Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LO SPETTACOLO
E LO SPORT
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Vintage.
Le prevendite.
I Televenditori.
I Balli.
Il Jazz.
La trap.
Il musical è nato a Napoli.
Morti di Fame.
I Laureati.
Poppe al vento.
Il lato eccentrico (folle) dei Vip.
La Tecno ed i Rave.
Alias: i veri nomi.
Woodstock.
Hollywood.
Spettacolo mafioso.
Il menù dei vip.
Il Duo è meglio di Uno.
Non è la Rai.
Abel Ferrara.
Achille Lauro.
Adria Arjona.
Adriano Celentano.
Afef Jnifen.
Aida Yespica.
Alan Sorrenti.
Alba Parietti.
Al Bano Carrisi.
Al Pacino.
Alberto Radius.
Aldo, Giovanni e Giacomo.
Alec Baldwin.
Alessandra Amoroso.
Alessandra Celentano.
Alessandra Ferri.
Alessandra Mastronardi.
Alessandro Bergonzoni.
Alessandro Borghese.
Alessandro Cattelan.
Alessandro Gassman.
Alessandro Greco.
Alessandro Meluzzi.
Alessandro Preziosi.
Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.
Alessio Boni.
Alessia Marcuzzi.
Alessia Merz.
Alessio Giannone: Pinuccio.
Alessandro Haber.
Alex Britti.
Alexia.
Alice.
Alfonso Signorini.
Alyson Borromeo.
Alyx Star.
Alvaro Vitali.
Amadeus.
Amanda Lear.
Ambra Angiolini.
Anastacia.
Andrea Bocelli.
Andrea Delogu.
Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.
Andrea Sartoretti.
Andrea Zalone.
Andrée Ruth Shammah.
Angela Finocchiaro.
Angelina Jolie.
Angelina Mango.
Angelo Branduardi.
Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.
Anna Falchi.
Anna Galiena.
Anna Maria Barbera.
Anna Mazzamauro.
Ana Mena.
Anna Netrebko.
Anne Hathaway.
Annibale Giannarelli.
Antonella Clerici.
Antonella Elia.
Antonella Ruggiero.
Antonello Venditti e Francesco De Gregori.
Antonino Cannavacciuolo.
Antonio Banderas.
Antonio Capuano.
Antonio Cornacchione.
Antonio Vaglica.
Après La Classe.
Arisa.
Arnold Schwarzenegger.
Asia e Dario Argento.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Barbara Bouchet.
Barbara D'urso.
Barbra Streisand.
Beatrice Quinta.
Beatrice Rana.
Beatrice Segreti.
Beatrice Venezi.
Belen Rodriguez.
Bella Lexi.
Benedetta D'Anna.
Benedetta Porcaroli.
Benny Benassi.
Peppe Barra.
Beppe Caschetto.
Beppe Vessicchio.
Bianca Guaccero.
BigTittyGothEgg o GothEgg.
Billie Eilish.
Blanco.
Blake Blossom.
Bob Dylan.
Bono Vox.
Boomdabash.
Brad Pitt.
Brigitta Bulgari.
Britney Spears.
Bruce Springsteen.
Bruce Willis.
Bruno Barbieri.
Bruno Voglino.
Cameron Diaz.
Caparezza.
Carla Signoris.
Carlo Conti.
Carlo Freccero.
Carlo Verdone.
Carlos Santana.
Carmen Di Pietro.
Carmen Russo.
Carol Alt.
Carola Moccia, alias La Niña.
Carolina Crescentini.
Carolina Marconi.
Cate Blanchett.
Catherine Deneuve.
Catherine Zeta Jones.
Caterina Caselli.
Céline Dion.
Cesare Cremonini.
Cesare e Mia Bocci.
Chiara Francini.
Chloe Cherry.
Christian De Sica.
Christiane Filangieri.
Claudia Cardinale.
Claudia Gerini.
Claudia Pandolfi.
Claudio Amendola.
Claudio Baglioni.
Claudio Cecchetto.
Claudio Lippi.
Claudio Santamaria.
Claudio Simonetti.
Coez.
Coma Cose.
Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.
Corrado Tedeschi.
Costantino Della Gherardesca.
Cristiana Capotondi.
Cristiano De André.
Cristiano Donzelli.
Cristiano Malgioglio.
Cristina D'Avena.
Cristina Quaranta.
Dado.
Damion Dayski.
Dan Aykroyd.
Daniel Craig.
Daniela Ferolla.
Daniela Martani.
Daniele Bossari.
Daniele Quartapelle.
Daniele Silvestri.
Dargen D'Amico.
Dario Ballantini.
Dario Salvatori.
Dario Vergassola.
Davide Di Porto.
Davide Sanclimenti.
Diana Del Bufalo.
Dick Van Dyke.
Diego Abatantuono.
Diego Dalla Palma.
Diletta Leotta.
Diodato.
Dita von Teese.
Ditonellapiaga.
Dominique Sanda.
Don Backy.
Donatella Rettore.
Drusilla Foer.
Dua Lipa.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Eden Ivy.
Edoardo Bennato.
Edoardo Leo.
Edoardo Vianello.
Eduardo De Crescenzo.
Edwige Fenech.
El Simba (Alex Simbala).
Elena Lietti.
Elena Sofia Ricci.
Elenoire Casalegno.
Elenoire Ferruzzi.
Eleonora Abbagnato.
Eleonora Giorgi.
Eleonora Pedron.
Elettra Lamborghini.
Elio e le Storie Tese.
Elio Germano.
Elisa Esposito.
Elisabetta Canalis.
Elisabetta Gregoraci.
Elodie.
Elton John.
Ema Stokholma.
Emanuela Fanelli.
Emanuela Folliero.
Emanuele Fasano.
Eminem.
Emma Marrone.
Emma Rose.
Emma Stone.
Emma Thompson.
Enrico Bertolino.
Enrica Bonaccorti.
Enrico Lucci.
Enrico Montesano.
Enrico Papi.
Enrico Ruggeri.
Enrico Vanzina.
Enzo Avitabile.
Enzo Braschi.
Enzo Garinei.
Enzo Ghinazzi in arte Pupo.
Enzo Iacchetti.
Erika Lust.
Ermal Meta.
Eros Ramazzotti.
Eugenio Finardi.
Eva Grimaldi.
Eva Henger.
Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.
Fabio Concato.
Fabio Rovazzi.
Fabio Testi.
Fabri Fibra.
Fabrizio Corona.
Fabrizio Moro.
Fanny Ardant.
Fausto Brizzi.
Fausto Leali.
Federica Nargi e Alessandro Matri.
Federica Panicucci.
Ficarra e Picone.
Filippo Neviani: Nek.
Filippo Timi.
Filomena Mastromarino, in arte Malena.
Fiorella Mannoia.
Flavio Briatore.
Flavio Insinna.
Forest Whitaker.
Francesca Cipriani.
Francesca Dellera.
Francesca Fagnani.
Francesca Michielin.
Francesca Manzini.
Francesca Reggiani.
Francesco Facchinetti.
Francesco Gabbani.
Francesco Guccini.
Francesco Sarcina e le Vibrazioni.
Franco Maresco.
Franco Nero.
Franco Trentalance.
Francis Ford Coppola.
Frank Matano.
Frida Bollani.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gabriel Garko.
Gabriele Lavia.
Gabriele Salvatores.
Gabriele Sbattella.
Gabriele e Silvio Muccino.
Geena Davis.
Gegia.
Gene e Charlie Gnocchi.
Geppi Cucciari.
Gérard Depardieu.
Gerry Scotti.
Ghali.
Giancarlo Giannini.
Gianluca Cofone.
Gianluca Grignani.
Gianna Nannini.
Gianni Amelio.
Gianni Mazza.
Gianni Morandi.
Gianni Togni.
Gigi D’Agostino.
Gigi D’Alessio.
Gigi Marzullo.
Gigliola Cinquetti.
Gina Lollobrigida.
Gino Paoli.
Giorgia Palmas.
Giorgio Assumma.
Giorgio Lauro.
Giorgio Panariello.
Giovanna Mezzogiorno.
Giovanni Allevi.
Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.
Giovanni Lindo Ferretti.
Giovanni Scialpi.
Giovanni Truppi.
Giovanni Veronesi.
Giulia Greco.
Giuliana De Sio.
Giulio Rapetti: Mogol.
Giuseppe Gibboni.
Giuseppe Tornatore.
Giusy Ferreri.
Gli Extraliscio.
Gli Stadio.
Guendalina Tavassi.
Guillermo Del Toro.
Guillermo Mariotto.
Guns N' Roses.
Gwen Adora.
Harrison Ford.
Hu.
I Baustelle.
I Cugini di Campagna.
I Depeche Mode.
I Ferragnez.
I Maneskin.
I Negramaro.
I Nomadi.
I Parodi.
I Pooh.
I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.
Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.
Il Volo.
Ilary Blasi.
Ilona Staller: Cicciolina.
Irama.
Irene Grandi.
Irina Sanpiter.
Isabella Ferrari.
Isabella Ragonese.
Isabella Rossellini.
Iva Zanicchi.
Ivan Cattaneo.
Ivano Fossati.
Ivano Marescotti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
J-Ax.
Jacopo Tissi.
Jamie Lee Curtis.
Janet Jackson.
Jeff Goldblum.
Jenna Starr.
Jennifer Aniston.
Jennifer Lopez.
Jerry Calà.
Jessica Rizzo.
Jim Carrey.
Jo Squillo.
Joe Bastianich.
Jodie Foster.
Jon Bon Jovi.
John Landis.
John Travolta.
Johnny Depp.
Johnny Dorelli e Gloria Guida.
José Carreras.
Julia Ann.
Julia Roberts.
Julianne Moore.
Justin Bieber.
Kabir Bedi.
Kathy Valentine.
Katia Ricciarelli.
Kasia Smutniak.
Kate Moss.
Katia Noventa.
Kazumi.
Khadija Jaafari.
Kim Basinger.
Kim Rossi Stuart.
Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.
Klaus Davi.
La Rappresentante di Lista.
Laetitia Casta.
Lando Buzzanca.
Laura Chiatti.
Laura Freddi.
Laura Morante.
Laura Pausini.
Le Donatella.
Lello Analfino.
Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.
Levante.
Liberato è Gennaro Nocerino.
Ligabue.
Liya Silver.
Lila Love.
Liliana Fiorelli.
Liliana Cavani.
Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.
Linda Evangelista.
Lino Banfi.
Linus.
Lizzo.
Lo Stato Sociale.
Loredana Bertè.
Lorella Cuccarini.
Lorenzo Cherubini: Jovanotti.
Lorenzo Zurzolo.
Loretta Goggi.
Lory Del Santo.
Luca Abete.
Luca Argentero.
Luca Barbareschi.
Luca Carboni.
Luca e Paolo.
Luca Guadagnino.
Luca Imprudente detto Luchè.
Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.
Luca Tommassini.
Luca Zingaretti.
Luce Caponegro in arte Selen.
Lucia Mascino.
Lucrezia Lante della Rovere.
Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.
Luigi Strangis.
Luisa Ranieri.
Maccio Capatonda.
Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.
Mago Forest: Michele Foresta.
Mahmood.
Madame.
Mal.
Malcolm McDowell.
Malena…Milena Mastromarino.
Malika Ayane.
Manuel Agnelli.
Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.
Mara Maionchi.
Mara Sattei.
Mara Venier.
Marcella Bella.
Marco Baldini.
Marco Bellavia.
Marco Castoldi: Morgan.
Marco Columbro.
Marco Giallini.
Marco Leonardi.
Marco Masini.
Marco Marzocca.
Marco Mengoni.
Marco Sasso è Lucrezia Borkia.
Margherita Buy e Caterina De Angelis.
Margherita Vicario.
Maria De Filippi.
Maria Giovanna Elmi.
Maria Grazia Cucinotta.
Marika Milani.
Marina La Rosa.
Marina Marfoglia.
Mario Luttazzo Fegiz.
Marilyn Manson.
Mary Jane.
Marracash.
Martina Colombari.
Massimo Bottura.
Massimo Ceccherini.
Massimo Lopez.
Massimo Ranieri.
Matilda De Angelis.
Matilde Gioli.
Maurizio Lastrico.
Maurizio Pisciottu: Salmo.
Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.
Mauro Pagani.
Max Felicitas.
Max Gazzè.
Max Giusti.
Max Pezzali.
Max Tortora.
Melanie Griffith.
Melissa Satta.
Memo Remigi.
Michael Bublé.
Michael J. Fox.
Michael Radford.
Michela Giraud.
Michelangelo Vood.
Michele Bravi.
Michele Placido.
Michelle Hunziker.
Mickey Rourke.
Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.
Miguel Bosè.
Milena Vukotic.
Miley Cyrus.
Mimmo Locasciulli.
Mira Sorvino.
Miriam Dalmazio.
Monica Bellucci.
Monica Guerritore.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nada.
Nancy Brilli.
Naomi De Crescenzo.
Natalia Estrada.
Natalie Portman.
Natasha Stefanenko.
Natassia Dreams.
Nathaly Caldonazzo.
Neri Parenti.
Nia Nacci.
Nicola Savino.
Nicola Vaporidis.
Nicolas Cage.
Nicole Kidman.
Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.
Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.
Niccolò Fabi.
Nina Moric.
Nino D'Angelo.
Nino Frassica.
Noemi.
Oasis.
Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.
Oliver Stone.
Olivia Rodrigo.
Olivia Wilde e Harry Styles.
Omar Pedrini.
Orietta Berti.
Orlando Bloom.
Ornella Muti.
Ornella Vanoni.
Pamela Anderson.
Pamela Prati.
Paola Barale.
Paola Cortellesi.
Paola e Chiara.
Paola Gassman e Ugo Pagliai.
Paola Quattrini.
Paola Turci.
Paolo Belli.
Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.
Paolo Calabresi.
Paolo Conte.
Paolo Crepet.
Paolo Rossi.
Paolo Ruffini.
Paolo Sorrentino.
Patrizia Rossetti.
Patti Smith.
Penélope Cruz.
Peppino Di Capri.
Peter Dinklage.
Phil Collins.
Pier Luigi Pizzi.
Pierfrancesco Diliberto: Pif.
Pietro Diomede.
Pietro Valsecchi.
Pierfrancesco Favino.
Pierluigi Diaco.
Piero Chiambretti.
Pierò Pelù.
Pinguini Tattici Nucleari.
Pino Donaggio.
Pino Insegno.
Pio e Amedeo.
Pippo (Santonastaso).
Peter Gabriel.
Placido Domingo.
Priscilla Salerno.
Pupi Avati.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quentin Tarantino.
Raffaele Riefoli: Raf.
Ramona Chorleau.
Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.
Raul Cremona.
Raphael Gualazzi.
Red Canzian.
Red Ronnie.
Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.
Renato Zero.
Renzo Arbore.
Riccardo Chailly.
Riccardo Cocciante.
Riccardo Manera.
Riccardo Milani.
Riccardo Scamarcio.
Ricky Gianco.
Ricky Johnson.
Ricky Martin.
Ricky Portera.
Rihanna.
Ringo.
Rita Dalla Chiesa.
Rita Rusic.
Roberta Beta.
Roberto Bolle.
Roberto Da Crema.
Roberto De Simone.
Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.
Roberto Satti: Bobby Solo.
Roberto Vecchioni.
Robbie Williams.
Rocco Papaleo.
Rocco Siffredi.
Roman Polanski.
Romina Power.
Romy Indy.
Ron: Rosalino Cellamare.
Ron Moss.
Rosanna Lambertucci.
Rosanna Vaudetti.
Rosario Fiorello.
Giuseppe Beppe Fiorello.
Rowan Atkinson.
Russel Crowe.
Rkomi.
Sabina Ciuffini.
Sabrina Ferilli.
Sabrina Impacciatore.
Sabrina Salerno.
Sally D’Angelo.
Salvatore (Totò) Cascio.
Sandra Bullock.
Santi Francesi.
Sara Ricci.
Sara Tommasi.
Scarlett Johansson.
Sebastiano Vitale: Revman.
Selena Gomez.
Serena Dandini.
Serena Grandi.
Serena Rossi.
Sergio e Pietro Castellitto.
Sex Pistols.
Sfera Ebbasta.
Sharon Stone.
Shel Shapiro.
Silvia Salemi.
Silvio Orlando.
Silvio Soldini.
Simona Izzo.
Simona Ventura.
Sinead O’Connor.
Sonia Bergamasco.
Sonia Faccio: Lea di Leo.
Sonia Grey.
Sophia Loren.
Sophie Marceau.
Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Stefania Rocca.
Stefania Sandrelli.
Stefano Accorsi e Fabio Volo.
Stefano Bollani.
Stefano De Martino.
Steve Copeland.
Steven Spielberg.
Stormy Daniels.
Sylvester Stallone.
Sylvie Renée Lubamba.
Tamara Baroni.
Tananai.
Teo Teocoli.
Teresa Saponangelo.
Tiberio Timperi.
Tim Burton.
Tina Cipollari.
Tina Turner.
Tinto Brass.
Tiziano Ferro.
Tom Cruise.
Tom Hanks.
Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.
Tommaso Zanello alias Piotta.
Tommy Lee.
Toni Servillo.
Totò Cascio.
U2.
Umberto Smaila.
Umberto Tozzi.
Ultimo.
Uto Ughi.
Valentina Bellucci.
Valentina Cervi.
Valeria Bruni Tedeschi.
Valeria Graci.
Valeria Marini.
Valerio Mastandrea.
Valerio Scanu.
Vanessa Scalera.
Vasco Rossi.
Vera Gemma.
Veronica Pivetti.
Victoria Cabello.
Vincenzo Salemme.
Vinicio Marchioni.
Viola Davis.
Violet Myers.
Virginia Raffaele.
Vittoria Puccini.
Vittorio Brumotti.
Vittorio Cecchi Gori.
Vladimir Luxuria.
Woody Allen.
Yvonne Scio.
Zucchero.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Solito pre Sanremo.
Terza Serata.
Quarta Serata.
Quinta Serata.
Chi ha vinto?
Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)
INDICE NONA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Superman.
Il Body Building.
Quelli che...lo Yoga.
Wags e Fads.
Il Coni.
Gli Arbitri.
Quelli che …il Calcio I Parte.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che …il Calcio II Parte.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Mondiali 2022.
I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I personal trainer.
Quelli che …La Pallacanestro.
Quelli che …La Pallavolo.
Quelli che..la Palla Ovale.
Quelli che...la Pallina da Golf.
Quelli che …il Subbuteo.
Quelli che…ti picchiano.
Quelli che…i Motori.
La Danza.
Quelli che …l’Atletica.
Quelli che…la bicicletta.
Quelli che …il Tennis.
Quelli che …la Scherma.
I Giochi olimpici invernali.
Quelli che …gli Sci.
Quelli che si danno …Dama e Scacchi.
Quelli che si danno …all’Ippica.
Il Doping.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
TERZA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Barbara Costa per Dagospia il 17 luglio 2022.
Lei è ossessionata dal sesso anale. A lei piace ogni volta anale, lo cerca ripetutamente anale, lo pretende anale, e se ancora non è DAP, è per farci sospirare di porno desiderio. Ma lei fa DP, fa DPP, fa GS, A2M, CUM SWAP, ed è TOTAL BALD. Tutti queste sigle sono pane quotidiano per chi ama il porno ma quello strong, crudo, fatto di atti estremi, di eccessi, sesso intenso, di cavalcate al limite della (per noi) sopportazione.
E sono tutte sigle che per chi non le sa ora spiego e però non prima di avervi detto che sono sigle che descrivono le abilità porno di Eden Ivy, nuovo portento del "gonzo" e aridaje con le sigle, vabbè, però questa la conoscete, gonzo è porno di solo sesso, senza dialoghi o manfrine: solo sesso recitato violento, e senza respiro.
E nei gonzo dell’angelica Eden solo la DAP è assente, ovvero la doppia penetrazione anale. Di DAP il c*letto di Eden Ivy è (fino a che scrivo) porno vergine, ma non lo è di rimming (slinguate anali, date e prese), di squirting, anali e vaginali, né di A2M (pene che Eden prende nell’ano e poi in bocca).
Se Eden Ivy non fa (per ora) DAP, è però radiosa in ogni selvaggia DPP (doppia penetrazione vaginale), è padrona di ogni furibonda DP (prende un pene davanti, e uno di dietro), ed è scintillante sotto ogni GS (doccia dorata, cioè doccia che le fanno con la pipì, e pipì che Eden riceve pure in bocca, dissetandosi di più peni insieme). E se ancora non mi avete mollato per andarvi a sballare con uno dei magnetici video di Eden, vi aggiungo che è abbagliante in un altro atto, porno, che non tutte fanno e sanno fare: Eden Ivy è regale nei suoi CUM SWAP, ossia quando si fa venire in bocca, e sputa quello sperma nella bocca di altri/e.
Siamo dentro il porno il più eccessivo: niente romanticherie per Eden Ivy, 23 anni, canadese, di Montreal, modella (anche hot), ma da qualche tempo nel pieno del porno duro che conta. L’ha scelto lei, lo vuole lei, lo sa fare lei, e che sia una patita del sesso anale è nient’altro che la verità: l’anale è il sesso che Eden Ivy preferisce, l’ha detto lei, raccontato con minuzia a Rocco Siffredi il quale ha scritto su misura del suo visetto pulito e del suo corpo esile e incantevole "Introspection", nuovo lavoro di casa Siffredi, con Siffredi che dirige Eden nella sua ricerca, fame, idea fissa di peni e sex toys ("particolari" sex toys) di cui godere nel suo ano.
Introspection è un porno in 5 episodi che vi potete scaricare dal sito di Siffredi, ma attenzione perché, per chi di Eden Ivy fosse affamato e delle sue ninfomanie allupato, può ammirarsela pure con Marika Milani e alle prese con due stalloni neri negli episodi di "Rocco’s Sex Clinic", ma pure su un divano bianco al collaudo anale (e in ogni snodatissima posizione!) direttamente col penone di Siffredi.
Il lato B di Eden Ivy è in massiccia attività, e specie e tanto in Europa: lei lascia il Canada anche per periodi di 3 mesi per Praga, per i tipi di "Legal Porno", e cioè per gli esperti del porno quello anale che la fessura che hai tra le natiche te la porno martellano, te la porno crivellano, e tutto con l’entusiastico e completo consenso della protagonista di turno. E Eden Ivy è altresì la protagonista di porno esagerati, analmente smisurati, straripati dalla lussuria del nostro Giorgio Grandi.
Sebbene nel porno curriculum di Eden Ivy non manchino prove SOLO LEZ (sesso con sole ragazze), è del suo corpo tatuato, delle sue espressioni innocenti, e della sua pelle eterea, intimamente BALD (vagina/ano depilatissimi) che quote in costante aumento di pubblico sono estasiate. Eden Ivy è solamente all’inizio ma è tostissima. Abbandonate ogni preoccupazione. È una numero 1 nata, e terrà le redini del porno per lungo tempo, e ovunque il suo irresistibile posteriore vorrà fare e contento sperimentare.
Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 16 luglio 2022.
Il Gatto e la Volpe alla soglia dei cinquant' anni si sono fatti ancora più furbi e infingardi. «Il nostro Paese resta prigioniero di Collodi, anche se la grande Balena non c'è più». Edoardo Bennato è tornato sul palco e gira l'Italia dopo il Covid. Tre ore di concerto a 76 anni, quasi come Mick Jagger, che ne ha tre di più.
«Sono andato a vederlo a San Siro tre settimane fa; anch' io feci 80mila persone paganti sul pratone, era il 19 luglio 1980. Avevamo lo stesso manager ai tempi, Friz Rau, anche se in realtà è Mick l'implacabile manager di se stesso. Me lo ritrovai in camerino a Colonia, con tutti i Rolling Stones. Arrivò in tuta, lui fa jogging prima di salire sul palco, suo padre era maestro di atletica. Il suo è tutto marketing, la sua vita dissoluta è una clip, non c'entra niente con la generazione no future, di cui è coetaneo, quella di Sid Vicious, Jim Morrison e Jimi Hendrix secondo i quali esisteva solo il presente, tanto poi si moriva a 27 anni».
Anche tu sei longevo e in forma...
«Non bevo e non fumo, gioco ancora a calcio, faccio windsurf e sci nautico. Ma non sono longevo, sono tardivo, ho dato il mio primo bacio a 23 anni, ho fatto mia figlia Gaia, la cocca di papà, a 58 e ho avuto la mia prima chitarra a 12 anni. Eravamo tre fratelli maschi, mamma non voleva che perdessimo tempo nelle lunghe vacanze estive, convinta che l'ozio sia il padre dei vizi, e cercò un'insegnate d'inglese».
Non la trovò, si capisce dai tuoi jingle, dove farfugli un americano inventato...
«A Bagnoli negli anni Cinquanta non era impresa facile e ripiegò sulla musica. Lì però imparammo noi tre in fretta, due anni dopo eravamo già in America a suonare. Ci pagò il viaggio un signore distinto che ci aveva sentito in strada. Disse: "Siete bravi, se sarete promossi vi mando oltre Oceano". La tv venezuelana ci fece un contratto, perché tanti italiani vivevano laggiù. Allora era una nazione prospera e democratica. Il successo però arrivò dopo una gavetta lunga e umiliante».
Ma se hai esordito con la Ricordi...
«Avevo già 28 anni e un ricco curriculum di porte sbattute in faccia. Pensavo di avercela fatta, era il 1973 e riuscii a pubblicare Non farti cadere le braccia, un album praticamente di sole hit, c'erano anche Campi Flegrei, Un giorno credi, Rinnegato...».
E infatti arrivò il successo...
«Invece no. Le radio non passavano i miei pezzi. Sostenevano che avessi una voce sgradevole. Mi chiamò un dirigente della Ricordi dicendo che era meglio chiudere il contratto e che avrei fatto bene a fare l'architetto. Imparai subito che nel nostro mestiere è bello quel che viene enfatizzato dai media; ma per mandare in onda le tue canzoni ed enfatizzarle, qualcuno deve avere un interesse».
Già nel primo album avevi scritto la tua storia...
«Non mi sono fatto cadere le braccia. Ho messo nel cassetto le canzoni incise, ho preso la chitarra, l'armonica e il tamburello a pedale e mi sono messo davanti alla Rai a cantare quattro nuovi pezzi, versione punk: Arrivano i buoni, Salviamo il salvabile, Bravi ragazzi e Il buono, uno sfottò del presidente della Repubblica del tempo, il mio concittadino Giovanni Leone, allora si poteva picchiare in alto.
Arrivarono i giornalisti di Ciao 2001, mi ritrovai a cantare al Festival di Civitanova Marche di fronte a tutta l'intelligentia musical-culturale e qualcuno decise che, meridionale e figlio di un operaio dell'Italsider, io potessi rappresentare il disagio giovanile. D'un tratto divenni intonato e i miei pezzi furono trasmessi in tutta Italia come fossero il Vangelo. Giravo i festival dell'Unità, di Liberazione, di Autonomia Operaia».
Parli così perché sei deluso?
«Non sono deluso, non mi sono mai illuso. Io sono un privilegiato perché, anche se ai tempi supplementari, sono riuscito a fare il mestiere che mi piace. Anche Gaia è una privilegiata, però sono molto preoccupato per il suo futuro, anche se parla inglese e non fa la musicista...».
Edoardo Bennato vorrebbe che per lui parlassero solo le sue canzoni; anzi, «le vibrazioni che la gente sente quando viene ai miei concerti, perché io sono un artista, non un professore o un sociologo, parlo astruso, se uno mi sente, si chiede: ma dove vuole arrivare questo? E poi, come si dice? In certe circostanze c'è sempre qualcuno che ti ricorda che ogni cosa che affermi può ritorcersi contro dite».
Cavargli una frase dalla bocca è come estrarre un dente del giudizio. E infatti ogni sillaba è una sentenza.
«Che devo dire su chi vuole fermare il concerto dei Maneskin per evitare una nuova ondata di Covid? Loro sono bravissimi, ma potrebbero essere nati in qualsiasi parte del mondo. Sanno le istituzioni se è giusto fermare i concerti, loro rappresentano la comunità; o no? Io e mio fratello, durante il lockdown della primavera 2020 abbiamo fatto una canzone, Non può essere questa la realtà. Però già nel '74 cantavo "c'è il coprifuoco, e pensare che all'inizio sembrava un gioco, fate i bravi ragazzi e vedrete che sistemeremo tutto". Ero stato ottimista però, l'avevo messo all'una di notte».
Oggi la protesta giovanile la cantano i rapper delle periferie, per lo più immigrati di seconda generazione. Testi molto violenti, quasi inni alla delinquenza. Ti piacciono quelle canzoni?
«Tu hai l'autorevolezza per dire certe cose, io no. Il rap mi piace perché ha in sé un tocco di blues. Ma la musica che ha un costante riferimento all'attualità, quella impegnata è il rock e il punk ne è un'espressione straordinaria per descrivere una società che si autodefinisce sensata invece è schizofrenica. Ecco, questo faccio, evidenzio le schizofrenie umane. E vado ad ascoltare certi colleghi, come i Green Day per ricaricarmi, giù dal palco».
Che pensi dei tuoi colleghi impegnati?
«Cosa intendi per impegno? L'impegno spesso è un camuffamento, come quello del Gatto e la Volpe. Mi sembrano più onesti Orietta Berti e Al Bano, finché la barca va e la felicità in un bicchiere di vino e un panino. Fanno pop, per loro la musica dev' essere solo evasione e te lo dicono diretto in faccia. Meglio loro di chi si dà toni da impegnato ma finisce per essere leggero e sconclusionato».
Hai scritto un brano durissimo contro la sinistra...
«Già... "ma com' è sinistro, ma com' è feroce il tuo sguardo quando parla della pace.
Lo faresti a pezzi chi ti contraddice e difendi il gregge, ma sei tu il lupo". Era il 2008 anche se sembra oggi. Come d'altronde Stop America, non esagerare con la severità. Era il 2003, l'album Uomo Occidentale, sono passati vent' anni ma quando canto quei pezzi al concerto, se uno non lo sa, non se ne accorge».
Sei un anti-americano?
«Ma sei matto? Mai. Tutti noi, volenti o nolenti, abbiamo l'America come riferimento culturale. E tutti noi vediamo che è una bella donna, che abbiamo seguito innamorati ma è invecchiata e si tinge i capelli».
Perché tu no?
«Parli dei capelli? Io però sono un uomo occidentale atipico. Non ho, come lui, "il dovere di mantenere, senza orgoglio o presunzione, l'equilibrio mondiale". Anche se questo non significa che non lo cerchi».
E dove lo cerchi?
«Ho scritto un libro, Codex Latitudinis, con delle proposte per il futuro del pianeta Terra».
Modestia a parte...
«Dev' esserci al mondo qualcosa, un parametro, in grado di metterci d'accordo tutti sui problemi etici, morali e politici del nostro tempo. Lo troveremo sull'orlo del baratro, quindi tra poco».
E chi non è d'accordo, lo diamo in bocca a Mangiafuoco?
«Capisco il rischio. Però non possiamo andare avanti in eterno con i guelfi e i ghibellini. Il Paese è prigioniero di due fazioni che si scontrano ferocemente senza esclusioni di colpi e senza regole. Porteranno la nostra Italietta allo sfascio totale».
Le notti magiche d'altronde non ci sono più. È la seconda volta di fila che buchiamo le qualificazioni per i Mondiali...
«Quanto mi costò quella canzone. Quando Caterina Caselli e Gianna Nannini mi chiesero di scriverla, domandai loro se fossero impazzite. Sapevo che per la spocchiosa élite culturale rappresentavo l'eversione e non sarei mai stato perdonato, se avessi fatto un inno patriottico. Poi alla fine la scrissi, con il mio amico di cortile, Gino Magurno. Fu bellissimo tornare a suonare a San Siro davanti a una folla festante ma venni contestato subito, ci rimasi male e ancora oggi mi dispiace. D'altronde, cosa si aspettavano?».
Li avevi già delusi?
«Erano diventati scettici nei miei confronti, ai concerti di Autonomia Operaia, quando chiudevo la performance suonando con una trombetta sia Bandiera Rossa sia Faccetta Nera. "Nella mia categoria è tutta gente poco seria, di cui non ci si può fidar". Quelle Notti Magiche hanno dato loro il colpo di grazia. Per consolarsi, gli restano quelli che cantano ma non appartengono alla mia categoria».
A me Notti Magiche piace, anche se non abbiamo vinto...
«Lo sport è legato a un numero, che ti dà il tuo valore. Sbagli il rigore e passa un altro.
Nella mia categoria c'è sempre qualcuno che decide che "non puoi rifiutarti, che sei pazzo e incosciente, un irriconoscente, un sovversivo un mezzo criminal". Però quella canzone mi ha lasciato un regalo».
È il momento dell'aneddoto.
«Nel 1991 a Pistoia suonava B. B. King. Gli chiesero se voleva duettare con me e lui rispose "Bennato, chi è costui?" Quando gli dissero che ero quello dell'inno dei Mondiali, acconsentì e sul palco intonammo Signor Censore, "che fai lezioni di morale e hai l'appalto per separare il bene e il male". Risuonammo insieme in Sardegna e lui mi salutò dicendo, "Ehi man, tu puoi suonare il blues". Il mio Mondiale l'ho vinto».
E l'Italia oggi com' è, guelfi e ghibellini a parte?
«Traballa su tacchi a spillo, "un rapido sempre in ritardo, una spiaggia libera, un rischio da evitare"».
Per fortuna noi italiani vogliamo bene alla mamma...
«Ma la mia era degli anni Cinquanta, aveva i piedi per terra...».
Stefania Ulivi per il Corriere della Sera il 29 aprile 2022.
Piano A: diventare calciatore («Sono stato un adolescente morigerato: non bevevo, non fumavo, niente stravizi, il sabato sera non uscivo, lo sport era tutto. Fino a 21 anni, quando ho smesso, sono stato molto disciplinato»). Piano B: diventare insegnante («Merito o colpa di un insegnante di italiano, Giaime Rodano: per la prima volta nella mia vita ho incontrato qualcuno che faceva un lavoro per passione. Non ne conoscevo. Nonno contadino a Sutri, mia nonna pescivendola, mio padre, che si era smarcato dalla campagna per venire a lavorare a Roma negli anni Settanta, aveva amici che facevano gli elettricisti, cose così. Tutti gran lavoratori ma per necessità, non passione»).
Professione certificata: attore, regista e sceneggiatore. Edoardo Leo precisa che è capitato un po’ per caso. «Andavo ai provini perché volevo pagarmi l’università da solo, volevo dimostrare ai miei che non era una pazzia essermi iscritto a Lettere dopo essermi diplomato a fatica al liceo scientifico. Mi sembrava un lavoro come gli altri: ho fatto il pony express, con un amico scaricavamo il latte di notte, ho lavorato al chiosco del cimitero di Sutri dei miei zii. Puntavo agli spot: poco tempo, buon guadagno».
Ha appena compiuto i 50 anni, il 21 aprile, giorno del Natale di Roma.
«È una banale coincidenza, ma ogni coincidenza la si può vedere in modo romantico. Pensare di essere nato lo stesso giorno della mia città mi sembra un piccolo destino per chi come me racconta storie. I 50 non sono una data che mi spinge a fare resoconti, a guardarmi indietro, me la faccio scivolare addosso».
Niente festone?
«Cena con le persone più intime. La festa è stata avere in sala Power of Rome, associare la mia faccia a quella della mia città sugli autobus di tutta Roma. Non posso più girare in motorino, sempre dietro a me stesso. Non sono autocelebrativo ma questo, ammetto, mi fa piacere».
La sua vita (professionale) comincia a 40 anni. La trilogia di «Smetto quando voglio», l’approdo alla regia, il successo straordinario di «Perfetti sconosciuti», il Dopofestival, «La Dea Fortuna» di Ozpetek, il doc su Gigi Proietti, la tournée, ripartita da poco, di «Ti racconto una storia».
«Ho alle spalle trent’anni di gavetta, non di carriera. Sembro professionalmente giovane».
In principio ci furono le bocciature all’Accademia Silvio D’Amico e al Centro Sperimentale.
«Se rivedessi il mio esame all’accademia forse mi boccerei anch’io. Ricordo che mi dissero: “sai urlare”. Ci ho sofferto, ho pensato di non essere all’altezza. Ho sviluppato quello che è stato un motore della la mia vita: un senso di rivalsa. Volevo emanciparmi dagli stereotipi.
Non ero figlio d’arte e pensavo di poter fare comunque l’artista, non venivo da una famiglia di gente che ha studiato e mi sono laureato, convinto che così mi sarei potuto affrancare dall’immagine del ragazzotto con la faccia da calciatore e le spalle larghe. La voglia di rivalsa se non ti logora ti aiuta. Anche a fare il regista. Ho scritto la sceneggiatura di Diciotto anni dopo ma nessuno voleva dirigerla, così l’ho fatto io. Ed è cambiato tutto».
Per spirito di rivalsa si inventò un diploma alla Scuola La Scaletta? Che ora, per la cronaca, la segnala tra i suoi allievi sul suo sito.
«Ha funzionato. Grazie a quel curriculum mi arrivò un provino per una coproduzione italofrancese e il primo ruolo, uno psicopatico di nome Olmo. Poi sono arrivate tante cose. Ho fatto un sacco di fiction brutte, ma pure alcuni film brutti. Non avevo possibilità di scelta. Si chiamava “pagare gli affitti”. Ho vissuto anche una grande frustrazione. Pensavo di meritare più possibilità di quante me ne davano. Ho vissuto periodi difficilissimi, sono stato pure cacciato da una serie televisiva dopo due settimane».
Che serie era?
«Non voglio riaprire il file, era un produttore allora molto famoso. È qualcosa che a 27, 28 anni ti mette in crisi».
L’ha incontrato di nuovo quel produttore?
«Sì ma non l’ho salutato, sono stato mandato via in maniera cattiva. Dopo un periodo un po’ di depressione mi sono risvegliato. Mi hanno aiutato altri incontri, fortunati, come Nino Manfredi, uno dei miei supereroi con Scola. E Proietti. Mi smontò subito. Lui mi ha cambiato».
In che modo?
«Non ho studiato con lui, ci ho lavorato per la prima volta in teatro per Dramma della gelosia. Mi disse: “Non provare a fare il figo, perché non sei figo. Tu fai ridere”. Aveva ragione, mi immaginavo nei panni dell’eroe, mi ha fatto capire che ero destinato a fare l’antieroe. Però ci ho messo un po’ a fare la commedia perché non mi prendevano in considerazione per i ruoli buffi. Era pure colpa mia, facevo foto in cui cercavo di fare il figo e non lo ero».
Veramente è considerato un bello del nostro cinema, ci dovrebbe fare pace con questa cosa.
«Cito ancora Proietti. Nel mio doc dice: “non ho la tempra del divo”. Ecco, la tempra del figo la devi avere, io non ce l’ho. Ho smesso di preoccuparmi del mio aspetto fisico, della parte glamour, se vedo le foto anche solo di 15 anni fa con la sigaretta, l’occhio a fessura, lo sguardo rivolto all’orizzonte mi faccio ridere. Faccio pochi servizi fotografici, vado poco in tv».
Ha fatto il «Dopofestival» nel 2018, però.
«Condurre non è il mio pane. È stato bello ma anche in quel caso ci misi tanto a dire di sì. Il problema è che io sono lento a valutare le cose, ho in comune con Roma la lentezza, anche a scrivere».
La chiamassero a Sanremo andrebbe? Fa pure il cantante con l’Orchestraccia.
«Mi chiamassero al festival, andrei, mi divertirebbe. L’Orchestraccia è nata perché ci piace cantare le canzoni delle nonne, mi ero accorto che tanti ragazzi non le sanno. Le canzoni tradizionali romane sono molto violente, tragiche, c’è sempre qualcuno morto ammazzato. La violenza sembra un destino quasi genetico di questa città, che si fonda, tra leggenda o realtà, su un fratricidio. Anche la storia dell’Impero romano oscilla tra volontà di dominio e autodistruzione. Quella violenza ce la portiamo dentro, oggi meno fisica e sempre più verbale. Viviamo una contraddizione, odio e avversione per chi ci governa e una forma di accettazione ossequiosa, non se ne esce».
Errori di cui è pentito?
«Diversi quando non potevo scegliere, per bisogno. Ora che posso farlo, mi rimprovero forse di fare troppe cose. Ma ho fatto talmente poco fino ai 40 anni, che in questi ultimi 10 un po’ di bulimia magari ci sta».
Adolescente ligio alle regole, sarà stato un idillio con i suoi genitori.
«Ho litigato con mio padre per decenni, ormai il conflitto si è risolto per fortuna. Litigavo per lo studio, mi sono diplomato con il minimo dei voti, lui il diploma l’ha preso alle scuole serali, lavorava, aveva già un figlio. Poi quando ho deciso di fare l’attore, litigate feroci, non ci siamo parlati per un po’ di tempo. Però io studiavo di notte, mai aperto un libro prima delle nove di sera, scrivo di notte anche ora. Per una famiglia di impiegati come la mia, una cosa strana. Sono il primo laureato. Quel 110 e lode aveva anche il valore del riscatto. E ho tenuto fede alla promessa stupida che mi ero fatto».
Ovvero?
«Che se avessi preso il massimo dei voti l’avrei messo in bagno. Il diploma di laurea sta lì, incorniciato sopra la tazza».
È riservatissimo in tema di vita privata, non parla mai di sua moglie e dei suoi figli. Perché?
«È una scelta a priori a cui tengo fede da sempre. Magari ho perso qualche copertina sui giornali per il mancato racconto dei miei affetti privati. Secondo me faccio bene, per tanti motivi. Non ultimo il fatto che è complicato fare il padre quando la tua faccia sta in giro, devi mantenere equilibrio e sobrietà, è facile perdersi. È un punto che mi sono dato. Non è difficile, davvero».
C’entra anche una forma di timidezza?
«Riservato, timido no. Posso stare nudo in palcoscenico ma se devo entrare nella sala di un ristorante piena di gente vorrei scomparire, mi sento gli occhi addosso: al di fuori del mio mestiere non mi piace».
Disordinato, notturno, ritardatario, gli stessi amici, le stesse canzoni. Lei si racconta così.
«Non c’è granché da dire. Ho un ufficio, vado, scrivo, non è una biografia eroica. Ai ragazzi che vogliono fare questo lavoro dico: leggete le biografie degli attori. Io le adoro. Quelle degli altri».
Tifoso giallorosso: meglio un David di Donatello per la regia o cinque minuti in campo all’Olimpico?
«Cinque minuti in campo con la Roma. Magari un David prima o poi arriva. Quando sono in teatro davanti a 3.000 persone da solo, sento una vertigine simile a quella che credo provi un calciatore che segna davanti ai suoi tifosi».
A calcio gioca ancora?
«Da più di 15 anni, con lo stesso gruppo di amici. Uno ha una tavola calda a Montesacro, ci chiudiamo dentro dopo la partita. Per me è un’oasi. Nessuno di loro fa il mio mestiere, ascolto vita, lì conta solo come ho giocato non quello che faccio. Non ci rinuncio mai prendo treni, aerei per esserci. A fare l’attore c’è il rischio di chiuderti in una bolla. Vivere dentro a un Ncc. Preferisco la Vespa».
Ha tradotto l’Otello in napoletano e romano.
«Per il nuovo film, Non sono quel che sono. L’ho tenuto in serbo per anni, doveva essere il mio esordio alla regia. Ambientato ai giorni nostri, io recito Iago. Nel cast ci sono Ambrosia Caldarelli, Jawad Moraqib e Antonia Truppo. Il mio sogno sarebbe poi portarlo in teatro, al Globe. Non so ancora la data di uscita».
Rimpianti?
«No, ma secondo me ho fatto poco. Per un po’ mi è pesato che certi registi non mi considerassero. Poi sono arrivati Genovese, Ozpetek. Mi piacerebbe lavorare con Virzì, lo conosco bene, e poi Salvatores, Garrone, Sorrentino. Con autori che non mi hanno chiamato. Mai dire mai».
Massimiliano Castellani per “Avvenire” l'1 agosto 2022.
«Che finimondo per un capello biondo che stava sul gilet, sarà volato, ma com' è strano il fato, proprio su di me...», canta Myss Keta in questa calda estate 2022. Ma non è un brano della misteriosa cantante mascherata che si aggira per le vie e i locali della Milano post da bere, ma si tratta di un testo di Carlo Rossi, del 1961, e della prima storica hit di Edoardo Vianello.
«Poche sere fa in piazza a Mesagne, la cantavano anche i bambini, la sapevano tutta! », dice incredulo il più longevo (romano classe 1938) e anche il più popolare della categoria "old is gold" coniata dal "ripescatore" di evergreen, Pasquale Mammaro.
Con la cover de Il capello Vianello torna in classifica «un disco d'oro a mia insaputa, ma come si permettono?», sorride divertito l'uomo da 60 milioni di dischi venduti in una carriera senza fine. «Ho appena archiviato il Covid e adesso mi aspetta un agosto pieno di serate», e forse lo attende anche qualche altra scalata di classifica internazionale. Tipo quella di Billboard, estate 2017: complice la serie tv Master of none, in cui i protagonisti improvvisano un twist domestico sulle note di Guarda come dondolo. Il giorno dopo il brano sbancava nella classifica americana.
Ma come se lo spiega questo flusso vintage che parte dagli Usa e arriva fino ai rapper nostrani che per incassare con il tormentone estivo coverizzano o ricopiano i ritmi dei brani anni '60?
Semplice, la musica attuale è talmente deviata che per ritrovare una logica, una strada dritta e veloce, bisogna tornare alla nostra musica. Questi si sono dimenticati della melodia... Allora i più furbi che fanno? Realizzano a tavolino una canzone di successo ricostruendo quell'atmosfera unica di cui noi "old is gold", come dice Mammaro, siamo gli ultimi testimoni.
Estate 1960, al cinema danno La dolce vita di Fellini e lei si prepara ad andare a Sanremo (prima volta nel '61) con la canzone Che freddo! che poi avrebbe inciso anche Mina.
È stata una stagione breve ma intensa, in cui si respirava a pieni polmoni il vento del cambiamento epocale. C'era aria di euforia collettiva. Eravamo una generazione che aveva poco, ma quel poco sapeva apprezzarlo e sognava di migliorare ancora. E questo si rifletteva anche nella musica.
C'era forse anche una voglia di condividere tra voi artisti che si è smarrita nel tempo? Prima che finissimo nella grande casa comune della Rca, che, per creare lo spirito di scuderia organizzava molti eventi, noi cantanti ci incontravamo spesso e condividevamo tante serate.
Con i miei tre più cari amici, Domenico Modugno, Franco Migliacci e Gianni Morandi, l'appuntamento notturno era al "Quo vadis", sull'Appia Antica. Lì su quel palco, appena il locale si svuotava, ci esibivamo. Non vedevamo l'ora di far sentire, l'uno all'altro, l'ultima canzone che avevamo scritto, magari quel pomeriggio stesso.
Il suo primo grande successo fu proprio Il capello che inaugura il sodalizio con Carlo Rossi.
Era un grande Carlo, un paroliere di 20 anni più grande di me. E si sentiva la differenza di età, però la mia musica con i suoi testi furono una miscela esplosiva. Se a questo ci aggiungi le trovate di quel genio di Ennio Morricone, ecco spiegate le ragioni del successo delle canzoni che vennero dopo.
Un poker di successi che scaldavano l'estate di sessant' anni fa: Pinne fucile ed occhiali, Guarda come dondolo, Abbronzatissima e i Watussi.
Tutte trattate dal grande Morricone che ha letteralmente inventato l'arrangiamento.
Ennio giocava con le mie canzoni e le ha caratterizzate, una per una, rendendole di fatto immortali.
Stregato dalla luna di Vianello anche Dino Risi che nel suo film cult Il sorpasso (1962) inserì Pinne fucile ed occhiali e Guarda come dondolo..
Non sapevo che le avrebbe messe nella colonna sonora e quando lo incontrai gli chiesi cosa lo avesse spinto a farlo. E Risi rispose: «Quelle due canzoni, rappresentavano esattamente l'estate che volevo raccontare». Un altro genio assoluto.
Estate 1963, ormai all'apice del successo generosamente regala alla "debuttante" Rita Pavone il brano La partita di pallone.
La prima volta che l'ascoltai fu al "Festival degli sconosciuti" di Ariccia e rimasi sbalordito dalla grinta e dalle doti canore incredibili di quella ragazzina. Avevo quella canzone rimasta inutilizzata, tagliata apposta per una voce femminile. Prima di partire in turné dissi a Carlo Rossi di portare il promo a Rita Pavone... Oh quando rientrai in Italia aveva fatto il botto!
Cambio in corsa: nello stesso anno passa dalle canzonette alla "mistica" O mio Signore. Una conversione improvvisa?
Macché. Al "Quo Vadis" conobbi Mogol che mi diede un consiglio azzeccato dei suoi: «Edoardo - disse - finora hai fatto cose divertenti, ma adesso è il momento di dare uno schiaffo al pubblico con qualcosa che non si aspetta...
Andammo a casa mia e quella notte venne fuori questa "preghiera laica" in cui c'è tanto della mia educazione cristiana e di quella fede che mi ha aiutato a superare momenti terribili, come la perdita di mia figlia Susanna...
Lei è stato il primo a credere anche in Franco Califano.
Lo spinsi a incidere la sua prima canzone, Da molto lontano. Franco, mio coscritto del '38, era un ragazzo fantastico.
La prima volta che lo incontrai lui era il "bello" e io il "famoso". Mi chiese se poteva leggermi una sua poesia... Beh rimasi stupito: quel testo era l'esatto contrario del personaggio che lo rappresentava. Gli spiegai come scrivere una canzone e dopo pochi giorni tornò e alle sue parole aggiunsi la mia musica.
Insieme diventaste produttori.
La notte dell'allunaggio, 20 luglio 1969, davanti alla diretta Rai decidemmo che la nostra etichetta (una delle sette satellite che faceva capo alla Rca) si sarebbe chiamata come la navicella spaziale americana, l'Apollo Records. Mettemmo sotto contratto Renato Zero, Amedeo Minghi e quei quattro ragazzi amici di Franco, i Ricchi e Poveri.
Con loro pubblicammo La prima cosa bella e per Che sarà al Festival di Sanremo del 1971 ci diedero l'accoppiata con Josè Feliciano all'ultimo minuto, ma quella è una di quelle canzoni che resterà per sempre.
Da Sanremo 1966 uscì anche il suo primo successo internazionale Parlami di te.
Fu un insuccesso sanremese, anche se entrammo in finale, ma grazie alla versione francese di Francoise Hardy ha girato il mondo. Quando andai in Brasile fu la prima canzone che mi chiesero di eseguire.
Quali sono i Paesi in cui le sue canzoni sono degli evergreen?
Tutti quelli di lingua spagnola. In Argentina sbarcai alla grande grazie alla scia de Il Sorpasso. E poi è stato tutto un trionfo di vendite di dischi e di concerti: in Cile, Messico, Brasile, Uruguay. Anche negli Stati Uniti e in Canada, ma lì alle serate veniva e viene ancora prevalentemente pubblico di origine italiana.
Storia di chi ce l'ha fatta, nonostante suo padre, il poeta futurista Alberto Vianello, non era affatto d'accordo sul figlio cantante.
Papà è stato il mio nemicoamico. La scuola non faceva per me, ero il più rimandato di Roma. Il suo scetticismo mi sfidava continuamente, ma io testardo e appassionato, con i primi soldi comprai una chitarra e andavo a suonarla di nascosto in cantina. Ai Watussi comunque papà si è arreso, aveva capito che anche economicamente fare il cantante non era il peggiore dei mestieri.
Altra svolta artistica anni '70: con la sua ex moglie, Wilma Goich, diventate iVianella e cantate Semo gente de borgata..
È stata un'intuizione di Califano. Eravamo in una fase discendente e allora pensò bene che per rilanciarci occorreva ripartire dal basso, dalle borgate care a Pasolini, anche se distanti dalle radici borghesi di uno come me nato a San Giovanni. Oh, c'hanno contestato: a tanti non andava bene quella filosofia che nella vita bisogna accontentarsi...
«Stamo mejo noi che nun magnamo mai», sono versi che suo nipote Andrea Vianello, direttore di Rai Radio 1, non avrebbe mai scritto per lei...
Andrea è geniale - sorride - soprattutto perché non riuscirò mai ad imparare a memoria una sua canzone. Ha scritto tanti testi per me, ma sono tutti intercambiabili, senza consecutio, un flusso di impressioni. Non ci mette mai una banalità e ha abolito il ritornello che purtroppo è il sale delle canzoni di grande successo.
Ma per chi anche questa sera canta «Nel continente nero, alle falde del Kilimangiaro», il sale della vita qual è?
Io l'ho trovato nella scrittura. Con gli appunti raccolti nei miei taccuini ho realizzato 86 puntate per Radio Italia anni 60 e alla fine mi sono accorto che la mia vita era già tutta scritta in quello che diventerà un libro: Nel continente c'ero (Nave di Teseo). In quelle pagine ho messo tutti i ricordi della mia infanzia, i miei genitori, gli amici, le persone più care. È rispuntata perfino la mattonella in cui giocavo da bambino... E certo, anche l'estate dei '60 e «quei giorni in riva al mar che non potrò dimenticar».
· Eduardo De Crescenzo.
La sfida di De Crescenzo: "Voglio togliere i luoghi comuni della canzone napoletana". Antonio Lodetti il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'autore pubblica "Avvenne a Napoli", disco e libro che rileggono le radici.
«Sono orgogliosa di accompagnare come editore (nella doppia veste di editore di libri e di editore musicale) Eduardo De Crescenzo in un'opera che è già un classico contemporaneo». Questa la presentazione di Elisabetta Sgarbi alla preziosa opera di De Crescenzo che, con il libro e con il disco Avvenne a Napoli, va alla riscoperta filologica e culturale della vera canzone napoletana, quella che nei secoli scorsi ha dato forma e vita all'attuale canzone d'autore. De Crescenzo lo fa con calore e passione, con la sua voce estesa e colorita e l'ausilio del liquido pianoforte di Julian Mazzariello, che mette da parte la sua verve jazzistica per colorire di suggestioni un pugno di classici napoletani. «Avevo cominciato questo progetto - ha detto De Crescenzo - come un percorso a ritroso nella storia e un recupero della mia infanzia. Man mano che ci lavoravo però, vagliando tutti i materiali possibili, ho scoperto che spesso erano stati fraintesi e traditi, relegati nel folklore, manipolati con riletture superficiali». Eduardo si è così innamorato di un ampio corpus di canzoni, che dall'800 in poi generarono una vera e propria rivoluzione culturale.
«Non tutti potevano permettersi un pianoforte - prosegue De Crescenzo - quindi molti brani erano accompagnati dalla fisarmonica. Noi abbiamo cercato di ricostruire la forma originale di pezzi di cui non esisteva neppure una versione registrata ma che prendono il cuore».
Brani come Luna rossa, scritta da Giorgio Consolini e Claudio Villa e reinterpretata persino da Frank Sinatra ed Ella Fitzgerald (curioso scoprire che anche Bob Dylan, nella sua trasmissione radiofonica, trasmetteva questo pezzo), I' te vurria vasà, Santa Lucia luntana, Voce e' notte, Fenesta vascia, la vibrante Che t'aggia dì, Marechiare di cui è uscito il videoclip.
«Ho sentito l'esigenza di tornare alle origini», sottolinea De Crescenzo. Un'operazione ambiziosa che De Crescenzo fa con vero amore, per «rimediare a molte storture, perché l'anima e lo spirito di questi pezzi erano stati fraintesi e traditi, ma erano fatti da innovatori geniali, che hanno inventato la canzone come viene praticata oggi. Allora c'era solo la lirica, il cantante di questo tipo di canzoni era sottovalutato mentre compiva una vera rivoluzione culturale».
Federico Vacalebre, scrittore e studioso, è un altro dei deus ex machina di questa operazione e ha partecipato con entusiasmo al progetto cui De Crescenzo e definisce l'operazione «una genesi del restauro gentile in un mondo in cui un cantante come Salvatore Di Giacomo e la sua musica dovrebbero essere tutelati dall'Unesco», per la loro centralità nell'arte.
Edwige Fenech: dalle commedie sexy all’amore con Montezemolo. Redazione spettacoli su Il Corriere della Sera il 25 giugno 2022.
L’attrice, amatissima da legioni di fan, tra cui Quentin Tarantino, festeggia questa nuova cifra tonda. Una vita piena di traguardi, tra cui decine di ruoli e la sua casa di produzione
Le origini tunisine
Edwige Fenech (protagonista oggi di Dottor Jekyll e gentile signora alle 7.15 su Canale 34) , il cui vero nome è Edwige Sfenek, è nata in Tunisia, a Annaba, il 24 dicembre del 1948. La madre era italiana, siciliana, il padre maltese. Lei è stata presto naturalizzata italiana, diventando una delle più grandi dive del nostro Paese
Le relazioni d’amore
Alcuni degli amori di Edwige Fenech sono celebri: è stata legata per circa undici anni al regista e produttore Luciano Martino. In seguito, un altro grande amore, durato 18 anni, è stato quello con Luca Cordero di Montezemolo. Il manager ha ricordato in tv le “critiche feroci” che la coppia dovette affrontare quando c’era chi diceva che Fenech fosse in tv solo perché raccomandata da lui. L’attrice inoltre ha un figlio di nome Edwin Fenech, nato nel 1971, la cui paternità è stata oggetto di gossip scandalistico, perchè inizialmente proprio l’attrice l’aveva attribuita a Fabio Testi, con cui aveva avuto una relazione per circa tre anni. In seguito ha smentito tale paternità ripetutamente, senza però voler rivelare l’identità del padre.
Oggi produttrice
Oggi Fenech oltre che attrice è anche una produttrice affermata e la mamma di un figlio, Edwin Fenech, nato nel 1971, la cui paternità è stata oggetto di gossip ma mai rivelata
Icona sexy
La bellezza dell’attrice non è mai passata inosservata. Il primo film in cui ha recitato è stato «Samoa, regina della giungla», del 1968. Da allora, non sono più mancate le occasioni per stare davanti alla macchina da presa, diventando presto un’icona sexy
Quel gran pezzo dell’Ubalda
Per Edwige Fenech, la consacrazione arriva negli anni Settanta, principalmente con due film: «Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda» di Mariano Laurenti e successivamente con «Giovannona Coscialunga» disonorata con onore. Poco dopo è la volta del film «Innocenza e turbamento» è del 1974
Sul palco dell’Ariston
La sua fama non è mai mutata nel tempo: ha anche condotto il Festival di Sanremo, con Andrea Occhipinti , nel 1991
L’impegno dietro le quinte
Qui nel 2009. Ma è a partire dagli anni 1990 incomincia a occuparsi a tempo pieno di produzione televisiva e cinematografica con la sua società Immagine e cinema
Il ritorno alla recitazione
Nel 2007 è tornata anche davanti alla macchina da presa. Qui è nei panni dell’imperatrice Caterina di Russia nella fiction «La figlia del capitano» del 2010
Radiosa
Qui sulla passerella del Palazzo del Cinema di Venezia prima della presentazione del film fuori concorso «Fragile»
Bellezza
Qui con Carlo Conti nella prima delle quattro serate tv che porteranno all’elezione di Miss Italia, nel 2004
Sensualità
Qui in una scena del film «40 gradi all’ombra del lenzuolo», quando era già tra le dive sexy più amate. Sentimentalmente, l’attrice è stata per 18 anni ala compagna di Luca Cordero di Montezemolo.
Con Celentano
Richiestissima, ha recitato in decine di film, tra cui «Asso» con Celentano
La passione di Quentin Tarantino
Qui nel 2007, anno in cui Quentin Tarantino l’ha chiamata per un cameo in «Hostel: Part II»: il regista le ha fatto autografare la propria collezione dei suoi film. Non solo. Nel suo «Bastardi senza gloria» il personaggio interpretato da Mike Myers si chiama «Ed Fenech», proprio in omaggio all’attrice.
Con Fiorello
Con Fiorello nel 2011, in un momento dello show Rai «Il più grande spettacolo dopo il week end»
Sguardo elegante
Tra le sue frasi celebri, c’è questa: «Oggi una donna di volontà riesce a farsi strada. Ma deve dimostrare sempre molte più cose di un uomo»
Bellissima
Un’altra bellissima immagine dell’attrice.
· El Simba (Alex Simbala).
El Simba (Alex Simbala), talento rap nato in carcere a Milano: ora il concerto al Castello Sforzesco. Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.
Il rapper, 22 anni, ha scoperto la passione per la scrittura al Beccaria dove è entrato a 17 anni. Don Gino Rigoldi. «Abbiamo bisogno di rapper come lui. La trap un modo per parlare ai giovani, ma oggi i testi sono pieni di aggressività e violenza»
«Siamo umani abbiamo fatto errori...Pensateci prima di parlare, ragionate prima di giudicare. Aiutateci per un futuro migliore. Siamo rinchiusi in un labirinto dove ci sono milioni di storie».
Alex ha 22 anni e canta gli sguardi giudicanti che sente su di sé. Nelle sue rime rap canta di un «peccato che ormai è fatto» di un passato che «ormai è morto non lo voglio risorto». E del futuro che si affaccia: «Non voglio la guerra voglio la pax». Alex Simbala, in arte El Simba, da bambino voleva seguire le orme del nonno e fare il meccanico. E invece venerdì 19 salirà sul palco di «Milano è viva», al Castello Sforzesco, per il suo primo concerto da solista (ore 21, ingresso libero, prenotare su Mailticket). Una performance intitolata «Una speranza mille sentimenti» (come il suo nuovo singolo), che alterna canzoni, danza e narrazione.
Il talento di Alex per il rap si è rivelato negli anni di detenzione al carcere minorile Beccaria. Ci è entrato a 17 anni. Gliene restano 2 e mezzo da scontare, ma ha ottenuto a marzo la messa in prova. È tornato a vivere in famiglia e ha già un lavoro: è assunto fra le maestranze di Puntozero Teatro, che gestisce la sala teatrale del Beccaria, pronta a riaprire al pubblico a settembre. «Sono molto emozionato, è il mio debutto come cantante e sarà su un palco così importante — racconta —. Scrivo canzoni da circa 3 anni e ne ho incise 9. Prima avevo molta rabbia dentro di me. Al laboratorio teatrale mi sono avvicinato, sono sincero, solo perché c’erano anche le ragazze. Invece poi mi sono innamorato del loro progetto e della scrittura. Ho capito che posso sfogare la mia rabbia per gli errori che ho fatto, raccontare la paura, la speranza di potercela fare non con la violenza, ma con un foglio, una penna e una base. Il teatro mi ha aperto un nuovo mondo».
Nato in Ecuador, Alex ha raggiunto i genitori emigrati in Italia, a Pioltello, a 8 anni. «L’impatto con una nuova cultura, una nuova lingua, non è stato semplice». Dopo le medie, il giovane si iscrive a meccanica, ma, dopo un anno, lascia. «Me ne fregavo, avevo atteggiamenti sprezzanti». Finisce in un gruppo di coetanei che commette reati. Arriva la condanna. «La felicità è la libertà. La perdi, lasci la famiglia vuota, il tuo cuore è spezzato a metà. Ti manca l’affetto di mamma e papà» canta ora. La compagnia Puntozero, composta da 15 persone, fra detenuti e volontari, opera al Beccaria dal 1995. «Facciamo corsi di tutte le professionalità teatrali: tecnico luci, fonico, macchinista, addetti alle trasmissioni in streaming. Mestieri che puoi spendere anche in altri contesti. lL teatro diventa un occasione per riappassionarsi allo studio» racconta il direttore artistico Giuseppe Scutellà.
Tra i primi fan di El Simba c’è don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria, che venerdì sarà in platea. E invita a non sottovalutare il rap e la trap. «Alcuni ragazzi che seguo vivono con me. Io metto su Chopin, loro cambiano e mettono la trap. E sentono la stessa canzone 20 volte di fila. È importante inserirsi anche in questa nuova forma di comunicazione, per raggiungerli. Senza moralismi, accettando anche qualche esagerazione o parolacce». La trap «è un modo di comunicare con cui ragazzi, che gravitano soprattutto attorno alle periferie e alle carceri, parlano dei loro sentimenti e desideri. Sono molto ascoltati e questo non è da sottovalutare, perché i loro testi sono pieni di aggressività e violenza» aggiunge don Gino. I testi di El Simba invece «Non girano attorno a quattro luoghi comuni ma fanno riflettere. Abbiamo bisogno di rapper come lui».
Da Moretti a Genovese, è l’attrice del momento. Intervista a Elena Lietti, l’attrice del momento tra Moretti e Genovese: “Tutto è iniziato con il Miracolo”. Federico Fumagalli su Il Riformista il 21 Gennaio 2022.
È stata diretta da Nanni Moretti, Giuseppe Piccioni, Paolo Virzì. Ma non si chiama Margherita Buy. Di cui, secondo tanti, Elena Lietti è degna erede. «Di essere considerata la nuova Buy, proprio non ne avevo idea – ride l’attrice, al telefono (ed è una meraviglia ascoltare la sua risata, intensa e spontanea) –. Certo mi lusingherebbe, la ammiro moltissimo. Margherita è una soldatessa del set, come Nanni dice di lei». Moretti le ha volute entrambe nel suo ultimo film, Tre piani. «Ma le storie dei nostri personaggi sono parallele, non abbiamo quasi mai recitato insieme».
Stessa sorte avranno le colleghe, insieme nel cast ma divise dagli intrecci narrativi del nuovo film di Paolo Genovese, Il primo giorno della mia vita. Quello del regista di Perfetti sconosciuti e del recente Supereroi è un tassello del prestigiosissimo tridente di assalto al botteghino (speriamo!) e alla stagione dei premi, con cui Elena Lietti si presenterà al pubblico nei prossimi mesi. Gli altri due titoli sono l’atteso Siccità di Paolo Virzì e Le otto montagne, dal romanzo Premio Strega di Paolo Cognetti, con Alessandro Borghi, Luca Marinelli e Filippo Timi. «In un momento così disgraziato, mi è capitato di partecipare a storie belle – racconta Lietti –. Di questi tre film ancora non posso dire nulla, se non che mi è piaciuto molto girarli. Spero ci siano altri begli incontri, dopo questi. A fine riprese, ogni volta mi domando: ma quando mi ricapita, una fortuna del genere?».
L’età dell’oro di questa interprete profonda e sensibile, classe 1977, si è fatta attendere. È iniziata nel 2017 con Il miracolo, prima serie tv del romanziere Niccolò Ammaniti («una perla di scrittura»). «Ho spesso pensato che ciò che mi sta accadendo, tutto insieme, sia dovuto a residui di vite passate. O parallele, come in Costellazioni». E’ lo spettacolo che Elena Lietti porta sulla prestigiosa scena milanese del Teatro Franco Parenti, fino al 6 febbraio, con la regia di Raphael Tobia Vogel. Il testo, del britannico Nick Payne, ragiona su una teoria della fisica quantistica, che sostiene l’esistenza di un infinito numero di universi.
E applica questa affascinante teoria a un rapporto di coppia, uomo-donna. Sul palcoscenico, insieme a lei c’è Pietro Micci.
Io e Pietro siamo molto felici di essere riusciti a portare Costellazioni al Franco Parenti. Quello di Nick Payne è un testo di forte interesse e risonanza internazionale. Ci ha incuriosito vederlo in cartellone nei teatri inglesi e Off-Broadway, con interpreti prestigiosi (fra loro anche il divo Jake Gyllenhaal, ndr.). È uno spettacolo molto voluto.
Quello degli universi paralleli è un tema affrontato da tanto cinema hollywoodiano contemporaneo. Come nei film dei supereroi Marvel, ad esempio. Le piacciono?
Assolutamente sì! Spero di non stare esagerando con mio figlio Leo, che ha solo sei anni. Ma insieme abbiamo già visto gli Avangers e l’ultimo Spiderman. Un film galattico, davvero. Quello degli altri universi è un tema molto frequentato e di grande interesse. In questi blockbuster c’è sia la voglia di intrattenere il pubblico, sia la necessità di affrontare riflessioni fondamentali. Come la tragedia greca, conducono lo spettatore a una catarsi.
Sul set ha più volte affrontato il tema della maternità. Alcune volte dolorosa (L’Arminunta), altre spensierata (la sitcom Alex & Co.). Ruoli che l’hanno aiutata essere mamma di Leo?
Sono stata mamma per finta prima di esserlo per davvero. Il mio lavoro mi ha concesso un punto di vista illuminante, su una faccenda reale. Viceversa, non è necessario sperimentare per interpretare.
Lei è nata a Saronno, in provincia di Varese. Vive a Milano, dove ha studiato e si è formata come attrice. La sua biografia è distante da Roma, cuore produttivo del cinema in Italia.
Sono un animale esotico, collocato nella romanità (ride, ndr.). Una nordica, c’è poco da fare! A Milano mi sono laureata in legge, all’Università Cattolica, e ho studiato recitazione da “Quelli di Grock” (storica scuola cittadina ndr.). Questa condizione comporta anche vantaggi. Perché consente di avere un punto di vista diverso, su un posto che non è il tuo. Coglierne meglio lo spirito e l’energia. Vale per Roma, come per qualsiasi altra città.
Suo marito è l’insegnante di recitazione Michael Margotta. Nato in Usa nel 1946, è membro dell’Actor’s Studio e una vera istituzione nel settore. Michael ha influenzato il suo modo di recitare?
Come vuole il luogo comune più ovvio, prima di innamorarmi del maestro sono stata una sua allieva. Mio marito mi ha insegnato tutto e continua a essere per me una fonte di ispirazione. È un folle, ossessionato dall’anima dei personaggi. Da lui ho imparato a lavorare, spero, senza paura.
Ci sono maestri di recitazione invece, che applicano un approccio duro nei confronti dei loro allievi.
Ho incontrato anche io maestri che, come metodo di insegnamento, applicavano il giudizio. Su di me, però, l’intimidazione funziona poco.
L’ultimo Festival di Cannes ha rappresentato per lei una ribalta internazionale. Tre piani era in corsa per la Palma d’Oro. Crede tornerà anche quest’anno? Magari con Siccità?
Spero soprattutto che la gente abbia voglia di tornare al cinema. Dovesse ricapitarmi Cannes, ben venga. Ma prima di occuparci dei festival, dobbiamo pensare alle sale.
Di Festival in Festival. Quest’anno a Sanremo ci sono cinque attrici-conduttrici, da Ornella Muti a Sabrina Ferilli. Se in futuro venisse chiamata anche lei, ci andrebbe?
È una eventualità che trovo molto improbabile ma, nel caso, certo che ci andrei. Sono una fan del Festival. Pensi, faccio addirittura il FantaSanremo (gioco online che consiste nel comporre squadre con i cantanti in gara, “acquistati” con una moneta virtuale: il “baudo” ndr.). Vuole sapere chi è la mia punta di diamante?
Prego …
La coppia Mahmood-Blanco. Ho speso un sacco per averli. Nei giorni di Sanremo sarò in scena con Costellazioni. Ma il nostro spettacolo è breve, poco più di un’ora. Confido sulla lunga durata del Festival, per riuscire a tornare a casa a vederlo. Federico Fumagalli
Elena Sofia Ricci compie 60 anni: figlia della prima scenografa italiana, il rapporto con il padre, 9 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.
L’attrice, nata a Firenze il 29 marzo 1962, interpreterà prossimamente la profiler della polizia protagonista della serie Rai tratta dal romanzo di Ilaria Tuti «Fiori sopra l'inferno»
La mamma scenografa
«Appena c’era qualcosa che anche solo ricordava un palcoscenico ci salivo. Era sufficiente il dislivello di un gradino nel salotto della casa di Firenze, dove sono cresciuta: quello per me era chiaramente un palco. Avevo tre o quattro anni: lì ho capito che non avrei potuto fare altro». Nata nel capoluogo toscano il 29 marzo 1962 Elena Sofia Ricci (Elena Sofia Barucchieri all’anagrafe) compie 60 anni. Una carriera, la sua, costellata di numerosi successi: oggi è nel cuore dei telespettatori nei panni di Suor Angela in «Che Dio ci aiuti», ruolo che sta per abbandonare per affrontare nuove sfide come la serie Rai di prossima realizzazione tratta dal romanzo «Fiori sopra l'inferno» di Ilaria Tuti (interpreterà Teresa Battaglia, profiler della polizia alle prese con una scia di omicidi). L’attrice, residente a Roma dall'età di 8 anni, ha frequentato l'ambiente del cinema fin da giovanissima: sua madre infatti era Elena Ricci Pocetto, la prima scenografa italiana. «Mi portava con lei a Cinecittà - ha raccontato in un’intervista al Corriere. Mi ricordo i capannoni in cui c’erano i tessuti: i teli arrivavano fino al soffitto e a me sembrava arrivassero all’infinito, come delle tele di Caravaggio. Impazzivo, così come nelle sartorie. Vedevo questo esercito di persone, questa vastità di oggetti. Dietro un film, un concerto o uno spettacolo c’è un mondo che fatica a far capire che esiste». Ma questa non è l’unica curiosità su di lei.
Il rapporto con il padre
L’attrice ha raccontato al Corriere di aver recuperato il rapporto con suo padre, lo storico Paolo Barucchieri, soltanto a 30 anni: «Ero stata programmata, educata per detestare mio padre. Ovviamente tutto questo mi è costato qualche anno di analisi, ma alla fine ho capito che potevo imparare ad amare tutti per quello che erano. Per fortuna ho recuperato sia con lui che con i miei fratelli, appunto, totalmente incolpevoli. Tra l’altro, nostro padre si era separato anche dalla loro mamma. Averli nella mia vita è stata una ricchezza, l’amore si eleva a potenza, non è una torta da dividere».
Gli inizi nella danza
Elena Sofia Ricci ha mosso i suoi primi passi artistici nella danza: «Ho frequentato la scuola di Mimma Testa, che ora, a causa della pandemia, ha chiuso dopo 60 anni: ho pianto, veramente - ha raccontato al Corriere -. In quella scuola mi sono formata: ho imparato ad amare la danza, la musica ma anche la letteratura e la pittura. Era un ambiente unico, un patrimonio disperso. Ai primi saggi che facevo, mi sono resa conto che quello che mi piaceva era raccontare delle storie attraverso il mio corpo. Non ero così dotata fisicamente, non avevo il corpo della ballerina, ma mi davano sempre la parti più importanti perché ero espressiva». Anche sua sorella Elisa Barucchieri si è avvicinata molto presto alla danza e oggi è una danzatrice affermata.
Ha interpretato Veronica Lario
Elena Sofia Ricci ha iniziato a lavorare nel mondo del cinema nel 1980 (ha recitato, non accreditata, in «Arrivano i gatti» di Carlo Vanzina). Negli anni è stata diretta da registi come Pupi Avati («Impiegati», 1985), Carlo Verdone («Io e mia sorella», 1987), Luigi Magni («In nome del popolo sovrano», 1990) e Ferzan Özpetek («Mine vaganti», 2010). Per Paolo Sorrentino è stata Veronica Lario, la moglie di Silvio Berlusconi («Loro», 2018): per questo ruolo ha conquistato il suo terzo David di Donatello (il primo come attrice protagonista). A proposito di premi Elena Sofia Ricci ha ottenuto anche 3 Nastri d'argento, un Globo d'oro, 4 Ciak d'oro, una Grolla d'oro, un Premio Rodolfo Valentino, un Premio Alberto Sordi, un Premio Kineo Diamanti alla Mostra del Cinema di Venezia e due Telegatti.
Elisa, Lucia…non solo Suor Angela
Per il piccolo schermo Elena Sofia Ricci ha interpretato personaggi come Rita Levi-Montalcini nella omonima fiction del 2020, Francesca Morvillo - moglie di Giovanni Falcone - in «Giovanni Falcone - L'uomo che sfidò Cosa Nostra» (2006) e Costanza Colonna in «Caravaggio» (2008). Oltre a Suor Angela di «Che Dio ci aiuti» (2011-2021) due sono i ruoli che ancora oggi il pubblico televisivo ricorda con affetto: Elisa nella serie tv «Caro maestro» con Marco Columbro (1996-1997) e Lucia Liguori, moglie di Giulio (Claudio Amendola), ne «I Cesaroni» (2006-2012). «Nessuno aveva mai raccontato quanto possa essere bella una grande famiglia allargata - diceva l’attrice al Corriere a proposito della serie cult di Canale 5 -. I Cesaroni hanno di colpo liberato tutti dai perbenismi, dalle impostazioni ottocentesche sull’idea del nucleo famigliare per far scoprire che l’amore può aumentare: quanti più siamo meglio sarà. Vederlo in tv è stato come un sospiro di sollievo per tantissimi. Io a scuola ero l’unica figlia di separati, la mia prima figlia, Emma, era tra i tanti figli di genitori separati mentre la piccola, Maria, è tra le pochissime figlie di genitori che stanno ancora insieme».
L’amore per il teatro
Nella vita di Elena Sofia Ricci - accanto alla tv e al cinema - c’è da sempre anche il teatro, da «La scuola delle mogli» (1981) a «La dolce ala della giovinezza» (2021) di Tennessee Williams. «Per anni comunque ho rinunciato al teatro, che amo profondamente, perchè il teatro prevede delle tournée che signfica essere assente per mesi. Quando le mie figlie erano piccole, con un po’ di fatica, ho detto no. Erano più importanti loro, non ho mai avuto dubbi su questo» raccontava nel 2019 al Corriere.
Giurata a Sanremo
Nel 2019 è stata tra i giurati - della giuria di qualità - al Festival di Sanremo: «Magari qualcuno si chiederà: che ci fa quella? Però pur non essendo una esperta musicista, non sono una analfabeta totale - ha detto al Corriere -: vengo dalla danza, ho studiato chitarra classica, e ho sposato un compositore e direttore d’orchestra».
Vita privata
Nel 1991 Elena Sofia Ricci è convolata a nozze con lo scrittore Luca Damiani. Il matrimonio però è durato soltanto un anno: è finito per il tradimento di lui con Nancy Brilli. «Frequentava la mia casa, mi ascoltava e mi consolava come farebbe una buona amica, ma allo stesso tempo andava a letto con mio marito - ha svelato anni fa Ricci ad Oggi -. Mi parlava anche di un suo fidanzato misterioso che solo dopo ho scoperto essere Luca» («Con Elena Sofia Ricci non mi sono comportata bene - dichiarò una volta Brilli -. L'avevo incontrata in un viaggio in Brasile e c'era anche il marito Luca Damiani. Tra noi durò pochissimo»). Qualche anno dopo Elena Sofia Ricci ha iniziato una relazione con l’attore e doppiatore Pino Quartullo, da cui nel 1996 ha avuto la prima figlia Emma. Dal 2003 invece è sposata con il compositore Stefano Mainetti, da cui ha avuto una figlia di nome Maria.
Un grande dolore nel suo passato
«Ora che mia mamma è venuta a mancare, posso parlare con libertà: a 12 anni sono stata abusata»: soltanto nel 2019 Elena Sofia Ricci ha parlato pubblicamente del dolore che ha portato dentro di sè per 45 anni. «Non l’ho mai dichiarato prima - ha detto in un’intervista al quotidiano Libero - perché purtroppo è stata mia madre a consegnarmi inconsapevolmente nelle mani del mio carnefice, mandandomi in vacanza con un amico di famiglia. Non volevo che avvertisse il senso di colpa». L’uomo in seguito è stato arrestato dopo la denuncia di altre persone «perché non ero la sua unica vittima. Purtroppo i casi come il mio sono molti e non tutte riescono a uscirne. Io stessa non ne sono ancora fuori del tutto: è come avere un imprinting, che non ti scegli ma ti ritrovi addosso».
Piero Degli Antoni per il Resto del Carlino il 15 agosto 2022.
Elenoire Casalegno, è tornata al mondo musicale, quello da cui era partita parecchio tempo fa. «A 18 anni debuttai con 'Jammin'. Ora su Italia 1 in prima serata è partito 'Battiti Live - Msc crociere - Il viaggio della musica' che presento con Nicolò De Devitiis . Nella seconda puntata, che andrà in onda l'11 aprile, abbiamo grandi ospiti (da Irama a Elodie, da Tommaso Paradiso a Noemi, da Giusy Ferreri a Ermal Meta e altri, ndr). Ma la vera novità è che la trasmissione si svolge su una nave da crociera».
Come arrivò a Jammin'?
«Il mondo della moda e dello spettacolo non mi ha mai interessato. Spesso, quando viaggiavo con i miei genitori, qualcuno mi chiedeva se desiderassi fare la modella, ma rispondevo di no perché il mio sogno era fare il magistrato. Falcone e Borsellino erano i miei modelli. Una mia amica però mi iscrisse a mia insaputa a 'Look of the Year', io non sapevo cosa fosse, credevo si trattasse di sfilate.Poiché ero minorenne mi accompagnarono i miei e solo quando arrivai scoprii che si trattava di un concorso di bellezza!
Corsi in camera e scoppiai a piangere. Non volevo farlo, ma non volevo nemmeno deludere l'agenzia che mi aveva preso in carico, e i miei genitori. In realtà fu un'esperienza molto divertente. Non mi accorsi neanche di aver vinto, finché la ragazza accanto a me mi diede una gomitata nel fianco: 'Guarda che hai vinto tu! Devi andare avanti'».
Torniamo a 'Jammin'...
«Venti giorni dopo 'Look of the year' Italia 1 mi chiamò per un provino alla conduzione. Mi mandarono davanti a un liceo di Milano a intervistare gli studenti. Dopo 3 minuti mi fermarono: sei perfetta».
Lei si è definita una 'madre colonnello'...
«Sono gli altri che mi chiamano così! Certo nell'educare mia figlia Swami (oggi ha 23 anni, ndr) sono stata molto severa. Ho riportato l'educazione con cui sono stata cresciuta. Ricordo mia mamma quando diceva: vedrai quando sarai madre...Aveva ragione! Ho avuto mia figlia a 23 anni, siamo cresciute insieme, anche i nonni sono giovani, mio padre ha 64 anni».
Da giovanissima è stata fidanzata con Vittorio Sgarbi, deve essere stato difficile rimanere accanto a un uomo che è un vulcano...
«Ma quando avevo 20 anni era difficile anche stare dietro a me! Siamo due caratteri molto forti. Siamo stati insieme tre mesi ma il gossip ne ha parlato per anni. Allora erano tempi diversi, il pettegolezzo prosperava sui giornali. Oggi con i social è tutto diverso, per sapere cosa fa un personaggio basta seguirlo su Instagram. E non faccio la falsa moralista, ammetto che anche a me piace farmi gli affari degli altri. Siamo tutti voyeur».
Lei ha avuto la fortuna di lavorare con Raimondo Vianello a 'Pressing'.
«Avevo vent' anni, ero pazzerella. Un giorno vado nel suo camerino e lo trovo in mutande e canottiera. Lo trascino fuori in corridoio e lo costringo a ballare la lambada. Quando rimasi incinta non lo dissi a nessuno. Ma, durante le registrazioni, avevo i caratteristici malesseri delle donne incinte. Così mi sforzavo di arrivare fino all'interruzione di pubblicità e poi correvo in bagno. Alla terza volta che accadeva, Raimondo mi si avvicinò e mi disse: 'Lei ha una brutta malattia'. Allora gli rivelai che ero incinta. Lui rimase in silenzio per un secondo, poi mi chiese: 'Ma lei sa chi è il padre?' Al secondo anno non volevo più fare Pressing, avevo troppi impegni, ero cotta. Cominciarono i provini per trovare una sostituta, ma dopo due settimane ancora non c'erano riusciti. Allora Raimondo disse: se Elenoire non fa la trasmissione, non la faccio più neanche io. Insomma, mi convinsero a restare. E ringrazio Dio per questo».
Lei salvò la vita a Omar Pedrini, allora suo fidanzato...
«Una notte si sentì male, aveva dolori di pancia. Lo accompagnai in farmacia dove gli misurarono la pressione: perfetta. Gli diedero qualcosa contro una presunta congestione e tornammo a casa. Gli consigliarono di riposarsi. Dopo un po' tentai di svegliarlo, ma lui non voleva, ripeteva 'Lasciami dormire'. Così lo sollevai di peso - uno sforzo non facile con un uomo alto 1,90 - lo caricai in auto, lo portai in ospedale. Gli fecero gli esami e scoprirono che aveva un aneurisma aortico, da operare subito. Il chirurgo mi avvertì: 'Guardi che le possibilità di successo sono il 20%'. Lui ce la fece».
Dice che la parola 'dieta' le suscita l'orticaria...
«Sono cresciuta in Romagna, posso osservare una dieta? Ho un ottimo metabolismo, un mio amico medico dice che ce l'ho di tipo maschile. Mangio di tutto, bevo anche vino, non come quelle che mangiano una foglia di insalata e poi dicono che hanno un ottimo metabolismo».
Lei non è contraria alla chirurgia estetica, ma agli eccessi della chirurgia estetica.
«La vita si è allungata, ma non è che si invecchia più tardi. Se uno può fare in modo di piacersi di più, perché no? Una volta si parlava di ritocco, di una rinfrescata. Oggi ci sono 18-20enni che si rifanno completamente, allora c'è un problema. E la bellezza è proporzione».
Anche lei ritiene di avere qualche difetto che in futuro potrebbe correggere?
«Altroché, decine di difetti! Ma con l'età si acquista una certa saggezza, cominci a dire 'chi se ne frega'. A 20 anni sei più insicura. Quando mi chiedono se tornerei ai vent' anni, rispondo mai al mondo! L'età ideale, secondo me, è 35-36 anni».
Elenoire Casalegno, ex modella e conduttrice tv, ritorna con Battiti Live: ecco quello che non sapete di lei. Maria Volpe e Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'11 Aprile 2022.
Donna bellissima e passionale ha una figlia, Swami di 21 anni, nata dalla relazione con il dj Ringo. Tra i suoi amori Vittorio Sgarbi, Omar Pedrini, Sebastiano Lombardi.
Battiti Live
Secondo appuntamento - lunedì 11 aprile su Italia 1 in prima serata - per Battiti Live Msc Crociere - Il viaggio della musica: sul palco di questo format itinerante, che toccherà quattro porti del Mar Mediterraneo (Palermo, Malta, Barcellona e Marsiglia), saliranno alcuni dei nomi più importanti della musica italiana e internazionale come Fedez, Achille Lauro, Sangiovanni, La Rappresentante di Lista, Pinguini tattici nucleari, Kungs, Dargen D’Amico, The Kolors, Irama, Sophie and the Giants, Federico Rossi, Gué Pequeno, Topic, Deddy, Berna, Follya e Gemelli Diversi. Alla guida delle serate ci sarà una coppia inedita formata da Nicolò De Devitiis ed Elenoire Casalegno.
Elenoire e Vittorio Sgarbi
Dunque una nuova avventura per Elenoire Casalegno nata a Savona, il 28 maggio 1976. Una donna bellissima, ex modella, conduttrice e passionale. Un amore che la pose al centro dell’attenzione fu quello con il critico d’arte Vittorio Sgarbi, una relazione che durò dal 1993 al 1997.
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A «Pressing» con Raimondo Vianello
Elenoire si trasferisce da adolescente a Ravenna e nel 1994 partecipa al concorso per aspiranti modelle «Look of the year» grazie alla sua bellezza e alla sua altezza di 180. Debutta subito con la conduzione del programma musicale di Italia 1 «Jammin», fino al 1997. Poi per due anni un’esperienza fondamentale che le regala la notorietà: affianca Raimondo Vianello nella conduzione in «Pressing». Seguono tante trasmissioni per lei : «Scherzi a parte», «Festivalbar». E nel 1998 fa un cameo nel film Paparazzi, dove interpreta se stessa.
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Il sogno erotico degli italiani
Nel 2001 Casalegno diventa il sogno erotico di molti italiani è la protagonista del calendario Maxim, con foto di nudo di Marino Parisotto. Un grande successo. L’anno successivo passa in RAI dove conduce con Fabrizio Maffei «Mondiale sera» in occasione dei Mondiali di calcio 2002. Successivamente presenta il Festival di Castrocaro con Claudio Cecchetto
Il lungo amore con Omar Pedrini
Omar Pedrini è un noto cantante diventato famoso negli Anni Novanta grazie al gruppo dei Timoria, di cui faceva parte pure Francesco Renga.Poi ha cominciato una carriera da solista. Poi il lungo grande amore con Elenoire Casalegno che alla fine della loro relazione, dopo sette anni, dichiarò al settimanale Chi: «Ho vissuto, anzi abbiamo vissuto una crisi che è durata per un anno. Sì un anno! Per capire che dovevamo lasciarci Omar e io ci abbiamo impiegato così tanto tempo … Ora si ricomincia». Insieme avevano anche avviato una produzione di vini.
Dj Ringo, padre di sua figlia
Elenoire è mamma di una giovane ragazza, Swami Anaclerio, nata il 22 novembre 1999, dal suo legame con il noto dj Ringo (al secolo Rocco Anaclerio). Tra i due una passione travolgente che però non è mai sfociata in un matrimonio. «Non era un’esigenza che avevo in quel momento, ma non perché non fosse un amore importante, altrimenti non ci avrei fatto una figlia», ha spiegato l’ex concorrente del Grande Fratello Vip. Oggi Elenoire e Ringo sono in ottimi rapporti e non hanno avuto problemi a crescere Swami insieme, seppur separati.
Swami e il suo profilo Instagram
Bellissima come mamma Elenoire e grintosa come papà Ringo da cui ha ereditato invece la passione per la musica e per le due ruote (in particolare di Valentino Rossi), Swami si racconta attraverso il suo profilo Instagram at_swamianaclerio_, tra istantanee di vita familiare, viaggi e selfie.
Swami nella casa del Gf a salutare la mamma
Unica comparsata tv per Swami: un saluto alla mamma dentro la casa del Grande Fratello Vip. «Ogni sera prima di andare a letto Swami mi dice sempre: “Ti voglio bene”. È il mio capolavoro, meglio non potevo fare» dichiarò la Casalegno al Grande Fratello Vip, prima del grande abbraccio con Swami tra le lacrime. «Ha una bella anima. È decisamente migliore di me». «Swami è nata all’ottavo mese di gravidanza e in 24 minuti, viva per miracolo. Aveva due giri di cordone ombelicale intorno al collo, stava già spingendo per uscire. Spesso penso sia stata lei a salvarmi. Se non ci fosse stata, non so dove sarei finita, forse avrei preso una strada sbagliata».
Il matrimonio con Sebastiano Lombardi
Nel 2014 Elenoire Casalegno sposa l’allora direttore di Retequattreo Sebastiano Lombardi: il matrimonio dura tre anni, e nel 2017 la fine della relazione viene annunciata con un post su Instagram. «Ci sono momenti in cui preferirei restare in silenzio, tutelando la mia privacy, e quella delle persone a me care. Purtroppo, non sempre è possibile. Negli ultimi mesi molto si è detto, romanzato, ma la verità, dolorosa, non si trova in superficie, dimora nello strato più profondo della nostra intimità. Ogni scelta della mia vita è stata dettata dal cuore, e così anche il mio matrimonio. Avrei sperato non fosse questo l’epilogo, ma accetto ciò che la vita mi propone, anche i momenti di sofferenza, perché insieme ad essi, ci sono ricordi di gioia e felicità. L’unica certezza che rimane è l’affetto che continuerò a provare per colui che è stato mio marito»
Andrea, il nuovo amore (quasi top secret)
Dal 2019 Elenoire Casalegno ha un nuovo amore, di cui si sa poco a parte il nome (Andrea) e la professione (broker finanziario). «È un uomo del tutto estraneo al mio ambiente e vorrei proteggere questa storia - ha raccontato al settimanale F -. Posso solo dire che è arrivato in un momento inaspettato della mia vita, dove non cercavo una relazione perché stavo bene da sola. Però è una delle poche persone nella mia vita con cui riesco a rilassarmi: per la prima volta non sono io che devo sobbarcarmi la responsabilità di tutta la storia. In passato il maschio ero io nella coppia, quella che portava avanti la relazione da sola, e se non si è in due non si va da nessuna parte. Ora io ho qualcuno che mi accudisce».
Gf Vip, Elenoire Ferruzzi sconvolgente: "Chi mi sono portata a letto". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 23 settembre 2022
Eleonoire Ferruzzi si racconta senza freni a Chi, il settimanale diretto da Alfonso Signorini. Entra al GfVip e conquista tutti. Il suo passato lo racconta in tv in una clip che diventa subito virale. "Non scriva transessuale, queer, intersex, binario o non binario. Scriva, semplicemente: Elenoire", precisa ad Alessio Poeta di Chi. Per lei tutto ciò "genera distacco e confusione".
Poi dice: "Il mio pensiero va compreso. Io sono oltre. Non mi conformo in nulla. Il mio transessualismo l’ho trasformato in un atto di potere e di orgoglio. Il mio corpo e il manifesto stesso della liberazione. Lei non sa quante persone si rispecchiano in me, per la forza che io emano. La generazione Z sta crescendo senza pregiudizi e senza etichette".
La Ferruzzi, che si chiamava Massimo, racconta la sua esperienza. "Le sembrerà assurdo, ma non l’ho appreso in prima persona. Sono stati gli altri a farmi sentire sbagliata, diversa. Per me era tutto al posto giusto: mi sentivo una femminuccia. Poi, con le prime vessazioni, iniziai a capire che il corpo non si sposava appieno con la mia anima". Elenoire s'innamora del compagno di banco alle elementari. Non viene capita, erano altri tempi. "Si chiamava Paolo. Durante qualche lezione iniziai a disegnare sul diario un cuore rosso con, vicini, i nostri nomi. La maestra, dal nulla, prese il diario, lo mostro a tutta la classe e inizio ad urlare: 'Avete visto il vostro compagno che cosa sta facendo? Vergogna!'. Da li tutti a ridere. Tornai a casa distrutta, affranta, delusa. La scuola avrebbe dovuto rappresentare l’inclusione, mentre per me era diventata un vero e proprio inferno. Mia madre si accorse subito del mio malessere e, in tempi non sospetti, ancor prima di cambiarmi scuola, ne disse di ogni alla maestra, ricordandole i principi fondamentali del suo mestiere. Quel gesto così duro di mia mamma mi fece sentire, forse per la prima volta in tutta la mia vita, protetta, accolta, compresa. Purtroppo però, anche cambiando scuola, la storia era sempre la stessa. Ricordo ancora oggi il pulmino che mi portava da casa all’istituto come uno dei posti peggiori di sempre. Insulti, prese in giro e botte".
Alla fine racconta persino di aver subito bullismo. "Ma ho fatto sesso con chi mi bullizzava", assicura. Ha rischiato anche di morire a causa del Covid. "Sono stata in coma quattro lunghi mesi. Più di una volta chiamarono mia madre per dirle: 'E questione di ore, non ce la farà'. Durante l’incoscienza avevo sangue infetto, polmoni bucati. C’era una macchina che respirava per me. Stavo morendo. Ho avuto delle visioni. Mia nonna, da non so dove, mi diceva che mi avrebbe salvata».
Alessio Poeta per “Chi” il 22 settembre 2022.
Andare oltre le apparenze quando si ha anche fare con chi, dell’apparenza, ha fatto la sua cifra, non e assolutamente facile. «Riuscirci, pero, da sempre una grande soddisfazione» afferma, con un tono che oscilla tra il sarcastico e il divertito, Elenoire Ferruzzi: performer, attrice, opera d’arte vivente e social star. E ora anche protagonista del Grande fratello Vip. «Non scriva transessuale, queer, intersex, binario o non binario. Scriva, semplicemente: Elenoire», ci ha detto in questa intervista realizzata poco prima dell’ingresso nella Casa.
Domanda. Le definizioni, quindi, non le piacciono?
Risposta. «Generano distacco e confusione».
D. Sara contenta la comunità LGBTQ+.
R. «Sbaglia. Il mio pensiero va compreso. Io sono oltre. Non mi conformo in nulla. Il mio transessualismo l’ho trasformato in un atto di potere e di orgoglio. Il mio corpo e il manifesto stesso della liberazione. Lei non sa quante persone si rispecchiano in me, per la forza che io emano. La generazione Z sta crescendo senza pregiudizi e senza etichette».
D. Le altre, invece?
R. «Sono pronte. Vanno solo preparate ed educate».
D. Facciamo un passo indietro. Lei quando avverte di essere nata nel corpo sbagliato?
R. «Le sembrerà assurdo, ma non l’ho appreso in prima persona. Sono stati gli altri a farmi sentire sbagliata, diversa. Per me era tutto al posto giusto: mi sentivo una femminuccia. Poi, con le prime vessazioni, iniziai a capire che il corpo non si sposava appieno con la mia anima».
D. Diamo un riferimento temporale.
R. «Presto, prestissimo. Alle elementari, per esempio, ero innamorata del mio compagno di banco. Si chiamava Paolo. Durante qualche lezione iniziai a disegnare sul diario un cuore rosso con, vicini, i nostri nomi. La maestra, dal nulla, prese il diario, lo mostro a tutta la classe e inizio ad urlare:
“Avete visto il vostro compagno che cosa sta facendo? Vergogna!” Da lì tutti a ridere. Tornai a casa distrutta, affranta, delusa. La scuola avrebbe dovuto rappresentare l’inclusione, mentre per me era diventata un vero e proprio inferno.
Mia madre si accorse subito del mio malessere e, in tempi non sospetti, ancor prima di cambiarmi scuola, ne disse di ogni alla maestra, ricordandole i principi fondamentali del suo mestiere. Quel gesto così duro di mia mamma mi fece sentire, forse per la prima volta in tutta la mia vita, protetta, accolta, compresa. Purtroppo pero, anche cambiando scuola, la storia era sempre la stessa. Ricordo ancora oggi il pulmino che mi portava da casa all’istituto come uno dei posti peggiori di sempre. Insulti, prese in giro e botte».
D. Chi asciugava le sue lacrime?
R. «Mia mamma Giovanna».
D. Lei che infanzia ha avuto?
R. «Stupenda. Ho dei genitori fantastici, che non mi hanno mai lasciata sola. I problemi veri sono arrivati quando ho iniziato a interfacciarmi con la società».
D. A conti fatti, per vivere bene meglio ricordare o rimuovere, Elenoire?
R. «Bisogna ricordare tutto. Io, oggi, non ho più rancori, nè rabbie represse. Ho perdonato tutti».
D. Ha mai più rincontrato quei bulli?
R. «E capitato. Con qualcuno ci ho anche fatto l’amore. Non mi aveva riconosciuta: del resto io sono cambiata molto! Tanto che, quando gli rivelai la mia identità, rimase a bocca aperta e mi disse: “Ti chiedo scusa per tutto il male che ti ho fatto. Ai tempi io non avevo i mezzi per capire”. Una vera rivincita».
D. Un percorso come il suo, banalmente, e stato più costoso o doloroso?
R. «Costoso, duro, devastante, alienante, tutto. Pero sono fiera di quella che sono
diventata».
D. La morbosità sull’intervento finale?
R. «Una cosa tipicamente italiana e prettamente maschile. Alle donne non interessa assolutamente».
D. Una domanda del genere la fa sentire violentata?
R. «No, ma la trovo limitante. Una persona non si definisce dai genitali. La chirurgia, nel mio caso, non e mai stata vissuta come una forma correttiva».
D. Piuttosto, non pensa di aver esagerato?
R. «L’esagerazione e negli occhi di chi guarda. Per me, questo corpo e arte».
D. Ha delle unghie importanti.
R. «Sono vere».
D. Quali sono stati i suoi eccessi?
R. «L’eccesso e la mia normalità».
D. Allora mi dica il momento più difficile della sua esistenza.
R. «Quando mi sono ammalata di Covid. E’ stata una prova di sopravvivenza niente male. Mi ha cambiato la vita».
D. Ce ne parli.
R. «Sono stata in coma quattro lunghi mesi. Piu di una volta chiamarono mia madre per dirle: “E questione di ore, non ce la farà”. Durante l’incoscienza avevo sangue infetto, polmoni bucati. C’era una macchina che respirava per me. Stavo morendo».
D. Che ricordo ha del coma?
R. «Ho avuto delle visioni. Mia nonna, da non so dove, mi diceva che mi avrebbe salvata. Il trauma e stato il risveglio. Non avevo la percezione del tempo che era passato e in quel momento ho avuto un crollo emotivo, psicologico, oltre che fisico. Ero circondata da sacche di cortisone. Non muovevo più braccia e gambe. Non avevo voce. Ho perso più di 40 chili. Tanto era il dolore che chiedevo di morire. Il mio corpo era stremato».
D. Le sue posizioni no vax fecero discutere.
R. «Nessuna posizione no vax, visto che per me non c’è mai stata par condicio tra scienza e scemenza. Io ero soltanto scettica su alcune restrizioni. Vivo della mia arte, del mio lavoro e, restando a casa, non mangiavo. A differenza di altre categorie, io non avevo sussidi o tutele da parte dello Stato».
D. Che cosa le ha insegnato quel momento?
R. «Sembrerà assurdo agli occhi dei più, ma che anche nel dolore possono accadere cose straordinarie».
D. Ce ne dica una.
R. «L’affetto delle persone una volta uscita, il rapporto umano con i medici, ma anche la chiamata di Alfonso Signorini per il GfVip. Una gioia, oltre che una grande opportunità. La mia presenza nella Casa più spiata d’Italia sarà una battaglia di libertà e di diritti per tutti».
D. La sieropositività di Giovanni Ciacci ha fatto già discutere.
R. «Inorridisco. Ho appreso, in questi giorni, di alcune petizioni per non ammetterlo a Cinecittà. Qui il problema non e soltanto la stupidita, e l’ignoranza.
La sua storia, ne sono certa, sarà molto più utile al pubblico da casa di quanto si possa pensare».
D. La sua, invece?
R. «Io sarò il riscatto per tutte quelle persone che vengo- no emarginate e discriminate dalla società. Non rappresento niente e nessuno se non me stessa, ma difendo una causa: i diritti sono qualcosa di cui si capisce l’importanza solo quando non li hai più. Mai darli per scontati».
D. Partecipa per vincere?
R. «No, per convincere».
D. Chi la incuriosisce degli altri inquilini?
R. «Dei pochissimi nomi che conosco, Pamela Prati. Non si può ridurre un personaggio come lei a una gogna mediatica di un certo tipo. Le truffe amorose esistono».
D. L’amore, invece, che ruolo occupa nella sua vita?
R. «Inesistente».
D. L’ultima volta che l’ha provato?
R. «Quando ho ordinato una Birkin» (ride, ndr).
D. Seriamente invece?
R. «La speranza di trovare un grande amore c’è, ma non forzo più nulla. Io sono pronta».
Eleonora Abbagnato: «Danzo insieme con mia figlia, saremo Giulietta in età diverse». Valeria Crippa su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.
L’étoile Abbagnato: ha 10 anni, è determinata e in lei mi rivedo bambina.
Non si è mai fatta mancare nulla Eleonora Abbagnato. Un debutto a 11 anni in tv, ballando per Pippo Baudo, a 13 anni l’esordio come piccola Aurora nella Bella addormentata di Roland Petit. Una carriera da étoile al Ballet de l’Opéra de Paris, da cui si è ritirata un anno fa. Una seconda carriera da direttrice del ballo all’Opera di Roma, intrapresa dal 2015. Una vita privata piena, da moglie dell’ex calciatore Federico Balzaretti e da madre di due figli (Julia, 10 anni, Gabriel, 7) cresciuti dalla coppia insieme alle due figlie di lui. E ora, a 44 anni, per Abbagnato teatro e vita privata si toccano per la prima volta. Il 19 e 22 luglio al Teatro Romano di Verona, poi il 23 al Festival di Nervi, accanto a lei in scena ballerà la figlia Julia nel ruolo di Giulietta bambina, mentre Eleonora danzerà la versione adulta. Lo spettacolo, ideato da Daniele Cipriani, si intitola Giulietta: tre quadri sviluppano il personaggio shakespeariano visto come una donna contemporanea in età diverse, su tre partiture ispirate a Romeo e Giulietta. Le coreografie sono di Sasha Riva e Simone Repele (su Ciaikovskij), Uwe Scholz (da Il Rosso e il Nero su Berlioz), Giorgio Mancini (su West Side Story di Bernstein).
La storia si ripete: anche sua figlia è un prodigio.
«In Julia mi rivedo bambina, la chiamano già “mini Ele”: è determinata, ci mette il cuore. È cresciuta guardandomi da dietro le quinte, il palcoscenico le piace, studia alla Scuola di Ballo dell’Opera e ha già fatto brevi apparizioni come piccola Biancaneve per Preljocaj. Ma non l’obbligherò a consacrarsi alla danza. Julia non è l’unica precoce in famiglia: Gabriel segue le orme del padre, è un pulcino della Roma».
Nel 2012, appena nata Julia, aveva dichiarato: non vorrei che mia figlia facesse la ballerina, il mondo della danza è in crisi. Cos’è cambiato?
«Soprattutto dopo la pandemia, c’è molta voglia di ripartire. Dal mio insediamento a Roma, abbiamo lavorato molto su nuove produzioni, con coreografi affermati e autori giovani. E sul repertorio. In ottobre riprenderemo la coreografia di Giselle della Fracci. L’evoluzione si misura nella risposta del pubblico».
Quella sensazione di crepuscolo del balletto è finita?
«Ho avuto il privilegio di lavorare con Petit, Bausch, Forsythe, Neumeier. C’è poi stata una ripartenza con nuovi nomi come Christopher Wheeldon, Alexander Ekman, Crystal Pite. Per la mia generazione il repertorio è fondamentale, ma per i giovani bisogna aprire al contemporaneo».
In tv c’è più spazio per i balletto? E TikTok diffonde la danza tra i ragazzi?
«Sicuramente la Rai trasmette oggi molti più balletti e questo allarga il pubblico. Lo streaming dei teatri, negli ultimi due anni, ha contribuito a rilanciare l’interesse. Credo che TikTok sostenga la creatività anche in ragazzi che non studiano danza. Alcuni video sono geniali: sviluppano così rapidamente la memoria di gesti difficili che, quando Julia li imita, faccio fatica a starle dietro».
Anche lei, come Bolle, è andata alla Camera dei Deputati per sostenere la causa della danza.
«Stiamo lavorando al “tavolo della danza” istituito dal Ministero. La pandemia ha dato una sferzata al nostro mondo. La crisi ci ha scosso, da quarant’anni non si registrava uno slancio così».
Da liberoquotidiano.it il 28 febbraio 2022.
Un racconto intimo e molto doloroso quello che Eleonora Giorgi ha fatto a Verissimo, nel salotto di Silvia Toffanin. L'attrice, in particolare, ha parlato del periodo della droga, un momento molto difficile del suo passato. Tutto era iniziato dopo che la Giorgi, da giovane, aveva perso il suo fidanzato, morto in un incidente. In quel momento si è sentita sola e la sua famiglia non le è stata accanto: "La droga arrivò per disperazione. Lì c’è stato un grande vuoto, soprattutto di mia madre”.
L'attrice ha spiegato che solo in un secondo momento decise di tornare a casa di suo padre: "Cercavano di curarmi, avevano chiamato tutti i dottori, ma ormai io ero sprofondata”. L'ospite della Toffanin, però, non ha ricordato solo i momenti più brutti e bui della sua vita.
C'è stato spazio anche per quelli più belli. A tal proposito la Giorgi non ha potuto non parlare del suo nuovo nipotino. Poco tempo fa, infatti, è diventata nonna di Gabriele, il figlio di Paolo Ciavarro e Clizia Incorvaia, che l'hanno salutata a distanza, in collegamento con la trasmissione.
La Giorgi ha confessato di essere letteralmente impazzita per il bimbo. Durante il collegamento, poi, Paolo Ciavarro ha raccontato di non essere riuscito a entrare per assistere al parto. Ma non ha nascosto di essere stato parecchio teso in quei momenti.
Michela Proietti per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2022.
La minigonna con le calze colorate, la canottiera di Lucio Dalla, i riccioli biondi (che in realtà erano una parrucca) e la gomma da masticare: era il 1982 ed Eleonora Giorgi con Borotalco regalava alla storia del cinema Nadia, uno dei personaggi femminili più belli. «Con quel finale poi... "e baciami scemo"», sorride l'attrice romana, 68 anni, ricordando quel lungo bacio finale tra lei e Sergio-Carlo Verdone.
Quest' anno «Borotalco» ha compiuto 40 anni, perché ha segnato così tanto l'immaginario collettivo?
«A Roma ci sono delle gastronomie che in vetrina espongono sopra alle olive la scritta "so' greche", come la celebre battuta del suocero salumaio interpretato da Angelo Brega. Era un cast eccezionale, con Moana Pozzi con poco seno e il genio di Angelo Infanti, che rappresentava quel genere mai estinto, il "cazzarone" romano».
E Nadia le somigliava?
«Parecchio, perché Carlo mi aveva permesso di ritagliarmi su misura il personaggio insieme al costumista Luca Sabatelli. Ero all'apice del successo e qualcuno mi disse: "Ma perché perdi tempo con questa cosetta?"."Sarà un film leggero e profumato come il talco", mi disse Carlo dopo aver deciso finalmente il titolo».
E con quel film ha vinto il David di Donatello come migliore attrice protagonista.
«Più che una consacrazione, è stato lo zenith. Perché poi sono arrivate altre parti importanti, è vero, come Mani di Fata. In quel periodo rifiutai persino Fantastico 83 con Gigi Proietti per non "sporcare" il cinema con la televisione. Ma di lì a poco sarebbe stato il cinema a far fuori me, che ci vivevo da quando ero piccola».
Era la classica bambina tutta un provino?
«Per nulla. Nasco "pariolina", la mia famiglia era piuttosto conosciuta: madre super cattolica, cinque figli nati in 15 anni, una nonna inglese che guidava la macchina e parlava come Stanlio, la gente quando passava in auto scappava al grido di "c'è una donna al volante!". A un certo punto papà ha lasciato baracca e burattini perché si è innamorato di Giulia Mafai, la sorella di Miriam, compagna di Pajetta. Sono cresciuta con questo contorno: è stata Giulia a convincermi a far delle pubblicità, lei aveva una mente libera».
Che genere di pubblicità?
«Una per un paio di collant e credo che neppure si vedesse la faccia. L'altra era per Annabella taglie forti giovani: all'epoca andava Twiggy e a me debordava il seno».
Però il primo provino è subito un successo.
«Era un film di genere conventuale, con Tonino Cervi. Avevano provinato parecchie persone: arrivo io e conquisto la parte credo per il look. Indossavo un cappello di paglia, una camicia di seta anni Quaranta, la gonna a balze, le zeppe e le stelline disegnate in viso. Cervi rimase senza parole: ero molto moderna in quella Roma».
E inizia la «rivalità» con Ornella Muti, sua compagna di set nel secondo film .
«La sola competizione tra me e la Muti era sull'altezza delle nostre zeppe. Quando l'ho vista davanti a me, a 18 anni, ho pensato fosse la ragazza più bella del mondo: i suoi denti radi erano come perle nella bocca di una bimba golosa. Aveva già la Kelly di Hermès, una borsa che avevo visto solo alle mamme dei Parioli. La mia era ricavata dai vecchi jeans di Gabriele, il mio fidanzato: divento la Lolita d'Italia avendo baciato e fatto sesso con un solo uomo».
Il successo però vi divide.
«Ero così disperata per la fine della nostra storia che di nascosto compero a un'asta la sua moto, una Honda 750. E la presto ad Alessandro Momo, il mio secondo ragazzo, che aveva già fatto un gran successo con il film Malizia: lui cade e muore, io scivolo nella tossicodipendenza. Ma continuo a essere quadrata nel lavoro».
Come si libera dalla droga?
«Grazie ad Angelo Rizzoli, che poi diventa mio marito: la persona più buona del mondo. Io stavo male e pesavo poco più di 40 chili, lui a 34 anni aveva tutto il peso del gruppo. Il mio lato dolente incontra il suo e non ci lasciamo più».
Come vi siete conosciuti?
«Ci ha presentati Tina Aumont, un'attrice. Mi disse che c'era un amico editore che aveva visto i miei film e voleva conoscermi. Mi era sembrato avesse fatto il nome di Rusconi. Andai al primo appuntamento, in inverno, senza cappotto: il mio stato alterato mi rendeva atermica».
Colpo di fulmine?
«Iniziamo a parlare e non smettiamo più: per lui decido di disintossicarmi in un rehab. Ci siamo sposati in Laguna: avevo una tunica di Kenzo, pantaloni jaipur e un velo antico di Venezia ».
Una romana e un milanese: funziona?
«Un milanese che voleva fare il romano e una romana che si sentiva milanese: Angelo partiva per Milano il lunedì e il mercoledì era di ritorno. Io invece per indole un po' "danubiana", come mi descrisse Moravia, mi trovavo bene tra le sciure, anche se non ho dato loro soddisfazione. Da una Rizzoli si aspettavano una maggiore partecipazione alla vita sociale di Milano, invece ero una donna lavoratrice e per di più attrice: quando loro uscivano dalla Scala io staccavo dal set».
Una sciura imperfetta.
«Abbastanza. Alla Scala con Angelo ci andavo, ma con i capelli asciugati con il phon, il tuxedo di Saint Laurent e senza collant. Lui amava mostrarmi: mi ricordo dei pranzi deliziosi al Quirinale con il presidente Pertini».
Un'unione solo apparentemente perfetta.
«Pagavo il prezzo di quel cognome. L'Unità recensì la mia interpretazione in Mia moglie è una strega con la frase: "La Giorgi lucida i dobloni della cassaforte dei Rizzoli". Angelo mi difendeva: "Non sono io a convincere milioni di persone ad andare al cinema". All'epoca non c'era Twitter e la macchina del fango funzionava solo in una direzione: non si poteva rispondere».
In che modo vi difendevate?
«A un certo punto gli proposi di andare a New York e ricominciare: lui aveva la Libreria Rizzoli, io qualche contatto. Mi rispose: "E la tua carriera"'? Ad Angelo piaceva il mondo dello spettacolo: al Vascello, la villa che affittò per noi e dove oggi vive Renato Zero, ricevevamo molti amici, da Renzo Arbore ai Gatti di Vicolo Miracoli, con una sconosciuta Alba Parietti. Io tenevo banco, sentendomi però Nora in Casa di Bambola ».
Nasce Andrea. Che genitori siete stati?
«Interrotti. Quando ci lasciamo Andrea ha 3 anni: per questo con lui ho un legame forte».
Inizia poco dopo una vita: la campagna, un nuovo marito e un altro figlio.
«A casa di Vittorio Cecchi Gori rivedo Massimo Ciavarro con il quale avevo recitato in Sapore di mare . Mi chiese il numero ma non mi telefonò per mesi: una domenica di ritorno dal mare trovo i ladri in casa e il telefono che squillava. Era Massimo: "Scusa ti devo lasciare, c'ho i ladri"».
Che amore è stato?
«Compravamo casali in rovina per rimetterli a nuovo, restauravamo mobili e avevamo Paolo, il bambino più bello del mondo: ma Massimo era sempre un po' scontento. Lui al contrario della gente del cinema non si è mai dato arie: la prima volta che l'ho visto sul set mi ha detto "io non te garantisco niente... tutte 'ste battute da dire"».
Il cinema le ha offerto sempre meno ruoli.
«A un certo punto ho scoperto che a 60 anni una donna nel cinema non esiste più: nella vita reale esistono magistrate, imprenditrici, insegnanti ultracinquantenni. Ma non nei film. Per fortuna la televisione ha il pubblico che decide e quindi abbiamo Mara Venier, Barbara D'Urso. Questo ovviamente non vale per gli uomini».
Il Grande Fratello.
«A un certo punto potevo stare tutto il giorno in giardino a fumare, senza l'assillo delle chiamate dell'avvocato, del commercialista. Dai tempi in cui mi svegliavo all'alba per andare sul set sognavo di dormire a Cinecittà: il sogno si era avverato. Purtroppo il cast non era un granché».
Si è sentita fuori luogo?
«No, ma uscendo mi sono vista con una immagine cupa, drammatica. A 48 anni già dimostravo 10 anni in più e mi sono fatta il primo lifting. E dopo il Grande Fratello mi sono fatta il secondo: continuo a sentirmi "bionda" e difendo le donne». Una femminista che fa il lifting? «Non escludo di fare il terzo: il corpo annuncia la morte e io voglio sentirmi viva fino all'ultimo giorno».
Un'amica speciale?
«Oriana Fallaci. Ho ancora un pacco di sue lettere mandate da New York in una scatola».
Un amore meno noto?
«Pino Daniele. Minà mi aveva mandato a intervistarlo per Blitz . All'epoca stavo con Angelo, arrivai con la scorta: dopo il concerto mi disse "lasciali a terra e andiamo a cena, sali sul bus". In quel momento, con i tamburi e le canzoni dal vivo, ho respirato quella libertà che mi mancava. Dopo la separazione ci siamo rivisti».
E poi Massimo Troisi.
«Di notte il suo cuore ticchettava come una sveglia, nel buio: mi chiamava di nascosto da Benigni, che era un po' geloso. Sono stata io a convincere Massimo a tagliarsi i capelli».
Il grande amore chi è stato? «A un certo punto Andrea De Carlo, ma avrei dovuto conoscerlo a 16 anni. Mi ha dedicato tre libri. Voleva essere l'ospite d'onore della mia vita».
Ora anche un nipote, figlio di suo figlio Paolo e Clizia Incorvaia.
«Sono diventata nonna tardi e sarò molto indulgente. Adesso aspetto il figlio di Andrea!».
Che rapporto ha con sua nuora?
«Somiglia a me in tante cose: anche lei usciva da un matrimonio disastrato (con Sarcina, ndr ), anche lei è più grande di lui come io ero più grande del papà di Paolo, anche lei come me aveva già una bambina. E sdrammatizza: c'è un fatto gravissimo in corso? Ti invita fuori a mangiare un gelato: un balsamo per me».
Ha mai ricevuto una proposta indecente?
«Alain Delon a 20 anni mi invitò a dormire nella sua stanza d'albergo. Finsi di non capire».
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 26 marzo 2022.
Ieri il Corriere della sera ha intervistato- una pagina intera- Eleonora Giorgi, attrice per molti anni, e moglie in un periodo abbastanza breve di Angelo Rizzoli, che del giornalone milanese fu a lungo proprietario.
L'editore mi assunse in via Solferino nel 1974, quando Montanelli stava fondando il Giornale in polemica con Piero Ottone che era un progressista, mentre Indro un conservatore. Serbo per lui, purtroppo morto, una immensa gratitudine per avermi voluto nella sua azienda. Le cose andarono male a causa della nota vicenda P2 e Angelo, di nome e di fatto, fu addirittura incarcerato e poi assolto a dimostrazione che era innocente.
Nel frattempo però sua moglie, cioè Eleonora Giorgi, ruppe il matrimonio, forse per convenienza, e sottolineo forse. Sta di fatto che quando ella lasciò Rizzoli, questi era in disgrazia, il che non mi sembra un bel gesto.
Oggi l'artista rammenta il suo passato nella citata intervista. E sottolinea la sua nuova vita, ormai mica tanto nuova, con un altro marito e un secondo figlio. Non c'è nulla di straordinario in tutto questo, ma c'è un ma.
Anche Angelo più tardi si sposò per la seconda volta con una donna straordinaria, Melania, chirurga, oncologa, che gli diede due figli, Arrigo e Alberto, bravi ragazzi che hanno fatto molta strada, entrambi laureati e impegnati in lavori di alto profilo. Il secondo matrimonio di Rizzoli fu felice e ricco di soddisfazioni.
Sottolineo questi particolari perché mi sembra scorretto che la Giorgi, parlando del primo marito, dimentichi di sottolineare il suo secondo matrimonio, foriero di felicità. Melania mi risulta abbia curato il coniuge, affetto da problemi di salute, garantendogli una vita abbastanza lunga e scevra di preoccupazioni. Purtroppo un lustro fa Angelo fu nuovamente e ingiustamente arrestato, evento che lo fece perire nell'angoscia. Anche stavolta la sua consorte lo assistette con premura, addossandosi poi l'onere di gestire con sacrifici i problemi rilevanti della successione.
Ma Eleonora nella intervista non ha speso una sola parola né per ricordare Rizzoli né per riconoscere a Melania di avergli donato una esistenza serena per decenni. Io non la rimprovero, non ne avrei diritto, mi limito a dire a chiare lettere che il mio vecchio editore era un galantuomo a cui devo la mia carriera al Corriere, che mi ha dato una spinta notevole. Per me la gratitudine non è il sentimento della vigilia. E riconosco a Melania, anche se le sto sulle palle, di essere una donna di grande valore. Capito, Giorgi?
Eleonora Pedron compie 40 anni: da Miss Italia alla tv con Emilio Fede e all’ex Biaggi. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.
E’ stata incoronata la più bella d’Italia nel 2002 e da lì il decollo della carriera. La showgirl, oggi legata a Fabio Troiano, ha passato un’infanzia difficile
Infanzia difficile
Eleonora Pedron compie 40 anni il 13 luglio. Un’infanzia difficile e segnata da lutti, la sua: quando aveva nove anni ha perso la sorella Nives in un incidente d’auto (la madre, che era nella stessa auto, è rimasta illesa). Sempre per colpa di un incidente, però, Eleonora perso il padre nel 2002 mentre la stava accompagnando al provino di “Striscia La Notizia”.
Miss Italia ed Emilio Fede
La carriera di Eleonora Pedron è iniziata nel 2002, quando è stata eletta Miss Italia, dopo che vi aveva già partecipato nel 1999 una prima volta. Il suo sorriso e la sua eleganza hanno conquistato Rete4 tanto che dal settembre del 2003 fino alla primavera del 2004 è stata celta per il programma Meteo 4 dall’allora direttore Emilio Fede.
Max Biaggi
Eleonora Pedron è stata fidanzata per 12 anni con il campione di motociclismo Max Biaggi: la loro storia d’amore ha appassionato non solo gli amanti delle due ruote ma anche i fan della modella. Da lui ha avuto due figli, Inés e Leòn, ma tra i due la relazione è finita nel 2015.
L’amore con Troiano
Il cuore della showgirl di Camposampiero è iniziato a battere nel 2019 per l’attore Fabio Troiano.“Ci siamo conosciuti su un treno, eravamo nella stessa carrozza, anche se non ci siamo parlati durante il viaggio; ci siamo detti le prime parole solo quando siamo arrivati a destinazione. Poi abbiamo iniziato a frequentarci” aveva detto la Pedron a Verissimo.
Long Covid
Nel febbraio 2021 ha raccontato di aver contratto il Covid-19 insieme ai suoi figli: una volta guarita non ha mai nascosto di aver avuto strascichi post malattia.
Il libro
Pedron è anche scrittrice: ha scritto un libro, uscito nell’ottobre 2021, dal titolo L’ho fatto per te, dove racconta della sua vita e delle perdite che l’hanno segnata.
Passione tatuaggi
Eleonora ha tanti tatuaggi, piccoli e sparsi per tutto il corpo. I disegni si vedono anche grazie alle foto condivise su Instagram.
Elettra e Ginevra Lamborghini: qual è il rapporto tra le due? Una storia familiare. Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.
Non si parlano da anni, non si vedono nemmeno a Natale. Ginevra, tra i concorrenti del GF VIP, ha parlato pubblicamente della sorella e ha ricevuto una diffida dall’avvocato di Elettra. Tutto quello che c’è da sapere sul loro rapporto
Più nemiche che amiche
La competizione, gli errori e le incomprensioni. <<I parenti sono come le scarpe, più sono stretti e più fanno male>> diceva Totò. Per alcuni è vero mentre per altri no, ma certo è che tra Elettra e Ginevra, le sorelle Lamborghini, non scorre buon sangue. Le due non si parlano da anni, una situazione familiare resa nota dopo l’entrata di Ginevra nella casa del Grande Fratello Vip. La più piccola delle sorelle ha raccontato di una forte competizione, cresciuta insieme a loro. << Mio padre ci ha messo più volte a confronto. Mi chiamava principessina, mentre ad Elettra diceva che era un maschiaccio e le faceva notare i chili di troppo>>. Dopo le dichiarazioni, la risposta della sorella maggiore non si è fatta attendere e l’avvocato di Elettra ha diffidato Ginevra, la quale non potrà più parlare di lei durante il reality. Ma quali sono le motivazioni del contrasto tra le due? Alfonso Signorini ha indagato, ricevendo però risposte sempre vaghe. Solo il passato delle sorelle Lamborghini può svelare qualche dettaglio in più su un rapporto che pare sempre più tormentato.
Chi è Ginevra Lamborghini
Ginevra Lamborghini è, come Elettra, la nipote di Ferruccio, storico fondatore della casa automobilistica. Ha 30 anni ed è tra le protagoniste della nuova edizione del GF Vip. Ha studiato Scienze Politiche a Milano, facoltà che ha abbandonato per iscriversi all’Università di Bologna, dove ha studiato Cultura e Tecnica del Fashion. Ha lavorato nell’azienda di famiglia, occupandosi di comunicazione. Nello stesso periodo ha iniziato ad emergere sui social e nel 2020 ha pubblicato il suo primo brano, <<Scozzese>>. In realtà ha lavorato anche all’estero, esperienza che recentemente ha raccontato agli altri concorrenti del reality: << Ho lavorato in Cina, è stato un periodo stupendo. Non è durato tanto, ma la permanenza è stata intensa perché facevo due lavori. Di giorno lavoravo in un hotel, sotto copertura, nel senso che nessuno sapeva che mi chiamavo Lamborghini. La sera invece lavoravo in un jazz club, dove andavo a cantare>>. E pare che lo scontro con la sorella sia stato alimentato proprio dalla sua passione per il canto.
La rottura del rapporto e le dichiarazioni
<<Non parliamo dal 2019>> ha raccontato Ginevra Lamborghini, sostenendo che probabilmente nemmeno Elettra si ricorda il motivo alla base di questa rottura. Pare però che l’antipatia sia tanta che cantante di <<Pistolero>> non abbia neanche invitato la sorella al suo matrimonio. L’ha bloccata su tutti i social e pare che non abbia il piacere di incontrarla nemmeno a Natale. Elettra non parla mai della sorella, mentre Ginevra non perde l’occasione. E ad Alfonso Signorini ha raccontato che la loro competizione non riguarda solo i rapporti familiari, ma soprattutto la carriera professionale. Musica e reality, un percorso intrapreso anche da Elettra, che all’inizio della sua carriera partecipò ai programmi Super Shore e a MTV Riccanza. << Ha paura di essere oscurata da me quando ho iniziato a cantare – ha raccontato Ginevra Lamborghini – non so se è così ma certe cose potremmo farle insieme>>.
Ginevra come Elettra?
Nella casa di Canale 5 c’è chi prende le difese di Elettra e sostiene che la sorella minore voglia imitarla oltre i limiti: << Ginevra si vuole mettere al centro dell’attenzione, ha vissuto per anni all’ombra di Elettra e ora cerca di fare la sua copia – ha raccontato la modella Giaele De Donà – ma le copie non sono mai originali. Si vede proprio che si sforza. Il modo in cui parla è di Elettra, il modo in cui si atteggia sembra quello di Elettra, in modo in cui canta… un po’ troppo dai. Ognuno deve crearsi un’identità>>. Molti dei fan di Ginevra però l’hanno difesa sui social, mentre lei continua la sua partecipazione al GF VIP senza tirarsi mai indietro.
<<Due mondi opposti>>
Intervistata da Fanpage, Ginevra Lamborghini ha dichiarato che ascolta un po’ di tutto: << Ho passato la metà della mia adolescenza ad ascoltare Nina Simone, Aretha Franklin e soprattutto Etta James e con loro ho imparato ad aprire la mia voce. Poi ho assorbito tante altre influenze, un po’ anche dalla musica elettronica>>. Ci si chiede se anche Elettra sia stata tra i suoi riferimenti. A questo proposito Ginevra ha dichiarato: << C’è chi pensa che siamo molto legate, ma in realtà no, abbiamo due caratteri molto diversi. Abbiamo fatto percorsi opposti, se mi viene chiesto se la carriera di Elettra mi è servita per emergere io dico di no. Con tutto il rispetto per la carriera di Elettra. Veniamo da due mondi separati, io vengo da Venere e lei da Marte. Come tutte le famiglie ci sono fratelli e sorelle che bisticciano. Penso sia normale, lo abbiamo sempre fatto anche da piccoline. Però le voglio bene e le auguro il meglio per la sua carriera, è bravissima in quello che fa e spero di fare altrettanto nel mio>>.
Un cognome non facile
Le due sorelle hanno in comune la stessa voglia di emergere nel mondo dello spettacolo. Sui social contano migliaia di follower ed entrambe hanno pubblicato delle foto di quando erano piccole. Nessuna foto insieme però. Entrambe però hanno dichiarato di aver dovuto fare i conti con il proprio cognome in diverse occasioni. Elettra aveva spiegato: << Spesso è una grande rogna avere un cognome importante perché devi combattere contro mille pregiudizi e non tutte le persone hanno il piacere di apparire vicino a te>>. Ginevra aveva raccontato la stessa sensazione a Fanpage: << Sono cresciuta in un contesto ricco di pregiudizio, ovunque e sempre. Il continuo essere messa sotto mire con “Sei la figlia di, quindi sei così” mi ha portato a dire no. Ad oggi magari non so chi sono ancora veramente ma so quello che non sono. E non sono la ragazza viziata che vive in un mondo di lussi estremi. Ho sempre dimostrato di essere una ragazza normale>>.
Gli altri membri della famiglia
Elettra e Ginevra non sono le uniche figlie di Tonino Lamborghini e Luisa Peterlongo. Ci sono anche Lucrezia e Flaminia, gemelle e testimoni di nozze per Elettra al suo matrimonio. Flaminia si è diplomata al liceo artistico, mentre di Lucrezia si sa che si è iscritta all’Università di Bologna. Sono le più piccole della famiglia e sono molto riservate, ma Elettra ha pubblicato di recente una foto con loro su Instagram. C’è anche un fratello, che ha preso il nome del nonno: Ferruccio, primogenito della famiglia che ha sempre preferito stare lontano dai riflettori. Ama l’azienda di famiglia e i motori, tanto che lavora in Lamborghini e si è contraddistinto anche come pilota. La moda però lo appassiona ed è stato il creatore di una linea di accessori per il brand Tonino Lamborghini dedicata agli orologi. Nel 2019 si era sparsa la voce di un’altra figlia, Flavia, nata da una relazione fuori dal matrimonio. Voce però smentita dallo stesso Tonino Lamborghini.
Le rivelazioni al Grande Fratello: "Non mi ha invitata nemmeno al suo matrimonio". Perché Ginevra Lamborghini e la sorella Elettra hanno litigato: “Non ci parliamo dal 2019”. Vito Califano su Il Riformista il 22 Settembre 2022.
Ginevra ed Elettra Lamborghini non si vedono dal 2019. E la vicenda si annuncia come uno dei leitmotiv di questa edizione del Grande Fratello Vip 7: una relazione tormentata e al momento a quanto pare all’impasse tra le due figlie di Luisa Peterlongo e dell’imprenditore Tonino Lamborghini, nipoti dell’imprenditore Ferruccio che fondò a inizio anni ’60 l’omonima e mitica azienda automobilistica.
Ginevra è molto meno nota della sorella: Elettra Miura è ormai da anni sulla cresta dell’onda con la sua musica, ha partecipato anche al Festival di Sanremo, le sue hit estive diventano puntualmente dei tormentoni. Hanno altre due sorelle, Flaminia e Lucrezia, e il fratello Ferruccio. Ginevra è nata a Bologna nel settembre 1992. Dopo il diploma al liceo ha studiato scienze politiche e relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano. Poi cultura e tecnica del fashion all’Università di Bologna. Alla fine degli studi ha cominciato a lavorare nell’ambito della comunicazione nell’azienda di famiglia. Anche lei si dedica alla musica: sui social postava sue interpretazioni di cover e nel 2020 ha pubblicato il suo primo singolo, Scorzese. Lo stesso anno avrebbe dovuto partecipare al Grande Fratello ma la clausola che le avrebbe permesso di non parlare mai della sua famiglia fece saltare tutto. Condizione evidentemente saltata.
“Pensa che a me fa strano quando la vedo in tv perché non me la ricordo più. Non saprei neanche dirti quanto è alta. È come quando vedi una persona per tanto tempo, non senti la voce dal vivo, cominci a dimenticartene”, ha raccontato ad altri concorrenti inquilini della Casa. “Facciamo tutto separato da tre anni: Natale, i compleanni, tutto. La cosa brutta è che spesso sono stata io l’esclusa delle situazioni. Natale dell’anno scorso è stato terrificante perché mia madre, alle 7 della sera del 24 dicembre, mi chiese se potessi andarmene perché non ero gradita a cena. E io ci sono rimasta malissimo, perché ho detto: ‘Ma come?’. Mi disse: ‘Raggiungici tra due ore, ceniamo con te alle 21’. Io, col cuore nella mer**, sono tornata a casa, ho preso i regali però non ho aspettato fino alle 21. Ho aspettato mezz’ora e sono tornata a cena da mia madre e c’erano tutti. È stato bruttissimo perché in una situazione come Natale, nessuno ha avuto il contatto visivo con me”.
Ginevra ha espresso un’ipotesi per risalire alla radice dei dissapori con la sorella. “Io glielo vorrei chiedere: ‘Che cosa è successo?’. Non abbiamo litigato, c’è semplicemente stata una rottura. Credo sia qualcosa che debba essere recuperato nel nostro passato, quando eravamo piccole. Mio padre ci ha messo molto a confronto. Mi chiamava la principessina, diceva: ‘Guarda che bella Ginevra’; invece a Elettra diceva: ‘Sei un maschiaccio’, le faceva notare il chiletto in più. È normale che lei sia cresciuta con una competizione nei miei confronti”.
Ginevra ha anche raccontato di essere stata “l’unica della nostra famiglia a non essere invitata al suo matrimonio“. Le nozze tra Elettra Lamborghini e il discjockey Afrojack si sono celebrate nel settembre del 2020 a villa Balbiano (sul lago di Como). “Ci soffro ma ho provato in tutti i modi a trovare un dialogo. Quando sarà pronta, sono qui”. Quanto sarà possibile una riconciliazione, o una resa dei conti tra le due nel corso della trasmissione, certo è impossibile prevederlo. Sicuramente è quello che sperano tanti telespettatori.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Al Gf Vip la sorella della Lamborghini: "Ecco perché non ci parliamo da anni..." Prima di entrare nella Casa, Ginevra Lamborghini ha svelato di essere in pessimi rapporti con la cantante e di non essere stata invitata neppure al suo matrimonio. Novella Toloni il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.
Che tra Ginevra e Elettra Lamborghini non corresse buon sangue era risaputo, almeno agli amanti del gossip. Ma la sorella della cantante ha voluto precisarlo davanti a milioni di telespettatori poco prima di varcare la porta rossa della casa e diventare una nuova concorrente del Grande fratello vip. Facile così intuire che i panni sporchi della famiglia potrebbero essere lavati in diretta.
Nella clip di presentazione, che ha anticipato il suo ingresso nel reality, Ginevra Lamborghini ha ribadito i pessimi rapporti che ci sono tra lei e Elettra. Un distacco che si protrae da diverso tempo e che risale a prima della pandemia. "Mia sorella e io facciamo musica diversa - ha esordito nel video di presentazione - Non abbiamo più rapporti dal 2019. Sono stata l'unica della nostra famiglia a non essere invitata al suo matrimonio. Non credo sia molto contenta di sapermi qui".
Una confessione amara che l'ereditiera della famiglia Lamborghini ha deciso di fare pubblicamente, infrangendo il "voto" fatto due anni fa, quando Signorini la scritturò per il Gf Vip dell'epoca. Nel 2020, infatti, Ginevra sarebbe dovuta entrare nella casa. Il suo nome era già nell'elenco dei vipponi ma l'accordò salto all'ultimo per la sua richiesta di inserire una clausola nel contratto, che le garantisse di non dovere parlare della sorella e dei loro problemi.
"Schiantati sull'erba". Paura in volo per la Lamborghini
In questi due anni qualcosa sembra essere cambiato e ora Ginevra Lamborghini è pronta a farsi conoscere al pubblico del piccolo schermo, parlando anche della sorella Elettra. "Ci soffro ma ho provato in tutti i modi a trovare un dialogo. Quando sarà pronta, sono qui", ha concluso la 29enne, la quale si è detta single e predisposta a incontrare l'amore anche nella casa del Gf Vip. Se il confronto con la cantante ci sarà, però, non è possibile ancora saperlo. Ma c'è chi è pronto a scommettere che Signorini potrebbe riuscire nell'impresa di portare nella Casa Elettra Lamborghini per un faccia a faccia con la sorella.
Da fanpage.it il 19 giugno 2022.
Arriva da Riccione un episodio spiacevole che ha coinvolto Elettra Lamborghini. In discoteca per un dj-set, la cantante ha interrotto una esibizione per rispondere a un hater che l’aveva insultata mentre stava cantando. È stata lei stessa a condividere i video del momento tra le sue Instagram stories per poi spiegare l’accaduto ai suoi follower.
Elettra Lamborghini: “Ero in imbarazzo”
Subito dopo l’esibizione, andata avanti dopo avere rimesso al suo posto l’uomo che l’aveva insultata, Elettra ha raccontato l’accaduto ai suoi follower: “Questa sera ho fatto un dj-set in un locale che conosco molto bene perché ci ho passato la mia infanzia. Salgo sul palco, questo era il mio outfit (top e pantaloni, ndr). Di solito metto un body con la ‘ciapet’ un po’ di fuori e la calza, non si vede niente altrimenti non lo farei. Mi sono ritrovata in una situazione un po’ imbarazzante. Mi sento di parlare a nome di tante artiste che si sono ritrovate nella mia stessa situazione, perché non mi era mai capitato. Su TikTok sta andando questo trend stupidissimo di prendere il cellulare, andare a un concerto e tirare dei nomi all’artista. Questa sera è capitato a me. Chi mi conosce sa che non le mando a dire. Mi è uscita l’Elettra di qualche anno fa che prende a pizze le persone. Vi metto il video di quello che è successo e poi continuo a parlare”.
È stata la stessa Elettra a pubblicare i video dell’episodio in questione. Nel filmato, un istante prima che l’artista interrompesse il dj-set, si sente un uomo insultarla. La cantante è a disagio, resiste per qualche istante poi si ferma per replicare all’hater e cacciarlo: “C’è uno di questi sfigati qua davanti che ha detto una parolina che non doveva dire. Se avete le palle, prendete e andate fuori dai cogl***”. Poi, tornata su Instagram, ha concluso: Ero a disagio. Di solito ballo, ma ero pietrificata. Questa gente aveva la bava. In queste discoteche ci sono dei fake imprenditori . Dei loser che fanno i finti ricchi e poi non vi pagano nemmeno la cena. Guardavo questo tizio mentre cantavo. Quando gli ho detto ‘Scemo, scemo’ mi ha risposto ‘Tiratela di meno’. Non so chi tu sia ma sei un povero cogl*** senza palle. Questa cosa non può passare come normale. Non siete autorizzati a fare quello che vi pare. Indipendentemente da come sono vestita. Non può dirmi che me la tiro perché non è così, è una questione di rispetto.
(ANSA il 18 febbraio 2022) - Stasera messa in onda al fil di cotone per la prima puntata della seconda edizione di Belve, il venerdì in seconda serata su Rai2, che parte con stop and go per la polemica con Elettra Lamborghini che doveva essere ospite del primo appuntamento, anche con Pamela Prati. Francesca Fagnani spiega all'ANSA lo scontro che ha portato a questo cambio in corsa.
''E' successo che per l'intervista - spiega Fagnani - l'agente di Elettra Lambroghini mi ha chiesto le domande prima e poi di vedere la puntata. Io ovviamente dico di no, come faccio sempre e per tutti, per rispetto del mio lavoro, di quello della redazione, e della professione giornalistica. Poi ci mancherebbe che il girato Rai si possa mandare in giro per il mondo. Io stessa quando sono io intervistata, le domande non chiedo mai di rileggere se accetto mi fido, se non mi piace la mia performance imparerò. Quindi io ho detto di no alla richiesta. Ma l'avvocato ieri, che era il giorno prima della puntata, ha vincolato la messa in onda previa visione della puntata. Io ho seguito la linea che seguo per tutto. Ma la Rai invece ha poi deciso di bloccarla''.
Pensa di aver sbagliato qualcosa? ''Noi non abbiamo sbagliato nulla, nessun passaggio''. Perchè allora questa decisione da parte della Lamborghini, che cosa diceva? ''Non c'erano dati sensibili, ed era un'intervista fresca e simpatica. Mi dispiace per lei e per la Rai perchè era era molto giovane e divertente. Sinceramente spero che ci ripensi. Ma lei ha chiesto di sistemare due-tre domande che non le erano piaciute. Secondo me, ripeto, ha sbagliato perchè faceva una bella figura di persona divertente e spontanea. Devo dire che è proprio mal consigliata. Io l'avrei mandata in onda in ogni caso mentre la Rai ha scelto evidentemente un atteggiamento prudente''.
Il tema delle domande comunque pare fosse quello della sessualità della cantante. Ora quindi stasera nella prima puntata sarà Pamela Prati a parlare intervistata senza filtri e svelerà a Francesca Fagnani alcuni clamorosi e inediti particolari sulla sua vicenda pubblica e privata. Gli inizi "sexy", i film erotici, gli anni gloriosi del Bagaglino e poi quelli neri dell'isolamento dopo la vicenda di Mark Caltagirone Arriva poi Paola Ferrari che parla del suo matrimonio con Marco De Benedetti, dei rapporti con Carlo De benedetti, delle sue amicizie pericolose negli ambienti dell'estrema destra milanese durante gli anni di piombo. E alla richiesta di raccontare le cause della rottura della lunghissima amicizia con Daniela Santanchè, la Ferrari afferma: "Era un'amica mi chiese un aiuto e io glielo diedi.
Lei si sentiva perseguitata politicamente dal capo del suo partito Fini, cose molto pesanti. Poi ho capito che le cose non erano proprio così, ma non le posso dire altro perché coinvolgono persone troppo importanti. La Fagnani incalza: "Troppo importanti…potenti?". "Si, anche in questo momento…". Belve è un programma ideato e scritto da Francesca Fagnani con Graziamaria Dragani, Pietro Galeotti e Antonio Pascale. Regia Flavia Unfer.
Ivan Rota per Dagospia il 18 febbraio 2022.
Come ormai tutti sanno Elettra Lamborghini sarebbe l’ospite della prima puntata della nuova stagione di Belve, ma dopo un tira e molla fra il suo agente e la produzione del programma, mamma Rai ha deciso di annullare tutto.
Pare si chiedesse di eliminare domande e risposte riguardanti la sessualità e figurati se una conduttrice come Francesca Fagnani avrebbe accettato.
La cantante però non è nuova a episodi di questo tipo. Agli inizi della sua carriera fu scoperta da Piero Chiambretti nel programma Grand Hotel Chiambretti dove, oltre a parlare dei diamanti che si è fatta innestare sotto la pelle, disse a sorpresa che avrebbe voluto girare un film hard.
La famiglia dell’ereditiera sobbalzò sulle sedie e si incavolò con Elettra che chiamò in redazione per dire che era stata “fraintesa”. Vista la giovane età e la scarsa esperienza televisiva, Chiambretti la richiamò per darle là possibilità di chiarire e lei disse che lo aveva detto per scherzo… come vedete, la Lamborghini ha sempre avuto una marcia in più nel non tenere la bocca chiusa.
Alberto Dandolo per Dagospia il 18 febbraio 2022.
Fermi tutti! Dopo la Dago-anticipazione sulla censura dell'intervista ad Elettra Lamborghini a "Belve", programma della seconda serata del venerdì di Rai 2 ideato e condotto da Francesca Fagnani, il caso si è notevolmente "ingrossato".
A renderlo duro più che mai è, in verità, un retroscena intrigante sulla "zampina" che ha innescato il cortocircuito legale con la Rai. Pare che a bloccare l'intervista della Lamborghini sia stata la sua agente Paola Benegas, per gli amici Paoletta, ceo e fondatrice della "Benegas management & production", molto nota a Milano.
Ma chi è e chi si crede di essere Paola Benegas? Argentina, bella, matura e molto inserita negli ambienti meneghini che contano (i soldi). Amante degli spacchi inguinali e grande esperta di pubbliche relazioni, Paoletta si è fatta strada come talent scout di potenziali celebrità. Tutte donne. Tutte bellissime. Quasi tutte from Latino America.
E' lei ad aver scoperto Aida Yespica, Belen Rodriguez, Arianna Romero, Dayane Mello ma anche le italianissime Paola Di Benedetto e Elettra Lamborghini. Ha interrotto i rapporti professionali con quasi con tutte le sue "creature". Memorabile la separazione non consensuale (per ragioni economiche?) con Belen e l'addio burrascoso con la Di Benedetto.
A lei però dobbiamo rendere un cafonalissimo merito: fu sua l'idea di far sfilare, praticamente in mutande, le sensualissime Giulia Salemi e Dayane Mello alla Mostra del cinema di Venezia del 2016.
Elettra Lamborghini e il giallo delle multe prese a Buccinasco: «Non so neanche dove sia». E il sindaco la invita. Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022.
L’ereditiera, cantante e influencer sanzionata nel paese alle porte di Milano: «In quei giorni non ero neppure passata da lì». Il sindaco Rino Pruiti: «Vieni a visitare la nostra bella città e a verificare i verbali».
Lei ha compulsato subito l’«archivio» personale di Instagram per controllare dove fosse in quei giorni e ha concluso che «non sono mai venuta lì» a tradire il Codice della strada. Lì, a Buccinasco, 27 mila abitanti appena fuori Milano. «Non so nemmeno dove c… sta Buccinasco!». Il sindaco, il pd Rino Pruiti, sa invece benissimo chi sia lei, Elettra Lamborghini, cantante e influencer, 27 anni, origini bolognesi. E infatti le ha risposto prontamente via social: «Cara Elettra, visto che non conosci il nostro Comune, ti invito a venirci a trovare per visitare la nostra bella città e per verificare queste multe!».
Le contravvenzioni
Ah, giusto: le multe. L’ereditiera del toro dorato è stata beccata in divieto nella cittadina al confine Ovest del capoluogo lombardo . Ma era proprio lei? La targa della sua auto? Oppure c’è stato un errore? Non è che qualcuno — un truffatore — sta girando le strade con la targa «clonata» a Lamborghini? Lei ha raccontato la faccenda nelle sue stories, agitando i verbali e illustrando i dubbi: «Non hai altro da fare che mandarmi i multoni?», oh Buccinasco sconosciuto? «Ragazzi è una settimana che dal comune di Buccinasco mi arrivano multe...». Ora ci sono almeno 7 milioni di ragazzi (i follower) interessati al «Buccinasco gate»: chi ha ragione? I vigili urbani o Elettra Lamborghini?
Le multe a domicilio
Partiamo dalla fine. La rampolla Lamborghini ha ricevuto a casa una serie di multe spedite dalla Polizia locale di Buccinasco. Lei ne sorride: sono innocente. E argomenta, sarcastica: «Ti vieto di farmi le multe Buccinasco, non sono mai venuta lì, non ti permettere mai più!». E ancora: «Non è che ti fanno le multe e ti lasciano l’avviso, così uno capisce cosa ha sbagliato... Te le fanno arrivare a casa, quindi non so manco cosa è successo, magari non ero manco io. Ho visto tramite l’archivio Instagram e io non ero neanche lì...». Di chi sarà stata la manina che ha firmato la contravvenzione? «Eri una donna — sorride ironica Lamborghini — birichina che mi hai fatto la multa, non si fa, non si fanno mai le multe a me, sono molto brava a guidare... Prendi nota, non lo fare mai più!». Vista l’eco social della faccenda, il sindaco Pruiti ha usato Instagram per lanciare il suo invito: «Vieni a Buccinasco e controlliamo i verbali». Si attende contro-controreplica.
Valeria Paglionico per fanpage.it il 30 gennaio 2022.
Elettra Lamborghini potrà pure essersi presa una pausa dalla tv ma continua a essere seguitissima sui social, dove ama avere un rapporto diretto con i fan. Tra foto e Stories documenta ogni dettaglio della sua quotidianità, dai viaggi in giro per il mondo col marito Afrojack agli shooting fotografici di cui è protagonista.
Complice il ritorno nella casa bolognese di famiglia e il ritrovamento degli hardisk dei sui vecchi computer, sui social ha condiviso diversi ricordi del passato, rivelando com'era da adolescente: ecco la foto che mostra l'incredibile trasformazione dell'ereditiera.
Elettra Lamborghini, la foto da teenager
Elettra Lamborghini è molto legata al suo passato e sui social non ci pensa su due volte ad aprire gli "album dei ricordi". Come da lei stessa dichiarato, non è mai stata ossessionata dalla chirurgia estetica, avrebbe fatto solo un ritocco al seno ma per il resto è rimasta naturale al 100% e sottolinea con orgoglio che sia il naso che il lato b prorompente sono suoi.
Com'era prima che il décolleté diventasse esplosivo? Lo ha rivelato lei stessa con una foto in costume di quando aveva 17 anni, nella quale, oltre a essere meravigliosa, vantava anche un seno naturalmente procace.
Elettra Lamborghini senza il tattoo sul sedere
Qual è l'altra cosa che è cambiata col passare del tempo nel look di Elettra? Ha ricoperto il corpo di tatuaggi e piercing di diamanti, anche se è soprattutto il disegno che ha impresso con l'inchiostro indelebile sul lato b che ha rivoluzionato la sua immagine.
Nello scatto postato sui social non aveva ancora il grosso tattoo leopardato, ormai diventato il suo "marchio di fabbrica", ma, fatta eccezione per quel dettaglio, sembra non essere cambiata. Già all'epoca, infatti, portava i capelli a caschetto e i micro bikini che mettevano in risalto la silhouette. Insomma, sebbene da allora sia passato un decennio, la Lamborghini non ha perso la bellezza e la sensualità che da sempre la contraddistinguono.
"Bella Ciao ha rotto il ca...", l'analisi tecnica di Rocco Tanica. L'anima di Elio e le Storie tese nonché attore e autore televisivo infrange un tabù: la canzone dei partigiani ormai ha stufato tutti. Sui social è un tripudio: «Hai ragione, è una lagna, come la musica balcanica». Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
Serviva l'autocandidatura a segretario di Elly Schlein, giovane Barbra Streisand del Pd una Seracchiani che ce l'ha fatta, secondo i compagni più ustori- per propalare l'innegabile verità: «Bella e simbolica e tutto quanto; ciò detto, Bella Ciao ha rotto il cazzo». Così, tranchant.
Che non è la dichiarazione di un fascio eversore, bensì lo sfogo comprensibile di Sergio Conforti alias Rocco Tanica, classe '64. Autore e cantautore, corpo e anima degli Elio e le Storie Tese, autore e attore televisivo (grande interpretazione ne La compagna del Cigno su Raiuno) titillatore di nonsense in equilibrio tra Achille Campanile e gli stand up comedians newyorkesi, maestro di una generazione di satirici allegramente militanti alla Zoro, anarcoide di un'anarchia caricata a peyote: Rocco Tanica, dal quel popò di curriculum ha postato su Twitter le immagini del discorso del volto Dem.
DOPO IL PD «Sulle note di Bella ciao, Elly Schlein ha lanciato la sua candidatura alla segreteria del Partito Democratico: "Non siamo qui per una resa dei conti identitaria ma per dare vita a un partito plurale"». E, qualunque cosa ciò significhi, Rocco ha aggiunto la sua larvata critica alla canzone. Ed è stato subito un tripudio di retweet. Tutti a favore dell'esegesi roccotanichesca del testo. Roba fantazziona, tipo da «La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca» col capufficio cinefilo Guidobaldo Maria Riccardelli in ginocchio sui ceci, nello scroscio di 92 minuti di applausi ininterrotti.
