anima, ci penso e ci ripenso, ci rifletto, vivo in un continuo tentativo di destrutturare la realtà perché non mi piace la realtà così come è. E siccome non mi piace, la prendo in giro, mi ribello: vedo il mio lavoro come una ribellione allo stato delle cose; non protesto in piazza, ma combatto con la mia comicità».
Lei ha dipinto l’italiano medio come una sorta di subumano: siamo davvero così senza speranza?
«Pensando all’italiano medio ho scritto di me stesso. Io ho diversi lati della personalità, molto contrastanti tra di loro, in conflitto: da una parte provo la voglia di cambiare il mondo e dall’altra mi ritrovo preda del totale menefreghismo. Non riguarda solo gli italiani, ma riguarda la natura umana, che contiene tutte le possibilità e spesso le esprime in parallelo: tiri la pietra e nascondi la mano. L’impegnato e il menefreghista si fondono nell’italiano furbo».
Da ragazzino aveva passioni culinarie strambe: le piaceva il dado per il brodo e l’ostia consacrata...
«Il dado lo tenevo sempre in tasca, mi affascinava che fosse una riserva pressoché infinita di sapore concentrata in una dimensione così piccola. Me lo portavo sempre dietro e lo rosicchiavo. Parallelamente avevo un’attrazione insana per le ostie che sembrano la nemesi del dado: pochissimo sapore in uno spazio così poco denso. Tutti i giorni andavo a messa alle sei di sera per mangiarle. A quell’ora in chiesa eravamo solo in due: io e una fondamentalista cattolica matta di Chieti».
· Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.
Madonna in Sicilia, c’è chi ha detto no. Madonna in Sicilia, c’è chi ha detto no. Roberto Neglia il 31/08/2022 su Notizie.it.
Carmelo Pintaudi, gestore del celebre ristorane di Taormina "Casa Niclodi", in controtendenza, ha rifiutato il tavolo a Madame Ciccone.
Madonna, come ampiamente riportato da Notizie.it, ha trascorso il suo compleanno (64) in Sicilia, visitando varie località tra Noto, Ortigia e Taormina, dove ha ricevuto un’accoglienza praticamente trionfale. Folle arrembanti, fans in estasi e operatori turistici pronti a qualsiasi cosa per mettersi a disposizione dell’ambita ospite.
“Ciao Sicilia, sei stata così buona con me!“, ha quindi scritto la popstar commentando una carrellata di foto pubblicate al termine della sua vacanza. Scorrendole, tra queste non c’è ovviamente quella di Casa Niclodi, celebre ristorane di Taormina che, in controtendenza, ha rifiutato il tavolo a Madame Ciccone. Come abbiamo appreso da un cliente, lo staff della cantante si era infatti presentato il 20 agosto nel pomeriggio chiedendo di laciarle tutto il locale, cancellando quindi all’ultimo momento tutte le altre prenotazioni.
Circa un centinaio fra i due turni.
Ma Carmelo Pintaudi, che gestisce questo piccolo “giardino” tra i tetti della movida, si è opposto all’idea di dare il benservito ai suoi clienti, così ha proposto un’area interamente riservata, separata da una vegetazione di aranci e limoni.
Ma all’insistere delle richieste “tutto o niente” ha dichiarato la sua indisponibilità. Visibilità internazionale sfumata, ma molta gratitudine di chi, come il nostro lettore, ha potuto assaggiare la sua cucina pur non essendo una star.
Madonna ammette: «Pessima idea quella di sposarmi. Ora penso solo al sesso». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.
In una video-confessione sul suo canale Youtube, la 64enne popstar ha rivelato di rimpiangere i due matrimoni con Sean Penn e Guy Ritchie e che la sua attuale ossessione è il sesso, per la gioia del neo-fidanzato Andrew Darnell, che ha 41 anni meno di lei
Già una volta aveva detto che si sarebbe fatta travolgere da un treno, piuttosto che andare nuovamente all’altare e oggi Madonna lo ha ribadito, definendo i suoi due matrimoni - quello con Sean Penn dal 1985 al 1989 e quello con Guy Ritchie dal 2000 al 2008 - «non proprio le idee migliori che abbia avuto». La confessione è arrivata in un video postato sul suo canale YouTube, dove la 64enne popstar ha risposto a 50 domande, che spaziavano dalla sua quarantennale carriera ai piaceri proibiti, dal suo imminente album ai più grandi rimpianti della sua vita.
E in quest’ultima categoria la signora Ciccone ci ha appunto messo sia le nozze con l’attore americano (durante le quali aveva pure presentato una denuncia per violenza domestica, poi ritirata) sia quelle con il regista britannico (padre del suo secondogenito Rocco, che oggi ha 22 anni). «No, guardandomi indietro, quella di sposarmi non è stata l’idea migliore», ha ammesso Madonna, prima di affrettarsi ad aggiungere «entrambe le volte», così da non far torto a nessuno dei precedenti consorti.
Nel corso della confessione filmata la cantante - che nella clip indossa una giacca Versace supercorta nera, piena di spille da balia colorate e calze a rete - ha poi accreditato il sesso come «la mia ossessione preferita», scegliendo la stessa risposta anche per quanto riguarda i piaceri proibiti e il segno zodiacale (che in realtà è quello del Leone), per la gioia dell’attuale fidanzato, il 23enne modello Andrew Darnell, che ha 41 anni meno di lei.
Dopo aver rivelato che se non si fosse dedicata alla musica, sarebbe diventata un’insegnante e di voler collaborare nuovamente con la sua amica Britney Spears, a 19 anni di distanza dalla loro hit «Me Against The Music», Madonna ha quindi spiegato che è la curiosità che le permette di trovare ogni volta la voglia di rinnovarsi, «perché se sei una persona curiosa e presti attenzione alla vita, non smetterai mai di trovare l’ispirazione e delle nuove idee».
Fine fatica mai. La passera floreale di Madonna e la donnitudine postmoderna. Guia Soncini su L'Inkiesta il 14 Maggio 2022.
La popstar ha deciso di produrre un NFT in cui le escono degli alberi dalla vagina. Le perdoniamo anche questa scemenza perché è una tela su cui abbiamo sempre proiettato la possibilità di farcela anche se non eri né la più bella né la più intonata.
Quasi quasi parlo degli NFT, che mentre scrivevo L’economia del sé ho passato giorni a studiare convinta mi stesse sfuggendo qualcosa: ciò di cui parlavano tutti non poteva essere la formidabile stronzata che pareva a una ricognizione superficiale. E invece era proprio una scemenza come Second Life (ve la ricordate? Era l’irrinunciabilità di vent’anni fa) o Clubhouse (ve la ricordate? Era l’irrinunciabilità di tre quarti d’ora fa): che fatica un’epoca in cui ogni settimana sei costretta a studiare una nuova scemenza che dopo tre quarti d’ora non ti servirà più conoscere.
Parlerei persino degli NFT, che mi interessano forse addirittura meno del calcio, pur di non parlare di Madonna che produce un NFT in cui le escono degli alberi dalla passera, la Courbet dell’epoca dei bitcoin (no, quello di Courbet mica era un autoritratto, e la vagina virtuale di Madonna l’ha disegnata un tal Beeple, quindi semmai Courbet sarebbe lui, e lei la modella, ma a fama invertita: di Constance Queniaux, la modella di Courbet, nessuno si ricorda il nome).
Il tema, ovviamente, non è la menopausa di Madonna, la menopausa di una che sta in scena da quarant’anni ma non si arrende, non si scansa, non si copre, e il tempo che abitiamo le ha fornito pure la copertura ideologica (se vi fa inorridire la vecchia con la passera fiorita è perché siete sessisti, siete ageisti, siete anatocisti). Il tema siamo noi.
Ha scritto ieri Maria Laura Rodotà sulla Stampa che «con Madonna e i suoi genitali molti di noi sono cresciuti» – il che è vero, per le trentaequalcosenni. Sex, il librone erotico patinato, è di trent’anni fa: noialtre eravamo già grandi. Per le mie coetanee – quelle che avevano dodici anni all’altezza di Like a Virgin e quattordici all’altezza di True Blue – Madonna è stata quasi tutto tranne che il sesso libero. Sì, nel video di Papa don’t preach aveva quella maglietta con scritto che gli italiani lo fanno meglio, ma era una canzone in cui diceva al padre che era rimasta incinta e voleva tenersi il bambino: neanche La ragazza con la pistola era così retrogrado, neanche le lettere a Cioè che chiedevano se il bidè con la Coca Cola fosse anticoncezionale facevano passare così tanto la voglia.
In compenso dopo quel video volevamo tutte tagliarci i capelli corti, così come dopo quello di Like a virgin avevamo comprato orrendi guanti di pizzo, così come da Material girl le migliori di noi impararono i fondamentali della scalata sociale: the boy with the cold hard cash is always mister right. La passera era un mezzo, mica un’installazione botanica.
Adesso che la passera è un fine – e che a chiamarla così verrò come minimo accusata d’essere Belpietro: siamo un’epoca che fa passare concetti mostruosi sterilizzandone il lessico, e quindi una detentrice di passera è obbligata a chiamarla vagina – Madonna si dev’essere giustamente chiesta perché solo lei no.
Se tra i libri più venduti in Italia ci sono le poesie di una tizia di cui non si conoscono le doti letterarie, ma si sa che si espone molto per ottenere una legge che riconosca il mal di vagina (ignoravo fosse finora illegale avere male là sotto, ma è perché ho moltissimi limiti culturali), allora vuol dire che la vagina è una corrente letteraria, artistica, espressiva. Se i giornali sono pieni della poetessa esordiente cui duole, Madonna – con la carriera che ha avuto – avrà pur diritto di farsela fiorire.
Oltretutto per beneficenza (ai bambini ucraini: c’è pure il ricatto del tema importante): l’asta per gli NFT si chiudeva ieri notte, chissà quale dei tre è stato quotato di più. Quello in cui dalla cicconica passera esce un albero, quello in cui escono farfalle, quello in cui escono bruchi (che sembra un po’ la scena dei Visitor in cui l’umana partoriva l’alieno: se siete della generazione cresciuta con Madonna ve ne ricorderete).
Il tema, insisto, siamo noi: Madonna è una tela su cui abbiamo sempre proiettato tutto, la smania di rivalsa sociale, la possibilità di farcela se non eri né la più bella né la più intonata, persino quello slogan che è sempre falso tranne quando la riguarda, quello dei quarant’anni che sono i nuovi vent’anni. A quarant’anni, Madonna era bella come mai prima. Era l’anno di Ray of Light, per capirci. Era a metà tra la prima e la seconda gravidanza, era una tizia che aveva partorito e aveva la pancia più piatta che a venticinque anni, era una che cantava da che avevamo memoria e ora faceva il suo miglior disco, era la prova che persino quando eri Madonna avevi margini di miglioramento, e che non esistevano «ormai è tardi» che avessero senso.
Adesso, ogni volta che la vediamo su Instagram piena di filtri e di iniezioni e di smaniosità e di figli e d’apparente incapacità di rilassarsi, noi ci agitiamo e rivorremmo la possibilità di dire che ormai è tardi: questa vita che è cominciata a quarant’anni ci toccherà accollarcela anche a settanta? Dovremo essere ancora in forma, ancora fotogeniche, ancora alla ricerca di modi per farci notare, pure se quei modi consistono nel far produrre un avatar di noi stesse (che in realtà sembra un avatar della Barbie) dalla cui passera far uscire flora e fauna? Non arriverà a nessuna età di questa dannatissima donnitudine postmoderna il momento di sfilarci la dentiera, metterla nel bicchiere, e passare la serata a leggere un giallo sotto la coperta? Fine fatica mai?
· Mago Forest: Michele Foresta.
Mago Forest: «Provo le gag con mia moglie, ma ormai non mi dà più retta. Io e la Gialappa’s? Un idillio». Elvira Serra su Il Corriere della Sera l'11 Aprile 2022.
Il comico Michele Foresta: «Per aiutare i miei genitori ho fatto anche l’imbianchino. Gli scherzi più brutti? A mia sorella». L’autografo più strano: «Su una scatola di supposte». L’esperienza in Africa: «Far ridere i bambini della Tanzania un’emozione fortissima».
Mago Forest a «Lol 2»
Se le dico granita di neve?
«Mi viene in mente quella che faceva mia mamma quando nevicava a Nicosia, una volta all’anno. Era una festa. Raccoglieva la neve pulita, aggiungeva lo zucchero, girava e me la dava. Mi ha fatto tornare indietro nel tempo...».
Un altro ricordo di allora?
«Mia madre mi tagliava il pane a cubetti con sopra un pezzettino di acciuga: erano i soldatini; se li finivo tutti potevo mangiare il re, un pezzo di pane ancora più grosso con l’acciuga intera in testa. Erano i suoi trucchi...».
Perché? Era inappetente?
«Ero mingherlino. Ha presente la regola delle 100 uova, che per far crescere un bambino bisogna fargli mangiare un uovo crudo al giorno per cento giorni di fila? Non potevo andare a giocare fuori finché non bevevo il mio ovetto».
E oggi riesce ancora a mangiarlo?
«Oggi vorrei, ma mia moglie me lo vieta, per il colesterolo. Quando vado a trovare i miei in Sicilia, però, l’ovetto fritto ci scappa sempre».
Che famiglia era, la sua?
«Modestissima, ma non ci mancava nulla. Soprattutto, non il senso dell’umorismo. Mio padre Filippo faceva il carpentiere. Oggi ha 94 anni. Mia madre Pina era casalinga: lei ne ha 87. Si vogliono molto bene. Di loro si occupa soprattutto mia sorella Luisa».
Un bel regalo che è riuscito a fargli?
«Con Luisa, abbiamo regalato a nostro padre una Panda nuova. Ma lui l’altra mica l’ha buttata! So a memoria tutte le targhe delle sue auto. La prima, una 500: EN26328. La 127: EN34586».
Intervistare Michele Foresta è un percorso a ostacoli, dove gli ostacoli sono le valigie, i marchingegni, le Moleskine numerate dove abbozza le idee, i mazzi di carte che il suo alias, Mago Forest, tira fuori per distrarti e portarti fuori dai binari della conversazione che avevi pianificato. Per esempio: va a cercare il pezzo di un grammofono, poi un telefono «portatile» in bachelite (frequenta mercatini e rigattieri, ma questo è un regalo del suocero) e con questi due in mano dice di voler sperimentare la sua nuova macchina della verità, ti fa scegliere per tre volte una carta da un mazzo e per tre volte la azzecca ascoltando il tuo tono di voce. «Quando torno da Fazio lo faccio anche lì», spiega mentre ti arrovelli su dove sia il trucco e nel frattempo hai perso il filo delle domande (e lui lo sa, lo ha fatto apposta!).
È più difficile ipnotizzare una banana o ammaestrare un piranha?
«Mi hanno dato soddisfazione entrambi. Mi è sempre piaciuto fare la parodia del mago. Di maghi che stupiscono ce n’erano già tanti, io cercavo di dare un senso arcano alle banalità del quotidiano».
La magia più grande che le è riuscita?
«A parte fare questo mestiere, il mio sogno?».
Sì, a parte quello.
«Allora direi aver fatto comparire una moglie durante uno spettacolo: la mia, Angela».
Racconti.
«Nel 2004 ero stato chiamato dalla sua azienda a Treviso per uno show. Lì ci siamo conosciuti e poi c’è voluto moltissimo tempo per approfondire l’amicizia. Siamo sposati dal 2012».
Le mostra in anteprima i suoi giochi?
«Sì, ma ormai non mi dà più tanta retta... Ma è molto obiettiva, mi fa stare con i piedi per terra. Abbiamo molte cose in comune: amiamo viaggiare, ha un grande senso dell’umorismo, le piace l’arte contemporanea, andare per mostre».
Crea da solo i suoi marchingegni?
«Sì, ho grande manualità, da ragazzo facevo l’imbianchino per aiutare in famiglia. E mi considero un dadaista: mi piace assemblare oggetti che non dialogano tra di loro. Sono fiero di un tagliaerba che mi lasciava a brandelli i vestiti e mi depilava il petto con la forma della carta scelta dalla cavia: da poco ho mandato una foto a Piero Pelù, per stupirlo. Sono affezionato a una catapulta per lanciare le carte. E a una cabina per il teletrasporto, in cui indossavo un abito come la carta da parati interna, per mimetizzarmi».
Chi sono stati i suoi punti di riferimento?
«Di sicuro Oggi le comiche, che trasmettevano una volta alla settimana, il sabato, prima del telegiornale dell’una e mezzo. Ma siccome a quell’ora ero a scuola, mi inventano delle scuse per uscire prima. E lì vedevo Harold Lloyd, ha presente?, il comico che si aggrappava alle lancette di un grattacielo. Sapevo che volevo fare il mago. Poi guardavo Pappagone, di Peppino De Filippo, i fratelli Santonastaso, Cochi e Renato...».
Il «suo» mago?
«Mac Ronay, un francese il cui personaggio era sempre alticcio e diceva solo “hep!”, il suo et voilà: andava a Studio Uno, ospite di Mina, o da Silvan. Abbiamo anche cenato insieme, una volta: avevo fatto io lo spettacolo ad Asti a un evento in cui lui veniva premiato. Gli procurai delle registrazioni dei suoi interventi nelle tv italiane e lui dopo mi scrisse una lettera molto bella».
Un altro mago verso il quale è debitore?
«Tommy Cooper, che conobbi a Londra quando andai lì, ventenne, per fare teatro di strada. Lui si esibiva davanti alla Regina! È morto in scena, poverino...».
Non è la morte migliore, per un artista?
«No. Io voglio morire in una bella sedia a dondolo a 100 anni mentre non faccio niente!».
Nel frattempo Michele Foresta, o il Mago Forest, vai a sapere, cerca una foto in cui gli rende omaggio con un cappello simile in testa. Poi ti fa vedere il quadro di Giosetta Fioroni con l’impronta della mano di Enzo Biagi acquistato a un’asta benefica. Dopo arriva con un altro scatto assieme all’amico Raul Cremona nella loro parodia di Siegfried & Roy: Sigmund & Joy.
Oggi il politically correct sta un po’ cambiando anche la comicità.
«Per evitare discriminazioni si è diviso il mondo a oltranza in categorie che sono diventate la parodia del politically correct. Siamo riusciti a sindacare perfino sul bacio del principe a Biancaneve senza il suo consenso. Di questo passo il pensiero laterale del comico va a farsi friggere, eppure i comici devono farci i conti. Pensiamo a Chris Rock alla serata degli Oscar».
Lei avrebbe fatto quella battuta?
«No, ma non avrei neppure tirato lo schiaffo. Però lì entriamo nell’umano: Zidane ha fatto perdere un mondiale alla Francia per sua sorella».
A quale «Mai dire» è più affezionato?
«Ho iniziato con Ellen Hidding a Mai dire Maik: il programma non era neanche andato particolarmente bene. Da allora sono rimasto per tutte le edizioni. Sicuramente è stata la più bella esperienza professionale. Di Marco Santin sono il testimone di nozze, Giorgio Gherarducci l’ho sposato io in Comune con la fascia del sindaco Sala. Il processo creativo di Mai dire gol era bellissimo: si lavorava tutti i giorni per fare un’ora e mezzo di programma. Oggi sarebbe impensabile, ma la comicità va preparata, non è improvvisazione».
E per «Lol 2» si è preparato tanto?
«Sì, e anzi mi è spiaciuto uscire perché avevo ancora tanti numeri da fare. Per fortuna sono rientrato alla fine e ho fatto quello del suonatore di capezzoli, ci tenevo molto...».
Perché maltrattava sempre Angioni?
«Ma no, lo stimolavo per simpatia, perché gli volevo bene, altrimenti lo avrei ignorato».
Guzzanti?
«Ogni volta che apriva bocca rilasciava delle perle. Tutti noi avevamo un senso di rispetto e ammirazione nei suoi confronti».
A «Lol 2» abbiamo tutti visto il suo didietro.
«Quello è uno scherzo che mi è sfuggito di mano, per colpa di Virginia (Raffaele, ndr). La mia idea era di mostrare la mia foto nudo e poi distribuire a tutti una cartolina diversa. Doveva essere una citazione di Luis Buñuel e del suo film Il fantasma della libertà...».
Non abbiamo parlato di Silvan!
«È un grande maestro, e non solo per i maghi italiani. La sua silhouette è diventata il simbolo del prestigiatore in tutto il mondo».
L’autografo più strano dove lo ha firmato?
«Su una scatola di supposte: una signora mi aveva riconosciuto uscendo dalla farmacia».
Il momento più emozionante della carriera?
«Lavorare con Renzo Arbore a Indietro tutta! Lo ascoltavo in Alto gradimento quando aiutavo mio padre in campagna e appendevo la radiolina a un albero per prendere meglio il segnale».
Come andò con Jury Chechi?
«Silvan per i suoi numeri usava una parola magica, Abracadabra, così ne volevo una anch’io. Poiché lui aveva appena vinto le Olimpiadi, alla prima puntata di Zelig usai come formula magica Jury Chechi-Chechi Jury. Abbiamo anche fatto uno spot insieme, dopo, per una compagnia telefonica che poi è fallita. Forse a causa nostra...».
La battuta che non fu capita?
«Quando dissi che ero credente all’8 per mille. Un prete di Nicosia non voleva più farmi cresimare mio nipote. Mediò don Silvio Mantelli, il salesiano mago che fu maestro di Arturo Brachetti. È stato lui a celebrare il mio matrimonio».
Il pubblico più difficile?
«I bambini: è un altro lavoro. Ma una volta andai in Tanzania con ActionAid per il progetto “Se fossi nato in...”. Vederli ridere quando facevo comparire i pesciolini o mi facevo uscire venti metri di stringa dalla bocca fu emozionante».
Lo scherzo che oggi non rifarebbe più?
«A casa dormivo nella stessa stanza di mia sorella, che ha 7 anni meno di me, e più di una volta, quando rientravo tardi, la svegliavo e le dicevo che era ora di andare a scuola: lei si metteva il grembiulino e poi scopriva che non era vero».
Non è così brutto, anzi fa ridere.
«Eh, ma infatti lo scherzo per il quale non finirò mai di chiederle scusa è un altro... A casa non avevamo il riscaldamento, usavamo il braciere, e spesso utilizzavamo i tronchi di legno che portava mio padre dal lavoro, e magari avevano ancora i chiodi. Una volta presi un chiodo dal braciere, con la pinza, e le chiesi di portarlo fuori. Lei, bambina, lo prese con le mani, fece tre passi e... cominciò a urlare».
L’incubo ricorrente?
«Che non sono mai pronto per andare sul palco, mi manca sempre un pezzo: il papillon, una scarpa, un’altra cosa...». Dopo la storia del chiodo, pare il minimo.
Mahmood compie 30 anni: eliminato ad X Factor, ha fatto il barista, 10 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 12 Settembre 2022.
Il cantautore, che ha trionfato a Sanremo 2022 in coppia con Blanco, è nato a Milano il 12 settembre 1992
Le origini del nome d’arte
«Devo ancora capire cosa non mi piace di me. Ho bisogno di tempo per rifletterci, spero di prendermelo presto». Parola di Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, che proprio oggi compie 30 anni. Il nome d’arte del cantautore, nato a Milano il 12 settembre 1992, è un gioco di parole tra il suo cognome e «my mood» (in inglese «il mio stato d'animo»). Ma ci sono molte altre curiosità su di lui da scoprire.
Il rapporto con i genitori
Mahmood è stato cresciuto da sua madre, Anna Frau. Suo padre infatti è andato via di casa quando lui aveva soltanto cinque anni. «Devo tutto a mamma - ha raccontato al Corriere -. All’inizio, mi accompagnava lei dal maestro di musica, partendo da Buccinasco, dove lavorava, e portandomi a Baggio. Ogni giorno, un viaggio. Mi ha fatto da madre e da padre. Non posso dire che papà mi sia mancato, perché lei mi ha dato tutto. Mi ha sostenuto. Mi diceva: ti pago i corsi di musica solo se vai bene a scuola».
Ha fatto il barista
Prima di dedicarsi completamente alla musica Mahmood ha lavorato per due anni e mezzo in un bar, come barista.
Eliminato ad X Factor
Nel 2012 Mahmood ha partecipato alla sesta edizione del talent show X Factor (con il suo nome, Alessandro Mahmoud) nella categoria 16-24 Uomini capitanata da Simona Ventura. Dopo essere stato inizialmente scartato dalla stessa Ventura agli Home Visit è stato ripescato dal televoto per prendere parte ai Live (è stato poi eliminato nel corso della terza puntata). «So esattamente perché sono stato eliminato: non ero pronto - ha raccontato Mahmood a distanza di anni a Grazia -. Tutto arriva al momento giusto. Il treno, per salirci, lo devi vedere».
Due vittorie a Sanremo
Mahmood ha vinto due volte nella categoria Campioni il Festival di Sanremo, nel 2019 con il brano «Soldi» e nel 2022 in duetto con Blanco con «Brividi». Aveva già tentato la carta sanremese nel 2015, tramite il concorso Area Sanremo: ha in seguito partecipato alla kermesse nel 2016, tra le Nuove Proposte, ma non è andata bene (si è classificato al quarto posto).
Autore per altri
Nei suoi primi anni di carriera Mahmood ha svolto anche l'attività di autore per altri artisti: ha partecipato alla composizione di brani come «Nero Bali» di Elodie con Michele Bravi e Gué Pequeno, certificato doppio disco di platino, «Hola (I Say)», «Mille Lire» e «Rivoluzione» di Marco Mengoni contenute nell'album «Atlantico».
I meme
Mahmood è amatissimo sui social. Su Twitter sono diventati molto popolari i meme che lo vedono protagonista, dalla sua espressione a Sanremo Giovani 2018 (quando fu annunciato vincitore, vedi foto qui sotto) alle frasi estrapolate dalle sue interviste («Mi cabeza está ciao» cit.).
Non parla arabo
Il cantautore, nonostante suo padre sia egiziano, non parla arabo. Ma nelle sue canzoni ha inserito frasi in questa lingua, come «Waladi waladi habibi ta'aleena» in «Soldi», che significa «Figlio mio, amore, vieni qua».
Vita privata
Sulla vita privata di Mahmood non è mai trapelato nulla, il cantautore infatti a questo proposito è riservatissimo. A proposito del suo orientamento sessuale ha dichiarato al Corriere: «Io non ho mai detto di essere gay. La mia è una generazione che non rileva differenze se hai la pelle di un certo colore o se ami qualcuno di un sesso o di un altro. Io sono fidanzato, ma troverei poco educata la domanda “hai un fidanzato o una fidanzata”. Specificare significa già creare una distinzione».
L’incendio di via Antonini
C’era anche l’appartamento di Mahmood nel grattacielo distrutto dalle fiamme un anno fa in via Antonini a Milano. «Per molti dei miei vicini sarà più dura ricominciare, non tutti possono ricostruire una vita in pochi giorni e riavere ciò che avevano prima - ha fatto sapere via Instagram in quei giorni -. Molte persone e molte famiglie hanno necessità di aiuto. Spero veramente che questa situazione non verrà dimenticata in pochi giorni e che si faccia quanto possibile per aiutare tutti coloro che ne hanno bisogno».
DAGONOTA il 25 aprile 2022.
Oggi cerchiamo di capire un po’ meglio come funziona il giornalismo musicale in Italia. Sabato su questo disgraziato sito vi abbiamo raccontato della spiacevole vicenda capitata al collaboratore del “Messaggero” Mattia Marzi, che è andato raccontando di essere stato respinto all’uscio a un concerto di Tommaso Paradiso perché aveva parlato dei flop del cantante romano (salvo poi rivelare su Twitter che il concerto era sold out).
Oggi, lo stesso Marzi verga una recensione entusiasta (eufemismo) del concerto di Mahmood al Bataclan di Parigi.
Che c’entra? Semplice: l’agenzia di comunicazione che ha riempito di “insulti irriferibili” il giovane giornalista, “Words for you” di Francesca Casarino, cura l’ufficio stampa non solo per l’ex cantante dei “TheGiornalisti”, ma anche per il vincitore di Sanremo.
In un giorno Marzi e “Wfy” hanno fatto pace? I pr hanno cercato di farsi perdonare accreditandolo, come molti altri colleghi, all’evento nel locale tristemente famoso per l’attentato del 2015, senza rancore per aver raccontato la storia?
Possibile, anzi, probabile, come dimostra la story Instagram della “senior account” di Words For You, Valentina Ferrara, che tagga tutti i giornalisti italiani presenti a Parigi, tra cui quello del “Messaggero”, unico ad apparire con la sua faccia. Evidentemente i “cattivi” non erano quelli dell’ufficio stampa ma Tommaso Paradiso, che come la collega Elodie, si sente intoccabile e non accetta critiche.
Piccola nota a margine: sull’account di Words for You oggi si gioisce per l’ottima copertura stampa data all’evento. Domanda: chi ha pagato il viaggio e l’albergo? I giornali o l’agenzia stessa? Se fosse stata la seconda, sarebbe stato difficile, anche per uno con la schiena dritta come Marzi, fare una recensione negativa.
Mattia Marzi per “il Messaggero” il 25 aprile 2022.
Poco importa che la maggior parte del pubblico sia composta, in fondo, da italiani residenti a Parigi e dintorni: fa comunque effetto sentire 1.700 spettatori riuniti in un club nel cuore di una capitale europea cantare Brividi di Mahmood e Blanco dalla prima all'ultima nota all'unisono con il 29enne cantautore milanese, a poco più di due settimane dall'inizio dell'Eurovision Song Contest.
Quest' anno la kermesse continentale 183 milioni di spettatori per la scorsa edizione si svolgerà a Torino, dal 10 al 14 maggio. E il duo rivelazione di Sanremo tenterà l'impossibile: regalare la seconda vittoria consecutiva all'Italia dopo quella dei Maneskin.
I suoi primi brividi internazionali, intanto, Mahmood li ha provati sabato sera dando il via alla branca europea del tour dell'album Ghettolimpo sul palco del Bataclan di Parigi, teatro nel 2015 di uno dei più atroci massacri di matrice terroristica in Europa (nel locale, che quella sera ospitava un concerto degli Eagles of Death Metal, morirono 130 persone tra cui l'italiana Valeria Solesin): «Quando i gestori mi hanno fatto vedere i fori dei proiettili lasciati sulle pareti ho avuto un sussulto. Mi sono detto: Come faccio a cantare le mie canzoni senza pensare a quello che è accaduto qui?.
Ho provato un'emozione indescrivibile», racconta lui poco dopo essere sceso da un palco difficilissimo, che ha conquistato con le hit che gli hanno permesso di diventare un punto di riferimento del nuovo pop italiano, da Gioventù bruciata a Inuyasha, passando per Soldi e la stessa Brividi, accompagnato dalla sua band e senza effetti speciali se non i suoi virtuosismi vocali.
Di fronte al pubblico del Bataclan tra gli ospiti anche lo stilista Christian Louboutin Mahmood ha preferito non lanciare grandi messaggi: «Sono del parere che la musica debba unire e non dividere».
Gli scommettitori dell'Eurovision danno lui e Blanco tra i favoriti, secondi solo agli ucraini Kalush Orchestra e alla loro Stefania: «Non può vincere l'Italia due anni di seguito dice Mahmood, forse anche un po' scaramanticamente io farei vincere subito l'Ucraina, se può servire a qualcosa. L'esclusione della Russia? Forse i primi a non voler partecipare sono loro: io mi sentirei a disagio a sedermi a un tavolo dove so di non essere persona gradita».
A Torino Mahmood e Blanco che a Parigi non c'è: il 19enne enfant prodige ha approfittato di una pausa del suo tour da 300 mila biglietti venduti per fare una breve vacanza negli Usa incontreranno Achille Lauro, che rappresenterà San Marino con Stripper (e da regolamento potrà essere televotato dall'Italia, a differenza del duo di Brividi): «Mi piace di più il pezzo che porta all'Eurovision che quello che ha portato a Sanremo.
La cosa che mi fa strano è pensare che gareggerà contro il nostro paese si lascia sfuggire Mahmood, che nel 2019 sfiorò la vittoria dell'evento con Soldi ma stimo anche il suo coraggio. In fondo ci vuole pelo sullo stomaco a mettersi in gioco come ha fatto lui. Io sono felice di andare lì a rappresentare l'Italia insieme a Blanco. Pensavo che dopo Soldi non sarei più tornato all'Eurovision. Forse era destino».
Sul palco del PalaAlpitour niente baracconate, per il duo: «Sarà una performance elegante. Anche perché se ci mettiamo a fare i balletti su Brividi, ci tirano le pere», scherza Mahmood.
Ai censori dell'Eurovision, che l'anno scorso chiesero ai Maneskin di ripulire il testo di Zitti e buoni da volgarità e parolacce, dev' essere sfuggito quel «mando tutto a puttane» urlato da Blanco: «In fondo è un mestiere e io trovo più offensiva la parola prostituta sorride Mahmood un verso in inglese?
No, c'è in ballo qualcos' altro: vedrete». Prima dell'Eurovision il tour, che ha fatto già registrare il tutto esaurito per le date di Losanna, Londra e Madrid, farà tappa in questi giorni anche ad Anversa, Amsterdam e Zurigo.
La tournée italiana nei club partirà il 16 maggio a 48 ore dalla finale dell'Eurovision proprio da Torino, prima di Milano (17-18 e 30/5), Roma (21 e 28/5), Napoli (22/5), Firenze (24/5), Padova (25/5) e Nonantola (31/5). Poi, in attesa del tour all'aperto, sarà la volta di altri brividi internazionali: «Negli scorsi mesi sono andato a Los Angeles a scrivere cose nuove, lavorando con produttori come Ido e Rick Nowels, già al fianco di Justin Bieber e Lana Del Rey. Viaggiare mi ha stimolato».
Mahmood: «Eurovision: se serve, vinca l’Ucraina. Mio padre? Ci parlo solo tramite mamma». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2022.
Il cantante si racconta dalla prima tappa a Parigi, in attesa della competizione a Torino. Sarà un questione di dna, mamma sarda e papà egiziano, ma quello delle barriere e dei confini non solo geografici è un tema che ritorna nella vita e nella carriera di Mahmood. «Andare in tour in Europa, cantare le canzoni all’estero insieme al pubblico che parla altre lingue mi dà una felicità immensa. La musica viaggia al di là delle barriere linguistiche e culturali, unisce tutti e lo scambio che avviene dal vivo lo conferma», racconta al termine del concerto al Bataclan di Parigi, apertura di un tour europeo che lo porterà ad Anversa, Amsterdam, Losanna, Zurigo, Londra e Madrid.
Subito dopo ci sarà l’Eurovision Song Contest a Torino. Con Blanco e «Brividi», vincitrice a Sanremo, rappresenterà l’Italia. Il secondo posto nel 2019 offrì a Mahmood un passaporto per l’Europa. Nei mesi successivi «Soldi» divenne una hit da oltre 100 milioni di stream che provenivano per il 57% dall’estero. I bookmaker li immaginano al secondo posto. Se la gufa da solo. «L’Italia non può vincere due anni di fila... Anche con il calcio è andata così: nel 2020 la vittoria e quest’anno fuori». L’attenzione è per l’Ucraina. «Quello che sta accadendo non vale la vittoria di 20 Eurovision. Quindi se potesse essere d’aiuto farei vincere l’Ucraina».
L’organizzazione ha deciso di escludere la Russia, e come con il tennis si discute se sia giusto far pagare ad artisti (o atleti) le colpe di un governo. «Per l’organizzazione della manifestazione in Rai sono coinvolti i massimi livelli. Immagino sia così anche per la Russia e forse quelle stesse persone non vorrebbero esserci. E poi... Russia contro Ucraina? Mi viene da dire, ma non ti vergogni?». Anche Achille Lauro sarà in gara, sotto la bandiera di San Marino. «A me farebbe strano pensare di andare contro il nostro Paese, ma stimo la scelta di andare con San Marino, anche perché come conseguenza deve sopportare tutto quello che gli stanno dicendo dietro. Tutto sommato non ha fatto così male».
Il Bataclan è sold out, circa 1700 persone tra cui lo stilista Christian Louboutin, maggioranza di italiani ma le lingue in platea si mischiano. Sulle scale per la galleria si vedono ancora i segni delle pallottole dell’attentato del 2015 in cui rimasero uccise 90 persone. Sul palco ha parlato di «musica che deve unire e non dividere: immortale». Approfondisce il tema: «Durante le prove ho sentito un po’ di ansia e tensione. Ma ho anche capito che la musica serve per superare certi momenti. In luoghi come questo la gente crea connessioni che non devono essere interrotte».
Sul palco sale con un abito metallizzato, quasi un costume da supereroe. Uno schermo verticale e luci eleganti fanno la scenografia che tornerà anche nelle date italiane: «Una scelta stilistica sperimentale e minimal». Non è minimal invece l’uso della voce. Sin da «Dei», canzone che apre la scaletta, ricama melodie con un’impronta che sembra portare dentro le sue origini arabe. «È una scelta che ho fatto perché cantare sempre allo stesso modo mi annoia, ma più che al muezzin a volte penso di essere un trapper americano». Dalle prime file arriva la richiesta di un brano in arabo: «Volevano “Sabri Aleel” dell’egiziana Sherine. L’avevo fatta alla Notte della Taranta 2020. È da tanto che non mi alleno con l’arabo e ho chiesto scusa per la pronuncia. All’epoca avevo studiato la pronuncia con Aziz, il mio parrucchiere».
Le divinità dell’antico Egitto popolano i visual su «Dorado». «T’amo» è il brano dedicato a mamma che contiene il classico del folk sardo «Non potho reposare». Con papà i sentimenti espressi in «Soldi» erano più ruvidi: «Ultimamente non lo sto sentendo, lo avevo fatto dopo Sanremo. Quando finirà tutto questo e avrò più tempo ci sarà modo di confrontarsi. Mamma fa da tramite, lo ha sempre fatto anche quando mi lasciò andare in Egitto a 8 anni nonostante i pareri discordi in famiglia: temevano non mi avrebbe fatto tornare. Lei non ha mai parlato male di lui».
L’autotune c’è, ma è uno strumento non un trucco per coprire le incertezze. I suoni guardano più all’elettronica e su «Kobra» i synth hanno la stessa forza pulsante delle sferzate elettriche della chitarra di «Icaro». Il finale spinge con le hit: «Barrio» e «Rapide». Il pubblico canta la parte di Blanco in «Brividi»: «Non mi stanca mai, l’ho pensato ascoltandola in aereo venendo qui». E nel bis «Soldi» una «chiusura esagerata».
Madame, il concerto di debutto: «Mi sono prepara cancellandomi dai social e viaggiando da sola in Giordania». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2022.
La cantautrice urban dal vivo all’Alcatraz di Milano: «Dopo il successo mi sono sdoppiata: Madame al lavoro, Francesca nel privato».
Non sembra «il primo concerto del primo tour» come lei stessa annuncia dando il benvenuto al pubblico alla prima data (3 maggio, replica il 4) all’Alcatraz di Milano che inaugura la sua carriera live con un tour nei club che proseguirà poi nei festival estivi. Non è (solo) una questione di come Madame sta sul palco. Che, per inciso, è molto più variegato e fisico di quello che aveva mostrato al Festival di Sanremo 2020, quello che l’ha rivelata al grande pubblico. C’è un’intimità col suo pubblico che sembra nascere da un rapporto rodato e che invece ha alle spalle solo qualche apparizione ad eventi e festival e alcuni concerti, di quelli a capienza ridotta col pubblico seduto per le limitazioni covid, della scorsa estate. C’è un momento, lei lo chiama «confessionale», in cui Madame chiede alla platea di «urlare cose che non avete mai detto, perché qui siamo in una zona di assenza di giudizio». Qualcuno non prende la faccenda sul serio («mi mangio le caccole») ma la maggior parte si racconta nell’intimo, sebbene attorno ci siano 3 mila persone: «Sono lesbica», «Ho sbagliato tutto nella vita», «Sono bisessuale». Il sostegno degli altri è confermato dal boato e alla fine parte «L’eccezione», il nuovo singolo scritto per la colonna sonora della serie Bang Bang Baby. «Sono stata l’eccezione delle regole del mondo», canta lei. E Madame, vero nome Francesca Calearo, lo è stata. Una fra i primi a far capire che anche nelle canzoni l’amore non è solo fra lui e lei (e infatti sul palco piovono reggiseni), una che usa l’autotune anche dal vivo ma quando toglie l’artificio digitale la voce non ne risente.
Madame è fra i nomi che hanno cambiato il panorama della musica italiana di questi anni. «Spero di far parte di questa rivoluzione. Non era un obiettivo, faccio quello che mi piace e se ne viene qualcosa di buono come in questo caso è una sensazione piacevole». Ci sono anche momenti meno piacevoli, ma quelle sono cose personali. la pressione si è fatta sentire. «Ho staccato: ho fatto un viaggio in Giordania da sola, ho coltivato i campi, ho disinstallato le app dei social network dal telefono negli ultimi tre mesi, ci sono appena rientrata, perché a volte li hai troppo addosso, anche la pubblicità è sempre lì...». Il pubblico non si stacca invece dai cellulari e gli schermi accesi punteggiano la platea.
Sanremo è stata la svolta, non solo per una carriera che aveva gia hit come «Sciccherie» e «Clito»: «Mi sono sdoppiata: Francesca nella vita reale e Madame sul lavoro. Sono persone con ritmi di vita diversi e idee diverse, ad una interessa di più la tranquillità, la pace, la salute mentale all’altra un po’ meno. Bisogna nutrire entrambe le parti, quindi ho fatto un po’ e un po’».
La band, coordinata da Luca Farone, è fatta da tastiere, basso e batteria e un deejay. Fa impressione non vedere una chitarra. «È una sfida avere una band per una che viene da un mondo urban variegato come il mio — diceva lei nei camerini —. Che cosa sia urban non lo so definire, è la definizione che è stata usata adi giornali per me: ho una matrice rap, una cantautorale e una rock. Ogni pezzo ha una necessità di un proprio genere, se usi solo uno strumento un genere finisce per far sempre la stessa canzone».
Mal, vero nome Paul Bradley Couling, vive a Pordenone e ha 78 anni. Domenico Basso su Il Corriere della Sera il 24 Marzo 2022.
Una carriera nata per caso. Un padre muratore e lui elettricista. Padre e figlio ad un passo dal diventare una ditta. Poi, però, a scrivere una storia diversa per Paul Bradley Couling ci ha pensato il destino. Il giovane elettricista stava infatti lavorando vicino ad una band che provava e così, quello che poco dopo sarebbe diventato Mal, contagiato dal gruppo iniziò a cantare. La sua voce non passò inosservata e da quel giorno per Paul si accesero le luci dello spettacolo. Quella di Mal è una lunga storia italiana iniziata al Piper di Roma e poi proseguita attraverso canzoni che continuano a restare impresse, da «Furia» a «Pensiero d’amore», cover di «I’ve Gotta Geta a Message to You» dei Bee Gees a «Occhi neri, occhi neri». Oggi Mal a 78 anni, vive a Pordenone e sta per uscire con un nuovo album ma sta anche raccogliendo in un libro la sua vita. «Due anni di Covid mi hanno costretto a casa e così ho iniziato a scrivere. Ho già messo insieme un centinaio di pagine, tutte in inglese. Per ora è più o meno un diario dove ripercorro le tappe della mia vita e tra queste il mio arrivo in Italia. Sarà un libro dove il tempo sarà scandito da molte fotografie».
Ha già in mente un titolo?
«Sto cercando qualcosa che possa colpire, magari legato ad una mia canzone… che ne dite della Furia di Mal».
Ma con Furia cavallo del West Mal ha avuto un rapporto strano. C’è stato un momento in cui pareva che odiasse questo brano.
«Assolutamente no. È stata tutta una montatura. Figuriamoci se io odio le mie canzoni. Per Furia ho dovuto rinunciare a Sanremo e consegnare la mia canzone, “Bella da morire”, a chi poi ha vinto il Festival, gli Homo Sapiens».
Ma la vita di Mal oggi è fatta solo dai ricordi che emergono dal libro-diario o c’è dell’altro?
«È in arrivo un nuovo disco che dovrebbe uscire a breve. Con questo nuovo lavoro ritorno alla mia origine, al rocchettaro che è in me come ai tempi del disco “I tuoi occhi sono come fari abbaglianti”. Arrivato in Italia, con i Primitives, ho portato qui la musica americana rock. Sarà dunque un cd per tornare alle mie radici anche perché oggi non ci sono più novità, basta vedere Sanremo dove ci sono canzoni che non hanno né capo né coda, con una valanga di parole, molte delle quali sono parolacce. È davvero cambiato tutto».
Nostalgia del passato?
«Non è nostalgia ma una cosa bisogna dirla: le canzoni degli anni ‘60 o ‘70 ce le ricordiamo, sono canzoni che conoscono anche i giovani. Quelle di oggi durano poco perché non hanno melodia e per questo non restano nella testa. Grazie alla melodia la musica italiana è diventata famosa in tutto il mondo».
Mal ha voglia di tornare a Sanremo?
«Io quasi tutti gli anni presento un pezzo per partecipare a Sanremo ma non vengo scelto. Forse non ho le conoscenze giuste né gli appoggi giusti».
Amadeus è un bravo direttore artistico?
«È un caro amico. Io avevo partecipato all’edizione italiana della commedia musicale Grease e c’era anche Amadeus. Abbiamo diviso lo stesso camerino e ho anche dei filmati, che conservo ancora, dove si vedono gli scherzi che faceva...».
Una sorta di candid camera?
«Avevo una piccola telecamera e mi divertivo a filmare tutti, ho ore e ore di registrazioni. È tutto è rimasto segreto ma se qualcuno li vuol vedere sono disponibile…».
Mal ha partecipato anche al reality «la fattoria». Che esperienza è stata?
«Sono stato in Brasile per tre mesi. In quella fattoria dovevamo seguire maiali, pecore, cavalli, galline. È stata una bella esperienza educativa. Ho imparato molte cose».
Concerti dal vivo Mal riprenderà a farne?
«Dopo due anni di Covid il telefono ha ripreso a squillare. Ma non voglio prendere troppi impegni, prima voglio capire se davvero la situazione si è normalizzata».
Ma torniamo all’inizio. Quand’e che Mal ha scoperto di essere un cantante?
«Sono nato con una bella voce e la musica l’ho sentita nel sangue sin da bambino. Diciamo che ho cominciato a cantare per caso. Poi l’immagine, il magnetismo e un certo carisma, che per un artista sono tutti elementi molto importanti, mi hanno aiutato».
E oggi sono pochi i cantanti che hanno carisma?
«Diciamo che in giro ne vedo poco. Il carisma negli artisti è cominciato a venir meno con l’avvento dei cantautori, negli anni ‘70. Questa categoria di artisti ispirata in molti casi alla politica ha smontato l’immagine carismatica del cantante. Li vedevi sul palco con una chitarra e con quella espressione incazzata…».
Ma quali sono le differenze tra i cantanti di ieri e di oggi?
«Adesso ci sono i computer che correggono tutto. Ci sono i software che sistemano le voci, anche quelle stonate. E questo accade anche a Sanremo. Così nessuno sbaglia mai. Una volta, invece, non c’era nessun effetto sul microfono. Quindi se sapevi cantare andavi avanti altrimenti ciao».
Quindi se non ci fossero questi correttori molti cantanti di oggi non sarebbero star?
«Nelle situazioni di molti anni fa alcuni non avrebbero avuto possibilità».
A proposito di progresso e di notorietà Mal che rapporto ha con i social?
«Ci sono ma non ne capisco molto ma per fortuna mi aiuta mio figlio. Però non mi piace essere come certi miei colleghi che svelano tutto. Io credo che la vita di un artista debba restare un po’ misteriosa».
Mal, come è nato questo nome?
«Avevo un cugino più grande che con la sua band andava ad aprire i concerti dei Beatles. Lui era un bassista, lo ammiravo perche io facevo l’elettricista e solo per hobby cantavo. Si chiamava Malcom. E così quando mi è stato detto che dovevo trovare un nome d’arte ho pensato a lui e gliene ho rubato un pezzetto».
Chi deve ringraziare Mal per quello che è poi diventato?
«La prima persona che devo ringraziare è Alberigo Crocetta, proprietario del Piper di Roma perché in questo locale è iniziata la mia carriera. Lui insieme a Gianni Boncompagni mi fece il primo contratto per venire in Italia, era il 1966. Poi devo ringraziare un grande fotografo, Pietro Pascuttini, grazie ai suoi scatti io sono diventato il Mal amato dalle italiane. E lui con quelle foto mi rese molto più bello di quello che ero».
E in quegli anni sono state tante le storie d’amore di Mal?
«I giornali scrivevano così ma io non me ne sono accorto».
Se oggi Mal incontrasse se stesso a 18 anni che consigli gli darebbe?
«Di essere se stesso e non una persona artificiale come oggi se ne vedono tanti. C’è gente che si trucca, che si mette mezza nuda sul palco e questo per fare colpo. La gente non va ingannata, se uno è bravo non ha bisogno di nascondersi dietro ad un trucco».
Se le dicessero che può cantare una sua canzone per l’ultima volta perché poi la musica nel pianeta si spegnerà per sempre. Quale sceglierebbe?
«Ogni canzone ha una storia dietro. Ma se dovessi scegliere canterei “i tuoi occhi sono come fari abbaglianti”…».
Ma la musica per Mal non è fatta solo di note. L’altra musica lei la suona sull’erba del campo da golf. Come ci è capitato?
«In questo momento il golf è la mia grande fonte di ispirazione. Pensi che arrivo a rinunciare anche a serate, ben retribuite, se in concomitanza ho delle gare. Il golf per me è magia, l’ho incontrato dodici anni fa su consiglio di un amico medico e da quel giorno non ho più smesso».
Malcolm McDowell: «Io, i Beatles e i Rolling Stones». Malcom McDowell su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.
La guest star del Torino film festival: all'ouverture del Teatro Regio ricorderà i suoi incontri con i grandi della musica
Sono cresciuto a Liverpool ma ho messo piede a The Cavern solo grazie alla mia fidanzata di allora che mi ci ha letteralmente trascinato. «Devi vederli, devi assolutamente vederli, hanno i capelli lunghi come i tuoi, si chiamano The Silver Beatles». E devo dire che quella serata non la dimenticherò mai, perché mentre loro suonavano noi sembravamo tutti impazziti. Si sono esibiti più di 300 volte a The Cavern, e tutto questo prima di incidere un disco. Poi, più avanti, ho conosciuto sia George Harrison sia Paul McCartney, ma non sono stati incontri troppo positivi. George Harrison si era messo a fare il produttore di film con la Hand Made Production ma detestava la gente di cinema. «Ma cosa avete tutti quanti?», mi disse quando lo incontrai. «Non mettere tutti nello stesso cesto, amico», gli risposi.
Paul McCartney invece nel 1971 doveva comporre la colonna sonora di un film che avevo interpretato, The Raging Moon (Luna arrabbiata. di Bryan Forbes), ne era entusiasta, ma poi sparì dalla circolazione e non riuscimmo più a contattarlo. Ci incontrammo vent’anni dopo e quasi si mise a piangere per scusarsi, spiegandomi che in quei giorni, subito dopo la fine dei Beatles, non faceva che bere e pensare al suicidio. Dei Rolling Stones ho conosciuto soltanto Mick Jagger. Dovevamo fare un film insieme che poi è sfumato. Passammo una serata in un attico a Central Park West dove Mick Jagger mi disse due cose difficili da dimenticare. La prima è: «Non mi ci vedo a cinquant’anni a fare questa vita». E adesso guardatelo lì, a ottanta ancora sul palco. Subito dopo, eravamo affacciati alla finestra, Mick Jagger indicò il Dakota Building e mi disse in tono solenne: «Il re abita lì». Povero John Lennon, quanto ci manca a tutti quanti.
· Malena…Milena Mastromarino.
Niccolò Fantini per mowmag.com il 6 novembre 2022.
Siamo nel XXI secolo, ma sembra l'Italia, ipocrita e morigerata, che è ritratta nei capolavori cinematografici del Neorealismo anni '50. Però è il 2022 e ci troviamo nella porzione della Nazione che è a Sud: in piena Calabria e con uno speziato profumo di bergamotto, bigottismo e peperoncino. Per la terza stagione di "Cine Book Food", evento culturale e collaterale al festival "Cineincontriamoci" che si svolge in provincia di Cosenza nel Comune di Acri, è stata invitata una gradita ospite.
Ha una quasi laurea in biologia, ha lavorato nel settore immobiliare ed è stata pure un "membro" del Pd: si chiama Milena Mastromarino, ma tutti la conosco come... Malena.
L'appetitoso astro italiano dell'intrattenimento per adulti, ha subito attirato i morbosi interessi della politica locale calabra: in tanti hanno soffiato su facili polemiche, per la partecipazione di Malena all'evento culturale che è in programma domenica 13 novembre. L'attrice del Cinema a luci rosse è originaria di Gioia del Colle ed è un noto volto della TV italiana, ma ha scatenato ugualmente un acceso botta&risposta, tra: onlus che sono sindacati, autorità locali ed enti che patrocinano la kermesse culturale. Ma perché la pornostar Malena è stata invitata a parlare in pubblico nella regione dei Bronzi di Riace?
Il motivo è presto detto: domenica 13 presenta la sua autobiografia, "Pura" (Mondadori, 2022). Il libro, edito nella lombardissima Segrate al confine di Milano, svela la personale storia della ragazza che si cela all'interno della famosa Pornostar: si tratta della vita personale di Milena Matromarino, in arte Malena. Dalla A, alla tripla X. Ma la polemica calabrese contro la partecipazione all'evento è un coro di voci solo maschili: probabilmente è causata dal potente messaggio d'emancipazione femminile, a firma di Malena, che si rivolge a tutte le donne, nessuna esclusa, ed è pubblicato a cubitali caratteri nella quarta di copertina del volume edito da Mondadori: "Se c'è un consiglio, che mi sento di dare alle donne, di qualsiasi età, è quello di non rinunciare alla gioia di una vita sessuale soddisfacente."
Dalle Appenino alle Ande. E dalle Alpi alle Piramidi. Appena pochi mesi fa, a fine agosto ma nel Nord della Penisola, in quel di Bergamo, un partito con un nome da allegato, letteralmente "il Pdf", nonché il suo notevole fondatore Mario Adinolfi, avevano schierato uno scudo crociato contro la fiera di settore BergamoSex e ne avevano discusso in Tv con la madrina dell'evento, la conturbante Malena, al solo fine di ottenere pubblicità gratis in vista delle elezioni due settimane dopo.
Una polemica locale e proverbialmente alla "viva il parroco", poiché il motivo era, letteralmente: la festa del patrono. Ma l'Italia è tutta un campanile e in Calabria mica si fanno bagnare il naso dal Nord: il primo a lanciare un anatema contro l'attrice a luci rosse e impedirle di parlare ad Acri, è stato: il "Sidef", che si scopre essere una onlus cattolica ma è un sindacato costituito da famiglie.
Il comunicato ufficiale diffuso agli organi di stampa locali, inspiegabilmente non si rivolge all'affascinante Malena, bensì sempre agli inquilini del medesimo condiminio calabrese: al "Garante per l’Infanzia" che "intervenga presso la Regione e le altre istituzioni per impedire questa squallida e pericolosa manifestazione”. Dio, nosex e famiglia.
Non si sa quanti libri leggano all'anno nelle riunioni di questo sindacato, ma di sicuro non hanno idea di cosa sia concretamente la presentazione di un volume della Mondadori. Altrimenti non diffonderebbero parole così discriminanti verso la biografia di una donna. E forse non sarebbero tanto orgogliosi della propria ignoranza e del proprio pregiudizio, come ha sottolineato anche Malena via messaggio scritto, a chi cercava di alimentare le polemiche in area locale:
"Gli consiglierei di leggerlo, prima di commentarlo". Sembrava polemica e invece era solo ignoranza. Infatti la definizione sul vocabolario Garzanti della lingua italiana, illustra che il "pregiudizio" è: "opinione errata che dipende da scarsa conoscenza dei fatti o da accettazione non critica di convinzioni correnti". A questo elementare pregiudizio da mancata lettura, si è aggiunta anche la voce, ancora maschile, dell'autorità Garante dell'Infazia presso la Regione Calabria: "Raccolgo certamente l’invito rivoltomi dal Sidef (Sindacato delle Famiglie) a prendere posizione sulla manifestazione di Acri che vede protagonista la pornostar Malena, non certo perché io possieda strumenti per impedire che ciò avvenga..."
E ci mancherebbe solo che qualsiasi garante regionale avesse il potere pubblico di alzarsi una mattina e impedire ai cittadini della Calabria di scegliere che libri possono o non possono leggere. E meno che meno di impedire la presentazione di un volume ad una kermesse culturale che è un evento pubblico organizzato secondo i crismi e le norme di legge. Più che una polemica della piccola politica locale, sembra quasi una pazzesca sceneggiatura da B-movie di fantascienza: se avessero vinto la guerra i nazisti, ma col gusto a tavola del Meridione. I roghi di 'nduja degli anni '30 o la notte dei lunghi caciocavalli.
L'unico fatto fin qui documentato è che in Calabria ci sono un sacco di uomini potenti, che impegnano il proprio tempo e competenze, per informare l'opinione pubblica del proprio personale pregiudizio morale, a riguardo di un libro biografico, che è scritto da una donna, ma che in realtà non hanno nemmeno letto.
Invece MOW l'ha letto e c'ha pure un'affettuosa dedica, autografata e molto invidiata. Ma soprattutto si è scapicollato di notte per raggiungere il famoso club per adulti "Extasia", storico locale a due passi dal Duomo di Milano, così da raccogliere direttamente dalla fonte, la splendida e femminile Malena, un ironico videomessaggio che è rivolto alla Calabria e a tutti i calabresi: uomini, donne e chiunque abbia piacere a stare nel mezzo.
Le parole dell'ammaliante Star dell'intrattenimento per adulti, in esclusiva su MOW: “Mi spiace dover fare questo video perché amo la Calabria, ma soprattutto amo il Sud. Pensavo di essere 'terrona', esattamente come i calabresi. Ma soprattutto pensavo che la Calabria fosse... la regione più 'piccante' d'Italia! Ma invece no. E quindi il peperoncino non è afrodisiaco: io sono più afrodisiaca. Baci (smack), a tutti voi della Calabria... my friends (smack)!”.
«Alle elementari ho sentito perfidia, al conservatorio ero una come gli altri»: Malika Ayane racconta la sua Milano. Gianni Santucci, foto di Maki Galimberti su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2022.
Incontro con la cantautrice e violoncellista, figlia di immigrati e cresciuta alla periferia della metropoli, «così perfida, eppure così generosa». «Il mio ricordo più intenso? Quel tram, linea 27, che mi riportava dal centro ai confini della città. E Milano per me è un tram chiamato opportunità»
Guardate quella ragazza, sì quella seduta a metà del tram, con i suoi bagagli ingombranti. La custodia del violoncello, lo zaino con i libri del liceo, la borsa sportiva, perché oggi ha avuto anche educazione fisica. Seguitela, o meglio, state con lei: sul tram linea 27, partito da piazza Fontana, che ha già oltrepassato piazza Cinque Giornate, e ora continua ad avanzare nel traffico diretto a Est, verso la periferia; passa sotto al ponte della ferrovia e qui, a osservarla dai finestrini, Milano è già un’altra città, mentre il tram imbocca via Mecenate, «uno stradone che non finisce mai, ed era buio e c’era quel freddo d’autunno inoltrato, la nebbia densa, i semafori interminabili; mi rivedo su quel tram che viaggia verso la fine della città, dopo non c’è più niente, nessun palazzo, solo la tangenziale, e spazi vuoti abbandonati, un panorama di tristezza immensa: però quel viaggio ipnotico mi faceva pensare: “Adesso dove mi porta? Può arrivare ovunque”. Invece, proprio là in fondo, il tram gira un angolo ed è finita, ti ritrovi sul marciapiede, al capolinea».
«ALLE ELEMENTARI HO VISTO LA PERFIDIA NELL’USO DEL TERMINE “MAROCCHINO”. SI METTEVANO NOTE IN CLASSE PER QUESTO... PARADOSSALMENTE IN UNA REALTÀ PIÙ RISTRETTA E PERIFERICA CHI VIENE DA FUORI PUÒ SEMBRARE MINACCIOSO»
Ora, serve solo un piccolo transfer temporale: ambientate questa scena alla fine degli Anni 90. E sarete accanto a quella ragazza, che si tira dietro il violoncello e tutto il resto: Malika adolescente. Malika prima di Malika Ayane, dei cinque Sanremo, i due premi della critica, i dischi di platino, l’inno di Mameli cantato alle Olimpiadi di Pechino, un curriculum artistico sterminato. «Tutte le scelte più importanti della mia vita le ho fatte riflettendo durante quei viaggi in tram. Ogni mattina. Ogni sera. Il primo aereo che ho preso era un low cost, pubblicizzato sul manifesto a una fermata. Il centro di gravità della memoria mi riporta lì. Quel tram per me è Milano. Il mio ricordo più denso».
Malika Ayane e la sua città. Milano mondo. Primo concerto?
«I Bluvertigo, al Rolling Stone di corso XXII Marzo».
Posto mitico. In trent’anni ci è passata la storia del rock.
«Io invece ci passavo davanti ogni giorno, sempre sul “mio” tram. E sognavo di fare lì il mio primo concerto».
Ci è riuscita?
«L’ho sfiorato. Ho suonato la prima volta al Rolling Stone per la festa dei licei milanesi. Poi un’apparizione da supporter, ma non avevo ancora fatto il primo disco. La terza volta era quella vera. Aprivo per Duffy. Ero pronta».
E che è successo?
«Poco prima hanno venduto il palazzo. Fine del Rolling Stone. Club demolito. E ciao».
«HO STUDIATO AL CONSERVATORIO... LA SCUOLA A PIU’ ALTO LIVELLO MA ANCHE LA PIU’ DEMOCRATICA: PAGAVO 150 MILA LIRE L’ANNO. ERA ACCESSIBILE A TUTTI. ANCHE QUESTO E’ MILANO: OPPORTUNITA’»
Però nel 1997 aveva cantato alla Scala, scelta da Riccardo Muti.
«Ho studiato al Conservatorio. Era la scuola di più alto livello, ma anche la più democratica. Pagavo 150 mila lire l’anno. Avevamo il noleggio degli strumenti a lungo termine. Era accessibile a tutti. Una scuola pubblica nel senso più alto del termine. Anche questo è Milano. Opportunità».
Ragazza di periferia. Madre italiana e padre marocchino. Ha mai sentito il pregiudizio.
«Non al Conservatorio, anche se lì ero palesemente un pesce fuor d’acqua. Era stato peggio prima».
Malika Ayane è nata a Milano 38 anni fa. Cantautrice e violoncellista, ha cantato per anni nel Coro delle voci bianche della Scala di Milano. Il suo primo album è uscito nel 2008
Alle elementari?
«Lì ho visto la perfidia nell’uso del termine marocchino. Si mettevano note in classe per questo. Come al solito, paradossalmente, in una realtà più ristretta e periferica chi viene da fuori può sembrare minaccioso».
In che Milano è cresciuta?
«Una città in cui convivono tante realtà parallele e intrecciate».
Quali ha attraversato?
«Il mio quartiere di periferia. Il Conservatorio in centro. La prima casa da sola in piazza Abbiategrasso, dove c’era il Sert per i tossicodipendenti e un enorme scavo che poi sarebbe diventato il metrò. La stanza in una casa condivisa con due ragazzi venezuelani che cercavano la loro avventura, un parrucchiere, un culturista. Gli amici jazzisti che iniziavo a frequentare. Poi la Milano notturna, come barista a Le Trottoir. Diversi mondi, uno dopo l’altro, uno insieme all’altro».
Ha mai pensato di andarsene?
«Non è cambiare paesaggio che fa cambiare le cose».
Le piace ancora la sua città?
«Mi dà fastidio tante volte. Vero che a Milano te la cavi sempre, un modo lo trovi. A volte però mi sembra che deleghi troppo, lasci troppi spazi di solitudine, sia un po’ slegata».
Slegata in che senso?
«Quando tornavo a casa la sera, dopo il mio giretto col cane in largo Tel Aviv, e chiudevo la porta di casa, mi interrogavo sempre: cosa succede agli altri? Cosa succede a una ragazza come sono ed ero io, ma con meno struttura, con meno fantasia, che poi sono le cose che ti salvano sempre? Chi se ne prende cura?».
«MIA FIGLIA OGGI HA 17 ANNI. PER I RAGAZZI DELLA SUA GENERAZIONE NON PUO’ ESSERCI SOLO IL CHUPITO A DUE EURO: L’ALCOL PER STORDIRSI. SE AI RAGAZZI DAI UNO STIMOLO... SE DIAMO UN SEGNALE ALLA LORO ESISTENZA, L’ULTIMA COSA CHE VOGLIONO FARE È STORDIRSI»
Sua figlia ha 17 anni. Che Milano è la sua?
«Totale assenza di pregiudizi. Molto trasversale. Anche “delocalizzata”. Quando ero una ragazzina, si andava tutti al cinema e far le vasche in centro».
Oggi invece?
«Vivono e passano tra quartieri diversi, più indipendenti dal centro, interessanti. I ragazzini maneggiano la città, se ne sentono parte, la vivono come fosse loro, la scoprono».
Da madre, cosa le fa paura?
«La vacuità. Vedo i butta-dentro dei locali, i ragazzini di 15 anni rovinati di alcol. Mi dispiace».
Avrebbe detto lo stesso quando l’adolescente era lei?
«Una “ciocca” brutta se la sono presa tutti. Non sto facendo la morale».
Malika la prima volta a Sanremo nel 2009, nella Sezione Giovani, dove arrivò seconda grazie al brano «Come foglie». La cantante ha partecipato 5 volte al Festival
Qual è il punto?
«Che il chupito a 2 euro non può essere l’unico focus, come se fosse scontato che le serate a quell’età debbano andare così. Mi piacerebbe che ci fosse altro intorno».
Cosa invece le dà fiducia?
«Che se hanno uno stimolo, i ragazzi smentiscono tutto quanto abbiamo appena detto. Se diamo un segnale alla loro esistenza, l’ultima cosa che vogliono fare è stordirsi».
Si riesce a dare stimoli?
«Mia madre lavorava tantissimo. Io potevo essere una disgraziata. Di certo ho molto più tempo per dare continui input a mia figlia. E poi io ho conosciuto Internet degli albori. Ora con lei ci scambiamo i podcast. È proprio un altro mondo».
Milano è anche un po’ capitale della musica trap. E delle recenti derive criminali di molti artisti ragazzini. Che messaggio mandano ai loro coetanei?
«Guardiamo più indietro. Per origine, quel genere nasce come manifestazione di un disagio».
«ORA LA TRAP, PRIMA I TALENT. ANCHE NELL’INDUSTRIA MUSICALE C’È UNO SFRUTTAMENTO COMMERCIALE CHE TENDE A SPOLPARE IN FRETTA. FORSE SERVIREBBE UN PO’ PIÙ DI EDUCAZIONE ALL’ASCOLTO»
Malika Ayane con Cesare Cremonini, con cui ha avuto una relazione. Sotto, con l’ex marito Federico Brugia, sposato nel 2011
Non solo milanese.
«Certo. Per ogni metropoli ci sono un sacco di periferie. Pensiamo a Living for the city di Stevie Wonder, anno 1973. Il disagio delle periferie è già scritto tutto lì, in quella canzone».
Qual è la radice?
«Una città dovrebbe offrire opportunità, ma poi tanti si trovano a nascere e morire senza avere davvero a portata di mano nessuna delle prospettive che si intravedono».
Parti di Milano, e di ogni altra metropoli, che restano tagliate fuori.
«Le persone vengono messe di continuo nelle condizioni di desiderare ciò che non potranno mai avere, a meno che non abbiano un concreto accompagnamento. Se questo non c’è, rimane solo il disagio».
L’industria musicale lo sta alimentando?
«Ora la trap, prima i talent. Anche nell’industria musicale c’è uno sfruttamento commerciale che tende a spolpare rapidamente. Forse servirebbe un po’ più di educazione all’ascolto».
Alcuni nuovi trapper sembrano più personaggi crime che musicisti.
«È abbastanza scontato, per ogni artista che emerge, ce ne sono tanti altri che provano a sfruttare la moda del momento».
Dal 7 dicembre Malika Ayane è protagonista del musical Cats al Sistina di Roma
Il 7 dicembre è la più «milanese» delle date. Sant’Ambrogio, Prima della Scala. Lei invece, milanese, quella giornata l’ha passata Roma, per la prima di Cats (da protagonista).
«Singolare coincidenza».
Che però racconta simbolicamente un filo della sua carriera. Cantautrice, violoncellista, il jazz, i musical. Come si muove tra questi mondi?
«Ho iniziato con una formazione classica, ma ero anche un’adolescente con gusti contemporanei. La voglia di guardarmi sempre intorno mi è rimasta da lì».
Quanto conta il coraggio di cambiare?
«Ogni esperienza, per definizione, è transitoria. La affronto con il massimo impegno e la massima intensità, ma senza solennità, senza pensare che il mondo giri intorno a quel che sto facendo in quel momento. Anzi, penso a cosa farò dopo».
In che ambito si vede di più?
«Nell’evadere dall’abitudine costante, e molto italiana, di incasellare sempre tutto, a volte in modo forzato».
Poco prima che la conversazione si concluda, Malika Ayane si ravvia le lunghe treccioline di capelli biondi. Si trova a Roma. Dice: «Andrò un po’ a esplorare la città». Battuta: non sarà così comodo farlo con i mezzi pubblici. La risposta la riporta col pensiero a Milano, al «suo» tram, al valore sociale di un buon trasporto pubblico per i ragazzini di ogni periferia del mondo.
«In effetti a Milano potevo e posso spostarmi in mezz’ora dall’estrema periferia al pieno centro. Questa non è solo una comodità. È un’opportunità: di vivere davvero la città e le occasioni che ti offre».
Il rock è vivo. Il rock è Manuel Agnelli. Gino Castaldo su L'Espresso il 21 Ottobre 2022
Il nuovo album solista del leader degli Afterhours è sporco, esasperato, acido o struggente, senza inutili mezze vie. Ed è quello di cui si sentiva il bisogno
La notizia potrebbe essere che il rock non è morto, almeno non del tutto. Come quando molti anni fa mi capitò di suggerire il dubbio a sua maestà Vasco Rossi in persona e lui rispose senza neanche entrare in discussione: «Il rock sono io!». Frase che, come spesso accade con Vasco, nella sua disarmante semplicità nasconde una grande verità. Il rock esiste se c’è qualcuno che lo fa, e gli dà un senso, e allora viva il rock, visto che qualcuno, non molti in verità, lo suona ancora.
Lo spunto viene dal fatto che è appena uscito un disco solista di Manuel Agnelli che ovviamente del rock italiano è più che un protagonista, diciamo pure un emblema, una bandiera che ancora sventola con fierezza, e lo ha intitolato evangelicamente “Ama il prossimo tuo come te stesso”, ma nei toni interni è molto più sferzante e duro di quanto il titolo lascerebbe supporre.
Intanto finalmente qualcuno registra in una canzone l’aria mefitica che ci ha avvolto, e lui lo fa scegliendo come scenario la sua Milano: «A un Dio non mio, lo chiedo anch’io, un sole in più, un bacio in più, un po’ di me che non sia una bugia, che puoi portarti via, beh, mi manchi e qui a Milano c’è la peste, è per questo che mi gira un po’ la testa, non ti ho mai lasciato andare veramente, non ti ho mai avuto che nella mia mente», dunque a Milano c’era la peste, e proprio intorno a Milano sembra di percepire questa ripresa di acide elettricità, vedi anche il ritorno dei bergamaschi Verdena, con uno splendido e toccante disco intitolato “Volevo magia”.
A chi lo dite, verrebbe voglia di rispondere, ma è significativo che un rinnovato senso di opportunità rock venga da chi ha militato nelle file più radicali e cosiddette alternative, perché poi non è che di rock non ci sia bisogno, è solo che sembrava aver perso tutta la sua divorante energia, gli spasmi, le impennate geniali, e ovviamente il fenomeno Måneskin da solo non giustificava una nuova ondata. Dunque dopo 37 anni di onorata carriera rock, e dopo alcuni anni di presenza televisiva come giudice che potevano scalfire la sua immacolata immagine, Manuel Agnelli ha deciso di prendersi la sua prima pausa solista, frutto della pandemia, come tante delle cose che stanno uscendo ora, e lo fa senza liquidare gli Afterhours che rimangono lì, in attesa di sviluppi, avendo seguito questa volta un filo personale che nei mesi di chiusura aveva cominciato a dipanarsi fino a diventare l’album di oggi.
Dentro ci sono rumori, tante chitarre, qualche languido pianoforte e gli archi, quando appaiono, sono sinistri il giusto, perché se il gioco si fa duro, bisogna essere duri, e questo è quello che fanno i rocker di razza. Il disco è sporco, esasperato, acido o struggente, senza inutili mezze vie, esattamente come i tempi che corrono, che non hanno mezze stagioni e se per questo neanche mezze beatitudini.
"Riparto come solista in un mondo musicale schiavo del consenso". L'artista parla del disco "Ama il prossimo...". "Io a Sanremo? Di certo non vado in gara". Paolo Giordano il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.
Conciso e concettoso: «Questo è il mio primo album solista e non sarà l'ultimo». «I Maneskin funzionano per magia ma non sono un progetto fatto bene». «La scena alternative rock ormai è fascista». «La nostra classe intellettuale? Inutili Don Abbondio». Manuel Agnelli presenta il suo primo disco solista che ha un titolo «prestato», ossia Ama il prossimo tuo come te stesso e che, già al primo ascolto, risulta uno dei pochi suonati per davvero con un senso compiuto e raffinato. Ha 56 anni, bicipiti ancora scolpiti e capello lungo stile hyppie di Woodstock, per decenni è stato «solo» il leader degli Afterhours adorato dai fans ma sconosciuto a quasi tutti gli altri. Poi è diventato «anche» un volto tv grazie a X Factor, ha vinto un David di Donatello e ora può sostanzialmente scegliere di fare ciò che vuole, dall'essere protagonista di Lazarus, il musical di David Bowie, fino a debuttare da solista in un'età in cui di solito si pubblicano greatest hits. Insomma, resta divisivo, può piacere oppure no, essere amato o disprezzato o ignorato ma ce ne fossero, di musicisti così.
Però perché un disco solista proprio ora dopo decenni di onorata carriera con gli Afterhours?
«Durante il primo lockdown iniziato a fare musica per il gusto di fare musica, suonando cose che avevo in casa, pentole, mestoli eccetera. Poi tutto ha preso forma e ho chiamato dei musicisti».
Debutto da solista significa fine degli Afterhours?
«No, ora gli Afterhours sono soltanto un progetto, torneranno quando avranno qualcosa da dire, magari tra 25 anni».
È stato facile prendere questa decisione?
«Non è mai facile mollare una cosa quando funziona ed è complesso uscire da quella Corazzata Potëmkin che sono i progetti quando diventano importanti. Con loro non ho senza dubbio sofferto la mancanza di rilevanza. Ma mi stava stretto sembrare il canzonettaro, quello che sul palco suonava la chitarra acustica e scriveva le melodie quando ho partecipato alla nascita di pressoché tutte le canzoni della band».
Poi è arrivata la tv. E le critiche di qualche parte del mondo alternative rock.
«È diventato fascista, con troppe regole. Mi sembra un gruppo di lobbisti farisei che cerca di avere in mano le tavole della legge, un modo per avere in mano la situazione, sennò non contano niente».
Comunque X Factor le ha dato tanta popolarità.
«Grazie alla quale ho partecipato anche a un po' di cene nei salotti e mi sono reso conto che ci sono persone che usano la cultura solo per avere rilevanza. Negli ultimi trent'anni c'è stata una destrutturazione culturale pazzesca. Ecco perché abbiamo una classe intellettuale così inutile».
In questo nuovo quadro, ha cambiato parere anche sulla politica?
«Io sono di sinistra da sempre, e spesso sono stato più a sinistra di quanto lo sia oggi. Credo che quanto decretato dalle urne sia una grande occasione per ripartire».
Oltre a Severodonestsk, nel disco c'è anche un altro titolo: Guerra e pop corn.
«Racconta di chi assiste alla guerra dal divano. La tv ha sempre amato la cosiddetta tv del dolore, ma oggi ne vedo poca per ciò che riguarda la guerra. Come prima tutti erano virologi, ora tutti sono geopolitici».
Quanto al pop, invece, tutti sono contabili: cercano la quantità di numeri più che qualità delle canzoni.
«Oggi la cultura che vince è quella del consenso. C'è tanta gente che compone soltanto per avere consenso. Per carità, non è sbagliato sperare di vendere dischi e di avere successo, ma solo se il successo è la conseguenza di qualcosa che abbia senso».
Ha senso recitare in Lazarus, il musical firmato da David Bowie?
«Quello che mi piace di Lazarus è che non è un revival, una riscoperta del passato. È nuovo, è il suo debutto in Italia. Ed è stato scritto da David Bowie, per me un onore enorme».
Sarebbe un onore il Festival di Sanremo?
«In realtà l'ho in qualche modo vinto con i Måneskin».
A proposito, come li vede oggi?
«I Måneskin funzionano quasi per magia, ma non mi sembrano un progetto costruito bene. Sono così giovani e hanno tanti che li tirano per la giacchetta, come diceva quel tale. Mah».
Allora, Manuel Agnelli, tornerà al Festival?
«Se mi offrono un transatlantico d'oro sì. Ma non in gara».
Manuel Agnelli: «Il mio rock fuori dalle gabbie». Paola Medori su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.
Il frontman e fondatore degli Afterhours arriva il 19 luglio al Villa Ada Festival per una data del tour da solista: «La musica racconta e alimenta il cambiamento».
«Sarà un concerto potente con parti improvvisate. Un live che vive, cambia e si trasforma ogni volta. Sul palco con la mia nuova band ci scambiamo anche gli strumenti. C’è una grande voglia di rock e di condivisione. La musica racconta e alimenta il cambiamento. È il mio nuovo viaggio interiore. Adesso quello che voglio è stare tra la gente e sentirmi completamente me stesso». Manuel Agnelli è tornato più graffiante e ispirato che mai. Protagonista della prima tournée da solista con la band è in concerto martedì 19 luglio al Villa Ada Festival. Il leader, fondatore e voce degli Afterhours, si è rimesso in gioco. Ad accompagnarlo — in quest’era musicale — un eclettico gruppo di musicisti pronti a regalare un sound di percussioni, innovative sezioni ritmiche ed esplosioni di chitarra. In scaletta gli inediti dal nuovo album Ama il prossimo tuo come te stesso (in uscita il 30 settembre) e pezzi cult. «Suoniamo i pezzi degli After e li rivisitiamo senza stravolgerli, con un risultato più fresco. Hanno riacquistato vita, una forza vera come Dea o Lasciami leccare l’adrenalina», esordisce.
Dopo «La profondità degli abissi» e «Proci», è uscito «Signorina Mani Avanti» che anticipa il nuovo progetto musicale, invitando a uscire dalle gabbie imposte e dal peso delle aspettative.
«È uno dei temi del nuovo disco. Negli ultimi due anni ho riconsiderato tutta la mia vita, ho voluto togliermi di dosso la routine, il guscio protettivo della band. Eliminare vecchi schemi e provare nuove esperienze. Nelle mie canzoni ho scelto di raccontare il cambiamento e la rivoluzione che muta le cose, ma indipendentemente da noi. Alla fine noi cerchiamo sempre di alimentarla, però poi non ci accontenta mai. Questo succede sempre quando forzi il cambiamento, invece di aspettarlo. È proprio perdere il controllo che ci aiuta a eliminare tutte le gabbie e a trovare la libertà interiore».
C’è un nuovo Agnelli?
«Non in modo schizofrenico. Non voglio diventare altro da me o rinnegare il mio percorso. Alcuni brani sono una rivisitazione dell’oggi rispetto al passato, come Signorina Mani Avanti, altri sono più contemporanei come Proci mentre Pam pum pam è una ballata antica all’Aznavour. Rivendico quello che sono con tutte le mille sfaccettature e la presunzione di pensare che ci sia un marchio di fabbrica: la mia personalità».
In autunno l’aspetta il debutto a teatro in «Lazarus», il musical ideato e scritto da David Bowie insieme al drammaturgo Enda Walsh.
«Amavamo il Bowie degli anni berlinesi, dal ’76 al ’78. Non mi interessava il glam perché ero nel periodo post punk. Poi ho scoperto il Bowie di Ziggy Stardust ed è stato uno shock. Questo è uno spettacolo contemporaneo e originale con alcuni classici e la musica degli ultimi pezzi dall’album Blackstars. Non è un cartoon. È l’uomo che cade sulla Terra oggi».
Un ricordo di Roma?
«È un luogo d’incredibile magia. Insieme a Milano è la città dove abbiamo il pubblico che ci segue di più. Ci venivo da bambino con mio padre. Ho dei flashback di un’altra vita vissuta qui, sicuramente sono ricordi infantili sbiaditi. Come in un sogno felliniano mi ritrovo in posti dove apparentemente non sono mai stato, invece sono sicuro di esserci passato».
Manuel Agnelli, la voce di Tutankhamon: «Da bambino volevo fare l’archeologo». Emanuele Coen su L'Espresso il 3 maggio 2022.
Il fondatore degli Afterhours narra la figura del faraone nel docu-film nelle sale 9, 10 e 11 maggio. «Mi sono nutrito dell’Egitto, una passione che mi accompagna da sempre». Sulla partecipazione a X Factor 2022 dice: «Non c’è ancora nulla di deciso». E sui i Måneskin: «Stanno cambiando la musica nel mondo».
Un viaggio in Egitto, sorprendente e affascinante, nella Valle dei re e nella Valle delle regine. Venticinque anni fa Manuel Agnelli visita la tomba di Tutankhamon, rimane folgorato dall’energia e dalla bellezza dei luoghi, avvolti in un’aura misteriosa. E resta colpito dalla figura del faraone, dimenticato per secoli e poi riscoperto, fino a diventare il simbolo dell’antico Egitto. Era già appassionato della grandiosa civiltà il fondatore degli Afterhours e giudice di lungo corso di X Factor, ma quel viaggio rappresenta una svolta, una rivelazione. Non poteva essere più azzeccata, dunque, la scelta di affidare al musicista la voce narrante del docu-film “Tutankhamon. L’ultima mostra” (al cinema solo il 9, 10, 11 maggio), diretto da Ernesto Pagano e prodotto da Laboratoriorosso e Nexo Digital, per celebrare il centenario della scoperta della tomba del faraone ad opera dell’archeologo britannico Howard Carter. La pellicola si concentra sullo spostamento di 150 oggetti del tesoro di Tutankhamon per la più grande mostra internazionale a lui mai dedicata, che il fotografo Sandro Vannini ha seguito in esclusiva mondiale: l’ultima esposizione perché, per volere del governo egiziano, d’ora in poi questo patrimonio immenso potrà essere visitato solo nella sua sede al Cairo.
Manuel Agnelli: «Vi presento Tutankhamon, il faraone che diventò rockstar»
Cosa ricorda di quel viaggio in Egitto?
«Ho visitato la tomba di Tutankhamon in maniera abbastanza approfondita perché avevamo due buone guide, e soprattutto non c'erano tanti turisti. Ho guardato con attenzione i dettagli, i particolari. La parte più misteriosa, più antica dell’Egitto per me resta insondabile. La cosa che mi colpì di più è l’energia di quei luoghi, una cosa che in genere non raccontiamo quando torniamo da un viaggio. Non è strano che dei posti del genere diano origine a città o a civiltà millenarie: anche Roma è un po’ così, anche se in seguito si è occidentalizzata così tanto. A me l'Egitto ha fatto lo stesso effetto: ho girato la Valle dei re e la Valle delle regine a cavallo di due muli, volevo spostarmi in maniera antica, arcaica per provare le stesse emozioni che avevano provato alcuni archeologi. Ho seguito il corso del Nilo, da nord a sud, dal Nordafrica all’Africa nera. Dal ciclo del sole al clima, le cose rallentano moltissimo andando verso Sud. Ho visitato molti luoghi dei quali avevo letto e sentito un’energia soverchiante: quando ho imparato a non averne paura me ne sono nutrito».
Perché ha accettato di essere la voce narrante del docu-film?
«Innanzitutto mi interessava l’argomento. Da sempre sono appassionato di storia antica, da bambino volevo fare l’archeologo. Mi è rimasta la passione per l’Egitto ma anche per la civiltà Maya, perché ancora oggi resta una parte di mistero insoluto, che non riusciamo a spiegare. Il mistero mi sembra affascinante soprattutto oggi, che postiamo sui social foto di tutto quello che mangiamo, di quando ci laviamo i denti, di ciò che facciamo tra un niente e un niente. Quanto al docu-film ho la fortuna, negli ultimi tempi, di fare cose molto diverse da quelle che faccio di solito, mi ci butto senza vergogna perché sono una persona curiosa, ma anche perché sono convinto che avere questo tipo di libertà sia un privilegio e quindi devo esserne all'altezza. In realtà, poi, sono abituato a usare la voce, anche se per il film è diverso, sia per il timbro sia per l'impostazione. Però c’è anche un aspetto in comune con il mio lavoro: si tratta di raccontare emozioni. È una grande occasione di crescita».
È il mistero che avvolge anche la vita del faraone Tutankhamon, semisconosciuto per secoli, fino alla scoperta di cento anni fa.
«In qualche modo ricorda una rockstar. Misterioso, morto giovanissimo, glorificato dopo la morte come molte rockstar. Dopo essere stato dimenticato è diventato molto più importante di altri faraoni che in vita erano molto più influenti di lui, come Amenofi IV e Seti I».
Se Tutankhamon fosse una rockstar, a chi somiglierebbe?
«Mi viene in mente Prince. Anche lui aveva un concetto di sé faraonico, parlava di sé in terza persona. E i suoi simboli grafici ricordano molto da vicino alcune cose del dell'arte egizia. Non solo, attraverso la sua opera ha influenzato non solo la fantasia delle persone, ma anche l’arte e il design dell’epoca. Si sentiva al di sopra degli altri, pensava di essere stato toccato da un dono divino e in qualche modo doveva comunicarlo. Forse è lui, nel mondo del rock, la figura più vicina a quella di un faraone».
Dopo Caravaggio, in un docu-film di qualche anno fa, ora tocca a Tutankhamon. Quale personaggio le piacerebbe narrare con la sua voce in futuro?
«Alessandro Magno non mi dispiacerebbe per niente. Anche quel periodo storico è stato importantissimo, ha influenzato profondamente altre civiltà. Mi affascina anche la figura di Gengis Khan».
Re e condottieri che hanno segnato la Storia attraverso le guerre.
«Nel passato i passaggi tra un’epoca e l’altra non avvenivano in maniera soft, anzi. Avvenivano in maniera decisa, se non violenta. Era la normalità».
La guerra, purtroppo, è anche il segno dei nostri tempi. C’è qualcosa che l’arte o la musica possono fare per avvicinare i popoli?
«Non sarei così ottimista. Non è la musica che fa nascere le rivoluzioni, semmai le può rappresentare, raccontare, al limite le può alimentare. Anche se, in verità, la musica continua a diffondere il cambiamento. È un megafono, stimola il nostro punto di vista interiore, non solo la narrazione dei fatti».
Viene in mente il Vietnam, a quei tempi nel vento soffiava una musica di lotta e di protesta.
«È vero, con il Vietnam è successo. Non è stata la musica a far finire la guerra, ma ha contribuito a unire le persone in maniera forte e decisa, a protestare per la pace. Questo ruolo è ancora possibile oggi, anche se molto difficile».
Qualche giorno fa ha duettato con i Måneskin all’Arena di Verona, durante il loro concerto, sulle note di “Amandoti” dei CCCP. Cosa pensa della band e del suo successo?
«Si affollano dentro di me molte emozioni. Anzitutto spero che tutto questo serva a qualcosa, che i Måneskin possano rappresentare un cambiamento all’interno della musica italiana».
Vale a dire?
«L’industria musicale italiana è nata per importare. Adesso, invece, un ragazzino che suona in Italia può sperare di suonare a New York. È questo il grande cambiamento che i Måneskin rappresentano, finalmente un gruppo italiano interessa tantissimo all’estero. Stanno facendo numeri letteralmente pazzeschi, da primi progetti al mondo. Questo è un cambiamento epocale, spero che il tipo di messaggio che può veicolare sia duraturo. I Måneskin sono molto strutturati, hanno i piedi per terra, sono nati per fare questo mestiere. Stanno vivendo qualcosa che difficilmente è spiegabile, razionalizzabile. Hanno il coraggio di vivere il successo senza farsi troppe domande. Credo che sia un momento di svolta per tutta la musica italiana, sono ragazzi che stanno cambiando la musica nel mondo, dimostrano che suonare gli strumenti è figo. Dobbiamo esserne molto orgogliosi».
La band romana è esplosa cinque anni fa con X Factor, lei era seduto al banco dei giudici e ha seguito passo passo la sua evoluzione. In queste settimane si moltiplicano le indiscrezioni sulla composizione della giuria della prossima edizione del talent show di Sky. Ne farà parte?
«Non c’è nulla di definito ancora. Per me è importante fare musica in maniera diversa da quella delle classifiche, dei numeri a tutti i costi, non battere per forza sentieri già battuti. Tutte le occasioni sono buone: nessuno lo ha fatto con me, anche se alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta c’era molta più comunicazione tra le generazioni. Noi abbiamo imparato a fare la nostra musica da soli, a non dipendere da nessuno, c’erano persone che aprivano locali per ospitare concerti che altrimenti nessuno avrebbe ospitato. Oggi vedo poco questo approccio, i ragazzi si aspettano che ci siano strutture che diano loro lo spazio che si meritano, invece di crearselo da soli. Le nuove generazioni aspettano sempre qualcosa che naturalmente non arriva mai».
· Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.
Estratto dell'articolo di Simona Griggio per ilfattoquotidiano.it il 20 Novembre 2022.
“Oggi i film porno sono scene di sesso con quattro dialoghi stupidi messi in croce. Non c’è una storia dietro, non c’è sensualità”. Manuela Falorni, in arte Venere Bianca, ex top model internazionale e poi stella del cinema hard, descrive così il mondo a luci rosse contemporaneo. […]
Manuela Falorni, com’era il mondo del porno negli anni ‘90?
Ho avuto la fortuna di lavorare all’epoca di colleghe come Eva Henger, Eva Orlowsky, Moana Pozzi, artiste del porno. Eravamo star. Il film erano basati su storie accattivanti, le location avevano vere e proprie scenografie. A volte si girava anche per un mese, soprattutto nell’Europa dell’Est, e nei cast c’erano persino attori non porno. Poi c’erano gli spettacoli nei teatri, un mondo complementare a quello cinematografico. Per noi artiste era l’apoteosi. Si faceva lo show, erotico, burlesque, intrigante, e poi si scendeva in platea per giochi di corteggiamento e ironia. Nulla di più. Ma con stile.
E oggi invece?
Oggi la pornografia mette in scena soprattutto la violenza. Le fantasie malate. Nei film ci sono due o tre dialoghi in croce, per giunta stupidi. Nessuna storia credibile. Sono scene buttate a caso senza un filo conduttore. Sono il regno delle gang bang, dove si realizzano situazioni in cui l’attrice appare costretta a fare sesso orale o a subire prevaricazioni. Il ruolo femminile, nel porno, è stato relegato a puro oggetto di consumo maschile. […]
Oggi lei è un’imprenditrice del fitness per sole donne: perché?
Non provo imbarazzo a dire che a over 60 non mi mancano i corteggiamenti. Eppure dopo la morte di mio marito sono rimasta single, trovo i maschi noiosi e scontati. Mi trovo benissimo, invece, con le donne. Che secondo me hanno una marcia in più. […]
Ritiene che gli uomini siano cambiati nel loro rapporto con il sesso?
Oggi gli uomini hanno paura delle donne, oppure le considerano oggetti da denigrare. Inoltre molti hanno fantasie malate. E’ vero che manager, operai, politici, ristoratori e camionisti sono uguali di fronte al sesso. Ma oggi lo sono nel senso che mi fanno tristezza. Hanno perso sicurezza in se stessi, vogliono essere corteggiati, sono molto complicati. Se esco a cena con un uomo non vedo l’ora di tornare a casa dai mei gatti e cani.
Cosa pensa delle piattaforme web erotiche?
E’ un ambiente molto diverso dal cinema porno. Se faccio un film con professionisti come me sono un’attrice. Sulle piattaforme web erotiche, invece, i clienti pagano l’interazione con la protagonista del momento. Anche se non c’è fisicità c’è scambio diretto virtuale. Ho ricevuto richieste per fare video online ma le ho rifiutate. Far eccitare seg***** anonimi in diretta è secondo me al limite della prostituzione. […]
Edoardo Semmola per corrierefiorentino.corriere.it il 23 luglio 2022.
«Ho cominciato a fare porno all’età in cui normalmente si smette la carriera, l’età in cui è morta Moana. E ho iniziato a lavorare nel fitness a 60, l’età in cui le altre vanno in pensione. Sono stata tardiva in tutto, ma credo sia stato un bene: ho vissuto il lavoro nel porno con molta più consapevolezza». Manuela Falorni oggi ha 63 anni.
Dopo aver gestito un’edicola ha aperto una palestra. E adesso fa la personal trainer, per sole donne. La vita precedente però l’ha passata per soli uomini. Con il nome La Venere Bianca era una star tra gli anni Novanta e i Duemila: fucecchiese di nascita, versiliese di residenza, è la pornodiva toscana per eccellenza. La donna corvina spigolosa e aggressiva da contrapporre alla bionda morbida Moana Pozzi e alla «gentile» emiliana Selen.
Perché è stato un bene iniziare la carriera di pornoattrice da adulta?
«I pensieri, i desideri, la conoscenza degli uomini, dei maschi, si era già formata. Li ho sempre amati molto i maschi. Ero portata verso di loro, e verso il sesso. Ma se entri nel porno troppo giovane, come accede oggi, ti fai un’idea dell’uomo e del sesso che è deviata, non è reale».
In che senso?
«Quando ho iniziato io avevo già capito, già accettato e amato gli uomini. Con me erano se stessi. L’uomo vero lo scopri se condividi i suoi fantasmi: negli anni Novanta l’uomo che andava in un locale hard o si noleggiava una videocassetta, era più autentico, più carnale di quello che oggi torna a casa dalla fidanzata e si guarda un video su internet. Una ragazza che si approccia troppo giovane fa un’esperienza del sesso diversa dalla realtà».
Gli uomini sono cambiati?
«Penso che l’uomo non ami più il sesso come ai miei tempi, c’è meno morbosità, a volte sembra quasi che si approccino al sesso come se andassero a giocare a carte. Tutto così scontato, usa e getta, si perde la voglia di scoprire perché non c’è niente da scoprire e quindi niente che ti gratifica. Quando ero ragazzetta io c’erano le cassette chiuse a chiave dal babbo o i giornaletti. Il porno per essere tale aveva bisogno di rimanere chiuso a chiave. Oggi è tutto porno e quindi si svaluta, anche il sesso. Anche la donna».
La donna si sarà emancipata, si spera…
«Si è involuta, non evoluta. Ha perso l’importanza».
Lei è riuscita anche a farsi una famiglia, prima di entrare nel mondo del porno.
«Ho sposato Nino La Rocca con cui ho avuto il mio unico figlio, Antonio, a 27 anni. Poi mi sono risposata con Franco Ciani (ex marito di Anna Oxa, ndr) che ho conosciuto al Festival di Sanremo: era il produttore e il manager di Fiordaliso, scriveva le canzoni per lei. L’estate dopo Sanremo, Fiordaliso prendeva sempre casa qui al Forte dei Marmi e da qui partiva per fare serate in tutta Italia. Lui si rompeva a stare da solo e un giorno gli venne in mente di quella modella belloccia che gli avevano presentato tempo addietro, per dei videoclip musicali con Zucchero e Mariella Nava. Ero io. Chiamò questi della casa di produzione, stavano a Massa e gli chiese il mio numero: mi voleva per divertirsi un po’ e invece c’è rimasto fregato. Siamo rimasti insieme fino a tre anni fa».
Lavorava nei video musicali?
«Ho fatto l’indossatrice per 12 anni, dai 19 ai 32. Mestiere che mi ha formato in quanto a eleganza, nel modo di esprimermi e approcciarmi sul palco, nel modo di camminare. Erano gli anni Ottanta: allora si cominciava a sfilare dopo i 20 anni, dopo il diploma, nel mio caso Ragioneria. Ora a quell’età si ritirano, è cambiato tutto».
Non la voleva fare proprio la ragioniera eh...
«Rinchiudermi dentro un ufficio non era certo la mia principale aspirazione. Ma era quella di mio padre che come ogni buon fucecchiese, con la sua azienda da mandare avanti, sognava la figlia ragioniera. Infatti scappai di casa per questo, di notte. Quella sera mio padre me le aveva date di santa ragione solo perché avevo sfilato a Pitti. Non mi aveva mai picchiato prima ma fare la modella a Fucecchio 40 anni fa non era una cosa ben vista. Partii per Milano dove mi aspettavano per una sfilata in piazza del Duomo».
Poi dalle passerelle alle scene hard…
«La parte più bella erano i continui viaggi, il rapporto col mio pubblico al teatrino di Milano che a quel tempo era come il Crazy Horse di Parigi, un monumento con Moana e Cicciolina. Facevamo dei ver spettacoli, non come ora dove l’hardcore è carne da macello e basta, non uno spettacolo. Era “teatro”, a luci rosse ma teatro. Con tre spettacoli al giorno, i posti numerati in platea. Le prime file costavano 60 mila lire, che non sono i 30 euro di oggi ma l’equivalente di 100 euro. Chi pagherebbe oggi certe cifre? Nessuno. C’era sempre chi chiedeva lo sconto ma no, gli dicevano, se non puoi pagare te ne torni a casa tua a vedere nuda tua moglie. Vedere donne nude mica è un bene essenziale come il pane».
Il porno di oggi proprio non le piace.
«È più sporco, più falso. Mi viene il magone quando vedo certe scene di sesso blasfemo. Quello non è sesso, è una roba che fa paura solo a pensarci. Il porno oggi è solo una roba usa e getta, si fa un film in tre giorni, mica come ai miei tempi quando c’era una ricerca maniacale delle location. Per girare “Carmen” a Budapest ho recitato nello stesso set del Gobbo di Notre Dame, con le stesse scenografie della cattedrale. Il mio film più famoso, Doom Fighter, dove interpretavo una Lara Croft hard, è costato un miliardo e due mesi di post produzione. Oggi per un film ti danno 500 euro, manco fosse una marchetta».
Ha parlato del fastidio nel vedere scene di sesso “blasfemo”. Lei è religiosa?
«Prego molto. Credo molto in Dio ma poco nella Chiesa. Ho fatto tutti i sacramenti e ho la casa piena di immagini sacre, soprattutto Padre Pio. Ogni volta che salivo su un palco prima di uno spettacolo hard o di una scena, mi facevo il segno della croce».
Questo non è blasfemo?
«Il sesso non è una cosa sporca. Sono le persone a essere sporche. Farmi il segno della croce mi dà senso di sicurezza e protezione».
Si è mai innamorata sul lavoro?
«Gli attori porno non mi hanno mai attratto… in quel senso. Perché nelle persone io amo la verità. E il pornoattore che sa fare sesso anche con la vecchia sdentata, non mi interessa. Non prova vero interesse, è più una macchina che una persona. E dire che mi hanno anche tampinata bene eh, piacevo agli attori perché ero una donna vera sul set».
Perché le altre attrici erano finte?
«Il 95% delle attrici sono finte: tutte “oh-oh-oh” mentre girano la scena ma non appena si spegne l’occhio rosso della camera diventano subito annoiate e scontrose, non vedono l’ora che finisca tutto».
Con molte colleghe eravate amiche: lei, Selen, Valentine Demy…
«Ma non ci vedevamo mai fuori dal lavoro, tutte sparse in varie zone d’Italia. Con Selen ci siamo frequentate tanto quando ero all’inizio, poi ci siamo perse di vista. Con Valentine è rimasto un bel rapporto anche ora, lei abita a Pisa, io a Viareggio e ci sentiamo spesso. Ci raccontiamo cose da mamme e da mogli. Selen l’ho rivista al Carosello di Bologna 4 anni fa, lei festeggiava il compleanno, io ero in veste professionale. Mi sono esibita nei locali fino al lockdown, principalmente al Blue Moon di Roma, poi morì lo storico proprietario, Franco Lamanna, e ho smesso».
Adesso la vita come va?
«Ho una palestra, faccio la personal trainer e lavoro solo per le donne. Dopo tanti anni a lavorare solo per gli uomini. E sono single: ho 63 anni e non ho voglia di mettermi un vecchio in casa. Potrei ancora permettermi di stare con un quarantenne ma mi sentirei a disagio. Magari se mi trovo un bel cinquantenne...».
Marco Menduni per "Specchio - La Stampa" l'11 aprile 2022.
Lei è Manuela Falorni. Il suo nome d'arte è Venere Bianca. Sì, la Venere Bianca delle copertine, delle sfilate, delle trasmissioni ammiccanti nelle serate delle prime tv private. Poi i set a luci rosse. E nel frattempo la sua vita scorreva come un otto volante di occasioni e di emozioni.
Anche contrastanti. Chi è oggi Manuela Falorni? «Il mio oggi è ovviamente molto meno movimentato. È lo stile di vita della persona comune, si alza, va a lavorare, fa le faccende, esce con un’amica o amico. Questo è anche giusto, perché ho 63 anni e non lo nascondo e non potrei riproporre a me stessa uno stile di vita come allora, in termini di energie e resistenza».
Da tre anni si è diplomata personal trainer in una delle migliori scuole di Milano.
Sorride: «Mi sono voluta specializzare nell'allenamento femminile. Curioso: ho lavorato per una vita con gli uomini, e ora con le donne».
Se si guarda indietro?
«Io mi invidio il mio passato. Non rinnego niente, anche se ho fatto una scelta particolare. Non rinnego nulla di quello che ho rappresentato. Adoravo il contatto con il pubblico, la gente, gli spostamenti continui».
Un debutto da modella tradizionale.
«Le top non esistevano ancora. C'erano le professioniste. In Italia eravamo tutte italiane. I gruppi di Milano, di Roma, di Bologna e di Firenze. Lavoravo un po' con tutti. Sono stata in Russia, Giappone, Corea, in tutta Europa. Eravamo tra la fine degli Anni 70 e l'inizio degli 80. Il nostro lavoro era quello di Pitti, Milano collezione, l'alta moda a Roma. Poi facevo servizi fotografici per costumi e biancheria. Ero magra ma con le forme, non filiforme».
Sposa il pugile Nino La Rocca, il matrimonio dura un lustro. Nasce il figlio Antonio, che oggi ha 35 anni. Dopo la separazione arriva la trasmissione erotica Top Club di Rete Mia ed è l'anticipazione della svolta.
«Erano programmi notturni, seguitissimi nei primi Anni 90. Già da un anno vivevo con il mio secondo consorte, Franco Ciani, ex marito di Anna Oxa. Era produttore e musicista. Ci eravamo conosciuti al Festival di Sanremo, lui al seguito di una nota cantante, io modella di clip musicali».
Un ricordo vivido.
«C'è stata una breve separazione. Dopo un anno il suo suicidio. Cerco ancora di reagire, di essere serena, di reinventarmi. Ma che brutto questo termine!».
Il debutto negli spettacoli - «allora c'erano tantissimi club» - avviene quasi per gioco: «Mi piaceva vedere gli show erotici. Una sera volli provare. Salii sul palco, da outsider. Doveva durare quindici minuti, durò un'ora, io non scendevo più dal palco, la gente era in delirio».
Dopo poco, l'approdo ai programmi notturni. Le dirette di Rete Mia e Rete A: «Ne parlavano persino i grandi quotidiani. Certo, anche perché ero stata la moglie di La Rocca e di Ciani. Erano cose all'acqua di rosa ma per i tempi era un pugno nello stomaco».
Ancora, il circuito dei piccoli teatri italiani a luci rosse: «Decisi che era il momento. Prima ho autoprodotto un film molto amatoriale ma molto carino. Un imprenditore del settore comprò il master. Poi i set professionali».
Come nasce Venere Bianca?
«All'epoca c'era un'altra attrice in voga, Emanuelle Cristaldi. Non volevo che si creasse confusione. Ho scelto il nome che mi descriveva come mi sentivo in quel momento. Venere come dea dell'amore. E bianca, un po' algida, interprete di una trasgressione eterea. Un po' più su delle altre. Anche un po' irraggiungibile». Puntualizza: «Non ho mai girato scene esagerate. Dico sempre: sono stata molto più trasgressiva nel mio privato che nei film. Lì sapevo di concedere la mia intimità e mi sembrava già abbastanza».
La scelta di abbandonare il set arriva nel 2005: «Se diventi carne da macello non va più bene. Mi accorsi che il mondo del porno stava crollando come qualità. Ma sono rimasta in scena, nei club. Gli ultimi spettacoli ancora due anni fa, subito prima della pandemia».
Le tante vite di Mara Maionchi: perle di saggezza (pratica). Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.
Su Sky Tg24, a «Stories» di Omar Schillaci, Maionchi ci ha regalato un breve ripasso della sua esistenza mostrando come la leggerezza spesso sia l’arma migliore.
«Sono stata una studentessa terribile. Un somaro di dimensioni colossali». Un somaro, non una somara: Mara Maionchi non si pone problemi di genere, è superiore a tutto, una forza della natura entrata in tv per smuovere non poche acque stagnanti. Su Sky Tg24, a «Stories» di Omar Schillaci, Maionchi ci ha regalato un breve ripasso della sua vita. Forse sarebbe più giusto dire delle sue vite perché c’è una Mara che comincia a lavorare in un’azienda di spedizioni, per poi passare a un’altra di prodotti chimici per l’agricoltura; c’è una Mara che risponde a un annuncio dell’Ariston Records in cui si cercava una segretaria per ricoprire il ruolo di ufficio stampa (allora si poteva passare dagli anticrittogamici ai vinili); c’è una Mara che lavora con Battisti e Mogol; c’è una Mara che incontra cantanti come Battiato («ma era ancora nell’epoca — non le viene la parola, poi la trova, ndr — sperimentale»), Gianna Nannini, Edoardo De Crescenzo, Mia Martini, Fabrizio De André, Tiziano Ferro; c’è una Mara che partecipa a un numero imprecisato di Festival di Sanremo.
Poi c’è la Mara che non ti aspetti (e forse non se l’aspettava neanche lei), quella che entra in tv («Mi ha scelto coso, il sindaco di Bergamo», cioè Giorgio Gori, all’epoca capo di Magnolia), e diventa subito personaggio: per la sua schiettezza, le sue battute, il suo anticonformismo. Quella che dimostra che a volte è più importante l’istinto della preparazione, quella che si scalda ma sa anche stemperare il tutto con l’autoironia. Tempo fa, sui social, circolava un sito che la ritraeva «maestra di vita». Beh, quando confessa a Schillaci di essere stata una «moglie approssimativa» si capisce subito che un’altra perla va ad aggiungersi alla sua collana di saggezza pratica. Vorrebbe essere ricordata come una donna simpatica (del genere, speriamo, Sympathy for the Devil).
Mara Sattei, estate da hit con «La dolce vita»: «Con Fedez e Tananai si è creata una sintonia perfetta». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.
La cantautrice romana, 27 anni, si racconta: dagli esordi accanto al fratello e produttore Thasup al primo album «Universo».
In mezzo alle due guardie del corpo Fedez e Tananai è diventata la donna dell’estate: Mara Sattei, voce femminile de «La dolce vita» (da sei settimane in vetta ai singoli più venduti) è stata catapultata nel turbinio dei tormentoni: raffinata e riservata, un look quasi aristocratico e un nome d’arte che capovolge le iniziali di quello vero Sara Mattei, a 27 anni è una cantautrice in rampa di lancio, dopo anni a fare musica con il fratello rapper e tanti featuring di successo.
Come si è ritrovata fra Fedez e Tananai?
«Fedez mi ha contattata per farmi sentire il pezzo, non avevamo mai collaborato, ma c’era stima reciproca. Così ci siamo incontrati e con i ragazzi si è creata anche una bella armonia. È stata una nuova sfida».
Che rapporto avete?
«Passiamo tanto tempo insieme e ci stiamo divertendo. Penso che siamo proprio tre mondi differenti ed è stato interessante unire i nostri stili. Io sono una ragazza molto semplice ed easy e loro sono i miei bodyguard: simpatici, schietti e travolgenti».
Com’è Fedez rispetto a quel che vediamo sui social?
«È una persona molto trasparente ed è letteralmente così come si vede».
E Tananai è scapestrato come sembra?
«In realtà è una persona riflessiva, parliamo di tanti argomenti, della vita in generale, e ha un punto di vista molto intelligente».
Cosa rappresentano per lei gli anni 60?
«Sono sempre stata affascinata da quel periodo e ricreare quell’atmosfera mi ha davvero portata nel passato, una cosa che solo la musica è in grado di fare».
Nel frattempo è partito anche il tour legato al suo album «Universo»: come vive il rapporto con il pubblico?
«Sono i miei primi live, ho passato la pandemia a prepararmi, e credo che sia la parte più bella di questo lavoro. Trovare perfetti sconosciuti felici di vederti dà una grande energia».
Il disco è prodotto da suo fratello Thasup (nuovo nickname del rapper Tha Supreme): siete un duo inossidabile.
«Siamo cresciuti insieme e la musica ci ha unito ancora di più, è un privilegio per me che ci sia questo rapporto. Io sono la sua fan numero uno e lui sostiene me».
Non litigate mai?
«Da piccoli ci è capitato di bisticciare, ma molto di rado. Ci comprendiamo a livello musicale e umano».
Ricorda i primi esperimenti musicali insieme?
«Ho anche i video che facevamo, io avrò avuto 13 o 14 anni, lui era un bambino, mi accompagnava alla chitarra. Poi mi ha aperto il suo mondo musicale e viceversa. C’è sempre stato uno scambio».
Lui non si fa vedere se non formato cartoon, lei sui social non mostra nulla di personale. Siete entrambi riservati?
«Io sono proprio così, a volte mi piace condividere e lo faccio seguendo l’istinto, ma sono molto privata nelle mie cose, anche nella vita».
La musica arriva da vostra mamma, cantante gospel?
«Mamma canta, ma più in generale l’influenza è stata in famiglia perché nostro nonno ha sempre scritto testi e poesie e abbiamo uno zio che suona, insomma sembrava quasi inevitabile».
Dieci anni fa aveva partecipato ad «Amici» Di recente ci è tornata con Giorgia, con cui duetta in «Parentesi»: com’è stato?
«Rivedere quei luoghi mi ha fatto un grande effetto. Anche ritrovare Maria e darle il mio disco: all’epoca ero una bambina di 18 anni, anche lei ora avrà visto una persona diversa».
Col senno di poi lo rifarebbe?
«Assolutamente sì, è stato formativo. Penso che ognuno abbia un momento giusto nella vita, io allora non avevo bene a fuoco quel che volevo fare e dovevo proprio crescere, ma mi ha dato un primo assaggio di cosa volesse dire stare nella musica».
Cantare con Giorgia cosa ha rappresentato?
«Me la faceva ascoltare mia mamma e il primo concerto della mia vita è stato il suo. Sarò per sempre riconoscente dello scambio di stima che c’è stato con lei, fra due generazioni diverse».
Il mondo della musica è maschilista?
«Sarei ipocrita a dire che non è così, ma negli anni tante cose sono cambiate. C’è una ventata di freschezza con cantautrici anche giovani che stanno avendo il posto che meritano. Bisognerà cambiare ancora, ma io non mi sono mai trovata in una situazione in cui mi sia sentita da meno di qualcuno».
Nel suo futuro vede Sanremo?
«Mi piacerebbe, non so quando, ma anche lì ci sarà il momento giusto».
Ha una collaborazione dei sogni?
«Al momento sogno di conoscere Justin Bieber: aprirò il suo concerto italiano il 31 luglio a Lucca, un’opportunità bellissima, e mi piacerebbe incontrarlo».
Mara Venier compie 72 anni: da Jerry Calà a Nicola Carraro, storia dei suoi grandi amori. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 20 Ottobre 2022
Le tappe della vita sentimentale della conduttrice, al timone di Domenica In ogni domenica pomeriggio su Rai 1
Il primo amore (e la nascita di Elisabetta)
«Con gli altri compagni non è stato facile, ho sofferto molto, quindi forse mi meritavo un amore così grande». Oggi Mara Venier - che pronunciava queste parole lo scorso anno a La Vita In Diretta - è felice e innamorata accanto a suo marito Nicola Carraro (sposato nel 2006). Negli anni la sua vita sentimentale è finita spesso sotto i riflettori. Nata a Venezia il 20 ottobre 1950 ha vissuto il suo primo grande amore ad appena 16 anni: «Un giorno, in piazza Ferretto a Mestre, incontro un ragazzo bello come il sole, e me ne innamoro perdutamente: Francesco Ferracini - ha ricordato qualche mese fa la conduttrice al Corriere -. Facemmo la fuitina. E tre mesi dopo ci sposammo». Il 3 ottobre 1968 nasce Elisabetta: «Non ebbi il coraggio di dire ai miei che aspettavo un bambino, anche se mia mamma aveva capito. Il prete, don Gino Trevisan, era contrarissimo: “Tieni il toseto, ma non star a maritarte!”. La sera stessa delle nozze, lo sposo partì per Roma: sognava di fare l’attore. E io restai nella casa dei ferrovieri, dove nacque Elisabetta».
