Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Vintage.

Le prevendite.

I Televenditori.

I Balli.

Il Jazz.

La trap.

Il musical è nato a Napoli.

Morti di Fame.

I Laureati.

Poppe al vento.

Il lato eccentrico (folle) dei Vip.

La Tecno ed i Rave.

Alias: i veri nomi.

Woodstock.

Hollywood.

Spettacolo mafioso.

Il menù dei vip.

Il Duo è meglio di Uno.

Non è la Rai.

Abel Ferrara.

Achille Lauro.

Adele.

Adria Arjona.

Adriano Celentano.

Afef Jnifen.

Aida Yespica.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Alberto Radius.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Alec Baldwin.

Alessandra Amoroso.

Alessandra Celentano.

Alessandra Ferri.

Alessandra Mastronardi.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghese.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Gassman.

Alessandro Greco.

Alessandro Meluzzi.

Alessandro Preziosi.

Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.

Alessio Boni.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alessio Giannone: Pinuccio.

Alessandro Haber.

Alex Britti.

Alexia.

Alice.

Alfonso Signorini.

Alyson Borromeo.

Alyx Star.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Anastacia.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.

Andrea Sartoretti.

Andrea Zalone.

Andrée Ruth Shammah.

Angela Finocchiaro.

Angelina Jolie.

Angelina Mango.

Angelo Branduardi.

Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.

Anna Falchi.

Anna Galiena.

Anna Maria Barbera.

Anna Mazzamauro.

Ana Mena.

Anna Netrebko.

Anne Hathaway.

Annibale Giannarelli.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Ruggiero.

Antonello Venditti e Francesco De Gregori.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Capuano.

Antonio Cornacchione.

Antonio Ricci.

Antonio Vaglica.

Après La Classe.

Arisa.

Arnold Schwarzenegger.

Asia e Dario Argento.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Barbara Bouchet.

Barbara D'urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Quinta.

Beatrice Rana.

Beatrice Segreti.

Beatrice Venezi.

Belen Rodriguez.

Bella Lexi.

Benedetta D'Anna.

Benedetta Porcaroli.

Benny Benassi.

Peppe Barra.

Beppe Caschetto.

Beppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Guaccero.

BigTittyGothEgg o GothEgg.

Billie Eilish.

Blanco. 

Blake Blossom.

Bob Dylan.

Bono Vox.

Boomdabash.

Brad Pitt.

Brigitta Bulgari.

Britney Spears.

Bruce Springsteen.

Bruce Willis.

Bruno Barbieri.

Bruno Voglino.

Cameron Diaz.

Caparezza.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlos Santana.

Carmen Di Pietro.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carola Moccia, alias La Niña.

Carolina Crescentini.

Carolina Marconi.

Cate Blanchett.

Catherine Deneuve.

Catherine Zeta Jones.

Caterina Caselli.

Céline Dion.

Cesare Cremonini.

Cesare e Mia Bocci.

Chiara Francini.

Chloe Cherry.

Christian De Sica.

Christiane Filangieri.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Claudio Simonetti.

Coez.

Coma Cose.

Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.

Corrado Tedeschi.

Costantino Della Gherardesca.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Donzelli.

Cristiano Malgioglio.

Cristina D'Avena.

Cristina Quaranta.

Dado.

Damion Dayski.

Dan Aykroyd.

Daniel Craig.

Daniela Ferolla.

Daniela Martani.

Daniele Bossari.

Daniele Quartapelle.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Ballantini.

Dario Salvatori.

Dario Vergassola.

Davide Di Porto.

Davide Sanclimenti.

Diana Del Bufalo.

Dick Van Dyke.

Diego Abatantuono.

Diego Dalla Palma.

Diletta Leotta.

Diodato.

Dita von Teese.

Ditonellapiaga.

Dominique Sanda.

Don Backy.

Donatella Rettore.

Drusilla Foer.

Dua Lipa.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Eden Ivy.

Edoardo Bennato.

Edoardo Leo.

Edoardo Vianello.

Eduardo De Crescenzo.

Edwige Fenech.

El Simba (Alex Simbala).

Elena Lietti.

Elena Sofia Ricci.

Elenoire Casalegno.

Elenoire Ferruzzi.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Pedron.

Elettra Lamborghini.

Elio e le Storie Tese.

Elio Germano.

Elisa Esposito.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elodie.

Elton John.

Ema Stokholma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuele Fasano.

Eminem.

Emma Marrone.

Emma Rose.

Emma Stone.

Emma Thompson.

Enrico Bertolino.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Lucci.

Enrico Montesano.

Enrico Papi.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enzo Avitabile.

Enzo Braschi.

Enzo Garinei.

Enzo Ghinazzi in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Erika Lust.

Ermal Meta.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Eva Grimaldi.

Eva Henger.

Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.

Fabio Concato.

Fabio Rovazzi.

Fabio Testi.

Fabri Fibra.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fausto Brizzi.

Fausto Leali.

Federica Nargi e Alessandro Matri.

Federica Panicucci.

Ficarra e Picone.

Filippo Neviani: Nek.

Filippo Timi.

Filomena Mastromarino, in arte Malena.

Fiorella Mannoia.

Flavio Briatore.

Flavio Insinna.

Forest Whitaker.

Francesca Cipriani.

Francesca Dellera.

Francesca Fagnani.

Francesca Michielin.

Francesca Manzini.

Francesca Reggiani.

Francesco Facchinetti.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Sarcina e le Vibrazioni.

Franco Maresco.

Franco Nero.

Franco Trentalance.

Francis Ford Coppola.

Frank Matano.

Frida Bollani.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gabriel Garko.

Gabriele Lavia.

Gabriele Salvatores.

Gabriele Sbattella.

Gabriele e Silvio Muccino.

Geena Davis.

Gegia.

Gene e Charlie Gnocchi.

Geppi Cucciari.

Gérard Depardieu.

Gerry Scotti.

Ghali.

Giancarlo Giannini.

Gianluca Cofone.

Gianluca Grignani.

Gianna Nannini.

Gianni Amelio.

Gianni Mazza.

Gianni Morandi.

Gianni Togni.

Gigi D’Agostino.

Gigi D’Alessio.

Gigi Marzullo.

Gigliola Cinquetti.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giorgia Palmas.

Giorgio Assumma.

Giorgio Lauro.

Giorgio Panariello.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Allevi.

Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.

Giovanni Lindo Ferretti.

Giovanni Scialpi.

Giovanni Truppi.

Giovanni Veronesi.

Giulia Greco.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti: Mogol.

Giuseppe Gibboni.

Giuseppe Tornatore.

Giusy Ferreri.

Gli Extraliscio.

Gli Stadio.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Del Toro.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwen Adora.

Harrison Ford.

Hu.

I Baustelle.

I Cugini di Campagna.

I Depeche Mode.

I Ferragnez.

I Maneskin.

I Negramaro.

I Nomadi.

I Parodi.

I Pooh.

I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.

Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.

Il Volo.

Ilary Blasi.

Ilona Staller: Cicciolina.

Irama.

Irene Grandi.

Irina Sanpiter.

Isabella Ferrari.

Isabella Ragonese.

Isabella Rossellini.

Iva Zanicchi.

Ivana Spagna.

Ivan Cattaneo.

Ivano Fossati.

Ivano Marescotti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

J-Ax.

Jacopo Tissi.

Jamie Lee Curtis.

Janet Jackson.

Jeff Goldblum.

Jenna Starr.

Jennifer Aniston.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Rizzo.

Jim Carrey.

Jo Squillo.

Joe Bastianich.

Jodie Foster.

Jon Bon Jovi.

John Landis.

John Travolta.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli e Gloria Guida.

José Carreras.

Julia Ann.

Julia Roberts.

Julianne Moore.

Justin Bieber.

Kabir Bedi.

Kathy Valentine.

Katia Ricciarelli.

Kasia Smutniak.

Kate Moss.

Katia Noventa.

Kazumi.

Khadija Jaafari.

Kim Basinger.

Kim Rossi Stuart.

Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.

Klaus Davi.

La Rappresentante di Lista.

Laetitia Casta.

Lando Buzzanca.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Le Donatella.

Lello Analfino.

Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.

Levante.

Liam Neeson.

Liberato è Gennaro Nocerino.

Ligabue.

Liya Silver.

Lila Love.

Liliana Fiorelli.

Liliana Cavani.

Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Lorenzo Zurzolo.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luca Abete.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca Barbarossa.

Luca Carboni.

Luca e Paolo.

Luca Guadagnino.

Luca Imprudente detto Luchè.

Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.

Luca Tommassini.

Luca Zingaretti.

Luce Caponegro in arte Selen.

Lucia Mascino.

Lucrezia Lante della Rovere.

Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.

Luigi Strangis.

Luisa Ranieri.

Maccio Capatonda.

Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.

Mago Forest: Michele Foresta.

Mahmood.

Madame.

Mal.

Malcolm McDowell.

Malena…Milena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manuel Agnelli.

Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.

Mara Maionchi.

Mara Sattei.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Baldini.

Marco Bellavia.

Marco Castoldi: Morgan.

Marco Columbro.

Marco Giallini.

Marco Leonardi.

Marco Masini.

Marco Marzocca.

Marco Mengoni.

Marco Sasso è Lucrezia Borkia.

Margherita Buy e Caterina De Angelis.

Margherita Vicario.

Maria De Filippi.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Cucinotta.

Marika Milani.

Marina La Rosa.

Marina Marfoglia.

Mario Luttazzo Fegiz.

Marilyn Manson.

Mary Jane.

Marracash.

Martina Colombari.

Massimo Bottura.

Massimo Ceccherini.

Massimo Lopez.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Maurizio Lastrico.

Maurizio Pisciottu: Salmo. 

Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Gazzè.

Max Giusti.

Max Pezzali.

Max Tortora.

Melanie Griffith.

Melissa Satta.

Memo Remigi.

Michael Bublé.

Michael J. Fox.

Michael Radford.

Michela Giraud.

Michelangelo Vood.

Michele Bravi.

Michele Placido.

Michelle Hunziker.

Mickey Rourke.

Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.

Miguel Bosè.

Milena Vukotic.

Miley Cyrus.

Mimmo Locasciulli.

Mira Sorvino.

Miriam Dalmazio.

Monica Bellucci.

Monica Guerritore.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nada.

Nancy Brilli.

Naomi De Crescenzo.

Natalia Estrada.

Natalie Portman.

Natasha Stefanenko.

Natassia Dreams.

Nathaly Caldonazzo.

Neri Parenti.

Nia Nacci.

Nicola Savino.

Nicola Vaporidis.

Nicolas Cage.

Nicole Kidman.

Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.

Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nino D'Angelo.

Nino Frassica.

Noemi.

Oasis.

Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.

Oliver Stone.

Olivia Rodrigo.

Olivia Wilde e Harry Styles.

Omar Pedrini.

Orietta Berti.

Orlando Bloom.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Paola Barale.

Paola Cortellesi.

Paola e Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Quattrini.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Crepet.

Paolo Rossi.

Paolo Ruffini.

Paolo Sorrentino.

Patrizia Rossetti.

Patti Smith.

Penélope Cruz.

Peppino Di Capri.

Peter Dinklage.

Phil Collins.

Pier Luigi Pizzi.

Pierfrancesco Diliberto: Pif.

Pietro Diomede.

Pietro Valsecchi.

Pierfrancesco Favino.

Pierluigi Diaco.

Piero Chiambretti.

Pierò Pelù.

Pinguini Tattici Nucleari.

Pino Donaggio.

Pino Insegno.

Pio e Amedeo.

Pippo (Santonastaso).

Peter Gabriel.

Placido Domingo.

Priscilla Salerno.

Pupi Avati.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quentin Tarantino.

Raffaele Riefoli: Raf.

Ramona Chorleau.

Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.

Raul Cremona.

Raphael Gualazzi.

Red Canzian.

Red Ronnie.

Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Riccardo Chailly.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Manera.

Riccardo Milani.

Riccardo Scamarcio.

Ricky Gianco.

Ricky Johnson.

Ricky Martin.

Ricky Portera.

Rihanna.

Ringo.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Rusic.

Roberta Beta.

Roberto Bolle.

Roberto Da Crema.

Roberto De Simone.

Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.

Roberto Satti: Bobby Solo.

Roberto Vecchioni.

Robbie Williams.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rolling Stones.

Roman Polanski.

Romina Power.

Romy Indy.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ron Moss.

Rosanna Lambertucci.

Rosanna Vaudetti.

Rosario Fiorello.

Giuseppe Beppe Fiorello.

Rowan Atkinson.

Russel Crowe.

Rkomi.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Sally D’Angelo.

Salvatore (Totò) Cascio.

Sandra Bullock.

Santi Francesi.

Sara Ricci.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sebastiano Vitale: Revman.

Selena Gomez.

Serena Dandini.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio e Pietro Castellitto.

Sex Pistols.

Sfera Ebbasta.

Sharon Stone.

Shel Shapiro.

Silvia Salemi.

Silvio Orlando.

Silvio Soldini.

Simona Izzo.

Simona Ventura.

Sinead O’Connor.

Sonia Bergamasco.

Sonia Faccio: Lea di Leo. 

Sonia Grey.

Sophia Loren.

Sophie Marceau.

Stefania Nobile e Wanna Marchi.

Stefania Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi e Fabio Volo.

Stefano Bollani.

Stefano De Martino.

Steve Copeland.

Steven Spielberg.

Stormy Daniels.

Sylvester Stallone.

Sylvie Renée Lubamba.

Tamara Baroni.

Tananai.

Teo Teocoli.

Teresa Saponangelo.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tina Cipollari.

Tina Turner.

Tinto Brass.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.

Tommaso Zanello alias Piotta.

Tommy Lee.

Toni Servillo.

Totò Cascio.

U2.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Ultimo.

Uto Ughi.

Valentina Bellucci.

Valentina Cervi.

Valeria Bruni Tedeschi.

Valeria Graci.

Valeria Marini.

Valerio Mastandrea.

Valerio Scanu.

Vanessa Incontrada.

Vanessa Scalera.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Pivetti.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Vinicio Marchioni.

Viola Davis.

Violet Myers.

Virginia Raffaele.

Vittoria Puccini.

Vittorio Brumotti.

Vittorio Cecchi Gori.

Vladimir Luxuria.

Woody Allen.

Yvonne Scio.

Zucchero.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Solito pre Sanremo.

Prima Serata.

Terza Serata. 

Quarta Serata.

Quinta Serata.

Chi ha vinto?

Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Superman.

Il Body Building.

Quelli che...lo Yoga.

Wags e Fads.

Il Coni.

Gli Arbitri.

Quelli che …il Calcio I Parte.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …il Calcio II Parte.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Mondiali 2022.

I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I personal trainer.

Quelli che …La Pallacanestro.

Quelli che …La Pallavolo.

Quelli che..la Palla Ovale.

Quelli che...la Pallina da Golf.

Quelli che …il Subbuteo.

Quelli che…ti picchiano.

Quelli che…i Motori.

La Danza.

Quelli che …l’Atletica.

Quelli che…la bicicletta.

Quelli che …il Tennis.

Quelli che …la Scherma.

I Giochi olimpici invernali.

Quelli che …gli Sci.

Quelli che… l’acqua.

Quelli che si danno …Dama e Scacchi.

Quelli che si danno …all’Ippica.

Il Doping.

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Barbara Bouchet.

Barbara Bouchet: "Nessun problema con il nudo, ma rifiutai 'La chiave' e 'Histoire d'O'". Redazione Spettacoli su La Repubblica il 27 Novembre 2022.

"Mai avuto problemi con il nudo. In casa eravamo sei fratelli in una stanza, il nudo era naturale". Barbara Bouchet, una delle stelle del cinema italiano anni 70, si racconta al Torino Film Festival, testimonial del restauro, da parte del Centro sperimentale di cinematografia - Cineteca nazionale, di Milano Calibro 9, il poliziottesco del 1972 diretto da Fernando Di Leo. Nel film Bouchet è la ballerina Nelly, che lavora in un night club, ex amante di Ugo Piazza interpretato da Gastone Moschin.

Una lunga carriera, quella di Barbara Bouchet, iniziata alla metà degli anni 60 e decollata dagli anni 70 in poi che la videro tra le attrici più apprezzate delle commedie sexy italiane. Ma tra le tante proposte, due le rifiutò: disse no - racconta a Torino - a Histoire d'O di Just Jaeckin, poi interpretato da Corinne Cléry e a La chiave di Tinto Brass, che ebbe come protagonista Stefania Sandrelli.

Un personaggio, quello di Milano Calibro 9, che Bouchet è tornata a interpretare di recente nel film Calibro 9 diretto da Toni D'Angelo, sequel ideale del film di Fernando Di Leo. Nel film del 2021 è "mamma" Nelly, che dal personaggio di Moschin ha avuto un figlio, Fernando (Marco Bocci) al quale ha voluto dare un destino diverso da quello paterno, facendolo studiare da avvocato.

Barbara Bouchet: «Ho una sorella bisessuale, lotto per i diritti civili. Mio figlio chef? È stato travisato». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2022.

L’attrice cult: «Alessandro ha fatto una grande gavetta in locali che spesso chiudevano, ritrovandosi in mezzo a una strada. Edwige Fenech? Mai state amiche (ma neanche nemiche)»

«Sono cresciuta in una famiglia in cui non nessuno ha mai fatto differenze di alcun genere. Non per il colore della pelle, non per la religione, tanto meno per il sesso. Mia sorella è sempre stata bisessuale e non è mai stato neppure lontanamente un problema per noi». Barbara Bouchet sarà la madrina della 37 esima edizione del Lovers Film Festival diretto da Vladimir Luxuria che inaugura martedì e fino al 1 maggio si svolgerà presso il Cinema Massimo.

Martedì sera, all’inaugurazione, Bouchet dialogherà a 360° con la direttrice Luxuria parlando a tutto tondo di una carriera di oltre 60 anni che l’ha portata ad essere amata e apprezzata da tutti e tutte. Quentin Tarantino e donne italiane comprese.

Come è nato questo suo madrinaggio al Lovers?

«Un giorno ero in Stazione Centrale a Milano e ho incontrato per caso Vladimir. Abbiamo fatto due chiacchiere poi ci siamo salutate. È tornata indietro e mi ha chiesto il numero di telefono perché, diceva, le era venuta un’idea. Ed eccoci qui».

Quale sarà il suo apporto al festival?

«Porto la mia condivisione, il mio dire assolutamente Si ai diritti civili per tutti. Sostengo che la comunità Lgbtq+ debba avere gli stessi diritti di tutti gli altri».

Quando lei arrivò, l’Italia era razzista?

«All’inizio no. Venivo dalla California dove si conviveva con altre comunità diverse per colore, religione, gusti sessuali. Nessuno lo trovava strano in alcun modo. Ho certamente più amici gay che etero, sono persone squisite con cui ho una grande affinità. Non so dove sarei senza di loro».

Le donne ai tempi dei suoi film sexy morivano di gelosia per lei?

«Le donne italiane mi hanno sempre portato rispetto e dimostrato affetto. Sono loro molto grata. Ancora oggi mi fanno i complimenti che, fatti da una donna, per me, valgono dieci volte di più. Le mie migliori amiche sono tutte donne: Iva Zanicchi, Gloria Guida, Marisa Laurito. Più di tutte Corinne Clery».

Quando era piccola, anche lei è stata una profuga. Cosa ricorda?

«Sono un’immigrata da sempre. La mia famiglia ha dovuto lasciare la Cecoslovacchia a causa dell’invasione russa. Dissero a mio nonno di prendere il suo cappello e di andarsene. Vennero sfollati in un campo profughi in Germania. I bambini, se intorno non ci sono gli orrori della guerra, trovano fortunatamente sempre il modo di adattarsi. Poi siamo andati con i miei genitori in America, raccoglievamo tutti il cotone nei campi. Mi sono sempre arrangiata. Quando vedo cosa sta accadendo in Ucraina, con le vite delle persone in fuga stipate nei loro trolley, la sofferenza mi invade. Prego solo finisca pesto».

Cosa desidera oggi?

«Mi piace tanto il mio lavoro. Le mattine in cui mi sveglio e ho un set dove andare sono felice. Accetto tutto, i ruoli da bisnonna anche. Non sono tormentata dal mio passato, dal ‘Ero considerata una donna bellissima, un simbolo del sesso...’. Mi basta continuare a lavorare e stare bene in salute».

Polemizza sulla mancanza dei ruoli per donne mature?

«È vero, non ci sono, neppure negli Stati Uniti. L’unico posto dove si trovano è la Francia. Io però non mi lamento, piuttosto mi accontento dei ruoli minori».

Era vera la rivalità tra lei e Edwige Fenech?

«Non siamo mai state amiche ma neanche nemiche. Facevamo talmente tanti film entrambe che eravamo ogni giorno occupate su qualche set. I produttori volevano sempre l’una o l’altra».

Suo figlio Alessandro Borghese è in una bagarre mediatica per le sue affermazioni circa il lavorare gratis in cucina per imparare. Cosa ne pensa?

«Credo che sia stato un po’ travisato. Entrambi i miei figli sono stati cresciuti con l’insegnamento di cavarsela da soli, senza aiuti finanziari da parte mia. Alessandro ha fatto una grande gavetta, entrando e uscendo da cucine che spesso chiudevano e ritrovandosi in mezzo a una strada. È un grande lavoratore. Anche io ho fatto gavetta, tenevo gli occhi aperti per capire, imparare». 

Le piace Torino?

«Tantissimo. Qui c’è il migliore pubblico teatrale d’Italia. Al Museo del Cinema regalerò tutti i miei premi che ho ricevuto nella carriera e anche tante altre cose».

Tarantino?

«Grazie a lui tutti i miei film hanno rivissuto una seconda giovinezza. Sarebbero finiti nel dimenticatoio. Non ci volevo credere quando ha detto che ero la sua attrice preferita. Pensare che io non avevo mai visto un suo film, non amo gli splatter».

Vede altri amori nel suo futuro?

«Ho avuto un lungo matrimonio. Sono una che sta bene con se stessa, anche da sola. Se arriva un nuovo amore sono qui ad aspettarlo. Altrimenti va bene così».

Ha un suo film preferito?

«Impossibile dirlo con 120 film alle spalle. Alcuni sono stati pubblicizzati meglio e quindi hanno un posto speciale per il pubblico, come Spaghetti a mezzanotte, Milano calibro 9, Casino Royale…».

·        Barbara D'urso.

Dagospia. Anticipazione dell’articolo di Azzurra Della Penna per “Chi” l'8 marzo 2022.   

«Cara Barbara non sono un corteggiatore in prova, non lo ero neanche allora. Semplicemente sono stato con Barbara per un anno. E quello che a me davvero secca, è che i miei tre ragazzi, che adoro, mi hanno fatto presente che era stata detta questa cosa e c’erano rimasti male. 

E siccome per me i miei figli sono l’unica cosa che conti davvero, mi sono irrigidito e, pur non volendo fare grandi dichiarazioni, voglio capire meglio». 

Così Francesco M. Zangrillo, il broker assicurativo che per un anno è stato legato a Barbara D'urso, mette i puntini sulle” i” in una intervista esclusiva pubblicata dal settimanale “Chi”, dopo le dichiarazioni che la conduttrice ha fatto a “Verissimo” definendolo “un corteggiatore in prova” .

«Io sono una persona per cui uno più uno fa due», spiega Zangrillo a “Chi”. «Se sto con una donna ci sto, siamo una coppia; ho vissuto una relazione, un rapporto bello, le cose possono chiudersi, ma questo non significa... Poi lei è sempre stata attentissima a tutto, non capisco questa scivolata.

Molto probabilmente non sono stati visti bene, accettati nella maniera giusta i motivi della fine. Ci siamo lasciati di comune accordo quando si è compreso che non si andava avanti; io volevo un rapporto di coppia normale, non volevo pubblicità, ma neanche vivere nel segreto di Pulcinella.  Ripeto, la nostra è stata una bella storia e lei è una donna fantastica, però, so che a parti invertite sicuramente avrebbe detto qualcosa, dunque lo dico anche io: “Non ho gradito”».

 E con un tocco di umorismo propone: «Se proprio non possiamo dire “fidanzato”, troviamo una parola che vada bene a entrambi, anzi, che vada bene a tutti, ai figli e ai genitori. E facciamolo non solo per me, ma anche per i prossimi futuri fidanzati che, probabile, non saranno mai fidanzati».  

Andrea Malaguti per la Stampa il 7 maggio 2022.

Maria Carmela d’Urso, detta Barbara, come festeggia i 65 anni?

«Non è la mia età. Cioè: lo è, ma anche no».

Non mi è chiarissimo.

«Non mi importa tanto dell’età. L’età non esiste». 

Lo dice lei che ha il vantaggio del janefondismo, il suo corpo si rifiuta di invecchiare.

«Anche la mia testa. Potrei innamorarmi di un uomo di vent’anni come di 80. I 65 non mi pesano, come non mi sono pesati i 60 o i 50. In ogni caso li festeggio con amici. E non vedo l’ora di celebrare i 70. L’energia non mi manca e il cielo mi vuole bene». 

Prega ancora la Madonna prima di andare a dormire?

«La prego. Ma non prima di andare a dormire. Io odio gli obblighi e gli incatenamenti. Mi rivolgo alla Madonna quando ne ho bisogno». 

E’ molto credente?

«A modo mio».

Qual è il suo modo?

«Sento l’energia. Ce n’è una buona, bianca, positiva. Ma anche una nera, cattiva, che qualcuno cerca di scaricarti addosso. E naturalmente esiste l’energia universale. Ciò detto, nella Madonna ci credo».

Perché la Madonna?

«Per me è importante. Ho anche un ritratto della Madonna del Carmelo qui in camerino».

E’ da lei che viene il suo nome?

«Da lei. Mio padre era di Laurenzana, in provincia di Potenza, dove facevano la processione e mia madre accettò di chiamarmi Maria Carmela per riavvicinarsi alla nobile famiglia del marito che la guardava con qualche sospetto. In privato, però, mi ha sempre chiamato Carmelita. Carmelita D’Urso, non è magnifico?» 

Lo è. Ma lei lo ha tradito cambiandolo in Barbara.

«Ma si rende conto? Mi serviva un nome più nordico». 

Se la ricorda sua madre che la chiama Carmelita?

«Confusamente. Ero molto piccola quando stava bene. Ho questa immagine di lei a letto che per punirmi mi batte il cucchiaio di legno sul sedere e dice: Carmelita, Carmelita, Carmelita. E’ morta che avevo undici anni, dopo quattro anni di malattia. Ricordo gli aghi nelle sue braccia. I lividi neri. Il dolore mio e dei miei fratelli». 

Lo ha mai superato il senso di abbandono?

«Mai. E’ rimasto lì, nel profondo. Assieme all’appesità».

Appesità è una parola molto bella. Ma che significa?

«Non è italiano, lo so. Ma è una distinzione che io vedo con chiarezza. Da una parte c’è l’attesa, che può essere bellissima, magari per una cena o per un appuntamento galante. Dall’altra c’è l’appesità, il limbo, l’impossibilità di sapere cosa sta per succedere, quel vi prego ditemi qualcosa a cui nessuno sa rispondere e che io identifico con la malattia e la morte di mia madre». 

Ha fatto psicoterapia per elaborare l’appesità?

«Moltissima. Ma non solo per quello. L’ho fatta anche per analizzare il rapporto con Mauro Berardi, il padre dei miei figli. Lui è più grande di me. E ha un carattere – come dire – molto ben delineato».

Perché lo scelse?

«Ero follemente innamorata di lui. E lui di me. E’ stato un incontro magico».

Anche il carattere di suo padre Rodolfo era «molto ben delineato».

«Vero. Dice che c’è un nesso?».

C’è?

«Per tutte le figlie il padre è l’uomo della vita. Ci siamo lasciati e ritrovati».

Una volta le tirò due scudisciate col frustino da cavallo.

«Sì. Avevo detto che ero a una festa, ma non era così. Non è mai più successo, ma me le ricordo ancora. Era un uomo severo. Come tutta la sua famiglia di nobili lucani. E severa era mia madre».

Lei è severa?

«Lo sono. Perseguitata da questo rigore morale da cui non so scappare. Se rinasco di sicuro mi comporto in modo più allegro». 

A scappare da Napoli invece ci riuscì.

«Avevo 18 anni. Che potevo fare a Napoli? Mi dissi: ci provo, vado a Milano. Magari faccio la modella. E’ arrivata la tv».

Suo padre come la prese?

«Male. Se te ne vai sei morta. Non ci parlammo per quattro anni».

TeleMilano 58, allora. Teo Teocoli, Claudio Lippi, Silvio Berlusconi. Era un ambiente sessista?

«Per niente. C’era un’atmosfera fantastica. Ogni sera Silvio Berlusconi faceva le riunioni e ci chiedeva dei contenuti dei programmi».

Vi faceva la scaletta?

«No. Ma voleva sapere. Io sono nata con la sua tv».

Come si resiste al corteggiamento di Berlusconi?

«Rispondo solo perché è una cosa di cui parlò lui. Mi fece la corte e io gentilmente la respinsi».

Le mandava dei fiori?

«No, era semplicemente carino. Faceva capire. Girava con un enorme pullman d’acciaio grigio col Biscione stampato sopra. Ricorda? Torna a casa in tutta fretta, c’è il Biscione che ti aspetta. Era la metà degli Anni 70». 

Non c’era chimica tra di voi?

«Ma no, che c’entra. Lui era molto affascinante. Ma era anche il proprietario. Proprio non si poteva. Il rigore morale, appunto. Ho sempre preteso di farcela con le mie forze».

Ha mai pensato: mannaggia, se avessi detto di sì…

«No. Ma in tutti questi anni ci siamo visti molte volte. Con lui, con Marina, con Pier Silvio. Ci vogliamo bene davvero. Qualche anno fa il Cavaliere mi ha detto: Barbara lo sai quello che hai perso, ma sei ancora in tempo. Ci abbiamo riso sopra». 

Lei che rapporto ha con il suo corpo?

«Un rapporto bello. Il corpo mi parla. Mi segnala i miei limiti e le mie possibilità. A lei il corpo non parla?»

Temo in modo diverso dal suo.

«Io sono stata molto fortunata. Non ho mai dovuto fare interventi o ritocchi. Vede anche qui, dietro le orecchie, nessuna cicatrice. È il dna». 

Il suo dna è finito sulla copertina di Playboy e di Playmen. Perché lo fece?

«Non saprei dirlo esattamente. Playmen fu in parte una furbata del fotografo. Playboy fu una scelta vera. Lo avevano fatto anche Stefania Sandrelli e Ornella Muti. Io allora ero molto conosciuta per Domenica In con Pippo Baudo e per lo sceneggiato con Alida Valli».

La Casa Rossa.

«Esatto. Playboy me lo chiese e io dissi di sì. La copertina era bellissima. E si vedeva solo la parte superiore». 

A ripensarci, si imbarazza o non gliene frega niente?

«Non ho mai fatto cose di cui mi sono pentita».

Suo padre che le disse?

«Nulla, non ci parlavamo». 

Come ha recuperato il rapporto con lui?

«Merito di mia sorella Daniela che organizzò l’incontro. Recuperai anche la fede nunziale di mia madre, con incisa la scritta Rodolfo, 26 luglio 1956. Dieci mesi prima che io nascessi. E’ la fede che porto al dito anche oggi». 

Lei è aggressiva?

«Non direi. Certamente sono passionale». 

Ha mai menato nessuno?

«Parla di Scherzi a parte?».

Di quello.

«Mi fecero trovare l’uomo con cui stavo da 5 anni – Sandro, un antiquario che aveva 15 anni meno di me – a letto con una che da tempo ci provava».

Non la prese bene.

«Mi avventai su di lui sputandogli addosso. E poi tirai addosso a lei gli occhiali da sole quando cercò di giustificarsi. Per fortuna c’era mio fratello a tenermi. Pochi mesi dopo, in piazza del Gesù, stavo girando un film. Un signore mi riconobbe e urlò: ueee, quella è Barbara D’Urso che ha sputato addosso a quell’omme e mmerda». 

Berlusconi a parte, ha detto molti no?

«Ovvio. Come tutti. In Rai, per esempio».

Chi?

«Ma si figuri se lo dico». 

Era Pippo?

«Noooooo. Però l’ho visto in mutande in camerino».

Beppe Grillo?

«Figuriamoci. Un amico».

Regali spocchiosi ricevuti?

«Uno spasimante torinese arrivò davanti al mio terrazzo in elicottero e lanciò delle uova di cioccolato».

Servì?

«A niente». 

Parliamo di Memo Remigi?

«No». 

Di Vasco Rossi?

«Nemmeno».

Neanche per dire come vi siete conosciuti?

«In casa discografica. Un’etichetta che aveva solo me e lui. Lui aveva appena inciso Albachiara, io ero più famosa. Era stupendo, e sua madre, Novella, straordinaria». 

C’è una mitologia sulle canzoni che le avrebbe dedicato.

«Mitologia».

Ieri il suo Pomeriggio 5 ha fatto il 18%.

«Siamo passati in uno studio più piccolo, ma la gente continua a volerci molto bene».

Resta a Mediaset anche l’anno prossimo?

«Certo».

Perché le voci di un suo addio, allora?

«Provo a spiegarlo in un modo carino. Ci sono persone ossessionate da me. L’ossessione può spingere a commissionare delle cose da scrivere anche se non sono vere. Magari per fare più click. Uno scrive che sono fidanzata con un Panda, però di pelouche, e il gioco è fatto. Parte la giostra e non si ferma più. Ma io non sono fidanzata con un panda di pelouche e il prossimo anno sarò ancora a Mediaset. Inutile smentire i siti. Né io né l’azienda lo facciamo». 

Resta a Milano, quindi?

«Resto a Milano. E probabilmente farò anche teatro».

Cosa?

«Lo dirò al momento giusto. Ma il progetto è stupendo». 

Le danno fastidio le critiche?

«No. Le maldicenze e le bugie un po’ di più, almeno un tempo. Ma ho capito che la vita è troppo breve per lasciarsi condizionare da chi è ossessionato da te».

Lei non ha ossessioni?

«Una sola: che i miei figli stiano bene». 

Colleghi che stima?

«Carlo Conti e Gerry Scotti».

Donne?

«Maria de Filippi».

Lo dice perché deve.

«Lo dico perché è vero. Il suo successo è un bene per la rete. Dunque anche per me, per Gerry, per Bonolis e viceversa. Una rete illuminata è un vantaggio per tutti. E ai colleghi che stimo aggiungo Silvia Toffanin. Bravissima». 

Non vale. È la moglie del capo.

«Vale. Perché a me di chi sia moglie interessa zero».

Si offende quando dicono: Barbara D’Urso è la regina del trash?

«Non mi offendo, penso solo che le persone non sappiano che cosa significa la parola trash. Ci sono trasmissioni molto più trash della mia. Ma parlare di me è più facile».

Ha paura di morire?

«Certo. Ma non ci penso. Spero solo sia sul colpo». 

All’atomica ci pensa?

«Non penso neanche a quella».

Lo ha visto Lavrov su Rete 4?

«No».

Non ne vuole parlare.

«Non l’ho visto». 

Draghi le piace?

«Mi piace».

Conte o Salvini?

«Niente trappole, grazie».

Gruber o Berlinguer?

«Berlinguer. La guardo e mi piace. E poi ha un cognome che per me significa molto». 

Vota ancora a sinistra?

«Dipende».

Prima o poi ci entra in politica?

«Prima o poi lo faccio».

Maria Carmela Carmelita Barbara d’Urso, le secca che i suoi figli non abbiano il doppio cognome?

«Mi rode il culo da morire, si può dire?». 

L’ha detto.

«Mi secca moltissimo. Ma loro sono molto discreti e già si infastidiranno per le cose che le sto raccontando».

Un anno fa a Candida Morvillo, disse: ho un corteggiatore in prova. L’ha superata?

«In effetti no. Sono sola, ma con un sacco di gente che mi vuole bene. Ogni volta che entro in un bar faccio almeno quaranta selfie». 

Soffocante?

«Piacevole».

Persino il Papa si è spazientito per l’invadenza di una pellegrina cinese.

«Forse sono più paziente di lui. Certo lui è più santo di me».

·        Barbra Streisand.

Barbra Streisand: gli 80 anni della “Woman in love” più premiata della storia. Un'ex ragazzina di Brooklyn cresciuta con l'idea che il destino e volontà sarebbero state le chiavi del suo successo. ALICE PENZAVALLI su Io Donna.it il 25 Aprile 2022.  

Attrice, cantante, produttrice, regista, attivista, diva. Sono molteplici le categorie con cui Barbra Streisand viene comunemente definita, impossibile infatti trovare una sola parola che sintetizzi appieno sessant’anni di carriera. Sei decadi in cui Babs ha ricevuto qualsiasi premio e conquistato la vetta dell’Olimpo delle star più amate di tutti i tempi.

Oggi, all’età di 80 anni, ha diradato le apparizioni pubbliche, ma non ha alcuna intenzione di andare in pensione. L’ultimo album, Release me 2, è uscito lo scorso agosto e ha confermato un importante primato: è l’unica donna ad aver avuto almeno un disco in classifica ogni decade dal 1960 a oggi.

Una carriera musicale folgorante, iniziata quando Barbra aveva circa 20 anni. L’incontro con la musica però è arrivato molti anni prima. Quando, ancora tredicenne, cantava tra le vie di Brooklyn e chiunque conosceva quella ragazzina dalla voce singolare. Una voce ereditata dalla madre, la quale ai sogni di gloria ha sempre preferito la concretezza.

Ciononostante, Barbra continua a cantare, a cercare quel riconoscimento, ma prima del canto arriva la recitazione.

All’età di 13 anni assiste a Il diario di Anna Frank, pièce di Broadway con Susan Strasberg. È un colpo di fulmine. Il sacro fuoco dell’arte inizia a farsi strada e decide che diventerà un’attrice. Un bisogno necessario, forse per trovare una morbida via d’uscita dalla difficile quotidianità.

L’armonia familiare di casa Streisand era stata distrutta dalla morte del padre, quando Barbra aveva solo un anno. «Volevo fare l’attrice. Penso che rappresentasse la mia fuga dalla realtà», ha spiegato in una recente intervista rilasciata a Zane Lowe.

Da quel momento, prova con tutte le sue forze a realizzare il suo sogno, ma senza successo. I no e le porte in faccia non la fermano, perché gli anni a Brooklyn, trascorsi tra difficoltà economiche familiari e contrasti con la madre, l’avevano già fortificata. In quegli anni, Barbra impara a sognare, a sperare in una vita migliore in cui possa essere riconosciuta, ma impara soprattutto ad aggirare l’ostacolo.

«Sono diventata una cantante perché non riuscivo a trovare lavoro come attrice. Sapevo di avere una bella voce perché quando ero piccola a Brooklyn ero conosciuta per essere quella dalla bella voce e senza padre. In un certo senso ero unica».

«La musica mi ha aperto la strada per diventare attrice». Alla fine la tenacia l’ha premiata. Merito non solo del talento, ma anche del modo in cui ha sempre guardato alla vita. «Ho sempre creduto nel caso e destino, ma soprattutto nella forza di volontà. Quando mi chiedono: come sapevi che saresti diventata famosa? Rispondo: perché lo volevo». Una donna tutta d’un pezzo, che è riuscita a realizzare il sogno più grande, percorrendo una strada diversa, altrettanto di successo.

Oltre 150 milioni di dischi venduti e 2 Oscar

Il debutto nel mondo discografico è del 1963 con The Barbra Streisand Album ed è subito un tripudio di riconoscimenti. Tra questi, due Grammy Awards e un disco d’oro. Un esordio potente, che segna l’inizio di una carriera inarrestabile e che l’ha vista diventare una delle cantanti più amate al mondo. Fino ad oggi, ha inciso più di 50 album, per un totale di oltre 150 milioni di copie vendute. Inoltre, ha vinto 10 Grammy Awards. A questi premi, però, vanno aggiunti quelli ottenuti in qualità di attrice.

Sì, perché se si dovesse scegliere un aggettivo per indicare la Streisand, forse sarebbe poliedrica. Benché la grande occasione non sia arrivata subito, ha saputo resistere e persistere, dimostrando la propria caratura anche nel settore che aveva scelto come ripiego.

Il trionfo nella musica, intatti, fa sì che anche il cinema si accorga di lei. Il debutto arriva nel 1968 con Funny Girl, che le vale un Premio Oscar come Migliore attrice protagonista. Non male per un’esordiente che sognava di fare lo stesso mestiere di Anna Magnani, una delle sue muse ispiratrici.

Il grande schermo continua a scritturarla e Barbra Streisand recita in 19 film. Tra questi, oltre Funny girl, Hello, Dolly! e Come eravamo, in cui recita accanto a Robert Redford. Ancora, Funny Lady e A star is born, con cui vince il secondo Oscar per la canzone Evergreen.

Nel 1983 debutta come regista con Yentl, esperienza che ripete nel 1991 con Il principe delle maree e nel 1996 con L‘amore ha due facce, in cui recita accanto a Jeff Bridges e Lauren Bacall.

Nel 2004 e nel 2010 è il turno delle commedie Mi presenti i tuoi? e Vi presento i mostri, mentre nel 2012 torna al cinema con Parto con mamma. Oltre ai due Oscar e ai due Grammy, in sessant’anni di carriera ha collezionato anche 5 Emmy, un Tony Award e ben 11 Golden Globe.

Gli amori, gli omaggi e l’impegno politico

Una carriera longeva e piena di successi, andata di pari passo con una vita privata altrettanto intensa. Nel 1967 dà alla luce il figlio James, nato dall’amore con il primo marito Elliott Gould. Successivamente è stata legata a Jon Peters, Ryan O’Neal, Andre Agassi e Omar Sharif. Nel 1998, dopo due anni di fidanzamento, ha sposato James Brolin.

Sono diversi gli omaggi che il cinema e la musica hanno dedicato a Barbra Streisand. Tra questi, il singolo omonimo dei dj americani Duck Sauce, uscito nel 2010. Di recente, invece, è stata oggetto di una citazione in Licorice Pizza, l’ultimo film di Paul Thomas Anderson in cui Bradley Cooper interpreta l’ex fidanzato Jon Peters.

Tra i suoi spasimanti, un nome spicca tra tutti. Quello del principe Carlo. Il loro incontro risale alla metà degli anni ’70 e si dice che l’erede al trono d’Inghilterra non rimase indifferente al carisma dell’artista.

«Se avessi giocato le mie carte», ha rivelato la Streisand, «sarei diventata la prima principessa ebrea». Oltre a essere una star dello showbiz, è anche una fervida attivista Lgbt e sostenitrice del Partito Democratico americano.

Caterina Soffici per “la Stampa” il 20 aprile 2022.

Quando mi hanno chiesto di scrivere qualcosa per gli 80 anni di Barbra Streisand (li compie il 24 aprile) sono andata su Youtube per riascoltare qualche sua vecchia canzone. L'algoritmo ti propone subito le più famose: Woman in love; Guilty; The Way We Were; Papa, can you hear me? Non so a che punto è entrato nella stanza mio figlio, ventenne. Io questa voce la conosco, ha detto. Sai chi è? ho chiesto sbalordita. Certo, la Streisand. Ecco, in queste tre parole di un ventenne - certo la Streisand - c'è già tutto.

Di come si diventa leggenda globale, icona universale e transgenerazionale è difficile spiegare. Altri artisti hanno scavalcato la loro epoca e sono entrati nelle playlist e nell'immaginario dei ventenni. Ma Barbra Streisand è qualcosa di diverso e piuttosto unico per il modo in cui ha raggiunto il successo, cioè non adattandosi ai modelli di donna necessari ad imporsi, ma imponendo il proprio modello. Che è quello dell'eroina coraggiosa che sfida le avversità, segue i propri sogni, non scende a compromessi e raramente ottiene il lieto fine.

Una bruttina di successo, insomma. Una donna in cui tutte si possono riconoscere, perché il lieto fine oltre a essere stucchevole, accade raramente e solo per brevi periodi. Lei lotta, ma raramente ne esce vittoriosa. 

Quella lotta, ovviamente, è il motivo per cui la amiamo. Come ha osservato il biografo Neal Gabler, i suoi ammiratori apprezzano Streisand non perché rappresenti un ideale irraggiungibile, ma perché si identifiano con lei: «Non sembrava una star del cinema. Somigliava a noi, parlava come noi, si comportava come noi, soffriva come noi». 

La sua voce è innegabile, ma il suo personaggio - il perdente sfacciato e ambizioso - sembra ancora più essenziale per decretarne l'ingresso nella categoria delle donne-icona.

Ho riguardato anche alcuni spezzoni di due suoi film. Prima di tutto Funny girl (del 1968), che contiene elementi fortemente autobiografici. Fanny, una ragazza ebrea di New York con una voce celestiale non riesce a trovare una parte e iniziare la sua carriera teatrale perché non è bella e non corrisponde ai canoni comuni delle ragazze colorate e cinguettanti, doti necessarie per salire sul palco.

La protagonista otterrà la parte e il successo grazie alla sua voce e poi rovinerà tutto per colpa del suo carattere e per non voler fare alcune scelte. 

Ma il capolavoro rimane Come eravamo (del 1973, regia di Sydney Pollack), il film che l'ha consacrata come icona della perdente che tutte vorremmo essere. Anche qui è un'ebrea newyorkese super impegnata politicamente, comunista, pacifista e femminista che ritrova il suo amore del college, il bellissimo e biondissimo Robert Redford nei panni di un conservatore super Wasp (alta borghesia bianca protestante), con cui prova a ricostruire la storia d'amore e da cui avrà anche un figlio, ma dal primo momento lo sai che andrà a finire male, perché troppi sarebbero i compromessi morali da accettare per abbandonarsi all'amore con il tuo opposto, che pure ti attrae.

Lo scambio di battute nella scena finale è da incorniciare: «Tu non molli mai, eh?», chiede lui.

«Solo quando ci sono proprio obbligata. Però so perdere molto bene». «Meglio di me». «Io ho fatto più pratica». Lui se ne va, lei torna a distribuire volantini contro la guerra.

Barbra la perdente, anche se si fatica a definirla così se guardiamo alla carriera di questa donna che ha vinto tutto e di più: 2 Oscar (con questi due film), 5 Emmy, 10 Grammy, 11 Golden Globe, 1 Tony Award, insomma tutti i più alti riconoscimenti nella musica, nel cinema e nel teatro. Più di 50 album, 30 dischi di platino, oltre 370 milioni di dollari guadagnati in una carriera che dura da oltre 60 anni, filantropa e attivista per i diritti civili.

Barbra l'ebrea dal nasone e dalla lingua tagliente, nei panni di personaggi femminili che sono alieni alle altre donne e non si capisce mai bene se sia l'identità ebraica a fare la differenza e a renderli così estranei. Barbra l'eroina alla rovescia, Barbra che non rinuncia alla lotta, per ottenere ciò che merita, ma che raramente ne esce vittoriosa.

Le bombe sexy degli schermi della sua generazione morivano di amore romantico e/o tragico oppure si sposavano con il principe azzurro. I personaggi di Barbra vengono lasciati spesso da uomini spaventati dalla sua intensità o dal suo carattere o dalla sua fermezza morale, o vengono traditi. Ma che sollievo vedere che queste donne imperfette, anche insopportabili certe volte, sopravvivono lo stesso e non si strappano i capelli se non arriva il vissero tutti felici e contenti.

·        Beatrice Quinta.

Da corriere.it il 17 Dicembre 2022 

Ormai per la notorietà si è disposti a tutto. E arrivare secondi a X Factor evidentemente non basta. Beatrice Quinta, una delle cantanti più note dell’ultima edizione del talent, che aveva colpito il pubblico per le canzoni, lo stile e il modo di stare sul palco, ha pubblicato un video hot venerdì pomeriggio. Sulla sua pagina social c’è appunto una clip - che in poco meno di un’ora ha già oltre 50mila visualizzazioni - con un estratto della sua canzone “Se$$o”, presentata proprio al talent di Sky.  

Nel video si vede la Quinta con un paio di stivali azzurri fino al ginocchio, occhiali da sole neri e una pelliccia fucsia con il colletto nero. La cantautrice cammina, a Milano, sul binario della metropolitana gialla e quando arriva il treno si volta verso la telecamera, apre la pelliccia e la lascia cadere a terra. Restando, inevitabilmente, nuda, anche se il video è pixelato. «Io che prendo la metro e vengo da te» si legge come didascalia (che poi è anche un verso della canzone).

La cantante siciliana è seguita su Instagram da oltre 100.000 followers. Sui social sono arrivate anche molte battute sulla possibile reazione di Rkomi, che durante il programma aveva manifestato il suo interesse nei confronti della cantante.  

Una volta finito il talent, la seconda classificata è stata interpellata sulla possibilità di vederla al fianco di Rkomi e ha risposto così: “Non credo proprio. In questo momento sono troppo concentrata su X Factor e sul prossimo futuro. Sono stata sempre una donna che ha seguito gli uomini, in questo momento della mia vita vorrei, invece, curarmi di me e in particolare che il focus mio e del pubblico sia sulla mia musica. Sento il bisogno, francamente, di essere seguita in quanto Beatrice ed artista e non perché Rkomi mi vuole sc**are“.

·        Beatrice Rana.

Leonetta Bentivoglio per “il Venerdì di Repubblica” l'11 luglio 2022.

Buone notizie, ogni tanto: la 29enne leccese Beatrice Rana è oggi una pianista osannata ovunque. È come una fresca bandiera della cultura italiana nel mondo. Questa ragazza snella e intensamente bruna, che sorride con solarità magnetica, corre nel successo a una velocità formidabile. Arduo non divenire vanitosi o supponenti se si è applauditi fin dall'infanzia. 

Figlia di due pianisti, Beatrice affrontava lo strumento con una speciale disinvoltura già a tre anni. Eppure, malgrado la sua storia, è sbocciata nell'età adulta come una donna equilibrata e generosa.

Intanto si moltiplicavano le conferme del suo talento d'eccezione. Poco prima dell'esame di maturità vinse il concorso pianistico di Montréal e nel 2013 ottenne il secondo posto nell'ottimo concorso nordamericano creato dal pianista Van Cliburn. Da allora l'astro nascente vola nei cieli delle star. Quando suona cattura le platee con la sua ineffabile compostezza. Sembra immune dall'ansia. 

Controlla la tastiera con un piglio sovrano. È una regina che possiede il dono della calma. Filtra in una spontaneità apparente un patrimonio tecnico impressionante. Entra nei sentimenti della musica come se fosse libera da tutto. 

Benché acclamata nelle migliori sale del pianeta, Rana non dimentica il suo luogo d'origine, «a cui mi sento legatissima», riferisce durante il nostro incontro. «Mi piace restare ancorata alle radici e restituire qualcosa alla mia terra».

Con quest' obiettivo, sei anni fa ha inventato a Lecce e nella zona circostante il festival Classiche Forme, che tra pochi giorni, dal 17 al 23 luglio, proporrà concerti in preziosi luoghi storici pugliesi e nella campagna del Salento. 

Questa densa sfilata di musica cameristica si è sviluppata nel tempo in modo sempre più significativo: «Ormai gli spettatori giungono anche dall'estero per godere di una settimana di musica incorniciata da contesti informali», spiega lei. «Intanto il pubblico locale, anche quello giovanile, si è fatto partecipe e coinvolto». L'identità del festival, dove naturalmente suonerà pure Beatrice, è data dalla costituzione di gruppi di musica da camera formati da giovani promesse e stelle consacrate. 

L'edizione 2022 s' intitola Contrasti, riferendosi sia al gioco di accostamenti tra solisti di fama e nomi nuovi, sia al fatto che il cartellone, insieme al repertorio più illustre, presenta pagine rare. Risuoneranno tra masserie, frantoi, giardini, campi di ulivi e antichi chiostri. 

Beatrice Rana, possiamo definire Classiche Forme un matrimonio tra arte e natura?

«Vorrebbe esserlo. La bellezza del Salento, che derivi dall'arte umana o dagli straordinari paesaggi naturali, accoglie la beltà immateriale della nostra musica. 

Nei dodici appuntamenti ho cercato di modellare impaginazioni non prevedibili, che rendano ogni evento un'esperienza unica per gli interpreti e il pubblico, disegnando mappe di percorsi eterogenei per tonalità, stili, forme e organici. L'intento è quello di suscitare ogni volta curiosità e coinvolgimento emotivo».

Pezzi sconosciuti vengono eseguiti accanto a brani di autori come Ciaikovskij e Shostakovich.

«È la filosofia "contrastata" che anima la rassegna. Amo prendere rischi.

Nella prima edizione, temendo che non venisse nessuno, programmai solo musiche famose. 

Quel mio festival iniziale fu un azzardo e un banco di prova in un territorio non abituato a imprese del genere. Ora mi spingo anche in dimensioni musicali ignote o trascurate e vivo queste indagini come estensioni del mio essere pianista». 

Si è sentita sempre profondamente salentina?

«Ho capito di esserlo quando sono stata invasa dalla nostalgia. Prima cercavo la fuga. Dopo aver studiato in Puglia, a Monopoli, con Benedetto Lupo, andai in Germania, nel Conservatorio di Hannover. 

Furono quattro anni fondamentali. Però in quella fase mi resi conto fino a che punto mi mancava la mia regione con il suo clima, il suo cibo, il suo mare, i suoi colori Quando Lupo divenne docente nei corsi di perfezionamento a Santa Cecilia, fui ben felice di tornare in Italia per proseguire gli studi guidata da lui. Hannover era grigia, squadrata. A Roma trovai un'esplosione di sole e di cose stupende da vedere. Ho scelto di abitarci, prendendo casa nel quartiere Prati. E appena posso vado a rigenerarmi in Puglia».

Applica il suo talento organizzativo pure alla sua carriera?

«Ho 80 o 90 concerti fissati ogni anno, sempre con molto anticipo. So già gli impegni del prossimo triennio. La tabella di marcia dev' essere strutturata e rigorosa. Sono io a decidere i miei appuntamenti e mi consulto soltanto con poche persone: la mia famiglia, il mio maestro Benedetto Lupo, il mio compagno Massimo Spada, che è un pianista. Mi ero ripromessa: con un pianista mai! E invece». 

Dove brilla in questo periodo Beatrice Rana, oltre che nel festival leccese?

 «Ho appena finito di registrare un disco dedicato a Bach e a giugno ho fatto una bella tourneé negli Stati Uniti, dove tra l'altro ho debuttato con la New York Philharmonic. In questo mese di luglio, a Baden-Baden, prima di andare a Lecce per Classiche Forme, suono pezzi sia di Robert Schumann che di sua moglie Clara.

Riproporrò un progetto sugli Schumann a Roma nell'arco della prossima stagione concertistica di Santa Cecilia, dove nel 2022-2023 sarò "artista in residenza" e collaborerò con i direttori Antonio Pappano e Jakub Hrua. 

Mi sto immergendo nella lettura degli scritti di Clara, che confessava di temere di non essere accettata come compositrice in quanto donna. Fu un'autrice meravigliosa e merita un ampio riconoscimento».

Beatrice Rana: «Le donne nella musica classica? La battaglia è solo all’inizio». Emanuele Coen su L'Espresso il 25 Maggio 2022.

La prevalenza maschile di compositori e direttori d’orchestra («Spesso mi definiscono “bella e brava”: a un uomo non potrebbe succedere»). La tournée negli Usa («Suonerò i grandi russi, sul palco la guerra non esiste»). Il festival "Classiche Forme” e il legame con la sua terra. Colloquio a tutto campo con la grande pianista salentina.

La sua terrazza è un lembo di Salento nel quartiere Prati, a Roma. Sul pavimento le “chianche”, le lastre di pietra leccese che brillano al sole, tutto intorno vasi di piante grasse, a terra le “fiasche”, i tipici bottiglioni verdi. «Le ho ereditate dai miei nonni, facevano il vino», dice Beatrice Rana, orgogliosa della sua terra. Tra una tournée e l’altra, infatti, la grande pianista leccese, 29 anni e un bel numero di premi, ritaglia uno spazio per “Classiche Forme” (17-23 luglio, sesta edizione), il festival internazionale di musica da camera da lei ideato per musicare i luoghi d’arte e le campagne del Salento tra memorie d’infanzia, cultura contadina ed eccellenze storiche. Attorno a sé raduna amici provenienti da ogni parte del mondo, talenti e star affermate, che si esibiscono in luoghi non convenzionali: antichi chiostri, masserie, abbazie, biblioteche. Da qui comincia la nostra chiacchierata, in cui la concertista riflette sulle questioni di genere, sul ruolo della donna nel mondo della musica e nella società, sui compositori russi e la guerra.

Beatrice Rana, con quale spirito nasce il festival “Classiche Forme”?

«Quest’anno si intitola “Contrasti”, in ragione dell’apparente contrasto tra i luoghi che musichiamo e i repertori che presentiamo. Di solito la musica classica trova spazio sui grandi palcoscenici, in “ClassicheForme” invece i concerti si svolgono nei luoghi iconici del Salento più autentico. Il festival è nato in un frantoio ipogeo, poi l’abbiamo portato nelle masserie, in un chiostro, in campo aperto tra gli ulivi. È un modo per coniugare le mie due grandi passioni: la musica, ovvero la mia professione, e la mia terra, il Salento, dove ho vissuto fino a diciotto anni prima di trasferirmi in Germania».

Si sente legata al Salento?

«Paradossalmente ho imparato ad amare di più la mia terra quando me ne sono andata. La musica mi ha portato in giro per il mondo, amo tantissimo viaggiare, ma oggi sono davvero riconoscente nei confronti del Salento».

È cresciuta insieme a sua sorella Ludovica, anche lei musicista, violoncellista. Che rapporto avete?

«Un rapporto molto viscerale, di solidarietà e sorellanza in senso stretto come si direbbe oggi. Siamo sempre state compagne di avventura, fin da piccole, e la musica ci ha unite ulteriormente, suoniamo spesso insieme e siamo l’una la migliore amica dell’altra. E anche la peggiore nemica se c’è qualcosa che non condividiamo: ce ne diciamo di tutti i colori finché non troviamo un accordo».

Lei è nata in un paesino, Arnesano. E oggi è una donna di successo. La sua storia sfata molti luoghi comuni.

«Quando si parla di Sud tutti immaginano una società patriarcale e maschilista, ma chi conosce meglio il Salento e la Puglia sa che la nostra società è profondamente matriarcale. Penso alla mia famiglia, a modi di dire come: “Vado a casa di mia madre” anche se si va da entrambi i genitori. Non so in quale maniera, consapevole o meno, questo aspetto abbia influito sulla mia vita. Certo, mi ha aiutato il fatto di avere dalla mia parte due genitori musicisti, che non hanno mai posto limiti alla mia immaginazione. Detto questo, sono felice di essere una donna del terzo millennio: cinquant’anni fa per una ragazza come me sarebbe stato impensabile fare la pianista».

La storia della musica classica è stata scritta dagli uomini: compositori, interpreti e direttori d’orchestra. Per quale motivo?

«In realtà le compositrici sono sempre esistite, ma non potevano pubblicare musica con il proprio nome. Mi viene in mente Fanny Mendelssohn, una donna meravigliosa, sorella del famoso compositore tedesco Felix Mendelssohn. Lei pubblicava i propri lavori con il nome del fratello, un po’ come Emily Brontë. Oppure un tempo le compositrici usavano degli pseudonimi. Per quanto riguarda i direttori d'orchestra, invece, credo che il motivo del ritardo sia culturale. La figura di leader, capo dell'orchestra, è sempre stata maschile, legata all’idea di comando».

Oggi la situazione è cambiata?

«C’è ancora molto da fare, la battaglia non è ancora finita. Penso alle recensioni in cui mi definiscono “bella e brava”: gli verrebbe mai in mente di descrivere un interprete maschile “bello e bravo”?»

È favorevole alle quote rosa?

«Da donna mi sento offesa quando sento parlare di quote rosa: credo che una persona debba raggiungere posizioni di rilievo per merito, non per legge. Tuttavia, mi rendo conto che questo argomento serve a scuotere le coscienze, la sensibilità dell’opinione pubblica. In futuro riusciremo a trovare un equilibrio di buon senso, perché una cosa è certa: uomini e donne devono avere le stesse le stesse opportunità».

Già da qualche tempo, tuttavia, le soliste hanno molto spazio. È una moda?

«La mancanza di equità infatti non riguarda le strumentiste, ma compositrici e direttrici d'orchestra. Nel mio piccolo, sono reduce da una tournée in Germania in cui ho suonato il concerto di Clara Schumann, donna favolosa dell'Ottocento, piena di talento, che scrisse questo concerto all’età di 14 anni. Arrivata alla maggiore età si sposò e accantonò la sua attività. “Scrivere musica non è compito di noi donne. Come faccio a pretendere una cosa del genere?”, disse».

Come si può invertire la rotta?

«Quando ho iniziato a fare i primi concorsi pianistici avevo otto o dieci anni. A vincere erano sempre la bambine: diligenti, brillanti, brave. Ma crescendo il loro numero si riduceva drasticamente. Ancora oggi all’età di vent’anni la proporzione è del tutto a favore dei maschi. E non è un problema solo italiano».

Perché accade?

«Non riesco a dare una spiegazione precisa. Forse la disillusione perché non esistono tante figure femminili di riferimento: oggi le pianiste, tanto per fare un esempio, rappresentano solo il 10 per cento del totale».

Nel mondo della musica è in corso una guerra di genere?

«Forse è un po’ esagerato definirla così. Il caso di Clara Schumann, tuttavia, dimostra che anche nel mondo della musica si avverte la necessità di un cambiamento culturale. Oggi c'è maggiore consapevolezza della questione di genere delle programmazioni artistiche, anche se molto resta da fare. L'altro giorno su Twitter ho visto la classifica del numero di lavori femminili programmati dalle orchestre americane, ancora il divario è fortissimo».

A proposito, nelle prossime settimane attraverserà gli Stati Uniti per una lunga tournée. Cosa si aspetta?

«Sono molto eccitata all’idea. Il pubblico americano è molto caloroso, spesso mi hanno applaudito con standing ovation. Sono già stata a marzo scorso, alla Carnegie Hall di New York, un luogo straordinario. Per la prima volta ho suonato nella sala grande, incredibile pensare che lì siano passati tutti, da Vladimir Horowitz a Miles Davis».

In America eseguirà esclusivamente brani di due autori russi: Petr Ilic Cajkovskij e Sergej Rachmaninov. Non ha pensato di modificare il programma dopo lo scoppio della guerra in Ucraina?

«Assolutamente no. I veri crimini di guerra, secondo me, consistono nel fare vittime ingiustificate, e oscurare i compositori russi significherebbe fare una vittima ingiustificata. La musica russa è straordinaria, fondamentale, e nel festival “ClassicheForme” ospiteremo anche un duo di musicisti ucraini. Il palcoscenico è un luogo pacifico, magico, in cui le bassezze umane non esistono».

·        Beatrice Segreti.

Cosimo Curatola per mowmag.com il 29 maggio 2022.

Beatrice Segreti, in arte Bea Secrets: 25 anni, un profilo OnlyFans e decine di interventi a La Zanzara. Su Instagram si fa vedere sempre coperta da una maschera di pizzo, racconta che ha venduto una bustina di pipì a 120 euro, che non bacia gli altri uomini con cui va a letto assieme al marito. 

E che spesso, nelle sue fantasie, preferisce non raggiungere l'orgasmo. Ha venduto un video a mille dollari ma non bestemmierebbe mai per un cliente. L’abbiamo contattata per una lunga intervista in cui ha parlato di tutto, da quando vinceva le gare di nuoto sincronizzato alle prime volte in un club per scambisti. 

Quando le chiediamo se ha mai pensato ad un film porno risponde “se fosse, sarebbe solo con Rocco” e, tra i volti della TV, sceglie Alberto Angela. Nella vita di tutti i giorni però, si sente una casalinga e non dà importanza al denaro. Partiamo dall’inizio. 

Chi è Bea Secrets?

“Ho 25 anni, nel mio privato mi sento una casalinga. Ho mio marito e una casa che mi piace curare. Sono stata istruita un po’ come mamma casalinga, apprezzo tantissimo lo stare a casa. 

Sai, sono stata costretta nel mio paese per un periodo molto lungo della mia vita e finalmente, all’età di 18 anni, sono riuscita a riprendermi un po’ la mia indipendenza. Sotto un certo punto di vista ho sofferto l’adolescenza. Anche se la mia famiglia non mi ha mai fatto mancare nulla volevo scoprire il mondo, sono molto curiosa”. 

Come è iniziato tutto? La tua voglia di farti vedere, OnlyFans: come è successo?

“Sono un’esibizionista di natura, da quando sono piccola mi piace mostrarmi. Da piccola facevo nuoto sincronizzato, sono stata anche una campionessa e mi è sempre piaciuta un po’ di competizione. Adesso nel mio lavoro non c’è, ma mostrarmi è rimasto...

E nel tempo è diventato più sessuale, fisico. Alle medie ho avuto un periodo in cui mi sentivo molto maschiaccio, ero anche leggermente sovrappeso. Quando mi sono ripresa ho detto va bene, adesso voglio essere considerata. Anche perché le cose belle nella vita vanno godute, giusto?”. 

Giusto.

“Prima di Alex (il marito, ndr.) era divertimento, sesso ed esibizionismo, tutto però più adolescenziale: ti metti la minigonna, lo spacco quando esci in discoteca, cose che fanno un po’ tutti. Con Alex è stato diverso, abbiamo 18 anni di differenza e quando ci siamo conosciuti ero molto giovane. 

Lui è stato bravissimo, voleva stare un po’ al passo di questa ragazza calorosa e ha iniziato a fotografarmi. Da lì abbiamo capito che avevamo scatti bellissimi, così abbiamo iniziato a pubblicare le foto in piattaforme che consentivano il nudo. Inizialmente è stato artistico, poi con la richiesta dei fan è diventato un nudo più esplicito.

La gente ha iniziato a seguire, a chiedere: a quel punto è nato un gioco di coppia in cui abbiamo cominciato a mostrarci un po’ anche fuori dal nostro ambiente privato. Stuzzicare al ristorante, al bar, cose così... tutto molto naturale comunque”. 

Che periodo era?

“Parliamo del 2018, 2019”. 

Il tuo lavoro oggi cos’è? Lavori sulla base di quello che ti chiedono i fan, seguite una scaletta, ti lasci ispirare?

“Soprattutto l’ultima, mi faccio ispirare dalle situazioni. Magari ci eccita l’idea di fare una sega o un pompino a uno sconosciuto - tipo che passiamo in macchina e gli chiediamo se vuole salire - e se ci piace cerchiamo di renderlo un prodotto, anche se OnlyFans certe cose non le consente. Comunque non lo facciamo ogni giorno, a volte diventa lavoro e altre volte sono cose che ci teniamo solamente per noi. È giusto anche suddividere le due cose”. 

La prima volta che sei andata in un locale per scambisti? Come è stato?

“Posso dire di aver fatto parecchie esperienze, all’inizio ero molto curiosa. Si tratta un po’ del mio habitat, lì sono tutti un po’ esibizionisti e si fanno vedere, ci si stuzzica. Col tempo però mi sono resa conto che per me è tutto troppo scontato e superficiale, il gioco in questi locali si limita solamente a quello che vedi. 

Per me invece è importante la mente, la situazione inaspettata, il non programmare nulla, la trasgressione con una persona che non se l'aspetta: non è eccitante vedere un uomo che mi guarda con l’uccello in mano come succede spesso nei club scambisti. Finché non mi stuzzichi la testa... il corpo viene dopo. Anche perché io non vado a guardare il corpo, ho anche gusti abbastanza particolari".

Per esempio?

“Mi piacciono gli uomini maturi, dai quaranta in sù. Non è per il numero, è il modo di fare, il fascino, è una cosa che si sente e si vede. E soprattutto pretendo di essere trattata come una donna, non come carne da macello. E pretendo anche di essere essere scopata bene, non da film porno. 

Quello spesso è un riferimento per i ragazzi più giovani, a volte pensano che basta trivellare una donna per dare piacere. A me piace farlo in maniera passionale, mentale, usando tutti i cinque sensi e tutti i piaceri che le varie parti del corpo possono dare. 

La parte più bella è proprio quella iniziale, del flirt, del desiderio… e pensare a cosa succederà di lì a poco. Questo mi fa impazzire. Ma se lo pretendo è perché io, in primis, mi sento di dare tutto al mio partner. Per me fare un pompino è una delle cose più eccitanti e piacevoli al mondo, perché il piacere dell’uomo a cui lo faccio (o degli uomini) diventa il mio piacere. 

Non lo faccio tanto per fare, mi sento molto geisha in questo. Se parliamo di estetica invece mi piacciono quelli grossi e abbastanza alti, barba e capelli brizzolati mi fanno impazzire... Ma in realtà mi piacciono anche quelli calvi. Apprezzo molto il tipo curato, poi però puoi essere come vuoi: parti sempre dalla mente e dall’eleganza,  smettiamola di dire che l'abito non fa il monaco. Se un uomo si veste bene e tiene al proprio aspetto, naturalmente per me è più attraente perché prima di tutto bisogna trattare bene sé stessi”. 

L’amore secondo Beatrice Segreti?

“Allora, non è che quando ci si mette assieme, o ci si sposa, bisogna lasciarsi andare. No, ogni giorno è un impegno, i giochi che facciamo io e Alex sono anche uno dei modi più efficaci per mantenere la relazione interessante. Noi esseri umani siamo condannati ad annoiarci e io sono una che si annoia molto. 

Se fossi più fisica che mentale probabilmente scoperei ogni giorno e mi annoierei. Invece no, molto spesso quando mettiamo in pratica una di queste fantasie decido di non venire. Perché così rimane una grande eccitazione, un desiderio che riesco ad usare per avere ancora più voglia di fare, di creare. L'orgasmo, nonostante tutto, in un certo senso spezza questo stato di grazia. Non deve diventare lo scopo di tutto. Se si impara questo piccolo autocontrollo, dopo ci si gode ancora di più". 

La richiesta più folle di un cliente?

“Di richieste ne ho avute tante, non voglio dire assurde perché nella sfera sessuale tutto è molto soggettivo. Tempo fa un cliente mi ha chiesto di fare la gattina: mi sono vestita da gatta, ho messo un plug con la coda e una ciotola di latte per terra. 

Dovevo fare la gattina, girare attorno alla ciotola e leccare il latte. Mentre facevo questo mi masturbavo. Inizialmente è stato strano, poi eccitante. Mi sono sentita animale, a tratti impotente”.

Ci sono cose però che non faresti mai.

“Il primo tabù che abbiamo come coppia, ed è fondamentale, è niente baci in bocca con altri uomini. Questo gesto lo riserviamo a noi due, è la nostra piccola esclusiva, per ora. In futuro poi non lo so. Con donne sì, assolutamente. Poi le cose troppo aggressive, come i dildo grossi nel culo, quelli non mi fanno eccitare. 

Di video con dildo anal ne ho fatti pochissimi e uno l’ho venduto a mille dollari. Ultimamente ne ho fatto un altro molto costoso ma con una o due dita, perché per fare anal devo essere veramente eccitata. L'anal è stupendo ma richiede il suo tempo per apprezzarlo e per goderselo fino in fondo. 

Preferisco farlo nel mio intimo e semmai filmare e pubblicare. Altra cosa che mi hanno chiesto e che ho sempre rifiutato sono le bestemmie. Io sono molto credente, non religiosa ma credente. E non mi piacciono neanche le parolacce, magari ‘sono la tua puttana’, ‘ scopami come una troia’ va bene, anzi mi piace, però niente cattiveria. Faccio fatica”. 

Hai letto di questa storia...

“Di Dubai? Si, certo! (Il porta potty, ndr.) Con le mie amiche ci chiediamo quale sarebbe il prezzo per cui inizi davvero a pensarci. Secondo me si parte dal presupposto che i soldi non sono tutto. Io non prenderei 500.000 euro per baciare un altro uomo lontano da mio marito. Questa storia della cacca posso capirla per gente che lo fa per soldi, per bisogno. Però non credo lo farei mai. 

Il tema qui è che chi ha tutto in realtà non ha niente. Se finisci a chiedere una cosa del genere, così schifosa ed estrema, è perché non c’è più niente che ti rende felice. Però non penso sia una gioia cagare in bocca a una tipa, poi cosa ti rimane? Ecco perché credo che i soldi non abbiano potere nella felicità”. 

Ti hanno mai chiesto di spedirne?

“Sì, ma non lo farei mai. La cacca assolutamente no, è un altro mio tabù. Già il pissing, per me, è difficile da ricevere. Probabilmente lo farei nel mio intimo, con il mio partner e un altro uomo, ma devo essere molto eccitata. In video però no, non credo”. 

Dici spesso ‘nel mio intimo, con il mio partner e un altro uomo’. Essere in tre è alla base del sesso per voi?

"La base siamo io e il mio partner. Da qui parte tutto. A letto io e Alex facciamo il sesso migliore possibile. Sesso appagante unito ad un amore profondissimo. Tutto il resto è qualcosa in più, che non deve diventare una necessità ma che amplifica i piaceri e l'eccitazione. 

La terza persona per noi è un toy, un gioco. E magari lo sono anche io per lui. Tutto dipende dalla serenità che si crea tra di noi, se al mio compagno non piace questa persona allora è sicuramente esclusa anche per me. Quando scegliamo un terzo - che è quasi sempre un uomo - cerchiamo di creare sempre situazioni un po’ particolari”. 

L’ultima volta che hai fatto sesso solo per gusto, senza le telecamere?

“Ieri sera. Ma te l'ho detto, io faccio sesso sempre per gusto, con o senza telecamere. Non cambia nulla. Altrimenti non farei quel che faccio". 

E per lavoro?

"Ieri pomeriggio. Dopo pranzo ho fatto un video dove mi masturbavo per un mio fan storico. Mi è piaciuto molto, ho provato un nuovo toy. Spesso dopo aver fatto sesso con una telecamera voglio un momento solo per me e Alex, dove possiamo fare l'amore e rivivere con la fantasia quanto accaduto poco prima. 

Certe esperienze te le porti dietro per settimane, anche mesi, e sono un mezzo per eccitarsi. Amo parlare mentre faccio sesso, il sesso silenzioso è come un concerto a basso volume.” 

Quanto guadagni in un mese?

“Potrebbe essere tanto per alcuni, molto poco per altri. Comunque siamo attorno ai 30.000 dollari al mese, dai quali bisogna togliere la percentuale di OnlyFans, le tasse e altre spese". 

OnlyFans è molto competitivo, però sei riuscita ad emergere. Secondo te perché?

“Tutti partono dal presupposto che con OnlyFans si facciano i soldi facilmente e che tutte le ragazze  guadagnino cifre da capogiro. Non è vero, niente di più sbagliato: è un messaggio fuorviante, anche e soprattutto per le ragazze che, leggendo queste cose, si illudono che mostrare le tette o il culo, per quanto bello sia, farà loro guadagnare. 

In realtà le performer come me e altre ragazze in Italia sono pochissime. Su OnlyFans il 99% delle ragazze (una percentuale che non dico a caso, è proprio quella reale) possono guadagnare 100, 500, massimo mille dollari al mese, e comunque con parecchio lavoro. Poi c'è il rimanente 1% che arriva a 20, 50, 150 mila dollari. 

Le ragazze di questo 1%, in Italia, sono una trentina. In tutto il mondo le cosiddette 'Top 1%' sono qualche migliaio e io in questo momento sono nella 'Top 0,3%'. È un po' come fare lo scrittore: chi sfonda fa tanti soldi, chi non ci riesce rimane nella sua cerchia. Le percentuali sono così in ogni mestiere. 

Quanti tennisti o calciatori ricchi e famosi ci sono rispetto a chi gioca a tennis o a calcio occasionalmente? Probabilmente lo 0,1%. Ecco, OnlyFans è uguale. C’è chi vende un quadro a 50 euro e chi invece a 50 mila euro. Potrei fare mille esempi”. 

Chiarissimo.

“E comunque c’è una montagna di lavoro dietro, non basta un corpo bello o un video in cui lo metti dentro per bene. Questa è un’illusione, come quella di fare tanti soldi mostrando poco. Ci vuole coraggio per fare quel che faccio. 

E chi dice che è un lavoro facile, perché non ci prova? Poi tra un anno ne riparliamo. Io posso dire che mi è andata bene perché non lo faccio per guadagno ma per divertimento. E la gente lo capisce, anche dietro a uno schermo, se lo stai facendo per piacere o per soldi. La chiave è il divertimento, ma anche l'eccitazione”. 

Lo faresti un film con Rocco Siffredi?

“Non so neanche se riuscirei a bagnarmi sul set, io mi sento una ragazza normale. Con Rocco però sarebbe diverso, è una curiosità che ho verso di lui. E non intendo un qualsiasi porno attore famoso, perché ho avuto tante richieste e ho sempre detto di no. 

Rocco dà l’idea di uno che sa proprio farci con una donna, che sa come prenderla, emana un calore molto selvaggio. E non è un ragazzino, sa come comportarsi. Credo mi scoperebbe molto bene”. 

Ti senti femminista?

“Lo dici perché ho i peli sotto le ascelle? Ora sto sudando come una vacca per questi peli, ma non ho bisogno di farlo per emanciparmi dalla società: a me non frega un cazzo di nessuno. E non ho neanche bisogno di sbatterti in faccia che mi sento obbligata, lo faccio perché per me è sexy, mi piace. A volte le spiegazioni di certe scelte sono molto più banali di quanto si pensi. Ho molti iscritti che mi chiedono di vedere un po' di pelo. Poi magari tra una settimana lo tolgo completamente".

Ok, chiudiamo coi titoli. Ti dico una professione, tu rispondi col nome di quello che ti porteresti a letto più volentieri. Partiamo con il politico.

“Ah, d’accordo. Come politico dico Luca Zaia, per il suo carisma e determinazione. È uno dei pochi politici che mi ispira fiducia, non per il partito di cui fa parte che non mi interessa ma perché dà l'impressione di pensare prima ai cittadini e poi alle apparizioni in tv e a tutto quello che non dovrebbe essere un politico”. 

Uno sportivo?

“Marcell Jacobs. Nel mondo sportivo faccio fatica ad identificare un uomo che mi catturi particolarmente, sono tutti molto giovani. Ma Jacobs mi sembra un ragazzo molto bello e mi dà l'impressione di essere una persona semplice, genuina”. 

Ok, sai che MOW è anche motorsport, quindi ti chiedo un pilota.

“Tutta la vita Alex Zanardi. Il suo spirito guerriero, la tua tenacia. E' un esempio per chiunque, anche per me”. 

Un personaggio televisivo?

“Alberto Angela. Il perfetto esempio che la prima parte del corpo da scoparmi è il cervello!”. 

Va bene. Un attore?

 “Diego Abatantuono. Per i suoi primi film, che mi hanno sempre fatto impazzire dal ridere e per il fascino che emana oggi. Lo adoro!”. 

Per ultima, una risposta scontata: un giornalista?

“Giuseppe Cruciani. E' affascinante, brillante e soprattutto dice quello che pensa senza preoccuparsi dei giudizi altrui. Adoro quando dice ‘il massimo della violenza verbale, il minimo della violenza fisica’. 

E concordo totalmente con lui quando dice che la fedeltà non esiste. Nel senso, non è una condizione del corpo. È un valore che appartiene al cuore, non agli organi genitali. La fedeltà fisiologica è solo una ridicola convenzione borghese imposta da questa nostra società”.

·        Beatrice Venezi.

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 27 novembre 2022.

Il rumore sottile della critica. Il maestro (desidera essere chiamata così) Beatrice Venezi, consigliere per la musica del ministero della Cultura, vorrebbe istituire un albo per la professione di critico professionista, dopo «un percorso di formazione» (o di rieducazione?). La proposta inquieta: «Oggi chiunque sia dotato di uno smartphone si erge a critico. E certe "critiche", possono esaltare o affossare la carriera di un artista. Ecco perché penso a un percorso di formazione specializzato e a un albo dei critici professionisti».

Da anni si parla di «morte della critica», del sempre minore spazio che le tocca nei media, della sua sempre più debole capacità di agire sulla cultura contemporanea, ma quello che sembra allarmare il maestro sono i giudizi sconclusionati sui social. Ma come può un «albo» porre freno alla natura stessa della Rete, dove chiunque è libero di dire la sua? E poi l’istituzione di tale albo ci ritufferebbe in periodi neri della nostra storia: torniamo alle corporazioni?

L’analisi critica può non servire a nulla, ma insegna una sola cosa: la libertà di pensiero, del come si sta al mondo da critici e non da manutengoli.

Al consigliere Venezi, grande star di spot tricologici, suggerirei di vedere il film Ratatouille, dove un vecchio topo spiega a cosa serve la critica.

Lettera del M° Beatrice Venezi al "Corriere della Sera" il 2 dicembre 2022.

Esimio Dott. Grasso, è evidente che con la mia proposta abbia toccato un Suo nervo scoperto. La Sua irritazione si evince dalla Sua reazione scomposta e da alcune definizioni ignobili e offensive da Lei utilizzate, quale ad esempio «manutengoli», termine che Le chiedo pubblicamente di esplicitare in considerazione della gravità dello stesso.

Manutengoli di chi, per l'esattezza?

Su una cosa ha ragione: la critica è morta, e proprio da questa riflessione nasce la mia proposta. Per quanto Lei cerchi di strumentalizzarla, le mie parole sono chiare: ridare valore alla critica di qualità attraverso persone qualificate e competenti che possano trovare il giusto spazio nei quotidiani e nelle riviste specializzate. Una critica competente, avulsa da rapporti di forza o di convenienza e supportata da una congrua formazione. Nelle mie parole, per quanto Lei si sforzi di mistificarle, non può trovare traccia di alcuna volontà di censura; ognuno è e sempre sarà libero di scrivere le proprie opinioni sui social, su un blog o altro, ma ritengo sia giusto ridare dignità alla figura del critico musicale o artistico, così come avviene nella stragrande maggioranza dei Paesi che frequento per lavoro in Europa e al di fuori.

Lei, dall'alto della Sua posizione di barone del giornalismo italiano, cerca di sminuire e ridicolizzare il mio valore e la mia carriera addirittura con frasi sessiste (citazione tricologica); ma noi giovani siamo per natura irriverenti e Le rispondo che i suoi patetici tentativi di gettare discredito non mi intimoriscono, né mi feriscono, anzi, rafforzano in me la convinzione della bontà della proposta. Questo è un bell'autogol, egregio Dott. Grasso, e la prova che il livore confonde l'intelletto.

Inoltre, non ho mai avuto il piacere di vederLa ad un mio concerto, pertanto Le chiedo: su che cosa si basa la Sua critica nei miei confronti, oltre alle offese? Ed ancora, Lei in quanto critico televisivo ha anche competenze musicali nello specifico mondo della lirica e della sinfonica o recensisce solo il Grande Fratello e gli influencer? Io ho esperienza del mondo musicale al di fuori dei confini nazionali e proprio il confronto con altre realtà internazionali mi porta a fare proposte che possano aiutare il nostro Paese a migliorare lo stato dell'arte.

Quanto alla tricologia, è un'esperienza di cui vado fiera perché mi ha consentito di mantenere me stessa e i miei studi senza chiedere niente a nessuno. E anzi La ringrazio per la citazione perché il Suo intervento ha aumentato sicuramente le mie quotazioni e quelle dell'azienda.

In conclusione, forse dovrebbe informarsi meglio prima di scrivere un articolo, a meno che non confonda questo pressapochismo astioso e ridicolo con il diritto di critica che tanto si affanna a difendere.

Risposta di Aldo Grasso

Esimio maestro Beatrice Venezi, mi spiace molto che lei non abbia un amico o un'amica cui far leggere una lettera prima di inviarla a un giornale.

Forse avrebbe potuto evitare alcuni inconvenienti, come confondere l'ironia con l'astio, il diritto di critica con il discredito. La sua lettera, così violenta e «irriverente», dimostra innanzitutto che lei ha letto con superficialità il Padiglione di domenica scorsa (succede ai «giovani»), che lei non sa bene in cosa consista l'esercizio della critica, che lei confonde problemi oggettivi con insofferenze personali. Se scrivo che la libertà di pensiero insegna come si sta al mondo da critici e non da manutengoli (etimo: tenere mano) non mi riferisco a lei ma a un problema generale. Curioso poi che lei riconosca tutte le persone che vengono ai suoi concerti, non devono essere molte.

Confesso: non sono mai venuto ma l'ho vista più volte in tv, spot compresi, e non intendo certo occuparmi di critica musicale né ho mai espresso alcun giudizio sul suo lavoro. Si ritenga fortunata che non c'è più Paolo Isotta. Altrettanto, però, potrei dire di lei: non conosce che mestiere faccio, non conosce i miei libri, nemmeno quelli dedicati specificatamente al tema della critica. Un'amica o un amico l'avrebbero aiutata a evitare tanta mal posta veemenza e tanto pressapochismo, ora che ricopre una carica istituzionale.

Beatrice Venezi: «Penso a un albo per i critici musicali. Morgan? La sua visione sarà necessaria». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2022

La popolare direttrice d’orchestra è stata nominata consigliere per la musica dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. «Il Fus? Servono più controlli, non deve essere utile solo a ripianare i debiti degli enti. Parlerò con Morgan, lui è prezioso»

Maestro Venezi, se lo aspettava?

«Diciamo che con il ministro Gennaro Sangiuliano ne stiamo parlando da un po’».

E da poco è arrivata l’ufficialità: lei è stata scelta come consigliere per la musica, «scavalcando» Morgan.

«Con Marco (Castoldi, in arte Morgan, ndr.) ci siamo scritti dei messaggi. Lui ha ironizzato sull’aver pianto per questa sua esclusione, ma io gli ho ribadito che la sua visione sarà necessaria nel percorso che stiamo per intraprendere, perché non c’è solo la musica classica, che è il mio ambito di lavoro, ma c’è anche altro, in cui lui può essere prezioso».

Maestro, di cose da fare ce ne saranno tante.

«Può dirlo forte. Purtroppo la pandemia ha assestato duri colpi al settore dello spettacolo e in particolare della musica, dunque prima di tutto io devo pensare alla tutela e alla valorizzazione degli artisti. Prendiamo il caso della musica: l’artista è pagato a prestazione, dunque le spese anticipate per le prove, per esempio, non sono coperte. Penso che sia da rivedere questo meccanismo, prendendo esempio da altri paesi, come la Francia, per dire, dove all’artista è riconosciuto uno status ben diverso e dunque le tutele sono maggiori».

Da dove intende cominciare?

«Per esempio da una diversa regolazione del Fus, fondo unico per lo spettacolo. Nella visione che vorrei proporre, non devono essere fondi che servono unicamente a ripagare i debiti degli enti, ma un supporto vero agli artisti. Gli scopi del Fus sono buoni, lo voglio sottolineare, ma c’è bisogno di maggiori controlli prima e dopo l’erogazione, a mio parere. E poi mi lasci dire qualcosa a proposito dell’identità».

Un tema che le è molto caro.

«Sì, perché penso che non si conosca abbastanza il nostro patrimonio culturale. Chi segue il mio lavoro sa bene che per me la divulgazione della musica e la vicinanza con le generazioni più giovani sono importanti. Penso a dei tavoli incrociati con il ministero dell’Istruzione, per esempio. E poi c’è la questione del merito. L’artista va valorizzato per quello che sa fare. E sostenuto anche economicamente».

Forse quello del merito è qualcosa che riguarda anche i critici.

«Lei tocca un altro punto che mi sta a cuore. Vedo che oggi chiunque sia dotato di uno smartphone si erge a critico. E certe “critiche”, chiamiamole così, possono esaltare o affossare la carriera di un artista. Ecco perché penso a un percorso di formazione specializzato e a un albo dei critici professionisti. Nella mia visione mi spingo oltre: non solo per la musica, ma per la critica tout court. Penso che ci sia bisogno di inquadrare meglio i ruoli».

Sembra di capire che lei voglia lavorare soprattutto sulla figura dell’artista, è così?

«Proprio così. E le dirò di più. In Italia c’è troppa esterofilia. Cantanti, musicisti, direttori d’orchestra di altri Paesi riempiono i cartelloni. Per carità, il merito è merito e con questo non voglio dire di essere contraria ad ingaggiare professionisti non italiani. Ma penso che ci sia bisogno di sostenere anche i nostri. Non solo in Italia, ma anche quando si espongono all’estero, in contesti internazionali».

Infine, un dettaglio sulla qualifica: lei ha insistito per essere chiamata Maestro e non Maestra, dicendo che «Maestro» è un titolo accademico preciso. Ora, «Consigliere» non è un titolo accademico: chiederà di essere chiamata «Consigliera»?

«Io preferirei essere chiamata “Consigliere per la musica”. Ma se a qualcuno scappa il femminile non ne farò una questione di principio, mettiamola così».

Da repubblica.it. il 30 Agosto 2022.

“Mi vergognerei se avessi una madre come la Cirinnà, che pubblica la foto ‘Dio, Patria e famiglia, che vita di m…’, che invece sono proprio i miei valori”. Beatrice Venezi, giovanissima e popolare direttrice d’orchestra, o meglio, “direttore”, come ha ribadito più volte che vuole essere chiamata, fa suo il motto “Dio, patria, famiglia”, coniato dall’ex segretario del Partito Nazionale Fascista, Giovanni Giurati. Il padre di Venezi, come ha più volte ricordato la figlia, è un dirigente di Forza Nuova.

E lo fa chiamando in causa Monica Cirinnà, dirigente del Pd e candidata al Senato in uno dei collegi romani. Venezi fa riferimento a un cartello contro il motto fascista portato dalla senatrice in piazza in durante una delle tante mobilitazioni femministe organizzate in occasione dell’8 marzo 2019 e che non mancò di scatenare polemiche. 

La frase, pronunciata da Venezi durante un’intervista, è stata poi ripresa da Fratelli d’Italia che l’ha fatta sua usandola per una card pubblicata sui social.

Puntuale, e sempre via social, arriva anche la risposta di Cirinnà: “Ringrazio la direttrice (anzi il direttore, non vorrei si offendesse!) Beatrice Venezi e Fratelli d’Italia per avere ricordato che loro si rifanno agli stereotipi patriarcali del ventennio e noi, invece, no”. 

Venezi è finita in questi giorni sotto i riflettori della campagna elettorale: prima il suo nome è comparso nel toto-candidati di Fratelli d’Italia, (candidatura rifiutata per non togliere tempo al suo lavoro), poi per aver ottenuto il ruolo di direttrice artistica della Fondazione Taormina Arte, facendo scoppiare un caso diplomatico con il sindaco della città Mario Bolognari, all’oscuro alla nomina.

Beatrice Venezi: «La destra riconosce il valore della cultura musicale per il Paese. La sinistra no». Concerti in tutto il mondo, libri e un album dedicato alle eroine dimenticate della tradizione lirica. E poi la politica e la leadership. Dialogo a tutto campo con l’artista e direttore d’orchestra. «Rivendico il diritto di non allinearmi». Sabina Minardi su L'Espresso il 27 giugno 2022.  

“Fortissima” hanno titolato le Éditions Payot la traduzione francese del suo ultimo libro, “Le sorelle di Mozart”. Folgorante attributo di un’intensità che scavalla musica e partiture. E descrive un modo di muoversi, nella vita e nel lavoro: a 32 anni, Beatrice Venezi, nata a Lucca, direttore d’orchestra tanto più fedele alla tradizionale nomenclatura maschile quanto più numerose le reazioni provocate, si muove rapidissima da un’apparizione televisiva a un palcoscenico internazionale, da uno spot a Spotify, da un memoir a un nuovo album, dal red carpet di Cannes al palco allestito davanti a Buckingham Palace per celebrare la regina Elisabetta II. E con un piglio da numero uno esercitato nello spietato microcosmo che è un’orchestra, tira dritto: sulle diatribe sessiste e sull’essere diventata un emblema accattivante della destra al potere. Rivendicando un’immagine glamour e una vivace presenza sui social. «È stato un anno davvero intenso, di soddisfazioni. Ma soprattutto di grandi prospettive. Sono fatta così: non riesco a crogiolarmi in ciò che vivo, continuo a guardare avanti, a ciò che deve essere fatto».

Il coraggio, la resilienza, la tenacia, la forza di volontà. Con “Heroines”, il suo ultimo album, ha compiuto un viaggio tra le eroine della tradizione lirica e tra esempi diversi di femminilità. Quale di queste qualità le appartiene di più?

«Un po’ tutte. Nell’album, ma anche nel mio ultimo libro, “Le sorelle di Mozart”, che parla di compositrici dimenticate, volevo rendere omaggio a donne che hanno avuto un ruolo specifico e forte nella musica. Un modo per contribuire a un cambio di narrazione della storia femminile. Si parla sempre di eccezioni alla regola, invece di storie di successo di donne ce ne sono tante non sufficientemente raccontate. È importante portarle alla luce, perché possono creare una nuova consapevolezza, soprattutto tra le più giovani, del nostro valore nella storia».

Giovanna D’Arco, Isotta, Evita, la Regina di Saba... C’è, tra queste figure, una che sente più “sorella”?

«Forse Ildegarda di Bingen, perché ribalta l’idea del Medioevo come periodo oscuro e di grandi privazioni. Dimostra, al contrario, di essere una donna liberissima, nella composizione, nel pensiero, nel parlare in pubblico, nell’essere consigliere di Federico Barbarossa e nel redarguirlo addirittura: la sua è una storia estremamente moderna. Un’altra figura che ho sentito vicina è quella di una compositrice francese, Louise Farrenc, che nell’Ottocento lottò per la parità salariale, e la ottenne. E poi ci sono le eroine dell’opera, che mi fanno sempre riflettere. La prima di tutte è Lady Macbeth di Shostakovich, vessata, umiliata, molestata per tutta la vita, che a un certo punto decide di conquistare la sua libertà. E lo fa attraverso l’omicidio, ben consapevole della reazione a catena che potrà scatenare, ma abbracciando lo stesso la sua scelta, nel modo più amorale possibile. O immorale: interessante la nuance dell’italiano, no?».

Sprovvisto di morale. O apertamente contro…

«Ecco: io ho sospeso il giudizio morale rispetto a queste eroine. Le donne sono sempre le prime a essere giudicate sotto il profilo morale, e a giudicarsi tra di loro. Io, sia che si parli di Giovanna D’Arco, eroina per eccellenza, che di Evita Perón che lotta per il suffragio universale, di Lady Macbeth o di Medea che uccide i figli, ho sospeso il giudizio. E evidenziato i tratti comuni: la determinazione, il coraggio, la forza di uscire dal coro. Anche quando sanno perfettamente a quali conseguenze porteranno le loro azioni, queste donne hanno il coraggio di andare avanti».

Oggi è una donna di successo. È più contenta per sé o per ciò che questo successo può rappresentare per altri giovani artisti?

«In questo momento ho la possibilità di rappresentare tante cose di cui sono fiera: prima di tutto, l’italianità in contesti internazionali. Ma rivendico anche l’essere contro il sistema, l’accademia, contro quell’atteggiamento elitario che cerca di tenere fuori le novità. Detta in parole povere: io non vengo da una famiglia di musicisti, cosa che spesso succede nel mio ambiente, pieno di “figli di”. E non discendo neppure da quei grandi direttori d’orchestra che considerano i propri allievi come loro filiazione, una forma di emanazione del loro potere. C’è in me il desiderio di rappresentare tutte quelle persone che decidono di uscire dal coro. Da ribelle quale sono, rivendico il diritto di non allinearmi».

Ribelle. E con una precisa idea di leadership: l’ho sentita intervenire più volte sull’argomento.

«È vero, spesso vengo chiamata nelle aziende per parlare di questa tematica. Mi piace diffondere l’idea di una leadership più partecipativa, più coinvolgente, che tributi il giusto riconoscimento alle persone. Credo che promuovere questo tipo di cultura stia diventando un’urgenza. Anche perché, se ci pensiamo, l’unica cosa che una persona vuole nella vita è essere riconosciuta per il proprio valore. Nel nostro Paese si fa ancora fatica».

Per raggiungere riconoscibilità e successo, serve un’appartenenza politica? Glielo chiedo perché lei ha diretto l’orchestra dei Virtuosi italiani al Concerto del Primo maggio di Fratelli d’Italia. Alla Conferenza è intervenuta con un appassionato discorso, dicendo che non si sente rappresentata da uno Stato che consente discriminazioni sul lavoro, sulla base del genere, della propria opinione e della simpatia politica. È una donna di destra? E quanto conta?

«Credo che sia necessario distinguere tra schierarsi dal punto di vista partitico e schierarsi contro un sistema. L’essere stata presente alla convention è stato un impegno personale e professionale. Il fatto che venisse finalmente richiesta la musica classica, la grande tradizione del nostro Paese, all’interno di un concerto del Primo Maggio, mi ha dato un senso di liberazione: finalmente qualcuno si rendeva conto, in un contesto politico importante, di quella che è la nostra radice culturale. Perché quello che non si vede in questi anni è proprio questo: considerare la cultura come valore fondante di un Paese. Trovare una parte politica che riconosce ciò è raro. E personalmente è una cosa che apprezzo molto».

Come apprezza Giorgia Meloni: più volte le ha apertamente espresso la sua stima.

«Sì. Ho molta stima di Giorgia Meloni, come donna, prima di tutto. Una donna del genere nel nostro panorama politico italiano, e non solo, non l’abbiamo ancora vista, sinceramente. Queste sono considerazioni personali che faccio, più che una vera e propria appartenenza a uno schieramento politico. Apro le braccia a una parte politica che finalmente riconosce l’importanza della cultura e della nostra tradizione come valore fondante di un Paese. Ed è la prima volta che lo vedo».

A sinistra non ha trovato la stessa apertura?

«Assolutamente no. E ricordo anche che, durante il lockdown, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha detto che gli artisti sono quelli che ci fanno tanto divertire. Se noi siamo questo, vuol dire che alla cultura e all’intrattenimento culturale non è riconosciuto alcun valore fondante e decisivo per il Paese. Questo almeno è ciò che viene è percepito. Ed è una percezione sempre diffusa nel mio ambiente. Che pure, notoriamente, sta da un’altra parte. Ma proprio quella parte politica che negli ultimi venti-trenta anni doveva essere di supporto alla cultura è stata la prima a utilizzarla per mantenere dei baluardi di potere. E basta».

La politica la tenta?

«No, al momento no. Mi piace l’idea della politica come l’origine della parola suggerisce, come cura del bene comune. Mi piace lavorare nella cultura. Adesso, per esempio, ho lanciato un progetto di educazione musicale con De Agostini Scuola per le scuole medie, per proporre un’educazione all’ascolto, cioè un’educazione alla scoperta del nostro patrimonio culturale e musicale. Credo in questo tipo di azioni politiche».

E con i social che rapporto ha?

«I social sono un modo per comunicare in modo diretto con un pubblico con il quale è necessario recuperare un rapporto, a maggior ragione dopo il Covid. E mentre è difficile riportare le persone a teatro, mi fregio del fatto che quasi tutti i miei concerti sono sold out. E c’è un motivo: perché riesco ad intercettare anche un pubblico di non addetti ai lavori, a incuriosirlo e a portarlo a teatro. Questo è il motivo per il quale sono così esposta mediaticamente e utilizzo i social».

Anche gli abiti sono una passione?

«Adoro. Ma questo ormai è... spoilerato». 

"Le lobby culturali sono solo a sinistra. Meglio l'estero: lì l'ideologia non conta". Sabrina Cottone il 30 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il direttore d'orchestra domani all'evento Fdi: "Giorgia ricorda una fanciulla del West vittoriosa, perché è una donna coraggiosa".

Maestro Beatrice Venezi, dal suo podio in quale opera vedrebbe Giorgia Meloni?

«Non so se glielo auguro perché la stragrande maggioranza delle eroine dell'opera fa una brutta fine. Forse una Fanciulla del West vittoriosa, perché è una donna coraggiosa, sicura di sé, forte dei propri valori, che prende posizioni anche scomode».

E per Fratelli d'Italia?

«Non conosco la realtà dall'interno. Il concerto del Primo maggio al MiCo, vivaddio di musica classica, per me è un impegno professionale e non politico. Se ci sono lobby culturali non sono a destra, ma a sinistra».

Allora non vuole candidarsi?

«Non è nei miei orizzonti, nessuno me l'ha chiesto ma mai dire mai».

Lei vuole essere chiamata direttore e non direttrice, non ama le quote rosa, ha criticato gli eccessi del Me Too. Non ha mai subito molestie?

«Vere e proprie molestie no, battute di persone da cui mi sono tenuta lontana. Ma è altrettanto violento non poter prendere posizione liberamente senza paura di ritorsioni».

Lei si esprime liberamente.

«Infatti lavoro e ricevo riconoscimenti per lo più all'estero, dove le simpatie politiche e ideologiche non contano».

Che ne pensa del doppio cognome per i figli?

«È la prassi anche in Paesi apparentemente più conservatori di noi, come la Spagna. Ci sono donne che vogliono prendere il cognome del marito e altre no. Credo stia alla sensibilità personale».

Prenderebbe il cognome di suo marito?

«Forse no. Mi piace il mio cognome. Sono fidanzata e innamorata, aspetto il momento propizio per avere figli. Non dico che sia facile coniugare lavoro e famiglia, anzi per il primo maggio bisognerebbe impegnarsi in questo senso».

Aiuti alle donne che desiderano fare le casalinghe?

«Anche. Ci sono Paesi che sostengono economicamente le donne che decidono in libertà di stare a casa e occuparsi dei figli».

Ha diretto l'orchestra di Odessa e ha lavorato in numerosi Paesi dell'Est. Che cosa ha cambiato la guerra?

«Sta portando a un cancel culture della cultura russa. Giovani pianisti non hanno potuto esibirsi. Sono stati cancellati concerti di Chajkovskij e ostakovi».

Il momento più difficile della sua carriera?

«È una difficoltà quotidiana dover essere sempre pronta, schivare cattiverie e invidie gratuite».

A trentadue anni che significa per lei far parte della consulta femminile del Pontificio consiglio per la Cultura?

«Rimarrei ore a bocca aperta ad ascoltare il cardinale Ravasi. Ci sono donne di tutte le fedi ed è un grande arricchimento».

Il suo autore preferito è Mozart?

«Non lo escludo dalla rosa dei miei preferiti, ma sono una pucciniana doc».

A che cosa sono ispirati i suoi abiti?

«Mi volevano far dirigere vestita da uomo ma più mi dici che non posso fare una cosa e più la faccio».

·        Belen Rodriguez.

Daniela Lanni per “La Stampa” il 5 ottobre 2022.

Quella di ieri sera per Belén Rodríguez è stato un ritorno in tv molto atteso che le ha permesso di indossare la duplice veste di conduttrice e, per la prima volta, di inviata de Le Iene. «Quando è arrivata la notizia scalpitavo dalla felicità, mettere un po' di me e del mio mestiere nella trasmissione, mi ha emozionata» racconta il giorno dopo. 

È protagonista in prima serata, su Italia 1, insieme a Teo Mammucari della nuova stagione del programma di Davide Parenti, dallo stile irreverente e satirico. Tra i servizi della prima puntata il suo, su un argomento molto delicato, la dismorfofobia. Un disturbo psicologico che nasce dall'eccessiva preoccupazione per difetti fisici, anche immaginari, che porta chi ne soffre a vivere uno stato di inadeguatezza e disagio profondo. 

Ha incontrato persone affette dalla patologia, psicologi e specialisti. Cosa l’ha colpita?

«Il fatto che è un argomento molto attuale e può colpire tutti. Nello specifico in studio abbiamo invitato una persona che non accetta il suo naso. In realtà è piccolo, bello, eppure lei lo vede diversamente, facendolo diventare un problema. È un tema delicato perché può incidere a livello comportamentale. C’è chi si chiude, interrompe tutti i rapporti sociali e si rintana in casa». 

Il tema è l’accettarsi o farsi accettare?

«Il riflesso di noi che dà lo specchio è completamente diverso da come gli altri ti vedono. Soprattutto come ti vedono sui social. Noi siamo i primi a costruirci un’immagine che spesso è dissonante da quella che è la nostra realtà. Secondo me di questo disturbo ne soffriamo tutti un po’. Spesso i social media ci portano a recitare una parte e perdiamo di vista la realtà di tutti i giorni. Mai come oggi». 

Come preservarsi dai social?

«Ci vuole un approccio ponderato ma la consapevolezza la acquisisci con l’età. Se segui le tendenze ti senti spesso inadeguata. Anche io sono stata vittima di attacchi sui social e tante volte mi sono sentita fuori moda. Mi è servito smettere di guardare spesso Instagram o Tik Tok e concentrarmi su quello che volevo comunicare, ciò che è consono alla mia vita, alla mia età, alle mie capacità e interessi. Altrimenti diventa un’ossessione, nulla di costruttivo, ma una macchina che ti può fregare il cervello». 

A lei è capitato?

«Ho una signora, un vero leone da tastiera, di cui non dico il nome, che da otto anni si crea mille profili per insultarmi. Solo qualche giorno fa ha diffuso un’ultima notizia fake su di me. C’è da aver paura. Bisognerebbe che le autorità intervenissero affinché ciò non accada. Ci vorrebbero maggiori controlli. Io sono un personaggio famoso, ora so reagire e mi dissocio da queste notizie, ma chi non è abituato a ricevere insulti oppure offese può subire gravi ripercussioni».

Quali situazioni l’hanno messa maggiormente in difficoltà?

«Mi hanno ferito molto quando hanno puntato il dito sui miei figli e me, scrivendo frasi come “non sei una brava mamma” o “cosa ci fai con questo vestito troppo corto”. A causa del mio lavoro sono una persona esposta. Lo so. E non sono contro chi fa commenti o evidenzia cose che non vanno bene. Credo, però, che si debba parlare per aiutare a migliorare qualcuno, non per offendere e basta. Si dovrebbe essere costruttivi». 

Anche le donne belle hanno problemi con sé stesse. Lei che rapporto ha con la bellezza?

«Mi interessa essere in forma e mi curo molto. Sicuramente la bellezza è stata lo strumento che ho utilizzato per entrare nel mondo dello spettacolo. Ma in modo sano, senza strane fisse. Certo anche io ho dei giorni in cui mi vedo bene, altri in cui mi piaccio meno. Però, oggi, sono più concentrata sulla crescita personale dei contenuti. La bellezza è effimera. Un giorno ce l’hai e il giorno dopo se n’è andata via perché gli anni passano per tutti». 

Ha raggiunto i 15 anni di carriera. Nel curriculum la moda, la tv, il cinema. Va oltre il suo immaginario?

«Sono la persona più felice del mondo. Soddisfatta perché ho raggiunto dei traguardi giganteschi che non mi sarei aspettata. E posso dire forte che oggi inizia la mia seconda carriera».

E pensare che suo papà che frequentava la chiesa protestante non le faceva accendere la tv perché “non era costruttiva”. Ha cambiato idea?

«Mio papà è molto fiero. Oggi lo ringrazio per l’educazione che mi ha dato. Anche mia mamma. Devo dire che i miei genitori sono i miei primi fan». 

Il 2012 è l’anno in cui ha conosciuto Stefano De Martino. Tra alti e bassi ora siete tornati insieme. Quale corda ha toccato suo marito per avere sempre un posto nel suo cuore?

«Stefano le ha toccate tutte: do, re, mi, fa, sol, la, si. E oggi siamo davvero molto felici».

Belen, la dismorfofobia e l'odio subito: "I social possono fregarti il cervello". Tornata nel doppio ruolo di conduttrice e inviata de Le Iene, Belen Rodriguez ha parlato del potere dei social network e della necessità di accertarsi prima di mostrarsi. Novella Toloni il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Le Iene sono tornate a mordere. Il ritorno su Italia Uno del programma più irriverente di Italia Uno ha segnato una grossa novità. Il doppio ruolo di Belen Rodriguez, conduttrice al fianco di Teo Mammucari e inviata. E nella sua prima inchiesta la showgirl argentina è partita forte, trattando il delicato argomento della dismorfobia, un disturbo psicologico che scaturisce da una preoccupazione cronica e immotivata per un difetto fisico (spesso immaginario) che porta chi ne soffre a sentirsi inadeguato.

Belen alle Iene ha parlato proprio di questo. Un tema che, seppur in piccola parte, colpisce ciascuno di noi persino la stessa Belen che - intervistata da La Stampa - ha ammesso: "Anche io ho dei giorni in cui mi vedo bene, altri in cui mi piaccio meno. Ma oggi, a quarant'anni, so che la bellezza è effimera e sono concentrata su altro". Chi soffre di dismorfofobia, come la figlia di Paul Gascoigne, Bianca, trova impossibile accettare i propri difetti, molto spesso presunti e immaginari, arrivando a isolarsi o addirittura a rifiutare se stesso. E Belen ha spiegato: "Noi siamo i primi a costruirci un'immagine che spesso è dissonante da quella che è la nostra realtà. Secondo me di questo disturbo ne soffriamo tutti un po'. Spesso i social media ci portano a recitare una parte e perdiamo di vista la realtà di tutti i giorni".

Belen su Instagram e i social

Secondo la showgirl argentina, l'approccio al web dovrebbe essere differente, ma non a tutte le età si ha la consapevolezza necessaria per poter affrontate il giudizio degli altri: "Ci vuole un approccio ponderato ma la consapevolezza la acquisisci con l'età. Se segui le tendenze ti senti spesso inadeguata. Anche io sono stata vittima di attacchi sui social e tante volte mi sono sentita fuori moda". Lei oggi ha superato quell'impasse, limitando l'accesso ai social network (Instagram e Tik Tok) e concentrarmi su quello che volevo comunicare per evitare di cadere in "un’ossessione, in una macchina che ti può fregare il cervello".

"Io e Stefano...". Belen confessa: cosa è successo col giudice

Degli hater, invece, aveva già parlato poche settimane fa, invitandoli a fare un "giro sulla giostra" per provare sulla loro pelle attacchi e giudizi sprezzanti. E poi ha raccontato di essere perseguitata da molti anni da una donna. "C'è una signora, un vero leone da tastiera, di cui non dico il nome, che da otto anni si crea mille profili per insultarmi. Solo qualche giorno fa ha diffuso un'ultima notizia fake su di me. C'è da aver paura", ha rivelato Belen parlando della necessità di un intervento mirato da parte delle autorità contro i profili fake e gli hater.

Belen Rodriguez: «Sono dovuta fuggire dall’Argentina. Così ho salvato la mia famiglia». Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 30 Settembre 2022.

La showgirl: «A casa era vietato vedere programmi tv con contenuto mondano e non religioso, così guardavamo ‘La casa nella prateria’ . Con i primi soldi ho comprato ai miei un appartamento sicuro, nel posto dei ricchi» 

Belen Rodriguez è nata a Buenos Aires il 20 settembre 1984: diplomata al liceo artistico si è poi iscritta a Scienze della comunicazione e dello spettacolo ma non ha completato l’università (fotoservizio Ignazio Sguera)

Questa intervista di Teresa Ciabatti alla modella e conduttrice televisiva Belen Rodriguez è il servizio di copertina del magazine 7 in edicola il 30 settembre. La pubblichiamo online per i lettori di Corriere.it

Le Iene?

«Ho ossessionato Davide Parenti, telefonate su telefonate. A un certo punto, per dissuadermi, lui dice: “Se prendo te, il programma diventa un’altra cosa, tu sei una star “».

E lei si arrende?

«Il contrario. “Non sono una star, dico, tu devi incontrarmi, arrivo”. E sono andata».

Perché Le Iene ?

«È il miglior programma della televisione italiana. Il più innovativo, il più coraggioso».

Ciò che si desidera si chiede?

«Per un po’ ho anche provato la strategia dell’attesa: non ha funzionato. Non arrivava niente. Bisogna andare incontro alle cose».

Quanto ha contribuito il luogo di nascita nella formazione del suo carattere?

«Tantissimo, credo».

Primi lavori in Argentina?

«A diciotto anni distribuivo volantini del cinema per strada. A diciannove facevo la pizzaiola in un ristorante».

Lavoro di suo padre?

«Venditore di attrezzi agricoli e di giardinaggio».

Lavoro di sua madre?

«Mia madre è la donna più bella che io abbia mai visto. Gli amici le dicevano di fare la modella, ma lei no, poi un giorno partecipa a una sfilata, vede le altre che si spogliano con disinvoltura, rimangono in costume, mentre lei si tiene la pelliccia. Inizio e fine della sua carriera di modella. Da lì sceglie di fare l’insegnante ai bambini disabili». 

La vostra casa?

«Quando Menem sale al potere vende le aziende statali agli americani, incluse le grandi aziende come la Pepsi Cola di cui mio nonno era vicedirettore, ebbene in quel momento l’Argentina cade in una profonda crisi economica. La gente ipoteca la casa, la macchina».

Voi?

«Anche noi, da un giorno a un altro perdiamo la casa, senza poter prendere niente: divani, letti, piatti, asciugamani».

Quella casa.

«Ancora so il numero di telefono a memoria».

Cioè?

«567 89 90».

Chiamato?

«Rispondevano i nuovi proprietari, e io riattaccavo».

Perché telefonare?

«Quella casa significava anche mia nonna che intanto era morta. Comporre il vecchio numero era un tentativo di riportare il tempo indietro. La speranza scema che al telefono potesse rispondere lei».

La zia di Belen col fratello Jeremias, la madre di Belen, Veronica, e la showgirl

Crisi economica.

«Andiamo ad abitare in campagna, non lontano dalla favela».

Un’immagine della nuova vita?

«La casetta sull’albero costruita da mio padre».

Animali?

«Cinque cani e due conigli. La mia preferita, Rebecca, una bastardina che un giorno muore investita da una macchina. A me dicono: “Si è innamorata ed è scappata”».

Lei ci crede?

«Ho creduto a Babbo Natale fino a quindici anni, quando mio cugino decide di dirmi la verità. Grande delusione, nonostante non amassi Babbo Natale».

Motivo?

«Dicevano: arriva dalla Finlandia, con le renne, e io me lo ritrovavo in Argentina smanicato, abbronzatissimo. Ho ancora le foto con i diversi Babbo Natale abbronzati nei centri commerciali. Pensavo: ma quanti sono? Qualcosa non tornava».

I tre fratelli: Belen, Cecilia e Jeremias

Un giorno di festa nell’infanzia?

«Andare da McDonald».

Belen bambina?

«Siccome mio padre frequentava la chiesa protestante, noi figli avevamo molti divieti, tra cui: vietato vedere programmi televisivi con contenuto mondano e non religioso».

Quindi?

«Guardavamo La casa nella prateria ».

Appassionante?

«Io mi identificavo in Laura Ingalls, la figlia che lottava per la giustizia scegliendo quasi sempre la soluzione sbagliata».

Esempio?

«Laura sa che la ragazzina ricca finge di non camminare. Per sbugiardarla la lancia da una rupe con la sedia a rotelle. Peccato che quella si faccia male, e Laura passi dalla parte del torto, col padre che cerca di spiegarle che va bene battersi per la verità ma non così».

Belen irruente come Laura Ingalls?

«A quindici anni muore il padre della mia migliore amica e io voglio andare al funerale, però la scuola me lo vieta. Al che fuggo, scavalco il cancello e vado».

Punita?

«Cacciata».

Reazione?

«Cambio scuola».

Già allora niente è di ostacolo?

«Mio padre - sempre per le regole della chiesa protestante - non mi permetteva di andare a ballare, né di partecipare ai viaggi di scuola. Vietato mettere gonne corte, vietato ascoltare musica, tranne le canzoni religiose. Insomma, non potevo fare niente, a parte frequentare la chiesa e prendere parte alle iniziative religiose tipo le escursioni».

Belen Rodriguez in barca con il marito Stefano De Martino

Un’escursione?

«In montagna, senonché ci perdiamo e arriva la notte».

Cosa fate?

«Camminiamo sul sentiero stretto, in fila indiana, mano nella mano».

Spavento?

«Nei tratti pericolosi io chiudevo gli occhi e stringevo forte la mano di Mariano, il ragazzino che mi piaceva. Allora pensavo: vorrei che questa notte durasse tantissimo».

Ragione?

«Per la sensazione speciale di fidarci l’uno dell’altro».

Cos’era in quegli anni la paura?

«Non la notte, non il bosco».

Ma?

«La vita quotidiana. Il fatto che la gente non avesse da mangiare. Saccheggiavano i supermercati, entravano nelle case, rubavano e uccidevano le famiglie».

Quel giorno.

«Un giorno arrivano da noi. In otto, armati e drogati di colla. Io ero in giardino, mi prendono per i capelli, mi trascinano dentro».

E?

«Ci legano, pistole puntate alla testa».

I genitori della conduttrice, Veronica Cozzani e Gustavo Rodriguez

Oggetti rubati?

«Dalle tazzine di caffè alle forchette. Dalla televisione alle lenzuola. Vestiti, scarpe, mutande, il mio book fotografico da modella».

Non lasciano niente?

«Con lo stipendio del volantinaggio avevo comprato un paio di stivali a rate. Neri, con le borchie, il mio orgoglio. Così, mentre loro saccheggiano casa, io, con le mani legate, riesco a spostarmi e a prendere gli stivaletti per nasconderli nella fessura del divano letto».

Stivaletti salvi?

«Salvi».

Poi?

«Mi chiamano in bagno. Da sola».

Immagina il peggio?

«Penso: se non mi uccidono tutto il resto va bene, il resto lo posso dimenticare».

Quanto ha dovuto dimenticare del suo passato?

«Niente. Perché nonostante le difficoltà, che comunque non erano solo nostre ma di un Paese intero, io ho avuto un’infanzia meravigliosa».

Un’altra persona esibirebbe un passato difficile come il suo.

«Non c’è niente da esibire».

Torniamo al sequestro: nel bagno?

«Vogliono sapere il numero del conto corrente di mio padre. Nient’altro».

Conclusione?

«Dopo otto ore vanno via con tutte le nostre cose, ma ci lasciano vivi».

Belen con la sorella. Belen Rodriguez ha incominciato la carriera di modella di biancheria intima in Argentina a 17 anni. Ha lavorato anche a Miami e in Messico. Si è trasferita in Italia nel 2004

In seguito?

«Decido di andarmene. Vengo in Italia con un contratto di modella».

Lavoro già iniziato in Argentina?

«Avevo posato in costume per un giornale, e quando la chiesa era venuta a saperlo, ci aveva scomunicato».

Dispiacere?

«Liberazione. Vedevo tanto fanatismo nei divieti e negli obblighi come quello di donare il dieci per cento dello stipendio, cosa che mio padre faceva».

Prima tappa in Italia?

«Riccione. Eravamo in otto ragazze senza permesso di soggiorno, istruite su cosa dire in caso di fermo».

E?

«Una più bella dell’altra, i poliziotti ci fermano subito: “Motivo del viaggio?” domandano».

Risposta?

«”Una festa”. Ci avevano detto di rispondere che dovevamo andare a una festa».

Conseguenza?

«Bloccate in aeroporto per 48 ore. Io riesco a fare una doccia con una monetina regalatami da una signora gentile».

Vi rilasciano.

«Arriviamo a Riccione e scopriamo che il nostro lavoro non è di modelle bensì di ragazze immagine. Noi che avevamo immaginato passerelle, foto, ci ritroviamo nei locali a ballare sui cubi».

Il passaggio alla tv?

«Trovo l’indirizzo di un’agenzia di moda di Bologna dove vado di nascosto. Quindi, tramite l’agenzia, inizio a fare provini per la televisione».

Da quel momento?

«Sono tutti sì».

Belen con Teo Mammucari in una puntata de «Le Iene»

Il regalo fatto ai suoi genitori coi primi guadagni?

«La casa. Una casa nel posto dei ricchi, con sicurezza h 24 e cancelli».

A quel punto?

«Inizio a dormire la notte. La mia famiglia era al sicuro. Finalmente li sapevo al sicuro».

Oggi?

«Oggi che loro sono qui, in Italia, è come essere tornati indietro nel tempo. Domani mio padre arriva a Napoli per costruire una casa sull’albero a Santiago. Da settimane guarda tutorial su You Tube».

La casa sull’albero come quella della sua infanzia?

«Dice che per Santiago farà un’aggiunta di terrazzo».

Cosa si vedrà dal terrazzo?

«Io vedrò mio marito e i miei figli. Vedrò il tappeto elastico montato da Stefano insieme a suo padre».

Belen salta?

«Dopo due salti mi scappa la pipì».

Dunque?

«Salto lo stesso».

Sicuri di conoscere veramente Belen Rodriguez? E se fin qui, distratti dalla bellezza, l’avessimo raccontata in modo incompleto? Questa non è la storia di una ragazza bellissima, questa è principalmente la storia di una ragazza nata in Argentina, ben lontana dal privilegio, partita un giorno per conquistare il mondo che di fatto conquista attraversandolo, quel mondo che visto da laggiù poteva intimorire.

La parole della showgirl a Le Iene. Belen Rodriguez conferma il ritorno di fiamma con Stefano De Martino: “Finché non ci rilasceremo”. Redazione su Il Riformista il 7 Aprile 2022.

Dopo settimane di rumors, è arrivata la conferma ufficiale. Belen Rodriguez e Stefano De Martino sono tornati insieme (per la terza volta).

È stata la stessa showgirl a rivelarlo nel corso dell’ultima puntata de Le Iene, andata in onda mercoledì 6 aprile su Italia Uno.

“Fra poco ci rilasceremo”

La storia tra Belen Rodriguez e Stefano De Martino va avanti dal 2012. Prima l’arrivo di Santiago, nell’aprile del 2013; e poi le nozze, celebrate il 20 settembre dello stesso anno.

Nonostante le successive separazioni (la prima nel 2015 e la seconda nel 2020) i due non hanno mai divorziato. Gli indizi di un ritorno di fiamma c’erano tutti: gli avvistamenti a Milano, le stories su Instagram dell’argentina da casa De Martino, il weekend insieme nel resort di lusso. Qualche settimana fa lei aveva parlato di una situazione ‘in evoluzione’. Fino alle parole della showgirl che di fatto hanno ufficializzato la relazione.

Nello spazio dedicato alle domande del pubblico del programma di Italia Uno, Belen ha infatti letto un tweet di una fan che ha nominato l’ex ballerino: “Belén io un po’ ti capisco. Perché ormai è chiaro che Stefano De Martino è come il vino buono che invecchiando migliora. Me lo faresti assaggiare?” Una domanda a cui lei ha replicato, ironica: “Vuoi assaggiare Stefano? Allora, ce la potresti fare perché fra poco ci rilasceremo e lui andrà con altre donne, quindi potresti essere una scelta”.

Non è la prima volta che la showgirl parla dell’infedeltà del marito: “È il più sensuale, ma anche il più infedele” aveva detto di lui in un’intervista. Una frecciatina all'(ex) marito, ma anche la conferma che è di nuovo amore, nonostante tutto.

Un’intesa ritrovata dopo la rottura con Antonino Spinalbese, padre di Luna Marì, nata lo scorso luglio.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino, i dettagli intimi sulla riappacificazione: "Tutte le notti...".  Il Tempo il 19 marzo 2022.

“Un amore più forte dei tradimenti”. Ancora un giro di tango per Belen Rodriguez e Stefano De Martino. La showgirl argentina e il conduttore napoletano sono tornati insieme e tutti si chiedono se sarà la volta buona, quella che li farà invecchiare insieme. Nelle more di scoprirlo, il settimanale Oggi rivela dettagli intimi della riappacificazione: “Era fine dicembre scorso. La Rodriguez aveva già messo un punto alla sua relazione lampo con Antonino Spinalbese, padre della piccola Luna Marì. Decise per una toccata e fuga a Napoli in cui si fece immortalare con il comico Francesco Paoloantoni, amico fraterno di De Martino. E De Martino era in realtà lì con loro”.

Si sono rivisti e le ripicche, le amarezze, il rancore sono svaniti in nome di una “passione rovente”. E la rivista aggiunge numerosi particolari come i reciproci tradimenti: “Un amore che resiste all’orgoglio, alle corna e anche alle pubbliche pressioni. Da quegli ultimi giorni del 2021 Belu e Stefano sono inseparabili” e come le notti insieme: “Non sono tornati ancora a vivere sotto lo stesso tetto. Ma vivono ogni notte dentro lo stesso letto. Che sia quello della casa di lui, di lei o di una suite prenotata all'ultimo momento”. Adesso niente convivenza, domani si vedrà. 

Alberto Dandolo per Oggi il 19 marzo 2022.  

"Nadie nos quita lo bailado!", "nessuno ci può togliere quello che abbiamo ballato". Lo ripete spesso ai suoi amici più cari Belen Rodriguez.

È un detto argentino. Terra in cui il tango è metafora della vita. 

 Se alla fine le cose sono andate male, quello che abbiamo vissuto, ballato, i momenti belli e felici, nessuno ce li potrà mai  togliere. Quei ricordi saranno nostri per sempre. 

E quello che sembra essere il terzo ballo, quello che riconsegna al presente il riscatto di una passione che pareva essere divenuta un ricordo è in realtà per Belen Rodriguez e Stefano De Martino null'altro che la continuazione di quel passo a due mai davvero interrotto. 

Fu proprio Oggi a raccontare e in tempi non sospetti della ripresa del  "ballo" tra la bella argentina e lo scugnizzo  napoletano. Era fine dicembre scorso. La Rodriguez aveva già messo un punto alla sua relazione lampo con Antonino Spinalbese, padre della piccola Luna Marì. Decise per una toccata e fuga a Napoli  in cui si fece immortalare con il comico Francesco Paoloantoni, amico fraterno di De Martino. E De Martino era in realtà lì con loro. È stato quello il preciso  momento in cui hanno ripreso a volteggiare assieme sulla pista della vita.

Una passione rovente. Un amore che resiste all' orgoglio, alle corna e anche alle pubbliche pressioni. Da quegli ultimi giorni del 2021 Belu' e Stefano sono inseparabili. Non sono tornati ancora a vivere sotto lo stesso tetto. Ma vivono ogni notte dentro lo stesso letto. Che sia quello della casa di lui, di lei o di una suite prenotata all'ultimo momento come due fidanzatini freschi di farfalle nello stomaco. 

L'ultima foto postata da Belen sulla sua pagina Instagram racconta proprio di questa loro intimità ritrovata. Un letto, luci basse e lei che si appoggia teneramente al fianco del suo compagno di ballo. Per ora la convivenza è solo un progetto. Realistico sì, ma un progetto.

Questo loro terzo ritorno di fiamma sarà quello definitivo? Sarà davvero questa la volta buona?

Questa non è la loro terza volta. Questa è forse solo la continuazione di quell' unica volta, quella in cui iniziarono a ballare e a cui sempre hanno fatto ritorno.

Gian Paolo Serino per Dagospia il 10 febbraio 2022.

“Non sembri, sei una puttana”. Nessuno sembra essersi accorto di niente ma durante la prima puntata de “Le Iene” Teo Mammuccari apostrofa così Belen Rodriguez. 

In tempi di “sexuality correct”, di “me too”, di rispetto dei generi basta guardare il video (3h 39 minuti) per accorgersi dell’offesa alla dignità di Belen.

L’interessata non sembra essersene accorta, forse perché, come ha dichiarato, “Le Iene sono sempre state il sogno della mia vita professionale”. Potrei scrivere, da critico letterario e scrittore, pagine intere ma su Teo Mammuccari in questa occasione stendiamo un velo pietoso e gli ricordiamo soltanto che la libertà di parola l’abbiamo ottenuta, adesso manca il pensiero”.

Da leggo.it il 10 febbraio 2022.

Belen Rodiguez e Stefano De Martino si frequentano di nuovo. Questa, ormai, è cosa nota, ma la showgirl argentina in tv parla proprio di lui. 

A Le Iene la prima puntata, che la vede in conduzione assieme a Teo Mammucari, si è conclusa con un gioco finale in cui Belen ha sganciato delle bombe sui suoi ex e su alcune donne della tv. E su Stefano De Martino confida: «È infedele... ma a letto siamo sempre andati d'accordo. Per lui ci sarò sempre e lui per me». 

Il gioco è semplice: Teo fa domande e Belen risponde. Non sappiamo a chi sono abbinate le risposte, ma per come parla la showgirl non è difficile accostare il volto alle sue dichiarazioni.

«Questa persona la conosco da 11 anni - dice probabilmente su Stefano De Martino -. Se ci siamo sempre detti la verità su tutto? Ma assolutamente no! Lui è la persona che più mi ha fatto soffrire in assoluto. Mi ha mai tradito? Penso di sì», confida Belen. «Questa persona ha anche sofferto tanto a causa mia devo proprio ammetterlo. Se mi invitasse a cena fuori accetteresti? Sì, perché c’ero a cena ieri. Se è il più sexy che conosco? Direi di sì, ha un sex appeal importante. La più brava a letto? Siamo sempre andati molto d’accordo. Il più infedele? Più o meno. Per lui ci sarò sempre, per quanto mi possa arrabbiare poi mi passa. Credo che anche lui ci sarà per me. Lo descrivo con una parola: neomelodico». 

Quando parla di Stefano De Martino, gli occhi di Belen ridono e lei si emoziona, proprio come una donna innamorata. Quando gli occhi, proprio non riescono a mentire...

Ma il gioco non è finito qui e Belen, con schiettezza, parla di tutti i suoi ex più famosi. Il riferimento a Antonino Spinalbese non può certo mancare. I due si sono lasciati da poco e dal loro amore è nata la sua Luna Marì: «Adesso è tutto finito? Sì. Per colpa tua o sua? Entrambi. Io ho sofferto tanto… io ci credevo davvero tanto – dice Belen -. Mi ha conquistata con tanta semplicità, proprio quello di cui avevo tanto bisogno in quel momento. È una persona perbene».

Archiviata la malinconia per Antonino, però, c'è spazio anche per tante risate. Di Andrea Iannone dice che era «spericolato… Folle». Con affetto si riferisce a Fabrizio Corona: «Mi ha voluto veramente bene e me ne vuole ancora. Questa persona è stata molto sfortunata… Io sono stata un plus per lui e lui lo è stato per me… Un suo pregio che non conosce nessuno: è un patatone».

Ma il premio come più bello in assoluto va sicuramente a Marco Borriello: «È stato molto importante per me… Mi ha tradito e per ripicca sul finale anch’io. È stato il mio primo amore, ero molto innamorata. È bellissimo. Ci incontriamo sempre. È un sex symbol». 

Poi tocca alle donne della tv. E Belen fa uscire il suo lato da «Iena». La prima a cui si fa riferimento è sicuramente Selvaggia Lucarelli, con la quale non andrebbe certo a cena. Non poteva mancare nemmeno Emma Marrone per la quale Belen nutre molta stima, ma anche tanti sensi di colpa. Infine Alessia Marcuzzi con cui ha condiviso serate, ma con la quale ammette di aver anche litigato: «Mi ha chiamata una volta e mi ha insultata pesantemente».

Maria Volpe per il "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022.

Ha 37 anni Belén, ne dimostra molti meno, anche se dorme poco perché la sua piccola di 6 mesi si sveglia tanto. Inutile dire quanto è bella. Però, colpisce di più quanto è diventata saggia, consapevole, di sé stessa, di tutto. Domani debutta come conduttrice a «Le Iene» su Italia 1 con Teo Mammucari.

Belén, quanto iena è lei ?

«Nella vita privata lo sono diventata per le bastonate che ho preso. Oggi invece mi metto al primo posto. Troppe volte mi sono messa in secondo piano, a disposizione dell'amore. Nella vita professionale, invece iena lo sono sempre stata. Impossibile stare a galla per 17 anni, se non lotti con tutta le forze». 

Come si è preparata alla conduzione de «Le Iene»?

«Quando ho incontrato Davide Parenti (ideatore) mi ha detto: "Non ho bisogno di Belén, ma di Maria (secondo nome della showgirl, ndr ). Vorrei tu parlassi come fossi con una tua amica». 

Altri consigli?

«Maria De Filippi, la mia mamma televisiva, mi ha detto: "Questo programma fa per te, è arrivato il momento di farti vedere in un'altra veste"». 

Lei e Teo avete lavorato insieme per anni.

«Lo stimo molto, mi piace la sua ironia, e il suo finto cinismo. In realtà è tenero». 

Ciò non gli impedirà di «massacrarla».

«Lo so, ma ho la corazza, ci sono abituata. Mi massacrano da sempre».

Una delle conduttrici de «Le Iene» è stata Ilary Blasi.

«Ilary non cerca di snaturarsi: romana e caciarona. Funziona». 

Poi, Alessia Marcuzzi.

«Grande conduttrice, molto naïf, un misto di donna e bambina, porta freschezza». 

Un servizio de «Le Iene» che le è rimasto impresso?

«Tanti, soprattutto quelli sulla pedofilia, la prostituzione, gli immigrati». 

Quali situazioni difficili le procurano maggior disagio?

«Le diseguaglianze sociali. Io sono nata in una casetta che non aveva i vetri alle finestre. So cosa vuol dire». 

Ha seguito Sanremo?

«Stupendo, uno dei più belli di sempre. Amadeus è riuscito a radunare le diverse fasce d'età». 

Drusilla ha parlato di un tatuaggio sulla gamba, citando la sua famosa farfalla mostrata sul palco dell'Ariston...

«Geniale Drusilla, eleganza unica, ero incantata da lei». 

Santiago, avuto da Stefano De Martino, ha 8 anni. Luna Marì, avuta da Antonino Spinalbese, ha 6 mesi. Due modi diversi di essere madri?

«Totalmente. Quando è nato Santiago avevo 26 anni, facevo le cose con leggerezza. Oggi sono una mamma attenta, presente». 

Sono due bravi papà?

«Ottimi, molto presenti». 

Lei si vede con Stefano. C'è un riavvicinamento?

«Non mi va di raccontarmi. Sì ci vediamo, non è una novità. Ma noi donne non abbiamo bisogno per forza di un uomo per essere complete. Vivo sola e felice con i miei figli».

·        Bella Lexi.

Barbara Costa per Dagospia il 15 agosto 2022.

"F*ck The Police… Letteralmente!". Fan del porno, diamo il benvenuto a una nuova, futura star, la milfona Bella Lexi, al suo debutto porno in una scena di un’ora titolata così perché Bella Lexi è… un ex tenente di polizia! Vera! Sì, Bella Lexi è una ex poliziotta, ha compiuto il suo dovere nelle forze dell’ordine per 28 anni, fino a che – a suo dire – per il porno l’hanno cacciata. 

Bella Lexi è una signora di 47 anni, sposata, con due figli di 12 e 15 anni, ed il suo vero nome è Melissa Williams. La signora dalle grandi tette abita nella contea di Arapahoe, e siamo a Denver, in Colorado, ed è qui che svolgeva inflessibile le sue mansioni di poliziotta. Fino a qualche mese fa, ovvero fino a che certi suoi colleghi hanno scoperto che Melissa, sotto il nome di Bella Lexi e la qualifica di "moglie milfona della porta accanto", con suo marito aveva aperto un profilo OnlyFans dove, nel tempo libero, postava foto hard e video hard di giochini di ruolo.

Cinque suoi colleghi “di grado a me inferiore e superiore”, ci tiene a precisare Bella Lexi, sono entrati nel suo account, hanno preso sue foto hot, e le hanno fatte girare in ufficio. Queste foto sono presto giunte al capo di Bella Lexi il quale le ha notificato via mail un avviso: la sua condotta era sotto indagine interna! Bella Lexi si è ribellata: con che diritto i miei colleghi e il mio capo sbirciano nella mia vita privata, nella mia camera da letto, e la giudicano? 

Che faccio di male se, consensualmente, con mio marito, metto online il mio privato, e però assolutamente non mischiandolo con il lavoro che svolgo, anche se il mio è un ruolo pubblico? Postare sesso, con il proprio consorte, è illecito per un membro delle forze dell’ordine? Va a incidere sul decoro, e però il decoro, oggi, ha le stesse prerogative che aveva prima, in una società analogica?

Bella Lexi ha accusato il suo ambiente di lavoro di mobbing. Si è presa un avvocato e una pausa di tre mesi per motivi di salute, con bei certificati medici attestanti stress. Ma poi ha concluso un accordo per cui, a seguito di una congrua buonuscita, ha lasciato il suo incarico, e un distretto da lei bollato maschilista e tossico: “Sono sempre stati invidiosi di me, e della mia carriera. Io sono sempre stata brava nel mio lavoro: sono una donna, e attraente, e molto sicura di me”. Bella Lexi non è rimasta ferma. 

Smessa la divisa, si è data totalmente a Instagram e alle sue esibizioni su OnlyFans, con e senza il marito, postando foto e video in cui fa la sexy e porna con manette e manganelli e fa strip-tease, e pure in divisa, e rivela che, se per il momento ci ha rimesso in soldi (“su OnlyFans, la mia media mensile è minore del mio stipendio in polizia”) ci ha guadagnato in salute e serenità: “I miei familiari non sono più in ansia per me, perché quello di poliziotta è un mestiere che amavo ma di fatto pericoloso”, dice Bella Lexi, “ora lavoro meno ore, sto a casa tutte le notti, mi alzo quando voglio io, e passo più tempo con la mia famiglia. 

Mi sento 10 anni più giovane!”. Famiglia che appoggia la sua svolta professionale ed esistenziale. Oltre che di suo marito, Bella Lexi può contare sul sostegno dei figli, e dei parenti i più aperti, ma non dell’anziana madre, scioccata da una tale decisione. Sul web, le agorà social si contrappongono tra chi vede in questa storia l’ennesimo esempio di machismo patriarcale, e chi sentenzia che, se fosse stata meno narcisa, nessuno gliel’avrebbe tolta, la divisa.

Ma le chiacchiere volano, e non pagano: adesso Bella Lexi è stata presa da "HotMILFsFuck", studios porno di nome e, se la sua prima prova su un set otterrà il gradimento (e il ricavo) previsti, altre occasioni porno sono all’orizzonte. Tipo certe abilità bdsm… in fin dei conti, è sempre una questione di manette. O no?

·        Benedetta D'Anna.

Daniela Seclì per fanpage.it il 12 ottobre 2022.

Benedetta D’Anna, in arte Benny Green, si è raccontata in una lunga intervista rilasciata a Fanpage.it. Negli ultimi mesi si è parlato tanto di lei. Ex impiegata di banca, è stata licenziata dopo che i suoi superiori hanno scoperto la sua passione per l’hard, tra spettacoli nei club e foto osé su OnlyFans. Oggi è una pornostar, che ha lavorato anche con Rocco Siffredi. 

Benedetta D'Anna, però, è anche una mamma di tre figli e una donna che ha iniziato a lottare sin da bambina. Il padre l'ha abbandonata, poi lo spettro della malattia ha funestato gli anni migliori della sua vita: prima un tumore di Wilms, poi l'anoressia, la bulimia e la depressione. Il rapporto conflittuale con la madre, l'ha costretta a farsi coraggio e a rialzarsi da sola. Anche sul posto di lavoro, non sarebbero mancate le vessazioni. Alcuni colleghi le avrebbero chiesto di raggiungerli in bagno, si sarebbero abbassati i pantaloni o le avrebbero proposto sesso a tre con le mogli.

"La mia vita sembra una tragedia, ma sono stata più forte di quello che pensavo, sono riuscita a sopravvivere, a diventare mamma, non mi sono lasciata tentare dalla pericolosa scorciatoia della droga. Per me è motivo di grande orgoglio", ci ha raccontato. Ecco la sua storia. 

Benedetta, la tua storia è iniziata in salita. Tuo padre si è allontanato quando eri ancora una bambina. Hai mai provato a recuperare un rapporto con lui? 

«Certo, ci ho provato durante la mia infanzia. Sono stata colpita da una bruttissima malattia, un tumore di Wilms, con zero probabilità di riuscita degli interventi, invece ho fatto la chemioterapia e l’ho superato. Neanche sapermi malata, lo ha convinto a riavvicinarsi a me. Dai miei 10 anni in poi, è stato allontanato per decisione del Tribunale dei Minori. Questo, non ti nego, mi ha comportato una serie di problematiche psicologiche, non capivo il motivo di questa scelta». 

Tuo padre non ti ha mai motivato la sua decisione di non essere presente nella tua vita?

“Ha sempre incolpato mia madre e la scelta del tribunale. Che cosa sia accaduto davvero e come siano suddivise le responsabilità, credo che non lo saprò mai. Mia mamma è una donna molto chiusa, poco aperta agli affetti e alle parole, ha sempre troncato ogni discussione dicendomi: "Ma insomma, dopo tanti anni ancora ti poni questi interrogativi?". Verso i 20 anni, questo travaglio psicologico, è sfociato in un malessere che sicuramente non ha fatto bene al mio corpo”. 

Te la senti di parlarmene?  

“Sì, sono stata una di quelle ragazze che ha avuto problemi di anoressia, bulimia e depressione e che passano anni con la testa nel gabinetto a causa dei disturbi alimentari. La mia vita sembra una tragedia, ma sono stata più forte di quello che pensavo, sono riuscita a sopravvivere, a diventare mamma, non mi sono lasciata tentare dalla pericolosa scorciatoia della droga. Per me è motivo di grande orgoglio». 

Tua madre, poi, ha sposato Raoul Gramellini, padre del giornalista Massimo Gramellini, che è stato dunque il tuo fratellastro. 

«Sì, vivevo con mia madre, Raoul e Massimo Gramellini. Raoul era un uomo di tutto rispetto, all'antica, mi ha insegnato il bon ton. Mi ha dato anche una cultura. Ho frequentato un collegio francese e seguivo mia madre e suo marito nei viaggi di lavoro. Sono stati insieme fino a quando lui si ammalò di un brutto male. Non ha superato questa malattia e mia madre si è ritrovata vedova». 

Dopo la morte del padre, avete mantenuto un rapporto con Massimo Gramellini? 

«I rapporti tra lui e mia madre si sono interrotti nel momento del decesso di Raoul Gramellini, un po' come da manuale. Dissapori dati dal fatto che non ci fosse una parentela diretta e da interessi comuni. Poi gli anni sono andati avanti, io mi sono fatta la mia vita, lui si è stabilito a Roma, si è risposato e ha proseguito con la sua, ma conservo dei bei ricordi».

Crescendo, hai iniziato a lavorare come bancaria. Un’esperienza lavorativa durata oltre quindici anni. Secondo quanto racconti, però, sul lavoro avresti subito delle vessazioni.  

«Considera che due mesi dopo essere stata assunta, ero già caduta in piena anoressia. Quando ho iniziato avevo 22 anni, mi sono gettata a capofitto nel lavoro, ho fatto un corso di studi di economia, perché volevo fare la mia parte. Poi, è iniziato il mobbing, le richieste di post cena, colleghi che mi dicevano: "Vieni nell'archivio con me", "Accompagnami in hotel", “Raggiungimi in bagno”. Mi chiedevano di fare sesso a tre con le loro mogli. Anche se andavo nella stanza accanto a far firmare un documento, i soliti colleghi si riunivano e dicevano: "Io ti metterei sul tavolo", “Baciami”, si abbassavano i pantaloni. Sempre le stesse scene, un direttore di zona mi disse persino: “D’Anna, le colleghe si sentono offese dalle sue gambe”».

Immagino che psicologicamente non sia stato facile reggere quella pressione.  

«Mi sono chiusa nel mio misero cosmo. La mia casa, i miei gatti, i miei figli, una relazione che c'era e non c'era e ho portato avanti la vita così, con un'insoddisfazione colossale. Era un ambiente lavorativo pesante, dequalificante, in cui avevo capito che non ci sarebbe stato alcuno sbocco per me. Alla cassa sono stata presa, alla cassa sono stata lasciata. A quel punto mi sono scocciata». 

E hai iniziato a muovere i primi passi nel mondo dell'hard. Una passione nata guardando i film di Tinto Brass.  

«Sì, da lì ho iniziato a sviluppare una certa curiosità verso il fascino femminile e ho capito che quello poteva essere il mio potere, non una vergogna. Il mio terapista diceva: "Lei utilizza il suo fascino come forma di vendetta verso l'uomo che l'ha tradita da bambina". Può essere. Ma i soldi erano pochi, io ero sola con un mutuo e dei figli e ho iniziato a posare come modella di nudo, da lì sono passata alla piattaforma OnlyFans. Quel momento ha segnato la rottura con quello che ero prima, una ragazza impaurita dal giudizio di sua madre».

In effetti, tua madre non prese bene questa tua svolta a luci rosse. 

Si è chiusa in casa, perché in quella fase è stata additata, esclusa, emarginata, come se io fossi l'onta del peccato e della vergogna. Riceveva anche messaggi spiacevoli che contenevano le mie foto.

Ti è capitato di fartene una colpa? 

«No, perché mi ha creato tanti di quei problemi nella vita… Anzi, mi sono detta: "Finalmente mi sono affrancata da questo ruolo di schiava psicologica nei suoi confronti". Ho detto basta, pensa quello che ti pare. La mia immagine frivola non fa percepire quello che ho vissuto. Sono stata lasciata in mezzo a una strada un sacco di volte, vinta nelle crisi della mia malattia psicologica. E ho superato tutto da sola. In quelle fasi, mia madre mi chiudeva la porta in faccia. Non voglio vendetta, non voglio farle del male, mi sta bene che ora sia presente nella mia vita, però non posso dire di avere avuto un rapporto idilliaco con lei». 

A un certo punto, hai iniziato ad affiancare al lavoro in banca quello di performer nei club. I tuoi superiori lo hanno scoperto e non l’hanno presa bene.

«Ero in malattia e non sono più riuscita a rientrare a lavoro, avvertivo un clima estremamente pesante. Tutti parlavano di queste mie situazioni, c'erano clienti e colleghi iscritti alla mia piattaforma. Poi, mi è arrivata una mail, tramite la quale mi convocavano. Mi sono presentata con il mio avvocato, anche se non volevano che ci fosse. In quell'incontro mi è stata data una lettera di ammonimento, in cui erano elencate tutte le mie pagine Instagram e OnlyFans con il copia e incolla, c'erano persino le emoticon e le descrizioni dei miei video hot, una bassezza infinita. Il mio avvocato, poi, è stato preso da parte e gli hanno detto: "Se la signora se ne andasse garbatamente, potremmo firmare un accordo che convenga ad entrambi". Cosa che non ho fatto, perché non avevo intenzione di dimettermi. A quel punto mi sono sentita autorizzata a intraprendere liberamente anche il lavoro di porno attrice e dopo poco mi è arrivata una lettera di licenziamento» 

Cosa hai provato quel giorno?

«Da una parte ero triste perché avevo legato a quel lavoro tutto ciò che ero, era come salutare il mio passato. Ma ho anche provato un grande senso di liberazione, soprattutto psicologica. Mi rendeva orgogliosa avere avuto il coraggio di fare una scelta che andasse contro mia madre, senza avere paura e senza cadere di nuovo nella depressione che mi aveva colpito da ragazzina» 

Come è nato il nome d’arte Benny Green? 

«Nell'agenzia con cui lavoravo ai tempi, mi chiesero di scegliere un nome d'arte. Le altre ragazze avevano cognomi come Blue, Brown e a me è venuto in mente che ho gli occhi verdi e quindi Green. Da lì Benny – diminutivo di Benedetta, il mio nome – Green. Ad oggi mi sembra una gran porcheria (ride, ndr). Ha lo stile della telenovela, se dovessi sceglierlo ora direi solo Benedetta» 

Sei reduce da un progetto con Rocco Siffredi, che ancora oggi è considerato la star indiscussa del mondo del porno. C’è qualcosa che ti ha stupito nel suo modo di lavorare e di approcciarsi alle scene di sesso?

«Girare con Rocco è diverso da ogni tipo di set, quando me l’ha proposto ero lusingata, non mi sembrava vero. Devo dire che non sapevo che lui la vivesse in modo così totalizzante. I suoi set non hanno un inizio e una fine come normalmente succede, non sono meccanici. La frase che dice sempre prima di iniziare è: "Ok guys, let's do sex, enjoy". Intende dire che non stiamo girando una scena, ma che dobbiamo divertirci a fare quello. Mi ha stupito questo suo approccio». 

Molte attrici hanno raccontato di avere vissuto con soggezione la prima scena con Rocco Siffredi, è stato così anche per te? 

«Pensavo che tra le sue braccia mi sarei sentita una ragazzina cretina e invece no, assolutamente. È molto empatico all'inizio della scena, quindi nessuna soggezione. Poi, io ci metto molta precisione, sono una perfezionista, voglio dare il meglio perché sono esigente con me stessa. Lui rimane un amico, un grande professionista, si spera di fare altri progetti insieme».

Mediamente quanto guadagnavi al mese come impiegata di banca? 

«1400 euro al mese». 

Ora che il tuo lavoro è fare la performer e la pornoattrice, immagino che i guadagni siano superiori. 

«Le scene vengono pagate singolarmente anche 1500 euro, poi guadagno sulla vendita dei miei film, con OnlyFans e poi con i miei cachet quando faccio la performer nei weekend. Prendi lo stipendio che avevo prima e moltiplicalo per sette o otto più o meno. Certo, il lavoro di bancaria avrei potuto portarlo avanti fino ai 75 anni, anche con le stampelle, adesso faccio una professione che va avanti con la mia immagine, che deve essere gradevole. Avrà una durata inferiore, ma spero prosegua dietro le quinte, sempre nel campo delle produzioni. Inoltre, porterò avanti una mia collezione di intimo».

Hai tre figli di 11, 10 e 5 anni, nati da due diverse relazioni, entrambe ormai finite. Che mamma sei con loro? 

«Sono una maniaca dell'ordine e una madre molto…militare. Da un lato sono severa, ma dall’altro sono anche quella che canta in auto con loro e li aiuta a fare i TikTok. Loro sanno tutto sulla mia professione. In termini ovviamente adeguati alla loro età. Lo vivono con curiosità. A volte mi dicono: "Ma allora mamma tu sei famosa!". Io, in fondo, sono un'attrice, quello che faccio non ha nulla a che vedere con la mia vita intima, che è proprio diversa. Sul lavoro sono una performer che interpreta un ruolo». 

Qual è l’insegnamento che vorresti trasmettere ai tuoi figli con il tuo esempio?

«Vorrei imparassero a non giudicare le persone, ad avere il coraggio delle loro scelte e che comprendessero che la nudità non è una colpa. Siamo nati nudi, vorrei non vedessero malizia nelle cose che non la contemplano. E poi trovo fondamentale l'onestà mentale, se posso trasmettergli questo, qualsiasi scelta facciano un domani sarò soddisfatta». 

Cosa consiglieresti ai giovani che iniziano ad approcciarsi al sesso? 

«Il sesso occasionale non è sicuro. Il preservativo non è sufficiente, occorre abituarsi a schermarsi facendo più controlli. Fare esami, che nel nostro ambiente ormai consideriamo di routine, significa non diffondere infezioni e malattie. Noi attori facciamo sesso solo in questa maniera, in modo totalmente sicuro. Non si può girare se non sono stati fatti i controlli e non sono risultati perfetti».

Per concludere, c'è un segreto che ti riguarda, che i tuoi ammiratori sarebbero sorpresi di sapere? 

Sto riflettendo sul fatto di avere una fidanzata e non più un fidanzato. Mi è già capitato di avere relazioni con donne. Il rapporto tra uomo e donna, nel quotidiano, lo vivo molto male. Non mi ritrovo. Sono vecchio stampo, i rapporti senza regole, molto free, che vedo nella vita quotidiana, non mi rispecchiano. Sono fedele. Anche quando vado a girare o faccio gli spettacoli, la mia testa resta sempre e comunque a un solo uomo. Tutti pensano che chi fa il mio lavoro regali sesso in giro per la città o che non ci basti mai. Ma non è così. Una cosa però devo dirla».

Prego. 

«Dopo avere iniziato a fare la porno attrice, sono diventata sessualmente più esigente. Il mio uomo ideale deve essere nero o mulatto. Non c'entra niente ciò che si dice sul fatto che siano superdotati, anche se visivamente non guasta. A me gli uomini neri piacciono da morire. Quindi il mio prossimo amore sarà un uomo nero o una donna, ma non un italiano». 

Come mai escludi gli italiani?

«In genere si avvicinano a me chiedendomi se io faccia sesso a pagamento. Non giudico chi lo fa, ma non è il mio caso. L'italiano mi continua a deludere».

·        Benedetta Porcaroli.

Benedetta Porcaroli: «Conoscevo le baby squillo, veniamo dagli stessi ambienti. Mi ha protetto la famiglia». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2022.

L’attrice del caso dei Parioli e il film sul Circeo: «Sbagliato vietarlo ai minori». Il corpo: «Sono sempre stata filiforme, i ragazzi mi definivano piatta: mi vennero i complessi. A 15 anni un’amica di mia madre agente di cinema mi chiese: vuoi fare un provino?» 

Benedetta Porcaroli è diventata un volto noto a soli 20 anni, interpretando la serie tv sulle baby squillo dei Parioli. Da allora non si è più fermata. A giugno compirà 24 anni. È nelle sale con 7 donne e un mistero, una boccata d’ossigeno dopo due film violenti come Baby e La scuola cattolica, sul massacro del Circeo.

Che adolescente è stata, prima di diventare attrice?

«In realtà ho cominciato molto presto, a 15 anni. Un’amica di mia madre è agente di cinema. Mi chiese: ti va di fare un provino? Mi ritrovai su Rai1 in Tutto può succedere. Si sono fidati, hanno visto qualcosa in me. Ero piccola, inconsapevole».

Ma sarà andata a scuola.

«Al Mamiani, liceo storico di Roma, poi mi diplomai privatamente. In quegli anni alcuni compagni mi presero di mira. Sono sempre stata filiforme. I ragazzi cercavano sederi e seni in lungo e in largo, le mie amiche avevano le loro forme, mi vennero un po’ di complessi. Su Facebook avevano creato gruppi: Benedetta Porcaroli piatta. Oggi il mio fisico lo vedo come una salvezza».

Per il cognome, chissà cosa le dicevano.

«Era inevitabile. Ma non sono mai stata veramente preoccupata. Mio padre per smussare mi diceva ironico: un cognome così non passa inosservato, si ricorderanno di te. Papà ha diverse lauree e ha fatto tanti lavori, ora insegna, è stato lui a trasmettermi l’amore per il cinema. Alberto Sordi, Anna Magnani; mamma lavora al Quirinale».

Sette attrici sullo stesso set, divise da 64 anni d’età. Come si sono trovate? Lo raccontano loro: «Nemiche mai»

È vero che ha l’occhio di sua madre tatuato?

«Sì, dietro la spalla. Il messaggio è: guarda che ti osservo, eh... A volte mi diceva che ero una belva. Sono malinconica, diretta, curiosa, riflessiva».

E belva.

«In casa la mia presenza si notava. Sono stata un’adolescente impegnativa e rumorosa, sai quando ti senti in conflitto con tutti? Determinata, prepotente, esigente, ribelle».

È cresciuta a Roma Nord, la stessa zona delle baby squillo dei Parioli. Lei ha detto: se fossi rimasta lì, sarei diventata una stronzetta anch’io.

«L’ambiente è un po’ classista, la media borghesia dove tutto è apparentemente pacifico, sereno; tutto sembra che funzioni alla perfezione e non è così. È strano perché l’ho raccontato in due film (le giovanissime escort e il Circeo) il vuoto cosmico in un’età delicata e di passaggio, quando basta poco per andare alla deriva. È davvero sliding doors. L’importante, com’è avvenuto per me, è sapere che dietro ci sono i genitori. Abbiamo raccontato la mancanza di dialogo tra genitori e figli, la tragedia della borghesia assente».

Una di quelle ragazze si è raccontata in un docu-film.

«Aveva 14 anni quando tutto cominciò. Oggi una di loro lavora in un supermercato. Io alcune le conoscevo, ci si vedeva la sera nei locali, ci salutavamo. Non sapevo cosa ci fosse dietro. Erano tranquille, diverse da come appaiono nella serie. Vestivano sportivo, in maniera semplice. Non erano così abbienti. Quando è venuto fuori lo scandalo mi è preso un colpo. No, non le ho cercate quando giravo il film e loro non hanno cercato me. Ho preso le distanze dai ricordi, il mio personaggio me lo sono inventato. Quei due film sono facce della stessa medaglia, dal punto di vista femminile e maschile. Perché dietro il massacro del Circeo c’è il disprezzo».

Lei alla Mostra di Venezia ci disse: ho potuto solo lontanamente immaginare una donna violata nella mente e nel corpo.

«È così. Mi ha colpito la differenza tra il poco calore dei critici e le reazioni di tantissimi miei coetanei che sapevano poco di quella storia. Raccontarla era doveroso e necessario. I ragazzi sono rimasti indignati dalla censura e dal divieto ai minori di 18 anni. Invece di divulgare il più possibile il film... Quella storia mi ha cambiata, capisci quello che hai».

Poi il sorriso di «7 donne e un mistero».

«Venivo da film cupi, cercavo esperienze nuove, come una commedia al femminile dove sette donne si accusano di un delitto in una girandola di sospetti e ripicche».

Micaela Ramazzotti dice che all’inizio vi guardavate con diffidenza.

«È vero. Ora siamo tutte amiche, abbiamo una chat dove ci scriviamo cose irriferibili. Ho detestato la retorica per cui tra donne o ci si fa la guerra o si diventa sorelle. È un modo per autoghettizzarci. Dopo il Me too c’è più consapevolezza, il femminismo di una volta, che abbiamo ereditato, non esiste più, dovrebbe nascere un movimento che vada oltre i cliché».

Ma com’è crescere troppo in fretta?

«Me lo sono chiesto tante volte. Il mio è un lavoro che ti scombussola. Sul set si vive in una bolla, ti dimentichi anche del Covid. L’importante è non avere la testa soltanto sul cinema. Sono diventata amica di Ornella Vanoni, mi chiama la mia bambina, parliamo d’amore».

Chi è Benedetta Porcaroli?

«Ho ancora tante tappe prima di capirlo veramente».

·        Benny Benassi.

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 12 agosto 2022.

Quando sale in consolle si formano le folle. In vent' anni Benny Benassi ha fatto ballare milioni di persone e sulla mensola del suo studio c'è il Grammy che ha vinto, uno dei tredici italiani riusciti nell'impresa. 

Superstar della dance ma della porta accanto, Benassi ai jet privati preferisce il suo van.

Una carriera fuori dal comune, esplosa nel 2002 con un singolo, Satisfaction , ora celebrato da un altro super dj come David Guetta, che ne ha fatto una cover (esce oggi). «Ne sono felicissimo, per tanti motivi», racconta Benassi. 

Ce ne dica alcuni.

«La Francia è stato il primo Paese a credere in me, lanciando questo brano che è poi esploso nel mondo. Guetta era già tra i miei riferimenti».

A quanto pare anche lei è adesso tra i suoi.

«Ci conosciamo da anni, siamo diventati amici. A Marzo eravamo in consolle a Miami: commentando i suoi remix gli ho detto ridendo che ora toccava a Satisfaction ... un mese e mezzo dopo mi ha mandato la cover... mi è sembrata una bomba. Mi sono sentito come Iggy Pop quando è stato chiamato da David Bowie», scherza. 

Se riavvolgiamo il nastro di vent' anni, come era?

«Ero un dj che viveva a Reggio Emilia e cercava di suonare nei club della zona. Lavoravo con mio cugino e così è stato fino a tre anni fa, quando si è preso una pausa. Quel brano è anche suo. Avevo tanta voglia di uscire dall'Italia e nel 2002 è successo: dopo la Francia è arrivata l'Inghilterra e poi il boom con gli Stati Uniti». 

Ha suonato diverse volte al Coachella.

«Ho visto crescere nel tempo il palco dell'elettronica. Lì ho suonato con John Legend il nostro brano, che ricordi». 

Le hanno dedicato un documentario, «Equilibrio».

«Dovrebbe essere distribuito presto. Racconta la mia storia ma anche quella della dance degli ultimi vent' anni, con i dj diventati superstar». 

Tra questi c'è anche lei.

«Lavoro per mantenere il mio di equilibrio, non vorrei cambiare troppo. Mi piace stare a Los Angeles o a New York, mi carico, ma amo che siano periodi definiti: a Reggio Emilia sto bene. In realtà vivo poco fuori, in un paesino sulle colline. Mi conoscono tutti e alle signore che non sanno la storia ha pensato mia mamma a raccontarla».

Una normalità che sembra l'altro lato di una medaglia fatta di notti ad alto volume.

«Ho detto tanti no solo per stare in vacanza con la mia famiglia. Giro col mio van bianco e azzurro, è come se fosse la mia macchina. Andiamo in viaggio, a volte dormendo all'aperto. Ho riscoperto la bellezza dei picnic. A settembre andremo in Bretagna». 

Un van? Niente jet privati?

«No, mi fanno paura». 

La sua filosofia ricorda quella di un altro divo della dance come Moroder.

«Ho preso casa per l'inverno a Ortisei, spero di rivederlo: è una fonte di ispirazione». 

Di recente Moroder, 82 anni, è tornato in consolle. Lei pensa ci starà alla sua età?

«Non lo so. Conta se hai ancora qualcosa da dire. Lavoro con un team di ventenni: il loro punto di vista è importante. Se resterò connesso con loro continuerò, ma non mi ci vedo a fare i party revival». 

Rispetto agli altri musicisti, i dj paiono condannati a restare giovani. Perché?

«Un cantautore cresce con il suo pubblico e se è bravo ne conquista i figli. La dance non si consuma ai concerti ma in discoteca. La figlia della mia compagna ha 24 anni e, se non sono lì per suonare, mi guarda male se mi vede a 55 anni in discoteca... io stesso non ci vado più, tranne che per ascoltare qualcuno. Credo sia la grande differenza». 

C'è qualche artista che le piacerebbe conoscere?

«David Eric Grohl per chiedergli dei Nirvana. A New York incontravo sempre Patty Smith e mi sono presentato come suo fan: è gentilissima. Andavamo nello stesso ristorante vegano». 

È anche vegano?

«Non mangio la carne. Mi piace fare la mia parte per il Pianeta, gli allevamenti intensivi sono un problema». 

Prossimi progetti?

«Vado tutti i giorni in studio ma il mio progetto più imminente resta il viaggio col van in Bretagna».

·        Peppe Barra.

Peppe Barra: «Stavo per nascere sul palco e a 6 anni già recitavo». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022 

Il grande attore napoletano, figlio di Giulio e Concetta Barra, è all’Off/Off Theatre di Roma in «Buonasera a tutti», un viaggio nella sua vita di uomo e di artista 

Stava per nascere sul palcoscenico del Teatro Valle. «I miei genitori stavano provando un nuovo spettacolo e a mamma si ruppero le acque — racconta Peppe Barra, figlio di Giulio e Concetta Barra —. Venne subito trasportata nella pensioncina dove erano ospitati. Ebbene sì: io, napoletano doc, ho avuto il privilegio di nascere proprio nella Capitale», ride l’attore, indimenticabile protagonista della Gatta Cenerentola.

«In quella favola, non mi limitavo a interpretare la Matrigna, impersonavo proprio la “cattiveria”: era una fatica, perché indossavo un costume che, tra velluti e merletti vari, pesava circa 40 chili e io non solo recitavo, ma cantavo e ballavo. Aveva proprio ragione Eduardo (De Filippo) quando affermava che, per fare teatro, ci vogliono tre cose: salute, salute, salute. E quando ci venne a vedere, mi disse: piacerebbe anche a me interpretare la Matrigna. E io gli risposi: voi, maestro, vestito da donna? Sarebbe talmente strano, che si rivolterebbe l’Italia!».

Discendente da una famiglia di teatranti, un destino segnato: «Ho cominciato a recitare a 6 anni, in una scuola di Napoli che oltretutto era frequentata dai rampolli dell’alta borghesia e nobiltà napoletana, mentre io ero il rampollo, povero, di una dinastia artistica. Mio padre era un fantasista, cioè un personaggio che in palcoscenico faceva un po’ di tutto: il presentatore, il giocoliere, il prestigiatore, il macchiettista... una sorta di jolly della situazione. Mamma era attrice e cantante».

E con lei si è esibito tante volte. «Era una goduria recitare con Concetta, un’icona popolare che mi ha insegnato tanto. Ma quanto era severa! Una sera, eravamo in coppia nel Duetto buffo di due gatti di Gioachino Rossini e miagolavamo a tutto spiano. Entravamo in scena da parti opposte, mamma inciampa, si regge in piedi per miracolo ma le esce dalla bocca un miagolio stranissimo. Io scoppio a ridere, non riuscivo a frenarmi, mentre lei mi strizzava pizzichi sulla schiena. Finalmente si chiude il sipario e mi allunga uno schiaffo urlando: sei un guitto! sei un guitto! Ci rimasi molto male».

Questa sera debutta all’Off/Off Theatre di Roma in «Buonasera a tutti» Un viaggio nella sua vita di uomo e di artista, più volte definito «le mille e una resurrezione dell’animo partenopeo». «Napoli è di per sé una città teatrale. I napoletani hanno nel dna il dono della comunicazione, perché nei secoli hanno dovuto confrontarsi con tante diverse dominazioni. Inoltre, possediamo nelle viscere l’energia vulcanica del Vesuvio: tuttora attivo, con le sue vibrazioni ci domina dall’alto, come San Gennaro».

·        Beppe Caschetto.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 29 agosto 2022.

Ad esempio. Esce è successo a giugno il film Il giorno più bello, prodotto dalla IBC Movie di Beppe Caschetto, debutto alla regia di Andrea Zalone, artista dell'agenzia di Beppe Caschetto, che da anni è autore e spalla irrinunciabile di Maurizio Crozza, comico sotto contratto di Beppe Caschetto, un film che ha come interpreti Paolo Kessisoglu, Luca Bizzarri e Stefano De Martino, tutti attori della squadra di Beppe Caschetto e con la amichevole partecipazione del bolognese Lodo Guenzi, vicino di casa di Beppe Caschetto, il quale si dice presto passerà all'agenzia di Beppe Caschetto; una pellicola che andrà in onda quest' inverno su La7, rete televisiva per cui lavorano moltissimi clienti di Beppe Caschetto, e intanto è stata lanciata su Raitre da Fabio Fazio, che è l'uomo di punta della ITC 2000 di Beppe Caschetto, e già benissimo recensito dal Corriere della sera, il cui vicedirettore è Massimo Gramellini, fra i giornalisti di punta dell'agenzia di Beppe... sì, esatto: sempre lui. Può succedere.

