Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LO SPETTACOLO
E LO SPORT
DODICESIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Vintage.
Le prevendite.
I Televenditori.
I Balli.
Il Jazz.
La trap.
Il musical è nato a Napoli.
Morti di Fame.
I Laureati.
Poppe al vento.
Il lato eccentrico (folle) dei Vip.
La Tecno ed i Rave.
Alias: i veri nomi.
Woodstock.
Hollywood.
Spettacolo mafioso.
Il menù dei vip.
Il Duo è meglio di Uno.
Non è la Rai.
Abel Ferrara.
Achille Lauro.
Adria Arjona.
Afef Jnifen.
Aida Yespica.
Alan Sorrenti.
Alba Parietti.
Al Bano Carrisi.
Al Pacino.
Alberto Radius.
Aldo, Giovanni e Giacomo.
Alec Baldwin.
Alessandra Amoroso.
Alessandra Celentano.
Alessandra Ferri.
Alessandra Mastronardi.
Alessandro Bergonzoni.
Alessandro Borghese.
Alessandro Cattelan.
Alessandro Gassman.
Alessandro Greco.
Alessandro Meluzzi.
Alessandro Preziosi.
Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.
Alessio Boni.
Alessia Marcuzzi.
Alessia Merz.
Alessio Giannone: Pinuccio.
Alessandro Haber.
Alex Britti.
Alexia.
Alice.
Alfonso Signorini.
Alyson Borromeo.
Alyx Star.
Alvaro Vitali.
Amadeus.
Amanda Lear.
Ambra Angiolini.
Anastacia.
Andrea Bocelli.
Andrea Delogu.
Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.
Andrea Sartoretti.
Andrea Zalone.
Andrée Ruth Shammah.
Angela Finocchiaro.
Angelina Jolie.
Angelina Mango.
Angelo Branduardi.
Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.
Anna Falchi.
Anna Galiena.
Anna Maria Barbera.
Anna Mazzamauro.
Ana Mena.
Anna Netrebko.
Anne Hathaway.
Annibale Giannarelli.
Antonella Clerici.
Antonella Elia.
Antonella Ruggiero.
Antonello Venditti e Francesco De Gregori.
Antonino Cannavacciuolo.
Antonio Banderas.
Antonio Capuano.
Antonio Cornacchione.
Antonio Vaglica.
Après La Classe.
Arisa.
Arnold Schwarzenegger.
Asia e Dario Argento.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Barbara Bouchet.
Barbara D'urso.
Barbra Streisand.
Beatrice Quinta.
Beatrice Rana.
Beatrice Segreti.
Beatrice Venezi.
Belen Rodriguez.
Bella Lexi.
Benedetta D'Anna.
Benedetta Porcaroli.
Benny Benassi.
Peppe Barra.
Beppe Caschetto.
Beppe Vessicchio.
Bianca Guaccero.
BigTittyGothEgg o GothEgg.
Billie Eilish.
Blanco.
Blake Blossom.
Bob Dylan.
Bono Vox.
Boomdabash.
Brad Pitt.
Brigitta Bulgari.
Britney Spears.
Bruce Springsteen.
Bruce Willis.
Bruno Barbieri.
Bruno Voglino.
Cameron Diaz.
Caparezza.
Carla Signoris.
Carlo Conti.
Carlo Freccero.
Carlo Verdone.
Carlos Santana.
Carmen Di Pietro.
Carmen Russo.
Carol Alt.
Carola Moccia, alias La Niña.
Carolina Crescentini.
Carolina Marconi.
Cate Blanchett.
Catherine Deneuve.
Catherine Zeta Jones.
Caterina Caselli.
Céline Dion.
Cesare Cremonini.
Cesare e Mia Bocci.
Chiara Francini.
Chloe Cherry.
Christian De Sica.
Christiane Filangieri.
Claudia Cardinale.
Claudia Gerini.
Claudia Pandolfi.
Claudio Amendola.
Claudio Baglioni.
Claudio Cecchetto.
Claudio Lippi.
Claudio Santamaria.
Claudio Simonetti.
Coez.
Coma Cose.
Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.
Corrado Tedeschi.
Costantino Della Gherardesca.
Cristiana Capotondi.
Cristiano De André.
Cristiano Donzelli.
Cristiano Malgioglio.
Cristina D'Avena.
Cristina Quaranta.
Dado.
Damion Dayski.
Dan Aykroyd.
Daniel Craig.
Daniela Ferolla.
Daniela Martani.
Daniele Bossari.
Daniele Quartapelle.
Daniele Silvestri.
Dargen D'Amico.
Dario Ballantini.
Dario Salvatori.
Dario Vergassola.
Davide Di Porto.
Davide Sanclimenti.
Diana Del Bufalo.
Dick Van Dyke.
Diego Abatantuono.
Diego Dalla Palma.
Diletta Leotta.
Diodato.
Dita von Teese.
Ditonellapiaga.
Dominique Sanda.
Don Backy.
Donatella Rettore.
Drusilla Foer.
Dua Lipa.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Eden Ivy.
Edoardo Bennato.
Edoardo Leo.
Edoardo Vianello.
Eduardo De Crescenzo.
Edwige Fenech.
El Simba (Alex Simbala).
Elena Lietti.
Elena Sofia Ricci.
Elenoire Casalegno.
Elenoire Ferruzzi.
Eleonora Abbagnato.
Eleonora Giorgi.
Eleonora Pedron.
Elettra Lamborghini.
Elio e le Storie Tese.
Elio Germano.
Elisa Esposito.
Elisabetta Canalis.
Elisabetta Gregoraci.
Elodie.
Elton John.
Ema Stokholma.
Emanuela Fanelli.
Emanuela Folliero.
Emanuele Fasano.
Eminem.
Emma Marrone.
Emma Rose.
Emma Stone.
Emma Thompson.
Enrico Bertolino.
Enrica Bonaccorti.
Enrico Lucci.
Enrico Montesano.
Enrico Papi.
Enrico Ruggeri.
Enrico Vanzina.
Enzo Avitabile.
Enzo Braschi.
Enzo Garinei.
Enzo Ghinazzi in arte Pupo.
Enzo Iacchetti.
Erika Lust.
Ermal Meta.
Eros Ramazzotti.
Eugenio Finardi.
Eva Grimaldi.
Eva Henger.
Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.
Fabio Concato.
Fabio Rovazzi.
Fabio Testi.
Fabri Fibra.
Fabrizio Corona.
Fabrizio Moro.
Fanny Ardant.
Fausto Brizzi.
Fausto Leali.
Federica Nargi e Alessandro Matri.
Federica Panicucci.
Ficarra e Picone.
Filippo Neviani: Nek.
Filippo Timi.
Filomena Mastromarino, in arte Malena.
Fiorella Mannoia.
Flavio Briatore.
Flavio Insinna.
Forest Whitaker.
Francesca Cipriani.
Francesca Dellera.
Francesca Fagnani.
Francesca Michielin.
Francesca Manzini.
Francesca Reggiani.
Francesco Facchinetti.
Francesco Gabbani.
Francesco Guccini.
Francesco Sarcina e le Vibrazioni.
Franco Maresco.
Franco Nero.
Franco Trentalance.
Francis Ford Coppola.
Frank Matano.
Frida Bollani.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gabriel Garko.
Gabriele Lavia.
Gabriele Salvatores.
Gabriele Sbattella.
Gabriele e Silvio Muccino.
Geena Davis.
Gegia.
Gene e Charlie Gnocchi.
Geppi Cucciari.
Gérard Depardieu.
Gerry Scotti.
Ghali.
Giancarlo Giannini.
Gianluca Cofone.
Gianluca Grignani.
Gianna Nannini.
Gianni Amelio.
Gianni Mazza.
Gianni Morandi.
Gianni Togni.
Gigi D’Agostino.
Gigi D’Alessio.
Gigi Marzullo.
Gigliola Cinquetti.
Gina Lollobrigida.
Gino Paoli.
Giorgia Palmas.
Giorgio Assumma.
Giorgio Lauro.
Giorgio Panariello.
Giovanna Mezzogiorno.
Giovanni Allevi.
Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.
Giovanni Lindo Ferretti.
Giovanni Scialpi.
Giovanni Truppi.
Giovanni Veronesi.
Giulia Greco.
Giuliana De Sio.
Giulio Rapetti: Mogol.
Giuseppe Gibboni.
Giuseppe Tornatore.
Giusy Ferreri.
Gli Extraliscio.
Gli Stadio.
Guendalina Tavassi.
Guillermo Del Toro.
Guillermo Mariotto.
Guns N' Roses.
Gwen Adora.
Harrison Ford.
Hu.
I Baustelle.
I Cugini di Campagna.
I Depeche Mode.
I Ferragnez.
I Maneskin.
I Negramaro.
I Nomadi.
I Parodi.
I Pooh.
I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.
Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.
Il Volo.
Ilary Blasi.
Ilona Staller: Cicciolina.
Irama.
Irene Grandi.
Irina Sanpiter.
Isabella Ferrari.
Isabella Ragonese.
Isabella Rossellini.
Iva Zanicchi.
Ivan Cattaneo.
Ivano Fossati.
Ivano Marescotti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
J-Ax.
Jacopo Tissi.
Jamie Lee Curtis.
Janet Jackson.
Jeff Goldblum.
Jenna Starr.
Jennifer Aniston.
Jennifer Lopez.
Jerry Calà.
Jessica Rizzo.
Jim Carrey.
Jo Squillo.
Joe Bastianich.
Jodie Foster.
Jon Bon Jovi.
John Landis.
John Travolta.
Johnny Depp.
Johnny Dorelli e Gloria Guida.
José Carreras.
Julia Ann.
Julia Roberts.
Julianne Moore.
Justin Bieber.
Kabir Bedi.
Kathy Valentine.
Katia Ricciarelli.
Kasia Smutniak.
Kate Moss.
Katia Noventa.
Kazumi.
Khadija Jaafari.
Kim Basinger.
Kim Rossi Stuart.
Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.
Klaus Davi.
La Rappresentante di Lista.
Laetitia Casta.
Lando Buzzanca.
Laura Chiatti.
Laura Freddi.
Laura Morante.
Laura Pausini.
Le Donatella.
Lello Analfino.
Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.
Levante.
Liberato è Gennaro Nocerino.
Ligabue.
Liya Silver.
Lila Love.
Liliana Fiorelli.
Liliana Cavani.
Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.
Linda Evangelista.
Lino Banfi.
Linus.
Lizzo.
Lo Stato Sociale.
Loredana Bertè.
Lorella Cuccarini.
Lorenzo Cherubini: Jovanotti.
Lorenzo Zurzolo.
Loretta Goggi.
Lory Del Santo.
Luca Abete.
Luca Argentero.
Luca Barbareschi.
Luca Carboni.
Luca e Paolo.
Luca Guadagnino.
Luca Imprudente detto Luchè.
Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.
Luca Tommassini.
Luca Zingaretti.
Luce Caponegro in arte Selen.
Lucia Mascino.
Lucrezia Lante della Rovere.
Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.
Luigi Strangis.
Luisa Ranieri.
Maccio Capatonda.
Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.
Mago Forest: Michele Foresta.
Mahmood.
Madame.
Mal.
Malcolm McDowell.
Malena…Milena Mastromarino.
Malika Ayane.
Manuel Agnelli.
Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.
Mara Maionchi.
Mara Sattei.
Mara Venier.
Marcella Bella.
Marco Baldini.
Marco Bellavia.
Marco Castoldi: Morgan.
Marco Columbro.
Marco Giallini.
Marco Leonardi.
Marco Masini.
Marco Marzocca.
Marco Mengoni.
Marco Sasso è Lucrezia Borkia.
Margherita Buy e Caterina De Angelis.
Margherita Vicario.
Maria De Filippi.
Maria Giovanna Elmi.
Maria Grazia Cucinotta.
Marika Milani.
Marina La Rosa.
Marina Marfoglia.
Mario Luttazzo Fegiz.
Marilyn Manson.
Mary Jane.
Marracash.
Martina Colombari.
Massimo Bottura.
Massimo Ceccherini.
Massimo Lopez.
Massimo Ranieri.
Matilda De Angelis.
Matilde Gioli.
Maurizio Lastrico.
Maurizio Pisciottu: Salmo.
Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.
Mauro Pagani.
Max Felicitas.
Max Gazzè.
Max Giusti.
Max Pezzali.
Max Tortora.
Melanie Griffith.
Melissa Satta.
Memo Remigi.
Michael Bublé.
Michael J. Fox.
Michael Radford.
Michela Giraud.
Michelangelo Vood.
Michele Bravi.
Michele Placido.
Michelle Hunziker.
Mickey Rourke.
Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.
Miguel Bosè.
Milena Vukotic.
Miley Cyrus.
Mimmo Locasciulli.
Mira Sorvino.
Miriam Dalmazio.
Monica Bellucci.
Monica Guerritore.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nada.
Nancy Brilli.
Naomi De Crescenzo.
Natalia Estrada.
Natalie Portman.
Natasha Stefanenko.
Natassia Dreams.
Nathaly Caldonazzo.
Neri Parenti.
Nia Nacci.
Nicola Savino.
Nicola Vaporidis.
Nicolas Cage.
Nicole Kidman.
Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.
Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.
Niccolò Fabi.
Nina Moric.
Nino D'Angelo.
Nino Frassica.
Noemi.
Oasis.
Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.
Oliver Stone.
Olivia Rodrigo.
Olivia Wilde e Harry Styles.
Omar Pedrini.
Orietta Berti.
Orlando Bloom.
Ornella Muti.
Ornella Vanoni.
Pamela Anderson.
Pamela Prati.
Paola Barale.
Paola Cortellesi.
Paola e Chiara.
Paola Gassman e Ugo Pagliai.
Paola Quattrini.
Paola Turci.
Paolo Belli.
Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.
Paolo Calabresi.
Paolo Conte.
Paolo Crepet.
Paolo Rossi.
Paolo Ruffini.
Paolo Sorrentino.
Patrizia Rossetti.
Patti Smith.
Penélope Cruz.
Peppino Di Capri.
Peter Dinklage.
Phil Collins.
Pier Luigi Pizzi.
Pierfrancesco Diliberto: Pif.
Pietro Diomede.
Pietro Valsecchi.
Pierfrancesco Favino.
Pierluigi Diaco.
Piero Chiambretti.
Pierò Pelù.
Pinguini Tattici Nucleari.
Pino Donaggio.
Pino Insegno.
Pio e Amedeo.
Pippo (Santonastaso).
Peter Gabriel.
Placido Domingo.
Priscilla Salerno.
Pupi Avati.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quentin Tarantino.
Raffaele Riefoli: Raf.
Ramona Chorleau.
Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.
Raul Cremona.
Raphael Gualazzi.
Red Canzian.
Red Ronnie.
Reya Sunshine.
Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.
Renato Zero.
Renzo Arbore.
Riccardo Chailly.
Riccardo Cocciante.
Riccardo Manera.
Riccardo Milani.
Riccardo Scamarcio.
Ricky Gianco.
Ricky Johnson.
Ricky Martin.
Ricky Portera.
Rihanna.
Ringo.
Rita Dalla Chiesa.
Rita Rusic.
Roberta Beta.
Roberto Bolle.
Roberto Da Crema.
Roberto De Simone.
Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.
Roberto Satti: Bobby Solo.
Roberto Vecchioni.
Robbie Williams.
Rocco Papaleo.
Rocco Siffredi.
Roman Polanski.
Romina Power.
Romy Indy.
Ron: Rosalino Cellamare.
Ron Moss.
Rosanna Lambertucci.
Rosanna Vaudetti.
Rosario Fiorello.
Giuseppe Beppe Fiorello.
Rowan Atkinson.
Russel Crowe.
Rkomi.
Sabina Ciuffini.
Sabrina Ferilli.
Sabrina Impacciatore.
Sabrina Salerno.
Sally D’Angelo.
Salvatore (Totò) Cascio.
Sandra Bullock.
Santi Francesi.
Sara Ricci.
Sara Tommasi.
Scarlett Johansson.
Sebastiano Vitale: Revman.
Selena Gomez.
Serena Dandini.
Serena Grandi.
Serena Rossi.
Sergio e Pietro Castellitto.
Sex Pistols.
Sfera Ebbasta.
Sharon Stone.
Shel Shapiro.
Silvia Salemi.
Silvio Orlando.
Silvio Soldini.
Simona Izzo.
Simona Ventura.
Sinead O’Connor.
Sonia Bergamasco.
Sonia Faccio: Lea di Leo.
Sonia Grey.
Sophia Loren.
Sophie Marceau.
Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Stefania Rocca.
Stefania Sandrelli.
Stefano Accorsi e Fabio Volo.
Stefano Bollani.
Stefano De Martino.
Steve Copeland.
Steven Spielberg.
Stormy Daniels.
Sylvester Stallone.
Sylvie Renée Lubamba.
Tamara Baroni.
Tananai.
Teo Teocoli.
Teresa Saponangelo.
Tiberio Timperi.
Tim Burton.
Tina Cipollari.
Tina Turner.
Tinto Brass.
Tiziano Ferro.
Tom Cruise.
Tom Hanks.
Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.
Tommaso Zanello alias Piotta.
Tommy Lee.
Toni Servillo.
Totò Cascio.
U2.
Umberto Smaila.
Umberto Tozzi.
Ultimo.
Uto Ughi.
Valentina Bellucci.
Valentina Cervi.
Valeria Bruni Tedeschi.
Valeria Graci.
Valeria Marini.
Valerio Mastandrea.
Valerio Scanu.
Vanessa Scalera.
Vasco Rossi.
Vera Gemma.
Veronica Pivetti.
Victoria Cabello.
Vincenzo Salemme.
Vinicio Marchioni.
Viola Davis.
Violet Myers.
Virginia Raffaele.
Vittoria Puccini.
Vittorio Brumotti.
Vittorio Cecchi Gori.
Vladimir Luxuria.
Woody Allen.
Yvonne Scio.
Zucchero.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Solito pre Sanremo.
Terza Serata.
Quarta Serata.
Quinta Serata.
Chi ha vinto?
Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)
INDICE NONA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Superman.
Il Body Building.
Quelli che...lo Yoga.
Wags e Fads.
Il Coni.
Gli Arbitri.
Quelli che …il Calcio I Parte.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che …il Calcio II Parte.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Mondiali 2022.
I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I personal trainer.
Quelli che …La Pallacanestro.
Quelli che …La Pallavolo.
Quelli che..la Palla Ovale.
Quelli che...la Pallina da Golf.
Quelli che …il Subbuteo.
Quelli che…ti picchiano.
Quelli che…i Motori.
La Danza.
Quelli che …l’Atletica.
Quelli che…la bicicletta.
Quelli che …il Tennis.
Quelli che …la Scherma.
I Giochi olimpici invernali.
Quelli che …gli Sci.
Quelli che si danno …Dama e Scacchi.
Quelli che si danno …all’Ippica.
Il Doping.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
DODICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 14 ottobre 2022.
La prima cosa che ha fatto Giorgia Meloni la mattina dopo il voto vittorioso è stata mettersi una felpa e andare dal suo personal trainer. Fabrizio Iacorossi - con la premier in pectore tutta allegra che giocava a nascondino dietro alla sua spalla - ha subito postato un video su Instagram: «Noi ci alleniamo, abbassiamo la tensione e ci prepariamo per tante cose. Daje!». Nella palestra XCross, zona Sud di Roma tra Mostacciano e il Torrino, lo stesso personal è stato condiviso da Francesco Totti e Ilary Blasi, in un'epoca, ovviamente, che non era di spartizione di Rolex e di borsette.
Si stima che, in Italia, i personal trainer siano ventimila e che i timori da assembramento per il Covid abbiano spinto sempre più persone a investire in lezioni individuali, specie all'aperto, a domicilio e online, anche grazie alla nascita di siti e App, che hanno pure abbattuto i costi. Se una lezione in presenza può costare dai 30 ai 100 euro, online, si possono spendere anche solo 15 euro e pazienza se l'impatto non è lo stesso.
Nell'epoca degli ultracorpi esposti sui social e sottoposti alla tagliola dei like, i personal trainer sono una sorta di nuovi guru, incarnano la speranza di somigliare al sé che si ha in mente e, a seconda della fama che hanno, sono esibiti come status symbol. Ognuno si sceglie il suo attraverso il passaparola e, spesso, identificandolo in base ai «belli e famosi» che allena.
Nina Moric ha scoperto e lanciato Nathan Martelloni, «cento chili e solo il tre per cento di grasso» fa sapere lui, che ora ha 119mila follower su Instagram, è testimonial di una linea di integratori e pasti per sportivi e, a Milano, è riuscito nell'impresa di diventare anche l'allenatore di Fabrizio Corona e Belén Rodriguez, ovvero di un intero clan familiare ormai disgregato e finanche rissoso.
«Nina mi scelse nella palestra dove lavoravo nel 2016, ero l'ultimo arrivato. Tutti gli altri 27 colleghi ambivano a essere scelti, ma lei mi vide grande, grosso, tatuato e disse: voglio farmi allenare da te perché mi ricordi il mio ex marito Fabrizio. Risposi: è il mio idolo», racconta Nathan, «qualche anno dopo, Fabrizio sarebbe diventato il mio migliore amico, gli ho mandato anche le schede di allenamento in carcere». Ecco: un vero amico non ti molla nel momento del bisogno e neanche un vero personal trainer.
Accaparrarsi Nina fu un affare, comunque: aumentarono vorticosamente i clienti non famosi. Però, non fu tutto bello, perché il mondo dei trainer può essere competitivo e difficile: «Il fatto che avessi Nina fomentò l'invidia dei colleghi, che mi presero di mira. Dicevano "le ha fatto fare un esercizio che le farà male alla schiena" o andavano dai dirigenti a dire che occupavo tutte le macchine per lei. Insomma, sono stato mandato via, ma tutti i miei clienti, famosi e no, mi hanno seguito, ora sono alla Fit Active».
Da lui si dà il cambio un'umanità varia: «So parlare con il notaio, col rapper Capo Plaza e con Belén. Sono un camaleonte, personalizzo l'allenamento e personalizzo l'approccio: se faccio fare uno squat a Belén, mi metto di fianco, non dietro: non voglio che pensi che le sto guardano il sedere». Chi va dal personal trainer vuole un corpo su misura dei suoi sogni e con un Pt tutto o quasi sembra possibile. Lo stesso Nathan ricorda: «Ho avuto un fisico da lanciatore di coriandoli: da ragazzino, pesavo solo 70 chili e mi bullizzavano chiamandomi così».
La differenza tra fare sport con e senza un personal trainer la si legge sul corpo, centimetro per centimetro. Racconta Caterina Balivo: «In pandemia, mi sono allenata in casa, con altre cinque mamme del mio condominio, ma a giugno eravamo uguali a settembre dell'anno prima, e io ero la più rotonda di tutte: gli sforzi non erano serviti a nulla, perché ogni corpo è diverso e per ciascuno serve un allenamento mirato».
Da lì, la decisione estrema: «Non ho mai fatto davvero sport, ho avuto una personal anni fa, ma poi se ne andò a Dubai e, per pigrizia, lasciai perdere. La verità è che ho sempre mangiato quello che volevo e lo smaltivo senza far nulla, ma dopo i 40, il corpo cambia e, ora, se voglio mangiare come prima, mi devo allenare». Destino ha voluto che, ricominciate le scuole, Caterina abbia scoperto che la mamma di un compagno di classe del suo Guido Alberto fosse personal trainer: «Con Micaela Pellegrino, detta Mimmi, facciamo macchinari e capillarizzazione muscolare: un allenamento funzionale che aumenta l'ossigenazione dei tessuti».
Caterina, ora alla guida di Lingo , il preserale de La7, ammette che fra tv e due figli, la costanza non è il suo forte: «Puntiamo a vederci tre volte a settimana, che poi diventano due o anche una. Allora, Mimmi mi manda video con esercizi da fare a casa. La sera, mi scrive per sapere se li ho fatti e non li ho mai fatti. Spero che funzioni lo stesso: saprò dirle a Pasqua se posso mangiare la colomba».
Quelli che hanno il personal trainer si dividono a grandi linee in due partiti: i molto sportivi che vogliono un allenamento duro e di dettaglio che vada a scolpire con precisione e i molto pigri che, da soli, non riuscirebbero a combinare nulla. Il bravo personal trainer sa accontentare tutti. Diletta Leotta e il cantante Irama, per dire, si dividono con obiettivi diversi Federico Corso, che ha uno studio a Monza ed è anche coach della Buddyfit, specializzata in allenamenti online.
«Diletta ama allenarsi», spiega lui, «la vedo due volte a settimana per un'ora e mezzo e, in più, fa anche yoga. Facciamo un lavoro coi pesi associato alla cardio per ottenere un ottimo tono muscolare e un dispendio di energia elevato. Con Irama, siamo cresciuti insieme a Monza, è un artista e non è tanto interessato al corpo, ma prima del tour, l'ho messo sotto torchio per un anno, per fargli reggere la performance sul palco. Quando si allena, s' impegna tantissimo, ma non è continuativo». Federico ha clienti online e clienti in presenza ed è appena tornato da Disneyland Paris ingaggiato per un allenamento con i super eroi della Marvel. A lui è toccato Iron Man.
In effetti, certi ultracorpi sembrano imprese da super eroi, ma per lo più chi assolda un personal trainer non lo fa per diventare Mister o Mistress Muscolo, ma semplicemente, per restare in forma o mettersi in forma. Michele Cucuzza, storico volto dei Tg, ora spesso ospite di Pomeriggio 5 e mezzobusto ad Antenna Sicilia, nella natia Catania, racconta «Il mio personal trainer è la mia assicurazione sulla vita: se ti alimenti bene e fai una giusta attività fisica, se ne avvantaggia la salute. Infatti, ora che conduco il Tg Sicilia, faccio tutti i giorni il turno dell'alba come se avessi 30 anni. Poi, tre volte a settimana, alle 16, ho la mia seduta online con Roberto Trandafilo, che sta a Roma. Via telefonino, è come se fosse il mio specchio mentre faccio piegamenti, addominali. Uso ciò che ho in casa, come pesi due bottiglie di acqua minerale. Mi permetto di dire che questo mi consente, a 69 anni, di non avere la pancia».
La Milano bene va da Simona Musocchi, già autrice del libro Mondadori I l metodo Smart Gym , titolare di uno studio discretissimo che, fuori, non ha neanche un'insegna: «Il mio cliente tipo è l'imprenditore farmaceutico Sergio Dompé: un manager di successo, molto impegnato e molto in forma. Abbiamo impostato in studio un programma mirato, che lui segue da solo, un quarto d'ora al giorno. Ci vediamo solo ogni tanto per fare un controllo.
Dopo il Covid, tutto è cambiato: in assenza di viaggi, molti manager e professionisti si erano abituati a lavorare di più e, ora con la ripresa dei viaggi, non hanno più tempo. C'è chi arriva da me a piedi e mi dice: il riscaldamento l'ho già fatto. Al che, ho costruito dei programmi che ognuno può fare da solo: è più facile allenarsi tutti i giorni per pochi minuti a casa, che tre volte a settimana in palestra. Non servono pesi o macchine costose, bastano le cose che si hanno, come il bordo del letto per fare i piegamenti sulle braccia. L'importante è aver impostato prima il lavoro, imparando a farlo correttamente con l'esperto e poi seguire un'alimentazione equilibrata cucita su misura».
Il futuro, insomma, va oltre il classico personal trainer. La nuova tendenza sono professionisti ibridi che si occupano di allenamento, ma anche di stile di vita e di alimentazione, col supporto di uno staff con figure professionali diverse. Giacomo Spazzini preferisce definirsi «coach imprenditore» e si racconta così: «Ho un'impresa, la Gs Loft, con sedi a Desenzano Del Garda e Milano Marittima, che forma professionisti, coordino un team che include dietologi, psicologi, medici che prescrivono esami vari di controllo e ho un'App di proprietà che monitora lo stato di benessere del cliente.
Sono il sarto che ti fa un vestito su misura, poi tu, con la mia scheda, puoi allenarti in qualunque palestra del mondo. Il mio amico Sfera Ebbasta, che seguo dal 2018, per esempio, si allena a Milano». Invece, il giovane Blanco, che ha vinto Sanremo 2022 con Mahmood, si allena nella palestra di Desenzano. Lui e Spazzini sono vicini di casa e il cantante è andato da lui dopo Blu , il suo primo album: «Venne e mi disse: siccome sto per diventare qualcuno, è bene che inizi a curare corpo e salute», ricorda il coach.
Per reggere i ritmi del successo ci vuole il fisico e Blanco il fisico se l'è costruito: «Pesava 61 chili e ore ne pesa 67: gli ho fatto mettere sei chili tutti di muscoli, con lo sport e con l'alimentazione, nonostante mangi spesso in giro per alberghi. Deve mettere ancora solo un chilo e mezzo», racconta Spazzini, «il suo obiettivo era essere asciutto e performante, con energia per reggere il palco. Ha fatto tutti i concerti estivi a petto nudo e il pettorale è stato apprezzato». Anche troppo: a maggio, fece discutere una fan che allungò le mani sul palco per palpeggiarlo. Spazzini assicura: «Non credo proprio che si sia offeso».
· Quelli che …La Pallacanestro.
Francesco Persili per Dagospia 12 settembre 2022.
“Porco zio, vai via dal cazzo, vattene”. È Nicolo' Melli ad allontanare dal campo Pozzecco nel concitato finale di Italia-Serbia. Il ct era stato espulso durante il terzo quarto, a partita ancora aperta. È uscito dal campo piangendo, dopo aver abbracciato tutti, giocatori e staff, e persino l’ex giocatore serbo della Virtus Bologna Danilovic in tribuna. L’Italbasket era precipitata a meno 14 punti all'inizio del secondo quarto.
“Eravamo sfavoriti, tutti pensavano che la Serbia vincesse facile ma siamo rimasti in partita e abbiamo vinto”, spiega al termine del match Melli: “Abbiamo vinto perché il nostro allenatore è stato espulso. Battute a parte, Poz ci regala tante emozioni, ci porta sempre dalla sua parte, quando è andato fuori, sapevamo che dovevamo fare di più”.
La sua espulsione “ci ha cambiati dentro”, gli fa eco Spissu, altro grande protagonista del match contro Jokic e compagni: “Abbiamo corso e siamo stati molto concentrati in difesa”. Sudore e furore. Tutti concordi nel definirla una vittoria di “squadra”, di “gruppo”.
Quel gruppo forgiato dal Poz, che a inizio giugno era stato chiamato tra polemiche e scetticismo a prendere il posto di Romeo Sacchetti, l’allenatore che aveva riportato la Nazionale maschile alle Olimpiadi dopo diciassette anni di assenza. Non ce l’ha fatta a restare negli spogliatoi, il Poz. Si è nascosto come un vietcong tra i seggiolini.
Al fischio finale ha provato a entrare in campo ma è stato rimbalzato da Melli. Poi ha incrociato il greco Giannis Antetokounmpo e gli è saltato in braccio dicendogli: “Ti amo”. Immarcabile, come sempre, “la mosca atomica”. Etichettato come una testa matta, è stato sbattuto, complice una pigra definizione dell’ex ct dell’Italbasket "Boscia" Tanjevic, nella ridotta dei “farfalloni”.
“Chi mi crede un fottuto pippatore mi fa incazzare. La mia droga è sempre stata fare il culo a tutti sul parquet. La pallacanestro è la donna della mia vita e ogni canestro è come un orgasmo”. Di lui e del suo vivere imitabile si sa molto grazie a una bombastica autobiografia.
Una notte con Samantha De Grenet, quattro anni con Maurizia Cacciatori e un’orgia un po’ fantozziana con Michael Ray Richardson e Ricky Brown: “Sembravo un piccolo putto tra i bronzi di Riace. Tra tutto, compreso rivestirmi, accendere la tv e iniziare a guardare Starsky &Hutch c’avrò messo 18 secondi netti. Vidi tutta la puntata mentre quelli continuavano a scopare come cani…”.
Divertimento, passione. E una tenacia fuori dal comune. Era il più piccolo della classe ma lo prendevano per pazzo perché voleva a tutti i costi diventare un giocatore di basket. “Nei frangenti più duri, se molli, molli per sempre. Se invece resisti, l’energia che accumuli è la tua riserva nascosta, quella in grado di fare la differenza”.
Adrenalina e elettricità. Il sogno agli Europei continua ma visto che la gloria dura solo un attimo, meglio goderselo fino in fondo, quell’attimo. “Dopo una vittoria così ho girato la mia carta di credito ai ragazzi, facciano quello che vogliono…”
Gianmarco Pozzecco ha 50 anni: Maurizia Cacciatori, la Nazionale, le bestemmie a Sassari, l’Olimpia, gli aforismi, le follie. Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 14 Settembre 2022.
Il c.t. dell’Italia del basket e vice di Messina con l’AX Armani Exchange Gianmarco Pozzecco compie 50 anni. La sua vita e le sue follie
Pozzecco in Nazionale da c.t.
Gianmarco Pozzecco compie 50 anni: è nato a Gorizia il 15 settembre 1972. Già vice di Ettore Messina a Milano e già nel giro dei tecnici azzurri, è diventato commissario tecnico dell’Italbasket dopo il sollevamento a sorpresa di Meo Sacchetti dall’incarico. L’ufficialità è arrivata il 2 giugno e il giorno successivo la conferenza stampa in cui è apparso visibilmente commosso.
Gli azzurri sono impegnati agli Europei di basket, dove hanno centrato la qualificazione alla fase a eliminazione diretta. Domenica gli Azzurri hanno compiuto l’impresa di piegare la Serbia del due volte Mvp Nba Jokic e ora il Poz, la «Formica atomica», vuole regalarsi in anticipo un’altra impresa: battere la Francia e centrare le semifinali.
Il discorso motivazionale
Il discorso motivazionale di coach Gianmarco Pozzecco prima degli ottavi di finale degli Europei di basket tra Italia e Serbia. Il ct tira fuori dalla tasca 40 euro e li offre come premio a chi risponde correttamente a un quiz: «In quale voce statistica siamo primi in tutto l’Europeo?». Arrivano alcune risposte sbagliate (”tiri da tre”, “rimbalzi”), poi a indovinare è Amedeo Tessitori che esclama: «Miglior difesa!». Pozzecco gli consegna le banconote e dice: «È vero, siamo la miglior difesa di tutto l’Europeo. Quindi ragazzi oggi difendiamo, e poi ci divertiamo in attacco. Ok? Andiamo!»
La vittoria sulla Serbia e va in braccio ad Antetokounmpo
Per la tensione della sfida contro la Serbia, il c.t. si è preso due falli tecnici e si è fatto espellere: si è prima messo piangere, poi è saltato addosso a Giannis Antetokounmpo
Che coppia con Ettore Messina
A luglio 2021 Pozzecco era diventato ufficialmente assistente allenatore dell’Olimpia Milano completando lo staff di Ettore Messina . Il Poz aveva appena chiuso due anni e mezzo da capo allenatore di Sassari, squadra che aveva portato alle finali scudetto 2019 perse a gara-7 con Venezia e alla vittoria di Fiba Europe Cup 2019 e Supercoppa 2019. L'approdo a Milano fu clamoroso e anche insolito per il basket italiano, con un capo allenatore che accetta di fare da assistente. La pratica è invece più comune in Nba, dove proprio Ettore Messina e Sergio Scariolo (neo coach della Virtus Bologna) hanno a lungo fatto da vice rispettivamente a Gregg Popovich a San Antonio e Nick Nurse a Toronto. L'operazione di Milano intendeva mettere insieme uno dei guru del basket europeo con un tecnico giovane, con idee innovative, dal carattere esplosivo e oltretutto simbolo storico di Varese, rivale storica dell'Olimpia.
Sospeso dalla Dinamo Sassari
Erano i primi di maggio 2021. «Gianmarco, sei fuori!», gli avrebbe detto Flavio Briatore. O anche Donald Trump, primo conduttore del reality show «The Apprentice». «Gianmacro, sei fuori! Per dieci giorni…», gli ha più semplicemente comunicato il suo presidente a Sassari, Stefano Sardara, e anche dopo questa ennesima burrasca il rapporto tra la Dinamo Basket e Gianmarco Pozzecco, il Gianburrasca degli italici canestri, si è avviato all’epilogo. Sono arrivate le sanzioni della Fiba per le intemperanze del Poz durante la Champions League e il club ha deciso che, «pur essendo il momento delicato, non si può girare la testa dall’altra parte»: quindi il coach è sospeso. Due anni e mezzo finiti di botto. Senza guardarsi indietro. In pur Poz style.
Le bestemmie
Ma che cosa era successo? Che la Fiba aveva comunicato a Sassari le sanzioni (il cui contenuto resta un segreto custodito dal solo Sardara) per una serie di comportamenti di Pozzecco giudicati intollerabili. Non un episodio, ma più episodi. Punto di partenza è il famoso time out nella partita casalinga del 16 settembre 2021 contro il Bakken Bears: Gianmarco si lasciò andare a reiterate bestemmie nel parlare con i suoi giocatori e per questo motivo la Federbasket lo squalificò per una giornata, pena sostituita poi da un’ammenda di 3000 euro. Ma, trattandosi di un incontro europeo, la cosa non poteva sfuggire al livello più alto. Gianmarco all’epoca si scusò e promise di non ricascarci, ma quando nelle scorse ore Sardara ha voluto chiarirsi con lui, sottolineando che non è state solo il «bestemmiagate» a inguaiarlo, il Poz ha confermato di essere fatto in un certo modo e ha aggiunto che al carattere non si comanda.
Squalificato a dicembre per le urla contro gli arbitri
L’ultimo fattaccio imputato all’allenatore si riferiva alla partita conclusiva della Champions, il 9 marzo dello stesso anno sul campo dei cechi del Nymburk. La Dinamo, già eliminata, fu sempre avanti ma crollò nel finale e fu beffata a fil di sirena (in quella trasferta subì pure un furto nello spogliatoio). Gianmarco sbraitò contro gli arbitri nei corridoi del palasport e poi tenne una conferenza stampa infuocata. La Fiba aveva monitorato il Poz ed era giunta, magari con un ritardo non del tutto comprensibile, alla conclusione di stangarlo. Sardara si era poi allineato: «Ci sono delle regole e alla base del nostro club ci sono dei valori e la volontà di preservarli. È una questione di rispetto, sono cose gravi: è una responsabilità verso chi ci segue e ci sostiene, se non si interviene finisce che tutto diventa possibile».
La carriera del «Poz»
Assumere Pozzecco, detto anche Pozzesco, vuol dire però ingaggiare un uomo, oggi di 48 anni, che non ha mai conosciuto vie di mezzo: o amato, o odiato; o stimato come playmaker (ancora oggi stentiamo, tra i registi italiani, a trovare uno che sappia «tagliare» l’intero campo con un passaggio diretto) o criticato per i suoi funambolismi (celebre furono i battibecchi con Boscia Tanjevic, che non lo volle in Nazionale). Auto-soprannominatosi «la mosca atomica» per la velocità e per la taglia del fisico, inventore, negli anni di Varese (culminati nel 1999 nel decimo scudetto del club), della T-shirt «Nobody can defense on me» contenente un voluto strafalcione di inglese, il Poz è ancora oggi, piaccia o non piaccia, uno dei personaggi più noti del nostro basket. E, pur senza avallare le sue intemperanze (inclusi lo strapparsi la camicia dopo una decisione avversa degli arbitri o il rimediare falli tecnici ed espulsioni a gogò, anche perché lui è ormai un pregiudicato), gli va riconosciuto il pregio della coerenza.
Le ex fidanzate Maurizia Cacciatori e Samantha De Grenet
Servirebbe un’enciclopedia per raccontare tutto quello che ha combinato, nel bene e purtroppo qualche volta anche nel male. A Varese arrivò a lanciare la moda dei capelli tinti (il colore più gettonato, soprattutto nei giorni dello scudetto, fu il fucsia: la squadra si adattò a lui), poi il Poz decollò anche come personaggio extra basket.I suoi flirt hanno riempito le pagine dei rotocalchi e quelli con Samantha De Grenet e Maurizia Cacciatori hanno tenuto banco. A dire il vero la relazione con la ex pallavolista stava per culminare nel matrimonio, ma a una settimana dalle nozze tutto andò a pallino: «Semplicemente – avrebbe poi raccontato il Poz – ci siamo resi conto che non avrebbe funzionato». Poi, nell’estate 2021, l’altare c’è stato davvero: con una cerimonia ristrettissima, si è unito a Tanya, spagnola di Valencia.
Le frasi celebri
C’è chi si è preso la briga di catalogare gli «aforismi» di Pozzecco. Ve ne proponiamo qualcuno: «Il basket è uno sport razzista, perché chi è piccolo parte svantaggiato». «Ringrazio tutti quelli che mi hanno insultato in carriera, dandomi la forza di continuare, e che quest’anno mi hanno invece applaudito: questo è stato ancora più bello». «Un consiglio a un giovane giocatore di basket? Fai tutto quello che non ho fatto io e vedrai che andrà tutto bene». «L’unica cosa che davvero non ho mai sopportato era giocare a basket con i canestri senza retina: la retina serve a sentire il ciuff quando la palla entra e a non fartela cadere in testa come un sasso quando stai sotto al ferro».
La Renault 4
A chi ritiene che Pozzecco sia solo un incorreggibile invasato, proponiamo questo passaggio di un’intervista rilasciata lo scorso luglio a Sportweek: «Io sono minimalista, sono contro consumismo e capitalismo. Vi racconto una storia. Sono nato in una famiglia normale, che viaggiava a bordo di una Renault 4. Mio padre era alto due metri e pesava 150 chili. Quando si sedeva al posto di guida, l’auto s’inclinava da un lato. Da ragazzino ho cominciato ad andare in trasferta giocando a calcio. Da Trieste, dove vivevo, eravamo costretti a prendere la “camionale”, una lunga rampa che portava fuori città. Papà era costretto a farla in terza perché, già allora, la nostra era forse l’unica macchina rimasta col cambio a quattro marce. Arrivavo al campo sempre per ultimo. Beh, devo dire la verità: non me n’è mai fregato un cazzo. Oggi un bambino si sentirebbe a disagio, perché c’è la rincorsa al benessere che omologa tutti». Sì, esiste un Pozzecco molto diverso da quello della «vulgata» e vi assicuriamo che merita di essere conosciuto. Al netto delle sue mattane.
Gianmarco Pozzecco: «Ai miei 50 anni chiedo un figlio e una vita seria da c.t. ma io resto la mosca atomica». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022.
Il papà che lo voleva calciatore, le bravate in campo e fuori, «le sbronze omeriche», le storie sotto i riflettori e l’amore riservato («quello vero») per Tanya. Ecco l’ex bad boy che guida la Nazionale.
Gianmarco Pozzecco compirà 50 anni il 15 settembre. Venerdì 2 settembre debutta agli Europei di basket come ct della Nazionale
Sopravvivendo al fatto che i pareri non saranno mai unanimi su di lui - c’è chi continuerà a dire che è matto e chi lo osannerà -, scavalcando l’ipotesi che non tutte le sue rotelle girino nel modo giusto, Gianmarco Pozzecco è diventato c.t. della Nazionale di basket al posto di Romeo Sacchetti, già suo coach, l’uomo che nel 2021 ha riportato l’Italia ai Giochi ma che a inizio estate il presidente federale ha giubilato. Gli Europei al via, con gli azzurri nel girone di Milano, saranno la prima sfida di un allenatore cresciuto negli anni, con esperienze e vittorie importanti (alla guida di Sassari ha centrato una coppa europea e la Supercoppa italiana) e adesso è atteso alla consacrazione. Ma il presente del Poz non si sgancerà mai dal passato di giocatore - la “mosca atomica” che impazzava sui parquet - e da quel personaggio che è diventato noto e riconoscibile (perfino in tv), oltre che protagonista della vita mondana. Una sorta di Balotelli che ce l’ha fatta? «Ci sono cose che non rifarei. Ma nella mia vita non c’è nulla di indegno e nulla che non possa raccontare».
Allora, raccontiamo: Pozzecco si nasce o si diventa?
«Nel senso di un giocatore che è cresciuto libero, deciso a lasciare il segno, Pozzecco si diventa. Ma se la domanda è riferita al personaggio e al suo modo di essere, forse si nasce».
C’è chi ancora la considera un pirla, per quanto simpatico: è una seccatura oppure lascia correre?
«Non posso farci nulla, essere discriminato, in ogni senso, è la colonna sonora della mia vita. Comunque mi fa felice essere visto come un pirla divertente piuttosto che essere catalogato come un non pirla, ma antipatico».
Ha realizzato che sono in arrivo i 50 anni?
«Nei ritagli di tempo con la Nazionale ho giocato a padel e mi sono fatto male. Il dottore mi ha detto: “Il cervello pensa che tu abbia ancora 20 anni, ma i muscoli spiegano che non è così”. Mi pesa? Sì, sono entrato nella stagione delle rinunce forzate: nel mio caso il basket, sostituito appunto con il padel».
Le diamo una macchina fotografica, ma lei ha solo uno scatto per fissare Gianmarco Pozzecco da piccolo. Dove punta l’obiettivo?
«Sul bambino con un pallone in mano e con la bici, in campeggio in Croazia. Sistemavo la palla sul portapacchi posteriore, fermandola con una molla, andavo da mio fratello e gli chiedevo se venisse a giocare. A volte veniva, a volte no».
E quando non veniva?
«Andavo da solo, magari sotto il sole infernale di agosto. Mi ritrovavo su un campo di cemento, unico fesso che al mare faceva quelle cose. E sapete che cosa odiavo? Non il caldo, né il cemento, né che non ci fossero amici. Odiavo il fatto che a volte il canestro fosse senza retina. Non sto bene? Probabilmente è vero, ma se lo trovavo così mettevo dei fili per sistemarlo: un canestro senza retina non può esistere».
Suo padre, pur essendo ex cestista, la stava avviando al calcio.
«A 13 anni mi impose di scegliere tra la squadra di C1 allenata da lui, nella quale giocava mio fratello maggiore, e il Chiarbola di calcio. Avevo già deciso per il basket, ma una sera mi impose, fingendo che fosse una scelta condivisa, il calcio».
Come finì?
«Dissi che avrei obbedito. Ma poi feci di testa mia, come avrei fatto spesso negli anni successivi».
Sempre dal Pozzecco-pensiero: «Ero un po’ stupido perché ero un tappo che voleva sfondare tra i giganti». Invece non è stato un intuito formidabile?
«Sì, forse è stata una genialata. Anche perché non è stato complicato come sembra. È la storia di Davide e Golia: alla fine ha vinto Davide».
Citiamo Maurizia Cacciatori, sua ex fidanzata e “quasi” moglie: «Io, Gianmarco e Andrea Meneghin siamo tre geni mancati della Normale di Pisa».
(risata) «È una delle cavolate che ha detto in vita sua. Non la prima e nemmeno l’ultima».
Gianmarco Pozzecco con la ex pallavolista Maurizia Cacciatori ai tempi della loro relazione troncata nel 2004, poco prima delle nozze.
Visto che siamo sul pezzo: tema su Maurizia, svolgimento libero.
«Preferisco passare. Mia moglie Tanya questa storia la sopporta poco e la capisco: lei non vive sotto i riflettori, è una persona semplice. So che le dà fastidio».
Però conferma che fu Maurizia a darle il due di picche?
«Assolutamente sì. Ma questo non mi impedisce di avere sempre considerazione e rispetto».
Era geloso di lei dopo che i gossip l’avevano accreditata di scappatelle ai Giochi di Sydney.
«La gelosia fa parte della storia di ogni coppia. Poi io ho sempre desiderato non avere una moglie famosa».
Però prima di Maurizia stava con Samantha De Grenet.
«Sì, ma la donna per la vita deve essere diversa. Difatti ho incontrato una persona totalmente differente e mi sono innamorato. Un amore vero: con Tanya conto di arrivare fino alla fine dei miei giorni. E credo accadrà perché è un’altra cosa che voglio».
Ha parlato di sbronze omeriche...
«Quando giocavo ero vincolato al basket, con un senso di responsabilità superiore a quello che la gente immagina. L’alcol era una necessità per divertirmi. Le “ciucche” non erano frequenti, ma quando accadeva... Dopo la finale dei Giochi di Atene, in discoteca assieme agli argentini che ci avevano battuto, ho vissuto uno dei momenti più belli della mia vita: in due ore di alcol e di libertà ho fatto cose inenarrabili».
A scuola non andava bene.
«Ho un problema: non so fare quello in cui non credo di eccellere. Mi spiego usando il tennis: se l’avversario mi dice “dai, palleggiamo”, do di matto. Palleggiamo? Al massimo due scambi, poi si gioca e io devo provare a vincere. Se si palleggia, sono il peggior tennista della storia. A scuola palleggi e poi c’è l’esame. Quindi devo palleggiare e non assimilo niente. Ma per arrivare all’esame, che vorrei fare subito perché è competizione, sono costretto a palleggiare...».
Capelli rossi, Pozzecco con la canotta del Varese, dove ha giocato dal 1994 al 2002
Dopo aver avuto spesso rapporti difficili con gli allenatori, Pozzecco oggi fa il coach. È una contraddizione?
«Può sembrare, ma non è così. Nonostante varie scintille, da giocatore avevo, come detto, un grande senso di responsabilità. L’ho usato prima con chi ho allenato nei club e ora mi serve con ragazzi della Nazionale: ho mille difetti e anche questo pregio».
Com’è il c.t. Pozzecco?
«Il nuovo ruolo enfatizza certi scenari. Ad esempio, dopo essere stato penalizzato ed escluso dall’azzurro, nessuno può avere più rispetto di me nel mandare via qualcuno».
Era stato coniato il termine “Pozzesco”, fusione di Pozzecco e pazzesco. Vale ancora?
«Vale, vale. Ma in maniera proporzionale al nuovo compito».
Nella prima stagione in A2, l’allenatore le gridò davanti al resto della squadra: «Ma tuo padre, quella sera, invece di andare con tua madre, non poteva farsi una...?». L’ha mai perdonato?
«Intanto lo appesi al muro. Al di là dell’essere becera, la battuta tradiva lo spirito che deve appartenere ad ogni allenatore: esigere che i giocatori da individualità diventino squadra. Lui non ha avuto rispetto verso il vivere in gruppo».
Gianmarco Pozzecco si è imbestialito con chi gli ha dato del cocainomane. Ma una canna light non se l’è mai fatta?
«Quando ho smesso di giocare, mia mamma ne ha beccata una nel pacchetto di sigarette di un amico: era convinta che ce le facessimo. Invece non è così, ho fumato canne solo in due occasioni. La prima volta ridevo senza freni e sono andato a casa perché non smettevo più. La seconda sono entrato in un “loop”: pensavo, a raffica, di tutto e di più. Non fa per me, sono già a posto: forse da bambino sono finito in qualche droga pesante, come Obelix era caduto nella pozione magica».
Ha scritto Clamoroso : un libro per levarsi sassolini dalle scarpe?
«No, è stato un modo per ringraziare chi mi ha aiutato. Per me è gratificante dare stimoli positivi piuttosto che vendicarmi di chi mi ha criticato».
Adesso comanda i vari Gallinari, Datome, Melli...
«Alt, anche se allenare è un po’ comandare, preferisco dire che aiuto. Ci sono due tipi di allenatori: i comandanti, appunto, e quelli convinti che siano i giocatori a vincere. Io firmerei per incidere per il 5%».
Di qualche veterano della sua Nazionale, ad esempio Gallinari, ha fatto in tempo a essere avversario. Non le suona strano?
«Un po’ sì e mi viene in mente la prima volta che a Capo d’Orlando allenai Gianluca Basile e Matteo Soragna. Li chiamai in ufficio e dissi loro: “Da oggi cambiano i ruoli, mi dovete dare del lei”. E Soragna: “Ha ragione, signor coach. E vada affan...».
A un c.t., se sbaglia, tirano le pietre.
«A me le tirano comunque...».
Che cosa facciamo all’Europeo?
«L’Italia nel calcio e nel basket dà il meglio quando è outsider: 1982, primi al Mondiale di calcio dopo i noti casini; 2006, bis in Germania dopo Calciopoli; 2003, bronzo europeo nel basket con una delle nostre squadre più deboli; 2004, argento olimpico con un gruppo di scappati da casa. Però non seguo la forma mentis italiana, secondo cui se sei outsider sei anche più scarso».
Quindi battiamo tutti?
«Non potrei mai accettare di dire che siamo inferiori agli altri. Ma in una manifestazione come l’Europeo conta anche avere c...o».
Lei ebbe i suoi guai perché in un time out nominò il nome di Dio invano. Gianni Petrucci, oggi suo presidente, pretese una sospensione. Ha forse dovuto firmare una clausola anti-bestemmie?
«Io vivo, come detto, più per gratificare chi si è fidato di me. E sono pochi: ora c’è Petrucci. So che ha un’idea chiara sul tema, quindi farò in modo che quello che pensa venga assecondato».
Vorrebbe viaggiare all’indietro o in avanti, nel tempo?
«All’indietro: vorrei tornare a giocare e ad essere la “mosca atomica” di Varese».
Pozzecco con la moglie Tanya
Quando lei e Tanya ci darete un Pozzecchino?
«Spero presto».
Gli farà vedere i video delle sue partite?
«Tanya non me lo permetterebbe: vorrà che il bimbo suoni la chitarra, non che faccia le mie stesse cose».
Ma lei non avrebbe voce in capitolo?
«Ha mai visto un uomo che decide al posto della moglie? Io no, speravo di essere il primo. Invece il ranking in famiglia è il seguente: numero 1, Tanya; numero 2, il gatto Coco, trovato a Formentera perché c’era un topo in casa; infine arrivo io».
Wilt Chamberlain e quei 100 (inarrivabili) punti in una gara Nba. Il 2 marzo di sessant'anni fa si consumò una delle imprese più irreali nella storia del basket a stelle e strisce. Paolo Lazzari il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.
L'Hershey Sport Arena è un catino da 8mila posti conficcato nel cuore trillante della Pennsylvania. Fino a qualche anno prima il pubblico ribolliva per le imprese degli eroi sul ghiaccio, ma adesso l'Hockey è sfilato in secondo piano e quelle lastre gelide sono state rimpiazzate da un candido parquet. Certo non sarà l'impianto più indimenticabile di Philadelphia, ma se oggi fosse il 2 marzo 1962 allora sì. Perché in questa placida sera semi primaverile di sessant'anni fa esatti la storia accosta, spalanca la portiera e scende proprio qui. Eppure i presupposti, chiamati all'appello, avevano fatto spallucce per l'intero pomeriggio. Wilt Chamberlain, del resto, non è il tipo di persona che sembra avere il tempo di mettersi a fare distinguo. Non gliene frega assolutamente niente di vivisezionare la sua esistenza, appoggiando su due rette parallele quel che fa al caso della carriera da cestista e i comportamenti deprecabili che rischiano di rallentarla. Munito di un fisico da semidio e di doti tecniche surreali, Wilt non ha bisogno di discernere alcunché. Donnaiolo irredimibile, ama tirare tardi, alzare lievemente il gomito all'occorrenza e gingillarsi in sala giochi.
Che poi è esattamente quello che accade la sera del 1 marzo. Il nostro, un gigante di 2 metri e 18 che se ne va in giro a terrorizzare mezza Nba, ha sforato di brutto. Quando scruta le lancette del suo orologio da polso sgrana gli occhi, ma solo per una manciata d'istanti. Un giocatore professionista non dovrebbe piluccare avidamente tra i vizi della nightlife newyorchese prima di un match, ma ormai la frittata è fatta. La grande mela è una tentazione troppo potente per carni che fremono di debolezza. Wilt si attacca al telefono fisso di un bar e gira la rotella, componendo il numero di un membro dello staff dei Philadelphia Warriors, la sua squadra: "Sì, ma certo che arrivo. Ho perso una coincidenza, ci vediamo domani". Domani, appunto, c'è in programma la sfida ai New York Knicks. Il tizio dall'altra parte aggancia, furente. Chamberlain scrolla quelle monumentali spalle. "Pazienza - la sua auto indulgenza - tanto domino anche con un occhio chiuso".
Da New York a Philadelphia fanno 157 km in treno. Ne prende uno alle 6 del mattino, passando direttamente dai pub alla stazione, senza nemmeno sapere che forma possa avere un letto. Quando arriva trangugia un pranzo veloce e poi dritto in sala giochi: di riposare un po' non se ne parla. Ora il coach comincia a preoccuparsi sul serio, ma lui lo rasserena puntando su alcuni segnali inconfutabili: "Ho fatto solo centri a freccette e biliardo". Tardi, ancora una volta. Devono venire a strapparlo via dal flipper, ché la partita sta per cominciare. Forse rimanda quel momento fino all'ultimo istante pensabile perché sa che tutti lo odiano. I compagni, perché le sue qualità eccelse li fanno apparire come dei canarini bagnati. Lo staff, perché non conduce una genuina vita da sportivo, ma comunque non possono dirgli nulla. La stampa è la detrattrice principale: per i giornali dell'epoca, che gli dedicano al massimo trafiletti striminziti in ottava pagina, Wilt è semplicemente una belva che si avvantaggia di una prestanza fisica sconcertante per troneggiare: "Guardatelo ai tiri dal limite, non ne imbrocca uno". Gli avversari lo detestano in egual misura. Su quelle gambe da fenicottero sembra aver montato un motore a scoppio. Le braccia paiono terminare in un prefisso differente. Stoppa gente dalla stazza imponente con una mano sola. Surclassa chi tenta di arrampicarsi in cima al suo fusto gigantesco con una facilità disarmante. Spacca canestri (sul serio) e procura fratture multiple ai piedi sui cui ricade.
Arriva la sera. Si viene a sapere che Phil Jordan, il lungo dei Knicks, si è preso una specie di congestione. O forse non è vero, non c'è la riprova. Magari, insorgono e malelingue, ha soltanto paura di rimediare una figuraccia terribile. Al suo posto, per difendere l'onore di New York, gioca l'ex olimpionico Darrall Imhoff: ne uscirà triturato, con l'incubo - che viene a visitarlo ogni notte per i mesi successivi - di quelle braccia interminabili che lo sovrastano. Wilt versa in un tale stato di grazia che gli entrano anche tutti i tiri da fuori: a fine primo quarto ha già fatto 23 punti. Il suo diretto marcatore, giunto per disperazione al terzo fallo, inveisce contro l'arbitro: "A questo punto fagliene fare cento, così andiamo tutti a casa". Profezia a chiamata. Richiesta esaudita. Chamberlain continua a macinare punti con la cadenza di una mitragliatrice puntata su un gregge al pascolo. Alle soglie dell'ultimo quarto ne ha messi 75. Nel finale lo speaker smette di aggiornare il risultato. Il pubblico annusa il record. Altro che pattini e mazze sul ghiaccio. Questo fa 100 punti. La gente palpita per il miracolo e lui l'asseconda. Il centesimo lo fissa in schiacciata. Potrebbe farne altri due, ma decide di fermarsi lì "perché 100 è più bello di 102, dai", dirà alla fine. Qualcuno improvvisa: scarabocchia quella cifra irreale su un cartello e gli chiede di mettersi in posa. Lui sorride compiaciuto e per nulla affaticato.
Un'impresa da alieno, mai più eguagliata nella storia dell'Nba. E pensare che, all'epoca, non c'era il tiro da tre. Il mattino seguente i giornali provano a sminuire il miracolo sportivo, riservando dei ritagli in paginette dimenticabili e sputando il fegato: "Facile da spiegare. Il peggior tiratore di liberi al mondo ha trovato una serata da 28 su 32". Il potere irrita chi non ce l'ha. È il 3 marzo 1962: Wilt sorride, accartoccia il foglio e centra il cestino più vicino.
Flavio Vanetti per corriere.it il 12 marzo 2022.
Liliana Mabel Bocchi, lei è stata una stella del basket e anche la prima «divina» dello sport italiano?
«Semmai sono la seconda. Nicola Pietrangeli aveva definito così Lea Pericoli, personaggio che ho stimato. Poi non amo il termine “divina”. Quando lo usano, ad esempio per Federica Pellegrini, mi girano le scatole: non si può trovare un’altra parola?».
Quale sportiva la intriga?
«Torno a Federica. Ci sono state varie Pellegrini e ora ce n’è una nuova: parlando del futuro marito, ha messo in piazza il suo privato nel modo giusto. Però un appunto glielo muovo: grazie alla sua fama avrebbe potuto fare di più per lo sport femminile».
Chi è, invece, lo sportivo «top»?
«Da sempre ammiro Djokovic. La vicenda australiana mi ha disgustato: Novak da divinità è diventato un demonio. Avrebbe fatto meglio a stare a casa? Ribalto la domanda: perché la federazione australiana gli ha detto di venire? E quell’Alex Hawke, ministro omofobo che sbatte gli immigrati sulle isole del Pacifico, s’è fatto pubblicità per le elezioni».
Come mai si è trasferita a San Nicola Arcella?
«Perché ci abita mia sorella Ambra, perché il caldo fa bene alle mie povere ossa, perché qui c’era il villaggio del bridge, perché ho spazio per gli animali, perché Milano è cara. Zero rimpianti: avevo come alternative Kenya e Tanzania, ma in Calabria ho trovato un mix equilibrato di situazioni. Faccio i fatti miei, eppure mi conoscono. E non sono quella che giocava a basket, ma sono Mabel: a Milano conoscevo solo il vicino di pianerottolo».
È ancora una pensionata... senza pensione?
«Sempre: aspetto la “sociale”, 470 euro mensili. Ho venduto casa, ho acquistato qui, mi è rimasto qualcosa: in Calabria si spende meno».
Come mai non ha fatto del giornalismo il suo mestiere?
«Perché nessuno mi ha assunto, pur essendo professionista dal 1994. L’instabilità economica, non avendo mai avuto soldi da fidanzati, mariti o genitori, mi ha creato tanta tensione».
Mabel è stata donna da gossip?
«Non tanto, non c’erano i social network. Ma si era ricamato sul fatto che Rubini fosse intervenuto nel mio rapporto con Renzo Bariviera. Quindi si erano inventati morosi e amanti: uno di questi era il marito di Gabriella Carlucci».
Si parlava di una storia con Gianni De Michelis.
«Questa è nuova. Amica sì, ma storia no, vi prego. Come compagni ho sempre preteso, anche sbagliando, uomini belli: De Michelis era intelligente, ma non era bello. Quando veniva a Milano, uscivamo a cena. Gli dicevo: “Gianni, tenta di dimagrire”. E lui: “No, ora sono un grasso, brutto e felice. Se dimagrissi diventerei un brutto infelice”. Dopo le nozze si è asciugato».
Ci fa la cronologia dei suoi amori?
«Un paio di flirt non li svelo. Si parte da “Barabba” Bariviera, quindi Francesco Anchisi, poi ancora una storia — un po’ allucinante, ma della quale non mi pento — con un masai della Tanzania. E si arriva al legame con Leonardo Coen, ex cestista purtroppo morto».
Il marito tunisino, infine.
«Dal quale sono divorziata. Ho conosciuto Ryadh a Monastir: era capo reception dell’hotel, dopo un anno ci siamo sposati sulla spiaggia di Mahdia. Vive tuttora a Milano».
Le pesa essere oggi una single?
«Sto di un bene che non immaginate. Quando dicono “la vita non si sa che cosa riserva”, ecco, io so già che cosa mi riserva: non voglio più nessuno tra i piedi. Il matrimonio è stato un esperimento, io ero contraria».
Si definisce una rompiballe ribelle.
«Non sono diplomatica e questo, in un mondo ipocrita, non va bene. Mia madre mi chiamava “bocca della verità”: sono coerente rispetto alle mie libertà. Morale: se uno mi pesta i piedi, mi arrabbio».
Giocava senza reggiseno e la criticavano.
«Non avevo seno, poi me l’hanno rifatto. Il reggiseno era inutile e tuttora mi soffoca. Non volevo essere esibizionista, rammento che mi sono battuta per i calzoncini al posto delle mutande da gioco: molti venivano a vedere il sedere delle giocatrici, non la partita».
Ha mai pensato a Gracielita, la sorella morta 18 mesi prima che lei nascesse?
«Non molto, i genitori non ne parlavano: questa storia l’ho imparata dalle fotografie. Fu una tragedia: si ammalò sulla nave per l’Italia — mamma era argentina — e morì poco dopo lo sbarco».
Che cosa c’è dell’Argentina in lei?
«Non lo so, non ho nemmeno la solarità degli spagnoli. E pur avendo girato il mondo, non sono mai stata in Argentina».
Invece ha preso tanto da suo padre e da Parma.
«Papà mi ha fatto apprezzare più i poveri e gli umili che i ricconi e gli arrivati. È lui che mi ha insegnato ad essere comunista: ma la sua Emilia ora non c’è più».
Il bridge l’ha scoperto grazie a suo fratello?
«Era un marchio di famiglia: papà fortissimo, mamma istruttrice. Norberto, detto Patòcia, che sta per bonaccione, è emerso perché era un talento: a basket aveva il tiro ma non difendeva, a bridge è stato campione olimpico e mondiale. Ora vive a Barcellona».
Ha cominciato ad Avellino, dove suo padre dirigeva un’azienda che produceva champignon.
«Avrei potuto essere una stella del Sud, ma fui subito ceduta: il Geas dava maggiori garanzie. In Irpinia, però, ho incontrato il basket: a Parma facevo atletica e pallavolo».
Le piacerebbe essere una delle pallavoliste vincenti di oggi?
«Sì, eccome. Vorrei che il basket rosa avesse il loro successo: ma dopo i suoi anni migliori sono mancati soldi e professionalità».
È vero che parlava in latino con Uljana Semionova, la mastodontica sovietica di 2 metri e 13?
«L’aveva studiato, io pure: era l’unico modo per dialogare».
In un Mondiale le chiese di aiutarla ad essere eletta miglior giocatrice: verità o leggenda?
«Verità. Le dissi di non farmi fare una figuraccia: l’Urss stravinse, ma Uljana segnò solo 8 punti. Scivolava, inciampava, commetteva infrazioni... L’ha fatto per simpatia e riconoscenza: quando veniva in Italia la portavo a fare shopping e dalla manicure. Un tipo dolce, altro che un mostro. E non immaginate la fatica che in campo faceva per non farci male».
Conduttrice alla «Domenica Sportiva»: bilancio e ricordi?
«È stata un’esperienza sia importante sia negativa: forse sono stata l’unica a perdere una causa contro la Rai. Un personaggio chiave testimoniò, raccontando frottole: ma gli credettero».
Alla Rai ha mai ricevuto avances?
«Cioè se mi sono sentita dire “se vieni a letto con me, ti faccio fare questo programma”? No, ma qualcuno si allargava».
Lei è stata un sex symbol?
«Penso di sì, nonostante l’esito dell’inchiesta di una rivista. Tre le domande: chi porteresti in vacanza? Chi sposeresti? Con chi passeresti la notte? Ero la prima per la vacanza, non per le nozze e per la nottata».
Cambiare capigliatura era un modo per esprimersi?
«Lo è tuttora: i capelli migliorano il look. Al Mondiale 1990 di calcio, Gianni Petrucci mi invitò a una partita. Andai dal parrucchiere, mi feci rasare quasi a zero e feci la tinta. Risultato: un rosa improbabile, nemmeno Gianmarco Pozzecco è arrivato a tanto... Petrucci era inorridito».
Mabel, un maschiaccio.
«Non ho mai avuto una bambola. Un anno a Natale mi regalarono una cucina in miniatura: piansi, aspettavo un pallone. Il maschiaccio è sempre presente: per l’autonomia, perché a volte parlo come un carrettiere, per come mi vesto — non so che cosa siano le gonne, uso i calzettoni e non le calze e perché non temo nulla. Due volte hanno tentato di violentarmi, ma ho piegato gli aggressori. E anche oggi che sono un catorcio oltre ogni tentazione, se qualcuno ci provasse finirebbe conciato per le feste».
Sigari, cani e gatti.
«Non sono sigari, sono toscani classici. Quelli che fuma Fausto Bertinotti. Uno che stimo: fece cadere il governo per coerenza».
Dimentica i cani e i gatti.
«I cani li ho sempre avuti, ora sono quattro. L’ultimo l’ho adottato davanti a un supermercato: l’avevo incontrato e coccolato, il giorno dopo sono ripassata ed era ancora lì... Di gatti ne ho venti: gli animali ci fanno sentire vicini a Dio».
Com’è andata tra i masai?
«Il ragazzo di Zanzibar mi ha portato dai suoi: un mese indimenticabile. Mi hanno messo con i guerrieri, che non sono sposati. Non c’erano acqua e luce, portavamo le bestie a pascolare nella savana, abbiamo avuto aggressioni dai leoni. Si viveva in case costruite con lo sterco di vacca, al mattino con il latte bevevi pure le mosche, se non coprivi il bicchiere con la mano. All’inizio ero schizzinosa, dal terzo giorno ho mandato giù senza esitare: se penso a certi fighetti...».
Parliamo di religione e spiritualità?
«Credo nell’aldilà e sono cristiana a modo mio. Sono antroposofica, ho letto tanto di Rudolph Steiner. Ora mi sto entusiasmando al libro di uno psichiatra di New York che pratica l’ipnosi regressiva. Ma non la applica al passato, bensì alla vita dell’anima dalla morte alla reincarnazione. Un testo strepitoso».
Sostiene che non le manca un figlio: non le crediamo.
«No, credeteci: non mi manca per nulla. Mi piacciono i bambini da zero a un anno, poi cominciano a rompermi le scatole. Forse però mamma lo sono stata: di qualcuno dei miei morosi».
Mondiali di pallavolo 2022, Italia batte la Polonia in finale ed è campione. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera l'11 Settembre 2022.
Gli azzurri di De Giorgi fanno la partita perfetta e vincono il Mondiale dopo 24 anni battendo la Polonia 3-1. È il quarto titolo dopo i tre della Generazione di fenomeni. Lunedì saranno ricevuti da Mattarella
Stringe mani in mezzo al campo Fefè De Giorgi. Ci mette un po’ a lasciarsi travolgere dall’orgasmo di gioia che monta dentro. Non sale sul seggiolone dell’arbitro come Velasco nel 1990 al Maracanazinho di Rio de Janeiro. Abbraccia tutti i ragazzi d’azzurro vestiti come il suo maestro ad Atene nel 1994. Come Bebeto a Tokyo nel 1998. Festeggiano tutti a Katowice. E sorridono. Perché sì, gli attacchi vincenti, i muri, le difese. Tutto fondamentale per vincere un Mondiale. Ma senza il sorriso, senza la serenità e la maturità di chi – nonostante l’inesperienza a questo livello – ha imparato ad accettare che dall’altra parte della rete c’è una squadra come la Polonia che gli ultimi due Mondiali li ha vinti, che sugli spalti dell’arena a forma di Ufo ci sono 12mila persone che li spingono con l’entusiasmo di 50mila, che in una finale mondiale si può anche sbagliare, non si vince. Ma quando si è preparato tutto alla perfezione, le certezze sono sempre lì a portata di mano. E di testa. E l’Italia batte la Polonia 3-1 (25-22, 21-25, 18-25, 20-25), torna sul tetto del mondo per la quarta volta e domani alle 12.45 sarà ricevuta dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale.
Non era una sorpresa
E allora forse non era poi così una sorpresa l’Italia che a settembre scorso, nello stesso palazzetto, ha vinto l’Europeo. E non è nemmeno una sorpresa che la stessa squadra, un anno più tardi, ha issato il tricolore sul tetto del mondo per la quarta volta nella storia dopo il tris della «Generazione dei fenomeni». Perché nel successo sulla Polonia, in un Paese in cui i giocatori di pallavolo sono popolari quasi quanto i nostri calciatori, in cui la pallavolo, se non è lo sport nazionale, poco ci manca, c’è tutto lo stile del suo condottiero salentino .
L’Italia è bella, solida, fredda. È serena perché conosce le proprie potenzialità. E allora pazienza se la Polonia nel primo set è ingiocabile. Se difende tutto e prova a demolire con le proprie qualità le certezze azzurre. L’Italia non cade nella trappola. Loro toccano tutto a muro e non lasciano cadere nemmeno un attacco? Gli azzurri cominciano a fare pallonetti. Quando De Giorgi diceva che le sconfitte in Nations League (proprio contro Francia e Polonia) erano servite a capire cosa ancora mancasse per giocare al livello delle grandi, sapeva benissimo cosa diceva. Serviva consolidare le fondamenta. E i ragazzi si sono affidati totalmente a lui.
Fenomeni diversi
Ma questa non è la «Generazione dei Fenomeni» e De Giorgi non è Velasco, ma con quella squadra lì questi ragazzi hanno in comune più di quello che ci si possa immaginare. Certo, il c.t. è il filo più evidente che tiene insieme le due epoche d’oro, ma la dedizione al lavoro, la capacità di soffrire tutti insieme, di parlare poco (nonostante i tempi diversi) e rispondere solo con muri e schiacciate è un retaggio di quella squadra che ha dominato il mondo per un decennio. Questa è la generazione di un gruppo spavaldo che non aveva mai giocato un Mondiale, che si è ritrovato per la prima volta un anno fa ed è subito è diventato squadra. Una generazione di ragazzi capaci di imparare dalle proprie debolezze, di non crearsi mai alibi e di affidarsi totalmente all’esperienza e al sorriso tranquillizzante del suo allenatore. Con gli occhi della tigre. Come quelli lì.