Il secondo figlio
Nel 1971, accompagnando l'ormai ex marito ai provini per il film «Diario di un italiano» di Sergio Capogna, viene scelta come protagonista femminile. Sul set della pellicola incontra l'attore Pier Paolo Capponi, con cui intreccia una relazione. Nel 1975 la futura conduttrice di Domenica In darà alla luce Paolo, il suo secondogenito. «Il mio rapporto con lui non è stato molto sereno in alcuni momenti della nostra vita - diceva Venier a Chi nel 2019 -. L’arrivo del mio nipotino ha fatto da collante: è stato un attimo, una magia, siamo tornati ad essere un’unica grande famiglia».
Ex ma amici
Con Jerry Calà - conosciuto durante le riprese del film «Vado e vivere da solo» - la conduttrice si è sposata nel 1984 a Las Vegas. «La vita era sempre un gioco e me ne combinava di tutti i colori - ha raccontato Venier qualche anno fa in un’intervista a Verissimo -. Diciamo che era molto birichino. Ti dico solo che il giorno della nostra festa di matrimonio, mentre tutti festeggiavano e Renato Zero cantava, lui è sparito! Sono andata nei bagni e l’ho pizzicato con un’altra. Non sai quante gliene ho date sia a lui che a lei». Nonostante si siano lasciati dopo pochi anni insieme Jerry e Mara hanno mantenuto un ottimo rapporto. «È la mia più grande amica - diceva nel 2021 Calà al Corriere -. Con l’affetto che resta dopo l’amore e con l’intelligenza, si diventa amici. Per noi è stato naturale. Alcune persone rimangono nel cuore e il rapporto si trasforma in qualcos’altro di ugualmente bello e pieno di complicità».
Con Renzo Arbore
In occasione della puntata speciale di Domenica In andata in onda in prima serata nel maggio scorso Mara Venier ha detto: «Se io sono qui oggi, alla mia 13esima Domenica In, lo devo a lui». Ovvero Renzo Arbore, suo compagno per dodici anni fino al 1997. «Pensai subito che andava bene per quel programma», ha confermato lui. «Renzo è stato molto importante per me, come io per lui - ha detto la conduttrice anni fa a Vanity Fair -. Insieme abbiamo vissuto momenti bellissimi e momenti tragici, come la perdita di nostro figlio, nel '90, quando ero incinta di cinque mesi e mezzo».
La passione con Armand Assante
In seguito alla rottura con Renzo Arbore Mara Venier ha vissuto una grande passione, durata soltanto un anno, con l'attore italoamericano Armand Assante. Nel 2015 raccontava al settimanale Chi: «È stata una grande passione, ma anche molto divertente: Armand è stato la follia della mia vita. Ci aveva presentato Pascal Vicedomini che poi è stato fondamentale per...comunicare. Io non parlo inglese, Armand non parlava una parola d'italiano. Per carità quando c'è una passione di mezzo le parole contano poco, ma io e Armand ci incontravamo con i dizionari in mano. Così Pascal ci faceva da traduttore e mi ha seguito spesso: a New York, a Bora Bora a Los Angeles».
Un lento corteggiamento
Dal 28 giugno 2006 Mara Venier è sposata con il produttore cinematografico Nicola Carraro. I due, convolati a nozze dopo sei anni insieme, si sono conosciuti ad una cena organizzata da Melania Rizzoli, la migliore amica della conduttrice: «Nicola era appena rientrato dall’estero e c’erano molte donne interessate a conoscerlo - raccontava Venier nel 2019 al Corriere -. Quando l’ho visto entrare al ristorante ho pensato: “Oddio che cumenda milanese, non c’entra proprio niente con me!”. E invece mentre le altre convitate cercavano di far colpo, noi ci studiavamo. “Io la conosco, so che lei fa un’ottima pasta e fagioli”, mi disse. Glielo aveva detto qualche anno prima Jerry Calà, di cui lui aveva prodotto un film. A quel punto mi era anche antipatico, pensavo mi dicesse “la conosco, lei è la signora della domenica”, invece la pasta e fagioli...È stato un lento corteggiamento».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'11 ottobre 2022.
Non trovavo le parole per dire quanto fosse noiosa e insulsa la tv che si nutre solo di sé stessa; per questo ho seguito Domenica in quando stava parlando di Ballando con le stelle con gli inevitabili highlights della sera prima. Non so come esprimere la mia avversione per le giurie televisive (specie quelle con le palette);
per questo mi incuriosiva Mara Venier che discuteva di una reazione verbale di Iva Zanicchi, come se tutto non fosse combinato o, quanto meno, prevedibile (se chiami certe persone si sa già come andrà a finire, vero signora Carlucci?). Domenica in come il Var di Ballando con le stelle , mah! Domenica in è fastidiosa perché Venier tratta la trasmissione come fosse casa sua, con una trasandatezza formale degna di una tv locale.
A un certo punto, mentre l'ipocrisia dei discorsi si tagliava con il coltello, Venier se ne esce con questa frase: «Da casa poi i social pensano che io censuri». D'improvviso, mi si è spalancato un mondo: chi sono le persone che seguono Domenica in e usano i social per interloquire? Sono giovani interessati alle intemperanze di Iva Zanicchi? Sono vecchierelli che hanno scoperto i social e li usano come Silvio Berlusconi usa TikTok? Sono gruppi d'ascolto attratti dalle meraviglie del mondo digitale e organizzati per «ringiovanire» il target di Rai 1?
La vecchia, cara tv generalista della domenica pomeriggio (l'horror vacui della domenica) messa sotto esame in diretta dai social? Invece di pensare a fare un buon programma, come ai tempi di Pippo Baudo, invece di guardare oltre la sua cerchia di amici, tipo Alberto Matano, Venier si preoccupa della reputazione dei social: non sapendo che alcuni di questi gruppi (il popolo dei social è la nuova entità astratta che ci domina) sono manovrati e non bisogna neanche prenderli in considerazione. Il servizio pubblico ha delle ragioni sociali che la ragione dei social non conosce.
Mara Venier: «Un mio ex mi picchiava, mi aspettò sotto casa con un coltello». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 4 settembre 2022.
Intervista con Mara Venier: «Quell’uomo non c’è più e io l’ho perdonato. Sono alla mia 14esima Domenica In, Baudo si è fermato a tredici. La prima notte d’amore rimasi incinta: lui era bellissimo»
Mara Venier, comincia la sua quattordicesima Domenica In.
«Baudo si è fermato a tredici».
Com’è Pippo con lei?
«Paterno. Ogni volta mi dico: basta, quest’anno smetto. Invece...».
Ogni tanto provano a far fare Domenica In a qualcun altro, e la richiamano sempre.
«È successo cinque volte. L’ultima, nel 2017, mi trovai seduto accanto in treno il direttore generale della Rai, che era Mario Orfeo. Mi chiese: “Quando torni a casa?”. Sono tornata».
Il segreto?
«Sono pop, non trash. Popolare, non volgare. E studio: il sabato sera non esco mai».
E cosa fa?
«Resto a casa a preparare la puntata. Se presento un libro, lo leggo fino alle tre del mattino. Quando stavo con Renzo Arbore mi diceva: dai, usciamo. Ma io niente».
Venier e Renzo Arbore, una coppia durata 12 anni
Da Galeazzi a Ozpetek, ci sono personaggi che lei ha rilanciato o fatto conoscere al grande pubblico.
«Ferzan è un genio, ed è diventato un amico fraterno, ci scriviamo di continuo; come con Alberto Matano. Sono i regali che ti fa la vita. La gente si fida e mi vuole bene. E io mi emoziono ogni volta. Anzi, quest’anno di più».
Perché?
«Perché è una responsabilità. Non credo che spunterà uno tanto pazzo da fare quattordici Domeniche In. Però mi sono liberata dall’ossessione degli ascolti. Già la scorsa stagione avevo dato spazio all’impegno, alle storie importanti, agli argomenti seri. Quest’anno lo farò ancora di più».
A quale argomento pensa?
«Innanzitutto, la violenza contro le donne. Nella prima puntata avrò ospite la sorella di Alessandra, la signora di Bologna massacrata a martellate dal compagno più giovane. Una storia terribile di ossessione, di possesso, di libertà negata, di violenza. Io ne so qualcosa».
A cosa si riferisce?
«Ho avuto un compagno violento. Molto violento. Mi picchiava. È arrivato a cercare di uccidermi».
Cosa le ha fatto?
«Mi ha aspettato sotto casa con un coltello. Questa è una cosa che non ho mai raccontato. Sappia solo che ho pagato un prezzo altissimo».
Chi era quest’uomo?
«Uno che non ha accettato la fine della nostra storia. Diceva di amarmi ancora. Ma questo non è amore. Sono uomini che si sentono proprietari del tuo corpo e della tua anima. E ti distruggono».
In che modo?
«Non soltanto con le botte o con le coltellate. Ti fanno sentire una nullità. Una cosa nelle loro mani. Io ho provato la paura. La paura della violenza fisica, e la paura di sporgere denuncia. Ma ero innamorata, e quando ami non vuoi vedere: l’amore ti porta a giustificare quasi tutto. Fu un grave errore. Alla fine sono stata costretta a denunciare, andavo sul set con due carabinieri di scorta. Ma avrei dovuto interrompere la spirale prima. A lungo è rimasto dentro di me qualcosa di irrisolto: la debolezza, la rabbia, l’incapacità di reagire... Purtroppo noi donne siamo fatte così».
Così come?
«Abbiamo la sindrome da crocerossine. “Io lo salverò, con me lui sarà diverso, io lo cambierò”. Ma purtroppo loro non cambiano. E allora dobbiamo andarcene. Lasciarlo. Al primo schiaffo, subito. Non bisogna consentirgli di esercitare un potere, una violenza su di noi; altrimenti è finita».
Insisto: chi era quell’uomo?
«Quell’uomo non c’è più e io, alla fine, l’ho perdonato».
Chi è stato il suo primo amore?
«Il primo fu solo un corteggiatore: il principe Sebastien von Furstenberg, il nipote di Agnelli, figlio di sua sorella Clara. Veniva a prendermi su una Balilla Coppa d’Oro al palazzo dei ferrovieri di Mestre: un enorme cubo da sessanta famiglie per lato. Lui le svegliava tutte facendo tu-tu con il clacson. Oppure telefonava a casa di notte. Una volta rispose mio padre».
E cosa disse a Von Furstenberg?
«Principe, ma vai in mona!».
Come si chiamava suo padre?
«Giovanni Povoleri. Venier è un nome d’arte. Faceva il fruttivendolo, lo chiamavano el Toto de Rialto. Sono nata a Cannaregio, al ghetto. Poi papà trovò un posto in ferrovia, e andammo a Mestre».
E sua mamma?
«Elsa faceva la sarta. La sera mi mandava a riprendere papà all’osteria “La barachetta”: “Va a tore el Toto...”. Ma io lo vedevo così felice, mentre beveva un’ombreta e suonava la fisarmonica, che mi dispiaceva portarlo via».
Lei ha raccontato la malattia di sua madre nell’autobiografia, «Mamma, ti ricordi di me?».
«L’Alzheimer avanzò poco per volta. All’inizio lei alternava momenti di aggressività e di dolcezza. Mi riconosceva ancora, ma a fatica; così presi l’abitudine di salutarla dalla tv — “ciao mammina!” —, del resto era sempre stata così fiera di essere “la mamma di Mara Venier...”».
Ce lo ricordiamo tutti, divenne una scena di culto, divertiva e commuoveva.
«La Rai mi fece un richiamo».
Chi?
«Al direttore generale, che era Lorenza Lei, arrivarono un po’ di lamentele. Così mi fece chiamare dal direttore di rete, Mauro Mazza. Gli spiegai che era un modo per sperare che mia madre mi riconoscesse».
E Mazza?
«Mi disse: Mara fregatene, continua a salutare la tua mamma in tv».
Poi un giorno la signora Elsa non la riconobbe.
«Era seduta in giardino, bellissima — la mamma aveva gli occhi come i miei, ma più belli —, con un grande cappello, pareva Greta Garbo. La saluto felice: ciao mammina! E lei mi risponde: “Buongiorno signora”. Avrei voluto morire. Invece trovammo un altro modo per comunicare».
Quale?
«Le canzoni napoletane, che adorava. Io cantavo una strofa, e lei proseguiva. “Famme chello che vuó, indifferentemente”; “tanto ’o ssaccio che so’, pe te nun so’ cchiù niente...”. Un giorno cantò “Ohi vita, ohi vita mia”. Poi mi disse: “Va a tore el Toto”, vai a prendere il papà, che era morto da trent’anni».
E lei?
«Mi allontanai, poi le raccontai che avevo portato il papà a casa, ma senza umiliarlo, facendo le cose per bene. Lei rispose: “Tu hai sempre fatto tutto per bene”. Sono state le sue ultime parole. Un dolore terribile: sulle prime ho chiesto al dottore di farmi un’iniezione perché volevo seguirla, andarmene con lei. Ma quella frase fu anche una consolazione. Perché mia mamma da bambina non mi ha mai abbracciata; semmai mi prendeva a botte. E ai suoi occhi non avevo sempre fatto tutto per bene».
Ad esempio?
«La prima notte d’amore rimasi incinta. Non sapevo neppure come nascessero i bambini».
Fu il principe?
«No, con il principe non accadde nulla. Ma un giorno, in piazza Ferretto a Mestre, incontro un ragazzo bello come il sole, e me ne innamoro perdutamente: Francesco Ferracini. Facemmo la fuitina. E tre mesi dopo ci sposammo».
Matrimonio riparatore.
«Non ebbi il coraggio di dire ai miei che aspettavo un bambino, anche se mia mamma aveva capito. Il prete, don Gino Trevisan, era contrarissimo: “Tieni il toseto, ma non star a maritarte!”. La sera stessa delle nozze, lo sposo partì per Roma: sognava di fare l’attore. E io restai nella casa dei ferrovieri, dove nacque Elisabetta».
Mara Venier con la figlia Elisabetta
Ma poi andò a Roma pure lei.
«Un anno e mezzo dopo, per chiedere la separazione. Mio marito venne a prendermi in Rolls Royce, lui seduto dietro, davanti Roberto Capucci, lo stilista. Mi fecero dormire sul divano, il mattino mi ritrovai sola con un mastino napoletano — io ho paura dei cani — che mi fece prigioniera: quattro ore inchiodata all’armadio».
Roma matrigna.
«Al contrario. Quando vidi il tramonto dal Pincio mi dissi: io da qua non mi muovo più. Per fortuna Capucci mi guardò negli occhi e mi propose di fare la modella per lui: cinque giorni con un fotografo americano di Harper’s Bazaar, 100 mila lire al giorno. Mi sentivo Cenerentola. Non avevo mai visto in vita mai quei vestiti, e quei soldi».
E diventò attrice.
«Recitai la parte di Vanda, un’ebrea suicida dopo le leggi razziali, in “Diario di un italiano” con Alida Valli. Poi ho lavorato con Nanni Loy e Dario Argento. Ma anche con Mario Merola in Zappatore».
Com’era Merola?
«Un signore. Ogni sera mi portava a cena con mia figlia. E poi cantava le canzoni che mia mamma amava. Però con il cinema non campavo, così aprii un negozio di abiti usati in piazza del Teatro di Pompeo. Abiti come quelli che portava un’amica che mi ha insegnato molto: Gabriella Ferri».
Cosa le ha insegnato la Ferri?
«L’impegno. Occupammo la vecchia pretura, per avere un posto per noi donne. Anche pensando a Gabriella voglio portare il tema delle donne a Domenica In».
Altre grandi amiche?
«Maria De Filippi, che mi ha chiamato a Mediaset in un momento difficile».
E la D’Urso?
«Ci siamo sempre rispettate. Grande amica è Melania Rizzoli, che mi ha presentato Nicola Carraro, mio marito».
Nicola Carraro e Mara Venier si sono sposati nel giugno 2006
Come andò?
«Ne sentivo parlare da una vita: intelligente, gran figo, produttore ritiratosi a vita privata, tra Los Angeles e i Caraibi... Una sera Melania organizza una cena per far incontrare Nicola a tre sue amiche. Io chiedo: perché non inviti anche me? Rispose: perché tu sei fidanzata».
Con chi era fidanzata?
«Avevo un flirt con un giornalista della radio, Fabio Visca, quello della trasmissione Fabio e Fiamma. Comunque passo un pomeriggio in agitazione, mi trucco, mi metto un tubino nero, vado al ristorante come sempre in anticipo, e attendo questo famoso Nicola Carraro. Entra un cumenda milanese con la giacca blu dai bottoni d’oro, grande giocatore di golf, e mi dico: io non c’entro niente con questo qui. A peggiorare le cose, accenna un baciamano».
Perché a peggiorare?
«Detesto i baciamano. Per fortuna a cena c’è anche Gianni Boncompagni e chiacchieriamo tutta la sera. Con Nicola non ci rivolgiamo la parola, fino a quando lui mi fa: “Io la conosco”. Ci credo bene, vivo in tv... “No, la conosco perché lei fa una pasta e fagioli favolosa”».
Come poteva saperlo?
«Gliel’aveva detto un suo amico, il mio ex marito Jerry Calà, che tanti anni prima gli aveva confidato: “Mi sono innamorato di una ragazza dagli occhi meravigliosi, che per giunta sa fare la pasta e fagioli”».
Venier e Jerry Calà si sposarono nel 1984
Così con Carraro vi siete fidanzati e sposati.
«Ha fatto tutto Melania. A me ha detto: Nicola è pazzo di te. A lui ha detto: Mara è pazza di te. Una sera è salito a bere un bicchiere di grappa, e abbiamo scolato la bottiglia. Non è successo nulla; ma mi ha raccontato tutto di lui».
Lei ha lavorato pure con Fiorello giovane.
«Siamo rimasti molto vicini. Facemmo il Cantagiro insieme. Io ero caduta — ogni tanto cado rovinosamente — ed ero ingessata. Una sera in Calabria mi dimenticarono in albergo. Mi svegliai da sola: erano andati via tutti».
Pure Fiorello.
«Gli telefonai in lacrime. Era già all’aeroporto, e tornò indietro a prendermi. Fece duecento chilometri per non lasciarmi. Un gesto che non ho mai dimenticato».
Lei parla con un accento tutto suo, un misto di romano e veneziano.
«A Venezia dopo la morte della mamma per sette anni non sono riuscita a tornare. Ora ce l’ho fatta, ed è stato come chiudere il cerchio. Lo stesso vale per la violenza subìta: le cose vanno affrontate, il cerchio si deve chiudere. Ma certe ferite non si rimarginano mai davvero. Ed è giusto parlarne. Anche in tv. Anche se fa perdere ascolti. Ho avuto tutto, è il momento di rischiare qualcosa».
Michela Tamburrino per “la Stampa” il 28 maggio 2022.
Venditti cantava una grande verità, vale a dire che ci sono amori che fanno giri immensi e poi ritornano. Mara Venier è una cultrice di questa certezza assurta a massima assoluta. Lei, i suoi amori, li coltiva con metodica cura perché poi li aspetta tornare. E loro non si fanno aspettare, siano essi frutto di una grande amicizia, di un rapporto affettivo sentimentalmente più profondo. Mara è lì accogliente e paziente, i giri immensi finiscono sempre tra le sue braccia.
Perciò non stupisce che alle sue feste, con telecamere o senza, ci sia sempre il pienone di gente che normalmente rifugge concentrazioni di notorietà. Stavolta però la festa porta impresse le stigmate della ricorrenza ineludibile. Ieri sera su Rai1 è andato in onda lo speciale Domenica In Show, per ufficializzare in anteprima la notizia della quattordicesima Domenica In firmata Mara Venier e per festeggiare i trent' anni di carriera della signora della tv.
Un record di conduzione che le fa polverizzare autorevoli primati. Con lei una parte degli amici di sempre: Renzo Arbore e la sua orchestra italiana pronta a porgere alla commossa Mara la canzone che ha segnato la loro storia affettiva; Ferzan Ozpetek, «entrato nella mia vita in maniera invasiva e che oggi è sempre con me in quanto simile, vicino, amico delle confidenze più recenti», Alessia Marcuzzi che per Mara è tornata in Rai, Ornella Vanoni, Gigi D'Alessio che ha intonato tanti successi amati dal pubblico e dalla festeggiata.
Mara, una festa tanto voluta.
È felice?
«Tutto nasce da una richiesta di Stefano Coletta direttore di Rai1. Dovevamo realizzare con Ozpetek due puntate di uno show molto complesso da portare a termine. Tanto da doverlo rimandare a Natale. Però, sempre da Rai1, mi hanno chiesto di realizzare almeno uno speciale per ricordare date così significative anche per la rete».
Praticamente lei è come la Regina Elisabetta, la sovrana della tv e quello di ieri sera è stato il suo Giubileo.
«Non ci avevo pensato, sono due ricorrenze che pesano però. Non sapevo se avrei fatto la prossima Domenica in, io sono sempre piena di incertezze, di paure. Poi ho detto di sì e ieri sera ho celebrato il mio Giubileo. Firmando questa quattordicesima edizione supero anche le condizioni di Pippo Baudo che si è fermato a tredici».
Una festa di amici?
«Non tutti quelli che avrei potuto. Mi ha telefonato Sabrina Ferilli dispiaciuta di non esserci stata, pronta a venire la prossima volta. Io sono molto fortunata».
In che senso?
«Ho tante persone care attorno, ho tanti amici che mi vogliono bene, che normalmente si concedono poco e che con me si fanno fare di tutto. Devo aver seminato bene. Sono certa di essermi comportata in modo corretto con sincerità e mai come oggi sento tanto affetto attorno a me».
Quando è stato il momento di svolta?
«Durante la pandemia ho sentito che il rapporto con le persone amiche e soprattutto con il pubblico prendeva una strada più profonda. Io ho sempre avuto un'immagine ridanciana, scherzosa, tutto quello che è accaduto ha alzato l'asticella e ha svelato una parte nascosta di me».
Per come ha condotto la Domenica in durante il lockdown?
«Sola in studio per mesi, impaurita, attorno a me dolore, io ho un marito con problemi polmonari, avrei dovuto stare chiusa in casa. Mi sono fermata una sola domenica, poi ho ripreso. Stare vicino agli italiani l'ho sentito come un preciso dovere, ho parlato a chi soffriva con la voce rotta di chi aveva veramente paura».
Lei non si è mai interrotta, anche quando si è distrutta il cuboide, quando le hanno devastato il volto.
«E ancora non ho ripreso sensibilità. Ma quella è un'altra cosa, ho condiviso un dolore mio come potrebbe fare una vicina di casa. Ma durante il momento acuto della pandemia partecipavo al dolore di tutti. Ho perso per Covid Carmela, la mia gobbista di soli cinquant' anni dei quali molti passati insieme. La svolta è stata parlare agli esperti come tutti avrebbero voluto fare, con cuore in mano. Non ringrazierò mai abbastanza i professori Bassetti, Le Foche, Vaia. Io ero in un'età a rischio e non c'erano ancora i vaccini».
Mai pensato basta così?
«Mille volte. Ma sarebbe stata una vigliaccata tirarsi indietro. Ero morta di paura ma volevo restituire tutto quello che il pubblico mi ha dato e mai come in questi ultimi anni l'ho sentito vicino».
Torniamo al Giubileo televisivo. Che momento l'ha commossa di più?
«Non poteva essere altrimenti, Renzo Arbore. Mi ha fatto un grande regalo accettando il mio invito. Significa amore, amicizia, la nostra vita che come la giri, quello che dura è sempre amore. La nostra canzone Io faccio o' scio' è la dedica finale».
Che resta di quella sventola bionda che vendeva stracci a Campo de' Fiori nella Roma più popolana e verace?
«Resta tutto. Nostalgia per una ragazza ingenua che ha permesso troppe volte che le facessero del male. Resta e continua a credere nei sogni, nell'amore. La parte di me hippy figlia dei fiori mi ha salvato la vita anche quando mi è precipitato addosso un successo mai rincorso. La vita mi ha sempre sorpresa. Io vivo in modo semplice, vado al supermercato, sto scalza, sono una zingara. Ho conquistato questa libertà totale che mi è carissima perché la vivo come un privilegio. Non è stato sempre così».
La sua vita sentimentale oggi è felice?
«Mi sono conquistata la vita anche in quel campo. Sono 22 anni che sto con Nicola, ci siamo sposati nel 2006, il 28 giugno cade una ricorrenza importante. Lui è il mio equilibrio, mi accetta per come sono, Mara e tutto il pacchetto di amici rumorosi, figli, nipoti. Ma in fondo gli ho anche rallegrato la vita. E abbiamo ancora tanta voglia di stare insieme. La parola d'ordine è rispetto, persino dei reciproci spazi. Si diverte quando abbiamo amici in casa, io cucino per tutti proprio come faceva la ragazza di Campo de' Fiori, quando non aveva una lira e i piatti si lavano a turno».
Domenica in...
«La mia rivincita dopo essere stata cacciata come una disgraziata. Mi ero detta: lo faccio per un anno. Oggi dico: io in pensione non ci vado».
Andrea Scarpa per "Il Messaggero" il 17 aprile 2022.
È Pasqua e il suo desiderio di intervistare addirittura Papa Francesco, oggi più che mai, sembra legittimo. Con Mara Venier, 71 anni, 13 dei quali passati alla guida di Domenica In, il programma di Rai1 che ormai è diventato un'appendice di casa sua (e lei per tutti ormai è Zia Mara), non si fanno mai tante cerimonie e si va subito al sodo. Partendo dai sogni, però.
Che s' è messa in testa?
«Un'idea meravigliosa. Chi non vorrebbe parlare con Papa Francesco? Io lo trovo straordinario. Di recente sono stata con lui un intero pomeriggio per un'udienza privata con altre persone, fra cui anche Carlo Verdone. Ha invitato tutti noi a raccontare qualcosa delle nostre vite. È stato molto emozionante».
Lei che cosa gli ha detto?
«Proprio questo. Santità, sono abituata a parlare a milioni di persone, ma davanti a lei mi si piegano le gambe. Lui ha scherzato con me sugli acciacchi - suoi e miei - un'infiltrazione al ginocchio, la sciatica...».
Qual è la prima domanda che gli farebbe?
«Adesso è quasi scontata. Questa guerra... Ma che sta succedendo? Che dobbiamo fare?
Quando lui parla dice cose importanti, come quelle sui gay. Anche per questo amo il suo coraggio e la sua passione. È un papa rivoluzionario. Una scoperta continua».
Lei, invece, negli ultimi due anni così difficili cosa ha scoperto di sé?
«Di essere non solo una donna libera, ma anche coraggiosa. Quando è scoppiata la pandemia, senza vaccini, ho avuto paura. Nel pieno della bufera ho chiamato il direttore di Rai1 Stefano Coletta e gli ho detto che mio marito ha un enfisema polmonare e io ho una certa età. E non sarei andata in onda, cosa che per una domenica ho fatto.
Il giorno dopo, lunedì, Coletta e Salini (all'epoca dg Rai, ndr) mi dicono: Rispettiamo le tue paure e non possiamo obbligarti ad andare avanti, ma sappi che nessuno in questo momento può parlare alla pancia delle persone come te. In questo momento non sei solo la conduttrice Mara Venier, sei la Rai. Pensaci».
E lei che cosa ha risposto?
«Datemi un'ora di tempo. Devo pensare e parlare con mio marito Nicola. L'ho fatto, e dopo dieci minuti ho richiamato dicendo che ero pronta a tornare al mio posto. Così sono andata in onda da sola. Durante le pause pubblicitarie non facevo altro che piangere. Tutto questo, però, ha cambiato la mia carriera».
Come?
«Rischiando per mesi, come tanti altri, ho guadagnato una credibilità che prima non avevo. Sentivo che dovevo restituire qualcosa al pubblico che mi ha dato tutto quello che sono. Ho iniziato a occuparmi della guerra in Ucraina con Monica Maggioni e Alberto Matano per lo stesso motivo».
Lei nel 2018 è tornata a condurre Domenica In dopo che due anni prima l'avevano cacciata via in malo modo: i sassolini dalle scarpe se li è tolti tutti?
«Certo. Però devo confessare che ormai sono oltre, sono cambiata. Vado avanti per la mia strada. Ero stata umiliata, dicevano che ero vecchia, e non pensavo di meritare quel trattamento. Infatti adesso il programma va benissimo, anche con la concorrenza di Maria De Filippi su Canale 5, un'amica vera. L'unica, lo voglio dire, che mi ha dato una mano. Cosa che non dimenticherò mai. Voglio dirlo perché la riconoscenza nel nostro mondo non esiste, ma per me sì».
Avete mai pensato di fare qualcosa insieme?
«Ogni tanto lo diciamo. Io con lei farei di tutto. Mai dire mai».
Quest' anno con 13 edizioni ha eguagliato il record di Baudo a Domenica In: l'anno prossimo lo batterà?
«Sì. Ne sto parlando con Coletta e Fuortes».
Per arrivare fin qui cosa c'è voluto?
«L'amore. Non ho mai sognato di fare questo lavoro. È successo tutto per caso, inseguendo a Roma gli uomini della mia vita: Francesco Ferracini, Pier Paolo Capponi... Dopo la fine del matrimonio con Gerry Calà, la svolta della mia vita è arrivata con Renzo Arbore».
Come?
«Vederlo al lavoro è stato preziosissimo. Amavo la sua libertà. Io stavo zitta e ascoltavo, intimidita e innamoratissima. Non sa quanto ho odiato le Ragazze Coccodè di Indietro tutta. Ero gelosissima. Le avrei messe sotto con la macchina».
E poi?
«Con Renzo mi sono innamorato della Tv e ho iniziato fare le prime cose, fino a quando nel 93 mi offrirono Domenica In l'anno dopo Toto Cutugno e Alba Parietti».
Arbore che cosa le consigliò?
«Sii te stessa. E non truccarti, devi essere il contrario della Parietti. Aveva ragione. Devo tanto anche ai partner dell'epoca: Monica Vitti, Don Mazzi, Luca Giurato. E al mio impegno. Volevo che Renzo fosse orgoglioso di me. Mi sentivo sempre un po' sfigata vicino a lui. Per fortuna sono forte. Sono caduta tante volte e mi sono sempre rialzata da sola, anche dopo un periodo di depressione».
Come l'ha superato?
«Attraversando il dolore, visto che dopo un po' neanche i farmaci mi aiutavano. Parlo di cose serie, ovviamente. Non di problemucci professionali».
Di cosa parla?
«Il lungo e penoso percorso di mia mamma con l'Alzheimer, la perdita del figlio di cinque mesi che aspettavo da Renzo, la morte del mio migliore amico Gianni Dei, la persona che c'è sempre stata. Così come adesso ce n'è un'altra».
E chi è?
«Alberto Matano. La vita mi ha regalato una grandissima amicizia con lui. Ogni giorno la prima telefonata che faccio è a lui. È entrato nel mio cuore».
È vero che da piccola voleva farsi suora?
«Sì. Vinsi anche un premio in parrocchia».
E cercava di schiarirsi la pelle con il sapone in polvere?
«A scuola mi prendevano in giro per la mia pelle olivastra. Hai il padre marocchino?, mi dicevano».
Nel 2011 è vero che la Rai le fece un richiamo per uso privato del mezzo?
«L'allora dg Lorenza Lei disse al direttore di Rai1, Mauro Mazza, che non potevo salutare mia madre alla fine di Domenica In: c'era chi protestava. Io gli raccontai che lo facevo sperando che almeno per un istante mia madre mi riconoscesse. Lui mi salutò, commosso: Fregatene, continua a salutarla».
In futuro chi potrebbe sostituirla a Domenica In? Alessia Marcuzzi?
«Lei sarebbe perfetta. L'ho vista l'altra sera. Ci siamo bevute una bottiglia di champagne insieme. È in grande forma».
E Giletti tornerà mai in Rai? In fondo all'Arena ce l'ha messo lei.
«Esatto. Forse lui l'ha dimenticato, ma quel posto gliel'ho lasciato io perché l'idea di partenza - di Marco Luci e Cesare Lanza - era di farlo condurre a noi due. Comunque non lo so, non lo sento da tanto».
Cosa non ha avuto finora?
«Sono a posto così. Anche se mi offrissero Sanremo sceglierei sempre Domenica In. Vorrei solo più tempo per gli affetti».
Quindi potrebbe anche imboccare la via dei giardinetti e andare in pensione?
«La scriva come glielo dico, per favore: col cazzo (sbotta a ridere, ndr). Faccio un'altra Domenica In, che è faticosissima, e poi altro. Ho tante offerte. Magari qualcosa con Maria De Filippi e Mara Maionchi. Voglio divertirmi ancora».
Marcella Bella: «Mio marito Mario Merello? Lui era sposato, io incinta (e Mina mi disse: ce la farai). La svolta sexy? Con Mogol». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 29 Luglio 2022.
La cantante: «“Montagne verdi’ quest’anno compie 50 anni, è il brano che ha cambiato la mia vita. Mio fratello Gianni? Dopo l’ictus non parla più, ma ride e scherza: vederlo reagire così all’handicap mi ha insegnato molto»
Marcella Bella arriva da una famiglia canterina?
«Da una famiglia di artisti. Mio papà lavorava al mercato della frutta ma amava cantare opere liriche. Aveva un talento naturale e una bellissima voce da tenore. Cantava nel coro del teatro Massimo di Catania ed era intonatissimo. Quando ero bambina, mio fratello Gianni, che faceva musica a tempo pieno, a 14 anni si comprò una chitarra con i primi guadagni di qualche lavoretto. Quindicimila lire. E la suonava perfettamente, d’istinto. Io avevo cinque anni meno di lui e gli chiedevo: «Ma come fai?» E lui: «Qui c’è un librettino che mi dice cosa devo fare». Dopo qualche mese cominciò a suonare anche il basso, poi la batteria e alla fine approdò a un pianetto, insomma alle tastiere. Tutto da autodidatta. Era nato come musicista completo. Prendeva in mano qualsiasi strumento e lo suonava, componeva delle canzoni che accompagnava con la chitarra. Il maggiore per età è Antonio, professore di lettere e filosofia nei licei che gettò la cattedra alle ortiche e divenne autore di canzoni, fra cui la celebre “Canto straniero”. C’è poi Gianni, indiscusso leader della famiglia canterina, dopo ci sono io e infine Rosario, diplomato in pianoforte. Insomma, siamo cresciuti a pane e musica. Abbiamo un rapporto istintivo, quasi automatico con la musica: bello gioioso e felice».
Ma il rapporto più intenso è stato con Gianni Bella.
«Lui era il genietto. Quando bussò alla casa discografica CGD rimasero impressionati. Portai una sua canzone alla Gondola d’oro, una rassegna che si svolgeva a Venezia. Io ci andai con “Hai ragione tu”. C’erano 100 cantanti. Vinse Romolo Ferri a pari merito con me. Dopo quel successo decisero di mandarmi a Sanremo. Il mio produttore Ivo Callegari mi fece da papà. La CGD mandò Gianni da Giancarlo Bigazzi, che all’inizio era diffidente. Poi capì le potenzialità di Gianni (e mie). Bigazzi era una vecchia volpe, un vero scopritore di talenti. Cominciarono a lavorare assieme e ne uscì quel capolavoro che è “Montagne verdi”, canzone struggente, ricca di messaggi. Quest’anno compie 50 anni. La cantano ancora adesso, soprattutto i bambini».
Diciamo che esiste una Marcella prima di «Montagne verdi» e una Marcella dopo «Montagne verdi».
«Esattamente. Vita cambiata da così a così. Callegari ci faceva cantare nelle balere. Una grande scuola che per me, è stata un’esperienza molto formativa durata 4-5 anni. Ai giovani artisti di adesso questa manca. Dalla Sicilia ci siamo trasferiti in Emilia, la regione in cui si lavorava di più».
Grandi incontri?
«Ho avuto la fortuna di lavorare con dei giganti come Bigazzi prima e Mogol dopo. Bigazzi geniale, con un carattere tosto, il classico toscanaccio che dice pane al pane e vino al vino. Ho avuto un ottimo rapporto con lui. Prima di scrivere voleva sapere tante cose di me: se ero fidanzata o innamorata, se stavo bene, se soffrivo. Quando scrisse “Io domani” mi tenne sotto interrogatorio per ore. Prendeva le misure come un sarto che ti cuce addosso un abito. Lui ha dato corpo alla Marcella giovane, ingenua, inesperta».
Cosa racconta «Montagne verdi»?
«Nella sua semplicità dice delle cose profonde. Narra di questa ragazzina che un giorno fa la valigia e lascia gli amici, l’erba, le cose felici per salire su un treno e andare a scoprire la nebbia di Milano. Insomma, una piccola emigrante. Le montagne verdi sono una metafora, sono le speranze. Insomma, una foto di quel che provavo io bambina alla ricerca del successo e dell’amore. E in effetti a Milano trovai entrambi. L’imprevisto però era dietro l’angolo... rimasi incinta. Era sbocciato un grande amore con Mario, un imprenditore milanese conosciuto fra le nevi di Madonna di Campiglio. Io ero giovanissima, e accolsi la notizia con felicità. Nonostante lui fosse sposato e già padre. Ricevetti una telefonata da Mina che si era trovata in una situazione simile molti anni prima con l’attore Corrado Pani. Voleva manifestarmi il suo appoggio. Mi disse: «A te andrà meglio». Ai miei tempi non c’era ancora il divorzio e l’Italia era più bacchettona. Con Mario (Merello, ndr), che poi sposai nel 1989, fu un vero colpo di fulmine: dopo 43 anni siamo ancora qui. Giacomo nacque nel 1980, molto più tardi arrivarono Carolina (1991) e Tommaso (1992)».
Era simpatico Mario?
«Non direi. Era ed è totalmente estraneo al nostro mondo e ha sempre lavorato 12 ore al giorno. È una persona discreta, un po’ ombrosa, affascinante perché non si espone troppo. Con lui ho capito che si diventa ricchi solo lavorando sodo. Lui riusciva però a trovare del tempo anche per me che ero e sono il suo grande amore».
Da adolescente lei era unsex symbol .
«Io non ci avevo pensato. Però ci pensò Mogol con il brano “Nell’aria”».
Come andò?
«A un certo punto il rapporto fra mio fratello Gianni e Bigazzi si interruppe e iniziò la frequentazione di Mogol che rimase incantato dalla personalità di Gianni. Decisero di farmi fare un album. E la prima canzone che venne composta è appunto “Nell’aria”. Venne annunciata come una grande canzone. Dissi: «Fatemi leggere questo testo». E loro risposero: «Ma no, dai, che poi tu trovi il pelo nell’uovo». Insomma alla fine presi questo testo. Lo lessi tutto d’un fiato. Poi mi arrabbiai: «Ma questo testo è pornografico», gli dissi. Gianni e Mogol negarono spudoratamente l’evidenza. «Mi vergogno e non lo canto», mi impuntai io. E loro: «Avevamo pensato a un look sexy gonna con spacco, guêpière di pizzo nero a vista, sigaretta fra le labbra». Io: «Voi siete impazziti tutti». Ma alla fine mi lasciai convincere. Tanto per cambiare, Mogol, l’istrione, aveva fatto centro e la canzone ebbe un successo enorme».
Che le disse Mogol per convincerla?
«Disse che solo io potevo riuscire a cantare quel brano: «Per un’altra cantante non l’avrei potuto scrivere perché non ha la tua leggerezza e la tua freschezza. Non bisogna essere volgari ma eleganti come puoi esserlo tu...». E da quel momento nacque una nuova Marcella: fu la fine della me bambina, spopolò la donna che era sbocciata».
Molte sigle per Arbore e Boncompagni, per «Domenica in» di Baudo e per «Gran Varietà». E poi una canzone che uno non si aspetta intitolata «L’anima dei matti».
«Sì, la cantai alla Bussola di Viareggio con orchestra. Volevo fare come Mina un disco dal vivo. “L’anima dei matti” è una canzone sul disagio psichico che Bigazzi dedicò a se stesso. Lui infatti si considerava proprio matto».
Il periodo «francese»?
«Una collaborazione bellissima interrotta dalla morte prematura dell’artista Joe Dassin. Mi presentò anche i suoi: suo padre, il famoso regista Jule Dassin, e sua moglie, la cantante greca Nana Mouskouri».
Sanremo?
«Ci sono andata più volte. Ogni patron ha i suoi gusti e un suo modo di costruire il cast».
Come sta Gianni Bella?
«Lui dopo l’ictus del 2010 non parla, ma fa tutto come se nulla fosse. È solo “rimasto senza parole”, diciamo noi scherzando sul destino beffardo che ha tolto la voce a un cantautore. Lui ha ancora la gioia di vivere e questo lo ha salvato. Mi ha insegnato che si può convivere felicemente anche con un grande handicap. Ride, scherza, anche se non parla. Però canticchia e piazza delle note. Ultimamente ho scritto con lui due canzoni».
Si presentò alla elezioni per Alleanza nazionale.
«È successo molti anni fa. L’ho fatto per amicizia. Dovevo capire subito che non era la mia strada. Mai fatto politica, ho solo cantato l’amore. Mi sono pentita, anche perché ho avuto ripercussioni negative sul lavoro che francamente avevo sottovalutato».
E i guai col fisco?
«Sentirmi accusare in tv di aver evaso un sacco di soldi mi ha danneggiato. Il Fisco si è scusato ufficialmente. Io non c’entravo: ho fatto pace con l’Agenzia delle Entrate e anche mio marito ha sistemato le sue pendenze. Mario, saggiamente, aveva tenuto patrimoni e altri affari rigorosamente separati. La cantante implicata... non era vero niente».
Come ha trascorso il periodo della pandemia?
«Ho vissuto malissimo la pandemia. Mesi chiusa in casa a piangere. Provavo a uscire, a fare due passi in Montenapoleone che era una specie di deserto dei Tartari. Non mi sono ammalata e non ho più paura del virus. Come vedo il mondo? Triste, molto triste. Io sono felice di aver vissuto il meglio. Vent’ anni di divertimento puro. Ho condiviso la scena e la popolarità con i Beatles, gli Stones, Elton John, David Bowie. Abbiamo avuto musicalmente il meglio. Si guadagnava tantissimo. Ormai lavoro per beneficenza e canto per hobby. La musica è l’unica cosa divertente che ci rimane».
Marco Baldini: «Io ludopatico? L’ho detto perché mi vergognavo. Quello che ho fatto a Fiorello è imperdonabile». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.
Il conduttore si racconta dopo il podcast in cui ha rivelato che la ludopatia era una copertura di una questione più grave. «Non mi interessa essere ricco, ma solo crescere mio figlio di 2 anni con serenità»
Marco Baldini ha 61 anni e un bimbo di 2: «Ora rigo dritto, e vorrei essere ricordato come un bravo papà. Invece ho questo marchio addosso che in Italia nessuno ti toglie più. Sono un ex giocatore». L’intrattenitore, ex spalla di Fiorello, ormai non lo si vede più in tv e in questi giorni ha rilasciato una lunga intervista al podcast «One More Time» che martedì sarà visibile anche su Youtube: una lunga chiacchierata con Luca Casadei tra passato, presente e futuro. Ma tutti sono rimasti colpiti da una sua affermazione dove dice che la sua ludopatia in realtà era una copertura di qualcosa di più grave.
Spiega Baldini: «Tutto nasce da un’operazione finanziaria sbagliata, un investimento che credevo regolare e che poi si è rivelato truffaldino. Mi vergognavo e ho cominciato a dire che avevo perso tutto perché ero un giocatore. E poi lo sono diventato davvero. Posso dire che sono stato sprovveduto, ma non me la sono andata a cercare».
Baldini dunque ricorda a tratti con rabbia, a tratti con amarezza il suo passato fatto di momenti belli (il grande successo con Fiorello) e di momenti bui (i debiti che lo assillano, il lavoro perso). Ora è uscito da questo inferno? «Da quando ho la mia compagna, da sei anni, non gioco più. Ma gli strascichi della disavventura finanziaria ci sono ancora e credo che me li porterò nella tomba. Le grandi aziende non mi danno lavoro perchè mi vedono come la bestia nera. Fiorello che tra poco riprende “Viva Radiodue” giustamente non mi ha chiamato perché quello che gli ho fatto è imperdonabile: in una intercettazione ho detto peste e corna di Fiorello e lui non me lo ha perdonato, assolutamente con ragione. Purtroppo io in quei momenti stavo così male che avrei parlato male di chiunque, davo sempre la colpa agli altri. La verità è che la colpa è sempre stata solo mia, lui è stato un compagno eccezionale. Sai quante cose ancora avremmo potuto fare insieme? Del resto neanche io mi richiamerei. Chi si fida più! La gente pensa: sarà cambiato davvero? Hanno paura e mi chiudono le porte. Ecco gli strascichi di cui parlavo prima. La mi (vecchia) fama non mi molla e non mi consente di vivere come vorrei».
Come vive adesso? «Sono quasi un mammo, aiuto la mia giovane compagna nella crescita del bambino. E mi sono rimesso in gioco lavorando in una radio privata di Roma, tutti i giorni dalle 17 alle 18.30 e mi diverto come quando ero ragazzino. Giuro non vorrei essere ricco, solo vorrei non avere più guai, per avere il lusso di tirare su mio figlio con serenità».
Simona Marchetti per corriere.it il 18 novembre 2022.
Il primo errore lo ha fatto quando è arrivato a Milano dalla sua Firenze per lavorare a radio Deejay: vedeva soldi ovunque e si era convinto che «più soldi hai, più bravo sei», quindi Marco Baldini cercava di guadagnare sempre di più «e quello è stato il mio primo, grande errore». All’epoca prendeva cinque milioni al mese, ma — come ha raccontato lui stesso a Luca Casadei nell’ultima puntata del podcast «One More Time» — la svolta arriva dopo il suo terzo anno milanese.
«Comincio a guadagnare cifre esorbitanti grazie ad alcune persone che mi propongo degli affari immobiliari sicuri e legali. La prima volta investo 100 milioni e me ne entrano 140 in poco tempo e va avanti così per circa due anni. Un giorno mi dicono che hanno bisogno di investire una cifra più importante per realizzare un complesso immobiliare di case di lusso, io mi consulto con il mio avvocato/commercialista e faccio all-in…. Punto tutto, quasi due miliardi di lire e poco dopo vengo a sapere che queste persone sono state arrestate, perché riciclavano denaro della malavita. Avevo perso tutto e a quel punto mi sono inventato la storia del gioco d’azzardo per giustificare agli inquirenti quelle ingenti entrate e uscite di denaro dal mio conto».
Insomma — a suo dire — non è mai stato ludopatico e quella del gioco è stata tutta una montatura. «La metà delle persone dirà “noooo" e l’altra metà dirà “sta raccontando delle cagate” - ha spiegato lo speaker radiofonico - . Non sono mai stato un vizioso, non sono mai stato un giocatore compulsivo, o comunque non sono nato così, ho dovuto dimostrare di esserlo per difendermi da cose molto più gravi, è successo tutto nel 1995, avevo 35-36 anni e ho convinto tutti che mi ero ridotto così a causa del gioco, ma è stata una copertura per non incorrere in guai peggiori, non sono cose che si possono ancora raccontare, tutto quello che mi è successo è colpa mia, è partito tutto da un errore…».
In un’occasione ha però rischiato davvero di morire. «In quel periodo stavo dando il 20 per cento al mese e avevo un miliardo di debiti e quel mese dovevo trovare 200 milioni che non avevo… Un giorno un tabaccaio vicino a casa mia mi dice che ha 2 miliardi di marche da bollo rubate e che se riesco a piazzarle, mi becco il 30%. Ero dentro la malavita, così contatto la persona più importante, ma anche la più pericolosa di Milano e gli propongo l’affare, ma poi viene fuori che le marche da bollo sono false, così mi portano in un campo e mi dicono di scavare una buca, mi ci avrebbero buttato dentro, perché gli avevo mancato di rispetto, pensavano che li avessi fregati. All’improvviso, mentre ero lì che scavavo, ho avuto come una rivelazione, sono uscito dal corpo e mi sono visto dall’alto, ho sentito una calma improvvisa e naturale... Alla fine sono riuscito a convincerli che ero in buona fede e che ero stato truffato anche io…».
· Marco Bellavia.
Da ansa.it il 9 ottobre 2022.
Le donne italiane partoriscono dopo i 30 anni, in media a 33, e continua l'eccessivo ricorso al taglio cesareo anche se si registrano segni di rallentamento.
Esclusi i parti cesarei, ora quasi tutti i papa ' (il 95,4%) assistono alla nascita. E' il quadro che arriva dal report annuale del Ministero della Salute sul Certificato di Assistenza al Parto (CeDAP), relativo al 2021 in 364 punti nascita.
L'88% delle donne preferisce le strutture pubbliche e il 62,8% delle nascite si svolge in strutture con alti volumi di attività, sopra i 1000parti annui.
In 2,9 gravidanze ogni 100, le donne hanno fatto ricorso alla fecondazione assistita.
Federica Bandirali per corriere.it il 9 ottobre 2022.
La ex moglie di Marco Bellavia Elena Travaglia rompe il silenzio nel quale si era rinchiusa dopo l’abbandono della casa del Grande Fratello da parte dell’ex volto di Bim Bum Bam.
In un’intervista rilasciata al settimanale “Di Più”, Travaglia spiega di essere venuta a conoscenza delle difficoltà di Marco solo con la sua partecipazione al programma,perché nel corso della loro storia d’amore non avrebbe mai notato alcun segnale preoccupante e riconducibile a uno stato di fragilitá.
Quattro anni insieme
“Non ha mai avuto problemi psicologici. Mai una crisi, nemmeno una crisi di pianto, ma è sempre stato un uomo forte, allegro e giocherellone che purtroppo però, non ha mai avuto molti amici, soltanto troppi conoscenti” . Frasi che stridono con la realtà che si è venuta a verificare all’interno della casa del GFVip. La loro unione è durata 4 anni e insieme hanno un figlio, Filippo, che oggi ha 15 anni. Nel 2009 è stata Elena a prendere la decisione di dividere le strade ma non per colpa, dice lei, di qualche comportamento preoccupante di Marco. “Prima di entrare nella casa, Marco ha fatto gli esami del sangue ed è stato anche visitato per ben due volte da una psicologa che lavora a Canale 5. La prima volta al telefono, e la seconda a Roma, di persona. Hanno parlato per tre ore. A quel punto è stato ritenuto idoneo senza problemi” ha concluso la donna.
Da roma.repubblica.it il 5 ottobre 2022.
Si è conclusa ieri sera con una squalifica e un'eliminazione "lampo" la vicenda che ha visto protagonista l'ex conduttore di Bim bum bam e attore Marco Bellavia, a detta di molti vittima di bullismo all'interno della casa del Grande Fratello Vip.
Il conduttore Alfonso Signorini ha ritenuto "troppo gravi" le parole di Ginevra Lamborghini ("si merita di essere bullizzato"), che pure si è mostrata molto pentita, mentre l'80% del pubblico ha scelto di mandare a casa Giovanni Ciacci, considerato fra i più "insensibili" nei confronti di Bellavia.
Si è salvata, ottenendo il 4% dei voti dal pubblico, la comica Gegia, anche lei tra le più bersagliate dal web per le frasi rivolte a Marco Bellavia. "Dovevamo tenercelo e sentire le cazzate che diceva e dire "Bravo Tesoro”? Ma basta!" aveva detto nel corso di una pubblicità l'attrice. A indignare ancora di più il pubblico, il fatto che Gegia sia anche una psicologa regolarmente iscritta all'albo della Regione Lazio.
Ma questo, fanno sapere dall'ordine, potrebbe cambiare: sono state infatti inviate diverse segnalazioni da parte di provati cittadini turbati dal comportamento della psicologa e per questo, come da prassi, verrà aperta un'istruttoria. La finestra di tempo per questo genere di decisioni è ampia e prevede "vari mesi", nei quali la commissione dovrà valutare il caso che, ribadisce l'ordine, "verrà sicuramente affrontato".
Alessandro Mancini per tpi.it l'8 ottobre 2022.
Da volto di Bim Bum Bam a mental coach, la parabola di vita di Marco Bellavia è piuttosto curiosa. Finito nell’occhio del ciclone mediatico dopo la sua uscita volontaria, poche settimane fa, dalla casa del Grande Fratello Vip, per via del suo disagio mentale e del bullismo subito dai compagni di gioco, in questi giorni Bellavia ha raccolto la simpatia di tutti i media, oltre che di centinaia di migliaia di persone.
I suoi numeri social sono infatti schizzati alle stelle dopo la vicenda del GfVip: su Instagram vanta più di 170mila follower, la sua pagina Facebook ha raggiunto quasi i 30mila mi piace, su Twitter sono quasi in 5mila a seguirlo, mentre il suo canale Telegram conta più di 2mila iscritti. Numeri triplicati e in alcuni casi decuplicati a seguito della popolarità improvvisa (ma forse calcolata) donatagli dal reality show di Canale 5.
Supportato, osannato e spesso strumentalizzato da tutti i giornali, vip e anche da personaggi politici, Marco Bellavia si è presto trasformato nel martire perfetto, il simbolo della battaglia per la salute mentale, tema importantissimo e molto attuale, eppure snobbato da tutti i partiti durante l’ultima campagna elettorale.
L’ex gieffino, classe 1964, ha un passato da modello, attore e conduttore televisivo. Diplomato al liceo scientifico, ha frequentato il corso di laurea in Scienze geologiche presso la facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università degli Studi di Milano, che abbandona però dopo tre anni.
La popolarità arriva negli anni ’80 quando recita nelle serie tv Love Me Licia e in Arriva Cristina, ma arriva al suo apice quando diventa conduttore del programma per ragazzi delle reti Mediaset Bim bum bam, dal 1990 al 2001. La carriera televisiva prosegue poi a Forum (2001-2002) e a Stranamore. Negli anni a seguire si perdono le sue tracce, tranne qualche collaborazione poco degna di nota con alcune reti televisive locali. Più o meno un anno fa decide di lanciarsi nel mondo dell’imprenditoria online con il suo progetto di “Mental Coach 4.0”, ricavandone una fonte di guadagno. Poi la partecipazione breve ma intensa, al Grande Fratello VIP 7 di quest’anno, che gli regala una nuova, importante popolarità.
Bellavia dice di aver attraversato momenti bui e difficili durante la sua vita e di soffrire di depressione. Questo lo avrebbe portato a diventare un “Mental Coach 4.0”, per aiutare le persone “a vivere bene ed essere felici!”, si legge sul suo sito. Non solo, l’ex conduttore sarebbe un life coach a 360 gradi, tanto da auto-definirsi “MentalBike”, “MentalTennis”, “MentalGolf”, “MentalPapà”, “MentalSci”, “MentalSmoke”. Un tuttologo, insomma.
In cosa consista il fantomatico metodo 4.0 non è dato saperlo. C’è soltanto un vago riferimento al web 4.0 e al fatto che si tratti della “perfetta sintesi di 35 anni di studi personali sulla mia bestia e sulle tecniche per vivere meglio”. Inoltre, si legge sempre sul sito, questo metodo aiuterebbe “velocemente le persone che desiderano un cambiamento produttivo, a trovare la felicità”.
Dopo tutto è lui stesso a raccontare sul suo blog di essere stato costretto a etichettarsi, o meglio “battezzarsi”, come “Mental Coach 4.0”, perché nel mondo di oggi, “nella società consumistica e nelle tempeste odierne. Covid incluso”, “se non hai un’etichetta non sei”. La domanda sorge quindi spontanea: Marco Bellavia ha un attestato o una certificazione che dimostri tale titolo? Sul sito e sui suoi canali social non c’è traccia di tale documentazione e anzi, in un passaggio, è lui stesso a scrivere che da trent’anni porta avanti una “missione, seppur non certificata”.
Abbiamo fatto anche una ricerca sul sito dell’Associazione Italiana Coach Professionisti (AICP), la più grande in Italia, ma il suo nome non compare. In Italia nel 2019 i coach professionisti si attestavano a circa 1.500, anche se quelli amatoriali sono sempre di più e impossibili da conteggiare.
Per definirsi coach professionista e qualificato infatti, è necessario iscriversi a un’Associazione di Categoria Nazionale – autorizzata dal Ministero dello Sviluppo Economico, in via esclusiva, al rilascio dell’Attestato di Qualità e di Qualificazione professionale in base alla legge 4/2013 -, seguire corsi di almeno 80/100 ore, sostenere esami di verifica e accettare norme e regolamenti per l’erogazione del servizio di Coaching a vantaggio del cittadino/utente. In questo modo il cliente di un Coach, in caso di dubbi o problemi, può rivolgersi tranquillamente allo sportello del consumatore offerto dell’associazione. Esiste inoltre la Norma Italiana UNI 11601, istituita nel 2015, che stabilisce la definizione, la classificazione, le caratteristiche e i requisiti del servizio di Coaching. Quindi, un conto è svolgere l’attività di Coach Professionista, un altro è auto-proclamarsi coach e operare comunque nel settore.
Ma andiamo avanti: come afferma lui stesso, l’ex attore non è solo un esperto di disagio mentale, in grado di “farti passare ansia e attacchi di panico”, ma anche un mental coach esperto di ciclismo, golf, tennis e sci: il metodo è sempre quello 4.0, che garantisce perfomance “migliori” ed “entusiasmanti”. Parola di… Marco Bellavia. E non finisce qui: il nostro life coach può insegnarti anche a diventare una “mamma quasi perfetta”. Anche un papà, all’occasione. Come? Ovviamente con il “MentalPapà 4.0”, che insegna i trucchi per essere mamme e genitori migliori in pochissimo tempo con la garanzia del risultato certo”.
Inoltre, se sei un fumatore, il nostro mitico life coach può aiutarti a smettere. Stavolta il nome del metodo è MentalSmoke 4.0, ma il procedimento, come in tutti gli altri casi, è ignoto. Le modalità di erogazione dei servizi offerti dal guru sono esclusivamente online, via Streamyard o Skype. C’è la possibilità di prenotare una sessione gratuita con Marco, anche se in un’altra pagina del sito c’è scritto che la sessione gratuita ha un costo di 40 euro: un controsenso a tutti gli effetti.
In fondo al sito, ben nascosto, viene specificato che non si tratta di un servizio terapeutico né psicologico e che non ci sono finalità mediche. Peccato che è sempre lui, in più punti, a sottolineare come medici e psicologi non siano in grado di curare sul serio certi disagi mentali, insinuando addirittura la tesi secondo la quale ci sia un vero e proprio business dietro.
Il Marco di oggi, o meglio quello post GfVip, si presenta come una persona pacata, conciliante e gentile. Eppure, basta tornare indietro di qualche mese o pochi anni sui suoi profili social, per scoprire chi si nasconde davvero dietro quest’anima bella e pura: il profilo di un negazionista, complottista contro i poteri forti, pro Brexit e anti-euro.
Lo dimostrano diversi post sul suo profilo Instagram, come questo del 13 dicembre 2019 in cui scrive, in merito alla Brexit: “Non hanno mai avuto l’ euro al posto della sterlina eppure vogliono uscire dall’europa… un motivo ci sarà. ? #brexit #londra #reginaelisabetta”.
Oppure, questo post pubblicato in occasione della ricorrenza dell’attentato alle Torri Gemelle, dove si legge “In Italia specialmente, pochi mesi dopo, l’EURO prendeva il posto della LIRA e la maggior parte della gente diveniva lentamente più povera, quasi inconsciamente e subliminalmente”.
Non soddisfatto, poche righe dopo rincara la dose e aggiunge: “Il #terrorismo è questo. Tutti focalizzati a guardare le cose ecclatanti nel frattempo .. Ultimamente ci siamo accorti che la GB è uscita dallEuropa? Guarda caso non ha mai avuto l’Euro, mantenendo la quotata Sterlina e la propria sovranità monetaria … ops Milioni di vittime fisiche, mentali ed economiche nel mondo grazie al #Risiko”.
Anche sulla pandemia di Covid-19 ha le idee molto chiare: il 2 marzo 2020 condivideva sul suo profilo una grafica con sopra scritto “Coronavirus: sempre più numerosi i casi di cittadini che hanno spento la televisione e sono guariti”. Passano i mesi ma la sua posizione non cambia, anzi, si rafforza: è il 4 novembre 2020, e mentre il numero dei morti per Covid-19 continua a salire, Bellavia scrive “Prima ci “ristori”… poi ci chiudi! Perché se fai il contrario NOI NON VI CREDIAMO PIÙ!!… sempre che qualcuno vi creda…”.
Passando alla pagina Facebook, è il 18 marzo 2021 quando sul suo profilo compare un post in cui, attraverso l’accostamento di due grafiche, la diffusione del contagio di Covid-19 viene paragonato a una partita a Risiko. “Il tavolo del Risiko è pronto – scrive nella didascalia – Aggiungiamo i “carri armati”? Trova le differenze…”.
Anche rispetto alla moneta unica e all’Unione europea, il suo punto di vista è chiaro: sul suo profilo si trova infatti la ricondivisione di un post di Gianluigi Paragone, leader di Italexit, del 1º gennaio 2022, in cui l’Ue viene rappresentata con le sembianze della Morte con la falce in mano, mentre tenta di strangolare una donna che simboleggia l’Italia. Sotto c’è scritto “Nasce l’euro. Muore l’Italia”. Il riferimento è al ventennale della nascita della moneta unica.
Anche dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, Marco Bellavia non resiste alla tentazione di condividere notizie fake o complottiste. Il 24 marzo ricondivide sul suo profilo un’immagine del presidente statunitense Joe Biden, con sopra scritto “Quando annunci al mondo il pericolo che i tuoi laboratori biochimici in Ucraina finiscano in mano russa e il mondo ti chiede che cazzo ci fanno dei laboratori biochimici americani in Ucraina”. Una bufala smontata dagli esperti di debunking già nei giorni precedenti.
Anche molte delle sue dirette streaming pubblicate sul suo canale YouTube durante la pandemia hanno toni molto vicini al negazionismo e al complottismo. In particolare, c’è un suo commento a un post, oggi non più visibile per aver violato gli standard di Facebook in materia di violenza e istigazione alla violenza, che Bellavia mostra con orgoglio in un video del 19 gennaio 2021, che recita così: “Al rogo ladroni incompetenti. I politici italiani sono degli assassini bastardi. I nostri vecchi a marzo, migliaia, son stat uccisi con ossigeno nei polmoni e ora stanno continuando col resto… AL ROGO!!!”. Nel video il mental coach ammette ai presenti che in effetti il commento “era un po’ pesante, ma – aggiunge -, tanta gente fa commenti ben peggiori”. Da quel momento, spiega, avrebbe subito delle restrizioni su Facebook e per questo ha deciso di pubblicare le sue dirette soltanto su YouTube che, dice, è più permissivo.
Visto che ogni video o contenuto è anche un’opportunità di monetizzazione, Marco Bellavia non si lascia sfuggire l’occasione e sotto le sue dirette YouTube aggiunge anche il link che rimanda direttamente al suo account PayPal per invitare i seguaci ad effettuare una donazione e a “sostenere l’iniziativa”.
Anche sul sito non mancano riflessioni e articoli dal tono complottista o quanto meno discutibile, come quando scrive “Ad esempio a mia mamma ho detto di guardare solo i programmi Mediaset, senza calcolare gli altri altrimenti, la sua mente di 87 enne, potrebbe spaventarsi e abbassare troppo le difese immunitarie… come si sente dire sempre più.”
Insinua anche dubbi sulla professionalità di psicologi, neurologi e psichiatri: “Nell’ambiente dove lavoravo il solo nominare la parola depressione era un tabù, riuscii comunque ad andare avanti e avere successo ma per qualche mese iniziai il valzer degli psicologi, neurologi e psichiatri. Poi… diversi anni dopo… Una sera bevendo una birra al bar in una località di montagna del Trentino un amico medico mi disse “Marco se non ci fossero malati noi non lavoreremmo”. Accipicchia! Non avevo intuito bene il senso, ma non scordai mai quella frase. Sia ben chiaro – mette le mani avanti -, il mio è un parere assolutamente personale dovuto alle mie esperienze. I medici in toto sono assolutamente indispensabili e fondamentali per la società e nutro l’assoluta fiducia nella categoria. Ma confrontandomi con amici specialisti del settore mi sono fatto un’idea del loro ruolo. E QUI MI FERMO…”. Lancia il sasso, ma nasconde la mano.
A completamento della sua offerta, il life coach ci avvisa anche di star sviluppando un libro, in fase di pubblicazione, “per aiutare le persone nel mondo 4.0”. Il titolo? Tutto un programma: “IL BIGINO PER STARE BENE E DIVENTARE RICCHI”.
Il business legato al coaching e alla cure alternative alla medicina tradizionale è in forte espansione in questi anni in Italia. Ad oggi il mercato del coaching vale circa 15 milioni di euro nel nostro Paese e 1,5 miliardi nel mondo. Il giro d’affari legato invece alla medicina omeopatica è stimato, nei soli Stati Uniti, intorno ai 3 mld di dollari, in Europa si aggira attorno al miliardo di euro. Solo in Italia il suo valore raggiunge i 300 mln di euro. In un contesto così opaco e poco regolamentato, si inseriscono facilmente fantomatici santoni, guru e truffatori. Marco Bellavia non è di certo l’unico. Basta fare qualche ricerca online e sui social per scoprire che è pieno di figure di questo tipo, più o meno improvvisate, che garantiscono successi straordinari e il raggiungimento della tanto agognata felicità. Nel paese di Wanna Marchi e Stefania Nobile tutto questo non dovrebbe sorprenderci. Quello che invece sorprende è la nostra incapacità di riconoscere i segnali di una truffa e finire, di nuova, nella trappola della guarigione miracolosa.
Dopo tutti questi anni e gli scandali che si sono susseguiti, non abbiamo ancora sviluppato gli anticorpi contro questo tipo di frodi. Anche se sono cambiati i tempi e gli strumenti, la filosofia alla base di questi servizi è sempre la stessa: vendere qualcosa che non esiste, come la perfezione o una soluzione veloce e indolore ai nostri problemi. Il modus operandi di Bellavia è però ancora più subdolo: il vero scopo del suo progetto non è chiaro fin da subito, non accusa mai direttamente i medici e gli psicologi di non saper fare il loro lavoro, ma induce, subdolamente, le persone a crederlo. Per questo Marco Bellavia è un personaggio pericoloso.
La “beatificazione” mediatica messa in atto in questi giorni dai giornali, dalla tv e dal Grande Fratello Vip stesso, che non si sono preoccupati di fare le dovute verifiche sulla sua persona, sulla sua storia e sulla sua attività, è stato il favore più grande che potessero fargli. La visibilità e i numeri raggiunti adesso sui social potranno infatti essere facilmente convertiti in potenziali clienti. Si tratta di persone per lo più fragili, affette da disturbi, sole o impaurite, che credono di trovare nel “Mental Coach 4.0” la soluzione a tutti i problemi della loro vita. Senza accorgersi, invece, di star cadendo nell’ennesima trappola di un imbonitore senza scrupoli.
Marco Bellavia rompe il silenzio. Il primo video social è con il figlio. L'ex gieffino è tornato su Instagram pochi giorni dopo avere abbandonato il Grande fratello vip, dove è stato vittima di bullismo a causa della sua depressione. Novella Toloni il 5 ottobre 2022 su Il Giornale.
Dopo avere abbandonato la casa del Gf Vip per una grave crisi psicologa, acuita dall’indifferenza e dall’odio di alcuni gieffini, Marco Bellavia è tornato sui social network. Il conduttore di Bim Bum Bam è tornato in possesso del suo profilo Instagram e ha scelto di salutare i suoi follower con un video insieme all'amato figlio Filippo. Proprio del ragazzo aveva parlato durante gli ultimi giorni di permanenza nella casa, quando Bellavia aveva ammesso di sentire la sua mancanza e di essere confuso e stanco.
"Molto bene eccomi con Filippo, dammi un bacio", ha scherzato Marco nel video, nel quale ha ironizzato su una pianta posizionata alle sue spalle portatrice di soldi. Una gag nella quale il conduttore è apparso sostanzialmente sereno e felice di avere riabbracciato il figlio dopo tre settimane di lontananza. Nell' ultima diretta del reality Alfonso Signorini aveva parlato di Bellavia e della sua impossibilità di essere presente in trasmissione. "Non sta bene, ci vorrà un po' di tempo. Ma contiamo di averlo presto con noi", ha detto il conduttore in diretta. Ma il filmato social ha rincuorato i follower, che hanno potuto riabbracciarlo virtualmente dopo la brutta pagina di televisione andata in onda nell'ultima settimana.
"Piange senza lacrime". La polemica travolge Ginevra Lamborghini
Emarginato e bullizzato da molti concorrenti del Gf Vip, Marco Bellavia si è visto costretto a lasciare il gioco, ma il pubblico gli ha fatto sentire tutto il suo affetto e il suo appoggio sul web. L'uscita dal reality e la conseguente bufera mediatica, hanno portato il Grande fratello a prendere seri provvedimenti nei confronti di alcuni vipponi, come la squalifica di Ginevra Lamborghini e l'eliminazione di Giovanni Ciacci, finito al televoto flash con Elenoire, Gegia e Patrizia.
Oltre al video, Marco Bellavia ha pubblicato anche un post su Instagram attraverso il quale sembra volere inviare un messaggio sibillino all'indirizzo di coloro, i quali hanno dimostrato scarsa sensibilità e egoismo nei suoi confronti, quando lui ha lanciato la sua richiesta di aiuto. "Però starei qui ancora volentieri. Conto di riuscire ad andare avanti se mi date una mano. Perché se una persona ha bisogno e gli altri 22 la aiutano, ce la farà. Da solo non ce la fa". Parole rimaste inascoltate alle quali Marco ha aggiunto: "Educazione, lealtà, condivisione, lealtà…… in cambio di…??". Un messaggio al quale potranno rispondere, uno a uno."
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 5 ottobre 2022.
Davvero la sofferenza rende migliori? Tra i concorrenti del Grande Fratello che hanno guastato la vita al fragile Marco Bellavia c'è una certa Ginevra Lamborghini: bullizzata durante l'adolescenza, è stata la prima a dire che quell'altro meritava di essere bullizzato.
C'è un Giovanni Ciacci che ha portato in tv la sua testimonianza di sieropositivo vittima del pregiudizio altrui, ma appena ha visto Bellavia rantolare sul pavimento in preda al malessere della depressione, gli è passato accanto senza degnarlo di uno sguardo, salutando il suo ritiro con un liberatorio: «Finalmente ce lo siamo tolto dai c.».
E c'è Wilma Goich, una madre che ha da poco perso la figlia, condizione talmente innaturale che non esiste sostantivo per definirla, eppure per Bellavia ha avuto solo parole di rimprovero, che alle orecchie di un depresso saranno suonate di disprezzo .
Questo ennesimo esperimento di lockdown tra persone che non si conoscono conferma che il male del nostro tempo, forse di ogni tempo, è l'indisponibilità a uscire dal porto del proprio ego per prendere il mare aperto e lasciarsi sorprendere dalle tante storie che veleggiano all'orizzonte. Si pensava che anime graffiate dal dolore fossero più pronte a cogliere i graffi altrui, guardandoli senza giudicarli. Invece la piccola vicenda televisiva di cui sta parlando mezza Italia per distrarsi da bombe e bollette ci rammenta come nessuno più di una vittima sappia indossare i panni indifferenti del carnefice .
Maria Volpe per il “Corriere della Sera” il 5 ottobre 2022.
Un vero caso social capace di far cambiare la scaletta della puntata di lunedì del Grande Fratello Vip . La rivolta del web contro i concorrenti della casa è stata netta: Marco Bellavia, conduttore (anni fa di «Bim Bum Bam») con elementi di depressione, ha chiesto aiuto ed è stato ignorato, attaccato, deriso. In una parola: bullizzato.
Una sofferenza che lo ha costretto a lasciare la Casa. E da quel momento Twitter è stato inondato di messaggi di telespettatori furibondi e pure di qualche inserzionista del programma che ha preso le distanze. Una vera ribellione che ha costretto il conduttore Alfonso Signorini a fare un mea culpa (sia le scuse ufficiali, sia le sue scuse personali per non aver colto i segnali di depressione durante i provini a Marco); a dare una forte strigliata, lunga quasi 4 ore, al branco e a prendere decisioni dure: la squalifica di Ginevra Lamborghini e l'eliminazione al televoto di Giovanni Ciacci. La puntata calda ha avuto ascolti record su Canale 5: 3.313.000 telespettatori, con una share del 25,09%.
Chiaramente l'attesa era forte: sabato Marco Bellavia aveva lasciato la casa del Grande fratello dopo una profonda crisi. Fin dai primi giorni, lui aveva accennato al suo malessere, fino ad esporsi con chiarezza: «Sono qui anche per parlare di queste sofferenze mentali, da solo non ce la faccio, ma se mi aiutate tutti ce la posso fare». Appello caduto nel vuoto.
Anzi, appello che ha dato il via a comportamenti crudeli, eccezion fatta per la giovane influencer Alessandra Fiordelisi. Signorini ha poi mostrato un filmato con tutte le cattiverie subite da Marco nei giorni passati, sottolineando che brutto spettacolo avessero offerto i Vipponi, esaltando di fatto il bullismo. Ma purtroppo il gruppo non si è strappato le vesti: la maggioranza del branco non ha colto la gravità. Hanno cominciato a capire solo quando sono arrivate le punizioni. La prima, la più dura (giustamente) è arrivata per Ginevra Lamborghini che ha detto, riferendosi a Marco: «Uno così merita di essere bullizzato».
Una frase che le è costata la squalifica. Ovviamente con annesso pentimento postumo, lacrime, disperazione in studio. Tanti singhiozzi al punto che Signorini, Sonia Bruganelli e Orietta Berti si sono sentiti in dovere di consolarla. Carezze e abbracci un po' eccessivi. Anche se le va dato atto di aver ripetuto più volte la frase «mi faccio schifo» e di non aver cercato giustificazioni. Giustificazioni che hanno invece cercato altri. Giovanni Ciacci per esempio: la scena di lui e Attilio Romita che vedono Bellavia, raggomitolato per terra a piangere, e che non fanno una piega, è stata agghiacciante.
Ma Ciacci ha commentato: «Non avevo capito che stesse così male». E che dire della «simpatica» Gegia che l'ha maltrattato di continuo, e a fine serata ha commentato «Dovevamo continuare a sentire le sue caz...» (l'Ordine degli psicologi del Lazio ha aperto una istruttoria sul caso, essendo lei psicologa...). Certo - si potrebbe dire - la casa del Gf Vip non è un centro di recupero, ma da qualche tempo il reality si è dato come obiettivo anche quello di trattare questioni delicate come l'omofobia, il razzismo, la violenza sulle donne.
Anche se spesso il prezzo da pagare è stato quello di assistere a scene indecenti. Quanto accaduto in questi giorni ha messo in luce l'aridità d'animo che cresce sempre più. Anche in persone mature come Wilma Goich o Attilio Romita. E dire che la depressione è un male dei nostri tempi che ci riguarda tutti. Come siamo arrivati ad essere tutti così indifferenti?
GFVip: una pagina di squallore televisivo che gioca sui sentimenti delle persone. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Ottobre 2022
Partecipare ad un reality non è un gioco, come si vuole far credere al telespettatore, ma bensì un lavoro: un programma dove si spaccia l' "essere veri", per un copione già scritto e pilotato dagli autori, per fare audience e fatturare. Solo che non si tratta un argomento importante come la salute mentale messa al centro di uno squallido reality, che reality di fatto non è.
Quello che conosciamo della polemica che ha travolto il conduttore e gli autori del Grande Fratello Vip (che tutto sono fuorchè Vip) programma in onda su Canale5, a causa dei comportamenti dei suoi concorrenti è che Marco Bellavia l’ex conduttore di “Bim Bum Bam” , uno dei partecipanti, se n’è andato, per colpa dei suoi compagni di gioco che lo hanno umiliato pubblicamente. Le reali motivazioni che hanno indotto Bellavia ad andarsene dalla casa del GFVip sono molto chiare: era mal sopportato da tutti i partecipanti al reality senza che lui avesse mai fatto nulla per essere umiliato pubblicamente.
Piccoli squallidi “personaggetti” del piccolo schermo lo hanno offeso dicendogli che sarebbe dovuto “andare alla neurodeliri”, e che “avevano ragione loro a bullizzarlo”, che avrebbe dovuto farsi curare, tutto con toni sgradevolissimi. A questo punto si è scatenata una reazione popolare che è esplosa sui social e non solo: una persona si è recata fuori dalla casa ad urlare loro che erano tutti soltanto dei “bulli“, è partita una colletta spontanea fra i telespettatori per far passare un aereo, alcuni sponsor si sono dissociati, sono in corse raccolte di firme per radiare Gegia dall’ordine degli psicologi, e sui social in Italia non si parla di altro, dimenticando quello che accade alle donne in Iran che sarebbe questioni ben più seria da analizzare dei comportamenti di qualcuno strapagato per partecipare ad un programma utile solo alle casse di Publitalia80, la concessionaria pubblicitaria delle reti televisive Mediaset.
Non si può neanche minimamente ipotizzare che Antonino Spinalbese (l’ex parrucchiere-amante di Belen Rodriguez), Giovanni Ciacci (ex portaborsette di Valeria Marini), Pamela Prati ( noto al pubblico per la storia inventata sul fantomatico inesistente Mark Caltagirone) o qualunque altro partecipante del cast del GFVip possa essere portatore di chissà quale verità sulla vita.
Partecipare ad un reality non è un gioco, come si vuole far credere al telespettatore, ma bensì un lavoro: un programma dove si spaccia l’ “essere veri”, per un copione già scritto e pilotato dagli autori, per fare audience e fatturare. Solo che non si tratta un argomento importante come la salute mentale messa al centro di uno squallido reality, che reality di fatto non è.
Ieri sera il conduttore Alfonso Signorini introducendo il programma ha detto: “Quella che sta per cominciare non è una puntata facile per tante ragioni Nella storia del Grande Fratello tante volte sono usciti dei concorrenti, ma l’uscita di Marco Bellavia non è come tutte le altre. Marco ha manifestato una fragilità psicologica che si è andata aggravando nel tempo” affrontando apertamente come suo stile la questione dell’esclusione del concorrente che aveva parlato apertamente di dolore mentale. E ha annunciato l’espulsione di Ginevra Lamborghini che “Vip” non è e che fino a poche settimane fa nessuno in Italia conosceva ! Solo che insieme a lei andava espulso anche il cast di psicologi che selezionano i partecipanti e gli autori incapaci di gestire la vicenda.
Signorini ha fatto anche un mea culpa apprezzabile: “Sono stati giorni complicati, non possiamo fare finta di niente. Sono andate in onda brutte immagini, immagini orribili. Ogni parola di stasera l’ho soppesata mille volte e l’uscita di Marco Bellavia è legato a un suo disagio ma anche alla vostra indifferenza, al vostro infischiarsene del suo dolore, non dico tutti ma molti di voi. E questo ha indignato milioni di persone, tutta l’Italia parla solo di questo. Abbiamo sbagliato tutti, io per primo, questa sera dobbiamo ripercorrere quello che è successo per cercare di uscire da questa orrenda pagina di televisione“, motivando la squalifica di Ginevra Lamborghini responsabile di aver pronunciato la frase “Merita di essere bullizzato” riferendosi a Marco Bellavia. La Lamborghini ricevuta in diretta la notizia della sua squalifica ed espulsione dal programma , è tornata dagli altri concorrenti ed è scoppiata a piangere. Scusandosi per l’infelice frase, la presunta “Vip” Ginevra ha confessato agli altri di temere una pubblica gogna, non rendendosi conto che quando si dice una frase del genere, lo si pensa. Senza preoccuparsi del male fatto al povero Bellavia.
“Mi hai raccontato che piangevi quando eri adolescente perché le tue compagne ti bullizzavano e proprio perché conosco le vostre storie non capisco – ha detto Signorini – Lo dico con la consapevolezza che questa è la decisione più giusta”. La Lamborghini prima di scoppiare in lacrime ha cercato di scusarsi: “Posso solo fare un bagno di vergogna, perché è stata veramente una frase infelice”. Ma la sorella di Elettra Lamborghini non è stata però l’unica a ricevere una punizione. Diversi partecipanti al programma avevano speso durissime parole nei confronti di Marco Bellavia e tramite social network moltissimi spettatori del programma hanno chiesto provvedimenti anche per loro.
La produzione ha così deciso di mandare al televoto flash i concorrenti che più di tutti avevano pronunciato parole gravi verso il concorrente e cioè oltre a Giovanni Ciacci, anche Elenoire Ferruzzi, Patrizia Rossetti e Gegia. A stabilire le loro sorti non è stato lo staff del programma ma bensì il pubblico, che ha deciso con il proprio voto (per il quale Mediaset porta a casa ingenti somme) che Ciacci dovesse lasciare immediatamente il programma. Ed è stata una punizione esemplare. Ma tutto questo non scusa e tantomeno assolve nessuno: prendersela con i più deboli è squallido, vergognoso, sia che accada al Grande Fratello che nella vita reale.
Molti sponsor del GFVip si sono immediatamente dissociati pubblicamente dal programma dopo il travolgente urto mediatico e social che questa storia ha avuto sul programma e che ha anche generato un ashtag #iostoconbellavia. “Non siamo a Un giorno in Pretura – ha aggiunto Alfonso Signorini – non vogliamo fare processi sommari, cercheremo di raccontare cosa è accaduto per gradi“. Collegandosi al Tg5 che precedeva il programma Signorini ha preannunciato “gravi e irrevocabili provvedimenti disciplinari” contro i concorrenti che hanno “bullizzato” Bellavia. “Questo programma è fatto di vita e dolore perché il dolore di Marco è il dolore di tutti. Il Grande Fratello lo racconta nella sua crudezza, e questo è stato un pugno nello stomaco di sicuro“.
Il grande equivoco di questo programma è che i curatori, autori ed il conduttore vorrebbero far passare il messaggio che le persone debbano per forza essere un esempio: tutto ciò che dicono o fanno deve sottostare alla logica del modello da seguire. E si usa il dolore: l’anno scorso un partecipante in carrozzella, tre isteriche sorelle figlie di un presunto reale finito nei guai con la giustizia, quest’anno una partecipante che ha lottato contro il cancro, un’altro sieropositivo. Alla ricerca dell’audience, dimenticando e calpestando la riservatezza dovuta a chi affronta problemi ben più seri e gravi un reality televisivo.
Per non parlare poi dello squallore e della pochezza personale e televisiva di Sonia Bruganelli, nota principalmente per essere moglie di Paolo Bonolis, nella immeritata veste di “opinionista”, secondo la quale non c’è stato nessun attacco da parte dei concorrenti verso Marco Bellavia, esprimendo la sua opinione…. qualche giorno fa prima dell’abbandono del concorrente. “Che vuol dire accanimento verso Marco? Che gli rispondono tutti male? Io di quello che ho visto non mi è piaciuto quello che ha mostrato di sè. poteva dare un contributo di sua presenza meno sopra le righe e piu’ vicino all’età che ha”. Probabilmente insieme alla Lamborghini e Ciacci qualcuno dovrebbe indicare l’uscita anche alla Bruganelli. Per il sollievo ed il rispetto dell’intelligenza del telespettatore.
Adriana Volpe, ex opinionista del Gfvip dopo essere stata in precedenza ex concorrente di quel reality. ha sparato a zero contro i concorrenti difendendo Marco Bellavia, “Non riconosco più nessuno. Doveva essere l’edizione dell’inclusione, ma abbiamo assisto solo ad un branco presente nella casa”, dice la Volpe in un video su Instagram che sta facendo il giro della Rete. La Volpe sembra essere “l’opinionista ombra” sui social con la sua vicinanza a Bellavia. Redazione CdG 1947
"Al Gf aveva bisogno di supporto, gli è mancato tutto...": come sta Marco Bellavia. Il manager del conduttore ha parlato delle attuali condizioni di salute di Bellavia, in netta ripresa, e ha sottolineato che sono stati gli atteggiamenti dei gieffini nella Casa a peggiorare la crisi di Marco. Novella Toloni il 6 Ottobre 2022 su Il Giornale.
"Prima di entrare Marco stava bene, non era depresso, ha superato tutti i test attitudinali e psicologici per cui non aveva nessun problema". Tony Toscano, il manager di Marco Bellavia, ha rotto il silenzio sulle condizioni di salute del conduttore, che sabato scorso ha abbandonato il Grande fratello vip a causa di un forte disagio psicologico. L'uomo ha rivelato che Marco si sta lentamente riprendendo e che la sua crisi scatenatasi dalla mancanza di punti fermi nella Casa - che per i concorrenti è come una bolla - sarebbe peggiorata per colpa del bullismo e dell'isolamento a cui è stato sottoposto.
"Marco è sempre stata una persona allegra, solare e disponibile sono stati gli atteggiamenti che hanno avuto alcuni concorrenti all'interno della casa a causargli uno stress psicologico che poi Marco non è più risuscito più a gestire", ha spiegato il manager all'agenzia di stampa Adnkronos, che lo ha intervistato nelle scorse ore. Che Marco Bellavia stesse meglio dopo l'abbandono del reality, il pubblico lo aveva già capito. Il conduttore di Bim Bum Bam è riapparso nelle scorse ore su Instagram, pubblicando alcuni post e video, nei quali si è mostrato con il figlio Filippo. Nelle immagini Marco è apparso sereno e felice di avere ritrovato la sua quotidianità e la sua famiglia, facendo tirare un sospiro di sollievo ai telespettatori che lo aveva sostenuto durante la sua crisi e dopo l'uscita dalla Casa.
Marco Bellavia e i problemi psicologici
Cosa è successo a Marco Bellavia nelle due settimane di permanenza lo ha spiegato il suo manager: "Quella casa è come una bolla, non è facile adattarsi. Sei isolato da tutto, Marco aveva solo bisogno del supporto dei suoi compagni di avventura, supporto che purtroppo non ha avuto perché molti di loro si sono scagliati inspiegabilmente contro di lui". Nei primi giorni, infatti, Bellavia si era recato più volte nel confessionale per parlare del disagio che stava vivendo: lontano dai suoi affetti e vittima dell'assenza di punti di riferimento temporali. A peggiorare la sua situazione è stato l'atteggiamento ostile e denigratorio di molti concorrenti, che invece di aiutarlo hanno preferito ignorarlo o addirittura deriderlo.
Dopo il "mea culpa" della produzione e di Alfonso Signorini, che per primo si è scusato per non avere capito la gravità della crisi di Marco, ora c'è l'ipotesi che Bellavia possa tornare nella Casa, per avere un chiarimento con coloro che lo hanno emarginato e bullizzato: "La cosa principale adesso è la salute di Marco, ora è a casa tranquillo e sereno la produzione spinge affinché rientri nel programma, tra qualche settimana decideremo. A Marco interessa lavorare nel mondo dello spettacolo e fare quello che ha sempre fatto nella sua vita, perciò non escludiamo niente". Quello a cui Marco Bellavia non ha rinunciato è ringraziare il pubblico per l'affetto e il supporto dimostrati nei suoi confronti.
GfVip, "Bellavia stava bene. Poi...": il sospetto travolge Mediaset. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2022
“Questa sera Marco Bellavia romperà il silenzio, parlerà ad Alfonso Signorini in puntata, ci saranno rivelazioni clamorose”. È l’anticipazione data da Federica Panicucci a Mattino5 in merito al caso esploso la scorsa settimana al Grande Fratello Vip e che ha comportato le esclusioni di Ginevra Lamborghini e di Giovanni Ciacci. In attesa di scoprire cosa avrà da dire Bellavia, il suo manager, Tony Toscano, ha rilasciato alcune dichiarazioni all’Adnkronos.
“Prima di entrare Marco stava bene - ha assicurato - non era depresso, ha superato tutti i test attitudinali e psicologici per cui non aveva nessun problema. L'idoneità per partecipare al programma gli è stata data perciò se c'era qualcosa che non andava se ne sarebbero accorti. Marco è sempre stata una persona allegra, solare e disponibile. Sono stati gli atteggiamenti che hanno avuto alcuni concorrenti all'interno della casa a causargli uno stress psicologico che poi Marco non è più risuscito più a gestire”.
Non è però detto che l’avventura al GF Vip sia definitivamente terminata per Bellavia. A svelarlo è stato proprio il suo manager: “La cosa principale adesso è la salute di Marco, ora è a casa tranquillo e sereno la produzione spinge affinché rientri nel programma, tra qualche settimana decideremo. A Marco interessa lavorare nel mondo dello spettacolo e fare quello che ha sempre fatto nella sua vita, perciò non escludiamo niente”.
"Al Gf aveva bisogno di supporto, gli è mancato tutto...": come sta Marco Bellavia. Il manager del conduttore ha parlato delle attuali condizioni di salute di Bellavia, in netta ripresa, e ha sottolineato che sono stati gli atteggiamenti dei gieffini nella Casa a peggiorare la crisi di Marco. Novella Toloni su Il Giornale il 6 Ottobre 2022
"Prima di entrare Marco stava bene, non era depresso, ha superato tutti i test attitudinali e psicologici per cui non aveva nessun problema". Tony Toscano, il manager di Marco Bellavia, ha rotto il silenzio sulle condizioni di salute del conduttore, che sabato scorso ha abbandonato il Grande fratello vip a causa di un forte disagio psicologico. L'uomo ha rivelato che Marco si sta lentamente riprendendo e che la sua crisi scatenatasi dalla mancanza di punti fermi nella Casa - che per i concorrenti è come una bolla - sarebbe peggiorata per colpa del bullismo e dell'isolamento a cui è stato sottoposto.
"Marco è sempre stata una persona allegra, solare e disponibile sono stati gli atteggiamenti che hanno avuto alcuni concorrenti all'interno della casa a causargli uno stress psicologico che poi Marco non è più risuscito più a gestire", ha spiegato il manager all'agenzia di stampa Adnkronos, che lo ha intervistato nelle scorse ore. Che Marco Bellavia stesse meglio dopo l'abbandono del reality, il pubblico lo aveva già capito. Il conduttore di Bim Bum Bam è riapparso nelle scorse ore su Instagram, pubblicando alcuni post e video, nei quali si è mostrato con il figlio Filippo. Nelle immagini Marco è apparso sereno e felice di avere ritrovato la sua quotidianità e la sua famiglia, facendo tirare un sospiro di sollievo ai telespettatori che lo aveva sostenuto durante la sua crisi e dopo l'uscita dalla Casa.
Marco Bellavia e i problemi psicologici
Cosa è successo a Marco Bellavia nelle due settimane di permanenza lo ha spiegato il suo manager: "Quella casa è come una bolla, non è facile adattarsi. Sei isolato da tutto, Marco aveva solo bisogno del supporto dei suoi compagni di avventura, supporto che purtroppo non ha avuto perché molti di loro si sono scagliati inspiegabilmente contro di lui". Nei primi giorni, infatti, Bellavia si era recato più volte nel confessionale per parlare del disagio che stava vivendo: lontano dai suoi affetti e vittima dell'assenza di punti di riferimento temporali. A peggiorare la sua situazione è stato l'atteggiamento ostile e denigratorio di molti concorrenti, che invece di aiutarlo hanno preferito ignorarlo o addirittura deriderlo.
Dopo il "mea culpa" della produzione e di Alfonso Signorini, che per primo si è scusato per non avere capito la gravità della crisi di Marco, ora c'è l'ipotesi che Bellavia possa tornare nella Casa, per avere un chiarimento con coloro che lo hanno emarginato e bullizzato: "La cosa principale adesso è la salute di Marco, ora è a casa tranquillo e sereno la produzione spinge affinché rientri nel programma, tra qualche settimana decideremo. A Marco interessa lavorare nel mondo dello spettacolo e fare quello che ha sempre fatto nella sua vita, perciò non escludiamo niente". Quello a cui Marco Bellavia non ha rinunciato è ringraziare il pubblico per l'affetto e il supporto dimostrati nei suoi confronti.
Grazia Sambruna per mowmag.com il 7 ottobre 2022.
Povero Marco Bellavia. L'ex volto di Bim Bum Bam ha lasciato la casa del Grande Fratello Vip a causa del "bullismo" subito dai suoi coinquilini morti di fama (a farne le spese, tramite squalifica, Ginevra Lamborghini e Giovanni Ciacci).
L'accaduto ha garantito faraonici ascolti alla diretta di lunedì sera e, non ne dubitiamo, potrà ancora regalare qualche punto percentuale allo share del papà di tutti i reality nel prossimo futuro. Mentre chiunque, tra celebrities denoantri e testate, si spertica in messaggi solidali per l'uomo, dipingendolo come un novello San Sebastiano martire, noi di MOW ci siamo fatti una domanda: chi è Marco Bellavia? Già all'interno della casa più spiata d'Italia, si definiva "mental coach". Sarà. Però è bastato un giro sui suoi canali social per farci venire un forte mal di testa. E non poche perplessità...
Partiamo da qui. Il logo di "Marco Bellavia - Mental Coach 4.0" è il primo post che l'uomo, ancora troppo "sconvolto" per presentarsi in studio da Alfonso Signorini, ha pubblicato su Instagram dopo essere tornato a casa. Anzi, all'indomani della diretta di lunedì sera in cui il "caso Bellavia" ha tenuto banco per ore nella prima serata di Canale 5. Nelle storie in evidenza, ecco i link a quello che vorrebbe essere il profilo professionale del nostro: un anno di attività, poco più di mille follower. Non esattamente un business florido. Pazienza. Se ill feed è tendenzialmente innocuo: frasi motivazionali prese in prestito da personalità celebri, la sua faccia, frasi motivazionali prese in prestito da personalità celebri, alla sua faccia e così via, è il sito marcobellavia.it a richiedere forse una maggiore attenzione.
"Ti aiuto a sconfiggere ansie e paure" è la promessa che campeggia in home. Andando a leggere le poche righe di presentazione, ci imbattiamo in alcune curiose definizioni con cui l'ex volto di Bim Bum Bam si propone oggi al proprio pubblico (parlando di sè in rigorosa terza persona). Citiamo alla lettera:
"Marco Bellavia potrebbe essere definito anche più genericamente LIFECOACH anche se ama usare termini diversi e nuovi quali: MentalCoach 4.0, MentalBike, MentalTennis, MentalGolf, MentalPapà, MentalSci, MentalSmoke, MentalCoach 4.0, MentalBike, MentalTennis, MentalGolf, MentalPapà, MentalSci, MentalSmoke".
Mental incuriositi, andiamo a fare click sulla sezione "Pre-Corsi Online".
Qui scopriamo come Marco Bellavia possa tutto: i suoi corsi online - costo non disponibile, ma si può compilare form di richiesta informazioni, siamo in attesa - garantirebbero l'acquisizione di una mentalità vincente per poter trionfare in vari ambiti della vita: superare ansie e paure, diventare campioni di ciclismo, sci, golf e quant'altro oppure "una mamma perfetta", smettere di fumare. Prodigioso. Tutto questo, grazie al metodo 4.0 di suo conio, dieci semplici punti da applicare alle nostre esistenze per "accogliere miracoli" e "collegarsi con l'universo". Davvero molto semplice. E che lo sia, semplice, lo dice anche il titolo del libro che Bellavia avrebbe scritto. Titolo: "Le mie ruote: il bigino per vivere bene e diventare ricchi". Pubblicazione: al momento, no.
Un po' confusi ma sempre più mental incuriositi, ci avventuriamo sul canale Youtube di Marco Bellavia. Lì troviamo: una serie di dirette dei tempi della pandemia in cui aveva ridato vita, da solo, a una sorta di Bim Bum Bam "liberamente ispirato" fino a quando, nove mesi fa, la svolta: i suoi primi video da "mental coach 4.0". Views: 200-300 cad. Commenti: "Da ragazzina eri il mio idolo!". Entriamo ora però nello specifico di quanto Bellavia dice, esercitando quella che sostiene essere la sua professione a tutti gli effetti, per quanto "Mia madre prega ancora ogni giorno tutti i santi, sperando che io riesca a ritrovare un lavoro vero".
La diretta dal titolo "Esistono alternative per risolvere ansie e paure?" è piuttosto interessante: qui l'ex conduttore dice di essere stato in terapia, sia psicologica che psichiatrica, diverse volte nel corso della sua vita: le prime, già da ragazzino. "Poi mi è successa una cosa molto bella, proprio incredibile - immaginiamo Bim Bum Bam, ndr - e sono andato avanti da solo". Fino a quando non gli è stato più possibile ed è tornato a farsi vedere. Cosa ha ricavato da queste esperienze? Che si può anche fare senza.
In particolare, la diretta comincia con un flame, dai toni pacati, contro una psicologa che, su una pagina Fb relativa a "Depressione e attacchi di panico" si era permessa di fargli notare pubblicamente come non fosse possibile, per lui, "aiutare le persone" senza aver conseguito una Laurea in materia. Altrimenti, è "abuso di professione", scriveva lei. Bellavia replica:
"Mi sento aggredito: questa psicologa mi giudica, mi dà del delinquente. Mi piacerebbe far capire alla gente che esistono alternative alla terapia, per quanto riguarda piccoli problemi. Perché l'ansia è un problema abbastanza lieve, diciamolo. Questi propinano medicine anche per delle robe per cui non c'è assolutamente bisogno dello psicologo. Considerano quello del life coach come un lavoro da fuorilegge, ma è chiaro che nessun life coach andrebbe a mettere il becco quando ci sono patologie gravi. Ma per le piccole cose non c'è bisogno di andare chissà da quale specialista. Quante persone mi dicono: 'Ho parlato con Marco e ho risolto questo, quest'altro, quell'ansia di andare al lavoro e così via...'. Per questo dico che le alternative alla psicologia ci devono assolutamente essere".
Poi, verso la fine del video, chiosa dicendo che le sue consulenze sono online. A ben guardare, "si risparmia pure sulla benzina. Che costa, lo sappiamo".
Il discorso, per quanto il tono di voce sia pacatissimo, resta piuttosto grave. Perché lascia come sottointeso che psicologi (e psichiatri) abbiano la tendenza di seguire gente che non avrebbe bisogno del loro sostegno, magari "propinando pure farmaci". Nella realtà dei fatti, quando una persona si presenta da uno specialista con il dubbio di avere un problema, si fa un'oretta di chiacchierata e alla fine il medico, se non riscontra nulla di preoccupante, non gli chiede certo di tornare. Questo perché esiste una deontologia professionale in merito. Inoltre, come potrebbe un life coach "presso se stesso", senza aver studiato nulla, capire se chi ha di fronte soffra di "un problema lieve" o mostri i segni "di una patologia grave"? Dall'alto di cosa può stabilirlo? È in un'intervista, sempre su Youtube, che Bellavia chiarisce perfettamente il proprio punto su psicologi e professionisti della salute mentale. Sentiamo un po':
"Se avete intrapreso una strada per sconfiggere queste vostre angosce, ansie, paure e non ha funzionato, io mi voglio rivolgere a voi: cambiatela, non andate avanti! Non dico di venire da me (ride, ndr), però, cavolo, ho sentito di persone in cura da 15 anni e ancora non gli è andata via l'ansia. Si vede che sono 15 anni che non ti hanno voluto insegnare a fartela andare via o, comunque sia, fai comodo così. Perché, in ogni caso, le persone 'stressate' fanno comodo al sistema e alla società".
Da questa chiacchierata, emerge anche come mai Bellavia si senta in grado di aiutare le persone a smettere di fumare ("io ho smesso, quindi posso dire come si fa"). Seguendo lo stesso "ragionamento", può renderti campione nello sci "perché scio molto bene" e via dicendo. Fino alla definizione di "mental papà":
"Mi definisco 'mental papà' perché faccio il papà: ho un bambino di 15 anni, quindi posso dare molti consigli costruttivi anche ai genitori. Io riesco a percepire molte cose e sono un bravissimo padre. Per esempio, vedo tanti genitori che pensano di portare il figlio dallo psicologo invece dovrebbero andarci loro. Da uno psicologo o da un mental coach come me: io potrei parlare per cinque ore con un genitore e risolvere le questioni del figlio senza neanche vedere il ragazzo. A meno che il ragazzo non abbia problemi molto grandi, ma a quel punto non è che neanche lo psicologo o lo psichiatra possano farci molto, ecco".
Ah. Il senso qui sarebbe, tra le righe: se il mental coach può aiutare per problemi lievi, lo psicologo si rivela, invece, inutile per quelli ma anche davanti a situazioni gravi perché "non è che possa farci molto. Bene.
Molto meno rassegnata, la sua visione riguardo alla partecipazione a un reality. A domanda diretta, l'intervista risale al 2021, risponde giulivo:
"I reality mi hanno sempre divertito molto, li guardo e li osservo. Sono stato in lista per partecipare alla prima Isola dei Famosi: la Rai mi aveva chiamato e tenuto come riserva insieme a Walter Nudo. Quell'anno, poi, fu proprio lui a vincere. E partiva da riserva come me, pensa! Solo che a me alla fine non m'hanno più chiamato in gioco. Per il resto, non mi hanno mai cercato e ti dirò che mi sono anche proposto. Si vede che non interesso. Ma non importa, magari anche per il prossimo Grande Fratello andremo a chiedere... Adesso mi sentirei maturo per farlo, anche grazie a questo mio nuovo lavoro da mental coach".
Per quanto l'idea di proporsi al Grande Fratello Vip fosse piuttosto determinata in lui, in un'altra intervista Youtube realizzata da Lisa Della Noce, eccolo tirare una stoccata verso l'opinionista del reality, Sonia Bruganelli (min 32.13):
"Se non stai attento a quello che posti sui social, ti attiri negatività. Per esempio la moglie di Paolo Bonolis, Sonia, sbaglia tantissimo nei post che fa perché sono veramente molto violenti nei confronti di persone che hanno tanti problemi. Ogni tanto vengono fuori polemiche perché se ne esce col post che è un'auto-esaltazione di qualcosa. Ci sono persone che non hanno soldi, stanno a casa perché non lavorano e si trovano davanti lei che va sull'aereo privato. Poi la gente magari non lo sa che Sonia e Paolo, pur non avendo problemi economici, ne hanno di molto più grossi e quindi hanno bisogno di utilizzarlo. Però facendo un post di quel genere, ti metti contro venti-trenta persone che poi ti scrivono robe pazzesche. Allora io se fossi in lei, siccome sono molto sereno, smetterei di perdere tempo così e mi metterei a fare qualcosa di più produttivo".
Si potrebbe andare avanti ore con le dichiarazioni "avventate" che Marco Bellavia posta sui social da un annetto a questa parte. La chiudiamo qui. Ricordando, però, il bacino di utenti che, in prospettiva, sarà in grado di raggiungere grazie al caos di solidarietà scoppiato intorno a lui in virtù del Grande Fratello Vip. E c'è già chi, pur di potersi garantire le sue consulenze, si dice pronto "a pagare"... Buona visione.
Da Chi il 12 ottobre 2022.
Sul numero di Chi in edicola domani Marco Bellavia, il concorrente che si è ritirato dal “Grande fratello vip” perché non si era ambientato nella Casa, posa in esclusiva con il figlio, Filippo, di 15 anni. «È stato il mio punto di riferimento in questo mio percorso di vita che è come un puzzle che ha il suo volto», dice Bellavia.
«Quando mi sono lasciato con sua mamma ho vissuto il fallimento e mi sono fatto delle domande. Mi sono detto: “A cosa serve la mia vita?”. E mi sono dato la risposta: “A crescere mio figlio”. Ho fatto cose belle, ho fatto un bel lavoro che la gente ricorda. Nel 2007 ho ricominciato a studiare e lo sto facendo di nuovo, proprio per rispondere alle domande di tutti».
Bellavia, che non ha mai dato un nome al proprio disagio nella Casa, ha parlato di ansia e depressione e ha anche spiegato di non essere un malato cronico ma di avere avuto solo alcuni momenti di crisi, si racconta. «Il mio punto debole nel lavoro è stata la sensibilità e io mi sono difeso sorridendo e cercando di mantenere un distacco, mi paravo dietro a questo muro per nascondere le mie debolezze. Ma poi, quando mi sentivo penalizzato o messo da parte, reagivo in modo aggressivo. A Mediaset, ai tempi, ho litigato con tutti, persino con i dirigenti: giocavamo a calcio insieme e a volte ci si scontrava durante le partite».
Bellavia parla della sua storia con Paola Barale. «Lei lavorava a La ruota della fortuna, io a Bim bum bam. Eravamo belli. Dopo tre anni è finita perché eravamo giovani, dovevamo fare le nostre esperienze. Dicevano che mi avesse lasciato perché era diventata più famosa di me, ma non era così. Avremmo dovuto anche sposarci, io le ho regalato un anello e lei mi ha regalato una Harley-Davidson. Poi ha sposato Gianni Sperti».
E aggiunge: «In quegli anni per me era impossibile non montarsi la testa. Ho fatto disastri. Prima di Love me Licia non mi conosceva nessuno, dopo avevo 500 ragazzine sotto casa. Eravamo famosi come Eros Ramazzotti, come Gianni Morandi. Con i Bee Hive (il gruppo musicale del telefilm, ndr) riempivamo i palazzetti. Sono andato al concerto degli Spandau Ballet e, quando alcune ragazze mi hanno riconosciuto, è partito un boato: sono dovuti intervenire i poliziotti per portarmi al sicuro, è successo il finimondo».
Chiediamo a Bellavia perché il disagio psichico sia ancora un tabù mentre si parla molto di inclusione, di bullismo, di body shaming, di disturbi alimentari, di orientamenti sessuali. «Sono tutte facce di un disagio che si è deciso di scomporre, ma il problema iniziale è sempre lo stesso: paure nascoste, mancanze, fragilità, insicurezze, scelte sbagliate. Il disagio, che sia sulla sessualità, sull’aspetto fisico, sulla percezione di sé, è lo stesso».
«Non c’è paura a dire “sto male”, è che la gente non ascolta perché stanno male tutti. Dopo il Covid, la guerra, il pericolo atomico, come si fa a restare sereni? Siamo terrorizzati, quante sono le persone equilibrate? Come diceva Signorini in tv citando Carl Jung: “Mostratemi un individuo sano di mente e lo curerò per voi”». «La gente ti isola quando non puoi esserle d’aiuto».
E conclude: «Spero che la mia storia sia d'esempio. La gente mi ferma parlando dei propri dolori. Se ti dicessi che sono entrato nella Casa sperando che potesse venire fuori questo problema ci crederesti? Ma non ho deciso di stare male: ho provato disagio e ho vissuto davvero quello che avrei voluto solo raccontare rispetto al mio passato».
Estratto dell’articolo di Francesco Latilla e Francesco Subiaco per dissipatio.it il 17 novembre 2022.
(...)
-Lei è tra i musicisti più anticonformisti del panorama italiano, la cui forza non risiede solo nel suono o nella voce ma soprattutto nel testo. Partendo da questo, come nasce La sera?
La Sera nasce innanzitutto tra le canzoni del mio secondo album di inediti da solista, Da A ad A, un disco molto articolato dove ho fatto un ampio uso dell’orchestra allargata, sinfonica, assieme al gruppo rock e all’elettronica. Il disco, estremamente diverso dal precedente Le canzoni dell’appartamento, è molto eterogeneo. La canzone in questione nasce in modo assolutamente sperimentale, con un carillon smontato e di cui ho campionato ogni singola nota. Sono partito dal loop generato da quel campionamento, ottenuto attraverso la cassa dell’amplificatore del basso, questo ha generato le armonie e le melodie del pezzo da cui è cominciata questa avventura di canzone che ha impiegato tantissimi anni prima di arrivare alla versione strutturata e ascoltabile. (...)
Poi è arrivato un altro Sanremo disgraziato, mi riferisco a quello del 2020, dove fui contestato dall’orchestra per via di un sabotaggio. Che fu costruito volutamente per distruggermi la reputazione dando vita al caso Bugo che è molto articolato. (...)
-Una volta ha precisato il fatto che all’interno di errore è contenuta la parola eroe, specificando che questo è parte dell’ideale presente nel romanticismo. Secondo lei la caduta, l’errore, può fornire il punto di partenza per una opera?
Ho scoperto, giocando con queste parole, che nel suono della parola errore, non nell’etimo, paradossalmente vi è la parola eroe, che rappresenta il contrario. L’eroe è colui che non sbaglia mai, che aderisce perfettamente al destino ma è anche quello che lo stesso destino sfida. Egli è in controllo di sé stesso, l’errore invece è quello che lascia, perde, esonda dalla giustezza, ferma ciò che procede e rendendo così non funzionante qualunque cosa funzionasse prima. L’ingranaggio s’inceppa.
Ma dell’errore, proprio perché contiene eroe, non avevamo previsto una cosa. L’eroe che va contro il destino senza accettare quel che deve essere fatto nella maniera che vada al di là di lui diventa l’errore. Dice “io esisto” ed è proprio in quel punto, quando afferma sé stesso, fa in modo che si ribalti quel che è stato disegnato senza il suo volere perché entra in gioco con la propria unica e totale diversità. Con la propria autonomia, con la propria coerenza, decide quel che è giusto per sé stesso in barba al destino. Quell’eroe che è dentro l’errore, è l’artista.
Il mondo dello spettacolo invece è altra cosa.
Possiamo dire che è una rappresentazione horror in cui spietatezza e criminalità la fanno da padrone.
Basta pensare alla frase sciocca «The show must go on» che tutti amano mettersi in bocca quando si trovano davanti ad un problema morale, quando invece bisognerebbe cessare di fare chiasso e di sparare stronzate perché c’è qualcosa di grave e invece è proprio lì che tirano fuori la carta del «The show must go on».
Come mai, nonostante il successo delle sue ospitate televisive, non è mai stato fatto un programma da lei condotto o creato?
Questa domanda bisognerebbe rivolgerla ai direttori televisivi. Sarebbe un miracolo se rispondessero, perché non è mai capitato né a me né ai miei collaboratori. La realtà è che sono più di dieci anni che vivo una condizione molto faticosa che mi ha fatto male da un punto di vista artistico: la realtà di essere il migliore comunicatore musicale attualmente in Italia. La mia, a differenza di molti, è una conoscenza vera proprio perché, oltre ad essere un bravo divulgatore, posso dire che quel che so, che è dovuto al fatto di essere musicista.
In realtà, se questi mi dessero anche soltanto dieci minuti in fascia notturna su un canale come Rai 3, dove però io sono il padrone di casa e decido cosa fare, questo cambierebbe la mia vita e pure la televisione stessa, cosa che loro non vogliono. Questi in realtà sono l’Italia peggiore, quella ignorante e del potere economico nelle mani di pochi, che se lo tengono stretto facendo terreno bruciato attorno per una smania di potere.
Sono gli stessi che poi hanno paura di me e infatti sentono il bisogno di gestirmi, di tenermi sotto controllo ed infine, nonostante il grande regalo che faccio di volta in volta all’azienda, per così dire, il modo in cui fanno veicolare le notizie su di me ha sempre la modalità della diffamazione e del mobbing.
Io sono al centro di un vortice di mobbing spietato che viene portato avanti scientemente sia dai direttori di rete che dai personaggi esterni i quali contano di più dei produttori stessi. Tali figure mi temono perché ritengono che sia una minaccia. Io dico innanzitutto che non hanno nulla da temere perché a me non interessa la loro posizione. Io dal momento in cui ho un tetto, del cibo e dei vestiti che mi coprono dal freddo, sono apposto e tutto il denaro che c’è in più per me è una sconfitta, come direbbe Silvano Agosti.
È ovvio che il mio discorso non lo possono comprendere, perché a differenza loro ho un bisogno di espressione artistica e non di denaro. A differenza dei signori di cui parlo non voglio che il popolo rimanga ignorante, che venga gestito senza il consenso. Al contrario, sogno una società forgiata dal pensiero. Non hanno neanche saputo sfruttare quindici anni di vicinanza a me illudendomi che avremmo fatto un sacco di progetti che gli proponevo, fantastici, chiedendomi prima di fare l’ospite in diverse mentre continuavano a rimandare tutto di sei mesi in sei mesi e alla fine sono invecchiato e mi ritrovo a cinquant’anni. È uno scandalo culturale. Purtroppo ha trionfato la strategia della paura, tant’è vero che le persone sono quasi interamente diventate come piacciono a loro, gestibili e subalterne. (...)
È cosciente di essere l’ultima rockstar italiana?
È inutile fare i finti modesti. Sono cosciente di essere uno che sa perfettamente cosa sia il rock n roll, perché posso vivere in quella determinata maniera.
Io non dico di essere stato l’ultima rockstar, anche perché nel nostro paese non è che ce ne siano state tante, tra le poche eccezioni potrei citare Loredana Bertè, Eduardo Bennato, Carmelo Bene, Franco Battiato, Renato Zero. Sinceramente anche i Måneskin a parer mio sono rock, anche se più per un fattore estetico. Ora, sono ancora adolescenti, ma spero che riescano a coltivare un pensiero libero. Luigi Tenco è stato una vera rockstar e lo è tutt’ora, perché è un simbolo, e quindi rimane dopo la morte.
(ANSA il 16 novembre 2022.) ''Sangiuliano è assolutamente convinto di dare a Morgan una funzione utile soprattutto rispetto ai giovani, ne ho parlato anche con il ministro dell'Università. Il dato di fatto, e lo sa bene il nostro Maurizio, è che Carmelo Bene all'epoca sua è stato quello che oggi è Morgan: ora avere Carmelo Bene nelle istituzioni è cosa buona. Bene all'epoca divenne direttore della sezione del teatro della Biennale di Venezia e fu buona cosa. Un ruolo di quel genere tocca a Morgan.
Io ho capito che Morgan è il Carmelo Bene di oggi, il bene che si può interpretare anche in senso letterale. Il Governo non può avere soltanto figure ammuffite con una visione convenzionale della cultura, deve averne una originale e questa originalità non può essere perduta. Di questo è consapevole il ministro Sangiuliano e io cerco di dirlo in tutti i modi perché è una risorsa da non perdere".