Per inciso, il film Il giorno più bello racconta di un uomo che gestisce un'azienda di wedding planner il cui scopo nella vita è regalare felicità ai propri clienti (guadagnandoci sostanziose provvigioni). Che, più o meno, è la storia di Beppe Caschetto. 

La storia di Beppe Caschetto, 65 anni, baffo bianco ed eminenza grigia, da San Cesario sul Panaro, basso profilo e alta pianura di Modena, la città dei milionari comunisti e conservatori, con la Maserati «Levante» in garage ma la struttura mentale sempre quella della Festa dell'Unità, è il più grande manager della tivù italiana, piccolo schermo e potere enorme, colui che gestisce i volti più noti, firma i contratti più pesanti, indirizza le conduzioni, sceglie le ospitate, decide la fortuna o la sfortuna di un programma.

Voi state comodi sul divano: dovete solo guardare quello che lui ha già deciso. Poi da qui, a caschetto, discende tutto il resto: la forza di imporre spazi e vetrine di primissimo piano a personaggi che non diresti, sistemare i giornalisti più gettonati, i comici più richiesti, gli attori più riciclati. Telemercato, cachet - che a sentire le cifre ti viene il mal di testa - palinsesti e showbiz. Sperando di non scanalare in un conflitto di interessi... Domanda: ma un conduttore, quanti tra ospiti, comici, giornalisti e colleghi della sua stessa agenzia può invitare nel proprio programma? 

Cortesie per gli ospiti non è solo il titolo di un bel romanzo di Ian McEwan. Stessa compagnia di giro, stessi scambi di favori io presento te, tu presenti me, insieme presentiamo il mio libro, dopo parliamo del tuo film - stessi conduttori (si chiamano «anchorman» perché quando li vedi dici: «Ma ancora loro!?») che intervistano gli stessi giornalisti che ripetono le stesse opinioni, sulla stessa rete, tutte le sere... Altro esempio: a Che Tempo che fa, programma presentato da Fabio Fazio e Luciana Littizzetto (artisti di Beppe Caschetto), scritto da Piero Guerrera (autore di Beppe Caschetto), ben frequentato da Saviano, Ilaria D'Amico, Brignano, Fabio Volo, Neri Marcoré (tutti dell'agenzia Beppe Caschetto), si presenta il film Fai bei sogni, prodotto da Rai Cinema con la IBC Movie (di Beppe Caschetto), tratto dal romanzo di Massimo Gramellini, che in quel momento è nel cast fisso di Che Tempo che fa e anche della scuderia di Beppe Caschetto... 

La sinistra di lotta e palinsesto: il mainstream del pensiero al suo meglio, tenendo fuori il peggio, che sta sempre a destra. 

E infatti Beppe Caschetto è ben sintonizzato a sinistra («Mi considero un progressista, di formazione cattolica»): ex funzionario della Regione Emilia-Romagna con un passato nella Cgil, poi introdotto nel mondo dello spettacolo da Bibi Ballandi (che gli regala il motto «Volare bassi per schivare i sassi»), figli della stessa città, Dotta, Grassa e Rossa, quindi casa-agenzia a Bologna, con filale a Milano e diversi collegamenti esterni a Roma, Beppe Caschetto, Mangiafuoco del suo personalissimo teatrino, ha sotto contratto il meglio dell'intellighenzia radio-cine-televisiva nazionalpopolare, da Raitre a La7, dal Nove a Sanremo, ed è davvero difficile mettere in fila così tanti insopportabili, senza essere il capo degli insopportabili. Segue elenco: Formigli, Gramellini, Pif, Enrico Lucci, Salvo Sottile, Lilli Gruber, Floris, l'Annunziata, Saviano, Daria Bignardi, Fabio Fazio, Fabio Volo, la Litizzetto, Crozza, Mia Ceran, Brignano, Geppi Cucciari, Luca&Paolo, Cristina Parodi (e non citiamo Luca Telese perché a noi sta simpatico). Da restare annichiliti. Strano non ci siano Vauro, Chef Rubio e le Sardine. 

Com' è il detto evangelico? È più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che uno di destra (sì, è vero, fino a qualche anno fa c'era Nicola Porro) entri nel teleregno di Beppe Caschetto, uno che se passa da Viale Mazzini è solo per salire al settimo piano dal direttore generale. 

Ma poi: il demerito è dei vertici delle tv generaliste che non sono in grado nemmeno di buttar giù una scaletta, e comprano tutto fuori, volti e format; o è merito di Beppe Caschetto che fa l'impresario e scova talenti, cioè quello che facevano i televisivi prima di diventare burocrati?

Comunque, definire Caschetto l'uomo più potente della televisione italiana è riduttivo. E «agente delle star» è stucchevole. Prudente e circospetto, grande tessitore di rapporti e diplomazie, uomo che agisce sottotraccia, evita i riflettori, zero vita social e ancor meno mondana, poche o niente interviste, ancor meno fotografie disponibili, uomo dalla visibilità inversamente proporzionale a quella dei suoi assistiti, che sa misurare le parole e soprattutto i silenzi, che telefona raramente e risponde ancora meno, paziente, infaticabile, che parla con pochi ma ascolta tutti, molti clienti, niente amici e tanti nemici, Beppe Caschetto è il Richelieu della televisione.

Astuto, gentile, affabile, riservatissimo è infatti nel canneto che si nascondono le persone più pericolose Caschetto ha due grandi doti. La prima: sa costruire le carriere (e quindi anche distruggerle), abilissimo nel consigliare cosa fare, i programmi da tentare, le mosse da evitare: «Io accompagno i miei clienti nelle loro scelte, li indirizzo, capisco le loro potenzialità e li guido», e c'è chi dice che Alba Parietti e Valeria Marini non siamo più loro da quando non c'è più lui. 

La seconda: sa lavorare bene sotto qualsiasi governo, presidente, direttore, capostruttura... Telecomando dell'urbanocairismo e figlio devoto di Mamma Rai, Caschetto traffica, impone e guadagna con qualsiasi tempo che fa; chiunque ci sia a Palazzo, lui piazzerà sempre i suoi, sapendo bene che il potere non sta in alto ma negli interstizi, perché lo stesso Direttore Generale non conta quanto i vivandieri della terrazza romana.

Tu puoi nominare il Presidente della Rai, ma saranno sempre i funzionari, quelli dei piani inferiori a decidere tutto: ti mandano in onda, ti piazzano le pubblicità nei momenti giusti e ti fanno fallire, per poi dire: noi lo spazio alla destra lo abbiamo dato, ma non sa fare tivù...

Beppe Caschetto, occhiali da sole e uomo ombra. Uno che sul cellulare ha il numero di tutti, ma nessuno ha il suo, e che è riuscito a piazzare nello stesso periodo, su tutte le reti, due spot concorrenti: uno della Vodafone con Fabio Volo e uno della Telecom con Pif. Entrambi suoi clienti. Insomma, chapeau. Che nei giri televisivi che contano si dice «Giù il Caschetto».

·        Beppe Vessicchio.

Novella Toloni per ilgiornale.it il 17 settembre 2022.

È un vero e proprio braccio di ferro quello in atto tra Beppe Vessicchio e l'ufficio legale della Rai. Il popolare direttore d'orchestra, volto televisivo molto amato dal pubblico, porterà in tribunale i vertici di viale Mazzini, i quali non gli avrebbero versato i diritti "connessi" (non i diritti d'autore) dovuti a lui in qualità di produttore fonografico e proprietario di supporti discografici utilizzati in alcuni programmi Rai. Anche se il verdetto spetta ai giudici, il pieno sostegno delle associazioni di categoria a Vessicchio la dice lunga sulle ragioni, che il maestro rivendica. 

Al centro della diatriba ci sono le musiche de "La prova del cuoco". Beppe Vessicchio ha prodotto e registrato tutte le musiche, comprese la famosissima sigla, ma oltre ai diritti d'autore - che percepisce regolarmente - il maestro avrebbe dovuto percepire anche i diritti connessi, quelli che spettano al proprietario del supporto discografico. Quando il direttore d'orchestra ha chiesto che gli venissero saldati anche tali compensi, la Rai ha iniziato una "tarantella" - così l'ha definita Vessicchio - senza fine. 

"Sono passato da un funzionario all'altro - ha raccontato Beppe Vessicchio al Fatto Quotidiano - mi è stato comunque assicurato che il dovuto sarebbe stato corrisposto. Ma non sono mai andato oltre le rassicurazioni verbali. Così ho iniziato a scrivere raccomandate senza però avere risposte. Fino a quando mi sono presentato direttamente all'ufficio legale di Viale Mazzini dove mi è stato assicurato di non preoccuparmi visto che tramite le raccomandate ero in possesso di una traccia legale della mia azione". 

Poco dopo però al maestro Vessicchio è arrivata una nota dell'ufficio legale della Rai, in cui la sua richiesta veniva definita "campata in aria" e la Rai lo intimava a "non proseguire nell'azione" per non essere "citato in giudizio". La cifra - si parla di una somma "sostanziosa" - non è stata quantificata, ma Vessicchio denuncia che "qualcuno quei diritti in realtà li ha incassati" al posto suo.

Così oltre al danno è arrivata anche la beffa. Beppe Vessicchio sarebbe stato estromesso dalle ospitate sui canali Rai, come lui stesso ha dichiarato: "È scattata la clausola ("deterrente", la chiamo io) secondo la quale chi ha contenziosi con la Rai non può avere contratti in essere diretti con l'azienda. E così non ho potuto partecipare a molti programmi, perché l'ufficio legale è intervenuto sull'ufficio scritture artistiche (che stipula i contratti con gli artisti e gli ospiti) ponendo uno stop alla mia presenza". Il maestro sarebbe dovuto essere ospite a "Le parole della settimana", il programma di Massimo Gramellini, ma su di lui incomberebbe un veto.

La palla della disputa passa ora nelle mani dei giudici e del tribunale, ai quali si è rivolto Beppe Vessicchio per ottenere i proventi che la Rai dovrebbe pagargli. Almeno fino a prova contraria: "Intendo andare avanti fino in fondo a questa faccenda, nonostante io sia un "pesce piccolo". Desidero che la verità venga fuori: se avevo torto o meno non deve deciderlo la Rai". Così, per il momento, il maestro rimane fuori dagli studi Rai e si concentra sul cinema.

Beppe Vessicchio: «Sono cresciuto a Bagnoli in mezzo all’amianto. Ornella Vanoni mi lanciò una scarpa». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 7 marzo 2022.

Il musicista si racconta. Il primo Sanremo con Mia Martini, il rapporto con Vanoni. 

Maestro Vessicchio, è più rischioso il palco di Sanremo o un tour di interi mesi con Le Vibrazioni?

«Ah, che discoli».

Uno come lei, barba affilata e modi d’altri tempi, che viaggia assieme uno spericolato come Francesco Sarcina e alla sua band. E la vostra tournée è stata lunga.

«Le hanno provate tutte per scandalizzarmi. Una sera vengono a prendermi con il furgoncino. Sgommata, si apre la portiera laterale, spunta Sarcina con le braccia allargate come un diavoletto e, dietro, una spessa coltre di fumo».

Che non era di sigaretta.

«Penso proprio di no».

In teatro poi è stata una serata «stonata»?

«Ha presente l’effetto del fumo passivo?».

Lei fuma?

«Non potrei permettermelo, ho 65 anni ma polmoni non perfetti».

Perché?

«Sono nato e cresciuto a Bagnoli, papà era un funzionario dell’ex Eternit. Amianto dappertutto. Stavamo in un comprensorio di palazzine, quattro famiglie: i superstiti oggi sono pochi. Io, mio fratello e mia sorella giocavamo con le vasche d’amianto. Poi c’erano anche gli aghi di ferro dell’Italsider: noi bambini ci divertivamo a riempire dei sacchi di terriccio e poi a passarci sotto dei magneti. Vedevamo gli aghetti».

Lei ha preso il Covid, qualche settimana fa. Ha avuto paura?

«Diciamo che i miei polmoni non sono sanissimi. Papà è morto per complicazioni respiratorie, mia madre di tumore».

E la musica come è entrata in quella casa, «foderata di amianto», come dice lei?

«Noi siamo cresciuti con la musica. Canzoni napoletane da mettere sul giradischi la domenica pomeriggio, quando venivano le zie. Un fratello che cantava sin dal mattino. Io che volevo suonare la chitarra. Ma allora al Conservatorio non c’era il diploma per chitarra, così i miei mi iscrissero al Liceo Scientifico. Però scoprii che potevo frequentare il Conservatorio da uditore: non persi nemmeno una lezione sulle tecniche di direzione d’orchestra. Ero diventato amico di un custode che voleva diventare paroliere, gli davo una mano con i testi e lui mi facilitava l’ingresso, mi indicava gli orari giusti».

Forse senza l’obbligo degli esami si sentiva più libero nell’approccio alla musica.

«Proprio così. Mi ricordo che c’era Enzo Avitabile che studiava il flauto. Per lui e per tutti i professori ero una specie di curiosissimo abusivo».

Che musica le piaceva?

«Vede, molti si chiedono perché i cantautori napoletani siano così venati di blues, rock o jazz. Io ho una mia idea: nel porto di Napoli, negli anni Settanta e Ottanta, c’era un giornalaio che metteva da parte le riviste di musica americana destinate ai marinai statunitensi della vicina base Nato. Anche grazie a loro e ai loro dischi sono nate certe sonorità. Pensi a Pino Daniele. Noi amavamo tutto quello che veniva dal mare e così quando ascoltai per la prima volta Sérgio Mendes con Mas Que Nada capii che a Napoli c’era un potenziale enorme. Non solo per questa commistione tra la canzone napoletana e le sonorità d’Oltreoceano, ma anche per un legame più impercettibile con alcune “repubbliche marinare” come Genova».

Un flash: Fabrizio De André che canta «Don Raffaè», brano su Raffaele Cutolo.

«Precisamente. Oppure pensi a O frigideiro di Bruno Lauzi, che prendeva le mosse dal portoghese. Oppure ancora, per andare sul personale, la mia lunga collaborazione con Gino Paoli».

«Ti lascio una canzone» l’ha scritta lei.

«Conobbi Gino a casa di Maria Pia Fanfani, una cena piena di gente, c’era anche Stefania (Sandrelli, ndr.). Ci sistemammo nella stanza dei cappotti, gli feci ascoltare due miei brani. Concordammo sul migliore e quando io poi gli dissi “Bene, è fatta, lavoriamo assieme?” lui si alzò e, allontanandosi, mi rispose “No, manco so chi sei, non ti ho ancora baciato in bocca”».

Caratteraccio?

«Gli voglio bene. Gino ha una pallottola conficcata nel cuore eppure quando poi iniziammo a lavorare assieme e ci isolavamo a Ischia per giorni interi, lui beveva whisky e si immergeva in mare per oltre tre metri. Uomo fortissimo».

Perché poi lei ha studiato architettura?

«Perché quello che davvero mi interessa è il senso delle proporzioni, dell’armonia. È la prima cosa che cerco nella musica e forse anche nella vita. Ho bisogno di equilibrio, così come ho bisogno di avere vicino mia moglie».

Enrica Mormile, conosciuta a vent’anni.

«E ci siamo sposati dodici anni dopo, faccia lei. Ci siamo incontrati e riconosciuti subito, ma abbiamo aspettato. Volevamo capire, sentire. La scienza studia principalmente il cervello, ma noi siamo fatti di tante altre cose. Per esempio, se mi stacco qualche ora da mia moglie poi ho bisogno di sentirla al telefono, ma non per senso del possesso: è per recuperare una parte di me».

Le Corbusier o Frank Lloyd Wright?

«Le Corbu mi affascina per il senso sottile dell’equilibrio, ma Wright esalta l’unicità di qualcosa, che sia una casa o un individuo. Prenda la Casa sulla cascata: è unica. Io penso che nella musica come nella pittura o nella letteratura ci sia bisogno di una nota che fa la differenza. Diffido delle persone o dei sistemi che tendono a livellare o a ghettizzare. Altro esempio: alcuni dei miei professori dell’università erano legati al progetto delle Vele di Scampia: noi lo vedevamo come una ghettizzazione e ci opponevamo. Quante volte abbiamo occupato l’università».

In ogni caso, poi lei non ha fatto l’architetto ma il musicista. Collaborazioni prestigiose, scrittura di testi e musica, arrangiamenti.

«E cabaret per diversi anni con i Trettré. Ma poi i successi musicali con artisti come Vanoni, Paoli e molti altri hanno deciso per me».

Vanoni, un altro carattere mica facile.

«Eh, Ornella è una grande artista e ci teneva a rimarcare la sua statura. Dopo ogni concerto io scappavo e evitavo il suo camerino perché sapevo che ci sarebbe stata una sfuriata. Una volta lei stava provando, io continuavo a interromperla finché lei mi lanciò una scarpa. Esasperata».

Non tutti sanno che il suo primo vero Sanremo, cioè alla direzione d’orchestra, è stato nel 1990 insieme a Mia Martini.

«Lei cantava La nevicata del ‘56. Mimì, che artista straordinaria. Spessore, profondità. Una volta, in uno studio di Roma, sentii una voce intensissima: era lei che cantava Almeno tu nell’universo. Cominciammo a lavorare assieme e lei, dopo la lunga assenza dalla musica, era come rinata. Ricordo una serata sulla terrazza della mia casa romana: feci arrivare un carico di mozzarelle solo per lei. Era felice, voleva cantare».

E lei, maestro, è felice?

«So far fruttare i momenti difficili. Negli anni ho imparato a seminare durante le cadute. Come fanno i contadini, mondo che conosco bene perché lo frequento da tanti anni (Vessicchio è anche produttore di un vino particolare, che invecchia con la musica, in collaborazione con una azienda vinicola biodinamica di Pietranico, in Abruzzo, ndr.). I contadini sanno approfittare degli inverni, io so sfruttare le fasi calanti».

E questa per lei che fase è?

«Fertile. Sto studiando zone d’ombra della musica mai approfondite, per esempio le connessioni con la fisica. Il fatto che la musica non si percepisce solo con le orecchie. La musica trova altri canali e crea nuovi equilibri. A giugno avrò l’onore di dirigere l’orchestra per i cento anni della Cattolica, c’è un progetto con i Laboratori Nazionali di Fisica del Gran Sasso».

E per Alexa, assistente personale intelligente, lei è il Presidente della Repubblica ideale.

«Se lo dice lei».

Che cosa farebbe se, per assurdo, venisse eletto capo dello Stato?

«Mi batterei per introdurre la musica sin dalle scuole elementari. Perché conosco il valore taumaturgico della musica, so che cosa è in grado di fare. Eppure vedo che in tutti i modi si cerca di alleggerire i nostri ragazzi dall’impegno, come se si temesse di affaticarli. Via il greco, meno latino, la storia dell’arte che non serve: io credo invece che bisogna insegnargli la complessità».

Lo dice lei che è due volte bisnonno.

«Ma ha notato quanto si sono impoverite le canzoni? Non parlo solo dei temi, anzi. Parlo del linguaggio, della metrica, della musica. Non sono canzoni brutte, sono canzoni meno ricche».

La sensazione, guardando le classifiche, è che si produca musica per bambini.

«Sì e le faccio notare un’altra cosa: l’uso dei verbi al futuro, molto frequente. Dipende dal fatto che si cerca l’impostazione dell’inglese, che ha molti monosillabi, parole brevi e effetto tronco. Per esempio, loro hanno la parola spring, noi pri-ma-ve-ra. Dunque cerchiamo un’altra parola, che sia più tronca. Ed ecco l’uso del futuro».

Allora meglio l’operazione Fedez-Orietta Berti, un recupero della canzone anni ‘60?

«Ma certo. Anzi, io amo i rapper, perché, vivaddio, ci hanno restituito una sorta di verismo. Ci stavamo incischiando in un tempo sospeso tra la nostalgia e il futuro. Ma il punto è un altro: la complessità fa paura, il linguaggio più articolato spaventa. Prendiamo la parola immunizzare: tutti i grandi scienziati dicono che l’immunità perfetta non l’abbiamo ancora trovata, eppure continuiamo a usare quel termine come sinonimo di difesa totale e sa perché? Perché non abbiamo voglia, tempo, coraggio intellettuale di trovare una parola diversa. Così nelle canzoni».

Per l’Italia è sempre rassicurante continuare a sentire la frase «dirige l’orchestra il maestro Beppe Vessicchio».

«Posso aggiungere una cosa sola? Io spero che in un tempo dominato dalle ricerche scientifiche — e lo dice uno innamorato della scienza — non si perda di vista il valore dell’arte. Perché, nella storia, i periodi migliori sono stati quelli in cui arte e scienza hanno camminato insieme». 

·        Biagio Antonacci.

Biagio Antonacci: «Dopo tre anni di stop avevo un po’ di timore». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 10 Novembre 2022.

Mercoledì 9 novembre, giorno del suo compleanno, il cantautore è tornato sul palco, a Roma, prima data del suo «Palco Centrale tour»

Biagio in mezzo e il pubblico intorno. Ecco mercoledì sera il cantautore al debutto a Roma con il «Palco Centrale tour». «Tre anni e tre mesi senza salire sul palco, la mia ultima data con Laura Pausini a Cagliari. Salendo sul palco ero timoroso, non sai più quale sarà la reazione del pubblico, cosa si aspetta. Invece, energia pazzesca», commenta nei camerini dopo lo show, mentre festeggia il 59esimo compleanno. Il palco al centro è una scelta non comune. «È tanto bello quanto impegnativo, è un palco complicato da gestire. Non puoi cantare troppo su un fronte e permetterti la libertà di concentrarti su un lato o l’altro, penso continuamente “poi quelli di là si incavolano”. È un palco inclusivo: un termine che mi piace, indica la condivisione di una bella cosa».

Quasi tre ore di show, 34 brani in scaletta (troppi) e per «Il mucchio» Biagio torna al primo amore e si piazza dietro la batteria. A un certo punto arriva anche Laura Pausini, amica di sempre su «Se è vero che ci sei». «Oggi sono come voi, sono anche io una fan di Biagio!», ha detto Laura. «È stata una sorpresa anche per me, giuro», assicura Antonacci. «Durante il Covid — racconta — ho avuto qualche attacco d’ansia soprattutto quando ho visto che dopo 4-5 mesi la situazione non migliorava. Non ho scritto nulla per due anni, ma mi sono messo a fare il liutaio: ho imparato a riparare chitarre guardando dei tutorial in rete». Il progetto di una residency al Teatro Carcano di Milano resta in attesa: «Tornare a suonare dopo più di 3 anni e farlo solo a Milano mi avrebbe tenuto lontano da una parte del pubblico, non era la cosa giusta».

I tormentoni di Paolo Antonacci: «Imitavo papà Biagio per avere successo con le ragazze». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 3 Settembre 2022.

Il figlio del cantautore è autore di tante hit pop: «Le difficoltà legate al cognome spaventavano più me che papà». 

La gara di primavera l’ha vinta con «Sesso occasionale» di Tananai. «Nonostante l’ultimo posto a Sanremo, ero certo che avrebbe funzionato: la cantavo sotto la doccia». E anche sul tormentone estivo «La dolce vita» di Fedez, Tananai e Mara Sattei, c’è la sua firma. Paolo Antonacci, figlio di Biagio e nipote di Gianni Morandi, è uno degli autori che più sta influenzando il suono del pop italiano. Ha scritto anche per Alessandra Amoroso, Annalisa, Irama, Nek, Eros...

«L’estate è il mio momento musicale preferito non tanto per la gara al tormentone, ma perché torna l’idea di un palinsesto che ti arriva addosso anche se non vuoi. Durante il resto dell’anno scegli le tue playlist, d’estate fra chiringuito e macchinate con gli amici ci sono cose che ascolti e ti restano addosso anche se non vorresti. E per questo mi piace chiamarli tormentoni. Non poter scegliere è un po’ come ritornare a quando ero bambino».

È anche fra gli autori di «Mille», tormentone 2021: come è nato il ritorno agli anni Sessanta?

«Per riempire un buco. Per anni ci siamo dimenticati di quel riferimento culturale che è nel nostro dna e ci siamo affidati al pop latino. Dopo la pandemia ci voleva spensieratezza, un ritorno all’ultimo periodo in cui l’Italia è stata bene. “La dolce vita” è ancora più anni 60: come le hit di allora si canta tutta, strofa e ritornello».

La sua carriera di autore?

«A 20 anni avevo delle canzoni da parte, con la velleità di cantarle. E un giorno non escludo di farlo. Le difficoltà legate al cognome, spaventavano più me di papà che è sempre stato un fan, mi hanno fatto cambiare idea».

Prima che figlio d’arte è stato soltanto figlio di...

«Sono cresciuto negli anni Zero, prima dei social, quando i personaggi erano inarrivabili, quasi mitologici. E papà era un mito. I pregiudizi li ho messi subito in conto, ma nessuno ti viene a dire certe cose in faccia. Quello che mi metteva in imbarazzo era la curiosità della gente, le domande. A scuola sceglievo l’ultimo banco, e anche l’autore è quello che sta all’ultimo banco. Da dietro sono riuscito ad arrivare a tutti. L’autorato è un mondo meritocratico».

Il primo pezzo in radio?

«”La stessa” di Alessandra Amoroso. Mi ha liberato sentire che arrivavo alla gente con le mie parole. “Bella storia” di Fedez è stata la prima hit, un sollievo anche in famiglia. Il patema non è solo dei figli, ma anche dei genitori».

La prima canzone scritta?

«Alle elementari. Copiando papà ho imparato a usare il computer per registrarmi. Era una canzone per la mia compagna di classe Bianca. Lei non l’ha mai sentita... Ho iniziato a scrivere perché vedevo che papà aveva successo con le donne mentre io no. Non pensavo che fosse per il suo istrionismo e la mia timidezza, ma per le canzoni».

Aveva un piano b?

«Mi sono laureato in relazioni pubbliche. Più che per avere un piano b per avvalorare il piano a. L’obbligo di fare qualcosa di diverso da quello che vorresti ti dà più spinta».

È appena uscita «Seria», prima volta per papà Biagio.

«Finalmente mi sono sentito in condizione di poterlo fare. La vera soddisfazione è quando qualcuno pensa a un’omonimia».

E per nonno Gianni?

«Mi piacerebbe. È un immortale. Vedo due strade per lui: una ballad alla Sinatra che accenda i riflettori sull’uomo. Però quelli sono brani che fai quando tiri le somme e per lui è ancora presto. E allora va bene che cerchi il tormentone».

La prossima tendenza? Cosa vincerà a Sanremo?

«Chi lo sa. Abbiamo recuperato gli anni 60 spensierati, ma non ancora quelli classici e morriconiani alla “In ginocchio da te”. Non so però se mi prenderò io questo onere».

·        Bianca Guaccero.

Novella Toloni per ilgiornale.it il 9 maggio 2022.

Dopo quasi dieci anni di messa in onda Detto Fatto ha chiuso i battenti. La trasmissione del pomeriggio di Rai Due nata con Caterina Balivo e proseguita con Bianca Guaccero ha finito il suo ciclo e l'ultima puntata è stata l'occasione per la conduttrice di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. 

Caterina Balivo è apparsa visibilmente emozionata sin dal suo ingresso in studio subito dopo la sigla di apertura, mentre i colleghi Carla Gozzi e Jonathan Kashanian l'hanno accolta con un lungo applauso. "Tante volte ho pensato a questo ultimo ingresso in studio, a cosa avrei provato. Emozioni che spero di riuscire a descrivere alla fine prima di salutarvi", ha detto l'attrice e conduttrice ai telespettatori prima di iniziare la puntata finale del suo programma. 

Tra rubriche, cambi look, gossip e ricette culinarie Detto Fatto è proseguito sui soliti toni leggeri, che il pubblico aveva imparato a apprezzare nei dieci anni di messa in onda. Ma alla fine dell'ora e mezza di intrattenimento, dopo avere salutato e omaggiato tutto lo staff del programma, Bianca Guaccero si è presa qualche minuto per parlare al pubblico. "Volete sapere perché questo programma finisce? Perché non avete più bisogno di noi. Non abbiamo più niente da insegnarvi, cioè sono 10 anni che ci seguite… voi veramente avete ancora bisogno di qualcuno che vi spieghi come si fa la pasta all’uovo?", ha detto la Guaccero, ringraziando uno degli ospiti fissi Gianpaolo Gambi.

Poi la presentatrice ha preso gli ultimi cinque minuti di diretta per parlare della sua esperienza in tv: "Ho aspettato questi mesi prima dire questo. Sono passati 4 anni da quando ho calcato per la prima volta questa passerella. Sono stati anni felici i primi, di grande scoperta per me. Gli ultimi invece sono statti molto più complicati, tra pandemia e guerra, e intrattenere il pubblico non è stato più soltanto un divertimento ma quasi un dovere. Io volevo ringraziarvi per come mi avete accolta e qui ho trovato una famiglia".

La Guaccero, che nasce come attrice prestata alla conduzione, ha ringraziato i telespettatori per averla accolta e apprezzata come Bianca e non come la protagonista di tante fiction e si è commossa nel ricevere il messaggio a sorpresa dell'ideatrice del format, Caterina Balivo, che si è complimentata con lei per la sua conduzione. Poi alla fine si è tolta gli ultimi sassolini dalla scarpa legati alle voci sui pessimi ascolti, alla sua conduzione e sulla chiusura e alle polemiche nate negli anni: "Ho letto tante cose in questi ultimi mesi di cui non mi interessa neanche parlare. Credo che a parlare per me ci siano i fatti, che sono la cosa più importante. Sono rimasta qui fino all'ultimo giorno fiera di portare questa nave in porto fino all'ultimo giorno. E a voi posso solo dare un consiglio: certe volte non credete proprio a tutto ciò che leggete. Qui so per certo che noi siamo stati onesti, puliti e nessuno, e dico nessuno, può rovinare, deturpare la bellezza perché qui, in questo studio, c'è stata bellezza". Un'ultima nota polemica che non è passata inosservata, ma che ha chiuso un cerchio.

·        BigTittyGothEgg o GothEgg.

Barbara Costa per Dagospia il 6 febbraio 2022.  

Questa qui si mette nuda a cavalcioni e a natiche spalancate a saltare sul suo dildo caz*one, e fa più di 8 milioni di spettatori! Questa qui cambia dildo, lo prende di vetro, ma sempre a misura caz*one, e lo lecca e se lo mette in bocca e lo succhia e ci sputa e se lo infila dietro, e pure senza salti ci orgasma e ci orgasma, e ci inchioda al video più di 11 milioni di persone! Il suo bottino più gramo è quando si sposta in bagno, entra in doccia e si masturba col doccino, e fa ingrifare quasi 2 milioni di sessi. 

Questa qui è in 11esima posizione (133 milioni di views) nella classifica generale di Pornhub ora che ne scrivo. Questa qui sta dando bel filo da torcere a star amatorial come pure a pornostar affermatissime… e questa qui non si sa chi è! Sotto il nickname BigTittyGothEgg si cela una 20enne come tante ma che in poco tempo è diventata un asso del più grande sito porno al mondo, e non solo. 

BigTittyGothEgg, o GothEgg, è una Tik Tok Star, una Instagram Star, e una che guadagna le sue cifre con ciò che di lei sessualmente fa vedere su OnlyFans, e su Pornhub, e qui non solo milioni e milioni di persone tappano sui suoi video, ma vi ci sbrodolano allegramente, dacché gli apprezzamenti degli stessi quasi mai scendono sotto i 70/80 per cento, e a volte toccano i 90.

Cosa piaccia così tanto di questa ragazza credo non si debba più di tanto affaticare il cervello: banalmente quei suoi grossi meloni mammari, naturali, ché GothEgg solo a strizzarli ti monopolizza l’attenzione, per non parlare di quando li impiega a spagnola coi dildo. Basta così? No. Come si può notare nelle foto di lei le meno ritoccate, GothEgg ostenta un corpo giovane e però pieno e però non perfetto.

Lei indossa minislip o tanga e mette in mostra non solo i suoi bei chiapponi, ma tutta fiera la sua cellulite, e la sua carne. GothEgg si rivela per come è, col suo look scelto e pensato un po’ a metà strada tra una nerd e una goth girl in posa emo fuori tempo massimo, e davanti a una telecamera balla e canta e sc*pa dildo e se stessa godendo a volte a ripetizione in una casa che potrebbe benissimo essere quella dei suoi (ignari?) genitori. E non ci sarebbe niente di scandaloso: oggi nel porno (e non solo) si lavora anche così, si fattura (e bene) anche così.

È saltata ogni regola: il tuo set può efficacissimamente essere la tua camera, il tuo letto, il tuo bidet, il tuo armadio, tu per come sei e vuoi, da quando apri gli occhi e per 24ore ogni giorno se ti va oppure no. Della vita vera, offline, di questa ragazza si sa poco e niente, tranne che il suo vero nome forse è Lee, e che è americana, nata a marzo? o a dicembre? del 2000? o del 1999?, e che è alta 147 cm? 152? per un peso che bio non confermate segnano 57 kg. 

Non si sa dove sia nata né dove abiti (si pensa New York, si ipotizza Florida), e di certo convive con 2 gatti, e uno si chiama Egg Roll. Che altro nella vita vera GothEgg faccia si ignora, ed è giusto così poiché non ha importanza per chi punta ogni fiches online. Girano notizie non verificate di ceto benestante e di una famiglia in cui GothEgg sarebbe figlia unica di un militare d’alto grado e di una casalinga. Ha valore? No.

L’unica cosa che conta e che vale è che questa ragazza ha milioni di follower sparsi tra i suoi canali Instagram, Twitter, OnlyFans e "solo" 3,1 milioni sono gli aficionados che la guardano su Tik Tok. Qui, GothEgg è una star per i suoi balletti scemi (scemi nel senso che chiunque se vuole può replicarli, a patto che abbia tette ballonzolanti e sia capace a twerkare) e per i suoi video di lipsync (sincronizzazione labiale). Stop. È la legge dei social! Qui per diventar famosi c’è bisogno di nulla che abbia rapporti col talento, abilità, bravura. Che ci fai? È fama virtuale, basata su non si sa che: da una tale bolgia in pochi emergono con qualcosa di autorevole da dire e mostrare.

Col sesso, invece, se a sprazzi fa la sua comparsa qualche pene reale (subito bollato come quello del suo ragazzo, e non è vero, o meglio, chi lo sa? e chi se ne importa?), le prestazioni porno di GothEgg rientrano nella masturbazione, e poi masturbazione, e uso dei suoi seni nei più solisti perversi masturbatori modi.

Quanto guadagna una star del genere? A differenza delle altre scarsissime notizie, è una processione di cifre del patrimonio presunto di GothEgg: 280.000 dollari? 489.000? 800, 900.000? Supera il milione? Ma chi mette tali cifre in rete, come cavolo fa a stimarle? Ha accesso ai conti?!? Tutte baggianate che sul web passano per vere. Più spontaneo chiedersi quanto e se una tale web-star durerà. E chi può saperlo? Come altri fenomeni della rete, si fa presto a sostituirla con un’altra, e a dimenticarla. 

·        Billie Eilish.

Da deejay.it il 6 febbraio 2022.

Il titolo dell’articolo può sembrare provocatorio. Ma queste parole Billie Eilish le pronunciate davvero: “People are scared of big boobs”. Letteralmente: “Le persone hanno paura delle tette grandi”. 

Ovviamente la frase della giovane cantautrice va contestualizzata. Sotto i riflettori dal 2016, quando il suo primo singolo Ocean Eyes ha fatto il botto su Spotify in pochissimo tempo, Billie Eilish, a soli 20 anni, è già destinata a percorrere le orme delle grandi pop star internazionali. 

Ha conquistato fan da tutto il mondo anche grazie al suo stile unico: capelli colorati, vestiti oversize, creatività senza limiti. Stile caratteristico e speciale, che però adesso sta cambiando.

Il suo ultimo album, il secondo, Happier than ever, è il manifesto della sua evoluzione: Billie Eilish non è più una teenager e sta esplorando nuovi orizzonti. 

“Ho provato emozioni diverse e ho avuto un colore di capelli differente per ogni cosa che ho fatto. Volevo che anche quest’album avesse uno stile unico” - Billie Eilish 

La giovane cantante sta cambiando, e si vede: il suo look resta eccentrico, ma in maniera diversa rispetto a quello della “prima Eilish”. E non tutti i fan hanno accolto con piacere questa piccola rivoluzione.

Billie Eilish: “Ho perso 100K followers per colpa delle mie tette”

Ciò che è cambiato, in primis, è il rapporto che Billie Eilish ha con il proprio corpo. 

La cantante è passata, in sostanza, dal coprirsi con abiti larghi per non essere giudicata al voler iniziare a trasmettere tutta la sua femminilità. 

In una lunga intervista concessa a Elle Usa, la cantante ha percorso le tappe del suo ultimo anno, parlando anche della sua immagine, vistosamente cambiata.

L’aneddoto più curioso è legato anche ai social: Billie Eilish avrebbe perso molti followers quando avrebbe iniziato a mostrarsi più scollata. 

Il fatto sarebbe avvenuto dopo aver postato una determinata foto caricata su Instagram, cioè quella che vi riproponiamo qui sotto. I fan sarebbero rimasti sconvolti dalla nuova Billie, la ragazza biondo platino in corsetto e dalle forme esagerate. 

“La gente si lega ai vecchi ricordi, ma è una cosa molto disumanizzante”, ha detto nell’intervista la cantautrice. E poi, ridendo, ha aggiunto: “Ho perso 100mila followers solo per colpa delle tette. Le persone sono spaventate dalle tette grandi” - Billie Eilish 

Dopo aver postato la foto, dunque, Billie Eilish avrebbe notato un calo vertiginoso del numero dei followers accompagnato da tanti commenti in cui veniva accusata di sessualizzare il proprio corpo.

Parole non facili da digerire per una ragazza che ha subito manipolazioni e abusi dall’ex e che ha un rapporto complicato con la pornografia, come lei stessa ha dichiarato. 

Madonna difende Billie Eilish: "Deve sentirsi libera"

Ma Billie è andata oltre e ha continuato a seguire la sua strada. Ha ricordato ai suoi fan che non importa come appare o quale look proverà la prossima volta: resta sempre la stessa ragazza che il mondo ha già conosciuto e amato.

A proposito di star mondiali, persino Madonna, dea della trasgressione, ha preso le difese della 20enne di Losa Angeles: “Il problema è che viviamo in un mondo sessista dove le donne sono divise solo in due categorie: o sei una vergine o sei una puttan*. Billie non ha mai assecondato le masse e ha iniziato non utilizzando la sua sessualità in nessun modo. Le donne dovrebbero essere libere di mostrarsi come vogliono. Se Billie fosse stata un uomo, nessuno avrebbe parlato di tutto questo”.

Parole chiare e dure nei confronti del sistema, pronunciate da un’artista che il mondo dello spettacolo lo conosce piuttosto bene.

·        Blanco. 

Blanco demolito dalla ex: "Per colpa sua sono finita in ospedale", una confessione drammatica. Libero Quotidiano il 19 giugno 2022

Giulia Lisioli, ex fidanzata di Blanco, il quale ora ha una relazione con la ballerina Martina Valdes, parla della rottura con il cantante in una intervista al settimanale Di più. "Ho scoperto che Riccardo (vero nome di Blanco, ndr) aveva un’altra in un video che mi hanno mandato su Internet. Ho visto lui in discoteca che baciava quella ragazza, una che non avevo mai visto prima".  

Un tradimento che l'ha fatta soffrire moltissimo a tal punto da mandarla in ospedale. La ragazza, che ha 19 anni e che dice di provare ancora un forte sentimento per Blanco, conosciuto sui banchi di scuola, ha dovuto prendere degli ansiolitici per combattere contro gli attacchi di ansia e di panico.  Giulia, dopo essere stata tradita, ha tempestato Riccardo Fabbriconi di messaggi. Tutto inutile, visto che lui non le ha mai risposta. 

Solo due mesi dopo i due ex si sono incontrati per chiarire: "Mi ha detto che ci teneva ancora tantissimo a me. Ha sbagliato, forse era in un momento difficile, in cui aveva tanto stress addosso. Io non ho sbagliato niente. L’ho amato, supportato e sopportato: dall’inizio fino a Sanremo. Chi ha sbagliato è solo lui". E ancora: "Per stare dietro a lui spesso mi trascuravo. Forse è stato questo il mio errore ma ero sicura del suo amore. Mettevo davanti a tutto le esigenze di Riccardo, io venivo dopo e mi sembrava giusto così". Ora Giulia sta bene e lavora in un bar: "Vorrei vivere in pace e riuscire a dimenticare tutto. Soprattutto Riccardo".

Blanco in concerto a San Pietro, l'ex ragazzo dell’oratorio che prima dei concerti dà un bacio al crocifisso. Andrea Silenzi su La Repubblica il 17 Aprile 2022.

L’investitura della Cei dopo il successo al festival di Sanremo per il rapper delle canzoni in cui l’amore vince su tutto.

Cantare in Vaticano significa essere immersi nel proprio tempo, rappresentare una voce in grado di scuotere le coscienze, al di là del credo. Blanco è stato contattato subito dopo la sua vittoria a Sanremo in coppia con Mahmood, giudicato l'artista più adatto per dialogare con le migliaia di giovani (circa 60.000) che accorreranno in piazza San Pietro domani per una giornata di festa organizzata dalla Cei.

Il concerto di Blanco dal Papa, a San Pietro, il lunedì di Pasquetta. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2022.

Blanco, vincitore a Sanremo con Mahmood, scelto dalla Cei per il live a San Pietro: l’evento sarà presentato da Andrea Delogu. 

Blanco canterà domani, lunedì dell’Angelo, in piazza San Pietro, nell’evento ideato dalla Cei per il pellegrinaggio a Roma degli adolescenti che arriveranno da tutta Italia. Il pellegrinaggio sarà poi concluso da un incontro tra gli adolescenti e Papa Francesco. 

Blanco — all’anagrafe Riccardo Fabbriconi — è da settimane tra gli artisti italiani più seguiti, dopo la vittoria a Sanremo con la canzone «Brividi» interpretata con Mahmood. Le tappe del tour sono tutte, regolarmente, sold out, e ora si prepara all’Eurovision Song Contest che tra un mese lo vedrà sul palco a Torino a rappresentare l’Italia. 

L’annunico della partecipazione di Blanco è stato dato dal responsabile dell’Ufficio nazionale della Cei per la pastorale giovanile, don Michele Falabretti. Il numero delle adesioni all’appuntamento organizzato dalla Cei è arrivato a 57 mila. 

A condurre l’evento saranno Andrea Delogu e Gabriele Vagnato; sul palco ci saranno anche gli attori Giovanni Scifoni e Michele la Ginestra. A chiudere Matteo Romano, anche lui passato dall’ultima edizione di Sanremo. 

Blanco, 19 anni compiuti a febbraio, è il più giovane cantante maschile di sempre a vincere Sanremo. Fino a due anni fa era il capitano degli Allievi della Vighenzi, squadra di Padenghe del Garda, tra le migliori nella provincia bresciana: poi, come ha raccontato Sarvatore Riggio per il «Corriere», «l’addio al pallone (comunicato al suo allenatore, Vittorio Sandrini) e la voglia di intraprendere un nuovo percorso, la musica. Se ormai tutti conosciamo Blanco, pochi conoscono “Fabbro”, che per tutti resta “Fabbro”».

Blanco: «Voglio bene ad Achille Lauro, ma non sarei passato da San Marino per l’Eurovision». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.

Il tour sold out del fenomeno pop dell’anno con un palco come una cameretta. 

Nella cameretta di Blanco ci stanno 3 mila persone. C’è un lettone enorme, un orsacchiotto fuori misura, una poltrona gigante e un tavolo-scrivania che nasconde un piano. È il palco del «Blu Celeste» tour, lo show più atteso dell’anno, debutto pochi giorni fa a Padova. «Ho iniziato a fare musica nella mia cameretta e fra lì e la cantina di casa dei miei è nato il debutto “Blu Celeste”. Ho cercato di ricreare la stessa vibrazione», raccontava l’altra sera, prima di salire sul palco del Fabrique di Milano. A fornire la visione è Fabio Novembre, designer di portata globale che per la prima volta si misura con un palco musicale. Sono firmati da lui anche luci e video, tutto in bianco e nero, effetti optical, graffi grafici, statue neoclassiche e l’acqua (quella del lago di Garda da cui arriva Blanco) come elemento ricorrente. «Mi ha sempre affascinato l’idea del ricordo; il bianco e nero lo lego a quello. Tutto il viaggio del concerto è un ricordo di quello che è stato, e non uno sguardo al futuro. Questo tour però non è un traguardo, ma un nuovo inizio». Altro che gen Z proiettata verso il futuro, Blanco fa il saggio: «Se ti scordi del passato non arrivi al futuro». In bianco e nero anche il pubblico: dress code rispettato con percentuali bulgare da tutta la platea. Anche i reggiseni che volano sono bianchi e neri. La sera del debutto ne aveva indossato uno e apriti cielo sui social: «Non era un outfit studiato: è venuto così».

300 mila biglietti

Blanco, all’anagrafe Riccardo Fabbriconi, è lontano anche dagli immaginario modaioli dei rapper: altro che diamanti e Lambo, meglio canotta e mutande per sottolineare il suo essere ragazzo di provincia. È stato il fenomeno del 2021, ben prima della vittoria al Festival di Sanremo in coppia con Mahmood per «Brividi»: quarto disco più venduto dell’anno con «Blu Celeste» e sul podio dei singoli più streammati con «Mi fai impazzire» con Sfera (lo ha raggiunto sul palco, volto nascosto dal baklava-passamontagna, non ha cantato). Un fenomeno unico. Quelli della sua generazione, quella che ha rotto gli schemi del music business, fanno grandi numeri in streaming ma faticano a convertirli in consenso live. Questo tour è andato sold out in pochi giorni: 300 mila biglietti venduti, numeri da veterani del palco.

La scaletta

Blanco ha radunato un pubblico, a trazione femminile fra la fine dei teen e la prima metà dei 20, con una proposta musicale inedita per i giorni d’oggi: energia punk, chitarre, un’urgenza di racconto quasi rap. Senza quel bisogno di smussare gli angoli tipico del pop. La replica sul palco con il trio chitarra (Michelangelo, il suo produttore), Jacopo Volpe alla batteria ed Emanuele Nazzaro al basso. Concerto secco, i brani del disco e due canzoni pre-esordio («Amatoriale» e «Ruggine») che lui ha tolto dalle piattaforme e usa per testare chi c’era veramente dagli inizi, nei bis le hit «La canzone nostra», «Brividi» (senza le parti di Salmo e Mahmood) e «Notti in bianco» in versione elettrica dopo quella acustica a metà show. «Mi è sempre piaciuta la musica con gli strumenti, e lo dico con rispetto di chi usa le basi». Energia a torso nudo di cui fanno le spese un paio di sedie spaccate con gesto da cover di «London Calling» dei Clash. «È meglio che scop... Non ne potevo più di guardare concerti su YouTube. Vasco resta il nostro king e mi dicono che dovrei vedere Jova».

«Non sono un maschio alfa»

C’era la famiglia a seguirlo: «Non voglio fare il maschio alfa... confesso che mi ha emozionato. Vedere mia mamma orgogliosa è stato bello. Quando da bambino ho iniziato a cantare, più che altro gridavo, lei arrivava in camera e diceva “sei un po’ stonato…”». .

L’Eurovision

In mezzo al tour ci sarà l’Eurovision con Mahmood: «Abbiamo deciso: faremo “Brividi” in italiano perché siamo orgogliosi di rappresentare l’Italia. Peccato che per regolamento abbiamo dovuto tagliarne 24 secondi. Voglio bene ad Achille Lauro, ma non avrei cercato la strada di San Marino. Per me e Mahmood andare a Sanremo era un modo di portare la nostra musica su quel palco. L’Esc è arrivato dopo».

Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 26 febbraio 2022.

«Grande Blanco. Calvagese è con te». La scritta appare e scompare sullo schermo all'ingresso di Calvagese della Riviera, alternandosi alle informazioni sul meteo e a quelle sulle imposte comunali. La stessa frase è stampata sullo striscione davanti al municipio e su quello appeso sulla strada che porta alle frazioni di Mocasina e Carzago.

È l'effetto Blanco. «Il nome d'arte l'abbiamo inventato insieme - specificano gli amici di sempre -. All'inizio era Blanco Fyrex, poi l'ha semplificato. L'intolleranza ai latticini non c'entra nulla».

Dettagli. La sostanza è un fuoco d'artificio in pieno giorno che ha risvegliato dal torpore una comunità di 3.200 abitanti che più placida sarebbe difficile immaginare. 

E l'affetto con cui questa comunità ringrazia un ragazzo di appena 19 anni, autodidatta della musica e vulcanico self-made man dei social, che un minuto dopo aver vinto il Festival di Sanremo insieme a Mahmood con Brividi ha urlato dal palco dell'Ariston: «Calvagese è ovunque». Campanilismo d'antan.

Pardon: local pride. Riccardo Fabbriconi, infatti, l'alter ego in carne, ossa, tatuaggi e canottiera bianca dell'artista che su Spotify e sulle altre piattaforme digitali ha già superato il miliardo di stream, è nato e cresciuto nel più classico dei paesaggi italiani: la provincia. 

Che nel suo caso significa l'istituto professionale per acconciatori di Desenzano, i sabati pomeriggio in piazzale Arnaldo a Brescia, le vacanze in Puglia con i genitori e i tre fratelli più grandi e il lago di Garda così vicino che d'estate Blanco ci va a fare il bagno in bicicletta.

E poi il calcio (difensore centrale soprannominato «fabbro», il Lumezzane lo mise sotto contratto quando aveva 7 anni), le trasferte in auto con il papà informatico e la mamma impiegata che gli facevano ascoltare De Andrè, Paolo Conte, Celentano e Nicola Di Bari, i brani trap scritti nelle tavernette dei compagni delle medie con tastiera e amplificatorino, la pizzeria «La diavola» per cui faceva le consegne a domicilio per pagarsi i primi video.

A differenza di tanti, però, Blanco non ha mai glissato sulle sue origini. Anzi. Quasi le ostenta. Come se tutta la normalità che lo circonda fosse la benzina del suo successo, la sua arma segreta. 

Lo ha ripetuto anche pochi giorni fa, quando il consiglio comunale lo ha ricevuto con tutti gli onori in mezzo alle tele del Tiepolo e del Canaletto del museo locale: «Essere di Calvagese mi ha forgiato, mi ha fatto restare acqua e sapone. I giovani come me, che vengono dalla provincia, devono sapere che possono fare tutto: bisogna crederci e fare sacrifici».

«Siamo orgogliosi di lui e per l'Eurovision stiamo organizzando qualcosa per dimostrargli la nostra vicinanza - dice il sindaco Simonetta Gabana -. Credo che una realtà come la nostra possa averlo aiutato anche dal punto di vista artistico. C'è molta libertà e un paese piccolo ti porta a muoverti con le tue forze, a darti da fare».

Lo conferma il padre, Giovanni Fabbriconi, seduto sulle sedie di plastica del bar-tavola fredda «Il Sorriso»: «Io vengo da Roma. La chiave per capire questo posto e anche mio figlio è solo una: la semplicità».

Una semplicità che Blanco declina in modo anticonvenzionale, come quando va a correre nudo in mezzo ai boschi e ai filari di Groppello insieme al suo bulldog inglese Bam Bam. In vesti adamitiche, non a caso, appare anche sul nuovo numero di Vanity Fair.

«Non è esibizionismo - precisa subito il papà -, stare senza vestiti lo fa sentire libero». La carriera di Riccardo, partita nel giugno 2020 dopo il primo lockdown con il singolo Belladonna (Adieu), è stata così fulminea da aver spiazzato la sua stessa famiglia. 

«Ci siamo accorti di quello che stava succedendo perché mio figlio non ha ancora fatto la patente e dopo un po' portarlo in giro stava diventando un lavoro - continua il papà - . È stato costretto a lasciare la scuola ma vederlo impegnato a tempo pieno con la musica è una grande soddisfazione. Certo, non ho mai pensato che sarebbe finito a lavorare in banca».

«Mollare la scuola è una cosa che, però, sconsiglio a chiunque: avere un'istruzione serve davvero» ribadisce lui nell'intervista a Vanity. In paese sono tutti sicuri che il successo non lo ha cambiato e non lo cambierà.

«È sempre stato un bambino introverso più che timido e credo che lo sia tuttora - dice la barista Simona Roncetti, che è passata dal vendergli le caramelle al ripetere davanti alle telecamere che fa colazione con cappuccino al latte di soya e brioche vegana al cioccolato -. Ho scoperto che era Blanco da mio figlio. Mi ha fatto ascoltare La canzone nostra e mi ha detto: "Ma non lo sai che è Riccardo questo che canta?"».

Vittorio Sandrini, suo allenatore negli Allievi Elite della Vighenzi dal 2017 al 2020, è quasi scosso per la parabola a cui ha assistito. «Bisognava tirargli fuori quello che aveva dentro, adesso lo butta fuori da solo con la musica - pensa a voce alta il mister -. Quando ci ha detto che avrebbe lasciato la squadra per dedicarsi completamente a questo progetto gli abbiamo detto di rifletterci bene.

È sempre stato molto forte e anche se percepivamo che il calcio non era la sua priorità ci sembrava che stesse facendo un errore. Invece aveva ragione lui. Se penso che i primi testi li cantavano i compagni di squadra negli spogliatoi e che adesso non riesco a trovare i biglietti per andarlo a sentire quasi non ci credo».

La conferma che Blanco sia ormai una star trasversale alle generazioni, in ogni caso, arriva dall'imbarazzo con cui Germano Villa, un vicino di casa impegnato a compilare le schedine del Totocalcio sui tavolini del Wine Bar Centrale, ammette di non aver mai ascoltato una sua canzone: «Sono rimasto a Vanna Leali, la cugina di Fausto, che abitava proprio qui dietro. Anche lei partecipò a Sanremo nel 1976. Però prometto che adesso mi aggiorno».

La 72esima edizione del Festival. Chi è Blanco, il cantante in gara a Sanremo con Mahmood e la canzone “Brividi”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 31 Gennaio 2022. 

Blanco ha spaccato tutto con la canzone Mi fai impazzire,  hit della scorsa estate cantata con Sfera Ebbasta. Sarà alla 72esima edizione del Festival di Sanremo con Mahmood – 29 anni, nome d’arte di Alessandro Mahmoud, è stato il vincitore a sorpresa dell’edizione 2019 con Soldi. I due porteranno Brividi sul palco dell’Ariston, nella serata delle cover invece il capolavoro di Gino Paoli pubblicato nel 1960 Il cielo in una stanza.

Riccardo Fabbriconi, quasi 19 anni, si è avvicinato quasi per caso alla scrittura. Il suo primo brano dedicato a una ragazza. Ha pubblicato a giugno 2020 il suo singolo d’esordio Belladonna (adieu), seguito da Notti in Bianco e da Ladri di Fiori. Ha collaborato con Madame in Tutti Muoiono ed è esploso con Mi fai impazzire con Sfera Ebbasta.

Notti in Bianco è stata certificata doppio disco di Platino con oltre 47 milioni di stream. Ladro di Fiori disco d’Oro. È stato selezionato per Radar Italia, il programma globale di Spotify per la prima volta in Italia per supportare i migliori talenti emergenti della scena

È stato selezionato per far parte delle unplugged session Amazon Music Breakthrough. Il suo album d’esordio Blu Celeste è uscito venerdì 10 settembre: triplo platino. La coppia Mahmood-Blanco è data dai bookmaker come la favorita alla vittoria finale. Loro si smarcano al momento. “Ci siamo incontrati quest’estate per caso nello studio di Michelangelo (il produttore Michele Zocca) a Vescovato, in provincia di Cremona. Da un accordo sbagliato al pianoforte è nato il ritornello. Poi ognuno di noi ha lavorato sulle strofe per raccontare non solo di amore ma di sentimenti secondo i nostri rispettivi punti di vista”, hanno raccontato a Il Corriere della Sera.

Il testo ripercorre un dialogo a distanza dove un uomo si mette a nudo, anche fisicamente, davanti a un altro. “Il tema – ha raccontato Mahmood – è quello della libertà in senso universale. Nel 2022 non si può più stare appresso ai retrogradi, bisogna riuscire a dare dignità a tutte le scelte e spero che lo faccia più che noi artisti chi ha un ruolo di guida nell’Italia. La nostra generazione vive e pensa in modo libero, siamo stanchi di persone che cercano di ghettizzarne altre, il giudizio è come la morte”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 7 febbraio 2022.

Hanno (stra)vinto loro, si sa. Da una parte Mahmood, quello di Soldi: è riuscito a fare il bis sanremese e ora chi lo ferma più. Nessuno, neppure Di Maio che pure ci provò nel 2019 con il suo appello a favore del popolo, costretto a digerire il trionfo di questo signore qui. Ebbene, da quel momento, era il 2019, Mahmood ha vinto qualunque cosa, anche la sagra della polpetta. 

Sarà per questo che nessuno ha osato dire niente, se non parole buone, a proposito dell'altro vincitore, Blanco, vero nome Riccardo Fabbriconi, giovane rapper di soli 18 anni con alle spalle già un'invidiabile carriera. Del resto, oh, piace a tutti: ragazzine, ragazzini, mamme, padri, figli, etero, omo, fluidi di ogni genere. 

Sarà per quello sguardo da bravo ragazzo, sarà per il capello arruffato, sarà per l'abbigliamento angelicato, sarà per quella voce "rara" che si ritrova, sarà per i testi delle sue canzoni, sarà quel che vi pare, ma questo qui non ne sbaglia una da almeno un paio d'anni e ora si è preso pure Sanremo all'età in cui i suoi coetanei è già tanto se ci vanno al mare, a Sanremo.

È "avanti", il ragazzo, e subito dopo essere stato eletto vincitore del Festivàl non ha detto «ora conquisto il mondo», ma è andato a festeggiare con mamma e papà («da piccolo li facevo disperare, subito dopo la proclamazione il babbo mi ha detto "li mortacci tua"»), ma pure con Gianni Morandi che ha preso in braccio come se si trattasse del suo migliore amico (se accadesse, non ci stupiremmo). 

'Sto ragazzo nato nella provincia di Brescia, a Calvagese della Riviera, paesino di 3000 anime, si è - come si suol dire - fatto da solo, da ragazzino acchiappava le basi su YouTube e rappava, poi i primi pezzi su Spotify, ma anche l'addio al calcio per star dietro alla sua passione (era una discreta promessa della Feralpi Salò, ruolo difensore, nonché tifoso della Roma).

Inizia a collaborare con la Ecletic Music, si mette sotto, scrive la hit Notti in bianco, al termine del primo lockdown fa uscire l'Ep d'esordio, Quarantine Paranoid (titolo decisamente evocativo), lo nota la Universal e gli propone un sontuoso contratto. 

 Lo accetta, ovvio. A ottobre 2020 è il momento di un altro singolo di grande successo, Ladro di Fiori, che gli apre la porta delle collaborazioni con artisti prestigiosi, Salmo, per dire. 

Con il rapper sardo pubblica il singolo La canzone nostra, un trionfo che lo consegna al grande pubblico. A Marzo 2021 pubblica il singolo Tutti Muoiono insieme a Madame, poi, la scorsa estate, arriva Tu mi fai impazzire con Sfera Ebbasta, che invade le radio per mesi e mesi.

A settembre 2021 ecco il suo primo album, Blu Celeste, un trionfo fatto di primati in classifica e singoli a raffica, ora la consacrazione a Sanremo. Fidanzato con Giulia, pare proprio un bravo ragazzo, soprattutto è capace di mettere insieme rime come quelle di Brividi, canzone che in una settimana ha fatto il giro del mondo e verrà riproposta al prossimo Eurovision, la Champions della musica in programma a maggio a Torino.

«Volete partecipare» gli hanno chiesto dopo la proclamazione, «sììì!» ha risposto lui con la voce emozionata di chi fino a due anni fa neanche immaginava una cosa del genere, al punto che lasciando il palco dell'Ariston ha gridato «Vado a ubriacarmi!». Ci sembra giusto. È un grande talento, e anche nell'era dei cantanti "usa e getta" con lui ce la sentiamo di osare: ne parleremo a lungo, magari non a lungo come con Morandi, ma anche la metà del tempo non sarebbe.  

Esplode il fenomeno Blanco. E spuntano le foto da "Brividi" con la fidanzata Giulia. Il Tempo il 07 febbraio.

Mahmood e Blanco trionfano a Sanremo 2022, un'edizione - la terza targata Amadeus - che ha battuto ogni record in termini di ascolti e popolarità, anche grazie alla partecipazione di tanti giovani. La coppia che già era data tra i favoriti alla vigilia si conferma in testa dopo l'ultima serata al teatro Ariston e prenota un posto all'Eurovision Song Contest di Torino. Mahmood c'era già stato nel 2019, dopo la vittoria a Sanremo con il brano 'Soldi'. Stavolta, nell'edizione made in Italy porta con sé anche il 18enne Riccardo Fabbriconi, in arte Blanco che ha già fatto impazzire tutti soprattutto le giovani fan che adesso sulla nuova stella vogliono sapere tutto.

Nato a Calvagese della Riviera, un piccolo paese della provincia di Brescia, il 10 febbraio 2003, il cantante che nei suoi appena diciannove anni scarsi è stato anche un promettente calciatore (due anni fa era difensore e capitano della squadra giovanile di Padenghe) è fidanzato da circa un anno e mezzo con Giulia Lisioli, una ragazza del bresciano come lui conosciuta prima di diventare famoso. I due sono apparsi insieme per la prima volta ai Seat Music Awards 2021, dove si sono presentati mano nella mano. Per l'occasione, il cantante aveva aggiornato il suo profilo Instagram con una foto di coppia. Ma a raccontare via social il loro amore ci pensa soprattutto la studentessa Giulia, che posta spesso foto e video assieme al fidanzato.

Anche lui le ha dedicato un tenero saluto, al termine dell’esibizione sul palco dell’Ariston il giorno della vittoria. “Ciao Giulia”, ha detto Blanco sollevando il mazzo di fiori che gli aveva appena consegnato Amadeus.

Blanco, dal calcio al Festival di Sanremo. La Feralpi Salò: «Tifate con noi per "Fabbro"». Chi è Riccardo Fabbriconi. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 4 febbraio 2022.

Lotta insieme a Mahmoud per la vittoria al Festival, ma fino a poco tempo fa aveva una carriera da calciatore davanti e giocava contro l'Under 21 Scalvini

Dai campi di calcio con la maglia del Feralpi Salò e della Vighenzi al palco di Sanremo con la canzone «Brividi», che canta in coppia con Mahmoud . Ma se all’Ariston si chiama Blanco, su un campo di calcio è per tutti Riccardo Fabbriconi, nato il 10 febbraio 2003, grande tifoso della Roma, passione ereditata dal padre.

Fino a due anni fa era il capitano degli Allievi della Vighenzi, squadra di Padenghe del Garda, tra le migliori nella provincia bresciana. All’epoca guidava la difesa, adesso è primo – nella classifica provvisoria – al Festival in attesa delle ultime due serate. Magari ha sì un fisico poco strutturato, ma è dotato di grande intelligenza, che sa applicare a qualsiasi cosa faccia, calcio compreso.

Questo ragazzo, che per tutti resta «Fabbro» (il soprannome, come capita a tanti, è il diminutivo del cognome) è cresciuto nelle giovanili della Feralpi Salò, per poi spostarsi a Padenghe, per completare il percorso giovanile con la Vighenzi. Una promessa, poi l’addio al pallone (comunicato al suo allenatore, Vittorio Sandrini) e la voglia di intraprendere un nuovo percorso, la musica. Se ormai tutti conosciamo Blanco, pochi conoscono «Fabbro».

Era il 15 novembre 2015 quando Riccardo Fabbriconi sfidava Giorgio Scalvini – suo coetaneo e difensore bresciano oggi all’Atalanta (sette presenze, sei in serie A e in Nazionale Under 21) – in Feralpi Salò-Atalanta 0-6 . Se il primo è il talento del momento nella musica, il suo coetaneo gioca in serie A con la Dea e nell’Under 21 di Nicolato.

«I Leoni del Garda» oggi sono in Lega Pro, con una storia unica nel panorama calcistico italiano. Hanno adottato un cane, un setter, di nome Leo, mascotte della società. E in passato, appunto, hanno cresciuto Blanco. Ma con il passare degli anni è sfumata la passione per il pallone e il ragazzo ha sposato la musica. Un coraggio, come mostrava anche in campo quando aiutava ed esortava i suoi compagni di squadra, guidandoli anche nelle partite più delicate. Perché non è da tutti lasciare una strada che gli dava prospettive e percorrerne un’altra. E adesso tutti sostengono il «Fabbro»: «Tifa con noi per la vittoria di Blanco a Sanremo», ha scritto sui social il suo vecchio club, la Feralpi Salò. E ancora: «Che “Brividi” vederti su quel palco. Forza Blanco!», giocando con il titolo della canzone presentata all’Ariston. Con nessun rimpianto.

·        Blake Blossom.

Barbara Costa per Dagospia il 29 maggio 2022. 

È la nuova Jenna Jameson? Ci assomiglia? È meglio? Peggio? È incredibile quanto i capoccia del porno stiano pompando questa tipa qui, Blake Blossom, 22 anni, nata in California ma cresciuta in Arizona, e quanto la sinuosa fanciulla stia salendo in views e porno gradimento s*gante generale. Davvero abbiamo bisogno –il porno ha bisogno – della nuova Barbie, prototipo della ragazza della porta accanto, scoppiante pulizia e salute, viso angelico su un fisico straripante voglie e movenze da indicibile ninfomane?

Evidentemente sì, se è ancora tale la gallina dalle uova d’oro del porno che fa i soldi e li fa girare. Se si porno insegue e fomenta il desiderio di una nuova Jenna Jameson stella ineguagliabile del porno che fu (e facciamo i più grandi auguri di pronta guarigione alla cara Jenna, forza Jenna che poco tempo fa se l’è vista brutta, ricoverata in ospedale per sospetta sindrome di Guillain-Barré: e diagnosi erronea, Jenna Jameson è stata dimessa, anche se non si sa finora l’esatta causa del suo male, in ogni modo si posta in recupero…) e, dicevo, del porno che fu e che non è più… ma non sono solo i capoccia del porno, sono i porno p*pparoli che non se lo tengono nelle mutande davanti a Blake Blossom nuda, e allora ditemelo voi, p*pparoli decisivi giudici porno, cosa ci trovate e vi aizza questa bambola americana, visto che siete stati voi, i primi a dar di matto per le tette grandiose (e naturali) di Blake!

Tutto è iniziato a marzo 2020, proprio a inizio pandemia, quando Blake ha mollato l’università per mettersi su OnlyFans e lì farsi pagare per i suoi show di sesso una cifra minima: 10 dollari a sessione, anche di più ore. Senti i commenti dei suoi primi fan, a sole due settimane dal debutto su OF: “Questa ragazza è un knock-out!”, “molto meglio dei contenuti delle pornostar veterane!!!”, “un c*lo da leccarsi i baffi”, “sembra divertirsi con l’intera faccenda, vale i 10 dollari, ne vale il doppio e di più”. 

I boss del porno monitorano tutto, post social compresi, e pure da ciò basano su chi puntare: nel porno che fa i soldi e li fa girare, "Adult Empire" è leader nel quotare il valore di mercato delle porno performer in base a dati di vendita, download, ricerche, views, e potenza sui social. Blake Blossom ha ciò che a Adult Empire chiamano "aurea di vendita": è una che spinge a consumare porno.

Ecco che ne pensa Kayden Kross, boss dello studios Deeper e pluripremiata porno regista, e in passato pure lei pornostar modello Barbie California: “Blake è giovane ma già bella esplosiva nelle prestazioni”, spiega Kayden, che l’ha diretta in "Skirt Scale", “e questo perché è a suo agio col sesso e ne ha il pieno controllo, e lo esprime”. 

Se Jenna Jameson era famosa per le sue bagnate fellatio, Blake Blossom prende in bocca senza problemi peni XXL, e se Jenna Jameson snobbava l’interracial, Blake Blossom monta e si fa montare da quel gran manzo di Dredd, uno che, a proposito di peni XXL, sta a quasi 30 cm… ma ci dobbiamo credere che Blake Blossom, prima di darsi al porno, ha avuto esperienze sessuali solo etero e in posizioni standard??? Mah. 

Non vorrei deprimere i fan, ma come giudica Blake Blossom in persona il suo successo? Ti risponde che lei è una azienda, un marchio, e che del suo corpo e dei suoi atti porno vuole ricavarne più soldi possibili.

La ragazza è tosta e potete giocarci la pensione di nonna che diverrà chi tra le pornostar – come Asa Akira, o Mia Malkova, o Valentina Nappi – del porno fanno scasso rinvigorendolo col loro guizzo. Blake Blossom ne rimpolpa le ambizioni: “Ho diritto di sedere al tavolo dei vincenti con chiunque nel suo mestiere lo sia: nessuno mi è superiore solo perché io per lavoro faccio e vendo sesso”. Si sotterri ogni moina: Blake è pornoattrice e donna d’affari.

D’altronde la stessa Jenna Jameson fece nobile impresa del suo corpo nel porno fatturante milioni: in tutt’altra realtà ed economia, oggi Blake Blossom e pari colleghe aspirano alla stessa meta e però senza il peso di un passato sciagurato. Se Jenna Jameson prima di diventar porno diva ha avuto una infanzia indigente, e ha subìto violenza, e ha usato droghe, non si hanno simili notizie iellate su queste nuove ragazze del porno. Loro sono come i Måneskin. Dalla prima luce della ribalta che li solleva dall’anonimato, ne fanno gran opera e catapulta che li issa a prodigi. Con naturalezza, professionalità, e tutt’altro cervello, e nulla in comune con chi è venuto prima di loro. E meno male. 

·        Bob Dylan.

Agostino Gramigna per corriere.it il 22 novembre 2022.

Non si chiamava Bob Dylan. Non ancora. Ma Robert Zimmerman, come riportava l’anagrafe in quel 1958, ci stava pensando. Un nome nuovo, una vita nuova. Per rincorrere il sogno: vendere un milione di dischi. Bob Dylan era giovanissimo e condivideva queste aspirazioni con la sua fidanzata del liceo, Barbara Ann Hewitt. 

Nelle lettere che le scriveva c’erano i dettagli sulla preparazione per il talent show locale, brevi poesie e naturalmente manifestazioni di affetto. Ora quelle missive d’amore giovanili (circa 150 pagine scritte a mano dal musicista) sono state vendute venerdì scorso da RR Auction, una casa d’aste di Boston specializzata in cimeli unici. La cifra: 669.875 dollari. Il lotto comprendeva 42 missive. Un tesoro custodito da Barbara per oltre 60 anni.

 Nel Minnesota

Hewitt era nata nel 1941. Si era stabilita con la sua famiglia a Hibbing, nel Minnesota, durante l’adolescenza. Fu lì che conobbe il diciassettenne Robert, futuro Dylan, al corso di storia del liceo. Si sono dati il primo appuntamento in un freddissimo capodanno del 1957. Nei due anni successivi si sono scambiati diverse lettere. Barbara Ann Hewitt le ha conservate. Fino al 2020, anno della sua morte. Il lotto venduto all’asta include anche un biglietto di San Valentino firmato da Dylan e un biglietto scritto a mano non firmato. 

La rottura

La relazione tra i due giovani liceali non durò a lungo. In una lettera Dylan chiese a Barbara di restituirle alcune sue fotografie. Segno dell’avvenuta rottura, forse causata dal rifiuto della giovane Hewitt di seguirlo. Ricorda sua figlia: «Dopo aver raggiunto il successo, negli Anni 60, Dylan chiese a mamma di raggiungerlo in California. Lei però rifiutò». Barbara sposò un uomo da cui divorziò negli anni’ 70. Dylan riuscì a vendere milione di dischi. 

Le loro strade non s’incontrarono mai più. Tranne, forse, nei ricordi. Barbara aveva i capelli rossi. Il colore che ritorna in alcuni brani celebri del cantautore, tra cui «Tangled up in blue» del 1975, estratto del disco «Blood on the tracks». C’è un verso del brano in cui Dylan canta: «Se i suoi capelli fossero ancora rossi»...

Il filosofo Dylan vola nel blu dipinto di blu delle grandi canzoni. Il Premio Nobel racconta i brani che ama. Sul piedistallo anche il nostro Modugno. Alessandro Gnocchi il 18 Novembre 2022 su Il Giornale. 

Chi capisce meglio la musica? Chi sa leggere uno spartito o chi si mette a piangere quando ascolta un blues? Bob Dylan non ha dubbi: chi si sente le note nelle ossa e nel cuore. Chi è il miglior compositore? Chi dispiega le sue conoscenze nel campo dell'armonia o chi sa scrivere una melodia in pieno accordo con un testo? Bob Dylan non ha dubbi: chi sa essere toccante, anche nella semplicità. Tutto questo, però, senza diventare snob al contrario: se qualcuno conosce la musica può scagliare più frecce e forse ha qualche possibilità in più di andare a segno in quel campo affascinante ma inafferrabile che è la canzone d'autore. Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura, pubblica il suo terzo libro dopo Tarantula, un delirio beat uscito ufficialmente nel 1971, e Chronicles vol. 1, una autobiografia molto particolare datata 2004. Ora è il momento di Filosofia della canzone moderna (edito da Feltrinelli come i precedenti, pp. 340, euro 39). Di filosofia ce n'è veramente poca. In compenso, e per fortuna, ci sono molte storie. Dylan «spiega» oltre sessanta canzoni tra le sue favorite. Si addentra raramente in questioni tecniche. Il premio Nobel preferisce far vivere i brani attraverso le traversie e le avventure dei personaggi. Il risultato è straordinario: forse non c'è modo migliore di descrivere il pop, il blues, il bluegrass, il country, il folk. Non c'è quasi spazio per il rock'n'roll che non sia delle origini: niente Beatles, Stones, Hendrix. Ci sono My Generation degli Who e Pump It Up di Elvis Costello e London Calling dei Clash. Largo spazio a Willie Nelson, Johnny Cash, Hank Williams, Frank Sinatra, Dean Martin, Domenico Modugno, Little Richard e anche a eroi «minori».

Molte canzoni sono spunti anche per ampie digressioni dove Dylan espone le sue idee. If You Don't Know Me By Now di Harold Melvin & The Blue Notes è l'occasione per una riflessione sulla fede, un tema centrale per Dylan dai tempi della conversione al cristianesimo all'inizio degli anni Ottanta. Scrive Dylan il predicatore: «Una delle ragioni per cui la gente non si rivolge più a Dio è perché la religione non fa più parte del tessuto delle loro vite. Viene presentata come un'incombenza domestica: è domenica, dobbiamo andare in Chiesa». Ma una volta «la religione era nell'acqua che bevevamo, nell'aria che respiravamo». Ed ecco il salto dalla «teologia» quotidiana alla musica: «I canti di lode davano i brividi come le canzoni carnali, e in effetti ne erano le basi. I miracoli facevano luce sul nostro comportamento e non erano solo uno spettacolo». Cheaper to Keep Her di Johnnie Taylor offre la possibilità di tirare un pugno in faccia alla cultura accademica: «I dischi di musica soul, come lo hillbilly, il blues, il calipso, Cajun, polka, salsa e altre forme di musica indigena, contengono spesso la stessa saggezza che le classi superiori ricevono all'università. Mentre i laureati della Ivy League parlano d'amore in una sfilza di quartine soffuse di qualità astratte e attributi impalbabili, la gente - che abiti a Trinidad o ad Atlanta - canta dei vantaggi di avere per moglie una donna poco attraente e delle altre pure e semplici verità della vita». Poi sua Bobbitudine parte per la tangente e si lancia in un elogio del matrimonio poligamo: «Quante mogli ha un uomo sono solo fatti suoi». È una provocazione dovuta al costo dei divorzi ma possiamo comunque immaginare una torma di femministe andare a caccia di Bob con i forconi in mano.

Il gruppo rock prediletto sono i Grateful Dead, con i quali Bob ha suonato molte volte dal vivo, incidendo anche un album insieme con loro. Qualche dissertazione tecnica qui c'è: la forza dei Grateful Dead è nella sezione ritmica di impronta jazz e nel virtuosismo dei due chitarristi, Bob Weir e Jerry Garcia. Questa band dà l'impressione di essere sempre in viaggio, non si sa in quale direzione, e qui salta fuori un punto di riferimento extra-musicale: William Burroughs e la sua fantascienza del tutto atipica, persa in un trip dove si confondono realtà, sogni drogati e inganni di antichità divinità azteche. Potrebbe sembrare impossibile, almeno a noi italiani, ma in fondo Dylan è più che convincente: anche Nel blu dipinto di blu appartiene alla categoria delle cavalcate psichedeliche, in anticipo di dieci anni sul fenomeno. Scrive Dylan: «Sei abbastanza sicuro di essere diventato una specie di mutazione biologica, non sei più un semplice mortale. Potresti fare a pezzi il tuo corpo e spargere ovunque i tuoi brandelli. (...). Passi rombando come una cometa, sei in fuga verso le stelle. Sarai magari pazzo ma non sei un imbecille». È l'unica canzone italiana ma non è l'unico accenno alla canzone italiana, che Dylan sembra aver sempre presente, e che identifica grosso modo nella tradizione napoletana (rivisitata). Gli italiani, tra l'altro, sono un po' dappertutto. Per lui, Dean Martin è Dino, l'italiano. E anche il vecchio Frank (Sinatra, ovviamente) appartiene alla famiglia allargata dei nostri «paesani».

Per finire un po' di filosofia. Tra le canzoni predilette c'è Your Cheating Heart di Hank Williams. Perfetta nella sua semplicità. Dylan arriva a dire che se fosse suonata «meglio» diventerebbe inascoltabile: «È il problema di molte cose al giorno d'oggi. Tutto è così saturo; tutto ci viene imboccato. Tutte le canzoni parlano di una sola cosa e di una cosa in particolare. Non ci sono chiaroscuri né sfumature, non c'è mistero. Forse questa è la ragione per cui al momento il luogo dove la gente ripone i propri sogni non è la musica. I sogni soffocano in questi ambienti non aerati».

Il diario delle ossessioni. Il nuovo libro di Bob Dylan non è un capolavoro, ma un beffardo divertissement. Stefano Pistolini su L’Inkiesta il 9 Novembre 2022

The Philosophy of Modern Song” è una stravaganza voluta dal cantautore americano che si diverte giocare col pop come il gatto col topo. Il suo obiettivo è aggiungere un tassello al suo affresco della normale follia americana, mondana, grossolana

Beffardo: è il primo aggettivo che viene in mente per descrivere l’ultima opera inviataci dall’81enne Bob Dylan, questa volta di natura apparentemente editoriale, ma in realtà del tutto connessa alla questione musicale nella quale non smette d’essere immerso da quando ha 16 anni. Perché se Dylan pubblica un libro intitolato “The Philosophy of Modern Song” nel quale promette di amministrarci, con il suo abituale tono lirico, oracolare e casuale da bancone del bar, 66 saggetti, ciascuno dedicato ad altrettante canzoni tramite cui si dovrebbe comprendere il senso e il segno di questa mai sufficientemente definita forma d’arte breve, le antenne si rizzano, in attesa della rivelazione. Ma ovviamente Bob è disinteressato e lontanissimo dall’idea dello spiegarci qualcosa – qualcosa di sistematico – su cosa sia una canzone e su cosa istilli nelle sue note quel magic che può farne un’opera compiuta, trasversale, pressoché eterna, così ricca di implicazioni da renderla inesauribile. 

Niente di tutto questo: Dylan è noto per non mantenere le promesse, anzi per pronunciarne diverse che già nel momento in cui sono dette contengono la fregatura di cui lui solo è al corrente, ma che in quanto tali costituiscono – miracolosamente? – il perenne rinnovamento del rapporto di dipendenza affettivo del suo pubblico dalle sue idee, più o meno balzane che siano. 

Non ha mai completato la monumentale autobiografia che aveva imboccato ai tempi di “Chronicles Vol. 1”, ha sempre giocato a rimpiattino con gli esegeti allorché è venuta alla superficie la questione dei “furti” musicali e lui ha alzato proditoriamente l’asticella, dichiarando che proprio il furto è una legittima forma d’arte popolare. 

Ha pubblicato dischi di cover all’insegna del “chissà perché” e adesso scrive un libro programmaticamente di filosofia, che di filosofia non contiene l’ombra, a meno che lui giri il discorso della filosofia a suo piacimento, considerandola il diario delle proprie ossessioni. Che in effetti sono il vero oggetto di questa raccolta di note messe giù vai a sapere in quali occasioni, magari nelle sale d’attesa degli aeroporti, al tavolo di sperduti caffè, o mentre si consumavano le tracce del programma radiofonico di cui Dylan fu il dj e che costituisce il pendant più concepibile di questo volume: si chiamava “Theme Time Radio Hour”, e ne sono andate in onda tra il 2006 e il 2009 più di cento puntate sulla radio satellitare americana in cui lui si occupava di presentare, miagolando e bofonchiando, canzoni che accompagnava con dissertazioni preziose, utili a interpretare il pezzo e a capire un po’ meglio lui. 

Tutta musica vecchia, comunque, anzi vecchissima – qualcuno calcolò che l’anno medio di pubblicazione delle songs fosse il 1961, quasi sempre pezzi sconosciutissimi ripescati, sovente cantati da personaggi dimenticati, in sostanza le musiche su cui lui si è formato, che gli sono rimaste addosso, che costituiscono il suo serbatoio immaginario, quello a cui rimarrà leale per sempre. Ecco, adesso Dylan ha deciso – la motivazione non è interamente chiara: forse celebrativa, forse documentaria, forse, appunto, beffarda, per dire “guardate che è questo che dovete ascoltare se volete capire chi sono” – di fare di tutto ciò un libro, ma non un volume serioso e adatto alla consultazione, ma uno di quelli da tavolino buono, con un formato generoso e un contributo iconografico vasto e sorprendente per l’inattesa natura camp, a base di fotogrammi di film classici, copertine di magazine scomparsi alla “Life”, illustrazioni da pulp fiction e pubblicità di automobili d’epoca, tutto campionario di quella buona vecchia America. 

Poi lui si diletta a sciorinare la sua sensazione di ciascuno dei pezzi, che per noi è indispensabile andare ad ascoltare antologizzati su una playlist di Spotify (operazione volgare, umiliante, a cui ci costringe in quanto, appunto, beffardo), per ritrovare “Mack the Knife” cantato da Bobby Darin, o “El Paso” di Marty Robbins, il bizzarro Bing Crosby di “Whiffenpoof Song”, “Come On-a My House” di Rosemary Clooney, “You Don’t Know Me” di Eddie Arnold o “There Stands the Glass” di Webb Pierce. Canzoni che sono altrettanti misteri americani e lo sono altrettanto per qualsiasi under-40 d’oltreoceano, ma che lui mette lì, in ordine casuale, infiorettandole di interpretazioni dark, che pullulano di serial killer, alcolizzati, adulteri violenti, perdenti da casinò indiani, diavoli e predicatori. 

Un’America-zombie nella quale si diverte poi a incastonare dei classiconi così famosi da essere inaspettati, il Sinatra di “Stranger in the Night”, gli Who di “My Generation”, la concessione modernista dei Clash di “London Calling” (laddove ci informa che il punk era musica di frustrazione e rabbia, ma non nel caso dei Clash, che erano diversi e cantavano una musica di disperazione). Quasi tutta roba americana, pochissime concessioni british, perché il suo è sempre un mondo americano-centrico, frammentato, sparso, confuso, attratto dai margini più che dal centro, più dall’anonimato e dall’anfratto, che dai riflettori. 

Figure senza volto, generate dall’essere nate e di vivere là, nella materia strana che resta la fissazione di Dylan, il suo interesse primario: capire cosa significhi essere americani, cosa abbia partorito quell’esperimento artificiale, quella volontà di un posto nuovo dove ricominciare, salvo sbagliare e peccare subito, e dove errore e redenzione non smettono di inseguirsi, come desiderio e pentimento. Le radici – le famose radici a cui sono attaccate la felicità e la mestizia del presente, il senso di caducità e l’allucinata percezione della storia.

Considerate perciò “The Philosophy of Modern Song” una stravaganza voluta da Dylan per aggiungere un tassello al suo affresco della normale follia americana, mondana, grossolana – «non importa di quante sedie disponi, tu hai un solo culo» è il genere di massime in cui vi imbatterete – prona (mi sa sempre beffardamente) al coro critico che si è sollevato ad accogliere il libro – solo 4 canzoni femminili su 66! Dylan deve avere un problema con le donne, che ribattezza «diavolesse», «vamp», «rapinose meretrici»… – niente Joni Mitchell, niente Carol King, piuttosto perfino “Volare” di Domenico Modugno. Ma lui è questo, le sue scelte sono affidate a un istinto esoterico, sacrilego, ingiusto, sapiente e un po’ stronzo.

È Dylan da vecchio, che si diverte al giocare col pop come il gatto col topo e sbatte in copertina una foto di tre splendidi vocalist from the grave, Little Richard, di cui sceglie due canzoni per il suo zibaldone, Eddie Cochran, che invece ignora, e Alis Lesley, che venne chiamata «la risposta femminile a Elvis», ma anche lei del tutto ignorata nell’elenco delle 66. Prendere o lasciare: Bob nel suo più puro approccio hard boiled, l’artista da molto grande, insensibile al contesto, attento soltanto agli echi che sente risuonare dentro di sé.

Estratto di “La filosofia della canzone moderna”, di Bob Dylan (ed. Feltrinelli), pubblicato da “La Stampa” l’8 novembre 2022.

Il canto del lupo solitario, dell'estraneo, dell'alieno, dello straniero e del nottambulo che cerca di cavarsela come può, trafficando in ogni modo e maniera e rinunciando all'amor proprio. Sempre in movimento, senza meta attraverso squallore e oscurità, affettando la torta del sentimentalismo, dividendola senza sosta in pezzettini, scambiando sguardi penetranti e occhiate come pugnali con qualcuno che conosce a malapena. 

Vagabondi e anticonformisti, oggetti di affetto reciproco, rapiti l'uno dall'altro e stretti in un'alleanza da loro stessi creata, ignari di tutte le età dell'uomo, l'età dell'oro, l'età elettronica, l'età dell'angoscia, l'età del jazz. Sei qui per raccontare una storia diversa, il tuo piumaggio è diverso da quello degli altri uccelli. Ostenti un carattere ruvido, come un quarto di bue, e sei eccitato e stimolato, con un sorriso che va da un orecchio all'altro, come un gatto del Cheshire, e stai ripensando all'intera tua vita che non ha mai preso forma, il tuo intero essere è pieno del soffio di questa inebriante ambrosia.

Qualcosa nel tuo spirito vitale, nel tuo battito cardiaco, qualcosa che scorre nel sangue, ti dice che devi provare questo tenero sentimento d'amore ora e per sempre, questa essenza d'amore devoto che tieni saldamente in mano, che ti è indispensabile e necessaria per rimanere in vita e ingannare la morte. Intrusi, tipi bizzarri, strani e cattivi, in questa cupa oscurità senza vita combattono per un quadrato di spazio. 

Due persone alienate, senza radici, introverse e isolate, si sono aperte la porta l'una all'altra, si sono dette Aloha, Salve, Come stai e Buona sera. Come potevi sapere che gli sbaciucchiamenti e le carezze, l'eros e l'adorazione fossero solo il frastuono di un mambo frenetico lontano uno sguardo da dietro le quinte e una smorfia vogliosa - che da allora, da quel momento di verità, ti ha eccitato e rigirato, ha fatto di te il desiderio dei reciproci cuori.

Coppietta innamorata fin dall'inizio. Fin dall'anteprima inaugurale, l'origine, il punto di partenza. Ora siete aggiogati insieme, una sola carne in perpetua nella vasta eternità, immortalati. Quando Frank Sinatra entrò in studio per registrare Strangers in the Night, I'11 aprile 1966, era un cantante professionista già da 31 anni e incideva dischi dal 1939. Aveva visto mode andare e venire nella popular music, lui stesso aveva creato tendenze e da decenni generava decine di imitatori.

Ma resta un fatto incredibile che la colonna sonora dell'estate 1966, secondo la classifica delle prime cento canzoni pubblicata il 2 luglio su Billboard, fosse dominata da quella piccola pop song. Era pazzesco: nel bel mezzo dell'invasione britannica, la Strangers in the Night dell'uomo venuto da Hoboken batteva Paperback Writer dei Beatles e Paint It Black dei Rolling Stones. 

Oggi le classifiche sono così stratificate e di nicchia che non vedreste mai accadere una cosa del genere. Al giorno d'oggi ognuno sta nella sua corsia, assicurandosi i massimi riconoscimenti nella propria categoria, anche se quella categoria è qualcosa come Miglior Performance Vocale Klezmer in Una Colonna Sonora Heavy Metal che Include Campionature Ispirate alla Tradizione Americana. Ma Frank doveva far vedere a tutti chi era il padrone, anche se Strangers era una canzone che odiava e regolarmente liquidava come «un pezzo di merda».

Del resto, non dimentichiamo che Howlin' Wolf una volta disse la stessa cosa della sua prima chitarra elettrica e i fratelli Chess misero quella citazione a caratteri cubitali su una delle copertine dei loro album. Frank magari ha detestato quella canzone, ma resta il fatto che l'ha scelta. 

Ed è qui che inizia la storia. Quando Strangers in the Night cominciò a circolare, era già passata attraverso due stesure di testi e già alcuni ne rivendicavano la paternità. E una vicenda confusa che abbraccia un paio di continenti. La presento qui per puro intrattenimento e non giuro sulla sua veridicità. 

Molti fumatori di sigari hanno avuto modo di apprezzare l’Avo XO, un ottimo sigaro dominicano. Il noto tabaccaio svizzero Davidoff, di Ginevra, l'ha fatto conoscere al mondo e ora ne vengono venduti più di due milioni l'anno. Proprio questi sigari costituivano un flusso di entrate, dopo un periodo di stagnazione, per un musicista armeno immigrato da Beirut, che viveva a New York e sosteneva di essere stato truffato ed escluso dai profitti di una composizione in quel momento in cima alle classifiche.

Da giovane, Avo Uvezian era stato un pianista jazz; nei primi Anni 49 si era esibito in tutto il Medio Oriente e aveva perfino insegnato allo Shah Reza Pahlavi come eseguire correttamente i passi dello swing. Con l'aiuto dello Shah, che gli era riconoscente, Uvezian si trasferì a New York nel 1947 e si iscrisse alla Juilliard School of Music. Qui è dove la storia diventa complicata. La versione di Uvezian è che lui mandò una delle piccole melodie che aveva composto all'unica persona che conosceva nell'industria musicale: 1 direttore d'orchestra e compositore tedesco Bert Kaempfert. 

Oggi quella melodia, con il titolo Strangers in the Night, è registrata come una composizione di Bert Kaempfert. In un modo o nell'altro, la canzone venne presentata a Sinatra. Secondo la leggenda, Frank chiese che il testo venisse modificato. Charles Singleton ed Eddie Snyder vennero reclutati. 

Presero una canzone malinconica su due amanti che si separavano, intitolata Broken Guitar, e tornarono una settimana dopo con Strangers in the Night. E interessante notare che Charles Singleton, insieme ad altri, scrisse anche Tryin' to Get to You, una canzone registrata nel 1954 dal gruppo vocale Eagles di Washington, DC. L'anno successivo, quella canzone fu nuovamente registrata da Elvis Presley mentre era sotto con- tratto con la Sun Records.

Anche altri hanno contestato a Bert Kaempfert la paternità di Strangers in the Night. Uno è stato il cantante croato Ivo Robié e un altro il compositore francese Philippe-Gérard, sebbene la loro versione dei fatti non si sia mostrata duratura come quella di Avo Uvezian. Quanto a lui, il suo nome non è sull'etichetta del disco, ma lo trovate sulle etichette di molti sigari. Ha fatto buon viso a cattivo gioco e ha vissuto felicemente oltre i novant'anni.

Sebbene si sia scrollato di dosso il business della musica, non si è scrollato di dosso la musica, esibendosi regolarmente e intrattenendo gli amici al pianoforte mentre si godeva i milioni di dollari che gli venivano dai sigari svizzeri. Non tutte le storie devono avere un finale triste. 

E, per quanto ne so, nessuno ha mai messo in dubbio chi fosse l'autore del successo di Frank dell'anno successivo, Somethin' Stupid, anche se vale la pena ricordare che fu scritto dal fratello maggiore di Van Dyke Parks, Carson.

Anteprima dal libro di Bob Dylan "Filosofia della canzone moderna” (Feltrinelli) pubblicata da “il Venerdì – la Repubblica” il 6 novembre 2022.

Volare troppo in alto è pericoloso, una mossa sbagliata conduce a un’altra, e la successiva di solito è peggiore di quella precedente. Giurare fedeltà troppo presto può condurre al disastro, ma una volta che si va, si va. Questa è una canzone che si avvicina, sfreccia, continua per la sua strada, procede a piena velocità, si schianta nel sole, rimbalza sulle stelle, esala in una nuvola di fumo come un sogno impossibile e va a esplodere dritta nel Paese delle meraviglie. È singolare e sta sospesa a mezz’aria. 

Ti sei fatto un’idea, è Utopia, ed è dipinta di blu. Pittura a olio, cosmetici e cerone, affreschi con il blu stampato sopra, e tu che canti come un canarino. Vedi tutto rosa, cammini sul vento, e allo spazio non c’è fine.

Sei come i gemelli Bobbsey, due menti che pensano in una, e la cosa è fantastica e meravigliosa. Ti senti eccitato, non ti sei mai divertito tanto, è come se ognuno avesse ricevuto una scarica di energia, dai, viviamocela almeno un po’. Un solo saltello e saremo al settimo cielo. 

Sei lì che sfrecci via, manovri e improvvisi come un aviatore, nello specchio dei tuoi desideri e con addosso un senso di meraviglia. In volo, passi attraverso il velo, leggero come una piuma, indugiando un poco su rigonfiamenti vaporosi, via dalla pazza folla, dagli esperti, dai giudici e dalle conventicole, tutte quelle organizzazioni, tutto quello che vuole aggrapparsi ai tuoi piedi e riportarti giù a terra.

Sali sempre più in alto intorno al globo, attraverso il labirinto. Non c’è da stupirsi che il tuo cuore felice voglia cantare melodie in tutte le tonalità e in ogni vibrazione dei sensi. Ragtime, bebop, opere e sinfonie. Il suono dei violini ti ronza nella testa ed è tutto intonato al tuo sé mercuriale. Fai acrobazie aeree tra le dimensioni, sei sull’orlo dell’universo, nelle luci scintillanti del gran millennio, e l’unica direzione è verso l’alto. 

Sei abbastanza sicuro di essere diventato una specie di mutazione biologica, non sei più un semplice mortale. Potresti fare a pezzi il tuo corpo e spargere ovunque i brandelli, dare un colpo d’ala, salire più in alto e fuori da ogni controllo, dove tutto diventa una macchia sfocata, niente lassù che non sia la tua immaginazione. Svolazzi, veleggi, non c’è niente che non puoi scoprire, anche le cose più nascoste. 

Più a fondo vai, più riesci a capire. Cerchi di parlare a te stesso, ma dopo le prime, poche parole la conversazione è finita. Passi rombando come una cometa, sei in fuga verso le stelle. Sarai magari pazzo ma non sei un imbecille.

Magari questa è stata una delle prime canzoni allucinogene, di almeno dieci anni in anticipo su White Rabbit dei Jefferson Airplane. Non è possibile ascoltare né fare esperienza di una melodia più orecchiabile. Anche se non la sentite, la sentite. Si scava la sua via nell’aria. Una canzone da suonare ai matrimoni, ai bar mitzvah e forse ai funerali. 

È l’esempio perfetto di quando non si riesce a pensare a nessuna parola che si accompagni a una melodia e si canta solo “oh, oh, oh, oh”. A quanto pare, parla di qualcuno che vuole dipingersi di blu e poi volare via. Volare significa: “Voliamo via nel cielo infinito”. Ovviamente, il cielo senza fine. Il mondo intero può scomparire, ma io sono perso nei miei pensieri. 

C’è qualcosa di molto liberatorio nell’ascoltare una canzone cantata in una lingua che non si conosce. Andate a vedere un’opera e il dramma balza fuori dal palco anche se non capite una parola. Ascoltate il fado e la tristezza ne fluisce anche se non avete la minima conoscenza del portoghese. Capita a volte di ascoltare una canzone così piena di sentimento che vi sentite il cuore vicino a scoppiare e quando chiedete a qualcuno di tradurvi il testo scoprite che i versi sono tanto banali quanto “Non riesco a trovare il cappello”.

Per qualche motivo, certe lingue suonano meglio di altre. Di sicuro il tedesco è ottimo per un certo di tipo di polka um-pa-pa da festa della birra, ma datemi piuttosto l’italiano con le sue vocali come caramelle mou e il suo melodioso vocabolario polisillabico. 

In origine, Volare era eseguita da un cantante italiano di nome Domenico Modugno, e già il suono del suo nome crea la sua propria canzone. Una canzone che vi può sorprendere in ogni momento, giorno e notte. È sempre la stessa. State sempre volando più in alto del sole.

Anche Bobby Rydell ne ha fatto un grosso successo. Era un cantante di Philadelphia di fine anni cinquanta che ha contribuito alla nascita del Philly sound. Rydell era, a turno, un aspirante Sinatra o un aspirante Bobby Darin. E Darin e Rydell erano più o meno una versione più energetica di Sinatra. Non sentirete molto Dino in nessuno dei due, al contrario che in Elvis. (Phil Spector in Be My Baby ha preso il “whoa, whoa, whoa” da questa canzone.)

 È una seduzione in lingua italiana che inizia con una piccola, sognante introduzione pianistica seguita dalla voce di Domenico avvolta dall’organo prima che il ben noto inciso del titolo faccia irruzione.

Il sound del disco è sontuoso, pieno di elementi disparati ma mai affastellati; un batterista che alterna con destrezza spazzole swinganti con l’impatto aggiuntivo delle bacchette, archi danzanti in pizzicato, un organo con un’eco da era spaziale.

La parte vocale è giocata tutta sulla dinamica, un attimo di morbidi, intimi sussurri e il momento dopo un’esaltazione gioiosa, un interludio recitato seguito da una malinconia che non ha bisogno di traduzione.

Estratto dell'articolo di Mattia Marzi per “il Messaggero” il 2 novembre 2022. 

Il titolo sembra quello di un saggio di Adorno: Filosofia della canzone moderna. Peccato che a scriverlo sia stato Bob Dylan, uno dei grandi protagonisti di quel rinascimento musicale degli Anni 60 che mise in crisi la teoria del filosofo tedesco sulla banalità e la ripetitività della musica popolare, riscrivendone le regole.  

[...] Non è un caso che nel suo saggio su 66 canzoni simbolo della musica popolare non ci siano capitoli dedicati a pezzi rap o pop contemporanei: «Nessuno parla dei propri sogni nelle canzoni oggi: è che i sogni soffocano in questi ambienti senz' aria».

[...] Il brano più vecchio tra quelli esaminati in Filosofia della canzone moderna è Nelly Was a Lady, scritto da Stephen Foster nel 1849. Il più recente è Dirty Life and Times di Warren Zevon, uscito nel 2003. In mezzo c'è un mondo. Da quella Strangers In The Night resa celebre da Frank Sinatra, a My Generation degli Who e London Calling dei Clash, passando per I Got a Woman di Ray Charles. 

E a sorpresa c'è anche Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, tra le canzoni italiane più celebri nel mondo: «Presumibilmente scrive Dylan parla di un uomo che vuole dipingere sé stesso di blu e poi volare via. Volare significa questo: Voliamo via nel cielo infinito. Il mondo intero può anche scomparire, io sono nella mia testa». 

[...]Di Little Richard, che tre anni prima aveva pubblicato Tutti Frutti, dice: «Stava dicendo che di lì a poco qualcosa sarebbe successo. Era un predicatore: con Tutti Frutti suonò l'allarme». [...] Quando nel 2016 l'Accademia Reale Svedese ha deciso di assegnargli il Nobel per la letteratura per aver «elevato la musica a forma poetica contemporanea», Robert Zimmerman stava lavorando a questo trattato già da sei anni. [...]

Una curiosità. Ai Beatles, la band che la musica popolare l'ha definita, fa solo un accenno, citando Do You Want to Know a Secret nel capitolo sulla decisamente meno nota A Certain Girl, canzone r&b incisa da Ernie K-Doe nel 61. Con buona pace del vecchio amico Paul McCartney, che recentemente ha ricordato che fu proprio Dylan a far fumare la prima canna ai Beatles negli Anni '60: [...]

Marco Molendini per Dagospia il 3 novembre 2022.

Bob Dylan non ha dubbi: i confini della canzone moderna coincidono con la sua formazione estetica. Lo scrive, lo racconta, si dilunga in un prezioso, elegante (anche per le fantastiche foto vintage) volume che pomposamente ha intitolato The phylosophy of modern song (pubblicato in questi giorni in tutto il mondo), raccolta di saggi sparsi su 65 titoli, divagazioni (Blue suede shoes diventa il pretesto per parlare della canzoni sulle scarpe), collage di riflessioni sparse fuori dal tempo che può apparire casuale (naturalmente Bob si guarda bene dal giustificare le sue scelte), ma che produce un ritratto nitido dell'autore, dei suoi gusti, dei suoi pensieri, della risolutezza dei suoi giudizi. Il risultato è una playlist ideale (da leggere e, magari, da ascoltare) dove vengono esclusi, se non per citazioni casuali, i Beatles, gli Stones, Joni Mitchell, Aretha Franklin, l’hip hop.

Quanto al punk rock, la definizione è questa: «Il punk rock è la musica della frustrazione e della rabbia». E niente jazz, nonostante la notoria ammirazione per Miles Davis (ma con la canzone moderna, in effetti, Miles ha poco a che fare). 

Dylan non spiega, ma la spiegazione è ovvia: questo è un viaggio nella propria memoria, fatto con passione, quasi trepidazione nell'andare a scovare cose perdute, non scontate, passando dagli standard, alle oscurità, alle stranezze. E quelle scelte sono, probabilmente, anche una luce accesa sul suo mondo creativo se è vero, come ha raccontato una volta, che il suo metodo compositivo consiste nello scrivere suonando ossessivamente vecchi pezzi nella sua testa finchè non trasfigurano in qualcosa di nuovo.

Nell’elenco dominano gli anni Cinquanta (appunto, la stagione della sua formazione),  c'è tanto blues e c'è naturalmente tanto country. C'è qualcosa di soul (Ray Charles con I got a woman), il primo rock & roll, naturalmente Elvis (per parlare delle sue esibizioni, definite da circo Barnum, a Las Vegas), Carl Perkins (“Blue Suede Shoes è sua, ma se Elvis fosse ancora vivo oggi, sarebbe lui ad avere un contratto con la Nike” nota, riferendosi al modello di scarpe lanciato con quel nome). Ovviamente c’è l’eroe di Dylan adolescente, «il maestro del doppio senso» Little Richard: «Elvis che canta Tutti Frutti all’Ed Sullivan sa cosa sta cantando? Pensi che Ed Sullivan lo sappia?». 

C’è qualcosa del rock anni Sessanta e Settanta tipo My Generation degli Who, London Calling dei Clash (“probabilmente i Clash al loro massimo”). C'è Frank Sinatra, passione della maturità, ma per parlarne sceglie un pezzo di successo e mediocre come Strangers in the night, che gli serve per sottolineare che, nel bel mezzo di British Invasion, quella «piccola canzone ha battuto nella Billboard Hot 100 Paperback writer dei Beatles e Paint it black dei Rolling Stones». Ci sono giudizi secchi, come la definizione dei Greatful dead come dance band: "Hanno più in comune con Artie Shaw e il be bop che con i Byrds e gli Stones» (che cosa abbia a che fare il be bop con la dance poi è un mistero dylaniano). Johnny Cash viene definito un cantante gospel. Ci sono giudizi scolpiti come quello sullo storico cantante dei Platters, Tony Williams «uno dei più grandi cantanti di sempre: tutti parlano di come Sam Cooke sia uscito dal gospel per entrare nel campo pop. Ma non c'è nessuno che lo batte».

 C’è spazio a sorpresa, ma in fondo è logico, per un solo titolo italiano, Volare (come venne conosciuta in America), «cantata da un cantante italiano di nome Domenico Modugno, solo il suono del suo nome crea la sua canzone», occasione per una serie di considerazioni curiose, come quella sulla lingua italiana «con le sue vocali gommose al caramello e il melodioso vocabolario polisillabico».  E su Volare scrive: «… potrebbe essere una delle prime canzoni allucinogene, precedente a  White Rabbit  dei Jefferson Airplane di almeno dieci anni».

 Chissà  se Dylan sa che Migliacci scrisse il testo ispirandosi a un paio di quadri di Chagall dallo spirito onirico. Nel blù dipinto di blù suggerisce anche una riflessione interessante sul mistero dell’ascolto di brani in una lingua che non si conosce: «C’è qualcosa di molto liberatorio in una canzone cantata in una lingua che non capisci. Vai a vedere un’opera lirica e il dramma salta fuori dal palco anche se non capisci una parola. Ascolta la musica del fado e la tristezza gocciola da essa anche se non parli neanche una parola di portoghese». 

Un argomento che, evidentemente, al premio Nobel Dylan, sta a cuore e che riguarda i testi delle canzoni che,  quando vengono letti, possono «sembrare così leggeri»  perché sono «scritti per l’orecchio e non per l’occhio». Ma poi, come nella commedia teatrale, dove una frase apparentemente semplice può trasformarsi in uno scherzo attraverso la magia della performance, succede una cosa inspiegabile quando le parole vengono messe in musica. Un miracolo.

C’è infine spazio per una digressione cinematografica in cui Bob riprende lo slogan trumpiano America first e sembra crederci, almeno per quanto riguarda il cinema. A suggerirla, la riflessione, è Saturday night at the movies, una canzone dei Drifters, quartetto vocale di metà anni Cinquanta, nel quale aveva militato Ben E.King (il formidabile interprete di Stand by me e Don’t play that song ,lanciati dopo aver abbandonato il gruppo per non aver avuto un aumento di stipendio). 

«Fellini Kurosawa e le loro controparti in tutto il mondo hanno girato dei film fantastici, ma sappiamo tutti dove l'industria cinematografica ha ottenuto la sua prima spinta  e trasse il suo respiro iniziale. Si continua a parlare di rendere di nuovo grande l'America. Forse si dovrebbe cominciare con i film».  Parziale, arbitrario, personale, The philosophy of modern song è imperdibile, sorprendente, un godimento da leggere, ma anche da discutere.

La casa editrice, Simon & Schuster, ha fatto sapere che diventerà anche un audiobook con la voce di Dylan e un certo numero di attori ospiti come Jeff Bridges, Steve Buscemi, John Goodman, Helen Mirren, Rita Moreno, Sissy Spacek, Renee Zellweger.

·        Bono Vox.

Bono degli U2: «La morte di mia madre è una ferita ancora aperta, mi sono sentito inutile».  Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2022.

Il leader della band, ospite di Fabio Fazio a «Che tempo che fa», ha anche attaccato Vladimir Putin: «È un bullo e sta bullizzando un’intera Nazione»

«È una ferita aperta, che poi si è spalancata. Mi ha dato emozioni con la musica. L’ultima volta che vidi mia madre fu al funerale di suo padre, mentre la bara stava per essere calata...Lei svenne, mio fratello e mio padre la portarono all’ospedale dove morì. Io mi sentii totalmente inutile». Il leader degli U2 Bono Vox, ospite di Fabio Fazio a «Che tempo che fa» su Rai3, con queste parole ha ricordato la scomparsa prematura di sua madre, avvenuta quando lui aveva appena 14 anni. «Mio padre per superare il dolore non pronunciò mai più il suo nome, così ho pochissimi ricordi di lei», ha aggiunto il rocker. Anche per questo motivo, ha raccontato, ha scritto l’autobiografia «Surrender», «per ritrovare dei ricordi perduti».

L’intervista con Fabio Fazio si è aperta parlando dell’intervento chirurgico al cuore che il cantante ha affrontato nel 2016: «Essere qui in Italia mi fa sentire a casa. Dopo un periodo in cui mi hanno diagnosticato qualcosa di brutto, ho dovuto curarmi ma ora sto bene. Mi ha fatto paura l’idea che mi mancasse l’aria, più che l’operazione in sé». Il rocker ha detto di essere «nato con i pugni chiusi» per raccontare il suo spirito combattivo: «Sto cercando di fare del mio meglio per fare la pace con me stesso e la mia famiglia, ma non sono pronto a farlo con il resto del mondo».

Bono ha poi attaccato il presidente russo Vladimir Putin, schierandosi nuovamente dalla parte dell’Ucraina, come già aveva fatto andando a suonare insieme a The Edge nella metropolitana di Kiev: «Sai cosa non piace agli italiani e cosa non piace a me? I bulli. Putin è di fatto un bullo e sta bullizzando un’intera Nazione, i suoi obiettivi sono le donne e i bambini, questi quartieri popolari; la tua ospite precedente, la Presidente del Parlamento Europeo (Roberta Metsola, ndr) ha detto che l’Italia porterà adesso forza, generatori, energia agli ucraini, questa è l’Italia e io ci credo che lo farete. Gli ucraini credono forse nella libertà più di noi e la libertà è semplicemente una cosa che per me è tutto. Vedi Putin e il suo amico bielorusso Lukashenko, questi vecchi, grigi, noiosi, che sono degli assassini… la libertà è più sexy di tutta questa roba, non perdete la libertà, è la parola più bella al mondo, che vi lega di più»

Giulia Zonca per “La Stampa” il 2 novembre 2022.

Una biografia che inizia con un battito, non può che essere segnata dal ritmo e in «Surrender» la vita cola dalle canzoni scritte da Bono, la rockstar che ha incrociato la storia. Quaranta brani per altrettanti viaggi dentro una band fin troppo grande per reggere tutta l'elettricità che ha attraversato: il libro, edito da Mondadori, non è il racconto di un successo, è lo sforzo costante di rimanere veri pure appesi ai muri del mondo. 

Non è l'epopea degli U2, è il percorso di un uomo che si tormenta ancora per una foto in cui ride con Putin, al G8 di Genova, «prima che lui diventasse il male». Ma non senza che lo fosse già. Contraddizioni e sorprese e slanci, soprattutto musica. «Surrender» è il manuale delle istruzioni che spiega perché certe parole restano, certi ritornelli definiscono una generazione, certe chitarre squarciano le ansie. Il rock sa fare la rivoluzione perché ha il potere di ribaltare gli stereotipi e di mettere allo scoperto i sentimenti custoditi da ognuno nell'attesa che qualcun altro chieda di condividerli. Il qualcuno di Bono arriva quasi subito e non si sposta più.

«Surrender» incrocia capi di Stato, geni dell'arte, uomini importanti, filantropi e miliardari, ma gira intorno a una persona sola, la moglie Ali, con lui per 40 anni: «Anche se ora viviamo sotto lo stesso tetto, mi rendo conto che rimane una distanza fra noi. Una distanza entusiasmante. Una distanza carica di tensione che Ali mi sta insegnando a rispettare». La scrittura procede con lo stesso schema, Bono si apre e poi si sottrae di continuo e si aiuta con gli schizzi che lui stesso ha disegnato all'inizio di ogni capitolo e con infinite liste. Le canzoni da ascoltare durante il primo tour (domina il punk e del resto siamo alla fine degli Anni Settanta), gli amici da non dimenticare, quelli che «ti aprono la Fiat 127 con intenzioni dadaiste» ovvero trasformare la vecchia auto sfondata dai chilometri in un oggetto di culto per celebrare le vendite del primo singolo.

L'intimità è accennata e poi negata da un'esistenza che non è solo pubblica, è addirittura collettiva. Se «Songs of Innocence» libera la malinconia per la madre morta quando il cantante era un ragazzino, «mi sarei concesso di sollevare pietre sotto le quali sapevo di trovare spaventosi insetti striscianti», subito dopo si va entro «Sunday Bloody Sunday» dove l'unico strumento che serve è la batteria. 

Il rock si fa rabbia per rivelare la natura più essenziale e il libro mescola di nuovo, in modalità centrifuga, la storia personale a quella universale. È Larry, il batterista che ha dato vita al gruppo con il suo annuncio sulla bacheca del liceo, è Larry che testa la percussione dei «troubles», è la tournée che segnerà la svolta e pure il confronto con le tensioni di Irlanda, paese in cui «ai cuori più gentili toccano i colpi più micidiali». 

Anni dopo arriveranno anche le minacce dell'Ira solo che in queste 500 pagine di ricordi, la linearità del tempo è continuamente interrotta dagli assoli e la canzone che porta gli U2 in un'altra dimensione è anche quella che segna il loro legame con la politica, che li sposta dal palco al comizio e li costringe a inventarsi una posizione mai vista prima, l'equilibrismo sulla spontaneità.

 «Sunday Bloody Sunday» è una necessità, esce dopo al morte di Bobby Sands, dà fastidio a entrambe le fazioni, rischia di essere considerata una trovata pubblicitaria e porta il gruppo in testa alla classifica e al meglio della loro espressione perché è solo con quelle note, nella lucidità del testo, che ognuno trova la definizione del proprio talento. Si scoprono bravi, potenti, vedono e toccano l'effetto che fanno e a quel punto la biografia impazzisce come lo zabaione quando non smetti di frustare.

Non si sa più se è il 1983, anno in cui la canzona circola o il 2015, con la tappe americane tipo adunate e i guai della lontanissima Europa al centro del Texas o il 1985, al concerto dove Bono taglia la bandiera irlandese davanti al pubblico in estasi: via l'arancione e via il verde, rimane solo il bianco, la pace. 

Due ore dopo lui è in auto con la moglie e viene circondato: «Qualcosa si era rotto. Eravamo pesci nell'acquario, e i piranha dall'altra parte del vetro erano stati fan degli U2 fino a poche ore prima». Da quel punto in poi si fluttua fra le intuizioni (come far rotolare bottiglie sulle piastrelle per un suono stonato e indispensabile) e gli incontri. Hollywood, il cinema, gli anni a Los Angeles «con il vantaggio di non saper ballare», Bill Clinton e le coperte cucite insieme per manifestare sostegno ai malati di Aids, Nelson Mandela per ridare linfa ai gesti, «il carnevale degli Anni Novanta». 

Righe e sonorità accartocciate, quando il rock puro si fa elettrico per reggere le storture della realtà. E Bono che vuole mixare e gli altri che non intendono seguire, ancora in bilico tra genuinità e bisogno di mutare ed essere tutto quello che una band planetaria rappresenta. Essere al tavolo dei potenti come voce della folla e ritrovarsi a ridere con Putin al G8 di Genova nello stesso giorno in cui muore Carlo Giuliani. 

Scoprire quanto è difficile non perdersi e quanto una moglie magnetica faccia la differenza. Restare accesi quando ti dicono che al tuo cuore manca un pezzo. Restare fedeli anche quando hai stravolto ogni credo, grazie al rock. Chi lo sa suonare può incrociare la storia e impedire che entri in casa. Può farsi battezzare senza un dio, può illuminare le parole giuste e tatuarle nella memoria della gente. «Surrender» non è la biografia di Bono, è l'anatomia della musica che trasforma un'emozione personale in una passione globale: «Gli amati fratelli ci camminano attorno e sopra. Forse sono felici che tu abbia abbandonato la tua vecchia storia, ma questo non significa che la dimenticheranno». 

Estratto da “Surrender. 40 canzoni, una storia”, di Bono Vox (ed. Mondadori), pubblicato dal “Venerdì di Repubblica” il 31 ottobre 2022.

Ed ecco entrare in scena uno dei più grandi showmen di tutti i tempi: Frank Sinatra. Ormai non domina più la classifica dei dischi e dello streaming, ma l'ultima sera del 2008 la passa con me nella calca di un pub a Dublino. Bicchieri che tintinnano, si scontrano e si infrangono nel pieno della baldoria gaelica. Porte a vento, innamorati che si fanno gli auguri di buon anno, faide familiari che ricominciano. Gioia al malto e disperazione allo zenzero pronte a essere servite, un quarto di millennio dopo che Arthur Guinness riempì per la prima volta una pinta di velluto nero liquido. 

Dagli altoparlanti esce una voce che ci dà la sveglia: Frank Sinatra in My Way. La sua ode alla sfida sta per compiere quarant'anni, e hanno tutti una vita di ragioni per cantarla. È un'atmosfera interessante quella che stasera accoglie Frank nel fermento dublinese. Una crisi finanziaria. I nuovi capitali irlandesi scommessi e persi; la Tigre Celtica con la coda tra le gambe mentre costruttori e banchieri ridono a fatica ricordando l'anno passato e inghiottono a fatica pensando all'anno nuovo. Sopravvivranno, ma per poco il paese non andrà a fondo, e il prezzo più alto lo pagherà chi si è fatto prestare i soldi per comprare o affittare una casa. Stranamente, Frank è qui per tutti, accusatori e accusati.

C'è una caratteristica che manca alla sua voce: il sentimentalismo. 

Nel pieno dell'incertezza nella vita professionale, nella vita privata, nella vita vissuta, perché la voce di Sinatra è come una sirena antinebbia? Tanta sicurezza in tempi irrequieti ci permette di innamorarci, ma se iniziamo a vedere tutto rosa ci riporta bruscamente alla realtà. 

Un appello alla credibilità. 

Una voce che dice: "Non raccontarmi balle".

Favolosa, non bugiarda. Sincera e affidabile.

Dopo la mezzanotte, l'umore della sala oscilla fra speranza e timore, attesa e trepidazione. Qualunque sia il tuo, la voce di Frank ti prende per mano. 

Tornato a casa dal pub, stappo una bottiglia di vino, sapendo che rischia di diventare aceto quando amici e parenti alzano troppo il gomito. Cosa che sto per fare. Di fianco alla porta della cucina, ho una visione gialla di fronte a me: un quadro che Frank mi ha inviato quindici anni fa, dopo che ho cantato I've Got You Under My Skin insieme a lui per il suo album Duets. Un quadro fatto da lui. Una folle tela gialla piena di violenti cerchi concentrici intorno a una pianura deserta. 

Francis Albert Sinatra, pittore, modernista. È l'anno nuovo, e io mi concedo una goccia di malinconia. Il proiezionista nella mia testa riavvolge la bobina, mostrandomi i ricordi di un uomo che fingo di conoscere grazie a qualche momento speciale condiviso. Un uomo che in realtà conosco grazie alle sue canzoni. 

A tu per tu con Sinatra

Edge e io eravamo a casa sua a Palm Springs, sopra il deserto e le colline. Niente percalle, ma molto Miles Davis. E molte chiacchiere sul jazz.

In quell'occasione Frank mi mostrò il quadro. Il diametro dei cerchi mi ricordava la campana di una tromba, e glielo dissi. Gli dissi anche che avevo sentito che lui era stato una delle principali fonti d'ispirazione per Miles Davis.

"Il quadro si intitola Jazz, e puoi prendertelo."

 (Ecco perché lo sto fissando ora, appeso in fondo alle scale a Temple Hill.)

"Sai, figliolo, sei l'unico uomo con l'orecchino che mi sia mai piaciuto." 

La signora Sinatra scende le scale con uno splendido vestito rosso, l'eleganza fatta persona. "Barbara" osserva il marito con un ampio sorriso, "sembri un coagulo di sangue!"

"Miles Davis non ha mai sprecato una nota, figliolo, né una parola con uno stupido." E poi quest'altra.

"Il jazz si fonda sul qui e ora. La modernità non è il futuro, è il presente." 

Il presente, eh? Ero con Frank Sinatra nel momento in cui si era dimenticato il presente, un momento in cui non era più presente. Era successo quello stesso giorno nel deserto della California, dove ci eravamo trovati per girare il video di I've Got You Under My Skin. Tallonata dal regista Kevin Godley con la sua troupe, una limousine ci aveva portati a un bar di Palm Springs gestito da un amico di Frank.

 L'idea era che Kevin ci riprendesse mentre parlavamo del più e del meno. Nella scena iniziale, Frank era al bar ad aspettare che arrivasse un crooner irlandese, cosa che feci. Quando però gli chiesero di ripeterla, una delle telecamere ebbe un guasto, lasciandolo al bar per dieci minuti di troppo. Il "ciak, seconda!" del regista non lo fece uscire solo dal momento; lo fece uscire dal bar e dal video che stavamo girando. Frank era scomparso. 

Sentendosi abbandonato, lo showman aveva alzato i tacchi, mollandomi al bar con la troupe e mezzo video da girare.

Più tardi telefonò Barbara. C'era stato un malinteso. Ci avrebbe fatto piacere andare a cena da loro quella sera, con qualche amico e un po' di whiskey? Edge era capace di regolarsi. Io no.

Ora, in questa versione dell'America di solito bevo Jack Daniel's liscio senza ghiaccio, un whiskey del Tennessee da centellinare. E allora perché decisi di rovinare tutto correggendolo con un ginger ale?

"Jack and ginger?" chiese Frank. "Un drink da donne." 

Mentre mi studiava, avevo la sensazione che stesse guardando i miei orecchini e formulando il verdetto. La parola che stava cercando, e che non stava dicendo, era senz'altro "effeminato". 

Vuotai il bicchiere in un attimo per compensare, e peggio ancora mischiai i drink. Durante la cena - messicana, non italiana - bevemmo tequila da enormi calici. "Mai bere cose più grandi della tua testa" pensai guardando Frank che premeva il naso contro il vetro.

Mentre piegava con cura un tovagliolo turchese, Edge lo sentì mormorare fra sé: "Me lo ricordo quando avevo gli occhi così blu...".

Sul serio. 

Più tardi ci spostammo nella sala proiezioni di Frank e Barbara per guardare alcuni film. Dopo essermi addormentato sul divano bianco come la neve, mi svegliai di soprassalto, terrorizzato. Avvertivo una sensazione di umido fra le gambe. Un attimo prima stavo sognando Dean Martin, adesso ero in preda al panico.

Primo pensiero: me la sono fatta addosso, ho urinato di fianco a Frank Sinatra. Secondo: non dirlo a nessuno. Terzo: non ti muovere, con tutto questo bianco vedranno subito la macchia gialla. Quarto: elabora un piano. 

Rimasi seduto per venti minuti, vergognandomi come un cane. Muto. Aspettando la fine del film, mi chiesi come avrei spiegato alla star italoamericana quella débâcle irlandese. Quel segno che la mia incontinenza un tempo solo verbale si era trasformata nella prova schiacciante che ero un pesce fuor d'acqua. Ero un coglione. Un turista. Ero tornato piccolo nel mio lettino, un bambino di quattro anni che non ha ancora scoperto cos'è il fallimento. 

"Mami, mi asciughi? Ho fatto la pipì."

Be', in realtà non me l'ero fatta addosso. Avevo rovesciato il bicchiere. Dovevo essere ubriaco, strafatto di Frank, una patetica mezza sega all'ombra di un gigante.

"What now, my love? Now that it's over?"

Tornammo in albergo. A sinistra in Frank Sinatra Drive. Ero sicuro che non avrei bevuto mai più in compagnia del grand'uomo. Non mi avrebbe mai più invitato. Avevo torto. Due volte. L'anno dopo, eccomi al bar della suite dirigenziale dello Shrine Auditorium di Los Angeles. Ci sono i Grammy, e Frank mi ha chiesto di presentare il suo Legend Award. 

È un tantino angosciato. Anch'io sono un tantino angosciato. Al barista: "Stupiscimi".

Invece di richiamarci all'ordine l'un l'altro, stiamo subissando di ordini i baristi.

Io non bevo per ubriacarmi, vero? Bevo perché mi piace il sapore, vero?

E allora perché mi ritrovo ancora una volta a fare l'imitazione di un ubriacone? Frank mi ha appena preparato un altro drink, ecco perché. Jack Daniel's senza ghiaccio, come piace a lui, servito in una pinta. Sto parlando con Susan Reynolds, addetta stampa e santa protettrice di Frank, e con Ali, mia moglie e santa protettrice. Paul McGuinness chiede a Frank della spilla che porta sul risvolto.

"È la Medal of Freedom, la più grande onorificenza civile, conferita dal presidente."

"Quale?"

"Oh, non lo so, uno di quelli vecchi. Lincoln, forse."

Forte, penso, domandandomi se bisogna essere americani per riceverla. Domandandomi se le mie gambe stanno cominciando a muoversi. Domandandomi se avrei dovuto prepararmi qualcosa da dire casomai Zooropa venisse nominato Best Alternative Album.

Ma no, non è possibile. E invece sì. Le mie gambe mi portano al microfono, dove comunico a duecento milioni di persone che "gli U2 continueranno a fottere il mainstream". Non è la battuta più divertente e felice che si possa immaginare, ma quando torniamo nel bar Frank dichiara ai presenti: "Ero convinto di apprezzare questo ragazzo. Io lo amo, questo ragazzo". 

Ho trentatré anni.

Ci prepariamo al grande evento bevendo caffè. Quando entro in scena, sono diventato un insopportabile Giovanni Battista che apre la strada al nostro messia mezzo italiano. Sbruffone, con un sigaretto acceso fra le labbra, ho il sorriso compiaciuto di quando sono molto, molto nervoso. Fumo, quindi sono agitato. Tossisco. Sproloquio. 

Quando esco dal palco, lo scenario si apre sul sindaco di qualunque città voglia: Frank nel suo classico smoking, accolto da una standing ovation nella città che ha contribuito a rendere famosa più di chiunque altro. O almeno è ciò che tutti pensano qui. Guarda il pubblico, impassibile, poi parla del barista dietro le quinte e fa qualche battuta. È sinceramente commosso, e all'improvviso perde il filo. I Grammy lo tagliano per mandare la pubblicità. Il presente aveva abbandonato Frank per una frazione di secondo; i produttori e il suo management, in preda al panico, avevano staccato la spina.

La modernità non è il futuro, mi aveva spiegato Frank, è il presente. Essere presente era l'unica cosa che chiedeva a se stesso e alla sua arte: posso solo immaginare il terrore, quando gli era sfuggito di mano. Gli anni ti offrono la longevità, ma in cambio della gloria.

·        I Boomdabash.

I Boomdabash lanciano «Tropicana»: «C’è chi perde il sonno nella guerra al tormentone ma non siamo noi»«Le hit? Nate per caso». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

La band salentina punta a un nuovo successo estivo insieme ad Annalisa: «È la classica brava ragazza e con noi si diverte» Boomdabash: siamo prolificima non ci facciamo influenzare dalle strategie dei discografici. 

Quest’estate si balla «anche se arriva il temporale». Garantiscono i Boomdabash con un ritornello che da venerdì sarà nelle radio, nelle spiagge, negli streaming di tutta la stagione calda, pronto a incollarsi addosso al primo ascolto. Lo canta Annalisa in «Tropicana», nuovo singolo del gruppo salentino, re dei tormentoni e dei dischi d’oro e di platino, incoronato per tre anni di fila agli Rtl Power Hits Estate. Dopo «Non ti dico no» con Loredana Bertè, «Mambo salentino» e «Karaoke» con Alessandra Amoroso, «Mohicani» con Baby K, quest’anno la scelta del featuring è caduta sulla cantautrice savonese: «Partiamo sempre dalla convinzione che ogni canzone sia un vestito e questo era il vestito perfetto per Annalisa — spiega Biggie Bash, portavoce del quartetto formato da Payà, Blazon e Ketra —. Il ritornello di “Tropicana” aveva bisogno di una voce che accarezzasse, delicata ma pungente, e l’unica artista italiana con questa timbrica è lei».

Le decisioni, prosegue Biggie, sono puramente artistiche: «Quando scriviamo un pezzo il cervello in automatico va verso una voce. Non ci sono strategie discografiche, non scegliamo mai pensando se possa vendere o non vendere. Ci dirigiamo su chi può impreziosire e su chi stimiamo anche umanamente». Visti i risultati, c’è da immaginare che saranno sommersi dalle candidature: «Essere prolifici ci rende appetibili, diciamo che abbiamo dalla nostra dei buoni numeri — ammette Biggie, all’anagrafe Angelo Rogoli, 37 anni —, ma non ci facciamo influenzare né da richieste né da calcoli».

«Tropicana», descrive il cantante, «parte come pezzo dancehall, in cui si sente la Giamaica, filone da sempre presente nei Boomdabash. Poi arriva il ritornello ed esplode la house, affacciandosi al mondo dei club e a un immaginario più notturno rispetto alle estati precedenti». Il titolo, richiamo esplicito al successo del Gruppo Italiano che spopolava nei mesi caldi del 1983, «mette in luce il lato vintage del brano, le linee tipiche della dance anni 80-90». Tante contaminazioni, frutto di tanti ascolti: «Non temiamo di ripeterci perché in noi convivono anime completamente diverse e ascoltiamo di tutto, senza barriere». E non avvertono un po’ di ansia da prestazione nel dover fare centro ogni anno con una hit? «Quando raggiungi certi risultati devi cercare di svincolarti dall’idea di dover per forza bissare il successo perché è pericoloso — riflette Biggie —. Il nostro lavoro è fare buona musica, non fare i numeri. Sappiamo che una parte delle persone pensa che i Boomdabash siano un gruppo che si mette a tavolino a fare un pezzo per i soldi: non è così e non è mai stato così. Sarebbe controproducente».

Però la corsa al tormentone, da un po’ di tempo, si è fatta molto affollata: «Sicuramente ormai l’estate è diventata una guerra, ma è così se la percepisci tale. Giustamente tanti artisti fanno uscire il singolo perché è ovvio che si tratti di una stagione in cui gli ascoltatori sono più predisposti. Ci saranno quelli che perdono il sonno per fare il tormentone ad ogni costo, ma di certo non siamo noi».

I Boomdabash pensano piuttosto al divertimento, assicura: «Siamo sempre dei ragazzi di strada, la nostra attitudine è quella di 20 anni fa quando abbiamo iniziato. E Annalisa, con cui passeremo l’estate visto che faremo dei dj set nei club, anziché prenderci per dei pazzi regge benissimo la nostra esuberanza. È quella che definiresti la classica brava ragazza, ma si diverte tantissimo con noi».

«Tropicana» farà parte di un album già in lavorazione «che uscirà verosimilmente l’anno prossimo», anticipa Biggie. E il 13 luglio saranno forse a San Siro a dare man forte all’amica Amoroso? «Non so se si può dire, ma tutto accade e tutto può accadere», dice il cantante. Che poi racconta i suoi «feat» dei sogni: «In questo momento, pensando all’estero, mi piacerebbe collaborare con Post Malone, di cui sono stra-fan. Ma in Italia il nostro obiettivo da anni è Zucchero: per noi è un Dio, un mostro sacro». 

·        Brad Pitt.

Usa: scontro Angelina Jolie - Brad Pitt: "Lui picchiò lei e i figli in aereo". La Repubblica il 4 Ottobre 2022.

Lo rivela il New York Times. Secondo i documenti legali, l'attrice ha detto che l'ex marito avrebbe messo le mani alla gola a un figlio, e colpito un altro in pieno volto

Angelina Jolie ha rivelato nuovi dettagli del famigerato volo aereo del settembre 2016 che portò alla rottura con il marito Brad Pitt. L'attore e icona sexy di Hollywood avrebbe picchiato lei e i figli.  In una testimonianza incrociata svolta nella battaglia legale tra le due star, che si contendono i diritti della proprietà di un pregiato vigneto in Francia, Jolie ha raccontato una serie di violenze verbali e fisiche da parte di Pitt, esplose durante il volo sul jet privato che aveva portato la famiglia dalla Francia in California.

Secondo i documenti legali, l'attrice ha detto che l'ex marito avrebbe messo le mani alla gola a un figlio, e colpito un altro in pieno volto, e poi "afferrato Jolie alla testa e strattonata". A un certo punto lui le avrebbe gettato addosso la birra, e versato vino sui figli. Dopo quel viaggio, l'attrice chiese il divorzio. L'episodio è finito sotto inchiesta da parte dell'Fbi, che ha giurisdizione sui voli.

Lorenza Sebastiani per “il Giornale” il 20 agosto 2022.

Giustizia maschilista o femminista? Ormai le coppie di Hollywood si attaccano nei tribunali e spesso la verità diventa un dettaglio indistinguibile, tanto meno dai media. Johnny Depp e Amber Heard ne sono un recente esempio e a processo concluso, quando i social avevano da mesi messo in campo un tifo da stadio a favore dell'attore, è rimasto sospeso lo stesso quesito di sempre. Peggio se sul campo rimane una vittima non creduta o un carnefice innocente e calunniato? 

Ed ecco che arriva la stampa, spesso per ultima e utilizzata a turno in modo strumentale dai due epici antagonisti del momento.

Non a caso è appena emersa una sostanziale novità sulla saga dei Brangelina, ossia Brad Pitt e Angelina Jolie, che continuano da anni a scannarsi davanti ai giudici, con la scusa dell'affidamento dei figli.

Lei lo accusa di abuso di alcol e maltrattamenti in famiglia, lui di violenza psicologica e diffamazione. Emblematica la causa che lui le ha intentato a febbraio scorso, per aver venduto a un oligarca russo la sua metà del vigneto francese dove si sposarono, Château Miraval, senza interpellarlo. 

Ora lei, dopo mesi di apparente calma mediatica, ha appena calato l'asso. La CNN di colpo ha rivelato il contenuto di un rapporto ricevuto dall'FBI sul famoso episodio del 2016 che la rivista americana People, all'epoca, aveva indicato come la causa del divorzio tra i due. Sei giorni dopo questi accadimenti la Jolie lasciò infatti Pitt e chiese l'affidamento esclusivo dei figli.

Nell'ambito di un volo privato dalla Francia a Los Angeles lui sarebbe salito già ubriaco, avrebbe afferrato l'attrice alla testa sbattendola contro la porta del bagno, imprecando contro di lei e contro la cattiva educazione impartita ai figli. I ragazzi, denuncia l'attrice, avrebbero chiesto «Stai bene mamma?». A quel punto Pitt avrebbe urlato: «No, la mamma non sta bene. Sta rovinando questa famiglia. È pazza». Questo avrebbe suscitato la reazione del primogenito, Maddox, all'epoca 15enne, che ha testimoniato più volte in passato contro Pitt (e oggi non vuole neanche più il suo cognome). Il ragazzo avrebbe detto: «Non è lei, sei tu, stronzo». 

 L'insulto, si legge nel rapporto dell'FBI, avrebbe mandato l'attore su tutte le furie. Jolie avrebbe allora afferrato il marito per il collo «per impedirgli di attaccare Maddox», e Pitt l'avrebbe spinta contro una parete, procurandole lesioni alla schiena e al gomito, di cui il rapporto contiene foto. Per quell'evento l'attore, che ha negato qualsiasi accusa, è stato indagato sia dai servizi per l'infanzia di Los Angeles sia dall'FBI, ma l'inchiesta fu chiusa in due mesi e senza esito.

CNN ha poi riferito che il vice procuratore Usa avrebbe deliberatamente deciso di non procedere contro Pitt. L'emittente americana ha oggi la certezza che la Jolie abbia di recente intentato una causa anonima contro l'FBI, per ottenere tutti i documenti relativi all'inchiesta federale contro l'ex. La Jolie aveva incassato solo per finta, quindi. Al momento ha la piena custodia dei figli, riottenuta con le unghie e con i denti. 

A maggio dello scorso anno Pitt aveva infatti ottenuto l'affidamento di cinque dei suoi sei figli (Pax, Zahara, Shiloh e i gemelli Knox e Vivienne, 18, 17, 16 e 13 anni), ma lei ha chiesto e ottenuto l'estromissione del giudice, reo di non aver ascoltato le testimonianze dei ragazzi e di averle così negato, a suo dire, «un processo equo». 

Combattiva «ai limiti della persecuzione», l'ha definita a più riprese Pitt sui media americani. «La mia è una battaglia nel puro interesse dei figli», ha spiegato l'attrice, che si ritiene da sempre, come la Heard, vittima di una giustizia iniqua e viziata.

Sono lontani i tempi in cui, per i 50 anni del marito, gli regalava un'isola da 12 milioni di dollari. Una cosa l'abbiamo capita, tanto megalomane la storia d'amore che ci propinano, tanto feroce sarà la causa successiva. E la verità è destinata a rivelarsi irrilevante.

(ANSA il 19 agosto 2022) - Angelina Jolie ha accusato Brad Pitt di averla afferrata per la testa e le spalla, averla spinta contro il muro del bagno dell'aereo privato sul quale stavano viaggiando e averle urlato: 'Stai mandando a puttane questa famiglia!'. 

Il tutto quando era completamente ubriaco e dopo aver insultato i figli della coppia. L'episodio risale al 2016 ed è stato rivelato dalla Cnn che ha ottenuto un rapporto dell'Fbi sulla vicenda. Pitt non è stato ne' arrestato ne' incriminato per le violenze dopo l'inchiesta dei federal sulle violenze.

La Jolie ha detto agli investigatori che due dei loro figli, i cui nomi sono stati censurati nel rapporto ma erano all'epoca minorenni, "erano fuori dalla porta a piangere e hanno chiesto 'Stai bene mamma?'". A quel punto Pitt avrebbe urlato: "No, la mamma non sta bene. Sta rovinando questa famiglia. È pazza'". 

Questo avrebbe suscitato la reazione di uno dei bambini che avrebbe detto: "Non è lei, sei tu, stronzo'". Insulto, si legge nel rapporto dell'Fbi, che avrebbe mandato l'attore su tutte le furie. Pitt, secondo quanto raccontato dalla Jolie, gli è corso incontro "come per picchiarlo" ma lei lo ha bloccato. L'attrice e regista ha anche dichiarato di aver subito lesioni alla schiena e al gomito di cui ha allegato una foto.

Da leggo.it il 18 agosto 2022.

Angelina Jolie ha presentato una causa anonima contro l'Fbi chiedendo perché non ha arrestato Brad Pitt. Secondo i media Usa, l'attrice è stata identificata come la querelante 'Jane Doe' in un procedimento contro il Bureau per il Freedom of Information Act, in cui domanda perché l'agenzia abbia chiuso un'indagine per aggressione nel 2016 sul suo «allora marito». 

In quell'occasione Jolie aveva affermato che lui aveva «aggredito fisicamente e verbalmente» lei e i loro figli. A un agente federale aveva detto che Pitt era «pazzo» e si era imbarcato su un aereo privato dalla Francia agli Stati Uniti insieme a lei e ai loro sei figli, lo aveva accusato di aver preso a pugni il soffitto dell'aereo più volte gridando «stai rovinando questa famiglia». Pitt avrebbe poi attaccato uno dei loro figli, lei lo avrebbe difeso e si sarebbe ferita al gomito. Poi l'attrice lo ha accusato di averle versato della birra addosso in un altro momento del volo.

Sei giorni dopo, Jolie ha chiesto il divorzio. I media hanno riferito che il vice procuratore Usa ha incontrato l'agente federale nel novembre 2017 e ha deciso di non procedere con la denuncia contro Pitt. Jolie ha quindi intentato una causa anonima contro l'Fbi nella speranza di ottenere documenti relativi all'inchiesta federale contro l'ex marito, il quale ha negato tutte le accuse. 

Da adnkronos.com il 19 agosto 2022.

Angelina Jolie ha accusato Brad Pitt di averla picchiata e di avere insultato lei e i loro figli durante una lite a bordo di un jet privato nel 2016. Lo riferisce un rapporto dell'Fbi che la Cnn ha pubblicato. Secondo quanto è scritto nel rapporto, l'attrice ha detto agli investigatori che durante il viaggio di ritorno in California con Pitt e i loro sei figli, dopo una vacanza di due settimane, il suo ex marito le ha chiesto di accompagnarlo in fondo all'aereo. 

Una volta lì, ha riferito Jolie, entrati nel bagno, Pitt l'ha "afferrata per la testa e per la spalla" e spingendola contro la parete del bagno le ha detto "stai fottendo questa famiglia", secondo quanto scritto sul rapporto. Pitt non è stato arrestato o accusato in relazione all'incidente dopo che l'Fbi ha completato l'indagine nel 2016.

La Jolie ha anche detto agli investigatori che due dei loro figli (i cui nomi non sono scritti nel rapporto perché all'epoca erano minorenni) "erano fuori dalla porta a piangere e hanno chiesto: 'Stai bene mamma?'". E Pitt avrebbe urlato in risposta: "No, la mamma non sta bene. Sta rovinando questa famiglia. È pazza". 

A questo punto uno dei figli gli avrebbe risposto: "Non è lei, sei tu, stronzo", una reazione che avrebbe fatto infuriare Pitt il quale, sempre secondo il racconto di Angelina Jolie riportato nel rapporto, sarebbe corso incontro al figlio "come per picchiarlo", ma senza riuscirci perché lei lo ha bloccato. Jolie ha affermato di aver subito lesioni alla schiena e al gomito, allegando al rapporto una foto.

La Cnn ha contattato i rappresentanti di Pitt e Jolie per un commento. "Tutte le parti hanno avuto queste informazioni da quasi sei anni e sono state utilizzate in precedenti procedimenti legali. Non c'è niente di nuovo se non l'essere una trovata mediatica destinata a infliggere dolore", ha detto una fonte vicina a Pitt. Un portavoce dell'Fbi ha spiegato alla Cnn che "nessuna accusa è stata presentata in relazione a questa questione e sarebbe inappropriato commentare ulteriormente".

Angelina Jolie accusa Brad Pitt: "Mi ha insultata e picchiata". La Repubblica il 19 Agosto 2022.

L'episodio risale al 2016 ed è stato rivelato dalla Cnn: l'attrice ha fatto causa all'Fbi chiedendo perché non abbia arrestato l'ex marito

Angelina Jolie ha accusato Brad Pitt di averla afferrata per la testa e le spalla, averla spinta contro il muro del bagno dell'aereo privato sul quale stavano viaggiando e averle urlato: "Stai mandando a puttane questa famiglia!". Il tutto quando era completamente ubriaco e dopo aver insultato i figli della coppia.

L'episodio risale al 2016 ed è stato rivelato dalla Cnn che ha ottenuto un rapporto dell'Fbi sulla vicenda. Pitt non è stato né arrestato né incriminato per le violenze dopo l'inchiesta dei federal sulle violenze.

Jolie ha detto agli investigatori che due dei loro figli, i cui nomi sono stati censurati nel rapporto ma erano all'epoca minorenni, "erano fuori dalla porta a piangere e hanno chiesto 'Stai bene mamma?'". A quel punto Pitt avrebbe urlato: "No, la mamma non sta bene. Sta rovinando questa famiglia. È pazzà".

Questo avrebbe suscitato la reazione di uno dei bambini che avrebbe detto: "Non è lei, sei tu, stronzò". Insulto, si legge nel rapporto dell'Fbi, che avrebbe mandato l'attore su tutte le furie. Pitt, secondo quanto raccontato dalla Jolie, gli è corso incontro "come per picchiarlo" ma lei lo ha bloccato.

L'attrice e regista ha anche dichiarato di aver subito lesioni alla schiena e al gomito di cui ha allegato una foto.

Nei giorni scorsi l'attrice  ha presentato una causa anonima contro l'Fbi chiedendo perché non ha arrestato Brad Pitt. Secondo i media Usa, l'attrice è stata identificata come la querelante "Jane Doe" in un procedimento contro il Bureau per il Freedom of Information Act, in cui domanda perché l'agenzia abbia chiuso un'indagine per aggressione nel 2016 sul suo "allora marito".

In quell'occasione Jolie aveva affermato che lui aveva "aggredito fisicamente e verbalmente" lei e i loro figli. A un agente federale aveva detto che Pitt era "pazzo" e si era imbarcato su un aereo privato dalla Francia agli Stati Uniti insieme a lei e ai loro sei figli, lo aveva accusato di aver preso a pugni il soffitto dell'aereo più volte gridando "stai rovinando questa famiglia". Pitt avrebbe poi attaccato uno dei loro figli, lei lo avrebbe difeso e si sarebbe ferita al gomito. Poi l'attrice lo ha accusato di averle versato della birra addosso in un altro momento del volo. Sei giorni dopo, Jolie ha chiesto il divorzio.

I media hanno riferito che il vice procuratore Usa ha incontrato l'agente federale nel novembre 2017 e ha deciso di non procedere con la denuncia contro Pitt. Jolie ha quindi intentato una causa anonima contro l'Fbi nella speranza di ottenere documenti relativi all'inchiesta federale contro l'ex marito, il quale ha negato tutte le accuse.

Brad Pitt: «Sono malato, ma nessuno mi crede. Non riconosco i volti delle persone». Maria Volpe su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2022.

L’attore, 58 anni, ha rilasciato un’intervista a GQ dove confida il suo disturbo che gli crea forte disagio. Chiede di conoscere una persona che soffra della stessa patologia. 

Una notizia choc arriva da Brad Pitt, 58 anni: in un’intervista a GQ ha rivelato non solo di voler interrompere la recitazione, ma soprattutto ha confidato di soffrire di un grave disturbo neurologico che impedisce di riconoscere i volti delle persone, persino di amici e parenti. La star di Hollywood sostiene di essere malato di prosopagnosia, anche se nessun medico gliel’ha mai diagnosticata. L’attore e produttore americano non associa le facce alle persone che incontra o che ama. Nessuna. Nemmeno Angelina Jolie, nemmeno Jennifer Aniston, nemmeno i 6 figli per cui ha combattuto anni in tribunale. Tantomeno le facce di Hollywood, tanto che ha rivelato di essersi alienato molte persone che lo hanno sempre considerato snob o menefreghista: ma lui non fingeva di non conoscerle, davvero non riusciva a capire chi fossero.

«Nessuno mi crede» confida adesso con un tocco di disperazione ed esprime il desiderio di conoscere qualcun altro con lo stesso disturbo. Pitt sostiene di essere malato dal 2013, motivo per cui sono anni che trascorre la maggior parte del suo tempo in casa. «Nessuno mi crede! Voglio incontrare un’altra persona che ne soffre», ha dichiarato. La prosopagnosia, una condizione anche nota come “cecità facciale”, sarebbe il motivo per cui, senza volerlo, Brad risulta freddo, distaccato ed egocentrico per le persone che lo incontrano. «La verità è che vorrebbe ricordare le persone che incontra, ma si vergogna di non poterlo fare», ha raccontato la giornalista Ottessa Moshfegh autrice dell’intervista a Brad Pitt.

La prosopagnosia è un deficit cognitivo-percettivo che porta a non essere in grado di riconoscere le facce delle persone note e, talvolta, perfino il proprio volto quando si guarda allo specchio od osserva una sua foto. Le cause possono essere legate ad una condizione che un individuo sviluppa nel corso della vita, per effetto di un danno neurologico, oppure può trattarsi di una condizione congenita. La prosopagnosia può avere gravi ripercussioni sulla sfera sociale del paziente e può portare allo sviluppo di depressione e fobia sociale. Per diagnosticare correttamente la prosopagnosia serve l’intervento di un neuropsichiatra e il ricorso a una serie di test.

L’attore lo scorso anno aveva ottenuto la custodia congiunta dei figli, ma la sentenza è stata revocata a causa della rimozione del giudice che presiedeva il caso. Alla fine quindi Jolie ha riottenuto la custodia totale mentre Pitt ha solo il diritto di visita.

Brad Pitt "Soffro di prosopagnosia, non riconosco i volti. E nessuno mi crede". L'attore premio Oscar ha raccontato alla rivista GQ di non avere avuto ancora una diagnosi ma di voler incontrare qualcuno che abbia lo stesso disturbo. La Repubblica l'8 Luglio 2022.

In un'intervista, nel numero di agosto di GQ, il premio Oscar Brad Pitt torna a parlare della prosopagnosia, il disturbo di cui soffre anche se non gli è ancora stato diagnosticato. Nell'intervista il premio Oscar si lamenta del fatto che tende a fare una vita piuttosto casalinga e non partecipare a molti eventi mondani perché "nessuno mi crede, ma io ho delle difficoltà a riconoscere il volto delle persone". In questa lunga chiacchierata con il magazine, in cui si è aperto sul periodo di depressione e sulla scelta di andare in riabilitazione dopo il divorzio da Angelina Jolie, ha quindi espresso la frustrazione per una malattia che ha la conseguenza di attirare l'odio delle persone che si offendono perché, dopo averle incontrate in varie occasioni, non riesce a riconoscerle.

La prosopagnosia è un disturbo neurologico che si concretizza nell'incapacità di riconoscere il viso delle persone e, nei casi più gravi, di distinguere la propria immagine in fotografia o allo specchio. Questo disturbo può essere acquisito o congenito. Il primo tipo è una condizione che un individuo può sviluppare a seguito di una lesione a carico dell'area temporo-occipitale dell'emisfero cerebrale destro. Nel secondo caso la condizione ha cause sconosciute ed è presente fin dalla nascita e anche se l'encefalo è sano. La prosopagnosia può avere gravi ripercussioni sulla sfera sociale e può portare allo sviluppo di depressione e fobia sociale.

Cos’è la prosopagnosia, il disturbo di Enrica Bonaccorti e Brad Pitt. Danilo di Diodoro su Il Corriere della Sera l'11 maggio 2022.

Ne ha parlato Enrica Bonaccorti, che dice di condividere questo problema con Brad Pitt: alcune persone non sanno riconoscere i visi (a volte neppure il proprio). È un problema più diffuso di quanto si pensi, che coinvolge un milione e mezzo di persone solo in Italia. 

Ogni essere umano riconosce al volo centinaia di volti. Un’abilità straordinaria che nessuno ha bisogno di imparare, perché innata. Ed è da sempre fondamentale per la sopravvivenza: consente di distinguere senza esitazioni parenti, amici, nemici. Eppure, in una certa percentuale di individui affetti da prosopagnosia, tale capacità è compromessa fin dalla nascita. 

Ne ha parlato al Corriere Enrica Bonaccorti, che ha detto di condividere questo problema con l’attore Brad Pitt. È un disturbo di cui soffriva anche Luciano De Crescenzo che raccontava di come a prima vista avesse difficoltà a riconoscere anche cari amici come Marisa Laurito.

Come riconoscere da altri particolari

Chi si trova in questa condizione, soffre di prosopagnosia congenita, un disturbo che colpisce circa il 2-3 per cento della popolazione. Il termine deriva dal greco antico prosopon, che vuol dire, appunto, faccia. Per riuscire a orientarsi nella giungla quotidiana dei visi, chi è affetto da questo disturbo deve fare ricorso a veri e propri stratagemmi. È costretto a imparare come riconoscere le persone da altri segnali, come il taglio dei capelli, la modalità di camminare, la gestualità, perfino i vestiti indossati. A volte si affida invece a un particolare del viso stesso, come la forma della bocca o delle sopracciglia, dal momento che la prosopagnosia è principalmente caratterizzata dalla difficoltà a percepire la faccia nel suo insieme, mentre non è toccata l’abilità di individuare i suoi singoli particolari.

Quanti sono: i dati

Oltre alla forma congenita esiste anche una forma acquisita. In tal caso la persona nasce con la normale abilità a riconoscere i visi, ma poi la perde, solitamente in seguito a un evento traumatico, come un ictus o un trauma cranico encefalico. In ogni caso, si tratta di un disturbo che può avere molta influenza sulla vita sociale.

«Persone con prosopagnosia hanno significative difficoltà nella vita di tutti i giorni», dice il professor Davide Rivolta, associato presso la School of Psychology dell’University of East London, autore del libro “Prosopagnosia: Un mondo di facce uguali” (Ferrari Sinibaldi, Milano). «Per esempio non riconoscono i protagonisti dei film, ma neppure le persone famigliari, quali i vicini di casa, se le incontrano fuori dal contesto abituale. In casi gravi, i prosopagnosici non sono in grado di riconoscere addirittura la propria faccia. In Italia si stima che ci siano circa un milione e mezzo di persone con prosopagnosia congenita, anche se spesso sono poco conosciute e rilevate».

Difficoltà nella diagnosi

I motivi di tale disconoscimento possono essere diversi. Dato che si nasce senza questa abilità, si è portati a pensare che le difficoltà rappresentino la norma e che tutti facciano fatica a riconoscere i volti. Inoltre raramente si parla di questo disturbo e i bambini non vengono testati per le abilità di riconoscere i visi. A tutto ciò si aggiunge il fatto che psicologi, psichiatri e neurologi spesso non sono in grado di diagnosticare, se non sommariamente, la prosopagnosia. «Non esiste una diagnosi universale di prosopagnosia», spiega ancora Rivolta. «Tuttavia esistono oggi strumenti affidabili. Uno su tutti è un test di memoria, il Cambridge Face Memory Test, che richiede ai soggetti di imparare, e poi riconoscere, facce non famigliari in mezzo a molti distrattori. Un ulteriore test che abbiamo sviluppato consiste nel distinguere persone famose da persone non famose. Chi soffre di prosopagnosia, in genere, ha difficoltà nello svolgere correttamente questi test. Il neuropsicologo è la figura professionale di riferimento in grado di diagnosticare e intervenire sulla prosopagnosia».

Altri disturbi con gli oggetti o i corpi

Attualmente si sta anche cercando di identificare tecniche in grado di migliorare la percezione di volti in chi soffre di prosopagnosia. Il gruppo del professor Rivolta ha pubblicato sulla rivista Neuropsychologia uno studio in cui si dimostrano i possibili effetti benefici della stimolazione cerebrale tramite una lievissima corrente in aree deputate al riconoscimento di volti. Alla prosopagnosia acquisita possono associarsi disturbi in altre sfere cognitive, come il mancato riconoscimento di oggetti. Infatti, le aree cerebrali deputate al riconoscimento dei volti e degli oggetti sono vicine, quindi una lesione, anche se principalmente coinvolge l’area dei volti, può colpire in modo più o meno marcato anche l’area di riconoscimento oggetti. Inoltre alla prosopagnosia congenita può associarsi una difficoltà di orientamento spaziale o la difficoltà a riconoscere i corpi, sostenuta da alterazioni a livello del lobo temporale. «Abbiamo osservato questo fenomeno durante uno studio su un gruppo di undici persone affette da prosopagnosia, confrontato con un gruppo di controllo», dice ancora Rivolta. Lo studio, pubblicato su The Quarterly Journal of Experimental Psychology, indica che probabilmente queste difficoltà sono sostenute da un’alterazione dei processi neurobiologici condivisi.

Vedere mostri

Le alterazioni nella percezione dei visi possono anche generare mostri. In questi casi non si tratta più di prosopagnosia, ma di prosopometamorfosia, ossia di metamorfosi delle facce. È una rara sindrome, della quale è stato descritto un caso sulla rivista Lancet da un gruppo di neuroscienziati olandesi, ai quali la paziente era stata indirizzata dal famoso neurologo e scrittore Oliver Sacks. Si trattava di una donna di 52 anni che fin dall’adolescenza vedeva l’immagine di musi di drago comparire all’improvviso davanti ai suoi occhi, mentre anche le facce delle persone attorno a lei si trasformavano in musi di drago: improvvisamente a parenti e amici la pelle del viso diventava scura, le fattezze si allungavano, le orecchie crescevano, gli occhi si ingrandivano e assumevano un colore brillante, giallo, verde, blu o rosso.

Niccolò Dainelli per leggo.it il 25 giugno 2022.

Brad Pitt sconvolge i suoi fan. Dopo aver dichiarato di sentirsi alla fine della sua carriera, facendo capire che il suo ritiro si avvicina, ecco un'altra notizia che lascia a bocca aperta. In un'intervista a GQ, l'attore hollywoodiano rivela di soffrire di una malattia che gli impedisce di riconoscere i volti delle persone: la prosopagnosia. La star del cinema ha dichiarato di soffrire di questa particolare «cecità facciale» non diagnosticata.

Secondo Brad Pitt, a cui non è mai stata formalmente diagnosticata la prosopagnosia, che gli esperti descrivono come una condizione in cui «non è possibile riconoscere i volti delle persone», ha difficoltà a ricordare nuove persone e riconoscere i loro volti, specialmente in contesti sociali come le feste.

Questa sua difficoltà a ricordare i volti, preoccupa molto Brad Pitt, che ha dichiarato di avere spesso la sensazione che le persone incontrate abbiano un'impressione negativa di lui rendendolo agli occhi degli altri sempre molto distaccato ed egocentrico.   E per la star di Hollywood questo è un grande problema. Lui vorrebbe sempre ricordare chi incontra e si vergogna molto quando proprio non riesce a riconoscere il volto di una persona già incontrata.

Secondo gli esperti, la prosopagnosia dello sviluppo, che colpisce anche gli individui che non hanno subito danni cerebrali, si riscontra in una persona su 50. La condizione colpisce spesso le persone dalla nascita e in genere rimane un problema per tutta la vita.

«Molte persone con prosopagnosia non sono in grado di riconoscere familiari, partner o amici», affermano gli studiosi, osservando che la condizione può portare a disturbi d'ansia sociale. Una lesione cerebrale o un ictus possono anche portare allo sviluppo della prosopagnosia che, in questo caso, risulta essere acquisita e non dalla nascita.

Parlando con GQ, l'attore ha anche spiegato come nessuno creda alla sua malattia e che avrebbe molto piacere a incontrare un'altra persona con la sua stessa patologia per essere finalmente compreso da qualcuno. Questa non è la prima volta che Brad Pitt parla pubblicamente della sua incapacità di riconoscere i volti e del conseguente impatto che la difficoltà ha sulla sua reputazione.

 Le persone la vedono come una mancanza di rispetto, ma il premio Oscar in realtà soffre di prosopagnosia. Questo ha portato l'attore anche a soffrire di depressione, una depressione sconfitta solo nell'ultimo periodo quando i suoi amici e familiari hanno realmente capito il suo stato d'animo e le difficoltà che incontra quotidianamente. 

Da vanityfair.it il 23 giugno 2022.

Nella storia di copertina del numero di luglio/agosto di GQ, l’autrice Ottessa Moshfegh incontra l'attore e produttore Brad Pitt nella sua casa sulle colline di Hollywood. Durante la loro conversazione, Pitt è aperto e onesto. Parla del futuro della sua carriera, dei diversi cambiamenti che ha fatto per migliorare la sua salute e del suo senso di solitudine. Racconta anche dei suoi prossimi progetti, tra cui la commedia d'azione Bullet Train. 

Pitt è conosciuto come un attore leggendario, una delle personalità più influenti di Hollywood, forse il più grande rubacuori di tutti i tempi. Ultimamente, però, è apparso sullo schermo un po' più sporadicamente concentrandosi maggiormente sul ruolo di produttore cinematografico. 

A GQ racconta che sta cercando di riflettere con attenzione sul proprio futuro e sul percorso che vuole tracciare per le fasi finali di una carriera abbondantemente creativa. «Penso di essere arrivato all'ultimo tratto, il semestre o trimestre finale. Cosa racconterà questo capitolo? Come voglio strutturarlo?».

Parte di questo progetto include la sua società di produzione, la Plan B Entertainment. Quest'anno, la Plan B sta producendo Donne che parlano, un adattamento del romanzo di Miriam Toews in cui si narra di donne mennonite che si coalizzano contro i loro stupratori, diretto da Sarah Polley. «È un film profondo come nessun altro realizzato in questo decennio» ha dichiarato Pitt. 

Eppure, nonostante i nobili ideali quando veste i panni del produttore e di un attore sempre più selettivo, Pitt presta con gioia il suo talento a qualche blockbuster quando il momento è giusto, soprattutto se esiste un legame personale. Tra questi Bullet Train diretto da David Leitch, il cui rapporto con Pitt risale a Fight Club del 1999, nel periodo in cui il regista faceva da controfigura alla star, ruolo che Leitch ha rivestito in diversi film, tra cui Troy e Mr & Mrs Smith. Nel film, Pitt interpreta Ladybug, un assassino a bordo del treno Tokyo-Kyoto che si è appena ripreso da un esaurimento nervoso e torna alla sua professione ad alto rischio con una fiducia un po' fuorviante sulla propria idoneità a riprendere servizio.

«Sai, fai un mese di terapia», dice Pitt a proposito del suo personaggio, «hai un'epifania, pensi di aver capito tutto e che non sarai mai più smarrito. Questo è quanto. Ho capito, sono pronto a ripartire!». 

Inoltre, Pitt racconta a GQ della sua missione per tutelare la propria salute. Dopo aver offerto a Moshfegh una mentina alla nicotina, spiega di aver smesso di fumare durante la pandemia. Sebbene all'inizio abbia cercato di ridurre al minimo la quantità di fumo, si è reso conto che la semplice riduzione delle sigarette non sarebbe stata sufficiente: doveva eliminarle. «Non ho la capacità di fumarne solo una o due al giorno», dice. «Non fa parte del mio modo di essere. Per me o tutto o niente. Mi butto a capofitto nelle cose. Ho perso i miei privilegi».

Si tratta di uno dei numerosi cambiamenti radicali che negli ultimi anni ha adottato per tutelare la propria salute. Dopo che la Jolie ha chiesto il divorzio, nel 2016, ha smesso di bere e ha trascorso un anno e mezzo frequentando gli Alcolisti Anonimi. «Avevo un gruppo maschile molto bello lì, molto riservato e selettivo, quindi era sicuro», racconta a GQ «perché avevo sentito esperienze di altre persone, come Philip Seymour Hoffman, che erano state registrate mentre vuotavano il sacco, e questo per me è semplicemente atroce». 

Pitt ha parlato in passato della sua difficoltà a ricordare le persone nuove, a riconoscere i loro volti, e teme che questo dia di lui una certa impressione: che sia distante e distaccato, inaccessibile, egocentrico. Moshfegh, tuttavia, lo trova all'opposto. Pitt è un uomo che sembra profondamente impegnato a creare legami significativi, a sondare i quesiti esistenziali della vita e ad ascoltare le storie personali degli altri.

«Mi sono sempre sentito molto solo nella mia vita» spiega «solo quando ero bambino, solo anche qui fuori, è soltanto di recente che mi sono avvicinato maggiormente ai miei amici e alla mia famiglia. Qual è quella frase, potrebbe essere di Rilke o di Einstein, che ci crediate o no, ma era qualcosa che parlava di quando si riesce a camminare con il paradosso, quando si porta con sé contemporaneamente il vero dolore e la vera gioia, questa è la maturità, questa è la crescita». 

Brad Pitt, la solitudine e la depressione: "Così ho rimesso a posto la mia vita". La Repubblica il 23 Giugno 2022. 

In un'intervista l'attore racconta la sua vita tormentata e il punto di rottura dopo il divorzio da Angelina Jolie.

La fama non basta a liberarsi da solitudine e depressione. Nessuno scudo per il malessere di Brad Pitt che a 58 anni si confessa rivelando di aver sofferto tutta la vita e spiega come sia riuscito a liberarsi dalla dipendenza da alcol e sigarette. Tutto è stato possibile dopo il divorzio da Angelina Jolie, nel 2016, il punto di rottura. E' stato allora che ha deciso di fare della sua salute una priorità.  L'occasione per fare il punto sulla caduta e la ripresa è un'intervista a GQ che gli dedica la copertina con un look Seventies alla C'era una volta a... Hollywood.

Brad Pitt e la depressione: "Per anni sono andato alla deriva"

Innanzitutto è diventato sobrio passando circa un anno e mezzo in un centro di riabilitazione. E durante la pandemia si è sbarazzato del vizio del fumo in un colpo solo. Ma oltre alla salute fisica c'era anche quella mentale e lì c'è voluto un lavoro più intenso. Ha sofferto di solitudine, ha avuto quella che definisce "una leggera forma di depressione". "Credo - ha spiegato - che la gioia sia una scoperta recente. Mi sono sempre mosso con la corrente, alla deriva in senso e poi verso quella successiva. Credo di aver passato anni con una leggera depressione e solo dopo averci fatto i conti, cercando di accettare tutti gli aspetti di me stesso, il bello e il brutto, che sono stato in grado di catturare quei momenti di gioia".

Si è sentito solo tutta la vita. "Mentre crescevo, anche qui a Los Angeles, e solo di recente ho accettato di più la mia famiglia e gli amici". Tra le cose che lo fanno sentire meno solo c'è la produzione e il consumo di arte. La musica lo riempie di gioia.

Angelina Jolie e la custodia dei figli

L'attore ha sei figli con Angelina Jolie: Maddox, Pax, Zahara, Shiloh e i gemelli Knox e Viviennne, rispettivamente di 20, 18, 17, 16 e 13 anni. Lo scorso anno, dopo aver ottenuto la custodia congiunta, la sentenza fu revocata a causa della rimozione del giudice che presiedeva il caso. Jolie ha quindi riottenuto la custodia totale mentre Pitt ha solo il diritto di visita. Lo scorso ottobre, durante un'intervista a E! News ha detto che appoggia i propri figli e ciò che li rende felici. Ha commentato che ormai sono abbastanza grandi da prendere delle decisioni e lui non sarà da ostacolo. Quanto al lavoro, il 15 luglio sarà di nuovo nelle sale nel film Bullet Train.