La cronaca della partita
L’Italia comincia bene, difende tanto e mette sotto pressione la ricezione avversaria con una buona costanza al servizio. La Polonia è costretta a cambiare il proprio gioco (che prevede molto l’uso dei centrali) e la partita va avanti in un sostanziale equilibrio di muscoli e spettacolo. A metà set, gli azzurri sembrano riuscire a piazzare la zampata decisiva, vanno sul 21-17, ma proprio in quel momento i polacchi ritrovano tutto il proprio smalto. Cominciano a difendere ogni pallone, spingono fortissimo al servizio, rimontano gli azzurri e portano a casa il primo parziale. Sembra finita, l’Italia torna in campo frastornata dall’epilogo del set. De Giorgi chiama time out sul 3-0 per i polacchi e gli azzurri tornano a ingranare. La Polonia sembra superiore, difende l’indifendibile, tocca a muro ogni pallone e prova con la qualità delle giocate a destabilizzare l’Italia. Che resta lì. Non si scompone, cresce a muro (5 nel set) e resta sempre attaccata, anche se indietro di 1-2 punti, fino a che, sul 21 pari, con Giannelli al servizio, infila il break che indirizza il secondo parziale. Il copione è sempre lo stesso. Le squadre non tirano mai indietro il braccio, danno tutto e vanno a braccetto. Ma sulla distanza l’Italia comincia a variare i colpi, toglie alla Polonia le certezze che si era costruita fino a quel momento. Fa punto e trova ulteriore sicurezza. E, nel finale, piazza quell’allungo decisivo che ammutolisce la Spodek Arena. Da lì in poi è quasi un monologo. L’Italia gioca sull’entusiasmo, la Polonia si innervosisce con le spalle al muro. Prova a reagire, ma gli azzurri sono bravi a spegnere il loro fuoco. La posta in palio è troppo importante. L’Italia è campione del mondo.
Giorgio Gandola per “La Verità” il 13 settembre 2022.
«Avevate in mano anche il primo set, ma offrirlo ai polacchi è stato un gesto di grande cortesia». Il racconto dei ragazzi d'oro del volley può trovare il punto esclamativo nelle parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che li ha accolti ieri al Quirinale dimostrando di avere visto la finale di Katowice dall'inizio e di non essere rimasto indifferente alle martellate azzurre.
Vincenti (3-1) e allegre come il carattere del re Mida in panchina, Ferdinando De Giorgi detto Fefè, al quarto oro mondiale dopo 24 anni, primo da allenatore. Perché l'irregolare della «generazione dei fenomeni», il factotum in regia nell'Italvolley di monumenti come Julio Velasco e Bebeto era lui.
Irregolare per due motivi, che sintetizzano la forza morale della squadra andata prendersi il mondo in Polonia, capace di demolire in finale i padroni di casa campioni uscenti: Fefè era umile ed era basso (1.78 su un pianeta di corazzieri). Di sicuro umile perché basso, non certo basso perché umile. Anzi, la schiena di quel gladiatore era sempre dritta, quando bisognava segnalare cambi o imperfezioni ai quattro leggendari Andrea: Lucchetta-Zorzi-Gardini-Giani.
Era il piccolo palleggiatore degli dei. Li gestiva e li domava con un sorriso, alleggeriva le pressioni, faceva sentire al sicuro quei meravigliosi campioni dai nervi fragili. Di lui Velasco diceva: «È un metronomo ma anche un barometro». Nel senso che sapeva cambiare, con una parola gentile, le previsioni del tempo di tutta la squadra.
Quasi sessantuno anni, salentino di Squinzano (Lecce), ghiotto di gamberetti, pacioso e riflessivo, De Giorgi è un uomo saggio e paziente. Lo era fin da giovane; senza queste doti non arrivi a 330 presenze in Nazionale con palleggiatori come Fabio Vullo e Paolo Tofoli davanti. Faceva parte degli eroi dei tre mondi (mondiali in Brasile, Grecia, Giappone) e una generazione dopo è andato a conquistarsi il quarto, tutto suo.
«In panchina è più bello vincere, ti godi di più il trionfo e hai una percezione più globale. Ti sei occupato di tutto prima, li abbracci tutti adesso. Impagabile». Ha imparato ad essere leader passo dopo passo. Da riserva, da protagonista in campo, da commissario tecnico. Fino all'urlo liberatorio di Katowice, quando esultando ha fatto cadere la gomma da masticare e - in trance assoluta - se l'è rimessa in bocca in mondovisione.
A 25 anni Velasco lo chiama alla Panini Modena e il suo orizzonte si allarga all'infinito. Quel mitico allenatore impazzisce per la sua freddezza in campo e per l'ironia fuori. «Non potevo puntare sui centimetri. Ero un atleta del Sud che cercava di guadagnarsi lo spazio; avevo l'altezza da fair play fisico». Tre mondiali da giocatore, ma una sola Olimpiade, quella del 1988 a Seul.
«Arrivava l'anno olimpico e non si capisce, qualcosa cambiava. Così dicevo a Velasco che avrebbe dovuto completare il giro: Guarda Julio, non abbiamo mai vinto le Olimpiadi, ma se non mi convochi...». Dopo la vita in campo arriva la vita in panchina. Con un'esperienza particolare: i tre anni in Polonia ad allenare squadre di club e poi la Nazionale, una missione utile per conoscere giocatori che domenica si è ritrovato contro.
Guidati da un suo vecchio rivale: Nikola Grbic, fosforo della Jugoslavia anni Novanta. Poi il ritorno in Italia nel 2018 e la zampata da Josè Mourinho del volley: con lui, prima dello stop pandemico, la Lube Civitanova vince scudetto, Champions league, Mondiale per club e Coppa Italia. Dopo la figuraccia ai Giochi di Tokyo, la federazione lo chiama per ripartire dai giovani. Eccoli già sul tetto del mondo.
Questa è l'Italia di Fefè. Ragazzi tosti e concentrati che ad ogni punto vinto ridevano di gusto durante la finale. Mentre i polacchi avevano sulle spalle la pressione del macigno davanti a un popolo infiammato che pretendeva il titolo, gli azzurri volavano leggeri su ogni pallone, muravano e trovavano pertugi impossibili. E poi ridevano, e ridevano ancora come se dalla panchina non arrivassero indicazioni e strilli, ma barzellette. È la leggerezza calviniana, l'esatto contrario della superficialità, la dote che ti fa fare i miracoli. Ecco la presenza immanente di De Giorgi.
Qualcosa di immateriale che alla fine il fenomenale Yuri Romanò ha spiegato così: «Giocare divertendosi è l'essenza dello sport». Anche il fuoriclasse monzese è un'invenzione del ct, che lo ha scelto per gli Europei dello scorso anno (vinti) quando giocava in A2. E lo ha confermato ai Mondiali contro tutti, a rischio di fraintendimenti politici: alla vigilia De Giorgi l'ha preferito a Ivan Zaytsev, l'ex capitano, un punto fermo. E anche se quest' ultimo è nato a Spoleto, sui social era cominciata la tiritera - ovviamente fasulla - della purga di Stato a chi ha un nome russo. Perfino nei rimproveri don Fefè riesce ad essere ironico.
In un timeout, davanti alla frenesia che si era impadronita dei suoi ragazzi e rischiava di creare danni, ha detto loro: «Abbiamo bisogno di precisione, continuità e calma. Stiamo andando più veloce della partita». Un'immagine folgorante, un messaggio arrivato immediatamente a tutta la truppa. Così il palleggiatore Simone Giannelli (mvp del torneo) ha ricominciato a inventare, Daniele Lavia a schiacciare fino al centro della Terra. E alla fine Simone Anzani ha commosso l'Italia spiegando con la sua bimba in braccio: «Siamo un gruppo speciale ma qualcuno ci spingeva da lassù. È mio zio. Ce l'ho fatta zio».
Maurizia Cacciatori. Flavio Vanetti per il “Corriere della Sera” il 29 agosto 2022.
Maurizia Cacciatori, con una donna non si dovrebbe mai parlare di età. Ma nel suo caso, nel 2023, è in arrivo una certa scadenza...
«I cinquant' anni, intendete? Non ci penso. Ho sempre dichiarato con serenità la mia età: non ho paura del tempo che passa, temo di più come lo seguo. Si avvicinino pure i 50: sono orgogliosa e realizzata. Con il volley ho smesso a 33 anni, la vita è fatta di cicli e io volevo una famiglia».
Ora è speaker motivazionale e parla alla platea delle aziende.
«La mia è la storia di chi ci prova, ci mette la faccia, cade e si rialza. Le aziende dovrebbero essere dei team straordinari: molte lo sono, tante no. Quindi affronto temi come leadership, valore del gruppo, gestione dei cambiamenti».
Lei ha detto: «Le coppe si vincono in allenamento».
«E si ritirano in gara. Quello che ho conquistato l'ho vinto giorno dopo giorno, partendo dal lunedì e meritandomi il posto in squadra».
Maurizia Cacciatori e Francesca Piccinini, simboli di un'era del volley. Chi è stata più iconica?
«Non saprei. Francesca ha giocato più a lungo di me, però io sono arrivata prima: l'ho vista diventare donna. Ero una sorella maggiore? Sono stata una compagna che ha aiutato una giovane a inserirsi. Poi lei è stata straordinaria».
Mai uno screzio tra di voi?
«Mai, a parte le discussioni su qualche giocata: ciascuna aveva il suo mondo. Se dovessi indicare con chi non andavo d'accordo, farei una lista lunga. Ma la "Franci" non c'è. Ho avuto una compagna discreta e dai bei modi, mi è piaciuta come persona e ancora oggi ci sentiamo».
Francesca nel 2002 ha vinto un Mondiale dal quale lei è stata esclusa. Ha perdonato Marco Bonitta, il c.t. che non la volle?
«Ora lo ringrazio. Vedevo tutto con occhi diversi: andavo agli Europei, ai Mondiali, ai Giochi, mai ero in discussione. Quando fui lasciata a casa, in modo inatteso, ho capito che si è in equilibrio tra momenti esaltanti e cadute».
Qualche anno dopo la squadra si ribellò e Bonitta fu sostituito.
«Marco aveva avuto atteggiamenti duri e le giocatrici avevano reagito. Le mie ex compagne sono state coraggiose».
A Sydney 2000 siete state ribattezzate le «veline» di Frigoni, il c.t. dei Giochi.
«Era la nostra prima Olimpiade, avevamo fatto mille sacrifici: sentire quelle cose ci ha fatto arrabbiare. Oggi, ripensandoci, me ne infischio, ma all'epoca non avevamo la saggezza per lasciar correre».
Le piacerebbe essere nella Nazionale di oggi?
«Poco. Primo: è il momento di queste ragazze, se lo godano. Secondo: penso alla famiglia e a quello che devo fare. Però invidio la palleggiatrice che alza per giocatrici dal talento immenso».
Paola Egonu è una stella: eppure non si parla troppo di lei e poco delle altre?
«Paola è un esempio, per come gioca, per come si apre alle persone. I fari sono su di lei, ma le altre dovrebbero avere il coraggio di esporsi: vestire l'azzurro comporta una responsabilità in termini di comunicazione».
Torniamo alla sua Nazionale. Un bel giorno arrivò Julio Velasco e cambiarono molte cose.
«Julio proveniva dai trionfi con gli uomini, noi eravamo preoccupate di non essere all'altezza. Velasco non ha migliorato la tecnica ma l'anima della squadra: ci ha liberato da alibi, insicurezze, dinamiche perdenti».
Vi ha anche abituato a non essere schizzinose a tavola.
«In una trasferta ci servirono la lingua di bue. Sorridemmo, per dimostrarci disponibili al "salto culturale". Però in camera tirammo fuori il salame portato dall'Italia. Ai miei figli, peraltro, ho insegnato a mangiare tutto: la lezione di Julio resta valida».
Era considerata la «pin up» del volley: orgoglio o fastidio?
«L'estetica non mi interessa, né in me né nel prossimo. Negli uomini ho preferito l'originalità. Ho sempre considerato limitato chi la metteva sul bello o sul brutto. E mi domandavo: perché non si scrive qualcosa di più intelligente?».
È vero che da bambina convinceva i fratelli a cedere i loro bomboloni dicendo che li avrebbe piantati nel giardino per far crescere un albero, rivisitazione della storia degli zecchini d'oro di Pinocchio?
«Verissimo. Amo i bomboloni fritti con lo zucchero. Mamma aveva il braccino corto: li comperava a ogni morte di Papa. Quando li acquistava finivo velocemente il mio e gabbavo i fratelli, più giovani e pronti a fidarsi della "capitana". Dicevo, appunto, che li avrei messi sotto la terra e che sarebbe cresciuto l'albero: invece li mangiavo. L'albero lo aspettano ancora oggi».
La sua vita sentimentale: turbolenta?
«Turbolenta? Non direi, ho avuto solo 4-5 uomini. Ma tosti e di personalità».
La vicenda delle nozze annullate con Gianmarco Pozzecco a una decina di giorni dall'altare rimane il «top».
«A Gianmarco, al quale voglio ancora un mondo di bene, ho salvato la vita».
A suo tempo il Poz commentò: «Siamo stati due deficienti».
«Nonostante gli anni assieme, quel matrimonio non andava fatto. Eravamo divertenti, buffi, spiritosi, ma quando si parla di famiglia le cose cambiano. Oggi riconosco, con Francesco Orsini, sposato nel 2014 e lui pure ex cestista, di avere un marito spettacolare. Siamo una bella coppia, anche se io sono una carrarina di marmo e lui un livornese di scoglio».
I doni delle nozze mancate furono restituite.
«Con vari errori: c'è chi aveva mandato una lampada e si è ritrovato un vaso. Qualcuno nemmeno ha avuto indietro il regalo: una figura».
Nei giorni di Sydney si diceva che Maurizia Cacciatori fosse concupita dagli hockeisti argentini e dallo spadista Paolo Milanoli.
«Bufale pure queste. Paolo è un amico ed è straordinario: ma stare con lui, proprio no.
Quanto agli argentini, nemmeno conoscevo il loro sport. Purtroppo al rientro è scoppiato un casino con il Poz: gli ho dovuto dare mille spiegazioni, non si convinceva. Ma avevo le compagne come testimoni».
Dopo le nozze saltate con Pozzecco, nel 2005 ha sposato il cestista spagnolo Santiago Toledo.
«Sono stati quattro anni meravigliosi, la separazione è dipesa da motivi personali. Rimangono rispetto e amicizia, un giorno gli presenterò i miei figli».
Figli che si chiamano Carlos e Ines: la Spagna è nel cuore.
«Abbiamo anche una casa a Palma di Maiorca, dove ho concluso la carriera. Voglio che i ragazzi conoscano questo Paese, non restare solo a Livorno è un regalo per la loro crescita. Gli spagnoli hanno una leggerezza di cui a volte ho bisogno. E Palma è accogliente, cosmopolita».
Wendy Buffon, sorella di Gigi, è una persona per lei centrale.
«È la compagna che ha cominciato con me a Perugia, dove condividevamo casa, scuola e viaggi, perdendo un sacco di treni perché sbagliavamo le coincidenze. È la classica persona che quando rivedi dopo tanto tempo capisci che non se n'è mai andata».
Lei ha detto: «Diventando mamma, ho rivisto il rapporto con i genitori».
«Un figlio dà tutto per scontato e non vede ciò che fanno un padre e una madre».
Due figli super-sportivi. Come i genitori. E come nonno Franco, ex portiere di calcio. «Carlos fa pure il triathlon, ma ama stare in porta più di ogni altra cosa, anche se Francesco l'ha avvicinato al basket: se la cava bene. Ines gioca a volley ed è formidabile.
A differenza del fratello, che esce di casa alle 6.30 per la preparazione atletica, è tranquilla: gioca perché trova le amiche. Però ha entusiasmo».
La mamma ex pallavolista butta un occhio agli allenamenti?
«Solo a volte. Mi sento in imbarazzo, l'allenatrice mi guarda un po' così, come se fossi lì per dire qualcosa».
Di nuovo una sua frase: «Io, Gianmarco Pozzecco e Andrea Meneghin siamo tre geni mancati della Normale di Pisa».
«Andrea, amicone del Poz e a Varese compagno di squadra, è un'altra persona che stimo. Ci sentivamo liberi, di cavolate ne abbiamo combinate - una volta Poz e Menego tirarono le noccioline ad Alberto Sordi e io, da buona alzatrice del volley, indirizzavo la mira -, qua e là si è litigato, ma siamo stati puri e veri: gli atleti devono scatenare emozioni e passioni».
È anche quello che si chiede al Pozzecco c.t. del basket.
«Farà bene perché saprà valorizzare i giovani. C'è bisogno di trascinare i ragazzi di oggi, non concordo con chi li vede spenti e tristi: hanno un potenziale enorme».
Ha scritto «Senza Rete», un libro che non fa sconti.
«Parlo poco di volley, è stato un modo per rivedere la mia vita e per pensare ai figli. Quando sono arrivati i cartoni con i volumi, ho detto a Ines: "Qui c'è il mio profumo". Ne ha aperto uno e ha obiettato: "Mamma, io non lo sento"».
Maurizia all'«Isola dei Famosi».
«Un'esperienza di anni fa. Ero curiosa e sicura che sarebbe stata splendida: ho avuto ragione». Ha partecipato pure a un film, «Maschi contro femmine». «Una presenza di pochi minuti, ho dato il peggio di me. Ho accettato per il cast fantastico e perché si parlava di volley, però ho mandato in tilt il regista: mi vergognavo e non mi sentivo a mio agio. Poi avevo un herpes terribile: le povere truccatrici hanno fatto gli straordinari».
C'è chi teme il decadimento fisico. Lei?
«Ho più paura di chi, a 50 anni, spera di avere sempre il volto di una ventenne. Ogni ruga racconta quello che sei stata».
Da oggi.it il 16 luglio 2022.
Paola Egonu, star della Nazionale di pallavolo femminile, si racconta in un’intervista a OGGI, in edicola da domani. A partire dallo scottante tema del razzismo, di cui fu vittima anche quando fu designata portabandiera ai Giochi Olimpici: «Se sono mai riusciti a ferirla a morte? Una volta. Avevo 14 anni e i genitori delle ragazze dell’altra squadra iniziarono a insultarmi: frasi razziste, cattive, davanti alle loro figlie. Un ricordo orribile. Certe meschinità sono difficili da ingoiare. È brutto, ma io sono arrivata a odiare il Veneto. Ora la gente invece è più aperta, e sono felice quando torno a casa e finalmente sto a mio agio».
Continua: «A me non capita più di subire torti, ma succede ai miei cari: mi indigno e soffro per loro. Qualche tempo fa mia mamma ha preso un caffè in un bar. Le hanno allungato una tazzina fredda, che stava sul bancone, fatta per qualcun’altro. Ha protestato. La risposta è stata odiosa: “Se vuoi ti bevi quello”. Con un bianco non si sarebbero permessi. Quando smetterò di giocare mi piacerebbe lavorare in qualche organizzazione che combatte le discriminazioni… Per quale battaglia mi impegnerò? Sono nera, immigrata, donna e sessualmente fluida. Ho l’imbarazzo della scelta».
Proprio sulle scelte sessuali Paola Egonu fece scalpore quando dichiarò il suo amore per una ragazza: «Mi hanno fatto una domanda e ho risposto con sincerità. Finita l’intervista la mia agente mi ha detto: “Ma ti sei resa conto di quello che hai appena detto? Ho chiamato i miei genitori: all’inizio si sono irrigiditi, ma poi hanno accettato la situazione. Ho spiegato loro che a me piacciono le persone, e il genere mi interessa poco. Dopo quella storia, infatti, mi sono innamorata di un ragazzo, e mi è sembrato del tutto normale. Adesso, sì, sono innamorata, felice e spaventata. Controllo frustrazioni, rabbia, dolore, ma l’emozione che mi dà questa persona è così forte... Non mi chieda se è un uomo o una donna, non ha importanza
Paola Egonu fidanzata con il pallavolista Michal Filip: chi è il nuovo amore. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.
Nel 2018 aveva rivelato al Corriere di stare con una donna. Poi, di recente, ha detto a Oggi: «A me piacciono le persone, il genere conta poco».
«A me piacciono le persone, il genere conta poco» aveva detto in una recente intervista a Oggi in cui aveva anche detto di essere fidanzata ma «non mi chieda se è un uomo o una donna — aveva risposto — non ha importanza. Sono innamorata, felice e spaventata. Controllo frustrazioni, rabbia, dolore, ma l’emozione che mi dà questa persona è così forte». E allora non c’è di che stupirsi se, dopo il coming out del 2018 al Corriere , quando raccontò la storia con una ex compagna di squadra, Paola Egonu abbia, di fatto, annunciato su Instagram, il suo nuovo amore. È Michal Filip, pallavolista anche lui, opposto polacco dallo scorso anno allo Yeni Kiziltepe, in Turchia.
L’azzurra, una delle più giocatrici più forti al mondo, ha ripubblicato una foto che la ritrae abbracciata al fidanzato che, ieri sera, ha risposto con una carrellata di scatti delle vacanze in Sardegna dopo la Nations League che Paola ha contribuito a portare per la prima volta in Italia due settimane fa.
Ancora qualche giorno insieme e la coppia dovrà separarsi perché l’azzurra si trasferirà a Cavalese (Trento) per il ritiro con la Nazionale di Mazzanti con cui a settembre volerà in Olanda per la prima fase del Mondiale, il grande appuntamento della stagione. Finito il Mondiale, la coppia potrà ritrovarsi in Turchia, dove, pare, i due si siano conosciuti nelle scorse settimane: Egonu, infatti, la prossima stagione giocherà con la maglia del Vakifbank Istanbul.
Paola Egonu: «Vado all’estero. L’amore? Quando ci si sente diversi si tende a nascondersi, ma mio padre ha capito». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.
La pallavolista ha scritto un libro per ragazzi: «Dedicato a mio nonno che sapeva sognare. Convivo con le crisi di panico, le mie giornate sono un ottovolante. Io in campo fino a 40 anni? No, ci sono troppe cose da fare oltre al volley».
Se papà Ambrose avesse preso sul serio quella figlia con l’argento vivo addosso che a 8 anni gli annunciava solennemente di voler diventare suora come la zia Loreto, anziché disinnescarla con un sorriso amorevole («All’epoca avevamo l’abitudine di passare almeno una settimana all’anno a Roma con lei in convitto, travolgevo la zia di domande sui grandi temi della vita e lei sapeva rispondere a tutto: i riti della comunità religiosa mi affascinavano»), Paola Ogechi Egonu, veneta di Cittadella, genitori nigeriani emigrati in Italia da Lagos e Benin City, non sarebbe mai diventata alla strepitosa velocità di 23 anni, 193 centimetri d’altezza e 3,44 metri di elevazione la pallavolista più irresistibile dell’orbe terracqueo. Una vocazione in meno per la Chiesa, una schiacciata in più per il Paese.
Martello dell’Italia campione d’Europa dopo un’Olimpiade finita a pesci e social in faccia, capace di sbalzi d’umore come nemmeno il barometro con la bassa pressione (la mattina al risveglio, pare di capire, è il passaggio più delicato), talento pallavolistico da vendere, fluida in amore («Ho ammesso di amare una donna — e lo ridirei, non mi sono mai pentita — e tutti a dire: ecco, la Egonu è lesbica. No, non funziona così. Mi ero innamorata di una collega ma non significa che non potrei innamorami di un ragazzo o di un’altra donna. Non ho niente da nascondere però di base sono fatti miei» ha detto al Corriere) e rocciosa in campo, la signorina Egonu è un hellzapoppin di sentimenti, emozioni, look, alti e bassi difficile da contenere dentro le righe di un’intervista. Ma vale sempre la pena provarci.
Paola che momento è della sua vita?
«Bello».
La guerra non la turba?
«Occupa i miei pensieri, certo, con le compagne di squadra di Conegliano ne parliamo. Soprattutto mi scervello per provare a capire perché. Poi però ti rendi conto che è tutta politica e allora non sai più a chi, e cosa, credere. Ma il dispiacere per chi soffre resta, ed è enorme».
Come si informa?
«Leggo i giornali. Parlo con le giocatrici russe e ucraine. Loro sono una buona fonte ma per sapere tutto dovresti essere lì, in Ucraina, sotto i bombardamenti. Non credo mai alla prima cosa che mi viene detta. E la verità è irraggiungibile. Questo sì che mi turba. Vivo con il dubbio».
Ha scritto un libro per ragazzi, «18 segreti per diventare stelle». La dedica è al nonno che le ha insegnato a sognare. Perché proprio a lui?
«Ambrogio papà di Ambrose, il nonno paterno. È venuto a mancare in Nigeria a 94 anni subito dopo l’Olimpiade di Tokyo, in un momento per me già difficile per tutte le critiche che abbiamo ricevuto per la sconfitta nei quarti. Non sono potuta andare al funerale e ho voluto dirgli grazie così, con la dedica».
In che modo le ha insegnato a sognare?
«Con la luce che aveva negli occhi: puro amore che veniva dal cuore. Era uno sportivo anche lui, capiva di volley. Faceva il tifo per me da lontano, però non gli piacevano i pantaloncini corti che indosso in campo. “Paola sono troppo corti!”, protestava. E io: “Ma nonno, guarda che prima si giocava in body, è molto meglio così”. E allora si metteva tranquillo».
Famiglia numerosa, la sua.
«I cugini li ho contati di recente: sono arrivata a 18. Gli zii e le zie, inclusa Loreto, sono 13. I miei punti di riferimento, senza nulla togliere a papà Ambrose e al mio fratellino Andrea, sono mamma Eunice e mia sorella Angela. Ci sono discorsi che faccio solo con loro perché solo loro due possono capire».
È più suo padre o sua madre?
«Sono alta, longilinea, forte come lui. Anche di viso, gli somiglio moltissimo. Vorrei avere la sua compostezza nei momenti difficili, la dote di non perdere mai la lucidità. E invece, emotivamente, sono tutta mamma: ho ereditato il suo lato sentimentale, l’empatia, la lacrima facile. E poi io non riuscirei mai a tenermi tutto dentro, come papà».
I suoi le hanno raccontato come si sono conosciuti in Italia?
«È una storia divertente. Dunque, sono nella zona di Parma, dove lavorano. Si frequentano e va tutto bene. Poi un giorno litigano, mamma lo lascia e va a vivere da un’amica. Papà la cerca ma quando la trova si accorge che sulla scena è comparso un altro tizio. Un nuovo corteggiatore! Davanti a una scenata di gelosia, mia mamma si è convinta che mio papà teneva davvero alla loro storia».
Ogni 25 dicembre piango, scrive.
«I miei oggi vivono in Inghilterra e mi mancano da morire. Il campionato di volley non ha mai soste natalizie, quindi per me è impossibile raggiungerli. Supplisco con i Lualdi, la famiglia della mia migliore amica Giuditta: tutte le feste le passo con loro, mi tirano su quando sono in preda alla nostalgia. È la mia seconda famiglia. Giuditta l’ho conosciuta in un bar di Milano, quando giocavo nel Club Italia: a me piaceva la sua compagnia, a lei la mia. Da allora non ci siamo più perse».
Se lei dovesse descrivere la sua vita a un alieno, Paola, cosa gli racconterebbe?
«Che vivo sull’ottovolante, che la mia giornata di relax ideale è orizzontale, a letto. Caffè tra le lenzuola, serie tv a raffica, Tik Tok, video buffi, telefonate ai miei e alle amiche. Che in me convivono due anime, italiana e africana, e di ciascuna di esse mi piace tutto. E che in campo mi porto dietro tutta me stessa, nel bene e nel male. A volte mi dico che vorrei essere normale, ma normale è noioso. Mi accetto così, sempre in viaggio sulle montagne russe».
«Sì. Lo stimolo, forte, c’è».
Quanto contano i soldi, nello stimolo, le offerte milionarie che le sono arrivate da (almeno) due club di Istanbul?
«Poco. Mi è capitato di rifiutare cifre importanti: quando devo prendere una decisione l’assegno è l’ultima cosa che vado a considerare. Sono più interessata alla crescita legata al cambiamento, a uscire dalla mia zona di comfort».
In un’intervista al «Corriere» dopo l’Olimpiade e l’Europeo, aveva parlato dei suoi attacchi di panico. È una fase superata o si sono ripresentati?
«Ne ho avuti altri, con conseguenze ancora più forti sul mio corpo. Episodi sempre legati al campo, all’allenamento o alla partita. La testa vede improvvisamente nero, il pensiero negativo ti spinge giù, ti... ammazza. Quando mi succede, mi spavento: mi piace mantenere il controllo e invece non sono più lucida. Dopo, passata la crisi, mi aiuta avere qualcuno che mi ascolta, che sa come sono fatta e che accetta le mie follie».
Per essere felici, quindi, non basta aver trasformato in lavoro la passione più grande?
«Ascoltare se stessi aiuta. Nessuno te lo insegna a scuola, ma è molto utile. Come sto? A volte me lo chiedo cento volte al giorno, la mattina è un momento sempre delicato. Paola come va? Eh, sono presa un po’ male. Una volta mi arrabbiavo, adesso respiro: vabbé, oggi va così...».
L’odio social le cambia l’umore?
«Non più. Gli haters li blocco, inutile perdere tempo a ragionarci».
Le fa più male che scrivano che non è una brava pallavolista o che non è italiana?
«La cosa più fastidiosa è quando si dimenticano che sono un essere umano. Ricordo la frustrazione di un genitore che non aveva avuto un autografo per la figlia: sei una stronza, scrisse su Instagram. No, mi dispiace, stronza non sono: sei tu che ignori i ritmi e le esigenze della vita di una professionista dello sport. Quel giorno, dopo la partita, io di autografi ne avevo firmati cento. Al resto sono abituata».
Allude agli episodi di razzismo? Nel libro ne cita due: i genitori di una rivale che la insultano, 14enne, durante un match, e un compagno che a scuola, in una discussione, le dice: voi stranieri non dovete stare in Italia.
«È da un bel po’ che queste cose non mi succedono più, per fortuna. Ma l’Italia non è un Paese razzista, di persone cattive in giro ce ne sono poche. A volte noto ignoranza, che è diverso, e un po’ di superficialità».
Studia Psicoeconomia. Di cosa si tratta?
«Esami in presenza a Padova pochini, però ci tengo ad arrivare in fondo. Studio i consumatori finali di un prodotto, per esempio. È un corso in Economia, ma con aspetti umani. Dopo il volley mi piacerebbe trovare un lavoro nel mondo della moda, di cui amo tutto: le sfilate, il signor Armani, gli outfit strampalati che nessuno indosserebbe, tranne me».
C’è un amore?
«Sono tranquilla e aperta. Curiosa di nuove esperienze».
Quindi una persona non c’è.
«No. Ci sono i miei cagnolini, Noir e Pinot».
Racconta di essere rimasta molto colpita dal discorso finale del padre professore al figlio Timothée Chalamet in «Chiamami col tuo nome», il film di Luca Guadagnino candidato a quattro premi Oscar nel 2018. Perché?
«Per il modo in cui gli consiglia di viversi il sentimento per lo studente tornato negli Usa per sposare l’ex fidanzata. È un discorso di grande accettazione, pieno d’amore».
Lo stesso che si è sentita fare da suo padre?
«Non subito ma a un certo punto sì, è successo anche nella mia famiglia. Quando ci si sente diversi si tende a nascondersi, a non dire, non se ne parla. Nel film invece il padre ha capito tutto, ha assistito all’attrazione tra il figlio e il suo studente senza intromettersi e alla fine gli fa capire che sa e non giudica. Bellissimo. Ogni volta che lo rivedo, piango».
Francesca Piccinini si è ritirata a 40 anni. Immagina una carriera altrettanto lunga, Paola?
«Assolutamente no. Non c’è niente di sbagliato nella longevità ma non è la mia storia: ci sono troppe cose da fare nella vita perché io corra il rischio di giocare a volley per altri vent’anni».
L’INTERVISTA su Il Corriere della Sera il 24 novembre 2022.
Andrea Lucchetta e i suoi primi 60 anni: «Volevo fare il portiere del Milan»
Il trevigiano ex campione del mondo di pallavolo si racconta: «Niente rimpianti e molti progetti per il futuro. Il compleanno? A cena con un mio amico storico»
«Dieci chilometri all’ora sopra il minimo consentito e trenta chilometri sotto il minimo consigliato in presenza dei dossi della vita». Andrea Lucchetta usa la metafora dell’automobilista in viaggio per descrivere i suoi primi 60 anni (li festeggia il 25 novembre).
Che effetto fa ad un sempre giovane come lei che esibisce capigliature spericolate sentire questa cifra tonda?
«Ai miei due figli, Lorenzo e Riccardo, e alla mia compagna, Francesca, che volevano farmi dei festeggiamenti ho detto no. Ho rilanciato con la proposta di una cena con il mio amico Massimo Forlani che è il mio fisioterapista che conosco da quando giovanissimo sono arrivato a Modena e con il quale condivido un periodo di vita vissuta all’esterno della pallavolo. Andremo a cena al “Caminetto” il ristorante dove ho sempre festeggiato gli scudetti perché questa è la mia seconda casa. E sarà un’occasione per guardare non tanto indietro ma soprattutto avanti come ho sempre fatto nella mia vita».
Ma di quel 60 così tondo e minaccioso che mi dice?
«Le dico che mi ricorda la maturità, l’esame all’Istituto tecnico. La mia massima aspirazione era uscire col 60 ma mi hanno fatto pagare il fatto che avevo saltato l’ultimo compito di elettronica industriale per impegni con la pallavolo e così uscii con 56 pur avendo fatto una prova splendida. Ma forse da qui ho iniziato a capire il concetto di sfida. Tornando ai 60 anni credo che adesso inizi la parte più importante della vita per un impegno crescente verso le nuove generazioni cercando di lasciare un segno».
Di questi 60 anni almeno la metà dedicata a calcare i campi da volley, uno sport che non ha ancora il cappello del professionismo...
«Purtroppo non siamo mai passati al professionismo. Io ho smesso nel 2000. Oggi sono un 60enne che è riconosciuto per il percorso che ha fatto e che continua a promuovere i valori che servono a costruire l’individuo. Lo faccio anche attraverso il cartone animato di cui i ragazzini riconoscono la voce durante le mie telecronache su Rai Uno e su Rai Sport, io per loro sono Lucky».
Lei ha vissuto gli anni Settanta, Ottanta, Novanta e Duemila. Qual è il tempo in cui si sarebbe voluto fermare?
«Gli anni Novanta. Sono lo specchio di una crescita collettiva e ci sono state le grandi vittorie. Ecco tornerei a quegli anni non tanto per le vittorie ma per provare a gestire in anticipo il mio percorso di crescita finalizzato al cambiamento. In quegli anni nel mondo della pallavolo ero una sorta di rompighiaccio, ma troppo solo. E il ghiaccio poi si riformava».
Se si guarda alle spalle, in questi 60 anni riesce ad individuare i tre momenti straordinari della sua vita?
«Sicuramente la nascita dei miei due figli, Lorenzo e Riccardo. Poi per quanto riguarda lo sport a pari merito la vittoria del primo scudetto con la Panini Modena che ha aperto il ciclo nel quale ero il capitano “lavoratore”. E poi la vittoria al Campionato del Mondo e medaglia come miglior giocatore. Ricordo ancora le lacrime».
E a 60 anni c’è tempo per i rimpianti?
(Sorride, ndr) «Forse non aver provato a diventare portiere del Milan per dimostrare che il pallavolista ha delle grandi doti che lo possono portare a competere in altre aree e poi ovviamente avrei goduto di vantaggi economici utili almeno a tre generazioni. Poi forse ho un falso rimpianto: non aver detto sì al Giappone. Ma quella è stata la mia ferma decisione di restare in Italia perché il capitano della nazionale non può lasciare il suo Paese e deve mettere la sua esperienza al servizio delle squadre italiane. Forse il portafoglio oggi sarebbe stato più pieno ma la mia è stata una scelta che non rimpiango».
E adesso c’è qualcosa di nuovo che Andrea Lucchetta sta creando?
«Sto portando avanti una filosofia di made in Italy. Lo sto facendo insieme a mio figlio Riccardo dando vita ad un brand di prodotti che abbiano un aggancio col territorio e che gli sportivi possano utilizzare. E questa è un’altra bella sfida».
In 60 anni lei ha visto cambiare il Paese: com’è cambiato secondo lei?
«Abbiamo sprecato molte opportunità. E poi c’è stata soprattutto l’accettazione passiva dell’ingresso in Europa e non eravamo pronti né da un punto di vista politico né monetario».
Oggi è una donna a guidare il Paese. Che ne pensa?
«Credo che sia necessario avere fiducia in un momento difficile. Mi auguro ci sia una cooperazione da parte di tutti».
A proposito di governo cosa suggerisce al neo ministro allo Sport?
«Andrea Abodi è uomo di sport e ha 5 anni per generare progettualità e io, se lo ritiene, sono a disposizione per il bene dei nostri giovani».
Andrea Lucchetta un sessantenne felicemente realizzato?
«Diciamo che sono sulla rampa di lancio».
Andrea Lucchetta, 59 anni, nella veste di telecronista del campionato di volley. Domenico Basso su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2022.
Una capigliatura a spazzola in diagonale. Un’onda anomala che svetta da anni sulla sua testa. È questa la carta di identità di Andrea Lucchetta, ex capitano di quella Italvolley che ha trasformato negli anni Novanta un gruppo di giocatori in una generazione di fenomeni. E lui un fenomeno lo è diventato prima come persona e poi come campione. Da ragazzino taciturno e schivo ad esplosivo comunicatore. A farlo uscire dal bozzolo l’esperienza dai Salesiani, collegio a pochi chilometri da Treviso. È qui che Andrea ha scoperto la «pozione» per schiacciare la timidezza e intraprendere il percorso che poi lo avrebbe fatto diventare il grande Lucky.
Andrea Lucchetta per usare un termine pallavolistico il Covid è stato schiacciato?
«Speriamo ripartano tutte le attività outdoor e le convention perché partite Iva come me sono state massacrate da questi due anni di pandemia. Io sono un consulente che lavora in affiancamento ad agenzie, faccio team building e molte altre attività e quindi in due anni non ho più fatturato nulla».
Schiacciato dal virus. E adesso cosa sta facendo?
«Sto producendo 14 episodi del cartone animato Super spykeball. Vado avanti un po’ alla volta perché non avendo appoggi politici devo sgomitare. Poi sono anche consulente della federazione e recentemente ho realizzato una clip per la Federazione Pesca italiana. E poi divento un aereo…. Un mezzo della flotta Ita Airways porterà il mio nome . Sono uno dei 7 atleti del passato scelti per questo».
Sogna mai di essere di nuovo in campo. Di perdere una partita?
«Ogni tanto, anche se di fatto in campo ci sono ancora quando faccio le telecronache per Rai Sport».
L’estate scorsa è stata un’estate tricolore. Calcio, volley, medaglie di singoli atleti…Una congiunzione astrale positiva o qualcosa di ritrovato?
«Abbiamo sicuramente migliorato le nostre prestazioni rispetto ad altri Paesi. E poi va ricordato che molte medaglie e molti risultati portano la firma delle donne e questo è un dato importante».
Le vittorie aiutano sport come la pallavolo che sono poco sotto i riflettori?
«Le vittorie sono le uniche cose che tengono in vita gli sport meno popolari. Se non vinci sparisci. L’onda lunga del successo nei media è molto più breve rispetto a molti anni fa. E se non hai qualcuno che compra pagine sui giornali, senza vittorie rischi davvero di sparire».
Il suo grande rimpianto restano le Olimpiadi non centrate?
«Lo svelo adesso. Il mio grande rimpianto è di non essere diventato portiere del Milan».
Si spieghi meglio. Voleva fare il calciatore?
«Erano gli anni in cui giocavo con il Milan Volley…. E pensate che ero interista. Ma credo che avrei dovuto tentare la strada del calcio. Follia? No, anche Michael Jordan ha cambiato tre sport diversi. Sono convinto che sarei diventato un gran portiere».
Vive ancora in Emilia Romagna. Non pensa ad un ritorno a casa?
«Mi piacerebbe però il mio centro familiare è a Modena. Amo Treviso, la mia città, e mi piacerebbe poter tornare per sviluppare con Fausto Pinarello (imprenditore del settore cicli) un progetto di formazione per nuove generazioni attraverso un cartone animato che parte dalla bici per arrivare alla sicurezza stradale».
Lei è stato anche un tennista. Come giudica la vicenda Djokovic -vaccino?
«Un campione deve rispettare le regole».
Con chi farebbe due palle tra i tennisti di oggi?
«Con Sinner. Mi ricorda me stesso, mi ispira».
La gioia più grande?
«Sicuramente essere stato premiato al Mondiale come miglior giocatore ed è raro che venga premiato un centrale. E poi uscendo dal campo mi viene in mente il cavalierato che mio papà Ettore fece di tutto perché mi venisse conferito. Scrisse anche al presidente della Repubblica».
A novembre compirà 60 anni. Ha paura della vecchiaia?
«Ci penso. Però cerco di proiettarmi verso nuove sfide che mi danno l’opportunità di restare giovane. C’è il mio personaggio dei fumetti che mi garantirà una eterna giovinezza».
Le passioni sono sempre la pesca e il mare?
«Sì ma a queste se ne è aggiunta un’altra, quella per i luoghi Matildici, quelli di Matilde di Canossa. E sto lavorando insieme a mio figlio Riccardo per la valorizzazione dei prodotti di queste zone».
In tivù fa il telecronista. Le piace il Festival di Sanremo?
«A Sanremo sono stato due volte. Ad invitarmi era stato Pippo Baudo. Ci ero andato con Andrea Zorzi perché Baudo amava molto il volley. L’edizione di quest’anno mi è piaciuta».
Incontrasse se stesso a 18 anni cosa gli direbbe?
«Tagliati i capelli….Avevo i capelli a caschetto ed ero davvero inguardabile. Poi gli direi di continuare a studiare per diventare ingegnere elettronico».
A proposito di capigliatura. Cambiato qualcosa?
«È diventata solo più bianca ma sempre trasversale».
Voi eravate una generazione di fenomeni. Oggi che generazione vede tra i giovani?
«Per arrivare bisogna sacrificarsi e passare anche attraverso molte sconfitte. Adesso c’è la corsa al tutto subito e senza fare fatica».
E la generazione di politici com’è?
«È una generazione che ha perso il contatto con il territorio e quindi con la realtà. E poi ho visto tanta gente cambiare maglia per restare attaccata alla poltrona. E questo fa male ad un capitano che ha la maglia tricolore nel cuore e quindi ha un senso di appartenenza. Il mercato politico mi fa rabbrividire, vedo greggi che si spostano ...».
Spritz o Prosecco all’ora dell’aperitivo?
«In Veneto sicuramente Prosecco. Da altre parti spritz ma controllo sempre che bollicine ci cascano dentro».
Paola Egonu. Giulia Zonca per la Stampa il 12 febbraio 2022.
In questi giorni di Cinque Cerchi Paola Egonu non pensa ai suoi, a quelli che ha portato con tanto orgoglio alla cerimonia di apertura dei Giochi estivi di Tokyo. Li guarda comparire in tv, sbucare dalle foto, ma le sembrano molto distanti e comunque la portano in un mondo fatto di desideri dove ora non vuole stare: «È un bellissimo ricordo che adesso non funziona. Preferisco pensare a cose brutte, così sto con i piedi per terra e non mi dicono che mi credo più di quello sono».
Le Olimpiadi richiamano brutti ricordi?
«Può darsi. Quel rientro non è stato facile da smaltire».
Eliminate ai quarti e criticate perché «distratte dai social». A una squadra maschile lo avrebbero detto?
«Non esiste, non lo farebbero mai perché lo sport femminile è ancora poco considerato. Valgono i risultati, certo, ma l'approccio è pieno di pregiudizi e di stereotipi. Prendete il campionato di volley in Italia, nella mia squadra, Conegliano, credo che oggi ci sia più gioco che nella maggioranza delle partite maschili dove tirano forte e basta».
Le giocatrici di volley sono ancora considerate miss?
«Meno, si migliora. Lentamente. Anche se l'idea di quella alta, con le misure ideali resiste, come se una squadra si facesse con il casting».
Ha mai ricevuto commenti sul fisico che le hanno dato fastidio?
«Per fortuna no, ma ho purtroppo una collezione di pessimi comportamenti. Club Italia, da ragazzine, non ricordo l'età, minorenni e uno dello staff dice a una compagna: "Non ci respiri in quella maglietta, sembri un salsicciotto". Mi è rimasto impresso, con una frase così fai dei danni».
Sarebbe giusto chiedere ai tecnici di andare a scuola di sensibilità? L'Australia, tra mille problemi, ha iniziato un addestramento specifico.
«Basterebbe che parlassero di quello che sanno, nel mio caso, pallavolo. Stop. Non sono nutrizionisti, non sono psicologi, non si devono permettere di uscire dal loro campo».
La ginnasta Simone Biles, a Tokyo, ha messo l'accento sulla salute delle atlete e degli atleti. Si riparte con i Giochi invernali e il commento della Nbc alla caduta di Mikaela Schiffrin, due ori per gli Usa nel 2018, è: «Che delusione, che errore. Una macchia che resta».
«E chi si stupisce? Veniamo considerate macchine, va bene solo fino a che sei superdonna. Se cadi, per forza hai sbagliato atteggiamento o non ci hai messo abbastanza o hai pensato ai fatti tuoi. Invece per realizzare quando fare un passo indietro per il rispetto del proprio corpo ci vuole tanto coraggio».
A lei è capitato?
«Agli inizi. A ogni errore ti senti dire: "che opportunità sprecata". Ridicolo, le carriere non sono fatte di percorsi netti».
Ha visto Sanremo?
«Pochissimo, però l'ho seguito sui social».
Le sarà arrivato il monologo dell'attrice Lorena Cesarini: "Credevo di essere italiana, ho scoperto di essere nera".
«Polemiche inutili. Mi chiedo fino a che si dovrà passare da queste baggianate. Mi dispiace per lei, giustamente felicissima per essere lì, ingenuamente felicissima purtroppo. Ho provato anche io quelle sensazioni, spero si arrivi a una generazione che ne sia libera».
Perché non ora?
«La gente parla. Io so che non devo dare importanza a certe voci eppure, magari per un attimo, ci penso e fa male».
Bene parlare di razzismo sul palco di Sanremo o meglio non lasciare spazio a chi non capisce?
«Se se ne parla è subito troppo, se non lo si fa diventa silenzio. Pure su questo alla fine pare si sbaglia e basta. Bisogna provarci, con onestà».
Lei come fa?
«Mi dico: Paola contano le persone con cui andresti in guerra. Delle altre fregatene».
Con chi andrebbe in guerra?
«Non brucio i nomi»
Ci va spesso in guerra?
«Di continuo, troppo. Ci sono posizioni che vanno difese».
L'ultima volta quando?
«Pochi giorni fa, evito di dire il motivo: se pubblicizzo certe battaglie perdono di efficacia».
Allora mi racconti una battaglia ormai sepolta.
«Per fortuna me le dimentico, se me le portassi dietro mi schiaccerebbero». Con chi si confronta quando quelle voci fastidiose entrano nel sua vita? «Con la mia famiglia, mio padre, mia madre, mia sorella. È da quando sono giovanissima che sto lontano da loro, ma ormai mi sono abituata al rapporto a distanza».
Ora le distanze potrebbero cambiare, si dice che sia pronta ad andare a giocare all'estero.
«Adesso tutto è aperto».
In passato la Turchia le ha offerto contratti pesanti e ha rifiutato. Oggi la tentano? «Rispetto all'anno scorso mi sento pronta per un'altra avventura. Al momento però resto concentrata su Conegliano».
Per la prima volta dopo tanto tempo il campionato di volley è aperto. Stanche voi o migliori gli altri?
«Gli avversari sono diversi e Conegliano deve ritrovare i propri equilibri». Vi hanno definite «ingiocabili» perché non c'era gara. Come si mantengono le motivazioni dopo aver vinto tutto? «Io ho sempre voglia di essere la migliore, di dimostrare quanto valgo».
Pensa che ci sia ancora qualcuno che non l'ha capito?
«Spero di no, ma so che nello sport non è più si vince o si perde. È si vince o si massacra, come hanno fatto con noi alle ultime Olimpiadi. Con il manganello. Poi abbiamo vinto gli Europei e tutti fieri di noi. Eh no, con me non funziona così».
Che cosa sogna oggi Paola Egonu?
«Di vivere in un mondo dove la gente si fa i cavoli propri». Lei però è un personaggio pubblico, la curiosità ci sta. «Non quella morbosa, mi sento spiata, come se aspettassero la cazzata per puntare il dito».
È innamorata?
«No. Troppa pallavolo, mi ci dedico con ogni fibra».
Troppo bisogno di dimostrare?
«Sto facendo quello di cui ho bisogno. Compreso i fatti miei».
Julio Velasco ha 70 anni: i Mondiali di volley, «gli occhi della tigre», la tv, il comunismo, Dalla e De Gregori. Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.
Argentino di nascita e cittadino italiano, ha lavorato per 44 anni nel nostro sport: prima ha cambiato il volley, facendo la storia, poi ha provato da dirigente nel calcio. Uomo di grande carisma, ingegno multiforme e dialettica sopraffina, è stato corteggiato dalla politica ed è un notevole commentatore tv
Il «vate» ha 70 anni
Ha compiuto 70 anni Julio Velasco, uno dei grandi nomi dello sport italiano per quello che ha saputo fare nel mondo del «suo» volley, trasformando prima di tutto la Nazionale maschile e dandole un’impronta vincente nonostante a lui e ai suoi successori sia mancato l’oro olimpico. Oggi Julio — o Giulio visto che è anche diventato cittadino italiano — non allena più, ma rimane attivo in quanto la Federvolley gli ha assegnato il ruolo di direttore tecnico del settore giovanile maschile. Nel 2019, dopo la semifinale persa alla guida di Modena contro Perugia, aveva annunciato l’addio alla panchina dopo ben 44 anni. In realtà era un «passo di lato» per colui che ha inventato lo slogan degli «occhi di tigre» per motivare. Per fortuna è andata così: sarebbe stato un peccato perdere del tutto una persona di grande carisma, dall’ingegno multiforme e dalla dialettica sopraffina. Un personaggio che scherzosamente è soprannominato «Vate» (come il collega del basket Valerio Bianchini) e continua a piacere ancora oggi, anche e soprattutto in televisione quando viene chiamato come commentatore/opinionista: la scorsa estate ai Giochi di Tokyo i suoi interventi sono sempre stati ricchi di personalità e spesso pure provocatori. Come nel suo stile.
La lettera d’addio al volley
Per ricapitolare la storia di Velasco, però, partiamo proprio dal giorno del commiato. Lo comunicò tramite il Modena Volley, scrivendo una bellissima lettera: «Come tutti già sapete, ho deciso di chiudere la mia carriera di allenatore. Sono rimasto in silenzio fino ad ora e lo farò ancora per un po’, a parte questo scritto, perché per me è una situazione emotiva molto forte e ho bisogno di stare un po’ con me stesso». «Questo momento per me non è semplice, ma come molti giocatori hanno smesso di giocare quando ancora erano forti, anch’io ho voluto chiudere la mia carriera quando ancora avrei potuto allenare, senza aspettare il declino». «Questo lavoro è stato un privilegio. Ho allenato per 44 anni, dal settore giovanile a nazionali di diversi continenti: voglio ringraziare specialmente tutti i giocatori che ho avuto e che mi hanno permesso di essere quello che sono diventato. Perché un allenatore non è altro che la propria squadra. Tutto quello che un allenatore fa è aiutare i propri giocatori in modo che siano loro a fare. In questo momento mi ricordo di ognuno di loro. Non solo di quelli più forti. Perché molte volte un allenatore impara di più insegnando ai quei giocatori a cui le cose non vengono facilmente».
44 anni: l’Argentina e «l’altro» Mondiale 1982
Quarantaquattro anni, appunto. I primi li ha trascorsi partendo dal Club Universitario de la Plata («È lì che ho imparato a giocare a pallavolo») per poi bordeggiare tra vari settori giovanili di società argentine. Nel 1979 - in un periodo tra l’altro particolarmente difficile del Paese a causa di una dittatura brutale - Velasco ha avuto la possibilità di allenare la prima squadra in serie A: il Ferrocarril Oeste. Di quegli anni Julio ha un ricordo indelebile: «Il Club Defensores de Banfield mi permise di continuare la carriera di allenatore quando fui costretto a lasciare la mia città per nascondermi dalla repressione militare». Nel 1982 la Federazione argentina lo nominò vicario nella nazionale che avrebbe partecipato al Mondiale. Dettaglio non da poco perché indirettamente si crearono le basi del suo sbarco in Italia: Giuseppe Cormio, giovane direttore sportivo di Jesi, lo scoprì e gli affidò la panchina della squadra in A2.
Jesi e Modena
Dopo Jesi ci fu la prima, decisiva esperienza a Modena. Epoca di scudetti (quattro di fila), Coppe Italia (tre) e di un successo europeo (la Coppa Coppe del 1986), ma soprattutto della scoperta di giocatori del valore di Lorenzo Bernardi, Andrea Lucchetta, Luca Cantagalli e Fabio Vullo. Il passaggio in Nazionale fu quasi automatico e dal 1989 introdusse il suo metodo e i suoi concetti come se fosse in un laboratorio a sperimentare. Il risultato fu l’inizio di un ciclo indimenticabile, anche se all’Italia del volley diretta da lui e dai suoi successori è sempre mancato fin qui l’oro olimpico.
«Giulio» Velasco
Ma quello che ha fatto Julio (o Giulio, visto che dal 1992 è diventato anche cittadino italiano, grazie a retaggi genovesi dalla parte della mamma) per la Nazionale di volley è qualcosa di straordinario. Fu la «generazione di fenomeni». L’elenco delle sue grandi vittorie è lungo come un treno: 1 argento olimpico, 2 titoli mondiali, 3 titoli europei, 5 World League, 1 Coppa del Mondo, 1 Grand Champions Cup, 1 World Super Challenge, 1 World Top Four. E il resto... mancia
Atlanta 1996: «solo» argento
In realtà l’argento olimpico di Atlanta 1996 è anche considerato come una delle grandi sconfitte di Velasco. Fatale fu l’Olanda, che si impose in un tie break tiratissimo. Quattro anni prima, a Barcellona, gli orange ci avevano già fatto piangere, addirittura sorprendendoci nei quarti di finale e spezzando un sogno che pareva «facile» da coronare. In effetti il k.o. del 1992 fu più pesante da accettare perché in quel periodo, anche a causa della caduta del Comunismo e dell’impasse del blocco dell’Est (storicamente molto forte nel volley), l’Italia dominava. Ad Atlanta, invece, l’Olanda era molto più forte e probabilmente aveva raggiunto il livello degli azzurri. In entrambe queste sconfitte, peraltro, ci fu un denominatore comune: i cambiamenti di «manico» in regia. Paolo Tofoli, palleggiatore al quale Velasco aveva affidato le chiavi della squadra fin dall’inizio del ciclo, fu alternato nel 1992 a Vullo e nel 1996 a Meoni. Forse la destabilizzazione di un ruolo cardinale spiega perché non si è vinto.
L’Italia delle donne
Nel 1997 Velasco stupì tutti con uno dei suoi colpi di teatro: basta Nazionale maschile, la sua idea era di confrontarsi con il mondo del volley femminile per portare l’Italia rosa in alto. E da una sua idea prese vita il Club Italia, che ancora oggi è centrale nella formazione delle nostre pallavoliste con un potenziale di alto livello: le giovani più promettenti, selezionate dalla federazione, si allenano tutto l’anno senza lo stress legato alle competizioni dei club. Nel Club Italia militeranno tra le altre Elisa Togut, Eleonora Lo Bianco, Anna Vania Mello e Simona Rinieri, che sarebbero poi diventate campionesse del mondo nel 2002 con Marco Bonitta c.t. (Velasco lasciò l’Italia femminile nel 1998)
La Lazio, l’Inter e l’«intruso» del calcio
Nel frattempo la popolarità di Velasco era cresciuta enormemente: di lui si era parlato addirittura come di un potenziale ministro dello Sport. Ma fu il calcio a sedurlo. Dopo un timido interessamento del Parma, fu la Lazio di Sergio Cragnotti, allenata da Sven Goran Eriksson, a proporgli, nel 1998, la carica di direttore generale. Fu un matrimonio molto gettonato, ma le incomprensioni ebbero ben presto il sopravvento: forse Julio avocava a sé un potere che il calcio non era disposto a concedergli. La stessa cosa si verificò nel breve periodo trascorso nell’Inter di Moratti: il calcio respinse «l’intruso» proveniente da un altro mondo.
Julio il globetrotter
Il ritorno di Velasco nel volley maschile, nel 2001 alla guida della Repubblica Ceca, apre la seconda parte della carriera del «Vate». Sono stati 18 anni da globetrotter, con passaggi a Piacenza, un primo ritorno a Modena, un’esperienza a Montichiari («Una grande realtà della pallavolo italiana oggi purtroppo sparita»), il rientro sul fronte delle nazionali con la guida della Spagna, dell’Iran e infine della «sua» Argentina, lasciata dopo il Mondiale 2018 nel quale Julio rimediò anche una giornata di squalifica per un memorabile gesto dell’ombrello all’odioso coach della Polonia dopo il successo sui futuri iridati. Questo capitolo non è stato esente da soddisfazioni (una vittoria ai Giochi Panamericani e due titoli asiatico-oceaniani), ma è ricco soprattutto sul piano umano: «L’esperienza in Iran - ammette Velasco - è stata straordinaria proprio per i rapporti interpersonali. A quella federazione devo anche il permesso di uscire dal contratto per andare ad allenare l’Argentina». C’era la voglia di tornare a casa. Un po’ come è capitato la scorsa estate quando, lasciata la selezione albi-celeste, il terzo richiamo di Modena, «la città che è nel mio cuore», è stato irresistibile.
«Se perdiamo è colpa dell’elettricista»
Julio Velasco, sommo affabulatore (chi scrive ha ancora nella memoria una chiacchierata finita nel cuore della notte con i giornalisti a Salonicco durante il Mondiale 1994), è stato anche famoso per battute celebri e frasi di culto. Se vi prendete la briga di spulciare in Internet, le troverete tutte. Qui ne citiamo alcune: «Il leader deve essere se stesso»; «L’attaccante schiaccia fuori perché la palla non è alzata bene. A sua volta l’alzatore non è stato preciso per colpa della ricezione. A questo punto i ricettori si girano a guardare su chi scaricare la responsabilità. Ma non possono chiedere all’avversario di battere facile, in modo da ricevere bene. Così dicono di esser stati accecati dal faretto sul soffitto, collocato dall’elettricista in un punto sbagliato. In pratica, se perdiamo è colpa dell’elettricista». «Di Velasco avete costruito un personaggio. Io devo ‘uccidere’ quel personaggio». «Non riuscire a superare le difficoltà porta alla cultura degli alibi per giustificare una sconfitta». «Una donna difficilmente fa autocritica e ai tuoi appunti risponde con un “sì, sì, ma però...”». «Chi vince fa festa, chi perde spiega». Semplicemente Julio Velasco. Semplicemente unico.
Imparare l’italiano
È stato semplice imparare l’italiano? Non del tutto. Ecco la ricostruzione di come ce l’ha fatta: «Avevo preso lezioni, non ero a terra. Ragionavo però in spagnolo e preparavo testi che traducevo: alla sera mi ritrovavo con il mal di testa. Finché un giorno, facendo la barba, realizzai che stavo pensando in italiano…». Nel tempo libero ha letto e studiato. Poi “mamma” Rai ha fatto il resto: «I suoi programmi notturni mi hanno insegnato tanto. Pure la musica e la cultura mi hanno aiutato: sapevo di Mina e della Vanoni, ma qui ho sentito Dalla, De André e De Gregori. Ho poi conosciuto i film di Visconti, ho visto Nureyev allo Sferisterio, sono stato a teatro perfino in piccoli centri: la cultura diffusa è un valore italiano».
Politica e dintorni
Da giovane Velasco era per la rivoluzione comunista. Oggi invece difende la democrazia, «pur con i suoi difetti». Lupus in fabula. È vero che la politica lo voleva? «Leggenda: non ho avuto mai proposte. E non le accetterei: la politica è mediazione, io amo le scelte decise. Però, considerandomi di sinistra, mi ”affitterei” per discutere con Salvini: nessuno sa rapportarsi con lui». Non lascerà più l’Italia. Ma cambierebbe almeno due cose: «Basta pensare che il patriottismo odora di fascismo: dovrebbe anzi essere una bandiera della sinistra». Poi c’è un orgoglio da rilanciare: «Ci consideriamo i parenti poveri, siamo sempre nel film ”Pane e cioccolata”. Ci lamentiamo spesso di ospedali e scuole. Ma non rammento un giocatore che ho allenato del quale direi “guarda che asino”. E di ospedali ne ho visti ovunque: se volete, vi spiego».
Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 30 ottobre 2022.
«Quando arrivai in Italia, a Jesi, ad allenare la squadra di pallavolo della città, era il 1983 e il mio stipendio era di 6mila dollari all'anno. Avevo 31 anni e il fatto di guadagnare poco non mi preoccupava minimamente perché, sin da bambino in Argentina, sono stato abituato a vivere con poco e facendo grandi sacrifici».
Chi parla è Julio Velasco, il grande allenatore di pallavolo argentino con cui è iniziata la leggenda della "generazione di fenomeni", i ragazzi del volley italiani vincitori di cinque World League, tre titoli europei, due mondiali e un argento olimpico. Da più di trenta, però, fa parte della storia dello sport italiano. Arrivò per allenare la squadra di pallavolo di Jesi, poi fu un successo dietro l'altro.
Fino alla leggendaria squadra di "fenomeni", quella di Zorzi e Lucchetta e Giani e Bernardi e tutti gli altri, e ai grandi trionfi: cinque World League, tre titoli europei, due mondiali. Julio Velasco nasce in una famiglia di una «classe media-povera» (così la racconta nella nostra intervista) nella città di La Plata, quasi 800mila abitanti, a 60 chilometri da Buenos Aires, in Argentina. «Mia madre era una professoressa di inglese e noi eravamo tre fratelli rimasti tutti orfani di padre molto presto. Ho il ricordo preciso dei sacrifici che mia madre dovette affrontare per renderci una vita dignitosa e permetterci di studiare però, seppur tra mille fatiche, ci ha sempre insegnato l'educazione e il rispetto, due caratteristiche a cui mai io ho abdicato».
E il giovane Julio Velasco che ragazzino era?
«Ero molto vivace e anche un po' casinista, al contrario di mio fratello più grande che rappresentava il figlio perfetto: studioso e sempre ligio al dovere».
E il fatto di essere un po' un "Calimero" l'ha fatta soffrire?
«Certamente, ma è stato fondamentale per spronarmi a migliorarmi e a mettermi in gioco: anche io volevo dimostrare a mia mamma che ero bravo e capace di guadagnarmi la sua approvazione. Sin da ragazzino sono stato sempre dotato di una grande forza di volontà e capacità di cambiamento».
Caratteristiche che le sono servite per i suoi successi sportivi e professionali?
«Assolutamente sì, la capacità di cambiamento mi è servita per affrontare complessivamente la mia vita e le sfide che questa mi ha messo di fronte».
Suo fratello è stato sequestrato dal regime militare e per qualche tempo è diventato un desaparacidos. Cosa ricorda di quel momento?
«Erano gli anni dal 1976 al 1981, quelli del colpo di Stato del generale Videla ai danni di Isabelita Perón. Furono anni terrificanti. In quegli anni venne sospesa la Costituzione e sciolto il Parlamento, sostituito da un'assemblea di esperti conniventi e militari, mentre il governo fu messo nelle mani della Giunta militare, costituita dai rappresentanti delle varie forze armate, con a capo Videla che fu nominato presidente dell'Argentina».
Cosa accade a suo fratello?
«Il meccanismo era sempre lo stesso: gli arresti avvenivano molto spesso con modalità da "rapimenti": squadre non ufficiali di militari arrivavano con una Ford Falcon verde scuro senza targa, la cui sola vista suscitava il terrore, e piombavano nelle case in piena notte, sequestrando a volte intere famiglie. L'assoluto mistero sulla sorte degli arrestati fece sì che anche le famiglie delle vittime tacessero per paura.
La conseguenza di queste modalità fu che nella stessa Argentina per lungo tempo il fenomeno rimase taciuto, oltre che totalmente ignorato nel resto del mondo. Una volta arrestate, le vittime erano rinchiuse in luoghi segreti di detenzione, senza alcun processo, quasi sempre torturate, a volte per mesi, e solo in rari casi, dopo un processo sommario e senza alcuna garanzia legale, gli arrestati vennero rimessi in libertà mentre gli altri buttati in fosse comuni o gettati nell'oceano Atlantico.
Sempre accadeva che, sotto tortura, qualcuno parlasse facendo dei nomi di altri con il regime rendendo possibile, attraverso la delazione, altre violenze su nuove persone. Io so che quando le forze militari entravano in casa ti chiamavano per cognome e ti portavano via; per questo motivo non saprò mai se il bersaglio fossi stato io, che ero un militante dell'Università o Louis».
Lei cosa fece?
«Io ero già a Buenos Aires e sono stato fortunato perché nella metropoli era più semplice nascondersi. Per fortuna dopo un mese e mezzo mio fratello tornò a casa, ma quella ferita, profonda e violenta, non si rimarginò mai né per lui né per tutta la nostra famiglia».
Lei arrivò in Italia allo Jesi, ma solo dopo due anni andò ad allenare la squadra simbolo del volley italico: la Panini Modena.
«Fu una grandissima sorpresa per me, anzi, posso ammettere che se fossi stato io nei panni della dirigenza emiliana non mi sarei scelto. Ma andò subito bene perché al primo anno vinsi immediatamente lo scudetto, e da lì partì tutto».
Oltre ai successi nel mondo della pallavolo, lei è anche stato dirigente di due grandi realtà calcisti che: la Lazio di Cragnotti e l'Inter di Massimo Moratti. Similitudini e differenze tra queste società?
«La Lazio, con il presidente Cragnotti, era una società che si stava costruendo in quel momento, mentre l'Inter di Moratti era già una società formata e strutturata. Entrambe avevano in comune due presidenti mecenati».
Che esperienze sono state?
«Per me molto importanti e formative, innanzitutto perché ho capito ciò che non amavo fare. Io sono un tecnico puro e tutto quello che riguarda anche la politica dei rapporti è lontana dal mio modo di essere. Inoltre, ho imparato che il calcio è un mondo, anzi una azienda, complessa e molto più articolata di tante altre».
Perché dice questo?
«Perché ogni cosa decisa in una società di calcio diventa di dominio pubblico, tutto esce sui giornali, ogni scelta viene vista e commentata da migliaia di persone che, pur non essendo azionisti, si sentono in diritto sempre di giudicare provocando una pressione davvero unica».
E la differenza tra un calciatore e un pallavolista?
«Il calciatore è un giovane che deve gestire tantissime cose in più che un pallavolista non ha la necessità di affrontare. Spesso si criticano i calciatori per alcuni comportamenti sopra le righe: mi chiedo a tal proposito come avrei reagito io, a vent' anni, ad essere un idolo delle folle che guadagna tanti milioni di euro. Credetemi, si fa presto a giudicare, ma sarebbe necessario prima capire».
E secondo lei la nostra è una società per giovani?
«Secondo me, quando si arriva a dare delle definizioni generalizzate e semplicistiche, si commette un errore. Nella nostra società ci sono esperienze di giovani positive ed altre negative, ma questo non riguarda l'età (abbiamo giovani straordinari e persone adulte banali), e purtroppo troppo spesso su questi temi passiamo da un eccesso all'altro creando due estremi forvianti.
Una riflessione va fatta, per esempio, su cosa è cambiato tra la mia giovinezza e oggi. Io ho vissuto gli anni Sessanta della rivoluzione giovanile, dove non si voleva rimanere come i genitori e si passava direttamente dall'essere ragazzini a diventare uomini.
Oggi gli adolescenti hanno magari più alternative, ma queste generano maggiori incertezze che in passato. La stessa velocità della società e della cultura rende sempre il mondo reale e delle regole mai aggiornato. L'Italia ha come caratteristica di essere un po' più conservatore di altri Paesi, anche nello sport».
In che senso?
«Le faccio un esempio. Se il rigore ai Mondiali di calcio del 1994 nella partita Italia-Brasile invece che sbagliarlo Roberto Baggio, allora trentenne, l'avesse tirato e sbagliato un giovane di vent' anni, avrebbero dato del matto all'allenatore e avrebbero detto che era colpa della giovane età. Con un trentenne esperto, invece, si dice semplicemente che succede. Generalizzare è sempre sbagliato.
L'essere giovane non è di per se un requisito per fare le cose bene ma non deve essere nemmeno un pretesto per non rendere possibile sperimentare. Spesso ciò che alimenta un giudizio non benevolo a priori sui giovani è solo l'invidia di non esserlo più».
Qual è il segreto per avere successo nello sport?
«Un misto di genetica e capacità di apprendimento. Una caratteristica sola di queste due non rende possibile lo sviluppo di un atleta di successo».
Lei, Velasco, ha allenato tanti atleti: c'è qualcuno che le ha lasciato qualcosa di più nel cuore?
«No. È come se ad un padre con otto figli si chiedesse quale è il preferito. Penso sia impossibile rispondere».
Rugby, la meta che genera sospetti: il giocatore aspetta due minuti per schiacciare la palla. La Repubblica il 24 maggio 2022.
Sta facendo discutere quanto accaduto durante la partita di rugby tra Inghilterra e Argentina, valevole per le HSBC World Rugby Sevens Series. Sul risultato di 19 a 0 per l'Argentina, il rugbista inglese Will Homer ha accorciato le distanze realizzando una meta che avrebbe sancito la qualificazione degli inglesi. Infatti, all’Inghilterra bastava perdere con meno di 16 punti di scarto per accedere comunque al turno successivo, eliminando il Canada. E così, Will Homer è arrivato in area di meta e non ha schiacciato il pallone, attendendo per due minuti circa. Una perdita di tempo che è convenuta a entrambe le squadre: il risultato di 19 a 7 ha qualificato i britannici e gli argentini, ma secondo alcuni osservatori l’arbitro sarebbe dovuto intervenire perché questo atteggiamento avrebbe violato le regole 2.7.d., perdita di tempo e 2.27, comportamento antisportivo.
· Quelli che...la Pallina da Golf.
Maurice Flitcroft, il «fantasma» degli Open: non sapeva giocare a golf, partecipò 14 volte al torneo più famoso di Gran Bretagna. Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera il 20 Luglio 2022.
Senza avere mai giocato, si iscrive nel 1976 (e dopo un giro è a +49). Cambiano le regole, lui però riesce a partecipare altre 14 volte sotto falso nome. Diventando «il peggior golfista del mondo», ma ricordato in un libro e in un film.
Millanterie entrate nella leggenda di uno degli sport più raffinati ed esclusivi: il golf. Parabole umane di personaggi al confine, fra follia e grottesco. Storia dell’inglese Maurice Flitcroft (1929-2007) – mani nodose, viso scavato – che un giorno si spacciò per un grande giocatore e si iscrisse a una delle competizioni più prestigiose del circuito, il British Open Championship del 1976, e ne uscì «mito» (al contrario). Perché da allora lo chiamarono «Il peggior golfista del mondo».
Primavera del 1974, Maurice è un esponente della working class nella sua Barrow-in-Furness (Contea di Cumbria, nord Inghilterra). Un giorno termina il proprio turno di gruista ai cantieri navali (là si costruiscono sommergibili e navi da guerra) e se ne torna a casa. Vuole sprofondare nella poltrona preferita e godersi la tv. Si sintonizza sull’unico canale sportivo: cerca il calcio, spera nel rugby, trova il golf. E, per certi aspetti, lo cambia. Per sempre. Lui che non ha (quasi) mai tenuto una mazza in mano. Quelle immagini del World Match Play Championship - appuntamento per golfisti d.o.c. - gli affondano un «chiodo nella testa»: cercare di partecipare al torneo più prestigioso del mond o.