A dirlo è Vittorio Sgarbi ospite con Morgan di "Facciamo finta che", il programma di Maurizio Costanzo e Carlotta Quadri in onda su R101, Sgarbi per parlare del suo nuovo libro "Canova e la bella amata" (La Nave di Teseo) e Morgan per "Parole D'aMorgan" (Baldini + Castoldi). Prosegue Sgarbi: "Riguardo Morgan Abbiamo già cominciato a prendere rapporti per la sua operatività come insegnante con il Ministero dell'Università, poi ho parlato con un altro sottosegretario, Mazzi, perché potrebbe lavorare come prolungamento del Ministero con la televisione".
Morgan: "Vorrei fare una bella trasmissione televisiva divulgando la grande musica italiana che è il nostro grande patrimonio, cantando, suonando, interpretando, ospitando cantautori all'insegna della nostra grande tradizione cantautorale, parlare di Bindi, di Tenco, di Lauzi, delle nostre grandi canzoni e farlo per gli italiani, soprattutto per coloro che non sono vicini alla musica e farglielo capire con un linguaggio molto semplice. Mi piacerebbe fare questo, la divulgazione musicale".
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 4 novembre 2022.
Marco Castoldi detto «Morgan» è un personaggio del genere che Roberto D'Agostino definirebbe «famoso per essere famoso», già fidanzato - sono indizi - di Selvaggia Lucarelli e di Asia Argento.
Non ci sarebbe da occuparsene, se non fosse che questo anonimo cantante (si ricorda solo una canzone condivisa a Sanremo) ha insultato un collega e ha sparato cazzate di conseguenza.
Chissenefrega, certo: ma le co se cambiano se diventa consulente del Ministero della Cultura, a nostro carico.
Non per sue depressioni curate dallo psichiatra, i pignoramenti, il «crack» fumato come antidepressivo, il mix psicotropo che lo mandò all'ospedale: interessano solo le sue affidabilità e competenze. Quali? Ha detto, alterato: «Sai cosa significa fare arrangiamenti orchestrali? Io sono un maestro d'orchestra... io leggo Platone e Pasolini».
Ora: Morgan è un geometra. Ha iniziato il Conservatorio e non l'ha finito. Ha studiato in un istituto sperimentale Ipsia di Lissone (Monza) che ho frequentato anch' io: lui è entrato al terzo anno, io sono scappato al primo.
L'ho conosciuto il 23 agosto 2008 a Gressoney, con Luca Sofri e Giovanni Floris: suonava il piano discretamente, anche se era mancino e si vedeva. Credo che anch' io, per formazione, sarei in grado di orchestrare delle partiture: ma non mi definirei un maestro, non sono mica scemo. Comunque Morgan non lo vorrei al governo. È tutto.
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 2 novembre 2022.
Per supplire alla chiusura dei rave party, il governo sembra intenzionato a farsene uno in casa, nominando Marco Castoldi, in arte Morgan, consulente musicale del sottosegretario Vittorio Sgarbi.
La competenza di Morgan è fuori discussione, così come la sua inadeguatezza ad amministrare cose e persone, a cominciare da sé stesso.
Vale anche per il suo superiore: Morgan e Sgarbi sono due anarco-narcisisti di notevole cultura, discreto talento e scarsissimo autocontrollo. Questo me li rende istintivamente simpatici, ma è il genere di simpatia che nutro per i cani possenti e irritabili, quando li vedo passeggiare al guinzaglio e a distanza di sicurezza.
Ovviamente un Morgan al guinzaglio non sarebbe di alcuna utilità. D’altra parte, un Morgan libero di scorrazzare a suo piacimento resisterebbe al governo per il tempo di un assolo, prima di andarsene in un rovesciar di accuse e di scrivanie.
E allora, che fare? Pur riconoscendo che a destra hanno ancora il coraggio di pescare tra gli irregolari (la sinistra ha perso da tempo il gusto di farlo, e infatti l’album della sua classe dirigente è una sfilza di figurine conformiste), non serve essere profeti per immaginare che l’esperimento avrà vita breve.
Il potere ha regole immutabili, e la disciplina è una di queste, ma soprattutto è terribilmente noioso: un susseguirsi di abitudini burocratiche e compromessi pratici che non può convivere con la fantasia. Alla seconda riunione ministeriale, Morgan scapperebbe persino con Bugo.
Luca Dondoni per “la Stampa” il 2 novembre 2022.
Il neo sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi fa il nome di Morgan e dice di volergli affidare un dipartimento nuovo di zecca sulla musica. Morgan risponde presente con entusiasmo, ma in serata, il ministro Sangiuliano però frena e a Porta a Porta dice: «Le nomine si fanno secondo i criteri stabiliti dalle leggi, per ricoprire certi ruoli, ci sono concorsi, selezioni, titoli, occorre seguire precise procedure e servono requisiti specifici. Vedremo se Morgan li ha».
Morgan, come stanno le cose? Sgarbi la vuole e il ministro no?
«Giustamente il ministro ha fatto questa osservazione, si devono fare le cose giuste. E non è una cosa già fatta. Se riterrà opportuno darmi questo incarico io sarò ben contento.
Non ho avuto ancora occasione di incontrarlo, ma lo faremo e ci parleremo. In questa fase è giusto che usi cautela».
E quindi da anticonformista ribelle ora finisce che la vedremo al governo?
«Vittorio oltre che un incredibile esperto d'arte è un amico e ci stimiamo reciprocamente. Lui ha capito, e insieme ne abbiamo discusso a lungo, che la canzone deve essere presa seriamente. L'ho detto e ridetto la musica connette gli esseri umani in maniera trasversale.
È il collante generazionale perfetto. Mi dica cosa c'è di meglio per comunicare messaggi alle giovani generazioni. Eppure finora la musica è stata trascurata».
Ha già qualcosa in mente?
«Ce l'ho da sempre. Il MIC deve prendere in mano le sorti e la potenzialità della "forma canzone" ed è giusto che ci sia un dipartimento dedicato solo alla musica. Quando si parla di musica in Italia si immaginano scenari che hanno a che fare con lo spettacolo e le vendite. È giusto invece che la musica abbia un luogo dove la responsabilità del ministero della Cultura si senta e si veda. Dobbiamo gestirla a livello sociale evitando le strumentalizzazioni. Ricordo che il nostro è l'ottavo mercato mondiale».
Il Dipartimento si occuperebbe anche della discografia?
«Il settore della discografia italiana va completamente rivoluzionato. Sono anni che invito gli organizzatori a ripensare il Festival di Sanremo. Ma non solo, pensiamo ai talent che muovono smisurati interessi economici. Immagino un dipartimento che con la sua istituzionalità sia capace di salvaguardare la bellezza della musica come avviene per l'arte o per l'ambiente».
Lei ha spesso parlato della musica a scuola.
«Nelle scuole e nei Conservatori si fa cultura: servono investimenti che supportino questi mondi, senza dimenticarci del grande patrimonio del nostro Canzoniere. Con Vittorio abbiamo parlato sovente del restauro dei capolavori della canzone italiana come si fa per un monumento.
Finora ci sono state iniziative private come quella di Ivano Fossati che si è occupato di alcuni brani di Giorgio Gaber. Ecco, quel lavoro va fatto a livello istituzionale. Luigi Tenco o Fabrizio De Andrè sono i Michelangelo o i Donatello delle sette note. La canzone, popolare o d'autore, ha una dignità che dobbiamo restituirle».
Cosa ne pensa del rave party nei dintorni di Modena
«Sono convinto che il punto non sia vietarli o arrestare i partecipanti; semmai, bisogna far sì che i rave non siano attraenti per i ragazzi, anche perché le organizzazioni di quei raduni hanno sempre avuto contorni piuttosto nebbiosi. E sono tenero.
Quei ritrovi si svolgono spesso in condizioni igieniche precarie, in capannoni dismessi o occupati e pericolanti, come è stato il caso di Modena».
Per i detrattori la musica ai rave contribuisce ad amplificare l'effetto delle droghe.
«La musica va proposta con livelli tecnici di qualità e i giusti decibel. I suoni di certa techno non fanno altro che rintronare il cervello e danneggiano l'organismo. Nient' altro».
Dagospia il 3 novembre 2022. Da “la Zanzara - Radio 24”
“Questo si chiama Gramellini, una persona che non conoscevo. Mi ha praticamente scritto che sono un pezzo di merda…Questo meccanismo di dire ‘Morgan è un grande artista…’, è un meccanismo per potersi permettere la diffamazione.
Ma questo signore che si è permesso di dire certe cose, non solo ha detto che non sono autonomo, cioè che non sono in grado di intendere e di volere, ma che sono un narcisista, anarco narcisista, dovrebbe essere uno psicologo con una cartella clinica.
E’ come dire che ho un cancro, non posso permettere che mi dica queste cose, che ho un disturbo. Poi ha detto che sono un cane, non puoi dare del cane a un cittadino, non si può permettere di offendere così. Sono criticabile, non diffamabile. E’ un modo sofisticato per diffamare. Non si può fare”.
Questo lo sfogo di Morgan a La Zanzara su Radio 24 dopo l’articolo in prima pagina sul Corriere della Sera di Massimo Gramellini. “Se io parlo di Stephen Hawking - aggiunge - non lo posso chiamare storpio, non hai sensibilità artistica e umana. Ha detto che non so badare a me stesso, ma che ne sa? E’ pazzo, è fuori di testa, come si permette, come si permette? Ma che ne sapete”.
Ma voleva dire che non sei capace di amministrare un’azienda, dice Parenzo: “Ascoltami, sai cosa significa fare arrangiamenti orchestrali per sessanta persone, avere il controllo, io sono un maestro d’orchestra, ma come si permette questo qua?”. Ma non è che un maestro si mette a dirigere il Corriere della Sera, aggiunge Parenzo: “Cosa stai dicendo? Ma vogliamo chiedere i requisiti alle persone che sono in Parlamento. E comunque ho diritto a essere rispettato come persona, mi ha messo al pubblico ludibrio sulla prima pagina del principale quotidiano italiano”.
Non puoi dirigere la Fiat, Morgan, dice ancora Parenzo: “Ma che ne sai tu? Ma cosa ne sai? Ma cosa ne sai, tu sei pazzo. Cosa stai dicendo. Non conosci la complessità di quello che faccio io, rispettami e non blaterare. Cosa ne sai?”. Non blaterare tu, dice ancora Parenzo: “Non ti permettere, sulla base di cosa ti permetti di dire certe cose, sulla base di cosa dici che non posso governare la Fiat? Che ne sai? Ma tu da dove vieni? Chi sei? Come ti permetti? Da dove vieni? Chi sei? Che titolo di studio hai? Mi hai leccato il culo per una settimana perché volevi che venissi da te, e poi mi insulti pubblicamente?”. “Gramellini - dice ancora Marco Castoldi a La Zanzara - non so nemmeno chi sia, io leggo Platone e Pasolini. Non so chi sia, non lo leggo. Scrive delle puttanate.
Scrive se stesso con l’accento senza sapere che si scrive senza accento, questo è uno che deve andare a scuola”. Poi insiste sulla musica italiana obbligatoria nelle radio: “Imporre la musica italiana a tutte le radio è una cosa educativa. Come imponi a un essere umano di andare scuola, è una cosa che va a tuo favore. E’ educazione. Bisogna essere nazionalisti, è molto utile, e diventi forte nei rapporti con le major. Ci dobbiamo rafforzare e non dobbiamo succhiare le scelte loro. La sovranità è questa, libero arbitrio”
Morgan l’incompreso: «Do fastidio ma mi invitano perché servo. Ora torno con un brano per Battiato». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022
Il musicista: «Ho un obiettivo, dare valore economico alla cultura. Io non sono ossessionato da Bugo ma lui lo è dal successo: io ho fatto il mio dovere»
Risponde al telefono, ma chiede di stare un attimo in linea: «Devo aprire la finestra, il pianoforte è uno strumento pieno di vita, ama la luce», dice. Poi torna a sedersi ma inizia a suonare Debussy, Chiaro di luna. Tre minuti di concerto improvvisato che raccontano diverse cose su chi sia Morgan. Il primo agosto è uscito Battiato (mi spezza il cuore), singolo che contiene cinque versioni di un brano che è un omaggio a un maestro e anche un caro amico. «Volevo condividere questo tributo con tutti coloro che hanno amato e amano l’arte di quel grandissimo essere umano che ci è capitata la fortuna di avere contemporaneo. Io poi lo sono ancora più per essere stato suo amico intimo e aver lavorato con lui».
Un ricordo che vi lega?
«Penso a quando mi chiamò dicendomi di aiutarlo a mettere su la band con i musicisti più bravi del mondo. Gli feci arrivare la mia lista. “Hai omesso il bassista”, ma lo avevo fatto perché volevo fossi io. “Sei il più bravo? Ok, allora sei assunto”, fu la sua risposta».
Cosa la avvicina a Battiato?
«Ha saputo parlare a enormi folle comunicando qualcosa di nobilissimo. Però lui è stato anche un artista di successo. È riuscito a rispondere a una domanda: come si emerge facendo cose belle? Perché a emergere facendo brutta musica son capaci tutti. Battiato non si è mai seduto, non si è mai accontentato. Nell’Italia di oggi non avrebbe mai potuto affermarsi».
Attualmente è più difficile sfondare per un artista?
«Nell’Italia di oggi è impossibile. Battiato non si sarebbe potuto permettere determinate scelte, un’opera con la capacità di non assomigliare a nulla, di non essere facilmente decodificabile, il cui ascolto impone un certo impegno. Ma credo che questa incapacità di valorizzare esseri umani che creano nutrimento collettivo sia uno dei problemi più gravi dell’Italia».
Si riferisce anche a lei?
«Io ho difficoltà mostruose. Faccio uscire questo brano come un cavallo di Troia, sia per la mia musica che per quello che sono. Ma sento che il mio ruolo, la mia meritevolezza è del tutto disattivata».
Si sente incompreso?
«Lotto contro questa deriva eppure non perdono occasione per tartassarmi e colpirmi. Perché?».
Ogni tanto sembra metterci del suo nelle polemiche che la riguardano, non trova?
«Perché si vuole dare spazio solo a quello, non al ragionamento che c’è dietro. Sono un essere umano impegnato e non solo come cantautore. Insegno, scrivo libri. Non ho pubblicato singoli per dieci anni ma ora voglio rimettermi sul mercato perché mi sento forte e ho capito che bisogna agire. Ho a cuore i giovani talenti, non voglio vengano corrotti dal grigiore dilagante».
In questi dieci anni ha fatto anche molta tv.
«Ora voglio tornare a pubblicare canzoni in modo canonico, utilizzando i canali discografici, nonostante i discografici siano quanto di più lontano dall’essenza della musica. Così come Amadeus. Il pubblico deve sapere che sotto quello che viene proposto c’è un universo meraviglioso, soffocato dalla staticità e dall’ignoranza di chi gestisce il mercato».
Amadeus però a Sanremo l’ha voluta...
«Mi aveva voluto nel suo programma Ama Sanremo, dove selezionava le giovani proposte perché sa che sono bravo a farlo. Poi ha dimenticato il rispetto per la persona e ha fatto gli interessi dei discografici. Ho accettato di cantare con Bugo per combattere un sistema negativo dall’interno. Detto questo, ci vorrebbe un titolo di studio per essere direttori artistici del Festival, Amadeus non lo ha eppure lo fa da quattro anni: neppure a Baudo era successo, e dire che lui sa suonare il piano, scrive canzoni...».
Poco diplomatico...
«Sono un uomo libero, dico la verità».
Bugo ha detto che lei pare ossessionato da lui.
«Di Bugo non mi interessa nulla, piuttosto era lui ad essere ossessionato dal successo tanto da passare anche sopra a un amico. La mia era stata un’azione libertaria contro il mobbing e l’ignoranza. Mi hanno utilizzato per entrare a Sanremo e poi vilipeso. Ho risposto ironicamente alla sua maleducazione: così gli ho messo in mano il successo, ho svolto il mio compito, fatto il mio dovere».
Incompreso, ancora una volta.
«Do fastidio ma servo, ecco perché mi invitano dappertutto. Il mio obiettivo è però dare un valore economico alla cultura, come faceva Battiato: non si è mai allineato, è sempre stato rivoluzionario, riuscendo però a stare dentro il mercato. Spero lo capiscano e mi affidino presto un programma musicale: nessuno più di me saprebbe farlo».
Paolo Giordano per il Giornale il 5 agosto 2022.
«No, lui non l'ha mai ascoltata». Morgan ha scritto il testo di Battiato (mi spezza il cuore) quando si è accorto che «Franco si stava offuscando, aveva vuoti di memoria, non riusciva a esprimersi nella stessa maniera sontuosa con la quale si era sempre espresso». Quindi quattro o cinque anni fa circa. Da oggi Battiato (mi spezza il cuore) sarà in radio ma è già disponibile in streaming in cinque versioni diverse comprese quelle sinfonica, orchestrale e pure quella (assai diversa) inclusa nella colonna sonora de Il coraggio di esser Franco trasmesso da Raiuno.
Sono trascorsi dieci anni da Spirito e virtù, l'ultima pubblicazione ufficiale di questo artista indefinibile e libero che caparbiamente sfugge ogni regola: «In realtà ho una valanga di brani, circa 200, e su alcuni di loro lavoro anche da vent'anni». Morgan ne parla poco prima di esibirsi a Sanremo con l'Orchestra Sinfonica per «Il classico Morgan» che è titolo del nuovo tour: «Facciamo pezzi miei, di De Andrè, Tenco e non solo e, tra un'esecuzione e l'altra, parlo di musica, divulgo, intrattengo».
Ieri sera all'Auditorium Alfano ha eseguito per la prima volta anche il brano dedicato a quello che è stato indubbiamente uno dei suoi maestri, anzi molto di più, come fa intendere il testo. «Quando Franco ed io ci siamo incontrati per la prima volta, nel 1995, lui non aveva figli e io non avevo più mio padre, quindi è stato quasi spontaneo che nascesse un rapporto profondo e particolare. Tra l'altro io gli chiedevo: Franco perché non ha figli?. E lui mi rispondeva sempre: Perché io sono ancora un figlio».
Si incontrarono per la prima volta, come si capisce dal testo completo del brano, «nella primavera del 1995, mi ha criticato ma poi mi ha fatto amico». Da allora la frequentazione fu continua, spesso totale. «Quando uscì il disco Gommalacca nel 1998, i giornali dicevano che ero praticamente il coautore. Uscivano le foto mie con lui e io ero imbarazzato perché non mi sembrava corretto. Lui non me lo ha mai detto, ma credo che se ne fosse accorto».
Quando parla, Morgan sprizza entusiasmo da ogni poro, sembra un debuttante tanto è torrenziale nel descrivere questa canzone: «Ormai ho una idea di musica cangiante, faccio brani che possono scomporsi e diventare lunghi 3 minuti oppure 10, la musica è questo, è libertà. Invece oggi brancoliamo nel buio, tutti vivono nella paura, basti pensare che non mi fanno più fare programmi tv». Lo dice così, en passant, e in effetti non si vede sullo schermo da un po':
«Suonare con un'orchestra mi appartiene molto di più rispetto all'ospitata in televisione facendo una cosa che non mi rappresenta» ha detto ieri parlando nella sede del Club Tenco a Sanremo. Poi qui si spiega meglio: «Oggi la musica mainstream è in mano a gente che considera soltanto i numeri e fa discorsi su musica che non è musica lanciando cantanti che se la fanno sotto appena salgono sul palco».
Dopotutto dal 1991 Marco Castoldi detto Morgan fa concerti prima con i Bluvertigo e poi da solo e quindi non gli si può dire che non sia a proprio agio sul palcoscenico: «Nonostante tutte le diffamazioni che ho subito, sono ancora qui e sto per pubblicare due nuovi dischi, uno a settembre e l'altro a dicembre. Ho trovato la casa discografica giusta (Egea Music - ndr) e ora, come cantava David Bowie in Changes, ehi state attenti voi rockettari». Quindi tornerà al Festival di Sanremo dove, mettiamola così, negli ultimi anni ha avuto qualche problemino? «Mah, non lo so». Però chissà.
Intanto ricorda che proprio Battiato lo definì «un vero professionista» perché «lui era lucido, capiva dove c'era il talento». Pausa. «Anche io però ho dimostrato di capire dove c'è il talento, visto che mi sono accorto di quello di Noemi, Mengoni, Michele Bravi tanto per dire qualcuno».
Completamente sganciato da ogni logica commerciale, Morgan è stato da poco inserito da Vittorio Sgarbi in una lista di possibili candidati alle elezioni politiche: «La mia prossima candidatura sarà a Presidente del Consiglio», scherza. Sia serio, Morgan. «Pier Paolo Pasolini o Carmelo Bene si sono mai candidati?». Niente candidatura. Però un legame con la politica c'è: «Sto consigliando Giorgia Meloni per il programma elettorale». Ecco vede? «Ma no, ho detto la mia sull'uso dei vocaboli, sulle parole che poi sono parte del mio mestiere». E sulla linea politica? «Anche su quella, qualcosina eh, ma non ne voglio parlare». Dopotutto, per ora, a parlare c'è la musica.
Da mowmag.com il 24 aprile 2022.
Si parla di Morgan candidato alle comunali su spinta di Vittorio Sgarbi e per il podcast BlackList x MOW Domenico Arruzzolo ha parlato di questo e molto altro (compresi i Maneskin e Scanzi) con colui che all’anagrafe risulta come Marco Castoldi: “Io – dice Morgan – non voglio fare la politica.
Quando si dice cose come scendere in campo, sono totalmente lontane dalla mia visione. Io sono interessato al sociale, sono interessato a essere utile, a essere usato.
Io mi voglio mettere a disposizione, non voglio cavalcare nessun tipo di potere politico, anzi. Non cerco quello, è Sgarbi che mi cerca.
E io se posso essere utile a supporto dei suoi progetti politici lo faccio volentieri, ma ribadendo che io sono attivo in un altro campo”.
Per Morgan “l’Italia ha dei seri problemi in termini di sviluppo culturale-tecnologico, nel senso del ruolo e dell’uso dell’essere umano rispetto alla macchina e dell’uso dell’artista rispetto alla società”
E ancora: “Io amo questo Paese, però mi rendo conto che non sa autovalorizzarsi e rimane indietro. È sfruttato dal mondo e non è ricco per quello che vale, non è assolutamente gratificato, ma è colpa sua, è l’italianità”.
Il cantautore aggiunge: “C’è tanta paura, c’è molto spavento e c’è tanto individualismo sfrenato. E poi c’è una carenza di invenzione e di fantasia. Nonostante ci si vanti di essere il Paese della fantasia, non lo è affatto, è un Paese ingrigito, intristito, che non crea, che non procede, che resta indietro, che ha la visione corta, che non sa guardare nel futuro, che non sa investire godendosi le sue risorse e farle fruttare”.
Morgan replica poi al sindaco di Verona, Federico Sboarina, che ha detto di non volerlo nelle sue liste: “Questa è ignoranza, ed è un’altra cosa tremenda. Porta chiusura, porta rifiuto, porta disconnessione. La reazione del sindaco di Verona è dettata dalla non conoscenza, ed è dettata dal suo limite. Così come la reazione convulsa e offensiva di alcuni cronisti, giornalisti, analisti che si scagliano contro denigrando, provando una disistima nei miei confronti che non capisco da cosa dipenda.
È brutto vedere delle manifestazioni così chiaramente sintomo di un’ignoranza. Molto aggressive, ma proprio basate sul non stimare. Non stimare vuol dire non valutare. Quando stimi dai un prezzo a una cosa. Se tu non sei in grado di dare una stima vuol dire che deprezzi, svalorizzi, svaluti: è quello che fanno gli italiani con l’Italia stessa, con le sue ricchezze.
L’Italia è il Paese che ha il 90% delle opere d’arte del mondo e dovrebbe essere il Paese più ricco del mondo, perché l’arte è la cosa che ha più valore al mondo. Ed è paradossale, colpa di questo atteggiamento di chiusura del sindaco di Verona, colpa di Andrea Scanzi che scrive male di me senza un minimo di informazione corretta: fa anche un esempio di bullismo, di prepotenza, proprio di disistima. Svaluta.
È come se io ti porto un gioiello e tu lo butti dicendo che non vale niente, perché non sei in grado di valutarlo. Se non si sa riconoscere il valore si finisce poveri, completamente. Quando non si dà valore alla vita si finisce nelle zone di violenza, di disagio e di sofferenza. Come un giornalista sedicente come Scanzi dice male in quel modo così feroce, non sta dando valore a una persona che… non è che io vado a rubare o sono un maniaco sessuale.
Per cui non capisco perché scagliarsi con odio contro una persona che invece agisce e opera con grande entusiasmo e passione e si mette a disposizione degli altri. Mi sembra un sintomo che è il monitor, il detector per vedere come mai l’Italia va male: eh, perché ci sono questi atteggiamenti.
Bisogna educarli, perché non sono educati, sono maleducati e ignoranti ed è soltanto quello che che porta a tutto ciò. Una società civile è una società di dialogo, del dibattito e soprattutto del dare valore. Quando le persone non danno valore agli esseri umani allora puoi abilitiamo tutti, allora poi ci si uccide, ci si ammazza, ci si sgozza”.
Scanzi ha attaccato Morgan, come già altre volte in passato, con questo post:
Breve storia triste.
Sxxxbi dichiara di partecipare alla tornata elettorale per sostenere la ricandidatura di Federico Sboarina di Fratelli d'Italia a sindaco di Verona. E chi candida Sxxxbi? Morgan: “Verona è simbolo d'arte e cultura, e Morgan, cantautore, musicista e scrittore, è il personaggio poliedrico, adatto ad interpretare il desiderio di traghettare la città in una nuova dimensione culturale (ahahahah). Verona e una citta strategica per moltissime ragioni, e Marco, partendo dalle sue vocazioni, ha una visione chiara (ahahahahah) di come operare al fianco di Federico Sboarina, che in questi 5 anni, ha ben amministrato e dimostrato di saper governare con coerenza. Appoggiamo con convinzione la sua ricandidatura e sosteniamo con fiducia (ahahahah) Morgan".
Morgan si dichiara entusiasta della proposta. E in effetti c’è da esultare parecchio, eh. Il meloniano Sboarina è quello che, tre anni fa, ospitò a Verona l’obbrobrioso XIII Congresso Mondiale delle Famiglie, condensato allucinante e retrogrado di movimenti globali antiabortisti, antifemministi e antiLGBTQ+. Oltretutto Sboarina, come ha ricordato Rockit, “è stato tacciato di "amicizie nere", ha avallato proposte di legge antiabortiste in consiglio comunale e per la rivisitazione toponomastica delle strade di Verona con vie dedicate a Giorgio Almirante e a Sergio Ramelli”. Proprio un bel tipino. Bravo Morgan!
Ma qui viene il bello, perché Sboarina rifiuta la candidatura di Morgan. E Morgan, ormai una sorta di Povia minore che si fa scanculare pure dalla destra destra destra (daje), a quel punto reagisce da bimbo frignone che gioca alla volpe con l’uva: "Peccato, se il sindaco ha detto di no per colpa di 4 haters sui social, beh, forse serviva una visione politica più ampia. Cosa farò? A questo punto sono io che non voglio più partecipare". Gne gne gne.
Una continua caduta tragicomica, pallosa e rovinosa. Poveraccio.
Secondo Morgan Scanzi “è una persona che diffama”, ma “la questione è che è un esempio che ho fatto. Io ricevo 9,5 denigratori e diffamatori (dove vengo descritto come una persona negativa) al giorno, sulla stampa nazionale, da almeno 15 anni. Ho fatto una stima.
E l’effetto di questa cosa è che non ho più la crediblità, per cui non mi si fa lavorare, non faccio i concerti, non faccio dischi, non faccio divulgazione musicale. E quindi cosa ci abbiamo guadagnato? Niente. Un aumento dell’ignoranza. Io sono un musicista, sono un poeta, sono un letterato, un autore, un divulgatore musicale, uno studioso di musica popolare, un insegnante. Cioè, ma perché tutto questo?”
Venendo poi alla musica, Morgan parla del “Fuck Putin” dei Maneskin al Coachella festival: “I Maneskin a me sono simpatici perché finalmente fanno un po’ di colore. Rispetto ai Bluvertigo devo dire che gli manca un po’ di spessore musicale, però la scena la fanno e mi divertono molto. Però perché non Fuck Biden, perché solo Fuck Putin? Facciamo un Fuck Biden, facciamo un Fuck chiunque. Ma dai, ma Fuck Putin, se me lo dicevi quando è stato eletto… Io lo dicevo quando l’hanno eletto. E non è certo la guerra in Ucraina che mi fa dire che Putin è negativo. Perché fino a ieri cos’era, un santo?”
Qui sotto la puntata di BlackList x MOW con le interviste a Morgan e a Vittorio Sgarbi, con grosse rivelazioni sul caso Toscani-mafia.
Da liberoquotidiano.it il 27 Febbraio 2022.
Botta e risposta a Belve, il programma di Rai2. Ospite di Francesca Fagnani nella puntata di venerdì 25 febbraio, Morgan. Il cantante, all'anagrafe Marco Castoldi, ha mostrato di non apprezzare alcune domande. In particolare quelle sul suo rapporto con le sostanze stupefacenti, di cui nel passato non ha nascosto di fare uso.
"Come fa un uomo libero come me ad avere delle dipendenze?" ha detto la conduttrice per poi rincarare la dose: "Lei dichiarò in una intervista di fumare cocaina, di usare crack, come antidepressivo".
Ma l'artista è sbottato: "No, io facevo tutto un altro discorso, teorico. Il titolo poi venne girato, non ho mai parlato di me. Quelli sono affari miei. Giudicate quello che so fare io in quanto artista, lasciate stare quello che faccio quando sono a casa.
Io sono stato: rimosso da X Factor, tolto da Sanremo e da quel momento è iniziato un processo di indebitamento e di non pagamento delle mie performance, il discorso sulla droga non mi interessa".
“Non le interessa perché non ne vuole parlare? - ha continuato la Fagnani -. Questo è un ritratto personale: io sono libera di farle le domande e lei può scegliere a cosa rispondere".
Ma anche su un altro argomento Morgan ha tirato dritto. La conduttrice ha domandato al suo interlocutore se avesse mai avuto esperienze omosessuali. "Se sono mai stato con un uomo? In che senso? Dove? Al cinema? Cosa vuol dire esperienze omosessuali?", ha replicato tentando di cambiare discorso salvo poi ammettere: "Non lo posso dire".
Morgan: “Da Marco Mengoni ingratitudine. Amici di Maria De Filippi? Un inferno, sono scappato dicendo: ‘Sono comunista’”. Il Fatto Quotidiano il 26 febbraio 2022.
"Ha mai avuto esperienze omosessuali? È mai stato con un uomo?" ha chiesto la conduttrice. Lui ha replicato così.
I due ospiti della puntata di Belve andata in onda ieri 25 febbraio su Rai 2 sono stati il cantautore Morgan e l’ex camorrista Cristina Pinto. Il musicista, il cui vero nome è Marco Castoldi, ha esordito dicendo: “Che belva sono? L’essere umano”. Poi Francesca Fagnani gli ha chiesto: “Questo è un episodio doloroso e privato quindi si senta libero di non rispondere: quando aveva 16 anni suo papà si è suicidato e credo lo abbia trovato lei. È un gesto che poi ha capito e poi: lo ha perdonato?”. “Questo gesto è pieno di senso e di non senso. È difficile da interpretare perché si ha a che fare con una persona che anziché aprirsi e dire: ‘Non sto bene’, sceglie di sottrarsi. È quando non c’è più la possibilità di parlare, probabilmente per lui il mondo era una roba nera, non c’è più via d’uscita. Con le parole invece questo non succede”.
Poi, cambiando totalmente registro: “Ha amici veri tra i suoi colleghi?”. “Pochi, credo che non mi capiscano. Hanno paura“, ha replicato lui accennando ad alcune esperienze a suo dire deludenti, come quella ad X Factor. “Sì, io ho scoperto Marco Mengoni. Se ho ricevuto gratitudine? Assolutamente no, perché è attorniato dai discografici che gli dicono di non aver contatti con me. Loro hanno paura: infatti mi sto sentendo segretamente con Michele Bravi in questi giorni (vincitore della settimana edizione di X Factor, ndr)”. “Circa un anno e mezzo fa più o meno lei ha detto che stava attraversando un periodo un po’ allucinante e che voleva disintossicarsi“, ha detto la conduttrice. Allora Morgan: “Sì, dalla società, non da altro. Come fa un uomo libero come me ad avere delle dipendenze?”. Ma Fagnani ha tenuto il punto: “Lei dichiarò in una intervista di fumare cocaina, di usare crack, come antidepressivo”.
“No, io facevo tutto un altro discorso, teorico. Il titolo poi venne girato, non ho mai parlato di me. Quelli sono affari miei – ha continuato Morgan -. Giudicate quello che so fare io in quanto artista, lasciate stare quello che faccio quando sono a casa. Io sono stato: rimosso da X Factor, tolto da Sanremo e da quel momento è iniziato un processo di indebitamento e di non pagamento delle mie performance, il discorso sulla droga non mi interessa”. “Non le interessa perché non ne vuole parlare?”, ha domandato la padrona di casa aggiungendo poi: “Questo è un ritratto personale: io sono libera di farle le domande e lei può scegliere a cosa rispondere. Ascolti: di lei si innamorano più gli uomini o le donne?”. L’ex leader dei Bluvertigo ha provato a rispondere a modo suo: “Direi gli esseri umani”. “Ha mai avuto esperienze omosessuali? È mai stato con un uomo?” ha chiesto allora direttamente Fagnani. “Se sono mai stato con un uomo? In che senso? Dove? Al cinema? Cosa vuol dire esperienze omosessuali?”, ha replicato il musicista. “Dal punto di vista sessuale”, ha tuonato Fagnani ma lui ha aggirato la domanda e non ha risposto.
Infine la conduttrice gli ha fatto una domanda sulla tv: “Dopo X Factor, l’hanno allontanata da Amici”. “No, ma quale allontanato: me ne sono andato io a gambe levate. Mi ricordo benissimo: avevo ancora il microfono. Io dicevo: “Sono comunista”, lo avrò detto 500 volte. Era l’unica cosa che potevo dire loro. Scappavo e dicevo a quelli che stavano come me: ‘Andiamocene’, fino a quando sono arrivato sulla Tiburtina. Un inferno, un incubo”. La conduttrice ha concluso: “Ma nessuno l’ha costretta, ha deciso lei di andarci, lei è sempre vittima di qualcosa”.
· Marco Columbro.
Marco Columbro: "Ecco perché ho lasciato la tv". La Repubblica il 6 Settembre 2022.
In una lunga intervista andata su 'Un caffé con', format su YouTube di Lorella Cuccarini, l'ex conduttore svela le ragioni per cui ha lasciato il mondo dello spettacolo dopo la grave malattia: un aneurisma cerebrale avuta nel 2001
Nel 2001 fu costretto ad uno stop forzato dal suo lavoro di conduttore televisivo, a causa di un aneurisma cerebrale, Marco Columbro si racconta rivelando i veri motivi dietro al suo ritiro dalle scene avvenuto ormai da tanti anni. E così l'ex presentatore spiega la sua lunga assenza dal piccolo e grande schermo in una recente intervista alla storica amica e collega Lorella Cuccarini nel format YouTube "Un caffé con".
Columbro sulle reti Mediaset aveva condotto per tanto tempo Buona Domenica, proprio a fianco della Cuccarini, ma aveva anche recitato nella fiction Caro Maestro. La malattia, però, ha radicalmente cambiato l'approccio alla vita, alle priorità e Columbro ha così iniziato un percorso artistico e personale molto diverso. Per qualche anno, dopo essersi ripreso dal grave problema di salute, il presentatore è tornato in tv, nuovamente a fianco della Cuccarini, con Scommettiamo che...?. Poi più nulla per anni.
Marco Columbro si è dedicato a lungo all'attività di attore teatrale, interessandosi anche ad argomenti come la filosofia e le tematiche spirituali. A volte il suo volto è apparso in tv per brevi ospitate, ma nulla a che vedere con l'attività prima della malattia. Le ragioni dietro a questa scelta Columbro le ha spiegate nei dettagli. Quando gli è stato chiesto che tipo di ruolo avrebbe preferito per un suo ideale ritorno in tv, ha risposto: "Per me qualunque ruolo va bene, anche ruoli drammatici. Non ho paura a misurarmici. Il problema è che non ho più voglia di fare televisione, se proprio devo dirlo. Ho voglia di fare altre cose. Ho scritto un libro che dovrebbe uscire a fine anno che si chiama Il risveglio di Parsifal: vivere una vita nel gregge come pecora, oppure da esseri consapevoli".
E poi ancora: "Il libro nasce dall'incontro che ho avuto negli anni con vari maestri di saggezza. Il tema è la consapevolezza in ogni campo della nostra esistenza. Come affrontare la vita con consapevolezza. Per me scrivere questo è la cosa che in questo momento mi interessa di più. O anche aprire un'accademia di ricerca spirituale. Quello che ho fatto nello spettacolo, l'ho fatto, è inutile rifare cose che ho già fatto. Sarebbe una ripetizione. Basta. Questa è una pagina del mio destino che si è chiusa. Ho comunque lasciato un buon ricordo nel cuore delle persone. Lo vedo quando mi fermano per strada, e questo mi fa piacere. Non è una cosa semplice. Ora ho voltato pagina."
Ultima confessione: Columbro ha concluso l'intervista raccontando di essersi sentito in qualche modo: "Tradito quando nel 1991 la Cuccarini sposò il suo Silvio Testi. Ai tempi, l'affiatamento fra noi era tale che il pubblico si era convinto che i presentatori di Buona Domenica stessero insieme. Speranze vane, alla luce dei fatti".
Fulvia Caprara per “la Stampa” il 29 giugno 2022.
Sole a picco, ora di pranzo, sciami di turisti divisi tra pizze e granite. Ma se arriva Marco Giallini il mondo si ferma, c'è perfino una signora che, seduta davanti a una cotoletta, gli grida al volo: «La vuole una patatina?». Al Taormina Film Festival per presentare il suo ultimo film La mia ombra è tua di Eugenio Cappuccio, dal romanzo di Edoardo Nesi da oggi in sala, Giallini è la star del giorno, in un crescendo di scherzi, battute, provocazioni, al centro di un culto popolare su cui lui si stesso si interroga: «Non so bene perché sia così, forse me lo merito, credo di avere un approccio diverso verso questo lavoro. Fino a 28 anni avevo solo la terza media, poi però mi sono laureato in Lettere, sono un umanista, più che altro sono un umano, faccio un discorso politico pur non facendolo».
Viviamo nella dittatura dei social, lei che ne dice?
«Vedo signore della mia generazione che si voltano, si scattano una foto e poi me la mandano con la scritta "questa sono io". Ho solo Instagram, mio figlio mi ha detto che dovevo farmi un profilo perché ce ne sono già di falsi, così ora le persone mi scrivono chiedendomi di legarmi a un "brend", sento parlare di video call, e poi vedo tutti questi influencer, e mi chiedo "ma questi chi influenzano?". E poi perché non si parla in italiano? Non posso dirlo, sennò mi attaccano "ah ma lei è fascista".
Mi chiedo che cosa avrebbe detto oggi di tutto questo Pier Paolo Pasolini. Si parla di tante stupidaggini, ho sentito, a proposito di coppie gay, persone che dicevano "ce ne sono due nel mio palazzo, sono così carini". Ma che vuol dire? Manco fossero cani yorkshire. Vedo i ragazzi con questo chiodo attaccato addosso, anche i più intelligenti, è un fenomeno di voyeurismo portato alla massima esasperazione, per questo ripeto ai miei figli di non pensare solo a follower e influencer. Andare a vedere inutilmente la vita delle persone sui social, ma che senso ha? I social portano a un rincoglionimento generale».
Il film di Cappuccio parla anche di scontro generazionale, lei come vede il problema?
«Per quanto mi riguarda, penso di aver fatto del mio meglio per trasmettere qualcosa di buono alle nuove generazioni, insomma, non ho lasciato solo merda. Il fatto è che oggi lo scontro non c'è, mentre in passato si combatteva, ci si contrapponeva, o ti piaceva Aurelio Fierro o ti piacevano i Led Zeppelin. Adesso siamo tutti sui social e diciamo tutti la stessa cosa».
Come ha affrontato la parte dello scrittore protagonista della Mia ombra è tua?
«È un uomo stanco, e innamorato. Sono dimagrito 3 o 4 chili, mi hanno decolorato quattro volte quei sette capelli neri che ho, alla fine sono diventato identico a Billy Idol. Mi sono preparato leggendo la sceneggiatura, ma in genere vado di impatto, non sono uno che prende appunti o che studia.
In ogni personaggio che faccio c'è qualcosa di me, almeno che non mi affidino Paperino».
È mai stato censurato?
«No, o almeno non me ne sono accorto, non vedo e non sento mai niente».
Il suo Rocco Schiavone va in onda su Rai 1, che ne pensa?
«Non saprei perché Rai 1 non la guardo, le cose che trasmettono non mi fanno impazzire, Schiavone è trasgressivo, è piaciuto per quello, i ragazzi lo amano moltissimo, nella storia delle serie italiane è quella più seguita da persone che hanno un titolo di studio superiore alla terza media, non so quanto possa funzionare con il pubblico di Rai 1».
Che cosa cerca, in questa fase della carriera?
«Cerco l'empatia, la bravura e la simpatia del regista e di chi mi offre il ruolo. Mi è capitato tante volte di fare film che non mi appassionavano più di tanto, ma non potevo rifiutare, avrei potuto pentirmene, ma non l'ho fatto, però poi ti restano dei desideri. Mi sarebbe piaciuto fare un film con Polanski».
Sono passati 25 anni da quando ha girato «L'odore della notte». Che ricordo ha di Claudio Caligari?
«Nutrivo un tale amore per lui che non sono mai andato sul set del suo ultimo film Non essere cattivo, non volevo vederlo mentre stava male. Lo conoscevo bene, nei suoi silenzi era una delle persone più belle del mondo, unica, ha cambiato la mia vita».
Nel film di Cappuccio Isabella Ferrari interpreta una donna libera. Eppure le donne sono sempre sotto attacco, basta guardare la decisione sull'aborto appena presa in America. Lei che ne dice?
«Ci mettiamo cinquant' anni per fare un passo avanti e tre secondi per tornare al Medio Evo, è incredibile».
"Grazie alla mia sfacciataggine ho interpretato Maradona". Massimo Balsamo il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.
Protagonista de "La grande guerra del Salento" in sala dal 5 maggio, Marco Leonardi si è raccontato ai nostri microfoni: "Dal dopoguerra ad oggi, l'uomo non si è mai evoluto".
Una carriera internazionale dopo tanta gavetta, dal film premio Oscar “Nuovo Cinema Paradiso” di Tornatore ai ruoli più recenti, pensiamo al meraviglioso “Anime nere” di Francesco Munzi o a “Martin Eden” di Pietro Marcello. Marco Leonardi è uno dei migliori attori italiani e il curriculum parla da solo. Insieme a interpreti del calibro di Pino Amendola e Paolo De Vita, il 51enne è protagonista de “La grande guerra del Salento” di Marco Pollini, tratto dall’omonimo romanzo storico di Bruno Contini.
Nel secondo dopoguerra, mentre la storia si lecca le ferite di due guerre mondiali, in Salento se ne scatena un'altra, che ha per eserciti gli abitanti di due paesini, Supersano e Ruffano. A farla scoppiare desideri di potere, deliri di onnipotenza, follia e... una gara di pallone. Una storia poco conosciuta ma molto importante: in quel frangente, infatti, per la prima volta nella storia d’Italia un tifoso perse la vita per una partita di calcio. “La follia dell’essere umano continua ad essere quella che è stata negli anni Quaranta: nonostante le grandi tragedie, l’uomo continua a distruggere tutto”: Marco Leonardi, qui nei panni di Ernesto, si è raccontato ai microfoni de ilGiornale.it a tutto tondo.
“La grande guerra del Salento” racconta un’Italia che cerca di rialzarsi dopo la Seconda guerra mondiale…
“È la storia di questi due paesini della provincia di Lecce, Supersano e Ruffano, rivali da anni. C’erano i ragazzi di Supersano che si trovavano le ragazze di Ruffano, senza dimenticare le ideologie politiche diverse. Il presidente del Ruffano era un fascistone, deluso dalla sconfitta, mentre il mio personaggio era un partigiano che aveva combattuto il fascismo. Il titolo del film è a dir poco azzeccato: dopo la partita, le due tifoserie se le diedero di santa ragione per giorni, con agguati di ogni tipo. Non parliamo di una scazzottata, ma di una vera guerriglia urbana. A quei tempi tutti erano in possesso di armi e i carabinieri trovarono sotto terra fucili, pistole e granate. Questo fa riflettere sulla natura dell’uomo”.
Dal 1949 ad oggi, non ci siamo evoluti così tanto…
“Non ci siamo evoluti per nulla. Pensiamo a questa guerra tra Russia e Ucraina. Dopo un periodo così tremendo per il mondo tra pandemia e crisi economica, ci mancava questa ciliegina”.
Dopo “Ultimo minuto” e “Maradona – La mano de Dios”, un altro film con il calcio protagonista…
“Quando mi chiamò Marco Pollini per ‘La grande guerra del Salento’, ho subito pensato a questi due film. Questa opera mi ha incuriosito tantissimo, anche perché è una storia vera. Che strano, ancora il calcio nella mia vita. Ma per quanto riguarda questo racconto, non mi sento di dare la colpa al calcio: il calcio è uno sport con delle regole, a volte si riscaldano gli animi, ma quello che accade fuori dagli stadi è solo una scusa per qualche deficiente per scaricare la rabbia. Una volta si menano per la politica, un’altra volta per un altro motivo: prendono qualsiasi pretesto per sfogarsi”.
Il problema è proprio l’uomo…
“La riflessione diventa triste quando pensiamo all’essere umano. Non ci siamo evoluti. Cosa è cambiato dal 1949 ad oggi? Niente”.
Tornando a “Nuovo Cinema Paradiso”, pochi giorni fa è morto Jacques Perrin. Che ricordo ha del grande attore francese?
“È stata una botta forte. Fa parte della mia vita, l’ho conosciuto. Era meraviglioso, una persona umile, elegante ed educato. Ci sono rimasto male. Non era neanche tanto anziano, è stata una notizia inaspettata. Ho avuto le stesse sensazioni quando è arrivata la notizia della scomparsa di Maradona (Marco Leonardi lo ha interpretato in ‘Maradona – La mano de Dios’, ndr): dopo averlo interpretato e conosciuto attraverso i materiali, è come se un pezzettino di me se ne fosse andato”.
Ha qualche rimpianto?
“No, non ho rimpianti. Tutto ciò che accade nella vita, bello o brutto, deve accadere. Tutto ciò che viene, lo accolgo e me lo coccolo. Dobbiamo passare anche attraverso le cose brutte, tutto rappresenta una crescita. Oggi sono molto più attento, mi capita spesso di dire di no se non sono convinto dal personaggio. Cerco sempre dei personaggi positivi, con dei messaggi giusti. Da questo punto di vista, il personaggio di Ernesto ne ‘La grande guerra del Salento’ mi piace molto: è molto attento, ha il suo carattere, ma non cade nei tranelli di questo fascistello con deliri di onnipotenza. Cerca di trasmettere qualcosa di positivo, dei principi sani”.
Ha lavorato con grandissimi registi, da Robert Rodriguez a Ridley Scott, passando per Dario Argento. Con chi le piacerebbe lavorare in futuro?
“Ce ne sono tanti, in Italia e nel mondo. Ho lavorato con tanti grandi registi. Ricordo volentieri Nanni Loy, Francesco Rosi, Alfonso Arau. A breve uscirà il nuovo film di Abel Ferrara, un’icona. Ho inoltre appena finito il film ‘Heroes & Villains’ di Michael D. Savvas, con Eric Roberts: sono l’unico attore italiano in un cast interamente inglese. Come del resto mi è capitato in ‘Maradona – La mano de Dios’: cast interamente argentino, ma Maradona interpretato da un italiano. E ti dico una cosa: quando sono andato a conoscere Marco Risi, gli raccontai che quando giocavo a calcio mi chiamavano Maradonino. Lui mi parlò dei provini in corso, io risposi subito: ‘Sì sì, fai tutti i provini che vuoi: tanto Maradona lo posso fare solo io’. Poi, durante le riprese, Marco mi disse che aveva già capito di dover scegliere me per la parte di Diego. Gli chiesi perché, lui mi rispose senza fronzoli: ‘Perché sei stato dolcemente sfacciato proprio come Maradona’. Il mistero, il caso, il buon Dio hanno voluto che alla fine interpretassi il Pibe de Oro”.
A proposito del buon Dio, che rapporto ha con la fede?
“Io sono più concentrato sulle azioni, sullo stile di vita. C’è chi parla tanto di spiritualità e poi fa una vita pessima. Io penso alle azioni giuste, cerco di comprendere cosa fa bene e cosa fa male, mi concentro sul bene comune. Ci sono delle virgolette ben precise in me, come essere sempre leale: tutto questo ripaga sempre. Come Ernesto, un uomo di buoni principi senza essere un fesso. Più che parlare di chiesa e preghiere, è più importante il comportamento di una persona”.
“La grande guerra del Salento” è un film legato fortemente al Sud, la sua terra…
“Io sono nato in Australia, sono cresciuto a Roma e ho vissuto nove anni negli States. Ma ogni volta che torno in Calabria mi sento a casa, più di qualsiasi altro posto. Bisogna avere rispetto della terra, della cultura: il Sud è casa mia”.
Ha un sogno?
“Io sono padre di due figli adolescenti, conosciamo i rischi del mondo. Il mio sogno è trasmettere principi sani, spero di essere capace di trasferirgli i valori giusti. Vorrei insegnargli le cose giuste e le cose meno giuste, mi auguro che abbiano un cammino sereno nella vita, indipendentemente da quello che faranno”.
Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 23 ottobre 2022.
Si racconta con sincerità, nel bene e nel male. «Quando si dicono le cose, si dicono. Se no, meglio non farlo», spiega Marco Masini, «sono abituato a dire le cose come stanno. Ringrazio Zibba (il cantautore Sergio Vallarino), mio compagno in questo viaggio». È un viaggio dentro sé stesso e nei ricordi l'autobiografia L'altalena - La mia storia (Mondadori).
Gli inizi, il successo, il rapporto con i genitori, la perdita della mamma, il padre Giancarlo che lo vorrebbe dietro una scrivania, l'amore per la musica, gli anni in cui una maldicenza oscena e inaccettabile («Masini porta iella») segna la sua vita. Nel 2001 una televisione risponde al suo manager che «il pezzo è molto bello ma il suo artista emana energie negative». «È servito tutto, non porto rancore, forse qualcosa ho sbagliato anche io», racconta il cantante, che ha firmato successi come Ci vorrebbe il mare, Ti innamorerai , Perché lo fai, Vaffanculo .
Esordisce a Sanremo nel 1990, vincendo nella sezione Novità con Disperato, scritto con Giancarlo Bigazzi e Beppe Dati. Nel 2004 trionfa tra i Big con L'uomo volante. A 58 anni è un uomo sereno, centrato, è uscito il Live at Teatro della Pergola, uno speciale box in edizione limitata con la registrazione del concerto acustico tenuto il 9 maggio 2021 in streaming dal teatro fiorentino, e sarà in tour fino al gennaio 2023.
Scrive che alla fine ha capito che "tutto è un'altalena. A volte ci stimiamo di più, a volte ci odiamo, altre ci consideriamo colpevoli senza aver fatto nulla, altre ancora ci sentiamo innocenti anche se sappiamo di aver fatto un grandissimo casino".
Il libro è stato una terapia?
«Zibba è stato un grande psicologo. Non ci sono mai andato nella mia vita, un mio amico, che lo fa di mestiere, mi ha detto: ti va di venire? Aiuta. Sono abbastanza psicologo di me stesso, credo.
Con Zibba abbiamo trascorso giornate tirando fuori tutto, l'amicizia ti fa sentire più libero, ti fa aprire e confessare anche le cose più dolorose e intime. L'amicizia mi ha portato a scrivere canzoni e fare questo viaggio introspettivo. Abbiamo scritto parlando e anche dopo aver visto una partita».
Si capisce che suo padre ha avuto un ruolo fondamentale.
«È un uomo che ha deciso la mia vita e l'ha gestita. È riuscito a far esprimere al massimo la mia predisposizione ma in un percorso equilibrato, usando il bastone e la carota. Anche se la carota arrivava da mia madre. L'ho persa quando avevo a 18 anni, a quell'età ho capito cosa dovevo fare. Ma avevo cominciato a fare musica da professionista a 14. Il lato logico ed emotivo sono stati dosati nella maniera giusta da una grande istintiva, mamma, e da un uomo di ghiaccio, papà, che sapeva coerentemente indirizzare».
Cosa le ha insegnato?
«Che tutte le cose vanno affrontate con freddezza, strategia, e che il vittimismo e lamentarsi portano in un vicolo cieco. Papà, Giancarlo Bigazzi e ci metto un altro Giancarlo, Antonioni, che giocava a testa alta, mi hanno insegnato che nella vita ci vuole molta pazienza. Bisogna saper resistere e credere nella relatività del tempo: quello che accade non esiste, basta solo saper aspettare».
Più facile a dirsi che a farsi. Nel periodo di "Masini porta sfiga" - ne parla a lungo nel libro - come si sentiva?
«Come se avessi subìto una condanna ingiusta. Ma era una moda, e purtroppo si fa ancora. Il bullismo è sempre esistito e la cosa grave è che le dicerie nascono spesso come uno scherzo, poi nel caso di un personaggio pubblico si ingigantiscono. Se ti metti a nudo pubblicamente devi essere pronto a ricevere le critiche e venirne fuori con forza e consapevolezza, come ho fatto io. Il tempo comanda e cambia tutto. È la mia filosofia».
Arriva a dire che se non avesse subìto quello che ha subìto, non avrebbe scritto certe canzoni ?
«Le difficoltà ti rendono più forte, senza quel periodo infelice forse non sarei venuto fuori. Si cresce, anche quello è servito, non ho odiato nessuno. Attribuire la colpa agli altri, serbare rancore, sarebbe un modo sbagliato di vedere le cose».
Ma non può assumersi la colpa per l'idiozia e la cattiveria altrui.
«Forse certi miei atteggiamenti, difendere un mondo che apparteneva a una generazione, il disagio, non sono stati capiti. Era un mondo in frantumi, venivamo da Tangentopoli, dalla perdita di ideali. C'era una dispersione totale di forze, per questo le mie canzoni hanno colpito molti cuori. Sono stato il leader di una generazione che ha perso fiducia in sé stessa».
Gli amici veri, Carlo Conti, Giorgio Panariello, l'hanno aiutata.
«Ma anche altri, meno famosi. Gli amici ti danno indicazioni; la forza devi trovarla nella tua parte più lucida che deve guidarti nella vita. Altrimenti non cresci, rimani sempre un bambino che si sente sfrattato da un sogno. Non è così, il posto meraviglioso in cui vivere dipende solo da te, da come lo mantieni».
Il momento più bello della vita?
«Quando cresci e hai la consapevolezza di chi sei. Quando sono tornato a casa con i primi soldi guadagnati con la musica, una rivincita nei confronti di mio padre: avrei potuto non fare il ragioniere e vivere del mio sogno. Bisogna proiettarsi nel futuro, per questo amo stare con i giovani, da loro si può imparare tanto, non devi rimanere nel buco nero della nostalgia».
In chiusura del libro dà un consiglio: "Non permettete mai agli altri di dirvi chi o cosa siete, dimostratelo innanzitutto a voi stessi" .A lei hanno detto chi doveva essere?
«Tutta la famiglia mi vedeva dietro una scrivania, poi qualche maestro di pianoforte ha capito e ho seguito l'istinto. Non va tradito».
"Mi dicevano che portavo sfortuna...": Masini si toglie qualche sassolino. Novella Toloni il 29 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il cantautore fiorentino è pronto a tornare dal vivo, ma in attesa di salire sul palco si è raccontato tra presente e passato e si è tolto qualche sassolino dalla scarpa.
"Sono contento del cammino che ho fatto". Marco Masini non ha nessun rimpianto sulla sua carriera, che lo vede festeggiare il trentennale dagli esordi. Con ventidue album all'attivo, oltre venti tour in giro per l'Italia e l'Europa, nove festival di Sanremo e tre libri, il cantautore toscano è uno dei simboli della musica italiana. Ma il suo percorso non è stato sempre facile. A pesare sono state le prove personali vissute dall'artista e quelle accuse da parte di molti appartenenti al mondo dello spettacolo di portare sfortuna.
Dopo oltre trent'anni di onorata carriera, Marco Masini oggi si dice soddisfatto del suo percorso musicale e guarda al passato senza nostalgia: "È bello riguardarsi da ragazzi con spensieratezza ma senza fare paragoni, perché nel mezzo è intervenuto quel fattore così tanto determinante e autorevole che si chiama 'tempo”, che ha cambiato tutti noi e anche me". Negli anni '80 e '90 le sue canzoni "Disperato", "Bella stronza", "Vaffanculo" e "Perché lo fai" parlavano al cuore dei giovani e raccontavano di disagi e dolori. "Era un periodo molto particolare. Andavamo alla ricerca di qualcosa che ci portasse fuori da un diffuso disagio generale. Pensieri e sentimenti che giravano intorno a un disagio rabbioso e crudo. Io almeno ero così, e non avevo i social con cui sfogarmi", ha rivelato l'artista nel corso dell'ultima intervista rilasciata al Corriere della sera.
Lutto per Marco Masini: morto il papà Giancarlo
Masini con le sue canzoni malinconiche e tormentate si era fatto portavoce dei disagi vissuti dalle generazioni di allora. Ma c'è stato un momento in cui i suoi sofferti testi hanno scatenato le malelingue. Anni bui nei quali il cantautore è stato messo in disparte, tacciato di portare sfortuna, un po' come era successo con Mia Martini. Nel corso degli anni, in più di un'occasione, Marco Masini è tornato a parlare di quel periodo difficile, ma oggi si è tolto l'ultimo sassolino dalla scarpa: "Ho una grande fortuna che è quella di non aver mai provato odio per nessuno. Ho sempre sfruttato qualsiasi situazione, anche la più difficile, per crescere e imparare. Quello che conta è migliorarsi, e tutto quello che ha contribuito a rendere difficile la vita mi ha fortificato e mi ha portato a scrivere canzoni più 'forti'. Forse ne avrei scritte di più brutte se non avessi passato quei momenti bui, non avrei superato le difficoltà che avevo nell'incontrare di nuovo la gente".
Per quel periodo Marco Masini non ha mai incolpato nessuno, ma ora preferisce vivere pienamente il presente e guardare al futuro con rinnovato ottimismo. "Voglio riprendere a guardare le storie delle persone che tornano alla vita: storie di amore e di aggregazione, di grande felicità e di grande dolore. È il mio ricominciare", ha concluso il cantautore, svelando di essere nel pieno della vena creativa, che porterà presto a nuovi brani.
Marco Marzocca fa 60: “ora interpreto me stesso”. Nicola Santini su L’Identità il 22 Novembre 2022
Televisione, teatro e radio e una fucina di idee sempre in grande fermento. È un periodo pieno per Marco Marzocca che ha da poco compiuto sessant’anni.
Il comico è nato a Roma, dove ha frequentato la scuola per poi iscriversi all’Università “La Sapienza” e laurearsi in Farmacia.
Dopo aver lavorato per alcuni anni come farmacista, ha iniziato la sua carriera nel piccolo schermo a partire dal 1994, debuttando in modo ufficiale nel mondo dello spettacolo con il programma televisivo “Tunnel” trasmesso su Rai 3. In questo contesto, ha lavorato con Corrado Guzzanti.
Successivamente, pur continuando a lavorare come farmacista, ha partecipato ad altri programmi televisivi come “L’ottavo nano” o “Il caso Scafroglia”. Ha, poi, iniziato a recitare in alcune serie tv come “Distretto di Polizia”, fiction in cui interpreta il poliziotto Ugo Lombardi, noto per la sua personalità naif.
Nel 2006, è entrato a far parte del cast di Zelig e non si è più fermato. Il poliedrico attore e conduttore, tra un impegno di lavoro e l’altro, si racconta a L’Identità.
Marco, ti stiamo vedendo nel cast del programma “Una scatola al giorno” su Rai2…
Si tratta di un nuovo format e non tutti hanno capito che non si tratta di un vero e proprio gioco ma della parodia del classico gioco televisivo. Sul set c’è un clima bellissimo perché ho l’opportunità di lavorare con un gruppo di autori fantastico, capitanato dal capoprogetto Pietro Galeotti. Paolo Conticini, il conduttore di “Una scatola al giorno” è una persona carinissima, così come lo è Francesca Manzini, la mia compagna di banco. Devo riconoscere che, da quando faccio questo lavoro, è una delle prime volte che ho avuto la completa libertà di fare tutto quello avevo in mente dal punto di vista artistico. Spero di continuare a lavorare con questa squadra ancora per tantissimo tempo.
Su Rai Radio2, invece, sei al timone di “Soggetti Smarriti” con Francesco Vercillo: è più difficile far ridere attraverso la radio?
No, al contrario credo sia più facile. Perché la radio è estemporaneità. Partendo da una scaletta, noi spesso la stravolgiamo sulla base della nostra capacità di improvvisazione e dal volere del pubblico. Dopotutto, la nostra è una bella chiacchierata tra amici. Oltre a Francesco Vercillo, nel cast, c’è anche Simona Banchi che interpreta Raimonda, la nostra “badante vocale”. Siamo molto contenti dei risultati finora ottenuti.
Stai portando in tournée teatrale “Ciao Signò”, in compagnia di Stefano Sarcinelli: uno spettacolo che ti sta dando tante soddisfazioni…
Sono molto contento della risposta del pubblico. Ma non è l’unico progetto che mi sta vedendo sul fronte teatrale. Con Sarcinelli e Leonardo Fiaschi, infatti, abbiamo dovuto momentaneamente sospendere una commedia che s’intitola Due botte a settimana, per via dei vari impegni lavorativi di noi tre. Altrettante soddisfazioni mi sta dando “TutAriel”, che prende spunto dalle 30 scenette divertenti che è ancora possibile trovare su RaiPlay.
Oltre a questi già numerosi impegni teatrali, stai sperimentando un tuo one-man-show…
Sto testando un monologo che s’intitola Chi me lo ha fatto fare. E’ il mio fiore all’occhiello, che sta andando benissimo. Tutti gli esperimenti che abbiamo fatto finora hanno avuto un riscontro molto positivo, perché il pubblico sta dimostrando di apprezzare questo mio modo di raccontare. Porto in scena la mia storia e i miei continui cambiamenti: da perito in elettronica sono poi diventato farmacista fino ad attore, autore e conduttore radiofonico. Nel corso degli anni ho fatto anche doppiaggio e cinema. Insomma, ne ho fatte di cotte e di crude e mi piace raccontarle in chiave super divertente.
Prossimamente, invece, ti vedremo nella serie “Sono Lillo”, presentata all’ultima Festa del cinema di Roma: cosa puoi anticiparci?
Io, Lillo, Corrado Guzzanti siamo davvero amici per la pelle e ci frequentiamo, nella vita privata, da più di vent’anni. Sul set è come se ci fossimo limitati a interpretare noi stessi, che è il ruolo più divertente.
Marco Mengoni: «Nonna, mamma e zia erano bellissime, ma si vedevano brutte e difettose. Il dismorfismo è una malattia». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022
Il cantautore si racconta a 7: «Quante volte le ho sentite dire “quanto so’ brutta”. È un problema di famiglia. Io ho lavorato su me stesso». E confessa: «All’inizio della carriera non capivo cosa vedessero e cosa capissero gli altri di me»
Marco Mengoni, cantautore, è nato a Ronciglione, in provincia di Viterbo, il 25 dicembre 1988. È stato il primo artista italiano a vincere il Best European Act agli MTV Europe Music Awards nel 2010 e nel 2015 (foto Alessio Boni)
Non dite a Marco Mengoni che è bello. «Potrei rispondervi in tono finto stizzito...». Non fatelo, ma lui è così. «È un atteggiamento figlio della mia storia psicologica... Tutta colpa del dismorfismo, un problema di famiglia». Una giornata nella sua casa milanese, in mezzo a un tour sold out nei palazzetti che, in parallelo all’uscita di Pelle , secondo album della trilogia Materia, aggiungerà traguardi ai 64 dischi di platino e 1,7 miliardi di stream in 10 anni di carriera, e il cantautore si racconta.
Il dismorfismo è un disturbo che ci fa percepire difetti inesistenti o più grandi di quanto non siano in realtà. Ci racconta le sue origini?
«Sono cresciuto in una famiglia matriarcale. Nonna Iolanda è rimasta vedova presto e ha fatto la mamma, la nonna e la manager del negozio di famiglia a Ronciglione. Ci teneva all’apparenza, sempre precisa nel trucco e nei capelli, quasi caricaturale. Lei, mamma e zia erano donne bellissime che però nell’intimità soffrivano vedendosi piene di difetti. Si buttavano giù. Quante volte le ho sentite dire “quanto so’ brutta”. Mamma ha delle bellissime gambe e non si è mai messa la gonna, per vergogna...».
A lei i complimenti davano fastidio anche da teenager o è una conseguenza del successo perché temeva che avrebbero coperto il talento?
«Da ragazzino proprio no, nel senso che non pensavo proprio di poter avere appeal. Pesavo quei 106 chili, avevo i capelli lunghi che mi coprivano gli occhi quasi a non voler far individuare il mio stato d’animo. Più avanti ho fatto fatica a capire il confine fra bellezza oggettiva e soggettiva proprio per il dismorfismo, che è una patologia, e così ho iniziato a lavorare su me stesso. È stato difficile accettare che gli altri mi vedessero bello e anche nel mio percorso di analisi e terapia ci siamo incagliati su questo. Alla fine fa piacere sentirselo dire, però penso che la bellezza sia quel condimento in più in un piatto che deve essere già buono».
Due tappe della carriera di Marco Mengoni: qui la vittoria al talent X Factor nel 2009; sotto, la vittoria al Festival di Sanremo nel 2013 con il brano «L’essenziale»
La musica l’ha aiutata?
«All’inizio della carriera non capivo cosa vedessero e cosa capissero gli altri di me. Dopo X Factor in molti pensavano che sarei stato il classico personaggio uscito da un talent che si sarebbe bruciato subito. Non capivo se c’era qualcosa che volevo veramente condividere con gli altri. Ho scoperto che la musica è un mezzo potente, che mi ha aiutato ad alleviare tanti momenti di una vita non facile».
Quali?
«Non sono cose di cui amo parlare, ma non sono mai riuscito a dire “ecco, adesso sono fermo e tranquillo”. Ci sono state esperienze che ho vissuto con un trasporto emotivo importante, sono stato punzecchiato dalla vita e dal karma. Certe esperienze non le vuoi vivere, o vuoi viverle in età più matura... Ho perso delle persone e ho passato mesi a non guardare più i messaggi e le foto per non avere ricordi. Mi ha aiutato dedicare un giorno alla settimana a me stesso, ai miei pensieri e alla mia emotività. Lo faccio con una terapista. E poi mi dedico a respirazione, meditazione, mindfulness».
L’anno scorso all’uscita di Materia ( Terra ) ha detto di aver preso a schiaffi le sue paure. Scomparse?
«In questi due anni ho imparato a dare il peso giusto alle cose. Se ne è andata anche quella di addormentarmi che era legata alla paura di perdere il controllo. Nella fase di sonno si attiva una zona del cervello che dà sfogo alla parte emotiva. Ancora oggi a volte ci vado in conflitto. E quando accade si riversa pure sul fisico e mi si incricca la schiena... Mi resta forse la paura di perdere i punti di riferimento, ma per fortuna ci sono persone che mi tengono ancorato».
Sua mamma è una di quelle? In Pelle le ha dedicato Respira , inno alla forza della figura materna, e in Terra c’era una canzone per lei.
«Di più, le ho dedicato entrambi i dischi. Un rapporto di amore e conflitto. Lei è al centro di dinamiche familiari ed emotive che mi tengono in focus. È una donna che ha studiato tanto, le piace sapere tutto. Ma veramente tutto, dalla teologia al ricamo. E se le scoppia una passione approfondisce l’argomento. Avendo così tante competenze si convince di avere sempre ragione e lì partono i conflitti. Resta comunque una supereroina, una donna con forza incredibile e non me ne voglia papà».
Com’è papà Maurizio invece?
«Rappresenta la parte terrena e l’istinto, mamma quella cerebrale e spirituale».
Il primo ricordo di famiglia?
«Ho il cervello fatto male e la memoria si perde... Mi ricordo di mio nonno paterno, Sestilio, e della malinconia del Natale. Sono nato il 25 dicembre e non ho mai avuto la festa di compleanno. Da bambino avevo un po’ di invidia per gli altri amichetti... Adesso festeggio quando mi pare, invito gli amici e cucino io».
Cosa prepara chef Mengoni?
«Lasagne coi funghi ma fatte con pane carasau, la parmigiana e soprattutto i supplì, che qui a Milano non si trovano da nessuna parte».
Ritorni al nonno. Che faceva con lui?
«I miei genitori lavoravano molto e sono cresciuto con lui. Mi portava a scuola, a fare gite al lago di Vico, stavo con lui nell’orto e in campagna dove c’erano molti animali. Odio le oche perché quando i miei mi tolsero il ciuccio dissero che se l’era portato via una di loro. Ho visto anche cose orribili per un bambino... un pollo a un certo punto va anche mangiato... ma quelli del nonno facevano una fine migliore di quella che oggi gli riservano gli allevamenti intensivi. Serviva a metterti davanti a una realtà forte, ad avere rispetto per la natura. Nonno era un soggetto popolare, era romanista e frequentava un club. Me lo ricordo sempre pieno di fumo. Giocava a carte con gli amici e alla fine mi comprava il Mordicchio, un dolcetto fatto di arachidi caramellate con una confezione gialla e rossa».
Il primo ricordo musicale?
«In famiglia c’era molto talento, mamma cantava nei pianobar, zio suonava la chitarra e organizzava concerti jazz... Alle medie mamma mi obbligò a prendere lezioni di pianoforte. Non sopportavo i solfeggi... All’epoca avevo l’hobby del cavallo, ereditato invece dal ramo paterno. Un giorno papà mi portò una nuova cavalla, una tre quarti imponente e abbastanza nervosa. Eravamo in un noccioleto e lei a un certo punto partì per una cavalcata senza fine. Furono dieci minuti brutti, avevo perso le redini ed ero aggrappato alla criniera. Davanti a un ruscello lei si bloccò, smontai e quando mio padre ci raggiunse gli consegnai le briglie e dissi “mai più”. Tornai a casa a piedi. Mollato il cavallo chiesi di prendere lezioni di chitarra. Quindi arrivano le prime amicizie con la stessa passione e a 13-14 anni fondiamo la prima band, The Brainless. Facevamo rock, punk, cover dei Deep Purple e inediti».
Ha scoperto lì la voce?
«No, ero alle tastiere e ai cori. In quei tempi qualcuno iniziò a notare la mia voce e un giorno mamma, sentendomi provare in cameretta, disse “forse dovresti cantare”. Arrivò così un altro gruppo, The Play Mars. Cominciavo a divertirmi, era uno sfogo. Per sostenere la passione investivo i soldi guadagnati nei lavoretti, tipo pulire i cessi dei ristoranti di qualche amico di famiglia durante l’estate, per comprare casse, cavi e strumentazioni varie».
La più grande cavolata che ha fatto quando invece ha iniziato a guadagnare bene?
«Nonno e papà mi hanno insegnato a essere misurato. Vorrei spendere, ma non riesco. Mia cugina, che segue i miei conti, mi dice che ogni tanto dovrei anche portarle qualche fattura. Il massimo è la spesa per colori a olio particolari o pennelli. A proposito di spese non fatte, mi sono confezionato pure le tende di casa con una macchina da cucire (va anche a prenderla per mostrarla ndr ). Nonna era sarta...».
Sua cugina le segue i conti. Ha scelto una persona di fiducia perché in passato ha incontrato il Gatto e la Volpe?
«Forse ero io troppo Pinocchio. Dovresti controllare tutti i fogli che firmi e all’inizio non mi interessavo, sbagliando, di questi lati del mestiere».
Il successo a 18 anni. E le conseguenti responsabilità. Crede di aver perso qualcosa della vita di un ragazzo?
«Per forza, ma chiunque scelga un percorso perde qualcosa. Gabriele, il batterista dei Brainless con cui siamo amici dall’asilo, ha scelto di fare il medico per la Marina militare. Mi ricordo telefonate in lacrime perché l’accademia era durissima. Anche lui si è privato di qualcosa. Io ho un faro puntato, sono nell’occhio di bue, ma faccio una vita tranquilla. Sono un ragazzo calmo, come calmo ero da bambino».
Si è iscritto all’università. Psicologia.
«Ho avuto problemi a gestire le fasi post tour: tornavo a casa, felice per qualche settimana e poi avevo un crollo. Mi sentivo perso e scappavo per un viaggio. A un certo punto avevo preso casa a New York, il volo avrebbe dovuto essere il 10 marzo 2020 e tre giorni prima hanno chiuso l’Italia... Avevo bisogno di qualcosa per tenere allenato il cervello e la paura degli esami che ricordavo dall’unico anno che ho frequentato in passato era la sola che mi dava l’ansia del pre-concerto. Una tensione che mi fa sentire che esisto».
Come vanno gli esami?
«Psicologia 1 è andato molto bene, anche Antropologia che mi ha portato su percorsi che in parte ho riversato nelle canzoni di Pelle . Male, invece, Inglese. Bocciato. Ci sono andato un po’ da sbruffone, pensando che sapendolo parlare bene l’avrei passato facilmente. Allo scritto invece sono caduto sulle quattro forme di condizionale. E anche su altre cose in realtà».
Lei ha omaggiato le sue radici black nella prima parte del progetto, in Pelle c’è una parte di canzone italiana ( Caro amore lontanissimo , inedito di Sergio Endrigo che è la colonna di Il colibrì , film di Francesca Archibugi tratto dal romanzo di Veronesi; un duetto con Samuele Bersani) e la sua apertura alla contaminazione e alla diversità. In Unatoka Wapi il ritornello è in swahili, in America l’accuserebbero di appropriazione culturale.
«Per quel brano ho collaborato con Clap Clap, produttore che è un’autorità in materia di percussioni africane, ha studiato l’afrobeat sul posto, il suo è un gesto d’amore. Sarebbe espressione dell’estremismo di questi tempi se si parlasse di appropriazione culturale. Ci sono confini terrestri ma credo che la musica debba essere senza».
Il politicamente corretto è un estremismo?
«Il discorso è delicato. Ho paura degli estremismi, ma certe battaglie devono passare per una forzatura. Le rivoluzioni hanno momenti di picco dopo i quali, ottenuti i risultati, si può allentare la presa».
Aveva fatto un appello per andare al voto il 25 settembre. Il risultato delle urne la soddisfa?
«Vedo qualcosa che mi spiace ed è l’astensionismo. Il voto è il momento in cui puoi esprimere potere sul tuo futuro. E poi che dico... auguri. Non mi nascondo: c’è stato un voto e non condivido certe posizioni di chi si appresa ad andare al governo. Spero vengano presi provvedimenti utili e che non si regredisca su temi come i diritti, la libertà della donna di fare del corpo ciò che vuole... Se cambiano queste cose mi incazzo e scendo in piazza pure io. Siamo nel 2022, non dimentichiamocelo, e non si torna indietro».
Porta un anello con un’effigie. Chi rappresenta?
«San Gennaro, regalo di un amico napoletano. Lui dice che porta fortuna. Io dico che male non fa... Non sono mai stato superstizioso, al limite mi diverte stare attento a passare il sale appoggiandolo sul tavolo».
Quest’estate il debutto a San Siro e all’Olimpico, ora il tour sold out nei palazzetti e ancora stadi la prossima estate: emozioni e paure diverse?
«I palazzetti mi hanno fatto compagnia per anni, vedi più occhi, la reazione è immediata. Gli stadi sono un’onda che ti sposta ma non li ho ancora metabolizzati: non ho avuto paura, ma so solo che ho buttato nel cesso la mia professionalità, non sono riuscito a controllare l’emotività davanti a questo muro di energia, non riuscivo a proferire parola quando dovevo parlare. Non so fingere».
Le piacerebbe? Pinocchio sarebbe completo...
«In università ho scoperto il libro Mentire - Tutti lo fanno, anche gli animali e vorrei essere capace di confezionare una bugia».
A proposito di paure, passata quella per il cavallo?
«Quando papà andava a curare i cavalli, mamma era così timorosa che rimaneva chiusa in macchina. Un giorno li ha montati per superare delle sue paure personali. E io ho pensato: ce l’hai fatta tu, ce la devo fare anche io. Ci sono tornato. E ci siamo riappacificati con papà».
Marco Mengoni, il nuovo album «Materia (Pelle)» e un tour negli stadi: «Viva la diversità: ho scoperto che per il 16% sono mediorientale». Il Corriere della Sera il 6 Ottobre 2022. (Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza le firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale)
Il cantautore è ripartito live dai palazzetti e in estate tornerà nei grandi spazi
Un test del dna e l’iscrizione all’università. Scavando dentro a «Pelle», secondo episodio della trilogia «Materia» (7 ottobre), si arriva anche a quello. Il test Marco lo ha fatto per gioco. «Ne è uscito che ho solo il 35 per cento di italiano. Mi ha colpito. A seguire ho un 16 per cento di iraniano-iracheno. Mi sono sentito legittimato a proseguire nel progetto che avevo di fare un disco contaminato. Da qui esce la mia anima curiosa che tiene alla ricerca, al conoscere qualcosa di diverso, all’arricchirsi nella diversità», raccontava Marco alla vigilia del tour nei palazzetti arrivato l’altra sera al Forum di Assago in cui ha riadattato lo show kolossal di San Siro e dell’Olimpico di quest’estate che tornerà negli stadi l’anno prossimo (il 20 giugno a Padova, il 24 a Salerno, il 28 a Bari, il 1 luglio a Bologna e il 5 a Torino). L’università, invece, l’ha presa sul serio. «L’anno scorso mi sono iscritto a Psicologia. Mi hanno segnato molto gli studi antropologia, ad esempio quelli di Paulo Freyre. Mi ha aperto alla lettura, prima ero uno da gialli, al massimo Vargas…»
La diversità è il tema di «Unatoka Wapi», titolo in swahili che significa da dove vieni…
«Per questo brano ho scelto Cristiano Crisci come produttore, un’autorità in tema di percussioni africane. A un certo punto mi dice “c’è un problema etico”. Il testo era in lingua swahili, il ritmo era zulu. Abbiamo cambiato il pezzo. Per il disco ho pescato molto nella zona dell’equatore e ne sono nati vestiti allegri spesso anche per brani che affrontano temi profondi. Per il testo mi ha ispirato leggere Frantz Fanon, antropologo e psichiatra anticolonialista che nei suoi lavori affrontava il tema della dignità della persona. Ho immaginato una persona che parte, lascia gli affetti, ma anche un mondo senza libertà. E c’è una voce che gli chiede da dove venga, una domanda che non è fatta per conoscere ma ha già dentro un pregiudizio.»
È un pezzo politico?
«Sociale più che politico. Spero che sul tema ci sia un dibattito positivo che possa portare a un’apertura. Apertura è la parola chiave del disco, l’apertura ti apre alla conoscenza e ti fa uscire dall’ignoranza.»
«Terra» esplorava le sue radici black, ora tocca alla contaminazione di «Pelle»… La sua pelle?
«Un foglio bianco su cui mettere tutto quello che hai vissuto. Nella mia vedo un sacco di difetti, ma sono quelli che mi rendono unico. La vedo mutare insieme a me. Questa trilogia è un work in progress. So che in quest’epoca di singoli sembra un progetto anacronistico. Del resto pure quelli del mio team mi hanno preso in giro perché ho usato la parola “ciarpame” in un testo. Tutto questo secondo episodio dà peso alla parola, al verbo. Pure verbo è un termine anacronistico, l’ho ereditato da nonna che lo usava spesso».
La Rappresentante di Lista, Samuele Bersani e Bresh come feat; produttori come Drd, Mace, Sixpm, Zef e Marz. Per compensare all’anacronismo anche lei segue la moda delle session di scrittura? Ci si trova e in una giornata deve nascere un brano altrimenti lo si butta via?
«Nooo. Secondo me in quel modo ti dai dei codici e delle limitazioni. In situazioni del genere non riesco a proferire parola, preferisco un ambiente rilassato. Con Fabio Ilacqua con cui collaboro ai testi lavoriamo così: ci troviamo a casa sua, lui stappa una birra anche se è mattina, leggiamo poesie, pranziamo insieme e se non nasce qualcosa amen.»
Con Bersani c’è distanza anagrafica e musicale, «Ancora una volta» è un pezzo dove il folk incontra orchestrazioni: dove vi siete trovati?
«Ci siamo conosciuti 10 anni fa, e da allora è un amico che mi fa ridere. Se pubblicassi le nostre chat saremmo i nuovi Sandra e Raimondo. Gli avevo mandato questo brano per chiedergli un giudizio e lui mi ha chiesto di poterne fare parte.»
« Caro amore lontanissimo» è un inedito di Sergio Endrigo che sarà nella colonna sonora del film «Il Colibrì» di Francesca Archibugi…
«Me lo ha proposto qualche anno fa la figlia Claudia, alla musica ci ha lavorato Riccardo Sinigallia. Ho pianto quando l’ho provinata. È qui quel terzo di italianità, cosa c’è di più italiano di Endrigo? Non c’è più quell’approccio alla scrittura.»
"Da Endrigo a Bresh ora vi presento un disco contaminato nel tempo e nei suoni". L'artista pubblica l'album "Materia (Pelle)" mentre inizia (bene) il tour dei palasport. Paolo Giordano il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Di certo lui non si ferma. Dopo aver tenuto uno dei migliori concerti estivi negli stadi, Marco Mengoni pubblica un altro disco proprio mentre debutta al Forum di Milano con un altro tour, quello nei palasport, rigorosamente quasi tutti esauriti. Il disco, che si intitola Materia (Pelle) ed è il secondo di una trilogia iniziata l'anno scorso, è un passo avanti, e mica piccolino. Invece il concerto è la conferma che questo artista così riservato e così controtendenza, ha trovato la dimensione giusta. Dentro di lui, ribolle senz'altro il magma dell'insicurezza e della curiosità. Ma, seguendolo durante il concerto, l'impressione che Marco Mengoni regala alla platea è quella di chi sa guidare un concerto mescolando la propria intensità con quella che gli rimanda il pubblico. «Tra le mie parole chiave c'è senza dubbio contaminazione», dice poco prima di confermarlo entrando in scena dalla platea e trasformando il Forum in un piccolo stadio costruito con i mattoni del soul, del gospel, del cantautorato e dell'entusiasmo del pubblico, tanto entusiasmo. La scenografia è quella riveduta e corretta di San Siro e Stadio Olimpico a luglio. E la scaletta ha già quattro brani del nuovo disco «tanto il pubblico delle prime file di sicuro li conosce già a memoria». E in effetti è così: quando Mengoni sale sul palco si celebra un rito nel quale tutti sono ammessi ma che solo i veri fan sanno decifrare istante dopo istante. E non capita tanto spesso in quel caravanserraglio usa e getta che è ormai il pop.
Scusi Mengoni, definisca il disco in poche parole.
«C'è sempre maggiore attenzione».
Ossia?
«Faccio un esempio. Quando ho consegnato al produttore Cristiano Crisci il provino del pezzo Unatoka Wapi, che secondo me è uno dei cardini del disco, lui mi ha fatto questa obiezione: Unatoka Wapi in lingua swahili significa da dove vieni. Ma la ritmica del brano appartiene alla musica zulu. Questo è il mio modo di intendere la musica: ricerca e competenza, oltre che ispirazione».
Nel disco ci sono tre ospiti.
«Il primo, che è anche l'ultimo in scaletta, è Samuele Bersani. Gli ho mandato la base del pezzo Ancora una volta per avere un consiglio, lui mi ha risposto entusiasta che gli sarebbe piaciuto farne parte e così è nato tutto, nella massima naturalezza».
E la rivelazione Bresh in «Chiedimi come sto»?
«Intanto diciamo che come stai ha perso il suo significato ed è diventato essenzialmente un intercalare. A me piacerebbe che qualcuno mi chiedesse davvero come sto. E credo che piacerebbe a tutti».
Bresh?
«Ci siamo conosciuti all'Arena di Verona ed è nata un'alchimia strana. Per fare quel brano, ci siamo ritrovati per dieci giorni di seguito in studio, a dimostrazione che c'era un'atmosfera particolare, più o meno come era accaduto nel disco precedente con Madame, altro talento puro. In Chiedimi come sto io ho un po' rappato, lui ha un po' cantato, una bella mescolanza».
Come sta Marco Mengoni?
«Contento, stanco, con le difese immunitarie bassissime per tutta la fatica fatta con tutto l'entusiasmo che ho e nonostante un intervento al ginocchio che è stato un bel guaio».
La Rappresentante di Lista in «Attraverso te»?
«Beh loro due sono una delle realtà più belle in circolazione».
Nella scaletta del cd c'è anche un inedito di Sergio Endrigo,«Caro amore lontanissimo».
«Me lo ha affidato sua figlia Claudia e, per me, in questo disco rappresenta il ritorno a casa, dopo aver fatto il giro del mondo. Fa parte della colonna sonora de Il Colibrì, il film di Francesca Archibugi in uscita tra pochi giorni».
Mengoni, cosa pensa dei social?
«Che sono come lo specchietto retrovisore di una macchina. Sono importanti ma rappresentano solo una frazione della realtà».
Da Muhammad Alì a Frida Kahlo, ogni suo disco ha una sorta di nume tutelare. Stavolta è Pablo Neruda nella canzone «Neruda».
«Sì mi piace mettere in musica i miei punti di riferimento».
Se li porterà idealmente anche nei concerti negli stadi di Padova, Salerno, Bari, Bologna e Torino della prossima estate?
«Magari non tutti in scaletta ma sono sempre con me».
· Marco Sasso è Lucrezia Borkia.
Mariachiara Giacosa Da repubblica.it il 26 luglio 2022.
Autunno 2020. I teatri chiusi per le norme anti-Covid, gli show vietati, i costumi di scena (e che costumi!) chiusi nell’armadio, a prendere polvere. Trucchi e fard sempre più secchi, e le performance, quasi sparite dalla memoria. È in quel momento che Marco Sasso – 36 anni, milanese d’origine, ma torinese d’adozione da quasi un decennio – decide di mettere da parte, ma solo per un po’, lo spettacolo, e cercare un lavoro “normale”.
«Può sembrare banale, ma dopo tutti quei mesi avevo bisogno di un lavoro che non risentisse degli effetti del lockdown e che mi desse da mangiare – racconta –. Una mia amica lavorava da Amazon e mi ha convinto ad inviare il curriculum vitae. Non avevo grandi speranze e invece mi hanno preso. Da fine 2020 sono magazziniere a Brandizzo».
Nel tempo libero, però, Marco Sasso è Lucrezia Borkia: la drag queen nata nel 2015, «quando sono tornato al teatro dopo il lutto per la perdita di mia madre». Lucrezia Borkia è una drag giunonica, conosciuta anche come “la gianduiotta”, quando rappresenta il Piemonte negli eventi e nelle kermesse nazionali. È conduttrice, indossatrice curvy, cabarettista e show girl. Nel 2021, prima del Covid, ha partecipato allo show televisivo Italia’s got talent, grazie al quale l’arte delle drag queen è sbarcata sul piccolo schermo.
Marco il palcoscenico ce l’ha nel sangue. Il padre fotografo. Il nonno era sarto alla Scala, seguiva le opere liriche e vestiva le soubrette del sabato sera in Rai quando la tv era ancora in bianco e nero. «Quando ero bambino mi nascondevo sotto le gonne dei costumi delle cantanti di scena». Anni di studio di musical, danza e teatro e poi, dopo la sofferenza per la perdita della mamma che aveva segnato uno stop alla sua arte, la svolta e il coraggio di portare in scena Lucrezia, una drag queen che è icona di esuberanza, colore e divertimento.
Tacchi alti, trucco da diva, parrucche, paillettes, corsetti, gioielli e abiti scintillanti. «Certo qualcosa di molto diverso dall’immagine del magazziniere di una multinazionale» ammette Marco per il quale però, l’esperienza nella multinazionale delle vendite online, «è un modo per restare incollato alla realtà di tutti i giorni».
Della sua passione per il teatro, e del suo personaggio drag, Marco non ha fatto mistero nel curriculum e nemmeno con i colleghi. «In realtà mi spaventava di più l’idea che potessero scambiare il mio essere entusiasta e solare per una posa, ma io sono così davvero e cerco di portare questa mia caratteristica anche sul lavoro».
Discriminazioni racconta di non averne mai subite in azienda. «Forse più della diffidenza, ho dovuto fare i conti con la difficoltà di alcuni a capire le mie scelte, ma è stato sufficiente conoscermi meglio, per abbattere eventuali pregiudizi. Io qui ho trovato una famiglia: per i miei 36 anni ho organizzato uno show, e invitato i colleghi di Brandizzo. Mi hanno visto in costume e sul palco e hanno capito perché amo il mio personaggio».
E se dentro la fabbrica il suo essere drag queen non fa scandalo, per ironia, è fuori che gli capita di leggere lo stupore negli occhi quando dice di lavorare da Amazon. «Mi chiedono se sono matto, e se mi lasciano andare a fare la pipì durante i turni di lavoro, perché di Amazon si sentono tante cose. Un fondo di verità ci sarà forse, ma per la mia esperienza posso dire di non aver mai avuto problemi e di aver trovato un buon ambiente di lavoro. E, sì, la pipì la faccio, anche spesso perché bevo molto». E ride.
Margherita Buy, 60 anni di fascino. Due amori importanti, una figlia, decine di film. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2022.
L’attrice nata a Roma il 15 gennaio del ‘62 è stata sposata con il regista Sergio Rubini e con il medico Renato De Angelis da cui ha avuto la figlia Caterina. Riservata, si dichiara single
Splendida sessantenne
Margherita Buy è nata a Roma il 15 gennaio 1962 e dunque sabato compie 60 anni anche se davvero non li dimostra. Attrice bella e sensuale - che ha fatto della timidezza la sua bandiera - ha girato numerosissimi film. E’ nata e cresciuta nel quartiere Coppedé di Roma, per poi trasferirsi a Trastevere all’età di 22 anni. Ancora oggi abita a Roma e ancora oggi è avvenente, magra e slanciata. Nonostante il fisico asciutto, l’attrice ha spesso rivelato di essere negata per lo sport e in particolare per la pallacanestro. Ha fatto danza per un periodo, per poi abbandonarla per problemi alla schiena. L’unico sport in cui se la cava abbastanza bene è il tennis, purché siano solo palleggi e non partite.
Record di riconoscimenti
A oggi, Margherita Buy detiene il record di vittorie complessive per il riconoscimento a un’attrice sia per i David di Donatello sia per i Nastri d’argento. Ha vinto sette David di Donatello, sette Nastri d’argento, cinque Globi d’oro e tredici Ciak d’oro.
L’amore e il lavoro con Sergio Rubini
Durante gli anni di studio all’Accademia di arte drammatica, la Buy incontra Sergio Rubini, con cui va a convivere e che sposa nel 1991, per poi separarsi nel 1993 e divorziare ufficialmente nel 2012. Nonostante la separazione, i due continueranno a lavorare insieme. La loro collaborazione inizia nel 1990 con La stazione, (film con il quale fa incetta di premi come miglior attrice protagonista) per poi proseguire in Prestazione straordinaria, Tutto l’amore che c’è, L’amore ritorna.
Il marito Renato De Angelis
Margherita Buy è sempre stata molto riservata sulla sua vita privata. Dopo Rubini, Margherita incontra il noto chirurgo Renato De Angelis, nel 1996. Un amore lungo 16 anni, terminato nel 2012, ma segnato dalla nascita nel 2001, di una bellissima figlia, Caterina. Recentemente l’attrice ha dichiarato di essere single. In un’intervista rilasciata a “Grazia” ha espresso le sue difficoltà a gestire una relazione di coppia: «Ci sono ragazze brave a farsi amare. Capaci di rendersi desiderabili e di lasciarsi desiderare. È un talento e io non ce l’ho».
La figlia Caterina
Con la figlia Caterina ha un legame molto forte, che l’ha portata negli anni a rinunciare a ruoli importanti per starle vicino. «Ho sempre voluto essere molto presente e, se ho fatto rinunce professionali per stare di più con lei, non le ho vissute come tali» ha detto tempo fa. Ha ammesso anche di essere troppo buona: «Ho provato a dare le regole, ma poi non riesco tanto a tenere il punto, sono troppo buona…». La presenza della figlia le ha permesso di migliorarsi come ha raccontato a Io Donna: «Sicuramente grazie a lei mi rispetto di più e mi curo. Devo esserle d’esempio. Voglio che pensi a me come a una madre attiva, che si tiene in forma. Sentirmi utile è una bella sensazione, ringiovanisce». Caterina ha fatto il suo debutto come attrice in «Vita da Carlo», una serie Amazon ispirata alla dimensione più privata di Carlo Verdone, dove Caterina interpreta la figlia del regista.
Con Carlo Verdone
Maledetto il giorno che t’ho incontrato è un film di Carlo Verdone del 1992. Buy e Verdone hanno dato vita a una coppia diventata un culto anche per l’ossessione delle medicine. Infatti si ride e si scherza su nevrosi e ipocondria. Bernardo e Camilla si incontrano dallo psicanalista, lui è stato lasciato dalla fidanzata, lei è ansiosa e ha attacchi di panico. Entrambi grandi fruitori di antidepressivi si aiuteranno a vicenda in un tira e molla a lieto fine.
Il grande amico Nanni Moretti
Buy ha lavorato spesso con Nanni Moretti quasi da diventarne una musa. Cominciò nel 2006 con Il Caimano, poi Habemus Papam nel 2011; Mia madre nel 2015 e l’ultimo, Tre piani lo scorso anno. Quindici anni di sodalizio artistico e non solo, di amicizia e collaborazione fuori e sul set. Hanno girato insieme 4 film, con lui dietro ma anche davanti alla macchina da presa, accanto a lei. In Tre piani, per la prima volta, sono una coppia, marito e moglie. Nel 2015, a Cannes, sul red carpet di Mia madre. Al Fatto quotidiano, l’attrice ha detto: «Siamo entrambi piuttosto discreti, ma c’è tra noi un affetto di fondo cementatosi negli anni. Lo sento come una persona vicina a cui posso chiedere dei pareri che poi si rivelano sempre importanti. È una delle poche persone corrette in questo mondo. È sano da un punto di vista etico, estremamente intelligente. Serio, ma non serioso, ironico. E fa molto ridere, non tutti lo sanno. Conoscerlo è un grande privilegio».
Fulvia Caprara per “La Stampa” l'11 giugno 2022.
Ci pensa un attimo, poi si illumina: «È vero, il personaggio di Maddalena mi somiglia molto, e anche il mio fidanzato è un po' come quello della serie. Se questa intervista avesse dovuto darla lui sono sicura che sarebbe stato qui a parlare, meglio di me».
Ventun anni, laurea alle porte in Storia del cinema, aria celestiale, fisico da top model, padre chirurgo e una madre così celebre, brava e premiata che molte figlie avrebbero deciso di imboccare una strada diversa.
Lei no. Per il ruolo della figlia di Carlo Verdone nella serie Prime Video Vita da Carlo, Caterina De Angelis, figlia di Renato De Angelis e di Margherita Buy, ha appena ricevuto insieme al suo partner Antonio Bannò il premio Biraghi Serie assegnato dal Sngci e riservato agli esordienti: «Non avevo mai pensato di fare l'attrice, da piccola ero molto timida, ho recitato in un corto di Maria Sole Tognazzi, poi non ci ho più pensato». Il resto è storia nota: «Ho fatto il provino su Skype, Carlo a un certo punto mi guarda e mi fa "ma tu sei la figlia di Margherita? "».
Cosa ha detto sua madre quando ha saputo che avrebbe esordito come attrice?
«È andata molto meglio di quanto pensassi. Lei non ha mai cercato di impedirmi niente. È molto protettiva, mi ha solo detto che questo mestiere comporta sacrifici e anche delusioni. Ma quando ha visto che ero felice, è diventata la mia prima supporter. Comunque i miei genitori mi hanno sempre tenuta con i piedi per terra, è il loro modo di essere».
Una madre così nota poteva essere un grande aiuto o un grande handicap. Come è andata?
«Mia madre mi ha sempre spiegato che questo è un mestiere come un altro, che per farlo bene devi innamorarti del copione, dello stare sul set. E infatti non amo molto il contorno, mi piace il lavoro in sé. Essere figli d'arte può voler dire tante cose, io mi reputo fortunatissima, avere una guida è una forza in più. Certo, poi ci sono anche le aspettative che, nel mio caso, sono più marcate, ma se uno sa gestire questo patrimonio... va bene così».
Sua madre è sempre stata brava nel proteggere la sua vita privata, lei come farà?
«A modo mio. Non sarò lo specchio di mia madre, lei è molto forte. Io penso che la cosa più importante sia circondarsi di persone scelte bene».
Che tipo di cinema le piace?
«Mio padre fin da piccola mi ha portato a vedere di tutto. Sono innamorata del cinema neorealista, mi piacciono le storie che parlano di persone vere, semplici, non particolarmente complesse».
Film preferiti?
«In testa Il favoloso mondo di Amelie, poi Dio esiste e vive a Bruxelles e Mamma mia: ogni volta che ho l'occasione lo rivedo».
Da piccola andava a trovare sua madre sui set?
«Molto di rado, lei ha sempre considerato il suo lavoro uguale a tutti gli altri. Non mi faceva andare sui set, così come papà non ha mai pensato di portarmi in sala operatoria».
C'è un film di sua madre che preferisce?
«Maledetto il giorno che ti ho incontrato: lì è proprio se stessa, è un film molto divertente».
La sua è una generazione che al cinema preferisce le serie?
«Le serie sono la nuova frontiera e in alcuni casi possono essere molto importanti. Per esempio Euphoria ha avuto un grande impatto sui ragazzi della mia età. Io però sono innamorata del cinema e della struttura della narrazione cinematografica».
Che cosa legge?
«A dire la verità ho letto poco, sono dislessica, fortunatamente non ho avuto per questo problemi a scuola, mentre so che tanti dislessici come me ne hanno. Alla lettura mi sono avvicinata molto con gli audiolibri di Spotify».
Che musica ascolta?
«Mio padre è fissato con il cantautorato italiano, ho sempre ascoltato di tutto, Pink Floyd, Queen, a casa abbiamo tanti dischi e sono abituata a sentire dalla classica all'heavy metal».
I suoi progetti?
«Mi godo la libertà, ho appena finito la tesi, poi continuerò a fare provini e quindi inizieranno le riprese della seconda stagione di Vita di Carlo. Mi piacerebbe riuscire a entrare all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio d'Amico, non si smette mai di studiare. Vorrei fare anche teatro, magari all'estero, ho vissuto a Londra, posso recitare in inglese».
Come si è trovata con Verdone?
«Carlo è stupendo, non potevo chiedere di meglio. Non si arrabbia mai, tiene ai suoi attori, ti segue, ti guarda, ti dice brava, ma anche se deve dirti che quella cosa lì non andava bene lo fa in modo empatico».
Margherita Vicario: «Ho avuto nonne rivoluzionarie. Io mi sento bella con 10 chili in più». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.
La cantautrice, il corpo, l’amore: «Francesco mi ha regalato l’anello dicendomi: “Ti amo, ma non chiedermi di sposarti”. Il mio idolo? Beyonce: è mamma ma dice “voglio fare sesso” Può tutto, come una dea».
Il razzo sbuffa, scoppia, regge, sibila, perfora/le nubi con la sua punta d’acciaio./Sale/sale/ sale/ entra nell’eterno/eterno/ eterno./ Piove sulla terra/e gli uomini sono tristi. Ma qui Gagarin, Titov, Sheppard, Glenn/ sono felici nell’eterno/eterno/eterno. Margherita Vicario non tentenna. Conosce questa poesia a memoria, la sa da quando è piccola. Era in un quaderno che la nonna Esa conservava attenta in un cassetto di casa. L’aveva scritta la bisnonna Alberta Caverni, casalinga, dopo aver assistito al primo viaggio dell’uomo nello spazio. Era il 12 aprile 1961. «Jurij Gagarin c’era stato un’ora e 48 minuti nello spazio. Il tempo di un bel concerto», ha postato Vicario sul profilo Instragam annunciando l’uscita di Astronauti , il suo ultimo singolo che canta sul palco nel tour partito il 6 aprile da Teramo e che fa date sold out . Una canzone che è un regalo ai fan, in cui dice io per voi ci sono, e dal palco, da una posizione privilegiata come quella dell’astronauta, vi riconosco.
Figlia di un regista e una sceneggiatrice, nipote dell’attrice Rossana Podestà poi compagna dell’alpinista Walter Bonatti, è cresciuta fuori Roma, in campagna, con tre fratelli e tantissimi cugini con cui giocare. Ha respirato aria pulita e cinema e creatività che le hanno insegnato l’arte della contaminazione. Lo si sente quando parla, nella sua musica che a volte è pop, altre è indie, altre ancora è soul. Margherita ha 34 anni, di lavoro fa la cantante ma anche l’attrice (entro l’anno uscirà il film Di più non basta mai di Pappi Corsicato che la vede tra le protagoniste con Carolina Sala, intervistata nelle pagine seguenti). È una Millennial, è parte di quella generazione a metà tra la tradizione e la libertà.
«È VERO CHE “QUANDO ERO MAGRA MI SENTIVO UN CESSO”, ORA STO MEGLIO PERCHÉ HO REALIZZATO COSE CHE MI RENDONO FELICE. RIVENDICO LA MIA COMPLESSITÀ»
Si sente più fluida o tradizionale?
«Sono più simile alla Gen Z, tutta colpa di mia madre e delle nonne, vere rivoluzionarie. Vengo da una famiglia non credente, che accoglie ogni persona. Non è mai interessato l’orientamento sessuale, né il colore della pelle. Appena c’è stata la legge sul divorzio entrambe le nonne sono corse a divorziare».
Quindi nessuna ansia da matrimonio per lei?
«Sto con Francesco (Coppola, regista, ndr ) da cinque anni, poco fa mi ha regalato un anello con una lettera che diceva: “Cara amore mio, però non chiedermi di sposarti”».
Avrà zie che le chiedono: e i figli?
«Ci hanno pensato i miei fratelli. Mi vedo con dei bambini in futuro, però penso che anche i miei dischi siano “figli”, quindi se non dovesse succedere sarei comunque felice. Sostengo la genitorialità pianificata, voglio che sia una scelta programmata».
Quanto pesano le aspettative sociali sulle giovani donne?
«Più di tutto pesa la mancanza di veri aiuti. Sono i soliti discorsi, ma senza un welfare giusto - asili, paternità, doposcuola - c’è un disequilibrio troppo grande ancora. Lo vedo con le mie amiche madri e professioniste: rinunciano sempre a qualcosa per far quadrare tutto. Poi c’è il grande macigno dell’immagine».
Nata a Roma il 13 febbraio 1988, ha inciso il suo primo singolo nel 2020. È nipote dell’attore e regista Marco Vicario e dell’attrice Rossana Podestà.
Cioè?
«Noi donne dobbiamo essere belle, che vuol dire anche magre». In Troppi pretie troppe suore , la sua canzone dell’album Bingo , dice «quando ero magra mi sentivo un cesso».
Si è sentita brutta?
«Sì, in molte ci sentiamo così, anche tra le mie fan. Quando si hanno problemi con il proprio corpo, non è una questione oggettiva. So di essere fortunata: ho i denti dritti, gli occhi grandi, però il rapporto con il corpo è una questione profonda. Poi con il mio ci lavoro».
Negli ultimi due anni pandemici i casi di disturbi alimentari soprattutto nelle ragazze sono aumentati.
«Ci sono molte più persone di quelle che immaginiamo che soffrono. Anche io ho avuto fasi della vita in cui ho attraversato una relazione più complicata con il corpo. Ma posso dire che crescendo ho trovato un equilibrio. È vero che “quando ero magra mi sentivo un cesso”, e ora che peso dieci chili in più mi guardo allo specchio e mi sento bella, completa, perché ho lavorato su me stessa, e soprattutto ho realizzato delle cose e mi rendono felice. Ci vogliono tutte dentro certi canoni, non è solo colpa dei social, è sempre stato così».
Per esempio?
«Da piccola pensavo che elegante volesse dire magra. Mi giravano in testa frasi come: “Qualsiasi cosa ti metti se sei magra sei elegante”. Una stupidaggine che mi sono portata dietro per lungo tempo».
Come si fa a essere famosi e non essere ossessionati dall’immagine?
«È chiaro che anche il mio corpo è un messaggio. Direi una bugia se affermassi che non mi interessa se dopo un mio concerto scrivono “che brutto look”, o “non era in forma”».
Qual è la sua paura più grande?
«Ho paura di essere percepita troppo complessa, di apparire pesante. Vorrei essere “potabile”. Ormai siamo tutti troppo abituati alla semplificazione. Anzi no, ritiro tutto: rivendico la mia complessità».
Cantanti preferiti/e?
«Oltre a Battisti? Della Gen Z amo Madame, ma sono cresciuta con Niccolò Fabi, Cristina Donà, Daniele Silvestri, e la gigantesca Fiona Apple. Poi amo Beyonce, è il mio idolo: emotiva, materna, sensuale, animista. È mamma ma dice “voglio fare sesso”. Mi sembra aulica e corporea, poetica e fisica. Può tutto come una dea».
Alberto Dandolo per Dagospia il 10 agosto 2022.
Maria De Filippi dopo oltre un anno rompe il silenzio e si concede con generosità a una lunga, sincera e coraggiosa intervista al settimanale Oggi in edicola da domani 11 agosto. Per la prima volta la De Filippi cede il passo a Maria che con lucida e a tratti amara consapevolezza racconta di paure, ipocondrie, dipendenze superate, gioie, dolori e sogni.
E poi i lutti "tappati" e mai smaltiti, le sfumature della sua maternità, il rapporto con la morte, l'amore per Costanzo e i suoi inseparabili bassotti, la malattia scampata, la separazione Totti-Blasi e le pizze margherita ordinate e mangiate a casa. Nella lunghissima intervista non appare mai (c'è una sola domanda a margine e sul finale relativa al reality game “La talpa”) la parola "televisione". Ne esce il ritratto di una donna complessa, autentica e "selvatica". Che a 60 anni sta diventando forte perché sta imparando ad essere fragile.
Parla Maria De Filippi: “Sono selvatica, come gli animali” – esclusivo. Oggi.it il 10 Agosto 2022.
La regina della tv si racconta come mai fatto prima in una lunga intervista. In cui parla delle sue fobie, dei suoi limiti, delle sue fragilità. E anche soprattutto di quello che vuole difendere con unghie e denti: “La libertà”
Maria De Filippi si confessa come forse non aveva mai fatto prima in un’intervista esclusiva a Oggi, in edicola domani. Con i suoi limiti e le sue fragilità, Costanzo e il loro figlio, e una conferma sul reality in progettazione «La talpa» – foto esclusive | video
“HO PAURA DELLA MORTE” – «Ho corazze che però non mi hanno mai davvero resa immune dagli “ostacoli” e dalle paure vere che la vita inevitabilmente e con ferocia sbatte in faccia a ciascuno di noi. In primis per me la paura della morte», racconta Maria De Filippi a Oggi. Il suo primo vero dolore «è stato la morte di mio padre… Un lutto mai superato. Ci ho messo solo un tappo. Così come ho chiuso a chiave e a più mandate un armadio a casa mia con tutte le cose più care di mia madre quando ci ha lasciati… Tappo e chiudo a chiave il dolore per andare avanti. È il mio modo per affrontare il futuro. L’unico che conosco».
Maria De Filippi come una di noi: la spesa al supermercato è da brava massaia – esclusivo
“L’ADDIO A MAURIZIO COSTANZO…” – Sul marito Maurizio Costanzo, che dichiara da sempre di volere la mano di lei che stringe la sua nell’ultimo istante, dice: «Le confesso che non so se ne sarò capace, se avrò la forza e il coraggio di tendergli la mia mano quel giorno lì. Troppo dolore. Non voglio che mi resti come ultimo ricordo l’intreccio di quelle dita». E poi: «Sogno di prendere la vita con più leggerezza… Fantastico di essere libera da ciò che io stessa ho costruito». Dice di «rifuggire ciò che potrebbe esercitare un qualsivoglia controllo sulla mia libertà», dall’alcol «alla dipendenza dalle serie tv. Ne ero bulimica». E ammette: «Sono selvatica, istintiva e vera. Proprio come gli animali».
Maria De Filippi: “Vorrei rivivere l’incontro con mio figlio Gabriele” – esclusivo
“SVECCHIARE IL FORMAT” – Infine, Maria De Filippi parla del reality «La talpa» e nega di averne acquistati i diritti: «Non li ha comprati la mia società di produzione, ma Mediaset. Pier Silvio (Berlusconi, ndr) mi ha semplicemente chiamato chiedendomi di mettere giù delle idee per svecchiare il format».
Da ansa.it il 2 novembre 2022.
Se Audrey Hepburn ti chiede l'autografo, Sylvester Stallone ti afferra per la vita e ti fa saltare in sella al suo cavallo, o tutte le sere per anni entri nelle case degli italiani e dici dalla tv 'Buonasera', e sei la prima donna in assoluto a presentare da sola il festival di Sanremo, vuol dire che hai una carriera lunga e piena da raccontare.
Maria Giovanna Elmi, romana, 83 anni, amatissima annunciatrice buonasera Rai, ma anche inviata di Sereno Variabile, programma storico con cui ha girato l'Italia e non solo, memoria e una forma smagliante da far invidia a una quarantenne, festeggia i 50 anni di carriera, non molla e si racconta all'ANSA.
"Ho appena presentato all'azienda un progetto per due programmi: 'C'era una volta', e 'Ci pensiamo Noi' - rivela -. A suggerirmi di provare il concorso da annunciatrice fu una signora con cui condividevo la cabina al mare, in cambio le davo un passaggio in macchina a casa perché non guidava. Presi un modulo in portineria a Via Teulada, eravamo in 500, ogni volta che passavo uno step, mi arrivava un telegramma a casa, arrivammo in cinque". "Ero felice di lavorare per la Rai - dice Elmi -, di entrare con garbo nelle case degli italiani. Imparavo a memoria tutto. Dovevamo avere molto rispetto per il pubblico. Dovevamo stare attenti al linguaggio, era una tv educata ed attenta. Facevo anche collegamenti con le forze armate. Andai dentro un sommergibile, su un incrociatore lanciamissili".
Il suo debutto televisivo avvenne nella storica edizione di 'Canzonissima '72', edizione condotta da Pippo Baudo, Loretta Goggi e in qualità di ospite fisso, Vittorio Gassman. Ma non solo: ha cantato per milioni di bambini, sigle che arrivarono ai vertici dell''Hit Parade. Ha condotto programmi cult come 'Il Dirigibile'. "Ma il mio rapporto con i bambini è quello cui tengo di più - prosegue -. Per quello addirittura ho avuto l'onore di essere riconosciuta e fermata da Audrey Hepburn. Eravamo a un tavolo dal Matriciano e lei che, era sposata con un medico italiano, era con un altro quando un cameriere è venuto da me per chiedermi di avvicinarmi. Il figlio guardava Il dirigibile e ha voluto lei un mio autografo per Luca".
Prima donna in assoluto ha presentato il Festival di Sanremo per ben due edizioni: nel 1977 con Mike Bongiorno ("in questo caso solo nella terza serata, Mike fu gentilissimo, mi aveva dato le liste io avevo una memoria pazzesca"); poi nel 1978 da sola al comando ("c'era Beppe Grillo come guest comico"). Poi la grande esperienza con Sereno Variabile: "ho girato tantissimo, ho incontrato anche Sylvester Stallone vicino a Tel Aviv mi fece salire sul suo cavallo afferrandomi. Ma grazie a quel programma ho anche incontrato mio marito (l'imprenditore Gabriele Massarutto).
Siamo sposati da 28 anni e ci amiamo come il primo giorno. Ci siamo sposati sulla neve nell'isolato santuario di Monte Lussari a Tarvisio, c'era tanta neve. Per i 25 anni abbiamo rimesso le tute da sci, ci andavano ancora". Ha nuotato con i delfini, ha scritto libri di cucina e forma fisica, è stata fotografata per oltre quindicimila servizi e copertine dai maggiori settimanali. "Sì. mi hanno anche affibbiato un flirt con Tony Curtis, ma la verità è che eravamo a Taormina per il festival.
Una sera l'ho incontrato insieme ad altre persone e mi ha detto che nel suo hotel c'era anche Esther Williams, che la mattina scendeva in piscina. Mi ha invitato per andare ma io dovevo lavorare e gli diedi buca. Poi al party serale mi venne a cercare con il mio nome scritto sul palmo della mano e ci fotografarono: sembrava che gli davo il braccio, lui forse non era abituato ad essere snobbato". Ha un ricordo particolare? "L'intervista ad Andreotti nel 1989 per le europee. Era stato lui a chiedere di me, diceva che davo serenità, Ma in verità sono affezionata al mondo dei bambini e di Sereno Variabile, poi mi sono divertita a fare L'sola quando era sulla Rai, sono arrivata terza fino al ritorno a Milano, una bella soddisfazione, anzi l'avrei rifatta subito". Tanti i nomi che le sono stati affibbiati: "tutti legati al mondo delle fiabe, quello che preferisco è Fatina".