Dopo il post di Tanica, ecco dunque il florilegio dei commenti più disparati: «Un po' come la musica Balcanica, bella e tutto quanto, ma alla lunga rompe i coglioni...». «C'è una versione balcanica di Bella Ciao?». «Dottor Tanica qui bisogna assolutamente comporre il nuovo inno della sinistra».
«Ha ragione maestro, Bella Ciao è proprio una lagna. Non potrebbe scriverlo lei il nuovo anthem in cambio di moltissimi danari ?».
E l'animo artistico di Tanica è già avanti. Prima propone come nuovo inno della sinistra Aborto dei suoi Elio («Aborto aborto batti un colpo se ci sei/Aborto aborto, come andiamo, è tutto occhei?/Obiettori e referendum che follia/ Ma in aborto vince la tua fantasia»).
Ma è, diciamo, poco tarato sui valori Dem. Poi a chi insiste nell'essere più pop e terragno Rocco propone Vogliamo andare avanti del mitico Duo di Piandena, anno 1972: «Vogliamo andare avanti, avanti/ avanti nella democrazia e il mondo socialista è la tua garanzia/ Vogliamo andare avanti.../E torna a minacciare il centurione di ridurre l'Italia una galera, ma è solo il ruggito del piccione, è tramontata la camicia nera». «Ci sarebbe questo, ma non è centrato», si scusa Tanica. E, in effetti, il brano suddetto sarebbe perfetto per l'associazione partigiani o per Fratojanni, ma col Pd non c'entra una beata fava. Tra l'altro, nel post successivo Tanica pubblica le proposte da La Stampa sui nuovi nomi del nuovo Pd; e tra essi spiccano "Padel- Italia rimbalza"della "mozione cura di sé" e "Sushi-In regalo le salse", la mozione asiatica del "partito all you can it", che tra l'altro non è cumulabile con altre offerte. Ricorda molto i vecchi sketch di Corrado Guzzanti /Veltroni sulla "mozione Amedeo Nazzari segretario, ma purtroppo è morto».
Ecco. In questa giostra di surrealtà emerge tutto il carico narrativo dell'ex cantico delle mondine trasformato prima in canto partigiano must del 25 aprile, e poi nella sigla di una fiction spagnola dal successo planetario. Tra l'altro, anche la Casa di carta con Bella ciao non c'entra una fava, però ne escono dei balletti meravigliosi davanti alla cassaforte zecca di Stato imbottita di tritolo. Bella ciao è sempre stata materia infiammabile.
MATERIA INFIAMMABILE Qualche mese, fa Laura Pausini si rifiutò di cantarla in tv per non prendere posizioni politiche. E la sinistra ispano-italiana le cucì addosso una camicia di forza intessuta nell'orbace. Ancora prima, nel 2019, i Marlene Kuntz e Skin fornirono a Riace, in appoggio del rinviato a giudizio Mimmo Lucano, di Bella ciao una versione trascinata e sofferta, quasi intestinale; roba che Dean Martin sembrava un assolo dei Led Zeppelin. Ora, Bella ciao è indubbiamente orecchiabile. E, di valore storico. E pregna di un suo carico simbolico. Però, sentendosi a ogni latitudine non solo ha perso la carica eversiva, ma tende a produrre sensazioni orchitiche che vanno oltre le oltre le aspirazioni degli etnomusicologi e dei partigiani superstiti. Forse ha ragione Tanica. Puoi penetrare le coscienze dei popoli. Ma quando hai rotto il cazzo, «hai rotto il cazzo».
Elio, il figlio Dante sul palco con le Storie Tese: "Sono autistico e ne vado fiero". La Repubblica il 17 Luglio 2022.
Il ragazzino di 12 anni ha partecipato al Concertozzo che ha visto il ritorno degli Elio e le Storie Tese di nuovo insieme a Bergamo per celebrare la "fine della sfiga".
Dante, 12 anni e mezzo, non ha avuto timore di salire sul palco, prendere il microfono e parlare davanti a 7.500 persone. E senza esitazioni ha detto: "Sono autistico e ne vado fiero". Lo ha fatto durante il concerto del papà Elio che è tornato a suonare con le sue Storie Tese per celebrare "la fine della sfiga", cioè il ritorno dopo la pandemia degli eventi live.
Coronavirus, insieme per salvare la musica. Elio e le storie tese: "Un concertone per la fine della pandemia"
Tutto è accaduto all'Arena Fiera di Bergamo che ha ospitato il Concertozzo, questo il nome della serata che ha registrato il tutto esaurito con il ricavato devoluto all'organizzazione umanitaria Cesvi per i profughi in arrivo dall'Ucraina. Tra i grandi classici degli Elii, da John Holmes a Cara ti amo, c'è stato spazio per parlare di autismo con Nico Acampora, fondatore del progetto PizzAut con ristoranti gestiti da lavoratori autistici, che ha prima incontrato il sindaco di Bergamo Giorgio Gori dietro le quinte e poi dal palco ha raccontato come "questi ragazzi attraverso il lavoro hanno scoperto altre caratteristiche della loro vita", con due camerieri di PizzAut che, per esempio, sono diventati musicisti.
Lo stesso Acampora ha poi presentato "il mio aiutante Dante" al quale ha passato il microfono: "Ciao Bergamo, fatevi sentire", ha urlato il ragazzo, a suo totale agio davanti al pubblico del Concertozzo, di fianco a papà Elio che lo osserava divertito. "Il mio nome è Dante, il cognome è Belisari ma, vabbè, a nessuno interessa, e sì, sono autistico e ne vado fiero", ha detto. "Vi chiedo una cosa in particolare. Per prima cosa godetevi lo spettacolo, vi lascio in pace, ma come seconda cosa per favore, rispettate tutte le persone autistiche", ha aggiunto per poi concludere con "un'ultima cosa: la terra dei cachi è la terra dei cachi, ciao Bergamo", tra gli applausi generali.
"Si vede che è figlio d'arte", ha commentato Acampora, ma Dante è anche fratello gemello di Ulisse e proprio la sua presenza ha portato a un confronto cognitivo che ha consentito una diagnosi precoce dell'autismo. Malattia per la quale Elio da anni si spende per sensibilizzare "l'Italia che è ancora all'anno zero, anzi sottozero" per quanto riguarda l'assistenza a persone che in moltissimi casi non sono autosufficienti. E quindi anche una serata nata con il Trio Medusa e Radio Deejay per celebrare il ritorno della musica live è diventata un'ottima occasione per parlarne. Grazie soprattutto a Dante e alle sue idee chiare".
Elio: "Io non rompo. È già stato rotto tutto". Alba Solaro su La Repubblica l'11 gennaio 2022.
Elio, giudice e conduttore di Italia’s Got Talent 2022 insieme a Frank Matano, Mara Maionchi, Lodovica Comello e Federica Pellegrini
In tv a "Italia’s Got Talent". A teatro con "Ci vuole orecchio". In libreria con un volume sul baseball. A tu per tu con il musicista e comico milanese: «Se fosse per me i programmi inizierebbero alle 5 del pomeriggio»
A Elio, “quello delle Storie Tese”, al secolo Stefano Belisari, classe 1961, si potrebbe applicare quello che lui dice di Enzo Jannacci: «È una persona seria, che sa anche far ridere». Oggi che il non prendersi sul serio è diventato un lusso, lui torna a lusseggiare in tv (ormai ci ha preso gusto, «e ovviamente non c’è paragone con i guadagni che fai a teatro o con la musica»).
Caterina Ruggi D'Aragona per corriere.it il 31 marzo 2022.
«All’asilo ero stato scelto per interpretare San Giuseppe. Prima di entrare in scena, feci ridere la bambina che interpretava la Madonna. E fui squalificato», racconta Elio (delle Storie Tese) durante il viaggio in auto direzione Toscana per portare al Politeama Pratese lo spettacolo «Ci vuole orecchio. Elio canta e recita Enzo Jannacci» che arriva qui dopo una cinquantina di repliche in tutta Italia.
Dai pezzi più surreali degli esordi fino a quelli più malinconici degli ultimi anni: una selezione di brani anche poco noti, inframmezzati da ricordi di Umberto Eco e Dario Fo, Francesco Piccolo, Marco Presta e Michele Serra, restituiscono il ritratto di Jannacci a tutto tondo: una scoperta per buona parte del pubblico. «Stiamo riscontrando un tale entusiasmo che, credo, andremo avanti almeno un altro anno con questo spettacolo», commenta Elio. Non chiamatelo Stefano Belisari.
Se l’artista ha a lungo tenuto nascosto il suo vero nome, prendendosi gioco degli interlocutori con false identità, è per la decisa volontà di tenere la vita privata ben distinta dal personaggio. Con un’unica, serissima, eccezione: la «storia tesa» di suo figlio, che l’ha spinto a metterci la faccia per promuovere una corretta informazione e azioni concrete a sostegno delle famiglie con figli autistici. «Siamo ancora all’anno zero. Anzi, sottozero, perché il servizio pubblico non si è ancora messo in moto per sostenere le 600 mila persone autistiche che ci sono in Italia: praticamente un partito politico», dice.
Parliamo di musica, comicità e autismo. Di vita. Perché, come avrebbe detto Jannacci: chi non ride non è una persona seria.
«Posso dire di aver fatto mia questa frase. Purtroppo in Italia chi fa ridere viene visto come un artista di serie B. Io sono invece convinto che Jannacci andrebbe collocato nel Pantheon dei grandi cantautori, accanto a Dalla e a De André. Questo è uno dei motivi per cui ho pensato di dedicargli uno spettacolo che, in verità, è soprattutto un atto di egoismo: cantare i suoi pezzi mi diverte; è una grande occasione di allegria per me e i cinque della band».
Quando ha «incontrato» il «poetastro»?
«Molto presto. È stato compagno di classe di mio padre. Abbiamo sempre avuto i suoi dischi. E anche se non ci siamo mai incrociati, è sempre stato uno di casa».
Cosa ha rappresentato per lei Jannacci quando ha scelto di studiare musica?
«Non ho mai pensato a lui coscientemente come un faro. Ma voltandomi indietro mi accorgo di avere fatto tante cose simili. A cominciare dal Conservatorio (Elio è diplomato in flauto, ndr) e dagli studi scientifici (medicina lui, ingegneria io). E poi la milanesità, l’anticonformismo e la comicità. Quando ho dovuto decidere cosa fare, è stato facilissimo pensare a qualcosa che mettesse assieme la musica con la mia capacità di fare ridere».
Perché ha studiato ingegneria?
«Per convenienza: era ed è, credo, la laurea che apre maggiori possibilità di assunzione. Pensavo tra l’altro di essere portato per le materie scientifiche più che per quelle umanistiche. Quello che è venuto poi è l’ennesima prova che nella vita le cose vanno come vogliono loro. Comunque, consiglierei a tutti di studiare ingegneria, perché insegna un metodo con cui si può affrontare tutto. Anche fondare Le Storie Tese».
Per la Giornata mondiale sull’autismo, sabato 2 aprile, La Compagnia di Firenze proietta in anteprima nazionale, alle ore 16, il documentario «I mille cancelli di Filippo», per il quale lei ha scritto la musica…
«Gli autistici hanno una “passione” (se così la possiamo chiamare). Filippo Zoi è un esperto di cancelli. Sono partito da lì per raccontare, attraverso la musica, un mondo che io stesso ignoravo prima che nascesse mio figlio».
Di figli con sua moglie Camilla ne ha due: Dante e Ulisse, nati nel novembre 2009. Proprio grazie al confronto con lo sviluppo cognitivo del fratello gemello, Dante ha potuto avere una diagnosi precoce…
«Ci dicevano che bisognava aspettare i 3 anni. Ma già a un anno i segnali possono essere tanti. Il problema è che esistono poche figure specializzare in grado di intercettarli, per intervenire al più presto. Anche ora che Dante ha 12 anni, dobbiamo noi da casa guidare gli insegnanti di sostegno. Esiste una terapia comportamentale che aiuta ragazzi e ragazze autistici a essere inclusi e costruirsi le armi per vivere una vita autonoma e indipendente. Ma nelle scuole non ci sono le competenze. Non lo dico solo da genitore inviperito. Penso anche che stiamo lasciando indietro potenziali uomini e donne che domani potrebbero pagare le tasse, piuttosto che essere un costo».
Cosa manca?
«La volontà dello Stato per affrontare, come ha fatto con il Covid, questa malattia che si sta diffondendo, sulla quale circolano ancora tante fake news».
Per cosa bisogna oggi avere orecchio?
«Dobbiamo avere attenzione a ciò che ci sta attorno; stare attenti agli altri; volerci bene».
Fulvia Caprara per “la Stampa” il 21 aprile 2022.
Anche gli attori soffrono. E non solo per fiction. Dalla Casa del Cinema di Roma è partito ieri, con l'incontro intitolato «Gli attori italiani valgono zero virgola», il grido di dolore di una categoria che fatica a far sentire la propria voce perché è difficile spiegare al pubblico che anche nel dorato mondo dello spettacolo c'è chi subisce ingiustizie e disparità.
Il compito se lo assumono i nomi celebri (tra i presenti Neri Marcorè, Paolo Calabresi, Vinicio Marchioni , Cristiana Capotondi, Fabrizia Sacchi, Urbano Barberini, Paolo Sassanelli e altri) che hanno parlato soprattutto per i colleghi meno fortunati, oggetto di un torto grave perpetrato da anni: «La prestazione dell'attore - spiega Elio Germano - viene liquidata alla fine delle riprese, al di là di quale sia il risultato del film al botteghino, e questo succede da sempre.
Da un po' di anni la Comunità Europea ha diramato una direttiva riguardante il "diritto connesso al diritto d'autore": una legge che stabilisce che agli artisti esecutori di un'opera debba essere riconosciuta una parte dello sfruttamento di quell'opera nel momento in cui passa su tv, piattaforme e tutto il resto, ovvero quando acquisisce un valore dato dalle pubblicità collocate prima o dopo la presentazione».
L'espansione dello streaming, ore e ore di film, fiction e serie avrebbero potuto incrementare gli introiti degli interpreti, anche quelli a cui vengono affidati piccoli ruoli. Perchè non è stato così?
«La legge servirebbe a riconoscere cifre che possono diventare importanti, sappiamo quanto può valere uno spot pubblicitario, in prima serata, o nelle fasce più seguite. Insomma, sarebbero numeri consistenti che potrebbero fare la differenza, dando la possibilità ai colleghi di sopravvivere facendo questo lavoro, invece di dedicarsi ad altro».
E invece?
«Per far funzionare questa legge bisognerebbe che gli utilizzatori, ovvero tv e piattaforme, fornissero i dati. Insomma, dovrebbero essere trasparenti, dire cosa si trasmette, a che ora, e a quanto ammonta il guadagno che ne deriva. La remunerazione dovrebbe essere adeguata all'incasso lordo dell'emittente».
Perché questo non accade?
«Abbiamo ereditato un meccanismo forfettario poco chiaro per cui i diversi "utilizzatori" hanno pagato per anni una cifra, sempre la stessa, che non corrispondeva a nessun dato oggettivamente verificato».
Risultato?
«Da 15 anni prendiamo le stesse quote, se la direttiva fosse stata correttamente applicata non ci sarebbe stato bisogno di pesare sui bilanci dello Stato". Alla musica viene riconosciuto un 2 per cento, a noi lo zero virgola". Insomma c'è una forte discrepanza, bisogna che venga riconosciuto un compenso adeguato all'epoca storica e anche alla situazione mutata, un tempo la discografia la faceva da padrone, noi attori ci siamo mossi poco e adesso ereditiamo una situazione che ci penalizza. I nostri volti vengono sfruttati ovunque, ma noi non ne ricaviamo nulla».
La mobilitazione è il segno di una solidarietà che nel mondo degli artisti italiani si è ultimamente rafforzata. Come mai?
«Il volto noto prende già il suo compenso, gli altri sono costretti a mantenersi facendo altri lavori. Con il collettivo "Artisti 7607" abbiamo scelto di mettere a disposizione di chi ne ha bisogno i fondi che derivano dai diritti connessi, abbiamo realizzato una politica mutualistica, così siamo riusciti a far pagare i provini, cosa che prima non accadeva, diamo avvocati e commercialisti gratis, proviamo a rendere più facile la vita dei colleghi».
Perché di tutto questo si sa così poco?
«Il pubblico non sa tante cose, per esempio che i protagonisti delle serie più famose, a cui tutti siamo tanto legati, hanno preso, al momento del loro primo ingaggio, stipendi bassissimi perché erano persone sconosciute. Poi sono diventate persone talmente celebri da non riuscire a girare liberamente per strada, ma hanno continuato a prendere sempre quello stesso stipendio. È noto che quando noi attori parliamo di compensi la reazione più comune somiglia a quella di quando parlano i calciatori "ma che volete voi che già siete pieni di soldi?". La nostra è una battaglia per chi è sfruttato. Non chiediamo una legge nuova, la legge c'è già, risale al '98».
Da ilfattoquotidiano.it il 28 ottobre 2022.
Il “corsivo” magari dà un’effimera notorietà. Ma evidentemente non dà da vivere. Così Elisa Esposito, che ha reso celebre sul web quella parlata strascicata (e fastidiosissima) presentandosi appunto come “la prof di cörsivœ”, in realtà si è creata da un anno la sua immagine sexy su OnlyFans, la piattaforma su cui mostrarsi (a pagamento) più o meno in déshabillé.
Ma ora attacca la piattaforma: “Distrugge psicologicamente, è un lavoro di m…”. E aggiunge: “Porta soldi ma toglie tutto il resto”. Non è evidentemente un periodo facile per lei. Le sue “lezioni” di corsivo sono diventate popolarissime, ma le hanno attirato le contumelie degli odiatori. Anche il rapporto con OnlyFans non dev’essere così sereno. Tanto che su un’altra piattaforma di più larga popolarità tra i giovani e i giovanissimi come TikTok ha pubblicato questo lungo messaggio.
Scrive Elisa: “Tutti dicono che OnlyFans sia una piattaforma in cui si possono pubblicare foto e video senza censura. Ovviamente chi si iscrive non è obbligato per forza a pubblicare quel tipo di contenuti, però comunque è nato per quello”. Ma che cosa la indispone? “Una cosa che mi dà troppo fastidio è quando le persone dicono: ma tanto è facile fare OnlyFans. No, non è come sembra. Le uniche cose facili di OnlyFans sono i soldi e fare l’iscrizione. Ma prima di farla pensateci su due volte, e anche di più”.
Insomma, cerca di dissuadere chi pensa di aver trovato una facile scorciatoia per fare soldi in fretta. E passo passo, così come nelle sue celebri lezioni di corsivo, spiega quali sono le insidie: “Una volta che effettui l’iscrizione devi mettere in preventivo diverse cose. La prima è che sicuramente, è un dato di fatto, perderai persone che non sono d’accordo con questa tua scelta. Ogni creator che ha Only Fans può confermare”.
Capitolo successivo: “La seconda è che prenderai insulti 24 ore su 24. Se non sei pronta psicologicamente a questo, non aprirlo. La terza è che verrai vista in modo diverso da tutti. Agli occhi di tutti, anche se sei la persona più santa del mondo risulterai una poco di buono”. E’ una scelta, spiega, che rischia di portare con sé uno stigma morale. Magari negli ambienti degli amici. Delle persone care, dei parenti.
Poi c’è il rischio non nascosto di fare brutti incontri: “Ormai ho OnlyFans da quasi un anno e vi giuro che psicologicamente vi distrugge. Porta soldi o cose, ma vi distruggerà tutto il resto. La scelta è vostra: o i soldi o la vera felicità. Tutto questo per colpa della gente che è davvero cattiva e frustrata”.
Intanto Elisa continua a condividere (ma non pubblicamente) i suoi scatti più casti su Instagram. Si presenta in bikini fucsia, sfoderando un fisico invidiabile. D’altronde i social sono le sua dimensione. Elisa vive a Milano e a fine 2020 ha aperto il profilo su TikTok con grande successo: quasi 800 mila follower e oltre 27 milioni di like, ai quali si aggiungono i 270mila follower su Instagram.
Ma proprio da quest’ultimo social era partita la rivolta contro la scelta di apparire su OnlyFans. Tanto che aveva tolto per qualche tempo l’immagine profilo: “L’ho fatto perché tante volte gli insulti iniziano ad essere pesanti, molto pesanti, soprattutto riguardo a OnlyFans”.
Elisabetta Canalis: «La mia nuova vita da combattente. Il lato luminoso della forza». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022
La ex soubrette a un nuovo giro di boa: a Torino ha vinto il suo primo incontro di kickboxing. Contro una 21enne. E a 7 racconta: «C’è una nuova forma di bellezza, il corpo forte che combatte mi ha dato il controllo sul ring e fuori»
Elisabetta Canalis, 44 anni il prossimo 12 settembre, durante l’incontro di kickboxing vinto ai punti contro Rachele Muratori, a destra nella foto, 21 anni, alla Reggia di Venaria, Torino, lo scorso giugno (foto Gianluca Nidasi)
«Brava, però adesso smetti di combattere, perché così non sei più sexy. Non mi piace vederti fortissima, agguerrita, non ti si addice». A bordo ring, dopo la vittoria di kickboxing alla reggia di Venaria Reale, Elisabetta Canalis, 44 anni il 12 settembre, ha raccolto applausi e commenti. Tutti maschili. «Neppure una donna a dirmi: mi stai deludendo, stai cambiando troppo, non è questa l’immagine che ho di te», racconta Elisabetta, ex velina, soubrette, attivista per i diritti degli animali e ora a un nuovo giro di boa della sua vita, che l’ha portata a combattere sul ring e a vincere contro un’avversaria di 21 anni.
LA PASSIONE PER LO SPORT: UN PUGNO ASSESTATO ALL’IMMAGINARIO DI CHI L’HA SEMPRE VISTA COME LA DONNA DA METTERE IN VETRINA, QUELLA CHE PUÒ PARLARE DI CALCIO MA NON DARE CALCI
Figlia della buona borghesia di Sassari, ragazza da calendario, fidanzata del bomber, poi del divo, poi moglie di Brian Perri, un chirurgo (come il padre) di Los Angeles di lontane origini italiane, naturalizzata americana, mamma di Skyler Eva, sportiva e sexy, più a suo agio nelle palestre di L.A. che a qualche provino hollywoodiano (come molti avevano pronosticato). L’ultimo cambio d’abito è il più spiazzante: campionessa di kickboxing. Un pugno assestato all’immaginario di chi l’ha sempre vista come la donna da mettere in vetrina, quella che può parlare di calcio ma non dare calci. Un pugno, soprattutto, ai cliché che la vorrebbero eternamente un morbido sogno maschile. Una farfalla potente che si libera da un bozzolo patinato, guardata ora con curiosità da alcuni e applaudita da chi da tempo cerca di aprire la “definizione” di femminilità. Non più legata (solo) al potere della bellezza, bensì centrata sulla forza del proprio corpo in connessione con la mente.
ALESSANDRA CHIRICOSTA: «PLATONE TIRAVA DI BOXE, MA NESSUNO CE LO HA MAI RACCONTATO. QUANDO ERO INCINTA, RIUSCIVO A TRACCIARE SCIABOLATE PERFETTE»
«Anche io da filosofa quando ho iniziato a combattere sono stata vista come una chimera, a volte un innesto spaventoso: ma prima di mettermi in discussione mi sono ricordata che all’origine del nostro pensiero c’è il corpo. Platone tirava di boxe e nessuno ce lo ha mai raccontato, non ci hanno detto tante cose che potrebbero farci capire molte cose in più», racconta Alessandra Chiricosta, filosofa marzialista e docente in Gender Studies, imprevedibile compagna di viaggio di Elisabetta Canalis in questo racconto che esplora nuove frontiere di forza e bellezza.
ELISABETTA CANALIS: «HO SEMPRE USATO IL MIO CORPO PER LAVORARE, SE METTO UN BIKINI O UNA LINGERIE, STO LAVORANDO, TUTTO QUI. MA CHI MI CONOSCE BENE SA CHE LA VERA ELISABETTA È QUELLA CHE COMBATTE, CHE STA SUL RING E SI SPORCA»
Un dialogo tra due donne con due percorsi diversi che si sono ritrovate a un incrocio, quello di una nuova forza, che non significa rinunciare alla femminilità ma potenziarla attraverso un corpo che combatte: Elisabetta Canalis e Alessandra Chiricosta, ospiti domenica 11 settembre al Tempo delle Donne (in Triennale-Milano) per raccontare come si può combattere con il corpo e con il pensiero, iniziano qui su 7 una riflessione su cosa significa rompere gli schemi, anche salendo su un ring. «E se questo crea disagio a qualcuno è un suo problema», dice Elisabetta problema», dice Elisabetta Canalis. «Ho sempre usato il mio corpo per lavorare, se metto un bikini o una lingerie, sto lavorando, tutto qui. Ma chi mi conosce bene sa che la vera Elisabetta è quella che combatte, che sta sul ring e si sporca. Quella che si infila la t-shirt al rovescio e se ne accorge più tardi».
ELISABETTA CANALIS: «MIO MARITO DICEVA: “È BELLO CHE TI VEDA CON I LIVIDI?”. ORA È DALLA MIA PARTE, DECIDO IO COME VOGLIO ESSERE»
Decidere di usare la propria forza, fisica e mentale, è un percorso che richiede una maturazione?
Canalis: «Questa sicurezza l’ho acquisita dopo un po’ di anni, ho deciso di affiancare a una immagine che mi facevo corrispondere anche quella di una Elisabetta più reale. Oggi ho il potere di decidere come voglio essere. Anche io ho a casa un marito che quando tornavo dai test di krav maga (un’arte marziale, ndr ) con i graffi al collo e tremante mi diceva: “Secondo te è bello che veda mia moglie così”? Io gli rispondevo: “Supportami, tu vai a fare surf e non so neppure se tornerai vivo, perché è pieno di squali. Ho paura, ma mi interessa che tu sia soddisfatto”. Oggi Brian è il mio primo sostenitore, insieme a mia figlia, che quando ho vinto a Torino si è messa a piangere per l’emozione. Non permetto a nessuno di mettersi tra me e questo sport».
Chiricosta: «Dico sempre che mia figlia, oggi dodicenne, ha fatto kung fu intrauterino: quando ero incinta mi allenavo con la sciabola, non ho mai fatto forme così precise come in quel periodo, la pancia mi permetteva di disegnare sciabolate perfette. Oggi le insegno a combattere, perché è una forma di educazione che deve partire dai primissimi anni di vita, lo dico anche nei miei corsi di autocoscienza combattente».
Perché a un certo punto si decide di combattere?
Chiricosta: «Perché è divertente! Non certo per dimostrare qualcosa: deve essere un piacere sano che va contro le narrazioni tossiche».
Canalis: «Quando sferri un colpo dimentichi il genere, l’età: ci sono solo due forze, due strategie, una contro l’altra. È vero quello che dice Alessandra: combattere è divertente, io torno indietro ai miei 8 anni. Uno dei miei coach spesso mi chiede: perché ridi quando sei sul ring? La risposta è che mi diverto: se prendo un colpo la prima cosa che mi viene è una risata, mi sento buffa».
Chiricosta: «Un mio maestro vietnamita mi diceva: “Una lezione in cui non si è riso almeno una volta è una lezione persa”. Che poi significa conoscersi, riflettere bene su cosa dice di me quel colpo: combattere significa entrare in un gioco di danza con gli altri, capire come sei fatta, canalizzare l’energia... Per quanto mi riguarda ho dovuto rompere un altro importante stereotipo: quello di intellettuale razionale e persona che agisce con il corpo e lo sa fare bene».
ELISABETTA CANALIS: «LA MIA ETÀ NON È UN LIMITE, NEPPURE LE MIE SPALLE LUSSATE O I PROBLEMI ALLA SCHIENA. POSSIAMO AZZERARE IL VITTIMISMO»
Cosa vi ha insegnato il combattimento?
Canalis: «Grazie a questo sport sto capendo tanto di me stessa, ho imparato a modulare la mia “cazzimma”, caratteristica di noi sardi: prima quando combattevo ci mettevo stizza, quasi rabbia, poi ho imparato a controllarla e questo mi ha portato a un atteggiamento più equilibrato anche fuori dal ring. Sono più consapevole e controllata, ma in senso positivo, non frenata. Avere più padronanza del corpo mi ha fatto sentire più sicura anche in alcune situazioni di vita quotidiana: mi spavento molto meno se devo portare in giro il cane la notte o posteggiare in un parcheggio sotterraneo, senza però avere un atteggiamento remissivo. L’importante è azzerare il vittimismo che contribuisce a portare le donne a essere dominate dagli uomini: vorrei evitare quel pregiudizio per il quale le donne sono vittime naturali e predestinate».
ALESSANDRA CHIRICOSTA: «NON C’È NULLA DI PIÙ PERICOLOSO IN NATURA DI UNA TIGRE CHE HA APPENA PARTORITO I FIGLI: MATERNITÀ E ISTINTO DI DIFESA NON SI CONTRADDICONO»
Chiricosta: «Giusto Elisabetta, anche perché non c’è nulla di più pericoloso in natura di una tigre che ha appena partorito i figli: maternità e istinto di difesa non si contraddicono. Questo non significa non riconoscere quando una donna ha invece subìto violenza, o negarla. Quando organizzo i corsi nei centri antiviolenza faccio sempre un paragone con il fiore di loto: per essere la meraviglia che è deve avere una piccola ferita e pescare nel torbido, perché c’è la possibilità di guarire e trasformare. La risposta deve essere anche culturale, sociale e politica: l’eterna rappresentazione della vittima genera un piagnisteo poco costruttivo».
ELISABETTA CANALIS: «LA FORZA FISICA È UNA PARTE DELLA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA VIRILITÀ, PER CUI GLI UOMINI SI SENTONO SFIDATI IN CASA, VEDONO IN PERICOLO LA LORO IDENTITÀ: ACCETTARLA È UNO SFORZO INCREDIBILE, LO CAPISCO, MA SI DEVONO ADEGUARE»
Quanto questa nuova immagine di donna combattente può mettere a rischio la femminilità e la popolarità?
Canalis: «Per molti uomini è irritante vedere donne che praticano sport maschili. La forza fisica è una parte della costruzione sociale della virilità, per cui gli uomini si sentono sfidati in casa, vedono in pericolo la loro identità: accettarla è uno sforzo incredibile, lo capisco, ma si devono adeguare. Quando ho iniziato il mio percorso credevo non fregasse nulla a nessuno di quello che stavo facendo e non capisco neanche la grande reazione che c’è stata, ma mi fa piacere. Se ce l’ho fatta io, ce la possono fare altre donne, la mia età non è un limite, non lo sono neppure le mie spalle lussate o i problemi alla schiena. Ma soprattutto non è un limite l’immagine che di me posso restituire. Quando mi dicono “non credi che questo sport così violento e aggressivo finirà per danneggiare la tua immagine”, allora sai che cosa mi scatta dentro? Che lo farò dieci volte di più».
Chiricosta: «Una praticante celebre porta meravigliosamente il messaggio. L’esperienza di Elisabetta ci sta illuminando su un aspetto del combattimento, che è una nuova presentazione di sé stesse alla società, un contributo che smonta il luogo comune. Non ci saranno più in futuro bambine che penseranno di essere escluse da un certo tipo di sport, ad esempio. Ma lo sapete che nella antica Roma esistevano le gladiatrici?». (continua a leggere dopo il sommario e i link)
LA NONA EDIZIONE DEL ‘TEMPO DELLE DONNE’, FESTA-FESTIVAL DEL CORRIERE DELLA SERA, SI SVOLGE IN TRIENNALE (A MILANO) E IN STREAMING SU CORRIERE.IT IL 9, 10, 11 SETTEMBRE
Pierre de Coubertin, dirigente sportivo, pedagogo e storico francese, fondatore dei Giochi Olimpici moderni, a cui è attribuita la famosa frase “l’importante è partecipare”, pensava che il corpo delle donne sotto sforzo fosse inguardabile e riservava a loro solo il ruolo di cingere con l’alloro il collo dei campioni maschi.
Canalis: «Mi fa tornare in mente un aneddoto del passato, quando Giampiero Mughini, scherzando, diceva che l’unico sport femminile che guardava con piacere era la pallavolo, perché le atlete hanno i pantaloncini corti ...».
Chiricosta: «Combattere significa anche questo, essere altro dall’oggetto dello sguardo. Se ti “deifico”, ti tolgo di soggettività, non esisti fuori da me e dalla mia interpretazione. Sono stanca di agire sempre in risposta, io ho un mio progetto forte, che si sviluppa non come reazione».
Canalis: «Non tutte abbiamo la stessa forza. Alcune colleghe mi hanno detto: “Tu parli perché sei sicura di te stessa. Ma noi ancora ci sentiamo condizionate da giudizi maschili che ci dicono non dimagrire, non ingrassare”. Di questo atteggiamento ho compassione, che è un qualcosa che va oltre l’arrabbiarsi».
Combattere significa lottare contro il maschio alfa e i suoi desideri?
Canalis: «No, piuttosto è l’affermazione di un tipo diverso di virilità che conduce a una consapevolezza, secondo me, liberatoria: che anche gli uomini non devono nascondere le loro insicurezze».
Chiricosta: «Tempo di sciogliere un nodo, non si deve sempre agire nel solco di un femminismo reattivo. Bisogna fare qualcosa che ci piace al di là del dover “dimostrare”. Come combattere».
Nicola Balice per corriere.it il 19 giugno 2022.
La prima volta non si scorda mai. Ed Elisabetta Canalis, questa prima volta sul ring, difficilmente potrà dimenticarla. Non tanto e non solo per i colpi presi ma soprattutto dati. Ma perché il match di kickboxing combattuto nell’elegantissima Reggia di Venaria Reale è un evento che va oltre. Anche il concetto di paura.
Dopo quattro anni di allenamento con un coach come l’ex campione del mondo Angelo Valente, la prima volta è durata 3 round da 90 secondi. Può sembrare poco solo per chi su un ring come questo non c’è mai salito. E alla fine sono solo sorrisi smaglianti, non perché abbia vinto al termine di un match vissuto tutto all’attacco («Tira piano, non lo ripeto più», ha dovuto redarguirla l’arbitro).
Ma proprio perché sul ring, Elisabetta, c’è salita: «Sono tornata, al cento per cento», ha dichiarato al termine dell’incontro. Che l’ha vista completamente a suo agio: «È stato molto divertente», ammette. Dopo aver stupito tutti per disinvoltura e aggressività: «Sembravo una iena? Ma no, è che avevo fame, quando ho fame sono sanguigna», scherza.
Il match
D’altronde le prime parole sussurrate all’avversaria appena tolto il paradenti sono state di conforto, consapevole di non essersi risparmiata per nemmeno un secondo: «Tutto bene, sì?». Forse non troppo per Rachele Muratori, a sua volta debuttante con un solo anno di allenamenti alle spalle, ma che a 21 anni e al secondo anno di università (studia Lingue) sogna invece di seguire le orme di Elisabetta, con l’obiettivo di diventare una fashion influencer e di entrare nel mondo della moda.
La prima volta di Elisabetta è avvenuta all’interno dell’evento «The night of kick and punch-Black tie edition», un nome che spiega chiaramente il contesto. Non poteva forse essere diversa la cornice, suggestiva oltre che bellissima, la Citroniera progettata da Filippo Juvarra all’interno della Reggia.
Attorno al ring decine di tavoli da notte di gala, nella lunga serata sono stati messi in palio anche due titoli italiani e altrettanti mondiali. Eppure gli occhi di tutti non potevano che essere per l’ex velina: in sala tanti smoking e abiti lunghi, per lei parastinchi, pantaloncini, guantoni, caschetto e paradenti. Volano calci e pugni, combatte, combatte per davvero, non si tira indietro. Anzi attacca, fin dal suono della campanella, è lei ad affondare i primi colpi pesanti. Fino alla vittoria ai punti.
La famiglia al seguito
Non era sola comunque, presenti tanti amici, insieme al marito Brian Perri e alla piccola Skyler Eva: per loro i primi baci e abbracci, non poteva essere diversamente. C’era anche Federica Fontana, ring announcer per l’occasione, ma soprattutto tifosa di Elisabetta: «Una grande amica, una grande donna. Che effetto mi fa stare su un ring? Provo paura, provo molta paura», racconta lei.
Che pure già da un po’ sta subendo il pressing di Canalis per seguirla in questa folle avventura: «Non ci si può improvvisare, sono qui per imparare e supportare. Un appuntamento per provare comunque già l’ho preso», ha spiegato Federica. Mentre Elisabetta chissà, magari pensa già a una seconda volta: «Facciamo la prima e poi vediamo», raccontava nei giorni precedenti al match. A vedere quanto si è divertita, forse ci sarà davvero. Intanto la prima volta, di sicuro, non la scorderà mai.
Da ilmessaggero.it il 15 febbraio 2022. Non si placano le polemiche sullo spot promozionale di Elisabetta Canalis «La mia Liguria», andato in onda durante il Festival di Sanremo 2022. La showgirl sarda, come ha riferito il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti rispondendo a un'interrogazione in Consiglio regionale del capogruppo Ferruccio Sansa (Lista Sansa), è stata pagata 100 mila euro per fare da testimonial.
Elisabetta Canalis e lo spot «La mia Liguria»
«Lo spot ha avuto un ascolto medio di 10 milioni di telespettatori, è andato in onda per la prima volta al Festival di Sanremo nell'ambito di una campagna promozionale complessiva del valore di 204 mila euro che andrà avanti tutto l'anno con ulteriori passaggi su più emittenti, comprensiva di registrazione di due spot, testimonial, diritti, due campagne stagionali, ricerca dei personaggi di pubblico rilievo. - sottolinea Toti - È stata individuata come primo testimonial Elisabetta Canalis per un importo complessivo di 100 mila euro. Questi costi parametrati al pubblico che ha visto il Festival di Sanremo valgono lo 0,01% per contatto, una delle campagne pubblicitarie migliori che ricordo nella mia ventennale esperienza nelle tv commerciali».
«La Liguria sceglie un sardo che parla da Los Angeles per promuovere la Liguria e lo paga 100 mila euro - polemizza Sansa - Presidente mi perdoni, ma l'aspetto logico lo colgo solo nella scelta della Canalis di prendersi 100 mila euro». «L'idea di base è che non solo un ligure può apprezzare le bellezze della Liguria, altrimenti avremmo un turismo autarchico. - replica Toti - Siccome Canalis è stata protagonista di un Festival di Sanremo, si tendeva a proporre un'idea dei ricordi che restano parte del proprio bagaglio di esperienze personali in Liguria, anche vivendo ormai lontani dalla nostra Regione».
Dagospia l'1 marzo 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Grazie a una nostra interrogazione Giovanni Toti ha dovuto ammettere che i due spot con Elisabetta Canalis sono costati oltre 240mila euro (IVA compresa).
Ecco le diverse voci:
1. Euro 120mila per il compenso della Canalis
2. Euro 70mila per la produzione dello spot
3. Euro 55mila per "la ricerca del personaggio di pubblico rilievo".
In totale fanno oltre 240mila euro per 60 secondi. Per la cifra record di 4mila euro al secondo per vedere una soubrette sarda che parla di Liguria dalla sua casa di Los Angeles.
Aggiungiamo una domanda cui Toti non ha risposto: per realizzare i video è stato scelto come "consulente progettuale" Pietro Pisano. Il signor Pisano è addetto stampa dell'ospedale pubblico San Martino e (nessuno pare si sia mai posto la questione di opportunità) del gruppo Montallegro, re della sanità privata ligure e finanziatore della campagna elettorale di Toti.
Domanda: in base a quali criteri l'addetto stampa del nostro maggiore ospedale è stato scelto come consulente per realizzare il video della Canalis? Quanto è stato pagato?
Attendiamo risposte
Ferruccio Sansa, Consigliere regionale della Liguria
Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 3 luglio 2022.
Sono sei anni che Elisabetta Gregoraci conduce «Battiti Live» (al via martedì su Italia 1, per cinque prime serate che la vedranno sul palco con Alan Palmieri) eppure ne parla come di «un sogno che si realizza».
Non è una frase fatta. «Quando ero una bambina i programmi musicali erano i miei preferiti - racconta -. Li seguivo in famiglia, con mia mamma, papà e la mia sorellina, mangiando un ghiacciolo in veranda, nelle calde serate calabresi».
Si sognava cantante?
«No, piuttosto ballerina. Ma con mia sorella, mentre guardavamo quelle trasmissioni, canticchiavamo le canzoni, ci divertivamo. E io, appunto, sognavo di essere sul palco a condurre».
Obiettivo raggiunto.
«Quest' anno siamo tornati alla formula itinerante (si parte da Bari, ndr .), davanti a 10 mila persone... ne avevamo bisogno: per reggere quattro ore di diretta serve il supporto del pubblico. Per fortuna ho iniziato presto questo lavoro: in Calabria conducevo le serate dei concorsi grazie ai quali ero diventata miss Calabria e miss Sorriso. Avevo 17 anni, ho imparato molte cose».
La gavetta quindi serve? Anche nell'era dei social, in cui si diventa famosissimi senza mai salire su un palco?
«La gavetta, gli eventi dal vivo, ti danno sicurezza. Servono a non farti prendere dal panico di fronte a qualche intoppo, che non manca mai, o anche solo davanti a così tanta gente: ancora adesso poco prima di salire sul palco penso a chi me lo ha fatto fare, poi vinco la paura e mi diverto».
Quale «intoppo» ricorda?
«Durante una puntata di "Battiti" dovevo introdurre una cantante che era rimasta bloccata in ascensore. Non arrivava più, così abbiamo stravolto la scaletta al momento».
Suo figlio ha iniziato ad andare ai concerti con gli amici?
«Da solo? Non se ne parla, ha 12 anni. Però viene dietro le quinte di "Battiti" e lo vedo chiacchierare con i cantanti, mi fa piacere. Anni fa mi ha stupita quando, senza dire nulla, ha preso il microfono ed è andato sul palco a parlare col pubblico... certo non è timido. Però ai concerti deve andarci ancora con mamma».
Lei e il suo ex marito Flavio Briatore sembrate in ottimi rapporti: non è sempre detto.
«Sì, in tanti mi chiedono come ci siamo riusciti. Abbiamo cercato da subito un equilibrio pensando a nostro figlio. A volte è difficile: un po' cedo io, un po' cede lui, non è tutto perfetto e ovviamente si discute. Ma in generale posso dire che sì, siamo riusciti a stabilire un ottimo rapporto».
Ha fatto parlare una foto che avete condiviso in cui ci siete voi due con due storiche ex di Briatore: Naomi Campbell e Heidi Klum.
«C'è una bellissima amicizia tra tutti noi e posso dire che c'è sempre stata. Quella immagine nasce semplicemente perché avevo portato mio figlio al Gran Premio di Montecarlo, lì ci siamo ritrovati tutti e abbiamo scattato questa foto».
Solo su Instagram la seguono quasi due milioni di persone.
«I social ti danno tanto: hai un contatto immediato con le persone, senti il loro affetto. Ma come non si improvvisa il lavoro sui social, non si può improvvisare nemmeno quello che si fa in tv. Serve grande intelligenza e preparazione».
Ama anche la recitazione.
«Molto, specie se mi mette alla prova, se no evito. Ho fatto film molto belli e impegnativi, in cui mi invecchiavano, imbruttivano ed era quello che mi piaceva: essere diversa da come ci si sarebbe aspettati.
Anche se avverto un po' di pregiudizio. Anche Calopresti, con cui ho girato un film bellissimo come Aspromonte - La terra degli ultimi , mi diceva, quasi sconsolato: certo, tu sei proprio tanto famosa... avverto che non sempre è un bene, anche se poi, alla fine, penso di aver fatto dei bei ruoli e di essere riuscita anche a riempire qualche sala grazie alla fama».
E' sulla torre e deve scegliere: condurre Sanremo o recitare in un film che lascia tutti a bocca aperta.
«Scelgo il film. Vorrei fosse drammatico o super adrenalinico. Dopo tutto lo sport che ho fatto mi vedrei bene in un film tipo Soldato Jane ».
Nino Luca per video.corriere.it il 5 settembre 2022.
Alla 79esima edizione della Mostra del Cinema un debutto tanto interessante quanto atteso. Elodie fa il suo ingresso nel mondo del cinema in «Ti mangio il cuore» di Pippo Mezzapesa (attualmente impegnato sul set della serie, la prima del regista, sul caso di Sarah Scazzi), in concorso nella sezione ‘Orizzonti’.
La cantante, che non si sente una Diva, anzi non esistono più, parla della sua prima scena di nudo su un set: «Nessun imbarazzo. Ho da sempre un rapporto sereno con il mio corpo. Un seno è un seno. Ce l'ho io come lei, sono abbiamo ghiandole diverse. È da un po' che penso alla possibilità di fare un'esperienza come attrice, ma attendevo la magia, qualcosa che mi colpisse. Mi sono innamorata di questo progetto, da parte mia è stato pretenzioso accettare ma è stata per me un'occasione profonda, distante da quello che faccio».
Non si limita al cinema Elodie e risponde anche alle domande di politica: «So già chi votare. So anche chi non votare. Hillary Clinton ha detto che una donna premier è già una cosa buona? Non sono d'accordo. L'unico pregio della Meloni è che è determinata». Arso dal sole e dall'odio, il promontorio del Gargano è conteso da criminali che sembrano venire da un tempo remoto governato dalla legge del più forte. Una terra arcaica da far west, in cui il sangue si lava col sangue.
A riaccendere un'antica faida tra due famiglie rivali è un amore proibito: quello tra Andrea (Francesco Patanè), riluttante erede dei Malatesta, e Marilena (Elodie), bellissima moglie del boss dei Camporeale. Una passione fatale che riporta i clan in guerra. Ma Marilena, esiliata dai Camporeale e prigioniera dei Malatesta, contesa e oltraggiata, si opporrà con forza di madre a un destino già scritto. «Cominciare con un ruolo così complesso non è da tutti, è stata coraggiosa», ha detto il regista Pippo Mezzapesa, «ma posso dire che è nata una diva». Completano il cast Tommaso Ragno, Francesco Di Leva, Michele Placido e Brenno Placido. ´Ti mangio il cuore' arriva nelle sale dal 22 settembre con 01 Distribution e dal 2023 sulla nuova piattaforma Paramount+
Estratto dell’articolo di F. Cap. per “La Stampa” il 5 settembre 2022.
(…) Nelle ultime settimane ha duettato via social con Giorgia Meloni, prendendo una posizione chiara. Che cosa si augura che succeda con le prossime elezioni?
«Penso che, prima di fare politica, bisognerebbe interessarsi dei diritti delle donne, delle comunità Lgbt, dei profughi, dei più fragili, ho l'impressione che la Meloni sia stata strumentalizzata, che abbia una certa confusione sui temi fondamentali della vita.
È brutto vedere che ci sia stato proposto un modello maschile, patriarcale, con la voce di una donna. Non voglio farmi etichettare, confesso che, ad esempio, non ho mai votato Pd.
Indipendentemente da come andranno le cose, credo, però, che anche i cattivi esempi possano poi diventare buoni esempi, magari faremo un giro un po' più largo, ma poi raggiungeremo gli obiettivi importanti, sono ottimista. Sul fronte Lgbt si sono fatti passi tanti passi avanti, oggi anche in terza elementare si parla di fluidità, anche se, certo, ci sarà sempre chi la pensa diversamente». (…)
Secondo lei in che modo le ragazze di oggi vivono il femminismo?
«Ho tante amiche con cui ho rapporti importanti, donne che stimo e che mi stimano, per esempio Diletta Leotta, e poi mia madre, mia sorella. Certe volte, tra donne, il confronto è difficile, io, per esempio, sono spesso irruenta, credo però che stiamo iniziando a vederci non più come nemiche, adesso tante cose sono cambiate, siamo diventate autonome, indipendenti, tanto che gli uomini si spaventano se hai il conto in banca, infatti io spesso dico "fai finta, fai come se avessi il pisello, così questo problema non ce l'hai"».
Estratto dell’articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” il 5 settembre 2022.
«Scritturare Elodie era un'idea pazza, ma lei è la più pazza di tutti e ha detto subito sì», racconta Pippo Mezzapesa che ha diretto la cantante romana nel film Ti mangio il cuore, applauditissimo ad Orizzonti e atteso in sala il 22 settembre (da gennaio 2023 sulla piattaforma Paramount +). (…)
Lei ha attaccato Giorgia Meloni dicendo che il suo programma le fa paura.
«Mi dispiace che, pur essendo una donna, veicoli un modello patriarcale. Esiste una soglia minima dei diritti oltre la quale non si dovrebbe mai andare. Ma io non ho etichette politiche: non ho mai votato Pd e se ci fosse un candidato di destra con idee interessanti sarei disposta a votarlo».
Un artista deve esprimersi su temi sociali e politici?
«Io ragiono da cittadina e sono un'istintiva. Penso che parlare sia fondamentale, amo il confronto. E sono sconvolta dalle critiche sessiste, destinate a svalutarmi, che accolgono il mio desiderio di partecipazione».
Ha fatto pace con i social che le stanno addosso?
«Io sono sempre me stessa. Mi interessano le critiche costruttive, del chiacchiericcio chi se ne frega».
Esiste la sorellanza?
«Tra noi donne c'è ancora tanta rivalità, astio, perché continuiamo ad appoggiarci alla visione che gli uomini hanno di noi. Non facciamo squadra... essendo irruenta, a volte ho un rapporto complesso con le mie amiche, ma ne ho tantissime e le adoro. Smettiamola di sentirci nemiche».
E i maschi?
«Sono spaventati dalle donne indipendenti. Quando un uomo ha paura del mio conto in banca gli dico: fai finta che abbia il pisello».
Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 5 settembre 2022.
«Fumo una sigaretta? Tra tutti i vizi mi pare il più accettabile, così me lo tengo», sorride Elodie, l'espressione buffa e il corpo mozzafiato avvolto a intermittenza da un bell'abito nero. Alla Mostra, sezione Orizzonti, accompagna Ti mangio il cuore , film che Pippo Mezzapesa ha tratto dal libro-inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, trasformandolo in un romanzo western, storia di vendette e passioni in una Puglia - siamo sul promontorio del Gargano - rurale e atavica, fotografata in bianco e nero.
L'amore proibito che si consuma tra il figlio di un boss (Francesco Patanè) e la moglie del latitante capo di una famiglia rivale (Elodie), rompe la tregua tra i Malatesta e i Camporeale, dando il via a un'inesorabile crescendo di efferati delitti. (…)
Ha avuto un passato difficile, con il quale, anche rispetto ai suoi genitori, ha fatto pace?
«Sì, ho fatto pace perché in realtà è anche stata, diciamo, croce e delizia. Ma mi ha reso quel che sono, mi dato la visione della vita che ho oggi. Non sarei qui. Avrei voluto crescere più serena, ma allo stesso tempo sto vivendo la mia infanzia adesso».
Finalmente spensierata?
«Sì, abbastanza spesso. È la mia fortuna ma anche una pecca - perché viene scambiata per egoismo - la determinazione a volermi vivere tutto: nessuno si deve mettere in mezzo tra me e la mia libertà, tra me e le mie scelte, neanche Dio, se esiste. La vita è una e sento di volerla vivere ogni giorno, con istintività».
I momenti difficili che ha vissuto sono però diventati un serbatoio dal quale attingere emozioni da portare sul set?
«Sì, un serbatoio a cui attingo: in questo personaggio ci ho messo la mia vita, le mie esperienze. È una vicenda distante da me ed è così dolorosa che posso solo immaginarla. Però, nel mio piccolo, le cose che mi sono successe nella vita le ho messe lì. È stato un po' catartico: ho tirato fuori la rabbia, la frustrazione. Anche solo nell'essere donna in una società patriarcale, cosa che mi crea insofferenza, che mi fa arrabbiare. Ho sfogato anche determinate frustrazioni».
Sullo schermo la sua è una presenza forte. Cosa ha pensato rivedendosi?
«Sono molto critica con me stessa. Ma nella mia interpretazione ci ho visto l'onestà e mi piacerebbe continuare. Non vedo l'ora di far vedere il film alla mia famiglia, allargata e non».
Parlando di politica, è ottimista rispetto al futuro del paese?
«Voglio essere ottimista. Penso d'altra parte che, anche se ci fossero forzature da parte di una certa forza politica andata al governo, che la generazione Z, che è quella a cui appartengo, sarebbe pronta a non farsi mettere i piedi in testa, in materia di diritti. Su certe cose non si potrà tornare indietro»
Dagospia il 14 luglio 2022. Da La Confessione
"Marracash è la persona che amerò di più in tutta la mia vita. Un prossimo fidanzato non sarà contento di questo? Tanto non sarà mai all'altezza". Elodie, ospite del finale di stagione de La Confessione di Peter Gomez, domani alle 22.45 su Nove, non si nega nel rispondere alle domande sulla relazione con l'ex (?) compagno, il rapper Marracash. Anzi.
Prima racconta come sia stato proprio lui a convincerla che fosse un bene non nascondere più le sue origini, a spingerla a raccontare da dove venisse. "E' rimasto molto affascinato da me come essere umano perché ero diversa da quello che facevo vedere in tv - spiega la cantante romana di origini creole - Mi diceva: 'La tua storia in realtà è un punto di forza'. Io, però, avevo ancora molta paura della critica, cosa che oggi ho sempre meno. - prosegue l'ex finalista della 15 esima edizione di Amici - Fabio tuttora è una persona molto importante per me. Se ho bisogno di un parere, se ho un'idea, un dubbio, spesso mi confronto con lui".
"Allora parliamo sempre di Marracash - insiste il conduttore - 'Nessuno mi ha mai fatto l'effetto che mi ha fatto lui. È animalesco', ha detto lei una volta. Adesso me la spiega. 'Animalesco' in che senso?", domanda Gomez. "In realtà ho detto che lui è entrambe le cose: - racconta l'artista che è stata vista in prima fila al live di Marracash allo Stupinigi Sonic Park a Torino pochi giorni fa - È un uomo. Ha una silhouette elegante, ha sia l'eleganza che un animo animalesco. E' tante cose, è difficile spiegare Fabio (Fabio Bartolo Rizzo è il vero nome del rapper milanese, ndr), questa è la verità, è molto difficile. Però la cosa che mi piace è nello sguardo di una persona che non è mai...", dice Elodie lasciando in sospeso la frase con aria sognante tanto che il direttore de Ilfattoquotidiano.it chiede:
"Lei ne sta parlando in una maniera... Io glielo devo dire, ma non è che siete ancora un po' innamorati?". "Io sono innamoratissima ovviamente, è la persona che amerò di più in tutta la mia vita sicuramente ed è una grande fortuna. - risponde sicura l'artista, che vedremo nel film 'Ti mangio il cuore' di Pippo Mezzapesa - Non è detto che capiti. Io l'ho capito adesso cos'è l'amore
Francesca Galici per ilgiornale.it il 15 luglio 2022.
Elodie torna a parlare di Giorgia Meloni e lo fa incalzata da Peter Gomez nel programma La confessione, in onda sul Nove. La cantante sarà l'ultima ospite di questa stagione del programma nella puntata che andrà in onda questa sera a partire dalle 22.45. Stando alle anticipazioni riportate da il Fatto quotidiano, nel corso dell'intervista il giornalista ha stuzzicato la cantante sul tema politico, ben consapevole dell'orientamento di pensiero della cantante, che non si è lasciata sfuggire l'occasione, parlando di "fascismo" in riferimento a Giorgia Meloni.
Durante la chiacchierata, che solitamente nel programma di Peter Gomez si svolge per temi, il conduttore ha mostrato a Elodie una foto di Giorgia Meloni, e la cantante, senza farselo ripetere due volte ha attaccato: "La verità? Io non capisco... Non ha delle cose più importanti da fare? Gestire un Paese, fare delle cose anche più burocratiche che stare a decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato per le persone? Non sta a te, non sei Dio, non ti ci avvicini neanche a Dio se dovesse mai... Ovviamente magari esiste, non lo so...".
Il riferimento è al comizio della leader di FdI in Spagna, che già era stato criticato da Elodie, che non si esime dal menzionare il fascismo nel discorso incentrato sulla leader di Fratelli d'Italia: "È questo che a me disturba di più. Cioè, del fascismo è questo che mi disturba. Possiamo avere idee diverse, vedere la vita in modo diverso, ma non c'è bisogno con tutto quel livore, quella cattiveria... Incazzata... La lobby... Stai calma". Quindi, Elodie si spinge perfino a dare un consiglio a Giorgia Meloni su come fare politica: "Posso capire che dici: 'Ma io sono lontana da quella vita lì...', però non te ne frega un cazzo. Ci sta, ok? Non è che poi dobbiamo per forza... Cioè, non è che viviamo nella montagna del sapone. Ognuno ha la sua vita, il suo modo di vedere le cose. Però ci sono modi e modi di dire, di parlare e di fare politica. Non credo che sia questo il modo giusto".
Quindi, Elodie chiude il concetto con una spennellata di idealismo: "Dovremmo, anzi, cercare di capire come convivere tutti insieme nelle nostre diversità". E sul perché Giorgia Meloni sia ora il partito più apprezzato dagli italiani, come dimostrano i sondaggi, Elodie ha una sua personalissima visione: "La gente ha paura, ha tanta paura, perché non ha il coraggio di fare un passo verso gli altri. Quindi è molto più semplice additare, sfogarsi, incazzarsi col prossimo per le frustrazioni che però non riguardano molto la vita degli altri. Riguarda sempre il nostro modo di vivere". Quindi, ha concluso: "È molto più facile dire: stronzi, vaffanculo, te sei nero, te sei gay... Mi dispiace, perché è veramente una perdita di tempo enorme".
Non è la prima volta che Elodie attacca la leader di Fratelli d'Italia, in passato ha puntato in dito anche contro Matteo Salvini, com'è avvenuto al gay pride di Roma. E Peter Gomez ha colto la palla al balzo per ottenere nuove dichiarazioni.
Elodie, contro Meloni e Salvini: quando la musica non basta per farsi notare. Francesca Galici il 27 Giugno 2022 su Il Giornale.
Attacchi contro Matteo Salvini, la Lega e Giorgia Meloni da parte della cantante romana che così fa breccia sul pubblico buonista
Da qualche tempo, la cantante Elodie è beneficiaria di una straordinaria attenzione da parte dei media, che in pochi capiscono. Certo, non si può negare che sappia cantare, ci mancherebbe, ma di certo non è 'sta grandissima voce della quale l'Italia non può fare a meno. Eppure, la cantante romana originaria del popolare quartiere del Quartaccio, viene osannata come la nuova Madonna. E scegliete voi quale delle due si intende, vista la devozione che la circonda. Elodie è entrata nelle grazie del pubblico che conta, quello che fa più rumore: la lobby dei buonisti e dei paladini del politicamente corretto, che sui social hanno il dominio totale.
È stata furba in questo, c'è da ammetterlo, perché è andata a far leva con forza sui temi che scuotono maggiormente quella comunità, fatta prevalentemente di giovani alla ricerca del proprio idolo da venerare e innalzare a semi-Dio. Elodie ha innalzato il livello, perché ormai sono tutti bravi a professarsi paladini del politicamente corretto, dei diritti Lgbt+, amanti della schwa e tante altre belle cose "cool", ma lei è andata oltre e ha puntato direttamente l'obiettivo grosso: i leader politici più invisi da quella comunità. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono finiti nel mirino di Elodie, come già erano finiti in quello dei Ferragnez qualche mese prima, per dire. La cantante romana è un'ottima stratega e ha ottenuto l'attenzione di quelli che passano le loro giornate a insultare i due leader sui social, tra bandierine arcobaleno e inviti alla pace. Perché la coerenza non è mai di casa da quelle parti.
"Indegni, siete omotransfobici" E Elodie sbraita contro la Lega
Chiamata come madrina del Pride di Roma, Elodie durante la sua presentazione che fa? Attacca Matteo Salvini. Copione abbastanza scontato di questi tempi, che in quel contesto le ha fatto racimolare facili consensi. Una risposta volpina, la sua, che a pensar male si direbbe perfino studiata: "Non vorrei aprire il discorso Salvini, però quando leggo determinate cose, quando devo sentire determinate cose, mi sembra veramente assurdo. Certe cose non vorrei proprio sentirle perché stiamo parlando della base, della correttezza, di essere un essere umano corretto". Non certo il primo attacco contro la Lega da parte della cantante, che ha definito i suoi eletti "indegni".
Vista l'acclamazione ricevuta parlando di Matteo Salvini, Elodie pochi giorni fa (dopo il successo al primo turno di Fratelli d'Italia), è entrata a gamba tesa anche su Giorgia Meloni: "Vedo una donna molto arrabbiata, mi dispiace per lei". Poi ha aggiunto: "Io pure sono arrabbiata, ma vado in terapia e non la sfogo sugli altri". Una strategia comunicativa che porta i suoi frutti, visto che di Elodie si parla soprattutto quando esterna certe dichiarazioni, piuttosto che per la sua musica. Bella, ci mancherebbe, ma evidentemente poco incisiva se ha bisogno di certi trucchetti per farsi notare.
Parla Elodie: «Io sono figlia mia. Marracash? L’essere che più mi ha agitato, tra paura e desiderio». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022.
Intervista a Elodie, tra rabbia, orgoglio e amore. «Per capire cosa è giusto o sbagliato devi sbagliare. La mia famiglia? A volte la amo di più, a volte di meno. Marracash? Acciuffarci è stato difficile, difficilissimo».
Elodie Di Patrizi è nata nel 1990 a Quartaccio, periferia di Roma ovest.
Da piccola andava con il padre, Roberto, che suonava in strada, vicino al Pantheon. C’era anche la madre, Claudia, cubista di origini caraibiche, che girava con il cappello, e la sorella, più piccola di tre anni, Fey.
Dal Quartaccio al centro della Capitale sono circa 7 chilometri, in linea d’aria. Oggi la distanza è la stessa, ma l’aria per Elodie è cambiata, e al cuore di Roma, fino al Colosseo, ci è arrivata da madrina del Pride, facendo ballare il popolo arcobaleno al ritmo della sua recente hit Bagno a mezzanotte («Uno, due, tre alza, il volume nella testa...»).
La nostra regina delle classifiche, per biografia e indole, è una paladina naturale di chi reclama diritti uguali per tutti. La sorellanza, ad esempio, per Elodie non è un concetto astratto, perché l’ha sperimentata sulla sua pelle, con la sorella, in una famiglia con problemi vari (anche di tossicodipendenza) e in un quartiere difficile, dove se la sono cavata da sole. Per difendersi dai bulli ha imparato a fare la bulla, il suo femminismo è dal basso.
L’istinto protettivo, verso sé stessa e i più deboli, ha temprato il carattere e indurito, ma senza sciupare, un viso dalla bellezza magnetica per il mix di fascino e determinazione. Gli occhioni da cucciola non fanno prigionieri né sconti e nessun sorriso è regalato.
La incontriamo a Milano, dove ha da poco comprato casa dopo anni di affitto: «Sono felicissima» dice «ma è strano, ne ho cambiate tante di case, per me una casa è un letto, il posto dove ricaricarmi. Ora avrò un luogo mio che devo capire come rendere mio. Per ora so solo che quando mi trasferirò mi porterò queste piante. La sterlizia, che amo, e l’orchidea, muore e rinasce ogni anno».
Che emozione le ha lasciato il Pride di Roma?
«Il senso di comunità, di comunione, di famiglia. C’era mia nonna, mia mamma, mia sorella e la compagna. Quando siamo partite dal Qube per arrivare a piazza della Repubblica, la prima tappa delle 4, mi sono commossa. Nella vita non ti immagini di finire in determinati posti con determinate persone. Penso a me da piccola, al fatto che sì volevo cantare, e ci sono riuscita. Ma come persona, come essere umano, avrei voluto essere quella che sono, che sa stare dalla parte giusta».
Come si fa capire qual è la parte giusta?
«Quando c’è amore e comprensione e ci si ascolta sei nel posto giusto, è bello. È brutto quando le persone limitano la libertà degli altri, è la parte sbagliata. Possiamo chiamare i filosofi, i plurilaureati e parlarne per anni, con chiunque, anche con dio se scende in terra, se esiste... c’è poco da fare: dobbiamo tutti avere gli stessi diritti».
La Russia di Putin vede nei Gay pride un simbolo di decadenza occidentale. Dove ci sono i pride è la parte giusta?
«Sì, direi di sì». Sua sorella, Fey, prima di fare coming out, temeva di non essere capita, soffriva i pregiudizi, temeva anche il suo di pregiudizio? «Da noi i pregiudizi erano fuori da casa, dentro non ci sono mai stati, siamo state fortunate in questo, c’è stata grande libertà di espressione».
E a scuola? O nel quartiere? In certe periferie non c’è spazio per il politicamente corretto.
«Ecco cosa mi stupisce: se sei un emarginato, un dislocato, uno discriminato in quanto nero se sei nero o una discriminata in quanto donna se sei donna, dovresti essere orgoglioso di stare vicino agli altri discriminati: chi subisce un pregiudizio dovrebbe essere più sensibile. E invece no, mette su difese su difese e combatte il pregiudizio che subisce con altri pregiudizi sugli altri. Magari la sensibilità c’è, ma è nascosta da queste corazze; anche io ce l’ho avuta la corazza, facevo finta di niente, anche mia sorella. Ma è un peccato».
La destra conservatrice può pescare in questo disagio. Lasciamo stare il solito Matteo Salvini. Prendiamo Giorgia Meloni: di recente, in Spagna, ha attaccato la lobby Lgbt in difesa della famiglia naturale…
«Vedo una donna molto arrabbiata, mi dispiace per lei, non dovrebbero esserci queste distinzioni, e mi spiace ci siano persone che le fanno. Famiglie di serie A, serie B, serie Z… I diritti sono per tutti e poi bisogna capire come vivere bene, in società, assieme. C’è troppa rabbia in queste persone. Io pure sono arrabbiata, ma vado in terapia e non la sfogo sugli altri. Solo che devi essere cosciente di questo problema con la rabbia».
In passato ho letto che non si era trovata bene con la psicoterapia, che era come una setta… Ha cambiato idea sulla terapia? O terapista?
«Prima seguivo un metodo un po’ aggressivo, che creava dipendenza con il terapista e non credo vada bene: con la co-dipendenza non risolvi niente. Il metodo che sto usando adesso è l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, ndr), che insegna ad affrontare i traumi, soprattutto infantili, secondo il principio della convivenza e non dell’eliminazione. Nelle sedute non ci sono i classici lettini e le lunghe chiacchiere, il paziente rivive fisicamente il trauma, il dolore fisico grazie a stimolazioni sonore e non solo».
Anche recitare è terapeutico. Lei ha lavorato in un film d’autore di prossima uscita Ti mangio il cuore, di Pippo Mezzapesa. Interpreta una donna della mafia del Gargano, moglie di un boss che poi rompe e si pente, se non sbaglio.
«Ci sono figure femminili con un vissuto complesso che non hanno la libertà di scegliere e se fanno una scelta sbagliata poi è difficile rimediare, anche perché i loro uomini hanno un forte senso del possesso. Da donna libera e indipendente quale sono penso a donne in situazioni simili, immagino che sarebbe potuto accadere anche a me... E mi è piaciuto interpretare il punto di vista di una donna facilmente giudicabile».
Al Pride c’era anche sua nonna. Su Instagram c’è un video in cui ballate assieme. Che tipo è?
«Nonna si chiama Marise Victorine, è una donna complessa, e io le somiglio. È molto rigida, una rigidità dettata dal vissuto, lei ha messo dei paletti per non far avvicinare troppo le persone nei momenti di fragilità. Anche io faccio così. Poi lei ha una visione precisa della sua vita e di come una donna deve essere al mondo. Dice “fa quello che vuoi, la tua strada cercala, sii libera”».
Con il divorzio dei vostri genitori, i problemi che c’erano in famiglia, lei e sua sorella siete praticamente cresciute da sole. Lei ha detto che «non si è mai sentita figlia».
«Non è che non mi sono mai sentita figlia. Ma a un certo punto ho detto vabbè, io sono figlia mia, padrona della mia vita. Non mi sono più sentita figlia. Ovviamente ho un legame con la mia famiglia, a volte la amo di più a volte di meno, è la normalità. Diciamo che è vero che non mi sento figlia, ma mi sento tanto frutto loro. Non li vorrei diversi da quello che sono perché sarei diversa io. Su certe cose mi viene da rimproverarli e su altre mi viene da dirgli bravi».
Per cosa li rimprovera? E per cosa li ringrazia?
«Sono stati molto onesti e molto egoisti».
Lei è molto schietta, è anche egoista?
«Io nel corso della mia vita sono stata egoista, altrimenti probabilmente avrei fatto spazio per un’altra persona, che invece non c’è».
Il diritto all’egoismo per le donne è nuovo?
«È importantissimo, è anche il diritto a esser scorretti. Per capire cosa è giusto o sbagliato devi sbagliare, non puoi solo leggerlo nei libri. Abbiamo diritto a non essere sempre gentili, brave, dolci, mai sboccate… Devi darti la possibilità di avere difetti per poter essere onesta e provare a limarli, i difetti, se li neghi no, non ci puoi lavorare».
Un primo piano intenso di Elodie con uno dei tanti look che l’hanno caratterizzata. Capelli lunghissimi, corti, rosa, platino, neri...
Ho letto che una delle sue letture preferite è Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, la storia d’amore tra il signor Darcy ed Elizabeth, che vince l’orgoglio e i pregiudizi di classe...
«Austen l’ho letta al liceo, poi ho visto il film, bello, a me piace tutto quello che è in costume, quel vecchio modo di parlare, lontano da come parlo io che sono irruenta; mi piace come si prendevano tempi lunghissimi per parlarsi, incontrarsi e innamorarsi. Ero affascinata da questo amore che era evidente e palese nell’aria, ma lontano».
Qual è la persona più simile al signor Darcy che ha conosciuto nella sua vita?
«Forse non l’ho mai conosciuto un signor Darcy, tra l’altro l’ho sempre associato a Colin Firth, al personaggio del Diario di Bridget Jones, che è la versione pop di Austen. Però non ho mai incontrato questa tipologia di uomo inglese, elegante, che fa tutto per la donna che ama senza mostrarsi».
Cosa sta leggendo ora?
«La danza della realtà (di A. Jodorowski, ndr)».
Tra i suoi grandi crucci, c’è il non aver dato l’esame di maturità, ricorda quel momento?
«Che follia, era maggio, a un mese dall’esame mi ritiro, con giustificazioni stupide, tipo: non ho bisogno di farmi giudicare, inizierò a lavorare... In realtà avevo paura del rifiuto, di non essere all’altezza, di esser bocciata. Bisogna lavorare sulla paura del rifiuto. L’insuccesso fa parte dell’impegno, senza impegno non c’è successo e allora bisogna accettare che il fallimento fa parte del successo».
Della scuola ha qualche bel ricordo? Compagni di classe, professori...
«C’era una professoressa, di latino e storia, Rossella Riccioni, non l’ho mai più incontrata, una donna molto decisa, sapeva da quale parte stare, era eccentrica e io ero innamorata di lei. Aveva una visione sana delle cose e poi aveva una sua follia e le persone folli sono le più interessanti».
Follie. A 19 anni lei lascia Roma, va a Lecce e convive con un uomo più grande di lei.
Finirà male. Come vi eravate conosciuti? «Per caso, era amico di una amica. Mi piaceva come sfogliava il giornale. Mi sono innamorata di una movenza, niente di più. Si dice il colpo di fulmine, poi a ritroso non me lo ricordo quasi».
Forse le ricordava il signor Darcy...
«Esatto, un uomo elegante, molto elegante. C’era qualcosa di familiare... Ma aveva troppi problemi irrisolti, e io i miei, ne abbiamo fatto una matassa e ne siamo usciti male. Io peggio, ero più piccola di 15 anni. Ma da lì ho imparato che devo iniziare da me: è un errore scappare senza risolvere i problemi, li ritrovi sotto un nuovo nome».
Comunque sta facendo un grande spot per la lettura dei giornali, almeno tra i maschi. Da domani, tutti a leggerli, con eleganza...
«Beh, per me l’uomo colto è sexy».
Cos’altro la colpisce di un uomo?
«Lo sguardo che trema, la sua verità animale, quello colpisce. Deve esserci un mix».
A Lecce si manteneva come cameriera e poi cubista, il mestiere che da piccola rinfacciava a sua madre. Poi in un locale incontra Mauro Tre, che la riavvicinerà alla musica, da cui si era allontanata, anche per alcuni insuccessi alle selezioni di X Factor.
«Ricordo che non cantavo da anni, ero in questo locale a Lecce, a fine serata non c’era nessuno, stavano facendo una jam session e ho detto quasi quasi mi faccio una cantata, la canzone credo che fosse Ain’t no sunshine e lui mi dice sei pazza, cantiamo insieme, conosci il jazz? E io no... e poi da lì mi sono infarinata di musica, sono stata a casa sua, lui suonava il piano, io cantavo, ho iniziato a scoprire cose nuove, anche la mia voce, che prima non mi piaceva, in quell’abito jazz mi piaceva. È stato il mio primo amore anche per la mia voce. È stato un bel momento con Mauro. Che è stato un padre e un maestro».
Suo padre, musicista di strada, era geloso?
«Mio padre e io in quel momento eravamo molto distanti. Con la mia famiglia all’epoca non avevo molti rapporti, quello con Mauro a Lecce è stato un momento mio, personale».
Poi arriva Amici, Sanremo, le canzoni in testa alla classifica... e l’incontro con Fabio Bartolo Rizzo, in arte Marracash, che nel 2019 canta con lei nel video di Margarita. Era già amore?
«Durante il video il flirt era già vero. È stato molto forte con Fabio: l’effetto che mi ha fatto lui nella vita non me l’ha mai fatto nessuno. È animalesco, ha quel tormento animale, e poi mi stupisce quante cose sa e quante me ne ha insegnate nel tempo. È elegante, era molto bello vederlo scrivere le sue canzoni. Ed è stato l’essere umano che più mi ha agitato. C’erano paura e desiderio, ci studiavamo ed era difficile acciuffarci. Molto difficile. Molto molto. Difficile. Sì. Difficilissimo».
Nel video del 2021 di Crazy love con Marracash vi sfidate a scherma fino all’ultimo sangue. L’epilogo reale però non è stato così violento...
«Come ha detto lui di recente, ci vogliamo molto bene, abbiamo un rapporto non convenzionale, che esiste, è molto forte, complesso».
State trasformando l’amore in amicizia?
«Per il momento è complicato. Io in questo momento provo tanto amore e non mi interessa come poi si trasformerà, ma so di esserne più cosciente. Quando le cose sono difficili, sono cose per gli adulti. Certe volte scappi, ma io l’ho già fatto nella mia vita, questa volta ho deciso che voglio essere adulta e fare quello che veramente sento e non quello che è più semplice».
La scena finale è ispirata a una performance di Marina Abramovich. Lei, Elodie, tende la corda di un arco puntata su Marracash: non temeva che potesse partire la freccia?
«In quel momento c’era fiducia».
Elodie, vi ricordate questa foto? Bomba di Dagospia: "Avevamo ragione, oggi...", quale testa salta. Libero Quotidiano il 14 aprile 2022.
Cambio look per la cantante Elodie, ma anche cambio stylist. La regina della trasformazione colpisce ancora. La romana, amata per le sue hit ma anche per i suoi look provocanti ha deciso di cambiare un elemento del suo team. La sua stylist. Il suo abbigliamento non sarà più quindi curato da Ramona Tabita che le aveva creato l’ultimo look per il videoclip della canzone Bagno a Mezzanotte. La stilista oltre a essersi occupata finora della cantante, veste anche Sabrina Ferilli e Bella Thorne.
L’ultimo video del singolo che ha fatto cantare tutta l’Italia ha fatto impazzire il web. La si vede ballare sinuosa come non mai e questo non è di certo passato inosservato ai suoi fan che tanto l’hanno apprezzata. Ma tanti altri anche criticata dandole della “smandrappata”. Lei aveva risposto sui social: “Non mi sento offesa. Io sono una donna libera, mi piace il mio corpo e mi piace mostrarlo. Ho fatto la cubista tanti anni, sono abituata, me ne hanno dette di tutti i colori”.
L’ex del rapper Marracash, dopo aver partecipato nel 2009 a XFactor, esordisce nel 2016 ad Amici, programma che l’ha portata al successo e dove si è classificata al secondo posto e vincendo il Premio della critica giornalista Vodafone e il Premio RTL 102.5. Da quel momento la cantante è entrata nel cuore del pubblico e ogni suo pezzo crea tendenza. Chi è quindi il nuovo stylist della romana? Si è affidata a Lorenzo Posocco, stilista che cura anche la cantante internazionale Dua Lipa. I fan non vedono quindi l’ora cosa di ammirare cosa Posocco creerà per lei.
Elodie: «Mi arrabbio spesso, perché mi difendo. L’amore? Credo sia bello condividere la vita, senza progettare troppo». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2022.
La cantante è appena uscita con il singolo Bango a mezzanotte e si mette a nudo sul suo passato, sul suo presente e anche sul suo futuro.
«Dove le parole falliscono, parla la musica». È una frase di Hans Christian Andersen. All’autore di mille fiabe meravigliose, così come ai fratelli Grimm o a George Sand, sono intitolate molte strade del quartiere di Roma dove Elodie Di Patrizi è nata e vissuta. Si chiama Quartaccio e nacque negli anni Ottanta con l’ambizione di costituire un modello urbanistico di quartiere vivibile nella periferia della città. Ma quel lembo di Roma diventò rapidamente complicato, perché la città era scucita.
Dice Elodie ora: «L’emarginazione è totale, quando sei emarginato è una condizione fisica, sociale, psicologica. E più cresci e più diventa difficile interagire con il resto della società perché ti sentirai sempre un po’ fuori posto. È come entrare in un negozio di lusso e avere la sensazione che non è il tuo luogo, che non ti senti a tuo agio».
Elodie appartiene a una generazione musicale che non è la mia. Io ho conosciuto e amato i cantautori. E più erano complicate le loro parole, più magici i mondi che descrivevano e più noi eravamo rapiti. Ora, come si dice, la musica è cambiata. In meglio, in peggio, chi può dirlo. Per questo cerco di capire il personaggio di Elodie, che ha un suo mistero, con lo stesso spirito e la stessa curiosità, si parva licet, con cui ricordo Enzo Biagi e Sergio Zavoli intervistare Gianni Morandi o Rita Pavone. Ora è uscito un nuovo singolo di Elodie, «Bagno a mezzanotte», e ha appena girato il suo primo film, per la regia di Pippo Mezzapesa. Dice: «Devolverò tutti i guadagni del brano a Save the Children. Voglio aiutare le donne e i bambini coinvolti in questa guerra assurda. Almeno cerco di essere, nel mio piccolo, utile in questa tragedia».
Elodie ha fama di essere reattiva, di perdere le staffe facilmente, di reagire duramente se attaccata. Io ho visto, forse mi sbaglio — le prime impressioni sono sempre solo una sensazione — una persona orgogliosa e fragile. Orgogliosa di avercela fatta. Orgoglio legittimo per chi non è nato e cresciuto nella bambagia, per chi la fatica di vivere l’ha incontrata presto. Lei li chiama «contesti un po’ più complicati». Ma poi aggiunge che anche lì «...tutto è possibile se c’è impegno, se c’è amore, se c’è rispetto e se sei in grado di sognare. Sembra una cosa per i bambini, ma i bambini sono molto più adulti degli adulti. Loro sanno cosa significa diventare adulti, avere un obiettivo, edificare un futuro e non rimpiangere un passato. Devono fare, non hanno fatto. Ho imparato che si può realizzare quello che si vuole nella vita. Nessuno ci può imporre dove dobbiamo stare, in quale contenitore essere. Nessuno ci può inchiodare al posto dove siamo nati, dove siamo cresciuti. Nessuno può decidere che noi dobbiamo essere emarginati per tutta la vita. È una condizione che ho sofferto. Ma poi ho lottato, mi sono difesa. Non mi sono fatta attribuire un destino da altri».
Questa ragazza sa che il successo non è per sempre, in questo tempo frettoloso: «Ho sempre paura che quello che ho costruito nel tempo mi venga tolto da un giorno all’altro. Con quest’ansia convivrò sempre. Ognuno convive con i propri mostri. Questo è il mio». Le chiedo da dove nasca la fama di essere suscettibile. «È vero, mi arrabbio spesso. Mi arrabbio perché mi difendo. Mi rendo conto che ci sono dei meccanismi difensivi che però ormai sono troppo grande per utilizzare. In realtà uso la rabbia perché mi sento fragile. Sono grande, ho trent’anni e quando mi sento ferita, ma anche da cose che apparentemente sono niente, reagisco comunque con rabbia. Mi difendo subito, ho paura di non essere presa sul serio, ho paura di non sembrare intelligente, cerco di difendere la mia posizione, sempre. Talvolta esagero e mi scuso».
I suoi genitori si sono separati quando lei e sua sorella erano bambine. Ne parla con tenerezza, dice: «...ho sempre visto i miei genitori come essere umani... ho sempre cercato di capire chi avevo di fronte, di confrontarmi con i limiti che abbiamo tutti, io per prima. Ho cercato di prendere le cose per come erano, anche se non era facile». Però poi aggiunge: «Non mi sono mai sentita figlia. Anche oggi faccio sempre un po’ fatica a capire cosa veramente mi renda così reattiva, quasi animalesca. È la paura della solitudine, banalmente. Credo che ce l’abbiamo un po’ tutti, io mi sono sentita tanto sola nella mia vita». Le chiedo che rapporto abbia con le case, come luogo di rifugio o come prigione: «Io vivo da sola da dodici anni, forse qualcosa di più. Negli ultimi anni mi sono trasferita a Milano e mi sono resa conto di aver cambiato una casa ogni anno. Dalla prima volta in cui sono andata a vivere da sola, a diciannove anni, ho fatto tantissimi traslochi fino a trovare l’appartamento dove vivo ora. Per me le case sono sempre state dei luoghi da lasciare. La mia vita era fuori dalla casa, non l’ho mai sentita mia, non ho mai sentito una vita tra le mura. Conta sempre l’imprinting, nella vita. Adesso, dalla pandemia in poi, ho capito invece quanto sia importante un luogo sicuro, dove tutto sia familiare, dove sentire calore».
Le chiedo se sia single, so che ha avuto una lunga storia con Marracash, uno dei protagonisti di quella che ora viene chiamata, chissà perché, «la scena musicale»: «Credo sia bello condividere la vita. Senza progettare troppo, perché a me la progettazione mette tensioni. Rende definitivo ciò che invece deve essere vissuto e costruito. Progettare troppo non è il mio forte, però credo che sia bello condividere». Le chiedo quando ha cominciato a cantare. La immagino bambina tosta, al Quartaccio. O forse solo bambina, tra quelle strade con i nomi da fiaba: «Avrò avuto undici anni. Il primo “concerto” in assoluto è stato il battesimo di mia cugina, in cui ho cantato un pezzo di Mina e uno di Battisti. Erano i primi brani che ho imparato a memoria Grande, grande, grande e Amarsi un po’. Ho ascoltato tanta musica dei cantautori e tanto pop. La prima ti cura, si preoccupa di farti più bello, migliore, ti fa crescere. Come leggere un libro. L’altro l’ho sempre visto come un modo per rimanere piccoli, bambini. Il pop è un modo per giocare, ti fa venire voglia di essere altro da te, di immaginare, ti fa sognare. La prima canzone che ho ascoltato e mi ha colpito è stata Sally di Vasco Rossi. Ero sul pullman scolastico per andare in gita, e mi ricordo l’effetto dirompente. Non so, c’era un prima e un dopo aver ascoltato quel pezzo musicale. Non accade tante volte, nella vita. E non sai, non saprai mai, perché».
Com’era Elodie negli anni delle gite scolastiche? «Al liceo volevo solo diventare grande, ero stanca di essere adolescente. L’adolescenza non l’ho vissuta con rispetto, l’ho detestata moltissimo. A scuola ero rispettata perché ero molto attenta agli altri, molto protettiva anche nei confronti della classe, dei professori che amavo. Però un po’ spaventavo perché ero molto aggressiva, ho sempre esposto i miei pensieri con molta veemenza. Diciamo che non lasciavo correre e le cose le dicevo in modo abbastanza diretto». Le chiedo quando si è resa conto di essere bella. Perché Elodie è bella: «La bellezza è molto legata al modo in cui mi sento come donna, a come cammino per strada, a quanto sono orgogliosa di me, quanto mi piaccio. Ci sono stati momenti in cui mi sono piaciuta molto: al liceo mi sentivo bellissima perché mi piacevo io, mi piaceva il mio carattere, mi sembrava di avere personalità e questo mi faceva sentire bella. Poi ho avuto momenti in cui sono stata più triste, a vent’anni, mi sono rasata, ho pensato che fossi troppo legata all’estetica, al voler sembrare bella e quindi ho cercato di spostare lo sguardo degli altri all’interno di me. Per alcuni anni mi sono disinteressata del mio aspetto. Ora invece lo curo molto, perché sono anche più equilibrata. Mi piaccio esteticamente perché mi piaccio anche io. Penso di essere una brava persona. E in più sono vanitosa, mi piace, in questo momento della mia vita. Mi diverte anche essere leggera».
Le racconto di aver visto un tweet di una ragazza che ha scritto: «Oggi mi sono svegliata carina, poi ho visto Elodie...».«Scherzano... È evidente che io sono una delle artiste italiane che gioca di più sulla fisicità, anche sulla sensualità. Spingo molto su quel linguaggio che non è il mio linguaggio quotidiano. Quello è il mio alter ego». Trattengo, quando il collegamento si spegne, l’immagine di una persona fragile e intensa. Mi viene in mente una frase scritta proprio da Hans Christian Andersen, quello del Quartaccio: «Limitarsi a vivere non è abbastanza. C’è bisogno anche del sole, della libertà e di un piccolo fiore
Alberto Dandolo per Oggi del 13 gennaio 2022.
Vacanze da "single" per Elodie alla Maldive. La cantante ha trascorso il Capodanno al mare con la sorella Fey. Tanto relax e poco social. Dell'ultima fiamma (Davide Rossi) dopo la fine della storia d'amore con Marracash nessuna traccia. Si riuniranno a Milano? Ah, saperlo...
Da leggo.it il 27 gennaio 2022.
Elodie e Marracash non sono più una coppia. La cantante italiana è di nuovo single e al settimanale «Grazia» racconta il perché della fine della loro storia.
La cantante «nata» nel programma di Amici di Maria De Filippi, sarà comunque presente nella copertina del nuovo disco di Marracash. La loro storia, infatti, è finita proprio nei giorni di preparazione del nuovo album del rapper.
«Per me lui continua a essere famiglia. Come mai è tra noi è finita? Le crisi sono le mie, ma poi le subiscono anche gli altri di riflesso». Elodie parla così a Grazia, per la prima volta, della fine della sua storia d'amore.
«E adesso sono single. Non ci poteva essere spazio per un bambino, sarebbe venuto al mondo da una spinta vitale pazzesca, ma sai quanti problemi avrebbe avuto», ha dichiarato la cantante.
«Ora come ora io ho solo bisogno di stare da sola con me stessa. E comunque che cosa significa che sono la 'tua' fidanzata, che significa che quello è il 'mio' ex? Io odio le regole che impone la coppia e anche in questo Fabio è come me. Non c’entra la questione della fedeltà, se io mi sento libera, posso darti tutto, forse addirittura troppo», ha concluso Elodie.
Dagoreport il 12 marzo 2022.
La decrescita infelice che tutto permea ci ha imposto un downgrade anche nello showbusiness. Guardatevi intorno: in tv, sui set, nei teatri, dalla “celebrità” siamo precipitati alla più modesta “notorietà”.
Siamo circondati da “vipponi” da reality, da gorgheggiatori della hit estiva, da attorini da serie tv low cost. Divetti dal successo fragile, divosi dell'effimero, soprattutto poco strutturato. La telecamera s’accende, il pubblico deve applaudire, il conto corrente gonfiarsi. Fine. Altro, nella “notorietà”, non è contemplato altro che: un soggetto, un verbo, un complimento... Figuriamoci le critiche.
Sì, le critiche. Quelle che le celebrità di un tempo, ben consigliate da astuti press agent, incassavano con una scrollata di spalle, un sorriso, un vattelapijànderculo magari. Ma erano in grado di maneggiare i commenti velenosi, le perfidie, le frecciatine della carta stampata. Che poi rappresentano l’unica, vera, seccatura del successo.
Oggi chi è affetto da notorietà, malattia prepuberale del successo, si dimena, scalcia, s’infuria se nel coro di follower adoranti qualcuno spernacchia. Come osa, l’infame? È un affronto, quasi lesa maestà. È capitato con la cantante Emma, ad esempio. Quando il critico tv Davide Maggio, vedendola esibirsi a Sanremo, scrisse: “Se hai una gamba importante eviti di mettere le calze a rete”, successe il finimondo.
“È bodyshaming”, tuonarono tutti.
Indignazione istantanea dei ragioneri della morale, pensosi editoriali a difesa del “corpo delle donne”. I follower di Emma, fiutando l’odore del sangue, andarono a vendicarsi sugli account social di Maggio praticando contro di lui un bodyshaming elevato a potenza, gravido di odio. Condanne furibonde dispensate a colpi di tweet, coccole alla “vittima” Emma, benedizioni finali, andate in pace.
Di quell’episodio cosa resta? Davide Maggio mosse una critica, e per questo fu travolto da una tempesta di liquame. Aveva ragione? Non ci interessa. Ognuno ammiri le cosce che merita.
La domanda che conta è: aveva diritto a esprimere la sua opinione? Certo, certissimo, certamente! Come ha fatto questo disgraziato sito commentando la clip dell’ultima canzone di Elodie, “Bagno a mezzanotte”.
Un brano come tanti, di facile beva, di quelli da ascoltare in macchina mentre si sfreccia verso Capocotta per uno spaghettino a vongole “Dar Zagaia”. Una roba così, senza impegno. Ci siamo dedicati con più attenzione al video.
Elodie, forse per nobilitare un brano loffietto, lo ha compensato sguainando le chiappe divise da un perizoma interdentale. Benissimo, vivaddio! Chi ha un corpo da urlo, lo mostri. Non saremo noi ad opporci. Anche perché i moralismi non sono nel nostro dna.
Abbiamo solo fatto notare il look da “panterona smandrappona”. Dove “smandrappona” (derivato da “smandrappata”), come precisa la Treccani, significa “mal vestita”. Poderosa sintesi: abbiamo scritto che Elodie, pur gnocchissima, s'era conciata così così.
Sapete come ha reagito la cantante, che ha fatto la cubista per tanti anni? Ha consegnato ai social questo sfogo: “Non mi sento offesa, sono una donna libera. Mi piace il mio corpo, mi piace mostrarlo. Mi dispiace che la libertà femminile metta in crisi questi uomini piccoli, confusi, spaventati. Io so’ sfacciata e lo sarò sempre. All’estero è normale, se andiamo a prendere i video di 30 anni fa di Madonna, è normale. Non c’è niente di male. E comunque non si scrivono certe cose, è proprio da vili”.
“Vili”, “piccoli”, “confusi”? Ah Elodie, ma chi te conosce?! Ma che stai a dì? Abbiamo ironizzato sul tuo look, sostenendo fosse un modo furbetto per dare spessore alla tua canzoncella frou frou. Che la chiappa, l’erotismo, il corpo, siano condimento dello spettacolo, Dagospia lo racconta ogni giorno da più di vent’anni.
Scendi dal piedistallo bacchettone dove ti hanno piazzato i tuoi follower, le copertine patinate e le interviste concordate. Non diventare una di quelle che invoca lo scudo ideologico della “difesa del corpo delle donne”. O etichetta tutto come “sessimo” o “machismo” solo perché incapace di gestire una critica. Di queste paraculaggini da "body-scema", anche basta. Rivendichi di essere una “smandrappa orgogliosa” e poi ci accusi di essere “vili”. Ripristiniamo la connessione tra logica e cervello.
L'Ego-latrina è una brutta bestia. Chi è sotto i riflettori accetti le critiche, le osservazioni sgradite, anche le più innocue, le più goliardiche. A colpi di consenso social si rischia di trasformarsi in divinità egizie intoccabili. E lo scriviamo soprattutto a quelle teste di cocco che strepitano per la libertà di stampa negata dalle autarchie e poi in Italia invocano bavagli, censure, chiusure per le testate sgradite.
Ps: come ha fatto notare “Repubblica”, abbiamo rimosso dal titolo il tanto contestato “smandrappona”. Che è un’inezia e come tale la rivendichiamo. L'abbiamo fatto per protesta.
Perché informare o fare satira dove soprattutto i giovani artisti linciano il dissenso, aizzano i loro follower, sono incapaci di un confronto dialettico, pretendono pigiamini di saliva dai media (e spesso li ottengono) è diventato faticosissimo. Così faticoso da averci smandrappato i cabasisi.
Elodie parla della rottura con Marracash: «Sono single. Lui continua a essere famiglia, ma non riuscivo a pensare a me e lui genitori». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2022.
La cantante, in un’intervista al settimanale «Grazia», ha ripercorso la storia d’amore con il rapper.
La fine della loro storia è stata anche immortalata nel videoclip di «Crazy Love» , brano dell’ultimo album di Marracash, ma per la prima volta è Elodie a parlare esplicitamente della rottura con il rapper: «Mi fa strano parlare di fine fra me e lui. Il nostro amore non è finito, si è trasformato. Fabio per me continua a essere famiglia. Le persone mica si dimenticano da un giorno all’altro». La cantante si è raccontata sul settimanale Grazia, in un’intervista alla scrittrice Chiara Gamberale. Ha detto di fidarsi della sua parte bambina: «È lei che fa tutto, quando salgo su un palco. Fabio è la sola persona con cui l’ho condivisa nell’intimità, è stato e rimane il compagno di giochi che mi era sempre mancato».
Elodie, 31 anni, ha aggiunto di essere attualmente single e di avere bisogno, per il momento, di stare da sola. Della relazione con Marracash ha aggiunto: «Non abbiamo mai vissuto insieme e non riesco a pensare a me e a lui genitori, è troppo assoluto quello che ci unisce, non ci poteva essere spazio per un terzo bambino, sarebbe venuto al mondo da una spinta vitale pazzesca, ma sai quanti problemi avrebbe avuto?».La cantante ha anche ammesso di avere «una sindrome dell’abbandono grande quanto me. Forse è per questo che, proprio quando mi sto per consegnare a qualcuno, faccio il disastro».
Dagotraduzione da Pagesix il 29 marzo 2022.
Elton John ha raccontato che nel 2009 avrebbe voluto adottare un orfano ucraino insieme al marito David Furnish, ma non gli è stato permesso a causa della loro sessualità. Il cantante di "Rocket Man" lo ha rivelato nel podcast di Dua Lipa, raccontando che gli è stata negata l'opportunità di adottare un bambino sieropositivo di 14 mesi di nome Lev.
«Ho portato in giro questo ragazzino per ore. Alla fine abbiamo tenuto una conferenza stampa e ci hanno detto: “Sembri molto affezionato a questo ragazzino. Penseresti di adottarlo?” e ho detto “Mi piacerebbe davvero!”», ha ricordato in "Dua Lipa: At Your Service" su iHeartRadio.
«Ma dato che ero gay, non mi era permesso comunque», ha detto. «Dopo che è successo, David ha detto: “Beh, cosa ne pensi dell'avere figli?”. Ho sempre detto di no, ma questo ragazzino mi diceva qualcosa. Stava dicendo "Dai, puoi essere papà", ed è allora che abbiamo deciso di avere figli per via di questo ragazzino in Ucraina».
La legge ucraina richiede che un genitore adottivo non abbia più di 45 anni, significativamente più giovane del cantante britannico, che all'epoca aveva 62 anni. La legge richiede anche che i genitori siano sposati, ma l'Ucraina non riconosce l'unione gay come matrimonio.
«Elton John non potrà adottare un bambino ucraino e se presenterà tale richiesta, sfortunatamente la rifiuteremo», ha detto all'epoca il ministro ucraino della Famiglia, della Gioventù e dello Sport Yuriy Pavlenko. «La legge è la stessa per tutti: per un presidente, per un ministro, per Elton John».
John, che ora ha 75 anni, e Furnish, 59 anni, hanno due figli: Elijah, 9 anni, e Zachary, 11 anni.
Elton John compie 75 anni: storia dei suoi amori, dall’ex fidanzata Linda all’unione con David Furnish (che dura da 28 anni). Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 24 Marzo 2022.
Le tappe della tormentata vita sentimentale dell’acclamata superstar britannica, che il 25 marzo festeggerà il suo 75mo compleanno.
La ex fidanzata Linda
«Voglio essere amato. La mia vita negli ultimi sei anni è stata un film Disney e ora devo avere una persona nella mia vita»: negli anni Settanta il giovane Reginald Kenneth Dwight (più tardi diventato famoso come Elton John) era ancora alla disperata ricerca dell’amore. Da ormai 28 anni il cantautore, oggi acclamata superstar britannica, ha trovato la stabilità così a lungo cercata accanto al suo amato David (con cui sicuramente, il 25 marzo, festeggerà il suo 75mo compleanno). Ma per anni ha lottato duramente per trovare la felicità. Prima di fare pubblicamente coming out negli anni Ottanta agli inizi della carriera ebbe una fidanzata, Linda Woodrow, menzionata nella canzone «Someone Saved My Life Tonight»: Linda aiutò Reg e il paroliere Bernie Taupin - soprattutto economicamente - quando ancora erano artisti sconosciuti. Lei ed Elton si sarebbero dovuti sposare ma, un mese prima delle nozze, John fece saltare tutto. «Mi svegliò, ubriaco, e mi disse che era finita - ha raccontato Woodrow, che conserva ancora l’anello di fidanzamento, al Daily Mirror -. Poi ha chiamato il suo patrigno perché venisse a prenderlo. È uscito e basta. Ero così scioccata. Lo amavo moltissimo e pensavo che mi amasse». Linda ed Elton si sono poi persi di vista per 50 anni, fino a quando nel 2020 lei gli ha chiesto pubblicamente aiuto per pagare alcune ingenti spese mediche (e il cantautore non si è tirato indietro).
Il primo amore: John Reid
Figura centrale nella scena musicale inglese degli anni Settanta John Reid, manager della Tamla Motown (seguì anche i Queen dal 1975 al 1978), incontrò per la prima volta Elton John - all’epoca ancora Reg Dwight - a Londra nel dicembre 1970, ad una festa di Natale dell’etichetta discografica (non a casa di Mama Cass a Los Angeles come mostrato nel film «Rocketman»). «Ricordo questo giovane alla moda e timido - ha ricordato Reid allo Scottish Daily Mail -. C'era una goffa dolcezza in lui. Era il mio primo grande amore, e io ero il suo». I due andarono subito a vivere insieme, e mentre la loro relazione sentimentale durò soltanto cinque anni, quella professionale continuò fino al 1998. Finì molto male: quell’anno i revisori dei conti di John scoprirono un ammanco di 20 milioni di sterline. Così il cantautore portò il suo ex manager in tribunale: «Mi fidavo di lui - disse il cantautore in aula -, non avrei mai pensato che mi avrebbe tradito, ma mi ha tradito». In seguito Reid e John si accordarono in via extragiudiziale.
Il matrimonio con Renate (e il coming out)
Intervistato da Rolling Stone, e interrogato a proposito della sua vita privata, nel 1976 Elton John si dichiarò bisessuale: «Non c'è niente di sbagliato nell'andare a letto con qualcuno del tuo stesso sesso. Penso che tutti siano bisessuali in una certa misura. Non credo di esserlo soltanto io. Non è una brutta cosa esserlo. Penso che tu sia bisessuale. Penso che lo siano tutti». Il coming out vero e proprio, sempre attraverso Rolling Stone, sarebbe arrivato soltanto nel decennio successivo, in seguito al divorzio da Renate Blauel: il pianista di Pinner aveva sposato l’ingegnera del suono tedesca, conosciuta durante la lavorazione dell’album «Too Low for Zero» (1983), nel 1984 - nel giorno di San Valentino - a Darling Point in Australia, dopo averle fatto la proposta durante una cena in un ristorante indiano. «Molti anni fa ho scelto l'Australia per il mio matrimonio con una donna meravigliosa per la quale ho tanto amore e ammirazione. Volevo più di ogni altra cosa essere un buon marito, ma ho negato chi ero veramente, il che ha causato tristezza a mia moglie e mi ha causato un enorme senso di colpa e rimpianto» ha raccontato John a proposito dell’unione, che in tutto durò quattro anni. Nel luglio 2020, per via dell’autobiografia dell’artista «Me» e del film «Rocketman», Blauel citò in giudizio il suo ex marito per violazione della privacy (un portavoce dell’artista ha poi fatto sapere, qualche mese dopo, che il caso si era risolto amichevolmente).
Elton e David, insieme dal 1993
«Ero tornato a casa mia a Windsor per un po' - ha raccontato qualche anno fa Elton a Parade -. Volevo incontrare nuove persone, quindi ho chiamato un amico a Londra e gli ho detto: “Potresti per favore invitare alcune persone nuove a cena qui sabato?”». Tra loro c’era David Furnish, ex dirigente pubblicitario (oggi regista), classe 1962. «Sono stato attratto da David immediatamente. Era molto ben vestito, molto timido. La sera successiva abbiamo cenato insieme». Da quel momento i due non si sono più lasciati: il 21 dicembre 2005 (giorno in cui entrarono in vigore le unioni civili nel Regno Unito) John e Furnish si unirono civilmente alla Windsor Guildhall, e quando nel 2014 fu reso legale il matrimonio tra persone dello stesso sesso si sposarono.
I due figli Zachary ed Elijah
«È fantastico essere papà. Ma dieci anni fa, se me lo avessi detto, ti avrei risposto che eri matto. Ho imparato che la capacità di amare di un genitore è infinita». A coronamento del loro amore Elton e David hanno avuto due figli tramite madre surrogata: Zachary Jackson Levon, nato in California il giorno di Natale del 2010, ed Elijah Joseph Daniel, nato l'11 gennaio 2013. «Entrambi desideravamo ardentemente avere figli, ma il fatto che ora abbiamo due figli è quasi incredibile - ha dichiarato la coppia a Hello! -. La nascita del nostro secondo figlio completa la nostra famiglia nel modo più prezioso e perfetto».
Rocket Man, la hit che fece litigare Elton John e David Bowie. Carlo Antini, Testi e musica le mie ascisse e ordinate, su Il Tempo il 24 marzo 2022.
Non era facile far infuriare David Bowie. Elton John ci è riuscito 50 anni fa, nell’aprile del 1972, quando pubblicò «Rocket Man». Le avventure del suo astronauta ricordavano molto «Space Oddity», la super hit del Duca Bianco uscita solo tre anni prima dalla mente dello stesso produttore. Bowie non riuscì a trattenere il fastidio. E durante una delle BBC Sessions lanciò una frecciata di fuoco all’amico Elton inserendo nel suo testo lo sfogo «I’m just a rocket man!». A buon intenditor...
La realtà, però, era ben diversa. Almeno a sentire il racconto dell’autore del testo, il paroliere Bernie Taupin, che ammise di aver pensato a «Rocket Man» per la prima volta nel 1971 durante un viaggio in auto verso la casa dei suoi genitori: «Avevo da poco riletto “Il gioco dei pianeti” di Ray Bradbury, la raccolta di racconti di fantascienza del 1951. Il mio preferito è sempre stato “L’astronauta” (The Rocket Man). La storia parla di un uomo che trascorre tre mesi alla volta nel suo razzo lontano dalla moglie e dal figlio. È combattuto. Vuole essere a casa con la famiglia ma, nello stesso tempo, adora vivere tra le stelle. Alla fine il suo razzo precipita nel sole». Il racconto di Bradbury ha tanti punti in comune anche con «Space Oddity», in effetti.
A onor del vero c’era anche un altro precedente. Un pezzo del 1970 scritto da Tom Rapp (dei Pearls Before Swine), e intitolato ugualmente «Rocket Man». Così, per non essere da meno, decise di scrivere un brano spaziale anche lui. «Ho iniziato a immaginare una canzone sulla fatica della vita da astronauta - ha svelato il paroliere - Mentre pensavo a come cominciare, la prima strofa è nata da sola: “She packed my bags last night, pre-flight zero hour 9 a.m. and I’m gonna be high as a kite by then”. Poi in un’intervista di qualche tempo dopo l’ammissione definitiva: «Io e Elton non l’abbiamo rubata a Bowie, l’abbiamo fregata a un altro ragazzo, Tom Rapp. Quando uscì il nostro pezzo, nell’aprile del 1972, quasi nessuno conosceva la canzone dei Pearls Before Swine. Così i critici indicarono “Space Oddity” come riferimento principale. Io, però, all’epoca non ascoltavo musica pop alla radio. Ascoltavo il blues di Chicago, il country e principalmente la musica americana».
Il resto è storia. Nell’aprile del ’72 «Rocket Man» divenne subito un singolo, raggiungendo la seconda posizione nel Regno Unito e la sesta negli Stati Uniti. Elton John riusciva finalmente ad abbracciare sonorità diverse. «Rocket Man» aprì un periodo nuovo e spianò la strada che avrebbe portato il musicista britannico a coprire oltre il 2% delle vendite dei dischi mondiali nel 1975. Il mito di «Rocket Man» è proseguito fino a oggi attraverso mille cover e il recente omonimo film biografico diretto da Dexter Fletcher e uscito nelle sale solo tre anni fa. La pellicola, vincitrice del premio Oscar per la miglior canzone, narra la vita di Elton John (che il 25 marzo compirà 75 anni) a partire dalla Royal Academy of Music fino ad arrivare agli anni Ottanta. Nella colonna sonora anche «(I’m gonna) Love me again» composta appositamente per la pellicola e cantata in duetto dal cantante con l’attore Taron Egerton.
«La frase di “Rocket Man” che mi ha sempre colpito è “Just my job five days a week” (soltanto il mio lavoro cinque giorni a settimana, ndr) - ha detto Elton John in occasione dell’uscita del film - Questo ragazzo normale è bloccato lassù e vorrebbe essere a casa. Più volte mi sono sentito così sul palco: mi piaceva stare lì ma volevo tanto tornare a casa e, nello stesso tempo, sapevo di non essere più in grado di vivere una vita normale. Sono felice di essere diventato un cantante, è la cosa che amo fare di più al mondo. Ma all’inizio interpretare un personaggio che ti sei inventato può essere molto pericoloso e farti perdere di vista chi sei». Chissà se a David Bowie è bastato per perdonarlo davvero.
Anticipazione stampa da OGGI il 2 novembre 2022.
La conduttrice radiofonica e concorrente di «Ballando con le stelle» Ema Stokholma svela a OGGI, in edicola da domani, come la trasmissione l’ha cambiata nel profondo: «Faccio un percorso in analisi da tanti anni e mi sono resa conto che c’era un muro: non accettavo la mia immagine. I tatuaggi, i capelli rosa sono un modo per nascondere il mio corpo... in poche settimane è cambiato tutto. È come se avessi scoperto di avere un corpo, una postura, una sensualità».
Poi parla dei traumi infantili, con una madre inadeguata che la picchiava: «Mia madre non c’è più e non mi ha mai chiesto scusa, non c’è motivo di perdonarla. Ho preferito capirla, provare empatia per lei. Perdonare vorrebbe dire: ok, riparto da zero, invece no. Io mi ricordo tutto quello che è stato fatto a me e a mio fratello. Ma ora so che anche lei era una vittima, non stava bene».
E le difficoltà del passato: «Ho fatto la squatter, dormivo nelle case occupate, perché ero stanca di seguire le regole della società, ho toccato il fondo e poi mi sono detta: basta, voglio andare dove c’è la luce, dove c’è l’aria, voglio respirare. Non mi perderò mai più».
Infine, guardando al futuro, confida a OGGI: «Essere single è l’unico modo per essere felici. Non ho bisogno di niente, sono indipendente, è difficile per me fare entrare qualcuno in questo paradiso che mi sono costruita, che è la mia vita». E poi: «Mi sono pentita di avere fatto i tatuaggi, sto cercando di cancellarli tutti, anche se sarà impossibile. Se posso dare un consiglio, non fateli».
Ema Stokholma: «Invecchiare mi fa sentire sempre più forte». Greta Privitera su Il Corriere della Sera l'8 Febbraio 2022.
La domanda è gigantesca: che cos’è per te la forza oggi? Le risposte intense: «La forza è il sapere», dice la filosofa Francesca Rigotti; «La mia forza è invecchiare», continua la conduttrice radio e tv Ema Stokholma; «accettare le debolezze», per l’arbitra Clara Munarini; «tenere presente che molte cose sono effimere», per la comica Michela Giraud. Sono solo alcune delle risposte che ascolterete nella nona puntata di Fortissime - il podcast di Barbara Stefanelli, vicedirettrice vicario del Corriere della Sera e fondatrice con Luisa Pronzato de La 27Ora, e Greta Privitera, . Questa puntata parte dalla domanda che ha dato inizio al nostro viaggio nel teatro della Triennale di Milano, durante il Tempo delle Donne: «Che cos’è la forza?». Lo abbiamo chiesto a donne molto diverse tra loro, per età, lavoro e sogni. Alla risposta ci siamo arrivate dopo un percorso a tappe: siamo passate dalle origini delle loro vite, dalle battaglie che hanno combattuto e dai desideri che le hanno guidate fino a qui . Le loro storie ci hanno aiutato a esplorare il mito della forza che è un fragile e sorprendente equilibrio tra mente e muscoli - cuore compreso. La scrittrice Rossella Postorino, tra le protagoniste di Fortissime, non è sicura di sentirsi ancora forte, ma sembra aver capito che cosa sia per lei esserlo: «La capacità di capire davvero in maniera autentica quali sono i miei più profondi desideri, accettando che alcuni sono stati realizzati e altri forse non si realizzeranno mai», ci dice. Quindi, forza è anche accettare che non tutto vada come speriamo, forza è anche accogliere la debolezza. A questo punto interviene quella che per noi è stata una mentore, ispiratrice di questo viaggio, l’accademica e marzialista Alessandra Chiricosta: «Il Tai Chi Chuan mi insegna che la debolezza è una gran forza. La debolezza spesso è una capacità di farsi cavo, cioè rimanere in ascolto di una forza altrui, in modo tale da capirla bene in tutte le sue manifestazioni e saperla trasformare». Ascolterete le voci e le storie di Francesca Rigotti, Ema Stokholma, Clara Munarini, Mara Navarria, Antonia Rinaldi, Carmen Leccardi, Amalia ed Elvina Finzi, Rosella Postorino, Michela Giraud e Alessandra Chricosta.
Emanuela Fanelli: «Facevo la maestra d’asilo, a 36 anni recito con Virzì». Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.
L’attrice, arrivata al successo (anche social) con il programma Una pezza di Lundini, è tra i protagonisti di Siccità. «Cornuta, apatica ma poi...»
Emanuela Fanelli, 36 anni, ha debuttato a teatro. È nel cast di «Siccità», ultimo film di Paolo Virzì. Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia sarà nelle sale dal 29 settembre
Uno degli ultimi post Instagram di Emanuela Fanelli, 36 anni, attrice diventata virale con il programma di RaiDue Una pezza di Lundini, la ritrae sul Red Carpet della Mostra del Cinema di Venezia. Vi ha sfilato perché recita in Siccità, il nuovo film di Paolo Virzì presentato fuori concorso, nelle sale dal 29 settembre. Nella didascalia si schermisce: «Ecco le mie foto Getty Images con annessi ringraziamenti per dimostrare che anche io faccio parte dello sciobiz e non dormo da piedi ma soprattutto per farmi canzonare dagli amici, primo fra tutti Valerio Lundini».
Ma come Fanelli, ormai è un’attrice affermata, non mi dica che non si sente a suo agio nel glamour.
«Invece glielo dico. A Venezia avevo paura di sembrare fuori luogo, ma grazie a Paolo e al resto del cast (in cui ci sono Monica Bellucci, Max Tortora, Valerio Mastandrea ndr ), questa esperienza si è trasformata in un grande campo scuola. La visione in sala del film è stata bellissima».
È il debutto sul grande schermo?
«No, il primo ruolo me lo ha dato Claudio Caligari in Non essere cattivo. Però è il primo dopo la popolarità televisiva ed è stato un regalo. Negli ultimi due anni sono stata conosciuta soprattutto per i pezzi umoristici, non sono nella fase in cui dico “questa dell’allegria è una maschera, ora voglio farvi commuovere”, ma sono felice di aver interpretato un personaggio che non fa solo ridere».
La sua Raffaella in Siccità , film su una Roma sconvolta dalla mancanza d’acqua in cui si intrecciano varie storie, è una rampolla di buona famiglia annoiata e depressa, che, al momento del bisogno, mostra risorse inedite
«È un gran personaggio. Sembra la peggiore di tutti, ma non lo è affatto. È cornuta, apatica, poi tira fuori una grande vitalità che la cambia».
È stato difficile passare dal registro comico a quello drammatico?
«No. La mia preoccupazione era non far sembrare Raffaella una matta. Sarebbe stato ingiusto perché somiglia a tutti noi. Molti rinchiudono le proprie crisi in una dimensione privata, lei le fa uscire. Non ha paura della continua ricerca di affetto».
Ha avuto un successo tardivo, a più di 30 anni, come mai?
«Ho sempre sognato di fare l’attrice, ma non ho mai avuto il coraggio di buttarmici. Ho iniziato a studiare teatro al laboratorio del mio liceo: il classico Marco Tullio Cicerone di Frascati. Lo frequentavano i fighetti e allora mi sono convinta. A quell’età si teme il giudizio altrui, ero contenta “facesse figo”. Il mio insegnante aveva una compagnia e ho cominciato a lavorare con lui. Non ho più smesso di fare spettacoli».
Perché la sua carriera non decollava?
«Perché la recitazione non era la mia carriera. Pensavo che il mondo dello spettacolo non avesse un disperato bisogno di me. Non mi cercavo un agente, figura fondamentale. Poi, come in un filmetto americano, una sera del 2015 a una serata di stand up comedy a Testaccio, mi sono sentita bussare alla spalla da colei che poi è effettivamente diventata la mia agente e ho iniziato a lavorare in un altro modo».
È vero che ha fatto la maestra d’asilo?
«Per 10 anni, prima ho fatto anche la cameriera e l’educatrice ai campi estivi. Ma questo è il mestiere che ho amato di più. Non era il sogno, come la recitazione, ma mi è piaciuto tanto e mi ha aiutata come attrice. Con i bambini devi essere te stessa, ma metterti sempre in discussione. Sentono se stai facendo con loro qualcosa che a te non piace. Così il pubblico capisce se stai interpretando un ruolo che non è tuo».
Deve essere stato uno spasso averla come insegnante
«Ero quella buona e simpatica a cui i bimbi confidavano le marachelle. Mi divertivo a raccontare le storie con un finale diverso, li facevo ridere. Sono ancora in contatto con tanti di loro, ormai sono grandicelli. È stato un periodo bello, molto stancante. Stavo tutto il giorno a scuola e la sera recitavo in teatro».
Le battute e i personaggi di Una pezza di Lundini da due anni sono virali sui social. Se lo aspettava?
«No, perché non li ho inventati con quel proposito. Io, in tv e al cinema, faccio solo ruoli che mi piacciono, senza altri scopi, però ne sono felice. Simonetta, la truccatrice della Magnani o l’agente scelto Marilena Licozzi erano nella mia testa da tanto tempo, poi ci ho lavorato con gli autori Giulio Somazzi e Valerio Vestoso. Nascono dalle fissazioni del nostro tempo: la body positivity a tutti i costi o l’idea di portare avanti battaglie senza capirci troppo. Molti comici sono diventati famosi grazie ai social, ma sono piattaforme che non ho mai sentito vicine. Non mi viene di mettermi da sola in una stanza a premere Play per riprendermi con il telefonino».
Rec...
«Ecco appunto, mi confondo. Non è proprio roba mia. Quando faccio cose che non mi somigliano è come se mi vedessi da fuori e scoppio a ridere».
Però Chiara Ferragni ha utilizzato un suo sketch per convincere i follower a votare i Maneskin all’Eurovision .
«Chiara Ferragni mi è molto simpatica ed è bravissima nel suo, ma per quelle stories ho ricevuto una valanga di messaggi di congratulazioni. C’è chi mi ha scritto “sono felice, te lo meriti davvero”. Non ho avuto riscontri così nemmeno per il ruolo con Virzì. Questo la dice lunga sui tempi in cui viviamo».
Sul lavoro è secchiona?
«Molto. Nel privato sono disordinatissima».
Ambiziosa?
«Vorrei diventare sempre più brava e alzare l’asticella. Da sola non è semplice, devi avere qualcuno che ti permette di farlo. Siccità è stato una grande occasione».
È anche bella, ma sembra non crederci troppo.
« Me difendo, dai. Però è vero, è una dote su cui non ho mai investito. Pure da adolescente puntavo sulla simpatia. Forse ho paura che non venga preso in considerazione quello che faccio».
Così però si sminuisce.
«La verità è che io prendo molto sul serio il mio lavoro. Non mi piace arrivare in ritardo o impreparata, ci tengo a restituire al regista la parte che vuole. Sono una frana nella promozione. A me non viene da fare la foto in camerino con #newproject. Anche qui mi faccio ridere, ma è un problema mio. Chi lo fa non sbaglia. L’unica cosa che davvero non sopporto è la mitomania, mi spaventa. Per questo la esorcizzo con i miei personaggi».
Un’ultima domanda...
«Non mi chiederà mica se ho il fidanzatino»
Ha il fidanzatino?
«Eddai! Ma avete tutti paura che non mi sistemi?» .
Ha un sogno?
«Vorrei fare ogni anno un programma come Una pezza di Lundini e un film con Virzì. Vorrei non farmi prendere dalle lusinghe e che questo momento durasse per sempre. Ci vuole molta pazienza».
Marco Menduni per “Specchio – La Stampa” il 25 aprile 2022.
La carriera di Emanuela Folliero prende il volo quando la sceglie Silvio Berlusconi dopo un provino. La predilige per il sorriso rassicurante e non solo. «Mi hanno spiegato - racconta- che gli piacqui perché ero leggermente strabica».
Ancora oggi ci ride su: «Potrò avere tanti altri difetti, ma non sono mai stata strabica. Ancora oggi mi chiedo perché Berlusconi abbia detto così. Forse ero così concentrata sull'obiettivo che lo sarò sembrata davvero». Fatto sta che da quel momento in poi la Folliero diventa uno dei volti più noti del piccolo schermo. Annunciatrice, un ruolo che il tempo ha man mano cancellato dalla tv. Ma allora era un marchio distintivo della Fininvest. Poi diventerà la regina di Retequattro.
«Nel 1990 non ero una sprovveduta. Avevo studiato dizione, ero già stata in passerella, ero stata presentatrice di Telenova. Eravamo in settanta al provino. Alla fine della settimana, il venerdì, Berlusconi decideva tra una rosa che i suoi collaboratori avevano già scremato». Giura: «Mi presentai con una giacca e una camicia chiusa fino all'ultimo bottone». Ci scherza un po', sulla sua prorompenza: «Sicuramente non fu quella ad agevolarmi, avevo nascosto tutto!».
Ma ora non è l'occasione di guardare troppo all'indietro: «Pochi giorni fa ho letto una mia biografia e mi sono detta: quante cose ho fatto, ma neanche me le ricordo.
Mai cullarsi nel passato».
Oggi Emanuela Folliero è una dominatrice dei social. La sua pagina Instagram ha più di 300mila follower e lei sforna foto a getto continuo.
«Ovviamente non c'è solo questo - racconta ancora - perché lavoro sempre in tv. Certo, non come ai tempi in cui la gente era abituata a vedermi tutti i giorni, in cui ero un'abitudine quotidiana. Sono ospite in diversi programmi, ho degli sponsor per i quali lavoro. Ho ricevuto ancora proposte televisive. Le sto valutando, alcune mi allettano altre no».
Scrive per due periodici, «uno che parla di benessere, mentre sull'altro rispondo alle lettere più svariate. Questo contatto diretto con le persone fa parte di me, della mia persona». L'universo dei social le dà grandi soddisfazioni: «È anche una grande fonte di contatti lavorativi, mi sono adattata a questi nuovi linguaggi e mi diverto, moltissimo».
Un recente episodio le ha confermato la forza di questo tipo di comunicazione. Una disavventura. Qualche settimana fa, uscendo dal parrucchiere, è inciampata su una buca del marciapiede ed è caduta rovinosamente, infortunandosi a una gamba. L'immagine di lei a terra, dolorante, finisce su Instagram.
«Ovviamente non l'ho scattata io. L'ha fatta il mio amico parrucchiere, che mi ha pregato: Emanuela, non sei la prima a cadere per colpa di quella buca ma nessuno fa nulla, per favore, se ne parli tu magari qualcosa succede».
Quello che Emanuela evidenzia ora è l'immediato riscontro: «In poche ore la notizia del mio capitombolo e la relativa fotografia erano su tutti i siti d'informazione del web.
L'hanno letta tutti. Ho avuto la riprova: ci ritroviamo tra le mani un mezzo di comunicazione straordinario, per il suo impatto e per la sua immediatezza».
Così prosegue su questa strada: «Con due amiche, Giulia e Deborah, stiamo preparando dei programmi a pillole sui social. Con un grande senso di libertà. Faccio io le mie scelte, se va bene bene, se no amen». Alle sue scelte personali ha sempre tenuto moltissimo: «Coniugare la vita lavorativa con quella privata è una scommessa e da giovane avevo altre priorità.
Non date spazio alle persone che vi bloccano nei sogni e nelle aspirazioni. Tagliatele. L'indipendenza di una donna fa la sua libertà e io allora volevo un lavoro che mi piacesse e che realizzasse, appunto, la mia indipendenza economica». La famiglia? «Non rimpiango niente, niente. Ho avuto un figlio in età adulta. Ognuno di noi ha i suoi tempi e ne sono contenta. Ho anche voluto che avesse il doppio cognome e ci sono riuscita».
Emanuele Fasano, il «pianista della Stazione», torna con il nuovo singolo dopo anni di oblio. Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2022.
A Natale 2015 aveva 21 anni: suonò in Centrale e il video ebbe 6 milioni di visualizzazioni su Facebook. Il primo contratto, poi la rottura con la casa discografica. Ora ci riprova con «Note in tempesta».
Il «pianista della Stazione» oggi suona sul mare in tempesta. E prepara un futuro da compositore e cantautore. Sette anni fa, nel 2015, Emanuele Fasano era un ventunenne indeciso se iscriversi all’università. «Studiavo pianoforte e componevo, sentivo che il mio destino era quello, ma non ne ero ancora certo. Poi quel giorno, alla stazione, mi ha fatto capire che dovevo fare questo nella vita». Era l’antivigilia di Natale ed Emanuele, diretto a Roma dal papà Franco (autore di brani indimenticabili: «Ti lascerò», «Mi manchi», «Io amo»), si sedette al pianoforte della Stazione Centrale e suonò una sua composizione. La gente si fermava ad ascoltarlo. Un passante riprese tutto e lo postò su Facebook: il video arrivò a sei milioni di visualizzazioni. Da lì fu un crescendo: nel giro di pochi mesi il primo contratto discografico, il disco d’esordio «La mia ragazza è il piano» e un’ospitata a Sanremo Giovani nel 2017. Poi il declino.
Il giovane pianista sparisce dalle scene e arriva anche la rottura con la casa discografica. Per un paio d’anni si trasferisce a Barcellona. Ora, per la gioia dei fan, è tornato a Milano e ricomincia con un nuovo singolo il suo primo videoclip. Il brano «Note in tempesta» è uscito nei giorni scorsi su Spotify e sulle altre piattaforme. Il video, che ritrae Emanuele mentre suona su una barca al largo di Alassio, sotto una pioggia battente, è stato prodotto da Lorenzo Bramati (che ha girato anche per Blanco, Salmo, Fedez).
«Ho scritto il brano alcuni anni fa in Sardegna, mentre ero ospite su una barca. Nel luglio del 2020 l’abbiamo incisa e una settimana fa è uscito il singolo, dedicato a Marco, un carissimo amico che oggi non c’è più, ma che mi ha presentato a Bramati» racconta Emanuele. Per girare il video c’è voluta una notte intera. «Ho suonato per dodici ore, sulle onde e sotto la pioggia. Poi, l’alba dorata che si vede nel video. Ho preso un bel respiro, ho capito che sarebbe uscito un lavoro bellissimo e che era una nuova alba anche per me: dovevo riprendere in mano me stesso e il mio percorso musicale». La strada è ancora lunga. «È difficile che una major investa un budget grosso per un pianista pop. Con la società di Lorenzo, la “Filetto” stiamo cercando investitori. Sono convinto che anche ai ragazzi che ascoltano la trap possa arrivare la mia musica».
I fan hanno risposto con entusiasmo: in pochi giorni 140 mila visualizzazioni. «Inoltre continuerò con i concerti: la mia forza sono i live, dove il suono del pianoforte è pulito, non mediato». Quel piano che è sempre lo stesso, lo Yamaha bianco della sua casa di Rodano, regalatogli dal papà.
Eminem compie 50 anni: 7 cose che non sapete di lui. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022.
Il rapper americano fra difficoltà e successo, fra dipendenze e accuse di misoginia
Le rime velocissime
Compie 50 anni Eminem, uno dei rapper più importanti al mondo, artista bianco capace di affermarsi in una cultura musicale nera, scoperto da Dr Dre e conosciuto fin dagli anni 90 per i testi che oscillano fra ironia e dolore, contenuti spesso violenti, e la velocità micidiale del suo flow. Nel 2020 con il brano «Godzilla» Eminem ha battuto il suo record personale, rappando 10,65 sillabe in un secondo e 300 parole in 30 secondi
L’infanzia traumatica
Eminem è il nome d’arte di Marshall Bruce Mathers III. Il rapper è nato il 17 ottobre 1972 da una coppia di musicisti rock che ben presto si sono separati. Durante l’infanzia, lui e la madre Debbie si sono spostati più volte fra il Missouri e Detroit, vivendo in situazioni di fortuna e in precarie condizioni economiche. Nei sobborghi neri di Detroit Marshall fu spesso picchiato e bullizzato (di un episodio in particolare racconta in «Brain Damage»), ma i rapporti difficili furono soprattutto con la madre, con cui litigava frequentemente.
Le dipendenze
Proprio al pessimo rapporto con la madre (protagonista, fra le varie cose, della celebre «Cleaning out my closet» e non certo in termini lusinghieri) Eminem attribuisce almeno in parte la responsabilità per i suoi anni di abusi di sostanze. Il rapper fu dipendente da vari tipi di pasticche: «Viaggiavo al ritmo di 20 pillole al giorno, fra Vicodin, Valium e Ambien. Ormai non le contavo più, perché erano così tante che nemmeno sapevo distinguerle». Tentò di ripulirsi una prima volta nel 2002, ma i suoi eccessi con le pillole continuarono, nel tentativo di curare l’insonnia, e lo portarono anche a un forte aumento di peso.
Il tentato suicidio
La vita di Eminem è stata una lotta continua per la sopravvivenza e per il riuscire ad affermarsi anche quando tutte le circostanze gli remavano contro. E tutte queste difficoltà si riversano nella sua musica. Da giovane, uno dei momenti più bui lo portò anche a un tentativo di suicidio: nel 1997 aveva perso il lavoro, gli sforzi di avere successo con l’hip hop non stavano andando a buon fine, il rapporto con la fidanzata di allora, Kim, da cui nel 1995 aveva avuto la figlia Hailie stava andando male e così Marshall provò a togliersi la vita.
L’overdose
Nel 2007 Eminem fu ricoverato per un’overdose di metadone: secondo i medici aveva ingerito l’equivalente di quattro sacchetti di eroina e se non fosse stato soccorso, sarebbe morto nel giro di un paio d’ore. Da lì a poco i suoi tentativi di disintossicarsi presero fortunatamente una piega positiva, iniziò a correre e fare esercizio fisico e fu aiutato nei suoi sforzi di restare pulito da Elton John che lo chiamava una volta a settimana per sapere come andasse. Dal 2008 il rapper non fa più uso di sostanze
Il successo
Poco dopo il periodo buio, arriva il successo: «My name is» lancia Eminem verso l’Olimpo dell’hip hop, il suo disco «The Marshall Mathers LP» (del 2000) diventa l’album rap con le vendite più veloci di sempre, «The Eminem Show» nel 2002 rompe tutti i record dell’anno. Fra premi e primati, arriva anche un Oscar con «Lose Yourself», colonna sonora del film «8 Mile» di cui il rapper è anche protagonista. È la prima canzone hip hop della storia ad aggiudicarsi la statuetta.
Le accuse di misoginia
I testi di Eminem hanno spesso scatenato controversie e accuse di razzismo, omofobia o misoginia. A finire nel mirino, oltre alla madre, è stata spesso la storica fidanzata Kim, poi sposata, protagonista di più di un brano: il rapper nelle sue rime vagheggia di ucciderla, mentre nella vita reale il dolore per queste parole portarono la donna a tentare il suicidio. L’unica persona per cui Eminem ha sempre pensieri positivi nei suoi brani è la figlia Hailie.
Emma e il docu «Sbagliata - Ascendente leone»: «Ho accettato la malattia ma viviamo in un medioevo bigotto». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 29 Novembre 2022
Esce su Prime Video il documentario sulla vita della cantante. «Ho perso le ovaie. Bisogna sapere reagire, ma per farlo bisogno essere informati. Io ho congelato gli ovuli per il diritto ad avere un figlio»
«L’ascendente l’ho scoperto su internet. Non ci capisco nulla di queste cose ma suonava bene nel titolo e nel testo del brano della colonna sonora... Ecco, ancora una volta rispondo in maniera naturale, senza nessuno che mi dice cosa è meglio dire... sono fatta così». Emma in una frase, quella del titolo del documentario «Sbagliata - Ascendente leone» e quella della risposta al perché di quel titolo. Il docu esce oggi su Prime Video e lei non l’ha ancora visto. Troppe emozioni a giudicare dalla voce che le si rompe spesso nel raccontare questi due anni e mezzo di vita.
Quella pubblica di «X Factor», del tour estivo in epoca di prudenza pandemica («Sono un capitano che non abbandona la nave: la mia squadra aveva bisogno di lavorare»), della serie con Muccino e di Sanremo. E quella privata in cui la si vede felice in famiglia o con gli amici attorno a una tavolata o con il bicchiere in mano («Sono conviviale e una brava cuoca»), in lacrime quando racconta della sua malattia, soprattutto di quel terzo intervento che proprio non si aspettava di dover fare. «Non sono l’unica donna ad aver perso le ovaie in giovane età. Bisogna saper accettare ma anche reagire. Per reagire però devi essere informato e sapere che puoi intervenire prima, nei casi come il mio ad esempio per conservare i tuoi ovuli. La medicina ha fatto passi da gigante ma viviamo in un medioevo bigotto in cui il diritto di avere un figlio è visto come egoismo e non come un atto d’amore».
Non si tiene sassolini nelle scarpe. «Ho imparato a non far salire le persone sul carro dei vincitori, lo vedrete quando tornerò a brillare nel mondo della musica». Non pare una carriera offuscata... Ecco ancora la Emma «sbagliata», quella che si sente sempre «a disagio, mai giusta». «Non voglio parlare della scomparsa di papà, ma ho vissuto un periodo di m... e più che una percezione che arriva dal pubblico ero io a non sentirmi al massimo nella musica». Nel docu la si vede lavorare a nuove canzoni. «Sarà una bomba, gli amici cui ho fatto sentire qualcosa dicono che canto in maniera diversa, meno potenza e più tonalità medio basse ma anche falsetto. Con quello che è successo mi sono allontanata un po’ dall’arte e ho ripreso da poco. Spero di non ricevere pressioni da chi continua a chiedermi un disco: devo imparare a camminare da zero».
Emma Marrone: "Ho conservato il mio tessuto ovarico per diventare madre senza un uomo". Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 16 Novembre 2022.
Le dure parole della cantante e attrice per come in Italia vengono trattate le donne: "Ne conosco tante che si sono dovute trasferire all'estero per concepire un figlio da sole. Non siamo libere di gestire il nostro corpo. Questa è una violenza""
Emma Marrone su Twitter ha scritto che su 8 miliardi di persone che ci sono al mondo, nessuno vuole fidanzarsi con lei. Ma intanto scopriamo che la cantante e attrice salentina ha pronto un piano B: anni fa ha voluto far conservare il proprio tessuto ovarico per poter diventare madre anche senza un compagno. L'artista lo ha confidato in una intervista a Vanity Fair in cui ha affrontato, tra l'altro, il tema delle madri che decidono di diventare tali da sole. Una questione che in Italia è ancora molto spinosa. Ovviamente, nel corso dell'intervista si è parlato anche del suo docu-film in uscita, ma le dure parole della cantante sui diritti delle donne hanno colpito nel segno, facendo subito il giro del web.
"Non siamo libere di gestire il nostro corpo"
"Viviamo in un Paese in cui una donna per avere un figlio da sola deve andare all'estero perché la fecondazione assistita non è prevista", ha detto la cantante 38enne. "Non puoi andare dal tuo ginecologo e chiedere il seme di un donatore perché vuoi un figlio, nemmeno quando hai 40 anni e sai benissimo che l'amore della tua vita non lo troverai presto", ha spiegato Emma. "Quante donne perdono la fertilità a 40 anni per la leucemia e non c'è un medico che spiega loro la conservazione degli ovuli? E cosa ti rispondono? Se Dio non lo vuole, allora non va bene", ha aggiunto. "Non siamo libere di gestire il nostro corpo e questa è una violenza", ha sottolineato l'artista.
"Ho conservato il mio tessuto ovarico"
L'ex giudice di X Factor ha rivelato poi di avere "conservato il mio tessuto ovarico" per poter diventare madre senza bisogno di un uomo. Una decisione che, secondo Emma, non dovrebbe essere vincolato all'esistenza di una figura maschile stabile nella vita di una donna. "Mi infervoro su questi argomenti perché conosco tante donne che si sono dovute trasferire all'estero per concepire un figlio da sole. Perché qui bisogna essere costrette a fare un figlio solo con un uomo".
Donne e lavoro
Infine, un parere anche sulla condizione lavorativa delle donne: "In Italia, poi, un uomo studia e può raggiungere una posizione di potere, una donna fatica il doppio e viene messa in dubbio alla prima maternità. Questa, ripeto, è violenza", ha detto Emma.
Il docu-film
Come detto, nel corso dell'intervista Emma ha parlato anche di Sbagliata ascendente Leone, il documentario sulla sua vita diretto da Bendo, il duo composto dai registi Lorenzo Silvestri e Andrea Santaterra, che sarà su Prime Video dal 29 novembre. Le immagini sono accompagnate da un brano inedito scritto appositamente. E la cantante promette: "Mi amerete ancora di più".
Emma, il dramma privato: "Troppo arrabbiata con la vita". Libero Quotidiano il 27 novembre 2022
"Adesso che lui non c'è più sono un'altra persona": Emma Marrone, ospite dell'evento "Luce!" a Firenze, è tornata a parlare della morte di suo padre Rosario, scomparso due mesi fa. La cantante, nel frattempo, ha detto addio ai lunghi capelli biondo platino ed è tornata al suo colore naturale, il castano, preferendo un taglio molto più corto. "Sono troppo arrabbiata con la vita in questo momento - ha detto Emma intervistata sul palco -. Quando succedono queste cose così enormi e tragiche, è come se si resettasse tutto quello che sei stata e che hai fatto".
"Io so chi ero quando c'era lui e tutta una serie di cose, ora è come se stessi ricominciando da capo - ha proseguito l'artista -. Adesso che lui non c'è più sono un'altra persona e lo sto vedendo ogni giorno. La vita ti cambia tutto all'improvviso e lo sto capendo. Sono appena nata".
L'emozione per Emma è stata tanta, soprattutto quando ha raccontato chi era suo papà Rosario: "Lo chiamavo Peter Pan perché non voleva mai crescere. Di lui ho sempre apprezzato la generosità. Faceva l’infermiere e quando qualcuno non riusciva ad andare in ospedale si recava di persona a casa a fare le medicazioni".
Emma Marrone perde il padre Rosario, il suo scopritore musicale. Cordoglio anche da Aradeo. L'artista pubblica sui social la scomparsa: «Fai buon viaggio Papà. Ti amo e ti amerò per sempre». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Settembre 2022.
«Fai buon viaggio Papà. Ti amo e ti amerò per sempre». E' con queste parole, pubblicate sul suo profilo Instagram, che la cantante salentina Emma Marrone ha oggi annunciato la scomparsa del padre Rosario. Scomparso nelle scorse ore all'età di 66 anni, era fortemente legato alla figlia, sia umanamente che artistico, visto il gene musicale a lei trasmesso. Rosario Marrone aveva infatti inserito la figli all'età di nove anni nei Karadreon e in qualche occasione anche negli H2O, gruppi dei quali era chitarrista.
Al messaggio di Emma Marrone pubblicato nelle prime ore di questa giornata sui social sono immediatamente seguite reazioni da parte di diversi personaggi del mondo dello spettacolo vicini all'artista. Tra questi Paola Turci, Andrea Delogu, Francesca Michielin che l'aveva affiancata a Sanremo lo scorso, così come l'ex compagno Stefano De Martino, che ha definito "vecchio lupo" l'uomo che aveva evidentemente conosciuto nel periodo della relazione con l'artista salentina conosciuta ai tempi della partecipazione al talent show Amici.
A rendere noto il lutto per la famiglia della cantante erano state le pagine social ufficiali del comune di Aradeo, la località in provincia di Lecce dove la famiglia Marrone viveva ormai da anni. Un comunicato, quello pubblicato sui social dal comune, che include le condoglianze del sindaco dell'amministrazione comunale.
CORDOGLIO DALLA CITTÀ DI ARADEO
«Ricordiamo Rosario per il suo impegno nella nostra comunità, come uomo di politica, ex amministratore e presidente del Consiglio nel nostro Comune. Un uomo eclettico, disponibile, forte e schietto che ricorderemo sempre con grande affetto». Così Giovanni Mauro, il sindaco del comune salentino di Aradeo dove è nato e vissuto il papà di Emma Marrone, esprime cordoglio sulla pagina ufficiale del comune per il lutto che ha colpito la cantante. «Ci stringiamo commossi" alla famiglia - scrive - «per l’improvvisa perdita del caro Rosario».
Morto il papà di Emma Marrone: “Ti amerò per sempre, buon viaggio”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Settembre 2022.
Rosario Marrone aveva una grande passione per la musica ed è stato il primo talent scout della figlia, tanto da portarla in giro ad esibirsi sin da piccola, diventato anche manager personale di Emma e ne ha seguito da vicinissimo la carriera.
Rosario Marrone, il papà della nota cantante Emma, è morto improvvisamente ieri sera a soli 66 anni, anche se le cause della morte non sono state rese note. “Fai buon viaggio Papà. Ti amo e ti amerò per sempre. La tua Chicca“, questo il messaggio pubblicato su Instagram dalla cantante leccese, che si trovata fuori per lavoro ed è rientrata di cosa di ritorno nel corso della notte in Salento.
Al messaggio di Emma Marrone sono immediatamente seguite le reazioni da parte di diversi colleghi e amici dell’artista, da Paola Turci ad Andrea Delogu, da Francesca Michielin insieme alla quale Emma ha partecipato all’ultimo Festival di Sanremo, a Stefano De Martino, che ha definito Rosario “un vecchio lupo“, a Elodie, attualmente a Venezia per la presentazione del suo primo film.
Ad annunciare il decesso è stato anche il Comune di Aradeo, nel Leccese, con un post su Facebook: “È con profonda tristezza che ci stringiamo commossi alla Famiglia Marrone, alla Presidente del Consiglio Clarissa Quido (la compagna del figlio Francesco, ndr) per l’improvvisa perdita del caro Rosario. Ricordiamo Rosario per il suo impegno nella nostra comunità, come uomo di politica, ex amministratore e Presidente del Consiglio nel nostro Comune. Un uomo eclettico, disponibile, forte e schietto che ricorderemo sempre con grande affetto. Ciao Rosario” si legge nel messaggio firmato dal sindaco Giovanni Mauro a nome di tutta la comunità.
Questa mattina si sono recati in tanti presso la casa della famiglia Marrone per portare il loro cordoglio, godendo di grande stima e affetto nel suo paese, dove era considerato da tutti persona sensibile e rispettosa. Non si è fatto attendere un comunicato di cordoglio dell’amministrazione comunale, di cui il papà di Emma era stato consigliere comunale, ricoprendo pura la carica di Presidente del consiglio comunale. Ruolo oggi appartenente a Clarissa Quido, che è la compagna del figlio Francesco, fratello di Emma. I funerali si svolti questo pomeriggio nella chiesa madre di Aradeo. Lascia la moglie Maria Marchese, i figli Emma e Francesco, ma anche il papà Leandro, tre fratelli e altrettante sorelle. Il 18 settembre avrebbe compiuto 67 anni.
Emma Marrone con il padre e la madre
Rosario Marrone è stato il primo talent scout della figlia, tanto da portarla in giro ad esibirsi sin da piccola, aveva una grande passione per la musica, tanto da aver fondato la band H2O ed essersi esibito in diverse occasioni con la figlia sul palco. Musicista per passione, era diventato anche manager personale di Emma e ne ha seguito da vicinissimo la carriera. Qualche anno fa, per “Amici Big” all’Arena di Verona, salì sul palco e la affiancò in un divertente fuori programma. “Il mio vecchio lupo“, era il modo simpatico con il quale Emma era solita chiamare il padre, che da anni è sposato con Maria Marchese, la mamma della cantante salentina.
La Direzione, redazione e collaboratori del Corriere del Giorno si stringono al dolore immenso che ha colpito Emma Marrone e tutta la sua famiglia. Redazione CdG 1947
Emma ai fan dopo la morte del papà Rosario: «È morto di leucemia. Il mio grazie all'ospedale di Tricase». E lancia un appello: «Diventate donatori di midollo». La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 settembre 2022.
«Ciao a tutti, ci tenevo a ringraziarvi innanzi tutto per l’amore che ci avete dimostrato in questi giorni così difficili e dolorosi». Comincia con queste parole il video postato da Emma su Instagram in cui spiega che il papà Rosario, scomparso a 66 anni, è morto di leucemia.
«Avrei anche voluto commentare tutti quei soggetti che stanno speculando sul buon nome di mio padre, tirando su le solite illazioni fantasiose e ignoranti sulla questione dei vaccini», sottolinea la cantante, maglietta nera, capelli raccolti, la voce rotta dalla commozione. «Mio papà da ottobre scorso stava lottando contro la leucemia e non smetterò mai di ringraziare il dottor Enzo Pavone e tutti i medici e infermieri dell’ospedale di Tricase nel reparto di oncologia che ci hanno seguito e aiutato in un momento così difficile».
«E a tutte quelle persone che in questi giorni mi stanno chiedendo 'che cosa possiamo fare per te?', rispondo ecco, qualcosa da fare c'è: andate sul sito di admo.it e informatevi su come diventare donatori di midollo perché questo Paese ha bisogno di più donatori. Aiutare gli altri vuol dire aiutare se stessi, più siamo più vite possiamo salvare nel minor tempo possibile. Ecco cosa dobbiamo fare tutti, per noi, per la vita. Grazie a tutti», conclude l’artista.
Emma Marrone in lutto per la morte del papà Rosario: chi era, lavoro, qualche ricordo e il bellissimo rapporto con la figlia. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.
Rosario Marrone si è spento a 66 anni. Infermiere di Aradeo, suonava e cantava in una band. Una passione per la musica che ha trasmesso alla figlia, che all’inizio aveva timore del palco
Lutto per la cantante
Si è spento all’età di 66 anni Rosario, papà di Emma Marrone. «Fai buon viaggio Papà - ha scritto la cantante sui social, condividendo una foto - Ti amo e ti amerò sempre». E poi si firma «La tua Chicca». Sono stati immediati i commenti dei fan con messaggi di affetto e vicinanza. Nella foto pubblicata da Emma Rosario Marrone suona la chitarra. Una passione di famiglia dunque quella per la musica, che è passata di padre in figlia. La notizia della sua scomparsa è arrivata anche dal comune di Aradeo, in provincia di Lecce, città d’origine di Rosario Marrone. I funerali sono in programma per il pomeriggio di lunedì 5 settembre, alle 17.00. Si svolgeranno nella chiesa madre di Aradeo.
Il lavoro in ospedale e la musica
Rosario Marrone nella sua vita ha trascorso molte ore sul palco, ma la sua quotidianità la viveva in ospedale. Era infatti un infermiere. Ha sempre dato tanto al lavoro ma non ha mai rinunciato alla passione per la musica. Faceva parte di un gruppo, gli H2O, di cui era il chitarrista e cantante. Fu lui in particolare a sostenere Emma agli inizi, aiutandola a sconfiggere quel naturale timore per le esibizioni. Qualche anno fa la cantante aveva ricordato gli inizi della carriera ed era stata diffusa una lettera in cui Emma si rivolgeva direttamente al padre: «Mi hai spinto a calci nel sedere tu sul primo palco. Mi hai insegnato tu a cantare davanti alle persone senza vergognarmi. Ti amo tanto».
L’impegno per la propria comunità
Nel comunicato stampa inviato dal comune di Aradeo, dove Rosario ha vissuto insieme alla famiglia, emerge il ritratto di un uomo che ha sempre voluto darsi da fare per il proprio territorio e per le persone che lo vivono ogni giorno. «È con profonda tristezza - si legge nel messaggio firmato dal sindaco Giovanni Mauro - che ci stringiamo commossi alla Famiglia Marrone, alla Presidente del Consiglio Clarissa Quido per l’improvvisa perdita del caro Rosario. Ricordiamo Rosario per il suo impegno nella nostra comunità, come uomo di politica, ex amministratore e Presidente del Consiglio nel nostro Comune. Un uomo eclettico, disponibile, forte e schietto che ricorderemo sempre con grande affetto. Ciao Rosario»
l messaggi di vicinanza, da Laura Chiatti a Stefano De Martino
Dopo la notizia, a Emma Marone sono arrivati tantissimi messaggi di cordoglio dai fan ma anche da parte dei suoi amici e dei suoi affetti. «Un bacio grande» le ha scritto Stefano De Martino, ex fidanzato della cantante. I due si erano conosciuti ad Amici nel 2010 e avevano dato vita ad una storia d’amore spesso al centro del gossip. In seguito si sono lasciati, ma hanno sempre continuato a volersi bene. Così non poteva mancare il suo messaggio, accompagnato anche dalle parole di altri amici. «Ti stringo, cara Emma» scrive Laura Chiatti. Chiara Ferragni commenta con un cuore, mentre Rocìo Morales le dice «Ti stringo amica».Così come Andrea Delogu, che aggiunge: «Per sempre». Un cuore arriva anche dagli Stadio e da tantissime altre persone, del mondo della musica e non solo.
Un punto di riferimento
Le cause della morte non sono state ancora rese note. Quello che è certo è che Rosario è sempre stato un punto di riferimento costante per Emma. A «Cè Posta per te» il papà della cantante aveva raccontato la sera della vittoria a Sanremo di Emma, nel 2012. In quel racconto aveva spiegato in cosa consiste quell’amore paterno che già manca alla famiglia. «La sera in cui Emma ha vinto Sanremo tornò in albergo alle 4 del mattino. Io e mia moglie abbiamo detto che quella non era ora. Io facevo l’infermiere in rianimazione e spesso non ci sono stato per Emma, ma non smetterò mai di essere suo padre. Anche se mi dicesse: Papà ma vaffa…, io sto sempre là». Così come continuerà ad esserci nei ricordi e negli insegnamenti, nella passione e nella forza che Emma ha imparato guardando il suo papà.
Emma Marrone a Maria De Filippi: “Torno a Sanremo pronta a ricevere critiche e amore. Ma il mio aspetto fisico non è più un problema". La Repubblica il 28 Gennaio 2022.
Dopo due anni da giudice a X Factor sentiva il bisogno di essere di nuovo giudicata. Ecco perché Emma Marrone torna in gara al Festival con un brano "bellissimo, ma super difficile da cantare". Per D, in edicola sabato 29 gennaio, si racconta, senza filtri, alla "signora bionda che le ha svoltato la vita": Maria De Filippi. Qui nell'inedita veste di intervistatrice.
La ragazza con la valigia è arrivata a Roma dal Salento su un treno notte, ricca di sogni e di «tre vestiti in croce», per affrontare il provino di Amici condotto da Maria De Filippi. Dodici anni dopo, è proprio la «signora bionda» che per prima le ha dato fiducia a intervistare per D Emma Marrone, che ricorda la vittoria di quel talent come l’inizio di una carriera ben oltre l’immaginazione – nella musica, ma anche al cinema e in tv – e che ora prevede una nuova tappa al Festival di Sanremo: dopo la vittoria del 2012, e il ruolo di presentatrice al fianco di Carlo Conti nel 2015, è infatti di nuovo in gara...
Da corriere.it il 9 febbraio 2022.
«Buongiorno a tutti dal Medioevo, il body shaming con il linguaggio politically correct, non so se è più imbarazzate o noioso»: così Emma Marrone, sul suo profilo Instagram, dopo le parole del blogger Davide Maggio che ha commentato il suo abbigliamento a Sanremo 2022 (un abito in pizzo nero con un paio di collant a rete): «Se hai una gamba importante eviti di mettere le calze a rete».
«Mi rivolgo soprattutto alle ragazze, a quelle giovanissime: evitate di ascoltare o leggere commenti del genere — dice nel suo video Emma —. Il vostro corpo è perfetto così com’è, dovete amarlo e rispettarlo e soprattutto dovete vestirvi come vi pare, sia che abbiate gambe importanti o meno.
Anzi, con le calze a rete abbinate anche una minigonna e mostratele queste gambe importanti. E questo mi fa rendere conto che la mia canzone («Ogni volta è così», sul palco dell’Ariston diretta da Francesca Michielin, ndr), oltre a essere bellissima, a quanto pare era necessaria a Sanremo perché è ancora necessario parlare di femminismo e di donne e del rispetto delle donne».
«Mi raccomando ragazze — continua Emma — non ascoltate questo genere di commenti. Siate orgogliose del vostro corpo e mostratelo per quello che è. Le persone si dimenticano che le parole hanno un peso specifico e un peso importante.
C’è chi le sa reggere e le vive con ironia e c’è chi purtroppo, soprattutto sui social, dove tutti parlano, giudicano, insultano, non si rendono conto che magari c’è qualcuno che legge ed è molto fragile e rischia di cadere in un buco nero senza fine. È davvero tutto molto imbarazzate. Io ora torno a fare un sacco di cose belle, ma era necessario per me dire questa cosa perché non si può più stare zitti di fronte al fatto che chiunque possa parlare di un’altra persona in un modo così scorretto».
Monica Caradonna per corriere.it il 9 febbraio 2022.
Emma Marrone, vittima o carnefice? Body shaming e shitstorm giocano a ping pong in un match che se fosse stato costruito ad hoc per lanciare la canzone sanremese di Emma - che parla sì d’amore ma soprattutto della condizione femminile - sarebbe stata una scelta di marketing che ha funzionato.