Due anni dopo corona il proprio sogno: arriva a Southport, entra negli uffici del circolo «Royal Birkdale», compila un semplice modulo e si ritrova iscritto – il regolamento allora lo permette - all’annuale edizione dell’Open Championship inglese (la 105ª). Sarà diventato così bravo da qualificarsi? Praticamente non sa giocare. Ha trascorso gli ultimi due anni a vaneggiare di «potercela fare». Così si è fatto una cultura golfistica, una competenza maturata sui manuali della biblioteca locale, più che su un «green» vero e proprio. Cementata da interminabili visioni di gare televisive, piuttosto che su 18 buche reali. Certo ha provato ad allenarsi: qualche volta è andato su una spiaggia a due passi da casa, trascinandosi dietro qualche mazza rimediata qua e là. Provando e riprovando. Con un po’ di fantasia (che non manca) quello diventa il suo campo di allenamento. Ma il vento che spazza le sponde Lancashire gli porta via troppe palline. Gli allenamenti costano.
E siamo alla gara di quel 1976: Flitcroft gira tra le buche del Royal Birkdale Club – borsa rossa in similpelle, mezzo set di mazze per corrispondenza -: studia gli approcci, si atteggia con passo felpato e naso importante. Annota, millanta, si prepara. Poi parte: sbaglia, stecca, «sparacchia», accumula ritardi enormi. In breve si rivela per quello che è: un infiltrato, un imbucato. Meno che un neofita. «Il bastone è andato su verticale ed è tornato giù verticale… Era come se stesse cercando di ammazzare qualcuno - ricorderà Jim Howard suo compagno di gioco in quel giorno - La pallina fece pochi metri e si fermò subito dopo il tee». La testa di serie di quella edizione - l’americano Johnny Miller – intanto accumula un vantaggio siderale. In breve: il bluff è scoperto e il neo-golfista si aggiudica il record di peggior giocatore della storia della competizione.
Con uno score talmente basso, da farlo entrare nella leggenda: 49 sopra il par 121. La Commissione organizzatrice, all’inizio sconcertata, comincia a indagare. Emerge che il suo nome non è mai comparso in alcuna gara di golf Pro. E Maurice un risultato (involontario) lo ottiene: quello di far cambiare le regole di ammissione alle competizioni internazionali «Open». Un cambio epocale. Intanto il suo nome è bandito da ogni circolo e competizione pro.
E lui? Chissà cosa gli è scattato da tempo nella mente, perché insiste. Dopo la brutta figura del ‘76, senza tener conto dell’ostracismo, ci riprova imperterrito e sotto falso nome.
Una volta si iscrive come James Beau Jolley, un’altra è l’imprecisato conte Manfred von Hofmannstal; poi Gene Paycheki, Gerald Hoppy, James Beau Jolley, Arnold Palmtree... Va avanti così per quattordici anni. Un vero incubo per «The R&A», l’organo di governo mondiale del golf. Tanto che il segretario dell’epoca, tale Keith MacEnzie, arriva ad assumere un calligrafo per riconoscere il millantatore – che pure si cimenta in camuffamenti modello «Totòtruffa 62» - all’atto dell’iscrizione. Uno dei due figli gli fa da caddy e lo aiuta a sfuggire alle commissioni disciplinari dei vari tornei. A Maurice non importa lo swing preciso, interessa «essere lì». Fingersi arricchito, respirare quell’aria.
Contemporaneamente la sua storia fa il giro del Regno Unito e del mondo. Gli si intestano semi-ironiche competizioni per amatori. Il Blythefield Country Club di Grand Rapids (nel Michigan, in Usa) crea il «Maurice Gerald Flitcroft Member-Guest Tournament», al quale lui stesso partecipa (tutto spesato) dopo un volo dall’Inghilterra. Al popolo (non solo del golf) questo signore, che gira per il mondo beffando tronfi burocrati dello sport, in fondo piace. Come piace quel senso d’impunità, unito al (millantato, pure quello) candore dell’ex gruista di Barrow. Infine, al crepuscolo della vita (morirà nel 2007), due giornalisti Scott Murray e Simon Farnaby cominciano a scriverne la biografia (pubblicata nel 2010). Sarà intitolata «The Phantom of the Open», dove lo si definisce anche un «Don Chisciotte con un ferro nove». Addirittura. da quel libro, nel 2021 - diretto da Craig Roberts, con Mark Rylance e Sally Hawkins – è stato prodotto un film omonimo. Presentato al London Film Festival nell’ottobre scorso. Perché tutto si può dire di Mister Flitcroft, tranne che non abbia raggiunto uno dei suoi obiettivi: «emergere» nel golf. Non importa come.
(ANSA il 19 settembre 2022) - L'Italia è campione del mondo di calcio da tavolo nella categoria Open. Con questa affermazione, contro il Belgio, si è conclusa a Roma la World Cup 2022 di calcio da tavolo e subbuteo con gli azzurri assoluti protagonisti nelle varie categorie della competizione e con 26 Nazioni partecipanti, richiamando in tre giorni di sfide tanti appassionati e curiosi.
L'evento è stato ospitato da Cinecittà World ed è stato organizzato dalla Federazione sportiva italiana calcio da tavolo, in collaborazione con il Settore nazionale subbuteo, sotto l'egida della Federation international sports table football, e con il patrocinio del Coni, della Regione Lazio e del Comune di Roma.
Nella finale Open, la Nazionale Italiana ha sconfitto il Belgio con il risultato di 2 a 1: la squadra del ct Marco Lamberti, composta da Luca Colangelo, iridato nel torneo individuale; Matteo Ciccarelli, Daniele Bertelli, Saverio Bari, Claudio La Torre e Filippo Cubeta, ha compiuto un percorso netto, vincendo il proprio girone a punteggio pieno, per poi eliminare nei quarti di finale l'Inghilterra (2-0) e Malta in semifinale (3-1). Sul podio oltre a quest'ultimi, anche la selezione della Grecia, eliminata in semifinale dai Belgio.
La finale 'Veteran' è stata vinta dalla Nazionale di Malta, che ha battuto proprio la selezione azzurra con il risultato di 2-1. Grazie ad un sudden seath (golden gol) segnato nel tempo supplementare, la Francia si è aggiudicata la competizione a squadre Ladies, battendo l'Italia, dopo che i tempi regolamentari fra le due squadre si erano conclusi in perfetta parità.
L'Italia Under 20 ha vinto il proprio torneo, superando la Grecia in finale. Al termine di una finale molto equilibrata la Grecia si aggiudica la competizione Under 16 solo grazie alla differenza reti complessiva, dopo che il risultato finale maturato sui 4 campi di gioco contro l'Italia si era fermato sul 2-2 al termine dei tempi regolamentari.
L'Italia è mondiale. Ma solo a tavolino. Niente qualificazione in Qatar. Ci rifacciamo col soccer in punta di dito...Nino Materi il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.
Ok, è vero: non ci siamo qualificati per i Mondiali di calcio in Qatar; va bene, ammettiamolo: quando le nostre «migliori» squadre di club mettono le narici fuori dal campionato di casa, il più delle volte se tornano indietro col setto nasale spaccato. Però, quando si tratta di giocare a tavolino, non ci batte nessuno. Non è quindi un caso se l'Italia ha trionfato a Roma nel campionato del mondo di Subbuteo, unica specialità di soccer dove, più che i piedi buoni, devi avere le dita con le unghie ben modellate.
In finale gli azzurri del ct Marco Lamberti hanno sconfitto l'altroieri il Belgio 2 a 1 grazie alla mobilità (si fa per dire) dei bomber basculanti Luca Colangelo, Matteo Ciccarelli, Daniele Bertelli, Saverio Bari, Claudio La Torre e Filippo Cubeta. Nomi che al grande popolo del football tradizionale non diranno nulla, ma che sono musica per le orecchie della piccola tribù amante di quello che all'origine si chiamava semplicemente «The Hobby» e che poi nel corso degli anni si è trasformato in Subbuteo.
A lanciarlo fu in Inghilterra (e dove se no?), nel 1947, l'ornitologo Peter Adolph, scopiazzandolo però dal «passatempo» - noto come «New Footy» - già creato negli anni '30 da tale sir W.L. Keelings. In Italia il Subbuteo ebbe il suo periodo d'oro durante gli anni '70 e '80, sempre caratterizzato da una struggente vena crepuscolare, complice forse l'involontaria sponsorizzazione «ideologica» da parte di giovani testimonial dell'epoca (modello-Walter Veltroni), già allora dall'aria decadente nonostante la verde età.
Il quesito «politico» si è riacceso di recente: ma il Subbuteo è di destra o di sinistra? Mastella giura, addirittura, che sia di centro.
Salvatore Riggio per corriere.it il 6 novembre 2022.
I video ci hanno sempre (innocentemente) strappato un sorriso e anche un po’ intimoriti. Perché, in fin dei conti, si vedevano due omoni belli grossi, quasi sempre con una barba folta e lunga, prendere di mira, a turno, il viso dell’altro. E poi, bam. Schiaffone sulla faccia dell’avversario che barcolla, resta in piedi e prova anche lui a fare la stessa cosa. E quante volte abbiamo pensato che saremmo caduti per terra, senza più rialzarci, se lo schiaffo lo avessimo preso noi.
Bene, adesso tutto questo, con tanto di arbitro (figura che, in effetti, non può mancare), potrebbe presto (se non prestissimo) diventare uno sport. Sì, proprio così: uno sport. Chi lo avrebbe mai detto? Invece, non c’è mai limite alla nostra immaginazione.
Qualche giorno fa la commissione atletica dello Stato del Nevada, dove c’è Las Vegas, luogo di perdizione e peccato, ha approvato il regolamento di una lega professionale di ceffoni. Lo vuole, e lo sogna e se lo pone come obiettivo, Dana White, il mentore che attraverso la Ufc ha reso le arti marziali miste, le Mma, un prodotto di successo mondiale. Certo, creato lo sport, bisogna poi divulgare il fenomeno e farsi amare come disciplina.
«Abbiamo passato l’ultimo anno a svolgere test in un ambiente controllato e a vedere che dinamiche avrebbe quest’attività organizzata come una vera lega sportiva. E abbiamo capito che è una vera competizione, con atleti che la prendono sul serio, si tengono in forma e si allenano, in maniera non dissimile da quanto accade nella boxe o nelle Mma», è stato spiegato.
Il nome provvisorio è Power Slap, e l’idea è quella di organizzare un primo evento promozionale entro la fine dell’anno all’Apex, il quartier generale-arena di Ufc (a Las Vegas). In sostanza, appunto, Dana White, vuole trasformare in fenomeno di massa tutto questo. C’è già riuscito con la Mma, affrontando e superando un ostacolo dopo l’altro. Così le pizze in faccia, i ceffoni quelli pesanti (e pericolosi, molto pericolosi), dalle sagra di paese, dalla strada, stanno per arrivare in un’arena internazionale. Con tanto di squadre, arbitri, tifosi e sponsor. Quest’ultimi per rendere tutto enormemente grande e duraturo non possono mancare.
Sul web è Vasily Kamotsky a essere diventato una celebrità, «il re degli schiaffi» o più squisitamente «Pelmen», in nome dei ravioli che divora a bizzeffe. Un fenomeno da 2,8 milioni di views. Tanto che oggi Kamotsky ha abbandonato i campi — era un contadino — e fa l’influencer e distrugge angurie a sberle.
Certo, c’è chi si pone il problema della sicurezza in uno sport del genere. I colpi finiscono sul viso: «Stiamo procedendo come fatto per Ufc, dando cioè delle norme a qualcosa che già esiste. Un combattimento che prevede colpi alla testa è pericoloso se non esistono regole e procedure mediche. Inoltre c’è il problema dell’integrità: non esiste che uno di 180 chili possa colpire un avversario di 60», hanno spiegato gli organizzatori.
E già si parla di screening cerebrali, analisi del sangue, classi di peso, protezioni speciali per le orecchie, colpi alla nuca vietati e compagnia, con dei primi eventi lanciati esclusivamente in tv per tastare il polso del pubblico. Perché poi è lo spettatore a decidere se tutto questo andrà bene. Intanto, c’è la data per la conferenza stampa nella quale saranno svelati i primi dettagli: l’11 novembre prossimo a New York. Basta solo aspettare.
WRESTLING.
Pugni finti, vita vera. Ascesa e caduta di Vince McMahon, il genio malvagio del wrestling americano. Giunio Panarelli su L'Inkiesta il 16 Luglio 2022.
Ha fatto entrare nelle case di 650 milioni di spettatori le immagini dello sport-intrattenimento. Nel corso degli anni ha avuto diversi guai con la giustizia, ma l’ultima inchiesta minaccia di metterlo ko
Giugno 2022: con uno scarno comunicato, Vince McMahon si dimette dal ruolo di amministratore delegato della sua federazione, la World Wrestling Wntertainment (Wwe). “Chi era costui?” potrebbe chiedersi il don Abbondio di turno, rivelando di non essere un appassionato di wrestling.
Vince McMahon è forse uno dei casi di imprenditoria più di successo nella storia del business, non solo sportivo. Ha preso una piccola compagnia di wrestling americana e l’ha portata nelle case di 650 milioni di spettatori in tutto il mondo. Per la precisione in 180 Paesi. A lui si deve il merito, o la colpa secondo i critici, di aver reso popolare quello sport-intrattenimento, una lotta libera spettacolarizzata dove il copione e i risultati sono decisi a tavolino.
Nel corso degli anni McMahon ha portato alla ribalta personaggi entrati nell’immaginario collettivo come Hulk Hogan The Rock (diventato poi attore con il suo vero nome Dwayne Johnson) e John Cena. Un successo travolgente, (chiar)oscurato però da ombre, ambiguità e accuse (anche penali) che hanno portato McMahon a scontrarsi con la giustizia, i propri competitor, gli atleti e addirittura il Wwf.
Scontri che hanno visto il fondatore della World Wrestling Entertainment (Wwe) forse non sempre vincere, ma sempre cadere in piedi. Almeno finora. A metà giugno Vince (come lo chiamano i suoi atleti) è stato costretto ad autosospendersi dal ruolo di amministratore delegato della sua federazione.
Il motivo è un’inchiesta del Wall Street Journal che ha scoperto come McMahon sia arrivato a pagare più di 12 milioni di dollari per coprire i suoi rapporti sessuali con alcune sue ex dipendenti. Tra gli accordi che più stanno suscitando scalpore è incluso un patto da 7,5 milioni con una ex wrestler. La donna ha affermato che McMahon l’avrebbe costretta “ad atti sessuali” e poi, dopo che lei si era rifiutata di concedere ulteriori incontri, non le avrebbe rinnovato il contratto.
Non è la prima volta che McMahon viene coinvolto in accuse di questo tipo. Era già successo negli anni Novanta. Ma oggi la sensibilità pubblica su questi temi è sicuramente aumentata e la Wwe non ha potuto fare altro che avviare un’indagine interna e annunciare che per ora il potere passerà nelle mani della figlia di Vince, Stephanie, e di suo marito Paul Levesque (noto col suo nome di ring Triple H).
La parabola di McMahon sembra dunque avviarsi verso il suo epilogo. Ma è stato un viaggio così imprevedibile e ricco di colpi di scena che merita di essere ripercorso.
Nato nel 1945, Vince McMahon è figlio di Vincent James McMahon, fondatore della Capitol wrestling corporation, antenata dell’odierna Wwe. Negli anni Settanta, il wrestling era organizzato su una base regionale: ogni compagnia era legata alla propria zona. Vince capisce che c’è lo spazio per inserirsi e far conquistare alla sua federazione l’egemonia su tutto il territorio americano.
Una visione per molti versi simile a quella che in Italia ispirò Silvio Berlusconi a creare Mediaset, portando a livello nazionale le televisioni private regionali. E così mentre in Italia Berlusconi strappava Mike Bongiorno alla Rai, negli Stati Uniti McMahon rubava ai suoi concorrenti i wrestler più famosi. Primo tra tutti Hulk Hogan, lottatore carismatico che nel corso degli anni Ottanta diventerà la prima vera icona pop del wrestling, interpretando il personaggio del patriota che combatte per l’America contro i “cattivi” stranieri (dall’iracheno al giapponese). Grazie a Hogan e altri atleti simili, McMahon riesce a rendere il wrestling un fenomeno non solo americano, ma anche internazionale, coinvolgendo personaggi popolari in tutto il mondo come la cantante Cindy Lauper.
L’inizio degli anni Novanta segna il primo vero momento di crisi per Vince e la sua compagnia. La giustizia indaga sull’abuso di steroidi e droghe degli atleti Wwe (all’epoca Wwf), Hulk Hogan compreso. L’inchiesta travolge lo stesso McMahon, accusato di avere istigato i suoi lottatori a fare uso di farmaci illegali per aumentare la loro massa corporea. Alla fine la giuria giudicherà il patron della Wwe non colpevole.
Nel frattempo McMahon si trova ad affrontare un’accusa di stupro da parte di una sua ex arbitra e al tempo stesso la nascita di un nuovo temibile concorrente, la World Championship Wrestling (Wcw), che inizia a comprare tutti i maggiori talenti della Wwe e lancia un suo programma settimanale, Nitro, in diretta concorrenza con quello Wwe, Raw.
Il periodo buio di McMahon culmina nel 1997, nell’episodio conosciuto come Screwjob di Montreal: il campione in carica Wwe Bret Hart è in procinto di passare alla Wcw, ma prima deve disputare un ultimo match dove, secondo gli accordi, non dovrebbe perdere. Preoccupato che Bret abbandoni la sua compagnia ancora da campione, Vince, d’accordo con l’arbitro e l’avversario di Hart, lo dichiara comunque perdente facendo suonare il gong della vittoria. È l’inganno dell’inganno del wrestling. Davanti alle telecamere un infuriato Hart sputa su McMahon (i due si riappacificheranno solo vent’anni dopo). Lo Screwjob fa guadagnare a McMahon l’odio degli addetti ai lavori e dei suoi stessi fan.
Sembra la fine. Ma Vince decide di giocarsi il tutto per tutto e di sfruttare l’odio dei fan nei suoi confronti mettendoci la faccia: sullo schermo nasce il personaggio di Mr. McMahon, presidente cattivissimo, impegnato a contrastare tutti i beniamini del pubblico. L’idea funziona, gli spettatori tornano e nel 2001 Vince arriva a comprare la Wcw, sua principale rivale, ormai sulla via del fallimento. Da quell’anno a oggi la Wwe dominerà incontrastata su tutto il mondo del wrestling.
Le controversie però non si fermano. McMahon viene accusato di razzismo per avere usato in diretta il termine nigga (negro) durante uno scambio di battute con John Cena. O di misoginia, per avere costretto la wrestler Trish Stratus a spogliarsi e abbaiare durante uno show.
Nel frattempo nel 2002 il Wwf (il World Wild Fund, che protegge gli animali) vince una storica battaglia, costringendo l’allora Wwf a cambiare nome nell’attuale Wwe per evitare confusione tra le due realtà.
Lungo la strada Vince trova comunque amici potenti come Donald Trump, che appare in diversi show della compagnia di Vince: una delle scene più famose è quella che vede il futuro presidente americano tagliare i capelli del fondatore della Wwe come premio dopo una vittoria in un match del 2007. Trump rimarrà legato alla famiglia McMahon e nel corso del suo governo la moglie di Vince, Linda, verrà nominata Direttrice dell’agenzia per le piccole imprese.
Le polemiche sulla gestione McMahon sono alimentate anche da eventi tragici che toccano la vita stessa degli atleti.
Nel 1999 il lottatore Owen Hart, fratello di Bret, si appresta durante uno show a fare un’entrata spettacolare dall’altezza di 24 metri. Ma qualcosa va storto e Owen cade morendo sul colpo. Le circostanze della sua morte non saranno mai chiarite e Bret accusa Vince di essere il responsabile morale della tragedia avendo ideato lui quell’entrata. Mentre nel 2007 la tragedia del wrestler Chris Benoit, morto suicida dopo avere ucciso la moglie e il figlio, porta molti a interrogarsi sui rischi per la salute non solo fisica, ma anche mentale, dei lottatori di wrestling.
Venerato e odiato, McMahon ha rappresentato in questi anni perfettamente l’ambiguità e il successo del wrestling, portando spesso in scena il suo personaggio e confondendolo volutamente con la sua vera personalità. Non stupisce quindi che anche il giorno seguente alle sue dimissioni Vince abbia deciso di presentarsi durante il suo show per ribadire il motto della compagnia al pubblico: “Allora, ora, per sempre e insieme”. Una promessa. O forse un monito.
AIKIDO.
Ilenia Litturi per corriere.it il 28 aprile 2022.
L’unica donna europea ottavo Dan Shihan di aikido è veneziana. Si chiama Renata Carlon e ha 84 anni. Il perché del riconoscimento lo si legge nella motivazione «visto l’enorme impegno profuso nello sviluppo del Ki Aikido in Italia e all’estero e visto l’esempio di vita mostrato sul tappeto e nella vita di tutti i giorni viene riconosciuto il livello di Aichidan». È una figura mitica nell’ambiente, una guru nella disciplina, allieva del Maestro giapponese Koichi Tohei che fondò il metodo «shin shin toitsu aikido», letteralmente «aikido con mente e corpo», un connubio tra arte marziale, ricerca del principio Ki e l’applicazione delle tecniche alla vita quotidiana.
Renata è profonda, modesta, solare, in piena sintonia con ciò che la circonda. È un’attenta osservatrice e non le sfugge nulla, «Cerco umanità quando esco - confessa - ma vedo solo persone». Gli occhi le brillano mentre si racconta. «La vita - dice - è una continua ricerca condita di curiosità. Ogni decisione che prendiamo ne delinea la qualità e io decido ogni mossa. L’Aikido è molto più di un’arte marziale, è vita».
Nella palestra che aveva aperto a Mestre con il marito Wassily Grandi sono passati negli ultimi decenni i più grandi maestri della disciplina, da Tada Sensei a Kawamukai Sensei e Nocquet Sensei, per citarne solo alcuni. Dopo aver girato mezzo mondo, dal Giappone alla Francia spiega cosa fa la differenza, «La passione è la chiave di tutto. Senza passione non si arriva alla bellezza della tecnica. La passione è un dare reciproco e io ho lavorato per le donne e confido in loro perché hanno una marcia in più».
Il riconoscimento è solo l’ultima soddisfazione di una vita dedicata all’aikido. Che effetto le fanno le parole scritte nella motivazione?
«Il riconoscimento è arrivato dopo la morte del mio maestro perché tutti i miei colleghi e i praticanti mi hanno scelta (Sorride e mentre lo fa socchiude gli occhi, ndr) . Non ho praticato gli insegnamenti di Ki aikido solo in palestra, ma anche nella vita. Ho lavorato sodo nonostante la famiglia numerosa. Il segreto sta nell’organizzazione. Ho cercato di trasmettere e comunicare a tutti la passione, perché è l’unico modo per arrivare alla bellezza della tecnica. La passione è un dare reciproco».
Come si diventa quello che è diventata lei?
«Ho fatto tanti sacrifici, ma posso dire riguardando indietro che nel momento in cui percorrevo la mia strada, lo facevo e basta. Era la mia passione, mi veniva naturale. Se fai quello che ami, tutto diventa piacevole anche se sei stanca perché alla fine sei contenta»
Ma l’aikido è una disciplina o un’arte che va oltre?
«L’aikido non è una semplice disciplina, ma molto di più. Può aiutare le persone a superare difficoltà anche molto complesse. Ho lavorato tanto per le donne, soprattutto per quelle operate al seno, per dare loro risposte sul dolore e una visione diversa sulla vita. L’aikido è anche questo»
Com’è nata la sua passione per questa disciplina?
«Grazie a mio marito Wassily Grandi che era una maestro di judo. Aveva imparato la disciplina a Roma, finché faceva il militare. Poi quando è tornato a Mestre ha deciso di aprire una palestra»
Ricorda la sua prima lezione?
«Sono passati tanti anni ma ricordo quello che ho provato, che è lo stesso che provo anche adesso. Mi chiamano dappertutto anche adesso ma come faccio? Chiedono anche solo la mia presenza nel tatami. Ho insegnato fino a due anni fa, poi è arrivata la pandemia»
Cosa consiglia a chi pratica o a chi vuole avvicinarsi all’aikido?
«È una strada lunga e in salita. Non basta una vita per imparare. Non basta avere l’attitudine ma serve la passione, così scatta l’armonia. Poi ho fatto anche tante altre discipline come la meditazione ad esempio»
A chi pensa che l’aikido non sia una disciplina adatta alle donne, cosa risponde?
«È un ambiente maschilista ma le donne possono fare tutto. Ho lavorato tanto per questo. Sono gli uomini ad essere limitati. L’importante è mantenere sempre la propria femminilità, non bisogna copiare o emulare gli uomini. La donna fa la donna. Abbiamo capacità che non mettiamo in pratica e gli uomini li possiamo superare quando vogliamo perché abbiamo doni come la creatività o la sensibilità. Abbiamo più idee e potrei continuare»
Ma è vero che i tanti sacrifici fatti in vita diventano parte integrante dell’aikido?
«Certo, la mia stessa vita ne è un esempio. Guai se la creatività di una donna non viene alimentata continuamente perché se c’è una cosa che insegna l’aikido è che non si può vivere di rendita. Quando guardo chi si adatta, chi entra in un circolo vizioso poi inevitabilmente incappa in malinconia e depressione. La vita è la continua meraviglia di esistere per questo non bisogna mai fermarsi e andare sempre avanti»
Qual è la cosa di cui va più fiera?
«Di avere quattro figli e di avercela fatta perché ho iniziato ripromettendomi di non essere la solita mamma rompiscatole, volevo essere diversa. I miei figli li ho coinvolti e non ho mai avuto problemi con loro. L’aikido lo praticavamo con le idee e così anch’io sono cresciuta assieme a loro. Poi ognuno ha seguito la propria strada».
JIU JITSU.
Brasile sconvolto. Leggenda dello sport uccisa in un locale, Leandro Lo freddato da un colpo alla fronte: fermato un poliziotto. Antonio Lamorte il riformista l'8 Agosto 2022
Solo tre mesi fa Leandro Lo aveva vinto il suo ultimo titolo mondiale: era una vera e propria leggenda vivente del jiu jitsu. È morto, a 33 anni, ucciso con un colpo di pistola alla fronte dopo una lite in un locale. Per l’omicidio che ha sconvolto il Brasile è stato fermato un poliziotto trentenne fuori servizio, che si è consegnato la notte scorsa. Un’aggressione, una lite esplosa e degenerata per futili motivi, forse un fraintendimento a causare la tragedia.
La tragedia si è consumata all’alba di domenica. Leandro Lo aveva 33 anni. Era originario di San Paolo ed era figlio di un pugile, Luciano Pereira. Aveva cominciato anche lui con la boxe, il karate, la capoeira fino a passare al jiu-jitsu in adolescenza. A cambiare la sua vita il progetto sociale del professore Cicero Costha, “Combattendo per il bene”, nel quartiere Ipiranga, volto a offrire a ragazzi difficili un’alternativa salutare di formazione e integrazione. Lo nel 2015 aveva fondato la sua squadra, “Ns Brotherhood”. Campione mondiale in cinque diverse categorie, per otto volte, tra qualche giorno avrebbe disputato un altro campionato ad Austin, negli Stati Uniti.
Stava assistendo a uno spettacolo del gruppo Pixote, nel Club Sirio, in Avenida Indianapolis, zona Sud di San Paolo quando si è consumata la tragedia. Secondo l’avvocato della famiglia del lottatore il poliziotto fermato avrebbe provocato l’atleta. L’uomo è arrivato, ha cominciato a disturbare il gruppo di amici e ha preso a scuotere una bottiglia che era sul tavolo, prima di provocare Leandro Lo faccia a faccia, che a quel punto avrebbe steso e immobilizzato l’agente fuori servizio. Il tenente ha esploso un solo colpo, dritto alla testa del campione. I testimoni hanno raccontato che dopo avrebbe anche colpito a calci Lo che giaceva immobile a terra. Nessuno scampo.
A soccorrere per primo l’atleta un medico nel locale, che ha provato a rianimare l’atleta. Il campione è stato trasferito all’Ospedale Municipal Dr. Arthur Ribeiro de Saboya. Poco dopo la dichiarazione di morte cerebreale. La Polizia Militare ha detto di essere colpita dall’accaduto e di aver avviato un’“indagine amministrativa” secondo una nota della Segreteria di Sicurezza Pubblica di San Paolo. Il poliziotto che ha sparato è il tenente Henrique Otavio Oliveira Velozo. Il tribunale ha ordinato la sua detenzione per trenta giorni in attesa di ulteriori indagini. Sarebbe stato riconosciuto anche dalle telecamere della struttura ricettiva.
“Mio eroe, se stato un regalo di Dio nella mia vita”, ha scritto la madre dell’atleta in un omaggio al figlio su Instagram. “Mi mancherai tanto, è venuta a mancare un pezzo di me. Ti amo eternamente. Conserverò per sempre i bei ricordi, che sono molti. Mi hai fatta sentire la madre più amata del mondo. Grazie per il tuo amore”. Commozione e cordoglio espresso da migliaia di account sui social, lutto nel mondo dello sport brasiliano per una vicenda assurda e spaventosa che sta facendo il giro del mondo. Amici e colleghi del campione hanno aspettato presso il commissariato il tenente fermato. Secondo alcuni il tenente era cintura rossa di jiu-jitsu e conosceva Lo.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Enrico Spaccini per openon.line.it l'8 agosto 2022.
Decine e decine di amici, conoscenti o anche solo ammiratori di Leandro Lo sono scesi nella notte per le strade di San Paolo per protestare contro la polizia brasiliana. Tra i vari insulti e spruzzi di spray al peperoncino, si sente più volte pronunciare la parola «assassino». Lo era una leggenda per quei ragazzi e per gli appassionati del Jiu-jitsu brasiliano.
A 33 anni era stato già per 8 volte campione del mondo di questa arte marziale in cui devi sottomettere l’avversario con sequenze di prese e mosse a terra. Una discussione e qualche bicchiere di troppo, hanno posto la parola fine sulla sua brillante carriera.
Come raccontato da alcuni testimoni, nella notte tra il 6 e il 7 agosto Lo era insieme ad alcuni amici all’Esporte Clube Sirio a Planalto Paulista, nella zona sud di San Paolo quando un ospite ubriaco ha iniziato a discutere con lui. In pochi istanti, ha tentato di afferrare una bottiglia dal bancone del bar per usarla come arma contro il lottatore che, prontamente, è riuscito a immobilizzarlo e calmarlo.
L’assassinio
O almeno così credeva, perché come raccontato dalla testata brasiliana Ponte quando lo ha lasciato andare questo ha tirato fuori una pistola e gli ha sparato in testa. Il campione brasiliano è morto poco dopo in ospedale, mentre il suo assassino è riuscito a fuggire dopo averlo anche preso a calci.
Qualcuno tra i presenti, però, ha riconosciuto grazie a delle foto quell’uomo che aveva con sé l’arma: si trattava del tenente Henrique Otavio Oliveira Velozo, un agente 30enne della polizia militare di San Paolo che quella sera era fuori servizio. Domenica 7 agosto Velozo si è presentato ai suoi superiori ed è stato arrestato per l’omicidio di Lo.
Francesco Cevasco per il “La Lettura - Corriere della Sera” il 14 novembre 2022.
«Paese mio che stai sulla collina/ Paese mio ti lascio, io vado via». Quante storie racchiudono questi versi di Franco Migliacci. Queste sono le cinque storie di una donna e quattro uomini che arrivano da piccoli paesi dell'Abruzzo e conquistano l'America. Le racconta Massimo Cutò in un sottile libro: Fortissimi. Uomini e donne sul ring della vita pubblicato da Ianieri Edizioni.
Sì, c'entrano la lotta, il pugilato, il wrestling ma fuori dal ring c'è la grande storia di un Paese, questa volta con la maiuscola, e delle sue svolte: povertà e fuga, emigrazione e riscatto, pregiudizio e orgoglio.
Ecco i nostri eroi che servono a pretesto per raccontare un pezzetto della nostra storia.
Michele «Baron» Leone, nato a Pettorano sul Gizio (L'Aquila) nel 1909. In America diventa Michele «il cattivo», un wrestler heel, ufficialmente una canaglia che infrange le regole, gioca sporco, non rispetta l'avversario e provoca il pubblico con urla e slogan offensivi. È una finzione scenica, quella che gli americani chiamano gimmik e consiste nel creare una maschera addosso all'atleta.
Ma Michele è una pasta d'uomo. Continuerà a combattere e resterà sé stesso comunque sempre vincitore. I divi di Hollywood, a cominciare da Bob Hope, sono in prima fila alle sue esibizioni. Molti anni dopo Lou Ferrigno, l'incredibile Hulk della serie tv, racconterà di averlo considerato il suo mito fin da bambino.
Rocky Marciano, vero nome Rocco Marchegiano, nato a Brockton nel 1923 ma abruzzese di sangue: il padre veniva da Ripa Teatina (Chieti). E dopo aver letto titoli di giornali dedicati a lui, «il più grande pugile di tutti i tempi», tornerà al paese suo, la terra del padre, su una Fiat 125 rossa. Per mangiare finalmente la porchetta di cui aveva tanto sentito parlare.
Bruno Sammartino, nato a Pizzoferrato (Chieti) nel 1935. In America diventa The original Italian stallion , il più grande campione nella storia del wrestling. E pensare che quando sbarcò lo accolsero, gracile e italiano com' era, chiamandolo Dago, con disprezzo perché Dago stava per dagger , pugnale, a sottolineare lo stereotipo negativo appiccicato ai «mangiaspaghetti», quelli svelti con il coltello in mano.
Rocco Mattioli, nato anche lui a Ripa Teatina nel 1953. La fortuna l'ha cominciata in Australia. Per capirlo basta guardare le sue mani di boxeur. No, non c'entra come sono conciate dopo tante botte date (e prese). C'entra che cosa c'è tatuato sulle dita. Love sulla mano destra. Hate sulla sinistra. Amore e odio. Forse il solo modo di sopravvivere per chi sale sul ring. Dello sport e della vita.
Monica Passeri, nata a Caprara (Pescara) nel 1992. La prima italiana nel circuito americano della lotta professionistica. A 24 anni è entrata nella World Wrestling Entertainment, la federazione che schiera i campioni. Sul ring si presenta come The Italian bombshell , la bomba italiana.
Poi urla: Italians do it better . A quel punto lo speaker annuncia: «Miss Monica from the Abruzzi». Ma il bello vero di questo piccolo libro deve ancora venire. Bisogna tornare indietro: il bello è la prima parte, una raffica di sorprese. Apparentemente dedicate alle meraviglie della forza fisica. In realtà un trattatello sociologico che gira attorno all'affermazione sociale di un popolo considerato debole.
Tipo: anno 1911, si gira ai Parioli, a Roma, il film Quo vadis? di Enrico Guazzoni. Un omone romano sulla trentina, Bruto Castellani, interpreta l'invincibile Ursus. La pellicola finisce alla Royal Albert Hall, presente Giorgio V, la regina si complimenta con Castellani chiamandolo Ursus e sarà Ursus per sempre.
Nel 1914 Gabriele d'Annunzio ribattezza un ruvido camallo (scaricatore di porto) genovese «Maciste». Con quel nome diventerà una star del cinema. Massimo Cutò si fa prendere dall'enfasi e «E poi arrivò Alfredo Boccolini, funambolo genovese, taglia atletica mirabile: diventò Galaor, giustiziere in celluloide. Arruolato dalla cinematografia austriaca, furoreggiò anche come Sansone: neppure la zampata di un leone vero lo scalfì, mentre girava una scena ardimentosa nello zoo di Budapest».
Ma torniamo a Maciste. Si chiamava Bartolomeo Pagano, il camallo. E la sua fama durò abbastanza. Dopo aver scaricato (per davvero) sacchi e sacchi sulle banchine del porto, cominciò a spezzare le (più leggere) catene di schiavo nel film Cabiria (1914). Spiega l'autore del libro: «Maciste diventò protagonista di una lunga serie autonoma, in Maciste alpino del 1916 sbatteva via, combattendo a torso nudo sulle Alpi, gli austriaci lanciandoli in aria come fuscelli. E nei panni di Maciste all'inferno , film del 1926, strapazzava i diavoli tra fondali di cartapesta. Impressionando in maniera indelebile la fantasia di un bambino che assisteva stupito e ammirato alla proiezione, nel buio del cinema Fulgor a Rimini: il piccolo spettatore si chiamava Federico Fellini».
MMA.
Anthony «Rumble» Johnson morto: il campione di Mma aveva 38 anni. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.
Il fighter Anthony «Rumble» Johnson era famoso per le vittorie con un singolo pugno. A gennaio i primi sintomi di una grave patologia del sangue
Lutto nel mondo della Ufc/Mma. Una rara patologia del sistema immunitario si è portata via Anthony Johnson, per tutti Rumble, 38 anni, fighter di punta delle arti marziali miste. Ne ha dato notizia Bellator, la promotion per cui era tornato a combattere dopo essere stato per anni una stella dell’Ufc.
Rumble era nato a Dublin, nello stato della Georgia, ed era nipote di Walter Payton, campione Nfl. Anthony Kewoa Johnson aveva cominciato con la lotta libera, diventando campione statunitense degli Junior College e poi era passato alle arti marziali miste esordendo nel 2007 in Ufc. Nonostante la forza fisica e il background nella lotta, si è subito messo in mostra per la potenza dei suoi pugni guadagnandosi il soprannome Rumble. Il motivo? Spesso gli bastava un solo pugno per stendere l’avversario.
Il suo bilancio in carriera parla di 23 vittorie — 17 per k.o — e sei sconfitte. Tra queste, le sue due grandi occasioni per diventare campione del mondo dei pesi leggeri, entrambe arrivate contro lo stesso avversario, Daniel Cormier. Dopo l’ultima, nel 2017, annunciò il suo ritiro ma ci ripensò tre anni dopo: messo sotto contratto da Bellator, a febbraio dell’anno scorso, tornò e perse contro il brasiliano Azevedo incassando il primo k.o. della carriera.
A gennaio le prime notizie allarmanti riguardo la salute del campione: «Non entro nel merito delle sue condizioni, ma deve solo pensare a stare in salute. Nella vita c’è molto più che combattere, e voglio che ne abbia una lunga e sana», furono le parole di Scott Coker, presidente di Bellator, facendo capire che qualcosa non andava. Adesso la notizia della sua scomparsa. La Mma perde un protagonista.
Dagotraduzione dal Daily Mail l'11 febbraio 2022.
Una combattente femminile dei pesi paglia ha combattuto contro un uomo 30 volte più pesante di lei in una bizzarra gara di MMA organizzata dall'Epic Fighting Championship russo questa settimana.
L'Epic FC non è estraneo a insoliti disallineamenti all'interno della gabbia, e martedì aveva già organizzato un altro incontro stravagante: un'altra combattente donna se l’è vista con un uomo di 75 anni e suo nipote di 18 anni in uno scioccante combattimento due contro uno a mani nude.
Ora i fan sono di nuovo sgomenti sui social media dopo che sono emerse le riprese del gigante di 240 kg Grigory Chistyakov che affronta la molto più piccola Aleksandra Stepakova, che pesa circa 60 kg, nel loro ultimo incontro.
Comprensibilmente, Chistyakov ha trascorso la maggior parte della gara inseguendo Stepakova, che ha fatto del suo meglio per rimanere a distanza e scacciare il colosso con colpi singoli. Ma il suo avversario è stato in grado di imporre la sua forza bruta contro la gabbia prima che l'arbitro fortunatamente intervenisse.
Stepakova è stata spesso in grado di divincolarsi dalle sue clinches e colpire con pugni e calci impressionanti, tuttavia non è passato molto tempo prima che Chistyakov chiudesse di nuovo le distanze e sfruttasse al meglio il suo gigantesco corpo.
Il piccolo peso paglia è stato persino salvato da un membro della folla durante il secondo round, che è riuscito a entrare nella gabbia e dare un calcio a Chistyakov alla schiena. Quando l'incontro è ripreso, Stepakova è stata in grado di tenersi alla larga da lui per il resto del round, anche se ha lanciato alcuni colpi nitidi a distanza.
Dopo il folle incontro a tre round, i giudici hanno dato la vittoria a Chistyakov, ma i fan sono rimasti disgustati dal fatto che sia persino andato avanti. Uno ha scritto: «Le MMA russe non smettono mai di scioccarmi. Com'è bizzarro a tutti i livelli».
Un altro ha messo: «Sta combattendo una donna? Wtf?». Mentre un terzo ha semplicemente chiesto: «Cosa sta succedendo con le MMA in Russia?!».
Lo scontro oltraggioso di Chistyakov con Stepakova arriva solo pochi giorni dopo che Vladimir Spartak e suo nipote Big Igibob hanno combattuto contro Yulia Mishko, 28 anni, in un pazzo due contro uno all'interno della gabbia.
Tuttavia, nonostante il loro vantaggio, Spartak e Igibob sono stati eliminati in tre occasioni da Mishko, che se ne è andata abbastanza illesa.
L’irresistibile ascesa delle arti marziali miste e dei gladiatori contemporanei. ALESSANDRO DAL LAGO su Il Domani il 10 febbraio 2022
In gabbie ottagonali, circondate da folle di decine di migliaia di spettatori urlanti, uomini nerboruti (nonché un numero crescente di donne) si batte con calci, pugni e gomitate. Nelle Mixed Martial Arts non ci sono regole né confini.
Esistono da circa trent’anni, oggi hanno un fatturato di più di 500 milioni di dollari all’anno e un numero di follower e tifosi che si aggira intorno al 5 per cento della popolazione mondiale. Le Mma sono considerate il terzo sport più popolare al mondo.
Alessandro Dal Lago le racconta in Sangue nell’ottagono. Antropologia delle arti marziali miste, edito da Il Mulino, e in uscita per il 13 gennaio.
ALESSANDRO DAL LAGO. Ha insegnato Sociologia della cultura nelle Università di Milano, Bologna e Genova ed è stato visiting professor nella University of Pennsylvania e nella University of California. Oltre al Sangue nell’ottagono. Antropologia delle arti marziali miste, l’ultimo suo libro pubblicato dal Mulino è Viva la sinistra (2020).
Matteo Tonelli per "il Venerdì - la Repubblica" il 20 gennaio 2022.
Per spiegare come mai le Mma, le mixed martial arts, siano così popolari, Alessandro Dal Lago, che di mestiere fa il sociologo e che rivendica un animo tutt' altro che gladiatorio, porta ad esempio le tutine dei neonati fatte con i tessuti mimetici. «Viviamo in un mondo dove il confine tra la guerra e la pace si fa sempre più sfumato» spiega.
«La natura stessa della guerra contemporanea fa sì che il combattimento individuale sia parte essenziale dell'addestramento degli eserciti moderni. Una cultura fondamentalmente militare come quella attuale - soprattutto americana, ma anche europea - in qualche modo promuove, o facilita, questo tipo di sport».
E che c'è di meglio di mettere insieme Karate, Muay thai, Jiu Jitsu, Judo, Lotta libera, Grappling, Pugilato, Kickboxing, agitare il tutto e tirarne fuori un mix tanto spettacolare quanto cruento che ricorda l'antichissimo Pancrazio, considerato il progenitore delle moderne Mma?
Dal Lago lo spiega nel suo Sangue nell'ottagono (il Mulino) dove analizza un fenomeno planetario sia in termini di diffusione - le palestre dove si praticano sono sorte come funghi - che di business. A partire dalla legittimazione della violenza, per passare alla parità di genere, al politicamente corretto (ma Dal Lago nega che le arti marziali miste possano essere una reazione al fenomeno) e persino alla globalizzazione (di cui le Mma con il loro mix di stili diversi sarebbero la risposta sportiva).
Sport popolarissimo ma altrettanto criticato da chi vede, in quella lotta in un ottagono circondato da una rete, solo un selvaggio sfoggio di violenza. Tesi che ha trovato conferma quando due fighter hanno ucciso a calci e pugni, nel settembre dello scorso anno, Willy Montero, un ragazzo di origini capoverdiane. Sentenza: le Mma sono uno sport per gente assetata di sangue (e in parte è vero) e combattuto da moderni gladiatori senza regole (e questo è meno vero).
Dal Lago comunque la sentenza la impugna: «Le arti marziali miste non sono qualcosa di anomalo, ma la rappresentazione del lato civile, sportivo, commerciale e spettacolare di una cultura essenzialmente violenta, comune a tutto l'Occidente, ma di cui gli Stati Uniti sono ovviamente la massima espressione». E qui si torna al discorso delle magliette mimetiche: «I simboli della guerra ormai hanno invaso la dimensione civile: il disegno mimetico è da tempo entrato nella moda. Un contesto del genere facilita la diffusione di sport come le Mma».
Ma non è solo questo ad aver contribuito a far diventare la versione moderna dei combattimenti nell'arena una straordinaria macchina da soldi. Per farlo è stato trasformato da sport senza regole in sport, senza dubbio violento, ma con delle regole precise. Operazione perfettamente riuscita. «Oggi si ammette di vedere gli incontri nell'ottagono perché sono legittimati culturalmente. I limiti ci sono anche se spesso superati, ma questo a chi guarda interessa poco». E se le cose stanno così, scandalizzarsi per spettacoli del genere a Dal Lago sembra ipocrita.
«La vista del sangue ripugna a chi si è abituato a chiudere gli occhi davanti agli aspetti conflittuali della nostra cultura, oggi visibili grazie alla globalizzazione dello spettacolo. Il nostro è un mondo che moltiplica le occasioni di spettacolarizzare la violenza, sia a livello generale sia a livello molecolare, come nei social. Siamo in una cultura in cui brutalizzare il compagno di banco e filmarlo è diffusissimo. Un mondo in cui è divertente umiliare qualcuno. La mia teoria è che, se proprio l'umanità deve dare sfogo a tutto questo, è meglio che lo faccia un modo regolato».
Ma allora perché le Mma continuano a spaventare un'umanità vaccinata da anni contro lo spettacolo di sangue della boxe? «Il motivo è la loro estrema visibilità che suscita la condanna di chi ci si imbatte avendone una vaga idea. Anni fa la boxe era considerata un mondo a sé, separata dalla vita e dalla cultura prevalente. In Italia si diceva che gli incontri turbavano "il sonno degli italiani". Eppure, mettendo per un attimo da parte la retorica della noble art, i pericoli e il lato oscuro del pugilato sono evidenti a tutti. Ma non provocano lo stesso scandalo. Oggi, invece, su internet e in tv i combattimenti nell'ottagono penetrano nella nostra vita di spettatori globali ed esseri digitalizzati. Al punto che le Mma sono diventate popolari in ogni ambiente a differenza della boxe, sport più proletario».
Un ragionamento che tira in ballo il rapporto tra la società in cui viviamo e la sua "voglia di sangue". Per questo la tesi di chi, come il sociologo Norbert Elias, pensa che «i tempi moderni si siano liberati delle pratiche più violente in nome della civilizzazione dei costumi» non convince Dal Lago. Semmai, ragiona l'autore del saggio, «da un lato c'è la progressiva estensione della quantità e qualità di sangue accettabile e dall'altra la regolamentazione ufficiale delle arti marziali che serve a rassicurare la società esterna».
In pratica, basta alzare l'asticella della brutalità, fissare qualche paletto e si stabilisce che la società è diventata più civile. Più che una lotta che diventa cultura (come sostengono quelli che vedono una funzione quasi taumaturgica nel gusto del "buon sangue"), Dal Lago vede una cultura che promuove una lotta. C'è poi un altro aspetto che a prima vista può lasciare sorpresi. Quello dell'uso dell'ottagono per rivendicare la parità di genere. «Le Mma rappresentano una dimensione di comunanza che unisce generi, ruoli e differenze culturali. Che le donne non amino combattere è un pregiudizio culturale maschilista che oscura il loro rapporto con la lotta».
Basta vedere come le fighter trattano il loro corpo. «L'esibizione pubblica delle ferite dopo un match è diventata una sorta di segno di nobiltà. Per questo le lottatrici si fanno fotografare con il viso segnato dai colpi. Vogliono dimostrare così di essere uguali agli uomini». Dal Lago azzarda addirittura un parallelo con la pornografia: «In entrambi i casi c'è un'esibizione volontaria del corpo: nel caso della lotta è socialmente legittima, nell'altro viene bollata come oscena. È un cambiamento dei sistemi simbolici che governano l'esibizione del corpo femminile». E poi dicono che in quell'ottagono ci si picchi e basta...
LA BOXE.
Giulia Zonca per la Stampa il 7 agosto 2022.
Sette settimane per raccontare un incontro durato otto riprese e rimasto a spiegare tutto quello che è successo fuori da un quadrato. Prima, dopo e durante il combattimento capace di definire la boxe e il suo ruolo sociale, lo scambio di pugni che ha descritto la paura, la sfida che ha disegnato l'attesa.
Siamo a Kinshasa, nel 1974, nello Zaire di Mobutu, il dittatore che regala Ali contro Foreman all'Africa e l'urlo della giungla al mondo. Siamo dentro The Fight, il libro di Norman Mailer che adesso torna in una nuova riedizione con La nave di Teseo e ritrova il titolo originale con tutto il suo carico di ineluttabilità.
In 256 pagine sfila l'appuntamento con il destino che può infilarsi nella vita di qualsiasi essere umano, senza essere Ali o Foreman o Mailer. Per questo la storia, quasi 50 anni dopo essere stata pubblicata per la prima volta, regge, si rinnova e si rianima.
Nelle parole dello scrittore, che criticava ed era criticato dagli Usa, ribolle il caldo appiccicoso del Congo, quell'aria densa, così difficile da respirare con leggerezza, si avverte il sapore di ribellione agitata dai ganci che spostano il vuoto e sibilano e portano avanti una lotta.
Si inizia a picchiare ben prima del gong e soprattutto si capisce subito che schivare non è un'opzione, non la concede la boxe (o almeno mai abbastanza a lungo) e di sicuro non la concede la vita. Quindi bisogna prenderle e capire come stare in piedi, come reggere l'urto, come passare attraverso la passione e restare, se non illesi, per lo meno coscienti.
The Fight non è un match di pugilato, è l'arte di incassare e quella serve a chiunque, a qualsiasi generazione, a ogni singola persona: «Ovviamente un grande pugile non vive l'ansia come gli altri uomini. Non può permettersi di pensare a quando un altro pugile gli farà male. L'ordine era quello di seppellire la paura. Al suo posto Ali respirava una fiducia in se stesso minacciosa e terribilmente monotona». I campioni diventano eroi perché sanno come resistere alla noia.
Mailer lascia filtrare ciò che cola dall'attualità di allora, la leggenda di oggi legata a nomi mitici, alla figura più fascinosa dell'intero sport, ad Ali, fatto di carisma e ostentazione, a Foreman che non viene mai tratteggiato come antagonista. Ha la sua dignità, la sua seduzione, il suo potere.
Non è uno qualsiasi, è il campione dei pesi massimi in carica, uno che riesce a trasformare la maleducazione in piacere, che spiega di non poter stringere le mani a chi si presenta perché le sue stanno in tasca. Un'occupazione nobile tenere le mani in tasca, lontano dai guai, protette, foderate prima di essere bendate e infilate nei guanti. Prima di essere usate.
Il libro richiede una preparazione fisica, bisogna arrivarci allenati. Ogni gesto ha un'ampiezza specifica, occupa spazio e impone attenzione, ogni parola cade per terra con gran rumore e costringe a ragionare sulle scelte, sulle chiacchiere, sulle sillabe, sugli incastri: come se ogni vocabolo fosse l'indizio per scogliere il rebus.
Rumble in the jungle, l'etichetta ereditata dal confronto, vale pure per la narrativa che poi sarebbe giornalismo coniugato alla dimensione del romanzo, la cifra di Mailer. Lui trascina la verità dentro una fiction e la fa uscire centrifugata e pulita, priva di bugie e intinta nell'epica. Lui corre insieme con Ali e psicanalizza Foreman, lui scrosta la corruzione di Mobutu dai poster pubblicitari stesi sui muri di una città imbavagliata, è lui che colpisce più forte e di solito al ritmo del troppo alcool che beve.
A chi legge non resta che provare l'urgenza di risolvere, tra sparring partner che stremati dai rinvii ormai hanno perso l'aggressività e si muovono con la confidenza del sesso coniugale.
È un viaggio nell'emancipazione afroamericana? È il momento in cui la competizione riesce nella sua magia e incanta? È uno scontro di ego in cui lo scrittore si mette al pari dei due colossi del ring? È la boxe che semina eccitazione e sgomento? È Ali che non smette di far discutere?
Viene spontaneo cercare di scoprire su quale livello il ritratto si faccia più vero, intenso, importante, ci si inoltra nei capitoli che portano a una fine nota con il desiderio di sapere dove sta il segreto: che cosa ha spostato Ali contro Foreman dalla cronaca alla prova di carattere del genere umano. Solo che ogni piano contamina l'altro e le gambe rischiano di tremare, «George l'avrebbe fatto. Lo avrebbe colpito al ventre. Che battaglia sarebbe stata».
La combinazione tra lo Zaire incollato sopra il Congo, i diritti che si sgretolano nei Settanta delle rivendicazioni, il contatto che riporta, per forza, a quello che conta stordisce. Tanto quanto l'abbinata sinistro-diretto con cui Ali manda Foreman al tappeto: «Piegato in due, gli occhi che non si staccavano da Muhammad Ali, cominciò a barcollare, a crollare, a cadere contro la sua volontà».
The Fight è eterno proprio perché non si lascia catturare dai ragionamenti datati che in certi punti lo abitano. Mailer azzarda un parallelo tra le gradazioni della pelle di Ali e il suo umore con connotazioni razziali che oggi stonerebbero e basterebbe l'iniziale, «le donne sospirano. Gli uomini abbassano gli occhi», per inciampare in divisioni masticate dal presente, ma, con buona pace della cancel culture, non c'è nulla che non arrivi dritto fino a noi perché quel che si ferma alla frontiera con la contemporaneità è solo contesto.
Non è sostanza e nemmeno stile, non brucia neanche una cellula di The Fight. È un'opera compatta, che non invecchia e che, rinfrescata dall'ultima uscita, si tiene stretta l'essenza e l'esperienza, l'arte di resistere, il valore della sopravvivenza. Al peggio e al meglio, alle botte e al successo: «Così come ci sono uomini che raggiungono la loro giusta statura soltanto nell'ora in cui vengono assassinati, altri la raggiungono il mattino della loro vittoria».
Alberto Facchinetti per ilfattoquotidiano.it il 17 giugno 2022.
Campioni italiani, pugili con titoli internazionali, addirittura con addosso la più prestigiosa delle cinture europee. Nella boxe italiana la maggior parte dei professionisti deve avere un altro lavoro per mantenersi.
Svolti gli allenamenti giornalieri, alcuni pugili rimangono a lavorare in palestra, insegnando boxe agli amatori o facendo i personal trainer. Altri hanno un mestiere che un tempo si sarebbe definito “sicuro”. Altri ancora sbarcano il lunario con lavori più precari.
Il pugile italiano fa eroicamente entrambe le cose, lavora e prende pugni per continuare a vivere un sogno dal quale è difficile allontanarsi perché la passione è tanta e il ring diventa negli anni una piacevole dipendenza.
Il peso medio Matteo Signani è l’unico campione europeo espresso dal nostro Paese. Classe 1979, Matteo è un sottocapo negli uffici della capitaneria del porto di Rimini. “Secondo lavoro? – dice, sorridendo al fattoquotidiano.it – in teoria quello della guardia costiera sarebbe il primo”.
Il campione dell’Unione Europea Emiliano Marsili – peso leggero con un record di 42 incontri, zero sconfitte e un pareggio – fa il portuale a Civitavecchia, dove fa spesso i turni serali per potersi allenare di giorno.
La Compagnia Portuale Civitavecchia è una cooperativa di cui anche lui è diventato socio. Anche il papà, venuto a mancare qualche anno fa, faceva il suo stesso lavoro: il mestiere duro del “camallo”.
Malgrado l’età, Signani e Marsili sono tra i pugili più forti in Italia. Altre stelle della boxe nostrana come Fabio Turchi, Luca Rigoldi e Giovanni De Carolis lavorano nell’ambiente delle palestre.
“Ma non solo – dice Rigoldi, campione Unione Europea dei supergallo – ultimamente sto lavorando molto per enti e aziende che fanno formazione”. Il campione del mondo IBO Michael Magnesi vive di pugilato professionistico. “Ho anche una palestra – dice il super piuma laziale – ma la tengo per dare un servizio a bambini e ragazzi che vogliono praticare questo sport, non per fare business”.
Se passiamo ai campioni italiani alla voce professione troviamo tante sorprese. Mattia Occhinero (piuma) fa il corriere (così come il mitico Devis “Boom Boom” Boschiero, che negli ultimi tempi lavora per una ditta collegata ad Amazon e consegna circa cento pacchi al giorno).
Carlo De Novellis (medio) lavora di notte nel portierato di un istituto di vigilanza privato. Daniele Limone (super piuma) è responsabile commerciale di una concessionaria d’auto a Torino.
Il superleggero Charlemagne Matonyepkon fino a poco tempo fa faceva il verniciatore, “ma ora ho avuto la fortuna di trovare un posto in una ditta di impianti per la galvanica”. Il gallo Vincenzo Picardi ha il cosiddetto posto fisso ed è nella Polizia di Stato. Hassan Nourdine, che ha perso da poco la sua cintura, è un operaio a turni in una fabbrica.
Va detto che anche quando la boxe era uno degli sport più popolari, dagli anni Sessanta e per i tre decenni successivi, non tutti riuscivano a mantenersi solo di sport. C’erano più campioni, le borse erano migliori e c’erano più sponsor ma comunque un atleta che non andava oltre il titolo italiano doveva arrangiarsi come poteva.
Il viaggio del fattoquotidiano.it alla ricerca dei pugili pro è un atlante delle professioni. Pietro Rossetti, che ha il titolo italiano nel mirino, ha esperienza da macellaio ed infatti il suo nickname è The Butcher.
Il suo compagno di palestra romana Patrizio Moroni fa il cameriere in un buon ristorante della capitale. Luigi Mantegna, un mestierante (cioè quegli atleti che combattono quasi sempre senza vincere per poter far crescere i pugili esordienti) ad un passo dai cento match in carriera, fa il dj e il venditore ambulante nei mercati di paese.
Il peso massimo Sergio Sinigur fa la guardia notturna, Rafael Italo Mendes il tornitore, Jurgen Mullai è elettricista in una fabbrica. Il cruiser Claudio Squeo, campione del Mediterraneo IBO, dopo aver fatto il postino stagionale, laureato in giurisprudenza, è in attesa di concorsi aperti alla sua laurea.
Per fare il pugile professionista in Italia serve un coraggio doppio. Non basta quello per salire sul ring. Spesso bisogna combattere anche nei turni di notte.
Morti di boxe: centinaia le vittime sul ring, ogni volta si riaccende la polemica. Da De Chiara, che cambiò le regole, a Buthelezi. Maria Strada Il Corriere della Sera il 9 Giugno 2022.
Nel 1995 la stima era di 500 morti in un secolo. Un ricordo di alcune delle vittime, compresa Becky Zerlentes, la prima donna.
L’ultima vittima
Il peso leggero sudafricano Simiso Buthelezi è morto dopo aver subito un’emorragia cerebrale a seguito di un incontro di boxe disputato nel fine settimana a Durban. Il 24enne stava affrontando domenica il connazionale Siphesihle Mntungwa per il titolo WBF All Africa dei pesi leggeri, ma il match sulla distanza dei 10 round è stato interrotto dall’arbitro dopo che Buthelezi ha iniziato a sferrare pugni contro un avversario invisibile. L’arbitro ha subito sospeso l’incontro e Buthelezi è crollato sul ring. Trasportato d’urgenza in ospedale, è stato messo in coma indotto dopo la scoperta di un’emorragia al cervello. Dopo 4 giorni il decesso. Secondo il suo allenatore, Bheki Mngomezulu, Buthelezi era in perfetta salute prima dell’incontro.
Centinaia di morti
Altro anno tragico il 2019. Nel 1995 una stima approssimativa indicava in circa 500 le vittime della disciplina nei 100 anni precedenti, ma negli ultimi anni con la facilità di diffusione delle notizie si è registrata un'apparente impennata che è in realtà la certificazione di una realtà che esisteva già prima. Quell’anno muoiono Patrick Day, il russo Maxim Dadashev, l'argentino Hugo Santillan e il bulgaro Boris Stanchov.
1962, Benny Paret
Il cubano Benny «Kid» Paret, mondiale dei welter, muore dopo il ko alla 12ª ripresa inflittogli da Emile Griffith al Madison Square Garden.
1963: Davey Moore
Il campione del mondo dei pesi piuma Davey Moore il 21 marzo 1963 salì sul ring del Dodgers Stadium contro il messicano Sugar Ramos. Nel corso del decimo round «il Piccolo Gigante» subì un potente gancio destro alla testa e cadde finendo con la nuca contro la corda inferiore del ring e riportando danni irreparabili al tronco encefalico. Morì quattro giorni dopo. Bob Dylan gli dedicò una canzone, Who Killed Davey Moore?, «incolpando» i manager del pugile, gli organizzatori e anche il pubblico.5 di 18
1969, Ulrich Regis
Il peso massimo Ulric Regis muore dopo una sconfitta ai punti col britannico Jose Bugner: aveva 29 anni, era il 15 marzo 1969.
1978: Angelo Jacopucci
Il peso medio italiano Angelo Jacopucci, 30 anni, muore per edema cerebrale due giorni dopo il ko alla 12ª ripresa subito a Bellaria contro l'inglese Alan Minter. L'«angelo biondo» stava lottando per la corona europea che aveva già detenuto.
1980: Johnny Owen
Il gallese Johnny Owen muore il 4 novembre 1980, a Los Angeles, dopo sei settimane di coma. Era finito ko nel mondiale dei gallo con Lupe Pintor. Il messicano ribattezzerà il rivale «il mio angelo custode», diventando anche amico di suo padre.
1982: Kim Deuk-koo
Il coreano Kim Deuk-koo muore dopo quattro giorni per le ferite riportate nel mondiale dei pesi leggeri Wba contro Ray Mancini. Dopo questo match di Las Vegas la boxe cambiò le sue regole e decise la riduzione delle sfide mondiali da 15 a 12 round.
1983: Francisco Bejines
1983: il messicano Francisco Bejines muore senza riprendere conoscenza dopo il ko subito contro lo statunitense Alberto Davila, sfidante per il mondiale dei pesi gallo. Secondo i medici, aveva convulsioni «spasmodiche e reiterate» già durante l'incontro, che però non fu fermato.
1988: Baronet e Tethele
In Sudafrica muoiono il welter Brian Baronet (nella foto) dopo il match con lo statunitense Kenny Vice, e il peso piuma Daniel Thetele dopo un combattimento col connazionale Aaron Williams.
1996: Fabrizio De Chiara
Fabrizio De Chiara, 25enne di Cologno Monzese, sale sul ring contro Vincenzo Imparato per il titolo italiano dei pesi medi. Al 12° round finisce al tappeto, si rialza barcollando e poi perde conoscenza. Muore dopo il ricovero in ospedale e un intervento al cervello. la Rai, che aveva trasmesso il match sul ring di Pisa, finisce nella bufera e in Italia si riapre il dibattito sul pugilato e la sua pericolosità.
1996: Stephan Johnson
Lo statunitense Stephan Johnson muore dopo 15 giorni di coma: a Toronto era stato fermato dopo una visita medica che aveva evidenziato un ematoma cerebrale, ma il superwelter aveva continuato a combattere perché negli Usa le regole canadesi non valgono. Così il 20 novembre sale sul ring di Atlantic City contro Paul Vaden per una borsa da 100.000 dollari con cui avrebbe aiutato la madre a lasciare una casa popolare a New York.
2005: Becky Zerlentes e Leavander Johnson
Becky Zerlentes diventa la prima donna pugile a morire per i colpi rimediati sul ring in un incontro valido per il Golden Gloves. Insegnante di geografia ed economia, l'atleta dei pesi leggeri il 2 aprile prende parte al campionato senior femminile del Colorado. Al terzo round dell'incontro con Heather Schmitz finisce al tappeto perdendo conoscenza. Nello stesso anno Leavander Johnson, statunitense, muore a Las Vegas per un'emorragia cerebrale dopo l'incontro per il mondiale Ibf dei pesi leggeri contro il messicano Jesus Chavez. E sempre nel 2005 cade anche il messicano Martin Sanchez dopo un duello con il russo Rustam Nugaev.
2007: Lito Sisnorio e Choi Yo-sam
Il peso mosca coreano Choi Yo-sam collassa sul ring il giorno di Natale dopo il terzo round con l'indonesiano Heri Amol. Morirà dieci giorni dopo. Il filippino Lito Sisnorio, muore alcune ore dopo aver perso per ko tecnico contro il thailandese Chatchai Sasakul, ex campione del mondo.
2013: Michael Norgrove e Francisco Leal
Il britannico è collassato sul ring durante il match con Tom Bowen ed è morto in ospedale una settimana dopo. Il messicano è entrato in coma ed è morto cinque giorni dopo essere finito ko contro il connazionale Raul Hirales.
2017: i canadesi Whittom e Tim Hague
David Whittom subisce un'emorragia cerebrale nell'incontro con il connazionale Gary Kopas. Morirà dopo 10 mesi di coma. Tim Hague nel match contro un altro canadese, Adam Braidwood, finisce ko cinque volte nei primi due round. Ricoverato, muore due giorni dopo.
2018: Christian Daghio e Scott Westgarth
Il 5 novembre 2018 l'italiano Christian Daghio, impegnato in un incontro di Thai boxe contro il thailandese Don Parueang, finisce al tappeto due volte. La seconda viene soccorso e trasportato all'ospedale di Bangkok dove muore dopo due giorni di coma. Lo stesso anno muore l'inglese Scott Westgarth, collassato dopo l'incontro con Dec Spelman.
È morto Simiso Buthelezi, il pugile che colpiva l’avversario invisibile: aveva danni al cervello. Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.
Aveva 24 anni e non ce l’ha fatta l’atleta che ha commosso il mondo della boxe quando nel corso di un match, ha iniziato a dare pugni nel vuoto. L’emorragia cerebrale non gli ha lasciato scampo.
Aveva 24 anni. E avevano fatto il giro del mondo le immagini in cui, completamente disorientato, lanciava pugni contro un uomo immaginario. Simiso Buthelezi non ce l’ha fatta. È morto il pugile sudafricano che lo scorso fine settimana ha combattuto contro il connazionale sudafricano Siphesihle Mntungwa nel match valido per la World Boxing Federation All Africa Lightweight a Durban. Un decesso arrivato nel giro di pochi giorni subito dopo quell’incontro, poi interrotto, in cui il pugile aveva mostrato di essere in condizioni neurologiche pesantemente compromesse. Ad un certo punto, durante l’incontro, si è girato verso un altro angolo del ring rispetto a quello dove era posizionato il suo avversario e ha iniziato a dare pugni a vuoto, verso un avversario immaginario. Da lì è stato condotto d’urgenza in ospedale dopo essere stato portato via in barella entrando immediatamente in coma. Oggi il decesso, che ha lasciato senza parole il mondo dello sport.
Quelle immagini divenute virali
Le immagini che sono diventati virali sul web, hanno mostrato Buthelezi voltarsi verso un altro angolo del ring iniziando a colpire in un’altra direzione rispetto a Mntungwa. L’intervento dell’arbitro era stato tempestivo, aveva capito subito che stava succedendo qualcosa e che non era per nulla normale il comportamento del pugile. Per questo ha annullato immediatamente il match consentendo le cure a Buthelezi che nel frattempo era crollato tra le braccia dello stesso direttore di gara. L’emorragia cerebrale ha colto il pugile dopo un incontro per il Wbf africano dei pesi leggeri, disputato a Durban contro Suphesivile Mutunguia. Della vicenda si era parlato molto nei giorni scorsi, soprattutto per le immagini impressionanti, mai viste nella storia del pugilato. Buthelezi, nel corso della decima ripresa di un incontro che stava vincendo e che controllava senza correre particolari rischi — fuori dal ring era finito il suo avversario — era improvvisamente apparso disorientato ed aveva iniziato a lanciare pugni nel vuoto, come se volesse colpire un avversario immaginario. Una scena impressionante, che aveva indotto l’arbitro a interrompere immediatamente il match. Il ragazzo era stato poi ricoverato all’ospedale e posto in coma indotto una volta rilevata la lesione cerebrale.
L’inchiesta della federazione sudafricana
La federazione sudafricana di boxe ha aperto una inchiesta sull’accaduto, soprattutto per capire in che maniera il pugile abbia subito un trauma del genere. La sua carriera infatti era solo all’inizio: aveva vinto tutti e 4 gli incontri disputati e non aveva subìto colpi particolarmente duri neanche in quello che purtroppo sarebbe stato l’epilogo della sua vita. Travolto dallo sconforto anche l’allenatore del pugile, Bheki Mngomezulu. «Non riesco davvero a spiegare cosa sia successo. Nel periodo di preparazione al combattimento e durante il match non era successo nulla di spiacevole. Era in buone condizioni, poteva salire sul ring». La federazione sudafricana ha commissionato un’indagine per capire la dinamica dell’accaduto.
Morto per danni celebrali Simiso Buthelezi: il pugile che colpiva l'avversario invisibile. Antonio Prisco il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il 24enne sudafricano era balzato alle cronache per il bizzarro match nel Wbf africano quando improvvisamente aveva cominciato a prendere a pugni l'aria.
Non ce l'ha fatta Simiso Buthelezi, pugile sudafricano di 24 anni, morto a causa di un'emorragia cerebrale. L'atleta era salito agli onori delle cronache durante l'incontro valido per il Wbf africano dei pesi leggeri contro Suphesivile Mntungwa, quando aveva iniziato a lanciare pugni nel vuoto, come se volesse colpire un avversario immaginario.
In verità che le sue condizioni fossero gravi lo si era capito fin da subito: il primo ad accorgersene era stato l’arbitro, bravo a interrompere immediatamente l’incontro e far scattare i soccorsi. L'emorragia cerebrale però ha evidentemente provocato danni irriversibili.
La ricostruzione
In questi giorni le immagini choc del pugile sudafricano hanno fatto il giro del mondo. Buthelezi, nel corso della decima ripresa di un incontro che stava vincendo e che controllava senza correre particolari rischi — mentre il suo avversario era finito fuori dal ring — era improvvisamente apparso disorientato ed aveva iniziato a lanciare pugni nel vuoto. Accaduto che ha sorpreso tutti, spingendo l'arbitro a fermare subito il match. Portato in ospedale per accertamenti, è stata poi rivelata una lesione cerebrale al pugile che è stato indotto al coma farmacologico. Qualche giorno dopo, però, è arrivata la triste notizia della morte.
Il filmato dell'incontro come detto è diventato rapidamente virale, attirando numerosi commenti e reazioni ironiche, ma decisamente fuori luogo considerato il tragico epilogo. "Non riesco davvero a spiegare cosa sia successo. Nel periodo di preparazione al combattimento e durante il match non era accaduto nulla di spiacevole. Era in buone condizioni, poteva salire sul ring" ha provato a spiegare il suo allenatore Bheki Mngomezulu.
Nel frattempo la Federazione sudafricana di boxe ha aperto un'inchiesta sull'accaduto per capire in che modo il pugile ha potuto subire un trauma del genere. Buthelezi, 24 anni, era solo all'inizio della sua carriera. Quello contro Mutunguia era il suo quinto match ufficiale, dopo aver vinto i 4 precedenti.
Le sue immagini avevano fatto il giro del mondo. Pugile soffre malore e scaglia pugni nel vuoto durante l’incontro: è morto Simiso Buthelesi. Antonio Lamorte su Il Riformista l'8 Giugno 2022.
Le sue immagini avevano fatto il giro del mondo. Simiso Buthelezi si era scagliato, proprio durante un incontro di pugilato, al decimo round, contro un avversario immaginario. È morto, a 24 anni, il boxeur sudafricano le cui immagini erano diventate virali. È deceduto questo pomeriggio in seguito a un’emorragia al cervello. L’incontro durante il quale si era sentito male si era tenuto domenica scorsa, 5 giugno.
A confermare la notizia la Boxing South Africa (BSA) che ha annunciato che chiederà un’indagine medica indipendente. Buthelesi aveva un record cinque incontri, quattro vinti e uno perso. Il suo avversario Suphesivile Mutunguia di sei vittorie, una sconfitta, due pareggi. Combattevano al Greivylle Convention Center di Durban, in Sudafrica, per il titolo vacante WBF africano dei pesi leggeri.