Maria Grazia Cucinotta si dà all’horror: «Dopo aver girato sono stata male». Renato Franco su Il Corriere della Sera l'8 Agosto 2022
L’attrice debutta in un genere per lei inedito. «La fede è la mia tranquillità».
«Noi siamo come gli abiti di moda, c’è un momento in cui puoi avere un successo pazzesco, un momento dove la gente sembra dimenticarti. Ma poi arriva l’ora del vintage e ti ritirano fuori dagli armadi. Puoi passare dall’apice al dimenticatoio, senza sapere come accade, ma devi essere pronto a saperlo gestire altrimenti diventi una vittima». Maria Grazia Cucinotta parla del suo nuovo personaggio ma parla anche del suo mondo, lei che ha conosciuto il successo subito, ogni suo debutto un fuoco d’artificio.
Il primo contratto televisivo con Arbore a «Indietro tutta!».
«Ricordo il caos e l’allegria, la sorpresa, una centrifuga di risate, andavano a braccio, senza copione, era tutto improvvisato. Io all’epoca non sapevo nemmeno cosa fosse una telecamera, non sapevo fare nulla: dai banchi di scuola ero finita nello studio della trasmissione dell’anno... Diciamo che i miei inizi sono stati abbastanza fortunati».
Infatti poco dopo arriva «Il Postino».
«L’Oscar, un successo planetario, giravo il mondo e sembrava di stare nello stesso Paese perché ovunque la gente è pazza di quel film, di quella storia, è pazza di te, ancora oggi mi chiamano Beatrice. Io sono partita da un film clamoroso e poi è stato difficile mantenere quel livello, rimanere a quell’altezza. Ma la vita è così. Io sono sempre stata una con i piedi per terra e il fatto che Massimo sia morto 12 ore dopo la fine del film mi ha ancor di più ben cementato i piedi. La vita è un attimo».
Come si tengono i piedi per terra?
«Faccio un miliardo di cose a livello sociale che mi riempiono la vita. Un’attrice rischia di diventare ecosferica e pensare che esista solo il suo mondo, invece ho avuto la fortuna di crescere e sfruttare la mia popolarità per qualcosa di utile, per qualcosa che va oltre al divertimento. A 54 anni devi seguire l’onda e non pretendere di fare i film che facevi a 20 o 30 anni, anche perché c’è una nuova generazione di attori fantastici che meritano di andare avanti».
Aveva anche partecipato a Miss Italia. Il concorso oggi è in crisi perché la figura della donna ne esce sminuita.
«È un peccato che stia tramontando. Dava l’opportunità a chi come me viveva su un’isola, lontano da tutto, di testare il mondo dello spettacolo: sfilate, provini, interviste, era una grande occasione per avere un futuro diverso. Io ho fondato un’associazione (Vite senza paura) che si occupa di violenza e abusi sulle donne, credo che la bellezza vada sempre ammirata e non strumentalizzata, ma dare opportunità non significa strumentalizzare».
Maria Grazia Cucinotta è protagonista di Brividi d’autore (al cinema in autunno), thriller a episodi di Pierfrancesco Campanella, in cui interpreta una psyco regista, che vive in una perenne spirale di delirio. Per ritrovare il successo, visto che i suoi ultimi copioni vengono sistematicamente rifiutati, «decide di compiere una mattanza a base di sangue e perversione davanti alle telecamere nascoste», diventando così il nuovo idolo del web.
Cosa ci fa in un horror?
«Non sono una grande fan dell’horror, è un film diverso da tutto quello che ho fatto fino ad adesso. Ho accettato per il progetto, attirata perché si parla anche di una storia orrenda che è realtà: la tratta di bambini sottratti alle famiglie per fare riti satanici, un argomento che fa paura, di cui nessuno parla perché dietro c’è una lobby di gente insospettabile. Storie vere che superano ogni immaginazione, bambini che spariscono, che non ritrovi, da un giorno all’altro finisci in un incubo, in una gabbia dove nessuno ti crede. Dopo aver girato sono stata male».
A un certo punto lei è andata in America per 10 anni, tornava da suo marito nei weekend.
«Ho capito lì cos’era questo lavoro, perché ero totalmente impreparata. Li ho studiato anche comunicazione, dal punto di vista mediatico gli Usa sono la più grande dittatura al mondo, ci influenzano in tutto quello che facciamo fin da quando siamo piccoli. Non hanno rivali».
Adesso da 16 anni invece è un habitué in Cina come attrice e produttrice.
«Mi davano della matta, qui perdi anni dietro a un progetto, lì invece realizzi tutto in pochissimo tempo. Mi hanno fatto ricredere anche sulla politica: hanno detto che avrebbero eliminato la povertà e l’hanno fatto davvero, in posti in cui c’era la miseria assoluta ora ci sono città e aeroporti. Ho fatto anche una decina di film in Cina, soprattutto azione e fantascienza, più adatte per la mia fisicità “esotica”».
Due anni fa si è sposata per la seconda volta, ma con lo stesso uomo (l’imprenditore Giulio Violati). Lui la conobbe a una festa, si fece dare il suo numero, la chiamò e le disse: «Sei libera il 7 ottobre dell’anno prossimo? Ci sposeremo». In effetti andò così.
«La prima volta avevo 25 anni, ero troppo giovane, era subito dopo Il postino, era l’entusiasmo dei ragazzini, ma non capivamo niente. Questo è un secondo sì è più consapevole. Il segreto credo sia rimanere se stessi, l’errore più grande è cercare di somigliarsi perché porta alla rottura definitiva».
Lei è molto religiosa.
«La fede è la mia tranquillità, la mia pace, perché sono cresciuta pensando che c’è sempre qualcuno che mi protegge; è un grande conforto che dà serenità pazzesca, vivi in una dimensione dove tutto è possibile».
Maria Grazia Cucinotta: «Con Il Postino ho realizzato il sogno di papà. Dissi no a Keanu Reeves». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 15 maggio 2022.
L’attrice: «Mio marito Giulio Violati non si è trasferito a Los Angeles con me: tornavo io, quasi ogni settimana. Il primo lavoro al Nord? Facevo la segretaria. Fare "007" è stato pazzesco, dovevo saltare dalle finestre sui tacchi 12: quante aspirine ho preso per i dolori!»
Manco tirando a indovinare si direbbe che ha studiato analisi contabile.
«Eh lo so, alla fine mi è tornato utile, i primi tempi ho risparmiato sul commercialista».
Tre mesi dopo il diploma era già a Salsomaggiore per Miss Italia, edizione 1987.
«Mi ero iscritta al concorso a 16 anni, papà non mi lasciò andare. Così ci riprovai a 18 appena compiuti. Partii da Messina con il treno delle 8.30, in borsa avevo la focaccia di mamma e qualche mela. Non ho vinto ma sono arrivata in finale. Fui notata da un’agenzia di Milano. “Se per caso passi in città fatti viva”, mi proposero. Capirai, mica era sotto casa, da giù allora ci volevano 24 ore», ricorda, parecchi film dopo (attrice, poi produttrice) Maria Grazia Cucinotta, splendidi 53 anni, la ragazza del Sud che era arrivata a Hollywood e da Hollywood, dieci anni dopo, se n’è pure andata, senza troppo voltarsi indietro. Scroscio d’acqua. «Scusi un momento che mi lavo le mani, stavo impastando il lievito madre per la pizza».
Prego.
«Rieccomi».
Alla fine però salì su al Nord.
«Mi trasferii a Brescia da mio fratello Gaetano che mi trovò un posto da segretaria. Per arrotondare faceva il fotografo, mi compose lui il primo book, ma come modella non avevo speranze, troppo seno. Richiamai quell’agenzia di Milano e ottenni il primo provino».
Per «Indietro tutta!», un cult di Raidue.
«E fu un disastro. Mi presentai davanti a Renzo Arbore, Alfredo Cerruti, Arnaldo Santoro, Nino Frassica, capirai, mi presero in giro senza pietà. “Cosa sai fare?” “Nulla”. Ero un’imbranata. Avevo il cuore in gola e le orecchie viola. Alla fine mi scelsero forse per compassione, per fortuna ero fotogenica».
Su, poi andò meglio.
«Mi ritrovai in un grande, allegrissimo caos, dove tutto era improvvisato, per me era la prima volta in tv, non sapevo come muovermi, non capivo niente, però ero contenta così. Appena si accendeva la telecamera, le Ragazze Coccodè e le Cacao Meravigliao si contendevano l’inquadratura sgomitando, come la palla in un campo da rugby, volavano in aria nuvole di piume, per mantenere l’ordine hanno separato i camerini».
Tre anni dopo il primo cinepanettone: Vacanze di Natale ’90, con Boldi e De Sica.
«In cui mi ha doppiato Simona Izzo perché avevo ancora un accento siciliano troppo forte. C’era Moira Orfei, che arrivava già truccata e pettinata, perfetta. “Senti qui che braccio, tocca quanto sono soda”, mi ripeteva mentre parlava al telefono con i domatori del circo».
Che girasse «Il Postino» era quasi destino.
«Mio padre faceva il postino, come poi mio fratello, mia sorella, mio cognato e mia nipote. In realtà anch’io avevo vinto il concorso e un contratto di tre mesi, ma ci ho rinunciato, ormai avevo preso la mia strada. Papà mi ha tenuto il muso per anni, fino al film con Massimo Troisi: in qualche modo avevo realizzato il suo sogno».
Ricordi dal set?
«La pazienza infinita di Massimo con me, una semi sconosciuta in un cast stellare. Per timidezza parlavo velocissima, avevo paura di rubare troppo tempo. Con me c’era Renato Scarpa, meraviglioso, quando è mancato l’anno scorso mi ha lasciato un vuoto enorme».
Una scena che le hanno fatto ripetere?
«Uh, quella in cui dovevo salire le scale, l’avrò girata trenta volte, al regista Michael Radford non andava mai bene, che poi c’erano dei gradini altissimi — io sportiva zero — per dieci giorni ho avuto le gambe rigide e doloranti».
Fu Nathaly Caldonazzo, allora fidanzata di Troisi, a raccomandarla per la parte.
«Ci eravamo conosciute a “Fantastico 10”, con Massimo Ranieri e Anna Oxa. Nathaly era bellissima, quando passava faceva rigirare pure le mattonelle. “Saresti perfetta”, insisteva. “Ci penso io”. E lo ha convinto. Lei e Massimo si amavano moltissimo, la sua morte fu il più grande dolore della sua vita. Sono 28 anni che la ringrazio, anche se adesso ci siamo perse».
«I Laureati», con Pieraccioni, 1995.
«Il Postino aveva appena vinto l’Oscar, in quel momento ero la star, gli altri mi guardavano quasi con soggezione. Con Leonardo c’erano tante scene in cui ci baciavamo, i paparazzi erano appostati ovunque, lui era adorabile, scoppiavo a ridere di continuo, specie con Ceccherini, fu divertentissimo, anche se a volte mi rivedo in una scena e mi dico: "Mizzica, come l’ho recitata male!”».
Con Gigi Proietti nella fiction «Avvocato Porta».
«Con lui potevi anche restare muta, era talmente grande che ti sentivi superflua. All’inizio sembrava burbero, poi ti incantava con i suoi racconti, generoso, gentile, a me che sono così imbranata pareva un genio».
Nel frattempo era partita per Los Angeles e ci è rimasta fino al 2005.
«A dirla tutta, Hollywood è una scritta anonima su una collina spelacchiata, pure bruttarella, niente di che, per me che venivo da Roma, con il Vaticano e il Colosseo, però gli americani come organizzazione sono ineguagliabili e lì davvero funziona la meritocrazia: non gli importa chi sei e da dove vieni, se hai successo hai successo e tutti sono con te. Ho studiato e imparato tanto».
Rifiutò una parte ne «L’avvocato del diavolo» perché c’era da spogliarsi.
«Ero tentata, un film con Al Pacino e Keanu Reeves, no, dico, Keanu Reeves, che quando lo vedi ammutolisci. Pensavo: e quando mi ricapita? Però nel copione c’era un nudo continuo e io con questo seno gigante mi sarei sentita a disagio e avrei rovinato tutto».
Sicura sicura?
«Ho sempre avuto il complesso, a 13 anni ero già così, che vergogna, non vedevo l’ora di ridurlo con un intervento, poi ci ho rinunciato, forse non avrei avuto lo stesso successo, però non mi è mai sembrato bello, troppo ingombrante, per nasconderlo ingobbivo le spalle. E poi è dura farsi prendere sul serio, nessuno ti guarda negli occhi. “Ah, ma sei anche intelligente”, è una frase che ho sentito spesso».
Stava per rifiutare anche «007 – Il mondo non basta» con Pierce Brosnan.
«Ero su un set faticosissimo a San Francisco, si girava soltanto di notte, i miei colleghi erano cerebrali, pieni di turbe, mi sfinivano, in più dovevo studiare dizione, ero distrutta. E poi la produzione pretendeva un’esclusiva di sei mesi per due pagine di copione. La mia agente ha accettato al posto mio. “Questi sono i biglietti, parti domani per Londra”».
Dai che non se n’è pentita.
«No, è stata un’avventura pazzesca, dovevo correre e saltare dalle finestre sui tacchi 12, mai portati in vita mia, guidare un motoscafo, quante aspirine ho preso per i dolori!»
E con Pierce?
«Per copione dovevo ucciderlo, però è una persona meravigliosa, è stato il film che umanamente mi ha dato di più. Nella finzione ero una killer assoldata da Robert Carlyle, attore straordinario ma piccolissimo accanto a me che sembravo un gigante, con mani enormi. Per fortuna la scena insieme è stata tagliata. E poi ho conosciuto Barbara Broccoli, la produttrice, ancora oggi una delle mie migliori amiche».
Vanta un film con Woody Allen e Sharon Stone: «Ho solo fatto a pezzi mia moglie».
«Sharon l’ho vista poco, perché il marito tradito, come dice il titolo, la fa fuori quasi subito, di lei resta solo una mano che sarà poi al centro della storia. Woody Allen lo conoscevo già, tramite sua sorella. Dal vivo è piccolino, ma quando recita, ciao, non ce n’è più per nessuno, si accende, risplende, è il Cinema».
Con suo marito Giulio Violati, imprenditore e produttore siete sposati da quasi 27 anni. La corteggiò con una certa faccia tosta.
«Lo conobbi la sera di Capodanno, festa che detesto, a casa di Massimo Santoro, il figlio di Arnaldo, mio caro amico. Esordì con delle battutine infelici sul mestiere di attrice, cercava di fare il simpatico, lo mandai subito al diavolo. Due giorni dopo mi arrivò una telefonata: “Sei libera il 7 ottobre?”. Non lo avevo riconosciuto, credevo fosse una proposta di lavoro. “Perché se sei libera, allora ci sposiamo.” Ho riattaccato».
Alla fine però c’è cascata.
«Sì, mi faceva ridere. Ed è ancora così».
Non si è mai trasferito a Los Angeles con lei.
«No. Tornavo io quasi ogni settimana».
Com’è andata nello spot dell’acqua minerale con Del Piero e l’uccellino chiacchierone?
«Alex è simpaticissimo, ci siamo ammazzati dalle risate con lui e il regista Marcello Cesena, ed è anche un gran professionista, quando qualcuno ha successo c’è sempre un perché. E non ho mai avuto così tante richieste di amici per venirmi a trovare sul set».
Adesso conduce un programma di cucina ogni domenica su La7: «L’ingrediente perfetto». Qual è quello di un matrimonio che dura?
«Accettare che si è diversi e non cercare mai di somigliarsi per forza. Dotarsi di grande pazienza, farsi scivolare addosso le cose. Amo la pace e la serenità, non litigo mai».
Ha imparato a cucinare da bambina.
«Mia mamma ci teneva in cucina per farci stare buone, me e mia sorella Giovanna, non c’erano i videogiochi. E sul set spesso cucino per tutti. Con un amico costumista abbiamo preparato la parmigiana di melanzane per sessanta. A casa siamo sempre tanti, la porta è aperta, mi piace viziare le persone, il cibo è fonte di gioia».
Pezzi forti?
«Pizza e pasta».
Il suo ultimo film si intitola «Gli anni belli». I suoi quali sono stati?
«Tutti, da quando è nata mia figlia Giulia ancora di più. È stata dura, non c’è solo il colore rosa, però sono felice: se con la mente mi riaffaccio dalla finestra della mia cameretta di Messina vedo tutto bellissimo, sono stata fortunata».
Niccolò Fantini per mowmag.com il 15 maggio 2022.
Si è celebrato la festa dei lavoratori, anche in versione XXX. Il Primo Maggio organizzato in Puglia da un "hard worker" d'eccezione: il leggendario attore, regista e produttore di film per adulti Rocco Siffredi, che ha lanciato poche settimane fa la "chiamata alle armi". Tra le attrici hard sul set c'era Marika Milani, di cui Siffredi ci ha evidenziato lo scorso gennaio che: "Può sembrare un parolone, eh. Ma lei mi fa ricordare… con lo sguardo un po' così... con questo sorriso e la sua fisicità... un po' mi fa ricordare Moana".
L'intervista inedita alla (reale, ndr!) bionda Marika Milani, in cui ci racconta che ama la buona cucina e la natura, sia quella dei tropici sott'acqua che "su e giù" per la Penisola: infatti domenica è stata tra le protagoniste del sesso tra i grossi ulivi della Puglia.
Ciao Marika, quando hai debuttato nel cinema hard e come mai questa scelta?
Ho fatto l'Academy di Rocco Siffredi l'estate scorsa. Ho scelto questa svolta professionale, perché sentivo di vivere una vita che non era più la mia: non ero soddisfatta. Avevo bisogno di qualcosa in più, principalmente per credere in me stessa.
Che lavoro facevi prima dei set e delle telecamere a luci rosse?
Prima ero commessa in un supermercato. Mi piace stare in mezzo alla gente e so di aver scelto un enorme cambiamento rispetto a prima. Non sono una grande esperta di film hardcore, ma mi piace molto il sesso: mi piace farlo e sto accrescendo la competenza nel farlo di fronte alle telecamere.
Sei single e vivi da sola?
Vivo con mia mamma e mio fratello maggiore. Mia mamma mi appoggia in tutto e per tutto: è lei che mi sprona molte volte, anche ad essere... meno timida.
Per chi lavora nell'intrattenimento xxx è importante avere il sostegno della famiglia?
Sì e dalla parte di mia mamma, per fortuna, ho il massimo appoggio nelle mie scelte. Solo con mio fratello ho avuto qualche difficoltà inizialmente. Non ha vissuto bene la mia decisione, ma forse proprio perché è il fratello maggiore ed è comprensibile che ci sia un sentimento protettivo. Anche le mie amiche più strette hanno compreso e appoggiato la mia scelta, così come altre persone. Ma mica tutti: tante persone sparlano. Forse vorrebbero essere sui set che vedono su Internet o forse si divertono a giudicare le scelte di altre persone, non lo so.
Negli ultimi mesi hai partecipato a diverse produzioni per adulti, tra cui un lungometraggio Milano-Roma "su e giù" per l'Italia e un capitolo di una speciale clinica.
Sono contenta dell'opportunità di girare con Rocco. In realtà sono ancora un po' timida e per lasciarmi andare ci metto un po', rispetto ai tempi delle produzioni per adulti. Nel fim che abbiamo girato a Roma e Milano, all'inizio ero in soggezione. Ma lui è davvero un maestro nel far sentire l'attrice a proprio agio sul set.
Raccontaci qualcosa che nessuno conosce: cosa ti piace mangiare, hai passioni nascoste? Una mia passione personale?
Le immersioni subacquee: mi piace il mare, mi piace guardare i pesci, entrare nel mondo sottomarino con le bombole. Mi piace, per staccare dal mondo esterno: sono stata in Mar Rosso, Indonesia, Thailandia. E mi piace mangiare: adoro la cucina italiana (spoiler: le piace il risotto!) ma, quando faccio la turista, adoro assaggiare le specialità locali.
Il tuo colore, al naturale, qual è?
Sono bionda: colore biondo cenere.
Dagospia il 19 novembre 2022. Da I Lunatici – Radio 2
Marina La Rosa è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso della trasmissione "I Lunatici", condotta da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e trenta circa.
Marina La Rosa ha raccontato: "Come sto? E' un periodo molto gravido. Ci sono un sacco di progetti a cui sto lavorando e lo faccio tra un passaggio e l'altro. Ho un figlio che fa calcio, uno che fa tennis, vanno a scuola, sono molto esaurita in realtà. Però sono contenta. Il mondo post lockdown?
Siamo peggiorati tutti. Nei ragazzini questa cosa che hanno vissuto non sappiamo come influirà nella loro vita. I miei figli che hanno 13 e 11 anni non mi hanno mai chiesto di uscire. Di andare a mangiare un gelato con un amico. Li ho costretti un po' ad uscire, ogni tanto ci riusciamo. Il mondo degli adulti invece è di disadattati. Siamo tutti disadattati. Faccio una terapia di gruppo da due anni, sono laureata in psicologia, su instagram. Mi scrivono tutte le loro problematiche che variano, spaziano. Ma la maggior parte sono sull'inadeguatezza. Ci sentiamo tutti inadeguati. Il covid non ci ha aiutato a fermarci a riflettere sulle cose più importanti"
Ancora Marina La Rosa: "Non faccio sesso da un sacco di tempo. Sono tanti mesi ormai. Per me l'organo sessuale principale, almeno nel mio caso, è il cervello. Se non mi si eccita il cervello, non mi eccito. Per cui faccio fatica a trovare una persona con cui instaurare una sintonia. Anche se fosse una semplice avventura, ne deve valere la pena. Non ho scelto la castità, né voglio essere asessuata. Sono libera e disponibile. Solo che non trovo la persona giusta. Secondo me faccio soggezione, ma non so perché. Sono stata il sogno erotico degli italiani? Sì, è vero. Oggi non credo di esserlo ancora. Essere il sogno erotico degli italiani mi faceva molto vedere. Io non mi sono mai vista così bella. Anzi. Poi quando diventata un sex symbol mi faceva ridere, mi faceva piacere. Anche se quello che affascina di me non è tanto l'aspetto fisico, ma la persona che sono. C'è questa sensualità innata che probabilmente è da sempre, fa parte di me".
Sulla parità di genere: "E' tutto ancora a carissimo amico. Il nostro resta un mondo fallocentrico. Siamo ancora lontani dalla parità di genere. Il #metoo? C'è stato molto rumore, ma tutto funziona ancora così, come sempre. Se mi è capitato di subire molestie in carriera? Sì. Fui invitata a cena da una persona molto influente che doveva parlarmi di un progetto e io sono andata. Dopo cena questa persona mentre le chiedevo di cosa si trattasse, ha spento le luci e mi ha messo la lingua in bocca. In quel momento ho pensato 'ma sì, dai, ma che sarà mai'.
Quindi mi sono ritrovata in questa situazione cercando di partecipare attivamente. Però non mi appartiene questa roba. A un certo punto mi sono spostata, ho ringraziato, e ho detto che avevo un aereo l'indomani presto e che sarei dovuta andare via. Ovviamente al progetto non ho partecipato. Non ho denunciato questa cosa, ero molto giovane. Tu in quel momento ti senti quasi come se tu avessi portato una determinata persona a credere di poter fare certe cose. Ti senti quasi complice, non trovi la forza internamente di poter reagire. E' una cosa bruttissima. Se succedesse oggi andrei subito a denunciare. Bisogna denunciare. Ci ho messo mesi a capire quello che era realmente successo. Sono stata molto male".
Sull'apice del successo: "Se ho mai rischiato di perdere la testa? La testa l'ho persa varie volte, a un certo punto mi sentivo un po' dissociata. Non era un successo che ho costruito lentamente, con fatica e anni di lavoro. Mi è accaduto che ho aperto una porta e non potevo più andare in giro da sola, andavo in giro con le guardie del corpo. Mi sentivo molto fragile. Mi sono venuti degli attacchi di panico fortissimi. I figli mi hanno rimesso al mondo. Però prima che arrivassero loro, ho fatto tantissimi lavori, diverse cose.
Questa cosa che per strada si creavano i gruppi di persone che dovevo salutare, baciare, firmare autografi, è durato due anni. Poi ho iniziato a selezionare gli impegni, mi hanno proposto di fare uno spettacolo teatrale e ho scoperto il teatro. Un'emozione fortissima, un'adrenalina enorme, senza essere incorniciato da telecamere, luci e cose finte. Ho trovato la mia dimensione, mi sono sentita meglio. Ho fatto teatro per anni, poi ho incontrato il padre dei miei figli".
La laurea in psicologia. "Arriva dopo il GF. Ho avuto il primo figlio, subito dopo il secondo, quando andavano alla materna ero già uscita fuori dai giochi, mi ritrovavo da sola le mattine e mi sono iscritta all'università. Mi sono laureata mentre loro andavano alla materna. Poi piano hanno ricominciato a chiamarmi in televisione e ho continuato nel mio lavoro, però la psicologia è la cosa che più mi interessa in questo momento".
Dagospia il 10 Giugno 2022. Marina La Rosa ci scrive: Caro Dago, che meraviglioso tempo stiamo vivendo. Definita da Bauman "società liquida", la nostra è una dimensione fluida basata totalmente sulla forma. Il contenuto non importa, fondamentali infatti tette culi bocche e balletti vari ma attenzione, pancia piatta e pelle liscia. I segni di espressione (guai a chiamarle rughe) non sono ammessi… l’invecchiamento non appartiene al nostro tempo, al nostro mondo.
E così, approdata da pochissimi giorni su “TikTok”, mi ritrovo, all’età di quarantacinque anni, più di duemila commenti nel giro di pochissime ore su come io sia cambiata, su quanto io sia invecchiata, sul come e il perché.
Ma certo Dago, io mi faccio una risata perché l’ironia mi ha sempre salvata, avrà di certo riso anche Sarah Jessica Parker quando, l’anno scorso, fu criticata per essere invecchiata "troppo e male" in "And Just Like That" (la miniserie sequel di Sex and The City) e chissà quanto stia ridendo adesso Vanessa Incontrada per il “meraviglioso” richiamo di copertina che le ha dedicato Signoretti nel suo prestigiosissimo settimanale "Nuovo".
Dai su, gli stati della materia sono di gran lunga superati, stiamo evaporando in una dimensione irreale sempre più inconsistente. A onor del vero voglio precisare, per dare ulteriore spunto ai (così definiti) leoni da tastiera, che anche il mio petto è invecchiato, sia per gli anni che passano sia per aver allattato a lungo (periodo tra l’altro stupendo della mia vita) i miei due figli.
I miei piccoli seni sono oggi ancora più piccoli e poco pieni. Ed ho anche una diastasi all’addome, non serve sfondarmi di addominali, il mio ventre resterà sempre rilassato mentre il culo forse regge ancora ma solo grazie alla palestra.
E sì Dago, io sorrido comunque poiché il valore che do a me stessa prescinde da ciò che gli altri pensano di me, penso tuttavia a tutte quelle persone, più giovani ed ancora poco strutturate, che devono invece scontrarsi con questa nuova forma di aggressione, il body-shaming.
Ecco, caro Dago, dopo aver confessato dunque i miei peccati inizierò a pregare affinché il Signore mi faccia ringiovanire anziché invecchiare. Inginocchiamoci dunque davanti all’altare di questa (neanche tanto) subdola dittatura della perfezione e andiamo in pace. Che la pace e il botox siano con tutti noi. Amen.
Da teatrionline.com il 20 giugno 2022.
Marina Marfoglia è nata a Roma. Nella sua carriera di successo è stata attrice, cantante, modella e danzatrice. Ragazza-copertina e modella per fotografie destinate alle cartoline illustrate di località turistiche, ha recitato fra il 1965 e i primi anni ottanta, comparendo in pellicole del cinema d’autore e della commedia all’italiana molto in voga in quegli anni. È stata ballerina nel corpo di ballo di Don Lurio ed ha fatto parte della compagnia de “Il Bagaglino”. In televisione ha partecipato a diversi programmi di varietà con registi di fama come Antonello Falqui ed Enzo Trapani.
Nel 1980 è prima donna in “Un uomo da ridere”, serie televisiva con Franco Franchi diretta da Lucio Fulci. Per la Ricordi ha inciso nel 1978 il singolo “Show show show / Ping pong”, nel 1980 è la volta di “Prendimi toccami” / “Chicco di caffè” pubblicato dalla Esquire Record mentre nel 1982 incide per la ATV il singolo “Amare… è” / “Batte il… cuore”. Nel 1983 incide per la Five Record il singolo “Peppermint hula hoop / Non farmi male”, singolo che viene ottimamente promosso e risulta essere un buon successo.
Dopo qualche anno di silenzio, nel 1987 pubblica per la Vany il singolo “Una vita con te” / “A Casablanca” ed il mini album “Io…Marina Marfoglia”. Sempre per la Vany pubblica nel 1988 l’album “Roma pazzo pazzo amore”, contenente dieci brani dedicati alla sua città, tra i quali “Roma capoccia” e “Sinnò me moro”.
Infine, sempre per la Vany incide nel 1990 il singolo “Balliamo noi lambada” / “balliamo noi lambada” (versione strumentale). Oggi continua con grande impegno ad occuparsi di danza come coordinatore tecnico e direttore artistico degli eventi della Federazione Italiana Danza. Nel 1978 ha posato per un servizio di nudo integrale per l’edizione italiana di Playboy. (…)
Sei stata nel corpo di ballo dell’indimenticato Don Lurio. Com’era lavorare con lui e come ti piace ricordarlo?
All’età di sedici anni si presentò l’occasione di mettere in pratica la mia passione. Una mia compagna di scuola, grazie a sua madre che lavorava in RAI, divulgò la notizia che cercavano ballerini giovani da inserire in una trasmissione con una stella nascente, tale Rita Pavone. Mi presentai all’audizione in Via Teulada… e il coreografo che doveva scegliere i migliori era Don Lurio. Ci fecero entrare dieci per volta nella sala prove attigua allo Studio 1, l’emozione era tanta ma come partirono le note del twist io mi lasciai andare con i passi più d’effetto che conoscevo… e guarda caso Don Lurio mi scelse per prima! Da allora entrai a far parte del gruppo storico delle collettine che danzavano intorno a Rita Pavone e diventai la pupilla di Don Lurio, che era severissimo con tutti noi in fase di prove e fuori dal lavoro era molto amabile e simpatico. Nel corso della mia carriera lo ritrovai molti anni dopo a coreografare lo show itinerante per l’Italia che mi vedeva protagonista accanto al cantante Mal e dieci ballerini.
Hai fatto parte anche del Bagaglino, una grande famiglia molto amata dai romani e successivamente di grande popolarità televisiva. Cosa ricordi del periodo trascorso con Pingitore?
Altro coreografo importante nella mia vita fu Gino Landi, che mi consigliò di presentarmi al Salone Margherita di Roma, in quanto Castellacci e Pingitore autori e registi della Compagnia del Bagaglino, cercavano nuovi personaggi da inserire negli spettacoli di Cabaret. L’audizione andò bene ed entrai a far parte nel 1974 nella meravigliosa compagnia più amata dagli italiani.
Furono anni di grande scuola, perché lavorare con Oreste Lionello, Pippo Franco, Enrico Montesano, Pino Caruso, Gianfranco D’Angelo, fu la grande occasione per imparare e capire che ero una showgirl, perché oltre a danzare, dovevo recitare e cantare, e solo esibendomi tutte le sere per i quattro anni che rimasi in compagnia, ebbi modo di crescere in esperienza e bravura. Quattro anni di lavoro intenso, costruttivo e divertente, conservo di quel periodo tanti ricordi meravigliosi, uno su tutti …aver assistito al debutto del più grande comico spontaneo che era il buon Bombolo! Con lui ci si divertiva sempre, sulla scena e fuori, e persino Pingitore doveva nascondere le sue risate in fase di prove, perché Bombolo era ingovernabile, una vera forza della natura!
La tua carriera è stata trasversale… oltre alla televisione e al teatro/cabaret hai fatto anche molto cinema. Quale forma di spettacolo preferisci?
Particine in film ne ho fatte tante agli inizi, anche perché facevo parte dei frequentatori del Piper Club di Roma, che a metà degli anni Sessanta era una fucina di talenti, e i registi più famosi per formare il cast venivano nel leggendario locale romano a scegliere i volti e i personaggi più consoni per il loro film. Così sono entrata nel cast de “Le sedicenni” di Luigi Petrini, nei film di Dino Risi e di Lina Wertmuller, nello specifico “Rita la zanzara” dove ero l’antagonista di Rita Pavone… cast stellare con Giancarlo Giannini, Peppino De Filippo, Bice Valori, Paolo Panelli e tanti altri. Partecipai anche al film di Fellini “Amarcord” poi accanto a Pippo Franco in “Nerone” nel ruolo di Atte la sua schiava, nel film anche il mitico Aldo Fabrizi nel ruolo di Galba.
Negli anni Ottanta fui protagonista di “Quella peste di Pierina”, risposta al femminile del Pierino di Alvaro Vitali, ma le battute un po’ spinte erano ad appannaggio del mio partner maschile Lucio Montanaro. Guadagnai la parte di Pierina, perché mi ero specializzata con le interpretazioni da bambina terribile che facevo spesso negli spettacoli del Bagaglino accanto a Bombolo! Ho fatto anche molto teatro, quello serio! Ma in entrambe i casi, sia nel cinema che nel teatro classico, mi mancava la parte danzata e cantata! Insomma mi ritengo un animale da palcoscenico, ma più adatta per il mondo della rivista.
Cosa ha rappresentato per te la RAI? Sei mai stata oggetto di censura?
La RAI è stata importante per i miei inizi, entrando a far parte delle collettine di Rita Pavone, sembrava tutto facile, ma diventò ostile nei miei confronti, quando, la mia casa discografica voleva inserirmi come ospite nei vari programmi come “Discoring” o “Domenica in” o altri contenitori musicali. Qualcuno tra gli alti dirigenti di allora, (parlo della fine degli anni Settanta inizio Ottanta), riteneva che io fossi troppo sexy, per apparire in programmi di fasce orarie seguite dai minori. Questi segnali di emarginazione mi fecero perdere la stima nei confronti della tv di Stato. Per fortuna allora nascevano le tv private, dove non avevo alcuna difficoltà di questo genere.
Hai lavorato con il grande Antonello Falqui, Gino Landi ed Enzo Trapani, colonne portanti degli anni gloriosi della RAI, che ricordi hai di loro e di quella tv?
Falqui è stato davvero un grande regista televisivo, infatti firmava tutte le riviste di successo che gli italiani seguivano, anche perché esisteva solo RAI 1! Con Landi ho avuto la fortuna di lavorare in uno show dove lui curava regia e coreografie e il protagonista era Walter Chiari. Mentre con Enzo Trapani lavorai nei caroselli del doppio Brodo Star. Nessuno lo sapeva ma il grande successo di Carosello, tanto amato dai bimbi anni Sessanta e Settanta, era merito dei grandi registi che dirigevano le ministorie. Nelle serate estive attuali possiamo ammirare la vecchia tv seguendo Techetechetè, che desta in tutti noi la nostalgia di una televisione bella, pulita e non urlata, come quella di adesso, dove i programmi venivano affidati ai personaggi di talento!
In seguito c’è stata la musica con alcuni singoli di successo! Come hai scoperto il canto?
Nel canto ero abbastanza insicura, diciamo che tra la danza e la recitazione era la parte dove mi sentivo più debole, ma grazie agli spettacoli del Bagaglino dove si doveva cantare dal vivo, diciamo che ho imparato a cantare piano piano, anno dopo anno, poi la mia lunga relazione con Mal dei Primitives (conosciuto al Piper Club) mi ha dato modo ed occasione di inserirmi nel mondo della musica leggera. Il mio primo disco lo incisi con la Ricordi ed era la sigla della trasmissione “Show Show Show” di GBR, tv privata romana, dove io ero la conduttrice… ricordo gli ospiti: Vasco Rossi, Toto Cutugno, Donatella Rettore e tanti altri. Il singolo più di successo lo incisi con la Five Record, casa discografica dell’allora nascente Canale 5, in occasione dello show itinerante “GiroMike”, che Mike Bongiorno faceva per l’Italia nel periodo estivo.
Quindi oltre alla tv, al cinema e al teatro hai partecipato anche agli spettacoli di piazza?
Proprio così! Un’ulteriore esperienza che ha aggiunto al mio bagaglio artistico tanta ma tanta sicurezza nell’affrontare il pubblico dal vivo cantando e ballando senza un copione! Ricordo in occasione del GiroMike del 1983, la piazza di Palermo, talmente gremita di pubblico che la gente si era arrampicata sugli alberi e seguiva lo show stando sui rami! L’impatto con moltissima gente emozionò anche il veterano Mike… io invece coadiuvata dal mio corpo di ballo ero nel mio elemento! Il pubblico… tanta gente che ti vuole vedere e conoscere e con il quale riesco ad instaurare un rapporto vero e sincero, presentandomi come me stessa, senza finzioni! (…)
Roma è la tua città, gli hai dedicato anche un album con le più celebri canzoni. I bei tempi del Piper non torneranno più? Cosa rendeva tutto speciale?
Sì Roma entra nel cuore, ed io l’ho vissuta nel periodo di grande fermento, con l’avvento della musica beat negli anni 60/70, della protesta nel ‘68… ho fatto parte della gioventù che ha dato la svolta per il cambiamento epocale. Il Piper è stato il ritrovo di giovani artisti in erba come Renato Zero, Franco Miseria, Loredana Bertè, Mia Martini e tanti altri, me compresa, che poi hanno avuto delle carriere meno eclatanti dei sopracitati. Nel 1989 prima di dare l’addio definitivo alle scene (poi mi sono dedicata ai giovani talenti del mondo della danza) ho inciso l’album con dodici canzoni romane classiche, con l’inserimento di un brano da me composto “Roma Pazzo Pazzo amore” una dichiarazione di amore eterno alla città eterna.
Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 30 aprile 2022.
Con Fedez che "torna a casa", annunciando il ritorno dietro il bancone di "X Factor" (è stato giudice già cinque volte), il talent targato Sky prova a risollevare gli ascolti in picchiata delle ultime edizioni. Complice la formula strabusata, concorrenti poco brillanti, e giurati deludenti, come Emma, fatta fuori senza tanti complimenti, la variante italiana dello show respira infatti da tempo un progressivo affanno. Per cui si cerca di rinvigorirlo con la rentrée di uno dei protagonisti più amati, che grazie alla combinazione con la moglie può vantare pure un'indiscussa e appetibile popolarità. Ma Federico Lucia può davvero fare miracoli?
O la sorte del programma, a questo punto, è inesorabile? L'abbiamo chiesto al decano dei critici musicali italiani, Mario Luttazzo Fegiz, che si addentra in una disamina sul mondo dei talent show, considerati da sempre "degradanti, una fabbrica di illusioni che sforna centinaia di frustrati". Ma pur graziando il rapper, la storica firma de il "Corriere della Sera" non è ugualmente magnanima con altri ex giudici. A partire da Arisa, "una miracolata della televisione". E poi Emma, "simpatica, ma sembra la Goggi, che fa tante cose male, ma le sa fare". Infine pure un affondo su "Amici", e i "figli di", come LDA (figlio di D'Alessio). E ancora Ramazzotti "buzzurro", e la Pausini "col carisma di una verza". Chiudendo col destino dei nostri all’Eurovision, in cui la favorita è già designata (leggi Kalush, Ucraina)…
Dunque Fegiz, Fedez è di nuovo a X Factor: una buona idea o l'ultima spiaggia del talent?
Qualche anno fa (2012) ho scritto un libro rivelatore, tratto dallo spettacolo omonimo "Io odio i talent show", quindi la mia posizione è indicativa da sempre. In verità i talent li ho sempre trovati noiosi e degradanti, una fabbrica d’illusioni, in cui si producono artisti che il mercato non può assorbire, trasformati in centinaia e centinaia di frustrati. Per cui, sì, con Fedez proveranno a risollevare gli ascolti, anche se mi auguro che questa parabola discendente non si arresti affatto, e si torni agli show che non puntano sullo "scorrimento del sangue".
Ma Fedez basterà?
Senza dubbio è interessante, e mi è anche pericolosamente simpatico. Un personaggio polivalente, e si è visto anche che dalla Tv può tranquillamente passare alla politica, come insegnano Grillo e Zelensky. Sicuramente puntare su di lui è una buona idea, ma non credo potrà risollevare l'audience in picchiata. Ormai la formula è logora.
Quindi X Factor è morto, o non è mai stato vivo?
Diciamo che vegeta da parecchio tempo. All'inizio era vivo, ma dopo tanti anni la gente si è rotta le palle, e quasi quasi preferisce il documentario sugli scimpanzé.
Emma, meglio come giudice o cantante?
Meglio come giudice. Lei è molto simpatica, mi chiama pure "zio"... È una donna con una bella comunicativa, merita di fare anche l'attrice.
Quindi la preferisce in altri ruoli?
Io la vedo come la Goggi, che sa fare tante cose male, ma le sa fare.
Se dovesse buttare dalla torre Amici e X Factor, chi butterebbe giù per primo?
Bella domanda questa, probabilmente X Factor.
Come mai?
Perché almeno il programma della De Filippi, per quanto sia allucinante, ha una dimensione più coinvolgente, stimola a vedere fino alla fine. X Factor, invece, è un po' una messa cantata.
Non salva nessun artista uscito dai talent?
Ne salvo diversi, ma un conto è lanciarne un paio validi, un altro è dirigere un format così per decine di anni.
Per esempio, dei Måneskin che mi dice?
Ne parlavo poco fa con Finardi... Ricordano la nostra gioventù, sono cose già viste, niente di originale, ma sono giovani, freschi, trasgressivi. Mi piacciono.
Qualche anno fa non è stato molto tenero con Alessandra Amoroso. Poi avete fatto pace?
(Ride) Sì, avevo catturato una sua indecisione durante un'intervista. Ma sa, in tutta la mia carriera, ho provato a stroncare la carriera solamente di due artisti.
E chi sono?
Eros Ramazzotti e Laura Pausini.
Come mai?
Ramazzotti perché era un buzzurro, e la Pausini perché aveva il carisma di una verza.
Lo pensa ancora?
No, poi mi sono innamorato di Laura, delle sue fattezze (ride). Mi sono arreso. D'altronde, una persona che, tanto per dire, copre un intero stadio in Finlandia, cantando solo in italiano, una marcia in più la deve avere per forza.
Quest'anno ad Amici ha gareggiato anche il figlio di Gigi D'Alessio, LDA. Appena uscito ha già firmato un contratto con la Sony. Quindi i "figli di" sono favoriti nella carriera musicale?
E ci credo che ha già un contratto... Ma i figli d'arte, in realtà, non hanno mica vita facile, vedi Cristiano De André. Tra i pochi sopravvissuti al padre, c'è Gianluca Guidi, figlio di Johnny Dorelli. Le operazioni in famiglia non funzionano quasi mai, prendi pure Giorgio Conte, fratello di Paolo Conte, non è mica meno intelligente o bravo, ma di fatto è il numero 2.
Ma LDA le piace?
Confesso che non l'ho ascoltato, ma adesso mi ha incuriosito, quindi andrò a cercarmi un paio di cose sue.
Si può dire che i giudici sono il punto debole dei talent?
Non sono il punto debole, ma il punto critico, di chi ha un ruolo fondamentale nello spettacolo. E se non sei un istrione come Malgioglio, alla fine rompi le palle, stanchi. La gente vuol sentire musica, non chiacchiere e scenate. In più servono degli autori validi che suggeriscano cosa fare.
Anche Arisa è stata giudice di X Factor. Che ne pensa della sua svolta sexy?
(Ride). Mah... Rosalba Pippa, il suo vero nome, è uno dei miracoli della televisione. Un personaggio insipido, conciata sul palco nel modo giusto e lanciato sul mercato.
Intanto è partito anche il countdown per l'Eurovision. Che mi dice dei nostri? Mahmood ha rilanciato dal palco del Bataclan che fa il tifo per l'Ucraina: sarà la favorita?
Mahmood e Blanco mi piacciono molto, e il loro brano è anche sofisticato. Onestamente spero proprio che non si favorisca l'Ucraina per via del conflitto, sarebbe davvero triste. Che vinca il migliore, e basta.
E di Achille Lauro che gareggia per San Marino?
Sperando che non sprechi l'occasione, è un personaggio a tutto campo, fa bene a provarci. Vediamo cosa si inventa con le sue scenate, a livello di repertorio non è che abbia dei capolavori, ma lo apprezzo.
Barbara Costa per Dagospia il 28 maggio 2022.
Non sono più vergine. E l’imene metal me l’ha rotto lui, Giovanni Rossi, l’autore di "Marilyn Manson. Il Rock è Morto", biografia documentatissima, appena uscita per Tsunami Edizioni. È stato lui, a riempirmi di sperma mansoniano, poiché io, prima del suo libro, di Marilyn Manson nulla sapevo, nulla!!! Non che ignorassi il personaggio, la sua luciferina presenza ha tallonato la mia adolescenza, ma ai tempi avevo testa e f*ga altrove… e ora no, ora ne voglio, e ne voglio sapere, di questo truccato spilungone, e dei tetri incubi che attanagliano la sua mente e che lui riversa in canto e scrittura.
Se non c’è stacco tra Marilyn Manson e l’uomo che lo ha creato, mica sarete tra gli allocchi che pensano Manson sia un cannibale (fake nata da suoi tipici amplessi con le groupie, lui a rivestirle di carne macellata per "divorarsele" così…), o che ingoi gatti interi, che inc*li asini, o che si sia strappato i genitali, né che abbia fatto rimuovere l’occhio di una tipa per f*tterla nel cranio… ma per favore!!! È vero che ha girato filmini porno sui tour bus, e che ha registrato il suo primo disco nella casa in cui Charles Manson ha massacrato Sharon Tate, ma MM non è un satanista, bensì uno studioso di Aleister Crowley e scienze affini.
Manson è in cerca di una alternativa a Dio sebbene si consideri simile a Gesù (“pure lui aveva la sua fama, gente che lo seguiva. Frequentava prostitute. Tanti ce l’avevano con lui, eppure siamo diversi: io non porgo l’altra guancia, io non credo nella pietà”).
Suvvia, quanto Manson mette in scena è una forma d’arte il cui scopo è da 30 anni più che riuscito: Manson è uno spettacolo, un intrattenimento che non lascia indifferenti perché chiunque con lui è spinto a reagire. Se MM prende fastidiosa posizione su temi sensibili, tu puoi maledirlo, amarlo, certo non puoi scansarlo.
Lui è “il caos, un uragano: e un uragano non si ringrazia”. Non è un fenomeno da baraccone un signore dalla fama planetaria capace di cavalcarla da 3 decenni nonostante cadute e risalite pubbliche e private. C’è sostanza dietro una rockstar impastante filosofia e letteratura in una critica sociale pressante e seminale. Da folle cartone animato per adulti, attirante e atterrente, Manson mette in croce la sua America per fargli fare i conti con sé stessa.
Con le sue ansie, e ipocrisie, e tabù. Manson non compiace nessuno se non il suo intelletto, e irride maligno su paure miste a desiderio, e sì, la sua canzone "Herpes" è un omaggio alle groupie. È vero che fa collezione di cimeli nazisti, e che la sua casa è arredata da protesi e ossa di animali e dallo scheletro intero “di un bambino di 7 anni, che io ho ricomposto”. E che lui una volta ossa umane le ha prese (“nei cimiteri di New Orleans, le cogli come fragole”) e sbriciolate e fumate (“una emicrania di 3 giorni”).
È vero che si scarifica, e che ha “succhiato il caz*o a diversi uomini: ma come baciare una ragazza non la mette incinta, così succhiare caz*i non ti rende gay”. Anche se molti gli rimproverano di essere una contraddizione ambulante di sé stesso, io non ci credo – e mi si portino le prove del contrario – alle accuse che di recente hanno colpito Marilyn Manson. Io, che non mi fido del MeToo (e qui su Dagospia ne ho scritto) e che nutro enorme scetticismo verso tali denunce tra celebrità, rimango basita da come Giovanni Rossi, nel capitolo finale di questa avvincente biografia, metta Manson sul palco dei colpevoli, aspettandosene la fine artistica.
Scusa, Rossi, per caso “are you fated/ faithful/ fatal”.!? Dov’è la sentenza definitiva??? Io leggo di denunce contro Manson ma via social, e che è sotto indagine. Come altresì leggo (e scaricabili dai profili social di Manson) i documenti di controdenuncia del sig. Manson ai danni di chi lo attacca. Manson si è dotato di un team di legali e solo tramite essi risponde, rimanendo (per ora) zitto coi media.
La stessa strategia adoperata quando media e politici l’hanno incolpato della strage di Columbine, come se una rockstar, per quanto firma di testi oltremodo espliciti, e affondanti nelle più orride devianze, possa essere responsabile delle azioni e le più agghiaccianti di altri che poi, come nella sparatoria a Columbine, manco erano suoi fan.
E questo Giovanni Rossi lo narra in modo eccellente. Però perché non stare con Manson ma solo con chi lo accusa di essere un sadico sessuale? Per il nome che porta, per l’immagine che dà…? Per ogni video in cui si è dato in pasto al comune sentire, dando fastidio? (oh, in questo caso che si boicotti "(s)AINT", prodigo promemoria, distillato di viziosità, e lo dirige, decimandolo a s*ghe terrorizzante a sc*parselo… Asia Argento). O per i mai mai mai da MM negati passati rapporti con ogni tipo di droga, tranne l’eroina?
Ma sentiamole, le furenti accusatrici di Manson: “Mi ha seviziato con un sex toy” (Evan Rachel Wood), “mi ha lanciato bicchieri, e mi ha offerto a altri uomini, ma io ho rifiutato” (Ashley Walters), “mi ha costretto a drogarmi, e a fare un patto col sangue” (Gabriella Accarino), “mi ha rinchiusa e mi ha minacciata con una mazza” (Sarah McNeilly), “mi fotografava le parti intime” (Ellie Rowsell), “mi ha puntato una pistola alla tempia” (Love Bailey), “mi diceva che sognava di bruciarmi viva” (Jenna Jameson), “mi ha rincorsa con un’ascia” (Esmé Bianco).
È la verità? Perché, da donna, devo credere a donne che mai han detto no a sadomasochismi a loro dire non consensuali, mai vi si sono ribellate se non anni e anni dopo, accodandosi alla vulgata MeToo e al suo foro social-mediatico? Tutte deboli, mentalmente schiave di Manson? E com’è che Dita Von Teese, partner di MM per 5 anni (e pure di giochi bdsm) si lamenta delle corna, ma dice che mai è stato violento con lei? L’unica ad aver avuto la forza di dirgli senti, amor mio, questi sono i miei confini, rispettali, come io rispetto i tuoi, altrimenti vaffanc*lo???
Io mi chiedo: come mai tutte 'ste ex, quando Marilyn Manson le portava alle première garantendo loro flash e gloria, erano lo specchio della felicità e della boria che dà l’essere fidanzata con una star (la prescelta! la mejo delle altre!), oggi si fanno vittime mediatiche additando la stessa star a mostro…? A chi devo credere??? Al Manson da ogni intervistatore descritto persona “gentile, educata, misurata”, o al perverso, maniaco, in modalità Shining? Sicuro 'sta biografia mi ha messo fame di conoscerlo. Quasi quasi di frequentarlo. Non lo nego: sui morsi nel sesso, e su porno e pornostar (MM ha avuto storie con Traci Lords, con Jenna Jameson, e con Stoya…!) io e il Reverendo Marilyn Manson ce la intendiamo a meraviglia.
Barbara Costa per Dagospia il 7 agosto 2022.
143 centimetri! È porno pocket! La pornostar tascabile! Lei entra tutta in una valigia, “pure dentro la lavatrice!” (!!!), lei è tra le più minute – se non la più minuta – attrice porno in circolazione! Fa bene a dirlo e a vanto: “Chi nel porno è come me?”.
Lei si chiama Mary Jane ed è italiana, italianissima, nata a Bologna e residente in un piccolo paese delle Marche: Mary Jane è una performer nuova, fresca, che ha iniziato da poco segnando colpi su colpi. Non sbagliando un colpo. Lei tenta i lolitomani, e non gli dà tregua, sonno, pace, lei è sessualmente irruente, e le pornate che sa fare! Le avete viste??? Gang bang e multiple, e ammucchiate di duri blow-job, e porno quello per stomaci forti, e lesbico ma che fista, che squirta, reciproco e a scambio, e a pugno dentro: "Drink My Squirt!"! "Sperma Drink"! Non c’è posizione, e perdizione, e porno provocazione che Mary Jane non sovrasti da guerriera.
Lei si sta costruendo un personaggio porno vincente, soave ma che superbo adotta la sua esilissima fisicità e il suo viso da bambolina per poi sul set e a te dal video che la veneri… divorarti!!! Perché è Mary Jane che capeggia ogni azione! È lei che guida quei grossi corpi, corpi che la stringono, la spupazzano ma non c’è incastro, non c’è porno impatto che Mary Jane non sappia controllare.
Ti ecciti a pensarla sorpresa, vinta, piegata da quei maschioni che ne possiedono ogni parte (guarda un po’ la gang bang 7 a 1, che fa, come la fa: ci credi che lei la doppia anale l’ha eseguita, la prima volta, su un set? è dono di natura…) quelle membra fragili che sono tali perché lo pensi tu! Magia del porno, trucco che ti serve il porno, ma la realtà fa i conti con una ragazza di 23 anni che ha debuttato nel settore giusto un mese prima che il mondo si barricasse: era il febbraio 2020 e Mary Jane nel porno aveva scommesso sé stessa. Lei che, solo 18enne, già sondava la sua acerba sessualità nei club scambisti.
Lei che, col suo fidanzato, passava dai club scambisti ai social per postare i loro amplessi. Lei che, mollato il fidanzato, si è messa in cam tre volte la settimana, a farlo, sul serio, e come mestiere. E dalle cam… al porno. Decisione non facile, decisione ponderata, Mary Jane ha girato la sua prima scena, su un set semi amatoriale. Scena riuscita alla perfezione, ambiente e sue sensazioni sul set positivissime. Da riprovarci subito… e invece no, ferma a casa, in lock-down, cos’ha fatto la nostra eroina? Superato lo sconforto, sagace si è impegnata a rafforzare i suoi pochi chili. Esercizio e zero sgarri alimentari per fortificarsi, come fanno le pornostar professioniste.
Se infatti è il porno e quello più strong che vuoi fare, è del tuo corpo atletico che ti devi occupare. Con il mondo ritornato parzialmente normale, Mary Jane ha lasciato l’Italia per Praga e Budapest, sudando e orgasmando per LegalPorno, e così dilatando la truppa di attrici italiane che si danno anima – e tanto corpo – a quei porno volteggi spropositati.
Anche per la direzione dei nostri Giorgio Grandi, Francesco Malcom, ma pure di Marco Nero, Mary Jane ha in carnet più di 50 scene, e altre in uscita. Il suo fisichino passa dal porno più carnale alle lesbicate epidermicamente cariche by Lesbea. Mary Jane è bisex ma forse meglio dire pansex, ma forse neppure perché “a me non importa che tu sia uomo, donna, etero, gay, trans: conta come ti rapporti con me, e questo vale sui set, al pari delle relazioni personali”.
Mary Jane la trovi su OnlyFans, ma pure in show sexy dal vivo: lei del palcoscenico è novizia e però sa il fatto suo pur tra corpi ben più imponenti. Come nel porno. Sono i suoi 143 cm la sua forza. È su quei 143 cm che i boss del porno puntano. E lei lo sa benissimo. Quale caratteristica più notevole per spiccare tra la fiumana, com’è quella delle attrici porno, altamente competitiva?
Pornando all’estero, Mary Jane marca la differenza di aperture mentali tra dentro e fuori la penisola, ancorandosi ai lidi natali dove davvero conta: “La mia famiglia m’ha cresciuta con dei forti valori e ci tengo molto a conservarli. Loro non mi condannano. Io voglio vivere la mia sessualità appieno e pubblicamente, e faccio nel porno ciò che mi va e mi piace fare, e non me ne vergogno affatto. Ma fuori dal porno spesso anche chi dice di esserti amico ti giudica. Non si vuole accettare che ogni persona fa delle scelte, nella propria vita, ed è libera di diventare ciò che vuole”.
Andrea Laffranchi per corriere.it il 19 luglio 2022.
Marracash ha forzato il portone della chiesa laica della canzone d’autore. È lui il primo rapper a vincere la targa Tenco nella categoria miglior album con «Noi, loro, gli altri». Lo aveva già vinto «Museica» nel 2014, ma Caparezza è così anomalo da non rappresentare nessun genere.
«Ci tengo al concetto di autore. C’è chi scrive con una visione personale, ha una penna riconoscibile e un’autorialità e chi fa pop a tavolino, lavora assieme ad altri dieci a un brano con logica industriale», commenta il king del rap.
Salmo a San Siro e lei con la Targa Tenco come miglior album dell’anno. Il rap è stato finalmente riconosciuto?
«Un giro di boa. Negli ultimi 20 anni nessun altro genere ha avuto lo stesso impatto sul Paese. Il rap è stato costante nel maturare e nel crescere. La mia generazione, aggiungo Fabri Fibra e Club Dogo con Guè che anche quando è scanzonato è un autore nel senso di cui sopra, ha fatto da ariete. All’inizio anche il pubblico ci guardava come se fossimo dei giocolieri, applaudivano ma non partecipavano. Ora cantano tutto».
La nuova scena trap però è sotto tiro: concerti in playback, insulti ai fan...
«La mia generazione ha scoperto il rap con l’adolescenza. Oggi il rap si è diversificato, è per tutte le età, anche per bambini. Salmo e io rappiamo ogni singola parola, il nostro è un live vecchia maniera e c’è un pubblico che cerca questo. Ne esiste uno che, magari perché a causa della pandemia non ha mai visto un concerto, preferisce saltare e ballare, è un contesto più simile alla discoteca. Non sarei così duro con gli emergenti... Noi abbiamo avuto più tempo per fare gavetta, loro si trovano catapultati in contesti cui non sono pronti. Qualcuno sparirà, altri capiranno cosa è un live».
Si aspettava la Targa?
«No, mi ha sorpreso perché “Noi, loro, gli altri” è un disco outsider per quel contesto: duro, contiene parolacce e verità sbattute in faccia. Non capita spesso che un successo nelle vendite (triplo platino ndr) abbia anche un riconoscimento culturale».
Dovrà andare all’Ariston a ritirare il premio. Si ferma anche per il Festival?
«In gara mai. A parte Rancore, il rap non ci è mai andato. C’erano i rapper ma non il rap. Come ospite ci penserei».
Chi è Luigi Tenco per Marracash?
«Dieci anni fa era diventato un’ossessione. Mi piace ripescare dal bagaglio che mi ha formato, l’ho fatto anche con Vasco in “Noi, loro, gli altri” facendo un campionamento di “Gli angeli” o con “Infinity” per “∞ LOVE” insieme a Guè, per creare la mia versione di quella cosa. Il rap è anche questo. Con “Mi sono innamorato di te” avevo fatto una mia versione conscious e generazionale su chi usa la droga perché non ha di meglio da fare. La famiglia Tenco non ha concesso i diritti. Se lui fosse stato vivo, credo che avrebbe accettato. Con lui sento in comune un lato doloroso, almost blue, notturno...».
Lei ha sempre parlato dei suoi problemi di bipolarismo, ansia... Il successo aiuta?
«Già lo scrivere è terapeutico. Poi il sentirsi capito dal pubblico ti solleva, anche se non risolve i problemi. Quelli con me stesso, me li trascinerò per sempre. E sono certo che non passerà mai la mia incazzatura per i problemi di questo Paese».
«Noi, loro, gli altri» è viene spesso raccontato come un disco di autoanalisi profonda. Vero, ma dentro c’è anche la sua visione senza sconti dell’Italia di oggi...
«Il gancio personale ha creato empatia con le persone. Ci sono poi brani più antisistema che raccontano cose di cui la gente forse non vuole rendersi ancora conto. In autunno ci faremo i conti».
Cosa la preoccupa?
«L’ingiustizia sociale. Abbiamo uno stile di vita insostenibile, un sistema economico da mettere in discussione. Chiara Ferragni chiede più sicurezza al sindaco di Milano. E fa bene. Ma è insostenibile che possano esistere Chiara Ferragni e gente poverissima. Dobbiamo lavorare per risolvere queste differenze. I ragazzi sono spinti alla competizione, la cultura del successo e del fare soldi è bugiarda. E quando ci sarà gente che manifesterà spaccando vetrine, la colpa ricadrà su di loro».
Però il rap ha sempre esaltato successo e ostentazione...
«Erano altri tempi. C’è stato un momento in cui sbattere in faccia i soldi fatti da un afroamericano era rivoluzionario. L’esagerazione era provocazione. Oggi sui social tutti ostentano... dove sta ribellione nel farlo?»
È appena partito da Torino il tour estivo nei festival e in autunno sono in arrivo 17 palazzetti, fra cui 6 Forum di Assago...
«Un live con momenti emotivi, altri incazzati, atri con attitudine rock... La band porta le canzoni ad un altro livello, anche se in alcuni momenti uso le basi: uno spettacolo a 360 gradi».
Come si prepara?
«L’ho presa seriamente. Ho fatto un fioretto e ho smesso di fumare sigarette da un mese, ho cambiato orari di vita, ho persino un vocal coach».
Elodie si è commossa alla prima data...
«Come ho già detto, il nostro rapporto non è una relazione come la intende la gente là fuori, abituata a incasellare tutto».
Marracash e il video di «Dubbi»: «Basta collane d’oro, l’hip hop deve cambiare». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.
Il rapper lancia il nuovo singolo con le immagini dell’artista Tarik Beber. Elodie? «Ci vogliamo bene, ma la nostra relazione non entra nelle caselle normali».
Per una volta non è stato (solo) egotrip. Quando Marracash nel 2011 si autoproclamava «King del rap», ci vedeva lontano. Sono passati undici anni e chi vuole entrare nel campo di gioco dell’hip hop se la deve vedere con lui. I suoi ultimi due album, «Persona» e «Noi, loro, gli altri» hanno lasciato il segno. Non solo nei numeri, 5 e 3 volte platino, ma soprattutto nell’approccio alla materia. Un modo di raccontarsi personale, maturo, capace di alzare le vele e navigare oltre l’arcipelago droga, machismo e brand.
«L’hip hop sta affrontando un momento rivoluzionario. Oggi non è più rivoluzionario indossare i collanoni d’oro come Notorius BIG negli anni 90: un afroamericano che dal ghetto diventava qualcuno era qualcosa. Quella narrazione è over-sfruttata. Bisogna fare qualcosa di nuovo», racconta Marra alla presentazione del videoclip del suo nuovo singolo «Dubbi». Si tratta di un video di animazione realizzato dall’artista Tarik Berber con 2500 disegni, in parte esposti in una galleria milanese: «Per questo progetto non inseguo i numeri su YouTube, ma la valenza artistica. Ho contattato Tarik dopo che un’amica mi aveva fatto conoscere le sue opere». Il disco personale, adesso, lo fanno in molti.... «Per me è stato difficile e doloroso, emotivamente provante. Per scrivere certe cose devi scavare e quello che trovi non sempre è piacevole».
La corona gliela sta consegnando il pubblico. C’è un tour in arrivo, 14 date nei festival estivi dell’Arena di Verona, e 17 date (6 volte al Forum di Assago) nei palazzetti in autunno. «L’idea di base è la stessa dei dischi, elevare un genere anche nella performance — commenta —. Nell’hip hop mi sembra stagnante: un rapper da solo sul palco fra autotune e stecche... Avrò una band e dei visual a completare il racconto. E ovviamente degli ospiti. Pensavo anche a un tenore per la parte di Pagliaccio in cui riprendo l’opera». «Persona» non riuscì ad avere una dimensione live a causa della pandemia. «Non sono mai stato uno sulla ribalta, non uso molto i social e già prima di “Persona” avevo fatto una specie di lockdown personale nato da una crisi personale profonda. Siamo usciti tutti a pezzi da questo periodo, ma credo sia parte del percorso». Sui rotocalchi ci è finito per la relazione con Elodie... «Il nostro rapporto esiste ancora. Difficile spiegarlo però alla gente abituata a caselle predefinite. Non è una relazione come la si intende là fuori, ma ci vogliamo bene, molto bene».
C’è appena stato anche il riconoscimento dell’imperatore Vasco Rossi che lo ha ospitato in una nuova versione di «La pioggia alla domenica». «Un’offerta che non potevo rifiutare. Al di là della santità di cui gode in Italia, sono un suo fan e lo considero maestro di songwriting. Vorrei essere il Vasco o il Lucio Dalla del rap».
Fedez ha fatto pace con J-Ax . Anche con Marra ci sono state tensioni e dissing in passato, fra interviste e battute sui social. «Trovo che le frecciatine siano ormai un confronto sterile, siamo adulti. Io e Fedez siamo diversi ma non c’è nulla di personale, non ce l’ho con lui. ». Domenica avrebbe dovuto essere fra i protagonisti del Concertone di Radio Italia a Milano ma ha dato forfait per «problemi tecnici». «Alle prove mi sono trovato con degli arrangiamenti che stravolgevano i pezzi. Avevamo preso degli accordi diversi. Senza colpevolizzare nessuno, non è facile fare hip hop con un’orchestra.».
Martina Colombari: «Mio marito Billy Costacurta per conoscermi strappò la cornetta a un amico. Le wags non mi salutavano». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.
La modella e attrice: «Alberto Tomba? L’ho invitato a cena con mio marito e mio figlio Achille Costacurta. La cosa più strana che ho fatto è stato portare i cadaveri nelle fosse comuni di Haiti per aiutare la Fondazione Rava».
«A volte, quando sono a Riccione da mia madre, succede che arrivi una chiamata da Milano. Comincio a parlare una lingua diversa, con parole come “skills”, “empowerment”, “mindfulness”. Alla fine della telefonata lei mi guarda e mi dice: “Marti, io non ho capito niente di quello che vi siete detti». In questo aneddoto c’è la parabola di Martina Colombari, 47 anni, nata in Romagna, figlia unica di mamma Delfina e papà Maurizio, titolare della storica pizzeria «Da Gianni». Ex reginetta di bellezza, la Miss Italia per definizione, fidanzata e moglie di campioni di cui però non ha mai usato come viatico il cognome («anche negli alberghi sono sempre la signora Colombari»), modella, oggi appassionata di meditazione, attrice teatrale e volontaria della Fondazione Rava.
Martina Colombari, lei è cresciuta a pane e riflettori. A 16 anni era già la più bella d’Italia.
«Siamo una famiglia precoce, mia mamma mi ha avuta a 17 anni, io a 16 avevo una corona da Miss in testa. Tutto ha avuto indubbiamente una accelerata pazzesca».
Oggi a che punto è della sua «corsa»?
«Un punto interessante. Ho capito che devo iniziare a lavorare su me stessa, senza tenere eccessivamente in considerazione il giudizio degli altri. Mi hanno aiutata molto dei workshop di meditazione fatti in Israele, Svizzera e Italia».
Ha investito su sé stessa.
«Se vogliamo vedere un cambiamento negli altri dobbiamo cambiare noi, uscire dalla comfort zone. Alcune persone hanno iniziato a non vedere più la Martina di prima, così ho fatto pulizia intorno. E anche a dire a me stessa: “Questo mi piace, questo non mi piace”».
Più consapevolezza.
«Una parola molto abusata, come tante altre che sento in giro e che uso anche io».
Riavvolgiamo il nastro. Martina bambina e ancora poco consapevole. O già consapevole della sua bellezza?
«Per nulla, tuttora non lo sono, certo gli specchi li ho, ma non ho mai pensato che essere bella fosse un talento: è un punto di partenza. Sono cresciuta nel Paese dei balocchi: quando iniziavano le giornate di sole mia mamma mi veniva a prendere con i panini e andavamo in spiaggia a fare i compiti. Ma d’estate la vedevo scomparire: tornava a casa dal ristorante alle dieci di sera».
Le davano qualche piccola mansione?
«La cucina era vietata, per via degli schizzi d’olio e dell’acqua bollente. Mangiavo nella dispensa al piano di sotto guardando un muro, insieme alla signora che stirava le tovaglie».
Chi si occupava di lei?
«I nonni paterni. Mio nonno faceva una professione che avevano deciso di tenermi nascosta, il becchino. Vivevo circondata da raso viola, ma non capivo bene il perché».
La Riviera Romagnola d’estate. Un ricordo.
«La nonna mi portava al mare, magra magra ma con una pancia grande e tirata, come quella delle donne incinte, accentuata dal costume intero. Fumava e bestemmiava. Quando mio nonno riposava, di pomeriggio, io e lei andavamo in stazione a vedere i treni che passavano, con il gelato al limone con lo stecco di liquirizia».
Poi è passato anche il suo treno.
«Un treno dal quale la mia famiglia voleva farmi scendere. Mia madre faceva di tutto perché non mi montassi la testa. “Mamma, mi dicono che forse vinco Miss Italia”. E lei: “Sono stupidaggini”. Mio papà insisteva perché cedessi lo scettro alla seconda classificata: dovevo tornare a scuola, a Riccione».
E invece a Riccione ci è tornata solo per i festeggiamenti della città.
«Il sindaco organizzò una conferenza stampa nel ristorante dei miei genitori, mi ricordo che indossavo una giacca blu con una camicia a pois bianchi, forse avevo anche una fascia in testa».
Da Riccione a Milano, un percorso obbligato.
«E non semplice. Milano mi ha dato la vita, la mia famiglia, il lavoro, mio figlio, il volontariato. Ma all’inizio alle cene non mi rivolgeva la parola nessuno: tornavo a casa e piangevo. Con il lavoro che ho fatto su me stessa non accadrebbe più. Me ne fregherei».
Perché non le parlavano?
«Lavoravo nella moda, ma per loro ero poco modella, mi portavo dietro l’“onta” della Miss Italia. Al tempo stesso ero troppo modella per altri ruoli. In alcuni ambienti la mia bellezza creava problemi, sono stata discriminata».
Un «body shaming» al contrario?
«Prima della mia persona arrivano le gambe e la faccia e vengo “filtrata” in base a quello. Si parla sempre di inclusione, ma questo deve essere valido anche per la bellezza, non solo per la razza, la religione o la taglia».
Però è andata lo stesso per la sua strada.
«Giravo con Tuttocittà in mano, all’epoca non c’era Google Maps. Non ho preso mai la patente e ammetto che ogni tanto mi sento un po’ impedita, ma a Milano i mezzi pubblici funzionano».
Niente autista?
«La mia regola è vivere con normalità la specialità. Siamo viziati, fare cose comuni ci aiuta».
Lei si è discostata fin da subito dal modello «wags», la moglie tipica del calciatore.
«Non sono mai stata chiamata una volta signora Costacurta e ho mantenuto una mia identità, anche nell’abbigliamento. Mi ha salvato il fatto che sono sempre stata un po’ antica. Ogni tanto mi piacerebbe svecchiarmi, ma ho un classicume innato. Pochi mesi fa ci ho provato a comperarmi uno stivale super modaiolo, ma sembravo il cubista Panariello, quello del “si vede il marsupio?”... mio marito mi ha guardato e mi ha detto: “Ma dove vai...” ».
Suo marito Billy Costacurta: siete una delle coppie più longeve d’Italia.
«Siamo insieme da 26 anni. Ci siamo conosciuti al telefono: stavo parlando con un amico comune, Piero, e Billy quando ha saputo che dall’altra parte c’ero io gli ha strappato di mano la cornetta. Da tempo voleva conoscermi».
Lui all’epoca era sposato.
«Si stava separando e i primi anni che frequentavo San Siro le altre mogli neppure mi salutavano: ero quella che arrivava dopo e per giunta famosa. Forse anche il mio essere un po’ asburgica, precisina, non creava empatia».
La maternità.
«Achille è arrivato quando meno ce lo aspettavamo, avrei voluto un altro figlio, ma non è arrivato. Ho pensato a un affido, questa estate vorrei portare un bambino ucraino a Riccione».
Che tipo di mamma è?
«Ho cominciato benissimo: mettiti la canottiera, mangia le verdure, niente zucchero, ma poi mi sono persa. Adesso Achi ha i “grillz”, la mascherina-gioiello per i denti. Ieri siamo dovuti tornare indietro in un bar: “Mamma mi sono scordato i denti nel piatto della brioche”».
Achille non farà il calciatore.
«No, ha quasi diciotto anni e frequenta l’Istituto Economico Finanziario: ho capito che i figli sono altro da noi, metà genetica, metà carattere. Non mangiano come noi, non vestono come noi e dobbiamo rispettarli nella loro identità».
Ha eliminato la carne dalla sua dieta.
«Sono la regina del Tupperware: mi preparo a casa del cibo sano che poi consumo sui treni, nei camerini. Anche a Billy preparo la schiscetta da portare a Sky. La gente si aspetta che io abbia una vita stravagante, non è così. La cosa più strana che ho fatto è stato portare i cadaveri nelle fosse comuni di Haiti».
L’impegno con la Fondazione Rava?
«Durante una cena di beneficenza, dopo che eravamo stati alla Scala, mi sono chiesta se aiutare le persone fosse stare seduti a teatro o in un bel ristorante. Così ho deciso di diventare volontaria: ma non giudico chi non lo fa, non tutti sono in grado di guardare in faccia il dolore».
Ha un milione di follower su Instagram.
«Un profilo che curo personalmente. Nel bene o nel male è autentico, è il minestrone della mia vita. Achi mi dice che dovrei “crescere” di più, poi gli spiego che potrei mettermi nuda in un post e catturare altri follower, ma forse non sarebbe felice di vedere sua madre così. Anche il mio Instagram è un po’ antico».
Ha debuttato da poco a teatro con «Montagne Russe» assieme a Corrado Tedeschi.
«È la prima volta in carriera in cui non mi sento giudicata, faccio il mio spettacolo con serenità, protetta dal personaggio. E poi sto lavorando a un podcast con mogli di sportivi che però non fanno solo le mogli di sportivi».
Un tratto del suo carattere?
«Accudente al punto da essere invadente. Ho preso la tenerezza da mia madre, mio padre ha i tatuaggi, va in moto. Infatti sono separati».
Chi sono le sue amiche oggi?
«Le mamme dell’asilo nido di Achille, 4 amiche con cui ci facciamo almeno tre weekend all’anno dormendo dentro la stessa stanza».
Con Alberto Tomba, suo storico fidanzato, in che rapporti siete?
«Ottimi, ci siamo visti anche pochi mesi fa a Milano Marittima assieme alla sua mamma. Ogni tanto mi manda la geolocalizzazione e devo capire da quello se si tratta di un luogo dove eravamo stati insieme o un posto dove vive una persona che conosciamo. Io però ho pochissima memoria e lui ci rimane male».
Siete stati una coppia amata dalla gente.
«Siamo stati molto innamorati, per lui lasciai il fidanzatino di Riccione, è stato il mio primo uomo. Ma in realtà il suo entourage pensava che una donna per il super campione potesse essere una distrazione e quando ho iniziato ad affermarmi sul lavoro sono nati i problemi. A volte gli propongo una cena tutti insieme con Billy e Achi: per ora mi ha sempre detto di no».
Cosa vuole fare Martina da grande?
«Magari il suo lavoro, delle interviste in tivù a personaggi che mi piacciono. Ho cominciato in lockdown con le dirette Instagram, da Stefano Boeri a Gianluca Vacchi. Vorrei raccontare le persone a modo mio».
Massimo Bottura: «Mai pensato alla morte vivo nel futuro, ma ho paura per quello di mio figlio». Angela Frenda su Il Corriere della Sera il 14 Ottobre 2022.
Lo chef che ha cambiato la reputazione della ristorazione italiana e trasformato la cucina (anche) in uno strumento di azione politica, a 60 anni racconta ciò che non è ancora diventato e ciò che non ha ancora fatto. «L’amore? Io e Lara potevamo perderci, lei è l’unica capace di farmi cambiare idea»
Massimo Bottura è nato a Modena il 30 settembre 1962. Ho ottenuto le tre stelle Michelin con l’Osteria Francescana, a Modena, più volte premiato come miglior ristorante al mondo nella classifica dei World’s 50 Best Restaurants (fotoservizio di Maki Galimberti)
Per Massimo Bottura tutto ha un senso. Sempre. Anche ordinare una Coca Cola. «Me la porti in vetro, per favore? Ma fai attenzione: non devi aprirla. Sennò si sgasa. E allora l’equilibrio dei sapori va a farsi benedire assieme al sapore».
Sprofondato in una poltrona, lo chef italiano più amato nel mondo è avvolto in un maglioncino blu girocollo («non uso più camicie da quando ho deciso di seguire la lezione di Marchionne») con lo stemmino di Gucci, azienda partner di molti suoi progetti guidata dall’amico d’infanzia Marco Bizzarri, per lui «Bizza». Il volto sottile. Gli occhi svegli come quelli di un bambino davanti a un cabaret di dolci, il cuoco che ha cambiato la reputazione della ristorazione italiana e trasformato la cucina anche in uno strumento di azione politica (ma di questo ragioneremo più avanti) è, da pochi giorni, uno splendido sessantenne, per dirla alla Nanni Moretti.
Tre stelle Michelin con l’Osteria Francescana a Modena, più volte premiato come miglior ristorante al mondo nella classifica dei World’s 50 Best Restaurants, protagonista nelle serie Chef’s table e Waffle + Mochi di Michelle Obama, tanto per citare due esempi, è una star mondiale. Osservandolo in un pomeriggio di ottobre in uno dei suoi (rari) momenti di relax, Bottura sembra più che altro aver intrapreso un viaggio all’indietro nel tempo. Nessun segno di stanchezza o di rallentamento. Un’energia intatta. Anzi, raddoppiata. E una parola al centro del suo vocabolario: «Futuro. Che non si può abitare. Lo si immagina, lo si costruisce, lo si prepara. Non possiamo aggredire il futuro e non lo si può evitare. Non lo si può combattere. Occorre imparare ad amarlo. Sento forte oggi più di prima il bisogno di riempire gli spazi con le idee. Perché il futuro non è un luogo,ma uno stato d’animo».
Bottura però, sinceramente, non ha mai voglia di fermarsi un attimo e prendere fiato?
«Stiamo scherzando? Guardi, io ho sempre detto ironicamente (fa il verso, ndr): ma vedi quello che ha 60 anni … Beh, era una cretinata… Una guasconata da ragazzotto. Se guardo a me oggi, trovo invece un sessantenne che ha voglia di fare cose ancor di più di quando aveva 18 anni. Ho dieci progetti sulla mia scrivania adesso, molti partoriti durante il Covid. Che nel suo disastro, a me ha regalato però almeno il tempo di pensare e creare. In quel periodo ho lasciato decantare la confusione mentale che avevo e che prima, viaggiando così tanto, non riuscivo ad ascoltare. Ma con quella sospensione delle attività mi sono riappropriato della mia vita e dei miei pensieri».
In realtà non è stato fermo neppure durante il lockdown. Con sua figlia Alexa si è inventato il format Instagram Kitchen Quarantine.
«Quella è stata un’idea di Alexa. Io e lei, con un iPhone, siamo riusciti a creare un progetto digitale dove mettevamo in scena con naturalezza le nostre dinamiche familiari. E tutto avveniva nella nostra cucina di casa, a Modena. Ci siamo aggiudicati il Webby Special Achievement Award 2020, premio assegnato dall’International Academy of Digital Arts and Sciences con l’idea di dare rilievo ai migliori progetti social in rete. Bella soddisfazione, lo ammetto».
Nel vocabolario di Massimo Bottura c’è anche un’altra parola: solidarietà. Che declina in progetti di rilevanza internazionale: il Tortellante, Food for soul…
«Credo molto nel sociale. Sarà la mia origine modenese… Noi con il concetto di aiutare gli altri ci siamo cresciuti. Ci viene naturale. Lo si è visto in tante occasioni di calamità: la gente qui sa che siamo più forti solo se ci sosteniamo a vicenda. Proprio in questi mesi, per esempio, stiamo raddoppiando la superficie del Tortellante, l’associazione nata per aiutare i ragazzi con disturbi dello spettro autistico in progetti di cucina aiutati da cuoche esperte (e nella quale è impegnato anche il figlio Charlie, affetto da un raro disturbo psicofisico, ndr). Io e Lara crediamo che sia possibile consolidare il team soprattutto attraverso progetti culturali. Una lezione che dovrebbe imparare l’Italia. Dovremmo capire che stando insieme, condividendo e non combattendoci sempre, possiamo riuscire a venir fuori dai problemi».
Lei è consapevole che il suo modo di agire ha qualcosa di profondamente politico? Nel senso più ampio del termine. E che del cuoco forse sta rimanendo ben poco…
«No, non è così. È che nel 2022 uno chef è molto più delle sue ricette. Io per esempio sono ambasciatore dell’Onu. Nelle nostre piccole botteghe artigiane tutti noi facciamo formazione, seguendo lo stile che era proprio del Rinascimento. Facciamo solidarietà. Facciamo attività sociale. Agricoltura. Turismo. Un cuoco che ha una voce squillante, ascoltata, deve a sua volta sentire forte il senso di responsabilità verso le nuove generazioni. Non puoi permetterti di metterli da parte».
Di giovani si è parlato tanto, anche nel suo settore. Lei come li vede?
«Bisogna insegnare loro a vivere la vita come un sogno da perseguire, e che per farlo devono lavorare sodo. Picasso diceva: il 10 per cento è talento il 90 duro lavoro. Però secondo me molti ragazzi questo concetto lo hanno ben chiaro. Chi ha una passione vera per un lavoro lo fa, si spende. Non ha paura del sacrificio. E non credo che il reddito di cittadinanza possa aver in qualche modo rallentato questo processo. Bisogna dare spazio, come stiamo facendo nel mio team negli ultimi anni, a quelli più talentuosi. E rendere anche la loro vita sempre più sostenibile».
Sostenibilità è una parola quasi abusata oggi. Cosa rappresenta davvero per lei?
«È uno stato mentale. Per me significa avere sempre chiara una visione del team e del progetto. Prendiamo Casa Maria Luigia (l’albergo che con la moglie Lara Gilmore hanno creato alle porte di Modena, ndr). Da un edificio acquistato sulla scia di un istinto abbiamo costruito, giorno dopo giorno, un esperimento di eccellenza sospeso tra hotellerie, ristorazione, arte e design. Vogliamo che sia l’esperienza più completa al mondo di ospitalità. Lì abbiamo rivoluzionato il concetto di barbecue, per esempio: il nostro è concettuale (unisce la griglia alla affumicatura a freddo). E non intendiamo fermarci: dopo aver ridato vita all’Acetaia altro ancora si aggiungerà, come le suite esclusive per turisti di alto profilo che desiderino degli spazi riservati solo a loro. Maria Luigia è il mio futuro, perché è la sintesi di tutte le nostre passioni».
Ma lei che ragazzo era?
«A 18 anni un po’ scapestrato. Ero un giovane provinciale di famiglia borghese pieno di amici. Avevo tanta energia… Preoccupavo un po’ mia mamma, però».
Maria Luigia Bernardoni, detta Luisa. Parlando di lei, una volta ha dichiarato: «Cogny, Ducasse e Adrià mi hanno insegnato tanto in cucina, ma mia madre è stata la mia maestra speciale». Quanto le manca, oggi?
«Ogni giorno. Ma forse è banale dirlo. Lei ha creduto in me quando nessuno lo faceva. È stata la prima a fidarsi del mio talento. Mi ha incoraggiato a seguire la mia passione, così è nata la Trattoria del Campazzo. È scomparsa nel 2014 dopo una lunga malattia. Era un’ex maestra elementare, molto appassionata delle tradizioni culinarie modenesi e mantovane. Quando a 24 anni annunciai a mio padre Alfio che volevo smettere di studiare per dedicarmi alla cucina fu l’unica a non darmi del pazzo. E da lei, ogni giorno, ho imparato i rudimenti della grande tradizione modenese, vedendola lavorare in cucina per pranzi e cene di famiglia. È per questo che ogni volta, ad ogni premio o grande traguardo, mi piace ricordarla».
Quando Jane Kramer, giornalista del New Yorker, intervistò sua mamma nel 2011, lei si lasciò scappare una battuta: «Mio figlio è bravo, ma io cucino meglio».
«E aveva ragione! Lei era straordinaria. Soprattutto nel volere bene: mi ha fatto sentire tanto amato. Era partecipe della mia vita. Pensa che uno degli ultimi giorni, mi disse: ma tu sei sicuro di voler aprire a Istanbul? Mamma li turchi… Era un personaggio unico. Anche un po’ gelosa delle mie fidanzate…».
Bottura parliamo di amore, le va?
«No».
Proviamoci…
Segue un lungo silenzio dove guarda fisso davanti a sé. «Per me l’amore è condivisione di un progetto di vita. E credo che tutto quello che stiamo vivendo con Lara ci abbia reso ancora più forti. Potevamo perderci. Mentre ogni volta che io tornavo da un viaggio, da un premio, da un evento, subito mettevo i piedi per terra. Perché la vita con Charlie ti regala anche questo: saper sempre riconoscere le cose davvero importanti».
Che tipo di padre è?
«Molto severo. Sia con Alexa sia con Charlie. Quando lui mi ha comunicato che voleva andare all’università, io gli ho detto: ok. Ma devi riuscirci da solo. E lui si è impegnato. Ci va, prende il treno in autonomia. Ha un carattere fantastico. Lara invece è più chioccia. Protegge anche me, talvolta persino da me stesso. Sono un istintivo… Lei però ha un modo tutto suo per persuadermi. Tipo, mi parla al mattino quando prendo il caffè, che poi è il mio momento di pace e di riflessione. Lei non usa mai una negazione. Mi sfiora con le parole: sai Massimo, io forse ripenserei a quella cosa… Insomma, pianta il seme. E io così mi apro all’ascolto senza accorgermene. E spesso cambio idea. Lara è la persona di cui mi fido di più».
Bottura, in Italia ha appena vinto la destra. Giorgia Meloni sarà la nuova presidente del Consiglio. Lei non ha mai fatto mistero di essere di sinistra. E ora?
«Mah, io non sono tra quelli che gridano agli estremisti. Se guidano un Paese come l’Italia non potranno farci certo diventare come l’Ungheria con Orban. Siamo gente di buon senso, noi italiani. Però, certo, li aspetto alla prova dei fatti. Perché per me conta sempre quello che fai più che quello che dici. Vediamo, vediamo».
Ha paura della morte?
«Non ci ho mai pensato. Non voglio saperlo. Perché sennò la consapevolezza mi potrebbe frenare e non farmi continuare a immaginare il futuro. Nel mio futuro ci sarà sempre futuro perché anche quando la morte mi raggiungerà sarà l’inizio del ritorno. Ecco, non ho mai affrontato con me stesso questo argomento. Ho così tanta voglia di vivere! Non mi ha mai sfiorato l’idea di morire. E non voglio iniziare adesso a pensarci. Ho troppe cose da fare. Io vivo nel futuro, sempre. Sarà per questo che non sono mai contento. Mai. Perché mentre sono in un momento felice, magari, già sto pensando a quello che dovrò fare dopo».
Ha un desiderio?
«Far tornare mia mamma e chiederle di cucinare per me. Avrei modo finalmente di dirle tante cose che magari ho dato per scontate».
E un rimpianto?
«Rivivere il momento in cui dissi a mio padre che avrei fatto il cuoco e potergli far vedere tutti i riconoscimenti che ho avuto. Lui non era contento della mia scelta. Il nostro non è stato un grande rapporto. Non siamo mai riusciti a dirci le cose fino in fondo. Lui era un po’ un padre padrone e aveva una relazione più forte con i miei due fratelli più grandi. Ma quella sua reazione, quel suo giudizio così duro sulla mia scelta, è forse una delle cose che mi ha fatto soffrire di più. Ancora oggi, se ci penso, vorrei poter farlo ricredere. Ma quel dolore è stata anche la molla che mi ha spinto a fare sempre meglio, a puntare sempre più in alto. Non avrei mai voluto dargli motivo di dire: “Avevo ragione”».
C’è qualcosa di cui ha paura?
«Del futuro di mio figlio. Vivo nell’incertezza di potergli garantire la serenità anche quando non ci saremo più. E allo stesso tempo ho paura di condizionare con i miei timori le scelte di Alexa. Per questo io e Lara l’abbiamo spinta a uscire da Modena (adesso lavora per Gucci, ndr). Non vogliamo che faccia scelte sacrificandosi per il fratello».
Cos’è per lei la cucina?
«Un gesto d’amore. Ma serve anche a nutrire l’anima. Prenda i nostri menu: i piatti assomigliano più a opere, come fece Gershwin: ouverture, adagio, allegro… Un’esperienza da sentire e da cavalcare. Ma intendo nutrire l’anima anche attraverso progetti di solidarietà come Food for soul. Certo, sarò felice quando l’apertura di un altro refettorio non farà più notizia ma sarà la normalità».
Massimo Bottura, la verità: ma cosa vuol fare da grande?
«Le svelo un segreto: completare il progetto di Casa Maria Luigia e trasformarla in un pensionato un po’ speciale per anziani. Un luogo dove possano trovare casa tutte le loro passioni, circondati sempre dalla bellezza e dall’arte. E io sarò sempre lì, a costruire il futuro».
Massimo Ceccherini, dall’esordio alla corrida alla vita da regista fino alla bestemmia all’Isola dei Famosi. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 7 luglio 2022.
Merito del suo successo anche l’amicizia con l’attore e regista Leonardo Pieraccioni. Con il ruolo di Pino ne “I Laureati “ inizia la sua carriera nel cinema italiano. Ma ha iniziato con Corrado
Il debutto a “La Corrida”
Massimo Ceccherini, classe 1955, 57 anni, ha uno spirito toscano e una verve che l’ha reso celebre nel panorama del cinema italiano, merito anche della comicità sui generis, che piace alle più diverse generazioni. Prova ne è il fatto che il film “I Laureati” (del 1995, diretto e interpretato da Leonardo Pieraccioni) è uno delle pellicole che viene spesso riproposta sul piccolo schermo per la capacità di attirare il pubblico. Ceccherini ha in effetti debuttato sul piccolo schermo: ha partecipato infatti al programma “La Corrida”, presentato da Corrado. E qui è stato subito notato per l’originale stile comico tanto da aver iniziato, subito dopo la partecipazione allo show, a lavorare come cabarettista.
La vita privata
Massimo Ceccherini sui social non posta foto della sua vita privata, avvolta nel mistero. Si sa che non è sposato e non ha figli ma dovrebbe convivere da diversi anni con Elena Labate. Il gossip sostiene che i due stiano pensando al matrimonio
Anche regista
Nel 1999 il comico toscano ha sperimentato anche la vita dietro la macchina da presa, debuttando come regista di “Lucignolo” e di “Faccia di Picasso” nel 2000 e “La mia vita a stelle e strisce” nel 2003. Ironia al centro anche della sue scelte registiche.
L’Isola dei famosi
Massimo Ceccherini ha partecipato due volte come naufrago a de L’isola dei famosi. Il reality show l’ha accolto per la prima volta nel 2006 (espulso per una bestemmia) e poi di nuovo nell’edizione numero dodici . Era il 2017.
Con Pieraccioni
Merito del suo successo anche l’amicizia con l’attore e regista Leonardo Pieraccioni. Toscano anche lui, lo ha scelto per una lunga e fortunatissima serie di film iniziata nel 1995 con il ruolo di Pino ne “I Laureati “ e proseguita con l’indimenticabile film “Il ciclone” con Natalia Estrada e Lorena Forteza
Massimo Ceccherini, i flop in tv, i successi al cinema e la moglie Elena, «la mia salvezza». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2022.
L’attore, regista, sceneggiatore toscano ha esordito con Benvenuti, ha avuto successo con «Il ciclone» di Pieraccioni ed è cresciuto grazie al «Pinocchio» di Garrone.
«Il ciclone»
Ormai Il ciclone è un film cult (stasera alle 21.20 su Italia 1), una commedia del 1996 scritta e diretta da Leonardo Pieraccioni che continua a divertirci. E Pieraccioni in quel film ha lanciato tanti volti nuovi dando il successo anche a Massimo Ceccherini, suo amico toscano. Levante (Leonardo Pieraccioni) vive in un grande casolare in collina: con lui abita suo padre Osvaldo, sua sorella Selvaggia (Barbara Enrichi), fidanzata segretamente con la farmacista Isabella e il fratello Libero (Massimo Ceccherini), che passa le sue giornate a interrogarsi sull’esistenza di Dio. A sconvolgere completamente la routine della famiglia sarà un corpo di ballo spagnolo con le bellissime Lorena Forteza e Natalia Estrada.
Il non successo del Festival di Sanremo
Scelto da Raffaella Carrà per condurre assieme a lei, Enrico Papi e Megan Gale il Festival di Sanremo 2001, Massimo Ceccherini non riesce a dare il meglio di sé e si mette in luce per «alcuni atteggiamenti discutibili nei confronti della stampa» che lo critica per la scarsa qualità della sua comicità. Un giornalista, in conferenza stampa, gli chiede come mai “Ceccherini al Festival fa ridere poco” e l’attore risponde infastidito: “Ceccherini al Festival fa ridere poco perché Ceccherini è pagato poco!”. Da quel momento in poi, diserterà il piccolo schermo
«L’Isola dei famosi», due volte-due flop
Nel 2006, Massimo Ceccherini accetta l’invito di Simona Ventura e partecipa a“L’isola dei famosi - Honduras”. Ma l’avventura da naufrago finisce male, perché durante la puntata del 18 ottobre, viene escluso dalla gara e bandito dagli studi Rai per aver bestemmiato in diretta televisiva. Dopo 11 anni ci riprova e dal 30 gennaio 2017 fa nuovamente parte del cast de «L’Isola dei Famosi», giunta alla 12ª edizione, ma dopo 23 giorni decide di ritirarsi dal programma per via di una lite avuta con Raz Degan e Moreno. Un episodio che gli costò caro anche economicamente . Raccontò spiritosamente: «Pagai mezzo milione - Centomila euro di multa, più duecentomila di sponsorizzazioni tv perse, più duecentomila euro di premio finale, perché sicuramente avrei vinto io».
Il primo successo con Alessandro Benvenuti
Massimo Ceccherini è nato a Firenze, il 23 maggio 1965, attore, regista, comico e sceneggiatore italiano, è arrivato al successo nel 1990 con la sua prima parte in un film, Benvenuti in casa Gori del regista Alessandro Benvenuti (prodotto da Francesco Nuti) che racconta di un grande incontro familiare per Natale, con le solite dinamiche parentali.
La parte della volpe nel Pinocchio di Garrone
Massimo Ceccherini viene coinvolte come attore e sceneggiatore nel film Pinocchio di Matteo Garrone. Ceccherini veste i panni della Volpe mentre il ruolo del Gatto è affidato a Rocco Papaleo. Gigi Proietti è Mangiafuoco, Roberto Benigni è Geppetto. Una grande occasione di rinascita per Ceccherini. Dichiarò in una intervista: «Non è che lavoravo poco: non mi chiamava proprio nessuno. Un po’ per errori miei, per comportamenti miei. E così sono passato dal non fare più niente a lavorare con Matteo Garrone, uno dei registi più bravi del mondo, e con Roberto Benigni, il mio idolo da quando ero ragazzo». Massimo non è soltanto la Volpe con il cappotto logoro, i capelli come rami di un albero impazzito, le unghie luride e lunghissime, i fili della barba e dei baffi che gli corrono sul viso e anche lo sceneggiatore che mette il suo vissuto nel film di Garrone. «Strada facendo, Matteo Garrone ed io ci siamo innamorati». E scherza: «A un certo momento ci siamo detti ‘e ora che si fa?’. Siamo due uomini, e allora abbiamo deciso di fare un film. Se Garrone fosse stato una donna, non ci sarebbe stato il film». E poi serio: «Pinocchio è la storia con cui sono cresciuto, il mio punto di riferimento. Il primo film che ho fatto da regista si chiama Lucignolo. Ho fatto Pinocchio a teatro con Carlo Monni e Alessandro Paci; vivo insieme a Pinocchio fin da quando ero bambino». Una vera occasione per Ceccherini che ha potuto dimostrare che dietro quel comico arruffone e iracondo, c’è anche un artista dal cuore sensibile.
La moglie Elena
Elena Labate, moglie dell’attore, è un’operatrice sanitaria. Lui ricorda così il loro primo incontro: «Quella mattina, l’ho vista con una maglia con su scritto ‘Misericordia’, il nome della confraternita che fa assistenza e soccorso da ottocento anni in Toscana. E sono rimasto folgorato. È lei che mi ha salvato, più di tutti». Un amore forte e duraturo anche se non è chiaro se i due siano effettivamente sposati, ma non cambia nulla, per lui Elena è “la mi’ moglie”. La coppia non ha figli e vive a Cireglio, in provincia di Pistoia.
Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” il 15 aprile 2022.
Massimo Lopez, in questi giorni lei è in tournée con Tullio Solenghi, come ai vecchi tempi. La vostra è un'amicizia solida?
«Certo, per me è un fratello. Anzi, di più: è il nonno che non ho mai avuto».
Ahia, se la sentisse...
«Mi ripudierebbe. Ma no, è una delle gag che facciamo da tempo. Tullio non è solo un amico, per me è una protezione. Con lui e Anna (Marchesini, ndr ) c'era una familiarità che negli anni è diventata affetto profondo, legame vero».
Il Trio è nato con lei e Anna che vi siete incontrati in una sala doppiaggio, vero?
«Sì, doppiavamo i cartoni animati giapponesi e le lascio immaginare che cosa veniva fuori. Anzi, qualche volta noi non ci attenevamo ai copioni e inventavamo le battute. Lei se ne usciva con cose come: "Ma signor Yakatomo, che cavolo vuole da me?". I produttori erano furibondi».
Una delle «pietre miliari» del Trio è stata la parodia dei Promessi Sposi.
«Ho settant' anni e posso dire che quelli sono stati i giorni più divertenti della mia vita. Una volta, mentre stavamo girando, mi presi una pausa e andai al bar. Ordinai un'aranciata e mi misi a giocare a flipper. Tutti mi guardavano e non capivo perché. Poi realizzai: ero vestito da Monaca di Monza».
C'era anche la Monaca di Ponza, no?
«Sì, con Anna che prendeva il sole da una cella. Ma c'era anche la Foca Monaca, cioè io intrappolato in un costume strettissimo da foca. Quel giorno decido di fare una ramanzina alla troupe e inizio a sbraitare con impeto sempre maggiore, a puntualizzare errori e disattenzioni ma... sempre vestito da foca. Imbarazzo in scena, Anna e Tullio che si voltano dall'altra parte, tutto finisce con me che scoppio a ridere».
Quando ha deciso di fare l'attore?
«Da bambino intrattenevo la famiglia con imitazioni e canti, poi però mi sono iscritto a Lingue. Prima lezione: la prof comincia a spiegare ma, a un certo punto, indica me e prende a interrogarmi. Non resisto, esco e da allora non ho più rimesso piede all'università. È stato in quell'istante che ho deciso di fare seriamente l'attore, da sempre innamorato delle "quinte", da quella particolare prospettiva in cui sei invisibile ma controlli tutto. Poi è arrivato il Trio».
Teatro, sceneggiati televisivi, popolarità.
«La cosa che più mi ha sorpreso è stata la mia voce. Non ho mai studiato canto, ma nella sigla finale dei Promessi Sposi io cantavo Lucy , nei panni di un improbabile Manzoni. Ebbene, Mina mi ascoltò e un giorno mi telefonò».
Mina in persona?
«E la sua voce è abbastanza riconoscibile, impossibile confonderla, anche se pensai a uno scherzo. Mina mi disse che le piaceva la mia voce, mi invitò a Lugano a incidere un brano con lei da inserire nell'album Canarino Mannaro.
"Lo vuoi fare un pezzo con me?", mi chiese. Immaginate la mia incredulità. Solo quando mi trovai a casa sua realizzai che era tutto vero».
Come andò?
«Lei fu umanissima, accogliente. Io però volevo farle credere di essere un habitué delle sale d'incisione. Mi avviai con passo spedito, aprii una porta. Peccato che fosse l'anta di un mobile.
Lei capì e allora fu una presenza discreta: mentre incidevamo Noi , il titolo della canzone, uscì e rientrò con due margherite che depose vicino al microfono. Poi volle cucinare e io non riuscivo ancora a credere di essere a casa di Mina con lei che preparava gli spaghetti per me».
Sua madre Gigliola era una fan della cantante, vero?
«Sì e allora decisi di chiamarla per farle sentire la voce di Mina. Quando le rivelai che stavo incidendo una canzone con lei, mia madre se la fece passare al telefono. Sa che cosa le chiese? "Com' è andato mio figlio? È abbastanza bravo?"».
Gigliola è mancata tre anni fa. Vive ancora, in qualche modo, in lei?
«Lo dico piano, non vorrei essere frainteso perché non ho tentazioni misticheggianti. Ma a volte, anche in aperta campagna, io sento il suo profumo. È una sensazione concreta, olfattiva, fortissima. Una volta è successo che anche mio fratello che era con me lo sentisse. Non abbiamo commentato, non ne parliamo mai. Ma quel profumo, giuro, io lo sento davvero».
Lei è un attore brillante, ha ricoperto ruoli comici, spesso al limite del paradosso. Come vive il dolore?
«Altro aneddoto. Quando affrontai il mio primo lutto, la scomparsa di papà, ad un certo punto mi piazzai davanti allo specchio e mi misi a ridere. A ridere forte, in modo caricaturale. Perché volevo essere ancora sicuro di riuscire a ridere in mezzo a tanto dolore».
E come vive la felicità?
«Cercando di riconoscerla. Ho avuto due infarti, uno "di dominio pubblico", perché avvenuto nel 2017 mentre ero sul palcoscenico, un altro invece avvenuto qualche mese fa e del quale sto parlando adesso per la prima volta, qui.
Peraltro il secondo è stato ancora più drammatico, perché ero in treno e ho viaggiato tre ore con un attacco di cuore in corso, ho rischiato seriamente. Dico questo perché dopo ogni momento così delicato ho sempre cercato di "ritrovare" la vita, di vedere da vicino le cose che contano, come se osservassi tutto dall'alto. È stato allora che ho riconosciuto la felicità. Nelle cose che ancora mi era concesso di fare. Ecco, forse per me la felicità è un ritrovamento, un recupero».
Ha sentito l'affetto del suo pubblico?
«Moltissimo. Gente che scriveva, che si informava. Ma quello, grazie al cielo, l'ho sempre avvertito. Ricorda quando ero il protagonista di un celebre spot televisivo che aveva per slogan la frase "Una telefonata allunga la vita"? La scena era questa: io in un fortino, davanti al plotone di esecuzione, che (come ultimo desiderio) chiedo di poter fare una telefonata. Ma una telefonata che va avanti per giorni, mesi, anni. Lo sa che mi scrissero tante persone preoccupate per il mio destino, vedendomi davanti a un plotone?».
Tullio Solenghi, invece, stava in Paradiso e beveva caffé.
«Ah, quella è un'altra cosa da raccontare. I patiti di spot ricorderanno che ad un certo punto le due pubblicità si unirono, con il "mio plotone" che sparava in cielo e colpiva Tullio, il quale mi raggiungeva. Fui io a chiedere alle due grandi aziende di fare una pubblicità assieme. Incredibilmente mi dissero di sì. Volevo Tullio vicino».
Nell'autobiografia dal titolo «Stai attento alle nuvole» - scritta per Solferino Libri assieme a Sante Roperto - lei fa un affettuoso ricordo di molti amici. Spicca Massimo Troisi. Come vi siete conosciuti?
«Grazie a un amico comune, Giovanni Benincasa, autore televisivo. Fu Giovanni a proporci una trasmissione in seconda serata su Rai2, Massimo Ascolto , una delle mie prime volte senza il Trio. Troisi accettò con entusiasmo, poi però, venne a mancare e allora il suo posto venne preso da attori di volta in volta diversi. Massimo per me è stato importantissimo. Veniva a trovarmi a casa a Miami, ci mettevamo in soggiorno e sa che cosa facevamo? Accendevamo la tv ma senza audio e ci divertivamo a doppiare in modo improbabile le trasmissioni più famose».
Solenghi invece lo conosce sin dai primi anni Settanta?
«Sì e pensi che ironia del destino: nel 1976 feci il mio esordio a teatro, a Genova, ne Il fu Mattia Pascal . Arrivai a sostituire proprio Tullio, che aveva dovuto rinunciare all'ultimo momento».
Da chi ha imparato il senso dell'umorismo?
«Da mia madre. Mi faceva leggere Achille Campanile e se lei ricorda tra i personaggi di questo autore straordinario ce n'è uno, il Povero Piero. Una volta con mamma andammo ad un funerale, un caro amico di famiglia. Che si chiamava Piero. Quando il sacerdote se ne uscì con "il povero Piero" io e mia madre ci guardammo. Trattenemmo a stento le risate».
Lei ha lavorato con Albertazzi, Asti, Lionello, poi in tv con Pippo Baudo.
«Da tutti ho imparato qualcosa, anche se non dimenticherò mai i due primi incontri importanti della vita. Quando ero bambino e scoprii che vicino a casa nostra, a Roma, vivevano sia Corrado che Walter Chiari. Mi appostai vicino alle loro abitazioni fino a quando non mi videro e così mi presentai. Walter mi fece addirittura entrare. Lo "spettacolo" era già nelle mie vene, anche se non sapevo che cosa fosse esattamente».
Nonna Titina però era una giudice severa. «Non me ne parli! Non si perdeva una trasmissione, faceva le pulci a ogni parte che ricoprivo, assegnava addirittura i voti». Lei non ha mai fatto cinema. Rimpianti?
«No, ma non è un fatto di cui mi pento. Rifarei tutto, errori compresi. Mi sono divertito, ecco. Mi sono divertito a lavorare con Teo Teocoli, mi sono divertito a Ballando con le Stelle, nei lunghi anni con il Trio e a Sanremo, negli spot pubblicitari e a teatro.
Sono una persona riservata, della mia vita privata si sa pochissimo e devo ringraziare il mio amico Sante Roperto, con cui ho scritto l'autobiografia, perché è riuscito a rompere la mia riservatezza, a farmi raccontare non solo la mia vita ma anche parti della mia famiglia, a cominciare da mia madre».
È vero che qualcosa di cinematografico è nell'aria?
«Non posso dire nulla».
È nell'aria, va bene. Concludiamo con un ricordo di Anna Marchesini, una delle attrici più amate nel nostro Paese?
«Ma da dove comincio? Ce ne sono a migliaia. Una volta, in macchina, ci divertivamo a farci le interviste a vicenda. Esordisco io: "Signora Marchesini, ci racconti il percorso che l'ha portata a cotanto successo di pubblico, il cammino artistico che l'ha fatta diventare una delle attrici più talentuose". E lei: "L'ho data. Sì, l'ho data". Anna era straordinaria, perché sapeva inchiodare ogni forma di stereotipo rovesciandone la forza con autoironia, genialità. Mi manca molto».
Massimo Lopez compie 70 anni: riservato sulla vita privata, l’infarto, il rapporto con gli altri del Trio, 10 cose che non sapete di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'11 Gennaio 2022.
L’attore e doppiatore, attualmente in tour nei teatri insieme a Tullio Solenghi, è nato ad Ascoli Piceno l’11 gennaio 1952 da genitori napoletani
L’incontro con Walter Chiari
«Un destino da girovago, tracciato dai traslochi. Mio padre faceva il bancario e cambiavamo spesso città». Per questo Massimo Lopez si è ritrovato a nascere - da genitori napoletani - ad Ascoli Piceno, in questo giorno (11 gennaio) del 1952. Oggi l’attore, che è anche un apprezzato doppiatore e conduttore tv, festeggia 70 anni di cui quasi 40 passati su e giù da un palco, come solista o in compagnia dei suoi sodali del Trio. È stata sua madre a trasmettergli la vena artistica, come ha avuto modo di raccontare nel romanzo «Stai attento alle nuvole. Un viaggio di vita e di famiglia» (Solferino edizioni) uscito nel 2020. Nel libro si parla anche di un importante incontro che il giovane Massimo fece quando con la sua famiglia si trasferì nella Capitale: «Quando abitavamo a Roma, andavo a giocare in un campo di calcio su cui si affacciava la casa di Walter Chiari, per me un mito - raccontava l’attore al Corriere -. Un giorno lo becco sul portone, gli attacco un bottone che non finiva più. Lui mi prende in simpatia e mi invita a pranzo. Da quel giorno, andai a trovarlo spesso. Dalla parte opposta, abitava Corrado Mantoni e conobbi anche lui. Walter e Corrado furono le molle per intraprendere la mia strada». E questa non è l’unica curiosità poco nota su Massimo Lopez…eccone altre 9.
Il fratello Giorgio
È fratello minore dell'attore e doppiatore Giorgio Lopez (scomparso il 10 agosto 2021), storica voce di Dustin Hoffman e Danny De Vito. «Mio fratello Giorgio questa mattina all’alba se ne è andato - ha detto Massimo in ricordo di suo fratello in un video pubblicato sulla sua pagina Facebook -. È andato via un grande artista, una grande mente, un filosofo, un saggio. Ma lui non si è spento: il suo spirito è forte, il suo spirito rimane e rimarrà per sempre. Mi ha insegnato tantissimo, mi ha dato il coraggio per fare questo mestiere. E quindi ce l'ho sempre con me, qui nel cuore».
Il successo con il Trio
«Il segreto del successo del trio con Tullio e Anna è stato sicuramente l’alchimia straordinaria che c’era tra noi. Eravamo tutti e tre alla ricerca del particolare, abbiamo sempre usato una sorta di lente d’ingrandimento per cercare i dettagli della vita»: così nel 2015 Lopez descriveva il suo rapporto con gli altri due componenti del Trio, Tullio Solenghi e la compianta Anna Marchesini (1953-2016). Il gruppo, nato nel 1982, è stato protagonista di molte divertenti pagine comiche della televisione italiana, dalla parodia di 90° minuto a Domenica In (1985-1986) alla miniserie televisiva ispirata a «I promessi sposi» di Alessandro Manzoni (1989). Poi nel 1995 è arrivato lo scioglimento (successivamente Massimo e Tullio sono tornati a lavorare insieme in altre occasioni, mentre Anna ha avuto una carriera di successo in teatro). «Qualsiasi scelta di questo genere dispiace – ha raccontato Lopez in un’intervista con Cristina Parodi a La Vita in Diretta – sono stato un po’ io il responsabile di questa divisione. A un certo punto sentivo la situazione un po’ stantia, non avevo lo stesso entusiasmo di prima, capivo che volevo continuare con la tv. Poi con il trio si voleva puntare al cinema, ma io non ero convintissimo…proposi di fermarci 2 o 3 anni per ritrovarci magari inseguito con un’energia diversa. In realtà è stata ingenua come mossa perchè in pochi anni è cambiato tutto». Attualmente Massimo Lopez e Tullio Solenghi sono ospiti fissi del cast di Che Tempo Che Fa e sono in tour in tutta Italia con il loro spettacolo teatrale (il Massimo Lopez & Tullio Solenghi Show). Sempre con Anna nel cuore: «Per noi lei c’è ancora - diceva Massimo in un’intervista a Sorrisi -. Lo spirito dello show è sempre quello del Trio, di quando ci riunivamo e dalla mattina alla sera dividevamo spunti, battute, risate».
Imitatore di Maurizio Costanzo (e non solo)
Romano Prodi, Silvio Berlusconi, Margherita Hack, Luca Giurato, Cristiano Malgioglio, Mike Bongiorno, Maurizio Costanzo e Antonio Di Pietro sono soltanto alcuni dei personaggi imitati negli anni da Massimo Lopez, che ha propone le sue imitazioni fin dai tempi del Trio in radio, negli spettacoli teatrali e in tv.
Una telefonata allunga la vita
Negli anni Novanta il volto di Massimo Lopez è stato legato ad una serie di celebri spot pubblicitari, ideati dall'agenzia Armando Testa per SIP (prima) e Telecom Italia (poi): l’attore interpretava un condannato a morte, già davanti al plotone di esecuzione, a cui veniva concesso di fare un'ultima telefonata che finirà (citando il claim) per allungargli la vita. «Ancora adesso la gente che mi ferma per strada si ricorda di quello spot e ridendo mi chiede poi come sia finita: era diventato un vero e proprio cortometraggio a puntate, raccogliendo un successo indiscutibile e diventando una battuta popolare».
Massimo Lopez tra Austin Powers e Bruce Lee
Attore ma anche doppiatore: Massimo Lopez nel corso della sua lunga carriera ha prestato la voce a molti personaggi di film d’animazione e ad alcuni dei volti più famosi di Hollywood. Ha doppiato ad esempio Henry Winkler (il Fonzie di «Happy Days») in «Night Shift - Turno di notte», Bruce Lee in «L'ultima sfida di Bruce Lee», Robin Williams in «Popeye - Braccio di ferro» e Mike Myers in «Austin Powers: La spia che ci provava».
Il malore a Trani nel 2017
«Credo proprio che mi abbia salvato una mano santa perché quella sera avrei dovuto essere da un'altra parte, in un posto meno comodo per raggiungere l'ospedale». Il 24 marzo 2017, mentre stava recitando in uno spettacolo a Trani, Massimo Lopez è stato colpito da un infarto: ricoverato d'urgenza ad Andria è stato sottoposto a un intervento di angioplastica perfettamente riuscito. «In casa mia c'è una certa famigliarità con le patologie cardiache. Così, quando ho cominciato a sentirmi male sul palco, ad avere un dolore al torace, a sudare, ho capito perfettamente cosa stesse accadendo - ricordava qualche anno fa Lopez, intervistato dal settimanale Chi -: ho chiesto scusa al pubblico e poi, dietro le quinte, ho chiesto un'ambulanza. Dopo dieci minuti ero già nelle mani dei medici, curato in un'eccellenza della cardiologia quale è l'ospedale Bonomo di Andria».