Brad Pitt trascina in tribunale Angelina Jolie, cosa si è venduta a sua insaputa all'oligarca russo: choc a Hollywood. Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

Tra Brad Pitt e Angelina Jolie non sembra esserci mai pace. A metterli nuovamente l'uno contro l'altra stavolta è il vino. In particolare i vigneti, di cui i due divi sono co-proprietari. L'attore ha fatto causa all'ex moglie, dopo aver scoperto che ha venduto la sua parte della tenuta di Château Miraval nel Sud della Francia ad un miliardario russo Yuri Shefler. 

La coppia l'aveva acquistata e fondato un'azienda vinicola con lo stesso nome, nel 2008. E lì si erano anche sposati nel 2014. L'accordo iniziale però prevedeva che nessuno dei due avrebbe potuto vendere la propria quota di partecipazione nell'azienda senza ottenere il consenso dell'altro. Ma la Jolie aveva già chiesto di poter vendere il vigneto. La clausola nel contratto parlava chiaro. La società di Shefler infatti è in concorrenza con quella di Pitt nella produzione dello champagne.

Secondo Pitt, la Jolie on contribuisce più finanziariamente, già da anni, all'attività, mentre l'attore ha continuato a sostenere economicamente l'azienda. Ed è per questo che ha chiesto che sia un tribunale a decidere l'annullamento della vendita e a quanto ammonta il danno economico subito dalla non partecipazione dell'ex moglie alle spese dell'azienda vinicola.

Brad Pitt trascina la Jolie in tribunale: "Lo ha fatto per vendetta, lo dà ai russi". Novella Toloni il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.

L'attore accusa l'ex moglie di avere venduto le quote dell'azienda vinicola, che detenevano in comproprietà dal 2008, per vendicarsi di una sentenza sulla custodia dei figli.

Un nuovo capitolo si aggiunge alla saga sulla tormentata separazione tra Brad Pitt e Angelina Jolie. Dopo avere citato in giudizio l'ex moglie per la vendita delle sue quote della cantina Chateau Miraval, l'attore americano ha accusato l'ex moglie di averlo fatto per "vendetta".

Secondo quanto riportato dal tabloid inglese Daily Mail, infatti, i legali del divo di Hollywood avrebbero depositato in tribunale una serie di documenti, che proverebbero che la Jolie avrebbe venduto le quote in comproprietà con l'ex marito con il solo fine di "infliggere danni a Pitt". L'attrice avrebbe venduto circa la metà della cantina vitivinicola nel sud della Francia - acquistata nel 2008 insieme all'ex - al magnate russo Yuri Shefler. Quest'ultimo, secondo Brad Pitt, avrebbe "intenzioni velenose" e un piano preciso per assumere il controllo completo dell'azienda.

"Jolie sapeva che Shefler e i suoi affiliati avrebbero cercato di controllare l'attività che Pitt aveva costruito e di minare l'investimento di Brad in Miraval", si legge nei documenti in possesso del Daily Mail. L'accusa mossa da Brad Pitt contro l'ex moglie si baserebbe sulle tempistiche della vendita dell'azienda vinicola francese. Angelina Jolie avrebbe ceduto le quote subito dopo la sentenza provvisoria, nella quale il giudice concedeva la custodia congiunta dei figli all'attore (sentenza poi revocata).

L'attrice sarebbe stata così furente per la decisione del tribunale da volersi vendicare, vendendo parte dell'azienda a cui Pitt ha dedicato tempo e denaro. Grazie alla sua passione, infatti, i vini rosati prodotti dalla cantina Chateau Miraval sono tra i più apprezzati nel mondo e la cessione delle quote avrebbe danneggiato economicamente Pitt. A complicare il quadro c'è la guerra. Con l'invasione della Russia in Ucraina moltissimi marchi russi sono stati oggetto di embargo in tutto il mondo e anche la società dell'imprenditore Yuri Shefler è stata boicottata. "L'associazione di Miraval con Shefler, che ha acquisito notorietà grazie a tattiche commerciali spietate e associazioni professionali dubbie, mette a repentaglio la reputazione del marchio Pitt così accuratamente costruito", affermano i legali dell'attore americano, che rilanciano: "Shefler mantiene anche relazioni personali e professionali con individui nella cerchia ristretta di Vladimir Putin".

Come se questo non bastasse, Pitt accusa l'ex moglie di avere fatto tutto alle sue spalle. Durante la battaglia legale sull'affidamento dei figli, Jolie e Pitt stavano raggiungendo un accordo per la cessione delle quote all'attore, che sarebbe diventato proprietario unico dell'azienda vitivinicola. Dopo la sentenza del giudice, l'attrice avrebbe fatto saltare l'accordo "tenendo di proposito all'oscuro Pitt sul nuovo compratore e violando consapevolmente i diritti contrattuali di Pitt", che aveva diritto di prelazione. Il divo di Hollywood ora accusa Angelina, Shefler e tre aziende coinvolte nella compravendita di violazione del contratto, violazione della buona fede e interferenza illecita nei rapporti contrattuali e è pronto a trascinare l'ex moglie davanti alla giuria.

Da adnkronos.com il 19 febbraio 2022.

Brad Pitt ha citato in giudizio la sua ex moglie Angelina Jolie per aver venduto la sua quota di partecipazione del vigneto francese Chateau Miraval che avevano comprato insieme nel 2008 per circa 25 milioni di euro e dove sei anni dopo si erano sposati. Secondo Pitt, la Jolie avrebbe deciso di cedere la sua parte di proprietà nel sud-est della Francia senza il proprio permesso, quando invece, secondo un loro precedente accordo, questo sarebbe stato necessario.

Chateau Miraval, che comprende una casa e un vigneto nel villaggio di Correns, "si era trasformato nella passione di Pitt", secondo quanto dichiarato dal suo avvocato, e, sotto la sua guida, è diventato una "storia di successo internazionale multimilionaria": l’attore infatti ha contribuito a garantire la redditività del vigneto, trasformandolo in "una delle aziende di produzione di vino rosato più apprezzate al mondo".

La quota dell’attrice, che non ha rilasciato dichiarazioni, sarebbe andata al produttore di alcolici russo Yuri Shefler, secondo il legale “a insaputa del suo assistito. Ha venduto la sua partecipazione con la consapevolezza e l'intenzione che Shefler e le sue affiliate avrebbero cercato di controllare l'attività a cui Pitt si era dedicato e di minare il suo investimento in Miraval”, con lo scopo di causare "danni gratuiti" all'attore che aveva "investito denaro e fatica nel settore del vino".

Per i Brangelina la vita non è più rosé. Litigano anche per la loro azienda vinicola. Andrea Cuomo il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La Jolie vende le sue azioni della provenzale Miraval, lui vuol farle causa.

La vie en rosé non dura mai in eterno. Prendete Angelina Jolie e Brad Pitt. Fino a qualche tempo fa sembravano la coppia perfetta: belli, famosi, ricchi, buoni. Una «ditta» talmente affiatata da meritare una ragione sociale: Brangelina. Poi la love story è finita e le due star non si può dire abbiano brindato al loro divorzio, «celebrato» nel 2020. Comunque, non con il vino della loro tenuta vitivinicola nel Sud della Francia, la Miraval Côtes de Provence. La tenuta di 500 ettari, di cui 50 a vigneto, che i due acquistarono nel 2008 e nella quale si sposarono nel 2014, lei peraltro con un romanticissimo abito firmato Atelier Versace in cui aveva fatto ricamare i ritratti di tutti i loro figli. E che negli ultimi anni è diventata rinomata anche per i vini che vi sono prodotti, in particolare il Miraval Rosé, prodotto con uve Cinsault, Rolle, Syrah e Grenache e considerato uno dei rosati più rinomati del mondo (il suo prezzo, sui siti di e-commerce del vino, si aggira sui 18 euro a bottiglia).

L'azienda è un successo, ma rischia di essere ora travolta dai dissidi tra i due ex innamorati. Brad, oltre all'abbandono, ha dovuto bere un altro amaro calice, la vendita delle sue quote azionarie della tenuta, pari al 40 per cento (il restante 60 è di Brad). Un'operazione che, stando all'attore, nessuno dei due avrebbe potuto fare senza il consenso del socio. Secondo Pitt, l'ex moglie avrebbe dovuto offrire a lui le azioni, prima di cederle a Tenute dal Mondo, la divisione wine» del potente Stoli Group. L'attore ha passato la pratica ai suoi avvocati. I legali di Brad chiedono che un tribunale civile si pronunci sulla querelle, e aggiungono, come aggravante, che Angelina avrebbe «smesso da molto tempo di contribuire alla Miraval».

La Miraval non è solo un magnifico scenario di cartapesta. I due sono veramente appassionati di vini e quando acquistarono il castello con vigneti, decisero di produrre un vino che fosse davvero buono. Per questo si avvalsero della collaborazione della famiglia di enologi Perrin e oggi il Miraval Rosé è molto quotato nelle principali guide: Wine Enthusiast ha dato 91 centesimi alle annate 2015, 2017 e 2020 (l'ultima uscita), mentre Robert Parker ha giudicato da 90 la 2018.

Va detto che gli ex Brangelina hanno nel frattempo avviato un'altra impresa commerciale nel settore vinicolo: la maison Fleur de Miraval, l'unica che produce esclusivamente Champagne rosé. Grazie anche a questo il fatturato è lievitato dal 3 milioni di dollari del 2013 ai 50 milioni del 2021.sato da tre milioni di dollari nel 2013 a oltre 50 milioni di dollari nel 2021. Andrea Cuomo

·        Brigitta Bulgari.

Domenico Basso per corriere.it il 3 marzo 2022.

Modella, pornoattrice e poi anche deejay. Nel suo articolato viaggio nella vita ha anche conosciuto il carcere che è di suo una esperienza terribile, ma lo è ancor di più se ci finisci per un errore, o meglio per colpe che non sono tue. 

E così Brigitta Bulgari, al secolo, Brigitta Kocsis, ungherese di 39 anni, nel 2010 era diventata anche un «Pericolo pubblico». Oggi vive in Veneto dove coltiva le sue nuove passioni e sogna di avere un’altra occasione.

Brigitta, partiamo dall’inizio. Come era arrivata in Italia?

«Avevo iniziato a studiare Legge in Ungheria e ad un certo punto ho deciso di provare a fare la modella. A Milano i primi provini e vari casting con una agenzia». 

E come andarono?

«Lavoravo, ma mi sentivo omologata. Tutte le modelle dovevano essere uguali, non c’era spazio per la personalità. Mi dicevano anche come tenere i capelli. Io invece volevo essere considerata per quello che ero e non essere manipolata». 

Quindi un’esperienza che durò poco.

«In quegli anni le modelle dovevano anche frequentare molti locali, star fuori la sera fino a tardi ed io, che tra l’altro non fumo e non bevo, mi sentivo proprio fuori posto». 

Dai set fotografici a quelli dei film porno. Come avvenne la metamorfosi?

«Ero a Riccione e stavo facendo delle foto e qui mi avvicinò un regista del settore, Andrea Nobili, che mi propose di fare dei film». 

E ha accettato subito?

«Ci ho pensato un po’, sono andata a vedere qualche set e poi ho accettato».

Il primo film come fu?

«Era il 2003, si intitolava “Fashion” ed era la storia di una modella». 

Com’è stata questa esperienza?

«Diciamo che tornassi indietro non lo farei più». 

Brigitta Bulgari nell’immaginario resta, però, per tutti l’ attrice porno.

«Questo purtroppo è un marchio che mi resta cucito addosso e che mi ha poi chiuso altre strade. In quegli anni vivevo un periodo difficile. Me ne ero andata dall’Ungheria dopo che mio padre si era risposato con una donna con la quale non andavo d’accordo. 

Mia madre se ne era andata quando avevo un anno. A Milano non riuscivo però a socializzare, stavo spesso sola, ero arrabbiata e soffrivo. Alla fine a fare quei film da un punto di vista lavorativo mi gratificava di più, nell’ambiente mi apprezzavano mentre dai casting per modelle uscivo sempre con le lacrime perché non andava mai bene nulla. Così ho smesso di combattere con un mondo che non mi apparteneva».

Ha fatto molti film hard?

«Non molti, ho girato scene che poi sono state utilizzate in vari film, ma non ho passato la mia vita a girare scene hard». 

Ha detto che tornasse indietro non farebbe più la pornostar. Quindi rinnega il suo passato?

«Affatto. Ho vissuto bene, ho viaggiato, ho conosciuto tanta gente. Però è indubbio che sarà un marchio che mi resterà appiccicato per sempre». 

Ha smesso di fare la pornostar ma ha poi proseguito con gli spettacoli nei lap dance e nei locali notturni. E una di queste esperienze le è costata cara.

«Sì, ero in un locale di Montebelluna e sono arrivate tre auto con sei carabinieri. Mi hanno fatto scendere dal palco, mi hanno portato in caserma, mi hanno arrestata e portata nel carcere di Belluno».

Era stata accusata di atti osceni e pornografia minorile. Cosa aveva fatto?

«Niente. Ma era stata presentata una denuncia perché mi sarei esibita in un locale a Fossato di Vico, in Umbria, davanti ad un pubblico composto anche da minorenni e da loro mi sarei fatta toccare nelle parti intime». 

In quell’occasione si guadagnò anche la copertina del settimanale Panorama che sopra ad una sua foto, titolò ironicamente «Pericolo pubblico». Come finì la storia?

«Un anno dopo fui prosciolta da quelle accuse». 

Lei però si fece anche 11 giorni di carcere.

«Sì e in quei giorni avevo pensato anche di togliermi la vita. Provavo rabbia, avevo paura, piangevo ma altre detenute mi hanno aiutato e ho resistito». 

Quindi è stata in carcere ingiustamente. È stata risarcita?

«Una cifra ridicola, 3500 euro. Per me il danno è stato enorme e lo è ancora. Quando si scrive il mio nome sui motori di ricerca esce ancora quella storia e questo non mi aiuta nel lavoro». 

Ma adesso cosa fa Brigitta?

«I due anni di Covid per me sono stati un modo per guardarmi dentro e riflettere. Ho anche rimodulato la mia vita tornando ad orari per così dire umani. Ho fatto dei corsi. Io amo i cani e la musica. 

Ho 4 “bulli” (Bulldog francesi) e ho fatto, in Veneto dove ora abito, un corso con un famoso esperto di tolettatura. Presto spero di aprire un negozio per la cura dei cani. L’altro corso che sto facendo mi sta insegnando a creare musica, una mia musica, e avendo una certa conoscenza di questo mondo penso che metterò a frutto la nuova esperienza».

Lei tra l’altro aveva iniziato l’attività di deejay. Continuerà a farlo?

«Sì avevo iniziato a suonare nei locali. Alla gente piaceva la mia musica. Insomma qualcosa di buono avevo fatto in quel settore ma in molte occasioni il passato di pornostar mi ha chiuso le porte dei locali. Poi è arrivata la pandemia e si è fermato tutto. Adesso spero di ripartire e alcune discoteche mi hanno già cercato». 

Le piacerebbe fare tivù?

«Qualche esperienza negli anni l’ho fatta come ospite a “Ciao Darwin” o a “Cronache Marxiane” o al “Chiambretti night”. Mi piacerebbe però provare l’esperienza del Grande Fratello o di un reality. Vorrei poter avere una occasione per dimostrare chi sono veramente, per mostrarmi come persona che pensa, che ha delle qualità e che ama».

Ecco, cos’è l’amore per Brigitta?

«Credo molto nell’amore ma per me incontrare la persona giusta è molto difficile. Nelle mie storie non sapevo mai se chi stava con me cercava me o cercava la Brigitta sexy star. Ogni rapporto, comunque, mi ha insegnato qualcosa. Adesso penso a me stessa e al futuro. Voglio trovare un lavoro, dedicarmi alla musica e ai miei cani. E se l’amore busserà alla porta andrò ad aprirgli, proverò ad ascoltare il mio cuore». 

Un figlio potrebbe essere l’amore che cerca?

«Prima di tutto devo trovare il mio equilibrio. Sono felice di aver ripreso a dialogare con mio padre che è stato la persona che mi ha fatto crescere e quindi conto di recuperare il tempo perduto. Sì, la famiglia mi è mancata. Poi chissà…».

E se oggi Brigitta incontrasse se stessa a 18 anni più o meno nel periodo in cui era arrivata in Italia per fare la modella cosa le direbbe?

«Di studiare. Di provare a fare l’avvocato. Oppure di dedicarsi alla psicologia per aiutare gli altri più che me stessa». 

Alla fine il Veneto è diventato la sua seconda patria.

«Ho molti amici qui e poi adoro il Lago di Garda, mi ricorda il Balaton della mia Ungheria ed ogni volta che ci vado è un po’ come tornare a casa».

·        Britney Spears.

DAGONEWS il 14 novembre 2022.

Ad un anno dalla fine dei 13 anni di tutela, Britney Spears si sfoga sui social contro il padre Jamie, al quale sta facendo causa per abuso di tutela. «È stato come se mio padre avesse tentato di uccidermi - scrive la 40enne vincitrice di un Grammy - Ne ho parlato diverse volte, ho le prove ed i testimoni di ciò che ha fatto».

Britney ha sottolineato come sia stata costretta a lavorare "sette giorni su sette" incassando 137,7 milioni di dollari a Las Vegas dal 2013 al 2017, al quale seguì un tour  di 31 date nel 2018. 

«Ho le prove di tutto questo. Ne ho parlato in diretta in tribunale durante il Covid (il 23 giugno 2021) – ha aggiunto - Mia madre ha riso e ha detto: "Sono così felice che questa volta il giudice non ti abbia tenuto in piedi per tre ore nella tua stanza e poi ti abbia cancellato come ha fatto l'ultima volta”». La cantante vuole "porre fine al sistema" in cui è stata costretta e spera che le persone coinvolte non "se ne escano come se non avessero fatto nulla".

«Credo davvero che chiunque si sia trovato in quella situazione non ce l'avrebbe mai fatta - ha dichiarato Britney - Se fossi stata apprezzata e rispettata, mio padre sarebbe stato rinchiuso in due secondi! La gente dice che dovrei sborsare un sacco di soldi per dimostrare che queste accuse sono vere! Non spenderò mai altri soldi e non andrò mai in tribunale per vedere se mio padre verrà condannato! Ho scelto di sorridere e di sbatterlo in faccia alla mia famiglia fino al giorno della mia morte».

La Spears ha rivelato che il 19 ottobre 2021 è stata la prima volta in cui ha ottenuto una carta bancomat personale per fare acquisti da sola in "quasi 15 anni", il che è stata “una conquista piuttosto grande per me".

«Spero che solo pochi possano capire come ci si sente nell'aspettare in fila con un uomo sempre davanti a te che ti fa da fantasma e acquista cose per conto tuo» ha continuato la cantante. «Ho tremato per 15 minuti quando ho fatto il primo acquisto in totale libertà. Come osa uno Stato o una nazione concedere a un uomo o a una donna il diritto di usare i miei beni a mio nome?».

DAGONEWS il 6 settembre 2022.

Britney Spears ha pubblicato un nuovo video su Instagram per rispondere al figlio Jayden che si è fatto intervistare per dire che non è stata una madre all'altezza. 

La cantante 40enne non ha usato mezzi termini e lo ha accusato: «Sei proprio come le altre persone della mia famiglia. Amavi segretamente guardarmi come se qualcosa non andasse in me. Sapete perché volete che io migliori? Volete che migliori così posso continuare a dare a vostro padre 40.000 dollari al mese?». 

La Spears ha poi raccontato di essere diventata atea a causa di ciò che ha sopportato durante la sua tutela, che si è conclusa l'anno scorso, e di come è stata trattata dai suoi figli e dalla sua famiglia, affermando che suo padre Jamie, 70 anni, "dovrebbe essere rinchiuso in prigione per il resto della sua vita”.

Fabiano Minacci per biccy.it il 6 settembre 2022.  

L’attacco di Jayden James a sua madre Britney Spears ha avuto una risposta.

La cantante ha usato Instagram per parlare col figlio che si rifiuterebbe di avere un contatto con lei da parecchi mesi. Ad oggi, infatti, entrambi i figli della popstar (Sean Preston e Jayden James) vivono con loro padre Kevin Federline. 

Britney risponde al figlio, il lungo post: “Caro Jayden, ho fatto del mio meglio per essere la persona migliore che potessi essere, nonostante abbia vissuto imprigionata in case di riposo con infermieri e str**ate varie. Spero che un giorno capirai le mie ragioni. […] Finalmente ora a quarant’anni e senza costrizioni della mia famiglia ti mando tutto l’amore del mondo, oggi come per il resto della mia vita. L’amore che provo per i miei figli non ha confini e mi rattrista aver letto che non sono stata all’altezza delle tue aspettative come madre, ma forse un giorno potremmo incontrarci e parlare di persona”. 

Ovviamente non sono mancate le frecciatine all’ex marito colpevole – implicitamente – di averle messo i figli contro.

“Ho aiutato tuo padre che non ha un lavoro da quindici anni [vive con l’assegno di mantenimento, ndr], immagino che per voi sia più facile non avere qualcuno che vi controlli se state facendo i compiti. Sono sicura che gli standard di vostro padre che fuma erba tutti i giorni giovi alla vostra vita quotidiana di quindici e sedici anni per far parte di una generazione molto cool. Capisco il vostro bisogno di vivere con vostro padre, perché per quindici anni io ho assunto il ruolo del nulla”.

E ancora: “Sono però felice di essere stata in grado di portare avanti quattro tour mondiali, di aver fatto il giudice a X Factor e molto altro ancora. Ho fatto tutto questo per te e per Sean Preston. […] È orribile vedere tuo padre essere un ipocrita e dire che i media sono orribili, eppure ti fa parlare su questioni personali con loro!”. […] Prima di parlare della mia salute mentale prendi un libro e leggilo e dì a tuo padre di cercare di tagliare almeno l’erba del prato”. 

La cantante ha poi concluso: “Ricordate da dove venite, spero che un giorno possiate guardarvi allo specchio e ricordare che siete i miei bambini e lo sarete per sempre. Dal momento che Preston non ha parlato gli mando tutto il mio amore, vorrei solo vedervi faccia a faccia. Siete brillanti, tu Jayden continua a suonare perché hai un dono al pianoforte. Sono orgogliosa di potervi chiamare ‘miei figli’.

Britney Spears ha così tanto da dire.. Dovrebbe rilasciare una lunga intervista da Oprah, pubblicare un libro e realizzare un documentario su ciò che le è successo. E Kevin dovrebbe solo vergognarsi.

Annalisa Misceo per vanityfair.it il 29 agosto 2022.

All’indomani dell’uscita del suo primo singolo  da quando è tornata libera - Hold me closer, con Elton John - Britney Spears decide di dire la sua. E lo fa con un messaggio audio su YouTube, ora rimosso, nel quale racconta la sua verità sugli anni nei quali è stata sotto la tutela di suo padre. 

«Stamattina mi sono svegliata e mi sono resa conto che ci sono tantissime cose nella mia testa che non ho mai condiviso con nessuno», ha detto in apertura dei suoi 22 minuti di audio, aggiungendo di aver avuto molte occasioni per parlare - «anche con Oprah Winfrey» - ma che ha sempre rinunciato a rilasciare interviste. «Mi hanno offerto molti soldi, ma a me non sarebbe bastata una intervista classica», ha spiegato: «Avevo troppa paura del giudizio degli altri per riuscire a parlare a cuore aperto, ma ora è cruciale per me condividere i miei pensieri, soprattutto per aiutare gli altri che hanno vissuto il mio stesso dramma». 

Ha quindi ripercorso la timeline dei 13 anni sotto la tutela di suo padre Jamie Spears, che accusa anche di «predeterminazione». «Erano anni in cui», racconta, «non ero in grado di dire né fare nulla: niente aveva senso per me. Qualcuno ha messo in testa mio padre quell’idea, e lui e mia madre l’hanno accolta e messa in pratica. La sera in cui tutto è cominciato c’erano almeno 200 paparazzi a fotografarmi mentre mi portavano via in ambulanza. Ero sconvolta, ma in corpo non avevo né alcool né droghe. Fu un abuso vero e proprio» 

Nel messaggio, Britney ribadisce tutto quello che aveva già detto ai giudici: dall’impedimento a guidare all’impossibilità di avere i soldi  anche «per acquistare una candela», dall’obbligo ad andare in tour al telefono sotto controllo. Ma soprattutto la progressiva distruzione dell’autostima: «Mi dicevano tutti i giorno che ero grassa. Mi facevano sentire una nullità e io  ci credevo. Mi dicevano che le mie performance erano orribili e io non potevo fare nulla perché ero diventata un robot, non mi importava più di nulla. Mi mandavano alle riunioni degli alcolisti anonimi pur sapendo che non ero alcolizzata. Mi hanno costretta ad affrontare ore di psicoterapia, sotto la loro guida. Avevo 30 anni e dovevo sottostare alle regole di mio padre. E mia madre, mio fratello, i miei amici: tutti vedevano, tutti sapevano e nessuno faceva niente».

Ed è proprio sua madre quella con cui Britney è più arrabbiata, perché Lynn avrebbe potuto e dovuto aiutarla e invece di contattare un avvocato ha solo nascosto ai media quello che accadeva: «Invece di aiutarmi, lei e mia sorella mi hanno fatto sentire come se fossi io quella cattiva», ha detto nell’audio: «È questa, credo, la cosa che mi ha ferito di più. Mi hanno buttata via, è così che mi sento: come se la mia famiglia mi avesse buttata via». 

«Ma come hanno potuto farlo?» aggiunge poi quasi in lacrime. «Non mi meritavo tutto questo: ero solo debole, fragile, spezzata. Ero umana e sto dicendo tutto questo solo per far sapere a tutti che sono questo: umana. E se non lo racconto, non potrò mai guarire».

La fine del messaggio, però, invita alla speranza. «Ora ho fatto una meravigliosa canzone con uno degli uomini più geniali e sono estremamente grata di questo. Ma se anche voi vi sentite strani, esclusi, soli e abbandonati, non fatelo: abbiate fiducia. La mia vita è stata molto lontana dall’essere facile, non siete soli».

Da vanityfair.it l'11 giugno 2022.

Lo scorso 9 maggio, postando su Instagram un’immagine del velo nuziale, Britney Spears annunciò che «il grande giorno» era stato fissato.. Nessuna indicazione, però, riguardo alla data delle nozze: «Si saprà solo il giorno successivo». E così è stato. O quasi. Alcuni fotografi, infatti, sono riusciti a raggiungere la villa californiana dell’artista, a Thousand Oaks, poche ore prima dell’inizio della ristrettissima cerimonia.

Impossibile immortalare ciò che avveniva all’interno, ovviamente, però sono emersi subito gli scatti che documentano l’arrivo degli ospiti. Tra le celeb, spiccano l’ereditiera Paris Hilton, con la madre Kathy e il marito Carter Reum, la popstar Madonna, l’attrice Drew Barrymore, la conduttrice Maria Menounos e la stilista Donatella Versace, che - stando al racconto di Britney - dovrebbe aver firmato l’abito da sposa. 

I report parlano di circa 60 invitati, tra cui anche l’avvocato Mathew Rosengart e i ballerini del suo residency show a Las Vegas, Piece of me. Della famiglia Spears, pare ci fosse solo il fratello Bryan, mentre nessuna traccia dei genitori e della sorella, con i quali di recente ha avuto qualche battibecco. Non c’erano neppure i due figli, Sean Preston (16) e Jayden James (15), avuti con il precedente marito, Kevin Federline.

«Kevin e i ragazzi sono felici per Britney e le augurano il meglio per il futuro», ha fatto sapere l’avvocato di Federline attraverso TMZ. Lato famiglia dello sposo, il personal trainer Sam Asghari, non è dato sapere chi fosse presente, di sicuro però ha provato ad intrufolarsi Jason Alexander, il primo marito della popstar (un matrimonio durato soltanto 55 ore), fermato prontamente dalla security e allontanato dall’evento.

Chi c’era e chi non c’era, quindi. E chi ci sarebbe voluto essere.

Britney Spears, l’ex marito Jason Alexander fa irruzione alle nozze con Sam Asghari. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 9 giugno 2022.

Doveva essere il giorno del coronamento di un sogno, dopo quattro anni di amore. Ma per Britney Spears non c’è pace. Giovedì 9 giugno, giorno del matrimonio della cantante con Sam Asghari, incontrato nel 2016 sul set del video musicale di «Slumber Party», il primo marito della pop star, Jason Alexander, ha tentato di rovinarle la festa facendo irruzione nell’abitazione di Britney nella contea di Ventura, Los Angeles, California. La notizia è stata riportata dal sito Usa «Tmz».

La polizia è stata inviata alla residenza della cantante per indagare su una denuncia di violazione di domicilio. Alexander ha tentato di infiltrarsi nella cerimonia, ma è stato fermato dagli uomini della security, a cui aveva assicurato di essere nella lista degli invitati. Trattenuto all’esterno della residenza, è stato poi ammanettato e arrestato dalla polizia. Britney aveva sposato Alexander, un suo amico d’infanzia, nel 2004. Nozze lampo celebrate a Las Vegas e durate solo 55 ore prima di essere annullate.

La Spears e Asghari, modello e personal trainer , si sono fidanzati ufficialmente nel settembre scorso, poco prima che un tribunale di Los Angeles «liberasse» la cantante di . Una decisione arrivata dopo una lunga battaglia legale per annullare la «conservatorship», una tutela che scatta per le persone con problemi mentali, esercitata per tredici anni dal padre Jamie Spears che, insieme a un curatore, ha gestito tutte le attività della pop star, compresi i suoi beni, stimati in circa sessanta milioni di dollari.

Quello con Asghari è per la cantante il terzo matrimonio. Il suo secondo è stato con il ballerino Kevin Federline, da cui ha divorziato ufficialmente nel 2007 e con il quale ha ingaggiato una faida legale per la custodia dei due figli, Sean e Jayden, di 16 e 15 anni, che vivono con il padre per il 70 per cento del loro tempo, mentre a Britney resta il rimanente 30 per cento. In aprile la reginetta del pop aveva annunciato di essere , ma la gravidanza si è interrotta spontaneamente a maggio. «Il nostro amore reciproco è la nostra forza — ha scritto la pop star su Instagram —. Continueremo a cercare di allargare la nostra bellissima famiglia. Siamo grati per tutto il supporto. Chiediamo il rispetto della nostra privacy in questo difficile momento».

Dagotraduzione da Daily Mail il 10 Giugno 2022.

Finalmente libera dalla custodia legale paterna che tra le clausole le impediva di sposarsi e avere figli, giovedì pomeriggio la popstar Britney Spears si è tolta la soddisfazione di convolare a nozze col personal trainer Sam Asghari nel suo villone in California. 

La cerimonia è stata trasmessa in live streaming per la gioia dei fan di tutto il pianeta. Ci ha pensato Jason Alexander, il primo marito di Britney, a rubarle tutta la scena. 

Jason è un ex amico d’infanzia che Britney sposò nel 2004. Il matrimonio all’epoca durò appena 55 ore.  Il tempo necessario a Britney per riprendersi da chissà quale cocktail psichedelico e rendersi conto della cazzata commessa nelle ore precedenti. Dunque cerimonia annullata. Ma lui deve aver covato rancore… fino a ieri. 

Alexander in queste ore si trova sotto la custodia del dipartimento dello sceriffo di Ventura, dopo essere stato accusato di violazione di domicilio, vandalismo e di un paio di alterchi con le guardie di sicurezza di Britney.

Ma che ha fatto il primo marito di Britney?

Venuto a conoscenza delle nozze imminenti della ex moglie, ha scapocciato, e si è ripreso in diretta Instagram mentre correva per i sentieri collinari e si avvicinava al retro della casa della Spears. 

Il 40enne ha scavalcato la recinzione della villa di Britney, è sceso da una collinetta rocciosa ed è apparso nel luogo dove stava per svolgersi il matrimonio. 

Al grido: "Sono Jason Alexander. Il primo marito! Sono qui per rovinare il matrimonio!" 

Alexander ha affermato che Britney lo aveva "invitato" all'evento e che era la sua "prima e unica moglie".

Ad un certo punto, è riuscito ad entrare nella tenda nuziale addobbata di rose rosa, prima di essere immobilizzato dalla sicurezza armata,  che l’ha schiacciato a terra neanche fosse uno scarafaggio sul bouquet di Britney, e scortato fuori dai locali. 

Ad attenderlo, c’era lo sceriffo della contea di Ventura prontamente accorso sul posto.

Le foto aeree mostrano almeno sei auto di pattuglia accorse per le buffonate di Alexander che però hanno fatto il buco nelle misure di sicurezza intorno alla star. 

A quanto pare, Alexander, ultimamente ha fatto una cazzata dietro l’altra.

Fonti della polizia hanno rivelato che ha su di lui pende anche un’accusa di furto in un'altra contea. 

Nel gennaio 2021 è stato arrestato per guida in stato di ebbrezza e nell’agosto scorso, per violazione dei protocolli di sicurezza in un aeroporto. 

A dicembre dell’anno scorso, è stato anche arrestato per stalking nei confronti di una donna non identificata.

Giovedì sera, l'avvocato della Spears ha detto di essere "assolutamente nero" dopo che Alexander si è catapultato nel luogo del matrimonio della pop star. E ha chiesto di rinchiuderlo. 

L’avvocato di Britney è Mathew Rosengart, un ex procuratore federale, che ha detto che sta “collaborando con il dipartimento dello sceriffo per garantire che il signor Alexander sia perseguito con le misure massime consentite dalla legge.' 

 “Jason Alexander è stato ammanettato, preso in custodia e arrestato. Esprimo i miei ringraziamenti al dipartimento dello sceriffo della contea di Ventura per la pronta risposta e il buon lavoro”.

Da tgcom24.mediaset.it il 15 maggio 2022.

Tragedia per Britney Spears e il compagno Sam Asghari: la coppia ha, infatti, perso il bambino che aspettava. A dare il doloroso annuncio è stata proprio la cantante. "Con profonda tristezza annunciamo che abbiamo perso prematuramente nostro figlio - ha scritto su Instagram -. E' un momento devastante per ogni genitore, forse avremmo dovuto aspettare il momento in cui saremmo stati più sicuri, ma eravamo così felici di annunciare la bella notizia". 

Ad aprile i due, che presto convoleranno a  nozze, avevano svelato di aspettare un bambino e di essere estremamente felici. Anche ora, però, la coppia non si perde d'animo. "Il nostro amore reciproco è la nostra forza - ha detto ancora la Spears - Continueremo a provare ad allargare la nostra splendida famiglia". Fiducioso anche Asghari che ha commentato: "Presto avremo un miracolo". 

Tra i migliaia di commenti al post sui social è apparso anche quello di Paris Hilton che ha scritto: "Mi dispiace così tanto per la tua perdita. Sono sempre qui per te, ti mando tanto amore. Ti voglio bene".

Britney Spears, l'annuncio sui social: "Ho perso il mio bambino". La cantante aveva condiviso poco tempo fa la notizia della sua gravidanza. La Repubblica il 14 maggio 2022.

Britney Spears ha perso il suo bambino. È stata la stessa popstar a dare la notizia tramite social, dopo che per settimane aveva dato aggiornamenti sulla sua gravidanza. "È con la nostra più profonda tristezza che dobbiamo annunciare che abbiamo perso il nostro bambino meraviglioso all'inizio della gravidanza - ha postato la cantante - Questo è un momento devastante per qualsiasi genitore. L'amore che abbiamo l'un l'altra adesso è la nostra forza. Continueremo a cercare di ampliare la nostra bella famiglia. Siamo grati per tutto il vostro sostegno. - ha concluso la Spears - Chiediamo gentilmente la privacy in questo momento difficile. Grazie per tutto il vostro supporto". Poco più di un mese Britney aveva annunciato la gravidanza insieme al suo compagno Sam Ashgari. 

Continua quindi il momento difficile della cantante, reduce da un lungo e doloroso processo per svincolarsi dalla custodia legale di suo padre. Sempre sui social la cantante aveva  condiviso anche le difficoltà affrontate per le due precedenti gravidanze: i suoi due i due figli, Sean Preston e Jayden James, avuti dall’ex marito Kevin Federline, hanno oggi 16 e 15 anni.

Da rollingstone.it il 14 gennaio 2022.

Due giorni fa Jamie Lynn Spears, sorella minore di Britney, è apparsa in tv, a Good Morning America, per promuovere Things I Should Have Said. Nel libro la donna descrive il comportamento sempre più strano e bizzarro della popstar prima della conservatorship. In tv ha detto, asciugando le lacrime, che ha sempre voluto bene alla sorella e ha cercato di proteggerla. 

La reazione di Britney Spears è arrivata ieri sera attraverso un lungo scritto allegato a un tweet in cui racconta di aver visto la trasmissione con 40 °C di febbre (e la guardia del corpo che non voleva andare a prenderle le medicine).

«Fortunatamente» scrive la popstar «avevo la febbre alta e perciò non me ne è fregato un cazzo. Ma ci sono cose che mi hanno dato fastidio. La prima è quando mia sorella dice che ero fuori controllo. Ma a quell’epoca, all’incirca 15 anni fa, lei non c’era. E allora perché parla, se non perché deve vendere un libro a mie spese?». 

«I miei famigliari» scrive ancora Britney «hanno rovinato al mille per cento i miei sogni e ora cercano di farmi sembrare pazza. Alla mia famiglia piace farmi del male. Mi disgustano».

Jamie Lynn Spears ha replicato su Instagram: «L’ultima cosa che vorrei fare è scrivere queste parole, ma eccoci qua… È difficile leggere quei post, so che è così per tutti. Le auguro il meglio. Brit, sono sempre qui per te e sai che lontana dai riflettori ci sono sempre stata. È sfibrante quando le cose che scrivi sui social non corrispondono con quel che mi scrivi in privato. So quel che stai passando e non voglio sminuirlo, ma non voglio neanche sminuire me stessa». 

«Francamente», continua Jamie Lynn, «le cose che sono state dette non sono vere e le devo chiarire perché è sempre più difficile spiegare razionalmente a mia sorella maggiore perché la mia famiglia continua a ricevere minacce di morte a causa dei post vaghi e accusatori della zia, tanto più che potrebbe dire la verità e porre fine a tutto ciò».

Jamie Lynn Spears continua dicendo che ha dovuto esporsi per proteggere la sua famiglia e che «odio far scoppiare la bolla di mia sorella, ma il mio libro non è su di lei» e che «lavoro da quand’ero adolescente per farmi una carriera nonostante sia considerata solo la sorella minore di qualcun altro». 

Conclusione: «Dico la verità per mettermi alle spalle i drammi, chiudere un capitolo e andare avanti. Spero anche mia sorella voglia fare lo stesso. Qualunque cosa accada, le vorrò sempre bene e per lei ci sarò. È ora di porre fine al caos malsano che per troppo tempo ha dominato la mia vita». 

·        Bruce Springsteen.

Bruce Springsteen, arriva «Only the Strong Survive»: «Canto i classici del soul anni 60-70». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera l’11 Novembre 2022.

Il Boss torna con il 21esimo lavoro: «Volevo fare un album in cui cantare e bata».

Only the Strong Survive, ovvero «solo i forti sopravvivono». Così Bruce Springsteen ha deciso di chiamare il suo nuovo album, ventunesimo in carriera e secondo in cui The Boss mette la sua voce al servizio di canzoni scritte da altri. Nel 2006 We Shall Overcome: The Seeger Sessions raccoglieva canzoni della tradizione folk rese immortali da Pete Seeger. Qui ci sono i classici del soul anni 60-70 delle due etichette leggendarie, Motown e Stax.

Il titolo è un manifesto. Interpretazione didascalica: è lo stesso titolo della canzone che apre la scaletta, una hit di Jerry Butler del 1968 su un uomo che ricorda le pene d’amore di quando era giovanissimo: la ragazza non se lo filava e mamma provava a consolarlo. «Solo i forti sopravvivono», gli diceva. Interpretazione musicale: solo le canzoni solide, quelle che hanno costruito la storia della musica, possono superare i decenni e resistere all’usura del tempo. Quelle che sono qui dentro, secondo il Boss, ce l’hanno fatta. Interpretazione selfie: il sopravvissuto, quindi quello forte, è il Boss stesso che a 73 anni non si ferma e torna in pista con un disco e un tour mondiale che lo porterà il 18 maggio a Ferrara, il 21 a Roma e il 25 luglio a Monza.

«Volevo fare un album in cui cantare e basta — ha detto Springsteen —. E quale musica migliore, per fare tutto questo, se non il repertorio americano degli anni sessanta e settanta? Ho provato a rendere giustizia a tutti gli spettacolari autori di questa musica gloriosa. Il mio obiettivo è permettere al pubblico moderno di fare esperienza della bellezza e gioia di queste canzoni, così come ho fatto io fin dalla prima volta che le ho sentite».Quelle prime volte se le ricorda ancora. «Mia madre aveva una radio in cucina e io ascoltavo la musica mentre mi preparavo per andare a scuola la mattina. La radio trasmetteva i successi da Top Ten», ha detto in un’intervista a Massimo Cotto tramessa ieri da Virgin Radio. «Poi ho iniziato a suonare. Avevo una piccola band. Gli ingaggi li trovavi così, ti chiamava qualcuno e ti chiedeva: “Avete in repertorio Soul Man e Mustang Sally?”. Per ottenere un lavoro, eri costretto a impararle. Le ho studiate intensamente e le ho cantate mille volte da teenager».

Il disco sembra puro divertimento per Bruce e se anche ci si volesse leggere un omaggio alla cultura black da parte dell’eroe dell’America bianca degli sconfitti, non ci sono quell’intensità e quella profondità di impegno sociale e politico che il Boss mette nei suoi testi o, per restare in ambito di cover, delle Seeger Sessions. Sono più storie minime e allo stesso tempo universali, di sicuro con protagonisti che restano vicini a quelli dell’universo springsteeniano degli ultimi. Ci sono i Four Tops (When She Was My Girl e 7 Rooms of Gloom), i Temptations (I Wish It Would Rain), Ben E. King (Don’t Play That Song!), Diana Ross & the Supremes con (Someday We’ll Be Together) e anche brani meno noti. Alla fine, ha detto Bruce a Virgin, «il mio approccio è identico a quando avevo 16 anni. Raduno tutto quello che ho, lo assorbo, lo faccio diventare parte di quello che sono e di quello che faccio e poi… quando ti vedo… bum! Lo faccio esplodere come dinamite. Sperando che possa caricarti e caricare la tua vita, cambiare il tuo modo di vivere, pensare, vedere il mondo, innamorarti».

Il disco è stato registrato al Thrill Hill Recording, la tana di Bruce di fronte a casa, assieme al produttore Ron Aniello che ha suonato quasi tutti gli strumenti e con i fiati della E Street Horns. Un disco figlio della pandemia, ha spiegato Bruce: «Durante il lockdown sono rimasto in casa, volevo continuare a registrare e fare musica, così ho cominciato a pensare a un disco di canzoni non scritte da me». Unico contributo esterno al ristretto team di lavoro è la voce di una leggenda come Sam Moore su I Forgot to Be Your Lover. I suoni rispettano il mood e le atmosfere degli originali, la voce del Boss riesce sempre — per semplicità di paragone basti Nightshift dei Commodores — a rendere la sua visione unica.

Tradizione, cori e zero rock. È diventato il Boss del soul. Nel disco "Only the strong survive" reinterpreta successi anni '60 e '70: "Ho voglia di cantare e basta". Paolo Giordano l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

Intanto bisognerebbe capire con quale criterio ha scelto le canzoni. Bruce Springsteen pubblica oggi Only the strong survive, che è il suo ventunesimo album e fin qui niente di che. Ma è anche il primo interamente dedicato interamente a classici e meno classici del soul, cioè a un pezzo della sua storia, cioè a un pezzo degli States che lui ha già raccontato in ogni modo girandone la provincia, le metropoli e le coste grazie al suo rock con il gomito fuori dal finestrino. Chissà se li ha scelti perché sono quelli che ascoltava la mamma alla radio quando lui era bambino e si vestiva per andare a scuola. Oppure se erano quelli che era praticamente obbligato a suonare quando con i The Rougues o i più inglesofili The Castiles veniva chiamato alle feste studentesche che pretendevano «tons of Mustang Sally e Soul man».

Come lui ha raccontato ieri a Massimo Cotto su Virgin Radio, «ho studiato questi dischi in tutti i modi quando ero un teenager e li ho suonati spesso». Forse per questo Only the strong survive non suona esattamente come un disco di cover, ma suona più che altro come un nuovo disco di Bruce Springsteen e di The E Street Horns perché il suo rock è sempre stato vicino ai cromosomi del soul anche quando camminava a bordo di due chitarre e una batteria da far tremare i polsi.

Perciò brani come Only the strong survive, cantata a fine '60 pure da Elvis, o The song ain't gonna shine anymore, lanciata per la prima volta da Frankie Valli nel 1965, non suonano così imprevisti in disco del cantastorie più tradizionalmente rock dell'America, quello cresciuto a pane, rock'n'roll e soul, che è poi la declinazione di jazz e gospel con un linguaggio pop.

Negli anni Sessanta, quando Springsteen suonava alle feste di classe, il soul era la Motown, era la Stax, erano Aretha Frankin e Ray Charles e i Temptations santi subito. Ieri sera a Virgin ha spiegato che sì, pensa ancora che la canzone sia «tre minuti che possono cambiarti la vita». Ma negli anni Sessanta di sicuro negli States potevano davvero cambiarti la vita negli anni Sessanta, specialmente quando si andava a ballare e i bianchi erano divisi dai neri e sui pullman i posti per gli erano qui e per gli altri là. Il soul era un collante sociale prima ancora che i Beatles arrivassero all'Ed Sullivan Show nel 1964 o quando folate di Rolling Stones e Aerosmith attraversavano gli stadi negli anni Settanta profumando (anche) del soul più sporco e sanguigno che però era meticcio e mescolava le sensibilità ben prima del rap. Insomma, nel canzoniere di Springsteen entra un repertorio che è ancora più suo di quello di Pete Seeger celebrato in We shall overcome: the Seeger Sessions del 2006. Qui, nei quindici brani di Only the strong survive, c'è il Bruce Springsteen bambino con i calzoncini corti nella cucina di mamma, quello imbrillantinato sul palco al ballo dei Vigili del Fuoco, quello che è arrivato nella propria Promiseland del rock portandosi dietro tutti i cori, i ritonelli e i vocalizzi che la Motown di Berry Gordy ha trasformato in «national anthem», in inno nazionale per due generazioni. Da Marvin Gaye ai Commodores. Da Diana Ross a Smokey Robinson a The Isley Brothers.

Il Boss «born the Usa» racconta con questi brani i suoi Soul days, i giorni del soul, e lo fa dividendo quel brano con Sam Moore che con David Prater formò negli anni Sessanta il duo soul più famoso di sempre: Sam & Dave (Sam Moore torna anche in I forgot to be you lover). Insomma per dirla tutta, questo disco serve più a Springsteen che al soul. Lui fa i conti con un pezzo del proprio passato, ed è sostanzialmente un glorioso ultrasettantenne che torna a sentirsi per un'oretta come quand'era un pivellino. Invece il soul poteva farne a meno ma di certo non si offende: meglio essere omaggiato da Springsteen armato di nostalgia che saccheggiato da qualche rapper armato solo di una carta platino.

Luca De Gennaro per “la Stampa” il 30 settembre 2022.

Cosa deve ancora dimostrare un artista che in 50 anni di carriera, e a 73 anni di età, ha fatto tutto quello che poteva fare e avuto tutto quello che poteva avere dalla musica? Uno che è stato definito «Il futuro del rock' n'roll» e poi «Il Boss», che ha alzato come nessun altro l'asticella dello spettacolo dal vivo diventando un irraggiungibile punto di riferimento per chiunque sul significato di concerto rock? Niente. 

 Bruce Springsteen avrebbe potuto già da molti anni vivere di rendita, smettere di fare dischi, affrontare una vecchiaia dorata e tranquilla. Ma lui è sempre quello della «working class», piantarla di lavorare non è un'opzione, anzi, il ragazzo se ne inventa ogni volta una nuova, spiazza, sperimenta, e alla fine, diciamolo, fa quello che gli pare. E gli riesce benissimo.

Negli ultimi anni ha pubblicato un album di country pop orchestrale (Western Stars), uno più classicamente rock (Letter To You), ha messo in piedi uno spettacolo musical-confessionale in teatro con 236 repliche (Springsteen On Broadway), ha scritto un libro autobiografico best seller (Born To Run) e si è pure avventurato in una serie di podcast insieme al suo amico Barack Obama (Renegades: Born In The U.S.A.). Diciamo che a Bruce non piace stare davanti al camino o fare il nonno che porta a passeggio nel parco la nipotina Lily nata lo scorso Luglio.

Dunque, per proseguire la serie del «Faccio quello che mi pare e mi riesce sempre bene», ha trascorso un pezzo del lockdown a riscoprire le sue canzoni soul preferite, si è chiuso in studio con il produttore Ron Aniello e l'ingegnere del suono Rob Lebret e insieme hanno partorito un album di cover. 

Il primo assaggio è uscito ieri alle 16 ora italiana sulle piattaforme di streaming, introdotto da un video in cui Bruce racconta: «Ho passato la mia vita mettendo la mia voce al servizio delle canzoni. Questa volta ho deciso invece di fare musica centrata sul canto, e ho scoperto che la mia voce è ancora "badass"! Ho 73 anni e sono un "good old man"! La musica che mi ha guidato in questa epifania è il Soul, che insieme al Gospel è la migliore musica vocale mai scritta e registrata. Quindi sono andato a rivisitare Smokey Robinson, William Bell, David Ruffin, Aretha Franklin, I Commodores, Le Supremes con Diana Ross, alcune delle più belle canzoni del "pop songbook" americano. In questo progetto ho riscoperto il potere della mia voce».

Non è la prima volta che Springsteen, uno dei più celebrati cantautori rock, si cimenta con un album di canzoni non sue. Lo fece nel 2006 con We Shall Overcome: The Seeger Sessions, in cui rendeva omaggio alla storia del folk americano. E non è la prima volta che un big del rock dedica un album a rivisitazioni di stardard della soul music: lo fecero ad esempio Phil Collins nel 2010 con Going Back e Rod Stewart nel 2009 con Soulbook. 

L'album di Springsteen esce l'11 novembre, contiene un duetto con Sam Moore (dello storico duo Sam & Dave) ed è anticipato da un primo estratto: un classico minore della Motown, Do I Love You (Indeed I do), incisa nel 1965 da Frank Wilson (il 45 giri originale è una rarità per collezionisti), arrangiata in modo classico e filologicamente coerente, con sezione fiati e cori gospel. I maligni dei social hanno subito ravvisato una somiglianza con I'm your man degli Wham!, ma mettiamo le cose in chiaro, era la band di George Michael a scimmiottare il sound Motown.

Il titolo dell'album, dalla omonima canzone di Jerry Butler qui reinterpretata, è Only The Strong Survive, Covers Vol.1, il che fa pensare ad un Volume 2, che si dice possa uscire nella primavera 2023. E qui si accavallerebbero un po' le attività, perché in febbraio Springsteen riparte in tour con la sua storica formazione, la E Street Band, che in questo album non suona, mentre sul palco dovrebbe presentarsi in versione rock «essenziale», dunque senza sezione fiati e cori. Come inserire nella scaletta dei concerti le canzoni di questo album, e del prossimo?

 Forse è uno scrupolo che si stanno facendo solo i fan springsteeniani più meticolosi, perché Bruce Springsteen ha sempre infilato cover di ogni genere nei suoi concerti, spesso richieste dal pubblico e improvvisate sul momento alla perfezione. E che la soul music sia una delle radici più profonde della sua musica è sempre stato evidente a chiunque frequenti i suoi show.

Quando David Letterman gli chiese «Come fate a cambiare la scaletta dei concerti ogni sera e a conoscere così tante canzoni?», Bruce rispose: «Io considero la E Street Band la migliore Bar Band del mondo. E le band che suonano nei bar devono saper suonare tutte le canzoni». Quindi non abbiamo di che preoccuparci, lo aspettiamo in maggio a Ferrara e Roma, e poi in luglio a Monza per i suoi concerti italiani, e su una cosa possiamo stare tranquilli: Bruce Springsteen fa quello che gli pare, e lo fa benissimo.

·        Bruce Willis.

Da liberoquotidiano.it il 13 dicembre 2022.

"La famiglia prega per un miracolo di Natale": le condizioni di Bruce Willis starebbero peggiorando progressivamente. L'attore, 67 anni, è affetto da afasia, un disturbo invalidante che lo ha costretto a ritirarsi dalle scene. Adesso starebbe trascorrendo le festività natalizie circondato dall'affetto della sua famiglia. "Sanno che Bruce non ci sarà per sempre, così stanno godendo di ogni singolo momento insieme", ha rivelato una fonte a RadarOnline.com.

L'attore starebbe trascorrendo quanto più tempo possibile insieme alla moglie Emma Heming e alle loro due figlie Mabel di 10 anni ed Evelyn di 8. Molto presente nella vita di Bruce Willis, come riporta il Messaggero, anche l'ex Demi Moore, con cui è rimasto in buoni rapporti, e le tre figlie nate dal loro matrimonio, Rumer di 34 anni, Scout di 31 e Tallulah di 28. A dare affetto a Willis è una vera e propria famiglia allargata.  

Il disturbo che ha colpito l'attore gli avrebbe tolto quasi del tutto la capacità di parlare. Bruce, inoltre, "sembra non capire molto di quello che gli dicono gli altri - ha raccontato la fonte -. In questo momento Emma è la sua voce e la sua comunicatrice. Ci sono giorni in cui si vedono scorci del vecchio Bruce, ma sono brevi e sempre meno frequenti. Sembra che stia scivolando sempre più lontano da loro, e questo gli spezza il cuore". La fonte ha spiegato che "è doloroso vederlo deteriorarsi. Alle ragazze più grandi manca il vecchio Bruce, quello che le prendeva in giro sui loro fidanzati e dava loro consigli non richiesti".

Bruce Willis non ce la fa più: non parla non sente, non riconosce. Paura in famiglia. Nicola Santini su L’Identità il 15 Dicembre 2022

Le condizioni di salute di Bruce Willis si aggravano di giorno in giorno. E non si sa con quanta rapidità degenereranno ulteriormente. Secondo i media americani l’afasia di Bruce Willis è rapidamente peggiorata, tanto che adesso, da quanto emerge dal tabloid digitale RadarOnline.com, non sarebbe addirittura più in grado di parlare e comprendere quello che dicono gli altri. Sappiamo che durante le festività natalizie sarà circondato da tutta la sua famiglia, inclusa la ex moglie Demi Moore, con la quale è rimasto in ottimi rapporti e che si è dimostrata molto vicina all’attore con l’aggravarsi delle sue condizioni. La persona che viene citata dal sito dice che i suoi famigliari “sanno che Bruce non ci sarà per sempre, così stanno godendo ogni singolo momento insieme”. Emma Heming, lanuova signora Willis a settembre aveva spiegato a mezzo social cosa si sente convivendocon una situazione simile: “Questa è stata l’estate della scoperta di me stessa: trovare nuovi hobby, uscire dalla mia zona di comfort e rimanere attiva. Il mio dolore può essere paralizzante, ma sto imparando a conviverci. Come mi ha detto la mia figliastra Scout Willis, il dolore è la forma più profonda e pura di amore. Spero che anche voi troviate un po’ di conforto in questo…”.

L’afasia è una malattia che comporta la perdita della capacità di parlare e capire cosa viene detto dagli altri ed è dovuta a delle lesioni delle aree del cervello deputate all’elaborazione del linguaggio. Le cause possono essere molto varie. Le condizioni di salute di Bruce Willis e la brusca frenata alla sua carriera di attore sono stati resi noti dalla sua famiglia: “Agli straordinari fan di Bruce, come famiglia, volevamo farvi sapere che il nostro amato Bruce ha avuto problemi di salute e gli è stata recentemente diagnosticata l’afasia, che sta influenzando le sue capacità cognitive. Di conseguenza, e con molta considerazione, Bruce si sta allontanando dalla carriera che ha significato così tanto per lui. Questo è un momento davvero difficile per la nostra famiglia e apprezziamo così tanto il tuo continuo amore, compassione e supporto. Stiamo attraversando questo momento come una forte unità familiare e volevamo coinvolgere i suoi fan perché sappiamo quanto lui significhi per voi, così come voi per lui. Come dice sempre Bruce, ‘Vivilo’ e insieme abbiamo in programma di fare proprio questo. Con amore, Emma, Demi, Rumer, Scout, Tallulah.

Bruce Willis, l'afasia e gli incidenti sul set: cosa accadeva all'attore. Le dure testimonianze. Alice Antico su Il Tempo il 10 aprile 2022.

Bruce Willis ha annunciato di essere stato colpito da afasia e il mondo cinematografico stenta ancora a crederci. Anche se, prima che il fatto fosse pubblico, Il "Los Angeles Times" aveva riportato testimonianze di colleghi riguardo diversi episodi della precarietà mentale del protagonista di "Die Hard", i quali affermavano che l'attore «Da tempo mostrava segnali di declino mentale», tra difficoltà a ricordare le battute, momenti di confusione ed un pericoloso incidente sul set. 

Altre fonti hanno riportato le difficoltà dell'attore nel ricordare i suoi dialoghi e c’è stato qualcuno che ha sostenuto di aver suggerito le battute a Willis attraverso un auricolare. In aggiunta, sembra che la maggior parte delle scene d’azione che egli avrebbe dovuto girare, venivano realizzate invece da una controfigura. Secondo quanto riferito, il management dell’attore si era assicurato che le riprese delle parti di Willis fossero limitate a due giorni e solo otto ore al giorno, anche se spesso l’attore rimaneva solo quattro ore.

Senza considerare che, per l'edizione 2022, i “Razzie Awards” (i premi per i peggiori attori) avevano creato un'intera categoria dedicata a tutta l'annata cinematografica 2021 di Bruce Willis: inutile dire che, a seguito della recente notizia dell'addio al cinema, l'organizzazione ha deciso di revocare il premio assegnato all'attore.

Ma che cosa è l'afasia? Si tratta della perdita di una funzione appresa, che porta dunque all'incapacità di articolare e comprendere le parole. Una persona affetta da afasia non capisce ciò che viene detto e non è in grado di produrre frasi di senso compiuto per comunicare, oltre a non riuscire a leggere, scrivere e fare i calcoli, in quanto attività connesse alla funzione linguistica.

Bruce Willis, all’età di 67 anni, è dunque costretto ad abbandonare la recitazione: lo ha rivelato la famiglia dello stesso attore con un post sui social media. «Agli straordinari fan di Bruce, come famiglia, volevamo farvi sapere che il nostro amato Bruce ha avuto problemi di salute e gli è stata recentemente diagnosticata l'afasia, che sta influenzando le sue capacità cognitive. Di conseguenza, e con molta considerazione, Bruce si sta allontanando dalla carriera che ha significato così tanto per lui […] Come dice sempre Bruce, "Vivilo" e insieme abbiamo in programma di fare proprio questo. Con amore, Emma, Demi, Rumer, Scout, Tallulah, Mabel ed Evelyn».

Bruce Willis si ritira per afasia: l’annuncio della famiglia dell'attore. Chiara Severgnini su Il Corriere della Sera il 30 marzo 2022.

Bruce Willis, 67 anni compiuti da poche settimane, annuncia il ritiro dalle scene per motivi di salute. All’attore, si legge in una nota diffusa dalla sua famiglia, è stata diagnosticata l’ . Il disturbo, che a volte è causato da danni al cervello, influisce sulla capacità di una persona di comprendere e usare il linguaggio per leggere, ascoltare, parlare e scrivere.

La malattia, i film e il matrimonio con Demi Moore: la vita e la carriera di Bruce Willis. Le foto

L'ANNUNCIO DELLA FAMIGLIA «Come famiglia, volevamo condividere con i nostri splendidi fan che Bruce sta affrontando alcuni problemi di salute», si legge nel comunicato, diffuso anche su Instagram. «Di recente gli è stata diagnosticata l’afasia, che sta avendo un impatto sulle sue abilità cognitive». Di conseguenza, prosegue la nota, l’attore «si ritira da una carriera che per lui ha significato molto». «Questo è un momento molto difficile per la nostra famiglia, facciamo affidamento sul vostro amore, sul vostro sostegno e sulla vostra compassione. Attraversiamo tutto questo come una famiglia unita e forte».

Il comunicato è firmato dalla moglie di Willis, Emma Heming , dalla sua e dai suoi cinque figli (Rumer, 33 anni; Scout, 30 anni; Tallulah, 28 anni; Mabel, 9 anni ed Evelyn, 7 anni). La frase finale fa riferimento a una frase cara all'attore: «Come dice sempre Bruce, "Goditi il momento" ("live it up", ndr) e insieme abbiamo intenzione di fare proprio questo».

LA CARRIERA DI BRUCE WILLIS Nato nel 1955 a Idar-Oberstein, una base militare Usa in Germania Ovest, Willis è cresciuto in New Jersey, dove la sua famiglia si era trasferita alla fine degli Anni 50. Pur avendo scoperto la sua passione per la recitazione durante gli studi, prima di affermarsi come attore ha fatto diversi lavori, tra cui il camionista e il barista. Nel 1985 è stato scritturato per il ruolo del protagonista maschile della serie tv , che gli frutterà un Golden Globe e un premio Emmy. Dopo alcuni piccoli ruoli cinematografici, Willis ha raggiunto la notorietà internazionale interpretando il poliziotto John McClane nel film (1988) e poi in tutti i successivi capitoli della fortunata saga (che comprende, in totale, cinque pellicole; l'ultima delle quali è uscita nel 2013).

Nel corso della sua lunga carriera, l'attore ha recitato inoltre in Pulp Fiction (interpretava il pugile Butch Coolidge), L'esercito delle 12 scimmie (1995), Il quinto elemento (1997), Armageddon (1998), Il sesto senso (1999) e Sin City (2005). Il suo ultimo film è il thriller, uscito nel gennaio del 2022.

Bruce Willis e l’afasia: dai rumors sulla perdita di memoria ai «troppi film scadenti», i segnali prima del ritiro. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.

L’attore colpito da afasia lascia la carriera. L’annuncio della famiglia: «Non può più recitare». 

I suoi account social ufficiali sono rimasti fermi a qualche giorno fa, sigillati in un silenzio che — con il senno di poi — ha un retrogusto tristemente rivelatore. Sono state invece le persone intorno a lui, la sua grande famiglia formata dalla moglie Emma Heming, dall’ex consorte Demi Moore (a cui è rimasto legatissimo) e dai cinque figli, a farsi sentire per dare l’annuncio congiunto: a 67 anni compiuti da pochi giorni, Bruce Willis si ritira, mette uno stop improvviso alla sua carriera di star dei film d’azione a causa di un problema di salute, colpito da un male che gli impedisce di recitare.

«Volevamo condividere con i meravigliosi sostenitori di Bruce che il nostro amato è alle prese con dei problemi di salute e di recente gli è stata diagnosticata un’afasia che sta avendo delle ripercussioni sulle sue abilità cognitive — si legge nel messaggio condiviso via social ieri pomeriggio dalla sua famiglia —. Di conseguenza, e dopo molte riflessioni, Bruce abbandona una carriera che significa così tanto per lui. È un momento molto complicato per la nostra famiglia e apprezziamo moltissimo il vostro continuo amore, la vostra compassione e il sostegno. Lo affrontiamo fortemente uniti come famiglia e abbiamo voluto coinvolgere i suoi fan perché sappiamo quanto lui è importante per voi, così come voi lo siete per lui. Come Bruce dice sempre, "vivetevela fino in fondo" e insieme abbiamo in programma di fare proprio così». A firmare seguono tutti i nomi: Emma, Demi, Rumer, Scout, Tallulah, Mabel, & Evelyn.

Un annuncio improvviso per una diagnosi che sembra non lasciare scampo al lavoro di un attore: l’afasia influisce sulle capacità di comprendere il linguaggio e di usarlo per parlare, leggere, ascoltare e scrivere. Può essere causata da danni al cervello (un trauma o un ictus) o può insorgere in seguito a un cancro al cervello o nel progredire di malattie degenerative, come l’Alzheimer o il Parkinson. Non è chiaro quale sia la condizione che riguarda Willis. Tutto ciò che la famiglia ha voluto far sapere è che il più celebre «duro di Hollywood», almeno per il momento, non può più recitare. Una notizia alla luce della quale suonano vagamente impietose le ultime recensioni dei suoi film («Bruce Willis uccide la sua reputazione un’altra volta», titolava a gennaio il quotidiano Guardian nello stroncare «Killing Field»), così come indelicati benché eloquenti appaiono i rumors che di recente davano Willis impegnato in tanti diversi film scadenti perché alle prese con problemi di memoria e intenzionato quindi ad accumulare quanti più ruoli (e guadagni) possibili, finché ancora in grado di lavorare.

Ma se le sue ultime interpretazioni non rimarranno forse come le più memorabili, la sua carriera lunga oltre quattro decenni (con più di 5 miliardi di dollari ai botteghini) lo ha reso un’icona dell’action cinema, la testa rasata, il sorriso leggermente beffardo, i muscoli sotto i graffi e le canotte che hanno caratterizzato la saga di «Die Hard». Il poliziotto John McClane, protagonista dei cinque episodi ad alto tasso di adrenalina, l’ha consacrato sul grande schermo a partire dal 1988, ma gli adepti di Tarantino lo conoscono anche per «Pulp Fiction» e il suo Butch che, in sella a un chopper, pronuncia una delle frasi cult del film: «Zed’s dead baby», «Zed è morto piccola». Da «Armageddon» a «Il sesto senso», gli anni 90 lo consolidano fra le star di Hollywood, mentre in quel periodo splende anche la sua unione con Demi Moore: i due sono una delle coppie del decennio e anche quando si lasciano, dopo 13 anni di matrimonio e tre figlie, continuano a rimanere amici e genitori unitissimi. Al punto che Moore e la modella Emma Heming, convolata a nozze con Willis nel 2009, diventano amiche vere. Una famiglia allargata che ora più che mai ha scelto di stringersi intorno a lui.

La superstar Bruce Willis soffre di afasia: "Mi ritiro, non posso più fare cinema". Valeria Braghieri il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'attore americano, 67 anni, colpito da una malattia che gli impedisce di recitare.

Nel film Il sesto senso riusciva a comunicare anche senza parole. Le usava certo, ma andava ben oltre, spalleggiato da quello straordinario bambino (interpretato da un Haley Joel Osment mostruosamente bravo) che sapeva andare oltre tutti i sensi che i semplici umani usano per vivere.

Ma non è certo stata l'unica volta in cui ha scelto come partner un giovanissimo, Bruce Willis che, per sua stessa ammissione, ha sempre adorato recitare accanto ai più piccoli. Come in La fredda luce del giorno, per fare un altro esempio tra i tanti. Il motivo di questa predilezione, oggi sembra un cinico presagio: da piccolo Bruce era balbuziente. Soffrì di questo disturbo fino ai nove anni, poi salì su un palcoscenico per una recita scolastica, e lì qualcosa scattò. Qualcosa lo guarì quasi inspiegabilmente. E succede spesso di tornare a replicare il punto in cui qualcosa si è rotto, di fermarsi lì, e ripetere all'infinito. Per provare a bonificare, nel corso di tutta l'esistenza, ciò che ci ha più segnati. Per questo, la notizia di ieri, e cioè che Willis si ritirerà dalle scene per un problema di «afasia» (la perdita della capacità di comporre o comprendere il linguaggio), ci fa pensare a quanto talvolta la vita possa essere circolare nella sua spietatezza. Da un problema di linguaggio ha iniziato, con un problema di linguaggio finisce (come attore), la carriera di Bruce Willis, sessantasettenne. Ex marito di Demi Moore, e padre delle loro tre figlie.

Le voci si erano inseguite, negli ultimi periodi, i fan e lo star system avevano iniziato a nutrire sospetti nei confronti degli ultimi copioni accettati dall'attore. Nulla che fosse davvero più alla sua altezza, nulla che facesse onore alla scelta, quasi spasmodica, che aveva usato in tutti gli anni della sua carriera per scegliere i personaggi da interpretare sul grande schermo. Ieri la conferma, con il ritiro dalle scene, annunciata dalla sua famiglia sui social. Sembra abbia accettato gli ultimi lavori con l'unico scopo di incassare, per potersi curare dalla paradossale malattia che lo ha colpito. La faccia duttile, l'empatia, il mestiere di interpretare: è diventato tutto inutile senza le parole da far uscire da un personaggio. Capacissimo eppure inerme, pieno di talento ma lo stesso incapace. Di dire, di elaborare, di rimandare fuori davanti a una macchina da presa con la quale pure ha saputo amoreggiare divinamente per mezzo secolo. C'è di peggio, ma non c'è nulla di peggio per lui. E per quanti restano cinematograficamente orfani del ghigno di lato con cui ha incorniciato tante battute e delle pagliuzze negli occhi che ha saputo accendere senza nemmeno dover pronunciare battute. Esce di scena, per «afasia» la Hollywood composta e senza scandali. Ha scelto ruoli, chiuso matrimoni, ricominciato matrimoni, assistito alle scelte dei figli senza turbarsi e senza turbare. E non ci aspettavamo che la vita gli offrisse un copione tanto sarcastico da farlo uscire di scena. Senza parole.

La malattia lo costringe a fermarsi. Bruce Willis si ritira, l’attore abbandona il cinema per l’afasia: l’annuncio della famiglia. Redazione su Il Riformista il 30 Marzo 2022. 

L’attore Bruce Willis, una delle icone di Hollywood, deve dire addio alla sua carriera per motivi di salute. La star della saga di ‘Die Hard’, ma anche di ‘Armageddon’ (1998) e ‘Il sesto senso’ (1999), si ferma a 67 anni compiuti da poche settimane per motivi di salute.

In una nota ufficiale pubblicata dalla famiglia è stato reso noto che all’attore è stata diagnosticata l’afasia, un disturbo, a volte è causato da danni al cervello, che influisce sulla capacità di una persona di comprendere e usare il linguaggio per leggere, ascoltare, parlare e scrivere.

Il comunicato firmato dalla moglie Emma Heming , dalla sua ex moglie Demi Moore e dai suoi cinque figli (Rumer, 33 anni; Scout, 30 anni; Tallulah, 28 anni; Mabel, 9 anni ed Evelyn, 7 anni), spiega che “come famiglia volevamo condividere con i nostri splendidi fan che Bruce sta affrontando alcuni problemi di salute. Di recente gli è stata diagnosticata l’afasia, che sta avendo un impatto sulle sue abilità cognitive”. Per questo Bruce “si ritira da una carriera che per lui ha significato molto. Questo è un momento molto difficile per la nostra famiglia, facciamo affidamento sul vostro amore, sul vostro sostegno e sulla vostra compassione. Attraversiamo tutto questo come una famiglia unita e forte”.

Un testo che si chiude con una frase che l’attore ha fatto sua, “Live it up”, ovvero “Goditi il momento”.

Come ricorda l’Ansa, Bruce Willis ha iniziato la sua carriera cinematografica negli anni ’80 con l’apparizione in ‘Delitti inutili’ con Frank Sinatra, compare inoltre in ‘Miami Vice’ (1984-1989), ‘Ai confini della realtà’ (1985) e nel film Il verdetto (1982). NEL 1988 viene definitivamente consacrato grazie all’interpretazione del poliziotto John McClane in ‘Trappola di cristallo’ (Die Hard), il primo film della saga di Die Hard. Nel 1987 sposa l’attrice Demi Moore e con lei oltre che con gli amici Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger e Whoopi Goldberg fonda la catena di ristoranti Planet Hollywood. Nel 1990 interpreta il sequel di ‘Die Hard 58 minuti per morire’ (Die Harder), a cui succederà il terzo capitolo nel 1995 ‘Die Hard – Duri a morire’. Nel 1994 recita in ‘Pulp Fiction’ di Quentin Tarantino. Altre sue interpretazioni significative sono ‘La morte ti fa bella’, (1992) di Robert Zemeckis, ‘L’ultimo boyscout’ (1991), ‘L’esercito delle 12 scimmie’ (1995) ‘Il quinto elemento’ (1997) di Luc Besson, ‘Armageddon – Giudizio finale’ (1998), ‘The Sixth Sense’ – Il sesto senso (1999). Nel 2018 è protagonista de ‘Il giustiziere della notte’ – Death Wish di Eli Roth, remake dell’omonimo film del 1974 interpretato da Charles Bronson.

L’attore ha alcuni progetti in post produzione come ‘Vendetta’, ‘Fortress: Sniper’s Eye’ e ‘White Elephant’. Non è chiaro a questo punto quale sarà il destino di ‘Fortress 3’, attualmente in pre-produzione.

Il focus. Cos’è l’afasia, il disturbo di cui soffre Bruce Willis: cause e sintomi della malattia che provoca problemi al linguaggio. Redazione su Il Riformista il 30 Marzo 2022. 

Un disturbo non raro, solo in Italia il numero di persone che ne soffrono a seguito di malattie cerebrovascolari si aggira attorno a 150.000-200.000, con un’incidenza annua di 2 nuovi casi per 1.000 abitanti per anno, ma che Bruce Willis ha reso tristemente ‘da prima pagina’.

La comunicazione da parte dei familiari dell’attore di porre fine alla sua carriera a 67 anni a causa dell’afasia ha portato la luce dei riflettori su questo disturbo che ha terminato la lunga carriera della star di Hollywood.

Cos’è l’afasia

L’afasia è un disturbo del linguaggio che comporta delle conseguenze a livello cognitivo. Chi è affetto da afasia infatti gradualmente arriva non a capire ciò che gli viene detto, a produrre frasi di senso compiuto, a leggere o scrivere, ma anche a fare calcoli, perché scrittura e capacità aritmetiche sono connesse con la funzione del linguaggio.

Le cause

Come spiega a Repubblica Tiziana Rossetto, presidente della Federazione Logopedisti Italiani (Fli), le malattie che provano più frequentemente l’afasia sono “quelle vascolari e i traumi cranici, ma anche tumori, malattie infettive o altro possono colpire le aree del linguaggio”. 

Spesso infatti il disturbo del linguaggio insorge dopo un ictus: ne è infatti una delle conseguenze più impattanti a livello di attività quotidiana. 

Come si ‘cura’

Purtroppo non esiste al momento una cura per il disturbo. Spiega infatti Rossetto che “numerosi studi sperimentali hanno dimostrato che l’unico trattamento efficace, anche se molto raramente risolutivo, è il trattamento logopedico, purché sufficientemente protratto e intenso”.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 31 marzo 2022.  

Secondo quanto riferito, Bruce Willis ha lottato con problemi cognitivi sui set dei suoi film per anni - e aveva persino bisogno di un auricolare per ricordare le sue battute - molto prima che la sua famiglia annunciasse mercoledì che al famoso attore era stata diagnosticata una condizione cerebrale. 

In una dichiarazione sui social media, la famiglia di Willis ha detto ai suoi fan che gli era stata diagnosticata l'afasia, una condizione cerebrale che influisce sulla sua capacità di comprendere il linguaggio, e per questo lascerà la recitazione.

Ma una fonte anonima ha detto a Page Six che la sua capacità cognitiva in declino era un segreto di Pulcinella a Hollywood perché l'attore aveva avuto ripetutamente problemi a recitare nei suoi film. 

«Lo sapevano tutti, il cast e la troupe», ha detto la fonte anonima, aggiungendo che Willis «usava auricolari, ascoltando le battute» ed «era sempre più difficile averlo sullo schermo». 

Ha detto che i film in realtà dovevano essere girati vicino al luogo in cui Willis risiedeva con la sua famiglia - che, secondo la fonte, si è presa cura dell'attore 67enne - per rendere le produzioni più facili. 

E in almeno una produzione, ha detto la fonte, i produttori hanno iniziato a usare un controfigura per aumentare il tempo sullo schermo di Willis, mentre in un'altra il suo tempo sullo schermo è stato «ridotto», con l'attore che ha girato sul set per soli tre giorni. La fonte ha detto: «Stava diventando super ovvio che stava avendo problemi ... non poteva più recitare». 

In una scena del suo nuovo film, “American Siege”, girato nel 2020, si vede che l’attore indossa un auricolare. E sono passati due anni da allora. 

Un altro insider ha detto alla rivista “Ok!” che Willis è stato visto con un auricolare anche quando debuttò a Broadway nel 2015 con “Misery”. Secondo quanto riferito, stava lottando anche durante le riprese del film Glass del 2019 di M. Night Shyamalan. 

«Durante le riprese di Glass, il personale ha lavorato intorno a lui tagliando e montando e facendogli sovraincidere le battute perché faticava a ricordarle e/o a pronunciarle», hanno detto al New Zealand Herald. «Nella maggior parte delle scene in Glass è incappucciato e hanno usato controfigura per sostituirlo. Sul set non sorrideva ed era sempre accompagnato da un assistente che lo guidava mentre camminava».

La fonte ha anche detto che all'epoca Willis aveva venduto la sua proprietà di New York per trascorrere più tempo con sua moglie e i suoi figli a Los Angeles, e ha detto che sua moglie, così come l'ex moglie Demi Moore, stavano lavorando insieme per prendersi cura di lui. 

«Sua moglie Emma ha aiutato Demi Moore e i bambini che Bruce condivide con la sua ex moglie perché sapevano che stava svanendo», ha detto la fonte anonima alla rivista nel gennaio 2021. 

«Tra Demi ed Emma, la famiglia ha sempre assicurato a Bruce il supporto e le cure di cui potrebbe aver bisogno in qualsiasi momento», ha detto l'insider. 

Willis condivide tre figli con Moore, con cui è stato sposato dal 1987 al 2000: Rumer, 33, Scout, 30 e Tallulah, 28. Ha anche due figlie, Mabel, 9, ed Evelyn, 7, con la moglie Emma, 43. 

Live Hard. Il funerale da vivo di Bruce Willis e la tristezza di assistere al proprio declino. Guia Soncini su L'Inkiesta l'1 Aprile 2022.

Alla notizia del suo ritiro per malattia tutti ci siamo ricordati di quanto abbiamo amato i suoi film. Una dimostrazione di affetto che forse gli farà piacere, ma forse è uno strazio capire che tutti sanno che non sei più in te, e magari ti compatiscono perfino.

Dieci anni e mezzo fa, qualche settimana prima che Christopher Hitchens morisse, andai al suo funerale da vivo. Doveva essere un’intervista che gli faceva Stephen Fry davanti al pubblico d’un teatro, poi Hitch stava troppo male, e avevano ripiegato sui suoi amici che parlavano di lui. I suoi amici erano gente come Martin Amis e Salman Rushdie, e quindi quella era la realizzazione del sogno perverso di molti di noi: sentire cose brillantissime dette di noi come fossimo morti ma quando siamo ancora abbastanza vivi da ascoltarle.

A Bruce Willis sta succedendo un po’ la stessa cosa. Da quando la sua famiglia ha annunciato che Willis non farà più film perché non è più in grado di parlare (non sono stati resi noti i dettagli, ma è ragionevole pensare alle conseguenze d’un ictus), ci siamo tutti ricordati di quanto ci piaceva.

Che eravamo piccoli quando la tv non era ancora prestigiosa e l’internet non esisteva, e quindi potevamo guardare “Moonlighting” senza sapere che lui e Cybill Shepherd in realtà si odiavano, senza sapere che era difficile mettere insieme le puntate perché non si volevano incontrare, senza sapere niente, cioè l’unico modo in cui ci si possa godere quel che si legge e si guarda.

Che eravamo piccoli anche quando portava a cena Kim Basinger, e lei si ubriacava tantissimo e lo metteva in imbarazzissimo, e “Appuntamento al buio” fu una grande scuola nella disciplina del rovinare la vita agli uomini, anche se nessuno di quelli che poi abbiamo incontrato aveva quella smorfia di Bruce, quella che riusciva a dire al tempo stesso «ti amo» e «ti detesto», «perché proprio a me» e «adesso ti rovino».

Nel 2018 Comedy Central ha organizzato il roast di Bruce Willis. Un roast è quel formato americano che prende la serata d’onore e la ribalta: sei al centro dell’attenzione, ma tutti gli ospiti sono lì per insultarti, e tu devi fare la faccia di chi sta al gioco, altrimenti sembri un qualunque Will Smith che perde la trebisonda per una battuta. Alcuni ci riescono peggio: al roast di Alec Baldwin, che molti anni fa fu molto famoso per un messaggio d’insulti lasciato nella segreteria telefonica della figlia avuta da Kim Basinger, la faccia di Alec alla prima battuta su quel messaggio era quella di chi è sul punto di alzarsi e prendere a smatafloni il battutista.

Bruce Willis no. Bruce Willis rideva come un pazzo, rideva come uno che non sta recitando una risata, quando Demi Moore diceva che avevano divorziato dopo i primi tre “Die Hard” e infatti gli ultimi due facevano schifo; o quando Edward Norton raccontava di averlo incontrato per chiedergli cosa pensasse del copione di “Motherless Brooklyn” in cui l’avrebbe diretto, e che Willis il copione non solo non l’aveva letto, ma a domande professionali rispondeva con cose tipo «Provaci tu a far durare un matrimonio quando le ventiduenni ancora te la danno»; o quando tutti, ma proprio tutti, dicevano che era un attore incapace di cambiare espressione.

La settimana scorsa Denzel Washington ha consegnato un Oscar alla carriera a Samuel L. Jackson, che ha una filmografia sterminata ma io quando lo vedo penso sempre e solo a quel “Die Hard” (il terzo, prima che Bruce e Demi e le ventiduenni eccetera) in cui Bruce Willis, sotto minaccia dei cattivi, sta in mezzo a una strada di Harlem con addosso un cartello che dice «Odio i negri», e Jackson è il proprietario d’un negozio che va a salvarlo dai ragazzi neri che stanno per pestarlo assai più forte di quanto farebbe Will Smith.

Lo so che voi, se vi dicono «Jackson e Willis», pensate a “Pulp Fiction”, ma volete mettere John McClane e Zeus? (A proposito di John McClane: siamo tutti d’accordo, spero, che il più natalizio e antinatalizio dei film di Natale sia il primo “Die Hard”, sì?).

Adesso che ci hanno detto che sta troppo male per continuare a lavorare, il sito di riferimento per le uscite cinematografiche, imdb, dà otto suoi film finiti e che ancora devono uscire. Pare stia male da un bel po’: il Los Angeles Times racconta d’almeno un paio d’anni di set pasticciati, Bruce che non si ricorda le battute, Bruce che bisogna accorciargli i dialoghi perché non ce la fa, Bruce che nelle scene d’azione sbaglia il momento in cui deve sparare (per fortuna non sono successi disastri come quello che accadde ad Alec Baldwin con una pallottola non a salve). Eppure, in questi anni ha girato film a un ritmo che neanche Totò.

Forse sapeva di non stare bene e stava raccattando gli ultimi ingaggi possibili; forse – come accade a volte alla gente famosa, sebbene amata – aveva dei collaboratori che lo spremevano più del dovuto; o forse non voleva rassegnarsi al proprio declino cognitivo, che mi pare la cosa più atroce che possa capitare a un essere umano dotato di senso dell’umore.

Molti anni fa, un’attrice che non stava bene doveva consegnare un premio a un regista. Nessuno ancora sapeva avesse un disturbo neurodegenerativo, ma tutta la platea se ne accorse quando, sul palco, la signora non si ricordò dov’era. Il terrore più grande che attanagli molti non è morire, ma è rincoglionire senza accorgersene. O forse è peggio accorgendosene. Forse è bello sapere che tutti ti amano e si precipitano sui social a dire quanto siano nel loro cuore “Il sesto senso” o “Il quinto elemento”. Ma forse è uno strazio sapere che tutti sanno che non sei più in te, e magari ti compatiscono perfino. A te, che un Natale del secolo scorso sgominavi i terroristi a mani nude senza mai perdere il ghigno, e senza mai smettere di guardare il culo alle ventiduenni.

·        Bruno Barbieri.

L.D. per “la Stampa” il 12 dicembre 2022.

«Sono esigente, ma non cattivo». Parola di Bruno Barbieri, sia che si aggiri come giudice ai fornelli, sia che si muova con fare indagatorio in una camera di hotel. Adesso, però, è il momento del ritorno di Masterchef, lo show cooking più famoso al mondo (64 edizioni locali), che da giovedì alle 21.15 torna su Sky e in streaming su Now e Sky go con la dodicesima edizione italiana. 

Ancora una volta i giudici saranno il trio super collaudato formato dagli chef stellati Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli. 

Insieme con il regista Umberto Spinazzola, Barbieri è l'unico sopravvissuto dalla prima edizione, è la memoria storica dello show: «Un record del quale siamo orgogliosi», dice, e se è vero che il tempo insegna, il giudice col passare degli anni è diventato sempre più esigente: «Mystery Box, Invention Test, Pressure Test e Skill Test, gli "esami a sorpresa" che coinvolgeranno tutti i concorrenti più le prove in esterna che quest' anno sono a Bassano del Grappa, davanti alla Cascata delle Marmore, Tropea e Cervinia non sono impegni da nulla. Abbiamo cercato come sempre di alzare l'asticella. Quanto a me, sono solo diventato più attento e sì, forse anche esigente. Ma non arrivo mai a essere cattivo». 

Spoileriamo un po' quali sono le vere novità di questa stagione: «Ogni edizione deve lasciare il suo segno e questa volta c'è stato un lavoro di maggior ricerca. Molti concorrenti sono giovani e giovanissimi, questo per dare la possibilità a tanti ragazzi di trovare il lavoro dei loro sogni». Concorrenti che diventano anche racconti di vita, storie personali: «Le storie vengono fuori automaticamente, i ragazzi si raccontano e da lì si accende una lampadina e poi è normale che questo accada, da persone molto curiose quali siamo, se si sta tre mesi insieme è logico che certi segreti emergano». 

Antonino Cannavacciuolo parlando del lancio dei piatti di Joe Bastianich, ha detto: «Da piccolo quando a tavola non finivo un piatto me lo trovavo da mangiare alla sera, quindi io i piatti non li lancio». 

Cosa ne pensa?

«I piatti non si lanciano mai e chi lo faceva prima faceva uno show per sé stesso. La gente ci fermava per la strada: «Ma cosa fate? Buttate via il cibo»? Era diventata una questione etica e per un programma che vuole divulgare la buona cucina i piatti non si devono buttare da nessuna parte». 

La sfida per eleggere il miglior chef amatoriale d'Italia, l'anno scorso ha incoronato Tracy Eboigbodin originaria della Nigeria. Masterchef per molte persone ha rappresentato il riscatto e negli anni si sono alternati ai fornelli tanti immigrati: «Non ci sono solo i migranti negativi così come ce li stanno facendo passare - continua Barbieri -. Esistono un sacco di persone che fanno il lavoro pesante, nei mercati generali e dove gira il cibo. 

Gente che chiamiamo "manovalanza" ma ha sogni e desideri esattamente come i nostri e nella vita, magari, vorrebbe fare il cuoco. Gente che è arrivata con il gommone e ha un talento per la cucina. Se sono bravi dobbiamo dargli una chance. In generale, chi ha vinto Masterchef, ma anche chi non ha vinto ha aperto ristoranti, ha creato master, ha fatto capire che questo programma ti dà una possibilità concreta. Molti vincitori delle scorse stagioni sono oggi chef importanti».

Barbieri da mesi vive anche in America - «Sto cercando di andare ad aprire qualcosa in Florida, tra Charlotte e Ft. Lauderdale» - e viene da chiedergli che Italia siamo vista dagli Stati Uniti. «Della Meloni se ne parla ma tutti aspettano di vedere cosa succede. Forse perché l'hanno dipinta come non è. È una donna coraggiosa e non è facile prendersi la patata bollente italiana. Quanto alla guerra in Ucraina, se ne parla, ma la gente non vuole la guerra, anche gli americani che la guardano da lontano non la vogliono. Ne sono certo». Un'ultima domanda: è immaginabile Masterchef senza Bruno Barbieri in giuria? «Ma di cosa parliamo? Impossibile».

Bruno Barbieri: «Papà non mi voleva cuoco. Il migliore? Cannavacciuolo». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

«A Masterchef con Cracco e Bastianich eravamo tre galli in un pollaio. Ma ho litigato solo una volta con Carlo su un piatto di passatelli con le vongole»

È diventato maggiorenne a New York, Bruno Barbieri. «Sono partito dalla provincia di Bologna a 17 anni, con la firma dei miei genitori per poterlo fare. Avevo deciso di lavorare come cuoco sulle navi da crociera». Passato qualche anno — «ne ho compiuti sessanta e mi rompe proprio le palle questa cosa» — l’America è diventata casa sua. «Il punto è che ho sempre cercato nella vita di fare cose che mi potessero stimolare, rincorso orizzonti nuovi. E così, alla mia età, ho deciso di approfondire il mio inglese, che non era un granché. Ho preso casa vicino a Miami e ci resto per una buona parte dell’anno... ormai ho anche imparato a fare i barbecue, da vero americano».

Ha dalla sua sette stelle Michelin, non le sarà risultato difficilissimo...

«Beh ma attenzione, perché qui sulla carne sono preparatissimi, bisogna togliersi il cappello. Per fare il barbecue conta anche il tipo di legna che si usa, l’affumicatura, tante cose. Insomma, c’è sempre da imparare».

Come è nata la sua passione?

«Più che altro dal desiderio di viaggiare. Ero bravo, certo. Fin da piccolo avevo una certa manualità. Ho avuto la fortuna di crescere con una mamma, una nonna e due sorelle meravigliose. Con mia nonna, in particolare, facevamo il pane tutti i giorni, poi le conserve... a tre anni mangiavo le tagliatelle con i tartufi, per dire. Lei e mio nonno gestivano per la curia di Bologna un appezzamento e ci piantavano di tutto».

E dunque cosa c’entra il viaggio?

«Mio padre per lavoro viveva in Spagna: noi lo raggiungevamo in estate e così io, fin da molto piccolo, ho imparato a viaggiare. Questa cosa mi stimolava parecchio, oltre al fatto che forse per me aveva un significato diverso: viaggiare voleva dire raggiungere lui. Quindi a un certo punto ho pensato a un mestiere che mi permettesse di farlo».

Ed ecco la cucina.

«Lui non era d’accordo, mi avrebbe voluto ingegnere credo. Furono i miei vicini di casa a convincerlo ma penso che alla fine, quando è morto, fosse consapevole e felice di aver visto cosa ero riuscito a fare. Non me lo ha mai detto, ma io resto convinto che avesse capito di avere avuto torto».

Non glielo ha mai chiesto?

«Forse sono una persona un po’ troppo orgogliosa. Semplicemente dentro di me mi sono detto: ok, va bene, vuoi che non faccia questo? Ti dimostrerò che ti sbagliavi».

Momenti difficili?

«Eccome. A bordo c’era una gerarchia militaresca e io, a 18 anni, comandavo gente anche molto più grande di me, visto che mi avevano dato da subito quel ruolo... si può immaginare come ho sofferto. Non mi è stato regalato niente e non ho mai chiesto niente alla mia famiglia. Ho anche dovuto vivere senza soldi, all’inizio. Ma avevo la mia idea in testa, sapevo dove volevo arrivare. Poi, certo, ci vuole anche fortuna».

Come mai era rimasto senza soldi?

«Parlo proprio dell’inizio. In nave dormivo in una cabina con altre tre persone: mi rubarono subito tutto per darmi il benvenuto. Sono rimasto un mese e mezzo senza una lira, non avevo i soldi per comprare una bottiglia d’acqua. In pratica non scendevo dalla nave. Ma non mi sono arreso, perché nel mentre avevo anche capito cosa voleva dire avere un mestiere in mano».

Non ha mai pensato di non farcela?

«No, ma di certo questa cosa mi ha fatto diventare adulto prima del previsto. Ho sempre pensato che dovevo cavarmela da solo e l’ho fatto. Sulle navi ho iniziato presto a far capire come la vedevo: il mio nome era dappertutto, mi alzavo alle quattro di mattina e facevo 400 omelette... lavoravo tutto il giorno. Ho imparato in fretta a prendere tutti i miei treni al volo, pensando che un giorno, presto o tardi, il mio momento sarebbe arrivato».

E così è stato. Tra i tanti, ha cucinato anche per Andy Warhol.

«La vita di uno chef è tentare di raccontarla dentro un piatto. Lui diceva che il cibo è una cosa che entra da un buco e ne esce da un altro, poi però la fortuna della sua vita con cosa l’ha fatta? Con quella scatoletta di pomodoro che conosciamo tutti».

Rimpianti?

«No, rimpianti no. Sistemerei qualche piccola cosina ma anche gli sbagli professionali fanno parte del percorso. Come quando ho dovuto scegliere se aprire un ristorante a Los Angeles e invece ho deciso di andare a vivere a Verona. Chissà. Però poi lì ho preso due stelle... esistono anche dei momenti, in cucina. Senza contare che, per me, un grande chef dà il meglio tra i 35 e i 50 anni: questo è un lavoro che se fai come deve essere fatto ti obbliga a rinunciare a tutto».

Lei non ha figli. Fa parte delle rinunce?

«Vista la mia infanzia, essendo cresciuto con un papà lontano, per me era difficile accettare di non vivere una mia eventuale famiglia in un dato modo. Ho fatto delle scelte. Avevo la consapevolezza che io non ce l’avrei mai fatta a rimanere tutta la vita a Bologna perché il mio istinto era quello di correre. Se avessi avuto dei figli, però, avrei voluto essere presente: portarli a scuola, a giocare a calcio, dedicare loro del tempo. Per me la famiglia è quella roba lì».

E adesso è troppo tardi per averla?

«Se hai un figlio a 60 anni ti chiamano nonno. No, non ha senso per quanto mi riguarda. Mi godo i nipoti, i figli degli amici. Ma alla fine non sono pentito: mi sarebbe piaciuto anche fare il pilota di Formula 1, ma non so guidare a 300 all’ora, quindi... Uno decide. Io so dire però che oggi sono una persona che la sera va a dormire felice: mi piace la mia vita, vado in giro, cucino per gli amici, faccio palestra... sono spensierato».

Un vero lusso. Reso possibile anche grazie a «Masterchef»? Di certo le ha cambiato la vita...

«“Masterchef” è stata la benedizione di Gesù. Il coronamento di una vita professionale. Ho fatto tutte le edizioni, sono l’unico e ancora mi ricordo il colloquio iniziale, sulla pernice. Prima di questa trasmissione le persone andavano al ristorante per riempirsi la pancia, ora sanno tante cose in più. È un programma internazionale ma, diciamolo, in Italia lo facciamo meglio che altrove, anche per la nostra storia. Abbiamo dato il via a un cambiamento che adesso sento come necessario anche nel mondo dell’hôtellerie, spesso fermo agli anni Settanta. Ecco perché ho deciso di fare anche questo programma, “4 Hotel” (da domenica riparte su Sky e in streaming su Now). Faccio solo quello in cui credo e non voglio essere un impiegato della banca che lavora in tv. Peccato che ora, tra ristoranti e alberghi io non possa andare più da nessuna parte, perché passo per essere quello che rompe».

Rapporti con gli altri giudici?

«All’inizio di “Masterchef” la situazione con Carlo (Cracco, ndr.) e Joe (Bastianich) era decisamente più impegnativa per i caratteri dei miei due soci: molto forti, duri. Eravamo tre galli in un pollaio, ma nonostante non fosse sempre semplice ho tanti ricordi belli, divertenti».

Litigate?

«Più che altro sembrava sempre di stare su un filo tirato. Non abbiamo mai litigato se non un una volta, fortemente, io e Carlo parlando di un piatto di passatelli con le vongole. Ma dopo quindici minuti di casino totale, tutto è tornato ad essere come se non fosse mai successo niente».

Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli?

«Loro sono molto più ironici e divertenti. Con Antonino c’è un feeling particolare e Locatelli è quello che cerca di tenere un po’ le fila, altrimenti io e lui scherzeremmo dalla mattina alla sera. Ci frequentiamo anche fuori, a telecamere spente, cosa che non succedeva con gli altri due colleghi... insomma, oggi c’è più complicità».

E se deve scegliere tra tutti i suoi colleghi qualcuno che ama per la cucina?

«Sono stato nel ristorante di Antonino e quel giorno hanno cucinato per me lui e proprio Locatelli... a un certo punto mi sono anche preoccupato del conto. Mi sono detto: se qui mi fanno pagare sono rovinato... Ecco, loro sono bravi-bravi. Per me Antonino oggi vale tre stelle, ha una marcia in più di altri».

Se le chiedo di pensare al piatto che ha mangiato nel corso della sua vita e che più di tutti le è rimasto impresso?

«C’è una cosa che ho mangiato e che mi ha letteralmente cambiato la vita. Un piatto inventato da un grande chef, Igles Corelli. Era un germano reale, quindi selvaggina, ma ripieno di astice, con una salsa ai frutti rossi. Un piatto che ho mangiato nel 1983, che non ho più mangiato che nessuno ha mai più fatto, ma che dava una svolta, un cambiamento totale nella cucina, che passava da quella della nonna, della mamma, della zia a una cucina moderna, contemporanea. Quell’input arrivato da un genio con cui poi ho avuto la fortuna di lavorare, per me ha cambiato tutto. Mi ha trasmesso quella parte di follia gastronomica che nessun altro era stato in grado di comunicarmi».

Erano gli anni del Trigabolo di Argenta, ristorante che ha fatto storia.

«Quel tipo lì cucina era sperimentazione, siamo stati quella roba lì, quel cambiamento gastronomico, negli anni Ottanta. All’inizio non guadagnavamo soldi, tanto che per una volta li chiedevo a mia madre per mettere la benzina nella macchina. Ma è stato fondamentale. Eravamo dei matti interessati alla novità: cucinavamo con la musica di David Bowie a manetta come sottofondo, facevamo cose folli, divertendoci e emozionandoci. E anche ora non mi scordo da dove sono partito: è grazie a quelle persone se ho potuto vivere la vita che ho scelto per me»

Da "Oggi" il 6 gennaio 2022. Bruno Barbieri compie 60 anni e a OGGI si racconta in un’intervista in edicola da domani. Oggi è il re di «MasterChef» ma ricorda quando a 17 anni era sulle navi da crociera: «Lavoravo 19 ore al giorno, le colazioni del mattino erano alle 5, 800 omelette tutte le mattine, le facevo a occhio, guardavo sei padellini insieme. Preparavo 30 uova per la Bernese a mano, se si fossero smontate ti buttavano in mare».

Parla della nonna eccezionale che ha avuto e dei colleghi giudici dice: «Ho sempre pensato che il trio Cannavacciuolo, Barbieri, Locatelli sia quello che ha funzionato di più. È chiaro che Antonino è il giudice con cui ho più feeling, siamo due uomini del sud, io sono in realtà il meridionale del nord. Locatelli poi... c’era bisogno di un paciere e infatti noi lo chiamiamo “l’avvocato”, perché io e Antonino siamo una fiction tutti i giorni.

Quello che mi sono sempre domandato è perché noi non abbiamo un ristorante insieme, perché non abbiamo fatto un film insieme, magari un cinepanettone». E dei 60 anni in arrivo dice scherzoso: «Sono un vero Peter Pan. A 60 anni vivo esattamente come quando ne avevo 30. Certo ti diventano i capelli bianchi, ma non sono mai invecchiato».

Bruno Barbieri: «Mio padre non mi capiva e non mi voleva cuoco. Se sono stato comunista? Chi non lo è stato, in Emilia?». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022.

La star di MasterChef ha appena compiuto 60 anni: «Se sono stato comunista? Chi non lo è stato, in Emilia? La "cattiveria" con i concorrenti? Non intendo mai umiliare, sono pungente. La passione per la moda viene da mia madre: son bravissimo a stirare, attaccare bottoni, fare orli». 

L'immagine di Bruno Barbieri che la televisione restituisce è duplice: da una parte un uomo entusiasta della vita, dall’altra un giudice inflessibile. La prima impressione sembra legata alla sua terra, come se il carattere fosse specchio del suo spirito emiliano (forse una banalità ma spesso nei luoghi comuni c’è parecchia verità, se no non diventerebbero luoghi comuni). La «cattiveria» sembra piuttosto legata al fatto che Barbieri è prima di tutto esigente con se stesso («poi certo è anche uno show»). 

Nato a Medicina, nella pianura che da Bologna porta a Imola, Barbieri trasmette determinazione e tenacia («nella vita non bisogna mollare, ho sempre avuto una gran voglia di arrivare»), ma è un inguaribile ottimista («vivo ogni giorno pensando che sia un bel giorno»). 

Altro stereotipo: emiliano e comunista. È così?

«Chi non lo è stato? Noi di quelle parti siamo sempre stati sinistroidi... Non voglio parlare di politica, ma io sono cresciuto nei Festival dell’Unità, era bello perché si imparavano tante cose, c’erano le azdore (le massaie che governano la cucina) che preparavano tagliatelle, tortellini, quintali di ragù... È stata una scuola». 

La passione per la moda dalla mamma, l’amore per la cucina dalla nonna...

«Mia mamma lavorava nel tessile, io sono bravissimo a stirare le camicie, ad attaccare i bottoni, a fare l’orlo ai pantaloni... Poi ho sviluppato il gusto per la moda, lo si vede nei miei look che sono diventati un marchio nei miei programmi: mi diverto, mi piace giocare, è il mio modo di essere ed è anche quello che vuole il pubblico. Moda e cucina poi per certi versi non sono così distanti, sono un lavoro di ricerca continua, sperimentazione, conoscenza del passato con lo sguardo rivolto al futuro». 

Con suo papà invece ha avuto un rapporto difficile...

«Mio padre era un uomo tutto di un pezzo, di altri tempi, con dei rigori; ha girato il mondo, è stato lontano dalla famiglia. Io faccio parte di un’altra generazione, quella rivoluzionaria degli Anni 70 che ha cambiato lo stile di vita della gente. Io e mio papà abbiamo sempre avuto visioni della vita all’opposto, lui mi voleva ingegnere e invece ho fatto il cuoco. Già questo dice tutto. Eravamo legati da un profondo amore che a volte non avevamo il coraggio di esprimerci l’un l’altro e alla fine eravamo diventati amici. È lui che mi ha insegnato che nella vita non bisogna mai mollare: io ho sempre avuto una gran voglia di arrivare e credo sia morto orgoglioso di quello che ho fatto». 

MasterChef ha rivoluzionato la sua carriera, ma anche il costume degli italiani...

«Dal punto di vista personale MasterChef è arrivato come una ciliegina sulla mia torta, è stato un regalo di Dio ottenuto anche grazie a quello che avevo fatto, al mio background di ricerca gastronomica in giro per il mondo. Dal punto di vista del costume ha cambiato il modo di fare cucina, ha rivoluzionato il pensiero culinario delle persone, è stato il grande rivolgimento degli Anni 2000 non solo in Italia, ma nel mondo. Ha fatto capire alla gente che dietro al cibo c’è storia, c’è vita, c’è aggregazione». 

MasterChef ha creato anche mostri, tutti oggi si sentono stellati, se la tirano...

«Non sono d’accordo. Ha creato piuttosto stimoli per le persone. Chiunque abbia visto MasterChef ha cambiato la propria anima gastronomica: una volta la gente andava al ristorante per riempirsi la pancia, oggi fa le analisi, critica i piatti, mette in discussione gli chef. Oggi le persone sono più informate, non puoi raccontargli palle, gli chef devono stare attenti. Ma di una cosa sono sicuro: se racconti la verità la vita ti premia sempre». 

Il mondo della cucina è solidale o spietato?

«La situazione è cambiata rispetto a tanti anni fa, una volta gli chef erano molto gelosi delle proprie ricette, del proprio lavoro, oggi invece c’è un grande cambiamento - in meglio - in atto in tutto il mondo. Tra gli chef c’è più solidarietà». 

Il peccato capitale che non deve mai commettere chi sta in cucina?

«Non preparare qualcosa che non sei in grado di fare: in cucina non si bara, le cose le devi saper fare. Tanti hanno iniziato la carriera con la cucina destrutturata alla Ferran Adrià senza avere il bagaglio di conoscenze adatto, lui ha estremizzato ricette che conosceva benissimo, ma per arrivarci devi intraprendere un lungo percorso di preparazione». 

Il suo sgarro non da chef?

«Hamburger e Coca Cola». 

Dalla cucina all’ospitalità, lei fa l’arbitro delle gare tra albergatori in 4 Hotel . Il format mostra la competizione feroce tra i protagonisti, specchio forse di quello che vediamo anche nei social: nessuno è disposto ad ammettere che l’altro è piu bravo...

«Quando c’è una competizione è normale che tutti vogliano vincere: 4 Hotel crea e genera posti di lavoro, alimenta business e fatturato, è comprensibile che tutti vogliano avere la meglio. L’hoteleria - mi riferisco non alle grandi catene, ma agli alberghi a conduzione più familiare - era rimasta ferma agli Anni 60. 4 Hotel è un format importante perché sta rivoluzionando le pretese delle persone. E poi è l’occasione per raccontare la storia del nostro Paese, del nostro territorio: siamo 10 spanne sopra le nuvole rispetto agli altri». 

Come giudice sa essere ironico, ma anche severo; come il sale, pungente quanto basta: quanto c’è di vero e quanto invece è recitazione di un ruolo?

«Non c’è recitazione, non c’è copione scritto. Io sono così. È chiaro che ci sono dei ruoli e il giudice è lì per fare l’arbitro, per decidere. In cucina conta la creatività, ma ci sono anche regole, organizzazione del lavoro, dosaggi, equilibri gastronomici, incastri di sapori, di profumi, di materie prime. A volte sembro duro, cattivo, ma è una cattiveria che serve a capire dove il concorrente ha sbagliato. Non voglio mai umiliare, ma indicare che c’è una strada migliore. A me piace essere pungente, preciso, stare dalla parte delle verità; divento severissimo se vedo uno che vuol fare il furbo, ma sono così di carattere, sono sempre stato molto esigente con me stesso. Poi non dobbiamo dimenticare che sono programmi tv, show, divertimento...». 

Ha appena compiuto 60 anni...

«È solo un numero, è l’anagrafe, so che sono tanti ma penso di viverne altri 40. L’età dipende sempre da come la vivi, da come stai, io sono una persona molto attiva, giro per il mondo. Adesso sono negli Stati Uniti, viaggiare è come mettere la benzina nel motore, e per ora per fortuna ho fatto pochi tagliandi. I miei 60 anni sono scritti sulla carta d’identità, in realtà ne ho 20... ogni tanto ci penso all’età che passa, ma se guardo indietro non ho rammarichi, non ho rimpianti. So che ho fatto del bene anche per gli altri, mi sono sempre comportato correttamente, ho cercato di essere una persona positiva anche con chi mi sta intorno. Non prendo in giro nessuno, non ho scheletri nell’armadio. La sera vado a letto sereno, felice, il resto vien da solo». 

Il giorno da rivivere?

«Quando ho preso la prima stella, è quella che non si dimentica mai. Era il 1980, con il ristorante Il Trigabolo di Argenta, sotto la guida dello chef Igles Corelli (uno dei più grandi del pianeta): all’epoca eravamo dei pionieri, era quel momento in cui la cucina della nonna si trasformava in quella moderna, contemporanea. Un momento straordinariamente bello». 

La sua filosofia di vita?

«Vivere ogni giorno pensando che sia un bel giorno, mi sveglio sempre positivo, la vita è bella anche se magari attraversi un momento di difficoltà. Tutti quanti abbiamo problemi, ma io non mi perdo mai d’animo. E non dimenticherò mai le persone che mi hanno aiutato. Fino a 30 anni non parlavo, sono stato come una carta assorbente, zitto e occhi aperti, cercando di imparare da tutti i grandi maestri, dai grandi chef. Pensavo che un giorno sarebbe arrivato il mio momento, e poi quel momento è arrivato». 

Adesso è protagonista anche di un docufilm, Sosia- La vita degli altri (su Sky Uno dal 9 febbraio), un viaggio nel mondo di chi si sente meglio nei panni di un personaggio famoso...

«Più di dieci anni fa non immaginavo che un giorno sarei stato imitato, che alcune persone volessero vestirsi come me, essere me. Tutto questo da una parte mi ha fatto capire che sono diventato un personaggio pubblico; dall’altra mi carica addosso una grossa responsabilità». 

Lei sogna di poter fare un film con Johnny Depp sul mondo della cucina o in alternativa di poter cucinare per lui. Da dove nasce questa passione per Depp?

«Credo che lui sia un po’ come me, è una persona eclettica, un trasformista, e io mi sento così. Riesce a cambiare i propri personaggi, sa cambiare nei suoi lavori, è gioioso, divertente, fuori dagli schemi. Sregolato come noi chef».

·        Bruno Voglino.

Michele Gravino per “Il Venerdì di Repubblica” l'1 maggio 2022.  

Prima dei talent show c'erano i talent scout. Prima dei video autopromozionali su YouTube o TikTok c'erano locali notturni, teatrini scalcinati o festival di provincia in cui comici e cantanti si esibivano sperando che tra il pubblico fosse seduta la persona che li avrebbe scoperti e condotti alla fama.

Magari fino alla tv. Anzi, alla Rai-tivvù. Ecco, per parecchi dei personaggi che hanno fatto e continuano a fare la storia della televisione italiana, quella persona è stata Bruno Voglino. Questo signore piemontese, che ha da poco compiuto novant' anni e se li porta benissimo, ha fatto debuttare in televisione Carlo Verdone («in teatro a vederlo eravamo in tre») e la Smorfia di Troisi («un collega mi disse: "Ho visto tre napoletani, la solita roba"; e invece era drammaturgia del miglior lignaggio»), Piero Chiambretti («al primo provino venne in camicia, calze e mutande a pois») e Maurizio Crozza, Luciana Littizzetto e Fabio Fazio («mi chiama mamma»).

Ha ideato o collaborato a programmi mitologici, dal Non stop degli anni 70 a Quelli che il calcio ad Avanzi, fino agli esperimenti più arditi della Rai 3 diretta da Angelo Guglielmi, come Cinico Tv. Ora, dopo una vita dietro le quinte (ma anche un po' davanti: fu il "preside" del primo Saranno famosi di Maria De Filippi, addirittura su Canale 5, «ma ero solo decorativo») si racconta in L'esondante ben temperato, appena uscito per Castelvecchi.

Un libretto di «ricordi, incazzature, malinconie» in ordine sparso: si passa da un elogio dei gatti alla memoria della guerra e della fame, da un Vittorio De Sica preoccupato per le ambizioni artistiche del figlio Christian alla leggendaria agendina di Gianni Minà («pesa due chili e mezzo»), dal proprio matrimonio, officiato da un funzionario del Comune più squinternato di Mr Bean, al Grande Torino visto allo stadio Filadelfia. «Sono vedovo, vivo da solo, ogni tanto ho bisogno di esondare. Ma senza esagerare con la lunghezza o i piagnistei, e soprattutto senza prendermi sul serio. Per mestiere ho avuto fin troppo a che fare con gente dall'ego smisurato».

Che Rai era quella in cui entrò per concorso nei primi anni 60?

«Con tutti i suoi difetti era un luogo d'eccellenza. C'erano intellettuali veri, attenti alla società, non chiusi in una torre d'avorio. Pieni di slancio pedagogico verso un Paese tutto da ricostruire, anche dal punto di vista culturale. I democristiani colsero al volo l'occasione, la sinistra era come spesso in ritardo». 

Lei però era di sinistra.

«Sì, ma sa come si diceva: tocca assumere un democristiano, un socialista e uno bravo. Si vede che io ero uno di quelli, anche se non sono mai stato considerato affidabile da nessun partito. Per fortuna». 

A proposito di ego, chi l'aveva più smisurato, Pippo Baudo o Mike Bongiorno?

«Domanda tremenda! Pippo è sempre stato più intelligente dei suoi programmi. Resta un figlio della tv pedagogica: deve spiegare tutto, anche che il martedì viene dopo il lunedì, nel caso qualcuno del pubblico non lo sappia».

E Mike?

«Grande professionista, disciplinatissimo ma, come dire, un po' più limitato. Molto rispettoso delle competenze. Ripeteva sempre: "Se lo dici tu che hai studiato..."». 

È vero che ha fatto di tutto per portarla alla tv di Berlusconi?

«Ne era innamorato. Mi tempestava di telefonate, mi prometteva mari e monti. Alla fine l'ho incontrato, il Cavaliere. Molto simpatico. Ma ho capito subito che il suo modello di tv avrebbe rincretinito gli italiani. Ho declinato cortesemente: "Guardi, non fa per me"».

L'avvento del Cavaliere fu un duro colpo per voi della tv pubblica...

«Negli anni Ottanta aprì una sede in viale Mazzini, proprio di fronte al mio ufficio. Io pensavo: da qui con una carabina potrei farlo fuori, ma non ce l'ho e non la saprei usare, mi serve un killer, e dove lo trovo? (ride). Però le prime tv di Berlusconi erano vivaci, spericolate, e costrinsero la Rai a svecchiarsi, a togliersi i paramenti sacri. La nostra Rai 3 fu un frutto di quella stagione».

Da lì viene anche Fabio Fazio.

«Il primo provino lo fece come imitatore, a 17 anni, ma si capiva che c'era qualcosa di più. Di lui apprezzo la capacità di stare a suo agio con tutti, dal giovane comico fino al Papa». 

Forse perché è buono con tutti?

«Macché, è un finto buono. Ha uno stile garbato, certo, a volte forse ossequioso, ma è un uomo durissimo. Sa quel che vuole e lo difende con le unghie e con i denti. E compila liste di buoni e cattivi».

C'è un suo ex collega di cui si parla molto, Carlo Freccero.

«È incredibile: prima il no ai vaccini, ora il negazionismo sulla guerra, farebbe di tutto pur di apparire. Da tempo voglio fondare un Comitato nazionale di liberazione di Freccero da se stesso». 

Molti talenti di oggi nascono sul web. Lei gli dà un'occhiata?

«Non molto, mi capita di andare a ravanare, ma trovo molta improvvisazione, molta voglia di esibirsi e poca di sperimentare. Qualcosa di interessante c'è: uno come Lundini viene da quel mondo, magari metà delle cose che fa non fanno ridere, ma si vede che dietro c'è una ricerca».

Il suo maggior rimpianto?

«Che nessuno mi abbia mai nominato presidente del Toro. L'avrei fatto benissimo». 

Squilla il telefono: «Mi scusi, è mio figlio». Conversazione molto affettuosa, promessa di vedersi presto. Voglino mette giù con un gran sorriso. Pensavo non avesse figli.

«Non ne ho infatti, era Fabio, non le ho detto che mi chiama mamma? Mi ha fatto i complimenti per il libro. Dice che l'ha letto tutto d'un fiato. Due volte».

·        Cameron Diaz.

Da repubblica.it il 31 agosto 2022.

Dice di voler vivere fino a 110 anni perché ha una bambina piccola e "vorrò essere lì quando avrà quarant'anni", intanto festeggia i suoi primi 50 ed è "entusiasta del traguardo". 

Mezzo secolo di Cameron Diaz, californiana di San Diego sbarcata sulle passerelle a 16 anni e a Hollywood a 21 con The Mask - Da zero a mito al fianco di Jim Carrey, una carriera di film di successo poi l'addio alle scene nel 2018 salvo fare un passo indietro e tornare sul set in Back in action, produzione Netflix il cui primo ciak si batterà alla fine dell'anno. 

Quattro candidature ai Golden Globe, una ai Premi Bafta e tre agli Screen Actors Guild, Cameron Diaz si è spesso occupata d'altro, ha lanciato un'azienda di vino e con la scrittrice Sandra Bark ha pubblicato The Longevity Book (2016), nella quale si condividono i segreti per invecchiare nel modo giusto.

Conosciuta soprattutto come una delle regine della commedia romantica, protagonista di film super popolari come Tutti pazzi per Mary (1998) (ma anche Essere John Malkovich,1999, e Vanilla Sky, 2001), a proposito di segreti per una bellezza longeva ha detto che il trucco che ha dovuto portare per gran parte della sua vita a causa del suo lavoro le stava rovinando la pelle. 

Ora invece non si trucca più e ha notato un miglioramento. Altri consigli? "Non mi lavo mai la faccia", ha detto in un'intervista, aggiungendo che "posseggo un miliardo di prodotti ma li uso solo un paio di volte al mese. Non mi importa, l'ultima cosa a cui penso quotidianamente è come appaio".

Sposata dal 2015 con il musicista Benji Madden, la coppia ha annunciato a sorpresa la nascita della loro primogenita con un post su Instagram nel gennaio del 2020. "Anche se siamo colmi di gioia nel condividere questa notizia - si diceva - sentiamo anche un forte istinto a proteggere la privacy della nostra piccola, per questo non pubblicheremo foto o altri dettagli a eccezione del fatto che è davvero carina".

Da corriere.it l'11 luglio 2022.

Cameron Diaz, bellissima attrice da tempo lontana dagli schermi, la ricordiamo tutti per il suo debutto nel 1994, quando a soli a 21 anni, il regista - nonostante lei non sapesse recitare - la scelse come protagonista nel film The Mask - Da zero a mito, con Jim Carrey. Ma quello che non sappiamo è che prima di questo debutto ci sono state tante difficoltà per l’attrice nata a San Diego. 

Una su tutte che poteva diventare una tragedia: inconsapevolmente, è stata un corriere della droga per dei potenti narco trafficanti. Lo ha raccontato lei stessa di recente a Hillary Kerr, in uno dei podcast che fa parte della serie “Second Life” (Seconda vita). 

Da ragazza Cameron Diaz decide di trasferirsi da Hollywood a Parigi per intraprendere la carriera di modella, ma «a Parigi non ho lavorato neppure un giorno. In un anno intero nulla. Non sapevo più come sopravvivere». Alla fine arriva un «lavoro» anche se la giovane e inesperta Cameron non immagina certo di diventare un «mulo» della droga; eppure «purtroppo penso davvero di essere stata un “mulo” della droga verso il Marocco, lo giuro su Dio».

Disperata e senza lavoro, ricontatta una delle tante agenzie di modelle a Parigi. Che le propone un lavoretto: trasportare una valigia con i «costumi di scena» da Parigi al Marocco. Lei accetta. Prende il volo, atterra, e all’areoporto marocchino le viene chiesto di aprire la valigia. Cameron comincia a sospettare qualcosa: «Che diavolo di roba c’è in questo bagaglio» si chiede. 

Racconta nel podcast: «Per fortuna eravamo negli anni ‘90, non c’erano le misure di sicurezza così rigide come oggi, io ero una bella ragazza bionda con gli occhi azzurri, indossavo jeans strappati e stivali con la zeppa. Ero così... Era tutto così pericoloso...». Si fa coraggio e spiega che lei non ha nessuna idea di cosa ci sia nella valigia e decide lei stessa di consegnarla agli ufficiali dello scalo, riuscendo così ad evitare una condanna di almeno dieci anni per traffico di stupefacenti. Poi, prende subito il primo aereo per tornare a Parigi.

Ma per fortuna tutto ciò è rimasto solo un brutto ricordo, perchè poco dopo sarebbe arrivata la sua grande occasione. Il suo agente la convinse ad andare al provino per «The Mask». Lei inizialmente gli disse: «Sei matto, io non so recitare, non è il mio lavoro». Peraltro i produttori volevano come protagonista femminile Anna Nicole Smith. 

Ma il privino andò bene e il regista Chuck Russell volle Cameron nel ruolo di Tina Carlyle, al fianco di Jim Carrey. Seguirono numerosi film di grande successo tra cui Tutti pazzi per Mary. Poi nel 2018, a sorpresa, Cameron Diaz annuncia di essersi ritirata a tempo indeterminato dalla carriera di attrice, per dedicarsi alla sua vita privata. 

Ma il mese scordo Diaz - che ad agosto compirà 50 anni - ha annunciato di tornare a fare cinema recitando al fianco di Jamie Foxx in un film per Netflix, «Black in action» «Oh Jamie Foxx solo tu puoi farmi tornare in azione - ha scherzato Cameron - Non vedo l’ora, sarà un grande spasso».

Cameron Diaz è stata fidanzata dal 2003 al 2007 con il cantautore Justin Timberlake . Il 5 gennaio del 2015, si è sposata nella sua casa di Beverly Hills, California, con una cerimonia ebraica con il musicista Benji Madden. La coppia si era conosciuta dieci mesi prima grazie alla sua cara amica e ora cognata, Nicole Richie. Il 3 gennaio 2020 la coppia annuncia, tramite Instagram, la nascita della prima figlia, Raddix Madden, nata tramite madre surrogata il 30 dicembre 2019.

“Non mi lavo quasi mai”. La confessione choc di Cameron Diaz. Francesca Galici il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.

Da quando ha lasciato il cinema, Cameron Diaz ha rivelato di prestare poca attenzione al suo aspetto fisico e alla sua igiene personale.

Cameron Diaz da qualche tempo è lontana dal mondo cinematografico e non sembra risentire affatto di questo momentaneo stop al patinato mondo di Hollywood. L'attrice ha deciso di confessarsi a 360 gradi in un'intervista con la BBC Rule Breakers e ha rivelato degli aspetti di sé che in pochi conoscevano e che hanno lasciato di stucco molti dei suoi fan. Infatti, la protagonista del cult Tutti pazzi per Mary ha confessato di non essere particolarmente avvezza alla pulizia personale e di non preoccuparsene più di tanto.

Da quando non ha più una vita pubblica particolarmente intensa, Cameron Diaz non si cura troppo di sé e della sua persona: "Raramente penso al mio aspetto durante il giorno e non mi lavo quasi mai la faccia, nonostante io abbia un miliardo di prodotti per la cura personale... Che prendono polvere sugli scaffali". Una rivelazione inaspettata da parte dell'attrice, che a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila è stata una delle più apprezzate e cercate attrici di Hollywood. Poi l'allontanamento da quel mondo pr cause non ancora note e l'inizio di una nuova vita, con ritmi più lenti e senza la pressione sociale imposta dal suo ruolo, in quel mondo che oggi lei stessa definisce come "una trappola". È lei stessa confessa di vivere come "una selvaggia... Sono una bestia".

Ormai distante dal cinema e senza un'apparente voglia di tornare a recitare a quei livelli e a far parte del jet set hollywoodiano, Cameron Diaz non risparmia critiche aspre a quel tipo di realtà, che pare non appartenerle più: "Sono stata vittima di tutta l'oggettivazione e lo sfruttamento della società a cui sono soggette le donne. Ho vissuto tutto sulla mia pelle in determinati momenti". Dalle sue parole emerge un profondo disagio per aver vissuto quella vita e condanna l'oggettivazione del corpo femminile e a suo avviso "è difficile non guardare te stessa e giudicarti rispetto ad altri indicatori di bellezza, e penso che questa sia una delle cose più gravi... Negli ultimi otto anni però ho cancellato tutto".

Ha cambiato talmente tanto vita da essere entrata in una dimensione completamente diversa, senza schemi sociali e senza regole ma, soprattutto, senza più sentirsi costretta e giudicata dal mondo esterno. Del 2020 Cameron Diaz ha annunciato la nascita di sua figlia tramite madre surrogata.

·        Caparezza.

Caparezza: «Ho l'acufene, ancora pochi concerti poi mi fermo (per ora)». Redazione Spettacolisu Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022

Caparezza aveva spiegato di soffrire di ipoacusia nel brano «Larsen», dove aveva raccontato la sua malattia. Oggi annuncia l'intenzione di ridurre la sua presenza sulle scene (senza però parlare di ritiro): «Non posso rischiare troppo». 

Aveva già raccontato della sua malattia in uno dei suoi brani, «Larsen». Ora però Caparezza, al secolo Michele Salvemini, 48 anni, ha annunciato che, a causa dell'acufene e dell'ipoacusia, sarà costretto a fermarsi dopo le 20 date del tour estivo. 

In un'intervista a Il resto del Carlino, il rapper ha spiegato: «Faccio questi venti concerti e mi fermo. Non posso rischiare troppo». 

Secondo Caparezza tutto ciò dipende: «dall’attività live. D’altronde nella vita tutte le cose belle finiscono col toglierti qualcosa. A me questo fischio continuo ha modificato l’udito. Lì per lì, quando ho scoperto di non poter più ascoltare la musica in cuffia, sono andato in crisi, pensando al mio corpo come a una prigione. Così ho provato di tutto, pillole, iniezioni, psicoterapia, ma alla fine ho capito che dovrò semplicemente tenermelo e magari pensare ad altro, distrarmi». E ancora: «Soffrendo di acufene e ipoacusia non posso più fare lunghi giri di concerti come accadeva in passato». 

«In questi sette anni di difficoltà ho incontrato tanti colleghi che m’hanno detto senti questo, fatti vedere da quello, io l’ho fatto ma non è cambiato alcunché. Così ho smesso di cercare cure miracolose per il mio deficit uditivo». Il cantautore pugliese dunque alla fine ha ceduto: «Dopo 7 anni di lotta ho capito che devo tenermi il mio deficit uditivo. E pensare ad altro, magari ai fumetti»

E ha deciso di rassegnarsi: senza annunciare il ritiro, ma spiegando che dovrà adattare il suo impegno live alla sua situazione, e annunciando un ritorno di fiamma per «la passione mai sopita per il mondo dei fumetti. Ho seguito un corso di sceneggiatura che un giorno potrebbe dare i suoi frutti, se non in un volume grafico vero e proprio, magari in un lavoro musicale legato al pianeta della striscia disegnata». 

Caparezza ha però precisato che, nel suo futuro, vede almeno un altro album (e un altro tour). 

Come spiegato nel dettaglio in queste card di Corriere Salute, l'acufene è un disturbo caratterizzato dalla percezione di suoni, come ronzii, fischi, sibili o fruscii, non legati a stimoli esterni. Può essere oggettivo o più spesso soggettivo. Non esiste una cura unica efficace per tutti i tipi di acufene: nei casi in cui si riesce a risalire a una possibile causa, occorre intervenire su quella. 

Per esempio, se l’acufene è legato a deficit uditivi si ricorre a protesi acustiche o all’impianto cocleare; se è associato a sindrome di Menière, a emicrania oppure a problemi cervicali o dell’articolazione temporo-mandibolare si interviene con terapie mirate. Può invece essere molto difficoltoso curare i cosiddetti acufeni idiopatici, dei quali non si conosce la causa.

·        Carla Signoris.

Carla Signoris: gli inizi con i Broncoviz, il matrimonio con Maurizio Crozza e altri 7 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 22 marzo 2022.

Voleva fare la scenografa

«In realtà, io non volevo fare l’attrice, ma la scenografa e alla scuola di Genova mi ero presentata pensando di poter fare un corso di scenografia, che invece non era previsto». Alla recitazione Carla Signoris si è avvicinata un po’ per caso: un giorno l’attrice (tra le protagoniste del legal dramedy «Studio Battaglia» in onda martedì 22 marzo in prima serata su Rai 1) si è ritrovata a vedere i provini della scuola di recitazione al Teatro Stabile di Genova. «Alla fine della mattinata - ha raccontato al Corriere -, la commissione chiede: c’è ancora qualcuno che deve fare il provino? Io alzo la mano così, tanto per fare...Mi danno un testo da leggere, mi fanno fare qualche altro movimento in scena e sono stata presa». Ma questa non è l’unica curiosità su di lei.

Ha girato gli States in autostop

Nata nel capoluogo ligure il 10 ottobre 1958 Carla Signoris a soli 18 anni ha girato l’America in autostop: «Avevo da poco preso la maturità e con una compagna di scuola il cui fidanzato aveva un parente a New York ero riuscita ad ottenere il consenso dei miei genitori a fare questo viaggio: in due mesi ci siamo girate in tondo tutti gli Stati Uniti - ha detto al Corriere -. Un viaggio iperformativo, ma mi ricordo ancora quella notte a Boulder in Colorado e, ripensando a quell’episodio, io il consenso ai miei figli non lo darei mai». Quella notte era andata a fare una passeggiata in un parco enorme con un ragazzo, conosciuto a cena: «A un certo punto arriva una pattuglia di poliziotti, acchiappano il ragazzo, lo sbattono dentro la macchina e se ne vanno. Io resto là come una tonta...non capivo come e perché lo avessero arrestato e comincio a vagare nel parco, finché uno dei poliziotti si deve essere chiesto: chissà dov’è finita quella scema che abbiamo lasciato da sola... e torna indietro. Mi carica in auto e mi porta a fare colazione. Io, nel mio pessimo inglese, quello che parlo ancora adesso, gli chiedo il motivo dell’arresto e l’agente mi spiega che era uno ricercato da tempo in diversi Stati! Forse era un rapinatore, un assassino, uno stupratore... chissà cosa aveva combinato e io non sapevo niente e passeggiavo di notte in un parco con lui!».

I video dei Broncoviz girati in giardino

Durante gli anni Ottanta, dedicati principalmente all’attività teatrale, Carla Signoris, Marcello Cesena, Maurizio Crozza, Ugo Dighero e Mauro Pirovano hanno dato vita al gruppo comico dei Broncoviz (il cui nome è una citazione dal film «Ridere per ridere», commedia cult del 1977 diretta da John Landis e scritta da Zucker-Abrahams-Zucker). «Con Mauri, Ugo Dighero, Marcello Cesena, Mauro Piovano e io l’unica donna: che fatica... Ma ci siamo divertiti da pazzi. Fu Bruno Voglino a volerci per partecipare ad Avanzi, dove i nostri video delle parodie sulle finte pubblicità, Grigiopirla, Caffè Rinko, Soffricini Pintus, eccetera...li giravamo nel giardino di casa». Dopo Avanzi (1992-1994) arriveranno altri due programmi cult di Rai 3: Tunnel (1994) e Hollywood Party (1995).

Il matrimonio con Maurizio Crozza

«Trovo talmente figo Crozza...che me lo sposerei». Carla Signoris è sposata dal 1992 con il comico Maurizio Crozza, da cui ha avuto due figli (Giovanni, oggi attore, e Pietro). I due si sono conosciuti ai tempi del liceo: «Avevamo 14 anni, anzi lui 13 perché è più piccolo di me. Prima ancora che in classe, ci incontravamo alla fermata dell’autobus 41, in via Orsini a Genova. Lui, quando mi ha visto deve aver pensato: madonna quanto mi sta antipatica questa col kilt... eh sì, perché all’epoca, io indossavo rigorosamente questo indumento, poi sono passata al gonnellone e zoccoli in stile femminista hippie». Dopo essersi baciati per la prima volta si sono rimessi insieme soltanto dopo dieci anni: «Quando ci siamo sposati al nostro matrimonio c’erano più ex fidanzati ed ex fidanzate che parenti. E uno dei miei ex è poi diventato addirittura il pediatra dei miei figli».

La carriera tra cinema e tv

L’esordio al cinema di Carla Signoris risale al 1995, nel film dei Broncoviz - diretto da Marcello Cesena - «Peggio di così si muore». Negli anni l’attrice si è divisa tra commedie e ruoli drammatici: è stata diretta da registi come Fausto Brizzi - in «Ex» (2009), «Maschi contro femmine» (2010) e «Femmine contro maschi» -, Gabriele Salvatores («Happy Family», 2010) e Ferzan Özpetek («Allacciate le cinture», 2014). Ma Signoris ha lavorato molto anche per la tv: insieme a Maurizio Crozza ha recitato nel film «Pertini: un uomo coraggioso» di Franco Rossi (1992) e ha vestito i panni della signorina Carla in «Tutti pazzi per amore» (2008-2010). Nel 2022 ritroviamo Carla Signoris non solo in «Studio Battaglia»: è nel cast di «Monterossi» di Roan Johnson, miniserie Amazon Video, e «Le fate ignoranti - La serie» di Ferzan Özpetek.

Ha vinto due Nastri d'argento

Carla Signoris ha vinto due Nastri d'argento: nel 2012, come miglior attrice di cortometraggio per «Countdown», e nel 2017 come migliore attrice non protagonista per «Lasciati andare» di Francesco Amato.

«Ho sposato un deficiente»

Il suo primo libro «Ho sposato un deficiente» (Rizzoli, 2008), riflessioni ironiche sulla vita di coppia e sul matrimonio, prende il titolo da una sua rubrica tenuta dal 2006 al 2010 sul mensile Velvet di Repubblica. Nel 2011 è uscito il secondo libro di Carla Signoris, «Meglio vedove che male accompagnate», seguito nel 2014 da «E Penelope si arrabbiò» (entrambi editi da Rizzoli).

Grande Amore

Amori solidi, amori contrastati, passioni giovani e unioni senza tempo: nel 2019 e nel 2020 Carla Signoris ha condotto su Rai 3 Grande Amore, docureality ideato e diretto da Angelo Bozzolini dedicato ai legami amorosi che più hanno segnato la vita di una serie di personaggi del nostro tempo (del mondo della musica, del teatro, della televisione e della storia).

Cantante insieme a Giua

Nel 2019 Carla Signoris è stata contattata dalla cantautrice ligure Giua, per cantare insieme una canzone da proporre alle selezioni di Sanremo: «Feng Shui». «Non conoscevo Giua, un giorno mi chiama, mi intorta e mi propone di cantare insieme questa sua canzone - raccontava l’attrice al Corriere -. Era un’idea divertente, ma purtroppo quelli del Festival non ci hanno preso sul serio. Peccato, perché sono un’incosciente e sul palco dell’Ariston ci sarei andata davvero. Comunque abbiamo realizzato un video (diretto da Michele Piazza, ndr.), riuscito bene».

Voce della pesciolina smemorata Dory

«Dory mi somiglia moltissimo nel suo essere un po’ vaga, un po’ concreta, malata della sindrome dell’abbandono»: nel 2003 e nel 2016 Carla Signoris ha prestato la voce alla pesciolina smemorata Dory nei due lungometraggi Pixar «Alla ricerca di Nemo» e «Alla ricerca di Dory» (nella versione originale il personaggio è doppiato da Ellen DeGeneres).

Carla Signoris: «Maurizio Crozza? Ci siamo conosciuti alla fermata del bus a 13 anni. E al nostro matrimonio c’erano più ex che parenti». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera l'8 Febbraio 2022.

L’attrice Carla Signoris, moglie di Maurizio Crozza, racconta il lunghissimo rapporto col marito e gli inizi della sua carriera. 

È vero che, metà anni Settanta, ha girato l’America in autostop quando aveva solo 18 anni?

«Verissimo! — risponde Carla Signoris —. Avevo da poco preso la maturità e, con una compagna di scuola, il cui fidanzato aveva un parente a New York, ero riuscita ad ottenere il consenso dei miei genitori a fare questo viaggio: in due mesi ci siamo girate in tondo tutti gli Stati Uniti. Un viaggio iperformativo, ma mi ricordo ancora quella notte a Boulder in Colorado e, ripensando a quell’episodio, io il consenso ai miei figli non lo darei mai...».

Perché? Che è successo quella notte?

«Eravamo andate a cena con altri ragazzi, non rammento dove, forse una trattoria, una pizzeria... e poi decidemmo di fare una passeggiata in un parco enorme. Notte fonda, buio fitto e io chiacchieravo tranquilla con uno di quelli che avevo conosciuto a cena. A un certo punto arriva una pattuglia di poliziotti, acchiappano il ragazzo, lo sbattono dentro la macchina e se ne vanno. Io resto là come una tonta... non capivo come e perché lo avessero arrestato e comincio a vagare nel parco, finché uno dei poliziotti si deve essere chiesto: chissà dov’è finita quella scema che abbiamo lasciato da sola... e torna indietro. Mi carica in auto e mi porta a fare colazione. Io, nel mio pessimo inglese, quello che parlo ancora adesso, gli chiedo il motivo dell’arresto e l’agente mi spiega che era uno ricercato da tempo in diversi Stati! Forse era un rapinatore, un assassino, uno stupratore... chissà cosa aveva combinato e io non sapevo niente e passeggiavo di notte in un parco con lui!».

Ecco perché non darebbe il consenso ai suoi figli. Ma i suoi genitori, invece, glielo diedero tranquillamente?

«Erano tranquilli perché sapevano che con la mia amica dovevamo andare da quel parente, si fidarono e non li ringrazierò mai abbastanza per la loro incoscienza. Di tutte le avventure vissute in quel viaggio, ho omesso tante cose. Per esempio, la mattina dopo quella nottata nel parco col ricercato, telefonai a casa. Mi rispose papà che mi chiese: “Carla tutto bene?”. E io: «Sì, tutto bene. E invece... se avesse saputo la verità...».

Quindi lei, come madre, e suo marito Maurizio Crozza come padre, siete più prudenti?

«Forse perché Giovanni e Pietro li abbiamo avuti tardi, tra i 39 e i 41 anni. E meno male che li ho messi al mondo tardi, perché mi ero talmente entusiasmata che ora, di figli, ne avrei otto. Quando con Mauri siamo rimasti “incinti” ci siamo guardati, chiedendoci: sarà mica troppo presto? Incredibile, ma lì per lì non ci sentivamo pronti...».

E pensare che con Crozza vi siete conosciuti al liceo.

«Avevamo 14 anni, anzi lui 13 perché è più piccolo di me. Prima ancora che in classe, ci incontravamo alla fermata dell’autobus 41, in via Orsini a Genova. Lui, quando mi ha visto deve aver pensato: madonna quanto mi sta antipatica questa col kilt... eh sì, perché all’epoca, io indossavo rigorosamente questo indumento, poi sono passata al gonnellone e zoccoli in stile femminista hippie».

Vi siete subito innamorati?

«Macché! All’inizio forse una storiella... qualche bacio... poi ognuno ha fatto le proprie esperienze e infatti, quando ci siamo sposati nel 1992, al nostro matrimonio c’erano più ex fidanzati ed ex fidanzate che parenti. E uno dei miei ex è poi diventato addirittura il pediatra dei miei figli».

Però entrambi avete frequentato non solo lo stesso liceo, ma anche la scuola dello Stabile di Genova. La sua passione per il palcoscenico come è nata?

«Casualmente. In realtà, io non volevo fare l’attrice, ma la scenografa e alla scuola di Genova mi ero presentata pensando di poter fare un corso di scenografia, che invece non era previsto. Un giorno vado a vedere i provini di recitazione degli altri. Alla fine della mattinata, la commissione chiede: c’è ancora qualcuno che deve fare il provino? Io alzo la mano così, tanto per fare... Mi danno un testo da leggere, mi fanno fare qualche altro movimento in scena e sono stata presa. Ma la vera passione la devo a Carmelo Bene».

È stato un suo maestro?

«Assolutamente no. Una sera vado a vedere il suo Giulietta e Romeo. Stavo seduta in seconda fila e Carmelo, che mentre recitava osservava spesso il pubblico, incrocia il mio sguardo attento... Era come se mi dicesse vieni... vieni a recitare con me e in quel momento è partita la rumba del mio delirio. Una frenesia da invasata che, sulle prime, a mio padre non piacque molto e commentò la mia scelta dicendo: mio dio, la polvere del palcoscenico in casa no! Lui aveva una ditta di disinfestazione e di polvere se ne intendeva. Nonostante ciò, i miei genitori non mi ostacolarono, pensavano che non avrei continuato... tanto adesso smette... Tuttavia, al mio debutto erano presenti e sono sempre stati miei grandi sostenitori».

Un esordio avvenuto accanto a un’altra genovese, la grande Lina Volonghi.

«Mi ha insegnato elementi fondamentali del nostro mestiere. Prima di tutto i tempi teatrali, lei era un metronomo e sapeva come dirigere l’andamento di una battuta, se doveva provocare una risata oppure un’emozione. Inoltre posso affermare di essere cresciuta nel suo camerino, dove però potevo entrare solo dopo che aveva finito di giocare a carte con il suggeritore».

Dalla polvere di palcoscenico alla televisione con la compagnia dei Broncoviz, insieme al futuro marito...

«Con Mauri, Ugo Dighero, Marcello Cesena, Mauro Piovano e io l’unica donna: che fatica... Ma ci siamo divertiti da pazzi. Fu Bruno Voglino a volerci per partecipare ad Avanzi, dove i nostri video delle parodie sulle finte pubblicità, Grigiopirla, Caffè Rinko, Soffricini Pintus, eccetera... li giravamo nel giardino di casa».

Il suo primo film nel 1992 insieme a suo marito, però, era su un personaggio molto importante: «Pertini: un uomo coraggioso», con la regia di Franco Rossi.

«Mauri impersonava il giovane Pertini e io la sua prima fidanzata Matilde Ferrari. La cosa incredibile è che questo film, realizzato per Rai2, non andò mai in onda in orari decenti, ma solo un paio di volte, credo, alle 4 del mattino. Pare che Carla Voltolina non avesse apprezzato molto il progetto proprio perché c’era di mezzo il ricordo di Matilde e per questo il film era stato trasmesso in sordina. Ma bisogna considerare che era il 1992, l’anno di Tangentopoli, e vedere un attore comico nei panni di Pertini che diceva frasi tipo “noi socialisti salveremo l’Italia”, quando stava andando tutto a rotoli...».

Non solo teatro, televisione, cinema, ma lei ha anche scritto tre libri divertenti e di successo: «Ho sposato un deficiente», «Meglio vedove che male accompagnate», «E Penelope si arrabbiò».

«Sono nati per una esigenza precisa. Avevo i figli ancora piccoli e lavoravo poco per dedicarmi a loro, però avevo bisogno di sfogare la mia creatività e, negli intervalli in cui Giovanni e Pietro stavano a scuola, scrivevo».

A giudicare dai titoli, sembrano anche uno sfogo contro il matrimonio...

«No! Non sono libri autobiografici. Quando andavo a prendere i miei figli a scuola, mi capitava di chiacchierare con le altre mamme e dai loro discorsi, le loro lamentele, ho capito che un po’ tutte abbiamo sposato un deficiente, che tutto sommato stiamo meglio da vedove e che tutte, più o meno, siamo state tradite come l’eroina dell’”Odissea”. Insomma, tre libri un po’ trasgressivi rispetto all’idea canonica del matrimonio».

Voleva essere trasgressiva anche quando accettò la proposta della cantautrice Giua di andare al Festival di Sanremo con il brano «Feng Shui»?

«Non conoscevo Giua, un giorno mi chiama, mi intorta e mi propone di cantare insieme questa sua canzone... era un’idea divertente, ma purtroppo quelli del festival non ci hanno preso sul serio. Peccato, perché sono un’incosciente e sul palco dell’Ariston ci sarei andata davvero. Comunque abbiamo realizzato un video, riuscito bene».

Sono incoscienti anche i vostri figli? Hanno seguito le orme di mamma e papà?

«Beh, nei nostri confronti sono criticissimi, snobissimi, con un po’ di puzza sotto il naso rispetto a quello che facciamo il padre ed io, atteggiamento che ostentavamo anche Mauri ed io da ragazzi. Giovanni ha frequentato recitazione al Centro Sperimentale, ma il patto con lui era che prima si laureasse in Filosofia. Pietro ha studiato Fisica, ma gli piacciono i film di Christopher Nolan e il suo sogno è fare il regista... vedremo».

Presto lei sarà di nuovo in tv nella serie di Ferzan Ozpetek «Le fate ignoranti».

«Interpreto il personaggio di Veronica, la mamma della protagonista, interpretata da Cristiana Capotondi. Lavorare con Ferzan è sempre un grande piacere, perché pur essendo un regista che comanda e si fa rispettare, riesce a creare sul set un clima familiare, di leggerezza».

Ma a un altro film con il marito non ci pensa?

«Abbiamo lavorato tanto insieme e... mai dire mai. Tuttavia, facendo lo stesso mestiere certamente ci si capisce di più, ma a volte è pure meglio evitarsi...».

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 10 marzo 2022.

Carla Signoris è una che se si deve fare una bella risata, lo spunto lo prende spesso dagli aspetti grotteschi che la vita le offre. La risatona l'aveva fatta dopo la notizia di una insegnante che in una scuola media di Roma, parlando di eroi ed eroine, ha mostrato il video di un suo vecchio personaggio: «Tutta Patata», che sparava fulmini e saette dalle zone intime. Con grandi proteste dei genitori. Lei, la Signoris, tuffata in una pochade suo malgrado.

Carla, la prima reazione?

«Sono scoppiata a ridere. Tutta Patata uscì 30 anni fa quando forse la percezione su quel che si diceva era diversa. Comunque anche allora non aveva nulla di pornografico, di allusivo. Dopo tanto tempo sembra chissà che e invece non era niente. C'è gente che permette ai figli di 8 anni di guardare Squid Game e la Banda Bassotti fa scalpore. Ora censurano persino Dostoevskij». 

Dove si andrà a finire?

«Un momento: ben venga una maggiore attenzione, meglio questo che niente. Penso che per trovare l'equilibrio si debba passare da un estremo all'altro. Ci vuole il pensiero per arrivare al giusto mezzo». 

È vero, un tempo c'era maggiore scorrettezza. In un suo sketch esilarante lei su di giri raccontava la sua giornata tipo: "Mi alzo alle 4 del mattino riassetto casa, preparo colazione e pranzo, porto i bambini a scuola, lavoro, palestra, preparo la cena, cucio, stiro e aggiusto la tele rotta. Ma come fa?, le chiedeva l'intervistatore. E lei serafica: mi drogo». «Ecco, oggi quello sketch forse non me l'avrebbero più fatto fare». 

Oggi c'è una divertentissima pubblicità di un ragazzo che bussa ai vicini...

« ...chiedendo un etto di farina 00 e gli apre il cartello di Medellin in pieno assetto. Il cane guarda il ragazzo basito e dice "Compagnia sbagliata?". Esilarante, anche io ho paura che la tolgano dalla tv, troppo bella». 

Forse tv e cinema dovrebbero rivolgersi ai creativi per uscire dall'eterno remake. Oggi stiamo parlando di Studio Battaglia, adattamento, appunto, dalla serie inglese The Split, nella quale la vediamo protagonista della storia orizzontale, che attraversa tutte le puntate.

«Le dico una cosa, è un ottimo adattamento e mi sento addirittura di trovarlo migliore dell'originale. Un family drama vestito da legal nel quale io sono Carla, (la scelta del mio stesso nome mi inquieta) perché la poveretta va dall'avvocato con il marito ricco convinta che lui le voglia intestare qualcosa e invece scopre che lui vuole divorziare. E da lì un'escalation di sfighe che la costringeranno a riprendere in mano la sua vita. Per dire che ce la possiamo fare a rialzarci. La regia, la scrittura, sono molto eleganti, c'è una Milano che è più bella di quanto già non sia, lo studio legale delle Battaglia meravigliosamente antico e l'altro nel quale una delle avvocate Battaglia lavora, ipermoderno. Questo significa che possiamo crescere insieme». 

Però, diciamocela tutta, che si usi un ospedale, una stazione di polizia, uno studio legale, alla fine si dicono sempre le stesse cose: sentimenti, amori, corna, paure, insoddisfazioni, cambia solo il contenitore, non trova?

«Forse è vero, ma è la vita. La vita è così dovunque la metti. Qui resiste il senso etico di una professione cinica per antonomasia, ci sono i temi forti e anche i personaggi più piccoli sono rotondi, nessuno è abbandonato, ognuno porta una storia, la vita e la sua quotidianità».

Ha detto che questo personaggio piange in continuazione, proprio lei che è una delle poche attrici brillanti che abbiamo.

«A me piace fare il mio mestiere, comunque mi debba esprimere. Non mi piace ripetermi e dico di no ai personaggi di servizio. Ho rifiutato tante offerte per questo e per stare con i miei figli che ora sono cresciuti e dunque sono più disponibile».

Il cinema come lo vede?

«In crisi per mancanza di idee, dovrebbe appoggiarsi meno a quello che sulla carta funziona. Non essendo spettacolare, dovrebbe avere un guizzo di fantasia che non ha». 

In compenso il teatro va benissimo.

«È vero. Io sono rimasta a Roma per andare al Teatro Argentina a vedere M. Il figlio del secolo, tratto dal romanzo di Antonio Scurati. Ho preso i biglietti un mese fa per riuscire a vederlo. A Milano era tutto esaurito».

Una buona cosa in questo momento tanto buio.

«Terribile, io vivo allacciata alle notizie e sto leggendo l'ultimo libro di Gino Strada. La guerra deve essere un tabù».

·        Carlo Conti.

Carlo Conti: «Da dj bevevo solo acqua, ma ero malato di dongiovannite. Molto più di Pieraccioni...» Renato Franco su Il Corriere della Sera il 15 Novembre 2022.

Il conduttore si confessa dopo il successo di «Tale e Quale Show»

Ha fatto tre Sanremo, qual è la prima immagine che le viene in mente?

«Sono due i momenti in cui mi sono emozionato. Nel 2015, al debutto, quando avevo fatto arrangiare come sigla iniziale La fanfara dell’uomo comune degli Emerson, Lake & Palmer: mi sentivo così, l’uomo comune che da Firenze è arrivato al Festival di Sanremo. E poi due anni dopo quando sono entrati dal fondo dell’Ariston Giorgio (Panariello) e Leonardo (Pieraccioni). Li ho visti arrivare e ho pensato: chi avrebbe mai immaginato di essere qui con loro un giorno?». Carlo Conti è l’uomo comune che fa ascolti fuori dal comune. Quarant’anni di carriera, il re della scaletta per come la rispetta al secondo, la medietà è la sua virtù: mai una polemica, mai uno sconforto.

Il suo verbo preferito?

«Pedalare. Tale e Quale Show è andato molto bene (venerdì va in scena il Torneo dei Campioni, mentre la finale del programma settimana scorsa è stata vista da quasi 4 milioni e mezzo di spettatori con il 28% di share, ndr ) ma quando mi mandano i risultati dell’Auditel io rispondo sempre ai miei autori: bene, ma ora pedaliamo con i piedi per terra, un doppio bagno di umiltà. Perché la tv è come una gara di ciclismo, c’è la salita, poi la discesa, ma dopo arriva ancora un’altra salita». I

La sliding door della sua carriera?

«Non c’è stata, mi piace proprio questo. È stata una carriera in crescendo, passo dopo passo, un percorso gradino dopo gradino».

La sua passione come è nata?

«A 16 anni con la radio. Ho iniziato per scherzo al pomeriggio con il mio amico Andrea, con un giradischi e un registratore imitavamo Arbore e facevamo Basso Sgradimento: chiacchieravamo, prendevamo in giro i professori e poi facevamo girare le cassette in classe».

Uno Youtuber ante litteram... Il passo successivo?

«Suonai il campanello a una delle prime radio fiorentine e chiesi se avevano bisogno di dj: sì, la domenica pomeriggio ma non paghiamo. Accettai subito. Non c’era nemmeno il regista, facevo tutto io. Allora erano davvero radio private, nel senso che erano private di tutto. Fu un periodo fantastico, mi ha insegnato tutto: a parlare senza avere appigli, la velocità, il ritmo, l’improvvisazione; viaggi a braccio, inventi le telefonate e le dediche. È stata la mia gavetta, l’investimento su me stesso, come oggi i ragazzi che pubblicano a tempo perso video su YouTube o TikTok».

Ha avuto anche il periodo delle discoteche: lei quanto è stato trasgressivo?

«Per niente. Bevevo solo acqua, nemmeno una Coca Cola. Il dj però era al centro dell’attenzione e aveva sempre un bel riscontro femminile, dunque pur non essendo un adone è stato un periodo di notevole allegria e divertimento. Per tanto tempo, fino a prima del matrimonio, ho sofferto di dongiovannite. La mia è una grande forma di amore per le donne, credo nasca dalla figura fortissima di mia mamma per cui nutro grandissima stima e ammirazione, per i suoi sacrifici, per le sue difficoltà. Mio babbo è morto che avevo 18 mesi e lei mi ha fatto da babbo e da mamma, ha dedicato la sua vita a tirarmi su al meglio, il suo sogno era il posto fisso».

Che dicevano della sua «dongiovannite» i suoi amici Pieraccioni e Panariello?

«Per loro io ero l’Alberto Sordi del gruppo, quello che non si sarebbe mai sposato. Quando ho parlato di matrimonio non ci credeva nessuno dei due. Io non avevo mai convissuto prima, mai nemmeno uno spazzolino da denti in più a casa mia. Leonardo invece si fidanza e dopo cinque minuti va a convivere; Giorgio aspetta al massimo due mesi. Io ero il solitario, quello che stava bene da solo».

Cosa vi lega?

«Aver fatto la gavetta insieme, le serate di successo e i flop, le speranze e le illusioni; e poi il successo l’uno dell’altro».

Mai un litigio tra di voi?

«Con me è impossibile litigare. Io non litigo con nessuno. Non capisco perché bisogna farlo. Se fossero tutti come me non ci sarebbe mai stata una guerra nel mondo, cerco sempre il punto di incontro che non vuol dire essere bischeri, ma avere un equilibrio. Quando la gente litiga la verità sta sempre nel mezzo e io cerco sempre quel mezzo».

È impossibile che lei dia un giudizio negativo su qualcuno...

«Mi sembra di sentire mia moglie... Nel mio ruolo devo avere un grande rispetto per tutti, specialmente per i colleghi e le colleghe, e poi davvero non conosco la parola invidia. Non porto rancore nemmeno se qualcuno si è comportato in maniera scorretta nei miei confronti. Il tempo lenisce le asperità».

A fine anni Ottanta il presidente della Rai Manca definì la tv di Baudo nazionalpopolare. E Baudo si offese. All’epoca era un insulto. E poi?

«Poi sono cambiati i presidenti della Rai ed è diventato un complimento. Hanno capito che il nazionalpopolare ha una sua valenza, quella di regalare leggerezza e svago, non necessariamente dare una crescita culturale. Conta sempre una sola cosa: il rispetto nei confronti dello spettatore».

Il panico in diretta? Mai?

«Mai. La gavetta serve a questo. Anzi l’imprevisto è sempre una positiva botta di adrenalina che ti spinge a trovare al volo una soluzione. Al massimo ho provato il timore reverenziale di fronte a certi ospiti, come Sophia Loren e Alberto Sordi oppure Mariangela Melato e Giancarlo Giannini: mi sentivo una formica».

Un ospite in imbarazzo?

«Woody Allen era spaesato, forse stanco per il fuso, anche perché era bianchissimo mentre io ero appena tornato dal mare. L’effetto cromatico era notevole... Per fortuna l’intervista era registrata perché se no tra le sue pause e la sua vocina sarebbe stata tosta».

Mai un peccato di ego?

«Non sono il tipo. Giusto da ragazzo. Sulla mia macchina, un 127 arancione, feci fare un adesivo con la scritta Dj Carlo Conti. Molto maranza. Ma dopo una settimana mi avevano già tolto metà delle lettere».

Per scelta di vita nel 2016 ha deciso di lasciare «L’Eredità». È stato un passo indietro?

«Sì, è stata una scelta importantissima, perché il preserale, essere in onda tutti i giorni, crea un rapporto di fedeltà, stima e rispetto con il pubblico, crea una complicità che nessun altro tipo di programma riesce a costruire. Per personaggi come me l’appuntamento quotidiano è fondamentale, ti dà una forza particolare. E penso che sia un discorso che vale anche per Amadeus, per Gerry Scotti, per Bonolis...». Ride: «Diciamo che averlo lasciato è stata una forma di prepensionamento...».

·        Carlo Freccero.

Maurizio Caverzan per “La Verità” il 2 novembre 2022.

Buongiorno Carlo Freccero, l'avvento di Giorgia Meloni è oggettivamente un fatto spiazzante per la politica italiana. Come lo definirebbe, con una formula?

«Contrariamente all'entusiasmo generale io ancora non mi fido del cambiamento annunciato». 

Perché?

«Ho talmente somatizzato il fatto che il potere abbia imparato a interpretare sia il ruolo istituzionale che quello dell'opposizione che mi servono prove di discontinuità maggiori rispetto al recente passato». 

Cosa la fa essere così scettico?

«Come il governo gialloverde, non vorrei che anche questo fosse un ribaltone ribaltato». 

In che senso?

«Nel senso che Meloni sembra Draghi con la parrucca bionda di Maurizio Crozza». 

Anche per lei è una draghetta in continuità con Super Mario?

«Non dico assolutamente che sia in malafede, ma è stata scelta dal potere con gli stessi criteri con cui nel 2018 aveva scelto i 5 stelle. Ora Meloni ha due possibilità: obbedire o, a differenza dei grillini, usare a suo favore le regole del sistema».

Cosa intende per potere?

«Il deep State dell'America e dell'Europa». 

È la tesi dei complottisti.

«Io studio e leggo i documenti. Se siete ignoranti, affari vostri». 

Eccolo qua, Carlo Freccero: studiare lo fa sentire giovane e attivo. Perciò, sempre con la sua indole vulcanica, frequenta anche temi distanti dalla zona di conforto di grande autore televisivo come la pandemia, la finanza e la politica internazionale.

La sua sensazione sul nuovo governo ora qual è?

«Meloni è stata molto efficace nel discorso della fiducia alla Camera perché è riuscita a essere motivazionale in un momento di forte depressione. Ma questo non basta per marcare la discontinuità». 

Sospetta che sia collusa con il potere?

«Sto a guardare. È come la Audrey Hepburn di My Fair Lady che da povera ragazza di borgata arriva al gran ballo dell'Aspen, il salotto buono e meno volgare del potere. Ormai oggi è impossibile fare politica da underdog o da outsider, fuori da certe scuole o da certe istituzioni che formano i leader come, per esempio, quelle frequentate da Roberto Speranza e Matteo Renzi». 

Perché Meloni ha vinto?

«Perché era l'unica a non aver partecipato al governo Draghi. Ma non mi sembra una ribelle del sistema, non a caso va spesso in America ed è la leader dei conservatori al Parlamento europeo». 

Perché ha vinto?

«Ha ereditato da Matteo Salvini l'elettorato imprenditoriale del Nord, costituito da piccole e medie imprese e degli operai che ci lavorano, difendendoli dalle élite economiche che promuovono gli interessi delle multinazionali e che, a loro volta, rappresentano la fine della piccola imprenditoria. La detassazione alle aziende che assumono è la difesa del sovranismo produttivo e l'espressione di una politica che crede ottimisticamente nel libero mercato».

Giorgia Meloni riuscirà a guidare il governo senza mettersi contro le élite e i poteri forti?

«La sua unica possibilità è ritagliarsi spazi all'interno delle regole che ci sono imposte». 

A una settimana dall'insediamento è già alle prese con parecchi problemi, il primo dei quali sembra la gestione del tetto ai contanti. È un tema che era in agenda o le esploso in mano?

«È un provvedimento che dopo due anni e mezzo di austerità vuole favorire la circolazione del denaro. Con la pandemia si è affermata una forma di controllo che ha usato come dispositivo la moneta digitale. È il capitalismo della sorveglianza. Innalzare il tetto a 5.000 euro vuol dire rompere in minima parte questo controllo e questa sorveglianza. La Germania e l'Olanda, i cosiddetti Paesi virtuosi, non hanno il tetto al contante: come può l'Ue chiedere all'Italia di mantenerlo ai livelli più bassi?». 

Alzare il tetto, si dice, favorisce l'evasione, nessun povero gira con 5.000 euro in tasca: perché è così centrale questo provvedimento?

«Alberto Bagnai sostiene che quando parliamo di contanti non c'entra solo l'evasione, ma l'affermazione di un principio di libertà. In caso di disobbedienza, al cittadino potrebbe essere impedito l'accesso ai suoi stessi soldi per la vita quotidiana, come accaduto ai camionisti canadesi, ai quali, per sedare la loro protesta il governo ha bloccato i conti bancari».

E come si combatte l'evasione?

«È vero che c'è la piccola evasione dei ristoranti o dell'idraulico che viene a fare la riparazione in casa. Ma dobbiamo perseguire innanzitutto questo nero che spesso è uno strumento di sopravvivenza dei piccoli commercianti, oppure le grandi evasioni della Pfizer, ora sotto indagine per 1,2 miliardi di euro, e di tutte le altre multinazionali dell'hi-tech?».

Non era meglio partire dal caro bollette?

«Assolutamente sì. È il tema principale che fa venire a galla la povertà diffusa del nostro Paese. Non ho ricette, spero che le abbia il governo». 

Un forte elemento di discontinuità rispetto ai precedenti è che Roberto Speranza non è più ministro della Salute.

«In Speranza c'è qualcosa di geneticamente modificato che lo induce a reiterare il suo mandato: mantenere in vita la pandemia anche e nonostante la morte della pandemia».

Addirittura?

«In un Parlamento finalmente liberato dalla mascherina, Speranza mascherato spicca come un monito, un memento mori, tipico dell'iconografia seicentesca che ci ricorda la fragilità umana: la minaccia c'è ancora e non possiamo cedere all'euforia del presente». 

Anche Mattarella lo ribadisce.

«Lo smantellamento delle restrizioni è in atto da tempo in tutto il mondo. Ma temo sia uno smantellamento temporaneo, come dice Matteo Bassetti: "Questa pandemia è finita, ma pandemie future sono già in agenda, come ci illustra Bill Gates". Discontinuità significherebbe uscire da una gestione della pandemia in chiave igienico-sanitaria in cui passano i provvedimenti repressivi della politica e dello stato di eccezione».

L'istituzione di una Commissione d'inchiesta sulla gestione della pandemia è davvero indispensabile?

«Il presidente della Repubblica ha già manifestato la sua contrarietà. Per conto mio, commissione d'inchiesta non significa nulla. In primo luogo perché può riguardare il penale per le responsabilità sanitarie, ma anche il civile per i conflitti d'interesse.

Inoltre può criticare la gestione sanitaria con le sue violazioni dei diritti umani o, al contrario, sancire che tali violazioni sono state troppo poche. In questa direzione andava l'inchiesta sui fatti di Bergamo. Troppo spesso la commissione d'inchiesta è una parola magica per colmare l'insoddisfazione popolare».

Un'altra discontinuità radicale si registra sulla problematica gender. Anche su questo terreno dobbiamo aspettarci un inasprimento del dibattito politico?

«Personalmente, ho sempre odiato diktat e divieti. Il mio mentore è stato Michel Foucault il quale, studiando la morale vittoriana, denunciava l'interdetto che colpiva l'omosessualità. Ho sempre difeso la diversità in ogni sua forma, non a caso sono stato stigmatizzato per aver mandato in onda la serie tv Chimica e fisica in cui erano rappresentate scene di omosessualità. Tuttavia, viviamo oggi immersi nell'ideologia radical che trasforma il gender in un'imposizione e colpevolizza l'eterosessualità. Alla luce di questa premessa, ritengo che la Meloni sia stata pacata e si sia ancorata a una visione tradizionale e conservatrice».

È bastato aggiungere la natalità tra le competenze del nuovo ministro della Famiglia perché si scatenasse un putiferio. Perché la sinistra non si preoccupa del fatto che siamo il Paese con la più grave crisi demografica al mondo?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, ma pongo io una domanda. Quali sono attualmente i valori della sinistra? Aborto, eutanasia, gender: tutti diritti che sottoscrivo, ma che dialetticamente hanno un minimo comun denominatore distopico». 

Qual è?

«Il depopolamento del pianeta».

Altra parola scandalo è merito, la tutela del quale un tempo era fiore all'occhiello della sinistra perché via privilegiata per superare la supremazia delle classi agiate. Invece oggi?

«Il merito non è un valore né di destra né di sinistra, ma del neoliberismo che a vario titolo destra e sinistra condividono. Cosa significa? Che le differenze economiche non sono scandalose perché giustificate dal merito. 

Il Sessantotto ha avuto tra i suoi testi di riferimento la Lettera a una professoressa di don Milani. Per questo trovo infelice che Meloni abbia aggiunto la voce merito vicino a Pubblica istruzione. La scuola deve esserci proprio per i più deboli». 

L'articolo 34 della Costituzione prevede la tutela «dei capaci e meritevoli privi di mezzi» affinché possano raggiungere i gradi più alti dell'istruzione.

«Concordo, ma non voglio creare esclusi».

L'unico elemento di continuità con i precedenti governi è l'appartenenza europeista e atlantista: intoccabile?

«È un limite e insieme una chance. Siamo alla vigilia delle elezioni di midterm in America. La guerra la vuole Joe Biden che in Ucraina ha un forte conflitto d'interessi, come dimostrano le attività di suo figlio Hunter. Se i repubblicani ottenessero la maggioranza al Congresso si capovolgerebbe la politica americana in chiave patriottica e non più globalista. E anche Meloni, secondo me, potrebbe seguire questo ribaltamento».

·        Carlo Verdone.

"Nella mia seconda Vita da Carlo perdo i vecchi tic e mi commuovo spesso". Quasi ultimate le riprese per la nuova serie. "Mi metto in testa di fare un film d'autore". Paolo Scotti il 22 Novembre 2022 su Il Giornale.

Lui con i figli, lui con la chitarra, lui con Vasco Rossi, lui con Massimo Troisi... «Quando ho scoperto che sul set c'erano le stesse foto che sono nel salotto di casa mia, perfino gli stessi quadri, e nelle identiche posizioni alle pareti...E questi come hanno fatto?, mi sono chiesto». Semplice. Anche se lo nega, è stata Annamaria, la (vera) governante di Carlo Verdone, ad aprire la (vera) casa dell'attore e regista, per farla ricostruire (falsa) - compresi i mobili dèco in ciliegio e la veduta mozzafiato dal Gianicolo - a Giuliano Pannuti, scenografo di Vita da Carlo. Riparte il delizioso gioco di specchi tra verità e finzione, nella seconda stagione della serie che, all'ultimo mese di riprese a Roma, nel 2023 traslocherà da Amazon Prime a Paramount+ per raccontare in dieci puntate, tra autobiografismo divertito e irresistibile fiction, con attori veri che ne fanno di falsi, e famosi che rifanno sé stessi, la vita reale (e immaginaria) del popolarissimo Carlo.

Verdone: sbaglio o aveva dichiarato di non voler fare mai più una serie tv?