Alla decima ripresa Buthelesi era in vantaggio. Poco prima dell’episodio che ha fatto notizia in tutto il mondo aveva pressato l’avversario fino all’angolo, fino a farlo cadere fuori dalle corde. Alla ripresa comandata dall’arbitro Buthelesi aveva puntato prima proprio l’arbitro, che si era spostato, e poi l’angolo. Con lo sguardo perso nel vuoto il pugile aveva cominciato a colpire un avversario immaginario, a portare i colpi a vuoto come se fosse shadowboxing. L’arbitro ha capito la situazione e messo fine subito al match. L’avversario, completamente fuori luogo, ha esultato: ha festeggiato una vittoria tremenda con un salto alla Cristiano Ronaldo. Buthelesi era stato portato d’urgenza in ospedale
Le sue condizioni erano state definite inizialmente stabili. Tenuto in osservazione, era stato successivamente sottoposto a coma indotto. L’allenatore Bheki Mngomezulu ha dichiarato che Buthelezi era in perfetta salute prima dell’incontro. Le immagini incredibili hanno fatto da subito il giro del mondo. Anche testate che di solito non scrivono di pugilato hanno pubblicato il video e riportato la notizia, in alcuni casi lanciandosi in analisi a distanza e in giudizi a priori sul pugilato e gli sport da combattimento. Fermo restando le conseguenze e i danni che i colpi subiti in combattimento provocano ai pugili, le cause del malore fatale per Buthelesi non sono state ancora chiarite.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
L’avversario di Simiso Buthelezi, il pugile morto che dava pugni nel vuoto: «Mi chiamano assassino, mi ucciderò». Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 10 Giugno 2022.
Mntungwa, pugile sudafricano, era l’avversario di Buthelezi, l’atleta scomparso per emorragia cerebrale dopo un match nel quale dava pugni nel vuoto. Da giorni riceve critiche e insulti: «Non ho ucciso io Simiso, era solo un incontro di boxe».
«Non ce la faccio più. Mi è rimasta una sola cosa da fare: mi ucciderò». A parlare è Siphesihle Mntungwa, l’uomo che ha diviso il ring con Simiso Buthelezi, il 24enne pugile sudafricano morto pochi giorni fa dopo un incontro nel quale, completamente disorientato, lanciava pugni contro un avversario invisibile. Nei terribili attimi in cui Simiso si volta verso un angolo vuoto del ring e inizia a mulinare fendenti nel nulla Mntungwa è fermo, alle sue spalle. Ad avvicinarsi a Buthelezi è l’arbitro, che lo abbraccia e decreta la fine del match. In quel momento Mntungwa, che non poteva conoscere le reali condizioni del suo avversario, salta felice ed esulta. Un gesto che in molti non gli hanno perdonato.
Da quando Simiso è finito in coma, subito dopo l’incontro, Mntungwa è stato chiamato «assassino», e racconta di essere finito in un abisso, al punto da pensare al suicidio. «Sono stato oggetto di pesanti critiche e ho ricevuto insulti sui social quando Simiso è stato ricoverato in ospedale. Le cose sono ulteriormente peggiorate quando è morto», ha detto il sudafricano a Sowetan Live. Al punto che il pugile dice anche «Non ce la faccio più, mi ucciderò».
«Non sono più al sicuro. Non ho ucciso io Simiso. Era un incontro di boxe, non una questione di vita o di morte — lo sfogo di Mntungwa —. Tutto quello che volevo era vincere il titolo (il match era valido per il campionato Wbf africano dei pesi leggeri), potevo cambiare la vita della mia famiglia. Sono l’unico a lavorare a casa. Mia madre è morta quando avevo quattro anni, mio padre è lontano. Le persone mi chiamano assassino, ma potevo essere io a morire».
Ha paura Siphesihle, per questo motivo non parteciperà al funerale del suo avversario. Non si dà pace per quello che è successo: «È triste e molto doloroso, ma ovviamente non sono salito sul ring con l’intenzione di ucciderlo». Dalle prime analisi sembra che Buthelezi avesse dei danni pregressi, le sue condizioni neurologiche erano compromesse prima del match di domenica scorsa. Nel quale infatti era in vantaggio ai punti e non era successo nulla di spiacevole. La federazione sudafricana di boxe ha aperto un’inchiesta sull’accaduto, presto arriveranno le prime risposte. Che potrebbero anche alleviare il peso che porta addosso Mntungwa.
Massimo Gramellini per “il Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.
Che cos' avrà visto il pugile sudafricano Simiso Buthelezi, quando a causa dei primi segni di un'emorragia cerebrale ha voltato le spalle al suo avversario e ha cominciato a prendere a cazzotti l'aria davanti a sé?
Contro quale nemico invisibile si accaniva? Sono immagini terribili e ipnotiche, non riesco a smettere di guardarle e di pensare: ehi, ma quello sono io. Sono io che, dovunque vada, fin da ragazzino, credo sempre che gli altri mi guardino storto o non mi guardino affatto, e mi pongo in modalità difensiva o aggressiva per combattere qualcosa che esiste solo nella mia testa. Sono io che non sopporto la strafottenza iraconda di certi professori televisivi perché è la stessa che tengo faticosamente a bada dentro di me.
Sono io, ma non soltanto io. È Harry Potter che odia Voldemort pur sapendo che si tratta della sua ombra, o forse proprio per questo. È il famoso giornalista che ha costruito una carriera sugli attacchi a Berlusconi e rimane la persona più simile a Berlusconi che abbia mai conosciuto.
È Medvedev che detesta gli occidentali e vive all'occidentale. È il rivale che ci scegliamo in famiglia, a scuola, in ufficio: quello che ci risuona dentro, da invidiare e fermare a qualunque costo, anche di procurare un danno a noi stessi. Finché un giorno ci guardiamo allo specchio e finalmente lo vediamo. È il volto riflesso di De Niro in Taxi Driver: «Ma dici a me? No, dici a me?» Il povero Simiso Buthelezi è morto. Noi continuiamo a combattere.
Da gazzetta.it il 10 Giugno 2022.
Il peso leggero sudafricano Simiso Buthelezi è morto dopo aver subito un'emorragia cerebrale a seguito di un incontro di boxe disputato nel fine settimana a Durban. Il 24enne stava affrontando domenica il connazionale Siphesihle Mntungwa per il titolo WBF All Africa dei pesi leggeri, ma il match sulla distanza dei 10 round è stato interrotto dall'arbitro dopo che Buthelezi ha iniziato a sferrare pugni contro un avversario invisibile.
Il filmato del combattimento che mostrava Mntungwa cadere sulle le corde e poi, dopo che il combattimento era ripreso, avanzare verso un angolo sferrando colpi contro il vuoto, è diventato rapidamente virale, attirando numerosi commenti e reazioni ironiche, ma del tutto fuori luogo.
Non ce l'ha fatta Simiso Buthelesi, pugile sudafricano di 24 anni, morto a causa di un'emorragia cerebrale.Durante l'incontro valido per il Wbf africano dei pesi leggeri, che Buthelesi stava conducendo su Suphesivile Mutunguia, aveva iniziato a tirare pugni nel vuoto nel decimo round, come se volesse colpire un avversario immaginario. Pochi giorni dopo il tragico decesso.
L'arbitro ha sospeso l'incontro e Buthelezi è crollato sul ring. Trasportato d'urgenza in ospedale, è stato messo in coma indotto dopo la scoperta di un'emorragia al cervello. Secondo il suo allenatore, Bheki Mngomezulu, Buthelezi era in perfetta salute prima dell'incontro.
Carlos Monzón, il fascino della violenza. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di Le leggende della boxe. Storie di campioni dentro e fuori il ring (Diarkos). Fausto Narducci su Il Giornale il 21 Novembre 2022.
La letteratura e la cinematografia si nutrono di cattivi. È il fascino della violenza, che oggi va tanto di moda. Ebbene, il ring di duri ne ha proposti tanti, ma nessuno come Carlos Monzón, l’indio dannato che passò come un rullo compressore anche sul nostro Benvenuti e finì per perdersi nella spirale della sua vita scellerata. Il carcere per l’omicidio della moglie e un tragico incidente stradale chiusero il destino del più brutale pugile degli anni Settanta, ma anche di un campione dei pesi medi, praticamente imbattuto, che merita un posto al sole fra i grandi del ring.
Raramente vita e ring si sovrappongono inesorabilmente quando cerchiamo di dare una dimensione al personaggio. Non per niente Monzón è anche il titolo di una serie argentina di tredici episodi arrivata in Italia sulla piattaforma Netflix ma passata un po’ inosservata, nonostante i numerosi premi ricevuti in patria. Un peccato, perché si tratta di una delle più belle fiction dedicate alla boxe, con ottima tecnica televisiva, grandi investimenti e anche una certa verosimiglianza con lo sport reale. Il problema (non da poco) è che la serie, creata da Pablo E. Rossi e con attori diversi a interpretare il campione dei medi nelle varie fasi della sua vita, è tratta dal libro Monzón, secreto de sumario (“segreto istruttorio”) di Marilé Staiolo, che sposa ogni tesi colpevolista.
Carlos assassino lo è sicuramente, ma le testimonianze non sono così chiare come appaiono nella serie. E, per denunciare la violenza di genere, che ha reso fruibile il caso Monzón al grande pubblico, la sceneggiatura si è concessa molte licenze “letterarie”. Sicuramente più documentato e attinente ai fatti il libro Monzón, il professionista della violenza, scritto dai due giornalisti di boxe Dario Torromeo e Riccardo Romani, che sono rimasti fedeli alla cronaca senza tesi preconcette e senza rinunciare alla celebrazione pugilistica. Il fatto che la storia di Monzón non sia diventata materia di un vero film di successo (come sognava il suo amico Alain Delon) ma solo lo spunto per un biopic sulla violenza di genere rappresenta un’occasione persa, a cui forse il tempo rimedierà. Resta, però, il dato di fatto: Monzón è stato un grande pugile ma anche un violento assassino, autore di un femminicidio che ha tentato maldestramente di coprire e che ha fatto molto male anche a se stesso, fino all’incidente stradale che ha posto fine alla sua autodistruzione.
La testimonianza
All’inizio degli anni Novanta, la mia carriera professionale alla «Gazzetta dello Sport» si incrociò casualmente con quella di Monzón. Fummo infatti contattati in redazione da una pittrice croata residente in Italia, Elizabeta, che in quegli anni frequentava regolarmente l’ex pugile nel carcere di Santa Fe e aveva intrecciato con lui una relazione che, in base alle promesse di Monzón, doveva portarli a un futuro insieme. Dalle periodiche interviste nella casa milanese della pittrice – che solo successivamente scoprimmo essere legata ad ambienti per così dire sbagliati – emerse il ritratto di un uomo sofferente, che nascondeva dietro alle violenze la sua fragilità e il suo difficile passato da indio, ma sapeva essere anche tenero e sensibile. Grazie all’intercessione della fidanzata (non ufficiale) di Monzón, che aveva avuto buona visibilità sul giornale, ottenemmo l’intervista al pugile, realizzata dal collega Riccardo Romani. Oggi, Elizabeta è tornata alla ribalta come diva del burlesque milanese ma, all’epoca, se non altro ci diede un’immagine meno convenzionale del protagonista di uno dei più clamorosi casi giudiziari dell’Argentina. Insomma, la storia extra-pugilistica di Monzón andrebbe raccontata anche in chiave televisiva, con maggiore profondità e introspezione psicologica. Il culto degli eroi dannati, particolarmente popolare nella boxe, si è alimentato comunque a lungo del “caso Monzón”, uno dei tanti campioni che proprio le imprese del ring hanno strappato all’inferno della violenza di strada ma che, in quel girone dantesco, sono tornati a precipitare a carriera finita.
Emile Griffith. Maurizio Crosetti per “il Venerdì di Repubblica” l'8 maggio 2022.
ERA PUGILE, era nero, era gay. Troppo, per una persona soltanto e troppo negli anni Sessanta, troppo in America. La storia di Emile Griffith, che i lettori meno smart e meno digital ricorderanno per le memorabili sfide mondiali contro il nostro Nino Benvenuti, rivive ora in un libro di feroce bellezza, In un mondo di maschi (Mondadori): l'ha scritto Donald McRae, giornalista sudafricano, grande esperto di pugilato e razzismo. È il romanzo di un uomo e di un'epoca, un libro di storia e di geografia insieme, di antropologia e naturalmente di sport, quell'atomo che può contenere l'intero universo.
Emile Griffith fu segnato da un'atroce tragedia: la morte di un avversario, il cubano Benny "Kid" Paret, sotto la tempesta dei suoi pugni: era il 24 marzo del 1962, al Madison Square Garden di New York. Il poveretto aveva appena commesso un errore fatale: dare del maricòn, cioè del finocchio, a quella montagna di muscoli durante la cerimonia del peso, davanti ai cronisti.
Perché in tanti sapevano che a Griffith piacevano anche gli uomini, ma era impossibile scriverlo o ammetterlo: quei giorni erano lontanissimi anche soltanto da un'ipotesi di coming out. Del tutto impossibile, poi, che una simile confessione o ammissione potesse avvenire in un mondo machista e feroce come quello della boxe, e in un'epoca in cui l'omosessualità era un reato penale e veniva considerata una malattia, oltre che una vergogna. E allora Griffith si porterà dentro per sempre i "compagni segreti": la sua vera natura umana e sessuale e il fantasma di Paret, morto quando i cazzotti del maricòn finirono per spappolargli il cervello.
lord tutto muscoli
La figura di Griffith è spaventosamente romanzesca, eppure è tutto autentico. La sua vocazione non sono i pugni ma i cappellini per signora, che disegna come il più elegante e raffinato tra i creatori di moda. Emile ha una voce flautata, è gentilissimo e bellissimo, veste come un lord e vive con una pletora di parenti e amici tra cui spicca una sorta di super mamma, la signora Emelda, che per tutta la vita lo chiamerà junior, piccolo. La carriera di Griffith dura vent' anni e 112 match, per cinque corone mondiali conquistate quando gli incontri erano visti in diretta da milioni di telespettatori e c'erano soltanto otto campioni del mondo, autentiche star.
Mani piccole e cuore dolente, Emile ha a lungo una fidanzata di copertura, Esther, che serve sia a lui sia al pugilato per nascondere l'indicibile verità. Tutti sanno delle notti nei locali gay di Times Square, delle drag queen con cui si accompagna, del giovane Calvin che è il suo ragazzo, lo sanno i due allenatori bianchi e i giornalisti che un giorno lo sorprenderanno mentre bacia un uomo nello spogliatoio, dopo un match. Ma dirlo non si può.
un rifugio chiamato galera
Un libro di storia, non soltanto una vita dolente. Perché se oggi ci muoviamo, nonostante tutto, in un mondo migliore e più libero, lo dobbiamo anche a Emile Griffith, a quando in Sudafrica proclamò che mai e poi mai sarebbe salito sul ring di Soweto senza la presenza all'angolo dei suoi allenatori bianchi, in quel ghetto dove la legge ammetteva soltanto i neri. Alla fine vinse lui.
La storia si racconta e si cambia, tra fiotti di sangue addosso agli spettatori come da arterie recise e rumore di pugni che sono come colpi d'ascia sulla corteccia di un albero. Emile ha pelle lucida di cioccolato fondente, e danza dentro una musica.
Abbandonato dal padre nelle Isole Vergini dov' era nato, da ragazzino chiese asilo in un riformatorio pur non avendo commesso alcun reato, soltanto per poter vivere lontano da chi non lo amava, compresa l'impossibile mamma, e per sfuggire alla violenza sessuale di uno zio che lo violò quand'era soltanto un bambino: innocente ma in galera, ci restò per quattro anni.
Senza quell'insulto omofobo, che rischiava di sgretolare l'immagine pubblica essenziale a un campione del mondo, l'intera vita di Griffith sarebbe stata diversa. E lui non avrebbe mai rivolto agli amici più cari la frase che è riportata anche sulla copertina della biografia di McRae: «Ho ucciso un uomo e mi hanno perdonato, ho amato un uomo e mi hanno condannato».Quell'uomo morto tornerà a visitarlo in sogno, perennemente.
il perdono tanto atteso
Sembrano cose di un altro mondo e di antichissime ere geologiche, invece è accaduto appena una sessantina di anni fa, quando Muhammad Alì cominciò a prendere a cazzotti il razzismo e gridò all'America che la guerra in Vietnam potevano farla senza di lui, «perché nessun vietcong mi ha mai chiamato negro».
Non tutti avevano il suo coraggio. Emile Griffith voleva soltanto guardarsi i cartoni animati e stare in pace, sul ring e con i maschi che amava e con i quali non poteva neppure ballare avvinghiato: reato, anche questo. Il mondo lo faceva sentire un malato, un reietto e un criminale. Per un gay non c'erano altre strade se non nascondersi, oppure vedersela con psichiatri, giudici e secondini.
Un pugile, poi, poteva essere soltanto "un vero uomo". Doveva esserlo.
Faggot, frocio, se lo sentirà dire per tutta la vita anche se non più in faccia, e soltanto alla fine ammetterà qualcosa in un documentario su di lui. Ormai è vittima della demenza dei pugili, sta cominciando a dimenticare e campa con una pensione di 300 dollari al mese, quasi in miseria nonostante i milioni di dollari guadagnati per farsi ammazzare a poco a poco, lui che davvero uccise un uomo in una notte sola, tempestandolo con 23 terribili pugni alla testa nel corso di un round di cui esistono numerosi filmati: un'esecuzione capitale.
Il senso di colpa non lo abbandonerà mai, lenito in parte dall'incontro tanto atteso con il figlio dell'avversario ucciso: è uno dei momenti più toccanti del libro. Prima di essere portato in ospizio e morire, il 27 luglio del 2013, Emile Griffith riceverà la grazia di ascoltare le parole di un orfano che gli dice «tranquillo, non ce l'abbiamo con te». Sarà una strana, preziosa intimità avvolta dal dolore, come quella dei pugili dopo il combattimento, abbracciati e non più soli.
Buster Douglas, il pugile triste che mise ko Mike Tyson. L’11 febbraio 1990, a Tokyo, si consumò una delle imprese sportive più surreali di sempre. Specie per lo stato psicologico con cui James arrivò all’incontro. Paolo Lazzari su Il Giornale il 06 novembre 2022
L’inverno in Ohio punge come una sparachiodi conficcata tra le scapole. Esistono però declinazioni di freddo peggiore. Lula Pearl ha soltanto 47 anni quando il suo cuore malandato sceglie di fermarsi per sempre. Agganciando la cornetta, James scivola con le spalle lungo il muro, cadendo in ginocchio. Quindi si raccoglie la testa in mezzo ai gomiti ed erompe in un pianto irrefrenabile.
A trent’anni l’esistenza emotiva gli va decisamente male. È proprio crivellata. Lo chiamano “Buster” già da un pezzo. Di cognome fa Douglas. È un pugile dimenticabile che ha appena perso la madre. Solo qualche mese prima ha smarrito per strada anche l’amore: la storia con la moglie Bertha si è sbriciolata e la separazione lo ha provato duramente. Il padre, invece, gli ha fatto sapere che non intende più vederlo per il resto della sua vita. Una serie di ganci terrificanti che spedirebbero al tappeto chicchessia.
Ventitre giorni soltanto. È l’interludio sciaguratamente compresso che si frappone tra lui ed il prossimo incontro sul ring. Come fai a salirci e combattere, in quello stato di lacerazione mentale? Come fai, specialmente, se il tuo avversario è oltraggiosamente più forte? E invece Buster ce la fa. Pesca al suo interno e grattando via tutto quel gelo attinge da una qualche forza misteriosa. Bene, può presentarsi animato da sentimenti contundenti, che magari gli verranno buoni per gettarsi oltre le barricate erette dal fato. Non fosse che davanti ha una montagna. Non fosse che, a Tokyo, lo aspetta Mike Tyson.
Al Mirage Hotel di Las Vegas sghignazzano. Nessun bookmaker è disposto a quotare l’incontro, perché un pugile modesto come Douglas non ha alcuna possibilità. Jimmy Vaccaro, il vate della categoria, li prende tutti in contropiede. Lui sì. Lui accetta la puntata. Sa che è un pensiero talmente disarticolato da meritare un riscontro iperbolico: quarantadue a uno. Significa che per ogni dollaro scommesso sul cavallo Buster se ne vincono quarantadue. Folle, ma tanto è totalmente implausibile, fa spallucce Jimmy.
Il temibilissimo avversario
Dargli torto non si può. Tyson ci arriva all’apice della carriera, con 37 successi di fila, 33 dei quali per ko. I battage pubblicitari che avvicinano alla contesa sono un concentrato di scherno verso il povero Buster: alcuni sostengono che un’eventuale sconfitta di “Iron” Mike sarebbe un evento più epocale del recente crollo del muro di Berlino. Dal canto suo, Tyson sguazza in un balsamo di sicumera. Non è ribaldo, ma consapevole. Sarebbe tranquillo con tutti. Contro Douglas equivale ad una gita scolastica. Due settimane prima del match lo affligge un debordante virus intestinale: lui se ne sbatte ampiamente. Anzi, la preparazione procede serrata, intrisa di un ingrediente che anche al tempo è un velo squarciato: tanto, tantissimo sesso. A chi critica distribuisce montanti: in fondo ha brutalizzato i suoi ultimi avversari.
Così al Tokyo Dome, l'11 febbraio 1990, il ragazzone di Columbus non pare avere speranza. Mike arriva sul ring con caracollante tracotanza. Buster sembra più composto, ma non intimorito. Sa che quell’incontro gli può valere 1,3 milioni di dollari: la svolta della vita. Quello che ancora non sa è che, tolta la masnada di percentuali da affibbiare a destra e a manca gli resterà l’irrisorio gruzzolo di 15mila verdoni. Così eccoli, la folla che acclama il campione, gli scommettitori con le mani che si sfregano compulsivamente.
Solo che Tyson non pare il solito di sempre. Prova ad attaccare, ma non trova un varco. Buster si muove con disinvoltura sulle gambe e inizia una snervante rappresaglia, fatta di colpi che centrano spesso il bersaglio. Mike le prende e prova a restituirle, ma l’approccio è stanco, prosciugato. Fino all’ottava ripresa, quando finalmente indovina un montante terrificante. L’incontro ravvicinato con la faccia di James è da impresa di demolizioni. Lo sfavorito crolla a terra e qui, va detto, l’arbitro di quella sera, tal Octavio Sanchez Meyran, reagisce con riflessi plantigradici. Inizia la conta con una manciata di istanti di ritardo, provocando le schiumanti proteste di Tyson. Stordito, sul punto di arrendersi, Buster attinge di nuovo da quell’incendio interiore. Forse ripensa alla mamma. Magari gli scorrono davanti tutte le cose che non vanno. La rabbia evolve in riscatto. Si rialza e riprende a combattere.
Round numero dieci. Mike è letteralmente stremato. Forse ha sottovalutato quel virus. Magari ha consumato troppe energie prima del match. Buster invece è animato da scintille che hanno sciolto tutto quel ghiaccio. Il resto si consuma in un minuto e poco più: prima una sequenza di cinque jab sinistri. Quindi un gancio destro male assestato. Dunque un mortifero gancio sinistro. Tyson inizia ad oscillare, poi cade dritto al tappeto. Prova a rialzarsi, ma è tutto vano. La sua cintura sfila via nell’incredulità collettiva. Buster Douglas è il nuovo campione del mondo. I mugugni di Mike su presunte irregolarità sono irrilevanti.
James ha grattato il fondo ed è arrivato agli antipodi. Da così in alto però fatica a scorgere le cose per quello che sono. Gli fregano quasi tutto il premio, ma questo si era già detto. Insieme al raggiro, gli piomba addosso uno di quei ganci da cui non ti riprendi: una fama fantasmagorica. Buster non ha la minima idea di come gestirla e si rifugia nel cibo. Arriva a pesare fino a duecento chili ingurgitando tonnellate di pasti spazzatura ed esce di scena. Nel frattempo perde anche il padre per un tumore al colon e pure il fratello, colpito da un proiettile vagante durante una rissa di periferia. Giunge al confine tra la vita e la morte entrando in coma diabetico, ma si rialza. Forse anche qui qualcuno aveva contato male.
Tornerà sul ring per dimostrare che la parola fine deve uscire soltanto dalle sue labbra. Oggi, a sessant’anni suonati, allena i ragazzini dei quartieri più difficili. Spesso gli chiedono ancora di quell’incontro. Lui allora dischiude un sorriso. Adesso dentro è come se fosse di nuovo primavera.
Tyson e Holyfield soci: vendono caramelle alla cannabis a forma di orecchio. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.
Da mesi Tyson produce cannabis legale. Holyfield: «Abbiamo l’opportunità di condividere la medicina di cui avevamo veramente bisogno durante le nostre carriere»
Dici Mike Tyson ed Evander Holyfield e pensi immediatamente al morso con cui, il 28 giugno 1997, Iron Mike staccò un pezzo dell’orecchio all’avversario. I match tra i due, con il Mondiale dei pesi massimi in palio, hanno fatto la storia del pugilato, ma il passato è ormai in archivio. Perché adesso i due ex campioni, fra i quali il tempo ha rinsaldato la stima reciproca, sono diventati soci, in vista delle festività natalizie, per lanciare sul mercato snack e caramelle gommose alla cannabis. A forma di orecchio (a cui manca un pezzetto), tanto per non dimenticare le vecchie ruggini.
La storia di Tyson e la cannabis è cominciata già da qualche anno. Nel 2018 l’ex pugile ha intrapreso l’attività di produttore di estratti di cannabis legale: coltiva marijuana nel suo ranch di 16 ettari in California, in un angolo di deserto circa 95 chilometri a sud-ovest del Parco nazionale della Death Valley. Metà del terreno del ranch è destinato alla coltivazione, l’altra a strutture per altre attività fra le quali una «Tyson Cultivation School». Da qui l’idea di proporre un prodotto che fa riferimento al famoso match del 1997, ovvero gli snack «Holy Ears» a forma di orecchio che aveva cominciato a commercializzare a inizio anno. Ora la nascita della società Carma Holdings proprio assieme all’ex avversario che, a partire dal prossimo anno, metterà in vendita in proprio una serie di infusi a base di Thc. «È un privilegio unire di nuovo le forze con il mio ex avversario e ora amico di vecchia data — spiega Tyson in una nota — e trasformare anni di battaglie sportive in una partnership che può avere un impatto positivo per far stare meglio le persone».
«Mike e io abbiamo una lunga storia di competizione — ha spiegato l’ex campione — ma anche di rispetto reciproco. E quella notte del 1997 ha cambiato entrambe le nostre vite. Allora, non ci rendevamo conto che anche come atleti di potenza soffrivamo molto. Ora, quasi 20 anni dopo, abbiamo l’opportunità di condividere la medicina di cui avevamo veramente bisogno durante le nostre carriere». Tyson, invece, si è limitato a sottolineare che «se avessi usato la cannabis al tempo, non avrei mai morso l’orecchio di Evander», per poi precisare che gli snack e le caramelle gommose Holy Ears saranno in vendita in tre gusti: «Cherry Pie Punch», «Sour Apple Punch» e «Black Eye Berry». Il tutto «completamente naturale, vegano e senza glutine».
«Mike», l'intensa parabola del pugile Tyson. La storia sofferta e controversa del celebre pugile su Disney +. Marzia Gandolfi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Settembre 2022.
Craig Gillespie e Steven Rogers sono affascinati dalle vite rocambolesche. Dopo la pattinatrice Tonya Harding (Tonya) e la coppia Pamela Anderson-Tommy Lee (Pam& Tommy), si interessano alla parabola esistenziale di Mike Tyson: nascita, esplosione e implosione di un pugile psicologicamente fragile e fisicamente brutale. Basata sul one-man-show autobiografico (Undisputed Truth) che Tyson portò a Broadway nel 2012, la miniserie su Disney + ripercorre l’infanzia (infelice), la giovinezza, la formazione, il successo e le cadute dell’inarrestabile campione. Il punto di vista è il suo. Quello di un bambino bullizzato che scopre il rispetto a colpi di pugni, e quello dell’uomo che diventerà, bestia da fiera manipolata dal suo entourage e condannata per stupro dal tribunale.
La serie cerca di spiegare le origini di Tyson, il suo percorso ma soprattutto la sua rabbia, improntando un racconto in antitesi col biopic consensuale hollywoodiano. Diversamente da Alì, Mike morde e non solo l’orecchio di Evander Holyfield. L’episodio è citato in esergo come un avvertimento dell’orrore a venire, non un’ode alla sua gloria e nemmeno una satira del suo declino. Attraverso un approccio pop, che coglie gli eccessi e l’energia del suo personaggio, Mike arriva all’essenza del «mostro» che mette in scena, una terrificante e incontrollabile macchina da pugni in equilibrio instabile tra fragilità estrema e aggressività smisurata.
Alla fine degli 8 round, resta la solitudine del pugile, attore e vittima di un sistema che non ha pietà, resta un bilancio di passivi e di rimorsi che lo inchiodano alla sua miseria. Trevante Rhodes, l’attore di Moonlight, è Mike e ancora una volta la versione adulta di un bambino martirizzato che non ha mai finito con la collera.
Salvatore Riggio per corriere.it il 22 ottobre 2022.
Mike Tyson fa sempre parlare di sé nell’altalenante vita tra ring e vicende extra sportive. A volte sembra pronto per tornare a combattere, in altre occasioni lo si vede in aeroporto su una sedia a rotelle. E un’altra volta ancora è ripreso mentre si allena duramente con la sua temibile massa muscolare, nonostante abbia 56 anni, in bella mostra. C’è stato un momento nel quale, però, ha fatto spaventare tutti durante un collegamento televisivo, un’intervista per la trasmissione di Piers Morgan e Susanna Reid, «Good Morning Britain».
In quell’occasione, era il 13 ottobre 2020, Iron Mike si presentò davanti alle telecamere in evidenti difficoltà. Cercò in tutti i modi di restare sveglio, ma alla fine l’ex campione del mondo dei pesi massimi alzò bandiera bianca e si addormentò, accovacciandosi su sé stesso, biascicando parole incomprensibili per tutti. Si era pensato a un malore improvviso. Invece, a distanza di tempo è emersa la verità su quanto accaduto, grazie al diretto interessato.
Tornato davanti a Piers Morgan per la trasmissione «Talk TV», Tyson ha dato la sua versione dei fatti: «Ehi ascolta. Mi ero fatto male, mi stavo allenando ed è successo qualcosa. Mia moglie mi ha dato degli antidolorifici e dopo averli presi non ero in grado di articolare una parola, è stato un pasticcio, ma era colpa mia», ha chiarito.
Ma non è stata l’unica rivelazione fatta da Iron Mike. Ha parlato anche dell’aggressione durante il volo da San Francisco alla Florida. L’ex pugile fu tradito da un video messo in rete: «Venivo da un posto in cui 60mila persone fumavano cannabis.
Quando ero sull’aereo, avevo fame ed ero stanco. C’era questo ragazzo che continuava a provocarmi, poi sono tornato in me e l’ho preso a calci in c..o. Sto scherzando, vorrei averlo fatto. La mia guardia del corpo è saltata sopra di lui», ha spiegato. Questo è Mike Tyson. L’uomo pronto a combattere contro un gorilla o uno squalo, ma che per tutta la vita ha lottato contro tanti demoni.
Salvatore Riggio per corriere.it il 21 luglio 2022.
Mike Tyson torna a fare parlare di sé, e questa volta la sua uscita mette i brividi. Tra un combattimento con gli squali «per avvicinarsi a Dio», una confessione sulla sua voglia di molti anni fa di affrontare un gorilla in combattimento e una lite in aereo in cui prende a pungi un passeggero, adesso il 56 enne ex campione dei pesi massimi sostiene di essere convinto che la morte per lui «arriverà molto presto».
Lo ha confessato durante il suo podcast «Hotboxin with Mike Tyson» e le parole sono state immediatamente riprese in tutto il mondo. IronMike ha spiegato all'ospite della puntata, il dottor Sean McFarland, terapista specializzato in problemi di dipendenza e trauma, di sentire che il suo tempo è quasi scaduto: «Quando mi guardo allo specchio, vedo quelle piccole macchie sul mio viso, e dico sempre che la mia data di scadenza si avvicina, molto presto». Anche se poi, ha aggiunto, «moriremo tutti un giorno, ovviamente».
IronMike ha parlato anche del denaro e dei problemi che provoca pure a lui, che pure è multimilionario e ha guadagnato, si stima, circa mezzo miliardo di dollari in carriera: «Quando hai molti soldi, non puoi aspettarti che qualcuno ti ami realmente. Credi di essere invincibile quando hai molti soldi, il che non è vero. Il denaro non ci rende immuni da una malattia o da un'incidente. I soldi non possono proteggerti da questo». Men che meno dalla morte: «Non significa che non prenderai una malattia o non verrai investito da un’auto. Il denaro può proteggerti quando salti da un ponte?».
L'ultima volta che Tyson fece parlare di sé era stato lo scorso aprile, quando prese a pugni una persona su un aereo in partenza da San Francisco per la Florida. Tyson si girò di scatto e scaricò una serie di cinque pugni sul volto di un uomo che lo stava disturbando. Prima, l'ex pugile aveva provato a controllarsi, immobile all’apparenza, ma alla fine aveva perso la pazienza e per fermarlo erano dovuti intervenire gli altri passeggeri del volo. Tyson era poi sceso prima del decollo.
Maurizio De Santis per fanpage.it l'1 luglio 2022.
Un cazzotto sul muso può farti l'effetto di una carezza se prendi funghi "magici" e della buona erba che ti altera la percezione della realtà. Che sia chiusa nel recinto di un ring oppure al di fuori del quadrato poco importa.
Mike Tyson, l'uomo più cattivo del pianeta (è uno dei soprannomi di battaglia guadagnati sferrando pugni come colpi di maglio), ha svelato il segreto che c'è dietro il suo ritorno al mondo della boxe vera, quella combattuta, quella che gli faceva (e gli fa) ribollire il sangue nelle vene, quella che pur con tutta "l'esaltazione cosmica" (diciamo così…) resta per sempre impressa nella sua identità di Kid Dynamite, devastante nei pesi massimi.
Non fa male, non fa male. Rocky lo ripeteva a se stesso mentre Ivan Drago lo riempiva di pugni sul viso. Qualcosa del genere è accaduta anche a Iron Mike ma nel podcast The Pivot ha spiegato che il merito, più dell'orgoglio e di uno spirito guerriero, era dei "buoni, vecchi funghi" assunti prima di salire sul quadrato per affrontare Roy Jones Jr a novembre del 2020.
Un momento dell’incontro tra l’ex campione del mondo dei pesi massimi e Roy Jones Jr.
Era un incontro di esibizione, tornava sotto le luci della ribalta a 56 anni, mostrando un fisico straordinario e una condizione di forma invidiabile nonostante la lunga inattività. Il verdetto decretò la parità a corredo di un match nel quale non erano mancati scambi interessanti e momenti esaltanti di boxe e per il quale non era previsto alcun controllo antidoping.
Dietro quella performance c'era un segreto. "Non uso i funghi per scappare dalla realtà – le parole di Tyson -. Mi aiutano ad allenarmi meglio. E quando combatto non sento i pugni che incasso. Non lo farei senza prenderne… vorrei averne presi anche quando ero in carriera".
Quanto al rapporto con la marijuana, che l'ex campione ha capitalizzato mettendo sul mercato caramelle a forma di orecchio, ha aggiunto: "Mi dà energia buona e positiva. Ho bisogno di trovare qualcosa che riempia l'energia che ho".
Magari la scaricherà sul prossimo avversario, quale sarà? Da Tyson Fury a Lennox Lewis non mancano i nomi, così come non è del tutto da escludere un incontro che farebbe letteralmente esplodere i social, quello con lo YouTuber Jake Paul. "Potrebbe essere molto interessante… è abbastanza abile. Sta facendo bene e cose fantastiche per il mondo del pugilato"
Da gazzetta.it il 21 aprile 2022.
Mike Tyson colpisce un passeggero su un aereo americano: il video ripreso da uno smartphone lo inchioda. L'ex campione dei pesi massimi ha preso ripetutamente a pugni un uomo su un aereo che stava per partire da San Francisco, dopo essere stato irritato dai tentativi di parlare con lui. Il filmato mostra Tyson che si sporge sullo schienale del sedile per poi scaricare una raffica di colpi sul passeggero seduto dietro - molto probabilmente ubriaco -, che mostra lividi e ferite sanguinanti in seguito all'aggressione.
"Iron Mike" è stato inizialmente amichevole con il passeggero e il suo amico quando sono saliti sul volo, ma ha reagito dopo che l'uomo "non voleva smettere di provocarlo" secondo la ricostruzione del portale TMZ. "Tyson ne aveva abbastanza del tizio dietro di lui che gli parlava nell'orecchio... e gli ha detto di calmarsi. Ma il tizio ha continuato, e secondo il testimone Tyson ha cominciato a tirargli diversi pugni al volto". Tyson sarebbe sceso dall'aereo prima che decollasse per la Florida. La polizia americana, la compagnia aerea JetBlue e i rappresentanti di Tyson non hanno rilasciato alcun commento immediato giovedì.
Considerato uno dei più forti pesi massimi di tutti i tempi, Tyson è noto alle cronache per i suoi comportamenti pericolosi e per i suoi problemi con la legge, compresa una condanna per stupro per la quale passò più di tre anni in carcere e vari altri arresti causati dalla dipendenza da cocaina. Nel 1997 sul ring morse l'orecchio di Evander Holyfield staccandogliene un pezzo.
Da open.online il 22 aprile 2022.
Rompe il silenzio il team di Mike Tyson, l’ex campione di pesi massimi che ha preso a pugni un ragazzo sul volo Jet Blue, in partenza da San Francisco e diretto in Florida. Secondo TMZ, il passeggero, dopo aver chiesto e ottenuto un selfie, avrebbe continuato a infastidire Tyson che, poi, ha reagito. L’uomo preso a pugni da Tyson, secondo il team dell’ex pugile, sarebbe stato «aggressivo»: avrebbe molestato Tyson lanciandogli addosso anche «una bottiglia d’acqua mentre era al suo posto».
Una delle due persone fermate dalle autorità, perché si ritiene essere coinvolta nell’incidente, avrebbe fornito «dettagli minimi sull’incidente rifiutandosi poi di collaborare ulteriormente con le indagini» di polizia. Intanto ieri sera, 21 aprile, Tyson a poche ore dal fatto, ha preso parte a un evento pubblico in una discoteca di Miami, come mostra una foto – in cui è sorridente – pubblicata dal leggendario wrestler statunitense Ric Flair.
Paolo Fiorenza per fanpage.it il 14 luglio 2022.
Mike Tyson è stato il più giovane campione del mondo dei pesi massimi: aveva 20 anni quando nel 1986 battè per KO tecnico al secondo round Trevor Berbick. Un'ascesa inarrestabile quella del pugile newyorchese, instradato alla battaglia dal contesto difficile in cui era cresciuto a Brooklyn: basti pensare che prima di compiere 13 anni era già stato arrestato più di 30 volte. Ma c'è un episodio in particolare che segna un prima e un dopo nella vita di Iron Mike, trasformandolo da ragazzino che teme il confronto a rabbioso scazzottatore: l'uccisione del suo adorato piccione domestico.
Fu in quel frangente, racconta oggi Tyson al podcast The Pivot, che si scagliò con furia cieca su colui che si era reso responsabile dell'orribile atto: "Ero un bambino e c'era un ragazzo che mi prendeva in giro. Ero così spaventato e non sapevo cosa fare. Poi un altro ragazzo mi ha detto ‘è meglio che tu combatta contro di lui' e ho iniziato a litigare. Quel ragazzo ha ucciso il mio piccione ed è stato un colpo. Quello è stato il primo combattimento in assoluto nella mia vita, a causa di un piccione".
Tyson è noto per il suo amore per i piccioni. Il pugile, oggi 56enne, era solito tenere questi uccelli come animali domestici durante la sua adolescenza a New York. L'ex campione del mondo ha persino scaricato una delle sue ex fidanzate dopo che lei aveva ucciso e fatto bollire uno dei suoi piccioni.
Dalle risse per strada al riformatorio, lì è nata la carriera di Tyson: "Sono stato rinchiuso in un posto da bambino e ho incontrato un ragazzo che era un pugile – spiega Iron Mike – Mi ha presentato qualcuno che era un grande allenatore (Cus D'Amato, ndr) e volevo solo sempre di più. Volevo schiacciare il mondo sotto i miei piedi. Ho un grande buco profondo in me, ma dovevo avere tutto, tutto. Anche quando ero un ragazzino, non ero equilibrato. O era tutto o niente".
Michele Baldassi. Il campione d'Europa under 22 punta alle Olimpiadi. Michele Baldassi, il “Dragon” è il nuovo fenomeno della boxe napoletana: “Voglio l’Oro a Parigi 2024” . Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Marzo 2022.
Michele Baldassi è doppio, almeno due persone: si trasforma. Poco resta della persona riservata, basso profilo, per niente egocentrica e che si vergogna un pochino a volte di fare pugilato una volta che sale sul ring. Il nuovo fenomeno della boxe napoletana – e italiana pure –, talento della Boxe Vesuviana, tra le sedici corde diventa il “Dragon”, soprannome da Sayan, la stirpe di guerrieri superiori di Dragon Ball. A Porec, in Croazia, si è laureato campione d’Europa under 22 per i 57 chili, ma già pensa alle Olimpiadi: “Voglio l’Oro, non voglio partecipare, voglio l’Oro a Parigi 2024”.
Facciamo un esempio: primo incontro, ottavi di finale, primo round, un gancio sinistro d’incontro, preciso al mento e il tedesco Malik Shadalov ha piegato le gambe. 49 secondi di tempo, solo 49 secondi sono bastati al Sayan per trasformarsi. Il video, condiviso anche sugli account della Federazione Pugilistica Italiana (Fpi) è diventato virale nell’ambiente, ha circolato come nessun altro in quei giorni d’incontri. Spedizione memorabile per gli azzurri e le azzurre che dalla Croazia hanno portato quattro ori, due argenti e quattro bronzi. Il cammino (perfetto) di Baldassi, dopo Shadalov: il rumeno Tirzoman (5-0, già alle Olimpiadi di Tokyo dello scorso anno), il bulgaro Marinov (5-0), l’armeno Aslikyan (5-0) in finale.
È nato il 4 novembre del 2002, secondo di quattro figli, made in “Provolera” – la “Polveriera”, dall’antica Real Fabbrica d’Armi – dove si trova la stessa Boxe Vesuviana a Torre Annunziata e da dove viene anche Irma Testa, prima donna italiana agli Europei e prima medaglia italiana nel pugilato femminile a Tokyo. Quartiere difficile. “Degradato, c’è molta illegalità – dice – tanti ragazzi sono attratti dalla malavita. È un quartiere un po’ buio, nero”. La palestra è nata Oplontis nel 1960, fondata dall’iconico “U’maestr” Lucio Zurlo. “Ho cominciato a 12, 13 anni, ero grassottello. Papà, che al pugilato si è appassionato seguendomi, mi portò dal maestro Lucio. In quel periodo eravamo un po’ in difficoltà economiche e loro ci hanno aiutati, mi hanno fatto allenare anche senza il mensile, l’iscrizione, e mi hanno trattato come un figlio. Quel posto dà una possibilità a tutti i ragazzi, è come una seconda casa”.
Zurlo Senior, che con il figlio Biagio (ex campione italiano) porta avanti la palestra, un po’ se l’aspettava l’exploit dell’Europeo. Cinque minuti prima di ogni incontro interrompeva gli allenamenti per seguire il match, venti minuti dopo la telefonata con il Dragon. “È un ragazzo serio, che si impegna e migliora. E sì, è un talento. Ha sempre voglia di lavorare. E sì, penso possa seriamente puntare alle Olimpiadi. Siamo contentissimi anche perché è appena entrato nelle Fiamme Azzurre (gruppo sportivo della polizia penitenziaria, ndr), è anche questo il nostro obiettivo, tenere i ragazzi lontani dalla strada. Anche se le istituzioni qui non si vedono. Dopo la visibilità che abbiamo avuto con Irma e il bronzo non si è fatto più vedere nessuno”. Eppure dalla Boxe Vesuviana hanno partecipato a cinque Olimpiadi in tutto. E spesso e volentieri chi entra al Fight Club della Provolera non paga.
Altro talento cristallino della Vesuviana, 14 anni e due titoli italiani – e ancora senza cittadinanza perché nata in Marocco – è Caterina Khadija Jaafari, perfino attrice nel film Californie di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman. “In lei rivedo Irma. Michele invece mi ricorda un po’ mio figlio Biagio per la sua furbizia, la tecnica”, dice U’maestr. “Senza il pugilato non so che strada avrei preso. Non credo avrei fatto certe scelte, mi hanno educato con dei valori e sarei sempre andato a lavorare anche per soli 20 o 30 euro come muratore, barista, o qualsiasi cosa. Il pugilato però mi ha dato un’altra opportunità, so che questa è la strada giusta, è quello che voglio fare anche da grande, diventare allenatore”.
Baldassi un po’ si ispira a Vasiliy Lomachenko, ex campione del mondo ucraino, e un po’ a tutto il pugilato che vede e incontra. Pensa che i suoi punti di forza siano la tecnica, l’agilità sulle gambe, l’allungo del jab. È cresciuto insieme a Irma Testa. “È un esempio. È venuta anche agli Europei, quando eravamo più piccoli spesso era a casa mia, ci conoscevamo anche da prima della palestra. Mi ha consigliato sul pugilato ma anche su altre scelte”. Il “Dragon” – che ha vinto già diversi titoli italiani, un europeo junior, un oro youth tra le altre cose – non se la tira, dice di non pensare di essere chissà chi, anzi a volte si vergogna a dire che fa pugilato e che è campione, per niente egocentrico. Ascolta musica trap e rap, neomelodici solo con i compagni siciliani in nazionale. E quando sale sul ring pensa solo a divertirsi, non la vive con stress, ansia. “L’ho scelto io, mi piace, è la mia passione. Quando c’è da salire mi faccio una risata e salgo”. Guida gli allenamenti alla Vesuviana e intanto pensa a Parigi. “So che non è facile, ma ce la metterò tutta. Per andare alle Olimpiadi e per portare la medaglia più luccicante a Torre Annunziata”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Maurizio Stecca. Il campione è guarito dopo due settimane di ricovero. “Covid mi ha messo ko, il mio corpo è in tilt”, il racconto dell’ex pugile campione del mondo Maurizio Stecca. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Febbraio 2022.
Maurizio Stecca è stato messo al tappeto dal coronavirus. Il pugile lo ha raccontato in un’intervista a Il Corriere della Sera. Dopo la positività le sue condizioni si sono aggravate. Quattro giorni in rianimazione. “I medici mi hanno detto che non sarò più quello di prima. Ma io cercherò di riprendermi per continuare con la carriera da allenatore”, ha raccontato al quotidiano. Stecca, oro olimpico alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984 e due volte campione del mondo WBO dei pesi piuma, è tecnico federale e ambasciatore della Federazione pugilistica italiana.
Ha ricordato che quando aveva 33 anni, carriera finita, era stato otto mesi in casa per la depressione: non sapeva cosa fare. Si è ammalato anche di Epn (emoglobina parossistica notturna), una patologia rara curata per dieci anni con trasfusioni di sangue. Due volte è finito in coma. Il covid però è stata la prova peggiore, ha detto. Circa 15 giorni ricoverato, quattro in terapia intensiva. “Ho vinto il match della vita”, aveva detto dopo la guarigione.
Ha paragonato la sua lotta contro il contagio al match contro Louie Espinoza del 1989 a Rimini. Un incontro perso per ko che non gli avrebbe impedito un anno dopo di vincere il titolo mondiale. Vuole pensarla così: immaginare un recupero simile anche dopo la batosta del covid-19. Le prime settimane dopo il contagio non riusciva neanche ad alzarsi dal letto e a mettere in ordine i passi per camminare.
“Il virus mi ha scombinato i polmoni, il cuore, il sistema immunitario, addirittura la tiroide, tutto il corpo. Oggi ancora non sento i sapori e mi accorgo di non poter più salire le scale velocemente, come ero abituato a fare. Devo anche fare attenzione ai battiti: subito dopo il ricovero ne avevo 120 al minuto, mentre da sportivo professionista ero abituato ad essere bradicardico”, ha raccontato. A sostenerlo nella sua battaglia la sua famiglia, il fratello campione anche lui Loris Stecca, tanti pugili, la mentalità della boxe.
“È stata fondamentale. Lo sport che ho fatto mi ha insegnato lo spirito di sacrificio. Un giorno il taglio sopracciliare, l’altro un colpo al fegato, l’altro ancora allo zigomo, allenamenti su allenamenti, ti insegnano a non tirarti indietro. Ed è quello che voglio fare ora: non abbandonarmi. Ma è soprattutto merito del vaccino se sono qui. Probabilmente non mi sarei svegliato dalla rianimazione, se non fosse stato per le due dosi ricevute”.
A fine gennaio i fratelli Stecca hanno dovuto dire anche addio a Bruna, la madre di 81 anni morta all’Ospedale Infermi di Rimini. La donna era molto conosciuta a Rimini per via della pizzeria che con la famiglia aveva gestito per anni. “Mamma questa è l’ultima volta che ti ho visto con i nipoti e figli, è stata una bella cosa. E stamattina ci hai lasciati volando in cielo a raggiungere tuo marito. Spero solo che vi incontriate e proteggerete le nostre famiglie. Rip mamma mia”, aveva scritto Maurizio Stecca sui social. L’ex campione del mondo oggi vive a Casale sul Sile, in provincia di Treviso.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Agostino Cardamone. Donato Martucci per corriere.it il 27 gennaio 2022.
Un ritorno al passato per sopravvivere, per sbarcare il lunario. Agostino Cardamone, ex campione del mondo di pugilato, 57 anni, irpino, torna a fare il carpentiere per necessità. Venne soprannominato negli Anni 80, «il martello di Montoro» proprio perché sin da giovanissimo lavorava come muratore e si allenava per diventare un grande campione della “nobile arte”.
E anche per la sua capacità di picchiare duro sul ring che lo ha portato a diventare campione italiano, europeo e mondiale nella Wbu (ente non riconosciuto in Italia) nei pesi medi. Un record da professionista da invidiare: 36 incontri con 33 vittorie (15 prima del limite) e solo tre sconfitte.
Ora la pandemia da Covid ha messo in ginocchio la sua palestra di San Michele di Serino, dove lavora come istruttore. E quindi, non potendo tornare a combattere, ha impugnato di nuovo il suo martello. Questa volta per lavorare in un cantiere a Prata di Principato Ultra, sempre in provincia di Avellino. «In un modo – ha spiegato – devo pure mangiare. Nessuno mi è venuto incontro, nessuno mi ha aiutato e allora sono tornato a fare il muratore».
A 20 anni alternava il lavoro da muratore con la boxe. Ora ha deciso di ritornare a fare lavori pesanti. Come ha maturato questa decisione?
«Mi aspettavo qualcosa in cambio dal Comune di Montoro e invece sto ancora aspettando la mia palestra. Ho sette ragazzi agonisti - spiega l’ex pugile - che si allenano con me.
Tra spese varie, bolletta della luce e costi di gestione non ce la faccio ad andare avanti. I miei allievi non li abbandono, ma devo pur continuare a vivere: ho tre figli e non posso andare avanti in questo modo. San Michele di Serino è un centro agricolo ma c’è poca affluenza ed ecco perché ho deciso di tornare a lavorare».
Il suo è un grido di allarme, si aspettava maggiore attenzione?
«Ci sono degli amici che mi hanno dato una mano e devo ringraziarli. Ho trovato una famiglia che mi ha accolto qui a Prata di Principato Ultra. Sono stato campione italiano, ho perso il mondiale Wbc contro Jackson che proprio uno sconosciuto non era, miglior pugile nel 1998, collare d’oro e poi ho anche vinto il mondiale Wbu. Ma a cosa servono questi riconoscimenti se non riesco a trovare un lavoro che mi dia dignità? Da professionista vivevo con i guadagni della boxe. Sono riuscito a comprare un terreno a Montoro e a costruirmi casa, ma poi chiaramente non ce la faccio ad andare avanti: ho bisogno di guadagnare».
La boxe le ha lasciato anche degli acciacchi fisici. Come fa alla sua età a sostenere questi sforzi?
«E proprio per questo non riesco a lavorare tutti i giorni come carpentiere. Ho diverse fratture, grossi problemi alla schiena: per anni mi sono caricato sulle spalle 50 chili con i sacchi di cemento. Solo alla mano sinistra (quella con cui martellava gli avversari, ndr) ho sette fratture. Con l’età i dolori aumentano ed ecco perché faccio un enorme fatica».
Il sogno è quello di allenare in Nazionale. Magari al centro tecnico dell’Esercito di Avellino...
«Con la mia esperienza penso di poter dare una mano ai giovani. Come tecnico federale ho lavorato per 15 giorni, ho visto grande tecnica e grinta più nelle donne che negli uomini. Con questo nuovo corso della Federazione stanno cambiando tante cose e speriamo che si inverta un po’ la tendenza e che i pugili possano qualificarsi alle prossime Olimpiadi. Credo che i miei insegnamenti possano essere ancora validi. Lavorare in Federazione mi piacerebbe».
Cardamone, ha saputo più nulla della sua domanda per il vitalizio “Giulio Onesti”, previsto per gli atleti che versino in grave disagio economico e che abbiano conquistato nella carriera sportiva almeno un europeo?
«Resto in attesa di avere notizie, ma di certo non posso aspettare. Questo non è sicuramente un buon periodo per me. Ho perso nel giro di pochi mesi mia madre e anche il mio storico maestro Giovanni Santoro: devo tanto a lui per la mia carriera. Tengo a precisare che non chiedo l’elemosina a nessuno, ma sono restato nel mio paese perché amo le mie radici. Non voglio il reddito di Cittadinanza: preferisco andare a lavorare quando posso e quando le mie condizioni fisiche me lo consentono. C’è grande amarezza: speravo di aver dato tanto per la mia terra, ma al momento in cambio non ho ricevuto nulla».
Muhammad Ali. "Rumble in the jungle". “The Fight” di Norman Mailer resta insuperabile nella letteratura sportiva: il capolavoro di Muhammad Ali contro Foreman. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Ottobre 2022
Norman Mailer spiega come sprecare la sua prima esclusiva, il suo scoop: neanche capisce bene come ma si ritrova nello spogliatoio di Muhammad Ali allo Stade Tata Raphael a Kinshasa intorno all’alba del 30 ottobre del 1974. E lui che più che fare domande, vuole rendere omaggio al campione del mondo dei pesi massimi, campione per la seconda volta, che ha appena mandato al tappeto George Foreman all’ottavo round della “Rumble in the Jungle”. È il combattimento che travalica i confini della boxe, come Italia-Germania ai Mondiali di calcio del 1970, o come Borg-McEnroe a Wimbledon del 1980. Il vero incontro del secolo impresso per sempre da Mailer nel suo The Fight che in Italia torna nella nuova edizione (traduzione di Alfredo Colitto, pagg. 256, euro 19) de La Nave di Teseo.
Che fosse anche difficile da trovare, dopo le due edizioni Mondadori ed Einaudi, in tempi di ipertrofico storytelling sportivo era un assurdo. Che cosa se ne può fare di tutte queste pagine, questi narratori da social, improvvisati aspiranti Federico Buffa, a confronto con il racconto dello scrittore statunitense di cui La Nave ha pubblicato negli ultimi anni anche Il nudo e il morto e Il canto del boia. Scrittore che nel suo romanzo, reportage, cronaca, psicoanalisi, aneddotica, new journalism, no fiction non cerca lo scoop ma insegue i dettagli, sguardi e gesti, scava, si allena con Ali, incrocia altri narratori e giornalisti nelle febbrili e afose notti africane. E che non si risparmia, nessuna concessione al politically correct – e infatti a un passo dal centenario la sua opera è sotto le lenti della cancel culture, soprattutto per il saggio del 1957 The White Negro.
Norman Mailer si rende personaggio: si riferisce a se stesso in terza persona. È lo scrittore che per il suo prossimo romanzo ha ricevuto un milione di dollari, senza rischiare nulla a differenza dei due pugili che invece si pesteranno per cinque milioni. È la metafora la regina del racconto, il grottesco che affiora qua e là, complice anche l’Africa che sembra far esplodere la follia in ognuno e tutto intorno. L’incontro del secolo è “un combattimento tra due neri in una nazione nera, organizzato da neri e visto da tutto il mondo” come recita la cartellonistica fatta affiggere a Kinshasa. Una vittoria del “mobutismo” che era riuscito a coniugare “aspetti oppressivi del comunismo con quelli peggiori del capitalismo”. Mobutu Sese Seko è il dittatore che avrebbe regnato fino al 1997 dopo due colpi di stato: del corpo del presidente e icona dell’indipendentismo africano Patrice Lumumba erano rimasti solo pezzettini. “L’Africa ha la forma di una pistola, dicono qui, e lo Zaire è il grilletto”, dice un fonte sul posto allo scrittore.
Lo stadio, per esempio, era stato costruito come un regalo alla popolazione, con il lavoro e le tasse del popolo. E in quegli stessi spogliatoi di Ali e Foreman si erano consumate esecuzioni. Niente di male per Don King, manager dalla vita come un romanzo. 60mila persone a vedere l’incontro in piena notte per favorire il fuso orario, centinaia di Paesi collegati in tutto il mondo. Attorno ad Ali aleggiava il tanfo della sconfitta che lui faceva brillare con un contatto costante con la stampa, poesie, il trashtalking che aveva rivoluzionato lo sport. Assurdo: era l’underdog, il più grande sportivo di tutti i tempi sfavorito. Perché dall’altra parte c’era George Foreman, campione in carica, “più che un uomo sembrava un leone in posizione eretta”, e che invece lasciava lievitare nel silenzio l’istinto omicida che sul ring lo rendeva un boia: aveva giustiziato Joe Frazier e preso la cintura. Un demolitore orgoglioso della bandiera a stelle e strisce. Era una guerra di religione all’interno della boxe. 97 e 99 chili.
Il racconto fermenta nell’attesa del match: è essa stessa il match. Ancora ineguagliato il racconto dell’incontro, che trascende dalla cronaca sportiva, entra ed esce dal quadrato come si entra ed esce dai colpi, schiva e sventaglia tra il racconto della boxe, l’evoluzione dei protagonisti da un round all’altro, il Muntu e il Kuntu, l’antropologia africana, la società dello spettacolo nel ventesimo secolo. Ali ribalta ogni pronostico rovesciando la sua boxe, fa passare il “controllo del centro” – il parallelo è con gli scacchi – dalle corde: con il rope a dope fa assorbire le mazzate di Foreman, dissipa quella violenza, trasmette alle sedici la carica di quella brutalità. Il quinto round entra nella storia come uno dei più belli di sempre. Il ko all’ottavo arriva come un “proiettile”, una vertigine lunga due secondi, lunghissima, con Ali a scortare al tappeto lo sguardo spento di Foreman.
Ali è di nuovo campione dopo che il suo rifiuto di arruolarsi per il Vietnam – “nessun vietcong mi ha mai chiamato negro” – gli costa licenza e cintura. Mailer in un certo senso gli somiglia. Ali è il “principe del Paradiso” che “proprio come Marlon Brando interpretava un ruolo come se fosse un prolungamento naturale del proprio stato d’animo, così Ali trattava la boxe”, un uomo che combatteva per dimostrare anche altre cose: che per rendere immortale quella vittoria non poteva non chiuderla in maniera leggendaria. “Mio dio! Tutto! Voleva davvero tutto”. E lo scrittore fa passare dall’evento, da due giganti della noble art, la sua riflessione sul suo rapporto con la lotta per i diritti della comunità afroamericana, do quella musulmana. Èinvidioso verso questo nuovo popolo, risentito per ogni aspetto della loro vita. “La sua luna di miele con l’anima dei neri, un’orgia sentimentale nei momenti peggiori, aveva ricevuto una mazzata durante la stagione del Black Power”.
Lo scrittore ci pensa nel volo di 19 ore assediato nello scalo a Dakar, in Senegal, da migliaia di persone che vogliono vedere, toccare Ali che però non è a bordo. Mailer gioca a dadi, beve, improvvisa stratagemmi con una hostess. E nel lungo viaggio scava nel doppio sradicamento degli afroamericani: dalle radici africane e dalla società degli Stati Uniti. La boxe al massimo del suo splendore nei pesi massimi degli anni ’70 è uno spettacolo impareggiabile e un mezzo per attraversare tutto il resto. The Fight resta un capolavoro ancora insuperato: un po’ come il capolavoro di Muhammad Ali nella notte di Kinshasa.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Estratto del libro di Thomas Hauser “Muhammad Ali. Impossibile è niente” pubblicato da “la Repubblica” il 17 gennaio 2022.
Nel 1997 Muhammad Ali mi disse che contava di vivere fino a novant' anni. Eravamo in pullman, diretti a una scuola elementare di Boston, dove sarebbe intervenuto a un seminario sulla tolleranza destinato ai piccoli allievi. A quel tempo il morbo di Parkinson era già evidente nel suo modo di parlare, ma il fisico era ancora forte e la sua mente del tutto lucida. Strada facendo, si abbandonò ai ricordi delle persone importanti della sua vita scomparse prima di lui. Suo padre, Elijah Muhammad, Sonny Liston e pochi altri.
«Sì, non mi dispiacerebbe arrivare a novant'anni» disse. «Credo proprio di potercela fare. Ma se a ottantanove mi sentirò ancora in forma, potrei cambiare idea e chiedere a Dio di lasciarmi un altro po' di tempo». Purtroppo, invece, non si sarebbe sentito in forma ancora a lungo, non fisicamente almeno.
Il suo declino è avvenuto sotto gli occhi del mondo. I sintomi di cui iniziò a soffrire nel 1984 - difficoltà di parola e di equilibrio, volto inespressivo (la cosiddetta "maschera") e tremito delle mani - e per i quali si era fatto ricoverare quell' anno per accertamenti, componevano il quadro di una sindrome parkinsoniana. Il dottor Stanley Fahn, direttore del Center for Parkinson' s Disease and Other Movement Disorders della Columbia University, era il medico principale dell' équipe che al New York-Presbyterian Hospital si occupò delle analisi di Ali.
Grazie alla liberatoria firmata dal campione per facilitare le ricerche del mio libro, Impossibile è niente, Fahn mi parlò apertamente delle sue condizioni di salute. A quel tempo la diagnosi non era di morbo di Parkinson. Secondo il dottor Fahn, i suoi sintomi erano la conseguenza dei traumi fisici che avevano distrutto le cellule del tronco cerebrale.
«Il mio paziente mi ha autorizzato a parlarle con totale sincerità e trasparenza» mi disse il medico. «Ecco cosa ne penso. Secondo me si tratta di parkinsonismo post-traumatico, dovuto alle lesioni procurate sul ring. Dubito che possa essere la conseguenza di un unico incontro. La mia ipotesi è che la causa siano stati i ripetuti colpi alla testa nel corso della carriera».
Nei tre decenni successivi il mondo ha assistito a uno spettacolo senza precedenti per durata e trasparenza: il lungo e desolante declino fisico di una delle icone più amate di sempre. Poco alla volta, Ali ha perso tutte le qualità che lo contraddistinguevano: l' agilità, la voce, la bellezza. Un tempo l'espressione del suo viso sprizzava felicità. Negli ultimi anni ci sono stati momenti in cui sembrava portare incise sul volto tutte le sofferenze e le brutture del mondo. Le sue immagini non suscitavano più gioia e trepidazione: erano il preludio della fine. Tutti temevamo il peggio da un momento all' altro.
Nella sua versione più forte, vitale e ribelle, Ali incarnava appieno il fulgore della gioventù.
Si poteva sostenere che fosse la persona più attraente, carismatica, fisicamente dotata della Terra. E vedere ridotto in sedia a rotelle l'uomo che un tempo aveva volato come una farfalla e punto come un'ape era straziante.
La vita offre molte cose meravigliose di cui godere: le rose e le albe, la musica di Mozart e la Cappella Sistina, la felicità e l'amore. Ma tanta bellezza è sempre accompagnata dalla consapevolezza della nostra mortalità. E se abbiamo la fortuna di vivere abbastanza, tutti noi siamo condannati al declino fisico e mentale. Tuttavia, alcuni sono più tristi di altri. Certi tramonti sono dorati, altri meno. Gli anni migliori di Ali furono davvero eccezionali. Gli ultimi, invece, non sono certo stati clementi. E la sua agonia, svoltasi in modo così pubblico, è durata tre interi decenni.
Possiamo dire a noi stessi che la cosa non ci riguarda, che è accaduta a qualcun altro, che noi non abbiamo preso tutti i colpi in testa che ha preso lui. Ma per chi ha assistito ai suoi anni di gloria, seguire la parabola discendente di un' esistenza tanto straordinaria ha rappresentato un innegabile e doloroso memento mori.
È il lato oscuro della vita umana. Venticinque anni fa Ali mi disse: «Non voglio che la gente provi pietà per me. Ho avuto una bella vita, in passato, e continuo ad averla anche adesso. Sarebbe molto peggio se soffrissi di una malattia contagiosa, perché in quel caso non potrei giocare con i bambini e abbracciare le persone, mentre il fatto che non riesca a parlare è più un problema per gli altri che per me. Non mi impedisce di fare ciò che voglio e di essere chi sono».
In quell'occasione, Lonnie Ali aggiunse: «Il declino fisico è terribile per chiunque, ma per chi vive sotto i riflettori e si ritrova privato del talento che definiva la sua identità è ancora più spaventoso. È quello che è successo a Muhammad, e per la prima volta in vita sua ha avuto paura.
Ha smesso di esprimersi con la libertà di un tempo, per il timore che, appena avesse aperto bocca, la gente avrebbe pensato: "Guarda, non riesce neanche più a parlare". Qualche benintenzionato ha sostenuto che non era malato, solo annoiato o stanco, o magari un po' depresso. Cercavano di proteggerlo, ma la verità è che Muhammad ha davvero un problema fisico e non c'è niente di cui vergognarsi a essere malati, qualunque sia la tua malattia. Muhammad la affronta ogni giorno a viso aperto, e anche gli altri dovrebbero seguire il suo esempio».
In seguito le sue condizioni fisiche sono peggiorate vistosamente. I sintomi si sono aggravati. Negli ultimi anni non riusciva davvero più a parlare. Gli era sempre più difficile comunicare, e non soltanto con il pubblico, ma anche con le persone più care. Era doloroso per chi lo amava, e anche per lui. Eppure avevi la netta impressione che fosse in pace con se stesso.
All' inizio del 2015 Rasheda Ali (una delle sue figlie) mi disse: «La prima volta che gli hanno comunicato la diagnosi, mio padre ne è uscito distrutto. Chiunque avrebbe reagito allo stesso modo. Ora però non se ne preoccupa più di tanto. Lui pensa all' aldilà. E il suo modo di vedere la malattia ha cambiato anche il nostro. I giorni buoni, quelli in cui riesce a comunicare, sono sempre più rari, ma a volte succede. Dipende dalla giornata e dall' orario. È la malattia a decidere».
La fede gli è stata di grandissimo aiuto. Lo consolava il pensiero che quegli ultimi anni fossero soltanto una transizione, prima di accedere al paradiso.
«Ho accettato la malattia perché è il volere di Dio» mi confidò. «So che Dio non assegna a nessuno un carico superiore alle sue forze. E ciò che sto passando adesso sarà un tempo brevissimo rispetto all' eternità».
Lo sguardo del mondo Ciò che il mondo ha visto negli ultimi anni influirà sulla visione di Ali delle prossime generazioni? Lui non voleva essere ricordato così. Quale sarà la sua immagine futura? Ali ha un significato speciale per quanti di noi hanno vissuto negli anni Sessanta. «Non hai idea di cosa rappresenti per noi» è un ritornello che si è sentito ripetere spesso. È stato una parte essenziale della vita di tante persone. I giovani di oggi non hanno conosciuto in prima persona Ali nel pieno del suo fulgore.
Chi ha meno di trent' anni potrà rispettarlo, ma non lo ama quanto le generazioni passate, perché non ha vissuto nella sua epoca. Le immagini recenti di un Ali fisicamente debilitato si sono impresse a fuoco nella coscienza collettiva. È così che le ultime due generazioni lo hanno visto in presa diretta. Ai loro occhi, il resto appartiene al passato e alla memoria dei vecchi.
Ci vorrà del tempo prima che queste immagini sbiadiscano per lasciare di nuovo posto a quelle di Ali giovane. Ma queste ultime sono alla portata di chiunque. E in futuro lo sguardo del mondo tornerà a concentrarsi sull' atleta inarrestabile, l' uomo vitale ed elettrizzante di un tempo, restituendogli il giusto posto nella storia. Le generazioni a venire lo vedranno con più chiarezza di quelle presenti.
Per anni mi sono chiesto quale sarebbe stato il lascito di Ali, a parte la sua eccellenza sul ring, e ogni volta sono tornato al ricordo del suo esempio di orgoglio nero e al suo rifiuto di combattere in Vietnam. "È stato un faro di speranza per gli oppressi in ogni parte del mondo" dicevo a me stesso. Ha rivoluzionato l' esperienza dell' identità nera per decine di milioni di persone. Quando, davanti allo specchio, diceva: "Sono il più bello", stava anticipando il concetto "nero è bello" ben prima che diventasse di moda. E quando ha stracciato la cartolina di leva, si è opposto agli eserciti di tutto il mondo, in difesa del principio pacifista. Negli ultimi anni, però, mi sono convinto che l' eredità di Ali comprenda anche un altro elemento ugualmente essenziale.
Ha incarnato l' amore. Ad Ali non servono elogi funebri. Il modo in cui ha vissuto la sua vita è già un tributo sufficiente. Sul ring ha rappresentato al massimo il romanticismo della boxe e al contempo la sua atrocità. Come pugile aveva una qualità quasi spirituale, che gli ha consentito di superare i limiti fisici della maggior parte degli altri atleti. Evocava le suggestive parole di Lord Byron: "Dentro di me c' è qualcosa in grado di sconfiggere ogni tortura e di travalicare il tempo, e che continuerà a vivere quando io avrò esalato l' ultimo respiro".
La storia ricorderà gli altri pugili per le loro imprese sul ring. Ali ha lasciato un ricordo indelebile anche per quelle compiute fuori. Ha elevato il suo sport tramutandolo in una metafora della vita americana. Nel corso degli anni, il mondo intero è diventato il suo palcoscenico. Mark Twain ha scritto: "È strano come il coraggio fisico sia tanto comune e quello morale tanto raro". Ali li possedeva entrambi.
Forse non ha cambiato il mondo quanto avrebbe voluto, ma la sua presenza lo ha reso comunque migliore. Ha trasmesso gioia a tutti coloro che l' hanno conosciuto, e dato calore alle nostre esistenze. Non ha mai perso l'occasione di aiutare qualcuno. Amava la vita e io non ho mai incontrato nessuno pieno d' amore quanto lui. Non aveva bisogno di conoscerti di persona per toccarti il cuore. Una delle cose che ci spaventano di più della morte è il pensiero di essere dimenticati. Sono ben pochi gli uomini e le donne assurti a un rango paragonabile a quello di Ali, e lui sarà ricordato in eterno. È diventato immortale già in vita.
Conoscere bene una persona è sempre un' opportunità. Nel caso di Muhammad Ali, è stato un privilegio speciale. Ho trascorso innumerevoli ore in sua compagnia e viaggiato con lui in tutto il mondo. Ci sono stati moltissimi momenti belli e nemmeno uno brutto, ma un episodio in particolare mi è rimasto impresso. Eravamo in aereo, di ritorno negli Stati Uniti dall' Indonesia, dove Muhammad era stato sommerso da folle di ammiratori.
Migliaia di persone venute da villaggi remoti per accoglierlo all' atterraggio. Bambini che non erano ancora nati quando combatteva, in piedi sotto la pioggia a urlare il suo nome. Secondo le stime delle autorità, alla moschea di Istiqlal, a Giacarta, si erano raccolte duecentomila persone. Sopraffatta ogni parvenza di cordone di sicurezza, avevano circondato la macchina, cantando: «Ali! Ali!».
L'auto procedeva a passo di lumaca, mentre Muhammad implorava l' autista: «Rallenti, per favore, non faccia del male a nessuno». Insomma, la visita era durata dieci giorni e ormai stavamo tornando a casa. Il volo, attraverso dodici fusi orari, sembrava interminabile.
Muhammad e Lonnie sedevano l' uno accanto all' altra, io e Howard Bingham sul lato opposto del corridoio. Dopo un po' mi assopii. Al risveglio, ore più tardi, l' oscurità fuori dal finestrino era assoluta. In cabina le luci erano spente, e i passeggeri dormivano. Tutti, tranne Muhammad. Lui vegliava con il faretto acceso; leggeva il Corano. E in quel momento, nell' alone di luce, mi è parso più forte e più in pace con se stesso di qualsiasi altra persona abbia mai conosciuto.
Bruno Arcari, la malattia e il vitalizio che non arriva: l’appello dell’Imbattibile che ha fatto la storia della boxe italiana. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 2 gennaio 2022. A 80 anni, è una leggenda del pugilato italiano, dominatore nel mondo per 4 anni dal 1970 al 1974. Ora soffre di una malattia degenerativa e attraverso la figlia Monica chiede l’applicazione delle Legge Onesti per gli ex campioni in difficoltà economiche.