Vita privata segreta
Massimo Lopez è sempre stato estremamente riservato sulla sua vita privata. Anche perché, ha confessato in anni recenti al settimanale Nuovo, ha sempre fatto fatica a riconoscere l’amore vero: «Non ho avuto tanto tempo a disposizione, ma ho sempre trovato molta difficoltà a distinguere qual era amore vero. Una verità amara, per questo il lavoro è il mio rifugio».
È la voce di Homer Simpson
È la voce di Homer Simpson (e di suo padre Abraham) dalla 24ma stagione dei Simpson: ha ereditato il ruolo in seguito alla scomparsa dello storico doppiatore Tonino Accolla (1949-2013).
Ha partecipato a Ballando con le Stelle e a Tale e Quale Show
Tra i numerosi programmi televisivi a cui Massimo Lopez ha preso parte (Scherzi a parte, Quelli che... il calcio, Striscia la notizia, Buona domenica) ci sono anche Ballando con le Stelle (2007) e Tale e Quale Show (2015-2016) in cui Lopez si è fatto apprezzare per le sue interpretazioni, da John Lennon a Frank Sinatra fino a Domenico Modugno (al termine di quest’ultima esibizione il giudice Claudio Lippi si è commosso fino alle lacrime).
ANDREA SPINELLI per il Resto del Carlino il 16 gennaio 2022.
«Credo che i sogni nascano non dalla ragione, ma dal desiderio, non dalla testa, ma dal cuore» scrive Massimo Ranieri nella sua recente autobiografia Tutti i sogni ancora in volo, citando il Dostoevskij de Il sogno di un uomo ridicolo. E a quel desiderio, a quel cuore, lui è ricorso per dire di sì alla chiamata del Festival di Sanremo con Lettera al di là del mare, quando s' è reso conto che le lancette del tempo avevano iniziato ad andare più veloci dei timori di tornare sul palco.
Perché ha aspettato 25 anni per tornare al Festival?
«Perché non trovavo la canzone giusta. Due anni fa ci ho fatto un pensierino con Mia ragione, poi mi sono reso conto di averla eseguita pubblicamente togliendole il requisito previsto dal regolamento: essere inedita. Così mi sono limitato a cantarla da ospite e a duettare Perdere l'amore con Tiziano Ferro».
Stavolta invece «Come ho sentito questa canzone di Fabio Ilacqua mi sono detto: eccola qua».
Di cosa parla Lettera al di là del mare?
«Di emigrazione. Una canzone molto umana. Mi ha dato la stessa emozione di quando ho ascoltato per la prima volta 'Perdere l'amore. Qualcosa di irrazionale, difficile da spiegare».
Sfida d'altri tempi quella con Morandi, in gara pure lui.
«Già, sembra di essere tornati a Canzonissima, quando lui vinceva con Scende la pioggia e l'anno successivo gli restituivo la pariglia vincendo io con Vent' anni. E poi ancora nel '73 con Erba di casa mia. Ci chiamavano i Rivera e Mazzola della canzone dopo cinquant' anni si riforma la coppia».
C'è stato un momento in cui ha pensato addirittura di fare ditta con lui e con Al Bano.
«L'idea di mettere in piedi un trio l'ha avuta Al Bano e quando me l'ha proposta gli ho risposto 'magari', invitandolo però a chiederlo lui al 'bolognese'. Già perché, da sempre, noi tre non ci chiamiamo per nome ma soltanto 'il bolognese', 'il pugliese' e 'il napoletano'. Il progetto però s' è arenato perché Gianni al momento aveva una lista d'impegni lunga così e non se la sentiva di accollarsene altri. Ho detto però ad Al Bano che, qualora riesca a convincere Gianni, io ci sono».
Ha già deciso la cover da presentare all'Ariston?
«No. Potrei pescare nei repertori di autori a me cari come quelli di Aznavour, De André, Battiato, Pino Daniele, ma al momento sto pensando solo all'arrangiamento e alla tonalità in cui cantare Lettera al di là del mare con l'orchestra. La scelta della cover verrà poi. I miei Sanremo non erano quelli di oggi. Oggi al Festival sei preso da mille cose e io non ho più 50 anni, ne ho 70. Comincio a sentire un filino il peso dell'età. Mi è consentito?».
Finito Sanremo volerà a Parigi da Gino Vannelli, il cantante canadese produttore del suo prossimo album.
«Sto ancora scegliendo le canzoni. Nel cassetto ho un inedito di Ivano Fossati, uno di Mauro Pagani, uno di Pacifico, oltre a quelli di giovani autori che sto selezionando».
A proposito di Fossati, c'è qualcosa che non riesce proprio a comprendere di questo «tempo sbandato»?
«Nel massimo rispetto di tutti, mi sembra incomprensibile tutta questa diffidenza verso i vaccini. Viviamo un momento devastante e pure questo m' ha messo addosso la voglia di raccontarmi in un libro».
Perché, quindici anni dopo, ha sentito il bisogno di scrivere un'altra autobiografia?
«Perché sono successe tante cose e ho sentito il bisogno di raccontarle al mio pubblico. Ci ho messo tutte le emozioni, le delusioni, le amarezze, i dispiaceri, ma soprattutto le gioie che la vita m' ha dato».
Nel mondo della canzone, quali sono stati i suoi santi patroni?
«Due su tutti: Celentano e Modugno. Adriano a Sanremo con 24 Mila baci fece qualcosa di sensazionale. Sul palcoscenico più istituzionale d'Italia, dando le spalle al pubblico, ruppe ogni barriera, ogni convenzione sociale e politica. Mimmo invece mi prese sotto la sua ala protettrice. Da ragazzo l'ascoltavo domandandomi "chistu nun è napulitano, però canta bbene o napulitano, ma comm fa?".
Quando nel '64, al Politeama, Modugno vinse il Festival di Napoli con Tu si 'na cosa grande, io c'ero. Ricordo che, prima della serata, m' intrufolai in sala mentre la Vanoni stava provando la sua versione di quel pezzo e, seduto dietro le sue spalle, iniziai a sussurrargli nelle orecchie "tu si' 'na cosa grande pe' mme, 'na cosa ca me fa nnammura" finché lui, spazientito, si voltò sbottando: "Ragazzino, l'ho capito che canti bene, però ora basta"».
Per non farsi mancare niente, nel 2022 ha pure due film in uscita.
«Già. Uno s' intitola L'uomo che disegnò Dio ed è diretto da Franco Nero, un vecchio gentiluomo di cui s' è perso lo stampo, bravissimo pure nei panni di regista. L'altro invece è Mancino naturale di Salvatore Allocca, giovane regista di sicuro futuro».
Con questi, la sua filmografia raggiunge i 37 titoli. C'è una pellicola che non rifarebbe?
«No perché, si tratti di Metello o de La patata bollente, nel momento in cui li ho girati ci credevo. Nella mia vita non ho mai fatto qualcosa tanto per fare».
Intanto Sorrentino corre verso la nomination all'Oscar con È stata la mano di Dio.
«Da napoletano e da italiano gli auguro di allungare il momento favorevole che da un anno e mezzo ci vede vincere tutto. L'Oscar sarebbe un'altra medaglia d'oro che il Paese si merita per come s' è comportato e si sta comportando in questo anno stramaledetto. E poi perché racconta la 'nostra' Napoli, quella della passione, del calcio, di Diego».
A proposito.
E Maradona?
«Col suo stile lapidario, Carmelo Bene diceva: il calcio sono quei venti minuti che lui tocca palla e poi il silenzio. Aveva ragione. Spettacolo incommensurabile».
Rimpianti?
«La delusione più cocente è stata forse quella di veder naufragare il progetto di un album di "neapolitan songs" assieme a Leonard Bernstein. Ci conoscemmo ad una festa in casa di Zeffirelli sulla via Appia e fu proprio Franco a suggerirgli l'idea di realizzare un disco di canzoni napoletane cantate da me. Rispose, "good idea, I love neapolitan songs"».
Poi cosa accadde?
«Telefonai, trionfante, alla mia etichetta pensando che i discografici al nome dell'autore di West Side Story sarebbero saltati sulla sedia. E, invece, mi risposero "no, dai chi lo conosce". Così va la vita, c'aggia fà?».
La vita le ha dato tanto, ma s' è presa pure molto. Alla fine, pari e patta?
«No. Sarò sempre in debito nei confronti della vita, perché forse mi ha dato più di quanto meritassi. E ancora oggi riesce a divertirmi, ad incuriosirmi, a sorprendermi».
E se dovesse rinascere?
«Farei il ballerino di tip tap. In omaggio a Fred Astaire, idolo assoluto della mia giove
Marco Santoro per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 7 maggio 2022.
Infortunio per Massimo Ranieri, 71 anni, in scena questa sera a Napoli al teatro Diana con lo spettacolo “Sogno e son desto”. Il celebre cantante partenopeo è caduto dal palco: sarebbe avanzato nel vuoto, secondo testimoni del pubblico, probabilmente confuso dalle luci del palcoscenico, credendo di trovare una scaletta. Un incidente banale capitato a tanti altri “grandi”, come a Gianni Morandi nel 2017 con Rovazzi. Ma doloroso per Ranieri.
L’artista purtroppo si è ferito e lo spettacolo è stato interrotto. Sono stati immediatamente chiamati i soccorsi. Ranieri è rimasto a terra, ma cosciente, ad attendere l’ambulanza del 118 che lo ha portato al Cardarelli. Tanta l’apprensione in sala, tra l’altro gremita di aficionados. Appena ieri la stessa platea del Diana aveva salutato la fine dello show, che era in programma dal 4 al 22 maggio, con un fragoroso, lunghissimo applauso. Stasera, Ranieri stava cantando la terza canzone dello spettacolo, “Vent’anni”, quando è caduto e al pubblico era sembrato fino a quel momento in perfetta forma. La postazione del 118 Loreto Crispi è intervenuta in teatro alle 21.24. Stavolta l’applauso del pubblico ha accompagnato la partenza dell’ambulanza.
L’entourage della star parla di «situazione sotto controllo», al Cardarelli refertano un trauma lombo-dorsale e alla spalla destra e alcune ferite da suturare, Ranieri farà una tac e dovrà resterà in osservazione nella cittadella ospedaliera, finita, tra l’altro, in queste ore, sulle pagine di cronaca nazionali per il Pronto soccorso gremito di pazienti in barella. «Mi dispiace aver dovuto interrompere il concerto», ha detto Ranieri dolorante ma, perfettamente cosciente.
"Chiamate il 118". Spettacolo choc: Massimo Ranieri finisce in ospedale. Libero Quotidiano il 07 maggio 2022.
Grande paura per Massimo Ranieri. Una caduta rovinosa dal palco mentre si stava esibendo al Teatro Diana di Napoli ha lasciato senza parole il pubblico presente in sala. Il cantante, 71 anni, all'improvviso avrebbe perso l'equilibrio. Ancora da capire se per una disattenzione durante l'esibizione o a causa di un malore. Immediatamente è stato allertato il 118 del Loreto Crispi. Massimo Ranieri era di fatto al terzo giorno di tournée teatrale.
Un quarto d'ora dopo l'inizio dello show è andato in scena l'incidente. Per consentire le corrette operazioni di soccorso è stato chiesto al pubblico di lasciare la sala. Ma i fan di Ranieri lo hanno atteso fuori e al passaggio dell'ambulanza è scattato un applauso con l'urlo "forza Massimo!". Secondo quanto riporta Fanpage.it, il cantante è stato trasportato all'ospedale Cardarelli di Napoli, proprio l'ospedale che nelle ultime ore è finito sotto osservazione per le lunghe code d'attesa dei pazienti al Pronto Soccorso. Secondo alcune testimonianze, nella caduta il cantante avrebbe battuto la testa.
Ma va sottolineato che è rimasto cosciente in attesa dell'ambulanza. Il suo staff, sempre come ricorda Fanpage, ha fatto sapere che la situazione è sotto controllo. Ma di fatto diversi spettatori hanno provato paura vedendo quella rovinosa caduta. Adesso solo gli accertamenti medici potranno spiegare quale sia stata la causa di questo incidente. Ma Ranieri sicuramente è pronto per tornare sul palco al più presto. Ha dedicato tutta la sua vita alla musica e al teatro.
Paura per Massimo Ranieri, la caduta dal palco al Teatro Diana: la corsa e il ricovero al Cardarelli. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Maggio 2022
Era cominciato da pochi minuti il concerto di Massimo Ranieri al teatro Diana a Napoli. Il cantante, tra i massimi esponenti della canzone italiana e napoletana, è caduto dal palco ed è stato prontamente trasportato dagli operatori del 118 all’ospedale Cardarelli, dov’è tutt’ora ricoverato. Una notizia che aveva fatto in pochi minuti il giro della città e dei social provocando apprensione.
Dallo staff erano comunque già arrivate in tarda serata le rassicurazioni: “Tanto spavento ma per fortuna non ha battuto la testa ed è sempre stato cosciente. Una costola rotta e un buono stato generale ma rimane sotto osservazione”, hanno fatto sapere all’Ansa dall’entourage del “cantattore”.
Ranieri ha compiuto tre giorni fa 71 anni. Aveva portato al teatro nel quartiere Vomero di Napoli il suo spettacolo Sogno e son desto. Lo spettacolo era in cartellone dal 4 al 22 maggio. All’ultimo Festival di Sanremo Ranieri si era classificato quarto conquistando il premio della critica con la sua Lettera di là dal mare. Stava cantando la terza canzone dello show, Vent’anni, quando è caduto. Lo spettacolo è stato interrotto immediatamente.
Il cantante e attore era rimasto a terra senza mai perdere coscienza. A quanto pare avrebbe messo un piede in fallo mentre cantava, scendendo la scaletta che dallo spettacolo portava in platea. Avrebbe messo in pratica un piede nel vuoto. Tempestivo l’intervento della postazione 118 Loreto Crispi. Erano circa le 21:24. La platea ha accompagnato la partenza dell’ambulanza con un applauso.
Ranieri è stato sottoposto a una tac il cui esito è stato rassicurante. Dal nosocomio hanno fatto sapere che il cantante ha riportato la frattura di una costola, un trauma cranico e contusioni alla spalla destra e al dorso lombare oltre ad alcune ferite da suturare. La situazione sembra insomma sotto controllo.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Andrea Scarpa per "il Messaggero" il 21 gennaio 2022.
Un'autobiografia appena uscita (Tutti i sogni ancora in volo), il Festival di Sanremo dal 1° al 5 febbraio (canterà Lettera di là dal mare), un nuovo disco da finire (entro aprile, produttore Gino Vannelli) e due spettacoli in teatro (uno da chiudere, l'altro da allestire). Insomma, di impegni quel fuoriclasse di Massimo Ranieri ne ha a sufficienza, ma quello a cui tiene più di tutti non è fra questi.
Lo showman napoletano a 70 anni - 71 a maggio - vuole diventare padre. Una figlia ce l'ha, Cristiana, oggi cinquantenne, ma l'ha riconosciuta quando lei ne aveva 24. Stavolta vuole fare le cose come si deve. Nel suo libro scrive di non aver perso la speranza, pensa che adesso potrebbe essere un buon padre. Ha una compagna? Ci sta davvero provando?
«Sì, certo. Per fortuna l'uomo anche a una certa età può procreare e io, lo dico con grande sincerità, spero tanto di riuscirci».
Anche a breve?
«Sì. Non dico domani, ma è quello che voglio assolutamente fare. Questo sogno da un po' di tempo mi è entrato dentro. Credo che potrei essere un padre ideale. Ho anche il fuso orario dell'artista: non sono mattiniero, ma prima delle tre di notte non mi addormento...».
Non è spaventato dalla sua età?
«No, assolutamente. Ci sono quelli che dicono: Oddio, non va bene. Fai un figlio a 70 anni poi quando ne avrà 10 gli farai da nonno. Ma che importa, rispondo, gli faccio da padre adesso, poi fra 10 anni si vedrà. Penserà di avere un papà vecchio, ma l'avrà già capito. E chissenefrega. Anch' io quando avevo 16 anni e mio padre ne aveva 50, pensavo fosse vecchio».
Lei, però, ne ha 70.
«Sì, ma oggi a 70 sei considerato abbastanza giovane, a 80 sei anziano, a 100 sei vecchio. È cambiato tutto».
Passiamo ad altro. Come si è fatto convincere ad andare a Sanremo? L'anno scorso aveva detto che la gara non faceva più per lei.
«Ha deciso il mio cuore. La canzone che presento, scritta da Fabio Ilacqua, già autore per me di Mia ragione (ha scritto anche Occidentali' s Karma per Francesco Gabbani, ndr) mi ha ricordato la sofferenza dell'emigrazione, la mia partenza per l'America...».
Conosce i tanti giovani colleghi in gara con lei al Festival? Che ne pensa?
«Molti sono forti, interessanti, altri scopiazzano qua e là. Ma questo è sempre successo, con il rock e con tutte le altre musiche di successo».
C'è qualcuno che di recente l'ha stupita in positivo?
«Sì, Mahmood. Lui è veramente nuovo. E nel 2019 la sua vittoria in un contesto nazional-popolare come Sanremo mi colpì. Vedremo se la sua Soldi durerà, le canzoni belle resistono a tutto, come la mia Se bruciasse la città del 1969. Quando la canto viene sempre giù il teatro. Giuliano Sangiorgi mi dice che è un pezzo rock».
Al Festival è tra i favoriti: almeno il podio se lo aspetta?
«Vado all'Ariston come sempre: per farmi ascoltare e apprezzare dagli italiani. Tutto il resto è in più».
Da dieci anni, puntualmente, si fa il suo nome come conduttore-direttore artistico di Sanremo: quest' anno si libera il posto di Amadeus: è pronto?
«Perché no? Sarei onorato e felicissimo. Sarebbe la ciliegina sulla torta della mia carriera. Sanremo è il nostro Oscar».
Dopo 15 anni ha scritto un'altra autobiografia: perché?
«Per aggiornare il mio pubblico, a cui devo tutto, sulle cose della mia carriera e della mia vita, compresi dolori terribili come la morte dei miei genitori e di mia sorella».
Per arrivare fin qui cosa c'è voluto più di ogni altra cosa?
«Dignità, serietà, dedizione. Mio padre, che ha fatto l'operaio all'Italsider per tutta la vita, me lo diceva sempre. Ho cercato di fare così fin da piccolo. A 7 anni vivevo in strada 12 ore al giorno per lavorare e portare un po' di soldi a casa».
È stato più coraggioso o incosciente?
«L'uno e l'altro. Per fare questo lavoro è indispensabile esserlo. Ma quando ho deciso di fare l'attore di teatro ci ho messo tanto a lasciarmi andare. Buttarsi all'inizio è stato difficilissimo. Il teatro per me è stato come una seduta psicanalitica».
L'ultima volta che si è buttato?
«Nel 2003, a Macerata, come regista di Cavalleria rusticana e I pagliacci».
Nel libro parla del suo maestro, il grande Giorgio Strehler, regista noto anche per l'ossessiva ricerca della perfezione: la sua ossessione qual è?
«Non tralasciare niente, me l'ha insegnato proprio lui. Divento un cacacazzi, ma poi quello che faccio, da solo o con gli altri, resta. Anche nelle persone».
Nel libro scrive di sentirsi in debito per tutto quello che ha avuto dalla vita: come prova a sdebitarsi?
«Cercando di dare sempre il massimo».
Lo sfizio da togliersi?
«Portare in scena un altro testo di Cechov con la mia regia».
La lezione più importante di questi ultimi due anni così difficili qual è stata?
«Ci crediamo tutti dei, ma questa pandemia ci ha fatto riscoprire la paura. Abbiamo capito che siamo poca cosa, siamo tutti allo stesso livello. E forse questa tragedia ci ha reso un po' più umani».
Quindi adesso gli italiani visti dal suo palco come sono?
«Sempre gli stessi, i migliori, anche se non ci tocchiamo e non ci baciamo. Noi siamo fatti per stare insieme, vivere e godere».
Dopo Sanremo che farà?
«Un'altra ventina di repliche del mio spettacolo Sogno o son desto, che porterò anche al Teatro Diana della mia Napoli (ha fatto più di 500 repliche, ndr). Poi finirò il disco che sto realizzando con il grande produttore canadese Gino Vannelli, preparerò il nuovo show...».
Quest' estate ha recitato nel film di Franco Nero L'uomo che disegnò Dio, con Kevin Spacey: com' è andata?
«Purtroppo non è andata. Ho girato un giorno dopo di lui».
E con Al Bano e Gianni Morandi: il trio di cui si parla da giorni si può fare davvero? «Certo, perché no? L'idea ci piace, finora non si è fatta perché quando io, il Napoletano, e Al Bano, il Pugliese, eravamo disponibili, il Bolognese era pieno di impegni. Si potrebbe fare prossimamente. Dobbiamo divertirci, abbiamo 70 anni. Anzi no, io ho 70 anni, loro sono più vecchi di me, io sono il più giovane...».
ANDREA SPINELLI per il Resto del Carlino il 16 gennaio 2021.
«Credo che i sogni nascano non dalla ragione, ma dal desiderio, non dalla testa, ma dal cuore» scrive Massimo Ranieri nella sua recente autobiografia Tutti i sogni ancora in volo, citando il Dostoevskij de Il sogno di un uomo ridicolo. E a quel desiderio, a quel cuore, lui è ricorso per dire di sì alla chiamata del Festival di Sanremo con Lettera al di là del mare, quando s' è reso conto che le lancette del tempo avevano iniziato ad andare più veloci dei timori di tornare sul palco.
Perché ha aspettato 25 anni per tornare al Festival?
«Perché non trovavo la canzone giusta. Due anni fa ci ho fatto un pensierino con Mia ragione, poi mi sono reso conto di averla eseguita pubblicamente togliendole il requisito previsto dal regolamento: essere inedita. Così mi sono limitato a cantarla da ospite e a duettare Perdere l'amore con Tiziano Ferro».
Stavolta invece «Come ho sentito questa canzone di Fabio Ilacqua mi sono detto: eccola qua».
Di cosa parla Lettera al di là del mare?
«Di emigrazione. Una canzone molto umana. Mi ha dato la stessa emozione di quando ho ascoltato per la prima volta 'Perdere l'amore. Qualcosa di irrazionale, difficile da spiegare».
Sfida d'altri tempi quella con Morandi, in gara pure lui.
«Già, sembra di essere tornati a Canzonissima, quando lui vinceva con Scende la pioggia e l'anno successivo gli restituivo la pariglia vincendo io con Vent' anni. E poi ancora nel '73 con Erba di casa mia. Ci chiamavano i Rivera e Mazzola della canzone dopo cinquant' anni si riforma la coppia».
C'è stato un momento in cui ha pensato addirittura di fare ditta con lui e con Al Bano.
«L'idea di mettere in piedi un trio l'ha avuta Al Bano e quando me l'ha proposta gli ho risposto 'magari', invitandolo però a chiederlo lui al 'bolognese'. Già perché, da sempre, noi tre non ci chiamiamo per nome ma soltanto 'il bolognese', 'il pugliese' e 'il napoletano'. Il progetto però s' è arenato perché Gianni al momento aveva una lista d'impegni lunga così e non se la sentiva di accollarsene altri. Ho detto però ad Al Bano che, qualora riesca a convincere Gianni, io ci sono».
Ha già deciso la cover da presentare all'Ariston?
«No. Potrei pescare nei repertori di autori a me cari come quelli di Aznavour, De André, Battiato, Pino Daniele, ma al momento sto pensando solo all'arrangiamento e alla tonalità in cui cantare Lettera al di là del mare con l'orchestra. La scelta della cover verrà poi. I miei Sanremo non erano quelli di oggi. Oggi al Festival sei preso da mille cose e io non ho più 50 anni, ne ho 70. Comincio a sentire un filino il peso dell'età. Mi è consentito?».
Finito Sanremo volerà a Parigi da Gino Vannelli, il cantante canadese produttore del suo prossimo album.
«Sto ancora scegliendo le canzoni. Nel cassetto ho un inedito di Ivano Fossati, uno di Mauro Pagani, uno di Pacifico, oltre a quelli di giovani autori che sto selezionando».
A proposito di Fossati, c'è qualcosa che non riesce proprio a comprendere di questo «tempo sbandato»?
«Nel massimo rispetto di tutti, mi sembra incomprensibile tutta questa diffidenza verso i vaccini. Viviamo un momento devastante e pure questo m' ha messo addosso la voglia di raccontarmi in un libro».
Perché, quindici anni dopo, ha sentito il bisogno di scrivere un'altra autobiografia?
«Perché sono successe tante cose e ho sentito il bisogno di raccontarle al mio pubblico. Ci ho messo tutte le emozioni, le delusioni, le amarezze, i dispiaceri, ma soprattutto le gioie che la vita m' ha dato».
Nel mondo della canzone, quali sono stati i suoi santi patroni?
«Due su tutti: Celentano e Modugno. Adriano a Sanremo con 24 Mila baci fece qualcosa di sensazionale. Sul palcoscenico più istituzionale d'Italia, dando le spalle al pubblico, ruppe ogni barriera, ogni convenzione sociale e politica. Mimmo invece mi prese sotto la sua ala protettrice. Da ragazzo l'ascoltavo domandandomi "chistu nun è napulitano, però canta bbene o napulitano, ma comm fa?".
Quando nel '64, al Politeama, Modugno vinse il Festival di Napoli con Tu si 'na cosa grande, io c'ero. Ricordo che, prima della serata, m' intrufolai in sala mentre la Vanoni stava provando la sua versione di quel pezzo e, seduto dietro le sue spalle, iniziai a sussurrargli nelle orecchie "tu si' 'na cosa grande pe' mme, 'na cosa ca me fa nnammura" finché lui, spazientito, si voltò sbottando: "Ragazzino, l'ho capito che canti bene, però ora basta"».
Per non farsi mancare niente, nel 2022 ha pure due film in uscita.
«Già. Uno s' intitola L'uomo che disegnò Dio ed è diretto da Franco Nero, un vecchio gentiluomo di cui s' è perso lo stampo, bravissimo pure nei panni di regista. L'altro invece è Mancino naturale di Salvatore Allocca, giovane regista di sicuro futuro».
Con questi, la sua filmografia raggiunge i 37 titoli. C'è una pellicola che non rifarebbe?
«No perché, si tratti di Metello o de La patata bollente, nel momento in cui li ho girati ci credevo. Nella mia vita non ho mai fatto qualcosa tanto per fare».
Intanto Sorrentino corre verso la nomination all'Oscar con È stata la mano di Dio.
«Da napoletano e da italiano gli auguro di allungare il momento favorevole che da un anno e mezzo ci vede vincere tutto. L'Oscar sarebbe un'altra medaglia d'oro che il Paese si merita per come s' è comportato e si sta comportando in questo anno stramaledetto. E poi perché racconta la 'nostra' Napoli, quella della passione, del calcio, di Diego».
A proposito.
E Maradona?
«Col suo stile lapidario, Carmelo Bene diceva: il calcio sono quei venti minuti che lui tocca palla e poi il silenzio. Aveva ragione. Spettacolo incommensurabile».
Rimpianti?
«La delusione più cocente è stata forse quella di veder naufragare il progetto di un album di "neapolitan songs" assieme a Leonard Bernstein. Ci conoscemmo ad una festa in casa di Zeffirelli sulla via Appia e fu proprio Franco a suggerirgli l'idea di realizzare un disco di canzoni napoletane cantate da me. Rispose, "good idea, I love neapolitan songs"».
Poi cosa accadde?
«Telefonai, trionfante, alla mia etichetta pensando che i discografici al nome dell'autore di West Side Story sarebbero saltati sulla sedia. E, invece, mi risposero "no, dai chi lo conosce". Così va la vita, c'aggia fà?».
La vita le ha dato tanto, ma s' è presa pure molto. Alla fine, pari e patta?
«No. Sarò sempre in debito nei confronti della vita, perché forse mi ha dato più di quanto meritassi. E ancora oggi riesce a divertirmi, ad incuriosirmi, a sorprendermi».
E se dovesse rinascere?
«Farei il ballerino di tip tap. In omaggio a Fred Astaire, idolo assoluto della mia giove
Fernando Pellerano per corrieredibologna.corriere.it il 17 maggio 2022.
Matilda De Angelis, 26 anni, attrice bolognese ormai nota al grande pubblico per film di successo e serie tv, come «The Undoing-Le verità non dette», ma anche per essere diventata un volto della tv con la partecipazione al Festival di Sanremo del 2021. Ma ha spesso fatto notizia anche per le sue battaglie sulla body positivity.
De Angelis, cosa le manca della vita precedente al successo?
«La riservatezza e quindi una libertà maggiore. Banalmente, visto gli anni che ho, qualche volta mi piacerebbe flirtare, ma non lo posso fare, mi sento osservata, è tutto più complicato. La notorietà e gli impegni, semplicemente, ti limitano. Diciamo che all’estero va un po’ meglio».
Quando ha capito che la sua vita sarebbe potuta cambiare?
«A 18 anni al provino di “Veloce come il vento”, ma non immaginavo ancora cosa sarebbe successo».
Concluso il set di «Al di là del fiume tra gli alberi», com’è andata?
«È stato tutto molto bello, non so però quando uscirà il film».
Cosa le piacerebbe fare un domani?
«Non mi vedo attrice per tutta la vita, penso che mi occuperò degli altri in un altro modo. Sono sempre stata affascinata dal sociale».
La musica continua ad essere centrale nella sua vita o il cinema le ha tolto qualcosa?
«Tolto qualcosa e regalato qualcosa, ma la vita è una questione di scelte, magari domani decido di concentrarmi di più sulla musica».
Il suo libro, la sua canzone, il suo film?
«“Chiedi alla polvere” di John Fante, “All flower in time” di Jeff Buckley & Elizabeth Fraser, “Leon” di Luc Besson».
Il piatto e la bevanda preferite?
«Pizza e champagne»
Nel tempo libero cosa ama fare?
«Passeggiare col cane, andare al cinema, nei musei».
Il viaggio che desidera fare e quando lo farà?
«Giappone o Sud America, sogno un viaggio lungo, on the road».
Nei prossimi giorni il ritorno a Bologna, sarà ospite d’onore prima al Mambo e poi a Casa Morandi: arte e bellezza, cosa sa di questi due luoghi?
«Il Mambo lo visitavo spesso quando ero al liceo. Allora ero più appassionata d’arte moderna, ora amo più i classici come Caravaggio. Casa Morandi è per me la prima volta e conoscendo bene Morandi sono davvero emozionata».
Si celebrano anche i 100 anni della nascita di Pasolini e 10 per la scomparsa di Dalla.
«L’altra sera riguardavo Comizi d’amore: rimango sempre meravigliata e stupita del genio che è stato Pasolini. Dalla? Impossibile per un bolognese non avere un legame con lui, purtroppo non l’ho mai incontrato. La mia canzone è “Cara”».
Seguirà Arte Fiera?
«Purtroppo devo tornare a Roma per lavoro, ma ci sono sempre andata eh, grandi immersioni e al secondo padiglione non capivo più niente».
I suoi luoghi di Bologna?
«Uscendo dal classico dico il Rubik di via Marsala».
Pregi e difetti di Bologna?
«Difetto: lei ti forma, ma non ti lancia e così la devi lasciare. È una città laboratorio. Pregio? È la più bella del mondo, gioiosa e con una personalità unica».
Girando il mondo è cambiata la sua opinione sulla città e se sì come?
«Ho capito che Bologna è un porto sicuro in cui tornare, ma è poco valorizzata rispetto a quello che potrebbe dare. Ascoltando i racconti dei miei genitori, mi piacerebbe tornasse ad essere la città della musica, dell’arte e soprattutto all’avanguardia e coraggiosa: abbiamo tutte le carte in regola».
Quanto è contato essere nata qui.
«Tutto, sono quella che sono perché ho due madri, la mia e Bologna. In giro per il mondo noi bolognesi ci riconosciamo subito».
Si riescono a mantenere i contatti con gli amici bolognesi, e come?
«Parla con la persona sbagliata: i miei migliori amici del liceo li sento sempre, costantemente. Legame indissolubile, importantissimo, da non trascurare, mai».
Non le ho chiesto niente della guerra in corso in Ucraina.
«C’è poco dire, le guerre ci sono sempre state dappertutto purtroppo, questa è più vicina e ora ce ne rendiamo conto anche se lì combattevano ferocemente da otto anni. Mi limito a questo, dico solo che ora la guerra e prima il Covid ci ricordano quanto sia labile il confine con la libertà che invece abbiamo sempre dato per scontata e invece così non è».
Anticipazione da Oggi il 3 aprile 2022.
«L’idea di essere tradita mi fa paura. Il pensiero che Alessandro possa guardare altrove, preferire un’altra a me. So che il mio uomo mi ama, ma so anche che capita, di tradire. E lo so perché l’ho fatto, anni fa».
È una Matilde Gioli a cuore aperto quella parla di sé e delle proprie insicurezze in un’intervista al settimanale OGGI, in edicola domani. «Stavo con un ragazzo da un po’, apparentemente andava tutto bene. Poi, in un maneggio, ho incontrato un uomo che mi ha fatto scoprire un’emozione mai provata. Persi la testa per lui, per i cavalli, per tutto. E quando il mio fidanzato se ne accorse, nei suoi occhi vidi riflessa una Matilde che non mi piaceva. Dopo quella storia sono rimasta sola a lungo, avevo bisogno di trovare delle risposte dentro di me».
Nell’intervista a OGGI, l’attrice di «Doc» e «Bla bla baby» ricorda anche il padre Stefano, scomparso dieci anni fa. «Mi manca la sua voce, mi manca chiamarlo. Ogni tanto, quando sono sola davanti a una cosa che mi emoziona, lo faccio: “Papààà!”. Vorrei raccontargli cosa sono diventata, chi sono oggi. Dirgli che sono innamorata». E del suo compagno Alessandro Marcucci, l’istruttore di equitazione con cui sta insieme da un anno, dice: «È il grande amore della mia vita, il mio migliore amico, la mia guida. Con lui farei un figlio subito, anche domani».
Giorgio Terruzzi per il "Corriere della Sera" il 13 marzo 2022.
Matilde Gioli. Attrice «per caso». Si trattò davvero di fatalità?
«Me lo domando spesso e le risposte sono cambiate nel tempo. Forse mi trovavo nel posto giusto al momento giusto, stavo accompagnando mio fratello a minibasket e i provini per il film di Virzì, Il capitale umano si svolgevano proprio lì.
Però, se guardo il mio percorso professionale mi rendo conto che non fu proprio un accadimento accidentale. Forse c'è una parte inconsapevole, un inconscio che ti guida verso una direzione. Lo capisco oggi per come sento e tratto ciò che fa parte del mio lavoro».
Decise di adottare il cognome di sua madre Francesca. Il babbo, Stefano Lojacono era consenziente?
«Certo. In famiglia abbiamo vissuto ciò che accadeva come un gioco. Mi trovavo in scena per la prima volta, ero completamente avulsa da tutto ciò che riguarda il cinema. Ad un nome d'arte non pensavo proprio. Paolo Virzì, dopo avermi scelta, assunse subito un ruolo importante nei miei confronti, forse perché ero diversa dalle attrici professioniste con le quali era abituato a lavorare.
Mio padre stava già male, sarebbe scomparso poco tempo dopo e quando mia madre venne a trovarmi sul set, Paolo, toscano come lei, suggerì di adottare il suo cognome nella sola professione. Era una suggerimento protettivo, Matilde Lojacono in questo modo poteva continuare la propria vita in modo più riservato. Fummo tutti felici di quell'idea».
Tecnica, anima, sfrontatezza. Cosa serve per recitare?
«Serve studiare. Serve appropriarsi della tecnica, farsi una cultura cinematografica, temi sui quali devo ancora progredire. Sono queste le basi utili a tutti. Poi ciascuno mette in campo meccanismi propri.
Ho incontrato una quantità di attori che utilizzano metodi individuali. Io mi affido molto all'istinto, evito di insistere con la preparazione, la ripetizione del copione a memoria per lasciare spazio all'improvvisazione e quindi alla naturalezza. Non è una regola, anzi. Sto parlando di ciò che funziona per me e con me».
Il pudore aiuta o complica?
«Se penso alla fisicità, mi accorgo di essere molto aperta, è difficile che mi vergogni. Questo mi permette di affrontare con una certa elasticità una scena delicata. Non dico non ho pudore, ma sul lavoro lo sguardo degli altri non mi blocca. Ho conosciuto colleghi più riservati, diciamo così, che hanno sfruttato un limite apparente in una risorsa. Il trattamento di un personaggio può seguire strade diverse e comunque interessanti, rivelatorie».
Il regista, in quanto padrone del film, sino a che punto va assecondato?
«Per me che partivo dal nulla in termini di esperienza e consapevolezza, affidarsi completamente al regista è stata una necessità. Continuo a vedere questa figura come un direttore d'orchestra che deve avere l'ultima parola su una scena, su ogni particolare, dal colore dei capelli a quelli di un divano.
Alcuni attori molto più esperti e autorevoli di me, riescono ad elaborare un personaggio attraverso una presa di coscienza particolare. Questo lavoro può essere accolto da un regista anche se risulta diverso rispetto alle intenzioni iniziali. Non è detto che funzioni ma può offrire esiti eccellenti».
Il mondo del cinema è inevitabilmente maschilista?
«In Italia, abbastanza. Il tema è sul tavolo da tempo e devo dire con piacere che ho notato un cambio di rotta. Poi dipende dagli incontri. Virzì è un regista che cura e attribuisce grande importanza ai ruoli femminili ma su cento film italiani ne troviamo tanti con personaggi femminili un po' confinati.
Mogli di protagonisti, fidanzate di protagonisti, figlie di protagonisti maschili. Credo sia molto difficile esprimere giudizi sulle responsabilità perché stiamo parlando di un argomento che ha a che fare con nodi complessi di una cultura. Spesso certi ruoli femminili non mi sembrano valorizzati, storie interessanti che finiscono per essere trascurate. Ma evidentemente esistono molte persone alle quali va bene così».
Testimonial per una campagna sul congelamento degli ovociti per preservare la fertilità femminile. Quali battaglie è disposta a combattere?
«Mi ha coinvolto la percezione di scarsa consapevolezza che riguarda tante giovani donne: alcune scelte di vita mettono a repentaglio la capacità riproduttiva. Il congelamento degli ovociti per chi deve affrontare cure tossiche credo rappresenti una opportunità. Punto. Non sto affatto dicendo che una gravidanza vada programmata con leggerezza.
Ho dato il mio sostegno ad una iniziativa convincente messa in campo da alcuni medici. Per il resto evito di espormi per il gusto di farlo. Credo che ciò che accade sui social istighi ad una certa superficialità, all'adesione istantanea ad una iniziativa, ad una petizione, persino alla solidarietà di fronte ad un lutto.
Preferisco percorrere altre strade privatamente. Anche perché odio far finta di conoscere a fondo un tema e dire la mia. Credo si tratti anche di una questione di rispetto nei confronti di chi conosce davvero una dinamica, una realtà, un problema serio».
Il divismo è una conseguenza incontrollabile o è una trappola da evitare?
«Non credo sia una conseguenza obbligatoria. Ci sono varie tipologie di divismo. Alcune persone manifestano un'aura affascinante ma penso si debba fare molta attenzione a non scivolare verso l'arroganza o la presunzione.
Cerco di non essere giudicante, per me uno se la può anche tirare, non mi infastidisce. A patto che non perda la misura, l'educazione, l'attenzione verso gli altri. Quando vedo gli eccessi del divismo, vale a dire scortesia nei confronti della troupe, una certa arroganza, capricci di fronte a cento persone, la faccenda si fa insopportabile».
Matilde Gioli, Cavaliere della Repubblica. Beh? Un onore, un titolo senza importanza, una esagerazione?
«Non me lo aspettavo. È una onorificenza che ha deciso di consegnarmi il Presidente Mattarella dopo la mia partecipazione come madrina alla celebrazione del giorno dedicato alla donna, l'8 marzo. Non so quali criteri determinino l'assegnazione dei cavalierati. Talvolta mi sento in imbarazzo, penso che questo titolo sia stato attribuito a persone che hanno affrontato anni di lavoro e sacrifici. Poi metto a tacere le mie vocine interiori e penso che sia stata una decisione spontanea. La accolgo con riconoscenza e soddisfazione».
E comunque i cavalli hanno un peso nella sua vita...
«Un peso enorme. Due anni e mezzo fa girai il film di Giovanni Veronesi, Moschettieri del Re . Metà delle mie scene prevedevano la presenza di cavalli e la produzione mi incitò a fare pratica in un maneggio, indipendentemente dall'utilizzo di eventuali controfigure.
Nell'esatto momento in cui mi trovai per la prima volta in sella provai una sensazione di empatia incredibile. Entrai in una specie di trip, decisi di interpretare tutte le scene a cavallo, cadute comprese e dopo due mesi di esperienze sul set mi accorsi che dei cavalli non potevo fare a meno.
Cominciai a trascorrere ogni ora libera al maneggio, a cavalcare, spazzolare, pulire i box. Insomma, mai più senza. Mi sono innamorata di un cavallo, Fuego, sono riuscita ad acquistarlo. Appena posso lo raggiungo, lo accudisco, gli parlo, passeggiamo, guadiamo i fiumi. È qualcosa di davvero terapeutico per me».
Non solo un cavallo. Un fidanzato, Alessandro, insegnante di equitazione. Che non sapeva nulla della sua carriera. Conquistata dalla concretezza?
«Esattamente. Tutto ciò che mi tiene agganciata alla realtà ed esula dal mondo che frequento per lavorare mi attrae. Alessandro ha un animo buono e semplice. Ci somigliamo. Condividiamo una capacità di ridere, di gioire delle piccole cose. Ha a che fare con l'universo dell'infanzia, dei bambini. Natura, animali, buon cibo, chiacchiere, sport, risate. Ogni altro privilegio che pure mi riguarda, da un hotel di lusso ad un contesto elegante, produce piaceri più effimeri, roba di poche ore. Nel quotidiano tutto ciò non mi interessa affatto».
Incontri decisivi, persone indimenticabili. Chi le viene in mente?
«La mia famiglia, numerosa e calda; amici che non appartengono al mondo del cinema, e poi tre uomini incontrati sul lavoro ai quali sono molto legata: Diego Abatantuono, Marco D'Amore e Francesco Ghiaccio, regista di Un posto sicuro. Mi hanno accolta, amata, protetta. Generosi in tutto, nei consigli professionali, nelle attenzioni. Angeli, incontri felici, persone care che porto nel mio cuore. Nei momenti di sconforto sono stati loro a darmi la carica, la forza».
Un grave incidente subito in piscina da adolescente, che ha rischiato di paralizzarla, la morte precoce di suo padre. Il dolore cosa può restituire?
«Quell'incidente mi ha tolto tanto perché avevo 16 anni ed ero bloccata con addosso un busto di ferro, una lunga, anticipata quarantena. Però ne parlo con gioia perché rischiavo la sedia a rotelle mentre ora sgambetto, con la sensazione di sfruttare risorse che non pensavo di possedere.
Il lutto è una cosa diversa. Pesa di più, ciò che manca non torna e per certi versi è insopportabile. Mio padre non esiste più: il verdetto è definitivo ma non lo accetto, faccio cose strane, lo chiamo al telefono, mi chiedo dove diavolo sia. Non poter parlare con lui produce una tristezza profonda. Con la consapevolezza di aver ricevuto tantissimo da lui, la capacità di amare, di stringerci. Purezza e chiarezza. Questo resta. E ritorna».
Ha 32 anni. Abbastanza per capire quali rischi e quali errori evitare?
«Credo di sì. Magari tra dieci anni scoprirò altro. Ma credo di aver imparato a muovermi nel mondo. Mi pare di essere una persona completamente responsabile delle mie scelte».
Maurizio Lastrico, la mamma sua grande fan, il papà scomparso presto, la fidanzata misteriosa. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 5 Maggio 2022.
L’attore genovese che interpreta il Pm Nardi, molto vicino ad Anna Oliviero (Giannetta) nella fiction «Don Matteo» è sempre più amato dal pubblico. E ammette: «Don Matteo regala tanta visibilità».
L’affascinante Pm di «Don Matteo»
Terza stagione di «Don Matteo» per Maurizio Lastrico che interpreta il PM Nardi. Nella prima stagione l’attore è stato protagonista di una bella storia d’amore con il personaggio di Maria Chiara Giannetta (la carabiniera , nonchè capitana Anna Olivieri). Il matrimonio tra i due era cosa fatta, ma è saltato tutto sul più bello. Ora la bella Anna vuole riconquistarlo, ma nella fiction è apparsa la giovane Valentina che pare interessata al Pm. Vedremo come evolverà il triangolo.... Quanto alla fiction, Lastrico aveva dichiarato: «“Don Matteo” è stato per me un ritorno a lavorare in gruppo, dopo tanti anni in solitaria a “Zelig” e ne avevo un così grande bisogno che l’entusiasmo nel recitare in questa serie mi ha portato a viverla quasi come una vacanza scolastica. Ho investito tanto a livello di coinvolgimento che per me, genovese, restio, guardingo e diffidente, è stato un grande passo». E ancora: «”Don Matteo” regala tanta visibilità, che si traduce in date a teatro; è un terreno apparentemente superficiale ma dove c’è la possibilità di recitare veramente; è una palestra che ritrovi al cinema, a teatro, è la possibilità di crescere come attore».
La giovinezza solo con la mamma, la perdita di papà
Maurizio nasce a Genova il 31 marzo 1979, cresce a Sant’Olcese e nel 1998 si diploma a come operatore turistico. Ma presto capisce che la sua passione è la recitazione e segue il suo sogno. La famiglia lo appoggia. Soprattutto la madre è stata la sua colonna: «Quando i miei si sono separati e lei è rimasta sola con me, si è fatta un mazzo tanto, faceva le pulizie in casa della gente; è stata una donna che con un’intelligenza emotiva unica ha sentito che quello era il mio bisogno; è stata lei a dirmi fai quello che ti senti; era felicissima quando ho lasciato il lavoro per iscrivermi all’Accademia, anche se significava iniziare di nuovo a mantenermi». A «Oggi è un altro giorno», ha raccontato a Serena Bortone: «Mamma Renata, detta Renna è una fan esagerata come tutte le mamme, sembra sempre che io faccia il premio Oscar qualunque cosa faccia». Poi confida con emozione che il padre è morto tre giorni dopo il suo debutto a Zelig e dunque non ha fatto in tempo a godere del suo successo. Lastrico ha confessato che questo è il suo grande rammarico perché anche al padre deve la sua carriera, perché da papà Bruno ha preso la sua vena comica.
Reinventando Dante a Zelig
Si diploma nel 2006 presso la Scuola del Teatro Stabile di Genova e comincia la sua carriera tra teatro e cabaret. Nel 2007 debutta in tv con l’interpretazione del personaggio del catatonico nella sitcom Camera Café. Due anni dopo sbarca a Zelig Off proponendo una Divina Commedia rivisitata trattando di temi quotidiani in lingua dantesca. Nel 2010 arriva la prima serata di Zelig e la sua presenza continuerà anche nel 2011, 2012 e 2013 (vi è tornato nel 2021)
Il «mistero» della fidanzata
Maurizio Lastrico è sempre stato molto riservato in merito alla sua vita privata. Per un certo periodo gli era stata attribuita una relazione con la collega e amica Maria Chiara Giannetta. Ma tra loro non ci sarebbe nulla, a parte un rapporto di amicizia un po’ speciale. Proprio la stessa Giannetta ha confermato: «Ci hanno dati per fidanzati ma in realtà siamo amici. Ci confidiamo e ci supportiamo, l’ho voluto al mio fianco nella performance all’Ariston», ha detto l’attrice. Pare che dunque Lastrico abbia una fidanzata di cui però non si trova neanche una foto. Si tratterebbe di una “misteriosa” Elisabetta. Nel novembre 2021, in occasione del suo ritorno sul palco di Zelig, Maurizio ha dichiarato in un’intervista di aver conosciuto la fidanzata proprio a teatro. I due facevano parte della stessa compagnia e si sono innamorati dietro le quinte, preparando uno spettacolo che a causa del lockdown non è mai andato in scena. “Grazie al lockdown siamo andati a convivere” ha dichiarato l’attore. Ammettendo che la relazione, nonostante il passo importante fatto senza pensarci troppo, continui ad andare a gonfie vele.
Le copertine satiriche da Floris
Per un Maurizio che se ne va, un Maurizio arriva. Quando Crozza lasciò la copertina satirica nel programma diMartedì su La7 con Giovanni Floris, arrivò Lastrico. Evidentemente a Floris piace la comicità genovese (ora ci sono Luca e Paolo infatti). Maurizio Lastrico provò a riassumere in pillole l’anno appena trascorso: «Il 2016 è stato un anno coerente. Eccolo liofilizzato: se votate Trump, è un disastro. Votarlo subito! Gran Bretagna: se usciamo dall’Europa, è un casino. Usciamo, tutti via», e ancora: “La Raggi non sa far niente. Sindaco subito! Il ministro dell’Istruzione non è laureato. Meglio, va bene! Renzi: ‘Se perdo, me ne vado via’. Bene, vai, ciao!».
Il teatro di Giole Dix
In Facciamo che io ero io, pièce teatrale di Giole Dix, Maurizio Lastrico intreccia fra loro resoconti sulle sue origini, cronache su incontri e personaggi del presente, riflessioni su sogni e sfide per il futuro. Un monologo di intrattenimento, di grande livello. Lastrico riesce a conciliare lo stile folgorante delle sue esibizioni televisive con la sua indole di attore teatrale votato al l’introspezione e alla cura del dettaglio. «Dirigere Maurizio Lastrico è un’avventura stimolante e impervia, che implica concentrazione, rigore e attenzione, sia ai massimi sistemi che alle sfumature. Non una passeggiata, insomma. È questo il suo bello» ha detto Gioele Dix.
Quel duetto con Giannetta al Festival di Sanremo
«Dialogo tra due innamorati» è il pezzo che Maria Chiara Giannetta co conduttrice di una serata del Festival di Sanremo appena trascorso, ha portato sul palco dell’Ariston, scegliendo proprio Maurizio Lastrico come suo partner. I due hanno giocato con le parole di brani come La solitudine di Laura Pausini, Cervo a primavera di Riccardo Cocciante, Grande grande grande di Mina, Albachiara di Vasco Rossi, Stasera mi butto di Rocky Roberts. Chiudendo con una citazione del tormentone TikTok di Rootsie, Buonanotte fiorellino di Francesco de Gregori, Good Times di Ghali e Pedro, in memoria di Raffaella Carrà. Il medley realizzato con grande sapienza attoriale ha divertito moltissimo il pubblico del teatro e i telespettatori a casa. Lastrico ha raccontato: «Il medley è nato due anni fa, per una serie di commistioni. È un gioco che facevamo sul set già da tempo e che poi abbiamo riscritto un paio di volte. Quando a Maria Chiara è arrivata la chiamata per Sanremo, ed eravamo vicini per questioni di lavoro, lei mi ha detto: “Perché non lo facciamo al Festival?”. Per un mese e mezzo abbiamo provato tutti i giorni. L’abbiamo scritto noi due con Andrea Possa, un attore genovese molto bravo, tarandolo su Maria Chiara e sul suo gusto per le battute. Alla fine è stato un percorso bellissimo tra teatro, cabaret, sceneggiata napoletana. Maria Chiara è stata molto brava».
Lastrico, dal sociale al palco. Una vita come educ-attore: «Il sorriso? È una terapia». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.
L’attore e comico tra don Matteo e Sanremo: «Aver lavorato da giovane in una coop per persone fragili mi ha insegnato il valore della condivisione. Le cose belle che fai danno l’idea che un poco migliori la vita».
Attore o comico? «Quando sono in mezzo agli attori, quando faccio serie tv come Don Matteo mi presento come comico; quando sono sul palco di Zelig invece dico che faccio l’attore. Così la vivo da outsider, senza mettere tutte le fiches sul tavolo; lavoro in difesa, mi muovo meglio, si aspettano di meno». Maurizio Lastrico è anche la storia dell’operatore turistico che lascia il certo per l’incerto, fino ad arrivare a Sanremo che nel mondo dello spettacolo italiano è la nostra Hollywood.
Una parabola cominciata nel piccolo comune di Sant’Olcese (Genova) e cresciuta fino al successo strepitoso dell’Ariston. Due fidanzati - lui e Maria Chiara Giannetta - che si prendono e si lasciano, si dichiarano amore eterno e subito dopo litigano, ti amo e poi ti odio e viceversa, respingono Amadeus perché «il triangolo no, non l’avevo considerato». Un La La Land inaspettato. «Ai milioni di persone che guardavano - racconta Lastrico - era meglio non pensare, sentivo la responsabilità di essere al servizio di una collega che stava andando benissimo, anzi ero io a essere più agitato di lei. Mi sono preoccupato poco di pensare a uscirne bene io, non per un sentimento altruistico, ma per un istinto artistico; è stata una sorpresa vedere l’effetto che ha fatto».
Il lato etico
Un mese e mezzo di prove per un’esibizione da quattro minuti: «Sembra anti-produttivo, anche perché ormai abbiamo accettato l’idea che vale come esibizione il fatto che uno si sveglia, accende lo smartphone e dice ciao ragazzi, come state, oggi ho sonno; il meccanismo dei social è spudorato. Perché prepararsi così tanto se una cosa spontanea funziona su Instagram? La sorpresa positiva è che quel lavoro è stato riconosciuto, non è stata un’esibizione di sola tecnica ma è confluita in una narrazione leggera, che ha fatto ridere e sorridere le persone».
Anche il lavoro di «intrattenimento leggero» si può trasformare in un’utopia collettiva, ogni mestiere in fondo deve inseguire un suo lato etico. Qual è il suo? «Il lato etico è vedere che le cose belle che fai creano un sentimento di ringraziamento nelle persone, sembra di costruire qualcosa di concreto, qualcosa che in minima parte migliora la vita. Mi piacerebbe essere una persona ricordata per aver contribuito a fare qualcosa di bello, realizzare un lavoro ben fatto in qualunque mestiere è un ottimo contributo sociale. Nel mio campo ha una funzione ludica e di intrattenimento, lo definirei il metodo StanisLavstrico. E poi come dice Elio, potersi occupare con professionalità di scemate è un grande privilegio».
Sanremo è l’ultimo tassello. Il primo è stato quello di operatore turistico. «Mi sono diplomato e ho cercato in tutti i modi di trovare un lavoro serio: ci ho provato a fare quello che ti dicono i genitori. Ma sentivo una vocazione diversa e alla fine non ho potuto resistere alla chiamata della recitazione perché ho capito da subito l’effetto che faceva salire sul palco, già dalle prime recite, già suonando con un gruppo, già portando in scena le prime cose. Quando sei sul palco si crea un rapporto speciale con il pubblico sia in termini di attenzione sia di effetto comico; quando scopri il calore che arriva da una risata, quando provi la sensazione della comprensione di un tuo guizzo, beh, è un’emozione di cui è difficile fare a meno, ti senti accolto, amato, si crea qualcosa di magico. Vieni capito e viene ancor più voglia di creare cose nuove, alzare l’asticella e il livello di qualità».
In famiglia ha trovato solo appoggi. Il padre per certi versi è stato un riferimento umoristico: «Era un comico inconsapevole, aveva quella comicità genovese caustica, che oggi sarebbe ipercensurata in tv, una goliardia alla Amici miei, l’umorismo amaro genovese che viene usato sia per esorcizzare le sfighe, sia per minimizzare le fortune». La madre invece (come spesso succede) è stata la colonna: «Quando i miei si sono separati e lei è rimasta sola con me, si è fatta un mazzo tanto, faceva le pulizie in casa della gente; è stata una donna che con un’intelligenza emotiva unica ha sentito che quello era il mio bisogno; è stata lei a dirmi fai quello che ti senti; era felicissima quando ho lasciato il lavoro per iscrivermi all’Accademia, anche se significava iniziare di nuovo a mantenermi. Lei ci sballa ora, tutto quello che faccio per lei sono capolavori: Don Matteo è diventato Il padrino». Cosa rappresenta la fiction con Terence Hill? «Don Matteo regala tanta visibilità, che si traduce in date a teatro; è un terreno apparentemente superficiale ma dove c’è la possibilità di recitare veramente; è una palestra che ritrovi al cinema, a teatro, è la possibilità di crescere come attore».
Non solo operatore turistico. In principio c’è stato anche il ruolo di educatore. Un percorso personale che è diventato anche collettivo: «Quando i miei si sono separati avevo 11 anni, i servizi sociali nel mio comune funzionavano benissimo e all’epoca era meno usuale avere i genitori divorziati, mia mamma lavorava e frequentavo i servizi del doposcuola: si facevano i compiti, ci si dedicava ad attività ludiche, c’erano i campi estivi e gli incontri con gli psicologi. Gli educatori per me erano figure di riferimento, ho assimilato anche inconsciamente molti dei loro comportamenti; poi a 21 anni sono passato dall’altra parte e ho fatto per diverso tempo l’educatore in una cooperativa sociale a tempo pieno, ero nel mio: il valore della condivisione, il valore di un luogo di aggregazione non fanno reddito catastale ma sono il sale della vita, sono i ricordi che compongono la tua esistenza. Quel contatto per così tanto tempo con i ragazzi ha fatto bene anche al mio linguaggio, mi ha arricchito».
Sorprendere
Comicità e politicamente corretto: l’argomento è sempre vivo. Giusto mettere dei paletti o la comicità è zona franca? Oggi sembra che i social facciano da Psicopolizia orwelliana, decidono cosa si può dire e cosa no: «In Italia identifichiamo la persona sul palco e quello che dice con il suo pensiero; è poco accettato che chi è sopra un palco in realtà sta recitando un ruolo, un ruolo che è anche quello di sorprendere. Detto questo, il comico ha diverse wild card: può usare le parolacce, può esporre dei pensieri che abbiamo e non diciamo, o che non sono stati ancora verbalizzati. Il comico deve essere bravo a giocare sul confine del politicamente corretto, deve fare l’equilibrista: non può dire tutto, ma non ci sono argomenti tabù a prescindere. Se è osceno e basta vuol dire che non ha funzionato. Checco Zalone è uno di quelli che ha l’abilità di capire qual è il centimetro prima del confine. Se fai l’equilibrista e cadi non va bene; se hai sfidato la forza di gravità e resti sul filo invece arrivano gli applausi».
Simone Marchetti per “Vanity Fair” il 6 maggio 2022.
Il ragazzo che non parla inglese fa le consegne di minestre giapponesi. Londra, primi anni 2000. Maurizio ha poco più di vent’anni, guida il motorino e viene dalla Sardegna. Indossa due paia di guanti, due giubbotti e un sacco di rabbia.
Un weekend si infila in testa un cartello di un ristorante italiano, si piazza per strada e diventa una pubblicità ambulante. E in quel momento che capisce cosa farà da grande. E in quel momento che Maurizio Pisciottu diventa Salmo.
«Mi sentivo come un puntino, anzi no, come una scoreggia quando passa il treno. Li ho capito di aver toccato il fondo. Li ho capito che musica dovevo fare». 37 anni, rapper, produttore, oggi anche attore della nuova serie Blocco 181. Dice tutto quello che pensa e non pensa a quello che dice. «Per forza, sono nato incazzato. E come se assorbissi i problemi».
E arrabbiato anche adesso?
«No. Anzi sto bene. Ho chiuso tutti i progetti: il disco Flop, i live, la colonna sonora della serie. Sono tranquillo, dai».
Pero qualche settimana fa se l’è presa con un fan durante un concerto...
«E ci credo, mi ha tirato un pezzo di ghiaccio sul palcoscenico mentre cantavo. Hanno scritto che era neve, ma invece era ghiaccio».
Risponde sempre alla violenza con la violenza?
«Io ci provo a fare il bravo, ma non ci riesco».
Quindi risponde alla violenza con la violenza.
«Allora mettiamola così. Tu fai il bravo, ti prepari, metti a punto la tua musica. Poi sali sul palco e arriva un ragazzino che ti tira un pezzo di ghiaccio. Che fai? Che fai se ti punzecchiano tutta la giornata sui social e poi ti tirano le cose sul palcoscenico?».
Si prova a non reagire?
«Dopo aver risposto male al tipo del ghiaccio mi è venuto un senso di colpa. Pero, se e successo a uno come Will Smith, può succedere anche a me che in più sono sardo e permaloso, no?».
Mi sembra una bella scusa. E anche una brutta giustificazione per Will Smith.
«E vero, hai ragione. Pero a volte proprio mi scatta il crimine. Io vorrei ci fosse un clima di festa, che si fosse li solo per la musica. Invece...».
Invece, forse, un artista ha anche la responsabilità del suo personaggio, della sua fama. No?
«Ma guarda, io non faccio canzoni per salvare il mondo. E poi basta con la favola degli artisti che fanno tutte le cose belle e giuste. Gli artisti non sono persone normali, non danno sempre il buono esempio. Gli artisti sono tutti squilibrati. E forse ogni tanto varrebbe la pena di distinguere l’arte di un artista dalla sua vita privata. Anche se oggi coi social e tutto un gran casino. Infatti sai come andrà a finire?».
Come?
«Che i personaggi vinceranno sulla musica. Che in futuro ci saranno più influencer e youtuber che musicisti. E per favore, influencer e youtuber non ve la prendete male che non ce l’ho con voi. Pero in futuro vedo più intrattenitori, più videogiochi che musica».
E chi vorrà fare solo musica?
«Passera in secondo piano».
Pero ci sono personaggi a cui riesce di fare musica, impegno, politica. Prenda Fedez: e riuscito persino a sensibilizzare un’intera nazione su un tema delicato e difficile come la malattia. Non e poco.
«Ma certo che non è poco. Anzi, e tanto. Pero lo so cosa stai per chiedermi: perchè non lo fai anche tu?».
Appunto, perchè?
«Te l’ho già detto: perchè io non voglio cambiare il mondo con la mia musica. Onestamente, per me sarebbe una puttanata. Prendi questa guerra, e un affare così drammatico, così complicato. E io sono uno che spara una marea di puttanate. Non voglio dire cose che non so. Non posso. E sia chiaro, mi informo. E a volte più ti informi meno capisci. E poi escono i complottismi e scopri che alcune notizie sono false. Non me la sento di parlarne».
Pero in passato si e schierato. Ha detto che chi ascolta hip hop non può votare Matteo Salvini.
«Ma per forza: se ascolti hip hop non puoi essere razzista. Pero no, non ti diro mai chi votare».
Quali sono allora le cose per cui vale la pena di vivere, di lottare?
«La musica».
Che cosa vuol dire?
«La musica e l’unica cosa che mi interessa, l’unica cosa che so fare».
Non sa fare altro?
«Ho vissuto, certo, ma questo non significa che so vivere. Ho fatto tante puttanate e ne sono uscito. Non significa che so vivere. Significa solo che ho sbagliato e ne sono uscito».
Sta debuttando come attore nella serie Blocco 181. Com’e andata?
«Di merda. La serie e bella, e stata una grande esperienza. Pero la prima volta che mi sono visto sullo schermo, nei panni di un personaggio che non sono io, mi sono detto: faccio schifo.
E quando hanno acceso le luci e mi hanno chiesto cosa ne pensavo, io non sapevo proprio che cazzo dire. E come quando senti la tua voce registrata la prima volta e pensi: che voce di merda. Pero ci tengo a ringraziare tre persone che mi hanno aiutato nella colonna sonora: Simone Vallecorsa, Riccardo Puddu e Luciano Fenudi».
Nella serie si parla tanto di periferie, luoghi spesso dimenticati, luoghi dove accade quello che poi succederà in tutta la società. Lei arriva da li.
«Nelle periferie c’è il seme del futuro perchè li si sta male, perchè li trovi la lotta più dolorosa. E solo nelle difficolta viene fuori la vera arte. Succede sempre così».
Ha dichiarato, parole sue: «Se sto bene scrivo canzoni di merda».
«Diciamo che scrivo tante canzoni. Ma quando sto male, scrivo belle canzoni. Non può andare bene sempre».
Il momento peggiore per la canzone migliore.
«Non ho ancora scritto la canzone migliore».
Quella di cui e più soddisfatto.
«Lunedi. Passavo un periodo strano, uno di quelli in cui realizzi che alla fine sei proprio solo».
Lei e circondato da tantissima gente.
«E che cazzo c’entra? Sei solo in mezzo anche a tanta gente».
Come si fa a non farla sentire solo, a conquistarla?
«Non devi comportarti da fan».
Come si comporta un fan?
«Alcuni di loro, specie a Milano, quando mi beccano mi dicono tutti: “Minchia zio, Salmo, minchia”. Queste tre cose e finisce li».
Chi e importante nella sua vita?
«Che domandone. Devo prendere una sigaretta. Allora, devo dire che mio padre e stato un grande maestro di vita. Non mi ha mai supportato. Almeno non apertamente, non davanti a me.
Infatti per reazione ho fatto di tutto per dargli una soddisfazione, per fargli capire che non ero un coglione. E devo essere sincero: io di lavorare non avevo proprio voglia. E non volevo lavorare per gli altri. E ho fatto tutto quello che ho fatto per non dovermi svegliare un mattino per lavorare per qualcuno».
Si comporterebbe allo stesso modo con suo figlio?
«Bella domanda. Farei 50 e 50. Un po’ mio padre e un po’ a modo mio. Ma no, non penso che i figli vadano troppo incoraggiati. Forse bisogna essere bravi a capire quando farlo».
Che rapporto ha con sua madre?
«La Sardegna e un posto matriarcale dove comandano le donne. E mia madre non e un capo ma un soldato, un generale. Non e una mia fan, non viene quasi mai ai concerti, non le interessa. E un’artista del cibo, si sveglia alla mattina e inizia a cucinare. Mi cura e mi nutre. Anche troppo. Infatti quando torno in Sardegna metto sempre su troppi chili».
E con la Sardegna?
«Sono cresciuto in questa periferia, lontana da tutto. Ho passato anni a Olbia, al bar Devil Kiss dove sono passati tutti i gruppi punk e metal. Io volevo fare rap ma ho lasciato quella musica nel cassetto. A volte nella vita devi fare cosi: mettere il tuo sogno nel cassetto e aspettare. Anche perchè il tuo sogno continua a nutrirsi di tutta la diversità che lo circonda. E io ho preso tutti gli elementi estranei al rap per metterli nel rap».
Frequenta ancora quegli amici?
«Sempre. Sono gli amici del bar, del pallone. Alcuni sono anche un po’ delinquenti. Alcuni spacciano. Li prendo per come sono. A volte li aiuto. Pero li capisco».
Li giustifica?
«Non lo so. So che capisco quanto sia difficile farcela oggi in Italia. Quanto sia maledettamente difficile crescere una famiglia. Il lavoro, le tasse, i soldi, arrangiarsi, sopravvivere. Io ci sono passato. E sono stato fortunato. Ma non posso dimenticare quanto sia difficile».
Oggi nella musica italiana succede una cosa particolare: i grandi cantanti storici non entrano in classifica. Ci siete solo voi, i nuovi, o i giovanissimi. Come lo spiega?
«Succede solo in Italia. Io penso che a un certo punto un cantante “storico” entri a far parte del patrimonio italiano. Vasco Rossi, per esempio. I suoi singoli non entrano in classifica. Pero ai suoi live c’è il finimondo perchè i suoi concerti sono parte della cultura italiana. Gli italiani vogliono andare allo stadio per sentire Alba Chiara. Pero Vasco non scrive più Alba Chiara. E gli italiani sono dei gran conservatori».
E se sono cosi conservatori perchè riempiono San Siro per vedere Salmo?
«Chi mi segue e di una generazione diversa».
La generazione Spotify?
«Ecco un’altra bella domanda. La generazione Spotify non si gode la musica come ieri quando ti leggevi i testi, guardavi i libretti. Oggi e tutto più veloce. Altro che sei minuti delle canzoni dei Pink Floyd: questa e la generazione dei dieci secondi. Come TikTok. Quello che prima facevi con una canzone in tre minuti, ora lo fai in dieci secondi».
Lei dice: odio la chiesa ma sono cristiano.
«Devo essere sincero? Penso che non esista niente. Dio, paradiso, inferno... Niente. Sono cose che ci siamo inventati come alibi, a volte per fare cattiverie. Non c’è bisogno della religione. La gente deve imparare a credere in se stessa».
Altra sua frase: non farei mai il mio fidanzato.
«E una presa di coscienza».
E single?
«Si».
Non le manca una compagna?
«Per ora no. Pero so che arriverà».
Torniamo alla sua storia e alla sua idea del fallimento. Lei trova gli errori, le cose che vanno storte quasi più importanti di quelle che vanno bene.
«Si e mi piace ricordarlo oggi che tutti pensano che basti poco a diventare famosi con i social».
Basta poco?
«A volte si, ma poi ti bruci. Non auguro a nessuno di diventare famoso a 20 anni».
E Blanco?
«E uno dei pochi a essere davvero pronto. L’ho visto a Sanremo: l’attitudine, la tecnica, non c’è niente da dire. Deve stare attento pero: bisogna rimanere sulla cresta dell’onda per almeno dieci anni. E bisogna studiare. Io ho imparato sul campo: ascoltando musica black, campionando beat, ho avuto tre band diverse, suonato tutti gli strumenti, microfonato tutti gli strumenti.
E poi ho registrato, remixato, mi sono dedicato alle colonne sonore. Le esperienze che fai sono come i pacchi regalo che mia zia accumula sugli scaffali: quando vai a casa sua, li vedi tutti li, uno sull’altro. Incasinati e bellissimi»
Ha provato la depressione e i peggiori fallimenti. Ma spesso sui social si presenta forte e un po’ bullo.
«Su Instagram va forte chi fa lo sborone».
Ma non è ora di rendersi conto che la vera forza e capire di essere fragili? Di fare a pezzi questa mascolinità tossica per tutti?
«Hai ragione. Bisognerebbe sempre dire la verità su chi sei. E dirla soprattutto in una certa maniera. Ecco, dire le cose in una certa maniera e tutto. Soprattutto nella musica. Pero, vi prego, non fate come a scuola. Non giudicatemi per la mia condotta. Giudicatemi per la mia musica».
· Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.
Platinette: «Mina a casa sua in ciabatte mi disse come fare un musical. Ho preso 50 chili per amore». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.
L’artista: «A 18 anni tradii la mia fidanzata con un ragazzo. Non mi è mai venuto in mente di dire: mamma sono gay. Una volta trovò dei collant nella mia camera, li lavò e li mise nel cassetto insieme ai calzini»
Buongiorno, dobbiamo chiamarla Platinette o Mauro? «Dipende dalle persone, in nessun caso mi offendo. Quando è più utile arrivare al dunque, al femminile, altre volte come sono all’anagrafe, Mauro Coruzzi. Grazia Di Michele, con cui cantai al Festival di Sanremo, mi chiama Pla». Platinette ha la sensibilità di un’anima ferita, condita con tanta ironia. A volte parla al femminile, altre volte al maschile.
Quante parrucche ha?
«Una ventina, non tutte platinate. La più assurda è bionda ramata con la ricrescita. Un giorno Maurizio Costanzo (ancora ci diamo del lei) con Maria De Filippi mi consigliò di togliermela. Così in un programma tv la deposi su un tavolo accanto a me».
E il guardaroba?
«A metà tra maschile e femminile, molto mischiato. Mi vesto a seconda delle necessità professionali. Sono una parodia del divismo femminile».
I suoi fan?
«Non so se li ho, e non mi interessa saperlo. sono molto rissosa e solitaria».
Cominciamo dai suoi primi anni.
«Sono di Parma, ma sono cresciuto in piccole frazioni tra Langhirano, il paese di mia madre, e Felino, dov’era nato mio padre. Langhirano è la capitale del prosciutto, Felino del salame. Si sono incontrati a metà strada. A unirli era la passione per il ballo, la balera».
È vero che il suo padre biologico era un altro?
«Può essere un delirio il mio, mi sono fatto uno strano trip perché mamma col tempo aveva un fidanzato bello, un atleta che poi divenne un industriale. Mio padre dopo la guerra era tornato da un campo di lavoro, era stato internato dai tedeschi. Rientrò in Italia a piedi dalla Germania, ci impiegò quasi due mesi».
Dunque?
«Dunque era un po’ fuori di testa, gli venne un esaurimento forte, fu curato in una clinica che praticava elettroshock e mamma, donna di una vitalità incontrollabile, sensuale, sempre allegra, riallacciò una relazione con quell’uomo atletico. Non ne ho la certezza. Ma a conferma di ciò io da bambino ricevevo costantemente delle telefonate da un uomo che simulava di avere sbagliato numero. A rendere credibile questa storia, dopo che mamma morì, ogni sabato sulla tomba le venivano cambiati i fiori da una donna. La donna ha rivelato di essere la sorella di una persona che corrisponde appieno all’amante di mia madre».
Lei a chi somiglia?
«Ah, certamente non a mio padre, non ho alcuna similitudine con lui nei tratti. Io, truccata e vestita, somiglio a mamma che neanche Psycho. Siamo quasi uguali».
Disse in famiglia di essere omosessuale?
«Sono del 1955, cresciuto in piena epoca Dc, la Democrazia Cristiana, e non mi è mai venuto in mente di dire: mamma sono gay. Una volta trovò dei collant nella mia camera, li lavò e li mise nel cassetto insieme ai calzini. Mio padre invece era uno zombie, nel senso buono. Nell’ultima fase della sua vita si mise a parlare in italiano, disse che mi avrebbe voluto dottore. I miei genitori dopo il boom economico degli Anni 60 si trasferirono in città a Parma, lui divenne muratore e lei operaia nelle conserve di pomodori».
Com’è stata la sua gioventù?
«Andavo a battere sui marciapiedi, battevo per strada lungo i viali, come si dice nelle canzoni. A scuola passavo per essere uno dei due più bravi della classe, e insieme davamo i compiti ma col cavolo gratis, in cambio di prestazioni».
Ha vissuto il bullismo a scuola?
«Nessuna aggressione fisica. L’ho vissuta dopo. Aggressioni verbali a cui ho risposto con non so quale coraggio. A vent’anni ho cominciato a fare spettacoli di cabaret. Andavo a vedere un gruppo di trasformisti. Erano brutti, orrendi. Ma nella loro bruttezza erano geniali. Avevano parrucche sporche e vestiti improbabili, tutto era così esagerato che mi sono illuminato. Lo spettacolo si intitolava “La difficoltà di essere omosessuali in Siberia”. Il giorno dopo averli visti, sono entrato nel gruppo».
Il pubblico?
«Generalmente di sinistra, non gay. Poi ci siamo messi a disposizione dell’Arci, nell’area del partito comunista. Alle Feste dell’Unità ci tiravano addosso le lattine, le cicche accese. Noi eravamo talmente arrabbiate che chiedevamo di andare gratis a lavorare per il Movimento Sociale, volevamo vedere per scherzo la reazione della destra, ma quelli nemmeno ci rispondevano».
Come si chiamava il gruppo?
«Pumitrozzole. Puttane, mignotte, troie e zoccole. Avevamo fatto una sintesi».
A Sanremo diede il bis.
«La prima volta fu in gara con Grazia Di Michele e meno male che eravamo in due, da sola mi avrebbero massacrata, non è il mio mestiere. La seconda ebbi un diverbio con Gianni Morandi. I soliti idioti facevano una gag su una coppia gay. Morandi non sapeva come uscirne, disse che anche lui aveva amici gay. Io, finito il pezzo con i Matia Bazar, esclamai: anch’io ho amici etero. Fu un atto di coraggio e di stupidità».
Che Italia sarà quella di Giorgia Meloni?
«L’ho conosciuta, abbiamo chiacchierato a lungo, mi ha invitato in modo furbo a un convegno di Fratelli d’Italia. È una donna senza pregiudizi, se li ha li camuffa bene, ma non credo che abbia, come dice Morandi, molti amici gay. Avendo avuto la percezione di un suo pensiero diverso, volevo sapere come la pensasse su certi temi. Mi verrebbe voglia di chiederle un ruolo, rappresentando certe idee rispetto all’omosessualità. C’erano la Santanché, La Russa, centinaia di simpatizzanti di destra. Non credo siano tutti patrioti etero. A sinistra non mi hanno mai invitato. Il Pd si è impossessato di certi temi perché nessuno ne parla».
Come vive, oggi, il politically correct?
«È tutto un bacchettonismo ipocrita, una rottura di scatole. Ogni tanto faccio delle osservazioni ma è come se un musulmano criticasse Maometto. Ho contestato l’utero in affitto e apriti cielo. Ma ciascuno potrà dire la sua, potrò decidere cosa pensare, da “finocchia” come mi sento?».
Si può andare contro il mainstream?
«È dura, c’è un adeguamento al pensiero corrente, stante il migliore che non ammette che tu possa avere un’opinione differente, che tu chieda un confronto. Una mia amica transgender ha sposato un poliziotto, i genitori del marito non sapevano che lei fosse un uomo prima, lei poi si è sposata col fratello di lui».
Dove sta andando a parare?
«Dico che non c’è uno che abbia ragione e uno che abbia torto. Ci sono scelte di vita differenti. E una famiglia arcobaleno che pretende di essere parificata a una famiglia tradizionale, lo deve essere non solo nei privilegi».
È vero che lei a 18 anni ha avuto una storia a tre, con un lui e una lei?
«Mi innamorai del vicino di casa mentre avevo una fidanzatina. Somigliava a Tadzio di Morte a Venezia, biondo, alto, slavato, una bellezza lontana dal mio genere. Abbiamo una sola notte d’amore, mi lascia un biglietto: non sarò mai come te. Nel mezzo la mia ragazza rimane incinta, io padre? E poi eravamo due bambini, l’unica soluzione era l’aborto, che all’epoca era illegale».
Sembra Almodovar…
«Mi piace il suo cinema ma dipende dai film. Mi piace di più Ozpetek per cui ho recitato in Magnifica presenza. C’era anche Drusilla Foer».
Le piace?
«Insomma, cosa posso dire, è brava ma ricalca uno stereotipo che conosciamo, ha la voce simile a quella che aveva Tina Lattanzi, la doppiatrice di Greta Garbo, ha una sua signorilità, capisco che sia rassicurante per un prodotto televisivo, non so che sviluppo potrà avere».
Lei, come Ozpetek, è amico di Mina.
«Avoglia! Sono pazzo di lei, è una ossessione, abbiamo cose in comune, parliamo del Me Too che, va bene l’appartenenza e le giuste battaglie, ma diventa un’altra forma di separatismo, di ghettizzazione al contrario. Nel 1981 fondai il primo Mina Fan Club. Il destino mi fa capitare con sua figlia Benedetta Mazzini in un programma tv, Rock Café, poi ci viene proposta la commedia musicale Bigodini e scatta l’incontro con sua madre, Mina, che vuole vedere il contratto. Ero terrorizzata, da bambina la vedevo con quelle gambe infinite, le minigonne... Accedo in casa direttamente dall’ascensore e mi fa: ce la fai a passare da lì, cicciona? Io tra me penso: senti chi parla. Era in casa con le ciabatte, i capelli raccolti. Ci consigliò di fare le prove a Bellinzona, nel Cantone Ticino, per avere maggiore protezione, e così lei poteva essere presente. Una volta Paolo Conte voleva scrivere due canzoni, Mina doveva cantare il brano assegnato a Patty Pravo e viceversa, Patty non accettò, se la diede a gambe. Io rimasi esterrefatto. Ma come, una come Mina ti mette sul piedistallo accanto a lei, e rifiuti? Patty è una matta col botto».
Quando è ingrassata così?
«Ho preso 50 chili per un uomo, per conquistarlo, mi voleva così e sono esplosa come una mina. Poi c’è stato un chirurgo di Parma, anche a lui piacciono grassi; gli chiedevo, come ti possono piacere mostri come me? Aveva una doppia vita, io sognavo di andare al cinema con lui, normalmente. Temeva lo scandalo e finì».
Cos’è la trasgressione?
«Non dover a tutti i costi essere conformista. Adoro gli anni della Democrazia Cristiana, il compromesso storico, c’erano ministri gay, lo sapevano tutti e vivevano in un limbo».
Cos’è la normalità?
«Non esiste, la vita è una sorpresa continua. Il sesso è più forte del potere. Ti pare normale che un presidente americano 24 anni fa si sia fatto fare quello che si è fatto fare da una stagista alla Casa Bianca?».
L’ultima volta che si è innamorata?
«Una settimana fa, di un uomo non attraente fisicamente, è una cosa di sguardi. Ho il timore di esserci finita dentro fino al collo».
Maurizio Umberto Egidio Coruzzi ha un nome d'arte, Platinette, e uno d'uso, Mauro. Simonetta Sciandivasci per “Specchio – la Stampa” il 23 agosto 2022.
Per anni, quando c'era Platinette, non c'era Mauro, ma sempre, quando c'erano l'una o l'altro, c'era Maurizio. Quando si toglieva la parrucca, si abbassavano le luci, le cambiava la voce, diventava tutto grave, serio: finiva la festa. Adesso si vede più Mauro che Platinette, talvolta una fusione di entrambi. Mauro assomiglia sempre di più a Philippe Noiret e Platinette sempre meno al «cartone animato» degli inizi, quando era la prima drag queen della televisione italiana, il primo travestito che non era ospite ma protagonista, conduttrice. La volle Maurizio Costanzo. Prima faceva la radio. Prima ancora, i giornali.
Prima ancora, il fruttivendolo, a Parma, sua città natale dove vorrebbe tornare e aprire una libreria.
È vero che si può essere chiunque?
«Si può giocare a essere tante cose. Io ho creato un cartone animato, l'ho indossato, abbiamo fatto carriera. Ho vissuto il camp, l'esagerazione, e quando c'era il camp nessuno si poneva il problema dell'identità. L'altra sera guardavo un programma sulla transizione di genere su Raitre: a uno degli ospiti è stato chiesto come voleva essere definito, e ha risposto che dovevano essere gli altri a chiederglielo. Cosa?! Quindi quando conosco qualcuno, devo dirgli "Ciao, come vuoi che ti chiami?". Ma per carità. Che il prossimo sappiano almeno questo: chi è. Lo sappia e lo dica».
Ma sia comprensivo: è diventato difficile stabilire chi siamo.
«Non è una buona ragione per rinunciarci».
Lei sa come si fa?
«Le dico una banalità atroce: è dalla cultura che si deriva l'identità. Se io sono riuscito nella mia vita a vedere Fassbinder, a vedere i film di Visconti e a capirli, ad amare l'estetica, a leggere e amare Thomas Mann e Proust, ecco: so chi sono».
E le cose che ha fatto e che sa fare, i pregi e i difetti, la definiscono?
«So questo: non ho qualità o talento artistico ma desidero non essere ordinario, anche se mi rendo conto che in questo c'è molto di ordinario, perché non c'è niente di più normale di desiderare una vita unica. Però, di certo ho fatto scelte che mi hanno permesso e mi permettono quella libertà che mi fa dire che non hai fatto ciò che si sarebbe dovuto fare, ciò che ci si aspettava da me o dal mio personaggio. Ho lavorato per anni a Mediaset, e mi hanno dato del berlusconiano, io che Silvio Berlusconi non l’ho neppure mai visto».
E le hanno anche dato del fascista retrogrado reazionario omofobo. Lo sa?
«Anche omofobo? Ah sì?».
Ha espresso perplessità sul ddl Zan.
«E basta questo?»
Così pare.
«Ho anche accettato l'invito di Giorgia Meloni ad Atreju. Mi ha chiamato lei in persona, mi ha detto che avrebbe voluto che andassi a parlare delle ragioni di quelle perplessità e io, molto stupito di quell'invito, e pur temendo e provando una strana diffidenza all'inizio, ho accettato, ci sono andato e ho trovato una platea molto rispettosa e interessata».
Cosa non la convince dello Zan?
«Penso ci voglia una legge che punisca la discriminazione, ma quella l'avevo trovata malfatta e discriminatoria».
Ha detto che l'Italia non è un paese omofobo.
«E lo ribadisco. E non lo è mai stato. Paolo Poli ha fatto la carriera che meritava, e tutti sapevano che era omosessuale».
Però succede che dei ragazzini che si baciano per strada vengano aggrediti.
«E le donne vengono ammazzate. Ecco, io è questo che trovo intollerabile, atroce, ingiustificabile. I femminicidi aumentano, ci sono numeri orribili e la questione è scomparsa dalle agende della campagna elettorale. Io, come omosessuale, voglio combattere la violenza contro le donne.
Non me ne frega niente di avere lo sconto Alitalia che sia uguale per le famiglie omosessuali e quelle eterosessuali: non mi sembra un obiettivo, eppure ho letto di grandi mobilitazioni per questo. La comunità omosessuale ed LGBTQ ha il dovere di combattere questa battaglia. Dobbiamo uscire dal seminato, e dobbiamo farlo tutti. Questo è un tema di tutti, una tragedia di tutti. Perché come omosessuale vengo sempre e solo interpellato per parlare di orientamento sessuale? Ma è poi così importante?».
Lei è di destra?
«Il solo partito che ho sentito vicino è stato quello Radicale. E mentre non riconosco più Emma Bonino, la vedo confusa, vedo in Cappato la stessa tenacia che aveva Pannella, lo stesso modo di fare politica. E poi Cappato porta avanti battaglie che ho a cuore».
Ha a cuore i diritti degli omosessuali?
«Proprio perché li ho a cuore ho accettato l'invito di Giorgia Meloni ad Atreju. Su quel palco, ho detto che quei diritti non possono essere appannaggio della sinistra, non possono diventare un punto identitario di una parte politica. I diritti non sono ideologici: sono diritti.
La destra deve affrontare il problema, farsi carico di questa battaglia, perché ha elettori omosessuali (presuppongo che un omosessuale non sia necessariamente di sinistra). E quindi Giorgia Meloni avrebbe dovuta fare un'apertura ai diritti come la destra fece ai tempi della legge sulla violenza sulle donne, che fu votata trasversalmente. Se non sarà in grado di farlo, non si smarcherà dal passato».
Dal fascismo?
«Non c'è alcun pericolo di ritorno del fascismo: è morto e sepolto. Mi riferisco al passato in cui la destra ha permesso che i diritti civili diventassero una questione di sinistra».
Le piacerebbe se Meloni diventasse presidente del consiglio?
«Sarebbe una bella sfida. Sarei curioso di vederla all'opera: è pur sempre la persona che ha sfatato il mito del sessismo di destra, ha rimpicciolito tutti i maschi, li ha depotenziati. Qualche giorno fa leggevo un'intervista a Barbara Alberti, che amo e stimo, e aveva parole di elogio per Meloni. Lo avrei mai detto che Barbara Alberti avrebbe avuto parole buone per la leader di una forza di destra? No. E invece. E mi chiedo se la sinistra si domanda come mai non ha mai espresso un leader donna, e se è capace di darne conto, e soprattutto come mai non le venga chiesto di darne conto».
Che Italia vorrebbe?
«Un Paese colto, aperto, connesso. Si ricorda quando Matteo Renzi disse che era necessario connettere tutta l'Italia? Feci i salti di gioia. Eppure, io nelle gallerie dell'autostrada sento ancora soltanto Isoradio».
E Radio Maria.
«E Radio Maria, certo. Mi sono innamorato di Padre Nino perché è quello che sento, non perché sia bravo a condurre o far cantare. Mi piacerebbe che la modernità del Paese non passasse attraverso l'accomodamento personale, ecco. Che ci fosse una base tale per cui, per esempio, dal punto di vista tecnologico, fossimo davvero in grado di avere una connessione gratuita e non così frammentata. Invece, la questione viene derubricata e rimandata come fosse impossibile da risolvere. Ma se in galleria si sente Isoradio significa che non è impossibile far arrivare radio e internet in galleria, no?».
Andiamo avanti o indietro?
«Credo che conosciamo poco e sempre peggio quello che abbiamo alle spalle. I film di Barbra Streisand hanno trent' anni e nessuno ricorda le canzoni in cui Patti Pravo parlava di "io, lei, noi". Se sapessimo cosa abbiamo alle spalle, molte delle cose che oggi sembrano cruciali e ancora da conquistare, sono assodate. Sto rileggendo Tommaso Labranca, mi chiedo se il nostro tempo produrrà ancora uno scrittore così.
Non dico un Moravia, ma uno così».
Lei si è diplomato con una tesina su Moravia.
«Io quando ho letto la scena della collana di Carla ne Gli indifferenti mi sono innamorato. Ho capito un mondo intero. E alla maturità portai anche una canzone di Vecchioni. La professoressa, che era una super borghese sempre impellicciata, mi diede fiducia».
Mi dica due artisti che ama di questo tempo.
«Madame. Eccezionale. Ed Eminem, che è il numero uno del rap mondiale, ed è bianco. E gliela fanno pagare per questo, ma non è un cortocircuito su cui le anime belle trovano da dire».
Chi è il suo migliore amico?
«È morto l'anno scorso. Suicidio. Non me ne capacito ancora».
Quando ha pianto l'ultima volta?
«Ieri, guardando il video della cagnolina della mia assistente, che adesso è in vacanza in Sardegna. Le sono molto affezionato, e ho paura che non mi riconoscerà quando tornerà a Milano. Sono proprio il cliché della finocchia anziana che va pazza per gli animali».
Lei non ci va in vacanza?
«Per carità. La peggiore perdita di tempo di tutte».
Lavora troppo.
«Meno di prima. Sogno una vita comoda, niente famiglia e niente figli. Vorrei vivere su una poltrona che sia fatta in modo tale da permettermi di fare anche i miei bisogni senza alzarmi. Però non smetterei di andare in bicicletta, ora che finalmente ci riesco, dopo aver perso tutti quei chili che mi impedivano di farlo».
Cosa la rende felice?
«Non sono in grado di dirglielo. La felicità la conosco molto da lontano, quindi quando ci penso, mi rendo conto che è come sognare di viaggiare sapendo che non lo farò mai».
Mauro Pagani: «De André? Un uomo del 600, macerato dai dubbi. Nel 1972 superai una brutta depressione leggendo». Paolo Baldini su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.
Il geniale polistrumentista si racconta e racconta il suo rapporto col grande Faber.
Racconta «la fatica e la meraviglia» di inseguire il genio di Fabrizio De André: «Un uomo del Seicento. Diceva: quando ti viene un’idea comincia a scriverla. Poi mettila in un cassetto, riprendila. Lavora di lima per dieci anni e finalmente sarà pronta. Leggeva, scriveva, correggeva. Cercava la perfezione». Ricorda gli anni con la Pfm, dal 1970 al 1977, «quando accompagnammo l’esplosione del 33 giri e del progressive vivendo in auto, da un concerto all’altro». Parla del periodo bohemien trascorso intorno ai vent’anni «in una pensioncina di via Archimede, a Milano, dove c’erano solo musicisti spiantati e ragazze di vita e l’odore di fritto si attaccava alle nostre giacche di lamé pronte per la serata». Rammenta la musica classica degli inizi e gli incontri con il rock, il blues e la World Music. Di quando, nei primi Anni Sessanta, sposò «una donna meravigliosa», la traduttrice Adalaura Quinque, e Greg Lake di Emerson Lake & Palmer gli regalò un violino: «Abitavamo in una comune vicino al centro di Milano che poi si spostò in una villetta al Parco Ravizza». Si sofferma sul momento più buio: «Una depressione feroce che mi colse nel ’72. Mi resi conto che i sogni di gioventù, la speranza di un mondo migliore, erano svaniti e mi sentii perduto». Mauro Pagani ha più volte confessato di avere un’aspirazione: essere come il MacGyver della serie tv, «risolutore di problemi, all’altezza in qualsiasi situazione». Polistrumentista, produttore, arrangiatore, sperimentatore talent scout, romanziere. A fine Anni Settanta, fu inserito da Music Life tra i dieci migliori musicisti mondiali. Oggi, oltre quarant’anni dopo, prepara un’autobiografia per Bompiani ed è l’autore della colonna sonora della docu-serie Una squadra di Domenico Procacci, prodotta da Fandango, memoir della vittoria ottenuta nel 1976 dell’Italia del tennis (Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli e il capitano non giocatore Pietrangeli) contro il Cile di Pinochet.
Come nasce un capolavoro?
«Ovviamente si riferisce a Crêuza de mä».
Racconti.
«Beh, c’è da dire che De André ed io avemmo subito la sensazione di essere sulla buona strada. Ma la svolta arrivò quando ci domandammo: perché non inventiamo una lingua nuova, un grammelot, la lingua dei marinai, un miscuglio di italiano, spagnolo, portoghese, arabo?».
Geniale.
«Fabrizio era felice. Ci sembrava di aver toccato la corda giusta. Invece un paio di giorni dopo mi chiamò: Mauro, non c’è bisogno di creare un nuovo vocabolario. È il genovese la lingua che cerchiamo. Suoni, assonanze, elementi evocativi: c’è tutto. Genova è una città di mare, si porta dentro l’idea del viaggio, della scoperta, del mondo che cambia».
La sua risposta?
«Non potei che essere d’accordo. Evitammo il rischio di costruire una parlata solo teorica, letteraria, scritta su una nuvola. Il dialetto è vivo, esprime la realtà di un luogo. Faber ripeteva che le lingue diventano dialetti quando le città dove si parlano perdono una guerra di troppo».
Da amico, confidente, testimone diretto: chi era Fabrizio De André?
«Un uomo pieno di dubbi, come tutte le persone di intelligenza superiore. Belin, sei sicuro? era la frase che girava più spesso tra noi. Non amava la ribalta: mai siamo riusciti a trascinarlo in una diretta tv. Genovese nell’anima, tifoso del Genoa. Tenne fino all’ultimo segreto il progetto Crêuza de mä anche alla Ricordi».
Con De André vi eravate incontrati nei primi Anni Ottanta nello studio di Carimate.
«Sì, lui era stato liberato da poco dopo il sequestro in Sardegna con Dori Ghezzi. Lavorava all’album L’Indiano, io alla colonna sonora di Sogno di una notte d’estate, la mia prima collaborazione con Gabriele Salvatores. Sono certo che mi assunse perché suonavo molti strumenti. Da bravo genovese, voleva risparmiare».
Quattordici anni di lavoro insieme. Perché funzionò così bene?
«A un certo punto Fabrizio cominciò a fidarsi di me. Mi guardava e aggiungeva: va bene, se lo dici tu... Il suo assenso era come una minaccia. Ma lui, macerato dai dubbi, aveva bisogno di fidarsi. La sua fiducia è stata la prova più bella della nostra amicizia. Vede, un conto è avere un rapporto con una persona di talento, un conto lavorare per 14 anni con il più bravo di tutti».
Parliamo del giovane Mauro Pagani.
«Ero un bambino vivace. Quasi sempre solo. Figlio unico, molto amato. Mia madre mi teneva in casa per proteggermi. Una brava chioccia. Mi ha insegnato a leggere: Mark Twain, Joseph Conrad, Jack London, i classici della letteratura per ragazzi. Quando in biblioteca trovai L’amante di Lady Chatterley, mi si aprì un mondo».
Studiava violino.
«Mio padre era primo flauto nella banda: orecchio assoluto, bravissimo. Un uomo di grande rigore, con una mentalità militare. Sento ancora la sua voce: vai a tempo! Mi voleva ingegnere. Insisteva: la musica devi tenerla come hobby. Lui avrebbe desiderato fare il pilota d’aerei. Invece entrò nelle officine meccaniche di famiglia. In quel periodo, conosceva un ragazzo che si stava diplomando a Milano: fu il mio primo maestro. In breve, misi su un quartetto. Ci trovavamo nel laboratorio del signor Serina, che faceva il calzolaio. Dappertutto c’era l’odore del cuoio. Ancora oggi quando ascolto un quartetto di Mozart lo associo all’odore del cuoio».
Chiari, Brescia, fine Anni Cinquanta.
«Abitavamo sopra un’osteria. Ai tavoli c’erano i reduci della Grande Guerra. Mezzi bresciani e mezzi bergamaschi. Si beveva, si giocava alla morra, si intonavano i canti degli alpini e le canzoni di Sanremo. Quando uno attaccava Volaaa, tutti cantavano... colomba bianca volaaa. Mia madre era ipovedente: teneva la radio accesa tutto il giorno. È stata la colonna sonora della mia infanzia, in particolare le canzoni napoletane».
Poi arrivò il rock.
«Fu una folgorazione. Mi feci il ciuffo, che non stava in piedi neanche a martellarlo. Portavo i jeans. Ascoltavo Little Richard, il più grande di tutti. E poi Gene Vincent, Eddie Cochran, Elvis Presley, gran cantante. Noi ragazzi facevamo i duri: imitavamo i teddy boys. Iniziai in quel periodo a suonare la chitarra».
Un’imprudenza.
«Mio padre non voleva e io ero un pessimo chitarrista. Ma ruppi il salvadanaio e decisi di comprarmi prima una Hofner e più tardi una meravigliosa e costosissima Gibson. Andai dai fratelli Pellizzari di Brescia che facevano manutenzione e vendita di strumenti per la banda. Per la Gibson pagai una fortuna. Mio padre capì, prese la chitarra e la restituì. Un trauma».
Si iscrisse all’università, Geologia.
«Venivo dal liceo classico. Educazione salesiana. Bravo latinista e decente grecista. Ma non volevo insegnare. Erano gli anni dell’Eni di Enrico Mattei. Ingenuamente, pensavo che diventando geologo avrei girato il mondo. Detti l’esame di Analisi 1 per cinque volte, incassando altrettante bocciature. Alla quinta prova ero convinto di avercela fatta. Consegnai con un’ora di anticipo e andai in corridoio a prendere il cappotto. La prof, una signora piuttosto arcigna, mi fermò all’uscita. Mi chiese conto della logica del mio compito e concluse con un sorriso materno: signor Pagani, mi ascolti, cambi facoltà».
Quindi?
«Annunciai in famiglia che avrei fatto il musicista di professione. Poche parole: vi voglio bene e so che mi mancherete, ma questa è la mia strada. Ero schiacciato dal senso di colpa. Non ci parlammo per qualche tempo. Poi papà una sera venne a sentirmi: suonavo il flauto, come mi aveva insegnato lui. Rimase in fondo al locale. Non proferì parola. Ma da allora il suo atteggiamento nei miei confronti cambiò. Aveva capito che sì, potevo farcela. Lo avevo ritrovato».
Poi il rapporto con la Premiata Forneria Marconi, la leggendaria Pfm.
«Il gruppo cercava un violinista-flautista. Mi segnalarono. Entrammo subito in sintonia. Restammo insieme fino al 1977. Erano anni fantastici e problematici. Tutto cambiò con l’attentato di piazza Fontana. L’impegno, la lotta politica spazzarono via la melodia e le canzonette».
Il colpo di bacchetta magica?
«L’esplosione dei 33 giri. Fino ad allora l’ellepì era soltanto una raccolta di 45 giri. La rivoluzione fu il concept album. I tempi erano maturi e noi cavalcammo l’onda del rock progressive dei King Crimson e dei Jethro Tull».
Mi racconta l’incontro con Demetrio Stratos, leggendario leader degli Area?
«Demetrio era una forza della natura: fisico possente, una cassa toracica fuori del comune, una voce unica. Dovevamo fare parte di un super gruppo che non nacque mai. Demetrio si ammalò. Lo andai a trovare al Sacco. Incrociai nei corridoi il suo produttore, Gianni Sassi. Mi fermò: Mauro, i medici dicono che non c’è più nulla da fare. Salii le scale con il groppo in gola. Demetrio era irriconoscibile, la sua voce inimitabile non c’era più. Di lì a poco si spense».
Le colonne sonore più belle che ha scritto?
«Per Puerto Escondido e L’educazione siberiana , due film di Gabriele Salvatores».
Il momento più buio della sua vita?
«Quando, una mattina del 1972 mi svegliai e mi resi conto che i miei sogni di gioventù erano svaniti, che mai avrei visto un mondo migliore. Fu una presa di coscienza dolorosa. Caddi in una depressione profonda. Durò mesi. In quel momento facevo 200 concerti all’anno. Vedevo tutto nero e i brani che scrivevo ne risentivano. Mi sentivo responsabile anche per il gruppo».
Come ne è uscito?
«Leggendo, leggendo, leggendo».
Cosa si aspetta ancora dalla sua carriera?
«Quando sei bravo e hai talento sfiori la bellezza assoluta. Non sei un genio, di quelli ce ne sono pochi. Ma senti il profumo della genialità. Ecco: mi piacerebbe diventare bravo. Ma bravo davvero. E sentire appieno quel profumo»
Sara Manfuso per nextquotidiano.it il 18 luglio 2022.
Max Felicitas, il pornoattore considerato l’erede di Rocco Siffredi si racconta senza filtri. Dalla dipendenza dal sesso alle serate nei locali, dalla vita privata alla società contemporanea dove i sentimenti “si accendono e si spengono con un click”.
Max, a quanti anni hai scoperto il porno e in che modo ne sei diventato protagonista?
“Il porno l’ho scoperto in adolescenza, come praticamente tutti, non era usufruibile facilmente come ora, ma comunque c’era già il Bluetooth, quindi i primi video si passavano con Bluetooth e il cellulare e comunque vedevi le prime riviste che inserivano degli inserti magari non proprio porno, ma comunque dove si vedevano le nudità delle donne.
Ne sono diventato protagonista con un passaggio molto lento, iniziando, finito il liceo, a lavorare in discoteca come animazione, come cubista, poi spogliarellista, fino a quando mi è arrivata la proposta di girare un video amatoriale per un fotografo che doveva rimanere privato ma che poi è uscito, questo mi ha inserito nel mondo del porno.
Era una cosa di cui magari avevo sempre il grillo in testa da quando avevo iniziato a frequentare i locali sempre più trasgressivi per lavoro, però, non avevo mai raggiunto quella sicurezza tale per dire “ok, lo faccio” che mi ha dato l’evento del porno andato online a mia insaputa. Non so se si può definire una cosa positivo o negativa, di certo mi ha tolto tutti i freni inibitori e mi ha consentito di iniziare questo mio percorso”.
A partire dai tuoi genitori, come hanno vissuto questa tua scelta le persone a te più vicine?
“Le persone a me più vicine non hanno vissuto questa scelta in maniera serena. Erano tutti contrari in quanto vengo da un paesino che ha delle visioni e un’apertura mentale inesistente. Questo mi ha reso molto difficile gestire quello che volevo fare visto che non andava bene a tutte le persone vicino a me. Ho dovuto lottare per fare prevalere quello che era il mio volere, i miei non l’hanno mai accettato, attualmente lo tollerano perché ormai è la mia vita, però non e stato facile”.
Hai criticato l’industria del porno, sottraendotene, per il ricorso a farmaci che mantengano elevati i livelli delle prestazioni sessuali. La pornografia, però, non ammette défaillance. Come se ne esce?
“Se ne esce con l’amatoriale, l’amatoriale è un video, lo stesso che uno può fare con la propria fidanzata o il proprio fidanzato, cosa che io sconsiglio, secondo me i video li devono fare soli professionisti perché se fai il video con la propria fidanzata o con il proprio fidanzato alla fine c’è sempre il rischio che in futuro, quando si litiga, magari per un ricatto od altro esca quel video senza volerlo, quindi i video lasciamoli fare a chi lo fa di lavoro e non gli interessa se il video gira.
Seconda cosa, ritornando alla domanda, nella pornografia amatoriale la défaillance può capitare perché l’amatoriale è un tratto della vita quotidiana di tutti e quindi da quando sono stato pioniere di questi filmati amatoriali posso dire che è ammesso qualsiasi cosa, ripeto, qualsiasi cosa.
Quello che dico riguardo al porno e ai fruitori, è che il porno va preso come intrattenimento, un po’ come un film, non deve essere preso da esempio perché il porno non è esempio, il porno è finzione. È ovvio che una persona si possa trovare in difetto, ma questo accade in qualsiasi campo, uno si può trovare in difetto guardando una partita di calcio, perché nessuno sarà bravo come Cristiano Ronaldo e quindi tutti si sentirebbero inferiori, ma anche guardando Batman o The Rock al cinema sia sentirebbero tutti in difetto riguardo al fisico.
Bisogna prendere coscienza e dire questo è intrattenimento, il porno è intrattenimento, non devo cercare di imitarlo, anche perché nella vita normale non ci sono le telecamere, non è che sei dopato, quindi il porno deve essere preso solo ed esclusivamente come intrattenimento e non se ne deve abusare’.
La donna nella pornografia è oggetto alla mercé del piacere maschile, o soggetto pienamente libero e autodeterminato?
“La donna nella pornografia non è oggetto del piacere maschile, anzi, diciamo nella pornografia il maschio è il burattino che deve eseguire gli ordini e tutta l’attenzione nel porno etero ovviamente è concentrata nella donna.
Si invertono i ruoli che ci sono nella società contemporanea soprattutto adesso, con l’amatoriale ancora di più nel porno etero tutto ruota attorno alla donna che è libera di gestirsi, libera di creare i propri contenuti, le proprie collaborazioni, fare lei quello che vuole, quindi c’è piena libertà in tutto. La donna nella pornografia posso dire che addirittura può essere esaltata rispetto alla società contemporanea”.
C’è una concezione egualitaria dell’uomo e della donna nel mondo del porno, o esistono discriminazioni – ad esempio – sotto il profilo retributivo e dei diritti?
“No, come dicevo prima, le discriminazioni sono tutte fatte verso l’uomo, perché l’uomo alla fine è visto solo come un membro fallico, viene pagato meno e deve lavorare molto di più, deve doparsi per stare ai ritmi. Quindi nel porno l’uomo è discriminato, l’uomo è inferiore, l’uomo è una merda, questa è la realtà”.
Hai dichiarato di essere dipendente dal sesso. Trattasi di una patologia dalla quale intendi curarti, o è una dimensione inevitabile per chi fa il tuo mestiere?
“Secondo me per chi fa il mio mestiere è una patologia che è innata dentro, cioè uno per fare quello che faccio deve essere comunque dipendente dal sesso, per farlo serenamente non deve avere problemi, deve fottersene, la sua priorità ogni giorno deve essere scopare. Ovviamente certo che vorrei curarmi, non è facile, ci sto provando, ma non sto trovando una via d’uscita”.
Fuori dal set, riproduci lo stesso tipo di sessualità, o cerchi altro? C’è un discrimine tra la dimensione professionale e personale in termini di sessualità nel tuo caso?
“No, c’è un altro tipo di sessualità, nel porno alla fine mi concentro oltre che nella sessualità, soprattutto sul lavoro, su cosa filmo, perché mi filmo da solo, sono concentrato anche su quello che è il prodotto finale, quindi assolutamente sono due cose diverse.
Il porno lo faccio per lavoro e quindi, ok, sì, godo, mi diverto, però sono concentrato sulla ripresa, mentre nella vita normale è un misto fra sesso occasionale e sesso sentimentale, nel primo il fine ultimo è eiaculare, nel secondo invece c’è la passione, l’amore, come tutte le persone”.
Hai una fidanzata attualmente, o se l’hai avuta, come vive la tua carriera nel porno?
“Il rapporto fidanzate porno è sempre complesso, in quanto tutte le persone che mi sono state vicine hanno avuto una difficoltà, non inizialmente perché all’inizio dicono “lo accetto” però dopo nel tempo lo fanno sempre meno, finché finisce la relazione. Tutte le relazioni son finite per il mio lavoro, mano a mano, con l’aumentare dei sentimenti sempre meno cose venivano accettate fino a che il rapporto si è squagliato”.
Siamo una generazione “educata” ai sentimenti, o li viviamo come una debolezza?
“Credo che solo la musica e le canzoni riescono a trasmettere i sentimenti ai ragazzi, con i social siamo diventati una società così smart è così veloce che il sentimento come si accende in un minuto si spegne.
Questo è il problema della società moderna, siamo abituati a vivere tutto alla velocità di un click, a non sforzarsi in nulla, infatti secondo me i giovani d’oggi nemmeno sanno cos’è conquistare una ragazza, spendere del tempo per conquistare la ragazza che ti piace, perché oramai è tutto con un click, quindi tu scrivi su Instagram, metti like e una ragazza se ti risponde ok, ci sta, si fa, sennò fine, finisce lì e non c’è neanche quella roba di adrenalina di andarci a parlare di persona. Il mondo d’oggi è troppo veloce, i sentimenti si accendono e si spengono con un click”.
Onlyfans. Tra vip e nip sempre più persone approdano a questa piattaforma. So che sei molto critico, mi dici perché?
“Onlyfans sempre più persone ci approdano… non sono critico, semplicemente bisogna capire che comunichiamo con i nostri amici, con le persone, non più a parole ma con messaggi sui social, WhatAapp è un social, quindi tutto è cambiato anche la prostituzione è cambiata, o meglio, la prostituzione c’è sempre, si è evoluta in una sezione che è la prostituzione online, ovvero il cliente vuole chiedere alla propria, diciamo idola, la propria partner che gli piace, una foto o un video personalizzato, lo chiede tramite un compenso che andrà alla creator del contenuto e viene eseguita questa prestazione sessuale virtuale, quindi Onlyfans è la prostituzione del 2022”.
A quanti anni va in pensione un pornodivo e, pur avendo davanti a te un percorso che si preannuncia roseo, come immagini quel momento?
“Un porno divo finché gli tira diciamo dura, il porno è pieno di categorie, quindi in realtà se uno è smart, conosce il marketing e sa gestirsi potrebbe anche durare come un lavoro normale, il fatto è che nel mio caso sto cercando di lavorare in più settori possibili, paralleli a quello che è il porno, anche completamente discostanti per poi, nel momento in cui venisse meno questo lavoro, non preoccuparmi di nulla perché ho già mille cose aperte, questo è l’obiettivo”.
Una canzone e un libro che raccontano chi è Max Felicitas.
“La canzone è ‘Ragazzo Fortunato’ di Jovanotti, il libro ‘Il Mostro’ di Matteo Renzi, ‘La ferocia dei moralisti è superata solo dalla loro stupidità’ cit. Filippo Turati”.
Dal podcast "One More Time" il 28 giugno 2022.
«Io mi sveglio al mattino pensando al sesso, vado a dormire pensando al sesso. Mi porta via le giornate, passo le ore a masturbarmi. È un vero problema. A me piace molto di più pagare per il sesso che essere pagato, ho speso moltissimi soldi in prostituzione».
Max Felicitas, il giovane pornoattore considerato l’erede di Rocco Siffredi, si racconta senza filtri al podcast One More Time di Luca Casadei, confessando i suoi problemi con la prostituzione e la dipendenza dal sesso, tracciando anche il futuro del porno in Italia.
Felicitas, il cui vero nome è Edoardo Barbares, racconta la sua gioventù: «Ho avuto un’infanzia connotata da un’educazione molto rigida, in un piccolo paesino friulano in cui mio padre era il segretario della Lega Nord locale. Ero preso di mira dai bulli, avevo apparecchio ai denti, acne ed ero magrissimo, raccoglievo anche le offerte in chiesa: il prototipo dello sfigato».
E poi la metamorfosi: «A 18 anni ho avuto la mia prima storia d’amore con una ragazza, storia finita perché non potevo farle dei regali. Da lì è iniziata una sorta di ossessione per i soldi. Fin da giovane, poi, ho sempre avuto il vizio di andare a prostitute, era una dipendenza. La prima volta è stata a 14 anni, ho trovato un annuncio sul giornale».
E poi gli albori nella carriera dell’hard: «Ho abbandonato l’università quando mi mancavano pochi esami per fare dei lavoretti come il cameriere mezzo nudo, lo spogliarellista e il cubista in locali gay. Ho iniziato a collaborare con un gruppo di spogliarellisti e un giorno, durante un evento, un fotografo mi ha proposto di girare un filmato amatoriale con una ragazza esordiente, non doveva essere messo in vendita.
Il video ha iniziato a girare senza che io lo sapessi, nel mio paesino i ragazzi che da giovane mi bullizzavano iniziarono a complimentarsi senza che io sapessi il motivo. I miei genitori trovarono nella casella della posta una busta con il video e le locandine di tutti i locali gay in cui ho lavorato senza che lo sapessero. Volevano che me ne andassi via di casa».
Da questo momento in poi prende il via la carriera di uno dei pornoattori più in voga negli ultimi anni: «Poco dopo Rocco Siffredi fece un casting e partecipai, fui quello a piacergli di più. Mi giocai bene la cosa sui social e mi chiamò Chiambretti come ospite in una sua trasmissione.
Nel mondo del porno però non si guadagna bene, agli inizi mi davano quasi un rimborso spese e, dovendo andare a girare anche all’estero, non ci si campava. In più, per stare al passo, era obbligatorio prendere dei farmaci per avere delle erezioni, in particolare il Caverject, non mi andava».
Max Felicitas poi spiega a Casadei come «oggi quel mondo lì è finito, il porno di una volta non c’è più grazie all’autoproduzione e a OnlyFans. Quel mondo mi faceva schifo, ho iniziato a lavorare sui social per questo e per diventare il simbolo del nuovo porno in Italia. Mi sono avvicinato a Diprè, ma poi ha iniziato a parlare di droga e mi sono distaccato».
E poi il successo: «Ho creato un sito in cui bisogna abbonarsi per vedere i contenuti, sono stato un precursore di OnlyFans. Oggi le ragazze che vogliono esordire nel porno vengono da me perché sono la miglior vetrina che c’è in Italia. Però non esistono più le pornostar oggi, tutti possono fare i pornoattori a casa loro solo con un telefono. Ho anticipato il mercato. A causa di questo ho litigato pesantemente con Rocco Siffredi, io non sono un pornostar».