«Giusto. Vita da Carlo era stata un'ammazzata tale che giuravo di non ricascarci più. Esordivo nella serialità, molti scuotevano la testa: E mo' pure questo se mette a fa' tv?... Mi ha convinto il successo. Quando giro non mi rendo conto di quello che faccio. Al contrario: mentre li giravo ero convinto che alcuni dei miei film migliori, Compagni di scuola o Maledetto il giorno che t'ho incontrata, sarebbero stati dei disastri. Stavolta piglio la botta, pensavo. Ma forse provare ancora quest'insicurezza è, in fondo, una prova di umiltà. In questo lavoro ricominci da capo ogni volta. E anche con Vita da Carlo temevo. E invece eccoci qui».

Diviso dalla moglie (Monica Guerritore), tormentato dalla figlia (Caterina De Angelis), perseguitato dall'amico (Max Tortora), perennemente afflitto da fan alla ricerca di autografi e selfie, cosa farà stavolta?

«Abbandonata definitivamente l'idea di candidarmi a sindaco di Roma - anche se gli amici insistevano: Ma nei sondaggi sei all'80 per cento! - decido di girare un film d'autore. Non più criptico e lugubre come L'incrocio delle ombre, col quale nella prima serie vincevo addirittura la Palma d'Oro a Cannes. Ma con l'autobiografico Maria F., tratto dal mio (autentico) libro La carezza della memoria. Senonché il produttore (Stefano Ambrogi) esplode: Ma qui nun se ride! E manco se vede gnente! Però c'è tanta tenerezza, replico io. E lui: Co' la tenerezza nun c'ha mai magnato nessuno!. Allora la figlia gli suggerisce: Piglia come protagonista il personaggio che c'ha più follower. Detto fatto: per interpretare me da giovane lui piglierà Sangiovanni, il cantante lanciato da Maria De Filippi. Il quale litigherà con la prim'attrice (Ludovica Martino) mentre io litigherò con lui. Insomma una sorta di devastante 8½ verdoniano...».

Nella finzione che sembra ancora realtà - e viceversa - avrà ancora accanto tanti divi a interpretare sé stessi?

«Inevitabile. Incontrerò Claudia Gerini sul set di un film di Gabriele Muccino (ci sarà anche lui), di cui lei è la protagonista e io interprete di un cameo. Sarò invitato con Christian De Sica ad un incontro di vecchi allievi del Nazareno, la scuola dove io e lui eravamo compagni di banco (e al quale lui non vorrebbe partecipare). Incrocerò Zlatan Ibrahimovic dietro le quinte dello show di Fabio Fazio. E chiederò a Maria De Filippi di aiutarmi a risolvere le grane che l'(apparentemente) inadatto Sangiovanni mi dà sul set».

Quanto dista dalla realtà il ritratto che di sé e della sua esistenza lei fa in Vita da Carlo?

«Alcune cose sono identiche. Quando giro, ad esempio, faccio davvero una vita da monaco cistercense: sveglia alle cinque, alle nove di sera già a letto. Altre le accentua l'ironia. I fan, ad esempio: ci vorrebbe un libro solo per raccontare quante cose meravigliose, ma anche folli, fanno per me. Uno stalker mi ha spedito per anni buste con dentro polvere bianca: una volta farina, una volta calce... Ora è in galera. Proprio l'altro giorno un russo che conosce tutti i miei film a memoria, sapendo quanto lo adori, mi ha regalato un rarissimo autografo del grande direttore d'orchestra Carlos Kleiber. Cose senza prezzo».

C'è ancora qualcosa che il pubblico non sa di Carlo Verdone, e che scoprirà con questa serie?

«I miei tic, le mie manie, vanno diminuendo. Mentre invecchiando mi commuovo molto più facilmente. Ormai sono ipersensibile al punto che, per girare un paio di scene in cui dovevo piangere, non ho avuto nemmeno bisogno di trucchi. Lacrime vere! Eppure di natura io sarei un freddo... Dipenderà dall'età, certamente».

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 6 luglio 2022.

Verdone e Dreyer, il re della commedia e il regista danese scomparso nel 1968, intimidente solo a guardarlo. Carlo a Lecco parlerà del suo film, Ordet-La parola. La strana coppia

«Hanno saputo che sono un appassionato di Dreyer e di questo film e mi hanno invitato a parlarne. È un cinema importante, c'è un comune denominatore in pattuglia di registi nordici, da Dreyer a Pabst fino a Bergman: il grande rigore, la spiritualità. È completamente diverso dalla spettacolarità americana. Trovo che se ne parli sempre in modo dogmatico. C'è in loro qualcosa di mistico e misterioso, un cinema da cineclub dove non ci sono il buono, il cattivo e il finale che dà sollievo. Ordet è un film teatrale, con tre-quattro uniche scene all'aperto su una collina battuta da un vento gelido». 

Non è un suo riferimento, ma c'è una connessione emotiva con suo padre.

«Quel cinema non lo saprei fare, ma non vuol dire che non possa amarlo come spettatore. Massaggia il cervello con considerazioni profonde, è per un pubblico preparato. Erano film destinati all'insuccesso, Pabst morì nel dimenticatoio più assoluto». 

Pabst ci riporta a un episodio della sua vita da studente universitario.

«Mio padre insegnava cinema alla Facoltà di Magistero, ebbe la prima cattedra. Mi chiese quello che non mi doveva chiedere: Dreyer. Non fu affatto generoso, facendomi fare una figuraccia tremenda. 

Ci rivediamo alla prossima sessione, mi congedò così.

Alla vigilia l'avevo pregato di chiedermi di Fellini e del neorealismo. A casa, dopo l'esame, si fece una grande risata e mi disse, cosa avrebbero detto gli altri studenti se ti avessi protetto? La prossima volta preparati su Dreyer». 

Era severo?

«Aveva due anime, era autorevole come professore e storico, soprattutto delle avanguardie, e fu giovane assistente di Norberto Bobbio; poi aveva un'anima scherzosa, comica, la goliardia senese da cui proveniva. Lui, orfano di padre (era morto in guerra sul Carso e nemmeno l'aveva visto) trascriveva atti unici goliardici, per esempio Il trionfo dell'odore, ambientato nei gabinetti dell'università di Siena; Zeffirelli realizzava le scenografie e con lui a recitare c'erano futuri registi, pittori, scultori. Amava il circo come Fellini, che frequentava casa nostra assieme a tanti nomi del cinema e intellettuali». 

E lei, da bambino, come li guardava?

«Papà convocava me e mio fratello Luca e ci diceva: mi raccomando, tra poco suonano alla porta, salutate con educazione. Arrivavano Blasetti con gli occhiali neri; Lattuada con gli occhiali neri; Pasolini con gli occhiali neri; Germi».

Con gli occhiali neri

«Pensai che avessero dei disturbi agli occhi per le luci sparate sui set. Ne avevo soggezione, mi sembravano tutti commissari di polizia».

Una sera a casa si palesò Leonard Bernstein.

«Gli chiedevo di Carlos Kleiber, altro grande direttore, apriti cielo, ne aveva una stima immensa ma diceva che era un caratteraccio, mancava di leggerezza. Arrivò la cena. Bernstein con una mano fumava, con l'altra aveva il whisky. Chiese a mia moglie Gianna di essere imboccato. C'è una foto che immortala quel momento». 

Suo padre le fece vivere una serata indimenticabile.

«1965, Teatro Adriano, concerto dei Beatles. Ero stato bocciato al Quinto ginnasio e non mi comprò la batteria. Poco dopo bussò alla mia camera: ho preso i biglietti per i Beatles. Trasalii, com' è possibile? E lui, è un fenomeno nuovo, va capito e cercheremo di capirlo insieme».

Cosa le manca di lui?

«Il consiglio, il suo essere punto di riferimento. L'altro giorno ho scritto la prefazione a un libro ( Vita inquieta di un poeta ) di Letizia Leonardi su un grande scrittore armeno, Yeghishe Charents, morto nel 1937. Mio padre era un grande cultore di quel popolo che ha avuto genocidi incredibili. Finita la prefazione ho allargato la mano verso il nulla. Era il gesto che facevo al tempo in cui c'era mio padre, quando prendevo il ricevitore del telefono per leggergli un mio scritto, lui ascoltava e mi correggeva. Non trovavo il telefono. Mi sono detto, ma cosa stai facendo?»

Carlo Verdone «Cieli, mari, vallate ecco le mie fotografie se accendo la tv vado a letto arrabbiato». Enrico Caiano su Il Corriere della Sera il 28 Giugno 2022.

Il regista e attore romano: «Mi basta vedere uno scatto nella natura, mio o di altri, per capire in quale stagione siamo. Non sbaglio quasi mai». «Tra serie e talk show è solo un bagno di violenza: ridatemi Stanlio e Ollio». 

«Vanno / vengono / certe volte si fermano» cantava le nuvole De André. Da vent’anni si fermano anche nell’obiettivo delle macchine fotografiche di Carlo Verdone. Prima con la pellicola, ora digitali. Dal 1° luglio si fermeranno pure davanti agli occhi dei visitatori della prima mostra di Carlo fotografo, Carlo Verdone, i colori del silenzio, ad Ascoli Piceno nell’ambito della Milanesiana, la manifestazione ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, itinerante in tutta Italia. Lui mica era convinto. E non è ritrosia da “star” la sua. Eppure in passato non si è certo vergognato di esibirsi alla batteria in concerto con Venditti, per dire. È uno che normalmente si butta. Stavolta, no: «Non avevo nessun tipo di interesse e voglia di esporli questi lavori», insiste Verdone. «Li ho sempre ritenuti molto privati, personali, avevo una sorta di pudore a mostrarli. Solo che so’ passati vent’anni e non faccio altro che collezionare cieli, litorali, vallate, sfondi, mare, stagioni... E a scartare una quantità disumana di scatti. Alla fine Elisabetta Sgarbi li ha visti per puro caso e ha detto che le interessavano. Se non era per lei restavano nel computer. Poi c’è stato l’apprezzamento del critico cinematografico del Corriere Paolo Mereghetti e di altri. Mi son detto proviamo: se dicono così persone che stimo e sono rigorose nel loro lavoro allora facciamo conoscere un altro pezzetto della mia anima».

«Non sono un tuttologo»

Poi però scuote subito idealmente la testa: « Il mio lavoro è un altro, spero di sapere fare bene l’attore, il regista, se vogliamo anche un po’ lo scrittore: sono già al terzo libro. Non volevo mettere sul piatto un’ulteriore cosa per dire quante ne so fare. Poi ti definiscono tuttologo ed è brutto. Infine non so giudicare, sono emozioni talmente personali che non penso al pubblico che le guarda. Certo, ora che saranno esposte, spero possano dare emozioni anche ad altri». La cosa che viene subito da notare - non fosse che lo fa per prima Elisabetta Sgarbi nel testo di presentazione della mostra - è la totale assenza dell’elemento umano: quasi a voler fuggire lontano dal cinema di Verdone, tutto attori, dialoghi e battute.

Il silenzio delle nuvole

Così la racconta lui: «Scatto sempre da solo, per me è come appropriarsi di un momento di intimità, senza tante voci, con me stesso e basta. Io, la contemplazione, lo stupore. Sì. è assolutamente una reazione al mio lavoro fatto di diluvi di parole. Quindi quei silenzi e quei colori, quelle immagini che cambiano e si trasformano, si disarticolano e si ricompongono, rappresentano un momento di grande rilassamento. Capto segnali che arrivano da uno spazio incontaminato. Quella è la sola parte del mondo che riesco a vedere in cui non c’è peccato, non c’è violenza, esistono solo le leggi della natura». Il cielo la fa da padrone nei suoi scatti e dopo tanti anni Verdone sente di poter rivelare che quei cieli gli dicono cose che ad altri non dicono: «Da qualsiasi fotografia riesco a stabilire la stagione precisa in cui è stata scattata. Anche in immagini di altri. È una cosa che si acquisisce a forza di scattare... Non mi serve vedere se le foglie sono verdi o no, mi bastano nitidezza e colore. Non sbaglio quasi mai».

Ritorno all’università

Fotografare è spesso anche un ritorno agli anni migliori della sua vita, infanzia e adolescenza: «Ci sono dei colori», racconta con emozione, «che evidentemente mi hanno molto colpito e influenzato nella mia infanzia, che è stata molto bella. Quando rivedo quei colori nel cielo torno a quel periodo o agli anni universitari, i migliori per qualità della vita. Mi ripropongono un’emozione di 50, 60 anni fa. Mi illudo per un attimo che sia rimasto tutto fermo». Sono tante le volte che mentre fotografa, oggi a 71 anni, va con la mente a una scena raccontata nel suo secondo libro, La casa sopra i portici: «Era un’abitudine che avevo con il mio migliore amico, che abitava accanto a me: andavamo sul terrazzo condominiale a fumarci di nascosto una sigaretta e non ci dicevamo una parola. Guardavamo soltanto verso il Gianicolo, il sole che sprofondava all’orizzonte e piano piano la città che entrava nel buio con le prime luci. Un’immagine molto bella, molto romantica e ipnotica». Se guarda all’oggi, Carlo Verdone, invece, si emoziona poco. Piuttosto si indigna: «Il mondo di adesso non è che mi piaccia molto». C’entrano le emergenze ambientali: «Il vero problema tra qualche anno sarà l’acqua e nessuno lo ha capito fino in fondo. Gli anticicloni che divertendoci chiamiamo Hannibal o Lucifero prenderanno sempre più piede. La pioggia da noi sarà sempre più scarsa: basta vedere quel che succede col Po in secca, escono fuori mezzi della Seconda guerra mondiale, addirittura navi romane...». Ma non è solo l’ambiente a preoccuparlo e quindi a scatenare la sua vis comica, sempre latente. Da uno che ha appena avuto un enorme successo con la serie tv Vita da Carlo, per la quale è stato premiato e di cui in autunno girerà un bis di 10 puntate, non ti asptteresti una tirata contro la tv di oggi. E invece: «L’altra sera volevo vedere una cosa. Ne ho trovate sei, tutte molto violente. I temi erano: cocaina, malavita, criminalità organizzata, ragazzi che si bucano. Allora sono andato sui talk show e c’era Santoro che si incazzava con uno, ho cambiato canale e Sallusti s’incazzava co ‘n artro. Ho guardato un pezzetto di Palermo-Padova e poi alle 10 e 10 ho spento, dentro di me mi sono detto che questo mondo mi comincia davvero a rompere i coglioni». La violenza proprio non la tollera: «Stiamo dando dei segnali pessimi», riflette. «Ti rispondono che la vita è cosi. Ma io replico che la vita è fatta anche di altre persone. Una minoranza ma esiste. E invece in tv a uno gli bruciavano con un ferro rovente il corpo perché aveva tradito: avendo venduto una partita di droga s’era tenuto i soldi; un altro era torturato; a un altro ancora gli sparavano cento colpi in testa perché aveva avvisato la polizia...». Se dentro di sé era deluso dal mondo, fuori, davanti a quella tv, gli è partito «un bel vaffa! Ma ridatemi Stanlio e Ollio, ho urlato. Sono andato a dormire pure da incazzato». Ora però sbollisce e si mette ragionevole, Carlo: «Non voglio essere etichettato come un passatista, un nostalgico, un conservatore. È chiaro che il mondo va avanti, nasce Internet, sono state inventate cose estremamente sofisticate e potenti. Che però date in mano a tutti possono diventare molto pericolose.

I social

Come fai a educare a Internet? Una volta inventata nasce il dark web dove trovi qualsiasi cosa, un ragazzino da adottare, un rene da trapiantare, armi, veleni, droghe». E siamo ai social: «Per forza vengono usati male, mica tutti sono equilibrati o intelligenti. Oggi le persone sono frustrate e le loro frustrazioni le fanno scorrere sui social». Però Verdone la sfida dei social l’ha voluta affrontare. Motivazioni un po’ ciniche, “alla romana”: «Ci sto dentro perché intanto mi avevano fregato il nome e allora m’hanno consigliato “ mejo che te ce metti te e lo gestisci te o ci sarà sempre un Carlo Verdone ar posto tuo “. Sapete quanti Carlo Verdone finti ci sono con le fotografie dei figli? E allora eccomi su Facebook e Instagram ma con profili molto pacati, metto fotografie che possono interessare, racconto aneddoti che non si conoscono. È come uno scrigno che apro ogni tanto tirando fuori una curiosità. E questo viene apprezzato. Gli haters li lascio stare, nemmeno li banno. Cerco sempre di evitare di parlare dei successi, dei premi. Sei subito antipatico a qualcuno. Preferisco fare in 5 o 10 minuti dei raccontìni con piccole curiosità o riflessioni. Quando mi va». Se però volete fargli saltare i nervi davvero un modo c’è anche senza social.

«Mai stato ipocondriaco»

Basta chiedergli se è sempre un po’ ipocondriaco: «Non sono mai stato ipocondriaco!», dice duro. «Ho avuto un bel po’ di magagne nella vita. Non è che mi metto a raccontarle in giro... Le ho sempre affrontate con grande discrezione ma anche con coraggio. Solo quando mi sono operato a entrambe le anche l’ho detto a tutti: dopo 7 anni di sofferenze ero così felice!». Non sarà ipocondriaco, Carlo Verdone, ma ecco il racconto di quando s’è preso il Covid: «Si torna alle foto: le ultime le ho fatte mentre ero da solo l’inverno scorso sul litorale di Ostia. Ero uscito dopo giorni di solitudine in casa. Mi avvicina uno e mi chiede di fare un selfie, “ te prego, te prego “. L’ho accontentato, anche se stava senza mascherina. C’era il vento forte, un freddo... Beh, il giorno dopo ero positivo!». Ma Verdone, contagiato all’aperto? «All’aperto, sì. Ma guarda te!».

Gloria Satta per “il Messaggero” il 22 giugno 2022.

«Una grande occasione che Roma non può assolutamente lasciarsi sfuggire». Così Carlo Verdone definisce la possibilità che l'Expo 2030 si svolga nella Capitale. Il popolare attore e regista, romano innamorato della propria città e in prima linea quando c'è da denunciarne le magagne allo scopo di migliorarla, è tra i sostenitori più convinti della candidatura di Roma ad ospitare l'Esposizione Universale. 

Una sfida da vincere con altre grandi città, come Riad e Busan, che si sono già fatte avanti in attesa della decisione del Bie (Bureau International des Expositions) prevista a novembre 2023. 

Perché l'Expo 2030 è una grande occasione?

«Perché permetterebbe a Roma di ripartire. Le offrirebbe il dovuto restyling visto che oggi, e mi piange il cuore dirlo, la città è in declino sotto tutti i punti di vista».

Cosa intende?

«Al di là dei problemi cronici come le buche, l'immondizia e la burocrazia, negli ultimi mesi hanno chiuso alberghi, ristoranti, negozi e tante altre attività. E la pandemia ha aggravato la situazione. Per rimettere in piedi Roma e farla ripartire seriamente servirebbe proprio un evento globale come l'Expo. Un po' com' è successo nel 2000 quando, per il Giubileo, la città venne rinnovata con iniziative e infrastrutture». 

Quali sono, secondo lei, le armi vincenti di Roma per battere le metropoli concorrenti?

«Innanzitutto la capacità straordinaria di attrarre il turismo: la Città Eterna non ha bisogno di presentazioni perché è conosciuta e amata in tutto il mondo. Poi c'è la nostra storia millenaria, c'è l'arte, ci sono i monumenti e i capolavori che tutto il mondo ci invidia. Ma non possiamo vivere di rendita sulla cultura e le glorie del passato. Roma ha anche bisogno di ripensare sé stessa in chiave moderna, guardando al futuro».

La città ha le risorse per vincere la sfida dell'Expo?

«Senza alcun dubbio. Esistono tanti imprenditori capaci e motivati che hanno voglia di lavorare per far ripartire la Capitale. Bisogna scegliere i migliori secondo onestà e trasparenza, senza imbrogli o scandali. E queste persone vanno messe in condizione di lavorare immediatamente, il 2030 è dietro l'angolo. Tenendo presente che un altro grande appuntamento, il Giubileo 2025, consentirebbe di operare in sinergia. Non si può perdere tempo. Ma bisogna fare attenzione al più grande nemico, sabotatore di qualunque progetto o iniziativa: la burocrazia, il male peggiore di Roma». 

Da romano, quali interventi ritiene necessari in vista dell'Expo?

«Ovviamente andrebbe risolto una volta per tutte il problema dell'immondizia. E le strade andrebbero riparate, soprattutto quelle più pericolose. Servono interventi radicali, al riparo dai tabù: mi riferisco ai sampietrini che potrebbero rimanere nel centro storico, per carità, ma dove rappresentano un intralcio andrebbero rimossi. Bisognerebbe inoltre potenziare le periferie perché la città non è soltanto Piazza Navona, il Pantheon o il Colosseo. E poi mi sta a cuore lo Stadio Flaminio». 

In che senso?

«Mi fa male vederlo in uno stato di totale decomposizione. Qualcuno ci dica cosa vogliamo farne. È recuperabile? Se sì, bisogna assolutamente restaurarlo. Ma se non lo è, che venga abbattuto. È semplicemente indecente lasciarlo nell'attuale stato di degrado».

Secondo lei, i romani accetterebbero di convivere con gli inevitabili disagi provocati dai lavori per l'Expo?

«I romani hanno solo bisogno di buoni esempi: se vedessero gente capace e onesta, animata dalla voglia di fare il bene di Roma, si adeguerebbero di buon grado e sopporterebbero anche qualche disagio. Perché amano la loro città». 

Che ricadute bisogna aspettarsi, secondo lei, da un grande evento come l'Esposizione Universale?

«Il riscatto di Roma. L'appuntamento provocherebbe la riapertura di attività ed esercizi, consentirebbe la ripresa dell'economia cittadina, migliorerebbe la vivibilità urbana, favorirebbe l'adeguamento tecnologico. Il mondo intero deve sapere quante e quali potenzialità ha la Capitale che non può essere ridotta alla città degli aperitivi, famosa solo per ragioni culinarie, o per i suoi mille bed & breakfast...Bisogna assolutamente sostenere la candidatura all'Expo 2030. Proprio perché vogliamo bene a Roma e desideriamo che torni a risplendere».Carlo Verdone: «Papà mi bocciò a un esame e mamma mori troppo presto. Leone pensava che Furio avrebbe fatto fallire «Bianco Rosso e Verdone». Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2022.

«Basta con questa storia che sono ipocondriaco» sbotta deciso. Ma, al solito, non riesce a essere serio fino in fondo. E la presunta arrabbiatura si stinge presto nella risata che tutti gli conosciamo: è la prima di alcune sorprese che ci riserverà Carlo Verdone, nell’ attico al Gianicolo, dallo splendido terrazzo dove abbraccia idealmente tutta la sua Roma. Sì, l’uomo che (apparentemente) temeva le malattie, a 71 anni, ha appena preso il Covid.

E com’è stato, Carlo?

«Roba da niente appunto. La storia della mia ipocondria è una leggenda che va sfatata per sempre. Sono solo un esperto che si mette a studiare la sera, ogni tanto mi chiedono qualche parere e ogni tanto ci azzecco».

Il Covid però le ha fatto rinviare il suo ultimo film per molto tempo, Si vive una volta sola, storia di medici peraltro...

«Stavamo con la mascherina nel manifesto... il Covid ha penalizzato soprattutto la sala, mandando sul lastrico tante persone».

Vent’anni fa, su questo giornale, i problemi erano altri: lei e Alberto Sordi discutevate sull’opportunità di fare un film sul Risorgimento. Già, Sordi, da sempre considerato un suo padre putativo. Definizione ingombrante?

«No, solo non mi sono mai azzardato a definirmi il suo erede. Ci unisce la romanità, ma avevamo stili diversi».

Qualcuno sostiene che sul set non andavate d’accordo: avete fatto solo due film insieme, in effetti.

«Han detto perfino che ci odiavamo...ma va, era un amico speciale. Vede quell’orchidea? Me la regalò nel 1986 quando nacque mia figlia Giulia, una sera che venne con Sergio Leone e Pippo Baudo. È ancora lì e me lo ricorda tutti i giorni».

Dai padri putativi a quelli veri: il suo, Mario, professore all’università, la bocciò a un esame

«Storia del cinema: gli avevo pregato di non chiedermi gli espressionisti, ma Fellini e il Neorealismo. Mi chiese gli espressionisti, ovviamente: bocciato. “Non potevo fare differenze, Carlo”, rigoroso come sempre. A cena però lo mandai a quel paese».

Sua madre Rossana, prof di liceo, di tutt’altra pasta...

«Se parlo di cinema lo devo a lei che mi ha sempre incoraggiato. Peccato se ne sia andata così presto, a 59 anni, nel 1985, per una malattia neurodegenerativa».

Già, fu molto difficile per lei, all’apice della sua carriera

«Quattro anni d’inferno: al mattino giravo Acqua e sapone, alla sera dovevo andare da lei in clinica, uno strazio».

Da sua moglie invece si separò nel 1996: dopo di lei il diluvio, non si è più risposato

«No, ma non significa che stia da solo».

Prima di Acqua e sapone, Borotalco: sono passati quarant’anni dal film e dal leggendario Manuel Fantoni, quello che le sparava grosse...

«Mitomani, megalomani, cazzaroni come diciamo noi, quanti ne ho incontrati. Oggi però è più difficile, prima c’era “il” personaggio, oggi tutto credono di esserlo e alla fine non lo è nessuno, con gli stessi tatuaggi, gli stessi capelli, gli stessi vestiti. Non si stagliano».

In questi tempi di orrenda guerra a Est, torna malinconicamente in mente Enzo di Un sacco bello che andava in Polonia a conquistare le ragazze con le calze di nylon

«Tutte le guerre sono brutte, ma questa è particolarmente idrofoba. Comunque, per trovare Enzo, oggi bisognerebbe andare a Dubai, i “broccoloni” sono lì».

È vero che a Sergio Leone, produttore di Bianco, Rosso e Verdone, il pedante Furio marito di Magda non piaceva?

«Diceva che avrebbe fatto fallire il film e che la gente gli avrebbe voluto tagliare la testa. Poi però cambiò idea».

Come?

«Una sera vennero da lui a vederlo Sordi, Monica Vitti e e, chissà perché, Falcao. Alla fine Albertone si alzò e mi abbracciò: “Fatte bacià. E quel marito...”. E pure la Vitti moriva dal ridere “che capolavoro quel marito”. Leone si tranquillizzò, “avessero ragione loro”».

Mario Brega o la Sora Lella, chi le manca di più?

«La Sora Lella. Mario Brega, se gli girava, era capace di dire dopo venti minuti “Ma chi é il signor Verdone?”. Sora Lella è la nonna che ogni ragazzo vorrebbe avere e che oggi non esiste più».

Due campioni di romanità: ma, come nella sua ultima serie, Vita da Carlo, lo farebbe il sindaco della sua città?

«No, grazie. Perché mi dovrei rovinare la vita?»

In conclusione, la cosa più brutta di questi ultimi vent’anni?

«Quando non riuscivo a camminare, per le mie anche senza cartilagini, otto anni di calvario.».

La cosa più bella?

«I miei figli. Seri, educati, bravi nei loro mestieri, diversi dal mio, lei nutrizionista, lui funzionario. Spesso chiedo loro consiglio, con la maturità che hanno. Sicuramente superiore alla mia».

Caro pubblico... ti scrivo». Carlo Verdone si racconta in un libro. Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.

Il grande attore e regista l’11 marzo presenta all’Auditorium la sua ultima opera, «La carezza della memoria»: «Una sincera confessione della mia vera anima». 

«Scrivere un libro è assai diverso che scrivere un copione per un film. La scrittura di un libro per me è assoluta libertà, senza compromessi con il produttore o il distributore. Non devo cercare la risata, non sono costretto a cercare un finale rassicurante per far contento il lettore e metto da parte tutte le astuzie per esser divertente a tutti i costi». La parola è il suo mestiere. Ingrediente fondamentale della carriera di Carlo Verdone, attore, regista, sceneggiatore, scrittore. Oggi a Libri Come presenterà, sollecitato da Malcom Pagani, l’ultimo libro, La carezza della memoria, pubblicato con Bompiani come il precedente La casa sopra i portici. «Soprattutto questi ultimi due sono una sorta di sincera confessione della mia vera anima e sensibilità nel raccontare persone, periodi, debolezze, momenti poetici e, ovviamente, comici. Se qualcuno volesse capirmi meglio, i miei libri sono il diario di un uomo in cerca dello stupore che racconta e si racconta con assoluta sincerità».

Venerdì 11 marzo presenta l’ultimo all’Auditorium. Cosa significa per lei l’incontro con il pubblico, come è cambiato negli anni?

«Per me è sempre molto eccitante. Il pubblico è il mio referente, è l’obiettivo del mio lavoro. E ho sempre considerazione sia dell’incoraggiamento che della critica. Negli anni il rapporto con il pubblico è diventato sempre più stretto. Sento affetto enorme e considerazione diversa. Forse questo dipende dai tanti decenni che offro film in cui cerco di non ripetermi mai e dal toccare semplici temi che, alla fine, appartengono a molti. Credo che mi vedano come una persona onesta che cerca sempre di raccontare il tempo che vive con molta umanità. Alcune volte ci sono riuscito molto bene. Altre potevo far meglio. L’importante è sempre ascoltare il pubblico in tutte le sue considerazioni e rifletterci sopra. Quando le tue battute diventano patrimonio di molti capisci quanto sei stato aggregante nel sorriso per tanta gente. E questo è il premio più bello che puoi ricevere come autore».

Le strade dei ricordi fanno giri larghi ma poi tornano a Roma. Ne è stato tante cose, maschera, cantore, critico, osservatore, figlio orgoglioso, icona. Com’è oggi il suo sguardo sulla città?

«Roma per me, fin da piccolo, è stato un immenso teatro. Facce, tipi incredibili, battute, megalomani, mitomani, miserabili, imbroglioni. Ma anche tanta brava gente piena di grande umanità e saggezza. Sora Lella era una donna di altri tempi che racchiudeva in pieno l’anima di una Roma straordinaria che non c’è più. Saggezza popolare, rassegnazione filosofica, ironia del Belli. Sono cresciuto accanto a persone come lei che mi hanno fatto capire l’anima della mia amata città. Oggi a Roma non vogliamo più tanto bene. La curiamo poco, la sfregiamo continuamente, la burocrazia rende eterni dei lavori che potrebbero esser fatti con più velocità. E la cosa peggiore è che non alziamo più lo sguardo per ammirare la sua magnificenza. Roma è lì e chiede solo di esser curata e ammirata. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Perché non ci rendiamo conto della fortuna che abbiamo a vivere in un luogo come questo».

Che lettore è Verdone?

«Leggo soprattutto classici. Quelli che studiavo per la scuola e non per la vita. Amo i grandi classici russi, Cecov, Gogol. Conosco bene le opere di Maupassant, Victor Hugo, Celine, Sartre e la letteratura italiana dei primi del 900. Ginsberg, Kerouac e tutta la beat generation. Ma non credo sia importante quanti libri hai letto, piuttosto quali. Ma confesso che Ennio Flaiano, per me che osservo la gente, resta un autore che mi riempie di allegria e riflessioni. La sera prima di addormentarmi rileggo con vero piacere le sue straordinarie intuizioni sull’anima degli italiani. Uomo di rarissima ironia. Per chi fa cinema Flaiano è indispensabile».

Dagospia il 12 febbraio 2022. Dal profilo Facebook di Carlo Verdone 

Mullion Cove (Cornovaglia) 1991.

Io e Margherita Buy dopo aver terminato una scena in "Maledetto il giorno che t' ho incontrato" . 

Cari amici lunedì 14 febbraio verranno  celebrati i trent'anni di questo film alla Nuvola in Viale Asia 40/44 (a Roma), alle 21,00. 

Saremo presenti io e Margherita e a seguire il film. L' incontro col pubblico sarà condotto dal critico e regista Mario Sesti. Questo evento si inserisce nella vetrina Standing  Ovation, dedicata a film ed interpreti che hanno lasciato un segno nel nostro immaginario attraverso personaggi e storie. 

Un ringraziamento anche alla Nuvola e alla pagina Il Socio ACI che hanno reso possibile questa serata. Abbiamo da poco festeggiato Borotalco  ed ecco che ora tocca ad un altro film. La verità  è che gli anni 80 e 90 furono per me pieni di slancio creativo e riuscivo a sfornare quasi un film all'anno. 

Io non ho nessuna classifica dei miei film più  riusciti.  Non la devo fare io, la deve fare il pubblico.  Ed ognuno ha il suo preferito. Per me sono tutti miei " figli" e rappresentano un periodo, un momento della mia vita, della mia età che avanza. Certamente  questo film vive, ancora oggi, di una luce particolare e mi è molto  caro per motivi che spiegherò  all' incontro. 

Perdonate il lungo post ma alcuni dettagli dovevo darveli.

Questa pellicola, per concludere, ha un record mondiale che non potrà  mai esser battuto: quello di aver utilizzato ben 5 brani di Jimi Hendrix. Oggi con la famiglia che detiene severamente i diritti, e non li concede quasi a nessuno, sarebbe assolutamente impossibile.

Vi aspettiamo lunedì con vera gioia. Un abbraccio  a tutti.

Da romanews.eu il 12 febbraio 2022.  

Carlo Verdone, attore e regista, è stato intervistato da “il Diabolico e il Divino”, programma radiofonico in onda su New Sound Level 90FM , di seguito le sue parole sulla Roma, su Mourinho e non solo. Di seguito l’intervista:

Sulla Roma:Io credo che ci sia un po’ un’assenza della società, perché in realtà nessun tifoso ha mai sentito la voce di Friedkin. All’inizio andava anche bene, però dopo un po’ si devono far sentire. Nel calcio e soprattutto nella Roma è importante entrare negli spogliatoi e far sentire la propria voce, non basta quella di Mourinho, serve quella del Presidente e del figlio del Presidente.

Stanno tutti e due quasi sempre allo stadio devono andare negli spogliatoi si devono anche arrabbiare certe volte, devono motivare anche loro la squadra perché non basta Mourinho come motivare. La presidenza è un po’ latitante in questo momento, deve farsi sentire coi calciatori. Serve un personaggio importante, Boniek o Falcao? Andrebbero benissimo servono personaggi importanti con esperienza internazionale che sicuramente farebbe bene lavorando insieme all’allenatore. 

Comunque il problema di questa squadra secondo me è la mancanza di una fisionomia ben precisa; qualsiasi squadra, anche debole ha una sua fisionomia e una sua definizione. Questa squadra invece sembra che stia insieme con difficoltà, è un mosaico attaccato con lo scotch. Non so se è stato fatto un buon lavoro di acquisti abbiamo preso dei buoni giocatori ma non basta perché la squadra è un mosaico dove troppi pezzi non combaciano.

Diciamo sempre: il prossimo anno bisognerà fare un grandissimo lavoro, ma questo significa prendere almeno 5 giocatori. L’esigenza è rivoluzionare tutto, non c’è niente da fare. Dopo i 6 goal presi dai norvegesi ho pensato che non c‘era più nulla da fare. Noi abbiamo perso un terzo delle partite, non è assolutamente accettabile, significa galleggiare a metà classifica con tendenza verso il basso e c’è molta frustrazione per questo. Io mi sono accorto l’altro giorno mentre guardavo la partita contro il Genoa che ad un certo punto non ero più attratto dal gioco e mi ero distratto. E questo è un brutto segno. 

Zaniolo ce la mette tutta, è un ottimo giocatore, molto potente, non può che crescere ed è stato indubbiamente penalizzato da certi arbitraggi, questo è sicuramente vero. Intorno a Zaniolo però bisogna mettere un mosaico che combacia, ha bisogno dei giocatori che vanno d’accordo con lui, con ruoli chiari manca il regista, mancano i giocatori di fascia, mancano un bel po’ di giocatori alla Roma. Abraham è bravo ma prende solo traverse, è un ‘traversaro’ “ 

Cosa pensi dell’operazione Vlahovic?

“Vedendo il caso Vlahovic ho provato dispiacere per i tifosi della Fiorentina, ogni volta che hanno un giocatore che funziona glielo portano via e spesso va alla Juve. Stessa cosa è successa anche alla Roma, che ha perso giocatori che stanno dominando nel calcio europeo messi nel contesto giusto. Mi viene in mente Salah che nel campionato inglese fa faville perché ha la squadra giusta” 

Dopo il teatrino che si è concretizzato per l’elezione del Presidente della Repubblica, possiamo dire che spesso in Italia la realtà supera la fantasia? 

“Beh certo, quando ho fatto film come Gallo Cedrone o Viaggi di Nozze io credevo di aver prodotto un’esagerazione nella definizione dei personaggi ma guardandomi intorno ho che la realtà era molto più avanti di me, mi ha spesso superato ampiamente. Questo è un paese da commedia all’italiana, a partire dalla politica e a venire giù. E anche se qualche volta ci strappa una risata, però per la serietà e l’affidabilità questo è un guaio”

Sul nuovo sindaco di Roma:

“Gallo Cedrone era molto più raffinato di quello che sembra. Quel film era l’apoteosi della megalomania e della mitomania, che di li poco è uscita fuori nella politica a livelli altissimi. Io sono bravo a intercettare e anticipare alcune cose, ma certi personaggi politici per l’ignoranza, la stupidità e la follia, mi hanno superato ampiamente. Roma ha tanti problemi ma se io fossi sindaco la prima cosa da fare secondo me è la manutenzione, partendo dalle periferie per arrivare al centro, come ho detto anche nella serie. 

Le periferie hanno tante mancanze e bisogna necessariamente aiutarle. La manutenzione significa curare gli ambienti splendidi in cui ci troviamo a camminare, curare gli alberi che sono malati, rimettere a posto i marciapiedi. Non so ora cosa sta accadendo ma a prima impressione ho notato una maggiore pulizia in questo primo periodo con il nuovo sindaco, che comunque si è insediato da poco, ma possiamo dargli troppo tempo perchè Roma ha problemi enormi soprattutto nelle periferie” 

Come ti immagini il futuro del cinema dopo la pandemia?

“Non lo so, nessuno può fare una previsione precisa perché nessuno sa cosa ci riserverà il futuro. Io posso augurarmi che la sala continui a vivere e che la gente abbia voglia di aggregarsi e di condividere. 

Già siamo abbastanza soli nella nostra stanza con il nostro smartphone e vedere un buon film in compagnia è importante. Per carità le serie sono sicuramente ottime e fatte bene, ma il cinema ha quel suo fascino e quella sua capacità di farti riflettere su quello che vedi senza interferenze, è il tempio dell’immagine e mi auguro resista. Lunedì festeggeremo i trent’anni di ‘Maledetto il giorno in che t’ho incontrato’ e sono andati via 1800 biglietti in 48 ore; questo è sicuramente un buon segnale.

Bisogna inevitabilmente inventarsi qualcosa, qualcosa che attragga il pubblico. Quello che percepisco è la voglia delle persone di partecipare agli eventi e un film è un evento. C’è da sperare che non chiudano altre sale, dopo tutte quelle che hanno chiuso in questo periodo. 

Gli esercenti hanno avuto dei ristori da parte dal governo, ma a un certo punto c’è bisogno della gente che stacca il biglietto perché i ristori finiscono. Una raccomandazione che faccio a me stesso e ai miei colleghi e quella che dobbiamo dare un prodotto ottimo è, in questa fase delicata, la priorità per attirare gradualmente lo stesso pubblico di un tempo. Io mi sento fortunato di essere riuscito a mantenere un pubblico di questo tipo nelle sale, perché avevo timore che il pubblico non avesse più voglia di uscire da casa e dalle comodità del proprio pc per andare al cinema. Mi sento comunque fiducioso”

Il bacio con Meryl Streep

“Era il festival di Roma, veniva dato un premio a Meryl Streep e un altro ad un regista e io dovevo premiare il regista mentre Tornatore Meryl Streep. Ho chiesto a Tornatore di poter premiare Meryl Streep perché per me era un idolo. Lui è stato affettuoso e ha detto alla stessa Meryl che io volevo premiarla perché l’adoravo e lei è sembrata subito entusiasta. Sono andato da lei e le ho detto ‘You are for me like Jimi Hendrix’ e a quel punto mi ha dato un bacio in bocca. Mi sono fatto dare la foto e la custodisco ancora gelosamente”

C’è un tuo erede nel cinema? Potrebbe essere Checco Zalone?

“Checco Zalone lo stimo, ma è molto lontano da me, ha una comicità sua. Siamo molto diversi nel genere, ma ho una grande stima di lui. Erede non lo so, fare la mia carriera è un po’ complicato. Ho iniziato in un programma Stop, in cui ci davano dieci minuti a puntata nonostante fossimo emergenti e ora non c’è più tempo e i giovani fanno più fatica ad esprimersi e ad emergere” 

Sul fenomeno del momento, i Maneskin:

“Sono contentissimo per loro, hanno tanto entusiasmo e sicuramente sono bravissimi, non si apre il concerto dei Rolling Stones per caso. Li ho conosciuti a Milano, sono tanto esuberanti sul palco quanto timidi nel privato. Io sono contento di tutti i ragazzi che hanno successo e non vedo l’ora che arrivi qualcuno nel cinema e dica qualcosa di nuovo ed importante. Mi sento tifoso dei giovani, anche in “Vita da Carlo” ho preso tantissimi ragazzi. Il mio obiettivo è mettermi sempre di più accanto giovani, bisogna avere premura dei giovani che sono il futuro e che prenderanno il nostro posto ed io cerco di allenarli e di dargli una chance”

Ci sarà un seguito di Vita da Carlo?

“La prossima settimana sapremo qualcosa…sta andando anche all’estero: è uscito nel mondo e i risultati sembrano positivi meglio di così la ciambella non poteva riuscire”

Carlo Verdone: "Il crudo mi fa orrore ma per una parmigiana sono disposto a tutto". Guido Barendson su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.  

Il grande regista e attore, fresco del successo del programma ispirato alla sua vita, racconta un rapporto con il cibo a metà fra la semplicità e passioni inconfessabili. E ci suggerisce le sue trattorie preferite. 

“Caro Guido, non ti darò grandi soddisfazioni, perché mangio poco e sempre le stesse cose. E sono pure astemio”, la tocca piano, quasi mettendo le mani avanti, Carlo Verdone quando lo chiamo per farmi raccontare che rapporto ha con il cibo. Una partenza morbida e di basso profilo, quasi confidenziale, come è nello stile dell’uomo. Poi, a mano a mano che entriamo in argomento, si scalda: “Certo, il lavoro sta andando bene, ‘Vita da Carlo’ funziona. Eppure questo è un periodo di grande tristezza: mi manca la tavola, non tanto per quello che si mangia quanto per la compagnia. Col Covid non trovo più i tanti amici con i quali si andava al ristorante, si finisce regolarmente a casa e le giornate si ripetono quasi sempre nello stesso modo. Se va bene passa un figlio, magari un amico. Ecco, mi manca la compagnia, la risata, il pettegolezzo. Questi due anni di pandemia si sono rivelati due anni tragici, anche se la prendo con filosofia”. Il lamento di Carlo. “Io non sono certo uno che ha paura della solitudine, ma mi sono un po’ rotto le palle”.

Nemmeno sul set va meglio?

“Quando lavoriamo, siamo molto disciplinati, per fortuna il set rappresenta una bella aggregazione anche perché è l’unico momento in cui stiamo assieme”.  

Tutto sei tranne che un appassionato mangione o un gourmet. Ma il gusto che mostri nella vita privata e nel mestiere di attore e regista, si impone sempre, forte e chiaro. Le vie della tavola sono infinite.

“Io mangio in maniera molto sana. Porzioni piccole, che mi consentono di restare sazio per una ventina di minuti. Ma se mi metti davanti una parmigiana alle melanzane, crollo. Crollano tutte le mie difese: mi metto là con una bella pagnotta e pulisco fino all’ultima traccia di sugo con una scarpetta che vorrei non finisse mai. La mia anima resta quella del pastasciuttaro, senza pasta non si può vivere. Resto un mangiatore di quartiere, di circoscrizione: carbonara, gricia, pasta in bianco con i controcoglioni, burro e parmigiano ai massimi livelli”. 

La vecchia cucina di casa.

"Sì, anche perché in casa abbiamo sempre avuto governanti bravissime e da loro ho imparato ad apprezzare la semplicità. Il crudo? Il crudo mi fa orrore e sono restio a provare cose complicate”.  

Davvero non bevi mai?

“Devo dirti la verità. Fino a cinque anni fa detestavo il pesce, ma gradualmente mi è servito per sostituirci la carne rossa, evidentemente il mio organismo non la sopporta più. Col vino peggio ancora: mi basta un bicchierino perché mi prendano il mal di testa e la sonnolenza”.  

Alla voce acqua, Carlo sfoggia una competenza rara

“Sono un astemio incallito. Ma se c’è un grande esperto di acque minerali, quello sono io! E ti dirò che bevo soprattutto quelle del Sud, quelle del Vulture ad esempio, che contengono sostanze migliori per l’organismo e offrono un gran sapore”.

Quando elenca i componenti come il calcio, il potassio e lo stronzio non posso non pensare alla formidabile passione e competenza che gli hanno fatto meritare le lauree honoris causa in Farmacia e in Medicina. Ma ogni sospetto di ipocondria si volatilizza nel momento in cui sogna di tornare nella sua campagna, in Sabina: “Qui si mangia sano. Ti dico solo un nome, la Vecchia Quercia, vicino a Selci. Una famiglia straordinaria, fanno tutto loro: che antipasti e che frittate meravigliose, la salsiccia del loro maiale, i funghi, i tartufi, la salvia fritta! Cerco un posto bucolico, che mi ispiri tranquillità e serenità, bei tramonti. Ecco, la semplicità”. E le abitudini: “Sì. Se manca il pesce, la cena ideale è davvero semplice: verdure, indivia coi pinoli, e tra i formaggi pecorino sardo, caciottona di Pienza, ricotta…”.  

Finale?

“A cena un piatto che amo: mele cotte con le prugne. E il lardo un po’ bruciacchiato”.

Sembri un maratoneta dalla ferrea disciplina:

“Aspettiamo la primavera e andiamo in trattoria dietro Tor di Nona. Da Lilli ci mangiamo un bel piatto di pasta, una verdura e una bella fetta della loro mitica torta al cioccolato!”. 

Dagospia il 22 gennaio 2022. Dal profilo Instagram di Carlo Verdone.

Il 22 gennaio di quarant' anni fa usciva il film che avrebbe dato una svolta sicura alla mia carriera: Borotalco.

Non potevo permettermi il minimo passo falso, non potevo rischiare di essere ricordato solo per i personaggi. E così insieme ad Enrico Oldoini impiegammo tanti mesi per arrivare ad identificare l'idea di questo film. Ogni settimana buttavamo un soggetto che per tre giorni ci sembrava perfetto, per poi definirlo una banalità subito dopo. 

Un giorno ci dicemmo: "Basta, cerchiamo di raccontare gli anni '80 con i suoi colori, le precarietà dei ragazzi e i loro sogni un po' da mitomani. Ma anche l'entusiasmo un po' infantile di un periodo in cui c'era una nuova musica che mandava segnali di grande creatività attraverso tanti cantautori intelligenti ed ispirati".

Borotalco fu una nitida fotografia di quel periodo. Una miniera di battute ed intuizioni frutto di un'epoca un po' ingenua ma piena di poesia e fermento giovanile. Qui alla mia destra la locandina ufficiale e alla mia sinistra il primo bozzetto di prova. Grazie a voi per la fiducia di ben 40 anni fa! Io diedi tutto me stesso ....Una buona serata a tutti voi. Carlo Verdone 

Da ilnapolista.it il 22 gennaio 2022.

Su Repubblica un’intervista a Carlo Verdone: Borotalco, una delle sue pellicole più famose, compie 40 anni. Ma prima di quel film, racconta il regista, aveva pensato di smettere. 

«Quando uscì Bianco, rosso e Verdone i produttori dell’epoca Sergio Leone e Medusa erano contentissimi. Ma Leone stava andando verso altri progetti e non aveva tempo per seguirmi». 

Non gli rinnovarono il contratto, ma non glielo dissero, lo scoprì da solo.

«Passano le settimane, il telefono non squilla. Malgrado il successo, i David, i Nastri, spariscono tutti».

Così pensò di lasciar perdere.

«Tornai all’università a cercare il professore di Storia delle religioni, sperando di entrare come suo assistente. Scoprii che si era suicidato. In quelle settimane non sapevo cosa fare della mia vita. Poi squilla il telefono. Il mio agente dice che il produttore Mario Cecchi Gori mi vuole incontrare. Ha visto in ritardo Bianco, Rosso e Verdone, lo ha colpito il personaggio dell’emigrante muto che esplode con un’invettiva contro l’Italia. “Credo in te. Facciamo un film e se va bene firmiamo per altri quattro. Ma puntiamo su un personaggio unico”».

Verdone si mise a scrivere, ci mise quasi un anno e buttò via sei soggetti, poi trovò l’illuminazione.

«Venne fuori Borotalco. Portammo il copione a Mario Cecchi Gori e lui disse “mi piace, titolo geniale”. Non sapeva che la Manetti &Roberts ci avrebbe minacciato causa, si fermò solo di fronte al successo del film». 

In Borotalco debuttò Moana Pozzi. Racconta come la conobbe.

«La conobbi a casa di Troisi. Era bellissima, pensai all’ennesima fiamma di Massimo, il più grande conquistatore che abbia conosciuto. Abbiamo fatto quattro chiacchiere. Quando feci i sopralluoghi per la casa della Giorgi nel film, a Trastevere, aprì una ragazza, vidi la casa tranne la camera in cui dormiva la coinquilina, alle 12.30. Insistemmo: riconobbi la ragazza a casa di Troisi. Indossava solo un paio di slip. Le dissi che avevo una parte per lei, in ufficio il giorno dopo le spiegai il ruolo dell’amante che si fa la doccia. “Nessun problema con il nudo”». 

Per il film rischiò di litigare con Lucio Dalla, che fa parte della colonna sonora del film.

«Il produttore tappezzò le strade con il poster con il suo nome enorme, il mio piccolo. Mi chiamò arrabbiato. “Non si fa così. Ora vedo il film, se non mi piace ti faccio causa”. Andò a Bologna, non c’erano più biglietti, lo vide seduto a terra, si commosse. Il giorno dopo alle 8 telefonò: “Ti perdono perché hai fatto un bel film”».

Verdone capì di aver firmato un successo la sera dell’uscita del film.

«La cassiera del cinema Corso ci disse che aveva fatto un botto di soldi. Arrivò col sigaro Cecchi Gori, sapeva tutto. Dopo una settimana, per togliermi dal mercato e dai contatti con altri produttori, con mia moglie e sua moglie ci portò a Bali per 20 giorni, Borotalco è il film più importante della carriera, se non ci fosse stato, ora non sarei qui».

Paolo Travisi per ilmessaggero.it il 16 gennaio 2021.

E' rimasto nell'immaginario collettivo di molti italiani, Borotalco, uno dei film più divertenti di Carlo Verdone, zeppo di battute cult e divenuto a distanza di 40 anni dal suo arrivo nelle sale cinematografiche, una vera icona pop. Il 22 gennaio prossimo, infatti, Borotalco, diretto ed interpretato dallo stesso Verdone, insieme ad Eleonora Giorgi ed Angelo Infanti, compirà 40 anni. Eppure sembra ieri. 

Nel pomeriggio di Rai1, ospiti di Oggi è un altro giorno, il regista-attore romano, Eleonora Giorgi, Rossella Infanti, figlia di Angelo Infanti, il mitico Manuel Fantoni nel film, per raccontare alcuni aneddoti del film. "Devo molto ad Angelo Infanti, era un playboy generoso, buono e simpatico, lo incontrai a casa di Sergio Leone, che mi chiese di fare un provino che durò 3 minuti. Se alcuni film sono venuti bene, lo devo anche a lui" dice Verdone, che nel salotto Rai racconta la prima uscita del film. 

"Quando uscì, il produttore Cecchi Gori mise sulla locandina la scritta di Borotalco, ma ancora più grande la scritta Musiche di Lucio Dalla, mentre regia di Carlo Verdone in piccolo. Dalla mi telefonò e minacciò di bloccare l'uscita del film, ma alla prima di Bologna vide l'entusiasmo del pubblico durante la proiezione e capì l'omaggio per lui, così  perdonò la trovata del produttore" racconta divertito Verdone. 

"Come nacque la battuta cargo battente bandiera liberiana?", chiede la conduttrice Serena Bortone. "La frase mi venne in mente perché faceva parte di un monologo che avevo fatto  anni prima in radio, così lo ripresi e lo affidai a Manuel Fantoni. Certamente non so dire perché queste frasi rimangano poi nell'immaginario del pubblico", spiega Verdone a proposito di una delle battute più celebri del cinema italiano.

A ricordare Angelo Infanti, scomparso prematuramente all'età di 71 anni, la figlia Rossella, anche lei attrice. "Papà si muoveva e rideva come Manuel, un po' era come lui, però anche fragile. Mi ha aiutato a vivere la vita con leggerezza, mi ha dato il coraggio di vivere e sopravvivere, usava il sorriso contro le avversità della vita. E' un insegnamento che porto sempre con me. 

Anche io faccio l'attrice, ma sono anni che non lavoro, perché dopo papà è venuta a mancare anche mia madre, poi mi sono dedicata a mia figlia e mi sono allontanata dal cinema" racconta l'attrice con commozione, anche se con rammarico sottolinea che suo padre non è molto ricordato dal mondo dello spettacolo. "Non tanti si ricordano di lui, Carlo invece lo ha sempre fatto. Quando è morto, stavo scegliendo i fiori del funerale e mi chiamò Carlo, ho molto apprezzato il suo gesto".  

"Scelsi Eleonora perchè aveva un carattere frizzante, era luminosa, mi dava l'idea di una ragazza tipica degli anni Ottanta" racconta Verdone "io ci misi il candore ed è stato il personaggio più bello della mia carriera, e non è detto che non sarà l'ultima volta" gli fa eco l'attrice che in Borotalco interpretava Nadia. 

Aggiunge Verdone. "Oggi non si potrebbe girare Borotalco, non ci sono l'atmosfera e l'ottimismo di quell'epoca, oggi siamo impauriti". 

·        Carlos Santana.

Carlos Santana compie 75 anni: figlio di un violinista mariachi, la collaborazione con Eros Ramazzotti, 9 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.

Aneddoti e curiosità poco note sul leggendario chitarrista, nato in Messico il 20 luglio 1947

Ha suonato a Woodstock

Nel 1969 Santana, insieme alla sua band, si esibì (sotto effetto di sostanze psichedeliche, ha poi confessato) sul palco del mitico festival di Woodstock: «È stato un pochino spaventoso salire sul palco e tuffarmi in questo oceano di capelli, denti, occhi e braccia - ha raccontato a Rolling Stone -. È stato incredibile. Non dimenticherò mai il modo in cui la musica suonava rimbalzando contro un campo di corpi umani. Non si dimentica quel suono. Anche per la band è stato grandioso».

Sri Chinmoy

Negli anni Settanta Santana è stato un seguace del maestro spirituale Sri Chinmoy. A causa delle crescenti pressioni e divergenze (i requisiti dello stile di vita spirituale che il guru richiedeva ai suoi seguaci non erano più conciliabili con la carriera artistica) il chitarrista e sua moglie lasciarono il culto nel 1981.

Problemi di salute

Santana ha subìto un intervento chirurgico al cuore nel dicembre 2021. Qualche settimana fa invece è crollato sul palco durante un concerto in un auditorium all’aperto nel Michigan: è stato poi reso noto che il malore del chitarrista era stato causato da caldo e disidratazione. «Mi sono dimenticato di mangiare e bere acqua quindi mi sono disidratato e sono svenuto», ha scritto Santana in un messaggio pubblicato su Facebook per rassicurare e ringraziare i fan.

Vita privata

Nel 1973 Carlos Santana è convolato a nozze con Deborah King, figlia del musicista blues Saunders King. Hanno avuto tre figli (Salvador, Stella e Angelica) e insieme hanno fondato un’organizzazione benefica senza scopo di lucro chiamata Milagro Foundation. Nel 2007 però Deborah ha chiesto il divorzio dopo 34 anni di matrimonio, adducendo differenze inconciliabili. Santana si è poi risposato nel 2010 con la batterista Cindy Blackman, dopo averle fatto la fatidica proposta durante un concerto a Tinley Park.

Santana e la PFM

La PFM una volta fu chiamata ad aprire il concerto di Santana a Seattle. L’artista, sentendo il pubblico che chiedeva il bis, tolse una canzone dalla sua scaletta e disse alla band di Patrcik Djivas e Franz Di Cioccio:«Vogliono il vostro bis. Coraggio, andate a farlo».

Il successo di «Supernatural»

«Supernatural» (1999) risollevò la carriera di Santana: le vendite del chitarrista infatti negli anni Novanta si erano ridotte. Rimasto senza contratto fu scritturato da Clive Davis della Arista Records che lo incoraggiò a registrare un album con artisti giovani (come Lauryn Hill, Rob Thomas, Wyclef Jean, Maná, Dave Matthews, Eagle-Eye Cherry ed Everlast). Fu un successo e «Supernatural» (che contiene, tra gli altri, «Smooth», «Maria Maria» e «Corazon Espinado») ottenne 8 Grammy Awards.

La collaborazione con Eros Ramazzotti

Carlos Santana ha suonato la chitarra nella nuova versione di «Fuoco nel fuoco» di Eros Ramazzotti, canzone contenuta nell’album del 2007 «e²».

Ha lanciato una linea di abbigliamento

Nel 2000 Santana ha collaborato con uno stilista per lanciare una nuova linea di abbigliamento, marchiata «Carlos». I proventi delle vendite sono stati poi destinati alla Milagro Foundation.

·        Carmen Di Pietro.

Dagospia il 25 ottobre 2022.L'esplosiva showgirl e conduttrice radiofonica durante il suo passaggio in diretta a "L'autostoppista": "Metto i miei reggiseni nel freezer all'interno di un sacchetto per alimenti perché il freddo rassoda; consiglio di farlo anche con i boxer da uomo"; "Da ragazza, durante un incontro amoroso, mi sono vestita da infermiera con le ciglia finte e una parrucca di capelli lunghi. Durante la cena si staccò una ciglia e lui scappò"

"Il luogo più stravagante dove ho fatto l'amore è stato un pollaio con le galline che guardavano e una capra che belava". La rivelazione è stata fatta dall'esplosiva showgirl e conduttrice radiofonica Carmen Di Pietro a Igor Righetti durante il suo "passaggio" nel seguitissimo format "L'autostoppista" in onda in diretta su Rai Isoradio dal lunedì al venerdì dalle 17 alle 18. "Metto i miei reggiseni nel freezer all'interno di un sacchetto per alimenti - ha affermato la showgirl - perché il freddo rassoda; consiglio di farlo per 5/8 minuti anche con i boxer da uomo". E ha aggiunto: "Da ragazza, durante un incontro amoroso, mi sono vestita da infermiera con le ciglia finte e una parrucca di capelli lunghi. Durante la cena si staccò una ciglia e lui scappò". "L'autostoppista" è il primo programma radiofonico pet friendly ideato e condotto da Igor Righetti, dove il co-conducente è il bassotto pet infuencer Byron con oltre 24 mila follower su Instagram.

Maria Volpe per corriere.it il 27 aprile 2022.

All’«Isola dei famosi» con il figlio

Carmen Di Pietro è una naufraga di questa edizione dell’«Isola dei famosi» con il figlio Alessandro. Il reality sta mettendo in luce il legame che Alessandro ha con la madre Carmen, con cui c’è un affiatamento particolare. La showgirl ha dimostrato di essere molto apprensiva nei suoi confronti. Quando sono partiti per l’Isola hanno detto: «Il nostro punto di forza è che siamo testardi, invece il punto debole è che vogliamo avere ragione entrambi. In passato abbiamo già viaggiato insieme ed è stato un disastro. Siamo bravi ad andare avanti senza guardare indietro e portiamo con noi dei pupazzi. Torneremo a casa con il ricordo di una bella esperienza». 

I figli Alessandro e Carmelina

All’età di 36 anni, Carmen Di Pietro è diventa mamma del suo primogenito Alessandro nel 2001 e, a 43 anni, di Carmelina, classe 2008. Entrambi i figli sono frutto della relazione con il suo compagno, Giuseppe Iannoni, durata 16 anni. Finita la relazione nel 2016 con Giuseppe, Carmen oggi si dichiara «felicemente single, l’unico uomo della mia vita è mio figlio, Alessandro».

Il grande amore, Sandro Paternostro

Il 17 giugno 1998 dopo 5 anni di fidanzamento Carmen Di Pietro sposa Sandro Paternostro, storico corrispondente Rai da Londra e personaggio eccentrico che ha segnato la storia del giornalismo e della televisione italiana. Il matrimonio fece clamore per l’enorme differenza di età: lui aveva infatti 76 anni, mentre lei soltanto 33. E infatti le nozze furono riprese da testate giornalistiche ed emittenti televisive di tutto il mondo. Più volte Carmen ha dichiarato che a farla innamorare del giornalista fu “il mix di umorismo inglese e di irruenza siciliana, nonché lo charme e la grande cultura di Sandro, che lui intelligentemente non ostentava mai”.

Il matrimonio venne celebrato nonostante l’ostilità dei figli di Paternostro: Roberto e Alessandra. In seguito Neri Parenti li chiamò ad interpretare il ruolo di loro stessi nel film commedia Paparazzi del 1998. Rimasta vedova il 23 luglio 2000, Carmen non si è mai voluta risposare per non perdere la cospicua pensione di reversibilità del defunto marito. Di Paternostro dice sempre ancora oggi:“Uomini come Sandro non ne esistono più. Parlava otto lingue, a casa conservo tantissime sue foto e ai miei figli parlo spesso di lui. Il mio primogenito porta il suo nome proprio in sua memoria, e in questo momento è l’unico uomo della mia vita. Sto bene da sola, per ora”.

Gli esordi di Carmen modella

Carmela Tonto, in arte Carmen Di Pietro, nasce a Potenza il 24 maggio 1965 da papà Donato (ferroviere) e da mamma Emma. Ha due fratelli, Vito e Giuseppe, e una sorella, Maria, venuta a mancare a soli tre anni.Dopo il diploma, fa la modella e vive tra Londra, Roma, Milano, Parigi e Madrid, dove lavora come modella.

Film erotici

Nel 1986 inizia a lavorare come attrice ed esordisce con tre film erotici: nel 1990 Lucrèce Borgia - Le Castellane di Lorenzo Onorati e nel 1991 ne Il diavolo nella carne e Ossessione fatale, di Joe D’Amato. 

La sua prima «Isola»

Nel 2004 partecipa alla sua prima «Isola dei famosi». Carmen restò famosa perchè divise Antonella Elia e Aída Yéspica nella storica litigata dove si presero per i capelli. Carmen venne eliminata nel corso della quinta puntata

Lettrice di poesie

Nel 2016, nella trasmissione di Rai 1 «Sabato in», nella rubrica di Gianni Ippoliti la showgirl legge ed interpreta i versi dei grandi poeti. Ha imperversato sul web con le poesie dei più grandi poeti lette in un modo tutto suo, realizzando alcuni video. Dei filmati che subito hanno fatto il boom sui social network: migliaia di commenti e condivisioni, con milioni di visualizzazioni

Il Grande fratello vip

Nel 2017 partecipa come concorrente alla seconda edizione del Grande Fratello VIP in onda su Canale 5, condotto da Ilary Blasi. 

L’esplosione del seno nel 1997

«Mi trovavo in aereo -rivelò Carmen all’Adnkronos, il 5 giugno ‘97-, stavo andando a Madrid per motivi di lavoro. A un certo punto ho sentito un colpo pazzesco: pensavo fosse successo qualcosa all’aereo. Invece mi sono resa conto che era accaduto qualcosa alla mia protesi al seno. La paura è stata tanta, sono andata subito in bagno e ho visto quello che mi era successo».

Atterrata a Madrid, la Di Pietro prese il primo volo per tornare a Roma e farsi visitare dal suo medico di fiducia, il professor Giuseppe De Nigris. «L’ho fatta ricoverare per una notte nella clinica ‘Sanatrix’ -spiegò De Nigris- e le ho fatto un bendaggio di compressione. Tengo però a precisare che non credo che l’aereo sia stato la causa dello scoppio del seno della signorina Di Pietro. Non è che le protesi esplodono quando si è in volo: il materiale interno di un protesi è generalmente di gel di silicone che, essendo un liquido, non è nè comprimibile nè espandibile.

Piuttosto la signorina ha due protesi molto grandi con una superficie di derma e ghiandola relativamente piccola. All’interno della protesi, si è formata una capsula piccolissima che si è rotta. Dopo averla visitata, le ho consigliato l’intervento ma lei, per motivi di lavoro, ha detto che preferisce aspettare un mese nella speranza che si cicatrizzi. Ma al 90 per cento non riuscirà ad evitare l’intervento». La Di Pietro raccontò tutto nel dettaglio quella sera stessa nella puntata di «Verissimo» su Canale 5 

·        Carmen Russo.

GASPARE BAGLIO  per rollingstone.it il 26 giugno 2022.

Tra giugno e luglio non si può non pensare a Raffaella Carrà: il 18 giugno avrebbe compiuto 79 anni, mentre il 5 luglio cade il primo anno dalla scomparsa. Tra tante celebrazioni spunta pure quella di Carmen Russo e del Tuca Tuca Remix, reinterpretazione dance da un’idea del marito e coreografo Enzo Paolo Turchi, che era al fianco della Raffa nazionale quando lanciò l’iconico ballo. Una scelta coraggiosa, quella della Russo: cimentarsi con un mostro sacro come la Carrà non è esattamente cosa semplice. Ci vuole coraggio, quel coraggio che ci ha convinto a intervistarla. 

Carmen, cos’hai pensato appena hai saputo che voleva intervistarti Rolling Stone?

Che avete allargato il vostro target di riferimento. Sicuramente è stata una sorpresa che mi ha fatto piacere. 

La coraggiosa scelta di cimentarti con il Tuca Tuca Remix com’è nata?

Spesso, grazie alla presenza di Enzo Paolo, in eventi e occasioni ci chiedono il Tuca Tuca. Abbiamo pensato di fare un’edizione con sonorità attuali, per i giovani: è un brano ballato in qualsiasi evento e occasione. Un cult che è nel Guinness dei primati da quarant’anni.

E come lo avete realizzato?

Un remix nel massimo rispetto per Raffaella. Ho cantato due-tre strofe giusto per ricordare il tutto, con i due dj Nari e Ferrari che hanno creato questo omaggio alla grande artista Carrà, perché venga condiviso anche dai giovani che amano altri suoni. 

A proposito di suoni, tu che musica ascolti?

La musica che mi propongono le radio. 

Ma ci sarà qualcosa che ti piace…

Quella che mi dà sensazioni: sono attratta dai ritmi, dai suoni. Poi, in seconda battuta, mi occupo del testo.

Torniamo a Raffaella Carrà. Il tuo ricordo?

Ha sempre emozionato e sorpreso perché da grande star internazionale – in Sudamerica e Spagna, dove anche io ho lavorato – era molto presente. Aveva la grande capacità di metterti a tuo agio. Vicino a lei eri contagiato da un’aria di importanza. La sua luce rifletteva su di te e lei cercava di evidenziare la parte migliore di chi le stava vicino. E poi possedeva un intuito formidabile. 

Questo come artista. E come donna?

Una grande umanità e sensibilità. Una persona molto profonda, sia nella vita che professionalmente. Sul lavoro tutto quello che faceva non era dato dal caso: era ponderato e studiato. Era una donna che andava al supermercato e non aveva problemi a fare un selfie.

Parliamo di te. Sei sempre stata presente nello showbiz. Partiamo dagli anni ’80. Che ricordi hai?

Sono stati gli anni del lancio con Drive In. Nonostante avessi già lavorato al cinema, e con Fellini e Tognazzi, con quel programma di successo è arrivata la popolarità dal giorno alla notte. Dopo due anni ero la giovane showgirl di Risatissima, con Lino Banfi, Edwige Fenech, Loredana Bertè e Paolo Villaggio. È arrivato anche il grandissimo successo di Grand Hotel: la prima volta che Canale 5, il sabato sera, riuscì a battere Rai 1.

Sei stata pure in Spagna…

Sì, ho fatto delle prime serate insieme a Emilio Ragon e ho partecipato alla Buona Domenica iberica, ma lì siamo già nel 1991/1992. 

In quel periodo io ti ricordo in Io Jane, tu Tarzan.

Come no! Era un’idea di Brando Giordani. Gli venne in mente di fare una fiction musicale, con i fumetti. Un esperimento di enorme successo, soprattutto per i balletti fatti nel Parco Nazionale del Circeo. C’erano Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Sebastiano Somma. Era un bel programma, intelligente.

Ricordo la sigla…

Oh Jumbo Buana. E anche quella finale, Io Jane, tu Tarzan, molto romantica. Da lì feci Domenica In con Gigi Sabani. 

Hai sempre avuto l’immagine da sex symbol. Non è un po’ stretta adesso?

Forse, in quegli anni, non era come al giorno d’oggi. Adesso sarebbe stato più facile. Ricordo, per esempio, che quando feci Domenica In dovetti cambiare look: dai capelli rossi, molto appariscenti, a corti, biondo platino, con abiti più casti. Ma non mi lamentavo di certo: Drive In e Risatissima mi hanno aperto anche le porte dell’estero. Ti rendi conto che sono stata ospite internazionale al Festival di Acapulco?

Sì, ma l’immagine da sex symbol hai mai pensato di lasciarla?

No, non potevo lasciarla perché ero ben felice e a mio agio. Mi dicevo che, anche se avevo le misure 90-60-90 e mi mettevo bikini leopardati, sapevo ballare, cantare e recitare. Perché dovevo avere limitazioni? Ero convinta che prima o poi si sarebbe sdoganata. 

Ed è successo?

Sì, con il primo reality, L’isola dei famosi. Lì mi hanno visto senza le ciglia finte e i tacchi a spillo. 

Be’, ci hai messo vent’anni però…

Ma non mi ha pesato. 

Ah, no?

Con la mia immagine, il mio modo di essere, ho conquistato i mercati italiano, sudamericano e spagnolo. Poi sai, in Italia le origini ti classificano molto, io sono nata dal Drive In e per me è una forza. Ringrazierò sempre Antonio Ricci per questo.

Restando in tema Isola dei famosi, tu hai pure vinto la versione spagnola.

Sì, perché sono stata due mesi da sola su una spiaggia. Ho conquistato pubblico e donne. 

Fai spesso reality come concorrente. Non ti senti un po’ sottovalutata, non ti pesa non avere un programma tuo?

Certo che mi pesa. In Spagna ho condotto programmi, ma è sempre così… 

Come?

L’estero ti dà di più del tuo Paese. Evidentemente, venendo dal Drive In, per i produttori e i dirigenti sono così. O forse ero fuori tempo. Fossi nata vent’anni fa, avrei avuto possibilità di condurre. Quando ho iniziato c’erano la Carrà e la Goggi, donne di grande spessore. Oggi per una giovane ci sono più chance. Ma penso di poter dare ancora qualcosa, magari una conduzione arriva. Che ti devo dire? Con la carriera che ho alle spalle, sarei in grado.

Cosa ti piacerebbe fare?

Oggi come oggi è tutto omologato. Quello che si fa all’estero si fa pure in Italia. Non ti nascondo che un quotidiano di mezz’oretta, molto musicale e allegro, spensierato, mi piacerebbe. Con Enzo Paolo abbiamo un format carino dal titolo Mamma li Turchi, con sketch che sul web hanno un grande successo. Il pubblico ci chiede di farlo sulla falsariga – sempre col dovuto rispetto – di Sandra e Raimondo. Noi abbiamo quella verve coinvolgente. Anche questo è un altro progetto. Sai quanti ce ne sono? 

A Domenica Live avete fatto una cosa simile…

No, lì avevo appena annunciato la gravidanza, e visto che Barbara d’Urso è molto intuitiva facevamo un mini servizio, ma legato al mio essere incinta. 

Ti ha mai deluso il mondo dello spettacolo?

Dopo la prima Domenica In, nel 1991.

Motivo?

Mi confermarono, ma ai primi di settembre dissero che era saltata la mia candidatura. Era cambiata la linea editoriale della rete. Molto affranta e delusa, accolsi la proposta di andare a fare la Buona Domenica spagnola su Telecinco.

Il momento più bello, invece, qual è stato?

Essere stata la primadonna di Canale 5 per un periodo. 

Oltre al già citato Antonio Ricci, quali sono state le persone più importanti della tua carriera?

Pier Francesco Pingitore, con il quale ho fatto tre spettacoli al Bagaglino, poi Enzo Paolo Turchi, che mi ha dato forte credibilità come showgirl essendo lui un grande coreografo: è stato gratificante e un biglietto da visita notevole. 

Chi ti ha deluso, invece?

Quando succede qualcosa non ne faccio mai un fatto personale. Do sempre giustificazioni e non entro mai nel merito perché credo sia una battaglia persa, vado oltre. 

È una risposta molto diplomatica…

Fa parte del mio carattere: sono forte sugli scontri vis-à-vis, con le dichiarazioni meno. 

Oltre a essere tuo marito, Enzo Paolo cosa rappresenta?

Una totalità di vita dopo quarant’anni insieme. Amiamo le stesse cose, ma il raggiungimento di quegli obiettivi è diverso. Ecco perché si crea il contrasto e le litigate, altrimenti la quotidianità sarebbe noiosa. Ci completiamo. Abbiamo tante cose in comune, pur essendo persone diverse.

Come vedi il futuro?

Mi guardo indietro e sono contenta, ma guardo avanti con grandi aspettative. Forse sarò presuntuosa, ma ho tanti riscontri dal pubblico, pure sui social, che mi fanno pensare a progetti da realizzare. 

Ora con il Tuca Tuca Remix mi diventi cantante?

Il canto è una cornice in un bel quadro. Non ho il talento da cantante, ma posseggo buona volontà e studio tanto: ci arrivo piano piano. 

Restiamo in tema musica. Tra le nuove leve del panorama italiano chi ti piace?

Mahmood e Blanco mi piacciono molto e hanno grande personalità.

Achille Lauro?

Ha puntato molto sul trasformismo, sulla scia di Renato Zero. Ma anche lui ha personalità, la cosa più importante per un artista. I Måneskin sono un gruppo che mi piace molto, per me sono i nuovi Beatles: hanno una musicalità diversa e un successo internazionale, non a caso. 

Non hai mai condotto Sanremo…

Lo feci solo una volta come ospite per fare promozione a Io Jane, tu Tarzan.

Quest’anno il Festival ha consacrato un personaggio come Drusilla Foer. Che ne pensi?

Mi affascina molto. Non è esasperata ed è da scoprire: non si impone perché lei è. 

Cosa ti piace e cosa non ti piace della tv di oggi?

Sento la mancanza del varietà, un momento di spettacolo, di comicità, musica e recitazione che potrebbe essere realizzato ai giorni nostri. Siamo pieni di reality che, per carità, vanno benissimo. Il varietà ruota attorno al cast, mentre il reality si serve del cast. 

I reality godono ancora di buona salute?

Io ho fatto il GF Vip quest’anno e ha avuto un grande ascolto. Poi bisogna anche combattere col fatto che ci sono tanti canali, il pubblico si divide. Secondo me i reality dovrebbero vivere massimo dieci anni, ma come sono nati, senza cambiare in corsa. In show che sono prove di sopravvivenza, punterei meno su rapporti e relazioni, perché quelle sono più dinamiche da Grande Fratello. 

Di cosa ha bisogno un reality per funzionare?

Di personaggi popolari, ma anche di giovani pronti a tutto. A me non ha mai creato problema questa cosa: al Grande Fratello ho avuto ottimi rapporti con i ragazzi, che hanno rispettato il mio essere. Alcuni non li conoscevo, ma è stata un’esperienza e una bella occasione per approfondire conoscenze con ventenni, trentenni e quarantenni. 

Mi sembri molto sul pezzo.

Ho ancora entusiasmo e tutto quello che ho fatto l’ho fatto con piacere e soddisfazioni. Amo le sfide e mi piace mettermi in gioco. Devo mettermi a letto pensando di aver avuto una giornata piena e impegnativa. 

Una canzone che potrebbe descrivere la tua vita?

“Con la mia testa io, io vi conquisterò”: è nel brano Nuda di Mina. 

·        Carol Alt.

Michela Proietti per il “Corriere della Sera” il 30 dicembre 2021. È stata, segretamente ma non troppo, la wag più famosa della Formula Uno. Ma Carol Alt, è stata molto di più che la compagna dietro le quinte di Ayrton Senna: modella, attrice, collezionista di copertine (oltre 500), musa di registi e fotografi. Una vita vissuta tra l'America, dove è nata il 1 dicembre del 1960, e l'Italia, «tra Milano e Roma, il posto dove probabilmente sono nata in un'altra vita: solo l'aria che respiro mi fa sentir meglio». 

Un'icona a cavallo tra i due mondi, che ha da poco festeggiato i suoi primi 61 anni, parafrasando il film che l'ha resa celebre in Italia, I miei primi 40 anni, ispirato alla vita di Marina Ripa di Meana.

Cosa ricorda di quel film?

«Marina era contraria che fossi io la protagonista, aveva in mente Rachel Welch, bellissima, con i capelli rossi come i suoi. Carlo Vanzina la convinse. Dopo aver visto il film il marito Carlo Ripa di Meana mi disse: "da oggi ho ben due Marine"». 

Prima c'era stato il film «Via Montenapoleone».

«Sì, l'inizio fu tragico. Ero una modella prestata al cinema: il primo giorno, dopo aver girato una scena in sauna, ho pensato: "Sono negata". Carlo Vanzina due settimane dopo mi ha confessato che aveva pensato che ero davvero negata, ma dopo due settimane mi aveva scelto come la protagonista del I miei primi 40 anni ». 

Oggi che lavoro fa?

«L'attrice. Ho appena finito di interpretare una parte nella serie televisiva Paper Empire con Kelsey Grammer: arriverà anche in Italia. E poi ci sarà il mio primo film di animazione: sarò la fidanzata fashionista di Orso, nel film Masha & The Bear». 

Cosa la affascina del cinema?

«La possibilità di far evadere le persone, soprattutto ora che il Covid ha seminato solitudine e depressione. Una risata o un'emozione, oggi più che mai, sono terapeutiche».

Come ha trascorso questo periodo così complesso?

«Lontana dall'Italia: ho sempre cercato di passare il mese di dicembre qui, il Paese dei grandi ricordi e dei grandi amori. Mio padre è morto proprio nel periodo di Natale e avevo perso la voglia di festeggiarlo: poi ho visto un Babbo Natale di carta nella cartoleria Vertecchi di Roma e ho di nuovo sorriso». 

Quante volte è stata innamorata nella sua vita?

«Due volte: di Ayrton e del mio compagno Alexei. Due storie molto differenti, ma fatte entrambe di passione».

L'incontro con Ayrton.

«A una sfilata di Salvatore Ferragamo: io indossavo un cappotto corto rosso con i bottoni. Lui non guardava i fotografi, era fisso su di me». 

La prima cosa che le ha detto?

«"Grazie", perché per non farlo sfigurare davanti ai flash mi sono tolta i tacchi e sono rimasta scalza». 

Il vostro segreto?

 «La chimica».

Un ricordo?

«Una cena a Milano, una delle prime allo scoperto con pochi amici: prendo il tovagliolo e dentro c'era un orologio, un suo regalo. L'ho fatto volare inavvertitamente e ho distrutto gran parte dei bicchieri». 

Come apprese la notizia della morte?

«Ero in Florida e avevo la tv accesa. Avrei dovuto raggiungerlo in Italia la settimana dopo. Rimasi sotto choc: la mia mente era completamente bianca». 

Lo seguiva nei circuiti?

«Spesso e a volte avevo paura. Solo dopo la sua morte ho capito che avrei dovuto averne di più». 

Il suo compagno Alexei Yashin è un ex hockeista e ha 13 anni meno di lei.

«Lo guardo e vedo il suo fisico straordinario, da atleta. E nel contempo prendo atto del fatto che anche io ho il corpo di una donna "mortale"».

Quanto conta la bellezza?

«Aiuta, ma le donne con il cuore nero sono orribili, anche se fuori sono perfette». 

Le donne più belle?

«Monica Bellucci e Maria Grazia Cucinotta. Poi Paulina Porikzova, che con il coraggio ha cambiato il corso di una vita dura e sfortunata». 

È apparsa in 500 copertine: verità o leggenda?

«Non so, forse potrebbero essere anche di più, ma ho peso il conto dopo la morte di mio padre: era lui il collezionista di ritagli della figlia».

La preferita?

«Quella scattata in costume da bagno giallo da Albert Watson per Vogue Francia . Albert per me è stato come Carlo Vanzina nel cinema. Ma anche Renato Grignaschi: mio padre stava morendo e lui mi ha detto: "sbrighiamoci con queste foto, così vai in ospedale"». 

Il suo elisir di giovinezza.

«Il crudismo. In Italia è più facile, con il prosciutto». 

Non ha avuto figli. Con Ayrton ne avrebbe voluti?

«No, ma ho fatto tanti errori e a volte vorrei tornare indietro e cambiare il corso delle cose». 

È più famosa in America o in Italia?

«In America sono una modella, in Italia un'attrice». 

C'è una erede di Carol Alt?

«Non la cercherei né tra le modelle, né tra le attrici. Oggi le nuove star sono tutte su Instagram».

·        Carola Moccia, alias La Niña.

La Niña, la voce della nuova Napoli: "Tra trap e tradizione racconto la vita vera". Carmine Saviano su La Repubblica il 25 Settembre 2022.    

Dopo il successo del singolo 'Nunn 'o voglio sape'', che contiene una citazione de' 'O surdat 'nnamurato', l'artista partenopea prepara  il suo album d'esordio e il debutto come attrice in tv con Massimo Ranieri

Si muove sottotraccia. Come fa il magma, come fanno le correnti marine. Accumulando energia per poi sprigionarsi. E come il contrasto tra fuoco e mare la musica di Carola Moccia, alias La Niña, somiglia tanto alla sua Napoli e alla nuova musica che Napoli non smette di ispirare, produrre e generare. Beat contemporanei e trattamento trap, armonie antiche e melodie che trasportano dolore e sogno, compassione e speranza. La sua ultima canzone è Nunn 'o voglio sape', che contiene una citazione de 'O surdat 'nnamurato e ha già decine di migliaia di streaming. È l'anticipazione del suo disco d'esordio, che "è pronto, conterrà dieci canzoni. Arriva, arriva. È che nell'ultimo anno ne sono successe tante".

Come l'esordio in tv.

"Sarò protagonista di una serie con Massimo Ranieri, La voce che hai dentro. Uscirà a marzo e ne ho curato anche la colonna sonora".

Ranieri ha avuto abbastanza a che fare con "'O surdato 'nnammurato..."

"Mentre scrivevo il testo di Nunn 'o voglio sape' mi è uscita quasi come un automatismo la frase "Staje luntana da stu core". Nell'originale c'è un dato di fatto: la nostalgia per un amore lontano. Qui si dice a qualcuno di andare via".

Anche lei mette in musica relazioni tossiche?

"In maniera non urlata. Al testo drammatico ho cercato di contrapporre una musica in grado di creare un minimo di distanza, di sublimare quel dolore. Non mi andava di vomitare sugli ascoltatori. Mi interessava di più il processo attraverso il quale si arriva a staccarsi da quel tipo di relazione". 

Nella sua musica cerca di tenere insieme tradizione e voglia di sperimentare.

"È stata una cosa molto istintiva, naturale. Quando ho scritto la mia prima canzone, Croce, mi sono accorta di come erano fuse quelle due dimensioni: una canzone trap con un impianto melodico da classico napoletano. Cerco di conservare quell'approccio. Dipende molto dalle mie influenze".

Quali sono?

"Devo i miei ascolti a mio padre. Che passava con naturalezza dalla black music alla Gatta Cenerentola. Poi il pop americano, la musica elettronica. Istintivamente metto tutto insieme. Nel disco ho cercato di trasformare quell'istinto in una intenzione".

La riassuma.

"La destrutturazione del classico napoletano".

Che è una delle linee di fondo della musica della Nuova Napoli. Con chi, tra i protagonisti di quella scena, sente più affinità?

"Con Franco Ricciardi. È un maestro d'umiltà, la sua musica parte dai matrimoni e arriva a suoni internazionali. E poi non parla di nessuno dei luoghi comuni di Napoli, antichi e moderni. Niente pizza, niente mandolino, niente spari per strada. C'è solo tanta vita nelle sue canzoni. Ci provo anch'io".

Da dove arriva il nome La Niña?

"Inizialmente era La Nenna, che in napoletano significa ragazza. La scelta dello spagnolo è stata fatta per sottolineare un'ambizione: quella di provare a fare musica più internazionale". 

Lei è molto attenta anche all'aspetto visivo.

"Va di pari passo con la scrittura delle canzoni. Scrivo la musica e penso subito a come può essere rappresentata".

Cosa c'è stato prima de La Niña?

"La folgorazione per Visions di Stevie Wonder, la chitarra classica che ho imparato a suonare da piccola e da autodidatta. Tanta gavetta nei locali del centro di Napoli, 50 euro a serata. Poi la musica elettronica con cui ho avuto anche un po' di visibilità all'estero. Ma le canzoni erano in inglese, non mi bastava. Voglio arrivare al pubblico e sì: voglio essere pop".

·        Carolina Crescentini.

Carolina Crescentini: «Mio marito Motta ha sei anni di meno? All’inizio lo prendevo in giro. Sesso sul set? Se posso evito». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.

L’attrice: «Avere figli? L’insistenza con cui me lo chiedono è un disagio degli altri. Io sto bene». 

Carolina Crescentini (esuberante, spumeggiante, parla regalando bollicine di champagne), vive la vita che voleva: «Non conformista, libera... vabbé non so se sono totalmente libera. Ma intendo che ho la libertà di non giudicare. Mi piace farmi contaminare, amo accogliere le persone, sono molto materna anche se non ho figli».

E le pesa non averne?

«Mi piacerebbe. Se dovesse non accadere, l’accetterei. L’insistenza con cui me lo chiedono è un disagio degli altri. Io sto bene, sono felice».

Ha sposato «una volta e mezzo» il cantautore Francesco Motta.

«La prima volta a New York, la seconda è stata una cerimonia simbolica durata tre giorni in Toscana, perché ci hanno spiegato che, per complicate questioni burocratiche con gli Usa, per risposarci in Italia dovevamo prima divorziare sennò sarebbe stata bigamia. È uno strano limbo sposarsi a New York, città che amo, il melting pot, le gallerie d’arte... Ci ho vissuto quando dovevo rimettermi in asse e trovare la mia via».

Tre giorni di festa è un happening...

«La cerimonia in Toscana è stata una divertente fricchettonata con tanta musica, gente che recitava. Un amico regista si fingeva sciamano, ha dovuto sottostare a dei riti, c’erano nuvole nere e io gli dicevo: “Dimmi che non pioverà”. Gli amici erano mescolati alle nostre due famiglie che si sono scoperte simili. Il matrimonio è una tale botta emotiva che la prima volta sola soletta è stata meglio. La seconda, ce la siamo goduta».

Ma a New York come andò?

«Vai al Municipio e ti danno un bigliettino, fuori compri le fedi, il bouquet, i testimoni. La tradizione vuole che nell’abito ci sia un punto di blu, così ho trovato una tee-shirt degli Aerosmith bianca punteggiata di blu».

Lei sembra uscita da Woodstock.

«Al cinema ho fatto la trilogia del crimine di Massimiliano Bruno che è un viaggio nel tempo. Io sogno gli Anni 70 in California, e di rotolarmi nel fango del concerto a Woodstock».

Ha conosciuto veri hippy?

«Sì, Bob Car con i suoi occhiali arancioni, vive di baratto in un caravan nel deserto americano. Ha un capannone dove costruisce ragnatele e mondi in miniatura che sembrano i presepi di San Gregorio Armeno a Napoli. Ecco, una libertà estrema come la sua non riuscirei...».

Si mette in ascolto degli altri, cosa rara per un’attrice.

«Come potrei ascoltare solo me stessa se devo raccontare le vite degli altri? Sono curiosa, prendo appunti, scrivo a valanga. L’egocentrismo lo tengo a bada, anche se per fare questo lavoro devo essere egocentrica».

Torniamo a suo marito. Cosa la colpì?

«Oltre a essere molto poetico, la sua sensibilità e ironia, che in una relazione è fondamentale. E poi ha gli occhi buoni. Francesco mi ha dedicato più di una canzone. Ci siamo incontrati in una radio che non esiste più. Mi guardava e riguardava, aveva tutti questi capelli ricci...».

È più giovane di lei.

«Sì, di sei anni. La prima volta che siamo usciti, dopo un anno che ci sentivamo al telefono (io sono un po’ lenta), lo vedevo così giovane. Mi disse che aveva pubblicato un cd intitolato La fine dei vent’anni. Ho capito, gli risposi, ma quando sono finiti i tuoi vent’anni?».

La differenza è lieve, e ormai non ci fa più caso nessuno.

«Abbiamo gli stessi riferimenti culturali. Lo provocavo, gli dicevo che nel mio luogo di riferimento andavo col walkman, gli spiegavo cos’era. E lui: guarda che lo avevo anche io».

Qual era questo luogo?

«Il faro del Gianicolo. Lo portai lì al nostro primo incontro. Non mi fidavo, volevo andare nel mio territorio: se fosse andato male, all’aperto mi sarei sentita libera di tornarmene a casa».

Non se ne andò.

«È al Gianicolo che poi mi fece la proposta di matrimonio, mettendosi in ginocchio».

Sa che lei, a proposito di Anni 70, ricorda Gabriella Ferri?

«Mi piacerebbe interpretarla in un film. Al programma Dove sta Zazà, la Rai mise problemi perché era incinta; si presentò vestita da clown e riuscì a imporsi. Mia madre è cresciuta a Campo de’ Fiori, mi raccontava di quella signora bionda che a un certo punto smise di cantare, strillava come le popolane delle piazze romane, aveva una risata grassa e una enorme fragilità».

Ci parli della sua famiglia.

«Ha presente i Forrester della soap opera americana? Siamo tutti biondi con gli occhi azzurri. I miei genitori e mia sorella Francesca sono commercialisti. Sono cresciuta al quartiere Monteverde. Sono stata un’adolescente irrequieta ma gestibile, un po’ rockettara ma non solo, ascolto anche l’elettronica e a volte la classica, mi rilassa, è un modo per andare via pur restando. Ora sono i Podcast che mi aiutano a scappare. Fa parte della fantasia».

Ma una volta scappò per davvero...

«Fu una fuga ridicola, a 15 anni, durata un giorno, dopo una lite con i miei mi rifugiai nella casa del mio fidanzatino. Non era un grande nascondiglio. Ho avuto anche un periodo masochista, una storiella con un ragazzo che voleva stare con me e contemporaneamente con un’altra ragazza. Oggi gli dico: poverello».

Da adolescente, cambiò nome.

«No, da bambina. Ricordo che d’estate al mare gli altri bambini mi chiamavano Carlotta, mia madre non capiva, era la falsa identità che mi ero data. A scuola mi prendevano in giro, c’era la mucca Carolina, poi c’era una bambola maledetta che si chiamava col mio nome. E per l’onomastico mi devo accontentare di San Carlo».

L’attrice è quello che voleva fare da piccola?

«Non lo so, all’inizio desideravo diventare insegnante di ginnastica e archeologa. Poi attrice. I miei non ci credevano tanto e decisi di pagarmi le scuole di recitazione facendo la barista in un pub. Ho conosciuto una bizzarra fauna notturna, è stata una sorta di indagine antropologica che mi è tornata utile, costringevo i clienti a darmi le battute per i monologhi che dovevo portare come prove di memoria».

La dipingono come iperattiva.

«Ma no, è che tra i set e il marito che canta siamo sempre in giro. Però ho tante piccole manie, conservo enormi scatole di latta con dentro candele, legnetti peruviani usati nei riti sciamani, quaderni. Ho avuto, fino alla scoperta del calendario Google, un’agenda con i pizzini dove segno tutto quello che devo fare. Annoto pensieri, cose varie, qualche volta mio marito usa le mie frasi nei versi delle sue canzoni. Poi mi compro crisantemi ping pong grigio verdi, è bello coccolarsi. È il fiore dei cimiteri? In India è legato ai matrimoni».

Una disordinata metodica?

«Diciamo di sì. Quando faccio i provini sono stakanovista e penso solo a quello. Ne ricordo uno, prima del Centro Sperimentale di Cinematografia, con Gigi Proietti per Romeo e Giulietta. Arrivai di corsa da Firenze dove ero stata al concerto dei Radio Head. Siccome recitare è respiro, per tirare fuori il pathos mi spezzarono il fiato col gioco della campana. Mi fecero ripetere la scena, Oh Romeo, per avere una reazione emotiva mi dissero: ora immagina di essere in borgata e di urlare a Romeo al palazzo di fronte».

La presero?

«No e fecero bene, non avevo capito nulla. Avevo interpretato la cagna maledetta».

Un personaggio che poi ha interpretato per davvero in Boris, la serie cult.

«Lì si prende in giro l’ego di registi e attori, ho portato dinamiche vissute e persone incontrate. Ho conosciuto attori dall’ego straordinario che sono persone discutibili».

Nel provino per Martini l’idea era di ricordare Charlize Theron?

«No, affatto. Ero circondata da modelle alte 1 metro e 90, mi presentai in scarpe ballerine, dove potevo andare? Mi divertii, questo sì».

Il suo secondo film è Notte prima degli esami. Il film ebbe un successo travolgente. Lei aveva 25 anni...

«Il mio esame di maturità è stato un incubo ma non rientro nella categoria di quanti continuano a sognarlo la notte. Robe di condotta, andavo allo Scientifico e non capivo nulla di matematica, fisica e chimica. Infatti mi iscrissi a Lettere: ho dato tutti gli esami, mi manca la tesi. Avevo cominciato a lavorare».

Ha posato nuda per Playboy.

«In lingerie, non completamente nuda. Il fotografo è un caro amico che mi ha messo a mio agio. Le scene di sesso nei film? Alla troupe e ai tecnici non gliene importa nulla, sono talmente abituati... se la sceneggiatura lo giustifica, okay,ma se posso le evito».

La prima cosa che guarda in un uomo?

«Le clavicole, l’incrocio tra il petto e la spalla. Sembra una pazzia ma lo trovo un bel punto».

Le sue occhiaie sono il tratto che la distingue, un portafortuna?

«Mah, ci sono giorni che mi guardo allo specchio e dico niente male, altri che porto gli occhiali da sole. È un po’ il discorso dei figli, sono gli altri che danno alle mie borse una importanza incredibile. Io ci convivo».

Su Wikipedia si legge che è anche modella.

«Mai fatto. Vorrei sapere chi compila quelle biografie. Hanno sbagliato anche di tre giorni la data del mio compleanno, ogni volta ricevo un centinaio di messaggi a cui mi tocca rispondere: grazie ma non è oggi».

Un’attrice di commedie che tiene a bada il proprio «io» ed è testimonial della UNHCR, l’organizzazione ONU per i rifugiati.

«Ho conosciuto storie straordinarie. Ci diamo da fare come cittadini, per l’Ucraina abbiamo riempito un camion di latte in polvere e pannolini. È il minimo. E l’UNHCR si occupa di istruzione, una ragazza cresciuta in un campo profughi è in Canada dove ha studiato grazie a loro. Voleva ringraziare, ho fatto da ponte. La sua vita è cambiata. Si chiama Diamond, Diamante».

·        Carolina Marconi.

Carolina Marconi: «A causa del tumore che ho avuto mi impediscono l’adozione». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2022.

A causa della malattia dalla quale oggi è guarita, scoperta durante gli esami per la fecondazione assistita, la showgirl, è impossibilitata a procedere a un’adozione e soddisfare il suo desiderio di essere madre. lo sfogo sui social: «Una vera e propria discriminazione» scrive su Instagram. 

Carolina Marconi ha terminato nel gennaio 2022 le sedute di chemioterapia necessarie a combattere un tumore al seno. Battaglia vinta. Un percorso che Carolina, con grande coraggio, ha sempre condiviso con i suoi 347 mila follower: «Ora voglio godermi tutto». Così aveva scritto la showgirl venezuelana alla fine del percorso di cura. Al sogno di diventare mamma Carolina non ha mai rinunciato e lo aveva detto anche in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera: «Non ho messo via la speranza di diventare mamma. E se non arriverà l’adotterò. Ma niente potrà togliermi questa grande voglia di maternità». La showgirl venezuelana aveva scoperto di avere tumore mentre si sottoponeva ai diversi esami richiesti per la fecondazione assistita, percorso che lei e il suo compagno Alessandro Tulli avevano scelto di intraprendere non riuscendo ad avere un bambino per via naturale. 

Su Instagram Marconi però ha raccontato la sua nuova battaglia, questa volta contro la burocrazia che le sta impedendo di adottare un bambino. «Io e Ale avevamo pensato di adottare un bimbo viste le tante difficoltà. Ci stiamo facendo seguire da un avvocato. Purtroppo non sono idonea a intraprendere un'adozione perché ho avuto un tumore, anche se sono guarita. Più di 900mila persone in Italia non possono essere libere di guardare il futuro senza convivere con l’ombra della malattia. Per questo è molto difficile adottare un bambino, ottenere un mutuo, farsi assumere. Una vera e propria discriminazione», scrive la showgirl in un lungo post a corredo di una foto con il suo partner.

«Ci sono paesi come Francia, Olanda, Lussemburgo, Portogallo e Belgio che hanno aderito al riconoscimento del Diritto dell’oblio oncologico con l’obiettivo di ottenere una legge che tuteli le persone che hanno avuto una neoplasia», prosegue Carolina. «L’associazione Aiom lancia una campagna per richiedere all’Italia di adeguarsi garantendo i diritti degli ex pazienti. Abbiamo raccolto fino oggi 24 mila firme. Lo scopo è il raggiungimento di più di 100.000 firme che verranno poi portate al Presidente del Consiglio per chiedere l’approvazione della legge». In fondo al post le indicazioni per firmare. Carolina, la «guerriera» (così è chiamata su Instagram per la sua forza anche durante la malattia) è pronta a una nuova battaglia.

Il diritto all’oblio oncologico

Proprio ieri, dopo confronti con le associazioni scientifiche e di pazienti, Paola Boldrini, Vice Presidente Commissione Sanità in Senato, ha illustrato in Senato, in conferenza stampa, il disegno di legge sul diritto all’oblio oncologico. «Un DDL che reputo un segno di civiltà e per cui ho chiesto l’iter veloce senza il passaggio in Aula». ha detto Boldrini. Il testo prevede che chi non ha recidive da 10 anni o 5 anni, nel caso la malattia sia insorta prima dei 21 anni, non possa più essere considerato malato. Tradotto, le informazioni relative alle passate condizioni di salute non possono più essere un ostacolo per quanto sopradescritto. «Per il diritto all’oblio, mi sono battuta con forza, consapevole che la salute e la sanità non riguardano solo gli ‘strumenti’ e le ‘risorse’ da mettere in campo ma anche l’approccio culturale e la sensibilizzazione autentica. Chi è stato affetto da tumore è guarito fisicamente ma conserva la ferita, la paura, il trauma. Non va ulteriormente penalizzato come individuo». Con questo testo si stabilisce che gli ex oncologici sono da reputarsi guariti, quindi con gli stessi diritti di chi non ha dovuto combattere la malattia. La patologia smette di essere per banche e assicurazioni una informazione utile a calcolare rischi e solvibilità. Lo stesso sottosegretario, Pierpaolo Sileri, a nome suo e del Ministro Roberto Speranza, ne ha confermato il valore. Ora, incassato il sostegno anche del Dicastero, confido venga approvato a stretto giro, all’unanimità e diventi legge. Sarebbe fondamentale anche per debellare lo stigma, che diversamente si alimenta».

Michela Proietti per corriere.it il 25 gennaio 2022.

«Quando mi hanno detto “Carolina siediti, dobbiamo parlarti” sono scappata. Ho cominciato a correre, quando c’è qualcosa che non voglio sentire, io fuggo». Carolina Marconi, 43 anni, la showgirl venezuelana diventata nota al grande pubblico dopo la quarta edizione del Grande Fratello, racconta in anteprima al Corriere quello che ha scritto nel libro «Sempre con il sorriso. La mia battaglia più difficile» (Piemme) uscito oggi in tutte le librerie. Il racconto del tumore al seno che l’ha aggredita quando meno se lo aspettava («cercavo un figlio, non una diagnosi così terribile») e il percorso intrapreso per curarsi. «Oggi ho una collezione di parrucche.

Ho cominciato ad acquistarle su Amazon di tutte i tipi, dalla bionda alla rasta. All’inizio ne avevo una da 2500 euro, molto costosa. Poi ho capito che non mi serviva una parrucca perfetta, volevo alleggerire un periodo molto difficile e far capire che si può trovare una chiave positiva in tutto».

«Carolina, siediti»

Carolina Marconi scopre di essere malata mentre sta facendo gli accertamenti necessari per avere un figlio. «Quel figlio mi ha salvata prima che nascesse», dice Carolina, che oggi ha completato il suo ciclo di cure e può dirsi completamente guarita. Mancava solo la mammografia per iniziare il percorso che l’avrebbe portata, insieme al suo compagno, Alessandro Tulli, a diventare mamma.

«Ero sicura che sarebbe andata benissimo, anche se sotto sotto avevo paura, perché era un esame che rimandavo di continuo, come succede a tante donne per la paura di scoprire qualcosa che non va». Proprio a quell’ultimo controllo qualcosa va storto. Un sassolino, piccolo piccolo, oltre a una protesi rotta: l’esame rivela qualcosa di inatteso. «Carolina stai tranquilla, però approfondiamo». Le parole del dottore aprono la strada ai necessari accertamenti. L’esame istologico arriva poco dopo. «Carolina, siediti».

«Voglio un figlio, non un tumore»

«Ho 43 anni, voglio un figlio, non un tumore». Carolina Marconi racconta senza vergogna il suo primo pensiero alla notizia della malattia. «Non pensavo alla vita, pensavo a quel figlio che forse non sarebbe mai più arrivato». Quel sassolino era molto di più. «Un killer super aggressivo, con una piccola metastasi di 4 millimetri: abbiamo dovuto essere altrettanto aggressivi, con la terapia, c’erano alcuni farmaci che mi lasciavano stremata. Ho bevuto per settimane due litri di acqua al giorno, così aiutavo il mio corpo a liberarsi dei veleni».

Nel frattempo la malattia si fa conoscere attraverso altri aspetti. «L’amore del mio compagno si rivelava ogni giorno più potente: il sesso cambia quando hai un tumore, quando ti trasformi fisicamente, la cellulite è ormai l’ultimo dei tuoi problemi e le cure ti sfiancano. Ma lui non ha mai smesso di farmi sentire bella e desiderata. A un certo punto, quando sono iniziati a cadere i capelli e li ritrovavo persino nel piatto mentre mangiavo, mi sono rasata. Da sola, con la lametta, davanti allo specchio.

Mi sono sentita libera. Alessandro, davanti alla mia testa nuda, la baciava dolcemente e diceva: «la mia meravigliosa pelatina». Anche ora che sto facendo delle punture che mi danno delle insopportabili vampate di calore, lui mi è vicino. Il nostro è stato un amore grande fin dal primo giorno: quando giocava a calcio a Piacenza si alzava all’alba da Roma per poter dormire tutte le sere con me».

Smalto e farina

Durante il percorso di cure ha conosciuto persone malate e sole, alcune abbandonate alla scoperta della malattia dal compagno. «A quegli uomini dico solo di vergognarsi: a quelle donne che combattono da sole invece dico di sentirsi ogni giorno belle e forti, di mettersi un bel rossetto e la parrucca preferita. Il cancro non dipende da noi, ma lo spirito con cui lo puoi affrontare sì ». Per Carolina la vicinanza di Alessandro è stata fondamentale. 

«Abbiamo iniziato a vivere in una piccola comune, con tutta la mia famiglia arrivata dal Venezuela: i miei fratelli, che non si parlavano da anni, si sono ritrovati grazie a questo momento così difficile, mia mamma si è trasferita da noi. Facevamo la pizza, cantavamo canzoni del Sud America. Ho inventato tanti scherzi al mio Alessandro, mentre dormiva gli mettevo lo smalto o gli buttavo la farina in faccia. Lo chiamo il miracolo della mia malattia».

«Sarò mamma»

Prima di cominciare le cure Carolina ha congelato gli ovuli. «Non ho messo via la speranza di diventare mamma, tra due anni quando interromperò la cura ormonale potrò riprovare ad avere un figlio. E se non arriverà l’adotterò. Ma niente potrà togliermi questa grande voglia di maternità», dice Carolina, che dopo questa vicenda ha deciso di aiutare in modo concreto le donne che si trovano nella sua stessa situazione.

«Sto avviando insieme al Reparto oncologico dell’ospedale Gemelli una associazione in supporto alle donne che affrontano questo percorso: ci occuperemo di fornire parrucche, microblading alle sopracciglia, tatuaggi all’areola, e la festa di “fine chemio”, come quella che hanno organizzato a me a sorpresa in ospedale. Ogni donna che ha affrontato un male così aggressivo si merita una festa». 

·        Cate Blanchett.

Estratto dell'articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 2 settembre 2022.

La divina Cate Blanchett torna a Venezia con un film che è una sfida (vi anticipiamo che l'ha vinta, ne dubitavate?) e che farà discutere: in Tár, ritorno al cinema dopo sedici anni del regista Todd Field, si racconta il mondo internazionale della musica classica attraverso la figura di Lydia Tár (Blanchett), ampiamente considerata una delle più grandi compositrici/direttrici d'orchestra viventi e la prima donna a dirigere una grande orchestra tedesca.

Il film (in sala a febbraio 2023 con Universal) la segue dall'apice dei suoi poteri creativi, di carriera e personali - vive con una violinista, hanno adottato una bimba - fino allo straziante declino. Un crescendo di accuse MeToo, video e mail rilanciati sui media: la accusano di aver favorito in orchestra la violoncellista di cui è invaghita, molestato donne in passato, perseguitato una musicista che poi si è tolta la vita. L'incontro con l'attrice è all'hotel Excelsior, giacca bianca, l'aria serena e sicura. (…)

Il film affronta tanti temi.

«È una creatura tentacolare. Mi sono svegliata stamani pensando che è una sorta di meditazione sul potere, istituzionale e creativo. Un potere in una relazione disuguale. Un direttore spesso parla dell'orchestra come del proprio strumento, ma è composta da molti individui, su cui ha il potere di nomina. 

Tu percepisci in alcune istituzioni, in particolare nel mondo della musica classica, in cui il canone è creato e diretto da maschi, che il potere è quello di un monarca. Che succede allora se sfidi il sistema per arrivare al potere? Sei consumato o alterato da questo? La relazione fragile che hai con gli impulsi creativi può essere distrutta». (…)

Il film è una storia di MeToo al contrario?

«No. Le molestie non sono una questione di genere. Ma se nel film si vede solo il MeToo è perché la questione è ancora aperta, c'è una rabbia non metabolizzata. Nel film il MeToo e la cancel culture sono funzionali alla trama, rappresentano il mondo che ci circonda. Non sono il centro». 

In una scena del film si nomina Placido Domingo.

«Tutti abbiamo seguito le sue vicende giudiziarie. Nel film i riferimenti sottili sono tanti». 

L'arte va divisa dalla persona?

«Davanti a un Picasso immagino cosa potesse accadere in quel suo studio, ma Guernica è una delle più grandi opere create. L'importante è esercitare, sempre, una critica sana. Il pregiudizio però non ti deve accecare. A 22 anni mi presero per Oleanna di Mamet, il testo mi pareva orrendo. Alle prove arrivai sprezzante e il regista urlò "sei di ostacolo allo spettacolo, ti faccio licenziare". Fu un trauma, ma imparai che al pubblico non serviva il mio giudizio: fu libero di discutere all'uscita, qualche coppia ha divorziato nel foyer». 

·        Catherine Deneuve.

Catherine Deneuve, gli incredibili 79 anni della diva di Francia. L'attrice francese festeggia il compleanno il 22 ottobre. Una vita sul set, incarnando il fascino francese, e una presenza ancora attiva sul grande schermo. La Repubblica il 22 Ottobre 2022.

"Oui, je suis Catherine Deneuve" pronunciava con la sua espressione un po' beffarda la diva di Francia in una pubblicità degli anni 80. Oggi che compie 79 anni, e ha da poco ricevuto il Leone alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia, la sua essenza resta quella: lei è Catherine Deneuve. Null'altro da aggiungere.

Algida ma sensuale, di una sensualità quasi intellettuale. Come l'ha definista Francesco Merlo su Repubblica, in occasione del suo settantesimo compleanno, quando posò in lingerie sui tacchi per un magazine americano: "Lei è la diva che si fa beffe del divismo, e del destino che alle dive impone come ultima stazione il viale del tramonto".

E' stata una perennials molti anni fa, quando non esisteva ancora una parola per descrivere le donne che invecchiano con grazia, che sanno prendersi gioco della vita e del tempo che passa, inarcando leggermente un sopracciglio. 

Il suo stile in fatto di moda è senza tempo, un mix classico e intramontabile. In queste belle immagini d'epoca possiamo trovare spunti validi per copiare qualche look, tenendo sempre a mente che la cosa più importante, qualsiasi capo si vesta, è l'attitudine con cui lo si indossa.

Bastano 15 foto per raccontare l'icona massima del cinema francese? Il simbolo dell'eleganza parisienne? Il fascino senza tempo di una delle donne più belle del mondo? Ovviamente no. Ma in occasione dei 79 anni delle mitica Catherine Deneuve, abbiamo deciso di ricordarla con alcune delle sue foto più belle. La coda di cavallo, lo sguardo impertinente, l'immancabile sigaretta, lo charme in ogni situazione, vengono raccontati in 15 fotografie. Star di oltre 130 film, tra i quali capolavori assoluti come "Bella di giorno" o "L'ultimo metro", sempre in attività (l'ultimo film La verité ha aperto il Festival di Venezia 2019), Catherine ha sempre coltivato una grande riservatezza sulla sua vita coltivando così ancora di più il mito. È stata protagonista di grandi amori (uno su tutti quello con Marcello Mastroianni dal quale ha avuto la figlia Chiara, l'altro figlio Christian l'ha avuto da Roger Vadim) e di grandi amicizie (come quella con lo stilista Yves Saint Laurent che l'ha vestita tutta la vita). E ci ha insegnato cos'è l'eleganza, come ha avuto modo di dimostrare con la collezione che ha disegnato per A.P.C. ispirata ai personaggi dei suoi film e lanciata lo scorso 28 settembre

Pedro Armocida per “il Giornale” l'1 settembre 2022.

«Sono orgogliosa di questa bandiera, sono solidale con il popolo ucraino». Esordisce così Catherine Deneuve che si è presentata, alla conferenza stampa per il Leone d'Oro alla carriera della 79a edizione della Mostra del cinema di Venezia, con un abito viola scuro in Francia è il verde a portare male a teatro con sotto il bavero la bandiera ucraina blu e gialla: «Sono molto consapevole di ciò che succede nel mondo e per questo ho voluto indossare la bandiera dell'Ucraina. 

Ogni giorno mi auguro in cuor mio che la guerra finisca, che le cose si risolvano. Ma non ho una dichiarazione precisa da fare, non vorrei che le mie parole fossero travisate» ha concluso la diva leggendaria del cinema francese che festeggia i 60 anni di carriera e che giusto per non nascondere il suo forte carattere obbliga tutti a chiamarla mademoiselle e non madame anche se in Francia oggi è ritenuto un termine sessista e si sta uniformando l'uso unico di madame.

Attrice simbolo della Nouvelle Vague e musa dei più grandi registi della storia del cinema come Luis Buñuel, François Truffaut, Claude Chabrol, Jacques Demy, Agnès Varda, Marco Ferreri, Manoel de Oliveira, Lars von Trier e Leos Carax che l'ha mostrata senza veli in Pola X del 1999, rifiuta da sempre di essere considerata un sex symbol complice il celebre Bella di giorno Leone d'Oro proprio qui a Venezia nel 1967 dove era vestita, come sempre, da Yves Saint Laurent, la maison francese ora diretta da Anthony Vaccarello che la omaggia il 6 settembre al Teatrino di Palazzo Grassi di Venezia con una notte di proiezioni alla sua presenza: «Non mi sento un'icona né mi sembra di essere stata un sex symbol. Ero bionda ma, se guardate le mie immagini, non ho mai assunto pose particolarmente sexy. Comunque è una sfida mantenere questo aspetto, cosa importante ma non fondamentale per me, soprattutto negli ultimi anni».

Catherine Deneuve, che a Venezia è stata premiata con la Coppa Volpi per Place Vendôme di Nicole Garcia prima di essere presidente di Giuria nel 2006, non sa nemmeno spiegarsi bene il successo di attrice per cui le risulta anche difficile dare consigli alle giovani che sognano di seguire le sue orme: «È stato un mix di fortuna, di decisioni giuste e di altre, forse in numero minore, sbagliate. Interpretare un ruolo è come camminare per lungo tempo in montagna, ci sono salite dure, momenti di sconforto, ma per fortuna non si sa tutto prima. Non riesco a dare suggerimenti, posso solo consigliare di restare fedeli a sé stesse, alle proprie idee e valori».

D'altro canto il riferimento al passato non fa proprio per lei che, alla fine del prossimo anno, spegnerà 80 candeline, perché, dice, «non ho proprio tempo per voltarmi indietro, è il flusso della vita. Negli Anni 50, dopo i 35 anni, un'attrice era considerata più che matura, ma le cose sono cambiate». 

Così ecco i progetti futuri tra cui quello sulla vedova dell'ex presidente francese Bernadette Chirac «mentre girerò un film in inglese di una coppia di registi americani ambientato in una fattoria, in mezzo alle galline, Funny Birds è il titolo. La verità è che non sono affatto pronta a ritirarmi a vita privata». 

Catherine Deneuve: «Io sex symbol? Ma quando mai...» Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

La Grande Dama del cinema francese riceverà il Leone d’oro alla carriera: «Il Festival è molto importante per me, venni la prima volta nel 1967» 

«Oui, è Catherine». La Deneuve si presenta con due grandi orecchini d’oro e la bandierina dell’Ucraina sulla camicia blu, a poche ore dalla cerimonia in cui alla Mostra di Venezia le viene assegnato il Leone d’oro alla carriera. Nella vita ha seguito il suo copione, incarnando un’idea di stile, una donna che si sposa, che fa figli con Vadim e Mastroianni fuori dal matrimonio, che lavora, che ha preferito la solitudine quando le cose in amore non funzionavano, «sapendo che tirare su i figli da sola non è una buona idea». Ha vissuto la bellezza come un capitale da amministrare con saggezza. Si è ripresa dal leggero ictus che l’ha aggredita, anche se a volte fatica a rispondere, e il suo italiano, come lei, è meno sicuro. A Cannes, nella rentrée del 2021 dopo la malattia, si commosse. Vuole scendere dal suo trono, scivolando col suo charme sul suo passato, raccontandosi senza retorica per come è oggi, a 78 anni. A volte è sbrigativa e un po’ distante, senno’ non sarebbe lei, la Grande Dama del cinema francese.

Che significato dà ai colori ucraini che porta? «Questa decisione non ha nulla di speciale, non voglio parlarne, non voglio esprimermi, le mie parole potrebbero essere travisate. Ma sono consapevole di ciò che succede nel mondo, ogni giorno spero che le cose, lì, possano risolversi».

Che ricordi ha di Venezia? «E’ un Festival molto importante per me, venni la prima volta nel 1967 per Bella di giorno, l’ultima volta aprii il festival nel 2019. Sono orgogliosa e felice di questo riconoscimento».

Se si guarda indietro… «E’ difficile fermarci in un momento della nostra vita e pensare che tutto fosse già stato deciso. Non è mai così. Ci vuole una buona dose di fortuna, a volte si prendono decisioni sbagliate e lo capiamo nel tempo. Io non ho tempo di guardare indietro, ho appena finito un film su Bernadette Chirac e suo marito Jacques Chirac, l’ex presidente francese, presto ne giro uno in Belgio in una fattoria, si intitola Funny Birds, sarò in mezzo alle galline».

Lei è stata un sex symbol… «Io? Non lo sono mai stata. Forse a causa del mio aspetto, il fatto di essere bionda…Ma se rivedete delle mie vecchie foto non appaio mai in posa sexy. E’ stata una sfida mantenere questo look, non è la cosa fondamentale della mia vita, soprattutto per la mia età».

Come vive lo scorrere del tempo? «Lo si vive meglio in Europa che negli Stati Uniti. Vedete, negli Anni ’50 in America si pensava che una donna a 35 fosse più che matura. Le cose sono cambiate, ma ripeto, per un’attrice è meglio invecchiare in Europa».

Che consiglio si sente di dare a una giovane attrice? «Per carità. Nessun consiglio. Mai. Darei piuttosto un consiglio di vita: di essere fedeli a sé stesse, ai propri gusti, alle proprie idee. Gli attori sono solo una parte del film e il risultato a volte non è quello che ci si aspettava. E’ come quando si cammina a lungo in montagna, ci sono le salite dure, i momenti di sconforto, le vette…».

Lei e i registi. «Spesso del loro talento ti rendi conto dopo, a cose fatte, quando si lavora insieme per la prima volta è tutto più complicato. Talvolta vengono dal niente e diventano famosi. E’ impossibile immaginare l’esito limitandosi a leggere la sceneggiatura».

Lei e il cinema italiano, Ferreri, Monicelli, Bolognini, Risi. «E’ stato sempre molto importante…Se mi chiedete i registi a cui sono più legata direi Jacques Demy, Truffaut e Téchiné».

I film li vede al cinema o in casa? «Ho un grande schermo, il cinema cambia costantemente anche nella sua modalità, però non mi piace scoprire un nuovo film sul mio divano. Non solo per il suono, è l’atmosfera…Le cose si percepiscono in modo diverso in sala. Amo il cinema e vado il cinema».

Non sarà stata un sex symbol, ma è un’icona. «Uh-là-là, io non sono un’icona. Potete usare questo termine, siete liberi di farlo, ma non lo sono».

·        Catherine Zeta Jones.

Catherine Zeta Jones: «Un incubo nelle mie notti, sogno di voler uscire da una stanza chiusa».  Francesca Scorcucchi su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2022

La star nella serie «Il mistero dei templari» in uscita su Disney+: «Amo la caccia al tesoro e la mia materia preferita era la storia»

In «Chicago» era un’assassina, in «Traffic» una trafficante di droga. Catherine Zeta Jones non è nuova ai ruoli da cattiva ma questa volta, assicura, ad interpretare la bionda plurimiliardaria Billie si è divertita: «Dopotutto si sa, le bionde si divertono di più». L’attrice gallese è su Disney+, con «Il mistero dei templari – la serie», che riporta in tv l’omonima saga amata dai ragazzi degli anni Duemila con protagonista Nicolas Cage. È il secondo grande franchise televisivo per l’attrice. Su Netflix interpreta Morticia in «Mercoledì», miniserie sulla Famiglia Addams, firmata Tim Burton.

«Di entrambi i progetti mi piaceva l’idea di prendere storie conosciute e dare loro nuova linfa. Ci sono titoli che sono nella memoria di tutti e farne parte è un grande onore. Quando ho raccontato ai miei figli che avrei fatto parte di una serie su una saga che probabilmente non conoscevano e che raccontava di storia, archeologia e tesori da recuperare mi hanno presa in giro. Erano piccoli quando i film con Nicolas Cage uscirono, eppure li conoscevano benissimo e anzi, a interpretarne la serie sono diventata una mamma molto cool».

La serie prodotta da Jerry Bruckheimer, con un episodio in uscita ogni mercoledì, vede protagonista Lisette Olivera, che interpreta Jess, temeraria e perspicace come lo fu Nicolas Cage. Lui non è tornato ma Harvey Keitel, che nel franchise cinematografico aveva interpretato Peter Sadusky, si unisce al cast riprendendo lo stesso ruolo.

Jess ha vent’anni ed è una dreamer, come negli Stati Uniti vengono chiamati i bambini arrivati illegalmente negli States ancora in fasce e in attesa di regolarizzare la loro posizione nel Paese. Lei però ha un sogno ancora più grande: cercare di risolvere un mistero di famiglia e recuperare un antico tesoro sul quale ha messo le mani l’avida Billie. Zeta Jones ha una simile passione: «Amo la caccia al tesoro — dice l’attrice premio Oscar per “Chicago” —. Frequento spesso i mercatini delle pulci per cercare di trovare un tesoro che qualcuno distrattamente ha lasciato. La mia materia preferita a scuola era la storia». Un interesse che ha trasmesso: «Mio figlio si è appena laureato in storia, mia figlia la sta studiando. Storia e archeologia sono affascinanti perché svelano sempre qualcosa di nuovo del nostro passato».

Non ama invece le Escape room, descritte nella serie diretta dalla regista di Moonson Wedding, Mira Nair. «Non ci ho mai giocato e c’è una precisa ragione. Da piccola le mie notti erano disturbate da un sogno ricorrente in cui cercavo senza successo di uscire da una stanza chiusa. È un incubo che continua a farmi paura, anche ora che ho 53 anni». Li ha compiuti il 25 settembre, come il marito Michael Douglas. «Siamo nati lo stesso giorno, ma attenzione! Non lo stesso anno, ci sono vent’anni di differenza», scherza.

Un’altra data importante è a novembre: «Il 18 abbiamo festeggiato 22 anni di matrimonio». Galeotto fu Danny De Vito che li fece conoscere. I figli, Dylan e Carys, sono arrivati subito: «Hanno 22 e 19 anni ma li chiamo ancora “ bambini”». Seguiranno la carriera dei famosi genitori? «La piccola non sa ancora, il grande pensavo volesse fare l’insegnante di storia e invece sta parlando di diventare attore anche lui. Qualsiasi cosa voglia fare, saremo dalla sua parte, sempre».

·        Caterina Caselli.

Maria Luisa Agnese per 27esimaora.corriere.it l'11 settembre 2022.

Nessuno mi può giudicare: già à metà anni ‘60 una canzone poneva la questione dell’equità di genere: la cantava una ragazza con caschetto biondo, Caterina Caselli. 

Aveva capito che la canzone era vessillo di libertà al femminile?

«Lo è diventata. All’epoca non c’era questa consapevolezza né da parte degli autori né da parte mia, il femminismo come fenomeno di massa era ancora lontano, era piuttosto una affermazione caparbia del diritto di ognuno di “ vivere come può”.

Credo di essere stata percepita come una sorella vivace, diretta, con le idee chiare sulla libertà. In fondo sono nata nel 1946 quando le donne italiane hanno potuto votare per la prima volta. Sarà un caso o un segno?». 

Allora come l’ha vissuta?

«In quel fatidico 1966 vivevo come in una bolla felice, mi sentivo amata, avevo tante soddisfazioni, ho raggiunto l’autonomia economica, mia madre non mi osteggiava più. Ero a Ischia per i fanghi e una donna, non giovane, mentre mi spalmava il fango sulla schiena mi disse “Signurì, voi mi piacevate così tanto perché eravate prepotente”. 

Forse il più bel complimento che abbia mai avuto, una donna che in qualche modo si sentiva riscattata da quella canzone: possiamo anche sbagliare ma nessuno deve giudicarci male».

Le donne hanno saputo comunicare il bisogno di parità?

«Passi da gigante ne sono stati fatti, eppure il tasso di femminicidi è in crescita, ed è spaventoso perché nasconde una idea tribale dei rapporti basata sul possesso. Una parola chiave è: fare sistema». 

I diritti si ottengono marciando uniti, uomini e donne?

«Senza fare tante storie qui si tratta di rivedere consuetudini e leggi per eliminare ogni differenza nei diritti fondamentali di accesso al lavoro, all’educazione, a una vita libera e auto-determinata… Uomini e donne insieme, il problema riguarda tutti». 

L’equilibrio con suo marito, Piero Sugar, su cosa era basato?

«C’è sempre stato rispetto e questo l’ha rafforzata anche nei momenti delicati della nostra vita insieme, che non sono mancati». 

Prima cosa da fare per le donne?

«Vorrei che ogni donna potesse essere libera di istruirsi, di scegliere la propria religione. A proposito di diritti mi viene in mente una canzone di Andrea Satta, che sintetizza: non è un diritto l’amore, “l’importante è lasciarsi bene, molto più che amarsi follemente, pensando al proprio passato insieme come un dono”».

Marinella Venegoni per “La Stampa” il 22 luglio 2022.

Ancora on the road. Questa volta a raccontare ai ragazzi di Giffoni la favola della sua vita vera di donna, star e manager ai più alti livelli nella storia della musica popolare italiana. È successo ieri mattina, per l'apertura del Festival. 

Caterina Caselli, curiosamente presentata via telefono da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro - gruppo decollato grazie al suo fiuto - mostra alcuni spezzoni del documentario Una vita, cento vite presentato a Venezia '21.

Confessioni si rincorrono rapide dentro mille aneddoti e inevitabili malinconie. È stata, a Giffoni, la sua prima uscita pubblica da quando se n'è andato, il 12 giugno scorso, l'amatissimo marito Piero Sugar. Non sono momenti facili, ma lei Caterina è una combattente nata: «Sono ancora smarrita, ma cerco di avere dei momenti di distrazione che non mi facciano pensare sempre alla mancanza. Sa, dopo 52 anni di vita in comune non è facile». 

Davvero la sua storia è un po' come una favola. La cantante di un piccolo paese che vince con la bravura e la tenacia, e poi diventa talent-scout inesauribile. «Il film lo racconta molto sinceramente. La mia famiglia, i primi passi, le delusioni e gli incontri fortunati. Indirizzata a Roma, incontro Ladislao Sugar».

Leggendario discografico, che poi diventerà suo suocero: «Ero al Piper, mi disse: sentendo lei, tutto il resto mi è sembrato vecchio. E poi incontro Piero, imprevedibile, e resto affascinata da questa persona silenziosa, molto colta, che parla a voce bassa, mentre io emiliana ero abituata ad altro tono. Pensi che i miei suoceri si erano separati, e Piero mi raccontava la sua sofferenza per la situazione. Il padre era in imbarazzo, diceva: cosa può pensare, la mamma di Caterina? Tant' è che quando noi ci siamo sposati, lui e la moglie sono tornati insieme. Poi quando è nato Filippo, era al settimo cielo». 

Lei è una scopritrice accanita di talenti, molti femminili: da Giuni Russo a Gerardina Trovato, da Elisa a Malika fino a Madame. Senza contare Bocelli.

«Bocelli è stato una grande intuizione. Mi ero accorta che Mario Lanza, tenore di grazia, aveva un fanclub pazzesco e ancora attivo. Ero andata ad accompagnare Gerardina, che apriva il concerto di Zucchero, e in Miserere sento questa voce e penso a Lanza. Poi lo vedo, somigliava anche a Omar Sharif che era bellissimo, avrò visto 7 volte Il dottor Zivago per lui. Rimasi colpita, cercai un pezzo e con Zucchero arrivò Il mare calmo della sera per Sanremo. La vita è l'arte dell'incontro, diceva Vinicius». 

Ha avuto un occhio speciale per i talenti femminili, che nel suo periodo d'oro artistico erano assai più rilevanti che non oggi, a Sanremo soprattutto.

«Non ho mai fatto distinzioni, un talento è un talento. Poi con le donne c'è un'affinità diversa. Quando Vivarelli mi mandò la Trovato, che venne a Milano con la chitarra, sentivo quella grinta... devi ascoltare dal vivo, non sempre la cassetta. Che buffo, dico ancora "cassetta". Ma quel che lei dice è vero, l'r'n'b è un genere dominato dai maschi, questo ha nuociuto. Ma oggi ci sono nuove ragazze, mi piace Ariete». 

Ma allora resta sempre all'ascolto...

«Ora ho meno continuità d'ufficio, ci sono Filippo e mia nipote Greta, ma non è mai un problema di genere, si va a cicli.

C'è molta omologazione, il mercato va così. Però penso sempre che l'artista che non si uniforma a quello che c'è, è quello che mi piace di più, anche a costo di non aver rientro immediato come si fa oggi. Noi avevamo il tempo e la possibilità di sbagliare, un progetto lungimirante poteva darti un fatturato importante, anche se facevi degli errori. Ho cominciato a 19 anni, ho sempre imparato dai miei errori. Se c'è un sogno bisogna resistere e coltivarlo».

Anche la sua Madame è un tipo alquanto originale.

«Ha una bella personalità, una buona scrittura. È curiosa, legge, rischia... Nei Sessanta si faceva così». 

Che dice della vitalità imprevista di Ornella Vanoni con i suoi 88 anni?

«La devi applaudire, non c'è altro da fare. Lei è un guerriero, Ha trovato dei brani in linea con le giovani generazioni, ed è abbastanza singolare. C'è da dire che quella è la sua passione e la sua missione. Chapeau». 

Che cosa vede in questo torrente di nomi nuovi che si affacciano, come un vento che spazza via ogni cosa?

«Pensi che ogni giorno nascono nel mondo 60 mila nuovi brani. Ho l'impressione di molte ispirazioni prefabbricate, è un eccesso di offerta, di testi poveri che non guardano in alto. Devi aver pazienza, e la voglia di ascoltare. Ancora mi segnalano delle cose, e a volte davvero non meritano attenzione. Ma spero sempre in qualcuno che tiri fuori qualcosa che non c'è, come dico sempre spero nell'unicità. 

Alcuni mi parlano di ragazzi molto preparati, il rettore del Politecnico l'altro giorno mi diceva che loro ti sgamano subito se non sei preparato. Dunque io spero, sono positiva, anche se in questo momento non sarebbe logico. Spero di avere momenti belli di gioia. È un grande dono che ho ricevuto, ho sempre cercato di vedere il buono in quello che mi capitava, e ancora lo faccio». 

Ai ragazzi di Giffoni, Caterina ha subito rivolto un invito: «Siate curiosi, non abbiate paura di sbagliare». La rassegna di quest' anno s' intitola «Invisibili» e lei parlando di una delle sue hit, Nessuno mi può giudicare, confessa: «All'inizio era un tango e dissi che non l'avrei cantata manco morta, perché il tango era uno stile degli adulti. Fu trasformata in chiave moderna, e la testammo in segreto davanti a un gruppo di studenti. Il resto si sa». 

Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022.

Con Caterina Caselli condivido il giorno e il mese di nascita e, più o meno, anche l’anno. Condivido altre vissutezze, ma ha poca importanza. Come tanti, invece, condivido gli anni di «Nessuno mi può giudicare» (era il Sanremo de «Il ragazzo della via Gluck»), di «Perdono», di «Sono bugiarda», della cover «Il volto della vita». Condivido la passione per Paolo Conte. 

A un certo punto Caselli dice che la frase «come piove bene sugli impermeabili» è un lampo di poesia e nel cuore mi partono subito le serrande abbassate e la pioggia sulle insegne delle notti andate. Vorrei essere al suo posto, perché in quel momento sta parlando con Paolo Conte, ricorda il successo di «Insieme a te non ci sto più» e ho come la sensazione che la Caselli abiti il mio stesso immaginario (è vero il contrario).

Caterina Caselli – Una vita, cento vite è un documentario diretto da Renato De Maria, prodotto da Sugar Play in collaborazione con Rai Cinema (Rai3). Meglio, è una lunga confessione in pubblico contrappuntata di ricordi, di caschi d’oro, di reperti musicali, di spezzoni di film (che tenerezza i «musicarelli» di Fizzarotti!), di aneddoti, di tagli alla Vergottini (come Valentina di Crepax), di lacrime.

La commozione l’assale quando parla di morti, di Tenco, del suicidio del padre, di Morricone e le lacrime sono come sigilli di autenticità che si posano su un lungo racconto apparentemente molto istituzionale (una sorta di regalo che il figlio ha fatto alla vita avventurosa e complessa della madre) per risvegliarne i lati più passionali. E anche con i cantanti che ha lanciato, da Pierangelo Bertoli a Giuni Russo, dal trio Morandi-Tozzi-Ruggeri ad Andrea Bocelli, ai Negramaro, si sente che il rapporto va oltre la professione. Un sentimento multiforme racchiuso in queste parole: «E quando andrò/Devi sorridermi se puoi/Non sarà facile ma sai /Si muore un po’ per poter vivere».

"Caterina Caselli, una vita cento vite”: L’incidente in Calabria, ecco chi l'ha salvata. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud l'11 febbraio 2022.

Oltre un milione di persone giovedì sera su Raitre hanno visto il bel documentario di Renato De Maria “Caterina Caselli, una vita cento vite”.

Il mitico “Casco d’oro” della musica italiana racconta per la prima volta diversi episodi della sua intensa vita di cantante e imprenditrice discografica.

Insieme a personaggi suoi amici come Paolo Conte, Francesco Guccini, Stefano Senardi, Caterina, in una sorta di flusso di psicanalisi, racconta a suon di hit le sue intense vite. Spesso commuovendosi alle lacrime come quando rievoca i suicidi di Luigi Tenco a Sanremo e quello del padre afflitto dalla depressione.

Tra trionfi canori e scoperte di talenti alla Bocelli c’è nel film anche spazio per il racconto di un terribile incidente stradale nella primavera inoltrata del 1967, quando Caterina con il suo manager viaggia in automobile per raggiungere Vibo Valentia per un concerto per una manifestazione organizzata dall’Azienda di Soggiorno e presentata da Daniele Piombi.

Il racconto dell’incidente stradale

La partenza è da Frosinone. Gli altri componenti del gruppo li precedono con un pulmino. Non c’era l’autostrada e Caterina Caselli quel 3 maggio del 1967 a bordo di una Fiat 2300 hanno preso la Strada Statale Tirrenica quando alle 19,30 imboccano una strada dal fondo dissestato e l’automobile sbanda e precipita in una scarpata lunga 30 metri tra Cirella di Diamante e Belvedere Marittimo.

Ricorda Ivo Callegari: “Non andavo forte”- al contrario di quanto ricorda nel documentario la cantante – “al massimo 80 km orari, la strada era piana, leggermente sinuosa, forse a causa del fondo stradale un po’ dissestato, bagnato da una leggera pioggia, tutto ad un tratto, mentre mi immettevo su un ponte che attraversa il letto fortunatamente asciutto di un torrente, invece di seguire il corso della strada, l’auto è andata a cozzare contro il parapetto sinistro del ponte, precipitando da un’altezza di circa 30 metri. Abbiamo fatto un volo pauroso e la 2300 è caduta col muso in avanti sobbalzando più volte su di una scarpata e incastrandosi nel terreno. Io sono stato sbattuto fuori.”

Callegari non ha avuto ferite. Caterina è incastrata tra le lamiere della Fiat. Inizia ad ad urlare aiuto dal fondo della scarpata. Poi sviene. Anche la cantante grida e teme di veder finire la sua vita.

Caterina, dal canto suo, ha spesso rievocato che tutti e due furono buttati fuori dall’automobile. Dice che in quel tragico momento non ha mai perso conoscenza e di essersi trovata la faccia e la testa bagnate di sangue. Dichiarò ai giornali che aveva provato a muoversi ma le sembrava di avere tutte le ossa a pezzi.

Chiamava Callegari ma non rispondeva e aveva paura che fosse morto. Aveva picchiato anche la fronte e vedeva tutto buio Caterina Caselli, in quei tragici momenti pensa anche di essere diventata cieca. Quando la Caselli si rende conto che erano ancora vivi, nonostante i dolori, non può che ringraziare Dio per lo scampato pericolo. Poi finalmente arrivano i soccorsi.

A soccorrere i due fu un giovane del posto di 23 anni, Ciriaco Amoroso, il quale alla guida di un camion seguiva la loro auto. Aiutato da altre persone, estrasse Caterina dalla macchina e li caricò sul camion portandoli subito alla clinica Tricarico di Belvedere.

L’ospedale e la diagnosi

Nella stanza 39 arriva il dottor Corriero per la diagnosi: “frattura al malleolo esterno del piede sinistro, sospetta frattura della tibia, ematoma alla bozza frontale sinistra, contusioni con ematoma al fianco sinistro, contusioni al braccio e alla mano sinistra, qualche ecchimosi, grave stato di choc.”.

Casco d’oro è salva su un punto stradale che in 40 incidenti che si sono verificati, come riporta la stampa d’epoca, ben 38 erano stati mortali. Qualche settimana dopo, il quotidiano milanese “La Notte” invia al camionista Amoroso l’adesivo con la scritta “Gentiluomo della strada”. Mezzo secolo dopo il fans club della Caselli organizza una carrambata grazie al figlio del camionista.

Il nuovo incontro con il suo “salvatore” e la seconda testimonianza

Nel marzo del 2016 Caterina e Ciriaco parlano al telefono dopo 49 anni nel giorno del compleanno di chi salvò Caterina. Felicità incredibile per l’incontro a distanza. Il Fans club quando pubblica la notizia su Facebook raccoglie un’altra testimonianza di quel tragico giorno. Francesco Ianni scrive che fu il padre a fermare una macchina che una macchina e dice che pochi mesi dopo, Caterina Caselli, andò a casa sua per ringraziare non solo per il soccorso ma anche per aver vigilato su una valigia piena di contanti presente nell’auto incidentata.

A riscontro, Ianni, pubblica la stessa foto avuta da Ciriaco con dedica simile al signor Ianni. È evidente che i soccorritori furono più di uno. In Calabria le strade saranno dissestate, purtroppo ancora oggi, ma il buon cuore nell’avversità non manca mai. E Caterina Caselli non l’ha dimenticato. Neanche nel bel documentario dedicato alla sua biografia.

·        Céline Dion.

Da tgcom24.mediaset.it il 9 dicembre 2022.

Celine Dion è affetta da una rara patologia e per ora non può più cantare. Lo ha rivelato la stessa cantante canadese, 54 anni, in un video commovente sul suo profilo Instagram. Le è stata diagnosticata la "sindrome dell'uomo rigido", conosciuta anche come sindrome della persona rigida, dall'inglese SPR, Stiff person syndrome.

 Si tratta di una rara neuropatia che colpisce il sistema nervoso centrale ma provoca rigidità muscolare progressiva e spasmi principalmente nel tronco e nell'addome.

 "Ciao a tutti - esordisce in lacrime l'artista nel video, - mi dispiace averci messo così tanto a farmi viva. Mi mancate tanto e non vedo l'ora di essere di nuovo sul palco per parlavi di persona. Come sapete sono sempre stata un libro aperto e non ero pronta a dire niente ma lo sono ora. Da tempo sono alle prese con problemi di salute".

Celine Dion annuncia la sua malattia - "E' difficile - continua la cantante nel video - per me affrontare queste difficoltà e parlare di ciò che mi sta succedendo. Recentemente mi è stato diagnosticato un raro disordine neurologico chiamato 'sindrome della persona rigida', che colpisce una persona su un milione". 

"Non sono pronta", Celine Dion cancella di nuovo il tour in America

Spiega che si sa poco di questa sindrome, però ora sa cosa le provoca gli spasmi che compromettono ogni aspetto della sua vita quotidiana. "Purtroppo - aggiunge - questi spasmi mi rendono difficile camminare e non mi consentono di utilizzare le corde vocali come di solito. Mi fa male dirvi che ciò significa che non riuscirò a riprendere il mio tour in Europa a febbraio". 

Con la voce rotta dall'emozione, Celine Dion dice che tuttavia è circondata da ottimi dottori che la stanno aiutando a migliorare. La popstar non nasconde che è una battaglia difficile perché tutto ciò che ha sempre fatto è cantare; "è la cosa che amo di più", ha sottolineato.

In lacrime, poi, ha salutato i suoi fan sottolineando anche di sentire la loro mancanza e quella del palcoscenico. "Do sempre il 100% durante i miei spettacoli, ma questa condizione al momento non me lo consente... Vi voglio tanto bene e spero di potervi rivedere davvero presto". 

A Cannes 74 arriva "Aline", il racconto immaginario della vita di Celine Dion

Dion aveva già cancellato le tappe in Nord America lo scorso gennaio del suo tour e le sue date europee in aprile. Tra le date che salteranno c'è anche quella del Lucca Summer Festival in programma il 15 luglio 2023.

Céline Dion in lacrime: soffro di una sindrome rara. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022

La popstar lotta contro la «Stiff Person Syndrome», «sindrome della persona rigida», una neuropatia che colpisce una persona su un milione

Un raro disturbo neurologico. Incurabile. Un anno dopo aver rivelato al mondo i suoi problemi di salute, quei «seri e persistenti spasmi muscolari» che l’hanno obbligata nel gennaio scorso a fermare il suo «Courage World Tour», la popstar canadese Céline Dion, 54 anni, ha svelato il nome della malattia contro la quale combatte, la «sindrome della persona rigida», dall’inglese Stiff Person Syndrome, una rara neuropatia che colpisce il sistema nervoso centrale e provoca una progressiva rigidità muscolare ai danni di tronco e arti.

In un lungo e toccante video postato ieri sui suoi canali social, la cantante, visibilmente commossa, si è rivolta ai fan: «Da tempo sono alle prese con problemi di salute — ha spiegato —, ed è difficile per me affrontare queste difficoltà e parlare di ciò che mi sta succedendo. Recentemente mi è stata diagnosticata la “sindrome della persona rigida”, una rara condizione neurologica che colpisce una persona su un milione». Di questo disturbo, ha osservato Dion, «si conosce ancora poco, ma ora so cosa provoca gli spasmi che compromettono ogni aspetto della mia vita quotidiana. Purtroppo — ha aggiunto la cantante — questi spasmi mi rendono difficile camminare e non mi consentono di utilizzare le corde vocali come sono solita fare. Mi fa male dirvi che ciò significa che non riuscirò a riprendere il mio tour in Europa a febbraio». Tra le date cancellate, anche quella italiana in programma il prossimo 15 luglio al Lucca Summer Festival.

Dion ha sottolineato di avere «un grande team di medici che lavorano al mio fianco per aiutarmi a stare meglio. Sto lavorando duramente con il mio terapista — ha detto — per ricostruire la mia forza e la mia capacità di esibirmi di nuovo. Ma devo ammettere che è una lotta. Tutto ciò che so fare è cantare, è quello che ho fatto per tutta la vita ed è quello che amo fare di più». Nei suoi show, ha concluso la popstar con gli occhi lucidi di lacrime, «do sempre il 100%, ma in questo momento la mia condizione non me lo permette».

I problemi di salute dell’artista canadese, che ha cominciato a cantare a 14 anni e in quaranta di carriera ha venduto circa 250 milioni di dischi aggiudicandosi, tra i molti riconoscimenti, cinque Grammy Awards e due Oscar per la migliore canzone («La bella e la bestia» cantata in coppia con Peabo Bryson e «My Heart Will Go On», canzone principale della colonna sonora di Titanic di James Cameron, tra i singoli più venduti di sempre), si sommano al lutto, mai superato del tutto, per la morte del marito, oltre che manager e mentore, René Angélil, scomparso nel 2016, da cui la cantante ha avuto i tre figli che oggi le sono vicini e la supportano.

·        Cesare Cremonini.

Cremonini e «Stella di mare» con Dalla: «Ho cercato la sua voce in una foresta in Germania». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.

Il cantautore bolognese pubblica il duetto con Lucio. «Segnò la fine della canzone politica. Palava d’amore in modo nuovo. Le mie canzoni dicono che l’amore l’ho vissuto tanto, ma adesso ne sento un’assenza spaventosa». 

Cesare Cremonini è andato a cercare la voce di Lucio Dalla in una foresta in Germania. «È in un magazzino lassù che sono conservati i master con le registrazioni originali dell’epoca cui ho avuto accesso grazie a Sony e Fondazione Dalla. Dentro quei nastri ci sono segreti, respiri, umori, energie. La voce di Lucio ha una potenza e un timbro profondo: ho preso una lezione di canto. Rispetto alla versione fatta dal vivo la sfida è stata dare a quelle sonorità, che oggi sembrano datate, una produzione attualizzata per poterla portare alle nuove generazioni». Il risultato è un duetto su Stella di mare: esce giovedì come anteprima del doppio live sul tour negli stadi che sarà pubblicato il 28 ottobre.

È la prima volta che viene concesso l’utilizzo della voce di Lucio. Perché nel repertorio ha scelto proprio «Stella di mare»?

«È su Lucio Dalla , l’album più venduto in Italia nel 1979 con cui Lucio fece esplodere una forma canzone non più imbrigliata dalla politica. Aveva già liberato la canzone con Com’è profondo il mare , ma lì c’era ancora il rapporto con la società, “siamo noi siamo in tanti...”. Qui invece racconta l’amore, i rapporti quotidiani, l’intimità della camera da letto. Lui disse che voleva passare dalla canzone di protesta a quella di proposta. Andava contro l’atteggiamento, ancora oggi vivo in molti che non sono altro che canzonettari, del voler dimostrare una credibilità artistica attraverso l’attenzione alla politica».

Lei non farà mai una canzone politica, quindi?

«Nessuno vuole essere Robin è impegnata, ma più che politica la definirei civile. Quel “siamo tutti più soli” nasce da un disagio profondo e da un dolore privato che si collegano poi a una collettività intera. Anche La ragazza del futuro è civile, guarda alla collettività. Nel 2005-10 sono stato un autore che ha iniziato un racconto sull’intimità, poi sviluppato da altri, senza più gli stereotipi del grande amore baglioniano. Quel mio capitolo si va esaurendo per questioni anagrafiche, per la mia maturazione come uomo».

E lei come lo vive l’amore?

«Le mie canzoni dicono che l’amore l’ho vissuto tanto, ma adesso ne sento un’assenza spaventosa. Il vuoto di questo istante di vita è ingombrante. Ho fatto una scelta di onestà con me stesso e non mi basta più accontentarmi. Però il legame con il pubblico compensa questa mancanza. Lo disse anche Alberto Sordi in un’intervista in cui gli chiedevano del suo essere uno scapolone».

Invece Dalla, su cui sta anche scrivendo un film, non ha mai esplicitato le sue scelte sessuali. Secondo lei soffriva nel parlare di una lei nei testi?

«L’ambiguità di Dalla non era nella sua sessualità o nella sua vita, ma nelle composizioni. Non era in simbiosi con le sue canzoni. Io sono autobiografico, raccolgo pezzi di vita e li trasformo in brani».

Ci riesce ancora dopo quasi 25 anni di carriera?

«Il mio terrore è sempre stato quello di svegliarmi un giorno e dirmi “ormai sei grande, la musica è stata un’esperienza giovanile”. I 20 anni non ci sono più, a 40 sei ancora giovane ma ti chiedi se la passione rimane. Questi tempi aggressivi non aiutano: non memorizzano nulla e danno una sensazione di vuoto a quello che fai come artista. L’attenzione è ridotta e c’è una bulimia di contenuti a scapito di una qualità che va verso il basso».

Come ci si oppone a questa corsa al ribasso?

«Con la copertina di questo disco ad esempio. L’approccio attuale privilegia un processo creativo che punta a colpire il pubblico. Lo trovo insoddisfacente e dopo aver rifiutato 120 proposte ho chiamato un artista. Gianluigi Toccafondo ha dato una lettura che va oltre il tempo e nutre una parte del cervello diversa».

Ha iniziato a 18 anni con i Lùnapop: il successo le ha portato via qualcosa?

«Vedo tanti colleghi che si raccontano con un documentario. Io avrei qualche difficoltà. Se guardo i filmati e le registrazioni del mio archivio vedo molta vita fino ai 22 anni. Poi mi chiudo in uno studio di registrazione per 12 anni ed è solo lavoro per costruire una carriera in prospettiva. Sento tanta plastica intorno e sto riscoprendo Kurt Cobain e i Nirvana. Ma se lui nel biglietto di addio scrisse “è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”, io dico che è meglio morire lentamente. Se mi chiedi quanti anni ho non ho risposta e questo mi ha aiutato a misurarmi con Lucio».

La lettura è lentezza. Che libro ha sul comodino?

«Sto rileggendo Musicofilia di Oliver Sacks. Il rapporto fra cervello e musica mi intriga da quando sono ragazzino. Io credo, e i suoi studi lo confermano, che l’interesse per la musica sia innanzitutto biofilia, interesse per la vita».

Bolognese, ma lontano dal cerchio magico di Dalla...

«Sono la prima voce della mia città nata quando quell’epoca era finita. Sono riuscito a liberarmi da quella sala parto. C’è stata una conoscenza graduale e cauta fino a che con l’età e l’accumulo di canzoni avevo una strada definita e ci siamo incontrati da colleghi. Ho interiorizzato Lucio Dalla nel corso degli anni. In genere non amo come vengono le canzoni di altri artisti cantate da me e viceversa. Sono un artista “di voce”, ma nei geni evidentemente c’era questa possibilità, nutrita con la dieta territoriale del cantautorato bolognese... Ho parlato e condiviso il lavoro su “Stella di mare” con Ron, che è un artista e una persona fantastica. Era presente e aveva lavorato palmo a palmo con Lucio negli Stone Castles Studio durante quelle registrazioni di quei dischi e il suo sguardo era necessario. È rimasto entusiasta del risultato e affascinato dall’intreccio delle nostre voci. Vorrei coinvolgerlo ancora in altri progetti futuri. Quando mi chiedono il segreto della carriera, rispondo che è il mio modo di vivere, il cui unico segreto è Bologna».

Che idea si è fatto della Bologna di quegli anni?

«Ovviamente io non c’ero ma la Bologna che ha accolto e supportato la mia musica, prima ancora che lo facessero i miei coetanei, sono state le persone di altre generazioni che l’avevano vissuta da protagonisti e che poi me l’hanno trasferita. Io mi sono sempre sentito un artista di molte generazioni. Anche ora non c’è giorno in cui non incontri qualcuno tra amici, colleghi, professionisti del mondo dello spettacolo e non solo, che non mi offra il suo dipinto privato e personale non solo di Lucio, perché ognuno ovviamente ha “il suo”, ma di quella Bologna spezzata a metà dall’attentato alla stazione tra la fine degli anni di piombo e gli intensi anni 80».

La sua città oggi?

«Generosa, aperta mentalmente, progressista, inclusiva, empatica, non spaventata, allegra, proiettata nel futuro. Aggettivi ereditati dalla storia di questa città».

Sembra in controtendenza rispetto al Paese...

«Bologna può rappresentare un punto di riferimento. Sono andato a votare e non lo facevo da tempo perché non trovavo un’immagine di questo Paese rappresentata da una forza politica. L’età mi ha dato esperienza e coscienza. Il voto è un modo per confermare una visione critica della realtà».

Lei tifa Bologna: l’esonero di Mihajlovic?

«Sinisa ha sempre detto che non voleva essere giudicato per come stava ma per quello che faceva. La società ha diritto di fare scelte che ritiene giuste e comunque conoscendo la dirigenza credo abbiano valutato tutto. Rispetto per lui e per la società».

Dal 29 ottobre torna nei palazzetti. Ha già venduto 110 mila biglietti, ma non le sembra un ridimensionamento dopo gli stadi?

«Questa domanda tocca la mia sensibilità di musicista. Il mio rapporto con la musica va oltre la comunicazione di un progetto discografico. Dopo due anni di stop causa pandemia rimanere fermo un altro anno per difendere un posizionamento negli stadi sarebbe una sciocchezza. Voglio suonare».

Cremonini, l’ex fidanzata rompe il silenzio: “Tutti abbiamo un paio di corna”. Fabrizia Volponi il 30/06/2022 su Notizie.it.

Cremonini, l'ex fidanzata rompe il silenzio: Martina Maggiore parla di "corna".

L’ex fidanzata di Cesare Cremonini, ovvero Martina Maggiore, ha rotto il silenzio. Via Instagram, la ragazza ha parlato di “corna”. La domanda, quindi, sorge spontanea: la relazione con il cantante bolognese è finita a causa di un tradimento?

Cremonini: l’ex fidanzata rompe il silenzio

La storia d’amore tra Cesare Cremonini e Martina Maggiore è giunta al capolinea da qualche settimana. Fino ad oggi, nessuno dei due aveva aperto bocca sulla rottura. Nelle ultime ore, però, la donna ha deciso di lanciare una pesante frecciatina via Instagram. Martina non ha fatto il nome di Cremonini, ma il riferimento sembra chiaro. 

Le parole di Martina Maggiore

La Maggiore ha condiviso una Instagram Stories piuttosto ambigua. Un bel paio di “corna” appare sullo sfondo, mentre a didascalia si legge: 

“Le corna sono come le scarpe: tutti nella vita ne abbiamo almeno un paio”. 

Martina si riferisce ad un tradimento di Cremonini? La relazione è finita per questo motivo? Non possiamo saperlo, anche perché la Maggiore non ha aggiunto altri dettagli. Le sue parole, però, a distanza di qualche settimana dalla rotturano suonano strane. 

Martina ha lasciato la casa di Cremonini

“Corna” a parte, Martina e Cesare non si seguono più su Instagram. Come se non bastasse, stando a quanto sostiene The Pipol Gossip, la Maggiore ha portato via le sue cose dalla casa di Cremonini.

Insomma, che i due si siano detti addio è chiaro, resta solo da stabilire il vero motivo. 

Mattia Marzi per “il Messaggero” il 14 Giugno 2022.

«Sono nato per fare gli stadi», dice Cesare Cremonini. Mentre si prepara a salire sul palco di San Siro a Milano ieri il suo tour negli stadi ha debuttato di fronte a 55.935 spettatori, sold out il 42enne cantautore bolognese sembra un bambino al luna park: «Porto in un contesto del genere una performance d'impatto, che spazia dal jazz al rock, passando per il cantautorato e il funk. Ad occuparsi dell'audio ci sarà Antony King, fonico dei Depeche Mode. È pop che sa divertire, ma ambisce a essere una forma di cultura. Una cosa unica in Italia», assicurava prima di andare in scena.

 Arriva allo stadio milanese circondato da una corte adorante composta da manager, ufficio stampa, promoter. Sarà che il nome da imperatore che porta lo caratterizza. Il fatto di essere il primo italiano a esibirsi a San Siro dopo la pandemia lo fa sentire fin troppo responsabilizzato: «A Imola il 2 luglio per l'ultima data ci saranno 70 mila persone (domani sarà a Torino, il 18 a Padova, il 22 a Firenze, il 25 a Bari, il 28 a Roma: 300 mila biglietti venduti in totale, ndr). Numeri che fanno impressione, perché non sono un prodotto televisivo». Certo. Le vendite, però, hanno avuto un'accelerazione clamorosa dopo il passaggio a Sanremo. 

Si è ricreduto, sulla potenza della tv?

«Sì. Avevo bisogno di raccontare al pubblico televisivo la crescita che ho fatto nei vent' anni trascorsi dalla fine dei Lunapop. Mi sono riappacificato con quel mezzo. 14,6 milioni di spettatori hanno visto l'esibizione con Poetica: in due mesi ho venduto 95 mila biglietti». 

Le piacerebbe avere un one man show tutto suo?

«Mi è stato proposto».

Dalla Rai?

«Sì. Ho preferito prendere tempo. Prima vengono i concerti». 

Come li ha immaginati, quelli di questo tour?

«Porto dentro gli stadi un progetto artistico che aggiunga qualcosa allo stereotipo, per quanto meraviglioso, del grande abbraccio con il pubblico. Uno show visionario. Penso che il mio modo di calcare il palco possa essere influente. Io non mi reputo un cantante, ma un performer». 

Che fa, se lo dice da solo?

«Sono nato così. Non c'è l'X Factor dove ti insegnano a stare sul palco. Vasco a Imola nel 98 segnò la mia crescita. Proprio a Imola farò il mio primo grande raduno». 

I pro e i contro di arrivare a fare un tour negli stadi a 42 anni?

«La strada è stata lunga: un'audizione continua. A 23 anni, dopo i Lunapop, tornai a cantare nelle piazze, con il camerino dal barbiere. A 25 i teatri. A 30 i palasport. Non mi hanno mai regalato niente. Però nel frattempo ho accumulato un tesoro di canzoni invidiabile».

Modesto.

«24 canzoni su 26 della scaletta sono singoli: da 50 Special e Qualcosa di grande (torna in scaletta dopo vent' anni, ndr) a Chimica, passando per Il comico, Mondo, Logico. Se non avessi fatto qualcosa con dentro una scintilla sarei morto quindici anni fa. Il mondo della musica è spietato». 

In che ambisce a fare cultura, negli stadi?

«Con un duetto virtuale con Lucio Dalla. Lo porto dove merita di stare. Un ologramma lo avrei trovato fuori contesto: abbiamo estratto la sua voce dal master originale di Stella di mare. E per i video abbiamo pescato dalle teche Rai. Mi sono ispirato al recente duetto fatto da McCartney con Lennon».

Il film su Dalla a che punto è?

«In stand-by. Ci lavorerò per un anno, dopo il tour». 

Perché Stella di mare e non Cara o Futura?

«Non capisci se sta parlando di una donna, di un uomo, di Dio: ha dentro il segreto delle canzoni: l'ambiguità. Una grande canzone deve far accendere la fantasia. Era perfetta per questo tour visionario».

Dagospia il 4 marzo 2022. Da I Lunatici Radio2  raiplayradio.it il 4 marzo 2022.

Cesare Cremonini è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", al termine del Cesare Cremonini Day, organizzato da Rai Radio2.

   Il cantautore ha partecipato al programma condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta su Radio2 dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e le due un quarto circa. 

Nel presentare il suo ultimo album, 'La Ragazza del futuro', Cremonini ha parlato un po' di se: "Cosa dice il Cesare di oggi al Cesare del 1999? Il Cesare di adesso gli direbbe 'hai visto che avevi ragione?'. E' stata una lunga strada quella che ho percorso nel mondo della musica. Una strada non sempre semplice. Ho capito col tempo che le canzoni erano la vera cosa da comunicare di me e col mio percorso ho fatto coincidere questo. 

Sono entrato in una forma simbiotica con le mie canzoni. Il pubblico mi riconosce per le canzoni che faccio. Un momento complicato nella mia carriera? Ho avuto una storia abbastanza particolare. Dopo la fine dei Lùnapop ho scelto una strada da solista. Ho fatto tre album che non hanno ricevuto attenzione. Non veniva più nessuno a vedermi dal vivo. Facevo concerti in cui venivano duecento persone, non riuscivo a rimettere insieme i pezzi, la credibilità nel nostro Paese è tutto e per costruirla ci vuole tempo. Mi sono dato il tempo di crescere e sono arrivato qui. Adesso ho un bel panorama davanti. 

Ora ho la proprietà del linguaggio della mia musica abbastanza consolidato. In questo album, 'La ragazza del futuro', si può trovare tutto quello che ho fatto nella mia carriera, rifatto con la sensibilità di adesso. L'esperienza per fare dischi è fondamentale, mi rende più libero di quanto potessi immaginare. Ho iniziato a suonare pianoforte a sei anni, quindi sono stato corrotto dagli studi classici, diciamo così. Poi ho scoperto i Queen che mi hanno deviato verso un mondo pop rock molto variopinto. I Queen per me sono stati una buona scuola". 

Ancora Cremonini: "Mi pongo sempre nuovi obiettivi, ma è un fatto caratteriale. Non sempre sono soddisfatto di me. La cosa fondamentale per me è la coerenza. Preferisco essere coerente che inseguire il mercato e le mode. C'è chi vive il successo come un punto di arrivo. Io invece quando è arrivato il successo mi sono preoccupato. L'ho vissuto come una responsabilità, come una strada da dover confermare. E' la prima cosa che pensai quando 'Squerez' arrivò primo in classifica. Ero contentissimo ma mi preoccupai". 

Sulle lettere ricevute nel periodo di Squérez: "E' vero che mia madre ha messo via tutte le lettere dei fan arrivate in quel periodo. Sono ancora nella mia vecchia camera di quando ero bambino. Ogni tanto quando vado a pranzo da mia mamma le rileggo. Squérez vendette un milione e seicentomila copie. Quindi potete immaginare quante lettere arrivavano a casa".

Sul cinema: "Tornare al cinema? Non lo so, spero di sì, mi piacerebbe. Sono sempre curioso, pronto ad esperienze nuove. Sono stato al cinema come attore due volte, una volta con Pupi Avati e una al fianco di Martina Stella in un film più adolescenziale. Tento di fare cose inerenti con l'età che ho. Se ci sono occasioni di fare cose nuove che vanno bene io le faccio molto volentieri. Spero che possa accadere". 

Sul rapporto con i fan: "Mi sono montato la testa molto prima del successo. Quando i bambini giocano a calcio da piccoli sognano di essere Totti. Si sogna in grande anche da piccoli. E' una cosa giusta e sacrosanta. Io sognando di fare il cantante facevo le prove per fare l'autografo. Pensavo che così se me l'avessero chiesto sarei stato pronto. E infatti la mia firma è uguale a quella che facevo da adolescente. Il rapporto con i fan? Molto semplice. Vivo a Bologna, una città molto vivibile. Faccio la vita di un ragazzo di provincia, mi piace andare in giro, stare con i miei amici. Essere riconosciuti per quello che fai deve rimanere sempre dentro di te come una cosa bella. Poi dipende dalle persone.

A Bologna non mi sono mai nascosto, sono sempre stato tra la gente, mi conoscono ma si sentono simili a me. Non c'è nessun problema, non capita niente di strano, che mi infastidisca. Quando capitano le persone maleducate invece ti si rovina la giornata. 

Rapporto con i follower? Non mi arriva nessuna proposta indecente, non ho coltivato quel tipo di pubblico, nel corso degli anni tendo ad eliminare qualsiasi cosa che non sia giusta per gli altri follower. Non ricevo proposte indecenti. Tanti complimenti, a volte più sentimentali degli altri, ma niente di indecente". 

Sul Bologna, Mihajlovic, Baggio e Signori: "Di Mihajlovic, che tra l'altro conosco, penso che a Bologna ha fatto bene e stia ancora facendo bene. Nessuno gli potrà dire che non ha fatto un buon lavoro. E' un combattente, ha il suo carattere. Ha delle caratteristiche che sono immodificabili. Su Signori e Baggio? Sono stati due periodi straordinari e meravigliosi, ma Baggio...".

Luca Dondoni per "la Stampa" il 25 febbraio 2022.

«A un certo punto l'album mi è sembrato stretto, le canzoni non bastavano ad allargare il mio concetto di futuro, c'era bisogno di un protagonista. L'ho cercato nelle periferie dove lontano dall'attenzione mediatica c'è, forse, il futuro del nostro Paese. Ai ragazzi, meglio ai bambini delle scuole, la parola "futuro" è spiegata in un modo diverso da quello che noi vorremmo ed è tempo di agire, comprendere le loro esigenze dando loro, per quanto possibile, una speranza». 

Cesare Cremonini pubblica il settimo album della sua carriera, il primo di una trilogia e non lo intitola a caso La ragazza del futuro. Le dieci canzoni raccontano amori, perdite, dolori, paure, addirittura la depressione, ma con un occhio aperto su un mondo difficile ma da vivere. Un nuovo inizio a partire dal nome in copertina: «d'ora in poi sui miei dischi metterò solo il mio cognome, il marchio di fabbrica, come faceva papà: il dottor Cremonini».

Perché ha fatto disegnare i ragazzi del futuro sui muri delle periferie?

«Una mattina mi si è accesa una lampadina e ho contattato Giulio Rosk, street art siciliano che ha dipinto i volti di Falcone e Borsellino sul muro dell'Istituto Nautico alla Cala di Palermo. Gli ho spiegato che volevo provare a portare arte permanente, dei murales enormi, come già successo a Valencia o Barcellona, disegnando i volti dei ragazzi del futuro che vivono in alcuni dei quartieri più difficili del nostro Paese: ha subito accettato.

La preside e gli alunni di una scuola del quartiere Sperone di Palermo dove è stato realizzato il primo volto sono stati eccezionali. Il bello è che mentre Rosk lavorava sulla gru, sotto di lui si sono creati laboratori artistici spontanei, con i bambini che dipingevano. Lo rifaremo anche a Napoli, Ostia Lido, Firenze e al Nord». 

Quindi un disco dove la pandemia è laterale.

«La pandemia non c'entra, c'entra il periodo storico che stiamo vivendo. La ragazza del futuro è una mano tesa alle nuove generazioni ma anche un'idea di femminilità della quale si parla molto, ma per la quale si fa poco».

E poi il ricordo di suo padre.

«Gli ho dedicato Moonwalk che ricorda uno dei miei ultimi dialoghi con lui. Parlare di un padre anziano, che sta morendo, non è facile in una canzone. Vivere l'esperienza di un padre anziano ti insegna moltissimo, lì vedi davvero cos' è la dignità di una persona. Ma ho cercato di esplorare anche altre emozioni, come il sesso in Chimica o la follia generazionale in Stand up Comedy. Ho aperto un varco che mi ha permesso di parlare di sentimenti semplici. Avevo abbandonato questa introspezione perché ero in un loop vorticoso: disco, tour, disco, tour. Qui è stato come ricominciare dall'inizio».

Lo ha fatto anche per mettersi al passo con i nuovi cantautori da milioni di streaming?

«Lo sforzo che ho fatto è stato riuscire a salire su onde anomale. Non occorre essere per forza cantanti o artisti legati al sociale. Bastano poche parole, poche canzoni e se c'è sostanza arrivi. I discografici sperano che il disco piaccia ad Amazon e a Spotify ma un artista deve sbattersene e fare quello in cui crede. Io ho fatto come una volta, un album che deve essere ascoltato tutto». 

Il tour negli stadi parte il 9 giugno va verso il sold out.

«Già 300mila persone hanno comprato i biglietti per le 8 date del viaggio da Lignano il 9 giugno a Imola il 2 luglio. La mia gioia è infinita».

Complice anche il suo show a Sanremo.

«Sanremo mi ha dato la possibilità di rivivere le sensazioni dei live dopo due anni. Durante i miei 15 minuti di spettacolo in media 14 milioni e 300mila persone mi stavano guardando. Mi sono sentito in un grande concerto». 