Ma a scapito di chi? Di Emma, forse; di Davide Maggio sicuramente, travolto dalla violenza verbale dei follower della cantante salentina che da ieri senza sosta sui canali social lo hanno aggredito con insulti ed epiteti.
Proviamo a ricostruire i fatti: durante il Festival della Canzone italiana il giornalista e critico di TV Davide Maggio è stato un riferimento nelle trasmissioni televisive e radiofoniche. Ha accumulato ospitate in Rai - dalla Vita in Diretta a Domenica In – fino alla presenza fissa come commentatore al fianco di Anna Pettinelli su Rds.
Ogni sera, al termine del Festival, Davide ha dato spazio per le pagelle sui look dei cantanti all’influencer Paolo Stella. Nel corso delle dirette notturne il giornalista e l’influencer hanno commentato in maniera ironica e talvolta goliardica gli outfit di cantanti e co-conduttirci, senza risparmiare le giacche glitterate di Amadeus.
Il commento di Davide sull’uso delle calze a rete sulle «gambe importanti» di Emma non è piaciuto alla cantante che ha inteso la definizione un’offesa al limite del body shaming.
Davide cosa hai combinato?
«Ho espresso un punto di vista a corredo del commento di Paolo Stella sul look di Emma dicendo che avrei evitato su una gamba importante delle calze a rete. Un mero commento personale sui look che sono frutto del lavoro degli stylist che, sempre a mio parere, non l’hanno valorizzata in quell’occasione».
Quindi hai insultato il suo corpo?
«Ecco il corpo qui non c’entra niente. Mi fa sorridere che mi si accusi di body shaming proprio tramite un social sul quale chi mi segue conosce bene le mie posizioni di totale inclusione nei confronti di qualunque – per dirla alla Drusilla Foer - ‘unicità’. Se Emma ritiene che una ‘gamba importante’ sia un problema, allora diventa tutta una questione di accettazione. Perché per me non lo è assolutamente».
Anche perché con la tua fisicità non saresti credibile a fare body shaming.
«Esattamente, proprio così. Parli con uno che è orgoglioso delle sue gambe importanti».
Emma però pare non la pensi come te. È stata estrapolata una parte della diretta tua e di Paolo Stella e ne ha tratto delle conclusioni...
«…affrettate, decontestualizzate e non corrispondenti alla realtà. Hai presente il gioco del telefono senza fili? È stata ripresa una parte del tutto. La sensazione più amara, tuttavia, e lo dico da giornalista, è che purtroppo la critica non abbia più diritto di cittadinanza nel nostro Paese; è la morte del senso critico. Si trattava di un commento a delle pagelle dei look fatte con un esperto di moda. Commento che mi è costato molto caro».
Cioè?
«Purtroppo ad Emma sarebbe bastata una telefonata chiarificatrice, invece, ha preferito etichettare l’accaduto come body shaming davanti ai suoi 5,5 milioni di follower che da ieri non fanno altro che offendermi, augurandomi anche la morte. Dalle me parti questo si chiama incitazione all’odio».
Vabbè come finirà questa storia?
«Dalle più grandi incomprensioni nascono i migliori rapporti… Ogni volta è così».
I PARACULI DEL BODYSHAMING: DICONO DI COMBATTERLO E POI LO PRATICANO CONTRO I "NEMICI". Dagonota il 10 febbraio 2022.
Quella che leggete di seguito è una rassegna sintetica delle offese rivolte a Davide Maggio, sul suo account Facebook, dalle truppe s-marronate di Emma, a cui il giornalista aveva mosso dei rilievi sull'outfit sanremese: “Se hai una gamba importante, eviti di mettere le calze a rete”.
L’elenco dà la misura di quanto la battaglia contro il body-shaming sia spesso strumentale e ideologica: si dice di contrastarlo e si finisce per praticarlo all’ennesima potenza contro “il nemico” di turno.
Chi vuole combattere i giudizi sul corpo non può nascondersi dietro il paravento paraculo di frasi come “chi la fa, l’aspetti”, “se l’è cercata”, “chi di spada ferisce, di spada perisce” altrimenti mostra ipocrisia e doppiopesismo, quello sì davvero “importante”.
- Manco il nero ti snellisce. Pachistano peloso. Se per bontà divina qualche donna l’hai avuta, è solo per il ruolo che ricopri"
- Ma che faccione hai?? Ma una maschera non puoi metterla? Facci sto piacere dai!!
- Panzone mettiti a dieta
- Ma ti sei visto, sí? Vai a correre e leva un po' di carboidrati, prima di fare il sommelier della figa
- Così decretò l'uomo dal girovita importante
- Ne approfitto per dirti che voi g..y e la vostra lobby avete proprio rotto in tutto e per tutto. In oltre ti invito ad ingoiarti la lingua, viperetta quale sei, prima di parlare di Emma
- Ma da quale pulpito ! Sembri un cesso a pedali
- Certo che ci vuole del coraggio a fare commenti sul fisico di altre persone quando con il proprio fisico ci si vergogna a mettersi in costume al mare
- Davide, te la faccio breve: Sai na sega delle cosce delle donne
- Pure le panze importanti andrebbero ridimensionate, non trovi?
- Ciao ciccione!
- Se hai una pappagorgia importante dovresti evitare certe immagini profilo
- Abbassa le mutande e vediamo se almeno lì sei importante
- Con una faccia importante come la tua bisognerebbe evitare di andare in giro senza sacchetto sulla testa
- Dovresti evitare di sì sparare cazzate... E mettere a posto quel fisichello da barba papà
- Davide Maggio ce l'ha piccolo piccolo piccolo
- Per non parlare del doppio mento che cerchi di camuffare con la barbetta
- Comunque se uno ha una stempiatura cosi importante non deve portare i capelli così lunghetti
- Pensa alla tua di firma fisica invece di criticare gli altri che sembri un tacchino
- U porco spiaggiato
Stefano Zecchi per “il Giornale” il 10 febbraio 2022.
Se noi andassimo in giro nudi, avremmo una disgustosa immagine di vermi, diceva il noto studioso di estetica Gillo Dorfles, che è stato anche mio professore all'università. Dunque, l'abito è il nostro stesso corpo e parla di noi: il nostro modo di vestire è il nostro linguaggio, e come ogni linguaggio può essere elegante o volgare, di buon gusto odi cattivo gusto, assolutamente normale o trasgressivo.
E molto altro ancora. Quindi se il prof. Zecchi si presenta in una trasmissione tv con una canottiera a vista e giacca di pelle nera con l'addobbo di una catenella al collo corredata da curioso pendaglio di civiltà indefinibile, chi già lo conosce dirà che si è bevuto il cervello, chi lo vede per la prima volta dirà che appartiene alla comunità di metallari... o qualcosa del genere.
Così come Emma è stata criticata dal giornalista Davide Maggio per le calze a rete usate a Sanremo, che a suo dire non donerebbero alle sue forme. Insomma, non c'è niente da fare: a chi ci osserva, la nostra immagine arriva prima delle nostre parole, perché la nostra immagine è un linguaggio che il più delle volte è maggiormente comunicativo delle stesse parole. Nei limiti della decenza e del rispetto dei luoghi (una chiesa è una chiesa, non un palcoscenico o una piazza; un tribunale è un tribunale, non una discoteca o il campo per un raduno rock; naturalmente, una scuola...), una persona ha il diritto di vestirsi come vuole, cioè usare il linguaggio con cui crede meglio esprimersi. Io osservo e così ascolto il linguaggio che quella persona mi comunica col suo abito sul suo corpo.
Posso permettermi di giudicarla? Supponiamo che una persona mi legga delle sue poesie. Posso permettermi di giudicarla? Certo, le dico che mi fanno schifo. Lei protesta; io le spiego qual è una vera poesia e perdo del tempo con l'analisi di una lirica di Leopardi. Sono in grado di farlo, e lei con un po' di umiltà potrebbe imparare. Invece va in giro, dicendo che l'ho voluto umiliare, frustrare nella sua creatività.
Per me può scrivere tutte le poesie che vuole, ma se le leggo, ho il diritto di dire che sono porcherie, e il mio giudizio non è soltanto estetico ma anche pedagogico, perché semmai qualcuno leggesse quelle porcherie, non pensasse che quella roba è poesia, sentendosi così in diritto di scrivere schifezze simili, ritenendole poesie. Naturalmente, il linguaggio poetico è più complesso del linguaggio di un abito sul nostro corpo, ma anche quest' ultimo è espressione di un significato che si inserisce in una struttura comunicativa. Dunque, riprendiamo la prima domanda a cui non avevo dato risposta.
Certo che posso giudicare il modo in cui si veste una persona: giudico il suo linguaggio, la forma della comunicazione, il suo significato. È evidente che ci sia modo e modo nel formulare il giudizio: ovvio che non può essere impositivo e moralistico, ma un giudizio estetico non solo si può esprimere, ma si deve pronunciare, proprio sotto il profilo pedagogico, perché l'educazione estetica è il fondamento dell'educazione sentimentale.
Quando si comunicano i propri sentimenti, questo processo avviene attraverso il linguaggio delle parole e il linguaggio del corpo: il controllo dell'espressione, affinché essa sia, per esempio, affettuosa o irritata, sentimentale o fredda, dipende dalla capacità di comprendere la qualità estetica del linguaggio che si usa.
La cantante desidera evidenziare le sue cosce? Padronissima di farlo e di suggerire a tutte le ragazze del mondo di seguire il suo esempio. Ma senza aggressività e inutile ironia posso dirle che con un abito diverso sul suo corpo poteva esprimere un linguaggio più bello. Non le interessa? Neppure a me interessa convincerla, proprio come nel caso della poetessa di prima, felice delle sue poesie che non capisce che sono porcherie.
C'è modo e modo, certamente: un giudizio, anche il più elementare, deve sempre essere rispettoso, e la persona che viene giudicata deve pretendere il rispetto. Ma una società non potrà mai prescindere dalla comunicazione dei suoi membri: la comunicazione è forma della società stessa, e il giudizio sul linguaggio della comunicazione di necessità diventa imprescindibile per la stessa struttura sociale. Affermare che non si può e non si deve giudicare, è un'ipocrisia.
Emma, Davide Maggio, le calze a rete e «le gambe importanti»: il solito refrain sul corpo delle donne che si doveva evitare. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.
La cantante risponde al blogger Davide Maggio: «Imbarazzante bodyshaming».
E ancora una volta siamo finiti lì, a parlare del corpo delle donne. Terminato il Festival di Sanremo, spente le luci dell’Ariston, restano alcune belle canzoni e una polemica che si doveva evitare. Durante la sera della finale, in una diretta Instagram, il giornalista e produttore Davide Maggio, titolare dell’omonimo blog, nel commentare il look dei cantanti si è soffermato su quello, elegantissimo, di Emma Marrone . Dicendo: «Se hai una gamba importante eviti di mettere le calze a rete».
Una sola frase ma che condensa un pensiero preciso, secondo cui, ancora oggi, è lecito dire cosa una donna può indossare e cosa invece è meglio che eviti, basandosi poi su canoni chissà da chi decisi ma interiorizzati al punto da farli diventare regola. Emma Marrone ha sintetizzato definendolo «il Medioevo». Lo ha fatto sui suoi seguitissimi profili social. Viso struccato e sguardo dritto in camera, ha detto: «Il body shaming con il linguaggio politically correct non so se è più imbarazzante o noioso». Poi, si è rivolta alle donne, «soprattutto alle ragazze, a quelle giovanissime: evitate di ascoltare e leggere commenti del genere, il vostro corpo è perfetto così com’è. Dovete amarlo e rispettarlo e dovete vestirvi come vi pare, sia che abbiate le gambe importanti o meno. Anzi, alle calze a rete abbinate una bella minigonna e mostratele queste gambe importanti».
Un messaggio chiaro, che è detonato in migliaia di commenti, molti dei quali rivolti contro il giornalista. Lei che su quel palco, nei giorni scorsi, aveva trovato già più volte il modo di mandarlo, parlando di femminismo con un gesto, attraverso la sorellanza con la sua direttrice d’orchestra, Francesca Michielin, ma anche nelle strofe della sua canzone (E ogni volta è così, ogni volta è normale. Non c’è niente da dire, niente da fare. Ogni volta è così, siamo sante o puttane). Una canzone che, ha aggiunto Emma, «oltre a essere bellissima, a quanto pare era necessaria in questo Sanremo. Perché è fondamentale parlare di femminismo, di donne e del rispetto delle donne. Quindi mi raccomando ragazze siate orgogliose del vostro corpo e mostratelo per quello che è, perché le persone si dimenticano che le parole hanno un peso importante: c’è chi le sa reggere, e le vive con ironia, e chi purtroppo, soprattutto sui social, dove tutti giudicano e commentano, rischia di cadere in un tunnel senza fine... era necessario per me dire questa cosa perché non si può più stare zitti davanti al fatto che chiunque possa parlare di un’altra persona in modo così scorretto».
Parole che non hanno convinto Maggio: «Mi fa tanta tenerezza — ha replicato —, punta sul body shaming per giustificare semplicemente una scelta di stile. Da lei proprio non me l’aspettavo. Anche perché sa benissimo che quando aizza i suoi fan... la shitstorm che scatena è ben più pesante di un commento estetico. Vergognati». Emma non lo ha fatto, così come i tanti che l’hanno sostenuta pubblicamente. Tra loro, Gabriele Muccino, che l’ha anche diretta nella sua ultima serie tv Sky, A casa tutti bene. Su Twitter, il regista ha scritto: «Gambe importanti?!. Ma chi sono questi uomini che si esprimono così?! Io sono uomo ma non riesco nemmeno a comprendere l’espressione. Dico sul serio. Con quale sguardo osservano il mondo?! Cosa vedono che io non vedo?! Sono piccoli uomini, Emma. Piccoli uomini parlanti».
? Gambe importanti?!?.
Ma chi sono questi uomini che si esprimono così?! Io sono uomo ma non riesco nemmeno a comprendere l?espressione. Dico sul serio. Con quale sguardo osservano il mondo?! Cosa vedono che io non vedo?! Sono piccoli uomini, Emma. Piccoli uomini parlanti.
Dello stesso parere Ermal Meta. «Penso che Emma abbia della gran belle gambe così come una schiena forte a reggere il peso dell’essere donna in un’Italia spesso medievale». Mentre la blogger e conduttrice Daniela Collu ha spiegato che le gambe della cantante sono davvero importanti, anzi «importantissime: l’hanno portata sui palchi di tutta Italia, di fronte a centinaia di migliaia di persone nel corso della sua carriera. Sono gambe fondamentali, la prossima volta le calze a rete mettitele d’oro...».
Emma si vesta come vuole. Ma pure la critica è un diritto. Stefano Zecchi il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il giudizio estetico su un abito, e non solo, è educativo e non lede alcuna libertà. L'abuso è volerlo impedire.
Se noi andassimo in giro nudi, avremmo una disgustosa immagine di vermi, diceva il noto studioso di estetica Gillo Dorfles, che è stato anche mio professore all'università. Dunque, l'abito è il nostro stesso corpo e parla di noi: il nostro modo di vestire è il nostro linguaggio, e come ogni linguaggio può essere elegante o volgare, di buon gusto o di cattivo gusto, assolutamente normale o trasgressivo. E molto altro ancora. Quindi se il prof. Zecchi si presenta in una trasmissione tv con una canottiera a vista e giacca di pelle nera con l'addobbo di una catenella al collo corredata da curioso pendaglio di civiltà indefinibile, chi già lo conosce dirà che si è bevuto il cervello, chi lo vede per la prima volta dirà che appartiene alla comunità di metallari o qualcosa del genere. Così come Emma è stata criticata dal giornalista Davide Maggio per le calze a rete usate a Sanremo, che a suo dire non donerebbero alle sue forme. Insomma, non c'è niente da fare: a chi ci osserva, la nostra immagine arriva prima delle nostre parole, perché la nostra immagine è un linguaggio che il più delle volte è maggiormente comunicativo delle stesse parole.
Nei limiti della decenza e del rispetto dei luoghi (una chiesa è una chiesa, non un palcoscenico o una piazza; un tribunale è un tribunale, non una discoteca o il campo per un raduno rock; naturalmente, una scuola), una persona ha il diritto di vestirsi come vuole, cioè usare il linguaggio con cui crede meglio esprimersi. Io osservo e così ascolto il linguaggio che quella persona mi comunica col suo abito sul suo corpo. Posso permettermi di giudicarla? Supponiamo che una persona mi legga delle sue poesie. Posso permettermi di giudicarla? Certo, le dico che mi fanno schifo. Lei protesta; io le spiego qual è una vera poesia e perdo del tempo con l'analisi di una lirica di Leopardi. Sono in grado di farlo, e lei con un po' di umiltà potrebbe imparare. Invece va in giro, dicendo che l'ho voluto umiliare, frustrare nella sua creatività. Per me può scrivere tutte le poesie che vuole, ma se le leggo, ho il diritto di dire che sono porcherie, e il mio giudizio non è soltanto estetico ma anche pedagogico, perché semmai qualcuno leggesse quelle porcherie, non pensasse che quella roba è poesia, sentendosi così in diritto di scrivere schifezze simili, ritenendole poesie.
Naturalmente, il linguaggio poetico è più complesso del linguaggio di un abito sul nostro corpo, ma anche quest'ultimo è espressione di un significato che si inserisce in una struttura comunicativa. Dunque, riprendiamo la prima domanda a cui non avevo dato risposta. Certo che posso giudicare il modo in cui si veste una persona: giudico il suo linguaggio, la forma della comunicazione, il suo significato. È evidente che ci sia modo e modo nel formulare il giudizio: ovvio che non può essere impositivo e moralistico, ma un giudizio estetico non solo si può esprimere, ma si deve pronunciare, proprio sotto il profilo pedagogico, perché l'educazione estetica è il fondamento dell'educazione sentimentale. Quando si comunicano i propri sentimenti, questo processo avviene attraverso il linguaggio delle parole e il linguaggio del corpo: il controllo dell'espressione, affinché essa sia, per esempio, affettuosa o irritata, sentimentale o fredda, dipende dalla capacità di comprendere la qualità estetica del linguaggio che si usa.
La cantante desidera evidenziare le sue cosce? Padronissima di farlo e di suggerire a tutte le ragazze del mondo di seguire il suo esempio. Ma senza aggressività e inutile ironia posso dirle che con un abito diverso sul suo corpo poteva esprimere un linguaggio più bello. Non le interessa? Neppure a me interessa convincerla, proprio come nel caso della poetessa di prima, felice delle sue poesie che non capisce che sono porcherie. C'è modo e modo, certamente: un giudizio, anche il più elementare, deve sempre essere rispettoso, e la persona che viene giudicata deve pretendere il rispetto. Ma una società non potrà mai prescindere dalla comunicazione dei suoi membri: la comunicazione è forma della società stessa, e il giudizio sul linguaggio della comunicazione di necessità diventa imprescindibile per la stessa struttura sociale. Affermare che non si può e non si deve giudicare, è un'ipocrisia. Stefano Zecchi
Barbara Costa per Dagospia il 3 aprile 2022.
Che bella ragazza. Minuta, seno come appena sbocciato, tutta curve. Che effetto ti fa? Davvero non ti gireresti a guardarla mentre ti passa accanto, vestita con jeans attillati e top? Avresti l’audacia di chiederle il numero, e i suoi contatti social? L’hai capito sì o no che ha un pisello tra le gambe? È importante? È con quel pisello meno donna, meno attraente, meno conturbante?
Emma Rose è una trans, una pornostar trans, fresca vincitrice del Best Performer by TEA (gli Oscar del Porno Trans) e una delle pornoattrici di punta di Brazzers. Il porno brand a doppia Z, da quando ha aperto a coiti tra donne trans e uomini etero, non si ferma più, e drizza i riflettori su corpi trans non meno che incantevoli. I confini tra generi e orientamenti sessuali stanno svanendo e il porno da tempo li sta unendo, fondendo, e infatti Emma Rose va "A Letto Con La Ex" Angela White in un porno lesbo tra due fidanzate diventate ex, che si dicono addio con sesso bollente.
È corretto scrivere lesbo in una scena di sesso tra una donna e una trans? Sì, e lo dice la stessa Emma Rose, che racconta con naturalezza (anche in social stories) la sua vita di trans 26enne svelando una risposta a una domanda che chi non è trans non sa e non si fa: un o una trans, da bambino/a, come si pensa da grande?
Dice Emma Rose che una trans nata maschio da bambino, quando "sa" ma ancora non ha le parole e i concetti per dirselo, sogna su se stesso come adulto donna: “Ho sempre avuto percezione della mia identità, fin da piccola”, svela Emma Rose, “e quando mi immaginavo nel futuro, mi vedevo come una moglie, come una donna che lavora, sempre in ruoli e in fattezze femminili”. Con autenticità istintiva un bambino internamente trans si pensa da grande donna, e una bambina internamente trans si pensa da grande uomo.
Ma non è solo questo che Emma Rose ti svela: è difatti fuorviante individuare la futura identità sessuale di un bambino/a basandosi sui giochi che sceglie e fa. Conta come egli si pensa, come su di sé fantastica, e non che un maschio giochi con le bambole, o una femmina a calcio. E pesa, e tanto, e se lo porta dietro, il posto in cui cresce e con chi. Emma Rose è nata nell’entroterra di Tampa, Florida, ed è cresciuta in una fattoria in una famiglia "redneck", chiusa e conservatrice in usanze e mentalità.
Emma ha preso piena coscienza della sua transessualità da adolescente, ed è andata via da quell’ambiente rurale a 18 anni, andando al college per laurearsi in marketing, e pagandosi gli studi ballando lap-dance nei locali dove si celava con spesso nastro adesivo il pene, passando così per femmina.
È stata con un uomo per 2 anni prima di iniziare la transizione a 21; in seguito, in piena cura ormonale, ha avuto una storia con un uomo molto più grande di lei. Ha poi preso atto di essere una trans bisex, che sta bene anche senza un partner fisso: a lei piace uscire a tre, con coppie formate da una lei e un lui: “Io non sono etero e non sono gay”, ti dice Emma, “e mi piacciono le ragazze come mi piacciono i ragazzi, e le coppie sono il mio ideale”.
Emma Rose è una stella porno su OnlyFans, piattaforma su cui è riuscita ad emergere anche grazie alla "confidenza" che instaura con chi la segue.
Su OnlyFans hanno successo i porno creator che sì fanno e si fanno pagare video personalizzati, o girati con altri creator o instagrammer o attori porno professionisti (con i quali dividono i guadagni e moltiplicano gli utenti, sicché i soldi) ma pure hanno successo i creator che sanno "seguire" (o spesso far seguire dai loro social-assistenti) i loro fan, rispondendo puntuali alle loro domande, presenziando le loro social esistenze, facendoli partecipi della loro vera vita mostrandone tratti intimi oltre il porno (ad esempio Emma su OnlyFans ha organizzato un "Face Reveal" post chirurgia estetica, cioè ha svelato il suo nuovo viso dopo la prima operazione e le altre a cui ha dovuto sottoporsi per riparare una infezione alla mascella e ascessi non previsti.
A tale social-appuntamento, i suoi fan sono accorsi in massa). Per tante persone OnlyFans, oltre che privata ricreazione onanistica, vale come mezzo per piegare solitudini e crearsi una amorosa vita parallela a quella reale e poco saziante. Infatti, un trionfo simile non si spiegherebbe unicamente con video hot da OnlyFans resi imbattibili in fruibilità.
Emma Stone, dagli attacchi di panico al cinema. Vittorio Vaccaro il 18 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Prima del successo, Emma Stone ha trascorso un'infanzia e un'adolescenza in preda agli attacchi di panico: terapia e recitazione sono state per lei la chiave.
Tutti sappiamo quanto possa essere difficile il periodo dell’infanzia, in cui tutto appare più grande di noi, in cui ci si sente spesso fuori luogo e in cui le paure e le ansie a volte prendono il sopravvento. È il caso del premio Oscar Emma Stone.
All’età di sette anni subisce un vero e proprio trauma trovandosi in mezzo a un incendio scoppiato a casa di una sua amichetta. Prendono fuoco il letto, le sedie, le tende, le coperte, i giocattoli, insomma tutta la casa, ma lei si salva, fortunatamente, grazie al fatto che l’incendio non è reale, ma è solo nella sua testa. Tutto ciò che appare reale per Emma è, in realtà, frutto del suo primo attacco d’ansia.
Nasce nel 1988 in Arizona, Stati Uniti. Il periodo della scuola elementare è difficile, spesso si trova in infermeria in attesa che la madre vada a recuperarla per dei forti mal di pancia e inoltre subisce l’imbarazzo nei confronti della classe, si sente giudicata e non capisce cosa le succede, fino a quando un medico le diagnostica questi attacchi di panico.
Le difficoltà sono parecchie, la portano a una vita limitata: esce poco, evita i luoghi troppo affollati, viaggia di rado e non guida l’auto. Emma comunque è una ragazza forte e cerca di affrontare il problema sia con uno psicoterapeuta sia basandosi sulle proprie forze e sui propri interessi, e questo fa sì che possa trovare qualcosa che l'aiuti: la recitazione.
E proprio la passione per il teatro e il cinema la portano a trasferirsi, a quindici anni, con la madre a Los Angeles. Da subito inizia a lavorare in alcune serie televisive, poi in alcuni importanti film, fino a essere presente in un paio di episodi di Spider Man e poi raggiungere nel 2017 l’Oscar come migliore attrice per il musical La La Land.
La rivista Forbes nello stesso anno la indica come l’attrice più pagata del 2017 con la modesta cifra di ventisei milioni di dollari di cachet. Insomma con un po’ di lavoro, pazienza e buona volontà, Emma Stone ha cambiato la propria vita.
Un consiglio di questa meravigliosa guerriera:
Trovare quella cosa dentro di te da cui sei fortemente attratto.
E anche questa volta abbiamo conosciuto chi da ragazzina era considerata la "scema del villaggio", ma da grande è diventata un "genio del mondo". Vittorio Vaccaro
Dagotraduzione da Daily Mail il 10 Giugno 2022.
Emma Thompson e i suoi peli pubici: intervistata nel talk show di Emma Barnett “Women's Hour” in occasione dell’uscita del suo nuovo film “Good Luck to You, Leo Grande”, l’attrice ha voluto approfondire il suo rapporto di odio amore col “boschetto”.
Thompson nel nuovo film interpreta una donna di 55 anni che non ha mai avuto un orgasmo e che assume un gigolò, interpretato da Daryl McCormack, per rimediare.
Nel film la star, che ha 63 anni, ha girato la sua prima scena di nudo integrale.
Dalla scena di nudo, l’intervista ha quindi virato su un argomento molto intimo: la depilazione integrale delle parti intime.
Thompson ha spiegato di non essere "del tutto a suo agio" con i peli del proprio corpo, di radersi regolarmente le gambe e ha raccontato in precedenza, di aver tolto anche i peli pubici.
“Io penso che sia da rimpiangere profondamente la scomparsa del cespuglio completo. Penso che sia un grande peccato, è triste, vero?” ha detto.
Non mi riferisco solo ai peli pubici femminili. "Anche gli uomini, voglio dire, riesci a immaginare il dolore?"
L'attrice ha ammesso che una volta, in passato si è sbarazzata di tutti i suoi peli pubici.
"Una volta ho fatto l'intera cosa, anni fa, ma davvero, me ne pento ancora, perché non è tornato del tutto come mi piaceva prima, ma del resto sto anche invecchiando", ha detto.
E poi ha spiegato: “Dire "dobbiamo sbarazzarci di tutti i nostri peli" è strano, vero? E, probabilmente, non è molto sano”.
Nell’intervista l’attrice anche detto che il fatto che ci siano donne che non hanno mai avuto un orgasmo è "una tragedia e una grande sconfitta per tutti noi” ed è “anche alla radice delle violenze”.
"Di recente mi è stato chiesto se fosse una cosa generazionale", ha detto a Emma Barnett.
'Mia nonna a 88 anni, mi disse chiaramente che non aveva mai provato alcun piacere sessuale. Che il sesso, l'aveva “sopportato”.
"Mia madre, che era presbiteriana, ha avuto solo mio padre come partner. Penso che si divertissero, perché lavoravano a teatro, erano tutto un po' più libero e bohémien," ha ammesso.
Emma Thompson ha poi continuato: “La mia generazione è stata vittima di bullismo; se non eri permanentemente in uno stato di orgasmo, c'era qualcosa che non andava in te”.
L’attrice ha continuato dicendo che anche la generazione di sua figlia, Gaia Romilly Wise, 22 anni, ha un modo diverso di affrontare il sesso.
"Le ragazze dell’età di mia figlia, alcune di loro hanno un bel po' di margine di manovra e di discussione al riguardo, ma non tutte", ha detto Emma.
"E ho anche avuto discussioni con amiche di mia figlia sue coetanee che hanno rivelato che nel loro gruppo ci sono molte ragazze che non hanno avuto orgasmi, non hanno mai provato piacere, si sentono come se dovessero esibirsi nel piacere, si sentono come se non potessero essere oneste sul sesso, se si sono divertite o meno nel farlo”.
"C’è chi pensa che non puoi offendere l’altro suggerendo che quello che sta facendo non è molto divertente."
L'attrice ha detto che essere sessualmente insoddisfatti è "uno spreco di passione, energia, tempo, denaro e scopi nella vita".
Enrico Bertolino: «Invento scherzi per mia figlia e lei dice che non faccio ridere. Il mare l’ho visto a 18 anni». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2022.
Il comico: «Per 11 anni ho fatto il formatore nelle aziende, poi mi proposero di salire sul palco. Ho iniziato nei locali facendo lo scaldapubblico».
Quando si diventa famosi, dopo i 40 anni, è molto difficile montarsi la testa. Quando poi si decide di tenersi sempre un altro lavoro «perché non si sa mai», si resta inevitabilmente persone normali. E la normalità nel mondo dello spettacolo è merce rara. Enrico Bertolino è nato a Milano nel 1960. È alto, garbato, colto. Assomiglia un po’ a Raimondo Vianello, anche se lui allo humour inglese, preferisce la comicità graffiante, talvolta ruspante, la satira politica.
Bertolino cominciamo dall’infanzia. Serena o complicata?
«Quando da piccolo comunicai che volevo fare l’attore, i miei genitori mi dissero che non c’erano soldi. Mio fratello maggiore, facoltà di Lettere e poi insegnante e preside, aveva già deluso le aspettative di mio padre che faceva l’idraulico. Ci fu una mezza tragedia. Sono solo riuscito a rifiutare ragioneria, e ho fatto il turistico. Mia mamma pensava che mi preparassero a fare il turista. Fatto sta che, finite le superiori, la Kuoni mi ha preso per uno stage: facevo i biglietti e imbustavo programmi per le fiere. Almeno ho imparato le lingue: italiano, portoghese, francese, inglese».
Com’erano le sue vacanze?
«Fino a 18 anni solo a Locana Canavese, dai nonni. Mai visto il mare fino a quell’età».
Poi arriva il militare
«Sono finito in una Base Nato di Abano Terme. Io ero in servizio la notte di Ustica. Ricordo che hanno spento tutti i radar e ci hanno mandato via».
E finito il militare ha dovuto trovare lavoro?
«Mio padre mi disse di mandare i curricula in banca perché c’era bisogno di soldi in casa. Ne ho inviati sette, alle banche che avevano una sede bella in centro a Milano. E mi chiamò la Standard & Chartered Bank in piazza Meda».
E resta in banca, ben 11 anni...
E resta in banca, ben 11 anni...
«Sì. Con la liquidazione ho comperato la pelliccia a mia mamma. Lei mi disse incavolata: “Ma tanto dove vado!”. In effetti non la mise mai, ma quando era anziana, sulla sedia a rotelle, voleva la mia pelliccia».
Chiuso il capitolo banche, che succede?
«Succede che la mia fidanzata di allora, a una cena mi presenta Gianluca che ha una attività di consulenza e formazione manageriale. Mi dice: “Saresti una risorsa interessante. Cerchiamo uno che abbia voglia di mettersi in gioco e di fare un corso in Danimarca”. Accetto. Mi licenzio dalla banca e a mio padre dico che prendo una lunga aspettativa. È morto pensando che io fossi ancora in aspettativa».
Va in Danimarca a studiare o a divertirsi?
«Tutte e due le cose. Lì ci insegnano come pianificare il tempo, come organizzare la giornata lavorativa. Ci sono altri “studenti” di tante nazionalità e sembra di vivere al Grande Fratello. Torno a Milano e comincio a girare le aziende come formatore. Per 11 anni insegno a gestire il tempo, a parlare in pubblico».
Banche, consulenze... Ma quando entra nella sua vita il mondo dello spettacolo?
«Avevo 37 anni. In tanti mi dicono: “Fai tv, sei bravo”. Vado alla “Ca’ Bianca”, un locale di Milano e mi propongono di fare lo scaldapubblico: “Fai 10 minuti, poi arriva l’artista”. Gli rispondo: “Io sono stato dirigente, vengo a fare il pagliaccio?”. E il capo: “Qui bisogna far ridere”. Accetto la sfida e per tre anni,oltre al mio lavoro, il venerdì, sabato e domenica salgo sul palco. Ovviamente perdo tutte le fidanzate perché lavoro sempre».
Però almeno una è riuscita a trattenerla...
«Sì. Avevo 35 anni, ero in aereo e tornavo da una vacanza in Brasile. Davanti a me ci sono due ragazze brasiliane bellissime: Adriana (Lima) e Edna. Mentre aspettiamo i bagagli chiedo a Edna se mi dà una mano a migliorare il portoghese. Mi dice sì e cominciamo a frequentarci. Siamo ancora insieme, ma non ci siamo mai sposati. Abbiamo una figlia, Sofia, di quasi 13 anni».
Ritratto di Enrico privato
«La mia vita privata risente molto del mio lavoro, sono spesso via. Che papà sono? Molto apprensivo essendo genitore tardivo».
Che rapporto ha con Sofia?
«Molto bello. Lei è tanto avanti, ha 12 anni ma questi ragazzi vanno trattati da ventenni. Percepiscono tutto della vita, hanno grande proprietà di linguaggio. Insomma lei va avanti, io regredisco. Le faccio gli scherzi con il naso di gomma e lei mi dice “Papà ma sei scemo, non fai ridere!”. È la tik tok generation, più veloce».
Vuol dire che lei si sente vecchio?
«Diciamo anziano. Il mio show teatrale “Instant theather”, uno spettacolo itinerante e “modulare” come l’Ikea, prevede l’anzianometro. Ci sono vecchie sigle dei programmi tv. Comincio con “Dove eravamo rimasti?” (la frase con cui ricominciò Enzo Tortora a “Portobello”) e la gente si ricorda... Allora capisco che ci sono gli anziani in sala...».
Lei è un uomo tanto impegnato nel sociale. Ha fondato anche una onlus in Brasile
«Nel 2004, io e Edna siamo partiti per Pititinga, nello Stato di Rio Grande del Nord e abbiamo comperato una piccola casa sulla spiaggia. Da lì con l’aiuto di Smemoranda, Gino e Michele e il gruppo di Zelig, abbiamo creato la “Pititinga Fundaçao”. Ora la Fondazione è gestita direttamente dai brasiliani, ma sono felice, è stato un bel progetto».
Tanti amici sono venuti a trovarvi in Brasile e hanno comperato casa, è vero?
«Si, dopo essere venuti da noi, si sono innamorati del luogo e hanno preso casa Natasha Stefanenko, Fabio Testi, Bio Brioschi di Smemoranda; Giovanni Storti (di Aldo, Giovanni e Giacomo). Li ho aiutati a comperare casa, se no venivano sempre ospiti da noi...».
E poi la sua frequentazione dell’Opera San Francesco a Milano e la sua amicizia con fra Marcello
«Sì lui è il priore di questo ente benefico che dà da mangiare ai poveri. Fra Marcello è un grande: parliamo sempre di fede, gli chiedo consiglio, se c’è il limbo oppure no. Abbiamo un progetto di girare le abbazie in bicicletta».
Torniamo allo spettacolo. Dopo tre anni di scaldapubblico, arriva la svolta?
«Sì comincio a fare i miei spettacoli. C’erano Raul Cremona, Mago Forest. Ale e Franz. Ricordo tutti noi, un capodanno alle 4 del mattino, seduti aspettando di essere pagati. Poi di corsa alle 5 del mattino a fare il doppio spettacolo a Zelig».
Arrivano i primi successi televisivi con «Ciro, il figlio di Target» che poi si chiamerà in diversi modi. Lei comincia lanciando il suo personaggio del Meneghetti, un avido imprenditore milanese, e poi diventa conduttore del programma per varie edizioni
«Sì l’ho condotto con Natasha Stefanenko, una partner con cui c’è sempre stato grande affiatamento. Siamo rimasti tanto amici, venivamo da momenti difficili e abbiamo stabilito un rapporto davvero profondo. Poi tante edizioni, tanti comici».
Quali sono i comici che le piacciono?
«Max Angioni, Antonio Ornano, Michela Giraud sono i nuovi giovani talenti che mi piacciono. E continuo a ridere con Mago Forest e Raul Cremona che sono la sublimazione del mago stupido. Come mi fa ancora ridere tanto la panchina di Ale e Franz».
La sua comicità è diversa da quella di oggi?
«Quando vedo Lol per me è un altro mondo. Uno come Corrado Guzzanti che è una icona di comicità secondo me si sente a disagio a Lol».
E quel simpatico siparietto al Costanzo Show, tanti anni fa?
«Si parlava di ragazzi autonomi e indipendenti. Io dissi: “Non avevo un becco di un quattrino, sono rimasto a casa fino a 30 anni”. Costanzo basito: “Ma lei non è mai cresciuto!”. E io: “Ma mia mamma mi faceva il vitello tonnato, metteva la lavanda nel colletto della camicia!”.Costanzo sempre più sbalordito, a quel punto fa chiamare mia madre al telefono che conferma tutto e mi chiede in diretta, in puro milanese, come avessi 5 anni: “Nani, come te sté”».
C’è un momento buio nella sua carriera televisiva e umana...
«Mi è stato proposto “Festa di classe” su Rai 2. La prima puntata fa il 20%. La seconda, nove punti in meno. Alla terza puntata non ci sono arrivato: venni sostituito. Restai chiuso nella stanza di un residence romano per giorni e ho saputo dalla sarta che non dovevo più condurre perché il mio abito lo stava provando Pippo Franco».
Ne è uscito massacrato?
«Non è stato facile certo, ma è stata colpa mia: non ero adatto a “Festa di classe”, ero sbagliato. Io non so far piangere la gente».
Come ne è uscito?
«Per fortuna avevo il mio lavoro e allora pensai: “Basta, con la tv ho chiuso. Basta figure di merda”. Ma Gregorio Paolini mi ha richiamato per condurre “Convenscion” a Napoli. Gli dissi: “Senti, già Roma mi ha ucciso, figurati Napoli”. Invece mi sono innamorato di Napoli, ora è la mia seconda città, piena di gente meravigliosa. Il programma andò bene e mi sono riconciliato con la tv».
E poi infatti arriva «Glob» satira politica molto divertente su Rai 3, tra il 2005 e il 2014. Con uno stop di due anni: Berlusconi non la amava molto...
«Ormai ci scherzo su, ma effettivamente Berlusconi non gradì e per due anni la Rai non mi fece il contratto. Prendevamo in giro la Carfagna, ma ammetto che lo facemmo in malo modo. Fatto sta che il ministro Bondi scrisse una lettera definendo il programma “volgare e ributtante”».
Cosa la fa felice oggi?
«Sono risolto, sto bene, per me il lavoro è dignità. La rivincita dei normali mi fa felice: penso per esempio ad Amadeus, me lo ricordo a Napoli, faceva una fatica. Oggi è inutile fare i fenomeni, la normalità è la vera trasgressione»
Enrica Bonaccorti: le cose che non sapete di lei. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 17 Novembre 2022.
Dagli abusi da bambina al grande amore con Renato Zero. Le curiosità sulla conduttrice tra le più amate della televisione italiana
La carriera
Enrica Bonaccorti (nata a Savona il 18 novembre 1949) è tra le più famose conduttrici televisive, ma è anche stata spaeker radiofonica, paroliera e attrice. Ha esordito nei primi anni settanta come attrice di teatro, di cinema e di prosa televisiva, collaborando anche con la compagnia di Paola Quattrini e Domenico Modugno, per il quale ha scritto diversi brani . Il successo è stato raggiunto durante gli anni ottanta con programmi come «Italia sera» per poi passare a Mediaset a condurre la prima edizione del varietà «Non è la Rai». Nel 2019 approda a Sky Italia conducendo il programma tardo-pomeridiano «Ho qualcosa da dirti», trasmesso su TV8.
Il volto tumefatto
La conduttrice tv ha condiviso sui social network a fine settembre una foto in cui appariva con il volto tumefatto. Un’immagine che ha immediatamente fatto il giro del web suscitando preoccupazione tra i follower. «Realtà truccata! Non mi ha menata nessuno… Sono caduta di faccia e mi sono sbriciolata la spalla» ha scritto la conduttrice con quel pizzico di ironia che l’ha sempre contraddistinta.
La perdita del figlio
In un’intervista ha parlato del giorno più difficile della sua vita, quando ha perso suo figlio. “Mi hanno portato via in ambulanza in una clinica, dove sono rimasta per tre settimane. Sono rimasta immobile, ferma, per qualche giorno. E il bambino era andato via. Aveva quasi quattro mesi. La cosa più brutta è stata quando hanno fatto il raschiamento. Due infermiere non professionali mi hanno detto che il bimbo aveva la mia bocca, le spalle larghe”.
Vita privata
Bonaccorti stata sposata con Daniele Pettinari con il quale ebbe la figlia Verdiana Pettinari. È stata legata sentimentalmente a diversi uomini: Michele Placido, Arnaldo Del Piave, Carlo Di Borbone, Francesco Villari e Renato Zero.
L’amore per Verdiana
Riferendosi alla figlia, Verdiana Pettinari, Bonaccorti ha sottolineato a Verissimo di "averla cresciuta da sola", evidenziando come ci fosse anche questo tra i motivi della fine del suo matrimonio. Come ogni mamma, ha detto che il suo amore per lei è immenso: "E’ stato molto importante supportarla, farle sentire la sua vicinanza e l’affetto. Il mio sogno è che mia figlia sia felice, che le persone accanto a me stiano bene e che io possa sempre dare qualcosa. Considero i miei fan come la mia famiglia e auguro loro il meglio”, ha detto a Silvia Toffanin.
Gli abusi
A “Storie Italiane” Bonaccorti ha fatto una rivelazione scioccante. La conduttrice ha infatti raccontato di aver subito delle molestie sessuali quando era solo una bambina.” Sono stata abusata anch’io, avevo 8 anni – ha detto Enrica Bonaccorti mentre nel settembre 2020 in tv – Di esperienze negative ne ho avute molte dagli 8 ai 19 anni e da quando ho iniziato a lavorare avrei molti altri episodi da raccontare. Non sono rimasta traumatizzata per le mie brutte esperienze. Sono figlia di una cultura che all’epoca dava per scontate certe cose. Non basta dare un calcio per difendersi, specie se si ha 8 anni e chi abusa è un adulto. Mi pento di averlo detto perché ora i giornali ci ricameranno sopra. Sono stata molestata da persone molto vicine alla mia famiglia, persone i cui nomi non potevano mai essere fatti.
La truffa a “Non è la Rai”
C’è un episodio molto noto di quando Bonaccorti condusse “Non è la Rai”. Proprio durante questo programma è stata lei a smascherare una truffa telefonica da parte di una concorrente. Momento che è ricordato da tutti come “Truffa del cruciverbone”:
Niente amori estivi
La conduttrice ha rivelato di non aver mai avuto un amore estivo. L'unica cotta avuta nella stagione più calda dell'anno era quella per un ragazzino di 15 anni che, però, non "filava di striscio" la piccola Enrica. "Era il 1962" ha concluso, con una punta di nostalgia a “Estate in diretta”
Candida Morvillo per corriere.it il 14 maggio 2022.
Enrica Bonaccorti, come dove quando e perché scrisse per Domenico Modugno «la lontananza sai, è come il vento. Che fa dimenticare chi non s’ama»?
«Avevo 19 anni, partii da una frase scritta a 14 sul mio diario. Eravamo in tournée a Cuneo e, dopo lo spettacolo, Mimmo m’insegnava a scrivere canzoni. Mi fece sentire una musica e mi ricordai delle frasi appuntate quando ero stata costretta a lasciare il mio primo amore: papà era poliziotto e, dalla Sardegna, era stato trasferito a Roma. Mimmo impazzì, saltava, diceva: sarà un successo, continua, scrivi quello che ti ricordi. Totò ha fatto il militare a Cuneo, io a Cuneo ho fatto La Lontananza».
Per Mister Volare, Bonaccorti scrisse anche Amara Terra mia, ma non è come paroliera che è conosciuta, quanto come conduttrice di una televisione che ha lasciato il segno fra gli anni ’80 e ’90, da Italia sera di Raiuno a Non è la Rai sulla nascente Fininvest. Tre Telegatti, tante copertine, qualche sceneggiato in gioventù, molti programmi in radio, da Per chi suona la campana, premio Maschera d’argento 1975. Oggi fa l’opinionista tv e scrive romanzi, Condominio, addio! è appena uscito per Baldini + Castoldi.
Che ne è stato di quel primo fidanzatino?
«Lo annovero fra i miei quattro grandi amori, tutti colpi di fulmine. Gli altri tendo a dimenticarli, più che a perdonarli. La nostra vita è come quella degli alberi: migliora potando. L’amore più grande è stato l’ultimo, Giacomo Paladino, mancato a settembre, dopo 24 anni insieme. Gli ho dedicato il nuovo romanzo: la sua leggerezza, ironia, eleganza mi hanno accompagnata in ogni pagina, anche se alla fine ci è arrivato prima lui. Leggeva tutto, via via che scrivevo».
Come sta sopportando la perdita?
«Facendo finta che ci sia: gli parlo di continuo; faccio le cose che mi ha insegnato, sono puntuale, ordinata. Era un signore gentile».
Gli altri due amori nel mezzo?
«Un jazzista con cui ho vissuto dai 27 ai 32 anni e un francese con cui ho vissuto per tre anni».
Carlo di Borbone delle Due Sicilie. Per stare con lui, lasciò la televisione.
«Io l’ho sempre chiamato Charles. Ma lasciai la tv soprattutto perché, da dieci anni, ero sempre in diretta e trovavo strano il mio excursus, da un programma giornalistico come Italia sera a uno leggero come Non è la Rai. Da due anni dicevo a Maurizio Costanzo: voglio staccare. E lui: sei pazza, poi rientrare è difficile. Mamma mia, come aveva ragione».
Rientrò, ma da ospite.
«Commisi un errore di superficialità, ma in quei tre anni stavo su un altro pianeta, era un film dai colori pastello. Era intesa totale. Però mi rendo sempre conto delle cose dopo, capisco il successo dopo che l’ho avuto, capisco dopo che era un principe vero, ho capito dopo i 60 quanto ero carina da giovane. Arrivo sempre in ritardo».
Perché finì col principe?
«Era iniziata col foglio di via in mano. Mi disse subito che non poteva sposarmi. Gli feci una risata in faccia, dissi: vabbè, che sarà mai. La famiglia non era così felice di me: ero un’artista, lui aveva 29 anni, io 42, ero divorziata. L’avevo sempre saputo, ma, dopo, è stato come guardare un vetro che va in frantumi. Mia madre ha sempre detto: il problema è che non sei ambiziosa. In effetti non ho mai lottato per le cose: quello che arrivava mi sembrava già troppo».
Se non lottando, come sono arrivate le cose?
«Per caso».
«Il caso vive di luce propria, il caso basta a se stesso», scrive nel suo ultimo romanzo. Perché tiene al caso?
«Per me è come la provvidenza per i credenti. Il teatro, che avevo sempre sognato, arriva alzando la mano, come a scuola. Studiavo Lettere e Filosofia, il pomeriggio m’infilavo nei teatrini off per assistere alle prove. Un giorno si fa male un’attrice, io alzo la mano: posso sostituirla io. Feci due mesi di tournée, dormendo su due fogli di gommapiuma gialla, accampata dove capitava. A Tindari, mi vide l’agente di Modugno».
E si trovò in scena con lui e Paola Quattrini.
«Era M’è caduta una ragazza nel piatto: dicevo tre battute. Poi il caso vuole che la seconda attrice, Tamara Baroni, abbandoni due giorni prima che arrivassimo al Manzoni di Milano. Era coinvolta nello scandalo del tentato omicidio della moglie dell’industriale Pierluigi Bormioli, per il quale finirà in carcere e poi assolta. La sua era una parte lunga: nessuno poteva impararla in due giorni. Alzai la mano e dissi: io la so».
Anche la tv arriva per caso?
«Avevo superato tre provini per essere la protagonista dell’Amadeus di Peter Shaffer al teatro Argentina. Purtroppo, dovevo aprire la camicetta e mostrare il seno. Disperata, mi feci operare per ridurmelo. Dopo sei ore d’intervento, mi sveglio col braccio come morto e la lingua penzoloni. Dovetti rinunciare all’Argentina. Stavo a casa e, come diceva Eduardo De Filippo, chi ti dice che è una disgrazia? Chiama la Rai: sappiamo che non fa la stagione, vorremmo incontrarla. Era per Italia sera, il nome lo inventai io. Con Mino Damato e Piero Badaloni, serviva una donna, decorativa. Ma prima d’iniziare Badaloni rinuncia e il mio ruolo decorativo si espande».
Quanto temeva l’insuccesso quando prese il posto di Raffaella Carrà a «Pronto chi gioca»?
«Arrivo e Gianni Boncompagni mi dice: non ti preoccupare, tanto andrà tutto malissimo. Mi lasciò senza indicazioni di regia. Abitavo in un seminterrato, sulla mia testa passava l’autobus, la sera prima mi chiedevo come infortunarmi per non andare in onda. Vado, invece, e non c’era un copione. Iniziai a presentare i ballerini uno per uno, lessi i biglietti dei fiori arrivati in studio. Alla fine, battemmo Pronto Raffaella?».
Perché viveva in un seminterrato?
«Ci ho abitato finché sono stata in Rai. Non sono mai stata brava a farmi valere e farmi pagare. Per decenni non ho avuto agente o addetto stampa. Ho sempre lavorato con lo spirito della professoressa che avrei dovuto essere. Mai avuto frequentazioni importanti, non vado nei salotti, anche perché non riconosco le persone: condivido con Brad Pitt la prosopagnosia. A un evento Fininvest chiacchieravo con un signore. Chiedo: di cosa ti occupi adesso? Lui mi fa pat pat sulla spalla: faccio sempre il presidente della Fininvest. Era Fedele Confalonieri».
In Fininvest, alla fine, era andata per uscire dal seminterrato?
«Passai direttamente dal seminterrato alla villa. Mi diedero una cifra stratosferica, mi corteggiavano da anni. Ma fu perché il caso volle che in Rai mi avevano dato, e tolto prima di iniziare, Domenica In 1987».
Questo perché osò annunciare in diretta che era incinta?
«I dirigenti sapevano che l’avrei detto. I giornali parlarono di uso privato di servizio pubblico. Mentre, oggi, in tv, si mostrano pure le ecografie... La cosa peggiore è che in camerino mi sentii male, poi persi il bambino».
«Non è la Rai» fu accompagnato da polemiche furibonde.
«Parlavano di Lolite, ma la vera storia è che i primi tre mesi potevo fare interviste e interagivo con quelle giovinette».
Da qui, la nostalgia del giornalismo.
«Me ne andai dopo lo scandalo del Cruciverbone: una concorrente diede la risposta prima che io facessi la domanda. Dissi: datemi una mitragliatrice, è una truffa. Non so come mi venne. I dirigenti mi rimproverarono la reazione».
Fra gli amori, non ha messo Renato Zero, che di lei ha detto: «Mi ricordo ancora i brividi».
«Resta un amico. Era Renato Fiacchini che diventava Zero, io fingevo di essere la sua agente, mettevo un abito serio e andavo a vendere le sue serate nei bar. A volte mettevo una tutina nera con le frange e mi esibivo con lui, inventando finte pubblicità. Avevamo vent’anni, ci accomunava un sogno di futuro che di certo avremmo conquistato, senza pensare al come, al cosa».
Padre in divisa, che educazione ha avuto?
«Severa. I primi 13 anni in caserma. E papà era colonnello, ma mamma era generale. Era colta, a vent’anni era già laureata. Mio padre è morto che avevo 19 anni e lei mi ha sostenuta in tutto. Senza, non avrei potuto crescere Verdiana. Mi ero sposata per amore, poi ero incinta e ci sfrattarono. Andammo a stare da mamma, e undici mesi dopo la nascita, persi di vista mio marito».
Tipo: esco a comprare le sigarette?
«Mi aveva dato una spinta mentre tenevo in braccio la bimba, gli dissi: non mi toccherai più. Se ne andò, nostra figlia non ha mai avuto gli auguri al compleanno. Però andò al suo funerale».
Come era stato il suo ’68?
«Meraviglioso. Occupammo il Lucrezio Caro, leader Giuliano Ferrara, io unica donna. Ci caricarono su una camionetta e ci picchiarono coi manganelli. Ci portano in caserma, il commissario mi fa: proprio lei, figlia del colonnello, sono stupito. Rispondo: sono molto stupita io, a un mio amico avete rotto il setto nasale. E lui: forse, inconsapevolmente, vi sarete urtati fra di voi. Poi, per tre mesi, me ne andai in giro con “Gli Uccelli”, con Paolo Liguori, detto Straccio, con Diavolo, con Apache... Cinque uomini e io. Facevo l’autostop da sola e poi caricavo gli altri».
E dove andavate?
«Da Carlo Levi o da Giuseppe Ungaretti. Dicevamo: sei compagno? Allora, devi farci entrare. E ci accampavamo. Abbiamo dormito pure sui biliardi del Circolo Comunisti di Fucecchio».
Fu allora che Ungaretti le accarezzò una gamba, come raccontò in pieno MeToo?
«No, fu una volta che lo accompagnavo con la 500, fu un attimo. Aveva 60 anni più di me».
Chi è Francesco Maria von Altemberger dei marchesi Isvardis del «Condominio» e ora di «Condominio, addio!»?
«Un personaggio che mi sono divertita a raccontare. In cerca sempre di un altrove che non sia il suo palazzo, la sua identità prestabilita. L’insoddisfazione che lo attraversa è anche mia. E il suo sarcasmo è il mio: avrei l’irrisione facile, ma mi trattengo: la gente si offende. Allora, tutte le cose che vorrei dire, le faccio dire a lui».
Renato Franco per il Corriere della Sera il 18 aprile 2022.
«Io sono superbuono con i buoni, supercattivo con i cattivi, superdemocratico con i democratici e stalinista con i fascisti: questo è il quadro che mi raffigura alla perfezione».
Anche fascista con i comunisti?
«Fascista è il termine peggiore che chiunque mi possa rivolgere, racchiude insieme un'idea criminale e allo stesso tempo stupida. Mi è rimasta sempre in mente una frase che dissero i fratelli Rosselli quando erano in esilio: il fascismo è tutto ciò che è contrario all'intelligenza».
Enrico Lucci non si definisce un comunista nostalgico e neppure folkloristico, piuttosto un comunista degli anni 3000, ipercontemporaneo. Con la sua cifra urticante (perché mette a nudo le incoerenze altrui) ha saputo raccontare i personaggi pubblici e il vuoto del pensiero dominante in tutte le sue declinazioni perché spesso è lì che si annida il paradosso, il cortocircuito; e l'estro di Lucci sta nel cogliere sempre con uno sguardo laterale e ironico le contraddizioni della realtà che ci circonda, la bizzarria del pensiero (poco pensato) corrente. Il tutto impastato di veracissima romanità, un misto di disincanto e cinismo, il gergo dialettale (non parla mai in «italiano») ad aggiungere (anche in quest' intervista) sarcasmo.
La domanda sempre nella carne viva dell'intervistato, senza sconti: la faccia tosta in qualunque situazione da dove le viene?
«È l'insegnamento dell'Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti, la scuola delle Frattocchie, che è stata la scuola centrale del Partito comunista. Lì ho imparato lo sviluppo della cosiddetta coscienza critica, che io ho rimodulato in incoscienza critica».
Lei è uomo da marciapiede...
«Anche uomo del tombino, della fogna».
Sempre in strada a inseguire politici e personaggi pubblici. Ha fatto 20 anni da Iena.
«Sono stati anni meravigliosi, quelli della crescita e della formazione, i miei primi anni alla ribalta dopo la mia esperienza, ancora acerbo, a Rai3. Ora sono a Striscia la notizia che rappresenta l'ascesa in Paradiso».
Perché ha bussato alla porta di San Antonio Ricci?
« Striscia è sempre stata un ambiente che mi interessava, a me simile, mi sono ritrovato con persone con cui ho una affinità ideologica televisiva; il cervello di Ricci mi sembrava un buon mare in cui poter navigare. L'ho chiamato e gli ho chiesto: te serve uno ? In due ore si è sviluppata una spirale di entusiasmo ed eccomi qua».
A chi deve dire grazie se è arrivato fin quassù?
«A Claudio Ferretti (giornalista, conduttore radiofonico e televisivo scomparso due anni fa).
Mi ha preso da una televisione di Genzano, che non si vedeva manco fuori dal palazzo. Mi madre per guardarmi doveva dirigere l'antenna da Ariccia verso Genzano per intercettare il segnale. A Ferretti devo tutta la mia esistenza».
Come nacque il vostro incontro?
«Io facevo parte degli universitari della Pantera, chiamò il Tg3 che voleva uno studente per raccontare il fenomeno e l'assemblea mandò me. A intervistarmi c'era lui, Claudio Ferretti. Io stavo ad Ariccia e le televisioni locali in seguito alla legge Mammì erano obbligate a mettere in piedi un telegiornale, c'era 'sta tv de Genzano che gli serviva uno. Non un giornalista. Uno.
Chiunque. E io già scrivevo in un giornalino che facevano nella sezione Lenin di Ariccia e il direttore, che era lo stesso della tv, mi chiese di propormi come giornalista. Io non avevo niente da fare, non sapevo che fare della mia vita e ce so' annato . Ho iniziato a fare un tg super scrauso e mi sono preso sul serio, ho intravisto una strada. A quel punto mi sono chiesto: chi mi può insegnare questo mestiere? Chi è la persona più importante incontrata nella mia vita?».
Claudio Ferretti...
«L'ho chiamato al fisso in redazione, che i cellulari non c'erano: si ricorda di me? Ovviamente no. Io che stavo nella tv che parlava di galline ho chiesto a lui che stava in Rai - la Rai! - come si costruiva un servizio. Mi ricevette a Roma, in via Teulada. Mi presentai con un servizio che avevo preparato, l'unico che avevo fatto per la verità. Prese la cassetta - quelle vecchie, enormi - la mise nel videoregistratore e si ruppe. Io mi volevo suicidare.
Ma lui tranquillo, l'aggiustiamo, e si è messo lì a ripararla con cacciavite e scotch. Poi pazientemente mi ha spiegato come si faceva un servizio tv. Quando ci siamo salutati non sapeva che aveva firmato la sua condanna, gli ho rotto le scatole per tre anni. Quando lessi che era diventato caporedattore allo sport del Tg3, pensai di nuovo, famme vedè se glie serve quarcuno.
Era agosto, il mese migliore per trovare lavoro perché sono tutti al mare. Lui doveva mettere su un nuovo programma, un po' dovevo piacergli e mi fece un contratto di 9 mesi. Ho iniziato con È quasi gol con lui e Ciotti, poi Anni azzurri e Telesogni. Nel 1997 ero alle Iene : dopo il primo servizio ne sono arrivati altri mille».
La definiscono, con termine più volgare e diretto, rompiscatole...
«Io detesto l'immagine del contestatore, del giustizialista, del provocatore; io prima di fare una domanda penso bene a quello che devo dire. La domanda deve andare al centro di quello che a me sembra un problema, un tema da sviscerare. Non sopporto l'aggressività per se stessa, la provocazione per provocare, ci deve essere sempre un motivo che io ritengo giusto per rompere i c... a qualcuno».
Lei è uno che colpisce al cuore le contraddizioni...
«Detesto chi dice: io non giudico nessuno. Non è vero, tutti giudicano tutti, io lo dico espressamente: giudico qualunque cosa. E sulla base delle mie convinzioni - che ovviamente sono le mie - faccio la domanda opportuna. Mi focalizzo su quello che le persone rappresentano o hanno fatto. Io giudico le azioni».
I social, la vita in mano all'algoritmo: non sembra roba per lei...
«Non sono un luddista, sono un progressista, tutto ciò che migliora la vita dell'essere umano va straordinariamente bene, i social hanno elementi positivi, mettono in contatto le persone.
Noi ragioniamo con le nostre vite ricche, intessute di conoscenze e di rapporti, ma se vedo me 40 anni fa ad Ariccia mi sarei fionnato su qualunque social pur di conoscere un po' di f... Il dramma è che sono diventati la fogna di ogni cattiveria e rancore, sono esibizione del nulla. Poi, certo, dipende sempre da come li usi».
Per questo ha un vecchio telefonino.
«I cellulari li rinnovo solo quando non funzionano più, adesso da due anni ho pure WhatsApp ma solo perché mi ero rotto le scatole di tutti quelli che mi chiedevano perché non ce l'avevo. Sembra che vuoi fare il cavernicolo, l'alternativo, ma spendevo più tempo a spiegare e alla fine mi sono rassegnato».
Il servizio di cui va più fiero?
«Quando feci rinnegare Mussolini a Fini, allora potente capo della destra italiana. Era il 2002 e lui un anno prima aveva detto che il più grande statista del 900 era il Duce. All'epoca stava per diventare ministro degli Esteri e così mi sono chiesto: vediamo che dice ora se gli rifaccio la stessa domanda. Pensa come reagirebbero le cancellerie occidentali. Lo ridirebbe? Lui sbianca. Gli sono stato talmente addosso che alla fine è caduto: No, non lo ridirei più . Per uno come me è stata una medaglia».
Si è definito il romanziere della Grande Scemenza Contemporanea...
«Oggi sono tutti contenti che non esiste più l'ideologia, ma poi si lamentano se l'ambizione più grande di un adolescente è comprarsi le Nike. Non ho niente contro le Nike, ma se quello è il fine della vita tua... La sedicente democrazia liberale millanta prosperità per tutti, ma poi questa prosperità la vedono sempre le solite classi borghesi, mentre resta un'ampia fascia di popolazione che si deve arrabattare. L'America si erge a guida del mondo ma i marciapiedi di Los Angeles sono pieni di neri ubriachi e obesi. E gli americani rompono pure le scatole agli altri volendo insegnare al mondo come si vive. Robe da pazzi».
Lei ha attraversato la politica italiana, dalla Prima Repubblica a oggi.
«Ho iniziato intervistando Gava, Andreotti, un mondo ormai trapassato. Io odio il qualunquismo, banalizzare le tesi, ma se analizzi attentamente la situazione ti accorgi che solo il 4% delle persone che stanno in politica ci credono davvero, vogliono migliorare il mondo. La sedicente democrazia liberale ha davvero raggiunto il massimo dell'inconsistenza, la politica è diventata una guerra tra bande. Posso fare i nomi - ma non li faccio - di cinque persone che hanno ancora una sana motivazione ideale, gli altri sono scappati di casa che cercano solo un palcoscenico».
La sinistra?
«Totalmente appiattita: è diventata il partito dei liberal americani e del Papa».
Dunque comunista anche senza Muro?
«Sì, ancora di più. Non faccio il nostalgico, non è un cliché da intellettuali. Esser comunisti significa avere coscienza critica, analizzare le cose e capire da che parte stare. Non sono aggrappato a un'idea fissa del mondo, il mondo cambia continuamente, devi capire in che modo lo guardi. E un comunista lo vede con gli occhi della ragione».
Berlusconi lo sa chi ha assunto?
«Mediaset è piena di comunisti, è risaputo, non è una novità».
Nessuno scrupolo a lavorare con il «nemico»?
«No. Si lavora dove c'è il lavoro, la libertà la trovi dappertutto, la trovi in un'azienda privata oppure in un'azienda pubblica ma non te la regala nessuno. La libertà non è da nessuna parte ed è dappertutto, la libertà è quello che tu di volta in volta osi».
(ANSA il 29 novembre 2022) - "Sono stato condannato senza processo ed escluso senza possibilità di spiegare le mie ragioni. Un trattamento che non si riserva neanche agli assassini presi in flagranza di reato". A dirlo è Enrico Montesano, escluso da Ballando con le stelle per aver indossato una maglietta della X Mas durante le prove, convinto che "i valori democratici e civili" siano stati "reiteratamente calpestati, così come i diritti della persona tutelati dalla nostra Costituzione". L'attore chiede "formalmente alla Rai" di reintegrarlo nel programma, per avere "la possibilità di spiegare ai telespettatori e all'opinione pubblica la mia posizione".
"Sono stato condannato senza processo ed escluso senza possibilità di spiegare le mie ragioni. Un trattamento che non si riserva neanche agli assassini presi in flagranza di reato", afferma Montesano. "I valori democratici e civili, a cui si è fatto riferimento nel comunicato che annunciava la mia sospensione dal programma, da parte della Rai, sono stati reiteratamente calpestati, così come i diritti della persona tutelati dalla nostra costituzione. Mi sono perfino scusato con chi si è sentito offeso".
"Ho indossato una maglietta, durante le prove, recante simboli della Marina Militare Italiana - sottolinea l'attore - assolutamente legale e legata a momenti non solo bui e dolorosi, ma anche gloriosi e meritevoli di essere celebrati; tanto che in occasione di avvenimenti ufficiali hanno sfilato e sfilano, alla presenza delle più alte cariche dello Stato. Ora la stessa Rai sta realizzando un film sulle eroiche gesta del comandante della X Mas, Salvatore Todaro".
"Chiedo formalmente alla Rai di tornare sui propri passi e di reintegrarmi nel programma, per darmi la possibilità di spiegare ai telespettatori e all'opinione pubblica la mia posizione, altrimenti riuscirebbe difficile non credere ad un accanimento ad personam. Sono un uomo libero, di pace e di dialogo come la mia storia personale ed artistica dimostra. Vorrei tornare a fare il mio lavoro per il pubblico che non mi ha mai lasciato solo e che ringrazio di cuore. A chi ha strumentalizzato la vicenda, dandone una lettura artatamente negativa, per interesse, ignoranza o leggerezza - conclude Montesano - dico che non ho commesso alcun reato, indossare una maglietta non vuol dire inneggiare a nulla e nessuno, come quando si indossano magliette con altri simboli, scritte e immagini".
Caso Montesano, così la Rai si è inginocchiata al politicamente corretto. Sono tantissimi i dubbi che gravitano attorno all'esclusione di Enrico Montesano da Ballando con le stelle: ecco cosa non torna. Francesca Galici su Il Giornale il 21 Novembre 2022.
Il "caso Montesano" ha riempito le cronache dell'ultima settimana e non poteva essere diversamente, vista l'eco mediatica scatenata dalla t-shirt dell'attore. Certo, non una t-shirt qualunque, ma quella recante il logo della X Mas, uno dei corpi di combattimento più famosi della storia del nostro esercito, che durante la Seconda guerra mondiale si schierò al fianco dei tedeschi contro Alleati e partigiani. Enrico Montesano ha indossato la t-shirt durante le prove e le immagini sono state trasmesse nel corso della puntata in diretta di sabato 12 novembre. Il giorno dopo è esploso il caso, lui è stato squalificato, e sono tante le domande che ci si pone.
Una delle prime parte da una considerazione: le immagini trasmesse durante la diretta erano registrate e il "girato" (come si chiama in gergo) è necessariamente passato davanti a decine di occhi prima di finire in prima serata su Rai 1. Possibile che nessuno si sia accorto? Può essere credibile che tra tutti quelli che hanno visionato le immagini, nessuno abbia riconosciuto quel logo, o si sia chiesto, anche solo per scrupolo, cosa rappresenta? Non fosse altro che in Rai esiste un codice etico molto rigoroso, che vieta esibizioni politiche di tutti i tipi ma non solo, perché in un programma come Ballando con le stelle, sono vietati anche i loghi di marchi che non siano quelli di eventuali sponsor, nell'ottica di evitare la pubblicità occulta.
"L'etichetta di nostalgico non l'accetto, adesso basta": lo sfogo di Montesano
Seconda considerazione: come fatto notare dall'avvocato Giorgio Assumma, il logo della X Mas è stato esibito davanti alle più alte cariche istituzionali, anche alla presenza del presidente della Repubblica quando l'inquilino del Quirinale era Giorgio Napolitano. A quel vessillo sono stati fatti i più alti onori istituzionali, quindi su quale base la Rai ha deciso di squalificare Enrico Montesano dalla competizione? E a questo si collega il ragionamento fatto dall'avvocato, che probabilmente risponde alle domande precedenti: "Se l'esposizione di tale simbolo è stata ritenuta lecita e degna di rispetto dalle alte sfere della presidenza della Repubblica e dai vertici delle forze armate, come poteva destare sospetti di illegalità e di offesa ai valori della Repubblica democratica nell'attore Montesano e nei tecnici della Rai addetti alla vigilanza sulla trasmissione?".
Durante l'ultima puntata, Milly Carlucci è rapidamente tornata sull'argomento, dicendo di credere nella buona fede del concorrente e di essere "umanamente dispiaciuta per l'assenza di Enrico". La conduttrice, che del programma è anche direttore artistico, ha detto di essersi uniformata al regolamento Rai, scaricando qualunque responsabilità sull'esclusione che, evidentemente, non arriva dalla produzione della trasmissione. Dal canto suo, ospite de La Zanzara, Montesano è più agguerrito che mai: "Mi sento offeso, mi devono chiedere scusa. Devo essere riabilitato. Non ho questo tipo di storia. C'è il no logo a procedere". L'attore sperava in una sua riammissione al programma, ma le parole di Milly Carlucci in diretta sabato sembrano chiudere ogni possibilità di questo tipo.
"Altro che una maglietta". Mughini smonta l'ipocrisia sinistra su Montesano
Da più parti, proprio in ragione delle considerazioni avanzate dal legale di Montesano e dalle evidenze dei fatti, si avanza il sospetto che l'esclusione dell'attore non sia altro che l'ennesimo atto di un politicamente coretto imperante. Davanti alle sollevazioni social, alimentate dalla denuncia di Selvaggia Lucarelli, la Rai non ha avuto il polso di prendere la questione di petto, spiegando il motivo per il quale nessuno, prima della polemica, aveva considerato offensivo quel logo. Ha preferito chinare la testa davanti alla "dittatura" social, quella composta da un manipolo di utenti capaci di fare un gran casino, minacciando ipotetici boicottaggi agli sponsor e agli ascolti. E stavolta la Rai si è genuflessa, facendo una non bella figura.
Pedro Armocida per “il Giornale” il 22 novembre 2022.
Nella notte del quieto Mare Piccolo dell'Arsenale della Marina Militare di Taranto, espedienti meccanici, con pompe che simulano i flutti, elementi naturali, come un improvviso diluvio, e avveniristici effetti speciali, che in tempo reale restituiscono in digitale il fuoco dei cannoni e il crepitare delle mitragliatrici, si staglia il sommergibile Cappellini completamente ricostruito 73 metri di acciaio per 70 tonnellate di peso dallo scenografo Carmine Guarino per il set di Comandante.
Il film, diretto da Edoardo De Angelis che lo ha scritto con il Premio Strega Sandro Veronesi, interamente dedicato all'eroe di guerra, Salvatore Todaro, interpretato da Pierfrancesco Favino, che, nel 1940 nell'Atlantico, al comando del sommergibile Cappellini venne attaccato da una nave mercantile armata belga che, racconta il regista, «riesce ad affondare ma, quando vede che i marinai in mare vanno verso di lui, invece di seguire le regole che prevedevano che li abbandonasse, li salva tutti. Quando gli stessi 27 naufraghi gli chiedono perché l'abbia fatto, risponde: Noi siamo italiani, noi queste cose le facciamo».
È una curiosa coincidenza che oggi si racconti la storia, quasi incredibile, del giovanissimo Capitano di corvetta Salvatore Todaro, cinque Medaglie al Valore che, nel novembre 1941 passò nella Xª Flottiglia Mas di La Spezia (ri)salita agli onori più prosaici della cronaca tv, nei giorni scorsi, per la famigerata t-shirt di Enrico Montesano che gli è costata la partecipazione a Ballando con le stelle su Rai 1.
Anche perché è un altro pezzo del gruppo pubblico, Rai Cinema, a produrre, insieme alla capofila Indigo Film e a O'Groove, Tramp Ltd., VGroove, Wise e con la collaborazione della Marina Militare, Cinecittà e Fincantieri, il film, dal costo industriale imponente di 14,5 milioni di euro, sul Comandante Todaro che nella Xª Mas partecipò nel maggio 1942 al blocco navale della città di Sebastopoli, sul Mar Nero, nella Crimea dell'odierna guerra in Ucraina, prima di morire con una scheggia nella tempia a 34 anni in Tunisia, nel dicembre dello stesso anno, sul peschereccio armato Cefalo attaccato da uno Spitfire inglese. Quindi prima che la Xª Mas passasse, dopo l'8 settembre del '43, sotto il comando di Junio Valerio Borghese nella Repubblica Sociale Italiana.
E naturalmente non è un caso che una storia di un eroico salvataggio in mare venga riproposta oggi al cinema, quando il tema dei migranti è all'ordine del giorno. Anche se l'idea nasce nel 2018 durante i primi respingimenti del primo governo Conte: «Non mi piaceva come l'Italia si stava comportando - sottolinea lo scrittore Sandro Veronesi - e lo volevo dire attraverso il mio mestiere. Ricordare a noi altri di chi siamo figli e nipoti, la Regia Marina ha formato uomini come Todaro».
Un ufficiale e gentiluomo che recuperò i naufraghi nemici portandoli nel primo porto sicuro anche in un episodio successivo, contro il piroscafo inglese Shakespeare, contravvenendo agli ordini e provocando le ire dell'Ammiraglio Doenitz, il Capo di Stato Maggiore della Kriegsmarine a cui, nel maggio 1945, sarebbe toccata la resa incondizionata tedesca che lo definì come «il Don Chisciotte dei mari». Mettendo pure a repentaglio i suoi uomini perché, con quel carico umano, doveva navigare in emersione: «È una storia limpida su una cosa che, combinazione, è stata messa in discussione dagli ultimi governi che hanno confuso il soccorso con l'accoglienza», prosegue lo scrittore che ha scritto un omonimo romanzo autonomo, a partire dalla sceneggiatura, in libreria da gennaio 2023 con Bompiani.
Gli fa eco il regista: «Ho scoperto questa storia nel 2018 quando l'ammiraglio Giovanni Pettorino la raccontò per dare ai suoi uomini una guida e un memento su quale fosse la missione della Guardia Costiera. Grazie alla moglie e alla figlia di Todaro abbiamo avuto accesso alle sue lettere private».
Comandante vede, come protagonista assoluto, Pierfrancesco Favino che, durante la nostra visita sul set, si è presentato in calzoncini corti ma con la divisa perché, spiega, «è così che è stato svegliato quella fatidica notte». L'attore è sul set, che durerà 8 settimane, tutti i giorni, anche quando non sono previste sue pose, perché vuole immedesimarsi nel ruolo e nel clima dell'epoca tanto che, quando passa davanti al sommergibile, confida di «provare un senso di appartenenza, come se fosse il mio cavallo, appena lo vedi lo vuoi proteggere».
Vedremo come nell'autunno-inverno del 2023 quando il film uscirà nelle sale con 01 Distribution.
Giampiero Mughini per Dagospia il 21 novembre 2022.
Caro Dago, sono uno di quelli che nell’andare a leggere un articolo o un libro del professor Luca Ricolfi non ne vengono mai delusi. Vale per quest’ultimo suo “La mutazione” (Rizzoli, 2022), un libro che ha per attirante sottotitolo “Come le idee di sinistra sono migrate a destra”.
Ne è sugosissimo il capitolo centrale, quello in cui Ricolfi documenta come la difesa anti censoria delle libertà di pensiero e d’arte che in Italia e altrove era stata una prerogativa particolarissima della sinistra viene adesso smentita e arrovesciata dagli stilemi su cui è fondata la cancel culture, e seppure in Italia non siamo agli orrori di cui questo atteggiamento si è macchiato negli Usa (e non solo).
Lì dove – in Texas – è appena nata un’università che difende la libertà di pensiero (di tutti i pensieri) all’insegna di parole così: “Quattro quinti degli studenti di dottorato statunitensi sono disposti a ostracizzare gli scienziati di opinioni conservatrici. Non abbiamo tempo di aspettare che gli accreditati atenei si correggano da soli. Per questo ne fondiamo uno noi”.
Il fatto è, scrive puntualmente Ricolfi, che nei campus universitari americani sono all’ordine del giorno le richieste di no platforming (non fornire il palco), disinvitation (cancellare un precedente invito) se non addirittura di licenziare professori le cui convinzioni non siano politicamente corrette. Da brividi.
A partire dal 2015 i casi di disinvitation tentati negli atenei americani sono stati ben 200 di cui 101 riusciti. E comunque anche quando gli eventi sgraditi non vengono cancellati, gli studenti che chiameremo di sinistra bloccano fisicamente l’accesso alle aule universitarie o intonano canti o percuotono tamburi in modo da impedire l’ascolto di opinioni a loro invise.
Talvolta è addirittura furibondo il fuoco di sbarramento, sui social o su giornali universitari, contro autori classici che rispondono al nome di Omero, Dante, Shakespeare, Cartesio o contro il ben di dio di scrittori moderni quali Melville, Conrad, Fitzgerald, Hemingway. E’ stato bersagliato un pittore immane quale Paul Gauguin che ebbe il torto di avere una relazione sessuale con una quattordicenne polinesiana, un torto simile a quello rinfacciato al nostro Indro Montanelli partito volontario a combattere nell’Etiopia degli anni trenta.
Il culmine dell’abiezione che mira a cancellare il reale com’è stato e sostituirlo con un reale a misura delle odierne minchionerie ideologiche è la volta in cui la “Carmen” di Georges Bizet è stata riscritta col farla finire che è la donna a uccidere l’uomo ed evitare così di mettere in scena un “femminicidio”.
Non so dire se non sia ancora peggio quello che è accaduto tanto nelle carceri americane che in quelle del Canada. Che degli individui nati uomini e che volevano diventare donne ma che ancora mantenevano gli organi maschili fossero stati reclusi nelle stesse celle in cui erano le donne: numerosi i casi di stupro lì in carcere.
No, in Italia non siamo ancora a questo. E pur tuttavia, scrive Ricolfi, ci sono indirizzi allarmanti di cui è impossibile non tener conto. Confesso che non avevo mai letto il testo del decreto Zan contro l’omotransfobia, decreto bocciato in Senato dopo essere stato approvato alla Camera.
Ricolfi punta l’ingranditore sull’articolo 4 di quel decreto, là dove si prospettava la possibilità di punire penalmente “opinioni” che nella valutazione del magistrato fossero “idonee” al compimento di atti discriminatori e violenti.
Una dizione che spalanca il campo all’azione penale contro le opinioni difformi tanto da suscitare il dissenso di un parlamentare del Pd notoriamente omosessuale, l’ex giornalista dell’ “Espresso” e senatore Tommaso Cerno, oltre che di magistrati quali Giovanni Fiandaca e Carlo Nordio fra gli altri. A giudizio di Ricolfi troppo pochi, data la rilevanza giuridica di quell’articolo.
La sinistra? Dalla libertà alla censura. Si potrebbe avere l'impressione che la cancel culture sia un fenomeno montato di recente e che abbia lambito l'Europa come un'onda lunga partita dagli Usa. Matteo Sacchi su Il Giornale il 22 Novembre 2022.
Si potrebbe avere l'impressione che la cancel culture sia un fenomeno montato di recente e che abbia lambito l'Europa come un'onda lunga partita dagli Usa. Indubbiamente la nuova censura preventiva che impera nelle serie, nei film, e persino il livellamento storiografico e scientifico nei temi di dibattito che arrivano dagli Stati Uniti hanno il loro peso. Però esiste una radice tutta italiana al fenomeno. Una radice che viene da sinistra. Per rendersene conto niente di meglio del nuovo libro di Luca Ricolfi: La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra (Rizzoli). Il sociologo e politologo nel libro da lungo spazio all'evoluzione, tutta interna alla sinistra italiana, che ha portato molti dei suoi membri a diventare «Da libertari a censori».
Ricolfi prende atto del fatto che il nostro Paese negli anni Cinquanta e Sessanta vivesse in un clima molto rigido e bacchettone: «Sotto la censura caddero innumerevoli libri, opere teatrali e cinematografiche, programmi televisivi e radiofonici». Per capirci, l'abolizione della censura teatrale arrivò solo nel 1962 con il governo Fanfani. Per il cinema il controllo durò, occhiuto, molto più a lungo. Inutile elencare episodi d'epoca come i famosi mutandoni delle sorelle Kessler nel 1961, basti dire che gli intellettuali dell'epoca, in larga parte orientati a sinistra, si schierarono compatti sempre a favore della libertà d'espressione. Il risultato fu quello che Ricolfi definisce «l'epoca d'oro della satira» che va dal 1976 al 2005. Si andò da Quelli della notte a L'ottavo nano. Poi qualcosa è iniziato a cambiare lentamente. Natalia Ginzburg lo aveva già denunciato negli anni Ottanta: «È stato decretato l'ostracismo alla parola sordo e si dice non udente». Erano arrivate quelle che la Ginzburg chiamava «parole artificiali» fabbricate con «motivazioni ipocrite». Ma questi caveat caddero nel vuoto, anzi pian piano gli intellettuali di sinistra iniziarono a sposare questa nuova censura. Iniziarono a sposare quella che Calvino chiamava «antilingua». Su questo substrato si è innestato il fenomeno del politicamente corretto arrivato dagli Usa che è diventato quasi inarrestabile a partire dal 2013, in un crescendo di aggressività verso chi non si piega ai suoi dettami. Siamo arrivati al «follemente corretto» e a quello che ad alcuni di coloro che sono rimasti a sinistra pare un paradosso. Ovvero che la difesa della libertà di parola sia diventata un appannaggio della destra. Persino posizioni considerate un tempo femministe come la «difesa dell'utero» possono tranquillamente essere considerate ormai «anti lgbtq+». Risultato finale, da libertari a censori, seguendo il ragionamento di Ricolfi il passo è stato breve. E ora la libertà è più facile trovarla svoltando a destra.
Montesano e la maglietta della X Mas: «Sono un collezionista di t shirt». E annuncia una causa alla Rai. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 13 Novembre 2022.
L'attore ha preso le distanze da tutti i totalitarismi: «Li disprezzo profondamente» e ha fatto sapere di aver dato mandato al suo avvocato di esaminare la situazione: «Tutelerò la mia onorabilità la Rai aveva visto tutto senza obiettare»
Nessuna apologia del fascismo, né vicinanza alle idee del Ventennio che anzi «disprezza profondamente».
La maglietta della X Mas indossata da Enrico Montesano durante le prove di «Ballando con le stelle» che gli è costata l’esclusione del programma fa parte di una sua collezione di t-shirt.
Così ha spiegato l'attore scusandosi su Facebook, dopo il polverone sollevatosi domenica quando Selvaggia Lucarelli (lei stessa giudice nello show condotto da Milly Carlucci) ha denunciato l'accaduto, andato in onda sabato in prima serata su Rai1.
«Sono profondamente dispiaciuto e amareggiato per quanto accaduto durante le prove del programma. Sono un collezionista di maglie, ho quella di Mao, dell’Urss, ma non per questo ne condivido il pensiero — ha scritto Montesano, 77 anni —. Non c’era in me nessuna intenzione di promuovere messaggi politici o apologia di fascismo da cui sono profondamente distante. Sono sempre stato un uomo libero e democratico. Credo nei valori della costituzione e mi scuso profondamente con chi si è sentito offeso e turbato. È stata un’ingenuità. Io col nazifascismo e tutti i totalitarismi non c’entro nulla e li disprezzo profondamente. Chiedo ancora scusa».
Montesano aveva già tentato nel corso della giornata di mettere una pezza sulla vicenda, mostrandosi in foto sul suo canale Telegram accanto a un’immagine di Che Guevara, tenendo in mano una vecchia tessera del Psi.
Comprensibilmente ciò non è bastato alla Rai che, dopo il caso di Memo Remigi, si è trovata di nuovo nella bufera (sui social tanti utenti si chiedono come sia stato possibile che nessuno nella rete si sia accorto della maglietta) e ha estromesso un altro personaggio dai suoi programmi, scusandosi con gli spettatori.
Montesano, poi, durante la pandemia si era distinto per le uscite no vax, inneggiando alla disobbedienza civile, e dunque tanti altri utenti online si interrogano sull’opportunità di averlo scelto per la trasmissione, se non con l’intento di creare polemiche.
L'annuncio della causa: «La Rai aveva visionato la maglietta»
L’attore, in serata, ha annunciato anche sapere di aver dato mandato «all’avvocato Giorgio Assumma insieme al suo agente Settimio Colangelo di esaminare la situazione per tutelare al meglio la sua identità personale e la sua onorabilità», visto che la maglietta al centro delle polemiche era stata «vista dai rappresentanti della Rai sia durante le prove della sua prestazione artistica sia durante la registrazione della stessa, sia nel montaggio senza alcuna obiezione» e che il materiale montato «è stato ulteriormente esaminato» senza obiezioni sulla regolarità.
Montesano ha scritto su Facebook: «Avendo avuto notizia che la Rai vorrebbe disporre il mio allontanamento dal programma Ballando con le stelle, dichiaro la mia assoluta buona fede e ricordo di essere stato un parlamentare di sinistra, in linea con la mia fede politica che non può essere certo accostata a quella fascista. Ho precisato che la maglietta da me indossata, che fa parte di una mia collezione da anni è in vendita pubblica nei negozi italiani senza che alcuno abbia mai pensato trattarsi di uno strumento di propaganda antidemocratica. Ricordo che la maglietta contiene una frase di Gabriele D’Annunzio che è liberamente riprodotta anche nei libri di studio di letteratura italiana adottati nelle scuole».
Cos’era la X Mas e qual è il significato di Memento audere semper. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.
Due le fasi della flottiglia. La prima in cui i mezzi italiani portarono a segno incursioni contro le basi britanniche del Mediterraneo. E la seconda in cui Borghese decise, dopo l’armistizio, di schierarsi contro gli Alleati e al fianco dei nazifascisti
La X flottiglia Mas è passata alla storia come unità combattente della Repubblica sociale italiana, responsabile di violente rappresaglie ed esaltata negli ambienti neofascisti: per questo la maglietta celebrativa indossata da Enrico Montesano ha suscitato diffusa riprovazione. Ma la vicenda di questa unità dei mezzi d’assalto della Marina italiana è per la verità più complessa, non si esaurisce nella scelta del comandante Junio Valerio Borghese di continuare la guerra, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, contro gli angloamericani e al fianco dei nazisti.
Innanzitutto il motto latino sul retro della maglietta di Montesano, Memento audere semper («Ricordati di osare sempre»), corrispondente alla sigla Mas, nasce in una fase storica precedente alla Rsi e allo stesso fascismo. Lo coniò il poeta Gabriele d’Annunzio nel 1918, durante la Prima guerra mondiale, in seguito alla cosiddetta «beffa di Buccari», l’incursione di Motoscafi armati siluranti (l’acronimo Mas significa anche questo) in una baia dove si trovavano all’ancora navi della flotta austro-ungarica. Poi bisogna considerare che la X Mas era in origine un’unità della Regia Marina e che non tutti i suoi appartenenti aderirono alla Rsi. La stessa denominazione di X fu assunta solo nel marzo 1941, in ricordo della Decima legione prediletta da Giulio Cesare: in precedenza era la I flottiglia Mas.
Insomma la storia della X Mas va divisa in due fasi. La prima vide i mezzi d’assalto italiani compiere audacissime incursioni nelle basi britanniche del Mediterraneo – Suda (Creta), Gibilterra, Malta, Alessandria – ottenendo in alcuni casi significativi successi. L’episodio più importante fu quello di Alessandria, quando gli incursori della X Mas, nel dicembre 1941 entrarono nel porto egiziano sui loro siluri a lenta corsa, i cosiddetti «maiali» e affondarono una petroliera e due corazzate nemiche. Nel maggio 1943 il comando della X Mas fu affidato a Borghese, nato nel 1906, che si era distinto per le azioni compiute dal suo sommergibile Sciré. E pochi mesi dopo si pose il problema di scegliere che fare dopo la conclusione dell’armistizio. Una parte degli incursori rimase fedele al re e andò a costituire un’unita chiamata Mariassalto, che combatté al fianco degli Alleati contro i tedeschi. Ad essa si unirono anche alcuni militari della X Mas che erano stati fatti prigionieri dai britannici dopo aver compiuto l’impresa di Alessandria.
A La Spezia invece, dove c’era la base principale della flottiglia, Borghese manifestò la sua intenzione di proseguire la guerra insieme ai tedeschi. E la X Mas, che mantenne la sua denominazione, venne impiegata come unità terrestre contro gli Alleati, per esempio sul fronte di Anzio e Nettuno, ma soprattutto nella repressione della guerriglia partigiana. Questo secondo impegno vide i fanti di marina al comando di Borghese commettere anche crimini di guerra, di cui è testimonianza la famosa e macabra immagine di un giovane impiccato con al collo un cartello con la scritta «Aveva tentato con le armi di colpire la Decima». Dopo la guerra Borghese fu processato, ma se la cavò con una condanna lieve e venne subito scarcerato. Fu anche per un breve periodo presidente onorario del Movimento sociale italiano. Nel 1968 creò una sua organizzazione di estrema destra, il Fronte nazionale, alla guida della quale tentò un colpo di Stato immediatamente abortito, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970. Si rifugiò poi nella Spagna franchista, dove morì in circostanze poco chiare il 26 agosto 1974.
X Mas: cos’è e che cosa significa ‘Memento audere semper’. Redazione Cultura su La Repubblica il 14 Novembre 2022.
Il simbolo e il motto della formazione militare che fu uno dei simboli della Repubblica Sociale è ancora oggi utilizzato durante le manifestazioni della destra e su magliette e gadget. Ecco perché
Nel marzo del 1941 fu denominato X flottiglia MAS il reparto dei mezzi d’assalto della Marina italiana. All'inizio era formata da poche centinaia di soldati impegnati in missioni di alto rischio. Il motto dannunziano memento audere semper fu utilizzato appunto per creare la sigla MAS, ed è tuttora utilizzato dalle formazioni politiche di estrema destra nelle bandiere e nei gadget, come la maglietta utilizzata da Enrico Montesano a Ballando con le stelle. Nel maggio 1943 il comando della Decima MAS fu assunto da Junio Valerio Borghese (1906-1974).
Dopo l’8 settembre, con la proclamazione da parte del generale Badoglio dell'armistizio con con gli Alleati, Borghese ne fece una formazione militare autonoma che continuasse a combattere al fianco del Terzo Reich, stipulando un patto esclusivo con la Wehrmacht, prima della nascita della RSI. In questa fase, fu impegnata soprattutto nella lotta contro i partigiani.
A La Spezia, sede del comando della Decima, affluirono migliaia di giovani volontari e si costituì il Reggimento San Marco, formato dai battaglioni NP (Nuotatori Paracadutisti), Maestrale (poi Barbarigo) e Lupo. Dopo aver combattuto a Nettuno e Anzio per arginare lo sbarco alleato, la Decima Mas, divenuta Divisione di fanteria di marina, operò con i tedeschi contro le formazioni partigiane del Piemonte, partecipando a rastrellamenti e rappresaglie sanguinose contro i partigiani. La Decima fu anche presente sul fronte dell'Istria e del Carso contro i partigiani di Tito. Nell'inverno del 1944 i battaglioni Lupo e NP furono schierati lungo gli argini del Senio in Romagna.
Marcello Veneziani per “La Verità” il 15 novembre 2022.
Ieri, la mia pagina Facebook è stata oscurata perché ho commentato criticamente il linciaggio e la defenestrazione di Enrico Montesano dalla Rai per la sua maglietta e le sue scritte «fasciste».
Ripeterò qui cosa ho scritto, perché non ho nulla di cui pentirmi. Non sarebbe mai accaduto in altra epoca della mia vita; poi dite che non stiamo perdendo la libertà. Ma quando si fermerà questa caccia al fascista - verosimile, presunto, immaginario - con relativa espulsione da ogni consesso umano e pubblico disprezzo per crimini virtuali contro l'umanità? Quando finirà questa gara di influencer e politicanti, maneggioni e delatori, a chi per primo denuncia alla pubblica autorità chi si è sporcato di nero?
Se il branco di ignoranti, arroganti, intolleranti che ha censurato Enrico Montesano per la sua maglietta oscena sapesse che il motto «Memento audere semper», ricordati di osare sempre, stampato sul retro della sua maglietta, non è fascista ma fu coniato da Gabriele D'Annunzio nella Prima guerra mondiale e ricorda la beffa di Buccari del 1918 contro l'impero austrungarico, con protagonisti lo stesso D'Annunzio e la medaglia d'oro Luigi Rizzo...
Invece, dopo averlo selvaggiamente attaccato, cacciano Montesano dalla Rai spiegando: «Inammissibile che un concorrente indossi una maglietta con un motto che rievoca una delle pagine più buie della nostra storia».
Ma quel motto evoca D'Annunzio, gli eroi e le loro imprese, e la Prima guerra mondiale... Poi la Decima Mas ne continuò la tradizione militare nella Seconda guerra mondiale, si distinse per azioni eroiche. Vi dicono nulla soldati esemplari ammirati per le loro imprese e il loro stile cavalleresco anche dai nemici, come Luigi Durand de la Penne e Teseo Tesei, due medaglie d'oro e molti altri?
No, non vi dicono nulla, purtroppo. Non sapete nulla, non volete sapere nulla ma ciò non vi impedisce di giudicare tutto e tutti, anzi ne è la premessa indispensabile Dopo l'8 settembre, quando l'Italia si spaccò in due, la Decima Mas prestò servizio a nord nella Repubblica sociale con il principe Junio Valerio Borghese, il Comandante, e a sud nel regno d'Italia, a fianco dell'esercito sabaudo di Badoglio. Ma restarono in ambo i fronti dei soldati leali, al servizio della patria.
Non si può continuare all'infinito questo giochino infame, questa acchiapparella con finale espulsione, gogna e vituperio per tutti coloro che cadono nelle grinfie del politically correct, scivolano su una parola, un indumento, un mezzo gesto. Pensate, per cambiare genere ma non intolleranza, alla brutta fine di Memo Remigi. Più di mezzo secolo di musica e di notorietà legata esclusivamente alle canzoni, bruciato a 84 anni per una pur deprecabile mezza pacca ai glutei di una donna.
D'ora in poi Remigi non sarà più il cantautore che conoscevano tramite il suo repertorio romantico, ma resterà «quello della pacca», magari con l'epiteto aggiuntivo di vecchio porco sessista. Così Montesano, più di cinquant' anni di brillante carriera di comico, d'attore e di teatro, buttata via dall'infamia indescrivibile di una maglietta. Sarebbe bastato criticarla, considerarla kitsch, magari, fuori luogo ma senza invocare i soliti Demoni nazisti e il solito Angelo Sterminatore Ma lui, peraltro, è recidivo, fu già linciato come no vax e no green pass.
Come sono lontani i tempi in cui Montesano era europarlamentare e consigliere comunale del Partito democratico della Sinistra e veniva ammirato e chiamato dappertutto, portato in un palmo di mano dai giornali de sinistra che si gloriavano di lui e che oggi lo insultano e lo disprezzano Ma non è di casi personali che vorrei parlare. È del caso Italia, questa decrepita in ostaggio del fascismo e dei suoi aguzzini.
Non può fare un passo, neanche un passo di danza, che scatta la censura al risorgente partito fascista. A proposito, vorrei far notare che perfino la legge Scelba e la norma transitoria della Costituzione (sono passati quasi settant' anni), condannavano la ricostruzione del disciolto partito fascista, ovvero punivano i tentativi politici di rifare il fascismo. Non si preoccupavano minimamente delle chincaglierie nostalgiche, della paccottiglia di regime e neanche delle opinioni storiche divergenti sul passato ventennio. Ma il clima si fa irrespirabile man mano che si allontana la storia.
Un paradosso contronatura. Per dirvene un'altra che mi riguarda personalmente, il 28 ottobre scorso ho rinunciato a partecipare a un convegno di studi sulla marcia su Roma nei pressi di Predappio, per evitare di trovarmi qualche camicia nera in sala e così confondermi col folclore fascista in voga nella giornata. Contemporaneamente, un convegno di un istituto antifascista che mi aveva invitato come correlatore, è riuscito, spostando in extremis il convegno, a mettermi in condizione di rinunciare all'evento, e prima ancora che comunicassi la mia rinunzia avevano data per certa la mia défaillance. Capite? Non si può parlare di fascismo né in un contesto antifascista né in un contesto non antifascista, per motivi diversi ma alla fine convergenti.
Per quel che mi riguarda, il fascismo non rientra più nei miei interessi di studio ormai da diversi anni. Ma penso con fastidio che oggi col fascismo ridotto a puro fenomeno criminale, non potrebbero più scrivere di fascismo né storici seri come Renzo De Felice né filosofi non certo fascisti come Augusto Del Noce, e nemmeno giornalisti e divulgatori come Indro Montanelli e Giorgio Bocca, Arrigo Petacco, Giampaolo Pansa e Oreste Del Buono. Tanto per citare firme di varia estrazione. Bisogna solo allinearsi, indignarsi e inveire. Quando riusciremo a dire semplicemente e perentoriamente basta a questo carnevale fascista-antifascista permanente e alle polizie repressive, a colpi di cancellazioni, algoritmi, espulsioni e sentenze?
Da lastampa.it il 16 novembre 2022.
«Non ho ancora tutti i gli elementi per inquadrare compiutamente la situazione che è stata sottoposta al mio esame da Enrico Montesano. Ma un documento fotografico diffuso da una agenzia stampa poche ore fa mi induce ad una riflessione significativa che credo non possa essere contestata». Comincia così la dichiarazione che l'avvocato di Enrico Montesano, Giorgio Assumma, affida all'Adnkronos spiegando le ragioni principali sulle quali impronterà la difesa del suo assistito in seguito all'espulsione dell'attore dalla trasmissione Ballando con le Stelle per aver indossato, durante le prove, una maglietta con il simbolo della X Flottiglia Mas.
«Nel documento fotografico -spiega l'avvocato Assumma- è effigiato l'allora Presidente della Repubblica Napolitano affiancato dai vertici delle forze armate. Sono tutti sull'attenti per ricevere gli onori militari dalle associazioni d'arma presenti e schierate in occasione di una cerimonia pubblica. Si scorge chiaramente in prima fila un alfiere della rappresentanza della associazione nazionale Marinai d'Italia, X flottiglia Mas, anch'essa schierata, che regge ed espone il vessillo del reparto nel quale è riprodotto esattamente il simbolo impresso sulla maglietta indossata da Montesano».
«La riflessione a cui sono stato indotto è questa -tira dunque le fila il legale di Montesano- Se l'esposizione di tale simbolo è stata ritenuta lecita e degna di rispetto dalle alte sfere della Presidenza della Repubblica e dai vertici delle forze armate, come poteva destare sospetti di illegalità e di offesa ai valori della Repubblica democratica nell'attore Montesano e nei tecnici della Rai addetti alla vigilanza sulla trasmissione?».
Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 14 novembre 2022.
La maglietta con il simbolo della X Flottiglia Mas, fregiata dal motto Memento Audere Sempre, è costata cara a Enrico Montesano, raggiunto da un provvedimento della Rai che lo ha defenestrato da Ballando con le Stelle, talent danzante condotto da Milly Carlucci il sabato sera su Rai1.
Il caso era già stato sollevato durante la puntata, quando sui social qualcuno aveva fatto notare che, nella clip trasmessa in diretta prima dell'esibizione di Montesano, quest'ultimo indossava la maglietta con il simbolo fascista durante le prove della coreografia.
Il putiferio è poi deflagrato la domenica mattina dopo la denuncia di Selvaggia Lucarelli, corredata dalle foto tratte dalla clip, e la presa di posizione del Consigliere di Amministrazione in quota Dipendenti Riccardo Laganà che auspicava provvedimenti seri da parte di viale Mazzini.
Dopodiché si sono aggiunti, fra gli altri, la cantante Fiorella Mannoia, il presidente della Federazione della Stampa Beppe Giulietti, la parlamentare del Pd Simona Malpezzi, l'assessore alla Sanità del Lazio Alessio D'Amato, l'Anpi, tutti unanimi nello stigmatizzare l'esposizione di un "simbolo fascista" sulla tv pubblica, invitando chi di dovere a intervenire. Solo nel tardo pomeriggio la Rai ha quindi annunciato la defenestrazione di Montesano da Ballando, esprimendo le scuse ai telespettatori e "in particolare a coloro che hanno sofferto e pagato in prima persona a causa del nazifascismo".
Il comico, che già in giornata aveva categoricamente ribadito di non avere nulla a che fare con fascismo e totalitarismi e di disprezzarli profondamente, ha risposto al comunicato della Rai gettando un altro sasso nello stagno. Un macigno, in realtà. Annunciando di aver dato mandato ai suoi legali per tutelare la sua onorabilità, Montesano ha sottolineato che la clip incriminata "è stata vista dai rappresentanti della Rai sia durante le prove della sua prestazione artistica sia durante la registrazione della stessa, sia nel montaggio senza alcuna obiezione" e che il materiale montato "è stato ulteriormente esaminato" senza obiezioni sulla regolarità.
L'obiezione di Montesano è piuttosto condivisibile, in effetti. Difficile credere che nessuno si sia accorto di nulla prima di montare e mandare in onda la clip, specie in un programma come Ballando con le Stelle dove notoriamente in fase di realizzazione tutto è controllato fin nel minimo dettaglio. Qualcun altro pagherà, dunque? Soprattutto alla luce del fatto che, sabato sera, dopo la messa in onda della clip della discordia e l'esibizione di Montesano, quest'ultimo è stato celebrato dalla giuria e Milly Carlucci lo ha ringraziato pubblicamente per la sua partecipazione al programma (peraltro già fortemente criticata da molti per via delle sue posizioni no vax).
Commentando la decisione di Viale Mazzini di punire il comico, lo stesso Consigliere Rai Laganà ha puntualizzato che "la linea etica è maggiormente credibile quando si individuano e redarguiscono conduttrice, dirigenti e autori responsabili del controllo editoriale di un contenuto, oltretutto registrato".
Per quanto riguarda invece l'opinione di Montesano sul fascismo, VigilanzaTv ha fatto qualche indagine rispolverandone un'intervista rilasciata nell'ottobre 2018 a Peter Gomez nella trasmissione La confessione, in onda sul Nove e visibile a questo link. L'attore - continuando a professarsi "uomo di Sinistra", pur convinto che le distinzioni fra Destra e Sinistra siano ormai superate - confidava a Gomez riguardo a Benito Mussolini: "Penso che lui sia stato un uomo che voleva bene agli italiani, che voleva aiutare gli italiani, ma ha una macchia indelebile troppo grave che sono le leggi razziste, le leggi razziali, su questo non lo perdono". Montesano stigmatizzava altresì la scelta del Duce di "essersi alleato con un pazzo furioso e portato l’Italia in guerra. Lui [Mussolini] sapeva benissimo che non eravamo in grado, voleva solo stare al tavolo della pace, pensando che il pazzo... che il caporale pazzo con i baffetti avrebbe vinto”.
Basteranno queste dichiarazioni a scagionare Montesano dalle accuse di simpatie fasciste? Vedremo.
Frattanto, sempre riguardo a Ballando con le Stelle, è scoppiato un altro caso di più frivola entità. In un flash, il sito Dagospia di Roberto D'Agostino si è infatti domandato come mai la concorrente Marta Flavi, eliminata nella seconda puntata del talent, non partecipi a Domenica In come gli altri membri del cast. Dietro le quinte del programma si vocifera che il motivo possa essere la grande amicizia che lega Mara Venier a Maria de Filippi.
Venier ha più volte parlato del debito di riconoscenza che la lega alla conduttrice di Amici e C'è posta per te, che le offrì lavoro permettendole di restare alla ribalta quando la Rai le diede il benservito anni fa. Ed è noto che Marta Flavi fosse sposata con Maurizio Costanzo quando questi conobbe la Maria nazionale innamorandosene. Il triangolo sentimentale portò fatalmente al divorzio con serratissima battaglia legale tra Flavi e Costanzo, che poi impalmò De Filippi.
La peculiare assenza di Marta da Domenica In è quindi dovuta alla lealtà che lega zia Mara all'amica Maria? L'eternamente giovane fatina Flavi sarebbe dunque una sorta di Rebecca, la prima moglie che è opportuno tenere fuori il più possibile da Domenica In, dove invece più volte è stata ospite De Filippi con tutti gli onori del caso? Questa, almeno, è la voce che ci hanno riferito dai corridoi della Rai. La quale al momento, vedi caso Montesano, ha però una questione ben più delicata per le mani che probabilmente continuerà a tener banco nei prossimi giorni. A tutto beneficio dello share...
Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 14 novembre 2022.
Enrico Montesano fuori da Ballando con le stelle, con tante scuse al pubblico da parte della Rai. Una domenica di passione. Ci sono volute oltre sette ore perché viale Mazzini decidesse di escludere l'attore - concorrente dello show del sabato di Rai 1 - dal programma. In un filmato era apparso alle prove mentre indossava una maglietta nera della formazione militare fascista X Mas, con il motto dannunziano: "Memento audere semper".
L'attore, fuori dallo show, ha dato «mandato all'avvocato Giorgio Assumma insieme al suo agente Settimio Colangelo di esaminare la situazione per tutelare al meglio la sua identità personale e la sua onorabilità ». Montesano sottolinea che la maglietta al centro delle polemiche «è stata vista dai rappresentanti della Rai sia durante le prove sia durante la registrazione, sia nel montaggio senza alcuna obiezione» e che il materiale montato «è stato ulteriormente esaminato senza obiezioni ». […]
Mirella Serri per “La Stampa” il 14 novembre 2022.
Enrico Montesano questa volta l'ha fatta troppo grossa. Volendo a tutti i costi dimostrare che il suo cuore batte per l'estrema destra (di questi tempi conviene), l'ex «Conte Tacchia», il personaggio che gli diede notorietà, sabato sera si è esibito nelle prove (andate in onda) di «Ballando con le Stelle», lo show di Rai1 condotto da Milly Carlucci, indossando una maglietta total black che aveva stampata sulla schiena la frase «Memento audere semper».
Si tratta del tremendo motto della X Mas, reparto dei mezzi d'assalto della Marina italiana. L'unità militare, nel marzo del 1941, prese il nome di X flottiglia Mas, proprio dalle iniziali della massima dannunziana di cui si fregiava. Nel 1943 il comando della unità combattente fu assunto da Junio Valerio Borghese, il quale, dopo l'8 settembre, la trasformò in una formazione per continuare la guerra e la repressione della Resistenza al fianco del Terzo Reich. Borghese - che nel secondo dopoguerra cercò di seppellire sotto un golpe, fortunatamente fallito, la democrazia italiana - mise insieme truppe feroci che si distinsero per atti di crudeltà.
La prima ad accorgersi della singolare t-shirt è stata una delle giurate, Selvaggia Lucarelli, che ha denunciato l'accaduto su Twitter. Sui social si è scatenata una protesta indignata. E ieri è arrivato l'annuncio dei vertici Rai i quali hanno chiesto «scusa a tutti i telespettatori e, in particolare, a coloro che hanno pagato e sofferto in prima persona a causa del nazifascismo... È decisione della Rai, dunque, di interrompere la partecipazione di Montesano alla trasmissione del sabato sera».
Forse a viale Mazzini si sarebbero dovuti svegliare prima: perché invitare a «Ballando con le stelle» un personaggio che aveva già dato ampia prova della sua vocazione alla provocazione di bassa lega. Tutti ricordano, ad esempio, le sue ripetute apparizioni sulle piazze affollate di No Vax per incitare alla «disubbidienza civile» nei confronti dei provvedimenti governativi che cercavano di contenere la strage da Covid.
Non contento, l'attore-agitatore esortava anche a non pagare il canone Rai.
Evidentemente non c'è limite al perdonismo. Come si giustifica l'ex Conte Tacchia? Replica mostrando una tessera socialista del 1976. «Buona domenica amici! Le fesserie e le strumentalizzazioni lasciamole agli altri!», ha scritto sul suo canale Telegram. Di voltafaccia politici l'attore ne ha fatti parecchi: è stato anche vicino al Pds di Achille Occhetto, che lo ha perfino eletto europarlamentare; poi ha simpatizzato per la destra di Gianni Alemanno e pure per i pentastellati.
L'espulsione dalla trasmissione Rai di un personaggio che poteva essere fermato prima, visti i suoi trascorsi, è un minimo sindacale. Montesano, evocando la X Mas ha offeso la memoria della lotta antifascista. In nome del «dio» share si è spesso chiuso un occhio su comportamenti e proclami di assai dubbio gusto, basti ricordare i litigi e le parolacce che, nella medesima trasmissione, sono volati fra alcuni dei suoi protagonisti. Ma stavolta, invitando questo attore, ormai poco comico e molto desideroso di farsi notare dopo essere stato trascurato dal cinema, nel programma tv a caccia di ascolti di occhi ne sono stati chiusi due.
Spesso ci riempie la bocca con l'espressione «servizio pubblico». Ma proprio nel caso dell'agit prop No Vax, e dati i precedenti, il servizio Rai avrebbe dovuto sorvegliare e impedire l'affronto alla sensibilità dei cittadini e ai valori della Costituzione democratica.
Montesano minimizza e lascia intendere che voleva scherzare. Però l'offesa non si può ridurre a una burla, come non lo sono i travestimenti dei politici che «per scherzo», dicono, si mascherano da SS. Quando il «Conte Tacchia» ha preso la parola a Roma intonando l'inno del mondo No Vax, «La gente come noi non molla mai», faceva sul serio. È legittimo sospettare che facesse sul serio anche in questa occasione e che volesse mandare un messaggio nostalgico. Comunque, quali che siano le motivazioni del cabarettista, consiglieremmo al neoministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che esorta a sviluppare le sinergie tra mondo della cultura e la tv, di non proporre una fiction con Montesano nei panni del «principe nero» dal 1941 al 1971, anno in cui fu emanato un ordine di cattura per Borghese (poi ritirato).
Francesco Merlo per “la Repubblica” il 14 novembre 2022.
Finalmente c'è riuscito, Er Pomata, a farsi prendere sul serio dall'Anpi e da Fiorella Mannoia: "Madonna! si ce penzo, e che paura!" recitava Totò nella poesia sui morti. Più che di Enrico Montesano, che già da No Vax faceva il rigattiere di simboli guasti, questa maglia nera della Decima Mas ci parla infatti della tristezza italiana, dove il fascismo è diventato cool, nel senso del "feticcio cariato" di cui scriveva Gillo Dorfles, il grande studioso dell'estetica nazionale: che gusto quel disgusto.
Il vecchio, disperato, Enrico Montesano ha infatti esibito la divisa nera non a Predappio e neppure a Salò, ma a Ballando con le stelle che è Sanremo tutto l'anno, è il nostro definitivo genius loci. "La vita è ballo", come variante del capolavoro di Benigni La vita è bella, era già il titolo del profetico e geniale cammeo del 2003 di Ciprì e Maresco dove il nano gobbo ballava vestito con il frac ed era il campione del grottesco che cercava gli sputi del pubblico.
"Minchia, che schifo che fai: puh!" gridavano in sala. E più sputavano - "puh!, ridammi i soldi del biglietto" - e più il nano si scatenava nella danza, proprio come si è scatenato Montesano. Il suo frac "tirasputi" è la divisa nera di quelli che "vi giuriamo che combatteremo là dove Dio volle il tricolore" in rima alternata con "ritorneremo" e con "onore".
Con voluttà Er Pomata di Febbre da cavallo si era già mostrificato in comico engagé contro i vaccini e contro le cospirazioni della finanza, e senza mascherina litigava con i vigli urbani e rifiutava il Green Pass: «Disobbedienza civile», «sono incazzato nero». E coinvolgeva i figli, la famiglia, un piccolo mondo romano esausto e confuso: «Sono romano e a tempo perso pure italiano».
Roma, da Belli ad Aldo Fabrizi, da Trilussa a Sordi, da Petrolini a Proietti è la trippa dell'umorismo italiano, la bonarietà dei difetti nazionali, l'Italia che non si piace ma si compiace. E però qualcosa andò storto nella promettente crescita di maschera romana di Enrico Montesano: «Si devono sciacquare la bocca quando parlano di me, io sono un attore, non un comico.
Imparino prima a ballare, cantare, recitare, fare le imitazioni, inventarsi personaggi e farsi 52 anni di carriera come me: più di 60 film e 10 commedie musicali». Tutto vero. Però Montesano, nonostante la grande popolarità in tv, rimase sempre "la maschera senza qualità", la risata senza dramma, il talento generico.
Mai riuscì a spargere polvere di stelle come Sordi e Manfredi, fu battuto da Proietti che era con lui in Febbre da cavallo, e quando al cinema sembrava che davvero potesse farcela fu lasciato indietro da Verdone. Ecco, provate a immaginare Sordi, Manfredi, Proietti o Verdone che finiscono nell'aceto della Decima Mas. Abbiamo un rapporto speciale con i comici, noi italiani.
Molti di loro ci hanno insegnato trucchi e scorciatoie di grande intelligenza. Abbiamo imparato molte più cose da Totò e da Benigni che non da Gramsci. Totò con il suo "vota Antonio, vota Antonio", ci diceva per esempio che la campagna elettorale dei suoi tempi somigliava già a un canovaccio da commedia dell'arte. Ma nient' altro Totò sapeva, voleva e poteva fare. A guastare (anche) i comici ci ha pensato il vaffa di Beppe Grillo, una scienza politica che l'Italia ha preso sul serio, un pessimo esempio di malumore per tutti gli altri comici in crisi artistica.
Quando Montesano capì che non sarebbe mai diventato il nuovo idealtipo dell'ordinario italiano, il Romano che appunto piace all'italiano che non si piace, non riuscì più a far ridere e cominciò a esibire la trasgressione più trash, rendendo kitsch anche i testi del filosofo liberale Giorgio Agamben, il quale durante la pandemia giudicava l'obbligo della mascherina «un'inaudita manipolazione delle libertà di ciascuno». Nell'Italia impazzita dell'era Meloni gli rimane la risorsa disperata della gagliofferia d'antiquariato. Nella sua bancarella raccoglierebbe di tutto, e ora che il fascismo è diventato cool si espone agli sputi: più ne prende, più gongola. Montesano "arcifascista" è l'epica maschera senza qualità che la Rai di pessima qualità ha chiamato per espellerlo, pensate, come fosse Dario Fo.
Massimo Falcioni per tvblog.it il 14 novembre 2022.
La maledizione del sabato sera. Venticinque anni dopo Enrico Montesano rivive la stessa storia, come Bill Murray in Ricomincio da capo. Anche all’epoca era novembre, anche all’epoca c’era di mezzo Rai1, anche all’epoca al suo fianco c’era Milly Carlucci.
Corsi e ricorsi, coincidenze, casualità. Chiamatele come vi pare. Al centro resta tuttavia la vicenda dell’attore romano, che riscivola sulla buccia di banana del saturday night, seppur con motivazioni diverse.
“La cosa che mi rimprovero di più? Di aver accettato di fare il sabato sera”, confidò Montesano a Nadia Tarantini de L’Unità il 3 novembre 1997. Due giorni prima c’era stato il tracollo d’ascolti del ‘suo’ Fantastico, talmente ‘suo’ che al titolo era stato allegato il nome Enrico, giusto per lasciar intendere il grado di personalizzazione dello show. Montesano mollò e in aiuto del varietà arrivò Giancarlo Magalli, esperto di ingressi in corsa, che la settimana successiva si recò in teatro alla guida di un’ambulanza a sirene spiegate: “Buonasera, sono il pronto soccorso televisivo!”.
Gli spettatori nel giorno di Ognissanti erano stati 4.869.000, pari ad uno share del 22,3%. Corrado, su Canale 5, aveva invece sfiorato i 7 milioni, sfondando il muro del 30%. Un declino che era cominciato diverse settimane prima, con la costante ascesa della Corrida e l’inesorabile crollo della trasmissione abbinata alla Lotteria Italia.
Come detto, a condividere quell’avventura c’era la Carlucci. La stessa che lo scorso agosto aveva ufficializzato la partecipazione di Montesano a Ballando con le stelle. Se l’ingaggio di Montesano a Fantastico apparve coerente e razionale, stavolta il mondo si era capovolto. La pandemia, infatti, aveva restituito un attore spesso al centro di polemiche furenti per via delle sue posizioni negazioniste sui vaccini.
Non che la vigilia di Fantastico Enrico fosse filata liscia. L’ennesima analogia, pertanto, è rappresentata dall’accusa di blasfemia che il cattolicissimo Ente dello Spettacolo rivolse a Montesano a causa del promo che anticipò la messa in onda del programma. Tutta colpa del travestimento da prete all’interno di un confessionale e di un botta e risposta con una voce fuori campo che gli chiedeva: “Quante volte lo fai?”. “Una volta a settimana”, replicava il comico. “E con chi lo fai?”, “Con Milly Carlucci”. Il dialogo si concludeva con la benedizione finale: “Che la Rai sia con voi”.
Bufera ieri, bufera oggi. Eppure, dopo oltre un mese di Ballando tutto pareva dimenticato, grazie a performance apprezzate, applaudite e spesso cucite su misura, con rievocazioni di Rugantino e Febbre da cavallo. Fino al patatrac della t-shirt della ‘Decima Mas’ che ha spinto la Rai a squalificarlo dopo sei puntate. L’altra volta la separazione giunse dopo cinque.
Enrico Montesano cacciato da Ballando. La maglietta della X Mas scatena l'inferno. Il Tempo il 13 novembre 2022
Bufera su Enrico Montesano per la maglietta con la X Mas indossata durante le prove di "Ballando con le Stelle". L'attore è stato aspramente criticato sui social e la Rai è stata costretta correre ai ripari, decidendo l'esclusione del concorrente della trasmissione del sabato sera. A nulla sono bastate le scuse pronunciate dall'attore sulla sua pagina Facebook.
«Quanto accaduto a "Ballando con le stelle" in onda su Rai1, è inaccettabile». Lo scrive, in una nota, la Rai, dopo le polemiche nate dal fatto che l’attore indossasse una maglia con il simbolo della X Mas nel programma. «Resta inammissibile che un concorrente di un programma televisivo del servizio pubblico indossi una maglietta con un motto e un simbolo che rievocano una delle pagine più buie della nostra storia - si legge ancora nella nota - Chiediamo scusa a tutti i telespettatori e, in particolare, a coloro che hanno pagato e sofferto in prima persona a causa del nazifascismo a cui proprio quella simbologia fa riferimento". "È decisione, dunque, della Rai interrompere la partecipazione di Enrico Montesano alla trasmissione del sabato sera "Ballando con le stelle".
Poi sono arrivate le scuse dell'attore che, però, non gli hanno evitato l'esclusione del programma del sabato sera. «Sono profondamente dispiaciuto e amareggiato per quanto accaduto durante le prove del programma. Sono un collezionista di maglie, ho quella di Mao, dell’Urss, ma non per questo ne condivido il pensiero. Non c’era in me nessuna intenzione di promuovere messaggi politici o apologia di fascismo da cui sono profondamente distante». Lo scrive sulla sua pagina Facebook Enrico Montesano, dopo le immagini che lo ritraggono alle prove di "Ballando con le stelle" con la maglia della X Mas, formazione paramilitare fascista. «Sono sempre stato un uomo libero e democratico. Credo nei valori della Costituzione e mi scuso profondamente con chi si è sentito offeso e turbato. È stata un’ingenuità. Io col nazifascismo e tutti i totalitarismi non c’entro nulla e li disprezzo profondamente. Chiedo ancora scusa», aggiunge il comico. Le scuse però non sono bastate: la Rai ha escluso l’attore dal programma. Soddisfazione per l'eliminazione di Montesano è stata espressa dall'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. «Apprendiamo dalla stampa che Enrico Montesano è stato escluso dal programma Ballando con le stelle. Una decisione doverosa che ha raccolto l’indignazione di tantissime e tantissimi democratici e antifascisti». Così l’Anpi su twitter.
Ballando con le stelle, Lucarelli infiamma i social contro Montesano: la maglia dello scandalo. Il Tempo il 13 novembre 2022
Selvaggia Lucarelli va all’attacco di Enrico Montesano su Twitter. La giudice di Ballando con le stelle, all’indomani della puntata del 12 novembre del programma tv di Rai1 condotto da Milly Carlucci, ha messo nel mirino l’attore, che ha indossato una maglia particolare per le prove con la maestra di ballo Alessandra Tripoli. “Dalle immagini di ieri vedo Montesano fare le prove di Ballando con la maglietta della Decima mas che, se a qualcuno sfugge, è una formazione militare che ha combattuto accanto ai nazisti contro i partigiani, nonché simbolo del neofascismo” il messaggio social della giurata della trasmissione televisiva.
Montesano indossa una maglietta tutta nera con il simbolo “X Flottiglia Mas” nella parte frontale e la scritta “Memento audere semper” nella parte posteriore. Un utente ha chiesto a Lucarelli il perché del silenzio in tv: “E tu perché non denunci sta cosa in diretta e per protesta non te vai, fermo restando che l'avresti dovuto fare appena hanno annunciato lui come concorrente?”. “Perché non me ne ero accorta, altrimenti glielo avrei detto” la replica di Selvaggia. Nella discussione si è inserita anche Fiorella Mannoia: “Ma si, ora va bene tutto, divise naziste scambiate per travestimenti di carnevale, saluti romani, commemorazioni fasciste, faccette nere, che vuoi che sia un nostalgico attore con una maglietta della 10ma Mas. Pure te che vai a guarda’”. Montesano nei mesi scorsi era già finito al centro di polemiche per le sue posizioni apertamente no-vax sul Covid.
Dagospia il 14 novembre 2022. Dalla pagina Facebook di Enrico Mentana
"N'apocalisse!", esclamava al culmine del suo monologo Felice Allegria, il personaggio che impose all'attenzione del pubblico televisivo Enrico Montesano, ormai mezzo secolo fa. E una apocalisse mediatica si abbatte oggi sull'attore romano, per quella incredibile maglietta della Decima Mas (con tanto di motto inequivocabile, "Memento audere semper" scritto sul dorso) indossata durante le prove del programma a cui partecipa/va, Ballando con le stelle.
Montesano è stato espulso, già lo sapete. Cartellino rosso, via dalla gara. E per quanto vi possa sembrare sconveniente non sono affatto d'accordo. Non do e non accetto lezioni di antifascismo. Se avessero vinto quelli per cui combatteva la Decima Mas non sarei nato, e idealmente starei sempre e comunque con chi sfilava a Milano quel 25 aprile del 1945. Ma il fallo da espulsione contestato a Montesano sta dieci gradini sotto il busto di Mussolini esibito in casa della seconda carica dello Stato. Non solo. Non amo l'indignazione a scoppio ritardato.
Ieri sera, quando le immagini delle prove di ballo con la famigerata maglietta sono state trasmesse, nessuno si è accorto di niente. Nessuno. Nè si era accorto di nulla chi aveva fatto le riprese di quelle prove, chi le aveva montate, chi le aveva visionate, chi le ha messe in onda. Non s'è accorto di niente chi, conduttrice, giuria e ospiti del programma, ha poi interagito con lo stesso Montesano.
Chi era tra il pubblico del Teatro delle Vittorie. E nemmeno i due milioni di spettatori davanti al televisore a seguire la gara. Sapete che se in qualsiasi tg o trasmissione si scivola su un vocabolo, si manda in onda una foto sbagliata, ci si gratta il naso, dopo un minuto i social cominciano a parlarne, tra sfottò e indignazione. Ieri sera niente. Non un tweet, non un post.
E poi, tutta questa fermezza a cosa si deve? Forse al fatto che Montesano non ha, a ogni evidenza, santi in Paradiso?
In tv, da almeno sei mesi, ogni settimana che Dio manda in terra un professore ci spiega che Putin ha ragione. E nessuno lo tocca, giustamente. Ma non per democrazia, perché fa ascolto.
Montesano, che ha combattuto contro i vaccini, il green pass e spesso anche la logica nei mesi duri del Covid - e sapete bene come la penso al riguardo - è stato reclutato in Rai forse proprio per questo, anche se nessuno lo ammetterà.
Avrà una gran confusione in testa, visto che è stato anche eurodeputato del partito di D'Alema, non certo erede dello squadrismo repubblichino. E non credo proprio che sia diventato un nostalgico, semmai un vecchio provocatore.
A cui sarebbe giusto chiedere, davanti ai telespettatori e al pubblico in teatro che ancora ieri lo hanno votato e applaudito, alla giuria che lo ha riempito di giudizi lusinghieri, ai suoi concorrenti nella gara e a tutti noi, "Ma che ti è saltato in mente? Perché avevi quella maglietta? E cosa ne pensi di quel che accadde ottant'anni fa in Italia?". E poi, solo allora, pensare al da farsi (spoiler: un perdono col monito a non farlo più). Beato il paese che non ha bisogno di telemartiri.
Da liberoquotidiano.it il 14 novembre 2022.
Enrico Montesano cacciato da Ballando con le Stelle. Il provvedimento Rai è arrivato dopo che Selvaggia Lucarelli, giurata del programma, ha notato l'attore indossare alle prove una maglietta della X Mas. Da qui l'espulsione e la bufera, arrivata addirittura negli studi di La7.
A Non è l'Arena il tema fa litigare Gad Lerner e Alessandro Sallusti. "Ho lavorato tanti anni in Rai e so cosa succede quando cambiano gli equilibri politici - esordisce Lerner -. Secondo me Montesano, che ha avuto altre tessere di partito, credo ne abbia esibita oggi per giustificarsi anche una del partito socialista di non so quale anno".
Parole che strappano un sorriso al direttore di Libero, che comunque dà all'ospite di Massimo Giletti l'opportunità di finire il discorso. "Montesano - prosegue Lerner - è un cialtrone tra i più assatanati dei no vax. Sono sicuro che quella maglietta non se la sia messa a caso, magari avrà pensato di ingraziarsi, visti i cambiamenti politici, qualche futuro dirigente". "Ma dai - non si trattiene più Sallusti -. È un caso psichiatrico non particolarmente dissimile da quello che ho appena sentito dire da Gad, ossia che adesso lavori in Rai solo se sei della X Mas, è divertente".
Ma non finisce qui, perché il direttore definisce l'attore "un artista sulla via del declino, balla malissimo e ha trovato il modo di far parlare di sé". Insomma, per Sallusti "non c'entra nulla il fascismo e altro, Montesano sa come funziona la comunicazione. Da quando è nato prende per il cu** tutti e stasera lo ha fatto anche con Lerner". Il direttore infatti ricorda che "ora anche loro parlano di lui. Se tu ti inc*** - conclude rivolto a Lerner -, lui è riuscito nella sua trovata".
Da repubblica.it il 17 novembre 2022.
Enrico Montesano dice la sua su tutta la questione che ormai da domenica tiene banco e che gli è costata l'esclusione dallo show Ballando con le stelle.
Prima pubblica un post su Facebook provocatorio poi all'Adnkronos dice: "Adesso avrei fatto addirittura il saluto romano? Ora basta. Tu mi puoi offendere in tutti i modi ma l'etichetta di 'nostalgico' no, non la accetto. Così tu distruggi la reputazione di una persona. Questa etichetta la restituisco al mittente, non la tollero e mi incavolo di brutto. È offensivo, denigratorio, mi devono chiedere scusa per questo danno. Mi devono riabilitare. Sono loro che offendono me".
Secondo Montesano "il video delle prove mostra chiaramente che la coreografia finisce a pugno chiuso. Io scherzavo durante le prove, era un passo di danza che terminava con il braccio alzato, ma io ho detto ad Alessandra, la ballerina, 'no, questo meglio che non lo facciamo, potrebbe essere equivocato', ed ho chiuso il pugno. L'Italia è preoccupante, non si può parlare, muoversi e ora nemmeno vestirsi. Indossare la maglia della X Mas non è vietato, è in vendita in tutta Italia". L'attore evidentemente non intende buttare acqua sul fuoco della polemica per la maglietta della Decima Mas (che gli è costata l'esclusione da Ballando con le stelle) e il gesto da saluto romano nelle prove dello show di Milly Carlucci e anzi sui social sceglie di provocare.
Questa mattina sulla sua pagina Facebook aveva pubblicato una foto della sua commedia del 1984 I due carabinieri di e con Carlo Verdone, insieme a Massimo Boldi, dove si vede il suo personaggio con la mano ingessata nella posa del saluto romano. Tra i commenti sotto il suo post chi inneggia alla Decima Mas e chi lo difende dalle accuse e loda la sua ironia.
C'è chi scrive: "Un film bellissimo è molto comico... quando ancora si era liberi di parlare e di scherzare senza la paura di essere catalogati! Continui a conservare la sua integrità... non essere come certe persone è un grande pregio e valore... se ne deve rallegrare... hanno fatto proprio pena con lei. Ma d'altronde ognuno si distingua per quello che è. Tanti siamo dalla sua parte.. .e ci prendiamo anche noi offese ed ingiurie per questo".
Dagospia il 17 novembre 2022. Da “La Zanzara – Radio24”
Enrico, ti hanno messo un fascio sulla tempia, dice Cruciani, ti hanno bollato come fascista. A La Zanzara su Radio 24 Parla Enrico Montesano: “Fascista? Mi sento offeso, mi devono chiedere scusa. Devo essere riabilitato. Non ho questo tipo di storia. C’è il no logo a procedere”.
Ti hanno dato praticamente del fascista, come rispondi: “Ma come? Pensa che il mio nonno materno Giovanni era tipografo all’Unità e tutta la mia famiglia di mia mamma è una famiglia di antifascisti, repubblicani, persone libere. La mia educazione è stata quella, antifascista. Ho fatto molti pugni chiusi, il saluto romano una sola volta per scherzo. Per giocare”.
Ti accusano di aver fatto il saluto romano: “La coreografia finiva col braccio alzato e la mano aperta. Allora ho detto alla mia maestra: aho, è meglio che non lo facciamo che poi si equivoca. Meglio che famo questo, e ho chiuso il pugno. Lo faceva Baffone, chissenefrega”.
“Nessuno del pubblico ha notato nulla, né prima, né quando è andata in onda. Nessuno si è accorto di nulla. La massa non sa nemmeno che cacchio è quella roba, la X Mas. Di che stamo a parlà? Fuffa, fuffa. E voglio anche scagionare i dipendenti della Rai, i delegati Rai”.
Dovevano controllare, dicono: “Ma se questi simboli hanno sfilato davanti a Napolitano e altri presidenti, perché qualcuno dovrebbe aver avuto il sospetto? La malignità è negli occhi di chi guarda”.
Le magliette vengono indossate dai neofascisti e la X mas esaltata da gruppi neofascisti: “E che c’entro io? E allora se indosso una maglietta che ho mica sono maoista, e se indosso una di Che Guevara mica sono un rivoluzionario. Se avessi indossato una maglietta di Che Guevara, di Mao o Stalin non sarebbe successo nulla.
Per noi sono dei gadget storici che non hanno alcuna valenza politica. Il motto che c’è scritto dietro ricorda le imprese della X Mas. Che è un reparto eroico, ha preso la medaglia d’oro. Andate a guardare il sito del Quirinale”.
Come sei stato trattato dalla Rai: “Era una maglietta per sudare. Le avevo finite, mi sono messo quella. Non pensavo di scatenare questo putiferio. A me non è stata data la possibilità di spiegare. Sono stato trattato come un mafioso pluriomicida. Invece dopo tre giorni stato cacciato su due piedi. Mi dispiace per tecnici e autori, una squadra straordinaria.
Sono addolorato per aver creato disagio. Milly è molto dispiaciuta e affranta. Ma non mi sento in colpa, non ho commesso alcun reato. Ho indossato una maglietta che ha dei simboli che non hanno nulla a che fare col periodo nostalgico, sono simboli militari”.
“Mi sento danneggiato per questa accusa, questo è sicuro – dice ancora Montesano – però mi auguro che mi richiamino. A botta calda c’è stata questa reazione esagerata, adesso dopo i chiarimenti spero che mi facciano tornare. Preferirei non fare causa, ma la questione è in mano al mio avvocato, Assuma. Ma io sono uomo del compromesso, spero si trovi una soluzione”.
Poi aggiunge: “Il sospetto che qualcuno mi abbia voluto far fuori c’è, qualcuno non gradiva la mia presenza li, l’hanno mandata giù obtorto collo. Hanno preso la palla al balzo. Ma io dico: abbiamo tanti problemi, famiglie in difficoltà economica e questa mi sembra una maglietta di distrazione di massa”.
Fini disse che il fascismo fu il male assoluto: “Ma che ha fatto del bene? Ma non scherziamo. Ci ha portato in una guerra assurda. Ma fa parte della nostra storia, chi non ha in casa una cosa che riguarda quel passato?”.
“Oggi – aggiunge – il fascismo è un’altra cosa. Forse è negli algoritmi, in questa nuova agenda mondiale, nel controllo delle persone 24 ore su 24. Predappio che roba è? Mette in pericolo chi? Sui social sono praticamente tutti dalla mia parte, la prendono a ridere”.
Continua: “E’ risibile, ho messo solo una maglietta che si vende da tanti anni in tutti i negozi on line e non ha nulla a che vedere con il periodo tanto vituperato che noi condanniamo. E anch’io lo condanno. Lo ricuso e lo condanno, come ho sempre fatto. Si sono dimenticati che io per vent’anni alla sinistra ho fatto un gran lavoro, ho portato tanti voti”. Conclude: “Ringrazio Mentana pubblicamente, è stato equanime, obiettivo. Ha visto che il fatto non sussiste”.
Giampiero Mughini per Dagospia il 17 novembre 2022.
Caro Dago, c’è che in Italia - e dunque nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nei nostri album dei ricordi - sono caterve i segni i simboli le tracce le evocazioni i manufatti d’arte i poster le foto che marcano il fatto che in Italia è esistito per vent’anni e oltre un regime politico dittatoriale che ha nome fascismo. E come potrebbe essere altrimenti? Altro che una maglietta indossata da un noto attore mentre sgambettava in una saletta da ballo.
Finché non ho toccato i vent’anni e ho cominciato a comprare pagandoli ratealmente il ben di dio dei libri Einaudi, la traccia del fascismo con cui avevo più confidenza era la foto di un Benito Mussolini giovane che mio padre teneva alle spalle della sua scrivania da lavoro. Lui era stato fascista negli anni tra le due guerre e lo era stato ardentemente.
Quando con lui e mia madre vivevamo nella Firenze dell’agosto 1944 dove stavano per irrompere le forze alleate (quelle che davvero “liberarono” l’Italia, non certo le pur eroiche formazioni partigiane) mio padre si allontanò da casa per qualche giorno, perché non è detto che se lo avessero trovato avrebbero indossato i guanti bianchi. Durante la sua assenza venne a casa nostra un drappello partigiano che voleva piazzare una mitragliatrice da una delle finestre di casa. Alla fine rinunciarono.
Quella foto di Mussolini la guardavo sempre quando andavo da mio padre, che era separato da mia madre. Fosse stata un vintage l’avrei contesa ai miei fratelli quando mio padre è morto. Era una foto che testimoniava che cosa aveva rappresentato quell’uomo per una generazione, quell’uomo che fa da simbolo delle tragedie della storia italiana del Novecento.
E siccome io a quel tempo vivevo con mia madre in casa dei nonni materni, anche il nonno Pietro teneva delle immagini dietro la sua scrivania. Erano dei calchi in gesso che raffiguravano il pantheon comunista, dato che mio nonno era comunista fin dal 1940 e io ho qui sul tavolo la sua tessera di iscritto al Pci. In bella fila erano i ritratti di Marx Engels Lenin Gramsci Stalin. Dopo il XX Congresso il nonno scalzò via il ritratto di Stalin, e ne rimase la macchia sul muro. Io quattordicenne ricordo, mentre pranzavamo, le aspre discussioni tra mia madre e mio nonno se i russi avessero fatto bene a scaraventare i loro carri armati sulla Budapest del 1956. Più tardi mia madre divenne a sua volta comunista tutta d’un pezzo, e quando ebbe tra le mani il mio “Compagni addio” del 1987 non ce la fece ad andare oltre le prime pagine perché quel libro troppo disturbava le sue convinzioni politiche.
Sì, tutte le case e tutte le famiglie italiane traboccano di segnali che alludono alla storia del fascismo e dunque dell’antifascismo. Vedo che Ignazio La Russa viene trattato poco amicalmente perché conserva un qualche busto di Benito Mussolini. Ebbene, e se il busto fosse quello meraviglioso scolpito dal grande Adolfo Wildt, voi che ne direste e come lo commentereste? Perché di questo si tratta, che il fascismo è stata così tanta parte della nostra storia che molti dei nostri grandi artisti ne hanno fatto l’apologia, a cominciare dai futuristi, il drappello forse il più geniale di tutte le avanguardie italiana del Novecento.
Non che il fascistissimo Mario Sironi fosse stato un futurista, ma uno dei più grandi pittori italiani del Novecento senza alcun dubbio. Ebbene io ho - e lo tengo come sacro da quanto è bello - un suo disegno preparatorio di quella Mostra romana del 1932 sul decennale della Rivoluzione fascista che passa per essere stata indimenticabile. Quel disegno di Sironi lo avevo visto da una gallerista romana mia amica, solo che un suo cliente l’aveva già comprato. Poi accadde che la moglie del cliente non la volesse in casa quell’opera talmente marchiata da un credo politico, e a quel punto io mi precipitai per acquistarla. Adesso troneggia all’ingresso del mio Muggenheim e vorrei ben vedere che qualcuno su Facebook mi pungesse al riguardo.
Sì, perché le discussioni su quel che è stata l’Italia durante i vent’anni e passa del dominio fascista non sono argomenti da Facebook. Persino la storia e l’identità drammaticissima del corpo militare che ha nome X Mas non sono un argomento da Facebook.
Meglio ancora. Nessuno di quegli argomenti è degno di essere trattato come se la guerra civile tra italiani fosse ancora in corso. La guerra civile è la tragedia più grande di un Paese, quella in cui gli uni e gli altri se le danno di santa ragione. Quando trent’anni fa me ne facevo un dovere di incontrare e discutere lealmente con gli intellettuali appartenenti alla destra, a uno di loro che era stato un ufficiale repubblichino ma che io rispettavo, Enzo Erra, dissi pubblicamente che “avevano avuto torto marcio” nello schierarsi dalla parte dei tedeschi. Ciò che non ledeva in nulla, lo ripeto, il rispetto che portavo a Erra e agli altri come lui, il mio vecchio amico Giano Accame tanto per fare un nome. Un rispetto che mi potevo permettere, e che tutti avremmo potuto permetterci, perché la guerra civile era finita da quarant’anni. Potevamo ragionare confrontarci raccontare ciascuno la propria esperienza. Grazie a Dio, potevamo farlo. Ho l’orgoglio di essere stato uno dei primissimi in Italia a farlo.
Cara Selvaggia, Memento Audere Semper…Emanuele Beluffi il 14 Novembre 2022 su Culturaidentita.it.
Fa sorridere per l’inconsistenza il caso Montesano montato dalla Lucarelli a Ballando con le stelle: voleva fare una mandrakata ma non le è riuscita, gli italiani hanno altro a cui pensare
Quando sei in casa e fai dei lavori non è che indossi la divisa d’ordinanza o il doppiopetto o il cashmerino, vesti l’abito che ti è più comodo e fai quel che devi fare. Idem quando stai effettuando delle prove per uno spettacolo. E così ha fatto Enrico Montesano l’altro giorno: si è presentato alle prove dell’ultima puntata di Ballando con le stelle su Rai1 con una maglietta. Sì, il capo in questione era una maglietta nera con il simbolo della Decima Mas e il motto dannunziano Memento audere semper e dunque? Uno non può indossare il vestito che preferisce? C’è una legge che vieta di indossare la maglietta della Decima Mas allo stesso modo in cui c’è una legge che impone la riconoscibilità del volto nelle sedi istituzionali?
La cosa sarebbe passata del tutto inosservata se Selvaggia Lucarelli, nella giuria del programma televisivo, non avesse voluto fare la mandrakata senza riuscirci, pubblicando un post sdegnoso per attenzionare le sentinelle che presidiano la democrazia: “Dalle immagini di ieri vedo Montesano fare le prove di Ballando con la maglietta della Decima Mas che, se a qualcun sfugge, è una formazione militare che ha combattuto accanto ai nazisti contro i partigiani, nonché simbolo del neofascismo”. Eddai.
Inevitabile la polemica, in un mondo dove la comunicazione avviene soprattutto là dove, una volta, come disse Eco, ci si scannava al bar: ed ecco la noterella Rai, dove si giudica “inammissibile che un concorrente di un programma televisivo del servizio pubblico indossi una maglietta con un motto e un simbolo che rievocano una delle pagine più buie della nostra storia”.
Con tanto di scuse ai telespettatori, che sicuramente sanno tutti cos’è la Decima Mas. Non stiamo scherzando: lo può sapere chiunque, è sul sito del Ministero della Difesa mica nel dark web.
Sì, certo, il fascismo, il “principe nero” Junio Valerio Borghese e il presunto “golpe” che non è mai avvenuto et cetera. E allora? La Decima Mas è un monumento storico al pari di tanti altri monumenti fisici, che infatti qualcuno vorrebbe buttare giù perché ricordano, tanto per ri-citare, “una delle pagine più buie della nostra storia”. E quindi non puoi nemmeno indossare una maglietta. Che è pure bella. Ma saranno fatti personali le scelte del capo di vestiario? O siamo ancora al motto settantiano “Il privato è pubblico”?
Montesano l’hanno crocefisso per ‘sta maglietta indossata durante le prove di uno spettacolo, intimandogli di interrompere la sua partecipazione al programma: “Sono profondamente dispiaciuto e amareggiato per quanto accaduto durante le prove del programma. Sono un collezionista di maglie, ho quella di Mao, dell’Urss, ma non per questo ne condivido il pensiero”.
Così ha scritto sul suo profilo Fb. Non senza aver scritto (e poi tolto) su Telegram che a questo mondo ci sono altre cose ben più importanti e rimarcando a scanso di equivoci pure la sua atavica tessera del PSI: “Buona domenica amici! Le fesserie e le strumentalizzazioni lasciamole agli altri!”.
Ma poi: in Rai l’avranno visto passare con indosso quella maglietta ed evidentemente a nessuno è venuto in mente di dirgli di tornare a casa a cambiarsi. Ci è voluto il post della Lucarelli per far suonare l’antifurto e chiamare a rimorchio l’ANPI e i pasdaràn della democrazia.
Ci verrebbe da dire “me ne frego”, ma non vorremmo rischiare di finire in qualche tribunale dell’inquisizione civile e quindi la diciamo così: fai quel che vuoi e ricordati di osare sempre. Tiè.
Da fanpage.it il 14 novembre 2022.
C'è un altro Montesano a Ballando con le Stelle che non c'entra niente con la maglietta nera della X MAS, ma c'entra con Enrico perché è suo figlio: è Oliver Montesano, che figura come scenografo collaboratore di "Ballando con le stelle". Quello che è successo nelle ultime 24 ore ha sconvolto l'economia del programma condotto da Milly Carlucci e ha occupato ogni spazio del dibattito pubblico (basti pensare che oggi la storia della X MAS è la più letta e cercata su Wikipedia).
Chi è Oliver Montesano e perché è a Ballando con le stelle
Ci si è interrogati sin dal principio sui motivi che avrebbero potuto spingere Milly Carlucci e tutta la redazione di Ballando con le stelle a scegliere Enrico Montesano, nonostante su di lui ci fosse già tutta una storia di posizioni contraddittorie e divisive che non hanno pesato sul giudizio di portarlo nello show come concorrente. Come è noto, Oliver Montesano è uno stimato scenografo con diversi allestimenti già all'attivo – tra questi ricordiamo Ultima stagione in Serie A, applaudito dramma sull'omosessualità nel mondo del calcio con Marco Bocci – e potrebbe esserci proprio lui dietro al grande successo – magliette a parte – delle ultime esibizioni di suo padre.
Il successo prima dell'esclusione
Proprio nel corso dell'ultima puntata, Enrico Montesano è andato in scena con Alessandra Tripoli sulle note di "This is me" da "The Greatest Showman" e proprio l'artista, alla domanda di Fabio Canino se fosse coinvolto su tutto "dalla A alla Z", ha dichiarato: "Sembra una sviolinata, ma hanno fatto tutti un lavoro straordinario. Per la giacca, la musica, la grafica". Fabio Canino: "Sono dei numeri da sabato sera, sono contento di essere qui da abbonato Rai in prima fila". Un grande peccato perché Enrico Montesano, che nel frattempo ha dato mandato ai suoi legali per tutelare immagine e dignità artistica, stava mostrando a tutti la caratura di una carriera artistica incredibile. Merito, a questo punto, anche degli allestimenti di suo figlio. Intanto, abbiamo chiesto alla produzione di Ballando con le Stelle il ruolo preciso di Oliver Montesano all'interno del progetto. Siamo in attesa di risposte.
Febbre da no vax. L’ultimo tragico atto di Montesano e la solita tv dei freak. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 14 Novembre 2022.
Il problema non è solo che l’attore abbia indossato la maglietta nera della X Mas senza che qualcuno abbia qualcosa da eccepire, ma che un negazionista del Covid sia stato invitato in prima serata dimenticando le offese ai morti
In una giornata che ti apre il cuore alla speranza, in cui ti commuovi a vedere gli sventurati di Kherson che abbracciano i liberatori e raccontano gli orrori che hanno visto, quando ti rallegri nel sapere che i democratici negli Stati Uniti hanno la maggioranza al Senato, liquidando se Dio vuole per sempre quel buffone di Donald Trump, c’è proprio bisogno di parlare di un altro buffone di talento come Enrico Montesano?
Vediamo: innanzitutto i buffoni bisogna prenderli sul serio perché sono persone che da sempre possono essere pericolose, pensate a Rigoletto per restare in Italia ma anche alla tradizione dei fools inglesi, cui veniva data libertà di parola e di sberleffo, almeno finché il signore cui prestavano servizio li tollerava.
Montesano è un buffone di indubbio talento, è il mitico Pomata untuoso e scalcinato sola di Febbre da Cavallo, e a quella felice memoria avrebbe potuto consegnarsi come vetta della sua arte. Invece il Montesano degli ultimi tempi, quello dimenticato dall’arte, e della cui bravura di buffone si è persa traccia, è ricomparso sulla tragica scena del covid come leader del movimento no vax. Mica uno qualsiasi, uno iper-presente, uno che trascinava le folle si raduni di piazza san Giovanni, che rifiutava di indossare mascherine e insultava i fessi che si vaccinavano.
Un profeta e uno scienziato incompreso che avvertiva il popolo ignaro che il sangue dei vaccinati si contaminava e diventava pericoloso per le trasfusioni. Un patriota che si batteva contro il fascismo sanitario e visto che c’era anche contro quello ucraino che, pensa te, invece di arrendersi democraticamente al liberatore Putin moriva sui campi di battaglia. Un uomo libero che ha pubblicato la sua personale lista di proscrizione di giornalisti filo americani da contrapporre, si intende democraticamente, agli Orsini putiniani, come fosse la stessa cosa mischiare aggressori e aggrediti.
Ebbene, un gigante di tal fatta è stato ammesso alla ribalta dello show di punta del sabato sera sulla principale rete nazionale e riconsegnato alla sua arte sublime di principe dei buffoni con una pacca sulle spalle, a ricordare compiaciuto di quando «nessuno gli offriva manco un caffè», e invece guarda oggi, sommerso di omaggi e voti manco fosse Rudol’f Nureev.
Tutto dimenticato, le fesserie, gli insulti: lo show continua e lui si gode il miracolo da ripescato.
Sabato sera però l’istinto del buffone ha tracimato e si è presentato alle prove pre gara indossando una maglietta nera della X Mas.
Lo ricordo in un paese smemorato, la X Mas è una formazione di eroici massacratori di partigiani ai tempi di Salò guidata dal principe Junio Valerio Borghese, condannato per collaborazionismo e sospetto autore di un fallito golpe nel 1970.
A giudicare dall’impassibilità della conduttrice e dei giudici della gara nessuno ha avuto da eccepire, forse perché ognuno sa il motivo per cui Montesano sta lì e i tempi che corrono. Ma forse hanno ragione loro, Montesano non è. Egli recita magnificamente il ruolo che ha fatto suo in molti film, quello dell’italiano che si arrabatta senza andare tanto per il sottile. Egli fu comunista, consigliere comunale e addirittura parlamentare europeo del Pds, si dimise nei ruggenti anni berlusconiani quando avvertì forte una nuova spinta politica.
La sua biografia è quella ideale di una nazione senza idee che non siano il tornaconto personale: perché scandalizzarsi?
Se fossimo un altro paese e avessimo un’altra cultura nessuno avrebbe invitato Montesano a uno show, dimenticando le offese ai morti di Covid e ai sacrifici di chi ha sofferto chiuso in casa con il lavoro perduto. Il problema è quel tipo di spettacolo: è la ricerca dello scandalo e del freak da esibire.
E chiudo evocando il tal giudice che gli ha fatto i complimenti paragonandolo a Super Quark: un signore che fa l’opinionista alla radio del gruppo di Repubblica e La Stampa. Sono tutti coinvolti.
Chi è la moglie di Enrico Montesano, Maria Teresa Trisorio: il primo bacio e i figli. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Novembre 2022.
I due sono sposati da 30 anni. Lui attore, regista e comico, lei la sua manager. Enrico Montesano e Maria Teresa Trisorio hanno due figli: Michele Enrico e Marco Valerio che hanno seguito le orme del padre in teatro. Si sono sposati nel 1992 e da allora la loro relazione è forte e duratura. Tutto sarebbe iniziato a Roma, in Via Veneto, dove i due si sarebbero scambiati il loro primo bacio, come riportano alcune riviste di gossip.
Prima di Teresa Trisorio Montesano è stato legato a Marina Spadaro, madre del primogenito Mattia nato il 12 giugno 1986. Poi il matrimonio con Tamara Moltrasio da cui sono nati Lavinia, Tommaso ed Oliver. Infine, nel 1992 il matrimonio con Teresa Trisorio.
Sul web sulla coppia circola un aneddoto raccontato dall’agenzia di stampa AdnKronos nel 1997: “Maria Teresa Trisorio, la bella moglie di Enrico Montesano, è convinta che negli studi di ”Fantastico’ volteggi un ‘menagramo’. Per esorcizzarlo, ha fatto cospargere con otto chili di sale le entrate dello studio e dei camerini utilizzati per il mega show del sabato sera. Per tre giorni, tra giovedì e sabato scorsi -apprende l’Adnkronos-, il personale dello studio del Teatro delle Vittorie è stato costretto a destreggiarsi tra sentieri di sale sparsi dall’affettuosa consorte del comico affinchè la malasorte lasciasse una volte per tutte lo studio televisivo della Rai”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Montesano: “Craxi, Andreotti…meglio la prima Repubblica dei politici attuali”. Emanuele Beluffi su culturaidentita.it il 7 Giugno 2022
Oggi Enrico Montesano compie 77 anni. Ce lo ricordiamo tutti Er Pomata, l’Armando Pellicci che insieme a Mandrake/Gigi Proietti rende un cult quel film cult che Steno gira nel 1976, Febbre da cavallo.