L’appello
Ha reso onore alla boxe italiana insieme a Duilio Loi e Nino Benvenuti, ha dominato la boxe mondiale fra il 1970 e il 1974 ed è considerato uno dei più grandi, se non, per molti, il più grande pugile italiano di sempre. Oggi però Bruno Arcari, che ha compiuto 80 anni l’1 gennaio, soffre per una malattia degenerativa e chiede attraverso la figlia Monica il vitalizio attribuito dalla Legge Onesti, quello riservato agli ex campioni che si trovano in difficoltà economiche. Una misura assistenziale che meriterebbe a pieno titolo e che tuttavia non è ancora riuscito a ottene. Delle due condizioni di salute è al corrente il sottosegretario allo sport Valentina Vezzali, che dovrà occuparsi del vitalizio per meriti sportivi, e l’appello di recente è arrivato anche dall’ex presidente federale Franco Falcinelli: «Per uno come lui è un riconoscimento sacrosanto per tutto quello che ha dato alla boxe nel corso della sua vita».
Un ciociaro a Genova
Nato nel 1942 ad Atina, in provincia di Frosinone, la famiglia si trasferisce in Liguria a causa della guerra. Proprio a Genova, per il suo temperamento troppo acceso sui campi da calcio, ad Arcari verrà consigliato il pugilato, con il quale riuscirà ad affermarsi ventenne come campione italiano dei dilettanti superleggeri, dopo aver inseguito il mito di Loi ed essere stato addestrato dai maestri Speranza e Causa della Mameli Pejo, una vera e propria istituzione nel capoluogo ligure. Una delle più brillanti promesse durante il torneo preolimpico, alle Olimpiadi di Tokyo viene però sconfitto dal keniano Alex Oundo, che lo aveva colpito con una testata, impedendogli di continuare.
La rivalità con Franco Colella
Arcari passa al professionismo, ma subisce le stesse conseguenze da un avversario ostico come Franco Colella, che dopo averlo battuto, riconoscendone il valore, non gli concederà mai la rivincita. «Non mi ricapiterà mai più un successo del genere, fossi costretto ad affrontarlo di nuovo». Previsione azzeccata, perché dalla sconfitta contro Massimo Consolati nel 12esimo match, il campione ciociaro non perderà più in 61 incontri. Un’ascesa inarrestabile in campo continentale e internazionale che lo porterà al titolo mondiale il 31 gennaio 1970.
La sfida con Adigue
L’avversario di quell’indimenticabile incontro fu il pugile filippino Pedro Adigue, di un solo anno più giovane, detto il Ruvido per il suo stile di combattimento ostico e non sempre elegante. Adigue è forte e minaccia rischia di far perdere Arcari per k.o. già al terzo round. Il campione italiano tuttavia resiste e si impone ai punti grazie a tre ultime riprese leggendarie che tutti gli appassionati della disciplina ricorderanno per sempre.
L’Italia si ferma per lui
Il titolo mondiale sarà difeso da Bruno Arcari per nove volte, la seconda nel 1972, nel pieno della carriera e della fama, contro il brasiliano Joao Henrique da Silva. Un incontro memorabile anche per il suo seguito mediatico, quando la boxe era ancora uno degli sport più popolari. Lo share televisivo sulla Rai raggiunse l’87%, addirittura più della leggendaria Italia-Germania 4-3, semifinale dei Mondiali di Messico 1970, due anni prima.
Lhandicap delle arcate sopraccigliari
Arcari perderà il titolo solo nel 1974, quando gli risulterà difficile rimanere nella categoria superleggeri. L’ultimo acuto al Palazzo dello Sport di Milano contro la stella emergente Rocky Mattioli. Nel 1978 il tanto meditato addio, quando già aveva dato tutto alla disciplina. Gran parte della sua carriera fu comunque condizionata dalla debolezza alle arcate sopraccigliari, per le quali il campionissimo dovette ricorrere molte volte alla chirurgia estetica, dopo essersele rotte più volte in combattimento. Un problema quasi cronico, peggiorato nel corso degli anni e problema al quale si imbatteva sempre più facilmente, incontro dopo incontro.
Antidivo che piaceva
Basso profilo e grande umiltà, erano queste le qualità che più piacevano al pubblico di Bruno Arcari. Un campione genuino che ha sempre inseguito la sua passione, allenandosi e impegnandosi ogni giorno per battere avversari spesso durissimi. «Un guerriero silenzioso del ring», come è stato più volte ribattezzato, che ha illuminato la scena sportiva nel corso di un intero decennio e al quale è stata dedicata anche una targa sulla strada nella Walk of Fame a Roma.
Mateschitz morto, il fondatore della Red Bull aveva 78 anni. Daniele Sparisci su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022.
Era il re delle bevande energetiche, ha fondato un impero da oltre 23mila dipendenti. Aveva scovato la bevanda con cui ha fatto fortuna in Thailandia, in un bar di Bangkok.
È morto Dietrich Mateschitz, il patron della Red Bull. La notizia è arrivata nel fine settimana del Gp degli Usa ad Austin, la Formula 1 è in lutto. Lo piange Christian Horner, il team principal dell scuderia campione del mondo davanti a tutti gli uomini blu. «Era sempre entusiasta ed era il motivo per cui siamo qui. Dietrich ha dimostrato che nulla è impossibile. Era incredibile. Gli renderemo onore come merita». Lo piangono tutti in Formula 1 e non solo.
Mateschitz, un uomo che ha lasciato il segno in qualunque impresa si sia avventurato, capace di cambiare lo sport con investimenti senza precedenti e forme totalmente nuove di sponsorizzazione: dalla Formula 1, al calcio, allo sci, alla MotoGp, allo sci, alle discipline estreme, ai tuffi. Aveva 78 anni, da tempo era malato e le sue condizioni nelle ultime settimane si erano aggravate.
Era il re delle bevande energetiche, ha fondato un impero da oltre 23 mila dipendenti vendendo più di 10 miliardi di lattine nel mondo soltanto l’anno scorso, la prima è stata commercializzata, il 1° aprile del 1987 in Austria, nella sua terra a cui era legatissimo. Veniva da un minuscolo comune della Stiria, Sankt Marein im Mürztal, vicino a dove sorge il circuito di F1 dello Spielberg, che lui ha acquistato per trasformarlo in un gioiello architettonico. In pochissimi avevano il privilegio di chiamarlo con il soprannome, «Didi», fra questi Helmut Marko, amico e braccio destro nelle corse.
Sembrava una barzelletta debuttare il primo aprile per sfidare i giganti del «beverage» con quell’energy drink a base di taurina, dallo strano sapore, che per molti anni è stato molto più famoso nei rave party che nei supermercati. Mateschitz lo aveva scovato in Thailandia, in un bar di Bangkok, nei primi anni ottanta. Si chiamava Krating Daeng, aveva scoperto che era efficace per combattere il jet lag. O almeno questo è uno dei due-tre racconti che ha lasciato circolare su com’è nata la sua fortuna, un patrimonio da oltre 20 miliardi di dollari.
I camionisti la usavano contro la stanchezza, i tassisti e i guidatori di tuk-tuk pure, ma aveva un gusto improponibile per gli standard europei. Mateschitz si mette in società con l’inventore, il thailandese Chaleo Yoovidhya (scomparso dieci anni fa, ma i suoi eredi hanno ancora il 51% delle quote della Red Bull) e lancia l’energy drink. Con un’attenzione maniacale per il packaging, per il logo e per l’immagine. Per il marketing.
Mantiene il simbolo dei due tori (in realtà sono bufali thai), un messaggio potente, ritocca la ricetta aggiungendoci CO2 ma lasciando la taurina che dà la sveglia. Mateschitz mette in pratica quello che ha imparato in Procter & Gamble dove si era occupato di dentifrici dopo una laurea presa — con molta calma — a Vienna. Lascia l’incarico per mettersi in proprio, sembra un’avventura folle destinata a fallire presto. Respinto dalle birrerie, dai bar, dai ristoranti. Il mondo delle discoteche gli lascia però uno spiraglio aperto intuendo le potenzialità del «Toro Rosso», nascono i primi drink «taurini». E inizia il successo.
Il resto è cronaca accompagnata da pochissime parole — interviste con il contagocce —, quelle rare volte che veniva ai Gran Premi si presentava con camicie a quadrettoni, jeans e giacche di pelle evitando le telecamere. Sorrisi e pacche sulle spalle con Gerhard Berger, il primo pilota in assoluto che ha sponsorizzato nella preistoria della Red Bull. Ha acquistato un team decotto (la Jaguar Racing) facendolo diventare uno dei più vincenti di sempre, da Gian Carlo Minardi poi ha rilevato la scuderia di Faenza per farne una «palestra per i futuri campioni», la Toro Rosso oggi AlphaTauri (da lì sono usciti Sebastian Vettel e Max Verstappen). La Formula 1 dà alla Red Bull la consacrazione definitiva a livello di immagine e di posizionamento di mercato. I quattro titoli (2010-2014) di fila sono la parte più bella dell’album dei ricordi, le feste con Seb.
Mateschitz era un perfezionista e al tempo stesso un eccentrico. Ossessionato dalla cura dei dettagli, dai materiali, quando realizza il circuito di Formula 1 (ribattezzato Red Bull Ring) per scusarsi dei disagi creati dai lavori paga di tasca sua i cittadini di Spielberg — e dei comuni limitrofi — per abbellire case e giardini. Un patrimonio stimato in 25 miliardi di dollari. Regala biciclette elettriche e monopattini, lui che si è regalato un’isola personale alle Fiji e un sottomarino iper-tecnologico per esplorare le profondità dell’Oceano. Vuole restituire alla sua terra, la Stiria snobbata dal turismo eppure bellissima, perché schiacciata fra Salisburgo e la Carinzia. Compra castelli e li rimette a nuovo, chiama le migliori ditte da Vienna per spiegare ai suoi compaesani come vanno eseguiti i lavori, arriva a seguirli personalmente fra lo sguardo incredulo degli operai che lo vedono arrivare di primo mattina, senza guardie del corpo. Si regala un maestoso «Schloss» dove trascorre il tempo che non passa nella capitale austriaca o all’estero.
Amava il design e l’adrenalina, possedeva una collezione di aerei storici — perfettamente funzionanti — in mostra nell’Hangar 7 di Salisburgo. Si divertiva un mondo a volare sul DC6-B appartenuto al Maresciallo Tito mentre l’equipaggio — rigorosamente in divisa d’epoca — lo accoglieva come un re. Ali spiegate, sempre. Buon viaggio Mister Red Bull.
Dal “Corriere della Sera” il 23 ottobre 2022.
Gli uomini blu si stringono in cerchio ad Austin. La notizia piomba mezz' ora prima dell'inizio delle qualifiche di F1 negli Usa dove Carlos Sainz porta la Ferrari in pole davanti a Verstappen. È morto Dietrich Mateschitz, Mister Red Bull. L'uomo capace di creare un impero da una lattina energetica. «Era incredibile - lo piange Christian Horner-, rendeva possibile l'impossibile». Aveva 78 anni, da tempo era malato. Ha lasciato il segno in qualsiasi impresa. Ha cambiato l'industria delle bevande e dello sport con investimenti senza precedenti e forme di sponsorizzazione completamente nuove. Dalla F1, al calcio, allo sci, alla MotoGp, alle discipline estreme, ai tuffi.
Figlio di insegnanti, ha fondato un impero da oltre 23 mila dipendenti vendendo più di 10 miliardi di lattine nel mondo soltanto l'anno scorso. La prima è stata commercializzata il 1° aprile del 1987 in Austria, nella sua terra a cui era legatissimo. Veniva da un minuscolo comune della Stiria, Sankt Marein im Mürztal, vicino a dove sorge il circuito di F1 dello Spielberg, che lui ha acquistato per trasformarlo in un gioiello architettonico.
In pochissimi avevano il privilegio di chiamarlo con il soprannome, «Didi», fra questi Helmut Marko, amico e braccio destro nelle corse. Sembrava una sfida persa lanciare una bevanda a base di taurina dallo strano sapore, per molti anni è stata molto più nota in discoteche e rave party che nei supermercati. Mateschitz l'aveva scovata in Thailandia, in un bar di Bangkok scoprendo che era efficace per combattere il jet lag.
O almeno questo è uno dei due-tre racconti che circolano su com' è nata la sua fortuna, un patrimonio da oltre 25 miliardi di dollari. Si mette in società con l'inventore, il thailandese Chaleo Yoovidhya (scomparso dieci anni fa) e lancia l'energy drink. Con un'attenzione maniacale per il packaging, per il logo e per l'immagine, quella di due tori (in realtà bufali thai). Per il marketing. Aveva iniziato la carriera occupandosi di dentifrici dopo una laurea presa senza fretta.
Propone la Red Bull a bar e ristoranti ma viene respinto, il mondo dei locali notturni però intuisce le potenzialità della bevanda e lì inizia il successo. Stregato dal fascino delle corse nel 2004 rileva la scuderia dalla Jaguar e la rinomina in Red Bull. Due anni dopo si compra anche la Minardi (ora AlphaTauri) per farne una palestra di futuri campioni. Lì hanno cominciato Vettel e Verstappen. I numeri: 89 vittorie in F1, 79 pole, sei titoli piloti e quattro costruttori. Parlava pochissimo, ai Gp arrivava in jeans e camicie a quadrettoni.
Aveva il brevetto e amava volare, nell'hangar 7 di Salisburgo teneva una flotta di aerei d'epoca, fra i quali il DC6-B appartenuto al Maresciallo Tito. Possedeva un'isola alle Fiji, un sottomarino. Lascia un impero, una squadra vincente in F1, scossa dalla bufera sui budget. Mancherà a tutti. «Era un visionario e un imprenditore incredibile, ha trasformato il nostro sport» lo ricorda Stefano Domenicali.
LA FABBRICA DEI CAMPIONI, COSÌ MATESCHITZ SCOVAVA I TALENTI. D. Spa. per il “Corriere della Sera” il 24 Ottobre 2022.
Evitava le telecamere ma decideva tutto o quasi all'interno delle sue aziende. Fino a quando la salute glielo ha consentito. Invisibile ma potentissimo Dietrich Mateschitz, gli hanno dato del pazzo quando decise di mettere i soldi in una Formula 1 in calo di interesse dopo la fine del regno di Michael Schumacher. A metà degli anni duemila. «Sono proprio i momenti di riflusso quelli in cui è bene investire di più. È un bel segnale per tutti se la Red Bull spende».
Altro che lascia, raddoppia. Così l'inventore dell'energy drink spiegava l'acquisto della seconda scuderia, la Minardi poi ribattezzata Toro Rosso (ora AlphaTauri, un marchio di moda della galassia Red Bull). Ricorda Gian Carlo Minardi: «Era sempre cordiale e disponibile, si vedeva pochissimo in giro ma aveva una passione enorme. I suoi investimenti hanno fatto sì che a Faenza esista ancora una realtà industriale di livello mondiale. La squadra è diventata tre volte più grande rispetto ai miei tempi, ha più di 500 dipendenti, ma ha continuato nel nostro solco: scoprire nuovi campioni».
Helmut Marko come braccio destro nelle corse, fiducia totale a Christian Horner e a Franz Tost (il team principal dell'AlphaTauri, anche lui austriaco). Doppia scuderia per un doppio scopo: avere maggior peso politico (quando minacciava il ritiro in F1 tremavano) e «addestrare giovani piloti». «Nel mondo esistono talenti da valorizzare e allora è meglio avere un team nel quale gestisci l'intera crescita di questi ragazzi» questa era la sua visione.
La fabbrica dei campioni, il metodo Red Bull è spietato. Tanti sono stati messi alla porta in maniera brusca o semplicemente non ritenuti all'altezza: Alguersuari, Buemi, Vergne, Kvyat, Hartley. Ma la miniera produce anche diamanti: Sebastian Vettel, sgrezzato nel vivaio di Faenza e poi lanciato alla conquista dei quattro titoli di fila (2010-2013), i primi di Mateschitz. E poi Daniel Ricciardo, ma soprattutto Max Verstappen: «Didi» si fidò a farlo debuttare a 17 anni, capì che quell'adolescente con i brufoli aveva doti fuori dal comune.
C'era un rapporto speciale fra loro, lo svela Max: «Non voleva mai farsi vedere dalle telecamere, ma era gentile e premuroso e pian piano ci siamo conosciuti. Ha creduto in me nonostante fossi giovanissimo. Ricorderò per sempre il nostro ultimo incontro, abbiamo parlato a lungo. Lo porterò sempre con me».
Pierfrancesco Catucci per corriere.it il 25 ottobre 2022.
Non era solo un imprenditore visionario Dietrich Mateschitz, l’uomo capace di creare un impero a partire da una lattina, la Red Bull. Era anche un magnate con le sue passioni (a cominciare dagli aerei), le sue visioni (le politiche di marketing dell’azienda hanno segnato una strada) e i suoi investimenti (qualcuno anche fuori dal comune), causa ed effetto di un patrimonio personale che si stima superasse i 20 miliardi di euro. È morto sabato a 78 anni, alla vigilia del titolo costruttori di Formula 1 portato a casa da Verstappen e Perez al termine del Gp degli Stati Uniti ad Austin e dedicato a Didi (come in pochi avevano il privilegio di chiamarlo) dalla scuderia.
Tra le proprietà di Mateschitz, anche un’isola da sogno alle Fiji — inserita nelle 101 isole più belle del mondo — su cui ha fatto costruire 25 ville di lusso con tutti i comfort destinati a una clientela di alto livello. A disposizione anche il «DeepFlight Super Falcon», un sommergibile per gli ospiti dal quale ammirare a 360° le bellezze della flora e fauna sottomarina.
Mateschitz era un grande appassionato di aerei e aveva anche la licenza di pilota che gli permetteva di pilotare mezzi come il Dassault Falcon 900 (un cosiddetto business-jet) e il Piper PA-18 Super Cub (un monomotore leggero da turismo). Nella sua collezione anche un DC6-B appartenuto al maresciallo Tito, completamente ristrutturato. Tutti i suoi aerei — tra cui anche un B-25 (il velivolo con cui gli americani bombardarono Tokyo durante la Seconda Guerra Mondiale), quattro Alpha Jet (l’aereo della Patrouille de France) e un P-38 Lighting — sono custoditi nell’Hangar 7, una futuristica struttura nell’aeroporto di Salisburgo, che è anche un museo.
E visto che Mateschitz amava fare le cose in grande, dentro l’Hangar 7, al primo piano, c’è anche un ristorante stellato di sua proprietà. Si chiama Ikarus e ha due stelle Michelin. «Un concetto fuori dal comune — si legge nella scheda sul sito della guida — l’impressionante architettura dell’Hangar 7 è sia uno spazio espositivo, che un ristorante di lusso ultra moderno che offre una cucina creativa e di massima qualità in cui scegliere tra i menu proposti dagli chef internazionali che si alternano mese dopo mese e la selezione di Ikarus». Tempi di attesa per la prenotazione? Lunghi.
Mateschitz non possedeva «soltanto» due scuderie di Formula 1 (la Red Bull campione del mondo con Verstappen e l’AlphaTauri, dal nome del brand di moda dell’ecosistema dell’energy drink), aveva anche un circuito. A Spielberg, in Stiria, il land centromeridionale dell’Austria di cui fa parte anche Graz. La pista, con solo 10 curve e continui saliscendi, è molto veloce e il 10 luglio di quest’anno ha visto trionfare la Ferrari di Charles Leclerc davanti al padrone di casa Max Verstappen a 19 anni dall’ultima volta in Rosso (nel 2002 e 2003 aveva trionfato Michael Schumacher, ma il circuito si chiamava ancora A1-Ring).
Secondo «Bloomberg News» l’impero di Mateschitz comprende 30 magnifici castelli, rimessi a nuovo dai migliori artigiani austriaci. In un primo momento lui voleva offrire una sistemazione degna alle stelle (a cominciare da quelle della Formula 1) che ospitava. Poi la passione ha preso il sopravvento e la proprietà è cresciuta a dismisura. Tra i più belli (ora è un albergo di lusso), lo Schloss Gabelhofen, a pochi chilometri dall’autodromo, che combina l’architettura storica di un maestoso castello con fossato e gli interni accoglienti di un hotel moderno.
Tra le proprietà del magnate austriaco anche due montagne, l’Ellmaustein e il Filbling a Fuschl, che si affacciano entrambe sul piccolo lago di Fuschlsee dove ha costruito anche la sede centrale di Red Bull.
Tra gli investimenti di Mateschitz anche il birrificio della Stiria Thalheimer Bier (sempre nell’area adiacente al Red Bull Ring) che produce birra utilizzando acqua medicinale che sgorga in maniera naturale da una sorgente a 300 metri di profondità.
Mateschitz amava anche gli animali. Ecco perché acquistò anche il Trakehner Stud Murtal, una vera e propria oasi per cavalli, sempre in Stiria. Il Trakehner, d’altronde, è una razza di prussiano molto elegante, inserita dall’Unesco nel Registro nazionale dei beni culturali immateriali. Una razza leggendaria, sull’orlo dell’estinzione dopo la seconda guerra mondiale, e sopravvissuta solo grazie all’impegno di pochi allevatori.
MISTER RED BULL, L’UOMO CHE HA CAMBIATO LO SPORT. Umberto Zapelloni per “il Giornale” il 24 Ottobre 2022.
Dietrich Mateschitz era l'uomo che aveva messo le ali allo sport, non solo a Sebastian Vettel e a Max Verstappen. Meglio riconoscibile come il signor Red Bull, era uno degli uomini più ricchi del mondo, il 56° stando alle classifiche 2021 di Forbes e aveva fatto dello sport il suo parco giochi privato investendo milioni di euro in qualsiasi disciplina potesse creare spettacolo.
Lo ha fatto in Formula 1, nel moto mondiale, ma anche nel calcio con il Salisburgo, ma soprattutto con il Lipsia, nello sci, nel nuoto, negli e-sports, negli sport estremi, come i tuffi dalle grandi altezze che lui portava nei posti più belli e spettacolari del mondo, fino anche la federnuoto si è accorta di quel potenziale inserendoli nel programma di mondiali e Giochi olimpici. In un certo senso ha cambiato le leggi dello sport non soltanto investendo milioni di dollari, ma cambiando proprio faccia alla comunicazione un po' come con la sua pattuglia acrobatica di aerei che ogni tanto sfreccia nei cieli.
La sua vita è incominciata a 40 anni quando fondò la Red Bull GmbH di cui detiene il 49% delle azioni. Ha dato allo sport una botta di energia giovane e fresca, esattamente l'effetto che hanno le sue bevande quando ti viene un abbiocco. Partendo da una bibita in lattina, ha conquistato 10 titoli mondiali con Vettel e Verstapppen, battendo chi le automobili le fabbrica per vivere e non è che investa molto meno. Ha rilevato due squadre, trasformando la Jaguar in Red Bull e la gloriosa Minardi in Toro Rosso (e poi in Alpha Tauri, inguardabile nome della collezione di moda del gruppo).
Ha portato il Salisburgo a vincere in Austria e il Lipsia a far scuola con quel Rangnick che stava per finire al Milan. Ci ha provato anche a New York comprando i MetroStars e trasformandoli in New York Red Bulls e in Brasile fondando la Red Bull Brasil. Ha scoperto giovani talenti, ha rivoluzionato la comunicazione fondando pure una rivista che è diventata un must per gli amanti degli sport estremi, ha portato nel paddock, negli stadi, nelle palestre, sulle montagne e in fondo al mare una ventata di gioventù. Proprio come ha fatto con i suoi drink energetici nel panorama delle bevande.
Si è inventato una nuova categoria merceologica invadendo 170 paesi e costruendo un brand valutato più di 10 miliardi di dollari. Oggi l'azienda ha 13.610 dipendenti e nel 2021 ha venduto 9.804 miliardi di lattine. Dopo averci messo una decina d'anni a laurearsi in marketing all'università di Vienna (era più interessato a feste e ragazze) ha cominciato la sua carriera in Unilever, passando poi alla Procter & Gamble a vendere creme, dentifrici e shampoo. Quando per battere il jet lag in Thailandia ha aperto una lattina di Krating Daeng il suo mondo è cambiato.
Questo almeno racconta la leggenda, perché una versione ufficiale non esiste. La bibita spopolava tra i camionisti e tra chi non voleva rischiare una botta di sonno. A quel punto con il socio thailandese che aveva in portafoglio la bevanda, ha fondato la nuova società: 500mila dollari a testa e la sfida è partita. Il primo aprile 1987 la prima lattina di Red Bull è arrivata sul mercato austriaco. Conquistarlo non è stato facile. Nessuno la voleva.
Molti paesi la ostacolavano perché conteneva troppa caffeina, in Italia per molto tempo non veniva venduta ai minorenni. Mateschitz ha cominciato a battere gli autogrill porta a porta con le sue lattine strette e lunghe. Non si arrendeva mai proprio come all'inizio della sua carriera da sponsor quando aveva dovuto insistere per convincere Gerhard Berger, allora alla Ferrari, a entrare nella sua squadra.
Avrebbe potuto sfruttare la sua popolarità invece ha sempre preferito fare il regista lontano dai riflettori. Lo show lo faceva fare agli altri, basta che portassero i suoi colori. Sul cappellino, sulla tuta, sul costume. Ovunque basta che si vedesse e trasmettesse un'immagine di velocità, freschezza, gioventù. A lui è sempre bastato mettere le Aaali agli altri. Al massimo per sé teneva qualche aereo da collezione nell'hangar diventato museo a Salisburgo.
Bagnaia, Valentino Rossi e il passaggio di consegne. Giorgio Terruzzi su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022.
Pecco è il nuovo re della MotoGp, Valentino lo ha accolto, svezzato e accompagnato nel giorno decisivo. Bagnaia, in piedi sulla Ducati, con l’enorme murales di Valentino alle spalle: l’italica continuità
La festa di Bagnaia ad un anno di distanza dalla festa di Rossi. Il luogo è lo stesso, Valencia. Un debutto e un addio. Pecco fresco campione del mondo; Valentino al tramonto di un’epoca segnata dalla propria, dominante personalità. Il Dottore a ballare nei box; Francesco contenuto nel momento di massima gioia. Due immagini che contengono un passaggio di consegne e, nel contempo, una profonda diversità. L’uno mentore dell’altro: Vale ha accolto e svezzato Bagnaia, l’ha accompagnato nel giorno decisivo ben sapendo di aver tirato su un figlio che usa altri modi e metodi, per correre, vivere, comunicare. Un rapporto che funziona nel rispetto dell’altro, senza pretendere o cercare emulazioni. E Pecco, in piedi sulla Ducati, con l’enorme murales di Valentino alle spalle, ci ha regalato ieri una curiosa immagine di italica continuità.
Abbiamo un nuovo re della MotoGp, portatore di uno stile personale, lontanissimo da quello del suo maestro, per molti versi ancora indecifrabile. Diverso anche dai tratti che segnarono il lungo dominio di Giacomo Agostini, un altro padrone, il viso adatto al podio, alle copertine, alle euforie anni Settanta. Bagnaia vince e conquista in quanto antieroe. Rappresenta il miglior investimento del motociclismo, alla ricerca di una nuova star. Che sia capace di reggere il ruolo, mica detto, ma guai ad escluderlo perché stiamo parlando di un ragazzo le cui potenzialità restano misteriose. Forse persino per lui. Ieri ha gestito, al contrario di altri fenomeni della piega. Un atteggiamento che annoda i nervi del tifoso ma che ha pagato con ampio margine. Lo stesso modus operandi gli ha permesso di risalire dall’abisso, recuperare, battere un campione di prim’ordine, Quartararo, meno sorretto tecnicamente ma dotato di tempra e cuore. «Sbaglio una volta e poi più» ripete, intendendo una attitudine alla riflessione assidua ed efficace, dote che gli viene riconosciuta all’unanimità, abbinata ad una grinta mascherata ma decisiva in corsa. La vita privata rispecchia i comportamenti agonistici.
Casa e famiglia, i genitori sempre nei pressi, la fidanzata in marcatura permanente, la sorella ad assisterlo nei box, il bassotto Turbo per andare a fare la spesa. Pesaro, dove vive ora, come Chivasso, dove è cresciuto. Una consueta normalità per covare gesti eccezionali. Non litiga, non sbraita. Padronanza mentale come segreto per forzare o frenare quando serve. C’è chi dice: tornerà Marquez, una bestia; Quartararo è pronto per la rivincita; Bastianini sarà un compagno scomodo. Con il dubbio insistente che la crescita di Pecco sia solo cominciata. Liberata ora da un traguardo cercato sin da quando era bambino. A Valencia, ieri, dopo aver detto: bene, grazie, sono contento, mentre la sua squadra faceva baldoria, sembrava aver voglia di scappar via. Di tornare nei suoi rifugi silenti, dove impara, ogni santo giorno, come fare meglio, di più.
Francesco Pecco Bagnaia: le origini del soprannome, la sorella Carola, la fidanzata Domizia. Giorgio Terruzzi su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.
Bagnaia, carattere riflessivo, poche copertine: la sorella Carola che lavora per la Ducati, la fidanzata Domizia a soffrire al box, Valentino Rossi come coach. La mania delle scarpe, l’amore per la cucina e il cane Turbo: chi è il campione del mondo
Bagnaia è campione. Primo italiano su moto italiana dopo 50 anni, Agostini, MV. Un campione anomalo. Pochi frizzi, nessun lazzo. Piuttosto casa — a Pesaro — e famiglia — a Chivasso. Tutti lì, a proteggerlo, incoraggiarlo, sostenerlo. La sorella Carola in divisa Ducati (è media manager del team), la fidanzata Domizia a soffrire in pianta stabile nel box. Non un personaggio da aneddoti e copertine, diversissimo da Valentino che pure l’ha adottato, l’ha svezzato, lo consiglia nei momenti chiave, come accaduto in questi giorni a Valencia. Eppure, di Rossi è l’erede conclamato, segnando una sorta di italica continuità nel primo anno di MotoGp senza «The Doctor» in pista.
Una consolazione per il Mondiale a due ruote, alla forsennata ricerca di una nuova star. Non proprio una manna perché lui, Francesco detto Pecco, è refrattario al riflettore, poco avvezzo alla ribalta nonostante un curriculum ormai luminoso. Campione mondiale in Moto2 nel 2018, campione supremo ora dopo portentosa rimonta; dopo titubanze da carico di responsabilità; dopo qualche caduta di troppo. Torinese, data di nascita 14 gennaio 1997, in moto da quando era alto così, avviato e accudito da babbo Pietro, mamma Stefania convinta che il carattere forte e determinato sia opera sua. Razionale, Bagnaia, lo è di certo. «Sbaglio una volta e poi più» ripete, intendendo una attitudine alla riflessione, all’analisi dei meccanismi propri, assidua ed efficace. Una dote che gli viene riconosciuta all’unanimità, abbinata ad una grinta mascherata, decisiva in corsa.
Tifa Juve, tifa Hamilton, un po’ costretto ad usare esclamativi anche per Leclerc, essendo stretta, territoriale e monocromatica la relazione tra Ducati e Ferrari. Una sola fissa, per le scarpe, il piacere di fare la spesa e cucinare giorno dopo giorno, se possibile in compagnia del cane bassotto Turbo, un nome come un marchio di famiglia. Non litiga, non sbraita. Ragiona, parla della propria padronanza mentale come del vero segreto per portare in fondo ogni gara, per forzare o frenare quando serve per vincere. La ricetta, risultati alla mano, funziona. L’ha trasformato in una specie di oggetto ancora oggi misterioso perché il limite vero di Pecco nessuno può raccontarlo, forse nemmeno lui.
Le pagelle della stagione MotoGp 2022: Bagnaia da 10 ci ha creduto, Quartararo campione di sportività
Al punto da rendere arduo un pronostico pensando agli anni che verranno, al ritorno di Marquez, al talento di Quartararo. Avversari dotatissimi e più appariscenti di lui. Capaci di batterlo mica detto.
Paolo Lorenzi per il “Corriere della Sera” il 7 novembre 2022.
C'è un metodo nel successo di Bagnaia. Una ragione tecnica che risale alla strategia varata dal general manager di Ducati Corse, Gigi Dall'Igna, all'insegna di una visione ingegneristica, molto cara ai vertici della casa bolognese. Nella pratica sportiva, i piloti contano quanto i tecnici, giovani e brillanti (età media 40 anni) che lavorano a Bologna sviluppando idee che gli avversari spesso hanno dovuto copiare.
Perché la Ducati ha tracciato una strada, credendo prima di tutti nello sviluppo aerodinamico e in altre soluzioni che hanno aperto vie inesplorate. Persino i giapponesi si sono messi in scia, a malincuore. «Nelle corse la nostra cifra è la capacità d'innovare e interpretare al meglio il regolamento tecnico» spiegava Claudio Domenicali. Ne è scaturita una guerra di norme che a Bologna ha lasciato cicatrici ancora fresche.
Non sempre e non tutto ha funzionato alla perfezione. Potenza e guidabilità erano parametri difficili da combinare. Dovizioso ne ha pagato in parte lo scotto. Con Bagnaia è andata decisamente meglio.
Un passo alla volta. La Rossa di quest' anno ha vinto dappertutto, in mani diverse. La ripartenza dopo la pandemia ha ridato slancio alle idee, ma forse si è peccato in eccesso. A inizio anno Bagnaia ha sprecato energie preziose per testare novità a ripetizione, prima di trovare il giusto equilibrio, mentre Quartararo ne approfittava scappando via. «Qualche errore c'è stato» ha ammesso Domenicali.
Ducati ha messo in pista 8 moto, una dittatura secondo gli avversari (quando la Honda ne schierava altrettante nessuno aveva però nulla da obiettare). Una strategia onerosa - destinata a cambiare -, ma che ha permesso di raccogliere dati preziosi da ogni pilota, il terminale di quel sistema che riporta al reparto corse di Bologna, attraverso i tecnici in pista. Una squadra che in molti gli invidiano (la Ktm ha già fatto campagna acquisti). «Abbiamo trovato la sintesi tra l'atleta, la squadra che sfrutta le sue capacità organizzative e i tecnici che a casa esprimono il meglio della ricerca universitaria» spiegava Domenicali. Questione di metodo, appunto.
La maestra di Bagnaia: «In seconda elementare mi disse “sogno di far parte della squadra di Valentino Rossi”». Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022
Gli amici, le insegnanti e i compagni di scuola raccontano il piccolo Pecco
«Pecco? Un chivassese doc che ama stare con gli amici. E uno che sin da bambino sapeva che cosa volesse diventare da grande: diventare un campione». Nel giorno in cui l’intera Chivasso celebra Francesco Bagnaia , neo laureato campione del mondo di MotoGp in sella alla sua Ducati, c’è un’intera comunità pronta a raccontare come quel giovane dai capelli scuri e dal sorriso solare, con umiltà e tanto lavoro, sia riuscito a salire sul tetto del mondo. Francesco Bagnaia, per tutti Pecco, classe 1997, del resto è nato e cresciuto all’angolo tra via Po e viale Matteotti. Un ragazzo casa e famiglia, senza grilli per la testa, che tifa Juventus, colleziona scarpe e ama cucinare per tutti. Quando lascia Pesaro, dove si è trasferito nel 2017 per inseguire il suo sogno, torna nella sua casa nel Torinese con la fidanzata Domizia Costantini e il loro bassotto Turbo, per stare con mamma Stefania e papà Pietro che insieme mandano avanti la loro ditta di installazione di ascensori, a Mappano.
«Ed è proprio nel cortile di casa che Pecco ha ricevuto la sua moto da minicross in regalo da Pietro — racconta Luca Cena, amico di sempre e fondatore del fan club che lo segue in tutto il mondo —. È li che è iniziato tutto». Era il 2003. L’inizio della favola di «Pecco», come la sorella Carola, sempre con lui sui circuiti, dove spesso lo segue anche la fidanzata, ne storpiava il nome da bimbo. Un soprannome che non lo ha più abbandonato. «Non andava molto bene in inglese a quei tempi — racconta Chiara Varuzza, la compagna di classe alle elementari —. Ma oggi ha un’ottima preparazione, da fare invidia. Era un bambino molto timido. Ricordo la sua passione per le moto sin da ragazzino».
Una passione che anche Raffaella Bellone, l’insegnante delle elementari ricorda bene. «Francesco era molto buono e socievole. Sapeva quello che voleva. In prima e in seconda elementare lo vedevo bene come intrattenitore. Sapeva raccontarci episodi di vita familiare con un umorismo pazzesco, facendoci ridere. Davvero tanto. Era molto riflessivo. Ricordo, eravamo in seconda elementare, un giorno durante l’intervallo, mentre chiacchieravo, mi disse: “Sogno di far parte della squadra di Valentino Rossi”. La sua passione per le moto , assecondata soprattutto dal papà che lo ha sempre seguito moltissimo, era già ben presente. Ma anche ora, quando ci racconta delle sue gare, lo fa con modestia, con naturalezza. È davvero un bell’esempio per tutti i ragazzi. Di questo sono davvero orgogliosa come insegnante».
Un sogno diventato realtà per quel bambino che non riusciva mai a stare fermo fin da piccolo, che amava lo sport, dallo sci alla bicicletta, dai cavalli nel ranch a Piazzo che la famiglia aveva, fino al basket, il calcio e lo skate fatto correre in piazza Castello a Torino. E che invece faticava a scuola, soprattutto durante le superiori quando si divideva tra sport e i banchi dell’Itis. «Tanto che i professori gli dicevano spesso di lasciare perdere con le moto — racconta Luca Cena —. Ma lui era attratto dalla velocità. E aveva ragione. Così come da sempre sapeva che voleva al suo fianco Domizia. Ci conosciamo tutti fin da bambini e lui sapeva di voler trascorrere la sua vita con lei. E così è stato. Quando viene a Chivasso si siede al bar, ride e scherza come uno qualsiasi. È uno di noi. Matto come noi. Ha solo un problema. La competizione. Lui vuole vincere sempre, sin da quando eravamo piccoli. Con le bici ad esempio, o dopo la patente con le macchine magari quando c’era un po’ di neve per terra, Pecco aveva quella capacità di trascinarti al limite. Solo che il nostro limite e il suo non erano uguali». Forse, anche per questo, il suo motto è una frase che gli ha sussurrato una tifosa: goditi la gara, vai libero (go free). Una frase diventata mantra che lo ha trasformato nell’erede di Valentino Rossi.
Le pagelle della stagione MotoGp 2022: Bagnaia da 10 ci ha creduto, Quartararo campione di sportività. di Paolo Lorenzi su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.
Pecco Bagnaia riporta il titolo in Italia. Bastianini, è mancata un po’ di convinzione, Bezzecchi rookie dell’anno. Marquez, 7 per la tenacia, aspettando il vero ritorno
Le pagelle della stagione di MotoGp
Bagnaia riporta il titolo della MotoGp in Italia, dopo quello vinto da Valentino Rossi nel 2009. È il settimo italiano vincente nella massima categoria del motomondiale e regala alla Ducati il secondo successo iridato dopo quello storico di Stoner del 2007. Quartararo cede la corona con grande sportività, Marquez chiude la stagione senza nemmeno una vittoria, Bastianini conquista il terzo posto.
Pecco Bagnaia: 10
Bagnaia è il settimo campione italiano a vincere nella massima cilindrata. L’ultimo in ordine di tempo dopo Valentino Rossi da cui ha preso il testimone (il primo italiano su moto italiana 50 anni dopo Giacomo Agostini su Mv Augusta). La prudenza dell’ultima gara poteva anche starci, vista la posta in palio, ma la grinta messa in pista da metà stagione in poi cancella ogni dubbio. I 91 punti recuperati a Quartararo sono da record, la forza di credere fino in fondo a una rimonta che pareva impossibile dicono tutto sul carattere del primo vero campione del post pandemia. La Ducati è stata senz’altro la moto migliore in pista, ma lui è stato il migliore di tutti i piloti Ducati, capace d’imparare dai propri errori, di crescere di gara in gara.
Fabio Quartararo: 9
Campione anche di sportività, ha perso con stile, dopo aver tenuto aperto il campionato fino all’ultima gara. Ha smarrito il filo a metà stagione dopo aver vinto l’ultima gara in Germania. Fino a quel momento è stato devastante, da lì in poi ha rivisto il podio in sole due occasioni. Ma il suo talento e la sua velocità in moto sono un dato di fatto, l’inferiorità tecnica della Yamaha il suo vero punto debole (insieme a qualche errore evitabile, come in Olanda e in Australia).
Enea Bastianini: 9
Un pizzico in più di convinzione a metà stagione e oggi forse scriveremmo un’altra storia su di lui. A tratti è stato una spina nel fianco persino per Bagnaia e la Ducati — che l’ha cooptato nel team ufficiale dal 2023 (ricordarsi di Misano, Aragon e Motegi) — ma ha quel che serve per essere protagonista nella prossima stagione: quel mix di talento, velocità, e irriverente simpatia che lo farà anche amare dai tifosi. Intanto si prende il terzo posto nel mondiale, superando all’ultima gara Aleix Espargaro.
Aleix Espargaro: 8
Ha alimentato i sogni dell’Aprilia, insieme al suo, per tre quarti del campionato. Ha regalato a Noale la prima vittoria in Motogp, motivato la squadra, illudendola persino col miraggio del titolo. Qualche parola fuori posto sul team, a fine stagione, stona però con il profilo da capitano tenuto per tutta l’anno.
Marc Marquez: 7
Il voto premia la tenacia più che i risultati in gara condizionati dalla quarta operazione al braccio destro, da un lungo recupero e, aspetto altrettanto essenziale, da un progetto tecnico sbagliato. Risultato: nemmeno una vittoria in tutta la stagione. Tutti l’invocano, sperando in un suo completo recupero, perché la MotoGp senza di lui, al netto dei sentimenti contrastanti che suscita da anni, ha perso un riferimento.
Marco Bezzecchi: 7
Il rookie dell’anno (titolo vinto in anticipo) ha messo in pista grinta, talento e un cuore generoso che ha conquistato i tifosi. Al primo anno in Motogp è cresciuto in fretta, si è preso un secondo posto meritato al Mugello, due volte si è fermato ai piedi del podio. Un puledro di razza da seguire con cura.
Jack Miller: 7
Il compagno di squadra che tutti vorrebbero, sincero, generoso e leale. Simpatico fuori e dentro il box, genuino come solo gli australiani sanno essere. Fosse un vincente seriale sarebbe un idolo, ma in gara è più un comprimario, uomo da podio sì, da titolo non ancora. Forse in Ktm troverà la dimensione giusta.
Jorge Martin: 6
Ha perso il derby con Bastianini per il posto nella squadra ufficiale e non l’ha presa bene ma i risultati parlano per lui: zero vittorie e quattro podi, troppo poco guidando una Ducati ufficiale. Ha talento, è velocissimo in prova, ma in gara raccoglie poco. Come ha dimostrato a Valencia cedendo alla rimonta di Binder.
Maverick Vinales: 6
L’Aprilia (voto 8) gli ha dato fiducia e lui l’ha ripagata con tre podi nella seconda parte della stagione, poi si è spento insieme ai progressi di una moto che ha performato per due terzi della stagione. L’operazione recupero di un pilota di razza sembra però compiuta. Con tutti i dubbi che si porta dietro, su continuità, equilibrio…
Luca Marini: 6
Un mattoncino dopo l’altro ha costruito la crescita della sua stagione a cui è mancata solo il podio. Ha vinto per il derby con il compagno di squadra, anche grazie a una Desmosedici più performante.
Joan Mir: 5
Va bene il ritiro prematuro della Suzuki, ma darsi per vinto così in fretta no, quello non va bene per il campione del mondo del 2020. Svanito nel limbo dei risultati anonimi, ha pure sofferto un brutto infortunio in Austria pagato con 8 settimane via dalla gare. Un errore del box in Australia (gara vinta dal compagno di squadra) ha peggiorato il bilancio finale. Il passaggio alla Honda ufficiale l’anno prossimo potrebbe rilanciarlo.
Franco Morbidelli: 5
Il primo dei delusi è lo stesso pilota romano che ha sofferto tutto l’anno un rapporto difficile con la Yamaha. Il salto sulla M1 ufficiale gli ha tolto qualcosa e lui si è smarrito. Solo Quartararo è riuscito a cavarci qualcosa di buono. Rassegnato? Forse no, ci ha provato, qualche segnale di recupero s’è intravisto, ma è troppo poco ancora. Da lui ci si aspetta molto di più.
Massimo Calandri per repubblica.it il 7 novembre 2022.
Quando Valentino buttò via proprio su questa pista, all’ultima gara, un mondiale che sembrava già vinto, Pecco aveva 9 anni e pianse davanti alla tv. Ieri il Doc lo aspettava dopo il traguardo. Per tutto il fine settimana gli aveva ripetuto che non era mica il caso di preoccuparsi. «Il segreto per vincere è uno solo: divertirsi».
Bagnaia, le lacrime sotto il casco
Ma Bagnaia durante la gara non si è divertito. E ha pianto di nuovo, nascosto dal casco. Questa volta sono state lacrime dolci. I due si sono abbracciati, un momento esemplare: nella prima stagione senza il suo Rossi, quando sembrava sul punto di collassare, il motociclismo italiano è sbocciato grazie a un ragazzo che ha imparato tutto dal pesarese e non gli assomiglia per nulla. Timido, riservato. Gentile, educato. Anche nella guida, così pulita. Gli vogliono bene tutti: non è un caso se il primo a fargli i complimenti sia stato il rivale, Quartararo detto El Diablo, battuto al termine di un campionato dalla dinamica folle. A metà del calendario, il biondino della Yamaha aveva su di lui un vantaggio abissale, 91 lunghezze: nelle 10 corse seguenti Pecco ha recuperato il gap, chiudendo ieri con 17 punti di vantaggio. Merito di una Ducati che l’ingegner Gigi Dall’Igna – è lui, il vero diablo – ha finalmente reso leggera, non solo potente.
Ma la chiave è il talento di questo ragazzo piemontese, che vincendo 7 gp ha saputo imparare dagli errori e mantenere la calma. Anche ieri, quando per la prima volta stava perdendo la fiducia nella sua Gp22: «Per fortuna, dopo il warm up del mattino mi sono tranquillizzato un poco. Però…». Però il box rosso – a proposito: il colore preferito di Valentino è sempre stato giallo canarino – sbandava da giorni, sull’orlo di una crisi di nervi.
L'emozione di Carola e Domizia
«Coi motori non si sa mai che cosa può accadere, fino all’ultima curva»: il cuore del povero Davide Tardozzi, team manager che recitava il mantra da settimane, durante la corsa ha sfiorato i duecento battiti. Carola e Domizia, sorella e fidanzata di Pecco non avevano il coraggio di guardare il monitor. Il ds Paolo Ciabatti si tormentava il ciuffo, Dall’Igna il pizzetto mefistofelico. Al loro pilota sarebbe bastato arrivare 14°, e sempre che il francese della Yamaha riuscisse a vincere. Ma nelle prove era stato un rosario di cadute tra i piloti. «Alla vigilia non ero per niente tranquillo», ha confessato Bagnaia. «Venerdì per via del vento avevamo fatto alcune modifiche, che il giorno dopo non hanno funzionato:
‘Se davvero domenica faccio 15° e Fabio batte tutti?’, mi sono chiesto». Così ieri mattina ha deciso di tornare al vecchio assetto della moto, quello che ha sempre funzionato. È andata meglio. Disobbedendo al suo mentore, il ducatista inquieto ha scelto di attaccare subito dopo il via: in un paio di giri ha duellato con l’altro come non aveva fatto in tutto l’anno, mentre Tardozzi era sul punto di avere un infarto. Strategia perfetta: Quartararo ha perso contatto dai migliori, addio vittoria. I due durante un sorpasso si sono toccati, Pecco ha perso una delle ali aerodinamiche. «A quel punto ho pensato solo a restare in sella. E a contare i giri alla fine».
Il casco dorato col numero 1
Quel modestissimo nono posto finale è valso il trionfo. All’arrivo lo aspettavano genitori e nonni, più il Doc e gli altri ragazzi dell’Academy di Tavullia. Su tre pannelli – uno verde, uno bianco, uno rosso – qualcuno ha dipinto i numeri usati in carriera dal 25enne di Chivasso: il 21 dei tempi della Moto3, il 42 di quando nel 2018 si prese il mondiale di Moto2, il 63 attuale. Una combinazione che gli ha poi permesso di aprire una cassaforte, nel corso della celebrazione: conteneva un casco dorato col numero uno. World Champion.
Ha indossato una maglia rossa con la scritta “Campioni”: fotografa perfettamente la filosofia di Borgo Panigale così come la racconta il ceo, Claudio Domenicali. «La nostra non è solo un’azienda. È una squadra unita, una famiglia». Quindici anni dopo l’ultimo e unico successo con Casey Stoner, il Canguro Mannaro, Ducati fa festa: si è presa pure i titoli costruttori e squadre. Era da mezzo secolo – Giacomo Agostini con la MVAgusta, 1972 – che non vinceva un nostro pilota su una moto italiana. L’ultimo mondiale in MotoGP se lo era invece preso Valentino, nel 2009. Sembrava un secolo. Quell’abbraccio di ieri ha il sapore di un passaggio di testimone. «Ed è solo l’inizio», promette Pecco.
Matteo Aglio per “La Stampa” l’8 novembre 2022.
Venticinque anni, un metro e 76 di altezza per 67 chili di peso, capelli ricci e occhi castani: è l'identikit del nuovo campione del mondo della MotoGp. Pecco Bagnaia da Chivasso, che è riuscito a riportare domenica a Valencia il titolo in Italia, a casa della Ducati. Questa descrizione, però, non dice nulla del pilota, il mister Hyde che prende il posto del dottor Jekyll quando la visiera si chiude e il semaforo si spegne davanti agli occhi.
Gentile e pacato davanti alle telecamere, in pista mostra le caratteristiche del campione, l'ossessione per la vittoria. Lo stesso era Stoner, il Canguro Mannaro il suo soprannome, tutto genio e sregolatezza. Caratterialmente i due non potrebbero essere più diversi, ma quest' anno hanno capito di parlare la stessa lingua. Pecco gli scriveva per ricevere qualche consiglio, Casey rispondeva finché, in Australia, si è presentato nel suo box per aiutarlo.
L'australiano non pensava a nient' altro che al successo vittoria e identico è l'italiano, anche al costo di sbagliare. Bagnaia è il pilota che ha vinto più gare quest' anno (7) ed è anche quello che ha compiuto più giri davanti a tutti. Nella guida, però, non potrebbe essere più diverso da Stoner. Casey era un concentrato di talento e cuore, Pecco ha la prima caratteristica, ma la unisce all'intelligenza. L'australiano guidava sopra i problemi, Bagnaia preferisce risolverli.
Per lui un gran premio è scala da costruire gradino dopo gradino, per poi salirli fino all'obiettivo finale. Ogni cosa deve funzionare come gli piace, senza sbavature, e allora dà il meglio di sé. Jorge Lorenzo faceva lo stesso, quasi maniacale nel sistemare ogni dettaglio al posto giusto, come un puzzle che mostra l'immagine della vittoria solo una volta completato. Pecco assomiglia al maiorchino anche per un altro motivo: a guardarlo dall'esterno sembra essere lento quanto in realtà è esattamente l'opposto. Ha eleganza quando disegna sulla pista traiettorie rotonde e precise, colpi di pennello sull'asfalto.
«È un vero vincitore seriale» lo descrive Gigi Dall'Igna, il direttore generale di Ducati Corse che lo ha voluto con sé quando Bagnaia era solo una speranza. Non era stato l'unico a vedere la stoffa del campione in quel ragazzino testardo che cercava di farsi strada nel mondo dei grandi delle due ruote. Anche Rossi, quasi 10 anni fa, aveva deciso di puntare su di lui. Quando tutti dicevano che Pecco valeva poco, il Dottore gli ha aperto le porte della sua scuola, gli ha fatto da maestro, fratello maggiore, amico. «Non ci sarà mai un altro Valentino» ripete Pecco.
Ha ragione, l'istrione di Tavullia, con il suo innato senso dello spettacolo, è lontano dal piemontese, ma qualcosa hanno in comune. Nessuno dei due sa cosa significhi arrendersi e, anzi, riescono a tirare fuori il meglio di se stessi nelle difficoltà. Come quando Valentino fallì con Ducati e riuscì a tornare competitivo con la Yamaha, così Pecco è dovuto cadere tante volte per poi sollevarsi fino all'altezza che ora ha raggiunto.
Il rimorso di averlo tutti ignorato. Quando nel 2015 Valentino Rossi atterrò a Valencia per giocarsi il titolo mondiale contro il compagno di squadra in Yamaha, Jorge Lorenzo, c'era un Paese spaccato. Benny Casadei Lucchi su Il Giornale il 7 Novembre 2022.
Quando nel 2015 Valentino Rossi atterrò a Valencia per giocarsi il titolo mondiale contro il compagno di squadra in Yamaha, Jorge Lorenzo, c'era un Paese spaccato, diviso tra guelfi e ghibellini dell'impennata, tra chi riteneva che il Dottor Rossi fosse vittima di una complotto di matrice ispanica ordito dallo stesso Lorenzo e da Marquez per non fargli vincere il decimo titolo, e chi sosteneva che un po' Valentino se la fosse cercata, complicandosi la vita con ginocchiate e squalifiche nel gp precedente. Ci fu anche una interrogazione parlamentare sul biscotto iberico, così fu definito da Bolzano a Lampedusa l'epilogo amaro della gara e il mancato mondiale del nostro. Quando mercoledì Francesco, detto Pecco, Bagnaia è atterrato a Valencia c'era invece un Paese che pensava a tutt'altro, un Paese che motoristicamente parlando, questo meraviglioso finale di campionato aveva praticamente ignorato. Con buona pace di una rimonta epocale che nello sport si è concretizzata raramente, e di un'accoppiata pilota italiano su moto italiana che non vedevamo da mezzo secolo. Colpa di Pecco poco personaggio? No, colpa di Valentino troppo personaggio e troppo tutto per noi. Come se il campione che aveva sdoganato un grande sport rimasto sempre di nicchia e per appassionati, ritirandosi, avesse portato con sé la passione di un popolo. Quante volte in questi mesi abbiamo scritto, letto, sentito dire che Pecco piemontese di Chivasso era emigrato a Tavullia e dintorni per abbeverarsi alla fonte del Maestro, del Mentore? Quante volte abbiamo dipinto questo quadretto quasi ci servisse per dare peso a un non personaggio che cercava, a fatica di diventarlo. Ecco. Bagnaia adesso lo è. Ci è riuscito con eleganza, più da giocatore di scacchi che motociclista, regalando alla Ducati e agli appassionati orfani di Rossi qualcosa che neppure Valentino aveva conquistato, e regalando a tutti noi una strana e calda sensazione di grande gioia mista a grande rimorso. Quello di averlo fin qui ignorato.
Pecco dopo Valentino. Il "peso" e le lacrime di un trionfo in rincorsa. Titolo a Bagnaia 13 anni dopo Rossi e a 50 dal bis Ago-Mv Agusta: "Riportarlo in Italia, che tensione". Sergio Arcobelli su Il Giornale il 7 Novembre 2022.
Benvenuti nella nuova era del moto mondo e dell'Italia, l'era di Bagnaia. Primo anno d.V., dopo Valentino. Tredici stagioni sono passate dall'ultimo trionfo del fuoriclasse pesarese, ma finalmente la lunga astinenza è conclusa. Merito di Francesco Pecco Bagnaia, 25enne di Chivasso, provincia di Torino, che ha reso possibile qualcosa che sembrava impossibile a giugno, quando il ragazzo cresciuto nell'Academy di Vale si è trovato a novantuno punti di distacco da Fabio Quartararo, leader del Mondiale in quel momento. Alzi la mano chi avrebbe scommesso un euro su Pecco? Eppure, il ragazzo nato nel 1997, anno del primo titolo (in 125) del suo idolo Rossi, non ha mai smesso di crederci e, nell'ultima gara dell'anno di Valencia, ha completato l'opera e festeggiato il più grande traguardo della carriera. «È tutto bellissimo e fantastico. È stata la gara più dura e difficile della mia vita, la mia ambizione era di arrivare tra i primi cinque ma dopo 5 giri ho cominciato a soffrire con l'anteriore della moto. Non ha importanza. È stata lo stesso una grande giornata. E sono molto felice».
Abbraccia tutti i cari, Bagnaia. Il primo a venirgli incontro, però, è Fabio Quartararo, il rivale battuto, il re che cede il trono, ma soltanto dopo aver combattuto da leone. Che battaglia quella tra i due al secondo giro, si contano tre-quattro sorpassi palpitanti, in uno di questi i due vengono a contatto, l'aletta del ducatista vola via, un brivido sale lungo la schiena degli italiani. Dopodiché, per il francese diventa una gara tutta in salita, nel tentativo di recuperare sui tre battistrada, fra questi il vincitore Rins, ma senza successo. Alle sue spalle, invece, Bagnaia annaspa, non riesce a trovare ritmo, allora decide di gestire la sua gara, senza prendersi rischi: non è necessario. Finisce nono al traguardo, mentre Quartararo, che era costretto a vincere, è solo quarto.
Può iniziare così la festa. Lo abbracciano tutti. Papà Pietro, mamma Stefania, la fidanzata Domizia, la sorella Carola, il fratello Filippo, lo stesso Valentino. Lui quasi non ci crede. È pure pallido in volto. Dietro, intanto, il suo fan club prepara la festa, allestendo una passatoia di colore rosso, con la scritta 21-42-63, i tre numeri che ha portato nella sua moto da quando ha iniziato a correre nel motomondiale. Ma quello più importante è un altro, ovvero l'uno, che i suoi tifosi gli hanno appiccicato sulla carena. Arrivato al parco chiuso, gli porgono un casco d'oro. Lo guarda, poi lo alza al cielo. Aveva già vinto il titolo in Moto2, quattro anni fa, ma non potrà mai essere la stessa cosa. «Ho pianto - racconterà in conferenza stampa -, per questa incredibile vittoria. Ho sentito tanto in questi giorni la tensione sulle mie spalle, il peso di dover riportare questo titolo in Italia. Ho parlato sabato con Vale, mi ha detto di essere orgoglioso che potevo giocarmi questo momento. Mi ha detto di essere felice, di divertirmi, e ho provato a farlo. Ma non ha funzionato (ride, ndr)». Per fortuna, ha funzionato tutto il resto.
La Ducati chiude il cerchio: da Capirossi e Stoner fino all'allievo piemontese che supera il maestro Vale. Il successo della Casa italiana è di tutto il popolo ducatista: una moto all'insegna della potenza, domata per primo da Loris e dall'australiano. Rossi non ci riuscì. Maria Guidotti su Il Giornale il 7 Novembre 2022.
Campioni del mondo. La coppa alzata al cielo da Pecco Bagnaia raccoglie i sogni e i sacrifici di tutti i ducatisti. Di un reparto corse fatto di appassionati prima che di professionisti e soprattutto di loro, i piloti che hanno percorso un pezzo di strada di questa meravigliosa favola italiana: Loris Capirossi, Andrea Dovizioso, ma anche Andrea Iannone e Valentino Rossi. Quell'amore mai sbocciato tra Rossi e la Rossa che avrebbe reso immortale il binomio italiano, dieci anni dopo trova il compimento con l'allievo prediletto del Doctor, un piemontese cresciuto nell'Academy VR46. Riservato ma risoluto, Pecco ha saputo sfruttare al meglio la potenza di una moto che si è evoluta da quel lontano 6 aprile 2003, giorno del debutto della Ducati nella MotoGP moderna.
Come nelle più belle favole, l'avventura iniziò con il podio di Loris Capirossi a Suzuka. Sì, perché in quanto a potenza la Desmosedici ha sempre dettato legge. Basta ricordare il giro veloce e record (332,409 km/h ) segnato sul rettilineo del Mugello lo stesso anno. Nessuna moto era andata così veloce. Da allora è stato un crescendo, con la vittoria di Capirex al Montmelo 2003. Sembrava già che pilota e moto italiani fossero destinati a scrivere una leggenda. Si sono gettate le basi, ma sono serviti 19 anni per trasformare il sogno in realtà. Dopo le faville iniziali di Capirex e Troy Bayliss è iniziata una lunga discesa. Capirossi torna a vincere con le gomme Bridgestone solo nel 2005 nei GP di Malesia e Giappone, in casa Honda. Il passaggio ai penumatici giapponesi in un'era dominata dalle francesi Michelin si rivelerà strategico. Nel 2006 i progressi sono evidenti e la Ducati conquista il terzo posto nella classifica costruttori grazie a 4 vittorie, 3 conquistate da Capirossi e l'ultima da Bayliss, reduce dal titolo Superbike conquistato pochi giorni prima, che sostituisce l'infortunato Gibernau nell'ultima gara della stagione a Valencia.
Nel 2007, anno di passaggio della cilindrata da 990 a 800, Capirossi, ormai bandiera Ducati, viene affiancato dal giovane funambolo australiano Casey Stoner, capace di domare come nessuno la nervosa Desmosedici GP7. Quell'anno Ducati vince il suo primo titolo iridato piloti, 33 anni dopo l'ultimo successo di una Casa italiana, la MV Agusta, nella massima categoria, interrompendo un lungo dominio di moto giapponesi: nello stesso giorno Capirossi ritorna alla vittoria mentre Stoner vince il suo primo mondiale.
Da allora fino ad oggi la Ducati ha rincorso il titolo con tutte le forze. Per riuscirci ingaggiò il Campione dei campioni. L'idillio annunciato e mai sbocciato tra Rossi e la Rossa (2011-2012) fallì miseramente. Ne seguì una grande rivoluzione. Il testimone passa ad Andrea Dovizioso, chiamato a sviluppare la moto e renderla, oltre che veloce, anche agile in curva. Con il forlivese inizia la ricostruzione, supportata dal genio dell'Ing. Gigi Dall'Igna, direttore generale dal 2013, capace di incanalare il grande potenziale di Ducati. Dopo qualche anno di sofferenza iniziano le rivincite per la Rossa e il Dovi. Se non avesse trovato sulla sua strada Marc Marquez, la storia sarebbe stata sicuramente diversa, come raccontano i tre titoli da vicecampione del Mondo.
Nel 2020 largo ai giovani. L'eredità passa all'allievo preferito del Doctor e quell'idillio tanto sognato di una vittoria di una moto italiana con pilota italiano arriva, quasi come uno scherzo del destino, 13 anni dopo quella di Rossi, ultimo italiano a vincere il titolo iridato MotoGP.
"Il mio mezzo secolo aspettando di rivedere l'accoppiata tricolore". Nel '72 ultimo italiano a vincere su moto italiana: "Tardavano ancora e per l'età non lo avrei visto..." Stefano Saragoni su Il Giornale il 7 Novembre 2022.
«Porca miseria, sono passati cinquant'anni. Se aspettavano ancora un po' non li vedevo più...». Il commento di Giacomo Agostini - la bellezza di 15 titoli iridati - è schietto e compiaciuto. C'è voluto mezzo secolo perché un'accoppiata pilota e moto italiana tornasse sul trono della classe regina.
L'ultimo a riuscire nell'impresa era stato lui con la MV Agusta. Correva l'anno 1972...
«Avere un pilota italiano che porta la tecnologia italiana a vincere nel mondo è motivo di orgoglio. Ai miei tempi mi presentavo nei circuiti con il casco tricolore bianco, rosso e verde, in sella alla MV Agusta, insomma era davvero una sorta di W l'Italia».
Come spieghi questi cinquant'anni di attesa?
«Se andiamo indietro nel tempo, arriviamo a quando italiani e inglesi in campo motociclistico erano i numeri uno. Poi sono arrivati i giapponesi, sono venuti a studiarci, hanno copiato e hanno creduto nelle due ruote. Le nostre aziende vendevano in Italia e poco più, loro invece hanno fatto moto con l'obiettivo di venderle dappertutto: in Europa, in Asia, in America. Noi eravamo artigiani, loro hanno fatto le cose in grande, producendo migliaia di moto al giorno; così hanno invaso il mondo. E quando si è ritirata la MV Agusta, al Mondiale 500 non partecipava più nessuna Casa italiana».
Nella Ducati di oggi rivedi lo spirito della MV Agusta di ieri?
«Certo: ieri era la MV a portare la nostra tecnologia nel mondo e oggi lo fa la Ducati. Dietro alle mie vittorie c'era una squadra che era una potenza, perché quando arrivavano in circuito lo facevano con un camion tre volte più lungo degli altri e nessuno aveva così tanti meccanici. Venire ingaggiato dalla MV era l'equivalente dell'essere chiamato a guidare la Ferrari per un pilota di Formula 1. Ricordo che al nostro primo incontro il Conte Agusta mi fece aspettare sei ore prima di ricevermi, ma per andare in MV si faceva questo e altro. Oggi la Ducati ripropone quella eccellenza, naturalmente in chiave moderna. Dietro non c'è più il padrone come ai miei tempi, ma una grande industria come l'Audi. Però la Ducati è orgoglio italiano, viene costruita in Italia, a Borgo Panigale, da un gruppo di ingegneri italiani con a capo un direttore tecnico italiano ed è gestita in pista da una squadra italiana».
Poi c'è Bagnaia, che con le sue vittorie ha fatto l'impresa. È avviato a diventare personaggio?
«Penso di sì. Lasciamogli il tempo. Per diventare personaggio bisogna stare davanti sempre, è così che si conquista il pubblico. Francesco va molto forte ed è un ragazzo per bene... Quest'anno all'inizio era un po' rigido, anche perché era carico di responsabilità: la Ducati si aspettava il titolo da lui e questo è un bel peso, soprattutto se non hai l'esperienza per sopportarlo. Adesso questo peso se lo è tolto...».
Il prossimo anno lo aspetta un compagno scomodo come Enea Bastianini.
«E questo sarà un confronto che piacerà agli appassionati e contribuirà a richiamare l'attenzione del pubblico sulla MotoGP. Il compagno di squadra è il primo avversario, perché guida la tua stessa moto e se ti batte è stato più bravo. È un bello stimolo per Bagnaia e Bastianini e al tempo stesso per la Ducati è la garanzia di continuare ad essere protagonista perché con due piloti molto forti se non vince uno puoi sempre contare sull'altro».
Dal 1972 un pilota italiano non vinceva il mondiale con una moto italiana. Chi è Francesco “Pecco” Bagnaia, il nuovo campione del mondo italiano della MotoGP con la Ducati. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Novembre 2022
Francesco “Pecco” Bagnaia è il primo italiano dopo 13 anni a laurearsi campione del mondo della MotoGp. Il titolo è arrivato oggi, all’ultimo Gp della stagione, a Valencia in Spagna, dove il pilota della Ducati si è piazzato al nono posto. È bastato. Era dal 2009, dall’ultima vittoria di Valentino Rossi, che un italiano non vinceva il mondiale. L’ultimo titolo della Ducati risaliva invece al 2007, quando a vincere fu l’australiano Casey Stoner. Era inoltre dal 1972, giusto cinquant’anni, che non si verificava la doppietta italiana: titolo italiano su moto italiana. Quella volta la leggenda delle due ruote Giacomo Agostini, con la MV Augusta su classe 500 cc. La Ducati ha sede nel quartiere di Borgo Panigale a Bologna.
Alla fine della gara il neoiridato ha sventolato una bandiera con il tricolore italiano da una parte e un gigantesco numero 1 nel giro d’onore sulla pista spagnola. “È stata la gara più dura della mia vita – ha detto Bagnaia dopo la vittoria – volevo arrivare fra i primi cinque oggi, poi ho cominciato a soffrire tantissimo durante la gara. Sono felicissimo, è stata una bellissima giornata. Lo ripeto: sono molto felice”. E intanto nel quartiere bolognese di periferia è esplosa la festa, alla sede storica della Ducati. Oltre un migliaio di tifosi hanno assistito alla vittoria davanti a un maxischermo allestito alla sede dell’azienda.
Bagnaia ha 25 anni, torinese di Chivasso. Il soprannome “Pecco” gli è stato affibbiato dalla sorella Carola, che da bambina giocava a storpiare i nomi di tutti i componenti della famiglia. Il padre Piero è imprenditore, titolare di un’azienda di ascensori. Per una stagione ha lavorano nella squadra Vr46 nel Civ, il Campionato Italiano Velocità. La madre Stefania è stata una sportiva con un passato nell’off-shore. Ha una sorella, Carola, e un fratellino, Filippo.
Il nuovo campione del mondo ha cominciato e nel 2009, a soli 12 anni è diventato campione europeo di MiniGP. La stagione successiva è arrivato secondo al torneo mediterraneo 125 PreGP. Tra il 2011 e 2012 ha partecipato al Campionato Europeo di Velocità, poi diventato Moto3, raggiungendo una vittoria in ciascun anno. Ha esordito nel motomondiale in Moto3 nel team San Carlo. L’anno dopo è passato nello Sky Team Vr46 di Valentino Rossi.
Il 25enne piemontese in dieci stagioni e tre categorie del motomondiale ha corso 172 gp vincendone 21: 42 podi, 18 pole position e due titoli con quello del 2018 in Moto2. La prima vittoria in assoluto ad Assen in Olanda – si è fatto tatuare il circuito su un braccio. Ha esordito in MotoGp nel 2019 col team satellite Pramac prima di passare alla Ducati ufficiale. Ha vinto la prima gara in Aragona (sempre Spagna) nel settembre dello scorso anno.
Bagnaia ha appena rinnovato il contratto fino al 2024 con la Ducati per circa due milioni di euro a stagione. La vittoria di ogni gara vale circa 100mila euro, secondo posto 50mila, 30mila ogni terzo. Il titolo vale un milione e mezzo. Vive a Pesaro, con la fidanzata Domizia Castagnini, fashion buyer nipote di Gianfranco Leoncini, ex calciatore della Juventus. La sua vittoria è una grandiosa riscossa per i motori italiani, un successo che resterà nella storia per la fantastica doppietta tutta tricolore.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Da fanpage.it il 6 novembre 2022.
Pecco Bagnaia ha vinto il Mondiale di MotoGP chiudendo al non posto il GP di Valencia, vinto da Rins davanti a Binder e Martin. Il pilota Ducati ha controllato per tutta la gara, forte del vantaggio nella classifica piloti, e a nulla è servito il quarto posto conquistato da Quartararo, suo rivale per il titolo. L'Italia torna ad avere un pilota campione del mondo in MotoGP dopo 13 anni dall'ultimo trionfo di Valentino Rossi.
Dagospia il 6 novembre 2022. Dal profilo Facebook di Marino Bartoletti
Pecco vince il Mondiale con una moto italiana (e che moto!) di quella che adesso è la “classe regina” e un po’ - diciamo la verità - ci si commuove. E ci si commuove anche pizzico in più se si ha l’età per ricordare e soprattutto aver vissuto di persona l’analoga circostanza di 50 anni fa, quando Giacomo Agostini trionfò con la MV Agusta. Altri tempi, altre dinamiche, altre moto, altro panorama (Mino conquistò, praticamente senza avversari, 11 gare delle12 a cui partecipò, lasciando l’unica “briciola” in Jugoslavia al caro Alberto Pagani, suo devoto compagno di team).
Ora tutto è cambiato, a cominciare dal parco-rivali (sia "macchine", che piloti): e per questo il Mondiale di Bagnaia vale tanto di più. Anche se ovviamente il mito di Agostini resta e restano le affinità sia umane che professionali, legate soprattutto alla serietà con cui entrambi hanno interpretato il loro approccio alla carriera.
Ovviamente nel giorno dei “grandi paragoni” non può essere dimenticato Valentino che di Pecco è stato talent scout e maestro (oltre che suo ultimo predecessore italiano nell’albo d’oro).
E’ un titolo che fa storia quello del ragazzo di Chivasso. Perché dà l’idea di essere non solo un grande e meritato traguardo, ma soprattutto un primo gradino verso la leggenda.
Giorgio Terruzzi per corriere.it il 6 novembre 2022.
Bagnaia è campione. Primo italiano su moto italiana dopo 50 anni, Agostini, MV. Un campione anomalo. Pochi frizzi, nessun lazzo. Piuttosto casa — a Pesaro — e famiglia — a Chivasso. Tutti lì, a proteggerlo, incoraggiarlo, sostenerlo. La sorella Carola in divisa Ducati (è media manager del team), la fidanzata Domizia a soffrire in pianta stabile nel box. Non un personaggio da aneddoti e copertine, diversissimo da Valentino che pure l’ha adottato, l’ha svezzato, lo consiglia nei momenti chiave, come accaduto in questi giorni a Valencia. Eppure, di Rossi è l’erede conclamato, segnando una sorta di italica continuità nel primo anno di MotoGp senza «The Doctor» in pista.
Una consolazione per il Mondiale a due ruote, alla forsennata ricerca di una nuova star. Non proprio una manna perché lui, Francesco detto Pecco, è refrattario al riflettore, poco avvezzo alla ribalta nonostante un curriculum ormai luminoso. Campione mondiale in Moto2 nel 2018, campione supremo ora dopo portentosa rimonta; dopo titubanze da carico di responsabilità; dopo qualche caduta di troppo. Torinese, data di nascita 14 gennaio 1997, in moto da quando era alto così, avviato e accudito da babbo Pietro, mamma Stefania convinta che il carattere forte e determinato sia opera sua. Razionale, Bagnaia, lo è di certo. «Sbaglio una volta e poi più» ripete, intendendo una attitudine alla riflessione, all’analisi dei meccanismi propri, assidua ed efficace. Una dote che gli viene riconosciuta all’unanimità, abbinata ad una grinta mascherata, decisiva in corsa.