Ci tornerà? Magari in gara?

«A Sanremo ci vai la prima volta quando non hai ancora i capelli bianchi e la seconda quando vuoi chiudere la carriera. Ma questa esperienza è stata così bella che... chissà».

Gabriele Gallassi: «Ero nei Lùnapop, ora sono imprenditore. Ci divisero i manager non le fidanzate». Gallassi era il chitarrista che insieme a Cesare Cremonini fondò il gruppo: «Ci conoscevamo dalle elementari, poi abbiamo preso strade diverse. Resto nella musica e voglio scrivere testi per altri artisti ma con la mia società mi occupo di tutela digitale». Mauro Giordano su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.

«Capita che qualcuno mi riconosca, credo in testa le persone pensino “mamma mia come è invecchiato male”...». Scherza Gabriele Gallassi, bolognesissimo 41enne, nel ricordare quando tra il 1999 e il 2002 con i Lùnapop suonava la chitarra e cantava di «Un giorno migliore» o di quanto fosse Special quella Vespa trasformatasi in uno shuttle che aveva trasportato lui, Cesare Cremonini, Nicola «Ballo» Balestri, Michele «Mike» Giuliani e Alessandro «Lillo» De Simone nell’iperspazio del successo fino alla vittoria del Festivalbar 2000 e l’incetta di premi con l’album «Squérez?»: «Di quegli anni ho un bellissimo ricordo, su come è finita di certo posso dire che non furono valutazioni artistiche a determinare la divisione del gruppo. E sfatiamo anche la leggenda delle fidanzate... quella storia mi ha sempre fatto ridere». Ma è quasi un’altra vita, sicuramente un’altra dimensione, rispetto all’avventura che lo ha portato a diventare un imprenditore innovativo e pieno di idee nel campo della tutela del diritto d’autore, della reputazione online e in tutto quel macromondo legato all’identità digitale: Tutela digitale è infatti la società che ha fondato insieme alla socia Sveva Antonini nel 2017 dopo l’esperienza maturata dal 2014 con Red Points, il colosso spagnolo tra i leader mondiali nella lotta alla contraffazione online. La tecnologia di punta di Tutela Digitale si chiama Linkiller, un’app che permette agli utenti di richiedere la rimozione o deindicizzazione di un contenuto online ritenuto lesivo. Il presente è sicuramente più importante del passato per Gallassi e per questo il suo racconto viaggia in quella direzione, ma c’è anche quel ponte chiamato musica che lega tutto e che si proietta anche nel futuro: «Ho il progetto di voler diventare un autore di canzoni per altri artisti». «C’è qualcosa di grande» tra Gallassi e la musica, che non potrà cambiare mai.

Gallassi, di tempo ne è passato. Molti la ricordano chitarrista e oggi la ritrovano imprenditore.

«In realtà la musica è il filo conduttore di tutto quello che ha guidato inizialmente la collaborazione con Red Points, della quale io e Sveva siamo diventati punto di riferimento in Italia e nella mia Bologna: l’interesse principale era la lotta alla contraffazione e alla pirateria online. Poi le cose si sono evolute, abbiamo notato che il mercato del settore stava cambiando con nuove richieste da parte dei privati e che il tipo di necessità che stavano emergendo erano molto diverse rispetto al passato».

Degli anni del successo musicale che ricordo ha?

«Un periodo bellissimo e dei ricordi splendidi di un ragazzino che a 18 anni insieme a un gruppo di amici è riuscito a vivere qualcosa di unico. Io e Cesare Cremonini ci conoscevamo dalle elementari e ritrovarsi a vincere il Festivalbar fu sicuramente un’esperienza indimenticabile. Successivamente ci sono state delle vicissitudini, ormai è passato tanto tempo ma mi fanno ridere delle leggende che si sentono dire in giro ancora oggi».

Per esempio?

«Quella sulle fidanzate che avevano creato divisioni, portandoci a litigare e sciogliere i Lùnapop. La cosa fu molto più semplice anche se antipatica, sintetizzabile con “criticità manageriali”. Una gestione poco trasparente secondo alcuni di noi ma che portò in secondo piano l’amicizia che durava dalle elementari tra me e Cesare. Nulla di legato all’aspetto artistico e, tengo a dirlo, nutro molto rispetto per quello che fa Cesare, un grande artista, che rimane una persona importante della mia vita».

Di cosa si occupano Tutela digitale e Linkiller?

«Tutela Digitale è una realtà che si occupa di reputazione online. Tra i servizi sviluppati con tecnologie proprietarie c’è appunto LinKiller, app scaricabile dai principali store che aiuta le persone a chiedere la rimozione di un contenuto web che ritengono lesivo o comunque non rispettoso della privacy. Un team composto da legali, informatici ed esperti di marketing digitale si occupa della piattaforma. Oggi siamo un team con 16 talenti ed è cresciuta nel tempo. Al fianco di LinKiller, nostro fiore all’occhiello, c’è anche Linkmonitor strumento di monitoraggio che permette a chi lo utilizza di tenere monitorato in tempo reale tutti i contenuti online che lo riguardano».

Sembra un mondo apparentemente distante da quello artistico, o comunque lontano dai suoi esordi sulla scena per il grande pubblico.

«La mia formazione è stata di tipo giuridico ed è appunto in uno studio legale che ho conosciuta Sveva Antonini. Non sembrano esserci legami ma in realtà fin da ragazzino ero molto affascinato dalla figura di Paolo Conte, un avvocato con il dono della musica. Talmente tanto che la musica lo ha poi totalmente assorbito, anche io non riesco a non rimanerne innamorato».

Che tipo di persone aiutate con la Tutela Digitale, quali sono le richieste più comuni e come sono cambiate nel tempo?

«Soprattutto negli ultimi due anni con la pandemia è molto cresciuta l’attenzione alla propria reputazione online o a tutto quello che troviamo su di noi semplicemente googlando il nome. Dalla persona che può avere un problema con una foto, all’imprenditore alle prese con una difficoltà reputazionale causata anni dopo da quando era stato protagonista di qualche vicenda di cronaca e rimangono articoli datati su di lui».

Effettivamente è così difficile eliminare questo tipo di contenuti?

«Tutto dipende da dove si trova caricato il materiale. Se è su Facebook la dinamica sarà di un tipo se si trova su un blog sarà di un altro. La cosa importante da dire è che abbiamo creato un algoritmo reputazionale che nasce grazie a un database con milioni di fonti che ci permette di prevedere il comportamento che avranno nel procedimento. Un elemento chiave è ovviamente la proliferazione di un certo contenuto e la sua condivisione».

Gli anni di successo dei Lùnapop sono coincisi proprio con quelli nei quali fu più attiva la piattaforma Napster che sollevò il tema del diritto d’autore nella musica. Oggi qual è la situazione?

«Un momento di svolta è stato il 2008-09 con la diffusione di Spotify e un approccio che ha incredibilmente cambiato il mondo della pirateria, di fatto limitandolo in modo fondamentale. Questo è avvenuto anche perché nel frattempo è scomparso anche il supporto fisico come il Cd. Di fatto oggi l’artista, stando alle intenzioni, percepisce un’entrata, anche se anche su quello andrebbero fatti dei distinguo».

«Squérez» rimane l’album musicale di un gruppo italiano più venduto nella storia ma anche il vostro unico disco. Un caso veramente eccezionale.

«Di fatto potremmo considerarlo già il Greatest hits con il quale abbiamo salutato il pubblico (ride, ndr). Erano in realtà canzoni nate quando io, Cesare e Alessandro avevamo fondato i Senza Filtro, diventati poi i Lùnapop. Sono quindi tutte canzoni composte quando avevamo tra i 15 e 18 anni».

Lei, tra l’altro, ha avuto una nuova avventura musicale con gli ex componenti della band.

«Sì. Io, Alessandro De Simone e Andrea Capoti, che aveva collaborato con i Lùnapop creammo i Liberpool pubblicando un album autoprodotto. Di fatto siamo stati un po’ precursori dell’indie che va molto di moda oggi. Comunque ogni dieci anni ci siamo ripromessi di fare qualcosa e quindi credo che qualcosa faremo. Ci siamo tenuti distanti dalle major e i loro meccanismi, siamo capitati in un momento di cambiamento della musica, proprio nella fase centrale in cui qualcosa si stava modificando».

Oggi cosa ascolta e come trova il panorama musicale italiano?

«Tante dinamiche non mi sembra siano cambiate così tanto, anche se come dicevo oltre al mainstream c’è una forte spinta dal mondo indipendente. Mi sembra uno scenario musicale molto più dinamico rispetto a qualche anno fa quando tutto sembrava essersi appiattito. Più in generale spero che a Bologna, così come in altre città, si torni a suonare nelle cantine e a rivivere quell’atmosfera che solo le prove live sanno dare».

E il futuro cosa prevede?

«Sta partendo il progetto di espansione all’estero della società, verso alcuni Paesi europei ma anche oltre oceano».

·        Cesare e Mia Bocci.

Chi è Mia Bocci, protagonista del programma di Rai 3 «Imperfetti sconosciuti». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022.

Prende il via venerdì 24 giugno in seconda serata su Rai 3 la trasmissione dedicata al rapporto tra genitori e figli, condotto da Cesare Bocci e da sua figlia Mia (classe 2000).

Imperfetti Sconosciuti

Da venerdì 24 giugno Cesare Bocci e sua figlia Mia condurranno in seconda serata su Rai 3 Imperfetti sconosciuti, un talk show dedicato al rapporto tra genitori e figli. Venti adolescenti si confronteranno con i loro rispettivi genitori per riuscire a trovare una strada per comunicare. Sarà una sorta di «guerra dei mondi», che si combatterà in studio tra «boomer» e teenager. In attesa della messa in onda scopriamo qualcosa in più su Mia, che ha alle spalle una storia familiare molto intensa ed emozionante.

L’ictus di mamma Daniela

Mia Bocci nasce il 26 marzo 2000. A pochi giorni dalla sua nascita la madre, Daniela Spada (insieme a Cesare Bocci dal 1993), viene colpita da ictus. Negli anni successivi dovrà affrontare un lungo e impegnativo percorso riabilitativo. «Immagina di giocare con le onde in riva al mare – ha raccontato l’attore a OK Salute e Benessere -. E, mentre sei di spalle, all’improvviso un’onda gigante ti travolge e ti risucchia in un mulinello d’acqua. Così mi sono sentito il primo aprile di vent’anni fa, quando Daniela, la mia compagna, ha avuto un ictus mentre stava allattando la piccola Mia, a una settimana dal parto. Mi sono sentito affogare, sbattuto tra due scogli. Da una parte una mamma in coma, dall’altra una neonata da accudire».

Un percorso difficile

«Il rapporto con Mia all’inizio è stato difficile - ha raccontato qualche anno fa Daniela a Vanity Fair -. Io non c’ero e non sapevo neanche di essere mamma. Quando Cesare mi ha portato la prima foto della bambina, in ospedale, io l'ho guardata e ho detto: “Bella, ma chi è?”». Mamma e figlia hanno così dovuto costruire, con pazienza, il loro rapporto giorno dopo giorno, ma oggi sono legatissime: «Ci sono sempre io che sto più male, che ho più bisogno di cure. Soprattutto da quando, sei anni fa, ho avuto pure un tumore. Ma per fortuna, invece di risentirsi, Mia è attenta, premurosissima».

«Pesce d’aprile»

Per raccontare l’esperienza vissuta e per mandare un messaggio a tutti coloro che vivono situazioni difficili Cesare e Daniela hanno scritto un libro dal titolo «Pesce d’aprile - Lo scherzo del destino che ci ha reso più forti», portato anche in teatro.

Il profilo Instagram

Per raccontare la sua quotidianità come molti suoi coetanei Mia Bocci ha un profilo Instagram, @miabocci, seguito da oltre 7mila follower.

·        Chiara Francini.

Da Oggi il 17 luglio 2022.

OGGI, in edicola da domani, pubblica un’intervista all’attrice Chiara Francini alla vigilia della sua tournée teatrale con un monologo autobiografico «su me ma in fondo sulle donne. Noi ci sentiamo sbagliate, tutte, sempre. Perché quando nasciamo poppiamo un bipolarismo che ci vuole sante o maddalene, corpi o teste, attrici minus habens o intellettuali grigioline, madri frustrate o carrieriste destinate a una triste solitudine priva di affetti». 

E racconta di come da sempre abbia cercato di imporsi per non essere solo un bel corpo: «Fin dall’università andavo a fare gli esami struccata, coda bassa, lupetto e pantaloni del mi’ babbo. Non avrei potuto accettare di prendere un voto alto per ragioni diverse dalla preparazione». Compromessi per far carriera? «Io, per lavorare, ‘un l’ho mai data. Mai inginocchiata neanche per pregare, figuriamoci davanti a registi o produttori».

Poi parla del fidanzato («Frederick è l’uomo migliore che abbia incontrato, ci corrispondiamo, non abbiamo bisogno di sposarci») e del loro tentativo di avere un figlio: «È che io non lo so se lo voglio davvero, un figlio. Non credo alle donne che si dicono sicure di volerne, non ci credo che non abbiano paura come me di essere madri di merda… Sarei in grado di non essere uno di quei genitori che spacciano per libertà lasciata ai figli l’abdicazione al proprio ruolo di guida? Un genitore ti ama, per forza. La differenza la fa quello che è in grado di fare per renderti felice. E io mica lo so se sono capace… Quindi ci provo ma sarà il mio corpo a decidere».

·        Chloe Cherry.

Barbara Costa per Dagospia il 22 maggio 2022.

Un po’ insolenti, non vi pare? Sicuramente sporchi di pregiudizi. Mi riferisco ai glorificanti articoli su Chloe Cherry, pornostar ora star della seconda stagione della serie tv "Euphoria". Lodi e lodi a una ragazza che ha mostrato di saper e bene recitare fuori da un set porno. Ma che si credevano, che le pornostar, esterne al loro habitat, si ammoscino??? Certo, non tutte hanno competenze recitatorie notevoli, anche perché in pochi porno sono richieste, e però, dove sta scritto che se sospendono gang bang e p*mpini, e doppie anali e vaginali, e sperma in faccia e urli orgasmici, non sappiano cavarsela e degnamente nel cinema tradizionale?

Chloe Cherry a 24 anni – e 6 di porno – ha palesato il netto contrario: se la sciogli da più maschi corpi che sessualmente la tappano in ogni buco… sa farsi valere! Ma sa pure e alla grande pornare, e infatti, perché chiamarla ex pornostar? Ma ex di che??? Chloe Cherry mica lascia il porno, nossignori, e sebbene per lei, dopo l’ottima prova in Euphoria, si siano aperte più porte, e sebbene abbia appena firmato contratti di moda, suoi nuovi porno sono in cantiere e se il porno-thriller "Maid To Kill" non lo gira più, sono sì previsti un gloryhole, due porno figliastra-patrigno, due porno squirting, un anal estremo che personalmente non vedo l’ora che esca e lo firma Evilangel, e una doppia penetrazione anale A2M (sigla porno che sta per peni che passano da ano alla bocca).

Come se ci fosse da vergognarsi nell’avere un magical butt-hole! Perché il motivo per cui Chloe Cherry è un asso nel porno è il suo bell’ano, “è talmente malleabile che posso farci entrare e uscire più roba, e con più facilità rispetto alla mia f*ga!”. Lo dice Chloe, lo ha sempre detto: strano che un tale curriculum non sia affatto menzionato dai critici che la elogiano per Euphoria… Né io trovo accenni ai suoi p*mpini a gola profonda, dove Chloe fa gocciolare la sua saliva, densa, giù per lo stomaco, e le gambe… E neppure una riga sul fatto che, nel porno, Chloe Cherry fista e si fa fistare e a pugno… Perché un passaggio al cinema non porno dovrebbe nettare quel che Chloe Cherry ha fatto, e farà?

Per quale ragione bisognerebbe sorvolarlo? Chloe non è come talune pornostar del passato che, attaccato il porno al chiodo, ne rinnegano le grazie intime lì ripetutamente spalancate. Anzi!!! Chloe Cherry è nel porno per decisa convinzione, il porno è la sua passione, lei vi ha esordito a 18 anni e una settimana, e con un anale! Chloe Cherry le ha messe in mostra subito le magie che il suo ano è capace di fare: lo sapete che lei ha perso, a 16 anni, e in una tenda, e in un campeggio, sia la verginità vaginale che… anale?

Lo ha fatto col suo ragazzo dell’epoca, e il campeggio era l’insperata occasione di stare da soli senza genitori tra i piedi. Chloe è nata e cresciuta a Lancaster, in Pennsylvania, ed è stata allevata in una comunità amish, dove a quanto pare la gente è un po’… come posso dire… all’antica sul sesso. Chole dice che l’hanno educata con il divieto del sesso prima del matrimonio che deve essere uno solo e durare tutta la vita. Manco ci voglio pensare, a come la sua gente valuti il porno, fatto sta che Chloe, raggiunta la maggiore età, da lì è scappata.

Come ogni odierna adolescente vedeva il porno in rete e, alla faccia del costume natio, prima di farlo, il porno, ha avuto 8 ragazzi, non ha avuto esperienze omosessuali, no, nemmeno ha squirtato (a questo l’ha iniziata il collega Ramón Nomar), ma ha fatto sesso anale e pure doppie penetrazioni, non con più uomini, bensì “con un pene di taglia media e un dildo!”. 

Gli attentissimi di porno lo sanno che Chloe Cherry all’inizio si chiamava Chloe Couture: cognome d’arte cambiato perché già registrato da una altra artista. Le sue labbra hanno subìto evidenti evoluzioni, e vi lascio immaginare con quali colorite parole Chloe manda a farsi benedire chi su questo osa criticarla. E non ci rimanete male se Chloe Cherry, nei porno, ingoia poco sperma: mal ne sopporta lo zinco che v’è all’interno. La fa vomitare! 

La sua padronanza nelle gang bang chi vuole la può ammirare in più video (mai vista in "Smell Like Gangbang Spirit"?), come può apprezzare le performance di Chloe girate con quel maschione di James Deen nella loro nuova frastornante compilation. Perché se James Deen è un veterano del porno strong alimentato a sputi e dal suo sudore e dalla sua saliva che la partner di scena lappa sul pavimento, e sul muro, e ovunque, Chloe Cherry è una che si bagna come poche a venir sputata…

·        Christian De Sica.

 

Estratto dell'articolo di Gloria Satta per il Messaggero il 15 Dicembre 2022.

I figli vanno a vivere altrove, i genitori si disperano. Si chiama sindrome del nido vuoto e riguarda molte famiglie. 

Ma ci si ride su in Natale a tutti i costi, la nuova scoppiettante commedia con Christian De Sica e Angela Finocchiaro (per la quinta volta in coppia sullo schermo), attesa su Netflix il 19 dicembre e diretta da Giovanni Bognetti che, dopo i remake I baby sitter e Il mammone, ha ora preso spunto dal successo francese Mes très chers enfants. Per riconquistare i figli (gli esilaranti Claudio Colica e Dharma Mangia Woods) che non se li filano più e, orrore, minacciano di lasciarli soli pure a Natale, Christian e Angela s' inventano di aver ricevuto un'eredità milionaria. E in un'escalation di bugie vengono coinvolte anche una Ferrari e la cinica nonna Fioretta Mari. Il trailer del film, prodotto da Colorado, ha scatenato una polemica: il governatore d'Abruzzo Marco Marsilio e il Consorzio Vini della Regione se la sono presa con De Sica che, ricevendo in dono dal figlio un vino abruzzese, esclama «è 'na m...».

Voleva offendere l'Abruzzo?

«Ma scherziamo? Io amo quella Regione, ci porto i miei spettacoli, adoro i suoi vini. Con la battuta volevo offendere mio figlio che viene a cena solo per i soldi.

Ormai bisogna stare attenti a tutto quello che si dice, e per un comico è un problema». 

Si riferisce al pensiero politicamente corretto?

«Proprio così. Se rifacessi le cose di tanti miei film del passato, oggi andrei in galera. Ma si ride con il diavolo, mica con San Francesco. Le commedie sono cattive per definizione... ora ne vediamo tante eleganti ma addio a quei boati che 20 anni fa scuotevano i cinema». 

Non si salva nessuno?

«Checco Zalone, che è il comico più scorretto che ci sia, se ne frega e ha un enorme successo. Gli altri stanno abbottonati per non rischiare di perdere i premi». 

Perché non ha girato più cinepanettoni?

«Non me li ha offerti nessuno, ho 71 anni e non ho più l'età. Ma anche i giovanissimi che mi amano tanto mi chiedono di tornare a farli. Di recente ho ricevuto 1700 messaggi. Un cinepanettone lo girerei di corsa». 

Che copioni riceve in questo periodo?

«Devo dire che mi arrivano cose belle. Come Limoni d'inverno, il film drammatico di Caterina Carone che ho appena girato con Teresa Saponangelo. Racconta l'amore platonico tra due persone di mezza età, io sono un prof malato di Alzheimer. Poi c'è Ferie d'agosto 2, che farò l'anno prossimo con Paolo Virzì». 

È il sequel della commedia-cult del 1996?

«Sì, ci siamo già incontrati con Virzì per discuterne. Intanto interpreterò la nuova serie del regista».

Christian De Sica: «Gli slip alla Damiano dei Måneskin? Li scegliemmo io e Verdone». Giovanna Cavalli

su Il Corriere della Sera il 3 Settembre 2022.

L’estate Instagram di De Sica: «Il post sui Maneskin e la citazione di Tony Brando? Sono fiero di loro. Prendo in giro i cafoni ma non mi piacciono» 

Il suo ironico post su Instagram: «Damiano chi? Tony Brando tutta la vita!» è già leggenda. Per chi non lo intuisse, rimanda ai pantaloni con ampio oblò sul fondoschiena nudo del leader dei Måneskin mostrato agli Mtv Awards. Messo sopra una famosissima scena di Compagni di Scuola di Carlo Verdone con lo spogliarello di Bruno Ciardulli — alias TB, cantante fallito e pieno di debiti che prima tenta di vendere un improbabile e violaceo quadro di Sironi a Walter Finocchiaro grossista di carni («Pare ‘a reclame de la carne guasta», lo scarica il mitologico Angelo Bernabucci) e poi finisce in ginocchio a chiedere l’elemosina con un piattino in bocca — ha mandato in delirio i suoi 660 mila follower (tra cui Mara Venier, Orietta Berti, Achille Lauro, Tiziano Ferro) e non solo. 

Ha fatto centro, sa? Il web è pazzo di lei.

«Ma no, ho soltanto ripubblicato una battuta di un mio fanclub, mi sembrava divertente», minimizza quasi Christian De Sica, 71 anni, attore, cantante, regista, figlio di un mostro sacro e quant’altro esiste al mondo nello showbiz, ignaro di essere diventato molto, molto di tendenza in questa estate 2022. 

Allora sarà super-social a sua insaputa, però di fatto lo è. Tony Brando meglio di Damiano David?

«I Måneskin mi piacciono, sono fiero di loro, non c’era nessuna competizione, giuro. Però Tony Brando mi ricorda uno dei più bei film di Carlo e anche mio. Quella scena è cult. La pettinatura tremenda, con i capelli più corti davanti e lunghi dietro, è un mix tra Rod Stewart e Michele Zarrillo, a cui copiai pure la giacca damascata, gliel’avevo vista in tv. Le mutande nere le scegliemmo insieme io e Carlo, poi mi venne in mente di infilarmele tra le natiche ed ecco fatto».

Era il 1988, bei tempi, no?

«Per le riprese si viveva tutti insieme in una grande villa sull’Appia Antica. Eravamo giovani, aitanti e ottimisti». 

In una storia sempre su IG bacchetta l’Italia dei buzzurri «che pubblicano quello che mangiano, mentre ballano abbracciati e poi si odiano, le panoramiche delle discoteche tutte uguali, i tuffi dai motoscafi di lusso comprati facendo i buffi» (i debiti). Ce l’aveva con gli influencer?

«No, in fondo l’influencer che si fa fotografare su uno yacht o sul red carpet ha un mercato, si inventa un lavoro. Criticavo quei ragazzi che li imitano pubblicando lo scontrino del ristorante e magari non hanno manco i soldi». 

Siamo un Paese cafone?

«Lo siamo sempre stati. I film dei Vanzina erano un ritratto preciso di una certa borghesia italiana. Mi ribattono: “Ma come, proprio tu che per copione hai fatto sempre l’arricchito, il maleducato, il burino?” Io però ho sempre preso in giro una categoria, non credo di essere cafone nella vita. Del resto si ride con il demonio, non con San Francesco».

Un’altra volta, prima di pentirsi, se l’è presa con una giovane attrice, Gaia Nanni, che snobbava i Cinepanettoni: «Ma chi te vò, ma chi te conosce?».

«Diceva che non era interessata “a diventare la quarta amante di De Sica”. Ma che discorso è? Hai vent’anni. Questi ragazzi sono esagerati, bisogna essere più umili». 

A luglio invece ha messo in rete un video sul set del suo ultimo film «Un Natale in famiglia» (con Angela Finocchiaro, regia di Giovanni Bognetti) con le lucine, l’agrifoglio, le renne finte e lei che sospira: «Con 43 gradi».

«Con sciarpe e cappotti, non vi dico, è un classico».

Insomma, continua a sostenere di non essere diventato una star dei social?

«Di solito li uso per pubblicizzare il mio lavoro, il 17 settembre ad esempio sarò all’anfiteatro romano di Terni con lo spettacolo Una serata tra amici che porto in giro da tre anni. Ormai i produttori non spendono più per manifesti e locandine, quindi dobbiamo industriarci. Ora però...» 

Ora però...?

«La saluto. Sto a Gubbio, da Méssegué, perché ho messo su pancia: non mangio, non bevo, lei capisce, ora mi aspettano per la lezione di ginnastica in acqua».

Christian De Sica lo sfogo: «La gente non si è rotta di pubblicare le discoteche tutti uguali e i motoscafi di lusso: come si può essere così cafoni?» Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.

Il grande protagonista dei cinepanettoni, insieme a Massimo Boldi, critica il costante desiderio di apparire 

«Ma certe persone non si so rotte le palle di pubblicare quello che mangiano, mentre ballano abbracciati e poi si odiano, le panoramiche delle discoteche tutte uguali, i tuffi dai motoscafi di lusso comprati facendo i buffi (in romanesco: i debiti, ndr)?». Lo chiede Christian De Sica al popolo del web e lo fa tramite Instagram, la vetrina social per eccellenza. « E basta - aggiunge l’attore - Ma possibile essere diventati così cafoni?».

Il re dei cinepanettoni

Una domanda posta dal re dei cinepanettoni insieme a Massimo Boldi, da «Vacanze di Natale» del 1983, passando per «Natale sul Nilo» del 2002 e «Vacanze di Natale a Cortina» del 2001, fino ad «Amici come prima» del 2018. Pellicole amate e criticate, forti per la comicità con la quale gli italiani vengono rappresentati tra i loro vizi e le loro virtù. Le osservazioni forti non sono mai mancate: per alcuni il filone dei cinepanettoni esalta gli eccessi, alimentando una superficialità italiana alla quale i valori non mancano per niente. Una realtà che De Sica ha sempre conosciuto sia sul set che nella quotidianità. E che forse non sopporta più. Per dirlo alla De Sica: Ma che è sta cafonata?!».

Da leggo.it il 22 marzo 2022.

Christian De Sica e il sogno di recitare in ruoli drammatici. Lo ha rivelato lo stesso attore in un’intervista rilasciata a Il Fatto Quotidiano, dove ha parlato, tra l'altro, della sua lunga collaborazione con il produttore Aurelio De Laurentiis. Christian avrebbe voluto cimentarsi anche in generi diversi rispetto alle commedie natalizie all'italiana, ma fu proprio il presidente del Napoli a scoraggiarlo, per puntare su film più redditizi. 

«Purtroppo in questo Paese quando interpreti una volta il cowboy, poi tutta la vita avrai quella maschera, e così con me; con De Laurentiis firmavo contratti magari di cinque film, e di questi cinque solo tre dovevano essere “panettoni” […] Finito il terzo arrivava Aurelio accompagnato da un interrogativo retorico: ‘Perché vuoi girarne uno drammatico? Non incassiamo una lira’; e poi mi faceva un po’ terra bruciata con gli altri» ha confessato De Sica, svelando poi un retroscena clamoroso legato proprio ai cinepanettoni: «Sbancavano ai botteghini. Natale sul Nilo ha incassato 45 milioni di euro. De Laurentiis ci si è comprato il Napoli». 

Figlio del grande Vittorio De Sica, Christian inizia la sua carriera sul piccolo schermo negli Anni 70 dopo avere tentato senza successo la carriera di cantante, ma è con la regia dei fratelli Vanzina e la spalla di Massimo Boldi che raggiunge il successo al botteghino. I due hanno fatto coppia fissa dal 1986 con 'Yuppies - I giovani di successo' fino al 2015, prima di separarsi e poi tornare a collaborare nel 2018 nel film 'Amici come prima'.

Christian De Sica ha espresso più volte il desiderio di potersi dedicare a film più impegnati e quasi a sorpresa sono arrivate due proposte sorprendenti per l'attore: «Adesso giro meno cinepanettoni e sono arrivate offerte che non credevo, come 'Comedians' di Salvatores o il prossimo di Virzì». A tutti gli affezionati della coppia Boldi-De Sica, l'attore ci tiene però a dire: «Per il prossimo anno stiamo pensando di ritornare. Qualche cosa troveremo, ci sto pensando. Se troviamo una cosa giusta, la rifacciamo». Insomma, il primo amore non si scorda mai.

- Francesco Nuti mi ripeteva sempre: "reggere il successo non è facile". Anche mio cognato Carlo Verdone, dopo l'exploit con “Un sacco bello”, entrò in crisi.  

- Da regista ho girato una decina di film. Il mio preferito Uomini Uomini Uomini, su un gruppo di amici omosessuali, con De Laurentiis che aveva paura, e invece ha incassato bene e ha girato il mondo. Una volta ho chiesto a un attore: "Sei mai stato con un uomo?". E lui: "Sì, ed è stato insipido e doloroso". 

- Monica Vitti? L'ho conosciuta grazie a mio padre, poi abbiamo girato Un amore perfetto, o quasi, interpretava mia madre, mentre Raf Vallone era mio padre: donna simpatica; un giorno le riprese erano in alto mare su un motoscafo, lei tutta truccata, io con gli occhi rossi e 39 di febbre. A un certo punto il regista si arrese per le mie condizioni: "Torniamo in albergo, riproviamo domani".

E Monica: "Ma no cazzo, me so' preparata!!". Mi voleva ammazzare. È vero che si sentiva brutta? Era bellissima e ha avuto la fortuna di incontrare Roberto (Russo): quando si sono messi insieme, tutti a criticarli, a dire "guarda la signora che sta con un ragazzino"; invece né Michelangelo Antonioni, né Carlo Di Palma se ne sono occupati tanto. Roberto le è rimasto vicino per anni, fino alla fine: ogni mattina la portava a Villa Borghese per una passeggiata. L'attrice più sexy con la quale ho lavorato? Ornella Muti: ha quello sguardo che a noi uomini piace. Qual è? Tra la mamma e la tipa mooolto sveglia. Ed è pazzesco..

·        Christiane Filangieri.

Christiane Filangieri, da Miss Italia a Mina Settembre. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 2 Ottobre 2022.

L’attrice dal 2 ottobre torna con Serena Rossi nella nuova stagione di avventure dell’assistente sociale del consultorio del Rione Sanità di Napoli. Le due sono molto amiche anche al di fuori del set

Le origini nobili

È in arrivo Mina Settembre 2. Dal 2 Ottobre, in prima serata e in prima visione tv su Rai 1, al via la nuova stagione di avventure dell’assistente sociale del consultorio del Rione Sanità di Napoli, interpretata da Serena Rossi, nella serie in sei serate diretta da Tiziana Aristarco. Tra i protagonisti anche Christiane Filangieri, che interpreta Irene, la migliore amica di Mina dai tempi della scuola. Christiane Filangieri di Candida Gonzaga (questo il nome completo dell'attrice) è nata a Würzburg, in Germania, il 21 agosto 1978. Un cognome importante che fa trasparire le sue nobili origini: il padre Antonio era il primogenito del Conte Berardo Filangieri di Candida, nato a Napoli, esploratore e filantropo

Miss Italia

Nel 1997 ha partecipato al concorso di bellezza Miss Italia. Aveva 19 anni e arrivò terza, insieme a insieme a Claudia Trieste e Vincenza Cacace. La sua bellezza però colpì il mondo della moda e della televisione.

Il mondo della tv

Il primo ruolo importante come attrice è quello di Marina nella pellicola cinematografica “Non lo sappiamo ancora” (era il 1999) ma è con il mondo della fiction che si è fatta conoscere al grande pubblico televisivo: ha partecipato tra i tanti successi a “La squadra”, “Una donna per amico 3” e al fianco di Luca Zingaretti, “Amanti e segreti”.

L’amicizia con Serena Rossi

Nel 2010 conosce sul set Serena Rossi, con cui instaura subito un bel rapporto d’amicizia proseguita negli anni. In una recente intervista ha confessato di avere sempre ammirato Serena Rossi: “Già anni prima eravamo a un festival e mia sorella voleva spingere a conoscerla perché era una fan di Un posto al sole2”.

La vita privata

Christiane nel 2010 si sposa con Luca Parnasi, noto costruttore romano e nell'aprile 2012 la coppia dà alla luce il figlio Alessandro. L’Attrice cerca il più possibile di proteggerlo da paparazzi e social. 

Timidezza e riservatezza

Nel corso di un’intervista tv con Francesca Fialdini, l'attrice ha rivelato di essere molto timida, nonostante il lavoro: “Cammino con gli occhi bassi, anche quando passo per la piazza del mio paese, non la attraverso mai, la faccio bordo bordo” ha detto.

·        Claudia Cardinale.

"Ricoverata contro la sua volontà". L'indiscrezione choc su Claudia Cardinale. Secondo voci insistenti l'attrice, 84 anni, sarebbe stata ricoverata in una casa di riposo francese contro la sua volontà. Novella Toloni l'1 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'ultima apparizione pubblica di Claudia Cardinale risale allo scorso maggio, quando l'attrice si recò a Tunisi per ricevere l'omaggio che la città volle farle per la sua lunga carriera e per le sue origini tunisine. Da quel giorno di lei non si sa più nulla. La sua pagina Instagram è ferma al 26 aprile, data nella quale l'attrice ha condiviso con i suoi follower una vecchia foto in bianco e nero, scrivendo solo una parola: "silence".

E proprio quando il silenzio si è fatto assordante, ecco emergere l'indiscrezione. "Si sparge sempre di più la voce che Claudia Cardinale non viva più nel suo appartamento parigino", ha fatto sapere il sito Dagospia, rivelando che l'attrice, 84 anni compiuti lo scorso aprile, non si troverebbe più nella sua casa di Parigi, dove viveva da ormai diversi anni. Sempre secondo il sito di informazione, la Cardinale "sarebbe ricoverata, non secondo la sua volontà, in una casa di riposo nella provincia francese". La fonte dell'indiscrezione sarebbe "una sua amica romana", che avrebbe lanciato l'allarme.

Claudia Cardinale mette all'asta i vestiti

Il 30 maggio scorso Claudia Cardinale aveva presenziato alla cerimonia in suo onore per l'intitolazione di una strada a La Goulette, quartiere portuale alla periferia di Tunisi. "Sono molto onorata perché è qui che sono nata e dove ho trascorso la mia infanzia", aveva detto Claudia Cardinale, ringraziando la Tunisia, che nel 1957 l'aveva eletta "italiana più bella della Tunisia" a soli 19 anni. Nel 1958 il regista Mario Monicelli la volle come protagonista de "I soliti ignoti" e, trasferitasi a Roma, intraprese la carriera di attrice con successo, diventando protagonista di pellicole cult come "Il gattopardo" di Luchino Visconti e "C'era una volta il West" di Sergio Leone.

L'attrice vive da ormai diversi anni in Francia, ma negli ultimi mesi di lei si è saputo ben poco e ora le indiscrezioni circolate sul suo conto gettano un'ombra inquietante sulle sue attuali condizioni.

Da fanpage.it il 4 agosto 2022.

Claudia Cardinale mette a tacere le voci che la vedrebbero ricoverata in una casa di riposo contro la sua volontà. L'attrice, 84 anni, raggiunta dall'Ansa ha rassicurato i fan sulle sue condizioni di salute. Ora si trova in campagna e sta trascorrendo del tempo insieme alla sua famiglia. 

Claudia Cardinale non è ricoverata in una casa di riposo

Secondo l'indiscrezione di Dagospia circolata nelle ultime ore, Claudia Cardinale "sarebbe ricoverata, non secondo la sua volontà, in una casa di riposo francese". Ma l'attrice ha spiegato che non c'è nulla di vero e ha chiarito: "Sono in piena salute". Ora infatti si trova "in una casa di campagna vicino a Parigi in compagnia dei suoi figli". Nessuna casa di riposo, dunque, ma una estate accanto alla famiglia e lontana dalla città. Per concludere e rimandare al mittente ogni cattiva voce ha concluso: "Auguro una felice estate a tutti". 

L'ultima apparizione in pubblico dell'attrice

Dopo le recenti dichiarazioni, la preoccupazione dei fan nei confronti dell'attrice è totalmente svanita. Claudia Cardinale si trova in campagna e sta trascorrendo del tempo in famiglia, lontano dal caos della città e dai riflettori. L'ultima apparizione pubblica risale allo scorso 30 maggio, quando aveva presenziato a Tunisi alla cerimonia in suo onore per l'intitolazione di una strada a La Goulette, quartiere portuale alla periferia della sua città d'origine.

"Sono molto onorata perché è qui che sono nata e dove ho trascorso la mia infanzia", aveva detto Cardinale. E ha poi aggiunto riferendosi alla sua città d'origine: "Conservo in me molte cose di questo posto, i suoi paesaggi, la sua gente, il suo senso di ospitalità, la sua apertura". L'attrice è considerata tra le più autorevoli e significative interpreti della storia del cinema. Durante la sua carriera, lunga più di 60 anni, ha spaziato in diversi generi cinematografici, dalla commedia all'italiana ai film storici e drammatici.

Maria Berlinguer per “Specchio - La Stampa” il 23 gennaio 2022.

Con il sorriso di Angelica nel Gattopardo di Visconti, con l’aria languida della musa bruna di Fellini in Otto e mezzo, con la sensualità naturale, contraddittoria, indifesa e graffiante, Claudia Cardinale è una delle ultime dive del cinema internazionale. Ha interpretato donne forti, capaci di prendersi, molto prima della stagione femminista, rispetto, spazio e potere. 

E pure Claudia Cardinale è una donna di grande timidezza. Riservata al limite dell’eccessivo, tanto da aver deciso molti anni fa di trasferirsi a Parigi anche per sottrarsi all’assedio dei paparazzi e dei fan. Da qualche tempo ha lasciato la capitale francese per una piccola cittadina nel verde, a pochi chilometri da Parigi, dove vive a due passi da Claudia, detta Claudina, la figlia avuta con Pasquale Squitieri. E a sorpresa ha accettato di rispondere alle nostre domande.

Ha interpretato donne forti, che chiedevano rispetto quando ancora non era un dato scontato per tutte. «Angelica non è solo bella, ella sa bene di che pasta è un tale contratto di matrimonio», spiegò Luchino Visconti. Quanto c’è di Claudia Cardinale in quei ruoli?

«Direi che c’è un cinquanta per cento. Qualcosa di me evidentemente ha determinato che mi si scegliesse per dei ruoli forti. Devo ammettere però che un’altra parte di me si è costruita anche attraverso l’incontro con il destino di questi personaggi».

Che tipo di ragazza è stata?

«Abbastanza selvaggia. Un po’ un maschiaccio. Amavo molto lo sport. Stavo sempre allo stadio a Tunisi». 

E il cinema nasce da quella dimensione un po’ selvaggia?

«Sì, chissà forse volevo fare l’esploratrice perché vivevo alle porte del deserto. Vien voglia di viaggiare di andare oltre, di esplorare. E poi essere esploratrice è uno dei grandi classici tra i desideri dei bambini, almeno ai miei tempi. Ha a che vedere con il desiderio di conoscere il mondo, un desiderio che hanno tutti i bambini». 

Come ha conciliato la timidezza con la sua professione?

«In qualche modo la timidezza mi ha salvata, mi ha preservata da una vita troppo sfrenata. L’essere una persona timida ha protetto la mia privacy». 

Lei ha avuto pochi amori ufficiali. Con il produttore Franco Cristaldi è stata insieme dieci anni. È vero che Cristaldi, quando lo ha lasciato per Pasquale Squitieri, il grande amore della sua vita, ha cercato di danneggiarla professionalmente?

«Beh, è stato uno shock. Incontrando Pasquale ho interrotto un sistema che si era costruito con e intorno a me. Cristaldi era un produttore molto importante e nessuno voleva mettersi contro di lui, nessuno voleva contrariarlo. Perciò non so se è stato lui a volerlo o se è stata una conseguenza involontaria, ma certamente sia Pasquale che io abbiamo trovato degli ostacoli nel lavoro. E questo è un fatto certo». 

Con Pasquale Squitieri l’amore è durato trent’anni e forse non è mai finito.

«Sì. È un amore durato molti anni e che durerà per sempre. Anche quando eravamo separati ci sentivamo ogni giorno. Lui mi ha sempre accordato un posto privilegiato nella sua vita. Considerava il nostro amore come un evento straordinario, unico e infinito. Lui ha cambiato la mia vita e io la sua». 

Perché a un certo punto ha deciso di trasferirsi in Francia? Cosa non le consentiva la vita in Italia?

«È stato un po’ un caso. Giravo un film in Francia, in Normandia, e mi sono trovata bene. In Italia non potevo vivere al centro perché era impossibile uscire e fare la spesa in modo normale. In Francia c’è una distanza maggiore con le persone pubbliche. E poi mia figlia cresceva ed era isolata in campagna. È andata cosi. Io mi sono ricollegata con la mia lingua (il francese in Tunisia era la lingua ufficiale) e con la mia prima cultura. Pur mantenendo un legame forte con l’Italia».

Dall’amore con Squitieri è nata la sua seconda figlia, Claudia. Ho letto che Squitieri ha scelto di darle il suo nome perché lei non voleva sposarsi. È così?

«Sì, è andata esattamente così. Pasquale è corso a darle il nome contro la mia volontà. Io la volevo chiamare Anja perché in Tunisia mi avevano segnato due bambini russi e biondi, Patrick e Anja. Patrick è il nome del mio primo figlio. Quindi avrei voluto chiamarla Anja. Ma la tentazione di avere una Claudia Squitieri in famiglia ha avuto la meglio».

Che tipo di madre è stata? Con Patrick, avuto ad appena diciassette anni, era poco più di una ragazzina. E stato diverso con Claudia?

«Non lo so. Sì quando è nato Patrick ero molto giovane e per motivi complessi da spiegare oggi, di lui si occupò mia madre. Con Claudia ero una donna, dunque le ho dedicato più tempo. Ma comunque ho sempre viaggiato tanto. Di Claudia si occupava Maria, una donna stupenda che è come la sua seconda madre. Una volta arrivata a Parigi nell’89 sono stata più mamma per lei. Eravamo sole». 

Quando ha capito che recitare sarebbe stata la sua vita?

«Non subito. Anche se tutto è andato molto velocemente. Un giorno mi sono svegliata e ho capito che la mia vita era cambiata. Che ero diventata un’attrice. Ma non è stato un fatto immediato. È una consapevolezza arrivata per gradi». 

È vero che al test del Centro sperimentale fu presa dopo che lanciò in aria un copione. Le dissero che aveva dimostrato di avere carattere?

«Si, fu molto buffo».

 In ogni caso le lasciò in anticipo il Centro sperimentale. Perché?

«Perché ho iniziato a lavorare». 

Ha avuto la fortuna di lavorare con i più grandi registi italiani. A chi pensa di dovere dire grazie?

«Onestamente a quasi tutti. Ho avuto una fortuna incredibile». 

Visconti per esempio l’ha scelta giovanissima per due film indimenticabili: “Il Gattopardo” e “Vaghe stelle dell’Orsa”. Che tipo di rapporto aveva con lui?

«Avevo con lui un rapporto davvero speciale. Vaghe Stelle lo ha scritto per me. E per Gruppo di famiglia in un interno ha voluto che io facessi il ruolo di sua madre. Eravamo molto legati, amici. Partivamo insieme. Guardavamo Sanremo in tv. Gli piacevo e lui piaceva a me. Eravamo “molto amici”». 

Si dice che ogni volta che la invitava a cena le faceva trovare un regalo speciale, tipo un gioiello di Cartier?

«Sì, Luchino era un vero signore».

La chiamava “maschiaccio”?

«Lui vedeva e amava sicuramente in me il mio animo maschile. Ero una donna semplice senza troppe costruzioni. Senza fronzoli». 

E con il burbero Mario Monicelli come è stato lavorare?

«Mi sono trovata molto bene con lui. Io ho sempre avuto bei rapporti con i registi. Intanto perché non facevo la diva, ero puntuale e lavoravo duro. Questo li rendeva più rispettosi e attenti. Il rispetto si conquista con il lavoro». 

Federico Fellini?

«Era un uomo molto divertente. Lui mi veniva a prendere in macchina per portarmi sul set. In quel momento, improvvisando, si cercavano le battute del giorno. Uno stile davvero diverso da altri registi». 

Ha lavorato con gli attori più belli, da Marcello Mastroianni ad Alain Delon, a Jean Paul Belmondo. L’hanno corteggiata? Ha resistito al loro fascino?

«Sì, mi hanno corteggiata, lo confesso. Io però ho sempre voluto separare la vita d’attrice da quella mia privata. Perciò non mi facevo sedurre. Eravamo amici, si scherzava, ma non andavo oltre anche perché sapevo quanto poi si ricamasse sulle storie sui set».

L’unico flirt che le è stato attribuito con un attore riguarda Rock Hudson ma non era vero. Come è nata l’idea di aiutare il suo amico in difficoltà ad Hollywood per le voci sull’omosessualità?

«È stato lui a chiedermi di aiutarlo. Rock non lavorava più da quando la stampa aveva rivelato la sua omosessualità. Così uscivamo insieme, a braccetto, e abbiamo illuso la stampa. Lui era contento. Mi diceva: “Da quando pensano che sto con te lavoro di nuovo”».

Storie che vengono da un altro mondo. Almeno si spera. La sua bellezza, solare e insieme fatta di chiaro scuri, ha incantato generazioni intere. Quanto è stata importante per lei la bellezza?

«Sicuramente mi ha aiutato. Comunque nel cinema importa soprattutto la fotogenia. Il modo in cui prendi la luce. Questo non dipende dalla bravura né dalla bellezza, è una fortuna. Poi certo, sicuramente la bellezza mi ha aiutato, non lo nego». 

Che tipo di rapporto ha con gli anni che passano? A differenza di tante attrici lei non è ricorsa al bisturi. Perché?

«Un po’ perché mi fanno paura le operazioni. Un po’ perché ho sempre cercato di accettare il tempo che passa. Come diceva Anna Magnani quando volevano ritoccare le sue foto per nascondere i segni del tempo. “Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. Ci ho messo una vita a farmele venire”»

Cosa pensa del Me Too delle donne del cinema? Lei ha criticato Deneuve...

«È stato ed è un movimento importante. L’uguaglianza nel mondo del cinema non è assolutamente conquistata e l’uso manipolato della sessualità è una pratica che va denunciata. La battaglia per il diritto delle donne è qualcosa che continuo anche attraverso il mio ruolo di ambasciatrice dell’UNESCO per i diritti delle donne e delle bambine. Deneuve ha detto delle cose per provocare, secondo me. Comunque non mi riguarda. La sua posizione non è la mia».

Lei è mai stata molestata e ricattata per lavorare?

«No. Però vengo da un mondo in cui l’attrice era un prodotto del suo produttore. Cristaldi pur volendomi molto bene mi ha fatto firmare un contratto in cui cedevo tutto. Erano, si spera, altri tempi». 

Mario Draghi, in occasione del patto italo-francese, l’ha citata tra i nomi del Pantheon comune tra Parigi e Roma, accanto a nomi come Schuman, De Grasperi, Eco e Spinelli. Se l’aspettava?

«Assolutamente no, ma ne sono stata felice. Voglio anzi ringraziare il premier».

Cosa dovremmo prendere dai cugini francesi noi italiani? E i francesi da noi?

«Dalla Francia c’è tanto da imparare, è uno stato da molto più tempo dell’Italia e questo dà al Paese una struttura più solida. Al contrario voglio sottolineare la capacità di essere flessibili degli italiani, la creatività che si manifesta anche nei momenti più complessi. Abbiamo tanti valori comuni e tante cose diverse, non è un caso che ci definiscono cugini». 

·        Claudia Gerini.

Da fanpage.it il 31 maggio 2022.

L'attrice Claudia Gerini, seguendo le foto di qualche ora prima di Elena Santarelli, ha pubblicato sulle stories del suo profilo Instagram i video del centro della capitale, tra immondizia abbandonata e cestini stracolmi. "Questa città è sporca non soltanto perché le persone sono incivili, ma perché nessuno la pulisce", ammonisce. 

La telecamera si sofferma su carte e cartacce usate e lasciate fra i sampietrini, cartoni di pizza buttati per terra e bottiglie di vetro abbandonate agli angoli della strada, ha inquadrato anche due persone, due senza fissa dimora, mentre stavano sistemando le loro cose vicino a dei giacigli di fortuna. "Qui c'è degrado", ha detto Gerini, inquadrandosi nella fotocamera con alle spalle i due senza casa, per poi tornare a parlare dei materiali abbandonati per strada.

Sette secondi più tardi, l'attrice sta già passando nuovi punti dell'elenco dei rifiuti da proporre ai suoi follower, riprendendo altre bottiglie appoggiate al muro sul ciglio della strada. Come se anche quelle due persone fossero rifiuti fra i rifiuti, gli ultimi cittadini della città additati come degrado da far sparire dalle strade centro della città, da buttare o da nascondere altrove perché poco decorosi.

Gli esseri umani, però, non sono cose da far sparire dalla vista dei cittadini perbene (perché più hanno), o dei turisti, ma andrebbero al contrario presi in carico dalle istituzioni perché abbiano un tetto e non dormano in strada arrangiandosi come possono: per parlare di loro non si può usare lo stesso vocabolario utilizzato per l'immondizia. Pensiamo all'acqua ghiacciata lanciata alla Stazione Termini per allontanare i senza tetto o alle fioriere "antiuomo" della Stazione Tiburtina. 

A Claudia Gerini, e non solo lei, consigliamo di leggere il rapporto dedicato ai senza fissa dimora dell'associazione Nonna Roma. Storie, numeri, cifre ma soprattutto proposte e risposte. Lo si può scaricare liberamente da internet. Perché pulire le strade è importante sicuramente, ma dare un tetto a tutte e tutti anche.

·        Claudia Pandolfi.

Claudia Pandolfi compie 48 anni: i suoi amori, dal matrimonio lampo all’unione con il regista Marco De Angelis. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 17 Novembre 2022.

Le tappe della vita sentimentale dell’attrice, nata a Roma il 17 novembre 1974

L’esordio al cinema nel 1992

Era giovanissima quando apparve per la prima volta sul grande schermo ne «Le amiche del cuore» di Michele Placido (1992, soltanto un anno prima aveva partecipato a Miss Italia) e oggi è tra le attrici italiane più popolari e apprezzate da pubblico e critica: parliamo di Claudia Pandolfi. Nata a Roma il 17 novembre 1974 nel corso della sua lunga carriera ha recitato in numerose pellicole (l’ultima solo in ordine di tempo, «Siccità» di Paolo Virzì) e serie tv (solo qualche titolo, «Distretto di Polizia», «I liceali», «È arrivata la felicità» e «Baby»), ma negli anni si è parlato di lei - sulle riviste di gossip - anche per la sua vita sentimentale, spesso finita sotto i riflettori.

Le nozze lampo

Il 5 giugno 1999, nel pieno del successo (ottenuto grazie al ruolo di Alice Solari nella serie di Rai1 «Un medico in famiglia»), Claudia Pandolfi convola a nozze con un collega attore e doppiatore, Massimiliano Virgili, che il grande pubblico conosce grazie a «Il maresciallo Rocca». A distanza di un mese, di ritorno dal viaggio di nozze, l’unione finisce su tutti i rotocalchi diventando il tormentone dell’estate: l’attrice infatti lascia il marito. Già sull’altare infatti, come da lei spiegato in una lettera inviata al Corriere, il suo cuore batteva per un’altra persona: Andrea Pezzi, vj di Mtv.

La passione per Andrea Pezzi

«Sull’altare già pensavo ad Andrea - aveva scritto nel 1999 al Corriere della Sera - ma soffocavo i miei sentimenti per rispetto della mia famiglia, ero confusa, credevo fosse la solita crisi di panico prematrimoniale». Per Virgili la rottura è stata un duro colpo: «Claudia mi piantò un mese dopo le nozze. Poi la vidi su tutti i giornali tra le braccia di Andrea Pezzi - ha detto qualche anno fa l’attore in un’intervista a DiPiù -. Come se non bastasse, lei scrisse una lettera aperta sul Corriere della Sera per dire che già sull’altare pensava a Pezzi e non a me. Da quel momento per me è stato l’inferno. A quel punto sono crollato, ero distrutto. Non potevo uscire di casa perché sentivo gli occhi di tutti addosso. Per quattro anni, per non pensare alla mia vita demolita, ho cominciato a frequentare locali notturni, a partecipare a festini, a bere troppo, finché non ho incontrato Vincenza (sua attuale moglie, ndr.)»

Roberto Angelini e il primo figlio Gabriele

«È stato uno sbaglio, ho capito dopo che nella vita non bisogna giustificarsi. Era un periodo turbolento. Sono passati tanti anni, sono diversa da allora: ma chi non lo è?», diceva lo scorso anno in riferimento alla famigerata lettera Claudia Pandolfi che - in seguito alla breve storia con Andrea Pezzi - nel 2000 ritrova l’amore con Roberto Angelini, cantautore e musicista di «Propaganda Live». La loro sarà un’unione duratura (andrà avanti fino al 2010), coronata dalla nascita - nel 2006 - del piccolo Gabriele.

Amore sul set

Sul set del film «I più grandi di tutti» (2011) si incrociano nuovamente le strade di Claudia Pandolfi e Marco Cocci che, esordienti, avevano già recitato insieme in «Ovosodo» di Paolo Virzì nel 1997. E l’amicizia si tramuta in qualcosa di più. «Marco ha un ritmo che si sposa alla perfezione con il mio, mantiene il mio passo ed è fatto di varie misure - raccontava Claudia nel 2012 a Gioia -. Con Roberto avevamo dei problemi, ci siamo separati perché dovevamo risolvere i nostri problemi, la coppia è fatta così: ha dei cicli e se non stai più bene con una persona devi giocare a carte scoperte». Nel 2013 però anche questa storia finisce.

Il «matrimonio» spagnolo

«Cammino a un palmo da terra. Ho due bimbi bellissimi e un compagno che amo. L’amore migliora la vita, la rende bella». Oggi Claudia Pandolfi è felice e innamorata accanto al produttore e regista cinematografico Marco De Angelis, con cui fa coppia dal 2014. Nel 2016 i due hanno avuto un figlio, Tito, e a Barcellona si sono «sposati»…per strada: «Il nostro vicino di panorama, su un ponte, aveva la tunica di sacerdote e un turbante - ha raccontato Pandolfi al Corriere -. Si capiva che era di un’altra religione. Ci vedeva innamorati, ci ha messo una mano sulla testa e ha detto qualcosa, in una lingua che mi sembrava indiana o araba, è imbarazzante ma non l’ho decifrata. Il tutto è durato tre minuti. Di matrimonio vero non parliamo mai».

·        Claudio Amendola.

Arianna Finos per La Repubblica il 7 agosto 2022.

Nei quarant' anni di carriera Claudio Amendola ha avuto diverse etichette, da ragazzo di strada a sex symbol. «Sono state tutte un po' vere, queste definizioni. Coatto un po' lo sono e lo sono rimasto ed è vero che il genere femminile è stato generoso con me. 

L'etichetta vale più la pena cavalcarla che contrastarla». L'attore, 59 anni, sale sul palco del Festival Marateale subito dopo i 21 attori arrivati da tutta Italia per Young Blood, il contest sul mestiere dell'attore dedicato ai talenti emergenti». 

Lei è figlio d'arte, di Ferruccio Amendola e Rita Savagnone.

«Da piccolo non capivo cosa significasse, non credevo al Dna. Non avrei mai pensato di seguire le orme dei miei genitori. Il doppiaggio non è un lavoro così affascinante, i miei erano chiusi al buio tutto il giorno. 

Ma vederli lavorare era un privilegio, alla Fonoroma passavo tutti i giorni, magari a chiedere mille lire, mi fermavo a vedere papà che doppiava quegli attori lì, con quei film lì. Poi mi sono reso conto, senza aver mai studiato né averci pensato, di essermi ritrovato sul set in un posto che sentivo mio. Ho avuto la fortuna di aver iniziato negli anni in cui c'erano ancora maestri del cinema italiano». 

I suoi amici?

«Venivano il sabato sera per sentire le voci di papà e gli altri doppiatori. Ricordo un ragazzo entrato in comitiva da poco, non conosceva la faccia di papà. Guardiamo una partita dei Mondiali del '78, passa la pubblicità del detersivo, mio padre a mollo, e lui: "Ammazza Cla' ma tuo padre pure a sto' cretino dà la voce?"». 

Suo padre era ironico?

«Sì, ma sul lavoro era severo. Mia figlia Alessia che ha imparato da lui, ha ereditato la serietà maniacale".

Un Natale arrivò il telegramma dal liceo: "Vorremmo conoscere l'alunno Claudio Amendola.

«Non ci andavo mai. Me ne sono pentito amaramente. Ho smesso alla seconda liceo. Perché ero pigro, ero in una casa di grande cultura e mi sembrava tutto un po' già sentito. Ero forzatamente ribelle. A metà anni Settanta, se smettevi di andare a scuola, un lavoro lo trovavi. Ho fatto il manovale, il commesso. A 18 anni mia madre insiste e faccio il provino con Franco Rossi, trovo Massimo Bonetti e Andrea Occhipinti, Massimo aveva fatto la Tempesta con Strehler, e Occhipinti La certosa di Parma di Bolognini. "Ma io che ci sto a fà qui?". E invece mi presero per Storia d'amore e d'amicizia , forse proprio perché non avevo mai lavorato». 

Poi arriva la trilogia con Carlo Vanzina, iniziata con "Vacanze di Natale".

«Il paese dei balocchi: venti ragazzi a Cortina a ottobre, la neve fatta con i lenzuoli sulle vie, le controfigure sciavano sul ghiacciaio». 

Con Carlo Vanzina eravate amici.

«Molto. Ci penso quasi tutti i giorni. Mi manca il suo sorriso, la gentilezza, la signorilità. Gli abbracci papali quando arrivavo allo stadio, ogni domenica. Mi ha insegnato molto, anche come regista, a non buttare il tempo, a non gigioneggiare».

Con Bolognini poi ha lavorato anche lei, in "La venexiana".

«Un personaggio assurdo, Mi dice: "Ti scrivo un dialetto tra il veneto e il bergamasco". Ma il gondoliere dopo tre scene parla romano». 

Un set difficile?

« Ultrà , di Ricky Tognazzi. Tante tensioni e una rissa in un locale a Torino, un malavitoso locale non gradiva come era vestito uno dei ragazzi delle comparse, che erano tifosi con esperienze borderline. La polizia ne rispedì molti a Roma». 

Di quali dei suoi film è più fiero?

«Dei due film con Wilma Labate. Domenica e La mia generazione : lì con Silvio Orlando è un confronto di alto livello. Sul set con tanti registi ho imparato tanto, specie dagli errori. 

Con Steno, papà di Carlo, ogni sera sul set di L'ombra nera del Vesuvio a cena gli chiedevo di Un americano a Roma , la scena degli spaghetti. Mi diceva: "Non ho fatto nulla quando i pupazzi funzionano, il regista non deve fare niente". E i pupazzi siamo noi, sono gli attori». 

Il coatto si è evoluto fino a "Come un gatto in tangenziale".

«Per strada mi fermano più per Coccia di Morto e Vacanze di Natale che per ogni altra cosa. Milani mi ha lasciato libero di esagerare, parrucca, tatuaggi: "113 non ti temo" è una mia battuta». 

Disavventure sul set?

«Molte a cavallo. In una produzione in Marocco s' incastra la spada finta, il cavallo mi disarciona, ho dovuto girare con due costole rotte. Nel Napoleone Rai-BBC guido una carica con trecento cavalli, mi sento Attila poi penso: se cado mi travolgono». 

Litigi?

«Con tanti attori, quando non sono puntuali, non rispettano i lavoratori, si negano alle foto dei fan, a cui dobbiamo tutti tutto».

Da regista, rispetto ai giovani attori, come sceglie il "pupazzo" giusto?

«Adoro i pupazzi e li capisco, so quanto è difficile questo mestiere.Troppi registi odiano gli attori, sono stato diretto da registi che usano gli attori ma non li amano. Per questo, forse, so dirigerli». 

"La mossa del pinguino", "Il permesso", "Cassamortari", questo mestiere da regista che diventa sempre più suo...

« La mossa del pinguino nasce perché quando vedo un atleta che vince una medaglia mi commuovo, dopo anni di fatica e rinuncia. Il permesso - 48 ore racconta il dramma della chiusura, di non avere la libertà, quelle 48 ore d'aria devono far pensare. Cassamortari è un film per ridere della morte con una famiglia d'attori che sembra vera. Ho finito la nuova stagione di Nero a metà che sono quasi certo riproporremo in tv, sto scrivendo per il cinema.

Ma bisogna capire che cosa vogliamo farne, del cinema: oggi è un disastro, in sala non va più nessuno. Cosa facciamo? Riportiamo la gente al cinema, facciamo sale comode, torniamo a dare importanza all'ora e mezza di film. Altrimenti andremo in sala solo per grandi autori, blockbuster e cartoni. La crisi va affrontata di petto».

Da leggo.it il 10 agosto 2022. 

Claudio Amendola in crisi con sua moglie Francesca Neri? Nelle ultime settimane si erano rincorse diverse voci che raccontavano di una presunta rottura della coppia, con divorzio in vista.

Nessuno dei due diretti interessati aveva fatto pubblicamente chiarezza, fino a oggi. A raccontare la verità dei fatti è stato l'attore: «Non è assolutamente vero, per carità. Non capisco chi possa avere messo in circolazione una voce del genere. Vi prego, non scherziamo», ha detto Amendola a DiPiùTv. Nessuna rottura dunque, l'amore tra i due prosegue. 

Amendola e Neri, come stanno le cose

Claudio Amendola e Francesca Neri stanno insieme da 25 anni. I due non sono mai stati molto sotto i riflettori.

Recentemente l'attrice è stata in televisione per parlare della sua patologia e del libro che ha scritto raccontando quei momenti, ha sottolineato quanto il marito fosse stato per lei importante: «Quando vedevo in lui la difficoltà, l'inadeguatezza, l'impotenza, soffrivo ancora di più e allora pensavo che, allontanandolo, avrei evitato almeno il suo dolore. 

Ma Claudio è sempre rimasto. Con tanti momenti di crisi, giornate durissime, litigi. Però c'è sempre stato. Claudio mi ha salvato». La presunta rottura era stata svelata da Dagospia, che aveva parlato in una donna che aveva fatto perdere la testa ad Amendola. 

Claudio Amendola e Francesca Neri si separano dopo 25 anni insieme. L'attore e regista è stato visto a cena da solo insieme al figlio Rocco. Per ora non ci sono conferme ufficiali. La Repubblica il 4 Agosto 2022. 

"Ricordi sbocciavan le viole / con le nostre parole / Non ci lasceremo mai / Mai e poi mai...", cantava Fabrizio De André nel 1966. Sembra che alcune coppie siano destinate a restare insieme per sempre e invece, mentre ancora stiamo metabolizzando la separazione di Totti e Ilary, arriva la notizia che anche per Claudio Amendola, 59 anni e Francesca Neri, 58, sembra sia arrivata l'ora dell'addio dopo 25 anni.

Un periodo difficile

Al momento si tratta di indiscrezioni, ma sembra che l'attore e regista abbia già cambiato casa. Ad alimentare le voci, c'è stato anche l'avvistamento di Amendola a cena da solo, insieme al figlio Rocco di 22 anni. Una assenza, quella di Francesca Neri, che ha sollevato qualche perplessità. I due, separatamente hanno parlato del periodo difficile vissuto dall'attrice a causa di una malattia improvvisa, la cistite interstiziale cronica.

La rivelazione a 'Verissimo'

Lei, a Verissimo, lo scorso ottobre aveva detto: "Non era scontato che Claudio mi stesse vicino, vedevo la sua difficoltà e anche la sua impotenza. Ho pensato fosse giusto allontanarmi, ma per il loro bene. Non ero nella condizione fisica di andarmene, ci ho provato. A tratti aspettavo che andasse via lui, però non ha mollato. Lui mi ritrova sempre, come io faccio con lui".

La rivelazione sulla malattia di Francesca Neri

In precedenza, a settembre, Amendola aveva parlato per la prima volta della malattia della compagna. "Mia moglie Francesca ha una malattia, un dolore fisico enorme - aveva raccontato l'attore sempre a Verissimo - Non ha una malattia chiara, ma ha una difficoltà nel vivere le sue giornate. Anche nella malattia, cerca la forza per stare bene. Ne ha parlato nel suo libro che presenterà presto. L'ho letto e ho pianto tanto. Ha grande intelligenza e coraggio. Il racconto che fa dei suoi ultimi anni di vita è coraggioso".

Da ilfattoquotidiano.it il 4 agosto 2022.

Claudio Amendola e Francesca Neri, il matrimonio è arrivato al capolinea? A riportare l’indiscrezione è stata la rivista Diva&Donna, secondo cui l’attore romano (59 anni) avrebbe già traslocato dalla casa in cui abitava con la moglie. Che sia arrivata anche per loro la parola ‘fine’? 

Nessuno dei due, al momento, ha confermato né smentito il gossip sulla presunta separazione, che arriverebbe dopo una storia d’amore lunga 25 anni, un figlio (Rocco, 23 anni), gioie ma anche difficoltà. Tra queste, quella della malattia dell’attrice 58enne. Amendola ne aveva parlato anche a Verissimo, lo scorso anno: “Stare vicino a Francesca non è stato difficile, è stato il mio compito. È stato molto più difficile per lei, la nostra è una grande storia d’amore. Ha un dolore fisico enorme.

Anche nella malattia, cerca la forza per stare bene. Ne ha parlato nel suo libro che presenterà presto. L’ho letto e ho pianto tanto. Ha grande intelligenza e coraggio. Il racconto che fa dei suoi ultimi anni di vita è coraggioso”, aveva spiegato lui. Di cosa si trattava? Della cistite interstiziale, una malattia spesso confusa con altre patologie. “Lui (Claudio Amendola, ndr) c’è, c’è stato e anche quando ho temuto che non ci fosse, poi lo ritrovavo. Lo ritrovo sempre, come lui ritrova sempre me”, aveva invece dichiarato Neri nel salotto di Silvia Toffanin. Possibile che ora siano arrivati a questo inaspettato epilogo? 

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 27 Ottobre 2022.

Al vaglio del Tribunale civile di Roma c'è un'altra separazione vip, oltre a quella di Francesco Totti e Ilary Blasi. È infatti arrivato al capolinea anche il matrimonio di Claudio Amendola e Francesca Neri, nonostante i primi di agosto il protagonista dei Cesaroni avesse smentito le voci che parlavano di una rottura. 

I due attori però, a differenza dell'ex capitano giallorosso e della conduttrice di Mediaset, hanno raggiunto subito e con grande serenità un accordo extragiudiziale che, dopo essere stato depositato la scorsa settimana nelle cancellerie di viale Giulio Cesare, ora dovrà essere omologato dal giudice, previo benestare del pubblico ministero degli Affari civili.

Insomma, mentre in casa Totti era in atto la guerra del guardaroba, combattuta a colpi di costosi dispetti (con Rolex, borsette e scarpe griffate fatte sparire) e puerili siparietti social, Claudio Amendola e Francesca Neri avevano avviato la separazione con negoziazione assistita. L'attore romano, di fede romanista, ha scelto per la sua difesa lo stesso legale che assiste l'ex numero 10, ossia l'avvocato Antonio Conte. Mentre l'attrice di origini trentine è rappresentata dall'avvocatessa Paola Friggione.

IL MANTENIMENTO Amendola aveva già lasciato il tetto coniugale lo scorso luglio. L'accordo raggiunto prevede che paghi un assegno di mantenimento mensile all'ex moglie e un contributo economico al loro figlio Rocco, che ha 23 anni. La casa dove vivevano resterà alla Neri. I due si erano sposati a New York nel 2010, ma complessivamente stavano insieme da 25 anni. Hanno affrontato con grande affiatamento anche la malattia di cui l'attrice aveva svelato di essere affetta durante un'intervista in tv. «Starle a fianco è stato il mio compito, non è stato difficile. (…)

Claudio Amendola e Francesca Neri si separano. Redazione Spettacoli su La Repubblica il 27 Ottobre 2022. 

La coppia avrebbe già trovato un accordo e si aspetta soltanto l'ufficialità del tribunale. Un rapporto durato 25 anni

Prima la smentita, questa estate, ora la conferma: Francesca Neri e Claudio Amendola si separano dopo 25 anni di relazione e 12 anni di matrimonio. Lo scrive Il Messaggero. La coppia avrebbe già trovato un accordo tramite gli avvocati e sarebbe in attesa dell'ufficialità del tribunale. L'attore romanista ha avuto al suo fianco lo stesso legale di Francesco Totti (oltre ad Annamaria Bernardini de Pace), Antonio Conte, mentre Francesca Neri è assistita da Paola Friggione. Ad agosto Amendola aveva smentito categoricamente la separazione: "Vi prego non scherziamo" aveva detto. La decisione è evidentemente venuta in questi mesi ed è stata gestita con molta discrezione e in accordo fra loro.

L'incontro e i film assieme

Francesca Neri e Claudio Amendola si erano innamorati nel 1997 sul set di Le mani forti, in cui lei interpretava una psicanalista e lui il più complicato dei suoi pazienti. La loro storia fu vissuta al riparo dai riflettori. Il matrimonio fu celebrato 13 anni più tardi, nel 2010 a New York. Gli attori hanno un figlio, Rocco, di 22 anni. Insieme hanno girato anche La mia generazione di Wilma Labate. Anche se in tempi recenti non hanno più recitato insieme, Neri e Amendola hanno lavorato a dei progetti comuni come il film da regista dell'attore I cassamortari che viene da un soggetto scritto a quattro mani dalla coppia.

La malattia di Francesca Neri

Nel settembre 2021, Amendola aveva parlato per la prima volta della malattia della compagna, la cistite intersiziale cronica. "Mia moglie Francesca ha una malattia, un dolore fisico enorme - aveva raccontato l'attore a Verissimo - Non ha una malattia chiara ma una difficoltà nel vivere le sue giornate. Anche nella malattia, cerca la forza per stare bene. Ne ha parlato nel suo libro che presenterà presto. L'ho letto e ho pianto tanto. Ha grande intelligenza e coraggio. Il racconto che fa dei suoi ultimi anni di vita è coraggioso".

L'attrice e produttrice, sempre a Verissimo, un anno fa aveva detto: "Non era scontato che Claudio mi stesse vicino, vedevo la sua difficoltà e anche la sua impotenza. Ho pensato fosse giusto allontanarmi, ma per il suo bene. Non ero nella condizione fisica di andarmene, ci ho provato. A tratti aspettavo che andasse via lui, però non ha mollato. Lui mi ritrova sempre, come io faccio con lui".

La prossima fiction di Claudio Amendola

L'attore e regista, che deve la sua grande popolarità a serie come I Cesaroni o Nero a metà, grande successo della scorsa stagione, al momento è al lavoro sulla fiction di Canale 5 Il patriarca nei panni di un boss mafioso malato di Alzheimer.

Certi amori poi finiscono... È addio tra Wanda e Icardi. Nuova crisi tra il calciatore e la moglie. Lei: "Non ne posso più". Al capolinea anche la Neri e Amendola. Valeria Braghieri il 5 Agosto 2022 su Il Giornale.

E dire che era uno di quegli amori suggellati anche dai tatuaggi. Se lo erano meritato un marchio eterno, dopo tutte quelle avversità. L'inizio faticoso dovuto alla fine del matrimonio tra lei (Wanda Nara) e Maxi Lopex, uno dei migliori amici di lui (Mauro Icardi) in tempi e modalità a quel punto un po' sospetti; il controversa metamorfosi di lei da semplice moglie a procuratore calcistico dopo una defatigante gavetta di qualche mese a gestire i social dell'attaccante (allora) Neroazzurro; il disastroso contributo di Wanda all'unità di squadra: ha sfasciato lo spogliatoio dell'Inter e si è riempita la cabina armadio di Louboutin; il polemico, ostile, deludente passaggio del calciatore argentino al Psg, dove, perennemente in panchina, si è trasformato in un automa in ricarica; il gossip (ottobre 2021) di un presunto flirt di Icardi con l'attrice Eugenia Sanchez: lì erano volati gli stracci... Wanda che insulta l'altra, Wanda che insulta Icardi, Wanda che si sfila l'anello nuziale e posta l'anulare nudo su Instagram, Wanda che parte, Icardi che la insegue, Icardi che le manda le rose, Icardi che le scrive parole d'amore sui social... Alla fine lei lo aveva perdonato, era tornata a casa con tutti e cinque i figli (le due di Mauro, i tre di Max) e aveva assicurato che «di lui mi fido di nuovo, potrei riempire la stanza con 200 donne...». Sembravano ormai al riparo in una nuova vita antisismica, complice il fatto che lei non si è mai arresa e, frugando alla cieca nel suo illimitato ego aveva trovato la formula del matrimonio perfetto: «ho sette anni più di Mauro, ci tengo ad essere sexy». Insomma c'era di che festeggiare con aghi e inchiostro e quindi, puntuali, erano arrivati nuovi tatuaggi. Solo che ieri, grazie ai media argentini, è arrivato anche un messaggio vocale registrato da Wanda: «Sono venuta in Argentina perché sto divorziando da Mauro. Sto organizzando il divorzio al momento. Starò ancora qualche giorno e poi torno a prendere tutto il necessario. Sto organizzando le cose per il divorzio perché non ne posso più». Delle ragioni non si sa ancora nulla ma confidiamo che, trattandosi di «Wandagate», basti aspettare. Intanto i media si sono precipitati a fare i conti in tasca alla coppia per capire come divideranno cosa: case, soldi e macchine di lusso, macchine di lusso, macchine di lusso. Triste ma inevitabile se si tratta della fine di un «matrimonio brand». Un po' come un mesetto fa è accaduto per la cantante Shakira e il difensore del Barcellona Gerard Piqué, insieme da dodici anni, due figli e, pare, un'imperdonabile distrazione da parte di lui per una misteriosa ragazza «dagli zigomi marcati».

Un po' come, subito dopo, è accaduto per l'ex ma «eterno» Capitano della Roma, Francesco Totti, e la showgirl Ilary Blasi: tre figli, diciassette anni di matrimonio e la schiacciante responsabilità di essere la coppia «presidenziale» della Capitale. Sembra, infatti, che l'unione fosse già finita da un anno ma che i due si fossero accordati sul massimo riserbo per i figli e, forse, per il pubblico. Per questo avevano mantenuto segreti la presunta relazione di Totti con Noemi Bocchi e il misterioso, fantomatico flirt di Ilary con non si sa chi.

Ieri poi, è arrivata anche la notizia dell'amore finito, dopo venticinque anni e un figlio, della coppia di attori Francesca Neri e Claudio Amendola. Talmente dissimili da essere perfetti insieme, quei due. Eppure... Solo qualche mese fa, intervistati in tempi e sedi diversi, entrambi avevano parlato della malattia di Francesca (la cistite interstiziale cronica) e avevano avuto reciproche parole d'amore. Sarà che l'insoddisfazione è il marchio di fabbrica della specie umana. O sarà che non sono bastati i tatuaggi.

Claudio Amendola: «Quando mi chiamano coatto mi feriscono. Il più grande rammarico? Non aver finito il liceo». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

L’attore e regista romano, in tv con «Nero a metà» e il film «I cassamortari»: «Il mio rimpianto professionale? Avere detto no a “Il bagno turco” di Ferzan Özpetek».

I sessanta li compirà l’anno prossimo, il 16 febbraio. Ma i quaranta di carriera li ha già festeggiati quest’anno. Lavorando. Claudio Amendola ci risponde da Monopoli in un intervallo del set di una nuova serie per Mediaset, Il Patriarca . «Ho esordito con Storia d’amore e d’amicizia. Me lo ricordo come fosse ieri, il 4 ottobre 1981, mio padre Ferruccio sulla soglia di casa: “Ah regazzi’ vai a lavorare in un posto dove ci sono cento persone che dipendono dal bel faccione tuo, vedi che poi fa’».

Ma fu merito di sua mamma, Rita Savagnone.

«Vero. Mi disse che il regista, Franco Rossi, cercava un ragazzo con una faccia tipo la mia. Io non ci pensavo, non avevo il sacro fuoco della recitazione, pensavo che avrei fatto qualcosa prima o poi. Meglio poi. Tipo l’intrattenitore nei villaggi Valtur».

Morale?

«Andai al provino come a un colloquio per fare il commesso, più per fare un favore a mamma. E mi sono trovato in un letto con Barbara De Rossi. Poteva andare peggio».

Cercando in archivio articoli su di lei escono descrizioni così: «È considerato il gladiatore del cinema italiano e, secondo alcuni, l’erede naturale di Renato Salvatori. Attore sanguigno, macho bello e bravo, il cui volto da duro e il sorriso beffardo gli hanno concesso la nomea di sex symbol made in Italy. Si riconosce nel ritratto?

«Non posso mentire, certo che mi riconosco. È stato così, in parte lo è ancora, è una summa generosa di quello che ho fatto. Mi lusinga il paragone con Renato Salvatori che mi accompagna dall’inizio».

Rimpianti professionali?

«Non aver fatto Il bagno turco di Özpetek».

Perché non lo fece?

«Perché non mi credevo giusto, non pensavo di essere capace, non avevo capito Ferzan, perché sono un coglione. Non ero abbastanza maturo per capirlo».

Come le è venuto in mente di fare un film come «I cassamortari»? Volontà di esorcizzare la morte?

«La morte mi ha sempre affascinato con tutto il dolore che ne consegue, la ritualità, rispetto per chi se ne va e chi resta. Io cerco sempre di trovare un lato per sdrammatizzare, cerco sempre il lato positivo, il bicchiere mezzo pieno, è la mia forza e anche il mio limite, questione di carattere. Ai funerali succedono sempre cose divertenti, è imbarazzante, non è bello dirlo, ma ho assistito a scene che mi hanno fatto ridere. E il mondo dei servizi funebri, che a Roma chiamiamo cassamortari, mi ha sempre incuriosito. Prima li vedi con le facce di circostanza, rispettosissime e poi appena il corteo entra in chiesa, si appoggiano alle colonne, fumano, cazzeggiano».

È vero che George Clooney le ha dato buca?

«L’ho scritto con una sceneggiatrice italoamericana, volevo ambientarlo in Usa con lui che cadeva da cavallo sul lago di Como e si rovinava la faccia. E quelli delle onoranze funebri che gliela ricostruivano per il funerale. Ho scritto una lettera all’avvocato di Clooney»

E?

«Non mi ha risposto. Così ho riportato la storia in Italia, racconta abbastanza le nostre bassezze».

E ha tirato in mezzo Piero Pelù, Gabriele Arcangelo, in morte e resurrezione.

«Mi sarebbe piaciuto fare il rocker, non la rockstar precisiamo. Credo che sia l’unico mestiere che invidio veramente. Se avessi avuto il talento necessario».

Il primo concerto se lo ricorda?

«E chi se lo scorda? Il primo forte forte, che più mi ha sconvolto, quello dei Clash a Firenze, poi, ma ero già più grandino, quello dei Pink Floyd. Sono cresciuto con quella cultura musicale, con quei gruppi che non potevi mai vedere e che mitizzavi. Per dire, i Led Zeppelin erano venuti a Milano quando io avevo nove anni. Però poi ho visto Robert Plant se ricordo bene all’Isola d’Elba. Era un vecchio ormai».

Ha lavorato con grandi registi, Marco Risi, Marco Tullio Giordana, Ettore Scola, Carlo Mazzacurati, Patrice Chéreau solo per citarne alcuni, ma non ha mai disdegnato la tv, non solo fiction e serie ma anche programmi pop, «Amici», «Miss Italia», «Domenica in», i talkshow, le trasmissioni di calcio. Perché?

«La verità è che in televisione mi diverto tantissimo, la prendo con grande leggerezza. Sono consapevole che la mia popolarità viene principalmente dal piccolo schermo, molto più che dai film, seppur ne ho fatti di importanti. È la tv che dal 1981 mi porta dentro la casa della gente, a quasi sessant’anni me ne faccio un vanto».

Ci è appena tornato con la terza stagione di «Nero a metà».

«Come Giulio de I Cesaroni, ci sono personaggi che mi accompagnano, a cui voglio bene. All’ispettore Carlo Guerrieri sono molto legato, quest’anno ho fatto anche la regia, ereditata dalle sapienti mani di Marco Pontecorvo, mi godo il rapporto con gli attori, tutti, bravissimi, e il fatto di aver innestato nel poliziesco, situazioni di commedia, cose che fanno ridere».

Non ha finito il liceo, le pesa?

«Ormai è un dato di fatto acquisito, ho passato la fase in cui me ne facevo un cruccio. Me ne sono fatto una ragione. E anche quella in cui me ne vantavo, per fortuna. Ci sono lacune che, senza la scuola, non recuperi più. Come la filosofia, la letteratura, cose che è giusto studiare da giovani, quando sei una spugna. Poi ci puoi provare ma non hai più la voglia o il tempo necessario per recuperare. O forse lo troverò, chissà?»

Cosa le dà fastidio che dicano di lei?

«So poco quello che dicono di me, non ho i social, non faccio vita mondana, ho zero frequentazioni dell’ambiente. Una cosa mi dispiace».

Ovvero?

«Quando, è capitato raramente ma è capitato, sono stato descritto come arrogante, coatto veramente. Non lo sono, lo faccio al cinema. Lo ritengo una calunnia e mi ferisce. Sono uno pacato e accondiscendente, fino a un limite che non permetto a nessuno di superare. Ho grande rispetto per il lavoro di tutti. Contano molto i rapporti che hai con tutti quelli che lavorano con te. Mica mi danno retta solo per il faccione mio, come diceva Sordi».

I suoi figli le danno retta?

«Ho rapporti buonissimi con loro, sono fortunato. Alessia e Giulia — nate dal legame con Marina Grande, ndr — sono donne adulte con vite ormai sicure, le stimo molto».

E Rocco, nato dal suo matrimonio con Francesca Neri?

«A lui qualche no l’ho detto, avevo più pratica. Ha 23 anni, dopo la pandemia ha iniziato a lavorare nella produzione, la parte meno gloriosa del set, la più faticosa. Sta facendo una bellissima gavetta, dal gradino più basso. E questo, non nascondo, mi riempie di orgoglio».

Chi sono i suoi amici, con chi si rilassa?

«Io cerco di stressarmi il meno possibile, questo lavoro dipende da come lo prendi. Mi rilasso molto con i nipoti, con i miei figli, mi rilassa molto giocare a golf anche se mi incazzo perché non la pijo mai. Mi rilasso sul divano a vedere la televisione».

Golf, divano, e il macho gladiatore?

«Invecchiare è un gran vantaggio. Impari anche a goderti la compagnia di te stesso. Per esempio, mi piace andare al ristorante da solo, mi faccio ricchi pranzi. Come andare al cinema. Il mio maestro Carlo Vanzina andava sempre al cinema da solo».

Che ricordo ha di lui?

«Stupendo. Avevo lavorato con suo padre, il dottor Steno, che mi prese in simpatia, ci ho passato tante serate sublimi. E ho ritrovato la stessa gentilezza e signorilità in Carlo. Era davvero un gran signore, sopportava le critiche — e ne ha avuto tantissime — , con un gran sorriso. Li chiamava “quegli intelligentoni”. Era un grande cinefilo, tra l’altro. Il cinema suo e di Enrico faceva storcere il naso a quella sinistra di cui faccio parte anche io. Dava fastidio che i loro film, soprattutto quelli sull’edonismo anni Ottanta, raccontassero il Paese in maniera più diretta di quelli di tanti autori. Non gli è stato riconosciuto che aveva su questo Paese un occhio più disincantato e più vicino alla commedia dei grandi maestri di tanti loro colleghi. Hanno avuto anche un altro merito».

Quale?

«Lo hanno fatto incassando anche bei soldi. Ci ha fatto lavorare e guadagnare tutti. Come pure Vittorio Cecchi Gori».

Di chi altro sente la mancanza?

«È un po’ di tempo che mi manca papà. Non so perché, forse perché sto invecchiando, mi piace camminare, mi sveglio presto la mattina, faccio lunghe camminate, normalmente a Villa Borghese. L’altro giorno sono arrivato al Verano, e sono andato a trovarlo. Era tantissimo che non ci andavo. Mi ha fatto tanto piacere».

Nel 2014 ha debuttato alla regia con «La mossa del pinguino» su un’improbabile squadra di curling: Edoardo Leo, Ricky Memphis, Fassari e Ennio Fantastichini. Se l’immaginava l’Italia che a Pechino 2022 l’Italia vincesse un oro?

«Sinceramente, chi poteva immaginarselo? Quelli delle Olimpiadi sono stati giorni entusiasmanti, verso i quarti di finale le telefonate hanno iniziato a infittirsi, volevano sapere come mi era venuto in mente di fare quel film. È stato bello essere un po’ premonitori. Lo hanno rimandato in onda le tv e sono stato felice. Ma no, non mi darò al curling, mi basta il golf».

Visto che ha fatto un film sui funerali, ci pensa mai al suo?

«Mettiamola così. Mi piacerebbe tantissimo aver vissuto tutto quello che la vita mi offre perché le persone che lascio siano sorridenti, che possano dire: il papà, mio marito, il mio amico ha vissuto bene, va bene così. Vorrei un funerale allegro. Dove si canta».

Cosa?

«Forse Il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano».

·        Claudio Baglioni.

Marinella Venegoni per “La Stampa” il 24 Ottobre 2022.

C'è un filo di emozione che corre al tavolo di presidenza del breve incontro convocato dal Club Tenco per sottolineare il momento più fatidico, quello con Claudio Baglioni che tardivamente ha ricevuto un Premio sabato nell'ultima sera della Rassegna della Canzone d'Autore. Nel 2021 la canzone è diventata al Tenco «senza aggettivi»: il che ha tolto di mezzo centinaia di questioni irrisolte, aumentando anche la confusione nel campo. 

Il Presidente Sergio Staino inizia spiritosamente all'attacco: «Questo momento bellissimo chiude una storia di 40 anni fa, quando gli avevo mandato un disegno ma non mi aveva mai detto grazie». E poi: «Un grande artista anche da un punto di vista umano e intellettuale, Baglioni». Si scopre che, nella prima telefonata seguita all'invito, il divo Claudio si è ricordato dell'episodio.

«Pensavo di non riuscire più a venire qui perché ho inciuciato con il Festival - sorride -. Non me lo sarei più aspettato ma in realtà un premio alla carriera sarebbe andato bene anche fra dieci». Quarant' anni son tanti, figurarsi quante volte avrà pensato Baglioni a questo vuoto, così giusto e così sbagliato e ormai così vecchio da aver perso il suo senso. Il cantore della maglietta fina di Questo piccolo grande amore, uscita 50 anni fa e proclamata al Festival «Canzone del secolo», ha fatto chilometri di percorso artistico, ha cantato per un decennio i drammi dell'immigrazione dalla spiaggia di Lampedusa con tanti colleghi, si è infilato in mille esperimenti.

E ora il Club Tenco dà le sue motivazioni al premio: «Di raffinata scrittura musicale, sin dalla fine degli anni Sessanta Baglioni ricerca attraverso la canzone quell'attimo di eterno che tramite l'arte sappia descrivere la vita, per battere il tempo a tempo di musica. Ha cantato le storie minime e i grandi temi dell'uomo». Bene ha fatto Stefano Senardi, raro discografico storico di razza, a ricordare a fine incontro un pensiero di Luciano Berio: «Esistono geni e cretini dovunque, nella musica seria e nella musica leggera». 

Però poi Baglioni ha sottolineato: «Forse è anche giusto aver creato una sorta di divisione fra generi musicali, Mi capita di partecipare ad eventi accanto a personaggi usciti dai talent, sembra che tutti facciamo la stessa cosa ma non è così. Certe divisioni sono nate in anni rivoluzionari, senza raffinatezze. 

C'è stata fretta di etichettare e in certi momenti se ne soffre, si vorrebbe partecipare a una rivoluzione anche quando non si è così barricadieri; piano piano ci ho guadagnato nel senso che, non essendo io stato incendiario, non posso morire pompiere». Sul palco, l'ora intrepida di excursus sui suoi successi non ha risparmiato le prime cose (Io dal mare) né Questo piccolo grande amore e Avrai dedicata al figlio appena nato.

Come una seconda tesi di laurea, dopo tanta attesa; e meno male che c'era lui, perché per il resto la finale del Tenco è stata alquanto moscia, (a parte Fabio Concato) e non degna della celebrazione di cinquant' anni di storia di questo Premio così ambito. In quanto al Divo Claudio, si sfogherà nel tour di 72 date che parte il 7 novembre da Napoli.

Estratto dell’articolo di Carlo Moretti per repubblica.it il 24 Ottobre 2022.

"Pensavo di non poter arrivare più al Tenco con questo Premio alla carriera, credevo non sarebbe più accaduto e invece questo annuncio mi ha sorpreso: è proprio vero che il Tenco è galantuomo". Claudio Baglioni si concede una battuta ritirando al teatro Ariston il Premio Tenco alla carriera, riconoscimento che arriva per lui a 71 anni, premio certamente sorprendente visto l'ostracismo vissuto dal cantautore romano, come esempio di canzone "disimpegnata". (…)

Baglioni ricorda com'era in quegli anni: "Ero uno di pianura, non un barricadero, ma ci volevo stare dentro un movimento che voleva cambiare il mondo. Ma ero anche preso da altro, cercavo soprattutto di migliorarmi, di poter diventare un buon musicista e di superare i miei complessi da quattr'occhi e nasone.

Ho visto affermarsi pregiudizi e luoghi comuni, da allora io non ho più dato giudizi sulla produzione di qualcun altro, bisognerebbe sapere tutto e non parlare per sentito dire o per approssimazione: De Gregori una volta rispose a chi lo definiva impegnato dicendo: 'Non mi dire che sono impegnato, dì che sono bello', quindi neanche chi viene ammesso vi si riconosce o ritiene esatte certe definizioni". 

Grazie a tutto quanto avvenuto, la soddisfazione oggi è "di aver guadagnato nel tempo il profilo di artista non definibile o catalogabile, meglio così, vuol dire che ho evitato la partenza da incendiario e di ritrovarmi oggi come un pompiere un po' malinconico".

Estratto dell’articolo di Daniela Ranieri per il Fatto Quotidiano il 21 settembre 2022.  

Alla notizia che Claudio Baglioni ha vinto il Premio Tenco 2022, qualcuno ha ironizzato sul "passerotto" e la "maglietta fina" e proposto beffardamente il Nobel, dimostrando con ciò di scrivere (su quotidiani nazionali, non su Twitter) di materie che non padroneggia, e di avere del "cantautorato alto" un'idea piccolo-borghese (la canzone d'autore dev' essere esclusiva, non popolare, "impegnata", cioè contenere tutti i rassicuranti stilemi dei rivoluzionari addomesticati).

Baglioni ha affermato la sua poetica totalmente originale in un momento in cui era quasi impossibile svincolarsi da un tacito obbligo alla politica strimpellata in giro di Do, pena la consegna alla lista dei nemici del popolo, concentrati sull'amore come dimensione dell'evasione individualista e del disimpegno, e ha portato avanti per 50 anni un'inesausta ricerca al cuore dell'autenticità artistica. 

Alle sue opere è riuscita quella strana alchimia delle creazioni di eccezionale ispirazione sorgiva (le arie di Mozart fischiettate dai fornai): quelle più mature sono "arrivate" al pubblico esattamente come quelle apparentemente più semplici, mentre le giurie seriose, ciarliere e insipienti, alzavano il sopracciglio. 

Lode alla giuria del Tenco, dunque. I critici irridenti si rassegnino: se mai si deciderà di dare il Nobel a Baglioni (dopo Bob Dylan), noi saremo qui a spiegare perché ciò è perfettamente giusto.

Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 14 settembre 2021.

Caro Merlo, le scrivo con la speranza di farle cambiare idea sul Premio che il Club Tenco ha assegnato a Claudio Baglioni. La esorto sommessamente ad approfondire la conoscenza della sua intera produzione musicale. Un cantautore è una persona tutt'altro che superficiale. 

E cosa hanno fatto di più (o di meglio) i pur bravi Luciano Ligabue (premiato nel 2011), Salvatore Adamo (2018), Gianna Nannini ( 2019) e gli altri di quest' anno, Alice, Angelo Branduardi, Fabio Concato, Giorgio Conte?

Giampaolo Moncelsi 

Risposta di Francesco Merlo

Ho ironizzato sul premio e non su Claudio Baglioni, di cui la sua lunga lettera, che mi scuso di avere accorciato, mi invita all'ermeneutica. Ho simpatia per le tante teste italiane dentro cui risuonano i suoi contagiosi musicarelli e non sottovaluto nessuno degli autori premiati che lei cita. Specie quelli tra loro che sanno che, senza l'ironia e la leggerezza "scanzonata", la sociologia della canzone è un grottesco esercizio da dottor Balanzone. 

Mi disoriento però leggendo nella motivazione che Baglioni "sin dalla fine degli anni Sessanta ricerca quell'attimo di eterno che tramite l'arte sappia descrivere la vita", "ha cercato risposte a domande universali" ed è "sua la canzone del secolo (Questo piccolo grande amore)". Ecco: l'eterno, l'universo e il secolo: che altro dire se non "mamma mia"?

Insomma, nella risposta all'impareggiabile Sergio Staino, che del club Tenco è il presidente, io ironizzavo sulla premiomania italiana. Ma, forse, avrei dovuto essere ancora più chiaro sul premio Tenco che, prendendo il nome da un cantautore che di Sanremo è morto, di quel festival dovrebbe premiare il controcanto. Fa perciò sorridere che il premio anti-Sanremo venga assegnato a Sanremo (come se il raduno degli antiPutin premiasse Conte e Salvini). 

Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 15 settembre 2021.

Caro Francesco, mi dispiace che continuino a tirarti dentro una diatriba abbastanza inutile. Il Premio Tenco è, innanzitutto, come lo ha definito Vinicius de Moraes, ribadito da Chico Buarque de Hollanda fino al carissimo amico Amilcare Rambaldi, che lo ha fondato 50 anni fa, una rappresentazione visiva e canora de "l'arte dell'incontro". In pratica un luogo dove si praticano scambi creativi, culturali e al tempo stesso goliardici, profondi e al tempo stesso surreali. Quel che ci unisce è l'amicizia, la voglia di stare insieme e lo scambio di emozioni culturali che solletichino soprattutto le orecchie. 

Tutto qui. Esistono, è vero, anche i Premi e, generalmente, gli autori di ogni parte del mondo sono orgogliosi di riceverli. Chi vince se ne torna a casa con una semplice targa argentata e, ultimamente, con un disegno satirico che premia e, al tempo stesso, demolisce, l'eccessiva pretenziosità del tutto: un disegno di Altan, un acquarello di Manara, un Bobo in imbarazzo di Staino ecc.

Sergio Staino 

Risposta di Francesco Merlo:

Caro Sergio, leggo l'ironia anche in questa lettera, che ho dovuto con dispiacere tagliare.

Mi aspettavo però un sorriso sulle "sante" righe che avete dedicato a Baglioni e che, di nuovo, qui ti sintetizzo: "Di raffinata scrittura musicale, Claudio Baglioni, sin dalla fine degli anni Sessanta ricerca attraverso la canzone quell'attimo di eterno che tramite l'arte sappia descrivere la vita, ha cercato risposte a domande universali, sua è la canzone del secolo (Questo piccolo grande amore)". Sergio mio, manco allo Strega se la tirano così.

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 23 settembre 2022.

Le veline hanno senso? «La domanda più profonda che tutti dovrebbero porsi è un'altra: ho senso io nella vita? Le veline sono delle ballerine, sono figure imprescindibili e provocatorie di Striscia la notizia; dettano il clima da varietà in un telegiornale come il nostro, lo differenziano dagli altri». Antonio Ricci difende la sua idea nata nel 1988; passati 34 anni, loro sono ancora lì (quest' anno Anastasia Ronca e Cosmary Fasanelli): «Finché se ne parla hanno senso».

Il via martedì (alle 20.35 su Canale 5) per evitare la partita dell'Italia, mentre la tornata elettorale inconsueta è benedetta da Ricci: «La grande fortuna di Striscia è iniziare in un giorno così, con la data del voto è andata benissimo, ho gufato in questo senso; abbiamo evitato tutti i problemi e le polemiche dei giorni precedenti, ci avrebbero attaccato per qualsiasi servizio per la par condicio. Così invece il buffet sarà molto ricco».

I conduttori sono Alessandro Siani (per quattro settimane) e Luca Argentero (per una settimana, poi arriva Vanessa Incontrada): «Striscia è un ambiente familiare - spiega l'attore che con Doc ha fatto strage di ascolti -, sono quei posti che hai sempre visto fin da ragazzino, è come andare per la prima volta a New York dopo averla vista in tanti film, alla fine ti sembra di essere a casa tua. Quando sono arrivato qui ho sentito il peso della storia televisiva di questo programma che racconta l'Italia da 34 anni. Entrare a farne parte - e io sono solo lo zero di un milione - mi emoziona».

Siani riflette con ironia: «Qui non c'è mai routine, si racconta l'Italia in tante sue sfaccettature, la cosa che più mi intriga è arrivare dopo la domenica delle elezioni, un momento cruciale per l'Italia, un weekend che ci può cambiare come è successo all'Inghilterra e all'Ungheria... Luca è il conduttore della porta accanto, le veline sono le ragazze della porta accanto. Io sono tra due porte, mi sento come Vespa a Porta a porta».

Lo slogan è «La voce dell'intransigenza», «perché - spiega Ricci - questa è la missione di Striscia, essere contro l'ipocrisia, noi siamo tra chi non ci sta, noi vogliamo mettere dei paletti, vogliamo continuare a dire, parafrasando Vasco, che c'è chi dice no». Quanto a intransigenza, non si spegne invece la polemica sulla decisione di Baglioni di querelare anche Gerry Scotti per diffamazione.

Colpa di Tutti poeti con Claudio, il libro che era disponibile sul sito della trasmissione, un libro che dimostrerebbe che Baglioni avrebbe attinto per i testi delle sue canzoni da poeti e scrittori come Pavese e Oscar Wilde. Ricci assume la faccia più sorniona di cui è capace, il tono è canzonatorio: «È una vergogna, Baglioni - così democratico, e melenso - querela quel pacioccoso di Gerry Scotti; è un sadismo inaudito. Non capisco poi perché non lo abbia fatto anche con Michelle Hunziker che era di fianco a Gerry e non si è dissociata. Non è forse questo concorso esterno in diffamazione? Poi Michelle è in astinenza, avrebbe bisogno di una copertina sui giornali... Ma noi siamo tranquilli, ribatteremo colpo su colpo, andremo avanti fino al Tribunale dei diritti dell'uomo».

Sandro De Riccardis, Luca De Vito per repubblica.it il 20 settembre 2022.

Un nuovo sequestro disposto dal gip del Tribunale di Monza contro Striscia La Notizia. E' il secondo capitolo della battaglia tra Claudio Baglioni e il tg satirico che accusa il cantante di plagio: un procedimento penale in cui sono già indagati per diffamazione Antonio Ricci, Enzo Iacchetti, Ezio Greggio e Antonio Montanari (in arte Mago Casanova) e che ora vede accusato dello stesso reato anche il conduttore di Striscia Gerry Scotti. Dopo il primo provvedimento di maggio, il gip Gianluca Tenchio ha disposto nuovamente un sequestro del sito internet di Striscia "limitatamente e con esclusivo riferimento alle parti contenenti tutti i riferimenti al libro "Tutti poeti con Claudio"".

La nuova ordinanza arriva in seguito a un'integrazione di denuncia da parte dell'avvocato di Baglioni, Gabriele Minniti, avvenuta lo scorso 14 giugno: anche dopo il primo sequestro sul sito risultavano infatti presenti due puntate in cui il presentatore Gerry Scotti aveva nuovamente invitato il pubblico televisivo a scaricare il libro "Tutti poeti con Claudio". 

Si tratta di una pubblicazione in cui sono presenti una serie di accuse secondo cui Baglioni per le sue canzoni avrebbe copiato da poeti, letterati e da altri musicisti. I riferimenti sarebbero, tra gli altri, ad Alfred Tennyson, Evgenij Evtusenko, Cesare Pavese, Pierpaolo Pasolini, Oscar Wilde, Francis Scott Fitzgerald, Federico Garcia Lorca, Emily Dickinson, Edgar Lee Master. Le accuse di striscia nei confronti del cantautore sono quelle di aver in sostanza copiato o di essersi ispirato per le proprie canzoni ai testi di poesie altrui e di non averlo fatto presente al pubblico. 

Un libro, quello di Striscia, in cui secondo il giudice "Baglioni viene ripetutamente definito con termini tali da farlo passare come un disonesto, che copia senza neppure dirlo e in tal modo inganna il pubblico". Il tribunale torna quindi a dare ragione al cantautore.

"Non vi è dubbio che accusare di plagio, nei termini indicati, un famosissimo cantante sia condotta idonea a lederne la reputazione - scrive ancora il giudice -. Nel caso di specie quanto sostenuto dagli autori del libro e dal programma TV è in parte non veritiero, in parte frutto di manipolazione". Antonio Ricci, in occasione del primo sequestro, aveva dichiarato: "Noi non abbiamo offeso nessuno. Abbiamo raccolto e verificato le segnalazioni di spettatori e fan pentiti. I giudici stabiliranno se siamo nei limiti della satira. Per me si tratta di una manovra intimidatoria di Baglioni nei confronti di una libera trasmissione".

Lo strano caso del Baglioni "plagiaro" e dell'attacco di Striscia. Antonio Ricci e il tg satirico accusano il divino Claudio di scopiazzare dai classici delle poesia. Eppure è un accanimento eccessivo:, come diceva De Crescenzo "se copi da uno è plagio, da molti è ricerca..." 

Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 14 giugno 2022.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Qualche mese fa, sulla scrivania di pochi giornalisti italiani (compreso il sottoscritto) planò un libello in forma anonima come una busta d’antrace, senza fogli di accompagnamento o traccia del mittente, senza autore e prezzo. S’intitolava Tutti poeti con Claudio – Dispensa essenziale per il poeta moderno; era un’operella scarna, di grammatura spessa, in copertina rossa, delle fantomatiche “Edizioni Zibaglione”. Indicava tutte le citazioni, più o meno palesi, di vari poeti stranoti che Claudio Baglioni s’era pregiato di utilizzare nelle proprie canzoni. Si trattava, più o meno di 500 frasi estrapolate. Sinceramente, proprio per esasperante tensione all’anonimato, approcciammo il libro con diffidenza.

Bene. Ora quel testo è stato sequestrato dal Gip di Monza Gianluca Tenchio; non è possibile neanche più scaricarlo dal sito di Striscia la notizia, da dove è partita la campagna del tg satirico contro Baglioni accusato di aver copiato “testi di poesia altrui”. Il Gip, onestamente assai zelante, ha accolto l’istanza presentata dagli avvocati del cantante romano. Il quale, tramite querela, ha evitato che il reato venisse reiterato”. Il reato sarebbe la diffamazione di Striscia verso Baglioni  stesso, descritto come un “plagiaro” d’alta classe. Ma il Gip sostiene che «nemmeno parlare propriamente di plagio» perché i testi delle opere che nel libro sono messi a confronto con i testi delle canzoni di Baglioni appartengono ad autori come Oscar Wilde, Scott Fitzgerald, Garcia Lorca, o Cesare Pavese, morti da più di 70 anni, periodo trascorso il quale decadono i diritti d’autore”. 

Antonio Ricci patròn di Striscia, si risente. E comunica che «noi non abbiamo offeso nessuno. Abbiamo raccolto e verificato le segnalazioni di spettatori e fan pentiti. I giudici stabiliranno se siamo nei limiti della satira. Per me si tratta di una manovra intimidatoria di Baglioni nei confronti di una libera trasmissione. È una questione di libertà. Tutto si può toccare, tranne il divino Baglioni? E no! La satira è essenziale nel viver civile. Tutto quello che c’è nel libro è vero. E poi non lo abbiamo accusato di plagio, ma più elegantemente di amnesia verso le fonti. Scrive nel 1957 Lec (scrittore polacco, ndr) “...ci sono zebre che starebbero anche in gabbia pur di passare per dei cavalli bianchi...”. Canta nel 1999 Baglioni “...viviamo come zebre e poi, rinchiusi dietro gli steccati, illusi di sembrare dei cavalli bianchi...”. Ma è evidente che non si tratta di un plagio. Baglioni le sue zebre le chiude dentro uno steccato, mica in una gabbia come quel banale di Lec». 

Ricci s’appella al diritto di satira, ma il Gip, implacabile contesta che quel tipo di diritto «presuppone che il fatto su cui si satireggia sia vero. Non può dirsi che Claudio Baglioni sia un ‘plagiaro’ (perlomeno, non per tutte le citazioni addebitategli), né che egli occulta sistematicamente e fraudolentemente i presunti plagi al pubblico, in parte perché non sempre può dirsi che abbia davvero copiato gli altri, in parte perché ha comunque ammesso talvolta di citare le opere altrui». Ora, la diatriba  prevede anche l’azione della magistratura contro il Mago Casanova; e per aver descritto Baglioni come il Lurch della Famiglia Addams. 

Ora, se dal lato del gossip la storia appassiona, in punta di diritto siamo di fronte a una minchiata allo stato gassoso. Beninteso: Ricci ha citato Baglioni su Lec; ma poteva evocare Emily Dickinson, Gatto, Lorca, Prevert, Luzi e molti altri poeti alla cui fonte Baglioni s’è indubbiamente abbeverato. Ma così come fanno , da sempre illustri colleghi, da Zucchero che rubacchiava a Piero Ciampi a Bob Allen Zimmerman che cambiò il suo nome in Bob Dylan preso in omaggio alle palesi arraffate del lirico gallese. 

Le parole dell’arte sono nell’aria, fanno giri immensi e poi ritornano (a proposito di citazioni).  Ricordo che Luciano De Crescenzo, scopiazzando dai filosofi greci mi diceva, fieramente: «Se copi da uno è plagio, se copi da tanti, be’, quella è ricerca». Ricci ha i capelli troppo bianchi per non ricordarsene. Per non parlare dei capelli di Baglioni. Consiglieremmo a Ricci di abbandonare la sua tendenza all’accanimento (stavolta, dopo un po’, diventa stucchevole). E a Baglioni   di evitare di intasare i tribunali già affollati di loro. Per conto mio, farò quotare dai collezionisti la mia copia del libello in circolazione...

Sequestrato il libro di «Striscia» su Claudio Baglioni: indagati Ricci, Iacchetti, Greggio e il mago Casanova. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2022.

Monza, il gip: «È diffamazione accusare l’artista di plagio». Indagati l’autore della trasmissione Antonio Ricci e gli ex conduttori Enzo Iacchetti ed Ezio Greggio. 

Claudio Baglioni ottiene il sequestro del libro Tutti poeti con Claudio che, su ordine del gip del Tribunale di Monza, non è più scaricabile dal sito di Striscia la Notizia per un’inchiesta che vede indagati di diffamazione Antonio Ricci, patron del tg satirico, i comici-presentatori Enzo Iacchetti ed Ezio Greggio e il Mago Casanova, alias Antonio Montanari, accusati di aver «ripetutamente definito», in molti servizi dal 2019, il famoso cantautore «con termini tali da farlo passare come un disonesto, che copia senza neppure dirlo» al pubblico.

«Amnesia, furbate, scopiazzature dimenticate, smemorato, distrattone» sono alcune delle parole usate da Striscia che ledono la reputazione di Baglioni accusandolo di aver copiato «testi di poesie altrui» o «comunque di essersi ispirato» senza informare il pubblico, afferma il gip Gianluca Tenchio che, il 9 maggio, ha disposto il sequestro del libro per evitare «che il reato sia reiterato» accogliendo la richiesta fatta dai legali del cantautore, gli avvocati Gabriele Minniti e Andrea Pietrolucci con una querela per diffamazione. «Quanto sostenuto dagli autori del libro e dal programma tv è in parte non veritiero, in parte frutto di manipolazione». In alcuni casi, afferma il giudice, non si può «nemmeno parlare propriamente di plagio», perché le parole segnalate come copiate apparterebbero ad opere di autori come Wilde, Scott Fitzgerald, Garcia Lorca o Cesare Pavese morti da più di 70 anni, passati i quali decadono i diritti d’autore e «l’opera può essere rappresentata e anche rielaborata da chiunque».

In altri casi, si tratta di espressioni «di uso talmente comune da fare dubitare che godano del diritto d’autore». Nel libro, secondo il pm Vincenzo Fiorillo, si riporta la parte di un’intervista del 2013 in cui Baglioni affermò che: «Potrebbe esserci un giorno in cui forse ruberò una cosa. Se arriva una frase, ma lo dirò esplicitamente, che è bella, che sta lì, dirò questa mi è arrivata...»; ma non la successiva: «Come forse ho rubato in altre occasioni, come tanti di noi. Alcuni apertamente hanno plagiato, altri si sono ispirati, hanno citato opere che già esistevano». Citazione «parziale e manipolata» che lo fa «passare per uno che copia sistematicamente, senza mai dirlo», scrive il gip.

Neppure ci si può appellare al diritto di satira, perché esso «presuppone che il fatto su cui si satireggia sia vero». E allora «non può dirsi che Claudio Baglioni sia un “plagiaro” (perlomeno, non per tutte le citazioni addebitategli), né che egli occulta sistematicamente e fraudolentemente i presunti plagi al pubblico, in parte perché non sempre può dirsi che abbia davvero copiato gli altri, in parte perché ha comunque ammesso talvolta di citare le opere altrui». Criticato pure l’accostamento a Lurch, il personaggio della Famiglia Addams, con una «evidente allusione sarcastica alla circostanza che il cantante si sarebbe rifatto il volto grazie alla chirurgia estetica» che si rivela «un attacco gratuito alla persona, dato il contesto complessivamente diffamatorio». Anche l’accusa di aver copiato alcuni sketch per il festival di Sanremo, diretto da Baglioni nel 2018 e nel 2019, sarebbe diffamatoria, perché non ne era lui l’autore.

Il libro, dice il gip che lo ha sequestrato sul sito di Striscia, è riconducibile a Ricci (difeso dall’ avvocato Salvatore Pino) deus ex machina della trasmissione il quale «nel corso degli anni ha dimostrato, in varie interviste, di avere un’autentica avversione verso Claudio Baglioni». Greggio, Iacchetti e il Mago sono indagati per le affermazioni nelle puntate sotto accusa di Striscia, in cui a fine maggio è stato comunicato che il libro non era più sul sito.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” l'11 giugno 2022.  

Antonio Ricci, perché Striscia ce l'ha con Baglioni?

«È lui che ce l'ha con noi. Io, sano ragazzo che negli anni 70 era impregnato di impegno, mi sono trovato canzoni come "Passerotto non andare via..." e "Accoccolati ad ascoltare il mare...", che facevano illanguidire i giovani Gasparri e Sallusti. Ho avuto una reazione democratica. Sono versi osceni (ride), una cacofonia che lede il buon gusto dell'Alto Cantautorato di Qualità italiano (ride ancora, ironico). Questi sono proprio versi suoi, non li ha "pinzati" da nessun altro poeta». 

Osceni? Un'altra parola?

«Osceni. Se io negli anni 70 avessi detto ad una mia fidanzata "passerotto non andare via", ella mi avrebbe spaccato la faccia». È una canzone degli anni 70. Questione di gusti, che è diverso dall'offendere qualcuno accusando di plagio o di copiare, come dice il gip.

«Noi non abbiamo offeso nessuno. Abbiamo raccolto e verificato le segnalazioni di spettatori e fan pentiti. I giudici stabiliranno se siamo nei limiti della satira. Per me si tratta di una manovra intimidatoria di Baglioni nei confronti di una libera trasmissione. È una questione di libertà. Tutto si può toccare, tranne il divino Baglioni? E no! La satira è essenziale nel viver civile. Tutto quello che c'è nel libro è vero. E poi non lo abbiamo accusato di plagio, ma più elegantemente di amnesia verso le fonti». 

Un pm e un giudice sospettano il contrario.

«Scrive nel 1957 Lec (scrittore polacco, ndr .) "...ci sono zebre che starebbero anche in gabbia pur di passare per dei cavalli bianchi...". Canta nel 1999 Baglioni "...viviamo come zebre e poi, rinchiusi dietro gli steccati, illusi di sembrare dei cavalli bianchi...".

Ma è evidente che non si tratta di un plagio. Baglioni le sue zebre le chiude dentro uno steccato, mica in una gabbia come quel banale di Lec».

Vi siete occupati di lui in decine di trasmissioni. Un po' ripetitivi!

«Il materiale è infinito. Ne avremmo potute fare tante di più. Anche lui è seriale e ripetitivo. Mi ha già denunciato altre due volte senza successo». 

Lo farete anche con altri?

«Lo abbiamo fatto con Zucchero e su altre cose. Ora mi immagino un grande processo davanti alle telecamere di "Un giorno in pretura" dove Baglioni dirà: "Non sono solo io, hanno "pinzato" anche Tizio, Caio, Sempronio e Ciccio". Sarà uno spettacolo». 

Non è lui che si dovrà difendere, dovrete farlo voi.

«Per noi da sempre (ride) le denunce sono medaglie al merito. Il sequestro (serio) è una cosa importante». Lo avete paragonato al Lurch della «Famiglia Addams». «Penso che il giudice non sappia che durante un festival di Sanremo Baglioni si è presentato in scena facendo Lurch (ride). Dovrebbe autodenunciarsi». 

 A proposito di Sanremo, l'imputazione dice che avete accusato Baglioni di aver copiato alcuni sketch di cui, però, non era l'autore.

«Era il direttore artistico, aveva responsabilità su tutto quello che andava in onda e ha anche interpretato gli sketch. Io sono il direttore di Striscia e quello che va in onda è colpa mia. Il giudice vedrà e giudicherà». Lei è l'autore di Striscia, allora Iacchetti, Greggio e il mago Casanova, pre indagati, sono «vittime» sue? «Certo, li plagio e li minaccio fisicamente (ride)». 

Non è che prendersela con Baglioni, che ha un enorme seguito, alla fine dei conti serva a portare audience?

«No. Anzi, porta odio. Alcuni fan di Baglioni, che uno immagina romantici e dediti a "Peace and love", mi augurano la morte tra atroci tormenti. C'è anche chi ha detto che lo criticavamo perché faceva grandi ascolti in Rai. Non è vero, abbiamo continuato a farlo anche quando ha lavorato su Canale 5 con pochi ascolti. A parte del pubblico anche questi pomposi spettacoli sono piaciuti, a me è sembrato di assistere ad una replica di un funerale dei Casamonica. E spero che i Casamonica non mi denuncino».

Giuseppe Candela per Dagospia l'11 gennaio 2022.

Antonio Ricci ne sa una più del diavolo. Alcuni giornalisti hanno ricevuto da Striscia la notizia come regalo natalizio un libro a dir poco particolare. Titolo: "Tutti poeti con Claudio. Dispensa essenziale per il poeta moderno. Edizioni ZiBaglione." Una dedica al suo rivale storico: Claudio Baglioni. Da una parte le citazioni dei poeti, dall'altra quella dei brani "copiati" dal divo Claudio. Lo scontro, infinito, continua.

Alcuni estratti da “Tutti poeti con Claudio” - Edizioni Zibaglione

Introduzione

Questa pubblicazione intende, parzialmente, riparare alle amnesie del divino Claudio Baglioni. 

“Potrebbe esserci anche un giorno in cui io forse ruberò una cosa. Se arriva una frase, ma lo dirò esplicitamente, che è bella, che sta lì, dirò questa mi è arrivata…”

Claudio Baglioni, intervista a Famiglia Cristiana del 04.07.2013  

STANISLAW JERZY LEC - PENSIERI SPETTINATI (1957)

“…Ci sono zebre che starebbero anche in gabbia pur di passare per dei cavalli bianchi”

CLAUDIO BAGLIONI - UN MONDO A FORMA DI TE (1999)

“Viviamo come zebre e poi, rinchiusi dietro gli steccati, illusi di sembrare dei cavalli bianchi…”  

PIER PAOLO PASOLINI - UNA VITA VIOLENTA (1959)

“… Gli altri buttarono le cartelle sopra un montarozzetto… dietro la scuola…”

CLAUDIO BAGLIONI - UOMINI PERSI (1985)

“… le cartelle sui montarozzi di terra l’ultimo giorno di scuola…”

CESARE PAVESE - IL MESTIERE DI VIVERE (1953)

“…il mestiere di vivere”

CLAUDIO BAGLIONI - BUON VIAGGIO DELLA VITA (2007)

“…e vivere è un mestiere” 

JACQUES PREVERT - NEOLOGISMO DA L’ULTIMO QUADRATO (POESIE 1940-1960)

“…un alcoolonnello di fanteria tropicale…”

CLAUDIO BAGLIONI - STRIPTEASE (1977)

“…L’alcolonello sempre in prima fila…” 

GABRIEL GARCIA MARQUEZ - CENT’ANNI DI SOLITUDINE (1967)

“…La morte lo seguiva dovunque, annusandogli i pantaloni…”

CLAUDIO BAGLIONI - NOTTE DI NOTTE (1985)

“… L’alito largo del vento mi segue, annusando i pantaloni…”

FEDERICO GARCIA LORCA - ODE ALLA MELAGRANA (1920)

“… la melagrana è un cuore”

CLAUDIO BAGLIONI - TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO (1985)

“…il cuore come un melograno…” 

ERNESTO SABATO - SOPRA EROI E TOMBE (1961)

“…Una vita in brutta copia…”

CLAUDIO BAGLIONI - MALE DI ME (1995)

“…Questa vita in brutta copia…” 

EMILY DICKINSON - LIRICA (1765)

“… che l’amore sia tutto, è tutto ciò che sappiamo dell’amore…”

CLAUDIO BAGLIONI - BOLERO (1995)

“…che l’amor sia tutto è tutto ciò che noi sappiamo…”

EDGAR LEE MASTERS - ANTOLOGIA DI SPOON RIVER (1914)

“…Mentre la baciavo con l’anima sulle labbra…”

CLAUDIO BAGLIONI - LORO SONO LÀ (1978)

“… e lo baciò con l’anima sulle labbra…” 

CESARE PAVESE - AGONIA (1943)

“…I colori non piangono mai…”

CLAUDIO BAGLIONI - ISOLINA (1970)

“…I colori non piangono mai…” 

CAMILLO SBARBARO - FUOCHI FATUI (1956)

“…Nella vita come sul tram, quando ti siedi sei al capolinea…”

CLAUDIO BAGLIONI - CUORE DI ALIANTE (1999)

“…Come un viaggio in tram che ti siedi già ed è il capolinea…” 

ALFRED TENNYSON - IN MEMORIAM A.H.H. (1849)

“… È meglio aver amato e perso che non aver amato mai…”

CLAUDIO BAGLIONI - MAI PIÙ COME TE (2003)

“… È meglio amare e perdere / che vincere e non amare mai…”

·        Claudio Bisio.

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 17 ottobre 2022. 

«Devo tutto a Gabriele (Salvatores): è lui che mi ha fatto debuttare sia a teatro sia al cinema».

Claudio Bisio è uno dei rari casi di comico che è riuscito ad avere successo in tutti i campi: al cinema è passato dall'Oscar per Mediterraneo ai milioni di incassi di Benvenuti al Sud ; a teatro è stato applaudito tanto con i Comedians di Salvatores quanto con i monologhi di Pennac; in tv tre programmi di culto: Zelig, Mai dire gol, Le Iene. Di solito si dice che uno buca lo schermo però dal vivo non funziona, oppure che chi ha i ritmi televisivi non ha quelli cinematografici e viceversa. Per lui la regola non vale. 

Com' è il vero Salvatores?

«Un secchione pazzesco; uno che studia, guarda, vede, legge come un matto. Un atteggiamento che stupisce rispetto alla sua apparente leggerezza, al fancazzismo che sembra attraversarlo. Le prove con lui si trasformavano sempre in una partita di calcetto; non a caso si circonda di gente come me, Abatantuono, Paolo Rossi: un gruppo di cazzari». 

Come fu il set di «Mediterraneo»?

«Eravamo su un'isola allora sconosciuta, c'era il cartello con la scritta Qui inizia l'Europa , eravamo isolati da tutto. Era l'anno del Mondiale di calcio, Italia 90, e non c'era nemmeno un televisore. Si figuri: io, Abatantuono e Salvatores senza televisore durante i Mondiali. Abbiamo fatto una colletta e mandato uno a Rodi - otto ore di traghetto - per comprare un televisore in bianco e nero. Vedevamo le partite spostando ogni cinque minuti a mano l'antenna. Per me non esiste Schillaci, io lo chiamo ancora Schillazzi perché sentivamo il commento in greco». 

Con Paolo Rossi avete condiviso vita e palchi centinaia di volte...

«Ha pochi anni più di me ma l'ho sempre considerato un fratello maggiore. Ci vedevamo al Derby, che era ben diverso dallo Zelig: era il locale notturno della mala, il pubblico era fatto di gente che arrivava dalle corse dei cavalli, maîtresse e biscazzieri; non era semplice far ridere quel tipo di spettatori.

Ma Paolo portava lì i testi di Stefano Benni, monologhi intelligenti e colti uniti alla sua verve comica. Gli dicevo che era pazzo, io teorizzavo che bisognava separare le anime: al cabaret improvvisavo, il mio modello era Belushi; mentre il teatro era rappresentato da Pirandello, Sofocle, Shakespeare. Fu una lunga discussione filosofica. Io distinguevo le due cose, lui le univa. Ma alla fine devo ammettere che aveva ragione lui: al cabaret ha portato il teatro e in teatro ha portato il cabaret. È stato un maestro, mescolare alto e basso è stata la lezione che tanti hanno imparato da Paolino». 

Quando ha deciso di fare l'attore?

«Durante un'occupazione al liceo (lo scientifico, il Cremona, a Milano). Facevo già teatro e chiamai Dario Fo per Mistero buffo . Rispose subito di sì e io rimasi affascinato da quell'affabulazione, dai versi di Cielo d'Alcamo e di Cecco Angiolieri. Lì, in quel momento, mi è venuta l'illuminazione; mi dissi: io voglio fare quella cosa lì, senza sapere bene cosa fosse».

«Chi fa teatro sceglie un mestiere senza stipendio»: gliel'hanno rinfacciato i suoi genitori?

«Sono tutt' altro che figlio d'arte. Mia mamma era maestra elementare, mio papà un rappresentante che vendeva alle aziende le essenze per fare liquori. Però non mi hanno né avversato né invogliato, anche perché sono uscito di casa a 20 anni e mi mantenevo da solo. Finito il liceo ho avuto la classica crisi esistenziale dei 20 anni. Io nasco anarchico, credevo tanto nella rivoluzione - ora sorrido al pensiero - ma poi ho capito che era un'utopia. I miei si erano separati e non volevo prendere posizione; la fidanzata mi aveva lasciato... Insomma senza fare il melodrammatico, ho fatto la scelta di levarmi dalle scatole e andare a fare subito il militare». 

Com' è l'anarchico che fa il militare?

«Credo di aver sparato un colpo talmente maldestro che han capito subito che era meglio mettermi in ufficio. Ma è stato utile perché ho imparato a battere a macchina. Con il senno di poi penso che fare il militare sia stato come superare la linea d'ombra, diventare adulto».

Una carriera di successi, qualche serata no?

«Mi ricordo che quando facevo il cabaret - adesso lo chiamano stand-up, ma sempre quello è - confrontandomi sempre con Paolo Rossi sostenevo l'idea che quando fai cabaret a differenza del teatro devi andare senza testo, senza rete: devi solo improvvisare. 

Lo teorizzavo ed ero così folle da metterlo in pratica. Ne venivano fuori serate stupende, strepitose (me lo dico da solo) ma altre drammatiche, disastrose dove avrei voluto solo schiacciare un bottone e scomparire. Poteva essere il Derby, o lo Zelig (il locale), erano gli anni '80. Vedi salire sul palco un pelatino sconosciuto: se non ti fa ridere è un disastro. Dopo un paio di serate veramente storte ho cambiato idea: almeno una traccia, un inizio e una fine li devi avere, poi in mezzo puoi anche improvvisare, ma con il paracadute. Ho capito che l'improvvisazione è una digressione su qualcosa che sai dove va a parare».

«Zelig» (il programma) cosa rappresenta per lei?

«Per me non è televisione, è cabaret con le telecamere; è un programma che ci è esploso tra le mani, nel 2003 abbiamo vinto tutti i Telegatti del mondo». 

Perché a un certo punto ha detto basta?

«Tutte le cose devono avere una fine, non possono continuare per sempre. Sentivo la stanchezza mia e forse anche del pubblico, o forse confondo la mia stanchezza personale con quella della comicità italiana; sentivo un po' di ripetitività in quello che facevo e in quello che c'era intorno a me».

Vanessa Incontrada ha detto di lei che è un «marito mancato». 

Ride: «Per me lei è un'amante realizzata... Scherzo eh! L'ho conosciuta che era ragazzinissima, le voglio un bene dell'anima; quando sono in Toscana andiamo in bicicletta insieme. Tra noi c'è un afflato e una sintonia totale, so che si fida di me; anche quando la tratto male lei sa che lo faccio per una risata. Ci punzecchiamo come Sandra e Raimondo, per questo forse ha detto che sono un marito mancato... L'ho chiamata l'altro giorno per le prove del prossimo Zelig (a novembre su Canale 5), mi sono raccomandato che venisse, ma dentro di me spero che non venga. Meno lei sa, più ci divertiamo». 

È stato due volte al Festival di Sanremo, con Fazio e con Baglioni.

«La prima volta ero rilassato, portai un testo di Michele Serra eccezionale, giocato sul finto populismo, invitavo a mandarli tutti a casa, ma poi si capiva che era riferito non ai politici ma agli elettori, a tutti noi; è stato una bomba. 

Anni dopo il clima era diverso e ho fatto una grande fatica: in oltre 40 anni di carriera non mi era mai capitato di essere inseguito da troupe che volevano estorcermi mezza frase, avevamo le guardie del corpo che ci seguivano dappertutto. Io sono uno che ha sempre parlato apertamente, magari anche dicendo cazzate, ma non ho mai avuto paura di espormi, dire come la penso. Invece in quei giorni lì avevo paura».

«Benvenuti al Sud», remake del francese «Giù al Nord», fu un successo clamoroso in coppia con Siani.

«Io avevo sempre avuto qualche dubbio sui remake, ma lì ho capito che possono anche essere una figata, puoi copiare le scene forti e aggiungere parti che nell'originale sono meno forti... avevo sbagliato tutto. Racconto un altro episodio che si aggiunge a questo e a quello su Paolo Rossi, così da questa intervista risulto definitivamente come un pirla. 

Quando arrivavo al Sud, io all'inizio andavo in giro con un giubbotto antiproiettile perché avevo paura che mi sparassero. L'idea di Luca Miniero, il regista, mi sembrava eccessiva, a un certo punto gliel'ho detto: ma siamo sicuri? Non è troppo offensivo? Invece aveva ragione. L'ho visto decine di volte al Sud e ridono sempre tutti». 

Il suo incubo ricorrente?

«Entrare in scena in ritardo ogni volta per un motivo diverso, oppure non ricordarmi le battute, non avere il costume giusto, non essere idoneo. Per fortuna non è mai successo». 

Il giorno da rivivere?

«Quando Mediterraneo vinse l'Oscar. Eravamo in Messico a girare Puerto Escondido , regia sempre di Salvatores con parte di quel cast (io, Abatantuono, Ugo Conti...). Le riprese furono interrotte per una settimana per permettere a Gabriele di andare a Los Angeles. 

Così ci siamo presi una vacanza, abbiamo fatto un giro del Chiapas con un pulmino affittato, dormivamo in posti assurdi, fazende improbabili, amache all'aperto, isolati da tutto. Per la sera dell'Oscar ci concedemmo una città un po' più sviluppata, un motel che avesse almeno la tv. Eravamo convinti di non vincere, profilo basso, ci sentivamo outsider, in gara c'era pure Lanterne rosse. Non credevamo davvero fosse possibile. 

Quando Stallone fece l'annuncio sul palco mi sembrò di essere in un fumetto, quella serata la sogno ancora adesso, un po' per la sensazione un po' per il posto in cui l'ho vissuta». 

Ha visto generazioni di comici: chi per lei meritava di più? Chi è stato sottovalutato?

«Non parlerei di sottovalutati, ma c'è un teorema che non sbaglia: più un comico indovina un personaggio forte, più fa fatica a toglierselo di dosso. Vale per Della Noce con Oriano Ferrari, vale per Marco Marzocca e il suo filippino. 

O per Paolo Cevoli, un altro di cui posso dire le stesse cose che ho detto di Vanessa: il suo assessore Cangini è strepitoso. Quando mi chiamavano per le convention io volevo sempre lui. Mi ricordo una volta, era per una consolle, non so se Xbox o Playstation. Ci dissero: fate quello che volete, basta che non nominiate l'altra... Secondo lei? Tutta la serata a nominare l'altra».

Claudio Bisio e Sandra Bonzi: «Quando gioca il Milan lei mi porta a teatro», «Ho scritto un romanzo convinta da lui». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2022.

L’attore e sua moglie, Sandra Bonzi, festeggiano trent’anni d’amore. E lei esordisce nella narrativa con un giallo. Un legame fatto di ironia, passioni comuni e di un corteggiamento qui rivelato per la prima volta.

Claudio Bisio, sua moglie Sandra Bonzi ha scritto un giallo in cui compaiono trolley pieni di corpi sanguinanti, lei che ne pensa?

BISIO: «Quando l’ho letto mi sono chiesto: ma chi ho sposato davvero? Una serial killer?»

BONZI: «Paura, eh?»

Il romanzo di Bonzi, Nove giorni e mezzo (esce il 28 aprile per Garzanti) è una commedia nera in cui Elena, una giornalista, prova a tenere insieme non solo i pezzi dei corpi ma anche un lavoro che cambia velocemente e una famiglia insidiata dal tempo e dall’erosione dell’abitudine. E Sandra, scrittrice e giornalista, esordisce nella narrativa nei giorni in cui festeggia trent’anni d’amore con Claudio: due figli (Alice e Federico), una complicità inossidabile, tante passioni condivise. Ci incontriamo da remoto, in tre finestre video differenti: Bonzi è rimasta a Milano, Bisio è in Toscana per lavoro. 

Sandra, com’è nato il libro?

BONZI: «Merito di Claudio. Io l’avevo scritto come un trattamento cinematografico, avevo paura ad andare oltre, ma poi lui mi ha convinta a farne un romanzo vero, scritto in terza persona».

BISIO: «In casa la lettrice è lei. Per dire, anni fa mi ha fatto scoprire Daniel Pennac». 

Però anche per lei, Claudio, il parere di Sandra è cruciale.

BISIO: «Appena mi arriva un copione lo passo a mia moglie. È attenta, sa valutare un lavoro. Grazie a Sandra ho detto dei no importanti. Qualche volta ho disobbedito, sì».

BONZI: «Però io da lui ho preso la curiosità. Claudio legge e si interessa di tutto. Io di meno. Su certe cose io tendo a spegnermi, per esempio di musica so poco».

BISIO: «Anche di calcio. È possibile che tu prenda i biglietti del teatro proprio nelle sere in cui gioca il Milan?»

BONZI: «Ma smettila, se io me ne andassi tu ti metteresti con la prima che passa».

BISIO: «No, attenzione. Non succederà mai che Sandra mi lascerà, ne sono certo, ma se per assurdo dovesse farlo io qui dico una cosa che vorrei che tutti i lettori e le lettrici del Corriere sapessero: non sopravvivrei. Mi sentirei completamente perduto. Lei possiede certi comandi che mi tengono vivo».

Come vi siete conosciuti?

BISIO: «Era il 1992, a Boario, a un festival cinematografico. L’ho riaccompagnata a casa a Milano e ho scoperto che aveva una doppia vita: di giorno era una pierre rigorosa e impeccabile, la più brava che avessi mai incontrato; ma di notte si trasformava: animava un locale con un gruppo di amiche, a furia di canti e balli. Pensi che si facevano chiamare “La polpa pronta”. Poi vabbè, la sera che mi ha vomitato in macchina mi ha conquistato definitivamente».

BONZI: «Lui mi ha conquistata con un gesto che voglio raccontare qui per la prima volta. Dunque, “galeotti” Gino e Michele ci siamo conosciuti a Boario. La sera stessa, a tavola, lui ha fatto una battuta che mi è piaciuta poco e allora io mi sono chiusa a riccio. Lui se n’è accorto e ha provato più volte a chiedermi che cosa fosse successo. Io muta: venivo da Bolzano, avevo ricevuto un’educazione rigida, sapevo come tenere le distanze. Allora è successo che Claudio all’improvviso, davanti a tutti, si è inginocchiato ai miei piedi dicendo: “Se tu non mi parli, io da qui non mi muovo”».

Bum.

BONZI: «Nel romanzo ho messo molte passioni comuni, quelle con cui abbiamo costruito il nostro legame. La lettura, tanto per iniziare, perché tutti e due amiamo i gialli, da Manzini a Biondillo. Ma poi anche l’ironia, con le figure delle vecchiette terribili che provano a risolvere il mistero in cui è coinvolta Elena Donati, a cominciare da Margherita, la mamma della protagonista».

BISIO: «Ora che ci penso la mamma di Sandra, cioè mia suocera, ha la stessa vitalità!»

BONZI: «È vero, mia mamma è una ottantenne che fa acquagym, corsi di ceramica, dipinge. Ma con questo libro — e con le tante figure femminili non più giovani che ci sono — ho provato anche a rivendicare il diritto di avere una certa età. Perché sembra che passata una soglia anagrafica, le donne non esistano più, almeno nella narrazione più diffusa dei nostri tempi».

BISIO: «Però ci sono anche molte attrici non più ragazzine ma straordinariamente brave e valorizzate, popolari. Angela Finocchiaro, per esempio. O Lella Costa. Ecco Sandra, a quale attrice vorresti far interpretare Elena se il giallo diventasse un film?»

BONZI: «Forse Angela Finocchiaro, ma mi piacerebbe pure Lella Costa. Io e Claudio andiamo spesso a teatro ma anche alle mostre, specie il giovedì sera quando i musei sono aperti fino a tardi. E non è vero che prendo i biglietti solo quando c’è il Milan».

Comunque, Bisio, a leggere il libro viene da pensare che Sandra Bonzi faccia molto ridere. Forse più di lei!

BISIO: «Be’, è ora di disdire il mio abbonamento al Corriere della Sera! Scherzo, ovviamente».

BONZI: «Io faccio ridere quando scrivo, nella vita sono abbastanza pesante, forse un po’ drammatizzo. Lui è un tesoro a non sottolinearlo qui».

BISIO: «Sandra mi fa ridere ma a sua insaputa: lei si ritiene pesante, impegnata solo nella famiglia, un po’ melodrammatica ma non è così. È ironica, imprevedibile. A proposito tesoro, ma dove sei in questo momento?»

BONZI: «Nel mio studio a casa nostra, lo vedi dal video, dove vuoi che sia?»

BISIO: «Ah no, quello sfondo non è casa nostra, mi nascondi qualcosa, lo sai che sono geloso e che senza di te sono niente, dai, su».

·        Claudio Cecchetto.

Claudio Cecchetto e Mapi Danna: «A 12 anni dissi alla mamma: io mi sposerò con lui». «Viviamo come divorziati». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2022.

Il produttore discografico e fondatore di Radio Deejay e la scrittrice e conduttrice tv, sposati da 30 anni: «Non viaggiamo mai sulla stessa auto e dormiamo in camere diverse»

Nella foto iconica del matrimonio, Claudio Cecchetto ha i capelli più lunghi della sposa e lui, Jovanotti e Fiorello tengono in braccio Mapi in un abito che è una nuvola bianca. Trent’anni dopo, lui e Mapi Danna sono davanti a me, vicini vicini, e si sono «risposati» da poco: «Per l’anniversario, abbiamo rinnovato i voti, stessa chiesa, stesso orario, stessi fiori», spiega lui, «diversi solo i miei capelli, più corti: con l’età, devo stare attento, per farli rimanere attaccati». In quel 23 maggio 1992, lui era già l’uomo che aveva fatto ballare l’Italia con Gioca Jouer, aveva condotto due Festival di Sanremo, fondato Radio Deejay e, da talent scout, aveva già scoperto Sabrina Salerno, Gerry Scotti, Sandy Marton, Amadeus e appunto Fiorello e Jovanotti. «Gli ultimi tre erano in chiesa per le letture», ricorda Mapi, «Red Ronnie riprendeva tutto. A un certo punto, si vede Jovanotti dire: certo è una responsabilità parlare per bocca del signore». Mapi, invece, aveva solo 19 anni, 16 meno di lui, non era ancora la scrittrice di libri d’amore che è oggi, conduttrice di due programmi per Real Time, Love Books e Scatenate, e di uno su Discovery, Antifragili.

Come vi siete conosciuti voi due?

Mapi: «Dal vivo intende? Perché io seguivo Claudio da quando avevo dodici anni. Lo vidi in tv e dissi a mia madre: lo sposerò. Lei allibita. Col tempo, dicevo: sposerò lui o uno che gli assomigli. Poi, a 19 anni, lavoravo in una produzione di Canale 5 con Raffaella Carrà. Quando seppi che sarebbe venuto ad accompagnare Sabrina Salerno, mi dissi: questo è il mio momento. E mi sono fatta notare».

Notare come?

Claudio: «Con una minigonna. Molto mini».

Mapi: «Gli sono passata davanti una volta, due. Alla quinta, mi ha fermato. Gli faccio: era ora. Ci ho messo quattro anni a convincerlo a sposarmi».

Claudio: «Avevo fatto un primo matrimonio in Municipio a 26 anni, mi ero separato a 30, convinto che non fossi fatto per il matrimonio né per essere padre».

Mapi: «Aveva in mente il marito richiesto a casa per cena, ma se possiamo fare un torto all’amore è ingabbiarlo in un modello. Ho cercato di fargli capire che non avrei cercato di cambiarlo, che sposarsi non significa rinunciare a essere sé stessi, ma stare con qualcuno che ti aiuta a essere te stesso sempre di più. L’ho convinto che non l’avrei allontanato dai suoi progetti. Lui ha sempre una missione da compiere».

Claudio: «Ora, sto lavorando perché Riccione torni quella degli anni ’90: il format italiano delle vacanze. Lo faccio da consigliere comunale, mi ero candidato a sindaco. Pensavo di incunearmi fra destra e sinistra e prendere un sacco di botte, invece ho preso 1.500 voti. E sto lavorando a una specie di Festivalbar itinerante, in barca, nei porti italiani. Un happening di musica, cibo, eventi».

Il momento in cui Claudio ha capitolato?

Claudio: «Ho capito che stavo bene con lei ed è arrivato il momento in cui mi sono detto: vorrei sposarla prima di morire».

Mapi: «Avevi solo 40 anni».

Claudio: «Volevo farlo il prima possibile».

Alti, bassi, crisi?

Mapi: «Il punto più alto, la nascita dei due figli: lì ti rendi conto di quanto l’amore sia qualcosa di concreto. Poi, in 34 anni, i momenti difficili ci sono, ma sono sempre stati passeggeri. Non possiamo pretendere che l’amore sia sempre uguale: cambia, e nei passaggi è difficile riuscire a rimanere in dialogo».

Claudio: «Per me, il segreto per stare tanto insieme è fare una serie di piccoli divorzi: il divorzio del sonno, il divorzio dell’hotel... Fare le cose in maniera separata allunga la vita di coppia. Noi dormiamo in camere diverse. Questo non vuol dire che, di notte, non ci s’incontra, ma uno può stendere le gambe, leggere quanto vuole. Abbiamo fatto anche il divorzio dell’auto».

Cioè viaggiate in auto separate?

Claudio: «Così lei ascolta la sua musica e io la mia. Lei fa le sue telefonate, io le mie. Con la fortuna di poterlo fare, si limitano i conflitti. Chiaro: ha un costo, due auto, due alberghi...».

Mapi: «Prendiamo camere comunicanti. È che io mi sveglio alle 5 e 30 del mattino e lui va a letto tardissimo. E comunque, la salvezza dell’amore è non vivere in simbiosi. Così, fuori, si trova energia da portare nella relazione. Bisogna amare l’altro per quello che fa e che è, non per come è quando è impegnato ad amare noi».

Claudio: «Abbiamo fatto anche il divorzio delle città. Io sto a Riccione, lei a Milano. Lei viene nel weekend, io vado a Milano in settimana».

Mapi: «Bisogna avere un proprio mondo, così, se finisce l’amore, non è la tragedia della vita, hai altro».

Lei però, per dedicarsi alla famiglia, lasciò il lavoro.

«Ero giovane, in cerca di una strada. Claudio mi chiese di sposarlo e disse la frase mitica: in questa famiglia, uno dei due deve esserci, non io. Si figuri: aspettavo quel momento da anni e dissi sì. Mi sono dedicata ai bambini, poi, quando sono cresciuti, mi sono accorta che avrei fatto danno ai miei figli se avessi riversato su di loro il mio desiderio di realizzazione e mi sono trovata qualcosa da fare».

La «storyteller dei sentimenti», così viene definita.

«Avevo sempre scritto e mi sono messa a scrivere di quello che credevo di conoscere meglio: le relazioni. A primavera, uscirà per Mondadori la storia ispirazionale di una donna superpower».

Lei è brava a parlare d’amore, mentre Claudio, al «Corriere», confessò che fa fatica a dire «ti amo».

Claudio: «Sono un orso. Una vocina mi sussurra: di’ che la ami. E il diavoletto: poi, se non la ami? Mi faccio tutti questi pensieri. Sono più per fare, non per dire».

Mapi ha pubblicato per Sperling & Kupfer «Ti amo anche oggi. Non per sempre, ma ogni giorno». Perché non per sempre?

«Perché oggi è difficile immaginare il “per sempre”: tutto si consuma, si butta, si cambia col nuovo modello aggiornato. Come facciamo, allora, a non buttare le persone che amiamo? Si fa con la pazienza e conservando il desiderio, che è possibile solo se si resta due persone distinte».

Due figli, uno, Jody, 28 anni, già famoso. Che genitori siete?

Claudio: «A giudicare dal risultato, è andata bene. Vedere quello che fanno e pensano ci rende orgogliosi. Abbiamo avuto fortuna e pensiamo di aver contribuito. Mapi di più. Ma vedo che mi vogliono bene».

Anche ai figli fatica a dire «ti amo»?

«Mi è capitato di abbracciarli solo in momenti epici. Leo alla prima esibizione da disk jockey. Gli ho detto: cacchio, sei il numero uno. Jody quando ha presentato la Power Hits all’Arena di Verona, davanti a 15 mila persone».

Mapi: «Jody ha postato l’abbraccio sui social. Ha scritto: lo aspettavo da quando ero bambino. Il bello è che, oggi, i giovani ci riconoscono come la mamma e il papà di Jody. Queste sono le cose di cui andare più fieri».

Jody Cecchetto: mai sofferto per il cognome di mio padre. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 4 Agosto 2022. 

Il figlio di Claudio condurrà in tv i prossimi Power Hits Estate di Rtl 102.5. 

La sensazione è quella di un ciclo che ricomincia. Succede, se di cognome fai Cecchetto e lavori in radio. Ma per Jody il paragone con il padre Claudio non è mai stato un problema: «Non ho mai sofferto per questa cosa, nonostante ogni tanto mi venga il pensiero di essere avvicinato da qualcuno solo per via di papà. In generale però sono tanto orgoglioso di lui quanto cosciente che tutto il mio percorso lo sto creando da me».

E il suo percorso lo vede ora speaker di Rtl 102.5 e Radio Zeta oltre che conduttore (con Paola Di Benedetto e Matteo Campese) dei prossimi Rtl 102.5 Power Hits Estate , in programma il 31 agosto e trasmesso in tv su Sky Uno e Tv8. «Devo ringraziare Lorenzo Suraci (presidente della radio, ndr). Ha visto quello che facevo sul web ed è rimasto colpito dalla mia dialettica, forse non troppo da ragazzo alle prime armi. Quindi ha chiamato mio padre, rimproverandolo perché non gli aveva mai detto niente di quello che facevo e poi ha deciso di mettermi alla prova, dandomi nel 2021 uno spazio su Radio Zeta».

A 28 anni compiuti da poco, la prova pare essere stata superata. «Sì, non mi aspettavo questo ulteriore attestato di fiducia. Quello dei Power Hits, dopo Sanremo, è il palco forse più important e per la musica e sono grato che da parte della radio ci sia stata questa apertura verso di me e altri due giovani: ci hanno affidato la conduzione, è una rivoluzione».

Della radio, dice, ama la continuità: «Il fatto di andarci tutti i giorni mi rasserena, è un po’ come se fossi un impiegato con il più bel lavoro d’ufficio del mondo. In parallelo continuo il mio lavoro sul web, producendo contenuti. La radio è come una grande palestra e ne è convinto anche papà. Però non ha mai cercato di spingermi verso questo universo. È stato un passaggio di testimone, sì, ma non forzato».

Oggi, spiega, molte delle persone che lavorano con lui gli dicono di ricordarselo «da quando eri piccolo così... mi parlano degli anni del Festivalbar, di mio padre, dei suoi artisti. Non mi spiace non averli vissuti, sono troppo curioso di vedere come sarà, come cambieranno le cose». Non è strano sognare un futuro da conduttore tv quando la tv è sempre meno seguita dai suoi coetanei? «È strano se si pensa solo alla tv generalista. Io sogno di avere a disposizione la macchina produttiva che c’è dietro i grandi show della tv, di condurre quel tipo di eventi. Sfruttando l’esperienza nel digitale e quella che sto cercando di maturare in radio».

Il televisore ce l’ha? «Sì, mi serve per i programmi in streaming. In quella della camera da letto, però, ho fatto montare anche l’antenna per il digitale». In passato ha tentato la carriera di cantante. Come è finita? «La musica è la mia passione. Ma col tempo ho realizzato che non avevo la spinta che invece sento quando si tratta di condurre. Ora continuo a produrla, ma la tengo per me. Ho fatto un po’ di autocoscienza, ripensando anche a certe critiche di mio padre... ora però non cerco più la sua approvazione». Superata quella fase? «Sì, adesso quello a cui ambisco è un confronto con lui. Ci accomuna una certa fame di comunicare. E lo ha fatto molto sorridere quando alcuni ragazzi lo hanno fermato chiedendogli: ma tu sei il papà di Jody Checcetto?».

Nella sua campagna per diventare sindaco di Riccione è stato accanto a lui? «Sì, aveva un progetto enorme ma non escludo che lo realizzi comunque. Ha sempre voglia di rivoluzionare, cambiare le cose e questo mi piace molto». Potrebbe seguirlo nella carriera politica? «No, anzi, mi ritengo colpevole di non essere troppo informato. Sto cercando di recuperare, però».

Renato Franco per corriere.it il 5 luglio 2022.

Talent scout per gli altri, un po’ meno di se stesso, soprattutto in politica. Claudio Cecchetto è rimasto (ancora) a un passo dal successo, un metro prima. Correva per essere sindaco, si deve accontentare di un posto da consigliere comunale. La sua Riccione — «una città nella quale quasi sono nato, dove mi sono sposato, dove ho contribuito al successo di Aquafan (di giorno piscina, di notte discoteca), dove ho realizzato Un disco per l’estate, dove ho trovato tanti talenti» — lo ha lasciato al terzo posto. «Ho lottato contro due elefanti. Quando partecipi a una gara dove ci sono un centrosinistra che ha governato per 70 anni e un centrodestra negli ultimi 8, ti infili in mezzo e speri di non essere stritolato, e in effetti non sono stato stritolato. Lo considero un inizio».

Partecipare senza avere possibilità di vincere ha senso?

«Anche nel calcio l’ultima squadra di Seria A coltiva una speranza, però ci sono anche fattori oggettivi. Io ho cercato di costruire un polo civico, mi appoggiavano solo tre liste, gli altri erano sostenuti da sei. È già tanto aver ottenuto un seggio». 

«Le persone che mi hanno votato sono dei visionari, ho incontrato gente che ti fa venire la voglia di amministrare Riccione, che ha il sogno di vedere una Riccione proiettata nel futuro. Se queste persone mi aiuteranno, mi ricandiderò». 

Ha fatto come Berlusconi ai bei tempi, ma con nuovi mezzi: su Instagram ha avuto il supporto di Jovanotti, Fiorello, Carlo Conti...

«Non li ho coinvolti, non sono il tipo. Sono amici che hanno visto che stavo provando questa avventura, mi conoscono e sanno cosa riesco a fare».

Anche Berlusconi diceva la stessa cosa... Pure a Misano Adriatico tre anni fa andò male. Arrivò secondo, dopo il candidato del centrosinistra.

«A Misano mi sono trovato per caso, con Riccione ho un legame affettivo maggiore, è un territorio che conosco decisamente meglio».

Ventenne negli Anni 70, gli anni della contrapposizione, fascisti da una parte e comunisti dall’altra. Lei dove stava?

«Io stavo in discoteca».

Già disimpegnato negli anni dell’impegno?

«Questa contrapposizione politica ai giovani non piaceva, erano solo ingranaggi in un sistema di logiche più grandi, la sera poi venivano tutti a divertirsi in discoteca, gente di destra e di sinistra. Io questa contrapposizione non la sentivo, la politica per me è sempre stata un fatto civico, a chilometro zero; una politica che riguarda le cose concrete che interessano in quel momento».

La sua rivoluzione era stare in discoteca?

«Anche quelli a loro modo sono stati anni rivoluzionari, in giro si sentiva o musica di protesta o musica che trasmetteva tristezza, la discoteca rappresentava un momento di evasione, infatti venivano i simpatizzanti di destra e di sinistra. Sembrava una musica destinata solo a quell’ambiente ma poi è arrivata in radio, in tv, lì è nata la tendenza musicale del futuro».

 

Che notti erano? Andava a letto quando gli altri si svegliavano...

«Adesso è così, negli Anni 70 alle due di notte eravamo tutti sotto le coperte, al massimo uno spaghetto fino alle tre del mattino. Adesso i club aprono all’una di notte, altri tempi. Per me erano notti bellissime: erano serate in mezzo alla musica - a musica che sceglievo io, per me il massimo».

Quanta droga girava?

«Ma va’! La discoteca è una cosa, il parchetto un’altra. Da me venivano per ballare, non per drogarsi».

Sicuro? L’immaginario - che è psicologico - ma anche le cronache - che sono concrete - raccontano altro...

«Il problema è che prendendo 1000 discoteche certe cose succedono in una ed è quella che fa notizia... In discoteca sono passati tanti professionisti che hanno costruito il mondo, le pare che girasse certa roba? Sicuramente al parco ce ne erano di più. In pista al massimo qualcuno alzava il gomito».

Oggi ci sono tanti talent show, ma pochi talent scout. Cosa è cambiato?

«Il talent scout è un ingegnere artistico che lavora sul talento, come su una piantina: la coltiva, la cura, la fa crescere. In Italia non ne ho visti molti, ci siamo solo io e Caterina Caselli. Io godo del successo degli altri».

La scoperta di cui va più orgoglioso?

«Jovanotti e Fiorello, le due punte di diamante».

Cosa aveva visto in Fiorello?

«Ho visto quello che tutti hanno visto in tutti questi anni. Tutti ora dicono di Fiorello: fortissimo. Io l’ho pensato appena l’ho conosciuto. Lui era famoso nei villaggi e io ho immaginato il suo futuro: tu devi considerare l’Italia un villaggio, diventerai l’animatore del Villaggio Italia».

Jovanotti?

«Lorenzo idem. Ho sentito la stessa energia che sentono adesso le persone quando vanno ai suoi concerti».

Ascoltando Gimme Five era difficile...

«Era difficile perché la gente sentiva solo Gimme Five, io lo frequentavo ogni giorno, per me era facile vedere le sue potenzialità. Io avevo lui davanti, non Gimme Five ».

Gerry Scotti?

«Mi aveva colpito la sua voce. Nel 1982 tu ascoltavi qualsiasi radio e le voci erano tutte uguali, lui invece aveva una verve completamente diversa, che per me era un plus. Mi dicevano: guarda che non ha una voce da disc jockey. Alla fine ho avuto ragione io».

Fabio Volo?

«Venne da me in radio per propormi un suo disco, io parlandogli ho intuito le sue qualità: era loquace, simpatico, aveva una bella terminologia. Gli proposi un patto: metto il tuo disco se tu vai in radio. Lui era perplesso perché non l’aveva mai fatto. Non importa - gli risposi - anche gli altri non lo hanno mai fatto la prima volta».

Invece cosa è successo con Amadeus? Lei ha detto che ormai per parlare con lui bisogna chiamare il suo manager Lucio Presta. Amadeus ha risposto che il suo numero di cellulare è sempre quello.

«Mi sembra una polemica inutile, non ci sentiamo spesso. Punto».

Le dispiace?

«E perché? Io sono sempre proiettato verso le cose nuove. Se sento le persone che conosco mi fa piacere, ma ci deve essere sempre un’occasione, un perché. Se capita, molto volentieri».

Con Radio Deejay ha lanciato tanti artisti musicali e televisivi.

«A Radio Deejay la forza era il gruppo, un gruppo di persone, di talenti, che si scambiavano esperienze, che sono cresciuti stando insieme, come in un caffè letterario parigino». 

Diciamo che i caffè con Sartre, Cioran e Simone de Beauvoir forse erano un po’ diversi... Il Gioca jouerè stato il suo successo; musicalmente non era granché, era la parodia di una canzone.

«Era il periodo in cui tutti i dj facevano una canzone ma io ho ancora adesso il grosso problema che sono stonato. In discoteca sperimentavo questa sorta di flash mob, gli inviti classici: su le mani, tutti giù, dai saltiamo; in questo rito collettivo la gente si divertiva. Così più che un disco ho fatto un gioco sul disco, ho raffinato quello che mettevo in pratica in discoteca, facendo fare a tutti quanti lo stesso movimento nello stesso momento».

Quanto le rende di Siae?

«Non mi lamento, ma non cifre stratosferiche. Diciamo un buon stipendio mensile».

La spesa più folle che si è concesso?

«Una macchina, una Borgward, una berlina tedesca. La comprai a 500 mila lire, ci spesi 15 milioni e non ha mai funzionato. Mia moglie aveva messo un disegno su una porta dove c’era la macchina con il cofano aperto che mi correva dietro per mangiarmi. Alla fine l’ho regalata». 

Vota Voter. Claudio Cecchetto vuole rendere Riccione Great Again. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Aprile 2022.

Il produttore discografico è candidato sindaco nella cittadina romagnola, dove andranno a dargli una mano le sue scoperte, da Jovanotti a Sabrina Salerno a Max Pezzali. Quando l'ho intervistato mi è tornata la celeste nostalgia di Silvio che scende in politica e di quando la me sedicenne andava in discoteca al mare e la mattina faceva colazione al Green Bar.

Per me Claudio Cecchetto avrà sempre i ventott’anni che aveva quando presentò il più superfragilistico Sanremo della storia, quello vinto da Alice che vestiva Coveri e cantava Battiato, quello con Sergio Leone presidente della giuria di qualità, quello col Gioca Jouer come sigla.

Per me Claudio Cecchetto sarà sempre quello del Gioca Jouer, e mi fa impressione che ora lo intervistino giornalisti trentenni che si occupano di politica e non sanno cosa sia quella canzoncina moschicida (Cecchetto dice che è impossibile non la conoscano, non è mica stata canzone di formazione solo dell’infanzia mia, «io devo ringraziare le maestre d’asilo, la lambada è difficile, il Gioca Jouer invece ha le istruzioni vocali»).

Oggi Claudio Cecchetto compie settant’anni, non conduce più Sanremo ma i Sanremo di questo secolo continuano a essere pieni di scoperte sue («mezza televisione è mia», dice quando lo chiamo durante il picnic di Pasquetta: sembra il Pippo Baudo delle nostre giovinezze). In compenso è candidato a sindaco di Riccione, le elezioni saranno il 12 giugno.

Elenco breve di quelli che mi dice andranno a sostenerlo. Lorenzo Jovanotti, «ma non viene a fare campagna elettorale, viene a raccontarmi; certe volte da lui sento una descrizione del mio lavoro che dico: cacchio, che bravo che è Cecchetto». Sabrina Salerno, «facciamo una pizzata e magari mettiamo lì un bel karaoke». Max Pezzali, «verrà sicuramente, è un fratello».

Elenco breve di quelli che quando gli chiedo se li abbia sentiti dice di no: Silvio Berlusconi, Rosario Fiorello. Mi dimentico di chiedergli di Amadeus e di Fabio Volo, a distrarmi è la riflessione su come li abbia scoperti e lanciati e all’epoca siano – quasi tutti: Fiorello, Volo, Jovanotti – stati accolti come i più scemi della nazione e il segnale dell’idiocrazia incipiente, e poi nel secolo successivo ci ritroviamo ad ammettere che sono i migliori intellettuali in circolazione. Sarà il declino delle élite.

Mi spiega Cecchetto che «è il momento del civismo». Che tutti e due gli schieramenti gli hanno chiesto di essere il loro candidato, ma la sua idea è che «i partiti devono cominciare a essere sponsor; non nel governo nazionale, ma nelle realtà locali: se volete fare i miei sponsor, fatelo pure. Ma loro volevano che io diventassi il loro testimonial». Tutti vogliono essere Giorgio Mastrota, nessuno la batteria di pentole.

Dice che «siccome a Riccione nascono le mode, facciamo nascere la moda delle amministrazioni civiche». Dice che «gli altri si beano del fatto che sono civici anche loro: mica tanto. Dicono: io sono civico, e vedi il simbolo della Lega, io sono civico, e vedi il simbolo del Pd». Dice che «la differenza è che io ho fatto le cose e poi ho avuto i consensi. Qua in politica prima devi avere i consensi e poi puoi fare le cose».

Gli dico che a sentirlo mi sta assalendo la celeste nostalgia dei miei vent’anni, quelli di Silvio candidato. Risponde che «infatti era un imprenditore, gli han dato fiducia, cose ne ha fatte, poi quando hanno ritenuto sbagliasse non l’hanno più votato», e io penso ma vedi che bravo ’sto Cecchetto, anche la lezione sui contrappesi della democrazia.

Non sono abbastanza posseduta dallo spirito di patate da suggerirgli il Vota Voter, canzoncina moschicida in cui si spieghi dove mettere la croce e come ripiegare la scheda, attività che dovrebbe essere a prova di scemo ma nella dittatura della scemenza a ogni turno elettorale c’è qualcuno che si lamenta non venga spiegata a sufficienza. In fondo il Gioca Jouer era un tutorial prima che si chiamassero così, è perfetto per l’epoca in cui nessuna spiegazione è abbastanza semplificata.

Nella Riccione del secolo scorso, Cecchetto portò l’Aquafan, Deejay Television, il karaoke. Dice che è arrivato il momento di restituire, e che il brand (dice proprio «brand») Riccione è fortissimo ed è solo uno dei due, l’altro è il brand Ceccarini (viale Ceccarini è in effetti punto d’attrazione immutato rispetto a quando la me sedicenne andava in discoteca in Romagna e la mattina faceva colazione al Green Bar, diversamente da quel che accadde a via Veneto a Roma, spentasi assai prima della propria leggenda).

A un certo punto mi accorgo deliziata che parla per citazioni citabili, per slogan elettorali, quegli intervistati ideali che ti danno sei o sette titoli. «A me piace scrivere i libri invece che leggerli: mi piace scrivere le regole». «Io la stessa cosa non la faccio mai: vedrai che Riccione con me diventa un format». Gli chiedo cosa cambierebbe di com’è stata gestita Riccione finora, e mi delizia di nuovo: «Sono amante di Troisi come attore e anche come filosofia: ricomincio da tre, mica da zero, le cose buone le tieni. Qua son tutti: cambiamo, facciamo…»

Quando dice a proposito degli artisti scoperti da lui «ci sono quelli che sono nel curriculum, e quelli che sono nel cuore», chiedo se sia una frecciata a Fiorello, che non mi ha elencato tra coloro che si aspetta vadano a Riccione. «No! Non gliel’ho chiesto, non ci siam sentiti. Io non chiedo mai». Ha il tono urgente di chi vuole disarmare l’incidente diplomatico.

Il primo figlio di Cecchetto tra qualche settimana compie ventotto anni. È nato nel 1994, quando il primo governo Berlusconi non aveva neppure un mese. Adesso è un dj radiofonico, e il Cecchetto settantenne racconta che, quando si trova tra ragazzi che magari conoscono le canzoni di Lorenzo Cherubini ma non il tizio che s’inventò Jovanotti, è abituato a non essere riconosciuto. «Provo la sensazione di essere un emerito sconosciuto. Sono il padre di Jody, l’influencer». Vado sull’Instagram di Jody. Segnala una diretta Twitch da un qualche locale affollato di Riccione. Chissà in quanti hanno la residenza, chissà se votano tutti papà.

Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 19 aprile 2022.

Claudio Cecchetto, il fondatore di Radio Deejay , oggi compie 70 anni.

E si candida a fare il sindaco di Riccione. 

Che compleanno è?

«La testa è quella di sempre. Anzi, con gli anni sono diventato più abile nel selezionare le cose buone». 

E fisicamente?

«Mi sono iscritto in palestra, seguito da un istruttore. Ma delle dieci lezioni ne ho fatte nove. E invece di un'ora duravano quaranta minuti». 

Perchè?

«Eh! All'inizio temporeggiavo, alla fine chiedevo un po' di clemenza». 

E che vita è stata finora?

«Fortunata. Ho trasformato la passione per la musica in un lavoro. Vede, il talento è un dono, ma poi il successo è un mestiere». 

Qual è la formula?

«Di non sederti mai un giorno. Coltivarsi. Penso che tutti abbiano dentro di sé un grande talento». 

Tutti?

«Il punto che non sempre riesci a riconoscerlo. Anche quello è un dono: capire quello che davvero vuoi fare di te. Se lo realizzi dopo avrai una vita migliore».

Ricorda i suoi inizi?

«Nel 1978 stavo facendo una trasmissione a Radio 105 , quando mi dissero: "Guarda che qui c'è Mike Bongiorno che chiede di te". Ero così in bambola che non capii quasi nulla di quello che mi diceva». 

Che voleva?

«Ricordo soltanto che si complimentò, "ti ascolto ogni mattina, sei bravissimo". Ma io non trasmettevo la mattina. Non glielo dissi. Mi prese a Tele Milano ». 

La tv di Berlusconi?

«Sì, conducevo Chewing gum. Facevo tutto io, per sole centomila lire a puntata. Chiesi un appuntamento con il Cavaliere, il quale ancor prima che aprissi bocca mi annunciò: "Ho deciso di raddoppiarti lo stipendio". Ero entrato deciso a chiedere il triplo, ma lui fu così avvolgente che mi accontentai».

Berlusconi è un modello per lei in questa avventura?

«Come imprenditore è stato il top del top». 

E come politico?

«Ma io non ho modelli: mi piace scrivere da me i copioni. Faccio una lista civica». 

Per chi votava in passato?

«Per tutti». 

Cosa intende per tutti?

«Ho anche votato Radicale. Poi in passato qualcuno magari mi ha deluso. La politica ha dovuto chiamare un esterno come Draghi per cambiare le cose». 

È un suo estimatore?

«Ho detto solo che hanno avuto bisogno di un civico». 

Perché non vuole esporsi?

«Per me parla il lavoro fatto, i talenti che ho scoperto». 

Con Fiorello come andò?

«Venne in radio con Bernardo Cherubini, il fratello di Jovanotti. Non voleva proporsi, gli avevano detto che da noi era pieno di belle ragazze. La sera andammo a cena e ci fece morire dal ridere. Faceva l'animatore nei villaggi Valtur. Gli dissi: "Ti propongo di fare il mattatore per il Villaggio Italia"». 

Jovanotti?

«Al Disco verde del 1988 gareggiava contro dei miei artisti, i Tu-tu. Perse. Ma sprigionava energia allo stato puro, pregai di arruolarlo all'istante». 

Amadeus?

«Me lo segnalò Vittorio Salvetti. Gli feci fare un provino. Dopo un mese lo incontrai, aveva le occhiaie. «Eh, ti diverti la notte a Milano" lo punzecchiai. Mi confessò che si alzava ogni mattina alle 4 per prendere il treno da Verona. Vi colsi una gran serietà. La casa gliela trovai io».