Memorabile il dialogo con Mandrake, dove Proietti dice: “potevo essere un attore de grido! Sai soltanto con il mio sorriso maggico potevo sfonnà! Fatte conto un Dusti Ofman!”. Lui, che “Dusti Ofman” al cinema l’ha doppiato veramente:
Mandrake: Io un mestiere ce ll’ho. Io c’ho un mestiere, che adesso non faccio per vantarmi, ma se non ero un fregnone a quest’ora il sottoscritto poteva essere un attore de grido! Sai soltanto con il mio sorriso maggico potevo sfonnà! Fatte conto un Dusti Ofman…, Steve Mequeen…, Ar Pacino…
Er Pomata: E che sso’? cavalli.
Mandrake: No, so’ fantini.
Er Pomata: E allora che cce frega?
Quel film, grazie alla forza dirompente di Er Pomata e Mandrake e alle loro numerosissime e irresistibili battute, da “filmetto accolto con freddezza”, come afferma lo stesso Proietti, sarà poi presentato alla 67esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Dici poco.
Enrico Montesano, cioè tre David di Donatello -nel 1977, nel 1980 e nel 1985 – e film di successo con i più grandi registi della commedia italiana, da Sergio e Bruno Corbucci a Castellano e Pipolo, da Pasquale Festa Campanile a Mario Monicelli e poi Ruggero Deodato, Lina Wertmuller, Carlo Verdone, Pasquale Festa Campanile, Carlo Vanzina.
Nipote e bisnipote di commedianti e musicisti, dal teatro muove i primi passi nel mondo dello spettacolo fino al debutto in tv nel 1968 con Che domenica amici, dove lancia il primo dei tanti personaggi di successo che il pubblico italiano amerà. Il cinema lo consacra con titoli che sbancano al botteghino e pazienza se la critica li snobba – è sempre così, il pubblico va al cinema e decreta il successo dei film ignorati dai critici chic – come Aragosta a colazione, Qua la mano, Il ladrone, I due carabinieri, Il conte Tacchia, Tre tigri contro tre tigri, Grandi magazzini e naturalmente Febbre da cavallo, ça va sans dire, con un grandissimo Gigi Proietti.
Ma Montesano è anche la cartina di tornasole di come possa evolvere un attore, immerso nella vita vera della società e dei cittadini: già parlamentare europeo, già consigliere comunale, tifoso laziale doc, è un artista a tutto tondo, controcorrente, mai allineato, proprio come Er pomata in Febbre da cavallo. Il nostro Alberto Ciapparoni lo intervista due anni fa, quando durante il lockdown l’attore romano lancia sulla Rete un suo nuovo personaggio, il rapper Femo Blas, per gli amici Blasfemo, ottenendo un grande successo di visualizzazioni fino a diventare il simbolo dei tanti che nel passato pandemico italiano hanno dovuto combattere contro le discriminazioni del green pass e dell’obbligo vaccinale, esprimendo loro la sua solidarietà e pagando questa sua presa di posizione con l’indebita etichetta di “no vax” (lui, che in passato aveva fatto ben quattro vaccini). Senza contare una certa sottile, piccola, quasi “gentile” ostracizzazione culturale.
Perché anche in questo settore Montesano non è uno che le manda a dire. Nell’intervista, fa le pulci alle politiche culturali:
“Del resto, abbiamo mai fatto una politica a favore della cultura? Come al solito c’è una politica assistenziale, si danno dei soldi ma soltanto a qualcuno, un po’ di elemosina, tutti col cappello in mano. Poi ci sono i teatri privati, quelli che faccio io, e non ho mai beccato un soldo, manco uno, e paghiamo un sacco di tasse […]. Se io fossi ministro della Cultura toglierei un po’ di tasse alle compagnie, che sono quelle che producono”.
In un crescendo che, dal livellamento verso il basso della classe politica, arriva alle derive del politicamente corretto e al conseguente abbassamento qualitativo dell’offerta culturale:
“La classe politica della prima Repubblica in confronto agli attuali politici era molto meglio, non c’è paragone. Se uno pensa a Rino Formica, a Giulio Andreotti, a Bettino Craxi […]. In un Paese democratico non bisogna avere il terrore di una battuta, anzi la battuta rafforza la democrazia. Da noi al contrario si ha timore, e allora si preferisce riempire la tv di trasmissioni del bla bla bla, invece di fare programmi intelligenti. Vogliamo spettatori annoiati e inebetiti che stanno davanti al piccolo schermo”.
Oggi Montesano si impegna come portavoce di nuova idea politica, Unione Popolare. Una coalizione per le Libertà, movimento «per le libertà» di tutti quelli che vogliono combattere per «il popolo contro le élites», presentato a Roma lo scorso 22 maggio, mettendo il suo nome al servizio della verità. Dice all’AdnKronos: “In questi due anni non ci ho guadagnato nulla a dire quello che ho detto, anzi: solo insulti da ogni parte. Ma questa è un’idea in cui credo, una lotta dei popoli contro le elites e mi espongo volentieri come ho sempre fatto quando ho creduto in qualcosa”.
Questo grande e amatissimo artista ci mette la sua notorietà, ci mette la sua faccia. E non riusciamo a resistere alla tentazione di chiudere con quella celebre dialogo fra Er Pomata e “Mandrake”/Proietti:
Mandrake: Ahò, c’hai ‘na faccia…!
Er Pomata: Sì, si ce n’avevo due già stavo all’università, sotto spirito!
Enrico Montesano: “Se io fossi ministro della Cultura direi…” Alberto Ciapparoni su Cultutaidentita.it il 15 Settembre 2020.
Ha compiuto 75 anni e merita sicuramente un posto permanente nell’Olimpo della commedia italiana. Ma Enrico Montesano, nipote e bisnipote di commedianti e musicisti, già parlamentare europeo, già consigliere comunale, tifoso laziale doc, è un artista a tutto tondo, sempre controcorrente, mai allineato. Ha interpretato “Er pomata” in “Febbre da cavallo”, ha condotto “Fantastico”, è stato “Rugantino”, e alcuni suoi personaggi sono passati alla storia: chi non ha mai visto il vecchietto Torquato? E le sue avventure non sembrano affatto finite, tutt’altro. All’orizzonte si profila persino il Campidoglio. Sì, proprio la poltrona di primo cittadino della Capitale.
Montesano, è vero che fra poco dovremo chiamarla Sindaco?
E’ nato tutto come uno scherzo e una provocazione, dopo aver letto le dichiarazioni di disponibilità alla candidatura da parte di Massimo Ghini, con il quale eravamo nel Consiglio comunale di Roma nel 1994, all’epoca della prima Giunta Rutelli, allora presi 8.300 preferenze. Io penso che fare il Sindaco di Roma sia una cosa da far drizzare i capelli, una cosa da non dover augurare al peggior nemico, ma sarebbe un grandissimo onore se penso a Luigi Petroselli, a Ernesto Nathan, a Ugo Vetere, il Sindaco che mi ha sposato. Ho detto scherzando a Ghini di fare scapoli contro ammogliati e vediamo chi vince.
Insomma, le piacerebbe.
Io per la mia città sono pronto a sacrificarmi e a farmi mettere in croce, Roma merita questo e altro, io sono una piccola entità, però sono un cittadino romano, e sono stato un consigliere comunale, e quindi un onorevole, come nella tradizione del Senato romano. E come si dice, la lingua batte dove il dente duole, e il dente mi duole parecchio: ci sarebbe da levare la carie, ma qui non c’è rimasto più niente, ‘se so’ magnati pure il dente’. C’è un abbandono completo, ho visto un deterioramento e un peggioramento lenti e inesorabili.
Quindi si riferisce anche alle responsabilità di Virginia Raggi?
Da quarant’anni a questa parte, forse cinquanta, c’è stata una classe dirigente che si è impegnata a fondo per questa degenerazione: qualcosa fanno ma proprio poco. Il litorale romano per esempio è diventato squallido. Per i primi tempi ho difeso l’attale Sindaco, anche perché sono stato un suo elettore, ho creduto nell’azione politica di un nuovo movimento, devo constatare però con amarezza e delusione che le idee e i programmi originari sono andati a finire in cantina e in soffitta. Il primo M5S non lo vedo più.
Raggi bocciata dunque?
All’inizio ho sempre difeso la Raggi, so quali sono le difficoltà e aveva ragione Vetere quando da presidente del I° municipio diceva di vergognarsi perché non aveva i soldi per rimettere a posto la pavimentazione di Piazza Barberini, ovvero il salotto di Roma. Ed è vera la tesi di chi sostiene che quando si capirà che chi va a fare l’amministratore non sta lì per risolvere i problemi della cittadinanza ma i suoi problemi, si sarà capito cos’è la politica; tuttavia, ci sono dei politici che ci provano a risolvere i problemi: Petroselli, ad esempio. Io la Raggi la giustifico per il primo periodo, ma poi se mi si rompe la scala mobile di una fermata della metro a costo di chiamare il mio fabbro di casa, la devo riparare in una settimana, non me ne frega niente delle zavorre. Sono 40 anni che c’è una struttura che non si vede, che non è votata, che sta là fra gli amministrativi, e che blocca tutto: se non si possono cacciare, ruotiamoli… Non so se la Raggi abbia provato o meno, ma che si fa, andiamo avanti così per altri 50 anni? Roma va bene così com’è?
Covid 19, fase 1,2,3, ripartenza: che Italia è, che governo è?
Il mio personaggio che ho lanciato sulla Rete, il rapper Fermo Blas, per gli amici Blasfemo, direbbe: ma che stai a dì, un sacco di pappole! I 25mila euro di prestiti non li ha visti nessuno. Dicono che i sondaggi per l’avvocato del popolo siano alti, ma saranno veri? Come diceva Giulio Andreotti a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si indovina. Parlavo recentemente con un mio amico imprenditore del Veneto e concordavamo: la classe politica della prima Repubblica in confronto agli attuali politici era molto meglio, non c’è paragone. Se uno pensa a Rino Formica, a Giulio Andreotti, a Bettino Craxi. E se qualcuno dice che quelli rubavano, io rispondo, perché questi no? Sono tutti stinchi di santo che fanno tutto per il nostro bene, infatti ho visto la vicenda dei 15 milioni di mascherine nel Lazio?! Se dobbiamo far finta che va tutto bene…
Nel settore cultura, e teatro in particolare dove adesso si riprende con gli spettacoli, la situazione è diversa?
Macché, è tragica, e la gestione del coronavirus potrebbe essere il colpo di grazia finale. Negli anni ’80 io ero al Sistina di Giovannini e Garinei e la gente veniva, adesso si fatica, si va a vedere solo l’evento particolare. Del resto, abbiamo mai fatto una politica a favore della cultura? Come al solito c’è una politica assistenziale, si danno dei soldi ma soltanto a qualcuno, un po’ di elemosina, tutti col cappello in mano. Poi ci sono i teatri privati, quelli che faccio io, e non ho mai beccato un soldo, manco uno, e paghiamo un sacco di tasse, paghiamo l’Irap che è una tassa assurda: ma come, io produco, assumo 20 persone, e tu mi fai pagare l’imposta? Mi dovresti dare un premio. Questi comitati tecnico-scientifici hanno mai amministrato una compagnia teatrale, un teatro? Una fila sì, una fila no, un posto sì, un posto no? C’è da mettersi a piangere tutti assieme. Come si fa? Uno squallore! Il teatro o si rifà come si faceva prima del covid o se no è la fine. Se io fossi ministro della Cultura direi: allora, tutti i soldi spesi per il teatro si possono scaricare. Quindi, toglierei un po’ di tasse alle compagnie, che sono quelle che producono: senza compagnie al posto del teatro ci fai un bel garage.
E se per i teatri l’esecutivo proponesse divisori in plexigas come aveva fatto in un primo momento il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina per la scuola e i banchi nelle classi?
Al plexiglass gli darei fuoco, è un’assurdità: il virus da destra e sinistra non entra, però potrebbe dall’alto o dal basso… Non capisco, non capisco davvero. Al ristorante per andare al cesso devi metterti la mascherina: che regola è? Basta cercare di stare ad una distanza di sicurezza, che poi è quella che si dovrebbe usare come forma di educazione, non si va sotto alle persone, è maleducato, si mantiene una distanza di rispetto e di riguardo. Così come da sempre mi lavo le mani, non c’è bisogno che me lo dica l’Istituto superiore della Sanità, mia nonna mi diceva prima di cena ‘bambini, lavatevi le mani, e non mettetevi le dita nel naso’. Una cosa buona il covid l’ha fatta…
Quale?
Di fare in modo che i tavoli non stiano troppo attaccati: quando l’esercente tratta meglio i suoi clienti e offre loro un po’ di spazio in più, c’è soddisfazione, è bello poter parlare senza essere ascoltati. Lo stesso si può dire per il mare e per la distanza fra gli ombrelloni.
Quali sono i suoi programmi nell’immediato?
Non lo so, regna l’incertezza, ma mi piacerebbe tanto fare una trasmissione televisiva, però vedo che replicano roba vecchia, dicono che non ci sono soldi, e c’è una programmazione lontana dal varietà.
Ma lei in Rai sta pagando le sue posizioni spesso controcorrente?
Può anche darsi che io metta un po’ di preoccupazione, però poi c’è qualcuno che le battute le fa lo stesso. Molto dipende dai rapporti personali e dalle conoscenze. Io penso che occorra giudicare dal risultato professionale, si diceva nel ‘68 che una risata vi seppellirà, poi non ha seppellito nessuno. In un Paese democratico non bisogna avere il terrore di una battuta, anzi la battuta rafforza la democrazia. Da noi al contrario si ha timore, e allora si preferisce riempire la tv di trasmissioni del bla bla bla e del pettegolezzo, invece di fare programmi di varietà intelligenti, divertenti soprattutto, gradevoli, per intrattenere lo spettatore. Al contrario, vogliamo spettatori annoiati e inebetiti che stanno davanti al piccolo schermo.
In realtà qualche programma di satira c’è, anche se solo contro una precisa parte politica, cioè il centrodestra.
E’ vero, sì, si fa un po’ di satira, pure abbastanza pesante e feroce, però a mio avviso la satira è contro il potere costituito, o perlomeno non dovrebbe avere colore, e colpire a destra e a manca, altrimenti siamo vestali del pensiero unico: ma in Italia si colpisce a destra, a manca un po’ meno, anzi la satira che colpisce a manca manca…
Enrico Papi, doloroso passato: "Dormivo in macchina. Si era sparsa la voce che..." Libero Quotidiano il 05 aprile 2022.
Enrico Papi il successo se l'è sudato. Il conduttore, reduce dal programma di Canale 5 Scherzi a Parte, ha raccontato gli alti e bassi subiti durante la lunga carriera. "A un certo punto si è sparsa la voce che portassi bel tempo e ho avuto un aumento pazzesco delle richieste. Però pagavano poco, - ricorda in un'intervista a Tv Sorrisi e Canzoni - spesso dovevo scegliere se usare il compenso per il ristorante o per l’albergo, perché non bastava per tutti e due. Di solito sceglievo il ristorante e poi dormivo in macchina".
Ora però per Papi è un periodo proficuo, tanto che tornerà a Mediaset con un nuovo programma: Big Show. La trasmissione andrà in onda venerdì e - ricorda Papi "sarà tutto in diretta". La caratteristica? "È basato sulla sorpresa, quindi va guidato così, in maniera un po’ spericolata. A volte vedremo le vittime impadronirsi del palco con sicurezza, altre restare paralizzate". Bocca cucita sui dettagli.
Una cosa tiene comunque a precisare: "Molti spettatori - conclude - mi vedono ancora come ‘quello dei vip’, ma in realtà io preferisco lavorare con i non professionisti". E infatti l'ultimo show lo dimostra: "Praticamente questo è un esperimento per fare uno spettacolo bizzarro, ci sono ospiti famosi ma le vere star sono le persone comuni: faremo sorprese a loro".
Enrico Papi, gli esordi come re del gossip, il successo, l’amore per la famiglia. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 17 Settembre 2022.
Il conduttore torna su Canale 5 con «Scherzi a parte». Agli inizi della carriera veniva chiamato acchiappavip e si è scontrato con numerosi personaggi famosi
Il nuovo show
Enrico Papi torna in tv con Scherzi a Parte su Canale 5 alle 21.20, ma ecco alcune cose che non sapete di lui
L’amore, il matrimonio, i figli.
Enrico Papi è nato a Roma il 3 giugno 1965, dopo il Liceo classico si iscrive alla Facoltà di giurisprudenza interrompendo però gli studi; riprende l’università con Cepu, per il quale tra il 2000 e il 2003 è anche testimonial pubblicitario. Nel 1998 sposa Raffaella Schifino dalla quale ha due figli: Rebecca, nata nel 2000, e Iacopo, nel 2008. Dai primi anni 2000 ha una seconda residenza a Miami, negli Stati Uniti, dove si trasferisce stabilmente nei periodi di inattività televisiva. Sono una famiglia molto solida che vive fuori dai riflettori Durante il lockdown, la convivenza forzata per loro non è stata un problema: «Molte coppie non hanno retto e si sono divise. Ma non è il nostro caso. Quella è stata un’altra occasione per trascorrere più tempo insieme. Con Raffaella abbiamo festeggiato i 23 anni di matrimonio» ha detto
Gli esordi grazie al gossip e la fama di Acchiappavip
Nel marzo 1995 l’allora direttore del TG1 Carlo Rossella gli propone la conduzione di un programma di cronaca rosa a patto che Papi riesca a ottenere prove fotografiche di una lite tra Demetra Hampton e Vittorio Sgarbi, all’epoca fidanzati. Lui riesce nell’impresa anche perchè è uno che non molla mai e così ottiene la conduzione di «Chiacchiere», il suo primo programma di gossip che lancerà definitivamente la sua carriera televisiva. In quegli anni si guadagna i soprannomi di “Acchiappavip” e “Vespina” o “Vespone” grazie alla sua velocità nell’intercettare i personaggi famosi e di “ronzargli” intorno.
Il Dopo Festival di Sanremo con Raffaella Carrà
Nel 2001 Raffaella Carrà lo vuole al suo fianco per il dopo Festival, mentre per la conduzione la affiancano Ceccherini e Megan Gale. Papi però si intrufola anche nel backstage del Teatro Ariston per le interviste e per raccogliere le ultime notizie rispolverando la passione per il gossip. Papi allora disse della grande Raffa: «Abbiamo due cose in comune: siamo entrambi del segno dei gemelli e poi mia moglie si chiama come lei. Scherzi a parte, sono stato ospite del programma di Raffaella all’inizio della stagione. Ci siamo divertiti molto e ci siamo detti che sarebbe stato molto bello fare qualcosa insieme, prima o poi».
Il suo grande successo, Sarabanda
Nel settembre 1997 lascia le rubriche di gossip e comincia a condurre il varietà Sarabanda, poi trasformato in gioco musicale. Ancora in molti ricordano l’Uomo Gatto, pseudonimo del concorrente Gabriele Sbattella, la Professora Antonietta Palladino, Allegria (David Guarnieri), Max l’uomo mascherato (Giulio De Pascale), Coccinella (Marco Manuelli): i campioni che, con la loro bravura e un tocco di originalità, hanno scritto la storia di Sarabanda, tenendo incollati davanti al piccolo schermo, milioni di telespettatori. Dodici anni dopo, la sua ultima messa in onda, il programma musicale più duraturo della televisione italiana, con le sue 1722 puntate trasmesse nella versione quiz (dal 13 ottobre 1997 al 14 marzo 2005), è tornato con tre speciali nel 2017
Le liti coi vip tra torte in faccia e risse
Gli inizi della sua carriera, sempre a caccia di gossip, hanno visto Enrico Papi spesso protagoniste di liti. E’ finito a torte in faccia uno screzio tra Paolo Bonolis ed Enrico Papi, in una discoteca di Fregene. Motivo: l’insistenza con la quale il ‘re’ del gossip televisivo cercava di estorcere al popolare conduttore particolari sulla sua relazione con Laura Freddi. Una quasi rissa acquatica invece tra Enrico Papi e Beppe Grillo, in una caletta di Porto Cervo. Il comico genovese stava facendo il bagno assieme alla moglie Parvin, di origine indiana, quando è stato ‘ disturbato’ dall’acchiappavip e non l’ha presa bene. Anche Raffaella Zardo, la protagonista più discussa dell’inchiesta della Procura di Biella sui sexy-provini, importunata sulla love story con Fabio Testi dal tele-paparazzo non ha esitato a rovesciargli addosso un secchiello di ghiaccio.
Enrico Ruggeri: «Oggi musica senz’arte, solo meteore da consumo». «Il web lascia un mondo peggiore, del quale non resterà nulla». Bianca Chiriatti su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Agosto 2022.
Sarà Enrico Ruggeri il protagonista della seconda tappa di «Parole e Musica», il format proposto da FMedia che domani (4 agosto), ospiterà il cantante milanese, oltre 40 anni di carriera, due volte vincitore del Festival di Sanremo, Premio Tenco 2021 e Presidente della Nazionale Cantanti. Ruggeri si esibirà alle 20.30 nella piazza principale del Puglia Village di Molfetta, per portare i suoi grandi successi sul palco della Land of Fashion pugliese, e per l’occasione i negozi del distretto rimarranno aperti fino alle 22.
In scena dialogherà con gli speaker di Radio Selene, e presenterà i brani del nuovo album La rivoluzione (Anyway Music), uscito nel marzo scorso, un racconto in undici tracce che parla di rapporti umani, di sogni adolescenziali e di una generazione che si è scontrata con la vita, rappresentata dall’iconico scatto di copertina, una foto della classe del cantante al Liceo Berchet, anno scolastico ‘73-’74: «Il disco racconta del salto che avviene tra adolescenza ed età adulta - racconta Ruggeri alla Gazzetta - assieme a tanti altri aspetti della vita e alle sorprese che ci riserva».
Lei ha tre figli di età molto diverse, come vive questo rapporto con generazioni differenti?
«Sono, appunto, mondi completamente opposti. La mia è la prima generazione che ha consegnato ai figli un mondo peggiore di come l’ha trovato, dopo secoli in cui le cose cambiavano in meglio. Oggi il mondo è più difficile, c'è il web che come un grande fratello sostituisce altri valori, non è semplice neanche per noi, non basta più immedesimarmi e ricordare com’ero io alla loro età».
E dopo quarant’anni di carriera come vede oggi, invece, il panorama musicale?
«Composto da centinaia di meteore che passano velocissime e non lasciano segni, che usano cinquecento parole invece di cinquantamila, e che considerano la musica un riscatto sociale, e non più un’arte. Io ho avuto la fortuna di fare tante cose diverse, sono nato con il rock e il punk, ho amato i cantautori francesi, Bowie, Emerson, Lake & Palmer, i Clash, non mi sembra di scorgere all’orizzonte i nuovi Beatles o Sex Pistols, è un periodo in cui si bada molto al presente. E tutti i grandi che conosciamo, Battiato, Dalla, Gaber e tanti altri, non hanno sfondato subito, facevano discorsi nuovi, portavano contenuti, e sono quelli che costruiscono, poi, carriere quarantennali».
Il suo pubblico negli anni è cambiato?
«I fan sono sicuramente cresciuti, hanno trasmesso la mia musica ai figli, è sempre però gente fuori dal comune, con una sensibilità diversa, che ha voglia di ascoltare musica dal vivo, vera, non chi canta in playback su delle sequenze. Poi il contatto con loro ovviamente grazie ai social è aumentato, ma il web dà voce a tutti, anche alla cattiveria, alla frustrazione e all’improvvisazione, ed ecco che allora Fragolina82 si sente legittimata a scrivermi e a spiegarmi come devo fare i dischi»
Le piace la Puglia?
«E a chi non piace? Si mangia bene, la gente è simpatica, avete posti splendidi, ci torno sempre volentieri. Ormai è famosa in tutto il mondo».
C’è qualcosa che la rende particolarmente contento di questi 40 anni di carriera?
«Il fatto di aver passato una vita facendo ciò che mi piaceva, non è poco. Non c’è stata una mattina in cui mi sia alzato senza aver voglia di lavorare».
Progetti?
«Navigo a vista. Forse comincerò a scrivere qualcosa, o farò un tour teatrale, o condurrò qualcosa in tv. O magari tutte e tre le cose insieme».
“Non ho mai cercato la gloria col politicamente corretto”. Raffaella Salamina su Culturaidentità il 25 Luglio 2022
“Enrico dopo una lunga gavetta è riuscito finalmente ad imporsi alle sue condizioni, stravolgendo logiche consunte e rifiutando l’idiozia massificata della musica leggera italiana: chi ha mai usato il termine Coup de foudre’ in una canzone di Sanremo?”
Il critico Federico Guglielmi, nel 1986, sulle pagine della rivista Il Mucchio Selvaggio raccontava così il salto cantautoriale del frontman biondo platino dei Decibel, fenomeno punk tutto italiano.
Sono passati quasi quarant’anni da quella definizione ed Enrico Ruggeri resta, nel panorama della musica tricolore, un artista meravigliosamente anomalo. Insofferente ai meccanismi del senso comune e alle pericolose derive di un certo neopuritanesimo. Da sempre refrattario ad un conformismo linguistico che oggi tende a levigare, appiattire, le idee e le loro espressioni nel nome del rispetto dell’altrui sensibilità. Sembra che Ruggeri paghi la totale libertà, con un’esclusione dai toni formali quanto intransigente.
Un dannunzianesimo pop che affonda inevitabilmente le sue radici nel fenomeno che, alla fine degli anni Settanta, produsse uno scossone clamoroso nella cultura, nella moda, nella comunicazione e soprattutto nella musica. Una ribellione in nome del rock che ancora oggi, per Ruggeri, resta un punto fermo del suo essere profondamente artista: “Quando io ero ragazzo i cantanti cambiavano il mondo. Ora non è più così”. E lo racconta bene nel suo nuovo concept album Rivoluzione (uscito il 18 marzo con Anyway Music). Alessandro, Glam bang, Non sparate sul cantante, La fine del mondo, Che ne sarà di noi. Undici brani che spaziano tra il pop e il rock, un intenso racconto di formazione. Un poema epico su una generazione al giro di boa dei sessant’anni che non ha alcuna intenzione di arrendersi. I grandi ideali traditi, la ribellione, la celebrazione del vuoto in cui i giovani si sentivano rinchiusi alla fine degli anni Settanta. Ma la vera “rivoluzione” è uno stato dell’anima che riguarda ognuno di noi.
Prima o poi tutti affrontiamo una rivoluzione?
Ogni vita è una rivoluzione. Quello che racconto nell’album è il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Parto dalla mia personale esperienza, non a caso la copertina ritrae la foto della mia classe della quarta liceo, l’anno scolastico ’73/74 al Berchet di Milano. Nel disco ci sono quei ragazzi, questa è la rivoluzione di cui parlo. Non le barricate o i movimenti dissidenti ma le grandi speranze che avevamo con la loro forza rivoluzionaria.
La foto risale agli anni degli Champagne Molotov, la sua prima band Punk?
Esattamente, è stata la mia adolescenza. Erano gli anni in cui ci chiudevamo in cantina per fare la nostra musica senza avere troppo cura di ciò che ci accadeva intorno. I picchetti, le botte, le molotov, le assemblee, i collettivi fuggivamo da tutto questo.
Però attraverso la musica, di contestazioni lei ne ha fatte, negli anni. Penso ai brani censurati degli Champagne Molotov
La prima musica che ho fatto era il punk, che per definizione era ribellione pura. Un genere di denuncia, di nichilismo, un profondo senso di sfiducia. Alla fine degli anni Settanta vivevamo uno stato di disillusione, eravamo la cosiddetta Lost Generation.
E questa nuova generazione di ventenni come la definirebbe?
Viviamo in una società completamente diversa. All’epoca io ho iniziato a fare musica solo perché mi faceva stare bene, per trovare la mia dimensione. Non suonavo perché sognavo di diventare famoso. Ed era per tutti così, tutti quelli che suonavano con me. Oggi invece i giovani che vogliono fare musica passano più tempo su Instagram. Diventare ricchi e famosi è ormai una qualità morale. Si punta più a potenziare l’immagine che la propria musica.
I cantanti sono sempre più influencer, di contro lei ha scritto un vero e proprio decalogo della buona musica
Sì, c’è molta piaggeria nella musica di oggi. C’è troppa paura di rischiare di perdere consensi. Invece, ci sono regole morali che un cantante, a mio avviso, deve sempre seguire. E poi, c’è un problema di lessico troppo povero, traballante, si usano sempre le stesse cinquanta parole. La differenza non lo fa il tema ma come viene trattato.
In Non sparate sul cantante torna a riflettere sul ruolo degli artisti nella nostra società
Credo che il compito di un artista sia proprio quello di sollecitare riflessioni e non essere la cassa di risonanza del potere. Troppo spesso gli artisti oggi, seguono la strada più sicura del politicamente corretto. Bisogna tenere le antenne aperte sul mondo, questo rende l’artista una guida. E’ la capacità di essere recettivo nei confronti delle cose che sono nell’aria.
In questo ci si non può esimere dall’uso dei social per lanciare delle provocazioni. Come l’ultima polemica su Blanco che lo ha visto protagonista
Ogni tanto sui social lancio delle riflessioni, delle prove d’intelligenza. Nel caso di Blanco non ho parlato di molestie ma mi sono soffermato sul rapporto tra il cantante e il suo pubblico. Ognuno è responsabile di quello che avviene sul palco, nessuno si sognerebbe di toccare Paolo Conti perché il suo atteggiamento è tale per cui, a nessun fan, verrebbe mai in mente di farlo.
Anche le sue riflessioni sull’uso prolungato della mascherina hanno fatto discutere
Io parlo di vita e ne ho parlato da marzo 2020. Non si può rinunciare a vivere per la paura di morire. L’uomo si è evoluto proprio esorcizzando il timore della morte e delle malattie. E’ un concetto universale che va oltre i DPCM che abbiamo ascoltato per due anni.
Questo album è nato a distanza di tre anni da Alma. In un periodo difficile, forse ancora non riusciamo ad elaborare quello che ci è accaduto
Ho fatto tesoro di questo periodo di chiusura forzata. Nel primo lockdown ho scritto il mio romanzo, Un gioco da ragazzi. Lavoravo tanto ed ero molto concentrato. Successivamente mi sono dedicato a questo nuovo album, senza scadenze e senza fretta. Questo ha giovato alle riflessioni che sono emerse in stante ore passate in studio di registrazione. Non ho raccontato direttamente quello che abbiamo vissuto ma inconsciamente credo di aver affrontato la questione. Ho usato parole nei miei testi come “terapia intensiva” o “che brutta fine le mascherine” che richiamano questo periodo. Siamo inevitabilmente influenzati da ciò che ci è successo.
L’amore verso la Patria, verso la propria identità è un sentimento che sembra essersi sopito nelle nuove generazioni.
Io sono molto legato alla mia città, Milano. Un luogo frutto di un’identità multipla, accogliente. E’ un territorio da osservare, molto interessante. Ma io sono soprattutto legato all’Italia, al mio Paese. Un’immensa e meravigliosa occasione mancata. Abbiamo un patrimonio culturale, artistico e storico che il mondo ci invidia. Ma manchiamo di senso di appartenenza e di difesa nei nostri valori.
Rivoluzione diventa un tour e quest’estate tornerà a incontrare il suo pubblico
Sono reduce da alcune tournée nei teatri ma sono state esperienze mortificate dall’uso della mascherina. Non riuscivo a percepire cosa vivessero realmente gli spettatori. Finalmente, abbiamo voglia di ritrovarci di riappropriarci del tempo e dello spazio. Un tour in cui godrò a pieno dell’emozione di condividere l’amore per la musica.
Da I Lunatici – Radio 2 il 7 maggio 2022.
Enrico Ruggeri è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 più o meno dall'una e un quarto alle due e trenta.
Ruggeri ha parlato un po' di se, e del suo ultimo album 'La rivoluzione': "Il mio ultimo lavoro sta andando bene, siamo partiti in concerto, vedo le persone che arrivano e cantano i pezzi, quelli nuovi, questo è significativo. E' un album importante, che arriva a tre anni di distanza dal precedente. Ci tenevo molto. Che momento è stato per gli artisti quello che abbiamo vissuto? Un momento terribile.
Siamo stati la categoria più derisa e umiliata. Non tanto i cantanti ma le decine di migliaia di persone che lavorano nella musica. Avevo dei tecnici bravissimi pre pandemia che adesso fanno i muratori e adesso vanno in giro a fare le consegne. La nostra categoria è stata umiliata e offesa. Adesso c'è un clima migliore, la gente ha voglia di musica, di stare assieme, un concerto è comunione d'intenti, condivisione, poesia, cultura, indotto. Già ad aprile 2020 dissi che fino a che non sarebbe ripartita la musica, niente sarebbe ripartito".
Ancora Enrico Ruggeri: "Da ragazzino non avevo un piano b. La vita premia secondo me quelli che non hanno piani b, la mia testa era tutta rivolta alla musica. Ma non come rivalsa sociale, per diventare famoso o fare soldi. Semplicemente mi faceva stare bene stare su un palco a suonare. Mi ero iscritto a legge. Ho fatto qualche supplenza alle medie, ma non avevo un piano b. Sono diventato un cantautore solista per caso, io volevo stare in una band. Mia madre ha continuato a pagarmi le tasse dell'università fino all'87. Ha smesso quando ho visto Sanremo con Morandi e Tozzi.
Lì ha smesso di pagarmi le tasse universitarie. L'arrivo del successo? Il percorso di fa metro dopo metro. In realtà andai a Sanremo con 'Contessa', con i Decibel. In quel Festival sono diventato famoso. Quando i decibel si sono sciolti per qualche anno le cose sono andate male. Ho ricominciato daccapo. Ma sono molto contento che questo sia accaduto. I successi duraturi sono quelli casuali. Quel tipo di successo, con le ragazzine sotto casa, era molto più pericoloso. Migliaia di eroi di una stagione sono poi scomparsi. Dopo, quando ho ricominciato da solo, c'è stata una risalita molto graduale".
Sulla canzone 'Il mare d'inverno': "E' nata a Milano pensando a una cittadina delle Marche in cui vado sempre in vacanza. Fisicamente il pezzo è nato a Milano. Avevo un appuntamento con una ragazza che mi piaceva molto e lei non venne. Sono stato ad aspettarla per ore e poi me ne sono tornato a casa depresso. Volevo gridare al mondo la mia solitudine.
Quel pomeriggio ho scritto 'Il mare d'inverno'. Non ho mai finito di ringraziare quella ragazza che non venne al nostro appuntamento. L'incontro con Loredana Bertè? Io non conoscevo Loredana di persona. Vado al Festival Bar a cantare Polvere e mi ferma e mi fa i complimenti Ivano Fossati. Confuso e felice mi metto a parlare con lui che mi dice che stava preparando l'album di Loredana Bertè. Gli ho fatto sentire un po' di brani e lui con grande lungimiranza ha capito che 'Mare d'inverno' era superiore alle altre".
Sulla società post pandemia: "Non ne siamo usciti migliori. Ci siamo incattiviti e divisi in due tifoserie. Nessuna delle due parti ascolta l'altra. E' stato un peccato, c'era molto da confrontarsi. La gente si è spaccata in due. Sono stati anni di tensione. Ci vorrà del tempo per metabolizzare. I social? Sono l'estremizzazione di quello che ho detto. Se dico una cosa e uno non è d'accordo subito mi scrive 'pensa a cantare'. C'è una esasperazione del conflitto. E poi sembra che davvero uno valga uno. Il mio parere sulla nazionale di calcio vale quanto quello dell'allenatore. E questo è effettivamente pericoloso. C'è molta aggressività, i perdenti sui social si dimenticano di esserlo".
Su 'Mistero': "Ha un artificio dialettico che non ho inventato io. Parla per tutta la canzone dell'amore senza mai nominarlo. Vinco il Festival con 'Mistero', è un pezzo molto rock, c'era un grande innamoramento in quel periodo per i Queen. Fu l'unica canzone rock fino all'avvento dei Maneskin a vincere Sanremo".
Sui talent e la trap: "Tutto è un talent, anche Sanremo dell'80 con Sanremo a suo modo era un talent. Il problema del talent è che spesso crea delle illusioni. Il ragazzo di 20 anni che arriva e viene idolatrato può avere un contraccolpo pericoloso. Le carriere di costruiscono in altro modo, anche se poi tanti ragazzi che escono dai talent la carriera la costruiscono. Nei talent spesso si premia chi canta meglio, ma chi rimane per quarant'anni non è quello che canta meglio, è quello che ha più cose da dire.
La trap? Ho un figlio adolescente, la sento uscire dalla camera di mio figlio per tante ore al giorno. Secondo me quelli che scrivono i pezzi qualche libro in più dovrebbero leggerlo. De Andrè sceglieva tra 50.000 parole quando scriveva un pezzo, questi secondo me scelgono tra 500 parole. Quindi anche concetti che possono essere interessanti, andrebbero scritti con un po' di poetica in più".
Enrico Ruggeri: «Ho scritto Contessa per vendicarmi delle ragazze che mi lasciavano». Elisabetta Rosaspina su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
Il cantautore: «Ero un bastian contrario, negli Anni 70 se non eri di sinistra venivi considerato un fascista. La mia generazione è come un biglietto scaduto».
Chissà chi era la Contessa di quel lontano 1980. Quella che trattava i suoi amanti «come fossero bignè».
«Non mi ricordo nome e cognome».
Va bene, ma esisteva davvero?
«Sì. In quegli anni scrivevo per vendicarmi delle ragazze che mi avevano fatto soffrire. Scrivevo con la mia testa di ragazzino di vent’anni».
Almeno: era proprio una contessa?
«Doveva essere una donna un po’ più vecchia di me. Ma no, non era una contessa e nemmeno un’aristocratica. Altezzosa, sì. Scelsi quel titolo perché una duchessa c’era già nel mondo della musica, la “Duchess” degli Stranglers, il gruppo punk britannico».
Se non fosse ormai tutto prescritto, si potrebbe sospettare un po’ di reticenza da parte di Enrico Ruggeri, oggi 64enne, a proposito della musa snob che giocò cinicamente con il suo cuore inesperto. Senza saperlo, quella matura, irresistibile stalker stimolò la furia artistica del giovanissimo frontman dei Decibel. E lo catapultò, con i suoi riccioli biondo-ossigenati, una giudiziosa cravatta nera e stretta come quella di Dustin Hoffman ne Il laureato, e un paio di occhiali scuri con montatura bianca, al Festival di Sanremo e sulla rampa di lancio di una carriera lunga più di quarant’anni. Trentadue album, due vittorie al Festival di Sanremo e un Premio Tenco, decine di dischi d’oro e di platino. La memoria del cantautore milanese, senza (altre) falle, ha arredato molte delle sue canzoni e dei suoi romanzi - tra i più recenti Un gioco da ragazzi (La Nave di Teseo 2020) - e ha dominato la sua autobiografia Sono stato più cattivo (Mondadori 2017). Ora chiama in causa tutta la sua generazione: i fratelli maggiori dei boomers, i nati a metà o alla fine degli Anni 50, con le loro aspettative brutalmente ridimensionate «dagli schiaffi della vita e del destino». Una resa dei conti o, peggio, una resa e basta: «Siamo un biglietto scaduto di sola andata» avverte Ruggeri nel suo prossimo album, La Rivoluzione, in uscita il 18 marzo, preambolo di un tour nei teatri italiani a partire dal 2 aprile (il 9 aprile a Milano e il 26 aprile a Roma).
«Siamo quello che siamo, siamo quello che resta/di certi sogni appesi al soffitto di quell’ultima festa»: il calcio e la politica, la musica e l’amore, senza dimenticare gli amici, quelli di sempre, quelli persi e quelli ritrovati. «La vita è una strada per niente facile ed ogni occasione non torna più» ammonisce il refrain di uno dei nuovi brani in arrivo, Che ne sarà di noi. Le occasioni, comunque, a lui non sono scivolate fra le dita. Nemmeno quelle private: un matrimonio in chiesa, un altro di fatto, tre figli e, per dirla con parole sue, «tante altre avventure più o meno raccontabili».
Si direbbe che prevalgano le prime, per fortuna.
«Abbiamo molto da raccontare. La mia è stata una generazione particolare. Non abbiamo vissuto il romanticismo del 68. Siamo passati direttamente dalla Sanremo di Claudio Villa, e “a letto dopo Carosello”, alle bombe di piazza Fontana. Siamo cresciuti in fretta».
Aveva dodici anni, il 12 dicembre 1969: si ricorda dove e come le arrivò la notizia dell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura?
«Vagamente. Ero ancora un bambino, non capivo bene che cosa stesse succedendo. Tutto il mio impegno sociale stava nel raccogliere un po’ di soldini per i bambini affamati del Biafra con la pancia gonfia. E nemmeno riuscivo a capire perché avessero la pancia gonfia se non mangiavano. Quel pomeriggio, come quasi tutti i pomeriggi, ero andato a casa delle mie zie. Le ascoltavo parlare con preoccupazione di qualcosa di grave appena accaduto in città».
Soltanto pochi mesi prima, a luglio, il mondo era in festa per lo sbarco sulla Luna: lei dov’era?
«Questo me lo ricordo bene. A Pescara, al mare, sempre con mia madre e le zie, all’Hotel Primo Vere, dal titolo della prima raccolta di poesie di D’Annunzio. Le mie zie erano delle groupies del Vate. Un signore aveva un televisore portatile, un oggetto di lusso per quel tempo, e lo portò sulla terrazza dell’albergo. Così seguimmo anche noi l’allunaggio».
Il futuro sembrava fantastico. Poi, in pochi anni, tutto cambiò.
«Anche i sogni dell’adolescenza sono molto diversi dalla vita vera. Ero al liceo classico Berchet quando cominciarono le occupazioni, i picchetti, le botte a quelli con il loden. Qualche compagno di scuola sarebbe passato negli Anni 80 alla lotta armata. Barbone, Morandini. L’omicidio Tobagi. Le Brigate Rosse. Fecero irruzione l’eroina e pure l’Aids, che innescò una retromarcia alla liberazione sessuale. La nostra generazione ha assistito a cambiamenti epocali. Penso solo al telefono: nelle prime tournée mi portavo il cestello dei gettoni per chiamare casa. E scrivevo lettere, compravo i francobolli, cercavo una cassetta postale per infilarle nella buca “altre destinazioni”. Poi aspettavo la risposta, non c’era la notifica “letta”, a darmi la certezza che fosse arrivata e che fosse stata aperta».
Ancora qualche data: 1974, l’anno del referendum per il divorzio. Non poteva ancora votare, d’accordo, ma cercò di influenzare i suoi genitori?
«Io avrei votato a favore della legge. Quanto ai miei genitori, quell’anno erano già divisi, anche se non hanno mai divorziato. All’epoca i figli di separati erano ancora rari e io ne ho sofferto. Ma i giovani metabolizzano subito le novità. Mia figlia, prima media, mi ha raccontato tutto di una sua amica, tranne il fatto che è nera: per lei non è una caratteristica degna di nota. Su questioni come il colore della pelle, la diversità, l’omosessualità, lei è già oltre. Ha una compagna di scuola con due mamme e non ci trova nulla di strano».
L’anno dei 18 anni, il 1975, il primo viaggio all’estero da solo: il ricordo più forte?
«Londra. Rimproveravo a mia madre di non avermi generato inglese. Suonavo già, ma quelli, gli Emerson Lake & Palmer, suonavano davvero bene e ti buttavano in faccia la loro superiorità. Poi vedevi esibirsi anche gente molto meno brava di te, ma ognuno era libero nella sua linea editoriale. In Italia invece si faceva tanta politica e le canzoni politiche andavano in un’unica direzione. La rabbia sociale era delegata alla musica».
E il vostro primo gruppo punk, allora? Champagne Molotov . Un nome, un programma.
«Eravamo rivoluzionari dandy - ride -. All’estero c’erano i Roxy Music, David Bowie, e in Italia erano considerati di destra. Sa perché? Perché il Movimento Studentesco era stalinista e omofobo, coltivava il mito dell’uomo di ferro. Chi leggeva D’Annunzio era considerato decadente e di destra. Ma era senz’altro più gay friendly del movimento. Ero un rivoluzionario, ma a modo mio».
In che modo di preciso?
«Sciascia diceva che l’intellettuale, per sua natura, deve andare contro il potere. E in quegli anni, a Milano, dominava il potere della cultura di sinistra. Al liceo i professori di filosofia saltavano a pie’ pari Nietzsche e Schopenhauer e si ripresentavano con Herbert Marcuse. Dal programma di letteratura italiana sparivano Giovanni Verga e Pirandello, D’Annunzio e il Futurismo, per arrivare direttamente alle Lettere dal carcere di Gramsci. Siccome ero un bastian contrario, io mi tenevo D’Annunzio nascosto nello zaino».
È vero che, da giovanissimo interista, si appostava davanti al negozio di divise Fraizzoli nella speranza di scorgere il presidente, Ivanoe?
«Verissimo. A Milano, in via De Amicis. Spesso il presidente se ne stava proprio lì, alla cassa».
È vero che conserva ancora tutta la collezione di figurine Panini?
«Certamente», si alza dal divano, si avvicina a una vetrinetta della libreria piena di album: «E guai a chi me li tocca. Qui c’è anche tutta la mia vecchia collezione di automobiline, carri armati, soldatini».
Altri punti di riferimento nella Milano Anni 70?
«Il Palalido. Da Lou Reed a Iggy Pop, li ho visti tutti lì. La sera di febbraio del 1975 quando arrivò Lou Reed gli organizzatori dovettero sospendere il concerto per la sassaiola che si era scatenata dall’alto: veniva contestato un ebreo solo perché vestiva di nero, aveva il giubbotto con le borchie e veniva scambiato per un nazista».
Anche i Decibel , il gruppo nato dalla fusione tra Champagne Molotov e Trifoglio , in quegli anni ebbero una popolarità tumultuosa...
«Il nostro era un gruppo punk e quando andammo a Sanremo per la prima volta, nel 1980, sui muri sotto casa mia, in via Muratori, comparve la scritta: Decibel servi del sistema. Quando suonammo al Palalido, davanti a quattromila persone, si sentivano i cori: Decibel, Decibel, figli di puttana! Eravamo il primo gruppo alternativo al Festival e il movimento punk ci trattò da rinnegati. Due anni più tardi, a Sanremo, sarebbe arrivato Vasco Rossi».
E se non c’erano abbastanza tafferugli attorno a voi, li provocavate, giusto?
«Una volta, sì. Un amico abitava di fronte in via Redi, angolo corso Buenos Aires, davanti a un locale, “La piccola Broadway”. Avremmo voluto suonare lì, ma il titolare esitava. Stampammo lo stesso duemila manifesti che annunciavano il nostro concerto punk, il 4 ottobre 1977, ingresso 1500 lire, e li attaccammo vicino ai licei, ai centri sociali, ai circoli Arci. Quella sera non provammo nemmeno a esibirci. Dalla terrazza del mio amico, vedemmo trecento punk radunarsi entusiasti davanti a “La piccola Broadway” e due cortei, uno del comitato antifascista e l’altro di Avanguardia operaia, confluire in corso Buenos Aires per andare a menare i “fascisti”. Ci fu qualche ferito, la polizia caricò e, il giorno dopo, i giornali titolarono: scontri a Milano al concerto dei Decibel. Così, a fine novembre, eravamo già sotto contratto con una casa discografica e usciva il nostro primo album».
Sua mamma era contenta?
«Mia madre sapeva solo che mi ero fatto i capelli biondi. È andata avanti a pagarmi la retta per la facoltà di Giurisprudenza fino al 1987».
Quando già si sarebbe dovuto laureare da un pezzo.
«Esatto. Ma quando ho vinto Sanremo con Umberto Tozzi e Gianni Morandi, le ho comprato la casa perché non volevo che vivesse più in affitto. E per consolarla di non avere un figlio avvocato».
O magistrato.
«Mai. Sono un difensore nato».
Anche nella Nazionale Cantanti?
«No. A calcio gioco più avanti. Ho il numero 10. Mi piace fare gli assist e permettere ad altri di segnare».
Perché?
«Perché amo respirare aria di gratitudine. Si gioca a pallone in modo simile al proprio carattere. Morandi, per esempio, non mollava mai la palla ed era sempre dove serviva».
Invece lei è diventato il presidente della squadra, come Fraizzoli.
«Un cantante viziato ha bisogno di cose come la Nazionale Cantanti. Perché non è soltanto sport, è solidarietà. Quando guardi di traverso il fonico solo perché non senti la chitarra in spia e poi parli in ospedale con i genitori di un bambino leucemico, ecco: quelli sono schiaffi che è bene ricevere. Credo che la Nazionale Cantanti mi abbia reso una persona migliore di quella che sarei potuto essere».
Ha portato suo figlio allo stadio per l’imprinting di rito?
«Vent’anni fa ho portato il maggiore, Pico, dodicenne, al concerto di Alice Cooper, a Brescia. Quando è uscita sul palco una sosia di Britney Spears, e Alice ha estratto una spada e finto di decapitarla, mostrando in giro la testa, mio figlio ha detto: questa è la sera più bella della mia vita. Da rapper colto, si esprimeva già così».
Vania Colasanti per “la Repubblica – Edizione Roma” il 19 novembre 2022.
«Tutto il piacere del viaggio, come diceva Eugenio Montale, sta nel fatto che poi si ritorna. Ho passato la vita più in giro che a Roma. La casa è la certezza che ho delle radici, ovunque io sia, e sono felice di esser tornato ad abitare in centro, non lontano da dove sono nato».
Enrico Vanzina - 120 film tra sceneggiature, regia e produzione - vive in un appartamento nel rione Campo Marzio, vicinissimo a piazza San Lorenzo in Lucina.
Il salotto ha i colori caldi di Roma: ocra e rosso, impastati dalle luci che alle pareti illuminano i quadri della sua collezione di " conversation pieces": opere che ritraggono personaggi intenti a dialogare, come fossero gruppi di famiglia in un interno.
E per restare nel mondo del cinema, Vanzina si siede al pianoforte che le regalò la madre e il salotto si riempie delle note di " C'era una volta in America" di Ennio Morricone.
«Chi fa il cinema deve conoscere la pittura e la musica. Mio padre, che era anche un grande disegnatore, ha cresciuto me e mio fratello Carlo portandoci nei musei» . E persino sui set di " Un americano a Roma", " Un giorno in pretura", "Guardie e ladri": capolavori del padre Steno - pseudonimo dello sceneggiatore e regista Stefano Vanzina - di cui restano divertenti foto sulle mensole dello studio. Ecco i piccoli fratelli Vanzina sulle ginocchia di Alberto Sordi con il cappello da cowboy, o ancora Enrico, a 2 anni, che guarda corrucciato Aldo Fabrizi vestito dal mitico brigadiere.
«Ma le mie sceneggiature, i miei articoli, i miei libri - gli ultimi sono " Diario diurno" e " Il cadavere del Canal Grande" per l'Harper-Collins - non nascono in questo studio. Mi sveglio tutti i giorni alle 6.15 e alle 7.00 sono già nel mio ufficio ai Parioli. Quando al mattino esco di casa, mi sento padrone della zona, non c'è ancora nessuno in giro e ogni volta scopro cose meravigliose della città. Questo è l'appartamento di mia moglie - Federica Burger - e grazie a lei, 40 anni fa, mi sono riappropriato del centro di Roma».
C'è poi una stanza che ha avuto un passato a luci rosse e che è oggi riservata agli ospiti. « Anticamente in quest'ala dell'appartamento c'era una famosa " casa chiusa". E quando scrivevo qui, era un po' come se avvertissi quelle conturbanti presenze».
Tra casa e ufficio Enrico Vanzina ha oltre ventimila libri. «Anche se non li ho letti tutti, li conosco uno ad uno. Mi piace la consistenza e l'odore della carta. Caposaldo è senz' altro La Recherche: sono pazzo di Proust e qui ho la prima edizione Gallimard che era di mio padre. C'è poi un quadro a cui sono molto legato: un'opera di Filippo De Pisis che realizzò apposta per la mia nascita. Ritrae un calamaio con una penna che sono stati benauguranti per il mio mestiere.
Più dei tanti riconoscimenti legati al cinema, sono orgoglioso del premio giornalistico Biagio Agnes, ricevuto nel 2015, ma anche del premio Flaiano, scrittore e sceneggiatore che ha illuminato la mia vita e che rispecchia la mia anima pop». Poi Enrico Vanzina apre la porta del bagno e mostra fiero una curiosa collezione fatta di pasticche e capsule colorate: «Vivo di integratori di cui so tutto. Almeno una volta al giorno, consulto qualche pagina della " Vitamin bible", la bibbia delle vitamine di Earl Mindell ». Ma non si nutre solo di integratori, come dimostra il frigorifero con verdure lesse, yogurt e formaggi. E accanto c'è anche un frigo dedicato solo ai vini bianchi, mentre i rossi si affacciano ordinati da un'apposita scaffalatura nella parte alta della cucina. « Quanto alla manualità, sono negato. Non trovo mai il wifi, combatto sempre con le sintonizzazioni della tv. Per fortuna c'è mia moglie che è tedesca e che è bravissima. Imbattibile anche in cucina: prepara la pasta meglio degli italiani. Citando un'eccellenza dei fornelli, lei è la Heinz Beck della mia vita».
Luca Giampieri per “La Verità” il 12 agosto 2022.
Ferragosto. Una Lancia Aurelia spider azzurra, modello B24, attraversa a velocità da sanzione una piazza del Popolo deserta, spettrale sotto il sole a picco di mezzogiorno. Roma è altrove.
L'Italia è altrove. In vacanza. È il grande esodo del boom economico: dei commendatori, delle donne a servizio, degli studenti piccolo borghesi, dei fanfaroni che il boom lo inseguono in una tensione di classe spasmodica, spudorata, a tratti patetica. È l'Italia affrescata ne Il sorpasso, capolavoro di Dino Risi, giunto al suo sessantesimo anniversario.
In quell'estate del 1962, Enrico Vanzina, 13 anni, si trova in villeggiatura con la famiglia a Castiglioncello (Livorno), all'oscuro di un paio di dettagli non da poco. Anzitutto, che lì Risi girerà alcune scene iconiche del film con Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignant. «Castiglioncello era la località di mare dove si riuniva tutto il cinema italiano», ricorda Vanzina.
«Frequentavo quelle spiagge e frequentavo Risi, perché i miei migliori amici d'infanzia sono stati i figli Claudio e Marco». Altra cosa che lo sceneggiatore capitolino ignora è che 15 anni più tardi, insieme al fratello Carlo, raccoglierà il testimone di quella generazione indimenticata di cineasti, caricandosi sulle spalle onori e oneri che l'eredità della commedia all'italiana porta con sé.
Facendo un parallelo, qual è la Castiglioncello di oggi?
«Non esiste. Quello era un luogo la cui storia partiva da lontano: i Macchiaioli, Pirandello, la famiglia D'Amico. Una tradizione culturale dal tasso elevatissimo impossibile da ritrovare oggi. Qualunque posto è meta di tour o di arricchiti».
Immaginare oggi una Roma svuotata come quella del Sorpasso, anche a Ferragosto, più che da commedia all'italiana è materia da fantascienza.
«Un po' day after, sì. Però io me la ricordo benissimo. E fino a 20 anni fa era così, non è uno scenario così preistorico. Ho ritrovato quella situazione durante il lockdown; spaventosa, eppure meravigliosa nei suoi scorci monumentali. Un'atmosfera metafisica à la De Chirico».
Le capita sovente di trascorrere il 15 nell'Urbe?
«Quest' anno, per esempio. È un trionfo di smutandati che si aggirano coi telefonini in mano alla ricerca della destinazione. Talvolta sbattono contro un palo. Attraversano Roma senza vedere nulla. C'è una storiella che raccontava sempre mio padre Steno, la considerava il paradigma dell'umorismo romano».
Sentiamo.
«In una Roma vuota da Sorpasso, con un caldo terrificante, un turista tedesco si aggira in piazza Colonna col suo zainetto. Vedendo un'edicola aperta, si avvicina. Dentro c'è un edicolante rintanato come un geco, immobile nel suo gabbiotto bollente. Il turista, pimpante, domanda: "Dove essere fontana di Trevi?". L'edicolante alza la testa e, guardandolo, fa: "Lo so, ma nun me va de dirlo"».
Ricorda la prima volta che vide Il sorpasso?
«Sì, al cinema Etoile di piazza in Lucina, credo che all'epoca si chiamasse Corso Cinema.
Partì malissimo. Però allora tra gli esercenti c'erano dei signori che amavano il cinema e, avendolo visto prima, dicevano: resisto perché secondo me piacerà. E così fu. Oggi, nei Multiplex, se cali di 10 euro d'incasso ti spostano di sala e poi ti levano».
Lo riguarda spesso?
«Abbastanza. Insegnando anche cinema, da anni ripeto che Il sorpasso è il film più importante della commedia all'italiana. Anzitutto, perché declina tutto ciò che è il senso del genere: un tema drammatico trattato in maniera lieve (questo finisce con una morte, più drammatico di così). Mio padre mi diceva: "Finita la guerra, un gruppo di persone si è rimboccato le maniche e ha cercato di riportare il buonumore nel Paese. Sapendo, però, che dietro c'era il dramma". E poi per la semplicità disarmante: c'è il Ferragosto, una macchina, due amici, il senso della vita».
Con lo sguardo e l'esperienza di oggi, cosa la colpisce maggiormente?
«È stato un film centrale nella mia carriera. Quando con Carlo, dopo una serie di successi comici, potemmo imporre ciò che volevamo, girammo Sapore di mare, ispirato a due pellicole di Risi: L'ombrellone e Il sorpasso. Dino ci diceva: "La musica serve a contestualizzare il film nel momento esatto". Con quella colonna sonora lui ti fa capire in che momento siamo dell'Italia».
Mi rendo conto che sia come chiedere se vuole più bene alla mamma o al papà, ma c'è una scena del film che preferisce?
«Il finale. Perché è inaspettato. È straordinario come è girato, l'espressione sul volto di Gassman. Quella scena fu molto tormentata, poteva non vedere la luce. Dopo una settimana di maltempo, Risi e il produttore, Mario Cecchi Gori, fecero un patto: se nel giorno in cui si doveva girare il finale il meteo fosse stato avverso, il film si sarebbe concluso con i due che sfrecciavano sull'auto verso un futuro radioso».
Riflettevo sul fatto che, in questo sessantesimo, abbiamo perso due protagonisti: Catherine Spaak e Jean Louis Trintignant.
«Il destino delle vite talvolta è curioso. Mio fratello è nato lo stesso giorno in cui è morto mio padre. Le date si incrociano in maniera beffarda».
Crede in queste cose?
«No, le registro perché sono un sentimentale».
Forse è la persona giusta per chiarire un mistero sulla genesi del film. Lo spunto iniziale fu di Risi o nacque dalla penna di Rodolfo Sonego?
«So solo che, per tutta la vita, Risi ebbe il desiderio di fare un film intitolato Il giretto (che poi doveva essere il titolo del Sorpasso). Ogni tanto andava dai produttori e diceva: "Ho una bella idea per un film, si chiama Il giretto", con quella erre da avvocato Agnelli».
Il personaggio di Bruno Cortona andò a Gassman dopo che Alberto Sordi lo rifiutò.
Avrebbe avuto la stessa forza con Sordi?
«I film hanno sempre un loro destino. Quando capitano dei cambi in corsa, spesso sono più favorevoli delle intenzioni originali. Lo stesso Trintignant fu scelto all'ultimo. Io ho una passione sfrenata per Sordi, ma la sbruffonaggine che ci mette Gassman è inarrivabile».
Quant' è lontana l'estate italiana dipinta da Risi rispetto alla nostra? Siamo cambiati tanto per non cambiare affatto?
«È cambiata poco. È più affollata, ci sono altre macchine, ma quello spirito caciarone di follia e di fuga è rimasto. L'estate è così importante perché chi va in vacanza entra in un altro personaggio: chi è sposato nega di esserlo, chi è povero finge di essere ricco.
È una commedia reale alla quale gli italiani non rinunciano. Il caso del Sorpasso, poi, è curioso perché allora c'era la villeggiatura, con dei personaggi stanziali. Gassman e Trintignant invece fanno un viaggio modernissimo: due giorni. È il tempo che si è contratto, ma lo spirito è rimasto lo stesso».
Il cartello «Camera deputati» appiccicato come un lasciapassare sul parabrezza dell'auto, per esempio, non è una smargiassata attualissima?
«Altroché».
A proposito di deputati, non ha mai la sensazione di essere seduto sul sedile passeggero di una Lancia Aurelia guidata da una classe politica di Bruno Cortona?
«I Bruno Cortona, alla fine, ci sono sempre stati».
Forse la differenza è che oggi, invece che su una spider, viaggiamo su un'utilitaria.
«Forse anche su un motorino».
Da sceneggiatore, la indispone l'idea che battute magari un po' triviali, ma fondamentalmente innocue come quella di «Occhiofino», nella società contemporanea sarebbero oggetto di polemica?
«Non è che chi scrive o interpreta un film è per forza portatore di quel pensiero. Quella è un'osservazione del pensiero di persone che nella realtà esistono. Viviamo da una parte con un mondo di regole e di imposizioni sul politicamente corretto, poi sali su un autobus e vedi un popolo di animali che non sanno più l'italiano, che bestemmiano. Il cinema deve mostrare la realtà senza censurarla, anche per farti pensare: ma io sono così? Ragiono così? Non voglio essere così».
Lei ha avuto modo di lavorare a contatto con Risi.
«Conobbi Dino che ero molto piccolo e lo vedevo spesso, si andava in vacanza a casa sua al Circeo in una villa che si era fatto coi guadagni di Vedo nudo. Poi, quando mio padre morì, durante il funerale uscì fuori da dietro una colonna e mi disse: "Se hai bisogno di un vice papà, io ci sono". E lo è stato.
Da quel momento siamo stati insieme in tantissime cose, sul set e fuori. Quando me ne andai di casa, mi trasferii nel residence dove viveva; ci vedevamo tutte le sere e mangiavamo il "risottino" (imitando la erre di Risi, ndr) che cucinava».
C'è un trucco del mestiere che ritiene di avergli «rubato»?
«La semplicità. Anche nella vita. Nei lunghi anni vissuti al residence Aldrovandi, lui teneva solo pochi libri e qualche foto attaccata al muro. Però aveva un quaderno dove appuntava pensieri, spunti anche piccoli che potevano diventare un film. Si nutriva di queste osservazioni quotidiane». Un episodio al quale ripensa col sorriso? «Una volta a Parigi, dove lui era un mito, mi disse: "Qui posso fare qualsiasi cosa, piaccio sempre". E citò una critica a un suo film, pubblicata sulla rivista Le point, che non era piaciuto granché al recensore, il quale lo aveva liquidato così: "Tra un capolavoro e l'altro, Dino Risi si prende una pausa di riflessione"». (sorride). «Non era riuscito neanche a dire che gli aveva fatto schifo».
Mi dica la lezione più importante che le ha insegnato.
«Ad avere il controllo del film. Aveva una visione totale. Lui che passava per essere un po' cinico, distaccato, mi diceva: "Per fare un film, lo devi amare. Tu che lo fai, lo devi difendere"».
Scelga una sola battuta dal Sorpasso.
«"Ma non core 'sta machina?"».
Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 25 luglio 2022.
A gennaio, presentando il suo secondo lavoro da regista, Tre sorelle (dopo Lockdown all'italiana del 2020), Enrico Vanzina - senza girarci intorno - aveva detto: «Mi prendo le mie responsabilità di uomo che fa un film sulle donne, ma di sicuro non ho la presunzione di dire qualcosa su di loro in generale. In questo caso, poi, racconto tre donne. E basta (erano Serena Autieri, Chiara Francini, Giulia Bevilacqua più Rocío Muñoz, ndr)».
Molte di più, invece, sono quelle con cui Enrico Vanzina e suo fratello Carlo (scomparso nel 2018 a 67 anni) hanno avuto a che fare nel corso di vite straordinarie - le loro e quella del padre, il grande Steno - tutte all'insegna del cinema. Nomi come Faye Dunaway, Daryl Hannah, Laura Antonelli, Stefania Sandrelli, Elsa Martinelli, Lauren Hutton e tantissime altre.
Proprio di donne si parla nella stanza del suo ufficio romano, ai Parioli, dove scrive e suona il piano tra libri antichi, quadri con foto in stile pop art (Vanzina ha conosciuto anche Andy Warhol), la laurea in Scienze politiche nascosta tra gli scaffali, due Telegatti (per I ragazzi della 3C del 1987). Enrico apre la porta a piedi nudi, sorridente, con i capelli da capo indiano di sempre.
Poi si siede, guarda una foto del fratello Carlo, e attacca: «Lui è sempre stato un grande scopritore di bellezze. Nel 1956 papà girava Mio figlio Nerone con Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Gloria Swanson e una giovanissima Brigitte Bardot. Un giorno la Swanson ci invita a casa, e ci regala armature da antichi romani. Io avevo 7 anni, Carlo 5. Io faccio il bravo bambino e la ringrazio subito, lui no. Mamma gli dice di essere gentile. Niente. Papà lo rimprovera. Muto. Papà si incazza. E Carlo: voglio la Bardot!».
E lei, chi voleva?
«A quell'età impazzivo per Marisa Allasio».
Crescendo quante volte si è innamorato di un'attrice?
«Ho avuto qualche storiella, ma zero amori. Le vedo troppo autoreferenziali, si credono il centro del mondo. Parlo delle star, ovviamente. Diciamo che sono attratto da cassiere, commesse, donne semplici. È anche vero, però, che la protagonista di un film deve sentirsi considerata da chi l'ha scelta e la dirige. Io e Carlo abbiamo sempre fatto credere all'attrice del momento che fosse la più desiderabile del mondo. La bellezza conta sul set».
Quanto? Più del talento?
«Tanto quanto. Alberto Arbasino una volta, negli Anni 50, chiese a Gary Cooper: cosa ci vuole per essere una grande attore? E lui, sorridendo: This, indicando la sua faccia. È vero. Per avere successo non basta il talento, ci vuole la presenza. Alcune grandi attrici hanno la capacità magica di far credere a tutti di essere meravigliosamente belle anche se non lo sono. La vera star riesce anche a far questo».
A chi si riferisce?
«Bette Davis, Katherine Hepburn, Meryl Streep... Hanno conquistato il mondo pur non essendo bellezze travolgenti».
La più bella con cui ha lavorato?
«Virna Lisi. Riusciva sempre a mettere in contatto la bellezza del suo viso con il cuore. E poi lei è stata bella a tutte le età. Una donna unica».
La più sorprendente?
«Faye Dunaway. Con lei nel 1988 girammo La partita. Era incredibile: sentiva la luce. Quando parlano e si muovono, le vere star riescono sempre a prendere il riflesso migliore per essere perfette. Anche Monica Vitti era così».
E Isabella Ferrari?
«Quando nel 1983 la lanciammo come Selvaggia in Sapore di mare, ruolo che poi lei ha odiato per anni, sul set capimmo subito che avevamo scelto la ragazza ideale per quegli anni. Bastava guardarla. Stesso discorso nel 1987 con Sabrina Ferilli, scritturata per I ragazzi della 3C: il mix bellezza-simpatia era impressionante. Era chiaro che sarebbe diventata popolarissima».
È vero che nel 2000 per Vacanze di Natale vi fu imposta la modella Megan Gale, quella degli spot telefonici?
«Sì. E la prima volta che venne sul set, all'alba, senza trucco, rimanemmo un po' così...».
Così come?
«Sempre bella, ma diversa. E poi molto alta. Le bellissime devono essere come Liz Taylor: piccoline».
Nel 2001 per il film South Kensington avete scritturato la top model australiana Elle Macpherson, detta The Body, 1 metro e 83 centimetri...
«Vabbè, lei era da buttarsi per terra. Come Carole Bouquet (protagonista nel 1983 di Mystère, ndr) e Renée Simonsen (star nel 1985 di Sotto il vestito niente, ndr): mai più visto uno sguardo come il suo. Carol Alt, invece, mi colpì per un irish coffee».
Che vuol dire?
«Il primo pranzo insieme, durante le riprese di Via Montenapoleone del 1986, ordinò solo un irish coffe. Le chiesi il motivo. E lei: Da ragazza ero grassa e brutta, e a scuola mi bullizzavano. Adesso sono bellissima e voglio rimanere così per sempre».
Cosa un po' impossibile.
«Già. Spesso la bellezza può essere una fregatura perché molti, vale anche per gli uomini, non la sanno gestire. Greta Garbo, per esempio, ne fu travolta. Una perfetta è stata Valentina Cortese, o Giovanna Ralli, ancora oggi fantastica».
Cosa ci vuole per gestire sul set attrici dal carattere e dalla bellezza così importanti?
«Pazienza. Dal trucco alle battute devono sentirsi sempre a loro agio, altrimenti recitano male».
E durante le scene di nudo?
«Tanta pazienza. A meno che non si lavori con Monica Bellucci. Come produttore nel 1991 lavorai con Dino Risi al film tv Vita con i figli, protagonista Giancarlo Giannini. A Pavia Risi, prima di una scena in cui doveva essere nuda a letto, le disse di mettersi sotto le lenzuola. E lei: Se devo essere nuda, nessun problema. E con una sicurezza mai vista si spogliò completamente davanti a tutti, attraversò lo studio, e si mise a letto. Una scena pazzesca. Rimanemmo a bocca aperta».
Di solito ci sono problemi?
«C'è chi ha chiesto il set vuoto come Carole Bouquet, le bende come ... Nel film con Boldi e De Sica Megan Gale non voleva essere ripresa e per una scena sotto la doccia, utilizzammo una controfigura. Alla prima cominciò ad urlare Stop the film!. Era nera. Pensava fosse lei».
Il primo amore?
«Barbara Mastroianni, la figlia di Marcello. Avevamo 16 anni. A lui piaceva molto avermi intorno nella sua villa a Castiglioncello, viveva circondato dalle tante donne della sua famiglia».
Sua moglie, la tedesca Federica Burger, quando l'ha incontrata?
«Nel 1975, in un bar di Porto Ercole. L'ho vista e le ho subito parlato: è stata il grande amore della mia vita».
Anni fa però vi siete separati e lei si trasferì a Milano, giusto?
«Sì, ma fu un errore. Dopo un po' dicevo bugie alla fidanzata per vedere mia moglie, così dopo un anno e mezzo sono tornato a casa. È stata la fortuna della mia vita. Non si è mai intromessa nel mio lavoro e mi ha sempre dato consigli giusti, quando glieli ho chiesti. Ci siamo sposati nel 1994 quando capimmo che per la legge italiana non esserlo faceva una grande differenza».
Per lei non era la prima volta, vero?
«Nel 1974 andai a Bangkok per lavorare al film di mio padre Piedone a Hong Kong. Li conobbi Tookata, una ragazza del posto di buona famiglia, mi innamorai e ci sposammo dopo poco con rito buddista. All'epoca ero vegetariano, avevo i capelli corti...».
E poi?
«Provai a vivere a Bangkok per qualche mese, ma fu un disastro. Poi lei venne a Roma, e fu anche peggio. Ci lasciammo senza drammi. A mia madre non piaceva tanto».
Com' erano i rapporti con lei?
«Difficili. Era bipolare e abbiamo vissuto grandi tensioni, che per fortuna prima della sua morte siamo riusciti a chiarire. Non ha mai amato il mondo del cinema e ci voleva diplomatici. Abbiamo fatto altro».
Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2022.
«Sulla scrivania ho tre foto di me bambino. Una con Totò, serio, impermeabile e cappello, che mi tiene per mano, avrò avuto due anni e mezzo. In un'altra sto in braccio ad Aldo Fabrizi vestito da guardia, noi in famiglia siamo tutti magri, lui così grosso mi faceva anche un po' paura».
E la terza? «La più famosa, ci siamo io e Carlo in salopette, in mezzo Alberto Sordi con il cappello da cowboy, sul set di Un americano a Roma », racconta Enrico Vanzina, 73 anni, scrittore (12 libri, il primo fu Le finte bionde nel 1986, l'ultimo è Diario Diurno. 2011-2021 per HarperCollins: «Un racconto dell'Italia e degli italiani, di come sono cambiati: più cattivi, più tristi, rassegnati al presente»), sceneggiatore, regista e produttore di oltre 120 film, da solo o in coppia con l'amatissimo fratello Carlo - scomparso nel 2018 - re indiscussi della commedia all'italiana degli ultimi 45 anni e rotti, per di più figli di un mostro sacro come Steno (Stefano Vanzina), regista, sceneggiatore, vignettista e soprattutto Gran Maestro degli anni d'oro del cinema italiano più spensierato, dal Dopoguerra in poi. «Io nel Cinema ci sono nato, per me era normale, gli amici di papà facevano quello, ci si voleva tutti bene, come in una grande famiglia.
Così capitava che uno impegnato come Michelangelo Antonioni andasse tranquillamente a cena con mio padre che girava le commedie. E che peraltro con Guardie e ladri nel 1952 vinse il Festival di Cannes, del resto la sceneggiatura la scrissero lui e Mario Monicelli con Ennio Flaiano e Vitaliano Brancati».
Totò era un vicino di casa.
«Abitava a pochi passi da casa nostra, in via dei Monti Parioli - io però sono nato a piazza di Spagna - dove il nostro dirimpettaio era Mario Camerini. Nella vita era il principe De Curtis, che girava sulla Cadillac con le tendine. Papà è stato il regista di Totò per eccellenza. Si capivano, si piacevano. Un giorno sul set di Totò diabolicus (1962) lo vidi arrivare ancora vestito da donna. "Ah, quanto mi piace fare Totò", esclamò».
Albertone praticamente uno zio.
«Il più grande amico di famiglia. Ci mandò una cartolina da Kansas City. "A me m' ha bloccato la malattia". L'ultimo ricordo che ho di lui è del giorno in cui morì. Ero in auto, stavo andando fuori Roma, tornai indietro. Davanti alla villa di Sordi era pieno di gente, di telecamere. Suonai. Mi aprì la sorella. "Vieni, vieni con me, Alberto ti voleva tanto bene, voglio farti un bel regalo".
Mi portò in una stanza. C'era lui disteso sul letto, cereo. Avrei voluto scappare, mi faceva impressione. Però mi tornò in mente di quando scherzava così: "Non ho paura della morte, io con quello lassù ci ho già parlato, ho prenotato una suite in Paradiso" e riuscii a sorridere. Al funerale di papà invece, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, vidi Alberto piangere a dirotto, nascosto dietro una colonna, straziante».
Quella sera con Renato Pozzetto però...
«Io e Carlo avevamo appena girato con lui Luna di miele in tre e Pozzetto ci teneva a conoscere Sordi. Li invitammo a cena. Renato arrivò per primo, ansioso. Alberto venne accompagnato da Piero Piccioni. Gli presentammo l'ospite. Lui lo guardò ridendo di cuore come rideva solo lui. "Ma tu chi sei, caro? Sei Cochi o sei Renato?" Nei film era esattamente come nella vita. Un giorno Andy Warhol gli chiese come facesse a cambiare sempre personaggio. "Una volta ho il cappello da vigile, una volta da pompiere o da cowboy, ma sotto ci sono sempre io"».
Per voi bambini sarà stato uno spasso.
«Ci divertivamo tanto con Walter Chiari che ci faceva correre, per Raimondo Vianello avevamo una passione totale, ma quello che ho amato di più è stato Paolo Panelli. A Castiglioncello, dove andavamo in vacanza grazie a Suso Cecchi D'Amico, noi, Sordi, Vittorio Gassman - con cui giocavo a tennis - il re assoluto delle scenette era lui, con Mastroianni che gli faceva da spalla».
Gloria Swanson vi regalò doghe ed elmi da antichi romani.
«Aveva girato Mio figlio Nerone con Sordi, Vittorio De Sica e Brigitte Bardot che faceva Poppea. Papà disse a mio fratello: "Ringrazia la signora Swanson", ma lui restava muto. "Su, dille grazie". Silenzio. Poi Carlo lo tirò per il braccio. "Ma io volevo la Bardot", protestò. Aveva già occhio per le belle donne».
Due predestinati, era scritto.
«Mamma Maria Teresa, figlia di un ferroviere, era bellissima, però il cinema non le interessava. Ci mandò al liceo francese Chateaubriand, il più esclusivo. Ci sognava ambasciatori, ci ritrovammo a Manziana a girare con Lando Buzzanca».
E in vacanza con Luca Cordero di Montezemolo, a Cortina.
«Finimmo presto i soldi e mi tornò utile aver studiato pianoforte, visto che mi ero innamorato di una dj del King' s. Mi proposi al titolare. Così, dall'una alle due di notte, suonavo Gino Paoli, Luigi Tenco, la paga bastava a mantenermi».
La prima sceneggiatura.
«In realtà sono due. Avevo appena scritto Luna di miele in tre , ad Alberto Lattuada era piaciuto molto, mi chiese di buttare giù quella di Oh Serafina! insieme a Giuseppe Berto. Un'occasione incredibile, in ritiro a Capo Vaticano con lui, avevo 25 anni».
Nel 1976 scoppia la «Febbre da cavallo» con Proietti/Mandrake e Montesano/Er Pomata.
«Da ragazzino frequentavo gli ippodromi, ero un gran giocatore, fu Camerini a portarmi alle Capannelle a 14 anni, poi continuai ad andare alle corse con la famiglia Giubilo. Ero un esperto. Scrissi il pezzo finale per Proietti, quello del processo davanti al giudice Adolfo Celi. Ricordo bene il giorno in cui girammo la famosa scena del "fischio maschio senza raschio" a largo Augusto Imperatore. Gigi è stato un grande amico, insieme abbiamo fatto viaggi meravigliosi, quando è morto ho provato un dolore fortissimo».
Quella volta che...
«...che eravamo in vacanza a New York, una sera andammo all'Apollo Theater di Harlem a sentire Ray Charles, sarà stato il 1970. A un certo punto ci rendemmo conto di essere gli unici bianchi, si giravano tutti. Proietti mi guardò con un sorriso alla Mandrake: "Non so tu, ma io me la sto facendo sotto"».
Il film del cuore, dei suoi?
«Direi Sapore di mare del 1983. Per il produttore Claudio Bonivento avevamo appena fatto I fichissimi con Diego Abatantuono e Jerry Calà, che era andato molto bene. Gli proponemmo questo, accettò, fu coraggioso. Un film molto personale, autobiografico, raccontava delle nostre estati a Castiglioncello. Quell'anno il David avrebbero dovuto assegnarlo a noi, ma in fondo, per quanto è stato amato, è come se lo avessimo vinto. Sono molto legato a Il cielo in una stanza, con Elio Germano, buffo, sentimentale. E considero Il pranzo della Domenica l'ultima vera commedia italiana».
Incassi stellari.
«Ho calcolato che i nostri film, nel complesso, hanno fatto guadagnare sei o settecento milioni di euro, non a noi eh. Una volta Richard Fox della Warner, con cui nel 2002 abbiamo fatto La Mandrakata, mi riferì quello che gli aveva detto Steven Spielberg: "In Italia mai fare uscire un film insieme a quello dei Vanzina". Avrei voluto correre a genuflettermi davanti a lui».
Con Carlo avete mai litigato per un film?
«No, perché avevamo ruoli distinti, io scrivevo di più e sul set andavo poco. E poi di solito io la pensavo come lui e lui come me».
L'ha sempre protetto.
«Ero il più alto, il maggiore, l'unica volta nella vita che ho litigato allo stadio è stato per difendere lui. Il mio dolore più grande è di non averlo potuto tenere al riparo dalla malattia e dalla sofferenza, ero convinto che me ne sarei andato prima io. Continuare da solo è difficile, però non posso mollare. Come nel menu di un ristorante c'è la specialità della casa, nel cinema dei Vanzina c'è il racconto della vita attraverso i nostri occhi, ora solo i miei. E penso: questo come l'avrebbe fatto Carlo? Come l'avrebbe girato papà? Sono sempre e comunque qui con me».
Carlo Verdone, altro amico fraterno.
«Ci siamo conosciuti tardi, ma tra noi c'è un'amicizia meravigliosa. Il mio unico rimpianto è di non aver mai fatto un film con lui».
Già, perché no?
«Perché Carlo Verdone fa i film con Carlo Verdone. Però spero che ci riusciremo, prima di rimbambirci del tutto».
E poi c'è Christian De Sica.
«I Vanzina e i De Sica sono sempre stati legatissimi, papà nutriva un affetto infinito per Vittorio e viceversa, tant' è che quando morì - e per un cortocircuito burocratico non riuscimmo a seppellirlo dove gli spettava - per qualche tempo fu ospitato nella loro cappella di famiglia. Ci piace immaginarli insieme in Paradiso, seduti al bar e circondati di ballerine anni Quaranta. Christian è un grandissimo talento, ho una passione sfrenata per lui come cantante».
Voi tre in gita a Venezia.
«Primi anni Ottanta. Partiamo io, Christian, Carlo e le nostre rispettive mogli, soggiorno all'hotel Excelsior. Io e Carlo scendiamo a prendere i lettini da sole, il bagnino ci viene incontro raccontandoci di aver conosciuto tanti attori famosi, prima di noi, Sordi, Gassman, Monica Vitti. "Eh, però sapeste che tirchiacci, non lasciavano mai la mancia, quante maledizioni gli ho mandato". Da quel momento spendemmo un patrimonio in mance, perché non si sa mai...».
I critici storcevano il naso.
«All'inizio ci trattarono molto bene, poi il nostro successo ci attirò un pregiudizio ideologico. Abbiamo raccontato gli anni Ottanta come nessuno, l'epoca di Craxi, della Thatcher, di Berlusconi con le sue tv, ci accusavano di essere i loro cantori, invece prendevamo in giro un certo mondo, la Milano da bere di Yuppies e la Roma cafona di Vacanze di Natale . Adesso c'è la fase del culto esagerato, terrificante... di buono c'è che spesso ti permette di non pagare al bar».
"Ho raccontato le donne senza piegarmi alle regole dei comandamenti". Massimo Balsamo il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Il nuovo film del regista romano, "Tre sorelle", arriverà su Amazon Prime Video il 27 gennaio: "La mia prima commedia interamente al femminile è una grande sorpresa".
Una commedia romantica, vecchio stile, tutta al femminile: Enrico Vanzina sbarcherà il prossimo 27 gennaio su Amazon Prime Video con il film “Tre sorelle”. Il Circeo fa da sfondo alle vacanze estive di tre sorellastre e di una massaggiatrice, alle prese con drammi sentimentali: a rompere gli equilibri sarà Antonio, il nuovo vicino di casa. “È un film molto carino, abbiamo fatto qualche proiezione, c’è stato un buon riscontro”, ha spiegato ai microfoni de ilGiornale.it lo sceneggiatore, firma di alcuni dei più grandi successi al botteghino italiano insieme al fratello Carlo, scomparso nel luglio del 2018.
A 72 anni, dopo decine film e "Lockdown all'italiana", la prima commedia interamente al femminile: che esordio è stato?
“Ho fatto tanti film sulle donne, da “I miei primi 40 anni” a “Le finte bionde”, ma questo è il film dove ho fatto una piccola scommessa con me stesso: il cinema che ho sempre fatto è stato molto sovrastato dalle figure dei mattatori maschili, ho cercato di fare un film spiritoso con le donne. È un film molto scritto e ho fatto un grande lavoro di regia sulle attrici e sulla recitazione, devo dire che mentre giravo ridevo anche io (ride, ndr). È stata una grande sorpresa e anche una grande soddisfazione”.
Quanto è difficile fare ridere ai tempi del Covid?
“C’è una frase bellissima di uno scrittore francese che dice: 'Speriamo che il mondo rimanga ridicolo'. Basta spostare lo sguardo di pochi centimetri e tutto quello che è intorno a noi può fare ridere: il lavoro di chi fa la commedia è spostare l’occhio per vedere. Questo non cambierà mai: c’è stato, c’è e ci sarà tantissimo dolore, ma ci sono anche degli aspetti buffi. È inutile negarli”.
Perché ha deciso di ambientarlo nel 2019, nell’epoca pre-Covid?
“Se avessi ambientato il film durante la pandemia, la presenza del Covid sarebbe diventata più forte della storia. O fai un film sulla pandemia o niente: questa è una storia sulle fragilità delle donne, era difficile metterci il carico del Covid, avrebbe cambiato anche la natura dei rapporti”.
C’è una grande alchimia tra le quattro protagoniste (Serena Autieri, Giulia Bevilacqua, Chiara Francini e Rocìo Muñoz Morales)…
“Questo film avrei dovuto farlo prima della pandemia, avevo scelto delle attrici diverse. Poi è cambiato tutto, ma rifarei assolutamente le stesse scelte: hanno fatto quello che io sognavo per il film. Hanno donato al film sentimenti, grazia, malinconia e bravura. Giulia Bevilacqua è un’attrice straordinaria, Rocìo l’ho scelta all’ultimo momento ed è molto graziosa, bravissima. Serena Autieri ha il personaggio più difficile, ha portato tanta tenerezza e malinconia. Chiara Francini, oltre ad essere una brava attrice, è un’intellettuale e mi ha aiutato molto anche in fase di scrittura. E sono anche molto contento di Fabio Troiano…”
Come ha lavorato sul personaggio interpretato da Troiano, uno scrittore bugiardo, quasi esecrabile?
“Quel ruolo spregevole l’ho proposto a molti attori, ma hanno rifiutato. Troiano l’ho trovato alla fine, ci ha messo il suo dialetto e la sua leggerezza. Questo personaggio patetico ci regala anche quella tenerezza insita nella commedia all’italiana, dove non bisogna mai giudicare i personaggi. Mi è piaciuto molto lavorare con lui”.
Interessante e divertente la contrapposizione tra cinema d’autore e cinema popolare. Qual è la sua posizione?
“Io sono nato in una famiglia di cinema e ho conosciuto tutti i più grandi. Il cinema è sempre la stessa cosa, dagli autori celebrati nei Festival a chi fa i grandi incassi. Il cinema popolare è bellissimo quando è leggermente d’autore, con il tocco di qualcuno, e viceversa. Altrimenti la contrapposizione non ha senso”.
Tra i tanti registi citati nel film spunta anche Paolo Sorrentino, in corsa per l’Oscar con “È stata la mano di Dio”…
“Sorrentino è il regista che più mi piace. È difficile fare previsioni sull’Oscar, il film ha tutte le carte in regole per poter ambire alla vittoria ma non ho visto tutti gli altri film candidati. Il cinema talvolta è come lo sport: si cerca di vincere per imparare a perdere”.
Nel film c’è una giusta dose di scorrettezza. Una scelta coraggiosa di questi tempi, considerando il dominio del politically correct...
“Se dovessimo piegarci totalmente alle regole dei comandamenti, non si potrebbe fare più nulla. Bisogna prendersi le responsabilità: io ci ho messo la faccia, ho raccontato questa storia su quattro donne senza voler fare un trattato sociologico sulla figura femminile. Ho raccontato con sincerità quello che ho visto e conosciuto nella mia vita e molte donne potrebbero riconoscersi nelle fragilità, nelle incongruenze e nel coraggio delle quattro protagoniste. Abbiamo fatto già diverse proiezioni e il film è piaciuto molto alle donne, poi troveremo quella che mi darà del mascalzone, ma ce ne faremo una ragione…”.
“Tre sorelle” è stata una grande sfida, qual è la prossima?
“Chi fa il mio mestiere in questo momento sta dibattendo sul tema cinema-piattaforma. Io ho lavorato con Netflix e Amazon Prime Video: penso che le piattaforme siano una grande opportunità. Ma bisogna cercare di immaginare di fare un film per la sala. Cinema e player streaming troveranno un equilibrio, una coesistenza. La tecnologia non si ferma e bisogna conviverci, per questo stiamo tutti pensando a cosa fare in questo momento di transizione molto forte…”.
Tra cinque giorni è in programma l’elezione del Presidente della Repubblica, un film che naviga tra i generi. Cosa si aspetta, è spaventato da qualche scenario?
“Io non sono spaventato più da nulla, come tutti gli italiani. Abbiamo avuto una overdose tra politica, sciagure, lockdown, rating, voltafaccia politici… Non possiamo avere paura, speriamo che in questo momento così importante la politica usi l’onestà intellettuale: deve esserci una scelta condivisa. In una fase così difficile, serve una figura equidistante e saggia, serve dignità per rendere l’Italia forte: deve rappresentarci una persona al di sopra delle parti. Visto che parliamo di “Tre sorelle”, io sarei favorevolissimo a trovare una Presidente donna, ma non deve essere scelta per il fatto stesso di essere donna: serve una persona con le qualità adatte a ricoprire la carica di capo dello Stato”. Massimo Balsamo
"I miei duetti con i big sono come una tournée nella canzone italiana". In "Il treno dell'anima" che esce oggi ci sono Ligabue, Antonacci, Jovanotti e tanti altri. Antonio Lodetti il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.
È sempre alla ricerca del suono inedito, sempre a caccia di invenzioni da legare o alla tradizione o al presente proiettato nel futuro. Non si è mai perso nei meandri della musica, pur avendo suonato rock e pop, musica tradizionale e popolare e persino musica classica. È un fiume in piena, Enzo Avitabile ed ha anche molti amici, visto che i personaggi che hanno lavorato con lui - da James Brown a Tina Turner, passando per David Crosby - sono praticamente tutti i grandi della musica. Così ha deciso di radunarne alcuni - Ligabue, Edoardo Bennato, Jovanotti, Biagio Antonacci, Giuliano Sangiorgi, Rocco Hunt e Boodabash - per il bel disco di duetti Il treno dell'anima in uscita oggi.
Lei è in perenne tournée con il suo gruppo popolare e i Bottari di Portico. Dove ha trovato il tempo per questo album?
«Io vivo di musica e volevo proporre un album pop di qualità, ma senza snaturarne le radici, un album che fa compagnia, a tratti imprevedibile. Insomma, un album che non rompa».
Un progetto ambizioso.
«È un'operazione sulla canzone italiana adattata ad alcuni momenti della mia vita. Un lavoro semplice, ma ci sono emozioni, vibrazioni; le cose belle e le cose brutte della vita. Se dovessi definirlo direi che è un album dal suono suonante. C'è una sola cosa che manca in questo album, ed è Pino Daniele, che con me ha cantato il suo ultimo pezzo in napoletano».
Ci sono partecipazioni importanti, come quella di Ligabue.
«Amo Ligabue e il suo rock basico. Oggi il suono è omologato, con lui ero certo di tirare fuori un brano rock semplice, quasi minimale, ma incisivo».
Bennato è un suo conterraneo.
«Sì, e anche lui racconta le piccole glorie e le miserie della nostra vita, mettendo in campo in primo piano le emozioni».
Jovanotti?
«Il nostro è un rapporto, un'amicizia di lunga data. Il primo brano del disco è nato con lui. È una forza della natura, io ho lavorato con lui in parecchi suoi dischi, compreso l'ultimo, e mi sono divertito a partecipare al Jova Beach Party».
Rocco Hunt e i Boomdabash, invece, sono i più moderni. Che cosa pensa della musica di oggi?
«Ho detto che è omologata, ma ci sono tanti nuovi fermenti. Io ho preso parte al primo disco di Rocco che, come i Boomdabash, ha un senso del ritmo e dello spettacolo incredibile».
Jonathan Demme ha girato un film biografico sulla sua vita presentato qualche anno fa alla Mostra del Cinema di Venezia. Nella pellicola ci sono incontri importanti, come quello con David Crosby.
«Un onore per me questo film che racconta in modo esaustivo ma conciso la mia carriera. Incontri, suoni, colori, fatiche ma anche mille soddisfazioni. E poi personaggi incredibili come Crosby, che però non è per nulla un uomo facile con cui trattare».
Black Tarantella, anch'esso ricco di ospiti, è un altro disco che mette insieme artisti africani e italiani in una sorta di melting pot melodico.
«Volevamo unire suoni africani e americani con la nostra mediterraneità».
Non si è fatto mancare neppure la musica classica.
«Ho scritto anche alcune opere, tra cui una sinfonia diretta dal maestro Pippo Del Bono, ma sempre all'insegna della musica semplice».
Da molto tempo ormai tiene in piedi la tradizione folk, sempre naturalmente diversificata, con i Bottari di Portico.
«Sì, abbiamo una band con tanto di fiati accanto ai Bottari che suonano botti, tini e cose del genere. Uno spettacolo atipico e molto suggestivo che porto con successo in giro non solo per l'Italia, ma anche dall'Inghilterra al Marocco. Mi gratifica molto».
Porterà in concerto il nuovo disco?
«No, il mio scopo non è andare in giro a promuovere le canzoni. E poi sono tutti duetti. Magari un giorno ci incontreremo con Ligabue e faremo un duetto, ma per ora la mia attività dal vivo è dedicata ai Bottari».
Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 5 dicembre 2022.
Voi mettere la generazione arcobaleno con la nostra? Che faceva colazione con la coloratissima caffettiera «Banale» di Mendini, così originale da cambiare sapore al caffè, e anche al design. Caldaia oblunga, serbatoio stretto, placche d'alluminio a spicchi rossi, verdi, gialli, blu... E Cyndi Lauper cantava True Colors...
Carmina non dant panem, ma il karma degli anni Ottanta - elettronici, rizomatici, appariscenti, chiassosi, esagerati, sintonizzati h24 su Videomusic, Video Killed the Radio Stars, calze a rombi della Burlington, Drive in e una generazione libertaria - ci ha dato i paninari. Speck, fontina e rivalsa a iosa, con contorno di ottimismo, speranza, futuro e modernizzazione. Si chiama «post-moderno», qualsiasi cosa significhi.
Arrivati dopo la modernità, con le Timberland ancora sporche del piombo e del sangue degli anni Settanta e con la testa piena di Tenax già nei Novanta pronti per connettersi alla Rete - dal Commodore 64 al Blackberry fu un attimo - i paninari furono la griffe iconica di un decennio irripetibile, creativo, trasgressivo, irriverente, condannato a posteriori per l'insopportabile inconsistenza dell'apparire e che invece intuì perfettamente l'insostenibile leggerezza dell'essere.
Gli anni Ottanta furono pacifici senza essere pacifisti, pieni di idee senza essere ideologici, ricchi senza essere volgari, ottimisti senza essere utopici, progressisti senza essere di sinistra, esplosivi senza essere rivoluzionari, new romantic senza essere mielosi. Just an Illusion.
Bye bye «galli», bye bye «sfitty» che ora avete tutti superato i Cinquanta e magari tenente ancora il piumino giallo in cantina. Il vostro McDonald's in piazza San Babila, che allora era il primo Burghy d'Italia, chiuderà per sempre. Domani finirà una volta per tutte il decennio meno lungo del secolo breve: 1982, quando nasce l'Italia migliore di sempre: Zoff, Gentile, Cabrini..., 1989, quando si spegne l'ultima nota del concerto dei Pink Floyd su una piattaforma galleggiante di fronte a San Marco, a Venezia.
Come in un quadro di Magritte. Cosa vuoi di più dalla vita?
Un amaro Ramazzotti.
Che poi, la «Milano da bere», e quella da vomitare, non era uno spot, ma un modo di gustare i piaceri dell'esistenza. Le lezioni calviniane, il minimalismo, la Transavanguardia, i Cabaret Voltaire, Blade Runner, la distensione, la grande nevicata del gennaio dell'85, Le mille luci di New York di Jay McInerney, la new wave italiana, il Nephenta, le modelle del Nephenta, la Yamaha XT600Z Ténéré, la perestrojka e la glasnost, Rio dei Duran Duran, Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio con le musiche di Philip Glass e Twin Peaks. Poi arrivarono le altre serie tv... Wild Boys.
Guardavamo l'anaffettivo Richard Gere di American Gigolò e volevamo fare sesso senza amare nessuno, vedevamo l'avido Gordon Gekko di Wall Street e pensavamo di potere fare soldi senza costruire nulla.
E invece...
Altro che il decennio delle illusioni, dell'egoismo, del disimpegno... perché anche la plastica alla fine è un materiale nobile. La realtà è che il paninarismo, per farla finita una volta per tutte con le Timberland e il Moncler, fu l'ultimo afflato comunitario giovanile - quando ancora i ragazzi si univano in compagnie - prima della disgregazione individualistica degli anni Novanta e della solitudine di massa dei Duemila, e oltre.
I paninari, venuti su ad hamburger, i weekend a «Curma», le contaminazioni culturali e svezzati con Tetris - un videogioco che con i suoi quadratini da incastrare è una perfetta metafora della vita: scansare tutti i problemi che ti cadono addosso, uno dopo l'altro, sperando non esca Game over - non si preoccupavano di nulla ma avevano tutto: la spensieratezza, la fantasia, la concretezza.
Si chiama «italianità».
Avevamo il craxismo come mitografia di un decennio di spocchia e di potere, le lampade Uva che ci facevano apparire sempre abbronzati, le palestre che ci tenevano perennemente in forma... Avevamo la lira per sentirci ricchi, i videoregistratori per dare forma a una memoria frammentata, un bancomat per pagare senza soldi, il walkman per portarsi la libertà della musica in testa, avevamo la stoffa di Naj-oleari per mettere le toppe sugli strappi del terrorismo, i guanti da muratore di El Charro per rimuovere le macerie del Muro di Berlino... Avevamo, sì, la spettacolarizzazione della politica, ma non la politica come avanspettacolo come avremmo avuto poi. Avevamo persino Mister Fantasy, che a pensarci adesso era meglio di Alessandro Cattelan. Avevamo soprattutto la speranza: la generazione degli anni Ottanta fu l'ultima del '900 a essere più ricca della precedente, e non è poco.
L'amore al tempo delle discoteche, l'eterno presente della tecnologia, l'innovazione del design, la rivoluzione dell'home computer, Fade To Grey dei Visage, il bomber nero, Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli, «Primo Levi' s», Last Christmas e la splendida fluidità di George Michael quarant' anni prima che gli Lgbt ci scassassero i coglioni, i Duran Duran a Milano che fu la nostra Woodstock, i prodromi del berlusconismo, la moda invece che le mode... I Want to be Forever Young, e oggi invece si credono già adulti a vent' anni.
Noi siamo la generazione a cui piaceva ostentare così tanto le etichette che ne abbiamo appiccicata una gigante con scritto «Vaffanculo» sopra al fascismo, il comunismo, il femminismo, il capitalismo, l'ecologismo e pure il pacifismo, noi che abbiamo sempre preferito gli Alphaville ai Beatles.
Sounds Like a Melody. Noi siamo la generazione degli Spandau Ballet che ha ballato la danza macabra sulla tomba delle ideologie del decennio precedente, la generazione che fece del cubo di Rubik la metafora del decennio - come rimettere in ordine il caos che ci avevano lasciato i sessantottini, e in media ci mettevamo 45 secondi gli sketch di Gianfranco D'Angelo erano il nostro surrealismo, San Babila il nostro protettore, Less than Zero la nostra Bibbia e l'edonismo reaganiano la nostra religione. Cuius regio, eius deejay television.
«Desidera?». «Un «King Bacon, per favore». Doppia porzione di rampantismo, gustoso ottimismo 100%, salsa al Narciso in un panino indimenticabile. È vero. Non avevamo né ideali né certezze, ma se ci fossero serviti sapevamo dove andarli a comprare. E Milano, fra San Babila e piazzetta Liberty, era il posto giusto.
Ottavio Cappellani per mowmag.com l’1 Dicembre 2022.
Era l’ormai lontano 1981 quando il Burghy di Milano divenne uno dei luoghi iconici per una intera generazione, un vero fast food americano in Italia ma che rappresentava anche il luogo in cui trovare una propria identità attraverso diverse mode e stili di vita. Come per i paninari, con i capi di abbigliamento Monclair, Levi’s , El Charro, Timberland, Henry Lloyd e Top Gun Avirex, magari guidando una assurda moto Zundapp (presto sostituita da una Honda ns 125).
Oggi quell’avventura giovanile è finita, ci sono scatole chiuse illuminate da piccoli schermi dove acquistare qualcosa indossato da una influencer per soldi. Ecco come i paninari di allora si sono trasformati nei boomer di oggi
Non solo paninari (che è una citazione di una trasmissione televisiva dell’epoca – Nonsolomoda) la chiusura di Burghy di San Babila (marchio storico poi comprato da McDonald’s), il 6 dicembre, segna la fine di un’epoca della quale era rimasta soltanto la schiuma come quando l’onda di risacca di ritira dalla battigia.
Fu l’epoca in cui la moda, l’appartenenza, lo stile in senso ampio (derridiano di provenienza nicciana) si era fatto vulgata e camminava per le strade spargendo identità, fittizie vero, ma sempre più genuine e ingenue rispetto agli influencer virtuali: la moda, allora, rappresentava una vita adolescenziale a tutto tondo che comprendeva musica, locali da frequentare, architettura del pensiero e donava un abbozzo di senso a quella confusione caotica che è l’adolescenza adesso in mano ai mille rivoli di un post, di un tweet, di una foto su Instagram.
È la fine della generazione X, termine coniato da Douglas Coupland, che adesso quasi coincide con i boomer, che, in termini aulici, vuol dire – ho scoperto da poco – significare vecchi rincoglioniti e io c’ero, andando in pellegrinaggio a San Babila per vedere sta minchia di moto, la Zundapp, che non aveva alcun senso: il marchio motociclistico chiuse nel 1984 mentre per le strade iniziava a sfrecciare luminosa la Honda ns 125, il primo due tempi dalle prestazioni iperboliche; perché la Zundapp divenne la moto dei paninari è un mistero che soltanto Roberto D’Agostino potrebbe svelare, immerso anch’egli in quell’epoca, che con la distanza e l’ironia necessaria cercava di raccontare cosa stava succedendo nel look non solo adolescenziale.
Perché era ovvio che il "paninaro", con il suo Monclair, i suoi Levi’s 501, le sue cinture El Charro, le sue Timberland, ma anche i suoi Henry Lloyd, i suoi Top Gun Avirex - i bomberini della stessa marca, invece, accoppiati ai Dr Martens o agli stivaletti Cult, appartenevano alla narrazione Dark-Cure, mentre Chiodi, borchie, stivali da motociclisti erano dei metallari; l’unico brand che attraversava i tre stili furono gli stivali Camperos – dicevo era ovvio che i paninari fossero lo stato embionale degli Yuppies, meravigliosamente raccontati dai Vanzina e messi in edicola non solo dal giornaletto "Paninari" (edito da quelle edizioni Lo Squalo che ci diede tante soddisfazioni con i fumetti porno), ma soprattutto con l’apparire di Capital e Class, mensili patinati grazie ai quali qualsiasi ragioniere del catasto o macellaio o sfasciacarrozze iniziò a sentirsi un imprenditore di se stesso.
Con la chiusura di Burghy a San Babila – soltanto chi non conosce la nostra storia recente si permette di chiamarlo McDonald’s – finisce un mondo, quello dell’edonismo reaganiano coniato sempre da Dago in versione lookologo in "Quelli della notte", in cui il paninaro era esposto nel museo dei nostri avatar quotidiani insieme non solo ai dark e ai metallari, ma insieme all’intellettuale engagée con tweed, velluti, desert boots Clark; insieme al self made man wannabe in doppiopetto e montone e Y10, e insieme al Dogui – l’indimenticato e indimenticabile "cumenda"; insieme a tanti personaggi che andarono a finire nella grande galleria del Drive-In di Antonio Ricci.
Erano anni in cui, ancora, ci si poteva scegliere una identità sociale a 360 gradi, secondo mezzi, aspirazioni, possibilità, intelligenza o stupidità; erano anche gli anni dei mondi di nicchia: i Mod, i Rockabilly, i Marlboro Man (tentativo un po’ fallito di importare l’estetica Redneck e Hillbilly in Italia, anche se qualcosa, come le camicie di flanella a scacchi, confluirono nei paninari, possibilmente sotto lo Schott – unica accoppiata permessa sia ai paninari che ai metallari) o i surfer con gli Ugh e gli Ugg (in principio erano due marchi diversi), le camicie Aloha e le t-shirt stampate sul retro.
No, la chiusura di Burghy non rappresenta solo la fine dei paninari, rappresenta la chiusura di un’epoca nella quale l’adolescenza era un modo di sperimentare la vita e di fare ricerca, di scoprire la propria identità, di passare da una comitiva all’altra, da un genere musicale all’altro, da un film all’altro. Però, infine, diciamola anche la verità da storico del costume autodidatta, Burghy e McDonald’s rappresentavano essi stessi la fine di quell’epoca, globalizzavano il "paesino" (e ci riuscirono), e infatti, nelle stupende narrazioni e di successo che riferiscono a quell’epoca – due su tutte "Stranger Things" e "Riverdale" - non appaiono mai i fast food, ma gli intramontabili Diner, nei cui "vagoni" si sedevano tutti, indifferentemente: un esempio? Fonzie e Ricky Cunnigham.
I paninari e quegli anni Ottanta furono l’ultimo apparire di qualcosa che affondava le sue radici negli anni Sessanta, nel dopoguerra. Erano una imitazione, ma un’imitazione che a volte sfiorò la verità. E noi giravamo per le strade, cambiando look di continuo, alla ricerca di quella verità che ogni tanto scorgevamo in un angolo di asfalto bagnato che sapeva di libertà. Oggi l’avventura cittadina è finita, ci sono scatole chiuse illuminate da piccoli schermi dove clicchi per acquistare qualcosa indossato da una influencer per soldi. Con Burghy chiude l’imitazione di una ricerca di identità che a volte sfiorava la verità. Di meglio non saprei dire.
Luigi Bolognini per la Repubblica il 30 novembre 2022.
Un'epoca non finisce necessariamente cambiando il calendario. Gli anni Ottanta, per dire, finiranno ufficialmente il 6 dicembre con la chiusura (scaduto il contratto d'affitto) del McDonald's di piazza San Babila a Milano. Prima si chiamava Burghy: culla dei paninari. Seguaci della più famosa, o famigerata, moda anni Ottanta: piumino Moncler, scarpe Timberland, accessori Fiorucci, Naj-Oleari e El Charro, cibo base l'hamburger, che faceva Usa.
Tutto finito: quasi tutti i marchi sono diventati stranieri, Fiorucci, che aveva lì bottega, è morto, ora addio anche al fast food. Ce ne sono altri, sì, ma questo aveva qualcosa in più. Anzitutto simbolicamente: San Babila era, negli anni Settanta, il regno dei picchiatori fascisti. In pochi anni lo diventò di adolescenti che si trovavano a parlare di ragazze (cioè "sfitinzie") e varie banalità, segno della fine delle ideologie, soprattutto violente. Gino Vignali, della coppia Gino & Michele, autori satirici che iniziarono in quegli anni, la riassume con una battuta di Altan: «Dopo il freddo degli anni di piombo, il calduccio degli anni di merda. C'erano i paninari, sì, ma anche un risveglio della città: l'Elfo, lo Zelig, la Smemoranda. Erano gli anni del Psi, meglio di quelli del Msi, criticabili, ma di grande dinamismo. E forse da rianalizzare con freddezza, adesso».
Simbolo degli anni Ottanta fu la trasmissione Drive in, forte anche della parodia del Paninaro interpretata da Enzo Braschi. Spiega il suo papà Antonio Ricci: « Drive in è stata la trasmissione di satira più feroce e critica del decennio L'esistenza dei paninari la scoprii guardando un servizio sui gruppi giovanili milanesi di Non solo moda , trasmissione tv di Canale 5. I paninari, eredi spirituali dei sanbabilini, bivaccavano tutto il giorno al bar Panino, in piazzetta Liberty, nel cuore di Milano. San Babila era lì accanto. Mandai Braschi a infiltrarsi per carpirne i segreti. I paninari avevano già un gergo: sfitinzia, truzzi, tamarro. Lo arricchimmo prendendo espressioni dal "droghese": fuori di melone, mi acchiappa un casino. Impiegammo anche forme mistificate dell'inglese - arrapescion, inchiappettescion, eccetera - mentre dal linguaggio giovanile dei primi anni 70 rispolverammo "cuccare". "Gallo" ci servì invece per il "paninaro doc": il piuminazzo Moncler è infatti griffato con il gallo.
Il paninarese fu elaborato a tavolino e per un periodo influenzò molto il linguaggio giovanile. Il povero Braschi veniva inseguito per essere picchiato un po' da tutti: dai paninari perché li prendeva in giro e pure dai metallari, i nemici dei paninari, che lo ritenevano un paninaro».
La moda dilagò tanto che Renzo Barbieri, editore di fumetti hard (uno su tutti, Lando ) si inventò quelli del Paninaro , affidandone i disegni a Giuseppe Montanari: «Barbieri, attentissimo alle mode, creò anche Preppie , per le ragazze. Le sceneggiature, sue e di Paolo Ghelardini, erano sempre un po' così, avventure banalotte legate a sesso e moda. Funzionava, anche se certo puntavamo più sulla quantità che sulla qualità». Durò comunque tre anni, anche con punte di 100mila copie.
Segno che il mondo dei paninari non circolava più solo intorno a quel Burghy e non solo a Milano. Lo spiega Maria Luisa Frisa, docente di Design della moda allo Iuav di Venezia: «Quella Milano aveva una grandissima energia accumulata: la transavanguardia di Achille Bonito Oliva, Armani che veste Gere in American Gigolo . Ecco, i vestiti sì contavano, davano forza. Quelli dei paninari erano gli elementi che denotavano e spiegavano alcune tribù, diventando moda. E i paninari furono l'unico fenomeno di moda popolare italiano all'estero. Ed elementi come spalloni, giacche colorate, leggings, piumini, ci sono ancora adesso».
Tanto vero che il fenomeno finì addirittura in una canzone di una delle band più di moda dell'epoca, i Pet Shop Boys. Neil Tennant spiegò così Paninaro , tuttora in scaletta ai concerti: «Eravamo a Milano a fare promozione, vedemmo dei ragazzi vestiti in modo curioso. Noi eravamo considerati alternativi, loro sembravano più fan di Madonna o Wham! Ma ci arrivò l'ispirazione per un brano con un coro oh-oh che sembrava piacere tanto all'Italia in quel momento la intitolammo così». Ecco cosa resterà dal 6 dicembre: una canzone. Tantissimo o pochissimo.
L. B. per la Repubblica il 30 novembre 2022.
«Che peccato che chiuda quel fast food, ha voluto dire molto». In particolare per Enzo Braschi, comico genovese che a Drive In si ritrovò nei panni del paninaro: piumino, gergo e Wild boys dei Duran Duran a precedere il racconto delle sue disavventure con le "sfitinzie".
Come nacque il personaggio, Braschi?
«A Drive In non trovavo un personaggio, facevo gag estemporanee. Una sera alle due di notte mi chiamò Ricci: "Ho visto degli sfigati con la giacca da sci e scarpe quasi ortopediche, lavoriamoci sopra". Lo facemmo, ma poi la prima puntata non andò in onda».
Perché?
«Parlando delle Timberland dissi "scarpe very american inchiappettation, 200mila lire", temevamo la querela. Dovetti sostituire quelle parole e al momento inventai "trooooppo giuste!". Era fatta».
Il trionfo.
«Però un fotografo mi portò davanti al Burghy e i paninari mi volevano menare perché li parodiavo. Ma sì, alla fine tutti parlavano così. Un giorno presi un bus e l'autista minacciò un maleducato di dargli "una compilation di schiaffazzi". Capii che era fatta».
Era tanto contestato?
«Dai paninari sì, diversi volevano menarmi. Ma alla fine li convincevo che raccontavo il loro mondo e le loro storie e tanti poi mi chiedevano anche l'autografo».
Non durò tantissimo.
«Avemmo il buonsenso di tenere il personaggio ma fargli fare altre cose, pur con quel linguaggio e quei modi, così non lo svuotammo. Il rockabilly, poi il soldato appena arruolato».
Come lavoravate?
«Con Lorenzo Beccati, Max Greggio, Gennaro Ventimiglia. E ovviamente con Ricci, un genio, a cui spettava l'ultima parola su tutto. Eravamo un rullo compressore, facevamo le notti a scrivere, ma ci divertivamo noi per primi e si vedeva. Drive In è stata una trasmissione irripetibile, ha segnato il tempo. E non era mica così leggera come si diceva: la mia era satira di costume, ma c'era anche quella politica»
"Wild boys" come venne?
«Per caso: serviva una musica introduttiva, era di moda in quel momento. Però fu perfetta, trasmetteva l'energia di quei ragazzi, divenne un inno».
Da quanto non fa più il paninaro?
«Se ricordo bene il 2012, una convention a Milano. Tutti i dirigenti erano stati paninari. Uno mi regalò due paia di Timberland. Ancora adesso, che vivo alle Canarie, i turisti italiani mi riconoscono tutti, mi hanno anche dato un premio. I ricordi più belli della mia vita».
Enzo Garinei, il maestro che insegna l'arte del sorriso. Capita spesso a Maurizio Costanzo, quando ospita artisti di età ragguardevole, di rimarcare il concetto che "il teatro allunga la vita". Francesco Mattana su Il Giornale il 28 Luglio 2022.
Capita spesso a Maurizio Costanzo, quando ospita artisti di età ragguardevole, di rimarcare il concetto che «il teatro allunga la vita». Di recente è andato a trovarlo Enzo Garinei, pilastro del teatro brillante, e chi meglio di lui può incarnare, con la forza dei suoi 96 anni così gagliardi, l'assunto secondo cui la passione per il palcoscenico garantisce una sana longevità? Le perle di sapienza che l'anagrafe gli consente sono contraddistinte da un approccio molto umile e dalla consapevolezza che il compito di un essere umano sia donare leggerezza a chi gli sta intorno.
Ci voleva, questa autobiografia 1926 io c'ero. Enzo Garinei: il protagonismo del caratterista (Armando Editore), e ci voleva una studiosa come Laura De Luca, la quale si è premurata di azionargli i mulini dei ricordi. La voglia di palcoscenico lo avvinghiò fin da ragazzino, così come aveva travolto il fratello Pietro, che insieme a Sandro Giovannini avrebbe dato vita a G&G, ovvero la più straordinaria ditta della commedia musicale. Dagli anni '40 a oggi si sono succedute, puntuali, le riconferme del talento di Enzo, dagli incontri cinematografici col Principe de Curtis all'eterno ritorno di Aggiungi un posto a tavola, le cui ultime edizioni lo immortalano come Voce di Dio. Nel mezzo, decenni di incontri con i più grandi, riservando il più tenero dei ricordi a Gino Bramieri, con il quale erano diventati interscambiabili nei ruoli comici, pur essendo Gino il primattore. Perché Enzo è sempre stato caratterista, ma guai a dimenticare che il caratterista è «la ciliegina, il pezzetto di cioccolata nella crema che impreziosisce, diversifica e...caratterizza tutto».
I dolori non gli sono mancati - sia professionali sia privati, con la perdita del figlio Andrea, il quale da attore aveva già dato ampia prova di sé - eppure eccolo qua, l'intramontabile, protagonista di un libro di una collana, «Cinema e cultura visuale», che «vuole promuovere il lavoro di giovani studiosi e ricercatori». Questo giovanotto di nome Enzo, 96enne mai pago di studiare e di ricercare il senso della vita, vi rientra dunque a pieno titolo.
Pupo: «Vivo con mia moglie Anna e la mia amante Patricia, ma chi mi invidia si sbaglia. È stato Morandi a salvarmi». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2022.
Il cantante, al secolo Enzo Ghinazzi: «Ho mentito tanto e tolto dignità alle donne che mi sono state accanto. Loro invece mi hanno insegnato la lealtà. Non auguro alle mie figlie una cosa simile». La dipendenza: «A 25 anni ero miliardario, poi i debiti di gioco».
C’è qualcuno dei vizi capitali che non ha?
«(ride) Sono come i sette Re di roma. Difficile ricordarli tutti. Dunque non ho l’invidia. Chiaramente ho desiderato la donna d’altri. Ho tradito spesso. Poi vado forte con la superbia. Sì, superbo e arrogante, anche se non sembra. La superbia mi ha salvato da un sacco di attacchi che avrebbero potuto minare la mia incolumità fisica e psicologica. Sì, un po’ di superbia non guasta».
Pupo, 67 anni, vero nome Enzo Ghinazzi: quando ha scoperto di avere un dono artistico?
«Non c’è stato un momento preciso. Fin da piccolo mi sono sentito attratto dallo spettacolo. Quando avevo cinque anni mio padre mi faceva esibire alle battiture del grano. Mi piazzavo sulle grandi tavole del cibo e cantavo le canzoni di Celentano. Su quel palco mi trovavo bene. Avevo la sensazione di trovarmi nel posto giusto. Non provavo imbarazzo. Anzi. Aspettavo che mi chiedessero di esibirmi... Al liceo avevo una professoressa che aveva un difetto e io la imitavo. Tutti ridevano. Insomma, ero giullare per vocazione. Poi ho incominciato a suonare perché nella mia famiglia tutti erano inclini alla musica. C’era in particolare uno zio che suonava benissimo il flauto e il sassofono. Piano piano mi sono reso conto che questo poteva essere il mio destino e che il mio compito era quello di dare spettacolo non necessariamente cantando. Ora sono davanti al mio pianoforte bianco. Ci sono anche le chitarre. Tutti strumenti che ho imparato a suonare da autodidatta. Mai avuto un insegnante».
Quindi non sa leggere la musica?
«Sì che la so leggere. Ho studiato musica anche a scuola. La so leggere come un bambino principiante. Insomma mi fermo all’abc del pentagramma».
Da alcuni decenni Enzo Ghinazzi vive con la moglie (Anna) e con l’amante (Patricia) in un menage a trois che molti gli invidiano. Ha avuto la passione per il gioco d’azzardo e delle donne e spesso si è trovato con le spalle al muro assediato dagli usurai.
«Lei dice che mi invidiano. Fanno male. È un percorso che non ho scelto io. Perché è difficile. C’è sofferenza. È troppo facile liquidarlo così. Io oggi ho 67 anni, mia moglie Anna ne ha quasi 70, Patricia ne ha 62 . Sto da 50 con la moglie, da 33 con l’amante. E lei pensa che sia stata una cosa semplice? O che io possa consigliare alle mie tre figlie o a chiunque altro un rapporto pluri-amoroso come il mio? Ma non ci penso nemmeno. Dicevo: invidia sprecata. Come quella di coloro che invidiano Berlusconi, il presidente degli Stati Uniti o i miliardari e non sanno niente su quello che comporta affrontare percorsi di questo genere... Poi la vita è anche fortuna, non solo abilità. Io non mi pento del mio percorso sentimentale che oggi sarebbe più semplice da affrontare. Ho avuto a che fare con due donne speciali. Non sono io lo speciale, sono loro».
Oggi è sulla retta via?
«Dopo aver sbagliato tanto e dopo aver raccontato un sacco di fesserie, dopo aver mentito tanto, dopo aver tolto la dignità alle donne che mi sono state accanto, ecco io da queste due donne sono stato migliorato. Loro mi hanno insegnato la lealtà».
Anche nella musica lei ha sempre fatto a modo suo?
«Il mio obiettivo, che non ho mai confessato pubblicamente, era ed è stare a metà classifica. In serie A, certo. Ma a metà classifica. Quel posto dove nessuno ti rompe le palle, in cui stai bene. E puoi fare quello che ti pare. Senza dare troppo nell’occhio. Nel mio caso qualcosa non ha funzionato e ho vissuto sotto i riflettori».
Torniamo alla poligamia.
«La poligamia è una realtà diffusa, maggioritaria nel pianeta. La nostra cultura, educazione e religione ci impediscono di essere poligami. Io ho pagato e sto pagando le conseguenze di queste mie scelte fatte alla luce del sole».
Lei si è messo a nudo in due libri: «La confessione» e «Banco solo! Diario di un giocatore chiamato Pupo».
«La mia vita è stata movimentata sul piano umano e artistico. Io non ho scritto canzoni importanti dopo i successi degli anni 70-80 come Gelato al cioccolato e Su di noi. Ho scritto solo qualche canzone che più che altro sono state delle provocazioni mediatiche. Mi riferisco a Italia amore mio con Emanuele Filiberto a Sanremo nel 2010 dove ho sfiorato la vittoria. Più che far canzoni io ho vissuto e la mia vita mi ha collocato in una sorta di limbo unico in Italia. La mia vita è diventata un vero percorso artistico».
Perché funziona nei concerti?
«Sto per partire con un tour che toccherà in due anni tutto il mondo. Finalmente avrò la possibilità di suonare dal vivo su un palco. E sa perché tutti i concerti sono già esauriti? Non solo per ascoltare quelle dieci canzoni molto conosciute e popolari. No. Il pubblico viene per ascoltare la mia vita. Oltre alla musica ci sono filmati e mia figlia (Clara, 30 anni) che canta con una voce bellissima. Insieme raccontiamo la nostra storia di famiglia particolare. La gente apprezza».
Le piace mostrarsi?
«Non salgo volentieri in cattedra. Ma in un certo modo sì. Io sono un sopravvissuto. Non sono mai stato una persona banale. A proposito, un’ora fa mi ha chiamato Amadeus. Gli avevo scritto a fine gennaio: “Il tuo sarà il Festival dei record”. Solo ieri lui mi ha risposto: “Sei un veggente?”».
Dal suo osservatorio privilegiato come ha visto cambiare il mondo e la musica?
«Sono su piazza da cinquant’anni. E dico che andiamo male. Sul fronte della cultura siamo in piena involuzione, una rincorsa all’ignoranza davvero preoccupante».
Nel 1989 girava voce di un suo mancato suicidio. È vero?
«Sì. Tornavo dal Casinò di Venezia ed ero su un caratteristico viadotto al confine fra Emilia e Toscana. La banca mi massacrava per uno scoperto di 70 milioni di lire. Io avevo un fido di 50 milioni dal casino di Venezia. E li c’erano anche gli usurai. Andai dunque lì per prendere il denaro a prestito e tacitare la banca. Non vinsi, ma persi altri 50 milioni peggiorando la mia situazione. Mentre tornavo con la mia jaguar riflettevo sulla mia condizione di... ricco coi debiti. Così avevo parcheggiato sulla piccola corsia d’emergenza del viadotto con l’idea di farla finita. Ero sconvolto, non vedevo vie d’uscita. Era notte, fra sabato e domenica, e i Tir non circolavano. Tutti meno uno: quello che mi sfiorò a un millimetro. Lo spostamento d’aria mosse la macchina di qualche centimetro e mi riportò alla ragione».
Progetti al di là del tour?
«Ho deciso di sospendere le mie apparizioni televisive. In questa tv mi ritrovo poco. Molti ci vanno per apparire dicendo banalità. È diventata troppo cannibale, troppo fine a se stessa, autoreferenziale. Se vado in tv devo avere qualcosa di interessante da raccontare. Quello che paga la tv non cambia la mia vita. Non mi interessa aumentare la mia popolarità. Questi teatrini con artisti leggendari come Bobby Solo o Fausto Leali, sono utili solo al programma e poco e niente a chi vi partecipa. Quindi niente tv a meno che non si tratti di una conduzione di un programma televisivo che sia stimolante e gradevole. Ma per ora non se parla».
Incontri determinanti della sua vita?
«Freddy Naggiar, il padrone della Baby Records. Mi ha immaginato e poi costruito. Ma ha sbagliato nel sottovalutare la mia durata. Mi mollò nel 1982. Mi ha insegnato il valore della sofferenza. Fondamentale è stato l’incontro con il mio attuale manager: Umberto Chiaramonte. Con lui, 25 anni fa, iniziammo un difficile (per alcuni addetti ai lavori impossibile) lavoro di riposizionamento artistico. Visti i risultati, direi che Umberto è stato bravo. E poi Gianni Morandi che, oltre ad avermi aiutato economicamente, mi ha anche spesso insultato e strapazzato sbattendomi in faccia quel che ero: un poco di buono, un delinquente perché tradivo le attese di mia madre e dei miei amici. Io, lui, il nostro commercialista Oliviero Franceschi e Gianmarco Mazzi eravamo in società. Una società che gestiva la mia attività e che oggi appartiene totalmente a me».
Cosa farebbe e non rifarebbe?
«Vedendo il risultato finale rifarei tutto. Sofferenze e errori compresi. A 25 anni ero miliardario. Pochi anni dopo ero indebitato per 7 miliardi. Gioco d’azzardo, investimenti sbagliati. Mi trovai in un vortice. Io son qui a raccontarla, ma è stato un miracolo. Irripetibile».
Rapporti con le figlie?
«Bellissimi. Quanto amore ricevo dalla mia famiglia! E poi figlie e figliastra hanno un bellissimo rapporto fra loro. Tu pensa che il mio nipotino Matteo (8 anni), il figlio di Valentina, chiama nonna sia Anna che Patricia. Ho altri due nipoti, Leonardo (22 anni) e Viola (12), figli di Ilaria, la mia figlia più grande. Una famiglia allargata ante litteram».
Lei è stato tra i fondatori della Nazionale Cantanti...
«Sì, ma è un’esperienza ormai chiusa. Prima erano i big della canzone a illuminare la squadra, adesso sono i cantanti a prendere popolarità da questo brand».
Rospi ingoiati?
«Il secondo posto a Sanremo con Emanuele Filiberto. In realtà avevamo vinto, ma alla votazione finale dei primi tre successe qualcosa di strano. Non posso fare i nomi delle persone con cui parlai in quei momenti. I veri vincitori eravamo noi. E io avevo un grosso debito di riconoscenza con la Rai con la quale stavo lavorando benissimo e non volevo fare casini».
E la guerra in corso in Paesi che lei ben conosce?
«Sta tenendo incollate nelle nostre menti delle orribili immagini di morte e distruzione».
Giù le mani da Pupo, lasciate stare Enzo Ghinazzi. Fulvio Abbate su Il Riformista l'8 Maggio 2022.
Pupo, al secolo Enzo Ghinazzi, cantante, divo, amatissimo dal pubblico italiano; pop, sentimentale, melodico, diportistico e non soltanto, ma che dico, beniamino mondiale, se non planetario, assai apprezzato in Russia addirittura dal lontano 1979, quando ancora sull’altana di granito vermiglio del Mausoleo di Lenin affacciato sulla Piazza Rossa figuravano le sopracciglia dell’ucraino Leonid Breznev, il mio fraterno amico Pupo, anzi, “Puposki”, nelle settimane appena trascorse, è stato puntato, preso di mira, stigmatizzato a proposito del suo silenzio su ciò che accade in Ucraina.
Gli hanno addirittura imputato d’essere contiguo o comunque benevolente rispetto alla corte spettacolare del criminale Vladimir Putin, o piuttosto, diversamente dal collega non meno caro ai russi, Al Bano Carrisi, di non avere preso ufficialmente le distanze dalle brame imperialistiche del regime dittatoriale che, innalzando una tetra Z, ha aggredito uno stato sovrano, la terra d’Ucraina. Segnatamente, qualcuno, citando una sua partecipazione a un talk di un’emittente russa, con tono da procuratore generale sembra avere chiesto una sorta di immediato embargo spettacolare nei suoi confronti, possibilmente da parte delle televisioni dell’Occidente libero e democratico.
Mi si consenta la difesa dell’amico. Assodato che personalmente mi ritrovo schierato dalla parte del popolo dell’Ucraina e del suo presidente Zelensky senza se e senza ma fin dal primo istante, confesso di trovare ogni possibile richiesta di “sanzioni” spettacolari per “Puposki” sinceramente irricevibili, ingiuste, forse perfino sconcertanti. La posizione etica di Enzo Ghinazzi rispetto al dramma della guerra, infatti, non sembri un espediente dialetticamente ambiguo, muove infatti da una doppia vicinanza che contempla “amore”, parole sue, sia per il popolo russo sia per il popolo ucraino, ed è dunque innanzitutto mossa da un dato di umana sofferenza per l’aggressione in atto, che non sembra al momento trovare spiragli di vere trattative. Amore, vicinanza per entrambe i popoli e le loro incancellabili culture.
L’obiezione, a suo modo altrettanto comprensibile, che alcuni, come me schierati sulla barricata della resistenza ucraina, potrebbero muovergli non è priva di ragioni valide e sembra dire: perché mai il “nostro” Pupo accetta di partecipare, sia pure da remoto, a un talk che ha luogo presso un canale mediatico della Grande Madre Russia dove è in atto un controllo pervasivo delle opinioni contrarie alle versioni della propaganda ufficiale imposta dal regime, di più, in un Paese dove perfino l’uso pubblico della parola “guerra” è inibito, pena il carcere o la deportazione? Dimenticavo, il frammento televisivo cui faceva riferimento la reprimenda dei suoi censori era contenuto in un montaggio di “Blob”, visto su Raitre.
Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.
Da corriere.it il 26 gennaio 2022.
«Il ministero degli Esteri italiano mi ha recentemente ed ufficialmente informato che il governo dell’Ucraina mi ha inserito nella lista nera, quella degli indesiderati, dei ‘criminali’. In pratica, se mi presento alla loro frontiera, rischio di essere arrestato»: lo dice così, papale papale, sui social, Enzo Ghinazzi in arte Pupo. I motivi che avrebbero spinto l’ex repubblica dell’Urss a bandire il cantante di «Gelato al cioccolato» sarebbero legati alla partecipazione al festival russo della canzone di guerra, tenutosi a Jalta, nella Crimea occupata dai russi, lo scorso anno.
Pupo non è l’ultimo a essere proscritto dagli ucraini: stessa sorte era toccata prima a Toto Cutugno e poi ad Al Bano, accusati di essere agenti al servizio dei russi . Ma il cantante toscano non si spaventa: «Peccato! Io comunque non mi fermerò. Continuerò a portare la mia musica in giro per il mondo» ha fatto sapere: “Dalla Russia all’Australia ed ovunque mi sarà data la libertà di cantare le mie innocue canzoni. Per questo, il prossimo aprile, tornerò di nuovo in Crimea. Lo farò con convinzione e senza nessun timore»
Pupo bandito dall’Ucraina: «Mi hanno inserito tra i criminali, se mi presento in frontiera mi arrestano». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera 25 gennaio 2022.
Il cantante proscritto per aver partecipato a un festival russo nella Crimea occupata.
«Il ministero degli Esteri italiano mi ha recentemente ed ufficialmente informato che il governo dell’Ucraina mi ha inserito nella lista nera, quella degli indesiderati, dei ‘criminali’. In pratica, se mi presento alla loro frontiera, rischio di essere arrestato»: lo dice così, papale papale, sui social, Enzo Ghinazzi in arte Pupo. I motivi che avrebbero spinto l’ex repubblica dell’Urss a bandire il cantante di «Gelato al cioccolato» sarebbero legati alla partecipazione al festival russo della canzone di guerra, tenutosi a Jalta, nella Crimea occupata dai russi, lo scorso anno.
Come Cutugno e Al Bano
Pupo non è l’ultimo a essere proscritto dagli ucraini: stessa sorte era toccata prima a Toto Cutugno e poi ad Al Bano, accusati di essere agenti al servizio dei russi . Ma il cantante toscano non si spaventa: «Peccato! Io comunque non mi fermerò. Continuerò a portare la mia musica in giro per il mondo» ha fatto sapere: “Dalla Russia all’Australia ed ovunque mi sarà data la libertà di cantare le mie innocue canzoni. Per questo, il prossimo aprile, tornerò di nuovo in Crimea. Lo farò con convinzione e senza nessun timore».
Enzo Iacchetti: "Soffro di depressione da quando ero giovane". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 15 Dicembre 2022.
In un'intervista l'attore ha svelato alcuni dettagli privati della sua vita
Sembrerebbe il solito luogo comune sul comico che nella vita privata è depresso ma d'altronde i luoghi comuni si fondano sempre su un principio di verità. Enzo Iacchetti, storico volto televisivo e colonna portante del tg satirico Striscia la notizia che è tornato a condurre con il suo storico compagno Ezio Greggio, ha raccontato al quotidiano La Ragione di soffrire di depressione da quando era giovane.
"Prima della pandemia vivevo a pieno ritmo, non mi sembrava di avere 67 anni. Adesso invece mi sembra di avere molti più anni di quelli che ho. Vivo in solitudine e amo il silenzio. Strano, io che ho amato tanto la musica ultimamente non riesco ad ascoltarla, eppure la musica mi ha dato tanto. Forse troppo. Che sia forse depressione? - si chiede - L'ho sempre avuta. Anche da bambino ero vivace ma non parlavo, il palco per me è stato terapeutico. Tutti noi portiamo una croce, la mia è questo carattere".
Settant'anni compiuti a luglio, cabarettista, comico e conduttore televisivo Enzo Iacchetti è dietro il bancone di Striscia del 1994, ha partecipato a un po' di commedie da Neri Parenti a Carlo Vanzina, è anche cantante. Nel 2009 ha pubblicato Chiedo scusa al signor Gaber, disco di cover di canzoni di Giorgio Gaber ricantate con nuovi arrangiamenti e ha tentato diverse volte di partecipare in gara al festival di Sanremo ma senza successo.
Alessandra Comazzi per Specchio – La Stampa il 18 settembre 2022.
Enzo Iacchetti, 70 anni compiuti il 31 agosto, cresciuto a Maccagno, sponda lombarda del Lago Maggiore, non lontana dalla Luino di Piero Chiara: si racconta con arguzia e malinconica ironia, sì, proprio malinconica. Cominciando dal suo ultimo libro, titolo Non è un libro, ma solo «una raccolta di pensieri acidi e non», che «costa da zero a un milione».
Si acquista con un'offerta, il ricavato servirà a comprare un'ambulanza da 90 mila euro, «100 col ferito dentro, pacchetto completo», e lui di euro ne ha già raccolti 74 mila. «Parlo del Covid, della chiusura stretta, di cui non bisogna dimenticarsi. Tutti i medici che sono morti durante la pandemia, gli infermieri e anche i pazienti che non sono tornati a casa senza capire cosa fosse successo, per me sono tutti parte di Gesù Cristo. Io non rubo, come mi ha sempre insegnato mio padre, non dico delle bugie nere, qualche "bugietta" bianca sì qualche volta, tipo "non sto bene" perché ho voglia di andare a dormire».
Che rapporto ha con la fede? Formula dubitativa, o genere «proviamo anche con Dio non si sa mai»?
«Non arrivo a quel punto lì perché non sono mai stato un leccaculo. Uno che diventa vecchio e diventa fedele, vuol dire che proprio se la fa sotto dalla paura. Certo, non sono indifferente, a casa ho una collezione di crocefissi: uno ha in croce Ilaria Alpi, uno Giulio Regeni. Mi piace andare nelle chiese piccole, sedermi lì, guardare la Croce, pensare alla sofferenza di quel Gesù che per me è un rivoluzionario. E credo nella beneficenza, nella restituzione di qualcosa da parte di chi ha avuto tanto, come me».
E come la mette in pratica, questa restituzione?
«Anche grazie ai social, paradossalmente. Mi sono scocciato di rispondere alle migliaia di persone che scrivevano ti spacco la faccia, dimmi dove abiti, uccido tuo figlio.
Me ne dicevano di tutti i colori, persino che facevo scommesse clandestine, che ero un debosciato, che ero morto. Io rispondevo a tutti, io personalmente. Il mio medico mi ha detto: lascia stare.
Mi sono spazientito, e mi sono messo a querelare. Ci sono svariate cause in corso, le sto vincendo tutte, e i soldi vanno in beneficenza, appunto. Dopo anni, da Facebook mi sono tolto, su Tik Tok c'è Berlusconi quindi basta e avanza, sono su Instagram perché "Striscia la notizia" percorre anche un binario social, mi dicono "dai Enzo pubblica qualcosa". Durante la pandemia ho pubblicato un po' di pensieri, un po' di solidarietà».
E quel tatuaggio che ha sul braccio, «Libera nos domine»?
«È il titolo di uno spettacolo teatrale di qualche anno fa, il più bello che ho fatto, scritto da me con le canzoni di grandi autori, Guccini, Gaber, Faletti. "Libera nos domine" voleva essere un urlo verso questo fantomatico Padre Eterno, liberaci da tutti gli imbecilli e dal pericolo che stiamo correndo.
Ricordiamoci che siamo al centro di centinaia di guerre che si stanno sempre più avvicinando. Russia-Ucraina, Israele-Palestina, Afghanistan-Pakistan, prima i Balcani, in Africa muoiono continuamente bambini, noi ammazziamo una donna ogni due giorni e mezzo. Quando mi dicono: guarda il bicchiere mezzo pieno, non ce la faccio. Non sono un pessimista, ma penso che se il bicchiere è mezzo pieno vuol dire che il vino non è buono, altrimenti il bicchiere sarebbe tutto vuoto.
A Dogliani, dove sono andato per il Festival della tv, mi hanno dato un buon bicchiere di vino, ma non l'ho lasciato mezzo vuoto, ci ho messo un attimo, glu-glu-glu, è andato giù che è una meraviglia. Allora: non si tratta di essere pessimisti, si tratta di essere coscienti. Secondo me siamo fortunati a essere qua, in questo nostro paese unico al mondo, ma stiamo attenti perché il cerchio si stringe. Io sono molto preoccupato».
Anche dalla politica?
«Di sicuro dobbiamo andare a votare, ricordiamoci che son morte delle persone per darci questo diritto. Lo ricordo sempre a Martino, mio figlio, che è proprio un buon giovane con belle caratteristiche morali, è uno che sa ascoltare. Mi piace, mio figlio».
La tv ha le sue responsabilità?
«La televisione fa il "Grande Fratello" perché molti lo guardano, se nessuno lo guardasse farebbero vedere un bel film. Noi che facciamo la televisione non dobbiamo pensare che la gente è un gregge di pecore, dobbiamo preparare un'alternativa, se no la tv invecchia e fra 20 anni non c'è più. Noi facevano 12 milioni 10 anni fa, adesso se ne facciamo 5 ci pagano la cena».
Quando si è reso conto che faceva ridere?
«In prima media. Però io non facevo ridere, non so neanche se faccio ridere adesso. E non volevo mica fare il comico. Volevo fare il musicista. Alle medie, senza mai prendere lezioni, suonavo tutti gli strumenti che la mia professoressa mi portava. Tra l'altro è ancora viva, ha 103 anni, vive sempre a Maccagno. Quando facevo la seconda media andò da mio papà, e gli disse: "Questo bambino deve fare il conservatorio". E mio padre le rispose: "Il bambino è allergico al pomodoro"».
Era surreale il suo papà?
«Mi ripeteva: "La professoressa vuol mandarti a fare le conserve al conservatorio", in realtà non poteva pagarmi una scuola costosa a Milano. Ma io volevo tanto suonare, mi sembrava di poter fare solo quello, nella vita. A ragioneria facevo il cretino e mi riusciva anche bene perché un anno mi hanno bocciato per cretinismo e allora ho detto: provo col cabaret».
E come la prese suo padre?
«Male. Tra noi c'erano contrasti forti, reali, per nulla scherzosi. Lui aveva una piccola bottega dove vendeva vini, io stavo in casa con i genitori e i miei due fratelli, ma ero un ribelle scalmanato, scappavo. Proprio non voleva che facessi quel lavoro lì, diceva che era un brutto ambiente, e non aveva nemmeno tutti i torti, mi voleva ragioniere, in banca. Un classico. Ma adesso lo capisco, e mi sento in colpa. Lui è morto di tumore a 57 anni, io ne avevo 23: non ho mai provato a parlargli veramente».
Con sua madre, invece?
«Mia mamma era complice. Mi passava la chitarra dalla finestra, mentre scappavo. È mancata a 90 anni, è riuscita a vedere che con questo lavoro ci campavo, l'ho anche portata al Costanzo Show in prima fila, le hanno fatto un grande applauso».
Ecco, il Maurizio Costanzo Show: quanto è stato importante per lei?
«Tantissimo. È stato la svolta. Avevo cominciato con il cabaret, il mitico Derby di Milano, nel 1978. Giravano 12, 13 comici, non di più, quando uno diventava famoso, facevano i provini per prenderne un altro, in circuito. Quando sono arrivato io erano appena diventati famosi Cochi e Renato, Paolo Villaggio, Felice Andreasi, un genio assoluto, mai ricordato a sufficienza. Poi sono diventati famosi Abatantuono, Giobbe Covatta. Quando dovevo diventare famoso io, hanno chiuso il locale. Vado a fare il provino da Costanzo a Canale 5, la prima volta scartato, la seconda preso, avevo 39 anni. Sono state decisive le mie canzoni in 30 secondi. Ho fatto 187 puntate in 4 anni e a Costanzo devo moltissimo. Intanto però guardavo "Striscia" e dicevo: sarei perfetto vicino a Greggio».
Voi avete debuttato insieme nel 1994. Come si lavora con Greggio e con Antonio Ricci?
«Ricci sconvolgerebbe il festival di Dogliani. Se lo si invita nelle Langhe quando c'è il tartufo, vedi come corre, lui è anche ligure»
E Greggio?
«Greggio è un compagno di classe. È un burlone, fa gli scherzi. Io ho un carattere un po' diverso. E abbocco ancora. Poi questa storia di Juve e Inter, non le dico. Lui mi massacra spesso. Perché quando siamo in onda, se c'è Juve-Inter, vince la Juve, e allora mi fa un mazzo così. Quando non siamo in onda vince l'Inter e non posso mandargli altro che un messaggino. Lavorare con lui è un piacere».
Quanto incidete sul copione?
«Quasi niente. Arriviamo alle 6 del pomeriggio, è già tutto pronto. Noi ci trucchiamo, ci laviamo i capelli, Ezio un po' meno perché ce li ha a spazzola; c'è un camerino più bello del mio appartamento, ci starei lì anche a dormire. Poi alle 7 e un quarto arriva il copione, andiamo in onda e alle 20,15 abbiamo finito. Questi due anni di Covid sono stati tremendi perché stavamo sempre mascherati, nonostante i tre vaccini il Covid è arrivato lo stesso.
Superato. Poi non c'era il pubblico. Greggio e io torniamo il 12 dicembre, a fine mese arrivano Argentero e Siani. Argentero: sarete contente, voi ragazze».
Tra lei è Greggio, lei è un po' il clown bianco, che punta su sguardi e mimica facciale?
«Ho capito che lui era troppo forte, non potevo reagire con la capacità di improvvisazione imparata al Derby. Le faccine mi hanno salvato. Perché Ezio è una macchina. Mi sono detto: se gli rispondo magari si offende. All'inizio avevo un contratto di una settimana. Poi di un anno, poi di 29 anni. Anche se Antonio dice che mi ha scambiato per Gianni Ciardo, il comico pugliese, ci somigliamo. Voleva mettere un comico del Sud con un comico del Nord, e si è sbagliato. Non mi ha mai dato la soddisfazione di dirmi che gli piacevo».
Dopo tutti questi anni, non è stufo di Greggio, di Ricci, della luce della telecamera, di interviste?
«Ogni tanto sono stanco. Non è vero che a 70 anni, adesso, è come averne 50. Per niente. A 70 anni ne hai 70. Poi che ci sia qualche medicina in più, che fa del bene, sì. Ma ci sono dei giorni in cui mi sento molto stanco e 10 anni fa non lo ero, ma nemmeno tre anni fa lo ero. Questo periodo di pandemia mi ha un po' stroncato. Ma sono felice perché c'è tanta gente che mi vuole bene».
Lei si riconosce nel ritratto del comico triste, il malincomico?
«Eh, basta parlare con i miei parenti. È vero che i comici in privato non sono allegri, sì. C'è sempre quello che fa lo sbruffone pure a cena, ma lo fa perché si sente fragile».
Lei è anche attore di sit com, «Benedetti dal signore», «Il mammo». E il teatro?
«Il teatro mi piace di più. Quelli della mia età comprano la "Settimana enigmistica" per non farsi venire l'ictus. Siccome io non so neanche qual è la capitale dell'Ungheria, cos' ho fatto? Ho cominciato a imparare dei copioni a memoria. E quando ne ho imparato uno, provo a dirlo sul palco. Prima della televisione già facevo il teatro, per cui, quella è la mia Settimana enigmistica».
E adesso cosa prepara?
«Per la prossima primavera prepariamo "Bloccati nella neve", di Peter Quilter, con Vittoria Belvedere. Siamo una coppia diseguale. Lei ha 50 anni, io sono il vecchio della commedia. C'è un lockdown a causa della neve, nessuno può uscire di casa: lei invece bussa alla mia porta, entra e mi cambia la vita. Io ho chiesto di baciarla alla fine della commedia ma il regista ha detto: no. Non si sa se ci innamoreremo».
Ricci dice sempre che un trucco, in tv, è mandare in onda i cani: nella fattispecie il suo. Che ne pensa?
«Che i cani sono meravigliosi. Io ho portato il mio Willy sul bancone di Striscia, adesso c'è Lucino, che si chiama così perché me l'ha regalato una mia vicina di casa quando era appena morto Lucio Dalla. Lui ha il colore della sua parrucca».
Enzo Iacchetti: «Mi licenziai da un’agenzia di viaggi e iniziò la mia carriera. Il dolore più grande? Non aver parlato con mio padre, morto a 57 anni». Emilia Costantini il 23 agosto 2022 su Il Corriere della Sera.
«Quando suonavo e facevo cabaret nei night, venivano vedermi anche le prostitute della zona, con i loro protettori. Affrontare questo tipo di pubblico non era facilissimo: se non si divertivano a qualche battuta reagivano in maniera... calorosa. Una volta una cicca di sigaretta accesa mi finì dentro la chitarra, stavo per andare a fuoco».
L'attore che compirà il 31 agosto, ripercorre la sua carriera che non riguarda solo , ha infatti debuttato da bambino sul palcoscenico dell’oratorio. «Ero timidissimo, parlavo pochissimo, ma un regista del mio paese stava preparando uno spettacolo e chiese a mio padre se poteva prendermi per una parte da muto. Gli fu dato il consenso e mi ritrovai sulla ribalta. La sopra cominciai a chiacchierare, non riuscivo a stare zitto. Mi piaceva quel posto: fu una folgorazione».
Il vero percorso artistico iniziò al Derby di Milano, quando lei venne licenziato da una agenzia di viaggi. «Mi licenziai io, con degli amici lavoravamo per una radio libera, dove guadagnavo la metà dello stipendio in agenzia, ma mi divertivo di più. A fine 1978, dopo la gavetta nei night, approdai al Derby, un’università a numero chiuso, ti insegnava ad affrontare ogni tipo di pubblico. Però le esibizioni duravano fino alle 4 del mattino! Se eri fortunato ed eri tra i primi, ok, ma se ti capitava l’ultima ora beh... era dura far ridere il pubblico rimbambito dal sonno e dall’alcol».
La passione per lo spettacolo da chi le è stata trasmessa? «Gli Iacchetti erano tutti musicisti. I miei zii suonavano nella banda del paese e mio padre cantava in chiesa. Ma lui, che faceva il ciabattino e sognava il figlio ragioniere, non era per niente felice. Quando poi presi il diploma in ragioneria, con il voto 36, il minimo garantito, glielo portai, dicendogli: to’, eccoti il pezzo di carta».
Quindi la sua principale passione è stata la musica? «Certo! I miei idoli: Giorgio Gaber, che era musica e teatro, e Jannacci per la musica. Non ho frequentato scuole di recitazione o musicali, ho cercato di imparare da loro, senza copiare. Da Gaber il suo rigore, una religione per me: se fossi stato una donna, l’avrei voluto sposare. Jannacci mi affascinava per il suo modo di essere surreale».
Oltreché ad ammirarli da spettatore, li ha conosciuti personalmente? «Una sera ero andato a vedere uno spettacolo di Gaber e poi mi misi in fila per avere il suo autografo, ma siccome in quel periodo già frequentavo il Maurizio Costanzo Show, dove presentavo le mie canzoni e poesie “bonsai”, lui mi riconobbe, dicendomi: tu sei Enzino! E mi invitò a cena: soli, lui ed io a chiacchierare... Una serata indimenticabile».
Com’è nato »? «Un omaggio. Avevo preso alcune sue canzoni famose, le avevo riarrangiate, intercalandole con miei monologhi, secondo lo stile del suo Teatro canzone».
Ma al Festival di Sanremo non è mai riuscito ad approdare... «Io canto bene e ho tentato tante volte di propormi, ma sono sempre stato bocciato. E ora dico ad Amadeus: stai tranquillo, ho deciso di non provarci più».
Intanto prosegue con , un cammino iniziato nel 1994 . «Siamo una coppia di fatto e, giuro, non abbiamo mai litigato, perché dotati entrambi di un notevole senso dell’ironia e godiamo di reciproca stima. Fare satira non è sempre facile...».
Allude alle molteplici querele? «Eccome no? Io, come conduttore credo di averne ricevute almeno una decina. Antonio Ricci, più di cento. Per non parlare dei tapiri sbattuti in testa al povero Staffelli! Riprenderemo a fine anno, ma io farò solo due o tre mesi, perché ho la mia tournée teatrale cui non rinuncio».
è la commedia di Peter Quilter. Una storia da lockdown? «L’autore l’ha scritta a inizio pandemia, e io del problema ne so qualcosa, dato che ho fatto tre vaccini e un Covid: non mi sono fatto mancare niente. Ma il lockdown, stavolta, non è dovuto al virus, bensì a una catastrofe climatica: cade neve a tutto spiano. Il mio personaggio è un misantropo anziano, che vive in un cottage. Bussa alla sua porta Judith (Vittoria Belvedere) che vuole assolutamente farsi accogliere. Diventa una convivenza forzata, tra risate e l’amarezza della solitudine».
A proposito di anziani: che regalo vorrebbe per il compleanno? «Vorrei che mi offrissero un ruolo da seria killer: faccio sempre il bonaccione, mi piacerebbe fare il cattivo. E non vorrei più avere paura della vita. Forse ne vedo il traguardo vicino».
L’errore che non commetterebbe di nuovo? «Non aver parlato mai con mio padre, non andavo mai a trovarlo: avevo 21 anni quando è morto a soli 57 anni e vivo ancora questo senso di colpa».
Erika Lust: «Nei miei film porno il piacere delle donne conta come quello degli uomini». Greta Sclaunich su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2022.
Da vent’anni la regista svedese guida una rivoluzione puntando sulla sessualità femminile. «All’inizio mi prendevano in giro», racconta, «ma ho avuto ragione io: è più vario e divertente quando non ci sono sguardi predatori».
La regista, produttrice cinematografica e scrittrice svedese Erika Lust, 45 anni, fra le attrici di un suo film erotico e, nella pagina accanto, sul set (ph Monica Figueras)
«Quando presentavo alle società di produzione il mio primo lungometraggio, The Good Girl , e raccontavo la mia visione del porno alternativo in cui il piacere delle donne conta tanto quanto quello degli uomini, i produttori maschi ridevano di me. Dicevano che le donne non sono interessate a comprare qualcosa che abbia a che fare con il sesso; dicevano, testuale, che “paghi le donne per fare porno, non fai porno per loro”». Hanno dovuto ricredersi. Negli ultimi vent’anni la regista svedese Erika Lust (il suo vero cognome, però, è Hallqvist) ha dimostrato che sì, le donne sono interessate a pagare per vedere i suoi film e che sì, si può fare porno con e per le donne. Lei ne era sempre stata convinta, dai tempi dell’università. Mentre studiava Scienze politiche a Lund, in Svezia, le capitò fra le mani uno dei classici del pensiero femminista, Hard Core di Linda Williams, spingendola a chiedersi se non fosse proprio la pornografia lo strumento per cambiare le narrazioni sui generi e sul sesso.