Sui suoi guadagni, Felicitas risponde sibilino: «Mi sono tolto lo sfizio di comprare una Maserati, è bastato un mese di lavoro». La puntata, dal titolo "Max Felicitas, il sesso in tutte le sue sfaccettature", si chiude poi con una riflessione: «Il porno non mi ha aiutato a migliorare la mia dipendenza dal sesso, ho ancora crisi di astinenza. Spendo tantissimi soldi in prostituzione. Però l’amore e il sesso son due cose totalmente diverse, per questo, tra alti e bassi, ho ancora una relazione duratura».
Max Gazzè compie 55 anni: cinque curiosità sul cantautore e bassista romano. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 6 Luglio 2022.
Giunto al successo a metà degli anni 90, Gazzè è nato il 6 luglio 1967. Ha pubblicato 11 dischi e partecipato più volte a Sanremo
Il compleanno
I capelli ricci e il basso sempre a tracolla identificano uno dei cantautori più amati della «scuola romana» fiorita a metà anni 90: Max Gazzè, diminutivo di Massimiliano Gazzè, oggi compie 55 anni, un traguardo che festeggia mentre è nel mezzo di un’estate live, con un tour che lo porta in giro per l’Italia fino a settembre. Diventato famoso nel 1997 con «Cara Valentina» e l’album «Favola di Adamo ed Eva», Max Gazzè ha pubblicato 11 album (più uno insieme a Nicolò Fabi e Daniele Silvestri) e ha partecipato sei volte al Festival di Sanremo (la prima tra le nuove proposte, le altre tra i big)
Gli anni in Belgio
Nato a Roma nel 1967, Max Gazzè a 15 anni si è trasferito con la famiglia in Belgio (il padre lavorava all’ambasciata italiana) e ha frequentato la scuola europea a Bruxelles. È lì che sono iniziate anche le sue sperimentazioni musicali, tra gli studi di pianoforte e basso, e i suoi primi live con delle band. Si sposta poi nel sud della Francia e ritorna a Roma nel 1992
È anche pittore e attore
Accanto alla musica, Max Gazzè in passato a raccontato di divertirsi anche a dipingere (nel 2002 ha allestito una mostra a scopo benefico a Roma). Nel 2010 ha inoltre esordito come attore nel film «Basilicata coast to coast» diretto da Rocco Papaleo, in cui interpreta Franco, un contrabbassista che ha smesso di parlare da quando ha perso la donna amata
I testi scritti dal fratello
Le canzoni sono un affare di famiglia in casa Gazzè: fin dalla metà degli anni 90, molti testi dei brani di Max sono stati scritti dal fratello maggiore Francesco, paroliere che negli anni ha collaborato anche con tanti altri cantautori, da Nek a Daniele Silvestri. La firma del fratello c’è ad esempio in successi come «Cara Valentina», «La favola di Adamo ed Eva» o «Il solito sesso»
I cinque figli
Max Gazzè ha cinque figli: i primi tre nati dal matrimonio con la ex moglie Maria Salvucci, gli ultimi due arrivati da una relazione successiva. Il primogenito Samuele (con lui in questa foto) ha 24 anni e ha ereditato la passione per la musica: suona il basso e ha pubblicato dei singoli con lo pseudonimo di Sam Blu
Claudio Fabretti per leggo.it il 27 settembre 2022.
«Sarà un Marchese del Grillo a modio mio. Ma non cercherò di scappare da Alberto Sordi. Sarebbe ingiusto allontanare quel tipo di recitazione, che è nel Dna di ognuno di noi, così come quel film». Max Giusti, in scena al Teatro Sistina di Roma dal 12 ottobre con la versione di Massimo Piparo del classico di Mario Monicelli, non teme l’ombra ingombrante del suo predecessore. Anche perché «siamo tutti cresciuti con Sordi, con Storia di un italiano, con i suoi film, tutti, anche quelli minori. E non l’abbiamo filtrato. Fa parte della nostra cultura».
Che effetto le fa vestire i panni del Marchese?
«Una grande gioia, perché è un’occasione irrinunciabile. Quando me l’hanno proposto, ho fatto finta di fare il vago, ma avevo già deciso di accettare. Poi ho sentito il mio produttore, il mio manager e Paolo Del Brocco di RaiCinema con cui avevo già preso impegni. E mi hanno detto tutti in coro: “Ma come fai a non farlo?!” E poi Piparo ha fatto una versione incredibile, spettacolare, con un allestimento d’altri tempi. Sul palco siamo più di 30».
Avverte il peso di questa maschera?
«Sì, perché il Marchese del Grillo è patrimonio di tutti. Ognuno conosce a memoria le battute, le fa sue, lo rivede cento volte in tv... Per chi è di questa città, poi, è quasi un esame di romanità».
Ha visto la versione teatrale con Montesano?
«No. Volevo restare libero. Temevo che vederlo mi avrebbe in qualche modo condizionato. Voglio riviverlo, ma con una nuova messinscena».
Ha dei figli piccoli, anche loro hanno visto il film?
«Sì, anche se per i ragazzi di oggi è difficile restare concentrati su un film di 2 ore, ma l’hanno visto fino alla fine. Erano incuriositi da una Roma diversa, strana, e dal linguaggio particolare, con termini desueti, anche tra quelli offensivi».
Porterà “Il Marchese del Grillo” anche in tv?
«Perché no? Però servirebbe una rappresentazione mirata per la tv. Ci vorrebbero tre giorni di riprese dedicate».
Come si calerebbe il Marchese nell’arena politica di oggi?
«Mostrando la solita arroganza del potere. Personalmente ho trovato questa campagna elettorale umiliante, piena di false promesse, con una concezione dell’elettore come uno da raggirare. Ma questo non fa ridere come il Marchese».
La rivedremo anche al cinema?
«Sì, ho due film girati in estate, spero che usciranno presto».
E in tv?
«Ora sono impegnato in scena, ma all’inizio del 2023 tornerò in Rai con un nuovo programma».
Cosa sarà?
«È ancora top secret, ma diciamo che il successo di Boss in incognito mi ha aiutato a essere preso in considerazione».
Da esperto e appassionato, come valuta il nuovo boom del tennis italiano?
«La Fit ha lavorato bene. Aiutando i ragazzi nei centri federali ma anche a casa loro. Si è costruita una rete di allenatori, di match analyst al servizio dei nostri tennisti. E i risultati si vedono».
Ha sofferto per l’addio di Federer?
«Molto. Quando vanno via i grandi campioni sto sempre male, come accaduto con Totti. Perché si chiude un’epoca. E diventano parte della tua vita. Come Sordi: non lo conoscevo, ma al suo funerale ho sentito di doverci andare».
Ultimo capitolo, sulle imitazioni. Che ne direbbe di Mourinho?
«Sì, lui ispira, ma devo trovare la situazione giusta per farlo. Magari diventerà come con Lotito: faccio la sua parodia da 15 anni e ormai siamo diventati amici».
Da ilnapolista.it il 18 luglio 2022.
Max Pezzali ha festeggiato i 30 anni di carriera con due concerti a San Siro. Il Fatto Quotidiano, che lo intervista, lo definisce “il profeta del low profile, della rivincita dei nerd, della narrazione del ragazzo di provincia, delle frasi corte e orecchiabili”. Si definisce uno sfigato.
«Viviamo in un tempo dove, per tutta una serie di motivi, anche estetici, vengono proposti solo dei modelli super vincenti, un mondo perfetto da esibire sui social; un mondo talmente perfetto da costringere l’imitatore al bluff per non sentirsi escluso. Io rientro nella categoria degli “sfigati” e qui sto benissimo; non sono bello, non sono particolarmente attrattivo e attraente, non sono mai stato cool, mai ricoperto il ruolo del capotavola accentratore di chiacchiere e sguardi. Piuttosto vado inquadrato con il principio di prudenza; nato e cresciuto sotto la stella dell’“io speriamo che me la cavo”».
Non si tratta di assenza di coraggio, chiarisce.
«Attenzione: questo atteggiamento non è da codardo, è solo accettare i giusti confini e dentro quei confini offrire il meglio di se stessi. Non ho l’atteggiamento dell’eroe portato all’azione pura».
Dice di essere un pigro.
«Sono un profeta del minimo indispensabile, un conservativo dal punto di vista energetico. L’iperattivismo produce solo troppa CO2: uno rompe i coglioni e consuma pure ossigeno; voglio un impatto da persona normale».
Nella sua carriera ha perso diverse occasioni per non essersi accorto in tempo di cosa stava accadendo. Come quando avrebbe potuto avere Angelina Jolie nel film degli 883 ma alla fine non fu presa.
«È la classica sliding door, una di quelle che paghi più e più volte; ci era stata offerta per un ruolo in Jolly blu, ma è stata scartata: questa è la cazzata personale pari alla guerra in Iraq del 2003».
Parla di sé.
«Già da ragazzino non ero né bello né interessante e questa situazione non si è risolta dopo il successo; il successo ti dà il vantaggio di suscitare curiosità, ma la stessa si esaurisce in breve, poi tocca a te. La soluzione? È semplice: parlare fino allo sfinimento; sono in grado di toccare le tre ore senza respirare».
Ma una proposta indecente l’ha ricevuta.
«Un giorno, nel 1996, suona il citofono, mi affaccio e davanti a me trovo padre, madre e figlia 16enne, appena arrivati da Catania. Ero solo. Apro. Il padre resta in macchina, le due si avvicinano e mi propongono un matrimonio. Erano i primi anni di Scherzi a parte, quindi penso: sono una delle loro vittime; allora imposto la voce, mi piazzo di profilo, calibro atteggiamenti e risposte; dopo quaranta minuti mi arrendo all’evidenza ma a quel punto non sapevo più come liberarmi di loro. E allora sbotto: “Signora, capisco l’ingenuità di sua figlia, ma lei!”; tempo dopo, in un concerto a Catania, mentre cantavo, si è alzato un enorme cartello: “Maria, che ti ama, è qui”. Il “qui” era accompagnato da una freccia. Per tutta la serata ho evitato di guardare da quella parte».
Gli chiedono quali geni ha incrociato in carriera. Tra gli altri fa il nome di Jovanotti («ha un cervello incredibile, è come se fosse venti persone nello stesso momento e ognuna di loro è in grado di generare qualcosa di interessante) e di De Gregori, «ma forse è più carisma. L’ho incontrato una volta e ne sono rimasto soggiogato, tanto da fermarlo e appellarlo “maestro”. E lui: “No, macché maestro, tra l’altro entrambi abitiamo a Roma Nord”. E lì ho visto cos’è il genio… In qualche modo mi ha derubricato a mero vicino, così ha evitato di trattarmi da musicista; ammiro tantissimo anche Cesare Cremonini: quando lo ascolti ti apre dei mondi, ne crea di nuovi…».
Per i concerti a San Siro ha invitato tutti quelli che hanno avuto a che fare con gli 883 dagli esordi a oggi. Non c’era, però, Claudio Cecchetto, che lo scoprì 30 anni fa. I due si sono professionalmente separati di recente.
«Dopo trent’anni sono arrivato alla necessità di gestirmi in autonomia, un po’ come capita con i genitori quando vai via di casa; dopo trent’anni di collaborazione si rischia di cadere nell’abitudine, e in questo lavoro l’abitudine è pericolosissima così come il conoscersi troppo e perdere la voglia di stupire».
Una separazione consensuale?
«A qualcuno brucia sempre, poi il tempo aggiusterà».
Tra cantante di successo e mediano dell’Inter, cosa avrebbe preferito?
«A pallone sono sempre stato una vera pippa».
In questi trent’anni qual è il complimento che l’ha più stupita?
«Nel 1992 era appena uscito il primo disco e partecipiamo a un appuntamento della Croce Rossa pavese, dove avevo prestato servizio; finito di cantare ci troviamo di fronte a Lucio Dalla, elegantissimo, e con Mauro ci avviciniamo. E lui: “Bravi, farete strada”. Sapevamo della sua nomea da burlone e abbiamo creduto ci prendesse per il culo. Però era serio».
Chi è Max Pezzali?
«Sono uno che, in parte, ha dimostrato che il talento è un concetto sopravvalutato».
Paolo Giordano per il Giornale il 16 luglio 2022.
Il karaoke di Pezzali esalta una generazione a San Siro In effetti era difficile prevederlo. Chi avrebbe detto, trent'anni fa, che il nerd Max Pezzali avrebbe portato 120mila spettatori per due concerti a San Siro. Nessuno, manco lui, che allora faceva il fiorista a Pavia e aveva consegnato un mazzo anche a casa De Filippi su richiesta di Maurizio Costanzo. «Se mi avessero detto che avrei esaurito San Siro, avrei pensato di essere pronto per un Tso, allora non sapevo neppure quale posto avessi nel mondo», scherzava prima di salire sul palco poco dopo le 21 per due ore e mezza di brani cantati a memoria da sessantamila persone alla faccia di un caldo feroce (stasera il bis). E dalla scaletta si capisce che non è una esagerazione perché ogni brano è come fosse la story su Instagram della generazione X, «di chi ha vissuto gli anni Novanta da adolescente o poco più». I miti. Le sfighe. Gli obiettivi di quel tempo. E i luoghi comuni.
Non a caso, dopo l'iniziale (e purtroppo attuale vista la temperatura) La lunga estate caldissima, Max Pezzali entra dentro Sei un mito con una serie di ballerini «travestiti» da Arbre magique: «È uno dei tocchi più tamarri del concerto ma riesce a fare due salti e diventa poesia», scherzava lui prima di concentrarsi e iniziare «la più bella festa della mia vita». Lo è stata anche per una debordante quantità di pubblico perché raramente si è visto tanto entusiasmo adolescenziale in un pubblico che adolescente non è più. Gli anni. Lo strano percorso. Rotta per casa di dio.
Dopo Una canzone d'amore arriva Come mai e tutto lo stadio canta a squarciagola proprio come quella volta, sì proprio come alle gite scolastiche. «L'altro giorno abbiamo fatto un concerto a Bibione e con il mio staff ci siamo sentiti come alla gita di terza media: le stesse battute di allora, le stesse risate». Il Max Pezzali che il pubblico si ritrova sul palco è il filo conduttore pop di questi trenta anni: «Oh non mi ci far pensare che sono trent'anni di carriera», scherza. E sul palco è tale e quale. Quando, dopo L'universo tranne noi, proprio mentre si sente il «profumo» di Hanno ucciso l'uomo ragno, arriva Mauro Repetto, ossia l'altro 883, la metà del gruppo che spaccò gli anni 90. Da una parte milioni di fan.
Dall'altra la critica scatenata con il pollice verso. Ora Pezzali e le canzoni degli 883 riempiono San Siro e una certa idea di «critica» è stata sepolta dalla legittimazione del pop. «Quando iniziarono i Mondiali di calcio del 1990 Mauro ed io siamo venuti a San Siro per vedere la partita inaugurale Argentina Camerun. C'era Maradona, c'erano i campioni del mondo. Poi Omam Biyik fece il primo gol e io, che ero nel terzo anello e soffro di vertigini, ho iniziato a tifare Camerun, chiedendo ai tifosi di darci pezzi della loro bandiera. Ora essere qui a San Siro, 32 anni dopo, mi fa percepire San Siro come il luogo più bello del mondo».
Ma i ricordi non finiscono qui. «A settembre vorrei passare qualche giorno a Parigi con Mauro a Disneyland». Reunion in vista? «Sento ancora energia tra noi». E c'era energia anche quando sono arrivate sul palco Paola e Chiara, ritrovate per l'occasione come coriste di lusso in Nord Sud Ovest Est e Tieni il Tempo, in La regola dell'amico/Disco Inferno/Bella vera. San Siro è una festa di fine anno.
E poi arriva J-Ax, con il quale «abbiamo tante esperienze insieme ed entrambi abbiamo iniziato in una band con un nome collettivo e poi siamo diventati solisti». Insieme cantano La mia hit e (anche stasera nel secondo concerto) Sempre noi. Quando Ax esce dal palco c'è la sublimazione della maxpezzalità: Sei fantastica, Nessun rimpianto, Con un deca e, nei bis, Il grande incubo, La dura legge del gol, Come mai e Gli anni in versione acustica con tutti insieme a salutare il pubblico.
In autunno Pezzali (che si è separato dai manager di sempre Cecchetto e Peroni) tornerà con un tour nei palasport, che riprenderà in primavera e accumulerà la solita lista di tutti esauriti. Ma ieri sera ha confermato la forza generazionale del pop, che semina e poi germoglia nel tempo, a prescindere dalle mode, a prescindere dalle età, riunendo tutti dopo decenni come se non fosse trascorso neanche un attimo.
Max Tortora e le imitazioni: «Sordi mi disse di smettere, Amadeus nacque in un momento di crisi». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.
Max Tortora comincia e non finisce più. Stiamo parlando della sua altezza. Che tipo è? Abbiamo un aiuto d’eccezione, lo descriviamo con le parole di Carlo Verdone, di cui è amico e con cui ha lavorato: «Max è un uomo che ha dei colpi di genio assoluto, che non ti aspetti e arrivano quando sono slegati dal contesto. Si astrae, si incupisce, poi se ne esce con una genialata che ti chiedi: ma come cavolo gli è venuta in mente? È ipersensibile, solitario, buono, riservato. Uomo d’altri tempi».
Max, quanto è alto? «Uno e 97».
È l’unico attore che potrebbero chiamare Sua altezza. Per recitare è stato un handicap? «All’inizio sì, anche se cercavo di non mettere in soggezione i colleghi, pian piano ho evitato che diventasse una caratteristica, non mi sono mai connotato per l’altezza in un film. Ho fatto un lavoro sul corpo, muovendomi non da alto, con una gestualità misurata: se allargavo un braccio diventavo troppo visibile».
In una scena di Vita da Carlo, la bella serie autobiografica di Verdone, la scambiano per Christian De Sica. «Lì facciamo noi stessi. Carlo voleva che ci connotassimo attraverso un tormentone. In effetti mi scambiavano per De Sica, e ne ero lusingato. Una volta mi capitò di firmare l’autografo col suo nome. Quando lo riferii a Christian, commentò che abbiamo entrambi l’occhio a vongola. Io non ho problemi di immagine se non mi riconoscono. Carlo mi aveva chiamato prima, in Si vive una volta sola, il film rinviato non so quante volte a causa del Covid. Anche lì traspare il calore della nostra amicizia».
Lei è il primo della seconda fila, ora sta guadagnando molte posizioni, ha un potenziale ancora da scoprire. «Il primo della seconda fila... Aspetti che me lo segno, lo considero il più bel complimento ricevuto. Però sì, vivo tutto come viene. Ora noto una continuità di lavoro che non avevo».
Come ha cominciato? «In una discoteca di Roma, dove interruppero la musica per farmi fare l’imitazione di Corrado. Inavvertitamente, ebbi un applauso. Lo considero il mio primo spettacolo. Avevo 18 anni».
Era quello che voleva fare da piccolo? «Sì, anche se poi ho studiato Architettura. Da piccolo mi dicevo: perché sei seduto sul divano e non sei lì dentro, in tv? Vengo da una famiglia di artisti. Papà faceva il direttore d’albergo ed era di una simpatia unica, se n’è andato troppo presto, per fortuna ha fatto in tempo a vedermi a teatro; papà imitava tutti i colleghi di lavoro, affibbiava soprannomi a chiunque gli capitasse a tiro. Mio fratello è un cantante meraviglioso, ha 57 anni e lo vedrei bene a The Voice Senior, ha l’orecchio assoluto, non deve cercare la nota, cosa che gli invidio molto. Mia sorella canta bene e sua figlia, mia nipote, Manuela Lanobile, si sta facendo un nome, si vede anche su YouTube».
Lei suona il pianoforte. «L’ho accanto a me, in casa. È come una bella donna, se non gli dai retta non ti si fila più, se lo molli ti molla, ti dice: cosa pensi, che dopo tre mesi ti risiedi qui e mi suoni come se niente fosse?».
È vero che voleva diventare direttore d’orchestra? «Sì. Mi piace Riccardo Muti perché ha una visione globale della musica, umanistica, si capisce che dietro c’è un mondo. E poi al di là della sua severità è un battutista».
Com’è stata la sua prima adolescenza? «La domenica andavamo a pranzo ai Castelli romani, che era un lusso, a tavola eravamo in tanti, c’era anche zia Giannina. Eravamo felici e non lo sapevamo. Papà ci aspettava sotto casa con le porte aperte della sua Fiat, di cui era orgoglioso. All’andata ascoltavamo Gran Varietà, al ritorno le partite: la radio era assoluta protagonista. Io la radio l’ho fatta, una scuola fantastica, formativa».
Di lì a poco sarebbero nate le sue famose imitazioni. «Non ne ho fatte tante, non mi sono mai sentito un imitatore, avevo cominciato a farle per allietare i compagni di viaggio nelle tournée teatrali. Si vede che hanno lasciato il segno. Luciano Rispoli, Celentano quando parlava in un romanesco un po’ improbabile si trasformò in un tormentone. Poi Alberto Sordi maturo».
Qualcuno si arrabbiò? «Ci fu chi si offese perché il mio Albertone con la coperta era un segno di senilità. In realtà era una citazione di un suo film famoso, Io so che tu sai che io so. Mi disse: sei bravo ma è meglio che smetti. Di lui, divenni assistente operatore in Assolto per non aver commesso il fatto. Sul set eravamo a stretto contatto, dava i buffetti a tutti, all’epoca non c’erano le riprese digitali, il girato si rivedeva in una specie di videoregistratore».
I Cesaroni? «Mi ha portato una popolarità a cui non ero abituato. L’ho capito quando da un giorno all’altro la gente ha cominciato a salutarmi dai finestrini delle auto. Nella lunga serialità c’è il problema di fare sei-sette scene al giorno. Come puoi memorizzare le battute? Ho grande memoria fotografica. Leggo e vado, afferrando il senso di quello che devo dire».
Non ha interpretato solo le commedie di Vanzina e Neri Parenti... «Mi hanno dato fiducia i fratelli D’Innocenzo in due dei loro tre film, La terra dell’abbastanza e Favolacce. Sulla mia pelle racconta l’incredibile vicenda giudiziaria di Stefano Cucchi; i suoi familiari ci hanno ringraziato per la misura e il rispetto con cui lo abbiamo trattato. Sto notando che c’è una maggiore apertura rispetto al passato, in tanti passano dalla commedia ai ruoli drammatici, c’è trasversalità, siamo più liberi».
Il cinema è meno centrale? «Per via degli incassi che mancano? Nella mia vita resta un’esperienza fondamentale, io perfino nel minimo movimento delle labbra penso in termini cinematografici».
È uscito dal recinto del caratterista. «Siccome so dove posso esprimermi meglio, se ci sono cose troppo caratterizzanti le evito».
Lei è stato ospite fisso al programma su Rai2 con Sergio Rubini, Giovanni Veronesi e Alessandro Haber: perché andò così male? «Forse era la collocazione oraria sbagliata. Però ci siamo divertiti un sacco. Loro non avevano idea di cosa avrei detto».
Max, lei dà l’idea di tenere a bada il suo Io. «Non ho molti amici veri, uno di questi è Carlo Verdone, ecco, su di lui puoi contare». Si ferma, sorride: «Non solo sui consigli medici, quelli li dà a tanti. Sull’Io, diciamo che mi pongo da osservatore rispetto a ciò che mi accade».
Ha fatto il guardalinee a una partita di calcio. «Allo stadio Olimpico per gli 80 anni della Roma. Anno 2007».
Anche al guardalinee i tifosi danno del cornuto o è un privilegio dell’arbitro? «Quella fu una festa, una seratona. C’erano tutti i mei miti. Falcao e Totti, Bruno Conti e Picchio De Sisti, Carletto Ancelotti e il bomber Pruzzo. E capitan Totti. C’erano Gigi Proietti, Sabrina Ferilli Lando Fiorini cantò il suo inno e Lino Banfi ai tifosi dedicò una poesia. Io ero guardalinee con Antonello Fassari, l’arbitro era Claudio Amendola».
È vero che la vostra strana terna, al ristorante, mangia sempre gli stessi piatti? «Con Fassari andavo a mangiare la pizza, con Amendola i rigatoni alla carbonara, con Enrico Bertolino i ravioli».
Va per i 60 anni. «Ho avuto più di quello che pensavo, rivendico la normalità che è una bella conquista. E continuo ad andare in giro in scooter, il traffico a Roma non so cosa sia. Ma ultimamente, per gli acciacchi dell’età, ho ceduto e ho comprato anche un’automobile. È cambiata la pianificazione della vita, i progetti sono a corta scadenza. Se un amico mi chiede ci vediamo venerdì, gli rispondo sentiamoci venerdì. Navigo a vista, colgo il momento. Se non mi chiamano per un progetto, non vado più nel panico».
Sulle imitazioni ci stavamo dimenticando l’ispettore Derrick e Amadeus. «Veramente la prima è stata quella di Gianni Morandi: cantavo Scende la pioggia dietro la porta della mia cameretta. Mia madre mi faceva esibire per le sue amiche. Ero timido, avrò avuto dieci anni. L’ho visto a Sanremo e mi è piaciuto molto. Ho adorato Drusilla, la seguo dall’inizio, al Festival ha sdoganato un termine bellissimo: l’unicità di ognuno di noi».
Ma Derrick? «Beh, in tv io sono cresciuto con Furia cavallo del West, Mork & Mindy con Robin Williams e Derrick: quella sua flemma pazzesca... Ma lui sapeva dall’inizio come risolvere i casi, e poi l’ufficio spartano così lontano dalla ricchezza dei telefilm americani, il colore sgranato... Un giorno mi sono messo un trench e l’ho portato in tv».
E Amadeus? «L’imitazione di Amadeus... Ero a Otranto, sul lungomare, davanti a un piatto di spaghetti ai frutti di mare, avevo 38 anni e mi stavo cominciando a preoccupare, non arrivavano più proposte. Improvvisamente esclamai con la voce di Amadeus la sua frase nel programma L’eredità: Siamo arrivati al momento della scossa! Portai quell’idea in tv, su Rai 2 a Bulldozer, ed ebbe successo. Nello sketch mi rivolgevo a un malcapitato concorrente con delle domande inverosimili e assurde. Nacque tutto per una improvvisa battuta che mi venne fuori in un momento difficile, davanti a quegli spaghetti».
Si vede che ha ragione Carlo Verdone quando si chiede: ma da dove cavolo gli nascono quelle intuizioni?
Melanie Griffith, i problemi con l’alcol e le droghe e perché finì con Antonio Banderas, 5 cose che non sapete di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2022.
Le tappe della vita sentimentale della star nata il 9 agosto 1957 a New York, figlia degli attori Peter Griffith e Tippi Hedren.
Il primo incontro con Don Johnson
Icona del cinema negli anni Ottanta e Novanta, protagonista di cult come «Una donna in carriera» (che si può rivedere in streaming su Disney +), «Omicidio a luci rosse», «Pazzi in Alabama» e «Celebrity» di Woody Allen, figlia d'arte degli attori Peter Griffith e di Tippi Hedren (volto femminile dei capolavori di Alfred Hitchcock «Gli uccelli» e «Marnie»). Melanie Griffith, nata il 9 agosto 1957 a New York, esordisce nel mondo dello spettacolo con la pellicola «Smith, un cowboy per gli indiani» nel 1969. Qualche anno più tardi, nel 1973, recita insieme alla madre nel documentario «The Harrad Experiment». Su questo set avrebbe conosciuto quello che sarebbe diventato il suo primo marito: la futura star di «Miami Vice» Don Johnson. «Pensavo fosse la persona più bella che avessi mai visto».
Due matrimoni
Don Johnson è stato il primo amore di Melanie Griffith (così lo ha definito lei stessa su Instagram qualche anno fa). All’epoca del loro matrimonio, celebrato nel 1976, lui ha 26 anni e lei è appena diventata maggiorenne. Le nozze durano solo 6 mesi (si disse a causa delle numerose scappatelle di lui), ma dieci anni dopo ci sarà un ritorno di fiamma, sancito da una nuova cerimonia e dalla nascita - il 4 ottobre 1989 - della figlia Dakota (oggi attrice, si è fatta conoscere grazie alla saga delle «Cinquanta sfumature»). «C'è sempre stata questa connessione. Non riesco a spiegarla - ha raccontato Griffith -. Quasi come anime gemelle, ed è sempre stato così. Non volevo che fosse così, a volte volevo non amarlo. Ma forse era karma, e devi affrontare tutto questo per arrivare dove siamo ora. Ora è diverso. È come se fosse all'inizio, ma c'è molto di più». Nel maggio 1995 però la coppia si separa definitivamente: «È difficile per me immaginare la vita senza di lui. Ma stiamo cambiando in modi diversi».
Seconde nozze
Mentre sta girando il film «La donna soldato» (1981) Melanie Griffith e l'attore di origini cubane Steven Bauer (star di «Scarface», oggi in «Better Call Saul») si innamorano perdutamente. Convolano a nozze e nel 1985 nasce il piccolo Alexander. L’unione però è minata dai problemi di dipendenza dell’attrice (alcol e cocaina) e nel 1987 l’idillio finisce.
La passione travolgente con Antonio Banderas
Nuovo set, nuovo amore: nell’anno in cui archivia il suo secondo matrimonio con Don Johnson Griffith conosce l’attore spagnolo Antonio Banderas durante le riprese di «Two Much – Uno di troppo». Per Melanie Antonio lascia sua moglie, Ana Leza, e i due - nel 1996 - si sposano. Nel settembre dello stesso anno nasce la figlia Stella e nel 2000 l’attrice si tatua sul braccio un vistoso cuore con il nome di suo marito, quasi a voler siglare in modo indelebile (e visibile) quell’amore travolgente.
20 anni insieme
Melanie Griffith e Antonio Banderas hanno costituito per quasi vent’anni una delle coppie più invidiate di Hollywood, hanno lavorato insieme (memorabile il già citato film del 1999 «Pazzi in Alabama») e sono stati immortalati felici e sorridenti sui red carpet di tutto il mondo. Ma dietro al sipario l’attrice si è ritrovata più volte a lottare contro i suoi demoni, sempre con il marito accanto. «Credo che, rendendo pubblico un problema del genere, si possa aiutare molta gente. Lei lo ha fatto ed è stata coraggiosa. Ha il mio pieno sostegno e quello dell'intera famiglia. Non so cosa si possa provare direttamente ad essere tossicodipendente, io non ho mai preso droghe né ho mai avuto problemi con l'alcol. Ma ho visto molti amici, alcuni molto cari, gente molto forte, diventare schiava della droga e cambiare personalità in pochi mesi» raccontava Banderas nel 2002 al Mirror. Nel 2014 la coppia, un po’ a sorpresa, annuncia il divorzio per «differenze inconciliabili»: «Arrivi a un punto in cui devi lasciare da parte il tuo ego e non intestardirti a dimostrare che hai ragione o cercare chi dei due è colpevole di qualcosa – ha spiegato l’attore intervistato da El break de las 7 – perché potrebbe essere colpa di entrambi o di nessuno dei due. Credo che siamo entrambi riluttanti a seppellire 20 anni di matrimonio, siamo esseri umani e, come tali, commettiamo degli errori, è la nostra natura». Però nonostante la rottura i due sono riusciti a mantenere ottimi rapporti. Come ha ammesso Banderas: «Amerò quella donna fino al giorno della mia morte».
Anticipazione da Verissimo il 28 gennaio 2022.
Melissa Satta, ospite domani a Verissimo, commenta gli attacchi ricevuti per la sua bellezza che, secondo alcuni, l’avrebbe aiutata in ambito professionale: “Sono abituata a riceverli, solitamente mi scivolano addosso, altre volte invece ci faccio più caso. Quest’ultima volta sono stata attaccata da una donna. In questo periodo storico, dove ci ripetiamo sempre di essere unite, mi è dispiaciuto ricevere questo colpo basso”.
La showgirl ritorna anche sulla separazione con Kevin Prince Boateng avvenuta più di un anno fa: “Ora sto bene anche se è un dolore che rimane sempre. Ho sofferto molto, è stato un duro colpo perché non me l’aspettavo e perché non è stata una mia scelta. È andata così ma oggi sono molto felice. L’importante è avere un obiettivo comune che nel nostro caso è Maddox e sta andando bene”.
Ai microfoni del talk show la modella ricorda anche la sua relazione con Bobo Vieri: “All’inizio della mia carriera, a 19 anni, ho avuto una storia con Vieri che aveva molti più anni di me ed è stato un rapporto molto diverso da tutti gli altri, ma che mi ha formato. È stata una persona che mi è servita molto per la mia vita. Ho un bellissimo ricordo di quel tempo”.
Ora Melissa ha trovato nuovamente l’amore e progetta un futuro insieme al nuovo compagno Mattia: “È una persona diversa da quelle frequentate in passato, è un ragazzo non famoso e molto riservato, che mi dà qualcosa di totalmente differente da quello che ho avuto fino adesso. Sono molto felice perché crescendo mi sono accorta di cercare altre cose – e conclude – Mio figlio ha quasi otto anni e non vorrei lasciarlo figlio unico. Con calma si fa tutto, vedremo, ma in futuro mi piacerebbe ricreare una famiglia. Un altro matrimonio non so se lo farei, non è la mia priorità, ma mai dire mai”.
Da adnkronos.com il 5 dicembre 2022.
La verità di Memo Remigi a 'Non è l'Arena' su La7dopo le accuse di molestie a Jessica Morlacchi e il licenziamento dalla Rai. Si inizia con la clip del momento incriminato che, spiega Remigi a Massimo Giletti dopo il filmato, "mi fa un effetto strano. Ho fatto questo gesto stupido... Lavoriamo insieme da un paio d'anni, c'è una grande complicità e soprattutto una grande amicizia, Jessica è una ragazza molto divertente...Io la tenevo con la mano sulla spalla e poi scherzosamente, senza pensare che potessi creare tutto questo pandemonio, è scivolata la mano sulla natica.
Lei mi ha dato un piccolo schiaffo sulla mano, l'ha presa e l'ha spostata davanti. E allora, se in questo frangente lei si fosse così risentita o offesa, io alla fine della trasmissione le avrei senz'altro chiesto scusa, ma non mi è stato detto niente". Forse un po' di soggezione? "Ma non può esserci, io mi sono reso sempre disponibile nei suoi confronti e nei confronti di tutti gli amici con i quali abbiamo condiviso questi ultimi due anni".
"Ma Bortone - chiede Giletti - non ti è venuta a dire 'cosa hai fatto?', non c'è stata una riunione? "No, assolutamente. A parte il fatto che lo scandalo è uscito dopo diversi giorni, da un tweet recuperato da Striscia". Ma, incalza Giletti, "dopo quello che è successo non ti ho visto per qualche giorno...". Spiega Remigi: "Mi arriva una telefonata di un autore del programma. Ero in albergo e mi è stato detto 'Memo rimani due tre giorni senza venire in trasmissione e vedremo cosa succede perché hanno pubblicato questa cosa su Twitter. Speriamo non succeda niente perché è uno scherzo fra di voi...'. Io sono rimasto tre giorni in albergo e non ho sentito nessuno", afferma.
Memo Remigi: «Chiedo scusa a Jessica Morlacchi, ma ho saputo del mio licenziamento guardando la tv». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 13 Novembre 2022.
Il cantautore commenta il palpeggiamento in diretta a «Oggi è un altro giorno» su Rai1: «È stato un gesto orrendo, ma non sono un mostro. Non ho chiamato Jessica, sarebbe stato invadente da parte mia, ma ora le dico che sono mortificato»
«Non posso che ribadire le mie scuse: ho fatto un gesto totalmente sbagliato». Firmato Memo Remigi. Era venerdì 21, un tranquillo pomeriggio di ottobre, e su Rai1 come sempre andava in onda «Oggi è un altro giorno», condotto da Serena Bortone con un cast fisso tra cui Memo Remigi e Jessica Morlacchi. Un tranquillo pomeriggio fino a che il giorno dopo non è uscito un twitter che mostrava un filmato, dove si vedeva Memo Remigi che, durante la diretta, fa scivolare la sua mano giù fino al sedere di Jessica, giovane collega e amica, anche lei cantante. Il filmato, dopo due giorni, approda su «Striscia la notizia» e poi viene ripreso da Dagospia. Il caso diventa pubblico. E il caso pubblico diventa scandalo. Memo Remigi viene allontanato dal programma, per aver violato il codice Etico della Rai. In questi giorni è girata voce fosse ricoverato per accertamenti.
Memo Remigi, come sta?
«Un po’ meglio. Certo quanto accaduto mi ha un po‘ traumatizzato. Una botta violenta che non mi aspettavo. E per come si è svolta, del tutto inaspettata».
Cominciamo dal fondo: se ripensa a tutto quanto accaduto dal 21 ottobre a oggi, quali riflessioni le vengono in mente?
«Il gesto - seppur con un intento scherzoso - è stato totalmente sbagliato e non andava fatto. Ho chiesto scusa e lo ribadisco qui. Scusa a Jessica Morlacchi, scusa a Serena Bortone, scusa alla Rai. Tuttavia, non mi aspettavo una reazione del genere e soprattutto con queste modalità».
Cosa intende per modalità inaspettate?
«Dopo 50 anni di carriera, sono venuto a conoscenza del mio licenziamento dal programma, ascoltando in diretta Serena Bortone».
Un autore Rai dopo l’episodio l’aveva avvisata però.
«Il giorno stesso che è uscito il video su twitter, mi ha chiamato un autore e mi ha detto: “Vediamo che succede, tu resta a casa un paio di giorni, capiamo che piega prende questa storia”. Poi più niente. So che quel video ha avuto 47 visualizzazioni . Poi è stato mostrato su “Striscia la notizia”, infine ripreso da Dagospia ed è scoppiato il putiferio».
Prima riflessione: il gesto grave resta grave, sia che lo abbia visto il mondo intero, sia che non lo abbia visto nessuno.
«Assolutamente sì, solo che io non ne ho avuto evidenza. Prima del putiferio non sapevo di aver creato disagio a Jessica. Nel mio animo era uno scherzo tra amici cari quali eravamo. Altrimenti mi sarei immediatamente scusato».
Seconda riflessione: se quindi il video non fosse diventato di dominio pubblico, secondo lei non sarebbe accaduto nulla, lei non sarebbe stato cacciato dalla Rai?
«Assolutamente nulla, ne sono certo».
Nessun dirigente Rai si è fatto vivo con lei?
«Nessuno. Ribadisco che ho saputo del mio licenziamento guardando la tv. Penso sarebbe stato giusto chiamarmi e dirmi: “Lei ha fatto una fesseria, dobbiamo prendere provvedimenti”. Io non ho in mano neanche nulla di scritto».
Serena Bortone è una bravissima giornalista e di fronte a un episodio così, non poteva non essere dura e non poteva non comunicare al pubblico la sua uscita dal programma. In quel momento lei rappresentava la Rai. E bisognava prendere le distanze con nettezza da un gesto che aveva creato profondo disagio a una giovane donna e al pubblico
«Stimo profondamente Serena Bortone, è una grande professionista, e capisco dovesse agire così. Umanamente, visto il nostro rapporto, mi è dispiaciuto solo non ricevere una telefonata da lei per chiarirci. Ho solo dell’amarezza perché abbiamo lavorato bene per anni. Avrei preferito una telefonata dove me ne diceva di tutti i colori, ma l’indifferenza ferisce di più».
Serena ha detto pubblicamente che anche per lei è stato un profondo dolore a livello umano. Non sono situazioni facili da affrontare e probabilmente Bortone ha dedicato le sue attenzioni alla «vittima», cioè a Jessica. A proposito l’ha sentita?
«No, ho fatto a Jessica le mie scuse pubbliche naturalmente che non smetterò mai di ribadire, ma non me la sono sentita di chiamarla. Sarebbe stato invadente da parte mia».
Come definirebbe il vostro rapporto in questi anni?
«Di profonda amicizia, eravamo davvero legati da sincero affetto. Io avevo anche scritto una canzone per lei e avevo chiamato il suo agente dicendogli “tenta la carta di Sanremo” perché Jessica è proprio una brava cantante».
C’era amicizia, confidenza?
«Sì tanta. Jessica mi aveva aiutato a organizzare il mio compleanno lo scorso maggio. Scherzavamo tanto. Per questo non mi do pace: mi è così dispiaciuto che lei si sia sentita offesa. Se me ne fossi accorto subito quel giorno, le avrei chiesto scusa immediatamente».
Forse Jessica, molto più giovane, aveva una sorta di timore reverenziale di fronte a lei, il Maestro, il grande cantautore della musica italiana. Forse per questo non ha detto nulla...
«In due anni non mi ha mai dato questa idea, davvero. Eravamo proprio compagnoni. Se solo mi avesse fatto intendere imbarazzo, probabilmente non mi sarei spinto a uno scherzo così idiota e soprattutto mi sarei scusato immediatamente».
Onestamente Memo, ma cosa le è venuto in mente?
«Uno scherzo idiota. Quando Staffelli mi ha dato il Tapiro di “Striscia”, la prima cosa che gli ho detto è stato: “Non è un tapiro, è un ta-pirla perchè sono stato proprio un pirla”. E voglio dire a tutti: attenzione agli scherzi, attenzione a gesti superficiali, possono esserci pessime conseguenze e si può urtare la sensibilità delle persone».
Anche perché Remigi, bisogna tenere conto che i tempi e le sensibilità sono cambiate, specie dopo il MeToo. Su certi gesti, le donne non sono più disposte a passarci sopra
«Me ne rendo conto, siamo in un momento storico diverso. Il mio gesto è di per se è orrendo ed è sacrosanto il fastidio, il disagio, la rabbia di chi lo subisce. Ma vista la forte confidenza tra noi, forse Jessica poteva dirmelo. Ma soprattutto mi sono chiesto spesso in questi giorni, come è stato possibile che una persona come me - che per decenni ha rappresentato il garbo e l’eleganza - in un minuto sia diventato un mostro. Lei ha giustamente ricordato il MeToo, ma lì si parlava di violenze, abusi sessuali. Forse bisognerebbe anche fare dei distinguo».
Fermo restando che anche un palpeggiamento è un atto grave, lei si è sentito trattato come un mostro?
«Beh all’inizio sì. Non ci si rende conto che una certa gogna mediatica possa avere effetti pesanti anche sulla famiglia: penso a mio figlio, ai miei nipoti. Si rischia di distruggere una persona».
E’ rimasto solo?
«No, sento molto affetto attorno a me. Tanti colleghi mi hanno inviato messaggi di solidarietà, di affetto, perché mi conoscono. Io avevo paura della gente, temevo di uscire di casa. Mi dicevo: “penseranno che sono un maniaco..?” Invece no, in tanti mi hanno salutato con affetto. Detto tutto questo, se c’è una parte di persone che si sente offesa da ciò che ho fatto, va rispettata. Bisogna contemplare la sensibilità di tutti. E ho ancora da imparare».
Perché si è rivolto al grande avvocato Giorgio Assumma, esperto proprio di tutto quanto riguarda il mondo dello spettacolo: pensa a una causa contro la Rai?
«Al momento è escluso che io faccia causa alla Rai, anche se sono stato trattato come un delinquente. Contratto rescisso senza neppure essere ascoltato. Detto ciò, ho violato il codice Etico e accetto le conseguenze. Mi sono rivolto all’avvocato Assumma per proteggermi da eventuali campagne diffamatorie».
Trova ci siano state campagne diffamatorie nei suoi confronti?
«Ad oggi no. Però una certa iniquità di comportamenti sì c’è stata».
Si riferisce al caso Franco di Mare riproposto da «Striscia la notizia»?
«A quello, o anche a Mara Venier che scherzosamente tocca il sedere a Biagio Antonacci. Io ho tenuto un comportamento esemplare per oltre 50 anni».
A chi deve la sua rinascita artistica qualche anno fa?
«A “Propaganda Live” (su La7, il venerdì sera condotto da Diego Bianchi, ndr) che mi ha fatto conoscere a un pubblico giovane. Tutti pensavano solo io fossi quello in giacca e cravatta che canta “Innamorati a Milano”. Poi dopo un anno brutto, nel quale ho perso mia moglie, è arrivato il miracolo: una intervista da parte di Serena Bortone proprio nel programma “Oggi è un altro giorno”. Lei fu bravissima, mi fece una intervista molto emotiva, dove mi incoraggiò a vivere. Da lì mi fecero il contratto per essere parte fissa nel cast del programma. Poi mi chiamò anche Milly Carlucci per partecipare a “Ballando”».
Ora cosa si aspetta dal futuro?
«Continuerò a scrivere musica e sto scrivendo un libro».
Dica qualcosa a Serena Bortone?
«Ti guardo sempre in tv, non ho perso una puntata e continuerò a seguire il programma fino alla fine».
Dica qualcosa a Jessica Morlacchi.
«Sono mortificato. Se posso fare qualcosa sono qui».
Giuseppe Candela per Dagospia il 27 Ottobre 2022.
Esplode il caso Memo Remigi a Viale Mazzini. I fatti. Il cantante di "Innamorati a Milano" è ormai da tempo nel cast degli "affetti stabili" di "Oggi è un altro giorno", il programma del primo pomeriggio di Rai1 condotto da Serena Bortone. Nella puntata in onda venerdì 21 ottobre la giornalista intorno alle 14 è apparsa su Rai1 per il solito lancio di puntata, snocciolando i temi e i nomi degli ospiti.
La regia in primo piano inquadra Remigi e Jessica Morlacchi, poi stacca su Serena Bortone ma dietro si vede chiaramente la mano del cantante 83enne poggiata sul fianco della Morlacchi.
Mano che scende fino ad arrivare al lato B con una visibile palpata in diretta tv. La leader dei Gazosa non gradisce e schiaffeggia la mano del cantante e per evitare un nuovo palpeggiamento la riporta in alto al fianco, tenendola ferma.
Episodio non sfuggito ai telespettatori e ieri segnalato da Striscia la notizia che ha parlato della "tempesta ormonale di Memo Remigi". Episodio che nulla a che fare con la goliardia ma molto di più con la molestia, se non peggio. Basti pensare al caso Greta Beccaglia, la cronista palpeggiata fuori dallo stadio dopo Empoli-Fiorentina, la Procura ha chiesto per il tifoso il rinvio a giudizio per violenza sessuale.
Stando alle nostre fonti l'episodio avrebbe creato un piccolo terremoto dietro le quinte della trasmissione. Morlacchi furiosa avrebbe ricevuto l'immediata solidarietà di dirigenti e responsabili. Il gruppo di lavoro, capitanato da Bortone, è intervenuto immediatamente, con molto dispiacere per quanto accaduto.
Memo Remigi è stato di fatto sospeso, non era presente nelle puntate di lunedì, martedì e mercoledì. Tornerà in onda? Cosa succederà?
Memo Remigi, rompe il silenzio Jessica Morlacchi: "Menzogne da parte sua". Il Tempo il 28 ottobre 2022.
Il caso Memo Remigi scuote la Rai in un cortocircuito social-televisivo. Pochi telespettatori si erano accorti della palpata in diretta al fondoschiena di Jessica Morlacchi, ex leader dei Gazosa e nello staff della trasmissione Oggi è un altro giorno proprio come il cantante di Innamorati a Milano. Ma il video è stato postato su Twitter e il caso è esploso con viale Mazzini che ha stracciato il contratto di Remigi, 84 anni, che dalla puntata incriminata non è più apparso nel programma pomeridiano condotto da Serena Bortone su Rai1.
"La Rai ha risolto il contratto che prevedeva la partecipazione dell’artista Memo Remigi al programma 'Oggi è un altro giorno' in onda su Rai1. A seguito di un comportamento in violazione del Codice Etico dell’Azienda, la Direzione Day Time aveva già deciso lo scorso sabato 22 ottobre la sospensione delle presenze nella trasmissione che è stata comunicata all’interessato. La Commissione stabile per il Codice Etico dell’Azienda ha confermato la violazione delle norme", la gelida nota del servizio pubblico.
I retroscena parlano di una Morlacchi furiosa per quella che è asta ritenuta una vera e propria molestia. Il cantante, al secolo Emidio Remigi, da parte sua si è lanciato in scuse acrobatiche: "Nessuno mi ha comunicato nulla. Avevo degli esami da fare, ho fatto il tagliando, sa, a 84 anni...ma non è vero che mi hanno sospeso (...). C’è un’atmosfera goliardica tra noi, ci si fa degli scherzi. È stato un gesto involontario. Io cercavo di sistemare il microfono che era caduto dalla cintura. Gli ho messo la mano dietro perché stava cadendo questo microfono e scherzando gli ho dato la pacchetta sul sedere. Non avevo nessuna intenzione di essere un uomo libidinoso, non sono mai stato questo tipo di persona".
"La Morlacchi, povera stella, è quella che più di tutti ha subìto questa cosa. Io mi sono scusato e mi dispiace che lei in questo caso sia un po' la vittima di questa situazione. Io non avevo alcuna intenzione di metterla sul piano della volgarità e della violenza su di lei. È stata una cosa goliardica, ci si danno pacche sulle spalle e qualche volta anche sul sedere. Se guardiamo cosa succede per davvero in televisione, non mi sembra che sia stato questo grande scandalo" sono le parole del cantante riportate da Fanpage.
Morlacchi, 35 anni e una carriera solista dopo l'avventura dei Gazosa, è restata in silenzio fino alle parole del collega che ridimensiona l'accaduto a goliardata: "Sono molto dispiaciuta e mi aspettavo almeno delle scuse immediate. Non che si inventasse delle menzogne", le parole della cantante riportate dal Corriere della sera.
Memo Remigi choc, cacciato dalla Rai. L'artista 84enne ha palpeggiato Morlacchi in diretta tv. Bortone: non finisce qui. Paolo Giordano il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Ma chi l'avrebbe detto. Bandito dalla Rai. Mitragliato dai social. Condannato senza appello. Accusa insindacabile: all'inizio della puntata del 21 ottobre di Oggi è un altro giorno su Raiuno ha palpeggiato in diretta tv il fondoschiena di Jessica Morlacchi, cantante che si è fatta conoscere con i Gazosa. Il video è implacabile, il contatto in effetti c'è e la reazione infastidita di Morlacchi pure.
Lui, Memo Remigi, anni 84 egregiamente portati, è quello di Innamorati a Milano, il cantante, compositore, conduttore da sempre politicamente correttissimo che finora ha vissuto una seconda giovinezza sugli schermi Rai. Rilanciato nel 2017 da Propaganda Live su La7, l'anno scorso, dopo la scomparsa della moglie, ha fatto parte del cast di Ballando con le stelle e fino a pochi giorni fa faceva parte (con successo) del cast fisso di Oggi è un altro giorno proprio come Jessica Morlacchi, ex cantante dei Gazosa ritornata sotto i riflettori «dopo 12 anni di depressione».
Venerdì scorso la follia: nelle prime fasi della diretta, la telecamera inquadra la conduttrice ma, dietro di lei, si vede chiaramente la mano di Memo Remigi che palpeggia, poi viene bloccata da uno schiaffetto di Morlacchi e rimessa bruscamente «a posto». Una scena che poi i social hanno ovviamente evidenziato. Infine Striscia la Notizia ha portato la «palpata» all'attenzione di tutto il pubblico tv che ieri, anche grazie al rilancio immediato di Dagospia, ha intasato i commenti dei social. Durante la diretta di ieri, Serena Bortone ha detto senza giri di parole: «Da lunedì Memo Remigi non fa più parte del nostro gruppo di lavoro. Remigi in questo studio si è reso responsabile di un comportamento che non può essere tollerato in questo programma, in questa azienda e per quanto mi riguarda in nessun luogo. Per rispetto della persona coinvolta avevamo mantenuto il riserbo, ma ora che l'episodio è diventato pubblico sento di avere un dovere di sincerità con voi e di esprimere anche pubblicamente la mia solidarietà a Jessica». Infine la frase che non chiude il caso, ma lo rilancia: «Mi fermo qui, per ora».
A stretto giro, le agenzie di stampa hanno confermato che la Rai ha risolto il contratto con Memo Remigi «a seguito di un comportamento in violazione del Codice Etico dell'Azienda». Una decisione divenuta pubblica ieri ma presa già «sabato 22 ottobre». «La sospensione (è scritto così, ma forse avrebbe dovuto essere scritto l'annullamento - ndr) delle presenze nella trasmissione è stata comunicata all'interessato».
Poco prima del comunicato, Memo Remigi a Fanpage aveva definito l'episodio come frutto «dell'atmosfera goliardica tra noi», descrivendolo così: «È stato un gesto involontario. Cercavo di sistemare il microfono dietro, che era caduto dalla cintura. Gli ho messo la mano dietro perché stava cadendo questo microfono e scherzando gli ho dato la pacchetta sul sedere». E ancora: «La Morlacchi, povera stella, è quella che più di tutti ha subìto questa cosa. Io mi sono scusato e mi dispiace».
Una situazione onestamente grave, oltre che inattesa, visto il contesto. A memoria d'uomo è difficile ricordare nel mondo tv un caso di eguale, dirompente evidenza e di tale, fulminea evoluzione. Nella sua difesa, Remigi (che è stato aggiunto da Morgan nella chat gestita con Sgarbi «Rinascimento e Dissoluzione» con la proposta di cantare una canzone porno già composta da lui) ha anche minimizzato alludendo a «cosa succede per davvero in tv». Fermo restando che le immagini parlano chiaro, se non spiega a cosa si riferisce, le sue parole valgono zero.
La mano sul sedere e la sospensione. Il caso di Memo Remigi imbarazza la Rai. A Oggi è un altro giorno Remigi tocca il fondoschiena di Jessica Morlacchi in diretta e viene sospeso. Ma l'episodio emerge solo quando Striscia manda in onda il video. Novella Toloni il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
L'episodio incriminato
La segnalazione dei telespettatori
Cosa è successo in trasmissione
Remigi sospeso per molestie
La dura replica di Serena Bortone
La risposta di Memo Remigi
Memo Remigi è stato "cacciato" da Oggi è un altro giorno. L'ufficialità è arrivata dalla bocca di Serena Bortone, la conduttrice del programma. Il caso Remigi si era aperto dopo l'indiscrezione trapelata su Dagospia, che ha portato all'attenzione del pubblico l'episodio accaduto nella puntata di venerdì scorso, quando Remigi ha fatto scivolare le mani sul fondoschiena di Jessica Morlacchi, che da quest'anno fa parte del cast della trasmissione di Serena Bortone. "Una molestia", hanno tuonato i telespettatori sui social e la polemica sul web ha attirato l'attenzione di Striscia la notizia. Il video è stato mandato in onda nell'ultima puntata del tg satirico e il caso, che viale Mazzini avrebbe trattato al riparo da occhi indiscreti, è diventato pubblico.
L'episodio incriminato
I fatti si sono verificati venerdì 21 ottobre. Alle 14 Serena Bortone ha aperto il collegamento dallo studio di Oggi è un altro giorno per fare il consueto lancio con il cast degli "affetti stabili" sui temi della puntata. Le telecamere di Rai Uno hanno stretto sul mezzo busto della conduttrice mentre sullo sfondo si intravedono Memo Remigi e Jessica Morlacchi. All'occhio attento dei telespettatori non è sfuggita la mano del cantautore 84enne, che dal fianco della Morlacchi è scivolata sul sedere di quest'ultima, che lo ha subito schiaffeggiato sull'arto per la palpata indesiderata. E per evitare una nuova toccatina la cantante ha riportato la mano di Memo sul fianco, tenendola ferma con la sua.
La segnalazione dei telespettatori
L'episodio sarebbe passato del tutto inosservato se non fosse stato per i telespettatori, che hanno visto la puntata. Qualcuno ha riguardato al rallentatore la scena e, una volta scoperto quanto accaduto, ha condiviso il video del fattaccio sui social network, aprendo di fatto il caso. Non è la prima volta che il pubblico porta a galla fatti o situazione da "var". Ne sanno qualcosa gli affezionati del Grande fratello vip, che spesso finisce sotto la lente di ingrandimento degli utenti del web.
"Non è un problema mio...". E cala il gelo in studio
Cosa è successo in trasmissione
Da viale Mazzini non è arrivato nessun chiarimento in merito e con l'inizio della nuova settimana televisiva, Oggi è un altro giorno è tornato regolarmente in onda lunedì 24 ottobre. In puntata, però, si è subito notata l'assenza di Memo Remigi, mancante anche nei giorni successivi (martedì e mercoledì). Serena Bortone non ha chiarito i motivi della scomparsa del cantautore nelle fila del cast e la settimana è scivolata via senza ulteriori scossoni. Fino alla puntata di Striscia la notizia del 26 ottobre, quando il video del fattaccio è andato in onda, sollevando il polverone.
Remigi sospeso per molestie
La "tempesta ormonale" di Memo Remigi, così la definita Striscia, è costata cara all'84enne che è stato estromesso dal programma. A anticiparlo è stato Dagospia che ha rivelato: "Stando alle nostre fonti l'episodio avrebbe creato un piccolo terremoto dietro le quinte della trasmissione. Morlacchi furiosa avrebbe ricevuto l'immediata solidarietà di dirigenti e responsabili. Il gruppo di lavoro, capitanato da Bortone, è intervenuto immediatamente, con molto dispiacere per quanto accaduto e Memo Remigi è stato di fatto sospeso".
La dura replica di Serena Bortone
La notizia di Dagospia ha trovato conferma solo ora. In avvio di puntata Serena Bortone ha annunciato ufficialmente l'estromissione di Remigi dal cast. "Come avete visto da lunedì Memo Remigi non fa più parte del nostro gruppo di lavoro. Si è reso responsabile di un comportamento che non può essere tollerato in questo programma, in questa azienda e in nessun altro luogo". La conduttrice ha fatto sapere che per rispetto della persona coinvolta, l'episodio era rimasto privato ma una volta venuto a galla si è sentita in "dovere di esprimere la mia solidarietà, di quella della direttrice e dell'azienda a Jessica e il mio profondo dispiacere. Mi fermo qui, per ora". Chi non si è fermato è il diretto interessato.
La risposta di Memo Remigi
A Fanpage, il cantautore si è discolpato parlando di goliardia: "Io cercavo di sistemare il microfono dietro, che era caduto dalla cintura. Gli ho messo la mano dietro perché stava cadendo questo microfono e scherzando gli ho dato la pacchetta sul sedere. Ma non entriamo nei particolari, dico solo che non avevo nessuna intenzione di essere un uomo libidinoso, ho l'età che ho e non sono mai stato questo tipo di persona". Rispedita al mittente l'accusa di molestie, Remigi ha poi chiarito di non essere stato contattato né dalla Rai né dalla produzione del programma per comunicargli la sua uscita dal cast: "No, adesso sono in attesa di vedere quello che succede, ma avevo degli esami da fare, ho fatto il tagliando, sa, a 84 anni…ma non è vero che mi hanno sospeso, per adesso non ho avuto nessuna notizia riguardo questo". Ma a quanto pare la comunicazione è arrivata in diretta tv.
Memo Remigi e la palpata, bomba Striscia: il precedente che imbarazza la Rai. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 28 ottobre 2022
Una polemica incontenibile, che vede al centro Memo Remigi. Fino a poche ore fa era ospite fisso di Oggi è un altro giorno, il programma di Serena Bortone. Ma il suo gesto, assurdo e ingiustificabile, gli è costato il posto di lavoro. Remigi palpeggia Jessica Morlacchi in diretta. Una scena assurda, che avviene venerdì scorso e che solo poche ore fa è diventata pubblica dopo il tam tam sui giornali e siti.
La Bortone interviene dicendo che aveva preferito la strada della discrezione. Poi tutto diventa di dominio pubblico ed è necessaria una spiegazione della conduttrice. Che dice: "Da lunedì Memo Remigi non fa più parte del nostro gruppo di lavoro. Remigi in questo studio si è reso responsabile di un comportamento che non può essere tollerato in questo programma, in questa azienda e per quanto mi riguarda in nessun luogo. Per rispetto della persona coinvolta avevamo mantenuto il riserbo, ma ora che l'episodio è diventato pubblico sento di avere un dovere di sincerità con voi e di esprimere anche pubblicamente la mia solidarietà a Jessica. Solidarietà mia, della direttrice, dell'Azienda e il mio profondo dispiacere. Mi fermo qui, per ora". Si tratta di un caso che era rimasto segreto per diversi giorni, ma è stato segnalato mercoledì su Striscia la notizia e poi approfondito da Dagospia.
Pinuccio di Striscia la notizia torna sull'argomento e indaga con la sua rubrica "Rai scoglio 24". L'inviato, senza mezzi termini e con la sua proverbiale ironia, manda in onda una clip che ripercorre altre vicende simili. "Franco Di Mare approcciò qualche collega con atteggiamenti da maschio alfa", dice Pinuccio di Striscia la notizia collegato da Viale Mazzini. Altra burrasca in Rai? Chissà. Intanto, sulla vicenda resta l'alone delle molestie in Rai, in uno studio tv, davanti a milioni di spettatori. Intanto Remigi resta in silenzio. Nessuna intervista. Parla il suo agente Andrea Di Carlo, che spara a zero nei confronti del programma e della conduttrice.
Maria Volpe per corriere.it il 28 ottobre 2022.
Una molestia su Rai1. Una mano, quella di Memo Remigi , il romantico cantante 84enne di «Innamorati a Milano», che scivola giù oltre la schiena di Jessica Morlacchi, anche lei cantante di 35 anni. Un episodio a dir poco sgradevole, accaduto venerdì scorso nel programma di Serena Bortone Oggi è un altro giorno, in onda su Rai1, alle 14. E ieri, la giornalista-conduttrice ha aperto la puntata con parole dure. Raro vedere Serena Bortone così livida: « Memo Remigi non fa più parte del nostro gruppo di lavoro».
Dopo poco arriva una nota di viale Mazzini, molto netta: «La Rai ha risolto il contratto che prevedeva la partecipazione dell’artista Memo Remigi al programma “Oggi è un altro giorno” in onda su Rai1. A seguito di un comportamento in violazione del Codice Etico dell’Azienda, la Direzione Day Time aveva già deciso lo scorso sabato 22 ottobre la sospensione delle presenze nella trasmissione che è stata comunicata all’interessato. La Commissione stabile per il Codice Etico dell’Azienda ha confermato la violazione delle norme».
Venerdì scorso dopo la trasmissione, in pochi si erano accorti dell’accaduto, ma a un certo punto è comparso un tweet che rendeva conto dell’episodio. Episodio che poi mercoledì sera era stato evidenziato da Striscia la notizia (che parlava della «tempesta ormonale di Memo Remigi») mentre ieri mattina il sito Dagospia aveva svelato tutti i retroscena dell’accaduto.
Con tanto di video della mano del cantante poggiata sul fianco della Morlacchi. Mano che scende fino ad arrivare al lato B con una visibile palpata in diretta tv. La ex leader dei Gazosa non gradisce, schiaffeggia la mano del cantante e per evitare un nuovo palpeggiamento la riporta in alto al fianco, tenendola ferma. Un episodio che tutta la squadra di «Oggi è un altro giorno» ha voluto tenere riservato per tutelare Jessica, ma una volta diventato pubblico ha visto compattarsi tutta la squadra attorno alla cantante, spingendo anche Serena Bortone a esporre con chiarezza la propria posizione.
In tutto ciò Memo Remigi nella giornata di ieri ha rilasciato una intervista a Fanpage dove un po’ smentisce, un po’sdrammatizza, un po’ mente : « Nessuno mi ha comunicato nulla. Avevo degli esami da fare, ho fatto il tagliando, sa, a 84 anni...ma non è vero che mi hanno sospeso». E ancora: «C’è un’atmosfera goliardica tra noi, ci si fa degli scherzi. È stato un gesto involontario. Io cercavo di sistemare il microfono che era caduto dalla cintura. Gli ho messo la mano dietro perché stava cadendo questo microfono e scherzando gli ho dato la pacchetta sul sedere. Non avevo nessuna intenzione di essere un uomo libidinoso, non sono mai stato questo tipo di persona». Solito copione insomma...
Peccato, però che invece Jessica Morlacchi ieri sera amaramente abbia detto: «Sono molto dispiaciuta e mi aspettavo almeno delle scuse immediate. Non che si inventasse delle menzogne».
Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 28 ottobre 2022.
Memo Remigi è stato sospeso dal programma “Oggi è un altro giorno” di Rai1, dopo l’accusa di aver palpeggiato Jessica Morlacchi, una delle componenti del cast. Il fatto è stata rilanciato da un video diventato in breve virale sui social, con tanto di critiche dagli utenti. Ma Vittorio Sgarbi non ci sta e annuncia di volerlo sostenere per riportarlo in tv: “Quando sei vecchio non hai più i riflessi pronti. Poi a quell’età se tocchi il culo di una ragazza è come se toccassi la sedia...”
È gogna mediatica per Memo Remigi accusato di aver palpeggiato l'ex Gazosa Jessica Marlocchi in diretta Tv a Oggi è un altro giorno.
Il fatto risale alla puntata di venerdì 21 ottobre, e denunciato prontamente dalla twittata di una spettatrice con correlato video di una manciata di secondi, nel frattempo diventato virale. “Memo Remigi tocca il fondochiena...
Ma è tutto regolare. Vergogna”. La clip si riferisce al lancio dei temi centrali della giornata in cui si nota la mano del cantante classe'38 tenuta sul fianco della collega per poi calare e finire sul fondoschiena di lei che non gradisce e la riporta fermamente sul fianco. Un episodio finora tenuto nascosto, come fa sapere Serena Bortone - che nella puntata odierna anticipa la sospensione di Remigi dal programma - e diffuso solo in seguito al servizio di Striscia la notizia andato in onda ieri sera, con conseguente rilancio di Dagospia già dalla mattinata.
Anche se in casa Rai erano partiti subito i provvedimenti, visto che il musicista lombardo era sparito dai radar già da lunedì.
Intanto che lo stesso Remigi si difende dall’accusa di molestia a mezzo social sui suoi profili ufficiali - “Ci tengo a precisare che quanto accaduto, sicuramente mal riuscito rispetto ai suoi intenti, era soltanto un gesto innocente e scherzoso nei confronti di una stimata collega di lavoro..” - noi scomodiamo sul fattaccio del giorno il signore dell'arte Vittorio Sgarbi, che si dichiara pronto a difenderlo.
Sgarbi, ma un colpetto sul fondoschiena è una molestia?
Sicuramente non è una molestia, ma Memo ha oltre 80 anni (84 nda), insomma è talmente vecchio che non è escluso sia scesa la mano in modo involontario… E poi lo conosco da tanti anni, non l’ha mai fatto in vita sua, figuriamoci.
Anche un gesto scherzoso?
Sì, ma non solo, come dicevo, quando sei vecchio non hai più i riflessi pronti. Poi a quell’età se tocchi il culo di una ragazza è come se toccassi la sedia, un’automobile…
Non si eccita?
Ma certo che no.
Intanto la Rai ha recesso il contratto…
La Rai non doveva cacciarlo. Lui può fare causa all’azienda, specie se lei non dichiara di essere stata molestata. Sta zitta, no? Se lei non denuncia, lo devono riammettere.
Ma il processo via social continua…
I vecchi vanno perdonati, io lo difenderò contro tutti. E adesso sa che c’è? Quasi quasi lo chiamo per dirglielo…
Dagospia il 28 ottobre 2022. Dal profilo Instagram di Jessica Morlacchi
Questo è il post che non avrei mai voluto scrivere ma adesso vivo una situazione di tale dispiacere e disagio che ho deciso di rompere il silenzio e dire la mia sulle conseguenze di quel video che tutti avete visto e che ora mi sottopone a una pressione mediatica che non auguro a nessuno.
Quando Remigi ha fatto scivolare la sua mano sul mio fondoschiena, ho provato un disagio enorme ma come si vede l’imbarazzo non mi ha impedito di reagire immediatamente e con decisione. Eravamo in diretta e non potevo fare altro che schiaffeggiare e tirar su quella mano.
Remigi ora chiede scusa, solo ora. Sono contenta che lo faccia, ma mentre si scusa insinua che quel gesto fosse solo goliardia motivata dalla mia condiscendenza. È inaccettabile.
Remigi sa bene che la mia naturale confidenza, dopo due anni di lavoro insieme, non l’ha mai autorizzato ad allungare le mani. Ora, forse per età, formazione ed esperienza sostiene che quel gesto era solo uno scherzo: mi auguro che adesso finalmente capisca che si tratta di un comportamento invadente ed offensivo.
Anche ad 84 anni si può imparare dagli errori della vita. A tutti, per favore, chiedo ora silenzio e ringrazio la Rai per avermi protetta e sostenuta.
Memo Remigi: "Le ho telefonato, ma...". Cos'è successo dopo la palpata. Libero Quotidiano il 28 ottobre 2022
"Solo una pacchettina": Memo Remigi parla dopo il caso scoppiato a Oggi è un altro giorno su Rai 1. Il cantante e conduttore tv è stato sospeso dopo aver palpato il sedere di Jessica Morlacchi durante la trasmissione di Serena Bortone, di cui lui era ospite fisso. Ai microfoni de La Zanzara su Radio 24, Remigi si è difeso dicendo: "Una cosa ingiusta, non è stata neanche approfondita la cosa. La pacchettina sul sedere era un segno di 'buona trasmissione' come il 'merda' che si dice".
Il cantante ha detto anche di aver provato a chiamare la Morlacchi, che però avrebbe preferito non rispondergli per ora: "C’è un rapporto di amicizia e goliardia tra noi. Non ho mai molestato nessuno e la sto provando a contattare ma non risponde. Non capisco perché". Intanto sono diventate virali le immagini del gesto di Remigi. Mentre Serena Bortone dà qualche anticipazione in attesa dell'inizio del programma, sullo sfondo si vede Memo che sfiora la collega, prima sul braccio e poi sul sedere, con lei che subito gli sposta la mano.
La cantante, intanto, ha detto la sua: "Sono molto dispiaciuta e mi aspettavo almeno delle scuse immediate. Non che si inventasse delle menzogne". La Bortone invece si è scusata in diretta tv: "Remigi si è reso responsabile di un comportamento che non può essere tollerato in questo programma, in questa azienda e per quanto mi riguarda in nessun luogo".
Dagospia il 27 Ottobre 2022. Da “La Zanzara – Radio24”
Memo Remigi, cantante e conduttore tv, è al centro di una polemica a causa di una palpata al sedere della collega di trasmissione Jessica Morlacchi. A causa di questo Remigi è stato sospeso da “Oggi è un altro giorno” condotta da Serena Bortone.
A La Zanzara su Radio 24 il cantante ha raccontato il momento: “Sono stati cinque giorni senza darmi nessuna notizia, è una cosa ingiusta visto che non è stata neanche approfondita la cosa.
Tutto è nato da un video pubblicato sui social dove si vede la mia mano che scivola e dà una pacchettina sul sedere.
Era un segno di “buona trasmissione” come il “merda” che si dice, anche perchè ho un rapporto piacevole e gradevole con i miei compagni di viaggio. Ma era già successo, durante le prove”
“C’è un rapporto di amicizia e goliardia tra noi - continua Remigi a La Zanzara -
Non ho mai molestato nessuno e la sto provando a contattare ma non risponde. Non capisco perchè.
Forse c’è rimasta male ma abbiamo sempre giocato e scherzato anche per rendere più piacevoli i rapporto. Cazzo scrivi sui social qualcosa e dì che Remigi non è un vecchio libidinoso”
“Come ha reagito alla palpata? Niente, si vede nel video come ha spostato la mano, mica le ho stretto la chiappa. Il licenziamento in diretta? Tutto fa spettacolo, anche questo. Io vecchio porco? Posso dire di essere vecchio ma non porco, è ingiusto che mi si accusi di questa stronzata, qui stanno montando una cosa al di fuori della normalità. Non esageriamo”
Da fanpage.it il 27 Ottobre 2022.
Il terremoto mediatico causato dall'immagine di Memo Remigi che palpa Jessica Morlacchi è stato molto forte. A Fanpage.it, il cantante di "Innamorati a Milano" si difende e racconta le cose dal suo punto di vista. Memo Remigi spiega di non aver mai avuto l'intenzione di molestare l'affetto stabile di "Oggi è un altro giorno" e soprattutto smentisce le voci di una sua sospensione dal programma: "Nessuno mi ha comunicato nulla, sono fuori dal programma per fare degli esami".
(L'intervista è stata registrata tra le 12 e le 12.30 del 27 ottobre e pubblicata prima che Serena Bortone ufficializzasse la sospensione di Memo Remigi dal programma)
Signor Remigi, può spiegare cosa è successo in quello studio?
Non c'è niente da spiegare, abbiamo sempre avuto un'atmosfera goliardica tra noi, tra gli affetti stabili, si scherza e ci si fa degli scherzi. È stato un gesto involontario.
Io cercavo di sistemare il microfono dietro, che era caduto dalla cintura. Gli ho messo la mano dietro perché stava cadendo questo microfono e scherzando gli ho dato la pacchetta sul sedere. Ma non entriamo nei particolari, dico solo che non avevo nessuna intenzione di essere un uomo libidinoso, ho l'età che ho e non sono mai stato questo tipo di persona.
Ha parlato con Jessica Morlacchi dopo quel gesto?
La Morlacchi, povera stella, è quella che più di tutti ha subìto questa cosa. Io mi sono scusato e mi dispiace che lei in questo caso sia un po' la vittima di questa situazione. Io non avevo alcuna intenzione di metterla sul piano della volgarità e della violenza su di lei. È stata una cosa goliardica, ci si danno pacche sulle spalle e qualche volta anche sul sedere. Se guardiamo cosa succede per davvero in televisione, non mi sembra che sia stato questo grande scandalo.
Non le dispiace che sia successo proprio nella trasmissione che l'ha rilanciata in tv?
Beh, prima di tutto diciamo che è stato Propaganda Live, poi Ballando con le stelle e alla fine è arrivato Oggi è un altro giorno. Ora sono in attesa di vedere cosa succede.
Ma quindi è vero che l'hanno sospesa?
No, adesso sono in attesa di vedere quello che succede, ma avevo degli esami da fare, ho fatto il tagliando, sa, a 84 anni…ma non è vero che mi hanno sospeso, per adesso non ho avuto nessuna notizia riguardo questo.
Cosa le ha detto Serena Bortone?
Non ci siamo sentiti. Questa storia è uscita fuori da un tweet che nessuno ha commentato ufficialmente. Se qualcuno mi dirà qualcosa, io farò lo stesso.
Dagospia il 28 ottobre 2022. Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Valerio Staffelli consegna un Tapiro d’oro avvolto da un polpo a Memo Remigi, che ha palpeggiato il sedere alla collega Jessica Morlacchi in diretta, durante una puntata di Oggi è un altro giorno, su Raiuno, di cui il cantante era ospite fisso. La Rai ha annunciato ieri di aver interrotto il suo contratto dopo averlo allontanato dalla trasmissione.
«Più che un Tapiro questo potrei definirlo un Tapirlo, perché mi sento davvero un pirla!», ammette Remigi. «Mi scuso con Jessica, con Serena Bortone, con la Rai e anche con il pubblico. Mi sono sempre comportato in maniera pulita, ma stavolta ho commesso un grave errore: è stato un gioco tra amici venuto male».
«Che gioco è toccare il culo a una persona?», lo incalza l’inviato di Striscia. E il cantante risponde: «A volte porta fortuna, ma non questa volta», commenta Remigi, che sul suo futuro aggiunge: «Temo che in Rai sia finito. Spero di fare qualche altra cosa, magari scrivere un libro».
Giancarlo Dotto per Dagospia il 31 ottobre 2022.
Stanotte ho sognato la Bortone. Un incubo. Giuro. Mi sono cagato sotto. La chiamano Serena, ma comandava un plotone d’esecuzione. All’inizio stavo dentro un sottomarino e mi chiamavo Capitan Memo, quello di Ventimila seghe sotto e sopra i mari prima di sentirmi innamorato e strano a Milano, poi mi ritrovo di colpo in una tela di Francisco Goya e c’era lei la Bortone che mi sparava al petto davanti a una telecamera. Sembrava Giovanna d’Arco.
Sopravvissuta al rogo, era lei stessa il rogo. Mi accusava, in pratica, la Ciclope, buttando fiamme, collera e olio bollente dall’unico occhio d’aver mollato una palpatina di soppiatto a una ragazza del circo, con la stessa manina tremula e lievemente parletica, certamente patetica, con cui di solito vado palpeggiando e palleggiando il mio teschio e la dozzina di vermi (tali sono fino a che non diventano verbi) che alloggiano di solito nelle tasche dei vecchi decrepiti. Sai, la vecchia storia del “Memento mori”, “devi morire!” (molto in voga negli stadi degli anni per l’appunto ’70, ’80, per non dire ‘90), da cui il nome del protagonista, Memo. Lo smemorato Memo.
Ma anche la storia di “una mano lava l’altra”. Una mano palpa teschi e vermi (da cui l’espressione “mano morta”) e l’altra sfiora i culi di giovani donne, il cui eventuale consenso, per una volta, prescinde da un mediocre atto di volontà politicamente molesto ma discende da una compassionevole e indiscutibile esortazione dall’Alto, alias chiamata divina. Sta di fatto che, mentre la Bortone mi trafigge, stavolta con le frecce e io adesso sono San Sebastiano con la patta visibilmente sbottonata (l’indecenza in questo caso dovuta all’incontinenza), urlo prima di cadere al suolo la fatidica frase: “La carne è debole!”.
Il sogno era così verosimile che al risveglio ho cancellato il numero della Bortone che invece, quando non è un incubo e non guarda le telecamere, è una simpaticona, di quelle che con i capitan Memo si sollazza all’ora dell’apericena parlando del più e soprattutto del meno. I sogni, se li prendi per il verso giusto, sono cronache vere, soprattutto quando sono cronici.
Piovono dal mondo reale. Che non è quello dei fumetti quotidiani. Come se ne esce dunque, senza incappare nell’intemerata ma meritando la serenata della Bortone? Liberalizzare la palpatina ma solo dagli ottanta in su, autobus di linea inclusi? Sarebbe bello, ma troppo audace. Di questi tempi poi, dove la morale è uno scudiscio modaiolo e assai flessibile per cui si lincia la furtiva mano di un anziano signore (“Non ci resta che tangere”), manco fosse Jeffrey Dahmer all’apice del suo mattatoio.
Detto, tra tutte le parentesi del mondo, che c’è più lirismo, più sottrazione d’amore e meno pornografia nel capitan Memo che allunga la mano morta nei territori della carne viva che, per dirne una, cioè tante, nelle tante ninfette che ammiccano sculettanti e libere di farlo nei video ipnotici di Tik Tok, evocando e lisciando i capitan Memo sparsi nel pianeta.
Detto questo, aspetto il prossimo sogno per chiamare alle armi un nuovo esercito della salvezza. Giovani donne e giovani uomini, ispirati al compassionevole detto di Annabel Chang, la celebre pornostar (“Mi piace essere trattata come un pezzo di carne”) si concedano con sentimento (ma anche senza) a bordo di autobus autorizzati e molto affollati alle palpatine di anziani signori e anziane signore che di solito non hanno più da palpeggiare che il proprio teschio. Piccoli, innocenti svaghi, tra un sinistro pensiero e l’altro. Un gigantesco atto di amore e di solidarietà. Di questo si parla. Facciamoci avanti, generosi, noi ventenni. Se la vecchiaia è un handicap. E, a quanto pare, lo è.
Dagospia il 31 ottobre 2022. Riceviamo e pubblichiamo:
Caro Dago, ma in cosa differisce la palpata di Memo Remigi da quella di Mara Venier a Biagio Antonacci e Alvise Rigo? Dal tipo di pressione? Dal gluteo? O da una semplice mala interpretazione del porconamente corretto? Giovanni Bertuccio
Da liberoquotidiano.it il 31 ottobre 2022.
Mara Venier fuori controllo. Nella puntata di Domenica In in onda su Rai 1 il 9 ottobre, la conduttrice si lascia andare. Complice l'ospitata di Biagio Antonacci. Il cantante e la Venier erano uno vicino all'altro in piedi mentre al telefono c'era Vincenzo Mollica che esaltava le doti dell'artista. Fin qui nulla di strano, se non fosse che a un certo punto la conduttrice e Antonacci si sono abbracciati.
La Venier ha messo le mani sul fianco del cantante, sottolineando quanto fosse magro. Poi però la conduttrice non ha potuto fare a meno di notare un dettaglio, che ha scatenato l'ilarità del pubblico. La Venier ha infatti notato il fisico dell'artista mentre Antonacci le domandava: "Hai sentito il sedere?". La Venier non se l'è fatto ripetere due volte e ha palpato i glutei dell'ospite: "Sì, ho sentito! Ma quanti anni hai? Stai così messo bene!".
Immediata la risata in studio…
Da ilfattoquotidiano.it il 31 ottobre 2022.
Mara Venier non le manda a dire neanche questa volta: “Ho inviato tutto al mio avvocato Carlo Longari e valuteremo se è il caso di querelare il giornalista“, ha riferito all’Adnkronos. I fatti. Durante la puntata di Domenica In andata in onda il 28 novembre scorso, la conduttrice ha ospitato anche Alvise Rigo, il 29enne ex rugbista che sta partecipando a Ballando con le Stelle. Nello studio di Rai 1 era presente anche Rossella Erra, opinionista del programma condotto da Milly Carlucci, che ha detto: “Alvise voleva mettersi la camicia, io gli ho detto ‘mettiti la t-shirt che è meglio per tutti'”. Poi ha aggiunto: “Lui è davvero un bel toccare, Mara tocca, tocca“.
La conduttrice, allora, stando al gioco, ha palpato il lato B di Alvise e ha detto: “È un bel toccare, porta bene. Lo faccio solo perché porta bene. Alla mia età posso fare tutto”. Le grandi risate in studio di domenica, oggi stridono con le critiche che Mara Venier ha ricevuto, soprattutto alla luce del recente caso di Greta Beccaglia, la giornalista di Toscana TV molestata da un tifoso (per il quale è scattato il Daspo) dopo il match Empoli-Fiorentina. Questo accostamento ha fatto andare su tutte le furie Mara che, non solo sta pensando di agire per vie legali, ma ha anche aggiunto che è “vergognoso accostare il gesto goliardico fatto con simpatia e affetto in assoluta buona fede nei confronti di Alvise, mio concittadino veneziano, all’atto di molestia nei confronti della giornalista sportiva di Toscana Tv. Le molestie sessuali sono una cosa, una bottarella al sedere fatta ridendo, un’altra “.
E ancora ha sottolineato: “Prima di scrivere un pezzo così un giornalista ci deve pensare molto bene. Non lo accetto”. Anche il protagonista di Ballando con le Stelle è sereno al riguardo: “Se mi sono sentito molestato? Ma scherziamo? Mara è una zia per me. Il nostro era un gioco. Non è assolutamente accostabile una cosa così grave come quella accaduta alla giornalista sportiva Beccaglia a una cosa così simpatica e goliardica come quella fra Mara e me”, ha dichiarato.
Da liberoquotidiano.it il 31 ottobre 2022.
Botta e risposta tra Salvo Sottile e Franco Di Mare. I due, a distanza, non se le mandano a dire. E su Twitter si scatena il putiferio. Tutto ha inizio con il direttore di Rai3 che pubblica il video di un vecchio servizio di Striscia la Notizia.
Qui si racconta della palpata ai danni dell'allora collega Sonia Grey durante Uno Mattina. "2004, 18 anni fa. Ecco come andò. Striscia lo sa bene ma continua a parlare di mie molestie. Non è più satira, è diffamazione. E infatti li ho querelati" ha commentato dopo che il tg satirico ha riproposto il filmato in merito alla vicenda di Memo Remigi e Jessica Morlacchi.
"Possibile - interviene Sottile - che esistano ancora credenze mesozoiche secondo le quali toccare il c**o a una donna (per giunta in tv) è 'solo uno scherzo'? Ma che messaggio passa così ? Che se scherzi puoi farlo? Io (anche) da telespettatore li trovo 'scherzi' di pessimo gusto". Un'uscita che non piace a Di Mare, che a quel punto rincara la dose: "Prima o poi convincerò una mia ex collaboratrice che riceveva pressioni telefoniche indesiderate da un ex conduttore di rai tre a raccontarlo pubblicamente. Ci faremo risate mesozoiche".
"Siamo pronti - dice ancora Sottile - Invece altre donne che ricevevano attenzioni e sms indesiderati da un altro 'ex' col vizietto delle minacce da mafioso di terza fila mi risulta, siano pronte a raccontarlo prestissimo... Sai che risate! Arriviamo al paleolitico!". Non è il primo scontro tra i due questo. Già anni fa Sottile non aveva preso bene la sostituzione nel programma Mi Manda Rai Tre.
(ANSA il 31 ottobre 2022) "Sono moralmente distrutto. Alla mia età non è facile superare il grave stato d'animo in cui la azienda Rai, alla quale ho legato tutta la mia vita artistica, mi ha ridotto''. Così, in una nota, Memo Remigi dopo la vicenda della molestia a Jessica Morlacchi che lo hanno portato ad essere escluso dalla Rai. ''Il provvedimento, con il quale sono stato espulso da un programma a cui stavo dando la collaborazione più convinta ed entusiastica - continua Memo Remigi -, mi pare ingiusto per la sproporzionata gravità della condanna inflittami, senza neppure aver sentito le mie ragioni e considerato le mie scuse.
Mi rasserenano tuttavia le centinaia di messaggi di stima e di solidarietà espressi a mio favore anche da persone interne all'azienda. Ora ho bisogno di riposo, di silenzio e di cure, sperando di riprendere le mie forze e la mia tranquillità. Ho, comunque, dato mandato all'Avv. Giorgio Assumma di Roma di esaminare, sotto il profilo legale, la via più idonea per la tutela della mia dignità di uomo e di artista".
Memo Remigi vittima di se stesso. Le donne devono denunciare. Francesca Galici il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale.
La Rai ha deciso di allontanare Memo Remigi dopo quanto accaduto con la Morlacchi. Lui non ci sta: "Sproporzionata gravità della condanna inflittami"
Memo Remigi è stato allontanato dalla Rai con l'accusa di aver avvicinato la sua mano al fondoschiena di Jessica Morlacchi durante il programma Domani è un altro giorno condotto da Serena Bortone. Licenziamento e pubblica gogna per il cantante, che da alcune stagioni era una presenza costante nel programma del pomeriggio di Rai 1.
"Mi scuso con Jessica, con Serena Bortone, con la Rai e anche con il pubblico. Mi sono sempre comportato in maniera pulita, ma stavolta ho commesso un grave errore: è stato un gioco tra amici venuto male", ha detto il cantante ai microfoni di Striscia la notizia, che gli ha consegnato un particolare Tapiro d'oro con un polpo. Un messaggio nemmeno troppo subliminale per il cantante.
Memo Remigi è stato vittima di se stesso. Forse sperava di non essere notato, visto che il tutto si è verificato in un momento defilato della trasmissione. Se le telecamere non lo avessero inquadrato, Jessica Morlacchi l'avrebbe segnalato? Una domanda alla quale è impossibile dare una risposta certa, visto che le immagini della mano del cantante che scivolano sul fondoschiena della cantante hanno rimbalzato di profilo in profilo sui social e anche in tv. Tuttavia, almeno stando a quello che oggi molte donne dichiarano, è probabile che se non ci fossero state le immagini non ci sarebbe stato il clamore mediatico.
Certo, la Rai ha preso provvedimenti immediati contro Memo Remigi, allontanandolo immediatamente dalla trasmissione, ma quanti altri casi come questi ci sono stati senza che venisse fatta la segnalazione? Non solo in ambito televisivo, ovviamente, dove comunque la "moviola" ha il suo peso grazie alle telecamere posizionate un po' ovunque. Stare in silenzio e poi dopo anni dire "è successo anche a me" non ha la stessa efficacia. Così come è sbagliato subire atteggiamenti di un certo tipo solo perché si è in amicizia.
Memo Remigi ha parlato di "un gioco tra amici venuto male": che gioco può essere la mano sul sedere in modo così lascivo? Questa storia è avvolta da una patina di "non detti" che difficilmente verranno dipanati. E che forse non è nemmeno necessario conoscere. Anche perché il tempo delle chiacchiere su questa vicenda è concluso: si è detto tutto quello che c'era da sapere. "Sono moralmente distrutto", ha detto in una nota Memo Remigi, che considera l'allontanamento dalla Rai "ingiusto per la sproporzionata gravità della condanna inflittami". Si è rivolto a un avvocato per tutela la sua dignità e ha aggiunto: "Ho bisogno di riposo, di silenzio e di cure, sperando di riprendere le mie forze e la mia tranquillità".
La Rai ha scelto la linea dura, forse anche simbolica, contro il cantante. Le immagini ci sono, Jessica Morlacchi si è sentita molestata e non ci sono margini di discussione davanti ai fatti. Ora però è il momento del silenzio, per tutti. Anzi no, non per tutti. Perché le donne che si sentono molestate o, ancora peggio, violate, devono parlare. E lo devono fare in tutti i modi che conoscono, a voce alta, anche se ci potrebbe essere qualcuno che non crederà alle loro parole. Perché le conseguenze del silenzio sono imperscrutabili.
Jessica Morlacchi palpeggiata: "Veleno e mestruazioni". Libero Quotidiano l'01 novembre 2022
Volano stracci tra Selvaggia Lucarelli e Jessica Morlacchi, la cantante ospite fissa di Serena Bortone a Oggi è un altro giorno. Di recente si è parlato parecchio di lei per via della palpata in diretta del collega Memo Remigi. La giornalista e giurata di Ballando con le Stelle aveva commentato il caso condannando duramente il gesto di Memo ma anche lanciando una bordata a Jessica, la quale, a suo dire, ha avuto in passato comportamenti non proprio teneri nei suoi confronti. Secondo la Lucarelli, infatti, quando Iva Zanicchi le diede della “tro*a” a Ballando e si parlò dell'episodio a Oggi è un altro giorno, la Morlacchi avrebbe fatto alcune smorfie, sminuendo la questione.
Ieri la Morlacchi ha pubblicato una storia su Instagram facilmente collegabile alla Lucarelli: "Mi sono capitati sotto mano più post… Che dire… Immagino il nervosismo che ti pervade quando si vede ballare il proprio fidanzatino con la bellissima ballerina. Quindi ci sta… Poi magari subentra anche il ciclo. Poi in questo caso si parte da una base di 'veleno d’animo' puro. Insomma, comprendo comprendo…”. Non è tardata ad arrivare la replica della giornalista: "Quando è scoppiato il caso Memo Remigi, ho scritto che per me Memo Remigi poteva starsene a casa come deciso dalla Rai senza rimpianti e andava bene così, ma che la vittima del suo palpeggiamento aveva molto da imparare da questa vicenda. E lo dicevo perché la vedevo sempre ridacchiare e scocciarsi quando si parlava di epiteti sessisti a me rivolti, la vedevo sempre dalla parte dei maschi”.
"Piccata dalle mie osservazioni - continua la Lucarelli - oggi scrive questa specie di disastro sessista tra pregiudizi avvilenti su invidie femminili e acidità da mestruazioni. Appunto, non sbagliavo. Si può essere vittime di Memo Remigi e pensare come Memo Remigi, non c’è nulla di strano. Ma molto di deprimente". In un secondo momento comunque la Morlacchi ha cancellato la storia e ha scritto: "Mi hanno fatto notare che stavo usando stereotipi e pregiudizi della peggiore cultura maschilista e qualunquista verso un'altra donna. Ho capito di aver sbagliato e quindi ecco qiu le mie scuse sincere".
Franco Giubilei per “la Stampa” il 31 ottobre 2022.
«Andrò in tv a difendere Remigi, di certo mi massacreranno sui social». Enrica Bonaccorti conosce benissimo l'ambiente televisivo, veterana com' è di programmi Rai e Mediaset, ma ha anche una buona esperienza di teatro che, fa capire, non era certo immune da certe cattive abitudini: «A me capitò a teatro che due attori mi dessero pacche sul sedere, ma era 50 anni fa ed eravamo figli di un'epoca che finalmente si sta sgretolando».
Conoscendo personalmente anche Memo Remigi, da un lato ne stigmatizza il gesto immortalato dalla telecamera e rilanciato dai social fino a diventare argomento di discussione a livello nazionale, la scena vista e stravista del cantante-conduttore che palpeggia Jessica Morlacchi durante il programma di Serena Bortone sulla Rai (che poi lo ha licenziato).
Dall'altro però si rifiuta di crocifiggerlo senza rimedio, così come di appiccicargli addosso definizioni come quelle piovute sul colpevole: «Di sicuro è un brutto gesto, ma lasciargli questo marchio di libidinoso a 84 anni». Il gesto però è grave, lei allora come lo definirebbe?
«Il gesto di Memo è stato inopportuno e maschilista. Aggiungo che io mi sono sempre definita orgogliosamente femminista e che sono stata guardata male per questo da tutti gli uomini e purtroppo anche da tante donne. Eppure oggi non mi scaglio contro Memo, anche se lo rimprovero sia per il gesto che per le giustificazioni, arrampicate sugli specchi».
Secondo lei cosa avrebbe dovuto fare dopo essere stato ripreso in quella maniera dalla telecamera?
«Avrei voluto sentirgli dire: "Mi dispiace tanto e mi scuso, è stato uno sbaglio figlio della cultura maschilista di una volta che sdoganava parole e gesti oggi inaccettabili, aiutato da un cameratismo che ho evidentemente equivocato".
Detto questo, trova ci sia accanimento nei suoi confronti?
«Conosco Memo, ha 84 anni, fa scherzi in continuazione, e battute che oggi non si dovrebbero più fare, ma non è un vecchio libidinoso come lo stanno descrivendo. Anzi, è un vecchio signore gentile che non merita di essere ricordato per questo, ma per "Innamorati a Milano"».
Lei ha lavorato per molti anni alla radio, nella televisione nazionale pubblica e privata, avrà visto di persona o sarà stata a conoscenza di certe molestie alle donne, piccole o grandi. «In realtà era peggio, perché non c'era consapevolezza e non c'era da ambo le parti, uomini e donne, dunque non c'era vera condanna, soprattutto nei paesi latini. Ma il vero discrimine secondo me è da chi parte la molestia verbale o fisica: se la fa chi ha potere su di te, sul tuo lavoro, questo è un vero crimine. E non è certo questo il caso di Memo».
A lei è successo?
«Non parlo di me, faccio solo considerazioni scaturite dal disgraziato caso di Remigi, ma vedrà che sarò massacrata per i miei distinguo, in un paese manicheo come il nostro».
Se non ci fossero stati i social, che hanno diffuso il filmato evidenziando il comportamento di Remigi, la vicenda sarebbe comunque diventata un caso nazionale o sarebbe morta così? Jessica Morlacchi non aveva denunciato il fatto.
«A questo risponda lei, per favore».
Dagospia il 28 ottobre 2022. Dal profilo Instagram di Caterina Collovati
Classe 1938, signore gentile, d'altri tempi, cantante e compositore di testi che hanno fatto innamorare migliaia di coppie.
Da qualche giorno è nel mirino delle critiche, perché reo in diretta tv di aver toccato il lato B di tale Jessica Morlacchi, cantante, sua collega nel programma di Rai 1 " Oggi è un altro giorno ".
Mi rifiuto di vedere del torbido in quella mano rugosa, che dopo aver cinto la vita della collega per la posa imposta dalla scena, cade avvizzita lungo il fianco della cantante.
L'unica palpata degna di nota Memo Remigi la riserva ai tasti del pianoforte che suona ancora magistralmente.
Lui da signore pacato ha incassato il licenziamento senza opposizione, bensì scusandosi per quel gesto che avrebbe irritato la collega.
Io dico che a ricevere le scuse, da coloro che hanno tendenziosamente frainteso il suo gesto, dovrebbe essere lui.
Quanta ipocrisia e moralismo inutile; un Paese che non sa difendere le donne da uomini che maltrattano, da uomini che stuprano, ma sa benissimo umiliare le persone perbene.
Jessica Morlacchi torna su Memo Remigi: "Gli voglio bene come fosse mio nonno, non lo posso denunciare". di Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2022.
In un'intervista a Diva e Donna la giovane è tornata a parlare del caso. "In molti mi hanno detto che avrei dovuto denunciarlo, non lo farò. Non ho idea di che cosa gli sia venuto in mente in quel momento” ha detto al settimanale
A poche settimane dal gesto di Memo Remigi a Jessica Morlacchi, la cantante (che oggi è molto amata in tv in quanto presenza fissa del programma di Rai1 “Oggi è un altro giorno”) torna a parlare di quanto accaduto e del perché non ha denunciato Remigi. E l’ha fatto in un’intervista rilasciata a “Diva e Donna”. «Penso abbia avuto un momento di confusione. È l’unica spiegazione che riesco a darmi. In molti mi hanno detto che avrei dovuto denunciarlo, non lo farò. Gli voglio bene come se fosse mio nonno. Non ho idea di che cosa gli sia venuto in mente in quel momento».
Il lavoro
La ragazza ricorda il lavoro insieme per due anni senza nessun problema e nel massimo rispetto reciproco, e poi, in diretta tv, il gesto del genere: «Ma perché?» si chiede. Prova poi a darsi una risposta con un’allusione all’età di Remigi, 84 anni: «Penso che sia proprio vero che a una certa età si perdano i freni inibitori e si torni un po' bambini. È l’unica spiegazione che riesco a darmi» ha aggiunto, confermando però come un gesto simile vada condannato a prescindere dall'età.
DAGONEWS il 27 Ottobre 2022.
Fermi tutti! Morgan ha aggiunto Memo Remigi nella mega chat Rinascimento e Dissoluzione, che ha aperto insieme a Vittorio Sgarbi scatenando il panico nei cellulari di politici, artisti, giornalisti e critici d’arte.
Il cantante ha voluto dare così la sua solidarietà a Remigi, licenziato dalla trasmissione “Oggi è un altro giorno” per l’ormai celebre “palpatina” a Jessica Morlacchi. Morgan ha chiesto a Memo cosa fosse successo, e quello ha ringraziato per il sostegno.
Poi Morgan ha proposto all’84enne di cantare una canzone porno che ha composto lui per l’occasione. Per convincerlo, ha mandato una specie di demo cantata da Siri, l’assistente vocale dell’iPhone. Secondo Morgan, dopo lo scandalo dalla Bortone, farebbe il botto, e a giudicare dal testo, non ce la sentiamo di dargli torto.
Quando ho voglia di scoparti io penso alle tue tette. Sono uno di quei tanti che tu fai eccitare. È finalmente vedo, vedo, questo mio grosso cazzo che tu non hai visto mai.
Vendo, vendo il mio grosso cazzo che…. […] Come vorrei che tu vedessi che cosa sto facendo […] con questo duro cazzo che causa l’orgasmo […] Le mie palle son gonfie, più gonfie di due secchi […] così vengo nel pensare che poi ti penetro […]
Memo Remigi, figlio di papà con il pianoforte in spiaggia: «Ma lui mi voleva far gestire la fabbrichetta». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022.
Il cantautore, 83 anni, si racconta: «Il mio mentore fu Giovanni D’Anzi, mi scoprì a Santa Margherita Ligure». I treni da Como a Milano, gli appuntamenti romantici in Galleria, la Rifi Records e il Derby. «Ma la mia passione erano le crociere».
Con la sua intramontabile «Innamorati a Milano», per il grande pubblico è uno dei personaggi-simbolo della città. Nato 83 anni fa ad Erba da una famiglia di industriali tessili, cresciuto a Como, cantante e autore, ma anche presentatore, da quasi sessant’anni Memo Remigi è nel mondo dello spettacolo. Anche per la sua ironia garbata, sta conoscendo un nuovo successo con la partecipazione in tv a Propaganda Live su La7, al programma pomeridiano di Serena Bortone su Raiuno («Oggi è un altro giorno») e a Ballando con le stelle. «Ironia che mi è uscita spontanea — dice — grazie ai miei amici de La7 che si sono accorti che non ero solo quello di “Innamorati a Milano”».
Torniamo agli esordi.
«Mio padre avrebbe voluto che avessi curato la fabbrichetta, ma io sognavo di fare il musicista. Quando ero ancora un figlio di papà e andavo a fare i quattro mesi di vacanza a Santa Margherita Ligure, lì ho conosciuto il mio mentore».
Chi era?
«Giovanni D’Anzi, grandissimo autore che con Gorni Kramer ha fatto la storia della musica leggera, sua “O mia bela Madunina” (che accenna). Per fare il galletto con le ragazze, suonavo il pianoforte in uno stabilimento balneare. Cantavo una canzone, sempre la stessa, in cui inserivo di volta in volta il nome della ragazza del momento. D’Anzi senti che strimpellavo la mia canzoncina (“ti amo, non lo so dire, ma in fondo al cuore sento qualcosa che dice cosi…”, canta ancora), si è avvicinato e ha voluto parlare con i miei genitori».
Evidentemente aveva capito che c’era della stoffa.
«Credo che, suonando ad orecchio, avessi la capacità di fare armonie complicate, non solo la canzoncina e basta. Da Como venivo in treno a Milano. Nell’ufficio di Giovanni D’Anzi in Galleria del Corso c’era un pianoforte. “Tu mettiti lì e suona”, diceva. Io facevo delle cose che mi nascevano spontanee mentre lui lavorava alla scrivania. Quando sentiva una melodia che gli piaceva me la faceva ripetere».
Che Milano era?
«Straordinaria. Erano gli anni del boom economico e Milano era anche la capitale dell’industria musicale. Le più gradi case discografiche avevano gli uffici in Galleria del Corso e lì si ritrovavano i musicisti in cerca di fortuna. Dalle finestre aperte sentivi gente che suonava e cantava. Era un mondo fantastico ed emozionate».
Ha fatto quella che si chiama gavetta?
«Eccome. Prima nei locali della Liguria per pagarmi le vacanze con la fidanzata (Lucia, sposata nel 1966 e scomparsa un anno fa, ndr). La sera cantavo, ci davano vitto e alloggio. Poi facendo le serate in tutta Italia. Partivo da Palermo e con il mio gruppo ogni 15 giorni ci spostavamo risalendo l’Italia».
Quando è arrivato il successo?
«Nel 1964 partecipando al Disco per l’estate con “Innamorati a Milano”. La incisi per la Rifi Records dove mi ritrovai con grandi cantanti come Iva Zanicchi, Fred Bongusto, Fausto Leali, i Giganti».
Come è nata?
«Abitavo a Como e la mia fidanzata mi dava gli appuntamenti in Galleria Vittorio Emanuele. Io, che venivo in treno da una piccola cittadina di provincia, mi ritrovavo tra mille persone. Era tutto così strano che mi domandavo come fosse possibile innamorarsi in una città così caotica».
Ha lavorato molto anche a Milano. Che pubblico c’era?
«Quello che veniva al Derby (storico locale del cabaret, ndr). C’erano i Gufi, Walter Valdi, Enzo Jannacci, Cochi e Renato, jazzisti del livello di Lino Patruno, Enrico Intra e Franco Cerri. Una fucina di grandi artisti».
Con il successo arrivò anche la tv.
«La sede Rai di corso Sempione era un luogo di produzione di cultura. I personaggi che nascevano in locali come il Derby venivano chiamati lì. Ho fatto tantissima televisione, il primo programma con Marcello Marchesi».
Pagavano poco, vero?
«Sì, ma era il mezzo per farsi conoscere. Se riuscivi ad andare in tv, poi facevi le serate nelle sale da ballo dove c’era un’orchestra fissa, e le attrazioni del momento, come Little Tony o Bobby Solo, ad esempio, e dove venivano anche più di mille persone».
Faceva anche altro?
«Cercavo di avere più frecce al mio arco. Se non ti chiamano a fare il cantante, puoi fare il presentatore di sfilate di moda. Mentre le modelle si cambiavano, io suonavo e cantavo. Ho fatto anche serate durante le quali c’erano le dimostrazioni dei tagli dei capelli per i parrucchieri».
All’inizio degli anni ‘80 questo mondo finisce.
«Sciolsi il gruppo e misi su uno spettacolo mio in cui cantavo, suonavo, raccontavo come nascono le canzoni, aneddoti. Un po’ le cose di cui stiamo parlando. Cominciai anche con le crociere».
Cioè?
«Sulle più belle navi del mondo: la Michelangelo, la Raffaello e la Leonardo da Vinci. Con il maestro Enrico Simonetti ne abbiamo fatto un’infinità. Facevamo un solo spettacolo nella serata di gala. Eravamo le vedette».
Tutto qui?
«Ma durante la navigazione incontravamo i passeggeri che ci chiedevano curiosità sui personaggi dello spettacolo che conoscevamo e che allora sembravano inarrivabili. Facevi la crociera e ti pagavano anche. Incredibile».
Come vede Milano oggi?
«La frequento poco, è molto cambiata. Rispetto alla ragazza tutta da scoprire di una volta, mi sembra diventata una grandissima diva».
Andrea Laffranchi per il corriere.it il 30 marzo 2022.
Michael Bublé indica il proprio volto. Sta piangendo. «Questa non è tristezza. È felicità per l’amore che ho ricevuto». La popstar canadese fatica ancora a parlare del passato, della malattia del figlio Noah, un tumore al fegato scoperto nel 2016, quando il piccolo aveva 3 anni e che gli aveva fatto mettere in pausa la carriera.
«Abbiamo fatto un ultimo esame dopo e 5 anni sta bene. Quando è uscito “Love” nel 2018 non ero ancora pronto, ero un sopravvissuto, avevo subìto il colpo. Mia moglie mi ha preso e mi ha salvato. Ho capito che non sono speciale e che nella vita tutti passiamo da momenti duri e di sofferenza. Penso a chi nel mio Paese, e intendo l’Italia (ha passaporto italiano ndr) ha perso qualcuno durante la pandemia. Sono cose che o ti distruggono o ti costruiscono, ma per certo ti definiscono. Ora sono un uomo riconoscente e felice», racconta collegato via Zoom per il lancio del nuovo album «Higher», uscito venerdì scorso.
Il nome di Noah è tatuato sull’avambraccio, assieme a quello di Elias e Vida Amber Betty, gli altri due figli avuti con la moglie, l’attrice argentina Luisana Lopilato. «Ne devo fare uno nuovo visto che è in arrivo il quarto», sorride. Noah è anche nei crediti dell’album: è co-autore della title track. «Stavo scrivendo con Ryan Tedder e gli ho detto che mio figlio mi aveva appena cantato un ritornello interessante. Lui l’ha voluto sentire e in 30 minuti è nato il brano. Abbiamo capito subito che sarebbe stata una hit».
Nei suoni di «Higher» il pop si è preso più spazio rispetto al passato, ma Bublé, anche se non è Natale, non abbandona le grandi orchestrazioni e lo swing. «Un amico mi ha detto che dopo 20 anni in cui facevo tutto io, avrei dovuto mollare qualcosa per avere un sound fresco e diverso. Nessuno è più bravo di me a fare dischi con gli standard, sono un interprete del great american songbook e sento il diritto di stare a fianco dei miei miti. Per il pop, invece, il produttore Greg Walls ha subito capito dove stava la linea giusta: non dovevo sembrare alla ricerca disperata di qualcosa che non sono, ma dovevo essere fresco».
A proposito di miti, Willie Nelson e Paul McCartney sono ospiti, come voce e come produttore, nelle rivisitazioni delle loro rispettive «Crazy» e «My Valentine»: «Quando ho cantato con Willie Nelson mi sono dato un pizzicotto per capire se fosse un sogno o realtà. Sir Paul l’ho contattato non per quanto ha fatto in passato, ma per quello che poteva darmi adesso. Lui è umile e la sua presenza è un insegnamento per chi gli sta attorno. Anni fa in un’intervista gli chiesero se il genio non fosse Lennon. Rispose con umiltà e senza ego che era un privilegio aver lavorato con John, George e Ringo, ma che lui sapeva che cosa aveva fatto. Quando di recente ho visto il documentario “Get Back” dei Beatles ho capito che il leader è lui: la verità arriva sempre».
A fine aprile partirà da Las Vegas il tour mondiale. Non ci sono date italiane annunciate. «A causa della pandemia c’è stato qualche problema di organizzazione, ma verrò anche in Italia, non c’è dubbio. Per me è una gioia poter suonare in 45 Paesi diversi. La mia carriera è nata prima in giro per il mondo e poi è arrivato il successo in America. Ho detto al mio manager che se c’è un posto dove non mi conoscono ancora, sono disposto ad andarci e suonare davanti a sole cinque persone: sono ambizioso come quando ho iniziato».
Amore con interessi, la storia di Michael J. Fox: da Hollywood al Parkinson. Erika Pomella il 20 Giugno 2022 su Il Giornale.
Amore con interessi è il film con Michael J. Fox uscito negli anni '90, quando l'attore era al culmine della sua carriera, prima che il mondo sapesse la verità sulla malattia che lo aveva colpito.
Amore con interessi è il film che va in onda questa sera alle 21.08 sul nuovo canale 27 Twentyseven: si tratta di una pellicola interpretata dall'attore Michael J. Fox, quando era all'apice della sua carriera, con decine di possibilità davanti a sé.
Amore con interessi, la trama
Doug Ireland (Michael J. Fox) è il portiere di un hotel di lusso nel centro di New York con una capacità estrema nell'accontentare tutte le richieste dei suoi clienti, al punto da essere stato battezzato "l'uomo che tutto può". Doug lavora con una forte determinazione, spinto dal desiderio di poter, un giorno, aprire un hotel tutto suo. Un giorno, la sua routine lavorativa, viene sconvolta dall'arrivo di un ricco uomo d'affari, Christian Hanover (Anthony Higgins) che si dice pronto a investire nell'albergo di Doug, a patto che il concierge si occupi di tenere compagnia alla sua fidanzata Andy (Gabrielle Anwar), allo scopo di distrarla dalle continue assenza del compagno. Doug accetta senza pensarci un attimo, convinto di poter arrivare alla fine della sua missione senza problemi e poter realizzare il suo sogno. Ma la vicinanza quotidiana con Andy rende le cose molto più difficili del previsto e Doug dovrà scegliere se agire per amore o per denaro.
La triste storia di Michael J. Fox
Amore con interessi arrivò in sala nel 1993, quando la carriera di Michael J. Fox non solo era già iniziata, ma aveva già raggiunto un livello tale da renderlo un attore iconico. Quando girò questo film, l'attore canadese - originario di Alberta, che scelse di aggiungere la J al suo nome in onore dell'attore Michael J. Pollard) - aveva al suo attivo pellicole che erano già entrate non solo nell'immaginario collettivo, ma anche nella storia del cinema come dei veri e propri cult. Come si può leggere sul sito dell'Internet Movie Data Base, nel 1985 era stato il protagonista di Ritorno al futuro, primo capitolo di una trilogia firmata da Robert Zemeckis che è diventato iconico. Sempre negli anni '80 aveva interpretato Scott Howard in Voglia di vincere, e nel 1989 aveva già recitato al fianco di un attore del calibro di Sean Penn in Vittime di guerra.
Come racconta lo stesso Michael J. Fox sul suo sito personale, questa carriera promettente ha subito uno scossone nel 1991, quando a Michael J. Fox venne diagnostica una forma precoce di Parkinson. L'attore, che all'epoca aveva solo 29 anni, decise di mantenere il riserbo sulla sua malattia, tacendola al mondo esterno per ben sette anni. L'attore scelse poi di parlare pubblicamente del Parkinson nel 1998, quando si impegnò a raccogliere fondi per migliorare la ricerca sulla malattia degenerativa che l'aveva colpito. Proprio per questo motivo ha lanciato la Michael J. Fox Foundation for Parkinson's Research, che è stata descritta dal New York Times come "la voce più credibile sulla ricerca sul Parkinson".
In un'intervista riportata dalla CNN, Michael J. Fox ha spiegato anche come la malattia abbia modificato la sua carriera, non solo costringendolo ad accettare pochi ruoli ma anche a fare selezione tra quelli. Ha infatti detto: "Non posso ricordare cinque pagine di dialogo. Non posso farlo." Nel 2012, con il desiderio di riprendere la sua carriera da attore a tempo pieno, è diventato il protagonista di una serie NBC intitolata The Michael J. Fox Show, che raccontava in maniera romanticizzata i problemi quotidiani di una persona affetta da Parkinson. Ha fatto alcune apparizioni come guest star in The Good Wife e nello spin-off The Good Fight e, nel frattempo, ha associato la sua carriera da attore a quella di scrittore, con la pubblicazione di quattro libri.
Michael J. Fox: la lunga lotta col Parkinson, l’incidente sul set quasi mortale, il ritiro dalle scene e altre 8 cose che non sapete di lui. Arianna Ascione Il Corriere della Sera il 9 Giugno 2022.
La vita e la carriera dell’attore nato in Canada il 9 giugno 1961 tra aneddoti e curiosità poco note.
Lo pseudonimo
Hai mai pensato al fatto che viviamo nel futuro che avevamo sognato?» gli ha twittato una volta Barack Obama in omaggio alla saga a cui il suo nome è legato: parliamo ovviamente di Michael J. Fox, per tutti il Marty McFly di «Ritorno al futuro», che oggi festeggia il suo 61mo compleanno. Nato in Canada - a Edmonton - il 9 giugno 1961 il giovane Michael Andrew Fox (questo il suo nome all’anagrafe) ha iniziato a muovere i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo a soli 15 anni, nella serie televisiva canadese «Leo and Me». Poi, tre anni dopo, si è trasferito a Los Angeles per tentare la fortuna nella città del cinema e forse non tutti sanno che all’inizio si faceva chiamare Michael Fox. Aveva intenzione di usare questo come nome d’arte, ma quando si è iscritto alla Screen Actors Guild ha scoperto che non poteva adottarlo (in passato c’era già stato un interprete che si chiamava in quel modo). Così ha deciso di inserire, al posto di Andrew, una “J” in onore dell’attore Michael J. Pollard.