Fabio Volo?

«Si presentò con un suo disco, Volo, chiedeva di farlo girare. Era simpaticissimo, molto sveglio. Mi spiegò che leggeva tre libri alla settimana. Gli suggerì di fare il deejay, che è anche un lavoro di parole. Si schermì: "Ma io non l'ho mai fatto". "C'è sempre una prima volta", gli risposi». 

Anche lei ha conosciuto il successo presto.

«L'anno magico fu il 1981. Uscì Gioca jouer e condussi Sanremo. Quando lasciavo l'Ariston le madri mi mettevano in braccio i loro bambini». Rischiò di perdersi?

«Di montarmi la testa, come minimo. Fu fondamentale il mio manager, Dino Vitola. Il suo motto: "Ogni giorno devi dimostrare quello che sei». 

Che qualità deve avere un deejay?

«Deve capire cosa vuole la gente che viene in discoteca. Un po' come il sindaco, solo che in questo caso la pista è la città». 

Cioè?

«Quando a fine serata ti urlano dalla pista "mettine un altro" allora ce l'hai fatta. Guidare un Comune non è molto diverso. Dipende solo da te».

Lei si è candidato già a Misano.

«Sì, tre anni fa, e per poco non ho vinto. La candidatura a Riccione è nata così». 

Cos' è Riccione?

«Un brand. Tutti ricordano l'Acquafan, un modello che ho inventato io. Non basta limitarsi a coprire le buche, quello è l'ovvio, bisogna pensare alle cose straordinarie che si possono realizzare». 

È ancora pieno di tedeschi?

«Adesso soprattutto di russi».

Quelli quest' anno non verranno.

«Speriamo che la guerra finisca presto. È un conflitto che mi mette paura». 

La movida degli anni Ottanta resta irripetibile?

«Perché? La voglia di divertimento è sempre la stessa. Non sono tra quelli che rimpiangono il passato. Ho sempre guardato avanti». 

Lei a Riccione si è pure sposato.

«Con Mapi, trent' anni fa». 

Il segreto per restare insieme?

«Bisogna essere affini, volersi bene, perdonarsi nel limite del possibile. La pandemia è stata un buon branco di prova per le coppie». 

L'ha mai rivelato a Mike Bongiorno che non era lei quello del programma del mattino?

«Sì, anni dopo. "Come vedi non mi sono sbagliato", mi rispose».

Claudio Cecchetto: «Assunsi Amadeus perché mi mentì. A Radio Deejay clima da caffè francese». Il produttore e talent scout: «Mi disse che aveva casa a Milano, ma non era vero. Con lui, Fiorello, Jovanotti e Gerry Scotti situazione straordinaria. Io? Mi candido a Riccione». Matteo Sorio su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

Amadeus, 59 anni, e Claudio Cecchetto, 70 anni ad aprile 

«Amadeus? È anche lui figlio di un ambiente del tipo “caffè letterario francese”, dove gli artisti s’incontravano e, scambiandosi opinioni ed esperienze, crescevano insieme». Creatore di quell’ambiente: Claudio Cecchetto, il talent scout per eccellenza. Nativo di Ceggia, Venezia, classe ’52, Cecchetto vuol dire Jovanotti, Fiorello, Jerry Scotti e tutto il resto di un lungo, affollatissimo elenco di personaggi dello spettacolo: non parleremmo del Sanremo 2022 di Amadeus, il più visto dal ’97, senza Cecchetto e quell’incontro di tanti anni fa, in Arena, con un giovane disc jockey veronese armato di biglietto da visita in formato audiocassetta.

Alla fine, Cecchetto, possiamo dire che Amadeus nasce da quell’audiocassetta…

«Me lo ricordo bene, stavo presentando il Festivalbar, Salvetti mi disse di questo ragazzo di Verona. “Sembra simpatico”, mi fa. Così ho conosciuto Amadeus e l’ho convocato a Radio Deejay. Lì c’è la storia abbastanza nota della bugia…».

Quella dell’alloggio?

«Sì. Pensavo avesse problemi a trasferirsi a Milano. Lui però disse che aveva già un posto dove dormire perché lavorava spesso in città. Dopo un mese mi confidò che si alzava presto ogni mattina per venire in treno da Verona. Una bugia detta per non crearci problemi: mi fece capire che ci teneva».

La Rai vorrebbe Amadeus anche a Sanremo 2023, quarto festival di fila: come ne spiega il successo?

«I miei ragazzi sono cresciuti in un ambiente dove sono riusciti a esprimersi al massimo, del tipo “caffè letterario francese” dove gli artisti si scambiavano opinioni ed esperienze. Penso a Fiorello, Jovanotti, Gerry Scotti… sono cresciuti insieme e vedo che tutti a loro modo hanno avuto un grande successo. E poi hanno fatto le cose con coscienza: ho scritto un libro che s’intitola “Il talento è un dono, il successo è un mestiere”, il concetto è quello lì…».

Complice lo smart-working negli ultimi due anni forse ci siamo un po’ allontanati dall’idea di un ambiente simile, dove il contatto stretto genera quel confronto che accresce: è un ambiente replicabile?

«La situazione odierna nasce da un’emergenza. Che poi un ambiente così sia replicabile… magari sì, non lo so. Forse io ho avuto il talento di riconoscere i talenti: di sicuro quella non era una “scuola” di disc-jockey, il lavoro non era formarli, il lavoro era fare radio insieme».

Torniamo all’altissimo gradimento di questo Sanremo…

«È stato realmente una festa italiana. Ha coinvolto tutti i target. Nel finale c’erano tre generazioni sul palco: forse nemmeno a scriverlo era pensabile un epilogo così».

Lei in carriera ha condotto il festival di Sanremo per tre anni: che tipo di sforzo è sul piano fisico e mentale?

«Più che uno sforzo è un piacere. Hai tutta l’attenzione, molta responsabilità addosso. Ma quando fai una cosa che ti piace tutto esce più facilmente».

Con Amadeus e le altre sue scoperte si sente ancora?

«In generale i contatti rimangono, sì, con Amadeus ci sentiamo quando capita».

Oggi il lavoro del talent-scout lo fanno definitivamente i talent-show?

«Il lavoro del talent-scout c’è ancora ed è quello di sempre. Per ora, più che altro, di talent-scout non ne vedo tanti. Probabilmente uno oggi preferisce fare l’artista. Di sicuro il talent-scout non è una cosa che si decide: o lo sei o non lo sei».

E uno come lo capisce?

«Se ti piace dare una mano alle persone di talento allora sei un talent-scout. Altrimenti sei un semplice produttore. Fare il talent-scout vuol dire essere altruista, pensare al successo degli altri. In questa società però vedo poche persone che vogliano aiutare l’artista. C’è tanta ricerca del successo personale».

Strumenti odierni del mestiere?

«I social sicuramente: una volta invece dovevi girare, magari andare nei locali o nei pianobar, guardare manifestazioni di giovani talenti».

Il suo progetto Festivalweb si è dovuto fermare causa emergenza sanitaria: previsioni?

«Il Festivalweb rimane un’idea che realizzeremo appena si può. Per ora è rinviato finché non si normalizza la situazione. Sono concentrato su Riccione…».

Si candida a sindaco, giusto?

«A giugno ci saranno le elezioni. Io in questo momento sto vedendo di partecipare. Stiamo formando la squadra e la lista civica va presentata entro fine aprile. Conosco le problematiche così come le persone in gamba del territorio».

L’idea come nasce?

«Ho sempre lavorato su Milano e la mia estate è sempre stata a Riccione. La frequento dagli anni 80, ho contributo alla nascita di Aquafan, ho portato “Un disco per l’estate”. In quel territorio ci sono spesso, è casa mia».

È spuntato anche il manifesto «I love green Riccione» firmato da lei.

«Non dimentichiamoci che Riccione è la perla verde».

·        Claudio Lippi.

Claudio Lippi: «Io e mia moglie, dopo un periodo di crisi, siamo tornati insieme. La scelta di lasciare Buona Domenica? L’ho pagata cara». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 27 Maggio 2022. 

Il conduttore racconta: gli anni con Berlusconi («Gli dissi di non fare politica»), gli affetti («Mia nipote è tutto»), la malattia (i 4 bypass). 

Claudio Lippi vive a Roma, in un quartiere residenziale che si sviluppa nel verde. La casa («In affitto») è bella e circondata da un prato. Dentro è silenziosa, molto sobria, confortevole, elegante come il padrone di casa: 76 anni («Ormai quasi 77») portati con il sorriso vagamente malinconico di chi ha dimestichezza con un’ironia così sottile da risultare spesso impercettibile. Un’ironia per pochissimi, insomma. 

Claudio, lei sembra una persona serena.

«Sì, è così. Sono marito, padre, nonno. E poi come potrebbe non essere felice una persona che a soli nove anni ha visto accendersi la televisione per la prima volta?» 

Il 3 gennaio 1954 Fulvia Colombo diede avvio alle trasmissioni televisive del Programma nazionale, così si chiamava la prima rete Rai.

«Che delusione quando venni a sapere che quell’annuncio era stato registrato». 

Però all’epoca era strano ritrovarsi in casa una scatola parlante.

«Molto. Era tutto nuovo, tutto possibile. Avevi la sensazione che entrare a far parte di quel mondo fosse una cosa tutto sommato semplice. È per questo che poi le televisioni private ebbero così tanto successo: tutti volevamo “entrare” lì. Io sono di Varese, e nella provincia lombarda le televisioni hanno avuto un ruolo capillare». 

Dunque lei già si immaginava conduttore?

«No, volevo fare il cantante. Cosa che poi farò davvero perché fino al 1972 io mi sono guadagnato da vivere con la voce. Ma da bambino il canto mi procurò uno choc: mia madre mi accompagnò a fare un provino alla Rai di Milano. Il maestro mi ascoltò per qualche secondo, poi mi interruppe e prese la mamma da parte. “Signora — le disse — suo figlio è un mostro”. Mia madre pensava ad un complimento, ma lui si spiegò meglio: “No, signora, è un mostro perché ha un vocione, è troppo forte”. Lei si mise a piangere e io ne ricavai un senso di colpa che mi accompagnò per anni». 

Che cosa faceva suo padre?

«Prima lavorava in una grande azienda e, in sostanza, risanava le imprese. Era spesso via, lo vedevo poco ma ero molto legato a lui. Poi, quando io ero ormai adulto, si fece convincere da un tizio a entrare in un affare, una specie di burrificio. Peccato che poi quel tizio sparì e lasciò sulle spalle di mio padre un buco finanziario enorme». 

E lei?

«Io decisi di accollarmi quel debito. Fu la prima volta che capii di aver perso tutto, fu come sentirsi mancare la terra sotto ai piedi. Ma reagii con forza e, credo oggi, con limpidezza. Non potevo lasciare la famiglia in quel baratro, non è da me. Risultato: venti miliardi di vecchie lire da ripagare in vent’anni. È stata dura, ma ce l’ho fatta». 

Lavorando instancabilmente, presumo.

«Guardi, per me il lavoro è una cosa molto seria. Ogni tipo di lavoro che io sia in grado di fare: dall’apparizione televisiva fino alla partecipazione alla sagra di paese. Certo che faccio anche quello, anzi, mi piace perché incontro la gente, guardo le persone negli occhi quando mi raccontano le loro storie, mi commuovo con loro. Ma quando parlo di “lavoro” parlo di cose coerenti con me e con quello che sono». 

Proposte che ha rifiutato?

«L’isola dei famosi e il Grande Fratello. Ma mi creda, non è finto snobismo e nemmeno vuol dire che io non abbia bisogno di soldi, anzi. È semplice coerenza: vado ogni tanto in qualche talk show e mi fa piacere, ma non mi si può chiedere di entrare in quelle dinamiche dove le liti, le riconciliazioni, i dissidi sono fatti per fare spettacolo. Non fa per me. Senza contare che io ho quattro bypass addosso». 

È un concetto molto professionale del lavoro televisivo, un’idea oggi forse sorpassata da altre dinamiche, come la provocazione ai fini degli ascolti, la presenza del «bastian contrario» per fare audience.

«C’è un dettaglio: quando ho cominciato io a fare la televisione, cioè negli anni Settanta, c’era un concetto molto definito del talento. Qualcosa da affinare, difendere, conservare, accrescere, anche tramandare, perché no. Si cresceva dentro un’azienda, si aveva dei maestri che ti aiutavano. Uno dei miei padri è stato Modugno, per esempio. Vianello lo considero un fratello maggiore. Da Corrado ho imparato l’ironia raffinata: io lo guardavo, studiavo per ore le sue parole, il suo modo di porsi. E quel talento diventava materia preziosa: ascolti o non ascolti, format o non format. Ahimè oggi vedo format più che conduttori o conduttrici». 

Forse è giunto il momento di rivedere bene certi miti. Secondo lei Mike Bongiorno non ha assunto spesso atteggiamenti maschilisti?

«Una volta l’ho visto fare una scenata orribile ad Antonella Elia, la quale aveva osato dire qualcosa a proposito della scelta di indossare una pelliccia, sponsor del programma. Era un uomo durissimo, lo so, ma ha avuto un’intuizione geniale: ha valorizzato la mediocrità, facendone un caposaldo comunicativo. Il contrario di quello che oggi fa, per esempio, Paolo Bonolis, che la sottolinea, la addita, magari guardandola dall’alto. Non è una critica, sono scelte espressive, professionali». 

Claudio, a partire dal 1980 lei è stato una presenza fissa e molto popolare in televisione. Da «Giochi senza frontiere» alla «Corrida», dopo l’addio di Corrado. Come ha vissuto il successo?

«Sarò sincero: sempre con un senso di precarietà, come uno che sta saldando un conto con coscienza e meticolosità, come se fossi stato ancora lì a ripagare il buco finanziario capitato a mio padre. Non vivo le cose con superficialità, non penso che tutto mi sia dovuto. Dicono che le sciagure capitino alle persone più sensibili e infatti, negli anni Novanta, ho di nuovo perso tutto, questa volta a causa di un agente-avvocato che ha fatto investimenti sbagliati, pasticci finanziari insomma. Ma vede, ogni volta che mi succede qualcosa io ritrovo quel ragazzo che scelse di accollarsi il debito familiare con impegno e dedizione. Torno a essere così». 

È vero che con Berlusconi eravate molto legati?

«L’ho sempre ritenuto un grande uomo di televisione. Quando prese a girare la voce che sarebbe sceso in campo, ci incontrammo a Porto Rotondo e lo supplicai di non fare politica. Mi rispose che era un passo necessario. “Anche per voi”, aggiunse». 

Tra gli anni Ottanta e Novanta ci furono molte polemiche sui compensi ai conduttori derivati dagli sponsor. Lei ha sempre detto sì?

«Prima però verificavo. Per esempio, prima di dire sì alla sponsorizzazione di una nota birra ho voluto visitare il loro stabilimento. Ma una volta feci uno “strappo” e glielo voglio raccontare. Mi aveva ingaggiato, con compensi stellari, una società finanziaria. Nessun problema, fino a quando mi arrivò la lettera di un ascoltatore, un signore di Lucca il quale in sostanza, mi diceva che quella finanziaria prometteva una cosa ma poi, al telefono, si scopriva che le condizioni non erano proprio quelle lì, anche se — va detto a onor del vero — non si ravvisava niente di illegale. Avrei potuto benissimo ignorare quella lettera e continuare a guadagnare cifre molto alte. Ma decisi di non rinnovare il contratto: quel signore di Lucca si fidava di me, ascoltava le mie parole. In sintesi: mi credeva. Chi va in televisione, ancora oggi, ha un potere enorme e deve saperlo gestire. Un passo falso e si perde la fiducia della gente». 

Un altro «strappo» clamoroso lei lo ha fatto con «Buona Domenica». Dopo cinque puntate decide di andarsene. Ci sono state conseguenze?

«Be’, non lavoro in televisione da quell’ottobre 2006. Faccia lei». 

Però Antonella Clerici e Elisa Isoardi l’hanno ospitata spesso e in maniera costante alla «Prova del Cuoco».

«Intanto, mi faccia ringraziare sia l’una che l’altra. Specie Elisa che, poverina, ha raccolto un’eredità difficilissima e, in più, era fidanzata con una persona molto famosa e divisiva, cosa che le ha attirato fucili da ogni dove. Ma non era un ruolo come quello di Buona Domenica. Me ne andai perché sentivo che non era più conforme a quello che ero e a quello che facevo. Vede, anche in questo caso ho seguito quella voce interna che mi avvisa sempre quando qualcosa mi veste bene o meno. Certo, ha significato rinunciare a bei guadagni, certo, ha significato una bella responsabilità per uno che ha famiglia. Io e mia moglie, dopo un periodo di crisi, siamo ritornati insieme. È stata lei stessa a volerlo, perché sotto una scorza dura c’è una donna comprensiva e attenta. E poi io sono un uomo che nella vita ha perso tutto due volte. Oggi sorrido a tutti, anche a chi mi vuole male. È la mia forza». 

Claudio, c’è un rimpianto nella sua vita?

«Forse non avrei dovuto smettere di cantare. Ma negli anni Settanta sentii che le cose stavano cambiando: arrivavano i cantautori, io ero un interprete, ero un’altra cosa. Mi sentii superato. Allora mi misi a fare altro, per esempio cominciai a vendere birra, ma non mi veniva bene perché ero abbastanza noto, la gente mi riconosceva e non credeva che io fossi a lì per vendere qualcosa o, almeno, che sapessi farlo di mestiere. Così arrivò la televisione. Un po’ per caso, un po’ perché qualcuno ha creduto in quel famoso talento di cui abbiamo parlato prima». 

Quanta forza arriva dalla sua famiglia?

«Non penso di esagerare se dico che la mia nipotina, figlia di Federica, oggi è il vero senso della mia vita. Si chiama Mia Summer e per me è davvero una eterna estate. In generale mi sforzo di essere un buon padre e un buon nonno. Per varie vicissitudini io non ho visto l’altra mia figlia per anni, ma negli ultimi tempi ci siamo impegnati molto entrambi per riallacciare un rapporto e oggi anche un suo messaggio o una chiamata mi rendono molto felice. Vorrei recuperare tutti i giorni che non ho trascorso assieme a lei o assieme alle altre persone che amo. Comunque, riflettendoci, molta forza viene anche dal saper essere una persona corretta».

·        Claudio Santamaria.

Francesca D'Angelo per “Libero quotidiano” il 13 giugno 2022.  

Claudio Santamaria, mi dica la verità. La sua nuova serie tv, L'Ora, è una lettera d'amore al giornalismo o il suo elogio funebre? Della serie: qui giace l'ei fu giornalismo...

«No, nessun elogio funebre! La storia non vuole essere una cartolina nostalgica su un pezzo di storia che non esiste più. Semmai rievochiamo un passato che ha ancora parecchio da dire al nostro presente». 

Effettivamente, di messaggi, L'Ora ne snocciola parecchi. La fiction, che ha esordito mercoledì sera su Canale 5, ricostruisce (con parecchie licenze poetiche) la battaglia del quotidiano siciliano L'Ora: il primo negli anni 50 a sbattere in prima pagina la parola mafia. Santamaria interpreta il protagonista Nicastro che altri non è che il compianto direttore Vittorio Nisticò. Vi siete presi diverse licenze poetiche...

«Abbiamo fatto una serie tv, mica un documentario. Quello che ci premeva non era la fedeltà storica, ma far emergere il coraggio di questi uomini: degli eroi, a tutti gli effetti, anche se non sapevano di essere tali. Di fatto L'Ora è stato il primo baluardo contro la mafia».

Cosa manca oggi al nostro giornalismo, che invece c'era all'epoca?

«A volte un po' di rigore. In passato i dibattiti tra i grandi intellettuali non scadevano mai sul personale. Anche quando le posizioni erano molto diverse, la schermaglia restava verbale. Oggi spesso non è così, le battaglie diventano personalistiche, e al centro non c'è più la notizia ma l'ego degli interlocutori. È un problema perché le risse sviliscono la professione stessa del giornalismo: se vedi in tv gente che arriva alle mani, inizi a perdere fiducia, a chiederti quali siano le voci libere». 

In un'intervista ha dichiarato: "Oggi si scambia il cinismo con il giornalismo. Si pensa che dire una cosa brutta faccia apparire più intelligenti". Esattamente a chi stava pensando?

«Ah, ma lei vuole i nomi?». 

Magari.

«Questo mai. Però posso dirle che in generale ci sono persone, sia comuni sia famose, che hanno un seguito online proprio perché cinici. Scrivono un tweet a effetto, molto intelligente, con la giusta dose di sarcasmo, e pensano di aver scritto il pezzo dell'anno. Fingono di essere dei moralizzatori ma in realtà sono solo dei canalizzatori di odio. 

È una deriva che mi rammarica molto perché la gente finisce per scambiare la cattiveria per giornalismo. O per intelligenza. Tra l'altro spesso questi stessi signori prendono a cuore le battaglie sociali più facili, mica quelle scomode e controcorrenti, e si guardano bene dal prendersela con gli amici e gli amici degli amici». 

Una volta il giornalismo di sinistra era impegnato e intellettuale, mentre quello di destra più ruspante. È ancora così?

«Guardi che io ho solo interpretato un direttore di giornale. Mica lo sono per davvero». 

Però i giornali li leggerà. Ed è pure marito di una giornalista assai brava (Francesca Barra, ndr). Quindi insisto.

«Mah, per quel che ne capisco io, ormai i confini sono meno marcati e questo è un fatto anche politico. Che poi, posso dire una cosa?».

Prego.

«Ci ha fatto caso che non si parla più di mafia? Zero. È un tema che è sparito dalle agende dei politici e dei media. Ma perché? Forse non è un argomento da campagna elettorale, o che fa guadagnare click... stadi fatto che non è più attuale. Invece lo è eccome». 

Come se ne esce?

«Le scuole. Io partirei da lì, rilanciando lo studio dell'educazione civica, altrimenti ci trasformeremo nella società dei consensi. È fondamentale ricordare ai ragazzi cosa siano l'intimidazione, le organizzazioni criminali...». 

Anche il mondo della recitazione non se la passa benissimo a causa dei social. Non vorrei metterle ansia, ma secondo me tra un paio di anni gli "influencer" vi ruberanno il lavoro.

«Onestamente non so se questo fenomeno potrà toccare gli attori della mia generazione.

Vero è che, tempo fa, ho sentito che una grossa produzione ha preferito un attore, con meno talento, rispetto a un altro più bravo perché il primo aveva un sacco di "follower". Ecco, ammetto che la notizia mi ha destabilizzato. Non sono contro i social, ma non si possono confondere il talento con i like». 

Vero, altrimenti i ragazzi cosa studiano a fare?

«Per fortuna sono ancora molti i giovani che investono sullo studio e la formazione. Il mio consiglio è quello di fare laboratori diversi: dovunque vada l'attore deve portarsi dietro la sua valigia (immaginaria, ovviamente) e "rubare" uno spunto da ogni laboratorio creativo che frequenta». 

E lei? Quali sono stati i suoi scippi eccellenti?

Quando avevo vent' anni, a Bertolucci ho scippato la semplicità». 

La semplicità? A Bertolucci?

«Sì, lo so, suona strano ma è così. Creava meravigliosi film attraverso uno sguardo puro, limpido. Inoltre era un mostro di umiltà. Pensi che all'epoca chiese a me (a me!) come avrei fatto quella scena. Muccino invece mi ha insegnato a danzare sul set insieme alla macchina da presa». 

A Gabriele Mainetti invece ha rubato il cuore: ormai lei è il suo attore feticcio.

«Ci conosciamo da anni, siamo grandi amici, ma guardi che per Lo chiamavano Jeeg Robot feci ben tre provini».

Alla faccia dell'amico.

«No, era giusto così. Anche perché, come diceva un mio insegnante di recitazione, io ho due regole: non lavorare mai gratis e non lavorare mai solo per amicizia». Alessandro Borghi ha detto che solo lui, e pochissimi altri, accettano ancora di fare provini. 

Possibile?

«Purtroppo è così. Molti preferiscono non farli perché ne hanno paura. Invece sono fondamentali perché il provino non lo fa solo il regista a te, ma anche tu a lui... e pure a te stesso. Solo lì, in quella prova generale, capisci se il ruolo è davvero giusto. Per capirci: se si vuole volare alto, bisogna prima volare basso, non fare gli snob e misurarsi con il casting».

Gli attori devono mettere l'ego da parte?

«Sì. Bisogna prendere sul serio il lavoro, il film, il progetto: non se stessi». 

Le sale cinematografiche sono vuote: è colpa solo della pandemia o mancano anche i buoni film, in primis italiani?

«Il vero banco di prova sarà a ottobre: lì capiremo il destino delle sale. Quanto alla qualità dell'offerta, titoli come Spiderman o lo stesso Freaks out sono pensati ad hoc per il grande schermo. Questo secondo me fa la differenza. Ricordo che il regista Silvano Agosti ripeteva a Mainetti: "ricorda che stai obbligando una persona a uscire di casa, vestirsi bene, cercare a parcheggio, spendere dei soldi e stare due ore seduto a vedere il tuo film: tu gli devi dare qualcosa. Non puoi fare un film solo per te stesso o qualcosa di misero che può essere visto anche in tv". Questa secondo me è la grande sfida». 

È vero che medita di debuttare alla regia?

«Sì, è così. Ho diretto un cortometraggio ed è stata l'esperienza più bella in assoluto della mia carriera. Il passo al lungometraggio è quindi obbligato».

·        Claudio Simonetti.

Paolo Giordano per “il Giornale” il 20 marzo 2022.

Claudio Simonetti, il 19 febbraio compirà 70 anni. 

«Il mio lavoro mi conserva giovane, chi fa questo mestiere non va mai in pensione perché ha un progetto dietro l'altro».  

Il prossimo? 

«Con la mia band sto reincidendo la colonna sonora di Suspiria, che compie 45 anni. Arrangiamenti più progressive anni '70 ma con sonorità moderne».  

Claudio Simonetti, nato a San Paolo del Brasile e figlio del grande Enrico, è una leggenda per chiunque ami i suoni scuri e magnetici dell'horror visto che ha firmato, tanto per capirci la colonna sonora di Profondo rosso di Dario Argento con il brano omonimo che l'identikit perfetto del terrore incalzante.  

Ma ci sono altri Claudio Simonetti da (ri)scoprire: quello che ha aperto la strada all'Italo Disco di inizio '80 e che in questi anni fa tour da decine di date negli Usa e in Giappone.  

Sempre in giro. 

«Ho fatto più concerti in quest' ultimo periodo che nei decenni precedenti. Fuori dall'Italia c'è un seguito incredibile per la musica che facciamo in Italia. Ad esempio, al Club Città di Kawasaki, vicino a Tokyo, tre anni fa abbiamo suonato noi dopo due sold out consecutivi di Gigliola Cinguetti, che è adorata dai giapponesi». 

Gli eroi musicali di Claudio Simonetti? 

«Musicalmente sono nato nel pieno del beat e del rock. Quindi sono cresciuto con Jethro Tull, Led Zeppelin, Gentle Giant, Yes, Keith Emerson. Ricordo quando sono andato in bici al Brancaccio a vedere Jimi Hendrix nel 1968. Spettacolo pomeridiano eh, perché avevo 16 anni. Poi lui ha suonato pure alla sera. Era l'epoca in cui si affacciavano anche i giganteschi Deep Purple».  

Qualche tempo fa il cantante Ian Gillan (mi) ha confessato di non sapere che cosa sia l'autotune. 

«La prima a usarlo è stata forse Cher. Ma di certo questi effetti lasciano il tempo che trovano quando non si hanno idee musicali a supportarli». 

Cos' è stato per lei comporre Profondo Rosso con i Goblin nel 1975? 

«Un esordio da sogno proibito. Fu come vincere la lotteria».  

Poi arrivò Suspiria, 45 anni fa. 

«Un successo discografico minore, ma un film che forse ha avuto ancora più successo di Profondo Rosso. Ad esempio, in Giappone Profondo Rosso è uscito dopo Suspiria con il titolo Suspiria parte seconda».  

Argento ha appena presentato a Berlino il suo nuovo horror Occhiali neri. 

«Ho composto le musiche per la maggior parte dei suoi film. L'ultimo film che ho seguito con Dario Argento è Dracula di dieci anni fa».  

Magari avete litigato. 

«Mai avuto problemi, anzi, abbiamo sempre avuto un bel rapporto. Di certo, rimasi male quando nell'autobiografia Paura parlò di tutti, da Morricone a Keith Emerson, ma accennò a me soltanto di sfuggita in merito a Profondo Rosso. Però non abbiamo mai litigato, figurarsi».  

Non a caso la sua autobiografia edita da Tsunami si intitola Il ragazzo d'argento. 

«Lì racconto tutta la mia vita, nella quale ovviamente il rapporto con Dario Argento è importante dal punto di vista professionale».  

Nel 1978 scoglie i Goblin e fonda gli Easy Going che aprono il periodo d'oro della Italo Disco. 

«Ero con il produttore Giancarlo Meo, che anni dopo produsse Squérez? dei Lùnapop rifiutato dalle major».  

Nel 1981 scrive la musica di Gioca Jouer di Claudio Cecchetto. 

«Cecchetto me lo propose quasi per gioco, ma poi diventò la sigla del Festival di Sanremo del 1981».  

Com' è nata? 

«Pensai: cosa fa ballare di più in Italia? Mi è venuta in mente la tarantella e il ritmo è quello, al quale sono vicine anche canzoni come Whatever you want degli Status Quo e altre. Oltretutto di quel brano ho suonato tutto io a parte batteria e sax». 

Non lo sanno in molti. 

«Claudio Cecchetto non lo ricorda quasi mai. Se non sbaglio, l'ha fatto una sola volta durante una intervista al Festival. E in effetti mi dispiace».  

Ma perché finirono i Goblin e lei lasciò il rock progessive? 

«Perché quel 1978 fu un anno difficilissimo per noi e per tutta la nostra generazione. Ci fu il sequestro Moro, che gettò un dolore enorme su tutti. Pochi giorni dopo il ritrovamento di Moro in via Caetani, morì anche mio papà, giovanissimo, aveva 54 anni. E anche i tempi musicali stavano cambiando. I sessantottini non erano più ventenni ma trentenni e si preparavano a diventare yuppies. Stava nascendo la dance dei La Bionda e di Giorgio Moroder».  

Claudio Simonetti, con i diritti delle sue canzoni avrà guadagnato molto. 

«Ci sono stati periodi in cui abbiamo guadagnato tanti soldi e tanti ce ne siamo mangiati». 

Il momento più brutto?

 «Negli anni Novanta, sembrava fosse tutto finito. Poi, per fortuna, con gli anni Duemila tutto ha iniziato a rifiorire».  

C'è poco rock in Italia oggi, nonostante i Maneskin.

«Ce n'è, ma molto è underground. All'estero è un po' diverso. Mi è capitato di partecipare a Festival metal con grandi nomi come Dream Theater e vedere che il pubblico conosceva e seguiva i miei brani». 

Ha rimpianti alla vigilia dei settant' anni? 

«No ho fatto cose meravigliose ed entusiasmanti. Ad esempio, entro fine anno dovrei fare una o due tournèe negli Stati Uniti, dove mi accolgono sempre con onori da rockstar». Però. «Però mi manca di non aver avuto un grande riconoscimento ufficiale. Ad esempio Mattarella premia quasi solo gli sportivi, non gli artisti. In fondo credo di aver meritato e di aver fatto onore al nome dell'Italia nel mondo». 

E come mai?

 «Quasi tutto in Italia è legato alla politica e alla stampa giusta e io sono sempre stato estraneo a queste logiche perché ho sempre pensato soltanto a creare e suonare miglior musica che potessi scrivere».

·        Coez.

Coez arriva in concerto a Gallipoli: «Con la musica esprimo il mio lato più empatico». «A fine tour annuncio un progetto-bomba, e non è un disco. Tra i più giovani Madame è la più forte». Bianca Chiriatti su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Agosto 2022.

L'Essere Liberi Tour di Coez fa tappa al Parco Gondar di Gallipoli (Le) il 5 agosto nell'ambito dell'Oversound Music Festival. Il cantautore, tra i nomi più significativi della scena contemporanea nazionale, porterà sul palco i successi dell'ultimo disco, Volare (Carosello Records), e le grandi hit del passato, con il suo stile unico tra rap e una raffinata scrittura. La «Gazzetta» l'ha intercettato tra una data e l'altra del tour per farsi raccontare come sta andando questa estate in musica.

«Essere Liberi», cos'è la libertà per Coez?

«Per essere liberi a mio avviso bisogna sapersi liberare da certe dinamiche, certe cose che ci autoimponiamo o ci impone la società. Nel singolo che porta questo titolo c'è la frase "E ci alleniamo a stare soli/A costo d'essere liberi", un po' il fulcro di questo pensiero. Dopo un periodo come quello della pandemia in cui tanti di noi sono stati costretti a interfacciarsi solo con loro stessi, ci siamo un po' allontanati dal resto delle cose, ma alla fine non è una cosa negativa».

È consapevole di essere uno dei cantautori più importanti dell'era contemporanea? Che feedback le arrivano?

«Penso sempre di correggere il tiro, non mi soffermo mai su quello che di me funziona o ha funzionato, e questo è il mio fuoco ma anche la mia dannazione. Penso di essere abbastanza ossessionato dall'idea di provare sempre cose nuove, mi godo poco i risultati che raggiungo, ma sono comunque soddisfatto del percorso».

Nella musica riesce a comunicare con facilità. E nella vita?

«Ci sono tanti lati che esprimo meglio con le canzoni. Nella vita non sono una persona troppo empatica, o comunque dipende dalla situazione, lo sono quando sto nel mio habitat, con le persone a cui tengo, nel mio ambiente, non riesco però ad adeguarmi molto. Nella musica invece ho trovato un modo per esprimerlo al meglio questo lato di me»

C'è qualcuno fra i colleghi più giovani che le piace particolarmente?

«Mi piace molto Madame, all'inizio non la capivo bene, faceva cambi di flow troppo repentini, particolari, poi ho cominciato ad ascoltare bene i suoi testi, e della sua generazione mi sembra l'artista più forte».

In Puglia è venuto spesso ha suonare, ha bei ricordi?

«Mi piace tantissimo, anzi quando non avevo questo seguito venivo spesso in vacanza, mi piace, l'ho girata varie volte, vorrei tornarci da turista, ma in Italia è complicato fare vacanze. In tutti i posti di mare torno sempre volentieri».

Dopo l'estate?

«Sicuramente un paio di settimane di vacanza. Ma abbiamo già tante cose in cantiere, sono al lavoro per un progetto-bomba che annuncerò a fine tour, e non è un disco. Qualche settimana di pazienza e lo saprete!»

·        Coma Cose.

La svolta dei Coma Cose: "Liberi dai nostri personaggi abbiamo trovato nuova ispirazione". Ernesto Assante su La Repubblica il 7 Novembre 2022.

'Un meraviglioso modo di salvarsi' è il nuovo album del duo rivelazione di Sanremo 2021. Che adesso ha deciso di cambiare verso "e fare pace con un po' di cose"

Un meraviglioso modo di salvarsi, il nuovo album dei Coma Cose, uscito venerdì scorso 4 novembre, è il terzo album della band e quello che, con ogni buona probabilità, servirà come punto di svolta nella loro storia. Perché il con questo lavoro sembra che i Coma Cose siano arrivati esattamente dove dovevano e volevano arrivare, le tappe fatte con successo dal 2019, quando uscì il loro primo lavoro, Hype Aura, invece di fargli perdere la strada, li hanno portati a un'eccellente punto di equilibro. Muovendosi con intelligenza tra molti generi e suoni diversi, con il nuovo album hanno realizzato una sintesi che li contiene tutti, comprese le loro 'referente', dai New Order a Lucio Battisti. Insomma, quello che volevano o sognavano di realizzare quando scrivevano e cantavano Anima lattina è tutto qui, tra le undici canzoni e tre skit che compongono l'album. Come se fosse il loro primo vero disco.

"E' assolutamente cosi", ci dice Fausto Zanardelli, in arte Fausto Lama, voce e autore principale della band, "ce lo siamo detti anche noi due che sembra il nostro primo disco. Perché è il nostro primo disco completamente libero. Certo, lo erano anche gli altri, ma qui ci siamo liberati di qualche peso, abbiamo fatto pace con un po' di cose, abbiamo chiuso le porte verso la città e aperte quelle verso la campagna, anche fisicamente perché a Milano abitiamo in una zona di confine tra l'una e l'altra. Questo disco racconta questo, in maniera diretta, chiara".

Possiamo dire che Fausto Lama e California hanno lasciato il posto a Fausto Zanardelli e Francesca Mesiano, che la parte di 'personaggio' che vi serviva prima come carta d'identità ve la siete in qualche modo lasciata alle spalle?

(Fausto Zanardelli) "In parte sì, e ci piace. E' parte di un percorso che crediamo sia naturale. Come si fa oggi a diventare noti? È difficile, alle volte devi incarnare qualcosa, uno stereotipo, mettere in evidenza qualcosa di te che è molto pop, in cui la gente possa riconoscersi. Involontariamente per noi è avvenuto, avevamo un linguaggio super punk ma con grande attenzione alla messa in scena. Ora questo ci sembra meno necessario".

Compresi i giochi di parole che vi hanno sempre caratterizzato, ieri vi servivano, oggi non più.

"Assolutamente si, e questo è il risultato, un album che ha degli orizzonti liberi. Ci siamo tolti un po' di torno una parte di rappresentazione. Non tutto ovviamente, ma quanto basta per presentarci in qualche modo diversi a chi ci ascolta e ci segue. Non a caso per la prima volta nell'album facciamo dei pezzi in cui non cantiamo tutti e due, sfuggendo alla trappola del duo, del dover raccontare storie sempre da due o punti di vista".

Infatti i Coma Cose, alla fin fine, sono una band. Lavorate come una band ma il risultato finale è proposto da un duo. Ma cosa significa avere degli spazi di interpretazione personale, separati?

(Francesca Mesiano) "Tantissimi cambiamenti, che abbiamo affrontato con passione ma anche con un po' di paura, perché liberarsi dalle abitudini è un bene ma è anche difficile. La scrittura di Fausto è cambiata molto, è partito prima dalla musica per poi arrivare alle parole, e questo ci ha portato a scrivere una storia da un solo punto di vista per poi capire come cantarla".

Come una band con due cantanti?

"Si, lasciando maggior spazio alle due nostre diverse personalità, a noi piace molto, sinceramente, speriamo che questo cambiamento venga apprezzato".

C'è una maggiore maturità nei testi, ma anche nelle musiche. Siete alla ricerca di un'evoluzione sonora che vi porti un passo oltre quello che fate voi e che ha fatto, in generale, la nuova scena musicale italiana? Dal singolo, Chiamami, sembrerebbe di si.

(Fausto Zanardelli) "È quello che ci interessa e che speriamo di aver fatto, la finestra che si era aperta da un po' di anni nella scena musicale italiana forse si è già richiusa, banalmente anche per un esubero di proposte musicali. In una situazione di tendenziale 'normalizzazione' fare un disco liberamente, in autonomia, consegnando il master alla casa discografica, decidendo noi quale dovesse essere il primo singolo...cosa volere di piu? Ci interessa crescere, andare oltre i nostri limiti se possibile. Quindi è un disco variegato che con Chiamami secondo me rappresentiamo bene. Certo è 'catchy' quanto basta, ma è il nostro tentativo di far convivere il cantautorato con la new wave dei New Order, non è un brano usa e getta, anche se chi vuole lo può ascoltare così, c'è tantissimo lavoro dietro, ha una sua complessità che può essere scoperta. Magari assieme ai New Order, che oggi non sono poi tanto ascoltati. C'è tanta musica da scoprire e che può essere di stimolo per altre cose".

Come avete fatto a sopravvivere a Sanremo, a quella potente botta di popolarità? È facile perdere il filo e andare a sbattere, che arma di difesa avete usato?

(Francesca Mesiano) "Quello che abbiamo fatto è stato spegnere tutto, ci siamo tolti dai social, io ho spento il telefono, e ci siamo detti: per il tempo che ci vorrà, qualsiasi esso sia, ci richiudiamo in noi stessi e cerchiamo di scoprire, quello che eravamo, quello che siamo, quello che vorremmo essere, senza alcuna influenza esterna. E' stato molto liberatorio, difficile, un po'come smettere di fumare, ma necessario. Questa cosa ci ha permesso non solo di vivere ma di pensare in maniera diversa".

E il risultato?

"Per me è stato quello di cantare di più, le nostre canzoni sono difficili da fare dal vivo, per come sono strutturare è come se non godessi quasi mai, perché è difficile riportare o in concerto quello che è su disco. Invece qui canto di più, provo un'emozione diversa che posso trasferire anche dal vivo, perché anche la musica mi consente di fare cose che prima facevo di meno".

(Fausto Zanardelli) "Io mi sono concesso due brani rap, poi uno in cui mi sono raccontato, spiegato. Ho fatto tanta strada, tanta gavetta, tutto, alle volte mi sento 'il maschio dei Coma Cose', ed è giusto così. Ma questa volta mi andava di raccontare la mia storia, quello che sono e quello che ho fatto. Anche questo è parte del percorso di liberazione di questo disco, in cui ci siamo aperti molto di più".

Il che vuol dire, per un autore, scrivere cose più profonde, personali, elaborate. Quanto ha contato quello che avete vissuto attraversando la pandemia?

"Molto, è stata un'esperienza nuova e difficile per tutti. In più certamente l'età aiuta, sono diventati o più maturo, sento maggiormente le responsabilità. E penso, dunque che le parole contino, che sono una cosa importante soprattutto nelle canzoni. Non è un periodo in cui nella musica italiana si dia particolare rilevanza ai testi, non trovo grandi soddisfazioni ascoltando i testi che ci sono in giro, mi sembra che sia una componente un po' lasciata da parte e mi dispiace".

Scrivendo cose particolari si arriva all'estremo di Thasup.

"Si ma li c'è una sperimentazione, una ricerca. Io non la capisco, ma ho un'età per la quale forse è giusto che sia così. Ogni generazione ha il suo linguaggio. Questa cosa dei testi è molto punk, ma il punk è durato due anni e poi è arrivata la new wave. Da noi questo non è ancora successo, il che mi spinge a superarmi a provare a fare di più e di meglio".

Questi nuovi testi portano a cantare in maniera diversa. Niente giochi di parole, più melodia, oltre al rap.

(Francesca Mesiano) "A me appassiona questo cambiamento, perché in questo momento della mia vita è il modo più giusto per esprimere la mia vocalità. Spero di riuscire a cambiare anche nelle perfomance, è quello che mi piace fare, godo nel ricantare le canzoni, meglio di questo non c'è niente".

Come_Cose sono già al lavoro per il tour della prossima primavera: hanno allargato la band con due nuovi elementi, stanno lavorando agli arrangiamenti, per dare spazio alle novità di Un meraviglioso modo di salvarsi. L'appuntamento è a marzo del 2023.

·        Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.

Sabina Guzzanti: «Stimo Giorgia Meloni, ha fatto una scalata faticosa in un mondo maschilista». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2022.

L’attrice è protagonista e autrice dello spettacolo «Le verdi colline dell’Africa» in scena al Teatro Ambra Jovinelli dal 15 dicembre. Coprotagonista l’attore Giorgio Tirabassi

«Non ha una trama, non racconta una storia, non è prevista una scenografia e neppure dei veri e propri personaggi». Ma allora quali sono «Le verdi colline dell’Africa», titolo dello spettacolo con cui Sabina Guzzanti torna in scena, insieme a Giorgio Tirabassi e la regia di Gabriele Paolocà, al Teatro Ambra Jovinelli dal 15 dicembre? «È una sorpresa! - ride l’attrice che è anche autrice del testo - È un non-spettacolo e non posso svelare nulla, lo scoprirà il pubblico».

E a proposito di pubblico, il suo è un tributo al testo «Insulti al pubblico» di Peter Hanke?

«Sì, è vagamente ispirato all’opera dello scrittore austriaco. Oltre a me e a Tirabassi, il terzo attore è infatti proprio il pubblico che sarà in qualche modo costretto a partecipare a una sorta di riflessione sulla funzione sociale del teatro».

Qual è questa funzione?

«Con l’avvento della tecnologia, delle piattaforme, dei social network, quali spazi di libertà possiamo ancora trovare? Le multinazionali che gestiscono il web sono diventate ancora più potenti grazie alla pandemia. I social sono diventate delle trappole, che attirano la nostra attenzione, ci gratificano con i vari click, i like, che prima ti alzano il livello di dopamina e dopo ti stroncano, rendendoti prigioniero di un meccanismo. Per questo io, già da tempo, ho smesso di esservi presente, non commento più niente, ma li utilizzo solo quando devo annunciare un mio nuovo progetto: li uso per farmi pubblicità. Il teatro resta un luogo di libertà di espressione, anche se mi sono sempre sentita libera di dire ciò che penso, pur essendo stata spesso poco apprezzata per le mie idee».

Non a caso, lei ha iniziato la sua attività artistica proprio all’Accademia Silvio D’Amico...

«Una scuola importante, tra pregi e difetti. Ho avuto grandi maestri, per esempio Luca Ronconi: lui ti annichiliva con il suo sapere sconfinato, ti metteva in condizione di ascolto, e capivi di non sapere un accidente. Però bisogna anche dire che erano gli anni ‘80 e, mentre l’Accademia si basava su un forma teatrale classica, di tradizione, fuori da lì impazzava l’avanguardia, la sperimentazione... tra i tanti personaggi di rottura, Carmelo Bene».

E allora?

«Allora ricordo una certa sofferenza e ribellione da parte di noi studenti nei confronti di certi insegnamenti. Un insegnante di recitazione che ci fece studiare per un anno intero l’intera opera di Vittorio Alfieri in versi: parole strane, persino cacofoniche... una fatica inutile».

Il suo spirito ribelle le ha comportato anche varie controversie e procedimenti giudiziari. Persino accuse di vilipendio nei confronti di Papa Ratzinger. Il suo è gusto della provocazione.

«Non credo di aver commesso altri peccati, se non quello di ragionare con la mia testa e sono convinta di aver detto cose quasi sempre giuste, esprimendole in maniera appassionata, questo sì. In quell’occasione, mi riferivo a certi cardinali retrogradi che paragonavano tutti i gay ai pedofili, il mio era un discorso satirico sicuramente forte, un po’ alla maniera degli stand up americani... e successe un putiferio. Parecchie volte ho subito linciaggi collettivi, è stato interessante da un punto di vista antropologico capire come funzionano questi meccanismi. Soprattutto perché sono una donna e, in quanto tale, non posso permettermi di parlare senza essere interrogata».

Non si è mai pentita di certe sue affermazioni? Non è mai stata preoccupata dalle conseguenze?

«La cosa che mi ha fatto più paura è stata quando sono stata accusata di aver augurato a Oriana Fallaci di avere un cancro: assolutamente falso. Ho più volte spiegato che non mai fatto un’affermazione del genere e pensavo che la verità sarebbe prevalsa, invece è prevalsa la forza bruta della violenza collettiva nei miei confronti... ancora oggi mi devo difendere per un fatto che non è mai accaduto».

Tutto sommato, nelle sue varie imitazioni, ha trattato bene Giorgia Meloni...

«Ho stima per lei. Una donna Presidente del consiglio penso ci faccia sentire tutte più forti, oltretutto viene da un ambiente più maschilista di quello dell’area progressista e immagino che sia stata anche una scalata faticosa».

E lei, Sabina, ha manifestato il suo impegno politico in varie occasioni. Ha mai desiderato candidarsi con qualche partito?

«Non mi è mai passato per l’anticamera del cervello».

Caterina Guzzanti: «La timidezza mi paralizzava. Da mamma single ho tanti dubbi: mi aiuta l’analista».  Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 23 Novembre 2022.

L’attrice: «Se qualcuno mi ferma per strada mio figlio sbuffa. Poi mi chiede: “Sono famoso anch’io?”». La famiglia: «Mio padre mi leggeva Jack London. A Sabina devo la passione per i cavalli, Corrado mi fece salire su un bus di notte nel deposito dell’Atac»

Il primo ricordo?

«Una corsa sulla spiaggia in braccio al mio papà, dopo che mi aveva punto una tracina. E mi fece ridere quando in farmacia chiese l’Ananase...».

Cos’ha preso da suo padre, Paolo Guzzanti?

«I polpacci. Ma ho ereditato sicuramente la fantasia, l’immaginazione, un punto di vista diverso sulle cose, non so se artistico, possibilmente spiritoso, anche nel dramma».

E da sua mamma, Germana Antonucci?

«Tutto il resto. Lei è la mente pratica e matematica della famiglia. E io mi reputo una persona molto pratica: mi piace guidare, montare le cose con il cacciavite seguendo le istruzioni. Mi fa tenere con i piedi ben piantati per terra».

Il «montaggio» di cui è più orgogliosa?

«Il letto a soppalco di mio figlio Elio. L’ho anche dipinto: mi aveva chiesto i colori dell’arcobaleno. Modestamente, è venuto molto bello».

Lo ha chiamato così per il prozio?

«Sì. Prima ci rimaneva male quando gli chiedevano dove avesse lasciato le Storie Tese. Ma quell’altro Elio non c’entra nulla. Anzi, tra loro c’è stato uno scambio molto carino: Elio grande gli ha mandato delle magliette di Spiderman».

Come mai questo omaggio all’ex ministro della Salute? Ci era affezionata?

«Era il fratello minore di mio nonno Corrado. Un vecchio molto simpatico che, purtroppo, ho frequentato poco. Ha rivoluzionato il sistema sanitario grazie al day hospital. Ed è stato direttore di molti ospedali, tra cui il Bambino Gesù: quando andiamo con Elio per le piccole emergenze sono tutti molto affettuosi. È morto mentre aspettavo mio figlio: ho pensato che un Elio andava e uno veniva».

Caterina Guzzanti è timida e gentile. Patisce le domande sulla famiglia, più per timore di dire qualcosa che potrebbe dispiacere a suo fratello Corrado e a sua sorella Sabina che per l’incancellabile fatto di essere la piccola di casa. Parla invece volentieri del figlio Elio, luce e tenerezza della sua vita di mamma: ha appena compiuto 8 anni.

Come l’ha cambiata la maternità?

«Da un lato mi sento molto più forte: se mi guardo indietro vedo lo sforzo e l’amore che ho tirato fuori verso questo piccolo estraneo. Dall’altro sono più fragile: ho paura di non esserci quando gli può capitare qualcosa».

Dalle vostre «Wc stories» su Instagram si direbbe che anche lui ha la vena artistica.

«Non sta mai zitto. Se ne esce con cose tipo: “Adoro il mio codice fiscale: c’è tutto di me”. O: “Il freddo fa per i pinguini, il caldo fa per noi, il tiepido per le salviette umide”».

Lei non vive con il padre, Walter. Se ha dei dubbi a chi chiede un consiglio?

«Al mio analista, per fortuna, perché mi fa vedere che so cosa devo fare e che devo piantarla di mettere in dubbio le mie certezze».

Quando ha cominciato ad andare in terapia?

«Ci avevo già provato in passato, ma avevo sempre mollato. Ho ricominciato per essere aiutata a essere una mamma single. Pensavo di fargli un sacco di domande su come fare con mio figlio e invece mi sono ritrovata a rispondere a un sacco di domande sulla bambina che è in me».

E se Elio si rompesse un braccio con un martello, come fece lei per evitare una interrogazione?

«L’adolescenza è dura e si trovano modi assurdi per sentirsi considerati».

Lei si fece anche 50 taglietti al braccio.

«Mah, forse era una sfida contro il dolore, o la morte. Ero un’adolescente un po’ sola».

È l’unica persona al mondo che a 18 anni scappò da Londra per ritornare a Roma dalla mamma.

«Beh, non proprio dalla mamma. A Roma c’erano i miei amici, il fidanzato. In Inghilterra mi ero iscritta a Filosofia, ma non avevo tutta questa smania di indipendenza. Ero un tipo tranquillo, avevo bisogno delle mie cose: non ero ancora in grado di apprezzare la vita di grandi bevute degli studenti».

Da bambina pensava già di fare l’attrice?

«No, assolutamente. Finché Corrado e Sabina non hanno cominciato a farlo, non avevo nessun modello. Ed ero paralizzata da una timidezza che devo ancora risolvere».

E quando Sabina le propose di partecipare al Pippo Chennedy Show?

«Mi prese un colpo, avevo 21 anni. Poi però mi sono lanciata: avevo seguito i loro programmi in tv, gli spettacoli a teatro, le riunioni che facevano in casa con David Riondino, Francesca Reggiani e Cinzia Leone. Quel mondo mi era familiare».

Primo ruolo?

«Una ragazzetta fan esagitata di un gruppo musicale che era la parodia dei Ragazzi Italiani».

Il personaggio cui è più affezionata?

«Orsetta Orsini Curva della Cisa».

Una bambina tremenda e viziatissima.

«Sì, pure lo spirito che la ripossedeva voleva scappare da lei. Orsetta aveva un maggiordomo che trattava malissimo, con il ricatto di strappargli il permesso di soggiorno. Trovavo sempre nuovi spunti: purtroppo di quelli su razzismo era pieno».

Un altro personaggio?

«Ho amato moltissimo Vichi di CasaPound. Adesso avrei paura a rifarlo, temerei proprio per le mie ossa... Anche allora, era il 2012, cercarono di dissuadermi, perché quelli di CasaPound non sono notoriamente autoironici».

La Gelmini la chiamò per la sua parodia?

«Macché, nessuna confidenza. Meglio così».

Oggi è più difficile fare satira con il politicamente corretto?

«Diciamo che oggi è più difficile fare i personaggi politici perché sono ovunque, vanno in tutti i programmi. Solo Crozza resiste».

Un po’ di famiglia, però, ora ci tocca. È più legata a Corrado o a Sabina?

«Ma figuriamoci se le rispondo! Diciamo che con Corrado ho trascorso più tempo da piccola, perché Sabina è andata via di casa presto. Con lui guardavamo sempre un film la sera, mi faceva vedere quelli tremendi che mettevano paura, tipo Poltergeist. Io spesso mi addormentavo e lui mi rimetteva a letto».

In compenso suo padre le leggeva «L’amore ai tempi del colera».

«Se è per questo anche Jack London».

Un ricordo bello con Corrado?

«Una sera lo costrinsi a uscire per farmi portare in un deposito dell’Atac ed entrare dentro un autobus parcheggiato. Io ero una bambina. È stata una fuga d’amore meravigliosa».

Uno con Sabina?

«Quando avevo 7-8 anni veniva a prendermi la domenica mattina con la sua 126 e mi portava a Sacrofano per le prime passeggiate a cavallo. Diceva: chi dorme non piglia zoccoli!».

È nata così la sua passione per i cavalli?

«Sì, poi ho avuto più di un cavallo. Con l’ultimo ho avuto un rapporto molto intenso, si chiamava Grand Boy: GB. Sono stata con lui per 15 anni tutti i giorni della mia vita».

Cosa lo rendeva così speciale?

«La cosa più bella con un cavallo è raggiungere quell’intesa perfetta che tu pensi una cosa e lui la fa: una raffinatezza nei movimenti del tutto speciale».

Impossibile con il genere umano.

«Eh già... Soprattutto con gli speroni».

Quando ha smesso di essere la «sorella di»?

«Non da molto. Ma prima era ovvio. Ho lavorato talmente tanto con Corrado e Sabina...».

Ha mai patito la loro notorietà?

«No, da ragazza ero molto orgogliosa, mi vantavo di essere la loro sorella».

Ed Elio ha lo stesso atteggiamento con lei?

«È un momento delicato per lui. Alcuni suoi compagni mi hanno chiesto l’autografo fuori dalla scuola: è assurdo e imbarazzante. Se qualcuno mi ferma per strada lui si appiccica a me. Da un lato sbuffa: “Che pizza la notorietà”. Dall’altro mi chiede: “Ma sono famoso anch’io?”. L’altro giorno era arrabbiato con me e mi ha scritto: “Sei la madre peggiore dell’universo, non so come fai a essere famosa”. Dieci minuti dopo su un altro pizzino: “Prima ho un po’ esagerato”».

A quale film è più legata?

«Non ho mai avuto grandi ruoli, finora. Ma sono affezionata a due film di Massimiliano Bruno: Nessuno mi può giudicare e Confusi e felici. E sono legata profondamente a Ogni maledetto Natale, con gli stessi registi di Boris».

Com’è stato girare «Boris 4» senza Mattia Torre?

«Prima avevamo tre registi che ci davano indicazioni diverse incasinandoci la vita. Questa volta ci sono mancate le sue, così complete, dirette e precise, le sue risate, la sua intelligenza».

Ci sarà la quinta serie?

«Mi piacerebbe molto».

A Lol è sembrata un po’ rigida?

«Ero stanchissima. Io sono un cyborg: se mi programmi per non ridere non rido. Però era faticoso».

Cosa le piacerebbe fare in futuro?

«Mi piacerebbe fare l’attrice per davvero. Finora ho fatto la brillante, la comica. Vorrei un ruolo drammatico, come Barbara Ronchi in Settembre, dove affronta la malattia, la tristezza di una famiglia infelice».

Con quale regista vorrebbe lavorare?

«Con Lucchetti, e dicendo lui intendo tutti quelli che dirigono gli attori con passione».

E se anche Elio decidesse di fare l’attore?

«Gli farei provare qualsiasi cosa che lo incuriosisse e lo rendesse felice. Se volesse diventare il miglior piantatore di cartelli stradali lo incoraggerei comunque. Ma al momento è indeciso tra fare il sub e l’esploratore».

Quest’anno ha compiuto 25 anni di carriera.

«Davvero? Non ci avevo pensato. Sono le nozze d’argento con me stessa attrice. Sta diventando una relazione seria».

Chi non vorrebbe deludere?

«Prima avrei detto Elio. Ma i genitori sono sempre deludenti, è meglio far pace con questa cosa. Quindi direi me stessa».

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 18 aprile 2022.

Corrado Guzzanti è tornato a sorridere e a farci molto ridere. Reduce dal successo di Lol, è in sala in versione narcotrafficante colombiano, iracondo e dal machete facile, nel film Gli idoli delle donne, con Lillo e Greg. 

«Sono partito dalla voce, poi ho riscritto e improvvisato le battute. Papa Bergoglio è stato il modello per timbro e ritmo. Mi è molto simpatico, più del suo predecessore Ratzinger, che avevo pure ritratto. Questa attrazione per i papi è da affrontare in analisi».

Guardando il film, la sensazione è che si sia mosso con libertà, la voglia di ridere dei ragazzini. È sempre stato così? O invece l'entusiasmo era calato e ora è tornato?

«La seconda che ha detto. Ho avuto anni più faticosi e ora ho ripreso a divertirmi, a buttarmi nelle cose con meno puzza sotto il naso. Mi diverto a realizzare lavori miei, ma anche a fare l'attore in progetti di altri. È un bel mestiere».

Nella sua bio su Wikipedia si legge più volte "genio della comicità".

«La parola genio si usa con troppa disinvoltura. Quando devi parlare di Einstein che dici? Mi fa ridere ancor di più quando mi chiamano maestro. È un appellativo che si dà, di solito, ai vecchi e non mi sento ancora così».

La venerazione dei fan è diventata un ostacolo?

«Forse sì. Considero una parte del mio lavoro fatta in gioventù molto bella, la guardo con piacere ma senza nostalgia. La considero conclusa. Con la rete succede, e mi fa piacere, che i giovani ti scoprano. Vuol dire che alcune cose sono ancora vive e vengono rievocate. A volte viene voglia di riprenderle, magari a teatro, ma oggi sono attratto da cose diverse.

Per anni ho fatto solo quelle, mi sono privato di occasioni in cui provarci, concentrato soltanto sulla mia produzione. Ho fatto quasi zero cinema e altre esperienze che adesso mi sembrano importanti». 

Già nel 1998 scrisse il copione di "Millenovecentonovantadieci". Non diventò un film.

«Come fa a saperlo? Era un road movie strano, l'inseguimento di una rockstar italiana in fuga, pensavo a Loche. Non se ne è fatto nulla».

"Fascisti su Marte" fu a Venezia.

«All'epoca non fu un gran successo, è stato riscoperto con le piattaforme, oggi si capisce anche di più. Nasceva come una microserie rimasta a metà che finimmo nel 2003, girando la domenica, in amicizia, nelle cave, con i vestiti pesanti. Alla Mostra portammo un work in progress».

Le serie le guarda? Narcos?

«Non ho nessun fascino per il crimine e i criminali. Ho iniziato Gomorra, scritta e girata meravigliosamente, ma mi rifiuto di entrare nei personaggi. L'impulso è dire: "Chiamate la polizia, arrestiamoli».

Lei ne prepara una.

«Sì, scrivo una serie comica. Poi vorrei girare un film da regista e ho diversi romanzi mollati che spero vedano la luce prima di rimbecillire del tutto. Raccolgo materiali titanici, con idee, battute, pezzi di canzoni, note tipo "ricorda il detersivo". Ogni tanto faccio le pulizie pasquali».

Scrivendo ride?

«Sì, sono il primo spettatore delle mie cose. Poi non amo rivedermi. Quando vanno in onda i miei lavori, li evito».

Non ha visto Lol?

«No, anche se mi hanno mandato tanti pezzetti. Un giorno con una bottiglia di vino me lo vedo tutto. Mi dicono di cose che non ricordo di aver detto e fatto. È una maratona pazzesca, c'è una parte su cui non hai controllo». 

Paolo Guzzanti per “Oggi” il 4 marzo 2022.

Il direttore mi chiama e mi dice: “Hai visto tuo figlio Corrado da Fazio? Ormai è il decano dei comici italiani che lo guardano in modo adorante, e lo chiamano Maestro». Mi si gela il sangue: «Mi stai chiedendo di scrivere di mio figlio?». Da decenni abbiamo una sorta di convenzione che vieta ogni riferimento pubblico fra me e i miei figli attori, commedianti comici, un po’ filosofi e molto diversi fra loro.

Dovrei dire di no ma in realtà accetto perchè i tempi sono cambiati: io sto invecchiando anche se non me ne accorgo e vorrei dire qualcosa di meno scontato. Così, sono andato a vedermi la registrazione dell’ospitata a "Che tempo che fa" con Virginia Raffaele e Mago Forest, quindi sono corso su "Lol", seconda stagione, un format di successo in cui i comici di ogni Paese si esibiscono avendo come pubblico se stessi, ma non debbono ridere o sono espulsi. Credo siano stati i giapponesi gli inventori della formula e anche gli unici che la rispettano sul serio.

Corrado ha perfezionato le sue arti di scena e ha fatto fare un salto sulla sedia vederlo usare un registro di voce baritonale da usare soltanto quando risponde alle piccole interviste che fanno parte dello show. 

Ed è ovviamente lì che trovo un’altra persona, grappoli di altre persone dall’incerta identità come la sua Vulvia, ridotta a una maschera puerilmente trasandata e involontariamente sexy, divulgatrice scientifica scaturita dal quesito esistenziale «sapevatelo?», una creatura equivoca, impegnata in enigmi storici del genere: «Che cosa spingeva i cavalieri a combattersi fra di loro? C’era davvero qualcuno che li spingeva? Spingitori di cavalieri! Su Rie-ducational Channel».

Ma anche i personaggi invecchiano ed ecco Vulvia trasformata in una smandrappata culona claudicante che difende la siesta di un marito invisibile e inquietante. La cifra emergente fra le sue creazioni e il nonsense di cui gli ‘mbuti – migliaia di imbuti multicolori e siderali - funzionano come la pipa di Magritte, il quale garantiva che quella non fosse una pipa. Perchè sfuggire alla banalità così protesa verso il futuro? 

Mi sembra, oggi più che mai, sia necessario un rivoluzionario che asfalti il reale mettendo la prora verso il surreale come finora soltanto Charlie Chaplin e Woody Allen, e non escluderei che Corrado sia sulla buona strada, quella strada. La sua vocazione più recente di fare cucù attraverso le colonne d’Ercole del surrealismo credo gli consenta di impugnare lo scettro di maestro, il grande comico che ora c’è e ora non c’è e chissà dov’è, anzi non è, o quasi.

Le sue personificazioni da laboratorio di Frankenstein - come quelle antiche di Bossi e Tremonti nella riedizione del Sorpasso di Dino Risi in chiave pre-gay, o il suo Rutelli albertosordato, che dice «Ah Berlusco, t’avemo portato l’acqua coll’orecchie, adesso aricordate dell’amici...»; o il Bertinotti che disfa la sinistra suonando i campanelli di notte (e il vero Fausto ne e entusiasta) con altre genialità progressive tra cui il Prodi-semaforo immobilista mi stupiscono e incuriosiscono: il catalogo dovrebbe partire dal critico Rokko Smitherson allo studente Lorenzo - nuovo Pinocchio della nuova scuola conformista italiana fondata sulla gobba di Leopardi che si chiude a scatto come una trappola per topi - fino ai nuovi giganti come Aniene, uno sprovveduto semideo mezzo Asterix e mezzo supereroe, teleguidato da un padre celeste che parla in romanesco ultraterreno e che pretende di produrre per Netflix Il trono di spago.

Ma più che altro trovo che la sua punta di lancia sia l’inarrivabile padre Navarro, pasciuto gestore del marchio commerciale vaticano, ateo ma aperto alla fisica quantistica, impegnato in una fusione commerciale fra cattolicesimo e Disney Channel. 

Provo a mitizzare anch’io ricordando che il bambino Corrado, detto Coro dal vicinato, giunto da un parallelo iperspazio portandosi sia i superpoteri sia la kryptonite e che era capace di produrre arte immediata: musica, sculture didattiche per la sorella Caterina usando il terriccio e radici del giardino. Ma qui si incorre già nel reato di iconografia. Sul piano personale io e Corrado credo, penso, spero, siamo andati avvicinandoci ulteriormente usando una scala a pioli, ma tarlata. 

Lui sostiene che l’homo sapiens-sapiens abbia fallito. Io pensavo invece con ottimismo che avesse preformato un’eccellente evoluzione, e che proprio lui ne fosse uno dei risultati più brillanti. Ma ecco che arriva la guerra (dopo l’epidemia e poi forse le cavallette) e la bomba. Proprio quella atomica di cui cantavano i Giganti: «Noi non abbiamo paura della bomba» perchè non abbiamo nulla da perdere.

Noi sì, che abbiamo da perdere: eccoci di ritorno all’età della pietra con un missile subsonico nel portabagagli con cui arrecare morte e catastrofe ovunque se ne senta la mancanza. L’umorismo potrebbe aver bisogno di entrare in clandestinità, ma questi sono pensieri apocalittici, benché ragionevoli, sul futuro e cerco di dar forma a quel che scrivo sul figlio, che suonerebbe più o meno così: io sono all’ultimo round dal momento che la fine è nota, ma finora con l’immeritata presunzione di lasciare il “mondo migliore di come l’hai trovato” dopo ottant’anni di burrascosa pace. 

Oggi invece potremmo tornare al quadretto numero uno del gioco dell’oca umano e la risorsa comunque eversiva dell’umorismo rischia gli arresti o la fuga. Non lo sappiamo, ma dobbiamo temerlo. 

E Corrado è certamente, oltre che un maestro, anche un cult: ed è bene che lo sia perchè la sua attività, spettacolosa oltre che spettacolare, è una garanzia libertaria. Secondo l’ordine naturale delle cose, la liberta fa ridere, nel senso di buon sangue. La comicità televisiva fin dai primi anni Cinquanta – pensiamo a Un due, tre con Ugo Tognazzi e Vianello – produce fecondi tormentoni, le battute ripetute mille volte che unificano addestrando alla diffidenza. Come spiegare diversamente il successo di una affermazione come: «La risposta è dentro di te, ma è sbagliata»?

L’intera religione di Quelo (un pezzo di legno meno antropomorfo di Pinocchio) è adorata perchè è frutto del bricolage di un poveraccio piantato dalla moglie, costretto a portare la bambina a scuola fermandosi per farla vomitare.

I comici, gli amici comici, compresi i grandi attori come Luigi Proietti, hanno percepito ciò che Corrado aveva accumulato in silenzio? Boh, mah, non so rispondere e neanche me lo domando. Ciò che rimpiango oggi è la fantasia di poterlo riavere bambino per seguirlo con altri occhi usando una macchina del tempo da serie televisiva, un po’ fantasy e un po’ quantistica come Fringe, che per anni fu il nostro portale di reciproco accesso.

Lol 2 ha almeno un merito: averci ridato Corrado Guzzanti. I comici di questa stagione dello show di Prime video sono più o meno all’altezza. Ma Il “Papa della comicità italiana” è su un altro pianeta. Beatrice Dondi su L'Espresso il 28 febbraio 2022.

Era il 1992 quando con un'improbabile giacca color ghiaccio Corrado Guzzanti insieme all'intera banda di “Avanzi” ritirava il Telegatto dalle mani di Fabrizio Frizzi per il miglior programma rivelazione. Erano gli anni in cui la tv aveva una gran voglia di sperimentare e riusciva a far ridere sul serio guardando quel che accadeva fuori. Poi tutto si ribaltò, la satira perse il suo senso primario visto che ciò che succedeva all'esterno faceva decisamente più ridere di quel che qualsiasi talento potesse mettere in scena e nel piccolo schermo la tendenza al grigio prese di forza il sopravvento.

Così se da una parte restano come mosche in un pugno sprazzi di nostalgia per quei tempi in cui la comicità non temeva il contrappasso, dall'altra si conserva quell'innamoramento primordiale nei confronti di Guzzanti, genio tanto luminoso quanto restio, davanti al quale viene da saltare a piedi uniti per l'entusiasmo a ogni inquadratura di repertorio. Perché a onor del vero, negli ultimi anni si è concesso pochino. Per questo, come i seguaci di Quelo, scatta spontanea la devozione per la seconda stagione di “Lol-Chi ride è fuori” (Prime Video) che così all'improvviso (più o meno, se non si calcola il legittimo battage promozionale che va avanti da mesi) lo ha risbattuto nelle case e riportato sul giusto sentiero: quello predisposto per far morire dal ridere. I comici rinchiusi per il programma più alla moda dell'anno sono dieci, di cui una buona parte all'altezza della situazione, e nel complesso, anche se manca l'effetto sorpresa dirompente della prima volta, il divertimento limpido viene fuori in diverse occasioni, guerra in corso permettendo. Ma con Corrado Guzzanti si parla proprio un'altra lingua.

Già dal suo ingresso in accappatoio bianco e «il taglio di Valentina Crepax» si ha la netta percezione che si tratti di qualcosa di diverso, che risulta difficile anche solo incorniciare in una definizione. Un po' come quando spunta dal nulla il monolite di Kubrick, lo studio tutto si ritrova in un attimo a muoversi al rallentatore in una sorta di osservazione stupefatta di un gigante. E mentre si passa dalla seduta spiritica al ciuffo biondo di Vulvia che spiega i “geoglifi”, si fa strada quel pizzico di rammarico per tutte le volte che avrebbe potuto regalarsi come un rubinetto aperto anziché limitarsi al contagocce di fronte al suo pubblico fedele nei secoli. Così, quando viene da chiedersi chi sia il Papa della comicità italiana (come lo presenta il padrone di casa Fedez) la risposta è dentro di noi. E per una volta non è sbagliata.

Corrado Guzzanti a Lol: «Forse ho esagerato nella comfort zone... Torno, avevo bisogno di uno choc». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2022.

Il comico più sfuggente della tv riappare con «Lol2 - Chi ride è fuori». «Ho accettato, poi mi sono dato del pazzo. Dura fare tre battute se nessuno reagisce».

Godot al confronto era uno che si faceva vivo spesso. Corrado Guzzanti è fatto così, un misto di pigrizia accidiosa e maniacale voglia di perfezione che ne fanno uno dei personaggi più evocati e meno presenti. Sì, recita nel BarLume ma non vale, perché i suoi fan lo vogliono solista, battitore libero e lo venerano come i suoi seguaci fanno con Quelo, il santone cialtrone che è una delle sue innumerevoli creazioni strepitose. Praticamente aveva dato buca per sei anni di fila, l’ultima vera epifania con Dove è Mario?. Adesso Corrado Guzzanti torna in tv con la seconda stagione di Lol - Chi ride è fuori (prodotto da Endemol Shine Italy) che verrà rilasciato su Prime Video dal 24 febbraio.

Come mai esce dalla sua comfort zone casalinga?

«Ho preso una decisione che ha stupito pure me stesso, appena ho accettato mi sono dato del pazzo. Mi ero chiuso in un eccesso di comfort zone aggravato da due anni tappato in casa per la pandemia. Considero quest’esperienza uno sport estremo, come buttarsi con il deltaplano o fare bungee-jumping, avevo bisogno di uno choc terapeutico come una serie di sedute junghiane. È una decisione un po’ folle, perché è lontana dalla mia storia».

La sua comicità è soprattutto intellettuale, scritta e pensata, anche se non disdegna le battute di pancia («’mbuti»). La prima edizione di Lol sembra aver dato spazio alla comicità slapstick, all’esuberanza della mimica. Questa come sarà?

«Ho l’impressione che ci siano meno trovate di pancia rispetto alla scorsa edizione. Io ho una passione per il mondo dei comici e per la loro disperazione — come ho raccontato anche in Dove è Mario? —, qui il cast è oculato, ci sono comici di estrazione ed età diverse: gli youtuber, quelli che vengono dal teatro, gente che scrive, gli anzianotti come me (quando cominciano a chiamarti maestro vuol dire che sei invecchiato, e mi imbarazza pure). Lol è uno zoo di comici, con le giraffe, i leoni, gli elefanti... Questa convivenza di ore e ore, una maratona infinita, è un esperimento interessante perché si creano interazioni che in altri contesti non sarebbero state possibili».

Tra i comici in gara chi è stato quello più difficile a cui resistere?

«Quelli più affini a me, con cui ho inevitabilmente interagito di più, come Virginia Raffaele e Maccio Capatonda. Nel gruppo c’era chi voleva disperatamente vincere e pensava alle strategie, chi aveva paura di rimanere solo e voleva uscire prima. Io ho vissuto quest’esperienza in modo più sportivo che competitivo, la vittoria al gioco non conta: per me non era importante non ridere ma far ridere chi guarda».

«HO UNA PASSIONE PER IL MONDO DEI COMICI E PER LA LORO DISPERAZIONE. LE COSE CHE FACEVO ANNI FA OGGI NON AVREBBERO SENSO»

I comici in cattività, una sorta di reality dell’umorismo: dal suo punto di vista qual è l’aspetto più interessante del gioco?

«Ho seguito la prima edizione perché volevo vedere cosa combinava mia sorella Caterina e ho trovato il meccanismo affascinante. Penso che questa reclusione sia un interessante saggio antropologico sui comici, ancora più interessante per gli addetti ai lavori: è dura dire tre battute e vedere che nessuno ride».

L’ultima volta in tv è stato sei anni fa. È una questione di pigrizia o perfezionismo?

«Tutti e due..., un misto di accidia e maniacalità. E poi penso che a causa della politica lo scenario della satira sia molto cambiato negli ultimi anni. Mi sembra che le cose che facevo anni fa adesso avrebbero meno senso. Oggi c’è una satira molto di consumo sull’attualità, sulle ultime 24 ore... Probabilmente tornerò a fare uno spettacolo a teatro e sto scrivendo una serie comica, strampalata, che come spirito ricorda Fascisti su Marte ».

«OGGI È PIÙ DIFFICILE FARE SATIRA, IL LIVELLO DELLA POLITICA NEGLI ULTIMI ANNI SI È TALMENTE ABBASSATO CHE FARE LE PARODIE DIVENTA UN ESERCIZIO STERILE: UNA PARTE DELLA CLASSE POLITICA È SATIRICAMENTE TOTALMENTE AUTOSUFFICIENTE»

Adesso funziona l’immediatezza: Osho (una foto, una battuta), Lercio (false notizie con taglio ironico), Spinoza (la satira sull’attualità in un tweet). La satira è morta?

«Oggi è più difficile fare satira, il livello della politica negli ultimi anni si è talmente abbassato che fare le parodie diventa un esercizio sterile: una parte della classe politica è satiricamente totalmente autosufficiente, non ha bisogno di commenti. E poi è cambiato il linguaggio, la satira è esplosa sui social, è diventata uno sport nazionale. Una volta esisteva solo sulla tv generalista, oggi il web ne trabocca, tutti fanno satira, gli stessi giornalisti fanno battute pungenti, è un linguaggio molto più diffuso. Osho mi diverte molto ma fa riflettere che uno dei satirici più influenti faccia dei meme e non degli sketch, basta una foto con un dialogo immaginato, il monologo non serve più».

Non è una bella notizia, la satira ha da sempre una funzione sociale, accende un faro sulle contraddizioni della classe politica.

«Oggi la satira è un fast food di alta qualità, è velocissima, immediata. In realtà sento parlare di crisi della satira da quando ho cominciato, ed era il 1988. Diciamo che oggi mi sembra estinta la satira che cerca di raccontare di più, ma parliamo di un linguaggio che si trasforma, in continua evoluzione. Domani diventerà un’altra cosa, oggi è così: battute fulminanti, meme».

È una delle sue riflessioni più tristemente comiche: «Solo ripetendo sempre gli stessi errori si impara a eseguirli alla perfezione». Vale anche per la sinistra di oggi?

«Loro sono i maestri supremi nella ricerca della perfezione dell’errore grossolano, ma si può sempre fare di meglio...».

Riesce a essere ancora di sinistra?

«È una domanda che non mi faccio più, certamente non sono di destra... mi sento di sinistra ma faccio parte di quella buona parte di popolazione italiana che nella sinistra di oggi non si rispecchia».

«L’ITALIANO MEDIO È QUELLO CHE NON SI SENTE TALE E RIDE, FRAGOROSAMENTE, PENSANDO CHE SI PARLI DI QUALCUN ALTRO»

Gli italiani sono peggiorati?

«Non lo so, certo il Covid ci ha mostrato un’umanità che non sospettavamo esistesse. E poi questi sono anni in cui l’eccesso di informazione ha fatto emergere risvolti drammatici: non so chi guarda più i tg, mi sembra che Facebook sia più potente nel bene e nel male, viviamo una perdita generale di credibilità, l’esperto viene visto con diffidenza».

I social?

«Hanno aperto un canale di sfogo sulla nevrosi e sulla rabbia repressa delle persone, non li frequento tanto, ma capisco che hanno livellato tutto, ogni opinione è buona, ogni verità è buona. L’effetto dell’algoritmo, del feed , poi è micidiale: pensi che le tue idee siano l’opinione diffusa, le scambi per la realtà. Ti arrivano solo conferme, nessuna smentita: è una piega inquietante».

Poca vita mondana, la noia è una spinta a essere creativi?

«Anche annoiandosi il cervello non smette mai di lavorare, io mi appunto continuamente idee, ho macigni di spunti su Word dove scrivo le cose più disparate, migliaia di pagine con battute e invenzioni. È diventata un’enciclopedia senza alcun ordine dove in mezzo c’è anche la lista della spesa; ogni giorno aggiungo qualcosa e mi ci perdo quando la rileggo...Non ho paura di annoiarmi, anzi la noia è uno stimolo. Da tempo, come diceva quel filosofo, sono fuori dal tunnel del divertimento...».

I Delitti del BarLume cosa rappresentano?

«In questo caso molto divertimento. Mi piace interpretare questo veneto che incarna l’italiano medio, ambizioso, furbo ma non tanto intelligente. L’italiano medio è quello che non si sente tale e ride fragorosamente pensando che si parli di qualcun altro».

Ci sarà il nuovo Boris con il cast storico questa volta alle prese con il mondo dello streaming e delle piattaforme social...

«Incrociando le dita delle mani e dei piedi mi sembra che queste nuove puntate siano molto divertenti. È un ritorno evocatissimo, Boris aveva tanti orfani, la spinta è stata anche la voglia di noi amici di fare un omaggio a Mattia Torre che non c’è più».

Il suo pubblico la aspetta con grande venerazione: si sente Godot? E soprattutto arriverà?

«Il fatto è che cerco di trovare progetti in cui mi posso divertire, non sono uno che si limita a timbrare il cartellino se non ho niente da dire».

Tra timbrare il cartellino e il fine pena mai c’è una via di mezzo...

«Diciamo che stiamo lavorando per la via di mezzo. Sì, arriverò...».

Gianmaria Tammaro per "La Stampa" il 16 gennaio 2021.

Con i suoi personaggi, Corrado Guzzanti ha visto e previsto tutto. La sinistra sempre divisa, il protagonismo di certi intellettuali, l'inaffidabilità delle promesse e degli annunci, i balletti per il Quirinale. 

Anche ne I Delitti del BarLume (su Sky Cinema, NOW e on demand con due nuovi episodi il 17 e il 24 gennaio) è riuscito a catturare l'essenza di quello che siamo. Il suo Paolo Pasquali, dice, «rappresenta l'italiano medio. Ambiziosissimo e furbo, ma non intelligente. Rigido. Sempre in contrapposizione, e con un'ossessione per l'ordine». 

Sul set, racconta, c'è stato un clima incredibile, di serenità e divertimento. «E poi abbiamo girato sull'Isola d'Elba, d'estate, quindi un po' è stata anche una vacanza». È stato Roan Johnson, il regista, a offrire il suo ruolo a Guzzanti.

«Insieme, poi, abbiamo deciso di farlo così, veneto: ci siamo ispirati al Bepi di Alberto Sordi in Venezia, la luna e tu. Alla fine ci siamo affezionati». 

Nel 2002 andava in onda Il caso Scafroglia. Cosa è cambiato in questi vent' anni?

«Non uso molto i social, ma mi rendo conto che alcune cose che ho fatto vengono costantemente riprese e citate. Sembrano ritornare. Da quando Il caso Scafroglia è arrivato su Raiplay ho rivisto spesso il Massone. Qualcuno condivide anche momenti dell'Ottavo Nano e di altre trasmissioni più vecchie. I tempi sembrano essere diversi, ma certe figure, soprattutto per i loro comportamenti, sono molto simili».

Dov' è Mario? è un'altra serie estremamente attuale.

«Quel lavoro, forse, è stato visto di meno, ma è stato fatto in un momento particolare, poco prima dell'affermazione dei Cinque stelle. Raccontava la dicotomia della sinistra. Una cosa che, tutto sommato, continua a esserci. Sono cambiate l'informazione e la figura dei giornalisti. L'intellettuale che impazzisce, che combatte con il suo desiderio di lasciar perdere tutto, è un personaggio che funziona ancora». 

Ha scritto Dov' è Mario? con Mattia Torre.

«Eravamo molto amici. Lavorare insieme, confesso, non è stato facile perché avevamo due approcci abbastanza diversi. Ma è stata una bella esperienza. Quest' anno abbiamo girato una nuova stagione di Boris, che è essenzialmente un saluto, un omaggio, a Mattia. Ci manca ogni giorno». 

Sempre quest' anno, farà parte del cast della seconda stagione di LOL su Prime Video.

«L'ho trovato interessante, proprio perché lontanissimo dal tipo di lavori che ho fatto in passato. Il pubblico si diverte». 

Oggi il mestiere del comico è più difficile?

«Forse sì. Con i social, la satira è diventata un linguaggio comune, diffusissimo. Anche molti giornalisti hanno un'anima da intrattenitori e vogliono essere divertenti. Probabilmente, il satirico più importante che abbiamo ora è Osho: le sue immagini sono una sintesi efficacissima di questo momento».

Tutto, però, dura poco.

«Pochissimo. Negli ultimi anni, la satira si è quasi limitata a commentare l'attualissimo, rinunciando al quadro più ampio. Ma forse non è colpa di nessuno. Andiamo tutti più veloci, pure l'informazione». 

Quando era più giovane, voleva fare il fumettista.

«Ho sempre disegnato e amato i fumetti. Al liceo, però, ho capito che mi divertiva di più scrivere. E, come tutti i giovani, volevo scrivere cose serie e profonde. Proprio in quel momento è cominciata la mia carriera. Mi prendevo in giro, facevo delle parodie di questi testi serissimi. Questo lavoro l'ho trovato quasi per caso. Senza volerlo o cercarlo. Per tutti gli anni di Avanzi , quella dell'attore mi sembrava semplicemente una fase di passaggio. Solo con il tempo ho capito che era un lavoro vero». 

Qual è la cosa più importante?

«L'autoironia. Non ci sono scuole o formule segrete da seguire. Il primo oggetto di satira, che abbiamo tutti a casa e a portata di mano, siamo noi stessi».

È ancora difficile, per lei, rivedersi?

«A volte mi rivedo quando la mia compagna mi costringe. Soffro sempre molto. Sono ipercritico. Tutto, mi dico, poteva essere fatto meglio. Se non sono obbligato, ecco, evito volentieri di rivedermi. Ho scoperto che sono più sereno se faccio il mio lavoro e passo oltre». 

Prova più nostalgia o affetto per il passato?

«Tutte e due. Delle cose, lo so, non possono tornare, perché sono ancorate al momento storico in cui vengono immaginate e pensate. Spesso, cercare di rifarle o a rinfrescarle può essere un errore. Detto questo, l'ho fatto anche io diverse volte. In Aniene ho ritirato fuori Lorenzo provando a mostrarlo come padre. Nei ricordi, tutto sembra più dolce e bello. I primi anni, però, non sono stati facili. Mi manca il gruppo. Mi manca quell'atmosfera. Ma va bene così». 

Con Lorenzo e Luco ha parlato del rapporto che c'è tra vecchie e nuove generazioni. Le colpe dei padri sono diventate le colpe dei figli?

«Questa è una domanda difficile, da sociologo navigato. Dirò delle cose banali ma, credo, anche vere. Queste generazioni sono nate dopo, o durante, la rivoluzione digitale. Sono cresciute come una comunità. Una cosa positiva, certo. Ma anche negativa». 

Perché?

«Sono molto geloso della mia solitudine. E questo sembra un mondo in cui siamo quasi costretti a comunicare. Non esiste, secondo me, la categoria dei giovani. Ce ne sono di tutti i tipi. Alcuni vivono la loro vita pigramente; altri, invece, sono impegnatissimi, sempre in prima linea». 

Abbiamo parlato del passato. Del futuro, invece, che dice?

«Sto scrivendo una serie piuttosto strana per Palomar. Non so dove andrà: se in tv o su qualche piattaforma. E poi, covid permettendo, sto pensando di tornare in teatro. Insomma, ho molti progetti. In questi anni mi sono divertito facendo l'attore. Mi fa bene stare con altre persone, anche quando non siamo perfettamente compatibili». 

Nella solitudine non c'è il rischio di annoiarsi?

«Io non mi annoio, faccio un sacco di cose. È un esercizio che mi sento di consigliare a tutti. Astrarsi, stare un po' da soli, leggere, fare attività senza sentirsi costretti a stare con gli altri, in gruppo. La dimensione del privato, per me, è molto preziosa». 

·        Corrado Tedeschi.

Corrado Tedeschi: “Quelle donne che si spogliavano per me…” Di Emanuele Beluffi su Culturaidentita.it il 29 Aprile 2022.

Corrado Tedeschi e Martina Colombari sono i protagonisti dello spettacolo Montagne russe (regia di Marco Rampoldi, scena di Andrea Bianchi), sul palco del Teatro Manzoni di Milano dal 3 al 15 maggio 2022, tratto da uno dei testi più riusciti di Eric Assous. Lui – maturo, affascinante ed elegante, moglie e figlio fuori città – incontra casualmente lei – più giovane, di bell’aspetto e consapevole di piacere – e la invita a casa. Si preannuncia una serata molto piacevole e spensierata, ma lei non è facile come lui si sarebbe aspettato. Ed ogni volta che lui sta per riuscire ad ottenere quello che vorrebbe, la donna lo spiazza cambiando identità e carattere, in un continuo vorticoso salire e scendere, in cui i due protagonisti si trascinano a vicenda.

Corrado tu a teatro con “L’uomo che amava le donne” hai già affrontato la tematica dell’amore ma sotto un altro registro: che tipo di uomo è il protagonista maschile di “Montagne russe”?

Un uomo molto medio e mediamente felice, il quale una sera torna a casa con questa bellissima donna incontrata in un bar (Martina Colombari, n.d.r.): lui è un uomo posato che di fronte a una tale bellezza cede. Il pubblico si aspetta che succeda qualcosa tra un uomo maturo e una ragazza, molto più giovane di lui, che lo mette a dura prova cambiando identità più volte (un’estetista, una escort, un’amica della moglie). E’ goffo e non sa come gestire questa bellissima donna, piuttosto esuberante: si trova all’improvviso sulle montagne russe, appunto.

Insomma non c’è il piacere della conquista, non è un Casanova…

E’ quanto di più lontano si possa immaginare da Casanova! E’ un uomo medio che non ha mai avuto grandi avventure. Non so a quanti uomini può succedere di incontrare una donna bellissima in un bar, invitarla a bere qualcosa a casa loro e vedere che lei accetta subito, sicuramente questo crea nel nostro protagonista un imbarazzo iniziale. E poi “mille sogni” per lui!, che si immagina chissà che, mentre invece le cose andranno molto diversamente da come se l’aspettava…E’ una commedia molto divertente, non posso spoilerare ma ci sarà una sorpresa gigantesca…

Ma è vero che agli inizi della tua carriera quando lavoravi nelle radio private chiedevi alle ascoltatrici di descriverti il loro spogliarello prima di andare a nanna?

[ride, n.d.r.] è vero, non so come hai fatto a saperlo! Adoravo fare i programmi notturni e con grande senso dell’ironia – non c’era assolutamente niente di perverso – dicevo alle ascoltatrici: “Adesso che state andando a dormire, descrivetemi il vostro spogliarello”. E da lì questo programma diventava un burlesque radiofonico casalingo.

Hai iniziato da concorrente, poi sei diventato conduttore: com’è avvenuto il salto?

Ho vinto un concorso alla Rai. Poi Mediaset mi ha fatto subito un contratto: Doppio Slalom, Il Gioco delle Coppie, Italia Uno Sport, Cominciamo Bene alla Rai…. io sono stato un diesel televisivo, ho fatto più di 5mila puntate! Doppio Slalom è stata una trasmissione storica, una bellissima avventura che mi ha dato tantissimo, un quiz per ragazzi che adesso sono un po’ cresciuti, ma sono sempre affezionati e quindi vengono a vedermi a teatro: credo che questo mio modo di fare TV mi abbia dato una popolarità trasversale.

Un’impressione di chi tocca con mano i luoghi di cultura come cinema, teatri e musei: c’è più partecipazione rispetto a prima secondo te? Si è scatenato un amore per la cultura che prima era sopito o è tutto come prima?

Giustamente, come dicevi c’è più amore per la cultura. Io quest’anno batto il record assoluto per un attore di teatro: 140 date. E ho avuto sempre teatri pieni. C’è una grandissima voglia di tornare a teatro, che poi è tornare alla vita. La gente sceglie di andarci, non subisce il telecomando: ho visto tantissima gente, una cosa bellissima. Speriamo di continuare così.

Insomma sei un diesel della tv che macina Km e pubblico nei teatri

Sì [ride. n.d.r.]

Si può dire che tu abbia cominciato la tua prima tournée nelle basi militari?

Sì, sono cresciuto in tutti i porti d’Italia a causa del lavoro di mio padre, ufficiale della Marina. Ricordo il maestro delle elementari che diceva: «adesso Tedeschi ci fa il calcio minuto per minuto», perché con tutte le città in cui avevo soggiornato, avevo appreso le varie inflessioni dialettali. Tramite la commedia italiana ho detto che volevo fare ciò che faceva Gassman, il grande attore di quel tipo di commedia, che secondo me era ancora più bravo di quando interpretava ruoli drammatici.

Sei stato anche un calciatore professionista?

Ho cominciato con le giovanili nella Sampdoria, mi allenavo con Marcello Lippi. Ho dovuto nasconderlo perché mio padre era contrario e lo stesso ho dovuto fare con l’audizione al Teatro Stabile di Genova. Telefonarono a casa per comunicarmi che ero stato preso e mia madre scoprì così che volevo percorrere la strada del teatro, ma all’inizio pensò persino che avessero sbagliato numero. Mio padre voleva che facessi l’ufficiale di Marina. Non ho seguito quella carriera ma quando sento l’inno di Mameli mi metto a piangere. Sarebbe bene essere italiani sempre non solo quando si vedono le partite della Nazionale.

Pandemia e terza guerra mondiale, il peggio del peggio del peggio. Corrado, facciamo un esperimento mentale, sei un drammaturgo: come intitoleresti una tua opera teatrale?

Userei una meravigliosa frase di Einstein: non so come si combatterà questa guerra, ma so come si combatterà la quarta, con le pietre.

Ero un bambino ma mi ricordo il tuo Doppio Slalom: in un certo senso aveva un valore educativo, oggi invece gli adolescenti fanno le baby gang nelle città. Che cosa dovrebbe fare la tv per avere quel ruolo educativo che aveva ai suoi esordi?

Ci vuole coraggio, non bisogna avere paura di fare programmi un po’ più “alti”. Credo che il pubblico vada indirizzato, se noi per fare ascolti diamo sempre le cose più basse avremo la morte dell’intelligenza. Io credo che la tecnologia abbia contribuito a tutto questo: i social hanno creato un mondo di ignoranti, nel vero senso della parola, cioè che ignorano qualsiasi forma di cultura. Aveva ragione Umberto Eco, quando diceva che Internet ha dato la parola anche a quelli che al bar venivano messi in un angolo. Bisognerebbe uscire da questa situazione anche dal punto di vista del linguaggio dei social: con queste “emoticon” ormai il linguaggio è diventato un linguaggio delle caverne, non si parla più, si fanno solo gesti mimati, adesso far lavorare il cervello è diventato scomodo. Doppio Slalom invece permetteva ai ragazzi di giocare in maniera intelligente, erano preparatissimi, non avevano solo una cultura scolastica ma anche quotidiana, quindi leggevano anche i giornali. Ma ci sono ancora, grazie a Dio, dei giovani così. E ci sono ancora dei programmi intelligenti di grande successo: L’Eredità, ad esempio. Ma non a livello di Doppio Slalom! [ride, n.d.r.]. Questo vuol dire che la gente ha voglia di cimentarsi, basterebbe un po’ più di coraggio, pensando soprattutto ai giovani. Siamo un Paese avviato alla catastrofe, un Paese che sta tornando all’analfabetismo, ma qualcosa si può ancora fare, prima che sia troppo tardi.

·        Costantino Della Gherardesca.

Costantino della Gherardesca per “Il Foglio” il 5 maggio 2022.  

Una volta, più di vent’anni fa, Roberto D’Agostino mi prese da parte e mi disse: “Tu sei frocio, non ti mischiare con questi gay”. È una distinzione che mi onora, ma che a molte persone – sia omosessuali dell’ultima ora sia etero genuini – sfugge del tutto.

Qualche giorno fa, per esempio, ho dovuto spiegarla al mio manager, Umberto Chiaramonte. Umberto è sempre pronto a darmi una mano, soprattutto quando si tratta di proteggermi da me stesso, quindi mi è sembrato giusto, per una volta, ricambiargli il favore aiutandolo a identificare i pericolosissimi gay. D’altronde, da vent’anni a questa parte, raggirano agenti e casting director di tutto l’occidente celando la propria mancanza di talento dietro al loro orientamento sessuale. 

Per sfondare le resistenze della sua mente etero, ho dovuto ricorrere a un espediente retorico che un frocio radicale come me teme e rifugge più della monogamia: la metafora calcistica. 

Per essere certo che Umberto cogliesse l’abisso semantico che separa noi froci da loro gay, ho dovuto usare un termine di paragone a lui familiare: il derby Roma-Lazio, una partita nella quale si scontrano due squadre che, agli occhi di chiunque viva a nord di Terni, sono essenzialmente la stessa cosa, ma che per chi è nato fra Formia e Tarquinia sono diverse quanto una poltrona Chippendale e uno sgabello di Kartell.

Mentre un frocio spera di essere trasportato in carrozzina come una Liz Taylor in pieno coma farmacologico, i gay sognano di sposarsi in chiesa per poi portare in passeggino i loro figli biologici battezzati. Un frocio punta a dissipare senza rimorsi capitali propri e altrui. 

Un gay sogna un bravo marito e una prole numerosa, proprio come una quindicenne mennonita. Loro, i gay, ascoltano i podcast di Nicola Lagioia prodotti da Mario Calabresi. Noi, i froci, leggiamo Richard Hawkins che chiacchiera con Dennis Cooper di twink che si segano su OnlyFans. 

Loro collezionano uteri da fecondare. Noi collezioniamo vasi (rigorosamente senza fiori: le presenze floreali comunicano al malcapitato ospite che il tuo vaso non può essere rivenduto sul mercato secondario). 

Loro risparmiano per garantire un futuro ai propri figli. Noi sperperiamo in gioielli convinti che ci faranno rimorchiare i giovani figli di qualcun altro.

Loro vanno in vacanza in un agriturismo a Noto. Noi ci compriamo svariate camice a maniche corte da Prada, così le possiamo mettere alla sauna Babylon di Bangkok. Ma poi passiamo le vacanze a Lugano a farci un qualche interventino.

Loro, quando hanno gente a cena, non sanno dove nascondere i passeggini. Noi, quando alla porta c’è il rider che ci consegna il gelato, non sappiamo dove nascondere i cadaveri delle marchette. 

Loro vanno in palestra. Noi di queste palestre ne abbiamo sentito parlare. Ce le nomina sempre il concierge quando soggiorniamo al Claridge’s. 

Se penso che negli anni Settanta il povero Michel Foucault si era illuso che noi froci avremmo convertito gli etero alla libertà sessuale… Chissà che magone gli prenderebbe se vedesse da che generazione di gay siamo stati soppiantati: un esercito di cripto-etero palestrati con i denti bianchi come le piastrelle di un cesso, tutti eccitati all’idea di sposarsi in una chiesetta di montagna.

Un esteta irredento come Cristopher Gibbs si rivolterebbe nella sua tomba nel cimitero di Tangeri se sapesse che, anziché dilapidare ingenti somme di denaro per arredare divinamente un rudere nel cuore della casba, questi gay scriteriati non fanno altro che mettere da parte i soldi necessari per fecondare una povera ragazzotta di Winnipeg che gli sforni un bambino da sfoggiare in testa ai cortei dei loro gay pride, probabilmente sponsorizzati da una multinazionale che fa biberon ma, per fortuna, anche sigarette. 

Come posso io – brutto, povero e infedele – vivere sereno in un’èra in cui da un onesto omosessuale ci si aspetta che si iscriva a pilates, abbia il sorriso di Bradley Cooper e metta su famiglia? Come posso fiorire e prosperare in una società che da me non si aspetta più commenti tranchant sul look di tizio e caio, ma consigli su come caricare in maniera ottimale la lavastoviglie? 

Nel caso non l’abbiate ancora capito, io sono frocio e il mio manager è della Lazio.

È morta la madre di Costantino Della Gherardesca. Francesca Galici il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Aveva 85 anni Costanza Della Gherardesca, madre di Costantino, morta a seguito di una lunga malattia. I funerali si svolgeranno a Bolgheri.

All'età di 85 anni si è spenta Costanza della Gherardesca, madre di Costantino, noto conduttore televisivo. La donna, di nobili origini, era da tempo malata e viveva nella residenza di famiglia al mare in provincia di Livorno. A darne l'annuncio sono stati i due figli con i nipoti Gherardo, Anna e il marito Jimmy. I funerali verranno celebrati nella chiesa di Bolgheri, il celebre borgo del comune italiano di Castagneto Carducci, il prossimo 8 febbraio alle ore 11.

Quella Della Gherardesca è una delle più blasonate famiglie nobili italiane, che da secoli vive tra Donoratico e Bolgheri, sempre in provincia di Livorno. Qui, la famiglia possiede numerosi terreni e ville. Costanza Della Gherardesca ha avuto una vita molto intensa: nel 1958 sposò il conte Niccolò Gaetani Dell'Aquila Caetani, da cui ha avuto due figli, Olimpia (1959) e Filippo (1964). Il matrimonio con il conte naufragò e i due divorziarono nel 1970. Costantino è nato 7 anni dopo, nel 1977 dalla relazione di Costanza Della Gherardesca con Alvin Verecondi Scortecci. La loro storia finì dopo poco e l'uomo lo ha riconosciuto 5 anni dopo, quando Costantino era già stato dichiarato con il cognome della madre.

Il conte Della Gherardesca, zio di Gherardo Gaetani dell'Aquila d'Aragona, meglio conosciuto come Barù, ora concorrente nella casa del Grande fratello vip, ha voluto lasciare un ricordo social di sua madre: "Era la persona a cui ho voluto più bene ed anche quella che mi ha voluto più bene. Era la persona che mi ha cresciuto, insieme a mia sorella. Era la persona che con me è stata generosa (ma non solo, lo era con tutti i suoi amici e parenti) e che mi ha insegnato ad essere generoso senza pretendere di avere qualcosa indietro, se non la gioia dì rendere le persone felici".

Costantino Della Gherardesca ha poi aggiunto: "Era più simpatica e solare dì me, non a caso aveva moltissimi amici che la amavano e contavano sul suo sorriso, la sua forza e la sua contagiosa gioia di vivere. Rischio dì offendere le sue amiche se non scrivo che era innanzitutto una donna libera, anche in anni in cui la società italiana era fortemente discriminatoria verso le donne. Per le sue amiche era anche una sorella, per i suoi amici era anche un compagno di avventure pari grado e per i suoi figli era anche un supporto, immancabilmente presente, e spesso un'amica forte ma di larghe vedute".

Quello del conduttore è un elogio d’amore per sua madre, che Costantino Della Gherardesca conclude così: "Anche per i suoi nipoti, che come me amava follemente, oltre ad essere una nonna era anche una maestra di vita. Cara mamma, sii felice perché non sono solo. Si, certo, per colpa degli omosessuali che sono sempre più 'ordinari' (come dicevamo con Francesco) sono di nuovo single. Ma ho tanti amici".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Da lastampa.it l'8 febbraio 2022.

È morta sabato 5 febbraio all'età di 83 anni la contessa Costanza della Gherardesca, madre di Costantino, il noto presentatore televisivo e opinionista che si è affermato con il programma “Pechino Express” e più di recente con il format “Quattro matrimoni”. La nobildonna, da tempo malata, viveva nella sua casa al mare, tra il comune di San Vincenzo e quello di Campiglia Marittima, in provincia di Livorno. L'annuncio della scomparsa «con grande tristezza» è stato dato dai figli Olimpia e Costantino con i nipoti Gherardo, Anna e il marito Jimmy.

«Mia madre – ha scritto il presentatore sul suo account Instagram – era la persona a cui ho voluto più bene ed anche quella che mi ha voluto più bene. Era la persona che mi ha cresciuto, insieme a mia sorella Olimpia. 

Era la persona che con me è stata generosa (ma non solo, lo era con tutti i suoi amici e parenti) e che mi ha insegnato ad essere generoso senza pretendere di avere qualcosa indietro, se non la gioia dì rendere le persone felici».

Ma Costantino della Gherardesca ha sottolineato anche i tratti della madre che verranno ricordati dagli amici: «Era più simpatica e solare dì me, non a caso aveva moltissimi amici che la amavano e contavano sul suo sorriso, la sua forza e la sua contagiosa gioia di vivere. 

Rischio dì offendere le sue amiche se non scrivo che era innanzitutto una donna libera, anche in anni in cui la società italiana era fortemente discriminatoria verso le donne. Per le sue amiche era anche una sorella, per i suoi amici era anche un compagno di avventure pari grado e per i suoi figli era anche un supporto, immancabilmente presente, e spesso un’amica forte ma di larghe vedute. Anche per i suoi nipoti, che come me amava follemente, oltre ad essere una nonna era anche una maestra di vita».

E qui il figlio si appella alla mamma la cui dipartita è ancora fresca: «Cara mamma, sii felice perché non sono solo. Si, certo, per colpa degli omosessuali che sono sempre più “ordinari” (come dicevamo con Francesco) sono di nuovo single. Ma ho tanti amici, tra cui il tuo amato Daniel e Federico con cui andavo in slittino. 

Il tuo adorato Rudy, che ti fa tanto ridere e consideri “una persona speciale”, non é molto presente ma ci penserà Olympia a dargli un calcio nel culo atbarulino per me é FONDAMENTALE, Anna come dici sempre é straordinaria e molto intelligente, poi adesso ho atumbertochiaramonte che ha un ruolo importantissimo nella mia vita ed é diplomatico e paziente, cosa che come sai non riesco ad essere (grazie a lui potrebbe sparire quella cosa che io e te avevamo definito GeldAngst). 

Ho anche un nuovo collega ed amico che é una persona meravigliosa, umanamente un santo ma con un carattere forte. Si chiama Lorenzo atcesso_pubblico . Ma soprattutto, grazie al cielo ma anche a te, c’é la tua amata Plix. Olympia é il mio faro nel buio e non vedo l’ora di poterla portare in Sri Lanka, a fare il viaggio che facemmo noi».

I funerali della nobildonna si terranno martedì 8 febbraio, alle ore 11, nella chiesa di Bolgheri, il celebre borgo del comune italiano di Castagneto Carducci (Li). La famiglia dei conti Della Gherardesca risiedono da secoli nella zona tra Donoratico e Bolgheri, dove possiedono terreni e proprietà. Costanza Della Gherardesca (1939) sposò nel 1958 il conte Niccolò Gaetani Dell'Aquila Caetani (1928-2011), da cui ha avuto due figli, Olimpia (1959) e Filippo (1964); poi ha divorziato nel 1970. Costantino è nato nel 1977 dalla relazione con Alvin Verecondi Scortecci, che lo ha riconosciuto 5 anni dopo che era già stato dichiarato con il cognome della madre.

A piangere la scomparsa di Costanza Della Gherardesca è anche Barù Gaetani, il cui vero nome è Gherardo Gaetani Dell'Aquila d'Aragona, nipote di Costantino Della Gherardesca. La nobildonna discendente di una delle famiglie nobili più antiche d'Italia era sua nonna. Barù Gaetani ha appreso la notizia nella Casa del Grande Fratello Vip, dove come concorrente gli è stata comunicata dagli autori del reality show nella serata di sabato 5 febbraio in “confessionale”. Barù si è fatto conoscere grazie alla partecipazione insieme allo zio alla prima edizione di “Pechino Express”. Nel 2017 è stato giudice del programma culinario “Cuochi e fiamme” condotto da Simone Rugiati.

·        Cristiana Capotondi.

Da ansa.it il 4 ottobre 2022.

Cristiana Capotondi rivela, ''io e Andrea separati da più di un anno e mezzo, ma gli ho chiesto di starmi accanto per la nascita della mia bimba''. 

Andrea Pezzi, ''a Cristiana tutta la mia ammirazione e la mia stima''. 

Cristiana Capotondi, in una dichiarazione all'ANSA, ''con immensa gioia comunica la nascita di sua figlia Anna e con infinita gratitudine verso l'ex compagno, Andrea Pezzi''. 

E spiega: ''Anna è nata venerdì 16 settembre. La nascita di mia figlia è una gioia immensa che oggi sono felice di condividere. Quando ho scoperto di aspettare un figlio da un'altra persona, la mia lunga relazione di 15 anni con Andrea Pezzi si era interrotta già da diversi mesi.

Nonostante questo, mi è venuto naturale cercare la protezione e la complicità di Andrea, tanto rimane forte il nostro affetto e il nostro legame. Grazie ad Andrea per averci accompagnate per mano fino a qui. Te ne saremo per sempre grate. Ringrazio anche tutti coloro che, pur sapendo, hanno rispettato la nostra privacy e coloro che, da oggi, sceglieranno di farlo. 

"Anche Andrea Pezzi ha scelto di diffondere all'ANSA, per mezzo di questo comunicato, una sua dichiarazione. "Dopo 15 anni insieme, all'inizio dell'estate '21, Cristiana ed io abbiamo deciso di separarci senza tuttavia comunicarlo per prenderci tutto il tempo per riorganizzare con calma le nostre vite. Quando, all'inizio di quest'anno, Cristiana ha scoperto di aspettare un bambino, pur non essendo io il padre, mi ha chiesto di restarle accanto nella fase lunga e delicata della gravidanza. Voleva proteggere un momento così importante.  Oggi più che mai, a Cristiana va tutta la mia ammirazione e la mia stima''. 

La scelta di Andrea Pezzi e la normalità del maschio capace di tenerezza. Claudia de Lillo su La Repubblica il 5 Ottobre 2022.

L’imprenditore ha deciso di stare accanto all’ex compagna, l’attrice Cristiana Capotondi, incinta di un altro. Un gesto che non deve stupire

Lei e lui stanno felicemente insieme per quindici anni. Come succede ai più, a un certo punto si lasciano. Lei rimane incinta, gli chiede di starle accanto. Lei è la madre, lui non è il padre. Lui, l'ex, l'amore finito, non le risponde sdegnato "Scordatelo, per chi mi hai preso?", come farebbe il maschio medio del nostro immaginario patriarcale e disilluso.

Non solo Pezzi: da Momoa a Banderas i nuovi patrigni. La Repubblica il 5 Ottobre 2022.

Che cosa significa essere un padre? Di sicuro non soltanto contribuire biologicamente alla nascita di un figlio. A fare notizia in queste ore è il caso di Andrea Pezzi, ex compagno di Cristiana Capotondi, che è rimasto al fianco dell'attrice durante la gravidanza della piccola Anna (nata il 16 settembre 2022) nonostante non ne sia il padre. Un caso singolare sicuramente, eppure, soprattutto dalle parti di Hollywood, sono molti i casi di padri non naturali che si sono presi cura e hanno cresciuto i figli delle mogli o delle compagne anche dopo la fine del rapporto con le madri dei ragazzi. Da Jason Momoa ad Antonio Banderas, passando per Kurt Russell e Steven Spielberg eccone alcuni

Cristiana Capotondi compie 42 anni, film, calcio, il grande amore per Andrea Pezzi e la maternità imminente. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022

L’attrice è una donna indipendente, amata da pubblico sul piccolo e grande schermo

Capotondi bambina

L’attrice è nata a Roma il 13 settembre 1980: oggi compie dunque 42 anni anche se il viso è ancora da ragazzina: «Il tempo mi ha dato la pace, mi sono calmata». Da ragazzina, quando ha iniziato a recitare (ha esordito a soli 13 anni in alcuni spot e nella serie tv «Amico mio»), la chiamavano «Attila: il flagello di Dio. Ero irruenta e vivace e credo di essere stata una figlia molto faticosa». Eppure alla fine ha esaudito il desiderio dei genitori, «un padre dolce e accogliente, una madre divertente e spigolosa»: «Volevano mi laureassi. Tra la fine di un film e l’inizio di un altro, ormai quasi 15 anni fa, in un caldissimo luglio del 2005 li ho accontentati». E così Capotondi, protagonista di tanti film e fiction, in ruoli spesso complicati – di recente l’abbiamo rivista in tv nella fiction crime sul femminicidio «Bella da morire» – è riuscita a prendere la laurea e ad accontentare i genitori.

Siamo negli anni Novanta, e arriva uno spot che resterà nella memoria sia per il famosissimo claim «Due gust is megl che uan» - riferito a un gelato bigusto - che fa conoscere al grande pubblico due attori allora sconosciuti: Cristiana Capotondi e Stefano Accorsi, due giovanissimi dal viso acqua e sapone. Colonna sonora strepitosa: il brano brasiliano «Pata Pata» di Miriam Makeba.

2006, anno magico tra nomination e l’incontro con Andrea Pezzi

Andrea Pezzi e Cristiana Capotondi sono una delle coppie più salde del mondo dello spettacolo. Sono legati dal 2006, un anno magico per lei: riceve la sua prima candidatura ai David di Donatello come miglior attrice protagonista, per il ruolo di Claudia, in «Notte prima degli esami» e conosce Andrea. Lui conduce «Il tornasole» su Rai2 e comincia la sua attività di consulente in comunicazione e di imprenditore nel digitale. «Sto bene con il mio compagno, ci piace la vita che facciamo e non la cambierei. Tanti anni poi li abbiamo dedicati ai viaggi, a ritagliarci i nostri spazi» ha raccontato l’attrice al settimanale F. Ha dichiarato anche di essere stata lei a « provarci» con l’ex conduttore, dopo averlo conosciuto durante un viaggio in aereo. Si sono poi rivisti sul set di «Kitchen», il programma di Mtv in cui Pezzi cucinava insieme ad attori, cantanti e personaggi del mondo dello spettacolo. E da lì è nato l’amore.

La castità

Una questione che fece discutere e appassionò i fan fu quando, proprio agli inizi della relazione, Cristiana e Andrea decisero di vivere un periodo di castità. Raccontò Pezzi: «Durante una cena, Cristiana rimase male perché una ragazza più grande l’aveva messa dialetticamente in crisi. E allora le spiegai che non era fortunatamente bella come lei e aveva dovuto farsene una ragione, sviluppando una certa dialettica». Così Capotondi prese una decisone quasi drastica. Continua Pezzi: «Lei è andata talmente in crisi che ha deciso di provare con me se riusciva ad avere un primato di relazione, ovvero rimanere casta per pochi mesi. A me è piaciuta molto per questa sua volontà. Le sono stato vicino per tanto tempo, vedendola trasformarsi in una donna che oggi trovo straordinaria. La sua voglia di essere migliore ogni giorno è passata anche per questa cosa». E ancora: «Il sesso è una cosa difficile da capire. Viene dato come se fosse semplice, ma fare bene l’amore per me è stata una conquista – ha concluso il compagno di Cristiana Capotondi – E’ un mestiere! La società non ti spiega che ci vuole pazienza, che ci vuole tempo per godere». (Ovviamente il periodo di castità è assolutamente terminato).

Maternità sì, maternità no

A luglio è stato reso noto che Cristiana Capotondi avrà un figlio da Andrea Pezzi. Ma al settimanale F si è lasciata andare a riflessioni diverse sulla maternità, qualche anno fa. «Nella nostra cultura la maternità sembra necessaria nella vita di una donna. Ma ci sono altri modi per realizzare l’istinto materno: Madre Teresa di Calcutta non ha avuto figli, ma chi potrebbe dire che non era materna?». Il tema della maternità è stato spesso dibattuto da Cristiana Capotondi, anche pubblicamente e con posizioni rigide. L’attrice ha sempre dichiarato di voler rivendicare il diritto di scegliere senza imposizioni, dandosi tutto il tempo necessario per decidere. I figli potrebbero quindi arrivare o non arrivare: «La vita è fatta di tante esperienze, quella della maternità deve essere straordinaria ma ognuno deve arrivarci con i propri tempi». Cristiana Capotondi e Andrea Pezzi sono cresciuti insieme e si ritengono una famiglia.

La passione per il calcio

Oltre alla recitazione, Cristiana ha un’altra grande passione: il calcio. Un amore che l’ha vista coinvolta in numerose partite benefiche oltre a portarla ad essere eletta vice presidente della Lega Pro nel 2018 e a essere nominata capodelegazione della Nazionale Italiana di calcio femminile. La passione per il pallone l’ha «aiutata» pure nella scelta dell’uomo della sua vita: Andrea Pezzi. «Quando ho visto giocare Andrea per la prima volta l’ho amato da morire, ho avuto la conferma che fosse la persona giusta: ha un tocco di palla meraviglioso!», ha raccontato ridendo alla Gazzetta dello Sport.

L’amore per i fornelli

Il loro amore dura da 15 anni. Eppure Cristiana ha un rimpianto: «Non averlo incrociato ancora prima, quando ascolto i racconti del suo passato vorrei essere stata già con lui. Ho addirittura interrogato il fratello e la madre per capire com’era». Ad accomunarli, fra l’altro, c’è la passione per i fornelli («amiamo cucinare insieme») e per il nuoto: «Siamo instancabili con la maschera e le pinne, lui al mare c’è pure nato, a Ravenna».

L’esordio con Boldi-De Sica e Luke Perry

L’esordio di Capotondi avviene nel 1995, con la commedia «Vacanze di Natale ‘95» firmata da Neri Parenti, insieme alla coppia comica Boldi - De Sica. Lei interpreta una ragazzina che vuole incontrare a tutti i costi l’idolo di Beverly Hills, Luke Perry, che interpreta se stesso.

Il film su Lucia Annibali

Cristiana Capotondi è molto impegnata nelle battaglie dei diritti per le donne alle quali non ha mai fatto mancare il suo supporto. Uno dei suoi film per la tv più intensi è «Io ci sono» in onda su Rai 1, il 22 novembre 2016. Il film, tratto dal libro «Io ci sono. La mia storia di non amore», racconta la vicenda realmente accaduta all’avvocato pesarese Lucia Annibali, il cui viso venne deturpato da sostanze acide in seguito a un’aggressione avvenuta sul pianerottolo di casa propria: il mandante è stato l’ex fidanzato.

Cristiana Capotondi: «Le fate ignoranti, tradimenti e dolori. Sono una donna borghese che cambierà». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2022.

La serie Disney 20 anni dopo il film cult. L’attrice nel ruolo che fu di Margherita Buy: «Se oggi siamo più o meno liberi? La sacrosanta ricerca di una tutela per tutti ha limitato alcune libertà. Ma è una fase di passaggio. L’infedeltà è una forma di fragilità». 

Cristiana Capotondi entra nella «famiglia» di Ferzan Özpetek, nella sua cinetribù. Le fate ignoranti, il suo film cult del 2001, diventa la serie Disney+ in otto episodi prodotti da Tilde Corsi e disponibili dal 13 aprile, 4 girati da Özpetek (cosceneggiatore con Gianni Romoli) e 4 dal suo storico aiuto regista Gianluca Mazzella. Luca Argentero è il marito di Cristiana che muore, Eduardo Scarpetta è l’amante di lui. Cristiana è ignara dell’altra vita del marito: dopo il dolore, imparerà ad allargare il suo campo visivo, la percezione della vita.

Cristiana, cosa ricorda del film?

«Mi diede un senso di libertà nei costumi che all’epoca riguardava solo lo star system, Bowie, Freddie Mercury… Ferzan raccontava la realtà di anime che cercano la loro identità costruendo relazioni profonde. E la libertà apparteneva a tutti».

Eredita il ruolo di Margherita Buy.

«Le ho scritto un messaggio. È una interprete in grado di combinare commedia e dramma. Vent’anni dopo, dovevamo costruire un percorso diverso, aggiornato anche socialmente. Lì c’era la scoperta di un mondo da parte di una donna borghese, ora ci sono più punti di vista, è la storia di un gruppo. Il mio personaggio, Antonia, ha una leggerezza e una fluidità diversa, più moderna. Ferzan, col suo sorriso malandrino, ha la capacità di non giudicare, di abbracciare l’umanità in tutte le sue forme. Nel 2022 colpisce meno il tema del tradimento».

È meno centrale?

«Non voglio dire questo. Nella serie suo marito Massimo ha un’altra vita, fuori dalla famiglia tradizionale, ed è pieno di amici. Antonia dopo la sua morte un Massimo che non conosceva, è questo che la fa soffrire, si sente sola davanti al plotone delle fate ignoranti, ma condividerà il suo dolore, trova porte aperte rispetto al mondo borghese da cui proviene, col suo sistema di regole, le sue porte chiuse. Nella serie, rispetto al film, Antonia è più disposta al cambiamento, ha una bella leggerezza esistenziale».

Il Me Too,il politicamente corretto: oggi siamo più liberi o meno liberi?

«La sacrosanta ricerca di una tutela per tutti ha limitato alcune libertà, ma credo sia una fase di passaggio».

Lei e il tradimento?

«A me non piace, è una forma di fragilità, a meno che non porti alla separazione e a un altro incontro. Mi è capitato in passato di tradire e di essere tradita, ho fatto mea culpa, ho sofferto molto».

Ferzan dovette modificare qualcosa perché Margherita Buy era incinta. Lei non ha figli: esiste un ricatto biologico?

«Molti ritengono che il compimento dell’esistenza sia nei figli e lo proiettano sugli altri, trasferiscono questo senso di urgenza. Ti fa capire quanto sia sentita la maternità, ma il senso di obbligo rischia di allontanare le donne da questo tema, e diventa l’antitesi dell’atto naturale di diventare madri. Come lo vivo? Ho ancora un’età tale per cui è un argomento aperto. L’istinto materno è un modo femminile di amare che prescinde dal diventare madri. Io lo esprimo nei progetti di vita».

La memoria della sofferenza può essere più forte di una sofferenza attuale?

«Ci sono dolori profondi da cui non è detto che ti liberi e faranno sempre parte di te. Il dolore configura il carattere. Antonia scoprirà la sua prima grande sofferenza».

Ferzan dice che se le chiedeva di buttarsi dal secondo piano, lei l’avrebbe fatto.

«Per fortuna non me l’ha chiesto. Sono un soldatino».

L’omosessualità prima al cinema era caricaturale, goffa…

«È vero, Ferzan ha costruito la felicità di amare che va al di là dei sessi e avvicina due mondi, etero e omosessuale. C’è una libertà a prescindere dall’orientamento sessuale. Lui non esclude: accoglie».

Lei non è solo attrice ma attivista per i diritti civili.

«Sono curiosa, voglio conoscere il mio tempo, è il mio modo di stare al mondo. Avendo interpretato Lucia Annibali, il mio impegno è sulle molestie e violenze sui luoghi di lavoro, ora mi sto occupando delle donne ucraine. Mi concentro sui diritti femminili».

Dovremo arrivare a una riconciliazione fra i sessi…

«Lo dice l’allenatrice di calcio Milena Bertolini con cui lavoro: bambini e bambine dovrebbero giocare insieme per costruire un tessuto sociale comune e non percepire l’altro da sé. Fare le cose insieme è fondamentale. L’uomo cresce col vecchio modello materno, poi incontra una donna in carriera e riceve messaggi antitetici. C’è una immagine femminile che non corrisponde alla realtà».

«Notte prima degli esami» e Nicolas Vaporidis?

«Un film pazzesco. Uno straordinario lavoro di gruppo. Io mi ero appena laureata. Nicolas all’Isola dei famosi? Io mi tuffo nell’informazione di L 7 e nei film sulle piattaforme».

Vive a Milano da anni.

«Spero di restituire la metà di ciò che ho avuto. Mi ha insegnato il rispetto delle regole, ti obbliga a far parte della comunità, a occuparti degli altri. Ti trasferisce una identità anche se non sei nata lì. Di Roma mi mancano i colori, l’incanto. Ma ci vado spesso».

Ha passato il giro di boa dei 40 anni.

«Sono contenta ma anche disperata, ho capito alcune cose, per esempio che quando gioco a calcetto la mattina dopo mi sveglio strisciandomi giù dal letto».

·        Cristiano De André.

Francesca De Andrè, "il punto più basso". Papà Cristiano stronca la figlia: cosa non torna sull'aggressione. Libero Quotidiano il 10 giugno 2022

In una lunga intervista rilasciata per Il Corriere della Sera, il celebre cantautore Cristiano De Andrè ha parlato per la prima volta di quello che è successo alla figlia Francesca. Quest'ultima è finita recentemente sotto i riflettori a causa delle violenze subite dall'ex fidanzato. Quello che ha dichiarato il padre sulla vicenda ha però spiazzato più di qualcuno che non si aspettava una reazione del genere.

"E’ un momento difficile per Francesca, lo è sempre stato…Mi auguro che riesca a capire un po’ di cose e a mettere la testa a posto…" queste le parole del padre Cristiano al Corriere della Sera. Giorni fa Francesca era stata anche ospite a I Fatti Vostri proprio per parlare della violenza subita. Cristiano ha inoltre aggiunto: "Purtroppo viviamo in una società dove oggi si può avere successo raccontando il peggio di sé stessi…E questo è forse il punto più basso che abbiamo raggiunto…".

Queste parole hanno fatto infuriare il giornalista Gabriele Parpiglia che ha seguito tutta la vicenda da vicino. L'autore Tv, molto attivo sui social,  ha infatti sostenuto di non aver gradito le parole del padre: "Quindi il problema non è la figlia massacrata, come da referto, come i carabinieri hanno certificato…Il problema è la figlia stessa…Che schifo!".

Francesca De André contro il padre Cristiano: "Io vittima di amori malati ai quali sono stata abituata". Novella Toloni il 20 Giugno 2022 su Il Giornale.

Dopo le recenti dichiarazioni di Cristiano De André, la figlia Francesca si è sfogata sui social con un duro messaggio contro il genitore: "Parla lui che ha massacrato di botte la madre della mia sorellastra".

La violenza fisica non bastava. Ora Francesca De André deve subire anche quella psicologica da parte di chi la accusa di essersela cercata. Nelle scorse settimane l'ex gieffina ha denunciato l'ex fidanzato per violenza domestica dopo il pestaggio subìto a maggio, che l'ha vista finire al pronto soccorso in codice rosso. A quel dolore si è aggiunto quello per le dichiarazioni rilasciate dal padre Cristiano De André, che l'ha invitava "a mettere la testa a posto".

"È qualche giorno che leggo, stando zitta, una quantità di ca.... e cattiverie da urto di vomito. Sono scioccata da quello che ho letto in generale, tra chi incolpa me, parte lesa, e chi pensa di sapere cosa e come avrei dovuto comportarmi", ha scritto Francesca De André nelle storie della sua pagina Instagram, parlando di quanto successo subito dopo la denuncia all'ex per percosse. L'intervista rilasciata al settimanale Chi, nella quale raccontava delle violenze subìte per mesi da parte del suo ex fidanzato, ha suscitato critiche e polemiche e, in alcuni casi, lei è stata giudicata aspramente.

A farle più male, però, sono state le parole del padre il cantautore Cristiano De André, che in una recente intervista al Corriere della Sera ha commentato la triste vicenda legata alla figlia: "È un momento difficile per Francesca, lo è sempre stato. Mi auguro che riesca a capire un po’di cose e a mettere la testa a posto. Purtroppo viviamo in una società dove oggi si può avere successo raccontando il peggio di se stessi. E questo forse è il punto più basso che abbiamo raggiunto". Parole prive di empatia verso Francesca, che sui social ha sfogato tutta la sua delusione verso il padre: "Quello che ho subito arriva da amore malato al quale sono stata abituata".

Divieto di avvicinamento per l'ex di Francesca De André dopo le aggressioni

L'ex gieffina ha puntato il dito contro l'artista, accusandolo di essere stato per lei un esempio non proprio edificante dal punto di vista della violenza. "Quella che vedete tumefatta e massacrata di botte da mio padre in questo articolo pubblico (uno dei tanti), è la madre della mia sorellastra", ha scritto la De André pubblicando l'estratto di un articolo di anni fa, nel quale l'ex compagna di Cristiano De André, Sabrina La Rosa, lo accusava di averla picchiata. "Quando lei era conciata così, mi chiedo, suo padre avrà pensato a regalarsi una moto?", ha concluso Francesca, riferendosi al padre. Subito dopo la denuncia della violenza subita dalla figlia, l'artista aveva pubblicato sui social una foto in cui annunciava di essersi regalato una moto Triumph Bonneville. Il gesto ha toccato profondamente Francesca, che oggi accusa il padre di insensibilità.

Cristiano De André: «Papà mi voleva veterinario. I ricordi belli dell’infanzia? Io sulle ginocchia di Chaplin». Alessandra Arachi Il Corriere della Sera il 10 Giugno 2022.

Il racconto del cantautore che viveva con dolore i confronti con il padre. Sulla figlia Francesca: «È un momento difficile, lo è sempre stato. Mi auguro che riesca a capire un po’di cose e a mettere la testa a posto». 

Cristiano De Andrè, a che età ha capito che la musica sarebbe stata la sua vita?

«A 12 anni. Mi chiudevo in camera e suonavo la chitarra, mi allenavo per ore. Poi grazie a una compagnia di ragazzi di Genova imparavo nuovi accordi, quelli che mio padre non mi voleva insegnare». 

Perché non voleva?

«Diceva che con il mio cognome fare il suo mestiere non sarebbe stato facile. Avrebbe preferito che frequentassi veterinaria così mi sarei occupato dell’azienda agricola di Tempio Pausania. Io ho insistito, discutevamo. Poi alla fine mi ha iscritto al conservatorio di violino, però...». 

Però?

«Non perdeva occasione per dirmi che sarebbe stato difficile, che avrei dovuto impegnarmi molto e aveva ragione. Per parecchi anni il paragone con lui è stato ineluttabile, a volte anche molto doloroso. Però alla fine sono contento di aver insistito. Ho prodotto sette album miei, sono riuscito a crearmi una mia solidità personale, quella di riuscire a fare musica e di vivere di questo, oggi è già tanto ». 

Il ricordo più dolce di suo padre Fabrizio?

«Tanti. Uno è stato quando a sei anni mi ha regalato una chitarrina e con quella ho scritto la mia prima canzone, gliel’ho cantata e lui si è emozionato. Pensava, sperava, che finisse con quel gioco da bambino. Invece a 18 anni ho fondato un gruppo di successo, “I tempi duri”. Allora si è accorto che non scherzavo. Però il ricordo più importante che ho di lui è in età adulta». 

Quale?

«L’ultimo tour, quello di Anime Salve. È stato il periodo più intenso che ho vissuto insieme a lui sia dal punto di vista professionale sia umano. Abbiamo avuto molto tempo per stare insieme, per parlarci come non avevamo mai fatto, per conoscerci meglio. Per fortuna c’è stato questo momento altrimenti oggi avrei il rimpianto di non averlo vissuto».

Dopo la scomparsa di suo padre ha deciso di prendere in mano il patrimonio delle sue canzoni, di riarrangiarle in chiave rock e di portarle in tournée. Un’impresa ardita...

«Poteva essere una zappata sui piedi, ma ho voluto correre questo rischio. È stato un modo per sentirmi io più vicino a lui e poi per tutti quanti per alleviare un po’ la sua mancanza. L’ho fatto perché me lo aveva chiesto lui, proprio nell’ultimo tour». 

Cosa le aveva chiesto?

«Di dare una mia interpretazione alle cose che aveva fatto. Poi quando è scomparso ho pensato che come figlio avevo una responsabilità che andava oltre la musica». 

Cosa ha sentito?

«Con la mia visione di musicista ho dato l’opportunità di poter riascoltare le sue opere. Oggi più che mai abbiamo il bisogno di rileggere chi ha visto più in alto di noi. Di riascoltare opere che ci danno uno spunto di riflessione sul mondo e uno sguardo più umano con il quale osservarlo. Viviamo in un periodo in cui è difficile dire qualcosa di nuovo rispetto a tutto quello che è stato già scritto. E il vero pericolo che corriamo è di dimenticare. C’è troppo qualunquismo in giro, distrazione».

Ha trasformato in un film «Storia di un impiegato», un disco che suo padre incise quasi cinquant’anni fa. È stato molto apprezzato alla mostra del cinema di Venezia. Cos’è che lo rende ancora così attuale?

«Intanto è merito della regista Roberta Lena che ha saputo creare una sintesi narrativa e visiva particolarmente poetica. E poi bisogna dire che tutte le opere di mio padre hanno la prerogativa di risultare sempre attuali. L’arte è arte, attraversa il tempo senza essere scalfita. “Storia di un impiegato”, poi, lo è in modo particolare». 

Perché dice?

«Perché è una presa di coscienza contro il potere e le sue declinazioni. È un momento in cui si stanno ripetendo tante cose di allora». 

«Storia di un impiegato» però parla del maggio francese da cui derivò il nostro Sessantotto. Adesso non c’è questa voglia di ribellione...

«Non c’è più una ribellione collettiva, ma la voglia c’è ed è tanta. Lo vedo nei concerti, incontro tante persone che hanno un pensiero comune: la voglia di ribellarsi. Che però non riescono a trasformare in qualcosa di concreto». 

Perché secondo lei?

«Viviamo in una società complessa. Oggi attraverso i media, i social, si insinua la paura nelle persone, questo senso di inadeguatezza nei confronti di una società omologata. Insofferenza e paura si trasformano in intolleranza e odio di chi non la pensa come noi. Con la rilettura di “Storia di un impiegato” ho cercato di dare una bussola per porre fine al rancore che è poi il sentimento prevalente in questi anni, e che sta purtroppo condizionando la vita di tutti noi». 

Dice che il suo cognome è difficile da portare, pensa sia così anche per i suoi quattro figli?

«Sì, credo di sì. Anche se per fortuna i miei figli hanno scelto altri campi lavorativi che non sono la musica e questo indubbiamente li ha agevolati. Comunque portare cognome De Andrè è una bella responsabilità e non sempre è facile».

E cosa pensa di sua figlia Francesca? Lei ha scelto di apparire in tv, anche per raccontare la sua burrascosa vita privata?

«È un momento difficile per Francesca, lo è sempre stato. Mi auguro che riesca a capire un po’di cose e a mettere la testa a posto. Purtroppo viviamo in una società dove oggi si può avere successo raccontando il peggio di se stessi. E questo forse è il punto più basso che abbiamo raggiunto». 

La sua prima figlia Fabrizia, ha avuto un figlio: che effetto le fa essere nonno?

«Una bellissima emozione. Riccardino poi è un bambino splendido, ricettivo, meraviglioso, anche se credo di non essere ancora pronto per essere nonno, non sono abbastanza maturo. Sono un sessantenne atipico, sono ancora alla ricerca di me stesso». 

I sessant’anni sono un traguardo?

«È un traguardo esserci arrivato, ho superato mio padre di qualche mese, ma mi riesce difficile sentirmi più vecchio di lui. È difficile sentirsi alla sua altezza. Se guardo le foto da giovane lo vedo sempre con lo sguardo del bambino». 

A proposito di nonni, che ricordi ha di suo nonno Giuseppe?

«Mio nonno è stato il pilastro che ha tenuto insieme tutta la famiglia. È stato amministratore delegato e presidente dell’Eridania, è stato anche vice sindaco di Genova e ha fatto costruire la Fiera del mare che oggi si chiama “Giuseppe De Andrè”. A casa sua, Villa Paradiso a Genova, ho passato tutti i week end fino a quando lui non è mancato. Mio nonno mi dava quella fermezza di uomo che a mio padre, essendo artista, mancava. Ho dei ricordi molto belli di lui». 

Quali?

«Quando mi portava nei suoi viaggi di affari. Una sera, al ristorante dell’Hotel Beau-Rivage di Losanna. Avrò avuto 5-6 anni. Mi accompagnò in fondo alla sala dove c’era un uomo di una certa età che mi fece salire sulle sue ginocchia. Era Charlie Chaplin. Che inforcando due panini con le forchette mi fece la famosa danza dei panini del film “La febbre dell’oro”. Sono cose che ti rimangono impresse per tutta la vita». 

E della casa dei suoi genitori? Cosa ricorda di quando era piccolo?

«Casa mia era un via-vai di amici di mio padre che mi chiamavano “Fabrizietto” perché ero la miniatura di mio padre. Io li chiamavo zii. Da Luigi Tenco, a Paolo Villaggio, a Gino Paoli, a Walter Chiari, Bruno Lauzi, Umberto Bindi. Mi ricordo che un pomeriggio Walter Chiari fu preso da una foga irrefrenabile e si mise a recitare per noi tutto lo spettacolo che avrebbe presentato la sera stessa a Genova. Fece praticamente le prove generali a casa nostra. Era una bella persona Walter, aveva gli occhi buoni, voleva bene ai bambini e anche io gliene volevo. Poi c’è l’amicizia di mio padre con Villaggio». 

Cosa ricorda?

«Villaggio si trascinava mio padre in scorribande notturne nei carrugi e poi finivano sbronzi al mattino sul divano di casa con mia madre sveglia, si può immaginare di quale umore. Paolo era nel passaggio da Fracchia a Fantozzi quindi erano battute continue, si sghignazzava dalla mattina alla sera. Ho vissuto circondato da una combriccola di pazzi con l’urgenza di cambiare il mondo. Anche Ferreri frequentava casa di mio padre mentre stava scrivendo la Grande abbuffata. Erano persone che stavano scrivendo un pezzo della cultura del Novecento». 

E il suo rapporto con De Gregori?

«Francesco venne in Sardegna per scrivere un disco con mio padre e portò una ventata di aria nuova, di una nuova scrittura ermetica che mio padre ancora non conosceva perché era lirico. Io ero affascinato dalla sua canzone Alice. Non mi spiegavo perché Alice guardasse i gatti. È stata la domanda che gli feci perennemente in quei giorni in Sardegna. Lui, alla fine, mi rispose con una canzone che si intitola “Oceano”, con un verso che descriveva me bambino e le mie tante domande. La mia ultima figlia si chiama Alice in omaggio a Francesco». 

Ha in cantiere un nuovo album?

«Ci sto lavorando. È un momento difficile nel quale scrivere cose che abbiano un senso, che rimangano nel cuore e possano smuovere qualche coscienza». 

Altri progetti?

«Un nuovo tour l’anno prossimo con canzoni che hanno segnato la mia vita, canzoni di mio padre e di altri artisti. Questa volta non in chiave rock, ma con un’orchestra d’archi, acustica». 

Qual è il riconoscimento importante che ha avuto nella sua carriera?

«Diversi, per fortuna. Ma ce ne è uno che prevale su tutti». 

Ovvero?

«La stima di mio padre. Un riconoscimento che mi ha dato quando ci siamo trovati insieme sul palco dell’ultimo tour della sua vita».

·        Cristiano Donzelli.

Nicola Catenaro per corriere.it il 7 agosto 2022.  

Lo «storyboard artist», 52 anni, originario di Teramo, riceve la bozza, la legge e tramuta la storia in inquadrature, a mano libera o ricorrendo a una tavoletta grafica. Tra i suoi «clienti» anche Scorsese, Spike Lee e Coppola 

Ha disegnato 75 film e lavorato con 13 Premi Oscar. Tra questi, Gabriele Salvatores, Martin Scorsese, Paolo Sorrentino, Spike Lee. E ora ha iniziato una collaborazione con Francis Ford Coppola per il recente progetto Megalopolis. I più noti cineasti del mondo si rivolgono a lui per la sua maestria nello svelare le scene prima che vengano girate.  

Cristiano Donzelli, 52 anni, italiano, è infatti uno «storyboard artist», l’artista che disegna la sceneggiatura prima del ciak e offre al regista e ai suoi collaboratori la possibilità di visualizzare le sequenze in anteprima. Un mestiere poco in voga in Italia, molto praticato (e utilizzato) a Hollywood. Lui riceve la bozza, la legge e dopo una serie di incontri preparatori tramuta la storia in inquadrature, a mano libera o ricorrendo a una tavoletta grafica.

La folgorazione e gli inizi non facili

«Uso la matita per disegnare fin da piccolo e molte nozioni — racconta Donzelli — le avevo acquisite prima di frequentare a Teramo, la mia città, il liceo artistico a cui devo le basi e gli strumenti più concreti. La domenica, nell’ambiente di provincia, non c’era molto altro da fare che andare al cinema ed è lì che mi sono innamorato dei film di Spielberg e di tutto quanto arrivasse dall’America. È stata una specie di folgorazione, una passione che non mi ha più abbandonato». 

Dopo il diploma, Donzelli si iscrive alla facoltà di Architettura di Pescara iniziando contemporaneamente a collaborare con una casa editrice di comic books. Ma la sua propensione per il cinema prevale e dopo quindici esami lascia per inseguire il sogno di lavorare per il grande schermo. Gli inizi non sono facili.  

«All’epoca non c’erano Internet o i social — racconta — e l’unico modo per contattare chiunque era cercarlo prima nell’elenco telefonico. Così, andavo regolarmente nella sede della Sip, dove si trovavano gli elenchi telefonici di tutta Italia, e spulciavo quei faldoni alla ricerca di numeri utili. Ho iniziato così a propormi a registi e produttori di Cinecittà. E il mestiere di storyboard l’ho appreso da autodidatta». 

Vincitore della Pellicola d’Oro

Le prime occasioni di lavoro arrivano alla fine degli anni Novanta con il regista televisivo Alberto Negrin e con lo scenografo (tre volte Premio Oscar) Dante Ferretti e, poi, viaggiando tra gli Stati Uniti e Londra, grazie a incarichi importanti come quelli per Gangs of New York di Martin Scorsese e Kingdom of Heaven – Le crociate di Ridley Scott. Nel 2004 produce, scrive e dirige il suo primo corto, Una storia di lupi, con Franco Nero come protagonista. 

 Con i Premi Oscar torna a collaborare per il filmMiracle at St. Anna di Spike Lee ed Educazione siberiana di Gabriele Salvatores. Successivamente, lavora con Ben Stiller (di cui diventa amico) realizzando le scene del suo film Zoolander 2.  

Seguono altri progetti, tra i quali Wonder Woman, diretto da Patty Jenkins e interpretato da Gal Gadot, Siberia di Abel Ferrara e con Willem Dafoe, le serie tv Halo, prodotta tra gli altri da Steven Spielberg, e Ripley, scritta e diretta dal regista Steven Zaillian vincitore dell’Oscar con Schindler’s List. L’anno scorso Donzelli ha anche vinto il prestigioso premio «Pellicola d’Oro», l’equivalente degli Oscar per le maestranze e le professionalità del cinema italiano.

La chiamata di Coppola

A Tortoreto Lido, dove vive con la sua compagna Cinzia, dopo la lunga giornata di lavoro indossa le scarpette e va a camminare o inforca la bici per lunghe pedalate al tramonto. «Mi piace guardare il mare, mi rilassa». Una pace quotidiana interrotta soltanto dalle mail di lavoro. 

Come quando, alcune settimane fa, ha aperto la posta elettronica e ha trovato il messaggio del grande Coppola (regista de Il Padrino, Apocalypse Now, Dracula di Bram Stoker), che gli chiedeva aiuto per il progetto che vuole realizzare da trent’anni. «Ho ripensato a quando da ragazzo vedevo i suoi film e per un attimo mi è sembrato incredibile che fosse lui a cercarmi». Invece, è andata proprio così. 

·        Cristiano Malgioglio.

Ivan Rota per Dagospia il 12 settembre 2022.

Da amici a rivali. Cristiano Malgioglio contro Alfonso Signorini. Il programma del cantautore “Mi Casa es tu Casa”, in prima serata su Rai Tre, andrà a scontrarsi con il Grande Fratello Vip. In anteprima possiamo dirvi che la sigla cantata da Malgioglio con un gruppo spagnolo si intitola “Raffaella”, un omaggio a Raffaella Carra che presentò il programma anni orsono con il titolo A raccontare comincia tu. Questa volta le puntate saranno monotematiche e con più ospiti Si annuncia una lotta a colpi di share.

E ieri sera, direttamente dalla  tournée estiva che ha sfornato la hit Suku Suku, la Malgy, ormai icona trasversale, era sul palco della rassegna culturale molto amata dall’ intellighenzia meneghina Il Tempo delle Donne alla Triennale di Milano: intervistato da Chiara Maffioletti, il cantautore ha disquisito su tutto: “Mi rendo conto oggi di come fosse avanti il mio personaggio, ho aperto la strada a molti artisti gay, ora dico: non abbiate timore”. E poi dalla legge Zan alla parità di genere, dalla musica all’amore. Se ci fosse ancora Andy Wharol gli avrebbe fatto sicuramente un ritratto: il “gremlin” dal ciuffo bianco.

 Cristiano Malgioglio: «Ho scoperto un tumore mettendomi la crema. Ora ho una storia con un ragazzo di Istanbul». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 9 Luglio 2022.

Intervista a Cristiano Malgioglio: «Il mio coming out? Mio nipote è stato il primo in famiglia a chiedermi dei miei uomini. Mina mi ha spalancato le porte con "L'importante è finire", poi ho scritto per Zanicchi, Carrà, un po' per tutte». 

Dietro l’immagine di uno dei personaggi più sfavillanti dello spettacolo italiano, c’è la storia di un ragazzo siciliano cresciuto in una famiglia molto riservata. «Nessuno mi ha mai chiesto nulla in casa, rispetto alla mia sfera più privata — racconta Cristiano Malgioglio con quella parlata che è ormai parte della sua firma —. Da ragazzo, avrò avuto 15 anni, tappezzavo la mia camera con le immagini dei divi americani che amavo: James Dean, Montgomery Clift... mio padre si limitava a chiedere a mia madre perché suo figlio appende tutte queste foto e lei gli rispondeva: “Vedrai che gli passerà”». Oggi ha sul comodino una foto di Channing Tatum, e non è una battuta. «Lo amo», è il commento. E tanto basta. Cristiano Malgioglio è così: autenticamente simpatico, con una mente veloce al servizio di una miniera di racconti. «So di avere una doppia immagine: quando sono in scena mi trasformo rispetto a chi sono nella vita di tutti i giorni, in cui al massimo vado a fare la spesa al supermercato... ho solo un problema quando mi trovo davanti ai pomodori».

Prego?

«Non posso non fermarmi a guardarli, adoro tutto ciò che è rosso. Anche quando vedo un’anguria aperta non mi so trattenere, è come se fossi di fronte a un gioiello, divento pazzo. Ho chiamato un mio amico analista e gli ho chiesto: ma che devo fare per questo problema? Mi ha detto: ti fa stare bene? Benissimo, allora continua a guardare pomodori».

La sua carriera è iniziata grazie a un incontro fortunato: Fabrizio De Andrè.

«I miei non volevano facessi questo lavoro, quindi non mi davano soldi. Così sono andato a lavorare in posta, smistavo i telegrammi. Avevo scelto però di spostarmi in Liguria, un po’ perché mia sorella abitava a Genova e un po’ perché lì c’era Gino Paoli: avevo scelto l’ufficio postale del suo comune perché il mio sogno era vederlo, dopo che per anni da ragazzino mi cullavo con la musica delle sue canzoni. Facevo le scuole serali e al mattino andavo a lavorare in posta».

In quegli anni ha conosciuto De André.

«Lo andavo a disturbare in continuazione. Un giorno mi ha ricevuto e sono riuscito a fargli sentire le mie canzoni. A quel punto mi aveva promesso di farmi conoscere il capo della Ricordi, a Milano, e sapendo che non avevo soldi nemmeno per il treno, mi aveva pagato il biglietto in prima classe, una meraviglia. Lì, ho conosciuto Dori Ghezzi: li ho fatti incontrare e da quella sera non si sono più lasciati».

E per lei? Cosa rappresenta l’amore?

«In famiglia non ne ho mai parlato. Mia madre quando mi vedeva arrivare con qualcuno mi diceva cose del tipo: questo tuo amico non mi piace, questo mi sta simpatico. Nulla più. Solo un mio nipote, di recente, mi ha chiesto: ma tu ce l’hai un uomo? Non mi ero mai sentito dire una cosa del genere e mi ha fatto un certo effetto. Gli ho risposto che sì, ce l’ho. Ho una bella storia con un ragazzo che vive a Istanbul, anche se la pandemia ha un po’ distrutto il feeling. Stare ogni sera a gesticolare davanti al cellulare — perché lui parla solo turco e io no —, mi ha fatto venire i reumatismi alle braccia. Ora abbiamo ripreso a vederci, vorrei prendere una casa lì».

Ha mai avuto il desiderio di sposarsi?

«Mai. Anche perché sono infedele di natura. Prendo cotte di continuo, neanche fossi un 18enne in spiaggia. Ma non sono geloso, neppure delle persone con cui ho lavorato».

Mina, per esempio.

«Lei mi ha spalancato le porte con “L’importante è finire”, che secondo i moralisti voleva dire tutt’altra cosa rispetto al suo significato. Non ci sentiamo così spesso ma so che mi vuole bene. Io adoro la sua risata. Poi Iva Zanicchi, Raffaella Carrà... ho scritto un po’ per tutte. Solo con Ornella Vanoni non ho un bel rapporto: una volta mi ero arrabbiato io con lei perché aveva cambiato una parte del testo di Amico mio, amore mio. Tempo dopo mi chiamò lei una notte perché voleva interpretare una canzone che era già stata assegnata a Iva Zanicchi: mi attaccò il telefono. Di recente l’ho vista al cinema... non mi ha salutato, ma non è un problema, io la amo».

Di Raffaella Carrà era amico?

«Pochi giorni prima che morisse mi aveva telefonato dicendomi: “Senti, mi devi fare un regalo: rimani come sei, perché quando arrivi tu la tv cambia colore”. Non capivo. Dieci giorni è morta: non potevo crederci. Avevamo lavorato assieme, lei mi aveva chiesto di scriverle una canzone d’amore, come quelle che facevo per Mina e nacque Forte, forte, forte. Avevo rifiutato di lavorare a A far l’amore comincia tu, dicendo a Boncompagni: questa canzone è terribile, non andrà da nessuna parte. Manca molto. Ora dedico una parte del mio spettacolo a lei».

Sono tante le donne della sua vita.

«Le amo. Avevo due sorelle, una purtroppo non c’è più: è stato un dolore terribile, era la mia fan più accanita. L’altra vive in Sicilia ma è più chiusa. Quando prenota una visita medica e le dicono: si chiama Malgioglio come Cristiano, mi chiama: “Allora sei davvero famoso”. Ma io in Sicilia da quando è morta mia mamma non torno più volentieri. Mi fa male. Vado a salutare lei e i miei nipoti ma non mi soffermo».

Ha amato anche tante donne famose.

«Tantissime. Jane Russell: quando mi sono offerto di aiutarla perché camminava male mi ha insultato. Poi l’ho conquistata dandole il mio specchio per truccarsi: da un lato ingigantisce l’immagine. Era estasiata, se lo è portata via. Jennifer Lopez me la sono anche tatuata su una gamba: l’ho conosciuta quando non era famosa, per il suo primo film, Selena, e mi ha dato una sensazione potentissima: per lei sarei potuto diventare etero. Poi Cher, forse la più generosa, io la veneravo: in un’occasione, mentre beveva dell’acqua si è strozzata e ha iniziato a tossire. Mi sono detto: ma come, anche questa tossisce come tutti noi? Mi pareva incredibile. E ancora Ursula Andress, che aspetta la mia pasta con le sarde... Ma il sogno era conoscere Sophia Loren».

Avverato?

«Sì, grazie a sua sorella che ha organizzato. Prima di vederla ho finito una bottiglia di coramina tanto ero agitato. Quando ha aperto la porta di casa le sono caduto tra le braccia».

Un’altra sua grande amica è stata Maria Schneider, vero?

«Ne ero forse un po’ innamorato. Lei mi chiamava marituzzo mio. Apparteneva alla mia stessa religione, come sono solito dire. Aveva capito che ero gay, ci siamo incontrati e mai più lasciati. Era fragile e sensibile, voleva più di tutto far dimenticare Ultimo tango a Parigi che l’aveva distrutta. L’ha aiutata molto Brigitte Bardot, anche economicamente e le sono riconoscente».

Ha mai sofferto per l’omofobia?

«No e devo dire che mi sono sempre vestito come mi pareva: tacchi, trucco... eravamo più moderni allora di oggi. Certo, ripensandoci ho avuto porte chiuse in faccia forse perché ero gay, ma al momento non avevo associato la cosa».

La musica è il suo talento, il cinema la sua passione. E la televisione?

«La tv mi ha fatto diventare Malgioglio, il personaggio, questa sorta di puffo che diverte e si diverte. Ho molti amici anche in questo ambiente, ma non li frequento, salvo rare occasioni. Ora grazie a Coletta avrò un mio programma su Rai3, non vedo l’ora. Il mio sogno da ragazzo era diventare David Letterman. Avevo dei paranti a New York e li avevo fatti impazzire per avere i biglietti del suo show. Quando ci sono riusciti sono subito partito: in puntata doveva esserci proprio Cher, magnifico. Invece mi sono trovato Yoko Ono e ho assistito a una delle esibizioni più brutte mai ascoltate: era un urlo continuo, sono rimasto sconvolto».

Come è nato invece il suo ciuffo?

«Per un caso, e dire che se tanti artisti stranieri mi riconoscono è per il ciuffo. Mi faccio da sempre io la tinta ma un giorno, al negozio in cui mi rifornivo, si erano sbagliati e mi avevano dato una polverina diversa. Mi si era formato così questo ciuffo color kaki. Ero disperato, ma poi ho provato a insistere: mi sono fatto una ciocchettina, e ancora una... iniziavo a piacermi. Mi sono detto: ma sembro un pulcino, adoro. Finché ho creato questa massa. Ora ho una formula per farlo, segreta come quella della Coca-Cola. Prevede anche miele, aceto e cannella più altri dieci ingredienti, puoi farci anche il panettone».

La sua canzone della vita?

«I Close My Eyes and Count to Ten, di Dusty Springfield. Mi riporta al mio primo ragazzo, Phillip, un marinaio conosciuto in Liguria che mi prendeva in giro perché baciavo con la bocca chiusa. Non ero capace. Così lui metteva questo disco e diceva: quando dice che conta fino a dieci, lì tu apri la bocca. Lo seguivo in tutti i porti, per la disperazione di mia madre che non capiva questi miei spostamenti. A Barcellona ci siamo lasciati e ho passato per due anni le pene dell’inferno. Un giorno mi ha telefonato, anni dopo: si era sposato e aveva chiamato il figlio Cristiano».

Sogni per il futuro?

«Detesto i premi, mi mettono angoscia. Solo per un Oscar potrei cedere, ma per ora ho solo prestato la voce a un cane del film per bambini Show Dogs. I produttori americani sentendo la versione doppiata volevano farmela rifare. “Questo cagnolino è gay”, dicevano. Ma io ho detto: o così o niente, quindi è rimasta. Dunque il cane l’ho già fatto, ma il sogno sarebbe recitare per Almodovar. Certo, se non mi chiama ora però, quando? Faccio un suo film a 100 anni?».

Si sente una persona fortunata?

«Mi sento miracolato. Ho scoperto per caso di avere un tumore maligno. Mi spalmavo la crema sulle gambe, e non lo faccio mai: ho visto un neo. Dovevo partire per il Brasile, sulla scia del successo di Mi sono innamorato di tuo marito. Per scrupolo mi sono fatto controllare e hanno deciso di operarmi subito, dicendo addirittura che altrimenti avrei avuto pochi mesi di vita. In quel punto avrei dovuto fare il tatuaggio di Jennifer Lopez, all’inizio. Poi, per mostrarlo di più ho preferito l’esterno della gamba. Se non avessi cambiato idea non me ne sarei mai accorto: posso dire che Jennifer Lopez ha fatto il miracolo».

Luca Dondoni per “La Stampa” il 14 maggio 2022.

Cristiano Malgioglio, i suoi commenti all'Eurovision Song Contest fanno impazzire il pubblico e insieme a Gabriele Corsi e Carolina Di Domenico conquistate pure il web.

«Alla mia età, e non scriva quanti anni ho sennò non continuo l'intervista, mi sono preso la libertà di dire quello che voglio, quando voglio ma soprattutto con una libertà che il pubblico, che adoro, mi riconosce e il 27% di share è stata una bella soddisfazione». 

Le sue battute fulminanti sono ormai nel linguaggio comune ma scherzando, scherzando ci prende parecchio.

«Sa perché le ho detto di non scrivere la mia età? Perché chi sottolinea quanti anni ho non sa che per me gli anni non esistono, esiste l'arte e chi la sa fare. Ho quasi gli anni di Barbra Streisand e sono lontano da Jane Fonda, i miei miti. Questo vuol dire che ho vissuto tanto e ho tanta esperienza e che ho visto e ascoltato tante cose. Quando qui sento le canzoni mi rendo subito conto di chi funziona e chi no». 

L'Italia fa il bis? Mahmood e Blanco potrebbero farcela?

«Evidentemente, "naturalmende" non sarà facile avere un bis già quest' anno dopo la vittoria dei Måneskin, però lo dico e l'ho detto a tutti gli italiani, se vinciamo sfilerò in reggiseno e perizoma».

Tra le canzoni di questo Eurovision chi funzionerà?

«Il mio preferito del cuore. Sam Ryder, il mio amore confessato e gliel'ho anche detto quando l'ho incontrato. Ieri sera mi ha scritto ringraziandomi per quello che dico su di lui e quasi ho avuto un mancamento. 

Mi piacerebbe invitarlo a cena e cucinare per lui la parmigiana di melanzane. O le lasagne che so fare benissimo. Lui è bellissimo, bravissimo e ha una canzone che è una bomba. La notte vado a letto con la sua fotografia sotto al cuscino e a volte me lo sogno. Comunque, sono bellissime le canzoni dei Paesi Bassi, della Grecia, del mio amato Portogallo. 

Certo, la vittoria dell'Ucraina sarebbe simbolica, ma sul pezzo del Portogallo ho pianto pensando a mia sorella Francesca, che è scomparsa quattro anni fa e amava molto il Fado. Ah e non dimenticate la cantante greca Amanda Georgiadi. La sua Die together mi ha toccato nel profondo, se ci fosse un premio per il testo più bello lo darei a lei». 

E chi non le è piaciuto?

«Tanti, tantissimi, perché non hanno capito il senso della musica che si ascolta adesso e dimenticano il passato. Chi ha copiato lo ha fatto male. Non mi aspettavo la Moldavia in finale, mentre la concorrente albanese dovrebbe denunciare lo stilista. 

La canzone non è brutta e lei ha una voce molto potente ma l'abbigliamento non si guarda e dà fastidio agli occhi». 

Se la sarebbe sentita di presentare magari al fianco di Pausini, Cattelan e Mika?

«Il ritmo di questo spettacolo è serratissimo e io ho bisogno dei miei tempi anche se sono uno che si adatta e non ci sarebbero stati dei problemi. Certo, diciamo che con i miei vestiti avrei nascosto tutti gli altri e anche il mio trucco non le dico quanta gente me lo vuole copiare e quanti messaggi mi arrivano anche dall'estero».

Potrebbe aprire una scuola di trucco, i social ne sono pieni.

«Io adoro i "sogial" e i "sogial" adorano me. Sono importantissimi e sì, è vero, potrei aprire una scuola di trucco ma sto bene dove sono e per il secondo anno con Gabriele Corsi speriamo di portare fortuna all'Italia. Io sono un portafortuna nato»

Dagospia il 5 maggio 2022. Anticipazione da GENTE in edicola da domani. Intervista a Cristiano Malgioglio di Maria Elena Barnabi

Chi vincerà quest’anno all’Eurovision?

«Tutti vorrebbero che vincesse l’Ucraina per la guerra». 

E Mahmood e Blanco?

«Tifo per loro. Se l’anno scorso per i Måneskin mi sono messo in mutande, quest’anno mi metterei in topless». 

Ti piace lo stile di Damiano dei Måneskin, tutto pizzi, guêpière e trucco?

«Io lo guardo e lo trovo normalissimo. Invece per i ragazzi di oggi è una grande novità, una cosa moderna». 

Tu ti truccavi e ti vestivi in quel modo anni fa...

«In Italia ero l’unico a farlo, e a truccarmi il viso in quel modo. L’altro forse, oltre a me, era Renato Zero con i suoi vestiti. Non voglio essere presuntuoso, ma se avessi voluto diventare una star internazionale ci sarei riuscito. Nelle mie canzoni parlavo di femminismo e di omosessualità: ero molto più moderno di tante cose oggi».

Gli artisti ti hanno amato molto, la critica meno.

«Ho lavorato con i numeri uno in assoluto: Iva Zanicchi, Mina, Giuni Russo, Raffaella Carrà. Ho sempre amato le donne forti». 

A proposito di donne, il sito Dagospia ha rivelato che ti saresti sposato in segreto con l’attrice Maria Schneider, la defunta ma mai dimenticata star di Ultimo tango a Parigi. È vero?

«Maria per me è stata più che un’amica, eravamo legatissimi. C’era un’attrazione molto forte. E forse sì, sono stato innamorato molto di lei anche se non lo sapevo. Era una persona assai malinconica: per tutta la vita ha cercato di affrancarsi da Ultimo tango a Parigi. Bernardo Bertolucci, il regista, con tutti i film che ha fatto dopo avrebbe potuto contattarla. Invece niente. Finalmente Quentin Tarantino l’aveva chiamata, ma il tumore al polmone l’ha portata via prima di girare».

Insomma questo matrimonio? C’è stato oppure no?

«Io per lei ero un amico e un compagno e lei una sorella per me. Ma io sposato con Maria Schneider? No. Ho un’altra natura io, e la amo molto. E ora sono fidanzatissimo con un ragazzo turco».

Cristiano Malgioglio: «Mia madre mi diede i soldi per andare dal macellaio e io tornai con il disco di Rita Pavone». Gabriele Guccione su Il Corriere della Sera il 12 maggio 2022.

La voce italiana, insieme a Gabriele Corsi e Carolina Di Domenico, dell’Eurovision Song Contest si racconta: «Torino? Bellissima ma vorrei più movida»

Malgioglio, come si trova a Torino?

«Bene, è una città bellissima. La gente è molto elegante, mi piace molto. L’unico problema è che i ristoranti alle dieci di sera chiudono».

Non è riuscito a cenare…

«Manderò un messaggio al sindaco (Lo Russo, ndr), che ho conosciuto ed è stato molto carino: in una città così, tra le più belle del mondo, i ristoranti dovrebbero essere aperti fino a mezzanotte. Ecco, vorrei un po’ più movida».

Cristiano Malgioglio è la voce italiana, insieme a Gabriele Corsi e Carolina Di Domenico, dell’Eurovision Song Contest. «Ringrazio il direttore Stefano Coletta — dice — che mi ha scelto per il secondo anno».

Lei per chi tifa?

«Qualcuno mi ha rimproverato perché do giudizi sui cantanti in gara».

Non se ne curi.

«Il mio cuore batte per Sam Ryder (il concorrente inglese, ndr). Mi piacerebbe invitarlo a cena e cucinare per lui la parmigiana di melanzane». 

E l’Italia?

«Non sarà facile un bis dopo la vittoria dei Maneskin. Se Blanco e Mahmood vincono sfilerò in reggiseno e perizoma».

Non ci crede molto. Ma con Blanco e Mahmood non andrebbe neanche in vacanza?

«Mahmood abita vicino casa mia, per cui… Blanco è molto gioioso, mi trascinerebbe in discoteca tutte le sere, perciò grazie».

Restiamo a Torino. Che legame ha con questa città?

«Qui alla Rai di via Verdi ho fatto il mio primo provino. Mi hanno bocciato».

E perché?

«Hanno detto che non ero adatto per la televisione. Certo, io ero molto particolare, una specie di Maria Schneider. Non appena mi hanno visto, i finti moralisti si sono spaventati. Ma io non mi sono mai arreso».

Nella sua carriera ha incrociato molti torinesi: Piero Chiambretti, Massimo Giletti, Simona Ventura...

«A Simona devo molto, anche nei miei momenti più difficili mi ha spalancato il cuore. Massimo mi ha portato a Rai Uno. E Chiambretti mi ha cambiato la vita, è stato veramente magico, gli voglio troppo bene: ha fatto di me la soubrette che ho sempre sognato di essere».

Voleva essere Carmen Miranda?

«Da bambino non ero certo il tipico ragazzino che giocava a pallone. Un giorno mio padre mi portò un disco da Madrid e c’era questa donna con un casco di banane in testa. Da allora sono impazzito...».

Altra artista torinese con cui ha lavorato: Rita Pavone.

«Adorooo! Per lei ho scritto e anche cantato nel 1991 in un disco, “Amiche”, con Milva e Iva Zanicchi. E feci pure una follia da piccolo».

Racconti.

«Eravamo in Sicilia, a Ramacca. Un giorno mia madre mi diede i soldi per andare dal macellaio e io tornai a casa con un album di Rita Pavone, “Sul cucuzzolo”, anziché con la carne. Mia madre mi fece nero…».

C’è chi dice che l’Eurovision potrebbe restare a Torino anche il prossimo anno.

«Be’, sarebbe bello».

Le piacerebbe salire sul palco come presentatore?

«Peccato per il mio inglese tremendo. Non mi è bastato aver vissuto da bambino in Australia, dovrei andare in Inghilterra per studiarlo alla perfezione. Anche se sopra il palco sarei il top».

E intanto che farà?

«A breve uscirà un mio disco, “Malo”, contro la violenza sulle donne. E poi un singolo per l’estate, di cui posso solo rivelare che sarà molto spiritoso».

Buon lavoro, allora.

«Grazie. Ah, una cosa…».

Dica?

«L’età… per favore, non la scriva».

Ma è su Wikipedia.

«Ma quella è sbagliata. Mi hanno dato dieci anni in più mettendo la data di nascita di mio zio Giuseppe, che si chiama come me. E poi tanto io sono un’eterna ragazzina».

Cristiano Malgioglio: «Mamma in sogno mi ha detto: “Spegni la luce prima di dormire”. Così sono diventato adulto». Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.

Fin da bambino desideravo «fare la soubrette, ci sono riuscito». Storia di un artista che si definisce «una ragazza, una bambola», antesignano della fluidità e della libertà di stare fuori dagli schemi. «Maria Schneider gli ultimi anni viveva male, senza soldi. I soli ad aiutarla siamo stati io e Brigitte Bardot». 

«Una ragazza, una bambola» si definisce Cristiano Malgioglio. E ancora: «Da bambino sognavo di fare la soubrette, ci sono riuscito». La libertà di dire tutto questo lui l’ha creata per sé stesso e per gli altri, poiché la sua è stata una conquista collettiva - oggi finalmente riconosciutagli. Quando al tempo, quarant’anni fa, la Commissione censura bocciava le sue canzoni, troppo scabrose. Quando qualcuno si chiedeva cosa fosse: maschio, femmina, omosessuale, travestito? Lui soffre, resiste. Scrive per Mina, Ornella Vanoni, Iva Zanicchi, altri. Il grande successo nel 1975 con L’importante è finire di Mina.