Tifa Juve, tifa Hamilton, un po’ costretto ad usare esclamativi anche per Leclerc, essendo stretta, territoriale e monocromatica la relazione tra Ducati e Ferrari. Una sola fissa, per le scarpe, il piacere di fare la spesa e cucinare giorno dopo giorno, se possibile in compagnia del cane bassotto Turbo, un nome come un marchio di famiglia. Non litiga, non sbraita. Ragiona, parla della propria padronanza mentale come del vero segreto per portare in fondo ogni gara, per forzare o frenare quando serve per vincere. La ricetta, risultati alla mano, funziona. L’ha trasformato in una specie di oggetto ancora oggi misterioso perché il limite vero di Pecco nessuno può raccontarlo, forse nemmeno lui.
Al punto da rendere arduo un pronostico pensando agli anni che verranno, al ritorno di Marquez, al talento di Quartararo. Avversari dotatissimi e più appariscenti di lui. Capaci di batterlo mica detto.
Francesco Bagnaia, il pilota erede di Valentino Rossi: «Da quando ho 15 anni amo Domizia. Sono il cuoco di casa». Giorgio Terruzzi su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.
«Valentino Rossi mi ha insegnato a respirare e a pensare positivo». «Quando provi a raggiungere un obiettivo importante è inevitabile che aumentino attenzioni e attese. È un onore»
«Pecco». Soprannome coniato dalla sorella Carola. Così lo chiamava quando, bambina, non riusciva a pronunciare il nome corretto: Francesco. Francesco Bagnaia. Piemontese. Cortese. Ha 25 anni. Razionale, riservato, aggressivo solo in moto. Impegnato in una forsennata rimonta sul francese Quartararo. Vuole vincere il titolo 2022 con la Ducati. In palio, l’eredità di Valentino Rossi, il suo mentore, diverso da lui nel carattere, nei modi.
Popolarità e pressione: sono disturbi o aiutano a cavarsela meglio?
«Quando provi a raggiungere un obiettivo importante è inevitabile che aumentino attenzioni e attese. È un onore. Cerco di stare lontano dai commenti di chi non sa, non ha competenza. In molti giudicano senza sapere. La pressione può aiutare a spingere ma può anche diventare fastidiosa».
In equilibrio su due ruote, in equilibrio sempre. La sua biografia è un inno alla stabilità. Fuori dalla pista non cade mai?
«Sono caduto l’estate scorsa. Un leggero incidente notturno a Ibiza, durante le vacanze, dopo aver bevuto più del lecito. Un errore che non andrebbe mai commesso. Sono rimasto mortificato a lungo perché sto parlando di una macchia che non rispecchia il mio carattere. È stato il punto più basso che ho toccato. E pensare che quella sera avevo deciso di muovermi in taxi... Mai più. Di solito non sbaglio due volte di fila».
Nato a Torino, cresciuto a Chivasso, in moto dall’età di 6 anni. Mai pensato di fare altro?
«Ho provato a praticare parecchi sport con buoni risultati, escluso il calcio, proprio un disastro. Ma le moto hanno alimentato una passione permanente. Ci fu un solo momento critico, negli anni dell’adolescenza. Cominciavo ad uscire con gli amici, con le ragazzine della mia età, era divertente. Stavo allenandomi in pista, era carnevale e non vedevo l’ora di raggiungere gli altri. Mio padre se ne accorse, fu bravo a spiegarmi quanto sia importante rispettare il proprio lavoro. Allora sembrava ancora un gioco ma compresi che una scelta comporta totale dedizione».
Pietro, suo padre, l’accompagna da sempre. Però mamma Stefania ripete: Francesco somiglia più a me. È testardo, forte nelle difficoltà.
«Ho preso da entrambi. Ha ragione mia madre quando dice che ho la testa dura. Faccio fatica ad accogliere un rimprovero. Poi ci penso e correggo il tiro. Come mio padre, fissato con la puntualità, cerco di arrivare in orario agli appuntamenti, anche se spesso non ce la faccio».
Ad assisterla in pista c’è sua sorella. È un caso o si fida solo della famiglia?
«Carola farebbe di tutto per farmi stare bene. Il suo lavoro è fondamentale, mi toglie una quantità di incombenze. È la mia social-media manager, si occupa anche dei rapporti con la stampa. È vero comunque: i miei famigliari mi rassicurano».
«Sono innamorato di lei da 10 anni». Parlava di Domizia Castagnini, la sua compagna. Matrimonio: se ne parla?
«Dividere la vita con lei è il mio sogno, credo si tratti di un sentimento reciproco. Conviviamo da tre anni, abbiamo appena celebrato il sesto anniversario del nostro fidanzamento. Insomma, si. In un prossimo futuro potrà accadere di sposarci».
L’ha portata a fare un giro di pista sulla sua Ducati. Non una esperienza piacevole. Era terrorizzata...
«Suo nonno era un calciatore della Juve, viene da una famiglia estranea al motociclismo. Era amica di mia sorella, mi piaceva da morire, ero completamente perso per lei. Cominciai a farle la corte e ancora oggi quando la vedo sento lo stesso profumo della prima volta. Proprio così. Talvolta mi spiazza con domande specifiche, inattese. Mostra una attenzione per ciò che riguarda la mia vita addirittura destabilizzante».
«Valentino mi ha insegnato a respirare profondamente, a togliere di mezzo un pensiero negativo». Cos’altro ha imparato dal Dottor Rossi?
«Anni fa ero veloce ma troppo istintivo. Vale mi ha aiutato a capire che si possono raggiungere grandi risultati usando la testa. Cadevo tentando un sorpasso affrettato, sbagliavo l’approccio a qualche curva... quella del respiro profondo è una immagine metaforica: significa provare a rimanere lucido mentre sei al limite. Penso sia un insegnamento prezioso».
Riti, scaramanzie. Ogni pilota ha qualche piccolo segreto. Quali sono i suoi?
«Non esistono. Mi limito ad accarezzare la moto prima della gara, ad abbracciare le persone vicine nello stesso modo, a dare un bacio a Domizia».
Due passioni: scarpe e cucina.
«Mangiare mi piace da matti ma anche preparare e sperimentare. Sono io il cuoco di casa, visto che finisco di allenarmi ben prima dell’ora di cena. Faccio la spesa, provo a inventare qualcosa anche se la mia dieta non è che permetta granché. Scarpe: sì, quasi una ossessione».
Con Domizia e il vostro bassotto Turbo vi siete trasferiti a Pesaro. Nostalgia dei vecchi amici, di casa?
«Le amicizie nate nell’adolescenza durano per sempre. Però non vivo troppo lontano da Chivasso. Quando ho voglia di tornare, è questione di qualche ora. Piuttosto mi è dispiaciuto aver perso la crescita di mio fratelli minore Filippo che oggi ha 16 anni».
«Non sopporto...». Cosa?
«Le persone che giudicano senza alcuna competenza. Chi parla per sentito dire o per presunzione. Le falsità. E poi non mi piace andare in posta per pagare una multa, una bolletta...».
Esiste un desiderio persistente, a parte vincere il Mondiale?
«Mi domando spesso cosa farò tra dieci o quindici anni, quando la mia carriera finirà. Sogno. Magari tornerò a vivere a Torino oppure chissà dove. O, più probabilmente, visto che Domizia mi sostiene così tanto, potrò ricambiare, dedicarmi di più a lei».
Famiglia, assistenti, amici. Però, il viaggio di un pilota è fatto di solitudine...
«Quando si tratta di partire sei solo e da solo devi affrontare ciò che ti aspetta. Infatti, penso che si debba essere un po’ solitari per raggiungere una dimensione ideale. Io lo sono. E da solo sto bene, certe volte ne ho proprio bisogno. E credo che abituarsi alla solitudine dia forza quando la solitudine è obbligata».
Ma lei, quando corre, parla? Con sé stesso, con la moto, con Dio...
«Più che parlare penso. Osservo cosa accade per reagire, scegliere. Il pensiero è il vero compagno di viaggio. Certe volte porta all’errore. Ma io, come ho detto, sbaglio una volta e poi basta».
Andrea Iannone. Gregorio Spigno per corriere.it il 19 settembre 2022.
Abbracciati, nel centro di Milano, non lontani da occhi indiscreti e dalle macchine fotografiche. L’uscita di coppia di Andrea Iannone con la cantante Elodie appare come una sorta di «outing». Non è la prima e non sarà l’ultima voce di gossip che riguarda il pilota, 33 anni e una vita di sicuro non facile. Adesso, ad esempio, è fermo per una squalifica per doping. Ma non molla la moto, la sua passione più grande. In una recente intervista ha ammesso di voler tornare in MotoGp. Ma quale è la storia di Iannone? Andiamo con ordine.
Ducati, Suzuki, Aprilia
Per Iannone 247 gare nel Motomondiale, con 13 vittorie. In MotoGp debutta nel 2013, alla guida della Ducati Desmosedici del team Pramac Racing. Nel 2015 passa al team ufficiale Ducati con compagno di squadra Andrea Dovizioso. In Qatar ottiene un terzo posto, il suo primo podio in MotoGp, alle spalle di Valentino Rossi e proprio Dovizioso. Al Mugello parte per la prima volta dalla pole, concludendo secondo.
In Australia torna sul terzo gradino del podio dopo una lunga battaglia con Lorenzo, Márquez e soprattutto Rossi, che termina al quarto posto. Nel 2016, nel Gp d’Austria ottiene la sua prima vittoria in MotoGp, e fa tornare al successo la Ducati dopo 6 anni. Il 19 maggio 2016 firma un biennale con la Suzuki per le stagioni 2017-2018. Nel 2019 il trasferimento in Aprilia, al team Gresini, fino alla squalifica per doping.
La squalifica per doping
Era il 2020, novembre, Iannone correva per l’Aprilia e viene squalificato per doping: l’accusa più infamante per qualsiasi atleta. Il Tas lo condanna a 4 anni di stop. Iannone, positivo al Drostanolone il 17 dicembre 2019, ha sempre dichiarato di aver ingerito lo steroide cenando tra la Malesia e Singapore.
È stato condannato non per aver assunto volontariamente la sostanza dopante ma perché incapace di dimostrare che si trattò di una assunzione accidentale. «È come se avessi qualcosa dentro di me che mi uccide pian piano — rivelerà in seguito il pilota — prima di andare a letto ogni sera e quando mi alzo ogni mattina mi sento un motociclista. Le corse mi mancano ma non ci devo pensare sennò impazzisco o mi uccido».
L’accusa mostra le foto in mutande: «Doping a scopi estetici»
Un’altra particolarità del processo è stato il comportamento dell’accusa: il pubblico ministero Jan Stovicek ha mostrato venti foto di Andrea in mutande, asserendo che dimostravano chiaramente l’assunzione del drostanolone «a scopi estetici». «Quando abbiamo presentato il report con l’analisi del capello — le parole dell’avvocato di Iannone, De Rensis —, prima ha aggredito verbalmente il nostro consulente e poi si è opposto alla sua acquisizione dicendo che il test non ha validità in ambito processuale». Il test del capello non aveva rivelato assunzioni di doping.
La storia con Belen Rodriguez
La relazione tra Andrea Iannone e Belen Rodriguez è durata circa due anni, dal 2016 al 2018. L’argentina si era appena separata da Stefano De Martino. Poi divergenze hanno convinto i due a proseguire ognuno per la propria strada. «Con Belen abbiamo avuto sempre un ottimo dialogo ed è stata la nostra forza. Ma sono arrivato in un momento della sua vita complesso, si stava separando, il suo matrimonio era svanito — ha raccontato Iannone a Verissimo —. Le ho portato tanto amore e del bene e lei ne aveva bisogno. Io l’ho sempre vista soffrire tanto per questo fallimento, lei lo chiamava così».
La seconda Rodriguez
Anche lei di cognome fa Rodriguez, ma di nome non Belen: Carmen Victoria. Più serena la relazione con l’ombrellina grande amica di Francesca Sofia Novello, compagna di Valentino Rossi, rispetto a quella con Belen.
La storia con Giulia De Lellis
L’influencer e il pilota: la storia risale al 2019. Viaggi insieme, il matrimonio di cui si era parlato e poi la fine. Perché? Lo ha spiegato lo stesso Andrea in un’intervista a Verissimo: «Giulia ha vissuto la parte più buia di me. Lei è arrivata nel momento in cui è successa la catastrofe e poi il Covid. Io ero con la testa altrove, mi sentivo con il mio avvocato anche la notte, non dormivo era tutto pessimo. Lei era in ascesa, io nella bufera più tremenda. Lei è molto simpatica, le voglio bene. Nonostante i suoi 24 anni mi ha dimostrato di esserci quando ne avevo bisogno».
Passione moda
Iannone è molto attento allo stile. Gli piace vestirsi in modo ricercato, mai banale. Camicie con colori sgargianti, altre a scacchi o maculate, giacche di pelle, occhiali da sole sempre presenti. Insomma, non lascia nulla al caso.
Allenamento tra palestra e boxe
Anche nei momenti più duri Iannone non ha mai smesso di allenarsi. Tante ore in palestra, un po’ di boxe per allentare la tensione. Su Instagram il pilota ha condiviso queste frasi motivazionali «Non ti arrendere mai. Neanche quando la fatica si fa sentire. Neanche quando il tuo piede inciampa. Neanche quando i tuoi occhi bruciano. Neanche quando i tuoi sforzi sono ignorati. Neanche quando la delusione ti avvilisce. Neanche quando l’errore ti scoraggia. Neanche quando il tradimento ti ferisce. Neanche quando il successo ti abbandona. Neanche quando l’ingratitudine ti sgomenta. Neanche quando l’incomprensione ti circonda. Neanche quando la noia ti atterra. Neanche quando tutto ha l’aria del niente. Neanche quando il peso del peccato ti schiaccia… Stringi i pugni, sorridi… E ricomincia».
LA GARA VISTA DAGLI SPALTI. Gran premio di Monza, il disastro organizzativo nascosto. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 13 settembre 2022
Il Gp di Monza è stato un evento molto diverso da come è stato raccontato dai media e l’ennesima occasione persa per dimostrare ai turisti stranieri che siamo ben più di una bella cartolina
Gran Premio da record. Sold out. 330.000 persone, il 65 per cento in più rispetto al 2019. Record di camere prenotate negli hotel: 30mila in oltre 400 strutture. Ogni spettatore ha speso circa 500 euro, l’indotto è stato incredibile.
Insomma, il Gp d’Italia, nel centesimo anniversario del circuito di Monza, ha avuto un successo clamoroso.
Almeno questo è quello che raccontano gli organizzatori, i giornali, le tv, l’amministrazione locale. Peccato che a sentire chi al Gran Premio c’è stato senza avere una sedia riservata accanto al presidente Mattarella descriva un evento molto diverso, con un’organizzazione a dir poco disastrosa e un’infinità di disagi patiti da tutti, dall’inizio alla fine delle giornate di corsa.
I COSTI PER UNA NOTTE
Prima cosa: nei tre giorni del Gran Premio i costi degli hotel nei dintorni hanno raggiunto cifre che neppure nelle capitali del mondo più costose: parliamo, a Milano, di hotel a tre stelle venduti anche a 600 euro a notte in camere standard e micro-appartamenti in periferia affittati come case di lusso.
L’effetto Monza ha creato per tutta la settimana disagi a chi è venuto in città per lavoro e turismo e si è trovato a pagare cifre esorbitanti per dormire in sistemazioni modeste. «Io faccio la sarta di scena e sto seguendo una tournée, con la mia diaria mi sono potuta permettere, per la prima volta da quando lavoro a Milano, una camera doppia in condivisione in un b&b in Corvetto», racconta Isabella. Ma questo è niente rispetto a ciò che è accaduto a chi è andato ad assistere al Gran Premio, pagando i biglietti a prezzi non proprio popolari.
LE FILE
All’interno era proibito portare bottiglie e borracce, quindi si poteva acquistare da bere solo nei punti vendita dentro l’area, che erano insufficienti. Il risultato è che col caldo la gente ha dovuto fare file anche di ore, con bambini stremati e persone che si sentivano male o si lamentavano per la disorganizzazione. «Io sono un vero appassionato, darei la vita per questo sport. Lavoro con queste auto, le costruisco, ma posso dire che quello che ho visto in questi tre giorni di Gp vissuti da tifoso mi ha schifato. Code infinite, bagni davanti ai baracchini dei panini, una disorganizzazione assurda, non ci tornerò mai più», mi racconta Valerio, mostrandomi i video girati da lui delle code impressionanti per l’acqua.
I bagni, per la cronaca, erano pochissimi, davanti si sono create file di un’ora e, a sentire chi è riuscito ad entrarci, le condizioni igieniche erano a dir poco disastrose.
Tra i problemi più grossi, poi, le enormi file all’ingresso (un unico percorso) e uscita, con gente che scavalcava le transenne, migliaia di persone stipate anche nel sottopassaggio e un’attenzione per la sicurezza più che discutibile (come sarebbero riusciti a gestire un deflusso rapido in caso di allarme?).
Molti testimoni raccontano che c’era chi riusciva ad accedere all’interno prima dell’apertura dei cancelli, col risultato che anche chi si metteva in fila alle 4 trovava i posti migliori già occupati. «Scordatevi la Roggia e la Ascari. Se entrate tra i primi provate alle Lesmo. Se vi mettete in coda dopo le 6 del mattino mettetevi il cuore in pace per le gradinate e portate sedie e sgabelli», scrive uno spettatore sul sito di recensioni dell’evento.
C’era poi la necessità di acquistare token (gettoni per comprare da mangiare perché non erano consentiti contanti e carte), ma anche in quel caso si faceva una lunga coda. I ragazzi che lavoravano lì venivano costantemente interpellati per i problemi più svariati e non sapevano come gestire i problemi del pubblico. I braccialetti (alternativa rapida ai gettoni) che andavano ricaricati online per consumare cibo all’interno, in molti casi sono risultati non funzionanti, i venditori dicevano di non riuscire a fare andar il pagamento e quindi bisognava fare una fila infinita per comprare i token, ovvero i gettoni. Insomma, per comprare un panino si potevano fare anche due file da un’ora ciascuna.
LE RECENSIONI E I TOKEN
Altre recensioni confermano quello che mi hanno raccontato amici e testimoni che sono stati a Monza nel weekend: «Mezz’ora di coda per acquistare il token e un’altra ora per prendere una birra…Gente che sradicava tronchi interi per vederci meglio, gente che rubava i tavoli… La domenica se non c’è scappato il morto è un miracolo tra la ressa che c'era, la disorganizzazione ai cancelli e le due ore per una bottiglia d’acqua, uno scempio!».
«Rispetto zero per i disabili che dovevano fare chilometri a piedi nella calca per poi arrivare alla “tribuna” dedicata, che altro non è che una gradonata della zona prato chiusa per l'occasione, senza servizi dedicati ed in pieno sole per tutto il giorno. Visto che ti requisiscono tappi e borracce all’ingresso e ci vogliono ORE per arrivare all’acqua pagata a peso d’oro degli stand, è un miracolo che nessuno si sia sentito male».
«Era il regalo di compleanno di mia moglie per consentire a me e nostro figlio l’esperienza del primo Gp. Prezzo totale 630€ (450+150 per un bambino di anni 9!) Esperienza da dimenticare!! Nessuna assistenza da parte di nessuno. In qualsiasi posto del mondo, in qualsiasi manifestazione sportiva, la presenza di bambini viene notata ed attenzionata diversamente. A Monza no! Il bambino completamente circondato da una marea di persone in ogni circostanza per diverse ore: per raggiungere il bus, per entrare al parco, per mangiare (rinunciato) per bere (grazie a un addetto che si è reso conto dell’esigenza del minore su precisa insistenza del sottoscritto si è riusciti a recuperare una bottiglietta da 500ml). Prezzi esorbitanti e calca ovunque senza alcun controllo. Parecchia tensione all’ingresso, distanze siderali per raggiungere il posto assegnato ed indicazioni errate che prolungano enormemente la già stressante “passeggiata” insieme ad oltre 100.000 persone. Ma chi è lo “scienziato” che ha inventato il sistema dei token? Centenario? Certo, l’organizzazione è apparsa veramente di cento anni fa».
Insomma, pare che alcuni siano riusciti solo a guardare le frecce tricolore, alzando il naso all’insù, ma della gara non abbiano visto niente.
NON TUTTI SONO VIP
Ilaria mi racconta la sua esperienza, ancora arrabbiata per come sono andate le cose a Monza. «In tv nessuno dice quello che è successo davvero, ma noi mortali non abbiamo vissuto l’evento come i vip e forse si dovrebbe sapere. Anche perché c’erano tantissimi stranieri e hanno vissuto il nostro stesso incubo, un pessima pubblicità. Code nei campi per raggiungere i cancelli, code ai cancelli, code per i controlli di zaini e borse. I cancelli aprivano alle otto, la prima corsa era alle 8,30 e quasi tutti non riuscivano a vederla. Chi non aveva biglietti costosissimi da tribuna come me non ha visto niente, c’erano persone arrampicate ovunque e molti non sono riusciti a vedere neppure una macchina passare. Ma poi nel 2022 a chi può venire la geniale idea di dare i gettoni e non far usare le carte di credito? Gettoni che poi a un certo punto sono finiti per cui bisognava aspettare che rifornissero la scorta. E vuole sapere come davano i gettoni? Nei bicchieri di plastica da birra. Un consumo di plastica assurdo».
«Mi faccia dire anche qualcosa sul personale che per carità era volenteroso ma non qualificato, davano indicazioni sbagliate, perfino. E poi rifiuti ovunque, persone che pur di non lasciare il posto si sentivano male sotto al sole. Si è raccontato un evento perfetto, patinato, ma la verità è che hanno pensato solo ad incassare soldi, al profitto».
E a proposito di rifiuti, si sono raccolte 12 tonnellate di materiale indifferenziato più 2,5 tonnellate di plastica e lattine. Del resto, in un caos simile, pretendere di organizzare una raccolta differenziata sarebbe stato leggermente utopico. Insomma, un evento molto diverso da come è stato raccontato dai media e l’ennesima occasione persa per dimostrare ai turisti stranieri che siamo ben più di una bella cartolina. Quali italiani, forse, sono rimasti più delusi che stupiti.
SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.
CAOS NEL CENTENARIO. L’autodromo di Monza si «rammarica» per i disagi durante il Gp dopo l’articolo di Domani. Il Domani il 15 settembre 2022
L’autodromo promette «verifiche» anche con i «partner commerciali» e promette di «assumere provvedimenti». Su Domani, Selvaggia Lucarelli aveva raccontato la disorganizzazione dell’evento, tra mancanza di sicurezza e code infinite per i bagni e per acquistare da bere
L’Autodromo nazionale di Monza ha espresso oggi con un messaggio su Facebook il «proprio rammarico» per «disagio di quanti, fra i tantissimi tifosi accorsi all’ultimo GP d’Italia, sarebbero incappati in taluni inconvenienti» e promette «una rigorosa verifica» per «accertare e approfondire l’origine di eventuali criticità e assumere i conseguenti provvedimenti perché ciò non si ripeta in futuro».
Il messaggio di scuse arriva dopo l’articolo di Selvaggia Lucarelli, pubblicato da Domani, in cui si denunciavano le condizioni di caso e disorganizzazione che hanno caratterizzato il Gran premio di Formula uno che si è svolto lo scorso fine settimana, nel centenario dell’autodromo.
Durante il Gran premio, racconta Lucarelli, «era proibito portare bottiglie e borracce, quindi si poteva acquistare da bere solo nei punti vendita dentro l’area, che erano insufficienti. Il risultato è che col caldo la gente ha dovuto fare file anche di ore, con bambini stremati e persone che si sentivano male o si lamentavano per la disorganizzazione».
Difficile anche la situazione dei servizi igienici che «erano pochissimi, davanti si sono create file di un’ora e, a sentire chi è riuscito ad entrarci, le condizioni igieniche erano a dir poco disastrose». Non solo, tra i problemi più grossi Lucarelli segnalava anche «le enormi file all’ingresso (un unico percorso) e uscita, con gente che scavalcava le transenne, migliaia di persone stipate anche nel sottopassaggio e un’attenzione per la sicurezza più che discutibile (come sarebbero riusciti a gestire un deflusso rapido in caso di allarme?)».
La vita a cento all'ora della "baronessa" delle auto. Fu la prima a correre la Mille Miglia e a essere accettata a Indianapolis. Coraggiosa e caparbia, fece da apripista alle donne al volante nei circuiti. La vita della prima pilota automobilistica, Maria Antonietta Avanzo. Francesca Bernasconi il 28 Settembre 2022 su Il Giornale.
Una vita vissuta con il piede sull'acceleratore. I circuiti erano le sue strade e le auto da corsa il suo mezzo di trasporto. Soprannominata la "baronessa" delle auto, fu la prima donna a correre la Mille Miglia e a gareggiare con piloti come Tazio Nuvolari ed Enzo Ferrari. Maria Antonietta Avanzo fu una donna e una pilota straordinaria, così decisa e coraggiosa da non tirarsi indietro nemmeno quando, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, si trovò di fronte agli orrori dell'Olocausto. La sua caparbietà la spinse dove nessuna donna era mai arrivata, rendendola l'apripista dell'automobilismo al femminile.
L'amore per le auto
Maria Antonietta Avanzo nacque nel 1889 a Contarina, un comune in provincia di Rovigo, che prese poi il nome di Porto Viro, quando venne accorpato al paese di Donada. I genitori erano ricchi proprietari terrieri veneti, i Bellan (lei cambierà il cognome, come si faceva solitamente a quei tempi, una volta sposata).
A trasmetterle l'amore per le automobili sarebbe stato il padre, che l'avrebbe incoraggiata a guidare fin da quando era piccola. Fu lei stessa, come precisato da Enciclopedia delle donne, a raccontare di aver imparato a guidare da sola e di aver sottratto la macchina al padre, spingendola a folli velocità sulle strade che circondavano la villa di campagna della famiglia. Fra le vittime dei suoi primi incidenti, racconta, ci furono "cani, gatti, galline e segretari comunali".
Nel 1908 Maria Antonietta si sposò con Eustachio Avanzo, si trasferì con lui a Roma ed ebbe due figli.
Le prime gare
Dopo il matrimonio e la fine della Prima Guerra Mondiale, il marito le regalò una Spa 35/50 Sport, l'auto con la quale affrontò la sua prima gara automobilistica. Il suo debutto come pilota avvenne nel 1918, quando corse sul Circuito del Lazio.
Nel 1920 Maria Antonietta ritornò di nuovo alla guida, questa volta di una Buick, partecipando all'undicesima Targa Florio, ma non riuscì a completare la gara a causa di un guasto al motore. Appena un anno dopo gareggiò sul circuito del Garda, sostituendo un pilota della squadra Ansaldo, ammalatosi poco prima: arrivò terza al traguardo, dietro a Corrado Lotti e alla leggenda dell'automobilismo, Tazio Nuvolari.
Nello stesso anno, Maria Antonietta si recò per la prima volta all'estero, per partecipare alle gare di chilometro lanciato che si tenevano sulla spiaggia di Fanø, in Danimarca. Durante la seconda competizione, la Avanzo ebbe un incidente, che seppe gestire in modo esemplare: dopo che la macchina prese fuoco, la pilota abbandonò le dune sabbiose e si gettò in mare.
Poco dopo, sempre nel 1921, tornò in Italia per disputare il Gran Premio Gentleman di Brescia, correndo a bordo di un'Alfa Romeo. In questa occasione ottenne uno dei suoi risultati migliori, classificandosi al terzo posto assoluto. Nel 1923, la pilota lasciò l'Italia e si recò in Australia con i due figli, ritirandosi temporaneamente dalle corse.
Dalle Mille Miglia a Indianapolis
Ma non passò molto tempo prima che la "baronessa" tornasse in pista. Era il 1926 e in Italia si disputava la Coppa della Perugina, alla quale la Avanzo partecipò, classificandosi al terzo posto. Fu nel 1928, però, che la "baronessa" puntò alla gara più ambita e difficile della storia dell'automobilismo: la Mille Miglia.
Si iscrisse insieme a Manuel de Teffé e vi partecipò con una Chrysler 70, ma non potè giungere al traguardo a causa di un guasto tecnico. Nonostante l'apparente insuccesso, la presenza della Avanzo rappresentò una vittoria dal punto di vista della lotta femminista, perché lei fu la prima donna a partecipare alla Mille Miglia.
Dopo aver corso nella Coppa Pierazzi, classificandosi al terzo posto, nel 1932, a 43 anni, la pilota accolse l'invito di Raffaele "Ralph" De Palma a partecipare alle 500 Miglia di Indianapolis. Ottenuta una licenza speciale, dato che le donne non erano ammesse a correre sul circuito, la Avanzo completò le prove di qualificazione correndo sulla Miller Special di De Palma, ma dovette rinunciare alla gara.
L'ultima competizione a cui partecipò la pilota fu la Tobruch-Tripoli nel 1940, dove arrivò sesta. Ma per tutto il resto della sua vita Maria Antonietta Avanzo sfrecciò per le strade di Roma, fino al 17 gennaio 1977, quando morì all'età di 88 anni.
Una donna rivoluzionaria
Maria Antonietta Avanzo fu pioniera in molti ambiti e divenne uno dei simboli dell'emancipazione femminile. La sua carriera automobilistica si sviluppò tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento, un periodo in cui nel mondo le donne chiedevano a gran voce che gli fossero riconosciuti gli stessi diritti degli uomini. Ma, in Italia, il Fascismo tendeva a relegare le donne al ruolo di mogli e madri. Ai tempi, quindi, il genere femminile era quasi escluso dallo sport e le ragazze alla guida di un'automobile erano pochissime. In generale i settori nei quali le donne avevano una scarsa o nulla rappresentanza erano parecchi.
La Avanzo sfidò la società del tempo, non solo diventando la prima donna pilota a correre diverse competizioni, ma anche dimostrando di essere migliore di alcuni uomini che svolgevano il suo stesso sport, battendoli sul circuito. Così fece da apripista all'automobilismo femminile. Non solo. Maria Antonietta Avanzo diede uno schiaffo alle convinzioni maschiliste dei primi decenni del Novecento: dal trasferimento in Australia, alla decisione di riprendere a gareggiare, fino alla volontà di crescere i figli senza rinunciare a correre, si mostrò indipendente e sicura di sé.
La personalità di questa donna rivoluzionaria è stata caratterizzata anche dal coraggio, che le ha permesso di diventare un'icona dell'automobilismo al femminile. Quello stesso coraggio che, qualche anno più tardi, le servì per affrontare la Seconda Guerra Mondiale e per nascondere alcuni ebrei, salvando loro la vita.
Sono passati trent’anni dall’ultima pilota donna in Formula Uno. Giovanna Amati è stata l'ultima racing woman: nel 1992 la rapida esperienza - non scintillante - alla Brabham. Paolo Lazzari l'11 settembre 2022 su Il Giornale.
I polpastrelli sono premuti contro la pelle lucida del volante, anche se non è mai stata un’inclinazione di famiglia. Mamma e papà flirtano con il cinema, figurarsi cosa gliene può fregare dei motori. Giovanni Amati possiede numerose sale nella capitale, mentre Anna Maria Pancani è attrice di fama preclara. Giovanna però è differente. Pazienza se qualcuno arriccia il naso, tentando di dissuaderla: lei affonda il pedale lungo la sua personalissima strada.
Romana sincera, una nuvola di lunghi capelli mossi che scendono sulle spalle a incorniciare un viso gentile, pare tutto fuorché una predestinata delle quattro ruote. La passione incisa nella genetica tuttavia è un rivolo che scorre incessante, seguendo logiche che non richiedono giustificazioni. I poster stropicciati che accarezza nella sua cameretta non sono quelli di una qualsiasi teenager. Niente gruppi musicali da scrutare con occhi sognanti, mentre una musichetta si lavora la stanza in sottofondo. La sua playlist è monoteistica: il ruggito vibrante di un motore.
Aspettative che rischiano di infrangersi prima ancora di appollaiarsi in un abitacolo, se la banda dei marsigliesi decide di rapirti per incassare una prebenda. È il 1978 e Giovanna ha soltanto diciannove anni. È piccola, tesa, impaurita. La tengono prigioniera in un pertugio fetido per settantacinque giorni, prima di lasciarla andare a fronte di un riscatto panciuto, da 800 milioni sonanti delle vecchie lire. In quel drammatico intervallo temporale però succede una di quelle cose che non puoi aspettarti mai. Il leader dell’organizzazione, Daniel Neto, ne abusa sessualmente. Un fatto esecrabile, che tuttavia funge da innesco per un innamoramento inedito. La sindrome di Stendhal è servita. Ne farà le spese anche lo stesso Neto, braccato e catturato qualche giorno dopo. Lo pizzicano nel bel mezzo di via Veneto, mentre sta andando ad un appuntamento per incontrare di nuovo Giovanna.
La ragazza è scossa, ma i sogni che coltiva non contemplano pit stop prolungati. Archiviato il sequestro, si mette alla ricerca di una vettura che le consenta di esprimere tutte le sue qualità. La spunta ad inizio anni Ottanta, grazie ai consigli dell’amico Elio De Angelis. L’incipit è in formula Abarth, palestra stimolante per ossa in formazione. Poi il gran salto, quello verso la Formula 3. Qui il palcoscenico riflette luci diverse. In pista contende ogni chicane a piloti che, successivamente, sfrecceranno a bordo di gloriose monoposto in Formula 1.
Quello scintillante Olimpo è la tappa successiva. L’incrocio elucubrato dal destino la appaia con una scuderia appannata, sorta trent’anni prima nell’operoso ventre di Milton Keynes. Finanziariamente allo sbando e forzatamente disincantata, la Brabham sospira ogni volta che socchiude le palpebre per ripensare al suo glorioso passato. Nel 1992, attingendo ad un rimasuglio di forze, ingaggia due piloti. Il primo è Eric Van de Poele. Va tutto liscio. Quando però la scuderia approccia il talento nipponico Akihiko Nakaya, la strada si impenna d’un tratto. La FIA respinge al mittente la domanda di Super Licenza del pilota e lascia gli inglesi al palo.
Pressata da un orologio pronto a trillare sul gong da un istante all’altro, la Brabham ha una manciata di giorni per schivare la mattanza tecnica e mediatica. Così, sul suo secondo scranno, si accomoda proprio Giovanna: munita dell’esperienza necessaria, assurge all’onorevole rango di seconda donna in Formula Uno, dai tempi di Desire Wilson. Chi si sfrega le mani per un balsamico lieto fine è destinato tuttavia a deglutire spanne generose di frustrazione. Amati ci prova ma non riesce a scalfire la cortina intangibile che la separa dal resto del circus.
Sui circuiti di Kyalami, Mexico City ed Interlagos la qualifica diventa un miraggio, mentre il distacco da chi strappa la pole position assume proporzioni imbarazzanti. Un fallimento figlio di padri molteplici. Le tessiture meccaniche della scuderia britannica emettono clangori funesti, costringendola sovente ai box. La totale mancanza di test con la monoposto anestetizza un feeling che non scocca mai. Finita per la prima volta nel tritatutto della Formula regale, Giovanna denuncia limiti tecnici e carismatici che non ha il tempo per colmare. I titoli di coda si srotolano con lo stesso sollecito incedere con cui era stata premuta in pista.
Amati, con quei polpastrelli, ha stretto una liana sfilacciata oscillando sopra una giungla di soli esemplari maschi. Quell’habitat l’ha trangugiata in fretta. Trent’anni invece, mettendosi di traverso, hanno soltanto sbiadito il ricordo dell’ultima donna che ha osò incrinare dogmi scolpiti nella pietra.
Marco Simoncelli, parla la fidanzata Kate Fretti: «Dopo l’incidente ero come tagliata in due». Giorgio Terruzzi su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2021 modificato 4 Settembre 2022.
Kate Fretti era la fidanzata del pilota di MotoGp Marco Simoncelli morto in pista in Malesia nel 2011: «Lavoro con suo padre alla Fondazione per il Sic. La mia vita cambiò in pochi secondi, ora ho un’ansia permanente. Oggi restano i ricordi»
«Dieci anni senza Marco. Penso che sia passato davvero molto tempo ma non è che un anniversario porti a ricordare. Accade ogni giorno». Kate Fretti era la fidanzata di Simoncelli. Insieme sempre, con l’idea di mettere su casa a Coriano, dove si era trasferita da Bergamo per amore, dove è rimasta per amore. Si occupa della Fondazione intitolata al Sic, morto in pista a Sepang, Malesia, il 23 ottobre 2011; viaggia tra le terribili intensità del suo ieri e le concretezze di oggi con una dolcezza preservata e la percezione del dolore. Proprio e altrui.
«Poco dopo la tragedia, mi scrisse una ragazza. Anche lei aveva perso il fidanzato. Siamo diventate amiche. Nel 2014 mi confessò che erano passati dieci anni dal suo lutto e che si era abituata a sopportarlo. Disse una cosa molto carina: se potessi far tornare qualcuno, farei tornare il tuo Marco. Ecco, forse sono più egoista ma non cambierei Marco con nessuno».
Ha 32 anni. Ne aveva 17 quando conobbe Marco, ne aveva 22 quando lo perse. Se guarda indietro cosa trova?
«Ho sempre tenuto dei diari e un giorno scriverò un libro anche se non l’ho mai detto a nessuno. Li ho riletti per dare un contributo al docufilm su Marco e mi sono resa conto che ho vissuto quegli anni come una bambina, senza pensare al futuro. Mostravo una leggerezza che adesso mi manca perché ho capito che le cose brutte accadono. La mia vita cambiò in una manciata di secondi. Da allora ho a che fare con un’ansia permanente. Se mio fratello non risponde al telefono penso al peggio. Prima di quella tragedia i brutti pensieri non avevano spazio».
Il tempo cura le ferite. È proprio vero?
«Mostra la realtà in modo diverso. Se avessi continuato a vivere come ho vissuto l’anno successivo alla morte di Marco mi sarei ammazzata. Ero tagliata in due, mi mancava un pezzo della mia esistenza. Per fortuna siamo fatti per sopravvivere, la mente cerca di allontanare il dolore. Non lo annulla, lo attenua un po’».
C’è stato Marco con il quale condividere una intimità e poi c’è il Sic, una figura che appartiene a tutti noi. Dove le due immagini coincidono?
«Il Sic fa parte della mia vita oggi. Quando qualcuno mi parla di Marco penso al lavoro nella Fondazione. Poi ci sono i ricordi, il suo modo di essere affettuoso, anche se il lato romantico era ai minimi termini. Avevamo vent’anni, sul romanticismo, un disastro. Ora con Andrea, il mio ragazzo, vado meglio, mi impegno di più».
«Casa Simoncelli» è una struttura che accoglie disabili; casa Simoncelli è diventata casa sua…
«La prima è un centro diurno che abbiamo finanziato per donarlo alla Comunità di Montetauro. Il progetto mi spaventava, era molto costoso. Ce l’abbiamo fatta e frequento la Casa per dare una mano ad alcuni ragazzi in difficoltà. Poi, parlare di casa Simoncelli significa parlare della mia famiglia. Dopo l’incidente rimasi a vivere con loro, mi hanno accolta. Potevamo sostenerci a vicenda e così è stato».
Paolo Simoncelli è rimasto in pista. Mamma Rossella e Martina, sorella di Marco, che strada hanno percorso?
«Rossella continua ad assistere Paolo, come ha sempre fatto. Martina ha studiato, ha viaggiato, lavora in Spagna. Credo che non sia pronta per lavorare con suo padre e che non desideri che si parli di lei».
La Fondazione è attivissima. Il dolore restituisce energie?
«Forse sì. Abbiamo costruito una casa in un orfanatrofio nella Repubblica Domenicana per ospitare ragazzi disabili. Poi abbiamo deciso di agire qui anche perché i donatori sono italiani, aiutando il pronto soccorso e la Croce Rossa di Rimini ad acquistare un ecografo e una ambulanza pediatrica, stiamo cercando di sostenere un centro per ragazzi affetti da autismo a Ferrara».
Motomondiale. Incidenti, morti in pista, con dinamiche simili a quella che ha portato via Marco...
«La Fondazione esiste perché esistono le gare. Il team Simoncelli, lo stesso. Io e tanti miei amici lavoriamo grazie alle moto. Ma talvolta di fronte a tutte queste tragedie mi viene da dire: chiudiamo tutto subito. È un pensiero che cancello quando penso che in fondo questo è il mio mondo».
Rossi corre per l’ultima volta sulla pista intitolata al Sic nel decennale della scomparsa. Il filo che lega Valentino a Marco resiste sempre?
«Sono stati due ragazzi che si sono voluti molto bene. Come capita tra amici veri».
Cesare Fiorio: «Nella masseria fra gli ulivi conservo la Ferrari di Mansell. Briatore? Un fenomeno». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022.
L’ex manager di F1: per produrre l’olio ho ripreso a studiare. Un amico mi tempestava di foto di trulli e mi invitava in Puglia. Nel 2000 sono venuto la prima volta. Dissi: resto fino a Natale, non sono più andato via.
Cesare Fiorio, dopo una vita tra rally, F1 e offshore lei ora gestisce una masseria in Puglia, occupandosi pure di olio e grano: si sente più un manager dei motori o un imprenditore che spazia nell’agricoltura?
«Quarant’anni nelle corse sono indimenticabili, ancora oggi la gente mi ricorda per quello che ho fatto: ho cambiato vita, ma guardo a quel passato».
Questa nuova «pelle» la sorprende?
«No. È stata una svolta progressiva. Non conoscevo la Puglia. Un amico mi tempestava di foto di trulli e di ulivi secolari: “Vieni qui”. Nel 2000 raccolsi l’invito: rimasi colpito dal territorio, dal clima e dalla gente, calma e cortese. Mescolai gli ingredienti e comperai un appartamento a Ostuni».
Però lei viveva in Sardegna.
«Il progetto del record atlantico con Destriero mi aveva fatto fare base a Porto Cervo. Però volevo scappare: troppa gente, troppo casino. Così ero sempre più spesso in Puglia. Un anno dissi: “Rimango fino a Natale”. Ecco, non sono più andato via».
L’idea della masseria com’è maturata?
«Era un rudere, gli uliveti erano incolti. Scattò la scintilla: andava rimessa a posto. Attorno aveva 27 ettari di una terra coltivabile che costava poco. Mi sono inventato contadino? Non proprio: avevo cominciato a studiare la coltivazione degli ulivi per imparare a fare l’olio. È una lavorazione difficile, ho interpellato grandi esperti per arrivare a un prodotto fuori dal comune».
È stato come tornare sui banchi di scuola?
«Seguivo i contadini, ma mi sono reso conto che erano rimasti ai criteri di cent’anni fa. Così ho studiato e ho frequentato seminari per raggiungere un livello di eccellenza».
Ospitalità alberghiera e olio: è questo il «core business»?
«C’è molto di più: innanzitutto siamo un’azienda agricola biologica che produce pure il grano Senatore Cappelli, pregiato e di tendenza. Sono in pochi a dedicarsi a questa lavorazione. Ci sono poi frutteti, la bio-piscina, un percorso di 2 km dedicato alla biodiversità e sette camere ricavate in vecchi trulli. Nella masseria ho dedicato un locale, la stanza Ferrari nella quale ho lo scafo della Rossa di Nigel Mansell che vinse in Brasile, per un’iniziativa nei giorni dei Gp: brunch e F1. Gli ospiti vengono, fanno uno spuntino, vedono la corsa con me e poi assieme la commentiamo».
Lupus in fabula: la F1. Più bella quella di oggi o quella dei suoi giorni?
«Il fascino della F1 è senza tempo e offre storie uniche. Spesso ricordo quando dirigevo la Ligier, che era di Flavio Briatore: ogni volta era una sfida infernale, si partiva non da zero ma da sottozero. E ce l’abbiamo fatta, imponendoci addirittura a Montecarlo nel 1996, tant’è che Flavio l’ha rivenduta due volte».
Due volte?
«Sì. La vendette, poi la riacquistò da chi non aveva saputo gestirla bene, quindi la cedette di nuovo. A lui importavano gli affari, io guardavo di più, romanticamente, allo sport e ai risultati. Così una volta mi apostrofò: “Sei l’ultimo rimasto che cerca di vincere le gare”».
Flavio è tornato in F1, come consulente.
«È un fenomeno: azzeccava i collaboratori, ascoltava quelli che ne capivano, è sempre stato modesto. Ed è riuscito a entrare nella stanza dei bottoni».
Come si vince in F1?
«Con le intuizioni. Se non ne hai e vai a rimorchio, arrivi sempre dopo: il punto di rottura è la soluzione che altri non hanno pensato. Volete conoscere un aneddoto?».
Prego, racconti pure.
«Nei rally ho avuto Marku Alen, fuoriclasse assoluto. Costringeva l’ingegner Lombardi, il direttore tecnico, a pasteggiare a pesce. E gli diceva, in italiano maccheronico: “Tu Lombardi mangiare pesce, così fosforo ti accende lampadina».
I rally, un amore che ha preceduto quello per la F1.
«Gareggiavo in pista e in salita, più che nei rally. Creai un team con due amici, mi feci un nome. Come manager sono nato nella Lancia, ma quando fu comperata dalla Fiat fui nominato coordinatore dei due reparti corse. Quando correvo, il mio navigatore era Daniele Audetto, un tipo sveglio: gli chiesi di seguirmi, per anni mi fece da vice. Ora è triste vedere che uno sport come questo non finisce più nemmeno nelle “brevi” dei giornali».
Il ruolo di team principal della Ferrari è stato la laurea motoristica?
«È stato un punto d’arrivo, del quale sono orgoglioso. Nei 10 anni precedenti la Ferrari aveva vinto solo 3 volte. Io di 36 GP ne ho vinti 9, quindi un successo ogni 4 corse. E un Mondiale sfiorato, nel secondo anno: se Senna non avesse buttato fuori Prost a Suzuka, sarebbe stato nostro».
Però alla Ferrari lei voleva Ayrton. E Prost s’inferocì.
«La realtà è diversa. La trattativa con Senna la conoscevamo solo io, lui e il board Ferrari. Prost fu sobillato da un altolocato boiardo aziendale: “Lo sai che il tuo capo sta per ingaggiare Senna?”. Mi scavalcò e aggiunse: “Finché ci sarò io, Ayrton non arriverà”. Prost invitò questa persona a dirlo a Cesare Romiti. Capii che per me il tempo a Maranello era finito».
Sarebbe riuscito a farli coesistere?
«Non mi interessava che i due andassero d’accordo. I piloti non devono volersi bene, al diavolo chi pensa il contrario».
Senna avrebbe cambiato il destino ferrarista?
«Sì. Ma anche il mio (risata)…».
Nello scorso decennio la Ferrari ha «bruciato» Alonso e Vettel: è mai possibile?
«Quando hai piloti di quel livello devi vincere entro un paio d’anni: sennò crolla tutto».
A Michael Schumacher ne sono però occorsi 4 prima di arrivare al titolo con il Cavallino.
«Luca di Montezemolo copriva le difficoltà…. La Rossa ha impiegato 7 anni a uguagliare i miei risultati, ma a me hanno messo i bastoni tra le ruote e mi hanno rinfacciato un Mondiale perso dopo 10 anni di buchi: di che cosa parliamo?».
Lei è stato una «chioccia» dei piloti italiani.
«Alboreto, Patrese, Fabi, Nannini… Il primo pensiero alla Ferrari è stato per loro. Nannini si è autoeliminato, voleva due anni di contratto e io gli dissi: uno solo e poi vediamo, qui decido io. Non ha capito che era una verifica necessaria. In quel momento Alesi era l’astro nascente e, vista la posizione di Nannini, presi lui. Jean dovrebbe odiarmi: l’ho strappato alla Williams, dopo tre mesi ho lasciato la Ferrari e la Williams ha vinto tre Mondiali».
Un bel giorno, Fiorio si dedica al mare: offshore, gare e record.
«In realtà regatavo già a vela, con i Flying Dutchman».
Ma lei non era l’uomo delle montagne?
«Sì, sono stato a lungo presidente dello Sci Club Cervino e ho “allevato” tanti sciatori. L’offshore arrivò perché allestii una squadra per Carlo Bonomi: poi sono diventato navigatore e pilota, vincendo due Mondiali e un Europeo. Infine ho avuto la chance del primato sull’Atlantico con la nave Destriero, un’impresa che vale il Nastro Azzurro e che rimarrà nella storia».
Era il 1992, trent’anni fa. Da New York alle Isole Scilly in Inghilterra: 3.106 miglia in 58 ore e 34 minuti alla media di 100 km orari. Lei pilotava ed era il responsabile organizzativo: tuttora è un record imbattuto, eppure l’hanno contestato.
«È una manovra degli inglesi: hanno inventato l’Hales Trophy per navi passeggeri contrabbandandolo per il Nastro Azzurro, che invece è un’altra cosa. Il primato è nostro, a pieno titolo».
Un successo sportivo e tecnologico.
«Abbiamo già festeggiato il trentennale — anche se la data del record è il 9 agosto — e ci si sta adoperando per far tornare Destriero in Italia: ora accumula ruggine in un cantiere tedesco, vogliamo che diventi un museo. Era un progetto avveniristico al quale partecipò il meglio della nautica mondiale partendo da Fincantieri, azienda statale che mandava a casa la gente perché priva di ordini militari».
Quindi avete contribuito a salvarla?
«Non è esagerato sostenerlo. La General Electric fornì tre turbine montate sugli F-117 a tecnologia stealth che erano stati impegnati nella Guerra del Golfo: i propulsori assicuravano 60 mila cavalli di potenza. Si era al via dell’alta velocità sul mare: dopo il successo di Destriero, Fincantieri ricevette commesse da tutto il mondo, tra queste quelle della Us Navy per 30 pattugliatori da usare nel Mar Rosso contro i vascelli pirata».
Torniamo alla F1. Michael Schumacher avrebbe vinto anche senza Jean Todt?
«Difficile dirlo, la vera intuizione di Todt è stata quella di ingaggiare lo staff vincente della Benetton. Michael non ha dovuto sfidare super-fenomeni e ha perso dei Mondiali contro avversari normali. Quando ne è arrivato uno fortissimo, cioè Alonso, il Dream Team s’è sciolto: Todt sarebbe poi andato alla Fia, Schumi pareva aver chiuso con la F1».
Invece è tornato ed è andato alla Mercedes.
«Uno sbaglio: Rosberg l’ha massacrato».
Mattia Binotto, oggi nel ruolo che fu su o, è nella burrasca perché la Ferrari sta buttando via il Mondiale.
«Mattia è un eccellente tecnico che ha dovuto imparare un lavoro non suo. Adesso deve far ritrovare alla Ferrari lo smalto d’inizio stagione dopo errori e guasti. Ma per me la macchina è la migliore del campionato».
E la Ferrari ora è più sua: Binotto "fatto" dimettere. Probabilmente neppure nel campionato interregionale ci sono squadre che cacciano l'allenatore senza aver pronto il sostituto. Umberto Zapelloni il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.
Probabilmente neppure nel campionato interregionale ci sono squadre che cacciano l'allenatore senza aver pronto il sostituto. È successo alla Ferrari. Ha indotto Mattia Binotto a presentare le dimissioni, le ha accettate, ma poi, in calce al comunicato che ufficializzava la separazione, ha aggiunto due righe che suonano come il peggiore dei campanelli d'allarme. Sentite qui: «Inizia ora il processo per identificare il nuovo Team Principal della Scuderia Ferrari, che dovrebbe concludersi nel nuovo anno».
Il successore di Mattia Binotto ancora non c'è. Frédéric Vasseur è in corsa, ma non più in pole position: in ballo ci sono anche altri nomi. Certo è clamoroso che la Ferrari abbia messo in croce il suo team principal senza avere già sotto contratto il sostituto. Raccontare che Binotto resterà in carica fino al 31 dicembre fa ridere. Anzi piangere.
Nel suo commento finale Binotto dice: «Lascio un'azienda che amo, della quale faccio parte da 28 anni, con la serenità che viene dalla convinzione di aver compiuto ogni sforzo per raggiungere gli obiettivi prefissati. Lascio una squadra unita e in crescita. Una squadra forte, pronta, ne sono certo, per ottenere i massimi traguardi, alla quale auguro ogni bene per il futuro. Credo sia giusto compiere questo passo, per quanto sia stata per me una decisione difficile».
La squadra è pronta per l'ultimo grande salto, forse il più difficile. Anche per questo la stabilità avrebbe aiutato. Sarebbe bastato rinforzarla, adesso ci aspetta una rivoluzione perché non arriverà solo un nuovo team principal, ma anche un nuovo direttore tecnico e magari un nuovo direttore sportivo e un nuovo responsabile della strategia. Senza contare che ora Leclerc non avrà parafulmini. Avrà molta più responsabilità sulle sue spalle.
Per salutare Binotto ha preso la parola Benedetto Vigna, l'a.d. che potrebbe avere un ruolo più importante nella gestione della Scuderia. Ha usato le classiche frasi di circostanza: «Desidero ringraziare Mattia per i suoi numerosi e fondamentali contributi nei 28 anni passati in Ferrari, e in particolare per la sua guida che ha portato il team ad essere di nuovo competitivo nella scorsa stagione».
Non si capisce perché, dopo aver portato il team ad essere competitivo, sia stato messo nelle condizioni di dimettersi. Dovrebbe spiegarlo il presidente Elkann che neppure questa volta ha però aperto bocca. Almeno oggi ha la scusa dell'accavallarsi dei dossier di crisi sulla sua scrivania tra Juve e Ferrari. Vedremo. Tanto per Elkann c'è tempo fino al 2026 per vincere. Basta ritrovare quella pazienza persa da tempo, da quando a Maranello accanto a Jean Todt c'era un vero dream team. Non un uomo lasciato troppo solo.
Ferrari, Binotto non è più il team principal: adesso è ufficiale. Alessandra Retico su La Repubblica il 29 Novembre 2022
Maranello ha accettato le dimissioni dell'ingegnere, che resterà in carica fino al 31 dicembre. "Lascio una squadra forte e pronta a vincere". Vigna: "Grazie Mattia, hai reso la macchina di nuovo competitiva"
Mancavano da definire solo i dettagli della separazione e il comunicato. Eccolo: "La Ferrari annuncia di aver accettato le dimissioni di Mattia Binotto che il 31 dicembre lascerà il suo ruolo di team principal della Scuderia Ferrari". L'ingegnere reggiano, 53 anni, 28 dei quali trascorsi prima da stagista a Maranello e poi via via attraverso le aree tecniche ha scalato i vertici fino ad assumere la guida nel 2019, manterrà il suo ruolo fino alla fine del 2022 portando a termine il lavoro iniziato da tempo sulla vettura 2023, ormai ampiamente costruita.
Ferrari, Vasseur il candidato n.1 per il dopo Binotto
Sul suo successore, Maranello non ha ancora deciso nonostante da settimane circoli il nome di Frederic Vasseur, francese, 54 anni, ora a capo dell'Alfa Romeo Sauber sulla quale Charles Leclerc ha esordito in F1 nel 2018: "Inizia ora il processo per identificare il nuovo team principal della Scuderia Ferrari, che dovrebbe concludersi nel nuovo anno".
Vigna: "Grazie Binotto, la Ferrari è tornata competitiva"
All'indomani delle dimissioni dell'intero cda della Juventus, una delle grandi aziende del gruppo Exor controllate dalla famiglia Agnelli-Elkann, proprietaria anche del Gruppo editoriale Gedi che edita La Repubblica, anche la Ferrari è protagonista di una riorganizzazione. L'ad Benedetto Vigna, che non assumerà l'interim, nel comunicato ringrazia Binotto "per i suoi numerosi e fondamentali contributi nei 28 anni passati in Ferrari e in particolare per la sua guida che ha portato il team ad essere di nuovo competitivo nella scorsa stagione".
Binotto, perché lascia la Ferrari
L'obiettivo di Maranello è tornare a vincere il Mondiale (ultimo titolo costruttori nel 2008), una meta che già quest'anno sembrava alla portata visto l'inizio vincente della monoposto. Ma poi errori di strategia, inaffidabilità del motore, uno sviluppo che si è arrestato a metà stagione, una gerarchia negata tra i piloti nonostante Leclerc sia stato avanti in classifica, hanno visto la rossa perdere terreno rispetto non solo alla Red Bull, ma anche alla Mercedes. Il campionato si è concluso col 2° posto tra i Costruttori e il 2° tra i piloti con Leclerc.
Il futuro della Ferrari dopo Binotto
Ma le potenzialità nei mezzi ci sono. Ancora Vigna: "Siamo in una posizione di forza per rinnovare il nostro impegno, in primo luogo per i nostri incredibili fan in tutto il mondo, per vincere il più importante trofeo nel motorsport. Tutti noi della Scuderia e nella più vasta comunità Ferrari auguriamo a Mattia tutto il meglio per il futuro". L'ingegnere, appunto cresciuto a Maranello, probabilmente si guarderà intorno. Adesso dice: "Con il dispiacere che ciò comporta, ho deciso di concludere la mia collaborazione con Ferrari, lascio un'azienda che amo, della quale faccio parte da 28 anni, con la serenità che viene dalla convinzione di aver compiuto ogni sforzo per raggiungere gli obiettivi prefissati. Lascio una squadra unita e in crescita. Una squadra forte, pronta, ne sono certo, per ottenere i massimi traguardi, alla quale auguro ogni bene per il futuro. Credo sia giusto compiere questo passo, per quanto sia stata per me una decisione difficile. Ringrazio tutte le persone della gestione sportiva che hanno condiviso con me questo percorso, fatto di difficoltà ma anche di grandi soddisfazioni".
La carriera di Mattia Binotto
Binotto ha ereditato il timone della Scuderia il 9 gennaio 2019, prendendolo dalle mani di Maurizio Arrivabene, poi passato alla Juventus e ieri anche lui dimissionario. Dopo un periodo esaltante con tre successi nel 2019 (Spa, Monza e Singapore), la Ferrari si è fermata: all'inizio della stagione successiva, è stata resa nota un'inchiesta sulla presunta irregolarità del motore della rossa, anche se non si conoscono i contenuti dell'indagine che è stata chiusa con un accordo segreto con la Fia. Di fatto, nel 2020 è stato il peggior Mondiale per Maranello in 40 anni (sesta tra i Costruttori). In un 2021 di transizione (il motore non è cambiato né le regole) dove al posto di Sebastian Vettel Binotto ha scelto Carlos Sainz, la Ferrari ha cercato di migliorarsi per quanto possibile. La Scuderia ha puntato tutto sul 2022 col cambio regolamentare delle auto a effetto suolo. E in effetti, la F1-75 è stata all'inizio una delle macchine più competitive della griglia.
Ma forse sono stati proprio gli errori di strategia, difesi da Binotto e imputati a una mancanza di mentalità vincente in un gruppo ancora in crescita ma bisognoso di stabilità, ad aver concluso il suo ciclo. Solo 7 le vittorie in 82 gp e 4 anni di gestione, anche se solo in quest'ultimo ha avuto una macchina per riuscirci davvero. L'occasione mancata, in una F1 che macina in fretta tutto, costa a Binotto il sogno di una vita.
Mattia Binotto, profilo di un uomo vestito di rosso Ferrari. Mattia Binotto ha dedicato quasi ventotto anni alla causa della Ferrari, adesso è pronto a farsi da parte per una nuova rivoluzione. Tommaso Giacomelli il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.
Occhiali dalla montatura spessa, folti capelli ricci, neanche un filo di barba. Una maglia rossa cucita addosso come una seconda pelle, un viso dai lineamenti morbidi e un sorriso che fa simpatia. Peccato che questo profilo da persona comune, non sorrida da tempo. A questo identikit corrisponde Mattia Binotto, il personaggio più chiacchierato della Formula 1 attuale, per sua sfortuna non per motivi celebrativi ma a causa di tutti i rumors che lo vogliono fuori dalla Scuderia Ferrari, il team più vincente nella storia del Circus, ma che da quattordici anni resta a bocca asciutta. L’italiano è al timone della gestione sportiva di Maranello dal 2019, da quel momento la sua vita è cambiata. È diventato un personaggio sempre sotto ai riflettori, prima osannato come salvatore della patria dopo la cacciata a furor di popolo di Maurizio Arrivabene, mentre oggi è trattato alla stregua di un nemico pubblico perché considerato, dai più, come il principale responsabile dei fallimenti del Cavallino Rampante. Una famiglia che gli volta le spalle, dopo quasi trent’anni di devozione e dedizione alla causa con una scalata che dalle retrovie lo ha innalzato fino al gradino più elevato.
L’approdo in Ferrari
Il 3 novembre del 1969, Mattia Binotto nasce da genitori reggiani in Svizzera, a Losanna, dove cresce e compie la sua formazione scolastica e universitaria, laureandosi in ingegneria meccanica presso il politecnico della cittadina baciata dall’acqua del lago di Ginevra e immersa nel cantone del Vaud. Successivamente consegue un master in ingegneria dell’automobile presso il dipartimento di ingegneria "Enzo Ferrari" (DIEF) dell'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, riavvicinandosi alla terra che ha dato i natali alla sua famiglia. Nel 1995 entra all’interno della Scuderia Ferrari, in qualità di ingegnere motorista per la squadra di test. È il primo compito all’interno del Cavallino Rampante, un luogo dei sogni. Assapora la Formula 1 da elemento chiave a partire dal 1997, quando riveste la mansione di ingegnere motorista. Saranno anni d’oro sotto alla gestione sportiva di Jean Todt, coadiuvato dalle visioni illuminate di Ross Brown. Binotto è fondamentale per realizzare i motori di quelle monoposto che segnano l’epoca più scintillante della Ferrari, il momento più vincente con Michael Schumacher al volante. Dal 1999 al 2004 arrivano sei titoli costruttori e cinque piloti, tutti vinti dal Kaiser di Kerpen. Nel 2002 e nel 2004 vanno in scena dei veri e propri domini, con campionati contraddistinti da una supremazia assoluta. Luca Cordero di Montezemolo è il presidente di una Ferrari che stupisce e impartisce legge, distruggendo ogni avversario. Dietro a questi trionfi c’è anche Mattia Binotto, che proprio nel 2004 viene promosso a responsabile motori in pista per la squadra corse.
Il momento delle vittorie
Negli anni ruggenti arrivano i grandi trionfi, momenti felici che sono legati anche ad aneddoti che hanno il sapore agrodolce della nostalgia, dati i tempi che corrono. Binotto è particolarmente attaccato alla vittoria di “Schumi” a Monza 2003, un’euforia che gli è costata addirittura il ritiro della patente. “Quel giorno Michael partì in pole, restò davanti a Montoya per tutta la gara ed ebbe la meglio in un confronto tirato a ogni giro sul filo dei decimi di secondo. Veniva da due gare difficili, il campionato era in bilico, e quel trionfo ci diede lo slancio verso il titolo mondiale. Ero talmente euforico che tornando a casa, all’altezza di Parma, ho preso una multa per eccesso di velocità con ritiro della patente”, racconta il nativo di Losanna sulle colonne della Gazzetta dello Sport. Nei mesi successivi per andare a Maranello, Binotto utilizza il motorino di Felipe Massa, all’epoca collaudatore per il Cavallino.
Una scalata verso l'alto
Dopo il ritiro di Schumacher, arriva l’ultimo titolo piloti con Kimi Raikkonen nel 2007, mentre nel 2008 cambia anche il team principal, con il ruolo che viene ricoperto da Stefano Domenicali, successore di Jean Todt, a sua volta promosso amministrato delegato della Ferrari. In quel periodo Binotto diventa responsabile delle operazioni Power Unit, e c’è tempo per festeggiare ancora un titolo costruttori quello del 2008, mentre Felipe Massa vede sfuggirsi dalle mani il campionato piloti all’ultima stregata curva di San Paolo del Brasile, appuntamento conclusivo di quella intensa stagione. La Ferrari vive poi delle stagioni altalenanti, accese in pista dal talento di Fernando Alonso, ma mai culminante con una gioia mondiale. Nel mentre la scalata di Binotto prosegue, diventa vicedirettore del reparto Motori ed Elettronica nell’ottobre 2013, poi successivamente Chief Operating Officer per la Power Unit (Direttore dell’Aera Power Unit), quando la F1 effettua la sua rivoluzione introducendo l’ibridazione dei propulsori. Il 27 luglio 2016 viene nominato Chief Technical Officer (Direttore Tecnico) della Scuderia Ferrari. Il team principal in quel momento è Mattia Arrivabene, che dal 2015 affida le due monoposto a Sebastian Vettel e Kimi Raikkonen. Nel 2017 e 2018 la Ferrari si gioca le sue carte per togliere lo scettro alla Mercedes, senza tuttavia riuscire nell’impresa. Nel 2019 l’ennesima rivoluzione nelle gerarchie della Scuderia: giunge il grande momento di Binotto che raccoglie il testimone proprio dall’ex uomo di Philipp Morris. È adesso lui Managing Director Gestione Sportiva e Team Principal della Scuderia Ferrari.
Mattia Binotto al passo d’addio
Stagioni difficili e speranze infrante. Il 2019 è stato un anno in cui la Ferrari scopre il talento di Leclerc, mentre vede appassire quello di Vettel. L’anno successivo è quello in cui il Cavallino soffre di più, penalizzato da un motore azzoppato dalle nuove direttive, e lontanissimo dalle posizioni che contano. Il 2021 è un momento di transizione in vista del rilancio mondiale del 2022, dove le attese sono altissime. La nuova era della F1 si apre con una SF-75 bella e veloce, capace di esaltare le doti al volante di un astro nascente come Charles Leclerc. Le due vittorie nelle prime tre gare sembrano il preludio a una stagione che può finalmente riservare un agognato ritorno sul tetto del mondo. Un’illusione che dura fino a metà stagione, quando Leclerc è staccato di una manciata di punti da Max Verstappen. Dal GP di Ungheria con dieci gare dal termine, Binotto sentenzia: “Non vedo perché la Ferrari non possa vincere tutte le gare da qui a fine stagione”. A giochi fatti il bilancio è il seguente: otto vittorie di Verstappen, una di Perez e una di Russell. Zero per la Ferrari. Dopo l’ultimo appuntamento di Abu Dhabi, la SF-75 si congeda con il secondo posto nei costruttori e nella classifica piloti con Leclerc. Il film del campionato ci ha regalato momenti di grande smarrimento del team, dominatore del sabato di qualifica, ma spesso disorientato alla domenica con scelte dal muretto discutibili e molto penalizzanti per entrambi i piloti. In uno degli ultimi atti, Binotto ha ammesso che la SF-75 ha dovuto ridurre la sua potenza per migliorare l’affidabilità, elemento critico di inizio stagione, mentre lo sviluppo non è stato adeguato per andare a privilegiare la monoposto del 2023. Lui, però, con ogni probabilità non ci sarà, pagando in prima persona tutti gli errori commessi dal team nella stagione appena conclusa. Le voci sempre più insistenti danno come suo successore Frederic Vasseur, attualmente responsabile dell’Alfa Romeo Racing. Entrato in punta di piedi, Binotto sta per congedarsi dopo quasi 28 anni uscendo dalla porta di servizio, nonostante una vita passata in quella che a tutti gli effetti è stata più di una famiglia.
Max Biaggi, "motore sabotato". Chi (e come) gli ha fatto perdere il Mondiale. Libero Quotidiano il 20 luglio 2022
Approdato nel 2008 nel team satellite Ducati Gmb Racing, Max Biaggi è stato protagonista della sua peggior stagione nel Mondiale Superbike. Ciò nonostante alla vigilia fosse il più accreditato rivale di Troy Bayliss, divenuto poi a fine anno per la terza e ultima volta campione del mondo. Ma il racconto del pilota romano in un lungo post su Facebook ha svelato un sorprendente retroscena: nel suo team veniva sabotato il motore della moto per far vincere l’australiano. Così esordisce l’ex pilota 51enne: ”La moto che io provai la prima volta per il 2008, era una moto assolutamente vincente. Rispetto all'anno precedente guadagnava 200 cc di cilindrata, mentre alcuni suoi componenti divennero di serie. Fummo noi, con il team di Borciani, a provare per la prima volta quella moto in Australia, durante dei test privati”.
La super moto al via, la riduzione nelle prestazioni in Qatar - “In quell’occasione facemmo una simulazione gara — prosegue Biaggi — che concludemmo con un tempo inferiore di quattro secondi, rispetto a quello ottenuto nella gara vinta nell'anno precedente da Bayliss, con la vecchia moto ufficiale e con le medesime coperture. Anche sul best lap risultai più veloce della pole position fatta sempre da Bayliss nel 2007, esattamente di quattro decimi. La moto in quell'occasione aveva il regime di rotazione massima a 11.500 giri/min”. Ma già nel secondo test, fatto pochi giorni dopo a Losail, le prestazioni della sua moto erano state ridotte per motivi di sicurezza: "Dopo pochi giorni ci spostammo in Qatar, per un nuovo test ed in quell’occasione alla moto furono tolti 500 giri/min per un presunto problema strutturale sugli alberi a camme — aggiunge Biaggi — Non potemmo fare null'altro che adeguarci".
I problemi e la caduta in Australia - Dopo il secondo e terzo posto nei primi due round di Losail, iniziarono i problemi: "Alla prima gara ottenni un secondo ed un terzo posto, mentre in Australia, nel giro di lancio della superpole, si ruppe la leva del cambio. Non potendo partecipare alla superpole, presi il via dalla sedicesima posizione, in quarta fila. In gara 1 impiegai nove giri per raggiungere la seconda posizione e nei successivi sette giri ridussi il gap da Bayliss, che era primo, fino a 1.6 secondi – continua Max Biaggi ripercorrendo in ordine cronologico gli eventi della tormentata stagione 2008 – Purtroppo però a sei giri dalla fine scivolai senza conseguenze, nel tornantino in discesa. In gara 2 riprovai a rimontare e dopo sei giri ero già terzo, ma un brutto incidente in curva 1 mi mise fuori dai giochi. L'incidente a rivederlo fa paura anche oggi. In quella curva si arriva a 300 km/h e nella bruttissima carambola fortunatamente mi fratturai solo il radio del braccio sinistro”.
I problemi al ritorno a Valencia - L'infortunio rimediato a Phillip Island tenne fuori il Corsaro per tre settimane, riuscendo però a tornare in pista per la terza tappa della stagione, in Spagna. Lì però si ritrovò con una moto, a suo dire, molto diversa da quella con cui aveva effettuato test pre-stagionali e primi due round del campionato: "Ritornai a Valencia, dopo 21 giorni di gesso e nelle prime libere mi accorsi che c'era qualcosa che non andava sulla moto — continua il romano — Mi fermai ai box e parlai con il mio capotecnico. Il problema rimase però indefinito e finii il turno con molti dubbi. All'inizio del secondo turno di libere, notai lo stesso identico problema e rientrai subito ai box. Dissi al mio capotecnico che avrei concluso lì le mie prove! Infatti ritornavo dal brutto infortunio alla mano e per correre dovetti fare delle infiltrazioni di antidolorifici sul polso, per cui non aveva senso continuare, con una moto che aveva un evidente calo di prestazioni. Venivo superato da piloti che non avevo mai visto! Assurdo”.
Biaggi e l’accusa rivolta all’allora d.g. di Ducati Corse, Filippo Preziosi - Dopo aver insistito parecchio, poi, Biaggi sarebbe stato informato del boicottaggio messo in atto dalla Ducati nei suoi confronti, dove sarebbe dovuto approdare nel team ufficiale dalla stagione successiva, prima di scegliere l’Aprilia: "Il mio capotecnico, dopo vari tira e molla, finalmente ammise che l’allora Direttore Generale di Ducati Corse, Filippo Preziosi, gli aveva ordinato di inserire una mappa specifica, che toglieva tra i 15 ed i 18 Cv su tutto il l'arco di utilizzo”. Per un chiaro motivo: "Questo perché era necessario che a vincere fosse un solo pilota, altrimenti il regolamento avrebbe penalizzato la 2 cilindri — aggiunge il Corsaro nel suo post — Infatti se a vincere fosse stato un solo pilota, la vittoria sarebbe stata imputabile alla sua bravura e non a un vantaggio tecnico del 2 cilindri rispetto al 4 cilindri. La mia moto era diventata improvvisamente un cancello. All'epoca il regolamento principalmente prevedeva che il livellamento delle prestazioni tra i 4 ed i 2 cilindri, in seguito ad un vantaggio di cilindrata a favore delle 2 cilindri di 200 cc, avvenisse grazie ad un differente peso minimo e con l’utilizzo degli air restrictor, con i quali si limitava l’aria in ingresso all'air box”.