«UOMINI E DONNE GUARDANO LA PORNOGRAFIA GRATIS ONLINE E PENSANO CHE SIA L’UNICA POSSIBILE. HO RACCOLTO LE FANTASIE DI UN PUBBLICO MISTO E LANCIATO LE ‘XCONFESSIONS’»
Oggi, a 45 anni, dirige la propria casa di produzione a Barcellona, la Erika Lust Films, ha all’attivo decine di opere tra film e libri, svariati progetti e un grande obiettivo: cambiare il mondo dell’hard, superando stigmi e tabù riguardanti le donne. A cominciare da uno che la riguarda: «Il porno che realizzo non è solo “per donne”, come spesso lo definiscono i media. Voglio fare film per tutti. Anzi, sfatiamo un altro mito: le persone, sia uomini che donne, guardano il porno mainstream, cioè quello che si trova gratis online, non necessariamente perché lo amino o si sentano rappresentate da ciò che vedono. Spesso lo guardano solo perché pensano che sia l’unico possibile. E finiscono col credere che è così che dovrebbe essere il sesso, anche nella vita reale».
E invece, com’è davvero?
«Una decina d’anni fa ho lanciato XConfessions , una serie di cortometraggi basati sulle fantasie del pubblico: chi voleva poteva scrivermi le proprie, io avrei poi scelto alcune come base per un porno. Ne ricevo a dozzine ogni mese, da persone di tutti i generi e provenienze: grazie a questo progetto ho avuto la possibilità di scoprire fantasie alle quali mai avrei pensato prima. La più comune? Dominio e sottomissione, ma poi ci sono anche sesso di gruppo, a tre, con uno sconosciuto, virtuale. E ancora infedeltà, festini... In generale però direi che chi mi scrive vuole vedere film per adulti che rispecchino la realtà e che quindi si discostino dai porno “classici” con i loro standard di bellezza restrittivi e gli stereotipi di genere obsoleti e sessisti. Insomma, film che mostrino quanto possa essere ampia e varia la sessualità. Vogliono vedere più contesto, autenticità, creatività, piacere e, soprattutto, consenso».
«È POSSIBILE CREARE UN PORNO NON RADICATO NELLO SFRUTTAMENTO E NELLA MISOGINIA MODIFICANDO LE NARRAZIONI E APPORTANDO UN CAMBIAMENTO POSITIVO NEL PROCESSO DI PRODUZIONE»
Come si riesce a realizzare film di questo tipo?
«Lo sguardo femminile è fondamentale per sfidare lo status quo del porno, affrontare la dominazione maschile di questo settore e offrire alternative. Per questo sia le persone che compongono la troupe sul set sia quelle che lavorano nei miei uffici sono principalmente donne. Abbiamo bisogno di loro, così come abbiamo bisogno di persone LGBTQ+ e BIPOC (acronimo che sta per Black, Indigenous and People of Color e si riferisce quindi a neri, indigeni e persone di colore, ndr ) in posizioni di potere in tutti gli aspetti del business del cinema porno, dalla produzione alla regia passando per la sceneggiatura. Solo portando il loro punto di vista nei film potremo creare uno spazio positivo per rivendicare sessualità, piacere e desiderio, e fare qualcosa di diverso dal porno stereotipato prodotto in serie dai siti gratuiti».
Il risultato è davvero così diverso?
«La maggior parte del porno eterosessuale diretto da uomini è incentrato su immagini ravvicinate dell’attrice e della sua vagina, mentre l’uomo è solo un pene senza testa: spesso non vedi nemmeno la faccia dell’attore. Quando uomini etero fanno e dirigono film per adulti di solito soddisfano lo spettatore etero maschio e il suo piacere, o almeno il suo stereotipo. Mentre quando siamo noi donne ad avere il controllo, evitiamo di mostrare le altre donne come fossero l’oggetto passivo di uno sguardo predatorio».
«SONO CONTENTA CHE BILLIE EILISH ABBIA USATO LA SUA INFLUENZA PER RIFLETTERE SULL’ESPOSIZIONE DEI GIOVANI A VIDEO CHE SONO LONTANI DA RELAZIONI SESSUALI SANE»
Di un certo tipo di porno aveva parlato di recente anche la cantante Billie Eilish, raccontando che la pornografia aveva «distrutto il suo cervello».
«Ascoltando una delle canzoni del suo ultimo album, è chiaro che si riferisce ai video porno maschili e con obiettivi maschili. Quel tipo di video, insomma, che si trova con facilità sui siti porno gratuiti ed è basato su fantasie maschili stereotipate: niente a che vedere con le relazioni sessuali sane. Sono felice che Billie Eilish abbia usato la sua influenza per aprire un dibattito, per me necessario, sullo stato attuale della pornografia e sull’esposizione dei giovani al materiale online per adulti».
Sembra quasi che il porno sia diviso in due categorie: quello positivo e quello negativo.
«Il porno come mezzo può essere usato positivamente o negativamente come tutto il resto. È possibile creare un porno che non sia radicato nello sfruttamento e nella misoginia modificando le narrazioni e apportando un cambiamento positivo nel processo di produzione. Produzioni indipendenti per adulti come la mia, ma non solo, lavorano in questa direzione da più di due decenni. Possiamo creare film in cui le persone riescano a rispecchiarsi, dai quali possano essere ispirate e istruite. In generale, film che consentano loro di diventare più ricettive alla vasta gamma della sessualità fuori dallo schermo: per molti spettatori il cinema per adulti alternativo è anche un mezzo che li aiuta a celebrare l’erotismo e li incoraggia a viverlo in vari modi».
«QUANDO NON FORNIAMO UN’EDUCAZIONE SESSUALE COMPLETA, INCLUSIVA E AGGIORNATA NELLE SCUOLE, IL PORNO ONLINE GRATUITO FINISCE PER DIVENTARE LA PRINCIPALE FONTE DI EDUCAZIONE SESSUALE PER I NOSTRI BAMBINI E RAGAZZI, CHE CI PIACCIA O NO»
Questo vale anche per i giovani? C’è chi pensa che il porno possa essere un valido strumento per un’educazione sessuale consapevole.
«Sebbene il porno debba, o almeno dovrebbe, fornire rappresentazioni più sane del sesso non penso che sia sua responsabilità educare. Ma quando non forniamo un’educazione sessuale completa, inclusiva e aggiornata nelle scuole, il porno online gratuito finisce per diventare la principale fonte di educazione sessuale per i nostri bambini e ragazzi, che ci piaccia o no. Io stessa sono madre di due figlie adolescenti e questo è un argomento che mi tocca in prima persona. Perciò io e mio marito Pablo Dobner abbiamo avviato il progetto no-profit The Porn Conversation : forniamo guide pratiche, workshop, video educativi e manuali di conversazione per incoraggiare gli adulti a parlare con bambini e adolescenti dando loro gli strumenti per prendere decisioni intelligenti non solo riguardo al porno ma anche rispetto alle relazioni con sé stessi e gli altri. Non possiamo impedire ai bambini di trovare siti porno, ma noi adulti abbiamo la responsabilità di parlarne con loro e di educarli anziché ignorare il problema».
Da oggi.it il 7 agosto 2022.
Ermal Meta si racconta a OGGI, in edicola da domani, dopo i gonfiori al viso che lo hanno costretto temporaneamente a interrompere i concerti («Mi è dispiaciuto ma era necessario, alla fine non era niente di davvero preoccupante») e rivela come per lui la felicità sia frutto di un percorso tortuoso: «Ho capito tardi che la gioia è una cosa seria. Mi nascondevo. Il sorriso è un’apertura agli altri e io avevo un’esigenza di nascondermi che arrivava da lontano, da una famiglia in cui non potevi mai mostrare il fianco».
Meta parla del padre «che non perdonerò, che proprio in quegli anni terribili, con violenza, criminalità, morti per le strade, ci lasciò soli», dell’arrivo in Italia su un traghetto preso all’improvviso, a 13 anni, («L’anno dopo, quando sono tornato per le vacanze estive, i miei amici mi trattavano da estraneo. Facevano finta che non ci fossi. “Che ne sai te, tu sei italiano”, era il refrain. Fu terribile. Un’amputazione»), della giovinezza con lo stereotipo dell’albanese-delinquente: «Sentivo di dover dimostrare che non ero come gli albanesi dipinti dai giornali. Mi sentivo un ospite che non doveva fare rumore. Mi dava fastidio e allora con la musica ho fatto più rumore che potevo».
E del perché non gli piace essere considerato un esempio di Integrazione: «Perché non ho fatto niente per integrarmi, anzi, ho sempre voluto distinguermi. Dal 2006 il mio passaporto dice che ho la nazionalità anche italiana, ma è un passaporto. In Albania ho vissuto 13 anni, in Italia 28. Ma se guardi una pianta non puoi ignorare che è così bella grazie a radici sane. Al solito, le cose importanti non si vedono».
Eros Ramazzotti: «Michelle Hunziker? L’amore finisce, non il desiderio che sia felice chi hai amato». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 29 Luglio 2022.
Il cantante da 70 milioni di dischi parla di famiglia, dal nonno stornellatore a Michelle: «Quando ho invitato lei e Aurora a fare il video di Ama è stata felice: la mia canzone è un inno all’amore senza regole imposte, senza codici da rispettare».
Eros Ramazzotti è uno dei cantanti italiani più amati nel mondo. E anche da noi. È sempre stato laterale, discreto, poco invadente. Ora esce con un nuovo disco, del quale si può ascoltare il singolo Ama e sta per cantare in concerti in tutto il mondo. Il brano è accompagnato da un video nel quale compaiono la ex moglie Michelle Hunziker e la loro figlia Aurora.
Ascoltando il testo mi sembra che ci siano due temi: il rifiuto della violenza verbale e psicologica che compare nei media e un inno all’amore vissuto in piena libertà, senza regole scritte da altro che non sia il proprio cuore. In questa conversazione risponde su questi temi e racconta di sé. Lasciamo la sua voce, senza interromperla.
Quello sguardo nero di chi coltiva rancore
«Mi colpisce oggi il desiderio delle persone di guardare ogni cosa con uno sguardo nero, pieno di sospetto e di rancore, carico di pregiudizi e di giudizi, spesso ingiustificati. Gli uni e gli altri. I social sembra stiano diventando il festival del negativo: non capisco perché le persone amino usarli non per comunicare gioia e pensiero, ma livore e odio. Spesso sui social gli esseri umani vengono aggrediti per le loro idee o per quello che hanno fatto o, semplicemente, per come sono. Qualche volta vorrei vederli in faccia, i leoni da tastiera che insultano chi è grasso, magro, alto, basso! Vorrei controllare se loro sono perfetti. Non mi importa tanto per noi, che facciamo parte del rutilante mondo dei media. Mi importa per la ragazza che viene derisa, per il bambino che viene bullizzato e ne soffre da cani. Possibile che nessuno possa difendere i più deboli da questo tribunale improvvisato, autonominato, che emette sentenze arbitrarie e può distruggere la serenità di un essere umano?»
«TUTTI UGUALI? MANCO PER NIENTE. OGNUNO È FIGLIO DELLA FATICA CHE HA FATTO NELLA VITA, DEL SUO TALENTO, DELLA DETERMINAZIONE DEL SUO CARATTERE. VEDO GENTE SPUNTATA DAL NULLA CHE VIENE, CON LA STESSA VELOCITÀ, IDOLATRATA E DIMENTICATA»
«A me non piacciono le semplificazioni estreme e non mi piace che tutto sia appiattito, che nel grande calderone, siano messi sullo stesso piano chi si improvvisa musicista e chi ha studiato per anni composizione al Conservatorio. Tutti uguali? Manco per niente. Ognuno è figlio della fatica che ha fatto nella vita, del suo talento, della determinazione del suo carattere. Vedo gente spuntata dal nulla che viene, con la stessa velocità, idolatrata e dimenticata».
«NON SONO GELOSO DI QUESTI CHE HANNO SUCCESSO IN UN ATTIMO, MA LO TROVO INGIUSTO. HO AVUTO DECINE DI PORTE CHIUSE IN FACCIA»
«Un grande palcoscenico virtuale in cui un giorno sei una star e il giorno dopo quello che pulisce i gabinetti. Proprio perché questo appiattimento, questa idea che tutti siamo uguali, che non conta nulla né lo studio, né il lavoro che si sono fatti, ha finito col rimuovere ogni metro di giudizio ogni riferimento. Io non sono geloso di questi che hanno successo in un attimo, ma lo trovo ingiusto. Per loro, che domani saranno riconsegnati all’oblio, e per tutti quelli che nella vita si sono fatti un mazzo così...».
«L’AMORE PUÒ FINIRE, L’AFFETTO NO. QUANDO LEGGO DI MARITI CHE UCCIDONO LE LORO COMPAGNE O DI PADRI CHE AMMAZZANO I FIGLI, PENSO CHE DAVVERO VIVIAMO IN UN MONDO CAPOVOLTO»
«Michelle? Ho, abbiamo, voluto dimostrare una cosa semplice e bellissima: che un amore, per quanto grande e per quanto profondo, può finire senza che sparisca l’affetto, la condivisione, il desiderio che l’altro sia felice. Quando ho invitato Michelle a fare il video con Aurora e con me lei è stata felice. La mia canzone è un inno all’amore senza regole imposte, senza codici da rispettare. L’amore integrale, quello che non consente pregiudizi e barriere. Quando leggo di mariti che uccidono le loro compagne o di padri che ammazzano i figli, penso che davvero viviamo in un mondo capovolto, in cui il rapporto più bello, più nitido, quello che, quando cambia natura, può trasformarsi in affetto eterno, può diventare invece annientamento dell’altro o possesso fragile ed egoista».
«MIO PADRE FACEVA IL PITTORE EDILE MA AVEVA PASSIONE PER LA MUSICA. LA MUSICA È ARMONIA E FORSE PER QUESTO LUI MI HA INSEGNATO A RISPETTARE LA NATURA, GLI ALTRI. QUESTO È IL DNA»
«Nella mia famiglia la musica è sempre esistita. Mio nonno era il principe degli stornellatori dei Castelli Romani. Lo chiamavano “Il Turchetto”, era un donnaiolo impenitente. Mio padre faceva il pittore edile ma aveva passione per la musica. La musica è armonia e forse per questo lui mi ha insegnato a rispettare la natura, gli altri. Questo è il Dna. Di mio c’ho messo tanta tigna, tanta voglia di farcela. Non ho mai pensato che nella vita si potesse fare nulla, né il muratore né il cantante, stando seduti su una sedia ad aspettare che il sole ti baci. Bisogna avere voglia di fare, di scoprire, di arrivare. Ho avuto decine di porte chiuse in faccia, da ragazzo. Giravo con la mia chitarra e le mie canzoni e le facevo ascoltare. La Rca quasi mi cacciò e, in particolare nella mia città, Roma, sono stato trattato malissimo dall’industria discografica. Sono venuto a Milano, città nella quale mi sono subito sentito accolto. Io, figlio della periferia della capitale, a Milano mi sono sentito a casa. Sia chiaro: anche qui ho faticato. Un produttore una volta mi ha detto: “Come te cantano in duecento, come te suonano in duemila”. Ma io non ho mollato».
«MIO PADRE NEI PRIMI ANNI ‘60 AVEVA PARTECIPATO AL CANTAGIRO... UNA VOLTA MI ACCOMPAGNÒ AL FESTIVAL DI CASTROCARO: LUI A GIGLIOLA CINQUETTI DISSE CHE SE NON AVESSI AVUTO SUCCESSO SAREI TORNATO A SCUOLA; A ME PARVE UN PO’ UNA MINACCIA»
«Mio padre mi accompagnò una volta al festival di Castrocaro. Lui , nei primi anni sessanta, aveva partecipato al Cantagiro cantando Lui e uno . Quella sera ci intervistarono per la televisione. Era Gigliola Cinquetti a fare le domande. Chiese a mio padre che ne sarebbe stato di me se non avessi avuto successo. Lui rispose, tranquillo: “Tornerà a scuola”. Per me era un po’ una minaccia, ma fu anche una sfida. Tutte le porte chiuse non mi hanno scoraggiato. Sono caduto e mi sono rialzato tante volte. La musica è la mia vita. Senza di lei io non sarei esistito. Ricordo la gioia della prima chitarra, scrausa, con la quale suonavo il blues. Nel 1977 provai ad andare al Conservatorio, ma anche lì sentii il suono della serratura che si chiudeva. Tornai a studiare da ragioniere. Ma la mia testa era sempre nelle nuvole delle melodie e delle parole. Ero, e sono rimasto, una persona di poche parole. Mi chiudevo nella mia stanza con la chitarra, il registratore Revox e il cane che adoravo».
EROS HA LA FOTO DELL’AMICO IVANO SEMPRE SUL TAVOLO: «ERA MIO AMICO DEL CUORE. MORÌ IN UNO SPAVENTOSO INCIDENTE IN MOTORINO. HO SOFFERTO TANTO DA NON RIUSCIRE AD ANDARE AL FUNERALE»
«In quegli anni morì un ragazzo, mio amico del cuore. Si chiamava Ivano Fattorini. Eravamo fratelli. Ho sofferto tanto da non riuscire ad andare al funerale. Lui ebbe uno spaventoso incidente col motorino. Avevamo appuntamento con lui, quel giorno, a Piazza Cavalieri del Lavoro. Ma lui non arrivò. Fu schiacciato da un camion e restò mezza giornata sull’asfalto. Ivano era sotto l’effetto di quelle sostanze che inondarono Roma, in quel periodo. Io tengo sempre sul tavolo la sua foto e continuo a volergli bene. Forse anche per questo non ho mai toccato neanche una canna. Sento di dover esser sempre in pieno controllo della situazione. Nella mia stanza si sentiva di tutto: Massimo Ranieri, Fabrizio De André, Genesis, Deep Purple, Led Zeppelin. Ho pianto come un vitello per la morte di Elvis e con la mia chitarra suonavo la musica fusion, il funky jazz».
«SONO ONNIVORO DI MUSICA... AMO ULTIMO, IRAMA, CESARE CREMONINI, QUELLI CHE TI DICONO QUALCOSA. NON CAPISCO LA TRAP, MA DEVE ESSERE UN PROBLEMA MIO»
«Ero, e sono rimasto, onnivoro di musica. Oggi mi piace Tommy Emmanuel, un chitarrista australiano, e, dei giovani, amo Ultimo, Irama, Cesare Cremonini, insomma quelli che con la loro musica ti dicono qualcosa. Non capisco la trap, ma deve essere un problema mio. Se potessi fare come Nathalie Cole, che ha potuto mettere la voce di suo padre Nat King Cole in un suo disco, sceglierei senza dubbio Pino Daniele. Lo amavo molto. Facemmo una tournée con lui e Jovanotti nel 1994, trenta concerti. Ma Pino non volle registrare nulla. Un peccato. Era bellissimo».
«HO VENDUTO 70 MILIONI DI DISCHI MA, PER OTTENERE QUESTO RISULTATO, HO FATTO CIRCA DUEMILA CONCERTI FUORI D’ITALIA...»
«Io ho avuto successo all’estero. Non sono il solo. Ho venduto 70 milioni di dischi ma, per ottenere questo risultato, ho fatto circa duemila concerti fuori d’Italia. Dal 1985 non mi sono più fermato. Insomma un mazzo così. Ma è quello che ti dicevo sulla fatica, la determinazione, la voglia di farcela. Grazie a queste doti, oltre al talento, sono riuscito a uscire da quella stanzetta del quartiere Lamaro, alla periferia di Roma, e ad arrivare, come farò anche quest’anno, in tutto il mondo».
«IL GIORNO CHE VORREI RIVIVERE? VORREI GUSTARMI LA PARTITA ITALIA-BRASILE DEL 5 LUGLIO 1982, EMOZIONARMI COME OGGI RIVEDENDOLA, MA ESSENDO UN RAGAZZO, IN QUEI GIORNI SPENSIERATI»
«Mi chiedi se c’è un giorno della mia vita che vorrei rivivere. Bella domanda. Sì, ce l’ho. Il 5 luglio del 1982. Ero con gli amici a Santa Marinella e cercavamo un televisore dove vedere Italia-Brasile. Alla fine ne trovammo uno in bianco e nero, con quelle diaboliche antenne orientabili che sembravano fatte apposta per perdere il segnale: più le giravi più veniva nebbia. Ecco, vorrei gustarmi quella partita, emozionarmi come faccio oggi rivedendola, ma essendo un ragazzo, in quei giorni spensierati. Con la Nazionale cantanti una volta siamo andati a Bucarest. Ci ricevette Ceausescu. Gianni Morandi iniziò una filippica che non finiva mai, come fa lui. Io alla fine sbottai e, rivolgendomi a Ceausescu, gli dissi: “Presidente, tiriamolo su questo Paese, che lo vedo malmesso”. Non certo un diplomatico, ma avevo ragione, come la storia ha poi dimostrato».
«DI ROMA MI MANCA L’ATMOSFERA, QUELLA È IRRIPETIBILE. A MILANO STO BENE, MA LA GENTE DI ROMA È IMBATTIBILE. IO SONO CRESCIUTO IN PERIFERIA, QUANDO CI MUOVEVAMO PER RECARCI IN CENTRO DICEVAMO “ANDIAMO A ROMA”, PERCHÉ UN PO’ CI SENTIVAMO STRANIERI»
«Un’altra volta dovevamo consegnare un assegno da 100.000 dollari a Michael Jackson per la sua fondazione. Ci fecero andare lì e aspettare mezza giornata. Sarai pure Michael Jackson ma io ti devo dare 100.000 dollari mica chiedere un autografo! Alla fine arrivò. Non lo si poteva toccare, manco fosse la Madonna di Czestochowa, disse due parole di circostanza e ci liquidò. Avendo messo in tasca l’assegno. Di Roma mi manca l’atmosfera, quella è irripetibile. A Milano sto bene, ma la gente di Roma è imbattibile. Io sono cresciuto in periferia, quando ci muovevamo per recarci in centro dicevamo “andiamo a Roma”, perché un po’ ci sentivamo stranieri. Ma quella città, i suoi colori, la sua lingua le porto nel cuore».
«SE PROPRIO DEVO SCEGLIERE UNA CANZONE , DICO “EMOZIONI” DI LUCIO BATTISTI... ANCHE PERCHA’ MI SEMBRA COSI’ DIFFICILE GESTIRE LE EMOZIONI.MA DOBBIAMO LOTTARE PER NON CEDERE ALL’INDIFFERENZA»
«La mia canzone che più amo è Musica è. Volevo da sempre fare una suite, amando i Genesis. Se invece devo scegliere un brano scritto da altri faccio fatica. Sono mille: quelli di Concato, di De André, di Dalla, di De Gregori. Se proprio devo prenderne una dico Emozioni di Lucio Battisti. Anche perché ora mi sembra che sia così difficile gestirle, le emozioni. Veniamo da anni spaventosi, carichi di paura, gravidi di pericoli e mi pare che ci stiamo smarrendo e forse inaridendo. Il rischio è l’indifferenza, quella generata dalla sfiducia. Ma l’indifferenza è l’altra faccia dell’odio. Anche per combattere questi pericoli io continuo a fare il mio mestiere. Con lo stesso entusiasmo, la stessa gioia, la stessa voglia di quando ero ragazzo. Con la mia chitarra scrausa».
Rita Vecchio per leggo.it il 22 novembre 2022.
«Vede quante chitarre ho qui davanti? Sono l’oggetto del mio desiderio. Il mio harem. Ne ho 100. Molte le ho costruite io». Tra locandine e vinili, tra il pianoforte regalatogli dal padre e le chitarre, Eugenio Finardi si muove nella storia di 50 anni di carriera con l’onestà di sempre. «La musica deve essere vera e vissuta. Per quello i miei dischi nascono dopo il tour.
La musica non è un prodotto». Ed Euphonia Suite, appena pubblicato, è l’album coerente con questo pensiero. Sono 15 brani riarrangiati con il pianoforte di Mirko Signorile e il sassofono di Raffaele Casarano, in attesa del live al teatro Lirico di Milano il 18 marzo, «dove sono contento di tornare dopo 30 anni esatti. La musica per me ha sempre uno scopo».
Euphonia?
«Curativo, laicamente spirituale, di un anti-infiammatorio. È un viaggio che estrania e che vuole farti uscire di testa».
É rimasto ribelle?
«Per forza. Prima di tutto con me stesso (ride, ndr). Ma pure il disco lo è. “Katia” e "Una notte in Italia” di Fossati sono i brani che lo hanno anticipato. Katia è una canzone poetica, di un 70enne (li ho compiuti lo scorso 16 luglio) che ricorda le emozioni di quando aveva 11 anni e che ancora oggi lo emozionano. Il videoclip è in stile manga (curato dalla moglie Patrizia dello Studio Convertino, ndr)».
In Diesel canta la quotidianità di una “Italia che scotta”, della gente che “si dà da fare senza starsela a menare”. Era il 1977. C’è attualità in queste parole?
«Dipende. In Italia, purtroppo, ci sono pochi giovani, e quelli che non se la menano sono già andati via. Viviamo in un Paese per vecchi e fatto di tradizioni (con cui io non tanto vado d’accordo)».
Nel disco c’è Soweto. Quanta “vergogna” è presente ancora nella politica che “fa morire un sacco di gente”?
«Tanta. L’unico privilegio di invecchiare è la prospettiva storica che si ha. La guerra in Corea, quella degli afgani “che lottano una guerra già perduta/Perché sanno che la resa è la morte garantita”, o la guerra del Golfo in Mezzaluna. É un elenco di nefandezze. Con il senno del poi, si capisce che l’unico eroe della mia generazione che non ha tradito è stato Nelson Mandela. Ci vorrebbero persone con una visione e che abbiano onestà intellettuale. E a parte Papa Francesco, (indugia un po’ prima di continuare, ndr) non mi vengono in mente altri nomi».
E' credente?
«No, per come intendono la divinità le religioni».
A proposito della guerra, che pensa della polemica accesa dal console ucraino sull’Ur-Boris in Scala?
«Ho visto quest’opera di Musorgskij diretta da Abbado nel 1979 in scena proprio al Piermarini. Che dire, avremmo dovuto smettere quindi di ascoltare Bach durante la seconda guerra mondiale o Wagner perché piaceva a Hitler? Il problema non è il titolo in cartellone alla Scala che, conoscendone i meccanismi, sarà stato deciso anni prima, ma la guerra che in un’Europa del XXI secolo è anti-storia».
É disilluso dalla politica?
«Sì. Dalla sinistra. Non rappresenta più gli ultimi. E’ tutto noioso».
Noiosa pure la discussione presidente/presidentessa?
«Il sesso andrebbe eliminato dalla lingua. Oggi non si può più scrivere nemmeno un verso che scatta la polemica. Si perde di vista ciò che davvero conta, ovvero la lotta contro la violenza sulle donne o contro lo stalking. Il ruolo del maschio nella società contemporanea è messo in discussione continuamente. E il gender, dovrebbe essere un fatto assodato».
Dolce Italia è stata scritta il giorno dell'anniversario della liberazione, come "canzone d'amore" verso il nostro paese con il mito dell’America. C’è ancora?
«Quelli erano i paninari, ma c’è sempre. L'anti americanismo che sta venendo fuori (come giusto che sia) è frutto di Trump che ha rovinato l’America».
Con Soweto e la Dolce Italia siamo nel 1987, quando lei andò via per il contrasto con le discografiche. Che era successo?
«Volevano fare di me un artista di musica leggera. E io non la so fare. Potrei anche dirle che non la voglio fare (ride, ndr), ma sarei un disonesto. Io so fare solo la mia musica».
Com’è oggi la discografia?
«I numeri si sono talmente ridotti che non saprei. Sono uscito dal business nel 2002, quando ho chiuso il contratto con Warner dopo 30 anni di carriera. Ho investito ciò che avevo ereditato dopo la morte di mio padre per finanziare i miei stessi progetti ed evitare qualsiasi interferenza nella fase creativa. Oggi non si dice che è un bel disco o che è un brutto disco. Si dice che è un disco che ha venduto un tot di copie o che ha un tot di visualizzazioni. II successo si ottiene praticamente attraverso l’auto-umiliazione».
Con Ambara Boogie, per esempio, nell’ '85 lei fu innovativo. Che pensa della nuova musica?
«Mi incuriosisce, anche perché irrita quelli della mia età (ride, ndr). Io la apprezzo, invece. Propaganda di Fabri Fibra, Musica Leggerissima di Colapesce Dimartino, e ancora Ghali e Mahmood (ammetto che non ricordavo che la sua Soldi avesse lo stesso titolo della mia). Mi piace la trap, i groove hanno una bella intensità».
Citando Vil Coyote, un suo progetto strampalato?
«Ne avevo uno sul rebetiko greco, basato su quarti di tono e melismi. Ricordo che chiamai Franco Battiato che mi disse che forse era meglio non farlo perché (e ne imita la voce, ndr) magari non sarebbe stato capito».
Sempre della stessa idea su “La Radio”?
«Se ci fossero le radio libere, sì. La radio potrebbe essere un’arte, ma ormai gli spazi di libertà sono davvero ridotti».
A proposito di libertà, lei ha dichiarato che “le droghe da giovani non vanno bene” e che consiglia “dosi abbondanti e quotidiane di sex e rock ’n' roll". Però in Scimmia, sempre nel ’77, ha cantato la dipendenza con un brano molto forte. Cosa scatenò quella canzone?
«Lo racconta il testo ("Il primo buco l'ho fatto una sera/A casa di un amico...", ndr), dirompente e pieno di verità, insieme alla musica con basso, batteria e accordi del pianoforte per sostenere l’armonia. La forza stava nell’onestà di scrittura di noi musicisti liberi che cantavamo, liberi, una canzone vera. Quello era un periodo in cui l’eroina e le P38 arrivarono in modo devastante. La mia generazione fu falcidiata. Quello che c’è stato dopo, fu una dura lotta».
Come ne uscì?
«Solo una cosa ti tira fuori. Solo una cosa ti salva. E quella cosa è la dignità».
Le ragazze di Osaka e Amore diverso sono dell’album Dal Blu pubblicato dopo la nascita di sua figlia Elettra, con la sindrome di Down. Ma è vero che il disco creò la separazione dai fan storici?
«Sì, perché venivo dal rock e la nascita di mia figlia mi aveva cambiato. Come altri colleghi per i loro figli, penso a Baglioni, Fedez, Jovanotti, ho voluto scrivere per lei delle canzoni. Ho dichiarato di essermi sentito diverso, anche rispetto a me stesso, perché nemmeno nel fare un disco ero riuscito a essere normale (fa una pausa, ndr). Io, con una madre americana (era una soprano, ndr) e un padre italiano (era un tecnico del suono, ndr), ho dentro due culture. Mi manca l’appartenenza a un popolo. Mi sento come un ebreo ma senza comunità. Un po’ come Rossana Casale, Demetrio Stratos o Alberto Camerini. Non parlo nemmeno il dialetto milanese, e questo mi spiace un po’ (sorride, ndr)»
Ci rimase male per i fan?
«Non avevo comunicato di mia figlia. Capisco chi si era sentito tradito nel vedermi passare dal rock all’album introspettivo. Però acquistai nuovi fan che mi hanno vissuto come una scoperta invece che come un tradimento. C’è da dire, con sincerità, che il primo a tradire me stesso sono stato io. Rock, blues, classica contemporanea, tre Sanremo (per sbaglio)».
Quindi è sempre dell’idea che il Festival è “una gara stupida da Italietta ignorante”?
«No. La mia frase era stata detta tempo fa e decontestualizzata. Questo Sanremo mi piace, funziona, rappresenta la musica italiana. Veda i Mäneskin»
Quindi ci tornerebbe?
«Sono troppo vecchio. Se mi volessero dare un premio speciale per la carriera, mi piacerebbe. Ma non credo che me lo daranno».
Una targa Tenco l'ha vinta.
«Eh ma come interprete (nel 2008, con Il cantante al microfono, ndr), mai come autore».
Quest’anno però sono 50 anni di carriera.
«Non sono così rilevante nel mercato musicale italiano».
E’ il prezzo che paga un artista indipendente?
«Più che indipendente, un artista libero».
Avrebbe fatto da consigliere al ministero della cultura se glielo avessero chiesto?
«Assolutamente sì. I musicisti pop non sono tutelati. Non riusciamo ad accumulare abbastanza pensione e questo è il risultato del fatto che la politica non ha capito nulla».
Morgan dice che a scuola si dovrebbe studiare la canzone italiana.
«E ha ragione. L’Italia ha un grosso problema culturale. Bisognerebbe insegnare ad ascoltare la musica prima che insegnare a suonare il flautino».
Voglio apre la scaletta del disco. Lei è riuscito a realizzare nella vita tutto “quello che aveva desiderato” come scrive nei versi?
«No, ma molto sì. Sono l’unico artista pop che è arrivato al Teatro alla Scala (mostra orgoglioso le due locandine con il suo nome diretto da Carlo Boccadoro, ndr). Ma vado fiero anche del disco e dei tre anni del tour di Anima blues. Subisco, però, un grande difetto professionale: non sono riuscito a produrre abbastanza denaro per potermi permettere di realizzare impegnativi progetti musicali».
Si sente un “extraterrestre”?
«Non si sfugge mai a se stessi. Sono un ribelle che fa quello che sente, quello che vuole e quello che può. Se per extraterrestre intende libero, allora sì. Mi sento un artista dalle tante anime. Rock, jazz, classica contemporanea. Ma più di tutti, un artista dall’anima blues».
Eugenio Finardi: «Mi sono sentito diverso quando è nata mia figlia Down. Dico grazie a Mara Maionchi». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2022.
Il cantautore: «Oggi ascolto anche musica trap, amo le parole. I Maneskin mi ricordano come ero io alla loro età».
Correva l’anno 1974. Negli studi di Radio Milano Centrale (poi diventata Radio Popolare) Eugenio Finardi ha appena finito di condurre la sua trasmissione. Ha mescolato generi diversi, da Scarlatti agli Stones. In corridoio c’è una sorta di commissario politico che lo apostrofa: «Basta con queste canzoni che addormentano le masse, dovresti rileggerti Marx e Lenin!» E lui: «Io leggo Tex Willer e ti mando a quel paese!». «Non ricordo molto di quel passato, di tutto il passato. Ma è verosimile che sia andata così. Marx, Lenin che due palle. Ci sono cose che vengono sopravvalutate. La rovina dell’Italia è il liceo classico. Dove si punta sulla Parola e non si studia Musica. E quando si studia Storia dell’arte (come mia figlia) si punta sul mnemonico, tipo “come si chiamavano le tre piattaforme che stanno alla base dei templi greci...”. Io penso che la cultura debba andare a tutto campo, spaziare... la cultura cinese... cosa c’era in India prima degli inglesi. Mi piace il suono di lingue che non conosco... mi piace il greco: Thalassa, il mare. Mi piace surfare da un concetto all’altro senza necessariamente approfondire. Questo è il tipo di cultura che io concepisco: un po’ di tutto e un po’ di niente. Mi affascina più la scienza, la fisica (la musica è fisica!)».
Lei è «americano»...
«Sono nato a Milano in via San Vittore alla clinica San Giuseppe, ma mi hanno cresciuto da americano. Negli Stati Uniti ho però scoperto che gli americani mi stavano sulle balle. Mia madre Eloise Degenring era americana, mio padre, bergamasco, dirigente industriale anticomunista viscerale, la portò in America. Ma io restai qua. L’inglese è la mia lingua madre. L’italiano la mia lingua padre. Con i miei tre figli parlo italiano e inglese, la piccola parla cinque lingue e sta laureandosi in cinese».
La musica?
«Ci sono letteralmente nato dentro. Mia madre era una cantante lirica. Bravissima. Ma era albina e ipovedente e non riusciva, per via delle luci, a vedere gli attacchi del direttore. Così faceva recital, cantava alla radio, ma non in teatro. Abitavamo vicini alla Rai di Corso Sempione. Nella quotidianità domestica facevamo surf tra italiano e inglese. Ancora adesso guardo la tv in inglese con i sottotitoli in italiano... se mai mi dovesse sfuggire qualcosa. Ascolto in inglese e leggo i sottotitoli in italiano. Non c’è scontro, non c’è fatica, è come se fosse la stessa lingua... È questo è il mio dramma. Una specie di stereoscopio che mi segna il carattere: uno dei miei pregi — che è anche un difetto — è percepire cosa pensa il mio interlocutore. Riesco a vedere ogni lato di una questione e intuire bene cosa pensa l’altro. Strumentalizzo questa capacità percettiva. Se voglio piacere mi adeguo, ma spesso sono polemico e bastian contrario».
Come l’ha scoperto?
«Sarà una regalo di mia mamma albina. Citando Walt Whitman: “Mi contraddico? Ebbene sì, contengo moltitudini”. Alla mia diversità ha contribuito l’avere un sacco di amici di famiglia ebrei. Mi sento come un ebreo newyorkese con quel humor provocatorio alla Woody Allen».
Quando ha scoperto di essere artista?
«Lo so da sempre. Ho inciso il primo disco a 9 anni. Non ho mai dubitato di essere artista, ma è anche una condanna».
Ha avuto sponsor importanti...
«Mara Maionchi mi ha portato alla Numero 1, la casa discografica di Mogol e Battisti. Una delle sue prime scoperte. Sono stato a casa di Battisti al Dosso. Io avevo portato dall’America un sacco di dischi da noi introvabili come i Weather Report, Bob Marley. Battisti era timido, ma molto curioso. Mentre io ero esuberante. Ricordo una stanza grande, quasi vuota, con enorme divano e grandi casse di amplificazione. Mi piacciono le canzoni di Battisti, i testi di Mogol».
Ma chi l’ha aiutata?
«Demetrio Stratos degli Area, che mi portò alla Cramps, e Graziani. Ivan era generosissimo. C’era un locale in Brera che faceva musica dal vivo. Ivan aveva creato una sorta di “chitarra-bar”. Girava per i tavoli, faceva canzoni a richiesta. Lui preferiva i Beatles. E aveva la timbrica giusta. Prendeva ventimila lire a sera, che era tantissimo all’epoca. Ogni tanto però gli chiedevano anche pezzi dei Rolling Stones. Mi offrì metà del suo stipendio affinché lo supportassi sul rock blues. Condividemmo lo stage e la cassa. Incredibile. Poi c’è stato Gianni Sassi, pubblicitario e intellettuale provocatorio, parlavo con lui e mi veniva l’ispirazione. Sapeva stimolare la creatività».
«La radio», «Extraterrestre», «Musica ribelle», «Scimmia»: ha scritto brani celebri...
«Sì ma da 20 anni non sono più nel business. Nel 2002 sono stato liberato dalla Warner. Da allora solo progetti speciali. Uno dei momenti topici della mia vita: ero a New York a registrare l’album Occhi, l’unico disco che ho realizzato all’estero. Abitavo a casa dei miei genitori mentre loro svernavano in Florida e andai a trovare Ruby Marchand, pezzo grosso della Warner. Lei ascoltò i miei lavori e alla fine disse: “Non sei abbastanza italiano per vendere nel mondo. Noi abbiamo bisogno di artisti come Zucchero o Ramazzotti».
Come ha visto cambiare il mondo?
«Abbiamo avuto grandi modelli: Led Zeppelin, Miles Davis... Ma poi Battiato cambiò tutto. Il suo era un gruppo di lavoro affiatato: Alice, Giuni, Giusto Pio, Cacciapaglia. Mi ricordo di essere andato in studio da Radius mentre stavano lavorando a Patriots. A Franco interessava l’originalità del suono. Era il re dei sintetizzatori e si trovava a suo agio con gli anni Ottanta. Oggi non seguo molto le tendenze italiane e straniere. Qualche volta qualcosa mi cattura, come la trap perché riesco a seguire le parole».
In una mia recensione scrissi che lei lavorava con non più di 50 vocaboli?
«Vero. È una cosa voluta. Parla come mangi... La chiave era la semplicità, ma colta non ignorante. Sono l’unico cantante pop che è arrivato alla Scala nel 2010 come voce narrante con l’ensable Entr’Acte. Il palco della Scala era il sogno di mia madre, morta nel 2013. L’ho accontentata».
La sua prima figlia si chiama Elettra. Ha 40 anni e ha la sindrome di Down.
«Anche questo è un dolore che non passa mai».
Per molti anni lei mandava a tutti, colleghi, amici e giornalisti un sms in cui ricordava il compleanno di sua figlia Elettra e forniva il suo numero. Era un appello struggente... Da qualche anno non arriva più questa richiesta.
«È invecchiata. Non voleva più. Vive in una casa famiglia. Adesso non ha più il telefono, le crea ansia. Il primo pensiero quando è nata e ho saputo che era Down fu: “Neanche in questo sono riuscito ad essere come tutti gli altri”. Io mi sono sempre sentito diverso. E lo ero. Anche grazie a una madre protestante».
Si professa ateo.
«Ecco un bell’argomento. Io mi sono interrogato molto sulla natura di Dio. Il Dio della Bibbia, il Dio del Corano, sembra severo, ma anche geloso: i primi Comandamenti sono incentrati sul concetto: “Non avrai alcun Dio al di fuori di me”, mi sembrano espressioni di fragilità... Dio per me è l’Universo. Le sue leggi sono veramente immutabili e indiscutibili, la gravità, la forza centrifuga, insomma le leggi della fisica. E la musica è un sacramento... una “terza”, una “quinta”. Le dodici note. Fra loro vi sono relazioni assolute, regole precise cui dobbiamo obbedire ovunque. L’Universo ha creato se stesso. Con lui sono nati lo spazio, il tempo. Tutto. Ma Dio se ne frega di cosa facciamo, come mangiamo, ci vestiamo, ci laviamo... Noi lo bestemmiamo distruggendo la terra che ci sta ospitando. Dovremmo mettere la conoscenza in primo piano e ammettere la nostra ignoranza. Il peccato è credere di aver capito tutto mentre non è vero. La verità si svela, non si rivela».
Che rapporto ha con Milano?
«La amo molto. Città accogliente per disadattati come me. È la città di Leonardo».
Socializza con colleghi?
«Sì con Alberto Camerini. In passato con Demetrio, Fabrizio De André, Battiato. Baglioni, dolce e sensibile, si informava sempre su Elettra. La chiamava al telefono. Cortese, attento anche nei dettagli. Gianna Nannini e poi Ligabue che mi ha invitato al prossimo concerto al Campovolo».
Nuovi artisti?
«Non li conosco, non so cosa facciano. Mi piacciono i Måneskin perché mi ricordano di com’ero io alla loro età».
Polemico?
«Sì, ma solo a livello verbale. Non sono mai stato un fan né un enciclopedista. Tutto mi piace e tutto mi stufa. Non riesco a divinizzare l’artista. Quello con cui ho litigato di più sono io stesso. Extraterrestre è il mio pezzo più noto. Fu anche il mio primo insuccesso. Dicevano che avevo tradito. Cambiar rotta è rischiosissimo per un artista. Bennato per esempio non è mai cambiato, ha ancora la maglietta Campi Flegrei n.69».
Musica, libri, giornali?
«Guardo soprattutto le televisioni all news internazionali. Perché non devo mettere gli occhiali. Leggevo e leggo di tutto. Mi piacciono i libri di scienza e filosofia. La narrativa mi interessa meno».
Qualche anno fa scrisse una canzone, «Come Savonarola», che recitava così: «Non hai fatto un grande affare, ad andarti a innamorare di uno come me, che sto invecchiando male fra rabbia e delusione e un futuro che non c’è, e il mondo che sognavo e tutto ciò per cui lottavo, ora sembra inutile. Hanno vinto i culi stanchi, gli arrivisti, gli arroganti che più falsi non ce n’è». Ancora su questa linea?
«Sì, forse ancora di più. Sono deluso dall’uomo. Abbiamo la violenza dentro come i maschi in amore nei documentari. Speravo fossimo migliori, ma siamo solo più bravi a combattere».
Dagospia l’8 novembre 2022. COMUNICATO STAMPA
Francesca Fagnani spiazza con una domanda Eva Grimaldi e lei imbarazzata fa luce su una storia d’amore poca nota: “Si’, mi sono innamorata di Roberto Benigni.”
La Fagnani: “Lei ha avuto anche una storia d’amore con Roberto Benigni, ha detto: la nostra storia fu interrotta quando gli telefonai ma fu la Braschi a rispondere al telefono e a dirmi: non chiamare mai più. Strano, che si aspettava un invito a pranzo?”
La Grimaldi: "Non voglio parlare di benigni, anche perchè è una coppia felicemente sposata...”
Ma la Fagnani insiste: “Si era innamorata?”
Grimaldi: ”Si’, molto, benigni è un uomo molto affascinante, molto intelligente...”
La Fagnani: “e lui di lei?”
Grimaldi: “penso di sì”
La Fagnani per concludere: “ma quanto è durata?”.
Grimaldi sfodera un sorriso e rivela: “non una notte...!”
La Fagnani chiede poi a Eva Grimaldi dei suoi periodi bui, tra alcol e cocaina.
Fagnani: “Lei ha detto: Imma Battaglia mi ha tirato fuori dai vizi, da quali vizi”?
La Grimaldi: “dall’alcol, aprivo il frigo e bevevo al mattino, superalcolici, chi mi vedeva senz’altro avrà pensato la Grimaldi sta proprio fuori.”
E sull’abuso di cocaina, la Fagnani chiede “lei in passato ha fatto uso di cocaina, come l’ha gestito quel vizio?”
La Grimaldi “sono due vizi molto simili...non ero tossicadipendente comunque...
La Fagnani:” ha abusato?”
Grimaldi: “molto, molto...”
La Fagnani chiede: “qual è stato il punto più basso che ha toccato rispetto a queste sue dipendenze?”
Grimaldi: “Senz’altro la droga, uscivo solo se c’era la droga.”
Torna finalmente Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, con due appuntamenti settimanali, il martedì e il mercoledì su Raidue. Un ciclo di puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziose, forti, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Nella puntata di Belve va in onda una intervista con Eva Grimaldi. Attraverso momenti divertenti e commoventi, si racconta la storia di una attrice che in passato si sentiva chiusa con un porcospino, poi forte come un puma e ora si sente un agnellino.
Eva Grimaldi: «Imma Battaglia? Il mio ex mi accarezzava, e io pensavo a lei». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 26 Ottobre 2022.
Grimaldi: «Imma ha un’intelligenza fuori dal normale. Mi fa sentire femmina più di tutti gli uomini che ho avuto». L’attivista Lgbtq+ Battaglia: «Aveva un modo molto divertente di corteggiarmi, sembrava un’adolescente. Ha scatenato il latin lover che c’è in me».
Sono agli antipodi.
Imma: «Io sono nevrotica, cervellotica, veloce. E mi sono trovata questa donna accogliente, accudente, protettiva».
Eva: «Io sono dislessica, se piove o mi arrabbio balbetto, ho la terza media. Cosa mai potrò darle?, mi chiedevo quando l’ho conosciuta».
Ecco. Quando vi siete conosciute?
Eva: «Al Gay Village, nel 2008. Ero con il mio ex marito. Ci indicano Imma di spalle con la sua fidanzata di allora».
Imma: «Lo vede quant’è gelosa? Neanche dice il nome».
Eva: «Il nome non lo dico perché questa è la nostra storia, non la vostra».
E quindi?
Eva: «Tutti a dire: “Che bella la fidanzata di Imma Battaglia”. Poi lei si è girata e l’ho vista la prima volta. E ho replicato: “Sarà tanto bella, ma avete visto il viso di Imma?”. Quando siamo tornati a Verona, ricordo che alla prima carezza del mio ex, per tre secondi ho pensato a Imma. Poi io e lui ci siamo lasciati, due anni dopo sono tornata a Roma, in un periodo per me difficilissimo, e ho chiesto a un mio amico: “Dai portami al Gay Village, che mi voglio sfogare con Imma Battaglia”. Per me lei lavorava lì e basta, non avevo capito il suo ruolo».
Era settembre del 2010. La scintilla è scoccata allora?
Eva: «Quando mi è venuta incontro ho cominciato a piangere come una fontana. Quella sera l’abbiamo finita a mangiare patatine e birra a un tavolino. E le ho dato il mio numero di telefono. Poi ho cominciato a stalkerizzarla: mi era entrata nel cuore come un proiettile».
Imma: «Io ero impegnata e sono fedele. Ma il suo dolore mi aveva turbata. E poi aveva un modo molto divertente di corteggiarmi, sembrava un’adolescente. Tipo che se le dicevo che amavo il tennis, lei si comprava gonnellina e scarpette».
Il primo bacio?
Eva: «Un mese dopo, gliel’ho chiesto io. Le avevo proposto di vederci a Zagarolo, dove ero ospite da amici. L’appuntamento era alle 17, lei si è presentata alle 18.30».
Imma: «Ma è stata lei a darmi le indicazioni sbagliate!».
E dopo?
Imma: «Non mi ha chiesto solo un bacio! Dopo, ha usato un sacco di stratagemmi. Mi ha invitata ad andare in camera da letto, perché nel soggiorno c’era una parete a vetri e non voleva che ci vedessero da fuori. In camera mi ha chiesto di spogliarmi, come nel libro Le mille bocche della nostra sete che stava leggendo: romanzo da ragazzine».
Caspita! E lei?
«Beh, a quel punto aveva scatenato il latin lover che c’è in me...».
Imma Battaglia ed Eva Grimaldi sono «marita» e moglie dal 19 maggio 2019. A unirle civilmente è stata Monica Cirinnà, la madre della legge sulle unioni civili.
Imma: «Ecco, sono un po’ contraria a questi personalismi, che depauperano la legge. Vale per tutto, eh».
Eva intanto la guarda incantata (dirà: «Quando lei parla sto quasi in apnea, non voglio perdere una parola». E Imma: «Ha questa voglia di imparare, di imparare...»).
Ditemi un pregio e un difetto l’una dell’altra.
Imma: «Di Eva mi piace la generosità amorosa. Dona amore dalla mattina alla sera. Tutto quello che fa è per farti stare bene, e non solo con me. È luce bianca, energia pura, con lei entri in una fortezza che non è fatta di cyber security, ma della forza indistruttibile che solo l’amore dà. Il suo difetto? È una rompipalle, gelosa, possessiva, arrogante: mi aggredisce subito!».
L’ultima scenata?
Imma: «Due settimane fa in discoteca. Stavo parlando con un’amica e lei ha fatto una sceneggiata da vaiassa napoletana».
Eva: «Ho solo spinto quell’altra: le stava troppo vicino».
Vediamo com’è Imma.
Eva: «Un difetto sono riuscita a toglierglielo: arrivava sempre in ritardo, io con 5 minuti di anticipo. E vuole sempre avere ragione lei! Il pregio è che è una donna molto riservata, all’inizio della nostra storia si preoccupava per la mia carriera, temeva che potesse danneggiarmi».
Imma: «Per la verità temo sia successo».
Eva: «Poi ha una testa pazzesca, un’intelligenza fuori dal normale. E mi piace come donna, la sua fisicità, le spalle, la faccia, lo sguardo. Mi fa sentire femmina più di tutti gli uomini che ho avuto».
È stata la sua prima donna?
«Sì. Lo stesso non si può dire di me con lei…».
Parlate mai di gender?
Eva: «Ieri a una cena con amiche mi sono scoperta cisgender, binaria e pansessuale. Sarebbe bello fare delle scenette divertenti su Instagram, per spiegare le differenze ai ragazzi».
Imma: «Io ho smesso di chiedermi qual è il mio posto nel mondo. Il mio posto è con le persone intelligenti, con cui posso parlare dal collo in su: guardandole negli occhi, indipendentemente dal genere. Credo che omologare le persone in una casella sia limitante. Il vero passo avanti sarà non doversi più chiedere qual è l’orientamento sessuale degli altri».
Le discriminazioni, però, ci sono ancora.
Imma: «E lo dice a me? Una settimana fa mi è stato fatto notare che ero nel bagno delle donne e non degli uomini. Ma io mica faccio scenate o denuncio alla stampa: lo capisco che con la mia fisicità gli altri possano fraintendere. Nello spogliatoio della palestra sto sempre con gli occhi bassi: non vorrei mai che le mamme fraintendessero una curiosità sulle ragazzine».
Eva: «Questa cosa la fa soffrire, è una ferita aperta».
La politica è un capitolo chiuso?
Imma: «Io adoro la politica! Ho cambiato la storia, con il World Pride a Roma, e so che nessuno me lo riconoscerà, ma va bene. Ma per incidere devi avere un ruolo operativo: sindaco, sottosegretario, ministro. Io sono molto pratica, sono una del fare. Per le mie competenze potrei stare alla Farnesina».
Eva: «Io invece ricordo la vita che faceva da consigliera comunale qui a Roma . Tornava a casa in scooter, scendevo giù, le davo il prosciutto e i crackers, praticamente la imboccavo mentre stava al telefono. Detto questo, sarebbe perfetta, ma se diventasse sindaco o ministro non avrei più la mia Imma».
Chi fa il caffè la mattina?
Eva: «Io».
Ma Imma fa qualcosa?
Eva: «Ma certo! Lei aggiusta tutto. Ed è un’ottima cuoca, ha appena vinto Celebrity MasterChef. Fa degli spaghetti con le vongole favolosi».
Chi ha fatto la proposta di matrimonio?
Imma: «Io».
Eva: «In conferenza stampa all’apertura del Gay Village. Ero in prima fila: “Guarda che ci sono i testimoni!”, dissi».
Oggi l’omosessualità femminile è ancora un tabù?
Imma: «No, se penso alla fluidità dei giovani. Magari lo è ancora per le persone più grandi. Resta il fatto che nella politica Lgbtq+ la parte lesbica è meno presente rispetto quella gay e trans. E in politica dopo Paola Concia non c’è stato più nessuno».
Imma, lei sapeva la verità su Eva e Gabriel Garko?
«Macché. Ha mentito pure a me».
Eva: «Quel segreto lo avrei portato nella tomba. Non era il mio, era di Gabriel».
Prima di Matano, Imma Battaglia: "Anche io e Eva Grimaldi scegliemmo Labico per il grande giorno". Giovanni Gagliardi su La Repubblica l'11 giugno 2022.
Nel 2019 il matrimonio nel cuore dei Castelli Romani scelta anche dal conduttore de 'La vita in diretta' per sposarsi con il compagno. "Un luogo meraviglioso. Ad Alberto e Riccardo auguro di avere la nostra stessa gioia".
Ha tutte le carte in regola per diventare il matrimonio dell'anno, quello tra Alberto Matano e Riccardo Mannino. Il conduttore de La vita in diretta, 49 anni e l'avvocato di Cassazione Riccardo Mannino, 55 anni, sono impegnati in queste ore nelle prove generali della cerimonia che domenica 11 sarà officiata da Mara Venier a Labìco, alle porte di Roma, nel resort dello chef "stellato" Antonello Colonna, nel cuore dei Castelli Romani e immerso nel parco naturale di Labìco: dodici camere con orto-giardino, ristorante, piscina termale e centro benessere. Una location che viene definita senza mezzi termini come "meravigliosa", da chi ha avuto la fortuna di poter pronunciare il suo "sì" nella magnifica cornice della campagna romana, come hanno fatto nel 2019 Imma Battaglia ed Eva Grimaldi.
"La struttura è un luogo meraviglioso, un castello incantato moderno - dice Imma Battaglia al telefono - Un luogo dove ti immergi nella natura e la natura ti riempie perché la struttura di Antonello, pur essendo in cemento è neutra. La bellezza è data dal luogo. Entri in mondo magico dove senti ogni tensione sparire".
E che ruolo svolge Antonello Colonna?
"È un maestro di cerimonia perfetto. Ti coccola in ogni istante e ti racconta cosa è e cosa produce la natura in ogni momento per allietarci la vita fin da quando ti svegli: fai colazione con il primo sale, la ricotta fresca, le uova di gallina bianche, la pizza rossa. E poi le marmellate, i succhi di frutta, la frutta fresca, crostate. Ogni cosa che assaggi è fatta dai contadini del posto. Una cosa meravigliosa, un'esperienza immersiva a 360 gradi".
Com'è stato il vostro matrimonio?
"Quello che è successo tra me ed Eva è stato un miracolo e ce la voglio mettere questa carica cristiana. Siamo arrivate due giorni prima e pioveva senza interruzione. Avevamo 250 persone invitate e volevamo fare una cosa all'aperto nella natura. Quando ha iniziato a piovere abbiamo dovuto improvvisare un piano B con Colonna e con il nostro wedding planner Enzo Miccio. Ma è successo tutto senza nessuna tensione. Labico ti contamina nella gioia, ti lasci coccolare da Antonello e dallo staff, come un bambino nella culla. Era lo specchio del nostro amore".
In cosa consisteva il piano di riserva?
"Stavano allestendo la cerimonia all'interno, ma la sala è piccola, gli invitati erano nostri amici che volevano condividere quel momento e stare in un luogo più piccolo avrebbe impedito a qualcuno di assistere. È stata molto bella la fase in cui aspettavamo il sole. Chiedevamo ad Antonello cosa prevedeva per il meteo e lui rispondeva: "Sentiamo il contadino", e il contadino diceva di avere fede".
E poi?
"Ad un certo punto è uscito il sole. E Miccio chiede: che facciamo? E la risposta di Colonna è stata: 'Il contadino dice di avere fede nella natura'. E quando siamo uscite fuori ci sono stati non uno, ma due arcobaleni così intensi e vicini a noi, così forti che eravamo tutti senza parole. Io ed Eva sapevamo che erano i nostri genitori che non c'erano più. Era una magia che puoi vivere solo a Labìco".
E per il menù come vi siete regolate?
"Anche noi abbiamo dato carta bianca allo chef. Mi ricordo che c'era antipasto di crema di baccalà con patè divino, due primi, il maialino in salsa con senape e fichi. Tutto buonissimo".
E per la torta?
"È stata realizzata dalla pasticceria Andreotti, la torta Imma: pan di Spagna, crema gialla, scaglie di cioccolato e fragoline. Colonna ha chiamato Miranda Andreotti e le ha detto: 'Signora Miranda ho ritrovato i sapori di quando ero bambino: la sua torta era meravigliosa".
Vuole fare gli auguri ad Alberto Matano e Riccardo Mannino?
"Auguro a loro di avere la nostra stessa gioia, perché eravamo tutti molto felici".
Grande Fratello Vip, Eva Grimaldi: «Cominciai come benzinaia, che errore le otto operazioni al seno». L’attrice veronese eliminata al televoto dopo tre settimane rievoca le «umili origini». Il matrimonio lampo e la «marita» Imma, le emozioni in diretta su Canale 5. Laura Tedesco su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2022.
«Il mio esordio? Non sono nata come attrice sexy, ma semplice benzinaia. A Verona la mia famiglia era povera, mio padre allora prese in gestione un distributore con autolavaggio, io ero brava anche se spesso imbrogliavo i clienti». Lunedì sera Eva Grimaldi è stata eliminata dal televoto dopo tre settimane trascorse 24 ore su 24 sotto i riflettori del Grande Fratello Vip: ma prima di lasciare la trasmissione di Canale 5 ha coinvolto tutti rievocando «le mie umili origini a Verona con il vero nome di Milva Perinoni». Tra lacrime e sorrisi, la 61enne di Nogarole Rocca ha regalato in diretta tv minuti di vibrante emozione lasciando tutti, compreso il conduttore Alfonso Signorini, senza parole rivelando «i mille dolori della mia vita» prima che entrasse in scena l’attuale «dolce metà» di Eva, la compagna e attivista Imma Battaglia, sua «marita».
Gli anni Ottanta
Ma dietro «l’immensa felicità che sto vivendo adesso», la star veronese ha confessato «scelte errate, incontri sbagliati, dipendenze pericolose». Pensi a Eva Grimaldi e ti viene automatico associarla a una bellissima donna, pose provocanti, foto seducenti. Ma nel suo passato, oltre alle luci della ribalta, ai riflettori di scena, a lustrini e copertine, c’è stato il dramma nascosto, la solitudine, la depressione. «Ho messo in mostra il mio corpo - ha confidato a milioni di telespettatori - perché negli anni ’80 era più importante apparire che essere. Io mi sento, nonostante ciò, la donna più fortunata di questa terra perché la mia famiglia veronese mi ha insegnato il rispetto che in questa Casa del Grande Fratello ce n’è invece poco».
I sentimenti
La vita le ha riservato «più di una tragedia» e lei stessa, nel corso dell’ultima puntata vissuta da concorrente del GfVip, cogliendo di sorpresa anche Signorini ha deciso di raccontarli e di raccontarsi in una vera e propria confessione-fiume. Dalle «diete a base di sola insalata perché mi davano della grassa e dovevo dimagrire per piacere di più al pubblico», alle «otto operazioni al seno che mi hanno provocato una setticemia, facendomi rischiare la morte per essermi affidata al chirurgo sbagliato». Nonostante fosse «all’apice della sua carriera», la Grimaldi in quel periodo ha vissuto «per diverso tempo, circa un anno, con un solo seno, al posto dell’altro c’era in realtà una protesi». Tutto si è poi risolto, ma dopo la felice parentesi con l’amico-collega Gabriel Garko per la veronese nuovi fantasmi erano in agguato: «Quando ti ritrovi a 50 anni abbandonata dal proprio uomo dalla sera alla mattina non è facile», ha detto alludendo al matrimonio lampo di soli 4 anni con l’ex marito Fabrizio Ambroso. «Quando sei un personaggio famoso non sanno se stanno con te per quel motivo o per un altro. Poi c’era questo figlio che non arrivava, ma anche io ne ho fatta una molto grossa...a Fabrizio avevo mentito sull’età, pochi giorni prima del matrimonio ha scoperto quanti anni avevo realmente». Lui «mi piantò in asso - ha continuato nel suo outing l’attrice di Nogarole Rocca - e io sprofondai nel tunnel dell’alcol». Finché «una sera presi la macchina, andai da Verona a Milano da Andy dei Bluvertigo. Il giorno dopo decisi di lasciare l’Italia e partii per l’Africa dove ho fatto un’esperienza di volontariato memorabile, poi sono tornata a Verona ma il problema è rimasto, ho incontrato altre mie coetanee anche loro lasciate dai mariti, sono arrivata a bere parecchio vino e super alcolici».
La salvezza: Imma
La sua salvezza «è stata incontrare Imma, la prima e unica donna che ho amato, lei mi ha tirato fuori dai vizi, ha dato valore ai miei difetti. Io sono una ex balbuziente e dislessica, ho letto poco nella mia vita: lei mi ha messo in mano i libri, mi legge un articolo. Io con lei mi sento una donna completa e valorizzata. Lei mi solleva la vita in un modo pazzesco». A quel punto è andata in onda una commovente pagina d’amore televisiva, con la comparsa di Imma Battaglia: «Io voglio morire prima di te Eva, perché io non so vivere senza di te, perché la vita non è vita senza di te. Tu per me sei stata la luce». Atto finale, l’appello corale rivolto dall’attivista e dall’attrice al governo Draghi affinché «si faccia la legge sul matrimonio egualitario perché ci vogliamo sposare mille volte, ogni giorno. Vogliamo riviverla quell’esperienza».
Estratto dell'articolo di Grazia Sambruna per mowmag.com il 30 dicembre 2021. L'incredibile vita di Eva Henger è il regalo di Mow […] Dal tragicomico mese di set con Leonardo Di Caprio per il film Gangs of New York (“Da contratto non potevo guardarlo negli occhi, invece entrai nella sua roulotte e…”) a quella volta in cui fu molestata da un importante produttore cinematografico che l'ha inseguita a braghe calate per tutta la stanza. E poi il porno: “È vero, può devastare il cervello”. I molestatori: “Quello che ha toccato il culo alla giornalista andrebbe preso a manganellate”. Orban: "Omofobo e razzista? Le notizie su di lui vengono molto drammatizzate in Europa". Infine il suo defunto marito Riccardo Schicchi: “Nel 2022 potrò portarlo con me in Ungheria”. Signore e signori, leggetela tutta
[…] è vero che ha recitato anche in Gangs of New York (diretto da Martin Scorsese) al fianco di Leonardo Di Caprio?
Sì. Ho fatto una piccola parte in quel film e avevo anche delle scene (poi tagliate in fase di montaggio) con Leonardo Di Caprio. Un’esperienza comunque meravigliosa, sono stata sul set un mese intero e tutti i giorni ho potuto vedere Scorsese insieme a quegli incredibili attori all’opera. Indimenticabile.
E come ha reagito quando ha visto Di Caprio? C’è stato qualche sguardo languido tra voi? O magari qualcosa di più…
No, no. Ma che sguardi languidi! (ride, nda) Anche se devo dire che nel corso del mese in cui sono stata su quel set, cominciavo le giornate ogni giorno nella roulotte di Di Caprio…
Eh, allora…
Ma no! È solo perché avevamo lo stesso parrucchiere quindi sono finita nello stesso camper di Di Caprio, ogni mattina per un mese. Però, a proposito degli sguardi languidi di cui mi chiedevi, mi è venuto subito da ridere perché pensa che sul contratto che avevo firmato per partecipare al film c’era espressamente scritto di non guardare mai Di Caprio negli occhi. Come anche di non chiedergli un autografo (ma sul lavoro non sarebbe comunque un atteggiamento corretto) e di non rivolgergli assolutamente la parola. Io sono sempre stata molto disciplinata sul lavoro ma devo dire che quella volta per me non fu facile…
Immagino…
Ma no, non sai che situazione assurda! Praticamente nella roulette del trucco e parrucco che condividevamo ogni mattina, io stavo seduta di schiena a lui (e viceversa). Insomma, era normale che avendo davanti uno specchio, mi ci cadesse l’occhio per dargli uno sguardo, anche solo per curiosità: era un attore così famoso! Sai che ogni volta che provavo a dare una sbirciatina attraverso lo specchio, lui alzava gli occhi dal copione e mi guardava male? Ero imbarazzatissima, da lì ho passato un mese a guardare per terra.
Di Caprio, comunque, non mi ha mai salutata né sul camper né quando ci incrociavamo sul set. Pensavo ce l’avesse con me perché avevo avuto l’ardire di guardarlo negli occhi. Invece, alla festa di produzione del film entrò con Scorsese, tutto sorridente. Venne dritto verso di me e mi disse: “Ciao Eva, mi ricordo di te!”.
E lei come ha reagito?
Ho pensato che fosse una controfigura.
E poi?
Poi basta, troppo imbarazzo. Cameron Diaz, invece, era totalmente diversa da Di Caprio. Lei potevi salutarla in qualunque momento e ti sorrideva sempre. […]
Ma non solo cinema, lei è anche entrata a far parte del cast di alcuni episodi della serie cult L’Ispettore Derrick. Che ricordi ha di questa esperienza?
Sono stata in due episodi de L’Ispettore Derrick. La prima volta ero praticamente una bambina, avevo appena 18 anni. Interpretavo, insieme a un’altra ragazza, una modella che si faceva fare uno shooting da una fotografa che, per quel che ho capito, visto che non parlavo tedesco, aveva ammazzato qualcuno, o che ne so.
[…] Nelle ultime settimane si è parlato molto della giornalista molestata in diretta tv da un tifoso della Fiorentina che le ha palpato il lato B all’uscita dello stadio. Cosa pensa di questa vicenda?
Beh, penso che quello era un cretino. In più, secondo me, probabilmente aveva in corpo almeno due o tre birre. Spero che la moglie l’abbia rincorso dentro casa con un bastone per tre giorni, come minimo. Se fossi stata io, col manganello l’avrei fatto correre.
Ma l’avrebbe rincorso col manganello se fosse stata la moglie o la giornalista molestata?
Entrambe. Anzi, così doveva andare: prima avrebbe dovuto prenderlo a manganellate la giornalista, e poi, una volta a casa, si sarebbe dovuto ritrovare la moglie a dargli il resto.
Sempre col manganello?
Sì, sempre col manganello. Nei panni della moglie l’avrei fatto in quanto donna offesa e per la vergogna di ritrovarmi un marito così cretino. In quelli della giornalista molestata, invece, per fargli capire che la simpatia è proprio un’altra cosa. Perché sono convinta che lui l’abbia fatto sicuro di risultare simpatico. Invece è solo un imbecille.
Ha reagito anche quando (e se) si è ritrovata in situazioni del genere nel corso della sua carriera? Intendiamo molestie o proposte indecenti sul lavoro…
A me è successo solo una volta, è stata una situazione molto imbarazzante. Purtroppo non avevo dietro un manganello (ride, nda), però mi sono difesa. In altre occasioni ci sono stati dei corteggiamenti sicuramente fuori luogo, ma ho saputo gestirli con eleganza e naturalmente senza mai pensare nemmeno per un secondo di cedere.
Mi racconta cosa è successo in quella “situazione imbarazzante”?
Allora, non voglio fare nomi. Però mi è capitato questo colloquio di lavoro con un produttore cinematografico importante, non legato al mondo dell’hard. Un matto che all’improvviso, durante la conversazione, se l’è tirato fuori davanti a me. Purtroppo per lui, io ho la lingua lunga, quindi per prima cosa l’ho mandato a fanculo. Il produttore mi ha rincorso a braghe ancora calate verso la porta e a quel punto gli ho urlato: “Ma che cazzo stai facendo?”. Poi gliene ho dette di tutti i colori così forte che non sentivo cosa mi stesse dicendo lui (e non ne ero neppure interessata). Comunque borbottava qualcosa sul fatto che io fossi pazza. Io, eh?
Che anno era?
Il 1998. Un’esperienza indimenticabile (ride, nda). Però sono contenta di averla gestita da sola senza troppi piagnistei. È stata semplicemente una situazione assurda e quel matto ha avuto quel che si meritava già lì sul momento. […]
Tornando al tema dei contenuti hard, negli ultimi giorni la famosa cantante Billie Eilish ha dichiarato: “Il porno mi ha distrutto il cervello” sostenendo che la visione di film hard possa fare questo effetto. Ne è nato subito un grande dibattito sul web tra sostenitori e contrari a questa affermazione della popstar. Lei cosa ne pensa?
Considerato che oggi lei avrà giusto 20 anni, deve esserle capitato di vedere porno da molto giovane. Questi film non sono adatti al periodo dell’infanzia e per me neanche a quello dell’adolescenza perché quando sei troppo piccolo, il tuo cervello non può comprendere la sessualità.
Quelle immagini risultano strane e non ho dubbi sul fatto che possano lasciare messaggi sbagliati in grado di turbare la sensibilità dei più giovani. Per gli adulti, invece, il discorso è ovviamente diverso: per loro può essere una visione normale quando non piacevole. In linea di massima, vista l’età di Billie Eilish, non posso che concordare con la sua affermazione.
Cambiando argomento, passiamo a Riccardo Schicchi: nel 2022 saranno passati 10 anni dalla sua scomparsa…
Posso dire che a me non sembrano essere passati 10 anni perché lo sento sempre vicino a me. Mi manca molto. […] Però sono felice perché allo scadere dei dieci anni, scade l’affitto dell’urna in Italia quindi finalmente potrò portarlo con me qui in Ungheria e avrò la possibilità di andare a fargli visita più spesso. […]
· Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.
Marco Vigarani per corriere.it l’11 Dicembre 2022.
Oggi compie 64 anni Eva Robin’s, volto noto dello spettacolo italiano sin dagli Anni ‘80 e ‘90. Attrice di cinema e di teatro, personaggio televisivo e cantante, da oltre quattro decenni il suo nome è sinonimo di trasgressione, ironia e libertà. Non ha mai voluto nascondere agli occhi del mondo anche le sue verità più intime: dalla transizione parziale alle molestie subite nell’infanzia, dalle frequentazioni vip ai rifiuti eccellenti di alcuni programmi televisivi iconici. Ripercorriamo la vita di un’autentica icona queer.
Nata a Bologna il 10 dicembre 1958 come Roberto Coatti, durante l’infanzia, subisce molestie sessuali e all’età di tredici anni grazie ad un amico farmacista inizia ad assumere ormoni per interrompere lo sviluppo, desiderando restare adolescente per sempre. Arresta così lo sviluppo di caratteri secondari maschili sviluppando invece seno e forme femminili ma decide negli anni successivi di evitare la chirurgia per completare la transizione. Il suo nome d’arte deriva dal personaggio di Eva Kant, compagna di Diabolik nei fumetti, e dallo scrittore Harold Robbins. Negli anni è nota anche come Eva Robins o Eva Robbins.
I suoi esordi nel mondo dello spettacolo risalgono alla fine degli Anni 70 come corista di Amanda Lear e proprio la musica è la sua prima passione che la porta nel 1978 ad incidere il singolo “Disco Panther” con lo pseudonimo Cassandra. Dall’anno successivo Eva fa il suo esordio nel cinema spaziando fra vari generi dal thriller alla commedia fino all’erotismo. Lavora anche con Dario Argento in “Tenebre” e con Alessandro Benvenuti in “Belle al bar” che la porta alla candidatura al Nastro d’argento come migliore attrice protagonista. Negli Anni 90 arriva però anche il suo debutto sul palcoscenico televisivo.
Nel 1991 Gianni Boncompagni la sceglie come conduttrice per il preserale di Italia 1 intitolato “Primadonna”, una scelta coraggiosa per la morale dell’epoca. Spente le polemiche con la sua professionalità, Eva però dopo due mesi sceglie di non proseguire. «Avevano costruito un mostro mediatico armato di un pisello ultra nucleare - ha detto a Rolling Stones - così, quando mi sono presentata un po’ borghese, alla maniera familiare delle 19:30, è stata una delusione pazzesca». Nella seconda metà del decennio decide di dedicarsi al teatro che diventa un punto fermo della sua carriera grazie alla proficua collaborazione con il regista Andrea Adriatico.
Riservata in merito ai suoi amori, non ha negato alcune frequentazioni con importanti personaggi pubblici a partire da Paolo Villaggio. «Abbiamo passato solo una notte insieme - ha detto Robin’s -. Mi seguiva con la moglie. Mi davano la caccia in Sardegna». Sembra invece rimandato a data da destinarsi il matrimonio che aveva annunciato come imminente pochi mesi fa: nel suo cuore ci sarebbe da oltre vent’anni una donna molto nota di Bologna, di famiglia borghese. Le nozze sembrano essere saltate proprio per il desiderio di proteggere la compagna dalla vetrina mediatica a cui sarebbe stata esposta.
Eva, che è anche pittrice, è da anni impegnatissima a teatro anche con ruoli di spessore in grandi classici di Shakespeare, Moliere, Cechov e Beckett tanto da avere recentemente rinunciato senza troppi rimpianti alla partecipazione ai più famosi reality show della televisione italiana che l’avevano contattata a partire da “L’isola dei famosi” per arrivare al “GF Vip” fino a “Ballando con le stelle”. Ha spiegato in un’intervista a Rolling Stones: “Se tu vai in questi contenitori, devi mettere in conto di essere tra le sabbie mobili e prima o poi affondi”.
Fabio Concato: «Quando parlo ho la voce di Paperino. Che liti con Anna Oxa». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022.
Fabio Concato, pseudonimo di Fabio Bruno Ernani Piccaluga, milanese, classe 1953. Il padre era Luigi Piccaluga, chitarrista e autore jazz più noto come Gigi Concato, a sua volta figlio dei cantanti lirici Nino Piccaluga e Augusta Concato. Nel 1982 arriva il successo con «Domenica Bestiale» in gara al Festivalbar. Non vince ma diventa un tormentone estivo e poi colonna sonora del film di Marco Risi «Vado a vivere da solo» con Jerry Calà.
Oggi attraversa una seconda giovinezza artistica? «Non saprei, di certo il fatto che Zucchero abbia inserito nel suo ultimo disco il mio brano “Fiore di maggio” mi ha fatto un grande piacere: è stata una bella sorpresa anche perché io non ho rapporti stretti con Fornaciari. Da quanto mi risulta l’ha scelto dopo un’ampia ricerca».
Lei ammette di essere un artista anomalo. In cosa consiste l’anomalia? «Beh, io sono sempre stato un anarchico. Nel senso che non ho mai avuto un produttore, né la corte dei miracoli di cui molti miei colleghi si circondano. Ho sempre fatto e deciso da solo. Una autonomia selvaggia alla quale non potrei mai rinunciare».
Ha un passato di militanza politica? «Sì. Ho lavorato per alcuni anni, dal ’67 al ’72 con il Movimento studentesco. Ma non amavo le barricate. Lavoravo di ciclostile, non mi perdevo assemblee e manifestazioni. E ho dedicato molto tempo alle letture politiche. La mia mamma era comunista, militava nell’Udi (Unione donne italiane) e mi ha trasmesso la passione per la politica. In quel periodo ho imparato molto sul mondo del lavoro. E mi è rimasta l’attenzione al sociale. Come dimostra la canzone del 1988 dedicata al Telefono azzurro 051/222525 (era il numero di telefono per i bambini maltrattati ndr). Finì in classifica e i proventi andarono alla meritoria associazione».
Il segreto della sua longevità artistica? «Negli anni ero diventato stortignaccolo. Ora la longevità artistica parte dallo stato fisico e io camminavo ormai come un vecchietto. Una postura indecente. Mi consulto con uno specialista, che mi dice: “Lei deve smettere di andare a cavallo”. E io: “Mai salito in groppa a un cavallo in vita mia”. Lui insiste: “Eppure alcune vertebre risultano schiacciate da un antico trauma”. Dopo qualche giorno mi ricordo di un incidente vent’anni fa. Ero sul palco più alto d’Italia, quello del teatro di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna. A un certo punto... una falcata di troppo e arrivo alla fine del palco. Insomma tento di camminare sul vuoto. Precipito di piatto. Ma mi rialzo subito. Però adesso, a distanza di vent’anni, il mio corpo presenta il conto. A questo punto mi rivolgo a medici esperti e inizio un programma di esercizi. Facili e gratuiti».
Come è andata? «Dopo qualche mese ho guadagnato davvero 10 centimetri in altezza. Niente tappeti, nessun attrezzo particolare. Però senza sgarrare sulla frequenza e la durata. Risultato: addominali mai visti prima. Un figo. La postura è quella che ti rende più basso o più alto».
A parte gli esercizi qual è la ricetta della sua longevità artistica? «Non ho mai preso troppo sul serio il mio lavoro. Pubblicavo e pubblico quando sento di avere qualcosa da dire. Godo tuttora di grande credibilità, anche immeritata. Ma questa vita da cane sciolto si è rivelata vincente anche senza inutili presenzialismi televisivi. Non ho “la scimmia” del creare a tutti i costi».
Il suo privato e la sua creatività sembrano strettamente connessi. Come è nato questo «Fiore di maggio»? «Concepito due settimane prima che nascesse Carlotta che adesso ha 39 anni (è nata nel 1983). Quelli che fanno il nostro mestiere, quando c’è un evento eccezionale come la nascita di una bambina... beh scrivono. La mia storia personale è ambientata in una località che si chiama Viserba, vicina a Rimini, dove mia nonna costruì la prima casa “forestiera” negli anni Venti. Io e la mia famiglia ci andavamo da metà giugno alla ripresa della scuola. Appena nata Carlotta è stata portata a Viserba, naturalmente. Era fine di giugno. Affittammo una casina per un paio di mesi. È una canzone che a me non sembrava così “potente”. E invece cominciò a “spaccare” (come dicono i giovani di oggi) subito».
Lei è un’icona della musica leggera italiana, cantautore atipico, dalla timbrica speciale e sempre defilato dallo star system. «Sì. E non so il perché. È il mio modo di essere e di gestire il mio lavoro».
Puntando sulla faccia da volpino e la timbrica celestiale... «Un po’ volpino sono sempre stato. Ora semmai volpone, e adesso mi fa anche piacere essere riconosciuto. Infatti quel che conta davvero è la riconoscibilità della voce. Quanto a quella celestiale mah, io comunque la preferisco quando canto. Sono le ore più belle e gratificanti della mia attività. Cantare è un privilegio vero. È il tempo in cui sono me stesso, senza maschere, senza filtri. Dopo 45 anni è una grande fortuna divertirsi come succede a me. Quando parlo la mia voce assomiglia un po’ a quella di Paperino. Quando canto no».
Ma c’è anche la composizione, la scrittura... «Scrivo un pezzo ogni dieci anni. Non sarà troppo? Però non va dimenticato che io ho scritto 160 canzoni . “Fiore di maggio” è una buona canzone che ha resistito al tempo. Però ci sono canzoni altrettanto importanti...».
Sottostimate? «Un intero album come “Ballando con Chet Baker” è stato ignorato. Ma è successo anche ad altri artisti. Sa da cosa nasce la frustrazione? Quando la gente ti chiede “quando fai un disco nuovo?” e magari è uscito due mesi prima. Un disco può piacere o non piacere. Ma qualcuno te lo deve far ascoltare. Scrivere una canzone non è esattamente come cucinare, dove basta seguire una ricetta».
Quanto c’è di lombardo nel suo repertorio? «Nei miei testi c’è una milanesità non palesata. Forse è saltata fuori con “L’umarell” che ho scritto durante la pandemia. Non parlo benissimo il vernacolo, ma “a mi me pias el milanes”, come tutti i dialetti».
Chi è l’umarell? «In dialetto bolognese “pensionato che si aggira, per lo più con le mani dietro la schiena, presso i cantieri di lavoro, controllando, facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che vi si svolgono” (così recita lo Zingarelli). Insomma una via di mezzo fra il guardone di manufatti in lavorazione e il gufo di cantiere. Una canzone poetica, commovente, su un tema raramente toccato nella canzone d’autore. Premiato con l’Ambrogino d’oro. Invecchiando, tutti diventiamo un po’ umarell. È andata così: un mio amico mi aveva regalato un umarell di plastica, alto dieci centimetri, che ho piazzato sulla tastiera. Un giorno, durante il lockdown, ho avuto la sensazione che lui mi guardasse e mi dicesse “facciamo qualcosa su quello che sta succedendo? Sei musicista? E allora scrivi una canzone”».
Come ha passato il periodo Covid? «Leggendo più del solito: è sempre la più bella compagnia, assieme alla musica. Dalla finestra della mia casa scoprivo una Milano che non conoscevo. Il suono degli uccellini che beccavano sul selciato o sui binari del tram. Una sensazione nuova per me».
E Chet Baker? Come nasce la passione per questo musicista al quale ha dedicato un disco? «Rappresenta un pezzo della mia vita insieme a molti altri. Ho avuto la fortuna di vedere un suo concerto al Capolinea di Milano. Nonostante avesse meno denti del solito (vendette di spacciatori) suonò come un angelo e cantò anche meglio».
Ha fatto un tour con Anna Oxa nel 2004. Come andò? «Nonostante qualche incomprensione è stata una bella avventura. Purtroppo l’armonia che regnava in palcoscenico non corrispondeva al clima che si respirava dietro le quinte».
Dal suo osservatorio privilegiato come ha visto cambiare il mondo? «Il mondo mi sembra un manicomio. La musica sta cambiando. Mi auguro che questa fase porti a una musica più vera, più cantabile. Non critico chi fa rap... Mi sembra però che manchi la musica e non è cosa di poco conto. Sono certo che questa fase, in cui la musica è un po’ sacrificata, finirà e porterà a tempi musicalmente più felici. Qualche segno c’è già. Gli ultimi a far musica sono stati Niccolò Fabi e Samuele Bersani. Poi basta. È partita una gara fra chi “reppa” o “rappa”. Non riesco a leggerli con l’orecchio. Ma c’è una cantante di nome Madame fenomenale per modo di cantare, ha una timbrica stupenda e riconoscibile. Madame è ricercata anche negli arrangiamenti. Spero in un ritorno della melodia che non deve essere per forza banale».
Concato nonno? «Sì, da due anni. Un’esperienza stupenda e parecchio diversa dalla paternità. Si chiama Nina, ma io la chiamo Petardo: è incontenibile e scoppiettante e le ho dedicato una canzone, strano eh? Si intitola “L’aggeggino”».
C’è qualcosa che la mette in imbarazzo? «La mia incapacità di ricordare facce e nomi. Gente che ho frequentato e addirittura ha suonato con me... niente, il vuoto e un vago senso di colpa».
Come nacque «Domenica bestiale»? «Nel periodo in cui ero follemente innamorato di mia moglie e si andava a passare la domenica al lago».
E Rosalina? «Rosalina era una compagna di giochi nella spiaggia di Viserba. Pesava 90 chili e aveva una bellezza speciale. Nonostante la ciccia era simpatica, gioviale intelligente. Si illudeva di dimagrire con la bici. Adesso però è magra».
I momenti più belli della sua vita? «La nascita della prima figlia».
Fabio Concato in concerto al Lirico: «40 anni della mia Domenica bestiale». Raffaella Oliva su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2022.
Sabato Fabio Concato sarà in concerto al Teatro Lirico Giorgio Gaber. In scaletta anche «Domenica bestiale», la canzone che gli regalò il successo, che quest’anno compie 40 anni.
Fabio Concato, classe 1953, il cantautore milanese ripercorrerà la sua carriera sulla scia della raccolta del 2021 «Musico Ambulante»
«Domenica bestiale», «Fiore di maggio», «Guido piano». Sono alcuni dei brani inclusi nella scaletta del «Musico Ambulante Tour» di Fabio Concato, che fa tappa domani al Lirico. Premiato con l’Ambrogino d’Oro nel 2020 per «L’umarell», omaggio agli anziani che amano seguire i lavori nei cantieri cittadini, il cantautore è molto legato alla Milano dov’è nato e cresciuto come uomo e artista, stimolato dall’atmosfera del Derby d’inizio anni 70, dove esordì con i Mormoranti, assieme a Bruno Caceffa e Giorgio Porcaro.
Che ricordi ha di quell’epoca?
«Con i Mormoranti proponevamo un cabaret vicino al teatro-canzone: io con la voce storpiata facevo l’industriale ignorante, grezzo; raccontavamo con ironia, ma senza volgarità, una Milano dove l’immigrazione dal Sud Italia aveva portato tantissimi lavoratori nei cui confronti serpeggiava, però, un razzismo fatto di luoghi comuni. Ci esibivamo anche al Refettorio, un teatrino in miniatura con accanto un ristorante in via San Maurilio. La regia dello spettacolo era di Gianfranco Funari, per me un secondo papà: nel ’77 andai a vivere da solo in un monolocale polveroso in via Lomazzo, ma benché avessi già pubblicato un disco faticavo a pagarmi l’affitto e lui mi aiutò, anche facendomi suonare durante i suoi recital».
Il Derby fu la casa di Cochi e Renato, Gaber, Faletti, tra gli altri. E di Jannacci, cui è dedicato il suo recente singolo «Ventiventi», scritto da Tiziano Jannacci, cugino di Enzo, e Sal Di Martino.
«Quel brano, con alla tromba Fabrizio Bosso, farà parte del docufilm “L’immEnzo Jannacci”, di prossima uscita. Tra gli intervistati ci sarò anch’io. Perché, oltre a essere un estimatore di Enzo, ricordo com’era non solo ai tempi del Derby, quando tutti lo chiamavano Schizzo per la sua imprevedibilità, ma anche prima. Enzo era fan e amico di mio padre Gigi, rappresentante di occhiali, ma jazzista notevole, e quando ero ancora un bambino venne a trovarlo a Viserba (Rimini), dove trascorrevamo le vacanze e dove volle provare un barchino che usavamo io e mio fratello: era con il suo batterista di allora, partirono baldanzosi, tornarono dopo pochi minuti con l’albero spaccato in due (ride, ndr)».
Poi arrivarono gli anni della Milano da bere, quelli delle gite al lago di Como con sua moglie che le ispirarono «Domenica bestiale».
«Non che ci fosse molto da bere, uscivamo dalla paura degli anni di piombo. Però sì, lì è cambiato il mondo, il modo di produrre, di consumare, di pensare, e credo che la tv commerciale abbia fatto dei bei danni, il livello dell’offerta culturale si è abbassato. È aumentato il benessere, ma un prezzo c’è stato, penso anche allo smog, che già allora molti di noi denunciavano come fa oggi Greta Thunberg: non è paradossale? Ora dalla mia casa in zona Ariosto vedo le torri di City Life; ero scettico sui grattacieli, ma adesso il moderno che si mescola con l’antico mi piace. E mi affascina ancora il grigiore lombardo. Certo, alcune cose mi mancano: le latterie, le osterie, le botteghe degli artigiani, certi locali che non ci sono più. Come il Capolinea, dove ho visto suonare Chet Baker e dietro al quale si trovava il Cap Studio: lì ho registrato i miei primi tre dischi».
Quando e dove
Sabato 19 marzo Fabio Concato sarà in concerto al Teatro Lirico Giorgio Gaber (via Larga 16, ore 21, biglietti a partire da 37 euro). Con l’artista sul palco, i Musici: Ornella D’Urbano (piano, tastiere), Gabriele Palazzi Rossi (batteria), Stefano Casali (basso), Larry Tomassini (chitarre), cui si aggiungerà Giovanni Falzone alla tromba
Fabio Rovazzi, youtuber, attore e conduttore. Fidanzato con l’influencer Karen Kokeshi. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2022.
Giovedì su Rai2 il film «Il vegetale» diretto da Gennaro Nunziante (regista dei film di Checco Zalone). A Sanremo ha fatto coppia con Orietta Berti: «Una vera rinascita, dopo un periodo buio»
Rovazzi attore (con Zingaretti)
Giovedi 9 marzo su Rai2, va in onda il film Il vegetale del 2018. Quando uscì sul grande schermo, il protagonista Fabio Rovazzi, al suo debutto come attore, commentò con la consueta ironia: «Dopo aver rovinato la discografia italiana mi sembra giusto rovinare anche il cinema». Il film, scritto e diretto da Gennaro Nunziante (regista dei film di Checco Zalone), vede il giovane Fabio (Rovazzi) alle prese con un padre ingombrante e una sorellina capricciosa e viziata che lo considerano un buono a nulla, un “vegetale” appunto. Lo sfortunato neolaureato in cerca di un impiego reagisce al disprezzo della sua famiglia e de datori di lavoro, quando un evento inatteso gli offre una preziosa occasione. Fra situazioni comiche e trovate paradossali, il protagonista dovrà reinventare la sua vita. Accanto all’esordiente Rovazzi, nel cast troviamo Luca Zingaretti. Una delle critiche più convincenti, su Comingsoon.it, disse: «Il vegetale non sarà rivoluzionario, né un capolavoro, ma gentile lo è. Gentile, onesto, garbato, e assai meno ingenuo di quanto non voglia far sembrare. Nelle mani di Gennaro Nunziante, Fabio Rovazzi si tramuta in un opposto zaloniano, in un personaggio spaesato e resiliente come quelli di certe comiche del muto, che a forza di sbagli e cadute riescono nel loro intento, sempre col sorriso sulle labbra. Tutt’altro che cretino, come cretino non è per niente un film che rinnega luoghi comuni e narrazioni stantìe ma le utilizza per prenderle in giro».
«Andiamo a comandare»
Fabio Rovazzi è nato il 18 Gennaio 1994 a Milano ed è cresciuto nel quartiere di Lambrate. Il padre medico è mancato nel 2010, mamma Beatrice - a cui Fabio è legatissimo - è una stimata biologa. Nella sua adolescenza il cantante si fa conoscere su YouTube e Facebook e la sua comicità attira subito migliaia di ragazzi. Abbandona il liceo artistico per dedicarsi alla sua passione. E non sbaglia perchè nel 2016 il suo tormentone «Andiamo a comandare», ottenendo il primo disco d’oro in Italia esclusivamente con lo streaming. In seguito è stato certificato cinque volte disco di platino dalla FIMI. Nello stesso anno è apparso nel videoclip del brano «Vorrei ma non posto» di J-Ax e Fedez e in «Che ne sanno i 2000» di Gabry Ponte. Dall’11 settembre 2016 è entrato a far parte del cast degli ospiti di «Quelli che il calcio» di Rai 2.
Quel gesto amato da milioni di ragazzi
A dicembre del 2016 pubblica il suo secondo singolo, «Tutto molto interessante» con relativo video musicale, nel quale il cantante fa un gesto - detto il dab - che presto viene emulato da migliaia di ragazzini.
In coppia con Morandi
Il 19 maggio 2017 è stata la volta del terzo singolo «Volare», con Gianni Morandi che intuisce subito la forza del giovane Fabio. Il brano infatti funziona benissimo: 130 milioni di visualizzazioni su Youtube. «Volare» domina le classifiche musicali italiane per settimane. Un anno dopo, Morandi lavora di nuovo con Rovazzi quando esce il nuovo singolo «Faccio quello che voglio» che vede la partecipazione vocale di Al Bano, Emma Marrone e Nek, mentre il relativo videoclip ha visto la partecipazione di vari personaggi dello spettacolo: per l’appunto Gianni Morandi, e poi Carlo Cracco, Eros Ramazzotti, Fabio Volo, Rita Pavone, Massimo Boldi, Flavio Briatore, Roberto Pedicini e Diletta Leotta. L’anno dopo ancora, Morandi in radio manda un simpatico avvertimento al collega più giovane: «A quando la prossima hit insieme?». Morandi stuzzica Rovazzi, andando dritto al sodo: «Hai preparato il pezzo per questa estate che dobbiamo fare assieme? Perché qua, se non rifai una cosa con me, sei morto!».
«Sanremo giovani» con Pippo Baudo
Dopo la strana coppia con Morandi, ecco «la strana coppia 2», Rovazzi-Baudo. Il 20 e il 21 dicembre 2018, Fabio conduce «Sanremo Giovani» insieme a Pippo. Il veterano e il novellino, la tradizione e la modernità. Rovazzi appare subito come una spalla equilibrata per Baudo, la giusta controparte per bilanciare la maestria di Pippo che, a più di cinquant’anni di carriera, dimostra ancora di saper tenere il palco in maniera egregia. Pippo Baudo, che di Festival ne ha condotti 13, prima di fare coppia con Rovazzi, dichiarò: «Non conoscevo personalmente Rovazzi, anche se i miei nipoti me ne hanno parlato molto, ma ci conosceremo bene direttamente sul palco». E Rovazzi replicò: «So che il suo carisma conquista il 99 per cento del palco, ma sono sicuro che insieme formeremo una bella coppia».
La ex, Karina Bezhenar
Per anni il cantante ha avuto una storica fidanzata, la modella ucraina Karina Bezhenar, conosciuta grazie all’ex amico e collega Fedez. Ma nel 2019 si dicono addio e lo annunciano tramite un post su Instagram. Allora si disse che tra il cantante e Karina fosse finita anche a causa dei nuovi impegni professionali di lei: la giovane, infatti, oltre a sfilare e a fare qualche comparsata sul set di film e fiction, cominciò a fare la stagista presso l’ufficio legislativo di Forza Italia a Palazzo Madama. Oggi sono amici.
La fidanzata influencer, Karen Kokeshi
La sua attuale fidanzata è Karen Rebecca Casiraghi in arte Kokeshi. I due si sono conosciuti quando entrambi erano ancora fidanzati, ad un’anteprima cinematografica. Una volta liberi entrambi, si sono innamorati e legati. Da lì non si sono più separati. Karen è nata a Verona nel 1994 ed è una famosa youtuber e influencer. Ora i look di Karen sono spesso imitati dalle più giovani, con capelli colorati con tonalità del blu e del verde, e con i numerosi tatuaggi che ha su tutto il corpo. Lei ha 500.000 iscritti su YouTube e 600.000 follower su Instagram. Karen Kokeshi e Fabio Rovazzi, fra l’altro, hanno fatto parte per un periodo della Newtopia; l’agenzia fondata da Fedez e J-Ax. La coppia ne è uscita in seguito all’improvvisa interruzione dei rapporti fra il marito di Chiara Ferragni e Fabio Rovazzi . Quanto all’amore tra Fabio e Karen, il cantante ha dichiarato: «Ricordo che quella volta (all’anteprima cinematografica, ndr) abbiamo parlato parecchio, ma entrambi eravamo sentimentalmente impegnati. Solo quando siamo stati liberi, e dopo che lei mi aveva scritto su Internet, l’ho invitata a bere qualcosa. Abbiamo chiacchierato per due ore, ci siamo scambiati consigli di lavoro e ci siamo salutati. Stiamo bene e siamo così uniti che a volte penso ci piacerebbe fonderci, essere davvero una cosa sola. Senza Karen mi sento perso».
Con Orietta Berti a Sanremo, sulla nave, dopo il periodo buio
«Tornare a vivere». Con queste parole Fabio Rovazzi ha raccontato la sua esperienza al Festival di Sanremo 2021, al fianco di Orietta Berti, con la quale ha condiviso il palco e i collegamenti dalla nave Costa Toscana. «Passare una settimana con la donna più dolce del pianeta in mezzo al mare su una nave fantastica. Duettare con lei. Ritrovarmi all’Ariston per la seconda volta e sentire lo stomaco che implode - ha scritto su Instagram -. Abbracciare Gianni e festeggiare insieme la sua incredibile rivincita. Condividere momenti d’ansia e di gioia col mio team che mi supporta e mi sopporta da sempre. Leggere tutti i vostri messaggi con gli occhi lucidi. Sentire mia mamma felice. Tornare a vivere». Una vera rinascita per Fabio, 28 anni, che usciva da un periodo davvero buio. Durante la prima ondata del coronavirus, Rovazzi, aveva perso il nonno a cui era legatissimo, per il Covid. Nell’estate scorsa aveva spiegato in un lungo post che si era astenuto dall’appuntamento con i tormentoni estivi perché non si trovava nello stato d’animo giusto. «Il periodo della quarantena è stato un vero incubo personale: mi ha inghiottito nel buio più totale e mi ha sputato fuori cambiandomi». Poi la ripresa verso il festival che stava per interrompersi quando è mancata anche la nonna. «Ma questo impegno al festival mi ha aiutato a non buttarmi giù. E sono contento di esserci stato, perché è stata un’esperienza bellissima».
Gf vip, Fabio Testi in disgrazia: "Come campo oggi", appello disperato. Libero Quotidiano l'01 ottobre 2022
Fabio Testi, all'età di 81 anni e dopo una lunga carriera come attore nel cinema italiano, è costretto a campare con una pensione di 1.100 euro al mese. "Ormai si parla di me solo per i flirt, ma la verità è che ho girato più di cento film". In una intervista rilasciata a La Nuova Sardegna, Testi si è confessato e ha detto che tornerebbe subito al Grande Fratello vip.
"Certamente, stare a contatto con le persone h24 è bellissimo", ha raccontato l'attore. "Delle telecamere ci si dimentica subito e viene fuori la realtà e dunque chi è la persona. Io sono contento di mostrarmi come sono. Ho fatto cento e passa film, reality, ma ultimamente si parla di me solo per qualche flirt con donne famose (Ursula Andress, Charlotte Rampling, Anita Ekberg, Brooke Shields, Edwige Fenech, ndr). È normale che un attore abbia avuto storie con attrici, ma sinceramente essere ricordato, alla mia veneranda età, per i miei trascorsi da playboy mi sembra ridicolo". E a VeroTv, l'ex concorrente del Gf vip ha lanciato un appello ad Alfonso Signorini: "Sarei pronto a partecipare nuovamente. È stata un’esperienza divertente".
Detto questo Testi sa bene di essere stato comunque un "privilegiato: "Devo dire che sono stato fortunato, perché ho vissuto il momento più bello del cinema italiano. Dagli anni Settanta ai Novanta. Mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto. Sono felicissimo di avere partecipato a quella che è una grande industria del nostro Paese".
Fabio Testi: «La mia ultima fidanzata mi ha lasciato per un ragazzino. Ferito dalle bugie su Fenech». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera l'11 Agosto 2022.
Intervista all’attore 81enne: «Rifiutai di condurre “Domenica In”. Al “Grande Fratello” sono andato solo per i soldi». La prima volta? «Avevo 16 anni e fu con una svedese»
Fabio, quanti amori ha avuto?
«E chi li ha mai contati?»
Allora quante lettere d’amore ha ricevuto nella sua vita?
«Quelle si contano: in cantina ci sono cinque scatoloni pieni».
E le conserva ancora, a 81 anni?
«Certo, sono parte della mia storia. E oggi che vivo da solo, nella mia tenuta di Affi (provincia di Verona, ndr), con una singola camera da letto, ogni tanto mi ricordo dei miei amori, ma anche delle mie amicizie».
Be’, la bellezza può essere un problema.
«Avevo un trucco: mi ero inventato una fidanzata fantasma che poteva arrivare da un momento all’altro e la tiravo fuori ogni volta che non volevo essere assediato».
Dopo una vita tra Roma e i vari set in giro per il mondo, è tornato nel suo Veneto?
«E meno male, perché la natura veneta, dai solidi principi morali, ha fatto sì che la mia vita non deragliasse, con tutti gli stravizi che ho visto nel mondo del cinema e della televisione. Ma lo sa che il povero Helmut Berger veniva a piangere sulla mia spalla, dicendo che invidiava la mia educazione tradizionale?».
Che cosa facevano i suoi genitori?
«Mamma ha allevato me e mia sorella lavorando in casa. Papà si procurava carichi di munizioni che venivano raccolte dopo la guerra, per poi smontarle pazientemente e disinnescarle. Un lavoro pericolosissimo, del quale io e mia sorella Licia all’epoca ignoravamo i reali rischi. Ma papà si guardò bene dal rivelarceli, in casa si cercava tranquillità, solidità».
Che cosa faceva negli anni Cinquanta un adolescente di Peschiera del Garda?
«Correva dietro alle svedesi e alle tedesche che arrivavano per la villeggiatura».
Un classico.
«La mia prima volta fu a sedici anni, con una bellissima svedese, alla quale portai in dono una rosa del mio giardino».
«Non vado a un appuntamento senza un fiore», cantava Julio Iglesias.
«Peccato che all’epoca il Garda non fosse il lago cool che è oggi. In tanti punti assomigliava a un acquitrino. Dunque, la mia prima volta fu in una specie di palude, con le zanzare».
E già allora voleva fare l’attore?
«No, volevo fare il geometra, cosa per cui avevo studiato. Ma il Garda al tempo diventava spesso un set per i film di ambientazione esotica, tipo Mar dei Caraibi. E io cominciai lì a fare l’acrobata e la controfigura. Una volta mi fecero lavorare con Johnny Dorelli, che faceva lo spot Carosello per una famosa bibita».
Già, perché lei ha fatto per anni la controfigura al cinema, vero?
«Per anni sono caduto. Dalle scale, dalle finestre, da cavallo, dalle auto. Mi sarò ammazzato centinaia di volte, ma ero di gomma e soprattutto ero sano, allegro, sorridente. Lo sono anche oggi, nonostante tante vicissitudini».
Le manca un po’ di malinconia, sennò sarebbe un personaggio di Paolo Conte.
«La verità è che non volevo fare cinema. Non mi ritenevo all’altezza, nonostante registi e produttori mi contattassero, all’inizio per gli spot, poi per particine secondarie. Cominciai però a guadagnare e allora fu papà che, saggio, mi convinse a non partire per l’Africa, dove avrei dovuto tracciare un oleodotto, e a fare l’attore».
Studiando?
«Certo, all’Accademia di Arte Drammatica Salvatore Solida e a Cambridge per imparare l’inglese. Ho anche preso il brevetto di volo».
Qualche piccola parte e poi Vittorio De Sica la sceglie per il ruolo di Malnate ne «Il giardino dei Finzi Contini». Siamo nel 1970.
«Un uomo gigantesco, Vittorio. Intanto, a differenza di molti registi, non odiava gli attori. Lui si metteva davanti alla macchina da presa, ti faceva sedere al suo posto e poi provava tutti i ruoli, dal lattante alla vedova al generale. All’attore non restava che imitarlo bene».
L’anno dopo ecco Peppino Patroni Griffi che la vuole in «Addio fratello crudele». E qui lei incontra Charlotte Rampling.
«Un amore bello, pulito, per certi versi quasi un’amicizia amorosa. Eravamo così persi l’uno dell’altra che una volta eravamo in aeroporto, ci siamo addormentati stretti stretti e abbiamo perso il volo».
E con Ursula Andress come andò?
«Stavamo assieme da un po’, lei era nella sua villa di Ibiza. Io dovevo raggiungerla ma persi l’aereo».
Ancora?
«Il giorno dopo tornai in aeroporto, ma era scattata l’ora legale, avevo fatto confusione con gli orari e persi ancora il volo. Allora mi feci prestare un aereo privato da un amico e la raggiunsi in Spagna. Ma litigammo subito e il giorno dopo me ne tornai in Italia».
Intanto lei continuava a girare film. Com’è lavorare con Claude Chabrol? «Una fatica immane. Lui voleva fare un’infinità di piani-sequenza e questo voleva dire girare tutta la mattina per fare un solo ciak nel pomeriggio. Però che gran personaggio».
Lei ha conquistato anche Anita Ekberg, uno dei più vividi simboli erotici mai apparsi in Italia.
«Guardi, ci siamo trovati sul set in un film in cui cominciavamo a fare l’amore sotto la doccia per poi continuare a letto. Il tutto con prove e riprove. Insomma, alla sera, ci siamo guardati e ci siamo detti: “Dove andiamo a cena?”. Anita aveva una bellezza maestosa e un cuore di bambina. Delicata, raffinata, buona. I paparazzi si appostavano per fotografarci ma li seminavo, perché io le donne le rispetto, ci tengo a dirlo».
Sì ma il programma Rai «Parliamone... sabato» nel 2017 chiuse anche per un aneddoto, da lei raccontato, sulle donne dell’Est Europa, che sarebbero più «libere» in amore.
«Guardi, una cosa assurda. Innanzitutto, gli autori sapevano bene che io avrei raccontato quell’aneddoto, peraltro che non riguardava me ma un amico, il quale aveva ricevuto dalla sua donna, come regalo, un ménage à trois. Mi hanno trattato come se avessi insultato le donne, cosa assurda. E da allora non sono mai più stato chiamato in televisione. Bella roba».
Perché le «ospitate» servono?
«Be’, io vivo della mia pensione: 1.100 euro al mese».
È per questo che ha accettato di partecipare al «Grande Fratello Vip»?
«Ma certo, per soldi. Io sono un tipo franco e diretto: ci ho messo mezzo secolo a farmi un nome e oggi questo nome si paga. La produzione del Grande Fratello mi ha pagato bene e l’ho fatto. Oggi solo un bel film lo farei gratis».
Eppure gli attori della sua generazione non sono passati facilmente alla tv.
«È vero, la snobbavamo. Mi offrirono la conduzione di “Domenica In” ma rifiutai: io chiedevo solo un copione e una sceneggiatura. Fu un errore, perché guardi oggi Mara Venier: è diventata una grande donna televisiva pur provenendo dal cinema. Poi c’erano quelle come la mia amica Mariangela Melato che erano capaci di fare qualunque cosa, tanto erano versatili».
Torniamo al cinema. È il 1985 e Dino Risi la chiama sul set di «Scemo di guerra», con un giovane Beppe Grillo. Si capiva già allora che quest’ultimo sarebbe diventato un politico?
«Eccome. Innanzitutto per l’ambizione smisurata: Beppe è uno che per una battuta farebbe di tutto. Poi per i contatti che coltivava già allora: filosofi, informatici, ingegneri, sociologi. Lui è intelligente soprattutto perché sa fare le domande giuste, le ha sempre fatte. Chiede, si informa, vuole sapere. Ricordo una cosa: stavamo girando nel deserto nordafricano, quando da lontano vediamo arrivare una macchina nascosta in una nuvola di fumo. L’auto accosta, scende il collaboratore di Beppe. In mano ha una valigia: la apre e dentro vediamo due grandi giare piene di pesto genovese. Ci siamo fatti uno spaghetto straordinario nel deserto grazie a Beppe. Secondo lei non si vedeva già allora che uno così avrebbe fatto strada?».
Lei ha tre figli. Che padre è?
«Fabio, Thomas e Trini. Vivono lontani, ma ci sentiamo spesso e appena possibile ci vediamo. Mi hanno attribuito anche altri figli, ma sono balle. Mi ferì molto quando associarono a me una maternità di Edwige Fenech, sia perché lei mi era molto cara e io le ero stato vicino in un momento difficile, sia perché mi vedono sempre come un uomo bello che pensa solo a fare l’amore. Io parlo e recito in inglese, francese e spagnolo, ho lavorato con alcuni dei più grandi registi, so guidare un aereo e amo la poesia. Qualche volta anche noi uomini siamo bersaglio di sessismi, ma nessuno lo dice mai».
E negli ultimi anni ha sistemato anche questa proprietà di famiglia nella campagna veneta: una tenuta di 35 ettari, una dimora di 200 metri quadrati con palestra e tutto. Ma soprattutto un’azienda agricola. Come mai?
«Fu Jean Gabin a suggerirmi questo finale di carriera. Non tutti lo sanno, ma lui, in Bretagna, aveva una tenuta con tanti animali, tra cui le mucche, che monitorava quotidianamente e che curava personalmente. Mi disse: “La terra non ti tradisce mai” e aveva ragione».
Gli amori, invece...
«Ma io non sono mai stato geloso, piuttosto ho avuto compagne gelose. Non ho mai nascosto la verità, ho sempre preferito una bella verità a una bugia noiosa».
Due matrimoni alle spalle. Lo rifarebbe?
«Anche questa è una domanda oziosa. Per ora dico che c’è una donna con cui mi vedo, una specie di amicizia affettuosa che va avanti da un po’. Ho avuto di recente una fidanzata giovanissima che, però, dopo un po’ ha fatto pace con il moroso coetaneo e se n’è andata. Pazienza. Io qui ho i miei cani, le mie piante da frutto, gli animali. Giro le città con letture di poesia e mi tengo in forma. Dopotutto, questo prendere la vita per quello che ci dà ogni giorno è parte della mia educazione veneta. Che sia benedetta».
Fabri Fibra ristampa Turbe giovanili e svela le hit di Neffa. Carlo Antini, Testo e musica come ascisse e ordinate, su Il Tempo il 06 maggio 2022.
Fabri Fibra rispolvera l’album degli esordi. «Turbe giovanili» uscì per la prima volta nel 2002 e oggi viene ripubblicato con una chicca da collezionisti: la cassetta con le basi strumentali originali di Neffa. Poi il pensiero va a «Caos» e all’imminente tournée estiva.
Fabri Fibra, cosa deve alle canzoni di «Turbe giovanili» e alle basi strumentali che Neffa compose per lei?
«A lui devo tantissimo. All’epoca ero un suo grandissimo fan e lo sono ancora oggi. Ho cercato di dare il meglio di me raccontando la provincia con la poetica degli anni ’90: meno giochi di parole e più narrazione».
Che effetto le fa riascoltare quei brani oggi?
«Un effetto molto positivo. Ho riascoltato l’album prima della ristampa e mi piace ancora. È un tipo di rap che non è stato fatto più. Eravamo alla fine dell’era dei sample. Poi sono arrivate batterie elettroniche e sintetizzatori e campionare i suoni è diventato sempre più raro. Le basi dell’epoca erano molto belle con batterie e campioni jazz. È un disco particolare nato tra la fine di un’era e l’inizio di un’altra. C’erano campionamenti ma Neffa suonava anche i synth: un mix magico».
In questi 20 anni com’è cambiato il rap in Italia e nel mondo?
«È cambiato tantissimo proprio perché è cambiato il mondo. Il rap è un genere che racconta minuto per minuto quello che succede. Finisce per assorbire tutto, sia nella cronaca che nella tecnologia. È l’unico genere che, col passare del tempo, rimane vivo e interessante».
Lei, invece, com’è cambiato rispetto agli esordi?
«Sono cambiato e non sono cambiato. Il rap mi continua a piacere. Mi piace scrivere. «Turbe giovanili» era un’autoproduzione. Me lo sono stampato e finanziato io e avevo curato anche la grafica. C’era quell’attitudine da indipendenti che ho cercato di mantenere fino a oggi. Ormai da tempo lavoro con una major e ho imparato quali sono le dinamiche. Ma cerco di mantenere lo spirito dei tempi e il controllo sul mio lavoro. Sono sempre io che scelgo le basi, seguo la grafica e tutto il resto. Logicamente sono cambiato perché attorno a me sono cambiati molti aspetti della mia vita e della mia carriera. Ho fatto in modo di trasformare la passione in lavoro».
A luglio partirà il tour di «Caos Live». Cosa sta preparando per i concerti?
«Dal vivo voglio riproporre fedelmente i pezzi dei miei dischi. Quando vado ai live degli altri mi aspetto la stessa cosa e rimango deluso quando i brani vengono stravolti. Quando parte la mia canzone preferita mi risale tutto l’immaginario che ho creato ed è come se si concretizzasse un sogno, come se si chiudesse un cerchio. Dico: cavolo questa canzone l’ho ascoltata così tanto e per così tanti anni e finalmente la posso sentire dal vivo. Mi aspetto che quel brano venga realizzato nella maniera più fedele possibile a come è nel disco. Nei miei concerti punto a fare la stessa cosa. Voglio ricreare quella sensazione di quando ascolti la musica in casa, in macchina o nelle cuffie. E voglio unire tutto il repertorio di questi 20 anni di musica».
Da Ansa il 30 settembre 2022.
Arriva una assoluzione, "perché il fatto non sussiste", per Fabrizio Corona che era imputato in un nuovo processo a Milano sempre per l'ormai famosa vicenda dei 2,6 milioni di euro in contanti trovati nel 2016 in parte in un controsoffitto dell'amica e collaboratrice Francesca Persi e in parte in cassette di sicurezza in Austria.
All'ex agente fotografico veniva contestata una "omessa dichiarazione dei redditi", ossia di non aver pagato le tasse su quelle somme.
Lo stesso pm Maurizio Ascione aveva chiesto l'assoluzione per l'ex agente fotografico.
Il suo legale, l'avvocato Ivano Chiesa, aveva depositato al giudice della prima penale Andrea Ghinetti una serie di documenti per dimostrare che su quei soldi, sia quelli del controsoffitto che quelli trovati in Austria, c'era già stato all'epoca "l'adempimento del debito tributario da parte di Atena", società e agenzia pubblicitaria dello stesso ex "re dei paparazzi".
Soldi che, tra l'altro, dopo un sequestro vennero restituiti proprio ad Atena. Nel procedimento si contestava, tuttavia, che quella società fosse "mero schermo" dell'attività imprenditoriale di Corona e a lui come persona fisica veniva imputato di non aver versato le imposte e di aver evaso il Fisco. Le sentenze definitive, ha fatto notare sempre il legale, hanno assolto l'ex fotografo dei vip dalle accuse principali, tra cui l'intestazione fittizia di beni, su quei 2,6 milioni di euro, stabilendo anche che "non esisteva alcuna schermatura societaria".
"Siamo contenti - ha detto il difensore - perché ogni tanto le cose vanno come devono andare, quando gli elementi sono a favore dell'imputato: Corona non doveva pagare come persone fisica e noi lo abbiamo dimostrato coi documenti e coi testimoni".
Con la sentenza del 12 giugno 2017 del collegio presieduto da Guido Salvini erano già state spazzate via all'epoca le contestazioni a Corona, tra cui l'intestazione fittizia di beni, su quei 2,6 milioni di euro. Accuse che lo avevano portato in carcere nell'ottobre 2016.
Fabrizio Corona assolto dall’accusa di evasione fiscale, la difesa: «È sempre la stessa minestra rigirata». Redazione Milano su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.
Lo stesso pm aveva chiesto l’assoluzione per l’ex agente fotografico: l’adempimento del debito tributario era stato fatto dalla società Atena. Il commento del legale: «Ogni tanto le cose vanno come devono andare»
Arriva un’assoluzione, «perché il fatto non sussiste», per Fabrizio Corona che era imputato in un nuovo processo a Milano sempre per l’ormai famosa vicenda dei 2,6 milioni di euro in contanti trovati nel 2016 in parte in un controsoffitto dell’amica e collaboratrice Francesca Persi e in parte in cassette di sicurezza in Austria. All’ex agente fotografico veniva contestata una «omessa dichiarazione dei redditi», ossia di non aver pagato le tasse su quelle somme. Lo stesso pm Maurizio Ascione aveva chiesto l’assoluzione per l’ex agente fotografico. Il suo legale, l’avvocato Ivano Chiesa, aveva depositato al giudice della prima penale Andrea Ghinetti una serie di documenti per dimostrare che su quei soldi, sia quelli del controsoffitto che quelli trovati in Austria, c’era già stato all’epoca «l’adempimento del debito tributario da parte di Atena», società e agenzia pubblicitaria dello stesso ex re dei paparazzi. Soldi che, tra l’altro, dopo un sequestro vennero restituiti proprio ad Atena. Nel procedimento si contestava, tuttavia, che quella società fosse «mero schermo» dell’attività imprenditoriale di Corona e a lui come persona fisica veniva imputato di non aver versato le imposte e di aver evaso il Fisco. Le sentenze definitive, ha fatto notare sempre il legale, hanno assolto l’ex fotografo dei vip dalle accuse principali, tra cui l’intestazione fittizia di beni, su quei 2,6 milioni di euro, stabilendo anche che «non esisteva alcuna schermatura societaria».
«È sempre la stessa minestra che veniva girata e rigirata, non si sa perché quattro anni dopo si sono svegliati dicendo che non aveva pagato le tasse come persona fisica, quando le tasse le aveva già pagate la società». Così l’avvocato Cristina Morrone, che assiste Fabrizio Corona assieme al legale Ivano Chiesa, ha commentato la sentenza. «Siamo contenti - ha detto il difensore - perché ogni tanto le cose vanno come devono andare, quando gli elementi sono a favore dell’imputato: Corona non doveva pagare come persone fisica e noi lo abbiamo dimostrato coi documenti e coi testimoni». E ancora: «Dire che ce l’aspettavamo è una parola grossa, questo è quello che speravamo ovviamente, perché l’accusa era priva di fondamento».
Con la sentenza del 12 giugno 2017 del collegio presieduto da Guido Salvini erano già state spazzate via all’epoca le contestazioni a Corona, tra cui l’intestazione fittizia di beni, su quei 2,6 milioni di euro. Accuse che lo avevano portato in carcere nell’ottobre 2016. L’ex re dei paparazzi, che sta scontando la pena per le condanne definitive in affidamento terapeutico, nel processo nato dal caso dei soldi nel controsoffitto era stato condannato solo a 6 mesi, ma per un illecito fiscale su una cartella esattoriale, sganciato dalle imputazioni principali.
L'accanimento dei pm e "il sistema fiscale impazzito". Soldi in soffitto, Fabrizio Corona assolto dopo gogna e carcere: “Volevano fargli pagare le tasse due volte”. Redazione su Il Riformista il 30 Settembre 2022
Sei anni di attesa, di carcere, di gogna, di attacchi mediatici per poi arrivare a una sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste“, con la stessa procura che aveva già chiesto l’assoluzione. E’ quanto deciso dai giudici del tribunale di Milano nei confronti di Fabrizio Corona, l’ex re dei paparazzi finito nel mirino dei magistrati meneghini per la vicenda dei 2,6 milioni di euro in contati trovati nel 2016 in un controsoffitto dell’abitazione dell’amica e collaboratrice Francesca Persi e in parte in cassette di sicurezza in Austria.
Sin dal primo momento, l’ex agente fotografico, a cui veniva contestata l’omessa dichiarazione dei redditi, aveva sostenuto che quei soldi non erano di provenienza illegale e che la società Atena, la sua agenzia pubblicitaria, non veniva utilizzata per coprire altre attività. Versione poi confermata dalle sentenze definitive.
Il legale di Corona, l’avvocato Ivano Chiesa, aveva depositato al giudice della prima sezione penale Andrea Ghinetti una serie di documenti per dimostrare che su quei soldi c’era già stato all’epoca “l’adempimento del debito tributario da parte di Atena”. Soldi che, dopo un sequestro vennero restituiti proprio alla società. Per l’accusa, Corona avrebbe dovuto pagare le tasse nel 2014 e nel 2015 su quella somma di denaro in qualità dio persona fisica e non attraverso la sua società, come invece aveva fatto. Il giudice Andrea Ghinetti, invece, lo ha assolto perché il fatto non sussiste. “Una persona paga le tasse una volta e gli chiedono di farlo nuovamente, contestando il fatto che non abbia dichiarato quei redditi – ha aggiunto il legale – . L’Italia ha un sistema fiscale impazzito e le ricostruzioni che fa l’Agenzia delle Entrate sono cervellotiche e generano questo tipo di cortocircuiti. Ad una persona normale – ha concluso – rischia di venire un infarto. Adesso chi paga? A chi chiediamo i danni per questo processo ingiusto?”.
Durissime le parole dell’avvocato Cristina Morrone, che insieme al collega Chiesa ha assistito Corona: “E’ sempre la stessa minestra che veniva girata e rigirata, non si sa perché quattro anni dopo si sono svegliati dicendo che non aveva pagato le tasse come persona fisica, quando le tasse le aveva già pagate la società”.
I soldi, i carabinieri, la denuncia. Nina Moric racconta la rissa con Corona. Novella Toloni l'1 Maggio 2022 su Il Giornale.
La modella croata ha raccontato della violenta lite avvenuta venerdì con l'ex marito per questioni di soldi. Adesso ha intenzione di denunciare Corona.
È guerra aperta tra Nina Moric e Fabrizio Corona. Nelle scorse ore l'ex re dei paparazzi è evaso dai domiciliari per recarsi a casa dell'ex compagna per recuperare, a detta sua, soldi che lei gli avrebbe sottratto. Nell'appartamento della modella sono volate parole grosse e solo l'intervento dei carabinieri ha scongiurato il peggio. Ora, dopo il brutto episodio, Nina è passata al contrattacco: "Lo denuncerò per calunnia".
La Moric ha rilasciato una lunga intervista al Corriere della Sera per raccontare quanto successo la sera di venerdì scorso, quando Fabrizio Corona si è presentato a casa sua furente. Le versioni sono discordanti. Per l'avvocato dell'ex re dei paparazzi, Ivano Chiesa, "Si è trattato di un dissidio tra un ex marito e un'ex moglie, come ne accadono tanti". Ma la modella croata ha parlato di una "faccenda triste e inaccettabile".
Nina Moric ha ricostruito quanto avvenuto venerdì poco dopo le ore 22, quando sul pianerottolo del suo appartamento si è trovata di fronte l'ex marito, che la accusava di avergli rubato dei soldi: "Ho sentito le urla fuori dalla porta: non so come sia riuscito a salire. A quel punto ho chiamato i carabinieri, ma li aveva chiamati pure lui". Di lì a poco sul posto sono arrivate tre volanti e circa dieci agenti: "Mi sono messa a disposizione e ho detto che potevano perquisirmi la casa perché non avevo nulla da nascondere. E infatti alle due del mattino se ne sono andati, senza trovare nulla".
"Ridammi i soldi". Corona evade per andare dalla Moric
La modella ha negato di avere preso dei soldi a Corona e ha rilanciato, sostenendo che l'ex marito sarebbe in debito con lei di una somma di denaro prestatagli tempo fa. "Se vogliamo dirla tutta i soldi, e tanti, li deve lui a me: sto parlando di una cifra a sei zeri", si è sfogata Nina Moric prima di parlare del difficile rapporto che lei e l'ex compagno vivono da tempo.
Da settimane, infatti, la modella e showgirl accusa Fabrizio Corona di avere isolato il figlio Carlos Maria - che al momento della lite non era presente - e di averlo allontanato anche da lei. Sui social network la Moric ha usato parole forti contro l'ex marito, parlando proprio del figlio e al Corriere ha ribadito: "Due mesi fa ha deciso di andare a vivere con il padre. Ne sono addolorata, ma so anche che questo è un momento transitorio, passerà. Temo che suo padre lo stia isolando dagli amici e da tutti, compresi i miei genitori e i parenti croati. Non risponde alle telefonate degli amici e anche alle mie".
Per Corona, invece, la modella ha riservato parole di indifferenza. Con lui il legame è nullo. "Come parlare con un estraneo. Non è uno spermatozoo a fare di te un padre. Fabrizio ha una forte personalità di padre-padrone", ha dichiarato, spiegando di avere tagliato ogni legame con lui e di non volere andare a casa sua neppure per incontrare il figlio. L'ultima spiacevole situazione l'ha spinta però a mettere tutto in mano ai suoi avvocati: "Con il mio legale intendo procedere per calunnia e per i fatti in sé, che hanno violato i miei diritti di donna, di madre, di ex moglie, di essere umano". La palla passa ora ai legali e alle aule di un tribunale.
Filippo M. Capra per fanpage.it il 29 aprile 2022.
Fabrizio Corona finisce al centro di una nuova indagine aperta dalla Procura di Milano. L'ex re dei paparazzi è indagato per un presunto ricatto sessuale dopo la denuncia depositata da una donna che lo scorso anno si era rivolta a lui per alcuni servizi pubblicitari su un libro in uscita. Secondo la donna, Corona l'avrebbe ricattata dopo aver realizzato un presunto video in cui si vedrebbe l'autrice della denuncia in pose intime.
Fabrizio Corona indagato per tentata estorsione e tentata truffa
Come riportato dall'Ansa, nei giorni scorsi i carabinieri avrebbero effettuato una perquisizione a casa di Corona come richiesto dal pubblico ministero che coordina le indagini Antonio Cristillo.
L'ipotesi di reato è di tentata estorsione e tentata truffa. L'avvocato difensore dell'ex re dei paparazzi Ivano Chiesa ha spiegato che la donna che ha denunciato il suo assistito "voleva pubblicare un libro ed è stato pubblicato e poi, siccome non è rimasta contenta delle vendite, se l'è presa con Fabrizio".
Il legale ha poi aggiunto che tra la donna e Corona c'era già "una causa civile in corso" per un contratto stipulato per i vari servizi chiesti all'agenzia dell'ex marito di Nina Moric, spiegando che Corona avrebbe detto alla donna che "se fosse stato costretto a difendersi sarebbe venuto fuori anche il rapporto personale che avevano avuto", incluso il video per cui ora l'ex re dei paparazzi è finito sotto indagine.
Al contrario, la donna sostiene che la minaccia di utilizzo del video sarebbe arrivata dopo alcuni pagamenti già effettuati per i servizi di pubblicità. Chiesa si è congedato dicendo che"Fabrizio ha consegnato ai carabinieri i video e le chat tra loro" perché "non ha niente da nascondere e ci sono dei testimoni".
Cesare Giuzzi per corriere.it il 30 aprile 2022.
La lite per i soldi spariti, il giallo dell’aggressione e la denuncia finale per evasione. La ex coppia Nina Moric e Fabrizio Corona torna a duellare. Nella serata di venerdì 29 aprile è stato necessario l’intervento dei carabinieri di Milano per sedare la lite tra i due avvenuta in un appartamento nella zona della Fondazione Prada dove vive la modella ed ex moglie del re dei paparazzi.
I soldi spariti
Corona, che sta scontando la condanna definitiva ai domiciliari per ragioni di salute, si è presentato alla porta dell’appartamento della ex moglie accusandola della sparizione di alcuni soldi che lui, al suo ritorno a casa, non avrebbe più ritrovato. Nina Moric a quel punto avrebbe chiamato il 112 chiedendo l’intervento dei carabinieri. Stessa cosa ha fatto Fabrizio Corona lamentando, appunto, il furto subito.
Quando i militari del Radiomobile sono entrati nel palazzo si è chiarito che non ci sarebbe stata alcuna aggressione fisica alla donna la quale, da par suo, ha respinto con fermezza l’accusa di essere la responsabile della sparizione dei soldi.
I militari hanno placato gli animi in pochi minuti. Corona, spesso molto turbolento davanti alle forze dell’ordine, sarebbe invece sempre rimasto calmo e collaborativo. I carabinieri hanno quindi escluso che ci fosse stata un’aggressione ai danni dell’ex moglie e hanno spiegato a Corona la possibilità di sporgere denuncia per il furto subito. Opzione che l’ex re dei paparazzi si è «riservato» di esercitare nei prossimi giorni.
La denuncia per «evasione»
Tutto finito? Non proprio. Perché Corona risulta essere ai domiciliari e quindi non aveva il permesso a quell’ora per trovarsi fuori casa . Risultato: è stato denunciato a piede libero per evasione.
Elvira Serra per il “Corriere della Sera” l'1 maggio 2022.
Considera la «faccenda» di venerdì «veramente triste» e «incommentabile». Ma, aggiunge, «ora è tutto nelle mani del mio legale, intendo procedere per calunnia e per i fatti in sé, che hanno violato i miei diritti di donna, di madre, di ex moglie, di essere umano». A parlare (con il Corriere ) è Nina Moric, la modella e showgirl croata naturalizzata italiana che due sere fa si è trovata sul pianerottolo l'ex marito Fabrizio Corona dare in escandescenze e pretendere la restituzione di una fantomatica grossa cifra di denaro.
«Si è trattato di un dissidio tra un ex marito e un'ex moglie, come ne accadono tanti», ha ridimensionato Ivano Chiesa, legale dell'imprenditore che sta scontando ai domiciliari, per motivi di salute, le pene di vari processi. Moric, però, non intende lasciar passare. «Non è accettabile un trattamento così». E ricostruisce cosa è successo.
«Vivo al quarto piano di un residence, dove c'è un portinaio 24 ore su 24. Sono passate le 22 quando sento le urla fuori dalla porta: non so come sia riuscito a salire. A quel punto chiamo i carabinieri, ma li aveva chiamati pure lui. Così sono arrivate tre pattuglie e mi sono trovata a casa nove-dieci militari. Mi sono messa a disposizione e ho detto che potevano perquisirmi la casa perché non avevo nulla da nascondere. E infatti alle due del mattino se ne sono andati, senza trovare nulla».
Ammette di non desiderare che l'ex marito abbia dei «casini». «Non sapevo nemmeno che fosse ai domiciliari e non potesse uscire per venire qui. A me umanamente dispiace per lui, ma dopo tutti questi anni voglio mantenere un basso profilo e cercare la mia serenità: non voglio mettermi in dinamiche che possono nuocergli, ma non accetto di essere calunniata».
In casa, venerdì sera, Nina Moric era sola con il gatto Moon, un Bombay americano che sembra una pantera. «È tutto peace and love , i carabinieri non lo hanno spaventato: vestiti di nero com' erano tutti, gli saranno sembrati suoi simili», chiosa. Ma non fa battute quando le chiediamo perché non ci fosse Carlos Maria, il figlio nato vent' anni fa dalla relazione con Corona: «Due mesi fa ha deciso di andare a vivere con il padre. Ne sono addolorata, ma so anche che questo è un momento transitorio. Temo che suo padre lo stia isolando dagli amici e da tutti, compresi i miei genitori e i parenti croati. Il mio augurio per lui è che sia sereno e felice. Quanto a Fabrizio, non provo più emozioni per lui, né positive né negative. I soldi? Se vogliamo dirla tutta li deve lui a me: e sto parlando di una cifra a sei zeri».
Da milano.corriere.it l'1 maggio 2022.
Da quell’articolo «che riportava tutte cose non vere sono cominciati i problemi e Mauro poi ha dovuto cambiare squadra, l’Inter gli aveva fatto pesare anche questa situazione, gli era stato detto che doveva anche cambiare procuratore, che non doveva avere più una procuratrice donna».
Lo ha raccontato Wanda Nara, moglie e procuratrice di Mauro Icardi, ex attaccante nerazzurro e ora al Paris Saint-Germain, testimoniando come parte civile nel processo milanese per diffamazione a carico dell’ex «re dei paparazzi» Fabrizio Corona per un articolo del febbraio del 2019 sul suo sito «King Corona Magazine» intitolato «Mauro Icardi divorzia da sua moglie - Wanda Nara ha tradito il suo compagno con Marcelo Brozovic».
L’uscita di quell’articolo, ha spiegato Nara, ex showgirl argentina, davanti al giudice Elisabetta Canevini della quarta penale, ha creato «sofferenze e patimenti in famiglia» anche perché «io ho 5 figli che andavano a scuola qua a Milano in quel periodo». E da quel momento, ha aggiunto, «iniziò anche il distacco grande» tra Icardi «i tifosi, il club e dirigenti». E ancora: «Noi siamo una famiglia tradizionale e questa storia ci ha portato problemi dentro la famiglia e fuori dalla famiglia». E ha voluto sottolineare: «Sono ancora la procuratrice di mio marito, anche se non è facile essere una procuratrice donna».
Lasciando l’aula Nara ha detto ai cronisti che da questo processo si attende «giustizia» e che per lei e Icardi «Milano è la nostra casa». Nella prossima udienza del 25 maggio saranno sentiti Brozovic, anche lui parte civile assistito dall’avvocato Danilo Buongiorno, Icardi, parte civile come Nara e sempre col legale Giuseppe Di Carlo, e pure Ivan Perisic, anche lui centrocampista dell’Inter e testimone.
La Procura aveva chiesto inizialmente l’archiviazione dell’indagine, ma Brozovic si è opposto e si è arrivati così al processo a carico dell’ex agente fotografico, difeso dal legale Ivano Chiesa. Tra l’altro, è in corso a Milano anche un altro processo a tre giornalisti accusati di aver diffuso la notizia della relazione tra Nara e Brozovic, falsa per entrambi. Hanno querelato e si sono costituiti parti civili, come lo stesso Icardi.
«Nessuno poteva capire da dove avessero tirato fuori questa storia non vera - ha detto Nara - all’epoca già da 6 anni stavo con mio marito, non ho mai nemmeno avuto il numero di Brozovic, non era nemmeno una persona che frequentavamo come succede tra gli amici in una squadra e invece nell’articolo si parlava di messaggi tra me e lui». La testata web di Corona scrisse pure che Brozovic aveva subito «aggressioni violente» da Icardi. «Icardi era il capitano della squadra - ha spiegato Nara - lui non è mai stato aggressivo con nessuno».
Quella notizia fu «ripresa su tante testate online, anche in Argentina, ha volato per tutto il mondo e io potevo dire solo che non era vera». Una situazione, ha ribadito, che «ci ha fatto soffrire, io ero la sua procuratrice, e lo sono ancora, e gli ho dovuto cercare una squadra, lui lì non stava più bene».
E a domanda precisa dell’avvocato Buongiorno, Nara ha affermato di non aver «mai avuto» una relazione con Brozovic. Il legale di Corona, invece, «da interista» le ha domandato: «Ma non è accaduto che gli hanno tolto la fascia di capitano per motivi tecnici legati al suo rendimento?». E lei: «No, penso di no».
Dagonews l'8 marzo 2022.
Ci sono attimi che possono stravolgere la vita, sguardi in grado di ribaltare le certezze. Di sgretolare muri, di spalancare portoni. E’ capitato a Giacomo Urtis, dermatologo dei divi e svippato lui stesso per osmosi (e per ormoni). Quindici anni fa, era eterosessuale. Aveva una fidanzata e una vita sentimentale tranquilla. Un giorno, all’aeroporto di Olbia, mentre era in attesa di un volo, i suoi occhi caddero su un virile braccio tatuato.
Risalendo dal polso al bicipite e, su su, passando per il deltoide, Urtis mise a fuoco il volto di Fabrizio Corona. Fu un attimo, un fulmine, una scossa al cuore che lo folgorò. Non lo sapeva ancora ma in quell’attimo s’innamorò.
I due si avvicinarono, si conobbero. In un incontrollabile srotolarsi degli eventi, Urtis si ritrovò a vivere a Milano: “Non era quello che avrei voluto, stavo bene in Sardegna. Ma per stare vicino a Fabrizio cambiai vita”.
Corona entrò nella vita del dermatologo come una corazzata in un piccolo porto di pescatori: “Fu un amore pazzo, travolgente. E poi Fabrizio era focoso…”.
Prima di quella scintilla che lo ha spinto a perdere le inibizioni, gli uomini non avevano ancora un posto preciso nei desideri di Urtis: “Ero curioso sì, ma non avevo mai fatto un passo in avanti…”.
Ma nulla ha potuto davanti al fascino un po’ bandolero, un po’ mascalzone di “Furbizio”: la sua fragile eterosessualità si è sgretolata. Grazie a quella appassionata parentesi d’amore, Urtis ha conquistato la sua variopinta fluidità: “Oggi preferisco gli uomini ma ci sono anche tante donne che mi corteggiano.
E alcune lo fanno così bene che alla fine cedo…” (I telespettatori del “Gf Vip” hanno potuto apprezzare il suo bacio a Miriana Trevisan e la pomiciata a tre con Alex Belli e Soleil Sorge: “Ma tra i due, porterei a letto solo Alex”).
“Oggi per Fabrizio ho un amore protettivo, vorrei evitargli problemi. Non sono geloso di lui, anche perché io sono un libertino!
Certo, quando arrivò nella mia vita non fu facile. Vengo da una famiglia cattolica, un po’ conservatrice, che inizialmente non accettò il mio ‘cambiamento’…Siamo così legati che avevamo anche pensato di andare ospiti da Giletti entrando mano nella mano per parlare della nostra relazione”.
Nella casa del “GF Vip”, Urtis - che ha parlato di Corona senza nominarlo - si è fatto scappare un dettaglio in più: “Praticamente vivevamo insieme io, lui e la compagna”. Belen era parte di questo grande romanzo rosa? Questa è un’altra storia che Dagospia vi ha già raccontato…
Andrea Pelagatti blitzquotidiano.it l'8 marzo 2022.
Nel corso dell’ultima puntata del Grande Fratello Vip, il chirurgo Giacomo Urtis ha svelato una notizia di gossip ad un’altra concorrente Sophie Codegoni. Secondo il suo racconto, avrebbe avuto una relazione a tre con Fabrizio Corona e quella che all’epoca era sua moglie Nina Moric. Sulle sue dichiarazioni, è intervenuto lo stesso Corona. Infatti l’ex fotografo dei vip ha scritto sui social: “Amore mio unico grande e solo… era un nostro segreto… dai!”.
“Lui non ne ha mai fatto mistero. Vivevo in Sardegna e non conoscevo nessuno. Mi ha presentato tutti lui… Mi diceva di andare a vivere da lui. Ci siamo conosciuti in aeroporto. Ho visto un braccio tutuato, pieno di gioielli, mi sono girato e ho detto ‘Piacere Giacomo’, e lui ‘Piacere Fa….”.
La replica di Fabrizio Corona a Giacomo Urtis attraverso Instagram
Le dichiarazioni di Urtis hanno scatenato un polverone sul web e sui siti di gossip. Così Corona ha preso la palla al balzo e ha commentato nel seguente modo tramite Instagram: “Amore mio unico grande e solo… era un nostro segreto… dai!”.
Insomma, l’ex fotografo dei vip ci ha scherzato su ma allo stesso tempo non ha nemmeno smentito questa notizia di gossip. Purché se ne parli…
Dagonews il 14 gennaio 2022.
A tirare in ballo Nina Moris è stata quella pazzariella, dalla lingua biforcuta, di Giacomina Urtis. Nel corso dell’ultima puntata del Grande Fratello Vip, il "visagista delle dive", parlando con Sophie Codegoni, ha sostenuto di aver avuto una relazione a tre con Fabrizio Corona e quella che all’epoca era sua moglie, cioè Nina Moric.
Quella di Urtis è una vecchia storia di trasgressione o una millanteria da pavoncello botulinato? Dagospia lo ha chiesto direttamente alla Moric.
Ha sentito cosa ha rivelato Urtis: avete avuto una storia a tre, con Corona "convidiso"?
Lo giuro su mio figlio, non sono io il terzo incomodo di questa storia. Io a quell'epoca ero già separata da Fabrizio Corona, che già stava con Belen Rodriguez…
Facciamo ordine con le date…
Ho conosciuto Giacomo Urtis in Sardegna nel 2005. Ero in vacanza ed ebbi un incidente in mare: fui morsa dalle meduse. In quell'occasione mi fu presentato come estetista e dermatologo. A quell'epoca era ancora etero e mi fece conoscere la sua fidanzata.
Quindi niente sesso a tre?
Ma io ne so gestire a malapena uno, figuriamoci due! E poi mi viene il vomito al solo pensiero di vedere a letto Urtis e Fabrizio…
Allora perché Urtis ha raccontato questa storia?
Finché siamo stati insieme, Fabrizio neanche lo conosceva Urtis. Sì, Giacomo aveva il desiderio di agganciarlo ma sono diventati amici solo dopo dicembre 2008, quando noi ci siamo lasciati e Fabrizio stava già con Belen. Quindi non posso essere io la donna del triangolo…
Da today.it l'8 marzo 2022.
Fabrizio Corona segue tutti gli aggiornamenti sulla guerra in Ucraina, condividendo tra le storie Instagram articoli di giornale, approfondimenti e commenti su quanto sta accadendo. Non solo. L'ex re dei paparazzi dice di volersi unire alla resistenza ucraina, promettendo di battersi per la libertà di questo popolo martoriato e assediato dai russi.
Corona ha coNdiviso lo stralcio di un discorso di Zelensky: "Chiunque voglia unirsi alla difesa dell'Ucraina, dell'Europa e del mondo può venire a combattere fianco a fianco con noi ucraini. Sarà la prova del vostro sostegno al nostro Paese".
E l'ex fotografo si arruolerebbe immediatamente: "Io voglio andare - ha scritto -. Andrò. Voglio morire in gloria". Un post che ha scatenato inevitabilmente le critiche dei follower. "Ma dove vai che se volano due schiaffi ne prendi 20?" commenta un utente, e ancora un altro: "Falla finita patetico". "A prendere le mine in camicia" chiede sarcastico qualcuno, ma a mettere il punto è la verità sbattuta in faccia con ironia: "Ma 'ndo vai se la libertà non ce l'hai". Fabrizio Corona, infatti, è ai domiciliari e deve continuare il percorso terapeutico fuori dal carcere.
Fabrizio Moro canta in Puglia: «Mi sento più forte, come al mio primo concerto». Il cantautore romano si racconta dopo l'esperienza dolorosa del Covid. Tappe a Terlizzi, San Pancrazio Salentino e Presicce. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Agosto 2022.
«Dopo due anni di incertezza, speranza e divieti, siamo tornati nuovamente sul palco, tutti insieme…Solo chi ha seguito il mio percorso dall’inizio può intuire cosa significa tutto ciò per me, per noi. Ho costruito tutta la mia carriera, attraverso le canzoni che ho scritto ma, soprattutto, l’ho costruita facendo concerti ovunque, per più di 20 anni. Quando questa brutta parentesi del Covid ci ha fermati, mi sono sentito così piccolo e insignificante che mi sembrava di aver sprecato tutta la mia vita…proprio perché il palco è sempre stato tutta la mia vita. Durante questo “vuoto”, sono cambiato dentro, ho attraversato strade prive di luce… da solo. È cambiato il mio rapporto con la musica e con i miei sogni». Fabrizio Moro si confessa durante «La mia voce tour» che sta attraversando l'Italia.
Il cantautore si confessa alla viglia dell'approdo in Puglia, dove si esibirà su tre palchi: l'8 agosto in piazza Cavour a Terlizzi, il 17 agosto al Forum Eventi di San Pancrazio Salentino ed il 18 agosto in Piazza delle Regioni a Presicce. «É cambiato il rapporto con le persone che amo, perfino con i miei figli - continua nella sua disamina Fabrizio Moro -. Non tornerà mai più niente come prima questo lo so. L'ho capito dal peso dei passi che ho fatto per arrivare ad essere qui, oggi. Non tornerà mai più niente come prima ma, io mi sento più forte». L'artista romano, classe 1975, Premio della Critica «Mia Martini» a Sanremo per il brano Pensa si dice «consapevole e fiero dell’amore che continuo a provare ogni giorno e in ogni tempo per la mia “missione”. La musica mi ha sempre salvato e spesso mi chiedo cosa ho fatto per essere così fortunato, per avere in dono un “potere” cosi grande, che scaccia il male della vita e che mi permette di sorridere, di emozionare ed emozionarmi. In questo momento, sono inebriato di pensieri sfocati e di immagini epiche. Mi sento bene però dopo tanto tempo, come quando a 13 anni salivo sul palco del Teatro Gerini di Roma per affrontare il mio primo concerto».
Dopo la sua tournée estiva, a dicembre Fabrizio Moro sarà inoltre protagonista di due importanti appuntamenti nelle città di Milano e Roma: il 18 dicembre sarà in concerto al Mediolanum Forum di Assago e il 21 dicembre al Palazzo dello Sport della Capitale.
Fabrizio Moro: «L’unica vera relazione l’ho avuta con la madre dei miei figli. Ultimo? Era meglio se stavo fermo». Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera il 29 Novembre 2022
Il cantautore romano ha appena pubblicato il singolo Senza di te : «Attraverso le canzoni riesco a sentirmi meno solo»
«Adrianaaa!». Rocky Balboa sul ring, battuto (ai punti) da Apollo Creed, grida il nome della moglie. «Mi vengono i brividi ogni volta che vedo Rocky. Quel film è un atto di coraggio. Stallone era come il suo eroe, non se lo filava nessuno, ha sfidato il sistema e vinto tre Oscar».
Si sente un pugile?
«Nel mio lavoro sì. Mio nonno materno tirava di boxe. Da ragazzino, mi svegliava nel cuore della notte per assistere agli incontri in tv. Fra tutti gli sport è quello più vicino all’arte. Ho diversi amici che lo praticano, come Giovanni De Carolis che è stato campione mondiale dei pesi supermedi, c’è tanta poesia in loro. Sul ring prendi cazzotti in faccia, sul palco ti tirano un altro tipo di cazzotti».
Fabrizio Moro, 47 anni, tenebroso cantautore che ama i tatuaggi («Sono stato la cavia di mia sorella»), coltiva il fai da te con un’officina in casa e adora i libri di storia. La sua strada parte dalla periferia romana, attraversa i club da 300 persone («200 erano amici») arriva ai palazzetti e sconfina nel cinema, Ghiaccio è il suo primo film da regista. «Ma non sarà un episodio isolato». Intanto chiuderà l’anno con due concerti a dicembre: a Milano, il 18, e Roma, il 21: «Saranno i grandi show del ritorno». È appena uscito il singolo Senza di te. «Attraverso le canzoni riesco a sentirmi meno solo. L’unica vera relazione l’ho avuta con la madre dei miei figli. La mia storia d’amore è con la musica».
Non è stato un percorso semplice.
«Gli artisti che arrivano dalla periferia si contano sulle dita di una mano. Per me è un punto di forza. Bisogna smettere di pensare che siano luoghi disastrati in cui crescere». Invece? «Ho avuto una bellissima infanzia. Vivevo nelle case popolari di San Basilio, in un appartamento che era un loculo, di 25 metri quadrati: un ingressino, dove dormivamo io e mio fratello, una cucina sulla sinistra, una camera da letto e un bagno. In quel palazzetto abitava tutta la mia famiglia che si era trasferita dalla Calabria. Sono cresciuto lì fino a 12 anni, con cugini e parenti. Quando ci trovavamo per Natale, Pasqua, o la domenica eravamo almeno in 15. Le difficoltà economiche c’erano. Ma ho sempre dato poca importanza ai soldi anche quando non ne avevo».
Non si è mai diplomato.
«Ho iniziato a lavorare dopo la terza media, d’estate, ho frequentato fino al quarto superiore. Ho lasciato, non sopportavo la scuola con le regole, gli orari, i compiti. Ho fatto di tutto. Il primo lavoro nell’officina di mio padre, poi in una serigrafia, in un cantiere dove mettevo le guaine sui tetti e cameriere all’Hotel Parco dei Principi. Qualsiasi difficoltà, stato d’animo o fisico lo attraverso con la sana rabbia e la frustrazione che mi sono rimaste dentro».
La musica è arrivata assieme a una vecchia chitarra.
«Avevo 13 anni, la trovai in cantina, era di mio cugino, aveva solo tre corde e pure di plastica. Ero un bambino sereno ma chiuso, un po’ complessato, fragile. Iniziai a mettere in musica le parole del mio diario e per la prima volta mi sentivo compreso».
La conserva ancora?
«No, ma da qualche parte ho la seconda, me la comprò papà: elettrica, un’Aria Pro II rossa e nera. Subito dopo formai la mia prima punk-band: suonavamo Clash, Sex Pistols, Ramones, poi passammo all’heavy metal con i Megadeth e i Metallica che ho visto per la prima volta in concerto quest’anno a Firenze. Ho pianto, mi hanno dato una potenza che stavo perdendo. Prendo forza dai grandi. Ne ho incontrati di eroi».
Chi?
«Gino Strada che ha sfidato il sistema per i suoi ideali. Il mio vecchio manager Biagio Pagano che non c’è più, aveva un passato poco pulito ma il tempo lo aveva reso saggio e si era messo a disposizione dei giovani. Enrico Morone, il capo del guardaroba al Parco dei Principi. Gli raccontavo che nessuno voleva investire su di me, lui mi esortava a non mollare».
Erano gli anni delle feste in piazza.
«Avevo iniziato molto prima, ai matrimoni, cantavo Baglioni, i Pooh. Era divertente, si mangiava e conoscevo le ragazze. Dopo il mio esordio a Sanremo andai in Puglia, il mio agente non c’era, e mi diedero tutti i soldi in mano, un anno del mio stipendio».
La svolta?
«Con Giancarlo Bigazzi. Ascoltò Pensa e disse: “Questo è il pezzo, lo porto a Baudo. Come si intitola?”. Io, che non lo volevo cantare: “Paolo e Giovanni”, l’avevo scritto per Borsellino e Falcone. Lui: “Che titolo di m... è? Ora si chiama Pensa”».
Gli incontri: Renato Zero a settembre l’ha invitata sul palco del Circo Massimo.
«Mi piace Renato. Ma quando abbiamo fatto le prove era pignolo, fermava l’orchestra ogni tre secondi. Ho sbroccato: “Rega’ io la voce la butto un po’ lì”. Renato mi si è avventato contro: “Non mi far sentire queste cose. Tu devi cantare”. Ho imparato più in quelle due ore di prove che in dieci anni di concerti».
A uno sconosciuto Ultimo ha lasciato aprire il suo tour nei Palasport.
«Era meglio se stavo fermo, è diventato famoso come Michael Jackson (ride). Gli dico: ti invidio, in me hai un fratello maggiore che io non ho mai avuto».
Con Ermal Meta ha vinto Sanremo.
«Siamo più amici che colleghi. È un nerd della musica».
Ligabue.
«Strimpellavo le sue canzoni e sono finito a girare il video della sua Sogni di rock’n’roll. Lo stimo, è uno tosto, ma incute un po’ di timore. Primo giorno di riprese, l’Italia giocava la semifinale dell’Europeo. Liga entra nella stanza:”È la prima volta in vent’anni che mi perdo una partita così importante, vedi di girare un bel video”. Ho pensato: speriamo bene».
Carlo Verdone.
«Gli vojo bene. L’ho conosciuto a un concerto degli Stadio. Ero nel backstage vuoto, aspettavo di salire sul palco, fumavo una sigaretta. A un certo punto si apre una porta e me lo trovo davanti: doveva entrare in scena pure lui. La sua comicità appartiene al mio quotidiano: al bar, a casa, si parla come Carlo».
Con un assegno Siae ha comprato casa a Guidonia.
«L’ho venduta, per ’sta storia delle case sono finito in analisi. Ne ho cambiate quattro in sei anni. Vorrei restare ma ci sono cose che mi mandano in paranoia. A Formello ho scoperto che sopra il mio tetto volavano gli aerei per Fiumicino. Un’altra volta avevo un vicino strano che rompeva quando suonavo. Ora non ci sono traslochi all’orizzonte, abito a Roma, a pochi isolati dalla madre dei miei figli, Libero e Anita».
Nomi importanti.
«Sono legati all’idea di libertà. Ho lavorato tanto per raggiungerla. Oggi sono un uomo libero, realizzato e molto felice».
Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera” il 20 giugno 2022.
«Parliamo italiano, così mi esercito». Stasera Fanny Ardant incontrerà gli spettatori del Biografilm a Bologna per presentare Les jeunes amants di Carine Tardieu (in arrivo in sala dal 23 con IWonder). «Nasco attrice di teatro, sento il bisogno del confronto con persone in carne e ossa: sorrisi, lacrime, emozioni. Con la pandemia il pericolo è stato abituarsi alla mancanza di questo contatto. Il mondo oggi sembra spingerci a far stare tutti chiusi nelle casette».