«A GENOVA CONOBBI DE ANDRE’. RIUSCII A SAPERE DOVE ABITAVA. MI PRESENTAVO OGNI GIORNO. ANDAI AVANTI PER QUALCHE MESE A SUONARE IL SUO CAMPANELLO, FINCHÉ NON MI APRI’ LUI IN PERSONA. MI FECE ACCOMODARE IN SALOTTO, GLI SPIEGAI CHE SCRIVEVO CANZONI, LESSE I MIEI TESTI E DISSE: BELLI»

Seguono altri successi. Poi gli anni difficili, di buio, quindi - grazie a Piero Chiambretti - la rinascita. Oggi Cristiano Malgioglio (merito anche di Carlo Conti e de Il Grande Fratello ) è un personaggio popolare e amatissimo - oltre un milione di follower su Instagram, conteso dalle trasmissioni televisive. A febbraio esce il nuovo disco, Malo, che contiene un duetto con Omara Portuendo, cantante cubana di culto, novantunenne. Malo è un testo contro la violenza sulle donne già cantato da grandi artisti, ma «lasciatemi essere presuntuoso» dice Malgioglio «io sono quello che lo canta meglio».

Perché?

«Conosco il significato delle parole. Conosco la femminilità che mi appartiene».

Da dove arriva la sua femminilità?

«Da mamma ho imparato a ricamare, da nonna a fare l’uncinetto con cui realizzavo colletti per le bambole».

Niente “giochi da maschi”?

«L’unica volta che ho giocato a pallone mi sono rotto una caviglia».

Suo padre le regala il disco di Carmen Miranda.

«Io devo ringraziare Carmen Miranda se ho capito chi ero davvero. Avevo 11 anni, vedo l’immagine di questa donna bellissima con un casco di frutti tropicali in testa: ananas, banane. Figurati se in Sicilia, a Ramacca, si trovavano i frutti tropicali. Così mi faccio un casco di pomodori, banane e fichi d’india. Vestaglia di mia madre, scarpe col tacco, casco di patate e ballo Tico tico interi pomeriggi».

Il momento in cui ha detto ai suoi di essere omosessuale?

«Mai».

Lo avevano capito?

«Camera mia era tappezzata di Marlon Brando, James Dean, Raf Vallone. Mio padre perplesso chiedeva a mia madre: “Perché non appende Marylin Monroe?”».

Risposta?

«È piccolo, crescerà».

Invece?

«La mia camera oggi è uguale a quella di allora, solo che le foto sono di Channing Tatum che peraltro mi segue su Instagram. Io gli scrivo, lui visualizza, non risponde. Io mi arrabbio, gli riscrivo. Lui visualizza, mette un cuore. Adesso non mi risponde da mesi».

Quindi?

«Non gli scriverò mai più. Credo».

«A UN GALÀ A SAINT TROPEZ UNA SIGNORA MI FA I COMPLIMENTI PER IL CIUFFO E IO LE CHIEDO: “E LEI DI COSA SI OCCUPA?”. QUELLA SI ALZA: “I’M JOAN COLLINS” DICE. E SE NE VA»

Tornando a sua madre.

«Si preoccupava quando mi vedeva pallido. In realtà ero semplicemente struccato, ma lei non se ne accorgeva. La mattina appena sveglio mi faceva lo zabaione. Poi io mi chiudevo in bagno a mettermi il fondotinta, tornavo in cucina e lei mi guardava compiaciuta: “Hai ripresto colore, vedi che le uova ti fanno bene?”».

A ventun anni si trasferisce a Genova.

«Mia sorella sposa un ragazzo genovese, e vado a vivere da lei. Per realizzare il sogno di cantare sapevo di dover andare al Nord. A Genova per un periodo lavoro in un ufficio postale vicino casa di Gino Paoli. Smistavo i telegrammi, e per lui ne arrivavano a pacchi, peccato che venisse a ritirarli la moglie».

Delusione?

«Da ragazzo soffrivo di acne. Passavo molto tempo in casa a ascoltare musica, soprattutto Gino Paoli».

Cosa significava perciò Paoli?

«La voce di un amico, l’unico amico».

A Genova conosce Fabrizio De André.

«Riesco a sapere dove abita, e mi presento ogni giorno. Suono, apre la cameriera: “Fabrizio dorme”. Il giorno dopo torno. E quella: “Fabrizio è uscito”. Andiamo avanti così per qualche mese, finché non mi apre lui in persona. Mi fa accomodare in salotto, io gli spiego che scrivo canzoni, lui legge i miei testi, dice: belli».

Lo erano?

«Orrendi. Credo che all’inizio lui fosse incuriosito dal mio personaggio. All’epoca se ne vedevano pochi come me».

A quel punto?

«Grazie a Fabrizio firmo il primo contratto discografico».

Difatti lei compare nel film su De André, «Principe libero».

«Mi hanno fatto un metro e novanta, non mi somigliava per niente, ho protestato con Dori Ghezzi».

«LEGGEVANO NEI MIEI TESTI CIÒ CHE NON C’ERA, DICEVANO CHE IL VERO TITOLO DI L’IMPORTANTE È FINIRE FOSSE L’IMPORTANTE È VENIRE. MI HA FERITO»

Col primo contratto nasce Cristiano Malgioglio: testi rivoluzionari e invenzione di un’estetica.

«A parte il trucco, sono stato il primo a portare la giacca senza camicia, a petto nudo. Poi, siccome volevo essere altissimo e invece ero uno e sessantasette - con la vecchiaia mi sto rimpicciolendo, ma non mi misuro - e dunque per essere alto mettevo zatteroni di venti centimetri, coperti dai pantaloni a zampa d’elefante. Quando incontro per la prima volta Cher ci ritroviamo vestiti uguali, non si capiva quale fosse la vera Cher. Tutt’e due altissimi, ricci».

Ostacoli nella carriera?

«Non so se definirli episodi di omofobia. Di sicuro avevano paura di me. Molti scambiavano l’ambiguità per volgarità. Leggevano nei miei testi ciò che non c’era, al tempo dicevano che il vero titolo di L’importante è finire fosse L’importante è venire . Falso. Mi ha ferito». Si è sentito incompreso? «Per me contava dire che non esiste né maschile, né femminile. È stato sempre questo il messaggio».

Inaccettabile per molti?

«In quegli anni andavano canzoni innocue come Finché la barca va , non me ne voglia Orietta Berti. Di sicuro i miei testi erano avanti, parlavano di storie d’amore tormentate e di donne libere che cambiavano amante, prendevano ciò che volevano. Troppo presto».

Conseguenza?

«Succedeva spesso che i miei testi venissero bocciati dalla Commissione di censura».

Un testo bocciato?

«Tanti. Con mia madre in agitazione: “Che schifezza hai scritto stavolta? Se continui così non diventerai mai Gianni Morandi”».

E lei?

«Io sarò Cristiano Malgioglio, rispondevo».

Quanta fatica per essere Cristiano Malgioglio?

«Mi bocciarono pure un testo per lo Zecchino d’oro. Una canzone su un gatto e un pulcino, mi pare. I preti sconvolti».

Cosa c’era di scabroso?

«Un gatto e un pulcino che andavano al lago. Ma vai a sapere cosa ci hanno letto dietro».

Censura dopo censura lei intanto scrive pezzi meravigliosi per Mina, Patty Pravo, Raffaella Carrà, Iva Zanicchi.

«Ciao cara, come stai? cantata dalla Zanicchi vince Sanremo. Era il 1974. E giù mille insinuazioni dei giornalisti che sostenevano che il testo alludesse a una donna che ama un’altra donna».

Alludeva?

«Per me non esiste maschile e femminile».

Ma?

«Noi, tutti noi, senza etichette».

Il periodo cubano, fine Anni 80.

«Arrivo con la canzone Delitto e castigo , e a seguire con Sbucciami . Divento famosissimo, vado in tv. Avevo il ciuffo biondo, un anno dopo, al ritorno, tutti i ragazzi cubani avevano il ciuffo biondo. Mi fermavano per strada per chiedermi il segreto del mio. E io niente: ricetta segreta come la Coca Cola. Mai svelata a nessuno».

Il Paese dove Malgioglio ha venduto più dischi?

«Forse in Corea del Sud, l’ho scoperto grazie a una signora coreana che abitava vicino casa mia. Mi ferma e dice: “Da noi sei una star”».

Era vero?

«Ho verificato».

Malgioglio ha anche posato per Playboy .

«Pantaloni di pelle, fascia sulla fronte, circondato da cinque donne stupende».

Lei doveva rappresentare il maschile?

«Ero più femminile io di tutte loro cinque messe insieme».

Perché non da solo allora?

«Senza le ragazze sarei stato solo un travestito».

Mai avuto paura di essere «solo un travestito»?

«Per anni sono stato guardato in quel modo. I giornalisti, i benpensanti non vedevano altro».

Oltre a scrivere canzoni per grandi donne, lei è stato amico di grandi donne, da Maria Schneider a Sofia Loren. Tutte bellissime e forti.

«Volevo essere loro».

Lo è stato?

«Lo sono».

Altre figure femminili di riferimento?

«A Saint Tropez, durante una serata di gala, mi ritrovo al tavolo con principi, principesse e persone eleganti. Non conoscevo nessuno. Una signora si complimenta con me per il ciuffo, io per cortesia domando: “E lei di che si occupa?”. Quella si alza: “I’m Joan Collins” dice, e se ne va».

Non l’aveva riconosciuta?

«Io non riconosco nessuno».

Maria Schneider.

«Dopo Ultimo tango a Parigi era caduta in depressione. Per allontanarsi da quel film faceva uso di stupefacenti, fumava. Se le nascondevo l’accendino, piangeva. Gli ultimi anni viveva male, senza soldi. I soli ad aiutarla siamo stati io e Brigitte Bardot».

Un ricordo?

«Un capodanno a Napoli, a conclusione di una mia serata di piazza. Compriamo delle ciambelle e ci mettiamo a mangiare per strada. A un certo punto arriva un cane, poi un altro, poi un altro ancora. Alla fine saranno stati quaranta».

E voi?

«Li abbiamo sfamati fino alle 4 del mattino. Ricordo indelebile: i botti che scoppiavano nel cielo, le urla della gente. Lontanissimi io, Maria e i cani. Tutti randagi».

Se potesse riportare in vita un amico?

«Maria».

Sua madre?

«Mia madre è sempre con me».

Il giorno che è morta.

«Fin da bambino avevo paura del buio. Dormivo con la luce accesa ovunque mi trovassi. Il giorno della sua morte ho sognato mia madre che diceva: “Spegni la luce prima di dormire”. Da allora dormo con la luce spenta, oscuro persino la lucina della televisione».

Passata la paura?

«Sono diventato adulto. Ventisei anni che sono adulto».

·        Cristina D'Avena.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 16 dicembre 2022. 

Per chi non lo sapesse (ma chi non lo sa?) Cristina D'Avena è la voce delle sigle dei cartoni animati con cui sono cresciute un paio di generazioni che a vent' anni se ne vergognarono e dopo i quaranta cominciarono a ricordarle con nostalgia. Tra un puffo e l'altro, la D'Avena ha sostenuto le campagne lgbtqia+, diventandone una colonna sonora. Ed è proprio da quella comunità che è salita in queste ore un'onda di delusione che i social hanno trasformato in ripulsa quando si è scoperto che la cantante avrebbe portato i puffi sul palco della festa di Fratelli d'Italia. 

Pazienza scoprire che non è Soumahoro tutto quello che luccica, e che tra i progressisti dell'Europarlamento c'è chi si tuffa con voluttà nelle banconote degli emiri reazionari. Ma che Cristina D'Avena possa passare impunemente dal Gay Pride a una ninnananna per La Russa è stato ritenuto intollerabile. Come uscirne? Forse accettando che gli artisti non assomiglino all'idea che ci siamo fatti di loro e lasciandoli liberi di cantare un po' dove vogliono. 

La D'Avena ha detto giustamente che «la musica unisce, include e conforta». Esprime una potenza universale che sommerge qualsiasi polemicuccia. Perdonerete il cambio di scenario e di tono, ma ce lo ha appena ricordato un ragazzo iraniano, Majidreza Rahnavard, poco prima di essere messo a morte dai carnefici del regime: «Non piangete e non pregate per me. Voglio che suoniate musica allegra». Aveva gli occhi bendati, ma la voce calma e ispirata dei veri rivoluzionari.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 15 Dicembre 2022.

La povera Cristina D'Avena, interprete di molte sigle di cartoni animati che hanno spopolato negli anni '80 e '90, è finita nella bufera per la sua annunciata partecipazione alla festa dei dieci anni di Fratelli d'Italia. Partecipazione che, assieme alle dichiarazioni di stima nei confronti di Giorgia Meloni, hanno fatto infuriare i tantissimi fan gay della cantante che non le perdonano di andare a esibirsi "di fronte ai fasci", per usare le parole dei numerosissimi indignati che hanno tempestato la rete di critiche alla D'Avena. 

Quest'ultima ha cercato di difendersi asserendo di non portare "ideologie ma musica", e tuttavia il linciaggio non si è placato. Anzi. 

Il fatto peculiare, però, è che solo il 31 agosto 2022 D'Avena si era esibita felicemente e senza alcuna polemica alla festa provinciale del Partito Democratico di Reggio Emilia "per due ore di musica dal vivo all'insegna del divertimento e del buon umore".

Una festa di partito a tutti gli effetti visto che, la sera stessa del concerto di D'Avena all'Iren Green Park, era previsto un dibattito con la deputata ed ex ministro dem Paola De Micheli - oggi candidata alla segreteria del Pd - e altri esponenti politici nazionali e locali, tutti "piddini". Eppure a nessuno, all'epoca, era venuto in mente di scatenare putiferi mediatici per la presenza della cantante all'evento organizzato dal Partito Democratico.

L'assurdità di tutta la diatriba ben si sposa con il paradosso di aver fatto assurgere a "icona gay" la cantante dei Puffi, per non parlare dell'idea sconvolgente che, alla festa di Fratelli d'Italia, D'Avena possa cantare (cit.) "di fronte ai fasci" canzoni quali Memole dolce Memole, Kiss me Licia e Pollon, combinaguai. Crosetto, Mollicone e La Russa intoneranno con Cristina tali ardite, virili e patriottiche melodie? Preferiamo non pensarci. 

Da corriere.it il 15 Dicembre 2022. 

La scelta di Cristina D’Avena di cantare alla festa di Fratelli d’Italia ha scatenato mille polemiche. C’è chi l’ha criticata, ma Fiorello invece la difende. Nella puntata di venerdì di Viva Rai2! ha detto: «Ognuno deve essere libero di esprimersi come e dove vuole. Anch’io ho cantato alla Festa dell’Unità, ho cantato per i comunisti. Così lei canta per la Meloni».

Concetta Desando per iodonna.it il 15 Dicembre 2022.

Cristina D’Avena nel mirino delle polemiche. Il 15 dicembre la cantante più amata dai bambini parteciperà come ospite alla festa romana di Fratelli d’Italia. Questa sera sarà in Piazza del Popolo a Roma per festeggiare i dieci del partito di Giorgia Meloni. E tanto è bastato per scatenare i follower della star sui social. La cantante ha sempre dichiarato apertamente la sua vicinanza al mondo Lgbt e questa sua partecipazione viene vista come una mancanza di coerenza. 

Nessun commento, al momento, da parte della cantante. Ma la notizia della sua presenza alla festa romana di Fratelli d’Italia ha già fatto il giro del web. Scatenando i commenti di chi contesta la sua scelta. Al quotidiano Il Foglio, la sorella e manager della star, Clarissa D’Avena, ha dichiarato che «Cristina ha una forte simpatia per Giorgia». Parole che hanno contribuito ancora di più a infiammare i commenti del popolo del web.

I commenti sui social e la distanza del mondo gay

«Quando c’era Cristina D’Avena, i cartoni animati li trasmettevano in orario», «noi fasci siam così, abbiam la testa giù, appesi su per giù a due metri, poco più»: ecco alcuni dei commenti che circolano su Twitter dopo la diffusione della notizia sulla scelta della cantante, subito etichettata come fascista per l’esibizione alla festa di FdI. E ancora: «Cristina D’Avena è già abbastanza famosa, nella sua carriera, iniziata da bambina, si è tolta un sacco di soddisfazioni, allora che bisogno c’è di partecipare alla festa di fratelli d’Italia se non la pessima usanza di molti artisti di strizzare l’occhio al potere?». E anche il mondo gay si allontana da lei: «Molte persone rimarranno deluse, d’ora in poi ascolteremo le sue canzoni con orecchie diverse» ha detto al Corriere della Sera Gabriele Piazzoni, segretario generale dell’Arcigay nazionale.

Non manca però chi difende la cantante e la libertà di scegliere dove esibirsi. «Vergognatevi per voler affibbiare una connotazione politica ad ogni artista che viene pagato per andare ad esibirsi. È il loro lavoro, che svolgono in piena libertà, senza dover per forza appoggiare le idee di chi c’è dietro all’evento a cui partecipano. Viva Cristina D’Avena!» ha scritto un utente. E un altro ha aggiunto: «Un cantante può liberamente cantare dove vuole senza dover essere processato su Twitter o deve chiedere una vostra autorizzazione se non canta al concertone del primo maggio o alla festa dell’Unità? Quanta arroganza… Giù le mani dalla mitica Cristina D’Avena!».

La risposta della cantante non si è fatta attendere. La star delle sigle dei cartoni ha condiviso un lungo post su Instagram per «ricordare a chi mi ha giudicato, forse con un po’ troppa fretta, chi sono». «Da quarant’anni canto in tutti i posti dove sono ben voluta e accolta. Nelle piazze dei paesi, nei palazzetti delle città, nei teatri, in televisione, nelle feste LGBTQ+ e anche alle Feste dell’Unità. Nei Pride e al Vaticano» ha spiegato. 

«Perché le mie canzoni non desiderano altro che portare allegria e spensieratezza a chi è cresciuto con loro e a chi le canta assieme a me. Tutti, nessuno escluso. E questo non è qualunquismo, ma libertà». Poi ha sottolineato il motivo per cui si esibirà alla festa di FdI: «Stasera, come tutte le altre, non porto ideologie, ma musica. Non mi schiero e non cambio pelle all’improvviso. Ho accolto un invito per cantare, non per militare sotto una bandiera». E ha rassicurato il mondo gay: «Ho sostenuto, e sempre sosterrò, i diritti civili e l’amore universale che dovrebbe essere alla base della crescita di ogni essere umano».

La cantante risponde ai “commenti feroci”. Cristina D’Avena e le polemiche sull’evento di Meloni in piazza del Popolo: “Canto i Puffi per tutti, dalle feste Lgbt a Fratelli d’Italia”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 15 Dicembre 2022

È bastato l’annuncio che Cristina D’Avena sarebbe salita sul palco di Piazza Del Popolo a Roma per festeggiare i 10 anni di Fratelli d’Italia, per scatenare la polemica social. “Da Georgie a Giorgia ce vo’ n’attimo”, ha ironizzato qualcuno: i fan e soprattutto la comunità lgbt di cui Cristina è considerata un’icona, non hanno apprezzato la sua partecipazione all’evento del partito di Giorgia Meloni.

La polemica social su Cristina D’Avena alla festa di Meloni

“Occhi di gatto è uno dei più grandi capolavori della musica disco, mi dispiace sapere che chi la canta sarà sul palco di Fratelli d’Italia – ha detto Gabriele Piazzoni, segretario generale dell’Arcigay nazionale, come riportato dal Corriere della Sera – Forse ci si poteva aspettare un po’ più di coerenza tra le posizioni che Cristina D’Avena ha espresso sui diritti civili e la partecipazione alla festa di una forza politica che è agli antipodi rispetto alle nostra sensibilità”. Il riferimento e all’impregno che la cantante ha sempre manifestato in difesa dei diritti, contro l’omotransfobia e per il Ddl Zan che in Senato cadde sotto la “tagliola” chiesta proprio da FdI insieme alla Lega.

Per questo motivo la delusione di molti fan è stata grande. “La caduta di un mito”, “un trauma che non supererò mai”, “molto deludente”. “Se canti alla festa di un partito che vuole demolire i diritti della comunità lgbt+ poi non presentarti alle nostre serate o ad altre feste arcobaleno”, hanno scritto sui social alcuni fan. C’è anche chi ha difeso la cantante sottolineando che è libera di cantare dove vuole, “Ad agosto ha cantato pure alle kermesse del Pd”, ha detto un altro utente. “Le canzoni di Cristina sono parte dell’infanzia di tutti, senza distinzioni”, ha chiosato un altro utente.

Fiorello in difesa di Cristina D’Avena

In difesa di Cristina D’Avena è arrivato anche Fiorello: “Perchè la “D’Avena non può andare a cantare alla festa dei Fdi?”, si è chiesto Fiorello durante la puntata mattutina di ‘Viva Rai2’. Aggiungendo poi divertito: “Ai tempi del Karaoke, anche io sono stato invitato alla festa dell’Unità e ho fatto cantare tutti i comunisti e nessuno mi ha detto niente, abbiamo cantato ‘Bella Ciao'”, ha aggiunto Fiorello che subito dopo ha intonato con tutto il cast della la canzone simbolo della Resistenza. Fiorello ha dunque invitato tutti a non indignarsi per le scelte della D’Avena e ha sottolineato: “Ognuno dev’essere libero di esprimersi dove e come vuole. Io ho cantato per i comunisti e lei per la Meloni”. “Se la chiamava Letta?”, ha chiesto Fabrizio Biggio a Fiorello. “Che festeggi con Letta? Non c’è niente da festeggiare”, ha chiuso sorridendo lo showman, che nella puntata di oggi ha ospitato anche la prima uscita tv dei Santi Francesi, dopo la vittoria di XF2022.

La replica di Cristina D’Avena alle polemiche

In mattinata Cristina D’Avena ha risposto alle critiche dai suoi social. “Cari amici, ho letto nel pomeriggio di ieri, sul web, commenti e considerazioni feroci sulla mia partecipazione alla festa di questa sera, in Piazza del Popolo a Roma. Non credo serva spiegare come mi sia sentita; preferisco ricordare a chi mi ha giudicato, forse con un po’ troppa fretta, chi sono. Da quarant’anni canto in tutti i posti dove sono ben voluta e accolta. Nelle piazze dei paesi, nei palazzetti delle città, nei teatri, in televisione, nelle feste LGBTQ+ e anche alle Feste dell’Unità. Nei Pride e al Vaticano. E sempre e ovunque con tutto l’impegno e la gratitudine possibili. Perché le mie canzoni non desiderano altro che portare allegria e spensieratezza a chi è cresciuto con loro e a chi le canta assieme a me. Tutti, nessuno escluso. E questo non è qualunquismo, ma libertà.”.

E ancora: “Stasera, come tutte le altre, non porto ideologie, ma musica. Non mi schiero e non cambio pelle all’improvviso. Ho accolto un invito per cantare, non per militare sotto una bandiera. E se posso trasformare una polemica in qualcosa di più utile, vorrei fosse – questa – un’ottima occasione per dimostrare (se mai ce ne fosse ancora bisogno) che la musica unisce, include, conforta. Ho sostenuto, e sempre sosterrò, i diritti civili e l’amore universale che dovrebbe essere alla base della crescita di ogni essere umano. Canto Pollon, i Puffi, Memole, Occhi di Gatto, Mila e Shiro…. Sono inni di leggerezza e di fantasia… e di nessuna altra natura o pretesa”.

Elena Del Mastro.  Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Cristina D'Avena: «Ho venduto 7 milioni di dischi ma altri si sono arricchiti, non io. Sexy? Mi piace mostrarmi». La regina delle sigle dei cartoni animati festeggia 40 anni di carriera con un nuovo album: «Il sogno continua». Valentina Baldisserri / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.

Tutto iniziò 40 anni fa, nel 1982, quando una diciassettenne Cristina D’Avena si presentò ad un provino per interpretare la sigla italiana della serie animata giapponese "Pinocchio", vinto il quale firmò un contratto di esclusiva con la Five Record, storica etichetta dell’allora nascente Canale 5. Quella prima sigla, "Bambino Pinocchio" composta da Augusto Martelli, cui seguì l’omonimo 45 giri dall’importante successo commerciale, diede inizio alla lunga e prolifica carriera di Cristina, con centinaia di sigle e concerti al suo attivo. 

Dal 1982 ad oggi Cristina D’Avena è l’unico personaggio dello spettacolo la cui voce è presente sulla tv italiana ininterrottamente dai primi anni ‘80 almeno una volta al giorno, 7 giorni su 7, 365 giorni l’anno. «Dovrei essere ricchissima ma non è così perché i soldi dei diritti sono finiti nelle tasche degli autori non certo nelle mie - dice Cristina- . Io devo lavorare e continuo a fare concerti e serate».

La paura di finire nel dimenticatoio, la depressione di cui soffrono tanti artisti come il suo amico e collega Marco Bellavia, protagonista di un vero e proprio caso al Grande Fratello : «Una certa paura c’è sempre e per questo bisogna sempre reinventarsi. Marco lo conosco bene ma non sapevo dei suoi problemi. Gli auguro che per lui ora inizia una nuova carriera professionale».

Per festeggiare i 40 anni di carriera di Cristina D’Avena esce "40 – ll sogno continua", un cofanetto che contiene grandi successi e inediti. La novità sono i duetti con diversi artisti:

Orietta Berti, Lorella Cuccarini, Albe, Myss Keta, Elettra Lamborghini, Alfa, Cristiano Malgioglio, Jr Stit e Dj Matrix & Amedeo Preziosi

Mauro Giordano per corrieredibologna.corriere.it il 27 giugno 2022.  

«I tempi si evolvono, i bambini si si evolvono ma io ci sono sempre». Con i concerti dove riesce a riunire veramente intere generazioni con migliaia di partecipanti, Cristina D’Avena, 57 anni (saranno 58 il 6 luglio), sta festeggiando i quarant’anni di carriera e domenica 26 giugno sarà pubblicato il terzo vinile in edizione limitata (sono dei picture disc) della serie di sei uscite che la sta accompagnando in questo anniversario: è quello con le sigle di «Nanà Supegirl, Pollon, Pollon combinaguai». 

Lei che super lo è veramente in questi giorni gioca in casa, con la partecipazione al Nerd Show di Bologna, che il 25 e il 26 giugno porterà tra i padiglioni di BolognaFiere appassionati di fumetti, videogiochi, cartoni animati ma anche cinema e ovviamente qualunque fenomeno di internet. Se molti legano la sua epifania a quando a soli tre anni e mezzo cantò il «Valzer del moscerino» allo Zecchino d’Oro del 1968, l’inizio quantomeno «formale» del lungo viaggio che continua ad appassionarla viene considerato il 1982 quando registrò «Bambino Pinocchio», la sua prima sigla per un cartone animato.

Di lei si contano 313 pubblicazioni e 743 brani e non si ferma certo qui perché è evidente che vorrebbe rimettersi in studio per un nuovo album di duetti con altri artisti famosi (i due pubblicati tra il 2017 e il 2018 hanno avuto vendite e download da record) anche se sui progetti futuri dice «top secret» e l’ultimo vinile uscirà il 21 ottobre. 

«Essere considerata la cantante dei cartoni e quindi di Serie B mi dispiace e mi ha anche fatto soffrire, al tempo stesso dico che dopo quarant’anni canto ancora, quindi qualcosa di importante è stato fatto». Idolo della comunità lgbtqi (spesso presente ai Pride) premiata con tanti omaggi come Jesolo che le dedicherà il lungomare questa estate, continua anche a coltivare il sogno di laurearsi in Medicina che aveva dovuto abbandonare per dare spazio alla carriera nella musica: neuropsichiatria infantile la sua grande passione.

Cristina D’Avena al Nerd Show.

«Con lo sviluppo e l’importanza che ha assunto nel tempo il Cosplay (travestirsi da personaggi di videogiochi, fumetti, cartoni animati, film o letteratura fantasy, ndr) è evidente il perché io ci sarò (ride, ndr). 

Credo che travestirsi nel proprio personaggio preferito e al tempo stesso sentire il brano che accompagna inevitabilmente la storia di quel personaggio diventi un’esperienza unica per gli appassionati. Al tempo stesso il mio pubblico è talmente variegato che abbraccio veramente tutte le età e le categorie. Probabilmente perché abbandonarsi a un mondo magico, dove tutto può succedere, aiuta ad affrontare meglio la vita reale, soprattutto ai tempi di oggi». 

Lei riesce a coinvolgere non solo chi è cresciuto con le sigle dei suoi cartoni ma anche nuovi fan. Si domanda il perché?

«Innanzitutto credo perché i miei cartoni animati vanno sempre di moda e sono continuamente rimessi in onda, poi su Youtube e altre piattaforme sono diffusissimi. Li guardano i genitori e i fratelli dei bambini di oggi che quindi si appassionano a un mondo che imparano a conoscere. L’intrattenimento di oggi su quel fronte è cambiato e portato a produzioni di altro tipo, ma il fascino che quei personaggi regalano è intatto. Sono reduce da alcuni eventi nei quali i più piccoli mi guardavano e cantavano come si canta ai concerti di Vasco Rossi». 

Sono nati canali televisivi specializzati per bambini ma l’intrattenimento infantile quantomeno in tv sembra scomparso.

«Anche le case di produzione di adeguano ai tempi e sul fronte della trama e delle storie oggi i cartoni sono più sintetici perché si lavora di più su film d’animazione o serie anime. In passato invece c’erano vere e proprie sceneggiature e racconti, a volte un po’ tristi e duri ma sicuramente coinvolgenti per quelle fasce d’età. Ma come dico sempre bisogna valorizzare quello che ci fa stare bene e quando si intona la canzone dei Puffi si prova spensieratezza, allora forse il segreto è quello». 

La «cantante dei cartoni». Definizione che l’ha ferita in passato?

«Sono sempre andata avanti e continuo a lavorare molto. Sto festeggiando i quarant’anni di carriera quindi posso dire che sono stata nel mio, non ho disturbato nessuno e ho coltivato il rapporto con il mio pubblico, che mi dimostra un affetto che provo a ricambiare con tanto impegno. 

Ero etichettata come la ragazzina delle canzoncine di serie B. E quando sentivo questa cosa, nonostante i dischi di platino e i vari riconoscimenti, mi dispiaceva tanto anche perché sono scritte da signori autori come Piero Cassano, Gianfranco Fasano, Massimiliano Pani, tanti maestri. Catalogare gli artisti non mi è mai piaciuto». 

Nel suo cassetto c’è qualche sigla che doveva essere protagonista di un progetto e non è stata pubblicata?

«No, anche perché mi dispiacerebbe molto per l’attenzione che provo a mettere in tutti i lavori. Come metodo inoltre decido di investire su progetti che partono già con basi solide» 

Nel tempo le sue sigle o i personaggi preferiti sono cambiati?

«Ognuno ha la sua storia e anche una dinamica che lo fa crescere nel tempo. “Kiss me Licia” probabilmente rimane secondo me sempre attuale ma un’altra alla quale sono molto legata è Sailor Moon che oggi è amatissima. Credo che i personaggi a volte acquistino fascino proprio perché li andiamo a cercare nei ricordi e quando ci vengono in mente ci riportano a pensieri positivi». 

«Kiss me Licia» rimane inoltre legato alla sua esperienza da attrice insieme a «Arriva Cristina». Non ha più avuto occasione di mettersi in gioco in quell’ambito?

«Mi sarebbe molto piaciuto e mi piacerebbe ancora adesso. Chissà. Sicuramente avrei voluto terminare la storia di “Kiss me Licia” per svelare dopo tanti anni cosa è successo. Tra l’altro non solo il cartone ma anche quel telefilm continua a essere spesso condiviso sui social network. Se Beautiful va avanti da così tanto tempo, perché Cristina o Licia non si possono riprendere per vedere che fanno adesso, dopo tanti anni?» . 

Instagram e altri social hanno rilanciato e in parte cambiato la sua immagine.

«Da parte mia è stata una cosa molto spontanea perché tra l’altro non sono nemmeno bravissima e mi affido agli altri. Instagram è forse il profilo che seguo più personalmente. Mi diverte molto e poi ho sempre trovato che questi canali siano un utilissimo strumento di lavoro per capire se i progetti ai quali si sta lavorando vengano apprezzati dal pubblico, il ritorno in tempo reale su come verrebbe accolto un lavoro è importantissimo». 

Insieme a tanti momenti alti ci sono stati anche dispiaceri?

«Alti e bassi nella vita capitano a tutti, dal punto di vista professionale sono sempre stata molto attenta a mantenermi al passo con i tempi. Devo dire di essere stata fortunata». 

Nel mondo dello spettacolo ci sono stati legami creati con alcuni artisti più importanti per lei?

«I duetti con 32 artisti sono stati bellissimi e molto coinvolgenti e spero che sia un’esperienza che si possa ripetere. A proposito della “cantante dei cartoni” per me è stata la dimostrazione che anche bravissimi colleghi mi hanno amato per quello che ho fatto nella mia carriera e questo mi ha reso molto felice». 

Progetti in cantiere?

«Ce ne sono ma per il momento è tutto top secret».

Una carriera così lunga è anche costata sacrifici dal punto di vista personale?

«Dipende da come vivi le cose che fai, ho messo molto impegno e tanta fatica nella mia carriera ma mi sento ripagata da quello che ho ricevuto in cambio».

Cristina D’Avena: «Ai concerti di Jovanotti i fan chiedono autografi a me. I bimbi vogliono sposarmi». Elvira Serra su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2022.

La cantante: «I miei show son i Puffi agli esami in università. Non fate il nome del mio fidanzato, in questo momento c’è maretta e non vorrei che cambiasse la situazione». 

Le sarebbe piaciuto essere Laura Pausini?

«La stimo e mi piace tantissimo, ho visto i suoi concerti, ma no: mi piace essere quella che sono. Può dirmi anche Mina, la risposta è la stessa. Ho vinto 6 dischi di platino e 4 d’oro, quando bisognava vendere centinaia di migliaia di copie. Amo quello che faccio e lo porto avanti con coerenza».

E se non fosse diventata cantante?

«Avrei fatto la dottoressa, come mio padre Alfredo. Lui aveva tante specializzazioni, ma faceva il medico generico. Usciva la mattina alle 7 con la valigetta in mano e tornava la sera tardi: ogni giorno faceva 45 visite. E poi era il medico dell’Antoniano, mestiere che ha praticato fino alla morte, nel 2008: curava i bambini, i frati... Conosco ogni angolo di quel luogo».

A lei che medico sarebbe piaciuto diventare?

«Neuropsichiatra infantile. Ai miei concerti vengono tanti bambini speciali, le mamme mi scrivono per parlare con loro, mi dicono che dopo sono più tranquilli. Forse li aiuto lo stesso».

La leggenda narra che ha cantato la canzone dei Puffi anche all’Università.

«Certi esami erano degli show: il nome Cristina D’Avena, fuori dalla porta per l’appello, non passava inosservato. All’esame mi ritrovavo dietro i colleghi incuriositi, perché fino a quel momento ero soltanto una voce, cominciavano le prime apparizioni a Premiatissima o Superclassifica Show. Qualche docente faceva delle battutine su Gargamella, si figuri come stavo io...».

E adesso c’è qualcuno che le chiede consigli su come curarsi?

«Altroché! Mi mancano la tesi e pochi esami, mi è spiaciuto non laurearmi. Mio padre mi diceva che potevo fare qualsiasi lavoro, purché completassi gli studi».

È stato contento della sua carriera?

«Sì certo. Non ha fatto in tempo a vedere i duetti. Amava la musica melodica napoletana. Conoscendolo, mi avrebbe chiesto una canzone con un napoletano».

Cristina D’Avena è sorridente, allegra, riceve messaggi a raffica sui due cellulari e si scusa: «Ho appena fatto un concerto a Ortona, un delirio! Mi stanno mandando gli articoli. La gente piangeva, sono un personaggio che unisce tutte le generazioni: c’era una piazza strapiena; i più anziani seduti, la curva che urlava, i bambini che mi chiedevano le canzoni. Bellissimo! Avevamo tutti voglia di recuperare un po’ di normalità dopo il Covid». Ci incontriamo nella sede milanese della Warner, la casa discografica con cui sta pubblicando ogni mese, fino a ottobre, un vinile celebrativo dei suoi 40 anni di carriera: mille pezzi unici, numerati, con foto inedite e brani da Occhi di gatto a Mila e Shiro due cuori nella pallavolo. Anche se lei, a dirla tutta, dal 17 marzo 1968, quando si presentò sul palco dello Zecchino d’Oro con Il valzer del moscerino (e aveva tre anni e mezzo) non ha mai smesso di cantare.

Da quando fa partire la sua carriera?

«In effetti dal Valzer. Però la prima sigla dei cartoni animati l’ho pubblicata nell’82: era Bambino Pinocchio, di Augusto Martelli. Chi avrebbe immaginato che le sigle sarebbero diventate un genere musicale, o che nascessero i cosplay, ragazzi che si travestono da cartone animato».

Ha cantato 765 brani, venduto otto milioni di copie. Domanda impossibile: qual è la sua canzone preferita?

«Kiss me Licia. Beh, io sono stata Licia! Ho interpretato sia il telefilm che la canzone, è il top del top, qui dentro il mio cuore assieme al Valzer del moscerino. Poi ci sono Sailor Moon, Memole dolce Memole, Rossana...».

Ha inciso perfino la versione italiana di «My life is going on», della «Casa di carta».

«Il cartone è stato fatto solo per la sigla, purtroppo. Era un’operazione social».

È riuscita a far cantare le sue canzoni a Patty Pravo e Loredana Bertè!

«E non solo loro! Per i miei due Duets tutti gli artisti sono stati dolcissimi. Certo, non pensavo che Patty Pravo accettasse di fare la canzone dei Puffi: invece è molto ironica e le piace mettersi in gioco. Quanto alla Bertè, sinceramente credevo che mi dicesse no».

Dei duetti quale l’ha sorpresa di più?

«Ermal Meta ha fatto una versione di Piccoli problemi di cuore bellissima. Mi è piaciuta tanto anche Noemi con Lady Oscar: pensi che da bambina a Carnevale la vestivano da Lady Oscar, ha chiesto lei di farla, così come J-Ax ha voluto proprio Pollon».

Un duetto impossibile?

«Ah, con Chris Martin dei Coldplay! Prima o poi, visto che sono in Warner, ci riuscirò. Io glielo dico e ridico, magari il miracolo succede».

Jovanotti non le piacerebbe?

«Eh, mi pare una missione impossibile... Ci siamo conosciuti tantissimi anni fa, entrambi agli esordi. Ci incrociavamo quando lui lavorava per Cecchetto e io cantavo le mie prime sigle. Sono sempre andata ai suoi concerti, non ho mai chiesto i biglietti, mi piace viverlo da fan. Poi, certo, succedono cose simpatiche quando i suoi fan mi riconoscono e mi chiedono le foto».

A lui quale canzone affiderebbe?

«Tazmania o Fiocchi di cotone per Jeanie (le intona, ndr), sono canzoni più di nicchia. Un altro che mi fa impazzire è Antonello Venditti».

Intanto Mina ha fatto una sua cover.

«La notizia mi è arrivata dai fan. Ha cantato Sempre attento al regolamento, cambiando le parole; è diventata Tu dimmi che città. Era una canzone che mi aveva scritto il figlio Massimiliano Pani. Mi ha inorgoglita e sorpresa».

A lei quale cover piacerebbe incidere?

«Che sia benedetta di Fiorella Mannoia, con cui arrivò seconda al Festival di Sanremo. La trovo vicina al mio modo di essere e di cantare».

Del suo primo Sanremo, nel 2016 da super ospite, che ricordo ha?

«Un’emozione unica. Ero talmente agitata sulla sedia che il truccatore temeva di dovermi mandare sul palco con gli occhi uno diverso dall’altro. Ci arrivai a furor di popolo, grazie a una petizione di All Music. Per fortuna con la scalinata mi hanno aiutato Andrea Pellizzari e Max Brigante, altrimenti inciampavo di sicuro».

C’è tornata nel 2019 per duettare con Shade e Federica Carta.

«Se andassi la terza volta sarei più tranquilla».

Si candida alla conduzione?

«Pure coconduttrice sarebbe meraviglioso!».

Se le offrissero una fiction o un programma cosa sceglierebbe?

«La fiction mi piacerebbe molto, mi mancano molto i miei telefilm. Certe scene mentre giravamo Kiss me Licia... Gli attori erano modelli, non è che sapessero proprio recitare, faticavano a imparare le battute. Non che io fossi meglio...».

Quindi tornerebbe sul luogo del delitto?

«Ma certo! Oggi Cristina è diventata produttrice: facciamo un telefilm come un talent».

Maria De Filippi deve preoccuparsi?

«Ma no, non a caso si chiama fiction!».

Altri sogni da realizzare?

«Mi piacerebbe un musical a teatro, amo il contatto con il pubblico! Potrebbe essere una rivisitazione di una favola, ambientata ai nostri giorni. Tipo: “Che fine ha fatto Cenerentola?”».

E secondo lei che fine ha fatto oggi?

«Forse ha aperto un bel negozio di scarpe e di gonne».

Un po’ come lei.

«Io ho il mio marchio di scarpe: My Heart Shoes. E ora c’è una piccola aziendina che realizza le mie gonne: si chiama My5».

La cosa più matta che hanno fatto i suoi fan?

«Tantissime! Prendono, partono e vengono ovunque noleggiando i pullman. Anche a Sanremo me li sono trovata davanti all’Ariston: alcuni venivano dalla Sicilia e dalla Sardegna. Un’altra cosa meravigliosa è stata cantare una mia canzone e stampare un vinile con le loro voci».

Com’è lavorare con la propria sorella? Liti?

«Sempre! Ma il bello è anche quello: questi sono i rapporti più importanti. Mi sento un po’ la sua mamma, è cresciuta con me. E nel suo lavoro è bravissima, sa come la penso, anticipa quello che direi io, a volte pure troppo!».

Se le dico casa, casa dov’è?

«Casa è Bologna. Ma Milano è la mia seconda casa, da quando ho cominciato a lavorare».

Quando aveva la guardia del corpo?

«Giuseppe! Mio padre gli aveva chiesto di seguirmi perché non si fidava, ero ancora minorenne. Poveretto, quante gliene ho fatte passare... Lo costringevo a dire bugie a mio padre e lui si disperava: “Io sono carabiniere a cavallo, non le dico le bugie!”».

Ha appena scritto un libro di favole. A quando un’autobiografia?

«Il giardino delle Fiabe è uscito per Ape Junior: sono dieci storie che parlano di rispetto per l’ambiente, le avevo scritte durante il lockdown. L’autobiografia in effetti me la stanno chiedendo, sarebbe bellissimo».

Non parla mai del suo fidanzato. Sui social le viene accreditato Mass...

«No, non dica il nome!, che in questo momento c’è maretta e non vorrei che cambiasse la situazione. Sono riservatissima».

Continua a ricevere proposte di matrimonio?

«Sì, l’ultima qualche giorno da, da un bambino di sei anni».

Le manca un figlio?

«No e spero che non diventi un rimpianto. Ogni tanto mi chiedo come sarebbe stato se ne avessi avuto uno».

Avrebbe avuto un guardaroba principesco a disposizione.

«In un magazzino conservo tutto: abiti di scena, vhs, giochi. Ogni tanto vado e me li guardo. Se avessi avuto figli mi avrebbero detto: basta mamma!».

Non le è ancora passata la paura di volare?

«No, dovrei fare uno di quei corsi con gli steward...».

Guardi che se Chris Martin accetta di duettare vorrà farlo a Londra. Lei non sale nemmeno su un traghetto...

«Per Chris supererò le mie paure!».

Dagospia il 20 gennaio 2022. Da "I Lunatici - Radio2".

Cristina D'Avena è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta da mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra la mezzanotte e cinquanta e le due e trenta circa. 

Cristina D'Avena ha parlato un po' di se: "Qual è la sigla dei cartoni a cui sono più affezionata? 

Avendone cantate tantissime, anche negli ultimi anni, sono arrivata quasi a 750. A parte Kiss me Licia, che amo tantissimo, non saprei indicarne una. Ce ne sono tante. 

Ad indicarne una faccio fatica. Licia rimane la sigla indiscussa che io amo più in assoluto. 

La prima sigla che ho cantato? 'Bambino Pinocchio', si chiamava così. Quando ho capito che sarebbe diventato un lavoro? Quando ero ragazzina andavo a scuola, facevo il primo anno dell'università, non mi sembrava vero. 

Cantavo le mie sigle, mi fermavano per strada, canticchiavano le mie sigle, ma non mi rendevo conto. Dopo aver interpretato il telefilm di Licia, ci chiamavano sia a me che al produttore il direttore della rete per farci i complimenti.

Ho iniziato a fare concerti, mi hanno iniziato a chiamare per altre trasmissioni, ero sempre in sala di incisione, uscivano dischi, a quel punto mi sono resa conto che Cristina piaceva tanto al pubblico e che quindi doveva dedicarsi ancora di più al suo pubblico. Sicuramente ho preso consapevolezza dal telefilm, dalla seconda o terza serie di Licia. Giravo per strada e le persone mi chiamavano Licia, mi chiedevano autografi, ero affezionatissimi.

Lì ho capito che stavo diventando grande. In famiglia non hanno mai intralciato le mie scelte, certe mio padre essendo un medico mi diceva di non abbandonare l'università e di arrivare fino alla fine. Gli ho dato retta, anche se mi manca qualche esame per laurearmi in medicina. E' uno dei miei sogni. Chissà se riuscirò a finire. Mi piacerebbe tanto. Avrei voluto specializzarmi in neuropsichiatria infantile. Non so se riuscirò a farlo, ma almeno finire l'università sì".

Sul rapporto con la sua fisicità: "Ho sempre avuto tanti corteggiatori, anche all'epoca di Licia. Adesso ci sono corteggiatori belli forti. Sui social c'è anche qualche maniaco, a volte mi fanno divertire, scrivono cose incredibili che uno può leggere e basta. Il mondo di internet è un po' così. Non mi metto tanto in mostra, però ogni tanto mi espongo. Anche io ho le mie fragilità. 

A volte non mi piaccio abbastanza, ho dei punti che non mi piacciono di me. Sono mediterranea, sono fatta un po' ad anforina, ho i fianchi più pronunciati, dovrei fare palestra e smaltire il mio punto critico, invece sono pigra e mangiona, credo che il cibo sia uno dei piaceri più belli della vita e quindi non mi trattengo più di tanto. CIbo o sesso? Bah, faccio fatica a rispondere. E' difficile". 

Ancora Cristina D'Avena: "Cosa mi fa arrabbiare? Le bugie. Quando uno mi mente e me ne accorgo mi arrabbio tantissimo, le bugie e l'incoerenza non le sopporto. Sono una persona estremamente coerente, se dico una cosa è quella".

Sul catcalling: "A me personalmente non è capitato spesso. Ogni tanto. Ma io mi giro, guardo e me ne vado. E' inutile rispondere, ti giri, guardi, sorridi e te ne vai. Spiazzi di più così". 

Sulla pandemia: "Pensavo che ci avrebbe reso migliori, invece non è così. Le persone sono diventate molto più intolleranti, c'è tanto nervosismo, tanta confusione, le persone sono stanche e quindi sono diventate un po' più cattive. Vedono subito il marcio.  Ma non siamo tutti così".

·        Cristina Quaranta.

Cristina Quaranta, donna coraggiosa: da «Non è la Rai» al GF. Ora fa la cameriera. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 19 Ottobre 2022.

La ex velina di «Striscia la notizia» ha una figlia di 20 anni, Aurora, che è entrata nella Casa per dare conforto alla mamma che aveva raccontato della sua ultima storia: lasciata su due piedi in modo brutale

Il racconto shock nella casa del Grande fratello

Cristina Quaranta divenuta famosa grazie a « Non è la Rai» e «Striscia la Notizia» e dopo anni di assenza dal piccolo schermo, ora partecipa al «Grande fratello» e nella ultime puntate ha reso un racconto piuttosto crudo della sua vita privata, legato al suo ultimo ex compagno (non al padre di sua figlia). «Siamo stati insieme tre anni - ha raccontato - tre anni meravigliosi, mille giorni unici in cui sono tornata ad avere le farfalle nello stomaco, sembravo una ragazzina di 15 anni per quanto fossi innamorata». Lo shock arriva all’improvviso: «L’uomo con cui stavo voleva un figlio e io a 45 anni avevo comunque deciso di darglielo, la settimana dopo però mi dice “Cri non ti amo più, togliti dai cog...e fai le valige!” Mi ha lanciato sul letto 5mila euro in contanti come se fossi una put... e mi ha cacciata di casa. Era il 6 dicembre del 2017, vivevo ancora con lui , con i suoi figli e con mia figlia. Per tre settimane, mentre cercavo un altro posto dove andare, ho vissuto nella stanza che era di mia figlia Aurora, dormivo e mangiavo sola, perchè i figli del mio compagno non mi rivolgevano la parola. Non ho mai avuto la possibilità di provare a chiarirmi con lui. Lui ha voluto che mi separassi legalmente dal papà di mia figlia, la mia ambizione era avere una vita normale, quindi quando lui mi chiese di separarmi legalmente non voleva che fossi bigama ero felice, mi diceva che si sarebbe occupato di me».

«Non è la Rai», notata da Boncompagni

Cristina Quaranta è arrivata nel mondo dello spettacolo quasi per caso. Ha raccontato: «Era il lontano 1989 ed ho accompagnato mia cugina un giorno a fare un provino per “Domenica In”, stavano cercando una ragazza pompon. Gianni Boncompagni mi notó subito e mi chiese se volevo partecipare al programma, io accettai. Da lì sono diventata valletta insieme a Edwige Fenech del famoso Cruciverbone di Domenica In all’epoca condotta da Gigi Sabani. In tutto ciò mia cugina fu scartata e per questo non ci parliamo più da allora”. Poi il grande successo con Ambra Angiolini e tutte le altre ragazzine

Il matrimonio con Matteo De Stefani

Cristina Quaranta è stata sposata con Matteo De Stefani dal 2001 al 2013. Dal loro amore è nata la figlia Aurora, che oggi ha 20 anni. Nonostante il matrimonio sia finito, sono rimasti in ottimi rapporti. Il matrimonio tra Matteo De Stefani e Cristina Quaranta risale al 2001. L’imprenditore e l’ex volto di «Non è la Rai» si sono conosciuti a Milano, dove la donna si era trasferita per fare la Velina nel programma «Striscia La Notizia». Al «Grande Fratello Vip», Cristina Quaranta ha raccontato: “Tramite un amico in comune ho conosciuto un uomo, appena l’ho visto ho detto: “Questo sarà mio, lo sposerò”. E così è andata. È un matrimonio che è durato dal 2001 fino al 2013”. Dal loro amore è nata Aurora De Stefani, che lo scorso maggio ha compiuto 20 anni

Velina a «Striscia la notizia» con Alessia Merz

Nata a Roma il 14 agosto del 1972, Cristina ha 50 anni, portati splendidamente. La sua carriera in televisione è iniziata quando era ancora giovanissima, essendo stata scoperta da Gianni Boncompagni: da Non è la Rai a Striscia la notizia (siamo negli anni ’90) diventando la velina bionda che affiancava la mora Alessia Merz. Come attrice ha interpretato una piccola parte in Stasera a casa di Alice di Carlo Verdone nel 1990 e nella fiction di Italia 1 Classe di ferro.

Un pesce fuori d’acqua

Tempo fa rilasciò una intervista a Dagospia dove disse: « Il ritorno in tv? Se mi chiamano e mi propongono qualcosa che mi piace accetto, altrimenti continuo a fare la mia vita lontana dai riflettori che mi appaga e mi gratifica. Col senno di poi però tornando indietro avrei fatto tutt’altro, sarei rimasta a Roma a fare l’insegnante di educazione fisica. Non mi è mai piaciuto l’ambiente dello spettacolo, ho pochissimi amici che fanno parte di questo mondo, mi sono sempre sentita un pesce fuor d’acqua. Le persone senza peli sulla lingua come me sono scomode e non volendo cambiare il mio carattere sono stata allontanata e fatta fuori, ma va bene così». Lontana dal mondo dello spettacolo, Cristina si è guadagnata da vivere in tanti modi: ha lavorato in un negozio di tendaggi e ora fa la cameriera in un ristorante. Una donna coraggiosa e indipendente.

«Isola dei Famosi 3», «una delle mie peggiori performance»

Cristina Quaranta partecipò nel 2005 alla terza edizione dell’Isola dei famosi, reality condotto da Simona Ventura su Rai2. L’ex naufraga aveva 33 anni quando sbarcò in Honduras, era una showgirl e conduttrice televisiva.«L’Isola dei Famosi 3 è stata una delle mie peggiori performance – ha proseguito Cristina Quaranta -. È stata un’edizione ricca di concorrenti con cui non andavo d’accordo e con cui ho avuto forti litigi. Elena Santarelli, Romina Carrisi e Lory Del Santo mi chiesero scusa dopo avermi nominata, ma non so perché lo hanno fatto, forse mi temevano. Pensa che qualche anno fa Simona Ventura mi chiese scusa dicendomi che solo dopo aver partecipato a questo programma come concorrente ha potuto capire certe dinamiche e certe situazioni, nella mia edizione era la conduttrice e mi attaccò più volte durante le puntate».

Trasmissione sportiva, «Maurizio Mosca mi è rimasto nel cuore»

La partecipazione a «Guida al Campionato» a partire dal 1997-1998 proietta il nome di Cristina Quaranta tra i principali volti femminili della televisione legata al calcio italiano. «La persona con cui ho lavorato e che mi è rimasta più nel cuore è stato il grande Maurizio Mosca che purtroppo non c’è più, lo ricordo come un vero gentiluomo ed un gran signore oltre che un eccellente professionista», ha confessato Cristina.

La figlia Aurora la consola al GF

A tirare su il morale della donna ci ha pensato la figlia Aurora, che ai tempi della ferita d’amore raccontata da Cristina Quaranta aveva solo 15 anni. Oggi ne ha 20 e sta per iniziare l’Università per diventare Interior Designer. «Sono felicissima di essere qui – ha detto alla madre dopo essere entrata nella Casa del Grande Fratello Vip a sorpresa. - In questi giorni ti ho vista un po’ giù e ho pensato che il mio arrivo qui potesse tirarti su di morale. Volevo ricordarti che non sei solo una donna che ha sofferto tanto, ma soprattutto sei una donna con la d maiuscola, fortissima e bellissima. Vorrei che ti guardassi allo specchio la mattina e ti ricordassi quanto sei brava. Siamo tutti fieri di te, sei un esempio da seguire. Spero di renderti fiera come tu stai facendo con me».

·        Dado.

Da leggo.it il 18 gennaio 2022.

Andrà a processo a Roma il comico Dado, rinviato a giudizio oggi in udienza preliminare per diffamazione nei confronti dell'ex fidanzato della figlia. Per Dado, nome d'arte di Gabriele Pellegrini, difeso dall'avvocato Eugenio Pini. Il comico nell'aprile 2019 aveva denunciato di essere stato aggredito dal ragazzino, intervenendo a  Domenica Live  e in un 'intervista a un quotidiano mentre i genitori del giovane avevano annunciato una querela nei confronti di Pellegrini. La vicenda ora verrà affrontata a processo e la prima udienza è fissata per aprile 2023.

Il comico, come raccontato da Leggo, aveva detto di essere stato picchiato brutalmente dall’ex fidanzato della figlia, ma le indagini non hanno permesso di accertare quelle accuse. Anzi, le accuse nei confronti di Daniele Molteni, l'ex fidanzato della figlia, sono state archiviate. Inevitabile - quindi - l'accusa nei confronti di Dado di diffamazione a mezzo stampa.

·        Damion Dayski.

Barbara Costa per Dagospia il 13 febbraio 2022.  

Che bimbo! Ragazze, guardate qua: nuovi porno piselli crescono! E questo qui è cresciuto proprio bene, è cresciuto pure troppo, 30 centimetri e mezzo di puro "amore"! Il proprietario di tale mazza si chiama Damion Dayski, nel porno è un esordiente e mie care possiamo essere ninfomani quanto ci pare, mommy innamorate senza rimorso perché tale zuccherino è maggiorenne e vaccinato, se non di esperienza di vita dal Covid di sicuro dacché sui set porno non porni se non sei vaccinato e tamponato. Damion ha 19 anni, ed è nel porno da pochi mesi.

Ed è ancora vivo! Scrivo così perché lui porna da pochissimo ma se lo sono già spupazzato in parecchie: da ultimo, Damion è reduce da uno slattamento porno anale tramortente pur il più navigato tra i suoi stalloni colleghi: Damion è il protagonista maschile di tutte le scene che formano "Anal Superstars", porno diretto da Jonni Darkko, uno dei più grandi registi porno in circolazione, e uno tra i più intimanti e difficili. Darkko esige e dirige un hard che ti esaurisce in fibre e cervello: la sua firma la riconosci, è a stampo porno indelebile, nerissimo, marcatissimo, che sollecita stomaco.

Per questo non è passata sotto traccia la messa sotto contratto di due scene al mese del "piccolo" Damion alla corte di Darkko. E senti come l’ha subito porno impiegato: ha messo il suo caz*one sulle montagne russe, a scalare le spesse pareti anali di superstar porno dinanzi alle quali chiunque altro novellino se la sarebbe fatta sotto: Jane Wilde, Leah Winters e Alexis Tae sono le "Anal Size Queens" le prime tre che Damion ha dovuto contentare, saziare, domare, lui e i suoi 30 cm e mezzo che lo incoronano tra i portatori di pene più "in salute" del porno odierno. Il regista Jonni Darkko lo ha poi porno torchiato attraverso Angela White, Adriana Chechik, e Brooklyn Gray: e questo è il cast di gole profonde oscar del porno pluripremiate da Damion Dayski una ad una montate nel sopra citato e sovraeccitato "Anal Superstars".

Una taranta porno che Damion ha affrontato e se non guidato però uscito a voti alti. Uno che ha iniziato così, ha tutti i numeri per non rivelarsi una porno meteora: si rimane a bocca aperta (dallo stupore) nel vedere con quale padronanza ed esuberanza Damion ha girato porno accanto a Isiah Maxwell, pornostar che il porno oggi se lo comanda, uno che è un dio del sesso girato, Isiah che fisicamente Damion (alto 1,78 ma che pesa solo 64 kg) lo sovrasta, e comunque Isiah che credo per la prima volta si sia trovato a lavorare con uno che dei suoi "penosi" 25 cm… se ne imp*pa! Noto tra i porno-fan chi imputa a Damion Dayski di non possedere copioso sperma con abbondante schizzo. OK, avete ragione, Damion deve curare di più la sua dieta, lo farà, lo farà… 

Damion Dayski è nato il 29 gennaio 2003 a Chicago, e di lui si sa ancora poco, anche se i suoi "Solo Dio può giudicarmi", tatuato sul pettorale destro, e "Sopravvive solo il più forte" sul sinistro, sono esaustive premesse del personaggio. Appena maggiorenne Damion è stato preso da "Hussie Models", accreditatissima porno agenzia specializzata nello scovare talenti "della porta accanto", (leggi: ragazzi viso acqua e sapone con tra le gambe determinato "equipaggio") che lo ha fatto esordire nel porno a inizio estate 2021.

È il suo rigoglioso pene che lo sta portando alla ribalta, e lui sa come pavoneggiarlo sui social, con inviti e ammiccamenti studiatamente seduttivi, su OnlyFans ma pure su Twitter. E ora voglio il vostro parere, Dago-lettori uomini! Ditemi: secondo voi, di che sesso sono se non femminile – e di donne che possono essere vostre mogli, sorelle, zie, ma pure e tanto sane madri – la montagna di retweet sotto i post di Damion che strizza occhi e… pene? (ehi, ma… nei gusti porno, non s’era decretato il calo dei peni grossi? qui si mente, in tanti, e in tante, e reiteratamente!).

·        Dan Aykroyd.

Dan Aykroyd, 7 curiosità sull’attore canadese che compie 70 anni. Eva Cabras su Il Corriere della Sera l'1 luglio 2022.

Famoso per i ruoli iconici in “Blues Brothers”, “Ghostbusters” e “Una poltrona per due”, Aykroyd ha vissuto una vita a dir poco leggendaria

Il seminario

Dan Aykroyd nasce il 1° luglio 1952 a Ottawa, in Canada, da una famiglia cattolica di origini franco-canadesi e anglo-olandesi. Da adolescente, Dan entra in seminario per diventare prete, ma viene espulso all’età di 17 anni.

Diagnosi

Intorno ai 12 anni, ad Aykroyd vengono diagnosticate la Sindrome di Tourette, che può provocare tic facciali e movimenti involontari, e la Sindrome di Asperger, una forma di autismo.

Rivoluzione televisiva

Dal 1975 al 1980, insieme al caro amico e collega John Belushi, Aykroyd fa parte del cast originale del “Saturday Night Live”, programma che ha lanciato gran parte dei più famosi comici americani.

Origine di un cult

Uno dei film più celebri dell’attore canadese, “Blues Brothers”, nasce come sketch all’interno di SNL, per poi sfociare in una vera band musicale e infine nella pellicola di John Landis.

Beneficenza

Nel 1985 l’attore fa parte del cast supersonico di USA for Africa, che organizza la registrazione corale di “We Are The World” a sostegno della popolazione Etiope.

Famiglia

Dopo aver avuto una relazione con la collega Carrie Fisher, Dan Aykroyd incontra sul set di “Doctor Detroit” l’attrice Donna Dixon, che sposa nel 1983. La coppia sta ancora insieme e ha avuto tre figlie: Danielle Alexandra, Belle Kingston e Stella Irene August.

Imprenditoria

Parallelamente alla carriera nel cinema, Aykroyd ha avviato anche due attività commerciali: insieme a Isaac Tigrett una catena di locali dal nome “House of Blues” dal 1992 e con John Alexander il marchio di vodka chiamato Crystal Head.

·        Daniel Craig.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 16 gennaio 2021.

Daniel Craig ha fatto sapere che quando è stato scritturato per il ruolo di James Bond, Barbara Broccoli gli aveva chiesto di impegnarsi per quattro film, il che gli aveva fatto credere che il personaggio sarebbe stato «ucciso». 

L’attore, che nel film “No Time To Die” interpreta per la quinta volta lo 007, ha confessato che è stato «molto» per lui sentirsi dire che avrebbe dovuto prendere parte a un impegno di questo genere.

Parlando durante il podcast di Awards Chatter, Daniel ha raccontato che dopo l’uscita del suo primo film nei panni di James Bond, Casino Royale nel 2006, aveva chiesto a Broccoli quanti altri film avrebbe dovuto fare. «Ero seduto sul retro di una Mercedes nera in partenza dalla premiere berlinese di Casino Royale con Barbara Broccoli sul retro - solo io e lei - era tutto bello, il film stava andando alla grande, era ora di festeggiare un po'».

«Le ho chiesto “quanti di questi film devo fare?”. E lei ha detto tipo “quattro”. E io ero tipo “oh, davvero? Questo è molto?”». 

«Ho detto “OK, se ne faccio quattro posso ucciderlo alla fine?”' E lei si è fermata, e ha semplicemente detto “sì”».

·        Daniela Ferolla.

Greta Thunberg demolita da Daniela Ferolla: "Per salvare il pianeta...", la fucilata di lady Linea Verde. Libero Quotidiano il 18 aprile 2022.

L’eco della sua vittoria a Miss Italia è durata neanche 24 ore: solo il giorno dopo la sua incoronazione, il mondo è restato paralizzato e attonito dagli attentati suicidi dell’11 settembre 2001. Che hanno sconvolto tutti e hanno fatto passare, ovviamente, la sua vittoria in secondo piano. Questa circostanza, però, non ha impedito a Daniela Ferolla di realizzare i suoi sogni tra cui quello di diventare giornalista e inviata da otto anni per Linea Verde e Linea Verde Life. Innamorata della natura, racconta su Rai 1 il mondo equo e sostenibile e l'Italia delle eccellenze. Ma non per questo si concede alle ossessioni ambientaliste, come dimostra l'intervista che ha rilasciato a Massimo M. Veronese per il Giornale.

"Ognuno di noi nel proprio piccolo può fare il bene del pianeta", ha detto la Ferolla che spiega: "Sprecando meno acqua, facendo la spesa con criterio, usando materiale riciclato la Natura ti dà forza ed energia però bisogna rispettarla e lo devono fare soprattutto i giovani".  Quanto a Greta Thunberg, la conduttrice le riconosce il merito di aver "mobilitato un'intera comunità mondiale, ha coinvolto i giovani in una battaglia. La caparbietà è stata utile per imporre un'urgenza". "Greta ha dato il buon esempio", continua la Ferolla, "ma non mi concentrerei tanto su di lei ma sul futuro del pianeta, sul fare qualcosa per non perdere il domani. È una battaglia che va combattuta a livello globale, Cina, India, Stati Uniti, tutti noi". Nel suo piccolo Daniela Ferolla ha scritto un libro per insegnare a vivere meglio: "È un inno alla vita sana, un modo di riprendersi il tempo. Un attimo di respiro l'ho scritto durante la pandemia: non viaggiavo più, restavo chiusa in casa, avevo bisogno di ritrovare il respiro. É dedicato a due donne: mia nonna e mia madre".

Massimo M. Veronese per “il Giornale” il 17 aprile 2022.

L'hanno soprannominata Lady Green ma avrebbe potuto tranquillamente reggere anche il ruolo di Madre Natura. Daniela Ferolla è il ritratto della vita sana, della bellezza italiana e del mondo che vorremmo, verde smeraldo e pieno di energia pulita, la perfetta sintesi tra tradizione e modernità, la Greta che tutti sognavamo. Il mondo, equo e sostenibile e l'Italia delle eccellenze che lei racconta da 8 anni a Linea Verde e Linea Verde Life su Rai 1, non si concede alle ossessioni ambientaliste e non si fa trascinare dai fanatismi. Porta semmai nelle case di tutti il bello e il buono ma come piace a lei: con naturalezza. 

Ha detto di sè: sono una donna del Sud cresciuta in campagna e innamorata della natura. Più Heidi o più Pippi Calzelunghe?

«Un po' tutte e due. Da bambina mi sentivo molto wild. Amavo stare a piedi nudi sull'erba, vivere libera, ero anche un po' maschiaccio».

Però l'hanno soprannominata Biancaneve...

«È successo a Miss Italia. Ero una ragazzina con i capelli corti che non sapeva camminare sui tacchi e non si era mai truccata. I parrucchieri decisero di rendere più scuri i miei capelli per valorizzare i miei occhi...» 

E quindi?

«Avevo pelle chiara, occhioni verdi e chioma lunga e scura. Sembravo proprio Biancaneve». 

Chi era il suo uomo ideale Tarzan o Robin Hood della foresta?

«Forse più Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Almeno si rendeva utile...». 

Ha detto: per me famiglia e tradizione sono importanti. Non si sente fuori moda per questo?

«Assolutamente no, sono molto orgogliosa di essere tradizionalista. Per me sono importantissime le radici, la famiglia: ci fanno più forti e forse meno aridi».

Viveva mai bambina l'angoscia di un papà carabiniere?

«Vivevo circondata di carabinieri, in realtà mi sentivo molto protetta.

Papà però è stato bravo a non farci arrivare mai la paura e l'angoscia per i pericoli che affrontava». 

Lavorava con il generale Dalla Chiesa, vero?

«In un periodo molto difficile, tra Alcamo, Palermo e Trapani. Lui si è formato lì: una scuola durissima alle dipendenze di Dalla Chiesa e del colonnello Giuseppe Russo, poi ucciso da Cosa Nostra. Un orgoglio per me essere figlia d'Arma». 

Cos' ha preso da papà?

«Era un carabiniere molto amato. Da lui ho preso il rigore che mi accompagna sempre nella vita. Ringrazio il cielo tutti i giorni per i genitori che ho avuto». 

Il carabiniere a casa però era mamma...

«La marescialla era lei come credo in tutte le famiglie. Aveva studiato dalle suore, veniva da un'educazione molto religiosa, mia nonna per prima era molto devota, e tirare su quattro figlie femmine non è stato semplice».

Quattro femmine?

«C'è Miriam che è più piccola di me di otto anni, mentre io sono più giovane di Giusy sempre di otto anni. Poi c'è Gabriella tra me e Giusy». 

Cosa deve a sua mamma?

«Ha fatto sempre da sola, rigorosa fino alla fine. É un insegnamento di vita e un motivo di orgoglio». 

Le è stata molto vicina durante la malattia.

«Quando si è ammalata avevo 20 anni, la accompagnavo alle sedute di chemioterapia in ospedale. Lei faceva le terapie e io, vicino a lei, preparavo gli esami per l'Università. La perdita della mamma è un dolore che non si può descrivere». 

Dice che non si è mai considerata bella. Scherza ovviamente...

«Ero consapevole di essere una bella ragazzina, ma mi vedevo mille difetti come tutti gli adolescenti. Al liceo e ai primi anni di università mi nascondevo, per paura del giudizio altrui, mi hanno persino bullizzata. Vestivo quindi maglioni molto larghi, cappelli e cappellini strani, non volevo che mi riconoscessero».

È stata l'ultima Miss Italia minorenne dopo Martina Colombari.

«Ero veramente una bambina. I diciassette anni di vent' anni fa poi non erano quelli di oggi. Sono passata dall'essere una semplice ragazzina di provincia a simbolo della bellezza italiana, se non avessi avuto mia mamma che lasciò il lavoro per scortarmi fino alla maggiore età, mi sarei persa». 

Incoronata da Sophia Loren: cosa ricorda di quell'incontro?

«Essendo io campana Sophia era una specie di madonna. Vederla è stata uno choc. Ma ho un segreto da raccontare su di lei...» 

Non ce lo nasconda...

«Enzo Mirigliani, il patron di Miss Italia, mi considerava la sua nipotina, cercava di proteggermi più di altre perché ero la più piccolina. Pensi che quella che aveva vinto prima di me, Manila Nazzaro, aveva 26 anni». 

E quindi?

«Passati un po' di mesi ci vediamo a Roma nel suo ufficio e Mirigliani mi confessa: "Quando Sophia è arrivata a Salsomaggiore mi ha detto: ho visto le selezioni da Ginevra e ho già trovato la mia preferita"». 

E come lo disse?

«Consegnò un bigliettino a Mirigliani prima della finale facendogli giurare di non leggerlo prima e Mirigliani me lo fece vedere: c'era scritto il mio numero e il mio nome. Ero la sua preferita. Diceva che somigliavo a Demi Moore». 

Presentava Fabrizio Frizzi

«Era un fratello per me, una persona rara e vera. Seria e rigorosa sul lavoro ma che sapeva creare un clima di gioia intorno a sè. Conoscevo bene sua moglie, Carlotta Mantovan, che è stata la mia seconda in quella finale. Con Fabrizio abbiamo perso una persona unica». 

Eletta la sera prima dell'11 settembre. Ricorda quel giorno?

«Avevo appena iniziato il mio primo servizio fotografico da Miss Italia quando tutti si sono precipitati nella hall dell'albergo, il Grand Hotel et de Milan di Salsomaggiore, a guardare la tv. Scorrevano immagini atroci, all'inizio pensavo si trattasse di un film horror. Erano tutti paralizzati dallo choc davanti alla tv. Passai dal sogno all'incubo: davanti a questo scempio la mia felicità di ragazzina crollò». 

Come ha vissuto quei giorni?

«Ha cambiato la vita di tutti e segnato la mia generazione. Mi dicevano, che sfortuna essere diventata miss in quell'anno tremendo. Ma la vera sfortuna è toccata a chi lavorava nelle Torri Gemelle, non a me». 

Come fu muoversi, viaggiare?

«Nei voli eravamo spesso solo io e mia mamma perché nessuno voleva più prendere l'aereo. Ti toglievano dalla valigia qualunque cosa, io poi che viaggiavo con scettro e corona non le dico l'imbarazzo ogni volta». 

L'ultima Miss Italia è passata quasi inosservata. Pensa sia finita un'epoca?

«Sicuramente è cambiato tutto rispetto a vent' anni fa. Miss Italia per chi aveva bellezza e talento era l'unico talent che esisteva. È stata un'opportunità per tutte quante noi, anche per quelle che non hanno vinto, come Sophia o la Cucinotta». 

Cosa è cambiato?

«I tempi. Le ragazze di oggi non vogliono più essere rappresentate solo da un numero o da un costume da bagno, hanno voglia di farsi conoscere per altre qualità. Noi eravamo ancora molto decorative, non è che parlavamo tanto. Ma Miss Italia è sempre stata molto elegante». 

Quindi è finita?

«Avrebbe bisogno di un restyling come lo ha avuto Sanremo. Mi piacerebbe tornasse in auge perché un concorso di bellezza c'è in ogni paese del mondo. Perché non dare il giusto valore alla bellezza, anche quella è un talento naturale». 

Che Italia ha incontrato con i suoi viaggi soprattutto dopo il lockdown?

«Ho assistito a un passaggio culturale: ragazzi più attenti all'ambiente, alla natura e alle persone, che si sono reinventati contadini usando la tecnologia applicata alla terra. Prima essere un contadino veniva vissuto come un limite, non si era orgogliosi di lavorare i campi, adesso è invece una nuova frontiera di vita e di lavoro».

E lei dove ama vivere essendo vagabonda per contratto?

«Anch' io ragazzina, vivendo nel Cilento non vedevo l'ora di andarmene, di trasferirmi nelle grandi città, di conoscere il mondo, di fare esperienze. Ma mi sono dovuta ricredere: Milano, la città dove vivo, mi ha dato tantissimo ma adesso sento il bisogno di tornare a quello che è stato il mio passato. Ho preso la casa dei miei nonni con il mio compagno, l'abbiamo risistemata, abbiamo cominciato a fare l'olio, il vino. Ci piacerebbe vivere lì». 

Ma sarebbe pronta a fare la contadina 2.0?

«Ho acquisito tante di quelle competenze frequentando agronomi, agricoltori con Linea Verde che sono diventata un'esperta. Quella casa diventerà la mia isola felice, il porto dove tornare bambina e dove con le mie sorelle fare conserve e marmellate. Un modo per ricordare i nostri nonni e mamma che non c'è più». 

Ha scritto un libro per insegnare a vivere meglio...

«È un inno alla vita sana, un modo di riprendersi il tempo. Un attimo di respiro l'ho scritto durante la pandemia: non viaggiavo più, restavo chiusa in casa, avevo bisogno di ritrovare il respiro. É dedicato a due donne: mia nonna e mia madre». 

Suggerimenti?

«Ognuno di noi nel proprio piccolo può fare il bene del pianeta. Sprecando meno acqua, facendo la spesa con criterio, usando materiale riciclato la Natura ti dà forza ed energia però bisogna rispettarla e lo devono fare soprattutto i giovani». 

Di Greta cosa ne pensa?

«Ha mobilitato un'intera comunità mondiale, ha coinvolto i giovani in una battaglia. La caparbietà è stata utile per imporre un'urgenza». 

Però

«Gli attivisti ci sono sempre stati. Greta ha dato il buon esempio, ma non mi concentrerei tanto su di lei ma sul futuro del pianeta, sul fare qualcosa per non perdere il domani. È una battaglia che va combattuta a livello globale, Cina, India, Stati Uniti, tutti noi». 

Ha preso il Covid, vero?

«Pensavo di farla franca invece, nelle ultime due puntate di Linea Verde, l'ho preso. Io ma non la mia troupe. Sintomi gestibili però sono tanto dimagrita».

Brad Pitt dice di lavarsi poco perché l'acqua è una ricchezza che non va sprecata...

«Non fa per me. Non sono a questi livelli di ossessione...

E Cameron Diaz per lo stesso motivo tira lo sciacquone dopo tre sedute...

«Ma figuriamoci...» 

Demi Moore si fa dissanguare dalle sanguisughe per eliminare le tossine...

«Per carità. Io ho proprio un altro metodo...»

Ci spieghi...

«Il forest bathing». 

Che sarebbe?

«Immergersi nei boschi, camminare, ritrovare il contatto con noi stessi. Le sostanze sprigionate dagli alberi e che gli alberi usano per difendersi ci alzano le difese immunitarie e la serotonina che è l'ormone del buonumore. Ci sono studi che dimostrano che il bagno nel bosco aiuta a ritrovare l'armonia». 

Madonna mangia solo semi di lino.

«Figuriamoci. Sono nata in Cilento dove è nata la dieta Mediterranea. Vuol mettere invece una bella Parmigiana con le melanzane?...» 

Com' è il rapporto con i social?

«Sono un personaggio pubblico ma anche una persona molto riservata. All'inizio ho preso i social come un gioco ma mi sono resa conto che per molti è un'ossessione. Finora la cattiveria non mi ha toccato ma non vorrei farmi tirare dentro da questo mondo. Tutto quello che postiamo non è la verità. La vera vita è un'altra».

Ha più ammiratori o odiatori.

«Qualche cattiveria mi arriva, stranamente più dalle donne. Comunque gente educata, non posso certo lamentarmi». 

Cosa porterebbe in un'isola deserta?

«Le persone che amo. E di sicuro non mi porto il cellulare...»

·        Daniela Martani.

Dall’account facebook di Daniela Martani il 22 settembre 2022.

Sapete quanto io sia riservata e non ami parlare della mia vita privata che mi vede fuori dalle logiche del gossip e del chiacchiericcio, ma c’è una cosa che mi sta logorando dentro da 1 anno e mezzo ormai e non riesco più a far finta di niente.

Non potrò mai più diventare madre. 

Dopo essere tornata dall’esperienza dell’Isola dei famosi non ho più avuto il ciclo.

Inizialmente pensavo che la dura prova del reality avesse messo a soqquadro il mio fisico per poi tornare alla normalità, col passare del tempo, dopo approfonditi accertamenti medici ho avuto la risposta: non potrò mai avere figli.

Sto cercando di superare lo shock di questa dolorosa realtà conducendo la mia vita in modo da non dover pensare che non potrò mai avere la gioia di costruire una famiglia mia. Feste, divertimento, lavoro, cercare di rendere tutto il più nebuloso possibile per non scontrarmi con la realtà ma dentro di me  c’è un buco profondo di  dolore. 

Non sono mai stata una di quelle donne consapevoli e decise di non  voler vivere l’esperienza della maternità e nemmeno una di quelle che desiderano un figlio a tutti i costi, anche da sole. Aspettavo l’uomo giusto, l’amore della mia vita, che non si è mai concretizzato, storie naufragate nel mare dei miei traumi irrisolti e ora sono qui a chiedermi se ho sbagliato io o  se fosse destino che andasse così.

E’ una domanda alla quale ci metterò il resto della mia vita a rispondere. Forse questa sofferenza potrebbe essere alleviata  se ci fosse uno spiraglio per le adozioni monoparentali, ma in Italia purtroppo questa possibilità non c’è.

Una profonda ingiustizia sociale che in altri paesi non esiste. 

Non lo so, sono così confusa in questo momento. Sono sempre stata abituata a non mostrami mai debole, non me lo potevo permettere a casa mia, dovevo indossare la corazza della bambina cazzuta, per parare i colpi di un genitore a cui non è stato insegnato ad amare i propri figli. Ora però la falla nella corazza è troppo profonda e a volte sopportare tutto  è davvero difficile.

·        Daniele Bossari.

Daniele Bossari compie 48 anni: gli esordi, l’amore con Filippa Lagerbäck, la malattia, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

Gli inizi come dj

Daniele Bossari - che proprio oggi compie 48 anni - è nato a Milano il 1º ottobre 1974. Ha mosso i suoi primi passi come speaker radiofonico, prima a Radio Clusone, poi a Radio Capital e RTL 102.5. Nel 1998 è entrato a Radio Deejay (dove è tornato nel 2020, per condurre il programma Il boss del Weekend).

Vj a Mtv

Grazie a MTV Italia Daniele Bossari ha conosciuto una grandissima popolarità (ha condotto MTV Dancefloor Chart, MTV Select e MTV On the beach tra il 1998 e il 1999). In seguito è approdato a Italia 1, per condurre Fuego (1999-2000).

Ha condotto Popstars

Forse non tutti ricordano che c’era Daniele Bossari al timone di Popstars (2000-2001), il talent show che lanciò le Lollipop (girl band composta da Marcella Ovani, Veronica Rubino, Dominique Fidanza, Marta Falcone e Roberta Ruiu). Nel corso della sua carriera il conduttore ha guidato molti programmi televisivi musicali, come il Festivalbar, Top of the Pops e Furore.

Il cameo in un cinepanettone

Nel 2007 Bossari ha fatto un cameo (nei panni di se stesso) nel cinepanettone «Natale in crociera».

Reality

Daniele Bossari ha vinto la seconda edizione del Grande Fratello Vip (2017). Non è il suo primo reality: in passato era stato scelto come inviato a La fattoria (2004). Nel 2018 è stato opinionista dell’Isola dei Famosi.

L’amore con Filippa

Dal 2001 Bossari è legato sentimentalmente a Filippa Lagerbäck, da cui nel 2003 ha avuto una figlia, Stella. Tutto è cominciato negli anni Novanta: Filippa faceva la modella ed era stata scelta per la pubblicità di una birra italiana: «Daniele si è innamorato di quello spot e di quel cartellone - ha raccontato la conduttrice al Corriere -. Mi ha poi confessato che quando lo vedeva pensava, “voglio una donna così, per la mia vita”. Infatti in casa abbiamo quella pubblicità appesa alla parete, è il nostro ricordo del cuore». «Nel momento in cui avevo avuto possibilità di fare programmi in cui intervistavo persone ho fatto in modo di intervistarla più e più volte - ha svelato Bossari mentre era rinchiuso al GF Vip -. Finché c’è stata l’occasione di un programma che faceva lei su Italia1: io sono andato sul set, ma lei non mi aveva calcolato. Ho insistito con grande tenacia e allora sono riuscito a conquistarla». Dopo tanti anni insieme (e una proposta di matrimonio in diretta tv) la coppia nel 2018 è convolata a nozze.

La sua storia in un libro

Nel 2019 Bossari ha pubblicato un libro, «La faccia nascosta della luce», per raccontare di un suo momento molto buio, in cui ha sofferto di depressione, e di come è riuscito ad uscirne. «Il telefono non squillava più perché io mi sono fatto terra bruciata - ha raccontato in un’intervista a Verissimo -, mi sono rinchiuso in me stesso. Dopo molti tentativi, anche l’amico più caro desiste. Ed è a quel punto che mi sono ritrovato in un totale isolamento e in quel periodo esclusi anche la mia compagna e la mia famiglia. Dormivo di giorno e vivevo di notte. Non volevo dormire per paura dei miei fantasmi e dei miei vampiri. Non riuscivo ad andare a letto presto quindi aspettavo l’alba per finalmente tranquillizzarmi e andare a letto quando la mia famiglia si alzava». In quel periodo il conduttore ha iniziato a bere molto («sono arrivato ad una bottiglia e mezzo di whisky al giorno») e la sua mente è stata attraversata dal pensiero di farla finita: «Di fronte casa c’era un cantiere e lì scavalcai la recinzione, mi sono arrampicato e ho cominciato a mettermi in bilico su una trave. Lì ho capito che l’ipotesi stava per diventare reale. A quel punto sono sceso, mi sono richiuso in casa ed è lì che c’è stato il risveglio».

La malattia (e la guarigione)

«A volte bisogna attraversare il dolore per comprendere la felicità. Ora lo so bene». Qualche settimana fa Daniele Bossari ha parlato pubblicamente del suo viaggio all’inferno e ritorno dopo aver scoperto di avere un tumore. A distanza di tempo, dopo essere guarito, è pronto a riprendere in mano la sua vita: «Sono vivo e ve lo posso raccontare». Aver avuto accanto le persone care in un periodo così complicato è stato fondamentale, come ha spiegato in un messaggio pubblicato su Instagram: «Questa malattia ha rappresentato per me una potentissima forma iniziatica, obbligandomi a disintegrare il mio ego, sgretolando ogni certezza, permettendomi di revisionare la scala dei valori: quali sono le vere priorità? La prima è l’amore. L’amore che ho ricevuto dalla mia famiglia e dalle persone a me care. L’aiuto, la presenza, il sacrificio di chi mi é stato accanto. E poi l’amore per la vita in sé. Di fronte alla paura della morte ogni cosa diventa più vivida».

Da open.online il 5 settembre 2022.

«A volte bisogna attraversare il dolore per comprendere la felicità». Sono queste le parole del conduttore radiotelevisivo Daniele Bossari, che in un lungo post su Instagram ha raccontato di avere avuto un cancro alla gola, curato all’ospedale San Raffaele di Milano. 

È anche grazie alla chemioterapia e alla radioterapia che Bossari parla di «rinascita». «Il primo lunedì di settembre è il giorno in cui molti ricominciano la propria attività. Ma per me, il ritorno alla semplice routine quotidiana, assume oggi un significato di rinascita» scrive nelle prime righe del post. Il conduttore 47enne racconta: «Il dodicesimo arcano dei tarocchi, “l’appeso”, rappresenta perfettamente la condizione in cui mi sono ritrovato. Mi è apparso in sogno in una notte di primavera, mentre cercavo di dare un senso alla sofferenza fisica che stavo provando durante i mesi di chemio e radioterapia, per curare un tumore alla gola. Sono vivo e ve lo posso raccontare», spiega Bossari.

Daniele Bossari dopo la chemio: "Sono vivo e lo posso raccontare". A cura di redazione spettacoli su La Repubblica il 5 Settembre 2022. 

Il conduttore racconta con un post su Instagram la sua recente esperienza: "Ho dovuto accettare il dolore"

Prima la chemio, poi la guarigione, ora il post di scampato pericolo. Daniele Bossari su Instagram tranquillizza i suoi fan con un post in cui mostra una carta dei tarocchi: "Il primo lunedì di settembre è il giorno in cui molti ricominciano la propria attività. Ma per me, il ritorno alla semplice routine quotidiana, assume oggi un significato di rinascita".

Bossari parla di rinascita mostrando la carta dell'appeso in primo piano e, in secondo piano, lui. "Per spiegarvi cosa mi è successo, utilizzo il dodicesimo arcano dei tarocchi: 'L’appeso', perché rappresenta perfettamente la condizione in cui mi sono ritrovato. Mi è apparso in sogno in una notte di primavera, mentre cercavo di dare un senso alla sofferenza fisica che stavo provando durante i mesi di chemio e radioterapia, per curare un tumore alla gola. Sono vivo e ve lo posso raccontare".

E poi continua: "Nell’impossibilità di sfuggire al dolore, ho dovuto accettarlo. Appeso al filo del destino, ma con totale fiducia nella scienza medica, ho attraversato la tempesta. Mentre i medici curavano il mio corpo, cercavo di curare la mia anima mettendo in pratica quegli insegnamenti dettati da tutti i libri letti, i testi spirituali, le meditazioni. La ricerca interiore doveva trovare un senso a quello che mi stava capitando. 'L’appeso' è colui che si svuota per divenire recipiente di forze luminose. Questa malattia ha rappresentato per me una potentissima forma iniziatica, obbligandomi a disintegrare il mio ego, sgretolando ogni certezza, permettendomi di revisionare la scala dei valori: quali sono le vere priorità? La prima è l’amore".

·        Daniele Quartapelle.

Daniele Quartapelle vince Tali e Quali: chi è l’imitatore di Renato Zero. Ilaria Minucci il 13/02/2022 su Notizie.it.

 Chi è Daniele Quartapelle: il concorrente di Tali e Quali che, imitando Renato Zero, ha vinto l’ultima edizione dello show condotto da Carlo Conti.

 Chi è Daniele Quartapelle: il concorrente di Tali e Quali che, imitando Renato Zero, è riuscito a vincere l’ultima edizione dello show condotto da Carlo Conti.

L’edizione 2022 di Tali e Quali, lo show che ricalca il più celebre Tale e Quale ma dedicato alle persone che non fanno parte del mondo dello spettacolo, si è concluso con la vittoria di Daniele Quartapelle.

Il concorrente, infatti, ha conquistato il favore del pubblico, dei giudici e dei coach, riuscendo a trionfare programma condotto da Carlo Conti con I migliori anni della nostra vita.

Durante la finalissima, andata in onda con due settimane di ritardo rispetto alla programmazione inizialmente prevista, Daniele Quartapelle ha sfidato Luca Cionco, che imitava Fabrizio De André e che si è posizionato sul secondo gradino del podio; Veronica Perseo, che imitava Lady Gaga; Gianfranco Lacchi, che imitava Gianni Morandi; e, infine, Igor Minerva, che imitava Claudio Baglioni.

Per l’occasione, invece, la giuria era composta da Loretta Goggi, Giorgio Panariello e Cristiano Malgioglio. Inoltre, erano presenti in giuria anche Leonardo Pieraccioni e Ubaldo Pantani.

Chi è Daniele Quartapelle, l’imitatore di Renato Zero

Daniele Quartapelle, vincitore dello show Tali e Quali a matrice Nip, è nato a Roma il 22 aprile del 1968. Il padre lavorava in una casa editrice mentre la madre si occupava di crescere i figli: la coppia, infatti, oltre a Daniele Quartapelle, aveva anche altre due bambine.

Nonostante il diploma da geometra conseguito all’ITG Alberti, l’uomo ha sempre nutrito una profonda passione nei confronti della musica, sognando di riuscire a sfondare nel mondo dello spettacolo. Sin da giovane ha cominciato a suonare la batteria, imparando dai grandi della musica nazionale e internazionale e fondando un gruppo rock chiamato The Plants. Successivamente, ha cominciato a studiare canto e a lavorare nella speranza di riuscire, prima o poi, a realizzare il suo sogno.

La vita di Daniele Quartapelle è stata rivoluzionata il giorno in cui ha varcato la soglia del locare Ciao Nì, struttura dedicata a Renato Zero. In questo contesto, i proprietari del locale hanno notato l’incredibile somiglianza con Renato Zero e gli hanno chiesto di esibirsi in uno dei suoi brani. Da quel momento, il vincitore di Tali e Quali non ha più smesso di imitare il cantante.

Tra i maggiori sostenitori di Daniele Quartapelle c’è certamente la madre, 90 anni, che è comparsa nel video di presentazione dell’uomo realizzato per lo show condotto da Carlo Conti.

·        Daniele Silvestri.

Daniele Silvestri: «Accetto suggerimenti per il mio nuovo disco». Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2022

Lucio Dalla, Paolo Pietrangeli, Gigi Proietti e Gino Strada: ruota anche intorno a loro il nuovo tour nei teatri di Daniele Silvestri, partito giovedì 3 novembre da Palermo, che fino al 19 dicembre attraverserà l’Italia. In attesa del nuovo album che doveva uscire in autunno ma è stato posticipato per la fine di gennaio e l’inizio di marzo.

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«Le canzoni che avevo scritto non mi sembravano giuste, sincere. Ho buttato tutto e ricominciato da zero. E quando il disco era quasi pronto bisognava pensare al tour. Non me la sentivo di lasciare l’album a casa. Ora faccio ascoltare al pubblico le nuove canzoni e chiedo suggerimenti su ritmi, accordi...». Il palco assomiglia a una sala di registrazione e all’intimo studio di un appartamento, con una panca, una scrivania e la band che trova spazio fra le luci soffuse delle abat-jour. «Apriamo le porte della nostra casa musicale», spiega il cantautore romano che finora tra i nuovi brani ha proposto il singolo Tik Tak, con gli inediti Scrupoli e Il talento dei gabbiani («Parla di chi aspira a diventare una persona straordinaria cercando scorciatoie, anche attraverso i talent»). Si definisce un «divoratore di storie» per questo con un post su Facebook aveva chiesto ai suoi utenti di inviargliene qualcuna. «Sono stato invaso».

In ogni concerto sceglie una storia diversa e la trasforma in una canzone. Silvestri è capace di passare dalla poesia alla politica. «Nel disco in costruzione torno a intrecciarle. A volte veleggio alto, altre metto le mani nel fango. Sono tempi modesti, siamo all’inizio di un percorso ed è facile per chi ha un certo tipo di provenienza politica e culturale vedere delle legnacce pericolose. L’attenzione va tenuta alta». Sul palco, una grande finestra su cui proiettare filmati, immagini e volti. Rivive il ricordo di Paolo Borsellino e l’omaggio a suo fratello Salvatore «che continua a cercare la verità e a lottare per la giustizia».

Poi i tributi a Gino Strada («Sono legato a Emergency, hanno varato una nave che sta per partire per la sua prima missione in un momento in cui le imbarcazioni di soccorso nel Mediterraneo incontrano i nuovi ostracismi del nostro ministero degli Interni»), a Gigi Proietti («Quando canto Testardo penso a lui, volevo dargli il brano... non ho avuto il coraggio»), Paolo Pietrangeli («È stato come uno zio per me, frequentavo casa sua dove ogni cena finiva con lui che suonava»). E a Lucio Dalla. «Ho riascoltato per caso una mia versione di Cara, cantata a Bologna, il giorno dopo la sua morte. L’abbiamo riprovata e non fa effetto pianobar, nonostante io sia un pessimo interprete di brani altrui. Lucio l’ho conosciuto da bimbo, andai a un concerto a Roma. Era amico di mamma, bolognese, cantante jazz per diletto, che da giovane si esibiva nelle band dove lui suonava il clarinetto. Non ha mai smesso per me di essere un faro, soprattutto in questo disco».

Un commento è per il progetto di Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, che vorrebbe affidare a Morgan un dipartimento della musica. «Conosco Morgan da tantissimo tempo. Ho incontrato poche persone con così tanto talento e così tanta preparazione culturale. Ma allo stesso tempo è poco abile nel gestire se stesso, figuriamoci gli altri. Ben venga un dipartimento della musica, che magari interpelli Morgan su tante questioni ma… non gli chiederei mai di gestire qualcosa, gli farei un torto».

Arrestata Lisa Lelli, moglie del cantante Daniele Silvestri: ha rubato da Eataly e picchiato un vigilante. Rinaldo Frignani Il Corriere della Sera il 24 Febbraio 2022.

Il giudice per le indagini preliminari ha convalidato l’arresto e l’ha rimessa in libertà. Presto potrebbe esserci un processo per Lisa Lelli, 42 anni, attrice e moglie del cantautore Daniele Silvestri, finita in manette nel primo pomeriggio di mercoledì scorso dopo che un vigilante del ristorante e grande magazzino Eataly in piazzale 12 Ottobre 1492, all’Ostiense, l’aveva sorpresa con oggetti rubati dagli scaffali nascosti nella borsa.

La 42enne, secondo la ricostruzione degli agenti del commissariato Colombo, che sono intervenuti sul posto insieme con le volanti della polizia alle 14.30 di due giorni fa, avrebbe aggredito proprio la guardia giurata, graffiandola e prendendola a calci mentre quest’ultima cercava di farsi consegnare rossetti, trucchi e qualche bottiglia di vino che Lelli provava a portare fuori da Eataly.

Sempre dai riscontri della polizia è emerso che la moglie del cantautore avrebbe cercato di opporre resistenza anche ai poliziotti una volta che era stata accompagnata negli uffici del commissariato Colombo in via Percoto, alla Garbatella. Già sabato scorso la 42enne, che in passato ha recitato in alcune fiction, come «Donna detective», era stata protagonista di un episodio analogo ma era riuscita ad allontanarsi. Anche per questo motivo mercoledì scorso la moglie di Silvestri, che per ora non ha alcun precedente di polizia, è stata riconosciuta dalle guardie giurate, due delle quali sono state medicate e dimesse dal Cto della Garbatella con quattro e quindici giorni di prognosi.

Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 25 febbraio 2022.

Ha guardato tra gli scaffali e, poco alla volta, ha preso dei prodotti di cosmesi, qualcosa di alimentare infilandoli in borsa. Poi si è avviata verso le casse ma ha superato il blocco dalla parte dell'uscita senza acquisti. L'allarme ha tuttavia iniziato a suonare e così i vigilantes l'hanno rincorsa e fermata ma ne è nata una colluttazione, con schiaffi, graffi e calci sferrati agli stinchi degli uomini. È stata arrestata con l'accusa di rapina impropria Lisa Lelli, 43 anni, moglie del cantautore Daniele Silvestri. 

I fatti risalgono a mercoledì quando all'Eataly store dell'Ostiense va in scena il parapiglia. Dopo che la donna, originaria di Pontremoli, ruba alcuni prodotti nel momento in cui viene fermata, inizia ad inveire contro i vigilantes, sferrando calci e schiaffi. Da lì passano pochi minuti e alle 14.26 arriva a piazzale 12 ottobre 1942 il personale delle Volanti che arresta la donna.

LA DINAMICA La merce viene recuperata, si tratta di prodotti che non superano i 150 euro ma gli agenti del commissariato Colombo che trattano il caso, le contestano anche un altro episodio, avvenuto il sabato precedente sempre all'Eataly store. Quel giorno una donna entra nel negozio e afferra alcuni prodotti sempre per un importo di un centinaio di euro, riesce a scappare passando sempre dall'uscita senza acquisti perché quel giorno i vigilantes, che pure la rincorrono, dopo che scatta l'allarme, non riescono a raggiungerla e a fermarla. 

Ma ci sono le telecamere di sorveglianza che catturano il suo volto, anche se sfocato. Dopo l'episodio di mercoledì, che porta la Lelli all'arresto, viene svolta una verifica sul precedente furto: la donna, contestano le forze dell'ordine, è la stessa. Non si esclude che entrambi gli episodi nascano da un disagio privato, la Lelli non ha conti in sospeso con la giustizia se non qualche piccolo precedente per disturbo della quiete pubblica. Agli agenti non ha fornito alcuna spiegazione del gesto che è comunque poi sfociato nell'aggressione dei due vigilantes a cui i sanitari, intervenuti sul posto, hanno dato quattro e 15 giorni di prognosi. 

Mercoledì dopo l'arresto è stata condotta al commissariato Colombo in attesa della direttissima, mentre i poliziotti sono andati anche nel suo appartamento per recuperare il cane, un meticcio, rimasto solo dal momento che Silvestri si trova all'estero, consegnandolo alle cure di una vicina. Ieri mattina in sede di direttissima le è stato convalidato l'arresto ma la donna è stata rimandata a casa senza che fosse disposta la misura cautelare. Dal 2012 la Lelli è sposata con il cantautore Daniele Silvestri. Anche lei fa parte del mondo dello spettacolo: alcuni la ricorderanno nella parte di Sabrina in Donna detective ma è sempre stata lontano dalla ribalta delle scene.

IL PRECEDENTE Il suo tuttavia non è il primo caso che vuole un parente o un congiunto di personalità del cinema, della musica o dello spettacolo, finire nei guai. È il 29 agosto 2019 quando Francesco Zampaglione, fratello del più noto Federico, leader della band Tiromancino, viene arrestato a Monteverde in seguito ad una rapina in banca. Zampaglione, anche lui musicista, era entrato in una filiale sulla Gianicolense armato di una pistola giocattolo e, a volto scoperto, aveva minacciato gli impiegati facendosi riempire di soldi un borsone per poi scappare.

Un passante, che aveva assistito alla scena e chiamato le forze dell'ordine, lo seguì fino a che sul posto non arrivarono le Volanti e gli agenti del commissariato di Monteverde. Di fronte al gip in sede di interrogatorio di convalida, non provò neanche a negare, ammise di aver provato a rapinare la banca «come atto dimostrativo per mostrare la disperazione di un comune cittadino - disse - nei confronti della politica economica di questo Paese». 

Da “il Giornale” il 26 febbraio 2022.

Qualche prodotto di cosmesi e qualche bottiglia di vino di quelle che vendono da Eataly - il megastore delle prelibatezze italiane - infilati di soppiatto nella borsa. E poi via, senza pagare, come una ladruncola qualunque. Ma la protagonista del furtarello in questione, con tanto di aggressione alle guardie giurate che la inseguivano, non è proprio una qualunque, ma Lisa Lelli, attrice e moglie del noto cantautore romano Daniele Silvestri, che prima di questo evento non aveva alcun precedente.

Dopo essere stata sorpresa sul fatto a rubare nel negozio in via Ostiense, nella capitale, la donna è stata fermata per rapina impropria, con qualche difficoltà per gli agenti di polizia intervenuti dovuta al suo stato di alterazione. Il gip ha convalidato l'arresto ma l'ha rimandata a casa senza disporre la misura cautelare, in attesa di un eventuale processo. È accaduto mercoledì scorso dopo pranzo, verso le 14,30, nel grande negozio specializzato nel settore alimentare di prima scelta, dove sono presenti anche un grande numero di ristoranti, non particolarmente affollato durante la settimana lavorativa.

Cercando di non dare nell'occhio la Lelli aveva prelevato nel reparto che vende prodotti naturali per il corpo alcuni trucchi, in particolare rossetti, rimmel e creme per il viso, e in quello dedicato all'enogastronomia qualche bottiglie di vino. Merce per un valore complessivo di circa 150 euro che ha infilato in borsa per poi cercare di dileguarsi. Colta in flagrante dai vigilantes, però, l'attrice ha dato in escandescenze, aggredendo le due guardie giura te che, dopo averla scoperta, le volevano chiedere conto della refurtiva. Per cercare di sottrarsi al fermo la donna ha cercato di divincolarsi graffiando e prendendo a calci i due uomini, che sono dovuti ricorrere alle cure mediche: medicati al vicino ospedale Cto della Garbatella, sono stati dimessi con quattro e quindici giorni di prognosi. Anche dopo essere stata arrestata la donna avrebbe continuato ad opporre resistenza negli uffici della polizia.

Nel fascicolo del caso, sul quale dovranno essere effettuati ulteriori accertamenti, il sospetto che la Lelli sia stata pure protagonista di un furto analogo, per un centinaio di euro, sempre nello store Eataly della capitale, avvenuto il sabato precedente. In quell'occasione i vigilantes non riuscirono a bloccare la donna, ma un successivo confronto con le immagini, seppur sfocate, delle telecamere di videosorveglianza del grande magazzino avrebbe convinto gli investigatori che potrebbe essere proprio lei. Anche questo episodio dovrà essere accertato dalle indagini, che potrebbero portare ad un processo. Per il momento la Lelli è tornata a casa, dove vive con Silvestri, che ha sposato nel 2012 e con il quale ha avuto un figlio. La coppia è sempre stata molto riservata e attenta alla privacy. Il cantante ha altri due figli, avuti dalla precedente relazione, durata undici anni, con l'attrice Simona Cavallari.

Giordano Tedoldi per “Libero Quotidiano” il 27 Febbraio 2022.

Perché lo fanno? A vederli da fuori hanno già tutto: sono famosi, agiati, di successo, appaiono sulle copertine delle riviste e nelle home page dei siti, hanno girato film, pubblicato canzoni che hanno scalato le classifiche, costruito famiglie con compagni altrettanto famosi e realizzati, eppure ogni tanto hanno una specie di raptus, si infilano in un grande magazzino, in un negozio di vestiti, in un supermercato e, sapendo benissimo che con molta probabilità verranno beccati, arraffano qualche prodotto e se lo nascondono malamente nella borsa, sotto il cappotto, in un'altra busta con cui sono entrati. 

Al momento di uscire, naturalmente, fanno notizia, perché quasi sempre, fermati dalla sorveglianza, danno in escandescenze, si atteggiano a «lei non sa chi sono io», «mi tolga le mani di dosso», «come si permette di accusarmi di aver rubato», finché non vengono portati in questura, o al commissariato, e da lì, in un attimo, finiscono in pasto all'opinione pubblica, il cui invariabile commento è: «ma perché l'ha fatto, che gli è saltato in mente?».

Be', gli unici che potrebbero rispondere alla domanda sono loro. Ad esempio quando venerdì è stata diffusa la notizia dell'arresto (poi è stata rilasciata) di Lisa Lelli, la moglie del cantante Daniele Silvestri, sorpresa dai vigilantes all'uscita di Eataly dove aveva preso dagli scaffali e infilato in borsa, senza pagarli, cosmetici e generi alimentari, la nostra prima reazione è stata di stupore, come se non accadesse mai. E invece è accaduto tantissime altre volte, al punto che esistono siti che elencano le celebrities beccate a fare "shoplifting", cioè rubacchiare.

Come Winona Ryder, che nel dicembre 2001, all'apice della sua carriera e immaginiamo delle sue fortune economiche, fu arrestata per aver rubato vestiti per 5.500 dollari da Saks Fifth Avenue a Beverly Hills.

Nel 2011, toccò a Lindsay Lohan di guadagnare le prime pagine per essere distrattamente uscita da una gioielleria con una collana del valore di 2.500 dollari. Un'altra attrice, Megan Fox, ha confessato di aver rubato, quand'era adolescente, in un negozio della grande catena americana Walmart: ma almeno lei aveva l'attenuante della giovane età e di non essere ancora diventata ricca.

Britney Spears, invece, nel 2007 era già una stella, anche se non più fulgida come agli esordi, e, in linea con il suo personaggio eccentrico, si fece beccare a rubare da Hustler, negozio di abiti e accessori, una parrucca. Andando più indietro nel tempo, una delle mitiche Charlie' s Angels, cioè Farrah Fawcett, nel 1970 venne fermata per aver rubato alcuni vestiti in una boutique.

A volte, un po' come nel caso della moglie di Silvestri, i personaggi che cedono all'impulso di uscire con della merce senza pagare non sono famosi per se stessi, ma più per le loro relazioni, come Peaches Geldof, la figlia del cantante Bob, noto, forse più che per i suoi dischi con la sua band, i Boomtown Rats, per aver organizzato lo storico concerto di beneficenza "Live Aid" nel luglio del 1985.

Peaches nel 2011 entrò in un negozio della popolare catena britannica Boots e si dimenticò di pagare alcuni prodotti di bellezza. Caso ancora più bizzarro quello della tennista Jennifer Capriati, che nel 1993 fu fermata all'uscita da un grande magazzino per aver sottratto un anello dal valore miserrimo: 15 dollari.

Ed è proprio questo il filo comune di tutti questi episodi, da quello recente della moglie di Silvestri fino al più vecchio: che in fondo queste persone non hanno certo rubato un Rolex o un anello di Bulgari; le uniche che si sono avvicinate a qualcosa del genere sono state Winona Ryder e Farrah Fawcett, per il resto le ladre (abbiamo citato tutte donne perché sono più famose, ma si sono fatti beccare anche alcuni uomini) si sono dedicate a quisquilie: qualche bottiglia di vino, un rossetto, un anellino da sorpresa nel pacchetto delle patatine, un accessorio insignificante.

E allora di nuovo ci domandiamo: cosa scatta nella testa di questi personaggi? Cleptomania? O più banalmente l'adrenalina di fare qualcosa di illegale pur senza commettere un grande crimine? 

Il fatto che poi quasi tutti, sorpresi all'uscita dai negozi, abbiano reagito perdendo il controllo, fa pensare che sia proprio questo: un momento di irrazionalità, un'uscita dai canoni rigidi del personaggio famoso onesto, corretto, responsabile, un desiderio profondo di farla sporca, una tentazione di piccola delinquenza. Anche la vita delle celebrità dev'essere squallida e noiosa, se solo la vedessimo dall'interno. 

·        Dargen D'Amico.

Dargen D'Amico compie 42 anni: perché indossa sempre gli occhiali da sole, il nome d’arte, 7 segreti.  Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Novembre 2022

Una raccolta di curiosità poco note sul giudice di X Factor, rapper, cantautore e produttore discografico

Il nome d’arte

Il «cantautorapper» - definizione sua - Jacopo Matteo Luca D'Amico, per tutti Dargen D'Amico, oggi siede al bancone della sedicesima edizione di X Factor (per la cronaca, dopo l’eliminazione dei Disco Club Paradiso, è rimasto in gara con una sola concorrente ovvero Beatrice Quinta). Nato a Milano il 29 novembre 1980 ha iniziato a fare musica grazie alla sua insegnante delle elementari: «Ho iniziato da molto giovane, ho avuto una maestra che alle elementari ci stimolava - ha raccontato al Corriere -, ci faceva passare un’ora alla settimana a scrivere liberamente. Intorno ai 12 anni ho scoperto che c’era una musica che ti permetteva di riversare tutto nelle canzoni». Giovanissimo ha partecipato a diverse sfide di freestyle con il nickname che ha ispirato il suo attuale nome d’arte: Corvo D'Argento (tratto dal libro-game «Il mistero del corvo d'argento»). Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.

Sacre Scuole

Nel 1999, mentre frequentava il liceo classico Giuseppe Parini di Milano, Dargen D’Amico mette su un gruppo con un suo compagno di classe, Gué Pequeno, e Jake La Furia: i Sacre Scuole. La formazione, che si è sciolta nel 2001 (Gué Pequeno e Jake La Furia avrebbero poi dato vita ai Club Dogo insieme al produttore Don Joe), pubblica un solo album: «3 MC's al cubo».

Perché indossa sempre gli occhiali da sole

Dargen D'Amico indossa sempre gli occhiali da sole, e qualche mese fa a Domenica In ha spiegato il perché: «Non credo che sia necessario far vedere tutto. Per molti stare sui social diventa un'ossessione, sempre a controllare quanti like, quanti follower. Io porto gli occhiali perché penso sia giusto non mostrare tutto di sé e se posso evitarmi questo disturbo preferisco».

L’amore per i cantautori

I punti di riferimento musicali di Dargen D'Amico sono da sempre tre cantautori (lo ha dichiarato in diverse interviste): Enzo Jannacci, Lucio Dalla e Franco Battiato.

Sul palco dell’Ariston

Con la sua partecipazione a Sanremo 2022 Dargen D’Amico si è fatto conoscere dal grande pubblico (il suo brano «Dove si balla» si è classificato al nono posto ma ha avuto un enorme successo radiofonico). L’artista ha raccontato in un’intervista a Rolling Stone di aver provato in passato a partecipare alla kermesse, senza successo: «Ci avevo già provato, qualche anno fa, ma i miei pezzi, nello specifico Il Ritornello e Modigliani, non erano stati selezionati. Forse non era il momento giusto o il brano giusto, o forse erano tempi diversi e la musica italiana era ancora votata alla tradizione, ma credo che tutto avvenga a tempo debito».

Autore per altri

Nel 2021 Dargen D’Amico ha partecipato alla scrittura dei brani sanremesi di Francesca Michielin e Fedez («Chiamami per nome») e Annalisa («Dieci»).

Vita privata

Non si sa praticamente nulla della vita privata del riservatissimo Dargen D’Amico. «Non sento l’esigenza di parlarne, se è privato è privato - ha raccontato a Vanity Fair -. Quando svilisci il segreto, perdi la dimensione dei gesti; alla fine il privato è composto dai gesti che ti piace vivere in totale autonomia, senza che nessuno possa avere la possibilità di influenzarli». Il nome del rapper è stato accostato negli ultimi mesi a quello dell’insegnante di yoga Giulia Peditto, ma sono mai arrivate conferme o smentite.

Dargen D’Amico, uno sconosciuto di successo nella giuria di «X Factor». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 17 Settembre 2022.

Il rapper della hit «Dove si balla» è uno dei quattro giudici del talent di Sky: partecipando a Sanremo è esplosa la popolarità. Non me l’aspettavo, mi disconosco 

Uno sconosciuto famosissimo. Era questo Dargen D’Amico fino allo scorso febbraio. Si è presentato sul palco dell’Ariston con una carriera di quasi vent’anni alle spalle, gli immancabili occhiali da sole e una canzone — «Dove si balla» — destinata a entrare nelle orecchie di chiunque. Oggi il cantante, il cui nome è Jacopo Matteo Luca D’Amico (e se gli domandi da dove arrivi quel «Dargen», ti risponde senza spocchia, molto sereno, che su Google è spiegato benissimo. Ma non è vero. Cercando un po’ si evince che è l’abbreviazione del suo primo nome d’arte, Corvo d’argento), 42 anni, è uno dei nuovi giudici di «X Factor».

Ha iniziato nel rap e proseguito nell’ambito della produzione musicale, eppure fa i conti con la grande popolarità solo ora.

«Non ci penso troppo. Dopotutto è un’inquadratura diversa di una cosa che ho sempre fatto: la musica. Molto è dipeso anche da quello che è successo con quel brano, da quella possibilità molto remota che si allargasse tanto, diventando così popolare. Se succede, non hai più il potere di dirigere le cose».

Non si aspettava questo impatto?

«No, così no, per niente. Avevo ben chiaro che la partecipazione a Sanremo potesse essere uno spartiacque per la mia produzione musicale ed era quello che volevo perchè le ultime operazioni discografiche non sembravano generare sufficienti numeri da mantenere il progetto autosufficiente, quindi stavo facendo altro».

Nel senso?

«Stavo continuando a fare musica ma non per forza a proporre Dargen D’amico. Scrivevo canzoni per altri, stavo dietro le quinte, mi muovevo sul lato produzione... che poi, senza girarci troppo attorno, è la cosa che preferisco tra tutte».

Se è la cosa che preferisce come mai la fama è arrivata proprio ora? Un caso?

«Sanremo è frutto dei due anni precedenti. Dopo la pandemia, volevo un’occasione per tornare a fare musica, a uscire, a muovermi. È successo nell’unico modo possibile mesi fa, cioè andando a Sanremo».

A volte una bella canzone non basta per emergere.

«Sanremo è una lente d’ingrandimento di quello che succede nella discografia. Poi può essere anche pericolosa questa lente, può carbonizzarti sul momento, ma dà comunque una lettura più larga di ciò che succede nella musica contemporanea. E capita che arrivino degli conosciuti con un brano che poi ha successo».

Quindi si considera uno sconosciuto?

«Eh beh sì, per il pubblico di Rai1 poi, decisamente. Ma anche per me stesso: mi reputo uno sconosciuto, mi disconosco».

Perché cambia o perché fa fatica a inquadrarsi?

«Perché non ho ben chiaro quello che farò. Nell’ultimo anno è stato naturale non dire di no, non chiudermi. Ma non so se è un atteggiamento che si prolungherà moltissimo».

Quando aveva vent’anni ed era un rapper, cosa avrebbe detto di un brano come «Dove si balla»?

«Io sempre cercato nella musica hip hop proprio la possibilità di dialogare all’interno del genere. Il rap è contaminazione, è mescolare le cose. Poi sì, ho le mie idee e le ho sempre avuto ma non riesco a pensare a come avrei giudicato allora quello che faccio oggi. È stato un percorso».

«X Factor» sarà un’estensione della vetrina di Sanremo?

«Credo che gli ingredienti siano molto diversi. Sanremo è un’emanazione della cultura musicale di questo Paese, invece X Factor lavora con persone che non sono già presenti nell’ambiente. Per me la differenza abissale è che in X Factor vorrei essere utile al percorso degli altri invece a Sanremo sono andato per essere utile al mio».

Il suo ruolo di talent scout avrà un peso in questo senso?

«Mi è sempre piaciuto passere del tempo in studio con altri artisti anche quando si lavora a brani che non mi riguardano. Tutto mi arricchisce. E mi auguro in questo senso che anche dopo il programma il rapporto lavorativo con i ragazzi possa continuare».

È così facile riconoscere il talento?

«Lo riconosci quando è in sintonia con la tua idea. Poi quando è trasparente, come fai a non notarlo? Certo è che talento e successo non sono la stessa cosa».

Le hanno mai detto «per me è no»?

«Sono più i no dei sì che riceviamo del nostro mestiere ma sono quelli che ti formano, che ti geolocalizzano in quello che fai. Io non darei tutto questo peso ai no».

Sembra imperturbabile di fronte a tante cose: i no, la popolarità...

«Sento il peso delle situazioni ma si sta parlando della scrittura di una canzone, alla fine. Io lo faccio perché per me è una necessità».

E quando è nata questa necessità?

«Ho iniziato da molto giovane, ho avuto una maestra che alle elementari ci stimolava, ci faceva passare un’ora alla settimana a scrivere liberamente. Intorno ai 12 anni ho scoperto che c’era una musica che ti permetteva di riversare tutto nelle canzoni».

Andava al liceo con Gué Pequeno.

«In quel periodo non avevi tante occasioni di parlare di hip hop, non era il genere egemone. Quindi, se capitava, facevi amicizia con chi era interessato, nascevano sempre dei veri rapporti. Con Gué abbiamo anche fatto un gruppo: eravamo dei ragazzini che facevano musica».

E a scuola come andavate?

«Ce la cavavamo».

C’è chi pensa che sia arrivato a «X Factor» anche perché amico di Fedez e che insieme abbiate creato una sorta di lega...

«Una lega diabolica... ormai si racconta anche quando Federico apre le persiane. Dal mio punto di vista sono felice di fare una cosa con lui, mi fa ridere, ma non ho un rapporto privilegiato, non ci mettiamo d’accordo, niente di tutto questo. Non riesco a fingere di preoccuparmi di questa problematica».

Rapporti con gli altri giudici?

«Devo dire dolcissimi, non so se sia perché non siamo ancora entrati nel vivo».

Usa gli occhiali così come i Daft Punk usano la maschera.

«Ecco, io non metterei il mio nome sul loro stesso rigo. I Daft Punk avevano una concezione profondissima di quello che stavano facendo, io semplicemente cerco la strada più comoda».

Per mettere una distanza tra quello che è e quello che vuole mostrare agli altri?

«È una cosa utile soprattutto per me, dividere i due mondi. Se ti convinci di essere quello che sale su un palco, dice qualcosa e le persone ti ascoltano per diritto divino, è difficile comportarsi poi in maniera sana. Preferisco fare lo spettacolo nel momento in cui sono sul palco e poi proseguire con una vita che ha altri interessi. La priorità è scrivere canzoni. Ma quando sono con i miei amici gli occhiali li tolgo».

A «X Factor» è un suo obiettivo vincere?

«Mi sento quasi costretto a vincere. Voglio seguire i ragazzi al massimo e quindi questo si può sintetizzare con un: voglio vincere. Per me non cambia niente, cambia per loro».

Sanremo 22, Dargen D'Amico: "Mi diverte l'idea che per tanti sarò un perfetto sconosciuto". Ernesto Assante su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.  

Un po' rapper un po' cantautore, 41 anni, debutta sul palco dell'Ariston con 'Dove si balla', un brano che è un invito a riprendere in mano la vita.

Dargen D'amico è uno di quei "famosissimi sconosciuti" che da un paio di anni salgono sul palco del Festival arrivando da altri mondi, quelli del rap, dell'indie, dell'urban, della trap. Lui del rap è stato un veterano, più di venti anni fa nelle Sacre Scuole con Guè Pequeno e Jake La Furia, poi pian piano si è ritagliato un proprio spazio, fatto di strofe, canzoni, flow, parole, pensieri, in cui ha dato forma a uno stile che si è andato consolidando e affermando, attraverso nove album.

Ironico e tagliente, mentre altri sono stati più rabbiosi e cupi, Dargen D'Amico ha pian piano cominciato a nuotare nel gran mare dell'urban, che non è un genere, piuttosto un ambiente, uno spazio sonoro e ideale, in cui il pop e il soul dialogano con il rap e la canzone e pian piano ha messo le mani anche nel mainstream. Con maestria, come ha dimostrato proprio a Sanremo lo scorso anno, dove ha firmato due delle canzoni di maggior successo, Chiamami per nome di Fedez e Francesca Michielin, e Dieci di Annalisa. E questo lungo percorso lo ha portato ad arrivare tra i venticinque concorrenti del Festival di quest'anno, con un brano, Dove si balla, che è un invito a uscire di casa, a ricominciare a vivere, a "ballare tra i rottami" e far circolare l'energia, dopo due anni in cui ballare è stato, ed è, letteralmente impossibile.

"Mi sono trovato in una situazione nella quale come tutti dal punto di vista personale ero molto fermo", ci racconta, "ma questo ha avuto un riflesso anche sulla scrittura. Mi ero sigillato, su consiglio dei telegiornali, personalmente e mentalmente. Poi a un certo punto mi sono reso conto che avevo bisogno di uscire dalla staticità e credo che tutto il Paese abbia sentito il bisogno di farlo. Io mi sento calato nel tempo che viviamo e ho visto questa come un'occasione grossa, forte, rapida per riprendere a muovermi in tutti i sensi, non solo nel ballo come invito nella canzone. Sanremo era l'occasione giusta nel momento giusto".

Presentati da Amadeus sul palco del Casinò durante la serata di Sanremo giovani, i 22 Big (tranne Elisa in collegamento da casa perché colpita dal Covid) hanno annunciato i titoli dei brani che porteranno al Festival di Sanremo, dal 1 al 5 febbraio all'Ariston: Le Vibrazioni, Highsnob & Hu (a loro l'incoraggiamento dei Negramaro), Ditonellapiaga con Rettore, Irama, Fabrizio Moro, Achille Lauro (nella sua clip della serata è comparso Fiorello), Aka 7even (spalleggiato in video dal concittadino napoletano Gigi D'Alessio), Ana Mena (spagnola, unica straniera in gara), La Rappresentante di Lista, Giusy Ferreri, Gianni Morandi (che ha ricordato Claudio Villa e Lucio Dalla), Noemi, Giovanni Truppi (arrivati per lui gli auguri di un vincitore, Diodato), Michele Bravi, Emma, Rkomi (per lui un 'in bocca al lupo' da Tommaso Paradiso), Elisa (in collegamento da casa, Mahmood & Blanco, D'Argen D'Amico (supportato in video da Malika Ayane), Massimo Ranieri (che torna dopo 25 anni), Iva Zanicchi (record di vittorie, tre, a Sanremo), Sangiovanni (con gli auguri in video di Caterina Caselli che aveva la sua stessa età quando esordì con 'Nessuno mi può giudicare'). A questi si aggiungono i tre sul podio dei giovani: Yuman il vincitore, Tananai e Matteo Romano, che porteranno brani inediti in gara.

Il brano è nato pensando a Sanremo dunque?

"Non saprei dire, forse in maniera inconscia sì. In realtà non ho mai pensato a Sanremo, mi piaceva quando ero ragazzino ma per tanti anni era difficile seguirlo, non fotografava la realtà della musica italiana. Invece negli ultimi anni è cambiato tutto, è tornato ad avere tante cose interessanti e dopo lo scorso anno come autore mi è cresciuta la voglia di salire su quel palco come performer".

Così, dopo tanti successi, esordisce al Festival.

"Ma io mi sento un esordiente ogni giorno che passa. Forse è dovuto al fatto che penso molto alla musica e questo tende a farmi sentire nuovo ogni volta che scrivo. La scrittura si sposta sempre, non scrivi mai la stessa canzone anche se riconosci che dentro ci sei tu, c'è il posto dove l'hai scritta, c'è un dialogo che hai ascoltato. Ogni volta sono una persona diversa e anche in questo caso, a Sanremo, capirò qualche altra cosa di me. E mi diverte l'idea che per tante persone sarò un perfetto sconosciuto, che non si sa perché è arrivato a Sanremo...". 

Un pubblico diverso, che non l'ha mai ascoltata prima. È quello che vuole raggiungere?

"Altri 'sconosciuti' come me sono saliti su quel palco e nella maggior parte dei casi non è successo nulla e sono tornati dove erano prima. A parte rari casi come Mahmood, nei quali non credo di rientrare. Non credo che il mio passaggio impressionerà più di tanto, ma mi farà piacere incontrare il pensiero di persone nuove in un periodo in cui incontrare persone nuove è assai difficile".

È comunque un Dargen D'Amico diverso.

"È un Dargen che sicuramente ha fatto pace con un certo tipo di sonorità. Per tanto tempo mi ero allontanato dalla scelta della cassa in quattro, invece ci sono tornato con piacere. È una scelta dovuta anche al periodo, la cassa in quattro è diventata metafora dell'uscita da questa immobilità che sentiamo tutti, il ritorno a una musica ballabile anche se introversa".

Le 'Variazioni' di Dargen D'Amico: "Piano e rap, la mia curiosità"

Una scelta che la spinge nel campo del pop.

"Questo ha anche a che fare con il fatto che rientro nel calderone dell'urban, che ha spodestato in questi ultimi anni il pop, ha cambiato scelte musicali e teste. Spostandomi con tutto il macrogenere mi trovo ad essere storicamente più pop di venti anni fa: il genere è cambiato, io sono cambiato, sarebbe revival se facessi l'hip hop che facevo a venti anni, sarebbe un'operazione di recupero ma mi risulterebbe molto difficile. Preferisco scoprire qualcosa di nuovo di me finché faccio canzoni".

È un pezzo che parla della pandemia?

"È un pezzo che fotografa una parte della realtà. È un invito a muoversi, perché siamo stati troppo fermi, mentre ci dovremmo muovere alla velocità della luce, cosa che questo Paese sembra non saper o voler fare. E la musica deve tornare a farci ballare, a far circolare energie".

Dargen D'Amico, il cantautore rap in 'Le squadre'

Cosa si aspetta da questo Sanremo?

"Io sono il primo a essere curioso. Sia per come verrà presa la canzone, nella quale ho indagato soluzioni espressive che mi interessano, sia per l'effetto del Festival. È un brano pop, ma la mia storia dice che è in qualche modo sperimentale. Non so se ci saranno altri brani così, ma mi aspetto di capire cosa mi succederà alla fine della prossima settimana. Per ora faccio interviste interessanti e aspetto. Voglio prima fare l'esperienza e poi decidere quello che sarà".

·        Dario Ballantini.

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 20 Novembre 2022.  

Bocciato da Pippo Baudo, promosso da Antonio Ricci. «Si è chiusa una porta e se ne è aperta un'altra che mi ha portato al programma della mia vita». Uno e centomila, Dario Ballantini, imitatore e trasformista, è il volto mascherato di Striscia la notizia da quasi 30 anni, mentre a teatro porta in giro ben tre spettacoli: uno su Petrolini, uno su Dalla e uno sulle 10 imitazioni che sente più sue. 

Gli inizi?

«Da ragazzino. Ero appassionato di Alighiero Noschese che è stato un grande imitatore e trasformista della tv in bianco e nero. Poi a scuola, al liceo, mi sono accorto che avevo questa attitudine e ho iniziato a fare cabaret in maniera artigianale: le prime parrucche le creavo io stesso in modo rudimentale. Adesso sono molto meticoloso, disegno sempre i personaggi da imitare prima di farlo». 

La svolta?

«A fine anni Ottanta. Partecipai a Gran Premio , un concorso della Rai per giovani talenti. Ero praticamente stato scelto da Baudo, ma poi preferirono puntare su un'imitatrice, una donna che non ha fatto carriera, perché era una novità. Mi ritrovai messo fuori e partecipai a un altro concorso, Star 90 . Vinsi e conobbi Antonio Ricci che era in giuria. Cinque anni dopo l'ho convinto a prendermi con l'imitazione di Dario Fo». 

Cosa la colpisce di Antonio Ricci?

«Spirito di osservazione acutissimo, ironia sottile come una carta velina». 

L'imitazione a cui più legato?

«Valentino è quello che mi ha lanciato e con lui ho portato per la prima volta le imitazioni in strada, è stato il primo personaggio on the road della tv». 

La migliore?

«Gino Paoli, come somiglianza e come esperimento. E poi perché far ridere con Gino Paoli non è da tutti. Anche Nanni Moretti, con i suoi silenzi. Il silenzio in tv è pericoloso, la tv è immediata, non puoi stare zitto e non dire nulla. Con questi due personaggi dalle imitazioni ombrose è stato accettato in tv anche uno stile rarefatto».

In diverse occasioni l'imitatore Ballantini ha incontrato il vero imitato. Chi è stato spiritoso e chi meno?

«Gino Paoli e Vasco Rossi sono stati molto spiritosi. Morandi anche. Conte ci ha provato. Moretti invece non è stato molto partecipe». 

Chi si è offeso?

«Vittorio Emanuele non la prese bene, ma era divertente. Alvaro Vitali faceva la moglie...».

I politici sono il suo core business...

«Ormai i politici sono diventati più attori dei veri attori. L'attualità detta legge, è inevitabile. Pensi a Ignazio La Russa: lo lanciai prima di tutti ma l'avevo fermo dal 1994. Ora è tornato in auge come presidente del Senato». 

Chi si diverte a fare?

«Mi piace Draghi, perché ha quel che di Alberto Sordi: io sono io e voi... Anche Conte, per lo stile del gagà. La Russa mi impegna molto per la voce cavernosa e l'aria mefistofelica, devo sforzarmi a tenere il volto come una maschera». 

Guardando alla concorrenza?

«Panariello con Renato Zero sta in testa a tutti. Mi piace l'Ornella Vanoni di Virginia Raffaele: sarebbe bello fare un duetto con il mio Gino Paoli. Crozza non si trucca alla perfezione, ma il suo Mauro Corona mi divertiva molto».

Uno e centomila: come si mantiene l'equilibrio? 

«È la mia vita, mi viene facile, altrimenti sarei diventato un folle; è un modo per annullare me stesso e far ridere un altro dentro di me. Ho fatto più di 70 imitazioni, in fondo ho vissuto altre 70 vite».  

Lei è anche un apprezzato pittore. 

«È un'altra delle mie vite parallele, Livorno è una città d'arte, ho respirato creatività in famiglia e ho fatto il liceo artistico». 

Che stile ha?

 «Io non studio il quadro, lo progetto mentre lo realizzo. Sono un pittore esistenzialista, ho uno stile tra Sironi e Ennio Calabria. La pittura è una passione che fa anche soffrire, in fondo è il risultato di una seduta psicanalitica, di quello che provo o del mio pensiero sull'umanità, la pittura consente di sviscerare e rimuginare un calderone di idee e pensieri».  

Tante maschere: il vero Ballantini per strada lo riconoscono in pochi? 

«Un po' è vero, poi con Morandi sono diventato più "famoso" perché è quello a cui assomiglio naturalmente di più. All'inizio mi dispiaceva, ma ci convivo da tutta la vita. Anche perché ho questa particolarità del viso che se mi taglio i capelli non mi riconoscono nemmeno i miei familiari».

·        Dario Salvatori.

Dagoreport il 13 marzo 2022.

Puntuale come una mannaia arriva “Il Salvatori 2022”, ovvero il dizionario delle canzoni di tutti i tempi e di ogni nazionalità. Oltre 20 mila schede di  canzoni prese in esame nel loro contesto storico-sociale: autori, interpreti, vicende e aneddoti. La prima opera reference ad abbracciare l’intero ciclo della musica registrata, toccando  anche brani dei Seicento e Settecento. 

Utile come strumento di consultazione ma anche un appassionante libro di lettura. Si parte da “007”(Shanty town) di Desmond Dekker, cantante e autore giamaicano,ispiratore di Bob Marley (la scrisse nel 1967 dopo aver visto n Tv una dimostrazione studentesca contro la costruzione di un complesso edilizio vicino alla spiaggia) fino a "Zwei Kleine Hallener”, un brano cantato da Connie Froboess, in gara all’Eurovision del 1962.

Dario Salvatori lo auto-definisce “vizionario”: “Si perché, sembrerà strano o esagerato,ma ogni canzone contiene una storia un vissuto, un plagio, un blocco della censura, tanti furti e puttanate fra cantanti e autori, lotte discografiche, autobiografismo esagerato, tonfi e trionfi, molte infamità. 

Salvatori, ma c’era proprio bisogno di ammazzarsi di fatica per oltre 1.200 pagine, quando di ogni canzone con un clic possiamo trovare tutto quello che ci incuriosisce per ogni canzone?

“Alt. Sulla rete possiamo trovare schede di canzoni celebri, anche se spesso con informazioni zeppe di errori, provenienti da consultazioni errate. I lettori gradiscono la minutaglia, i pezzi minori, le puttanate, le canzoni con cui si sono fidanzati, sposati ed è chiaro che 20 mila schede non raccontano solo i capolavori. La rete non contiene “Barbanera twist” o “Sugli sugli bane bane”.” 

Che roba è?

“Il primo è un twist di Stefano Torossi, contrabbassista e compositore, vari diplomi classici, autore di musica contemporanea, film e documentari. Venne commissionato a Torossi dalla Campi di Foligno, che ogni anno stampava a milioni di copie l’Oroscopo di Barbanera. 

Più che un successo discografico, lo specchio  di un’epoca di spontanee leggerezze. Era il 1962, si ballava il twist, fortemente liberatorio, girava molta allegria e a cantare era  Michelino, un pugliese da night: -Nell’immenso firmamento/Barbanera legge attento/e si ingegna di sapere/quel che poi deve accadere.” -Sugli sugli bane bane- partecipò al Sanremo 1973, lo cantavano le Figlie del Vento-Sugli sugli bane bane/tu miscugli le banane/le miscugli in salsa verde/chi le mangia nulla perde.” 

Si magnifica molto sul suo archivio che le consente di scrivere libri del genere, ma quanti dischi possiede?

“All’ultimo censimento erano 61 mila. Però non sono custode di gemme. Dischi di alto valore collezionistico ne ho pochi, circa duecento, tutti anni ’50, la mia specializzazione. Negli anni Settanta ai giornalisti e ai radiofonici le case discografiche, allora ricche e potenti, spedivano tutte le novità. Eravamo tutti giovani e con gusti musicali molto di nicchia. 

A Roma c’era uno storico negozio di dischi a viale Giulio Cesare, Consorti, dove vigeva la regola del 3X1, ovvero tu portavi tre dischi che scartavi  ed in cambio prendevi un disco di importazione. Ecco, questo io non lo facevo, mi tenevo tutto, e oggi nella mia collezione ci sono 20 album di Orietta Berti e 50 di James Last, che sovente hanno quotazioni più alte dei dischi di Elvis, Beatles o Pink Floyd. Ma i danni del collezionismo sono altri.” 

Quali?

“Arriva un punto in cui dentro i dischi o fuori te o il contrario. Arrivo a credere di non aver centrato il matrimonio perché all’inizio magari, con una fidanzata, se la storia partiva, arrivava l’adulazione –Ma che bello! Guarda quanti dischi! Li hai sentiti tutti? Sei una persona speciale- Poi dopo qualche mese-Senti ma tutta questa merda deve per forza restare qui ?-. E arrivava l’inverno del nostro scontento.” 

Ma gli altri collezionisti come si regolano?

“Mah, c’è chi lasciato la moglie e ha tenuto i dischi, i possessori di doppie case li hanno parcheggiati lì, altri ancora hanno ridotto l’ingombro”. 

Ma lei non ha buttato via proprio nulla?

“Ho fatto molti scambi, alle volte non c’è il denaro ma il baratto: io cerco un Fats Domino del 1957 ma sono disposto a cedere un Jimi Hendrix del 1965 live al – Cafè Whapicture rosso. Altri sono spariti nei traslochi, molti nelle case di alcune fidanzate:  ho visto qualche servizio fotografico di qualche casa dove fanno ancora la loro porca figura. Diciamo un 6-7 mila sono altrove.”

Come definirebbe la filosofia del collezionista?

“Un guerriero disposto a tutto. Uno di  noi ha smesso per due anni di pagare il mutuo per portarsi a casa il catalogo della Pathè e molti esemplari rari Capitol. L’aveva quasi spuntata ma poi non aveva più la casa. Poi ci sono i collezionisti di 30-40  che ne hanno fatto un mestiere. Girano tutti i raduni, sono appassionati, abili commercianti ma non capiscono niente di musica”. 

Il vinile sta tornando?

“No. E’ solo un blando gadget per lanciare la nuova produzione. La cultura digitale  nata dalla mescolanza di posizioni così stridenti produce un frutto strano. Da una parte fa a meno degli esperti, perché viene dato per scontato che tutte le persone siano uguali, dall’altra intensifica la fede modernista nelle regole, oltre che nella possibilità di trovare un’unica verità  attraverso  strumenti quantitativi. Nel consumo della musica succede la stessa cosa. La tensione fra il pop come musica e il pop come identità costituisce ancora oggi la centralità del dibattito  intorno alla musica”.

Qual è stato il suo primo disco acquistato?

“Un classico di Little Richard, -Tutti frutti-  ma da Consorti c’era solo la versione di Elvis Presley, mi sono dovuto accontentare. Correva l’anno 1958.”.

E il disco che ha rincorso di più?

“Una volta Gianni Boncompagni  - mio amico dal 1966, ma anche mio mito con cui ho avuto la fortuna di lavorare – aveva acquistato una spider e una Mercedes ultimo modello. Nel suo garage non trovavano posto e allora  decise di vendere la sua collezione di dischi, che da tempo non era più in casa. Mi disse di sentire qualche collezionista e scelsi quello più autorevole. La visura riguardava  circa 28 mila dischi,  molti da cassonetto altri autentiche gemme: valutazione 35 milioni. Gianni mi propose una percentuale.

Mi offesi e risposi che avrei preferito un regalo, per esempio il suo album registrato in Svezia nel 1960, dove  lui, ventisettenne, carino, sorridente interpretava vari successi italiani del periodo, sia in inglese che addirittura in svedese. Quando il collezionista lo notò gli brillarono gli occhi, ma Gianni lo dissuase informandolo che lo aveva promesso a me. Il disco rimase a Gianni. Questo per dire che il mito del Boncompagni cinico, surreale, tecnologico, poco propenso a riempire casa del suo passato si sciolse davanti a quella copertina. Quella si che sapeva di futuro.

·        Dario Vergassola.

Dario Vergassola: «Fu la mia mamma a dirmi: la tv è piena di scemi, provaci. Fabio Volo? È un amico». Elvira Serra su Il Corriere della Sera su il 24 Agosto 2022

Il comico: «Sono ipocondriaco, Jannacci mi visitava per finta». La carriera: «Ero marinaio di coperta. La mia vita cambiò grazie al Costanzo Show: mia moglie andò a dormire senza vedermi». La famiglia: «Il primo regalo che ho fatto ai miei genitori è stato quello di portarli a cena fuori: non c’erano mai stati»

L’ex calciatore Simone Vergassola è un suo parente?

«No, però Fazio c’è cascato. Il mio agente Carlo Gavaudan lo convinse e così lui mi chiamava a Quelli che il calcio. Quando poi dicevo che non eravamo parenti tutti ridevano, sembrava una battuta: lui era alto, moro, il Dna non è un caso. Mi chiamavano anche le radio sportive per commentare le sue prestazioni».

Il suo primo ricordo?

«Io che allatto al seno di mia madre sul terrazzino e vedo mio padre che va al lavoro in bici. Ma non so se l’ho sognato o lo ricordo davvero».

Che lavoro facevano?

«Mio padre, Umberto, scaricava al porto, in un magazzino della Marina, e puliva scale e uffici. Mia madre, Edda, andava a servizio nelle case. Purtroppo è mancata molto giovane, a 53 anni, mentre lavorava. Ha avuto un attacco di asma. Mio padre l’ha portata in Vespa al pronto soccorso, ma non c’è stato niente da fare. Non mi avevano chiamato per non disturbarmi, avevo il figlio piccolo...».

Il primo regalo che ha fatto lei a loro?

«Li ho portati a cena fuori: non c’erano mai andati. Avrei voluto ricomprargli la casa dove sono cresciuto, volevo fare una sorpresa a mio padre e portarlo lì per Natale. Però non c’è stato verso di convincere i proprietari, anche se avevo fatto un’offerta spropositata».

Che adolescenza ha avuto?

«Ero basso e mi prendevano in giro. Difendermi con le battute è stata una forma di sopravvivenza, ma normale, non ne soffrivo. La prima volta che sono andato a dormire fuori con gli amici con il sacco a pelo, mia madre mi aveva messo dentro le lenzuola. E mentre gli altri avevano tutti pensieri più o meno erotici, io ero l’unico a provare una sorta di vertigine sotto l’immensità del cielo».

La Spezia, primo pomeriggio. Merenda all’aperto con panini di «muscoli» (qui chiamano così le cozze, è una contaminazione con le moules francesi, mussels in inglese), due birre piccole e una bottiglietta d’acqua. Dario Vergassola finge interesse per l’intervista, in realtà vuole solo scampare al trasloco di cui si sta occupando la moglie Paola. Alla fine della lunghissima chiacchierata paga il conto. Ligure e gentiluomo.

Ci ha messo un po’ a fare il comico. Prima ha lavorato all’Arsenale militare di La Spezia.

«Per sedici anni. Per chi è di qua è l’equivalente di un ministero a Roma. Ero intontito dallo stipendio fisso, molto basso, anestetizzato rispetto a quello che mi piaceva sul serio. Pensavo alle bollette, alla spesa, non alla creatività».

Che mansioni aveva?

«Manovale, marinaio di coperta. La prendevo immaginando di essere Corto Maltese. Pioveva, salute precaria, bronchite dalla mattina alla sera... Poi sono passato a mansioni di ufficio».

E il sacro fuoco dello spettacolo?

«Sotto banco frequentavo quelli che suonavano. Ricordo i viaggi sulla Cisa con la mia 127 per andare a Milano ai provini per Zelig. Tornavo alle 4 del mattino e alle 8 andavo all’Arsenale».

Perché la chiama Spezia, senza «La»?

«Non saprei. Forse per risparmiare. Non dimentichi che sono ligure».

Chi cominciava con lei, a quei tempi?

«C’erano già tutti. Gli Elio e le Storie Tese, Maurizio Milani, un genio dal cinismo meraviglioso. E poi Paolo Rossi, che era già famoso: mi ero quasi inginocchiato davanti a lui, rappresentava quello che volevo fare».

La svolta arrivò con il Maurizio Costanzo Show.

«Avevo vinto Sanscemo, un Festival di canzoni comiche che si svolgeva a Torino. Chi vinceva faceva le ospitate al Costanzo Show. La prima volta chiesi a mia moglie se mi aveva guardato: rispose che aveva sonno, era andata a dormire».

Parliamo di Paola. Da quanto tempo state insieme?

«Sposati da quasi 39 anni, altri 7 di fidanzamento. È stato uno di quegli amori da ragazzini, che aspetti finché non cresci: roba che quando passava il treno immaginavo ci fosse lei sopra. Siamo stati fortunati. Ed è caduta in trappola: si occupa di tutto, è la commercialista di casa».

Sopporta la sua ipocondria.

«Sono un po’ psicolabile: alterno attacchi di panico ad attacchi d’ansia. E mi basta un piccolo dolore per pensare di avere diecimila malattie. Mi è successo da poco mentre facevo la doccia: non ero sicuro se una cosa l’avevo sognata o vissuta. Quando succede, lei mi dice: “Forza, vestiti che andiamo a fare la spesa”. Se sono solo è più complicato, ci vuole qualche goccetta».

Frequentatore assiduo di Pronto soccorso.

«In tutta Italia, potrei fare la classifica. Abuso del fatto che mi riconoscono: sono tutti molto gentili con me».

L’ultimo che ha visitato?

«Quello di Asti. Rapidissimi, mi hanno fatto Tac ed elettroencefalogramma. Voglio spezzare una lancia per chi pilota gli aerei quando ci sono io a bordo e per chi è di turno all’ospedale quando vado io. E, vorrei aggiungere, che in questi continui vai e vieni ho riflettuto su una cosa».

Dica.

«Ma certe persone che stanno portando un figlio d’urgenza all’ospedale, quando lo affidano al medico sperano che sia bravo o che non sia gay? Questa domanda vale per tutti i mestieri».

Se le chiedono che lavoro fa, cosa risponde?

«Il cazzaro miracolato, con patologia a parlare continuamente. Ho un cervello che va a 30 mila, inutilmente. Un giorno mia mamma disse: “In televisione c’è pieno di scemi, prova anche tu”».

Certe sue interviste a «Zelig» oggi non si possono più sentire. E non si potrebbero nemmeno più fare. Nessuna soubrette si è mai lamentata?

«Guardi che ci sono andato pesante anche con i calciatori. Una volta chiesi a Buffon se dopo aver calciato una palla a settanta metri poi gli faceva male. Michelle Hunziker è un’altra che non ho risparmiato. Dopo l’intervista disse a microfoni spenti che era stato peggio di una visita dal ginecologo. Eppure poi Gino e Michele, apprezzando il modo in cui seppe incassare, le chiesero di condurre Zelig».

Mara Carfagna a «In onda» la tacciò di arroganza.

«Ho capito: ma una che sta con Mezzaroma che domande si aspetta? Se guarda il Late Show americano le domande sono molto peggio. E comunque alla Carfagna ho sempre riconosciuto di essere strutturata: ha usato bene l’esperienza della politica, ha imparato mentre lo faceva. Una volta è venuta a salutarmi al termine di uno spettacolo a teatro e si era pagata il biglietto».

Il politically correct cambia la satira?

«Cambia tutto in peggio. I politici non puoi neanche toccarli, succede il finimondo. Ma è difficile tutto, essere bassi, grassi, alti, magri. Se cominci a selezionare le cose che puoi dire, se ti preoccupi di non offendere, hai finito».

Le battute più scorrette?

«Quelle sui morti. È scomparso l’inventore della brugola: la famiglia si stringe intorno alla vedova. È morto Balocco: sarà cremolato a Natale. È mancato Foppa Pedretti: è stato seppellito in una bellissima bara che piegando gli angoli diventa un tavolo da campeggio. Addio a Piero Angela: adesso in Paradiso andrà a spiegare agli angeli che non esistono. Non puoi pensare che siano irrispettose: devono essere fulminanti».

In tv ha lavorato in tantissimi programmi, Rai e Mediaset. La spalla ideale?

«Serena Dandini: è una istituzione della televisione. Se una sua scelta ti sembra sbagliata, dopo poco scopri che ha ragione. Ha lavorato con dei geni, non capisco cosa ci facessi io».

E dei grandi con cui ha lavorato lei cosa dice?

«Cerco di lavorare con i più bravi, perché mi aiutano. Jannacci, Moni Ovadia, Riondino».

Un ricordo di Jannacci.

«Una volta mi fece sdraiare per un’ora e con un apparecchio misurò una serie di indicatori per eventuali malattie tipo neurodegenerative. Fu serissimo. Peccato che tre giorni dopo in una farmacia vidi esposto lo stesso apparecchio che era un elettrostimolatore con tutt’altra funzione: mi aveva preso per i fondelli».

Un suo mito?

«Woody Allen. Quando Costanzo lo invitò allo Show andai a vederlo: stetti seduto vicino a lui come un cagnolino».

Ha mai chiesto l’autografo a qualcuno?

«Solo a Caetano Veloso. Mi proposero di introdurlo a Lecce per un suo concerto. Quando cantò Un vestido y un amor e Cucurrucucú Paloma ero già innamorato di lui. Peccato che mia moglie, che non sta mai male, proprio quella sera avesse un mal di testa. Mi chiese di accompagnarla in albergo e io non potei dirle di no. Però mi è rimasto l’autografo».

E Gaber?

«L’ho conosciuto al Lido di Venezia, partecipando al suo festival “Professione comico”. C’erano ospiti una sera Benigni e la sera dopo Grillo. Stetti due serate perché vinsi il premio del pubblico e quello della critica. Io e Paola eravamo partiti con la macchina di un suo cugino perché io avevo la 127 e non ci sarei mai arrivato. La figlia di Gaber, Dalia, mi ha detto che quando il padre mi vedeva da Costanzo si divertiva molto. Una bella medaglia».

Dove nasce la sua amicizia con Fabio Volo?

«Mi ha chiamato in radio per farsi insultare».

Prego?

«Ma sì, io leggo i brani dei suoi libri prendendolo in giro e lui ride».

Ha tre nipoti. Che nonno è?

«Ho Amelia, 8 anni, la squilibrata. Adriano, 4, il duro tutto bello. E Dante, il piccolino, che ha sei mesi: lo chiamiamo Ridolini. Se conti anche mio padre di 90 anni e fai la somma, c’è da badare a tutti».

Un programma che non ha ancora fatto?

«Il sogno sarebbe Per un pugno di libri. Leggo tantissimo, da quando mia madre mi portava mentre prestava servizio in una casa di avvocati. Mi lasciava nella stanza dei figli: su una parete avevano tutti i Linus. Ho cominciato così».

·        Davide Di Porto.

Da corriere.it il 26 aprile 2022.

Da personal trainer a personaggio dei reality, Davide Di Porto è stato uno dei concorrenti dell’«Isola dei Famosi» nel 2010, come ricorderanno i fedelissimi della trasmissione. Ma l’ex naufrago, una volta che si sono spenti i riflettori, è caduto in disgrazia e oggi racconta di essere costretto a vivere di espedienti. 

Terminata l’avventura in Honduras, Di Porto era stato per un periodo ospite ai talk show e ai programmi di intrattenimento televisivi e si era poi dedicato ai film a luci rosse. Una strada che però aveva lasciato, come ha raccontato in un’intervista al settimanale «Nuovo»: «Ho smesso da tempo. La pornografia non è l’ambiente meraviglioso che tutti continuano a raccontare». 

Romano, un passato da personal trainer, Di Porto negli ultimi tempi non è più riuscito a trovare lavoro e alle pagine del settimanale spiega le difficoltà che deve affrontare ogni giorno: «Non mi vergogno di dirlo: oggi campo di espedienti e cerco nell’immondizia oggetti e cose da vendere. Però non rubo niente a nessuno». 

La televisione «mi ha gettato come un rifiuto dopo avermi sfruttato», accusa, ma la sua speranza è proprio quella di tornare a far parte di un altro reality per potersi rimettere in sesto: «La gente mi ferma per strada e mi chiede perché, in mezzo a quella marmaglia di naufraghi sconosciuti che ci sono all’Isola dei Famosi non ci sono anche io. Chiamano i personaggi come I cugini di campagna e playboy scaduti come Antonio Zequila e non me?». 

·        Davide Sanclimenti.

Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2022.

Un corpo peeerfect , perfetto, che lo fa assomigliare a «Ercole», come ha detto con un sospiro sognante la co-concorrente Tasha. Se ha vinto l'ottava edizione di Love Island - reality che sul piccolo schermo britannico è campione di pubblico - Davide Sanclimenti, 27 anni, italiano da qualche tempo trapiantato a Manchester, è riuscito in un'impresa forse più tortuosa ancora: secondo il Sunday Times ha smontato gli stereotipi mostrando al mondo il vero appeal del maschio nostrano.

Uno stallone? Un latin lover? Un mammone? Forse, ma anche spiritoso, timido, a tratti vulnerabile. Bello, insomma, ma non solo. Questa l'opinione della giornalista Julia Buckley che ieri ha colto l'occasione per disquisire del sorriso ammaliante e i pettorali da manuale di Sanclimenti così come del suo effetto su una lunga storia di luoghi comuni. «All'inizio sembrava la personificazione di un cliché», ha scritto, ricordando che è entrato in scena con la frase: «Qualcuno ha ordinato uno spuntino italiano?» 

Nell'arco della sua permanenza sull'isola, però, ha mostrato altre doti: come sarebbe riuscito, altrimenti, a gridare alla sua amata, Ekin Su (attrice angloturca), «Sei falsa come una Louis Vitton cinese», a struggersi perché solo e, alla fine, a dichiararsi perdutamente innamorato «come se fosse un personaggio di di Richard Curtis» (regista di Quattro matrimoni e un funerale , Notting Hill, e Love, Actually) ? Sanclimenti ha forse tradito le sue radici, si è chiesta Buckley? «In verità il cliché dice più di noi che dell'Italia», ha riflettuto la giornalista.

Con una lunga lista di citazioni - da Catullo a Dante e fino al Dolce Stil Novo - ha spiegato che quella dell'uomo innamorato è un'immagine antica e intricata. Passando per la Firenze rinascimentale, le sculture di Raffaello, Michelangelo e Donatello, Gabriele D'Annunzio e Rodolfo Valentino, Buckley ha tracciato le contraddizioni alla base del successo del maschio del Bel Paese: bellezza e romanticismo, muscoli e dolcezza, forza e gentilezza. E che dire dell'indimenticabile Marcello Mastroianni ne La Dolce Vita? 

Il suo Rubini è irresistibile ma debole, un sognatore poco concreto, un personaggio che è una provocazione piuttosto che un modello da emulare. Ecco, allora, il latin lover come invenzione straniera e riduttiva. All'uomo italiano piace flirtare, scrive la giornalista Julia Buckley che vive in Italia e sa di cosa parla: ci sono cuochi che promettono di corteggiarla con il cibo e sindaci che al termine di interviste formali le annunciano «dobbiamo stare insieme».

Quando è pronto, però, il maschio nelle relazioni si impegna. Non ha paura di mostrare le proprie emozioni. È, quindi, molto più dello stereotipo. È questo che Sanclimenti, per la giornalista, ha mostrato alla folta tribù di Love Island e al pubblico televisivo. «Grazie a Davide ora capiamo», conclude. E Sanclimenti? Cosa farà ora che non solo ha vinto le 50.000 sterline in palio - circa 60.000 euro - ma ha anche sconfitto i cliché? 

Per ora l'amore con Ekin Su resiste (era l'obiettivo del reality, trovare una compagna e conquistare l'affetto del pubblico). Oltre ai muscoli e al sorriso smagliante, Davide Sanclimenti ha una laurea (in Economia), un master e una certa intraprendenza. Dalla «love island» Maiorca è tornato a Manchester e, a giudicare da quanto è successo ai vincitori precedenti, avrà ampia scelta tra progetti e iniziative interessanti e ben pagate.

Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 12 agosto 2022.

Re Davide da Frosinone. Anzi, da Manchester. «Perché solo qui mi sento a casa. Ma tra un paio di mesi dovrò trasferirmi a Londra. Per il nuovo lavoro». Ossia, fare la star nel Regno Unito. Perché Davide Sanclimenti, 27 anni, nato a Sora, cresciuto a Frosinone, laureato in Economia a L'Aquila, specialistica a Roma, Erasmus a Salford-Manchester per imparare l'inglese «anche perché all'esame di maturità ho copiato», ha appena vinto Love Island.

Che in Inghilterra è il reality show più seguito e dove, come da regole del gioco, ha trovato anche il suo amore, ossia l'altra vincitrice e "anima gemella": la 27enne turca Ekin-Su Cülcülolu. «Sono troppo contento: è la mia copia al femminile, stessi interessi, stessa musica, stessi valori della famiglia», dice Davide nella sua prima intervista dopo il trionfo e la fama. 

Sanclimenti, 1,7 milioni di follower su Instagram, amabile accento un po' ciociaro, ex contabile al Bridgewater Financial Group, poi manager della discoteca Libertine a Manchester «part-time nei weekend » e infine nel business dei narghilè, è uno dei tre italiani quest' anno che - record - hanno eccezionalmente vinto un reality in Inghilterra. Prima Giuseppe Dell'Anno al culinario The Great British bake off . Poi Giovanni Pernice a Strictly come dancing , progenitore di Ballando con le stelle. Ma Davide ha qualcosa in più.

"Stallone italiano" come lo chiamano i tabloid, adone latino, fisico scultoreo, squisito e straordinariamente modesto (ancora non ha un agente «ma da solo non posso fa' tutto, domani firmo!»), secondo il Sunday Times è un personaggio così eccezionale che ha infranto i cliché del maschio italiano oltremanica. Demolendo, per il settimanale, persino il mito del "latin lover" incarnato da Marcello Mastroianni ne La dolce vita di Federico Fellini. E rivelando ciò che invece i dongiovanni italiani in realtà sarebbero: "Belli di mamma!".

È così, Davide?

«Ci hanno preso in pieno. Posso sembra' l'italiano superfigo, che piace a tutte. Ma poi, sotto la scorza, sono una persona molto semplice, umile, "bello di mamma" appunto. Poi, almeno nel mio caso, si può essere latin lover ma a un certo punto ci sono cose più importanti, come i valori della famiglia. I miei si sono separati. Io invece vorrei trovare la donna giusta, per sempre. Ekin lo è». 

I suoi di cosa si occupano? Erano contenti della sua partecipazione a "Love Island"?

«Papà è nella Marina Militare, mamma psicologa, poi dopo il divorzio è diventata insegnante per bambini sordomuti. Mia sorella ha appena finito un master in fisica a Milano. Papà non era contento di Love Island : "Trovati un lavoro stabile!", mi diceva. Ma non capiva le opportunità. Mamma invece mi ha rassicurato: "Se credi sia la cosa giusta, falla". Così è stato».

Quando ha deciso di entrare a "Love Island"?

«Non ho fatto io richiesta, non mi sentivo pronto con l'inglese. Ma un sabato sera stavo lavorando in discoteca e mi ferma uno della rete Itv : "Perché non ti candidi? Saresti perfetto". Allora mi son detto: "Sì, mi butto"». 

Si aspettava di vincere?

«Una parte di me, sì. Ma sinceramente ho pensato solo a fare amicizie nella "casa" e trovare una donna giusta come Ekin».

Forse ha vinto anche per la sua naturalezza e italianità, accento incluso?

«Beh, in Inghilterra un ragazzo così italiano piace sempre. Ma, sì, credo che il mio segreto sia stata la semplicità. Durante il reality show dicevo sempre quello che mi passava per la testa, a differenza dei concorrenti inglesi. E poi, come Ekin, sono sempre stato vero: i britannici si sono rivisti in una coppia normale come noi. I concorrenti invece spesso sono molto più tirati, fake».

E ora cosa le piacerebbe fare?

«Ho sempre pensato di fare il modello. Ma ho già molte richieste per la televisione. L'agente con il quale firmerò mi ha detto che posso fa' tutto». 

E la finanza?

«Ahahah, per il momento no. Quando ho visto che la "application" a Love Island andava bene, mi sono licenziato». 

Ma perché le piace così tanto Manchester?

«Dopo l'Erasmus sono tornato in Italia. Ma dopo due settimane ho detto: "Mamma, mi manca Manchester". Perché qui per me è come stare in una grande famiglia, ho tanti amici, tanti contatti che mi hanno preso subito in simpatia; mi piace la cultura del luogo e le persone sono senza fronzoli. Ma, soprattutto, in Inghilterra ci sono tante opportunità per chiunque, a differenza dell'Italia. Anche per me che non ero nessuno». 

Pensa mai di tornare in Italia?

«All'inizio, quando mi apprestavo a lavorare, sì. Ma poi mi sono detto: rimpatrio per uno stage a 600 euro? Qui, appena laureato, ho trovato subito un lavoro per 1.500 sterline al mese...». 

Le manca l'Italia?

«Covid a parte, non sono nemmeno tre ore di aereo. Certo, a volte vorresti il sole, il caldo e l'estate ma per trovarli puoi anche andare in vacanza. Forse in Italia ci torno da pensionato». 

·        Diana Del Bufalo.

Diana Del Bufalo: «Paolo Ruffini? Ora abbiamo un bel rapporto. Ho una sindrome: la coprolalia». Martina Pennisi su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022

L’attrice seguita da 1,7 milioni di follower: «Sono insicura ma so anche di avere il dono del carisma». Su Ornella Vanoni: «È una furbetta: spostava l’attenzione su di me quando non si ricordava una battuta»

«Io non sono ambiziosa, so che può sembrare difficile da credere. Mi nutro di così tanto altro oltre al mio lavoro. Poi certo, la reazione del pubblico è quella che è, quindi capirai per il mio ego... Io cerco di ridimensionarlo perché è importante per un’attrice. Oddio è importante anche per gli attori maschi: sono ancora più primedonne delle attrici femmine. (Pausa, prende fiato). Qual era la domanda?».

Diana Del Bufalo, romana, classe 1980, attrice, cantante, comica, conduttrice, personaggio sui social si fa le domande, dà le risposte, perde il filo del discorso e di tanto in tanto lo fa perdere anche all’interlocutrice.

Riparte: «Il fatto di essere sovraeccitata, un po’ emozionata, soprattutto in tv, è perché ho paura del giudizio delle persone, una cosa che mi porto dietro fin dai tempi della scuola, una scuola inglese, campagnola (l’istituto privato Britannia International School of Rome, ndr). Non andavo bene, sbagliavo i verbi. Da allora sono insicura, ma so di essere anche carismatica. L’ambizione però è un’altra cosa, è la cazzimma. No,non ce l’ho, io voglio solo stare sul prato sotto il mio albero di noce con il mio cane».

Racconta: «Ho un disturbo: la coprolalia , l’impulso di dire inadeguatezze. La prima volta che mi è capitato ero nel negozio della ex di mio fratello. Una signora ha chiesto se su una collanina si poteva incidere altro, oltre ai fiori. La ex di mio fratello risponde “no, solo i fiori”. E io dico: “Marta, magari la signora ci voleva un bel fallo!”. Mi hanno spiegato che è un ramo della sindrome di Tourette , mi capita quando mi sto annoiando e sono tutti formali».

Siamo a Milano, nella sede di Disney, a cui Del Bufalo ha prestato la voce per il cortometraggio di Natale Il Dono, dopo aver doppiato Isabela Madrigal in Encanto nel 2021 sempre per Disney, e mentre è a teatro con 7 Spose per 7 fratelli.

Andiamo con ordine: professione?

«Libera professionista: faccio un lavoro stupendo ma molto precario. Sono cresciuta circondata dall’arte: papà è architetto, ma anche esperto di arte antica; mio fratello ha una galleria d’arte, mia mamma è una cantante lirica. Ho sempre fatto parte di questo ambiente e devo dire che mi è riuscito tutto molto semplice. “Amici” (il talent show di Canale 5: Del Bufalo ha partecipato nel 2010/2011) mi ha permesso di saltare la gavetta. Poi c’è il web: sono riuscita a emergere e ho continuato».

Un milione e 700 mila follower su Instagram: un altro lavoro praticamente.

«All’inizio mi piaceva pubblicare foto, tuttora lo preferisco a TikTok. Quando i follower hanno iniziato a crescere mi sono detta che sarebbe stato un peccato uscire. Ci ho pensato, a uscire intendo, ma mi dispiace, è uno strumento di comunicazione utile per il mio lavoro e mi rappresenta. Il profilo è come sei tu, ci sei, esisti, è questo che vogliamo dalla vita, esistere».

Esistere, in questo caso, in balia degli algoritmi.

«Per quello che mi riguarda possono anche cancellarmi o bannarmi il profilo. Non può mica diventare un’angoscia. Faccio fatica a immedesimarmi in chi fa solo quello di mestiere, io non potrei, se devo vivere in balia di un algoritmo allora lavoro. E lo dico sempre ai giovani: fate quello che vi piace e non lavorerete mai».

Fa anche lei i post sponsorizzati, però.

«Ne farò quattro o cinque all’anno, sempre cose che mi rappresentano e di aziende ecosostenibili e che commercializzano prodotti non testati sugli animali. Perché? Voglio investire su qualcosa. Adesso sto lavorando, che dio mi benedica, ma cosa succede se non lavoro più? Il futuro è un’angoscia infinita, è questo che preoccupa i giovani, l’incertezza. Prenda gli attori che adesso hanno 70 anni: mi raccontavano che con i film ci compravano le case. Ora non è più così».

Nella fase più drammatica della pandemia ha criticato i vaccini.

«Sa cosa penso? L’umanità non è pronta all’interscambio di opinioni. Non è come prima, quando i filosofi si mettevano intorno a un tavolo e discutevano, parlavano delle loro idee».

Per la prima volta l’Italia ha una premier donna, Giorgia Meloni.

«Non ne so molto di politica, ma credo sia un passo importante. Noi donne abbiamo questo retaggio ereditato delle streghe, che sono state messe al rogo perché minacciavano il potere degli uomini. Io ho studiato tanto, ho fatto un corso di risveglio femminile. Poi Meloni in quanto donna ha forse una sensibilità diversa. Non la conosco personalmente, il suo piano me l’ha spiegato un po’ mia mamma. Io non l’ho votata, ho votato per quello che mi poteva interessare».

Cioè?

«Libertà, giustizia e logicità delle cose».

Logicità?

«Per esempio non è logico che per una coppia etero sia così difficile adottare un bambino e che le coppie gay non possano provarci. Non sta né in cielo né in terra. Chiaro che devono esserci dei controlli, ma viviamo in una società in cui ormai tutto è sicuro, è tutto tracciabile. Mi fa una rabbia, anche pensare che i figli delle coppie gay per la legge hanno un solo genitore. È tremendo. Dovrei aprire un dibattito...».

Ornella Vanoni?

«Abbiamo girato insieme 7 donne e un mistero. È una furbetta: quando non si ricordava cosa doveva dire spostava l’attenzione su di me. Io dicevo la mia battuta, la guardavo : “Ornella, ora tocca a te!”. E lei: “Eh? Non sento!”. Invece non si ricordava. Poi è diventato un gioco fra noi».

Maria De Filippi?

«Ha rappresentato l’inizio di tutto. È una donna poco fisica, non ti abbraccia, ma ti dimostra affetto parlando bene di te. Grazie a lei ho fatto il film Matrimonio a Parigi con Massimo Boldi. Gli disse: “Incontra Diana, ascoltala”».

Cristiano Caccamo?

«I nostri follower non credono al fatto che due che vanno d’accordo possano non stare insieme. Ci dicono di continuo: “Siete belli, simpatici, avete questa connessione speciale, ci volete far credere che non avete una storia?” Ebbene sì: l’amicizia tra uomo e donna esiste».

Paolo Ruffini, il suo super ex, ha detto di essere pronto a diventare padre.

«Davvero? Sono contenta per lui, ora abbiamo un bel rapporto. Io penso che vorrò diventare madre, un giorno, adesso no, manca un compagno. Con Paolo devo dire che la voglia mi era venuta».

Cosa la spaventa?

«La violenza, che è la separazione. Sto leggendo questo libro, The Anatomy of Loneliness, spiega che è la separazione a creare le guerre. Perdere tutto? Non mi spaventa. In qualche modo ce la faccio sempre. Ha presente l’uccellino che si poggia sul ramoscello più piccolo, anche se ce ne sono di più robusti? Sa che se anche se il ramoscello si stacca lui volerà via. Vivo così: mi poggio, mal che vada volerò».

·        Dick Van Dyke.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 febbraio 2022.

Il leggendario Dick Van Dyke, nonostante i 96 anni, ha dimostrato di saper ancora recitare, cantare e ballare in un nuovo video musicale interpretato e diretto dalla sua seconda moglie, Arlene Silver, in onore di San Valentino. La coppia festeggerà a breve i dieci anni di matrimonio, nonostante l’enorme differenza d’età: lei ha 50 anni, 46 anni in meno del marito. 

Arlene e il trio dei Vantastix hanno dato il via all'allegra cover di “Everybody Loves a Lover”, una canzone di Richard Adler e Robert Allen resa popolare da Doris Day nel 1958. 