«Casa Keaton» e il successo mondiale
Scoperto dal produttore Ronald Shedlo, che lo fece debuttare negli Stati Uniti con il film tv «Letters from Frank», nel 1982 Michael J. Fox entrò nel cast di «Casa Keaton» (1982–1989), sitcom che ha lanciato la sua carriera. A metà anni Ottanta l’attore ottenne il successo mondiale grazie a «Ritorno al futuro» di Robert Zemeckis (1985), pellicola che gli aprirà le porte di Hollywood (risalgono agli anni successivi i sequel «Ritorno al futuro - Parte II» e «Parte III», ma anche le commedie «Insieme per forza» e «Il segreto del mio successo»).
La scoperta del Parkinson
Nel 1991, mentre girava il film «Doc Hollywood - Dottore in carriera», l’attore - in quel periodo al culmine della sua popolarità - si accorse che le sue dita tremavano senza che riuscisse a controllarle. In seguito ad una serie di esami gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson (notizia che renderà pubblica soltanto nel 1998). Fu molto difficile per lui, in un primo momento, accettare la malattia: cercò rifugio nell’alcol e soffrì di depressione, ma riuscì a chiedere aiuto e a fermarsi prima che la situazione gli sfuggisse di mano. Negli anni successivi ha lottato in prima linea per la ricerca sperimentale sulle cellule staminali e, per finanziare la ricerca, ha dato vita alla Fondazione che porta il suo nome.
Di nuovo sul set
Nonostante si sia ritirato una prima volta nel 2000 (fu costretto ad abbandonare il suo ruolo nella serie tv «Spin City» per il peggioramento delle sue condizioni di salute) Michael J. Fox negli anni successivi ha continuato a fare piccole apparizioni come guest-star: ad esempio ha prestato il volto al dottor Kevin Case in «Scrubs» e dal 2010 al 2016 ha interpretato in «The Good Wife» l'avvocato Louis Canning, personaggio affetto - come lui - dal Parkinson. Inoltre dal 2013 al 2014 ha recitato nella sitcom The Michael J. Fox Show.
L’operazione nel 2018
Nel 2018 l’attore ha dovuto fare i conti con un nuovo problema di salute: ha dovuto subire un intervento per rimuovere un tumore benigno alla spina dorsale che gli procurava forti dolori in tutto il corpo. Ne ha parlato lo scorso anno in un’intervista a People: «Due anni fa ho vissuto il momento più buio da quando ho il Parkinson - ha spiegato -. Rischiavo la paralisi se non mi fossi operato».
L’addio alla carriera
Da quando gli è stato diagnosticato il Parkinson Michael J. Fox ha continuato a recitare per quasi trent’anni. Nel 2020 però l’attore ha deciso di chiudere la sua carriera a causa degli effetti della malattia sulla capacità di memorizzare le battute («Oltre ai sintomi più evidenti come tremori e rigidità, la malattia ha avuto per me un impatto devastante sulla memorizzazione, abilità cruciale per recitare», ha raccontato a People) e sulla dizione («Ora mi devo continuamente esercitare a recitare scioglilingua»).
Quando suonò con i Coldplay
Una delle scene più famose di «Ritorno al futuro» (e della trilogia stessa) è sicuramente quando Marty suona «Johnny B. Goode» al ballo Enchantment Under the Sea. L’attore si è preparato per tre settimane prima di girare quella sequenza, con l’aiuto del chitarrista Paul Hanson e del coreografo di Madonna. Michael J. Fox infatti sa suonare davvero la chitarra, e nel 2016 è anche salito sul palco dei Coldplay - che si stavano esibendo al MetLife Stadium di New York - per omaggiare insieme a loro proprio quel brano di Chuck Berry.
L’esperienza come doppiatore
È sua la voce del topolino Stuart Little nell’omonima serie di film (a partire da «Stuart Little - Un topolino in gamba», uscito nel 1999). Michael J. Fox infatti ha avuto numerose esperienze come doppiatore.
Il cameo nel video di Lil Nas X
Nel novembre 2020 l’attore ha fatto un cameo nel videoclip del singolo «Holiday» del rapper Lil Nas X: è apparso nei panni di Marty McFly in «Ritorno al Futuro III».
«Ritorno al Futuro III» e quell’incidente quasi mortale
A proposito di «Ritorno al Futuro III» (1990): durante le riprese di una scena Michael J. Fox se l’è vista brutta per via di un incidente sul set. Il suo personaggio doveva essere impiccato dalla banda di Buford Tannen - interpretato da Thomas F. Wilson - ma qualcosa andò storto e l’attore rischiò di soffocare sul serio. «Ho dondolato incosciente per diversi secondi prima che Bob Zemeckis, pur essendo un mio fan, si rendesse conto che io non ero così bravo come attore», ha scritto nella sua autobiografia ricordando l’episodio.
Un amore trentennale
Sul set di «Casa Keaton» Michael J. Fox si è innamorato dell’attrice che interpretava la fidanzata del suo personaggio: Tracy Pollan, che ha sposato nel 1988. La coppia ha avuto quattro figli: Sam Michael (1989), le gemelle Aquinnah Kathleen e Schuyler Frances (1995) ed Esmé Annabelle (2001).
Laura Rio per “il Giornale” il 9 agosto 2022.
«Quando sono arrivato era lì disteso, ho afferrato le sue grandi orecchie e gli ho promesso stai tranquillo che il film sfonderà. E, ne sono certo, lui mi ha capito». Massimo Troisi era morto il giorno dopo la fine delle riprese: il 4 giugno 1994. Non poteva che iniziare dal ricordo degli ultimi istanti di vita del grande attore, l'incontro con Michael Radford, il regista del Postino arrivato da Londra a Catanzaro per partecipare al Magna Graecia Film Festival che si è tenuto nei giorni scorsi sulla costa ionica.
Il maestro non era mai stato in Calabria, nonostante i lunghi anni trascorsi in Italia, a Roma, in Toscana e nelle isole Eolie per riuscire a portare a compimento il film che richiese una lunga gestazione a causa della malattia di Troisi. Anzi ormai si considera metà italiano visto che parla perfettamente la nostra lingua.
E così ricorda quella mattina a Roma dove si stava ultimando il film (girato a Salina): la sveglia con la notizia della morte dell'attore, la corsa all'Infernetto, l'incontro con Roberto Benigni in lacrime. «Anche io mi sono messo a piangere insieme a tutto il mondo». Tra lui e Massimo era nata una grande amicizia. Ed era una sofferenza vederlo affaticarsi sul set.
«Mi impressionava il suo coraggio. Il suo cuore stava cedendo - racconta ancora il regista - l'operazione negli Stati Uniti era andata male, ma lui rifiutava di fare altri interventi perché voleva portare avanti il film a tutti i costi. Perciò doveva riposare molte ore. Diceva solo alcune battute al giorno e gli facevo tanti primi piani da usare poi nel montaggio». E così per tutte le altre scene era stata chiamata una controfigura, Gerardo Ferrara, di Sapri, che gli assomigliava moltissimo.
Però, nonostante la sofferenza, l'attore non smetteva di sorridere e far sorridere.
«Era incredibile. Appena apriva bocca tutti ridevano. Io ero un po' geloso di questo perché alla mie battute non rideva nessuno. Un giorno allora vidi un signore con un cappello che sembrava un australiano, lo fermai e rise delle mie battute, che da anglosassone capiva. Lo ringraziai».
Michael aveva conosciuto Massimo una decina di anni prima del Postino. «Gli chiesi di partecipare al mio primo film Another Time, Another Place (1983): mi servivano tre attori italiani, di cui un napoletano. Ma lui mi rispose No, grazie, in Scozia non vengo perché fa troppo freddo. Mi disse: «Vieni a girarlo a Napoli» e io risposi: No, grazie fa troppo caldo».
Alla fine, dopo tanti anni, mi chiamò lui per affidarmi la regia del Postino. «Andammo a Los Angeles per trovare un po' di tranquillità per scrivere la sceneggiatura, nella speranza che nessuno lo conoscesse, ma lì appena entravamo in un ristorante tutti lo chiamavano e lo volevano salutare».
Quel film ha anche fatto nascere la stella di Maria Grazia Cucinotta. «Quando la vidi - ricorda il maestro - aveva fatto solo una pellicola sexy, di quelle in cui ci sono uomini e donne nudi sulla spiaggia.
Era molto bella, con un gran sorriso, intelligente e sensibile, ma non sapeva assolutamente recitare. Le dissi Guarda, Maria Grazia, tu non fare proprio nulla. Quando te lo dico, mostra il sorriso più intenso del mondo. E quel sorriso sorprese tutti agli Oscar (in cui vinse per la miglior colonna sonora)». Tra due anni ricorrerà il trentennale del Postino e, nel contempo, della scomparsa di Troisi. «Mi piacerebbe che per l'occasione tornasse nei cinema e poi se qualche produttore si facesse avanti potremmo pensare a qualcosa».
Un altro grande film di Radford, 1984, tra due anni festeggerà i 40 anni, ma non dimostra per nulla l'età. La dittatura dei social network va oltre ogni immaginazione di Orwell dal cui libro il regista ha preso ispirazione per la pellicola. «Vero - riflette -. Tutto accade proprio come aveva immaginato Orwell. Io, che ero appena uscito dall'accademia di cinema, proposi quel titolo perché non mi spiegavo come mai nessuno l'aveva ancora fatto. E quando vidi, in giro per Londra, i ragazzi con i capelli tagliati come nelle scene del film capii che aveva sfondato, che era stato capito».
E, il pensiero corre al Grande Fratello di oggi, al dittatore che tiene sotto scacco un'immensa nazione come la Russia. «Con mia grande sorpresa - gli sovvengono altri ricordi - quando andai in Russia per presentare 1984, chiamato da un gruppo di intellettuali e giornalisti, il film fu applaudito dalla Duma. Ora non potrebbe accadere. Però non mi potei portare Richard Burton perché a quel tempo beveva troppo, ma anche John Hurt fece la sua figuraccia finendo sbronzo con la faccia nel piatto».
Michael, all'età di 76 anni, regista anche de Il mercante di Venezia, non ha proprio voglia di appendere al chiodo il cappellino da regista. Presto comincerà le riprese di una pellicola dedicata a Vivien Leigh che si concentra sul rapporto con Laurence Olivier e sul bipolarismo da cui era affetta. «Tutti dicevano che era matta, in realtà era bipolare».
Invece il progetto della pellicola sulla società pakistana per ora è accantonato perché è troppo pericoloso, anche per Fatima Bhutto, al cui libro (L'ombra della luna crescente) sarebbe ispirato.
Michela Giraud contro tutti: "La mia verità? Fa ridere..."Laura Rio il 6 Aprile 2022 su Il Giornale.
Dalla danza alla sorella, la comica "scorretta" si racconta su Netflix, in uno show pieno di ironia.
Provate voi a crescere alla Balduina, alta borghesia romana, con un padre ammiraglio e una madre biologa, compagne di scuola tutte belle, filiformi, ben educate e ben vestite. E, voi, un po' cicciottelle («curvy», pardon), sgraziate, costrette a fare danza classica anche se vorreste giocare a calcio. E con una sorella autistica che, all'unica festa a cui siete state invitate, va in giro a dire alle amiche quanto sono sceme, perché lei non ha filtri. Certo è più difficile crescere allo Zen, però anche Michela Giraud ha avuto il suo bel daffare per diventare grande. Che cosa l'ha salvata? L'ironia, l'autoironia e la recitazione. Ed è diventata così grande che tutti la vogliono: cinema, teatro, televisione. Forbes l'ha messa tra le cento italiane di successo.
Ora è in contemporanea su due canali: su Real Time con C'era una volta l'amore, dove - per la prima volta in un ruolo serio - ascolta le coppie in crisi. E, da oggi, su Netflix, nello speciale The Truth, I Swear!, in cui, appunto, giura di dirci la verità su di lei: come e perché è arrivata a essere Michela Giraud, una delle stand up comedian più amate (e odiate) del momento. «A un certo punto, quando raggiungi una certa visibilità - spiega - senti l'esigenza di raccontare al pubblico la tua storia». Lo show di Netflix, un'ora ad altissimo ritmo, una raffica di battute esilaranti, una mitragliata scorretta alla retorica del politicamente corretto, è il risultato della tournée teatrale che riprenderà il 28 aprile da Venaria Reale a Torino e andrà avanti tutta l'estate in giro per l'Italia (17 maggio a Roma e 23 maggio a Milano).
Ma, soprattutto, è un inno alla leggerezza, a non prendersi troppo sul serio, unico metodo per sopportare la vita. «Altrimenti non sarei diventata quella che sono. Il mio vissuto è profondamente legato a quello che faccio». Perché la svolta per Michela è stato trovare il lato comico nelle sue (piccole o grandi, a seconda dei punti di vista) disgrazie. «A un certo punto notavo che riuscivo a fare ridere le mie amiche e ho capito che avevo un talento, che sarebbe stato il mio punto di forza». E, poi, quando, a 24 anni suonati, ha cominciato a studiare recitazione, lei che ora di anni ne ha 34, ha trovato anche la chiave del successo. «A teatro ho scoperto la mia vera identità, facendo uno sforzo dieci volte inferiore alla danza. Ma ci ho messo molto tempo a capirlo, a farlo diventare un mestiere, a convincere i miei genitori a lasciarmelo fare: mia madre ancora fatica ad accettarlo del tutto...». Prima, appunto, ha dovuto sorbirsi dieci anni di danza «nonostante rotolassi come una pallina su un piano inclinato, nei recital mi mettevano in ultima fila, in mezzo alla polvere e alle corde per tirar su il sipario», e prendersi almeno una laurea, «quella me la sono potuta scegliere, in storia dell'arte». La salvezza è stata anche superare i freni inibitori, dire la verità (o quella che sembra a se stessi), fregarsene dei giudizi. E da chi l'ha imparato? Dalla sorella Cristina, affetta da un disturbo dello spettro autistico, che ha la caratteristica, appunto, di dar sempre voce a quel che pensa, come vorremmo fare tutti. «In una situazione patinata come un contesto borghese, faceva tanto ridere. Per esempio, lei, al primo appuntamento di un possibile spasimante arriva prima di me ad aprire la porta e dice candidamente: Ma non è vero che sei brutto e grasso come dicono tutti!». Non era tutto così simpatico. «Da ragazze non ci invitavano alle feste perché eravamo diverse. Ma mia sorella mi ha fatto vedere la vita con più colori e suoni, come passare da mono a stereo. Mia madre, per spiegarmi i suoi problemi, da piccola mi diceva: immagina che la nostra testa sia una pentola, ecco lei ha uno scolapasta...».
E, dunque, ecco la liberazione di Michela, donna e attrice: dagli stereotipi, dal buonismo, dal pietismo, dalla schiavitù delle parole accettabili come «curvy», «body positive», «diversamente abile». «E ditemi cicciona, almeno non mi trattate da rinco...». Che, poi, alla fine si trasforma in un messaggio positivo. Un invito ad apprezzarsi, accettarsi e a conoscere il diverso. «Bisogna sbarazzarsi delle identificazioni, degli incasellamenti, dei giudizi». Non è certo facile in un mondo in cui non si può più dire nulla, in cui si estremizza il politicamente corretto, e chi, come Michela, lo fa si tira addosso l'odio, soprattutto social. «Ma di chi? Di Fragolina 22 o Vegana 87? Chissenefrega. Io sto attenta alla mia sensibilità, a quello in cui credo, mi informo prima di sparare cavolate, se faccio un monologo sui vaccini so a cosa vado incontro e difendo le mie scelte». E Will Smith che, per una battuta sbagliata, colpisce Chris Rock agli Oscar? «Doveva salire sul palco e rispondere per le rime, con ironia, non certo usare la violenza». Trovare sempre il lato comico, per non sprofondare...
L’ultimo singolo “Sotto il diluvio (Nessuno tranne te)”. Chi è Michelangelo Vood, il cantante degli striscioni tra Darsena e Navigli a Milano: “La musica ci salverà”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Novembre 2022
Michelangelo Vood questa volta le parole le ha volute condividere anche fisicamente, vederle e farle vedere scritte, metterle materialmente nero su bianco, visibili a tutti oltre che a lui. Ha preso una sera, con la pioggia e tutta l’umidità di Milano, tre striscioni e li ha appesi lungo la Darsena e i Navigli: “La musica ci salverà”. È qui dov’è che il suo ultimo singolo Sotto il diluvio (Nessuno tranne te) esplode, si apre, come una luce che si accende in una stanza, un momento completamente buio. La canzone è uscita venerdì 11 novembre, il secondo singolo per Carosello Records di Vood dopo Souvenir.
Il pezzo è stato scritto e prodotto con Gabriele Lerna e Giordano Colombo. Scritto “in un momento complicato vissuto all’inizio di quest’anno. La canzone descrive perfettamente le sensazioni di quel periodo, uno stato d’animo di forte insicurezza. Le parole di questa canzone sono uscite di getto, perché era proprio così che mi sentivo, come se stessi facendo bungee jumping dalla cima di una montagna con sotto i coccodrilli pronti a mordere. Non sai come ne uscirai, se tutto intero o a pezzi. La cosa assurda era che questo mio stato d’animo sembrava riflettersi anche sul mondo esterno, impegnato ad affrontare gli strascichi della pandemia e a far fronte a una guerra totalmente inaspettata alle porte d’Europa. Dovunque mi girassi non trovavo appigli”.
Sotto il diluvio riflette dunque i momenti scuri degli ultimi anni, alcuni condivisi da tutti, tra la pandemia da coronavirus e la guerra in Ucraina. Il suo bridge finale è una sorta di inno collettivo alla speranza, alla musica e al suo potere salvifico. “La musica ci salverà”, ripete il cantante. Quelle parole Michelangelo Paolino Vood, artista lucano classe 1991, originario di Rionero in Vulture in provincia di Potenza, già vincitore del concorso per autori “Genova per voi” di Universal Music Publishing e “Artista Just Discovered” da MTV New Generation, le ha esposte in giro per Milano e le ha esposte sulla Darsena e i Navigli in un’azione di guerrilla art. Quelle frasi, appese lì, hanno attirato l’attenzione dei passanti, curiosi che hanno fotografato e postato sui social.
“Quando mi capita di vivere periodi così conosco soltanto un rimedio per star meglio, la musica. So che può sembrare retorico, ma per me funziona così da sempre. Anche nella solitudine più profonda, anche ‘sotto il diluvio’, la musica è l’unica cosa di cui ho bisogno per uscire dal buio che a volte mi trascina via. È questo il motivo della frase ripetuta ad un certo punto del brano ‘la musica ci salverà’. È il mantra che mi ripetevo in quel momento. Spero possa essere di buon auspicio per tutti, soprattutto per le persone che stanno provando quelle mie stesse sensazioni”.
Michelangelo Vood è il nome d’arte di Michelangelo Paolino: cognome dalle origini misteriose che ha preso in prestito dalla madre, che rievoca anche il bosco, wood in inglese. Ha pubblicato nel 2020 il suo ep, finora l’unico, Rio nero. “Dopo aver ascoltato una mia canzone – ci aveva raccontato in una lunga intervista a questo giornale in cui ripercorreva la sua storia – una persona mi ha detto che gli avevo fatto pensare al padre che non c’è più: ‘Ti volevo ringraziare, perché mi hai dato un ricordo molto bello’ mi ha detto. Questo è quello voglio fare”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Giulia Turco per fanpage.it il 3 novembre 2022.
Michele Bravi si racconta in una profonda intervista concessa a Belve di Francesca Fagnani. Dai suoi angoli più bui ai colori, in un istante. Se dovesse definirsi una belva sceglierebbe il Minotauro, spiega, una creatura “che viaggia nella vita degli altri fino a perdersi”.
La depressione dopo l’incidente stradale del 2018
C’è un episodio che la giornalista non può eludere, quello dell’incidente stradale che ha coinvolto il cantante nel 2018 e che ha causato la morte di una donna, Rosanna Colia. Un momento di buio che lo ha trascinato nella depressione. “Quell’evento ha avuto delle ripercussioni fortissime in me”, spiega Bravi. “Ho perso il contatto con la realtà”.
Ho conosciuto cosa vuol dire vivere senza aderire al reale. Oggi lotto costantemente: devo essere sicuro che le cose che vedo e che sento esistono davvero. La mia mente ha avuto il bisogno di riscrivere quella realtà, mi chiedevo sempre se stessi sognando. Non riuscivo a parlare e sì, ho fatto pensieri drammatici e pericolosi. Pensavo che stessimo tutti in un sogno e che l’unico modo per svegliarsi fosse annientarsi. Ho sperato che le persone che amavo morissero insieme a me. Credevo di averle condotte in un incubo.
Il bullismo per la sua omosessualità
Nella sua vita ha amato uomini e donne. Il primo batticuore per un ragazzo all’età di 13 anni: “In un primo momento l’ho avvertito come un pericolo, ho pensato fosse qualcosa di sbagliato”. Allora sono iniziati anche i primi episodi di bullismo. “Mi chiamavano Michecca e mi gettavano nella spazzatura”, confessa a Francesca Fagnani. “Non ero consapevole di aver subito bullismo, non avevo capito che impatto avrebbero avuto quegli episodi sulla mia vita. Semplicemente chiudevo gli occhi e aspettavo che finisse”.
Michele Bravi è fidanzato e prova ad essere fedele
Oggi, ammette, c’è una persona al suo fianco. È un uomo che non fa parte del mondo dello spettacolo. “Non voglio la competizione dentro casa, l’unica primadonna sono io”, scherza. L’amore lo sta spingendo ad allenarsi sulla fedeltà, cosa che non risulta essere poi così semplice a quanto pare. “Rimango un infedele per natura. Anche se non tradisco, sono un infedele che non tradisce. È più forte di me”. E rivela: “Sul palco sono sensuale, ma nella vita privata tutt’altro. Sono estremamente goffo. Sono uno che piega il pantalone prima di fare l’amore”.
· Michele Placido.
Michele Placido: «Faccio il nonno per la prima volta ma io sono giovane e non mi stanco mai». Enrico Caiano su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2022.
Il grande attore è Orlando nel film in uscita di Vicari: un contadino laziale che scopre di avere una nipotina a Bruxelles. «Mi sento pieno di energie eppure sogno un ritorno al paese, alle partite a carte, alla quiete estrema. Sento che la mia vita è lì»
Michele Placido nel 1978, a 32 anni. Capelli lunghi, baffi e pizzetto, appare così in Letti selvaggi di Luigi Zampa con Ursula Andress, Laura Antonelli, Sylvia Kristel e Monica Vitti e ne Il prato dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani con Isabella Rossellini (Olycom)
Dopo 50 anni di cinema doveva succedere. Michele Placido, 76 anni, è stato scritturato per il suo primo ruolo di nonno. Si chiama Orlando e dà anche il titolo al film di Daniele Vicari di cui è protagonista e che sarà presentato in prima assoluta al Torino Film Festival del quarantennale che prende il via oggi. Dal 1° dicembre arriva nei cinema. Orlando, un nome epico. Anche se non è Furioso né Innamorato. L’epica del nonno Michele Placido è quella di un contadino vedovo che lascia il suo paesino in provincia di Rieti per andare a trovare il figlio emigrato a Bruxelles e mai più rivisto. Perché mai gli ha perdonato la fuga. Gli dicono che sta male, quando arriva lo trova morto. Nella casa in cui abitava c’è una ragazzina di 12 anni, sua figlia, la nipotina di Orlando. Di madre ignota. Ora lei è diventata la sua famiglia, non può abbandonarla.
Vita agra in scena
«È vero, non mi avevano ancora offerto un ruolo da nonno», ammette Placido. «Ma non è la cosa più importante del film, quasi non ci pensavo girando. Mi piaceva invece il percorso di quest’uomo, che già da una decina d’anni vive spogliato di ogni affetto dopo la partenza del figlio e la morte della moglie. Ha vissuto sempre una vita amara, agra. Mano a mano che il film procede rivela il passato a questa ragazzina che manco si può considerare nipote, all’inizio è un’estranea che lo mette in crisi. Attraverso il rapporto con lei comprende però a poco a poco il suo passato, la sua vita infelice. Senza usare tanti discorsi».
L’attore pugliese è a Torino, dove tornerà per la prima del film ma al momento è in veste di regista -ospite d’onore a una proiezione de L’ombra di Caravaggio, premiato da un buon successo di pubblico in questi tempi grami per le sale e comunque una grande produzione che ha trovato già mercato in 30 mercati esteri. Coppola ben calzata in testa, si presenta all’incontro, in un hotel a due passi da Porta Nuova, la stazione ferroviaria icona di tanta emigrazione dal Sud, con due amici «del mio paese, di Ascoli Satriano, Puglia del nord, provincia di Foggia».
Amici e ricordi
Ha appena pranzato con loro, come cerca di fare sempre quando passa di qua: «Sono ragazzi sui settanta come me, sono venuti a Torino a 17 anni. Hanno lavorato alla Fiat e hanno fatto lavori molto duri. Era il periodo in cui ai pugliesi e ai meridionali in genere non si affittavano neanche le case. Riflettevamo a pranzo su quel periodo nero in cui si decise l’industrializzazione del Nord Italia a scapito del Sud. Il Nord è cresciuto e il Sud imploso. L’abbandono delle nostre campagne ha dato vita a un Sud non più in grado di risollevarsi». Placido abita ormai a Roma da metà anni Settanta e non ha problemi a riconoscere che «mi è andata bene e vivo le agiatezze grazie ai frutti del lavoro che faccio. Ma Michele ha la testa ancora al paese, anche questo non ha problemi a riconoscere: «Ora andremo giù, tutta la famiglia, per Capodanno: ci stiamo organizzando. E poi mi piace andare nel periodo in cui si fa l’olio. La formazione di ognuno di noi avviene negli anni dell’adolescenza e della pre adolescenza. Andando a vivere in una grande città finisci per dimenticare la tua identità. Poi a questa età la ritrovi. E io penso che tornerò lì a finire i miei giorni, ritrovando la casa paterna e quel minimo di ricordi. Diciamolo: la quiete estrema. Ma che ha capito? Ho detto quiete, non pensi ad altre cose. A me fa tanto piacere ritornare a giocare a carte al paese, come fa Orlando nel film».
Gioventù e vecchiaia
Vi sembrano i pensieri di un vecchio? Non provate a dirglielo. O Placido salterà sulla sedia. E con ragione: «Come faccio a sentirmi vecchio se mi hanno offerto in questi giorni già altri lavori per i prossimi due o tre anni. I produttori che investono del denaro sulla mia tenuta psicofisica mica lo fanno perché sono generosi: mi hanno misurato bene. Per loro contano i soldi, nessuno vuole rischiare. Se me la sento, che devo fare! Me lo dicono spesso le mie sorelle “Michele ma ti mantieni sempre giovane!”. E io rispondo: “Che devo fare? Mantenermi sempre più vecchio?».
Sono le sorelle «del posto fisso», quelle che quando da grandi andavano a trovare mamma Maria nella casa di Roma vicina a quella del figlio, «lei apostrofava così: “Basta con mammà tengo mal di testa, ah mammà tengo mal di denti ,... Sentite: io nella mia vita - ha cresciuto 8 figli - non ho mai avuto tempo di avere mal di testa o mal di denti».
Teoria e pratica
E allora parte la teoria “paramedica” di Placido per spiegare tanta energia: «Mi sono convinto che nel cervello di un intellettuale rispetto a chi ha lavorato sempre in fabbrica si verifichi un fenomeno particolare. Altrimenti come si spiegano Picasso e altri artisti che hanno vissuto negli ultimi anni il loro periodo creativo migliore? Non che io mi ritenga Picasso eh... Ma allora perché Verdi ha scritto il Falstaff e l’Otello dopo i 60 e l’ultima opera verso gli 80?. Vogliamo restare alla recitazione? Parliamo di Albertazzi, Aroldo Tieri, Glauco Mauri, Salvo Randone...».
Eccola la spiegazione: «Ho letto che del cervello nel corso della vita noi usiamo solo un 30-40%, metti pure il 50. Ci sono studi che dimostrano che da anziani si attiva il restante 50 per cento, si invade la parte che non abbiamo mai usato. Lì prorompe l’esperienza e il talento e trova un terreno fertile. Probabile quindi che i migliori film da Romanzo criminale fino a questo Orlando li ho fatti negli ultimi anni. E non sono certo solo io a dirlo». Dietro tutta questa energia c’è anche una vita sana: «Massimo a mezzanotte mi addormento: crollo proprio. Alle 11 già mi metto a letto. Guardo un po’ di tv ma soprattutto leggo. La sera sto leggero, mica cene luculliane. Mi sveglio alle 6, dormo sei ore. Abito vicino a Villa Borghese e quindi faccio sempre una passeggiata di mezz’ora al mattino. Ma a quest’età, come mi diceva Mario Monicelli, basta mezz’ora di camminata al giorno tutti i giorni è il tuo fisico, la muscolatura, si mantiene. E poi quando faccio teatro, da gennaio a marzo, ci sono 8 ore di lavoro al giorno sul palcoscenico: alleni la memoria e devi stare in piedi. Come faccio a sentirmi anziano? In più ho ancora un figlio di 16 anni che mi obbliga ad accompagnarlo a giocare a pallone, ne ho altri 4 più grandi... no, non mi stanco mai. Ma sono mansioni una diversa dall’altra: quella intellettuale, quella del padre, quella del nonno per mia figlia (Violante con il piccolo Vasco di 8 anni; ndr)».
Azienda di famiglia
Vicino ai ragazzi nel tempo libero ma anche sul lavoro. Scientemente Placido ha avviato al mestiere di attore tutti i suoi figli, «siamo un’azienda familiare», arriva a dire con fierezza. Disciplina per sé, disciplina da trasmettere a loro. «Sa, in fondo quella che ritrovo sul set e in teatro è la disciplina che mi insegnarono quando facevo il poliziotto. Anche qui cito il Monicelli di “bisogna che uno solo comandi”. Da regista devi avere un bravo direttore della fotografia e una brava customista. Ma la luce, i tagli li decidi tu».
Il ‘68 non ha fatto solo danni
Il passato da poliziotto porta alla mente la battaglia di Valle Giulia, marzo 1968 a cui Placido partecipò come agente opposto agli studenti universitari romani. Pasolini fece scandalo e disse che lui stava con i figli del popolo in polizia e non con i figli di papà universitari. Placido era uno di loro. «Non è che ci penso tanto ormai ma me la ricordo Valle Giulia», sorride. «È stato un momento esaltante, bellissimo: avevo 20 anni. Certo, poi mi sono iscritto all’Accademia di Arte Drammatica e sono diventato di sinistra. Quando dicono che il ‘68 non è servito a nulla, anzi che ha fatto solo danni io dico che non è vero. So che ci siamo divertiti tanto. Intendiamoci: divertiti nel senso che abbiamo messo in campo la nostra energia generazionale nelle manifestazioni contro la guerra del Vietnam o l’invasione dei carrarmati russi. Ma oggi siamo tutti disinteressati alla politica, alla politica nel senso più bello della parola, come ideale di miglioramento delle cose del mondo. Neanche stavolta mi sento vecchio ma sbandato sì. Sto qua. E non so più che fare».
Tomaso Trussardi: «Io e Michelle vicini da genitori. Nessuna altra donna per me». Michela Proietti su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022.
L’imprenditore rompe il silenzio sulle indiscrezioni legate alla separazione dalla conduttrice svizzera. «Non ho mai dettato regole per il nostro eventuale ritorno insieme. L’uomo che si è insinuato tra di noi ha fatto una scorrettezza».
Tomaso Trussardi rompe il silenzio sulle tante indiscrezioni legate alla separazione dalla conduttrice svizzera naturalizzata italiana Michelle Hunziker. Dopo l’intervista esclusiva rilasciata al Corriere a poche settimane dalla rottura con la madre delle sue figlie Sole e Celeste, torna a parlare, stavolta per chiarire alcuni punti. «Leggo tante cose legate alla mia separazione da Michelle e mi trovo mio malgrado a gestire una comunicazione “pop” che si addice poco a un imprenditore e di più a un personaggio noto o dello spettacolo, realtà alle quali non appartengo. Eppure per il bene della serenità familiare voglio mettere alcuni puntini sulle i».
«Nessuna relazione dopo Michelle»
Prima di tutto Tomaso Trussardi sgombra il campo dal gossip, come quello che recentemente lo avrebbe visto in coppia con una ex concorrente di Uomini e Donne Pamela Barretta: «Non c’è stata e non c’è alcuna nuova donna accanto a me. Mi hanno attribuito flirt di ogni genere, la verità è che mi sento temporalmente inadatto a qualsiasi tipo di relazione con una donna diversa da Michelle. Dopo una storia così importante non si può ricominciare come se niente fosse».
«Tra di noi una persona poco perbene»
Il riferimento è al flirt che la conduttrice ha avuto con il chirurgo sassarese Giuseppe Angiolini e che ora sarebbe stato archiviato. «Un uomo che si insinua in una relazione in crisi, con una donna sposata e madre di due bambine piccole, non posso considerarlo una persona perbene». Sulle continue voci che vorrebbero Tomaso e Michelle di nuovo insieme l’imprenditore puntualizza: « Io e Michelle siamo vicini come genitori e stiamo cercando di costruire un rapporto sereno per le nostre figlie. Quando leggo che io avrei dettato delle regole o delle condizioni per il nostro ritorno insieme, mi viene da sorridere e non posso tacere davanti a queste stupidaggini. Gestire e controllare sono cose per me senza senso». La coppia che si è sposata il 10 ottobre del 2014 per anni è stata considerata una delle coppie più belle dello star system: almeno fino allo scorso gennaio, quando hanno comunicato la decisione di lasciarsi.
«Strumentalizzati dai social»
Una separazione che ha generato un vero e proprio tsunami mediatico, con indiscrezioni e rumors, a volte nati anche attraverso Instagram. Proprio nelle scorse ore la showgirl ha postato sui social le immagini della nuova casa, con una frase che lascia intendere una libertà e un equilibrio ritrovati: anche su questo Tomaso Trussardi vuole fare chiarezza. «Ogni nostra foto o frase viene strumentalizzata, vengono attribuiti significati a parole che vanno al di là delle reali intenzioni. Io e Michelle abbiamo un dialogo aperto e maturo e le cose che dobbiamo dirci possiamo comunicarcele di persona, non abbiamo certo bisogno dei social».
Anticipazione da "Oggi" il 23 marzo 2022.
Dopo le foto pubblicate dal settimanale tedesco «Bunte», dove Michelle Hunziker bacia Giovanni Angiolini, ortopedico con un passato nel «Grande Fratello», il settimanale OGGI, nel numero in edicola da domani, ha raccolto delle testimonianze che gettano nuova luce sulla separazione della showgirl dal marito Tomaso Trussardi.
Lo scorso gennaio, la coppia aveva annunciato la fine di una unione durata dieci anni. Secondo le informazioni fornite a OGGI da amici molto vicini a Hunziker e Trussardi, però, la fine della storia d’amore era stata resa nota quando già da un anno la coppia viveva separata in casa. Tanto è vero che, come rivelato da oggi.it, appena cinque giorni dopo la separazione ufficiale, Michelle era in Sardegna in compagnia proprio di Giovanni Angiolini.
Andrea Greco per “Oggi” il 24 marzo 2022.
«Ecco perché lei stava sempre qui!». Il sorpreso commento social di una ragazza algherese sul flirt tra Michelle Hunziker e il bel medico tv Giovanni Angiolini fotografa un rapporto che, sottotraccia, andava avanti da tempo. Lei era stata notata in città altre volte prima del weekend romantico col Dottor G che è stato paparazzato nel servizio fotografico pubblicato dal settimanale tedesco Bunte.
La coppia infatti era stata ospite, assieme ad altri amici, nel bar ristorante Quintilio, come racconta il titolare Michele Quintilio (l’intervista esclusiva di Giuseppe Fumagalli la trovate su oggi.it), lo scorso 23 gennaio (solo 5 giorni dopo la separazione da Tomaso Trussardi). Unica cautela, Michelle aveva chiesto al ristoratore di aspettare qualche giorno prima di postare i selfie che si erano fatti nell’occasione.
Michelle aveva alloggiato all’Hotel Villa Las tronas, uno splendido 5 stelle sul lungomare di Alghero, che ha l’indubbio vantaggio di essere stato costruito su un piccolo promontorio, perfetto per proteggere la privacy dei suoi ospiti.
Il filo che unisce gli incontri tra Michelle e il Dottor G, risalendo indietro nel tempo, porta inevitabilmente alla grande domanda: Giovanni Angiolini è una delle conseguenze della dolorosa separazione diMichelle Hunziker da Tomaso Trussardi o ne è la causa?
I diretti interessati tacciono, di questa piccola burrasca parleranno, forse, quando saranno arrivati in porto. Però amici molto vicini alla coppia assicurano che l’annuncio della fine della loro storia d’amore è arrivato quando ormai da un anno vivevano da separati in casa, e una serie di segnali espliciti non erano sfuggiti: per esempio, Michelle in settimana bianca con le due figlie ma senza il marito.
A maggior ragione, riguardo il weekend del 12-13 marzo, è facile intuire che quella non fosse la premiere assoluta, ma una fuga d’amore ben programmata, tanto che lei la deve incastrare tra il ritorno dal viaggio alle Maldive e il compleanno della figlia Sole, il lunedì successivo. E la sequenza delle foto che li ritraggono parlano chiaro. Lui la va a prendere in aeroporto, poi passeggiano per il borgo di Alghero, ritirano le chiavi di una casetta gialla nella parte vecchia della città, salutano il titolare del Bar Milese, una vera istituzione del posto, e infine visitano insieme le cantine Sella & Mosca.
Due giorni spensierati, trascorsi senza prendere particolari precauzioni. C’è però un dettaglio delle foto che colpisce: Michelle ha sempre occhiali scuri e mascherina nera, che la rendono meno riconoscibile, mentre lui (che tra Alghero e Sassari gioca in casa ed è molto conosciuto) è sempre a volto scoperto.
Forse, sbagliando, si sentivano al sicuro in quella placida cittadina di mare, e hanno valutato che sarebbe stato molto difficile imbattersi, fuori stagione, e così lontani dalle rotte più battute, in un paparazzo arrivato dal continente.
«Le spiegazioni sono solo due», riflette a voce alta la titolare di una agenzia fotografica che preferisce restare anonima: «O il fotografo che ha fatto lo scoop è stato avvertito per tempo da qualcuno, visto che si trovava già all’aeroporto, oppure è un uomo veramente fortunato, ma di una fortuna quasi incredibile...».
E così si apre un nuovo fronte sul quale esercitare la curiosità: ammesso (e non concesso?) che ci sia stata una soffiata, chi è stato a farla, e soprattutto che interesse aveva a svelare il nuovo flirt di una delle donne più famose e seguite della tv?
Michelle Hunziker insultata da Selvaggia Lucarelli: "Vai a nuotare tra i pesci pagliaccio. Quelle come te..." Libero Quotidiano il 06 marzo 2022.
A cospargere odio contro Michelle Hunziker ci pensa la solita nota: Selvaggia Lucarelli, specialista in materia. Il punto è che la Hunziker, come è noto, si è concessa una vacanza alle Maldive insieme alle figlie, Sole e Celeste, e all'amica e manager, laura Barenghi. Quale la "colpa" della conduttrice? Presto detto: aver detto di sentirsi un poco a disagio nell'andare a godersi sole, mare e relax mentre scoppiava la guerra in Ucraina.
Apriti cielo, vietato dirlo: il prezzo da pagare sono le stilettate gratuite e risibili della Lucarelli. La sacerdotessa del giusto, infatti, passa all'attacco: "Vanno in vacanza alle Maldive – cosa che per giunta non ci disturberebbe – e si sentono in dovere di manifestare disagio per lo scollamento tra la loro vita e quella di chi sta sotto le bombe. Tranquilli, fatevi le vostre vacanze che Zelensky, se fate snorkeling tra i pesci pagliaccio, non si risente", commenta tradendo il suo insopprimibile ed eterno livore.
Ma non è finita. Selvaggia Lucarelli, al meglio del suo peggio, rincara la dose: "Che poi io ho sempre preferito chi va avanti a fare la sua vita e il suo lavoro, piuttosto che chi si sente in dovere di partecipare pubblicamente a un dolore collettivo perché penda che faccia bene alla sua reputazione". E l'ennesima bastonata gratuita è servita. Anche se, ne siamo certi, Michelle Hunziker si farà soltanto una grossa risata.
Da corrieredellosport.it il 6 marzo 2022.
Selvaggia Lucarelli non ha gradito l'ultimo sfogo di Michelle Hunziker sui social network. In vacanza alle Maldive la showgirl svizzera ha ammesso di sentirsi a disagio per via della guerra in Ucraina. “Mi sono svegliata con degli incubi. Sentivo piangere bambini, donne e uomini nel sonno. Provo disagio ad essere in vacanza, so che non posso cambiare le cose ma sento un senso d’impotenza. Penso a tutte le persone che in questo momento stanno fuggendo nelle infinite code per uscire dal Paese", ha raccontato la conduttrice per poi aggiungere: "Ho navigato su internet allo scopo di capire quali fossero i reali motivi che hanno portato a tutta questa violenza. Risultato? Non esistono. Spero che in queste ore possano trovare un accordo per far finire questa guerra. Sono vicina con il cuore alle vittime di una violenza terrificante e incomprensibile“.
Selvaggia Lucarelli non ci sta
Via Instagram Selvaggia Lucarelli ha duramente criticato il comportamento di Michelle Hunziker: "Vanno in vacanza alle Maldive - cosa che per giunta non ci disturberebbe - e si sentono in dovere di manifestare disagio per lo scollamento tra la loro vita e quella di chi sta sotto le bombe. Tranquilli, fatevi le vostre vacanze, che Zelensky se fate snorkeling tra i pesci pagliaccio non si risente".
La giornalista ha concluso: "Che poi io ho sempre preferito chi va avanti a fare la sua vita e il suo lavoro piuttosto che chi si sente in dovere di partecipare pubblicamente a un dolore collettivo perché pensa che faccia bene alla sua reputazione". Al momento la Hunziker non ha ancora replicato alla Lucarelli.
“10 anni…”. Michelle Impossible, alla fine arriva anche il discorso su Tomaso Trussardi: quel particolare. Pubblicato il 24 Febbraio 2022 da caffeinamagazine.it.
E se nella prima puntata quasi tutto si è incentrato sul suo passato e su Eros, nella seconda puntata di Michelle Impossible si parla di presente. Come sappiamo fin troppo bene, la conduttrice svizzera da qualche settimana ha messo fine alla relazione con Tomaso Trussardi, durata circa 10 anni. Finora su di lui nessuna parola, fino a ieri sera. Proprio così: nella seconda puntata qualche parolina su Trussardi l’ha detta. Cose molto scarne, certo, senza mai fare il nome, ma era chiaro si riferisse a lui. Il tutto è successo poco prima dell’entrata di Massimo Ranieri sul palco.
A questo punto Michelle Hunziker ha detto: “In questo periodo mi chiedono spesso come sto. Se penso a quello che sto facendo qua, mi sento a mille e gasatissima, perché questo è sempre stato il mio sogno. Un attimo dopo però mi ritrovo ad affrontare un momento particolare… Sono fortissima e piena di autostima, ma un attimo dopo sono come di vetro, fragile. L’unica cosa che ho capito è che non devo mai assolutamente perdere l’amore per me stessa.
E ancora Michelle Hunziker: “E comunque sono stati dieci intensi che mi hanno regalato Sole e Celeste”. Come avrete potuto leggere, Tomaso Trussardi non è stato menzionato chiaramente, ma è chiaro stesse parlando di lui. La certezza arriva per il riferimento a Sole e Celeste. Se analizziamo bene il suo discorso poi, c’è da sottolineare quel “dieci anni intensi”, riferendosi proprio al periodo che va dal 2011 all’inizio del 2022.
Parliamo di quel lasso di tempo in cui ha comunicato la conclusione del matrimonio con Trussardi. Sembra proprio che Michelle Hunziker abbia colmato quella lacuna che la settimana scorsa si era fatto sentire. C’è da dire poi, che con grande eleganza e superiorità, il diretto interessato non ha fatto nessuna esternazione.
Neanche quando, Michelle Hunziker ha baciato in diretta nazionale il suo ex, proprio su quel palco. Solo prima della trasmissione, l’imprenditore bergamasco aveva consigliato al cantante romano di “rimanere al proprio posto”. È lì, in quel preciso istante, che tutti hanno capito che c’era qualcosa di davvero molto strano tra quei tre.
Pubblicato il 24 Febbraio 2022 da caffeinamagazine.it.
Eros - cuore - Michelle. La minestra riscaldata che fa impazzire le vegliarde. Guia Soncini su L'Inkiesta il 18 febbraio 2022.
Il cantante e la conduttrice, il primo marito e l’amore eterno. Sono gli ingredienti della soap che piace di più a una certa età, quando tifare per un ritorno di fiamma è grandemente più presentabile che ormonare per i diciottenni sanremesi
da Youtube.
Carne giovane e vecchi amori: a questo siamo sensibili, molto più che a tutto il resto. E il plurale sta per: noi esseri umani; ma anche e soprattutto per: noi vegliarde che ci agitiamo nelle poltrone del teatro per Gianni Morandi, o davanti ai televisori per Blanco (l’André di Lady Oscar che era a Sanremo con Mahmood), o per la messinscena amorosa di Michelle Hunziker e Eros Ramazzotti.
Partiamo dall’ultima, perché è la più recente e perché è quella in cui più spiccatamente coesistono i due elementi: la giovinezza apparente della carne, il minestrariscaldatismo della coppia.
Michelle Hunziker fa due puntate di varietà, la prima delle quali fa fare a Canale 5 i numeri di quando Canale 5 esisteva (di quando esisteva come altro da: hai presente quella landa desolata che c’è attorno al regno della De Filippi?).
Per raggiungere il risultato (così la vogliamo: bionda e spietata come il conte di Montecristo), usa l’arma fine di mondo: chiama a sé l’ex marito. Quello che aveva sposato nel castello, quello che cantava per lei “Più bella cosa”, quello così adorabilmente burino (quando comparse giovanotto a Sanremo, con certi jeans scaciati che solo ai bordi di periferia, mio padre guardò il televisore e borbottò: ma questo pensa d’esser spiritoso?).
Insomma, entra Eros Ramazzotti, e i due fanno il testo, il contesto, il sottotesto, e pure l’ipertesto. Ma secondo te perché continuano a scrivere che torniamo insieme, finge di chiedere lei. Perché non si fanno i cazzi loro, finge di sbottare lui. Le vegliarde impazziscono. Nulla piace alle vegliarde quanto un ritorno di fiamma, persino quando sembra una televendita come quello di Jennifer Lopez e Ben Affleck.
Oltretutto tifare per la minestra riscaldata è grandemente più presentabile che ormonare per i diciottenni sanremesi, uno spettacolo patetico offerto da noialtre carampane che per giorni abbiamo scritto di quel povero Blanco cose che, se i nostri coetanei le avessero scritte d’una diciottenne, ne avremmo chiesto la carcerazione col 41 bis.
Poi, dopo Sanremo, l’abbiamo buttata in «i giovani ci salveranno» e altre stronzate, perché dire che eravamo loro grate per essersi vaccinati ci pareva verosimile, certo: ne apprezziamo il senso civico, mica siamo arrapate. Mica abbiamo l’ottundimento del raziocinio che da sempre caratterizza i cinquantenni maschi davanti alla carne giovane. Mica c’è la parità.
Vorrei rassicurare le mie coetanee: il ridicolissimo desiderio di carne giovane non è più ridicolo del desiderio per coetanei non alla nostra portata. Le vecchie che in platea al Duse ci manca poco lancino le mutande a Morandi sono tali e quali a quelle che le lancerebbero a Blanco, anche se l’oggetto del loro desiderio è loro coetaneo: un poster è un poster sempre, che abbia pochi anni o cento (alle elementari avevo un poster di Julio Iglesias, le amichette dicevano «ma è un vecchio», era uno splendido quarantenne).
Oltretutto l’oggetto del desiderio irraggiungibile è anche piuttosto comodo, per bramarlo non devi farti la messinpiega casomai lo incontrassi al supermercato, né la ceretta casomai lui si decidesse a metterti le mani nelle mutande, né devi tenere in ordine casomai decidesse di farti un’improvvisata. La cotta per il poster è la versione antica di Tinder: tutto virtuale e nessun disturbo (sì, lo so che là fuori c’è gente così cafona da frequentare davvero quelli che incontra su Tinder, ma non è che possiamo occuparci dei casi limite).
Meglio della cotta per il poster c’è solo l’ex con cui tutti vogliono vederti tornare. Eros sta a Michelle come Brad sta a Jennifer: non importa quanti altri mariti, mogli, figli, cani, gatti, comunioni dei beni tu abbia avuto nel frattempo, per il pubblico sarai sempre e comunque quella che Eros (o Brad) se lo deve portare fino alla tomba.
Se hai avuto un ex sufficientemente ingombrante, non dovrai mai più preoccuparti della principale ragione per cui ci si accoppia: non essere la zitella che nessuno ha voluto, quella che quando non avevamo paura delle parole si chiamava «la rimastona».
Michelle lunedì aveva instagrammato, per san Valentino, un video sul fatto che la nostra più grande storia d’amore è quella con noi stesse (una volta per sentirci dire queste stronzate compravamo le riviste femminili; adesso ce le dicono gratis le tizie famose su Instagram: se non è progresso questo). Il video aveva poco più di quarantott’ore e le italiane le dicevano che no: la sua più grande storia d’amore era quella col suo primo marito. Da quella grande storia d’amore poteva distoglierci solo una cosa: la tonicità dei bicipiti di Michelle.
Michelle Hunziker ha diciannove anni quando fa una figlia con Eros Ramazzotti, ventuno quando si sposano, venticinque quando si separano. Adesso che ne ha quarantacinque, lo riceve nel programma che conduce, si fa cantare la canzone che le ha dedicato, lo abbraccia, e ha braccia da venticinquenne particolarmente in forma. Lui ha cinquantotto anni, e sembra un suo zio un po’ sfatto, di quelli che fanno le gaffe al pranzo di Natale ma gli sei affezionata comunque. Certe minestre riscaldate sono indistinguibili dalle rive dei fiumi.
Michelle Hunziker, "quanto prende al mese da Tomaso Trussardi": soldi, indiscrezioni clamorose dopo la rottura. Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022.
Da quando hanno annunciato ufficialmente la loro separazione, inevitabilmente il gossip si è scatenato su Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi. Stando a quanto riportato da lettoquotidiano.it, le ultime indiscrezioni riguardano addirittura la presunta cifra che Trussardi verserebbe ogni mese alla showgirl: si parla di circa 10mila euro al mese, che l’ormai ex marito corrisponderebbe a Michelle per contribuire in modo equo alle spese per la crescita delle loro figlie.
Può sembrare una cifra monstre, ma è proporzionata allo stile di vita di quella che è stata una bellissima coppia per circa un decennio. Adesso la Hunziker è tornata in tv con un “one woman show” dal titolo “Michelle Impossible” che è stato accolto benissimo dai telespettatori. Anche perché nella prima delle due serate in cui è andata in onda su Canale 5, la Hunziker ha dato vita alla reunion con Eros Ramazzotti.
L’ex coppia si è scambiata parole amorevoli e anche un dolce bacio. Inoltre Michelle pare abbia voluto lanciare una frecciatina a Trussardi quando ha svelato un piccolo aneddoto su “Più bella cosa non c’è”, la canzone che Ramazzotti le ha dedicato: “Quante volte avrei voluto cantare quella canzone e non potevo. Mi sono negata questa gioia pensando di ferire qualcuno o mettere in imbarazzo qualcun altro, ora vorrei concedermi il lusso di cantarla”.
Anticipazione da “Chi” il 30 Agosto 2022.
In esclusiva sul prossimo numero di Chi, in edicola da domani mercoledì 31 agosto, una lieta notizia: Aurora Ramazzotti è in dolce attesa. Proprio Chi, poche settimane fa, aveva riportato che Michelle Hunziker e sua figlia avevano acquistato, in una farmacia in Sardegna, un test di gravidanza.
Ebbene: il test era per Aurora che, dopo cinque anni di relazione con Goffredo Cerza, di professione business analyst, aspetta un bebè e diventerà mamma a gennaio.
Michelle Hunziker ed Eros Ramazzotti, genitori di Aurora, hanno confidato agli amici di essere felicissimi perché la famiglia ancora una volta si allarga; entrambi hanno vissuto la notizia della gravidanza con una forte emozione. In questo periodo si era vociferato anche di un ritorno di fiamma tra la conduttrice e il cantante che aveva fatto sognare i fan. Ma tale non era. Il riavvicinamento è, in realtà, frutto di questa splendida novità.
Aurora Ramazzotti è incinta, chi è il fidanzato Goffredo Cerza: l’annuncio della gravidanza. Elena Del Mastro su Il Riformista il 30 Agosto 2022
Aurora Ramazzotti, 25 anni, starebbe per diventare mamma. Lo ha annunciato in esclusiva il settimanale “Chi?”. La figlia di Michelle Hunziker,45 anni e di Eros Ramazzotti, 59, dovrebbe diventare mamma a gennaio. La show girl figlia d’arte molto attiva sui social in verità non ha confermato la notizia e nemmeno i suoi genitori sui social. Certo è che ha una relazione sui social dal 2017 con Goffredo Cerza, 26 anni, romano, business analyst.
Nelle scorse settimane era trapelata una indiscrezione: in vacanza in Sardegna Aurora e la mamma sono state pizzicate in una farmacia intente nell’acquisto di un test di gravidanza. Di Goffredo Cerza non si sa moltissimo ma compare spesso negli scatti pubblicati da Aurora. Secondo quanto ricostruito dal Corriere della Sera, Goffredo Cerza ha 26 anni ed è romano. A Roma si è diplomato alla Marymount International School, poi però si è trasferito a Londra dove ha studiato Ingegneria Elettrica alla University of London. Si è laureato ma non si è fermato. Ha proseguito gli studi alla Hult International Business School, dove ha terminato un master in International Business. Ora lavora come Marketing Manager e Business Analyst. Appassionato di fitness, auto e moto, ama molto gli animali e spesso dedica post a Saba e Kida, i gatti di Aurora.
I due si sarebbero incontrati a Londra tramite un’amica in comune. Durante la pandemia Aurora era in Italia, mentre lui si trovava in Inghilterra. Così pare che Goffredo sia tornato a Roma per stare vicino alla fidanzata. I due convivono da qualche anno.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Dagospia il 18 marzo 2022. COMUNICATO STAMPA.
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziose, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Intervistate con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci ed ombre delle sue ospiti.
Intervista vera e toccante alla figlia d’arte per eccellenza, Aurora Ramazzotti, notissima e seguitissima influencer con più di 2 milioni di followers. Aurora racconta della sua adolescenza, dei turbamenti, delle polemiche social che ha scatenato e dei problemi alimentari. Sollecitata dalle domande della Fagnani, arriva a parlare con sincerità del suo periodo difficile, ricorda di quella volta in cui finì in coma etilico: “sono stata malissimo, mi hanno portato via in autombulanza, non ricordo nulla, non mi è stata fatta la lavanda gastrica, quindi tecnicamente non sarei finita in coma etilico, ma il dottore mi disse che avevo un tasso alcolemico così alto che avrebbe ammazzato un uomo adulto: non so se sei miracolata o hai il fegato di ferro”.
Aurora Ramazzotti in merito alla recente dichiarazione di Tomaso Trussardi sul raffreddamento dei rapporti dopo la separazione con Michele, ammette che “non sento io nostro rapporto compromesso, è il papà delle mie sorelle, gli ha sempre voluto molto bene quindi sicuramente le cose si sistemeranno”. E di seguito interrogata sul presunto e poi smentito ritorno di fiamma tra i suoi genitori, Eros e Michelle afferma che “non ho mai fatto il tifo, non riesco a immaginarmeli insieme, per come me li ricordo sono due persone incompatibili”.
Anche se poi rivela che una gioia che ancora ricorda è quella di aver passato il compleanno con entrambi i suoi genitori. Un ritratto a tutto tondo, insomma, contraddittorio e ricco di sfumature, nel quale Aurora Ramazzotti confida con sincerità e consapevolezza, le difficoltà di crescere come figlia d’arte, del complicato ma forte rapporto con la mamma, della continua ansia di prestazione che la caratterizza e del desiderio di diventare infine una “intrattenitrice””.
Serenella Bettin per “Libero quotidiano” il 9 agosto 2022.
Se digiti "Aurora Ramazzotti" su Google, vien fuori di tutto e di più. Il topless alle Isole Eolie - ma questo non si può dire scandalizzi. Lo sfogo contro Trenitalia, «...benvenuti a bordo un c....». E poi l'ultima, che in effetti ha innescato una notevole discussione sui social: «Gli uomini non sanno dov' è il clitoride? Diteglielo, altrimenti è colpa vostra». Ecco, non certo perfomance artistiche di un certo calibro, ma Aurora - scaltra e sveglia - ha evidentemente capito che fanno parlare. Anzi, fanno rumore. E lei diventa protagonista.
Il tutto inizia con un esilarante siparietto pubblicato sulle sue storie Instagram, dove la Ramazzotti - figlia di Eros e di Michelle Hunziker si esibisce in un'imitazione degli uomini che sarebbero convinti di sapere dov' è il clitoride ma, in realtà, avrebbero le mani da tutt' altra parte. E per fortuna che ce l'ha ricordato lei, si potrebbe dire. Una volta queste cose si apprendevano dal giornaletto adolescenziale "Cioè", dove la maggior parte delle volte le domande delle lettrici, ragazzine terrorizzate dagli sguardi degli adolescenti, erano del tipo: «Se il mio ragazzo mi bacia con la lingua posso rimanere incinta?». Fatto sta che Aurora pare abbia deciso di sostituirsi a "Cioè" ma in versione social, e offre lezioni gratuite di comunicazione sessuale.
REPRIMENDA La showgirl scrive sul video sopracitato: «Lui che sfrega le labbra pensando di beccare il clito...». E aggiunge: «Ok, fa ridere, ma se poi non gli dici dove sta sbagliando hai più colpe tu di lui che è solo vittima di essersi addormentato durante la classe di anatomia». Poi ancora: «Non abbiate paura di parlare, indicare, insegnare cosa vi piace, così facendo aiuterete la prossima amica e contribuirete a un mondo sessualmente migliore». Insomma, un vero e proprio monito alle donne, che in effetti sempre sui social fa già discutere parecchio, fra il serio e il faceto. Anche perché a parlare di sesso ci si azzecca sempre.
Pare sia l'argomento prediletto di Aurora, questo. Di recente, appena qualche mese fa, intervistata da Le Iene a proposito del suo rapporto col fidanzato, nell'epoca in cui si mette in piazza tutto, ha dichiarato di avere rapporti almeno cinque volte a settimana. Buon per lei - anche se, in effetti, a noi telespettatori frega poco o niente.
Poi, ci fu la "battaglia" per i "capezzoli in libertà", in inglese "free the nipple", per la verità in questo aizzata da alcuni followers che le avevano fatto notare una sua foto in cui, sotto la maglietta, si capiva che non portava il reggiseno.
E dei suoi percorsi nel mondo dello spettacolo, e della televisione in particolare, che cosa si può dire? Poco o nulla, in realtà. In un'intervista al Corriere, la figlia di Eros e Michelle Hunziker ha ironicamente definito la sua una «raccomandazione genetica»: cioè, lei la raccomandazione ce l'ha nel sangue. Del resto che ci puoi fare, con quei due genitori famosi alle spalle, non può farci niente.
Poche settimane fa ha anche risposto, a chi le rinfacciava di essere una raccomandata - postando un video rap su TikTok che recitava: «Se non facessi Ramazzotti di cognome potrei essere un numero infinito di persone»- ha risposto piccata: «...Se non facessi Ramazzotti di cognome magari non sarei proprio nessuno, c'hai ragione, ma nella ruota delle probabilità c'è l'ipotesi che invece non mi rompereste il c....». Alè.
Dicevamo dei suoi tentativi televisivi. Nel 2021 "Mystery Land", il programma da lei condotto con Alberto Bonato alias Alvin, dopo due puntate venne cancellato dai palinsesti per i deludenti risultati in termini di share: fece il 4% il giorno del debutto e la puntata successiva il 2,8%. Come si dice nel gergo, giusto per rimanere in tema: andò in bianco.
L'ULTIMO CONCERTO L'ultima sua apparizione in video risale a circa un mese fa: ha condotto con Elenoire Casalegno, LOVEMI, il concerto di beneficenza organizzato da Fedez e J-Ax. Al termine della serata venne attaccata sui social, con in tanti che le consigliavano di cambiare mestiere. Ma gli haters si sa, sono dietro l'angolo, e qualunque cosa tu faccia, non va mai bene niente. Resta il fatto che noi la preferivamo in versione cantata: "Sarà l'Aurora".
Da today.it l'8 Agosto 2022
Aurora Ramazzotti torna a parlare di sesso. La figlia di Eros Ramazzotti e Michelle Hunziker, che solitamente è al centro di polemiche per gli attacchi degli haters che la considerano solo una raccomandata, questa volta decide di cambiare argomento e sceglie di dare qualche consiglio a tutte le donne che non sono soddisfatte della propria vita sessuale.
Non è la prima volta che la venticinquenne, con il sogno di diventare presentatrice proprio come mamma Michelle, tratta questo argomento che, spesso, fa parte dei suoi dibattiti social. Questa volta, però, Aurora sceglie di parlare di sesso durante un viaggio in treno e prova a dare qualche prezioso consiglio a tutte le donne che hanno qualche problemino sotto le lenzuola spiegando loro cosa fare per migliorare i rapporti intimi con i propri partner. Argomento scottante: la posizione del clitoride, spesso sconosciuta agli uomini.
Il tutto, infatti, è iniziato con un siparietto ironico dove la Ramazzotti, sulle sue stories Instagram, fa un'imitazione simpatica degli uomini che sarebbero convinti di sapere dov'è il clitoride ma, in realtà, avrebbero le mani da tutt'altra parte. "Lui che sfrega le labbra pensando di beccare il clito" scrive la giovane donna sul video dove affronta il tema e, subito dopo, dà una bella lezione di sesso e comunicazione alle donne.
"Ok, fa ridere ma se poi non gli dici dove sta sbagliando hai più colpe tu di lui che è solo vittima di essersi addormentato durante la classe di anatomia" commenta la Ramazzotti nella sua storia successiva, facendo ricadere, così, le colpe dell'insoddisfazione sessuale femminile alle stesse donne che, molto spesso, hanno paura di parlare e dire ai propri uomini che stanno sbagliando qualcosa in fatto di sesso.
"Non abbiate paura di parlare, indicare, insegnare cosa vi piace", sottolinea, ancora, Aurora, "così facendo, aiuterete la prossima amica e contribuirete a un mondo sessualmente migliore".
Federica Portoghese per leggo.it l'8 Agosto 2022
Aurora Ramazzotti super sexy tra le rocce di Panarea. Due scatti che infiammano il web: seno al vento, le mani che coprono i capezzoli e il riferimento nella didascalia al movimento "free the nipple". L'influencer si fa fotografare dall’amico Jonathan Kashanian, ex gieffino, che ironizza con un commento sotto il post di Aurora: «Scusa i crediti? ho rischiato un dito per queste foto».
In vacanza alle Eolie con Aurora, è infatti presente anche il fidanzato Goffredo Cerza e l’amica Sara Daniele. La comitiva sembra divertirsi in catamarano tra momenti divertenti, pranzi lunch, balletti e relax. La figlia di Michelle Hunziker ed Eros Ramazzotti si fa rapire dai paesaggi suggestivi e si concede qualche scatto.
Provocatrice, bella e sensuale, Aurora si mostra in tutta la sua naturale bellezza sfidando ancora una volta i commenti "pungenti" degli hater. Intanto arrivano i primi commenti d'apprezzamento, e non manca il like di mamma Michelle.
Ramazzotti ha ragione. In tanti hanno criticato Aurora Ramazzotti per aver affermato su Instagram che gli uomini non conoscono la posizione del clitoride. Ma siamo sicuri che a sbagliare sia lei? Giulia Mattioli La Repubblica l'8 Agosto 2022
Aurora Ramazzotti non si fa problemi a dire quello che pensa, e usa i social per esporsi su diversi argomenti, tra cui la celebrità, il rapporto con il corpo, il cat-calling, la sessualità. Lo fa nonostante le critiche che gli haters le riservano ogni volta che si esprime, fatto accaduto anche in questi giorni dopo aver pubblicato alcune stories su Instagram in cui, in modo ironico, parlava di clitoride. Per la precisione, canzonava gli uomini che non sanno dove si trovi questa parte così importante dell'anatomia femminile, aggiungendo che le donne dovrebbero insegnare loro a rintracciarla, se necessario. Il punto era “Non abbiate paura di parlare, indicare, insegnare cosa vi piace. Così facendo, aiuterete la prossima amica e contribuirete a un mondo sessualmente migliore”.
Da un lato, Aurora Ramazzotti voleva parlare della scarsa conoscenza del piacere femminile, dall’altro esortare le donne a comunicare ciò che desiderano, condizione che moltissime esperte ed educatrici sessuali sostengono. Eppure, le stories di Aurora Ramazzotti non sono piaciute a molti utenti, indispettiti dall’accusa di non sapere dove si trovi un clitoride – e quindi dall’insinuazione di non saper dare piacere a una donna. I commenti più soft, tra Facebook, Instagram e Twitter (dove l’argomento è diventato immediatamente un trending topic), sono del tenore “Ma che uomini hai incontrato finora?” oppure dei sempreverdi inviti a tacere, mentre quelli ironici suggeriscono di usare Google Maps per farsi dare indicazioni. Purtroppo ce ne sono anche moltissimi meno gentili, addirittura aggressivi, denigratori e violenti.
Aurora Ramazzotti ha evidentemente toccato un nervo scoperto, eppure sul web si sprecano i meme e le discussioni (Reddit è piena di thread a tema) su quanto la conoscenza dell’anatomia femminile scarseggi, per usare un eufemismo. Il tema dell’uomo che non sa trovare il clitoride è ampiamente dibattuto ed elaborato, sia da importanti sessuologhe, ginecologhe, attiviste, sia dalle utenti dei social. E persino dalle statistiche e dagli studi. A onor del vero non sono solo gli uomini ad ignorare il posizionamento esatto del clitoride, ma anche molte donne, perché il tema del piacere femminile è un tabù culturale le cui conseguenze ricadono su entrambi i generi.
Come riporta il Guardian, una recente indagine (2021) ha evidenziato che almeno un terzo delle persone nel Regno Unito non sa dove si trova il clitoride: circa il 40% dei soggetti a cui era stato chiesto di nominare le parti anatomiche della vulva lo ha mancato, spesso confondendolo con l’uretra. Lo studio è stato pubblicato sull’International Urogynecology Journal. Un altro studio, condotto nel 2013 e pubblicato sulla rivista medica Jama, ha riscontrato che il 44% degli uomini presi a campione non sapeva individuare il clitoride, e in generale ha registrato una scarsa conoscenza della ginecologia.
Non ha valore scientifico, ma il sondaggio divenuto virale nel 2019 condotto da un’utente su Twitter (Oloni, autrice ed esperta di sessualità) ha scoperchiato un vaso di Pandora: dopo aver pubblicato un’immagine stilizzata di una vulva, ha chiesto agli uomini di indicare la posizione del clitoride. A fronte di diverse risposte corrette, alcune delle reazioni che si leggono sono esilaranti (“La vagina nell’immagine è deformata”), moltissime confondono il clitoride con l’uretra, e svariate esprimono totale disorientamento.
Qualche mese fa Jimmy Kimmel, il celebre presentatore televisivo americano, ha mandato in onda un breve sondaggio fatto per strada, in cui sono state rivolte ai passanti domande relative all’anatomia femminile: la correttezza delle risposte è a dir poco scarsa (c'è chi pensa che le donne abbiano due uteri e quattro ovaie, per fare un esempio). Ci sarebbe da ridere, se poi la stessa ignoranza non fosse accessorio di chi legifera in materia di riproduzione, commentano in molti sotto il video.
Sono esempi certamente non rappresentativi del mondo intero o dell’universo maschile in toto, ma danno la percezione del fatto che gli uomini non conoscano la vulva, e non sappiano davvero dove si trova un clitoride. Non sarebbe dunque solo un’idea di Aurora Ramazzotti. E non è un caso, visto che la sessualità femminile è storicamente stata permeata di tabù e il clitoride è diventato oggetto di studio e di aperta discussione solo da poche decine di anni.
“A causa della cultura repressiva, fino a cinquant’anni fa le donne nemmeno sapevano di avere un clitoride”, spiega Sheri Winston, ginecologa ed educatrice sessuale. “Come possono trovarlo gli uomini se a malapena si sa che c’è?”. Insomma, anziché aggredire Aurora Ramazzotti per aver detto una cosa che tutte le donne, o quasi, sanno, forse sarebbe il caso di cercare meglio.
Aurora Ramazzotti: «Figlia di? Ho perso dei lavori per questo. Ma è bellissimo che i miei siano tornati amici». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 26 Giugno 2022.
Martedì conduce su Italia 1 «Love Mi», il concerto ideato da Fedez: «Il mio problema è che non mi sento mai all’altezza, ho la sindrome dell’impostore».
Doppia figlia d’arte, il suo destino è essere preceduta dall’ombra dei genitori: un privilegio o un peso? «Un privilegio perché hai la fortuna di crescere nell’agio economico e sociale, di vivere situazioni bellissime di cui sono riconoscente; nel lavoro invece un peso: non sono mai stata raccomandata, anzi ho perso anche alcuni lavori proprio perché c’era chi voleva evitare polemiche. Alle persone — a prescindere, senza conoscermi — io sto sulle palle». Aurora Ramazzotti Hunziker (con le nuove norme sul doppio cognome sarebbe ancor più spacciata) ha le stimmate della «segnalata» par eccellenza: la chiamano per merito dei suoi genitori, Eros e Michelle, o per meriti suoi? «Ormai rido di questa cosa, però mi ha creato non pochi problemi, partono tutti prevenuti, già dal mio nome, la figlia di, viziata».
Quale pensa essere sia il suo talento? È la conduzione la strada da percorrere?
«È una domanda che mi pongo spesso anche io. Oltre alla tv, ci sono i social, le piattaforme; il mondo dei media e dell’intrattenimento sono cambiati tantissimo, non c’è più la categoria di conduzione come la sognavo io da bambina vedendo mia madre in tv. La verità è che non è stato fatto un lavoro di ricambio generazionale: chi prenderà il posto di quelli che ci sono oggi? Mi piace pensare di poter arrivare a un intrattenimento a tutto tondo, all’americana, partendo dalla comunicazione su Instagram che al momento è il fulcro del mio lavoro».
Mai pensato di seguire le orme di suo padre?
«La musica è la mia prima passione, la più grande, ma ho sempre avuto una grande paura di intraprendere quel percorso, anche perché mio papà mi ha sempre frenato per proteggermi, consapevole della cattiveria di certe persone. Ho studiato tanto canto, ma sono cresciuta con questa inibizione».
Martedì sarà sul palco di «Love Mi», il concerto benefico ideato da Fedez (in diretta su Italia 1 dalle 19) come conduttrice.
«Sarà la mia prima conduzione in diretta, è una bella sfida. Sono contenta di essere affiancata da Elenoire Casalegno che ha molta più esperienza di me, farò affidamento su di lei. Il mio problema è che non mi sento mai all’altezza, ho la sindrome dell’impostore che mi fa pensare che non mi meriti certe opportunità».
Qualche tempo fa ha detto che si sentiva sopraffatta dal futuro.
«Le persone tendono a pensare che se sei fortunato e hai una vita agiata non sei titolato a soffrire, perché loro soffrono di più. La mia paura è non essere all’altezza di quello che si aspettano gli altri, il lavoro che ho scelto si definisce tramite il giudizio delle altre persone, il pubblico decide se vai avanti o meno. Io ho tante insicurezze, anche per essere figlia d’arte. A volte mi chiedo se ho scelto il percorso giusto, dietro le quinte succedono tante cose che non si possono dire ma che possono essere dolorose».
Il suo medium è Instagram, ha oltre 2 milioni di follower, un’alternanza tra esperienze personali e post di marketing: la via del business è questa?
«Cerco di utilizzare i social per farmi conoscere in maniera più spontanea, della mia vita privata non metto nulla, solo il mio fidanzato con cui sto ormai da sei anni. I social non sono la vita vera, ma cerco di essere il più vera possibile».
Quante «non verità» ci sono nel suo profilo Instagram?
«Non le definirei “non verità”, piuttosto omissioni. Io vorrei essere al 100% me stessa, ma anche dagli errori del passato — che ora non voglio rivangare — ho capito che non posso dire tutto. Nella vita sono più cinica e pungente di quello che mostro sui social, ma so che mi devo tappare la bocca. Sui social quindi non mento, al massimo ometto».
Instagram è il regno della contraddizione: tanti che parlano della necessità di accettarsi, ma poi usano foto patinate. Lei ha mostrato il suo volto con l’acne, ma posta anche foto con i filtri. Qual è il punto di equilibrio?
«Anche io sono stata vittima del voler mostrare il meglio di me, ma pubblicare la mia foto con l’acne ha segnato un punto di svolta, un cambiamento per me stessa. Ho sofferto anche di disturbi alimentari, e ne ho parlato perché è costruttivo discuterne. La perfezione non esiste, ma non significa mostrarsi sempre “a schifo”, l’equilibrio è sempre difficile da raggiungere, ognuno ha il suo».
Nella bio si definisce «colei che ha inventato quel fatto che non si fischia alla donna».
«Era un commento letto su Facebook, la battaglia contro il cat-calling è una delle discussioni virali che mi ha fatto conoscere al grande pubblico inconsapevolmente, senza che lo cercassi. Era un commento che ha avuto una risonanza incredibile, ma non dipendeva da me: dipendeva dal fatto che è un tema divisivo di cui molti volevano parlare».
Tanto per tornare ai suoi genitori: ora è protagonista anche del nuovo video di suo papà, «Ama».
«È stata una sua idea, ha fatto una sorpresa a me e a mia mamma perché ci siamo ritrovate sul set senza sapere una dell’altra. È stato un gesto di cuore; nell’ultimo anno sono cambiate tante cose, loro sono tornati a essere amici e per me è una sensazione bellissima. L’anno scorso per la prima volta dopo tanti anni abbiamo festeggiato tutti insieme il mio compleanno, è un cerchio che si chiude, per me e per loro; è anche un bel messaggio per i tanti che si separano e pensano che non si recupereranno mai i rapporti».
La critica che la ferisce di più?
«Le critiche costruttive le accetto, mentre non smette di ferirmi che mi diano della raccomandata: purtroppo è nel mio sangue, ci sono nata, fin da prima che iniziassi a fare questo lavoro, che poi ha amplificato ancor di più questo coro. La mia missione — impossibile — è far cambiare l’idea che le persone hanno di me: so che nessuno può piacere a tutti, ma questa percezione continua a farmi male. E so che una piccola parte di me continuerà a voler far cambiare l’opinione degli altri e dimostrare che si sbagliano».
"Il mio tasso alcolemico...". Le parole choc di Aurora Ramazzotti. Novella Toloni il 18 Marzo 2022 su Il Giornale.
La figlia di Eros Ramazzotti ha svelato di essere quasi finita in coma etilico dopo una sbronza quando era ancora minorenne.
"Della droga ho molta paura, l'alcool invece l'ho sempre frequentato". Aurora Ramazzotti ha ironizzato sulla sua preferenza per i superalcolici nell'ultima intervista rilasciata a Belve, il programma di Francesca Fagnani in onda ogni venerdì su Rai Due. Il sorriso ha lasciato però il posto alla serietà, quando la figlia di Michelle Hunziker ha raccontato di quando finì in ospedale, ancora minorenne, per una brutta sbornia.
Aurora ha ammesso di avere alzato più volte il gomito e di avere superato il limite in più di un'occasione. "Fino a che punto", l'ha esortata a confidarsi la conduttrice di Belve, ricevendo per contro il racconto di un episodio specifico, che la Hunziker rivelò qualche anno fa, facendola finire nell'occhio del ciclone. "Mi è successo di essere ricoverata per questo - ha spiegato la Ramazzotti - mia madre lo ha raccontato in passato. Però se vai a dire che tua figlia è andata in coma etilico poi è logico che per due anni a seguire tua figli è l'ubriacona".
"Lei troppo severa, io ribelle..." Aurora e il rapporto con Michelle
Aurora Ramazzotti non ha criticato la madre, ma è tornata con la memoria a quando Michelle raccontò i fatti in un'intervista di alcuni anni fa e lei finì al centro delle polemiche. A Belve la 25enne ha ricordato quei giorni con la sua personale versione dei fatti: "Devo dire che sono stata malissimo e mi hanno portato via in ambulanza. Ero minorenne quindi mi hanno portato in pediatria. Non mi ricordo molto, ma il medico il giorno dopo mi ha detto che avevo un tasso alcolemico che un uomo adulto forse sarebbe morto. Mi disse: "Non so se sei una miracolata o hai il fegato di ferro'".
Un racconto meno doloroso di quello fatto da Michelle Hunziker nel 2018, quando confessò l'accaduto sulle pagine della rivista Oggi: "Una sera è successo quello che noi mamme temiamo: ero al nono mese di gravidanza di Sole e mi è arrivata la fatidica telefonata alle due e mezza di notte. Auri si era sentita male e aveva perso i sensi a causa dell'alcol. Quando sono arrivata in ospedale era attaccata all’elettrocardiogramma e ai tubi". A Belve Aurora Ramazzotti ha smorzato i toni della vicenda, ma in molti ricordano il rapporto con la madre descritto da lei stessa come difficile e complicato a causa della rigidità della conduttrice e del suo essere "ribelle".
Da liberoquotidiano.it il 18 febbraio 2022.
Un gesto clamoroso, che tradisce un certo grado - assai elevato, in verità - di nervosismo: Tomaso Trussardi, infatti, ha "defollowato" sui social Michelle Hunziker e Aurora Ramazzotti, la sua ex e sua figlia. Insomma, ha smesso di seguirle sui social. Un dettaglio che la dice lunga su quanta possa essere stata traumatica la rottura dopo dieci anni di relazione. Un dettaglio che ovviamente infiamma il gossip.
Tomaso non è molto attivo sui social, eppure ha scelto di non seguire più le due. Con la Hunziker, nell'unione durata dieci anni, ha avuto due figlie, Celeste e Sole, delle quali sui suoi profili ha postato qualche immagine di famiglia.
Ora la decisione di non seguire più una parte dei suoi affetti. E il sospetto è che dietro al passo indietro possa esserci quanto accaduto nel corso della prima puntata di Michelle Impossibile su Canale 5, ossia il bacio in bocca a stampo tra la Hunziker e il suo ex, l'altro ex, Eros Ramazzotti, padre di Aurora. Bacio che, va da sé, ha parimenti fatto impazzire il gossip.
In una recente intervista al Corriere della Sera, Trussardi aveva affermato: "So che dice di voler aiutarla a superare le negatività, ma forse avrebbe dovuto esserci in altri momenti. Meglio che ognuno stia al suo posto: già in passato ha mancato di rispetto a tutta la famiglia quando, durante una intervista con Pio e Amedeo, alla domanda sul perché Michelle fosse sempre sorridente ha risposto: A letto con me non rideva’". Già, con Ramazzotti non correva buon sangue. Affatto...
Francesco Davide Zaza per ilsussidiario.net il 17 febbraio 2022.
È successo di tutto a “Michelle Impossible“. Dopo l’inatteso bacio tra Michelle Hunziker ed Eros Ramazzotti arriva un altro clamoroso osculo: quello tra Ilary Blasi e la showgirl italo-svizzera. Dopo essersi presa la scena con un divertente monologo, la conduttrice de “L’isola dei famosi” è stata coinvolta da Michelle Hunziker in una danza sfrenata sulle note di un brano, cantato da Giacomo Voli, vincitore di “All Together Now”.
Le due icone Mediaset hanno ballato con due ottimi ballerini e a fine esibizione Ilary Blasi ha sorpreso l’amica stampandole un bacio in bocca. La protagonista del “One Woman Show” è stata presa dall’incredulità tra le risate fuori controllo dell’amica: “Ma che fai!“. Il commento ironico non si è fatto attendere: “Beh tra i due litiganti…”
Fabio Morasca per tvblog.it il 17 febbraio 2022.
“Non sarà una celebrazione…”.
E invece sì.
Sostanzialmente, lo è stata.
Non che ci sia nulla di male in uno show autoreferenziale o che ci sia qualcosa di tremendamente sbagliato nel celebrare la propria carriera e i risultati raggiunti nella propria vita ma si sono rivelati sufficienti i primissimi minuti di questa prima puntata di Michelle Impossible per smentire la sopraccitata dichiarazione che Michelle Hunziker ha concesso a Tv Sorrisi e Canzoni.
La prima serata di Michelle Impossible è stata uno show con il quale il pubblico di Canale 5 ha rimemorato i capitoli più rilevanti della vita professionale e privata della conduttrice e showgirl svizzera, dal celebre manifesto pubblicitario di Roberta fino ad arrivare alla storia d’amore con Eros Ramazzotti, passando anche per gli “scheletri nell’armadio”, come un tentativo non andato a buon fine di sfondare come popstar o il celebre film cult-trash Alex l’Ariete.
Va bene l’autocelebrazione, ma un one-woman-show, detto francamente, rimane un’altra cosa.
Michelle Impossible si è presentato al pubblico con un’esplosione di retorica, con le immagini del primissimo provino di Michelle Hunziker sostenuto a Mediaset e una frase banalmente motivazionale degna di un campione olimpico fresco di medaglia (“Fate attenzione a ciò che desiderate anche quello che sembra impossibile potrebbe avverarsi”).
Va bene l’autocelebrazione, come scritto in precedenza, ma una serata intera caratterizzata da ampollosità e alterigia non sarebbe stata propriamente il massimo (e fortunatamente non è stato così).
L’inizio, però, come già anticipato, non è stato dei migliori, partendo anche dalla non-ospitata di Maria De Filippi che ha preso in mano il timone dello show, raccontando la storia personale di Michelle Hunziker e relegandola ad ospite nel suo stesso programma.
Qui, è da sottolineare un corto circuito che si è generato tra gli ultimi varietà trasmessi da Canale 5: il blocco con Maria De Filippi, infatti, ha ricordato sia Felicissima Sera di Pio e Amedeo (con la De Filippi che fece la medesima cosa) e D’Iva di Iva Zanicchi (con Silvia Toffanin al posto della De Filippi), stimolando, nel telespettatore, l’idea controproducente che Canale 5 produca varietà tutti uguali, fatti con lo stampino, con le medesime idee e trovate autoriali. La reunion con Eros Ramazzotti ha puntualmente titillato i fan imperituri della coppia nonché i fermi sostenitori della ship (con tanto di bacetto sulla bocca) ma si è rivelata un ottimo coup de théâtre, seppur la presenza del cantante romano era già stata annunciata nel promo.
L’autoreferenzialità è diventata nettamente più digeribile grazie al cast comico fisso dello show, azzeccatissimo
La Gialappa’s Band ha dimostrato di essere ancora in gran forma: il commento del film Alex l’Ariete, ad esempio, avrebbe potuto andare avanti per mezz’ora, senza annoiare.
Il medesimo discorso vale per il Mago Forest, di cui lo stile comico è tutt’altro che inattuale.
Michela Giraud non è più una promessa: la comica romana ha gestito il proprio spazio con uno sketch scritto bene, seppur l’idea della presa in giro del monologo dolente femminile, che va tanto di moda in tv, non fosse del tutto inedita.
Lo stesso discorso vale per Katia Follesa, una conferma.
Il resto è stato tutto un riempitivo o quasi (Ilary Blasi, Serena Autieri, Aurora Ramazzotti, Cabaret, Le Sorelle Marimaldi) dal quale si è salvato un Gerry Scotti in versione Fred Buscaglione in gran spolvero.
Alla fine, la sensazione è che Michelle Hunziker dia il meglio di sé più come spalla che come protagonista assoluta/padrona di casa.
Quando, però, asseriamo che l’one-woman-show è un’altra cosa, non ci riferiamo unicamente al fatto che quella che dovrebbe essere la protagonista di uno show dia il meglio di sé, defilandosi.
Prendiamo Fiorello (paragone, un filino impegnativo…): lo showman siciliano, nei suoi one-man-show, si metteva al servizio dello show e non viceversa.
La differenza è solo qui.
Quindi, va bene l’autocelebrazione, come scritto già una dozzina di volte, ora, però, Michelle Hunziker deve mettersi in gioco con un reale one-woman-show.
Di cose buone, alla fine, ce ne sono state…
Grazia Sambruna per mowmag.com il 12 febbraio 2022.
La Ramazzotti Jr torna nel primetime di Canale 5 in Michelle Impossible, ovvero grazie a mammà Hunziker. Sì, di nuovo. Scorriamo a ritroso la sfavillante carriera della figlia d'arte che non vuole essere definita "raccomandata". Magari salterà fuori come mai la chiamino proprio così. Oppure no?
Raccomandata. Questo l’aggettivo con cui Aurora Ramazzotti odia sentirsi definire fin dal 1996, anno in cui venne al mondo e papà Eros le dedicò uno dei suoi album più scolpiti nella memoria collettiva, grazie anche alla potenza catchy-tenerella della titletrack e di canzoni come Quanto amore sei e Sarà l’Aurora. La domanda che viene da porsi, oggi come oggi, quando veniamo a sapere che, ta dah, Aury sarà tra le protagoniste del (tanto agognato dalla svizzera) one woman show di mammà Hunziker su Canale 5, è: ma quindi, poi, Aurora è stata? O, attualmente, è?
Difficile rispondere senza entrare nel cliché delle polemiche da cui la venticinquenne figlia d’arte si sente “bullizzata” da una vita (non scordando di farne accurati mensili o bisettimanali report sui profili social in suo possesso, ci mancherebbe). E passare da brutti e cattivi, di più, maldicenti invidiosetti. Ma questo rischio ce lo accolliamo senza esitare perché troviamo che sia d’uopo, di quando in quando, venire ai meri fatti. Dopotutto lo sapeva perfino Caterina Caselli nel ‘66 che la verità ti fa male. 40 anni dopo circa, è ancora così. E forse non solo perché c’è troppa gente che ce l’ha su con te.
Partiamo da un presupposto di base, deve essere solido: chiunque ha diritto di nascere milionario, è una cosa che immaginiamo stupenda, e non deve mai sapere di aprioristica condanna da parte del pubblico pagante o giudicante. Rosicate in pace, ordunque, nel nome del monolocale letto-bagno-piano cucina in cui vivete con il fiato dell’affittuario sulla collottola. Detto ciò, andiamo a vedere le principali tappe della straordinaria carriera di Aurora Ramazzotti: donna, indipendente, body positive, inspirational e sempre, costantemente appresso alla gonna di mammà.
La straordinaria carriera della nostra pupilla comincia prepotentemente nel 2014 quando, appena diciottenne e dopo l’iscrizione alla Facoltà di Sociologia in Cattolica a Milano, posa per una serie di campagne moda firmate dall’importantissimo brand made in Italy haute couture Trussardi. Siamo sicuri che gli studi della giovane artista abbiano avuto una parte nel farle ottenere questo primo, prestigioso impegno lavorativo. Ma, ci sovviene il sospetto, pure il fidanzamento di mamma Michelle con il capo dell’azienda, annunciato giusto un paio di anni prima, deve aver oliato qualche ingranaggio del fashion system. Oppure no.
Per carità. Intanto, Aury, già con questa prima mossa, ha ricalcato pari pari, senza che nessuno glielo avesse chiesto, le orme di mammà, giovanissima modella degli slip Roberta, i cui giganteschi cartelloni pubblicitari hanno provocato ben più di un torcicollo agli automibilsti italiani nei primi anni Novanta. A fare il paragone, che, a supporre il vero, con ogni probabilità avrrebbero fatto in ogni caso, gli occhi del pubblico sono stati proprio accompagnati mano nella mano, verrebbe da dire. Avrebbe aiutato, forse, evitare l'opzione CTRL + C, CTRL + V. O magari no. Per carità.
Da qui, inevitabile l’esordio televisivo, inevitabile come capita la bellezza a Diletta Leotta e le luci dei riflettori di Sky a qualunque diciannovenne che calpesti il suolo nazionale. È un po’ una fase di passaggio, irrinunciabile. Perché, lo sappiamo, chiunque può. E proprio perché chiunque può, la nostra ha potuto: ha condotto per tre edizioni, sfilando il posto ad Alessandro Cattelan che già da anni, con ogni probabilità, s’affannava per scucirselo di dosso, il daily di X Factor.
Quindi, stiamo screditando una ragazza che è stata al timone di un programma televisivo su Sky per tre anni consecutivi? Non proprio: il daily era una striscia quotidiana di 10 minuti con più montaggio che anima, due piani d’ascolto, un saluto e anche oggi la conduzione ce la siamo portata sudatamente a casa. Ecco, non che tutte le esperienze non possano poi un giorno non rivelarsi utili nella vita professionale. Allo stesso tempo, parlare di “conduzione” in questo caso sarebbe un po’ come aver svolto un dignitoso lavoretto estivo al chiosco dei gelati di Castellammare di Stabia e mandare application, l’anno successivo, per diventare CEO Algida. Pressappoco.
Il 2018 è l’anno della conduzione in prime time su rete nazionale: l’ammiraglia del Biscione ospita mammà Hunziker e pargoletta come padrone di casa dello show “Vuoi scommettere?”, operazione nostalgia per rimastoni degli anni Novanta, accolta con un esordio da 4 milioni di telespettatori e salutata senza rimpianti con un picco pari a due (milioni, eh? Non crani). Comunque, di un ipotetico rinnovo di questo strepitoso progetto, Mediaset non ha parlato più. Una prece.
Dev’essere all’incirca allora, che Aury scopre il potenziale dei social e lì si arrocca cercando di totalizzare dei numeri che possano darle un mediatico perché. Qui, c’è da dirlo, riesce brillantemente nell’impresa: oggi su Instagram è seguita da oltre due milioni di adoranti follower a cui sorride indefessamente, non scordando di “normalizzare” la propria super esistenza, tra un piantino perché “da piccola tutti la scherzavano”, per i brufoletti sul viso (ci sono, addirittura ohibò, foto senza make up a mostrare coraggiosamente “l’orrore” in questione, e una botta di umiltà che mai stona, come nella caption del video in cui mostra il proprio ingresso “a sorpresa” a All Together Now, show di mammà manco a dirlo, mentre dichiaratamente (sui social) canta in playback (cannando il lip-synk su ogni parola, perché il talento è una cosa da professionisti) Natural Woman in duetto con Rita Pavone (anni 76, voce dal vivo).
Prima di quest’ultima gloriosa apparizione, la Ramazzotti Jr è riuscita pure a infiltrarsi a Le Iene, edizione 2021. Un paio di servizi, giusto il tempo della polemica sul web (e quello di frignarci sopra mezzo social perché le persone la “bullizzano” chiamandola “raccomandata” aprioristicamente e via, scomparsa dai radar in una nuvoletta di imbarazzo. Fatto salvo lo scherzo orchestrato per il programma di Italia 1 ai danni di… mammà Hunziker, naturalmente.
Ma c’è di più, il 2021, collab con Freeda a parte, è stato un anno glorioso per la nostra affezionatissima: è riuscita perfino, nonostante la spalla dell’iiper-navigato Alvin alla conduzione, a vedersi chiudere il primo format (quasi) tutto suo, Mistery Land su Italia 1, nel giro di due puntate secche. Accadeva a ottobre scorso e “Mediaset” per premiare questo sbalorditivo risultato, ce la ripiazza in prima serata, direttamente sulla rete ammiraglia, adesa alla gonna di mammà il prossimo 23 febbraio grazie a Michelle Impossible, il one woman show che già in partenza mina la profonda e storica fede che tutti noi sempre abbiamo avuto verso la neutralità della svizzera.
Andrà bene? Male? Non è questo il punto, speriamo solo di non vedere i nostri feed social imbrattati da candide lacrime d’Aurora alla vigilia per la crudeltà che certa stampa, alcuni leoni da tastiera, magari pure il Papa stesso le riserva dandole della “raccomandata”. Il figlio di Gerry Scotti, Edoardo, è apparso un’unica volta in tv, inviato de Lo Show dei Record, con papone e appena terminate le registrazioni è tornato negli Stati Uniti, dove tuttora vive, lontano dalle telecamere cattive. La progenie della Carlucci, lavora nel campo dell’ingegneria, giusto il figlio di Alba Parietti, Francesco Oppini, si è negli anni ritagliato una nicchia come commentatore sportivo (più che altro, regionale) e poi un posto nella casa del Grande Fratello Vip. Senz’altro demandare.
Aury nel lontano 2017, alle prime interviste “tv”, diceva già di voler condurre un talk show. Fare televisione, però, è un filo più complesso di accumulare numeri sui social (lo sanno bene Tommaso Zorzi e la sua parabola discendente dopo la vittoria al Gf Vip, martoriata da programmi di cui nessuno sentiva il bisogno, e salvicchiata in corner dalla presenza in giuria a Drag Race). Per citare un film immortale, signorina "Aury, lei non ha le ossa di vetro, lei può scontrarsi con la vita". Anche se la vita prende forma di una sconosciuta tastiera che, numeri alla mano, non certo peregrinando nell’hating fine a se stesso, la critica per quello che è. Perché, poco ma sicuro, non a tutti vengono concesse seconde, terze e quarte chance in tv. Se ne bei, e cerchi di metter su qualche cosa per cui potrà essere ricordata in quanto se stessa, non solo come mera propaggine, emanazione del talento di chi le ha dato i natali. Se poi, sarà l’Aurora, non possiamo dirlo. Di certo, oggi non lo è.
Michelle Hunziker a Tomaso Trussardi: "Gli voglio bene e gliene ne vorrò sempre". Le anticipazioni dell'intervista di Silvia Toffanin a 'Verissimo', domenica 13 febbraio. La Repubblica l'11 febbraio 2022.
"Una separazione è sempre un lutto da affrontare. È difficile perché ti senti fallita, ma rappresenta anche un nuovo inizio. Sono stati dieci anni bellissimi, con due figlie stupende: questo è da salvare. Voglio tanto bene a Tomaso e gliene vorrò sempre". Michelle Hunziker, ospite in esclusiva domenica 13 febbraio a Verissimo, parla per la prima volta della fine della storia d'amore con Tomaso Trussardi.
A Silvia Toffanin che le chiede se la fine del precedente matrimonio con Eros Ramazzotti l'abbia aiutata ad affrontare in maniera diversa questo momento, Michelle confessa: "Quando affronti una separazione a 23 anni vivi tutta la parte emotiva con una potenza distruttiva immensa: ti senti morire dentro. Oggi ho l'esperienza di vita dalla mia parte, ma lasciarsi rimane sempre una grande sofferenza".
La conduttrice si è recentemente mostrata al pubblico con un nuovo taglio di capelli, una scelta non solo d'immagine, ma soprattutto dettata da motivi personali: "Noi donne siamo fatte così: quando abbiamo bisogno di cambiare radicalmente qualcosa diamo un taglio a tanti aspetti della vita. E anch'io, ad un certo punto, ho voluto tagliare i capelli per trovare la forza dentro di me".
Quella di Michelle è una vita costellata di successi ma anche di dolori, ma non di rancori: "Non riesco ad essere arrabbiata neanche con le persone che hanno segnato il periodo in cui ero prigioniera della setta perché alla fine mi hanno dato tanto di quella che sono oggi". "Ora - aggiunge - manipolarmi è impossibile".
Michelle, oltre ad annunciare la presenza della stessa Toffanin tra gli ospiti del suo primo one woman show Michelle Impossible (mercoledì 16 e 23 febbraio su Canale 5), confida: "Ci saranno Maria De Filippi, Gerry Scotti, Ilary Blasi e tanti altri. Ci sarà anche Eros Ramazzotti. Non avrei mai pensato nella vita che lui accettasse l'invito. Sono vent'anni che non siamo sullo stesso palco in Italia".
Vittorio Feltri per "Novella 2000" il 25 gennaio 2022.
È più difficile tenere in piedi un matrimonio che un patrimonio. Infatti i ricchi, anche durante la pandemia, sono diventati ricchissimi, mentre i poveri hanno litigato in famiglia e sono diventati poverissimi. Poi ci sono delle eccezioni.
Tomaso Trussardi e Michelle Hunziker, che non si possono definire indigenti, dopo dieci anni di matrimonio apparentemente da favola si sono separati.
La notizia ha suscitato clamore poiché la coppia risultava bene assortita e non vi era anima che avrebbe potuto immaginare che l’idillio si sarebbe spaccato irrimediabilmente. E invece i due ora sono alle carte bollate.
Quali siano i motivi degli attriti nessuno lo sa, neppure io che ho considerato Tomaso una specie di figlio e ho cercato in tutti i modi di indirizzarlo. Era un ragazzo fragile e, per dargli una mano, gli affidai la rubrica delle automobili su Libero, che lui devo riconoscere sviluppava molto bene.
Una sera ero a cena con Tom nel suo ristorante in piazza della Scala, quando un cameriere mi informò che Michelle, con una amica, si era accomodata al piano superiore. A quel punto decisi di salire a salutarla, in quanto la conoscevo da tempo, e mi accompagnò il mio commensale. Lo presentai alla signora di Striscia la Notizia e brigai affinché i due si scambiassero i numeri del telefonino.
Quel che accadde in seguito è noto. Di lì a poco tempo si sposarono e io fui il loro testimone di nozze a Bergamo, nel palazzo cosiddetto di Giustizia. I coniugi avviarono una unione perfetta, fatta di reciproco sostegno. Ebbero due bambine dolcissime e sembrava che il matrimonio fosse inossidabile. Ma nella vita avvengono cose strane, cosicché ora siamo qui a commentare la rottura di un sodalizio che pareva saldissimo.
Inutile stracciarsi le vesti. L’amore va e viene e sovente finisce, per cui non stupiamoci davanti alla descritta frattura. Ignoro le motivazioni pure perché Tomaso ormai lo incrocio raramente e non ho raccolto le sue confidenze. Tuttavia non mi è oscuro cosa succede non raramente a marito e moglie.
La convivenza è dura da tollerare. C’è un momento in cui lei o lui non ne può più di avere accanto una persona che sbadiglia o si soffia il naso. Segnali piccoli eppure decisivi: al sentimento è subentrata l’insofferenza. E tutto va a rotoli. Sposarsi significa sopportarsi, se ciò non è possibile conviene dirsi addio per evitare guai maggiori. Michelle e Tomaso sono arrivati al traguardo, nessuno dei due però ha vinto la gara. Gli sposi che si dividono perdono insieme la partita.
Michelle Hunziker, il dramma: "Lei? La nipote del famosissimo stilista". Chi è... l'altra. Libero Quotidiano il 28 gennaio 2022.
Continuano a rincorrersi voci sulla separazione tra Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi. I due hanno annunciato all’Ansa la fine della loro storia d’amore dopo dieci anni e due figlie insieme. Da allora i diretti interessati hanno preferito tutelare la loro privacy e non rilasciare ulteriori dichiarazioni sulla separazione, ma adesso Trussardi è intervenuto per mettere a tacere un gossip molto diffuso.
Tomaso è stato beccato dai paparazzi in compagnia di Naomi Michelini, assistente personale nonché nipote della stilista Elisabetta Franchi. I due hanno trascorso un fine settimana in montagna insieme a un gruppo di amici e tanto è bastato per alimentare il gossip di una nuova relazione. Trussardi ha però smentito tutto su Instagram e lo stesso ha fatto la Michelini, che ha condiviso un articolo che riportava le voci che la riguardavano, bollandole come “fake news”. I due sarebbero semplicemente buoni amici, niente di più.
Così come è falso anche il ritorno di fiamma tra Michelle Hunziker ed Eros Ramazzotti. Quest’ultimo ha chiarito di essere single e di avere semplicemente un ottimo rapporto con l’ex moglie: i due sono tornati a farsi vedere insieme ma non c’è nulla di più di un’amicizia, con il cantante che avrebbe offerto supporto morale alla Hunziker per la fine della storia con Trussardi.
Michelle Hunziker e Trussardi si sono lasciati. Lo sfogo sull'addio: "Già da due anni". Giada Oricchio su Il Tempo il 28 gennaio 2022.
Nuove fiamme e retroscena. La separazione tra Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi, dopo 10 anni di matrimonio e due figli, si sta arricchendo di “dietro le quinte”. Il settimanale “Oggi” è tornato sul clamoroso addio rivelando: “Che le cose non girassero più bene è un problema che c’è da almeno un paio d’anni. Michelle è tostissima e ha tenuto duro, se qualcuno l’ha delusa ha incassato, poi forse ha visto l’inevitabile capolinea”.
Hunziker ha sempre smentito con un sorriso le indiscrezioni, ma a quanto pare avevano un fondamento. Quello che invece non trova riscontro è un eventuale terzo/terza incomodo. La conduttrice svizzera si sta preparando a un nuovo show televisivo insieme a Belen Rodriguez, mentre l’imprenditore ha voluto stroncare sul nascere il gossip.
La rivista “Chi” ha pubblicato alcune foto del bel Tomaso insieme a una donna bionda durante un weekend in montagna e l’imprenditore in una Instagram Story ha preso subito le distanze postando un drago che getta fuoco sulle “nuove fiamme” e ha ripostato una clip dell’ex moglie su un cucciolo di cane. Come a voler dire che i rapporti sono molto amichevoli.
Michelle Hunziker, Eros Ramazzotti rompe il silenzio e Trussardi scappa via. Giada Oricchio su Il Tempo il 23 gennaio 2022
Michelle Hunziker ed Eros Ramazzotti: liberi e lontani. Dopo l’annuncio della separazione da Tomaso Trussardi, la conduttrice svizzera è stata fotografata per le vie di Milano senza fede al dito. Questo l’unico indizio della rottura con il padre delle figlie Sole e Celeste perché sui social, Michelle continua a pubblicizzare i suoi prodotti felice e sorridente come sempre. Nessun riferimento a Tomaso e neppure al primo marito Eros che, secondo un’indiscrezione di Dagospia, si era riavvicinato sentimentalmente alla prima moglie. Un gossip che il cantante, in genere molto riservato, ha voluto stroncare sul nascere.
Prima ha smentito categoricamente di essere tornato con Michelle Hunziker, madre della primogenita Aurora, poi ha preso la palla al balzo per mandare un avviso ai naviganti. In una storia di Instagram tra il serio e il faceto ha detto: “Vedete? Questo è un paparazzo che mi sta fotografando con un'amica. Non è la mia fidanzata. E non sono fidanzato. Sono libero. Libero: free, free, free”.
Verità o depistaggio? Nel frattempo, Tomaso Trussardi è scappato dal clamore rifugiandosi in montagna con il cane Odino, come testimoniano le Instagram Stories sul suo account. Con lui, una presenza femminile, molto nota alle cronache mondane: la stilista Elisabetta Franchi, grande amica anche di Michelle.
Michelle Hunziker: «Tomaso Trussardi? Quando chiudo la porta di casa il dolore rimane». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 15 febbraio 2022.
La conduttrice mercoledì debutta su Canale 5 con il suo show «Michelle Impossible»
Quando ha capito che non voleva essere solo un poster senza volto?
«Ho fatto quella campagna pubblicitaria ignara di quello che sarebbe successo, era una morta di fame e dovevo pagare l’affitto. Non mi sembrava vero che mi avessero scelto tra 300 ragazze, e non mi dovevo nemmeno vergognare perché ero convinta che nessuno mi avrebbe riconosciuto. Invece poi hanno cercato il volto dietro il culo. L’anonimato è durato tempo zero. Ho fatto la modella per caso, quando invece ho fatto i primi casting a Mediaset, ho frequentato i primi studi televisivi e ho capito che mi piaceva fare tv».
Mai stata ossessionata dalla fama?
«A me la fama è caduta addosso, non l’ho cercata. La polarità è stata una conseguenza, non era il mio obiettivo. Ho voluto fare ciò che mi appassiona e mi rende felice, ho rinunciato a tanto per raggiungere certi traguardi, spesso bisogna anche essere disposti a fare cose che non ci piacciono. Oggi sento molti giovani che dicono di voler fare solo quello che li appassiona, ma non è così. Non puoi pensare di arrivare in vetta in elicottero, devi faticare. Bisogna capirlo, e divertirsi anche nelle difficoltà».
Da tempo Michelle Hunziker non è solo un poster, ma è anche un volto, una testa. Mercoledì debutta su Canale 5 in prima serata con Michelle Impossible, il suo primo one woman show in due puntate (l’altra mercoledì 23).
Questo «one Michelle show» sarà il suo Sanremo?
«No, nessun paragone. Saremo è Sanremo, è uno solo e fa storia a sé. Questo è un sogno che ho inseguito a lungo, penso sempre che le cose arrivino quando è giusto che arrivino, devi avere una maturità non solo artistica ma anche emotiva per fare un programma così. Per chi fa il mio mestiere è il coronamento di quello che hai sempre sognato di fare. Il vero punto di partenza».
Non di arrivo?
«Il punto di arrivo non esiste. Esiste solo quando ti ritiri e vai in pensione».
Che spettacolo sarà?
«Cerco di portare me stessa su questo palco, non è uno show preconfezionato, non è un format, deve essere il più personale possibile, come se invitassi gli spettatori a casa mia: guardate vi racconto le storie, divertenti ed emozionanti, che mi sono successe. Abbiamo tutti una vita da raccontare, la mia è questa, è particolare, ho avuto a che fare con tanta gente super in questi anni. Questo deve emergere, la mia autenticità, le sfumature inedite dei personaggi che ho incontrato».
Tanti ospiti, da Ilary Blasi a Maria De Filippi, da J-Ax a Ambra.
«Ho voluto tutti i miei amici, persone a cui voglio bene. Non mi serve l’ospitone che viene a fare la sua parte e se ne va. Credo sia bello far vedere al pubblico cosa c’è di autentico nelle persone che hanno lavorato con me, mostrare un rapporto sincero. Verranno le persone che sono parte fondamentale della mia vita, come mia figlia Aurora».
Tra queste persone c’è anche il suo ex marito Eros Ramazzotti.
«Eros era la tra le Michelle Impossible e invece... Sono vent’anni che non siamo sullo stesso palco in Italia».
Canta, balla, recita: dove deve migliorare?
«Chi fa l’intrattenitore deve saper fare un po’ tutto. Non sarò mai una cantante, non sarò mai una ballerina, non sarò mai un’attrice, ma con questo spettacolo spero di veicolare emozioni. Penso che oggi più che mai sia importante non mettere filtri nelle trasmissioni tv: gli spettatori non vogliono prodotti preconfezionati, fake; ormai la gente è abituata a vedere la quotidianità, l’intimità dei personaggi. E la tv si deve adeguare».
Tomaso Trussardi ha parlato, forse anche troppo, della fine della vostra relazione. Lei come sta?
«I manuali di psicologia insegnano che due sono le cose che stressano emotivamente di più l’essere umano: la morte e la separazione. Tutte le separazioni sono dolorose, fanno malissimo, sono difficili da superare perché ti senti fallita. Mi ritengo fortunata perché in un momento difficile come questo ho qualcosa su cui concentrarmi e che mi distrae, poi certo quando chiudo la porta di casa la sera il dolore rimane».
Crede ancora nell’amore?
«Sì, di brutto».
Tomaso Trussardi: «Con Michelle Hunziker è sempre amore, tra noi nessun tradimento. Ho lavorato anche da rider». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.
Tomaso Trussardi, come sta?
« La fine di un relazione non è mai bella. Non sono felice, non lo è neppure Michelle, ma è stata una scelta fatta — potrà sembrare strano — per tutelare la famiglia e soprattutto le nostre figlie Sole e Celeste, che meritano di avere due genitori che stanno bene insieme. Oggi, in questa nuova veste, andiamo d’accordo».
Protagonista da sempre — e spesso suo malgrado — per fatti legati alla vita privata, dalla morte del padre Nicola a quella del fratello Francesco («Ero adolescente e in entrambi i casi fui il primo della famiglia a saperlo»), Tomaso Trussardi, nato sotto il segno dell’Ariete 38 anni fa a Bergamo, poco più di una settimana fa ha annunciato insieme a Michelle Hunziker la loro separazione.
«Rimane la donna che ho amato di più nella mia vita e la amo ancora, ma in una forma diversa. Le devo moltissimo: quando l’ho conosciuta avevo 28 anni e grazie alla sua vicinanza sono cresciuto umanamente e professionalmente. Insieme abbiamo messo a fuoco i nostri valori».
Con quali valori è cresciuto?
«Con l’etica del lavoro e della normalità. Nonostante la straordinarietà del nostro cognome, mio padre Nicola ha sempre voluto che noi figli fossimo “di Bergamo”. Mi diceva “vai pure a letto all’ora che vuoi, ma ricordati che domani mattina ti sveglio alla solita ora, all’alba...”. Per mio padre il weekend era fatto per vivere la casa e la famiglia, non per le gite fuori porta: andavamo nella Città Alta e tornavamo pieni di borse vecchie, cinture, oggetti presi dai rigattieri. In fin dei conti non smetteva mai di lavorare: anche quella per lui era “ricerca” di nuovi spunti e materiali».
Quando suo padre muore, di notte in un incidente stradale, lei ha solo 15 anni.
«Rimane il mio più grande rammarico: l’ho conosciuto solo come tutore e mai come uomo. Anche da genitore è stato poco presente: la sua era una generazione di imprenditori che dovevano non solo costruire la propria azienda, ma ricostruire l’Italia. Alla notizia della morte ricordo di essermi sentito senza protezione e di aver pensato: “E adesso cosa facciamo?”»
Come ha fatto?
«È stato mio fratello Francesco, di nove anni più grande, a farmi da padre. Avevamo una sintonia incredibile, poi mi ha lasciato anche lui, nello stesso modo di mio padre: sono dovuto andare a riconoscerlo nel luogo dell’incidente, mentre l’ambulanza cercava di rianimarlo».
Cosa avrebbe detto suo padre se avesse conosciuto Michelle Hunziker?
«Gli sarebbe piaciuta tantissimo. Lui aveva un debole per le persone solari, con talento ed energia».
Chi le è stato vicino in questo momento della separazione?
«Gli amici si vedono nel momento del bisogno e di getto direi Odino, il mio levriero. Ma in realtà ho delle persone su cui posso contare: sono le stesse di 20 anni fa, molti di Bergamo, oltre a persone nuove che mi piacciono e che ho conosciuto attraverso la passione per i motori. Sono ambasciatore della Motor Valley dell’Emilia Romagna e ho fondato Fast Cars Slow Food TT, una società che organizza eventi che coinvolgono cultori delle auto e del buon cibo».
Ha detto addio alla moda per i motori?
«Questo no, ma avendo lasciato la presidenza dopo esserne stato per 10 anni amministratore delegato, Trussardi è diventata una delle mie attività. Dopo l’ingresso del fondo d’investimento mi sono ritagliato un ruolo più di consulenza strategica e siedo nel cda. Oggi mi dedico al food e ai motori: la verità è che trovo più genuino il mondo delle auto. È fatto di “metalmeccanici”, mossi da passione pura, il fashion è più artificiale. Si fissano appuntamenti e poi magari la gente neppure si presenta».
Come le è venuta l’idea? «Abbiamo luoghi bellissimi ma sconosciuti, ogni centro storico italiano ha più di 500 anni: ho pensato di aggregare in modo inclusivo persone accomunate dal piacere dei motori e del cibo. L’idea mi è esplosa in mano: facciamo almeno 3 eventi al mese e siamo pieni per tutto il 2022. A chi si iscrive consiglio di vivere l’esperienza in coppia: la famiglia continua ad affascinarmi sempre».
Che padre è per le sue figlie Sole e Celeste?
«Cerco di essere più presente possibile, le porto con me agli eventi, giochiamo tanto. I miei genitori non mi hanno mai insegnato la socialità che ho dovuto scoprire da autodidatta: le mie bambine viaggiano, incontrano, sanno stare al mondo».
Nel comunicato condiviso che avete rilasciato con Michelle Hunziker scrivete: «Ci impegniamo a proseguire con amore e amicizia il percorso di crescita delle nostre meravigliose bambine».
«E così sarà. Mi piacciono le case piene, quando ci siamo fidanzati e sposati non avremmo mai immaginato di lasciarci. Sia da una parte che dall’altra c’è totale apertura: le bambine stanno con la mamma ma io posso vederle quando voglio. Detto questo non so se saremo quel genere di genitori separati che fanno le vacanze insieme: magari iniziamo prima con una cena».
Avrebbe voluto un terzo figlio?
«Con Michelle abbiamo subito voluto diventare genitori: il terzo figlio lo abbiamo cercato, ma non è arrivato, senza rammarico».
Lei è stato una figura paterna anche per Aurora.
«Ho sempre cercato di pormi come un amico e un fratello maggiore, sono entrato nella sua vita che aveva 16 anni e credo che per lei non sia stata la cosa più facile del mondo. Negli ultimi tempi i nostri rapporti si sono un po’ rarefatti e mi spiace molto, mi auguro che tutto si sistemi. Ho un affetto grande per lei, continuo a usare un beauty-case con le iniziali che mi ha regalato lei per un compleanno. Ho però mantenuto una bellissima amicizia con il suo fidanzato, Goffredo».
Avete vissuto il periodo del lockdown a Bergamo tutti insieme. Come è stato?
«Denso di preoccupazioni a livello lavorativo, come per tutti gli imprenditori. Non è vero che la crisi matrimoniale è iniziata con la convivenza forzata: io e Michelle eravamo abituati a stare insieme quotidianamente, non eravamo una coppia da weekend. E in fondo è stato un periodo creativo: mi sono fatto venire nuove idee».