Le costrizioni non fanno per lei.
«Ha ragione. La mia vita è stata un combattimento per rimanere fedele a me stessa. Quando arrivi a 15 anni hai le idee confuse ma sai ben a cosa non vuoi somigliare quando ne avrai 50. Le vicissitudini dell'esistenza ti portano a cambiare, la battaglia è rimanere fedeli agli ideali etici dell'adolescenza. Hai scelto il tuo campo, devi evitare di cadere nella trappola. È più facile sapere cosa non vuoi, più facile dire i no che i sì. La costruzione di sé è come una scultura, togli la pietra per far nascere la forma».
Shauna, la protagonista del film, è una settantenne che vive in libertà un amore con un uomo di 25 anni più giovane. Una conquista di libertà?
«Penso che l'amore sia sempre un pericolo. Ogni volta che non rientra nei ranghi, è un'esplosione. Lei è una donna libera, ha fatto l'architetta, ha una figlia. Si concede le stesse fragilità che avrebbe avuto da adolescente. Mostrarsi senza corazza non è in conflitto la sua indipendenza. Non è una wonder woman, ama la vita e ne vuole godere. Come è possibile che ci si stupisca che nel 2022 una donna più anziana abbia un amante più giovane?».
Che risposta si dà?
«Diciamo tanto di essere liberi, ma la nostra epoca borghese è molto giudicante. Si porta dietro l'ossessione dell'età. È un tabù, ma se pensiamo alla letteratura dell'Ottocento, Balzac, Tolstoj, c'erano diverse donne con amanti più giovani. Oggi devi avere un'etichetta, se ne stai fuori dai confini e ti muovi come un drone libero, sei giudicato».
Suo padre era un ufficiale della cavalleria di Palazzo Grimaldi, lei ha vissuto alla corte di Ranieri di Monaco.Ne ha sentito la pressione?
«Mio padre è stato un grande esempio per me. Indipendente di spirito, grande umanità e grande dolcezza. E niente giudizio. Mi ha insegnato che ogni tipo di autorità può essere messa in discussione».
È stato facile far accettare in famiglia che avrebbe fatto il suo mestiere?
«Quando l'ho detto ai miei genitori, loro anche se mi amavano tanto, avevano paura. Fai l'università, mi hanno detto, poi forse cambierai idea. Ho scelto il corso più veloce, Scienze politiche che in Francia dura tre anni. Non ho cambiato idea. Però non mi pento di averla fatta, quello degli studi è stato il tempo che ha affinato l'amore per la dialettica, le opinioni politiche. Amo discutere».
La sua carriera al cinema è costellata di incontri fortunati.
«Un grande regista è qualcuno che fa uscire da te quello che lui con il suo genio ha intuito che possiedi. È come se li avessi già conosciuti da sempre i grandi, come incontrare un amico di infanzia, viene tutto facile. Per esempio, fin dal primo incontro con Ettore Scola, un grande umanista, ho pensato: con lui posso andare da qualunque parte. Al di là dei caratteri diversi, tutti hanno un punto in comune: la passione per il lavoro. Con Truffaut lo capivi all'istante».
Il padre di sua figlia. Un grande amore e due capolavori, «La signora della porta accanto» e «Finalmente domenica!». Le piace rivederli?
«No, non li rivedo mai. Li conservo come una foresta incantata».
Ha appena finito le riprese di «The Palace», il nuovo film dei Roman Polanski. Che esperienza è stata?
«Bellissima. Una commedia molto insolente sul nostro secolo. Avevo lavorato in teatro con lui, ho adorato esser diretta da lui. Ho ammirato la sua forza mentale».
Ha fatto la regista anche lei, di lirica, «Lady Macbeth del Distretto di Mcenskk» alla Greek National Opera.
«Scelsi come collaboratori Milena Canonero e Luca Bigazzi, avevo un po' della mia amata Italia con me».
In Italia si sente a casa. Ci sono registi con cui vorrebbe lavorare?
«Certo. Ma non dico i nomi. È come nelle storie d'amore: se chiedi non vale. Dico solo che ho due grandi passioni: Roma e Napoli».
Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 7 aprile 2022.
L'incontro con Fausto Brizzi a San Lorenzo, a Roma […]
«Dopo il Centro Sperimentale mi presero per un progetto alla Rai, allora c'era meno concorrenza. Per dieci anni ho sceneggiato gialli, la mia passione, ma dopo Natale sul Nilo non me ne hanno affidati più. Ora lavoro a una serie prodotta dalla francese Gaumont, Dieci piccoli indiani al Conclave, nella cappella Sistina».
Come arrivò ai film di Natale?
«Feci un casting con Neri Parenti, con Marco Martani. Entrammo nella squadra, ne abbiamo fatti dodici, sempre in giro per il mondo con Neri».
Uno dei pochi che le è rimasto vicino durante la vicenda delle accuse di molestie.
«Sapevo di essere sotto un'onda, avevo la coscienza a posto. Sarebbe passata. Neri è un fratello maggiore, mi ha allevato "a bottega". Alcuni amici sono spariti, altri, come lui, sono rimasti, senza niente da guadagnarci».
Oggi qual è il bilancio?
«Non ho da recriminare, se non per come la vicenda è stata condotta mediaticamente. Avevo le armi per spegnere in un attimo. Si è chiusa bene e anche questo ha avuto rilevanza mediatica».
Cosa l'ha aiutata?
«Mi ha salvato il lavoro. Ho continuato a scrivere commedie, dopo quattro mesi ero sul set. Mi sono state vicine le donne che lavorano con me, in quel periodo dormivo a casa della mia montatrice. Poi mi ha salvato l'arrivo di Silvia, oggi mia moglie, mi ha dato stabilità sentimentale. Faccio molte cose, ma non sono più workaholic». […]
La sua vita è tornata come prima?
«Ho un equilibrio migliore, sono più diffidente. Allora temevo che ogni film fosse l'ultimo, ho riempito i prossimi tre anni di progetti».
Matteo Renzi, con cui ha lavorato, è stato un amico fedele?
«Super leale. La Leopolda è stata un'esperienza bella. Ho imparato che il mondo della comunicazione e la politica stanno andando a coincidere. Non è detto che sia un bene, è il crollo delle ideologie, il potere agli slogan. È una politica fatta da frontman. Ma è una esperienza che non farò più, voglio scrivere».
I cinepanettoni sono finiti?
«Erano legati alla necessità di ridere che tutti abbiamo e che oggi viene colmata, soprattutto tra i giovani, in altro modo, dai meme e TikTok. Ridono fin dalla mattina accendendo lo smartphone».
È cambiato lo sguardo della società, certe cose non fanno più ridere.
«Come dice qualche mio collega, è difficile oggi essere scorretti. Ho recuperato il film di montaggio di Paolo Ruffini, Super vacanze di Natale, con nostalgia, perché la metà delle cose le avevo scritte io: il 90 per cento di quelle scene oggi sono sessiste, omofobe, vanno contro una categoria sociale o sono un'istigazione a delinquere. È un'Italia che non c'è più».
E menomale. Invece che fare battute sessiste o omofobe si può irridere il potere?
«È difficile perché la tv, penso a programmi come Propaganda live, arriva prima del cinema».
Le posso dire che non era affatto divertente la rappresentazione femminile nei cinepanettoni?
«Guardi, Maschi contro femmine già per il titolo non si potrebbe fare più. Quando rivedo certe scene mi dico: ma davvero sono passate e facevano ridere?».
Lo pensa davvero o si riferisce al sentire comune?
«È cambiato anche il mio, di sentire. Perciò faccio film per famiglie, La scorrettezza applicata all'infanzia funziona. Il duello tra il cucciolo e l'adulto che dice "ti butto dalla finestra" è scorretto. Ma fa ridere».
Fausto Leali: «Una fan mi distrusse l’auto perché mi beccò con un’altra. De Gregori? Gran cuoco». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.
Il cantante: «Che duetto con Mina dopo aver bevuto tre whisky. Non mi stanco mai di cantare “A chi”, ci sono affezionato»
Pure lei per l’ugola mastica le acciughe?
«Fossi matto, il sale pulisce le corde vocali ma poi ti viene una sete tremenda e l’acqua fa pure peggio. So che Frank Sinatra beveva del Jack Daniel’s con il ghiaccio, io mi accontento di mezzo bicchiere di vino, se capita un whiskettino».
Quella volta con Mina però ha un po’ esagerato.
«Era il 1986, venivo da un periodaccio, non lavoravo quasi più, sbagliavo canzoni. Un giorno mi chiama lei. “Voglio incidere un pezzo con te, si intitola Via di qua. Ti va?”. Mica me lo faccio ripetere. “Volo”. Mi presento a casa sua, abitavamo vicini, lei a Monza, io a Lesmo. Sono uno dei pochi ad avere duettato con lei dal vivo, a tu per tu nel gabbiotto di vetro dello studio di registrazione. Ero emozionato, anzi terrorizzato. Mina era una dea, una stangona imponente, io in confronto un povero tappo. Così per farmi coraggio ho ingollato tre bicchieri di whisky, uno dopo l’altro».
Bello fresco.
«Però mi sono subito sentito meglio. Dopo abbiamo scattato qualche foto sul balcone per la copertina del 45 giri. Era settembre, un caldo, ma noi ci siamo messi in posa con indosso i cappotti neri e al collo le sciarpe rosse: lì sembro persino alto, la verità è che lei era scalza e io mi ero infilato ai piedi i suoi zatteroni e tra quelli e l’alcol ondeggiavo di qua e di là», racconta Fausto Leali, tredici Sanremo nel palmarès, 78 anni e ormai 55 che gli basta intonare a tonsille spiegate una sola vocale («Aaaaa…») con la potente voce soul da nero-bianco — ancorché nato non in Alabama ma tra le nebbie di Nuvolento, Brescia — e chiudere l’interrogativo amoroso («A chi, sorriderò, se non a te?») per scatenare intorno a sé un irrefrenabile e nostalgico karaoke collettivo anni 60. Del resto a 4 dischi d’oro e 4 milioni di copie vendute con un solo brano mica ci si arriva così per caso e tantomeno si resta un perenne evergreen.
Non le viene l’orticaria ogni volta che gliela chiedono?
«No, la canto sempre volentieri, alla fine di ogni concerto, ci sono affezionato. Capirai, con quel singolo mi ci sono comprato una Jaguar e la villa in Brianza, che poi nel 1985 ho venduto perché mi sono separato: sa, quando si cambia moglie di solito si cambia pure casa».
Papà Vitale era fabbro.
«In guerra aveva perso una gamba, amputata appena sotto il ginocchio. Ogni mattina si allacciava la protesi con delle stringhe di cuoio e montava in bicicletta per raggiungere la bottega, 15 km a andare e 15 a tornare, dodici ore in piedi, quando la sera rientrava a casa la cicatrice gli sanguinava. Ma eravamo sei figli, io il terzo, famiglia poverissima, per farci trovare in tavola qualcosa da mangiare mamma Caterina metteva tutto in conto al panettiere e al fruttivendolo e poi a fine mese pagava quello che poteva. Le medicine si compravano se proprio necessarie. Per fortuna in cortile avevamo qualche gallina per le uova».
A 11 anni se ne andò a lavorare.
«Prima come apprendista in officina, aiutavo a manovrare la stanga che muoveva il maglio. Poi, quando ci siamo trasferiti a Brescia, facevo il garzone dal salumiere, portavo la spesa in bici, mi pagava mille lire alla settimana. Per premio mamma mi regalò la prima chitarra, un modello economico, avrà firmato trenta cambiali. Ero già bravino a cantare, sperava che facessi fortuna. Imparai tre accordi e cominciai a suonarla. Vinsi pure il Microfonino d’Oro, un premio messo in palio dal parroco, uno spillino piccolo piccolo eh. Anni dopo i ladri mi hanno portato via pure quello».
E per Faustino arrivò il primo concerto.
«Mi prese con la sua orchestra Tullio Romano dei Los Marcellos Ferial, quelli di Cuando calienta el sol. Mi portò a suonare due mesi al Sestriere. Paura? Ne ho più adesso, da ragazzino ero incosciente. A 14 invece passai con l’orchestra di Max Corradini, ci esibivamo tutti i sabato sera tra il Mantovano e la Bassa bresciana. Lo zio Sandrino mi accompagnava a prendere la corriera per Acquanegra sul Chiese, dormivamo in osteria, con la “monaca” di terracotta a scaldare il letto, un catino per lavandino e, sotto, il vaso da notte. D’estate invece ci si spostava a Loano su un furgoncino Fiat, tre davanti e quattro dietro, gli strumenti nel carrettino a rimorchio, con il contrabbasso che spuntava dal telone».
Tremila lire al giorno più le spese.
«Ogni venerdì andavo in posta accompagnato dal capo orchestra per fare il vaglia da mandare a casa. Con quei soldi mamma si è comprata il frigo e la tv».
All’inizio si faceva chiamare Fausto Denis.
«Un’idea del ragionier Gigi Piras, impresario discografico che venne conoscere i miei genitori: “Non vi offendete, ma Leali suona male. Meglio Denis”. Era sardo, fissato con i cognomi con la esse, aveva ribattezzato pure Tony Renis. Incisi un 45 giri, lato A un lento terzinato, lato B un rock. Non vendette niente, ma quando l’ho sentito alla radio mi sembrava chissà che. Presto cominciai a esibirmi nei più bei locali d’Italia, come lo Shaker di Napoli di Antonio Rosolino, papà del nuotatore, c’erano pure Peppino di Capri e Fred Bongusto. Trentamila lire a sera, quando un impiegato ne prendeva 80 mila al mese».
Un capriccio appagato con quei soldi?
«Una Fiat Ghia 2500 verde bosco, c’era solo quella dal concessionario. E dissi a mia madre: “Ora vieni con me e andiamo a pagare tutti i debiti con i negozianti”. Dopo un anno comprai una Ferrari di seconda mano del ’58, ma aveva un difetto: andava a 11 cilindri anziché 12. Così l’ho ridata indietro per una 124 special».
Non proprio un affarone.
«Eh ma avevo fretta, mi aspettavano a Napoli per uno spettacolo. Dopo ho saputo che è stata rivenduta per un milione».
Andavano di moda i Beatles.
«Nel 1963 incisi due cover, Please please me e She loves you. Cercavo di imitare il loro caschetto. Avevo i capelli ricci, li stiravo con la spazzolina ma venivano una schifezza e la frangia tornava su».
Nel 1965, con Peppino di Capri, facevate da spalla ai Fab Four nei loro concerti italiani.
«Avevano firmato il contratto per dodici pezzi, dopo 40 minuti era finito tutto. Perciò, per allungare i tempi, salivamo sul palco prima noi. Ero timido, non ci ho mai scambiato una parola, al massimo c’è scappata qualche foto scattata da Peppino».
Nel luglio del 1968 sposò Milena Cantù, la Ragazza del Clan, ex di Adriano Celentano. Lo invitaste?
«Ma figurati se veniva! Suo fratello Alessandro mi scritturò, ero parte del gruppo, ad agosto facevamo le serate a turno alla Bussola con Mina, Bongusto e Rocky Roberts, però con Adriano non ci siamo mai frequentati, non dava confidenza, mi avrà salutato due volte in vita sua. E poi con Milena ci sposammo in segreto, firmando un’esclusiva con Tv Sorrisi e Canzoni, un errore madornale, non si fa».
Non fu proprio un maritino modello, a quanto si narra: «Sono fisicamente incapace di essere fedele», parole sue.
«Fedele mai. Avevo troppe occasioni, non si può dire sempre di no, ero un debole, che ci potevo fare? Ma tutte storielle passeggere».
E le interessate lo sapevano?
«Le racconto questa: 1964, non ero ancora sposato. Cantavo al Gallery di piazza san Babila. Incontrai una ragazza, mi aspettò fino alle tre di notte, poi mi portò a casa sua. Qualche sera dopo venne a trovarmi. Al tempo alloggiavo all’Hotel Pavone di via Dandolo. Chiese al portiere se poteva salire, ma lui le spiegò che… beh, che ero già occupato. Lei allora uscì, cercò la mia auto e mi fracassò tutti i vetri con il cric».
Però insiste. Dopo le prime nozze ha avuto una lunga convivenza con Claudia Cocomello e infine nel 2014 ha sposato Germana Schena, una sua corista.
«Eh eh eh, mi piace tribolare. Però con Germana rigo dritto, sono candido e puro come un giglio».
Dopo qualche anno di alti e bassi, nel 1987 tornò a Sanremo con «Io amo», scritta da Toto Cutugno.
«Con Toto siamo amici, andavo spesso a passare il Natale e Capodanno nella sua villa di Recco, ricordo interminabili partite a poker con Angela dei Ricchi e Poveri. Per non perdere troppo giocavamo al 10 per cento: 10 mila lire valevano mille. Oppure gran tavolata a casa di Popi Minellono, con Fabrizio De André, a bere, mangiare e cantare le canzoni genovesi».
Nel 1989 trionfò con Anna Oxa e «Ti lascerò». Tutto bene tra voi?
«Sì, Anna allora era straordinariamente felice e gioiosa, poco dopo è venuta ad abitare vicino a me e ha tenuto a battesimo mio figlio Francis Faustino. Ci divertivamo a fare le imitazioni. Io di Totò e Alberto Sordi, lei di Ornella Vanoni e Massimo Troisi. Festeggiamenti particolari? Nessuno. A Sanremo funziona così: se non vinci vai a cena, se vinci pure, ma con i giornalisti tra i piedi».
Francesco De Gregori, che con lei nel 2016 ha inciso «Sempre e per sempre», è un suo grande amico. Coppia insolita.
«Perciò funziona. Ci siamo conosciuti in un albergo di Acireale, avevamo due coriste in comune. Chiacchierando mi ha raccontato che A chi è una delle sue canzoni preferite, che la canticchiava spesso, infatti poi l’ha anche incisa. Ogni tanto mi invita a mangiare a casa sua, cucina lui, è bravissimo, specialmente con il pesce. Ci facciamo matte risate, è un simpaticone, non con tutti, certo».
Ha duettato pure con Claudio Baglioni.
«Nel 2010 mi ha invitato a Lampedusa per O’Scià, divertente, pieno di idee, un poeta. E che atleta: come niente si fa 3 km a nuoto in mare, io al massimo due vasche da 25 metri e poi rantolo».
· Federica Nargi e Alessandro Matri.
Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” l’11 Dicembre 2022.
Tredici anni insieme, due sorrisi che sono da pubblicità ma anche contagiosi, due figlie che fanno da quest' anno la prima elementare e l'asilo. Alessandro Matri e Federica Nargi erano, anno 2009, il «calciatore e la velina», praticamente un cliché.
Ora, sono due trentenni normalissimi, solo più belli e allegri della media. Lui, dopo 18 anni da attaccante in Serie A e 121 goal, fa il commentatore per Dazn, lei ha fatto tanti programmi tv, dopo Striscia la Notizia , ha condotto Colorado , ha partecipato a Pechino Express e Tale Quale Show , a giorni presenterà una sua iniziativa imprenditoriale e ha quasi cinque milioni di follower su Instagram.
Primo incontro?
Federica: «In discoteca a Milano. Non gli ho dato il numero per un mese, semmai lo chiamavo io da numero sconosciuto. Ma me lo ritrovavo nei locali ogni domenica».
Alessandro: «Poi mi ha chiamato dal fisso e ho preso a telefonarle a tutte le ore».
Federica: «La prima volta che l'ho invitato a cena, non sapendo cucinare, gli ho dato di secondo i sofficini. Ma non ci siamo più lasciati».
Avevate 18 e 24 anni, che amore era?
Alessandro: «Fino al 2015, molto a distanza, io giocavo al Cagliari, poi alla Juventus, alla Fiorentina, al Genoa e solo in parte a Milano, dove lei lavorava. Quello ha aiutato. Poi, sono andato alla Lazio e abbiamo iniziato la convivenza a Roma, dove lei ha i genitori. A quel punto, c'era da tempo l'idea di fare famiglia».
Perché la distanza ha aiutato?
Federica: «Ha aiutato a costruire fiducia. Io sono di una gelosia estrema, anche se non me ne dà motivo, ma le spasimanti mi preoccupavano: era calciatore, bello, famoso».
Che intende per «gelosia estrema»?
Alessandro: «Rispondo io. Ora non più, ma controllava a che ora tornavo, con chi uscivo. Faceva scenate».
La scenata più assurda?
Federica: «Andiamo in un locale, io arrivo per prima. Poi, vedo arrivare lui, che si sta chiudendo la giacca. Una gli va addosso, gli chiude i bottoni e gli fa: hai freddo?».
Alessandro: «Ho visto come un'onda anomala attraversare la sala e piombare addosso a questa tizia. Prenderla. Spostarla di peso».
Federica: «E pensi che lui, invece che di me, si preoccupava di scusarsi con lei».
Che cosa vi ha conquistato l'uno dell'altro?
Federica: «Era bello, ma soprattutto mi ha rispettata: aspettava la mia chiamata, avrebbe potuto farsi dare il numero da qualcuno, ma non l'ha fatto».
Alessandro: «La parte estetica all'inizio ha contato, ma soprattutto ho visto che lei stava bene nel mio mondo, coi miei amici d'infanzia, con la mia famiglia al paesino, a Graffignana, nel lodigiano. Sono duemila abitanti e ci accontentiamo di andare al bar, vederci a casa. Ho capito che non mi avrebbe allontanato dai miei affetti. Veniamo da famiglie umili, abbiamo gli stessi valori».
Ambulanti di formaggio i suoi, ausiliario in ospedale il papà di Federica.
Federica: «Ci pesa che siano lontani, ogni anno discutiamo per scegliere se fare il Natale su o giù».
Su che cos' altro litigate?
Federica: «Cominciamo già da come la mattina mi dice buongiorno».
Alessandro: «Quando chiede "cos' hai?", mi domando subito: cos' ho fatto? E ora stiamo finendo il trasloco da Roma a Milano e ogni intoppo è colpa mia, se un mobile si rompe, se arriva in ritardo...».
Federica: «Le persone vedono sui social le famiglie del Mulino Bianco ma è tutto finto: le discussioni ci sono, chi non litiga col marito?».
Alessandro: «A proposito di social, le foto che lei mette su Instagram le faccio io. Non so se mi spiego».
In pratica, è schiavizzato h24?
Alessandro: «Schiavizzatissimo. Non è che mi dia fastidio fare una foto, ma la faccio e lei dice che la luce è sbagliata, il vestito da cambiare... Per farne una, dobbiamo farne cento. Questo tutti i giorni».
Nel 2020, Alessandro ha lasciato il calcio, com' è stato adattarsi alla nuova vita?
Alessandro: «È subito arrivato il lockdown, era la prima volta che stavamo insieme per così tanto tempo. Con una figlia di tre anni e mezzo e una di un anno, ci siamo inventati di tutto per intrattenerle. Dopo, è stata comunque dura: sono andato a lavorare nello staff della Lazio, ma ero a casa meno di prima. Mia figlia grande mi diceva: non ci sei mai. Al che, ho deciso di lasciare un'opportunità di lavoro importante per godermi di più la famiglia».
Che genitori siete: ansiosi, permissivi, severi?
Alessandro: «Ansiosi. Non solo come genitori».
Federica: «Ansiosi e troppo permissivi. Però, cerchiamo di dare tanti stimoli, Beatrice e Sofia hanno il permesso di usare l'IPad solo venti minuti al giorno. Per intrattenerle, le portiamo al parco, alle giostre, ci inventiamo qualunque attività. Anche troppo. Mia mamma dice che dovrei lasciarle annoiare di più».
Alessandro: «Sarebbe giusto. Noi ci annoiavamo e allora giocavamo a pallone o ci inventavamo dei giochi, ma oggi se i bambini si annoiano, cercano i telefonini».
Federica: «Io, piuttosto, le faccio spolverare, pulire. Dico: facciamo un gioco, puliamo i giocattoli. Ci cascano».
I momenti no della vostra storia?
Alessandro: «Tante, tante discussioni. Aumentate con l'arrivo delle figlie: essere genitore ti obbliga a prendere decisioni continue».
Federica: «Una crisi vera, però, non c'è mai stata».
Alessandro: «Lei lo è ed è alla ricerca di romanticismo».
Lo dice con aria afflitta .
Federica: «Perché io sono da sorpresa, da bacio ogni momento. Gli ho regalato il nastro con registrate le nostre canzoni, il cuscino con la nostra foto e scritto "ti amo". Lui è più freddo, nordico».
Tre anni fa, un sondaggio incoronava Federica l'amante ideale per la scappatella di agosto. Che effetto vi ha fatto?
Alessandro: «Mi stupisco che la vogliano solo ad agosto e non per sempre. Esteticamente è quello che è».
Federica: «Ma che significa è quello che è? Ma fammelo un complimento ogni tanto».
Alessandro: «Come vede, pure caratterialmente è quello che è».
Pregi e difetti dell'altro?
Federica: «Lui è un papà eccezionale, con le bimbe è molto operativo: le lava, le veste, loro vogliono farsi fare i codini solo da lui. Il difetto è che è pignolo, pretende che io faccia tutto perfetto, che metta tutto in ordine, mentre lui è disordinatissimo».
Alessandro: «È pesante sul disordine, fa la mamma anche con me. Però, è solare, attiva, e dopo tanti anni, essere mamma non ha soverchiato l'essere compagna».
Il matrimonio arriverà?
Alessandro: «Arriverà. Ma già avere un figlio vuol dire "per sempre". Lo faremo perché è un segno d'amore e una tutela delle figlie».
Vi punzecchiate sempre così tanto?
Federica: «Ci prendiamo molto in giro. Siamo come Sandra e Vianello. Con le bimbe, lo travestiamo, gli mettiamo lo smalto, lo trucchiamo. Ridiamo come matti. Gli facciamo fare i passi di danza classica».
Alessandro: «Mi fanno fare le sfilate. Là dentro è una casa di matti».
Dagonews l'11 marzo 2022.
Se Enrico Lucci festeggia a Striscia la notizia i 30 anni di carriera (quale?) di Maria Monsè, il Corriere della Sera celebra i 35 anni di occupazione televisiva di Federica Panicucci. Mattinata di sorrisini, messaggini e battutine dalle parti di via Solferino. Ma davvero il Corriere della Sera concede una paginata alla conduttrice senza domande? Per giunta dopo Libero, Il Giornale, Gente o Chi: in sostanza nemmeno in "esclusiva"?
Così racconta cose inedite e mai sentite prima: i suoi capelli lunghi, Portobello, il Festivalbar, la radio, i suoi impegni da baby sitter. Stop. Tutto qui. Dai 35 anni di carriera della conduttrice di Mattino 5 scompare tutto ciò che è notiziabile. La giornalista Chiara Maffioletti non pone una sola domanda che sia una.
Nessun riferimento alle liti con il collega Francesco Vecchi o al suo posto a rischio nel contenitore di Canale 5. Nessun quesito sull'addio allo studio (ora vanno in onda dallo sgabuzzino di TgCom24) o sui rapporti non idilliaci con Barbara D'Urso. Nessuna domanda sul futuro e sulla prima serata mai arrivata. O magari sapere se davvero non aveva gradito l'imitazione di Valeria Graci.
Gira voce che la Panicucci stia puntando molto su questa "celebrazione" per ricordare ai vertici del Biscione i suoi anni di carriera, terrorizzata per il suo futuro televisivo. A Cologno Monzese però le date le ricordano e amano le celebrazioni, a Michelle Hunziker hanno regalato uno show per i suoi 25 anni di carriera. A lei cosa regaleranno?
Federica Panicucci: «Ero la babysitter del figlio di Bonolis. I fan si attaccavano ai miei capelli lunghi». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.
La conduttrice ripercorre i suoi 35 anni di carriera, da «Portobello» a hostess di Predolin fino al Festivalbar: «Nella mia vita mi sono sempre divertita tanto».
Federica Panicucci ha avuto presto le idee chiare. Lo sapeva fin da bambina: voleva lavorare in televisione. Ma se è vero che il destino è la somma delle nostre scelte, per la conduttrice — che proprio in questi giorni ha festeggiato i 35 anni di carriera — è stato fondamentale prendere quella giusta quando di anni ne aveva 17, rispondendo sì alla proposta della custode del suo palazzo: e dunque sì, avrebbe fatto da babysitter al figlio di un altro inquilino, quello che sul citofono trovava come P. Bonolis. «Sembra piuttosto incredibile, però è stato davvero così: ho fatto da babysitter al primo figlio di Paolo Bonolis, Stefano. Aveva nove mesi, quando mi chiamavano badavo a lui... Paolo mi dava 4mila lire l’ora».
Non proprio uno stipendio da sogno...
Ride. «Andavo a scuola e per me era un lavoretto... Lui all’epoca faceva il conduttore di Bim Bum Bam. Una sera, mentre ero da lui, gli chiesi di poter accendere la tv per vedere il concorso di modelle The look of the Year, programma che in futuro avrei anche condotto. In quel momento mi disse: “Perché non provi anche tu a fare la modella?”. E mi diede l’indirizzo dell’agenzia che poco dopo mi fece fare il provino per Portobello».
Insomma, Paolo Bonolis è stato il suo Pippo Baudo.
«Se Paolo non mi avesse dato l’indirizzo di quell’agenzia, chissà come sarebbero andate le cose... Da sempre il mio sogno era diventare una presentatrice: già da bambina imitavo Loretta Goggi e Raffaella Carrà. I primi lavori per me sono stati nella pubblicità: una campagna pubblicitaria per un test di gravidanza, una per una crema contro i dolori articolari, una per un dentifricio, una per un lassativo e una per degli assorbenti... in effetti tutto nella sfera salute, pensandoci».
Poi arrivò anche il fatidico provino per «Portobello».
«Fu un casting molto lungo, che mi portò a essere scelta come una delle protagoniste del Centralone di Enzo Tortora, in quel famoso 20 febbraio 1987 in cui lui tornò in tv dopo le vicissitudini giudiziarie».
La tensione per il suo debutto si sommava a quella per il ritorno in video del conduttore?
«Sì, c’era un intero Paese fermo per rivederlo, dopo il carcere. Io, completamente a bocca asciutta del mondo dello spettacolo, mi sono trovata in questa realtà pazzesca. Sono sensazioni che ancora oggi mi porto dentro, le ricordo alla perfezione».
Si è chiesta perché scelsero lei?
«Me lo sono chiesta spesso. Fecero tre giorni di casting e una volta lì mi sentivo scoraggiata: c’erano modelle bellissime, vere e proprie top model. Io ero una ragazza assolutamente normale. Studiavo all’università, ero iscritta a Lingue. Eppure passai tutte le selezioni. Forse la semplicità venne premiata».
Forse è stato premiato anche il fatto di essere stata una ragazza che aveva già le idee parecchio chiare?
«Le avevo, vero, ma avevo anche la sensazione di essere sempre un po’ meno rispetto agli altri: un po’ meno bella, un po’ meno spigliata... questa insicurezza l’ho tenuta a bada ma mi ha accompagnata per un lungo percorso. Temevo di non essere all’altezza».
Invece lo è sempre stata?
«Mica tanto. A Portobello, a capo del Centralone c’era Renée Longarini. Lei si occupava anche del momento dello sponsor. Una sera Enzo Tortora venne da me e mi disse che il giorno dopo lei sarebbe stata assente e mi chiese quindi di sostituirla. Dovevo imparare due frasi legate al concorso di una macchina. Due righe di numero che avevo studiato e ristudiato. In studio vennero anche i miei genitori, era un evento. Ero agitatissima. Una volta arrivato il momento in cui dovevo parlare un fotografo cominciò a scattare e andai nel pallone: scena muta. Avevo dimenticato tutto. Enzo Tortora mi venne in soccorso e mi salvò. Fu una vergogna totale e un gran dolore per l’idea di aver tradito la fiducia che mi aveva dato. Quel senso di frustrazione mi accompagnò per lungo tempo».
Dopo «Portobello»?
«Iniziai a lavorare in una piccola tv privata, mi pagavano 50 mila lire a puntata. Nel frattempo studiavo. Mio padre mi ricordava sempre il valore dell’impegno, mi spronava ad accettare anche piccoli lavori per arricchire il mio bagaglio di esperienze. Mi ripeteva di imparare il più possibile così da farmi trovare pronta qualora la mia occasione fosse arrivata. Mi sono ritrovata così, ad esempio, a condurre un programma che andava in onda all’una di notte su un canale privato lombardo: una trasmissione in cui parlavo di barche. Io e lui stavamo svegli per guardarla insieme».
Altra tappa importante?
«Il mio casting con Gianna Tani, a Mediaset. Cercavano delle concorrenti per Il Gioco delle Coppie. Le dissi: “Sono qui ma non per fare la concorrente, vorrei diventare la hostess di Marco Predolin”. E mi presero. Ci rimasi per tre anni».
Poi è stata la volta del «Festivalbar».
«Non ero pronta. Ero terrorizzata, anche perché non avrei dovuto presentarlo io. Ma chi era stato scelto aveva avuto un imprevisto. Mi chiamò Vittorio Salvetti così presi la mia macchina, armata di stradario, alla volta di Ascoli Piceno. Nessuno mi aveva preparato al boato dei 30 mila in piazza: parlavo ma non riuscivo a sentirmi, fu una delle sensazioni più forti mai provate».
Su quel palco c’erano anche Amadeus, Fiorello e Jovanotti.
«Ci siamo conosciuti lì, di fatto. Io bazzicavo Radio Deejay perché conducevo Smile, Unomania e a volte mi era capitato di intervistare alcuni di loro. Di quegli anni ricordo il grande divertimento e la spensieratezza che provavamo. Non c’erano i social, non c’erano i cellulari: eravamo noi, facevamo la nostra puntata, ridevamo, scherzavamo e il giorno dopo arrivava il fax con gli ascolti. Ripeto: il fax. E poi c’erano i cantanti... erano gli anni in cui li potevi vedere solamente lì».
La fama prima dei social era più romantica?
«Per me sì. Ad esempio io andavo spesso a trovare mia nonna paterna, Chiarina, a Cecina: le ero molto legata e sin da bambina trascorrevo da lei il periodo estivo. Ho continuato a farlo una volta cresciuta, anche nel periodo del Festivalbar. In quel boom mediatico capitava spesso che ci fossero sotto casa gruppetti di ragazzi per una foto o un autografo. A volte la mattina mi svegliavo, andavo in cucina a fare colazione e trovavo i fan in casa... mia nonna li faceva salire e gli offriva il caffè . Era davvero tutto diverso. Con i miei primi soldi le ho comprato la casa».
Dà l’idea di essere sempre stata una persona molto responsabile...
«Devo dire che nella mia vita mi sono anche divertita sempre tanto. Amicizie, viaggi, feste... ero molto concentrata sul lavoro ma nella vita privata non mi sono fatta mancare nulla. Ho fatto vacanze a Formentera con feste fino all’alba assieme a comitive di amici che arrivavano da varie parti d’Italia. Nelle case che affittavamo assieme veniva gente da tutta l’isola. Sapere di non aver sacrificato la mia vita privata dà una bella sensazione».
Poi c’è stata la radio.
«Anche lì, eravamo un gruppo di amici. Mille scherzi, un grande divertimento. Sono stati anni belli. La radio era una cosa nuova, che non avevo mai fatto. Un giorno Albertino, ospite di un mio programma, Smile, mi butto lì: “Perché non vieni a lavorare in radio?” La mia risposta di getto fu: “Ma io non sono capace!” Cinque giorni dopo ero in onda, in diretta. Quando sei giovane ti fai molti meno problemi: avevo quella sana incoscienza che mi faceva buttare nelle avventure».
La sua vita professionale è stata piena di svolte e anche il suo privato.
«Oggi mi sento una persona centrata. Ho un compagno che mi ama e che amo, il lavoro che sognavo e due figli meravigliosi che mi ricordano ogni giorno quanto sia straordinario vederli crescere. A volte il cambiamento può essere doloroso ma sono convinta che sia una forma di rispetto nei confronti di noi stessi».
Nel ripercorrere i 35 anni della sua carriera non si possono non menzionare i suoi capelli.
«Ancora oggi c’è gente che mi ferma e mi ricorda il mio taglio di capelli a Target, il programma di Canale 5, dicendomi che piangevano con me mentre lo facevo. Erano diventati così lunghi perché io sono essenzialmente una persona stanziale e, anche se ho detto che a volte è necessario, faccio fatica a cambiare qualsiasi cosa. I cambiamenti mi provocano disagio, perfino se devo anche solo tagliare i capelli. E quindi rimandavo, rimandavo e alla fine erano diventati così lunghi da identificarmi: chi è Federica Panicucci? Ah sì, quella con i capelli lunghi. Quando facevo le serate in discoteca capitava che i fan si attaccassero proprio ai capelli... era veramente complicato. Per anni sono stati un simbolo».
Sarà anche allergica al cambiamento, però nel suo lavoro è stato una costante. Ha lavorato con tante persone e nei contesti più diversi.
«Di certo è una grande ricchezza. Per due anni ho anche consegnato i Telegatti. Anzi, ero la valletta che consegnava i Telegatti dietro le quinte ai premiatori... che erano però persone come Sylvester Stallone, Richard Gere, Sophia Loren... che tempi».
E lì non ha mai pensato: un giorno premieranno me?
«Mi viene in mente un episodio di quando conducevo Festivalbar Zona Verde, una sorta di costola del programma principale che andava in onda il pomeriggio su Italia 1, in cui intervistavo giovani cantanti. Tra queste nuove leve un giorno arrivò un tale Biagio Antonacci. In un momento di pausa, gli dissi: ti immagini se un giorno io dovessi condurre il Festivalbar e tu arrivassi tra i big? Ecco, qualche tempo dopo è successo davvero».
Ficarra e Picone, personaggi in cerca d’autore. Francesco D'Errico su Panorama il 31 Ottobre 2022.
La passione per il teatro (prima di diventare famosi), la sicilianità e l’arte di far ridere che trae sempre spunto dalla vita reale. Il duo comico si racconta a Panorama e svela i retroscena del nuovo film La stranezza, dove sono due «cassamortari» che mettono in scena uno spettacolo insieme a Toni Servillo. Che recita nel ruolo di Luigi Pirandello.
«Il nostro rapporto con il teatro risale a tantissimo tempo fa, ancor prima di conoscerci. Sia io sia Salvo ci siamo avvicinati, in momenti diversi, proprio a una compagnia amatoriale come quella che abbiamo portato in scena in questo film. Così abbiamo imparato ad amarlo e poi tentato di praticarlo. Abbiamo iniziato a portare i nostri spettacoli sui palcoscenici e nelle piazze di varie città, finché gradualmente ci siamo resi conto che recitare poteva essere il nostro mestiere». Valentino Picone ricorda così i primi passi della carriera da attore che si è trasformata man mano in un trionfo nazionalpopolare con la formazione del duo Ficarra e Picone.
L’occasione di parlare del proprio lavoro, del successo e del rapporto con la tradizione siciliana per i due comici palermitani è quella dell’uscita al cinema di La stranezza di Roberto Andò: «Nel film Picone è Onofrio Principato, impresario di onoranze funebri, e io sono il suo impiegato Sebastiano Vella. Entrambi sono piuttosto distratti sul lavoro perché impegnati a fare le prove di una farsa originale che prende spunto dalle vite degli abitanti di Agrigento» continua Ficarra. Siamo nel 1920 e Luigi Pirandello (Toni Servillo) è tornato in Sicilia da Roma per festeggiare l’ottantesimo compleanno del collega Giovanni Verga (Renato Carpentieri), quando viene a sapere che è morta la sua vecchia balia cui era molto affezionato. Perciò si rivolge ai due cassamortari Principato e Vella per organizzarle il funerale, salvo imbattersi in un burocrate che vuole essere corrotto per trovare un loculo libero in tempi brevi. Nell’attesa che il posto per la bara si liberi, lo scrittore - in grave crisi d’ispirazione, tormentato dai suoi personaggi che lo vanno a trovare per chiedergli di trovare una trama - scopre le velleità autoriali dei becchini e decide di andare a vedere le prove del loro spettacolo. «Ricordatevi che siamo dilettanti professionisti, dice Onofrio alla sua compagnia» spiega Ficarra. «La cosa che rapisce Pirandello è la passione di questi due dilettanti in quel che fanno, al punto di dimenticarsi quasi del proprio lavoro». «Si tratta della stessa passione che ha rapito anche noi e Toni Servillo quando Roberto Andò, che conosciamo da moltissimi anni, ci ha raccontato l’idea di questo film costruito attorno alla creazione e alla prima rappresentazione di quello che è considerato un capolavoro della drammaturgia mondiale, ovvero Sei personaggi in cerca d’autore, andato in scena al Teatro Valle di Roma nel 1921» commenta Picone. Cosa vi ha attratto per convincervi a girare questo film?
Ficarra. Sicuramente l’idea di lavorare con Roberto e con Toni Servillo. Tra noi si è instaurato un rapporto di vera amicizia dietro le quinte, il cui risultato si vede credo anche nel film. E il fatto che parla dello sforzo di creare qualcosa che prima non c’era.
Picone. Proprio così. Questo nuovo lavoro ha al centro Pirandello, ma valica i confini della letteratura o del teatro e parla in modo più generico di ispirazione e della fatica e del lavoro che c’è dietro ogni idea rivoluzionaria.
Qual è il vostro rapporto con Pirandello, Verga e più in generale gli autori siciliani?
Picone. Direi carnale. Il modo di ragionare di Pirandello è fortemente impregnato di sicilianità. Possiamo parlare di lui in modo molto alto, discutere di maschere e teatro nel teatro, però in realtà la sua poetica nasce nelle strade del Sud, dove va in scena ogni giorno una vera e propria rappresentazione. E con i comici della vostra isola?
Ficarra. Ce ne sono alcuni, per esempio Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che hanno influenzato la nostra giovinezza, oppure Pino Caruso, con cui abbiamo avuto negli anni un rapporto meraviglioso e che sentiamo più vicino a noi come modo di pensare. Siamo rimasti in Sicilia, ci piace parlare della nostra regione, ma compiuti i 30 anni dal debutto possiamo dire di essere andati alla ricerca di una nostra cifra molto personale: usare la comicità come lente di ingrandimento sui vizi e le storture degli italiani.
Voi siete non solo siciliani, ma palermitani. In cosa si riverbera questa indole nella vostra comicità?
Picone. Il palermitano è uno che per natura minimizza tutto, a differenza del catanese che enfatizza. Ed è proprio nel dialogo tra l’enfasi e l’understatement che si innesca il meccanismo comico.
Dove cercate l’ispirazione per i vostri spunti comici?
Ficarra. Solitamente partiamo da un tema che vogliamo affrontare e cerchiamo l’ispirazione negli eventi quotidiani o nelle notizie di cronaca, un po’ come fanno i due personaggi di La stranezza, che nella farsa cercano di denunciare il malaffare sull’assegnazione dei loculi.
Picone. Per esempio quando abbiamo scritto Andiamo a quel paese, in cui due disoccupati scoprono di poter vivere con le pensioni dei conoscenti aprendo un ospizio abusivo, l’idea ci è venuta parlando con alcune persone che lo facevano realmente.
Anche in questo film come in altri, lei, Valentino, ha un ruolo diciamo più serio, e Salvo più scherzoso. Quando avete deciso tra voi questa divisione di «compiti»?
Picone. Fin da quando siamo saliti insieme per la prima volta in scena, abbiamo capito che Salvo, più estroverso, aveva più il gusto della battuta fulminante ed era l’ideale per interpretare il furbo che si arrabatta per trovare una soluzione a tutti i costi, mentre io, più timido, ero perfetto per fare il clown bianco, il tipo giudizioso, che magari lo bacchetta. Per noi sono ruoli talmente naturali che io non potrei mai fare
Ficarra e lui non potrebbe fare Picone.
Quali sono i personaggi che vi hanno reso più orgogliosi?
Picone. Siamo nati con i siciliani stanchi stanchi che se ne stavano seduti a parlare del più e del meno e li sentiamo nostri, perché ci hanno lanciato all’inizio della nostra carriera. E appena possiamo in teatro li riproponiamo, anche perché sono due nullafacenti che commentano ciò che accade nel mondo, quindi sono sempre attuali. Avete anche preso in giro i vizi della politica quando andavate nelle prime tv locali e poi a L’ottavo nano con la Dandini...
Ficarra. Quella trasmissione è di 20 anni fa e non sembra cambiato nulla. Già allora si parlava di una decadenza della politica, col folklore leghista del senatùr in canottiera. Oggi è diventato più difficile prendere in giro i politici, tanto sono comici da soli. Poi, da quando hanno iniziato a usare i social, sono diventati come adolescenti.
Ultima domanda: quando avete intuito il potere della comicità?
Ficarra. Guardando da piccolo le comiche di Stanlio e Ollio.
Picone. Io a scuola, quando qualcuno faceva l’imitazione del professore e non riuscivi proprio a non scoppiare a ridere.
Striscia la Notizia, confessione-choc di Ficarra e Picone: "Quando Berlusconi vinse le elezioni...", fuori tutta la verità. Libero Quotidiano il 20 febbraio 2022
Ficarra e Picone stanno insieme da quasi ventotto anni, quindici dei quali trascorsi dietro al bancone di Striscia la Notizia. Intervistati dal Corriere della Sera, i due comici, conduttori e attori siciliani hanno ricordato come si sono conosciuti: è accaduto in un villaggio turistico ai Giardini Naxos, a Taormina. “Era il 1993, però quello che stava lavorando ero io, lui faceva il turista”, ha precisato Ficarra. “Sì, ma tu mi hai colpito subito. Facevi l’animatore, io volevo fare cabaret. L’incontro perfetto”, ha aggiunto Picone.
Lo scorso anno è arrivato l’addio a Striscia la Notizia: sui motivi sono circolate diverse voci, alcune anche piuttosto cattive. “Hanno scritto che abbiamo litigato con Antonio Ricci - ha dichiarato Ficarra - niente di più falso, perché lo amiamo e con lui c’è un bellissimo rapporto. Hanno detto che eravamo poco in sintonia con i palinsesti della rete. Ora, che alcuni programmi non rispondessero pienamente al nostro gusto può essere vero e forse li lanciavamo con meno entusiasmo, però noi abbiamo sempre avuto rispetto per i colleghi e le colleghe, che lavoravano esattamente come noi”. Poi i due hanno ricordato di quando hanno fatto satira su Silvio Berlusconi, per dimostrare che hanno avuto sempre libertà: “Racconto soltanto quello che facemmo a Striscia quando Berlusconi vinse le elezioni: ci mettemmo a strappare ogni sorta di bollettino, come la vecchia Ici. Ironizzavamo sulla promessa di abolire ogni sorta di tassa”. “E quando invece perse le elezioni - ha aggiunto Picone - ci mettemmo a festeggiare come se fosse stato Capodanno, con lo smoking”.
Ficarra e Picone: «Lavoriamo a un film su Pirandello. La cosa di cui siamo più fieri è aver fatto sorridere Villaggio». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 20 Febbraio 2022.
I comici sul loro prossimo film: «È ambientato nel 1920 e racconta un frammento della vita di Pirandello. Impareremo molto». Il colpo di fulmine: «Ci siamo visti per la prima volta in un villaggio turistico: è stato l’incontro perfetto»
State insieme da ventisette anni. Pochi matrimoni resistono così a lungo.
Ficarra: «Quasi ventotto».
Picone: «Peggio mi sento».
La leggenda narra che vi siete conosciuti in un villaggio turistico ai Giardini Naxos, a Taormina.
F: «È vero. Era il 1993, però quello che stava lavorando ero io, lui faceva il turista».
P: «Sì, ma tu mi hai colpito subito, mi hai fatto ridere. Facevi l’animatore, io volevo fare il cabaret. L’incontro perfetto».
Come nei migliori colpi di fulmine.
F: «I miei genitori avevano un piccolo negozio di abbigliamento, non sono figlio d’arte ma ho avuto una famiglia divertente. Mio zio sapeva raccontare di quando era stato in crociera e in famiglia glielo chiedevamo come sketch».
P: «Io facevo teatro fin da ragazzino, con una compagnia amatoriale. Sai quelle storie in cui provi per tutto l’anno una commedia che poi va in scena una sola sera?».
Però siete nati nel 1971 in Sicilia, dunque avete vissuto una delle stagioni più terribili della storia repubblicana. Che cosa ricordate con maggior nitore di quegli anni di mafia?
F: «Il “botto”, come lo chiamiamo qui a Palermo. Il botto, la bomba che mise fine alla vita di Giovanni Falcone e di tutte le persone che erano con lui. Quello stesso “botto” che noi citiamo nella nostra serie Incastrati. Poi quando uccisero Borsellino capimmo che quella era una guerra. Ma per la prima volta si capì da che parte stare. Falcone e Borsellino smisero di essere dei magistrati e divennero “due di noi”, anche perché venivano da quartieri popolari. La gente cominciò a fare il tifo per la legalità. E noi piano piano capimmo che attraverso il registro comico si possono mandare messaggi importanti. Che arrivano a tutti».
P: «Il nostro doppio monologo sui motivi per cui vergognarsi o essere fieri di essere siciliani attinge anche a quella fase della storia in cui aprimmo gli occhi. E di certo, grazie al sacrificio di quegli eroi (non temo la retorica nel chiamarli così) molti dei motivi per cui nello sketch ci vergognavamo di essere siciliani oggi sono superati. La Sicilia ha fatto passi avanti giganteschi, forse maggiori di altre regioni, grazie a quelle persone. Nel caso di don Puglisi poi, noi siamo sicuri che il sacerdote abbia perdonato il suo assassino. Ce lo dice la sua stessa vita».
Per chi votate?
F: «Ma chi vuoi votare con questa classe politica così adolescente? Comunque, non lo dico».
P: «Io dico per chi non voterei mai: mai voterei per quelli che un tempo accusavano noi meridionali di essere brutti, sporchi e cattivi, di non sapere nemmeno parlare l’italiano e oggi si trovano altri bersagli. Oppure non voterei mai quei miopi che pensano che la famiglia sia una sola. Però non voto nemmeno quelli che sono rivoluzionari solo a parole, ma nei fatti no».
Vent’anni fa uscì il vostro primo film, «Nati stanchi». Che stanchezza era?
F: «Quella che appesantisce con gli stereotipi, non solo siciliani ma italiani. Per esempio, di quelli che sbraitano perché vogliono la legalità ma basta che non tocchi gli affari loro».
P: «Io, per dire, per trovarmi un lavoro nel film volevo stampare soldi di contrabbando».
È vero che il titolo lo scelse Aldo Baglio, di Aldo, Giovanni e Giacomo?
F: «Lo approvò, fece una delle sue uscite tipo “Miii, che titolo!”. Una volta abbiamo fatto una vacanza con lui, a Pantelleria. Noleggiammo una barca e il primo giorno lui si fece male a un dito del piede. Il secondo giorno andò a fare i tuffi e si beccò i ricci di mare sulla gamba. Incerottato, decise di fermarsi in piscina ma riuscì a sbagliare tuffo e a ferirsi il labbro. Da morire di risate».
P: «Una volta uscimmo tutti e tre assieme e io mi sentii male, forse avevo mangiato qualcosa di avariato. Quando mi svegliai vidi ’sti due, Aldo e Salvo, che urlavano “Miii, si è svegliato!”».
Perché non avete mai lasciato Palermo?
P: «Perché vogliamo raccontare la Sicilia che viviamo, non quella che ricordiamo».
Come arrivaste a Sanremo nel 2007?
F: «Pippo Baudo, nel novembre dell’anno prima, ci venne a vedere in teatro e ci disse: “Ragazzi, vi voglio con me, fatemi due pezzi”. Decidemmo di farne uno comico e il secondo dedicato a don Puglisi. Ma a patto che Pippo non li vedesse in anteprima. “Affare fatto, affare fatto” disse il grandissimo Baudo. E così andò».
P: «Pochi sanno che io ho rischiato di non salire sul palco».
F: «Sì, ma adesso dici anche perché».
P: «Problemi intestinali. Ma l’ansia non c’entrava niente, eh».
Avete lasciato «Striscia la Notizia» dopo quindici anni di onorato servizio al bancone. Sui motivi sono state fatte le illazioni più disparate. Le più assurde?
F: «Per esempio hanno scritto che abbiamo litigato con Antonio Ricci, niente di più falso, perché lo amiamo e con lui c’è un bellissimo rapporto. Hanno detto che eravamo poco in sintonia con i palinsesti della rete. Ora, che alcuni programmi non rispondessero pienamente al nostro gusto può essere vero e forse li lanciavamo con meno entusiasmo, però noi abbiamo sempre avuto rispetto per i colleghi e le colleghe, che lavoravano esattamente come noi».
P: «Ma pochi sanno che cosa vuol dire lavorare a Striscia. Non solo devi andare in diretta, non solo ti cambiano i servizi da un momento all’altro e devi reggere la comicità, non solo si passa dalle risate alle cose più serie. Ma su tutto c’è anche Antonio Ricci che si mette a telefonarti, anzi, per la precisione a “citofonarti” con una comunicazione interna, mentre sei in onda, per farti andare in confusione. Quanto gli piaceva farlo con noi!».
Però in quindici anni chissà quante cose vi sono successe in quello studio.
F: «Be’, ricordo il periodo in cui mandavamo in onda i servizi su Luca Giurato. Io ridevo davvero, non riuscivo ad andare in diretta».
Avete mai incontrato Giurato?
F: «Certo, venne ospite a Striscia. Doveva presentare il disco del fratello. Peccato che se lo fosse dimenticato a casa».
P: «Io mi ricordo quando venne come ospite Paolo Villaggio. Ora, per due appassionati di comicità come noi quello è un incontro memorabile, perché Villaggio dal vivo era molto più cattivo, molto più tagliente rispetto alla finzione cinematografica. Cominciò a sciorinare una serie di stereotipi tra i più triti sui siciliani e noi gli davamo ragione, anzi, rincaravamo la dose. Riuscimmo a farlo sorridere, una conquista».
Si può fare satira su tutto?
P: «Penso che sia pericoloso decidere su che cosa si possa o non si possa fare satira. Questo è un principio chiave, poi, certo, entrano in gioco altre variabili, che sono la sensibilità personale, il carattere, il proprio sguardo sulle cose».
Nella satira avete avuto sempre libertà?
F: «Certo. Le racconto soltanto quello che facemmo a Striscia quando Berlusconi vinse le elezioni: ci mettemmo a strappare ogni sorta di bollettino, come la vecchia Ici. Ironizzavamo sulla promessa di abolire ogni sorta di tassa».
P: «E quando invece perse le elezioni ci mettemmo a festeggiare come se fosse stato Capodanno, con lo smoking!».
E adesso vi aspetta l’avventura con Roberto Andò e con Toni Servillo, un film la cui lavorazione è appena iniziata. Che film sarà?
F: «È ambientato nel 1920 e racconta un frammento della vita di Pirandello, che venne in Sicilia per un soggiorno breve ma importante perché legato alla messa in scena di uno dei suoi lavori più famosi».
P: «Di certo da Roberto impareremo molto, come abbiamo imparato da altri grandi registi. Per me, primo tra tutti, Peppuccio Tornatore».
Già, perché voi avete recitato (in ruoli non comici e non in coppia) anche in «Baarìa».
F: «Il produttore ci prese da parte e ci disse: guardate che un’esperienza del genere non si prova spesso. In effetti, una parte delle scene venne girata in Tunisia, ricostruendo un antico borgo. Una doppia magia per noi, perché da una parte c’era la mano di un maestro come Giuseppe e, dall’altra, la finzione più reale del vero. Lui poi secondo me ci ha ingannato anche in un altro senso: non poteva essere sempre lo stesso Tornatore quello che era sul set all’alba, al tramonto e a sera, mai stanco. Io penso che avesse un gemello con cui si alternava in gran segreto».
P: «Giuseppe ci insegnava tutto, con pazienza. Ricordo che una volta notai una sua inquadratura doppia, una più ravvicinata e una a maggiore distanza. Incuriosito gli chiesi se poi ci fosse tanta differenza tra l’una e l’altra. Lui smise un attimo di lavorare e mi fece mettere l’occhio in camera: la differenza era notevole e in pochi minuti mi aveva dato una lezione di regia».
Siete anche produttori.
«Con la Tramp abbiamo fatto tante cose belle, come i tre film di Edoardo De Angelis (vincitori di diversi premi) ma un posto nel nostro cuore ce l’ha Il figlio di Tarzan, un docufilm sulla vita di Giovanni Cupidi, una persona con disabilità».
Voi avete «dialogato», metaforicamente, con Aristofane, perché avete messo in scena una versione moderna de «Le rane». Aristofane è un altro che fa ridere davvero, no?
F: «Proprio perché abbiamo ritrovato in questo autore vissuto prima di Cristo una comicità così moderna, abbiamo pensato di metterlo in scena con la regia di Giorgio Barberio Corsetti, e con grande successo: due anni di repliche».
Ventisette anni, quasi ventotto insieme non si improvvisano. Fuori il segreto della coppia.
P: «Se non la pensassimo allo stesso modo sulle questioni fondamentali non saremmo riusciti a raggiungere questo traguardo. Certo, condividere le radici è tanto, ma non basta».
F: «Giusto, senti io devo scappare a prendere un aereo, continua tu Vale, ciao ciao».
Ecco, come sempre nella coppia ce n’è uno che scarica sull’altro i compiti più difficili.
P: «Capita nelle migliori famiglie».
DORIANO RABOTTI per il Resto del Carlino il 16 gennaio 2021.
Anche gli eterni ragazzi arrivano a compiere 50 anni. Come Filippo Neviani-Nek, che taglia oggi il traguardo del mezzo secolo e per l'occasione si è regalato un libro in parte autobiografico, che uscirà tra una settimana per Harper&Collins, intitolato 'A mani nude'.
Filippo, come ci si sente al giro di una boa come questa?
«Magari quando vedrò scritto '50 anni' in una didascalia sotto la mia foto sul giornale mi farà effetto, ma devo dire la verità, al momento non lo sento. Sto bene perché ho sempre dentro l'entusiasmo di un ragazzino. Sono sempre stato iperattivo e molto entusiasta, nelle piccole e nelle grandi cose. E mi tengo in forma, per affrontare l'età».
Quali sport pratica?
«Crossfit, pesi, lavoro al corpo libero con il calistenico. Certo ogni tanto la ripresa dopo un allenamento è più faticosa, sento di più la stanchezza dei lunghi viaggi rispetto a dieci anni fa. Ma ci pensa mia figlia Beatrice, che ha già 11 anni, a tenermi giovane».
Filippo, sembra ieri che esordiva al teatro Carani di Sassuolo cantando John Denver: sono passati 35 anni.
«Io sono fortunato. Da una parte c'è il dna a farmi mantenere questo spirito, dall'altra sono avvantaggiato perché faccio un mestiere nel quale difficilmente si invecchia. La creatività mantiene il cervello in movimento, la mia curiosità mi ha aiutato anche durante le lunghe ore passate in ospedale. E c'è anche un po' di vanità, curare il fisico è un linguaggio di comunicazione».
Un anno fa l'incidente con una sega circolare. Come sta la mano ora?
«E' al 75-80%, non so dire se migliorerà ancora. Non riesco ancora a suonare la chitarra, ma posso farlo con la batteria, il basso e il pianoforte. E' già importante che sia tutta intera: ho rischiato di perdere medio e anulare».
Dopo l'incidente lei guidò con la mano ferita dalle colline di Sassuolo all'ospedale. Come riuscì a restare così freddo?
«Non lo so. Nel libro spiego che in certe circostanze una persona tira fuori qualità che non sa di avere, nel mio caso soprattutto la pazienza. Ho scoperto virtù che non conoscevo. Mai come stavolta tra queste pagine ho permesso a Filippo di mostrarsi, con le sue forze e le sue fragilità».
Questo è il suo secondo libro.NEK 2
«Credo che non sarà neanche l'ultimo. Non sono uno scrittore, non so se più avanti scriverò canzoni sul dolore di quei giorni. So che scrivere il libro è stato terapeutico, pochi giorni dopo essere uscito dall'ospedale, mentre facevo gli esercizi di riabilitazione, ho sentito il bisogno di fare ordine nei miei pensieri senza gli obblighi della metrica di una canzone».
L'incidente le ha fatto scoprire un amico in Gianni Morandi. Sa che vi somigliate molto?
«E' vero, non solo nell'emilianità verace. Se penso che ormai sono trent' anni che faccio questo mestiere, in effetti...con Gianni ci conoscevamo già, ma non così bene: anche lui ha avuto un incidente alla mano, questo ci ha avvicinato molto. Ora ci sentiamo spesso e i primi minuti di ogni telefonata li passiamo a raccontarci i progressi dei nostri mignoli. Mi ha fatto molto piacere che abbia scritto lui la prefazione del libro. Io mi ispiro molto a lui».
Perché?
«Perché quelli come lui, o come Massimo Ranieri, sanno fare tutto in modo molto naturale. Sono multitasking, hanno dimostrato di essere poliedrici: sanno presentare, sono attori di teatro e di fiction. Non è facile essere bravo in ambiti diversi della propria professione, loro sono nella storia della creatività».
Come festeggerà?
«In casa, visti i tempi. So già che in famiglia mi faranno pesare questa data». A 50 anni si fanno bilanci. «Io parlerei più di un inventario, quando analizzi ciò di cui hai avuto bisogno per chiudere l'anno, ci metti anche tutto quello che non ha funzionato, le scelte anche sbagliate. Ognuno di noi ha anche progetti che non hanno funzionato, nella vita. Ma tutto serve».
Di che cosa è orgoglioso e qual è il rimpianto più grosso?
«Non sono pentito di molte cose, magari rimpiango di aver detto do no ad alcune proposte nel periodo più stressante della mia vita. L'orgoglio è per aver resistito così tanto, dopo trent' anni sono ancora qui».
Anche prima dell'incidente lei stava già provando altri ruoli, da conduttore in radio e in tv. Il Nek del futuro come sarà?
«Io sono curioso e seguo il mio istinto, credo di poter esprimere me stesso anche attraverso altri linguaggi. Ma aspetto il momento, non voglio bruciare le tappe. So che devo seguire un percorso di apprendistato e gavetta per arrivare magari un giorno a presentare il festival di Sanremo, per esempio. La radio e la tv erano idee che avevo già, ho trovato chi ha creduto in me, come Radio Due. Prendo quello che mi stimola, sono uno che si butta. L'idea di essere sul palco senza dover per forza cantare mi piace proprio».
Mai pensato di fare l'attore?
«Quella è tutta un'altra storia. Quando presento sono comunque me stesso, per fare l'attore devi imparare a diventare qualcun altro, non è un passaggio facile. Mi piacerebbe di più scrivere una colonna sonora, è una cosa che non ho mai fatto. E forse all'orizzonte potrebbe anche esserci una possibilità».
· Filippo Timi.
Filippo Timi: «A 15 anni mi davano del gay, avrei dovuto rispondere sì. Il prof di filosofia mi cacciò». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.
L’attore: prima di Salvatores e Bellocchio ho fatto la fame.
Filippo Timi nel camerino del Teatro Parenti, a Milano con la cagnolina impagliata Lady, migliore amica di Mrs Fairytale,la casalinga americana degli anni 50 interpretata dall’attore nel fortunato «Favola» (Ansa)
«Sono stato un adolescente introverso. Il ballo era l’attività che mi toglieva, di peso, dalle mie chiusure. Ogni volta che alla televisione compariva un film con Fred Astaire mi illuminavo, e i piedi sotto il tavolo cominciavano da soli a ballettare. A 6 anni dico a mia mamma Luciana che voglio fare danza. Mi accontenta. Il primo giorno di corso mi mettono a fare il gattino per due ore. Il gattino...? Nei miei desideri avrei voluto che la maestra, dopo avermi fatto esibire per dimostrare tutto il mio talento, mi dicesse: altro che Fred Astaire, Filo, tu sei pronto per Broadway! Me ne sono andato sbattendo la porta».
Se non si fosse pensato in grande sin da piccolo, Filippo Timi non sarebbe mai partito da Ponte San Giovanni, in Umbria, per riversare sulle principali forme d’arte — teatro, cinema, scrittura, pittura, musica — e sulle loro derivazioni — regia, televisione, radio — una strabordante esigenza di affabulante comunicazione la cui origine, risalendo la corrente di quel Tevere che come Circe Ulisse avrebbe attirato il viaggiatore della parola a Roma, va cercata ab ovo. Eccola, da qualche parte nel reparto di pediatria dell’ospedale di Perugia: «Nel mio primo ricordo sono appena nato, dentro l’incubatrice. La stanza è scura, c’è una ventola che in sottofondo produce un rassicurante ronzio e una luce azzurrina che traspare in chiaroscuro. O forse ho letto una poesia di Rimbaud e mi sono suggestionato da solo?». Proseguirà così fino alla fine, tra verità e sogno, in presenza di una moltitudine di personaggi incarnati e incarnabili che affollano la stanza di un albergo milanese (sul tavolo il copione del film su Monica Vitti che sta per girare con Alba Rohrwacher e l’inseparabile Coca-cola), tanti che a un certo punto bisogna aprire la finestra per non creare assembramento.
Filippo come è nato?
«Di sette mesi, avevo fretta. Mamma era infermiera. Quando mi ha portato a casa sono rimasto al buio per due mesi».
La prima luce è il teatro?
«Prima ci sono la danza e il pattinaggio a rotelle: ero forte, ho fatto gare, questo spiega le mie cosce importanti. A 15 anni, poiché non giocavo a calcio, mi dicevano frocio. Perché mi mettete un’etichetta, perché lo usate come un insulto, mi chiedevo. Ma soprattutto: perché non ho avuto il coraggio di dire sì?».
Perché.
«Un periodo non facile, anzi: decisamente nero. Mi diplomo con 60/60 all’Istituto d’arte, chiedo ai miei di fare l’Università. E con quali soldi ?, fa mamma, vai a lavorare con tuo papà valà (mio padre Nello faceva tubi di cemento, che non c’è niente di male, sia chiaro). Invece mi iscrivo a Filosofia. Al primo esame, su Lévi-Strauss, prendo 29. Il secondo è su Socrate, che ai simposi si presentava con l’ombretto blu sugli occhi, agghindato in tuniche femminili: un travesta, diciamolo. Mi presento vestito e truccato così. Il professore è il rettore della facoltà: all’inizio fa finta di niente, ma quando a domanda mi ostino a rispondere con domanda (d’altronde è il metodo socratico), mi caccia. La mia Università finisce lì. Il problema è che io non volevo studiare Socrate, volevo incarnarlo».
L’immedesimazione del metodo Stanislavskij.
«Già facevo teatro, mai avrei pensato di poterci vivere. Accompagno un amico al Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera, prendono me. Al provino li sfinisco di trottole e ruote senza mani: devi darti un colpo in avanti con il petto, sono faticosissime ma esaltanti. Vado avanti per ore, con l’allenamento del pattinaggio, e li schianto. Ma la mia vera carriera è partita quando ho cominciato a guadagnare soldi. Cioè con Salvatores e Bellocchio, prima facevo la fame. Fino a 25 anni entravo in scena per non balbettare, per dimostrare agli altri che ero bravo e a me stesso che esistevo. Poi grazie a Cechov ho capito che era più interessante mettermi a disposizione del ruolo e della storia. Da concavo a convesso, insomma. Finché non abbracci il tuo dolore, però, non succede».
E quando ha deciso di abbracciarlo?
«Recentemente ho avuto un down, dispiaceri sentimentali. Una cara amica, Lucia Mascino, mi ha detto: Filo devi abbracciare la tua parte ferita. Se non l’abbracci tu, chiederai a qualcun altro di farlo da fuori, ma ti mancherà sempre un pezzo. Ecco, a me questa cosa ha cambiato totalmente la vita! Come se in cielo all’improvviso fosse apparso il sole: non significa che sono scomparse le nuvole, certe fragilità riaffiorano sempre».
In famiglia, da bambino, era già il centro dell’attenzione?
«Non direi, no. Papà era un uomo buono ma chiusissimo, non spiccicava una parola: stava seduto sul divano, davanti alla tv spenta. Mamma mandava avanti la casa con la grinta di una leonessa. Forse mi sono preso in carico la loro voglia di comunicare...».
Al centro del suo ricco femminario, nel nucleo profondo della Mrs Fairytale di «Favola», c’è sua madre Luciana?
«Sì. Il giorno in cui mi ha mentito (per una cavolata, nemmeno me la ricordo) è stata la fine di tutte le illusioni: la mia cacciata dall’Eden».
Chi sono gli artisti che compongono il suo pantheon, Timi?
«Il primo che mi ha davvero affascinato è stato Jean Cocteau: i film, i romanzi, le poesie. Un genio. Un creativo. Un Leonardo da Vinci meno scientifico».
Dopo quasi trent’anni, avendo fatto così tante cose, ha capito qual è il suo talento?
«È l’attività che mi fa sentire più in pace, qualsiasi essa sia. Succede quando, nel momento, ho il coraggio di essere aperto. Può accadere scrivendo, recitando, dipingendo... A teatro, però, in particolare, ci sono situazioni in cui ti butti nel vuoto senza rete. Il percorso attoriale è questo: lasciare la comfort zone per rappresentare altro. Fare teatro è un gesto artistico assoluto, un voto (non vuoto) a perdere. È l’unica arte che non lascia traccia di sé se non qui e ora. Tornare a teatro dopo la pandemia è stato come rifare l’amore dopo due anni, ricominciare a sentire il cuore, il fiato, il corpo dell’altro».
Il lavoro di cui va più fiero?
«La mia anima».
È un lavoro?
«No, non lo è».
La sceneggiatura vorrebbe che lei, qui, rispondesse: il lavoro di cui vado più fiero è il prossimo.
«Che è un po’ vero, peraltro. Sogno di incontrare gli impossibili: Christopher Nolan, i fratelli Coen, Martin Scorsese e Brian De Palma. Nanni Moretti è una mia perversione. Garrone, Sorrentino, Saverio Costanzo lo stimo tantissimo, Virzì, con Bellocchio e Salvatores lavorerei di nuovo subito, i fratelli D’Innocenzo e Valeria Bruni Tedeschi, stupenda».
È innamorato?
«No. Anzi, sì».
Sì o no?
«Sono innamorato di me stesso».
Doppio sogno: questa è recitazione o realtà?
«Mi spiego: prima amavo solo il lavoro, ora provo a dare un senso a tutto. Mi sacrificavo: non mangiavo, non dormivo. Sto davvero cercando di volermi un po’ più bene. Affronto il lavoro in maniera meno disperata. È come se avessi finalmente capito che l’inferno esiste; esiste anche il paradiso, però dura un attimo».
Su Netflix è uscito «Il filo invisibile», la storia di due padri disfunzionali in una famiglia arcobaleno. Arrivato a 48 anni, un figlio le manca?
«Sono zio felice: con me i miei nipoti riescono a confessare cose che ai loro genitori non direbbero mai. Parliamo di tutto. A un figlio ci penso: non tutti i giorni, ma ci penso. Senza particolari ansie né aspettative. Sono aperto all’universo».
Se si incontrassero, Mrs Fairytale e Drusilla Foer si piacerebbero?
«Oddio sì! Diventerebbero amiche per la pelle! Drusilla a Sanremo è stata una bellissima presenza, è una donna di grande eleganza. A Firenze è venuta a vedermi a teatro, poi siamo usciti a cena insieme. Una piacevole serata».
Sul palco o sul set sembra impavido. E nella vita reale di cosa si vergogna?
«Non sono così sfacciato come sembro. Sul palco si accende una creatività: il fine ultimo è la bellezza, che può essere grazia assoluta o uno sfregio cosmico. Nella vita di tutti i giorni incappo in tante insicurezze... È brutto dire che mi vergogno ma, sì, mi vergogno di chiedere aiuto, qualsiasi tipo di aiuto, dall’indicazione stradale alla mano che ti tira su dal baratro, e allora mi viene da imprecare».
È questa la vita che sognava da bambino, Filippo?
«È una vita incredibilmente più sfaccettata e ricca! Non avrei mai osato sperare in tanto. Però mi riconosco il merito di non aver mai mollato, nemmeno quando non arrivavo a fine mese e se non c’era un’amica che mi invitava sempre a cena mettevo in conto di saltare il pasto».
Cosa voleva fare, da grande?
«Lo stilista, l’attore o il Papa. Da piccolo ho fatto un sacco il chierichetto e mi piaceva tantissimo. I canti, la chitarra, il rito della Messa: era già teatro».
Nel suo spettacolo di Capodanno c’era un’invettiva contro i senatori del Parlamento italiano che hanno accantonato il Ddl Zan, il disegno di legge contro l’omobitransfobia.
«Non credo nelle religioni che, invece di includere, escludono. Che meraviglia quel parroco di Lonato del Garda che durante l’omelia della domenica ha intonato la canzone di Blanco e Mahmood: qualcuno forse non se n’era accorto, ma la parte divina c’era pure a Sanremo».
Lei è buddista.
«Non ho troppa voglia di parlarne ma le dico questo: un po’ più buddisti, questi cattolici, dovrebbero essere... Basta con il senso di colpa».
· Filomena Mastromarino, in arte Malena.
Gianmarco Aimi per mowmag.com il 20 Novembre 2022.
“In ogni cosa che faccio devo essere la numero uno”. Ci è riuscita Malena, diventando la pornostar più famosa d’Italia e il sogno erotico di ogni uomo. Ma anche prima del successo è sempre stata così: una che si è rimboccata le maniche, ha studiato, lavorato, ha voluto eccellere senza rinunciare a far esplodere la sua sessualità.
L’abbiamo incontrata e in una lunga intervista ci ha confessato tanti aspetti inediti della sua vita. Tra una risata e un pianto, ci ha parlato della famiglia, dell’attività di agente immobiliare, si è commossa per la malattia della madre e si è arrabbiata per le donne che criticano le donne.
E il sesso, più che performance, lo intende come una grande gioia per sé e per gli altri: “Mi paragonano a Cristiano Ronaldo, ma io preferisco a Lino Banfi, che quando è in tv porta un sorriso”. Bella, ricca, libera, ma cosa le manca per essere felice? Senza esitazioni: “Un figlio”
Malena ride. Malena piange. Malena provoca e nello stesso tempo fa riflettere. All’anagrafe Filomena Mastromarino, classe ‘83, è la pornostar più famosa d’Italia ed è ormai considerata l’ambasciatrice dell’eros italiano nel mondo. La incontriamo allo Starhotel Ritz di Milano qualche ora prima di uno spettacolo live. È appena uscita con il libro “Pura” (Mondadori), un titolo che è tutto un programma. E un sottotitolo che potrebbe essere usato da manifesto politico: “Il sesso come liberazione”. Partiamo da qui, ma c’è molto altro che emergerà nel pomeriggio passato insieme al sogno erotico di ogni uomo (e non solo).
Perché prima di diventare una icona dell’hard, Malena è stata una ragazza studiosa - le mancano pochi esami alla laurea -, un agente di commercio in carriera e una donna che ha vissuto la sessualità con molte meno trasgressioni di quel che pensate. Il primo bacio? “A 14 anni, ma non volevo correre, cercavo il romanticismo seguendo il cuore e con la persona che volevo io”. La prima volta? “Poco più tardi, sempre con un ragazzo con cui stavo da tempo”. E ancora un lungo fidanzamento di 7 anni e una storia di 12 come amante (“lui mi ha fatto capire cos’è l’amore, ma non mi sentivo seconda alla compagna”).
Qui emerge un tratto caratteristico della 39enne pugliese: “In ogni cosa che faccio devo essere la numero uno”. A questo si aggiunge un altro aspetto del suo carattere: l’assenza di compromessi. Infatti, ci spiega: “Vado a capitoli. Quando ne chiudo uno è finito in tutto e per tutto. È come se cambiassi identità”.
L’ingresso nel porno lo deve a Rocco Siffredi a 33 anni, dopo il “caso” che scoppiò quando si scoprì che, oltre ai set per adulti, frequentava anche la direzione nazionale del Partito democratico. Da quel momento la sua ascesa è stata inarrestabile.
La ripercorriamo insieme a lei, che oggi si considera “una bolla di sapone, che quando urta contro qualcosa, invece di esplodere prende slancio per volare ancora più in alto”. Che si commuove per la malattia della madre. Che si arrabbia con le donne che criticano le donne. Che prova tenerezza verso i ragazzi a cui batte il cuore quando le si avvicinano. Che non sopporta di essere corteggiata e i regali (“non mi piacciono mai”). Che più di Cristiano Ronaldo preferisce essere paragonata a Lino Banfi. E che ci confessa l’unica cosa che le manca davvero per essere felice, nonostante la bellezza, i soldi e la libertà: “Un figlio!”.
Qual è il tuo primo ricordo di bambina?
Sicuramente il più traumatico, anche se per qualcuno può sembrare banale, ma per me è stato uno choc. Ero al supermercato e mi sono persa senza più trovare mia madre. Ho provato un vortice di emozioni che mi è rimasto impresso. Se chiudo gli occhi sento ancora quella paura e rivedo tutto che mi gira intorno. Il resto dei ricordi sono legati all’asilo, sono pochissimi. Ero sempre un po’ malaticcia, tra varicella, rosolia e altri malanni. E naturalmente i ricordi affettivi legati a mio padre e mia madre.
Hai avuto una infanzia felice?
È stata molto bella. Con una mamma premurosa, ma non pressante. Di solito ci si lamenta di avere una mamma apprensiva, io no. Mio padre invece è una persona taciturna, però ho sentito tantissimo il suo affetto. Se mia madre era severa e lo dimostrava, mio padre non ha mai alzato la voce. Bastava che mi guardasse in un certo modo e io scoppiavo in lacrime. I miei genitori non mi hanno mai trasferito ansie. Mi spiace solo che a causa del lavoro di mio papà non ho mai potuto fare una vera vacanza con loro.
Che lavoro faceva?
Prima lavorava in un caseificio, poi ha trasportato latticini, per cui non poteva assentarsi per grandi periodi. Le vacanze lunghe, come andava di moda una volta, non le abbiamo mai fatte. Solo alcuni weekend. Come un bel fine settimana a Roma, ma avrò già avuto circa 15 anni.
Tua madre di cosa si occupava?
Gestiva un negozio di bomboniere e di fiori, ma quando ha avuto me ha lasciato tutto per dedicarsi a sua figlia.
Sei nata a Noci, in provincia di Bari, poi hai vissuto cinque anni a Taranto e infine ti sei trasferita a Gioia del Colle. Della tua terra, la Puglia, cosa pensi di portarti dentro?
C’è una cosa delle donne pugliesi che le caratterizza: l’ironia. Anche in momenti di difficoltà o quando devono rispondere a tono trovano sempre un modo ironico. È una dote che ci ha dato la nostra Puglia.
A scuola eri una brava studentessa?
In generale ero una bambina molto tranquilla, mia madre mi ricorda ancora che fino a 6 anni stavo nel seggiolone per stare al livello degli adulti. Composta e non capricciosa. Da noi si dice “la deve vincere sempre lei”, io non ero così. Più che testarda ero decisa. Non mi lasciavo convincere facilmente. Ma non facevo i capricci, prendevo delle decisioni ragionate e poi non tornavo indietro. E dormivo tantissimo.
Come mai?
Chissà… ero cicciottina e me ne stavo beata e tranquilla. Mi raccontavano che ero una “paciona”, come si dice dalle mie parti. Alle elementari uguale, non ho mai dato problemi, non ero una ribelle. Quando era ora della “ritirata”, cioè di tornare a casa, rispettavo l’orario che mi avevano dato. Non andavo contro le regole. Sono ancora così. Coerente con me stessa. “Se tutti avessero figli come te ne avrei fatti cento”, diceva mia mamma. Poi sono rimasta figlia unica, ma solo perché ha avuto problemi di salute.
Sei nata nel 1983, tra l’altro siamo coetanei. Una generazione di mezzo la nostra per tanti aspetti, un po’ analogici e un po’ digitali.
Il primo computer l’ho ricevuto in dono per la cresima, di quelli con gli schermi giganteschi. Ho iniziato a usarlo da autodidatta, poi ho preso qualche lezione, come usava allora, perché non si studiava informatica a scuola. Mi sono cimentata in tutto. Sono molto paziente e in ogni cosa devo riuscirci per forza, senza però saltare dei passaggi. Nello stesso tempo, difficilmente chiedo aiuto, perché so come sbrigarmela da sola.
Quali erano i tuoi idoli musicali?
I Take That e le Spice Girls. Le mie amiche mettevamo i poster nella stanza, a me non era permesso perché si rovinava la pittura dei muri. Mia mamma ha sempre avuto un gran senso dell’ordine e della pulizia. E me lo ha lasciato in eredità. Un poster era concesso solo in una nicchia dietro all’armadio. Ma le figurine sull’armadio no, vietatissime!
Nell’adolescenza hai avuto qualche segnale che da grande avresti percorso la strada dell’hard?
Assolutamente no, perché sono stata ponderata nella scelta delle amicizie e delle relazioni.
Quando hai dato il primo bacio?
È stato deciso con il sentimento, verso i 14 anni. Non volevo correre, anche se lo avevano già fatto gli altri. Era tutto nella mia testa, con romanticismo, seguendo il cuore, con la persona che dicevo io. Non mi è mai piaciuto essere corteggiata, dovevo essere io a scegliere. Non mi lancio nelle braccia di qualcuno senza pensare. Contrariamente a quello che la gente può pensare, ho avuto grande rispetto del mio corpo.
E la prima volta in cui hai fatto sesso?
Nello stesso modo. L’ho desiderato, con una persona con cui stavo da un po’ di tempo e non buttata via in modo facile. Però mamma mia, è stato traumatico…
In che senso?
Perché la parte del dolore fisico non l’avevo calcolata. Per entrambi è stata la prima volta, quindi eravamo impacciati. Infatti poi siamo rimasti insieme un po’ di tempo, perché avevo detto basta a quel dolore. Ci sta, fa parte dell’ingenuità. Oggi vedo che manca molto nei giovani.
Poi hai avuto una storia d’amore lunga, di quelle che di solito portano al matrimonio.
La classica storia seria, quella in famiglia. Quella “perfetta”.
Com’è che è finita?
Perché a un certo punto, come ricordo nel libro, mi sono resa conto che non era la vita che volevo. Non a livello affettivo, perché lui era un bravissimo ragazzo e mi ha amata follemente, ma dal punto di vista sessuale. Quando ho iniziato a sentire l’istinto di approcciarmi ad altri uomini mi sono detta: “C’è qualcosa che non va”.
Quanti anni avevate?
Ci siamo messi insieme che io avevo 17 anni. Ma a 24 mi sono chiesta: se già devo fare una vita così, con questi dubbi, non può essere quello giusto per sempre. Ho iniziato a sentirmi insoddisfatta e quindi l’ho lasciato.
Ma non è l’unica storia lunga che hai avuto, come racconti nel libro.
No, ho svelato di essere stata amante per 12 anni di un uomo. E quella è stata la storia d’amore più bella in assoluto. Era una persona vicina al mio ambiente. Mi ha fatto capire il senso dell’amore, che comprende anche la rinuncia. Non mi sono mai sentita l’altra, ma “l’Amore”. Anche se l’amante di solito è percepita come esterna, io invece mi sentivo la prima per lui.
Cos’è l’amore per te?
Completezza! Con lui ho imparato questo: una donna non deve essere o amante, o moglie, o madre. Ma più più più. Tutti i desideri, le debolezze, le problematiche, tutto deve essere vissuto con il proprio partner. Spesso invece si tende a scegliere solo una sfaccettatura della personalità. Da figlia unica ho avuto l’esempio dei miei genitori molto uniti e anch’io è quello che cerco. Altro discorso è la sfera trasgressiva.
È con quel compagno che hai iniziato a frequentare i club per scambisti.
Sì, ma quando è finita con quel compagno è finita quella vita. Perché era il nostro modo di vivere la sessualità. Il nostro, non solo il mio. Era una forma di completezza. Non lo facevo perché mi sentivo incompleta, ma era un modo di dare e avere per puro piacere.
Non hai mai nascosto neppure di essere bisessuale.
No, perché dovrei? La mia prima “trasgressione” nel sesso è stato con una donna. Avevo 24-25 anni e l’ho portata subito dal mio partner di allora. Adesso le ragazze di quell’età hanno già esplorato il mondo. Invece io l’ho fatto passo dopo passo. Ci ho messo quasi dieci anni. Ora in un anno i giovani fanno tutto. Per me doveva essere un desiderio di entrambi. Non c’era convinzione, ma partecipazione.
Chi senti di essere oggi?
Se non avessi avuto questo percorso sessuale non sarei la donna che sono, così umana. Ci sono modi e modi di vivere la mia professione.
Fammi un esempio.
Mi vedo molto umana perché nel mio mestiere c’è una alta forma di altruismo. Non lo faccio per il successo, sarebbe solo follia. Quando mi definiscono “portatrice sana di felicità” è per questo motivo. Sono una delle poche persone nel mondo che non fa mai piangere.
Quindi in fondo ti senti una figura simbolica.
Nel mio settore sono una delle pochissime ad aver raggiunto questa notorietà, e spero di rimanere un po’ nella storia come chi ha sempre portato agli altri gioia e non dolore.
Eppure, la tua vita aveva preso una strada molto diversa. Ti mancano pochissimi esami universitari nella facoltà di Biologia.
Mannaggia, ma non è un rimpianto perché vado a capitoli. Forse ho sette vite come i gatti, perché quando ne chiudo una è finita in tutto e per tutto. È come se cambiassi identità.
Senza contare che per anni hai lavorato come agente immobiliare.
Dal 2006 a pochi anni fa. Anche quando sono diventata Malena per un po’ ho mantenuto l’attività. Quello è il mio lavoro, sono tra le poche abilitate in Italia, saremo il 20%. C’è chi lavora nell’agenzia e chi è agente immobiliare, non è la stessa cosa. Si fa un percorso di studi, si prende un titolo, per cui ne vado molto orgogliosa.
Perché avevi scelto proprio quel settore?
Mio padre a un certo punto è dovuto andare all’estero per questioni lavorative, quindi ho avuto la necessità di mantenermi da sola. Non sono stata viziata, però mantenuta per un certo periodo sì. Ma appena è servito mi sono rimboccata le maniche. Prima ho lavorato in una farmacia, poi ho fatto la commessa in un franchising di trucchi e per una agenzia di assicurazioni. Alla fine sono diventata agente immobiliare.
Quindi se sui social ti dicono “ma vai a lavorare”, come spesso accade nei commenti ai personaggi famosi, puoi sbattergli in faccia un signor curriculum.
Certo, perché mio padre mi ha sostenuta, però mi ha anche insegnato a contare sulle mie forze. Quando ho iniziato come agente immobiliare pensavo di fare solo un part-time, poi ho capito di possedere una caratteristica molto importante, e cioè che in ogni cosa che faccio devo essere la numero uno. E per diventarlo mi impegno molto. Ma sai quanto lavoravo?
Raccontami.
Accompagnavo le famiglie anche la domenica, facevo orari estenuanti. Anche lì ho provato la soddisfazione nel dare qualcosa agli altri. A me piaceva persino studiare la parte burocratica. Devo essere preparata in quel che faccio, non mi piace l’ignoranza. È necessario avere almeno una base che ti permetta di parlare con chiunque senza sfigurare.
Cosa ti ha lasciato quel mestiere?
L’essere camaleontica e saper gestire le obiezioni. Sono le caratteristiche principali per un buon agente immobiliare.
Saper gestire le obiezioni ti sarà utile sui social…
Di solito non rispondo mai. Soltanto una volta l’ho fatto, perché c’era un argomento che mi toccava molto da vicino. Riguarda le malattie. E mi è spiaciuto che a commentare fosse una donna adulta, magari anche mamma.
Cosa aveva scritto?
Per attaccarmi ipotizzava che potessi avere delle malattie. Soprattutto una, storicamente sensibile nel mondo del sesso, come l’Hiv. Solo che aveva scritto “Hitz” intendendo Aids. Lì sono sbottata, perché una che scrive così non sa niente. Mi dà troppo fastidio questo tipo di ignoranza, visto che nel nel nostro ambiente abbiamo la fortuna di fare gli esami ogni venti giorni.
È un pregiudizio che in parte rimane quello del porno e delle malattie.
Questo sì, purtroppo c’è poca conoscenza. E pensano sia pericoloso solo l’Hiv, invece ci sono molte altre patologie gravi che se le prendi ti porti dietro tutta la vita. Ricordo un articolo di un sito che mi ha dato fastidio, con sotto dei commenti allucinanti. Se fosse per me dovrebbero essere limitati.
Non mi dirai che sei per la censura?
No no, assolutamente. Ma sotto le pagine delle testate giornalistiche o dei personaggi pubblici non è più opinione ma insulto. Ci vuole un moderatore. E se ti definisci "sito di informazione” alcuni commenti dovresti eliminarli. Certi insulti possono fare del male ai giovani. Con un click si può insultare troppo facilmente. A me non fanno né caldo né freddo, altri invece si sentono feriti pesantemente.
Chi lavora nel mondo dell’hard immagino debba fare molta attenzione con i social.
Altro che, non posso mettere i capezzoli in vista, le maglie trasparenti, bisogna guardare ogni aspetto. Invece certi influencer molto seguiti lo fanno e non hanno conseguenze. Perché loro sì e io no? Le guide di Instagram dicono che non si potrebbe vedere il capezzolo neanche velatamente.
Quindi chi ha più follower può prendersi più libertà?
In teoria se hai più follower hai anche più segnalazioni. Mi sembra di rendermi conto che non c’è niente che non sia forzato dalla volontà di qualcuno. Neanche di un algoritmo. Ma di una persona che stà la dietro. Prima pubblicavo di più, ora molto meno. Devo seguire le regole, ma se uno che ha trenta volte più follower più di me fa quello che vuole, allora basta. Preferisco gli spettacoli nei locali dal vivo, con il pubblico che viene per apprezzarmi e amarmi di persona.
Abbiamo divagato, ma a un certo punto nella tua vita è entrato un signore che si chiama Rocco Siffredi. Quanto è stato importante?
Rocco è Rocco, lo conosciamo tutti, mi ha scoperto. Però devo tutto a suo cugino. Sinceramente per me Gabriele è stata la persona più rappresentativa nel mondo del porno.
Per quale motivo?
È il regista di tutti i film di Rocco. È l’anima della sua produzione.
E purtroppo è venuto a mancare nel 2020.
Abbiamo visto tutti quanto è rimasto sconvolto Rocco. Il motivo c’è. È stata una delle poche persone, per me 5 anni e per Rocco per 32, che non vedono solo business nel porno, ma che ci mettono dentro un’anima, come in tutto ciò che fanno.
Il porno non è il mondo di “plastica” che in molti pensano?
Dipende sempre dalle persone con cui lavori. Si è persa molta umanità, per questo mi ritengo fortunata ad aver lavorato con persone dotate di un’anima e che non ti considerano un oggetto.
Quali sono le differenze tra le produzioni europee e quelle americane?
In America ho lavorato e per loro il porno è una industria. Ma non ti trattano come un oggetto, per gli americani è un lavoro come un altro da affrontare con responsabilità. Sono attenti al ritardo di un minuto sul set, mentre in Europa no. Ti fanno capire che il danno che provochi non è solo a te ma a tutto l’entourage. È una macchina perfetta, per cui è molto più facile lavorare. Ci sono delle regole e tutti le rispettano.
Il tuo futuro lo vedi più europeo o americano?
Uno dei motivi che non mi ha fatto spostare soltanto in America è per non lasciare mia madre sola in Italia. Non vorrei abbandonare il mio Paese, anche perché non voglio tradire i miei fan.
Non a caso sei “Malena Nazionale”.
Ma certo, io mi sento super nazionale! E la mia sfida è questa, me lo devono riconoscere perché sono una delle poche che vive, lavora, ha la famiglia e ancora risiede nel suo Paese d’origine. Non sono mai scappata, anzi, sono voluta rimanere con tutte le conseguenze, positive e negative.
È vero che dopo l’esplosione del “caso” Malena sei voluta tornare subito al tuo Paese per guardare tutti in faccia?
Certo, perché quello era il mio modo di essere felice e non sentivo di aver fatto niente di male. Se ti dà fastidio vai via tu, scusa. Perché dovrei nascondermi in un altro Paese? Tra l’altro quando bene o male del mio lavoro tutti ne usufruiscono.
E qual è stato il primo impatto nelle vesti di Malena con Gioia del Colle?
All’inizio sono stata travolta dalla questione mediatica e non mi sono concentrata sulla reazione della gente. Però ricordo ancora l’auto che avevo, una 500, me l’hanno tutta segnata con i chiodi.
Ti sei data una spiegazione?
Evidentemente la gente deve sfogare in qualche modo le proprie insoddisfazioni. Poi si lamentano del bullismo... Si fanno tante campagne contro questo e contro quello, ma poi nei fatti non si vede nulla. E sarei io un cattivo esempio? Fa parte dell’ipocrisia. Comunque, in faccia nessuno mi ha mai detto “sei una puttana”. Mai! Scriverlo dietro un profilo fake o rigarti la macchina è facile, però dritto negli occhi nessuno ha mai osato farlo. Io si. Anzi, lo faccio sempre di dire le cose in faccia!
Hai raccontato che a causa del tuo mestiere il sesso nel privato è quasi azzerato.
Eh sì. C’è anche da dire che gli uomini sono abituati a fare i gradassi con il sesso. Ti dicono: “Ti prendo e non sai cosa ti faccio...”. Il problema è che con me devono farlo davvero e lì casca l’asino. Gli uomini tremano. Nelle serate live me ne accorgo, mi si avvicinano e gli sento il cuore battere, mi fanno tanta tenerezza. A volte me lo chiedo ancora: ma è possibile che riesca a suscitare tante emozioni? Vuol dire che sono entrata nel loro immaginario, che non sono qualcosa di virtuale.
Gli uomini sono più deboli rispetto al passato?
È un problema di mancanza di personalità. Se basi tutto solo sul membro maschile, figlio mio, sei messo male. Anche perché è il primo organo che smette di funzionare. Trovati una valida alternativa. E mi spiace perché, per il lavoro che faccio, posso dare tanto. Con me ci si può confrontare, ammettendo anche le défaillance. Sento di avere un mondo da donare.
Che differenza c’è tra il sesso sul set e quello in privato?
Per me il porno è molto tecnico, quindi lo distinguo dal sesso in privato. Il sesso per lavoro è una cosa, per il piacere dei corpi è un’altra cosa completamente diversa.
A cosa ti riferisci quando parli di tecnica?
Con Rocco Siffredi siamo tra i pochi a farlo professionalmente. Infatti lo diciamo sempre: non imitateci. Siamo performer, su tante cose c’è tecnica, le posizioni sono calcolate e a volte pericolose da emulare, possono fare del male a te o agli altri. Come al circo se vedi la trapezista e poi a casa provi a imitarla. Non ci si improvvisa. Ma questo è un problema in Italia che parte dalle istituzioni, perché non vedono il mondo dell’hard qualcosa di serio, ma finché non lo faranno non ci sarà professionalità con tutte le conseguenze che ne derivano.
L’ultima volta che hai fatto sesse per piacere?
Una settimana fa. Ma possono passare anche due-tre mesi da una all’altra. Non sono una che cerca il sesso a tutti i costi, devo sentirmi completamente appagata. Il sesso è un piacere dei sensi. Non faccio le sveltine, deve essere qualcosa di completo, che avviene con calma, dove stiamo bene insieme. Non perché sono pesante, ma perché è un momento di piacere assoluto. Quindi quelle cose da tre minuti arrivederci e grazie preferisco non farle. Ma sono sempre stata così.
C’è qualcosa di talmente estremo che non faresti mai, neanche al cinema?
Non saprei, perché fino ad ora tutto quello che mi è stato proposto è nei limiti della decenza. Poi bisogna vedere che cosa si intende per “decenza”. Per adesso il genere che faccio è quello, poi ci sono altri generi che prevedono tecniche che io non farei. Fortunatamente posso scegliere.
Sei stata paragonata a Cristiano Ronaldo.
Io preferirei essere paragonata a un attore comico, perché entrambi portiamo felicità. Sono stata invitata alla premiere del film di Lino Banfi e ne sono stato felicissima. Perché è stata la prima volta che ricevevo un invito dal mondo del cinema “classico”, che verso il mio storce il naso. Ecco, vorrei essere paragonata a Lino Banfi. Quando entra lui nelle nostre tv ci fa sempre sorridere. Ma sai, io sono per il “vissero felici e contenti”.
Prima parlavi degli uomini che hanno sempre meno personalità. Secondo te influiscono anche agenti esterni?
Credo che la loro fragilità sia dovuta alla parità dei sessi. Non sono di quelle che ritengono la donna il sesso forte e l’uomo il sesso debole. Forse ha semplicemente scoperto di avere le stesse fragilità della donna. Dicono che per capire una donna sia necessario il vocabolario, ma anche per capire un uomo.
Come ti poni in relazione ai movimenti come il Metoo?
Sono convinta che una donna sappia quello che vuole, come difendersi e come rispondere. Tutte queste regole imposte non le sopporto. È giusto fischiare o non fischiare? Mi riferisco al catcalling. Per me dipende dall’intenzione se mi fischiano. Ma in fondo è tutto un modo per parlare di differenza tra i sessi. Invece, come canta Miss Keta, lo scandalo è negli occhi di chi guarda. A una donna può far piacere, a un’altra dar fastidio.
Non sembri apprezzare così tanto i movimenti femministi.
Non vorrei forzare quello che dico dentro delle categorie, che è un po’ la tendenza di voi giornalisti. In natura esiste il genere umano, bisogna averne rispetto. Poi che ci sia il Metoo, il femminismo e quant’altro non mi interessa, perché vado all’apice. Ho studiato biologia, non dimenticarlo, quindi per me esiste il rispetto della persona in quando appartenente al genere umano. La natura ci ha fatto due cromosomi, XX e XY, quindi per me prima di tutto c’è il rispetto della persona. E non dico “persono”, “person*”. Sennò quando dicono “puttana” devono usare anche “puttano”. Allora proporrei di fondare un movimento con tutte le parolacce al maschile.
Cosa ti dà più fastidio dell’atteggiamento delle donne?
Che spesso le donne sono le prime a insultarsi tra loro. Mai visto uomini che si dicono “hai la cellulite”, “la pancia gonfia” o sottolineano tra loro altri difetti fisici. Non a caso lo sport più importante al mondo è il calcio, uno sport di squadra, ed è maschile. Gli uomini sono abituati a fare gruppo rispetto alle donne. Quindi è inutile sbandierare begli intenti nei movimenti vari, se poi siamo noi le prime a criticare quella per una gonna o l’altra per il girovita.
Quello che è accaduto a Vanessa Incontrada è emblematico. Prima criticata per la body positive e poi perché ha deciso di andare in palestra e mettersi in forma.
Ecco, vedi? Invece no! Perché se io vado in palestra non lo faccio per sentirmi più bella, ma per sentirmi meglio. Purtroppo bisogna sempre incanalare tutto nelle categorie: palestra o non palestra, pelo o non pelo… Ci deve essere il rispetto della vita altrui, quindi delle scelte delle persone, oltre che della natura in generale. Qualcuno andrebbe mai da un fiore a dirgli “sei brutto?”. Non credo. Nello stesso modo non capisco perché tra donne ci devono essere queste critiche.
Nel mondo del porno esistono questi atteggiamenti?
È capitato anche a me di essere attaccata dalle colleghe e mi sono incazzata. Gli ho detto, ma scusate, fate tanto quelle che volete essere rispettate perché lavorate nel porno e poi siete le prime che criticate una perché ha un aspetto estetico che non vi piace? Non va bene così.
Questione di invidia?
Chi fa queste cose è perché ha tempo da perdere nella giornata, quando invece ogni energia dovrebbe essere usata per migliorare se stessi o nel dare qualcosa di positivo agli altri. È molto italiano questo atteggiamento, ma non professionale. Bisognerebbe anche capire una cosa: una porno attrice lo è su un set, come una attrice di teatro lo è sul palco. Ma non la è quando fa video hard con il cellulare e li mette online, o gira film con produzioni che non sanno neanche come si regolano le luci. Questo può essere porno, ma non certo cinema per adulti.
Tu stessa hai detto che non guardi porno, anzi che ti annoiano.
È vero, non li guardo. Non mi piacciono e mi annoio, dopo poco mi addormento.
Se tutti fossero come te non avresti più lavoro.
Sarà che non ho ancora trovato qualcuno che possa stupirmi. Poi ho un approccio molto naturale, per cui non guardo altri film hard perché non vorrei vedere errori e non risultare più forzata. A me piace proprio farlo, non guardarlo!
Sei arrivata nel mondo dell’hard a 33 anni.
Ci sono arrivata donna, non ragazzina. Con la consapevolezza di quello che facevo.
Quindi con le idee chiare sull’obiettivo.
Esatto! Cioè di dare agli altri qualcosa di piacevole…
A 20 anni sarebbe stato diverso?
Moltissimo… Sento di avere un atteggiamento persino un po’ materno. Nel complesso più umano e responsabile. Per me la responsabilità è sinonimo di umanità. A 20 anni l’avrei fatto per i soldi, per viaggiare o essere famosa. Ora no, mi emoziono anch’io quando sento l’emozione altrui.
Ai tuoi spettacoli anche i giovani sono tantissimi.
Mi fanno tanta tenerezza, ti si parano davanti tutti tremanti. Sono troppo bellini! Mi paragonano a Cristiano Ronaldo. Perché come ti dicevo nel mondo ci sono due cose importanti: il calcio e l’amore. Lui è il re nel calcio, io sono la regina dell’amore!
È più difficile girare un film hard o fare un live in un club?
Molto più difficile il live rispetto a un film.
Perché è più imprevedibile?
Sì, anche se pochissime volte qualcuno è andato un po’ oltre e si è beccato una ingiuria o uno schiaffo da parte mia. Mi arrabbio quando vogliono fare i fighi con gli amici, perché dimenticano che l’unica figa sono io!
Anche nel mondo del porno ci sono stati casi di attori accusati di andare troppo oltre, magari con pratiche violente, poi denunciati dalle attrici.
In realtà non è così. Tutto quello che viene fatto su un set è stato concordato precedentemente. Se qualcuno poi si è permesso di dire questo è perché aveva bisogno di notorietà. Mi fa incazzare questa cosa... Nel nostro settore ci sono accordi contrattuali su ogni singolo aspetto.
Quindi è solo un modo per mettersi in mostra?
Ma sì, legato sempre ai movimenti come il Metoo. Dopo 30 anni c’è gente che si è ricordata che quello schiaffo era violenza. Ma noi sul set abbiamo tutta una serie di segnali per far capire al partner che qualcosa non ci va bene. È un ambiente perfetto, per questo si chiama cinema. Se qualcuno si lamenta è anche perché quel set probabilmente non è professionale. La vera violenza è quella che le donne subiscono quotidianamente, non confondiamola con questa fasulla. Ogni donna ha la consapevolezza di cos’è una violenza, che è sempre qualcosa contro la nostra volontà.
Hai mai avuto uno stalker?
Mi è capitato con un ragazzo che è stato molto molto pesante. Sono riuscita a gestire la situazione con il mio agente. Ma non nego che siano situazioni che ti generano molta paura. Le mie amiche dicono che sono fissata. Invece no. Facendo questo lavoro, a contatto anche con le debolezze delle persone, mi accorgo di tanti aspetti. Per questo sono molto diffidente, perché a volte ci sono gesti che sono inspiegabili, non possiamo capire tutto della mente umana. Come quando il cane morde il padrone, ci sono cose che non si possono controllare o prevenire. Se una ragazza è esposta, io lo sono centomila volte di più. Quindi devo stare più attenta.
La cosa più strana che ti hanno chiesto su Onlyfans?
Per me non c’è niente di strano. È solo un modo diverso di vivere la sessualità. Proprio perché il mondo è bello perché è vario non c’è niente di cui stupirsi. È ignoranza ridere di una persona che ha un modo diverso di fare sesso. Quello è il suo modo di essere unico. La diversità è ricchezza.
Vedo che hai un tatuaggio molto bello sulla spalla, se non sbaglio è dedicato a Santa Filomena, la santa da cui deriva il tuo nome all’anagrafe.
Quando ero bambina non mi piaceva il mio nome, però io in qualche modo devo sempre dare un senso a tutto. Così, senza entrare nell’aspetto religioso di cui ho troppo rispetto, mi sono informata sulla sua storia e ho scoperto che è bellissima. È stata una santa bambina. Il tatuaggio è molto colorato perché rappresenta tutti i modi in cui provarono a ucciderla dopo che si rifiutò di sposarsi con l’Imperatore. Non ci riuscirono per diverse volte.
Aveva sette vite come i gatti, un po’ come te.
Sì, ma non me la sono tatuata per un motivo religioso, quanto invece per dare un significato al mio nome. È anche quello di mia nonna, ma siccome non lo amavo per farmelo piacere dovevo capirne di più. Dopo che gli ho dato un senso ho trovato pace con quel nome. Sono una persona che ama dare un senso a tutto quello che fa. Non è calcolare tutto, ma dare un’anima a ciò che mi circonda. Me lo sono tatuato poco prima di diventare Malena, alla fine mi ha portato fortuna.
Visto che l’hai già frequentata, la politica è un mondo che ti attira?
Per fare politica bisogna dare, più che ricevere. E quindi avere il tempo per farlo.
Non hai ricevuto offerte per ritornare in politica?
Per ora no. Sono io stessa che non mi vado a mettere in comunella con qualcuno. Se fosse un modo per avvicinare i giovani alla conoscenza della nostra cultura, anche legislativa, potrei pensarci. Ma oggi non avrei tempo.
Se ti proponessero come Ministra delle Pari opportunità?
Dovrei studiare, poi potrei farlo.
Al contrario di tanti, che prima cercano di entrare in politica e poi eventualmente studiano.
Io devo capirci delle cose che faccio. Deve avere un senso, ricordi? Se la mia figura servisse ad avvicinare dei ragazzi che non vanno più a votare, allora sentirei già di avere un senso. Ma solo per finire su un giornale non mi interessa, non ne ho bisogno.
Prendi le cose troppo sul serio, così non ti chiameranno mai…
La politica si fa per gli altri. Io voglio sempre dormire serena, non mi piace avere debiti, che siano fiscali, umani o d’amore. Nella mia vita deve accadere tutto naturalmente, non a caso il mio libro si intitola “Pura”. E per me la purezza è l’assenza di compromessi.
Qual è il tuo rapporto con il denaro?
Ho le mani bucate.
E come li spendi?
In borsette o vestiti spendo molto. Ma mai tanto da mandare tutto in malora quello che ho costruito. Non vado oltre ciò che posso permettermi. Però non sono una formichina. Ultimamente ho comprato una casa.
Dove?
A Gioia del Colle, e dove sennò? In pieno centro, naturalmente. Per alcuni è una follia comprare una casa, per me no. La sto arredando benissimo, con materiali di pregio, opere di design e altri dettagli a cui tengo molto. Per me è la soddisfazione di potermela comprare da sola, senza averla da altri. Non amo i regali. I miei me li facevano solo a Natale e per i 18 anni.
Chissà quanti regali ti fanno oggi gli uomini.
Altro che, ma non mi piacciono mai.
Il più brutto?
Li tengo tutti, anche quelli brutti. Ma più brutto… forse qualcosa a cui sono allergica… Il regalo è brutto quando non è pensato. Può essere solo una rosa, ma del colore che piace a quella persona. Se sai che non mi piace il rosso è inutile regalarmi qualcosa di rosso. Se vuoi essere il mio partner devi sapere i miei gusti. Quindi attenzione ai particolari.
E il più bello?
Sicuramente avere ancora mia madre, dopo la malattia che ha avuto.
Non c’è dubbio. Quello è un regalo che, mi sembra di capire, vi siete fatte a vicenda.
Assolutamente, perché è costato tanta fatica economica, fisica, sentimentale. Tanti sacrifici da tutti i punti di vista. Ma è stato anche un modo per completare il nostro rapporto d'amore. Ci siamo avvicinate di più dopo la malattia. Quando senti il pericolo di perdere qualcuno a cui tiene è allora che capisci … Non lo auguro a nessuno.
Stiamo parlando di un tumore.
Quando nella nostra vita è entrata questa parola, ancora peggio il cancro, è cambia totalmente la visione delle cose. Tutto il resto non contava nulla. Devo dire che, anche se purtroppo è brutto dirlo, la sanità italiana nel pubblico è carente, per cui se non hai i soldi ti senti discriminato.
C’è ancora una grossa differenza tra nord e sud?
Ma certo, e tra pubblico e privato. È inutile fare politica se poi non cambiano questi aspetti.
Quando si è ammalata tua madre?
Non ero ancora Malena, dopo cinque anni che ero diventata agente immobiliare. Se non avessi avuto il mio lavoro, oltre al contributo di mio padre, non ci saremmo potuti permettere di fare le cure prima del previsto, quindi salvandola. È la cosa più brutta che ci possa essere. Ti senti impotente. Quando parliamo di denaro dobbiamo parlare di queste cose. Per avere una possibilità in più di salvarsi sono rimasti solo i soldi. Non è colpa della gente, ma di chi decide questi sistemi.
Ora la paura è passata?
Ha fatto le terapie e di recente, dopo le cure, non sentiamo più quella parola tra le mura di casa. È il regalo più bello che mi ha fatto mia madre. Anche perché ha avuto la grande forza di non abbattersi.
C’è una frase che vi siete dette in quel periodo e ti porti dentro?
Quando mi ha detto: “Voglio vivere”.
Prende un fazzoletto, dice di essere raffreddata a causa dell'aria condizionata dell'aereo con il quale è arrivata. Ma dopo essersi soffiata il naso le scendono le lacrime: "Scusa, ma la malattina di mia mamma mi ha molto segnata" ammette scoppiando a piangere... Qualche minuto, giustamente, per ricomporsi e torna a spiegarci della sua vita.
Sai, il Covid doveva insegnarci a essere impotenti. Perché di fronte alla natura lo siamo.
E invece?
La scienza e la medicina ci hanno permesso di allungare la vita, ma sicuramente non possiamo decidere chi deve andarsene prima e chi dopo.
Non ne siamo usciti migliori?
Purtroppo no. Ecco perché c’è chi ne è uscito depresso e chi invece come se nulla fosse. Non per menefreghismo, ma perché non teme la sua fine. Invece “siamo tutti sotto lo stesso cielo”, come si dice dalle mie parti. Ci hanno abituati all’onnipotenza, ma dovremmo capire il contrario: di essere molto fragili. Io però lo ricordo sempre: nella vita non può andare tutto bene e se non avessi passato anche questi momenti bui non sarei la donna che sono diventata. Ora mi sento una bolla di sapone, che quando urta contro qualcosa, invece di esplodere, prende slancio per volare ancora più in alto.
Senti, ma a una donna come te, bella, di successo e libera, cosa manca ancora per dirsi felice?
Un figlio!
Lo vorresti?
Ma sai, ho sempre ragionato per obiettivi. Infatti, non mi sono mai sentita soddisfatta da dire “oggi non faccio niente”. Adesso non è tra gli obiettivi per una questione di impegni, però non dico di no in assoluto. Moana ricordo che rispose assolutamente no, per non avere quella responsabilità. Ma io no, non nascondo di averci pensato. Non l’ho ancora escluso dalla mia vita. Certo, per avere un figlio è necessario l’amore da parte di entrambi i genitori. E non avendo trovato l’amore è inutile pensare a un figlio.
Se trovassi l’amore?
Allora sì.
Ma se il partner ti chiedesse di lasciare il tuo lavoro per costruire una famiglia?
Assolutamente no! Ma non arriveremmo neanche a essere fidanzati. Perché sarebbe solo un modo per discriminare. E io sono contro ogni discriminazione.
E il giorno che avrai un figlio, come gli spiegherai del tuo lavoro?
Gli dirò che sono la regina dell’amore!
Barbara Costa per Dagospia il 14 maggio 2022.
Uccelli d’Italia e di Puglia, fate attenzione! Tra pochi giorni tutti lo sapranno!!! Sapranno cosa avete fatto – e soprattutto non fatto – a letto con Malena!!! Malena di voi ogni cosa scrive e svela in "Pura. Il Sesso Come Liberazione", la sua autobiografia, e uccelli, ci siete tutti, italiani e no, famosi e no, di colleghi pornostar e no. Che c’è, ora non vi ricordate?!? Ehi, dico a voi, uccelli vip, “attori, calciatori, cantanti, piloti”: che avete combinato con Malena? “La prima volta hanno fallito, tutti, senza distinzione”.
Non vi siete alzati, niente, calma piatta! Davanti a una femmina calda come Malena… giù, esanimi, svenuti!!! Malena, che è gran donna, non fa nomi (accidenti) e comunque miei cari uccelli non faticherete a riconoscervi: siete raccontati nei minimi dettagli… E voi, uccelli di Gioia del Colle e dintorni, che avete avuto il privilegio unico di estasiarvi tra le gambe e non solo della splendida Milena futura Malena: i vostri nomi sono riportati, e spero per voi mutati, e fin dal primo, Domenico, fidanzato della 15enne Malena e sua prima volta in fellatio (riuscita alla perfezione) e sesso penetrativo (un male cane, che ha tenuto la piccola Milena lontana dal riprovarci un anno).
Ma se il primo uomo di ogni donna non è chi le spezza l’imene bensì chi per primo la fa godere, allora il primo uomo di Malena è stato Erasmo, liceale maturando e tra loro è godimento fino a che lui la molla per farsi i fatti suoi all’università.
Così la futura Malena si fidanza in casa con Cesare, 8 anni più grande di lei, ma pure uno che ha un uccello sopra la media e che lo impiega in fellatio poi pecorina poi missionario: solo così, sempre così, Cesare non concepisce altro, zero dita né lingua in vagina, o “roba strana come l’anale”, né attivo né passivo, sicché… ditemi come un uccello retrogrado simile poteva soddisfare le arsure di Milena non ancora Malena!
E infatti lei lo cornifica e per 2 anni filati, in macchina, sotto un cavalcavia di Bari, e con il ritornato Erasmo (“gli montavo addosso come una furia, prendevo il suo membro dentro di me, mi muovevo su e giù a ritmo frenetico… furono rapporti di passione e sudore, tanto sudore, a rivoli…).
Lo ammetto: m’ha sorpreso leggere che Malena prima di divenire Malena poco o nulla sapesse di uccelli porno. Dopo aver assistito a un’ospitata di Rocco Siffredi in una discoteca pugliese scortata da Donato (uomo proprietario di un uccello con cui Milena cresce e comprende che in una coppia non sempre conta la monogamia, e che si può esser felici e tanto se si è in accordo a far entrare nel letto un altro uccello, ma pure un’altra p*ssera, e meglio se si fa scambismo, in club dove Malena apprende ogni realtà sadomaso, perché, potete crederci o no, ma la futura diva del porno a più di 25 anni non aveva mai sentito parlare di glory-hole né delle gioie che di uccelli anonimi infilati in questi buchi pubblici puoi dare e avere…) dicevo la futura Malena ancora Milena che vende case a Gioia del Colle, una sera di 5 anni fa manda una mail a Siffredi con allegato video di presentazione, e dopo pochi mesi la sua vita si capovolge!
Gira "Sex Analyst#2", il suo primo porno, e diventa Malena la pornostar. Diventa una pop pornostar e incontra altri uccelli, diversi, e nel porno hanno i nomi di Siffredi (“stare nelle mani di Rocco è qualcosa di impossibile da descrivere. Basta una semplice carezza per scatenargli una erezione impressionante… dopo ore di set lui è fresco e pieno di energia, io completamente distrutta!”), Manuel Ferrara (“Manuel non è solo un attore, lui è la quintessenza del maschio: appena le sue mani trovano il mio sesso, inizio a squirtare al solo tocco…”) di Nacho Vidal e di tutti i porno attori con cui porna e pornerà.
OK, ma: chi sei tu, uccello Pasquale giornalista, e sposato, che, dopo essere stato a letto con Malena, e, te lo concedo, tutt’altro che esserti ammosciato, e dopo essere stato analmente sverginato (“col mio amato dildo fucsia”), hai accusato crisi esistenziali e esaurimento nervoso, nient’altro che patetiche scuse per mollarla, perché non il tuo uccello, ma il tuo ego da maschio alfa, con Malena, non ce la faceva???
In questo io e Malena siamo uguali: siamo figlie modello, mai data la più stupida preoccupazione, o noia, mai rubato, brigato, o fumato, drinkato, sniffato, calato droghe, e però viviamo e specie il sesso come ci pare e piace, senza regole che non siano le nostre. Malena di porno ne fa, io ne scrivo, e ne siamo orgogliose e fiere: paghiamo le tasse sul nostro lavoro e i nostri soldi – e lei ne fa ben più di me – “non arrivano grazie a raccomandazioni, favori o scorciatoie”. Noi non iniziamo a vivere appena uscite “dall’ufficio, dall’azienda, o dalla fabbrica: il lavoro è vita, è già vita, non una pausa forzata e sgradevole da una felicità che sta altrove”.
Siamo PURE e pulite all’opposto della maggioranza silenziosa che ci sta intorno. Capisco che ciò possa rodere e a molti, ma nessuno ha il diritto di romperci i c*glioni. Nessuno!!! Le nostre scelte non vi riguardano. La nostra sudata e meritata libertà non si tocca. E io e Malena siamo uguali pure nello sc*parci gli uomini sposati! Ci dà (e ci fa) più gusto. E tuttavia… dai, Milè, un’ora continua con un uccello in bocca, e non su un set ma nel privato, anche no. E nemmeno di cunnilingus. Mi si irrita la p*ssera.
"Pura. Il Sesso Come Liberazione" (Mondadori), dal 17 maggio.
Dagospia il 25 marzo 2022. COMUNICATO STAMPA.
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziose, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Intervistate con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci ed ombre delle sue ospiti.
Intervista esclusiva e soprattutto molto divertente all’attrice porno per eccellenza, Filomena Mastromarino, in arte Malena che con molta sincerità racconta tutto il percorso che l’ha portata da agente immobiliare al mondo del porno, all’età di 32 anni. “La mia vita è cambiata da quando mi sono fatta tatuare il volto di Santa Filomena, è stato un miracolo di liberazione”. Malena racconta dunque il suo percorso di liberazione, la scoperta della bisessualità “Sono attratta dalle donne solo sessualmente, ma mi innamoro degli uomini”. Poi racconta degli “amici della parrocchia”, il club di libertini scambisti con i quali ha vissuto le prime esperienze, e arriva a parlare del provino con Rocco Siffredi.
Malena non si tira indietro quando si tratta di raccontare sia la sua “specialità della casa” sia la sua fragilità: “Ho un cuore di porcellana”, fino alla sua “attrazione per la politica. “Lei è diventata delegata all’assemblea nazionale del PD, è stata attratta dalla politica”, dice Fagnani. Malena precisa: “Non era attrazione, mi ci hanno messo.” Quando la Fagnani le chiede cosa è successo quando quelli del PD hanno scoperto il suo lavoro, Malena racconta che in Assemblea di partito non la salutavano nemmeno poi quando andava in bagno le chiedevano i selfie.
“È fidanzata?”, chiede la Fagnani e Malena risponde: “Da quando sono Malena la mia vita sessuale è pari a zero, gli uomini con me non ci provano nemmeno, fuggono perché temono il confronto”. E sul presunto flirt con Balotelli e Corona, Malena non conferma ma soprattutto non nega, “per non fargli pubblicità”.
Malena a Belve, la confessione intima contro il Pd: "Non mi salutavano poi in bagno..." Nomi scottanti nell'intervista. Giada Oricchio su Il Tempo il 25 marzo 2022.
“Facevano finta di non conoscermi e in bagno mi chiedevano i selfie. Balotelli e Corona? No comment”. Malena, la porno attrice scoperta e lanciata da l’intenditore Rocco Siffredi, è ospite della puntata di Belve, venerdì 25 marzo.
Al programma di interviste ideato e condotto da Francesca Fagnani, idolo dei social per la mimica facciale con cui accompagna domande argute e ficcanti e risposte spesso ai confini della realtà, Malena, nome d’arte di Filomena Mastromarino, si racconta senza falsi pudori: non ce li ha per lavoro e saggiamente non li ha sfoderati in tv. Ex agente immobiliare, ex delegata del Pd (“non ero attratta dalla politica, mi ci hanno messo”), si è data alla carriera di porno attrice a 32 anni: “La mia vita è cambiata da quando mi sono fatta tatuare il volto di Santa Filomena, è stato un miracolo di liberazione” ha raccontato Malena confermando di essere bisessuale: “Sono attratta dalle donne solo sessualmente, ma mi innamoro degli uomini”.
Nelle anticipazioni stampa, si legge anche che la star a luci rosse ha spaziato dagli “amici della parrocchia” al club di libertini scambisti fino al provino con Siffredi che l’ha resa la regina di una “specialità” (il sesso anale). Un’intervista divertente in cui Malena ha smascherato i benpensanti del Pd: quando hanno scoperto il suo lavoro, in Assemblea di partito non la salutavano nemmeno ma quando andava in bagno le chiedevano i selfie. E la vita privata? Fuoco e fiamme? Macché. “Da quando sono Malena la mia vita sessuale è pari a zero, gli uomini con me non ci provano nemmeno, fuggono perché temono il confronto” ha messo agli atti l’erede di Moana Pozzi. E sul presunto flirt con Balotelli e Corona, non conferma ma non nega “per non fargli pubblicità”.
Fiorella Mannoia: «Gli attacchi sui social? Me ne infischio, sono frustrati che si sfogano con l’odio». Raffaella Oliva su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022.
A Milano una tappa di «La versione di Fiorella». «Abbiamo raccolto oltre un milione e mezzo di euro per 7 centri antiviolenza selezionati nei territori più bisognosi»
Stare in tour significa anche godere di un osservatorio privilegiato sul Paese. Ne è convinta Fiorella Mannoia, giovedì sera al Castello Sforzesco (Cortile delle Armi, ore 21, da 29 a 59 + prev.) con una tappa di «La versione di Fiorella», serie di concerti che prende il titolo dal programma tv condotto dalla cantante su Rai3 dall’ottobre 2021 allo scorso marzo. «Ai miei concerti ho modo di parlare con tanta gente e ultimamente avverto molta preoccupazione per quel che abbiamo passato e per ciò che ci aspetta», dice Mannoia, classe 1954, 5 Sanremo e 7 Targhe Tenco, di cui una alla carriera. «Per fortuna c’è la musica, che nelle due ore di spettacolo ci permette di lasciare fuori i problemi. E c’è il viaggio: girando l’Italia mi commuovo sempre per la bellezza di questa terra, purtroppo spesso facciamo di tutto per deturparla».
Pandemia, guerra, inflazione, crisi ecologica ed energetica: come guarda al futuro?
«Citando Gramsci, con il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. A trovare la speranza mi aiutano le passioni, e guai a non averne: impegnano il cervello, allontanano dai cellulari, gratificano. Oltre alla musica, ora ho la fotografia: dopo che ho condiviso sui social qualche scatto fatto col telefonino, degli amici fotografi mi hanno detto che ho occhio, così un giorno, pur senza velleità particolari, mi sono comprata una fotocamera. Digitale, non sono pronta per l’analogico, ma da dilettante mi diverto. Specie a fare ritratti: amo i volti».
Su Twitter, invece, parla di pace, ricorda Gino Strada, sostiene Assange: la attaccano?
«Sì, ma me ne frego. Se si trattasse di critiche da parte di qualcuno che stimo mi interrogherei, ma sui social gli attacchi sono insulti di soggetti chiaramente frustrati che si sfogano con l’odio: semplicemente li blocco per non farli più accedere al mio profilo».
Un tema che le sta a cuore è la violenza sulle donne, al centro del concerto «Una. Nessuna. Centomila» che a giugno l’ha portata al Campovolo con Elisa, Laura Pausini e altre colleghe.
«Abbiamo raccolto oltre un milione e mezzo di euro per 7 centri antiviolenza selezionati nei territori più bisognosi, penso alla Locride. Ogni giorno leggo di donne ammazzate, violentate, un problema serio che va affrontato inasprendo le pene e lavorando sulle persone. Dipende anche da noi donne, questo cambiamento: mai scambiare la gelosia per amore, mai accettare che lui ci dica cosa possiamo fare e cosa no, dobbiamo imparare sin da ragazzine a scappare al primo cenno di violenza anche solo verbale e psicologica. E bisogna insegnare ai nostri figli maschi che le donne non sono una proprietà».
In questo tour propone suoi classici, ma anche cover, tra cui «Prinçesa» di De André: come mai questo brano?
«Perché lì De André è stato forse il primo a parlare di transessuali facendo riflettere, ma senza giudizio. Fu il suo più grande insegnamento: mettersi nei panni degli altri, non giudicare mai nessuno. Io sono cresciuta con le sue canzoni e con questo principio: è la base della solidarietà».
Fiorella Mannoia: «Lucio Dalla era unico, mi chiamava Rosalba». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 2 giugno 2022.
«Lucio cambiava i nomi a tutti; non ho mai capito perché ma gli piaceva chiamarmi Rosalba; per lui io non ero Fiorella. Ero talmente abituata che quando gli telefonavo mi presentavo direttamente con il mio “nuovo” nome». Fiorella Mannoia ricorda così Lucio Dalla, estroso come pochi sia nella vita sia nella musica. Ironico, ma anche inquieto: «Aveva un lato malinconico, spesso parlava di solitudine, un sentimento che si percepiva nelle cose che scriveva». Affamato di vita: «Lucio amava parlare con la gente, non si ritraeva, chiacchierava con tutti, non aveva paura delle persone, stava in mezzo a loro. In macchina a Napoli a un semaforo fu riconosciuto da un passante: Mia moglie morirebbe a vederti, abito qua vicino. Andò a mangiare a casa loro: questo era Lucio. Mi colpiva il suo senso dell’umorismo, il suo essere curioso, il suo essere elegante: si vedeva dalle sue case, dalle sue collezioni d’arte».
Lucio Dalla è morto ormai 10 anni fa e Rai1 lo celebra con una prima serata in onda venerdì 3 dall’Arena di Verona. Conduttori Carlo Conti e Fiorella Mannoia. Sul palco di DallArenaLucio — una co-produzione Ballandi Multimedia e Friends&Partners — salirà un nugolo di artisti: Marco Mengoni, Alessandra Amoroso, Giuliano Sangiorgi, Samuele Bersani, Ron, Il Volo, Tommaso Paradiso, Brunori Sas, La Rappresentante Di Lista, Gigi D’Alessio, Noemi, Ermal Meta, Fabrizio Moro, Marco Masini, Stadio, Francesco Gabbani, Tosca, Pierdavide Carone, Ornella Vanoni, Il Piccolo Coro dell’Antoniano. «Vuole essere una festa, non una commemorazione; il ricordo di un gigante, un modo per far vedere che Lucio Dalla continua a vivere con la sua musica: grazie ai capolavori che ci ha lasciato non morirà mai. Ogni ospite sul palco racconterà il suo Lucio Dalla, l’incontro personale o artistico più significativo con un genio della musica, ognuno canterà una delle sue canzoni più iconiche», riflette Carlo Conti. Il suo Lucio Dalla? «Il primo ricordo di Sanremo è legato a lui, ero un bambino e mi colpì questo signore con il cappello e la barba che cantava 4 marzo 1943, parlava del mio mese di nascita e pensavo parlasse a me. Poi l’ho incontrato tante volte, veniva volentieri nelle mie trasmissioni; per L’anno che verrà cantò la sigla iniziale. Ebbe un’idea folle: eravamo a Rimini e fece scavare una buca di due metri sulla spiaggia: inizierò da qui e poi salirò sul palco. Sapeva sempre sorprendere... Umanamente era unico, guardava sempre gli altri, non si tirava mai indietro, duettava anche con artisti in erba, sempre al servizio dei più giovani, sempre con il sorriso, leggero, mai snob».
Due questioni sollevano qualche dubbio. L’anniversario era lo scorso marzo, perché aspettare giugno? «A marzo non c’era ancora la possibilità di avere la capienza piena, quindi abbiamo preferito attendere il momento giusto». L’altro tema è l’assenza di nomi eccellenti, cantanti — De Gregori e Morandi su tutti — che avevano un legame intimo con Dalla e che qui non ci sono: «In questo periodo siamo tutti in tournée come non succedeva da tempo, era difficile far coincidere i calendari di ogni singolo artista e poi ci sono le scelte personali», spiega ancora Fiorella Mannoia senza entrare troppo nei dettagli. Non mancano le scelte «televisive»: nomi come La Rappresentante Di Lista o Tommaso Paradiso — che con Dalla non hanno mai avuto a che fare — hanno lo scopo di cercare di allargare lo spettacolo a un pubblico che non frequenta abitualmente Rai1. Per evitare ulteriori fughe, Carlo Conti vuole rassicurare il pubblico: «Fiorella fa la cantante ma è bravissima a condurre, io invece — tranquilli — non canterò».
Flavio Briatore dal Crazy Pizza: «Mai visto un povero creare posti di lavoro, rompono invece di ringraziare». BENEDETTA MORO su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022.
L'imprenditore piemontese critica un gruppo di manifestanti che nei giorni scorsi avrebbe protestato davanti al Twiga, il beach club di Forte dei Marmi. «In questo Paese c'è una rabbia sociale enorme»
«Non hanno capito che chi crea ricchezza sono le aziende, gli investimenti, io non ho mai visto un povero creare posti di lavoro. E invece loro sui ricchi...Ricchi cosa vuole dire? Chi investe. Il ricco non è uno che va in barca ai Caraibi. Da ricco investi sempre. Continui sempre. Noi siamo partiti con 10milioni di fatturato, adesso fatturiamo 140 milioni di euro e abbiamo 1500 dipendenti. Invece di ringraziarti, ti rompono anche il c****. C’è una rabbia sociale enorme». Flavio Briatore torna a farsi sentire dopo le polemiche sulla pizza troppo costosa del suo ristorante e gli insulti delle persone per i danni causati dal maltempo al Twiga di Forte dei Marmi, di cui è proprietario assieme alla parlamentare di Fratelli d’Italia Daniela Santanchè.
Proprio davanti al beach club della Versilia nei giorni scorsi, racconta l’imprenditore piemontese, un gruppo di manifestanti ha protestato nei giorni scorsi. Ed è a loro infatti che è rivolto questo messaggio, pubblicato sul suo profilo Instagram e parte di un’intervista ben più lunga realizzata da mediawebchannel.it per i 60 anni dalla nascita della Costa Smeralda, il villaggio luxury nato attraverso nel 1962 per iniziativa del principe Karim Aga Khan IV. «Eppure noi lì diamo lavoro a 180 persone. E sono venuti a rompere il c**** a noi. Io non li ho mica capiti. Poi i nostri dipendenti li abbiamo bloccati altrimenti li menavano. È dovuta intervenire la polizia. Ma perché? Se c’è un’azienda che dà lavoro a 180 persone, paghiamo i contributi, non facciamo nero, ma che vadano a protestare a chi fa fare schiavismo, nero e non pagano le tasse».
Flavio Briatore, "ero povero anche io ma...": la frase con cui spazza via le critiche. Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 10 settembre 2022
Ogni sua dichiarazione innesca una polemica. Era lo scorso maggio quando Flavio Briatore disse: «Chi crea ricchezza sono le aziende, non ho mai visto un povero creare posti di lavoro». Il linguaggio mediatico è partito e noi lo abbiamo raggiunto.
Flavio, il tuo nome è in tendenza ovunque. Cosa pensi di aver detto di così terribile per meritare accuse come quelle che ti stanno rivolgendo?
«Non ho detto nulla di terribile se non la verità. Sono le aziende ad offrire lavoro, sono gli imprenditori come me che investono, che possono offrire la possibilità alle persone di lavorare e guadagnare. Non riconoscere questo significa non riconoscere un dato oggettivo e rimanere ancorati all'idea che chi fa impresa sia il male assoluto e per andare avanti ci si debba aggrappare ai sussidi statali tipo il reddito di cittadinanza».
Ti stanno accusando di criminalizzare i poveri.
«È una follia. Io sono l'esempio di una persona nata povera che lavorando si è costruita la sua ricchezza. Potrei mai criminalizzare i poveri quando io lo sono stato? Il primo a essere criminalizzato sarei io».
Hai dichiarato che da ragazzo in estate raccoglievi le mele e le fragole e che oggi è difficile trovare ragazzi con la fame di lavoro, con spirito di sacrificio. Oggi sembra che cerchino il lavoro sperando di non trovarlo.
«Le mie affermazioni non sono accuse infondate ma il risultato di ciò che capita nelle mie aziende. Quando facciamo colloqui di lavoro le prime cose che i ragazzi chiedono sono se hanno i week end liberi, quali sono i giorni off. Vogliono avere più tempo libero. È cambiata la cultura, manca la motivazione. Credo che in loro oggi ci sia la convinzione di non farcela e quindi pensano che tanto vale stare a casa a far niente ed essere sostenuti dal reddito di cittadinanza».
A te questo reddito proprio non va giù.
«Credo che sia doveroso e sacrosanto aiutare gli inabili al lavoro e chi veramente non possiede altri mezzi di sostentamento. Elargire questo sussidio a ragazzi di età compresa fra i venti e i venticinque anni, in un Paese che vive di turismo, nel periodo compreso fra aprile ed ottobre è una follia. Così facendo mettiamo le imprese del settore in ginocchio e non incentiviamo i ragazzi a lavorare».
Ripeti sempre che l'Italia è un Paese dove è difficile investire. Quali sono secondo te le cause?
«L'Italia è un Paese che non investe nelle imprese, che non agevola le aziende. Tra tasse e burocrazia è veramente una guerra. Possibile non capiscano, i governanti in primis, che se le aziende funzionano si possono pagare gli stipendi, si possono generare posti di lavoro e far crescere l'economia? La soluzione non è data dall'elemosina per sopravvivere. Dobbiamo uscire da questa cultura statalista che fa morire le imprese. E se muoiono le imprese, muore il Paese».
Spesso dici che in Italia c'è troppa invidia sociale. Una dimostrazione a questa tesi l'hai avuta ad agosto quando il terribile uragano che ha colpito la Toscana, ti ha devastato il Twiga, il tuo notissimo stabilimento balneare in Versilia. Invece di ricevere solidarietà, la maggior parte delle persone ha gioito.
«È proprio così. Per un giorno abbiamo fatto felici tante persone. Questo è il modo con cui la gente, divorata dalla sua invidia sociale, il suo rancore, dimostra di non sopportare che a qualcuno le cose possano andare bene. Vorrebbero che andasse male per tutti. Se quell'uragano ce lo avesse distrutto completamente lo stabilimento, sarebbero stati ancora più contenti. Invece grazie ai nostri dipendenti che hanno lavorato trentasei ore no-stop, lo abbiamo rimesso in piedi e la sera dopo lo abbiamo riaperto come se nulla fosse accaduto. Sai cosa è accaduto qualche mese fa sempre al Twiga?».
Dimmi
«Sono arrivati i Cobas a manifestare. Non sai la fatica per tenere a bada i nostri ragazzi che volevano uscire per ribellarsi a quello che stava accadendo. Questo perché non è possibile che un'azienda che funziona, che fa lavorare centotrenta persone, che lascia circa sei milioni di euro sul territorio, venga contestata. Che vadano a contestare le aziende che pagano in nero o che non danno lavoro. Sembra veramente che il mondo giri al contrario».
C'è un grande dibattito sul salario minimo, tu cosa ne pensi?
«Io non capisco quando criticano il salario minimo quando hai un governo che paga dottori, carabinieri e poliziotti 1.200/1.300 euro al mese. Sai un'altra criticità per un imprenditore quale è?».
Quale?
«Il licenziamento. Vorrei avere la libertà di poter licenziare chi non lavora bene. Per un manager, quando licenzi un dipendente è un grosso smacco. Noi imprenditori vogliamo assumere le persone non licenziarle. Il licenziamento è una nostra sconfitta».
Flavio, quando abbiamo iniziato questa chiacchierata mi ha molto colpito una frase che hai detto: "Ciò che dico diventa sempre motivo di polemica perché dico la verità, perché sono una persona libera e posso dire ciò che penso".
«È vero, questo è un Paese dove tutti pensano delle cose ma nessuno le dice. Siamo circondati da persone condizionate che in privato ti dicono una cosa e un minuto dopo le vedi in televisione e dicono l'opposto».
Non c'è coerenza.
«Uno dei motivi per cui questo Paese non va avanti è perché è pieno di persone incoerenti che non sono libere».
Flavio Briatore "a processo", l'unico che paga per il Covid: l'ultimo atto della persecuzione giudiziaria. Andrea Cappelli su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022.
Dopo due anni di sviste, inversioni a U, maxi commesse dalla Cina e crisi di governo, va a finire che a pagare per gli errori commessi in fase pandemica saranno Flavio Briatore e una manciata di gestori di locali in Sardegna. Partiamo dai fatti: a otto mesi dalla chiusura delle indagini sui contagi Covid scoppiati nell'estate 2020 in Costa Smeralda, la procura di Tempio Pausania ha chiesto il rinvio a giudizio per gli amministratori unici e le società proprietarie di tre noti locali. A rischiare di finire sul banco degli imputati, con le accuse di epidemia colposa e lesioni personali colpose, sono Flavio Briatore - proprietario della società Billionaire srl - e l'amministratore unico della discoteca Billionaire Roberto Antonio Pretto. Diversa la posizione dell'amministratore del Phi Beach di Baja Sardinia Luciano Guidi e dell'amministratore del Country Club di Porto Rotondo William Franco Carrington Royston, che dovranno rispondere solo dell'accusa di lesioni colpose. Un'odissea giudiziaria senza fine, quella del tycoon di Verzuolo, che un mese fa è stato assolto dall'accusa di frode fiscale nel processo riguardante il presunto noleggio per fini commerciali dello yacht Force Blue. Dodici anni di calvario mediatico che hanno segnato profondamente Briatore e familiari (l'imbarcazione fu sequestrata nel 2010 dalla Guardia di Finanza al largo di La Spezia mentre a bordo si trovavano l'allora moglie Elisabetta Gregoraci e il piccolo Nathan Falco, figlio della coppia, oltre a una ventina di membri dell'equipaggio) al termine dei quali l'imprenditore è riuscito a dimostrare la sua innocenza. Neppure il tempo di tirare il fiato e il dirigente piemontese dovrà ora dimostrare di non avere scatenato un'epidemia.
RICOSTRUZIONI
Stando alle ricostruzioni dei pm, titolare della società e amministratore del Billionaire non avrebbero predisposto adeguate misure di sicurezza anti-Covid. Tale lassismo avrebbe agevolato il proliferare del virus, provocando decine di contagi tra i clienti e i 14 dipendenti della discoteca. Per uno di quei paradossi che sembrano caratterizzare da sempre la sua vita professionale, in questo scenario Briatore sarebbe anche vittima di se stesso, avendo contratto in prima persona il virus dentro il suo locale. Discorso diverso per Phi Beach e Country Club, i cui gestori sono accusati di non aver fornito un numero sufficiente di mascherine protettive al personale (6 i dipendenti infettati nel primo locale, 8 nel secondo) oltre ad aver esercitato controlli blandi in materia di misure di sicurezza anti Covid. Ora spetterà al giudice dell'udienza preliminare stabilire se i gestori dovranno affrontare un processo. «Al momento ha dichiarato Antonella Cuccureddu, legale dell'ad del Billionaire di Porto Cervo Pretto non abbiamo ricevuto nessuna notifica; per questo motivo non abbiamo alcun commento da fare». Fino a ieri nessuna reazione nemmeno dell'ex team manager della scuderia Benetton di Formula 1. Ora, fermo restando il principio di non colpevolezza, così come l'azione doverosa della magistratura chiamata ad accertare i fatti, nei meandri del web c'è già chi si scaglia contro Briatore e soci, accusandoli delle peggiori nefandezze. Non per "benaltrismo" ma per senso di giustizia, una domanda sorge spontanea: davvero l'opinione pubblica rischia un simile cortocircuito?
LE VERE QUESTIONI
Dopo la maxi commessa da 1,25 miliardi a tre consorzi cinesi ad opera dell'allora commissario Arcuri per l'acquisto di mascherine, con migliaia di euro di ristori promessi dal governo Conte II ancora in attesa di essere erogati, con la schizofrenia iniziale nell'istituire zone gialle-rosse-arancioni per poi tornare sui propri passi e con il peccatuccio veniale- ma irresistibilmente comico - di un ministro della Salute che in piena pandemia prima scrive e poi ritira dal commercio a pochi giorni dall'uscita un agile saggio in cui si festeggiava la fine dell'emergenza, davvero va a finire che a dover rendere conto del dilagare dell'epidemia dovranno essere Flavio Briatore e gli imprenditori della Costa Smeralda? Prima del Billionaire e di chi lo gestisce, i processi giudiziari e quelli mediatici attendono ancora una lunga lista di ospiti illustri.
Da liberoquotidiano.it il 19 febbraio 2022.
Alberto Genovese avrebbe utilizzato i proventi dell'evasione fiscale per «provvedere al reperimento delle risorse necessarie per le sue attività personali, tra cui l'acquisto e la ristrutturazione della villa a Ibiza e l'acquisto di beni di lusso e di consumo», tra cui «ingenti acquisti di alcolici». È quanto scrivono i giudici della terza sezione della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui hanno rigettato il ricorso dell'imprenditore contro il sequestro preventivo di 4,3 milioni di euro su un'ipotesi di presunta evasione fiscale che sarebbe stata commessa negli anni scorsi.
In particolare, Genovese si sarebbe servito della società Auliv «per scopi personali del tutto estranei all'oggetto sociale» e «in modo pressoché esclusivo per gestire i flussi finanziari derivanti dalle sue attività e dalle sue partecipazioni societarie e provvedere al reperimento delle risorse necessarie per le sue attività personali».
Tra acquisto e ristrutturazione la villa a Ibiza è costata 8 milioni di euro. Genovese è imputato di violenza sessuale dopo che una 18enne lo ha accusato di averla violentata nella sua casa di Milano durante una festa, e anche un'altra ha denunciato una violenza che sarebbe avvenuta proprio nella villa di Ibiza.
(ANSA il 26 gennaio 2022) - La corte d'appello di Genova ha assolto Flavio Briatore e altre tre persone "perché il fatto non costituisce reato" nel processo sulla vicenda dello yacht Force Blue. Briatore era a processo per una evasione fiscale di oltre 3 milioni sull'Iva e per l'attività di charter.
Il maxi yacht era stato sequestrato nel 2010, al largo della Spezia, mentre il manager era a bordo con Elisabetta Gregoraci e il figlio. I giudici hanno revocato la confisca dell'imbarcazione e dei 3 milioni e 600 mila euro. La Cassazione aveva annullato la sentenza della Corte d'Appello che condannava Briatore a 18 mesi e aveva ordinato un nuovo processo.
Anche la procura generale aveva chiesto l'assoluzione e la revoca della confisca. La sentenza diventa così definitiva. Per quanto concerne invece la confisca, l'Avvocatura di Stato potrebbe impugnare la decisione.
Il Force Blue era stato venduto un anno fa all'asta e se lo era aggiudicato l'ex patron della Formula 1 Bernie Ecclestone per sette milioni a fronte di una stima di 20 milioni. La Cassazione aveva annullato per due volte le decisioni dei magistrati genovesi.
Luca Fazzo per "il Giornale" il 15 luglio 2021.
Il Force Blue non esiste più, svenduto in tutta fretta dalla Corte d'appello di Genova alla vigilia dell'udienza decisiva. E così a Flavio Briatore, che dello splendido yacht era il padrone, come consolazione non rimangono che le motivazioni depositate l'altroieri della sentenza con cui la Cassazione ha maltrattato l'ostinazione dell'intera magistratura del capoluogo ligure - accusa e giudici - nel portare avanti una accuse senza capo né coda. Ovvero che Briatore fosse una sorta di furbetto della crociera, che spacciasse per yacht aziendale e da noleggio quella che era la sua barca privata: con robusti vantaggi fiscali.
Che la Cassazione annulli una condanna fa parte delle giuste dinamiche giudiziarie. Che debba farlo due volte perché i giudici del posto se ne sono fregati è meno consueto. E forse si spiega solo con la verve con cui la procura genovese ha gestito fin dall'inizio l'inchiesta su Briatore e la sua barca: compreso lo spettacolare arrembaggio con cui lo yacht venne assicurato alla giustizia.
All'inizio, le cose per l'accusa erano andate bene: Briatore condannato nel 2015 a un anno e undici mesi di carcere - insieme al malcapitato comandante della barca e a altri imputati - per avere sottratto al fisco tre milioni e 600mila euro, importando il Force Blue e rifornendolo di carburante dietro lo schermo di una società ombra, spacciandolo per natante da noleggio e usandolo in realtà per i comodi propri. In appello, altra condanna.
Ma nel 2015 la Cassazione annulla, spiegando ai colleghi genovesi di avere sbagliato tutto. E rimanda loro il fascicolo perché si adeguino. Invece, come si legge testualmente nelle motivazioni ora depositate, la Corte d'appello di Genova «si comporta come se tutto ciò che è scritto nella sentenza di annullamento non la riguardasse». Cioè afferma un'altra volta che Briatore è colpevole, gli concede la prescrizione ma intanto gli porta via sia il Force Blue che i 3,6 milioni, ripetendo un'altra volta che la barca era il giocattolo personale dell'inventore del Billionaire.
Ma - scrive la Cassazione - «come si spiega il fatto che il Force Blue ha effettivamente navigato in Italia e all'estero conducendo clienti terzi in forza di regolari contratti di charter?». Quindi, a quindici anni dai fatti, nuovo processo d'appello: e vedremo se la Corte genovese si adeguerà. Intanto, lo yacht è andato: valeva diciannove milioni, i giudici genovesi lo hanno messo all'asta per sette, ne hanno incassati sette e mezzo. Era sotto sequestro da dieci anni, ma era diventato improvvisamente «deperibile».
Briatore "evasore"? Tutto falso, troppo tardi. Luca Fazzo il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.
E va bene che non a tutti deve per forza stare simpatico Flavio Briatore, e che era lecito dormire tranquilli pur sapendolo ingiustamente privato del suo yacht.
E va bene che non a tutti deve per forza stare simpatico Flavio Briatore, e che era lecito dormire tranquilli pur sapendolo ingiustamente privato del suo yacht. Ma che la vicenda giudiziaria che ha investito l'inventore del Billionaire si concluda solo ieri, con l'assoluzione «perché il fatto non costituisce reato», a dodici anni dall'arrembaggio con cui la Guardia di Finanza - su ordine della Procura di Genova - si impossessò in mare aperto del Force Blue è una di quelle brutali assurdità che dovrebbero spingere chiunque ad indignarsi. Perché la stessa inverosimile durata dei round giudiziari può venire inflitta a chiunque: anche a chi non ha le spalle larghe - caratterialmente e economicamente - come l'imprenditore di Verzuolo. E se anche uno tosto come lui, uno passato indenne per la Formula 1 e per Naomi Campbell, ieri dice che è stato «un vero calvario», è facile immaginare a quanti poveri cristi senza nome tocchi ogni giorno portare croci più pesanti. Certo, nel caso di Briatore brillano assurdità particolari. Una è senza dubbio la sparizione dello yacht sequestrato, e intorno al quale si è combattuta la lunga battaglia giudiziaria (Briatore era accusato di averlo importato illegalmente, senza pagare le tasse, fingendo di adibirlo a noleggi, e usandolo invece per i fatti propri): con la sentenza di ieri il natante andrebbe restituito al proprietario, peccato che nel frattempo i giudici lo abbiano messo all'asta senza aspettare la fine del processo. Se l'è comprato, facendo un affarone, Bernie Ecclestone, e ora Briatore può solo sperare di recuperare una parte dei quattrini. Ma ancora più eclatante è quanto accaduto nel corso del processo: che non è durato dodici anni per caso, o perché i giudici erano oberati di lavoro, o perché i difensori ammucchiavano cavilli. Ma perché la Corte d'appello di Genova nel 2019 se ne infischiò della sentenza della Cassazione che aveva riconosciuto la regolarità dell'operazione, e confermò il sequestro dello yacht. Costringendo Briatore a un nuovo ricorso in Cassazione: dove il 9 giugno dell'anno scorso i giudici scrissero testualmente che per ridare torto a Briatore la Corte genovese «si comporta come se tutto ciò che c'è scritto nella sentenza di annullamento non la riguardasse». Una sorta di menefreghismo giudiziario: che, questo sì, forse si spiega solo perché l'imputato si chiamava Flavio Briatore, ed era preda troppo grossa per lasciarla sfuggire.
Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Briatore assolto per lo yacht: «Un incubo durato 12 anni. Contro di me invidia sociale». Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera 26 gennaio 2022.
La decisione dopo 6 sentenze. «Accanimento nei miei confronti. Ma ci sono anche dei giudici che cercano la verità». La barca intanto è stata venduta all’asta: «Una vergogna».
È stato assolto, lo Stato le dovrebbe restituire lo yacht, ma nel frattempo l’ha venduto all’asta. È più felice o arrabbiato?
«No, oggi va bene così. È finito un incubo durato 12 anni e 6 processi. Una cosa incredibile, per tutto questo tempo mi hanno tenuto sulla graticola».
Flavio Briatore è un imprenditore che certo non si tira indietro quando c’è da criticare la macchina pubblica, i troppi cavilli e lacci burocratici. In questo caso è lui il protagonista di una vicenda quasi paradossale. Nel maggio 2010 viene indagato per sospetta frode fiscale e il Force Blue, il suo yacht che fa capo a una società con sede nelle Isole Vergini Britanniche, sequestrato dalla Guardia di Finanza. L’accusa è che abbia simulato un’attività di charter per pagare meno tasse (quantificate in 3 milioni e 600 mila euro). Condanna in primo grado e poi in Appello (18 mesi e confisca dello yacht), primo rinvio in Cassazione, un secondo Appello in cui il reato viene considerato prescritto ma la confisca confermata, ancora un rinvio in Cassazione e adesso la Corte d’Appello di Genova che alla terza pronuncia assolve Briatore e altri tre (il comandante e due amministratori) «perché il fatto non costituisce reato» e ordina la restituzione della barca. Peccato però che, su richiesta del custode giudiziario, l’anno scorso è stata messa all’asta e venduta a 7 milioni e mezzo, un terzo del valore stimato. «Una vergogna — sbotta Briatore —. Ma in questo momento voglio pensare ad altro».
È stata accolta in pieno la tesi dei suoi avvocati?
«Anche il procuratore generale aveva chiesto la mia assoluzione. Per fortuna è finita così, ma è stata durissima. Sono stato sputtanato a livello mondiale, additato come evasore, mi hanno condannato prima del tempo, oggetto di invidia sociale, ho subito danni economici».
Però alla fine non può lamentarsi della giustizia italiana.
«Da parte di certi pm c’è stato un accanimento nei miei confronti, se non c’ero io di mezzo credo tutto questo non sarebbe mai iniziato. Certo, poi ci sono dei magistrati che cercano la verità e non decidono per partito preso».
Che ricorda del momento del sequestro?
«A bordo c’erano mia moglie e mio figlio. È stato choccante, anche per l’equipaggio. C’erano tantissimi finanzieri, un assalto alla diligenza».
L’ha più rivisto il Force Blue?
«Certo, anche durante il sequestro ha continuato a navigare e anch’io l’ho noleggiato. La società ha sempre pagato l’equipaggio e tutte le spese, lo Stato non ha sborsato un euro».
Eppure è stato deciso di metterlo all’asta.