Biaggi: “A fine campionato 1.250 giti/min in più sulla mia moto” - Le penalizzazioni scattavano facilmente, “nel caso in cui nei primi posti fosse presente un maggior numero di piloti, equipaggiati con una delle due motorizzazioni — dice ancora il romano nel lungo post — La moto che io avevo provato in Australia era assolutamente vincente, in quanto sinceramente aveva un vantaggio in termini di cilindrata eccessivo. Per questo motivo, per poter vincere il mondiale era necessario penalizzare le moto clienti. Se il podio fosse stato monopolizzato dalle 2 cilindri, l’applicazione del regolamento avrebbe ridotto il vantaggio prestazionale dalla Ducati 1098”. Per poi concludere: "A riprova di quanto detto, qualche gara più tardi, quando ormai il vantaggio di Bayliss in classifica generale era consolidato e quando ormai era certo che sarei andato sulla Ducati ufficiale, sulla mia moto il limitatore venne spostato a 12.250 giri/min. Il tutto senza alcuna modifica strutturale! Quello stesso motore ora poteva sopportare 1.250 giri/min in più. Pazzesco! Insomma, i giri motore venivano aumentati e diminuiti in funzione della classifica generale. Ecco la verità che non ho mai detto".
Jorge Lorenzo. Maria Guidotti per “il Giornale” il 18 luglio 2022.
«Jorge un autografo». La ressa davanti al garage di Q8 High Perform tradisce la presenza del 5 volte Campione del Mondo MotoGP nel paddock del Mugello Circuit in occasione dell'ACI Racing Weekend. Lo spagnolo sorride e si ferma per una foto. È il prezzo della fama per una carriera stellare in moto e il caloroso supporto del pubblico per il futuro nelle quattro ruote.
Jorge Lorenzo è tornato nel paddock come commentatore del Motomondiale per la TV spagnola e al volante di una Porsche 992GT3 nel Porsche Carrera Cup Italia, il campionato tricolore monomarca, che ha fatto tappa all'Autodromo della Ferrari e lo ha visto chiudere 11°.
Che effetto fa tornare al Mugello dove ha vinto ben sette volte in moto?
«Questa è la mia pista per eccellenza, molto tecnica con curve impegnative dove è importante far scorrere la moto. Su questo tracciato ho sempre fatto bene, non ultimo la prima vittoria con Ducati nel 2018».
Quanto è impegnativo il passaggio dalle 2 alle 4 ruote?
«Cambia la prospettiva. La guida è meno fisica. Per esempio, in auto non ti muovi come fai sulla moto per il trasferimento del peso. Ti senti più protetto. Continuo ad avere una guida pulita, ma ancora non conosco tutti i segreti. È solo la mia terza gara e corro con piloti con molta più esperienza».
Piloti di nasce. Quanto è stata dura smettere?
«È stato difficile ma adesso questa dimensione è perfetta. Mi diverto come un bambino senza la pressione della MotoGP. Dentro resto pilota, affronto le corse con la stessa professionalità, ma la macchina è meno esigente e soprattutto meno fisica. Prima mi allenavo sei ore al giorno ed ero sempre a dieta, adesso mi basta un'ora al giorno, mi controllo nel mangiare, ma posso godermi di più la vita. Viaggio per piacere, non solo per lavoro».
Guardando alla MotoGP, Quartararo punta al bis.
«Fabio è il più forte, sia a livello mentale che in velocità. Se fosse sulla Ducati farebbe ancora più paura. È un pilota completo, anche se la Yamaha non è la miglior moto. La vera sorpresa di questa stagione invece è Aleix Espargaro con l'Aprilia, mentre Bagnaia pur essendo veloce, ha fatto tanti errori».
Chi potrebbe essere il suo erede?
«Penso ai primi in classifica. Quartararo, Bagnaia e Martin sono molto forti e vedo delle somiglianze con il mio stile di guida, come l'esplosività di Martin, la precisione di Bagnaia, e infine Quartararo, che corre con la mia stessa moto e presenta dei tratti che ci avvicinano».
Cosa le manca del Motomondiale?
«Vincere. Quando hai ottenuto tanti successi e provato il sapore della vittoria, il distacco non è facile, ma queste sono tappe della vita».
Per la prima volta dopo 30 anni e campioni del calibro di Doohan, Biaggi, Rossi, Stoner e anche lei, complice l'assenza di Marquez, la MotoGP si trova senza forti personalità.
«Sì, sono fondamentali per far appassionare la gente. Manca una star».
Con il ritiro di Valentino Rossi sono finite anche le grandi rivalità?
«Tutti hanno delle buone relazioni e sembrano quasi amici, complice lo scambio di like sui social. Questo dà onore allo sport, perché ci vuole rispetto, ma i grandi duelli hanno da sempre acceso le corse. La rivalità era nell'aria. Penso allo sguardo feroce di Gibernau verso Rossi a Jerez nel 2005. Le scaramucce anche fuori dalla pista tra Biaggi e Valentino...».
Parlando della sua rivalità con Valentino, come si è sentito a batterlo con la stessa moto?
«È stata una bella soddisfazione che mi ha fatto guadagnare molta fama perché erano gli anni in cui Valentino era ai massimi livelli».
Quanto è stato difficile dividere il box con una star come il Doctor?
«È stata dura. Senza un carattere così forte, probabilmente sarei stato sconfitto anche sul piano mentale, perché Valentino aveva tutta l'attenzione. Era amato da tutti e questo mi faceva sentire più piccolo. Ma sono stato determinato. Una volta abbassata la visiera, il mio unico obiettivo era dare gas e vincere».
Ritornando al 2015, quale la sua versione?
«Quell'anno avrei potuto vincere il titolo molto facilmente perché ero il più veloce, ma alla domenica mi succedeva sempre qualcosa. Così è stata una stagione sofferta. Tanti i fattori, ma non dobbiamo dimenticare il GP d'Argentina per quel che riguarda la questione Rossi-Marquez. Valentino aveva fatto cadere Marquez senza chiedergli scusa nel post gara. Marquez non l'ha digerita. Credo che le scuse avrebbero cambiato il corso delle cose».
Lorenzo è oggi un pilota felice?
«Sono sereno e soddisfatto. Apprezzo la salute, la mia condizione economica e soprattutto il tempo libero. Se dovessi pensare a qualcosa felice nel futuro, penserei ad un figlio».
Giacomo Agostini. Giorgio Terruzzi per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.
Si muove come un ragazzo nella sua casa sui colli di Bergamo, con annesso museo colmo di fotografie, moto, trofei. Quattro galline per le uova della prima colazione da spartire con la moglie Maria, i bagagli pronti per l'Isola di Man, ospite fisso del Tourist Trophy. Il principe del Bahrein che lo aspetta per fare un giro su quelle strade infernali. Giacomo Agostini compie 80 anni (16 giugno) ma il suo orologio pare fermo da un pezzo. Un uomo fortunato.
Un campione che ha cercato la propria fortuna con una cocciutaggine che non stinge.
Quindici titoli mondiali, 123 vittorie. Adesso possiamo dirlo: imbattibile.
«Mah, effettivamente... Ci ha provato Mick Doohan, si è avvicinato Valentino ma si è fermato a quota 9 con 115 vittorie. Marquez diceva: non voglio batterti. Risposi: non è vero, puoi farcela. A patto di invitarmi alla festa. È in difficoltà, povero Marc, non so se riuscirà a tornare quel fenomeno che è stato».
Moglie andalusa, due figli, Victoria e Giacomino. Il curriculum del marito e del padre si avvicina a quello sportivo?
«L'amore c'è, su tutti i fronti. Ero innamorato delle due ruote. Qualcuno mi chiese se è mai esistito un piano B. Macché. Troppa gioia. È bello provarci e poi vincere una gara e poi un campionato italiano e poi un titolo mondiale. Non mi aspettavo di ricevere così tanto. In Belgio, avevo 25 anni, c'erano i minatori italiani a vedermi. Ripetevano: grazie, domani porteremo là sotto il nostro tricolore. Era una rivalsa preziosa. Sono stato a visitare quelle miniere e ho compreso da adulto ciò che non comprendevo allora.
La famiglia è una cosa diversa. Non volevo sposarmi, mi sono deciso a 46 anni. Molti colleghi portavano in pista la famiglia. Vedevo i bambini salutare papà in griglia. Pensavo: non riuscirei mai a farlo. Si moriva in un attimo allora. Più avanti è stato più facile ed è stato bello condividere, crescere i figli, volersi bene, comprenderci. Sì, due tipi di amore».
Attorno alla sua moto, una quantità di tragedie. Si considera un sopravvissuto?
«Sì. Nonostante fossi attentissimo, mi rendevo conto che poteva succedere qualcosa di grave in un secondo. C'è chi dice che bisogna saper cadere. Balle. Quando cadi non sai mai come va a finire. Eppure prevaleva l'idea che a me, in fin dei conti, non sarebbe accaduto nulla di tremendo. Viene giù un aereo e vai all'aeroporto pensando: beh, non accadrà un'altra volta. È un po' lo stesso. Fortuna, destino, chissà: sono volato in un prato enorme, niente. Bill Ivy è caduto nello stesso prato, c'era un pilastro, l'ha centrato in pieno».
Agli esordi: maglia gialla, numero di gara 46. Sono impressionanti le analogie con Valentino «Era il 1965, un'amica disse: sotto la tuta nera sta bene il giallo. Ecco. Sì, molte analogie. Moto Yamaha, famiglia con bambina pure lui, entrambi abbiamo corso in macchina. E doti simili».
Entrambi piloti Ferrari, con l'ipotesi di fare sul serio. Sino a che punto?
«Enzo Ferrari mi fece provare una macchina a Modena. Disse: se vuoi correre con noi il posto c'è. Ero lusingato caspita, la Ferrari! Tre giorni e tre notti a riflettere. Alla fine pensai che avevo scelto la moto sin da bambino, che la mia passione era quella lì. Come un dono ricevuto misteriosamente. Vincevo, ero felice: perché tradire ciò che la natura mi aveva dato?».
Chi la conosce bene parla di disciplina monacale prima delle corse e di una pignoleria ossessiva. Tutto vero?
«Forse sono nato così. Ancora adesso preparo la valigia nei dettagli con largo anticipo. Ai meccanici dell'MV, espertissimi, facevo una quantità di domande, volevo controllare questo e quello anche se ero l'ultimo arrivato. Si indispettivano, mi frenavo. Sino a quando saltò una catena non verificata. Da allora fu rispetto reciproco. Desideravo che tutto fosse al cento per cento. Sì, ma dovevo essere allo stesso livello pure io. Cominciai a prepararmi fisicamente, a curare l'alimentazione, ad evitare di fare la bella vita. Alle 23, a letto. Solo. Trasgredii una sola volta, a Riccione, era una bella sera, era bella la ragazza e stavamo su un gommone cullato dall'acqua. Pentitissimo. Il giorno dopo vinsi ma non bastò a farmi cambiare regola».
Pietro Germi voleva trasformarla in un attore impegnato?
«Ma sì. Mandò il copione. Dissi: guardi che non sono capace. Lui: non ti preoccupare, ci penso io. Arrivò il contratto. Inizio riprese primi di marzo, 4 mesi di lavorazione. Ma come? Il 19 marzo inizia il Mondiale. Ci rimase male».
Rotocalchi, gossip. La fama del playboy aveva qualche fondamento?
«Ero giovane, celebre, non brutto. Ma è accaduto ben meno di quanto si creda».
Incontri indimenticabili. Chi le viene in mente?
«Muhammad Alì, una serata insieme, io affascinato dalla sua personalità, da quell'eleganza straordinaria. Marcos, presidente delle Filippine e sua moglie Imelda che mi invitò a ballare, alta ben più di me, mi vergognavo da matti. Gianni Agnelli.
Una volta lo incontrai circondato da amici e amiche, compresa una mia fidanzatina. Ma come, avvocato, mi ruba le ragazze? Saragat e Ciampi, presidenti della Repubblica che mi hanno nominato cavaliere e commendatore».
Un momento di nostalgia. Dove torna?
«Darei anche le mutande pur di tornare a fare quello che ho fatto. Anche per un giorno. Intensità assoluta. Nulla di comparabile».
La MotoGp ha perso Rossi, manca Marquez. È crisi?
«Chi guarda vuole vedere un campione fare cose che non riescono ad altri. Agostini e Fangio ieri, poi Alì o Maradona o Valentino. Stanca Hamilton? Allora perché lo paghiamo 40 milioni l'anno? Serve una star. Unica, speciale. Per ora non c'è».
Coraggio e incoscienza. Il limite dove sta?
«Vado al Tourist Trophy, guardo le strade, conto i morti e mi chiedo: io correvo in un posto così? Più cresci, più pensi. A un certo punto dissi basta. Ma su quell'isola avevo già vinto dieci volte. Certe riflessioni non comparivano. Spericolatezza e spensieratezza. Aggiungi l'esperienza e vai ancora più forte. Sino a quando la memoria di ciò che hai visto, delle tragedie, fa scattare un freno interiore. La ragione, se sei arrivato sano e salvo sin lì, ti protegge».
Sebastian Vettel compie 35 anni: Red Bull, Ferrari, diritti civili, protesta in mutande, la svolta hippie. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 02 Luglio 2022.
Il pilota tedesco dell’Aston Martin è totalmente cambiato da quando, da ragazzo, vinceva Mondiali con la Red Bull. Ora indossa magliette arcobaleno, ha i capelli lunghi e un po’ trasandati, lotta per i gay e contro il razzismo. La sua storia
Da giovane cannibale a hippie
Quanto è cambiato Sebastian Vettel. Il giovane tedesco che dominava la Formula 1 con la Red Bull è diventato grande, ha costruito e perfezionato una personalità a tutto tondo: si espone, parla di temi delicati, prende sempre posizione. Ha anche cambiato look: il ragazzo capelli corti e stile rigido e impeccabile ha oggi una chioma folta e ribelle, veste un po’ da hippie e sorride sempre. Domenica 3 luglio compie 35 anni, nel circus che abbraccia talenti sempre più precoci Sebastian è oramai un veterano. Terzo per vittorie totali in F1 dietro Hamilton e Schumacher, la sua storia è ricca e piena di cambiamenti.
I record in Red Bull
Andiamo con ordine. Dal Vettel che, giovanissimo, arriva in Formula 1. Collaudatore neanche ventenne della Sauber, gli esordi con la Toro Rosso, poi nel 2009 il passaggio alla Red Bull. Guida una vettura velocissima, praticamente imbattibile. Vince quattro titoli consecutivi, da cannibale domina per quattro anni (dal 2010 al 2013 compreso). Nel 2013 riesce a trionfare in nove gare consecutive, superando il record di sette stabilito da Ascari e Schumacher. Ancora oggi è il più giovane pilota ad essersi laureato campione del mondo in F1.
I titoli sfiorati con la Ferrari
Gli anni in Ferrari sanno un po’ di rimpianto. Sebastian arriva nel 2015 da cannibale, ma non riesce a vincere con la Rossa neanche un Mondiale in sei stagioni. Ci va vicino un paio di volte, tra 2017 e 2018. Ma si inchina sempre a Hamilton, un po’ per sfortuna un po’ per una vettura nel complesso inferiore alla Mercedes. «Ho imparato tanto, ho incontrato tante persone speciali, correre con la Ferrari è un’esperienza unica e probabilmente resterà dentro di me per sempre. Ma non sono il tipo che resta imprigionato nel passato, guardo sempre avanti». Ed ecco che arriva l’Aston Martin, la scuderia con cui corre anche oggi.
Cambio look
Sebastian negli ultimi anni ha cambiato totalmente look. Capelli lunghi, barba, abbigliamento casual, stile un po’ hippie. Una svolta accompagnata da una coscienza nuova, che lo ha portato a schierarsi contro discriminazioni, abusi, non ultimo la guerra in Ucraina. è diventato un ambientalista convinto. Anche per questo ha venduto parte della sua collezione di auto.
La sua collezione di auto uniche
Sì perché Vettel è un esperto di motori, studia le vetture, ha una grande collezione di auto. Qualcuna come detto di recente l’ha venduta per motivazioni ecologiche, ma ha tenuto alcuni modelli del passato, comprese vecchie monoposto di Formula 1, e pezzi dal valore unico. Come una F40 appartenuta a Luciano Pavarotti. Esemplari rari e conservati in perfetto stato, spesso personalizzati con il nome e i loghi del quattro volte campione del mondo. Nel suo garage sono restate vecchie monoposto come una McLaren di Senna, alcune sue Red Bull dei titoli Mondiali (2010-2013) e la Williams del 1992 iridata con Mansell. Con quest’ultima sarà protagonista di un’iniziativa per l’ambiente proprio domenica 3 luglio a Silverstone.
Testimonial per l’ambiente a Silverstone
L’ex ferrarista infatti domenica 3 luglio, il giorno del suo 35esimo compleanno, a Silverstone scenderà in pista con la Williams-Renault con cui Nigel Mansell vinse il Mondiale del 1992, uno dei suoi gioiellini. Sebastian, in quanto ambasciatore della sostenibilità ambientale, ha fatto in modo che il dieci cilindri francese funzioni con una benzina a carbonio zero. «Ho pensato che dobbiamo farlo in modo responsabile — ha spiegato — quindi domenica userò carburanti a emissioni zero per dimostrare che possiamo ancora aggrapparci alla nostra storia, al nostro patrimonio e alla nostra cultura nel motorsport, ma farlo in un modo più responsabile».
La famiglia
Molto riservato sulla sua vita privata, Sebastian vive in Svizzera, a Turgovia, vicino al lago di Costanza, con la famiglia. La moglie Hanna Prater era la sua amica d’infanzia, che poi ha sposato il 21 giugno 2019: «È tutta la mia vita: è una moglie, una mamma e una donna molto paziente e comprensiva», dice di lei Vettel. Hanna ha studiato design e si è specializzata come fashion designer. Hanno tre figli, due femmine e un maschio.
Il sostegno alla comunità Lgbt
Più volte si è schierato apertamente con chi combatte per i diritti civili. Si inginocchia prima di ogni gara, accanto a Lewis Hamilton (un gesto contro il razzismo). Non solo. Lo scorso anno ha espresso il proprio sostegno alla comunità Lgbt discriminata in Ungheria. Si è presentato con una t-shirt arcobaleno — con la scritta «Same love» e mascherina coordinata — durante la cerimonia che precede il Gran Premio.«Durante l’inno nazionale ho tenuto la maglietta. L’ho fatto in sostegno di quelle persone che soffrono in questa nazione perché alcuni fanno leggi che anziché proteggere i bambini probabilmente li minacciano e ne compromettono la crescita. Sono ben felice di incassare qualunque penalità mi vogliano comminare». Alla fine si è preso solo una reprimenda.
La battaglia per le mutande
Tra le battaglie recenti, quella per le mutande da indossare quando guida in Formula 1, che chiede di vestire indumenti intimi ignifughi. Sebastian per protesta ha indossato prima del Gp di Miami dei vistosi boxer grigi sopra la sua tuta verde. «C’è libertà personale e siamo grandi abbastanza per fare le nostre scelte».
Contro la guerra
Quest’anno è stato tra i primi a condannare l’invasione da parte della Russia dell’Ucraina. «Non andrò a correre in Russia. È sbagliato. Mi dispiace per le persone innocenti che stanno perdendo la vita, vengono uccise per ragioni stupide». E ancora: «È orribile quello che sta succedendo, sono scioccato. Per quanto mi riguarda la decisione l’ho già presa, a Sochi a settembre non correrò».
Barrichello ha 50 anni: la Ferrari, Schumacher, il tumore, la memoria perduta, il divorzio. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 21 Maggio 2022.
In 6 stagioni col Cavallino ha contribuito a 5 Mondiali costruttori e titoli di Michael Schumacher ed è entrato nel cuore dei tifosi. Dopo avere rischiato per un cancro, continua a correre nelle Stock car - mentre i figli provano a seguirne le orme.
Rubens Barrichello ha 50 anni
Pilota della Rossa in uno dei periodi più vincenti della scuderia di Maranello, seconda guida ideale, appassionato corridore anche a molti anni dal ritiro dalla Formula 1, dopo aver visto in faccia la morte più di una volta. Compie 50 anni Rubens Barrichello, pilota brasiliano che in molti, all’esordio, sognarono potesse raccogliere l’eredità di Ayrton Senna. La sua carriera rappresenta una lunga saga fatta di 322 Gran premi disputati, record che verrà battuto solo dal finlandese Kimi Raikkonen, altra vecchia conoscenza della Ferrari. (Ora nella classifica dei piloti con più Gp Barrichello è terzo, superato anche da Fernando Alonso).
Il legame con l’Italia
Nato a San Paolo il 23 maggio del 1972, ma con i nonni originari di Castello di Godego, località del trevigiano, in lui non potevano che ribollire le caratteristiche di un pilota molto caldo, da appassionatissimo delle corse quale era sin dalla tenera età, quando in patria sbaragliava sui kart la concorrenza di tutti i rivali. Dopo aver conseguito i primi successi in Europa da appena maggiorenne, arrivò in Formula 1. Nel 1993 il primo sedile con la Jordan, così come i primi punti conquistati in un Gp della massima categoria. Solo alcuni anni più tardi la firma per la scuderia italiana per eccellenza.
L’incidente e il ricordo di Senna
Nella stagione successiva a quella del debutto, subito un terzo e un quarto posto, risultati che sembravano consacrare il pilota in F1. Ma nel week-end nero di Imola il pilota rimase coinvolto in un terribile incidente, che oggi si ricorda tra gli altri, tragici, di quel fine settimana, nei quali trovarono la morte Roland Ratzenberger e Ayrton Senna.
Barrichello può ritenersi un miracolato: riportò una frattura al naso, ad alcune costole, e qualche contusione, nonostante lo schianto della sua Jordan a circa 200km/h. «Sono morto per sei minuti. Per tanto tempo ho provato a ricordare quei momenti senza successo», dirà in seguito.
Il futuro ferrarista decise nonostante tutto di continuare a correre, approdando alla corte di Maranello nel 2000, dopo un altro paio di anni in Jordan e tre in Stewart.
L’esperienza in Ferrari
Della stagione d’esordio con la Ferrari, di Barrichello si ricorda in particolare una rimonta epica dalla 18ª posizione che lo vide lasciarsi alle spalle persino piloti d’esperienza come Hakkinen e Coulthard.
Fu in questo modo che il brasiliano conquistò definitivamente il cuore dei tifosi Ferrari, affetto che si rinnovò con il fondamentale contributo che diede, da seconda guida, ai successi di un fuoriclasse come Michael Schumacher.
Il tedesco conquistò, anche grazie al compagno, cinque titoli consecutivi (2000, 2001, 2002, 2003, 2004, stagioni in cui la Ferrari conquistò anche il titolo Costruttori) dei sette che oggi lo attestano come una leggenda assoluta.
«Fatti superare o perderai il posto»
La prima guida del Cavallino non poteva essere messa a discussione, tanto che la ferrea gerarchia suscitò negli anni successivi anche qualche polemica, per via di alcune dichiarazioni dello stesso Barrichello.
Nel Gran Premio d’Austria del 2002, il ferrarista più in forma fu proprio il brasiliano, e non il favorito Michael Schumacher. Per un ordine di scuderia Barrichello dovette cedere il posto, ma sul podio le parti si invertirono: il tedesco lasciò simbolicamente il gradino più alto al compagno e gli si inchinò di fronte.
Anni dopo, emersero i retroscena di quelle ore: «Dai box mi avevano intimato che se non avessi lasciato passare Schumi avrebbero rivisto il mio contratto e avrei rischiato il posto», raccontò Barrichello. «All’inizio non volevo ma, di fronte a quello che sembrava ben più di un ordine, ho ceduto».
La rissa
Nel 2010 il pilota brasiliano, ormai pilota alla Williams, perse completamente le staffe dopo un incidente nel Gp del Canada con l’allora pilota della Toro Rosso Jaime Alguersuari. Una svista di quest’ultimo provocò un evitabile impatto. «Non mi hai visto?» disse dopo il brasiliano ai box. «No», rispose l’altro. «Allora mi vedrai adesso». Fu un meccanico a separare i due, con Barrichello che non ebbe remore nel picchiare il collega sul casco. Negli anni successivi dirà sempre di essersi pentito del gesto, «di non essere stato in quella circostanza un valido esempio».
Passione senza età
Dopo il ritiro dalla Formula 1 — ufficializzato nel gennaio 2012 — l’ex pilota ha guidato con la KV Racing Technology nella IndyCar, poi con la Medley e la Chevrolet Sonic, fino all’approdo in Corolla nella Stock Car Brasil, ambiente nel quale milita tuttora. Con la Chevrolet è stato nel 2014 anche campione di categoria, segno di una passione per la velocità che non si è mai spenta. È stato anche ingaggiato come commentatore da Rede Globo.
Barrichello e il tumore
Nel 2018 arriva un’altra confessione a sorpresa dell’ex ferrarista, che ha raccontato alla stampa di aver superato un tumore benigno al collo. Ne ha voluto parlare quando tutto era già andato per il meglio. «Molti subiscono danni permanenti, sono stato molto fortunato — ha detto il brasiliano ai microfoni di Tv Globo —. Quando ho lasciato l’ospedale mi è stato detto che solo il 14% viene dimesso nelle stesse condizioni. Quando tutto è iniziato ero in doccia a casa e improvvisamente ho sentito un dolore insopportabile alla testa. Sono tornato in stanza e ho avvertito mia moglie Silvana. Abbiamo capito che dovevamo andare in ospedale. Un nostro amico medico ha subito visto che non stavo bene».
Il matrimonio
Il 24 febbraio 1997 Rubens Barrichello ha sposato Silvana Giaffone, anche lei legata — in qualche misura - al mondo dei motori: la sua famiglia è proprietaria di un kartodromo, e il cugino Alfonso Giaffone Neto era un pilota. La loro storia è terminata nel 2019. Il matrimonio si svolse a Jardins, a sud di San Paolo, nella chiesa Nossa Senhora do Brasil davanti a 450 invitati. Il viaggio di nozze? In Australia, dove dal 6 marzo Barrichello sarebbe stato impegnato per il Gp di Melbourne.
Il matrimonio fra Silvana Giaffone e Rubens Barrichello nel 1997. La storia è finita nel 2019
I figli piloti
Oggi entrambi i figli, nati dal matrimonio con Silvana Giaffone, frequentano il mondo delle corse, seguendo le stesse orme del padre. Eduardo, il più grande (ha 20 anni), detto «Dudu», ha fatto il suo debutto in kart nel 2013 e ha gareggiato nel campionato di Formula 4 negli Stati Uniti, fino all’approdo nella JD Motorsport, team che lo accompagnerà nel campionato di Formula Regional European by Alpine. Fernando, il più piccolo di 17 anni, detto «Fefo», gareggia ancora con i kart, ma potrebbe presto esordire in altri contesti. Nel 2018 Barrichello e la moglie hanno perso un altro figlio, prima di separarsi.
L’Intervista a Enzo Ferrari di Catherine Spaak per “Autosprint” - 30 marzo 1982
«Ho trovato uomini che indubbiamente amavano come me l’automobile. Ma forse non ho trovato altri con la mia ostinazione, animati da questa passione dominante nella vita che a me ha tolto il tempo e il gusto per molte altre. Io, non ho mai fatto un vero viaggio turistico, non sono mai andato una volta in vacanza in vita mia, per me le più belle ferie sono quelle che trascorro in officina...».
Credo anch’io che all’uomo basti una volontà ostinata, un’ambizione sorda, determinata, costante, per superare tutti gli ostacoli che incontra lungo il cammino della sua vita. Il punto focale pero e “per quale scopo”.
A Fiorano, a Maranello non sono andata eccitata dai celebrati simboli della potenza, riverente e ossequiosa davanti al mitico cavallino rampante, nè in cerca di emozioni a trecento all’ora. Volevo incontrare un uomo, non la sua leggenda. Guardingo, sospettoso, mi osservava con impassibilità dietro spesse lenti scure.
Capii perchè Ferrari intimorisce, l’arte di mettere gli altri alle strette non e fatta di parole ma di silenzi e di sguardi. Comunque, gli occhiali li tolse a meta colazione. Potrà sembrare strano ma abbiamo parlato di filosofia, mangiando un ottimo souflè. «Io mi sento solo dopo tanti avvenimenti e quasi colpevole di essere sopravvissuto».
Credo che questa sia la sola considerazione che possa fare un uomo all’età di 84 anni, per il quale la tecnica e il progresso meccanico sono stati l’unica ragione di vita. Piu di quanto ha fatto lui, sembra, non si poteva fare in questo mezzo secolo. Domani il mondo della ricerca e della tecnica in materia di automobili, andrà avanti comunque, forse meno rapidamente, con meno amore, ma tutto continuerà a mutare.
L’imperatore, lo zar, il re della F.1 e pero solo, forse come il più umile dei suoi operai, sembra una favola per bimbi saggi e un po’ assonnati, eppure non lo e. A volte il più grande e anche il più piccolo. Dipende dall’angolazione e dagli occhi che guardano.
«La sola preghiera che so e questa: Dio, fatemi diventare buono».
Forse Ferrari e cattivo? Direi proprio di no. Ne più nè meno degli altri. E forse poco pratico di cose spirituali. Sorride un po’ sornione e nostalgico quando sussurra: «La donna rimane il più bel premio al lavoro... La donna deve avere cinque qualità: essere una buona moglie, ottima madre, esperta cuoca, gentile e bella creatura con gli ospiti, passionale al punto di non far desiderare una scatenata amante».
E poi aggiunge, quasi per rassicurarsi nel timore di avere un dubbio: «Pensando anche a certi gemiti, sostenere che l’uomo schiavizza la donna e la considera semplice oggetto, mi sembra eccessivo». Forse che il piacere di una donna (vero o simulato), sia il perno del dare e dell’avere o dell’essere. Ma perchè stupirsi se Ferrari e pronto a dire che, se anima c’è è più probabile che ce l’abbia un motore anzichè un essere umano.
Lei dunque, ingegnere, crede solo nel corpo, nella materia?
«E cos’altro ci dovrebbe essere?».
Lei e solo un tubo digerente, metri d’intestino, acqua e un mucchietto di ossa?
«C’e il pensiero, mia cara, un grande computer fatto di innumerevoli cellule...».
E cosa c’è, ingegnere, che non cambia mai, al di là del corpo e della mente?
Ferrari mi guarda stupito, e si che di “attori” ne ha visti passare a Fiorano. Vede Ferrari, il guaio, secondo me, e tutto nell’identificazione, noi finiamo per diventare quello che crediamo di essere.
Lei si è identificato con un meraviglioso motore e ne derivano conseguenze curiose, cosi si mescolano idee e sentimenti vari e si fa confusione con l’orgoglio, il possesso, la competizione, il senso patriottico, il coraggio, la moralità, la politica e il progresso.
C’è gente un po’ esaltata che si rivolge a lei in questi termini: La Ferrari, ai vostri concorrenti mette paura, inquietudine, incute rispetto, riverenza, Lei, Ferrari, ha creato un desiderio in noi che possediamo macchine inferiori, una mira per la quale vale la pena combattere, possedere un giorno la vettura “non plus ultra”! Avete lanciato una sfida: e una Ferrari, siete degno di pilotarla?
«Noi ascoltiamo attentamente il suono del motore e ci chiediamo: non e questo un motore che piange di protesta. No: questo e il suono d’un motore che urla di gioia, un suono che nessuna orchestra può suonare, una sinfonia di suoni che porta gioia alla mente e il sorriso sul volto».
A me, tutto questo sembra pericoloso: può davvero, una Ferrari, rappresentare l’ideale di felicita d’un uomo? La gioia della mente? E non e grottesco che, come e avvenuto in California, una miliardaria si faccia seppellire al volante della sua Ferrari cabriolet, murate insieme per l’eternità in un blocco di cemento? Progredire e necessario, l’impegno di Ferrari e nobile, ammirevoli il suo contributo, la sua dedizione, la sua tenacia.
Tuttavia Ferrari che dice che le donne le ha tradite, i motori mai, mi intenerisce perchè, secondo me, non si è accorto che, forse, la sola persona che ha tradito davvero e sè stesso. Chissà che il vero progresso, quello che cambia davvero qualcosa per il bene dell’umanità, non vada cercato dentro l’uomo anzichè fuori. La sinfonia più bella per gli uomini non e quella dei giri d’un motore, dovrebbe risiedere nel silenzio di un cuore ottantaquattrenne che ha trovato la pace, la serenità e che sa che non e non sarà mai, ne solo ne colpevole.
Il suo nome e famoso in tutto il mondo, il suo marchio somiglia a una leggenda. Come si costruisce tutto questo?
«Lavorando immensamente e considerando il lavoro un’ancora di salvezza in mezzo a tanto disordine».
In che cosa consiste l’alleanza Ferrari-Fiat?
«L’accordo Fiat-Ferrari e nato il 18 giugno 1969 e fu definito per assicurare alla mia azienda artigiana sviluppo e continuità, garantendo al tempo stesso a me la facoltà di continuare a interessarmi ai problemi connessi allo sport e al progresso dell’automobilismo».
E’ vero che le spese di gestione della Ferrari per la F.1 si calcolano quest’anno oltre i 9 miliardi?
«Nella mia conferenza stampa di fine anno ho avuto occasione di precisare che il disavanzo della Gestione Sportiva per l’anno 1981 e stato di lire 5.805 milioni (dei quali lire 500 milioni pagati dalla Fiat). Questa cifra, per il 1982, subirà ovviamente la lievitazione imposta dalla svalutazione».
Lei ha detto che “lo Sport con la S maiuscola e stato ucciso dalla sponsorizzazione, dalla selvaggia speculazione commerciale”. Come mai le sue macchine sono tappezzate di adesivi Olivetti, Goodyear, Agip, Longinus ecc? La sua e una resa?
«Sostengo, da sempre, che l’unica pubblicità ammissibile e quella di coloro che contribuiscono all’evoluzione tecnica della vettura da corsa. Le Case da lei citate nulla hanno a che fare con la miriade di prodotti di consumo e voluttuari che hanno invaso l’ambiente fino al punto di personalizzare le vetture: sono sponsorizzazioni tecniche e possono, anzi, hanno il diritto di apparire».
E’ vero che Cartier ha comprato il suo marchio (il cavallino rampante) per un orologio?
«La Ferrari non ha venduto il suo marchio, ma ha in corso di perfezionamento un accordo con Cartier affinchè questa marca possa usufruire del cavallino rampante su diversi suoi prodotti che annualmente verranno sottoposti all’approvazione della Ferrari. Con ciò, la Ferrari ha inteso difendere il suo marchio su un mercato invaso da tanti profittatori, fidando che la Cartier saprà opportunamente difendere la concessione».
Come pensa si concluderà la “guerra” fra motore aspirato e turbo?
«Sono quindici anni che esiste l’attuale F.1 e solo da due le Case tentano di esplorare compiutamente questa formula prima che essa concluda il suo ciclo nel 1984. Questa guerra preventiva al turbo, che non ha ancora vinto nessun campionato mondiale, e condotta da chi tende a trasformare i Gp di Formula Uno in una spettacolare corrida motoristica, nella quale sport e tecnica diventano degli intrusi disturbatori».
Chi, secondo lei, deve comandare in questo giro d’affari senza regole fisse e che sembra allargarsi giorno per giorno?
«E’ vero: il giro d’affari si va allargando sempre più con la spinta dei piloti che esercitano e pianificano la commercializzazione del loro diritto d’immagine, mentre tante scuderie che da questa attività traggono alimento e guadagno non intendono spendere per il progresso tecnologico. Pero, le regole fisse esistono: ci sono regolamenti, c’è il Codice Sportivo, e tutto preordinato perchè tutto ritorni alla normalità. Manca soltanto la presenza di una forte autorità sportiva-legislativa che ne pretenda il rispetto».
Se e ambigua la regola sul peso alla partenza per le macchine in gara, perchè non la si cambia?
«La regola non è ambigua. Ne viene consentita una interpretazione distorta che, disinvoltamente operata da diverse scuderie, si traduce in aperta violazione dello spirito della legge. Con la stessa “buona fede” si potrebbe pretendere l’impunita per chi uccide una donna, soltanto perchè il codice punisce l’omicidio e non parla di “donnicidio”».
Perche non si riesce a stabilire una più giusta formula di equivalenza per equilibrare i Cmc di cilindrata fra i vari motori?
«Non ritengo, allo stato attuale della ricerca tecnica, che si possa stabilire che l’attuale formula di equivalenza e ingiusta. Chi può dirlo?»
A lei nuocerebbe (la suddetta formula piu giusta) o comunque i motori turbo sono i più forti?
«Ho già detto che la nostra ricerca tecnica e volta al progresso. I motori turbo sono una innovazione che si trova ormai sulla maggioranza degli attuali motori Diesel già entrati nelle vetture di uso comune e questo significa progresso, poichè questa strada tecnica offre la possibilità di ottenere motori meno inquinanti e con maggiore disponibilità di potenza a parità di consumo».
A che servono i reclami se prima della partenza non si stabiliscono regole da rispettare?
«I reclami dovrebbero servire a far riconoscere le vere ragioni. Purtroppo mi sono convinto che oggi, nel nostro ambiente, pretendere la ragione equivale ad esporre la propria impotenza».
Se e vero che il rapporto uomo-macchina in corsa e così suddiviso: telaio 33 per cento, motore 33 per cento, gomme 20 per cento; un pilota che contribuisca al 14 per cento vale davvero miliardi? Perche?
«Ho sempre sostenuto che nello sport dell’automobile, salvo rare occasionali eccezioni, i successi non sfuggono alla legge della pura mezzadria: cinquanta per cento di merito al pilota e cinquanta per cento alla macchina. Quello che guadagna oggi un pilota non può essere previsto da nessuna piattaforma sindacale ma, ripeto, la cessione del diritto della propria immagine e operazione che compete al solo soggetto interessato».
Servono davvero la sperimentazione e la ricerca per la F.1 alla produzione in serie o dietro tutto questo c’è una diversa motivazione? Quale?
«L’automobile e nata e progredita con le corse. La competizione e il necessario avallo di qualsiasi ritrovato tecnico, poichè soltanto il pilota può trovarsi in uno stato di necessita che lo in- duce a una somma di manovre impensabili, imprevedibili, abnormi e pertanto solo la corsa, con le sue esasperate sequenze, può generare giudizi assoluti».
Niki Lauda ha detto: “Oggi in corsa nelle curve l’accelerazione di gravita raggiunge i 3 g. Il tuo corpo pesa cioè tre volte tanto, come negli aerei in picchiata. Gli occhi si iniettano di sangue, sfuggono dalle orbite, la testa si reclina e tu non vedi più niente”. Non le sembra mostruoso tutto questo? E a che scopo, poi?
«Niki Lauda ha fatto un’affermazione che e stata confermata anche nel recente Gran Premio del Brasile. Tutti abbiamo potuto constatarlo. Aveva visto giusto il presidente della FISA Balestre quando decise la soppressione delle famigerate minigonne, che consentono velocita eccessive in curva. Il guaio e che egli non ha avuto poi la forza di far rispettare la disposizione di fronte all’avversione delle scuderie inglesi. Tutto questo e irrazionale e comporta responsabilità morali per coloro che hanno aggirato una disposizione tecnica estremamente valida e saggia».
Secondo lei, la violenza delle corse di F.1, che può comportare anche la morte «in diretta», e spettacolo? Non siamo tornati ai tempi dei cristiani divorati dai leoni?
«C’e stato un Onorevole che ha dichiarato che le corse di F.1 sono un’espressione di violenza, ma io spero che lei non si associ a questo assunto. Le ho già parlato delle finalità di progresso che sono alla base della competizione: accanto a questo contenuto tecnico c’è nella competi- zione anche un aspetto spettacolare in grado di offrire al pubblico la somma di emozioni che compendia quell’ansia di superamento connaturata all’essenza e al gusto della vita umana».
Cosa prova quando un pilota muore?
«Al di là dei valori sentimentali, potrei dire affettivi, ritengo un mio imperativo dovere cercare di conoscere se l’incidente e stato causato da ragioni tecniche. Io sento profondamente la responsabilità che mi assumo quando affido una mia macchina a un pilota e la considero sicura, nei limiti della perfettibilità umana».
C’è guerra fra lei, Ecclestone e Jean-Marie Balestre. Cosa pensa dei metodi d’assalto?
«Non sono in guerra con nessuno. Rispetto le norme stabilite dalla FISA, nulla lasciando d’intentato affinchè tutti le rispettino. Questo ha portato disaccordi e contrasti, e ovvio, come pure e ovvio che ognuno trasferisce nella vita di tutti i giorni l’educazione che ha ricevuto».
Cosa poteva fare Lauda per la Ferrari che non abbia fatto? Si e mai sentito in qualche modo responsabile dell’incidente del Nurburgring che rischio di costargli la vita?
«Come posso immaginare le disponibilità di un essere umano nei confronti dei suoi rapporti con una casa costruttrice che lo ha rivelato? Sia chiaro, comunque, che fra la Ferrari e Lauda non ci sono conti sospesi».
Perchè sono cosi poche le donne che riescono ad approdare alla F.1?
«Forse perchè la Formula Uno si addice più agli uomini che alle donne. Le eccezioni che ricordo, infatti, sono poche: Maria Antonietta Avanzo, Elisabetta Junek, Maria Teresa De Filippis, Lella Lombardi».
Lei ha dichiarato: “La macchina mi ha sempre dato un grande senso di liberta”. lngegner Ferrari, per lei cos’e la liberta? E cos’è il coraggio?
«Ho letto che la nostra libertà finisce dove comincia quella altrui e che il coraggio e l’individuazione dell’esatto confine che le separa».
Sono più di 50 anni che vive di motori, non si è stancato? Non ha mai avuto altri interessi, altre passioni?
«Si, effettivamente sono 63 anni che mi interesso di motori e di macchine e io attribuisco a questa passione il merito di avermi offerto uno scopo nella vita fra tanti crudeli tormenti».
Cosa l’ha delusa di più in tutta la sua vita?
«L’impotenza a difendere la vita di un figlio che mi è stato strappato, giorno dopo giorno, per ventiquattro anni».
E più forte chi comanda o chi sa ubbidire?
«Chi veramente comanda non ha bisogno di essere forte, poichè le sue capacita gli conferisco- no prestigio e consenso. Ubbidire, anzi, saper ubbidire significa aumentare costantemente la propria forza, apprendere, collaborare, e molte altre cose».
Che cosa vuoi dire vincere?
«Vincere non significa soltanto l’applauso della folla, ma soprattutto il riconoscimento della sintesi di tutto quello che abbiamo saputo fare e prevedere».
Lewis Hamilton. Nelson Piquet razzista verso Lewis Hamilton: bufera in F1. Daniele Sparisci su Il Corriere della Sera il 28 Giugno 2022.
Il commento offensivo («ne...etto») sull’incidente nel Gp di Silverstone del novembre scorso viene rilanciato ora sui social e sui media. Hamilton: «È un problema di mentalità, è tutta la vita che mi succede». La F1 emette un comunicato: «Inaccettabile ogni frase discriminatoria».
«Parole razziste o discriminatorie sono inaccettabili e non devono trovare alcuna giustificazione». È durissima la condanna della F1 nei confronti di Nelson Piquet che in una diretta in streaming aveva usato il termine «ne...etto» parlando di Lewis Hamilton. «Lewis è un incredibile ambasciatore del nostro sport e merita rispetto, i suoi sforzi costanti per aumentare la diversità e l’inclusione sociale sono una lezione per moltissimi, una lezione a cui la F1 crede molto». Una nota ufficiale di condanna e supporto a Hamilton è stata emessa anche dalla Mercedes. Fino a quando, via Twitter, non è arrivata direttamente la risposta di Hamilton. Prima ironica quando a un tifoso che scrive «Pensate se Hamilton rispondesse chi c... è questo Piquet e poi chiudesse Twitter», il campione inglese ha risposto: «Immagina». E poi più seria: «È più di un problema di linguaggio. Queste mentalità arcaiche devono cambiare e non hanno posto nel nostro sport. Sono stato circondato da questi atteggiamenti e sono stato preso di mira per tutta la mia vita. C’è stato un sacco di tempo per imparare. È giunto il momento di agire». A sostegno del sette volte campione del mondo sono scesi in campo piloti e squadre, inclusa la Ferrari. Charles Leclerc: «Commenti simili non devono essere tollerati, dobbiamo far sparire la discriminazione dallo sport e dalla società» ha detto il monegasco.
Alla vigilia del Gp di Silverstone è scoppiato il caso razzismo per un audio di novembre — emerso soltanto adesso — nel quale il tre volte campione del mondo brasiliano analizzava l’incidente dell’anno scorso al primo di giro del Gp d’Inghilterra fra Hamilton e Verstappen, preludio di una rivalità infuocata che sarebbe durata per tutto il 2021.
«Il n... etto ha posizionato la macchina in modo che Verstappen non potesse sterzare. Il n...tto l’ha fatto perché sapeva che quella curva non avrebbero potuto farla in due. È stato fortunato che solo l’altra macchina sia andata a sbattere, ha agito in modo sporco».
Parole che Piquet — non nuovo a scivoloni, gaffe e risse anche verbali — non avrebbe mai dovuto pronunciare, e che creano grosso imbarazzo anche dalle parti della Red Bull. La figlia Kelly è infatti fidanzata con Verstappen , la coppia vive a Montecarlo, l’olandese frequenta il suocero e dopo aver vinto il titolo l’anno scorso ha passato diversi periodi in Brasile. La Red Bull è sensibilissima al tema e soltanto pochi giorni fa aveva sospeso il pilota di riserva Juri Vips per aver usato parole discriminatorie in un videogame online. Martedì 28 giugno l’inchiesta interna si è chiusa con il licenziamento del giovane estone.
Daniele Sparisci per corriere.it il 30 luglio 2022.
Dopo il caso di Nelson Piquet con le offese a Lewis Hamilton e le successive scuse, un altro ex crea forti imbarazzi nella Formula 1. È Bernie Ecclestone, non è la prima volta che succede, il vecchio patron del circus – da sempre abituato alle provocazioni- ha espresso posizioni a sostegno di Putin.
Parlando a «Good Morning Britain», alla vigilia del Gp di Gran Bretagna a Silverstone, ha detto di essere dalla parte del presidente russo sulla questione del conflitto in Ucraina. «Sarei ancora disposto a prendermi una pallottola per lui, preferirei che non mi ferisse, ma sarei disposto a prendermela».
Ecclestone, 91 anni, già in passato aveva elogiato Putin per le sue capacità di leadership, il Gp di Russia – cancellato dopo lo scoppio della guerra - era stato introdotto sotto la sua gestione. «Sulla guerra lui sta facendo ciò che ritiene giusto per il suo Paese, è una persona rispettabile» ha aggiunto per poi addossare le responsabilità principali del conflitto al premier ucraino Zelensky. Ecclestone ha poi paragonato l’invasione russa ad altre operazioni condotte dagli Usa in Stati stranieri: «Amano le guerre perché devono vendere le armi».
È intervenuto anche sul caso Piquet: «Non voleva offendere nessuno, è il suo modo di esprimersi, lo conosco da una vita e ha fatto arrabbiare tante persone senza volerlo. La faccenda è esplosa soltanto perché è il papà della fidanzata di Verstappen».
Pur non avendo più Ecclestone nessun incarico operativo o legame con la Formula 1, Liberty Media ha replicato all’anziano boss con una nota: «Le sue sono opinioni personali, e sono in profondissimo contrasto con le posizioni e i valori moderni dello sport». Se Ecclestone non è più direttamente coinvolto in F1, la giovane moglie Fabiana Flosi invece ha un ruolo di vertice nella Fia. Alle ultime elezioni è stata nominata vicepresidente per il Sud America.
Da motorsport.it il 29 giugno 2022.
Nella giornata di ieri il mondo della Formula 1 è stato scosso da una intervista rilasciata dal tre volte campione del mondo Nelson Piquet alla fine del 2021 dove il brasiliano apostrofava con un linguaggio razzista Lewis Hamilton. Il fatto ha provocato una ampia condanna da parte di tutta la comunità della F1 con piloti, team ed anche la FIA che hanno mostrato pieno sostegno al sette volte iridato. Anche Lewis Hamilton è intervenuto utilizzando i suoi profili social affermando come fosse giunto il tempo di cambiare queste mentalità arcaiche.
Dopo la bufera mediatica di ieri, Nelson Piquet è intervenuto quest’oggi con un comunicato nel quale ha voluto chiarire l’intera faccenda legata ad una intervista rilasciata lo scorso anno. Pur ammettendo che quanto dichiarato sia stato “mal pensato e non difendibile”, il brasiliano ha voluto porre l’accento sul fatto che il termine incriminato «è stato ampiamente e storicamente usato colloquialmente nella lingua portoghese come sinonimo di 'ragazzo' o 'persona' e non è mai stato inteso come un'offesa».
«Non avrei mai usato la parola di cui sono stato accusato in alcune traduzioni», ha proseguito Piquet. «Condanno fermamente qualsiasi insinuazione che la parola sia stata usata da me con lo scopo di sminuire un pilota a causa del colore della sua pelle».
«Mi scuso con tutto il cuore con chiunque ne sia stato colpito, compreso Lewis, che è un pilota incredibile, ma la traduzione di alcuni media che sta circolando sui social media non è corretta. La discriminazione non ha posto nella F1 o nella società e sono felice di chiarire il mio pensiero al riguardo».
Per correttezza riportiamo per intero il comunicato rilasciato da Nelson Piquet.
«Vorrei chiarire le storie che circolano sui media riguardo a un commento che ho fatto in un'intervista lo scorso anno. Quello che ho detto è stato mal pensato e non lo difendo, ma voglio chiarire che il termine usato è un termine che è stato ampiamente e storicamente usato in modo colloquiale nel portoghese brasiliano come sinonimo di "ragazzo" o "persona" e non è mai stato inteso come un'offesa.
Non userei mai la parola di cui sono stato accusato in alcune traduzioni. Condanno fermamente qualsiasi insinuazione che la parola sia stata usata da me con lo scopo di sminuire un pilota a causa del suo colore della pelle.
Mi scuso con tutto il cuore con chiunque sia stato colpito, compreso Lewis che è un pilota incredibile, ma la traduzione riportata da alcuni media e che sta circolando sui social non è corretta. La discriminazione non ha posto nella F1 o nella società e sono felice di chiarire il mio pensiero a questo proposito».
Federico Mariani per gazzetta.it il 2 luglio 2022.
Il caso Piquet non accenna a sgonfiarsi. Anzi, la posizione di Nelson, tre volte iridato in F1, rischia di aggravarsi ulteriormente dopo le frasi razziste su Lewis Hamilton. Il brasiliano aveva spiegato di essere stato male interpretato in un'intervista rilasciata nel novembre 2021 al canale Youtube Motorsports Talks e tornata d'attualità negli ultimi giorni. Decisamente più complicato giustificarsi di fronte alle accuse di omofobia in seguito a un nuovo video diffuso su Twitter dall'account Metropoles.
Se il primo scivolone di Piquet - che si era tardivamente scusato - si rifaceva al celebre contatto alla Copse tra Hamilton e Verstappen nel 2021 (e Lewis veniva definito neguinho, "negretto"), ora la polemica divampa su alcune considerazioni fatte a proposito del 2016. In quella stagione Nico Rosberg, figlio di Keke, iridato nel 1982, beffò di misura proprio Lewis. Nel video, Nelson attacca: “Keke era una m..., non aveva alcun valore, proprio come suo figlio Nico. Ha vinto un campionato, ma il n***etto deve aver dato un po’ troppo il c**o in quel periodo e per questo non ha guidato bene”. Dichiarazioni che hanno sollevato un nuovo polverone.
CONSEGUENZE— Negli ultimi giorni, la F1 ha condannato le esternazioni del brasiliano. Il circus si è stretto attorno a Hamilton, che, dal canto suo, ha invitato a non dare rilevanza alle uscite di Piquet. Anche Max Verstappen, compagno di Kelly, figlia di Nelson, ha preso le distanze dalle parole dell'ex campione, pur affermando di non considerarlo un razzista. Il nuovo video, però, rischia di spingere gli organizzatori a escludere il brasiliano dal paddock. La situazione potrebbe subire nuovi aggiornamenti.
Andrea Sereni per corriere.it il 2 aprile 2022.
«Ho lottato a lungo con problemi di salute mentale ed emotiva. Per andare avanti serve uno sforzo costante, ma dobbiamo continuare a combattere». Lewis Hamilton si toglie la corazza da supereroe dei motori e racconta le sue fragilità ai milioni di tifosi che lo seguono sui social. «In alcuni giorni è davvero difficile restare positivi», scrive il campione britannico su Instagram, ma bisogna lottare «perché c’è tanto da fare e da raggiungere».
Re senza corona, dopo il titolo strappato da Verstappen in quel finale di Mondiale 2021 che considera una truffa, Lewis si ritrova impotente, con la testa bassa, in un inizio di stagione che lo vede ai margini. La sua Mercedes sembra incapace di raggiungere velocità e performance di Ferrari e Red Bull, lui si scusa con il team per colpe che in realtà non ha. Sono così i fenomeni, i cannibali dello sport che non si accontentano mai, si mettono in discussione, vincono e guardano avanti, mai sazi.
«Scrivo per dirvi che va bene sentirsi nel modo in cui ci si sente, sappiate che non siete soli e che ce la faremo —prosegue Hamilton nel suo messaggio social—. Oggi un amico mi ha ricordato che si può essere così forti da poter fare tutto quello che ci passa per la testa. Possiamo farlo tutti. Ricordiamoci di vivere con gratitudine per risorgere ancora. Vi mando amore».
Uno sfogo che mostra una volta di più —recenti i casi Osaka, Azarenka e Biles —cosa si nasconde nell’animo spesso tormentato degli atleti. Tirati, al limite per raggiungere obiettivi, infelici se non riescono a centrarli. Lewis, sedicesimo in qualifica nel Gp dell’Arabia Saudita, decimo al traguardo, sembra disorientato, perso in certezze che il finale della scorsa stagione si è portato via.
«Ho passato momenti peggiori», ha detto dopo gli ultimi risultati negativi, pronto a reagire alle nuove difficoltà. Parla di una fragilità psicologica, di giornate in cui fatica ad essere positivo, senza però perdere la voglia di combattere. Il re senza corona cerca vendetta contro il giovane sfidante Verstappen, vuole un ultimo Mondiale per superare Schumacher. Ha ancora «tanto da fare».
Estratto dal libro “il Grande Circo – Storie di box dalla A alla Z” di Biagio Maglienti il 20 marzo 2022.
(...) Primi anni Duemila, è il weekend di Monza e siamo all’Idroscalo di Milano per festeggiare il compleanno del manager di un pilota ex Ferrari. Con me c’erano Fisichella, Barrichello, Irvine e a un certo punto sì unì a noi un ingegnere di macchina della Ferrari, molto amico di Giancarlo. Bastano poche parole per capire che il tecnico inglese è già a un livello di ubriachezza pazzesco, non abbastanza da immaginare ciò che dirà poco dopo al pilota romano.
“Se io fossi una donna mi piacerebbe uscire con te”
Fisichella mi guarda, esterrefatto. Poi mi guarda ancora e fa per dirgli: “Ti ho avuto tra le palle tutto ‘sto tempo e ora mi fai anche delle avances?”. Ma lui è sparito. Ci guardiamo attorno e dell’ingegnere non c’è più traccia.
Eravamo su una terrazza e guardando giù lo vediamo schiantato a terra, dopo 5 metri buoni di volo. Corriamo giù, un altro degli ingegneri gli mette la mano sotto la testa, vede il sangue e inizia a gridare di chiamare l’ambulanza. Ma l’amico di Fisichella, un po’ rimbambito dal volo e gonfio di alcol, si alza come se nulla fosse: alla fine non si era fatto un granché, peccato che la mattina dopo dovesse essere in pista. Chiede a qualcuno di chiamargli un taxi e poi crolla svenuto su una sdraio. Nulla di strano quindi che alle sei di mattina mi telefoni l’addetto stampa della Ferrari per dirmi: “Mi raccomando, tu non hai visto niente”.
La Ferrari. Benny Casadei Lucchi per “il Giornale” il 21 marzo 2022.
Dicono che i motori non siano vero sport. È vero. C'è il pilota, c'è il talento ma ci sono la tecnica e il soldo a togliere romanticismo al tutto. L'atletica è vero sport. È l'essenza di tutti gli sport, l'anima. Per cui l'impresa, sabato, di Marcell Jacobs ha illuminato, riempito ed emozionato rendendoci fieri nel vedere quell'omone semplice mettersi dietro l'America e prendere poi in braccio il figlioletto come avrebbe fatto ognuno di noi.
Scene di vita quotidiana trasferite vittoriose sulla pista di un mondiale d'atletica. La Ferrari, alla propria maniera, ha fatto la stessa cosa: ci ha regalato scene di vita riassunte nei suoi e nostri ultimi anni cupi di vita quotidiana.
Perché è certo che la Formula uno non sia vero sport però, oggi, il Paese tutto era soprattutto di questo che aveva bisogno: di risorgere, sorridere, dominare nel mondo con tutto ciò che ha a disposizione giorno dopo giorno: il lavoro del singolo e del gruppo, il talento e la genialità, l'industria e il dettaglio, l'investimento e il rischio culminati nella umile e silenziosa coesione che protegge nei momenti bui e diventa forza e urlo vittorioso quando il cielo si rischiara.
La doppietta della Ferrari in Bahrein ci ha offerto questo. Perché non è stata magia. È stata caparbietà e risalita dallo sprofondo in cui la scuderia era finita da anni. Il team principal Binotto aveva ben chiara la bontà di quanto fatto, «non firmerei per un secondo posto» aveva detto alla vigilia della gara. L'estate scorsa, la nostra generosa Italia, del calcio prima e dell'atletica e dei Giochi poi, aveva meravigliosamente vinto sfoggiando gioco di squadra, talento e impegno.
Era stato sufficiente per ridarci il sorriso nel mezzo della pandemia e farcela un po' dimenticare. Adesso non sarebbe bastato. Adesso che a rendere più cupo il cielo si sono aggiunte al virus la guerra, le restrizioni e paure più grandi che ci toccano senza far distinzione fra categorie ma unendoci e sprofondandoci assieme, questo Essere Ferrari, questa vittoria di squadra frutto dell'unione umana e tecnica, di operai e ingegneri, piloti milionari e maestranze metalmeccaniche, è proprio quello che ci serviva: uno specchio.
Flavio Briatore. Daniele Dallera e Daniele Sparisci per il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.
Flavio Briatore è tornato in Formula 1 nel ruolo di «ambasciatore». Non sarà più dietro al muretto a dare ordini, si occuperà di affari. Potenziando l'intrattenimento e le opportunità commerciali, forte dell'esperienza da imprenditore a capo di un gruppo di 1.350 dipendenti nei settori della ristorazione e dello svago. L'ultima creatura, dopo il Billionaire e il Twiga, è «Crazy pizza».
«L'idea era trasformare un prodotto di strada in un prodotto di lusso. Musica, energia, servizio: un ambiente diverso dalla solita pizzeria. Dopo le aperture di Roma e Milano, entro un anno e mezzo ce ne saranno 70 nel mondo».
Magari un giorno sarà suo figlio Nathan Falco a dirigere le aziende, fa questo anche per lui?
«Lo spero. Ma prima penso agli altri, la soddisfazione di un imprenditore è creare posti di lavoro e inventare cose nuove. Poi se mio figlio capisce che cosa significa questo spirito mi va bene, lo vedo interessato, ma non lo forzo».
E in F1 che cosa farà esattamente Briatore?
«La collaborazione è nata parlando con Stefano Domenicali, per dare una mano. Per sostenere gli organizzatori dei Gp, per supportare gli attuali partner commerciali e trovarne di nuovi. Inoltre, faremo un restyling del paddock club (gli spazi riservati ai vip, ndr) e dell'intrattenimento».
In che modo?
«Sarà diverso nel cibo e nello svago, dobbiamo creare la voglia di tornare a un Gp. Sarà un vantaggio anche per le squadre. Deve essere un'esperienza unica, la F1 negli ultimi due anni è esplosa grazie a Netflix, e alla proprietà americana. Il mercato Usa è una colonna portante ora».
Alcuni piloti si rifiutano di partecipare alla serie «Drive to Survive», a lei piace?
«Eccezionale. Per chi non conosce la F1 è fantastica, ha attirato milioni di giovani americani. Se la F1 è diventata popolare in America è grazie a quella serie».
E della F1 dei suoi tempi a che cosa è rimasto più legato?
«Alla Benetton. Vincevamo e davamo fastidio: un'azienda di magliette batte i team storici. Abbiamo cambiato gli equilibri e anche la comunicazione portando in pista la moda, le modelle e i grandi stilisti».
E i successi alla Renault?
«Lì abbiamo girato lo stesso film con attori differenti. Al posto di Schumacher c'era Alonso, che a 40 anni è un lottatore. Gli voglio bene».
Che cosa le viene in mente quando pensa a Michael, frequenta la sua famiglia?
«A volte ritrovo vecchie foto di noi due, me lo voglio ricordare così com' era. Quando devi parlare di lui, pensando a come è adesso, è molto dura per tutti quelli che come me lo hanno frequentato. Bisogna soltanto pregare, solo un miracolo potrebbe farlo tornare la persona di prima».
Per chi ha vissuto l'era di Michael, di Senna, non c'è il rischio della nostalgia?
«Lo sport si evolve. La popolarità della F1 sta crescendo grazie a una generazione di piloti attivi sui social media. Gli eroi di mio figlio sono Russell, Gasly, Norris, ragazzi che divertono su Instagram, TikTok. Parlano un altro linguaggio rispetto ad Alonso. Se i giovani sono tornati ad appassionarsi è grazie ai social media. E poi il duello Verstappen-Hamilton ha riavvicinato anche chi si era allontanato. È stata una competizione incredibile».
Per chi ha tifato?
«Per Max, volevo che ci fosse un campione del mondo diverso da Hamilton. E poi nell'arco di un campionato così lungo emerge il migliore. Per anni la Mercedes ha lottato soltanto contro sé stessa, questo duello è servito anche a rimotivarla. La vittoria di Max ha fatto bene a tutti».
La Ferrari non vince dal 2008, quali errori ha commesso secondo lei?
«Difficile dirlo. Almeno un Mondiale, quello del 2010 con Alonso, è stato buttato via. Ma li aspettiamo adesso, hanno sempre detto che avrebbero puntato sul 2022. Ora che si sono rimescolate le carte mi auguro che la Ferrari vinca. E anche se non dovesse vincere il titolo, che almeno sia competitiva».
Anche perché se non lo fosse, ci sarebbero altri cambiamenti ai vertici della squadra.
«Sono già stati tanti e non so quanto abbiano giovato. Con Montezemolo era sempre competitiva».
Se Marchionne fosse ancora vivo sarebbe arrivata prima al Mondiale?
«Marchionne è stato straordinario sotto tanti aspetti, un mago dell'industria. Ma non ha lasciato il segno in F1, non credo che l'abbia capita fino in fondo».
Ha un po' di rimpianto per non aver mai diretto la Ferrari, le sarebbe piaciuto? «Sicuramente. Ma non mi hanno mai chiamato e ci siamo sempre trovati l'uno contro l'altro: prima alla Benetton e poi alla Renault. Alla Ferrari non si può dire di no, chi lo racconta dice bugie. Ricordo quando Michael mi disse che stava parlando con Maranello, capii subito che era il suo sogno. La Ferrari è una realtà unica, ancora più unica dei risultati che ha ottenuto».
Passiamo ai piloti attuali. Verstappen?
«Aggressivo, un grande».
Hamilton?
«Straordinario, meno spettacolare di Max».
Leclerc?
«Deve dimostrare quanto vale su una macchina competitiva».
Sainz?
«Idem».
Alonso?
«Non molla mai».
Norris?
«Veloce, mi piace molto».
Ricciardo?
«È un po' una delusione».
Russell?
«Per Hamilton sarà un compagno scomodo».
Perez?
«Guida nella terra di nessuno, non è ai livelli di Max».
Con l'uscita di Antonio Giovinazzi, l'Italia è sparita.
«Ma c'è Domenicali, a capo della F1, è la nostra medaglia d'oro».
Perché il suo nome negli ambienti inglesi crea ancora polemiche, dà fastidio?
«Ce l'hanno con me da quando Michael vinse il suo primo Mondiale, nel 1994, battendo Damon Hill. E poi da quando alla Renault non ho rinnovato il contratto di Jenson Button per prendere Alonso: alla conferenza i giornalisti inglesi a momenti spaccavano il motorhome. Dissi: "Solo il futuro dirà se ho fatto bene o male". E ho fatto bene, con un altro al posto di Alonso non avremmo vinto».
Valentino Rossi. Michela Marzano per “La Stampa” il 19 giugno 2022.
«Fare il genitore è proprio una figata» ammette Valentino Rossi. Intervistato in occasione del premio del Mugello, il pilota italiano non sembra rimpiangere più di tanto la vita di prima. Certo, la sua carriera è stata molto lunga e piena di soddisfazioni. Ma, in fondo, non gli pesa essersi ritirato; anzi, come lui stesso ripete più volte, era senz' altro arrivato il momento di farlo.
Tanto più che le sue giornate non si sono affatto svuotate. Con l'arrivo della figlia, la piccola Giulietta, si sono riempite di una nuova felicità. «Adesso è piccolina», continua il campione. «Ha appena due mesi e mezzo, quindi fa ancora poche cose. Però si vede che ha un grandissimo potenziale, si vede proprio che ha i cavalli». Valentino Rossi dice che Giulietta è serena. Dice che di notte dorme quasi quanto lui. Dice che la propria tranquillità, così come la tranquillità di sua moglie, si riflettono sulla figlia. Dice che grazie a lei, a casa sua, tutti stanno vivendo una nuova giovinezza.
E, in un periodo in cui sono in tanti a sottolineare la difficoltà dell'essere genitori, a denunciare gli sforzi per conciliare il lavoro e la famiglia, e a raccontare con ansia le minacce di un mondo in cui qualunque cosa richiederebbe ormai sforzi inauditi, l'ex-pilota ci riporta con i piedi per terra: essere padre è una figata.
Sottintendendo così quanto sia bello rimettersi in gioco e affrontare nuove sfide. Così com' è bello - mi permetto di aggiungere io - essere spinti ad affrontare la prova dell'alterità di fronte alla quale ci mettono i figli, anche se poi i bambini, soprattutto quando sono piccoli, non chiedono quasi nulla: non ci vogliono né diversi né migliori e amano in maniera incondizionata.
Certo, per essere un genitore «sufficientemente buono», come direbbe il pedopsichiatra W. D. Winnicott, che combatté a lungo contro il mito della perfezione materna e paterna, c'è bisogno di creare spazi fisici e psichici adatti ai bambini senza compromettere gli spazi familiari già esistenti.
Così come c'è bisogno di pazienza, e talvolta pure di tanto coraggio, per smontare alcune delle certezze che ci si è via via costruiti nel corso della propria vita. È spesso estremamente faticoso evitare di proiettare su un figlio aspettative e ansie, caricandolo così di pesi non suoi.
Di tanto in tanto ci sono cose della propria storia, o della storia dei propri genitori, che si trasmettono inconsapevolmente, riproducendo proprio quegli schemi che più ci hanno fatto soffrire quando eravamo bambini. Come scrive il premio Nobel per la letteratura José Saramago: «Figlio è un essere che Dio ci ha prestato per fare un corso intensivo di come amare qualcuno più che noi stessi, di come cambiare i nostri peggiori difetti per dargli il migliore esempio, per apprendere ad avere coraggio».
Una grande sfida, quindi. Ma che vale senz' altro la pena di accettare. Anche semplicemente perché, quando accade il miracolo del reciproco riconoscimento, il risultato è la gioia. E quindi la forza di affrontare i segreti che ci accompagnano. E quindi la voglia di ricominciare. I figli non riparano nulla. Non spetta a loro né riempire i nostri vuoti né realizzare i nostri sogni o i nostri desideri. Non si fa un figlio per vendicarsi dell'esistenza né per curare antiche ferite. Quindi no, non è facile diventare genitore, e il più delle volte le cose non vanno come si sarebbe immaginato o sperato.
Ci sono maternità e paternità che si portano dietro storie di lutti, abusi e bugie, e che spingono a proiettare sui figli tutto ciò che si cerca di rimuovere o occultare. Ma quando un figlio diventa l'occasione per aprirsi alla novità e fare spazio allo stupore, si può anche guadagnare la capacità di investire nuovamente sulla vita. Cosa che vale non solo per chi, dall'esterno, sembra già aver avuto tanto, come Valentino Rossi.
Ma pure per chi è segnato dalla disperazione del passato e, diventando genitore, decide di affrontare la propria eredità emotiva trasformando il proprio fato in destino. Quando si è piccoli, si sperimentano le paure dei propri genitori e si concepisce il mondo come lo concepiscono loro. Forse è per questo che il modo migliore per diventare madre o padre è la consapevolezza della propria imperfezione. Che poi vuol dire umiltà: essere pronti ad abbandonare le esperienze che si sono via via accumulate, creando scenari nuovi che, sebbene a volte sembrino spiazzanti, aprono pur sempre la strada alla "figata" della genitorialità
Giorgio Terruzzi per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2022.
«Mamma e Babbo sono al settimo cielo! Benvenuta Giulietta Rossi». Poche parole destinate a fare il tour completo del web. La mamma è Francesca Sofia Novello, il babbo è Valentino Rossi, felici di comunicare il debutto in pista della figlia, avvenuto nella notte tra giovedì e venerdì all'ospedale di Urbino, lo stesso dove nacque Valentino il 16 febbraio 1979. Giulietta «Sprint», viene da aggiungere, non soltanto nel ricordo di una automobile sportiva che fece epoca.
La piccola Rossi è venuta al mondo in concomitanza con il ritorno in pista della MotoGP, in Qatar. Primo giorno di Motomondiale senza Valentino, dopo anni 26, con Valentino a rubare la scena in qualità di debuttante nel ruolo di genitore. Fotografie: una soltanto. Ritrae il piccolo piede di Giulietta per una tenerezza che sempre scatenano i neonati, per una curiosità destinata ad accompagnare ogni passo di questa bimba già celebre.
Mamma e papà: sommersi in queste ore da messaggi augurali da parte di amici e tifosi, a cominciare dalla sfilza di cuori inviata da Jovanotti, dai rallegramenti in arrivo dall'Inter, squadra prediletta da Vale; dal «congratulazioni ragazzi» postato da Vasco Rossi, tra i primi a rilanciare sui social l'immagine del piedino di Giulietta. La data, 4 marzo, fa venire in mente la bellissima canzone di Lucio Dalla, 4/3/1943 , titolo che ricorda il giorno della nascita dell'artista bolognese.
Il segno zodiacale, Pesci, avrà occupato nonna Stefania, grande appassionata di astrologia, nella stesura del primo oroscopo della nipotina. È rientrato a Tavullia, dopo un blitz all'ospedale, nonno Graziano: «Intanto sono proprio contento che sia andato tutto bene, dalla gravidanza al parto. E poi, una bimba, che spettacolo! È bellissima, sembra abbia già un anno». Valentino fa avanti e indietro tra Urbino e la pista di Imola, dove sono in programma i test del campionato GT che segnerà, il 3 aprile, stessa pista, il suo esordio al volante di un'Audi, numero di gara 46, ovviamente.
Dunque, un tempismo perfetto: Giulietta ha già cominciato ad aiutare il suo papà. Cogliendo il miglior attimo per entrare in scena, offrendo una intensità emotiva dominante in un momento delicato. Il più formidabile diversivo possibile per un campione che non ha alcuna intenzione di chiudere con i motori ma è ancora in attesa di cominciare a misurarsi con una seconda, provvidenziale carriera.
Valentino, senza Giulietta, non avrebbe resistito alla tentazione di osservare a tempo pieno, con qualche nostalgia, i suoi ex colleghi al rientro agonistico. A cominciare dal fratello, ora «zio» Luca Marini. In solitudine peraltro, visto che anche l'amico più caro, Uccio Salucci, è in Qatar: «Ho sentito Valentino al telefono, era davvero emozionato. Lo sono anch' io, non vedo l'ora di conoscerla. Questo avvenimento pare proprio un segnale. Giulietta, nata di venerdì, nel giorno che segna l'inizio di ogni weekend di gara». Segni del destino. Parecchi. Ad indicare una precoce, inevitabile discendenza.
Da La Gazzetta dello Sport il 13 febbraio 2022.
C'è un messaggio radio che rischia di inguaiare Michael Masi, il direttore di gara della F.1, al centro dell'inchiesta aperta dalla Fia per fare chiarezza sul caotico finale di Abu Dhabi che ha deciso l'assegnazione del Mondiale a favore di Max Verstappen.