E ha consegnato il cibo alle persone chiuse in casa per il lockdown.
«Sì, ho fatto per un periodo il rider. Si è sparsa la voce e arrivavano telefonate da ogni parte: ho dovuto smettere perché quando consegnavo il cibo la gente non mi faceva più andare via, voleva offrirmi il caffè, farsi un selfie: era, in termini di tempo, poco economico. Tanti ordini arrivavano da Bergamo: la sera a Milano riempivo la macchina e facevo il “Glover”...».
Lei e i suoi fratelli siete stati i pioneri del personal branding, facendo da testimonial al marchio.
«Sia Francesco che Beatrice avevano fatto da modelli per Trussardi Jeans e poi abbiamo cominciato anche io e Gaia: ho iniziato a 15 anni e ho smesso a 23. L’intuizione di mio padre era stata quella di mettere le famiglie al centro: l’Italia è famosa per le “dinastie” che guidano anche le aziende, il mondo anglosassone invece ha sempre avuto un azionariato diffuso. Noi e i Missoni abbiamo raccontato attraverso la moda anche la storia di una famiglia».
Eros Ramazzotti.
«È il papà di Aurora e ha per questo un ruolo molto importante. So bene che c’è sempre stata una parte di fan che ha sperato nella sua riconciliazione con Michelle, un po’ genere Al Bano e Romina. Oggi so che dice di voler aiutarla a superare le negatività, ma forse avrebbe dovuto esserci in altri momenti. Meglio che ognuno stia al suo posto: già in passato ha mancato di rispetto a tutta la famiglia quando, durante una intervista con Pio e Amedeo, alla domanda sul perché Michelle fosse sempre sorridente ha risposto: “A letto con me non rideva”».
Cosa ricorda del giorno del suo matrimonio?
«Quando dopo il sì ci siamo affacciati dalla scalinata del palazzo della Ragione a Bergamo: era impressionante, c’era tantissima gente che urlava il nostro nome, in quel momento ho capito che avevamo dato vita a una relazione che piaceva alla gente».
E della sua separazione?
«Preferisco non avere ricordi. Mi fa piacere però conservare i messaggi che mi scrivono le coppie che si stanno separando e che si fanno la guerra: mi dicono che siamo d’esempio».
Le scrivono anche le ammiratrici?
«Non mi interessano quel genere di relazioni, sono per i rapporti lunghi, elettivi».
Cosa l’ha più infastidita in questo periodo? «Le voci sui nostri improbabili tradimenti. Non ce ne sono stati».
Lei e i media. Nel 2015 è finito al centro di una polemica legata a una discussione con un vigile urbano in Piazza Scala. «Lì ho preso coscienza di non poter più usare i social come una persona comune. Era uno sfogo, dopo essere stato trattato non proprio in modo educato. Ma nel frattempo il mio matrimonio mi aveva reso un personaggio pubblico».
Un bilancio della sua vita?
«Ho dovuto superare parecchie prove. Mi ritengo lo stesso una persona privilegiata».
Oggi su cosa è concentrato?
«Sulla mia attività di imprenditore. Abbiamo tante novità in arrivo legate alla ristorazione di Trussardi. Non punto alle stelle, non sono mai state un mio obiettivo ma sarebbero un bel riconoscimento. Voglio vendere esperienze: qualche settimana fa ho chiesto l’autorizzazione per chiudere un passo sulle Alpi Carniche per gli iscritti al mio club che volevano fare delle prove con le loro auto».
La sua famiglia è un simbolo del made in Italy: si sente più bergamasco o milanese?
«Sono bergamasco perché mi sveglio alle 5 e mezzo di mattina per lavorare. Amo Milano perché è grazie a questa città che il nostro marchio è diventato internazionale».
Fine di un matrimonio: Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi. Sabrina Malatesta su ligurianotizie.it il 18 Gennaio 2022.
Cosa sono la corsa al Quirinale di Berlusconi o il Greenpass necessario anche dal tabacchino? Di fronte al Bonus Casa prorogato o al PNRR che sta per abbattersi sul nostro paese che fare proprio in questa giornata dove la notizia del giorno sembra essere la fine del matrimonio tra la bella show girl e l’ex scapolo d’oro?
Vogliamo dimenticare il caro energia che sta per travolgerci? Di Novak Djokovic a chi importa più di fronte allo Tsunami che si è scatenato oggi e che ha travolto l’intera penisola?
L’aumento del petrolio non interessa più a nessuno? L’inflazione alle stelle non è più di moda? Il ritorno dell’Ecobonus non ci appartiene più?
Purtroppo sembrerebbe di no perché oggi è accaduto l’irreparabile, l’inimmaginabile, ciò che non avremmo mai e poi mai voluto leggere. Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi hanno annunciato al mondo intero la fine del loro matrimonio.
Incredibile ma vero o tutto come ci si aspettava ormai da tempo? Il tam tam sui social e i rumors sui media innescavano già da qualche mese il dubbio ma chi ci credeva? Beh ora non si può più far finta di niente. La bella Michelle e il rampollo di casa Trussardi hanno dato la notizia attraverso un comunicato stampa gettando così nello sconforto generale orde di fans che li seguono sui social da sempre.
La “sudden storm” sul matrimonio tra Tommaso e Michelle
Il gentil sesso e i maschietti impazziti sui social si scatenano fra domande e commenti che piovono dal cielo come chicchi di grandine durante una tempesta. Perché di questo si tratta! Si, una vera e propria “sudden storm”, una tempesta che però tanto improvvisa non appare ai più.
Chi oggi si strappa i capelli dalla disperazione ieri aveva già chiaramente notato che la coppia non si raccontava più come prima su Instagram e nemmeno si faceva vedere così spesso in giro insieme come una volta.
Il matrimonio tra Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi risale al lontano 2014, un matrimonio da favola degno della più bella delle principesse. L’immagine di una coppia perfetta, un amore indissolubile che ha fatto sognare molti. Inutile negarlo: la coppia platinata dello Star System incarnava il sogno d’amore perfetto di fanciulle cresciute all’ombra di Cenerentola al ballo che balla con il suo Principe Azzurro.
Le mamme di oggi adorano Tomaso, principe moderno e sempre impeccabile nella sua eleganza, ragazzo per bene che ognuna vorrebbe avere come genero più per il suo portafogli che altro. I papà di oggi sarebbero ben felici di avere come nuora la ex testimonial di un noto brand della biancheria intima italiana.
Insomma una coppia amata che profumava di “Love & Love” e che ad ogni uscita pubblica brillava di luce propria.
Dopo 10 anni insieme “The end”
Ecco la dichiarazione rilasciata dai protagonisti: “Dopo 10 anni insieme abbiamo deciso di modificare il nostro progetto di vita. Ci impegniamo a proseguire con amore e amicizia il percorso di crescita delle nostre meravigliose bambine. La nostra separazione rimarrà un percorso comune e privato. Non seguiranno ulteriori commenti nel rispetto della privacy della nostra famiglia”.
Finisce così una delle storie d’amore più belle del mondo dello spettacolo. Un altro uomo? Un’altra donna? Chi lo sa? E francamente non importa saperlo.
Ciò che è importante è che la coppia Hunziker-Trussardi ha fatto sognare per molto tempo i loro fans e non solo, chiunque credesse nell’amore come una favola meravigliosa. Ma purtroppo come in ogni favola che si rispetti c’è sempre un “The end” e oggi l’abbiamo celebrato a modo nostro, con la buona pace di chi come voi ha inondato di click le pagine del web alla ricerca dell’”amour perdu” tra Michelle e Tomaso. Sabrina Malatesta
Ilaria Ravarino per "Il Messaggero" il 19 Gennaio 2022.
Erano la versione matura dei Ferragnez: lei conduttrice, bionda e svizzera, lui erede del made in Italy più famoso che c'è, quello della moda. Belli, ricchi e social, durante il lockdown la 44enne Michelle Hunziker e il marito 38enne Tomaso Trussardi avevano postato foto e video della famiglia allargata, alle prese con la dad, la panificazione e gli esercizi in casa.
LE PAROLE Poi, da questa estate, qualcosa si è rotto. E la favola d'amore si è spezzata, frantumata ieri da uno scarno comunicato: «Dopo 10 anni insieme, abbiamo deciso di modificare il nostro progetto di vita hanno detto i due all'agenzia Ansa Ci impegniamo a proseguire con amore e amicizia il percorso di crescita delle nostre meravigliose bambine. La nostra separazione rimarrà un percorso comune e privato». Hunziker e Trussardi si erano conosciuti nel 2011, a due anni dal divorzio di lei dal cantante Eros Ramazzotti, suo marito dal 1998 e padre di Aurora (25 anni): galeotta era stata una cena al Ristorante Trussardi alla Scala, primo di una lunga serie di eventi puntualmente registrati da paparazzi e cronaca rosa.
Il matrimonio era arrivato nel 2014, celebrato al Palazzo della Ragione di Bergamo, città natale di lui, figlio dello stilista Nicola Trussardi scomparso quando Tomaso aveva solo 15 anni. Due le figlie avute dalla coppia, Sole (9) e Celeste (7), che resteranno secondo quanto trapelato - con la madre.
I SOCIAL Erano stati proprio i social a documentare in sottrazione l'andamento della relazione: l'ultimo post della conduttrice con un riferimento al marito risale allo scorso luglio, quando Hunziker, ritratta su Instagram con un grande mazzo di rose rosse, si rallegrava che «dopo dieci anni» le arrivassero «ancora» delle rose dal compagno. Poi, più nulla.
L'uomo era scomparso da post e stories, dai selfie e dai tag, fino allo scorso Natale, quando Hunziker aveva reso pubblica sempre via Instagram la sua vacanza da single in montagna, con le figlie e l'amica Serena Autieri. Al settimanale Chi aveva annunciato l'intenzione di voler pensare più a se stessa, ma «senza togliere nulla alle persone che amo». A parlare, oggi, è ancora una foto, la più recente sul suo profilo: l'aria seria, le braccia incrociate, Hunziker appare concentrata sul futuro. «Sta per succedere qualcosa di importante per me sul lavoro scrive, provando un abito da sera Armani ha sempre segnato le mie esperienze più importanti, sarà così anche questa volta». E Trussardi, l'uomo e il brand, muto.
Hunziker e Trussardi: ripicche, silenzi e porte chiuse, le ragioni della crisi. Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2022.
Un anno e mezzo fa sono iniziati i problemi della coppia, che ieri ha annunciato la separazione.
Nell’ annus horribilis delle coppie - con alcune separazioni eclatanti - è arrivata al capolinea anche la storia tra Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi . La conduttrice svizzera e l’imprenditore bergamasco hanno scelto la via di un comunicato condiviso rilasciato all’Ansa per ufficializzare un addio di cui si parlava già da qualche tempo. «Dopo dieci anni insieme, abbiamo deciso di modificare il nostro progetto di vita. Ci impegniamo a proseguire con amore e amicizia il percorso di crescita delle nostre meravigliose bambine. La nostra separazione rimarrà un percorso comune e privato. Non seguiranno ulteriori commenti nel rispetto della privacy della nostra famiglia».
Un documento stringato, scritto in «legalese» pensato soprattutto per tutelare le figlie Sole, 8 anni, e Celeste, 6, che continueranno a vivere con la mamma. Poche righe che hanno provocato uno tsunami mediatico, con paparazzi appostati per tutta la giornata di ieri sotto le loro abitazioni a caccia del primo scatto da separati - e una pioggia di commenti sui social. Ora ci si chiede se c’entri l’ «effetto spillover», come vengono chiamate le separazioni in tempo di Covid, o se la crisi della coppia , sposata dal 2014, abbia radici più profonde.
Le persone a loro vicine parlano di un amore «bello e litigarello», secondo i migliori copioni. Una power couple, due cognomi importanti che - nell’era dei Brangelina e dei Ferragnez - non si sono mai fusi per aumentare la popolarità social, mantenendo distinti i loro impegni e anche la loro immagine. Caratteri forti e a tratti divergenti, ma che hanno trovato sempre un punto di incontro.
Tutto questo fino ad almeno un anno e mezzo fa, quando pare che i due siano scivolati in una crisi più grave, tra ripicche, silenzi e porte chiuse, con Tomaso Trussardi avvistato sempre più spesso a Bergamo e lei a Milano con le figlie. Alla base delle liti un diverso modo di intendere la vita (più introspettivo lui, più estroversa lei), alcune amicizie non condivise e progetti lavorativi che hanno creato tensioni.
È stato proprio in questo periodo che nella vita della conduttrice sono entrati nuovi interessi, come quello per le arti marziali, documentato da numerose stories su Instagram, con lei vestita da karateka in una palestra in provincia di Brescia, di proprietà di un amico dell’ex marito Eros Ramazzotti. Tomaso Trussardi invece avrebbe trascorso sempre più tempo a Reggio Emilia, come brand ambassador della Motor Valley. Una lontananza che è diventata evidente durante le recenti vacanze natalizie, che hanno trascorso divisi.
La conduttrice ha passato l’intero periodo in Alta Badia , un luogo del cuore della coppia, ma stavolta senza Tomaso. Con lei c’erano le due figlie Sole e Celeste e l’amica Serena Autieri : sembra che lui abbia raggiunto il gruppo per festeggiare il Natale, ma subito dopo si siano nuovamente divisi, forse alla ricerca di quel distacco necessario per riflettere sul futuro.
Per Michelle Hunziker si tratta della seconda separazione, dopo quella nel 1998 da Ramazzotti, padre della figlia Aurora : Tomaso Trussardi invece non ha alle spalle precedenti matrimoni. «Mi è piaciuto subito: ci siamo scambiati i numeri e la prima a chiamare sono stata io», aveva raccontato al Corriere la conduttrice , ricordando il primo incontro, avvenuto grazie a Vittorio Feltri.
Anche Tomaso Trussardi aveva raccontato al Corriere il sentimento che lo legava alla moglie: «Dopo un anno che la conoscevo volevo sposarla. Michelle aveva mille paure, avevo 29 anni, lei 35, la differenza d’età per lei contava, ma non per me». Un amore cementato anche dalla stima reciproca: «Quando c’è una decisione da prendere voglio il parere di Michelle». Ma anche da percorsi di sofferenza: per Tomaso la perdita del padre Nicola Trussardi a 15 anni, per Michelle il dolore per il padre alcolista e la lunga parentesi della «setta» raccontata in un libro-confessione.
Una coppia sotto i riflettori, che ha più volte espresso il desiderio di un terzo figlio e ha condiviso con i fan il periodo del lockdown, trascorso nel palazzo di famiglia a Bergamo, dove Michelle ha riunito la grande famiglia. E forse dove ha preso forma, in modo chiaro, la crisi della coppia.
Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi si separano: "Chi c'è dietro la crisi". Il gossip bomba. Giada Oricchio su Il Tempo il 19 gennaio 2022.
Michelle Hunziker e Eros Ramazzotti come Belen Rodriguez e Stefano De Martino? In questo 2022 tutto sembra possibile quando si tratta di cuori vip. Ma andiamo con ordine. Un paio di giorni fa, la showgirl argentina, in un’Instagram Story, aveva ufficializzato la rottura con Antonino Spinalbese, padre della figlioletta Luna Marì. Peccato che nemmeno 24 ore le riviste di gossip abbiano pubblicato le foto che la ritraevano mentre andava a cena a casa dell’ex marito Stefano in compagnia dei bambini. Difficile non pensare a un ritorno di fiamma a giudicare dai sorrisi e dalla complicità.
A quanto pare però non sono i soli a “tornare alla base”, ci sarebbero anche Eros Ramazzotti e Michelle Hunziker, fresca di separazione da Tomaso Trussardi dopo 10 anni di matrimonio e le figlie Sole e Celeste. Un addio affidato a uno scarno comunicato Ansa. Suggestione o vera indiscrezione? Il sito “Dagospia” , che in anteprima aveva riferito di una crisi irreversibile tra la conduttrice svizzera e il proprietario della casa di moda, ha sganciato la bomba: “Gira voce di un "revival" d'amore tra Michelle Hunziker e il suo ex marito, Eros Ramazzotti”.
Per ora non ci sono scatti galeotti, ma è trapelato che da mesi Hunziker frequenti in modo assiduo la palestra di un caro amico di Ramazzotti che non ha avuto storie importanti dopo il divorzio da Marika Pellegrinelli. Amori che stanno facendo giri immensi.
Mickey Rourke, da sex symbol ad antieroe tormentato, l’attore compie 70 anni. Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022
L’esordio scintillante, la caduta e il ritorno alle scene, tutto sul controverso attore americano
Origini
Philip Andre Rourke è nato il 16 settembre 1952 a Schenectady, nello stato di New York. Cresce a Miami in una famiglia cattolica, con una sorella e un fratellastro, più sei fratelli acquisiti dopo il nuovo matrimonio della madre.
La boxe
Dall’età di 16 anni, Rourke si diletta con successo come pugile, fin quando gli infortuni sul ring non lo costringono a una lunga pausa, durante la quale si innamora della recitazione. L’attore tornerà a boxare brevemente soltanto nel 1991 e di nuovo nel 2014 per un solo incontro. Nella sua carriera sportiva, non ha mai perso un match.
Alti e bassi
Gli anni ’80 sono il periodo di massimo splendore hollywoodiano per Mickey Rourke, ma il decennio successivo vede il sex symbol prendere una strada dissestata. L’attore diventa ingestibile sul set per il vociferato abuso di droghe e finisce per bruciare molti ponti nel settore, rifiutando anche ruoli di spessore come in “Pulp Fiction”, “Top Gun” e “Beverly Hills Cops”.
Ruolo italiano
Nel 1989, Rourke fu diretto dalla regista italiana Liliana Cavani, che gli affidò il ruolo di San Francesco D’Assisi in “Francesco”.
Rourke vs Trump
Nel 1996, durante le riprese di “Bullet”, Rourke e il caro amico Tupac Shakur mettono sottosopra una stanza del prestigioso Plaza Hotel di New York, attirando le ire dell’allora proprietario Donald Trump, che li denuncia per danni chiedendo 28 mila dollari.
Problema di cane
Tra gli aneddoti sulle difficoltà create da Rourke sul set c’è quella proveniente dal film del 2000 “Il prezzo della fortuna. L’attore si rifiutò di recitare perché la produzione non accettò di creare un ruolo apposito per il suo cane, preferendo il licenziamento.
Denuncia
Nel 1994, al culmine del suo periodo nero, Rourke fu denunciato per violenza domestica sull’allora moglie Carré Otis.
Matrimoni
Il primo matrimonio di Rourke fu con la collega attrice Debra Feuer, dal 1981 al 1989. Quella con Otis fu la relazione più tormentata e terminò con il divorzio della coppia nel 1998. Dal 2009 al 2014 l’attore ha invece frequentato la modella Anastassija Makarenko.
Riprese e Covid
Nei primi mesi del 2020, in piena esplosione dell’epidemia del Covid-19, Mickey Rourke volò comunque a Riga per terminare le riprese del film “Warhunt”, dove interpreta un soldato americano che combatte contro una congrega di streghe. Probabilmente avrebbe potuto farne a meno.
Antonella Catena per style.corriere.it il 16 luglio 2022.
Mickey Rourke, 69 anni (il 16 settembre ne compie 70), maledetto quando era uno dei sex symbol degli Anni 80 e maledetto oggi. L’attore, intervistato in tv, ha sparato a zero contro Tom Cruise e Amber Heard. Ecco cosa ha detto e, soprattutto, perché…
Lui è “irrelevanet”. Lei era a caccia del miglior partito. Loro sono, rispettivamente, Tom Cruise e Amber Heard. A «parlare male di loro» è Mickey Rourke, professione ex bello/maledetto/talentuoso di Hollywood…
L’ex seduttore disperato di 9 settimane e 1/2 il 16 settembre compirà 70 anni. Il suo volto non è più quello di un tempo… da tanto tempo. La sua carriera nemmeno. Ma resta uno dei sex symbol dei mitici Anni 80 da cui non vogliamo liberarci proprio mai. E allora eccoci ad ascoltarlo…
Intervistato dal giornalista Pier Morgan per la sua trasmissione tv Uncensored, l’ex bellissimo non si è censurato affatto. Ed è partito prima bocciando l’interpretazione del collega/rivale. Tom Cruise, non solo sarebbe un attore «irrevelant», noi diciamo insignificante, di Top Gun: Maverick. No, Mickey aggiunge, come prova della sua affermazione, «sono 35 anni che interpreta sempre lo stesso ruolo».
Insomma, bocciato! Il successo mondiale del film, con gli 11 milioni di euro incassati in Italia e e il miliardo di dollari ampiamente superato i nel mondo? «Non significa niente. Lui fa la stessa cavolo di parte da 35 anni. E questo io non lo ammetto. Non l’ho mai fatto, ma perché non mi interessano i soldi o il potere
Chi fa queste scelte, non ha il mio rispetto. Guardate invece Al Pacino. O i lavori di Chris Walken, Robert De Niro, Richard Harris e Ray Winstone… Sono loro i miei idoli. È questo il tipo di attore che ho sempre voluto essere. Come Monty Clift e Marlon Brando nella loro epoca». Il conduttore, gli chiede, per «riassumere»: «Ma quindi non credi che Tom Cruise sia un buon attore?». Risposta: «Penso davvero che non entrerà nella storia del cinema. È un attore insignificante»…
L’attore non si è fermato a Cruise, però. Alla bocciatura di Maverick, segue quella di Amber Heard. L’ex moglie che ha trascinato l’ex marito Johnny Depp in tribunale, perdendo la causa e finendo triturata dall’uragano mediatico.
Amber heard è stata definita da Mickey Rourke una gold-digger, una a caccia di un marito ricco. L’aveva trovato in Johnny Depp, che ha appena vinto la causa che lei gli aveva intentato, accusandolo di violenza domestica.
Durante la stessa intervista, per l’attrice di Acquaman, usa il termine «gold-digger». Che letteralmente significa cercatore d’oro, ma nel linguaggio comune hollywoodiano (e non solo) significa una a caccia del miglior partito. Finanziariamente parlando… La bionda Amber l’avrebbe trovato nel pirata Jack Sparrow…
«Conosco Johnny da anni, anche se no posso definirlo un amico intimo. Quello che mi sento di dire è che anch’io una volta sono stato accusato ingiustamente. E la cosa mi ha bloccato dal punto di vista professionale per anni. Diciamo che sono rimasto vittima di questa errata cattiva reputazione.
Alla fine è emersa la verità, ma intanto erano passati anni e io avevo perso film e occasioni di lavoro. Ecco perché mi sento vicino a chi è rimasto vittima di una gold digger come Johnny… Perché è questo che è lei, una fottuta dannata gold-digger»…
Tra Johnny Depp e Amber Heard sappiamo come è andata. Il tribunale ha rispedito al mittente tutte e tre le accuse della donna di violenza domestica. Dando ragione al divo, ha stabilito che lei dovrà pagare 15 milioni di dollari. Lui ha commentato: «Mi hanno restituito la vita». Lei, da allora, sta chiedendo l’annullamento della sentenza.
· Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.
Paolo Fiorenza per fanpage.it il 28 ottobre 2022.
In giro c'è tanta crisi, tra Covid e guerra sono tempi duri ed ognuno di noi cerca di trovare dentro di sé le risposte a qualsiasi livello, spirituale e materiale. Equilibrio interiore e necessità della vita quotidiana, è dura per tutti.
Anche la 21enne giapponese Miku Kojima ha vissuto questo travaglio e ne è uscita molto diversa da com'era prima: con un nome nuovo, Saki Shinkai, ed anche con una nuova professione, quella di attrice porno. Nella sua vita precedente Miku Kojima è stata una nuotatrice, anzi di più: una giovane campionessa.
La classe 2000 nata ad Osaka a livello giovanile ha vinto tantissimo: due medaglie d'oro ai Mondiali juniores di Indianapolis nel 2017 nei 200 misti e nei 400 misti (in quella edizione anche il nostro Nicolò Martinenghi vinse due ori) e l'anno dopo due bronzi ai Giochi olimpici giovanili di Buenos Aires, entrambi in staffetta con le sue compagne del Giappone.
Sembrava lanciatissima la Kojima, con un'Olimpiade che si sarebbe svolta di lì a poco nel suo Paese – a Tokyo – ed invece nel 2019 ha lasciato il nuoto e si è iscritta all'università, cercando nel frattempo anche di mantenersi organizzando cerimonie. Poi il Covid e chissà cos'altro nell'animo della ragazza, fatto sta che qualcosa è cambiato, anzi più di qualcosa.
Un primo passo verso la sua nuova vita c'era stato lo scorso ottobre, quando la ormai ex nuotatrice aveva posato nuda in piscina, in una serie di foto intitolata ‘Saki Shinkai Naked Butterfly', dunque già col suo nuovo nome d'arte, probabilmente già consapevole di quale sarebbe stato il passo successivo.
"Quanto ho pubblicato i miei nudi – ha poi detto – ci sono stati commenti negativi e speculazioni. Alcuni si sono domandati perché avessi realizzato quelle fotografie, altri mi accusavano di voler entrare nel mondo della pornografia. Avevo parlato di me stessa in quel servizio, ma c'era una leggera discrepanza tra quello che la gente voleva vedere e quello che io volevo mostrare. Quello che vogliono è vedermi in costume da bagno".
Ecco dunque Miku Kojima, anzi la neonata Saki Shinkai, cimentarsi nel suo primo film porno – ambientato ovviamente in piscine e spogliatoi, in costume da bagno e soprattutto senza – lanciato in Giappone con grande battage pubblicitario ed uscito lo scorso febbraio per ‘Soft on demand', grosso nome del settore nel Paese del Sol Levante.
"Con le cancellazioni delle cerimonie per il Covid, il numero dei lavori commissionati era diminuito – ha spiegato la 21enne – Allora ho iniziato a guardarmi in giro e ho scoperto che un mio contatto sui social era attivo nel settore dei video per adulti. Mi sono incuriosita e ne ho guardati parecchi: all'inizio avevo una sensazione negativa, ma i lavori di Sod sono molto interessanti. Ho deciso di provare…".
· Miguel Bosè.
Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 3 novembre 2022.
Un padre conservatore, duro, maschio alfa come Luis Miguel Dominguin, il più famoso torero di Spagna. Una madre italiana, Lucia Bosè, altrettanto celebrata, ma libera, moderna. Due genitori all'opposto, che infatti si separano quando lui aveva 11 anni, e rispecchiano le due anime di Miguel Bosè, non avrebbero potuto non trasmettergli altrettante contraddizioni: cantante ma anche attore, latin lover ma anche bisessuale, desideroso di una famiglia con la brava ragazza di gioventù ma anche amante del politico più trasgressivo dell'epoca, Marco Pannella, che fu uno dei grandi amori; affamato di libertà ma anche voglioso di diventare padre, trasgressivo ma anche geloso del privato, misterioso. Tutto questo è raccontato benissimo nella serie televisiva Bosè, una piccola "bomba" televisiva al via da oggi su Paramount +, la neonata piattaforma streaming che fa concorrenza ad Amazon e Netflix.
MODO SPUDORATO La star italo-spagnola, oggi 66 anni, ha i volti di due attori che lo interpretano rispettivamente da giovane e da "maturo" e che in entrambe le versioni gli assomigliano in modo spudorato (complimenti a chi ha fatto il casting): Josè Pastor e Ivan Sanchez. Il giovin Bosè è un ragazzino ricco che la madre Lucia (Valeria Solarino) spinge al mondo dello spettacolo e della musica e lui ci sguazza, passando con disinvoltura dal letto di Elsa Martinelli, sua co-protagonista nel dimenticato film sexy Garofano Rosso ai set degli spaghetti western con Giuliano Gemma o gli horror di Dario Argento, fino alle sale d'incisione pop. Bellissimo, acerbo, effeminato, tutti impazzivano per lui, compreso il leader dei Radicali Marco Pannella (interpretato da Roberto Zibetti) con cui a Roma ha una storia di letto.
Impazzisce, ma in senso negativo, anche il padre Dominguin (interpretato da Nacho Fresneda) che lo vorrebbe a una vita d'ufficio a macinare soldi nella sua società. "Bosé" è una miniserie in sei episodi dedicati alla vita di Miguel Bosé realizzati con la guida dello showrunner Nacho Faerna (La Fuga). Nelle puntate si segue la storia dell'artista da quando è un bambino che cresce nel quartiere di Somosaguas nella periferia di Madrid. Alla regia sono stati impegnati Fernando Trullols e Miguel Bardem, figlio di Juan Antonio Bardem che nel 1954 aveva lavorato con Lucia Bosé.
Ogni episodio è incentrato su una diversa canzone di Bosé e ripercorre momenti cruciali della vita. Tutto questo è il succo nel primo episodio di Bosè, dove le immagini in flashback dell'adolescente Miguel si alternano a quelle dell'artista ormai consacrato, 50enne, sul palco in Messico per la promozione del disco multi platino Papito, dove nell'intimità confessa al compagno il desiderio di diventare padre, poi realizzato non senza controversie. Infatti - per la cronaca - i quattro figli della coppia Bosè-Nacho Palau, dopo la separazione dei genitori e la guerra legale, sono divisi: due gemelli in Messico e due i Spagna.
Ma questi sono fatti recenti, nella serie si parla degli anni di gloria, che sono stati tanti e ruggenti. I due attori spagnoli che gli danno il volto, raccontano a Libero come sono entrati nella parte del cantautore diventato star mondiale. Sanchez, il Bosè 50enne, ricorda: «Lo conosco da quando ero piccolo, ero un fan, in discoteca con gli amici ballavo i suoi successi. L'ho anche conosciuto personalmente, eravamo amici anche se non strettissimi, ebbi la possibilità di andare a casa sua a pranzare».
COMPLIMENTI Il giovane Miguel, Pastor, spiega che la preparazione al ruolo è durata due anni e la sfida è stata quella di scoprire la persona dietro l'artista. «Io non conoscevo quasi nulla di lui», ammette, «a parte Morena Mia, non sapevo tante cose, per esempio che fosse così vicino a Pablo Picasso, ma adesso sono un fan. Non volevamo imitarlo, ma entrare in lui, mi sono preparato con il grandissimo materiale di video e interviste. Bosè non è venuto alle riprese se non alla fine ed è stato un momento bellissimo perché ci ha fatto i complimenti per il lavoro fatto.
E finalmente ho potuto respirare». Ride. Entrambi sono concordi sull'elemento di maggior fascino dell'artista: «La determinazione, non pensava al giudizio degli altri. Il senso di libertà». «Vorrei essere come lui», ammette Pastor, una sorta di Timothee Chalamet iberico, «molto coraggioso». Ora la strada è spianata.
"La mia diva Lucia Bosè, la madre che accettò le scelte del suo Miguel". L'attrice da stasera nella serie di Paramount+ "Una donna rimasta sola per tutta la vita". Paolo Scotti il 3 Novembre 2022 su Il Giornale.
Milano 1942. Per sfuggire ai bombardamenti, la famiglia Bosè ammassa tutto su un carretto, e decide di sfollare dalla città. Ma il carretto ha fatto solo pochi metri che una voce chiede: «E Lucia? Dov'è Lucia?». Lucia non c'è. Ha solo dieci anni, e si sono dimenticati di lei. Corre dietro al carretto, tutta sola, piangendo. «Un ricordo che non l'abbandonerà mai racconta Valeria Solarino - e che nella sua autobiografia Lucia Bosè definirà: Il momento in cui ho capito di essere sola al mondo». È stato proprio a questa solitudine, e alla malinconia che puntualmente ne produceva il ricordo, che l'attrice si è ispirata per interpretare la splendida diva cinematografica degli anni '50 nella serie Bosè: il bio-pic (da oggi disponibile su Paramount +) sulla vita del più conosciuto dei figli di Lucia, Miguel. Prodotta in Spagna e interpretata nel ruolo del protagonista da due attori (José Pastor è il Miguel adolescente, Iván Sánchez il Miguel adulto) Bosè segue tormenti e successi del primo figlio dell'attrice e dell'acclamato «toreador» Luis Miguel Dominguin, dal momento della separazione dei celebri genitori, nel 1968, alla vasta popolarità raggiunta col cinema prima e la canzone poi.
«La bellezza di Lucia era lineare, essenziale, molto moderna riflette la Solarino, che la incarna dai 35 agli 80 anni -. Quando ho dovuto sostenere il provino ho cercato di pettinarmi e truccarmi come lei, ma sapevo che, a parte qualche elemento somatico comune, quel che interessava agli autori di Bosè era soprattutto renderne la complessa, affascinante personalità».
Crede di aver capito quale fosse?
«Per scoprirla ho visto tutte le sue interviste, letto la sua autobiografia, riflettuto. Credo fosse una donna forte, tenace, indipendente. Ma con un perenne velo di malinconia nello sguardo. La solitudine che scoprì correndo dietro a quel carretto, in fondo, l'ha accompagnata tutta la vita. Da quando, scoperta nel 1947 da Luchino Visconti in una pasticceria di Milano, divenne miss Italia, fino a quando morì due anni fa, di Covid».
Sola e malinconica anche una volta finito il matrimonio col torero Dominguin, cioè nel periodo in cui è ambientata la serie?
«Allora più che mai. La solitudine, se è per questo, era iniziata anche prima: conosciuto Dominguin e trasferitasi in Spagna da dodici anni, Lucia era stata costretta dal marito a non parlare più italiano, a non cucinare italiano, e soprattutto a non fare più l'attrice. In cambio lui le promise di non scendere più nell'arena. Promessa che si guardò bene dal mantenere. Sradicata dalle origini, concentrata solo sui tre figli, tradita ripetutamente dal torero, in fondo, Lucia era sola anche da sposata».
E dopo?
«Dopo continuò a vivere nella casa si famiglia, anche se cadeva in pezzi, come sulla sola roccia che potesse darle un senso di stabilità. E quando il figlio, ormai famoso, le propose di acquistarne una nuova, lei rifiutò».
Che rapporto aveva Lucia con Miguel?
«Lo amava moltissimo. Miguel aveva sempre vissuto in un ambiente privilegiato: suo padrino di battesimo era stato Visconti; casa sua era frequentata da Ernest Hemingway, da Pablo Picasso. Quando manifesta il desiderio di darsi allo spettacolo lei lo sostiene, lo incoraggia anche contro il parere del padre. Soffre molto quando il lavoro lo porta lontano (ecco ancora una volta la solitudine che torna - ndr) ma è orgogliosa del suo crescente successo. Accetterà anche le sue inattese scelte sentimentali. Era una donna aperta».
Secondo lei che tipo di spettatori attirano «bio-pic» come questo? Chi, per questioni d'età, ha conosciuto il personaggio in questione, o il giovane che vuole saperne di più?
«Su di me funzionano entrambe le molle. Pur ammirando Miguel Bosè non sapevo niente della sua vita. Non l'ho mai incontrato: vive in Sudamerica, sta promuovendo la serie. E sarei curiosissima di sapere cosa ne pensa del modo in cui ho interpretato la sua splendida mamma».
Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 2 marzo 2022.
«Mi hanno cucito dentro la carcassa di un cervo. L'hanno svuotato dalle viscere, poi mi hanno lasciato là dentro. Sono svenuto: per la claustrofobia, per la mancanza d'aria, per la brutalità del gesto». Per una scena del genere, nel film Redivivo, Leonardo Di Caprio ha vinto l'Oscar. Ed era, appunto, un film. Eppure c'è chi, oggi, può dire di aver vissuto quell'esperienza per davvero. Cucito vivo in un animale.
A dieci anni. In una foresta in mezzo al Mozambico. Questo è solo uno dei tanti aneddoti di ordinaria mostruosità dell'infanzia di uno dei miti degli anni Ottanta, il cantante spagnolo Miguel Bosè, oggi star 65enne che ha deciso di raccontare la sua vita in un libro, Il figlio di capitan Tuono, in arrivo in Italia l'8 marzo. Non tutta la sua vita, però, solo il primo terzo: quello precedente al suo esordio come cantante, al Bosé pop star di Super Superman e icona sexy, amato da Andy Warhol e Bianca Jagger, sul set con Pedro Almodóvar prima di rovinarsi con gli eccessi (due grammi di cocaina al giorno sette anni fa) e i casini familiari (quattro figli contesi col compagno Nacho Palau).
LA SERIE Prima di tutto questo memorie che non andranno sprecate: finiranno in una serie tv, Bosé, girata in questi mesi per Paramount + ci sono stati vent' anni a cavallo tra la follia e la meraviglia: quelli trascorsi con il padre, il torero Luis Miguel Dominguín, maschio alfa di una dinastia di toreri e sex symbol della Spagna che non deve chiedere mai («un dio in terra») e la madre, Lucia Bosé, attrice e Miss Italia, musa del surrealismo e «donna più bella del mondo». Due «dei», come li chiama Bosé. Ma anche «due mostri», come racconta nel libro, che gli hanno «reso l'infanzia un inferno».
Pubblicate in Spagna lo scorso novembre, le 500 pagine di Capitan Tuono hanno già fatto il giro del mondo. A generare una quantità indescrivibile di meme, e di racconti increduli, sono i capitoli dedicati al padre e alla sua mascolinità più che tossica.
Un uomo che non si faceva chiamare papà ma «maestro», preoccupato dal fatto che il figlio leggesse troppo («Ci diventa frocio», diceva alla moglie), deciso a prendersi cura a modo suo dell'educazione del bambino: «Per essere alla sua altezza avrei dovuto imparare a sparare col fucile, a fare l'amore e a fumare prima di 13 anni». A questo, teoricamente, doveva servire il safari in Mozambico, quello culminato con l'episodio del cervo, un rituale compiuto per aumentare la «scarsa carica di testosterone» del figlio.
L'ORRORE Dominguín non poteva credere che Miguel rifiutasse di passare una notte con l'indigena sedicenne che gli aveva procurato, e allora «dopo avermela offerta se la prese lui, mentre io ascoltavo terrorizzato le urla di lei rannicchiato intorno al fuoco da campo».
Quando Miguelito torna a casa dal safari (tra l'indigena e il cervo c'è anche la puntura di uno scorpione, una palpebra strappata e quasi il coma), pesa trenta chili. E Lucia Bosé, finalmente, trova il coraggio di cacciare di casa Dominguín: «Quando mio padre ha smesso di giocarsi la vita nell'arena, se l'è rischiata nei letti delle donne che si vantavano pubblicamente di essersi prese il torero. Gli amanti attribuiti a mia madre, invece, erano quasi sempre anonimi e molto più discreti. Ma certo non rimase a guardarsi crescere le corna in testa».
Libera dal torero, Bosé non rinunciò a circondarsi di uomini ingombranti: Pablo Picasso per esempio, che accompagnava a scuola il bambino, gli regalava «il primo vestito da ballo», lo consolava come un padre. «Alla recita di fine anno mi feci la pipì sotto, perché ero vestito da nuvola e mi vergognavo. Picasso venne da me e mi disse: sei il più bravo di tutti, sei l'unica nuvola che ha fatto piovere». Picasso, poi Salvador Dalí, e l'attore Helmut Berger con cui Bosè il cui padrino era il regista Luchino Visconti ebbe una storia.
COMPRENSIONE «Mio padre e mia madre si sono amati di una passione brutale in una Spagna popolata di personaggi che hanno fatto e disfatto il ventesimo secolo. Il mio libro non è un regolamento di conti contro di loro, ma un esercizio di comprensione. L'ho scritto in modo romanzato, direi cinematografico». Sia mai avanzasse qualcosa, niente paura: c'è sempre tempo per farne un film.
Miguel Bosé: «Io, figlio di due mostri. La prima volta con Amanda Lear, l’amore della mia vita è Giannina Facio». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
Intervista a Miguel Bosé: il padre torero, la madre attrice e intorno Picasso, Hemingway, Amodóvar: «Sono cresciuto in un branco di leoni, ora la rabbia è finita e vi rivelo tutto».
Miguel Bosé, pseudonimo di Luis Miguel González Dominguín, è nato a Panama nel 1956, dall’unione tra il torero Luis Miguel González Dominguín e l’attrice italiana Lucia Bosé. Ha scritto «Il figlio di Capitan Tuono» (Rizzoli)
Questa intervista è stata pubblicata sul numero nove di 7, il magazine del Corriere in edicola il 4 marzo
La biografia di Miguel Bosé è un romanzo sui generis, un moderno satyricon che mette a nudo miti del cinema e della corrida, icone dell’avanguardia e dell’industria culturale degli Anni 60 e 70. Il padre, Luis Miguel Dominguín, grande torero di Spagna e seduttore impenitente, ispirò l’amico Ernest Hemingway per Un’estate pericolosa. La madre, Lucia Bosé, che faceva la commessa in una pasticceria milanese quando a 16 anni vinse Miss Italia, nel 1947, è stata musa di grandi registi. Luchino Visconti ha fatto da padrino al battesimo del piccolo Miguel, mentre Pablo Picasso, altro amico di famiglia, fu padrino di Paola, una delle due sorelle del cantante, ballerino e attore. Il titolo della biografia Il figlio di Capitan Tuono (Rizzoli) si rifà all’omonima canzone dedicata al padre: un tuono che arrivava all’improvviso e poi spariva. Miguel (Panama, 1956) racconta l’infanzia e la giovinezza tra Spagna, Londra e Italia, fino al successo come cantante a fine Anni 70. A pagina 132 riporta così i timori del padre, confessati alla madre: «Lucia, mi è stato detto che il bambino legge, molto, senza fermarsi». La madre chiese quale fosse il problema: «Frocio, Lucia, il bambino sarà frocio!».
La biografia di Miguel Bosé «Il figlio di Capitan Tuono» (Rizzoli, esce l’8 marzo).
Il bambino, 60 anni e tanta vita dopo, si è preso la sua rivincita con questo libro che racconta i lati oscuri dei suoi genitori. Per la copertina ha scelto una foto in cui, a 14 anni, è vestito da torero: «Mostra bene l’ascendente che mio padre aveva su di me quando ero adolescente» ci spiega in collegamento dal Messico (risponde su tutto, tranne che sul Covid: teme che le sue posizioni possano mettere in ombra il libro).
Agli occhi del Miguel Bosé di oggi come appare quel Miguel vestito da torero?
«Miguelino, Miguelon, Miguelito mi chiamavano. Ogni giorno si svegliava chiedendosi come sopravvivere ai due mostri, mio padre e mia madre. La famiglia era un branco di leoni che andavano a caccia, e i cuccioli cercavano di essere all’altezza, di tenere il passo senza venire pestati da un bufalo!».
Il ricordo più difficile da rievocare?
«Quello del primo capitolo del libro».
«I MIEI GENITORI HANNO DIVORZIATO, MA NELLA SPAGNA DI FRANCO BISOGNAVA SALVARE LE APPARENZE. MENTIRE, SEMPRE»
Miguel Bosé a Madrid nel 1986. Il cantante e ballerino è nato a Panama nel 1956
Quando suo padre alza le mani su sua madre?
«No, quando brucia Villa Paz. Le cose belle dell’infanzia erano andate perdute per sempre. Avevo perso il mio Paradiso, il mio rifugio. Dopo l’incendio è iniziato un periodo buio per il divorzio dei miei e tutte le bugie che venivano dette, perché nella Spagna di Franco bisognava salvare le apparenze… non capivo. Capitan Tuono era andato via, mia madre doveva rifarsi una vita e riprendere a fare l’attrice, cosa c’era di male? Perché nasconderlo? Quando a scuola hanno scoperto che i miei erano divorziati hanno iniziato a chiamarmi orfano».
«A UNA RECITA, VESTITO DA NUVOLA, MI SON FATTO LA PIPÌ ADDOSSO. ERO DISPERATO. PABLO PICASSO MI DISSE: “BRAVO, HAI FATTO PIOVERE”»
La pace tornava d’estate, a casa di Picasso, amico dei suoi genitori, un parente acquisito. Com’era stare in compagnia di un genio?
«Aveva un’incredibile capacità di ascolto e le cose che ti diceva credevi di averle pensate tu. Perché il genio è sovrappopolato di idee, è generoso, deve scaricarle. Ascoltandomi, mi dava un valore che in famiglia nessuno mi dava, creava dal nulla l’autostima. E curava i traumi. Una volta, a una recita, interpretavo assieme ad altri una nuvola e mi sono fatto la pipì addosso. Mio padre per fortuna non c’era, mi avrebbe insultato… Ero mortificato, e Pablo disse: “Ma come? Non è pipì, è pioggia, sei una nuvola, è normale, sei l’unico che è riuscito a far piovere, a far bene la sua parte, bravo”. Era vero? Forse no, ma detto da lui, che aveva subito visto in me l’anima del ballerino, diventava vero».
Pablo Picasso (sinistra) nel 1961 saluta la piccola Paola, di cui è padrino, tenuta in braccio dalla madre Lucia Bosé, accanto al padre Luis Miguel Dominguín. L’ultimo a destra è il piccolo Miguel
Avevate un rapporto speciale. Quanto?
«Con me recuperò il bambino che non fu mai. A 6 anni dipingeva benissimo le zampe delle colombe realizzate dal padre, pittore anche lui, in modo iper-realistico. Ecco, nessuna colomba di Pablo ha le zampe. Non le ha più dipinte, mai più».
Nella sua infanzia è stato molto presente Walter Chiari, ex fidanzato di sua madre.
«Si è reso disponibile per aiutarla durante il divorzio. A me ha insegnato l’arte del corteggiamento. Secondo lui bisognava farle ridere. E non aveva torto. Se incominci così, il resto è più facile, no?».
Per Miguel Bosè immagino di sì. Lei però descrive Chiari con “orecchie da scimpanzé e occhi azzurri sotto folte sopracciglia a tettoia”.
«Walter era un personaggio fantastico, un milanesotto scimmione... A casa veniva spesso uno scultore con uno scimpanzé e noi lo chiamavamo Walter, anche se si chiamava Manolo! Erano belle le orecchie di Walter, immense, come Dumbo».
«DALÌ CI MANDA IL SUO EMISSARIO: UNA DONNA BIONDA, CHE SALE IN BARCA, IN TOPLESS, CON UNA CORONA DI SPINE E OCCHI DISEGNATI SANGUINANTI. UNA VISIONE, UNA SIRENA... E QUANDO LEI MI PORTÒ IN GIRO PER IL GIARDINO... ACCADDE QUELLO CHE ACCADDE»
Nel libro racconta la sua iniziazione sessuale, nell’estate del 1970 in cui fece un giro in barca con suo padre. Arrivaste a Cadaqués, Costa Brava catalana, per incontrare Dalì, e poi?
«Dalì ci manda il suo emissario: una donna bionda, che sale in barca, in topless, con una corona di spine e occhi disegnati sanguinanti. Una visione, una sirena. Sbarcammo, e si creò una situazione credo provocata da mio padre e Dalì, che voleva vedere la mia faccia quando hanno invitato Amanda a mostrarmi il giardino... Io non la conoscevo, ma sono stato attratto dal suo magnetismo e quando lei mi portò in giro per il giardino... accadde quello che accadde. Avevo 14 anni, ero stato trattato in un modo rispettosissimo, tenerissimo, educatissimo, niente di sporco. Non sapevo nulla del sesso e, beh, se era quello, era un’esperienza fantastica».
Colpisce il commento che riporta di suo padre: morbosamente curioso di sapere se era vero quello che si diceva su Amanda Lear, che avesse qualcosa di diverso, di maschile. Il macho spinge il figlio che teme gay tra le braccia di una donna dall’identità ambigua. Strano, no?
«Non credo ci fosse il pensiero di spingermi a un’esperienza che poteva essere confusa. Non ci pensava nemmeno, non ci arrivava. Lui riconduceva tutto a sé stesso. Se parlavamo di calcio, ammirando Ivan Campo del Real Madrid, lui diceva che voleva vederlo prendere a calci un toro! Era un macho iberico. Su Amanda, parlava la sua anima da cacciatore, geloso di un trofeo mio, non suo: “Tu hai cacciato un impala, io no, com’è un impala?”».
Quindi anche l’omosessualità, se attiva, poteva andare bene, nell’ottica del cacciatore?
«Il filosofo Ortega y Gasset ha studiato il personaggio di Don Giovanni e spiega che sotto sotto questi conquistatori hanno insoddisfazioni e identità sessuali non chiarite. È una possibilità. Poi se uno si preoccupa così tanto per l’omosessualità c’è da sospettarlo. Io non metto la mano sul fuoco per nessuno. Nemmeno per lei che mi intervista!».
Miguel Bosè durante le riprese di «Tacchi a spillo», diretto da Almodóvar nel 1991
Tra gli uomini importanti della sua vita c’è stato Helmut Berger. Prima vi odiavate, poi è scattato l’amore. Lo ritroviamo in una scena da film, nella casa madrilena di Flora Mastroianni.
«Non potrò mai dimenticare la voce di Flora, la risata in cui è scoppiata quando ha trovato me, Helmut e un altro a letto! Flora si mette a ridere e va in corridoio urlando “Marcello, Marcello, Marcello vieni qui a vedere”. Mia madre era sconvolta, aveva preso tutto sul serio, noi no, eravamo ragazzi, cos’era una scopata? Divertimento. Ma in questa storia il sesso è contorno, il tema è che mia madre si rese forse solo lì conto del livello di Edipo che aveva costruito: con il figlio biologico, io, e il figlio adottivo, Helmut; ed era entrata in conflitto con sé stessa. Aveva adottato Helmut come un figlio. Era molto manipolatrice e capricciosa».
Lei non racconta pulsioni verso sua madre, ma verso suo padre. A Montecarlo si immagina a letto con lui e Ljuba Rizzoli... un Edipo bisex.
«C’è un altro passo più importante, prima, quando mio padre a cavallo mi porta a vedere le sue tenute e mi fa capire che sono l’erede, il delfino. Sento che il mondo è mio, che mio padre è solo mio. Rileggendo il libro, scritto perché non c’era più rabbia, ho capito l’amore bestiale, carnale che provavo sia per mia madre che per mio padre».
«L’AMORE DELLA MIA VITA? GIANNINA FACIO, CONOSCIUTA A MIAMI A CASA DI JULIO IGLESIAS. MILANO ERA IL NOSTRO PARADISO»
Lei ha avuto storie con donne, uomini, un compagno come Nacho Palau con cui ha avuto quattro figli grazie a maternità surrogate...
«Non quattro, due. Io ho due figli»
(Bosé ha avuto una vertenza legale con l’ex compagno che voleva venissero riconosciuti anche gli altri due, ndr).
Da figlio di divorziato, come evita che i suoi figli vivano lo stesso dramma che lei ha vissuto?
«Li allevo a non mentire, a capire che il dolore non insegna nulla di buono. Li aiuto a coltivare le loro passioni. E creo delle sfide: entrambi studiano musica, Tadeo chitarra e Diego piano. E dico: “Se impari questa partitura puoi chiedere un regalo”. E tanti abbracci. Tutto quello che io non ho avuto. Ora loro già dicono “meno abbracci papà”».
Miguel Bosè con Giannina Facio nel 1982
Qual è stato l’amore della sua vita?
«Giannina Facio. Non mi sono mai sentito così normale come con lei. Il vero Miguel. Fu amore a prima vista, a casa di Julio Iglesias a Miami. Lui diceva che ero il suo erede, ma perché voleva qualcuno che leccasse il suo narcisismo».
Un momento felice con Facio?
«Ricordo quando vivevo all’Hotel Diana a Milano, una specie di soffitta. Passavamo dei pomeriggi interi ad ascoltare musica o leggere in silenzio, uno vicino all’altra, nella luce tiepida, il cielo di un blu raro, tutto il resto non esisteva perché non c’era bisogno di nient’altro. Quando ci parlavamo, le cose che dicevamo sembrava di averle già dette, erano già sapute, in qualche momento, come se appartenessero a noi già da prima. Un Paradiso».
Nel libro racconta dei primi film, dal Garofano rosso di Faccini a Suspiria con Dario Argento. Al cinema poi ha lavorato anche con Almodóvar, e penso alla scena en travesti di Tacchi a spillo.
«Il personaggio era stato scritto per Banderas, che disse no. Almodóvar provinò 50 attori e mi scelse; ma non è vero che aveva subito pensato a me. Bugia! Lui è geloso, vorrebbe interpretare tutti i personaggi che scrive».
Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 20 giugno 2022.
Per tanti, se non per tutti, Milena Vukotic è la moglie di Fantozzi, la Pina.
Un ruolo che le viene assegnato però al terzo film della serie, quando la regia passa da Luciano Salce a Neri Parenti. Fu Villaggio stesso a volerla. «Ci eravamo incrociati qualche volta in Rai, ma niente più. Poi mi telefona: vediamoci. Ti voglio nel prossimo Fantozzi. Pensavo a una parte di contorno, e invece entravo in pianta stabile».
Sarebbe nata una grande amicizia con l'attore e la sua famiglia. Per via dei film, per altro una di famiglia lo era già. «Ricordo la prima volta che andai a casa sua: mi aprì la colf.
"Signora, è arrivata la moglie di suo marito"».
Non solo Fantozzi, però: nella sua carriera centinaia di titoli, cinema, tv e teatro, da Il fascino discreto della borghesia a Giulietta degli Spiriti, Amici miei e Nostalghia, Cantata di un mostro lusitano e La vita è sogno, Brecht, Genet, Beckett, Rilke. Più che giusto che il Bardolino Film Festival le abbia attribuito il Premio alla carriera. Forse altri avrebbero dovuto pensarci prima. Ma è sempre più dura per gli attori che hanno lo stigma della comicità. Nella foto scelta come manifesto dal festival, c'è lei giovanissima, filiforme e un po' enigmatica, quasi distante.
In punta di piedi. Come mai le scarpette da punta?
«Perché i miei esordi sono stati nella danza classica. Era il 1952, vivevo a Parigi. Avevo fatto il Conservatorio ed ero entrata nel corpo di ballo dell'Opera, con Roland Petit.
Sei mesi lì, poi tre anni nella compagnia del Marquis de Cuevas, che a Monte Carlo aveva preso il posto di quella di Diaghilev. Una formazione che mi è tornata utile per "Ballando con le stelle": la classica è stata un'ottima base di partenza...».
Nel 1960 però è già in Italia: non più ballerina ma attrice.
Cinecittà e la compagnia Morelli-Stoppa. Cosa era accaduto?
«Avevo visto La strada di Fellini: ha smosso qualcosa dentro di me che mi ha fatto abbandonare tutto. Tornare a Roma e ripartire da zero. Ho vinto una borsa di studio per la tv e ho iniziato la solita trafila: agente, foto, provini. Quello che volevo assolutamente era incontrare Fellini: ce la feci. Avevo una lettera di presentazione, ma ero troppo timida e restò in tasca. Però mi prese per un piccolissimo ruolo nelle Tentazioni del dottor Antonio. Poi avrei fatto Giulietta degli Spiriti e Toby Dammit. Più in là, si sarebbe rimproverato di non avermi dato un ruolo importante, come invece Oshima e Buñuel».
Entrata dalla porta principale?
«Non proprio. Il mio è stato un percorso particolare. Non avevo studiato, non ero conosciuta. Non avevo neppure il fisico adatto... Come mi fece notare Renato Castellani, per me nel cinema non c'era posto: non ero una bellezza, né una maggiorata, non avevo una personalità dirompente, meglio se prendevo altre strade».
Ma non si arrese. Cocciuta?
«Certo, volevo recitare. Al cinema ho fatto cose carine, ma è il teatro che mi ha offerto di più. È ancora così: sono in tournée con A spasso con Daisy e con un monologo su madame du Châtelet. E a luglio iniziano le prove di Così è se vi pare. Al cinema piccoli ruoli: Dante di Avati, e poi Le fate ignoranti, la serie di Ozpetek...».
Solo carini i tre film con Buñuel? Che ricordi ha?
«Cercava un'attrice che parlasse francese. Non mi fece nessun provino, gli bastò vedere "Venga a prendere un caffè... da noi". Don Luis incuteva rispetto, ma era gentile e gioviale. Amava il lato ludico della vita. Ricordo di avere avuto con me per tutte le riprese del Fascino discreto un libro su di lui che volevo fargli firmare. Ma non ne avevo il coraggio.
Poi lo sognai: era in un bar di via Veneto, e nel sogno l'autografo glielo chiedevo. "Siamo tutti uomini liberi", scriveva. Era un segno e non potevo ignorarlo. Vinsi le mie paure, glielo raccontai. "Dovevo essere completamente ubriaco". disse. Poi sul libro scrisse "Siamo tutti uomini cosiddetti liberi". Era il simbolo dell'artista libero che impone il suo pensiero. Io lo avevo metabolizzato».
Libera e imprevedibile anche lei: non fu forse sulla copertina di Playboy?
«Conoscevo il fotografo Frontoni, all'epoca famosissimo. Mi propose di posare per lui a seno scoperto, voleva mostrare il mio lato sexy e bello. Playboy venne dopo. Acconsentii purché le foto non fossero fini a se stesse. E così fu: vennero alternate ad altre mie in "versione brutta", e accompagnate da un articolo di Blasetti sul fascino della non bellezza. Però quanti rimproveri dagli amici...».
Villaggio a parte, chi ricorda con più affetto?
«Lino Banfi: con lui ho fatto le commedie "erotiche" con Bouchet e Fenech, e per 10 anni Un medico in famiglia. Noi attori siamo giullari dalla vita sregolata e squilibrata, sempre in movimento. Per questo è così bello ma raro che i rapporti resistano nel tempo».
Rimpianti?
«Rifarei tutto».
Sogni nel cassetto?
«Un bel clown, magari che balla».
Ma non è la Gelsomina della Strada?
«Forse. Forse è giusto che il cerchio si chiuda dove tutto è cominciato».
E Tognazzi? Con lui Venga a prendere e i due Amici miei.
«Un ragazzaccio: cinico e beffardo, faceva scherzi a tutti. Solo parlando di cucina diventava serio. Non sempre felice, però: ai tempi della "Terrazza" si lamentava che il cinema non lo chiamasse più tanto».
Miley Cyrus compie 30 anni: tutto quello che non sapete di lei. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 23 Novembre 2022.
La popstar americana ha esordito giovanissima con «Hannah Montana» e poi ha avuto un drastico cambio di immagine
Trent’anni vissuti intensamente
Sembra abbia vissuto già tante vite Miley Cyrus, popstar americana che oggi compie 30 anni. Partita come Hannah Montana nella serie omonima Disney quando era appena adolescente, è poi passata per una fase trasgressiva e ribelle, con un’immagine diametralmente opposta rispetto a quella della beniamina dei giovanissimi. Negli ultimi tempi, poi, ha consolidato la sua fama, virando musicalmente anche verso il rock
Hannah Montana
A lanciare Miley Cyrus è stata Hannah Montana, protagonista della serie omonima trasmessa da Disney Channel fra il 2006 e il 2011 e corredata da un film. Racconta la storia di una teenager dalla doppia identità: di giorno è Miley Stewart, studentessa come tutte le altre, di notte è Hannah Montana, famosissima popstar americana. La sitcom trasforma Miley in una teen idol adorata dai ragazzini e inizialmente la sua carriera musicale prende il via proprio giocando su questo doppio, su brani interpretati come se stessa e su altri come Hannah Montana
Il ruolo in «Big Fish»
Prima ancora di Hannah Montana, Miley Cyrus aveva già avuto dei ruoli come attrice, esordendo proprio da bambina. Il debutto sul grande schermo è stato nel 2003 con una piccola parte in «Big Fish», il film di Tim Burton con protagonista Ewan McGregor. Nei crediti del film il suo nome è però Destiny Cyrus: il nome di battesimo, scelto dai genitori che vedevano per lei un grande destino, è stato poi sostituito dal soprannome Miley che deriva da Smiley, visti i suoi tanti sorrisi. Nel 2008 la cantante ha cambiato ufficialmente il suo nome in Miley Ray Cyrus, in omaggio anche al nonno Ronald Ray a cui era molto legata
La famiglia
Miley Cyrus è figlia d’arte: il padre, Billy Ray Cyrus, è un noto cantante country, sposato in seconde nozze con Leticia “Tish” Finley. Miley è la prima di tre figli della coppia. Anche la sorella minore Noah, nata nel 2000, ha intrapreso la carriera artistica, fra musica e recitazione, ed è molto conosciuta. Da parte di madre si aggiungono due fratellastri (poi adottati dal padre), di cui uno, Trace Cyrus, è un musicista. Insomma: una famiglia allargata (anche se i genitori nel 2021 si sono separati) in cui la creatività scorre nelle vene.
La cannabis
Durante la famosa serata agli Mtv Vmas del 2013 Miley Cyrus ha anche fumato uno spinello sul palco. È solo una delle varie provocazioni della popstar che, al di là del gesto di sfida in diretta tv, si è comunque sempre detta favorevole al consumo della cannabis, definendola una «droga felice»
Il matrimonio e i suoi amori
Miley Cyrus ha parlato più volte del suo orientamento sessuale, dichiarando di essere pansessuale, senza etichette e facendo sentire sempre il suo sostegno alla comunità Lgbt+. Il gossip sui suoi amori impazza costantemente, ma la storia più lunga della popstar è stata quella con l’attore Liam Hemsworth che ha frequentato per diversi anni a più riprese. I due, un po’ a sorpresa, si sono anche sposati (il 23 dicembre 2018), ma hanno divorziato dopo otto mesi. Subito dopo la rottura, Miley è stata paparazzata (in Italia) con la blogger Kaitlynn Carter, ma la storia è presto finita
Mimmo Locasciulli: «Rileggo gli anni 80 e chiudo un cerchio». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.
Il cantautore torna con «Intorno a trentanni revisited»: «Un album diventato la testimonianza di un’epoca».
Guarda indietro agli ideali di una generazione, ripercorrendoli con gli occhi di oggi «Intorno a trentanni revisited», disco con cui Mimmo Locasciulli rielabora il lavoro che, nel 1982, gli ha dato il primo importante successo. «“Intorno a trentanni” è diventato la testimonianza di un’epoca, non per mia scelta ma per come si sviluppò l’accoglienza del pubblico — ricorda il cantautore abruzzese, oggi 72enne —. In quegli anni eravamo sommersi dalla corrente del riflusso, dall’uragano dell’edonismo, dai cravattoni con i nodi enormi e dai paninari, dopo che negli anni 70 si erano tentate delle ipotesi diverse di vita. Mentre ero dentro non mi rendevo molto conto, così oggi ho provato a vedere che ne è stato di quelle idee e di quei valori».
Nel nuovo disco le canzoni trovano una veste nuova grazie anche alla presenza di alcuni ospiti: nella title track, vero manifesto dell’album, Locasciulli duetta con Eugenio Finardi: «Negli anni 80 facevo capo alla cosiddetta scuola romana, quella dei cantautori dell’etichetta Rca, mentre Milano aveva invece una connotazione più identitaria e politicizzata. Ho voluto chiudere questo cerchio, dilatato per 40 anni, riabbracciando Finardi che ho sempre ammirato».
In «Buoni propositi» compare invece Brunori Sas, «controcanto giusto per una canzone molto ironica», che ha offerto a Locasciulli anche lo spunto per una riflessione sulla musica italiana del presente: «Il ruolo dei cantautori oggi si è svilito. La parola fa gola e anche quando un brano è scritto da otto autori diversi, fra cui quello che lo canta, quello che lo canta viene chiamato cantautore. Invece mi sono guardato intorno e mi sono chiesto “ci sono ancora cantautori, a parte gli storici?” Ecco, c’è Brunori che ha una visione molto esatta della realtà, e per fortuna anche qualche altro».
Questo «zoccolo duro» di cantautori, prosegue, «resiste all’ondata di quelli che chiamo trappatori, rappatori e zappatori. Io sono amico di Frankie Hi Nrg, ammiro Caparezza, ma poi nel rap c’è un movimento, pieno di violenza, che mi pare roba un po’ gratuita e forse un po’ costruita dai produttori. Perché tanti di questi ragazzi che vogliono scannare tua sorella poi escono dai talent e hanno la mamma che li aspetta».
In oltre 40 anni di carriera, fra 19 dischi, collaborazioni con tanti grandi (da De Gregori a Ruggeri a Ligabue) e un Sanremo nel 1985, Locasciulli si è sempre tenuto lontano dalle mode artistiche e dalle logiche commerciali, anche grazie al lavoro di medico che gli ha permesso «di non dover scrivere canzoni per campare e di non sottostare alle istanze dei discografici». Due percorsi portati avanti «con fatica e dedizione», racconta: «La mia vita professionale è la medicina, ma la musica è irrinunciabile nutrimento dello spirito».
Questo disco, però, «è un cerchio che si chiude», anticipa il cantautore (che il 13 maggio sarà in concerto all’Auditorium di Roma), sigillato idealmente dall’inedito «Buonanotte dalla luna», ultimo brano della tracklist: «Adesso voglio uscire fuori dal business, dal tourbillon della promozione, per sperimentare e andare avanti in assoluta libertà. Ho diversi progetti in mente, uno di musica popolare, un altro in cui rivisitare pezzi degli anni 70 e infine l’idea di fare un disco con i miei due figli Matteo e Guido. Ne parliamo da un po’: saremo “Mimmo e i Locasciullis”».
· Mira Sorvino.
La rivincita di Mira Sorvino, ostracizzata per 20 anni perché disse no a Weinstein. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.
L’attrice, che aveva vinto l’Oscar con un film di Woody Allen, torna a recitare nella fiction sul caso Lewinsky interpretando a la mamma della stagista. E ha appena finito di girare Lamborghini, biografia romanzata del grande imprenditore.
La ragazza interrotta del grande cinema americano a ventinove anni aveva già una laurea magna cum laude a Harvard (con tesi vincitrice del premio Hoopes riservato all’assoluta élite dell’ateneo), doppia borsa di studio della Fondazione Ford, cinque lingue parlate correntemente tra le quali il cinese, un premio Oscar e un Golden Globe per La dea dell’amore di Woody Allen, registi e produttori di Hollywood che facevano la fila per convincerla a recitare nei loro film, gli stilisti che le mandavano i loro abiti. Alta, bella, poliglotta, capace di recitare in drammi e commedie illuminando ogni battuta con la sua intelligenza: Mira Sorvino aveva tutto quello che un’attrice può sognare, ma a volte i sogni si trasformano rapidamente in incubi.
Le avances del produttore stalker
Tra i produttori che la cercavano c’era anche Harvey Weinstein: per trent’anni uno degli uomini più potenti di Hollywood e anche molestatore, stalker, stupratore. Sorvino, che ne rifiutò prima le grevi avances e disse poi no all’aperto ricatto, ha avuto la carriera se non distrutta fortemente danneggiata: ostracizzata per vent’anni da un sistema pavido e omertoso, perché non solo Weinstein l’aveva cancellata dai film dei quali era responsabile direttamente, ma aveva fatto sapere a tutti gli altri produttori che Mira Sorvino non doveva più lavorare, almeno nei film di serie A, quelli che avrebbe meritato lei. Sembrava già ingaggiata per la saga cinematografica del Signore degli anelli, popolarità e milioni garantiti: al regista Peter Jackson venne ordinato dalla produzione di scegliere un’altra attrice, né lei né Ashley Judd, altra bravissima interprete che aveva detto no a Weinstein. «Mi fecero sapere che lavorare con Sorvino e Judd era un incubo, meglio perderle che trovarle, di chiamare chi volevo tranne loro due — ha spiegato di recente —. Ho sbagliato, mi dispiace moltissimo».
Un’attrice contro il muro del silenzio
In realtà Mira era (e rimane) ovviamente tra le attrici più preparate e serie, mai un ritardo, zero capricci, la lezione di professionalità assoluta di papà Paul Sorvino grande interprete di teatro e cinema, Big Paulie in Goodfellas capolavoro di Martin Scorsese, il taciturno gangster shakespeariano al quale basta un’alzata di sopracciglio per condannare a morte uno dei suoi picciotti. Mira Sorvino è stata una delle prima attrici a abbattere il muro del silenzio accusando Weinstein, finito prima in disgrazia e poi direttamente in carcere, dove rimane, anche grazie alla sua denuncia. «La mia carriera si è fermata per vent’anni», aveva detto: adesso che l’orco non c’è più e nessuno ha più paura di lui e dei suoi ricatti la vita professionale di Mira Sorvino è ripartita e il pubblico ha potuto ritrovare una delle attrici più brave della sua generazione. Eccola in American Crime Story 3: Impeachment (Fox Crime), fiction ispirata allo scandalo della stagista di Bill Clinton. Sorvino interpreta la mamma di Monica Lewinsky, con la solita classe e intelligenza. E ha appena finito di girare Lamborghini, biografia romanzata del grande imprenditore.
Back to Hollywood
Il suo ritorno è una buona notizia per chi ama il cinema, peccato però che Weinstein abbia cancellato i vent’anni più belli per la carriera di un’attrice di Hollywood. È significativo che, oggi, nel serial su Monica Lewinsky, interpreti la mamma di una venticinquenne. Mira Sorvino ha 54 anni, quattro meno di Brad Pitt e sei meno di George Clooney ai quali però non vengono offerti ruoli da papà ma da protagonista di commedie romantiche. E Harrison Ford a 79 anni e mezzo sta interpretando il nuovo Indiana Jones, in uscita nel 2023.
Miriam Dalmazio: «Volevo fare la giornalista, ma la vita ti porta dove metti davvero le tue energie». Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera il 17 Marzo 2022.
L’attrice 34enne è nel cast di “Studio Battaglia” la fiction in onda su Rai 1 che racconta le vicende di un grande studio legale di avvocati divorzisti
Miriam Dalmazio, 34 anni, ha sempre avuto le idee chiare: a 19 anni ha lasciato la sua Palermo per fare l’attrice a Roma. La sua determinazione non l’ha tradita, in 15 anni di carriera ha lavorato con Gennaro Nunziante e Checco Zalone nel film campione di incassi Sole a Catinelle, con maestri come Ettore Scola e i fratelli Taviani, nelle fiction per famiglie e nelle serie d’autore. In queste settimane è in onda su Rai1 con Studio Battaglia, serie sulle vicende di un famoso studio legale milanese con la regia di Simone Spada. Dalmazio interpreta Nina, giovane donna in carriera che nasconde le fragilità dietro l’ironia.
Perché ha scelto di diventare attrice?
«È stato un caso… da manuale. Ho accompagnato un’amica al provino per la soap di Rai Tre Agrodolce e sono stata presa io. Da lì è iniziato tutto».
Quasi troppo da manuale. Davvero è stata solo una coincidenza?
«Il germe della passione per la recitazione c’era. Sono cresciuta a pane e tv tra gli anni 90 e 2000. Guardavo Amici di Maria De Filippi quando ancora c’erano le lezioni di recitazione: mi piaceva seguirle, sognavo... Vivevo in Sicilia, la condizione isolana mi stava stretta già allora e la mia famiglia non poteva pagarmi le lezioni di recitazione. A 18 anni ho deciso di andare a lavorare come maschera in un teatro di Palermo, cosi potevo vedere gli spettacoli e parlare con gli attori. Alla fine la vita ti porta dove metti le tue energie».
È un’autodidatta?
«Ho iniziato così, poi sul set di Agrodolce ho incontrato la coach Consuelo Lupo con cui sono entrata in grande sintonia. Mi ha donato tantissimo e mi ha spinta a fare il provino per il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma».
Come è stato l’impatto con la capitale?
«Disastroso. È una città enorme, ancor più per me che venivo da Palermo. Non sapevo organizzarmi con i mezzi, ci mettevo ore per arrivare ovunque. Oggi è diventata casa».
Ho letto che sognava di fare la giornalista, è così?
«Mi è sempre piaciuto scrivere. Dopo il liceo mi sono iscritta alla facoltà di Giornalismo, ma non ci credevo. Lo avevo fatto solo perché i miei sognavano una figlia laureata».
Nina, il suo personaggio in “Studio Battaglia” rappresenta bene la generazione dei trentenni…
«Sì, siamo una generazione “via di mezzo”, schiacciata tra la solidità dei genitori e la velocità e consapevolezza dei ragazzi di oggi. Noi vorremmo dare di più, ma ci sentiamo sempre ingabbiati. Mi è piaciuto interpretare questa giovane donna, capace e determinata, che però maschera una grande fragilità sotto una corazza cucitale addosso dalla madre».
È anche in carriera. Pensa che cercare la realizzazione professionale ad alto livello sia ancora più difficile per le donne?
«Credo che in questo ci sia un miglioramento, le donne con ruoli importanti aumentano. C’è però ancora molto da fare sulla parità salariale, anche nel mio settore».
Meglio i set del cinema o delle serie tv?
«Ora inizio a preferire le serie tv. Le riprese durano di più, c’è più tempo per approfondire il personaggi. Tante volte mi è capitato di finire un film e dirmi “potessi tornare indietro quella scena la rifarei così”».
Per il futuro dunque sogna una nuova serie tv?
«Mi piacerebbe lavorare ancora con Niccolò Ammaniti, ho girato con lui Anna, serie Sky. È molto esigente, cerca la perfezione in tutto e non si ferma mai. È impegnativo, ma poi in quel calderone di bellezza ci sei dentro anche tu».
Buon compleanno Monica Bellucci. La star compie 58 anni (ma non si vede). Silvia Luperini su La Repubblica il 30 settembre 2022.
La diva italiana, tra le più amate all'estero, continua a essere un simbolo di bellezza e di fascino nel mondo. Gli anni passano, la carriera procede senza interruzioni, e lei dimostra che si può essere un sex symbol a ogni età. Il suo segreto? prima di tutto imparare ad accettarsi, e poi...
Il 30 settembre Monica Bellucci compie 58 anni, la grande bellezza del cinema ha saputo accettare il tempo che passa con intelligenza e con intelligenza ha saputo gestire la propria vita, professionale e non.
Monica ha infatti condotto con successo sia la sua carriera da modella, sfilando per i più grandi marchi del mondo come Dolce&Gabbana e Fendi, sia la propria vita privata, scegliendo di andare a vivere a Parigi, già molti anni fa, dove è riuscita ad emergere e ad affermarsi passo dopo passo grazie a un'attenta selezione dei film in cui avrebbe recitato, tra pellicole d'autore, titoli di giovani emergenti e blockbuster internazionali. Alcuni titoli: L'appartement di Gilles Mimouni, Dracula di Bram Stoker, Malena di Tornatore o Bondgirl nello 007 Spectre. La sua è la storia di una ragazza umbra (nasce a Città di Castello, in provincia di Perugia, nel 1964) che è riuscita a sfondare e a imporsi come attrice e sex symbol, un ruolo che continua a essere suo ancora oggi, alla soglia dei sessant'anni. Gli anni non fanno che aggiungere fascino alla bellezza magnetica e misteriosa dell'attrice.
Anche nel privato, Monica si è distinta per la "misura" con cui ha saputo proteggere i suoi affetti. Dall'attore francese Vincent Cassel, sposato nel 1999, ha avuto due figlie, Deva, 18 anni, e Léonie, di 12. Tre anni dopo la nascita di quest'ultima arriva la separazione della coppia, nel 2013, annunciata laconicamente con un comunicato spedito all'Ansa. Lui si rifà presto una vita e nel 2018 sposa in seconde nozze la modella italo-francese Tina Kunakey, 25 anni, da cui ha avuto una figlia, Amazonie. La sua nuova vita ha sempre destato l'interesse del pubblico, ma Monica non ha mai rilasciato commenti in merito.
Monica Bellucci non ha ceduto alle sirene del bisturi facile e ha anzi saputo accettare i cambiamenti del viso e del corpo senza mai sfigurarsi con interventi che ne snaturassero i lineamenti. E senza mai nemmeno giudicare le colleghe che hanno fatto scelte diverse: "Mai dire mai. Ognuna fa quello che si sente".
Il suo segreto? Lo aveva svelato proprio in un'intervista su Repubblica: aver imparato a prendere le distanze. "Le mie due figlie hanno cambiato l'ordine delle mie priorità", ha detto. "La passione per il lavoro e l'entusiasmo sono rimasti invariati, però noto un certo distacco salutare: penso a loro e meno a me. Con l'età è cresciuto il coraggio perché non lotto più per me stessa, ma per qualcosa che è più importante di me".
L'emancipazione femminile, seppure in un processo lento, ha fatto passi avanti ed ha aiutato chi ha saputo, come lei, cogliere e incarnare il cambiamento: "Passi importanti. Oggi anche le attrici che non hanno più la freschezza della giovinezza possono accedere a ruoli prima impensabili e la carriera prosegue anche ben oltre i cinquant'anni. È lo sguardo degli altri e quello che portiamo su noi stesse a essere cambiato: siamo più indipendenti e abbiamo qualcosa da dire anche al di fuori dall'ambiente domestico. Ma questo avviene con molta lentezza, anche se ci sono già piccole aperture. E lascia morti e feriti sul campo", ha affermato su Repubblica.
Il rapporto con la figlia Deva, modella come lei
In occasione della sfilata di Dolce&Gabbana primavera-estate 2023 a Milano, qualche giorno fa, Monica Bellucci ha reso chiaro un intento: lasciare il testimone alla figlia, che ha di nuovo sfilato per il brand di cui Monica è stata a lungo testimonial con una sottoveste super sexy. Già lo scorso luglio infatti Deva Cassel era stata tra le protagoniste dello show Dolce&Gabbana Alta Moda autunno inverno 2022- 2023, nella splendida cornice di Ortigia, dove sua madre, anni fa, aveva girato il film Malena indossando un total look nero altrettanto seducente. Da brava mamma, Monica Bellucci è ed è sempre stata in prima fila ad applaudirla e se occorre a prestarle aiuto, come allo show siciliano quando, per un calo di zuccheri, Deva è svenuta. La giovane Cassel è sempre più lanciata nella carriera che è stata della mamma: la sua prima copertina di Vogue la vede ritratta a fianco a lei, nel 2021, e il debutto nella pubblicità è stato proprio per Dolce&Gabbana, nello spot girato in Costiera Amalfitana per il profumo Dolce Shine e poi per la pubblicità di Dolce Rose, con set a Bellagio sul Lago di Como.
Monica Bellucci e lo stile
Anche con i look, Bellucci non ha mai sbagliato un colpo: dopo aver accorciato e giocato con le chiome, all'ultima Mostra del cinema di Venezia si è presentata sul red carpet di Siccità di Paolo Virzì con i capelli lunghi, mossi e scuri alla mediterranea. Una bella lezione di age positivity per ricordarci che non c'è una sola strada da percorrere per le over 50. E non esiste solo il taglio corto o la tinta chiara, come dicono certi vecchi dettami estetici, ma quello che fa sentire meglio.
"Mi piace l'idea di bellezza come evoluzione personale", ha rivelato di recente la sex symbol di Malena a Vogue Arabia, "oggi, poi le donne di 50, 60 e 70 anni sono decisamente in forma, un punto di riferimento per le più giovani". E ancora: "penso che perdere a poco a poco la bellezza biologica della giovinezza ci offra la possibilità di osservare la vita da una prospettiva diversa. Si tratta del privilegio dell'esperienza e della maturità".
Sempre a Venezia, al Festival del Cinema 2022, la star ha sfoggiato il suo abituale make-up, sexy ma sobrio: occhi fumosi e labbra carnose con un rossetto lucido leggermente aranciato. E, come le capita spesso, un total look black. Un classico che esalta le forme senza sottolinearle troppo. Un'altra lezione di Monica: un look, soprattuto quando è collaudato, non si cambia.
Tutti hanno dei rituali di bellezza, anche la diva italiana più amata all'estero ha i suoi: "Quelli che permettono di rilassarsi, amo praticare il Pilates, nuotare o semplicemente fare un bel bagno caldo e andare alla spa", ha raccontato, "concedersi del tempo solo per sé stesse è importante. Dopo ti senti come nuova".
L'elemento notevolissimo dei 58 anni di Monica Bellucci non è quanto non li dimostri, ma come sappia andare incontro alla sua età con grazia. Nel giorno della celebrazione del suo compleanno possiamo affermare con serenità che la diva di origini umbre non ha perduto nemmeno un briciolo di bellezza, eleganza e charme, ovvero quelle caratteristiche che l'hanno accompagnata lungo tutto il suo percorso professionale.
Le piace giocare con i look e cambiare spesso aspetto, giocando soprattutto con il taglio di capelli (come quando aveva sorpreso tutti alla Milano Fashion Week con un inedito taglio corto) e riuscendo sempre a conservare immutato il suo fascino magnetico. "Sono diversa, fisicamente ma anche intimamente. Il corpo è il mio strumento del mestiere ed è cambiato, da un lato non posso più essere quella di Matrix e Malena, ma dall’altra mi offre opportunità nuove che prima non avrei potuto cogliere. E questa maturità mi piace... Ho capito che dopo i 50 anni una donna può davvero divertirsi tanto", così Monica raccontava a D.it la sua metamorfosi.
"La Bellucci" è ormai in tutto il mondo sinonimo di diva italiana. Mentre la figlia Deva, a 18 anni, si afferma come modella, portando in eredità cotanto patrimonio genetico, Monica continua a piacere a uomini e donne, a ogni latitudine, perché dal suo aspetto traspare il suo equilibrio. Non rincorre le mode, la giovinezza a tutti i costi, la magrezza nevrotica. Piace perché è capace di grandi passioni, come quella con l'ex marito Vincent Cassel, e di grandi addii (sempre con Vincent, oggi marito della modella Tina Kunakey) senza odi e senza clamori. Insomma, Monica è unica e lo dimostra il trambusto che ogni sua apparizione suscita. Forse perché quando non deve promuovere uno dei suoi film, Monica semplicemente vive la sua vita senza apparire, dedicandosi alle due amate figlie, oltre a Deva c'è Leonie, di 12 anni.
Quando era ancora legata a Cassel, i due, pur molto uniti, vivevano però spesso separati, lui in Brasile lei a Parigi, e la diva se ne infischiava di chi le chiedeva conto di un rapporto di coppia così anomalo. Fiera e indipendente, ma fortemente "mamma italiana" come amano definirla all'estero, Monica è portatrice sana di una bellezza mediterranea senza tempo. Forte anche dell'esperienza come modella, che l'ha vista debuttare nel 1988 sfilando per i più grandi, ha dichiarato a Vanity Fair: "Ho capito dalle mie nonne, con cui amavo dormire e parlare, che da vecchie si può essere meravigliose e che l'unico modo per rimanere belle è lavorare sulla sostituzione della bellezza biologica, che è un regalo per cui ringraziare ma destinato a scemare, con quella interiore, di cui siamo soli artefici. Così, la vecchiaia non esiste". Di seguito, alcune splendide immagini della sua carriera.
Monica Bellucci: «Io diva? Faccio la spesa e porto i figli a scuola. È vero, gli uomini francesi sono più freddini degli italiani». Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022
Nella casa nel Quartiere Latino. «Ogni tanto mi fermano per strada»
Nella cucina di casa Bellucci, a Parigi , dietro agli sportelli si scorgono pacchi di pasta e un barattolo di Nutella: come in tutte le famiglie francesi, ormai. Ma c’è un’altra cosa che parla di Italia, ed è una grande e splendida fotografia di Sophia Loren sorridente, appesa sul muro blu. «L’ho vista nella vetrina di un negozio qui a Parigi e ho pensato che dovessi assolutamente averla — racconta —. Sono entrata, mi hanno detto che la foto non era in vendita, ma ho talmente insistito che mi hanno accontentata, sono stati gentili. Parigi è la città del Nord Europa, perché di questo si tratta in fondo, più vicina a noi italiani».
Ambasciatrice del nostro Paese
Monica Bellucci ci apre la porta con quel sorriso che i francesi adorano, simbolo di un’Italia affascinante e accogliente allo stesso tempo. Qui è considerata un’ambasciatrice del nostro Paese o almeno della sua versione migliore, associata a intensità, bellezza, eleganza. La definiscono «ipnotica» e «divina», ricordano spesso con orgoglio che è a Parigi che vive «la donna più bella del mondo». Ma qual è il giudizio di Monica Bellucci sulla sua città d’adozione, che accoglie almeno 35 mila italiani come lei? Che cosa ha pensato la prima volta che ha visto Parigi? «Ero giovanissima, doveva essere il 1981 e sono venuta qui per qualche giorno per fare la modella e scattare alcune foto di moda. Vivevo a Città di Castello, in provincia di Perugia, ero una ragazzina e Parigi mi è sembrata un luogo meraviglioso, mi dicevo: “Come potrei vivere in una città così grande?”». Forse solo un italiano di Roma può arrivare a Parigi senza lasciarsi impressionare (Parigi sarà bella ma è pur sempre priva di Colosseo e Ponentino). Per molti altri italiani Parigi rappresenta ancora una meta sulla quale fantasticare, un luogo più grande, spettacolare e cosmopolita della provincia italiana e allo stesso tempo addolcito da qualcosa di famigliare. Monica Bellucci è arrivata qui per la prima volta nel 1981, e il legame negli anni non si è mai allentato, anzi.
Il giorno e la notte
«Durante il liceo venivo per le foto per due settimane l’anno ma poi tornavo a scuola a Città di Castello, era come passare dal giorno alla notte. Poi dopo la moda ho cominciato a fare il cinema, il mio grande sogno sin da bambina, e il primo film francese è stato L’appartamento, nel 1995. Ho viaggiato molto per lavoro in tutto il mondo, ma alla fine mi sono stabilita definitivamente a Parigi dieci anni fa, per le mie figlie Deva, che adesso ha 18 anni, e Léonie che ne ha 12. Ho scelto Parigi come base per farle crescere, perché lavoro soprattutto qui, anche se sono nate entrambe a Roma». Come e più che a Londra o a New York, a Parigi ci si può sentire del posto senza perdere l’attaccamento alle origini e senza sentirla come una contraddizione. Spesso sono i figli a dimostrarlo: le ragazze Bellucci continuano a sentirsi italiane «e parlano benissimo l’italiano. Andiamo spesso in Italia e coltiviamo la nostra doppia appartenenza, mi sembra una bella cosa». Accanto alle radici italiane c’è la scelta di una vita francese, e ogni appassionato di Parigi ha una sua ragione principale per amare la capitale. Quel che piace di più a Monica Bellucci è «il fatto che sia così piena di differenze, un misto di etnie diverse che da sempre convivono insieme. È quello che mi ha colpito di più da ragazza, e che tutto sommato mi affascina ancora adesso. Una cosa magica. Parigi e la Francia si fondano su questo, la capacità di accogliere culture diverse per fare nascere una cultura nuova e originale».
Il periodo più duro
Se gli anglosassoni privilegiano il multiculturalismo che certe volte significa separazione e lo sviluppo autonomo di ogni comunità — ognuno sta con i suoi simili e mantiene le sue abitudini —, l’universalismo francese prevede una certa dose di amalgama, di mescolanza: almeno idealmente, si è chiamati a diventare un po’ francesi, e in cambio la Francia si evolve grazie al contributo di chi arriva da fuori. Un modello che ha conosciuto la sua crisi più tragica con gli attentati islamisti del 2015, ai quali i parigini risposero con una dimostrazione di eccezionale unità e solidità. Un piccolo ma significativo episodio fu il record di vendite di «Parigi è una festa», il libro di memorie di Ernest Hemingway che celebrava la gioia di vivere parigina ricordando i suoi soggiorni negli anni Venti (in Italia il libro si intitola Festa mobile, ndr). «Il periodo degli attentati fu terribile ma la città e il Paese hanno retto. Questo è quel che rende grande la Francia, secondo me. Parigi è sempre riuscita a fare coesistere tutte le esperienze e tutte le origini».
Vitti e Mastroianni
Parigi è anche una città fatta di quartieri, segnata dalla divisione tra rive droite (un tempo più solenne e conservatrice) e rive gauche (più artistica e bohème), a nord e a sud della Senna. Una distinzione che in parte resiste, anche se ormai conta di più quella tra l’Ovest della città, più agiato, e l’Est popolare. Monica Bellucci ha scelto il Quartiere Latino, nella rive gauche, «perché è ospitale, tranquillo e vivace allo stesso tempo, e ha una tradizione di accoglienza degli artisti e intellettuali di tutto il mondo, che si dividevano tra qui e Montparnasse, come Modigliani per esempio». Quella tradizione è continuata nei decenni successivi, con l’età d’oro del cinema e delle collaborazioni tra Francia e Italia. «Pensiamo a Mastroianni o alla Cardinale, o a Monica Vitti che qui è adorata, o a tutti i meravigliosi attori francesi che hanno lavorato in Italia, da Michel Piccoli a Jean-Louis Trintignant ad Alain Delon. Lo scambio è sempre stato enorme, non è difficile per un’attrice italiana sentirsi a casa in Francia e in particolare a Parigi, il fatto che siamo cugini lo senti ogni giorno. Ma credo che questo valga per tutti gli italiani. Le tracce della cultura italiana in quella francese sono ovunque e molto importanti, basta pensare a Leonardo da Vinci che è morto in Francia e a tutto il Rinascimento».
La casa di Voltaire
La giornata parigina di Monica Bellucci è «di una assoluta normalità». «Ruota molto attorno alle mie figlie. Mi alzo presto per preparare loro la colazione prima della scuola, accompagno la più piccola, poi sbrigo qualche cosa o qualche appuntamento, spesso pranzo con la più grande oppure aspetto che escano da scuola. Una giornata da mamma». Ma la Bellucci è considerata un’icona dell’Italia nel mondo, e in Francia è come la Torre di Pisa, un simbolo del nostro Paese. È una responsabilità impegnativa? La fermano per strada? «Capita, ma non succede mai in modo opprimente o spiacevole. Posso andare a fare la spesa o a fare una passeggiata con grande tranquillità. I parigini sono talmente abituati ad avere tra loro artisti arrivati da ogni Paese che non ci fanno troppo caso. C’è un rapporto abbastanza naturale con le persone che fanno il nostro lavoro». I ristoranti preferiti sono di solito una buona spia della personalità e del rapporto con una città. E quelli della Bellucci sono coerenti con il suo essere un’italiana di Parigi curiosa degli altri Paesi. «Adoro vivere in una città-mondo dove si può mangiare qualsiasi specialità, dall’asiatico all’indiano all’africano. Tra i ristoranti italiani mi piace Sardegna a Tavola, qui vicino, con un tiramisù buonissimo, e il classico Stresa oppure anche il Carpaccio, il ristorante italiano dell’hotel Royal Monceau. Tra i francesi, mi piace il Voltaire, cucina tradizionale. È la casa davanti alla Senna nella quale ha vissuto per sessant’anni François-Marie Arouet, Voltaire appunto». Quanto ai cinema, «sale d’essai come la Filmothèque du Quartier latin, l’Écoles cinéma club, l’Arlequin, che proiettano film classici a qualsiasi ora, anche al mattino, uno dei più grandi piaceri parigini».
Giardino segreto
L’amore per Parigi non significa per forza prendere la nazionalità francese — «No, ho ancora il passaporto italiano» — e neanche escludere un ritorno in Italia. «Magari a Roma, ma mi piacciono tante città, da Milano, dove ho vissuto, a Bologna a Firenze, e ho ancora tanti legami famigliari con l’Umbria». I meno francofili degli italiani, non potendo non riconoscere le qualità di Parigi, talvolta se la prendono allora con i parigini (con la solita accusa di essere supponenti, arroganti, etc.). Monica Bellucci dice di non credere a una differenza profonda tra le persone a seconda dei Paesi — «sono luoghi comuni» — e neanche per quel che riguarda le relazioni tra uomini e donne. «In superficie, forse possiamo dire che gli uomini italiani sono più immediati, hanno un approccio diretto, mentre i francesi all’inizio restano un pochino più distanti. Ma siamo troppo vicini culturalmente per parlare di un divario vero». Dopo il matrimonio con Vincent Cassel, padre delle sue figlie, e la relazione con l’artista Nicholas Lefebvre, la vita sentimentale di Monica Bellucci oggi a Parigi resta riservata. «Ho un’età per cui posso permettermi di non parlare della mia vita privata. Mi piace conservare il mio giardino segreto. Come dicono i francesi, vivons cachés, vivons heureux (viviamo nascosti, viviamo felici, ndr)».
Monica Bellucci: «La precarietà di oggi ci fa apprezzare il presente». Dopo tantissimi film, solo un paio d'anni fa - quando ha trovato il progetto giusto - Monica Bellucci ha esordito a teatro. In quanto al cinema, in autunno la vedremo nei panni di Altea, l'eterna fidanzata di Ginko, nel secondo Diabolik dei Manetti bros. «Mi piace sperimentare», dice l'attrice. Che, oltre al cinema, ha un'altra grande passione: i bambini. Tanto che, confessa, avrebbe potuto lavorare con loro. CRISTINA LACAVA su Io Donna il 2 Luglio 2022.
Elegante e anticonformista, coraggiosa, bellissima: è Altea, duchessa di Vallenberg, l’eterna fidanzata dell’ispettore Ginko, il poliziotto che da sempre dà la caccia a Diabolik, e da sempre ne esce sconfitto. Per chi ha amato – e ama ancora il fumetto delle sorelle Angela e Luciana Giussani, non è una sorpresa scoprire che Altea, nel film Diabolik – Ginko all’attacco! (nelle sale dal 17 novembre), il secondo capitolo della saga dei Manetti bros., avrà il volto di Monica Bellucci. Altea è Monica; ne ha il fisico, la forza, la risolutezza, il voler smentire i cliché in modo naturale, quasi senza accorgersene.
Eppure, a dirglielo, l’attrice si schermisce e ride: «Non sai mai perché i registi ti scelgono» dice. Ne parliamo – in anteprima per iO Donna – con Monica Bellucci in una chiacchierata distesa, nonostante gli impegni pomeridiani che la attendono: organizzare una merenda con le amiche di Leonie, 12 anni, e seguire, a rispettosa distanza, gli ultimi giorni di studio di Deva prima del diploma. Le figlie, ovviamente, hanno la priorità.
Ma c’è tempo anche per parlare della nuova sfida cinematografica. E delle altre che l’attendono.
Quando i Manetti bros. l’hanno chiamata, conosceva già Diabolik?
Certo. Come tanti della mia generazione, ho imparato a leggere sui fumetti, facevano parte di noi, da bambini ce li scambiavamo. Aggiungo che ho amato moltissimo il primo Diabolik dei Manetti bros., sono rimasti fedeli al fumetto ricostruendo fedelmente l’atmosfera, l’eleganza e quella lentezza che è l’opposto della velocità di oggi. Non è un film veloce e vuoto, è un film pieno di sguardi, di costumi, di recitazione. Vederlo è stato un tuffo nell’infanzia, un tuffo felice.
Parliamo di Altea. Chi è la duchessa di Vallenberg?
Altea è stravagante, anticonformista, non ha paura di niente e tanto meno di Diabolik, appartiene a un ceto che non ha scelto ma ama un poliziotto e la disparità sociale rende questo amore impossibile, anche se lui è una persona speciale. Lei glielo ripete spesso: tu non sei un semplice poliziotto, sei il migliore. Ginko e Altea hanno la stessa energia di Diabolik ed Eva Kant ma hanno scelto di stare dalla parte del bene. Indirizzano questa forza verso un obiettivo opposto a quello della coppia criminale.
Quali altri impegni ha?
Sto girando in Italia Mafia Mama, una commedia al femminile di Catherine Hardwicke con Toni Collette, scritta benissimo. In autunno riprenderò la tournée teatrale di Maria Callas – Lettere e memorie, torneremo in scena a Parigi, entro la fine dell’anno saremo a New York e Los Angeles.
Lei ha girato più di 60 film. In teatro, invece, ha esordito solo un paio di anni fa, proprio con Maria Callas. Come mai?
Un po’ dipende dalla mia natura: sono una persona molto tranquilla, vivo nel mio mondo. Il mestiere di attrice invece mi espone. Con il teatro, questa esposizione è molto più forte, e non me la sono mai sentita. Fino a quando mi è stato proposto il progetto sulle lettere di Maria Callas; erano così intense e profonde, descrivevano una femminilità così devastata… Non potevo dire di no.
La sfida era difficile da affrontare, mi faceva quasi paura. Ma l’ho superata, e sono contenta, perché mi ha permesso di crescere. Pensi che siamo partiti con un adattamento in francese, nel 2020, poi sono arrivati quelli in italiano e in inglese. Recitare sul palco in tre lingue è un lavoro pazzesco. Quando torni al cinema, è una sensazione di aria fresca.
L’attrice: «Ho voglia di sperimentare»
Dopo tutti questi film, cos’è che la spinge a continuare?
Non lo so. Ho una grande passione e credo di dover ancora imparare. Basti pensare al teatro, con la mia prima volta a 55 anni. Forse ho voglia di sfide nuove, di sperimentare. Magari arriverà un momento in cui mi allontanerò dolcemente dal set, dicendo grazie e arrivederci.
Speriamo di no.
Perché? Sarà bello, quando sarà il momento. Penso di essere stata molto fortunata a fare l’attrice oggi. In precedenza non era così.
Si riferisce ad Anita Ekberg, che ha interpretato in The Girl in the Fountain?
Per fortuna è cambiata un’epoca. Quando la freschezza della gioventù ha abbandonato Anita Ekberg ma anche Maria Callas, per entrambe è iniziata una fase durissima nella carriera e nella vita personale. Senza la bellezza legata all’età biologica, una donna perdeva la sua identità, soprattutto se era nel mondo dello spettacolo. Oggi abbiamo carriere più lunghe e un ruolo diverso nella società, abbiamo più rispetto per noi stesse e siamo rispettate. Una volta non avrebbero chiesto a una donna di 57 anni di interpretare Altea.
Lei ha due figlie: Deva, 17 anni e mezzo, e Leonie, 12. Che cosa si augura per loro?
Devono scoprire la loro passione e seguirla. Come genitore, puoi solo aiutare a portare avanti la loro scelta. Deva ha cominciato con la moda, e mentre va a scuola fa servizi fotografici. Aver iniziato così presto a mettere un piede nel mondo del lavoro era qualcosa che serviva a lei. Aveva bisogno, credo, di staccarsi dalla rete familiare e conquistare la sua indipendenza. Si diverte, sta andando verso una strada che la stimola e la fa sentire più adulta.
Leonie ha scoperto il teatro, ha superato un’audizione, si è iscritta a una scuola e ha partecipato con gioia alla sua prima rappresentazione. Le mie figlie hanno età diverse e sono altre persone rispetto ai genitori. Ma entrambe hanno sicuramente una forte sensibilità artistica. Come la esprimeranno in futuro, non si sa.
Da madre di due adolescenti, darebbe qualche consiglio ai genitori?
No, perché non ci sono regole. Tutti cerchiamo di fare del nostro meglio e tutti sbagliamo. La cosa più importante, secondo me, è mantenere il filo della comunicazione. La vita porterà i figli da un’altra parte, ma quel filo permetterà alla relazione di andare avanti. Bisogna creare un clima di fiducia, e avere capacità di adattamento. Non è facile, perché i percorsi di vita cambiano, ma proprio per questo è necessario.
Quanto è importante per lei la dimensione materna?
I bambini mi sono sempre piaciuti moltissimo, se non fossi stata un’attrice forse avrei lavorato nel mondo dell’infanzia. Anche se, in qualche modo, proprio il mestiere di attrice mi fa restare legata a questa dimensione. Gli occhi dei bambini, così luminosi, sono meravigliosi. Poi la vita ci cambia, ci mette dei filtri di protezione davanti.
Con Deva e Leonie, parla di questo periodo così difficile?
Ne parliamo, certo, possiamo fare solo questo. Ma ne parlano molto anche a scuola. La pandemia mi ha fatto scoprire l’importanza degli insegnanti e della scuola. Guardando le mie figlie collegate tutto il giorno, mi sono resa conto della grande responsabilità che hanno gli insegnanti, gli unici adulti che i bambini vedono con continuità oltre ai genitori, figure terze che li aiutano a crescere e ne favoriscono l ‘indipendenza. Che siano una buona guida è fondamentale non solo per l’apprendimento ma per aiutare i bambini a comunicare con gli altri e con se stessi.
E lei, come vive questa fase?
Questo senso di precarietà può mettere ansia, ma può anche spingere ad adattarci e a farci apprezzare la quotidianità. Viviamo sempre nella proiezione del futuro o nel rammarico del passato, ma questa situazione troppo più grande di noi ci fa capire l’importanza del momento.
Vedendo le mie figlie crescere, ho capito che hanno più bisogno di me adesso, sia Leonie nella sua preadolescenza, sia Deva che si sta trasformando in donna. Sento che la mia presenza è importante e posso dargliela. Ma non basta, è importante che i figli vedano che stai bene come donna, come persona.
Che cos’è oggi per lei la femminilità?
La vita ti trasforma, la femminilità cambia e ti devi adattare. Ognuno si adatta a suo modo e con i suoi tempi. Se saremo di nuovo qua a parlarne tra vent’anni, attraverseremo un’altra fase e ci adatteremo anche a quella. Per fortuna cambiano anche le necessità e quel che chiedi al tuo corpo oggi non è lo stesso che chiedevi a vent’anni. Hai esigenze diverse rispetto a quando eri più giovane e non è solo una questione esteriore. Cambi anche dentro e alla fine trovi il tuo equilibrio. Almeno, lo cerchi.
E la maternità?
Ancora oggi per molte donne è un ostacolo, sul lavoro. La maternità è una ricchezza sociale, va protetta da un sistema che non è ancora a punto. C’è una trasformazione in meglio che coinvolge anche gli uomini: finalmente stanno entrando nel nostro mondo, sono collaborativi, soprattutto i giovani. Dobbiamo solo lasciare che il tempo faccia il suo cammino e cercare di essere fiduciose.
Tornerà a vivere in Italia?
Non lo so, non è detto che non succeda. Ma ci vengo spesso in Italia, anche se abito a Parigi: ho le mie amiche, la famiglia. Vivo l’attimo, non faccio programmi. Io Donna
Monica Guerritore, la relazione travagliata con Giannini ( a cui ruppe due costole) e quella finita con Lavia per un cellulare, storia dei suoi grandi amori. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.
La mamma di Totti
A un anno dal debutto su Sky, è arrivata in chiaro su Tv8 «Speravo de morì prima» la serie tv diretta da Luca Ribuoli che racconta gli ultimi due anni di carriera di Francesco Totti, basata sulla biografia «Un capitano» scritta da Paolo Condò in collaborazione con l’ex-calciatore Francesco Totti. Il quale è interpretato da Pietro Castellitto. Mentre sua madre Fiorella - figura fondamentale nella crescita del calciatore - ha il volto di Monica Guerritore. che ha raccontato in un’intervista: «E’ una donna che ha avuto, e ha, un grande ruolo nella vita di suo figlio. È stata lei, mamma Fiorella, a individuare per prima il talento di quel ragazzino, a portarlo agli allenamenti, a imparare le lezioni a memoria per poi spiegargliele, ad asciugargli i capelli con il riscaldamento dell’auto. A bloccare il suo trasferimento nelle giovanili di una squadra di Milano: aveva capito che Francesco aveva la sua grande forza in Roma, nella città che lo nutriva, nella romanità che aveva nel sangue». E ancora: «Ho dovuto lavorare molto sul dialetto romano - ha continuato l’attrice - un romano vero, contemporaneo, trattenuto ed esplosivo. Fiorella è una leonessa che combatte contro tutti per il figlio».
Gli esordi in teatro
Monica Guerritore è nata a Roma da padre napoletano (Dino Guerritore, medico e primario ospedaliero) e madre calabrese (Giuseppina Pentimalli). Fin da piccola ha mostrato passione per la recitazione: nel 1973 a 15 anni fa una parte in Una breve vacanza di Vittorio De Sica, poi in Peccato veniale di Salvatore Samperi. Ma la notorietà arriva nella primavera del 1974 con il teatro, quando Giorgio Strehler la fece debuttare al Teatro Piccolo di Milano nella parte di Anja nel Giardino dei ciliegi di Anton Čechov
La storia con Giancarlo Giannini
«Giancarlo Giannini mi lasciò in modo sgradevole, fu maleducato» Così ha raccontato Monica Guerritore parlando della storia d’amore avuta con il bell’attore, a fine anni Settanta. Ha raccontato a Serena Bortone su Rai: «Mi consolo col fatto che caddi dentro ai suoi occhi azzurri, era bello. Non era un uomo rispettoso dei sentimenti degli altri. Il modo in cui mi lasciò fu sgradevole e maleducato. Com’è che si dice: “Vado a prendere le sigarette”. Forse la sua era mancanza di rispetto per i sentimenti degli altri, capita a tanti…». Poi gli anni sono passati, ma Monica non ha dimenticato e così si è presa una piccola rivincita quando dovettero girare insieme ne La lupa: «Gli ho rotto due costole. Dovevamo fare una scena un po’ violenta, rotolandoci in una zona impervia… Il giorno dopo gli dissi: “Ho aspettato 17 anni e la vendetta è arrivata”».
L’amore con Gabriele Lavia
Lo spartiacque nella vita artistica e sentimentale della Guerritore è stato l’incontro con Gabriele Lavia, nel 1981. Nel corso della relazione, durata 20 anni, il regista ha guidato la compagnia in diversi spettacoli complessi e discussi come I masnadieri, Giocasta, Lady Macbeth, Ofelia. Un amore totalizzante tra casa, set e palcoscenico.
Le figlie
Guerritore e Lavia hanno avuto due figlie: Maria Fragolina Lavia, nata nel 1989 e la sorella più piccola Lucia, venuta alla luce nel 1992. solo la secondogenita ha seguito le orme dei genitori
La fine del rapporto con Lavia
La fine dell’amore tra i due artisti, forse non a caso, è maturato proprio mentre i due erano impegnati sul set di «Scene da un matrimonio» di Ingmar Bergman. Ha raccontato Lavia: «Fu colpa mia. In quel periodo avevamo le bambine a casa con la febbre e noi stavamo girando il film, di cui ero regista, dal testo di Ingmar Bergman. Monica aveva il cellulare scarico, le lasciai il mio per mettersi in contatto con la babysitter ma, mentre mi ero allontanato per risolvere un problema sul set, lei che fa? Mai lasciare il proprio telefonino in mano a una moglie! Comincia a smucinare per leggere i messaggini, a scandagliare la mia rubrica telefonica dove, sotto copertura con un nome tipo KZR, c’ era anche il numero di una certa persona. Monica compone il numero e succede l’ irreparabile».
La sensualità
Guerritore per anni è stato sinonimo di sensualità, fascino, malizia. In tanti film si è mostrata in tutta la sua bellezza, come per esempio Scandalosa Gilda e Sensi. Ne La lupa film scritto e diretto da Gabriele Lavia, compare in molte scene appassionate con Raoul Bova. Ma l’attrice ha confidato: «Mai provato imbarazzo (…) non ho mai accettato l’idea che esista il problema sesso nei personaggi femminili».
Il matrimonio con Roberto Zaccaria
Roberto Zaccaria, ex Presidente della Rai e Monica Guerritore, si sono sposati nel 2010 (il secondo matrimonio per entrambi). Ma il loro amore è nato nel luglio 2001. Così il 15 luglio 2021 Monica ha scritto un post su Instagram dal titolo «Accadde 20 anni fa» raccontando nei dettagli come nacque il loro amore. «Il luogo? Ortigia Cosa accadde? Mentre impersonavo Penelope che incontra Ulisse al suo ritorno ( il luogo che si era scelto era Castel Eurialo dove Archimede sperimentó il primo incendio di vele a distanza) quello che poi diventó mio marito, dopo una corte talmente discreta da non essermene accorta, si presentó tra le acclamazioni dei miei giovani colleghi pieni di illusorie future scritture in Rai ( di cui il ‘nostro’ era ancora, per pochi mesi , il Presidente) Nel ritornare in macchina al Grand Hotel di Ortigia ( dove anche lui aveva preso alloggio) io, smessi i panni di Penelope ma piena di ellenica astuzia, noto un lampeggiare sospetto dietro di noi. Al volgermi inorridisco : un tale Gasparri già ministro delle telecomunicazioni che un giorno si e l’altro pure chiedeva la testa del ‘nostro’ parcheggiava in simultanea… con un guizzo prendo la mano del mio futuro lui ( ex nostro) e lo strattono portandolo via dall’ingresso dell’hotel ‘ andiamo di qua..’ gli sussurro. Lui equivoca , pensando a un ‘green pass / passepartout ‘sentimentale e non capendo che io volevo sfuggire all’incontro a tre davanti al concierge, mi stringe forte la mano. Con intenzione… A quel punto dire la verità mi sembró indelicato…e mano nella mano ce ne andammo verso il porto… Dopo vent’anni eccoci ancora insieme e ancora ad Ortigia!»
Il tumore al seno
Nel 2006 all’attrice è stato diagnosticato un carcinoma al seno. Dopo una fase iniziale di sconforto, la Guerritore si è rivolta al professor Umberto Veronesi e, pian piano, ha vinto la sua battaglia. Monica Guerritore ha raccontato a Silvia Toffanin che per fortuna non si è dovuta sottoporre alla chemioterapia. Oggi è testimonial dell’Istituto europeo di oncologia. La drammatica esperienza della malattia, come altri eventi significativi della sua vita, sono presenti ne «La forza del cuore: le sfide della mia vita», il libro autobiografico pubblicato nel 2010.
Dagospia il 4 marzo 2022. Da “Belve” - in onda stasera alle 22.55 su Raidue.
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziosi, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Intervistate con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci ed ombre delle sue ospiti
Monica Guerritore si racconta in una intervista tesa e dura, durante la quale l’attrice incalzata dalle domande di Francesca Fagnani, durante uno scambio particolarmente aspro, minaccia di alzarsi e andarsene. La Fagnani le chiede: “è rimasto storico uno scontro in un talk politico con Giorgia Meloni. Lei disse alla Meloni: lei tocca le corde più basse delle persone”. La Guerritore dapprima risponde: “intanto ho avuto la Digos per un mese, perché sono stata minacciata di morte dai seguaci della Meloni”.
Poi via via il tono dell’intervista si fa ancora più acceso e raggiunge l’acme quando Fagnani le ricorda: “Ma l’accusa fondamentale che le rivolgono è quella di essere una radical-chic dei Parioli, la solita sinistra salottiera e benpensante”. La Guerritore risponde con tono duro e risolutivo, senza ammettere concessioni “Questa accusa altro non è che una stronzata, frutto della disinformazione portata avanti da persone ignoranti”.
L’intervista affronta anche temi personali e sentimentali dell’attrice, che rivela di aver scoperto dal telefonico dell’allora compagno l’attore Gabriele Lavia, le prove di molteplici tradimenti, infatti, le presunti amanti di Lavia erano etichettate con le loro iniziali, dalla A alla W. Insomma, conclude Guerritore sono stata tradita tantissimo, ma non me l’aspettavo perché su di lui avrei messo la mano sul fuoco.
"Radical chic", "Str....me ne vado". Scintille a Belve tra Guerritore e Fagnani. Novella Toloni il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.
L'attrice è stata protagonista dell'ultima puntata di Belve e nel ricordare un episodio del 2018, legato a Giorgia Meloni, è esplosa, minacciando di abbandonare l'intervista.
Belve, il programma di Francesca Fagnani su Rai Due, si conferma format ad alta tensione. Le domande pungenti e dirette, che la conduttrice pone ai suoi ospiti, offrono uno spettacolo ad alto tasso polemico. E così è stato anche per l'ultima protagonista entrata in studio, Monica Guerritore.
L'attrice è stata ospite di Francesca Fagnani, che ha impostato la prima parte dell'intervista su domande legate agli amori passati e alla sua lunga carriera in teatro e al cinema. Monica Guerritore è apparsa sicura e disinvolta nelle risposte e non ha esitato a frenare la curiosità della padrona di casa su domande considerate scomode. "Non rispondo perché è troppo delicata come domanda", ha detto l'attrice nel momento in cui la giornalista le ha chiesto cosa le mancasse come donna.
La chiacchierata si è fatta difficile anche quando Francesca Fagnani ha chiesto alla sua ospite di parlare di Giancarlo Giannini, con il quale visse una passione giovanile. La Guerritore non ha gradito l'ennesimo riferimento all'ex e ha stoppato la domanda: "No basta, basta". La conduttrice ha insistito, cercando di farle raccontare un episodio del passato legato all'attore, ma lei ha tagliato corto: "No mi rifiuto, basta la gente non ne può più di questa storia sono passati trent'anni".
Ma è quando la giornalista è entrata nel vivo dell'intervista, parlando di polemiche passate, che la situazione si è decisamente scaldata. Francesca Fagnani ha ricordato un episodio del 2018, nel quale l'attrice fu ospite di un programma di Lilli Gruber: "E' rimasto storico in un talk politico con Giorgia Meloni. Lei disse alla Meloni: 'Lei tocca le corde più basse delle persone'. Il giorno dopo Meloni fece un post su di lei. Le ha dato fastidio?". Monica Guerritore ha replicato spiegando di avere avuto la Digos sotto casa per un mese perché minacciata di morte e di essere orgogliosa del marito (Roberto Zaccaria, presidente del Cir, il consiglio italiano per i rifugiati) e del suo operato.
Morgan in imbarazzo per la domanda sui rapporti omosessuali: "In che senso?"
La conduttrice l'ha incalzata: "Diciamo che la accusano di essere una radical chic dei Parioli". E l'attrice è sbottata: "No, no! Basta. Non la voglio neanche sentire perché sennò mi alzo e me ne vado. Non è più il tempo di parlare di queste stronzate". La Fagnani ha provato a fare ragionare l'ospite ma senza successo: "Sono stronzate di persone ignoranti, che ignorano quarantacinque anni di grandi testi. Non sono critiche, è disinformazione".
Lo scontro si è acceso. La padrona di casa è così passata al contrattacco: "Cosa siamo in dittatura che non le si può neanche rivolgere critiche? Ho capito che lei si scalda parecchio perché le dà fastidio, ma lei si è posta il problema del perché glielo dicono o pensa solo che sono una massa di ignoranti?". Monica Guerritore ha chiosato con un "certo", confermando l'ultima ipotesi fatta dalla conduttrice e chiudendo il confronto con la Fagnani.