«Due settimane prima che si pronunciasse la Cassazione per la seconda volta. Assurdo, hanno aspettato dieci anni e poi, nonostante avessimo presentato istanza, non hanno aspettato dieci giorni».
Il Force Blue l’ha comprato un suo amico, Bernie Ecclestone, ex patron della Formula 1. Ha fatto un affare.
«Meglio lui che altri».
L’ha sentito dopo la sentenza?
«Sì, l’ho chiamato».
Che gli ha detto?
Sorride. «Gli chiederò di regalarmelo... Ma a parte la battuta, vedranno gli avvocati cosa fare per recuperare quanto mi spetta».
In realtà, l’Avvocatura dello Stato potrebbe ancora presentare impugnazione.
«Possono fare tutto quello che vogliono. A me interessa che dopo 12 anni i giudici della Cassazione e anche quelli d’Appello hanno stabilito che sono innocente. Ora voglio solo pensare alla salute, ad andare avanti e a creare posti di lavoro, soprattutto per i giovani».
Patrizia Albanese per "la Stampa" il 27 gennaio 2022.
Entusiasta come un ragazzino. Anzi, «felice, davvero felice». Flavio Briatore non si sentiva così da dodici anni. Da quando è iniziata la vicenda giudiziaria che gli è costata sei processi e il sequestro di uno yacht poi venduto all'asta per 7 milioni, sborsati da Bernie Ecclestone.
Per non parlare dell'aspetto più strettamente privato. Con la separazione dalla moglie Elisabetta Gregoraci: anche il matrimonio è finito nel frullatore «dei processi e dei continui colloqui e riunioni con i miei avvocati, che ringrazio».
È finita, con un'assoluzione, dopo 12 anni...
«Sono felice, davvero felice. Ma questa non è giustizia, se obbliga una persona innocente a convivere con un incubo del genere».
Da non dormirci la notte. E non solo. Quanto ha inciso nel privato?
«Molto. Ha inciso molto con la mia famiglia. Sei segnalato alle banche come evasore, contrabbandiere. Tanti progetti che avevo in mente non ho potuto realizzarli. Anche se poi...».
Poi?
«Ho le spalle larghe, certo. E sono andato avanti lo stesso. Ma a che prezzo».
Anche del matrimonio? Sarebbe andata diversamente?
«Certo, tutto influisce. Sul carattere. E su tutti quelli che ti stanno più vicino. Cambia il rapporto. Anche con chi lavora con te. E si deve subire ore e ore di colloqui con gli avvocati. Per difendere te stesso e tutti quanti. Non puoi stare 12 anni sulla graticola così».
E col ricordo del sequestro del Force Blu, con a bordo sua moglie Elisabetta Gregoraci, madre da pochissimo.
«Quando hanno sequestrato la barca, a La Spezia, c'erano mia moglie e mio figlio appena nato. È stato un assalto della Finanza, abbastanza traumatizzante. Il bambino era piccolo e per fortuna non ne ha ricordo. Ma per Elisabetta non è stato piacevole. Né per chi era con lei, né per l'equipaggio».
Quella barca un anno fa venne venduta a Ecclestone.
«Una porcheria. Davvero una porcheria. Uno scandalo, guardi. Venduta due settimane prima del verdetto di Cassazione, che mi ha assolto. Avevamo espressamente chiesto di aspettare. Invece, niente».
Chiederà un risarcimento? Lo Stato dovrà restituirle i 7 milioni incassati da Ecclestone.
«Non ne ho idea. Oggi sono tranquillo per la prima volta da 12 anni. E devo soltanto ringraziare gli avvocati».
Anche un bel costo.
«Non voglio parlare di cifre. Fossi stato un piccolo imprenditore, sarei stato rovinato. La gogna, il sequestro della barca, prime pagine, telegiornali, siti anche internazionali. Sei additato come un delinquente».
All'inaugurazione dell'anno giudiziario di Genova è stato sottolineato come 2 imputati su 3 vengano assolti dopo il dibattimento.
«I pm spesso non cercano la verità. Per quello i processi durano tanto, anche senza prove certe. Come con me. Per fortuna in Cassazione e ora a Genova abbiamo trovato persone che hanno cercato la verità».
Ora una nuova barca?
«Non so. Ora è l'ultima cosa. L'affitterò come ho sempre fatto anche in passato».
Ce l'ha con qualcuno?
«Nessun astio. Ma se non mi chiamavo Briatore, quel processo non sarebbe mai stato fatto. Ma andiamo avanti. Accettando e perdonando».
Come ha spiegato tutta la vicenda a suo figlio?
«Gli ho spiegato che non ho mai evaso niente. Mi è spiaciuto per quello che poteva magari venirgli detto a scuola. Ora, finalmente, può rispondere di andare a quel paese».
BRIATORE: «IO, ASSOLTO DOPO 12 ANNI HO RISCHIATO IL FALLIMENTO». Claudia Guasco per "il Messaggero" il 27 gennaio 2022.
Dodici anni di processo, sei sentenze, due rinvii dalla Cassazione alla Corte d'Appello. «Tanto per cominciare possiamo dire che alla fine, ma molto alla fine, la giustizia trionfa. Mi chiedo però che giustizia sia, se un procedimento dura tutto questo tempo. Fa sprofondare una persona innocente in una vita da incubo». Flavio Briatore, dal salotto di casa, si gode l'assoluzione dall'accusa di evasione fiscale sull'Iva per oltre 3 milioni con l'attività di noleggio del suo yacht Force Blue e la revoca della confisca dell'imbarcazione che però, nel frattempo, è finita all'asta.
Acquistata dall'ex patron della Formula 1 Bernie Ecclestone per 7 milioni a fronte di una stima di 20 milioni. Ora la sentenza dei giudici genovesi stabilisce che il fatto non costituisce reato e «io li ringrazio - afferma l'imprenditore - perché sono gli unici che hanno cercato la verità. Ma resta il fatto che questa storia è stata una persecuzione».
Il cognome Briatore c'entra qualcosa?
«Sicuramente è stato anche un processo al personaggio, questo è pacifico. Il professo Franco Coppi, uno dei mie avvocati, ha detto che un doppio rinvio accade pochissime volte. Ebbene, a me è successo. Sono stati dodici anni durissimi, con la costante pressione delle udienze, un pensiero fisso che ti ronza nella testa. E poi la schiera di legali con cui confrontarsi, la preoccupazione per i dipendenti della barca, gli sbarramenti nel mondo degli affari».
La sua attività ne ha risentito?
«Se non hai le spalle larghe, una giustizia cosi ti fa fallire. Io sono conosciuto in tutto il modo il mondo per i miei venticinque anni di attività imprenditoriale, eppure gli affari hanno accusato il colpo: sono stato inserito nella lista nera delle banche, non potevo più accedere ai finanziamenti come è prassi normale nel mio settore. Ho fatto fuoco con la legna che avevo da parte, come si dice, ma c'erano alcuni progetti che da solo non sono stato in grado di realizzare. Se questa situazione dura un anno o due si può aspettare, quando si arriva al decennio no. Io non avevo bisogno di finanziamenti per andare avanti, in caso contrario sarei stato rovinato. Ti distruggono il lavoro, la vita, la famiglia. Senza contare, poi, che processi del genere fanno scappare gli investitori internazionali. Non è una bella pubblicità per l'Italia».
Le immagini del sequestro del Force Blue, il 20 maggio 2010, hanno fatto il giro delle tv.
«È stato un arrembaggio, al largo di La Spezia sono arrivate le motovedette, sembrava avessero scoperto il covo di Totò Riina. A bordo c'erano mia moglie Elisabetta Gregoraci con nostro figlio Nathan Falco, che aveva solo due mesi, per lei è stato un trauma. Comunque, dopo questi fuochi d'artificio la Procura nomina un custode e lo yacht continua a svolgere attività di charter con i turisti. Volevo assicurare un posto all'equipaggio e ha funzionato: la barca ha stipulato noleggi per 8 milioni di euro, compresi i miei. Ho sempre pagato, come faccio quando vado a mangiare nei miei ristoranti. Avevamo un accordo in base al quale, a fine stagione, la società armatrice avrebbe ripianato le perdite, ma improvvisamente il custode viene indagato e ne arriva un altro. Da quel momento le cose cambiano. Esplode la pandemia, americani e russi che sono i nostri principali clienti non vengono più, consigliamo di tenere la barca armata al minimo. Il 27 gennaio 2021 scopriamo che il Tribunale ha messo lo yacht all'asta, senza nemmeno informare la società armatrice né aspettare la sentenza della Cassazione che sarebbe arrivata dodici giorni dopo. È questo che mi ha fatto più male, mi hanno portato via un bene a un terzo del prezzo. Dovrebbe esserci un ristoro per i soldi persi, a me basta solo che finisca questa storia».
C'è stato accanimento?
«Sono un personaggio pubblico e contro di me c'è una cattiveria incredibile. Eppure una barca è come un'azienda, crea posti di lavoro e indotto sul territorio con i turisti. In Italia c'è invidia sociale contro chi ce l'ha fatta, abbiamo un governo che è contro le imprese».
Però nel nostro Paese continua a investire.
«Io sono italiano e ci credo. Il dna dell'imprenditore è creare occupazione, i problemi non si risolvono con il reddito di cittadinanza ma facendo lavorare le aziende».
Chi vorrebbe come nuovo Presidente della Repubblica?
«Vedo molto bene Mario Draghi. Abbiamo il terzo debito mondiale, quando arriveranno i soldi dall'Europa dovranno essere gestiti bene. Per ora gli aiuti se ne sono andati in biciclette e banchi a rotelle».
Briatore assolto, il legale: «Giustizia trionfa? No, se il processo dura 12 anni». Si chiude il processo per evasione fiscale a carico di Flavio Briatore. Lui: «È stato un calvario». Il Dubbio il 26 gennaio 2022.
«L’assoluzione di Briatore la potrò commentare dicendo che la giustizia trionfa. Ma mi chiedo se è giustizia un processo che dura 12 anni. Un processo che obbliga una persona innocente a convivere con un incubo. No non è giustizia». Così il difensore di Flavio Briatore, l’avvocato Fabio Lattanzi, commenta la sentenza di assoluzione della corte di appello di Genova che ha messo fine al processo a carico di Briatore per evasione fiscale nell’ambito del quale, venne sequestrata anche la sua barca Force Blue.
«Nel Maggio 2010 la guardia di Finanza mi ha sequestrato la barca e sui media di tutto il mondo usciva la notizia che ero un contrabbandiere e un evasore fiscale. Oggi, dopo 12 anni e 6 processi, si è finalmente accertata la mia innocenza. Un vero calvario che si è fortunatamente concluso», dice invece il diretto interessato, Flavio Briatore. «Ringrazio tutti i professionisti che mi hanno seguito in questa storia – conclude Briatore – da Coppi Massimo Pellicciotta a Fabio Lattanzi ed Andrea Parolini». «Sono felicissima dì questa notizia. Ma 12 anni di calvario giudiziario non si cancellano. Sono davvero troppi», aggiunge Elisabetta Gregoraci. Quel 21 maggio 2010, quando il megayacht fu sequestrato dalle Fiamme Gialle a largo di La Spezia, a bordo c’era anche lei, che all’epoca era ancora sposata con Briatore e suo figlio Nathan Falco: «Sono stati anni difficilissimi».
Briatore assolto, ma ora la sinistra giustizialista tace. Francesco Boezi il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.
L'assoluzione di Briatore è ovviamente marginale per la sinistra giustizialista che lo aveva assalito ben dodici anni fa. La gogna giustizialista, ai tempi, aveva colpito anche Flavio Briatore che ieri è stato assolto dopo un processo per presunta frode fiscale - ci si ricorderà della famosa vendita dello yatch - "perché il fatto non costituisce reato". Si tratta dell'esito di una vicenda che, dal punto di vista giudiziario, ha avuto la durata di dodici anni.
Basta riavvolgere il nastro per tornare all'epoca in cui - trattasi di una prassi che purtroppo è tuttora in voga - una semplice notizia d'indagine aveva comportato l'immediato utilizzo della ghigliottina politico-mediatica. In queste ore, dopo lo scagionamento dell'imprenditore, non si ode il tam-tam che aveva fatto tanto rumore tempo fa, ossia quando questa storia poi finita in un nulla di fatto aveva avuto inizio. C'è il consueto doppiopesismo che riguarda la notiziabilità delle indagini e quella della fine dei procedimenti per assoluzione.
Gli attacchi a Briatore del direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, per dire, si contavano con difficoltà. Più in generale, è stato l'atteggiamento di certa sinistra giustizialista, ad assalire la vicenda, facendone una bandiera. Di sicuro ha contribuito una certa dose di pauperismo: ricco uguale colpevole è un'equazione che certa sinistra fatica a riporre nel cassetto dei ricordi.
Se ne sono ormai accorti in molti in questo Paese, tant'è che ormai si parla con continuità di cambio di clima nel Paese. Il garantismo è la cifra culturale cui si guarda ormai con consapevolezza persino sui social, dove un approfondimento può emergere con qualche difficoltà: "#Briatore innocente, nessuna frode al Fisco con il suo yacht: che però è già stato venduto ad Ecclestone. Un altro grande trionfo della celerrima giustizia del Belpaese, che ci ha messo solo 12 anni per arrivare alla decisione", ha fatto presente un utente via Twitter. Gli argomenti ed i toni maggioritari sono questi. Un altro tuona: "Oggi chi PAGA? L'ennesimo episodio di malagiustizia all'Italiana , tutto a carico principalmente di Briatore , secondariamente sopra le nostre spalle , quelle degli contribuenti".
Se le litigate durante Servizio Pubblico tra Flavio Briatore e Luisella Costamagna (ma anche con lo stesso Travaglio) fanno ormai parte delle cronache del passato, rimane difficile non notare come la notizia dell'assoluzione non sia stata trattata con la medesima attenzione da parte della stampa che tanto eco aveva suscitato, soffermandosi sul caso dello yatch e su tutte le faccende di contorno.
Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali
Briatore chiede allo Stato 12 milioni per il suo yacht. La barca era stata confiscata e "svenduta", ma la Cassazione aveva annullato la condanna. Redazione il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.
Chiede allo Stato 12 milioni, Flavio Briatore. La richiesta è motivata dalla differenza tra il valore del suo yacht, il Force Blue, pari a 20 milioni di euro, e il ricavato della vendita all'asta dell'imbarcazione, pari a 7 milioni. Lo stato infatti aveva confiscato il Force Blue per reati fiscali e lo aveva sbrigativamente venduto. Briatore era stato poi condannato in Appello, ma visto che la Cassazione ha ribaltato tutto ora l'imprenditore cuneese vuole indietro i suoi soldi.
La vicenda è ricostruita dal Fatto Quotidiano: il Force Blue è un 62 metri che apparteneva a Briatore ma era intestato a una società offshore di chartering. Nel 2010 la Guardia di Finanza lo aveva sequestrato in seguito a un'inchiesta che vedeva Briatore accusato di avere evaso il pagamento delle accise sul carburante dell'imbarcazione, pari a 3,6 milioni di euro. Inizialmente Briatore era stato condannato ma la Cassazione aveva annullato la condanna, confermando però la confisca del Force Blue, che il tribunale aveva messo all'asta per evitare allo Stato di pagare gli esorbitanti costi di manutenzione. La barca era stata venduta (anzi, «svenduta») ma dopo qualche tempo la Cassazione aveva sbianchettato anche la confisca dello yacht. Da qui la decisione di Briatore di rivalersi sullo Stato, anche con gli interessi. Le sue ragioni appaiono abbastanza evidenti: il tribunale avrebbe infatti dovuto attendere la pronuncia definitiva della Cassazione prima di dare via il Force Blue. Nel caso in cui le sue ragioni non dovessero essere riconosciute pacificamente, Briatore è pronto a intentare una causa civile contro lo Stato. Nei giorni scorsi l'imprenditore se l'era presa contro gli italiani «sfigati e rancorosi» che avevano gioito per i danni provocati dal maltempo al Twiga, il suo stabilimento chic di Forte dei Marmi.
Estratto dell'articolo di R.I. per “il Messaggero” l'1 settembre 2022.
Ha 12 anni ed è già Ceo di un'azienda. Storie di vita vera, non per tutti certo. Lui è Nathan Falco Briatore e chi altro poteva essere, figlio di Flavio Briatore ed Elisabetta Gregoraci. È da qualche giorno rientrato dietro i banchi da scuola, dopo le vacanze passate tra il Kenya, la Costa Smeralda e Montecarlo, ma ha già le porte lavorative spalancate.
Sul suo profilo Instagram, nella descrizione oltre alla frase thanks god we livin life con cui ama descrivere la sua vita, è stato recentemente aggiunto un particolare che non è passato inosservato a nessuno: Ceo del Billionaire Bears Nft. Così Nathan è diventato uno dei più giovani amministratori delegati al mondo. Ma cosa sono questi orsi miliardari? (…)
Quindi per spiegarla in poche parole: Nathan Falco è il Ceo di una «collezione di orsi 3D unici integrati nel metaverso». Un traguardo da record, ma non da medaglia d'oro. A batterlo ci ha pensato Samaira Mehta che a soli 10 anni nel 2019, è diventata Ceo della sua azienda: la bambina imprenditrice ha unito due sue passioni i giochi da tavolo e la programmazione.
Samaira ha così creato il primo gioco che insegna a programmare, si chiama CoderBunnyz ed è diventato famoso in tutto il mondo. Un gioco che fornisce ovviamente solo le basi del mondo della programmazione, ma un ottima soluzione per chi ha voglia di cimentarcisi da 4 a 104 anni.
Paola Bulbarelli per “Verità & Affari” l'1 settembre 2022.
«Sono in traversata, potrebbe cadere la linea, stiamo arrivando a Cefalonia». Ma per fortuna non accade e riusciamo a parlare con Flavio Briatore che ha vissuto momenti «che non dimenticherò mai per tutta la vita. Non abbiamo nemmeno filmato per-ché era devastante ciò che si presentava ai nostri occhi».
Cos'è accaduto?
«A un certo punto, l'altra notte, abbiamo ricevuto una richiesta dalla Capitaneria di Crotone. Ci hanno pregato, dandoci le coordinate, d'andare a controllare una barca, che pensavano essere uno yacht, che chiedeva aiuto ed era a sette otto miglia da noi. A quel punto abbiamo deviato e siamo andati sul posto trovando una piccola barca a vela, circa sedici metri, piena di gente, almeno un centinaio di persone. Nemmeno gli animali dell'Ottocento erano trattati così».
Che avete fatto?
«Abbiamo cercato di parlare con loro, non avevano spazio, uno attaccato all'altro. Abbiamo dato tutte le informazioni alla capitaneria, mare molto brutto, loro navigavano grosso modo a quattro nodi per ora, erano a 80 miglia da Crotone e avrebbero impiegato venti ore a arrivare. Situazione disastrosa».
Impressionante.
«Di più, perché questa barca è stata messa nelle acque territoriali italiane da altre imbarcazioni. Significa che li hanno portati con dei gommoni, li hanno messi sulla barca a vela, hanno inserito il pilota automatico bloccandolo, data una radio in mano in modo da poter chiamare i soccorsi e li hanno abbandonati. Noi abbiamo chiesto dove fosse il capitano ma ci hanno detto che era scappato».
A quel punto?
«La Capitaneria ci ha chiesto di rimanere in contatto per dare loro esattamente le coordinate, in quel momento il mare era forza 4. Pensi lei in che stato era quella barca a vela, la gente urlava disperata, c'erano bambini, e noi cercavamo di calmarli dicendo che la motovedetta stava arrivando visto che avevamo avuto l'informazione che era partita da Crotone.
Dopo due ore e mezza è giunta e ci hanno chiesto di metterci tra la barca a vela e la motovedetta per bloccare un po’ di onde perché non riuscivano ad avvicinarsi con un mare di due metri d'onda, buio pesto».
Situazione allucinante.
«Con un'altra barca di americani che si trovava in zona e la nostra, abbiamo cercato di spezzare le onde in modo che potessero caricare questi migranti sulla loro navetta e dopo molti tentativi andati a vuoto hanno deciso di rimorchiarli mettendo una cima alla barca a vela. Noi siamo stati lì più di cinque ore con un mare veramente problematico. Siamo stati a 500 metri dalla barca a vela come da regolamento come ci avevano detto, poi, finalmente li hanno attraccati».
Chi c'era sulla barca a vela?
«Abbiamo telefonato e ci hanno detto che erano iraniani, egiziani e turchi. Persone che pagano 400-500 euro a testa per avere un servizio del genere. Dalla ricerca che abbiamo fatto s'è capito che loro arrivano sulle acque territoriali italiane con dei gommoni grandi, vere barche da macello, quelli che si vedono in televisione, poi questi disgraziati, tutti con salvagente arancione, vengono messi su una imbarcazione come quella barca a vela che al massimo carica sei otto persone, ne mettono cento, tutti aggrappati, tutti che rischiano la vita».
Lei è abituato ad andare per mare, è la prima volta che le capita una situazione del genere?
«Si, e le assicuro che è uno spettacolo indescrivibile. In più sei impotente. Il contributo che abbiamo dato è stato quello che ci ha chiesto la Guardia costiera, cinque ore in osservatorio e oltre a questo non potevamo fare. E la nave della Guardia costiera ha fatto una fatica enorme, per più di un'ora non riusciva ad avvicinarsi per l'altezza delle onde. Alla fine sono stati molto bravi e ce l'hanno fatta».
Secondo lei cosa bisogna fare perché non accadano situazioni di questo genere?
«Questi maledetti scafisti bisogna bloccarli alla fonte, non puoi lasciarli partire, è un continuo massacro in quelle condizioni. Non lo auguro a nessuno di fare un viaggio del genere.
Si deve pensare a un vero blocco navale, un blocco a casa loro prima che arrivino in acque territoriali italiane».
Bisogna fare i conti con l'Europa.
«Che si fa sempre bella con dei paroloni. L'unica soluzione sarebbe quella d'investire in Africa per consentire a queste persone di trovare un lavoro a casa loro. Son tutti bravi a Bruxelles a pontificare e alla fine nessuno mette le mani nel fango. Investire in Africa è un obbligo altrimenti diventerà un problema enorme».
Lei, in Africa, c'è da tanti anni.
«Trenta e do lavoro a più di mille persone. Il 90% locali, il 10% sono internazionali tra italiani, spagnoli, polacchi. E a quel 90% facciamo scuola alberghiera e addestramento per insegnare un lavoro».
Qui si fa capo ai centri d'accoglienza.
«Già, e sento dire che quando sono vuoti cercano di riempirli velocemente».
Un business?
«Non è un business che mi interessa però in questo caso bisogna intervenire durissimi. Se sanno che li blocchi, lì riporti a casa e gli spacchi la barca, quando gli hai spaccato cento barche e non ne hanno più non possono portare la gente. Bisogna affondare le barche prima che partano. Speculatori che speculano sulla vita delle persone».
La politica, secondo lei, si gira dall'altra parte?
«L'attuale ministra non se ne è mai occupata, lei dovrebbe salire sulle barche per vedere cosa succede, rendersi conto di quel che accade e solo in quel caso cambierebbe idea sull'accoglienza. Devi viverla una esperienza di questo genere perché quando la vedi in televisione o la leggi sui giornali non te ne rendi conto. Invece di stare seduti sui loro scranni vadano a toccare con mano».
Gaia Rossi per corriere.it il 20 giugno 2022.
«Come fanno a vendere una pizza a 4 e 5 euro? Cosa mettono dentro queste pizze? Se devi pagare stipendi, tasse, bollette e affitti i casi sono due: o vendi 50mila pizze al giorno o è impossibile. C’è qualcosa che mi sfugge».
Con un lungo video pubblicato su Instagram, Flavio Briatore rintuzza, ancora una volta, le critiche social, quelle relative ai costi — eccessivi secondo i più — delle pizze nei suoi «Crazy Pizza». Spiegando, poi, che «questi prezzi si giustificano con i costi delle materie prime di qualità, oltre che per le tasse e il costo dei dipendenti. Siamo partiti da un ragionamento molto semplice: dobbiamo mettere i migliori ingredienti possibili e immaginabili disponibili sul mercato.
Vi faccio degli esempi: il prezzo al pubblico in un supermercato del Pata Negra — che noi vendiamo con la pizza a 65 euro —costa 300 euro al chilo; il San Daniele che prendiamo noi costa 35/36 euro al chilo; i pelati Strianese 4 euro al chilo, il Gran Biscotto 30/35 euro al chilo, la mozzarella di bufala 15 euro al chilo, la farina più di un euro e cinquanta al chilo... Aggiungo che Crazy Pizza non ha lievito, per cui non fermenta a differenza di questi miei amici pizzaioli che dicono che è troppo sottile . E ti danno una mattonata di pizza con all’interno un laghetto di pomodoro ed è finita qui (...). Noi vogliamo la qualità, questo è il ragionamento di base».
Ma a Napoli non ci stanno e ribattono che una Margherita di qualità può essere venduta a prezzi contenuti. Sergio Miccu, presidente dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani, aggiunge: «Il problema non è a quanto si venda la pizza con l’astice blu, ma a quanto sia giusto vendere una Margherita o una Marinara con ingredienti di qualità».
Inaugurato la prima volta nel 2019 a Londra, «Crazy Pizza» è il primo di una serie di locali che Briatore ha poi aperto a Roma, Milano e a Porto Cervo, in Sardegna. Frequentato da una clientela trasversale, si distingue per l’atmosfera modaiola, comunque informale, in cui pizzaioli acrobati si esibiscono tra i tavoli mentre i clienti degustano pizza pescando da un’offerta variegata che spazia dai grandi classici, come la Marinara (a 13 euro) e la Margherita (a 15), alle pizze gourmet come quella al Pata Negra.
«I Crazy Pizza non sono semplici pizzerie, ma locali pieni di energia, che creano atmosfera. Non c’è pizzeria con una proposta di vini come la nostra, fatta di un’ampia scelta tra etichette italiane e internazionali, oltre che Champagne da degustare in alternativa a cocktail in stile Dolce vita. Puoi prendere da quello meno caro a quello più caro, c’è varietà. Ringrazio i clienti, che sono migliaia: basta telefonare per capire che siamo overbooking sempre. La cosa che mi dà fastidio è che quando in Italia hai successo trovi anche tanta rabbia.
La gente non pensa che più successo hai, più gente assumi, più tasse e contributi paghi. La gente vede solo rancore. La cosa che veramente mi dà fastidio è che l’Italia è un Paese rancoroso, pieno di invidiosi. Per farvi un po’ di invidia in più, vi dico che una settimana fa abbiamo aperto anche a Riyad, capitale dell’Arabia Saudita: stiamo facendo una media di mille clienti al giorno. E abbiamo 150 richieste per aprire Crazy Pizza nel mondo. Ragazzi, siete degli invidiosi e io vi adoro perché mi faccio pubblicità». Poi la stoccata finale: «La verità — conclude — è che io sono un genio e voi non lo siete. Questa è la differenza».
La polemica e la reazione dei Masanielli del giorno dopo. Briatore sulla pizza ha ragione e viene massacrato: mangiare una margherita non è più popolare. Giovanni Pisano su Il Riformista il 21 Giugno 2022.
Flavio Briatore massacrato per aver detto la verità (“Per vendere la margherita a 4 euro quali ingredienti usate?“). Certo in modo spocchioso, saccente, di chi è abituato a fare business da decenni entrando in fette di mercato che garantiscono proficui guadagni. E il mondo della pizza è diventato uno dei settori più proficui. Ma non da oggi. Sono anni che grazie a quelle paroline magiche come “gourmet“, “ingredienti d’eccellenza” e così via, il famoso piatto popolare napoletano è diventato sempre più caro. Oggi sedersi in pizzeria non è più così conveniente.
Dalla pizza “special” (per i suoi ingredienti di prima qualità) agli antipasti (crocché, frittatine di pasta, arancini), passando per birre sempre più ricercate (o, per meglio dire, artigianali), a fine serata dopo aver pagato il vostro conto una domanda viene quasi in automatico: non era meglio, forse con pochi euro in più, andare a mangiare al ristorante? Briatore non ha detto stupidaggini così come in queste ore l’orgoglio di qualche pizzaiolo o di qualche influencer, o dei Masanielli del giorno dopo, sta provando a cavalcare nel tentativo di avere qualche ritorno d’immagine. Lui la margherita la fa pagare 15 euro nella sua catena di pizzerie di lusso (non dimenticate questo aspetto) aperte a Montecarlo, Roma, Londra, Milano.
Quindici euro una margherita può sembrare eccessivo se non si valutano tanti aspetti: dalla location all’ambiente che si trova all’interno del locale passando per le materie prime. A Napoli la margherita non è ancora arrivata a costare 15 euro ma nelle nuove pizzerie ‘gourmet’, così come in quelle considerate ancora “normali”, i prezzi sono decollati da anni, sfiorando rincari anche del 50%. Pagarla poco può significare scarsa qualità o, come fanno alcuni nomi storici della tradizione napoletana, può significare puntare sulla quantità di pizze sfornate ogni giorno.
Poi ognuno è libero di creare il su menù di pizze, con tanto di tanto di Patanegra, il prosciutto spagnolo pregiato, altri prodotti d’eccellenza e una carta dei vini con pezzi stratosferici. Il mercato è libero, chi va a mangiare la margherita nelle pizzerie di Briatore ne è consapevole (forse i turisti un po’ meno ma si stanno adeguando anche loro…). In sostanza l’imprenditore piemontese non ha detto nulla di nuovo, anzi. Ha sfruttato l’occasione per far parlare della sua nuova attività (“vi adoro perché mi fate una pubblicità della madonna“) e per ricordare, in chiusura di video, che “quando in Italia hai successo trovi questa rabbia contro il successo, il rancore. Perché l’Italia è rancorosa e gelosa”.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
I pizzaioli napoletani replicano a Briatore: “Pochi euro per una pizza di qualità”. Giampiero Casoni il 21/06/2022 su Notizie.it.
I pizzaioli napoletani non ci stanno replicano a Flavio Briatore: “Bastano pochi euro per fare una pizza di qualità, quelle da chef sono un'altra cosa”.
I pizzaioli napoletani replicano a Flavio Briatore che nei giorni scorsi aveva spiegato che una pizza da meno di 15 euro non poteva essere di buona qualità: “Bastano pochi euro e la qualità c’è e come”. Il proprietario della catena Crazy Pizza aveva detto: “Chi la fa pagare poco chissà cosa ci mette.
“Come fanno a vendere la pizza a 4-5 euro?”. Insomma, Flavio Briatore in un video virale sui social, aveva respinto le critiche di chi ritiene esagerati i costi della pizza nella sua catena ed aveva sollevato la questione della qualità e del lavoro in quel settore.
I pizzaioli napoletani replicano a Briatore
L’imprenditore ha detto che a suo avviso quei prezzi si giustificano con i costi delle materie prime di qualità, oltre che con le tasse e il costo dei dipendenti.
Ma a Napoli non sono affatto dello stesso avviso, lì dove la pizza è nata e dove è una vera religione dicono che una margherita di qualità può essere venduta a prezzi contenuti.
Miccù: “Quelle da chef sono un’altra cosa”
Lo precisa Sergio Miccú, presidente dell’Associazione Pizzaioli Napoletani, che ha espresso il suo parere in merito raccolto da Internapoli: “Il problema non è a quanto si venda la pizza con l’astice blu ma a quanto sia giusto vendere una margherita o una marinara con ingredienti di qualità”.
E ancora: “La pizza ha contribuito a sfamare intere generazioni superando le crisi più dure che la città ha vissuto. Dalla guerra al colera”. E ancora: “Ma oggi si tratta di un piatto. Perciò le classiche conservino anche il valore della tradizione . Quelle cosiddette da chef che diventano un’altra cosa si possono anche vendere a prezzi diversi”.
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022.
Ma alla sua età - con tutto quello che ha, che è e che crede di essere - dove trova ancora la voglia di mettersi in braghette blu davanti a una telecamera per polemizzare con i pizzaioli napoletani che lo hanno criticato? Flavio Briatore è fonte continua di stupefazioni.
Non è solo l'idea di un cuneese che pretende di insegnare i segreti della pizza a chi l'ha inventata, come se un napoletano spiegasse ai Ferrero in che modo si impasta il cioccolato con le nocciole.
È la sua tigna che spiazza tutti coloro che, come me, aderiscono alla scuola andreottiana della resistenza passiva, secondo cui rispondere a una provocazione significa alimentarla, specie nell'era social dove ogni polemica si scarica con la rapidità di un acquazzone: basta mettersi al riparo e aspettare in silenzio che passi. Briatore non aspetta un bel niente e, se prende l'ombrello, non è per proteggersi, ma per tirartelo addosso.
Essendo un venditore fenomenale di status symbol, con la sua nuova catena di cibo povero & patinato ha reso felice tanta gente che non vedeva l'ora di spendere 65 euro per una pizza al prosciutto Pata Negra. Eppure, non gli basta. Vuole che i pizzaioli napoletani che lo contestano, e intanto (unici al mondo) si ostinano a vendere le loro margherite a 4 euro, ammettano di usare pomodori marci e farina di cemento armato. Ma chi glielo fa fare? Lo dico con tutto il rispetto dovuto a uno dei due imprenditori più famosi d'Italia. L'altro è Vacchi. Almeno Briatore è un Vacchi che lavora.
Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 22 giugno 2022.
Caro Merlo, ma lei la pizza di Briatore, a 15 euro, l'ha mangiata? Io sì e voglio dirle che è buona, ma che ne ho mangiate di migliori, a prezzi molto più bassi. Tempo fa a Milano avevo anche mangiato la pizza di Carlo Cracco: costava 20 euro. E non mi era tanto piaciuta.
Briatore dice: "ma vi siete chiesti cosa ci mettono per venderla a 4 o 5 euro?". Ha anche ringraziato chi ha protestato perché gli fanno pubblicità. E ha concluso: "io sono un genio". Dev' esser vero.
Angiolina Locatelli - Milano
Risposta di Francesco Merlo:
Aborro la pacchianeria delle pizze griffate.
Pasquale Raicaldo per "la Repubblica" il 22 giugno 2022.
La disfida della pizza infiamma Napoli. Sul banco degli imputati Flavio Briatore: qui le icone, anche culinarie, sono intoccabili. Colorata e orgogliosa la risposta partenopea alla provocazione dell'imprenditore, che si è chiesto su Instagram come si possa vendere una pizza a 4-5 euro, giustificando così il listino della sua catena Crazy Pizza, dove la "tonda" va dai 13 ai 60 euro.
La reazione parte dal centro storico: suona la carica Gino Sorbillo, che in via dei Tribunali distribuisce pizze gratis e s'inventa un tutorial per i passanti. C'è folla come sempre, ma stavolta i morsi alla celebre pizza a portafoglio sono sberleffi a Briatore. «Noi siamo per la pizza popolare, che accontenta tutti, dai bambini ai professionisti ai disoccupati», dice Sorbillo, che s'ispira alla Livella di Totò e intanto dispensa tranci a iosa. I turisti in fila apprezzano, e si accodano al j'accuse: «Viva la pizza, abbasso Briatore». «Usiamo i prodotti migliori - aggiunge il maestro - e la pizza resta accessibile».
Rincara la dose Francesco Emilio Borrelli, presidente della commissione Agricoltura della Regione: «Sulla pizza non accettiamo lezioni: è un piatto popolare, non si addice ai cafoni arricchiti né può essere insolentita da un parvenu. Briatore venga a studiare qui». E insomma l'atmosfera è rovente, nella città che ha inventato - era il 1889 - la pietanza ispirata alla regina Margherita e ne ha fatto un vessillo, difendendola dalla globalizzazione grazie all'inserimento nella lista Unesco dell'arte del pizzaiuolo napoletano.
«Briatore si è fatto pubblicità: la pizza tira - spiega Massimo Di Porzio, titolare del ristorante "Umberto" - Ma il food cost non va oltre i 2,5 euro: ricarichi troppo alti sono operazioni d'immagine». «Avrebbe potuto spiegare che la pizza ha regole precise: ingredienti, tempi, dimensioni e procedimento - ammonisce Antonio Pace, presidente dell'Associazione Verace pizza napoletana - Pur nella consapevolezza che elementi a latere, dall'accoglienza alla location al servizio, possano determinare differenze di prezzo rilevanti».
A difendere Briatore è il Codacons: «Che ipocrisia. - sbotta il presidente Carlo Rienzi - A Napoli i pizzaioli predicano bene, peccato che quando aprono a Roma o a Milano non applichino gli stessi prezzi».
Flavio Briatore contro tutti: «La pizza non è di Napoli e gli altri la fanno meglio». GABRIELE PRINCIPATO su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.
Briatore replica alla folla che ieri a Napoli ha manifestato in risposta alle sue affermazioni secondo cui una pizza venduta a 5 euro non sarebbe di qualità. «La pizza non è napoletana - attacca -, è un prodotto mondiale e gli altri la fanno meglio». Intanto, il maestro Gino Sorbillo propone di mettere fine alla polemica e lancia l’idea di una cena a quattro mani tra i suoi pizzaioli e quelli dell’imprenditore di «Crazy Pizza».
«Non è vero che la pizza è napoletana, la si mangia in tutto il mondo. E anche se è stata inventata a Napoli, gli altri l’hanno migliorata con gusti diversi: uno può inventare una roba e gli altri la possono modificare e farla meglio». Flavio Briatore, in un’intervista rilasciata ieri a La Zanzara su Radio 24, ha replicato alla folla che ieri, al grido «la pizza al popolo» si è radunata a Napoli per manifestare contro di lui. L’iniziativa è partita da alcuni maestri pizzaioli partenopei per rispondere a quella che hanno definito una «provocazione» dell’imprenditore, criticato per aver sostenuto che la sua pizza è cara perché di qualità: la Margherita da «Crazy Pizza» costa 15 euro e la Pata Negra 65. La manifestazione è andata in scena presso la storica pizzeria «Sorbillo ai Tribunali». «Io non lo so perché ce l’hanno con me. Dico solo la verità», ha aggiunto Briatore. «Sfido chiunque a fare profitto vendendo la pizza a 4 o 5 euro: è impossibile. Gli stiamo dando (ai maestri pizzaioli, ndr) una possibilità, un assist per aumentare il prezzo delle pizze e non l’hanno capito. Ne stanno approfittando per farsi pubblicità…». L’imprenditore, poi, non nasconde la sua poca passione per la versione partenopea del celebre piatto. «A me la pizza napoletana non piace perché ha troppo contorno, poi c’ha molto lievito... preferisco la romana che è più sottile. Per esempio a Salerno fanno una pizza diversa, più sottile che a Napoli. Poi, ognuno ha il suo gusto».
E Gino Sorbillo offre una tregua a Flavio Briatore
«Dice che se la pizza costa poco non è buona? Ecco, noi la facciamo così e gli ingredienti sono questi: assaggiatela e ditemi com’è», lancia la sfida Gino Sorbillo, circondato da giornalisti, fotografi e le solite centinaia di persone che ogni giorno fanno la fila davanti al suo locale nel centro storico di Napoli. Per queste oggi c’è stata una sorpresa: pizza gratis e prezzi ulteriormente scontati per chi troverà un tavolo nel locale dopo la manifestazione ispirata dal consigliere regionale e presidente della commissione Agricoltura della Campania Francesco Emilio Borrelli. «È una polemica stupida», taglia corto Sorbillo. «La pizza nasce come piatto popolare — aggiunge — e deve restarlo. A noi piace lavorare con il popolo e accontentare tutti, bambini, disoccupati, professionisti e pensionati. Davanti a una pizza sono tutti uguali e tutti devono potersela permettere». Ma il maestro pizzaiolo napoletano offre a Briatore anche una tregua sulla polemica. Una serata «a quattro mani» tra la sua squadra di pizzaioli e quella dell’imprenditore «per offrire e far conoscere anche ai clienti di Briatore abituati a pizze gourmet anche la tipica pizza napoletana». Tra i due non c’è stata interlocuzione, però il maestro napoletano ha fatto sapere - dai microfoni di RTL 102.5 - di essersi autoinvitato. «Gli ho detto che questa è la nostra risposta, che si può fare qualità», che «il 99,9% delle pizzerie in Italia ha prezzi medi che vanno dai 5 ai 12 euro, non arrivano a 70 euro a pizza». «Ho cercato di fare pizze sartoriali, - ha raccontato Sorbillo - pizze che non fossero solo dei dischi di pasta serviti per sfamare le persone e basta ma che potessero avere anche un messaggio di generosità, ma anche di territorio, di resistenza, di coraggio, di presenza. Questa cosa mi ha consentito di crescere e poi sono arrivati dei premi e dei riconoscimenti. Il tutto mi ha fatto rimanere sempre lo stesso». Per Gino Sorbillo, che ha anche ricordato gli insegnamento di zia Esterina, l’ingrediente zero di una buona pizza «è il calore: ho fatto e faccio pizze come quando un genitore prepara una cosa ai propri figli. C’è quell’amore particolare che si sente», ha concluso, «questa cosa è riuscita ad arrivare ai miei clienti anche con nuove aperture. Trasmetto l’idea di una spesa quotidiana, per fare pizzeria-impresa mi sono collegato alla casa e alle sensazioni di casa».
Briatore contro la pizza a 4 euro: «Cosa c’è dentro?»
L’origine della polemica
La polemica sul prezzo della pizza in Italia è ormai consueta e prevedibile. Questa volta a finire nell’occhio del ciclone è stato nuovamente Briatore: secondo alcuni, i prezzi del suo «Crazy Pizza» sono troppo alti. Ad innescare il dibattito, però, sono state soprattutto alcune affermazioni pronunciate dall’imprenditore nel rispondere alle critiche. Briatore ha puntato il dito contro chi vende pizza — a suo dire — low cost. «Come fanno a vendere una pizza a 4 e 5 euro? Cosa mettono dentro queste pizze? Se devi pagare stipendi, tasse, bollette e affitti i casi sono dure: o vendi 50mila pizze al giorno o è impossibile. C’è qualcosa che mi sfugge». Con un lungo video pubblicato su Instagram, Flavio Briatore rintuzza, ancora una volta, le critiche social, quelle relative ai costi — eccessivi secondo i più — delle pizze nei suoi «Crazy Pizza». Spiegando, poi, che «questi prezzi si giustificano con i costi delle materie prime di qualità, oltre che per le tasse e il costo dei dipendenti. Siamo partiti da un ragionamento molto semplice: dobbiamo usare i migliori ingredienti possibili e immaginabili disponibili sul mercato. Vi faccio degli esempi: il prezzo al pubblico in un supermercato del Pata Negra — che noi vendiamo con la pizza a 65 euro — costa 300 euro al chilo; il San Daniele che prendiamo noi costa 35/36 euro al chilo; i pelati Strianese 4 euro al chilo, il Gran Biscotto 30/35 euro al chilo, la mozzarella di bufala 15 euro al chilo, la farina più di un euro e cinquanta al chilo... Aggiungo che “Crazy Pizza” non ha lievito, per cui non fermenta a differenza di questi miei amici pizzaioli che dicono che è troppo sottile . E ti danno una mattonata di pizza con all’interno un laghetto di pomodoro ed è finita qui (...). Noi vogliamo la qualità, questo è il ragionamento di base». Ma a Napoli non ci stanno e ribattono che una Margherita di qualità può essere venduta a prezzi contenuti. Sergio Miccu, presidente dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani, aggiunge: «Il problema non è a quanto si venda la pizza con l’astice blu, ma a quanto sia giusto vendere una Margherita o una Marinara con ingredienti di qualità».
Il format «Crazy Pizza»
Inaugurato la prima volta nel 2019 a Londra, «Crazy Pizza» è il primo di una serie di locali che Briatore ha poi aperto a Roma, Milano e a Porto Cervo, in Sardegna. Frequentato da una clientela trasversale, si distingue per l’atmosfera modaiola, comunque informale, in cui pizzaioli acrobati si esibiscono tra i tavoli mentre i clienti degustano pizza pescando da un’offerta variegata che spazia dai grandi classici, come la Marinara (a 13 euro) e la Margherita (a 15), alle pizze gourmet come quella al Pata Negra. «I Crazy Pizza — puntualizza Briatore continuando la sua battaglia social — non sono semplici pizzerie, ma locali pieni di energia, che creano atmosfera. Non c’è pizzeria con una proposta di vini come la nostra, fatta di un’ampia scelta tra etichette italiane e internazionali, oltre che Champagne da degustare in alternativa a cocktail in stile Dolce vita. Puoi prendere da quello meno caro a quello più caro, c’è varietà. Ringrazio i clienti, che sono migliaia: basta telefonare per capire che siamo overbooking sempre. La cosa che mi dà fastidio è che quando in Italia hai successo trovi anche tanta rabbia. La gente non pensa che più successo hai, più gente assumi, più tasse e contributi paghi. La gente vede solo rancore. La cosa che veramente mi dà fastidio è che l’Italia è un Paese rancoroso, pieno di invidiosi. Per farvi un po’ di invidia in più, vi dico che una settimana fa abbiamo aperto anche a Riyad, capitale dell’Arabia Saudita: stiamo facendo una media di mille clienti al giorno. E abbiamo 150 richieste per aprire Crazy Pizza nel mondo. Ragazzi, siete degli invidiosi e io vi adoro perché mi faccio pubblicità». Poi la stoccata finale: «La verità — conclude — è che io sono un genio e voi non lo siete. Questa è la differenza».
La Regione Campania convoca i maestri pizzaioli napoletani
«Sulla pizza napoletana non accettiamo lezioni da chi non ha nessun titolo per farne», afferma il consigliere regionale e presidente della commissione Agricoltura della Campania, Francesco Emilio Borrelli. «Probabilmente Briatore ha innestato questa polemica per farsi pubblicità ma con i suoi modi ha offeso chi questo prodotto l’ha reso grande ed esportato in tutto il mondo e i miliardi di utenti che ogni anno si sfamano a prezzi popolari», spiega il consigliere che ha deciso di convocare «una commissione congiunta con il presidente della commissione attività produttive Giovanni Mensorio per audire i maestri pizzaioli e gli esperti grazie ai quali negli anni — dice — si sono ottenuti importanti riconoscimenti come il marchio Stg (Specialità Tradizionale Garantita) e il riconoscimento Unesco». Per l’occasione il maestro pizzaiolo Gino Sorbillo rilancerà la tradizione della pizza a 8 giorni: «Si tratta di un tipico sistema che si utilizzava a Napoli, soprattutto nei bassi, in momenti di profonda crisi. Il cittadino mangiava la pizza, generalmente quella fritta, con la promessa di ritornare a pagarla 8 giorni dopo. Il debito veniva sempre pagato ed il sistema funzionava alla perfezione. Chi immagina di trasformare questo prodotto in un marchio per ricchi sbaglia di grosso: la pizza deve restare un prodotto “povero” alla portata di tutti».
Crazy Pizza, voci infamanti su Flavio Briatore: "Perché ha attaccato i pizzaioli napoletani". Tiziana Lapelosa su Libero Quotidiano il 23 giugno 2022
E così è stato ieri a Napoli, dove il "re" Gino Sorbillo dalla storica sede ai Tribunali ha regalato ai passanti il piatto cantato perfino da un milanesissimo Giorgio Gaber (e con lui Renato Carosone, Ariello Fierro e Domenico Modugno) con i versi del capolavoro di Alberto Testa (siamo nel 1966) musicato da Giordano Bruno Martelli per celebrare lei, la regina pizza. Più preziosa perfino del brillante di quindici carati che, nel motivo canticchiato in tutto il mondo, un lui innamorato vuole offrire alla sua lei. Che però preferisce la pizza. Piatto popolare, eccome se lo è, un marchio della cucina italiana nel mondo, anzi della napoletanità nel mondo. Lo stesso mondo che l'ha declinata a modo suo, spesso a tal punto da far venire i brividi ai puristi. Basta pronunciare la parola "ananas" per intendersi, ma anche per capacitarsi che ognuno la mangia come meglio crede. Tornando a Napoli, Sorbillo ha di certo fatto il pienone di assaggiatori di quel che meglio gli riesce per rispondere, nel linguaggio partenopeo, a quel Flavio Briatore che nei giorni scorsi si è chiesto «cosa ci mette dentro chi la fa pagare 4-5 euro?».
Lui, l'imprenditore cuneese che nella sua catena "Crazy Pizza" vende a 65 euro la pizza col Pata Negra, il prosciutto (top) spagnolo che per comprarne un chilo servono 300 euro, a 49 euro quella con bufala e tartufo, tra i 14 e i 29 euro il resto delle pizze: al pomodoro 14, margherita a 15, al salmone 29... È che le materie prime costano eccome, fa sapere l'ex team manager della Formula 1. Per un chilo di pomodori di quelli che i suoi pizzaioli adagiano sul tondo della pietanza servono 4 euro, per l'italianissmo prosciutto San Daniele tra i 30 e i 35 euro. E la mozzarella di bufala, sedi ottima qualità, di certo non la regalano perché si è famosi. Dice ancora Briatore che la sua (pazza) pizza non lievita - o meglio ha una percentuale irrisoria, lo 0,05 e non fermenta - e quindi non resta sullo stomaco una volta ingerita... E poi ci sono le spese: i dipendenti vanno pagati, l'acqua, la luce e il gas pure, e le tasse... Quelle sì, piene di lievito. Ma quali costi? Sembra aver voluto rispondere ieri Gino Sorbillo, erede dell'omonima famiglia di pizzaioli, nella protesta suggeritagli dal consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli, il quale, da presidente della Commissione Agricoltura e in collaborazione col collega delle Attività produttive, vorrebbe audire i maestri pizzaioli che hanno reso la pizza patrimonio Unesco e a marchio Stg (Specialità Tradizionale Garantita). «Sulla pizza napoletana non accettiamo lezioni da chi non ha nessun titolo per farne», il sentire del consigliere.
Come lui, Sorbillo è convinto che quella di Briatore sia stata una provocazione per farsi pubblicità. E ieri, mentre distribuiva la golosa specialità, diceva che la pizza è un «prodotto popolare», che le materie prime non sono poi così costose: per un chilo di farina si oscilla tra i 0,50 e 1,30 euro, il pomodoro San Marzano in fondo non incide più di tanto, il fiordi latte di eccellenza non può far di certo lievitare il costo a 20-30 euro, e l'olio extravergine nemmeno. Uno schiaffo lo tira pure a quei locali sontuosi nell'arredamento, leggesi Briatore. Insomma, «la pizza», dice il re, «è e deve restare un alimento popolare per tutti». E non va offeso come ha fatto l'imprenditore del Nord. E allora, viene da chiedersi, perché negli affollati Sorbillo disseminati tra Roma, Milano, Genova, Torino, New York, Miami e perfino Tokyo la sua pizza non viene venduta a 4-5 o al massimo 7 euro? Ad un prezzo popolare? Certo, non si arriva ai 65 euro per fondere cultura napoletana e iberica, ma sotto i dieci euro si mangia solo sognando. Per una Lazio, una Liguria, una Sardegna e via così (questi i nomi delle pizze nel menu) si sborsa da un minimo di 11 ad un massimo di 13.50 euro. Soldi spesi bene, per carità, ma di popolare c'è ben poco e nessuno a fare polemica. E chissà se per mettere fine alla diatriba, Briatore accetterà l'invito di Antonio Pace, presidente Avpn (Associazione Verace pizza Napoletana) alle Olimpiadi della pizza (quattro giorni, 300 partecipanti da 30 Paesi del mondo) «dedicate a questo prodotto simbolo del Made in Italy, iconico e amatissimo in tutto il mondo».
... ma tu vulive 'a pizza 'a pizza, 'a pizza... cu 'a pummarola 'ncoppa... cu 'a pummarola 'ncoppa...
Porta a porta, Briatore sbotta in faccia a Sorbillo: "Un mucchio di pizzaioli..." Libero Quotidiano il 23 giugno 2022.
Non c'è niente da fare: Flavio Briatore continua a essere uno degli argomenti preferiti dei social. Dagli hater, ovviamente. Ospite di Bruno Vespa a Porta a porta, il manager si è trovato costretto a difendersi dalla raffica di critiche (e insulti) per il prezzo di una margherita nella sua catena Crazy Pizza. Pizzeria modaiola e glamour, "un'esperienza" come la definisce lui, che non va giù ai puristi e non solo.
"Non faccio le guerre per una pizza - premette Mister Billionaire -. Qualcuno pensa di fare comunicazione attaccandosi al treno Briatore e al treno Sorbillo, per avere un secondo di notorietà. Non pretendo di essere un pizzaiolo. Abbiamo fatto dei ristoranti, tra questi a Londra, dove dentro c'è la pizza e abbiamo un costo per il personale e affitti molto alti". "In Italia - ha poi sottolineato Briatore - non abbiamo un marchio di pizza, non siamo mai riusciti a creare una catena di pizzerie internazionale, un brand per esportare pizze e talenti".
Particolarmente gustoso e verace il faccia a faccia con uno dei più famosi pizzaioli napoletani, il rinomato Gino Sorbillo. "Anche le pizzerie del popolo sono soddisfacenti - ha spiegato, in antitesi alle "pizzerie per pochi eletti" di Briatore -. Aprire un locale assieme a Briatore? Non si può mai sapere, magari ne parliamo". "C'è stato un mucchio di video di ragazzi pizzaioli che venivano da noi per fare critiche completamente infondate - ha concluso Briatore, polemico -, io ho fatto un post ed è scoppiata la rivoluzione. Non sono contro i napoletani, Napoli una città che adoro e amo, abbiamo molti ragazzi napoletani che lavorano da noi". Chissà se basterà.
Folla a Napoli contro la «pizza d’oro» di Flavio Briatore: e il ‘maestro’ Gino Sorbillo la offre gratis. GABRIELE PRINCIPATO su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022
Una folla anti-Briatore si è radunata a Napoli davanti allo storico locale di Gino Sorbillo, che ha distribuito pizza gratis. È stata questa la risposta di alcuni pizzaioli partenopei a quella che viene definita una «provocazione» dell’imprenditore di «Crazy Pizza»: l’aver sostenuto che una pizza venduta a 5 euro non può essere di qualità.
Al grido «la pizza al popolo» una folla anti-Flavio Briatore si è radunata a Napoli. È la risposta di alcuni pizzaioli partenopei a quella che definiscono la «provocazione» dell’imprenditore, criticato per aver sostenuto che la sua pizza è cara perché di qualità: la Margherita da «Crazy Pizza» costa 15 euro e la Pata Negra 65. La manifestazione è andata in scena a mezzogiorno presso la storica pizzeria «Sorbillo ai Tribunali». «Dice che se la pizza costa poco non è buona? Ecco, noi la facciamo così e gli ingredienti sono questi: assaggiatela e ditemi com’è», lancia la sfida Gino Sorbillo, circondato da giornalisti, fotografi e le solite centinaia di persone che ogni giorno fanno la fila davanti al suo locale nel centro storico di Napoli. Per queste oggi c’è stata una sorpresa: pizza gratis e prezzi ulteriormente scontati per chi troverà un tavolo nel locale dopo la manifestazione ispirata dal consigliere regionale e presidente della commissione Agricoltura della Campania Francesco Emilio Borrelli. «È una polemica stupida», taglia corto Sorbillo. «La pizza nasce come piatto popolare — aggiunge — e deve restarlo. A noi piace lavorare con il popolo e accontentare tutti, bambini, disoccupati, professionisti e pensionati. Davanti a una pizza sono tutti uguali e tutti devono potersela permettere».
L’origine della polemica
La polemica sul prezzo della pizza in Italia è ormai consueta e prevedibile. Questa volta a finire nell’occhio del ciclone è stato nuovamente Briatore: secondo alcuni, i prezzi del suo «Crazy Pizza» sono troppo alti. Ad innescare il dibattito, però, sono state soprattutto alcune affermazioni pronunciate dall’imprenditore nel rispondere alle critiche. Briatore ha puntato il dito contro chi vende pizza — a suo dire — low cost. «Come fanno a vendere una pizza a 4 e 5 euro? Cosa mettono dentro queste pizze? Se devi pagare stipendi, tasse, bollette e affitti i casi sono dure: o vendi 50mila pizze al giorno o è impossibile. C’è qualcosa che mi sfugge». Con un lungo video pubblicato su Instagram, Flavio Briatore rintuzza, ancora una volta, le critiche social, quelle relative ai costi — eccessivi secondo i più — delle pizze nei suoi «Crazy Pizza». Spiegando, poi, che «questi prezzi si giustificano con i costi delle materie prime di qualità, oltre che per le tasse e il costo dei dipendenti. Siamo partiti da un ragionamento molto semplice: dobbiamo usare i migliori ingredienti possibili e immaginabili disponibili sul mercato. Vi faccio degli esempi: il prezzo al pubblico in un supermercato del Pata Negra — che noi vendiamo con la pizza a 65 euro — costa 300 euro al chilo; il San Daniele che prendiamo noi costa 35/36 euro al chilo; i pelati Strianese 4 euro al chilo, il Gran Biscotto 30/35 euro al chilo, la mozzarella di bufala 15 euro al chilo, la farina più di un euro e cinquanta al chilo... Aggiungo che Crazy Pizza non ha lievito, per cui non fermenta a differenza di questi miei amici pizzaioli che dicono che è troppo sottile . E ti danno una mattonata di pizza con all’interno un laghetto di pomodoro ed è finita qui (...). Noi vogliamo la qualità, questo è il ragionamento di base». Ma a Napoli non ci stanno e ribattono che una Margherita di qualità può essere venduta a prezzi contenuti. Sergio Miccu, presidente dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani, aggiunge: «Il problema non è a quanto si venda la pizza con l’astice blu, ma a quanto sia giusto vendere una Margherita o una Marinara con ingredienti di qualità».
Il format «Crazy Pizza»
Inaugurato la prima volta nel 2019 a Londra, «Crazy Pizza» è il primo di una serie di locali che Briatore ha poi aperto a Roma, Milano e a Porto Cervo, in Sardegna. Frequentato da una clientela trasversale, si distingue per l’atmosfera modaiola, comunque informale, in cui pizzaioli acrobati si esibiscono tra i tavoli mentre i clienti degustano pizza pescando da un’offerta variegata che spazia dai grandi classici, come la Marinara (a 13 euro) e la Margherita (a 15), alle pizze gourmet come quella al Pata Negra. «I Crazy Pizza — puntualizza Briatore continuando la sua battaglia social — non sono semplici pizzerie, ma locali pieni di energia, che creano atmosfera. Non c’è pizzeria con una proposta di vini come la nostra, fatta di un’ampia scelta tra etichette italiane e internazionali, oltre che Champagne da degustare in alternativa a cocktail in stile Dolce vita. Puoi prendere da quello meno caro a quello più caro, c’è varietà. Ringrazio i clienti, che sono migliaia: basta telefonare per capire che siamo overbooking sempre. La cosa che mi dà fastidio è che quando in Italia hai successo trovi anche tanta rabbia. La gente non pensa che più successo hai, più gente assumi, più tasse e contributi paghi. La gente vede solo rancore. La cosa che veramente mi dà fastidio è che l’Italia è un Paese rancoroso, pieno di invidiosi. Per farvi un po’ di invidia in più, vi dico che una settimana fa abbiamo aperto anche a Riyad, capitale dell’Arabia Saudita: stiamo facendo una media di mille clienti al giorno. E abbiamo 150 richieste per aprire Crazy Pizza nel mondo. Ragazzi, siete degli invidiosi e io vi adoro perché mi faccio pubblicità». Poi la stoccata finale: «La verità — conclude — è che io sono un genio e voi non lo siete. Questa è la differenza».
La Regione Campania convoca i maestri pizzaioli napoletani
«Sulla pizza napoletana non accettiamo lezioni da chi non ha nessun titolo per farne», afferma il consigliere regionale e presidente della commissione Agricoltura della Campania, Francesco Emilio Borrelli. «Probabilmente Briatore ha innestato questa polemica per farsi pubblicità ma con i suoi modi ha offeso chi questo prodotto l’ha reso grande ed esportato in tutto il mondo e i miliardi di utenti che ogni anno si sfamano a prezzi popolari», spiega il consigliere che ha deciso di convocare «una commissione congiunta con il presidente della commissione attività produttive Giovanni Mensorio per audire i maestri pizzaioli e gli esperti grazie ai quali negli anni — dice — si sono ottenuti importanti riconoscimenti come il marchio Stg (Specialità Tradizionale Garantita) e il riconoscimento Unesco». Per l’occasione il maestro pizzaiolo Gino Sorbillo rilancerà la tradizione della pizza a 8 giorni: «Si tratta di un tipico sistema che si utilizzava a Napoli, soprattutto nei bassi, in momenti di profonda crisi. Il cittadino mangiava la pizza, generalmente quella fritta, con la promessa di ritornare a pagarla 8 giorni dopo. Il debito veniva sempre pagato ed il sistema funzionava alla perfezione. Chi immagina di trasformare questo prodotto in un marchio per ricchi sbaglia di grosso: la pizza deve restare un prodotto “povero” alla portata di tutti».
E sulla pizza il Codacons difende Flavio Briatore
Il Codacons scende in campo per difendere Flavio Briatore contro i pizzaioli di Napoli. «Sul prezzo giusto della pizza assistiamo ad un balletto ridicolo», afferma il presidente Carlo Rienzi. «A Napoli i pizzaioli dicono che “davanti a una pizza sono tutti uguali e tutti devono potersela permettere”. Peccato che questi stessi esercenti, quando aprono una pizzeria a Roma o a Milano, non applichino ai consumatori gli stessi prezzi praticati a Napoli». «E’ il caso di una nota pizzeria napoletana che nella sua sede nel centro di Roma vende alcuni tipi di pizze a prezzi che sfiorano i 14 euro», prosegue Carlo Rienzi. «Un listino non esattamente “popolare” e non alla portata di tutti. Ed è proprio il ricarico dei prezzi applicato dai pizzaioli napoletani ai prodotti venduti in città come Roma o Milano a dare ragione a Briatore, quando afferma che sono anche tasse, affitti, stipendi a incidere sul prezzo di una pizza», conclude il Codacons.
Da lastampa.it il 27 giugno 2022.
Se ha fatto discutere la pizza di Flavio Briatore da 65 euro, figuriamoci quella che costa 12 mila dollari. Accade nel Cilento, dove il pizzaiolo Renato Viola ha dato vita a una pizza salatissima, almeno per il costo. "Per il prezzo di 12mila dollari arriva a casa un disco di pasta di 20 cm ricoperto di caviale di tre varietà diverse, Mozzarella di Bufala Campana bio Dop, gamberoni rossi di Acciaroli, aragoste di Palinuro, cicale del Mediterraneo e sale rosa australiano Murray River", ha detto presentando la sua creazione che non a caso si chiama Luigi XIII in omaggio al re francese.
Ma il Crazy Pizza di Briatore, che in Italia ha fatto parecchio rumore, deve ancora imparare. Prima della sua costosa pizza al Pata Negra, c'è quella che costa 6800 dollari con una guarnizione di diamanti e una da 4200 dollari con salmone affumicato marinato nel cognac e "pioggia d’oro". Ce n'è un'altra sempre gourmet ma più abbordabile che costa 66 dollari e arriva dal Giappone. Una pizza, questa, caratterizzata da pezzetti di manzo Kobe.
Cifre che faranno sicuramente contento l'imprenditore che qualche giorno fa scatenò la polemica con queste parole: "Noi utilizziamo Pata Negra, la migliore mozzarella di bufala, ingredienti di grandissima qualità. Ma quale qualità ci può essere in una pizza" che costa troppo poco?
Chiara Amati per corriere.it il 27 giugno 2022.
Incontenibile Roberto Parodi. Scrittore, giornalista e conduttore televisivo, il fratello di Cristina e Benedetta-zia Bene, ha affidato al proprio profilo Instagram un video con cui fa a pezzi la pizza al Pata Negra di Flavio Briatore.
«Mi vedo costretto a esprimere il mio parare su ’sta pizza con il Pata Negra che ha sortito una bufera di commenti: e il costo e il prezzo... Quanto deve costare una pizza…
Non è questo il punto — sottolinea Parodi —. Il punto è che una pizza con il Pata Negra non si fa. Non-si-fa. Non è che se un cibo costa tanto lo posso sbattere dappertutto. Questa pizza è l’apoteosi della burinata. Piuttosto la dice lunga sul pubblico a cui si rivolge Briatore. Degli zanza ossessionati dal far vedere che non sono poveri. Che possono comprare una pizza con 60 euro. Ma cos’è: vuoi fare il ricco con 60 euro? Manco un pieno alla Panda fai oggi con 60 euro! Invece fai la figura del cafone perché se sapessi davvero che cos’è il Pata Negra, l’ultima cosa che fai è metterlo sulla pizza».
Poi la spiegazione. «Jamón Ibérico Pata Negra Bellota etichetta nera: una storia millenaria che ti impone di gustarlo con rispetto e alla giusta temperatura, apprezzandone il grasso con quel tenue aroma di ghianda. Aromi delicatissimi. E tu me lo butti sulla pizza?! Ho un suggerimento: mettigli un po’ di beluga, 40 euro. Gran figura! Però prima vai su Wikipedia a cercare “beluga” . Così, eh…».
Denis Lovatel: "Quattro euro per una margherita? Spesso è un prezzo civetta, si guadagna con altro". Marco Colognese su La Repubblica il 24 Giugno 2022
Il pizzaiolo veneto dice la sua sulla polemica: la verità sta nel mezzo. Ma un costo così basso non dà valore all'artigianalità, me lo aspetterei da una catena industriale
Già la storia di Denis Lovatel è emblematica per un professionista che ha fatto della versatilità e dell’adattarsi alle circostanze (con fatica ma con successo) il suo credo. Di Alano di Piave, paesino ai piedi del Grappa in provincia di Belluno che si trova a dieci minuti dalle colline di Valdobbiadene, respira la montagna fin da piccolo. Il padre Ezio avvia un’attività di ristorazione che diventa pizzeria e allo stesso tempo è impegnato in una piccola azienda industriale; Denis se ne va a Milano e da lì gira il mondo con una multinazionale, ma rientra tutti i fine settimana a dare una mano ai genitori “pensavo di scappare ma non potevo lasciarli senza un aiuto”.
Alla fine torna, si ferma e trasforma Pizzeria da Ezio in un locale che richiama clienti i quali per arrivarci non esitano a fare anche più di un’ora di strada. Il segreto? Una pizza sui generis, con un impasto che riduce di almeno cento grammi il tradizionale panetto, di estrema fragranza e farcita con gli ingredienti giusti. Arrivano i riconoscimenti dalle guide di settore, lui si impegna seriamente in tema di sostenibilità e diventa noto come il pizzaiolo di montagna; da lì la collaborazione con Norbert Niederkofler al Wine Bar & grill del Rosa Alpina di San Cassiano, dove firma un menu di pizze realizzate dal suo giovane collaboratore Lorenzo Cavaletto. Infine a maggio di quest’anno apre il nuovo locale a Milano.
Abbiamo pensato di chiedere anche a lui un’opinione sulla recente, dibattutissima diatriba in tema di prezzi per le pizze che ha visto protagonisti personaggi della mondanità imprenditoriale come Flavio Briatore e Gino Sorbillo. Lovatel, da professionista pragmatico qual è, ci ha detto: “Credo che la verità stia sempre nel mezzo: è vero che la pizza è un piatto popolare, ma devi rientrare nei costi, quindi se vuoi vendere una margherita a 4 euro ce la puoi fare soltanto in determinate condizioni, magari se sei in una struttura familiare di tua proprietà. Poi, si sa, il prezzo non è soltanto food cost, ma è condizionato da moltissime variabili, dagli affitti al tipo di servizio che vuoi offrire".
Di base però lui è convinto di un aspetto importante come il valore dell’artigianalità: “Bisogna riconoscerlo, altrimenti non ne usciamo: 4 euro per una pizza me li aspetto da una catena come potrebbe essere Pizza Hut con un sistema di produzione industrializzato, quindi perché denigrare un prodotto che non lo merita? Elementi come l’artigianalità e nel caso di Napoli l’arte del pizzaiolo riconosciuta come patrimonio anche dall’Unesco non possono non essere considerati o peggio ancora sminuiti. Dobbiamo scardinare un limite che non ha senso, perché una margherita può essere popolare anche se venduta a 6 euro, ricordiamo anche che in queste cifre c’è sempre anche la componente dell’IVA. Poi ci sono la ricerca sul prodotto e sulle materie prime. La mozzarella può andare dai 2/3 euro al chilo di quella plastificata tedesca con scadenze lunghissime agli 8/9 euro di una di qualità. Come vengono trattati gli animali che danno il latte? Insomma, si tratta di mondi diversi”.
Ancora, la costruzione del margine: “Il guadagno si fa sul resto, dalle bevande in poi, quello della margherita spesso è un prezzo civetta, perché i margini sulle altre pizze sono sempre proporzionalmente più alti.” Altro tema è la concatenazione di fattori che crea un effetto domino negativo coinvolgendo le persone: “è sempre necessario aver chiaro cosa succede dietro le quinte: se acquisto da aziende che per mantenere un prezzo basso sfruttano i lavoratori e la loro dignità, allora non va bene. Non occorre uscire con prezzi troppo alti, ma con un valore che premi l’aspetto artigianale, quando c’è".
Infine, relativamente alla questione che rimbalza da giorni: “Briatore ha le sue attività in centri importanti, vuole offrire un servizio che va oltre quella che si immagina come una pizzeria, ha il doppio del personale. In fondo è coerente con il suo pensiero, ovvero ‘la gente viene per me, non per la pizza’, ma soprattutto non cambia nulla per chi decide di andarci, perché per quel target di consumatore non è il prezzo a fare la differenza.” A proposito, i prezzi della margherita nelle pizzerie di Denis? 7 euro ad Alano di Piave, 8,50 a Milano, 16 al Rosa Alpina.
DA MOWMAG.COM il 24 giugno 2022.
Se parli di Iginio Massari, parli del re della pasticceria mondiale e uno dei volti televisivi più famosi a livello nazionale. Ma Massari non è il tipico personaggio che si scompone e si presta alle polemiche, ad eccezione di una querelle che lo ha visto protagonista insieme a Knam, altro noto pasticcere (ma questa è un'altra storia. Stavolta. però, per MOW ha fatto un'eccezione e ci ha portato la sua esperienza sulla recente polemica tra Flavio Briatore e Gino Sorbillo (in rappresentanza di Napoli) sulla pizza di lusso (che si mangia da Briatore a 65 euro) o quella tipica partenopea (che si trova anche a 4 euro).
Massari, lei cosa pensa di questa polemica che si è scatenata per le parole di Briatore sulla pizza napoletana e il legame basso costo, prodotti scarsi?
Ovviamente ognuno ha le spese che gli competono, le vorrei dire che ci sono biciclette che costano 400 euro e quelle che costano 400mila euro, sono sempre biciclette. Come si fa a dire di non sapere le spese di Briatore? Alla fine, penso che il servizio sia a parte più importante del discorso. Non ho mai frequentato questi locali perché non fanno parte del mio mondo.
Comunque si sarà fatto un’idea sul fatto che una pizza, da Briatore, possa arrivare a costare anche 65 euro.
Credo che criticare il prezzo degli altri in su e in giù è sempre troppo gratuito. Ognuno vede le proprie realtà, giuste o sbagliate che siano. Poi c’è differenza tra caro e costoso. Può essere caro quattro euro e costoso a 30 o 50 euro.
Quindi secondo lei non ha importanza quanto un imprenditore decida di far pagare?
L’importante è che ci siano i clienti che vadano lì a mangiare, sono delle polemiche che non servono a niente. Poi perché criticare un prezzo alto, potrebbe benissimo essere il problema inverso.
Cioè?
Quando un prezzo è troppo basso, potrebbe essere concorrenza sleale. Uno mette un prezzo? Bene, sa quanto costano la gestione, le materie prime che prende, sa a chi rivolgersi. Se tu parli con qualcuno che ha lo stipendio a fine mese contato e che può permettersi una volta ogni quindici giorni la pizza da quattro euro è normale che trovi delle sproporzioni. Mi dispiace perché anche a me piacerebbe che tutti fossero ricchi.
Quindi in conclusione, la scelta del prezzo deve essere libera per chi vende un prodotto e quest’ultimo si rivolgerà al proprio target di clienti?
Secondo me tutto dipende dalla scelta individuale da azienda ad azienda. Sicuramente ci sono dei prezzi cari che possono essere per pochi e quindi costosi per chi non può permetterselo. Se Briatore è andato a finire in quelle polemiche mi dispiace per lui. Alla fine starà a lui avere dei meriti o dei demeriti.
Ma a lei nessuno è mai venuto a dire che i suoi dolci o le sue torte costano troppo?
Beh ce ne sono tanti che fanno di queste polemiche, io non rispondo mai.
Flavio Briatore: «Elisabetta Gregoraci, Campbell e Klum? Le tre persone più importanti della mia vita. La felicità? Stare con mio figlio». Daniele Dallera e Daniele Sparisci su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.
I cantanti lo citano nei pezzi («Non me ne frega niente, è contorno e io punto al piatto principale»), il fisco lo ha inseguito per anni. Ha “scoperto” Schumacher e frequentato (e amato) donne bellissime. «Ho 72 anni e sto bene così. Falco ha avuto molta più fortuna, a casa mia quando girava si mangiava il pollo»
Flavio Briatore è nato a Verzuolo (Cuneo) il 12 aprile del 1950: diplomato geometra, ha cominciato a lavorare come gestore di ristoranti. L’apice della sua carriera è stato quando è diventato team manager della Benetton in Formula 1 e ha “scoperto” Michael Schumacher
Flavio Briatore. Una vita da film, da hit. «Ho dormito poche ore, ho la faccia di Briatore» canta Tananai. Poi i Ministri: «Alla gente piace vedere la faccia di Briatore, non c’è niente da fare, ti devi rassegnare».
Le conosce queste canzoni?
«Forse mio figlio me ne ha fatta sentire una...».
Il suo nome compare anche nei brani di Fedez, di Fabri Fibra. Le danno fastidio certi accostamenti?
«Non me ne frega niente. È rumore di fondo. È contorno, e a me il contorno non è mai interessato, ho sempre puntato al piatto principale. Zero problemi, forse è anche meglio che mi menzionino»
Che cosa è per lei la felicità?
«Stare con mio figlio, in famiglia. Ho scoperto una nuova dimensione ed è la felicità vera: appassionarsi alle cose normali. Poi ci sono tante altre forme di felicità».
Naomi Campbell, Heidi Klum ed Elisabetta Gregoraci: tre sue ex. Sorridete tutti in quella foto scattata a Montecarlo che ha fatto il giro del mondo. C’è chi ha dato tanti significati a quell’immagine, quale è il suo?
«Alla base c’è la correttezza. L’amicizia dopo un rapporto d’amore deve continuare, dovremmo sforzarci tutti di fare in modo che sia così. Quello scatto è nato per caso, perché volevo cogliere un momento speciale».
Quanto speciale?
«Naomi, Heidi, Elisabetta. Le tre persone più importanti della mia vita, eravamo tutti insieme in Formula 1 che è stata e che è tornata a essere la mia vita. Ma ho conservato un ottimo rapporto anche con le ex meno famose, non ho mai detto a una: “Non ti voglio mai più vedere”».
In quella foto tre ex, perché manca la compagna del momento? C’è una donna nella sua vita, un rapporto sentimentale?
«L’unica storia affettiva per ora è quella con mio figlio. E poi alla mia età... spero soltanto di invecchiare bene. Con qualcuno che ti sostenga e ti dia felicità: in questo momento non ho velleità, non ho bisogno di badanti. Ho solo necessità di passare tempo con Falco e con Elisabetta. Perché anche se siamo separati, resta la madre di mio figlio. Non mi interessa altro, ho le giornate piene. Poi magari fra qualche anno mio figlio andrà in collegio e mi mancherà».
Perché in collegio?
«Quando avrà 14 anni, a frequentare il liceo in Svizzera, per crescere. Dopo spero che studi “Food & Beverage administration” per seguire le orme del papà e prendere in mano tutto quello che ho creato in questi anni. Se poi decidesse di diventare matematico...».
Guardando suo figlio Nathan Falco, che cosa vede?
«Un piccolo Briatore con molto più culo di me. Io non avevo un papà come Flavio Briatore, purtroppo o per fortuna. Ma è una bella differenza. Cerco sempre di farglielo capire, perché essendo un predestinato deve lavorare più degli altri».
Perché?
«Perché ha molte più responsabilità di quante ne avevo io alla sua età. Dovevo solo pensare ad andare a scuola, poi a casa il sabato per far festa mangiavamo il pollo. Durante la settimana invece ci toccava la polenta con le castagne. Non avevo la bicicletta... Sia io che Elisabetta speriamo che il privilegio di Falco si trasformi in rabbia e determinazione, in voglia di emergere ancora di più».
Quando suo figlio contesta i suoi metodi, lei come reagisce?
«Può essere in disaccordo, ma alla fine decido io. Ma non è un’imposizione e un modo di ragionare. Glielo spiego: “Tutto ciò che faccio adesso è per te, ora non lo capisci ma un domani lo capirai”».
Chi è più rigido fra lei ed Elisabetta?
«Può darsi che sia lei, ma le cose importanti le decidiamo insieme prima di parlargli. Troviamo sempre un accordo: sulla scuola, sulle scelte future».
Che paure ha per lui, che scelga una compagnia sbagliata?
«Se uno ha una forte personalità non si fa traviare. Di compagnie sbagliate ne ho incontrate centinaia in vita mia, ma non le ho mai seguite. Quando vivevo a New York circolavano droghe di ogni tipo, a me non interessavano, eppure la gente con cui uscivo le prendeva. A mio figlio l’ho spiegato in modo chiaro».
Che cosa?
«Uno che si fa traviare da un amico è un cretino, gli ho detto proprio così. Significa che non ha carattere. Oggi i ragazzi vivono di social media, di Tik Tok, il rischio è su quei canali».
Suo figlio trascorre tanto tempo sui social?
«Ha degli orari consentiti, un’ora-un’ora e mezza al giorno come limite. Al massimo alle 22.30 deve andare a dormire».
Chi lo controlla?
«La babysitter, i ragazzi che lavorano in casa, Elisabetta. E io che sono molto presente, il 99% delle volte in settimana ceno a casa».
Detto dal re dei locali notturni fa un po’ impressione. Com’è nata questa svolta casalinga?
«Cerco di concentrare tutti i miei impegni nelle ore in cui lui è a scuola, dico no alle cene di affari a meno che non siano veramente, ma veramente, importanti. Se mi capita di lavorare durante il fine settimana ci vediamo in ufficio, mangiamo insieme. Le mie giornate sono dettate dalla sua agenda, la sera voglio stare con mio figlio. È un altro lavoro, ti devi impegnare».
Parlate della guerra in Ucraina?
«Sì, e gli ho spiegato che succede a due ore di volo da noi. Nessuno si sarebbe mai aspettato un conflitto così in Europa, le guerre vanno fermate prima che inizino. Perché dopo non sai che piega possono prendere, come farle terminare. Ci rimettono i deboli, i civili, i bambini. A Falco, quando guardiamo le immagini dell’Ucraina, dico che devi sentirsi fortunato ma anche che tutto può cambiare da un momento all’altro».
Hai mai incontrato Putin?
«Due volte: a Sochi per il Gp e poi un’altra a Mosca, molti anni fa. Allora sembrava una persona equilibrata: la Russia era parte dell’Europa, era molto più vicina a noi che ad altri Paesi, l’interscambio era forte. Lo consideravo un grande presidente. Poi con quest’attacco ha sorpreso e sconvolto tutti, è difficile da capire per noi ed è anche difficile da capire la posizione degli Usa».
Che cosa vuole dire?
«Che se Trump fosse stato ancora presidente questa guerra probabilmente non ci sarebbe stata, nonostante tutte le critiche all’ex capo della Casa Bianca».
Sente ancora Trump?
«Gli ho parlato qualche mese fa: mi ha detto che si sta preparando per le prossime elezioni. Lo capisco, Biden dà poche garanzie agli americani».
Parliamo di altro, si è congratulato con Berlusconi per aver portato il Monza in serie A?
«Certo! Sono davvero felice per lui e per Galliani: hanno dato delle gioie enormi, sono sempre vincenti. E poi Berlusconi è una forza della natura: appena arrivato in serie A, già sogna lo scudetto e la Champions».
Perché nella politica non ha saputo scegliere un suo successore?
«Perché Forza Italia è lui e quando non ci sarà più lui finirà anche Forza Italia. Non ha voluto trovare un delfino perché quell’avventura politica l’ha cominciata e la vuole chiudere lui».
Affari. Briatore diceva che era impossibile investire in Italia, adesso invece apre locali: Crazy Pizza, Twiga a Roma. È cambiato qualcosa?
«Abbiamo fatto delle operazioni perché siamo un gruppo dal cuore italiano. Ma Crazy Pizza, per esempio, è nata prima a Londra. L’Italia resta un Paese in cui tutto è difficile: burocrazia, non vogliono la musica, ti mettono i paletti. Sono le aziende che creano richiesta, non i decreti, le lobby politiche. L’Italia di fondo è un Paese comunista e non vede di buon occhio gli imprenditori. Vengono visti come sfruttatori».
Però a livello imprenditoriale c’è un tasso di evasione fiscale enorme. Forse se tutti pagassero le tasse la percezione sarebbe diversa.
«Sono d’accordo. Per questo serve una tassa fissa, fra il 25-28%, invece di arrivare molto oltre il 50%. Sono a favore di pene severissime contro gli evasori, in altri Paesi c’è il sequestro dell’azienda se non paghi il fisco, ma servono aliquote più eque. Contro di me è stata condotta una caccia alle streghe per dodici anni e poi sono stato assolto su tutto. Ma l’Agenzia delle Entrate mi chiede ancora soldi. Si sono presi la mia barca e l’hanno svenduta, qualcuno pagherà per questo. Tutto questo accanimento, perché mi chiamo Flavio Briatore».
Briatore di nuovo in Formula 1, perché?
«Per dare una mano a Stefano Domenicali: è un grande manager e un amico. Perché la F1 sta vivendo un boom eccezionale soprattutto grazie all’America, grazie all’effetto della serie di Netflix. Un tempo andavamo a correre negli Usa nei parcheggi degli hotel, l’anno prossimo avremo tre gare su circuiti spettacolari, anche a Las Vegas. Cerco di dare il mio contributo con gli sponsor e con l’intrattenimento».
Ha scoperto Michael Schumacher e Fernando Alonso, quale è il pilota sul quale scommetterebbe ora?
«George Russell, è appena arrivato alla Mercedes: già guida come un veterano e batte Lewis Hamilton».
Charles Leclerc?
«Giovane, bel ragazzo, veloce. È anche un testimonial perfetto. Questi piloti sono bravissimi anche sui social, per questo i ragazzini sono tornati a guardare la F1».
Lei ha vissuto il successo e anche la malattia, è stato il momento più duro?
«Mi reputo fortunato ogni giorno che mi alzo dal letto e mi taglio la barba. Sembra strano dirlo, ma la cosa che mi ha impressionato di più è stata l’operazione al tendine di Achille. Quando mi sono risvegliato non sentivo le gambe, era come non averle. Un mese sulla sedia a rotelle, pensavo ogni minuto a chi è costretto a starci per sempre: sono degli eroi, vanno aiutati in ogni modo. Non dimentichiamolo mai».
Che cosa non rifarebbe Briatore?
«Se potessi tornare indietro cambierei il 90% della mia vita, solo un pirla rifarebbe tutto uguale».
Un record di citazioni
Fabri Fibra
La soluzione
«Voglio rapire la Gregoraci poi chiedo il riscatto a Briatore»
Fedez
Bella vita
«Perché nessuno ha ancora detto a Flavio Briatore che andare in giro con il pareo è un po’ da ricchione»
I ministri
La faccia di Briatore
«Alla gente piace vedere la faccia di Briatore. Non c’è niente da fare, ti devi rassegnare»
Il Pagante
Portofino
«Brizzolato come Briatore, divorziato senza rancore»
Tananai
Baby Goddamn
«Ho dormito un paio d’ore, c’ho la faccia da Briatore»
Venditti
Comunisti al sole
«Ma che golosità questa giornata al mare Sublime voluttà Sentirsi un po’ Briatore»
Club Dogo
Briatori
«Devo incassare e fare il rap-Briatore O non farò mai bum-bum con le tipe che vedo in Tv»
Salmo
Charles Manson
«Chiederò a Gesù per regalo cosa vuole, come Briatore».
Flavio Insinna ritorna all’Eredità: l’amore intenso per Adriana e altre nove cose che non sapete di lui. Maria Volpe e Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 31 Ottobre 2022.
L’attore e conduttore campione di ascolti ritorna in tv con «L’Eredità»
Insinna-dottor Maglio
Dal 31 ottobre torna su Rai1, alla guida de L’Eredità, Flavio Insinna. Il conduttore, prossimamente tra i protagonisti della fiction «La stoccata vincente», spera di portare con il programma (giunto ormai alla 21ma edizione) un sorriso nelle case degli italiani: «L’anno che ci attende probabilmente sarà tremendo - ha dichiarato -, speriamo di essere all’altezza e di trovare la cifra giusta per non essere troppo né troppo poco. Noi però in quell’ora diamo la possibilità di far rifiatare l’anima, e facciamo compagnia soprattutto alle persone magari anziane che vivono sole. Questa è una cosa che mi riempie di orgoglio». Per quanto riguarda la formula «format che vince non si cambia», ma nel quiz preserale celebre per la sua ghigliottina finale ci saranno alcune «piccole sorprese e novità, perché questo è uno dei modi di dire grazie al pubblico. Non stravolgiamo nulla, siamo pronti a divertirci, però ci rinnoviamo un po’». Per ingannare l’attesa - l’appuntamento con L’Eredità è alle 18.45, tutti i giorni - ecco alcune curiosità sul conduttore.
Allievo di Gigi Proietti
Insinna nasce a Roma il 3 luglio 1965. Nel 1986, dopo la maturità classica si iscrive alla scuola di recitazione di Alessandro Fersen e nel 1990 si diploma al “Laboratorio di esercitazioni sceniche” diretto da Gigi Proietti a Roma, a cui resterà legatissimo. Lavora sia in teatro sia al cinema; tra i suoi film ricordiamo: Metronotte (con Diego Abatantuono, regia di Francesco Calogero) e Il partigiano Johnny (con Stefano Dionisi, regia di Guido Chiesa). Ma Flavio Insinna non ha mai nascosto la gratitudine nei confronti di Gigi Proietti: “È il mio maestro, l’uomo che mi ha cambiato la vita”. Per lui ha sempre speso bellissime parole di riconoscimento. Grazie a Proietti iniziata la carriera del famoso attore e conduttore.
L’amicizia con Fabrizio Frizzi
Una grande amicizia ha legato Flavio Insinna a Fabrizio Frizzi. Tempo fa, Insinna raccontò: «Fabrizio è un uomo accogliente, in un momento in cui l’accoglienza è un tema molto importante. Un amico da 100 mila anni, cui devo tantissimo, anche l’esser stato scelto per Affari tuoi. Accadde a San Vincent alla serate di premiazione de Le Grolle. Al tempo io recitavo solo nelle fiction, non conducevo. Sul palco, nonostante l’ora tarda, durante la premiazione lui mi diede corda. Rispose alle battute e il giorno dopo la mia agente mi disse che stavano chiamando tutti, Rai, Mediaset...».
Di nuovo a Don Matteo, nel ruolo del colonnello Anceschi
Tra le sue interpretazioni più popolari c’è sicuramente quella del Capitano dei Carabinieri, Flavio Anceschi, interpretato per cinque stagioni nella serie tv Rai «Don Matteo» con Terence Hill e Nino Frassica, cominciata nella prima stagione nel 1999. Ora è tornato nella prima puntata di questa tredicesima edizione di «Don Matteo» e lo rivedremo ancora il 26 maggio sempre nei panni di un carabiniere, non più capitano ma colonnello. Ha raccontato Insinna, riguardo al suo ritorno dopo tanti anni: «Quando Nino Frassica e io ci siamo trovati nuovamente di fronte in divisa ci siamo guardati non senza un pizzico di imbarazzo. In quei momenti vedi la vita, gli anni passati, le cose fatte insieme, anche se in realtà noi siamo amici e non ci siamo mai persi di vista».
Il successo di «Affari tuoi» e lo scivolone del fuorionda
Nel settembre 2006 esordisce come conduttore televisivo nel programma «Affari tuoi». Il programma ottiene ottimi ascolti e nel 2007 vince anche il Telegatto. Dopo due edizioni, Insinna lascia la conduzione di Affari per dedicarsi al teatro. Ma poi riprende il programma nel 2013 per un po’ di edizioni. Il 23 maggio 2017 «Striscia la notizia» trasmette alcuni fuorionda in cui, durante una pausa nella registrazione di Affari tuoi, Insinna usa parole offensive nei confronti dei concorrenti e si arrabbia con gli autori. Scoppiò un piccolo caso, ma Insinna chiese scusa più volte per quelle sue sfuriate. Striscia la Notizia ha mandato poi una nota in cui precisa quanto segue: «Nella presente scheda leggiamo: “Durante una pausa nella registrazione di Affari tuoi, Insinna usa parole offensive nei confronti dei concorrenti e si arrabbia con gli autori. Scoppiò un piccolo caso, ma Insinna chiese scusa più volte per quelle sue sfuriate”. Non andò proprio così: si dimentica di spiegare che nei fuorionda trasmessi da Striscia la notizia nel 2017, il conduttore del gioco dei pacchi si arrabbiava — arrivando fino alle bestemmie — per un “taroccamento” non riuscito del risultato finale del programma. Ricordiamo che in quei fuorionda — al plurale perché non si è trattato di un unico caso, ma di molti, documentati dal tg satirico — Striscia svelò che Insinna chiedeva esplicitamente di ignorare il sorteggio (previsto dal regolamento) per scegliere concorrenti più “simpatici”: «Hanno truccato le votazioni per fare la Repubblica, sennò rivotavano la monarchia, e noi non possiamo mettere nella busta cinque simpatici?». Non risulta poi che Insinna, che dava della «nana di merda» a una concorrente, le abbia mai chiesto scusa. Né che lui o i responsabili del programma abbiano chiesto scusa agli spettatori per il tentativo di taroccamento del gioco di Rai!. In conclusione, non ci sembra che questo sia un «piccolo caso», almeno per quanto riguarda la credibilità di un conduttore e di un quiz televisivo».
L’Eredità (lasciata da Conti e Frizzi)
Dal 24 settembre 2018 Insinna è il nuovo conduttore de «L’Eredità». Ha raccontato: «Pensa la vita: viene a mancare un amico, un vuoto incolmabile, e ti lascia un programma chiamato L’Eredità. Gigi Proietti ce lo disse una volta a teatro: ‘ragazzi, pesate le bene le battute che poi diventano vere’. Pensa che cosa gigante». Lo disse appunto quando prese in mano il programma record di ascolti , con alle spalle oltre 3700 puntate e 17 edizioni guidate da Amadeus, Carlo Conti, Fabrizio Frizzi, scomparso a marzo 2018.
«Il pranzo è servito» e «La corrida» (in stile Corrado)
Flavio Insinna giocoso e affabile è stato scelto per riproporre in tv due programmi storici di Corrado: nel 2011 ha condotto con Antonella Elia «La corrida», in onda su Canale 5, suo esordio sulle reti Mediaset. Nel 2021 ha presentato su Rai 1 il remake de «Il pranzo è servito».
La compagna Alessandra
Della sua vita privata si sa molto poco ma sappiamo che Insinna è fidanzato dal 2016 con Adriana Riccio, conosciuta quando lui lavorava ad “Affari Tuoi”. Adriana è nata a Mirano, in Veneto, nel 1976. È una donna molto sportiva ed è un’istruttrice di taekwondo e grazie al suo talento in passato ha vinto una medaglia di bronzo ai Mondiali. Lei nel 2016 era una concorrente in rappresentanza del Veneto nel programma da lui condotto e ha fatto scattare in lui un colpo di fulmine, subito ricambiato.«È una donna che ti dà una forza che non riesco a definire. Quando parte e va a trovare i suoi al nord la casa si spegne. Ma si spegne proprio tutto: il giardino s’intristisce, le cose colorate che abbiamo a casa diventano fosche e cupe. E quando torna si riaccende tutto. Irradia una cosa che ha solo lei, emana una luce: Ma vorrei che un pochino del mio sorriso arrivasse a lei, non vorrei essere solo la parte che prende e basta». Nonostante il forte legame che c’è tra loro, il matrimonio non sembra essere nei loro piani.
Mariagrazia, la ex, e le nozze saltate
La storia d’amore tra l’ex fidanzata di Flavio Insinna, Mariagrazia Dragani riempì i rotocalchi. I due si erano conosciuti proprio negli studi della Rai quando all’epoca lui presentava Affari Tuoi, mentre la donna era la collaboratrice di Che Tempo Che Fa. Scoppiato l’amore, i due erano a un passo dal matrimonio, con le pubblicazioni di nozze sull’albo pretorio del Comune di Milano, dove abitava la Dragani. Ma all’ultimo tutto saltò e nessuno dei due ha mai voluto svelare i motivi del gesto. Dagospia in passato aveva svelato che “gli stessi addetti ai lavori avevano sempre visto con molto sospetto l’ufficializzazione improvvisa della relazione tra Flavio e Mariagrazia, una velocità che secondo persone vicine al conduttore era finalizzata a realizzare non un suo sogno , ma soprattutto il desiderio dell’anziana mamma che voleva vederlo a tutti i costi sistemato”.
Filantropo e Cavaliere del lavoro
Oltre al Flavio pubblico c’è un Flavio privato che pochi conoscono. Insinna, nel 2015 ha donato a Medici senza frontiere la sua barca di 14,80 metri, “Roxana”, perché fosse usata nel mar Egeo nel soccorso ai profughi siriani. Nel 2017, quando quella rotta è diventata impraticabile, l’associazione ha restituito l’imbarcazione a Insinna, il quale l’ha venduta devolvendo il ricavato alla comunità Sant’Egidio, sempre a sostegno dei migranti siriani. Insinna è diventato Cavaliere Ordine al merito della Repubblica italiana, nel dicembre 2015, su iniziativa del Presidente della Repubblica, Mattarella
Flavio Insinna, la confessione a Domenica In: “Come sono andato in onda”, il dettaglio-choc sfuggito a tutti. Libero Quotidiano il 15 maggio 2022
Flavio Insinna è stato tra gli ospiti di Mara Venier nella puntata di Domenica In del 15 maggio. Il noto conduttore de L’Eredità ultimamente è stato impegnato anche con una fiction di Rai1, che andrà in onda a partire da domani, lunedì 16, e sarà intitolata “A muso duro”: Insinna sarà il protagonista di uno sceneggiato che racconta la nascita delle prime paraolimpiadi grazie all’intuizione di un medico, Antonio Maglio.
Il conduttore e attore della Rai ha innanzitutto voluto svelare un piccolo aneddoto: “Adesso si può dire, voi non ve ne siete accorti ma abbiamo fatto dei giochi di prestigio perché giravo e conducevo. E quelli più appassionati se ne sono accorti e hanno detto ‘Insinna è impazzito e si è tinto i capelli’, ma non era per vanità bensì servivano neri per il film”. Parlando poi della trama di “A muso duro”, Insinna si è commosso quando ha ricordato e ringraziato il padre, che era un medico: “Non lo ringrazierò mai abbastanza perché a 8 anni vedendo per la prima volta il basket in carrozzina mi ha aperto un modo”.
Parole che non hanno lasciato indifferente Mara Venier, la cui voce si è rotta dall’emozione. “La chiave nella vita - ha chiosato Insinna - e anche e soprattutto nella disabilità è lo stare insieme e lo sport”.
Flavio Insinna, nuova fiction, ritorno a don Matteo e l’amore intenso per Adriana. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 16 maggio 2022.
L’attore e conduttore campione di ascolti con «L’Eredità», lunedi 16 maggio sarà il protagonista di «A muso duro» su Rai1 dove interpreta un medico che organizza le prime Paralimpiadi.
Insinna-dottor Maglio
Flavio Insinna torna alla fiction da protagonista con «A Muso Duro»,su Rai1 direetta da Marco Pontecorvo, da lunedì 16 maggio. Racconta la storia di quelle che saranno riconosciute come le prime Paralimpiadi che si svolsero a Roma nel 1960. Nel tv movie, Insinna veste i panni di Antonio Maglio, un medico illuminato che prendendo spunto dagli studi e dalle metodologie del Prof. Guttmann sul recupero dei paraplegici, tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60, diede speranza e dignità alle persone disabili che, fino a quel momento, giacevano in un letto di ospedale. Propio grazie ala dedizione e testardaggine del dottor Maglio - sconosciuto alla maggior parte degli italiani - nacquero i primi Giochi paralimpici della storia. “Quando ho letto il copione di ‘A muso duro’ - racconta Insinna - mi sono emozionato moltissimo e inizialmente a Marco (Pontecorvo, ndr) dissi di ‘No’ perché avevo paura di non essere all’altezza». Poi l’attore ha deiso di affrontare la fiction. Al fianco di Insinna-Maglio, una giovane donna, Maria Stella (interpretata da Claudia Vismara) che si rivelerà decisiva per lui e che diventerà un grande amore.
Allievo di Gigi Proietti
Insinna nasce a Roma il 3 luglio 1965. Nel 1986, dopo la maturità classica si iscrive alla scuola di recitazione di Alessandro Fersen e nel 1990 si diploma al “Laboratorio di esercitazioni sceniche” diretto da Gigi Proietti a Roma, a cui resterà legatissimo. Lavora sia in teatro sia al cinema; tra i suoi film ricordiamo: Metronotte (con Diego Abatantuono, regia di Francesco Calogero) e Il partigiano Johnny (con Stefano Dionisi, regia di Guido Chiesa). Ma Flavio Insinna non ha mai nascosto la gratitudine nei confronti di Gigi Proietti: “È il mio maestro, l’uomo che mi ha cambiato la vita”. Per lui ha sempre speso bellissime parole di riconoscimento. Grazie a Proietti iniziata la carriera del famoso attore e conduttore .
L’amicizia con Fabrizio Frizzi
Una grande amicizia ha legato Flavio Insinna a Fabrizio Frizzi. Tempo fa, Insinna raccontò: «Fabrizio è un uomo accogliente, in un momento in cui l’accoglienza è un tema molto importante. Un amico da 100 mila anni, cui devo tantissimo, anche l’esser stato scelto per Affari tuoi. Accadde a San Vincent alla serate di premiazione de Le Grolle. Al tempo io recitavo solo nelle fiction, non conducevo. Sul palco, nonostante l’ora tarda, durante la premiazione lui mi diede corda. Rispose alle battute e il giorno dopo la mia agente mi disse che stavano chiamando tutti, Rai, Mediaset...».
Di nuovo a Don Matteo, nel ruolo del colonnello Anceschi
Tra le sue interpretazioni più popolari c’è sicuramente quella del Capitano dei Carabinieri, Flavio Anceschi, interpretato per cinque stagioni nella serie tv Rai «Don Matteo» con Terence Hill e Nino Frassica, cominciata nella prima stagione nel 1999. Ora è tornato nella prima puntata di questa tredicesima edizione di «Don Matteo» e lo rivedremo ancora il 26 maggio sempre nei panni di un carabiniere, non più capitano ma colonnello.Ha raccontato Insinna, riguardo al suo ritorno dopo tanti anni: «Quando Nino Frassica e io ci siamo trovati nuovamente di fronte in divisa ci siamo guardati non senza un pizzico di imbarazzo. In quei momenti vedi la vita, gli anni passati, le cose fatte insieme, anche se in realtà noi siamo amici e non ci siamo mai persi di vista».
Il successo di «Affari tuoi» e lo scivolone del fuorionda
Nel settembre 2006 esordisce come conduttore televisivo nel programma «Affari tuoi». Il programma ottiene ottimi ascolti, e nel 2007 vince anche il Telegatto. Dopo due edizioni, Insinna lascia la conduzione di Affari per dedicarsi al teatro. Ma poi riprende il programma nel 2013 per un po’ di edizioni. Il 23 maggio 2017 «Striscia la notizia» trasmette alcuni fuorionda in cui, durante una pausa nella registrazione di Affari tuoi, Insinna usa parole offensive nei confronti dei concorrenti e si arrabbia con gli autori. Scoppiò un piccolo caso, ma Insinna chiese scusa più volte per quelle sue sfuriate. Bianca Berlinguer lo chiamò nel suo programma e lui fece l’inviato per la giornalista di Rai3.
L’Eredità (lasciata da Conti e Frizzi)
Dal 24 settembre 2018 Insinna è il nuovo conduttore de «L’Eredità». Ha raccontato: «Pensa la vita: viene a mancare un amico, un vuoto incolmabile, e ti lascia un programma chiamato L’Eredità. Gigi Proietti ce lo disse una volta a teatro: ‘ragazzi, pesate le bene le battute che poi diventano vere’. Pensa che cosa gigante». Lo disse appunto quando prese in mano il programma record di ascolti , con alle spalle oltre 3700 puntate e 17 edizioni guidate da Amadeus, Carlo Conti, Fabrizio Frizzi, scomparso a marzo 2018.
«Il pranzo è servito» e «La corrida» (in stile Corrado)
Flavio Insinna giocoso e affabile è stato scelto per riproporre in tv due programmi storici di Corrado: nel 2011 ha condotto con Antonella Elia «La corrida», in onda su Canale 5, suo esordio sulle reti Mediaset. Nel 2021 ha presentato su Rai 1 il remake de «Il pranzo è servito».
La compagna Alessandra
Della sua vita privata si sa molto poco ma sappiamo che Insinna è fidanzato dal 2016 con Adriana Riccio, conosciuta quando lui lavorava ad “Affari Tuoi”. Adriana è nata a Mirano, in Veneto, nel 1976. È una donna molto sportiva ed è un’istruttrice di taekwondo e grazie al suo talento in passato ha vinto una medaglia di bronzo ai Mondiali. Lei nel 2016 era una concorrente in rappresentanza del Veneto nel programma da lui condotto e ha fatto scattare in lui un colpo di fulmine, subito ricambiato.«È una donna che ti dà una forza che non riesco a definire. Quando parte e va a trovare i suoi al nord la casa si spegne. Ma si spegne proprio tutto: il giardino s’intristisce, le cose colorate che abbiamo a casa diventano fosche e cupe. E quando torna si riaccende tutto. Irradia una cosa che ha solo lei, emana una luce: Ma vorrei che un pochino del mio sorriso arrivasse a lei, non vorrei essere solo la parte che prende e basta». Nonostante il forte legame che c’è tra loro, il matrimonio non sembra essere nei loro piani.
Mariagrazia, la ex, e le nozze saltate
La storia d’amore tra l’ex fidanzata di Flavio Insinna, Mariagrazia Dragani riempì i rotocalchi. I due si erano conosciuti proprio negli studi della Rai quando all’epoca lui presentava Affari Tuoi, mentre la donna era la collaboratrice di Che Tempo Che Fa. Scoppiato l’amore, i due erano a un passo dal matrimonio, con le pubblicazioni di nozze sull’albo pretorio del Comune di Milano, dove abitava la Dragani. Ma all’ultimo tutto saltò e nessuno dei due ha mai voluto svelare i motivi del gesto. Dagospia in passato aveva svelato che “gli stessi addetti ai lavori avevano sempre visto con molto sospetto l’ufficializzazione improvvisa della relazione tra Flavio e Mariagrazia, una velocità che secondo persone vicine al conduttore era finalizzata a realizzare non un suo sogno , ma soprattutto il desiderio dell’anziana mamma che voleva vederlo a tutti i costi sistemato”.
Filantropo e Cavaliere del lavoro
Oltre al Flavio pubblico c’è un Flavio privato che pochi conoscono. Insinna, nel 2015 ha donato a Medici senza frontiere la sua barca di 14,80 metri, “Roxana”, perché fosse usata nel mar Egeo nel soccorso ai profughi siriani. Nel 2017, quando quella rotta è diventata impraticabile, l’associazione ha restituito l’imbarcazione a Insinna, il quale l’ha venduta devolvendo il ricavato alla comunità Sant’Egidio, sempre a sostegno dei migranti siriani. Insinna è diventato Cavaliere Ordine al merito della Repubblica italiana, nel dicembre 2015, su iniziativa del Presidente della Repubblica, Mattarella
Lettera dell’ufficio stampa di Striscia la Notizia al “Corriere della Sera” il 22 aprile 2022.
Gentile Cazzullo, abbiamo letto la sua risposta al lettore del Corriere molto appassionato di Flavio Insinna e dissentiamo sulla ricostruzione dei fatti. Nei famosi fuorionda ad Affari tuoi trasmessi da Striscia la notizia, il conduttore del gioco dei pacchi non si arrabbiava - arrivando fino alle bestemmie - per «lo stress che c'è dietro la macchina della televisione», ma per un «taroccamento» non riuscito del risultato finale del programma.
Ricordiamo che in quei fuorionda - al plurale perché non si è trattato di un unico caso, ma di molti documentati dal tg satirico - Striscia svelò che Insinna spingeva per modificare la selezione dei concorrenti chiedendo esplicitamente di ignorare il sorteggio (previsto dal regolamento) per scegliere concorrenti più «simpatici»: «Hanno truccato le votazioni per fare la repubblica, sennò rivotavano la monarchia, e noi non possiamo mettere nella busta cinque simpatici?».
Ma, soprattutto, sarebbe Striscia quella spietata, secondo lei? E allora Insinna che dà della «nana di merda» a una concorrente senza poi mai neanche chiederle scusa? Nel più famoso fuorionda, Insinna dice cosa avrebbero dovuto fare i responsabili del programma Affari tuoi: interrompere la registrazione e convincere la concorrente valdostana, definita appunto «nana di merda», a rifiutare l'offerta della dottoressa, anche con la violenza: «La si porta di là, la si colpisce al basso ventre e dici: "Adesso tu rientri e giochi! Perché è Raiuno non è Valle d'Aosta News. Mortacci tua!"».
Senza dimenticare la violenza verbale (e non solo) praticata contro le donne nei libri scritti dal conduttore. Le riportiamo un passaggio tratto da Neanche con un morso all'orecchio (Mondadori, 2012), capitolo «L'infermiera stronza»: «Guarda e parla con l'inevitabile rabbia che hanno a volte in corpo le donne basse, bruttine e con gli occhiali». E nel capitolo successivo si immagina addirittura la seguente scenetta: «Arriva alla sua auto, apre lo sportello e non fa in tempo a salire, arrivo da dietro, la prendo per il collo e le sbatto la faccia contro la sua automobilina nuova nuova, comprata in sedici comode rate. Perde sangue dal naso, ma non è svenuta.
La giro verso di me perché mi guardi dritto in faccia. "Oh, mi senti, mi senti? Allora senti bene brutta testa di c., non ti azzardare mai più a lasciarmi fuori dalla stanza di mio padre. Il regolamento te lo ficchi dritto su per il culo e vedrai che provi anche un po' di piacere. Ce l'hai un padre? Rispondi brutta nana stronza! E se provi a denunciarmi io domani torno e ti ammazzo con le mie mani"». Parole meditate, scritte e pubblicate in un libro. E quindi convinzioni ben radicate nel « simpatico» Flavio Insinna.
Da oggi.it il 13 aprile 2022.
«Dico quello che penso anche in televisione perché non abdico alla mia identità. La libertà non è gratis, lo so. Se un giorno le mie parole porteranno a delle conseguenze, le affronterò», dichiara Flavio Insinna al settimanale OGGI in edicola da domani, dopo quella che chiama «la solita canizza politica» suscitata dal suo No all’aumento delle spese militari.
«È più forte di me, non posso vedere la parola “risparmio” e non dire che tutti i governi hanno sempre tagliato per prima cosa sanità, scuola e lavoro… Non sono contro questo o quel partito, sono contro la guerra e contro l’ingiustizia sociale», spiega l’attore e presentatore del game show l’Eredità.
«Ho la consapevolezza di essere fortunato e sento il dovere di darmi da fare in prima persona. Non ho alcun senso di colpa, lo faccio solo perché è giusto e perché dà un senso che mi piace alla mia esistenza», spiega Insinna che in merito al film tv di Rai 1 di cui sarà protagonista, A muso duro, dice: «Farò il medico, è il mio sogno. Mio padre, un grande padre, ha dedicato la vita alla medicina e ai più sfortunati e io ora avrò l’onore di interpretare Antonio Maglio, medico e dirigente Inail che rivoluzionò il mondo della disabilità organizzando le prime Paralimpiadi, a Roma nel 1960».
«Se tornassi indietro farei il medico. Forse la mia idealizzazione della medicina racchiude il solito cruccio: sento che avrei potuto fare di più per gli altri con indosso il camice… Avevo anche superato il Test per Medicina ma sono agofobico.
Mio padre ci aveva provato ad aiutarmi ma è più forte di me. Se c’è da fare un prelievo di sangue scappo via», conclude l’attore che a proposito di fortune ammette per la prima a volta a Oggi: «La mia compagna, Adriana, è un’altra fortuna. Vediamo le cose fondamentali della vita nello stesso modo e condividiamo le stesse battaglie. Non è solo una compagna di viaggio, è una compagna di salite e di discese, quando c’è il sole e quando piove».
Una carriera di impegno iniziata in Croisette: Palma d'oro a Whitaker. Stefano Giani il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'attore trionfò nel 1988 grazie a Eastwood. Ha prodotto un documentario sul Sud Sudan.
La prima volta fu un successo. Era la primavera del 1988 e un giovane Forest Whitaker - 27 anni non ancora compiuti - atterrò a Cannes accompagnato da un fuoriclasse. Clint Eastwood lo aveva scelto come protagonista di Bird, in cui l'attore recitava nei panni di Charlie Parker, genio del sassofono jazz. E fu subito Palma d'oro per la miglior recitazione maschile. «È un film che mi ha cambiato la vita. Mi ha lanciato nel panorama internazionale» ha detto ieri ripresentandosi sulla Croisette. E c'è da credergli perché 34 anni dopo ritorna a Cannes per ritirare il premio alla carriera che a luglio scorso andò a Marco Bellocchio. «Se oggi sono quello che sono lo devo a quel Parker-Bird e mi sento onorato del riconoscimento che sto per ricevere».
Ieri Whitaker - che ad agosto inizierà le riprese del film Megalopolis, diretto da Francis Ford Coppola - ha battezzato il matinée della prima giornata del festival con la sua più recente opera da produttore, For the sake of peace diretto da Christophe Castagne e Thomas Sametin. Si tratta di un documentario sul Sud del Sudan, uno dei Paesi più giovani e al tempo stesso più violenti, devastato da faide interne che dal 2011 a oggi hanno fatto 350mila morti. Il film racconta però una storia positiva di uomini e donne che alla pace non rinunciano e, attraverso il calcio, cercano di cementare un'amicizia tra bambini e ragazzi di tribù avverse.
È l'anelito al cambiamento che anima un Forest Whitaker attento al sociale. È lui stesso a confermarlo. «Tra i progetti che mi vengono proposti scelgo e privilegio sempre quelli attenti a questa dimensione. Non ho smesso di usare questo criterio nemmeno ora, come produttore. Forse una piccola deroga interviene quando seleziono i copioni da interpretare». Piccola bugia. Neanche in questo caso l'americano riesce completamente a dimenticare un principio che lo ha guidato pure nel recente impegno delle serie tv. Roots è una storia di schiavismo nel Settecento. Godfather of Harlem racconta la storia vera del boss del crimine Bumpy Johnson. Empire riguarda un ex delinquente dedito all'hip-hop che scopre di avere la Sla e l'elenco potrebbe continuare.
Ai temi legati all'attualità si aggiunge adesso l'ambiente, in un processo di coinvolgimento sempre più ampio a livello mondiale. E, alla prima uscita tra le attrazioni del festival, fioccano le domande dalla stampa africana e centro americana. «L'emergenza sociale in Nigeria e i problemi del Chiapas, sempre sconvolto da povertà, criminalità e rivoluzione mi hanno fatto comprendere che non potevo ignorare quelle realtà».
Il vegetariano Forest Whitaker che lotta in difesa degli animali e ha portato sulla sua strada anche la figlia minore True, sa che ormai il suo ruolo è quello di testimonial di lusso sui veri valori dell'umanità in questo avvio di terzo convulso millennio. Ed esserci significa non chiudere gli occhi davanti a quello che oggi rappresenta un'emergenza, non soltanto in qualche angolo di mondo ma su scala planetaria. Il ragazzo di 27 anni che sbarcò a Cannes nel 1988 è cresciuto e oggi alleva talenti. I registi francesi del docufilm lo dimostrano. Faticano perfino a guardarlo per deferenza e riconoscenza. Spendono quelle che sembrano le solite parole di circostanza ma si vede che ci credono. Intanto il film avrà nuovi passaggi sugli schermi della Croisette prima di approdare al cinema.
Il Festival ha calato il primo dei suoi assi e il primo tappeto rosso si affolla. Il cast del film inaugurale, Coupez! si prende la prima raffica di applausi e i primi scatti dei fotografi, come l'anno scorso sottratti alla strada, dove sono rimaste poche scale per i paparazzi figli di qualche dio minore e meno fortunati. Gli altri, rigorosamente in smoking, sono assiepati ai lati del red carpet dove sfilano i divi, sotto gli occhi del mondo e dei curiosi appoggiati in modo composto ma massiccio alle balaustre a caccia di un sorriso, un selfie o un autografo démodé. Alla faccia del covid, di cui ormai, forse a torto, non ha più paura quasi nessuno.
Da un articolo del 2014 per ilmessaggero.it l'11 febbraio 2022.
Una Francesca Cipriani infuriata quella che su Facebook ha redarguito Teo Mammucari e una battuta che ha fatto durante "Le Iene" cioè che si sarebbe fidanzata 4212 volte.
«Voglio togliermi un sassolino dalla scarpa - ha scritto sul social - Quel cafone di Teo Mammucari, deve stare attento a parlare. Da quando avevo 20 anni, ad oggi, mi sono fidanzata solo DUE volte, e non 4.212 come dice lui, credendo di essere spiritoso, credendo...».
Rispondendo a un fan ha poi aggiunto: «Con la scusa dell'ironia ti mettono delle etichette che alla fine fanno di te un personaggio che non corrisponde alla realtà! Quelle etichette difficilmente te le toglierai di dosso, forse è meglio tagliarle prima che diventino troppe!».
Francesca Dellera, la voleva Prince, fu musa erotica di Marco Ferreri, poi sparì: ecco perché e che fine ha fatto. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2022.
Dal mistero sul videoclip con Prince al ritiro dalle scene. Tutto quello che sappiamo oggi sulla protagonista de “La Romana”.
In Francia
Francesca Dellera, attrice oggi 56 enne, è considerata una delle icone di bellezza degli anni '80 e '90. La sua cascata di capelli rossi e la sua pelle chiarissima, quasi di porcellana, le hanno garantito il successo nel pubblico di quell’epoca. E’ sua la parte principale ne “La Romana” (domattina alle 6.50 su Iris), quella di Adriana. Nel 2017 ha rilasciato un’intervista al Corriere, in cui ha raccontato di vivere in Francia con il suo attuale compagno.
Il mistero di Prince
I gossip vogliono che la rockstar Prince, letteralmente ipnotizzato dall’attrice, cercò di portarla in America per averla in un videoclip, ma che la Dellera rifiutò a causa di altri impegni lavorativi.
La moda
Dellera non è sinonimo solo di cinema: sfilò anche in passerella per Jean Paul Gaultier che la prese come musa e icona di bellezza.
Il grande successo con Ferreri
Dopo aver esordito come fotomodella e dopo l’esordio con Brass in « Capriccio» nel 1987, arriva il grande successo con Ferreri ne «La Carne» del 1991, poi scelto a Cannes, da cui l’attrice iniziò un percorso in Francia.
L’addio alle scene
Nel 2006 l’attrice decide di ritirarsi dalle scene: e così è stato. Sono 16 anni che ormai Francesca Dellera ha deciso di non mostrarsi in pubblico.
Francesca Fagnani: «La morte di mia madre mi ha devastata. Mentana? Guardiamo insieme "Belve", siamo i primi fan l'uno dell'altra». Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera il 17 Agosto 2022.
Francesca Fagnani prepara la terza stagione di Belve, su Rai2, virale anche su TikTok. «Sogno di avere ospiti Francesca Pascale e la terrorista dei Nar Francesca Mambro»
Francesca Fagnani, lei che belva si sente?
«Un jack russel, perché è un animale simpatico, che sa farsi notare. Agitato, irrequieto, sfrontato, ma divertente».
Non esattamente una belva...
«Ma io mi sento più canina e conosco bene questa razza. Mio padre ne ha uno, era di mia madre, quando è morta è rimasto con lui».
«LA MORTE DI MIA MADRE MI HA DEVASTATA. RIMPIANGO DI NON AVER VISSUTO APPIENO QUEL TIPO D’AMORE. NOI NON SIAMO ALTRO CHE MATERIA MATERNA»
Ride Francesca Fagnani, 45 anni, romana, giornalista e conduttrice, mentre risponde alla domanda con cui di solito inizia le interviste di Belve, programma di successo, anche social, nato sul Nove e oggi giunto alla terza stagione su Rai2. In autunno riprenderà con un triplo appuntamento settimanale in seconda serata. Fagnani interroga con sorriso angelico - e piglio diabolico - protagoniste dello spettacolo, della cultura e della politica. Da Pamela Prati a Virginia Raggi, passando per Monica Guerritore e Ilary Blasi, con qualche quota azzurra come Morgan o Matteo Renzi.
Perché il suo programma piace tanto?
«Forse perché faccio le domande che tutti vorrebbero fare. Niente salamelecchi, regole di ingaggio chiare»
Chi sono le belve?
«Per me è una definizione ad ampio spettro. All’ 80%, ha una connotazione positiva. Sono donne, e pure qualche uomo, che si sono sapute prendere i loro spazi senza attendere gentili concessioni altrui. Hanno ottenuto quello che volevano, sono protagoniste e mai gregarie, hanno successo, o sbagliano, per merito loro. Poi ci sono anche quelle che hanno fatto scelte di vita realmente feroci».
Come la brigatista Adriana Faranda, Anna Carrino, compagna del super boss dei Casalesi Francesco Bidognetti, o Cristina Pinto, ex camorrista non pentita. Tutte sue ospiti, non senza qualche polemica. È giusto dare spazio a chi ha commesso il male?
«Sì, se si fa sempre una seconda domanda. Mi sono occupata a lungo di criminalità organizzata. Non si può conoscere il lato oscuro della vita dalle serie tv. È importante raccontarlo con la voce di chi lo vive, ma con il giusto metodo».
Francesca Fagnani con Ilary Blasi nello studio di Belve
Cioè?
«Ho lavorato su me stessa per approcciarmi a queste persone senza pregiudizio, perché il giudizio sui fatti di cui sono protagoniste c’è già ed è inevitabile. Sono testimoni importantissime di una parte di società che esiste e non possiamo ignorare, anche se è difficile da affrontare e spiegare. Gli spettatori sono intelligenti, non hanno bisogno di qualcuno che la proponga con atteggiamento moralistico. Basta fare tutte le domande».
Prima accennava alla morte di sua madre. È avvenuta di recente?
«Quasi sette anni fa, ma è un dolore che non può passare. È stata il grande spartiacque della mia vita. Quando perdi tua madre smetti di essere figlio, entri in un’altra dimensione, dove sai di essere più solo. Nessuno si preoccuperà per te come può farlo una mamma. Noi non siamo altro che materia materna».
Eravate molto legate?
«Non avevamo un rapporto morboso, eppure quando è mancata ho sentito un vuoto devastante. Purtroppo ho capito di non aver sfruttato tutte le occasioni per vivere appieno quel tipo di amore. Tante volte ho privilegiato un atteggiamento conflittuale rispetto a uno più accogliente. Me ne sono pentita».
Avere una sorella gemella l’ha aiutata?
«Siamo gemelle eterozigote. Siamo diverse, fisicamente e nei percorsi di vita. Abbiamo un rapporto più da sorelle che da gemelle. Va bene così, l’idea di essere identica a qualcuno mi ha sempre inquietata un po’»
Che bambina è stata?
«Mi chiamavano “faccia d’angelo”, ma il riferimento era al capo della Mala del Brenta Felice Maniero. Ero furbissima, vivace. Dietro al visino dolce e agli occhi azzurri si nascondeva una delinquente (ride). Il Dna da belva c’era già».
«NEL GIORNALISMO CI SENTIAMO TANTO PROGRESSISTI, MA LE DONNE GUADAGNANO MENO, VENGONO INVITATE NEI TALK SHOWCOME PANDA E LE DIRETTRICI SONO POCHE»
Sognava di fare la giornalista?
«È un mestiere che mi ha sempre affascinato, ma ci sono capitata per caso. Mi sono laureata in Lettere, poi sono stata ammessa a un dottorato in Filologia dantesca che mi ha portato all’Università Nyu di New York. Era il 2001. L’11 settembre ho visto le Torri gemelle crollarmi davanti agli occhi, non riuscii a tornare a casa, a Brooklyn, per un giorno intero. Ho capito di essere dentro alla Storia e mi sono presentata alla sede di corrispondenza della Rai, allora era sulla 56esima strada, per chiedere se potevo essere utile. Mi hanno detto che c’erano delle videocassette da sistemare e io le ho riordinate tutte».
Poi?
«Sono iniziati ad arrivare tanti giornalisti, tra cui un giovane Giovanni Floris, per raccontare quello che stava succedendo. Mi portavano con loro a fare i servizi, io li osservavo, imparavo. Fu un’occasione irripetibile. Una volta rientrata in Italia ho capito che volevo diventare giornalista, sono passata attraverso decine di stage e alla fine sono approdata nelle redazioni di Giovanni Minoli e Michele Santoro. Sono stati due grandi maestri a cui devo tantissimo. Lavorare con loro è stato un privilegio, anche se non sempre una passeggiata».
Si è presa qualche strigliata?
«Avoja! Lavorare nei primi Anni 2000 nei programmi di informazione delle reti ammiraglie era una responsabilità: facevamo share da partite della nazionale. L’opposizione di Santoro a Berlusconi aveva un che di titanico, ogni puntata era un evento. Eppure Michele trovava il tempo anche per me, l’ultima arrivata. Un giorno stavo registrando il voice over di un servizio, lui mi si è seduto accanto e ha iniziato a correggere con una matita la punteggiatura del testo che stavo leggendo per aiutarmi ad avere una cadenza più naturale».
Alla conduzione de Le Iene con Nicola Savino
Lei, oggi, un maestro ce lo ha anche in casa. Da dieci anni il suo compagno è il direttore del tg di La 7 Enrico Mentana.
«Sì, ma non ci siamo conosciuti sul lavoro».
C’è competizione?
«Non può esserci gara con chi vince sempre. Parlo di lui naturalmente, però c’è condivisione. Guardiamo insieme Belve. Siamo i primi fan l’uno dell’altra».
Qualcuno la paragona a Daria Bignardi. È d’accordo?
«Le Invasioni barbariche è stato uno dei programmi più innovativi degli ultimi decenni. Non ne ho persa una puntata, però le interviste che ho più studiato sono quelle di Giovanni Minoli».
Ha condotto una puntata de Le Iene e ha fatto un monologo in cui ha puntato il dito contro il maschilismo che impera nel giornalismo. Crediamo di appartenere a un ambiente progressista, ma, anche per noi, c’è ancora molto da fare?
«Siamo convinti di poter insegnare la parità agli altri, accusiamo la politica di non fare niente per ridurre il gap salariale, ma non è che nell’editoria le cose vadano meglio. Le giornaliste, guadagnano meno dei colleghi uomini, le direttrici di testata sono in minoranza. Nei talk show si invita la donna in quanto donna, come fosse un panda. Gli uomini invece sono lì perché portano un contenuto specifico. Nemmeno noi siamo duri e puri».
Sempre a Le Iene ha accusato una collega, di cui non ha fatto il nome, di non gradire la sua presenza in un programma perché “intorno a sé voleva solo uomini”.
«Il nome non lo faccio nemmeno adesso e non credo esista a priori una sorellanza. Se ci si sta simpatiche e ci si sostiene ben venga. La complicità è bellissima, ma non è a comando. Ogni tanto fa bene pure la competizione».
Su TikTok l’hashtag “Belve” ha 55 milioni di visualizzazioni. La diverte questo successo social collaterale?
«Moltissimo. In Rai lavoro con una squadra di professionisti eccezionale, ma mi sorprende vedere quanti autori inconsapevoli ci siano su queste piattaforme, sono una miniera di creatività». Qual è la belva dei sogni? «Mi piacerebbe invitare Francesca Pascale. L’ho intervistata anni fa per la carta stampata. È una donna forte e molto simpatica. Spero anche in un “sì” della terrorista dei Nar Francesca Mambro. Gliel’ho detto, non ho paura di raccontare il male».
Francesca Michielin: «Il mio ritorno alle radici». Il rientro nella sua Bassano. Il legame con i nonni. Il ritorno dopo 10 anni a X Factor, il programma che l'ha lanciata, però nelle nuove vesti da conduttrice. Francesca Michielin ci racconta quanto sia importante per lei sentirsi a casa. Lì sperimenta nuovi linguaggi. Anche in difesa dei diritti. CRISTINA LACAVA su IOdonna.it il 9 Settembre 2022.
Ne ha fatta di strada Francesca Michielin da quando, ancora ragazzina, vinceva la quinta edizione di X Factor. Da allora la cantautrice nata 27 anni fa a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, è riuscita a portare avanti la sua musica e le sue parole con rigore e coerenza, scegliendo con cura i progetti, sperimentando nuovi linguaggi, sempre diversi. Senza dimenticare le battaglie che le sono più care, per i diritti delle donne e dei più fragili, per l’ambiente.
Francesca Michielin: il ritorno all’origine di tutto
Oggi, dopo dieci anni di carriera, è sempre più curiosa e attiva: è appena uscito il suo ultimo singolo, Occhi grandi grandi. Dal 15 settembre tornerà a X Factor, là dove tutto è cominciato, nella veste di conduttrice. Da una settimana ha ripreso il podcast Maschiacci, in una versione più inclusiva. Ha pubblicato il primo romanzo, Il cuore è un organo (Mondadori), e si prepara con grande attenzione all’appuntamento più importante: il tour bonsoir! Michielin10 a teatro, in partenza il 25 febbraio 2023, giorno del suo compleanno. Punto di arrivo – e di partenza – di un percorso fatto di studio, passione, disciplina, che le ha permesso di crescere, e non solo dal punto di vista artistico.
Ha raggiunto molti obiettivi, è una cantante di successo e ha quasi un milione di follower su Instagram. Non crede che le sue parole abbiano un impatto, soprattutto sui giovani?
Certo. Sono una musicista pop, non faccio musica di nicchia, uso un linguaggio trasversale. Una opportunità ma anche una responsabilità che non dipende tanto dal successo che hai ma dal voler lasciare un’impronta. Significa chiedersi: a cosa servo?
Lei se lo chiede?
Sì. Attraverso la musica, il libro e il podcast mi interrogo sull’essere donna, sulle consapevolezze da costruire. Cerco di creare spazi di condivisione con i giovani, come avrei voluto da adolescente. Sempre con leggerezza, perché non scrivo trattati di filosofia. Alla fine della prima edizione di Maschiacci abbiamo creato uno sportello on line dove chiunque poteva lasciare un audio. Si è creata un bella rete, ha funzionato: si rivendicava il concetto di diversità, un tema che seguo con attenzione. L’impatto è rivendicare la ricchezza della pluralità, anche scrivendo canzoni. Andare oltre l’inclusione, verso la condivisione.
Però quando interviene su temi non musicali, parte la polemica. Su tutto, dal calcio alla Tampon Tax.
Seguo il calcio da sempre, ci ho anche giocato. Mi esprimo spesso in termini calcistici: il prossimo tour si chiamerà Michielin10 sia per i miei dieci anni di attività, sia perché ho voluto un riferimento alla maglia numero 10. Mi criticano perché sono una donna e una cantante, come mi permetto di entrare in un territorio maschile? Mi criticano anche se scrivo su Twitter che ogni mese spendo 15 euro in assorbenti, e che la Tampon Tax andrebbe abolita. Cosa dovrei fare, parlare solo del prezzo dei microfoni? Se gli uomini ci appoggiassero contro la Tampon Tax, forse vinceremmo la battaglia. Non si combatte solo per ciò che ci riguarda personalmente.
Su di lei, chi ha avuto impatto?
Piero Angela, perché mi ha fatto capire che la curiosità è importante. In campo musicale Joni Mitchell, Tracy Chapman, Adele. E i miei nonni.
Su Instagram dedica loro una foto con un’altalena. Scrive: là ho imparato a volare. A cosa si riferisce?
Quella è l’altalena dove ho passato tanto tempo con i miei cugini, da piccola. Sono legatissima ai miei nonni, cerco di stare il più possibile con loro. Mi hanno regalato il pianoforte su cui ho imparato a suonare, mi hanno sempre spinto a inseguire i miei sogni.
Nel recente singolo bonsoir, torna sul tema delle radici. Dice: Basta spostare l’accento/l’ancora diventa ancòra/torno nel fiume, tutto è cambiato/ma in fondo è uguale. Lei ha fatto un viaggio di andata e ritorno tra Bassano del Grappa e Milano: come mai ha scelto la provincia?
Mi sono trasferita molto presto a Milano, dopo le superiori. Ho già dato, anche se spesso ci torno per lavoro. Con il tempo si cambia. Cambia anche la percezione di me che hanno gli altri. Quando sono a casa mi sento più rilassata.
Francesca Michielin a X-Factor
Tornare a casa è anche tornare a X Factor dopo dieci anni. L’edizione 2022, su Sky Uno ogni giovedì dal 15 settembre, vede tre nuovi giudici, Ambra Angiolini, Rkomi, Dargen D’Amico, e il ritorno di Fedex. Lei sarà la conduttrice. Che effetto fa?
Mi ha emozionato tantissimo, mi ha fatto ricordare com’ero io da concorrente. Vedo tanta sincerità, tanti giovani acerbi ma con potenzialità tutte da scoprire ed è bello far crescere i talenti. Sento un bisogno di genuinità, di ritorno alle origini. C’è un bel clima.
Lei ha vinto a 16 anni. Non sarà stato facile gestire il successo. Come ci è riuscita?
Ho detto un sacco di no. Avevo tante pressioni ma volevo prendermi del tempo, pensare all’esame di maturità Se stai preparando un bel disco, meglio farlo uscire quando è pronto, c’è il tuo nome sopra. Perdi un’opportunità? Pazienza, ne avrai un’altra. Come dice mia nonna: quello che è tuo non te lo leva nessuno.
Chi l’ha aiutata?
La mia famiglia. Non sa quante volte ho fatto in giornata avanti e indietro tra Milano e Bassano. Tornare alle radici ti aiuta a dare il giusto valore alle cose.
Ci saranno stati momenti difficili.
Il percorso è fatto di alti e bassi. A me piace camminare in montagna, vado dalle mie parti, sull’Ortigara, sul Grappa. Cime che ci parlano di storia, di vite. In montagna si sale, si superano asperità, e si scende nelle gole, negli anfratti. Si va avanti passo dopo passo.
Michielin e la musica
A lei piace sperimentare. Non si è adagiata nella comfort zone della musica: ha scritto un romanzo, ha il podcast. Si è laureata al Conservatorio in canto jazz. A proposito, perché proprio il canto jazz?
Mi ha sempre affascinato la libertà del jazz, e il fatto che nasca da una rivendicazione sociale. In quanto alla comfort zone: quando vinci X Factor a 16 anni non sai neanche cosa sia. A me piace raccontare storie con diversi linguaggi, con o senza la musica.
Da dove le è venuta l’ispirazione per Il cuore è un organo?
Mi aveva colpito il libro Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, di Eric-Emmanuel Schmitt, dove un adolescente, Momo, fa amicizia con il vecchio Ibrahim. Nel mio libro la protagonista non è tanto Verde, la giovane cantante in crisi, ma Regina, l’anziana diva che ha lasciato il palcoscenico. L’adulto è il fragile, ma questa fragilità è la sua forza e lo capisce solo con l’età.
Come l’ha scritto?
A mano, sono un po’ vintage. Ho capito che non basta l’ispirazione, serve anche la disciplina. Si inizia con l’idea di una storia, poi si fa la scaletta e ci si dà un obiettivo. Io scrivo nel tardo pomeriggio o di sera. Produco al meglio quando ci sono gli eventi sportivi. Durante le Olimpiadi scrivevo tantissimo.
Il libro è un romanzo di formazione: Verde sta cercando la sua identità, sessuale e professionale. Regina l’ha persa quando era famosa, e l’ha riconquistata nella solitudine. Ma è così difficile averne una? E non si rischia di restare etichettati?
È un tema che sento molto. Non mi vesto sempre allo stesso modo, non faccio sempre la stessa musica. Ognuno di noi è plurale, non riempie una casella sola.
Ed è per questo che la nuova edizione di Maschiacci non è più dedicata solo alle donne ma anche al mondo LGBTQI+, ai disabili, agli afrodiscendenti, ai fragili in generale?
Per me il femminismo che funziona è quello intersezionale, che cioè non si occupa solo di tematiche femminili ma di difendere i diritti di tutte e tutti.
Dal 15 settembre tornerà a X Factor, là dove tutto è cominciato, in veste di conduttrice.
Teme che i diritti siano a rischio?
Sono seriamente preoccupata per quello che succederà dopo il 25 settembre. Giorgia Meloni dice cose di assoluta gravità. Purtroppo molti danno per scontati i diritti acquisiti. Invece non è così, vanno difesi. Alla prima puntata di Maschiacci ho invitato Alessandro Zan. Mi sono schierata, certo. Una scelta di buon senso, non legata a un partito.
Com’è la situazione delle donne nella musica italiana?
Un disastro, facciamo molta più fatica degli uomini. L’anno scorso nella top ten dei dischi più venduti c’era una sola donna, Madame. Qualche piccolo progresso si sta vedendo nei concerti: fino a poco tempo fa si diceva che le cantanti non portavano pubblico. Ora c’è qualche ripensamento. Ma è dura.
Lei tiene molto alla sostenibilità. Ha condotto un programma su Sky Nature, Effetto Terra, che aveva un taglio molto pratico. Nella quotidianità come si comporta?
Non sono per mestiere una conduttrice, ma ho voluto portare avanti in tv qualcosa in cui credo, anche qui con un linguaggio diverso dal mio solito. Sono rigorosa, anche se la perfezione è impossibile. In tournée uso pochissima plastica, premio i brand sostenibili e il vintage, non spreco il cibo dei catering.
A febbraio partirà con il primo tour nei teatri: emozionata?
Tantissimo, lo sto studiando nei minimi dettagli.
In Nei tuoi occhi, colonna sonora del film Marilyn ha gli occhi neri, dice: Liberami le ali, squarciami il cuore, prenditi tutto. In una foto estiva su Instagram, si intravede un’ombra maschile al suo fianco. C’è qualcuno che le ha liberato le ali? Ha trovato il tempo per l’amore?
Sì, da poco. Bisogna trovare sempre il tempo per l ‘amore, ma non riesco a parlarne, non so descrivere questo sentimento. È più facile scrivere una canzone.
Come si vede tra dieci anni?
Oddio, non so. Questi ultimi dieci sono stati una gran sudata, non posso fare previsioni. Magari sarò solo più stressata e con cinque cani.
Un’ultima curiosità: nelle foto del nostro servizio lei ha sugli occhi un trucco verde acido. Perché?
Il verde è il colore guida del video di bonsoir, e del nuovo progetto. Quando penso a un brano, lo associo sempre a un colore, in questo caso alla natura che amo.
iO Donna
"L'effetto Terra" di Francesca Michielin: "Parlo green ma non sono la Greta italiana". Lorenza Sebastiani il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.
Su Sky Nature la "Guida pratica per terrestri consapevoli". "Ci vuole impegno".
«Ho ridotto il consumo di carne, faccio attenzione alla stagionalità dei cibi, non compro più abiti da grandi catene fast fashion e sto facendo un investimento a casa per i pannelli solari». Francesca Michielin sposa la causa ambientalista e il pensiero va subito a Greta Thunberg, l'attivista che ha dato filo da torcere persino a Trump.
«Non sono la Greta italiana, ma lei è senz'altro una mia ispirazione». Era il 2018 quando l'attivista svedese marinava le lezioni per piazzarsi davanti al parlamento e convincerlo, con il suo celebre sciopero della scuola, a ridurre le emissioni di anidride carbonica come previsto dall'accordo di Parigi. «Ho sempre apprezzato la sua radicalità nell'appoggiare tematiche urgenti per il pianeta, sono sua fan».
E così Sky Nature ha scelto proprio la Michielin come portavoce del tema eco, affidandole la conduzione di Effetto Terra- Guida pratica per terrestri consapevoli, da domani (dalle 21.15). Sei puntate su ecologia, inquinamento atmosferico, impatto ambientale di macroaziende. L'universo della battaglia pro-green raccontato dal format è variegato: dall'impatto dell'industria alimentare a quello della moda, dall'abuso della plastica alla cosmesi di largo consumo.
A fianco dell'artista interlocutrici scienziate, ricercatrici, esperte in biotecnologie. «Sono sensibile al concetto di rappresentanza, ho sempre preferito le quote di genere alle quote rosa. Una bambina che vede questo programma potrà pensare da grande farò la ricercatrice. D'altronde il mondo della scienza è pieno di donne, il Cern ne è un illustre esempio ad alta partecipazione femminile».
A Effetto Terra spazio anche a blogger e influencer, con l'intento di creare attenzione (e possibilmente proselitismo) sul tema eco con nuovi linguaggi. «Mi piacerebbe passasse il messaggio che dobbiamo rispettare e amare il nostro pianeta con piccoli gesti. Non serve poi molto», continua Michielin.
Parlare di ambiente è un tema apparentemente «acchiappa giovani», ma che interessa anche gli adulti, spesso meno consapevoli. «Sono nata nel 95, alle elementari si iniziava a parlare di effetto serra, buco dell'ozono, temi a cui noi bambini di quell'epoca siamo stati abituati fin da piccoli. Appartengo a una generazione che si ritrova in una situazione complicata e deve rivoluzionare il proprio modo di vivere», continua Michielin, «non è più sostenibile vivere come ha vissuto chi c'era prima di noi, per esempio i nostri genitori».
L'ambientalismo e gli ambientalisti tentano di trovare linguaggi nuovi anche in tv, mentre politica e media internazionali li accusano di occuparsene solo perché è considerato un tema di tendenza. «Se parlare di ecologia è di tendenza, una ragione in più per farlo», spiega Michielin. «A questo proposito approfondiremo anche casi di Green Washing, strategie adottate da multinazionali per fingersi eco-friendly e ripulirsi la coscienza, ma poi continuare a fare peggio di prima».
Francesca Manzini: «Anoressia, bulimia e violenze: il mio calvario dietro le risate». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.
La comica si racconta senza filtri nel libro «Stay Manza»: «Dietro i miei caos alimentari c’erano le mie paure».
«Invece di aprire il mio cuore e confrontarmi onestamente con i miei sentimenti io aprivo il frigorifero. O lo chiudevo, a seconda dell’esigenza. Il cibo era lo sfogo, il mio modo contorto per esprimere emozioni e stati d’animo. Dietro i miei caos alimentari c’erano le mie paure». Imitatrice autodidatta, la sua palestra è stata un muro senza specchio («ballavo, conducevo programmi, imitavo. Sono cresciuta a pane e tv»). Il mondo di Francesca Manzini però non è solo quello dell’apparenza (volto e voce di Chiara Ferragni, Maria De Filippi e Mara Venier, conduttrice di Striscia la notizia) perché dietro la sua comicità ci sono anni di lotta contro anoressia e bulimia, «binge eating disorder», che a dirlo in inglese non fa meno male.
Il digiuno era una silenziosa protesta contro la sua famiglia, padre e madre che litigano, «normale», succede in molte famiglie: «Io a 14 anni ero preoccupata come una donna di 30. Ero sposata, separata, con due figlie. Io mi sentivo mia madre». Le urla e i silenzi tra marito e moglie. «Avevo appreso quello stile di vita insano e malato. Mi sentivo responsabile della mia famiglia e come figlia mi sentivo inadeguata. Così mi sono ammalata». Prima la bilancia che sale a 72 chili (a 14 anni), poi che scende a 47. «Cambia la pelle, cambiano i profumi, ti abitui a un nuovo corpo. Tante volte ho attraversato i miei nuovi corpi e ogni volta che mi si chiudeva lo stomaco avevo paura di cadere nell’anoressia. Una paura che ho ancora oggi».
Francesca Manzini si racconta senza filtri in Stay Manza (Sperling & Kupfer) dove non nasconde nulla, i disturbi alimentari e il tumore, le relazioni tossiche e le crepe nell’anima, le fragilità e il bullismo («mi chiamavano cesso, cellulitica»): «Il mio mantra è stato comunque quello di cercare leggerezza in questo libro: non devo essere vittima, non devo appesantirti, ma alleggerirti...». Sincerissima: «L’amore della mia vita era mio padre e lui mi aveva delusa», scrive. «Per ogni figlia femmina il padre è il primo amore, la certezza, la conferma, e io non ne avevo. Tanto più che mi parlavano sempre male di lui. Dopo siamo diventati grandi alleati, come Omar Sy e François Cluzet in Quasi amici».
Male a tavola, male a letto: «Mangiavo male e vivevo male, non avevo regole, non avevo limiti, volevo essere ascoltata, accettata. Io prima mi infatuavo degli uomini per dimenticare la delusione che mi aveva dato mio padre». Il pozzo quando aveva 23 anni. «Il mio ex mi menava tantissimo, beveva, mi tradiva. Avevo annientato me stessa, avevo abbandonato i miei sogni. Avevo 23 anni e sono tornata a vivere a 27 quando Chiambretti mi ha chiamato in tv, i segni di quegli anni terribili però sono ancora dentro di me».
Da quei tunnel (mica solo uno) è riuscita a uscire: «Ho riassestato la mia vita, l’ho riequilibrata, oggi non mi aspetto più qualcosa dalle persone, a partire da mio papà. Accettare non vuol dire che sei guarita, ma che hai ben chiara la situazione, è il superamento che ti porta il sorriso. Ora sorrido sempre, come Ilaria D’Amico dopo un collegamento sportivo... La base c’è, non ho paura di ricadere perché so come comportarmi ora. Quando lo capisci sai che risoffrirai ma sai che sei forte per poter affrontare questa nuova sofferenza». Il palco è il luogo dove riesce a trasformarsi in altro: «Non posso rinunciare all’adrenalina del palco, della tv. Lì ho voluto lasciare quel pezzo di ansia e insicurezza che mi servono come turbo per lavorare. Prima di andare in onda mi mangiavo un paio di Kinder Bueno, ora sono passata a due mele o un po’ di bresaola, ‘na tristezza».
Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 2 novembre 2022.
«Le pari opportunità uomo-donna? Ma non scherziamo! Lui riesce ad affascinare e ad attrarre pure da vecchio, la ruga fa vissuto e la stempiatura fa intelligenza... Lei ha una data di scadenza come il latte o lo yogurt. Per non parlare poi, come si dice a Roma, "omo de panza, omo de sostanza", insomma un uomo può pure essere un barile e piacere lo stesso. Mentre le donne devono essere per forza smilze: per piacere all'altro sesso, altissime, finissime, magrissime... Infatti, la vera femme fatale, "c'ha 'na famme, che nun ce vede...".
E per lei, la dieta, sin dal mattino, prevede un solo biscotto, che sembra un insetto catturato morto: calorie 0,1, cioè quelle che ti danno l'energia sufficiente per rimettere a posto la scatola che conteneva l'insetto. Aggiungo che l'uomo, anche quando da ragazzo era bruttino assai, con gli anni che passano diventa interessante.
La donna, invece, può al massimo diventare "interessanda", un gerundio speranzoso, ovvero: vorrebbe col tempo interessare a qualcuno». Francesca Reggiani, comica e imitatrice, è un vulcano di battute costruite in una lunga carriera («Sì, purtroppo ormai molto lunga...», scherza), iniziata con il diploma al Laboratorio di esercitazioni sceniche del mitico Gigi Proietti.
«Veramente, mi avevano tutti scoraggiato a presentarmi per entrare nella sua scuola, dicendo che era tanto difficile entrare, perché erano tanti gli aspiranti... Quando andai a fare il provino, come una cretina mi preparai pezzi ridondanti, tipo un brano dall'Antonio e Cleopatra , un altro dalla Pazza di Chaillot ... sì, proprio 'na pazza... E vedendo Gigi che, mentre mi ascoltava in platea, si sganasciava dalle risate, ero sbalordita, ho pensato: devo aver sbagliato tutto... Invece no, mi accolse... È stato un grande maestro d'ironia, sì, ma elegante. Non alzava mai la voce anche quando si incavolava e, addirittura, non sopportava vedere qualcuno di noi che masticasse una gomma: se ti beccava, te la faceva sputare... per rispetto al luogo sacro del teatro».
Pari opportunità, zero. E luoghi comuni su uomo e donna?
«Per esempio, quando si parla delle gioie della gravidanza, definendola il periodo più bello della vita di una donna. Io sono madre, ho una figlia, ma non è che nella gestazione me la sia spassata da morire... un paio di momenti meglio della gravidanza ce li ho avuti... E poi, sin da piccole, ci ripetono che l'amore è una cosa meravigliosa, dura per sempre. Per quanto mi riguarda, è stato un disastro quando scoprii una tresca tra il mio compagno di allora, oggi ex compagno, con una certa Rita».
In che modo lo scoprì?
«Lui era nella doccia e io comincio a sentire una serie di "din din din" che provenivano dal suo cellulare. Non sono un'impicciona, non ho mai controllato nessuno, ma quella volta l'occhio mi scivola sull'apparecchio, ce l'avevo vicino vicino sul comodino... impossibile non vederlo, anche perché si illuminava a ogni din...
Vedo una serie di messaggini, cuoricini, bacini inviati da una certa Rita. Così, quando lui esce dalla doccia, gli chiedo: mi puoi dire chi è questa Rita? Gli è venuto un colpo: mentre indossava l'accappatoio, stava fischiettando e il fischio gli è andato di traverso. Quando si è ripreso, mi chiede da "finto ingenuo": hai detto Rita? E io ribatto: sì, Rita... Poi ho aggiunto la fatidica domanda che, in realtà, sarebbe meglio non fare mai..».
Quale?
«Questa tizia cos' ha più di me? E lui risponde: più di te niente, semmai ha 15 anni di meno».
Chi è la «Gatta morta» che recita in palcoscenico, il 14 marzo al Teatro Manzoni di Milano?
«Il "gattamortismo" è un esercizio importante e si deve imparare molto bene per poter conquistare la preda. Prima cosa, la donna non deve straparlare, perché per il maschio è fondamentale essere ascoltato, quindi devi far finta di pendere dalle sue labbra, come se lui fosse un Premio Nobel. E, quando lui sta parlando, puoi fare solo compiacenti esclamazioni, tipo: ah! uh! oh!
Le consonanti non sono ammesse. Inoltre, se sei particolarmente brava, puoi anche aggiungere qualche parolina in francese: cheri, mon amour, senza però sbagliarti con "carrefour", che è una catena di supermercati».
Tanto teatro, tanta televisione con Serena Dandini, ma anche un'esperienza cinematografica con un altro maestro: Federico Fellini...
«Mi prese per una comparsata nel film E la nave va , poi per una parte un po' più consistente nell'Intervista e, in questo caso, sono stata un'imbecille».
Perché?
«Federico arrivava presto la mattina, quando ero ancora al trucco, e scriveva lì per lì tutte le battute che dovevo dire su dei fogli di carta, che poi mi affidava... Sul set io li recitavo, poi li accartocciavo e li buttavo: se mi fossi tenuta tutti quei testi, scritti di suo pugno, avrei potuto pubblicarli, sarebbe stato bellissimo! Io, una autentica cretina».
La sua imitazione tra le più riuscite?
«Sabrina Ferilli, perché è proprio lei che ha presa sul pubblico... la amano spudoratamente. Oltretutto l'ironia di Sabrina è eccezionale e una delle sue battute che, in questo periodo, riprendo spesso è quando dice: c'ho sempre avuto er core a sinistra, ma vorrei dì al Pd de non litiga', perché se può perde' benissimo pure andando d'accordo!».
Però lei ha fatto un'imitazione molto ben riuscita di Giorgia Meloni, molto prima della vittoria alle elezioni...
«E nei primi tempi l'ho associata all'imitazione di Maria Elena Boschi, all'epoca ministro, poi con Concita De Gregorio: la comicità, infatti, si fa sugli estremi, e più distanti di queste due da Giorgia, non ce ne sono... La Boschi toscana, la Meloni romana; la De Gregorio raffinata dei quartieri alti, la Meloni della Garbatella».
Si è mai arrabbiato qualcuno per la sua imitazione satirica?
«In generale, i personaggi non disdegnano l'essere imitati, è una forma di pubblicizzazione che non dispiace e, se la parodia è ben fatta, semmai si compiacciono: in fondo, è una sorta di omaggio alla loro notorietà. Però ho saputo che si è un po' risentita Maria Giovanna Maglie...
E anni fa ci fu tutta una polemica quando imitai Sophia Loren, facendole dire: "Quanto è bella Napoli, vista dal mio attico di Manhattan... è la distanza giusta, salgo in terrazza col binocolo, la vedo da lontano, mi arriva la sua poesia e non sento la puzza".
Venni attaccata da tutti, ma non volevo offendere Napoli, figuriamoci! La adoro e oltretutto mio padre è napoletano... E quella battuta la dicevamo tra noi in famiglia, perché era l'epoca della spazzatura da cui era sommersa la città.
Inoltre, sono stata bacchettata per un'altra frase in una imitazione di Ferilli. Sabrina diceva: "La vita è una questione di cu... o ce l'hai o te lo fanno". Una sua filosofia esistenziale, ma una signora mi mandò un messaggio risentito sulla mia pagina facebook: "Cara Reggiani, ma lei alle persone che si fanno veramente il cu... non ci pensa?" Figuriamoci se volevo offendere veramente la gente che si fa il cu...».
A proposito di famiglia: da chi ha imparato o da chi ha in qualche modo ereditato il mestiere: da suo papà napoletano?
«Innanzitutto preciso che ho ascendenze non solo napoletane, ma anche milanesi, dato che tutto il resto della mia famiglia, madre, nonni, zii sono tutti di Milano.
E proprio mio nonno, un anarchico che finì in carcere perché antifascista, era distributore di giornali, tra cui le riviste satiriche "Cuore" e "Il male"... forse qualcosa da lui mi è arrivata. Per quanto riguarda mio padre, in verità, quando mi chiese: cosa vuoi fare da grande? Mi vergognavo a rispondere che intendevo fare l'attrice...».
Cosa rispose?
«Il mimo».
Il mimo?
«Sì, mi sembrava una roba strana... e infatti l'ho preso in contropiede... rimase interdetto, a bocca aperta... di sale!».
Hanno tentato di dissuaderla?
«Mi disse categorico: ti diamo un tempo per provare, poi vai a lavorare seriamente...».
Come si prepara all'imitazione di qualcuno?
«Il percorso è principalmente quello dell'ascolto».
Il personaggio più difficile da imitare?
«Ho avuto difficoltà con Alfonso Signorini e con la Santanché: li ho provati per "La tv delle ragazze", ma non sono mai andati in onda... non funzionavano e ho lasciato perdere. Un'altra piuttosto difficile per me è stata Alba Parietti: non ha una voce molto riconoscibile e allora io le ho messo in bocca una specie di fischio».