Silver poi ha coinvolto a Dick, che ha cantato una strofa dalla sedia prima di alzarsi per mostrare le sue mosse alla colorata installazione artistica SUPERSHOW di Fallen Fruit a Los Angeles.

«È la cosa che preferisco fare», ha detto Van Dyke a Parade nel 2013. «È un po' il mio divertimento in pensione. Non gioco a golf. Mi diverto di più a cantare e ballare». 

Il quattro volte bisnonno ha dei geni piuttosto buoni considerando che sua madre Hazel è morta all'età di 95 anni, nel 1994 e ha fumato per 50 anni. 

Dick ha incontrato Arlene quando lei aveva 39 anni. «È una delle mosse più intelligenti che abbia mai fatto», ha detto Van Dyke a Parade. «Lei mi rende felice. È molto matura per la sua età, e io sono molto immaturo per la mia età, quindi è quasi giusto!».

Van Dyke ha quattro figli: Barry, 70 anni; Christian, Stacy e Carrie, 60. Tutti e quattro sono frutto del suo matrimonio di 30 anni con Margie Willett. Dal 1976 Dick ha vissuto con la cantante-ballerina Michelle Triola, fino alla sua morte nel 2009 per cancro ai polmoni. 

Lo scorso maggio, Van Dyke ha scherzato con The Mirror: «Ho appena compiuto 95 anni, quindi sono felice di essere ovunque. Se avessi saputo che sarei vissuto così a lungo, mi sarei preso più cura di me stesso».

Nel 2018, Dick aveva pianificato di uscire dalla pensione per interpretare il veterano della Marina James Archer nella commedia di paintball di Ryan Little Capture The Flag, prodotta da suo figlio di 70 anni Barry, ma l’idea non si è mai concretizzata. 

Van Dyke è conosciuto per i suoi memorabili ruoli ruoli in The Dick Van Dyke Show (1961-66), Mary Poppins (1964), Chitty Chitty Bang Bang (1968) e, più recentemente, Mary Poppins Returns (2018). 

·        Diego Abatantuono.

Adriana Marmiroli per "la Stampa" il 24 novembre 2022. 

«Sono un Babbo Natale travestito da nonno», scherza Diego Abatantuono, che nonno lo è davvero («professionista») e a fare Santa Claus ci è portato, vedi il precedente di 10 giorni con Babbo Natale. In Improvvisamente Natale, su Prime Video dal 1° dicembre, è un nonno che, per attutire la notizia dell'imminente separazione dei genitori, organizza alla nipotina un Natale anticipato a Ferragosto. Malgrado il cast composito (Violante Placido, Lodo Guenzi, Sara Ciocca, Nino Frassica, Antonio Catania, Michele Foresta, Paolo Hendel, Gloria Guida, Anna Galliena), non è un cinepanettone ma la classica commedia per famiglie a lieto fine. 

L'altra novità è che debutta direttamente sulla piattaforma senza passare dalla sala. Come dritto sul digitale è andato anche un altro recente film con Abatantuono, Il mammone: remake del francese Tanguy, in circa due settimane su Sky è stato visto da 1,7 milioni di spettatori. 

Una volta lei sarebbe stato campione al botteghino non in tv. Tempi che cambiano?

«I dati dei cinema sono disastrosi. Temo che il pubblico li avrebbe visti comunque in tv. La sala è affascinante se c'è gente, ma vuota è triste. Non è solo questione di bello o brutto, carino o eccezionale. C'è a chi piace rasarsi i capelli di lato e tenerli lunghi in cima alla testa. È bello, è brutto? Solo a pochi sta bene. Però è la moda e allora tutti si pettinano così. Idem per il cinema. Improvvisamente tutti devono vedere un certo film. C'è un po 'di diseducazione a pensare con la propria testa».

Finita l'era dei cinepanettoni?

«Erano un'altra cosa rispetto a questa commedia ambientata in un non-Natale. Li ho fatti e mi sono divertito. Anche se ricordo un'estate a Sacrofano con 40 gradi nel frigo e noi con il piumino...». 

Natale senza cinepanettone e Mondiale senza Italia. Com' è?

«Triste. Per ora ho visto ben poco. Ma quando si arriverà al dunque, sarà comunque affascinante da seguire. Il calcio ha il fascino della diretta e dell'incognita».

Un colpo di scena c'è stato: l'Argentina sconfitta.

«Il colpo di scena è che noi non ci siamo. Abbiamo vinto gli Europei: è grave non essere in Qatar. L'unico allenatore che non era riuscito a farci qualificare, Ventura, venne massacrato. Cancellato. Non voglio infierire su Mancini, ma mi pare ingiusto un trattamento così diverso». 

Una Nazionale debole?

«Che ognuno si prenda le sue responsabilità. Se è debole, è perché sono state sbagliate le convocazioni. Vedi che la squadra non funziona? E allora, un attimo prima dell'ultima spiaggia, cambia». 

Le mancano le domeniche pomeriggio a "Quelli che"?

«Era divertente. "Quelli che" non c'è più. Le trasmissioni calcistiche in generale mi paiono senza sostanza. Anche quelle che la Rai ha messo a corollario dei Mondiali. Vedo che conduce gente che non sa dove sta. Era bello mescolare le carte, giornalisti, gente di spettacolo, calciatori. Ora solo calciatori e allenatori, che sono poi ex calciatori. Che noia, che assenza di ironia». 

Anche Bobo Tv?

«Mai pensato di vederlo». 

Quest' anno ha scritto anche un libro, "Si potrebbe andare tutti al mio funerale" (ed. Einaudi), con Giorgio Teruzzi. Come mai questo titolo?

«È un omaggio a Jannacci, a Beppe Viola e al Derby, che è stato per me un'università di vita. Ci sono aneddoti su quel periodo, ma meno di altri che ho scritto prima. È un racconto un po' onirico dove ci sono parenti, conoscenti, amici vivi e morti (gli unici che mi vedono e mi parlano), gente che non ho conosciuto: sembra una festa ed è il mio funerale». 

Cosa pensa dei nuovi comici?

«Guardo Zelig e scopro che mi fanno ridere i soliti, Ale e Franz, il mago Forest, Bisio. Dei nuovi solo Vincenzo Albano. Un po' pochino, no? Li si cerca su Tik Tock? È sbagliato: lì diventi famoso per un'idea, non per capacità di lungo respiro».

Diego Abatantuono: «Salvatores mi dà del pigro? Sta con la mia ex e una figlia gliel’ho fatta io. L’inferno? Essere interista». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022

L’attore protagonista del film «Il mammone», basato sul successo francese «Tanguy»

«La mia è stata un’esperienza anomala. Appena ho potuto ho iniziato a fare la mia vita, mia mamma lavorava al Derby di Milano, da adolescente facevo il tecnico delle luci per I Gatti di Vicolo Miracoli e ho iniziato a girare per l’Italia. Ho fatto il primo film a 20 anni, vivevo a Roma e quando tornavo a Milano stavo al Giambellino dai miei, ero fortunato, avevo la mia stanza. Di fianco a me nelle case popolari uguali alla nostra c’erano famiglie con sei figli». Diego Abatantuono non ha niente del bamboccione, altro che esigente, nient’affatto mammone, come il titolo del film di cui è protagonista. Basato sul successo francese Tanguy, Il mammone racconta di un «ragazzo» 35 enne (Andrea Pisani) che non vuole sloggiare dalla casa dei genitori (il papà è Abatantuono, la mamma è interpretata da Angela Finocchiaro). Loro esasperati, lui che non ne vuole sapere (il film, regia di Giovanni Bognetti, arriva da lunedì 7 su Sky Cinema Uno e in streaming su Now).

Il tema è attuale, fin dal tempo in cui l’allora ministro Fornero dichiarò che i giovani «non devono essere troppo choosy», esigenti...

«Le commedie classiche dove si ride non sono tante, ma in questo film si ride, ci si diverte, è una commedia costruita sull’interpretazione degli attori con un tema molto preciso: si affronta la questione dei “mammoni” in maniera esasperata; al cinema bisogna raccontare storie dove succede qualcosa, perché se racconti la vita di uno a cui non capita nulla il film diventa lentino. È nell’essenza del cinema raccontare il clamoroso».

Il suo punto di vista?

«Tanti si concentrano sulla mancanza del lavoro, sull’impossibilità economica, ma credo anche che la nostra generazione nel dopoguerra si sia focalizzata troppo sul foglio di carta, sul fatto che i figli non dovevano fare la fatica che hanno fatto i genitori. Si sono messi tutti a studiare, anche chi non era portato... Questa fissa di far studiare i figli ha prolungato il percorso scolastico e così nel frattempo abbiamo anche perso grandi falegnami, grandi idraulici...».

Una figlia quasi quarantenne dalla prima moglie, due maschi che hanno superato i 25 dalla seconda compagna: lei come si è comportato con i suoi figli?

«Anche in questo caso ho avuto una vita anomala, fatta di possibilità economiche che mi permettevano di prendere determinate decisioni. Ai ragazzi ho preso una casa quando avevano 18/19 anni, ma egoisticamente sono contento se stanno da me, anche adesso. Ci vediamo molto, vediamo le partite insieme».

Con Gabriele Salvatores avete lavorato tantissimo insieme, è un suo grande amico, il fatto che è diventato il compagno della sua ex moglie ha addirittura cementato ancor di più la vostra amicizia. Gabriele dice che lei è pigro, che avrebbe potuto ottenere di più nella sua carriera.

«Perché lui no? Ha fatto la stessa carriera che ho fatto io, non mi sembra sia a Los Angeles a fare i 100 metri... Per altro io ho fatto 100 film e lui ne ha fatti 10; io ho fatto tre figli e lui ne ha ereditata una da me; io ho tre nipoti che chiamano nonno lui... e il pigro sono io?».

Però magari avrebbe potuto fare di più. No?

«Tutti possono fare di più. Io per carattere non sono competitivo, non ho mai avuto nessuna intenzione di andare in America a imparare l’inglese, anche perché ho un linguaggio che mi rende abbastanza interessante qua. E poi ho iniziato ad aver successo molto giovane, ogni volta che pensavo: se non succede niente me ne vado, succedeva qualcosa. Al contrario del mio meno pigro amico Gabriele, che a 30 anni era ancora al teatro dell’Elfo, io a 30 anni avevo già recitato in un sacco di film che incassavano parecchio, avevo comprato una casa e fatto smettere di lavorare i miei genitori, e mi ero già fatto fregare un po’ di soldi. Per questo siamo perfetti per stare insieme: io sono quello pigro che fa le cose. E poi se ci sono io i suoi film vengono meglio».

«Marrakech Express», «Turné», «Mediterraneo», «Puerto Escondido»: la vostra non è solo una storia di cinema, ma anche una storia di un’amicizia con un cast fisso di attori...

«Eravamo una grande compagnia di giro, era bello stare insieme, eravamo tutti affiatati e siamo tutti amici ancora oggi. Il nostro cinema partiva da una bella idea, da un telaio su cui lavorare e improvvisare, non era tutto scritto su un copione immutabile. Come è successo con Marrakech, man mano che andavamo verso il Marocco il film cresceva; la grande intelligenza di Gabriele faceva sì che tutte le proposte fatte da noi venissero vagliate, non accettate, ma vagliate. Con Gabriele c’è grande feeling, grande fiducia reciproca: ci capiamo al volo».

Ha 67 anni e il traguardo dei 70 non è lontano. L’età che passa fa girare le scatole?

«No no, fa proprio girare i coglioni; invecchio con allegria, sparo cazzate, mi rassegno a fare il nonno; siamo immersi nella cultura del non invecchiamento, della giovinezza eterna che crea mostri ridicoli, io invece invecchio come viene. Certo, quando sei circondato da tante persone a cui vuoi bene ti scoccia morire, perché hai voglia di vedere cosa succede. E poi c’è il Milan: voglio sempre sapere come va a finire...».

L’inferno come lo immagina?

«Essere juventino e non vincere mai la Champions oppure essere interista e dovermi inventare il triplete per fregiarmi di una coppa interessante che di per sé non esiste».

Da ilmessaggero.it il 27 agosto 2022.

Il Messaggero intervista Diego Abatantuono. Venerdì su Netflix sarà disponibile “Il mostro dei mari”, un film di animazione in cui lui presta la voce a Capitan Crow. 

«Con le navi ho un legame speciale: mio padre costruiva galeoni in miniatura. Ho la casa invasa, ne ho uno anche sul frigo in cucina. Fu così bravo da riuscire ad aprirsi un negozio di modellismo e venderli». 

Lei su una nave che farebbe?

«Starei in cambusa probabilmente. Ma su una nave ci vivrei volentieri. Da quando sono bambino ho sempre amato l’avventura: il cappa e spada, i pirati, i film di Maciste. L’importante era che ci fosse una spada da qualche parte». 

Nel 1982 fu Attila, flagello di dio.

«Attila ero io. Sul copione si indicava solo cosa sarebbe successo, ma nella sceneggiatura del film non c’era una sola battuta scritta. Improvvisavo tutto». 

Se le chiedessero di fare un cameo in un remake?

«È una questione di rispetto per se stessi. Io non faccio tutto quello che mi chiedono di fare. Alla mia età non farei mai Attila cinquant’anni dopo. Proporre una buona idea è facile, fare un bel film è un altro paio di maniche. Preferisco fare meno cose, ma che abbiano una dignità».

Qual è la sua ossessione mancata?

«Non sono sicuro di averne una. Nella vita ho sempre fatto quel che ho voluto. Il mio obiettivo era non avere rimpianti. Ho messo al primo posto la famiglia, volevo stare con loro. Da giugno ad agosto, per questo, non ho mai lavorato. Non è stato facile». 

Ha solo un rimpianto:

«La regia. E il teatro. Avrei voluto farne di più. Il mio problema è che sono troppo pigro, faccio due film all’anno e mi basta. La regia assorbe tempo. Tutto ciò che mi fa cambiare le abitudini mi affatica». 

Un tempo girava sette film all’anno.

«Facevo tanta roba. Ai tempi di Attila, 14 film in due anni. Se avessi avuto un agente oculato ne avrei fatto uno e poi sarei stato fermo per due anni: il primo film incassò otto miliardi di lire. Ma ero giovane e sprovveduto, e il mio agente scaltro: fece un ragionamento sulla sua carriera, non sulla mia. Diventò lui Checco Zalone, non io».

Marina Cappa per “il Messaggero” il 3 aprile 2022.  

«Ho scritto il libro facendo finta di morire, ma nella vita continuerei ancora un po'». Diego Abatantuono compirà 67 anni il 20 maggio. Oltre 50 anni di carriera, un'ottantina di film, un bel po' di tv, moltissimo cabaret e qualche libro. Si potrebbe andare tutti al mio funerale è l'ultimo, appena uscito per Einaudi, coautore Giorgio Terruzzi: Diego immagina di risvegliarsi in una strana condizione dove parla con i morti, e i vivi parlano di lui. Ripercorre così la sua vita, nel lavoro, nell'amore, nell'amicizia. A partire dal Derby, cabaret milanese dove entra da ragazzo addetto alle luci, incontra Jannacci, Cochi e Renato, Dario Fo, i Gatti di Vicolo Miracoli. E infine sale sul palco. 

Nostalgia?

«Mi sono divertito moltissimo, pochi sono stati fortunati come me. Il Derby è stato il mio illuminismo, in mezzo a gente illuminata». 

Però, c'era anche Francis Turatello, girava la droga...

«Il Derby era un ambiente evoluto, scrittori, artisti... A parte (credo) mia mamma che lavorava lì come guardarobiera e la madre di Turatello, tutti pippavamo. Avevo 16 anni, ho fatto esperienze, ma sono ancora vivo. Mentre nel quartiere dove abitavo, il Giambellino, uno su tre è morto di eroina, compreso mio cugino». 

Lei quindi niente eroina, ma...

«Qualche canna. Se un amico me la propone a fine giornata e non ho sonno, può capitare anche oggi. Ma non voglio rischiare, già mi dicono che dovrei bere mezzo bicchiere di vino a pasto. È bere quello? Piuttosto, mi faccio mezza Coca Cola Zero».

Un tempo, lei chiedeva agli amici: «Come si sviluppa la serata?». E adesso, come sono le sue serate?

«So già come vanno a finire: che cosa c'è in tv? Anche per via della randellata di questi due anni di virus, che ho passato in campagna. All'inizio c'erano anche i miei figli, ma per loro non era proprio una grande libidine star chiusi con i genitori. Fosse successo a me, avrei strangolato mamma».

Aumenta l'età, il divertimento cala.

«Io però me la sono sempre goduta. E facendo due film all'anno ho potuto stare con i miei figli, giocare a calcio... Pensi se non avessi visto le coppe del Milan: quanti rimpianti avrei! Certo, adesso mi manca il pallone, l'avventurosità, le seratone con gli amici».

Quanto contano gli amici?

«Ho comprato case grandi per stare tutti assieme, soprattutto da vecchi. Invece oggi loro hanno problemi, impedimenti, lavoro. Ma dopo saremo comunque vicini». 

Dopo quando?

«Io immagino di essere cremato e messo con chi vuole starmi vicino, sotto un ulivo, una quercia, un leccio. Sarà il bosco degli amici, con le targhette dei loro nomi: ognuno sceglie il suo albero, a chi non c'è più lo scelgo io».

Tutti insieme appassionatamente?

«L'idea di essere in catalessi mentre gli altri fuori si divertono mi fa incazzare, voglio vedere che cosa succede. Da qui l'inizio del libro: mi sveglio e c'è una festa per me, persone che avrei voluto conoscere come Marlon Brando, la mamma, gli amici. Potrei essere morto, oppure è un sogno». 

Sogna molto?

«Sì, ma non andrei mai a dormire. Quando devo farlo mi siedo sul letto, controllo la luce, la pastiglia, scelgo il canale perché la notte devo avere sempre la tv accesa... e mi addormento seduto». 

Perché non nel letto?

«Non riesco a mettermi con la testa sul cuscino. Non capisco chi dorme al buio e in silenzio: per me è una bara». 

Torniamo alla sua storia. Dopo il cabaret, arriva il cinema.

«Ho cominciato con piccole partecipazioni, poi è arrivato Eccezzziunale... veramente ed è partita l'operazione sbagliata: 12 film, arricchendo il produttore e guadagnando un decimo di quello che avrei dovuto. Ma dopo due anni il personaggio è finito, e mi sono fermato. In seguito, mi ha chiamato Pupi Avati per Regalo di Natale, che Lino Banfi aveva rifiutato». 

Milanese, con i primi film è arrivato a Roma: ha un ricordo particolare?

«Erano tutti molto socievoli, io affittai un teatrino in piazza Navona: avevo messo via tre milioni e mezzo e ho preso per una settimana questa sala, 500 mila lire al giorno. Ho invitato tutti quelli che conoscevo, i Vanzina, la Vitti, Villaggio, Benigni, Arbore con cui avevo fatto Il pap' occhio. La prima sera è andata benissimo, dal giorno dopo non è venuto più nessuno: non mi conoscevano».

Quando la rivedremo al cinema?

«Ho pronto Il mammone con Angela Finocchiaro e Andrea Pisani, remake del francese Tanguy. In giugno girerò con Patierno, ci saranno anche Frassica e il mago Forest, tutti simpatici». 

Nel lavoro è importante la simpatia?

«Metà vita sono stato sul set, se mi fossi annoiato o avessi fatto come quelli che solo sangue & sudore avrei passato il tempo a soffrire».

Jannacci, che ha ispirato il titolo del libro, era medico: è mai stato curato da lui?

«Avevo un febbrone, arrivò Enzo in Vespa, scrisse la ricetta e mandò il mio amico Ugo Conti a comprare le medicine e dei Campari Soda. Mi fece un'iniezione: ero girato, ma leggenda vuole che nella siringa abbia messo anche un po' di Campari. Di fatto, la febbre passò e andai in scena». 

Alla fine, perché scrive?

«Voglio raccontare, per non dimenticare. Pur di raccontare, potrei anche fare teatro, che mi piace. Il problema è che potrei solo il lunedì e il venerdì, perché non ci sono le partite».

Arianna Finos per “la Repubblica” il 27 marzo 2022.

Abatantuono 8 e ½. Un girotondo tra festa e ricordi, morti e vivi, affetti e rimpianti, confessioni e tenerezze. L'Attila di una vita cinematografica fa, il Babbo Natale di ieri, apre come mai aveva fatto prima le porte della sua vita, con sincerità e ironia, orgoglio e dolcezza. 

Si potrebbe andare tutti al mio funerale è il libro scritto con l'amico Giorgio Terruzzi, edito da Einaudi. Un racconto in soggettiva che parte da uno strano risveglio, dopo un sonno che potrebbe essere quello della morte, nella casa invasa di amici e schegge di passato. Si tengono per mano i personaggi del suo film lungo 66 anni, quelli celebri o sconosciuti al pubblico, Jannacci (naturalmente) e Marlon Brando, Mastroianni e l'amata moglie Giulia, Biobà il camionista e Francis Turatello, i Gatti di vicolo Miracoli. E Gassman, Scola, Salvatores, Villaggio...

L'intervista, al telefono, è dal casale nelle campagne di Riccione che è la location della sua storia. Abatantuono cerca il posto più comodo, al sole. Ha molto da raccontare. Come nasce questo libro?

«Dalla mia casa, sempre piena di gente. Il primo titolo doveva essere Il panno azzurro, quello che nella mia famiglia si mette sul petto quando uno è malato. Ma poi ho preso il verso, parafrasando Jannacci, che racconta la mia vita, un mondo di frequentazioni. C'è chi si compra le macchine, chi cambia mogli, chi fa i viaggi, la mia passione è da sempre stare con i miei amici, ho sempre investito in case che ospitassero tanta gente. Quando è morta mia mamma abbiamo fatto una festa fantastica con gli amici. Sono venuti da Roma e Milano, di tutti i mestieri. Il risultato è un libro in cui ci sono le mie riflessioni ma anche i pensieri degli altri raccolti da Terruzzi. Le interviste ai miei figli non avrei mai potuto farle io». 

I suoi figli raccontano la disavventura con lo tsunami alle Maldive e il loro papà in difficoltà.

«Ho avuto grandi fortune e tante microsfighe. Sono nato al Giambellino, poco studio, amici finiti male, eppure sono stato uno slalomista e ho colto tutti i vantaggi che ho incontrato. Tra le microsfighe, quella di trovarmi con la famiglia alle Maldive, vedere l'acqua ritirarsi aspettando, sbagliando, di essere travolti. Quando ha invaso la stanza mi sono messo riempire le valigie di acqua e coca-cola per poi scappare sul tetto. Ma pesava e mi è venuto il colpo della strega. Cercavo di non far trapelare la paura ai ragazzi, ho scoperto che non c'ero riuscito». 

Nel libro racconta le fatiche di sua mamma guardarobiera al Derby e suo papà che lavorava poco al negozio di modellini e la tradiva.

«Allora sembrava normale, anche se lei avesse reagito nessuno l'avrebbe sostenuta. Vedevo che era sbagliato, ma lei cercava di trarre gioia da ogni momento senza farmi pesare nulla. La loro generazione ha imparato a vivere da separati in casa. Per me, per pigrizia, per l'immagine. Ma c'era anche complicità. Appena ho potuto li ho tolti dal lavoro, li ho fatti venire in questa casa, avevano 52 anni, più giovani di me adesso». 

È strano immaginarla adolescente che soffre per l'acconciatura.

«I capelli ricci sono stati una delle grandi tragedie adolescenziali. Contava solo chi aveva il ciuffo. Passavo interi pomeriggi con la piastra. Quando mi sentivo figo uscivo ma viaggiavo in bus e a Milano il clima non concedeva possibilità. Mentre aspettavo che salisse la ragazza con cui dovevo andare a ballare mi vidi riflesso, i capelli dritti in un'orrida calotta. Sono tornato a casa, lei non l'ho vista mai più». 

Il Derby era un microcosmo di politici, artisti, criminali. Colpisce il racconto di quando Francis Turatello le affidò la mamma.

«Non c'è nulla di inventato, anzi qualcosa ho mitigato per non sembrare poco credibile. Avevamo tutti intorno a i vent' anni, Teo Teocoli, Jannacci, Faletti... C'era un'allegria e una voglia di scherzare senza freni. Mi si presenta Turatello con una signora che poteva essere mia nonna ma era sua madre e me l'affida. Dovevo occuparmi delle luci ma ero terrorizzato che qualcuno dicesse parolacce, che la scambiassero per un comico travestito e le dessero una manata. Non so come siamo sopravvissuti». 

Nel libro parla apertamente di quando faceva uso di droga. "Pippavamo quasi tutti a Milano"...

«Non ho mai assunto eroina, al Giambellino avevo visto morire troppa gente. Ho fatto in modo di fermarmi in anticipo, mai sull'orlo del baratro, ho sempre conosciuto me stesso e i miei limiti. Per un momento fu di moda il popper, una fialetta che credo servisse per rianimare le persone e a noi provocava un riso irrefrenabile. Ricordo una notte in diciotto dentro lo stanzino delle luci, uno sull'altro, incapaci di fermare le risate. Sono cose che puoi fare poche volte e lo stesso accadde con la cocaina. Fu una fase di passaggio che mi aiutò a distinguere». 

Nel libro c'è una straordinaria dichiarazione d'amore a sua moglie Giulia. Cosa ha detto lei?

«Niente. Ma non ci siamo messi lì a parlarne, lei sa come la penso».

E la sua passione per i bambini.

«Sono così. Ho sempre pensato che non avrei avuto figli quando ero giovane, convinto che il mondo sarebbe diventato una merda. Ho azzeccato ma solo in parte. Quando trovi una donna a cui vuoi bene non bastano le tue scelte. Con i miei genitori non ricordo gli abbracci, il trasporto che ho io per i miei figli. Nel prossimo film, Natale all'improvviso di Francesco Patierno, recito con tanti bambini, Frassica e il mago Forest che mi piacciono molto».

"Regalo di Natale" di Avati è arrivato nel momento più difficile della carriera.

«Va contestualizzato. Il personaggio di Eccezzziunale veramente, milanese "al ciento pe ciento" è perfettamente attuale, parla dei migranti africani di oggi, dei leghisti, di chi è così ansioso di integrarsi che diventa razzista verso i simili. Funzionava. Ma mentre Zalone, formidabile, ha saputo amministrare i suoi film, a me ne fecero fare 12 in due anni. 

Poi ci fu il tradimento, le tasse non pagate, i soldi rubati. Una cosa violenta che mi ha sderenato. Il personaggio non l'ho fatto più. È arrivata la chiamata di Avati, che aveva prima chiesto a Banfi ma, con tutto l'affetto, non penso che il film sarebbe stato lo stesso. Viviamo in un'epoca in cui tutto si rivaluta. Banfi è bravo e un uomo buonissimo ma non si può sentire parlare di Tognazzi e Villaggio e Pozzetto e Banfi come fosse lo stesso cinema». 

Dopo questo libro che le viene voglia di fare?

«Vivo il quotidiano, ci sono storie che purtroppo superano le mie. Ma ci tenevo a un finale aperto perché so che mi ricapiterà di incontrare Beppe Viola e Jannacci, mamma e papà e tutti quelli che mi mancano tanto. Ci penso poco al libro, sennò mi commuovo».

·        Diego Dalla Palma.

Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 14 aprile 2022.

Da figlio di pastori a profeta del Made in Italy (come da definizione del “New York Times”), la vita di Diego Dalla Palma è consacrata alla bellezza femminile. Dalla sua postazione speciale, quella di make-up artist, il maestro di stile di fama mondiale  (è stato anche apprezzato costumista e scenografo) ne ha truccate più di tremila fra attrici, cantanti, ma anche donne comuni. In questo modo ha affinato la sua abilità di interagire con loro, confermando nel suo programma “Uniche” (su Rai Premium, dal 15 aprile in seconda serata con la sesta stagione), la capacità di confezionare interviste a donne dello spettacolo e della cultura che si trasformano in autentiche confessioni. 

Per cui, fedele al format di successo, e al suo personaggio - autorevole, schietto e creativo - anche la nostra è stata una chiacchierata a cuore aperto, che ha spaziato dalle riflessioni private ai commenti su alcuni dei personaggi più in vista dello star system, fino ai voti sul look dei nostri politici, senza tralasciare di esaminarne gli eccessi e le dubbie dichiarazioni di qualcuno...

Dalla Palma, chi ci stupirà nella nuova edizione di "Uniche"?

A dire il vero nessuna, perché sono tutte proiettate a essere semplicemente sé stesse. Le confesso che le persone che desiderano stupire a tutti i costi mi fanno passare la voglia di continuare il racconto. 

Invece qualcuna che l'ha delusa, in passato?

Almeno quattro o cinque, ma non mi chieda i nomi. Mi hanno deluso perché venivano per fare il personaggio. Ma ho sbagliato io a incontrarle, perché già immaginavo sarebbe andata così, che fossero costruite. 

Avrà visto il video di Madonna su TikTok. Si è lasciata sopraffare dalla chirurgia?

Sì, si è lasciata prendere la mano, non me l’aspettavo da lei, visto che è un personaggio così anticonvenzionale. Ma il focus dell’anticonvenzionalità dovrebbe essere l’accettazione degli anni che passano. Altrimenti si diventa patetici, come lei.

Invece, le donne dello spettacolo italiano che hanno abusato coi ritocchi?

Parecchie… Valeria Marini porta la bandiera, ma anche Sabrina Ferilli, Maria De Filippi, ritoccata in maniera scioccante. Ci mancherebbe, facciano ciò che vogliono, ma non possono mica pretendere che la gente non si accorga dello scempio compiuto sul loro corpo. In verità mi piacerebbe vedere uomini e donne che combattono il tempo che passa con intelligenza, invece di affidarsi a persone senza scrupoli, e cambiarsi i connotati.

Lei ha mai ceduto al fascino del ritocco?

No! In passato ho avuto problemi coi denti, quindi ho dovuto subire interventi a denti e gengive, a causa di un imbecille che si occupava di immagine, e che mi aveva convinto a subire delle operazioni. Ma ero più giovane. Adesso, il mio unico vezzo è eliminare le macchie di vecchiaia, solo perché sono sgradevoli al tatto. Non mi farei toccare null’altro, in fondo mica si ritorna giovani veramente. 

Che ne pensa delle recenti dichiarazioni di Donatella Rettore, che rivendica il diritto di usare parole come “frocio” e “negro”?

La Rettore è una delle persone più stupide che abbia mai conosciuto. Quindi non mi stupiscono affatto queste affermazioni.

Ma è favorevole al Ddl Zan?

Assolutamente sì. 

Chiara Ferragni è una donna di buon gusto?

È di buon gusto, è intelligente, ma non ha lanciato uno stile che resterà nella storia. Può farlo, ed è ancora in tempo, così da diventare ineguagliabile. Invece ha dato la precedenza al marketing. 

Spettacolo italiano e stile, il podio delle migliori?

Gaia mi piace molto. Così come Levante, e tra le vecchie glorie direi Patty Pravo, chirurgia esclusa. 

Invece le tre peggiori?

Valeria Marini, Tina Cipollari e compagna (Gemma, la “dama” di “Uomini e Donne”, ndr). Ma qui c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Francesca Cipriani, Lory Del Santo, Carmen Russo … ormai caricature di loro stesse.

Politici e stile, assegni i voti. Partiamo da Salvini.

Quattro. 

Giorgia Meloni?

Sei. 

Draghi invece?

Otto, con possibilità di arrivare a dieci. 

Mattarella?

Sette. 

Chiuderei con Berlusconi

Sufficiente... Aggiungo anche un’altra politica, che secondo me ha un potenziale enorme, Marianna Madia (Partito Democratico). È particolarmente stilosa, molto chic. 

Tornando a Berlusconi, che ne pensa del suo “non matrimonio”?

Sono scelte personali, che però non condivido. 

Un politico che intervisterebbe volentieri?

Giorgia Meloni.

Perché?

Premetto che non sono un suo sostenitore, ma ho l’impressione che sia una persona, insieme a Enrico Letta, di una complessità umana particolare. Sono convinto, insomma, che possa trasformarsi in un incontro piacevole. 

E una donna dello spettacolo con cui scambierebbe, con piacere, quattro chiacchiere?

Giovanna Ralli, un’attrice che trovo ancora bellissima ed elegante a più di ottant’anni. E ancora Alice, e poi tra le più giovani, Elodie e Matilde De Angelis. 

Elodie perché la incuriosisce? Il suo stile ultimamente ha fatto discutere...

Mi piace perché ha una sicurezza che nasce da un percorso particolare. Sì, il suo stile è chiaramente dettato da esigenze commerciali. Ma sono convinto che lei sia molto più interessante di quello che mostra. Molte case discografiche sbagliano le loro mosse, convinti che così facciano meglio. Mia Martini, Loredana Bertè, Ornella Vanoni, Fiorella Mannoia, per citarne qualcuna, non hanno mica usato simili espedienti. Ecco, Elodie ha un potenziale considerevole, messo in ombra dal puro marketing. 

Dei Måneskin che ne pensa?

Adorabili, dal look alla voce di Damiano, fino a tutti gli altri componenti della band. I Måneskin sono credibili perché sono sempre sé stessi, con un’immagine ben definita.

Torniamo a gennaio quando ha condotto, sempre su Rai Premium, “Caro Diego”, in cui ha ospitato storie di uomini e donne che avevano smarrito la propria autostima. Ma lei si ama?

Non mi amo, non mi sono mai amato e mai mi amerò. Però mi considero. 

Perché?

Forse perché ho sofferto molto nella vita, mi hanno indebolito in tanti. Sono stato soggetto a violenze fisiche, a bullismo, povertà, alla disperazione, a mancanza di sostegno. Non mi amo anche perché non mi piaccio fisicamente, non mi piace la mia voce. 

Perché sono solo, nonostante le storie d’amore importanti vissute. Non mi amo perché non ho il coraggio di mandare tutto e tutti a quel paese, e dedicarmi alla mia passione per i viaggi. E non mi amo nemmeno per i richiami che subisco dalla tv, tant’è che “Caro Diego” è uno dei programmi che prediligo, che faccio a casa mia, dedicandomi a persone che hanno smarrito sé stesse. Ma anche “Uniche” è un bel percorso, perché mi ritrovo con persone che hanno le mie stesse caratteristiche.

Ha detto di aver subito violenza fisica, bullismo. È riuscito a perdonare chi gliel’ha inflitti?

Per fortuna possiedo il coraggio e il perdono. Non ho perdonato subito, anzi, ho attuato anche delle vendette violente, ma poi ho iniziato a ragionare. E mi sono liberato per me stesso e per loro. A mia volta poi, mi sono dovuto far perdonare. Come diceva Madre Teresa: “Se vogliamo veramente amare, dobbiamo imparare a perdonare”. 

Lei cosa doveva farsi perdonare?

Eh … atti di violenza, tradimenti sessuali, l’impulsività che mi danneggia. 

Non crede di essere troppo severo con sé stesso?

Me lo dicono tutti. 

Perché è così severo?

Perché sono portato a pensare che non valgo niente, che forse aveva ragione chi mi ha deriso, calpestato e umiliato. Io poi sono un ex timido, ho affrontato la timidezza indossando una maschera. Ma sono anche estremamente sincero, così sincero che faccio del male prima di tutto a me stesso. 

Come vorrebbe essere ricordato?

Non succederà, quindi quest’idea neanche mi sfiora. Parliamoci chiaro, sono cadute nel dimenticatoio personalità dello spettacolo e della politica enormi, figuriamoci io. Pensi che giorni fa ho dovuto spiegare a una persona di quarant’anni chi era Anna Magnani! Come siamo ridotti? 

E se invece l’intervistatore fosse lei, come chiuderebbe questa chiacchierata?

Con questa domanda: sei contento di averla realizzata? 

E come risponderebbe?

Sì. Le confesso una cosa: oggi non è stata una giornata facile, sono stanchissimo, ho subito due grandi delusioni, e sono anche di corsa in aeroporto (si sente, ndr). La verità, ero prevenuto su di lei, convinto mi facesse l’ennesima intervista stupida e superficiale.

Quindi ho accettato, ma di malavoglia, ero seccato, infatti avrei voluto liquidarla in 15 minuti, invece ne sono passati? (Cinquanta, ndr). Questo perché, a sorpresa, si è rivelata una donna intelligente, ferma, ma non invadente, e ho apprezzato particolarmente, perché questo ha permesso un confronto sincero, mi ha restituito il buon umore. E non capita spesso... 

·        Diletta Leotta.

Diletta Leotta: «Per trovare l’uomo giusto, devi fare esperienza. Anche sbagliando». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 15 Dicembre 2022.

In un’intervista al settimanale F la bionda conduttrice di DAZN, che ora frequenta il portiere del Newcastle, Loris Karius, ha difeso i suoi frequenti cambi di fidanzato, rivelando di non ascoltare nessuno, nemmeno sua madre

Sbagliando s’impara. O meglio, nel caso di Diletta Leotta, alla fine si trova l’uomo giusto. E pazienza se a qualcuno non stanno bene i frequenti cambi di fidanzato della showgirl siciliana, fresca di approdo a DAZN Canada con le sue prime conduzioni in inglese. «Non trovo giuste le critiche sugli uomini che scelgo di avere accanto - si è sfogata la Leotta al settimanale F - . Sono una passionale e a 31 anni voglio sentirmi libera di lanciarmi nelle relazioni che desidero».

Tradotto: se cambio troppo spesso fidanzato, sono affari miei e non accetto lezioni da nessuno. «Per trovare l’uomo giusto devi fare esperienza, anche sbagliando», ha continuato non a caso la conduttrice che, dopo diverse delusioni amorose, ora sembra aver trovato la serenità accanto a Loris Karius, statuario portiere tedesco del Newcastle, con cui fa coppia fissa da qualche mese. «È la mia vita. Mia madre continua a dirmi di stare attenta, di andarci piano. Ma io non sento nessuno: ci devo sbattere la testa, prima di fermarmi».

Ma per la verità con l’ex numero uno del Liverpool la bionda Diletta non sembra aver (ancora) intenzione di fermarsi: lui infatti vola da lei a Milano appena può e durante la pausa per il Mondiale si sono concessi una vacanza bollente (in tutti i sensi) a Miami, prontamente paparazzata dai settimanali di gossip. In attesa del primo post congiunto che ufficializzi la storia anche via social - per ora i due si sono concessi una IG Story insieme e stop - c’è però stata la prima uscita pubblica a un evento: trattasi della cena di Natale di DAZN, dove la Leotta - fasciata in un abitino nero aderentissimo, con scollatura mozzafiato - si è presentata proprio con Karius.

·        Diodato.

“Il regalo più grande che può farti la vita”. Diodato è diventato papà? La verità dietro lo scatto pubblicato dal cantante di “fai rumore”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Agosto 2022 

Scrollando la home di Instagram è capitata una particolare foto che ritrae Diodato con in braccio un bambino. “Che il regalo più grande che può farti la vita è quello di riuscire a dare e ricevere amore. E io mi sento fortunato ad averne così tanto intorno a me, grato per quello che mi porto dentro. Con questa foto di puro amore volevo dirvi grazie per i messaggi splendidi, per aver reso questo giorno speciale. Vi voglio bene. Ci abbracciamo presto”, ha scritto il cantante nel post.

Il suo compleanno è stato il 30 agosto e con il post ringrazia tutti per l’affetto e gli auguri. Lo fa con lo speciale post in cui lo si vede con in braccio un bambino. Molti follower sono sobbalzati: Diodato ha un figlio? La risposta è no, si tratta del nipote a cui è molto legato. “Che splendore”, scrive Greta Zuccoli la sua attuale fidanzata.

Dopo la storia con Levante, diventata mamma da poco, Diodato si è legato a Greta Zuccoli, un’altra sua collega, napoletana. Come riporta Io Donna, i due si sono innamorati sul palco nell’estate del 2020: lui l’aveva scelta come vocalist per il suo tour. “Mi sono innamorato della tua voce la sera di un anno fa, mentre ascoltavo la radio, da solo, in macchina, tornando a casa, nella mia Taranto”, ha scritto lui sui social. “Poi, la scorsa estate, ho avuto modo di capire che dietro quella voce c’era un’anima rara, un’artista vera”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Storie d'amore (ipotetiche) a Sanremo. Chi è la nuova fidanzata di Diodato, i gossip su Greta Zuccoli e la storia finita con Levante. Elena Del Mastro su Il Riformista il 2 Marzo 2021 

Diodato, vincitore dell’edizione 2020 di Sanremo, apre la prima serata del Festival della Canzone. Artista dalla grande sensibilità, ha sempre tenuto la sua vita privata lontano dai riflettori. L’anno scorso fece molto chiacchierare, e un po’ anche sognare, la scoperta della sua storia d’amore con un’altra cantante in gara a Sanremo, Levante.

Si disse che “Fai rumore”, il brano con cui si aggiudicò il premio, fosse dedicata proprio a Levante. Peccato che la loro storia era finita da poco. I due sono stati insieme dal 2017, dopo la separazione della cantautrice dal suo ex marito Simone Cogo. Poi Diodato smentì: “No, ‘Fai Rumore’ non è dedicata a Levante. Nel nuovo album ‘Che Vita Meravigliosa’ c’è un altro pezzo legato a quell’esperienza e si intitola ‘Quello che mi manca di te’”, disse in un’intervista a Quotidiano.net. Intanto piacque a tutti l’idea della storia d’amore tra i due cantanti.

Quest’anno su Diodato si sono già sparsi dei rumors, che attualmente restano tali, senza alcuna conferma. Ma Sanremo, si sa, fa anche sognare tra intrighi e storie d’amore ipotetiche. Questa volta a catturare l’attenzione di Diodato sarebbe un’altra cantante, tra le voci giovani. Si tratterebbe di Greta Zuccoli, 21 anni, napoletana. All’Ariston canta “Ogni cosa sa di te”. Timida e riservata, la sua bellissima voce non è passata inosservata a cantanti come Damien Rice e appunto Diodato che l’ha voluta con se come vocalist nel tour estivo.

Diodato ha notato il suo talento e ha voluto duettare con lei in più occasioni. Il risultato è stato magico e molto intenso e per questo motivo alcuni fan hanno cominciato a immaginare, e forse sperare, che tra i due ci sia del tenero. In molti sui social hanno immortalato il trasporto tra gli sguardi dei due. Quando Greta ha partecipato ad AmaSanremo per classificarsi tra i partecipanti di Sanremo Giovani 2021, Diodato ha fatto il tifo per lei e ha invitato tutti i suoi fan a votarla. Un grande segno di stima artistica. C’è anche chi nota una certa somiglianza tra Levante e Greta.

Tra i due il connubio potrebbe essere solo artistico e in quel caso comunque sarebbe riuscitissimo. “Concerti di meraviglia, bellezza e pura sincerità”, ha scritto su Instagram descrivendo le emozioni delle esibizioni con Diodato. E ancora: “Parlando un po’ in quei giorni, abbiamo scoperto di avere tanti ascolti in comune, ed abbiamo poi deciso di cantarla in occasione del suo tour nei ‘Concerti di un’altra estate’. È stato molto emozionante ritrovarsi dopo tanto tempo su un palco e poterla cantare insieme, in quella dimensione un po’ ‘fuori dal tempo’.”

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

·        Dita von Teese.

Dita von Teese, la regina del burlesque compie 50 anni. Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022.

Dal ballo ai segreti di bellezza, tutto quello che c’è da sapere sulla performer americana che ha riportato in auge il burlesque nei primi anni 2000

Origini

Heather Renée Sweet nasce il 28 settembre 1972 a Rochester in Michigan, da madre estetista e padre operaio. Quando ha dodici anni si trasferisce con la famiglia in California e inizia a mostrare un profondo amore per l’estetica della vecchia Hollywood anni ’40.

Pizzi e merletti

Da bambina pratica danza classica e sogna di diventare una ballerina. A quindici anni trova lavoro in un negozio di biancheria intima e decide di seguire un percorso di studi dedicato alla moda, soprattutto a quella vintage, per diventare costumista.

Danza

A diciannove anni viene ingaggiata per il suo primo lavoro in uno strip club, dove porta sul palco un primo abbozzo di ciò che diventeranno i suoi magnifici spettacoli di burlesque, retrò e sempre ispirati all’estetica degli anni ’40, cara a Von Teese dentro e fuori dalla performance.

Look

I capelli corvini di Dita Von Teese sono ormai un marchio di fabbrica, ma il loro colore naturale è in realtà biondo. L’artista ha scelto il nero intenso per capelli e sopracciglia come look prediletto ispirandosi alle più famose attrici del cinema muto, come ad esempio Dita Parlo, da cui prende anche il nome d’arte. Il suo famoso neo sullo zigomo sinistro fu invece tatuato quando Dita aveva 18 anni.

Matrimonio

Tra le relazioni sentimentali più celebri di Von Teese c’è quella con il musicista Marilyn Manson, durata dal 2000 al 2007. La coppia si sposò nel 2005 con una cerimonia gotica monumentale in un castello irlandese e avevano come officiante il regista visionario Alejandro Jodorowsky.

Un muro di scarpe

Nella sua casa di Los Angeles, Dita Von Teese ha un’intera stanza dedicata alle scarpe. La cosa non sorprende, dato che uno dei suoi più cari amici è Christian Louboutin, che personalizza e cura tutte le calzature che Dita utilizza nei suoi spettacoli.

·        Ditonellapiaga.

Ditonellapiaga: "Dopo la 'Chimica' di Sanremo torno con il 'Disco' per l'estate". Carlo Moretti su La Repubblica il 24 giugno 2022.   

Esce il singolo della cantante rivelazione del Festival al fianco di Donatella Rettore, che sarà ospite della rassegna Musicultura. Un omaggio al funky e alla cultura black di ieri e di oggi

Quattro mesi dopo il Festival che gli ha letteralmente ribaltato la vita, torna Ditonellapiaga, alias la romana Margherita Carducci, e riparte proprio dalle sonorità di Chimica, il suo brano sanremese. Il secondo step nella direzione della dance si intitola proprio Disco (I love it). E anche se il tema, un amore che si interrompe proprio in vista delle vacanze, non sembrerebbe autorizzare tanta felicità e voglia di vivere, il brano unisce la leggerezza dell'estate alla voglia di ballare. Margherita riesce così nel miracolo di girare in positivo un momento no. ne parliamo in attesa della partenza a luglio del tour estivo dell'album Camouflage e della partecipazione a una serie di rassegne tra le quali Musicultura il 24 giugno, il Flowers festival il 13 luglio a Torino, il Pinewood Festival il 15 luglio a L'Aquila e Spring Attitude il 16 settembre a Roma.

Con "Disco (I love it)" torna alla dance di 'Chimica'.

"Sì, anche se per il suo contenuto forse Chimica aveva un'esigenza più dirompente. Disco come sound è meno aggressiva, molto più leggera e funky. Con questo pezzo resta il riferimento alla dance, che non volevo perdere: la intendo un po' come un secondo step, però con riferimenti più contemporanei, in linea con quanto accade in America, con lo stile e il suono di Doja Cat, di Kali Uchis: sono figure che mi interessano molto. Insomma, questo nuovo brano è un mix tra quello che avevo fatto a Sanremo e ciò che mi piace ascoltare in questo periodo". 

Sta lavorando all'album?

"Con molta calma perché in questi mesi, dopo Sanremo, non ho praticamente più vissuto. Mi aspetta un tour molto lungo durante il quale farò delle pause di scrittura e poi l'anno prossimo voglio concentrarmi soltanto su quello. Dopo Sanremo, soprattutto per me che non avevo idea di questi ritmi, per la creazione non c'era più spazio. Ho anche bisogno di vivere esperienze da raccontare".  

La dance potrà essere la direzione generale del prossimo album?

"Non so, è presto per dirlo. I genere però a me piace molto fare cose diverse, e anche se la dance in questo periodo mi piace parecchio, voglio continuare a esplorare. Nel disco vorrei spaziare tra i generi".

Il tema della nuova canzone è tipicamente estivo: lui lascia lei prima dell'estate, lei reagisce e invece di deprimersi si riprende la sua vita.

"Sì, il tema non è proprio una narrazione rivoluzionaria. Dopo tanti dubbi sul testo, questa storia mi è venuto di raccontarla così, e anche se non è autobiografica penso sia una storia condivisibile: l'hanno vissuta due mie amiche, sono storie che succedono. Mi sono però concentrata più sulle sonorità, sul modo di raccontare, più che sulla sostanza".

Nel brano tornano oggetti, parole, gesti tipici degli anni Novanta: la Panda bianca, la frase "mettimi un disco" tipica delle radio private o dei dj, non proprio frasi da generazione Z.

"Credo che i riferimenti del testo al passato servissero per sostenere la cornice sonora. E comunque ho la sensazione che il mio pubblico sia decisamente maggiorenne e che difficilmente scenda sotto ai 18 anni. In generale penso che i miei riferimenti culturali arrivino prevalentemente dal passato anche se crescendo, durante l'università, ho cominciato ascolti contemporanei. Durante il liceo, invece, sulla musica ero snob, tendevo a criticare i suoni di moda, del resto in quel periodo si ascoltava David Guetta e la dance tamarra. Per questo mi sono rifugiata nella musica del passato che scoprivo da sola e condividevo con i miei amici, che facevano musica anche loro. Era un atteggiamento da boomer, tipo: 'la musica di adesso fa schifo', che poi non è mai vero in assoluto".

Quali sono gli artisti a cui lei fa riferimento per il funky?

"Le Sister Sledge, Kool and the Gang, e poi gli Earth, Wind and Fire, dei geni assoluti, sono davvero incredibili. Senza dimenticare i Jackson 5. E' comunque tutta musica che appartiene alla cultura black".

Tutta musica suonata e in controtendenza rispetto a quello che accade oggi, con la produzione prevalentemente elettronica.

"In realtà, ora viviamo una fase un po' ibrida. Per quanto mi riguarda, dopo un disco completamente prodotto con computer e synth, sentivo la necessità di tornare alla musica suonata in cui l'uso dell'elettronica è ridotto all'essenziale".

Si parla già del prossimo Sanrermo, lei ci tornerebbe?

"Sì, al 100 per cento. Anche perché il Festival per me è stata un trampolino di lancio, ha fatto la mia fortuna, a questa esperienza mi lega anche tutta la fiducia riposta in me come emergente. E però, allo stesso tempo, avendo consapevolezza dell'impegno che richiede per 5 mesi consecutivi, penso sia giusto andarci con un pezzo di cui si è molto convinti ma anche con un disco da veicolare. Andarci solo con un brano è poco proficuo".

Lei come compone?

"Scrivo melodie e testi, a volte da sola, altre invece per comporre mi affianco ai miei musicisti in studio. Non suono nessuno strumento, faccio tutto a orecchio. Spesso parto dai suoni che mi ispirano un tema, o un testo. Tutto è fonte di ispirazione. Chimica è nata con due autori di Sony, ma io faccio fatica a scrivere di fronte agli altri, mi sento osservata, penso di avere i pensieri visibili, quindi l'ho scritta isolandomi in bagno. Disco (I love it) è nata invece due anni fa, da sola, ascoltando un beat su Youtube: all'epoca non l'avevo registrato, fortunatamente sono riuscita a ritrovarlo".

In copertina c'è lei che mangia un gelato, sulla maglietta si nota una scritta in inglese molto esplicita.

"La malizia è nell'occhio di chi guarda: in realtà sulla maglietta c'è scritto shut up, solo che up non si vede e il mio braccio copre l'acca, dunque sembra ci sia scritto slut. È vero che si può pensare così, ma ce ne siamo accorti soltanto dopo. Non volevo fare una copertina soft porn ma è risultata così, molto catchy. Però, quello resta un gelato e sulla maglietta c'è scritto shut up".

·        Dominique Sanda.

Dominique Sanda: «Ero inquieta e ribelle, ora vivo in Uruguay su una spiaggia». Paolo Baldini su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022.

L’attrice francese, resa celebre da Bertolucci e De Sica, ha 70 anni e da oltre venti abita «in un villaggio bianco steso lungo la riva e battuto dalle onde dell’oceano». «Il vostro Vittorio, bello e carismatico, era un amico speciale» 

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di «7» in edicola il 28 gennaio. Lo proponiamo online per i lettori di Corriere.it

Il racconto comincia a Parigi, in un 1967 pieno di luce e di promesse. Un incontro al telefono: una fotomodella di 16 anni e un regista affermato, Robert Bresson, «un cercatore di anime». Lui trova interessante la voce emozionata di lei e la vuole conoscere. Resta incantato dai suoi occhi grigio-azzurri. Lei, due anni dopo, diviene la protagonista di Così bella, così dolce, la ragazza triste del banco dei pegni, la femme douce del romanzo di Dostoevskij La mite. Da allora sono passati più di 50 anni, ma quella luce non si è mai spenta. Negli occhi azzurro-grigi di Dominique Sanda sono passate le ambiguità di Anna Quadri che Bernardo Bertolucci scavò dalle pagine del Conformista di Alberto Moravia, i tormenti della pallida Micol nel Giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, la forza di Irene in L’eredità Ferramonti di Luigi Bolognini che le valse il premio per la miglior attrice a Cannes, la sensualità di Lou-Andreas Salomé di Al di là del bene e del male di Liliana Cavani, la fierezza di Ada, la femme fatale di Novecento che alla domanda di Alfredo-De Niro, «Chi sei?», risponde: «Sono Ada e voglio una sigaretta».

«I TRADIMENTI? PIOMBO CHE TRASFORMO IN ORO»

Ha lavorato con registi come John Huston, John Frankenheimer, Michel Deville, Jacques Demy, Benoît Jacquot, Lina Wertmüller, Dino Risi, Mathieu Kassovitz per I fiumi di porpora. E poi, Luchino Visconti. «Ah, Luchino! Lui mi voleva nel film che ha progettato per tutta la vita e che è rimasto un sogno incompiuto, da Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Per lui ero la duchessa di Guermantes. Ci fece conoscere Helmut Berger. Siamo diventati amici. Frequentavo la sua casa di Roma, in via Salaria, con intellettuali e cineasti. Più tardi mi volle per il ruolo della madre del protagonista di Gruppo di famiglia in un interno. Era già malato, costretto sulla sedia a rotelle. “Ma la testa funziona sempre”, mi rassicurava quando mi vedeva preoccupata per lui».

Da Parigi all’Uruguay

Dominique Marie-Françoise Renée Varaigne, in arte Dominique Sanda, vive da oltre vent’anni in Uruguay, in una tenuta sul mare a Faro José Ignacio, 180 chilometri a est di Montevideo. L’ex adolescente di buona famiglia cresciuta tra l’aristocratico appartamento del VII arrondissement e la fattoria in campagna dove il padre, ingegnere, amava appartarsi, descrive così il suo buen retiro: «Un faro a picco sull’oceano e un piccolo villaggio bianco steso sulla spiaggia. Un grande giardino con l’orto e gli animali, cani e uccelli, decine di alberi. Sono di origini bretoni. Le onde alte dell’Atlantico fanno parte della mia esistenza. La natura è sempre stata la mia passione. Alla fine degli Anni Ottanta sono arrivata per la prima volta in Argentina. Dovevo girare Guerreros y cautivas, dal romanzo di Borges. Buenos Aires divenne la mia città ideale. Nel ‘98 sono tornata per Garage Olimpo, ho conosciuto il mio futuro marito, il filosofo romeno Nicolae Cutzarida, e mi sono trasferita».

La solitudine

Fa una pausa e riprende: «Ho bisogno di bellezza intorno a me. Faro José Ignacio è una lingua di terra sull’Oceano, con venti impetuosi e improvvisi sbalzi climatici. Un luogo che corrisponde al mio modo di essere. Sono un’anima in viaggio. Senza frontiere. Una cittadina del mondo. Cerco di mantenere un equilibrio: faccio yoga e coltivo lo spirito. L’opposto delle donne inquiete che ho interpretato. Un tempo ero una ribelle, cercavo indipendenza, diventare fotomodella poteva essere una soluzione. A 15 anni avevo un ragazzo. Ma i miei genitori erano diffidenti. Temevano per me, volevano proteggermi. “O tronchi la relazione o ti sposi”, mi dissero. Mi sposai, andai via di casa, in breve divorziai. So cosa vuol dire stare soli, so difendermi. C’è un libro di Marguerite Yourcenar che amo molto, Ad occhi aperti. Dice che chi conosce presto la solitudine la comprende meglio degli altri. I solitari hanno una capacità di ascolto superiore, e più sensibilità. Viaggio anche quando sto ferma. Ho molta immaginazione. Mi fanno compagnia le mie idee e il ricordo delle persone che ho conosciuto e che non ci sono più. O sono lontane. Vivo nel presente, ma mi rendo conto di avere a disposizione un ricco passato. Per questo, ogni tanto è magnifico impegnarsi in un film interessante e così riattraversare il mondo vivace, caotico, vitale del set».

Tre mariti, un figlio, due nipoti

Mezzo secolo di cinema e teatro, un figlio, Yann, avuto con Christian Marquand che l’ha resa due volte nonna, tre mariti. Dominique è la protagonista di Il paradiso del pavone di Laura Bispuri con Alba Rohrwacher e Maya Sansa: presentato a Venezia 2021, uscirà in primavera. Interpreta Nena, una donna avanti con l’età «che vive la libertà d’amare, in fondo una vera rivoluzionaria». Al Festival di Torino nello scorso dicembre è invece stato presentato il docu-film della regista Rä di Martino Il giardino che non c’è, dedicato ai Finzi Contini, soggetto di Noa Karavan Cohen. «E adesso mi aspettano altri due progetti: in primavera inizierò le riprese di un film di Paolo Franchi, in autunno sarò sul set per la nuova regia di Edoardo Winspeare. Entrambi sono affreschi familiari, con una madre “importante” al centro della storia. Sono le parti che mi spettano in questa fase della mia vita. Una stagione bellissima in cui posso vivere i personaggi in profondità. Non tento di fermare il tempo che passa: non vorrei mai guardarmi allo specchio e non riconoscermi. Il mio intento è di percorrere con grazia ogni età». Aggiunge: «Vedermi oggi sullo schermo non mi dispiace. A 70 anni il primo piano non mi fa paura. Mi osservo con indulgenza». Ricorda che per ogni film ha sempre avuto bisogno di sentirsi autentica, di vivere le emozioni dei suoi personaggi, e che per questo forse i registi l’hanno amata così tanto.

Perché mancò «Ultimo tango a Parigi»

Racconta di non avere conti in sospeso. Doveva essere la protagonista di Ultimo tango a Parigi con Jean-Louis Trintignant. Bertolucci li voleva di nuovo insieme dopo Il conformista. «L’ideazione del film era molto avanti. Ma Trintignant si tirò indietro, non se la sentiva. Io ero incinta di mio figlio. Siamo scappati tutti e due». Alla luce di tutto quello che è successo dopo, la censura, il rogo, la riabilitazione, non lo considera un rimpianto. «Del resto, se i protagonisti fossimo stati io e Jean-Louis sarebbe stato un film diverso. Molto diverso».

L’uomo del destino: Bresson

Sostiene che Bresson è stato per lei l’uomo del destino. «Il nostro incontro è stato casuale. Ero entrata in contatto con la produzione di un film francese di cui avrebbe dovuto essere protagonista Marcello Mastroianni. Feci un colloquio negli studi di Boulogne-Billancourt. La cosa non andò in porto. Ma il mio nome restò in agenda e fu proposto all’assistente di Bresson, Jacques Kebadian, che cercava attori non professionisti. Robert era esigente, puntiglioso, spirituale. Ma questo non mi pesava. Quell’uomo mi stava aprendo le porte del cinema, la possibilità di scegliere l’arte». Nonostante ferite e sconfitte, spiega di non avere mai avuto la tentazione di dire basta. «Ho cercato prima di tutto di vivere la mia vita di donna, una donna che fa l’attrice. Il mio lavoro è una terapia, una cura. Vivere bene il quotidiano di donna mi fa essere un’attrice migliore». Confessa di aver subito tradimenti e inganni. «Ma non perdo tempo su questo. Vado avanti. Mi piace definirmi un’alchimista che trasforma il piombo in oro». Con Vittorio De Sica, spiega, ha vissuto un’amicizia speciale. «Ho qualche foto insieme a lui. Si vede che siamo felici. Il set de Il giardino dei Finzi Contini lo ricordo come una grande famiglia. Lui era bello, simpatico, aveva carisma. Fu la moglie, Maria Mercader, a indicarmi per il ruolo di Micol. Il rapporto con le donne, essere accettata e amata da loro, ha segnato la mia vita. Sento la sorellanza, comunico meglio. Mi dà felicità sapere che una donna mi apprezza e me lo dimostra. Mi è sempre pesato il contrario, invece».

Il capolavoro «Novecento»

Sul set di Novecento si creò una magia particolare, ricorda. «Conoscevo Bertolucci e tutti i suoi tecnici dai tempi de Il conformista. E il cast era formidabile: Robert De Niro, Gerard Depardieu, Donald Sutherland, Sterling Hayden, Stefania Sandrelli. Tutti al meglio delle loro possibilità. Vede, durante la lavorazione di un film cerco sempre la collaborazione di attori e troupe. Ho bisogno di comunicare con le persone che sono intorno a me, di sentirli vicini. Ho bisogno di loro e glielo faccio sapere. Dalla mattina al trucco fino alla fine delle riprese, giorno dopo giorno. È così che si possono affrontare anche le scene più crude, i momenti più difficili. La sequenza nel fienile con Robert De Niro è un esempio. Gli attori di talento trovano sempre il modo di far funzionare situazioni e personaggi. In quel momento però non ci sono Dominique e Bob, ma Ada e Alfredo. Sì, tra noi tutti c’era un’atmosfera magnifica. C’era la consapevolezza dell’opera d’arte che stavamo realizzando».

·        Don Backy.

Edoardo Semmola per corriere.it il 22 marzo 2022.

«A cinque anni un giovane dottore di un piccolo paese del salernitano, Siani, mi infilò una forbice nel naso fino al cervello. Senza anestesia. “Sta uscendo una secchiata di roba” disse mio padre. Quella “roba” era nella mia testa. Stavo per andare in setticemia e morire. Il dottore disse: il ragazzo se campa, campa, sennò pazienza. Ora ho 82 anni». 

Che abbia avuto una vita movimentata, Don Backy, lo sapevamo. Ma fino a questo punto…

«Ero caduto da un muretto e avevo battuto la testa, per una settimana non se ne era curato nessuno. La testa si gonfiò, mi riempii di pus, la febbre a 41. In casa nostra c’erano i tedeschi, siamo durante l’occupazione. E incontrammo questo dottorino a Pecorari, vicino Castellammare, che mi visitò e poi disse a mio padre: se domani è ancora vivo me lo porti a Siani e vedrò cosa posso fare. Distava 7 chilometri. Prendemmo il carretto, l’asino…». 

Cosa è successo?

«Lungo la strada incrociammo un drappello di nazisti in fuga. Ci sequestrarono il carretto, e pure l’asino. Mio padre dovette portarmi a Siani sulle spalle, a piedi». 

È sopravvissuto. Ed è diventato uno dei maggiori interpreti della musica italiana fin dagli anni Sessanta. La guerra ha rischiato di privarci di Don Backy.

«All’epoca ero Aldo Caponi. Ma quella non fu l’unica volta che la guerra ha provato a portarmi via. L’ho passata tutta fra Castellammare e Salerno, la crisi delle concerie di Santa Croce sull’Arno aveva portato mio padre a fare l’emigrante al contrario. Ero un bambino irrequieto e dopo la fine dei combattimenti andavo nella discarica vicino casa dove i camion portavano i resti delle macerie dei paesi bombardati. Noi bambini cercavamo i giocattoli lì».

Ne ha trovati?

«Sì, una specie di ananas di ferro, non capivo cosa fosse. Con una linguetta penzolante, la staccai». 

Oh santo cielo, una granata?

«Ma dopo pochi secondi mi aveva già annoiato. Pensai: non è granché come giocattolo. L’ho gettato a 5-6 metri. Esplose. Mi risvegliai con una scheggia nel braccio, a pochi centimetri dal cuore. E ho perso parte del muscolo». 

Lei ancora oggi vive a Santa Croce sull’Arno, il paese dei conciaioli.

«Avevo 15 anni quando ci siamo tornati. I primi tempi furono terribili, non riuscivo ad abituarmi a una città senza luce, senza sole né mare. Giù avevo lasciato la prima fidanzatina, fu un gran trauma. A Santa Croce c’era solo puzzo di concerie, scarichi e melma nei fossi. Ci ho messo 6 mesi a uscire di casa. Finché un giorno al bar mi sono “imbrancato” coi ragazzi».

E ha scoperto la musica?

«È successo nel 1957 tutto per colpa del film Senza tregua il rock’n’roll. Mi fece capire in che direzione sarebbe andata la mia vita e ogni sabato andavamo a sentire un complesso al dancing La Sirenetta di Castelfranco di Sotto, i Golden Boys, poi ribattezzati Kiss. Iper-moderni, suonavano anche per gli americani di Camp Darby. Là abbiamo scoperto il magico mondo del jukebox, che a Santa Croce non si erano mai visti: Paul Anka e Frankie Avalon, Tutti Frutti e Be-Bop-a-Lula. Impazzivamo». 

Iniziò anche lei a esibirsi?

«Con i Kiss. Le ragazzette abboccavano se stavi sul palco. Dentro di me sapevo di essere destinato alle concerie come tutti, pensavo che avrei messo su un capannone con un amico». 

Il successo era ancora lontano.

«Nel 1960 a Roma, con un’accolita di pazzi sognatori, ebbi una grandissima delusione alla Manhattan Records di Tito Schipa. Mi ero portato due pezzi rock scritti da me, Oh Yeah e The Rock, ma ci dissero che non potevamo cantare le nostre canzoni, solo quelle che dicevano loro. Ci dettero dei brani melensi che mi distrussero. Non avevo lo spirito giusto. Fu un disastro». 

Ma a forza di provare…

«La via del successo è arrivata attraverso una disavventura che si è trasformata in fortuna. La disavventura di quello che è tutt’ora il mio amico del cuore, Franco, che si innamorò di una ragazza del paese ma i genitori non volevano, così scapparono di casa. 

Quel giorno al bar Renata, dove finalmente era arrivato anche il jukebox, il primo di tutta Santa Croce, vedo il figlio di Renata che cambiando i dischi stava levando uno dei brani che io e Franco cantavamo sempre, Tom Dooley del Kingston Trio. No — gli dissi — lascialo. Ma lui: nessuno lo gettona. 

E io: e dai, lo gettono io. Metto la moneta e arriva l’illuminazione: la canzone era molto simile alla storia di Franco, corsi a casa e presi la mia chitarrina da 6 mila lire comprata a Pisa. Sapevo fare tre accordi, gli stessi ancora oggi… e in una notte nacque La storia di Frankie Ballan. Gli cambiai nome per non creare guai al povero Franco». 

Ha portato bene, nel Clan di Celentano?

«Per uno strano gioco del destino, andai a registrarla a Torino. Poi mia sorella una mattina mi disse che sul treno da Pisa aveva letto su una rivista che Celentano cercava nuovi cantanti per la sua casa discografica. “Scrivigli”, mi dice. “Ma figurati se quello piglia me?” rispondo». 

Aveva ragione lei.

«Misi nella busta anche una copia del Musichiere dove si parlava di me e il disco di Frankie Ballan. Due settimane dopo arriva una raccomandata. Mittente: Alessandro Celentano, il fratello. Mi sono girato la busta tra le mani per un’ora, nervoso. Era la mia ultima chance». 

Perché l’ultima?

«Mio padre mi aveva dato un aut-aut: o ti va bene questa o vai in conceria. Invece mi stavano invitando a Milano. A casa di Adriano mi ritrovai in mezzo alla riunione in cui… stavano costituendo il Clan. C’erano Ricky Gianco, Guidone, Milena Cantù, Detto Mariano».

Al momento giusto…

«Adriano voleva chiamare l’etichetta “Carramba” ma il proprietario della Jolly, con cui aveva rotto in malo modo, e che l’aveva saputo, si era precipitato a depositare il nome così da potergli fare causa. Ma Adriano a sua volta aveva saputo che lui sapeva e cambiò il nome in corsa: il Clan. 

Mi fiondo là dentro che sembro un profugo, davanti a Celentano, che era un idolo. Mi fa: “ué ciao come stai?” e mi accorgo che stava suonando la mia Frankie Ballan. “Mi piace molto – prosegue – ti volevo chiedere se me la potevi dare”. Figurati, nemmeno per sogno, la canzone è mia. “

Allora fammi sentire come la canti”. Tremavo tutto e la cantai malissimo. Con una voce che sembrava un filo di lana uscito dalle grinfie di un gatto. Ecco – pensai – mi sono giocato il futuro. Invece Adriano mi mise una mano sulla spalla: “Ué da oggi sei uno dei nostri”. Era il mio primo giorno a Milano, ed ero entrato nel Clan». 

È rimasto lì?

«Tornai a Santa Croce, a guardare il soffitto in preda all’ansia per due settimane, senza mangiare, con la paura che mi avessero preso in giro. Un giorno arriva a casa mia tutto trafelato in bici il figlio di Renata, Mauro. Il loro bar era il centralino del paese: “Oh Aldo, oh Aldo, vieni che tra 5 minuti ti chiamano”. Alla cornetta era Adriano: “Hai preparato la valigia? Parti subito”». 

E le hanno dato il nome d’arte, Don Backy.

«Ad Adriano non piaceva il nome Aldo Caponi, “non è musicale”. Nemmeno il soprannome Agaton che usavo per suonare nei Kiss. Voleva che mi chiamassi Cocco Bacillo. Cocco per via dello sceriffo di Jacovitti, perché cantavo ballate western. Bacillo perché starnutivo sempre. Rilanciai con “Daniele Baci” perché le ragazze mi avrebbero riempito di baci. Americanizzato in Dan Baci. Ma per omaggiare Don Gibson che cantava I can t Stop Loving You e Don Everly degli Everly Brothers, cambiai in Don Baci. Adriano ci aggiunse la kappa per farlo più “americano”. Il mio nome è nato tra lazzi e frizzi». 

A Celentano piaceva lo stile western…

«Ricordate Il ragazzo della via Gluck? Una ballata con l’inizio uguale alla mia Frankie Ballan». 

Ma non fu per questo che litigaste.

«Le frizioni c’erano già dal ‘65 ma nel ‘68 esplosero con fragore: non mi pagavano quanto mi spettava di diritti d’autore, ma solo un decimo. Adriano licenziò tutti, dal fratello all’impiegato, assunse altra gente tra cui lo zio della moglie e le cose andarono anche peggio. Quando andai a Sanremo con L’Immensità avevo il contratto in scadenza, e sbagliai a dirgli che me ne sarei andato». 

Però, tutto sommato, anche la seconda parte della sua vita è stata ricca di soddisfazioni.

«Ho scritto libri, girato film, ho fatto teatro, ho disegnato fumetti. Se fossi rimasto nel Clan magari non avrei fatto niente di tutto questo». 

Anche la vita privata, in quell’anno di rottura, è stata importante.

«Io e mia moglie stiamo ancora insieme da allora. Mio figlio Emiliano ha 53 anni e ha un negozio di sigarette elettroniche. Per fortuna non ha fatto il cantante: pensiamo ai figli dei Pooh, di Albano, di De André, quando hai l’ombra del babbo addosso spesso è un problema. E poi mio figlio è parecchio stonato, non avrebbe potuto cantare. Somiglia alla mamma».

·        Drusilla Foer.

Drusilla Foer: «Piena di corteggiatori. Ornella Vanoni prova le canzoni al telefono con me. Il mio marito scomparso? È tutto quello che avrei voluto avere». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022

L’attrice e cantante si racconta: sono vecchia e rompiballe, ma mi invitano tutti. Il privilegio è tale se puoi farne a meno, altrimenti è un bisogno

Madame Drusilla Foer, ha saputo?

«Che cosa?»

Nel 2022 lei è stata il personaggio cercato con maggiore frequenza su Google dopo Putin.

«Ma non è giusto!»

E perché?

«Perché io le cavolate le dico meglio».

Di certo, lei è più elegante.

«Almeno quello».

Ma perché la cercano così tanto online?

«Dopo Sanremo mi hanno cercato un sacco. Forse perché dico quello che penso senza essere aggressiva. O perché non dico mai “assolutamente sì” e “assolutamente no”, ma preferisco dire “io penso”, “secondo me”. In ogni caso penso che sia un bene che un personaggio che è diventato famoso anche per un discorso (quello sanremese, ndr) sull’unicità, cioè sull’importanza di accettarsi e essere sé stessi, sia accanto a Putin nelle ricerche di Internet. Vuol dire che c’è bisogno anche di umanità e tolleranza».

Però lei sa essere anche perfida.

«Diciamo che faccio a pezzi l’ordinario».

E la chiamano dappertutto: in teatro, in tv, nei salotti.

«Questo non me lo spiego: ovunque io vada finisco sempre per fare dei pipponi. Mi hanno chiamato a partecipare a una serata di Valentino e li ho ammorbati con una roba sull’essere autentici. Non capisco che cosa ci trovino in me».

Dal 12 dicembre lei torna su Rai 2 nel preserale con «L’Almanacco del giorno dopo».

«Sapesse quanti martiri ho fatto tra gli autori. Sono una donna insopportabile perché mi accanisco a studiare. Ma ho voluto tante rubriche, momenti di divulgazione e poi tanti santi».

Qual è il suo santo preferito?

«San Cristoforo, quello che si carica Gesù sulle spalle per trasportarlo al di là dal fiume. Ma amo anche San Sebastiano, poverino: trafitto dalle frecce si salvò perché i centurioni suoi amici non lo colpirono nelle parti vitali, ma capirai che dolore. Poi l’imperatore gli tagliò la testa».

E lei se fosse santa che cosa eliminerebbe?

«Tutte le parole che finiscono con -ismo. Buonismo, fascismo, comunismo».

Flaiano diceva: «Non sono comunista, non posso permettermelo».

«Ma è da un trentennio che c’è l’aristo-sinistra, dai. Io però non coltivavo le mie radici aristocratiche, piuttosto da ragazza sognavo di diventare una di quelle donnine sexy raffigurate nell’ultima pagina di Diabolik».

Ci è andata alla Prima della Scala?

«No, per carità. Alla Prima della Scala ti devi bardare e poi devi dire qualcosa, parlare. Non puoi andare e goderti la musica e basta. Sai che cosa dovremmo fare? Entrare bardati, farci fotografare e poi uscire subito per andare a cena».

Con chi va a cena lei?

«Con gli amici. Tipo Ornella Vanoni. Una sera mi telefonò. Il giorno dopo doveva cantare una canzone di Dalla, Chissà se lo sai, una delle mie preferite. Me la volle cantare al telefono e mi chiese di fare il ritornello, per allenarsi».

Quando è nata, artisticamente, Drusilla?

«Grazie a persone come Franco Godi, produttore, arrangiatore, artista poliedrico. Mi ha seguito sin dai primi video, nel 2011, poi a teatro, nei concerti. Lo sa che l’anno prossimo uscirà un mio disco? Con brani scritti per me da Donaggio, Pacifico e tanti altri».

Ha esordito tardi, da quasi anziana.

«Vecchia, prego, vecchia. Ho un’età che va dai quaranta ai settanta, sono ormai con un piede nella fossa e chisseneimporta se un concerto o una comparsata a Sanremo vanno male. È questo il regalo che ti fa la vecchiaia: male che vada il giorno dopo smetti di mettere le ciglia finte».

E la lezione più utile?

«Che cominci a guardare con tenerezza i tuoi limiti. Ci sono personaggi che alla lunga fanno del rigore un vessillo, lo trovo antipatico».

Tipo?

«Carla Fracci. L’ho conosciuta, grandissima artista ma quel senso intransigente del rigore lo trovavo inadatto a una piena di grazia come lei».

E Amadeus com’è?

«Tutti guardano al suo essere mite e buono come se il suo talento si fermasse lì. No, lui è preparatissimo, informato su tutto, conosce tutta la musica possibile. Un genio».

Chi le piacerebbe avere come amica?

«Dacia Maraini. Ho letto i suoi libri e quelli di suo papà Fosco, scrive benissimo e ha una testa così. Però, vede, io non amo precludermi nulla. Magari se conoscessi bene Chiara Ferragni anche lei potrebbe diventare una grande amica. Adesso la vedo ancora su un piano di dinamismo senza una vera profondità».

Toscana, ottima famiglia, educazione all’arte. Com’è stata la giovinezza di Drusilla?

«Parliamo naturalmente del secondo Dopoguerra. Guardi, le racconto un aneddoto che inquadra la mia famiglia: giorno del compimento della mia maggiore età, salotto buono, una sedia-trono in pelle graffiata dal cane. Mio padre mi regala un piccolo orologio, di quelli da donna e mi dice: “Con questo ti regaliamo la cosa più preziosa, il tuo tempo. Usalo bene, noi saremo al tuo fianco, ma un passo indietro”».

Una forte idea di libertà.

«Proprio così. Ma mi hanno insegnato anche che il privilegio è tale se puoi farne a meno, altrimenti non è più un privilegio, ma un bisogno. Il lusso vero è qualcosa di cui puoi liberarti in qualsiasi momento».

E poi la musica, il teatro, le radici della vita di Drusilla. Nel secolo scorso, of course.

«L’educazione perfetta è quella che insegna a fare a meno della fretta e della scarsa devozione nel fare le cose. Molti definiscono tutto questo un retaggio aristocratico, ma per me è solo la radice di tutto».

Jep Gambardella, ne «La grande bellezza», dice: «non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare».

«Io dico che non mi va più di fare male le cose. Anche questo è un regalo della vecchiaia: molti definiscono i vecchi scontrosi e pignoli, io dico che si diventa perfezionisti e assillanti».

Artisti italiani che le piacciono?

«Mi piacciono le persone di pensiero. Fossati, Gaber. Quei cancelli di parole che ci ha regalato Francesco Guccini».

Com’era suo padre?

«Un odore di tabacco dolce e persistente. Simpatico, giocoso».

E com’era Hervé Foer? (parliamo del marito scomparso di Drusilla, anche questo parte del personaggio creato dall’attore Gianluca Gori, che impersona l’elegante Foer, ndr)

Una pausa di silenzio. Commozione.

Vuol parlarne?

«È tutto quello che avrei voluto avere».

Di che cosa oggi non potrebbe fare a meno?

«La lealtà. Anche nei confronti di Gianluca».

E sul lavoro com’è?

«Mi detesto da sola. Mi sono antipatica, sono una vecchia rompiballe».

Drusilla è bella e elegante...

«Tesoro, ma se lei avesse visto da vicino Monica Vitti, altro che Drusilla».

Mi lasci finire: lei è bella, elegante e intelligente, quanti corteggiatori ha?

«Donne o uomini?»

È importante?

«Ma certo che no. Comunque, tanti. Da quando poi sono sui social, non le dico i messaggi che ricevo. Irriferibili qui. Io, comunque, ho una risposta standard che mando anche a quelli più osé: “Mio caro, sappi che quando sarà finito il mio periodo di lutto, sarai il primo della lista”».

La sua fantasia erotica ricorrente?

«Enrico Mentana. Mi piace perché è simpatico, sa farmi ridere».

Ce ne sono altre simili?

«Come no, Michele Santoro. Uno cocciuto, fargli cambiare idea deve essere un’impresa. Però anche con Filippo Timi...»

Drusilla...

«Ma io sono vecchia, ormai mi prendo la libertà di dire quello che voglio. Non posso dire il nome ma anche un grande attore americano si è innamorato di me. Mi ha corteggiata e sa quando è arrivato il massimo della seduzione? Quando non ha pagato la cena ma ha voluto fare a metà. Mi ha trattato in modo paritario, senza guardarmi né dall’alto né dal basso. Riesce a immaginare una forma più perfetta di seduzione? Peccato che fosse innamorato di sua moglie».

E un corteggiamento che si può raccontare?

«Una volta incontro uno che rappresenta tutto quello che per me è erotico: livornese, un po’ balbuziente e dall’andatura incerta. Facciamo la spesa, andiamo a casa sua e sulla porta lui che fa? Mi dice ciao, arrivederci. Mai più rivisto».

Il cinema la tenta?

«Vivo di cinema. E di registi come Fellini. L’unico capace di mettere assieme due attrici diversissime come Masina e Cortese e sa perché? Perché in Fellini non c’è mai giudizio. Così come non c’era giudizio in Raffaella Carrà, ed era per questo che lei ha mantenuto un che di puro e infantile anche da vecchia. Non era bellissima, non era bravissima, ma aveva quella semplicità che fa grande una persona».

Ma è vero che nella nuova edizione dell’Almanacco lei ha voluto anche una funeral planner, una organizzatrice di funerali?

«Certo. A me sembra assurdo che si spendano milioni per i matrimoni: che cosa sono alla fine se non bischerate che durano un giorno e che, alla fine, ti lasciano pure un marito in più? Meglio spendere soldi per i nostri funerali».

Ma lei come se lo immagina il suo funerale?

«Io voglio essere bruciata e dimenticata, ma quella sera mi piacerebbe che i miei amici facessero una grande festa erotica, come un Baccanale, anzi, un Saturnale, laddove i ruoli si invertono, il servo diventa padrone e il padrone diventa servo, gli uomini diventano donne e viceversa. Celebrare la mia morte con una grande festa di libertà. Ecco quello che vorrei». rscorranese@corriere.it

Drusilla Foer e quella sensazione di “troppo” nell’Almanacco del giorno dopo. Beatrice Dondi su La

Repubblica il 27 Giugno 2022.

Il personaggio è magnifico, il programma un po’ meno. E non si capisce perché con il grande potenziale a disposizione si sia preferita una corsa sfrenata al riempitivo che finisce per schiacciare Gori nella sua solitudine

«Troppe note, caro Mozart». Il giudizio con cui Giuseppe II liquidò “Il Ratto del serraglio” fu lapalissianamente ingeneroso, e fa sorridere ogni volta che si ricade su quella scena del magnifico “Amadeus” di Milos Forman. Ma non si può negare che l'imperatore fosse dotato del dono della sintesi e quella frasetta implacabile a volte possa tornare utile. Come nel caso dell'“Almanacco del giorno dopo”, format storico ritornato a nuova vita sulla seconda rete: cinque puntate alla settimana di trentacinque minuti sbrodolati, in cui si è cercato di far entrare letteralmente qualsiasi argomento.

Un po' come le temutissime interrogazioni a salti, il programma costringe Drusilla Foer a zompettare da una parte all'altra di uno studio tristemente vuoto, passando dalle ovvietà di un Topo Gigio ormai presenzialista quasi quanto i libri presentati da Bruno Vespa, al situazionismo della maestra di yoga del sorriso, dai compleanni alle canzoni, e poi l'intervista, la telefonata, il santo, il proverbio, gli anniversari, l'amante della natura, la ricetta, lo spazio comico, il repertorio e ancora, velocemente (e neanche troppo) di questo affannoso passo.

Il che, visto il potenziale di Drusilla, lascia un po' perplessi, perché è davvero difficile comprendere l'obbligo di questa corsa sfrenata al riempitivo quando la conduzione leggiadra della padrona di casa potrebbe scivolare via come le mani sulla seta. Invece accade proprio il contrario e il personaggio di Gori, pur mettendocela davvero tutta, si ritrova schiacciato dalla sua stessa solitudine, costretta a supportare scenette dimenticabili e gag talmente scritte da meritare un gobbo. Così, senza nascondere quel filo di noia, finisce un monologo di Guccini e corre verso il bancone per l'affastellamento delle rubriche, poi imbraccia il microfono e si gira e si volta, proprio lei, che potrebbe con garbo senese agire per sottrazione, essendo uno di quei rarissimi protagonisti della televisione contemporanea in grado di fare scena con una semplice alzata di spalle.

Forte di una rodata carriera teatrale, dotata di un'intonazione invidiabile e capace di usare l'ironia come la spada di Cyrano, Drusilla è in grado di snocciolare termini come «farabutta» rimanendo credibile e lascia dietro di sé una scia di gradevolezza tale che alla fine si guarda sempre con un certo piacere. Ma dispiace che l'occasione non l'abbia resa abbastanza ladra. Per rubare quel tempo a disposizione e farlo volare via anziché appesantirlo, come avrebbe detto l'insipido Giuseppe, di troppe note.

Simone Marchetti per “Vanity Fair” il 26 giugno 2022.

Quante persone ci sono dentro ognuno di noi? Quanti dolori, quante storie, quanti sogni? Quante diversità riescono a vivere nello spazio di un solo uomo o di una sola donna? «Non lo dica a me: siamo troppi in questo contenitore. È tutto così affollato qui dentro». 

Drusilla risponde sempre per le rime. Letteralmente. Non lo fa solo con intelligenza e indignazione. Lo fa con garbo e ironia. Costruisce castelli in aria, li fa a pezzi, sorride

e poi ricomincia da capo. A volte è una bambina capricciosa, altre una principessa, altre una tigre, altre una soubrette d’altri tempi. 

E poi, certe volte, riesci persino a scorgere Gianluca Gori, il suo creatore, uno dei tanti abitanti di quel castello in aria che oggi chiamiamo Drusilla Foer. La incontriamo tra una pausa e l’altra di Drusilla e l’Almanacco del giorno dopo, il nuovo programma che conduce su Rai 2.

Buongiorno Drusilla.

«Buongiorno a lei».

Se non le spiace, vorrei partire da lontano. Mi racconta il suo primo ricordo?

«Un’estate calda in campagna, dopo pranzo coi miei fratelli venivo obbligata a dormire. Ricordo che ero sdraiata accanto a mio padre e mi lamentavo perché faceva caldo. E lui, per tranquillizzarmi, faceva il rumore del vento soffiandomi con le labbra tra i capelli». 

Suo padre lavorava per il teatro?

«Non il mio. È il padre di Gianluca Gori che lavorava per il teatro. Se vuole intervistare Gianluca deve prendere accordi con lui».

A dire il vero vorrei intervistare tutti e due.

«È una cosa che non ho mai fatto. Lo so, lei mi dirà, ma è il segreto di Pulcinella. Però è anche un tradimento. È come la madre che sa che suo figlio è omosessuale ma quando poi se lo vede a letto con un ragghettone sportivo, be’ è un’altra cosa...». 

Le va di fidarsi di me?

«Ci provo. Ma non faccia il furbo, i furbi mi fanno schifo».

Chi è Drusilla?

«Drusilla è un pensiero, un lavoro, un’estetica. E io porto un profondo rispetto per questa rappresentazione». 

Dove finisce Gianluca e dove inizia Drusilla?

«Non ci sono limiti. Perché Drusilla non prende lo spazio di nessuno. È tutto naturale. Com’è naturale che nell’Amleto di Shakespeare a un certo punto Polonio muoia. Com’è naturale che nel Rosenkavalier di Strauss a un certo punto la Marescialla se ne vada. Qui dentro ognuno è al suo posto. E i pensieri vengono da un unico assemblamento di valori».

Cosa le sta a cuore?

«La lealtà. Perché la lealtà è la peggior nemica della vanità. Per essere leali bisogna non camuffarsi. E non camuffarsi sotto un’architettura estetica e poetica come la mia penso sia il mio più grande talento». 

La sua è una maschera come quella del teatro classico?

«Vede, le maschere non nascondono. Rendono solo più fruibile il contenuto. È come quando dici “ti amo” a una persona in un modo goffo o distratto perché non hai il coraggio di guardarla negli occhi. Le maschere del teatro greco sono una sorta di riduttore dell’intensità del loro interno. Permettono di ascoltarle senza sentirsi minacciati». 

Quindi Drusilla, una stronza aristocratica ben pettinata, fa sentire al sicuro?

«Ah sì, credo proprio di sì. Vede, i personaggi spaventano più delle persone ma li accogli più delle persone. Prenda Paperino, un tizio con una struttura famigliare a cui tutti sfuggono, che convive con i tre nipotini. Il tutto in un’America puritana. Ai personaggi è concesso tutto. Di sbagliare, di confessarsi, di esporre una poetica. Alla Principessa Turandot dell’opera di Puccini si permette di essere malvagia e poi la si perdona per il suo destino. Se fosse stata un’imperatrice vera probabilmente sarebbe stata un personaggio negativo».

In Rai conduce un programma classico, tradizionale. Ma lei affronta tutto con spirito contemporaneo, nuovo, senza nostalgie.

«Perché il dovere di tutti è avere un rapporto leale con tutto quello che il momento ci pone davanti. Si chiama contemporaneità. Essere nel tempo, nelle cose che accadono, nei sentimenti che scorrono. Le faccio un esempio. Quando a un certo punto, anni fa, l’Occidente ha rifiutato la sua cultura, allora si è affidato all’Oriente e sono venuti fuori stilisti come Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, e contemporaneamente si sono svuotati i ristoranti coi quadri di pagliacci e ci siamo abbuffati di cibo cinese e sushi, togliendo tutti i cassettoni della nonna da casa per mettere divani bianchi e pareti color caffellatte con vasi con dentro dei rami secchi pensando di essere astratti. Ci vuole lealtà. E chiedersi: che ci sto a fare qui? E questo significa mettersi in gioco nel momento in cui si vive. La contemporaneità è una storia di lealtà intellettuale ed emotiva».

Come mai, secondo lei, la contemporaneità continua ad avercela con le donne, con la loro libertà, col loro diritto ad autodeterminarsi, per esempio, col diritto all’aborto?

«Sempre per un fatto di lealtà. È da sempre così: la storia delle società ha un problema di rapporto con l’individuo. Perché dalla preistoria gli stereotipi ci tranquillizzano. Prenda il mito dei matrimoni, dei rapporti di lunga data delle nostre nonne. Forse, le nostre nonne erano in grado di sostenere dei rapporti magari inqualificabili perché la società le tranquillizzava. La società diceva: gli uomini sono tutti così, le donne sono tutte così ed è giusto che i primi facciano quello che vogliono e le seconde subiscano. La società ce l’avrà sempre con le donne perché rivedere lealmente la figura femminile presuppone di scalzare altre visioni dell’uomo che sono quelle che ci hanno tranquillizzato da secoli». 

Come si spiegano questi valori in televisione?

«Tu devi sempre, sempre, sempre far finta di essere all’ Accademia d’Atene. 400 avanti Cristo forever. E sia chiaro: la modestia di chi ti circonda non giustifica mai la modestia di quello che compi. Arrivando alla Rai: io sono giunta qui con un privilegio enorme. Mi hanno detto: fai quello che vuoi. E non ho avuto nessun limite. È una cosa che mi arrapa da morire. Perché da una parte mi impegna. Ma dall’altra non posso dare la colpa a nessuno di quello che ne verrà fuori. Solo a me. Di questo, mi consenta, devo dire grazie al direttore Stefano Coletta, un uomo illuminato, un uomo che vuole bene a questo lavoro».

Lei sostiene che bisogna trattare se stessi come figli, che bisogna imparare a diventare i genitori di se stessi. Cosa significa?

«Trattarsi come figli propri vuol dire darsi la possibilità di perdonarsi. E perdonarsi è una figata pazzesca. Vede, siamo troppo infangati dentro noi stessi. Troppo trattenuti dalle nostre fragilità, tenuti in piedi dai nostri talenti e dalle nostre capacità. Sa cosa succede quando hai un figlio? Esci da te stesso e ti occupi di qualcun altro perché quello è un altro futuro, non è il tuo di futuro. A me succede di fare questo giochino quando ho paura: mi immagino come un piccolo Pierino di cui sono la madre e a cui dico “stai tranquillo”».

A Sanremo lei non ha parlato di diversità, ma di unicità. Dell’unicità di ognuno di noi e di chi odia questa differenza.

«Che cosa faticosa l’odio, non trova? È un sentimento così nobile, tra l’altro. Ci fa individuare esattamente cosa vogliamo e cosa non vogliamo. Io su questo sono violentemente categorico. Trovo incomprensibile il non rispetto del pensiero altrui. Specie nei politici. Mi domando che rispetto di se stessi abbiamo coloro che non sono in grado di rispettare l’unicità degli altri. Si vietano una quantità di visioni, la possibilità di cambiare opinione, rotta, cose che nella vita sono utilissime. Chi non capisce, chi non rispetta, chi non ascolta l’unicità degli altri è una persona sfortunata. Non perché non aderisca al mio pensiero. Ma perché non si concede la libertà di farsi ispirare dal pensiero degli altri. È una prigionia che non auguro a nessuno». 

Quanto è importante oggi difendere questi valori?

«Ci sono cose su cui non sono disposto a transigere. Il razzismo, ovvero il pregiudizio in base a un concetto inesistente come la “razza”. Il classismo, il pregiudizio rispetto all’estrazione sociale di una persona. Questi sono per me valori imprescindibili. Detto questo, se arriva un fanatico e mi prova a spiegare un pensiero o una poetica

io sono qui, che provi a convincermi con la sua logica! È la chiusura alla logica altrui a spaventarmi. La chiusura al pensiero altrui fa delle persone fragili persone ancora più fragili e di certi potenti dei falsi potenti. E il risultato è che si perde l’empatia verso gli altri. Perché alla fine è difficile, molto difficile che il cattivo sia là fuori. Il cattivo è sempre dentro noi». 

Si è mai innamorato qualcuno di Drusilla?

«Sì, perché questo è un contenitore che può accogliere molte proiezioni».

L’ha sorpresa?

«Mah, sorprendermi... Se ti innamori di un soggettino così...». 

Ha mai pensato di corrispondere?

«No. Siamo in troppi in questo contenitore. È troppo affollato per rispondere a un solo amore. E i parametri di coloro che abitano in questo contenitore sono molto diversi».

La leggerezza, l’ironia sono tra le sue più grandi doti.

«Quando ti butti da una montagna hai due possibilità: affronti meravigliosamente il vuoto e ti fracassi oppure scendi piano piano in modo buffo. La lievità mi diverte e mi porta anche in profondità. E poi sono le cose cretine quelle che mi fanno davvero ridere». 

Mi fa un esempio?

«I marchi di moda che mi vestono. Sono un soggetto con proporzioni insensate e mi vesto nello stesso modo da quarant’anni. Però se domani Donatella Versace mi facesse un vestito in maglia di metallo o Valentino un abito rosso (rosso, perché, diciamolo, fucsia chi lo vuole? Io lo voglio rosso!) sarei divertita come una bambina a cui hanno regalato una bambola nuova. Ho un rapporto di stupore verso le cose che per me hanno valore. E più le cose hanno valore e più quando succede qualcosa di sgangherato io mi diverto e mi stupisco. Perché è cretino. Come quando una si veste da sera e poi inciampa sullo strascico. TO-TO- TOMP! L’inadeguatezza mi fa tanto allegria». 

Cosa invece la fa arrabbiare?

«La scaltrezza e la furbizia mi fanno schifo. Essere furbi è una trovata di chi ha l’abitudine ad alimentare la propria intelligenza con le scorciatoie. E le scorciatoie mi innervosiscono. E poi, vuoi mettere, se prendi il tratto breve ti perdi pure la bellezza del percorso». 

Quali divi, quali dive l’hanno ispirata?

«La musicista statunitense Diamanda Galás. Perché è drammatica, perché è violenta, perché è leale. Delia Scala. Dio, che donna chic e luminosa. Il pensiero spietato, lucido, senza scorciatoie di Pierpaolo Pasolini. E l’orrido modo di cantare di Marlene Dietrich perché pur non avendo nessuna dote vocale è musicalissima. Amo infine il cinismo di Petrolini e lo strazio dell’ouverture del Tristano e Isotta. A ben vedere, mi piacciono tutte le cose assertive, cose che non hanno indecisioni. In realtà, ammiro gli artisti che espongono le proprie fragilità senza timori». 

Chi lo sa fare oggi?

«Lady Gaga».

Ora le faccio due nomi di donne che ha incontrato. Me li hanno suggeriti alcuni suoi amici, lo ammetto. È pronta? Sei pronto? Siete pronti?

«Proviamo».

Mila Mastrorocco.

(Per la prima volta Drusilla guarda in basso e i capelli bianchi le coprono il viso. Resta in silenzio per molti secondi e poi, con un filo di imbarazzo, si asciuga le lacrime dagli occhi). 

Ripeto: Mila Mastrorocco.

«Ho sentito. Lei è un pazzo, lo sa?».

Ogni tanto qualcuno me lo dice. Ma non stiamo parlando di me...

«Mila Mastrorocco è la donna che mi ha insegnato a guardare. È stata la mia professoressa di Storia dell’arte. Pensi che mentre insegnava si cantavano con lei le canzoni della Mala. Mi ha insegnato a guardare un quadro, a capire la narrazione, ho imparato da lei tutto sulla capacità di rappresentazione. Mila Mastrorocco è uno degli incontri più centrali della mia vita». 

Altro nome, si prepari: la principessa Giorgiana Corsini.

«Giorgiana è la donna che mi ha tranquillizzato sui giudizi che avevo verso me stesso circa l’essere diretti. Mi ha fatto capire l’importanza di essere leali, diretti, senza pregiudizi, senza la minima forma di classismo. È la persona a cui devo il mio ritorno al teatro. Mi ha poi restituito il valore della forma nel comportarsi. Diretti ma con forma. Perché è sempre premiante. Anche quando porta a una rottura, perché vuol dire che quella rottura ti servirà. Giorgiana ha vissuto in modo spettacolare e se n’è andata in modo divino. È morta nuotando. Stava arrivando alla seconda boa e ha detto alla figlia che non ce la faceva. Mentre saliva in barca ha avuto il primo infarto. Arrivata a terra, c’era tutta l’unità coronarica della Maremma ad aspettarla. Appena li ha visti ha detto “Non mi toccate, sto beniss...” ed è morta. Qualche tempo fa, è apparsa in sogno a sua figlia. Le ha detto: “Guarda, Fiona, qui si sta benissimo, se lo sapevo, morivo prima”. È proprio un suo pensiero, sua figlia non l’avrebbe mai potuto formulare».

Lei crede nella vita dopo la morte?

«Oddio, alla noia delle nuvoline e dei santi? Non lo so, non ho un’idea chiara. Ma sono sicura, anzi sicurissima che noi lasciamo grandissime cicatrici, nel senso che possiamo lasciare ferite guarite con la nostra esistenza». 

È vero che Drusilla, in fondo, ha paura di non essere all’altezza?

«Sì, è vero. Ho paura che arrivi il momento in cui diranno: “Ah, ma allora non sa fare niente”. È un timore simile a quando ti innamori e all’inizio ti senti figo ma poi

pensi, oddio adesso scopre chi sono veramente e poi scappa. Per questo, a volte sono poco progettuale. Sono stato un art director per agenzie di pubblicità. Poi pittore. Poi fotografo. Sempre con successo. Però poi ho smesso. Il mio tema più grande è prendere la responsabilità dei miei talenti». 

I suoi genitori hanno lavorato entrambi nel teatro. È stato importante avere vicino due figure così?

«Importantissimo. Parlare con loro di teatro, di arte, di cosa mi piace o non mi piace era naturale. Ma come fanno certi genitori a dire ai loro figli “che schifo di musica ascolti!”. Devono invece chiedere perché l’ascolti, perché ti piace. Bisogna crescere i figli con un senso di amore, di ascolto, di accoglienza». 

Sua madre è viva, suo padre scomparso. Cosa dicono o direbbero di lei?

«Mia madre è stupita. Non la si può certo definire una donna di sinistra, ecco, però ha brandito la copertina dell’Informatore Coop con la mia foto e l’ha fatta vedere a tutti. Ad oggi, è la cover che mi ha lusingato di più. Mio padre, se fosse vivo, mi guarderebbe a distanza, sorridendo con un filo d’orgoglio». 

È innamorato?

«Non ho un compagno, ma resto innamorato di tutti i compagni che ho amato. Del resto, li ho talmente sfiniti! Io penso che in amore vince chi resta dentro ciò che ha sentito, ciò che ha provato. Perché chi ama si prende sempre la fetta più grande. Ti faccio un esempio. Quanti di noi, per anni, si sono aggrappati alle pareti di vetro facendo alberi di Natale tutti neri con fili d’argento o esponendo un ramo esotico con attaccate solo palline di carta riciclata dagli Indios? Io voglio i nomi e cognomi delle persone che entrando a Natale a casa della propria madre e vedendo le palle colorate e i troiai sull’albero non dicono: “Ecco, questo è un albero di Natale!”. Non quella roba che hai a casa e che sembra una vetrina di Dior del 1983. Quando ti innamori di quel primo albero, resti innamorato per sempre». 

Che romantica.

«Non sono romantica. Né sentimentale. Credo nelle esperienze emotive».

C’è qualcosa che le fa davvero paura?

«Perdere interesse. Verso quello che sento e verso quello che sta là fuori. Mi fa più paura questa morte di quella biologica. Perché è in quel momento che arriva la depressione». 

Le è capitato?

«Sì. Ci sono stati momenti in cui c’era una gran confusione nella mia testa. Come la classica storia della bottiglia con acqua e sabbia che se scuoti vedi solo un gran casino». Un’ultima domanda. Chi la conosce bene dice che possiede il dono della riconoscenza. Che cosa significa?

«Sono riconoscente perché ho un problema con la simmetria. L’idea, per esempio, di avere un camino senza due vasi cinesi (identici, sia chiaro) ai lati mi devasta il cervello. Dove si crea un vuoto va ristabilito un pieno. E in questo c’entra la generosità che, per

essere goduta, va trattata come un sentimento signorile. Quando la si dà non si deve pretendere nulla indietro. Quando la si riceve, si deve pretendere da noi stessi di darla sempre indietro».

Gloria Satta per “il Messaggero” il 21 giugno 2022.

Nastro d'argento per il miglior cameo dell'anno: lo ha ritirato al Maxxi tra gli applausi Drusilla Foer che nel film Ancora più bello di Claudio Norza interpreta la nonna-strega della giovane protagonista. Altri vincitori alla 76esima edizione dei riconoscimenti del Sindacato Giornalisti Cinematografici: È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino trionfa con 6 Nastri tra cui miglior film, migliori attrici Teresa Saponangelo e Luisa Ranieri, 4 premi a Mario Martone per Qui rido io e Nostalgia, miglior attore Pierfrancesco Favino a pari merito con Silvio Orlando, tre premi a Freaks Out di Gabriele Mainetti, per la commedia si afferma Riccardo Milani, per la musica Nicola Piovani e Manuel Agnelli, il film dell'anno è Marx può aspettare di Marco Bellocchio.

Il Nastro è il nuovo successo di Drusilla, alter ego en travesti dell'attore e artista fiorentino Gianluca Gori, 54, e ormai capace di incantare il pubblico trasversale che l'ha scoperta sul palco di Sanremo: con i suoi capelli candidi, i preziosi abiti di sartoria, l'ironia irriverente ma mai volgare, la sorprendente creatura scenica è un concentrato di eleganza, saggezza non banale, talento, originalità. Un simbolo di inclusione, un'icona di quello stile che dispiega nel suo spettacolo Eleganzissima, attualmente in tour (sarà alla Cavea dell'Auditorium il 25 luglio) e su Rai2, dove fino al 1° luglio conduce l'Almanacco del giorno dopo. Dopo l'estate inciderà un disco. Impossibile considerare Drusilla un personaggio: è una persona e, come tale, si racconta.

Le mancava solo un premio cinematografico?

«Non mi aspettavo il Nastro e sono felicissima di averlo avuto. Girare Ancora più bello in mezzo a tanti giovani mi ha trasmesso una valanga di energia, sempre salutare per le persone di spettacolo della mia età che finiscono per essere un po' disilluse, un po' ciniche». 

Le hanno proposto degli altri film?

«Sì, anche delle serie ma ho rifiutato perché ero impegnata con il tour e detesto fare le cose nei ritagli di tempo. Sono una sega-nervi, una perfezionista: lavoro con il massimo impegno, non per vanità. E per Paolo Virzì sarei disposta a dire soltanto il pranzo è servito».

Altri registi che apprezza?

«Pier Paolo Pasolini e Tim Burton. Tra i miei film preferiti ci sono Dogville di Lars Von Trier e Io sono l'amore di Luca Guadagnino. Da bambina rimasi folgorata da Scarpette rosse mentre Il Ladro di Baghdad rappresentò il mio impatto con la nudità maschile e generò i primi pensieri erotici, un po' morbosi». 

Come definirebbe quest' ultimo anno che, dopo un'onorata carriera di nicchia, le ha dato la popolarità di massa?

«Carico di stupore soprattutto per me. Non sono un'ambiziosa, alla mia età sarebbe sciocco inseguire il successo. L'unica ambizione che ho è fare le cose al meglio. Odio avere rimorsi».

Com' è stato condurre una serata di Sanremo con Amadeus?

«Bellissimo anche grazie all'intesa con lui e con i vertici illuminati della Rai, primo fra tutti Stefano Coletta. Mi hanno lasciata libera. Io sono salita sul palco tranquilla, ho fatto quel che so fare. E mi sono divertita». 

Si sente un simbolo dell'inclusione?

«Non faccio nulla per esserlo ma sono felice se i pensieri che esprimo servono a supportare idee e battaglie per la parità, contro la violenza e le ingiustizie».

In quest' epoca tanto aggressiva qualcuno la considera paradossalmente l'espressione della vera femminilità: come la prende?

«Con un sorriso carico di tenerezza. La mia visione della femminilità deriva dalla serenità con cui sono arrivata a considerare sia l'essere donna sia la virilità». 

Ci sono critiche che l'hanno ferita?

«Quelle dettate non dal mio lavoro ma dal pregiudizio».

La politica l'ha mai cercata?

«Ha provato a mettere il cappello sulla mia popolarità ma io ho fiutato la trappolina e mi sono sottratta. Odio la politica che parla per slogan e cerca solo il consenso». 

Cos' è per lei la volgarità?

«Ogni forma di arroganza, veleno per la qualità». 

 Drusilla finirà per divorare Gianluca?

«Nessun rischio, hanno entrambi una personalità forte e tra loro esiste un gioco di forza che garantisce l'equilibrio». 

Vedremo mai in scena Gori senza parrucca e abito da sera?

«Ma sì, prima o poi uno spettacolo glielo lascerò fare. Mica posso lavorare soltanto io». 

A chi dice grazie?

«Al mio produttore, il musicista Franco Godi, a Sergio Censi, un amico che non c'è più ma mi ha ispirata. E a Piero Chiambretti, che mi ha insegnato tanto della tv».

Cosa non vorrà fare mai?

«Il personaggio tv invadente».

Simonetta Sciandivasci per “la Stampa” il 30 maggio 2022.

A riportare l'Almanacco del giorno dopo in televisione (dal 6 giugno, tutte le sere su Rai 2, prima del tg) non poteva che essere Drusilla Foer.

Perché lei arriva dal mondo che rivorremmo indietro e che però non è esistito. Un mondo elegante, gentile, disinteressato alla normalità e capace di tutelare l'unicità di tutti. È il suo trucco, la sua magia: si veste di ieri e incarna il domani. Ci fa sentire la nostalgia di un futuro possibile, ora che di futuro siamo a corto, sprovvisti, e allora ne sogniamo uno retrodatato per ricavarne una rassicurazione.

E adesso farà di più: ci dirà tutte le sere che «La vita accade, domani qualcosa succederà. A questo serviva l'Almanacco e questo tornerà a fare: preparare al giorno che viene, nella certezza che verrà».

L'anziana soubrette che a Sanremo ha parlato di unicità con addosso abiti più realisti del re; la sola capace di dimostrare che la maschera fa la persona e che le parole fanno la storia più del tempo, dopo il ritorno a teatro, si prende un programma di trent' anni fa e lo riapre, lo allunga, lo riscrive: fa una cosa nuova che è già successa.

Lei è brava ad andare indietro senza tornare indietro.

«È un complimento?».

Constatazione.

«Meglio». 

Le faccio una domanda che fa fare Leopardi a un venditore di Almanacchi nelle Operette Morali: rifarebbe la vita che ha fatto, con tutti i piaceri e i dispiaceri che ha passato?

«Non perderei mai un'occasione tanto fortunata, perché la ricchezza della vita sono le esperienze e le esperienze migliori spesso ce le danno gli errori, e io ne ho ancora di nuovi e bellissimi da fare».

I suoi errori migliori?

«Le sbornie. Gli eccessi sono importanti: servono a ridimensionare l'esperienza e riportarla in un luogo più sano, se non ragionevole. Mi manca, ogni tanto, la sregolatezza».

Non se ne vede più tanta.

«E forse è giusto così. Quando ero giovane io, era un fatto di contrapposizione alla società borghese: ora sarebbe soltanto una ripetizione. Le rivoluzioni sono vitali nel momento in cui accadono: non vanno sfilacciate nel tempo». 

Le piacciono i giovani di questo tempo?

«I giovani mi piacciono sempre. Ogni tanto vorrei vederli più dissennati, ma poi capisco che non lo sono per reazione alla nostra eredità smidollata: abbiamo consegnato loro un mondo che crolla, ed è normale che cerchino solidità».

Li trova moralisti?

«Li trovo morali. Spero che si divertano. Noi siamo stati più fortunati anche in questo: abbiamo avuto il privilegio della scoperta, che è la cosa più divertente di tutte. Il sesso, per noi, era un mistero: ora è come la Gioconda o le piramidi, qualcosa che hai visto talmente tante volte e ovunque che, quando ti ci trovi davanti, non ti stupisci, non ti innamori».

Non mi rifili la favola del tutto già detto e tutto già visto.

«Ma io dico un'altra cosa: non che non ci sia più niente da scoprire, ma che l'eccesso di informazione ci impigrisce. E che siamo sempre meno capaci di scegliere, di selezionare le cose importanti». 

L'Almanacco non è proprio una selezione delle cose importanti?

«La curiosità e l'attenzione sono spazi così vasti che possono spaventare. E allora, oltre ad accenderli, è importante ordinarli. Avere qualche suggerimento preciso su dove andare: ecco cosa credo sia necessario. L'Almanacco del giorno dopo venne trasmesso la prima volta nel 1976: era un'altra Rai perché era un'altra Italia, e cioè un Paese da informare, persino da istruire. Il servizio pubblico era inteso come un'offerta che potesse alzare e uniformare il livello culturale di un paese ancora acerbo. E l'Almanacco incarnava lo spirito di questa impresa, era un programma delizioso e mai cattedratico, dava indicazioni piccole e importanti: quando sorge il sole, quando cala la luna, come si usa un verbo». 

Ripristinerà la rubrica di Cesare De Marchi, «Conosciamo l'italiano»?

«No, niente maestri alla lavagna. Cercherò di parlare al meglio possibile, che è già tanto, no? E poi cercherò di dare una visione delle cose, non solo indicazioni. Non mi sottrarrò dall'affrontare temi importanti quando lo riterrò necessario. E canterò e chiacchiererò con i miei ospiti».

È agitata?

«Eccitata dalla sfida. La tv non è il mio habitat e io non funziono come personaggio comico: sono un soggetto piuttosto conflittuale».

Ha detto che a Sanremo non ha mai pensato al fatto che la guardavano milioni di persone: si è concentrata su una. Chi?

«La mia vicina di casa Antonella, che mi porta sempre delle torte meravigliose. Se ti rivolgi a un individuo solo, per induzione ti rivolgi a tutti e non vieni cannibalizzato né dalla paura né dall'ossessione di sedurre chi ti guarda». 

Chi l'ha sedotta l'ultima volta?

«Le dico il penultimo. Un uomo incantevole completamente ignaro di esserlo, e infatti inciampava, arrossiva, balbettava. Mi piacciono sempre le persone visibilmente attraenti che non usano l'aspetto per camuffare le loro fragilità. E detesto i vanitosi: mi annoiano. La civetteria è più carina: è un tentativo. E poi quant' è sexy un uomo che non sa di essere sexy».

Il miglior ricordo di Sanremo?

«Gli abbracci, in particolare quello di Massimo Ranieri. Ho avuto la sensazione che tutte le persone che mi hanno abbracciata, lo hanno fatto perché ne avevano voglia, quasi bisogno. Non solo i colleghi, ma pure le sarte, i cameramen, e tutte le persone dello staff. E poi Amadeus, che non mi ha messo addosso una figurina e si è confrontato con me su quello che avremmo fatto. Mi ha chiamata dopo aver letto il mio libro: ha capito che avevo una storia da raccontare. Tutti gli artisti li cerca così: sa che parla la canzone prima dell'interprete perché in una canzone sosta e alberga la narrazione». 

Dietro le quinte?

«Ho rimproverato una banda di ragazzoni con l'aria assertiva perché sostavano in corridoio e io dovevo passare con un vestito molto ingombrante. "Dovete stare proprio qua"? E sì: dovevano stare proprio là: erano la scorta di Roberto Saviano. Capisce la mia vaghezza?». 

Spero non la perda mai.

«La rassicuro: appena mi accorgo di perderla, tiro i remi in barca». 

E se ne va via come Mary Poppins?

«Esattamente come lei, che va via quando capisce di aver portato qualcosa, per andare da un'altra parte dove c'è più bisogno di lei. Io, magari, potrei andarmene dove ho più bisogno di me, e tornare a fare una vita più privata. Mi piace tutta questa sollecitazione esterna: ho sempre avuto una vita aperta perché ho conosciuto tante persone, ma ora tante persone conoscono me senza che io conosca loro». 

È già stanca?

«No, ma vorrei evitare di stancare gli altri».

La mette a disagio quando dicono che lei è un'icona di stile?

«A parte che, in genere, si diventa icona da morte oppure per pervicace ostinazione, come è stato per Madonna, mi stupisco e intenerisco. Certo, sono più contenta quando mi dicono: grazie, lei mi hai aiutato, mi hai confortato». 

Che cosa sogna di fare?

«Voglio scrivere una guida alle pensioni d'Italia a due stelle. Sono così carine: le lenzuola rammendate, i fiori finti, le tendine, tutti quegli sforzi che fanno per essere accoglienti. Le signore della reception sgualcite e gentili che cerco sempre di non svegliare evitando di rientrare a notte fonda. Così come mia madre riassettava la casa prima che arrivasse la domestica per non gravare troppo su di lei. Io mi sono sempre rifatta il letto da sola: è il mio imperativo categorico». 

Qual è l'ultima cosa che si toglie di dosso prima di andare a dormire?

«I calzini. Spesso dormo vestita, e fa niente se non è igienico, ma scarpe e calzini li tolgo sempre e li ho sempre tolti, ovunque io abbia dormito. E le assicuro che ho dormito ovunque. E conservo ancora i calzini di mio padre in un cassetto: mi piace pensare che non siano stati lavati dall'ultima volta che li ha messi». 

Nel cassetto di fianco che c'è?

«I pettini degli uomini che ho amato. Sei. Sono regali che ho chiesto a ciascuno di loro. Perché sì: i regali si chiedono». 

Mi dice il cognome di sua madre?

«Tolomei. E mi sembra fantastico potersi chiamare con il cognome di entrambi i genitori. È uno di quei traguardi di civiltà che sogno da sempre, come un Papa donna, i bagni senza distinzione di sesso, i piccoli teatri al posto di H&M».

·        Donatella Rettore.

Dagospia il 22 novembre 2022. Da Un Giorno da Pecora

“Ora abbiamo una donna premier ma ne vogliamo ancora, magari alla presidenza della Repubblica. Io ho sempre avuto un debole per Emma Bonino e mi piacerebbe vederla al Quirinale, mi piacerebbe poterla votare, sono sempre stato favorevole al presidenzialismo”. La pensa così la cantante Donatella Rettore, che oggi è intervenuta alla trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. 

Dunque ha votato Bonino alle ultime elezioni? “Mi pare chiaro, certo”. Come ha giudicato la rottura della leader di +Europa con Carlo Calenda? “Sono stata contentissima, la sinistra in Italia non esiste più, si tiene su con la colla regge col Vynavil. Stracciamola questa sinistra che non c’è più e rifondiamo il partito comunista com’era una volta”. Chi le piacerebbe diventasse nuovo segretario del Pd? “Non ne ho idea, di sicuro nessuno di quelli di cui si parla”. Nemmeno Stefano Bonaccini? “No, cerca di rimettere insieme una cosa che non c’è più”.  Infine, torniamo alla musica: quale delle sue canzoni dedicherebbe alla neo premier Meloni? “Splendido Splendente – ha spiegato Rettore a Un Giorno da Pecora -  per favore Giorgia fai tornare questo Paese splendido e splendente”. 

Se quest’anno sarò a Sanremo? “No, non è che non ci voglio andare ma sono stata due volte di fila, adesso voglio fare il disco nuovo, concentrarmi e prendermi del tempo per me”. La pensa così la cantante Donatella Rettore, che oggi è intervenuta alla trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari.

Estratto da "Dadauffa: memorie agitate", di Donatella Rettore (ed. Rizzoli), pubblicato dal “Fatto quotidiano” l'1 novembre 2022.

A Londra andai per stare un mese e ci rimasi quattro anni. Abitavo a Oakley Street, vicino a David Bowie. Ogni mattina scendevo dal panettiere e lo incontravo lì. Indossava il suo lunghissimo trench grigio, aveva il Borsalino in testa e l'eleganza di un lord. Era molto riservato, niente a che vedere con i suoi personaggi. Lui li inventava, li uccideva e risorgeva in altra forma. Li avevo adorati e assorbiti tutti: l'alieno, il messaggero caduto sulla Terra, il mutante metà uomo e metà cane, il pierrot schizofrenico.

Ma davanti a me, al banco del pane, c'era solo un uomo di altri tempi, di un'educazione e di una delicatezza disarmante. La terza volta che lo incontrai, si levò il cappello. Io non esigevo certo questo galateo, ma mi fece piacere perché non sembrava un gesto formale. Gli apparteneva.

Da quel giorno in poi, ogni volta che lo incrociavo, si alzava il cappello e mi chiedeva: "How are you today?", poi se ne andava augurandomi una buona giornata. Ovviamente non aveva la più pallida idea di chi fossi, e io non approfittai della sua disponibilità. Ero inebetita di fronte a lui, uno dei miei miti assoluti, ma fui abbastanza scaltra da non approfondire la conoscenza. 

Mai entrare in confidenza con un mito, se non vuoi essere delusa. Io avevo bisogno che Bowie restasse lì dov' era, irraggiungibile e perfetto. Per strada una mattina incontrai anche Margaret Thatcher. Non sapendo come salutare un primo ministro, accennai un inchino. E lei: "Non sono giapponese". D'improvviso mi ricordai il motivo per cui era scoppiato il punk.

Lascio immaginare quanto mi tremassero le gambe al primo incontro con Elton John. Per quanto cercassi di fare la sostenuta, la donna che non subisce il fascino del famoso, lui si accorse subito del mio imbarazzo. Anche perché, quando mi passò la tazza di tè, me lo versai addosso. Ero improvvisamente un'imbranata, Allora lui, in salopette rosa shocking e occhiali di strass, mi disse: "Sta' calma, babe. Io non sono nessuno, solo Reginald Kenneth Dwight". Poi aggiunse per sdrammatizzare: "Sono Reginaldo. Un omosessuale come tanti altri".

Risi ma ci restai male, perché me lo volevo davvero sposare. E non era così assurda l'idea, visto che poco dopo Reginaldo convolò a nozze con la berlinese Renate Blauel, sua tecnica del suono. Comunque, dopo aver bevuto il tè, Elton si sedette al pianoforte e mi salì un groppo in gola. La sua voce ha sempre toccato le mie corde, artistiche, sensoriali, sessuali.

Non sapevo spiegarmi il fenomeno, ma appena si metteva al piano, io mi bagnavo. Non ci potevo fare niente. Costituiva la prova che il piacere fisico è mentale, perché esteticamente Elton John non corrispondeva certo al mio ideale maschile. Mi rapiva il suo talento, talmente smisurato che nient' altro contava. La sua voce mi portava ad altezze inimmaginabili, che evidentemente si ricongiungevano all'origine del mondo dipinta da Gustave Courbet. Appuntamento in zona pubica, dove la melodia incontra l'anatomia. Me lo feci bastare.

Non frequentai Elton John durante il mio soggiorno inglese, fu piuttosto sua madre Sheila a darmi confidenza. Le piacevano i vestiti pazzi del mio armadio. Mi chiamava per raccontarmi dei suoi acquisti. Una volta andai da loro a mangiare, circondata da maggiordomi e cuochi, e lei volle indossare i miei occhiali e i miei anelli. 

Un'altra volta prese la mia pelliccia fucsia e uscì abbinandoci dei sandali. A dicembre. Era lei la vera eccentrica in famiglia, capace di far impallidire qualsiasi Rocket Man. Lui aveva i suoi giri, e non mischiava il privato con il lavoro. Dispensava però preziosi consigli. Ad esempio, mi indirizzò al corso di mimo tenuto da Peter Brook.

Non me lo feci ripetere due volte. Mi iscrissi e la seguii per tre anni. Fino a quel momento mi ero presa molto in giro, volevo studiare, fare qualcosa di più serio. I primi tempi furono difficili perché insegnavano la gestualità, senza mai ricorrere all'uso della voce. Complicato per una cantante, come per una ballerina ignorare le gambe. 

L'uso della voce arrivò solo all'ultimo anno, e sinceramente non ero brillante nel coordinare voce e gesto. È quanto di più artistico ci sia, un dono che hai o non hai. Nei saggi finali, dove Peter Brook ci onorava della sua presenza, io comunque c'ero sempre, anche solo per un cameo. A lezione venivano Annie Lennox e Kate Bush.

Alle cinque del pomeriggio ci si spostava in una sala da tè lì vicino, alle diciannove migrazione al pub. George Michael fu uno dei primi artisti che conobbi a Londra. Ci ritrovavamo in un ristorante italiano a King' s Road quando lui non era ancora una popstar. Il fisico curato, tiratissimo: capii subito che poteva consigliarmi una palestra come si deve, di quelle blasonate, con personal trainer ed esercizi mai sentiti in Italia. Su questo, Elton John non mi aveva saputo dare ragguagli. Quando gli chiesi della gym, lui rispose: "Cosa? Vuoi dire gin!". 

Franco Giubilei per “la Stampa” il 22 ottobre 2022.

Lo spiritaccio punk è quello di una volta, la determinazione pure: «Lotto per avere l'eutanasia». La bad girl della musica italiana che provocava il pubblico con le sue Lamette e il suo Kobra che «non è un serpente» - anche se oggi dice «non mi rendevo conto che fosse così allusivo» -, fa i conti con 40 anni di carriera e 67 di vita nell'autobiografia Dadauffa (Rizzoli). Donatella Rettore era talmente combattiva che in una sua canzone litigò persino col suo nome - «Non capisco perché tutti quanti continuano stramaledettamente a chiamarmi Donatella», e così via imprecando, fino a mandarla a impiccarsi su un bidet, ma il gusto di spiazzare era enorme e lei ci si divertiva un mondo.

Perché ha pensato di mettere dei punti fermi con la sua autobiografia?

«Non mi sono mai esaltata nella mia vita di cantautrice, era il momento di farlo e di mettere nero su bianco il fatto che scrivo da sempre, anche se nessuno se lo ricorda e io passo per la pazza, la fulminata, ma il pacchetto è completo, e nel pacchetto c'è l'autrice. Ci sono io come donna e come essere umano, e c'è l'origine della mia eccentricità». 

Perché, da dove nasce la sua eccentricità?

«Dalla mia infanzia, dal Carnevale, dai miei genitori che erano molto divertenti, mio padre con la testa fra le nuvole e sempre con un libro in mano e mia madre, attrice dialettale goldoniana, che mi portava alle mostre. A 3 anni, in piazza San Marco, scappai da lei e andai sul palco di un'orchestra a cantare, era il giorno del mio compleanno».

Cosa avvenne con il punk?

«Io sono cambiata profondamente con il punk, il 1977 è un anno molto importante per me: uscì il mio primo album vero, Donatella rettore, che ora riesce in vinile, così come il disco Kamikaze Rock&roll Suicide. Guardavo a band come Siouxsie and the Banshees, che suonavano davvero, mentre i Sex Pistols facevano soprattutto casino. Il punk ha alimentato il mio istinto provocatorio, scandalizzare i discografici mi divertiva». 

Non solo i discografici, il Kobra faceva un certo effetto anche al pubblico 

«Non mi rendevo conto che la canzone fosse così allusiva, per me era naturale, io non ci vedevo niente di ammiccante».

C'era chi la attaccava, ma ha avuto anche difensori illustri.

«Natalia Aspesi mi ha sdoganato: conduceva un programma suo su Rai 3 e nell'82 mi intervistò. Io ero punkissima e lei lungimirante, mi disse: "Non pensavo che oltre a essere così divertente fossi anche così intelligente". Umberto Eco invece disse che il mio unico difetto era di essere nata in Italia, dovendo avere a che fare col perbenismo e il bigottismo italico».

Negli Anni 80 si parlava di una rivalità fra lei e la Bertè, cosa c'era di vero?

«Una volta mi telefonò un giornalista e mi disse: perché non ci inventiamo una rivalità fra te e Loredana? A me sembrava una cosa stupida, io andavo ai suoi concerti e lei ai miei, ma qualcuno ci ha creduto In questo film che è la vita, se non hai un antagonista decade l'attenzione, anche se poi non c'è livore». 

Magari ne avrete scherzato insieme, con la Bertè.

«E invece no, penso che abbia piacere a tenere viva la rivalità Me ne farò una ragione». 

Come vive la situazione politica attuale?

«Sono sempre stata di estrema sinistra e mi trovo a rimpiangere la Democrazia cristiana. Ho avuto dei problemi ad andare a votare. In passato sono andata per Bonino e per Pannella». 

Che effetto le fa la vittoria di Giorgia Meloni? Un rischio fascismo esiste davvero?

«Non lo so, bisogna vedere come si comporta al governo. È vero che la destra è aggressiva, ma la sinistra non c'è più Quanto alla Meloni mi auguro che, essendo femmina - l'ha ripetuto più volte, sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana - sia attenta ai bisogni delle donne, a cominciare dalle violenze».

Oggi c'è una guerra in corso, cosa ne pensa?

«Mio padre è tornato dai campi di Buchenwald e Mauthausen che pesava trenta chili, era scappato con un gruppetto di internati. Vennero i partigiani a chiedergli di combattere e lui disse che mai avrebbe ripreso un'arma per uccidere qualcuno. Trovo che ci sia scarsa mobilitazione per la pace».  

Per che cosa vale la pena combattere?

 «Lotto per l'eutanasia. Mia mamma è stata per otto anni su una sedia a rotelle, nei momenti in cui si sentiva meglio mi chiedeva due cose: dammi una sigaretta e fammi morire».

Roberta Scorranese per corriere.it il 15 agosto 2022.

Lei si è fatta un po’ romana per amore di lui («Lo possino») e lui ha accettato di farsi un po’ veneto per lei. Donatella Rettore da Castelfranco Veneto (67 anni) e Claudio Rego da Roma (69) stanno insieme dal 1977. Anche se si sono sposati solo nel 2005. Cantautrice molto famosa lei, musicista raffinato lui. E con lei, Donatella, che nonostante quattro vaccini e rigorosa attenzione, si è presa il Covid. 

Come sta, prima di tutto?

Donatella «Meglio, diciamo in lento miglioramento. La febbre è passata, io devo stare attenta perché sono fragile ma ho fatto quattro vaccini». 

Quarantacinque anni insieme. Come ci si arriva?

Donatella: «E pensare che all’inizio ho odiato Claudio».

Claudio: «Aveva tutte le ragioni del mondo». 

Raccontate.

Donatella: «Era il 1976, studio di registrazione. Io ero una ragazzina, aspiravo a Sanremo, facevo le selezioni per Castrocaro. Dovevo incidere, in sala incontrai Claudio».

Claudio: «Fui un vero cafone con lei». 

Donatella: «Mi disse: “Ahò, ma che vieni a fa, i cori?”, o una cosa simile. Mi infuriai e dissi a me stessa: “Con questo qui mai, manco una cena”». 

E invece.

Claudio: «È stata pura antipatia all’inizio. Però sentivo che c’era qualcosa. Ci ha pensato la fortuna a farci incontrare di nuovo, mesi dopo, a Taranto. Allora le ho parlato. Quando sono tornato a Roma mi sono reso conto che m’ero preso una bella imbarcata».

Una bella cotta?

Donatella: «Ma raccontala tutta, dai». 

Claudio: «Raccontala tu».

Donatella: «La verità è che una volta questo povero cristiano ha rischiato la vita per me. Io ero a Foggia, mi pare, per delle date, lui stava facendo il servizio militare. Si fece dare tre giorni di licenza, prese un treno e un treno dell’epoca, perché mica c’era l’alta velocità. Dopo ore di convoglio arrivò e scoprì che doveva farsi alcuni chilometri a piedi, perché i collegamenti con il posto dove stavo io erano rari. In campagna. Con dei cani randagi che a momenti lo sbranavano. Ho capito allora che era quello giusto». 

Rettore, lei è sempre stata uno spirito non ingabbiabile, tra le prime donne a cantare l’amore libero.

Donatella: «Quando uscii con Kobra era il 1980, quindi non eravamo nel Medioevo. Ma la canzone faceva “Kobra non è un serpente/ ma un pensiero frequente”. Una professoressa siciliana mi denunciò perché sosteneva che si trattava di un testo pornografico. Sa che feci? Le mandai dei fiori». 

E oggi Donatella è «fuori» con un singolo, cantato insieme al giovane Tancredi, che si intitola «Faccio da me». Parla di libertà, indipendenza, ma è anche un’allusione all’autoerotismo. Rego, niente da dichiarare?

Claudio: «Se inviti il tuo partner a “far la lotta” e su quel fronte non tira una buona aria, una soluzione per evitare il persistente mal di testa può essere il “fai da te”».

Enigmatico.

Claudio: «L’autoerotismo è comunque una pratica molto più diffusa di quanto ciascuno sia disposto a confessare».

Donatella: «Alt, io non l’ho mai fatto». 

Rettore, ma davvero? Non ci crede nessuno.

Donatella: «Ma è vero, non ne ho mai avuto bisogno. E poi, scusa, stiamo insieme da quarantacinque anni, certo, abbiamo avuto i nostri alti e bassi, ma siamo sempre stati una coppia, che bisogno avrei avuto di fare da me?».

Claudio: «Ma sì, penso che quella canzone non sia autobiografica. Ma se anche fosse non mi sentirei per questo sminuito nel mio ruolo». 

Rettore, la prima volta con chi è stata?

Donatella: «Ma con Claudio, 45 anni fa. Punto».

Comunque è curioso: Rettore la trasgressiva, Rettore che canta «Perdo i sensi lentamente/ Come tra le braccia di un amante», Rettore che allude alla «notte specialmente» e poi, magari, nella vita è tutt’altro. È così?

Donatella: «E pensare che pochi ricordano Lailolà». 

Quella che faceva «Ha lasciato un fiore rosso sul candore di ogni letto/ Ma sul mio balcone verde ha lasciato il suo coraggio/E un biglietto con suo nome Libertà»?

Donatella: «Proprio quella. In Italia nessuno aveva capito che era una canzone sulla perdita consapevole della verginità e nessuno disse niente. Ma all’estero la capirono subito. Ecco perché negli anni Settanta e Ottanta in Germania, Francia, Spagna mi adoravano. Potrei citare anche Maria Sole, una canzone che parlava di aborto nel 1975. Ricordo che la legge 194 sarebbe arrivata soltanto tre anni dopo. E pensate che sono nata e cresciuta in un Veneto che non era solo bianco, ma per me all’epoca era oscurantista». 

Perché vi siete sposati così tardi?

Donatella: «Perché stavamo insieme da tanto, i figli non sono arrivati, io sono pure talassemica, un giorno gli dissi: “Senti, sposiamoci e non se ne parli più”. C’è un che di macabro e fatalista in me, a dispetto della mia energia e dei miei look. Pensi che ho fatto testamento quasi vent’anni fa».

Claudio: «La fiducia reciproca ce la siamo guadagnata però sul campo e questo, col tempo, ci ha permesso di raggiungere la certezza di poter contare sempre sull’aiuto dell’uno per l’altra». 

Rettore, c’è stato un momento in cui ha pensato «Faccio da me» anche nella vita?

Donatella: «Se con questo si intende lasciare Claudio, per carità, no. Però “Faccio da me” nella canzone vuol dire tante cose. Consapevolezza, autoironia, libertà. Imparo tanto da Tancredi, anche se è un ragazzo di soli vent’anni. È intelligente, scanzonato. All’inizio era molto sulle sue, ma poi ha capito che io sono più matta di lui. Come imparo tanto anche da Margherita (la cantautrice Carducci, nome d’arte: Ditonellapiaga, ndr): mi ha insegnato che il cellulare si può anche spegnere, ogni tanto». 

Vi siete sposati in chiesa?

Donatella: «In un convento francescano, tutti e due vestiti di bianco. Invitati d’onore, Elvis e Leone, i nostri cani».

Rego, che cosa in Donatella non è mai cambiato, nonostante tutti questi anni insieme?

Claudio: «La sincerità. Lei è sempre sé stessa, anche quando fa follie».

Ne racconta una?

Claudio: «Alcuni anni fa, durante un concerto, tra il pubblico c’era un individuo che mostrava incessantemente a Donatella il dito medio. Premetto che io ho l’abitudine di suonare a occhi chiusi e che sul palco la mia postazione con la batteria è esattamente dietro di lei. A un tratto non sento più la sua voce, apro gli occhi e non è più davanti a me, dove dovrebbe essere. Sparita. Si era fiondata dal palco direttamente sulla folla per raggiungere il giovanotto. Il pubblico, che era dalla nostra parte, ha atteso che lei terminasse di “cecchinarlo” per poi ricatapultarla sul palco e terminasse il concerto come nulla fosse». 

Be’, decisamente un «Faccio da me». È così?

Donatella: «Ma sono sempre stata così. Capite perché le suore del collegio di Asolo dove studiavo si mettevano le mani tra i capelli? ». 

Donatella Rettore, "libertà di insulti". L'intervista con la Fagnani diventa un caso: sui social finisce male. Alice Antico su Il Tempo il 18 aprile 2022.

Donatella Rettore finisce nel mirino del web dopo l'intervista a “Belve”, il programma di Rai2 condotto da Francesca Fagnani, La cantante ha scatenato l’ira del pubblico con constatazioni forti e, soprattutto, rivoluzionarie. La conduttrice l’ha incalzata su alcune espressioni utilizzate da lei in passato – come la F-word e la N-word – e la celebre artista non si è tirata indietro dal ribadire la sua posizione in merito al lessico da usare in pubblico.

L’argomento era dunque il “politicamente corretto”, con sfumature che ricordavano quanto successo durante “Felicissima Sera” di Pio e Amedeo. Secondo Donatella Rettore “L’importante sono le intenzioni” alla base di un’espressione. Tanti sono stati i tentativi in cui la Rettore ha citato altri colleghi, ma il paragone non regge né per i social né tantomeno per la Fagnani. Quest’ultima, infatti, ha ricordato una vecchia partecipazione tv della sua ospite, la quale parlò di “gay” e “checche” facendo una distinzione tra i due termini: “In una trasmissione tv lei disse: ‘Io piaccio ai gay e non alle checche, piaccio a quelli che oltre ad essere gay sono uomini, mentre Raffaella Carrà e Patty Pravo sono icone delle checche vintage’ ”. 

La Rettore, inizialmente disorientata, ha replicato poi alla questione senza giri di parole: “Non ho detto questo, io non sono imbarazzata… Per me esistono i gay e le checche, esistono i gay che sanno di avere le pa**e e ci sono gli isterici che parlano male, si strappano i capelli e fanno i pettegolezzi, e io quelli non li voglio proprio neanche sulla soglia di casa”.

La conduttrice, di seguito, l’ha incalzata ulteriormente sulla questione, spiegandole come la libertà di insulto non abbia nulla a che vedere con il “politicamente scorretto” - “Dov’è la libertà nell’insultare? Dare della tr**a a qualcuno è un insulto, non è un politicamente scorretto”. La cantante non si è smossa, ha solo continuato a ribadire di poter esprimere determinati pensieri: “Io rivendico la possibilità di usare anche certi termini, sennò ci facciamo della censura”. A suo dire, l’insulto acquisisce un significato diverso in base alle intenzioni del parlante.

Sui social, intanto, è scoppiata una bufera, con utenti che hanno preso completamente le distanze dalla cantante e le hanno ricordato il significato del concetto di “libertà di parola”. La conduttrice tv Stefania Orlando ha scritto: “Alzi la mano un gay che ama sentirsi chiamare fr***o”.

Da davidemaggio.it il 7 aprile 2022.

Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Rai2. Nella prossima puntata la conduttrice intervista Donatella Rettore e per due volte si assiste a uno scontro duro, durante il quale la Rettore fa dichiarazioni che sicuramente faranno discutere.

Fagnani, infatti, le ricorda quando la Rettore disse: “Io piaccio ai gay non piaccio alle checche, mentre Raffaella Carrà e Patty Pravo sono icone delle checche vintage” .“Queste cose che ha detto – le chiede la Fagnani- non la imbarazzano?”.

Rettore risponde e rilancia:

“No, non sono assolutamente imbarazzata, per me esistono i gay e le checche, esistono i gay che sanno di avere le palle, e ci sono gli isterici che parlano e si strappano i capelli, fanno i pettegolezzi e quelli non li voglio nemmeno sulla soglia di casa”. 

Quando la Fagnani ricorda alla Rettore altre sue esternazioni non proprio corrette, si assiste ad un altro battibecco:

“C’è una limitazione alla libertà, si mettono dei filtri a cose che sono state ampiamente superate, ad esempio il fatto che non si possa dire fr*cio e t*oia”.

“Ma qual è la libertà – chiede allora la Fagnani- nel dire certe parole?” . Rettore insiste:

”Adesso Vasco Rossi non potrebbe più dire “è andata con il ne*ro la troia”. 

Fagnani allora: “E infatti lui usava troia come un insulto, qual è la libertà nel dare a qualcuno del frocio o della troia?”. Rettore allora senza freni dice: “Io rivendico la possibilità di usare frocio e ne*ro, non mi sembrano insulti se uno è colorato…dipende dal modo in cui uno lo dice, se tu dici brutto ne*ro è una cosa, se tu dici negretto è un’altra”. 

Un’intervista autentica, un ritratto a tutto tondo di Donatella Rettore, icona rock degli anni ’80, di recente tornata sulle scene. La Rettore non si risparmia con le dichiarazioni forti, sia quando parla di sé, del suo passato del rapporto un po’ surreale con la religione, sia quando esprime giudizi senza chiaroscuri sui colleghi, da Loredana Bertè a Dito nella Piaga. Un’ intervista che farà certamente discutere.

Simona Marchetti per corriere.it il 28 marzo 2022.

Le hanno appena tolto il gesso, doloroso ricordo di una recente caduta con i suoi adorati cani che le è costata un braccio rotto e attualmente è in tour nei teatri con il suo spettacolo, che fa da apripista al nuovo disco, a cui parteciperà probabilmente lo stesso Achille Lauro che lei avrebbe tanto criticato dopo il Festival di Sanremo. O almeno così hanno scritto, perché in realtà Donatella Rettore - anzi, solo Rettore «perché non ho mai amato il mio nome e così mi sono inventata un nuovo modo di chiamarmi» - racconta una storia diversa. 

«Ho fatto nomi e cognomi di artisti che mi piacevano e invece hanno riportato il contrario - ha detto la cantante, ospite di Silvia Toffanin nel salotto di “Verissimo” -. Considero Achille Lauro ben più di una cantautore, è un personaggio creativo, strano, che può fare qualsiasi cosa. E poi siamo della stessa casa discografica. Non capisco perché abbiano voluto farmi dire cose che non penso. Mi dispiace, ma questa volta hanno proprio toppato».

Nessun errore invece quando si parla del rapporto con Loredana Bertè, che non esiste per niente. Ma non per colpa della Rettore. «La rivalità l’ha inventata lei - ha confermato la 66enne cantautrice e attrice - poi ci ha creduto talmente tanto che è diventata realtà. Da parte mia, non mi sento assolutamente in competizione. Anzi, se lei vuole, possiamo fare pure un duetto. Io sono disponibilissima». Il problema è che le due proprio non si prendono. 

«Non c’incontriamo mai e quando succede lei si gira dall’altra parte. Non abbiamo un rapporto. Pazienza», ha continuato la Rettore, rivelando inoltre di essere talassemica di famiglia («questi anni di Covid li ho vissuti con il terrore, perché se me lo becco, io ci resto») e di stare con il suo Claudio da ben 45 anni («non c’è giorno in cui non litighiamo, ma non è mai venuto a mancare il rispetto»). 

Una carriera fra alti e bassi quella della Rettore, che sul palco dell’ultimo Sanremo ha fatto coppia con l’esordiente Ditonellapiaga con il brano «Chimica». «La mia carriera sono le montagne russe - ha concluso la cantante - ma per una grande artista ci devono essere le montagne russe. E nei momenti in cui ti capita di essere giù, non può starti vicino nessuno, eccetto il tuo cane, perché ha il sesto senso e capisce cosa c’è che non va. Del resto chi non ama gli animali, non ama nemmeno gli esseri umani».

Mattia Marzi per il Messaggero il 13 marzo 2022.

«Le icone? Stanno sul computer. Piuttosto, chiamatemi leggenda», ridacchia dall'altra parte del telefono Donatella Rettore. Passano gli anni, ma la voce di Kobra resta sempre esplosiva. 

Dopo essersi ripresa dal tumore che due anni fa la spinse a sottoporsi a un doppio intervento chirurgico («Oggi ne parlo al passato», dice lei, fiera), la 66enne cantautrice veneta si gode la nuova popolarità anche tra i giovanissimi arrivata con la partecipazione in duetto con la romana Ditonellapiaga al Festival di Sanremo 2022 (proprio a Roma avrebbe dovuto esibirsi domani 14 marzo, al Brancaccio, prima di rinviare il concerto al 21 maggio: «Non me la sento di salire su un palco sapendo che nel frattempo c'è gente che muore», ha fatto sapere).

Con Chimica ha vinto un Disco d'oro. Non accadeva dal '94.

«Ma per il valore che hanno oggi io preferisco tenermi stretta quelli che ho vinto quando album e singoli si vendevano sul serio. Tra gli Anni 70 e 80 ho venduto più 45 giri di Mina, lo sa?». 

Non esageriamo.

«Sono seria. A livello di singoli sono un'artista da record. Con Carmela, che nel '77 conquistò mezza Europa, Splendido splendente, Kobra, Donatella, Lamette ho vinto sei Dischi di platino e ventisette Dischi d'oro, che all'epoca premiavano i 45 giri che avessero venduto almeno 500 mila copie». 

Oggi basta vendere un decimo delle copie, peraltro non fisiche.

«Appunto. Però sono contenta che in un periodo storico in cui le canzoni che dominano le classifiche sono senza contenuti, un pezzo come Chimica si stia facendo rispettare». 

Le tue labbra sulle mie labbra: il testo allude a un rapporto saffico?

«No, macché: parla di un rapporto etero». 

Non ci sarebbe niente di male.

«Lo dice a me, che nell'80 scrissi un pezzo intitolato Gaio? Ho sempre incarnato la libertà». 

È per questo che per il mondo Lgbt è una paladina?

«Sì. E il politicamente corretto, mi permetta di dirlo, mi sta stretto». 

A cosa si riferisce?

«C'è una limitazione della libertà eccessiva. Si mettono dei filtri a cose che sono state ampiamente superate». 

Ad esempio?

«Il fatto che non si possa dire fr. o tr.». 

Così rischia di essere fraintesa: il terreno è scivoloso.

«Quello che voglio dire è che dal politicamente corretto al bigottismo il passo è breve. Se la pensiamo così, oggi Vasco non potrebbe cantare è andata a casa con il negro la troia».

I Rolling Stones hanno tolto dalla scaletta dei loro concerti Brown Sugar perché il testo contiene riferimenti alle donne di colore: lei lo avrebbe fatto?

«No. Trovo assurdo che uno come Mick Jagger abbia accettato di autocensurarsi. Se questo significa essere politicamente corretti, io preferisco essere politicamente scorretta». 

Lei è mai stata censurata?

«Ai tempi di Kobra, considerata scandalosa per il testo pieno di doppi sensi a sfondo sessuale. Sa cosa mi censurarono? Il verso finale: Quando amo». 

Oggi Achille Lauro si auto-battezza in diretta tv: i tempi sono cambiati?

«Ogni stagione ha i suoi frutti». 

Come sono quelli di oggi rispetto al passato?

«Direi peggiori. Achille Lauro non lo reputo neppure un cantautore: può fare film, quadri in cui si trafigge. Invece trovo che Emma sia una grande cantante e una grande donna: peccato sia servita male dagli autori che scrivono per lei».

Rkomi?

«Chi?». 

Era anche lui a Sanremo.

«Ah sì? Non ci ho fatto caso. Non so chi sia. Ma non lo scriva (ride ndr). A Sanremo c'era pure il pescatore». 

Prego?

«Quello là Come si chiama? Si è presentato sul palco indossando una rete da pesca». 

Si riferisce a Irama?

«Esatto, lui. È stato bravo: ma come si era conciato?».

 È vero che nel nuovo disco in uscita in primavera ci sarà una cover di Musica ribelle di Finardi?

«Sì. Ha un testo attualissimo: mi piacerebbe farlo scoprire ai giovani, spronandoli a mollare i telefonini. Non fanno più sesso». 

Rettore: «Io trasgressiva? La prima volta fu con mio marito, 44 anni fa. Morandi? Se non sa usare i social, si ritiri». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2022. La cantante: sono la voce libera delle donne, i miei testi nascono anche da Platone.

Rettore, lei è davvero intramontabile.

«E chi mi ammazza?»

Vaccinata?

«Certo, tre dosi, ma io sono sopravvissuta anche alla Sars, se la ricorda?».

Si ammalò all’epoca?

«Può dirlo forte, oggi l’abbiamo dimenticata perché si parla solo del Covid, ma io stetti male per un mese. E sono pure talassemica, pensi».

Però a vederla lei sembra il simbolo della salute: piena di energia, curata, provocatoria a Sanremo, spesso battagliera in televisione.

«Ma perché sono la Rettore, mi chiamano per fare casino, è sempre stato così. Lei dice che sono intramontabile e io le dico che alla gente piaccio perché dico quello che penso. Anche ai giovani».

Certe sue sfuriate sono memorabili.

«Quasi sempre legate a ‘sto cavolo di Sanremo. Una volta mi scontrai in diretta con Marcella Bella e Vincenzo Mollica disse quello che non doveva dire, cioè che eravamo due primedonne. Io risposi che lì di primadonna ce n’era una sola. Oggi con Marcella siamo amiche e cantare con lei è una goduria».

Un altro che ce l’aveva sempre con lei era Bevilacqua.

«Scriveva che avevo istinti pruriginosi. Ma si può? Detto da uno di Parma, poi».

Be’, lei cantava versi come «Il kobra non è un serpente/ ma un pensiero frequente/ che diventa indecente».

«Guardi che l’altra canzone contenuta nel disco, Delirio, era ancora più conturbante».

Quella che faceva così: «torbidamente guidata/ dalla mia vita dannata»?

«Raccontavo il sesso dalla parte delle donne, ma capitemi: sono nata e cresciuta in un Veneto che non è solo bianco, ma secondo me all’epoca era oscurantista. Mia madre avrebbe voluto studiare ma siccome era donna e la famiglia aveva deciso diversamente ha dovuto mettersi a lavorare. Io volevo diventare la voce libera delle donne che si prendono la bellezza e la libertà a cui hanno diritto».

«Di notte specialmente», per citare un altro successo?

«Ah, quella canzone appartiene a tempi più maturi. Eravamo a metà degli anni Novanta e io vedevo che le battaglie femministe non avevano portato a niente. Era un invito a vivere la notte e i piaceri senza pensare all’indomani, “giocando solamente”».

Il testo di «Kobra» però fece arrabbiare più di uno.

«Una professoressa di Palermo presentò una specie di esposto dicendo che io traviavo i giovani. Mi arrabbiai , perché mi sentivo pura come una cascata d’acqua di roccia».

Il brano, uscito nel 1980, arrivò in vetta alle classifiche della Germania.

«Guardi che alla fine degli anni Settanta io ero in testa alle classifiche di mezza Europa tranne che in Italia. L’incontro con Elton John avvenne proprio ad Amburgo. Io ero cotta persa di lui, che suonava il pianoforte con Kiki Dee. Avevo una borsa piena di suoi vinili, mi avvicinai e gli mormorai un complimento. Lui mi gelò con lo sguardo, ma Kiki mi volle parlare. Qualche tempo dopo, lui musicò per me canzoni come Remember».

Ancora oggi ragazzi e ragazze intonano «Splendido splendente», canzone che ha 42 anni. Come mai secondo lei?

«Perché per me i testi dei brani sono sempre stati molto importanti. Hanno una profondità e una struttura linguistica che curo fin nei dettagli. Non tutti sanno che io leggo Shakespeare e Platone, anzi, Platone è la vera strada che ho sempre seguito. Per esempio mi ha insegnato a prendermi sempre le responsabilità delle mie azioni. Se io faccio un post su Facebook o Instagram me ne assumo la responsabilità e agisco di conseguenza».

Non come fanno altri, vuole dire?

«Non come quelli che prima mettono sui social un pezzo di canzone destinata a Sanremo e poi “oh, ho sbagliato, scusatemi, sono uno sbadato” e cose così. Ma dai. E allora, con affetto, dico: Morandi, ti devi ritirare!».

Platone insegna.

«Ma bisogna essere coerenti. Io, a modo mio, lo sono sempre stata».

Dunque nella vita si è presa tutto il piacere che una donna poteva prendersi?

«Guardi, la mia prima volta è avvenuta a diciannove anni ed è stata una bella fatica. Ma si doveva fare, lui sarebbe poi partito e rimasto via a lungo».

Con chi l’ha fatto?

«Con Claudio Rego, l’uomo con cui sto ufficialmente dal 1977!»

Ma Rettore, questa lei la chiama trasgressione?

«E che ci posso fare se siamo ancora innamorati? Certo, non siamo riusciti ad avere un figlio, cosa che abbiamo desiderato tantissimo. Però io ci ho provato: mi sono presa dei lunghi periodi di riposo, ho cercato di allontanare lo stress per favorire la fecondazione, ma niente, il figlio non è arrivato e pazienza».

Su, racconti una trasgressione vera.

«Guardi, tanto per farle capire: nel periodo in cui Biscardi mi invitava al Processo del Lunedì perché sono una tifosa della Hellas di Verona, un giorno incontrai Corrado Pani. Mi fece una corte discreta, poi mi invitò a cena ma io gli risposi che Claudio mi aspettava fuori, come sempre».

Abbiamo capito, «di notte specialmente» non succede niente.

«In verità ho avuto un corteggiatore particolare e molto famoso, ma non posso rivelare il nome. E se è per questo anche una spasimante donna. Ma non dirò mai chi sono. Ah, per chi lo stesse pensando, no, non è Berlusconi: l’ho conosciuto bene, ma non mi ha mai filato. Chissà perché».

Donatella Rettore è anche un look indimenticabile. Le paillettes, i lustrini, i capelli dritti, le spalline. Oggi vediamo tante cantanti esibire un look simile.

«Sì ma adesso non mi faccia fare come i Cugini di Campagna: se qualcuna oggi si veste come mi vestivo io sarà sicuramente un caso e non perché mi sta copiando. Però una cosa mi vanto di averla fatta».

E qual è?

«Io ho sdoganato il fisico maturo. Minigonne dopo i quarant’anni, scollature dopo i cinquanta. Se una ha un bel corpo non capisco perché non si possa fare. Questa è stata, diciamo, un’altra fase della mia carriera, un nuovo messaggio rivolto alle donne: credete in quello che siete».

Anche con David Bowie, a Londra, parlavate di vestiti?

«La conversazione più interessante che abbiamo avuto è stata proprio su questo tema. Mai parlato di musica con lui. A Londra, poi, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, vedevo ragazzi con lamette appese tipo ciondoli. Ma io le lamette le avevo già viste a Roma, la lametta ricorreva nel gergo, in frasi come “mo’ me tajo”. E così nacque “Dammi una lametta che mi taglio le vene”».

Donatella Rettore: «Salutista dopo la malattia, cucino solo verdure al vapore. Col prete giusto mi confesso»

Donatella Rettore in concerto: «Splendida, splendente e vaccinata»

Ancora oggi c’è chi risponde «Diventa bieca questa notte da falene».

«Quando la cantai per la prima volta, a Discoring nel 1982, eravamo a Roma e un ragazzo del pubblico mi disse: “‘A Rettò, sta canzone nun funziona”. Ci rimasi male, ma quello diventò uno dei miei successi più intramontabili».

Ha più amici o amiche?

«Guardi, sia l’uno che l’altro. Ma mi piace qui citare una donna molto intelligente e che è stata spesso vittima di pregiudizi: Sabrina Salerno. È simpatica, talentuosa, fa battute formidabili, mi fa ridere. Purtroppo non sempre il mondo coglie quello che siamo. O non fino in fondo».

Luca Dondoni per "la Stampa" il 21 gennaio 2022.

Ditonellapiaga (Margherita Carducci) e Donatella Rettore parteciperanno a l Festival di Sanremo con Chimica e la copertina del singolo mostra il volto di una donna con la bocca aperta e la lingua biforcuta. Un riferimento esplicito al Kobra «che non è un serpente, ma un pensiero frequente che diventa indecente». 

«Ma non era nelle mie intenzioni - dice lei -. Questa copertina mi fa venire il nervoso. Le dico la verità, non condivido nulla di quella immagine. Avevo pensato a un foglio di quaderno a quadretti, che io e Margherita avremmo baciato col rossetto e poi firmato. Ma poi tocca piegarsi alle logiche discografiche e vabbè».

Non è che poi sul palco si arrabbia come nel 1977 quando tirò le caramelle sulla testa delle persone sedute nelle prime file dell'Ariston?

«Quella volta ero arrabbiata con il pubblico vip che mi guardava con sufficienza. Era pieno di parrucconi e signore in lungo e io ero solo una ragazza di belle speranze. La voglia di rivoluzione era nell'aria e le respiravo a pieni polmoni»

A proposito di rivoluzione, dopo i Måneskin sembrava che la kermesse si votasse definitivamente ai giovani e invece in gara ci siete lei, Morandi, Ranieri e Zanicchi.

«Ma io non c'entro niente con Morandi, Ranieri e la Zanicchi. Loro sono di un'altra generazione e poi dai, l'anno scorso c'era Orietta Berti e l'anno prima la Vanoni. Manca solo che torni Mina e il festival si è ripreso tutti i big degli Anni '60. Le mille bolle blu del 1961 è ancora una delle mie preferite».

In Chimica canta «non mi importa del pudore, delle suore me ne sbatto totalmente». «Sono cresciuta dalle suore e con questa frase mi sono vendicata di tutto quello che ho subito. Ricordo i ceffoni, i calci nel sedere anche se c'era una suorina minuta, l'unica davvero gentile, Suor Esterina; lei mi è rimasta nel cuore. Purtroppo la curia non mi ha mai permesso di reincontrarla. Negli anni di Quelli che il calcio con Fabio Fazio, nel programma c'era sempre Suor Paola tifosa della Lazio. Chiesi alla Rai di poter ospitare Suor Esterina per raccontare la storia della mia infanzia ma la curia non lo permise. Non ho mai capito perché». 

È finalmente ora di girl power all'Ariston?

«Dopo 40 anni, siamo sempre lì: le donne non devono permettersi più di tanto di dire certe cose. Ma bisogna andare avanti, provarci, prendere le critiche, cercare di buttare giù il muro di gomma: vogliamo la parità di genere e il riconoscimento dei diritti per tutti. Drusilla Foer? Una grande, un colpo di genio portarla ». 

Il mondo Lgbtq+ la ama alla follia. S' è mai chiesta perché?

«Perché sono diversa, particolare, come Cher, Madonna o Lady Gaga; femmine alfa amate da uomini, donne, trans, lesbiche o qualsiasi altro genere una persona senta suo. Perché dovrei violentare me stessa per far contenti gli altri? Sarei la prima a starci male. Dicono sempre di fare quello che fa stare bene e siccome la vita dura poco io faccio quello che sono. Qualche tempo fa ho avuto un tumore al seno e ora sono un soggetto fragile, la vita non è più quella di prima e devo stare attenta. Per questo voglio seguire il mio istinto. L'importante, dico sempre, è diventare vecchi ma non adulti».

Come soggetto fragile che ne dice dei no vax?

«Vaccinatevi, perché è la via della salvezza, non possiamo rinchiuderci in un bunker perché voi no vax dovete fare manifestazioni in piazza». 

Le piacerebbe una donna Presidente della Repubblica?

«Non solo mi piacerebbe ma lo dico chiaro: voglio una donna presidente della Repubblica, così come vorrei che la nostra si trasformasse in una Repubblica presidenziale. Tifo per Emma Bonino che vedo autorevole, una politica capace, così come potrebbe esserlo la Cirinnà o Dacia Maraini».

Torna a Sanremo dopo 28 anni. Chi glielo fa fare?

«Per tornare c'è voluto Enrico Ruggeri. Mi ha detto: "se hai un album in uscita vai al festival e in sei giorni porti a casa sei mesi di promozione". L'ho ascoltato e ad aprile esco con un disco che è una bomba».  

·        Dua Lipa.

Dua Lipa: «Io parlo inglese e albanese: la doppia identità adesso è la mia forza». Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022 

La cantante si racconta a 7: «A 15 anni era fondamentale stare in un posto come Londra. Con Internet la tua voce può salire dalla tua stanza» 

Dua Lipa è nata a Londra il 22 agosto 1995, è di origine kosovaro-albanese: ha debuttato a 14 anni su YouTube

Sul rooftop del nuovo Hotel So/Paris appositamente pre-inaugurato, la superstar Dua Lipa guarda tutta Parigi e il mondo con il sorriso dei suoi 27 anni e la certezza di avere centrato lo spirito - fluido - del tempo: è bellissima e androgina, forte e delicata, ha radici kosovare ma è cresciuta nell’Inghilterra che si vuole global. Ha 86 milioni di follower virtuali su Instagram, ha lanciato la newsletter Service95 che è una specie di concierge culturale per condividere indirizzi e storie. E fa concerti molto fisici e reali per portare in tutto il mondo le canzoni del suo secondo album Future Nostalgia (in questo caso la frontiera scomparsa è tra passato e futuro). Canta, certo, anche New Rules , il pezzo manifesto che nel 2017 l’ha fatta esplodere (decalogo di nuove regole molto assertive su come lasciare e soprattutto dimenticare un fidanzato non all’altezza). Dua Lipa incontra 7 in una giornata dedicata a Yves Saint Laurent e al nuovo Libre Le Parfum, del quale è testimonial: anche qui, superamento dei confini. Tra tradizione e modernità, e tra i sessi.

Perché ha scelto Yves Saint Laurent, tra le tante maison con le quali avrebbe potuto collaborare?

«Sono sempre stata fan di Yves Saint Laurent, che era un genio, e mi piace l’identità della maison, che trovo vicina alla mia. Yves Saint Laurent è stato l’artista che ha disegnato lo smoking per le donne, superando i confini: è riuscito a offrire un’immagine di forza e di femminilità allo stesso tempo. Mi sembra che anche nella mia musica e nella mia personalità molte cose ruotino intorno all’idea di essere forti, di farsi valere».

Le piace l’idea di rompere le barriere?

«Sì, nel mio lavoro mi pare di usare molta energia maschile, perché sento che è quello di cui ho bisogno per essere ascoltata. Ma poi nelle canzoni mi piace anche esprimere vulnerabilità, se è il caso, e femminilità, e trovo molta forza anche in questo. Yves Saint Laurent ha saputo affermare il valore della fluidità in un’epoca in cui era forse meno facile di adesso. Provo per lui una grande ammirazione, è stato davvero un precursore».

È un approccio che trova anche nel profumo?

«Il nome Libre Le Parfum evoca libertà, forza. Questo profumo ha una struttura maschile che poi vira al femminile, è perfetto per il mondo di oggi, fatto di fusione di generi e di culture. C’è il fiore di zafferano, coltivato nei giardini di Ourika in Marocco e mi piace anche questa idea di autosufficienza, di controllo della qualità delle materie prime, e poi si sentono i fuori d’arancio. È una fusione molto speciale».

Perché il profumo è importante per lei?

«È così nostalgico, rappresenta una connessione immediata. Il profumo è una cosa davvero personale, e uno dei complimenti più belli che possono farmi è “oh, che buon profumo”».

E il nuovo spot?

«Oltre a me c’è la canzone di George Michael, Freedom , perfetta per evocare questa liberazione, questa voglia di affermazione personale al di là degli schemi di un tempo». 

Anche la sua carriera è piuttosto fuori dagli schemi. Quando ha iniziato a cantare?

«Canto probabilmente da quando sono uscita dal grembo materno. Ho sempre amato la musica. Mio padre era un musicista, quando viveva a Pristina, in Kosovo, suonava la chitarra e cantava in una rock band. In casa a Londra si suonava sempre. I miei genitori amavano il rock britannico e ascoltavano ogni genere di artisti».

Per esempio?

«Mi ricordo che ascoltavamo molto David Bowie e i Police, e poi sono arrivati gli Oasis e i Blur. Ah, e i Sex Pistols a tutto volume, era una casa molto musicale la nostra. Quando sono nata mi sono immersa in quell’atmosfera, in modo molto naturale, tanto che non ho un ricordo di una prima canzone, una prima musica... Era come l’aria che respiravo, è come se avessi sempre ascoltato musica, sempre cantato e ballato, dal primo giorno. Dopo il rock degli inizi ho scoperto il pop, e mi sono detta “ecco, questa davvero è una musica divertente”». 

Ha avuto delle cantanti preferite?

«Sì, per le canzoni e anche per l’immagine che proiettavano. Ho adorato artiste come Pink, o Nelly Furtado, o Alicia Keys. Adoravo la musica e anche quel loro atteggiamento di forza, mi sembravano donne che avevano il controllo della situazione, ero molto ammirata e affascinata. Mi sono sentita in sintonia con loro, ed è qualcosa che continua ancora adesso».

I suoi genitori l’hanno incoraggiata? Cosa hanno detto a una ragazzina che diceva «da grande voglio fare la popstar»?

«È stato fantastico, non pensavo che una cosa del genere fosse possibile. Fare musica era il mio sogno quando andavo a scuola, quando mi inventavo routine di danza al parco giochi o quando cantavo davanti alla tv, ma crescendo mi sono resa conto che sono sogni difficili da realizzare per chiunque, e in più io provenivo dal Kosovo, mi sembrava che diventare un’artista fosse un destino che non riguardasse persone come me. Ma quando hanno visto che ero davvero convinta, che facevo davvero sul serio, i miei genitori mi hanno assecondata, senza forzarmi né frenarmi».

Come è riuscita a farsi notare?

«Sono nata a Londra ma ho vissuto a Pristina dagli 11 ai 15 anni. A quell’età sono tornata a Londra perché pensavo che nessuno mi avrebbe scoperto, in Kosovo. Credo che adesso Internet sia più centrale di prima e che grazie alla rete sia più facile essere ascoltati ovunque si viva, nel mondo. Per me invece, a quindici anni, era davvero importante stare in un posto dove avessi la sensazione che tutto stava accadendo, proprio lì, in quel momento. Per questo sono tornata a Londra, sono stata molto fortunata ad avere questa opportunità».

Da cosa è dipeso questo filo famigliare tra Pristina e Londra?

«Sono nata a Londra perché i miei genitori avevano lasciato il Kosovo a causa della guerra. Per loro è stato un dolore lasciare la città natale, non l’avrebbero mai fatto se non per un motivo così grave, e sono tornati in Kosovo dopo la fine del conflitto e l’indipendenza. Mi è dispiaciuto per loro, questo ha dato a me l’opportunità di fare quel che amo davvero. Tornata a 15 anni a Londra, ho avuto i primi contratti e da lì la mia carriera non si è più fermata».

Bisogna vivere a Londra per sfondare?

«Non credo sia più così, mi pare che adesso viviamo in un mondo dove è possibile avere la propria voce e farsi sentire ovunque ci si trovi. Anche qui torniamo al tema della fusione, della fluidità, di culture e modi di vivere che si intrecciano. Oggi è facile avere origini diverse, anche cantare in una lingua che non sia l’inglese, quando per tanto tempo tutti pensava no che usare l’inglese fosse obbligatorio o quasi. Stanno venendo fuori tanti artisti di lingue e culture diverse, è uno degli aspetti più eccitanti del mondo in cui viviamo, il mix di culture è la cosa che mi piace di più».

E lei come vive la sua doppia cultura, albanese e britannica?

«Sono nata e cresciuta a Londra in una famiglia kosovara, ma quando ero piccola tutto quel che mi interessava era essere totalmente inglese. Da bambina vuoi essere come tutti gli altri, ti vuoi integrare, non apprezzi la tua diversità. Anche il mio nome non mi piaceva, perché rivelava origini che non erano inglesi. Quando mi chiedevano come mi chiamavo pensavo “Oddio, adesso dico Dua Lipa e dovrò spiegare da dove vengo, e raccontare la storia della mia famiglia”».

Che cosa è cambiato, crescendo?

«Ho imparato ad apprezzare questo lato di me, a considerarlo come una ricchezza. La cosa che adoro nella mia vita è avere questa dualità, appartenere a due luoghi allo stesso tempo. Parlo correntemente l’inglese e l’albanese, mi sento a casa a Londra e a Pristina, amo la storia dei miei antenati e le mie radici. Da bambini non ci rendiamo conto, ma adesso trovo questa doppia appartenenza davvero bella, è questo quello che sono».

E l’Italia?

«Per adesso non parlo italiano, mi spiace. Ma conosco un po’ l’Italia anche attraverso Lorenzo Posocco, il mio stylist. Adoro l’Italia e lavorare con gli italiani».