Quello più facile?
«Beh... certamente Enrica Bonaccorti, che è anche la più identificabile».
Ma oggi ha ancora senso la satira di destra o di sinistra?
«Effettivamente a volte mi pongo la domanda. Viviamo in un mondo piatto, dominato da un pensiero unico, siamo soggetti a una specie di censura, per cui l'attore-comico deve stare attento a tutto e a tutti, al lecito e all'illecito. Però se non hai la possibilità di esprimerti liberamente, è un vero disastro. Bisogna avere il coraggio di dire sempre e comunque quello che si pensa, magari accettandone le conseguenze».
Ha mai pensato di imitare Putin o Zelensky?
«Assolutamente no! Stiamo vivendo una vera tragedia, non si può fare satira in un momento del genere, in cui mi sento, come tutti, confusa e spaventata. E poi, francamente non hanno per me un fascino tale che possa spingermi a studiarli sotto questo profilo...
Che battute potrei mai inventarmi? La situazione è quella che è e mi fanno davvero pena i giovani: al contrario di quando ero ragazza io, oggi un verbo al futuro non si usa più, non viene insegnato nemmeno a scuola, viene utilizzato solo il condizionale. Oggi è difficile per le nuove generazioni immaginare il domani: invece di farò, andrò, lavorerò, si dice farei, andrei, lavorerei... E che tristezza!».
Dagospia il 15 agosto 2022. Spopola sul web la doppia intervista, stile Iene, a Giorgia Meloni e Concita De Gregorio, rivedute e corrette da Francesca Reggiani. «Mette dei fiori nei vostri cannoni» dice la giornalista, «ma questi i fiori se li fumano, si fumano anche i cannoni», ribatte la leader della destra. «Il virus? Non è l’italiano che deve rispettare le regole è il virus che quando entra al bar se deve mettere la mascherina. Io so Giorgia, ma no la cantante, la Meloni, so politica so cristiana sono una madre della Garbatella e della Magliana». Eccola Francesca Reggiani, in teatro con il suo ultimo spettacolo, Gatta morta.
Come nasce una parodia?
«Nasce perché nel nostro gruppo storico, quello della Tv delle ragazze per intenderci, ci siamo rese conto che le persone cominciavano a gradire il genere. Non si tratta di imitazioni, ma di satira. Si fanno dei chiari oscuri, si prendono i modi di fare. Niente a che vedere con Alighiero Noschese. All’inizio era un genere che non apprezzavo molto. Ho cominciato con Gigi Proietti, che mi ha dato disciplina ferrea, ti mandava fuori tre giorni se ti beccava a leggere il giornale dopo otto ore di prova. Ero sicura di volar fare l’attrice drammatica, cercavo sempre di fare ruoli che mi comprimevano, Ibsen, Casa di Bambola, poi è il mestiere che ti chiama e ho avuto la fortuna di salire su quel bel carro che era la Raitre di Angelo Guglielmi. Ebbe il coraggio di fare nel 1989 una seconda serata, uno show con sedici attrici tutte sconosciute. Poi il terzo anno è entrato Corrado Guzzanti ed è lì che abbiamo tutte capito. Questo è un mestiere che si fa molto anche al ristorante».
In che senso?
«Allora andava molto Francesca Dellera, Cinzia Leone parlava tutta la sera al ristorante come lei. “Ciao, so Francesca”, e via con tutte le sue sfumature. A un certo punto le autrici proposero di fare la sigla di coda con la Dellera sopra una nuvoletta che dispensava assiomi. Fu il primo esempio».
Il suo primo personaggio?
«Marta Flavi. Ebbi un’influenza lunga e per dieci giorni stetti a casa. In tv alle 15 c’era questo programma che cercava di far mettere insieme le persone, quando sono tornata in redazione ho raccontato di questa signora che tutti i pomeriggi cercava di formare coppie. Ebbe successo. Poi feci Ricciarelli, Parietti, Ferilli, Loren».
Veniamo alle politiche, chi ha fatto nella versione della doppia intervista?
«La prima sulla falsa riga delle Iene è stata con Carla Bruni ed Elisabetta Tulliani. Questo genere di interviste funziona sempre sugli estremi. Poi feci Giorgia Meloni con Elena Boschi. Quest’anno Meloni e De Gregorio. Con i miei autori lavoriamo insieme da decenni, anche per l’ultimo spettacolo, Gatta morta. In genere è un termine che si usa in modo offensivo per le donne. Ma se lo stesso atteggiamento ce l’ha un uomo ecco che diventa un figo pazzesco, un seduttore. L’obiettivo è anche di insegnare qualche lezione di “gatta mortismo” alle mie amiche».
Perché Meloni?
«Intanto perché è donna, ha un piglio forte, una personalità decisa. La facevo anche da sola. L’intervista doppia l’abbiamo scritta prima di Natale. De Gregorio funziona perché è il contrasto perfetto di due modi di stare al mondo, Concita cerca di elaborare mondi e pensieri, l’altra un po’ con frasi fatte, un po’ con piglio ribatte per slogan. Un modo satirico senza cattiveria di contrapporre la sinistra e la destra».
La satira ha sempre un punto di vista?
«Sì. Abbiamo beccato una chiave giusta. È diventata virale in rete».
Segue la politica?
«Sono una ragazza che viene da quegli anni lì, la mia famiglia mi ha fatto fare il ciclo completo dalla Montessori all’Università. Sappiano tutto della vita delle formiche e niente di Kant».
Si sono mai offese le politiche che ha parodiato?
«No, a partire della Fumagalli Carulli Simpson, noi la chiamavamo così perché aveva i “foularini”. Lei è stata deliziosa. Poi a un certo punto feci Franca Ciampi, uno sketch voluto da Carlo Freccero . C’era un divanetto con un ritratto di Garibaldi e una comparsa con un giornale in faccia. Alla scrivania del presidente c’era la signora Franca che diceva “scusate parlo piano perché mio marito dorme, non voglio disturbarlo mentre riposa e quindi vi dirò che questa settimana è successo questo e quest’altro e lì entrava un pezzo di satira. La signora Ciampi mi ha invitato al Quirinale. Era una donna intelligente, vedeva La tv delle ragazze».
È entrata qualche scienziata nella sua galleria?
«Ilaria Capua. Rassicura tutti dicendo “diciamo la verità: di questo virus oggi si sa poco o niente, l’unica cosa certa è che è nato a dicembre del 2020, dunque è capricorno».
Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 14 novembre 2022.
Francesco Facchinetti, professioni mille. Talento: nessuno, per sua stessa ammissione. Tormento ne: uno, La canzone del capitano che l'anno prossimo compirà vent' anni e si canta ancora, pure per le strade di Madrid, dove Facchinetti sta promuovendo Rocco Hunt, uno degli artisti di cui è manager.
L'intervista a passeggio si apre incappando in un gruppo di ragazzi italiani in tenuta da addio al celibato che salutano l'ex Dj Francesco proprio intonando a gran voce la sua hit di inizio millennio.
Dall'isola che non c'è di Capitan Uncino alla realtà aumentata sul Metaverso. In vent' anni di strada ne ha fatta...
«L'unico talento che mi riconosco è quello di avere uno sguardo curioso e analitico, capace di intuire dove andrà il mondo nel prossimo futuro. Pensi che col Metaverso sono entrato in contatto la prima volta oltre due anni fa, quando mi contattarono da The Sand Box, divenuto oggi il Metaverso più importante che c'è.
Mi chiamarono per chiedermi se avessi voglia di creare una città dove gli artisti coi quali lavoro e non, potevano avere un loro spazio, fare le loro esibizioni. Dissi che non ero interessato. Li richiamai dopo due mesi, visto il successo che aveva avuto con loro Snoop Dogg, ma non mi risposero più».
Cos' è la storia che ha deciso di mettersi a fare pure il mediatore di pace?
«Ma no. Non scherziamo. La geopolitica non mi compete. Però assieme alle persone che lavorano con me nella società Outatime - che prende il nome dalla targa della macchina del film Ritorno al futuro- abbiamo avuto un'idea: realizzare nel Metaverso una safe room personalizzabile dagli utenti, ad esempio i membri dei cda di grandi aziende, che coi loro avatar potranno entrare e parlare di tutto in maniera realmente sicura, come non sono le piattaforme andate per la maggiore durante la pandemia: Zoom, Meet o anche Whatsapp.
L'obiettivo è questo. Ne abbiamo dato notizia puntando sulla possibilità di creare le condizioni affinché possa ristabilirsi la pace nel contesto geopolitico mondiale anche attraverso questo nuovo strumento. Anche se detta così può sembrare una boutade, la Stanza della Pace ha avuto autorevoli feedback positivi».
Vabbè, insomma non farà il mediatore di pace ma l'albergatore virtuale. Se però dovesse entrare lei in quella stanza, o meglio il suo avatar, che cosa farebbe?
«La mia idea è l'idea di tanti. Chiederei in ginocchio di smetterla con questa guerra. Forse è un pensiero un po' basico ma questo è il messaggio che darei ai due. Ovviamente sappiamo tutti com' è iniziata, quindi forse dovrei rivolgermi più a Putin che a Zelensky...».
Però mi consenta, a parte questa suggestione pacifista, sul tema della sicurezza lei negli anni si è distinto spesso per le sue idee da sceriffo. Ci spieghi un po'...
«Questo è un tema che mi fa incazzare perché mi ha costretto a prendere una decisione dolorosa...».
Quale decisione?
«Quella di lasciare Mariano Comense. Il paese mio e della mia famiglia dove abbiamo vissuto per generazioni, dove la mia famiglia di origini contadine ha le sue radici e i suoi terreni, dove io ho deciso, facendo pure sacrifici, di far crescere e vivere i miei figli. Ma ormai nel nord Italia abbiamo un problema gravissimo di sicurezza.
Anche io ho commesso degli errori. Ho raccontato la mia vita sui social network in maniera sbagliata. Ma quando ti rendi conto che ti entrano in casa e vedi la vita dei tuoi figli, di tuo padre a rischio, fa troppo male».
Cosa intende fare?
«Quello che sto facendo. I miei figli studiano già in Svizzera. Mia moglie ha sempre sognato di vivere lì».
Dopo le rapine subite e raccontate dalla sua famiglia l'hanno accusata di essere a favore delle armi libere. È vero?
«In Italia non si ha il coraggio di dire la verità. Il mio primo pensiero è quello di sentirmi sicuro in un Paese che ha il 60% di pressione fiscale. Se non mi sento sicuro lo Stato deve mettermi nella condizione di difendermi.
La difesa non è solo sparare. Anche qua c'è solo propaganda politica. Prendano a modello New York nell'era del sindaco Rudy Giuliani. Si ricominci dal decoro urbano. Una città più sporca porta a delinquere. Cominciamo a tenere le città pulite e diamo la possibilità a chi detiene l'ordine di mantenerlo davvero con leggi adeguate che garantiscano anche una pena certa per chi sbaglia».
Per l'Italia insomma non vede proprio speranze?
«Siamo un Paese ingovernabile. Si fa solo propaganda politica su tutto. Dalla sicurezza alla pandemia. Ora la destra ha il dovere di governare. Faccia vedere cosa è in grado di fare. Guardi, io ho idee più di sinistra ma sentire Letta che dice "votate me per non far vincere quegli altri" e si mette anche a twittare sui rave è fuori dal mondo. La sinistra deve smetterla di fare antipolitica».
Ha mai pensato di scendere in politica?
«No. Perché per fare politica serve una vocazione. Quando penso ai politici ho in mente modelli come Lincoln, Churchill, Kennedy, Pertini. Ma anche tra i nostri politici italiani di oggi ci sono persone valide.
Penso la Meloni lo sia, Renzi da sindaco di Firenze ha fatto un buon primo step. Lo stesso Salvini che viene anche lui dai consigli comunali. Io guardo e ogni tanto dico la mia».
Oggi si parla molto di merito. Lei, però, è diventato famoso come figlio dei Pooh.
«Io le dico con sincerità che diffido dei figli d'arte che dichiarano di non aver tratto benefici dall'essere figli di genitori famosi.
Quanto a me, a Sanremo ho fatto disastri, a cantare sono una mezza frana ma a mio padre, che non mi ha mai giudicato, devo tutto. In particolare l'avermi messo a disposizione la sua esperienza e avermi insegnato quali sono le dinamiche nel mondo musicale, indottrinandomi su come si può sviluppare un progetto e come si deve vivere nel mondo artistico.
Se oggi ho l'agenzia di management più grossa di questo paese e rappresento quasi 100 tra artisti e sportivi, è fondamentalmente perché a 32 anni, quando ho iniziato a fare questo centesimo lavoro, conoscevo già tutto ciò che serve tra arte e business. A 42 anni posso dire di essere un veterano che da cinque anni si sta espandendo anche all'estero.
Detto ciò, non mi sono mai sentito un cantante, un presentatore, uno di talento. Mai.
Mi sono sentito più una pecora nera. Non ho mai preteso di arrivare primo. Sono solo un uomo metà bergamasco, metà brianzolo molto pragmatico e preciso, anche se sembro incasinato. Questo mi ha dato il vantaggio di trovare le metriche per poter lavorare e fare cose in grande prima di altri».
Da leggo.it il 7 aprile 2022.
«Mi definisco onnivoro, egocentrico e narcisista. Da un anno vado dalla psicologa, perché è ovvio che questo disturbo della personalità narcisista crea problematiche». È un Francesco Facchinetti senza filtri quello che si racconta nella prima puntata della seconda stagione del podcast di Luca Casadei 'One More Time'. Nell'intervista di più di un'ora concessa a Luca, l'imprenditore 42enne ripercorre la sua storia, partendo dal rapporto con la madre: «Mi fece vivere il mondo degli hippie e la vita nella comune», passando poi dal periodo passato nella comunità di Frate Ettore a Seveso agli inizi degli anni 90: «Erano gli anni dell'Aids - ricorda Facchinetti - Con Frate Ettore andavamo alla stazione di Milano a prendere gli infetti. Lì capii cos'era la fede e la Divina Provvidenza».
Poi Facchinetti parla del suo esordio nel mondo della musica: «A scuola di Comunione e Liberazione lessi un libro di Don Giussani, su quanto è importante trovare il proprio Io. E io lo trovai dopo aver visto un concerto di Jovanotti, uno che non cantava e basta, ma usava la musica per comunicare il suo mondo». Proprio sulla sua parentesi musicale, Facchinetti racconta in particolare dei primi anni con Cecchetto, seguiti dal boom di successo e dal periodo di crisi dopo aver lasciato la conduzione di 'X-Factor': «Appena arrivato mandai via la vecchia guardia degli autori Rai - prosegue - volevo un mio team di giovani. Andò bene, ma diedi fastidio a un pò di gente. Appena sbagliai me la fecero pagare. Da golden boy della Tv italiana diventai un 'appestato', vietato ogni studio televisivo».
Da lì, la nuova carriera come talent manager di alcuni tra i più celebri personaggi del web italiano: «Mentre ero ancora a terra, mandai due messaggi, uno a Nesli e uno a Frank Matano - rivela Facchinetti - 'Sto iniziando da zero, non ho niente, ma mi dedicherò 18 ore al giorno a te'. Nesli mi disse: 'Parla col mio produttore discografico'. Frank disse: 'Grazie, io sarò sempre con te'». Da lì ricominciò la mia scalata'. Una scalata, racconta nella puntata del podcast 'One More Time', fatta di fame e 18 ore di lavoro al giorno: «Non penso di aver risolto il rapporto conflittuale col denaro», dice.
«Fin da piccolo - racconta - volevo una sorta di riscatto sociale, conquistare cose. Negli ultimi 10 anni ho lavorato molte ore al giorno per comprarmi un quadro di Andy Warhol. Ogni giorno mi chiedevo: 'Perché ti alzi?', 'Per comprare un quadro di Andy Warhol', mi rispondevo. Ogni tanto mia madre mi chiede: 'Perché giri con una Rolls Royce da 3-400mila euro?' e io dico: 'Lavoro tutto il giorno, se non avessi una Rolls non uscirei di casa. Perché devo avere attorno a me cose che mi rendono la giornata piacevole'. Sono cose materiali? Sì. È destabilizzante raccontarlo? Sì, ma mi rasserenano. Non significa che se metto il mio sedere su una Panda muoio. Ma significa che se devo andare oltre il limite devo essere appagato», conclude Facchinetti.
Da corrieredellosport.it il 23 febbraio 2022.
Francesco Facchinetti ha raccontato ai follower un retroscena inedito della sua vita privata. "Quando mi hanno arrestato in Honduras, perché purtroppo mi hanno arrestato mentre facevo l'Isola dei famosi, in galera si mangiava meglio", ha ammesso l'artista, in questi giorni costretto a mangiare solo delle minestrine perché positivo al Covid-19. "Perché mi hanno arrestato?
Allora, all'epoca, era il 2006, l'Honduras era un paese molto violento, non so adesso, ma all'epoca era violentissimo noi stavamo vicino ad una città che si chiama La Ceiba dove non potevi girare da solo perché c'erano delle gang, una si chiamava Mucha Mi*rda e l'altra Diciotto e andavano in giro proprio con i fucili a rapinare, sparare e ammazzare la gente", ha raccontato.
Perché Francesco Facchinetti è stato arrestato
"Questa gang, Diciotto, i suoi componenti avevano un 18 tatuato sulla pancia, e io ho un otto molto grande tatuato sulla pancia. Mentre ero in spiaggia, che camminavo, ad un certo punto dei poliziotti mi hanno visto e hanno visto il tatuaggio così hanno pensato che fossi un killer di questa banda e mi hanno portato al commissariato. Sono stato lì fino a quando quelli dell'Isola sono venuti a prendermi e hanno spiegato che non ero un delinquente e così mi hanno liberato", ha aggiunto il figlio di Roby dei Pooh.
Francesco Facchinetti rivela: «Mi hanno arrestato in Honduras per un tatuaggio e in Nicaragua credevano fossi un narcotrafficante». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2022.
In isolamento forzato a casa, perché positivo al Covid-19, il cantante ha raccontato alcuni episodi inediti della sua vita, come le due disavventure con la giustizia che gli sono successe nel 2006, quando ha fatto l’inviato per «L’Isola dei famosi».
Quando sei in isolamento perché positivo al Covid, il tempo sembra non passare mai. Ne sa qualcosa Francesco Facchinetti che, in quarantena forzata a casa, diletta i suoi follower, raccontando loro inediti retroscena della sua vita su Instagram. Come quella volta in cui, mentre faceva l’inviato per «L’Isola dei famosi», è stato arrestato in Honduras per colpa di un tatuaggio e fermato in Nicaragua per via delle sue origini bergamasche.
«All'epoca, era il 2006, l’Honduras era un paese molto violento, non so adesso, ma all'epoca era violentissimo - ha raccontato Facchinetti nella prima clip condivisa nelle sue Storie - . Noi eravamo vicino a una città che si chiama La Ceiba, dove non potevi girare da solo, perché c’erano delle gang, una si chiamava Mucha Mi*rda e l'altra Diciotto e andavano in giro proprio con i fucili a rapinare, sparare e ammazzare la gente. Questa gang, i Diciotto, i suoi componenti avevano un 18 tatuato sulla pancia e io ho un otto molto grande tatuato sulla pancia. Mentre ero in spiaggia, che camminavo, a un certo punto dei poliziotti mi hanno visto e hanno visto il tatuaggio, così hanno pensato che fossi un killer di questa banda “18” e mi hanno portato al commissariato. Poi dopo un po’ quelli dell’Isola dei Famosi sono venuti a prendermi e hanno spiegato ai poliziotti che non ero un pericoloso criminale dell’Honduras, ma che ero l’inviato della trasmissione e mi hanno liberato».
L’altra disavventura gli è successa a Managua, la capitale del Nicaragua e anche in questo caso il racconto è a dir poco esilarante, soprattutto perché anche qui è poi finita bene. «Sono nella capitale del Nicaragua, dove aspetto un piccolo aereo per arrivare su un’isola che era l'Isola dei Famosi - spiega sempre il cantante in un’altra clip - . L’aereo è in ritardo, io aspetto, poi mi rompo esco e mi metto seduto su un muretto, ci sono delle persone che mi guardano, ma non ci faccio caso. Dopo un’oretta questi vengono da me, erano dei poliziotti in borghese e mi chiedono di dove sono. Io gli dico di essere italiano, loro mi chiedono di dove e io dico di Bergamo. Appena dico Bergamo, diventano tutti seri mi portano in uno stanzino e mi fanno il terzo grado».
Durante le due ore di interrogatorio, gli agenti gli chiedono perché si trovi in Nicaragua e quando Facchinetti dice di essere il presentatore dell'Isola dei Famosi, loro vogliono vedere le prove. Ovvero, la licenza del presentatore. «Ma non è che abbiamo la patente del presentatore - continua il figlio del cantante dei Pooh nel suo video-racconto - . Ma loro non si fidano. Gli chiedo perché, sentendo che sono di Bergamo, sono diventati tutti seri e mi dicono che uno dei più grandi narcotrafficanti europei è bergamasco!».
Malgrado le sue reiterate rimostranze, i poliziotti continuano a essere diffidenti e intimano a Facchinetti di aprire le valigie, cosa che lui fa. Niente da fare, quelli ancora non gli credono. Così ecco il colpo di genio. «Gli dico che sono un cantante e che ho fatto un pezzo con Pavarotti - rivela Facchinetti, ricordando i tempi in cui era famoso come DJ Francesco - . Loro non ci credono, così siamo andati su YouTube e abbiamo trovato il pezzo “Ti adoro - DJ Francesco feat. Pavarotti” e così alla fine mi hanno creduto e mai hanno rilasciato. Grazie maestro, mi hai salvato. Succedono tutte a me…».
Francesco Gabbani compie 40 anni: i Trikobalto, le vittorie a Sanremo, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 9 Settembre 2022.
Dal suo primo incontro con la musica al suo ultimo singolo: una raccolta di curiosità poco note sul cantautore nato a Carrara il 9 settembre 1982
Il negozio di strumenti musicali
«Ho avuto un successo atipico, a 35 anni, senza venire da un talent o dall’hip hop. E soprattutto senza una presenza sul web». Così raccontava nel 2018 al Corriere Francesco Gabbani, che nasceva a Carrara proprio in questo giorno del 1982. Forse non tutti sanno che la famiglia del cantautore di «Occidentali's Karma» e «Peace & Love» (il suo ultimo singolo uscito a giugno) ha un negozio di strumenti musicali. È così che si è avvicinato alla musica: a 4 anni ha iniziato a suonare la batteria e a 9 la chitarra (Gabbani ha poi imparato a suonare anche il pianoforte e il basso). E queste non sono le uniche curiosità su di lui.
I Trikobalto
A diciotto anni Gabbani firma il suo primo contratto discografico insieme ai Trikobalto, band con cui inciderà due album prima di tentare la carriera solista.
Due vittorie a Sanremo
Gabbani ha vinto per due volte il Festival di Sanremo, rispettivamente nel 2016 nella categoria Nuove Proposte con il brano «Amen» e nel 2017 nella categoria Big con «Occidentali's Karma». Una bella rivincita dopo aver lasciato la musica in un momento buio della sua carriera: «Dopo l’esperienza con la band - ha raccontato al Corriere - avevo provato più volte le selezioni di Sanremo Giovani come solista senza mai arrivare fino in fondo. Mi ero dato un limite temporale per essere indipendente economicamente grazie alla musica: i 30 anni. Non ci ero riuscito e avevo smesso di presentare provini come cantante. La musica per me era il negozio di strumenti di famiglia e un’attività di autore per altri. Avevo firmato un contratto con BMG ed è stato Dino Stewart a dirmi che quelle canzoni avrei dovuto cantarle io. Ero disilluso, ma mi convinse a provare ancora una volta con Sanremo Giovani nel 2016 con “Amen”...».
Video da record
Il videoclip di «Occidentali's Karma», pubblicato su YouTube il 9 febbraio 2017, ha macinato visualizzazioni record: quasi 270 milioni (ad oggi).
Attore in un film
Nel 2022 è uscito il film «La donna per me» di Marco Martani, che vede Gabbani attore nel ruolo di Federico. «È una commedia esistenziale-romantica in cui sono l’amico musicista di Andrea che si sta per sposare - ha rivelato al Corriere -. Fare l’attore è un lavoro serio e diverso dal girare un videoclip dove ti comporti in maniera spontanea. Nel cinema devi capire cosa vuole trasmettere il regista, mentre nella musica sei tu che scegli il calore comunicativo di una canzone. Mi si vedrà con un aspetto diverso: baffo lungo e pizzetto. Siccome abbiamo girato in concomitanza con Sanremo dove ero ospite di Ornella Vanoni è tutto trucco: colla, capelli veri e crine di cavallo. Ho anche scritto una canzone per il film, un brano intimista».
Ospite d’onore al World Pride
Da sempre sostenitore della comunità lgbtq+ Gabbani nel 2017 è stato chiamato come ospite d’onore della World Pride Parade di Madrid.
L’operazione dopo il concerto
Nel 2021, il giorno dopo il suo concerto all’Arena di Verona, Francesco Gabbani ha subito un intervento alle corde vocali. «Quella sera sul palco ogni tanto mi veniva paura - ha detto al Corriere -. Non tanto di perdere la voce, i medici mi avevano tranquillizzato spiegandomi che era un intervento semplice per un edema da sforzo, ma perché era la mia prima anestesia totale. Sono dovuto restare quasi muto, potevo solo sussurrare, per 5 giorni. All’inizio ho usato un taccuino appeso al collo per scrivere un paio di messaggi. Giulia, la mia compagna, ha chiesto ai medici se non si poteva allungare il periodo… (ride, ndr.)».
Vita privata
Della vita privata di Francesco Gabbani si sa che ha avuto una lunga relazione, durata otto anni, con una tatuatrice carrarese, Dalila. Da un paio d’anni invece fa coppia fissa con Giulia, una sua collaboratrice, con cui ha vissuto durante il lockdown: «Siamo passati di colpo dai “firmacopie” al ritrovarci nella nostra dimensione casalinga, che è stata serena. È stato un bel test per tante coppie», raccontava Gabbani nel 2020 a Domenica In.
Gabbani, nuovo disco e show su Rai1: «Ecco il mio lato malinconico, in tv parlo di ambiente». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.
Venerdì 8 conduce «Ci vuole un fiore»; il 22 aprile esce l’album «Volevamo solo essere felici».
Siamo abituati a vedere Francesco Gabbani col sorriso. Nelle foto e sul palco lo sfodera in abbinata al baffo. Sarà così sulla copertina del nuovo album «Volevamo solo essere felici» (esce il 22 aprile) e sarà così anche durante «Ci vuole un fiore», serata in onda venerdì su Rai1 e dedicata all’ambiente che vedrà il cantautore nel ruolo di presentatore.
Quel «solo» nel titolo del disco getta un’ombra... «Quella parola rappresenta la mia componente malinconica. Mi sono riscoperto così, anche se il pubblico mi si percepisce col sorriso. Mi crogiolo spesso nella malinconia che mi fa riassaporare elementi e ricordi del passato. Ognuno ha la sua idea di felicità, per me può esserlo una passeggiata in campagna, per altri è avere il sedere su una Lamborghini, ma la costante è che tutti la ricerchiamo».
La felicità orientale
Gabbani ha una sua idea di felicità. «Spesso transito in quell’area con la consapevolezza che non è una costante. È un atteggiamento che ho acquisito crescendo. In passato avevo un approccio più occidentale: hai un ideale proiettato nel futuro, se lo ottieni sei felice. Invece l’esperienza mi ha insegnato che devi trovare la felicità nel momento, nel qui e ora che è un concetto più orientale. Cerco di godere delle piccole cose. In questi giorni a Roma, chiuso in Rai per le prove, mi basta una passeggiata mattutina sul Tevere per toccare la felicità».
Le dieci nuove canzoni, dice Gabbani, lo rappresentano: «Sono la fotografia di come sono oggi. Tiro fuori come sempre il lato irriverente e ironico, ma soprattutto quello intimo. Se “Viceversa” era il capirsi attraverso il rapporto con gli altri, qui lo faccio guardandomi dentro». In questi due anni di «fuori» ce n’è stato poco a causa della pandemia. «Sicuramente c’entra. Durante quei mesi non scrivevo, ma sapevo che quello che stavo vivendo in qualche modo sarebbe filtrare nelle canzoni».
Il green in prima serata su Rai1
Prima del disco c’è il debutto da conduttore tv con Francesca Fialdini in «Ci vuole un fiore». Gabbani sarà presentatore e performer: ospiti sia dal mondo dello spettacolo come Massimo Ranieri, Tananai, Ornella Vanoni, Morgan, Flavio Insinna, Maccio Capatonda e Michela Giraud, che da quello della scienza come Piero Angela, Luca Parmitano e Stefano Mancuso. «Ho accettato per la tematica: vivo sulle Alpi Apuane, amo la natura. Lo show vuole essere una serie di consigli, un tentativo di sensibilizzare. Il rispetto dell’ambiente passa dall’assimilare una metodologia di comportamenti nella quotidianità: io vivo con l’apprensione della raccolta differenziata, non tiro lo sciacquone se getto solo un fazzoletto di carta, sono un fumatore ma se non c’è un cestino svuoto il mozzicone dai residui di tabacco e infilo in filtro in tasca». Non ha un modello di conduzione cui ispirarsi: «I grandi, da Conti ad Amadeus, lo fanno con naturalezza. Porto in scena Gabbani che si racconta, senza voler indottrinare nessuno».
Pace e amore
Tornando alle nuove canzoni, Gabbani le vede così: «L’idea era partire da canzoni che potessero stare in pedi da sole e poi scegliere il vestito, che sia l’elettronica anni 8o o suoni più contemporanei». Il brano «Peace & Love» guarda ai conflitti prendendo come esempio i nativi americani. Esce in tempi di guerra... «Una coincidenza incredibile. Dichiaro la mia attitudine pacifista, è inconcepibile vedere un contesto di guerra nel 2022. Si distruggono vite, cose, energie... e anche l’impatto sul pianeta non va trascurato».
"Farò uno show tv senza essere conduttore. E ho un disco pronto". Paolo Giordano il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.
L'artista presenta venerdì sera su Raiuno. "Ci vuole un fiore" con Francesca Fialdini.
Ma guardatelo qui Francesco Gabbani che voleva quasi ritirarsi dalle scene ma poi ha vinto due Sanremo di seguito ed è diventato un peso massimo del pop. Stavolta si sdoppia. Ha un disco in uscita il 22 aprile (il riuscito Volevamo solo essere felici) e una prima serata su Raiuno al fianco di Francesca Fialdini, tra l'altro praticamente conterranea (lei di Massa, lui di Carrara). Insieme condurranno venerdì sera 8 aprile Ci vuole un fiore, una sorta di coraggioso esperimento della prima rete nazionale su di un tema delicato e spesso politicamente ondivago, ossia il «green», l'ambientalismo, insomma l'attenzione alle risorse energetiche e al loro utilizzo. «Ma non voglio mica emulare Conti o Amadeus, eh!», spiega lui con quell'accento toscano verace e spontaneo che trasmette subito buonumore.
E quindi che cosa vorrebbe fare, caro Gabbani?
«Non sono un conduttore televisivo e non avrei mai accettato di fare un one man show come tanti altri invece vorrebbero fare».
Però conduce un programma su Raiuno.
«In realtà, quando il direttore Coletta me lo ha proposto ho accettato soltanto perché Ci vuole un fiore mi rappresenta fino in fondo. Io sono nato in mezzo alla natura, sono green e quindi questo è un tema che mi appartiene davvero».
Qual è l'obiettivo?
«Parlare di ambiente senza prendere posizioni politiche, senza indottrinare nessuno. Affronteremo i cambiamenti importanti che ci aspettano e che riguardano la nostra vita quotidiana. Dopotutto questo è un problema che interessa tutti, anche se...».
Anche se?
«Tanti non lo sanno oppure sono distratti. D'altronde i ghiacci mica si sciolgono di fianco a casa, insomma è comprensibile che tante persone, prese dalla vita quotidiana, non abbiamo una coscienza ambientalista molto sviluppata. Specialmente la generazioni più avanti con l'età».
Perché?
«Perché i ragazzi sono cresciuti con queste tematiche, ne sentono parlare sin da quando sono nati. È ovvio, quasi naturale che siano più interessati rispetto a chi è cresciuto senza questo tipo di attenzione».
E il cast?
«Lo abbiamo cercato il più eterogeneo possibile, da Tananai a Ornella Vanoni, da Fulminacci a Morgan a Flavio Insinna, Maccio Capatonda, Michela Giraud e poi un sorprendente Massimo Ranieri».
Perché sorprendente?
«Perché lui conferma che non è mai troppo tardi per diventare green. È un grande artista, un uomo esperto, ma dimostra che, conoscendo a fondo il problema, a ogni età si può decidere di essere davvero attenti all'ambiente».
Poi ci sarà un testimonial decisivo: Piero Angela.
«Per me un onore gigantesco. E arriveranno anche Luca Parmitano, Carlo Cottarelli e Stefano Mancuso».
Manca Adriano Celentano, uno che sull'ambiente ha davvero aperto la strada oltre mezzo secolo fa.
«Però io canterò una sua canzone, una sorta di omaggio dovuto».
A proposito di ambiente, nel nuovo disco c'è un brano che calza a pennello: Peace and love.
«Siamo in un periodo di guerra e già per questo si prova dolore e tristezza».
Si spera finisca presto.
«L'anagramma di Putin è input. L'unico input che vorrei in questo momento è che finisca questo gigantesco spargimento di sangue».
Volevamo solo essere felici, appunto, come il titolo del disco.
«Stavolta ho meno esigenze di impressionare, di spiegare come sono, di colpire gli ascoltatori. E perciò potrei eseguire tutti i brani del mio nuovo disco semplicemente cantandoli al pianoforte o con una chitarra».
Però ci sono titoli che colpiscono subito. Ad esempio Sangue darwiniano.
«Siamo davvero in continua evoluzione. E si evidenzia sempre più il contrasto tra ciò che siamo davvero e ciò che crediamo di essere grazie alla tecnologia che spesso ci aiuta, ci spinge a credere di essere ciò che in realtà non siamo».
Estratto dell'articolo di Andrea Scanzi per il Fatto Quotidiano il 28 novembre 2022.
(…)
Il fiasco di vino sul palco aiutava?
Non era un fiasco, ma una semplice bottiglia. Bevevo rosé, e pure poco, perché sul palco devi essere lucido. Uno o due bicchieri di rosé. E a tavola quasi sempre Traminer.
Anche De André aveva paura del pubblico.
Lui beveva whisky, e all'inizio neanche poco. Prima dei concerti mangiava solo due "uova all'ostrica": buttava giù il tuorlo con un po' di limone e via. Io no. Avevo un genovese sciagurato che mi seguiva per il catering. Libagioni infinite di cibo e vino nei camerini. Mangiavamo tantissimo sia prima che dopo i concerti.
Con Fabrizio avevi un buon rapporto?
Tutto sommato sì, anche se non ho mai frequentato per amicizia i colleghi. A fine anni Settanta, dopo il tour con la Pfm, pensammo di fare una tournée insieme. Eravamo convinti, ma i nostri manager non vollero. Fabrizio era molto diverso da me, anche come origini: lui veniva da una famiglia aristocratica, io proletaria.
E Gaber?
Lo andavo a vedere a teatro quando veniva a Bologna, e poi facevamo tardi alla Trattoria Da Vito. Facevamo un gioco un po' scemo che avevo imparato a Milano. Ognuno aveva il nome della stazione di una città. Uno di noi batteva gambe e mani e diceva: "Parte il treno per Milano!". E chi era "Milano" doveva scattare in piedi e gridare subito un'altra città: "Parte il treno per Bologna!". Così per ore. Un gioco idiota, ma se lo facevi alle tre di notte pieno di vino ti divertivi.
Qual è la canzone di cui vai più fiero?
Quelle che il pubblico non direbbe. Una volta Vasco è venuto in trattoria e mi ha detto che, secondo lui, L'avvelenata è straordinaria. Okay, fa piacere, ma secondo me L'avvelenata è sopravvalutata. Ne ho scritte a decine di superiori. A me piacciono molto di più brani meno fortunati come Amerigo e Odysseus. Evidentemente non ho gli stessi gusti del pubblico.
È vero che negli anni Settanta sfidavi Benigni?
Erano duelli di poesia improvvisata. Gli lasciavo rime impossibili: "taxi/Craxi", "mirra/birra". Lui mi mandava affanculo, poi però se ne usciva con trovate geniali: "La moglie di Pirro doveva chiamarsi Pirraaaa". Bravissimo. Altri due dotati erano Carlo Monni e David Riondino. Anche Umberto Eco faceva parte di quelle sfide, ma non era un granché.
Benigni lo senti ancora?
No. Eravamo molto amici all'inizio della sua carriera.
Anche Zucchero ti adora.
(Sorride) E io adoro lui, solo che a volte esagera. L'altro giorno è passato e, abbracciandomi, mi ha stretto così tanto che mi ha fatto venire i lividi. Zucchero è fumantino e, come tutti quelli che hanno venduto un milione di copie a botta, ha il terrore di perdere il successo. Io, che mi sono fermato a 300 mila copie, mi sono salvato. Però una cosa ce l'abbiamo in comune.
Quale?
Il fastidio per chi, come dice Zucchero, "lecca la tazza del cesso per avere successo". Io, forse con più stile, preferisco dire: "Non mi sono mai infilato una piuma di struzzo nel culo per cantare". Questi artisti finti, questi trapper, gente che si fa chiamare Ernia ma che roba è?
Volevi fare il giornalista, e nel 1960 intervistasti Modugno.
(Abbassa lo sguardo) Me ne vergogno. Fui molto snob e saccente, volli fare il fenomeno. Avevo 20 anni ed ero stupido come sanno essere i ventenni. Modugno si incazzò moltissimo.
Anche Dalla giocava a carte?
No. c'erano alcuni aspetti di Lucio che non riuscivo a comprendere fino in fondo.
Francesco Guccini torna con «Canzoni da Intorto»: «Sempre dalla parte dei perdenti. E non mi piace quella fiamma di Giorgia Meloni». Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 17 novembre 2022.
Il Maestrone presenta undici cover, a distanza di dieci anni dall’ultimo album. E non si risparmia sull’analisi. «Moratti? Mai stata di sinistra, fanno bene a non candidarla»
Incede un po’ faticosamente, sì, il fisico un pochino l’ha tradito, dopo anni di palcoscenici (e qualche vizio, più che altro enologico). Ma non la testa, quella sempre lucida a 82 anni e mezzo, mentre un po’ è serio e un po’ sorride, come quei bambini che sanno di aver fatto una promessa che poi non hanno voluto mantenere. Già, un voto che però scontentava tutti tranne (apparentemente) lui: perché in questa affollata bocciofila da tempi andati, alla periferia di Milano, in molti sono lieti di venire a sapere che Francesco Guccini è tornato a cantare, a dieci anni dall’ultimo disco che di finale sembrava avere anche il titolo: L’Ultima Thule. Sì, il Maestrone aveva giurato e spergiurato di volersi dedicare solamente alla scrittura, oramai affermato autore di gialli. E invece è sceso in città, dal suo consueto eremo sull’Appennino Tosco-emiliano, Pavana, per presentare Canzoni da intorto. Ovvero quelle che dovrebbero servire per conquistare le signore, in realtà una mappa dei sentimenti, personali , ma soprattutto politici del Maestrone. Perché trattasi di sole cover, undici. E che cover: dagli inni anarchici Addio Lugano bella e Nel fosco fin del secolo ( scherza lui «La nonna della Locomotiva») al dolente e durissimo Morti di Reggio Emilia fino ai brani della Resistenza Ma mi o la Jannacciana Sei minuti all’alba. Ma anche la surreale El me gatt di Ivan Dalla Mea o il traditional inglese: Greens Sleeves.
Perché ha rotto il voto Guccini?
«In realtà ho sempre detto che non sono più capace di scrivere brani e che non sarei più salito su un palco, non che avrei smesso del tutto di cantare».
Perché non si sente più capace?
«Ho deciso di chiudere con la scrittura per non arrampicarmi sugli specchi, facendo una cosa che non so fare più. Da quel momento non ho più toccato la chitarra e non so comporre senza. E, anche con la voce, ora faccio molta più fatica di prima. Ma eccomi qui».
Come le ha scelte queste «Canzoni da intorto»?
«Sono quelle delle serate con gli amici, delle partite a briscola e tressette, di uno che mi dà il la e poi si parte tutti insieme. Le avevo nel cassetto da anni: ora mi hanno convinto, follemente, a inciderle».
Peraltro solo in formato fisico, non le si può ascoltare streaming...
Guccini ride: «Cos’è lo streaming? Lo ignoro, qualunque cosa sia...»
Di sicuro però c’è poco da «intortare», questo è un disco molto politico
«Ma no, la tecnica è proprio quella di spiegare il senso delle canzoni alle signore che non lo sapevano. Comunque, oggi come oggi, io sono casto come una vergine. Quasi».
La politica e la musica, già: recentemente, Francesco De Gregori e Antonello Venditti hanno detto che si rischia di essere retorici nello sbandierare le proprie idee
«Una loro scelta. Dicevano che io ero comunista e De Gregori no: anche se era il contrario, io semmai anarchico . Comunque, non ho nessuna paura di dire quali sono le mie opinioni. D’altra parte, la storia della mia vita segue sempre una traccia, iniziata al liceo: leggevamo l’Iliade, si doveva scegliere tra achei e troiani. E io sempre dalla parte della minoranza, i troiani. I perdenti. Come ora».
Già , come vive questo scenario politico, con Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d’Italia maggioranza del Paese?
«Noto che la fiamma non l’hanno tolta. Ed è quella che ardeva e arde ancora sulla tomba di Mussolini. Non è che mi faccia molto piacere».
Il Pd che lei vota è stato definito da Carlo De Benedetti «un partito di baroni».
«Mi sembra una definizione ingiusta, i problemi mi paiono altri».
E li ha invitati a non essere schizzinosi con Letizia Moratti. Nel disco c’è un brano che sembra paradossalmente alludere alla questione: «Quella cosa in Lombardia».
«No, no, quella è una canzone d’amore, scritta peraltro da Franco Fortini. Venendo a Moratti, se ha voglia di presentarsi che lo faccia. Non mi sembra che abbia molto lavorato con la sinistra, quindi fa bene il Pd, per quel che ne resta, a non appoggiarla».
Ma tornerà anche a suonare, Francesco?
«Non esageriamo con la “rottura” di promesse, mi basta averne già infranta una».
Marinella Venegoni per “La Stampa” il 18 novembre 2022.
È una cura rivitalizzante per Francesco Guccini il ritorno alle canzoni, dopo 10 anni nei panni dello scrittore. Soprattutto se non sono le sue. Trovata con gran fatica una vera osteria nei meandri della periferia milanese, ieri il Maestrone è parso meno dimesso di come eravamo ormai abituati a vederlo, divertito nella narrazione e polemico quando necessario, pronto a sfoderare l'enciclopedica cultura, per Canzoni da intorto, che esce oggi dopo un parto seppellito nel segreto, è una antologia di brani di varie epoche, zone e guerre.
Titoli che nei' 60 erano patrimonio di universitari e operai inquieti, quando intorno al tavolo notturno spuntavano le chitarre o anche niente, e si cantava un repertorio che odorava di lotta e di anarchia, di antifascismo e storie d'amore consumate nei prati, con un occhio alla Lambretta perché non venisse fregata da qualche malintenzionato.
La voce (a 82 anni e senza pratica) non è più quella ma a tratti si riaccende, come se la fiammella che arde nello spirito diventasse benzina a contatto con i testi. Si parte con un must, Morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei il papà dei cantautori, corroborante nei tempi della fiamma, poi il piemontese di Barun Litrun, il lombardo di El me gatt, l'inglese di Greensleeves o Addio Lugano scorrono naturali come le abitudini che anni fa voleva immortalare in disco: ma il suo manager Fantini lo bloccò.
Adesso che la BMG - dopo averne acquistato il catalogo - si è mostrata entusiasta, lui si è riacceso come un flipper e nel finale si butta su Slava Ukraini! , nella lingua di Zelensky, e spiega: «L'ho presa da uno sceneggiato dove lui faceva l'attore». La musica è galvanizzante, gli arrangiamenti riscritti con grande gusto di strumenti anche desueti, a cura di Fabio Ilacqua e Stefano Giungato, anche produttori.
Caro Guccini, il suo disco esce solo in formato fisico, niente streaming ma versioni in cd e vinili d'ogni tipo.
«Ignoro cosa sia, lo streaming. Come fai a intortare con lo streaming?» . (Interviene Dino Stewart, boss della BMG: "Lo streaming ci fa cambiare il percepito della musica di valore, lo si associa ai numeri, non va bene per una pietra miliare come questa")».
Canzoni da intorto è un'idea di sua moglie Raffaella, ma non si intortano le ragazze con Ma mi o Nel fosco fin del secolo morente.
«L'intorto nasce dal fatto che nessuno le conosceva. Barun litrun'cos' è?, chiede una ragazza, e tu le spieghi la storia del Barone Leutrum protagonista della ballata piemontese del XVIII secolo, tedesco e condottiero del Regno di Sardegna. Fai il fighetto, e intorti».
Sono tutte canzoni non neutrali.
«Quando ho inciso questo disco non c'era ancora la situazione politica attuale, ma si intuiva. Mi fa piacere dire la mia parte politica in modo non violento e non sbandierato. Queste canzoni le ho scelte anni fa, mi fa piacere che siano di un certo tipo».
Venditti e De Gregori affermano che non è il caso di sventolare bandiere...
«Ognuno ha diritto di fare come vuole. In seconda media abbiamo studiato l'Iliade, c'era chi tifava per i greci, una piccola parte era per i troiani, e anch' io. Queste son canzoni di perdenti, e io tifo ancora per i troiani».
De Benedetti ha definito il Pd un partito di baroni.
«Mi sembra una definizione ingiusta, un grande capitalista non può avere simpatie per un partito di sinistra. Io non sono mai stato comunista, malgrado mi abbiano etichettato come tale; mi piace l'anarchia, ma nel 2022 è difficile esser anarchici, com' era il protagonista della mia Locomotiva».
Al primo posto nei sondaggi c'è sempre il partito della Fiamma Tricolore.
«La fiamma non l'hanno tolta, ma si sono dichiarati contro i totalitarismi. Però è uscita una circolare del ministero dell'Istruzione che parla non dei totalitarismi ma degli staliniani: lo storico Barbero ha scritto che è imparagonabile lo stalinismo al nazismo, perché c'era nel comunismo una ragione di speranza in più rispetto al nazismo e al fascismo. I tempi vanno così, gli italiani pare che siano contenti.
Ma la fiamma è quella che arde ancora davanti alla tomba di Mussolini, e non mi piace. I carri armati americani furono una grande speranza di democrazia, speriamo con l'idea e la forza della democrazia di tirare avanti».
Pensa che il Pd debba aderire alla candidatura della Moratti alla Regione Lombardia?
«Se vuole presentarsi lo faccia, se non sbaglio era berlusconiana, fa bene il Pd a non accodarsi».
Le è tornata la voglia di scrivere canzoni?
«La voglia sì, ma non sono più capace. Ho smesso con l'Ultima Thule, per non arrampicarmi sugli specchi. Ho mollato la chitarra, senza non potrei scriverne».
Aveva detto che non avrebbe più cantato, 10 anni fa.
«Per la voce ho fatto una fatica terribile questa volta, se un atleta smette di correre non rifà gli stessi record. Con l'allenamento sono migliorato, ma prima cantavo molto meglio».
Guccini canta i perdenti: "Resto un anarchico. Lo streaming che cos'è?" Le sue "Canzoni da intorto" anche in dialetto (e in ucraino). "De Gregori comunista, io no". Paolo Giordano il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.
Meno male che Guccini c'è. Amato e odiato, contestato e contestabile, a 82 anni cammina dondolando ma parla dritto come sempre. Polarizza. Divide. Ma, evviva, ha delle idee e le rivela mentre la stragrande maggioranza dei suoi colleghi si nasconde dietro l'opportunismo dei silenzi o delle frasi fatte. «È un giorno pessimo, mi hanno appena fatto le solite sedici domande» dice con il suo solito tenero snobismo prima di spiegare l'idea di cambiare idea.
Dieci anni fa aveva detto che L'ultima thule sarebbe stato il suo ultimo disco e invece ecco qui Canzoni da intorto, disco che esce soltanto in formato fisico perché Guccini è quella cosa lì, fisica e non digitale e lui, dopotutto, ignora «cosa sia lo streaming».
Il nuovo, vecchio Maestrone è tutto qui, così moderno nel rifiutare la modernità a prescindere e così riconoscibile nel raccontare il presente con il dizionario del passato. Le canzoni da intorto sono attualità vintage: «Sono i brani marginali che pochi o nessuno conosce e che canti e racconti per affabulare, insomma per far vedere che sei un fighetto». Quindi ci sono la ballata popolare Morti di Reggio Emilia, quelle in dialetto milanese (El me gatt, Ma mì - firmata anche da Giorgio Strehler - e la jannaciana Sei minuti all'alba), e poi l'inglese di Green sleeve, l'anarchica Addio a Lugano, le poetiche Tera e aqua e Quella cosa in Lombardia oltre a una ghost track cantata in ucraino, Sluga Naroda: «Sono canzoni dei perdenti, e noi adesso siamo perdenti» dice alludendo alla situazione politica. «Ovvio che la congerie politica attuale non mi lascia indifferente. A scuola, quando studiavamo l'Iliade, c'era chi nella mia classe stava con i greci, io sono sempre stato dalla parte dei troiani. Dei perdenti, appunto. Nei miei pezzi si capisce da che parte sto. Non ho mai nascosto le mie idee». Talvolta forse ha lasciato che fossero interpretate a piacere.
Insomma Guccini è stato per decenni il simbolo del cantautore schierato a sinistra, all'estrema sinistra. «Una volta all'amico Sergio Staino dissero: Guccini si sa che è comunista. Era una considerazione sbagliatissima perché De Gregori, ad esempio, era comunista ma io no, io sono sempre stato anarchico, anche se sembra strano parlare di anarchia nel 2022». Risate.
Francesco Guccini ha deciso di presentare le sue canzoni da intorto in un posto che rappresenta l'iconografia di questo cantascrittore che voleva fare il giornalista ma poi è diventato il maestrone della canzone d'autore. E, quando arriva sul piccolo palco della Bocciofila Martesana, le sue parole rimbombano dove di solito corrono le bocce. «De Benedetti ha detto che il Pd è il partito dei baroni? È una definizione ingiusta. Dopotutto è difficile che un grande capitalista possa avere simpatie per il Pd». Sicuro? «La Moratti? Non mi sembra che in passato abbia lavorato molto con la sinistra, fa bene il Pd a non appoggiarla».
Qualcuno gli fa notare che nella scaletta delle Canzoni da Intorto non ci sono brani della tradizione fascista. E la risposta non fa una grinza: «Talvolta canto anche quelle, ma non tutte perché spesso sono ridicole, a parte La sagra di Giarabub e Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera, scritta quando il fascismo era alla fine». Siamo sempre lì. «Dal simbolo di Fratelli d'Italia non hanno tolto la fiamma e non mi piace. Però si sono dichiarati contro i totalitarismi anche se il professor Alessandro Barbero dice che il comunismo è imparagonabile al nazismo, e di conseguenza al fascismo, perché aveva un fondo di speranza mentre gli altri totalitarismi non ce l'avevano».
Ma alle richieste di parlare dell'altro mondo - ossia della politica e di tutto il resto - Guccini cede a fatica. Preferisce il proprio mondo, quello che ha cantato e scritto e lasciato intendere in questi ultimi sessant'anni: «Dopo l'ultimo tour avevo deciso di smettere perché non riuscivo più a scrivere canzoni, non ne sono più capace, inutile che mi sforzi. Non ho detto che non avrei più cantato ma solo che non avrei più fatto dischi con canzoni mie».
Difatti i nuovi brani sono tutti consegnati direttamente dalla tradizione e rielaborati, suonando una trentina di strumenti, grazie alla supervisione di Fabio Ilacqua con Stefano Giungato. E poi la voce, la sua voce. «Di certo non è stato facile cantare in ucraino» dice con quella erre riconoscibilissima. «Dopo tanto tempo tornare a cantare non è stato facile. Ho fatto una fatica della madonna. Un po' come un centometrista che corre in dieci secondi, poi smette e torna dopo anni: la velocità non sarà più stessa».
Però l'intensità è la stessa e queste canzoni sono la testimonianza di un tempo andato che oggi nutre soprattutto la memoria (ogni tanto fa bene).
Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 29 giugno 2022.
Francesco Guccini non ha certo bisogno di presentazioni e, arrivato a festeggiare 82 anni il 14 giugno scorso, è ormai stanco di parlare di musica. Da tempo non scrive più canzoni, non ne ascolta di attuali («né alla radio né con altri mezzi») e quindi, quando stiamo per iniziare l’intervista – anche se la tentazione sarebbe forte – provo a proporgli un patto: nessuna domanda sulla musica, ma nessuna limitazione sul resto. Lui, dopo una grassa risata, accetta con un pizzico di diffidenza: «Vediamo un po’ cosa vuoi chiedermi». Alla fine risponderà a tutto, persino con qualche eccezione alla decisione di non parlare di musica.
In vista della sua partecipazione a Passaggi Festival (il 26 giugno), l’evento che in questi giorni sta portando a Fano 150 proposte culturali, lo abbiamo incontrato nella sua Pavana, il buen retiro a cavallo tra l’Emilia e la Toscana (e non il West come cantava), in provincia di Pistoia. Ma d’altronde non ha tutti i torti a non volersi esprimere sulla musica: i libri che ha pubblicato, da ultimo Tre cene (Giunti), hanno quasi doppiato i dischi.
Siamo a 24 rispetto a 16 (tolte le raccolte e i live). Per cui si può dire a tutti gli effetti che Francesco Guccini è uno scrittore. Anzi, molto di più: Francesco Guccini è un poeta. E forse per la prima volta, quando glielo chiedo direttamente, non dice di no: «Certi testi confinano con la poesia, e se non sono poesie ci somigliano molto».
Da poco ha passato il Covid, e qualche colpo di tosse ne ricorda gli strascichi, ma tutto sommato questi due anni di pandemia li ha vissuti sereni, visto che «da tempo vivevo in lockdown». E se è abbastanza certo che «non ne siamo usciti migliori», percepisce però negli italiani un grande entusiasmo: «Come dopo la Seconda guerra mondiale, quando avevo scritto che “c’era una voglia di ballare che faceva luce”».
Così la chiacchierata si concentra soprattutto sulla sua attività di scrittore, tra saggi, racconti, romanzi e gialli, perché «a me diverte di più la prosa». Spiegherà chi sono i suoi riferimenti letterari, da dove nasce la sua creatività nell’inventare storie che da sempre lo anima («già da bambino a un amico pastore descrivevo film che non avevo mai visto») e confermerà che ancora si incazza davanti alla tv, in particolare sui temi politici.
La politica, infatti, benché sia un argomento nel quale non vuole entrare direttamente, è qualcosa che immancabilmente lo smuove: «Di solito chi dice che sinistra e destra sono la stessa cosa, alla fine si rivela essere di destra». Così come la guerra in Ucraina, dove fa una eccezione al nostro patto: «Forse se scrivessi ancora canzoni qualcosa su quel conflitto mi sarebbe uscito». E tra un miagolio e l’altro del gatto sul tavolo, a cui parla come un vecchio amico («son buoni tutti di fare miao, ma non si capisce cosa vuoi»), ammetterà che di rivoluzioni, in vista, non ne vede traccia: «Al massimo delle evoluzioni».
So che non ami parlare di musica, anche perché ormai i tuoi libri hanno superato per numero i tuoi album. Allora ti propongo un patto: non ti chiedo niente di musica, ma su tutto il resto ho carta bianca. (Grassa risata) Di musica non ne ascolto più, né alla radio né con altri mezzi. Dipende cosa vuoi chiedermi. Vediamo dai…
Parto da una domanda facile facile: ti consideri un poeta?
Mah, forse in certe canzoni sì. Anche se ho detto che “non si fa poesia con le canzoni”. Però alcuni testi confinano con la poesia, e se non sono poesie ci somigliano molto.
Eppure i tuoi testi vengono spesso assimilati ai componimenti poetici, tanto da costituire materia di insegnamento nelle scuole dove vieni portato a esempio di poeta contemporaneo.
Mi fa piacere, anche se mi diverto di più a scrivere in prosa.
I gialli, i saggi, la narrativa, il racconto breve, il romanzo, la ricerca sul linguaggio e sui dialetti. Hai scritto di tutto, ma c’è un genere che preferisci?
Tutto! Con approcci diversi, certo. I gialli non li scrivo da solo, ma con Loriano Macchiavelli. È un genere divertente. Abbiamo inventato diversi personaggi. Però mi piacciono sia i racconti brevi che lunghi, che poi possono diventare romanzi. Molto spesso sono falsamente autobiografici. Perché parto da spunti realmente vissuti sui quali ricavo, invento o costruisco delle storie. L’importante è inventarsi delle vite. Sai, lo scrittore ha questa grande possibilità di inventarsi vite altrui. Non solo, del personaggio lo scrittore sa tutto, dalla nascita al suo destino, quello che ha fatto e farà, se vive o se muore. Ci trovo grandissime possibilità nella penna, anche se la penna non si usa più…
Hai un po’ nostalgia della penna?
Ma no, la penna la usavo per le canzoni con un foglio di carta. Per la prosa uso il computer, che ogni tanto fa arrabbiare. Proprio stamattina ho provato ad aprire un file e non si è aperto, chissà cosa è successo…
Rispetto alle cose analogiche è difficile metterci le mani…
Ah impossibile… I giovani di oggi sono nati insieme ai computer, ma io no e faccio fatica.
Lo sai che con i tuoi versi i giovani oggi scrivono i post sui social?
Lo apprezzo molto, perché significa che ho fatto un mestiere che non è da buttare via del tutto.
Il tuo ultimo libro si intitola Tre cene. Tre racconti con protagonisti alcuni amici, dai poveri anni ’30 alla disillusa fine del Novecento, passando per le speranze degli anni ’70. Come sono nati?
Il primo, scritto già qualche anno fa, è una storia paesana che mi hanno raccontato. Non ci giurerei che fosse vera, ma intanto ho cambiato qualcosa perché c’erano molti più personaggi. Li ho ridotti a quattro. Il secondo si basa su una cena con minestra di fagioli e cotiche… Aspetta un attimo…
(Si sente miagolare il gatto, che arriva a fargli visita sul tavolo e Guccini si rivolge direttamente a lui come a un vecchio amico: «Cosa vuoi dirmi?». Altro miagolio, al quale lui risponde: «Eh ma son buoni tutti di fare miao, ma non si capisce cosa vuoi…»).
Stavo dicendo. La cena è vera, ma al di là del momento sono varie storie assemblate. La terza è una storia realmente accaduta e arricchita con qualche invenzione, come una parziale eclissi di sole. Sono sempre stato un gran raccontatore di storie, un chiacchierone anche. Vuoi sapere un episodio?
Certamente!
Avevo un carissimo amico che è scomparso qualche anno fa. Da piccolo abitavo nel mulino dei miei nonni, con la casa isolata sul fiume. Lui, quando eravamo bambini, scendeva in paese con due capre e le portava a pascolare vicino ai salici. Le legava e parlavamo. Questo succedeva d’estate, perché d’inverno io andavo a Modena. E lui mi diceva sempre: «Tu che vai in città, chissà quanti film che vedi…». Io non gli dicevo che non avevo soldi per andare al cinema, per cui mi inventavo delle storie. Tutti i film che gli ho raccontato me li sono inventati. Se ne vedevo uno me ne inventavo altri cinque, sei. Per far capire che mi è sempre piaciuto inventare storie e raccontarle agli altri.
Ma come vive un uomo come te, molto legato alle tradizioni e alle proprie radici, questa epoca che sta perdendo tutte le tradizioni e ogni radicamento con il territorio?
Qualche giorno fa ho compiuto 82 anni, cominciano a essere tanti. Per cui certe cose non mi interessano più. Vado avanti tranquillo, non facendo quasi niente, per cui è piuttosto piacevole. Scrivo, leggo poco, perché ho una disfunzione agli occhi e questo mi deprime moltissimo, mi uccide quasi. Non riuscire a leggere è una mancanza gravissima per me. Poi guardo un po’ la tv, vado a cena con amici. Per il resto quel che succede nel mondo esterno, dico esterno perché Pavana ormai è un paese morto come ho raccontato nel libro precedente Tralummescuro, non mi interessa più. Anche se io Pavana la ricordo ancora viva, piena di gente, personaggi, fatti. E anche di tradizioni popolari.
Oggi dopo la pandemia le persone stanno riscoprendo i piccoli centri e tornando in provincia. Chissà che non succeda anche a Pavana.
Può darsi, ma qui a Pavana oggi non viene più nessuno. Fino agli anni ‘50 c’era villeggiatura, soprattutto della piccola borghesia. Prendevano una casa, che costava relativamente poco. Alcuni quasi “aborigeni” che tornavano, altri che affittavano degli alloggi per tre mesi. E noi giovani eravamo curiosi di vedere quali ragazze arrivavano. C’era la pista da ballo, un po’ di vivacità. Adesso non c’è più niente. Mi dicono che qualche ragazzino c’è, ma io per le strade del paese incontro solo qualche coetaneo che cammina stancamente. Qui vicino in tanti venivano a Porretta Terme. Certo, oggi se un amico ti chiede dove sei stato quest’estate e gli rispondi «a Porretta» non come dire «sono stato alle Maldive», c’è una certa differenza…
Ormai a Pavana il turismo è quello che cerca di incontrare te.
(Risata) Eh sì, però è il turismo di una giornata, di passaggio. Peccato non ci sia più chi rimaneva mesi come una volta.
Fra le tante cose sei anche etimologo, glottologo e lessicografo, cioè porti avanti la ricerca sulla parola in ogni sua forma. Quali sono le parole su cui oggi ti stai più interrogando?
Più che parole, avvenimenti e situazioni. E le parole che risuonano adesso sono Ucraina, guerra, gas e grano. Sono quelle di cui si parla di più. E non sono parole che abbiano un particolare fascino, se non un fascino triste della realtà.
Ti saresti aspettato una guerra così vicina all’Europa?
Aspettarmela no, visto che ci eravamo abituati molto bene dal 1945 in poi. Quindi credo che nessuno avrebbe potuto immaginarla.
Come mai oggi gli artisti su certi avvenimenti, anche tragici come una guerra, hanno meno peso sull’opinione pubblica rispetto al passato?
Nella Seconda guerra mondiale i libri sono stati scritti dopo, quando c’è la guerra non c’è il tempo. Magari qualche diario o appunto puoi scriverlo, ma i libri sulla Resistenza, tipo Calvino o Fenoglio, sono stati pubblicati dopo la guerra. Forse quando finirà questa può darsi che salti fuori qualcosa di importante.
A te la guerra in Ucraina non ha ispirato qualcosa?
Forse se scrivessi ancora canzoni qualcosa sarebbe uscito. Solo che ormai le canzoni non le scrivo più…
Torniamo alla scrittura, chi sono gli autori che ti hanno formato?
Ho letto di tutto, però qualcuno è stato più importante di altri. Per lo stile dei miei romanzi, dove uso un linguaggio che non è di lingua corrente, ma un italiano dialettale con parole di invenzione e una particolare sintassi, i maestri non possono che essere Gadda del Pasticciaccio, o Luigi Meneghello di Libera nos a Malo. Poi tanti altri mi hanno colpito e informato, come Salgari, che letto da ragazzino è importante, oppure il Pinocchio di Collodi, che è il primo libro che ho letto quando avevo 5 anni. Sono tutti parte di un bagaglio di parole che uno ingurgita e fa proprie. Quindi, Salgari e Collodi diventano fondamentali come Borges e Flaubert.
Quando guardi la tv ti fanno ancora arrabbiare i dibattiti politici?
(Risata) Eh, mi succede ancora. Mi arrabbio per reazioni forse un po’ stupide, istintive.
Cosa ti fa più arrabbiare?
Soprattutto le visioni politiche che non coincidono con le mie.
Parafrasando Nanni Moretti, non c’è più nessuno che dice qualcosa di sinistra?
Ma no, qualcuno c’è che dice qualcosa di sinistra. Non molti, solo che non vengono ascoltati, questo è un altro discorso. Sicuramente vengono ascoltati meno di un tempo.
A proposito di parole, lo scrittore Piergiorgio Bellocchio, che ho intervistato qualche anno fa, mi disse: «Sinistra ormai è una parola vuota».
No no, per me la parola sinistra ha ancora un significato. Non parlo di Bellocchio, ma spesso quando qualcuno dice «destra e sinistra sono uguali», oppure «sono concetti vecchi», di solito alla fine si rivela essere uno di destra. Forse un po’ mascherato, camuffato…
Oggi un altro problema è il lavoro sottopagato e precario, ma hai raccontato che come giornalista guadagnavi solo 20 mila lire al mese e per 12 ore di lavoro al giorno. Insomma, è sempre successo?
Oh, quando ero giovane io non c’erano tante possibilità. Poi mi è andata bene, sono stato fortunato con le canzoni. Nei primi anni ‘60 non c’erano così tante possibilità, nonostante il “miracolo economico”. Bisogna vedere che tipo di lavoro uno poteva scegliere. Se non avessi fatto le canzoni cosa avrei potuto fare? Il giornalista o l’insegnante… Alla fine è stato meglio fare il cantautore.
Hai da poco passato il Covid e fortunatamente ti trovo in forma. Ma secondo te cosa ci lascerà questa pandemia come società?
Di positivo ci lascerà molto poco. All’inizio si diceva «ne usciremo migliori», ma io non ci credo. Il lockdown l’ho patito poco, perché io sto sempre segregato in casa. Ho un ampio cortile, per cui al massimo uscivo lì. Poi qui vicino c’è molto spazio libero, potevo fare delle passeggiate senza vedere nessuno. Ma in fondo non credo ci abbia cambiato in meglio. Sai cosa vedo?
Cosa?
Una gran voglia di sfogarsi. Come nel 1945 dopo la Seconda guerra mondiale. Io di quel periodo avevo scritto che “c’era una voglia di ballare che faceva luce”. Anche adesso la gente si vuole sfogare, andare in giro, senza mascherine e limitazioni. Questo è il risultato della pandemia. Adesso leggo che sta un po’ riprendendo il contagio, speriamo di no.
Una curiosità. È dal 1970 che porti la barba. Come mai?
Allora, la questione è nata in una situazione particolare, mi ero fatto crescere anche i capelli. È dipeso tutto da una questione sentimentale. Ma sarebbe troppo lunga da spiegare…
Vorrei salutarti chiedendoti una previsione. Nella canzone Stagioni dedicata a Che Guevara cantavi: “Ma voi reazionari tremate, non sono finite le rivoluzioni”. Te la immagini una futura rivoluzione?
Ah, chissà… Non credo per ora. Mi sembra più facile che ci saranno delle evoluzioni che forse non sappiamo ancora immaginare. Ma rivoluzioni, per il momento, non ne vedo in arrivo.
Dagospia il 21 giugno 2022. Da I Lunatici – Radio 2.
Francesco Guccini è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e trenta circa.
Guccini ha parlato un po' di se: "Come ho festeggiato il mio compleanno? A cena con degli amici. Regali ricevuti? Di vario tipo. Vino, rum, pantaloni, una medaglietta d'oro, varie cose. Da bambino, in casa mia, non si festeggiavano i compleanni. Mai festeggiato un compleanno. Il mio rapporto con la notte?
Quando vivevo a Bologna uscivo verso la mezzanotte e mezza. Si giocava a carte fino alle quattro del mattino. Sono sempre stato uno vissuto di notte. Un po' per il mestiere che ho fatto, un po' per abitudine mia. Ho fatto tante volte l'alba. Con la notte ho un bellissimo rapporto. Ora essendo un pochino più vecchio, vivendo in un paesino in cui non c'è nulla, è cambiato tutto. Molte canzoni le ho scritte di notte".
Sul rapporto con la tecnologia: "Sono cose troppo misteriose per me. Adopero il computer solo come macchina da scrivere. Non frequento i social, quelle robe lì sono cose che non mi appartengono. Quando sono nato io anche il telefono era una cosa ancora misteriosa e sconosciuta. L'aspetto legato all'elettronica mi sfugge completamente".
Sui giovani di oggi: "Mi capita poche volte di incontrare giovanissimi. Una volta li frequentavo di più, qui in montagna di giovani non ce ne sono quasi più".
Sulla convivialità durante la pandemia: "A me non sono cambiate molto le cose. In paese è cambiato poco. E poi non abitando in città, in un condominio, mi bastava uscire in cortile e c'era tutto lo spazio che uno voleva. L'aria aperta non mi è mai mancata".
Ancora Guccini: "Non sono mai stato geloso delle mie canzoni, delle mie opere. Fanno parte di me, della mia vita. Non vedo in che modo dovrei esserne geloso. C'è qualcosa nelle mie canzoni che non è stato mai capito, nonostante le analisi fatte. Ma non è necessario capire fino in fondo. Sono guizzi di cui l'autore si compiace, ma non sono necessariamente crittografie da svelare.
Non posso sentire la responsabilità di certe emozioni. Quando uno mi dice 'ti ascolto fin da bambino' io rispondo 'non è colpa mia'. Quattro anni fa ho smesso di fumare. Non ho fatto una gran fatica. Anche se quando vedo uno fumare mi torna la voglia. Cosa mi commuove? Mi commuovo spesso. Diventando vecchi mi accorgo che ci si commuove di più. I vecchi, come diciamo in Emilia, sono di taglia tenera. Ultimamente mi sono commosso a sentire l'inno nazionale. Chissà perché. Non sono particolarmente patriota, però mi sono commosso a sentire l'inno nazionale".
Sul mondo di oggi: "Il pianeta non sta benissimo. C'è questa guerra in Ucraina, la carestia del grano sta già arrivando. Il mondo non è messo molto bene, ma non ricordo un periodo in cui il mondo fosse messo molto meglio.
Io sono nato il 14 giugno del 1940, quattro giorni dopo l'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale. Mio padre è stato in un campo di concentramento in Germania per non aderire alla Repubblica di Salò. L'ho conosciuto solo nel 1945. Il dopoguerra è stato duro. C'era povertà in giro, pochi soldi. Le cose hanno cominciato ad andare meglio negli anni 60. Abbiamo vissuto un lunghissimo periodo di pace in Europa, dove le cose andavano bene.
Siamo diventati dei signorini. Io sono vissuto in un mondo senza acqua corrente. Senza bagno in casa. I miei nonni avevano l'acqua del pozzo. Il riscaldamento non c'era, solo una stanza riscaldata in tutta la casa. Però boh, si andava avanti e non ce ne accorgevamo neanche. Si facevano chilometri a piedi, senza telefono, senza televisione, in pochi avevano la radio. Sono stati tempi duri. Poi c'è stato il boom, che ci ha sfiorato, e finalmente anche noi abbiamo avuto qualche privilegio. La televisione nel 60, però le cose duravano di più. Oltre ai frigoriferi normali in casa io ho un vecchio frigorifero comperato dai miei usato nel 1960 e funziona ancora.
Adesso le cose durano due o tre anni. I miei genitori non hanno mai festeggiato il mio compleanno. Non perché fossero anaffettivi. Era così. Mio padre è tornato dal campo di concentramento, se vedeva un bambino che lasciava qualcosa nel piatto si arrabbiava. Erano severi. La scuola adesso non è più meritocratica. Ma ci vuole il merito. Ci vuole il quattro. Bisogna tornare a castigare quelli che non sanno niente. Non può esistere una scuola allo sbando. L'istruzione è importante".
Guccini è un fiume in piena: "Una volta mia figlia mi disse che nuotavo male. Io le risposi che lei nuotava meglio perché io avevo avuto i soldi per mandarla in piscina, alla scuola di nuoto. Io ho imparato a nuotare nei pozzi del fiume. Ai miei tempi si imparava a nuotare dopo il terzo ripescaggio".
Sul mondo post pandemia: "Se ne siamo usciti migliori? Ovviamente no. E' impossibile. L'essere umano è fatto così. Si va avanti con quello che c'è".
Sulla fede: "Sono sempre agnostico. Anche se mi onoro dell'amicizia del Cardinale Matteo Zuppi. Ho anche incontrato Papa Francesco. Ma fu un incontro molto fugace. La morte? Mi scoccia non esserci più. Ho 82 anni compiuti da poco, quindi più o meno il tempo è quello che è. Non posso fare grandi progetti per il futuro. Però mi infastidisce il fatto di non vedere quello che ci sarà dopo. Come vedere un film a metà e non sapere come andrà a finire".
Da ilgazzettino.it il 13 giugno 2022.
Francesco Guccini, 81 anni, è stato l'ospite d'onore della seconda giornata del festival "La città dei lettori" in corso di svolgimento a Villa Bardini a Firenze. Per lui una standing ovation del pubblico. Guccini ha parlato di molte tematiche, dalla maculopatia agli occhi che lo affligge alla musica contemporanea. E il giudizio non è dei più lusinghieri.
Guccini: non sopporto più la musica
«La musica non la sopporto più, proprio non la sopporto nella maniera più assoluta. Mia moglie ascolta molto, è molto esperta anche di queste ultime tendenze: credo che sappia tutto sui Maneskin, se così si chiamano.
Ogni tanto però mi capita di ascoltare rock and roll degli anni '50, mi piace moltissimo». Guccini ha presentato il suo nuovo romanzo "Tre cene (L'ultima invero è un pranzo)" (Giunti): tre momenti di convivio e tre storie che raccontano il nostro paese, dai poveri anni Trenta alla disillusa fine del Novecento, passando dalle speranze dei Settanta.
Guccini e la sua salute
Guccini ha confessato davanti al pubblico anche i suoi problemi di salute. «Purtroppo mi son beccato la maculopatia bilaterale, in tutti e due gli occhi - ha rivelato il cantautore - Ci vedo a camminare ma fino a un certo punto e quindi non riesco più a leggere. Con il computer riesco a leggere, perchè ingrandisce le lettere e riesco anche a scrivere. Ma come mi manca la lettura di un libro! Ho gli audiolibri, ma non sono la stessa cosa. Non riesco neanche a leggere più il giornale e questo mi dà una grande sofferenza, perchè leggevo, leggevo, leggevo. La mia vera professione è quella di leggere dei libri».
Francesca Schianchi per lastampa.it il 24 febbraio 2022.
Nella grande casa che fu dei genitori e prima ancora dei nonni, lassù a Pavana, sull’Appenino al confine tra Emilia e Toscana, fan nostalgici continuano ad andare a cercare Francesco Guccini. «Mi portano olio, vino, salami», sorride lui nella cucina di casa, il buen retiro da oltre vent’anni, lontano dalla Bologna «Parigi minore» che ha tanto amato e cantato, «non ci torno quasi più», circondato da pareti di libri che oggi fa fatica a leggere per problemi alla vista, «mi tocca guardare la tv», e i tre gatti Paurina, Bianchina e Stagnadino – «ma io lo chiamo lo stronzo rosso, non si fa vedere mai, sta solo con mia moglie».
Dall’ultimo concerto non ha più suonato - «non ho più i calli sui polpastrelli» - ma ha scritto tanto, una quindicina di libri di cui alcuni insieme all’amico Loriano Machiavelli: «Ne stiamo per cominciare un altro, abbiamo già buttato giù la trama, la protagonista sarà Lope, Penelope, una giovane giornalista».
Qui ha trascorso i due anni di pandemia: come sono stati?
«Strani. Io non mi muovo quasi mai, non ho sentito il peso della chiusura, se non per il fatto di non poter vedere gli amici. Ormai però i miei amici sono morti quasi tutti…».
Ne stiamo uscendo migliori come ci si riprometteva di fare?
«Ne stiamo uscendo uguali o forse peggiori. Ho sentito che hanno assalito il virologo Bassetti mentre prendeva un aperitivo con la moglie: il problema è che la gente non ha più cultura».
Cosa intende dire?
«Una volta c’erano due culture, quella delle élite e quella povera, contadina, che oggi è scomparsa. La cultura di adesso è solo televisiva, non si legge più, e si sente chiunque pontificare su qualunque cosa».
Lei frequenta i social?
«No, sono tremendi».
Però consentono a tutti di esprimersi.
«Della serie uno vale uno? Auguri!».
E la scuola? Il suo ruolo?
«Non c’è più rispetto per gli insegnanti. Mi tocca dire che l’unica riforma seria è stata la riforma Gentile del fascismo! Capisco che poi le medie unificate siano state un progresso, ma adesso escono dalle elementari che non sanno nemmeno leggere e scrivere».
Ha visto le proteste degli studenti di questo periodo?
«Sono stato studente anch’io, e gli studenti tirano a fare sempre meno. Oggi tra l’altro gli esami sono tre volte più facili di quelli che abbiamo fatto noi».
Protestano anche per l’alternanza scuola-lavoro, e i casi di due ragazzi morti. È capitato anche che siano stati picchiati dalla polizia.
«Non so bene come siano andati i fatti. Io ricordo le violenze della polizia a Genova, piazza Alimonda, quelli sì sono stati fatti tremendi».
Lei partecipava a manifestazioni studentesche?
«Sì, certo. Mi viene nostalgia di quei tempi: delle magistrali, fu un periodo piacevole. Non delle medie: andavo malissimo ed ero un po’ disadattato. Mi rimandarono per tre anni in latino e per due anni in matematica».
L’Università di Magistero poi non l’ha mai finita.
«Nel marzo 1970 ho dato l’ultimo esame. Stavo facendo la tesi su un cantastorie bolognese, ma nel frattempo avevo cominciato a cantare… Quando anni dopo ero pronto con una tesi sul dialetto pavanese, mi hanno chiesto le tasse di tutti gli anni arretrati, ho lasciato perdere. Ma mi hanno dato due lauree ad honorem, a Bologna in Scienze pedagogiche e all’American University di Roma in Letteratura italiana».
Chi è il dottor Guccini?
«Uno scrittore prestato alla canzone. Quando ho fatto la mia lectio magistralis a Bologna li ho ammazzati col dialetto pavanese, di cui non fregava niente a nessuno…».
Che impressione le fanno questi venti di guerra in Ucraina?
«Che brutta situazione! Fa impressione sentire parlare di guerra in casa, in Europa. Putin è un autocrate che fa la voce grossa, risveglia il mio vecchio pregiudizio anti-sovietico».
E pensare che lei è stato spesso considerato un comunista!
«Non sono mai stato comunista. Ero piuttosto un anarchico, in senso romantico. Guardavo al Partito d’Azione, a Giustizia e libertà».
Se la ricorda la guerra?
«Sì, sono del 1940, i primi cinque anni di vita li ho trascorsi qui, a Pavana. Non stavamo male perché i nonni avevano il mulino. Ricordo appena i tedeschi, molto di più gli americani».
Perché ricorda meglio gli americani dei tedeschi?
«Perché hanno lasciato un imprinting. Erano pieni di roba: sigarette, cioccolato, questa bibita scura, la Coca cola, che mi piacque subito. Ricordo il Natale del ’44, vidi un misterioso signore tutto vestito di rosso con la barba bianca, che faceva “oh oh”».
Babbo Natale!
«Ma noi non sapevamo neanche chi fosse! Allora i regali ai bambini li portava la Befana, o Gesù Bambino. O ancora, il 14 febbraio 1945: arrivarono gli americani pieni di doni. A me regalarono un cagnolino bianco di peluche che sporcai subito di terra, piansi tantissimo! Era San Valentino, ma noi eravamo sbalorditi, non sapevamo cosa fosse».
Ha seguito la vicenda Quirinale?
«L’ho seguita, non c’era altra soluzione per me. Draghi sta bene a fare il Presidente del Consiglio. È stata una sconfitta della destra, soprattutto di Salvini».
Dice? Salvini dice che ha scelto lui Mattarella…
«Mah, loro non facevano che dire “il presidente lo hanno sempre scelto gli altri, adesso tocca a noi”…».
Le piace Mattarella? Lo conosce di persona?
«Non mi dispiace. Ma no, non lo conosco, non ho mai conosciuto nessun presidente della Repubblica».
Però qualche volta è stato votato…
«Stavolta si sono dimenticati di me: l’altra volta avevo preso quattro voti… Pertini mi piaceva molto, con la sua storia da socialista. Anche se è stato Ciampi a farmi cavaliere».
Quindi Ciampi lo ha conosciuto?
«No, non sono andato a ritirare l’onorificenza».
Per polemica? Come Sartre col Nobel?
«No, per pigrizia. Mi sarebbe toccato mettermi la giacca che non ho».
Ha visto che è stato in corsa il bolognese Casini?
«Mi venne presentato anni fa da un frate domenicano: “Questo è il più giovane deputato democristiano”. L’ho rivisto qualche anno fa in un’udienza dal Papa. Sarebbe stato meglio lui della Casellati».
In un’intervista disse che i politici di destra la fanno arrabbiare, è ancora così?
«Oh sì, mi arrabbio come una bestia, anche con certi Tg che non nomino. Ma siccome la destra probabilmente vincerà le prossime elezioni, finalmente verrà l’età dell’oro».
Scusi?
«A sentire loro va tutto male: il sindaco di Milano pensa solo alle piste pedonali, quello di Roma non risolve il problema del rusco (rifiuti in bolognese, ndr), mentre se avessero vinto loro sarebbe stato tutto risolto. Ecco, ora vinceranno loro e andrà tutto bene, no?».
A parte polemiche a distanza, come quando dedicò loro Bella ciao, ha mai avuto contatti con Salvini o Meloni?
«Le racconto una cosa successa anni fa. Mi suona il telefono: “Sono Giorgia Meloni”. Allora non sapevo chi fosse. Guidava un movimento giovanile, mi voleva invitare a una festa, un convegno…».
Atreju?
«Ecco sì, quello mi pare. Gentilmente rifiutai».
Quale destra le piace meno, quella di Salvini o Meloni?
«Quello che mi fa più paura è il rischio di una destra neofascista. E non mi si dica che è impossibile con una leader giovane: i pasdaran iraniani ancora si rifanno a Maometto che è del VII secolo».
Ha seguito l’iter dei referendum?
«Avevo firmato per quello sull’eutanasia legale. Ora non andrò a votare per quelli sulla giustizia, perché hanno tolto i due quesiti più seri».
Lei ha dichiarato di votare Pd: il suo partito dovrebbe farsi sentire sui diritti?
«Me lo aspetterei, ma Letta è molto prudente».
Con Letta si è mai sentito?
«Mi hanno detto che vuole incontrarmi: perché no, volentieri».
Una curiosità: ha visto Sanremo?
«Mio malgrado. Lo guardava mia moglie».
Le è piaciuto?
«Ho pensato che io ho fatto un altro mestiere».
Cioè?
«Non mi sono mai infilato una piuma di struzzo nel culo per cantare».
Se venisse un giovane aspirante cantautore a chiederle consiglio, cosa gli direbbe?
«Una volta è venuto uno. “Tra 5 anni so che sarò famosissimo”. Va bene, fammi sentire cos’hai fatto. Aveva un foglietto in mano. Dico: e la chitarra? “Devo ancora imparare a suonarla”. Ma che fai, studi? “Ho smesso”. Lavori? “Ci ho provato ma non mi piace”. Sono passati anni, non l’ho mai più sentito. Invece ho aiutato Claudio Lolli, che mi presentò mio fratello ed era bravissimo, e Vinicio Capossela, anche lui bravo, estroso».
Lei a Sanremo non è mai andato. Dica la verità, un po’ di snobismo?
«Sì, sì, sono uno snob tremendo! Però due volte sono andate mie canzoni, entrambe bocciate».
Che canzoni erano?
«Una storia d’amore, che avrebbero dovuto cantare Caterina Caselli o Gigliola Cinquetti, una mia canzone minore in effetti. E Migranti, doveva cantarla Enzo Iacchetti».
Che giudizio dà del suo lavoro, oggi?
«Quando cantavo correva voce che io fossi bravo con le parole e scarso con la musica. Il mio amico Flaco (Biondini, chitarrista che ha lavorato a lungo con lui, ndr) dice invece che le mie canzoni hanno un’ottima veste musicale».
È vero che non ha mai preso la patente?
«Mai. Non ho né la patente né il cellulare. Ma mi sono sempre venuti a prendere perché ero quello con la chitarra».
Torna più a Bologna?
«Quasi mai, è un’altra vita. Ora vado a letto a mezzanotte: allora a quell’ora uscivo e andavo a giocare a carte fino alle 3, le 4. Non ci siamo mai giocati neanche un caffè, ma ci divertivamo. Avevo chiesto a Ellade, il mio batterista, di mettermi in contatto con Mina, che mi dicevano fosse una buona giocatrice di scopone scientifico».
Avete mai combinato una partita?
«No, mai».
Per citare una sua canzone: Se lei avesse previsto tutto questo, rifarebbe la vita che ha fatto?
«Sì, sono stato fortunato. Ho fatto un mestiere che non mi ha mai dato ansie di successo. Ricordo gli amici dell’Equipe 84: se un disco aveva successo, tremavano a quello successivo. Ecco, io questi patemi d’animo non li ho mai avuti».
· Francesco Sarcina e le Vibrazioni.
Paolo Giordano per ilgiornale.it il 25 aprile 2022.
Poi basta una sola frase: «Adesso, quando alla sera giro per locali e vedo certe cose, mi dico: Ma stavo messo così male anche io?». E sorride.
Francesco Sarcina parla del nuovo Ep delle Vibrazioni che si intitola VI visto che contiene il brano di Sanremo (Tantissimo) e altri cinque suonati come si deve da una band che ha un chitarrista ruvido e puntuale (Stefano Verderi), un bassista frenetico (Marco Garrincha Castellani), un batterista potente (Alessandro Deidda) e un cantante che è l'ultimo dei Mohicani nello stile da rockstar: Francesco Sarcina, 45 anni vissuti superando uno dopo l'altro quasi tutti i confini. E si sente come utilizza la sua voce oggi, molto più colorata e sofferta quasi 20 anni dopo l'«immensamente Giulia» del celebre Dedicato a te che li ha lanciati.
Le Vibrazioni sono sempre state un caso a parte: rock ma anche pop, cantautori ma carichi di watt. E poi sinceri, mica poco: «Noi andiamo controcorrente» spiega Sarcina senza esagerare. «Oggi i dischi vengono buttati sulle piattaforme senza logica, così noi ci siamo detti: pubblichiamo un po' di brani per volta. Adesso cinque, poi altri cinque, poi cinque ancora». Una sorta di ritorno agli anni Sessanta quando usciva una canzone per volta: «Durante la pandemia ne abbiamo scritte cinquanta ma poi ci siamo detti: dobbiamo davvero seguire le dinamiche commerciali? Perciò non lo abbiamo pubblicato per vendere ma per fotografare come siamo oggi».
E come siete? «Beh, Rosa Intenso è un inno alla femminilità, Raccontami di te spiega il bisogno di conoscere gli altri in un'epoca nella quale tutti parlano solo di sé. Anche tanti miei colleghi, sono troppo egoriferiti. E poi ci sono Tantissimo, Ridere ancora e Ancora mia, che è dedicata alla Nayra che a dicembre mi ha fatto diventare papà di Yelaiah. Lei era una pilota di aerei civili che, bloccata a causa del maschilismo nel suo ambiente, ha scoperto che avrebbe potuto fare anche la modella».
Sono loro, Nayra e Yelaiah, il nuovo capitolo nella vita di Francesco Sarcina, nato a Milano nel 1976, e passato attraverso tutte le tappe istituzionali del rockettaro di una volta: vizi, cadute, esagerazioni. Le ha raccontate nel suo libro Nel mezzo pubblicato da Sperling & Kupfer: «Nell'Ep c'è il brano La vita oscena, che non è soltanto lo stesso titolo di un bel libro di Aldo Nove, ma è anche il riassunto del mio libro in tre minuti». Cioè? «Racconta di quanto sia pesante ritrovarsi con segni e sogni sulla schiena».
Anche se dice che «la mia vita è stata profondamente oscena», Francesco Sarcina ha avuto un periodo più complicato degli altri nel quale «sono stato giudicato come un puttaniere».
Dipendenza dal sesso. Totale. «Non mi sono mai tirato indietro. Certe volte anche 3 o 4 donne al giorno. Nei club, fuori dai club, nei cessi, ovunque». E poi la droga: «Eroina, cocaina, Lsd. Diciamo che il filo conduttore erano l'alcol e la cocaina. Quando ho perso completamente il senso della ragione, sono diventato cattivo, avevo un machete e lo tenevo nell'auto...».
Francesco Sarcina si era sposato con Clizia Incorvaia, mamma di Nina, matrimonio poi finito tra le polemiche per un presunto tradimento con Riccardo Scamarcio. «Io non ero la sua persona e lei non era la mia, oggi cerco di avere un rapporto equilibrato con lei per nostra figlia, anche se è difficile perché ha spesso atteggiamenti classisti o razzisti. Diciamo che, se non fosse per Nina, io non la frequenterei proprio». Però Sarcina non è solo «roba da gossip», è pure uno dei pochi frontman italiani in una band di successo.
Non a caso è nel cast di The Band che parte stasera su Raiuno con Carlo Conti alla conduzione: «Con Rocco Tanica e Giusy Ferreri, che è come mia sorella, mi sono divertito perché eravamo nel mio mondo, quello dei gruppi musicali».
Poi però ci sono pure i concerti. «Anzi soprattutto i concerti» come precisa lui, che parla con una velocità che neanche Enrico Mentana. «Il Primo Maggio suoneremo al Concertone di Roma, poi andremo ovunque. C'è un matrimonio? Se ci chiamano, suoniamo anche lì. E, dopo il concerto al Fabrique del primo ottobre, suoneremo in giro per i club italiani. Dovunque sia possibile. Dopotutto ho tre figli e devo pagare i conti», spiega ridendo e sapendo di mentire perché lui, Francesco Sarcina delle Vibrazioni, sul palco ci salirebbe anche gratis. Si chiama passione e non ha cura né cachet.
Francesco Sarcina delle Vibrazioni: «Ho detto basta a droga e sesso compulsivo. E ad amori ed amicizie che mi hanno pugnalato». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera 27 gennaio 2022.
La band in gara a Sanremo con «Tantissimo»: «Chi critica i Måneskin è un represso»
Nonostante la vittoria dei Måneskin dello scorso anno e il loro ritorno come super ospiti in questa edizione, il rock resta un alieno per il Festival di Sanremo. A presidiare il fortino con la chitarra a tracolla ci sono le Vibrazioni, quarta partecipazione per loro, e Rkomi, ex rapper folgorato sulla via dei riff. «Chi critica i Måneskin è un represso — dice Francesco Sarcina, leader della band milanese —. Chi non ha sognato di fare quello che stanno facendo loro? Fanno bene a tutto il rock: dopo anni di musica del niente, senza messaggi e senza strumenti suonati, adesso abbiamo tutti gli occhi puntati addosso».
Cosa è il rock oggi per voi?
«Alle prime prove per Sanremo ci siamo montati gli strumenti sul palco. I tecnici erano stupiti... Io l’ho fatto come lavoro da ragazzino, ma molti dei giovani che fanno musica oggi arrivano al successo senza nemmeno sapere come si fa».
È cambiata il modo di fare musica...
«È anche una questione di atteggiamento. Mi ha dato fastidio vedere colleghi che durante questa pandemia, mentre l’Italia andava a rotoli economicamente e psicologicamente, ostentavano nelle foto sui social Rolex, gioielli e yacht... Che poi spesso non sono nemmeno loro ma in prestito. Prima di quello dovremmo fare pace con le ferite di questi anni, come dico nella canzone».
Nel testo di «Tantissimo» ci sono quelle personali legate all’amore ma anche quelle pubbliche rappresentate da un «palco vuoto» e dall’immagine dell’unione di «mille persone»...
«È la pandemia. Non c’è da stupirsi se è qualcosa che entrerà nelle canzoni dei prossimi anni. A Sanremo c’eravamo anche nel 2020... un coito interrotto. “Dov’è” era partita bene in radio ma noi siamo una band da concerti. Sono stati due anni duri durante i quali la musica è stata rifugio. Ripartiamo da qui con un brano che è una buona mediazione fra il nostro trascorso a base di sangue e sudore e un suono radiofonico. La canzone parla di eccessi, occasioni perse, momenti di sconforto e tutto ciò che nel tempo ti rende la persona che sei: comprendi che non è la sofferenza ad elevarti, quanto l’amore che riesci a dare a te stesso».
La sua autobiografia «Nel mezzo», uscita lo scorso anno, fotografa una vita rock all’eccesso...
«Ho una dedizione a buttarmi nell’uragano, sembra che cerchi volontariamente di farmi colpire per sentire dolore e sentirmi vivo. Chi fa sport estremi lo fa in maniera sana, io mi buttavo nel torbido e nelle oscurità... alcol, droghe, sesso in maniera compulsiva. La musica mi ci aveva buttato dentro perché ero finito in tutti gli stereotipi del genere, ma allo stesso tempo mi ha fatto uscire. Adesso mi sento più forte. La cosa che più mi ha fatto riflettere è che quello che chiami amore o amicizia a volte ti pugnala. È peggio di qualunque sostanza, ti spezza le gambe».
A dicembre è nata Yelaiah: papà per la terza volta con tre mamme diverse...
«Lei mi dona energia e allegria. Mi risento vivo e giovane... fino a che non dovrò saltare con lei in braccio per farla giocare... Con gli altri due (Tobia e Nina) ho un rapporto puro ed esplicito: mi piace quando stanno tutti e tre insieme».
Faccia il Fantasanremo... Chi prende in squadra?
«Elisa per forza, bravissima. Giusy Ferreri, amica e patatona. Morandi è simpaticissimo, ogni volta che lo incontriamo la moglie lo sta sgridando perché ha paura che lui si faccia sfuggire ancora la canzone. Blanco e Mahmood perché sono favoriti. Moro perché come noi tiene botta».
E il Presidente della Repubblica?
«Cetto la Qualunque, ormai il livello è quello».
Andiamo con la formula di rito festivaliera... Dirige l’orchestra il maestro Peppe Vessicchio...
«Ormai siamo parenti. C’era già la nostra prima volta a Sanremo, nel 2005. Lo passammo a prendere in hotel con il furgone e si trovò avvolto in una nuvola di fumo... E poi anche nel 2020. L’anno scorso avevamo un tour con orchestra e lui come direttore ma abbiamo fatto solo alcune date causa limitazioni. Vessicchio trasforma la nostra musica in una rock opera con una visione ampia».
Mario Di Caro per “la Repubblica” il 9 aprile 2022.
C'era il signor Giordano che si trasformava in qualcosa di ributtante, c'erano i fratelli Abbate che duettavano sul filo del surreale con la voce fuori campo di Franco Maresco e c'erano le flatulenze a comando dell'inquietante Paviglianiti. Erano i personaggi, così reietti e così innocenti, che popolavano le schegge di Cinico Tv , quello sberleffo d'autore ideato da Ciprì e Maresco che proprio trent' anni fa approdò su Rai 3 diventando un prodotto cult.
«Quando Beppe De Santis, il regista di Riso amaro , mi rivelò che Gian Maria Volontè non si perdeva una puntata di Cinico Tv non ci volevo credere», ricorda oggi Franco Maresco, sempre più disilluso dal mondo del cinema ma contento di celebrare l'anniversario della "creatura" a cui tiene di più.
Partiamo dall'inizio: come nacque "Cinico Tv"?
«Nacque a Palermo negli anni Ottanta dopo l'incontro con Daniele Ciprì a cui proposi delle idee: questi personaggi, come il ciclista Tirone, li avevo conosciuti nella mia giovinezza, ero appassionato del teatro di Franco Scaldati e avevo in testa le letture di Dostoevskij e Céline. Non fu facile perché tutte le persone a cui ci rivolgemmo per un sostegno produttivo ci mandarono a quel paese: mi arresi e dissi a Daniele "facciamo da soli".
Avevo collaborato con una tv privata, Tvm, e facemmo uno scambio: noi davamo dei programmini di jazz e interviste a personaggi palermitani, e loro ci fornivano le apparecchiature. Cinico tv nacque, quindi, in una Palermo che mostrava ancora le ferite della guerra, con la mafia che sparava per strada e che non ne voleva sapere dell'uomo in mutande e del ciclista».
Ma come passa un programma di quel tipo da una tv locale alla ribalta di Rai 3?
«C'era il precedente di Isole comprese su Italia 1, che era una sorta di panoramica sul mondo delle televisioni libere, collaborazione che finì con la nostra prima versione di A Silvio. Il nostro vero punto di approdo fu Rai 3 che allora stava facendo la rivoluzione dal punto di vista televisivo.
Andammo a Roma a trovare Enrico Ghezzi che fu folgorato da quelle immagini e ci sostenne subito, percepì i riferimenti cinematografici, a cominciare dall'impasto di bianco e nero, capì che quello era cinema dentro la tv. E così la terza rete ci affidò 49 puntate e il 7 aprile del '92 ci ritrovammo in onda tutte le sere per sostituire Chiambretti con la striscia Blob Cinico Tv.
Il direttore della rete Angelo Guglielmi e il capostruttura Bruno Voglino ebbero un coraggio pazzesco, anche se Guglielmi raccontò che tutte le sere tremava quando andavamo in onda».
Fatto sta che in poco tempo "Cinico Tv " diventò un cult e una certa "intellighenzia" scoprì Ciprì e Maresco
«Sì, così come Ghezzi, Goffredo Fofi, Mario Monicelli, Carmelo Bene avvertirono che lì dentro c'era un'estetica, che c'era un'idea di cinema. Bene disse che avevamo dato "un calcio in culo al linguaggio e alla comunicazione". Nel '96 a Pesaro, dove si proiettava il nostro Grazie Lia sulla patrona di Palermo Santa Rosalia, c'era Marco Ferreri che mi voleva conoscere: volle abbracciarmi perché era entusiasta dei nostri personaggi».
È vero che De Laurentiis produsse il vostro primo film perché si aspettava un maxi "Cinico tv" e non certo "Lo zio di Brooklyn"?
«Lo zio di Brooklyn inizialmente era prodotto da Galliano Juso, mitico produttore che arrivava dal cinema degli anni Settanta, come "Monnezza" e i poliziotteschi. A un certo punto cedette la produzione a De Laurentiis al quale qualcuno disse che eravamo quelli di Cinico Tv e quindi era un affare, e lui a scatola chiusa comprò questo film. Fofi e Ghezzi presenti alla prima proiezione in una saletta di Cinecittà raccontano che uscì con un volto che diceva tutto ma non disse una parola a noi e addirittura in un momento di autolesionismo ci propose altri due film».
La risposta la intuisco ma lo dica lei: oggi "Cinico tv" si potrebbe fare?
«Cinico Tv non si sarebbe potuto più fare già 15 anni fa. Quel tipo di televisione è impensabile per le generazioni che si sono formate sui social e sulle piattaforme digitali. Noi nel '91, anno della guerra del Golfo, facemmo un Cinico Tv con Tirone che interpretava il fratello di Saddam Hussein, nel '92, dopo la strage di Capaci, il signor Giordano si trasformò in una bomba che aspettava "Loro". Ci premiavano nei festival di satira ma noi raccontavamo il collasso di un mondo. E alla fine ci hanno esiliato anche dalla terza rete Rai».
Giancarlo Dotto per “Diva & Donna” il 5 luglio 2022.
Francesco Clemente Giuseppe Sparanero alias Franco Nero, figlio di Ninetta e di Michele Sparanero carabiniere, ha una vaghissima cognizione della sua età e quando quello pedante ci tiene a ricordargli che sono 80 gli anni suonati, lui non raccoglie e replica a modo suo: “Ho tanto da fare, sono in partenza la settimana prossima per Los Angeles. Come sto? Una bellezza!”.
Questione di Dna (Data Non Accertabile), ma non solo. Nero è semplicemente una delle ultime star del cinema mondiale. Non ci credono gli altri? Il mondo è cambiato? Lo Star System carica a bordo gente improbabile, mezze tacche, mezze cicche, mezze calze e mezze cartucce?
Lui, Nero, se ne frega, gli basta e avanza che sia lui a crederci. Lo fa con regale semplicità. Come dire, senza dirlo: “Io sono Franco Nero, la mia storia mi precede”.
È così che, con la preziosa sponda dell’amico giornalista Lorenzo De Luca, l’ultimo o il penultimo dei Mohicani si è deciso a risalire l’avventura che porta il suo nome, fino alla sorgente, la provincia di Parma, gli odori forti della povertà, la cacca e il concime, di quando dormiva abbracciato a un asino come Gesù Bambino per darsi calore, e poi le sale di biliardo, le prime balere, i circhi di periferie, i miti incubati al buio del cinematografo.
Tutto quel piccolo mondo antico che gli è rimasto dentro, anche dopo che, quasi a sua insaputa, scortato solo da un’immane tenacia e da una non meno immane buona stella gli sono spuntate le stimmate e poi le ali del divo.
Django e gli altri (Ed. Rai Libri, 20 euro) è necessariamente un ricco compendio della sua vita. Un grande oceano pescoso, dove c’è solo l’imbarazzo della scelta. Circa 250 film girati in 60 anni di carriera e in tutto il pianeta.
“A fare davvero un libro sulla mia vita ce ne vorrebbero dieci di volumi. Ho girato più di cento Paesi nel mondo e ho conosciuto papi, presidenti, regine, principesse, sempre entrando dalla porta principale”.
Ti capita mai che tutta questa vita ti arrivi addosso di colpo e ti travolga come un’onda anomala, lasciandoti esausto sulla riva?
“Stanchezza no, mai, sono sempre molto brillo…”
Brillo?
“Nel senso di brillante. Mi aiuta il mio sangue gitano da parte di nonna Maria. Sono un uomo curioso. Insieme alle grandi produzioni ho sempre alternato film improbabili di cinematografie sconosciute, israeliane, cilene, brasiliane. Negli ultimi 25 anni, il 90 per cento del mio lavoro l’ho fatto in giro per il mondo”.
Come succede che Franco Nero decide: è venuto il momento di raccontarsi.
“Sono sempre stato molto discreto, mai avuto un ufficio stampa, niente talk show, sono sempre scappato dai riflettori, per discrezione, forse per timidezza. Ho sempre pensato che degli attori meno ne sai, meglio è. Oggi sai tutto di tutti, niente più miti, niente più sogni”.
E…?
“Mi contatta Rai Libri e mi fa la proposta. Ci ho pensato qualche giorno. Alla mia età posso anche permettermelo, mi sono detto”.
Mentre lo scrivevi, lo facevi leggere a qualcuno?
“No, mai a nessuno. Un lavoro duro. Tutto al telefono. Io non scrivo al computer, non so cos’è un computer. Ore e ore al telefono, giorno e notte. Riversando pezzi della mia vita man mano che salivano a galla. Un incubo”.
Il tuo è ancora il cinema dei miti. Se c’è qualcosa che ci tiene in vita sono i miti, in qualsiasi forma.
“Racconto di quando mi viene incontro Penelope Cruz, con cui stavamo girando a Oviedo, e mi fa: “Ho incontrato al festival di San Sebastiano un giovane regista. Quando gli ho detto che lavoravo con te è impazzito, non stava nella pelle. Era Quentin Tarantino. Io, Franco Nero, ero il suo mito”.
I tuoi miti da bambino.
“Me li sognavo tutti la notte, dopo averli visti al cinema. Paul Newman, Marlon Brando, Henry Fonda, Burt Lancaster. Il bello è che poi li ho conosciuti tutti. Una volta mi chiesero in tv di Tony Bennett. “Ma che Tony Bennett!...Si chiama Antonio Benedetto e ci giocavo a tennis contro, io in coppia con Roger Moore”.
Roger Moore vi sovrastava sicuro.
“Macché! Simpaticissimo Roger, ma una pippa tremenda a tennis! Tony Bennett è la voce più grande nella storia degli Stati Uniti. Me lo disse Frank Sinatra”.
Ti ha quasi adottato John Huston all’inizio della tua storia.
“Gli devo tutto. Vide le mie foto e mi scelse per fare Abele nel kolossal La Bibbia. Mi ha insegnato l’inglese, mi regalava i dischi di Shakespeare. Suggerii il mio nome al regista Johan Logan per la parte Lancillotto in Camelot”.
Quella volta che Paul Newman ti chiese l’autografo.
“Per sua figlia che si era invaghita di me dopo avermi visto per l’appunto in Camelot. Rimasi senza parole. Lui e Brando erano i miei miti”.
I consigli di Marlon Brando.
“Lo conobbi nella sua casa di Mulholland Drive. Il suo vicino di casa era Jack Nicholson. Mi disse: “Tu hai fa la faccia da star e devi sempre essere la star nei film che fai, anche se sono solo partecipazioni bravissime”. Aveva ragione”.
L’incontro con Greta Garbo.
“L’Irraggiungibile per definizione. Ma, grazie all’invenzione di un’amica, riuscii a incontrarla. Non stavo nella pelle. Ci vedemmo più volte. Apprezzava la mia compagnia. Gli raccontavo della mia infanzia e lei mi parlava della sua”.
Sul set di Camelot hai conosciuto Vanessa Redgrave, la tua Ginevra sul set e nella vita. Ti ha dato una mano per il tuo libro, se non altro a ricordare?
“Per niente. Tutta farina del mio sacco. Lei se ne sta in Inghilterra, dove c’è anche nostro figlio Carlo. Ora sta facendo My Fair Lady a Londra. A malapena sa del mio libro”.
Dimmi del vostro primo incontro.
“Da Lancillotto avevo già girato delle scene in Spagna. Continuavo a chiedere chi fosse Ginevra. Me la presentarono in America alla Warner. Arrivò una ragazza con i jeans strappati, lentigginosa, gli occhiali da vista, i capelli disordinati….”.
E tu?
“Sono stato abbastanza freddo. Dissi poi al regista: “Ma sei matto? Questa è una racchia tremenda”. E lui: “Aspetta e vedrai…”. Trovai in camerino un suo invito a cena a casa sua scritto in un italiano perfetto”.
Sei andato?
“Mi apre alla porta una donna di un fascino assoluto. Chiedo di Vanessa Redgrave e lei mi fa: “Sono io”. Ci resto secco. Una trasformazione incredibile”.
Scrivi che il vostro non fu un colpo di fulmine.
“Per niente. Un giorno mi chiese di accompagnare Benjamin Spock, il famoso pediatra americano, all’aeroporto di Los Angeles. Rimanemmo lei ed io, avevamo un giorno libero, decidemmo di prendere il primo volo per San Francisco. Noleggiammo una macchina e girammo tutta la notte per poi finire in un motel di quinta categoria”.
Una storia importante. Forte e bizzarra, tra alti e bassi. Radicalmente diversi. Lei atea convinta, di sinistra e femminista, tu profondamente cattolico e legato alle tue radici. Che cosa vi ha tenuto insieme?
“Penso che lei si sia innamorata follemente di me per la mia semplicità. Andammo a Parma dai miei e fu conquistata da quello che vide. Da quella vita così normale. “Vorrei avere dei figli da te e smettere di fare l’attrice”, mi fece”.
E tu?
“Sei pazza?”, le dissi. “Sarebbe un crimine…”. La più grande attrice di tutti i tempi del mercato inglese che smette per una storia d’amore…Non esiste”.
Attrice suprema.
“La più grande. Lo dicevano tra gli altri Tennessee Williams, Arthur Miller, Sidney Lumet. Meryl Streep dice che ha fatto l’attrice per tentare di emularla”.
Lei follemente innamorata e tu?
“Nei primi anni c’è stata la passione, che poi si è tramutata in rispetto, amicizia. Vanessa può essere tutto per me, mia sorella, mia madre, la mia amante”.
Vi siete ritrovati dopo tanti anni e avete deciso di sposarvi. Nel frattempo avete avuto un figlio e condiviso una tragedia enorme.
“La perdita di Natasha, sua figlia, che io avevo cresciuta come un padre. Mi chiese di accompagnarla all’altare quando si sposò con Liam Neeson. Ero emozionato come non mai. Morì in seguito a una banale caduta sul ghiaccio. Un dolore atroce”.
Vanessa scoprì la fede.
“Era sempre stata atea. Dopo la morte di Natasha cominciò a venire ogni tanto in chiesa con me ad accendere un cero per lei. Nostro figlio Carlo, molto religioso, mi dice che ogni tanto lo accompagna a messa a Londra”.
Ti definisci nel libro “Cattolico cristiano convinto”.
“Ho sempre avuto una grande fede. La sera mi piace fare l’esame di coscienza, come fosse un dialogo con Dio. Ho fatto da poco un video del “Padre nostro” con una cantante tedesca che Papa Francesco ha molto apprezzato”.
Quando ti guardi allo specchio e pensi alla tua incredibile storia che ti dici: quanto sono stato fortunato, quanto sono stato bravo o quanto sono stato bravo a valorizzare la mia fortuna?
“L’ultima che hai detto. La fortuna è trovarti al posto giusto nel momento giusto, ma se poi non sai assecondarla, crolla tutto. Non costruisci niente sulla sola fortuna”.
La storia di Django, il personaggio a cui più ti associano, tra Sergio Corbucci e Quentin Tarantino, un altro capitolo della tua buona stella.
“Non sapevano chi prendere per fare Django. Volevano una faccia nuova. Corbucci e gli altri decisero di portare le foto a Fulvio Frizzi, direttore di Euro International film. Non ebbe dubbi: puntò il dito sulla mia faccia”.
Mezzo secolo dopo, il fantasma di Django ritorna nella tua vita grazie al genio esagitato di Tarantino.
“Un bambinone genialoide. Gli parlai di Giovanni Pascoli. Tarantino era il manifesto perfetto della sua teoria del “fanciullino”. Che quando ti abbandona diventi uno stronzo qualunque. Quentin ama follemente i suoi attori. Finita una scena, diceva (lo imita): “Bello, ma dobbiamo farne un altra e sapete perché?”. E tutti dovevamo dire all’unisono: “Because we love making movie”. Perché ci piace fare il cinema”.
Ne Il giorno della civetta di Damiani, tu figlio di un carabiniere, fai la parte di un capitano dei carabinieri. Un appuntamento sentimentale quel set.
“Fu Vanessa a convincermi. Conosceva il romanzo di Sciascia. Papà Michele, che si era arrabbiato quando lasciai l’università per fare l’attore, fu molto orgoglioso di me. Mi confidò mia madre che lo vedeva al cinema due o tre volte al giorno”.
Passaggi struggenti nel libro, il tuo rapporto con lui.
“Era un uomo molto serio, rideva poco. Veniva da una famiglia di contadini pugliesi. Il suo sogno era pezzetto di terra dove lavorare. Gli comprai due ettari a Velletri, dove ha passato gli ultimi 12, 13 anni della sua vita, facendo il vino, l’olio, allevando polli e conigli. Aveva anche un cavallino siciliano…(si commuove) Piansi disperatamente quando seppi che ci aveva lasciato i suoi risparmi di una vita, circa un milione, una cifra che io guadagnavo in tre ore”.
Un'altra icona del western italiano. Quell’altro incredibile vecchio di Clint Eastwood. 92 anni e nessuna intenzione di fermarsi.
“Siamo uguali, lui e io. Ci tiene in vita la curiosità. Non lavoriamo per i soldi, ma per la voglia di divertirci. La libertà di scegliere. Io rifiuto in continuazione. Ho rifiutato, tra le tante, il maresciallo Rocca, la Piovra, la vita di Verdi…”.
Gian Maria Volontè, il miglior attore italiano di sempre?
“Attore importante, ma il più grande di sempre è Salvo Randone. Mi spiace solo che sia morto semicieco e in povertà”.
Il tuo cast ideale di un western ideale di tutti i tempi? John Ford o Sergio Corbucci alla regia?
“Scelgo Corbucci, un visionario. Nella parte del cattivo Jack Palance sarebbe perfetto, ma io prendo Klaus Kinski. Un antagonista ideale. Un pazzo scatenato. Gli ho salvato la vita una volta sul set. Lo stavano ammazzando tirandolo giù dal cavallo. Ne faceva di tutti i colori”.
Cosa ti aspetti ancora da te?
“Di fare del bel cinema ancora. È in arrivo un film con mio nipote, il figlio di Natasha e di Liam Neeson. Un road movie di un padre e un figlio che devono portare le ceneri della madre a Cuba”.
Franco Nero: «Paul Newman mi chiese un autografo. John Huston mi ordinò: spogliati». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera l'8 giugno 2022.
Il suo vero nome? «Francesco Clemente Giuseppe Sparanero, nato il 23 novembre 1941, pochi giorni dopo il bombardamento di Pearl Harbor».
Franco Nero: «Paul Newman mi chiese un autografo. John Huston mi ordinò: spogliati»
Che famiglia era la sua? «Mia nonna era una gitana dell’Andalusia, in Puglia conobbe mio nonno. Ma io sono nato a Parma, perché mio padre faceva il carabiniere. Vocazione? No, arruolarsi era una via di fuga dalla fame. La guerra ci aveva rubato tutto, ma ricordo bene quando, al cinema, vidi per la prima volta Il fiume rosso, il film con John Wayne diretto da Howard Hawks».
Esiste un rimedio naturale contro il colesterolo?
Che cosa la colpì? «I cavalli, la loro forza. E vent’anni dopo, lo stesso John Wayne mi chiamò per complimentarsi per Django e mi volle dare un consiglio: “Franco, non scegliere mai dei cavalli troppo belli, sennò tutti guarderanno loro e non te”».
È sempre stato conscio della sua bellezza? «Da ragazzo mi innamoravo spesso e tante ricambiavano, questo mi dava sicurezza. Una volta ho anche avuto un flirt con una suora che mi assisteva in un periodo di degenza in ospedale. Mio padre voleva che facessi l’ufficiale dei carabinieri come lui, ma io andai da Strehler a Milano e gli dissi che volevo fare l’attore. Poi un giorno, mentre mi dividevo tra studi di economia, teatro amatoriale e un lavoro da contabile, un fotografo mi notò. Mi fece tanti scatti e quelle foto finirono sul tavolo di John Huston».
Leggendario regista di «Giungla d’asfalto». «E di decine di altri capolavori. Mi volle incontrare, arrivai nel suo hotel, a Roma. Non era da solo, c’erano assistenti, collaboratrici. Un sigaro gli pendeva dalla bocca, mi guardò per qualche minuto e poi mi disse: “Spogliati”».
Del tutto? «Un imbarazzo tremendo. Lui e i collaboratori mi squadravano con freddezza professionale mentre io non osavo guardarli negli occhi. Ma non potevo sapere che quello era un provino per interpretare il ruolo di Abele ne La Bibbia».
Però ne valse la pena, no? Almeno è quello che lei racconta nella sua autobiografia «Django e gli altri». «Sì, perché cominciarono a cercarmi sul serio. Dino De Laurentiis si incaponì: voleva che come nome d’arte mi chiamassi Castel Romano perché gli stabilimenti si trovavano lì. Mi veniva da piangere. Huston lo convinse a farmi assegnare Franco Nero, ma De Laurentiis se la legò al dito e da allora non mi ha più voluto con lui».
Poi però arrivò «Django» di Sergio Corbucci, la vera svolta della sua carriera? «Penso di sì. All’epoca si giravano tantissimi western, la critica li snobbava, ma avevano successo. Cominciammo le riprese il 24 dicembre 1965, un freddo cane. Durarono mesi, ogni tanto ci si fermava perché finivano i soldi. La sera uscivo col direttore della fotografia Enzo Barboni, che si lamentava per un copione che aveva scritto e che nessuno voleva fargli dirigere. Era il copione di Lo chiamavano Trinità».
Sergio Leone. Lo ha conosciuto? «Una volta venne a trovarci sul set. Mi guardò e disse a Corbucci: “Con questo hai fatto 13”».
Gli spaghetti western si giravano con pochissimi soldi, ma erano ricchi di trovate e di trucchi scenici. Come si riusciva a farli? «Non c’erano quattrini per le controfigure, quindi io imparai a cavalcare, a sparare, a saltare nelle paludi. Finii in ospedale, perché la pozza di fango dove mi ero tuffato era troppo fredda. Ma anche stavolta ne valse la pena: quando uscì ebbe un successo strepitoso. Fu il primo western vietato ai minori di 18 anni in Italia e di 17 in America, ma divenne un cult: una copia del film è conservata addirittura al MoMa di New York».
Quentin Tarantino le ha reso omaggio con «Mi ha voluto nel film in un cameo. E poi sa che cosa fece? Sequestrò il cast e fece vedere il film più volte, voleva che lo memorizzassero».
E così, dopo si aprì la strada verso Hollywood. «Sì, con un colossal in costume, Camelot. Sul set venne a trovarci Clint Eastwood che mi si avvicinò e borbottò: “Eh, tu stai qui a fare i colossal mentre io sto in Italia a fare spaghetti western”».
Lei faceva Lancillotto e a interpretare Ginevra c’era «Era spettinata, struccata, jeans strappati. Mi voltai verso il regista e dissi: “E quella hippy lì dovrebbe far perdere la testa a Lancillotto?”».
E invece. «E invece eccoci qua, innamorati da cinquantacinque anni».
Con una lunga pausa di separazione in mezzo, seguita da un re-innamoramento. «Sì, io dico sempre che ci siamo presi una pausa. Erano nate incomprensioni, c’erano delle liti e come tanti abbiamo ceduto alla distanza. Poi però ci siamo ritrovati nella maturità, con una maggiore consapevolezza, dopo aver attraversato altre vite, separatamente. In fondo, anche negli anni in cui eravamo divisi, ci siamo sempre stati l’uno per l’altra. Oggi quello che ci unisce è questa presenza fisica molto forte. Pensi che in questi giorni lei è a Londra, recita in My Fair Lady. Sono andato a trovarla ma dovevo ripartire quasi subito, per altri impegni. Lei mi ha abbracciato dicendomi: “Non andare, dai”».
E vi siete sposati in segreto nel 2006, cinquant’anni dopo il vostro primo incontro. «Non abbiamo mai smesso di amarci».
Insieme avete dato vita a una delle coppie più belle di Hollywood. «E io ero sempre lì, incredulo. Incontravo persone straordinarie. Se Lawrence Olivier una volta mi disse: “Puoi fare la star, girare un film all’anno da protagonista e sperare che vada sempre bene, oppure puoi fare l’attore e divertirti”, il consiglio migliore me lo diede Marlon Brando, che un giorno mi fece: “Franco, non fare mai secondi o terzi ruoli. Sempre e solo protagonista o al massimo fai un cameo”. E così ho fatto».
È vero che lei andava a pescare con Burt Lancaster? «Sì, era un grande amico. Pescava anche abbastanza bene. Zeffirelli mi aveva prestato un appartamento dove ricevevo amici e conoscenti. Tra questi anche John Voight: il mio bambino Carlo giocava spesso con la sua figliola. Una ragazzina che sarebbe diventata poi famosa con il nome di Angelina Jolie».
Gli anni Settanta e Ottanta in America: una favola per il cinema. «Qualche volta mi sembrava di sognare. Andavo a cena con Steve McQueen. Frank Sinatra volle a tutti i costi che lo accompagnassi nello studio di registrazione dove Nelson Riddle lo attendeva per incidere That’s Life. Una volta, a una festa, Paul Newman mi si avvicinò tra il timido e il perplesso. “Che c’è, Paul?”, gli dissi. E lui, alla fine: “Franco, posso avere una tua foto con autografo? È per mia figlia, si è innamorata di te”. Non riuscivo a crederci: uno dei miei miti che mi chiedeva l’autografo. Sono stato fortunato, sì».
Già, perché lei all’epoca girava un film all’anno, forse anche due-tre all’anno: Chabrol, Bellocchio, Lizzani, Hamilton, Fassbinder. «Ho così tanti ricordi che faccio fatica a visualizzarli, si accalcano in testa come onde. Qualche tempo fa ho incontrato Steven Spielberg: lui giura che una sera a una festa io mi sono ingelosito perché lui ha ballato tutto il tempo con Vanessa, ma io non mi ricordo niente. Boh».
Mamma e papà come vivevano il suo successo? «Quando interpretai il Capitano Bellodi ne Il giorno della civetta di Damiano Damiani, tratto dal romanzo di Sciascia, mio padre fu finalmente felice: in un modo o nell’altro aveva realizzato il sogno di vedermi una divisa da carabiniere addosso. Alla sua morte, mi mandarono a chiamare: papà mi aveva lasciato una piccola somma su un libretto postale. Era quanto io guadagnavo in una giornata di lavoro. Cominciai a piangere, perché per me quella somma era un tesoro».
Chi fu a starle vicino in quel periodo? «Quando papà morì, Anthony Quinn, con cui stavo lavorando, mi disse: “Franco, da oggi sarò io tuo padre”. Tony ha mantenuto la promessa E come padre lo salutai, quando lui morì nel 2001, nell’omelia funebre che tenni a Rhode Island».
Lei ha anche girato un film in Jugoslavia quando c’era Tito. Come si lavorava? «La battaglia della Neretva rievocava la resistenza partigiana della Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale. Il Maresciallo Tito in persona visionava il girato giornaliero: era pur sempre un film di Stato. La locandina venne realizzata da Pablo Picasso, che in cambio volle solo una cassa di vini».
Com’era lavorare con Luis Buñuel? «Non mi ha mai chiamato per nome, sempre e solo Nero. Alla fine del film che girai con lui, Tristana, gli chiesi perché. Mi rispose che odiava troppo Franco, cioè il dittatore e mi confidò che una volta aveva anche tentato di ucciderlo».
E con Chabrol? «Mangiava sempre, ma anche Buñuel faceva una cosa curiosa: nascondeva pane e prosciutto in una borsetta e mangiava di nascosto, perché, diceva, se mi vedono gli altri poi vogliono fare pausa e qui bisogna lavorare».
Chi è stato un suo grande amico? «Vittorio Gassman. Ogni tanto veniva a cena da noi e declamava il menu con la sua famosa enfasi: “Prosciutto cruuudo, pollo arroooosto”. Quante risate. Lui mi ha fatto il più bel complimento. In un libro scrisse: “Non sono gay, ma se dovessi scegliere qualcuno con cui andare su un’isola deserta sceglierei Franco Nero”».
Paola Pellai per “Libero quotidiano” il 20 aprile 2022.
Se arrivi a 80 anni come Franco Nero vuol dire che hai capito tutto della vita. E lui, un'icona del cinema mondiale, non fatica a rivelarti il suo segreto: «Ho riempito ogni giorno della mia esistenza di cose da fare, di sfide da portare al traguardo. Non mi sono mai annoiato, ma divertito tanto».
L'attore e regista è arrivato a Busto Arsizio in occasione della 20esima edizione del Baff, il festival del cinema, per ricevere il premio alla carriera.
Ha il fisico allenato da interminabili partite a tennis, gli occhi azzurri come un tempo e un codino come unica civetteria: ha l'espressione seria, si sdegna contro una guerra che considera «un'aggressione assurda da parte di un dittatore che cerca di rovinare la democrazia» e torna al sorriso solo se lo fai parlare di cinema.
«Se sono quello che sono - spiega - lo devo a Laurence Olivier che considero il più grande attore del mondo. Quando lo incontrai agli inizi della mia carriera mi chiese se volevo fare la star o l'attore. Mi spiegò che per fare la star mi sarebbe bastato un film commerciale all'anno, per essere un attore invece dovevo rischiare e non accontentarmi mai.
Questo è quello che ho fatto: mai un solo genere, mai una sola faccia, mai un solo ruolo. Altrimenti sai che monotonia....».
Nato in una frazione del comune di Parma nel 1941, Franco Nero sottolinea i suoi numeri da primato: «Ho girato 240 film, lavorato in 30 cinematografie e vestito i panni di 30 personaggi di nazionalità differenti. Ho fatto l'eroe jugoslavo in Jugoslavia, l'eroe ungherese in Ungheria, quello italiano, ovvero Garibaldi, in Italia. All'appello mi mancava solo d'interpretare il Papa. Lacuna colmata 3 mesi fa, quando mi ha chiamato un regista spagnolo proprio per interpretare quel ruolo».
Ride divertito e racconta come i ricordi sono un bagaglio non solo da conservare, ma da far crescere col futuro e nel futuro: «Non mi ha bloccato neppure la pandemia, durante la quale ho girato 7 film, di cui 3 in Croazia e uno in Romania. Qui in Italia mi vedete poco perché negli ultimi 30 anni il 90% del mio lavoro è stato all'estero». E prosegue: «È un lavoro duro, ma continua a divertirmi e a piacermi tantissimo.
Tempo fa stavo girando a Torino sotto un tendone e in un caldo infernale. C''erano 47 gradi, i giovani dicevano: «Quello scoppia. Sono scoppiati loro». Altra risata, tenera e non di supponenza.
Con la naturalezza di chi ha attraversato quasi 60 annidi cinema al fianco dei registi più importanti del mondo (John Huston, Luis Bunuel, Werner Fassbinder, Carlo Lizzani, Quentin Tarantino, tanto per citarne qualcuno), lui ti ricorda con ironia di fare tesoro dei consigli: «A Los Angeles ad una festa di amici John Wayne mi chiese come sceglievo un cavallo sul set. Io gli risposi che lo volevo imponente. Lui mi spiegò che sbagliavo. "Montane uno piccolo - mi disse-, altrimenti ti nasconde, ti ruba la scena". Aveva ragione».
Franco Nero è tuttora un giramondo instancabile e pieno di curiosità: «Credo di aver preso da mia nonna Maria Lopez, una gitana dell'Andalusia. Come lei non mi fermo mai, mi piace andare incontro a nuove avventure, non c'è un giorno uguale all'altro». Il senso della sfida è la sua energia: «Accetto un film quando mi innamoro di un copione e amo lavorare con i grandi. Se reciti con un cane diventi un cane anche tu, se lo fai coi migliori vuoi dimostrare di essere più bravo di loro».
Il cinema nella sua carriera ha sempre prevalso sulla tv («Ne ho rifiutata tanta, da La Piovra al Maresciallo Rocca») e- ribadisce- «bisogna fare tutto il possibile per aiutare il cinema e non la tv o le serie tv. La gente deve pagare il biglietto e godersi un film davanti al grande schermo». E al cinema c'è The match, dove Nero è il protagonista: racconta di una storia vera avvenuta in un campo di concentramento, di una partita di pallone e di un nonno («Sono io, ma per invecchiarmi si sono dovuti impegnare molto») che spiega al nipotino come andò a finire.
Nella sua fittissima agenda c'è anche l'attesa per l'uscita nel prossimo autunno di un film di cui ha curato la regia (L'uomo che disegnò Dio) e per l'autobiografia, che sarà presentata il prossimo 20 maggio al Salone del libro di Torino: «È stata un'impresa condensare la mia esistenza, neppure 20 volumi sarebbero bastati....». Ma il titolo è di quelli che non si dimenticano: Django e gli altri. Già, Django, il classico del western all'italiana di Sergio Corbucci che folgorò anche Quentin Tarantino. Per tutti Franco Nero è stato, è e sarà sempre Django.
Silvana Palazzo per ilsussidiario.net il 26 marzo 2022.
Ci vuole più coraggio a diventare pornoattore o a interrompere questa carriera? Franco Trentalance non ha dubbi: ce ne vuole a iniziare. Ne ha parlato a Ciao Maschio, la trasmissione condotta da Nunzia De Girolamo su Rai 1. “Io mi sono sempre paragonato ad un campione sportivo. C’è un percorso che prima o poi deve terminare. Abbandonare è stata una scelta consapevole”, ha spiegato l’ormai ex attore hard.
“Quando ho iniziato io 25 anni fa non era così pop girare film hard e quindi anche per un uomo comunque c’era qualche difficoltà. I veri amici non hanno mai avuto problemi rispetto alla mia professione. Chi mi conosceva meno bene diciamo che per strada se mi incontrava non mi salutava volentieri, anzi se poteva evitava proprio”.
Quando invece è diventato famoso le cose sono cambiate per Franco Trentalance. Ma non si è mai pentito di aver intrapreso questa carriera. “Se devo essere onesto, intanto avevo reso un mestiere quella che era la mia più grande passione, ovvero le donne, la sessualità. E poi erano più i vantaggi comunque degli svantaggi”. Gli svantaggi sono rappresentati dal giudizio morale, a partire da quello della famiglia.
“L’ho nascosto per un po’ i primi tempi perché non volevo dichiararlo subito per diventare un professionista ci vuole un po’ di tempo per essere chiamato definito tale. Sono stato zitto, credo un paio d’anni e poi alla fine la cosa era quasi di dominio pubblico e mi aiutò mio fratello a rivelarlo alla famiglia”.
Il fratello di Franco Trentalance capì che era diventato attore porno proprio da un film. Lo aiutò a comunicarlo alla famiglia, che però non ne fu felice. “Non erano felici. Forse avranno anche pianto. Non davanti a me. I miei genitori sono classici, quindi mi volevano laureato, possibilmente impiegato in banca. Ma non era proprio nelle mie corde”. Ma ha reso felice se stesso, che evidentemente è la cosa più importante. Infatti, non si è mai vergognato, né mai imbarazzato.
“Ero veramente carico. Sognavo quel momento, non ho dormito le due notti precedenti del debutto perché avevo la chance di provare a diventare quello che avevo sempre voluto”. Franco Trentalance a Ciao Maschio ha parlato anche del suo rapporto con le donne. “Durante i miei vent’anni di carriera mi sono fidanzato tre volte o due. Secondo me una storia sentimentale avrebbe rappresentato una distrazione”.
Quindi, ha spiegato il motivo: “Se io fossi stato appagato da una relazione erotico sentimentale privata, avrei avuto molto meno energia, molto meno carica sul set. In pratica rinunciato all’amore, però non abbiamo la controprova”. Ma comunque Franco Trentalance si è innamorato nella sua vita: “Porca miseria, certe sbandate micidiali”.
Di sicuro, non dovevano temere tradimenti: “Mentre gli uomini se possono una scappatella la fanno, io, che già facevo sesso di mestiere, in privato tutto avrei fatto tranne che tradire la mia compagna”. Anche per questo motivo Franco Trentalance voleva che una fidanzata andasse sul set a rendersi conto che era solo lavoro. “Per quanto fosse un sesso intenso, era un sesso artificiale”.
A proposito di donne, Franco Trentalance ha spiegato a Ciao Maschio che a volte preferiva avere rapporti in scena con attrici meno belle: “Perché le meno belle si impegnavano di più. Le belle non si impegnavano così tanto perché avevano paura che se fossero state troppo passionali, sarebbero venuti fuori dei difetti fisici. Un movimento, una smorfia di cellulite che schiacciando veniva evidenziata…”.
Ma l’attore ha confessato di avere un rapporto più complesso con la vecchiaia: “Ho sempre basato molto, a parte il sesso, proprio la mia vita sulla fisicità. Vado in moto, tiro con l’arco, gioco a tennis, vado in mountain bike e quindi se dovessi pensare che un giorno il mio fisico non mi assiste più un po’ temo”.
Quando Nunzia De Girolamo gli ha chiesto che donna volesse essere, ha optato per Ilaria D’Amico: “Mi piace e quindi per trasmutazione vorrei essere così. La prenderei anche per un film, sempre che sia performante. Questo non lo so. Non ho avuto modo di appurare”. A proposito di confessioni, ha rivelato che per lui il sesso va programmato, perché “resta una performance, anche da innamorato”.
Questo incide anche sull’autoerotismo: “Io mi masturbo tutti i giorni e quindi se non so che quel giorno devo fare sesso esagero con questo allenamento. Se invece so che devo farlo mi astengo dall’allenarmi”. Alla fine una battuta provocatoria alla conduttrice, a cui ha chiesto se volesse sperimentare qualcosa: “Ma tu si pazz?”, ha replicato lei.
Francis Ford Coppola torna a Bernalda, la città di suo nonno. Donato Mastrangelo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Giugno 2022
Una presenza molto discreta di un paio di giorni, quella del noto regista, per rinsaldare il cordone ombelicale con la terra madre lucana
Ritorno alle origini. Il celebre regista, sceneggiatore e produttore statunitense Francis Ford Coppola, autore de "Il Padrino" è ritornato nella sua Bernalda, la città lucana nella quale aveva vissuto il nonno Agostino prima di partire alla volta degli Stati Uniti. Una presenza molto discreta di un paio di giorni, quella del noto cineasta nato a Detroit, dal 1989 cittadino onorario di Bernalda, per rinsaldare il cordone ombelicale con la terra madre e per gettare le basi per la realizzazione di un museo che racchiuda il meglio della settima arte targata Coppola. Entusiasta il sindaco Domenico Tataranno: "Sentire dalla viva voce del Maestro Coppola che sarà entusiasta di collaborare alla creazione di un museo dedicato all’arte cinematografica della sua famiglia è stato davvero incredibile.
Ci ha anche promesso che per l’inaugurazione ci farà una sorpresa speciale, perché ha Bernalda nel cuore!". E così nel buen retiro di Palazzo Margherita, la dimora storica acquistata da Coppola nel 2004 e trasformata in un lussuoso boutique hotel dove è convolata a nozze anche la figlia Sofia, Coppola ha probabilmente concepito l'idea che porterà ad un allestimento permanente nel castello di Bernalda, caldeggiato con una lettera dello scorso maggio inviata al regista dal presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi. Tra le idee in cantiere anche una mostra da organizzare a Natale, sempre nel castello in occasione dei cinquant'anni de "Il Padrino". E chissà che la star di Hollywood non possa portare in dote per il museo bernaldese anche uno degli Oscar vinti nella sua prestigiosa carriera cinematografica.
Francis Ford Coppola: «Detesto i remake e le serie tv. E giro un film che non so fare». Valerio Cappelli, inviato a Taormina, su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.
Il regista: «I miei genitori mi impedivano di parlare in italiano. Tra poco comincio Megalopolis (che mi auto finanzio) sull’avidità del potere, tra l’epopea dell’antica Roma e la New York moderna. Con un occhio al matriarcato»
Arriva quest’omone che ha fatto la storia di cinema, Francis Ford Coppola, questo gigante che ha lasciato frasi scolpite sul viale di Hollywood (con cui ha un rapporto ambivalente, un piede dentro e uno fuori): «Gli farò un’offerta che non può rifiutare», da «Il padrino». Il film che gli valse tre Oscar e da oggi, dopo il Taormina Film Festival, torna nelle sale restaurato. «Ha superato la prova del tempo, avrei potuto fare storie di mafiosi per altri trent’anni ma sono contrario ai remake o alle serie tv, che tolgono risorse ai giovani e ai nuovi progetti».
Lui ne ha uno, «Megalopolis», un kolossal che partirà a settembre con un grande cast, Adam Driver, Forest Whitaker, Jon Voight, Oscar Isaac, a cui pensa da oltre vent’anni. La storia di un architetto che dopo una terribile catastrofe che ha distrutto New York vuol ricostruirla in chiave utopica. «Il mio sindaco ricorda Cicerone e l’architetto tedesco Walter Gropius richiama Catilina». Coppola, che sfoggia calze piene di palle e mazze da baseball, fa un raccordo tra l’ambizione politica e l’avidità dell’«antica Roma, di cui il cinema da Ben-Hur a Il Gladiatore si nutre, e quella del secondo millennio. È la congiura di Catilina in America, in epoca moderna. La Repubblica romana rifiutò l’idea di avere un nuovo re. Quello che sta vivendo l’America con le restrizioni sull’aborto è terribile, ma ancora più terribile è il rischio di perdere la democrazia, con l’eventuale ritorno di Donald Trump».
Non a caso il rifiuto all’aborto è stato propiziato dagli Stati conservatori. E riprende a raccontare il suo film visionario che esce dal congelatore. «L’ho autofinanziato vendendo parte della mia azienda vinicola. Avevo parlato del progetto con Paul Newman e James Gandolfini, l’accantonai perché venne l’11 settembre e il mio ottimismo non era in linea col terrorismo islamico. Adesso sono pronto per raccontare anche la bellezza della Terra».
Ma non è un film sull’avidità del potere? «È anche una storia sulle conseguenze del potere». E si mette a parlare di antropologia: «Il mondo patriarcale risale soltanto a 10 mila anni fa, e ha scombinato le regole. Io voglio raccontare questo, l’animosità dell’uomo, e l’anelito alla pace della donna. Prima c’era il matriarcato e la parità di genere era segnato dall’armonia. Voglio dare una visione del futuro gentile, generosa».
Insomma un kolossal strettamente personale: «Il film avrà uno stile assolutamente mio». Lei è un utopista? «Lo sono sempre stato, ogni volta, da Apocalypse now a Dracula, non so mai come realizzare un film. L’utopia di Megalopolis non è un luogo ma una conversazione su una domanda: la società in cui viviamo è l’unica possibile?».
Sul futuro del cinema è ottimista? «Il cinema è figlio del teatro, che esiste da Eschilo. Sento parlare di streaming da 50 anni, dopo Avatar dissero che i film si sarebbero fatti solo in 3D. Non è successo, e le sale non scompariranno. Ma bisogna essere generosi con i giovani talenti come lo sono Scorsese e Spielberg. Ci si passava appunti, commenti. I registi italiani dopo la guerra, a parte Rossellini, non sono riusciti a trasferire le loro capacità. E quanti nomi sono rimasti? Due o tre». Lo dice con l’amore per le sue radici: «Da piccolo negli Usa se eri italiano non ti vendevano la casa, oggi sono integrati e benestanti. I miei genitori non volevano che parlassi in italiano ed è questo il motivo per cui non parlo la vostra lingua. Mia madre voleva chiamarmi Francesco, ha scelto Francis per convenienza».
Vittorio Sabatin per lastampa.it il 20 febbraio 2022.
Il grande regista Francis Ford Coppola, 82 anni, potrebbe godersi la vecchiaia con i soldi che ha guadagnato, invece li spenderà quasi tutti per un film che sogna di realizzare da 40 anni, di cui ha già in mente il titolo: «Megalopolis». Coppola pensa che sarà uno di quei pochi film davvero intramontabili, che si guardano ogni anno di generazione in generazione, per sempre.
Cinquant’anni dopo avere girato «Il Padrino», Coppola pensa di avere ancora molto da dire nel cinema. Vuole finalmente girare un film personale, scritto da lui, che tratti temi che gli sgorgano dal cuore e occupano la sua mente ed è disposto a rischiare il proprio patrimonio personale pur di riuscirci. Nel 1982 fece qualcosa del genere girando «Un sogno lungo un giorno», che costò 26 milioni di dollari e ne incassò in tutto 600 mila. Dovette vendere i suoi studi e altre proprietà e ci vollero anni di sacrifici per rientrare dai debiti con le banche.
Ma da quel fallimento è passato molto tempo. Coppola ha guadagnato bene, oggi vive nella Napa Valley e la tenuta di Hinglenook produce un ottimo e redditizio vino. Il regista è in grande forma, guida una Tesla a velocità sconsigliate alla sua età, cerca di dimagrire e ha bisogno solo di un apparecchio acustico. Sta leggendo «Il sogno della camera rossa», il più grande romanzo della letteratura cinese, che con i suoi 120 capitolo è uno dei più prolissi libri del mondo, una grande e profonda allegoria della vita.
Coppola ha parlato della sua vita e di «Megalopolis» al periodico americano Gentlemen’s Quarterly (GQ), svelandone qualche dettaglio. Gli costerà almeno 120 milioni di dollari, sarà un film ambientato a New York, una storia d’amore che indaga sulla natura umana e che porrà una domanda di fondo: la società nella quale viviamo è davvero l’unica disponibile? Coppola ha detto che vorrebbe che «Megalopolis» seguisse la strada di «La vita è meravigliosa» di Frank Capra, il film che tutti rivedono una volta l’anno, quasi sempre alla vigilia di Natale.
Uscito nel 1946, fu stroncato da molti critici ed ebbe una modesta accoglienza, facendo perdere alla Rank 500 mila dollari. Oggi è considerato un capolavoro, è custodito nella Libreria del Congresso ed è sempre ai primi posti nelle classifiche dei migliori film americani mai girati. Frank Capra e James Stewart lo consideravano il loro miglior lavoro. L’FBI lo segnalò all’epoca come un prodotto della cultura comunista, perché dipingeva il personaggio di Henry Potter come un avido banchiere.
«Megalopolis», secondo Coppola, dovrebbe diventare allo stesso modo un film che ogni anno ci fa riflettere sulla natura umana, per generazioni e generazioni. Il problema, come sempre quando si vogliono fare film troppo personali, è trovare chi sia disposto a darti i soldi necessari. Il regista ha raccontato che ancora oggi possiede i diritti di «Apocalypse Now», perché nessuno aveva accettato di finanziarlo. Coppola aveva 33 anni, aveva già vinto cinque Oscar, ma a Hollywood i produttori non volevano rischiare denaro in un progetto che già dalla lettura del romanzo di Joseph Conrad appariva cupo e tormentato. «Più un film è personale – ha detto il regista –, più rappresenta un tuo sogno e più è difficile finanziarlo».
I cinquant’anni de «Il Padrino», che cadono quest’anno, non lo emozionano più di tanto. Ricorda che Paramount aveva i diritti del romanzo di Mario Puzo e gli propose di farne un film. Lui non voleva, ma gli amici lo convinsero. Dovette faticare per avere Marlon Brando nel cast, sul set c’erano scontri terribili e tutti odiavano Al Pacino. La produzione pensò a un certo punto anche di cambiare regista e chiamare Elia Kazan, perché Coppola appariva sempre pieno di dubbi e indeciso a tutto. Era troppo povero per permettersi un appartamento e viveva a casa dell’attore James Caan.
«Il ‘Padrino’ è il film che mi ha rovinato», dice oggi Coppola, perché tutto ciò che ha fatto dopo è stato paragonato a quello: «Se avessi continuato a fare solo film di mafia oggi sarei molto ricco, ma non avrei imparato niente». E dopo tanta strada è dunque finalmente arrivato il momento di «Megalopolis». Perché la cosa migliore della vita, ricorda Coppola, «è avere un sogno, coltivarlo per anni, e alla fine vedere che si realizza».
· Frank Matano.
Frank Matano: «Mi sono sempre sentito inadeguato. La mia risata? Non è vero che è finta». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.
Il comico presenta il suo nuovo programma «Prova Prova Sa Sa» su Prime Video.
«Da adolescente non ho mai avuto il coraggio né di ammettere di voler fare questo mestiere, né di partecipare a provini o live. Ma ho avuto la fortuna di essere un ragazzo di 18 anni che cresceva insieme a YouTube, così a casa, da solo, per quanto mi sentissi inadeguato potevo fare i miei esperimenti comici. Ci ho messo molto tempo a sentirmi legittimato nel mio ruolo. Poi più cose realizzi e più il senso di inadeguatezza svanisce». L’ex inadeguato Frank Matano oggi è diventato un personaggio televisivo, un attore, un comico — «incensurato» tiene a sottolineare — che sembra uscito da un fumetto, con la sua risata sgangherata, la sua comicità di pancia, slapstick, l’esuberanza della mimica, le trovate inverosimili, partner ambito in qualunque consesso ridanciano.
Padre italiano e madre statunitense, lei è cresciuto a Carinola (in provincia di Caserta) ma dai 15 ai 18 anni ha vissuto negli Stati Uniti.
«Mi sono sempre sentito straniero. A Carinola mi chiamavano tutti «’o ‘mericano»; negli Usa ero soprannominato Totti perché il mio vero nome è Francesco e l’Italia aveva appena vinto il Mondiale. Questa doppia “nazionalità” mi ha aiutato a sviluppare pensieri miscelati tra America e provincia di Caserta».
L’ironia per lei funzionava da acceleratore per l’integrazione o da compensazione per l’esclusione?
«Chi decide di fare il comico lo fa perché non si sente completamente a suo agio nelle situazioni sociali e quindi deve sviluppare un radar, una specie di termometro che misura la conversazione a cui sta partecipando. Io sono sempre stato molto timido ma questa voglia di far ridere mi strattonava fuori dalla mia comfort zone e mi faceva stare bene: del resto non c’è niente di peggio che assecondare una cattiva abitudine. La comicità è una risposta alla paura, può essere anche terapeutica, ti obbliga a pensare alla realtà che ti circonda e a cercare un punto di vista diverso». Frank Matano è il conduttore di Prova Prova Sa Sa, il nuovo comedy show disponibile dal 2 novembre su Prime Video, prodotto da Endemol Shine Italy. Un programma di improvvisazione con un cast fisso formato da quattro comedians: Maccio Capatonda, Maria Di Biase, Edoardo Ferrario e Aurora Leone. In ogni puntata i quattro comici devono esibirsi in una serie di sketch e sfide estemporanee, talvolta decise dal conduttore, altre volte basate sui suggerimenti del pubblico in studio.
La proposta del format di Prova Prova Sa Sa è venuta proprio da lei.
«In America da ragazzino seguivo questo format di improvvisazione, Whose Line Is It Anyway?, lo guardavo con i miei nonni e mi aveva letteralmente fulminato, tanto che quando avevo 19 anni avevo tradotto tutte le puntate in italiano, dal regolamento a ogni singolo gioco. Quel programma è uno dei motivi per cui ho fatto questo mestiere e adesso ho avuto paura a maneggiarlo; pensavo: posso solo rovinarlo».
Perché guardare questo show?
«È improvvisazione nella sua forma più radicale, è come se i comici ogni volta si lanciassero da un aereo con uno zainetto e scoprissero solo alla fine se dentro c’è un paracadute o una batteria di pentole. Nonostante risalga agli anni ‘90, l’aspetto bello del format è che ogni sfida si presta a diventare una clip su internet, ha un ritmo che lo rende molto attuale. E comunque suggerisco un corso di improvvisazione pure a chi non vuole fare il comico: l’improvvisazione ti costringe a metterti in gioco, serve in un colloquio di lavoro, a un esame all’università, quando ti fermano i carabinieri...».
Quali sono i tratti dei quattro improvvisatori?
«Maccio è chiaramente un abitante di un altro pianeta, è un alieno. Edoardo doveva fare il magistrato, ha un eloquio che hanno pochi comici, ha un archivio di parole chiuso nelle mente che supera qualunque frontiera; pesca vocaboli che non senti da anni, ha miliardi di strumenti da usare. Aurora combina una vitalità e un’energia esplosive con un linguaggio che viene dal mondo del digital, parla fluentemente i codici della comicità che si fa oggi online. Maria invece ha spesso lavorato in coppia con il suo compagno Corrado Nuzzo, è abituata all’ascolto: se sente che qualcosa va nella direzione sbagliata riesce a tirarla su, misura la temperatura dell’altro e la alza».
Crozza qualche tempo fa aveva fatto di lei un’imitazione feroce: all’apparenza non tanto sveglio, gran calcolatore...
«Era alienante vedermi imitato da uno dei miei comici preferiti, era assurdo, surreale, ma è una presa in giro che non mi ha mai dato fastidio».
La sua risata è esagerata, sguaiata, sembra finta. È un format pure quella?
«Ho la stessa risata di mio padre, identica. Mi chiedo se sia ereditaria... Da giovane mi ha dato parecchi problemi: in chiesa, a scuola... oggi invece si è rivelata un’interessante fonte di reddito».
Frida Bollani e il suo lato pop: «Amo reinterpretare Britney Spears». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.
È uscito il primo disco della cantante e musicista quasi 18enne: «La cover è in braille, un regalo per i non vedenti come me».
È bastata una sola apparizione. Pochi minuti al pianoforte, cantando vicino a suo papà Stefano — nel programma tv che lui conduce con Valentina Cenni, «Via dei matti numero 0» —, hanno trasformato Frida Bollani in un talento tra i più apprezzati. Oltre a incantare con la sua voce cristallina, ha dato una lezione di vita quando ha definito la sua ipovedenza un dono. Tanto che ora, a nemmeno 18 anni — li compirà il 18 settembre — festeggia il suo primo disco, «Primo tour». «Effettivamente negli ultimi tempi sono cambiate tante cose», spiega lei.
È stata una sorpresa?
«Beh, non ce lo aspettavamo. Non a questi livelli. È stata un’esplosione. Poi, dopo un anno, quasi ci si fa l’abitudine», scherza.
Da poco è uscito il suo primo disco.
«L’idea nasce per lasciare un ricordo a chi mi è venuto ad ascoltare dal vivo: è un disco live, registrato, appunto, durante il mio primo tour. È bello sapere che ci si può portare questo ricordo fisicamente a casa».
Ha voluto che la copertina fosse scritta anche in braille.
«Sono ipovedente dalla nascita, quindi l’unico linguaggio, sia per gli spartiti che per i testi, per me è il braille, motivo per cui ho dovuto imparare a leggere e a scrivere un anno prima degli altri. Ho voluto fare un piccolo regalo ai non vedenti come me, o ai vedenti che hanno in mente di studiare il braille... perché ce ne sono, anche nella mia famiglia ci hanno provato... Insomma volevo rendere il disco più accessibile anche a chi non ci vede, proprio perché fosse un ricordo».
È molto giovane, eppure non le piace l’idea del disco digitale.
«In realtà sono la prima che ascolta la musica quasi solo in digitale. Però la fisicità dei dischi non va perduta: ho un sacco di dischi fisici in casa».
Quelli a cui è più legata?
«Ho fortemente voluto tutti e tre i dischi di Ariana Grande in formato fisico. Penso di essere l’unica tra quelli della mia generazione a preferirli».
Non la si direbbe fan di Ariana Grande...
«Invece sì, ho avuto un periodo in cui lo ero moltissimo, sono anche stata a un suo concerto. Per me ha una grande voce, è una grande cantante. Alcuni suoi brani forse sono un po’ opinabili, ma io mi concentro molto sui suoni e i suoi suoni sono fighi».
Ha curato anche quelli del suo album?
«Mi sono occupata della parte artistica ma sono andata anche in studio. Il fonico che ha mixato il disco, a Londra, ha lavorato con i Rolling Stones e con gli U2: per me era un sogno diventato realtà».
A proposito di sogni, tra tre mesi diventerà maggiorenne. Che effetto le fa?
«Manca poco, davvero non vedo l’ora di togliermi questo peso dalla vita. Al momento si basa tutto sulla responsabilità dei miei genitori, che devono firmare consensi, liberatorie... mia mamma si fa in quattro per essere presente a tutti i concerti».
Mamma (Petra Magoni) e papà sono artisti. Lei anche. Suo fratello?
«Lui si è sempre voluto distinguere dal resto della famiglia: ha appena finito l’accademia di character design per videogiochi, crea i personaggi, quindi si vuole distinguere ma fa comunque l’artista».
Il presidente Mattarella l’ha voluta al Quirinale.
«Suonare al Quirinale è stato l’unico momento in cui ero agitata, autentica ansia da prestazione. Quando Mattarella mi ha fatto i complimenti sono riuscita solo a dire grazie, non avevo parole».
Quale è il brano del suo album a cui è più legata?
«Al singolo apripista, la cover di Toxic di Britney Spears. L’idea di reinterpretarla è stata di Frankie hi-nrg. Mi aveva detto: fanne una versione ballad, piano e voce. In effetti sembra esprimere meglio il significato del testo».
Non solo Ariana Grande, fa cover di Britney Spears e ha come amico Frankie hi-nrg. Quante sorprese.
«Ogni cosa ha i suoi aspetti belli, è soggettivo, a prescindere dal genere o da tutti i paletti che ci inventiamo per cercare di categorizzare la musica. Per me funziona un solo concetto: una canzone mi piace o no. Il genere proprio non conta».
Cosa è la fama per lei?
«Non mi ritengo famosa e neanche è una parola che mi piace. Mia mamma dice sempre una frase: bisogna essere bravi, non famosi».