In uno dei messaggi si sente la voce del direttore sportivo della Red Bull, Jonathan Wheatley, consigliare Masi su come gestire le auto doppiate che si trovano tra Lewis Hamilton, in quel momento in testa alla corsa, e il rivale. «Quelle auto doppiate - dice Wheatley - non è necessario lasciarle passare e fare loro raggiungere il fondo del gruppo. Devi solo lasciarle andare e poi fai ripartire la gara». Masi risponde: «Capito».
Stranamente, malgrado la Fia avesse reso noto il flusso dei messaggi radio già il 16 dicembre questo scambio si era perso e chiaramente lascia intendere che il dirigente australiano, la cui sorte pare segnata, sia stato condizionato a vantaggio del team di Milton Keynes. La Fia ha promesso che lunedì 14 farà conoscere ai team in occasione della Commissione F.1 le proprie valutazioni. E comunque da quest' anno, con o senza Masi ai GP, ci sarà una sorta di Var che aiuterà il direttore gara (i cui compiti verranno spacchettati) durante il GP.
Nigel Mansell, stoccata ai baby della F1: "Patrese era svenuto nell'abitacolo. Oggi Leclerc e gli altri..." Libero Quotidiano il 09 marzo 2022
L’effetto suolo è tornato in F1 dopo più di 40 anni, le vetture sono cambiate: diventate più pesanti, rigide, con tempi più alti rispetto alle monoposto di anno scorso. Vetture che non entusiasmano diversi piloti del Circus, ma sicuramente più affidabili di quelle che negli Anni 80 e 90 guidava Nigel Mansell: “Quelle monoposto restano le più stupefacenti che abbia mai pilotato — ha detto l’inglese in un’intervista a La Gazzetta dello Sport — Non dimenticherò mai un test in Brasile, a Jacarepaguà. Seguivo la Brabham di Patrese che uscì di pista e finì contro il guard-rail: erano così tanti i G che dovevamo sopportare in curva che Riccardo svenne nell’abitacolo. Erano auto incollate per terra, fisicamente dure da guidare, ma ogni tanto ti mollavano, non sapevi cosa poteva capitare. Era un’epoca in cui se avevi coraggio ed eri abbastanza stupido potevi essere molto veloce. Ma anche perdere la vita”.
Lui, Prost, Senna: allora era una grande F1: “Eravamo forti come i piloti di oggi, ma dovevamo fare qualcosa in più — ha detto il campione del mondo 1992 — Adesso non devono preoccuparsi dell’affidabilità: se non fai un errore la vettura non ti lascia quasi mai a piedi. Noi dovevamo stare attenti a guidare intorno ai problemi, essere veloci nonostante i guai, e fisicamente era molto più dura senza servosterzo: tenere l’auto in curva dipendeva dalla tua forza”. Oggi i vari Leclerc, Verstappen, Hamilton “hanno aiuti dalla telemetria, dai simulatori, hanno 20 o 30 ingegneri che gestiscono parti della monoposto durante la corsa — ha aggiunto l’inglese alla Gazzetta — E poi dovevamo avere una fede assoluta in noi stessi e nella macchina: prima che arrivassero le tragedie del 1994 le piste erano molto più pericolose tra muri, guard-rail e vie di fuga limitate. Se guardo indietro dico che era da potenziali suicidi correre con le reti tenute in piedi da pali di legno all’esterno delle curve”.
I momenti magici in Ferrari sono “quando ho vinto la mia prima gara con la rossa a Rio nel 1989 contro ogni pronostico — ricorda Mansell — il successo in Ungheria fulminando Senna dopo essere partito 12°, l’anno dopo il testacoda a 300 orari a Imola con Berger che mi ha spinto fuori e io che riparto e faccio segnare il giro veloce della corsa, il sorpasso all’esterno allo stesso Gerhard nel finale del GP del Messico”. Tutto questo, messo insieme, “mostrava ai fan del Cavallino che non smettevo mai di provarci — conclude alla Gazzetta — Ho sempre dato il massimo, ho fatto tutto quanto possibile per le mie abilità anche se poi il risultato non è stato quello voluto”.
Felipe Massa. Da ilnapolista.it il 18 febbraio 2022.
La Gazzetta dello Sport intervista Felipe Massa, ex pilota Ferrari. Ha lasciato la scuderia da 9 anni, ma è rimasto legatissimo al marchio. Commenta la F1-75 presentata ieri.
«Difficile farsi un’idea. Il mio augurio è che Mattia Binotto sia riuscito a rendere la squadra più efficiente».
Massa è stato al fianco di tante presentazioni con Michael Schumacher, Kimi Raikkonen e Fernando Alonso. Racconta l’atteggiamento degli ex colleghi.
«Michael vedeva sempre il bicchiere mezzo vuoto e questo spingeva il team a inseguire la perfezione. Di Kimi era persino difficile capire che cosa pensasse, parlava poco con chi lavorava con lui, a volte si dimenticava persino di salutare, ma in pista forniva sempre ottime analisi.
Fernando era diretto, se c’era qualcosa che non gli piaceva, faceva di tutto perché cambiasse. Il suo guaio è che aveva una doppia personalità: quando calava la visiera diventava un altro, tendeva a dividere un po’ la squadra, si chiudeva con i suoi uomini e cercava di portare il team dalla sua parte».
Massa ora rivela: "Alonso divisivo, Kimi parlava poco, Schumi..." Antonio Prisco il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.
L'ex pilota Ferrari parlando del passato fa alcune rivelazioni sugli ex colleghi Alonso, Raikkonen e Schumacher. "Alonso cercava di portare il team dalla sua parte, di Raikkonen era difficile capire cosa pensasse, Schumi invece vedeva sempre il bicchiere mezzo vuoto e questo spingeva il team a inseguire la perfezione". Sono le parole dell'ex pilota della Ferrari, Felipe Massa in un'intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport.
Otto anni in Ferrari, dove arrivò ragazzino grazie alla simpatia di Michael Schumacher. Alla guida della Rossa è stato il pilota ad aver disputato il maggior numero di stagioni consecutive più Gran Premi (139 all’attivo) alle spalle di Schumi e Kimi Raikkonen.
Nessun titolo mondiale vinto, anche se nel 2008 ci andò davvero vicinissimo, tagliando il traguardo da campione in pectore prima che Lewis Hamilton riuscisse a conquistare la quinta piazza nell'ultimo giro, la prima utile per consentirgli di vincere il suo primo titolo iridato per un solo punto. Uno smacco che il brasiliano non ha mai digerito del tutto, ancora oggi a distanza di anni.
Alla vigilia del nuovo Mondiale di Formula Uno, con le scuderie che stanno presentando le nuove monoposto, completamente differenti rispetto a quelle del 2021 causa il cambio di regolamento, Felipe Massa ha espresso le sue opinioni in un’intervista alla Rosea. Secondo l'ex pilota le ultime novità non provocheranno scossoni: "Mercedes e Red Bull saranno lì, è un’opportunità un cambio così, ma lavorare non basta, serve farlo con la direzione giusta".
Sulla Ferrari invece: "Difficile farsi un’idea. Il mio augurio è che Mattia Binotto sia riuscito a rendere la squadra più efficiente. Durante la stagione è cresciuta, seppur non sia stato sufficiente per vincere. Hanno due piloti bravi" ha aggiunto riferendosi a Leclerc e Sainz.
E proprio sullo spagnolo Massa ha voluto ha quasi voluto fare ammenda: "Pensavo come molti che sarebbe stato meglio ingaggiare Ricciardo ma si è dimostrato bravo Carlos, motivato e fisicamente preparato, un lavoratore e con Leclerc sono una coppia forte".
Parlando del passato, Massa è stato al fianco di tante presentazioni con Schumacher, Raikkonen e Alonso. Racconta così l'atteggiamento degli ex colleghi: "Michael vedeva sempre il bicchiere mezzo vuoto e questo spingeva il team a inseguire la perfezione. Di Kimi era persino difficile capire che cosa pensasse, parlava poco con chi lavorava con lui, a volte si dimenticava persino di salutare, ma in pista forniva sempre ottime analisi".
Su Fernando Alonso invece la rivelazione più velenosa: "Fernando era diretto, se c’era qualcosa che non gli piaceva, faceva di tutto perché cambiasse. Il suo guaio è che aveva una doppia personalità: quando calava la visiera diventava un altro, tendeva a dividere un po’ la squadra, si chiudeva con i suoi uomini e cercava di portare il team dalla sua parte".
Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese
Kimi Raikkonen. Da ilnapolista.it il 21 gennaio 2022.
L’ex pilota di Formula 1, Kimi Raikkonen, ha rilasciato un’intervista a Motorsport in cui si mostra molto critico con l’ambiente automobilistico.
“Ci sono tante cose che non hanno senso, almeno per me, in Formula 1. Lo sappiamo tutti, ma nessuno dice niente. C’è molta falsità nell’ambiente, è più bello starne fuori. Il denaro ha cambiato le cose anche in questo ambiente, come in ogni sport. Più ci sono soldi, più c’è politica. Succede così ovunque, in ogni paese. Ci sono giochi fatti da persone a te sconosciute, sino a quando non ti trovi dentro l’intera faccenda. Credo che la gente voglia avere potere. Ci sarebbero molti in F1 che farebbero bene anche nella vera politica…”.
Continua: “È stato così per molti anni. Forse la gente se ne rende conto molto di più solamente ora. Io non mi sono fatto coinvolgere dall’aspetto politico. So un sacco di cose che succedono, ma ne sono rimasto estraneo. Non credo che sia molto salutare per una persona lasciarsi prendere da questo aspetto”.
Alessandro Nannini. Giulio De Santis per corriere.it il 4 febbraio 2022.
Pilota di Formula 1 di successo. A un passo da un ingaggio in Ferrari. Una carriera stroncata da un terribile incidente in elicottero: è il 1990 quando, all’apice della fama, rimane gravemente ferito.
È allora che Alessandro Nannini, fratello della cantante Gianna, entra nell’azienda di famiglia, la storica «Pasticcerie Nannini».
Adesso l’ex pilota, 62 anni, ha davanti una nuova sfida: dimostrare la propria innocenza dall’accusa di bancarotta fraudolenta nella gestione della società satellite del Gruppo fondata dal nonno Guido.
La «Pasticcerie Nannini», sede a Roma, è stata dichiarata fallita il 14 febbraio 2019. Epilogo che, secondo la Procura, avrebbe contribuito a causare proprio Alessandro, al quale il pubblico ministero Francesco Marinaro contesta nella richiesta di rinvio a giudizio «di non aver versato all’Erario tasse e contributi così da accumulare una notevole esposizione debitoria di importo di circa 1 milione e 200mila euro. Operazioni dolose che avrebbero provocato il fallimento della società», ha sottolineato il magistrato nel capo d’imputazione.
La Procura ha anche contestato a Nannini di aver fatto sparire i libri contabili ma quest’imputazione sembra destinata ad essere ridimensionata perché i documenti amministrativi sarebbero stati rinvenuti di recente. «Siamo fiduciosi di poter dimostrare che entrambi i capi di imputazione siano senza fondamento», replica l’avvocato Fabio Pisillo, difensore di Nannini. Il 4 maggio si terrà l’udienza preliminare.
È l’ultimo capitolo di una vita piena di curve pericolose, come quelle che Nannini ha amato affrontare per anni nelle piste di Formula 1 e, prima ancora, nei rally, altro grande amore del pilota senese.
Grintoso e veloce, il primo podio lo ottiene in Formula 1 nel 1989 in una gara ricordata per la pioggia. Nannini, alla guida della Benetton, arriva terzo alle spalle di due leggende.
Ayrton Senna (il vincitore) e Nigel Mansell. Nell’estate del 1990 la Ferrari lo contatta. Gli propone un contratto per la stagione successiva. Ma Nannini dirà no. A mandare a monte il passaggio dalla Benetton a Maranello sarebbe stata la durata del contratto di un solo anno.
Sarà lui stesso a raccontarlo nel settembre del 1990, pochi giorni prima dell’incidente che segnerà la fine della carriera sportiva: è il 12 ottobre di 31 anni fa, Nannini sta rientrando nella tenuta di famiglia a Siena alla guida del suo elicottero. Qualcosa va storto nell’atterraggio, viene sbalzato fuori dalla cabina e un’elica gli provoca gravissime lesioni a un avambraccio e per questo non tornerà più a gareggiare.
Nel 2001 assume la carica di presidente delle «Pasticcerie Nannini», la storica azienda fondata dal nonno Guido e divenuta famosa per la produzione di dolciumi grazie al padre Danilo, ex presidente del Siena Calcio, morto nel 2007. Il ruolo di presidente Nannini lo ricoprirà fino al 2014.
Nel 2011 si candida nelle file del centrodestra (Pdl) a sindaco di Siena. Ma senza successo. Quelli sono comunque gli anni in cui, secondo il pm Marinaro, Nannini avrebbe omesso di versare tasse e contribuiti accumulando l’esposizione debitoria di 1 milione e 200mila euro alla base della richiesta di rinvio a giudizio.
Estratto dell’articolo di Cosimo Cito per "La Repubblica" il 10 novembre 2022.
Grazia, bellezza, magrezza. Come la ginnastica, anche la danza classica ha le sue regole di ferro e le sue vittime. Una di loro, Chiara Chillemi, ha deciso di raccontare la sua storia. «L'esplosione del caso nella ritmica mi ha spinto ad aprirmi. Perché tutti sappiano». Romana, 27 anni, Chiara ha frequentato dai 10 ai 15 anni l'Accademia nazionale di danza, una delle più importanti istituzioni coreutiche in Italia. (...)
Presto le insegnanti iniziarono a misurare le ragazze con lo sguardo: «Il peso è il tarlo che ti mettono in testa. Ci valutavano con uno sguardo. E con l'età dello sviluppo le cose sono andate anche peggio. Il seno era diventato un problema. Le più formose venivano fasciate per nasconderlo e perché credevano che fasciarlo avrebbe impedito il suo sviluppo. Io ero una bambina già sottopeso, ma avevo un quadricipite da sportiva. La mia insegnante iniziò a tartassarmi, voleva che dimagrissi a tutti i costi».
La lotta tra Chiara e il suo corpo si fa a quel punto serrata. «Durante gli allenamenti avevo capogiri, svenimenti. Mi fermai perché il mio corpo non riusciva a "togliersi" altro.
L'anoressia era a un centimetro da me. A mensa prendevo il minimo indispensabile, sempre insalata. Una delle insegnanti, che girava tra i tavoli per spiare nei nostri piatti, una volta mi disse "brava". Andavo al bagno e sentivo le ragazze vomitare».
«Quando non sono più riuscita a dimagrire» prosegue Chiara, «ho iniziato provocarmi il vomito. Il momento più brutto arrivò un 23 dicembre, davanti a un vassoio di lingue di gatto. Le insegnanti ci misero in fila: le più magre ne avrebbero avute due, altre una, altre ancora nessuna. Una mia amica, magra ai limiti del ricovero, ne ebbe due. Io non ne "meritai" nessuna. E questa cosa provocò in me un senso di profondissima umiliazione».
A un certo punto Chiara va in amenorrea: «Non ho avuto il ciclo per un anno e ho iniziato a gonfiarmi di liquidi e zuccheri». Ed è costretta ad ascoltare qualcosa di incredibile: «A una mia compagna l'insegnante disse che avrebbe dovuto fare sesso con il suo partner di passo a due per rendere più empatico il balletto. Un'altra insegnante mi fece intendere che forse era arrivato il momento per me, il momento che avessi rapporti sessuali. Mi alterai verso di lei e le dissi "ma come si permette?"».
Chiara resiste cinque anni, poi lascia l'Accademia e passa prima al Balletto di Roma poi al Teatro Greco. Infine, l'addio a scarpette e sogni. (...)
· Quelli che …l’Atletica.
Ida Di Grazia per leggo.it il 18 novembre 2022.
Dopo la denuncia dell'ex Farfalla azzurra Nina Corradini si è aperto il vaso di Pandora sulle presunte umiliazioni subite in Nazionale a Desio. E sabato 19 novembre, l'atleta azzurra di Ginnastica Ritmica sarà a Verissimo con Anna Basta per raccontare la loro verità.
«Venivamo pesate ogni giorno, tutte insieme, in fila una per una. Prima della pesa avevamo smesso anche di fare colazione e avevamo paura pure di bere un bicchiere d’acqua perché faceva la differenza. E se il peso, secondo loro, non era quello giusto ci insultavano pubblicamente con frasi tipo ‘vergognati!’, ‘sei incinta’, ‘guarda che pancia ti ritrovi’». E' questo il duro racconto che fa a Verissimo l'ex Farfalla azzurra Anna Basta.
E non è la sola, con lei anche Nina Corradini: «Queste frasi ci venivano ripetute ogni giorno, durante tutto il tempo degli allenamenti. Eravamo solo dei numeri sulla bilancia, non avevamo più valore né come persone né come ginnaste».
A Silvia Toffanin che chiede loro il rapporto che avevano con lo staff degli allenatori, le due ragazze dichiarano: «Il rapporto che si crea con gli allenatori è quasi di dipendenza, ricerchi la loro approvazione anche se sai che ti stanno facendo del male. Ti fanno arrivare al punto di pensare di essere dalla parte del torto».
Una percezione distorta del proprio corpo che ha portato Nina ad abusare di lassativi per perdere peso: «Ho iniziato a prenderli a settembre del 2020 e ne prendevo uno a sera, tanto che non mi facevano più effetto. Una volta ne ho presi tre, ho perso un chilo e mezzo in una notte e la mattina dopo sono svenuta. Lì ho capito che stavo mettendo a rischio la mia salute fisica e psicologia. E comunque quel giorno mi hanno fatto allenare lo stesso, perché per loro gli infortuni sono solo una scusa per non allenarsi».
Gli abusi psicologici subiti da Anna l'hanno portata a considerare l’idea di togliersi la vita: «Ci ho pensato molto. Per tantissimo tempo ho vissuto con il pensiero che la mia vita non avesse senso».
Una sofferenza tenuta nascosta per tutto il tempo, tanto che le loro famiglie non sospettavano niente: «Noi andiamo via di casa molto giovani, diventiamo subito indipendenti e sappiamo di dover proteggere le famiglie. I miei genitori sono rimasti scioccati quando gliel’ho raccontato – dice Anna - Ho deciso di smettere con la ginnastica ritmica nel maggio 2020 e dopo poco tutta la sofferenza che avevo provato mi si è riversata addosso e ho passato un periodo molto buio. Ora mi sono rimessa in sesto anche grazie a un percorso psicologico».
E sulla difficile scelta di parlare di questo mondo, le due ex farfalle della ritmica concordano: «Ci muove il fatto che troppe bambine stanno soffrendo e stanno vivendo quello che noi abbiamo vissuto e non va bene. Questo sport è meraviglioso, sono certe persone che lo rovinano».
Alessandro D Amato per open.online l’8 novembre 2022.
Dopo la ginnastica ritmica tocca all’aerobica. Davide Donati, 28 anni, tre volte campione del mondo, racconta oggi a Repubblica le discriminazioni subite dalle atlete durante i raduni mensili delle selezioni junior in un’accademia militare. E dice che durante i pasti le ragazze venivano divise in grasse e magre. Ciascuna con il suo tavolo. «La separazione fisica era per loro un’umiliazione quotidiana. Il menu ovviamente cambiava in base ai tavoli. Quelle considerate magre potevano mangiare qualcosa in più delle altre».
E dice che i maschi nascondevano pezzi di pane per portarlo alle ragazze dopo il pranzo. Ma dopo le scuse – con annessa difesa dell’istruttrice Emanuela Maccarani – di Malagò a nome del Coni, arrivano ancora testimonianze imbarazzanti dalla ritmica: «L’istruttrice mi chiama maiale o porchetta», ha raccontato una delle allieve. La madre si è rivolta alla Federginnastica. Che non ha mai risposto.
Donati, che è stato tre volte campione del mondo con la Nazionale di aerobica, nei giorni scorsi ha pubblicato un comunicato con altri 18 ex compagni e compagne della nazionale junior per far sentire la propria vicinanza alle atlete: «Non sono casi isolati. Le loro parole hanno aperto una ferita dolorosa in tutti noi e vogliamo sostenerle. E che non si dica che la Federazione non era a conoscenza di questi atteggiamenti».
L’atleta due anni fa andò in viale Tiziano per avvisare «i piani alti» della Federazione: «Era il 2020, abbiamo elencato le problematiche e raccontato ciò che accadeva». Non è successo nulla. Successivamente però gli atteggiamenti sono cambiati.
«In passato abbiamo vissuto in prima persona la famosa scena del peso con le umiliazioni e i commenti, perché con le ragazze formavamo una squadra unica. I tecnici davano anche un soprannome al gruppo che aveva qualche etto in più, lo chiamavano “la squadra delle triple chiappe”.
Nel 2010, prima di una gara internazionale, abbiamo visto gli allenatori che mettevano le femmine in fila, di schiena, e passando le insultavano per i loro sederi. Per non parlare di quando, mentre eravamo tutti in palestra, abbiamo subito delle perquisizioni nelle camere per toglierci le poche provviste che ci eravamo portati da fuori. Ci hanno sgridato e fatto vergognare».
La procura federale ha aperto un’inchiesta. Domani saranno ascoltate Nina Corradini e Anna Basta. Il 17 novembre sarà la volta dell’Accademia di Desio. Dove dirà la sua anche Emanuela Maccarani. Che ieri intanto è stata difesa dal presidente del Coni: «Non credo ci siano motivi per mettere in discussione il suo ruolo in Giunta. Il presidente Tecchi ha voluto dare un segnale, non trasformiamolo in un’anticipazione di giudizio: un conto è la struttura commissariata, un conto è il suo ruolo. Le attuali Farfalle sono legate in modo formidabile a Emanuela e non credo siano plagiate».
La madre della ragazza che veniva chiamata maiale o porchetta ha raccontato in un’intervista che la procura federale aveva condannato l’allenatrice: «La sospensione è scattata durante i mesi estivi, quando non ci sono gare federali. Una presa in giro. A settembre l’abbiamo ritrovata in giuria in una gara regionale. E poi è tornata ad allenare nei centri tecnici federali per i quali era stata convocata anche nostra figlia. Ci siamo rivolti al safeguarding officer (un organo di garanzia nominato dalla Fgi, ndr). Da allora non abbiamo saputo nulla. Credo che anche questo silenzio, questa mancanza di empatia siano profondamente ingiusti nei confronti di ciò che abbiamo sofferto».
Ieri l’associazione ChangeTheGame ha replicato proprio a Malagò a nome del gruppo “Genitori di Ginnaste” che conta oltre 3500 padri e madri appartenenti a tutte le discipline federali (FGI). «La risposta del presidente Malagò non soddisfa. Preoccupa il richiamo alla ‘durezza’ quale ingrediente necessario di un corretto allenamento, né è chiaro dove si collochi il precario confine tra ‘durezza’ e violenza psicologica.
Anche il suggerimento di una separazione di carriere tra chi ‘ha qualche chilo in più’ e chi invece punta ‘all’eccellenza’ insinua il dubbio che il numero 1 del Coni non riesca ad immaginare che la strada verso il podio olimpico possa essere calcata da un’adolescente di taglia M. Vincolando, così, questo bellissimo sport allo stereotipo del corpo magrissimo e sublime, da ottenere a costo di qualunque sacrificio».
E ancora: «Malagò si interroga se ‘c’era un sistema che ha indotto gli allenatori a sbagliare’, ma non si rende conto che la risposta sta tutta lì: nell’assioma, che lui stesso sembra voler difendere, secondo cui il gesto atletico perfetto può provenire soltanto da bambine e giovani donne intrappolate per sempre in un corpo da farfalla. È proprio questo ‘il sistema’ che chiediamo al Coni di cambiare attraverso l’accertamento delle responsabilità e l’allontanamento definitivo di quanti hanno permesso che la violenza fosse messa a sistema sulla pelle di bambine innocenti, di chi si è voltato dall’altra parte, di chi non ha perseguito in modo rigoroso i responsabili, permettendo che quegli illeciti fossero colpevolmente perpetrati ancora e ancora».
Estratto dell’articolo di Riccardo Caponetti per “la Repubblica” il 5 dicembre 2022.
«Le denunce contro Laura Vernizzi per abusi fisici e psicologici su ginnaste minorenni? Se non intervengo io succede un macello». Non sapeva di essere registrato, il presidente della Federginnastica Gherardo Tecchi, quando il 22 maggio 2022 confessava di essersi attivato personalmente nell'inchiesta sull'allenatrice ed ex Farfalla azzurra, denunciata dai genitori di Giada Marchetti e Flavia (nome di fantasia) - entrambe di 11 anni all'epoca - per maltrattamenti e vessazioni.
L'audio, di cui Repubblica è in possesso, apre un nuovo scenario nello scandalo della ginnastica artistica: il presidente federale sarebbe intervenuto per proteggere una tesserata accusata di comportamenti gravi, gli stessi denunciati da centinaia di ex ginnaste.
La vicenda è quella di Laura Vernizzi, ex campionessa mondiale e argento olimpico, che nel 2018 fu squalificata per tre mesi per atteggiamenti violenti su due sue allieve undicenni. Vernizzi fu condannata a tre mesi, una pena che a molti sembrò molto blanda. La storia è stata rievocata da Tecchi nei mesi scorsi, durante un'audizione con un'altra istruttrice su cui pesava un procedimento penale per vessazioni pubbliche su alcune ginnaste.
Questa allenatrice, che preferisce rimanere anonima e che alla fine ha ricevuto 45 giorni di squalifica dalla Corte federale d'appello (ha impugnato la sentenza), spiega a Repubblica il contesto del colloquio con Tecchi: «Il presidente mi ha chiesto se stessi negando come aveva fatto in precedenza la tecnica Vernizzi riguardo presunti maltrattamenti nei confronti di atlete a lei contestati. Tecchi infatti affermava di essere dovuto intervenire personalmente nella vicenda per evitare che la situazione andasse fuori controllo». […]
Un caso quello Vernizzi appesantito da un altro inciampo. Quello del procuratore federale cui era stata affidato il caso, Michele Rossetti, lo stesso che sta indagando a Desio sulle denunce di Nina Corradini e Anna Basta. Del comportamento di Rossetti parla proprio Vernizzi, in una nota vocale registrata e mandata da lei su una chat Whatsapp con dei genitori.
«Oggi il procuratore federale - racconta al termine della prima audizione - si è esposto con me e il mio avvocato dicendo che avrebbe potuto anche archiviare, perché ha capito che razza di persona è Marchetti, ma dato che Marchetti sta rompendo molto le scatole non se l'è sentita di archiviare perché avrebbero potuto riaprire il caso in futuro. E niente andrò in un tribunale tra un mese. A meno che qualcuno non decida, tra virgolette, di venirmi incontro, testimoniando in mio favore. Altrimenti sarò io contro di loro in tribunale e un giudice deciderà». […]
Ginnastica, le sentenze soft del Tribunale federale su insulti e abusi. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 13 Novembre 2022.
Un'allenatrice che aveva dato dell'«ippopotamo» a un'allieva sospesa 45 giorni. Per un'altra che aveva colpito a un braccio un'allieva la sanzione è stata di appena tre mesi perché «altre atlete hanno percepito scarsamente la gravità degli episodi»
Apostrofare in palestra un gruppo di giovanissime atlete con gli epiteti di «ippopotamo», «vitello tonnato» e «cinghiale» non è mai stato un reato particolarmente grave per la Federazione Ginnastica d’Italia: meritevole di una semplice ammonizione per il Tribunale Federale, di 45 giorni di sospensione per la Corte di Appello, giudice di ultimo grado. Adoperare «comportamenti vessatori nei confronti di minorenni» e poi «colpirle sul braccio con una clavetta» è costato soltanto tre mesi di squalifica dall’attività di coach alla responsabile, poi tornata a bordo pedana ad allenare.
Per la credibilità della ginnastica italiana, travolta dagli scandali, domani si apre una settimana decisiva. Ma i precedenti di giustizia sportiva — scovati con fatica, perché la Fgi sostiene di doverli cancellare dopo pochi mesi dal suo sito per ragioni di privacy — lasciano molte perplessità. Il Tribunale Federale ha infatti sempre usato una mano a dir poco leggera con chi si è macchiato di comportamenti come quelli denunciati da decine di ragazze nelle ultime settimane: vessazioni sul peso, insulti, discriminazioni tali da «turbare la serenità psicofisica» di giovani atlete.
A differenza delle loro ex allieve che le accusano, le allenatrici dell’Accademia della Ritmica di Desio non dovranno affrontare la trasferta a Roma per difendersi. Verranno ascoltate da venerdì in Accademia dai tre procuratori federali, cominciando da Emanuela Maccarani, direttrice commissariata della struttura e tra i tecnici più decorati dello sport italiano. Giovedì i procuratori ascolteranno le atlete che attualmente frequentano la struttura come persone informate dei fatti, una mossa che — secondo alcuni — servirebbe a controbilanciare la testimonianza di chi ha lasciato lo sport e non è informato sulla situazione attuale. È pensabile che un’atleta in attività, nel giro della Nazionale, testimoni contro le sue coach? Nel frattempo le denunce si accumulano e si allargano: sarebbero una trentina quelle presentate solo alla procura penale di Brescia, relative ad episodi avvenuti in una palestra di Calcinato.
I precedenti, però preoccupano. L’unica sentenza sportiva ancora visibile sul sito federale è quella recente contro Martina Alicata Terranova, ex atleta di livello internazionale e ora allenatrice a Roma. Soltanto ammonita in primo grado perché le dichiarazioni delle minori erano «contrastanti», Alicata (che aveva dato dell’ippopotamo alle ragazze) è stata poi sospesa ma per soli 45 giorni in appello sfruttando l’attenuante della «professionalità tecnica ed educativa» mostrata con altre atlete. Nel caso della coach lombarda L.V. che nel 2019 aveva «adoperato metodi di allenamento gravosi e diffamatori» e «colpito sul braccio un’allieva» (dichiarazioni confermate da testimoni) la sanzione è stata di appena tre mesi perché — scrivono i giudici sportivi — «altre atlete hanno percepito scarsamente la gravità degli episodi e alcune famiglie hanno espresso apprezzamenti nei confronti del suo operato».
Ieri il consiglio federale della ginnastica ha indetto un’assemblea straordinaria per adottare «stringenti modalità di comportamento a salvaguardia degli atleti» dichiarando di volersi costituire parte civile in eventuali procedimenti giudiziari. Ma la rivoluzione dovrà cominciare subito, nel tribunale interno.
Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 14 novembre 2022.
Primo pomeriggio dell'8 febbraio 2019: al Comitato Regionale Lombardo della Federginnastica, in via Ovada a Milano, si celebra il procedimento sportivo contro un'allenatrice della ritmica (ex atleta di alto livello) accusata da due giovanissime allieve (che avevano testimoniato di persona in un'udienza precedente) di «ingiurie, comportamenti umilianti e percosse con le clavette» nei confronti di una di loro.
È il turno delle testimoni della difesa, mamme di due bambine «non presenti all'allenamento in cui si sono verificati gli episodi e nemmeno nei giorni precedenti». Le due spiegano che alle figlie «le compagne non hanno riferito nulla di particolare riguardo a quei momenti» e spiegano come le piccole «tornino spesso a casa con segni sul corpo, dovuti agli esercizi e all'uso delle clavette». Le clavette che, secondo la denuncia, sarebbero state usate a scopo punitivo sul braccio di una delle atlete, lasciando appunto il segno.
Testimonianze indirette contro quelle dirette delle denuncianti ma sufficienti al procuratore per ridurre la richiesta di squalifica per la coach da 18 a 6 mesi («I fatti sono provati ma non è accertato che si tratti di comportamenti ripetuti») e al Tribunale (dopo soli 40' di camera di consiglio) per dimezzare la sanzione: tre mesi. Quella di Milano è quasi una sentenza-tipo nella giustizia della ginnastica: pene mitissime (massimo 90 giorni) per comportamenti dal punto di vista verbale e fisico come quelli che stanno sconvolgendo l'opinione pubblica italiana.
Alcune delle 41 denunce non anonime che sta raccogliendo l'Associazione ChangeTheGame (in parte depositate alla Procura della Repubblica di Brescia) sono accompagnate da copia della segnalazione alla procura federale, di mesi o anni prima: la procura apre una media di 17 fascicoli l'anno, nella maggior parte ricorsi sui risultati delle gare e liti sui tesseramenti.
Sui casi di violenza, oltre a infliggere pene ridotte, a volte archivia senza motivazioni episodi sulla carta gravi, come quello di un'altra mamma lombarda che ha segnalato le vicissitudini di una «bimba di 10 anni e 26 chili di peso, portata da sola in una palestrina e lì presa a calci, sollevata da terra per i capelli, minacciata e insultata» in un ambiente in cui «a bambine normopeso e/o sottopeso veniva ordinato di perdere chili entro la fine della settimana, pena l'esclusione dalle gare in programma». Sulla vicenda, già chiusa, i familiari hanno chiesto nuovi accertamenti.
Ma a preoccupare ChangeTheGame e chi opera a tutela delle atlete è l'istituto del «patteggiamento senza incolpazione», previsto dall'articolo 85 del Codice di Giustizia Sportiva con cui il procuratore (con il via libera del presidente federale) concorda con l'incolpata una pena super ridotta (massimo un mese di squalifica) evitandole il contradditorio con chi l'accusa, la raccolta di testimonianze e qualunque menzione pubblica della sanzione, compresa l'informativa al denunciante.
Sarà la stessa allenatrice ad «autosospendersi» dalla palestra in cui lavora. Al Corriere risulta che il provvedimento sia stato applicato in casi di presunte violenze fisiche che avrebbero meritato un approfondimento: il Codice lo consente, anche quando sono coinvolti minori, purché non si verifichino «gravi lesioni alla persona o frodi sportive». Nelle palestre della ginnastica schiaffeggiare una ragazzina, colpirla con una clavetta o darle dell'ippopotamo ha garantito fino ad oggi il diritto all'oblio o sanzioni risibili.
Abusi nel mondo delle farfalle: «Sgambetti per farla cadere e poco cibo, così ho capito che mia figlia Giada era finita in un incubo». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2022.
La testimonianza di un papà che ha denunciato gli abusi sulle atlete della ginnastica ritmica. «Alla coach solo tre mesi di squalifica, mia figlia nemmeno sentita dalla Procura»
«Ammetto di aver capito poco o niente. Ammetto che quando mia figlia, a 13 anni, mi ha telefonato per dirmi “Papà, vieni a prendermi perché sto male” mi è crollato il mondo addosso. Al sogno di Giada di diventare Farfalla, io e mia moglie abbiamo dedicato nove anni della nostra vita ed enormi sacrifici. E no, non avevamo capito quanto stava soffrendo. Ancora oggi mi chiedo cosa abbiamo sbagliato». Quattro anni fa Sergio Marchetti e sua moglie Francesca, romani, sono stati i primi a denunciare la ginnastica ritmica italiana, senza ottenere giustizia. Giada oggi ha 17 anni, ha superato con fatica il trauma e ora è ballerina e studentessa modello. Di casi come il suo ne sono poi emersi tantissimi.
Perché non vi siete accorti della gravità della situazione, Sergio?
«Giada ha cominciato a 4 anni e fino a 8 era una favola: lo sport come gioco, il corpo flessibile e armonioso, lei che si diverte lontana da videogiochi e divano. Pareva un sogno».
Poi?
«Poi quella che solo adesso ci sembra follia: l’agonismo a 8 anni, le selezioni, i campionati, le quattro ore in palestra tutti i giorni. Ho sempre cercato di essere razionale: mai visto un allenamento, mai chiesto notizie sulle qualità di mia figlia alle coach come tanti altri genitori. Mi fidavo».
Segnali sottovalutati?
«Alcuni sì. Le sofferenze, la stanchezza. Tende e materassi che sbarravano le palestre, qualche insegnante brava tecnicamente ma parecchio squilibrata, gli insulti in caso di errori. Sarà il metodo, ci dicevamo, incoraggiando Giada a non piangere e a non dar troppo peso a quelle parole».
A 9 anni sua figlia comincia a girare di società in società, di città in città. Perché?
«Perché cerchi la struttura più qualificata, l’insegnante più brava. E se serve vai lontano, noi prima nel Lazio, poi a Fabriano e poi a Novara. Affitti case, paghi trasferte, ti crei un alibi chiedendole se “se la sente” e Giada se la sentiva sempre. Delle sue sofferenze ci ha raccontato alla fine, in lacrime: “Non volevo deludervi”».
Ma era isolata da voi, dalle amiche e anche dalla scuola.
«Seguiva un sogno che a noi pareva grande. Quando si è trasferita a Castelletto Ticino, a 12 anni, si allenava praticamente tutto il giorno. Negli alberghi non accettano minori non accompagnati e così le palestre fanno convenzioni con case-famiglia, spesso di genitori di altre allieve. Le ragazze vivono lì assieme, mangiano pane e ginnastica».
E la scuola?
«Scuola parentale: lezioni dopo le 18, insegnanti improvvisati, spesso reclutati tra papà e mamme. Cotte dopo ore di esercizi, le bambine si addormentavano a italiano o matematica. Giada era bravissima e questo forse ci ha illuso che tutto andasse bene».
Quando è scoppiata?
«Il 5 maggio 2018 dopo aver visto una compagna percossa dalla coach con le clavette. Non era il primo episodio: ho guidato sette ore per abbracciarla e davanti a una pizza mi ha raccontato quello che aveva subìto: gli sgambetti sistematici per farla cadere che le hanno procurato seri problemi alla schiena, le frasi brutali, il cibo negato. Il sogno si è sbriciolato: c’è voluta una psicologa per valutare e riparare il disastro».
Lei ha denunciato l’insegnante, ex farfalla titolatissima.
«La federazione ha raccolto la mia denuncia e quella di altri genitori, documentate con audio e testimonianze, ma non mi ha mai dato notizie e non ha mai sentito Giada: nel processo sportivo la vittima non può costituirsi parte civile, l’affare resta tra Procura e incolpato. Alla coach solo tre mesi di squalifica, durante i quali ha continuato ad allenare ed è stata anche convocata in ruoli federali. La Procura in compenso ha indagato su di me per capire se ero testimone attendibile o genitore fanatico e rancoroso. Ho presentato ricorsi e controricorsi al Coni: un muro di gomma. In compenso...».
In compenso?
«Due avvocati legati alla Federginnastica, di cui uno membro di un organo di giustizia interna, mi hanno proposto di seguirmi in un procedimento civile contro la coach, spiegandomi che se ne sarebbe interessato un collega perché loro non potevano esporsi. Ho versato un anticipo ma dopo poche settimane mi hanno comunicato che non era il caso di proseguire».
Perché?
«Credo abbiano capito che l’insegnante era ben tutelata: il sistema si protegge da solo. Ma io non cercavo vendette, volevo solo che nessuno subisse più quello che ha subito mia figlia, volevo che la Ritmica continuasse ad essere lo sport meraviglioso che Giada praticava da bambina».
Il «MeToo» delle ginnaste italiane. In 40 firmano l’appello contro gli abusi: «L’eccezione sono le società sane». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera l’11 Novembre 2022.
Le adesioni della petizione, lanciata dall’associazione «Change the game», crescono di ora in ora. La presidente: «Non si tratta solo di Desio, il fenomeno è diffuso in tutta Italia. Un trattamento che fa parte del “lessico addestrativo” di istruttrici in gran parte donne». Un centinaio le segnalazioni
La petizione è stata lanciata appena due giorni fa e in pochissimo tempo l’hanno sottoscritta ben 40 atlete o ex atlete della ginnastica ritmica. Un numero che sta crescendo di ora in ora. E il primo dato che salta all’occhio è che le sottoscrizioni arrivano da tantissime regioni: Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Abruzzo. Praticamente da tutta Italia. «A dimostrazione che il fenomeno non si può ridurre a “quattro mele marce”», fanno notare i responsabili della piattaforma Change the game che l’ha promossa.
L’organizzazione, con sede a Milano e Monza, da anni si occupa della tutela dei bambini vittime di abusi nel mondo dello sport. E chiaramente non poteva mancare di mobilitarsi anche per lo scandalo delle «farfalle» scoppiato nell’Accademia Internazionale di Ginnastica Ritmica di Desio. Ma la petizione sta andando anche oltre le loro previsioni, dimostrando che il fenomeno è molto più vasto. Tanto che potrebbe trasformarsi in un vero e proprio tsunami. Una sorta di MeToo della ginnastica ritmica. «Oltre alle 40 atlete che hanno già sottoscritto la petizione — spiega la presidente di Change the game Daniela Simonetti — abbiamo oltre cento segnalazioni. Purtroppo il fenomeno è vastissimo e diffuso in modo omogeneo sul tutto il territorio nazionale. A dimostrazione che quella di Desio non è un’eccezione. Quel tipo di trattamento delle atlete sembra entrato a far parte di una sorta di lessico addestrativo. Una modus operandi degli istruttori, che in gran parte sono donne»
Ma qual è il contenuto dell’appello sottoscritto dalle atlete della ritmica? « È passata una settimana da quando due ex atlete, Anna Basta e Nina Corradini, hanno preso coraggio e hanno raccontato la loro esperienza, non così idilliaca come siamo sempre stati abituati a pensare o a vedere in tv — si legge nell’appello—. Si credeva fossero dei casi isolati, si sperava che questo dolore riguardasse solo poche atlete. Ma non è così». Si chiede: «Giustizia nei confronti di tutte le ginnaste che hanno subito violenze ed umiliazioni. Giustizia nei confronti di tutte le allenatrici che hanno insegnato con amore e hanno affidato le loro ginnaste a colleghe nella speranza di farle prendere il volo, e che invece le hanno fatte cadere. Giustizia nei confronti dei genitori di queste ginnaste che sono stati allontanati per non influire sulle loro prestazioni atletiche. Giustizia nei confronti di tutte le atlete del presente e del futuro, perché possano crescere in un ambiente competitivo, ma sano. Quello che stiamo cercando di fare è di cambiare il mondo della ginnastica ritmica in meglio, senza rinnegare il passato, ma imparando da esso».
«Da parte di tutte noi possiamo dire con fermezza che non intendiamo piegarci. Non intendiamo abbandonare la speranza, perché abbiamo sofferto tanto, troppo in alcuni casi. Ed è ora che questo abbia fine. Non è sport quello che umilia. Non è sport quello che sminuisce l’essere umano.... La mentalità che caratterizza la ginnastica ritmica, e non solo, non incarna i valori che sono propri dello Sport. L’eccezione alla regola sono le società dove c’è un ambiente sano. Non il contrario. Chiediamo a tutti voi di supportarci in questa missione, per uno sport più giusto. Per tutte quelle ragazze che coraggiosamente si sono fatte avanti in questi giorni, vi diciamo grazie. E per tutte coloro che non possono o non vogliono rivelare la loro identità, vi siamo vicine. Nella speranza che un giorno troverete la forza, il coraggio e la possibilità di denunciare».
Il lavoro avviato sulle atlete della ritmica è solo un primo passo per un più ampio dossier che Change the Game sta preparando sugli abusi e le violenze nei confronti di minori che praticano sport, a livello agonistico ma anche amatoriale. Segnalazioni di vessazioni, e a volte anche veri e propri abusi sessuali, arrivano dal mondo del calcio e del volley. Tutto materiale che verrà raccolto per «provare a cambiare lo stato dell’arte con ausilio delle stesse istituzioni sportive».
Da il Resto del Carlino l’11 novembre 2022.
«Credo che la ginnastica abbia reagito con tutto quello che poteva mettere in campo.
Certo, quando hai 14 milioni di tesserati ovviamente è sempre difficile se non sbagliato dare risposte in termini assoluti. Ritengo, però, che lo sport italiano sia molto ben tutelato e protetto». Lo ha detto il presidente del Coni Giovanni Malagò a Catanzaro rispondendo ad una domanda sulla vicenda delle denunce presentate da alcune ex atlete di ginnastica ritmica. «Ci possono essere dei casi - ha aggiunto Malagò - che non corrispondono a quelli che sono i criteri di trasparenza, di gestione di un atleta, magari donna e minore. Ritengo però che nessuno si debba ergere a giudice oggi anche se, è chiaro, i fatti debbono essere presi con la massima attenzione»
Riccardo Caponetti per roma.repubblica.it l’11 novembre 2022.
Anche Carlotta Ferlito, tra le ginnaste più importanti e conosciute, ha subito pressioni psicologiche e umiliazioni: "Mi chiamavano 'maiale' e mi dicevano che ero grassa. A 8 anni, ripeto 8 anni, mi hanno chiesto di dimagrire di un chilo. Ho subito chiamato mio padre che si è messo a ridere, pensava fosse uno scherzo".
Oltre la confessione di Vanessa Ferrari, che ha supportato le ex atlete che stanno denunciando abusi di potere e maltrattamenti nelle palestre italiane da parte degli allenatori, fanno rumore le parole Carlotta Ferlito, campionessa mondiale alla trave nel 2013 e protagonista alle Olimpiadi del 2012 e del 2016.
L'atleta di Catania, oggi 27 anni, aveva raccontato alcuni episodi del suo passato in un video su Tik Tok, spiegando poi il suo difficile rapporto con il cibo. "Voglio aprirmi di più con voi per quanto riguarda i disturbi alimentari", esordisce Carlotta Ferlito con i suoi follower: "Non voglio metterli sul piatto d'argento perché fanno schifo, non vanno romanticizzati. Mi aiuta molto poi parlarne e documentare cosa mi passa per la testa quando devo scegliere cosa mangiare o quando mi vengono i sensi di colpa.
I miei disturbi alimentari - continua - cominciano quando avevo tipo 8 anni. Al mio collegiale di ginnastica c'era un'allenatrice, che non era neanche la mia, che mi ha chiesto: "Quanti biscotti hai mangiato questa mattina? Io le rispondo: "Sei". E lei: "Ma perché non 5?". Raga mi allenavo 3 volte al giorno!!".
Altro episodio: "Una volta mi hanno pesata ed ero 26,7 chili, la settimana dopo, ripeto avevo 8 anni, ero 27,6. Probabilmente non ero andata in bagno, avevo bevuto più acqua, non lo so. Così mi hanno detto che avrei dovuto dimagrire. Io ero sotto shock, ho chiamato mio padre e gli dico che dovevo perdere un chilo. Lui stava ridendo, manco ci credeva.
"Carlotta la prossima volta sali sulla bilancia e tira dentro la pancia", mi ha detto. Io, che ero piccola, ci ho creduto e la volta dopo pesavo di nuovo 26,7, ma perché ero andata in bagno. Ho comunque chiamato papa dicendogli che la sua tecnica aveva funzionato. Ma potrei raccontarvene un milione di altri episodi, nel periodo prima delle Olimpiadi di Londra saltavo sempre la cena".
Poi la testimonianza più cruda e vera di Carlotta Ferlito, un concetto più volte ribadito da Nina Corradini, Anna Basta, Giulia Galtarossa e da tutte le ex ginnaste che hanno subito trattamenti simili: "Sono tutte cose passate ma che nella testa non passano mai. L'anno scorso ho peso perso per un motivo personale, ma mi vedevo meglio fisicamente e ho fatto un'estate in cui ho rasentato la malattia. A settembre la cosa è degenerata, adesso sono in terapia e sto cercando di migliorarmi".
Paolo Fiorenza per fanpage.it l’11 novembre 2022.
Il calderone scoperchiato qualche settimana fa dalle prime denunce di ex atlete di ginnastica ritmica sui metodi brutali adoperati durante gli allenamenti, con un regime militaresco che colpiva ragazze adolescenti costringendole a mantenere una magrezza estrema a qualsiasi costo e con qualsiasi mortificazione, si è via via riempito di altre testimonianze, costringendo ad intervenire il ministro dello sport Abodi e il presidente del Coni Malagò, che hanno chiesto conto di tutto questo al numero uno della Federginnastica Gherardo Tecchi.
L'Accademia di Desio, il cuore pulsante della ritmica italiana, la fabbrica dei nostri successi ma anche il luogo dove si consumavano le vessazioni, è stata dunque commissariata, mentre la Procura di Brescia ha aperto un'inchiesta sulla base delle denunce presentate da alcuni genitori delle ragazze. È stato l'inizio di una slavina che adesso rischia di travolgere anche l'aerobica e l'artistica, visto che pure in queste altre discipline della ginnastica sono cominciate a spuntare testimonianza terribili, tutte con lo stesso leitmotiv, l'ossessivo controllo del peso che arrivava fino alle umiliazioni e all'induzione ai disturbi alimentari, con conseguenze che a distanza di anni ancora non sono del tutto superate.
Il post su Instagram della nostra campionessa di artistica Vanessa Ferrari, che ha confessato di "non essere rimasto affatto sorpresa" da quanto sta venendo fuori e ha raccontato di aver vissuto sulla propria pelle i problemi alimentari, andando a 19 anni in una clinica a Verona per cercare di superarli, è solo la copertina di un altro libro degli orrori – quello della ginnastica artistica – di cui oggi Repubblica svela altre pagine, sotto forma di nuove agghiaccianti testimonianze da parte di tre ex atlete di Serie A, Laura Sirna, Virginia Scardanzan e una terza indicata come un nome di fantasia, Chiara.
La terribile novità è che non si parla più soltanto dell'ormai famigerato controllo del peso ("all'inizio ci facevano prendere un pezzo di pane con l'insalata a pranzo, dopo neanche più quello, due etti in più erano la fine del mondo"), ma di vere e proprie violenze, schiaffi sul viso e sul corpo: "Ci allenavamo in Veneto, non in un centro tecnico federale ma in una palestra considerata il punto di riferimento della regione, con un'istruttrice molto violenta. Quando si metteva gli anelli i ceffoni facevano ancora più male".
Sono racconti incredibili, pensando che un genitore possa aver affidato le proprie ragazze a qualcuno che riteneva in primis un'educatrice di valori ed invece faceva cose orribili come questa: "Una volta stavo facendo un esercizio alla trave ma ero molto stanca e sono caduta. L'allenatrice mi ha detto: ‘Avvicinati'. Sapevo che mi voleva dare una sberla, così mi sono tirata indietro sperando che la trave alta mi potesse far da scudo ma il ceffone è arrivato lo stesso in volto". E ancora: "Una nostra compagna ha ricevuto uno schiaffo così forte da farle uscire il sangue dal naso. Altre venivano tirate per i capelli giù dalla trave".
Scene da incubo che addirittura hanno fatto valutare la possibilità di chiamare il Telefono azzurro: "Ero in pausa pranzo con una mia amica. Sapevo che queste persone aiutavano i bambini in difficoltà e volevo chiamarli. Io non ho ricevuto violenze fisiche, ma le mie compagne sì.
L'allenatrice aveva costruito una barriera all'ingresso per non far vedere come venivamo trattate. A 7-8 anni ero ingenua e guardavo le mie compagne più grandi con ammirazione. Pensavo che avrei dovuto fare tutto come loro. Nella mia testa dovevo pesarmi tre volte al giorno, perché è quello che facevano le mie sorelle più grandi. Venivano insultate e picchiate? Anche io dovevo ricevere lo stesso trattamento. Così un mondo malato diventa la normalità".
C'è un dettaglio ancora più scioccante, la polizia una volta indagò sull'allenatrice in questione, ma omertà e paura non portarono a nulla: "Purtroppo tante voci e grida di aiuto negli anni non sono mai state ascoltate. C'è stato un sospetto in passato su questa allenatrice e siamo state chiamate a testimoniare davanti al commissario di polizia. La cosa però è caduta perché tantissime ginnaste, soprattutto quelle che ancora si allenavano lì, non hanno detto la verità". Probabilmente adesso qualcosa dovrà accadere per forza. Restare indifferenti davanti a racconti così terribili e circostanziati è impossibile.
Abusi ginnastica ritmica, la psichiatra Romana Caruso: «La pesatura è un rito criminale». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.
La psichiatra e psicoterapeuta che segue tanti atleti fra i quali Sofia Goggia: «Servono specialisti esterni per combattere l’ignoranza della cultura emotiva dello sport»
Bisognerà aspettare il 17 novembre perché i procuratori della Federazione ginnastica interroghino (dopo aver sentito tutte le atlete della ritmica che hanno denunciato abusi) Emanuela Maccarani, direttrice commissariata dell’Accademia di Desio e ct azzurra, e le altre coach federali. La Fgi ha completato intanto il suo Safeguarding Office: nel board due avvocati (Pierluigi Matera e Marco Naddeo) e uno psicologo (Mauro Gatti) già collaboratori federali a vario titolo e due ex atlete, Silvia Salis e Novella Calligaris. Vista la specificità delle denunce, chi si aspettava dei medici, magari esterni al cerchio della federazione, è rimasto sorpreso. Non Romana Caruso, psichiatra e psicoterapeuta che si occupa di tanti atleti tra cui l’olimpionica dello sci Sofia Goggia.
Perché non è sorpresa, dottoressa Caruso?
«Perché chi detiene il potere nello sport italiano, come in tutte le strutture chiuse, teme il confronto con competenze complesse e privilegia chi ritiene alleato».
Che competenze servirebbero?
«Quelle di chi analizzi con professionalità clinica gli sconvolgenti racconti delle Farfalle, vittime di pressioni enormi sul tema del cibo e del peso, oggi espressione prevalente del disagio emotivo tra i giovani».
Si riferisce alla «pesatura pubblica» raccontata dalle ragazze?
«Un rito criminale: in un momento cruciale in cui il tuo corpo cambia per diventare adulto, la vita non può passare attraverso l’ago della bilancia e i commenti grossolani di un’allenatrice».
La ginnastica è disciplina severa, il peso è importante, ribattono i tecnici.
«Gli eventuali problemi vanno trattati con enorme empatia perché è facile far sconfinare delle preadolescenti nella patologia: vomito, abuso di lassativi, bulimia, amenorree che ti porti dietro tutta vita».
Nelle federazioni abbondano gli psicologi dello sport. Non bastano?
«Loro si occupano quasi sempre della performance. Ma quando gestisci una ginnasta che ha una routine severissima devi avere una grossa esperienza clinica per non prendere abbagli pericolosi».
Atlete ragazzine allenate da ex atlete che sconfinano in campi medici come la dietologia. Non è pericoloso?
«Sì. Ma non solo per il rischio, che pure esiste, di imporre alle allieve ciò che hai subito da adolescente, per una sorta di vendetta. Ma perché anche la mamma più amorevole del mondo, quando dice “non vorrei mai fare a mia figlia quello che mi ha fatto mia madre”, rischia inconsciamente di imporre lo stesso vissuto, che lei non ha elaborato».
Come se ne viene fuori?
«Combattendo l’ignoranza della cultura emotiva del nostro sport. Aiutando psicologicamente le allenatrici e integrando il loro operato con equipe multidisciplinari. Per mediare tra ragazzine, istruttori e genitori con pretese devastanti servono figure mediche (psichiatri e fisiologi) con esperienza clinica anche non sportiva, senza collusioni sia pure involontarie col potere. La regola base è semplice».
Quale?
«Nello sport agonistico solo chi sta bene mentalmente ottiene buoni risultati. Il disagio crea disastri. L’idea che la mancanza del ciclo mestruale, ad esempio, debba essere quasi fisiologica in una ginnasta di alto livello è una bestialità».
Il finto scandalo delle ragazze della nazionale di ginnastica ritmica. ANDREA CASADIO su Il Domani il 05 novembre 2022
«Ma lo sapevano tutti, di che cosa si sorprendono, adesso? Basta guardarle, le ragazze della nazionale ginnastica ritmica», mi racconta una ragazza che fino a qualche anno fa faceva parte di quel giro.
Ovviamente, non tutte le ragazze che fanno ginnastica ritmica poi si ammalano di anoressia.
Ma basta aprire gli occhi e guardare i corpi di quelle ragazze che fanno ginnastica ritmica per rendersi conto che c’è qualcosa che non va.
Chi sorveglia il volo delle Farfalle? Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.
I dubbi sul ruolo mancato della scuola e dei genitori delle atlete umiliate
Viviamo in una società che si percepisce come dinamica, ma forse è solo inquieta, irresponsabile. Gli abusi subiti dalle giovani ginnaste, le future Farfalle, sono una storia triste di vessazioni, di pretese eccessive, di perdita del senso del limite. Per portare molte medaglie alla ginnastica ritmica italiana, alcune atlete hanno subito abusi, insulti, umiliazioni: non mangiavano, venivano pesate ogni mattina, compravano lassativi per perdere peso con conseguenti disturbi del comportamento alimentare, qualcuna ha pensato persino al suicidio.
Secondo copione, c’è un’indagine in corso, è intervenuto un ignaro presidente della Federginnastica, Gherardo Tecchi, promettendo controlli e cambiamenti: se qualcuno è venuto meno ai suoi doveri, pagherà il dovuto.
Resta qualcosa, però, su cui interrogarci nel profondo. Dov’erano le famiglie di queste atlete? E la scuola? Il miraggio di una medaglia annebbiava la percezione del disagio delle piccole ginnaste? Forse una ragazza che pesa 38 kg dovrebbe destare qualche sospetto. Senza cadere in facili moralismi, ma non esiste anche una responsabilità genitoriale? Se si abdica al ruolo di madre e di padre, la guida dei figli passa di mano e altri si prenderanno cura (o non cura) di loro.
Non assumersi responsabilità, lo dico a me stesso, è il modo migliore per non sentirsi mai in colpa.
Alice Aiello il 5 novembre 2022: Vorrei chiedere a quel padre che ha scritto che nessuno ci puntava una pistola alla testa per restare in palestra, a tutte quelle allenatrici che hanno condiviso questo pensiero e quelle altre che stanno scrivendo che non ci sono più ginnaste di una volta che noi siamo troppo fragili… avete mai visto gli occhi di una bambina che ama veramente questo sport?
Ecco i miei nella prima foto.
Non avrei smesso per nessun motivo al mondo, per questo ho sopportato tutto quello che mi è successo e quello che succedeva alle mie compagne.
Il mio sogno era fare ginnastica ritmica, non vincere.
E vorrei dire a tutte quelle altre persone che dicono che “per fare questo sport ci vuole sacrificio e non lamentele” che noi il sacrificio l’abbiamo conosciuto bene.
Nella seconda foto avevo un edema spongioso osseo al limite con la frattura da stress al quarto metatarso, andavo a scuola con le stampelle, entravo in palestra le appoggiavo al muro, mi allenavo e poi ritornavo a casa con le stampelle, ogni sera con il piede sempre più gonfio, ma non mi potevo fermare.
Nella terza foto 5 mesi dopo, la gara per cui mi stavo preparando, la cavigliera solo per coprire agli occhi degli altri il mio problema.
Nella quarta i miei primi assoluti, nessuno lo sa ma avevo una lesione al cercine dell’anca destra, al secondo giorno di gara dopo le finali con la squadra non riuscivo più neanche a camminare, ero stesa nel corridoio dietro gli spalti, non volevo piangere ma mi uscivano le lacrime in silenzio da sole dal dolore, ricordo ancora che per non fare preoccupare mia mamma chiamai mio papà per dirgli che non riuscivo più a muovermi, lui venne lì da me, mi asciugò le lacrime e mi disse solo questo “forza amore mio”.
Ho trovato la forza di fare la mia finale al cerchio solo perché era il sogno di tutta una vita quella gara.
Nell’ultima foto invece sapevo già di avere 3 protusioni vertebrali che mi paralizzavano totalmente un pezzo della schiena, per non parlare del dolore.
Sapete anche li perché ho continuato anche se nessuno mi puntava una pistola alla testa?
Perché era la cosa che più amavo al mondo.
Il sacrificio è questo e si sopporta per ciò che si ama, la violenza e l’umiliazione no.
Da corriere.it il 9 novembre 2022.
Laura Zacchilli, ex azzurra della ginnastica ritmica che in pedana con l’Aurora di Fano ha vinto dieci scudetti e con la selezione italiana ha partecipato da riserva alle Olimpiadi di Sydney, gareggiando a quelle di Atene e attualmente ricopre il ruolo di tecnica proprio nella società fanese, interviene così a difesa del suo sport, travolto dalle denunce per presunti maltrattamenti psicologici delle atlete e che ha portato al commissariamento dell’Accademia di Desio.
«Sono sconcertata e amareggiata — dice — di fronte al quadro che si sta disegnando in questi giorni dello sport che da sempre amo. È giusto far chiarezza su questa vicenda ed eventualmente prendere i dovuti provvedimenti. Io però, non mi ci ritrovo proprio in certi racconti».
Zacchilli sottolinea di non aver mai percepito i sacrifici richiesti come vessazioni, forse in risposta a un’altra bandiera azzurra, Angelica Savrayuk — di origine ucraina, bronzo a Londra 2012 e campionessa Mondiale a squadre nei tre anni precedenti — che lunedì aveva scritto nelle sue storie di Instagram «Qualcuno mi può spiegare cosa abbiano in comune “RIGORE” e “UMILIAZIONE”???».
Zacchilli aggiunge: «Stiamo parlando di una disciplina in cui ad alti livelli il fisico e l’aspetto estetico assumono un’importanza primaria, per cui è normale che sia necessario osservare un rigoroso regime alimentare e che più si alza l’asticella della competizione e maggiori siano i sacrifici richiesti per raggiungere l’obiettivo sportivo».
L’allenatrice del club marchigiano prosegue elencando i sacrifici che l’hanno portata ai Giochi Olimpici australiani e greci, sottolineando proprio che «quelle sollecitazioni non le ho mai nemmeno lontanamente percepite come vessazioni», ma anzi che «i ricordi che conservo di quelle esperienze sono solamente positivi e li racconto col sorriso», scaricando poi parzialmente le responsabilità sulle atlete che in questi giorni stanno invece denunciando quelli che per loro sono abusi: «A volte forse è più facile puntare il dito contro, piuttosto che compiere un passo indietro ed ammettere di non farcela».
(ANSA il 9 novembre 2022) - "Quando sono comparse le prime notizie sulle denunce, non sono rimasta sorpresa. Ho vissuto tante esperienze positive ma anche tante negative": lo dice Vanessa Ferrari, argento olimpico a Tokyo nella ginnastica artistica, parlando delle ginnaste della ritmica che hanno denunciato abusi psicologici sul tema del peso.
"Conosco perfettamente questi aspetti, ho vissuto sulla mia pelle i problemi alimentari e all'età di 19 anni mi mandarono in una clinica e solo dopo un paio di anni sono guarita - scrive l'azzurra sul suo profilo Instagram - Invito chiunque ne soffra a farsi aiutare perché é davvero fondamentale". Poi conclude "invitando a non demonizzare la ginnastica"
"Durante la mia carriera fortunatamente però ho vissuto qualche cambiamento nel mio ambiente e mi spiace che ancora oggi ci siano luoghi dove si verificano questi orrori", continua Vanessa Ferrari nel suo post su Instagram, parlando ancora delle denunce per abusi psicologici subiti dalle ex atlete da parte dello staff della nazionale della Federginnastica.
"Ho avuto modo di confrontarmi anche con il pensiero di altri ginnasti ed ex ginnasti e spero che finalmente si possa intervenire definitivamente affinché la ginnastica, lo sport che amiamo, senza distinzione di sezioni o di livello sia pulito" prosegue la Ferrari che crede a quanto emerso in questi giorni, precisando come "lo sport sia fatto di sacrifici e di rinunce ma prima di tutto, prima di qualsiasi risultato, vengono le persone e la loro salute".
Poi un duplice appello: uno all'umanitá delle persone "perché penso che debba esserci un confine netto tra severità in ottica di disciplina e cattiveria" e l'altro a non demonizzare la ginnastica "perché non è prendendo le distanze da un ambiente che le cose cambiano e perché la ginnastica é un mondo magnifico benché complesso e sta a noi proteggerlo".
Infine conclude: "Detto ciò non sto cercando colpevoli e probabilmente nel profondo le persone non cambieranno mai, ma parlandone costantemente e denunciando tempestivamente spero che si possa far ragionare chi commette queste azioni e scegliere il modo migliore di agire".
Vanessa Ferrari, ginnastica: «Anche io disturbi alimentari, a 19 anni andai in clinica». Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 9 novembre 2022.
Anche Vanessa Ferrari, nostra Signora della ginnastica, ha dovuto affrontare in passato problemi alimentari. Lo ha raccontato più volte e lo ha voluto ribadire oggi con un post su Instagram in riferimento alle denunce delle ginnaste (soprattutto della ritmica, ma, come ribadisce lei, il fenomeno esiste anche nella sua artistica) emerse nei giorni scorsi. Ginnaste verso le quali Vanessa vuole mandare parole di vicinanza e solidarietà.
«Quando sono comparse le prime notizie sulle denunce, da parte dei ginnasti di Ritmica e Aerobica, non sono rimasta affatto sorpresa. Anzi, anni fa scrissi un libro nel quale parlai anche di alcuni di questi aspetti. All'alba dei 32 anni, di cui 25 passati nel mondo della ginnastica, voglio dire che ho vissuto tante esperienze positive ma anche tante negative. Conosco perfettamente questi aspetti , ho vissuto sulla mia pelle i problemi alimentari e all'età di 19 anni mi mandarono in una clinica a Verona e solo dopo un paio di anni sono guarita — scrive l'azzurra sul suo profilo Instagram —. Invito chiunque ne soffra a farsi aiutare perché è davvero fondamentale».
Vanessa aveva raccontato l'incubo del peso, e anche che vomitava dopo mangiato. Al aveva ribadito che all'Olimpiade di Pechino «eravamo arrivate troppo magre». Però lei e il suo mondo hanno affrontato un percorso, Vani ha detto più volte di aver fatto «da apripista» e che molte cose in questi anni sono migliorate, con il coinvolgimento di figure professionali come i nutrizionisti. Ha capito come regolarsi: «Se vuoi essere controllata, devi andare da uno specialista, non saltare i pasti, mangiare correttamente, bere tanto, lasciar perdere la bilancia, soprattutto non seguire le diete delle amiche, dei genitori o anche dell’allenatore. Sui social poi c’è pieno di sciocchezze. Un cioccolatino non è la fine del mondo: bisogna sentirsi liberi, più cerchi la perfezione, peggio è. Oggi vicino alle gare sto più attenta, ma senza esagerare con le restrizioni, sennò ti mancano le forze e i muscoli ne risentono».
Non ha mai lasciato il suo allenatore (e ct della Nazionale), Enrico Casella, con cui collabora ancora oggi e con il quale continuerà a lavorare anche una volta smesso definitivamente con l'attività agonista. Anche se per riuscire a dirgli tutto quello che pensava ha dovuto ricorrere a uno psicologo. Un anno fa raccontava al Corriere: . In alcuni casi abbiamo chiesto troppo ai nostri corpi. Io in Italia ho fatto un po’ da apripista, alcune cose sono cambiate dopo i miei problemi. Poi sta all’intelligenza dell’allenatore, alcuni negli anni non hanno saputo cambiare. Il segreto è stare un filo sotto al tuo limite per migliorare sempre».
E oggi ribadisce: «Durante la mia carriera fortunatamente però ho vissuto anche qualche cambiamento nel mio ambiente e mi spiace che ancora oggi ci siano luoghi dove si verificano questi orrori. Ho avuto modo di confrontarmi anche con il pensiero di altri ginnasti ed ex ginnasti e spero che finalmente si possa intervenire definitivamente affinché la ginnastica, lo sport che amiamo, senza distinzione di sezioni o di livello sia pulito. Crediamo a quello che è stato denunciato e siamo vicini a tutti voi, lo sport è fatto di sacrifici e di rinunce ma prima di tutto, prima di qualsiasi risultato, vengono le persone e la loro salute». Vanessa conclude «invitando a non demonizzare la ginnastica». «Faccio appello all'umanità delle persone perché penso che debba esserci un confine netto tra severità in ottica di disciplina e cattiveria». Ieri un'ex Farfalla Laura Zacchilli (quindi una ginnasta della Nazionale di ritmica) aveva appunto smentito che si trattasse di abusi, dal suo punto di vista, si trattava di «rigore e disciplina».
Vanessa non la pensa allo stesso modo anche se non chiede la testa di nessuno. «Detto ciò non sto cercando colpevoli e probabilmente nel profondo le persone non cambieranno mai, ma parlandone costantemente e denunciando tempestivamente spero che si possa far ragionare chi commette queste azioni e scegliere il modo migliore di agire. Concludo invitando a non demonizzare la ginnastica, non è prendendo le distanze da un ambiente che le cose cambiano, perché la ginnastica è un mondo magnifico benché complesso, quindi non rendiamolo ancora piu difficile, sta a noi il compito di proteggerlo.
Vanessa Ferrari: “Ho rifiutato interviste per evitare strumentalizzazioni delle mie parole
Quando sono comparse le prime notizie sulle denunce, da parte dei ginnasti di Ritmica e Aerobica, non sono rimasta affatto sorpresa... Anzi, anni fa scrissi un libro nel quale parlai anche di alcuni di questi aspetti. All'alba dei 32 anni, di cui 25 passati nel mondo della ginnastica, voglio dire che ho vissuto tante esperienze positive ma anche tante negative. Durante la mia carriera fortunatamente però ho vissuto anche qualche cambiamento nel mio ambiente e mi spiace che ancora oggi ci siano luoghi dove si verificano questi orrori. Conosco perfettamente questi aspetti, l'ho detto piu volte, come tanti altri ho vissuto sulla mia pelle i problemi alimentari e all'etá di 19 anni mi mandarono in una clinica a Verona e grazie al supporto di esperti e dopo un paio di anni di percorso sono riuscita a guarire. Quindi invito chiunque ne soffra a farsi aiutare perché é davvero fondamentale. Ho avuto modo di confrontarmi anche con il pensiero di altri ginnasti ed ex ginnasti e spero che finalmente si possa intervenire definitivamente affinche la ginnastica, lo sport che amiamo, senza distinzione di sezioni o di livello sia pulito. Crediamo a quello che è stato denunciato e siamo vicinini a tutti voi, lo sport é fatto di sacrifici e di rinunce ma prima di tutto, prima di qualsiasi risultato, vengono le persone e la loro salute. Quindi faccio appello all'umanitá delle persone perché penso che debba esserci un confine netto tra severità in ottica di disciplina e cattiveria.
Detto ciò non sto cercando colpevoli e probabilmente nel profondo le persone non cambieranno mai, ma parlandone costantemente e denunciando tempestivamente spero che si possa far ragionare chi commette queste azioni e scegliere il modo migliore di agire.
Concludo invitando a non demonizzare la ginnastica, non è prendendo le distanze da un ambiente che le cose cambiano, perché la ginnastica é un mondo magnifico benché complesso, quindi non rendiamolo ancora piu difficile, sta a noi il compito di proteggerlo”.
Alberto Dolfin per “La Stampa” il 7 novembre 2022.
Un'altra ex ginnasta alza la voce contro gli abusi. Alice Aiello non voleva più parlare di quelle ombre che l'hanno portata a lasciare lo sport che amava e che le faceva brillare gli occhi. E stata l'ex compagna Nina Corradini, la prima a rivelare le cicatrici nell'anima lasciategli dal comportamento sopra le righe dei dirigenti federali, a convincerla e così la ventunenne catanese ha deciso di condividere la sua esperienza nella ritmica, per evitare che si ripeta con le nuove leve della ginnastica.
«Avevo 11 anni quando decisi di trasferirmi a Chieti per realizzare i miei sogni -ha raccontato in un lungo post su Instagram All'inizio tutto rose e fiori, poi iniziarono i problemi che io, troppo piccola, non riuscivo neanche a capire. Pesavo sì e no 30 chili quando mi trasferii lì, ma già dal primo momento, come per prassi, mi fecero salire sulla bilancia. Ho avuto la fortuna di essere stata sempre magra di natura, ma venivo pesata due volte al giorno lo stesso.
Tutte le mattine avevo l'incubo delle conseguenze che potevano avere quei 100 grammi in più sulla bilancia e più passavo il tempo in quella palestra e più il mio corpo si ammalava senza che io me ne rendessi conto». A 14 anni, racconta, « il mio corpo ha smesso di crescere». Dai controlli, «a lastra al polso indicava che la mia età ossea era rimasta quella di una bambina di 9 anni, quando ne avevo quasi 15».
E non era solo il peso la fonte di malessere: «Erano tante le torture psicologiche-scrive-per me era un incubo anche la scuola, per le mie allenatrici doveva essere vietata, non sarei mai diventata una brava ginnasta se continuavo ad andare scuola». Poi la scelta di andarsene, la ripartenza in palestra alla scuola di Fabriano. Le sue parole hanno scatenato ulteriori reazioni nel mondo sportivo e non, tra chi ha condannato l'ambiente malsano creatosi nello sport di alto livello e chi ha tacciato di scarsa disciplina le atlete.
La stessa Alice così ha postato un'altra foto di lei sorridente, seguita da altri scatti che ripercorrevano la sua carriera: «Vorrei chiedere a quel padre che ha scritto che nessuno ci puntava una pistola alla testa per restare in palestra, a tutte quelle allenatrici che hanno condiviso questo pensiero e a quelle altre che stanno scrivendo che non ci sono più le ginnaste di una volta... avete mai visto gli occhi di una bambina che ama questo sport? Ecco i miei nella prima foto».
A seguire, il lungo elenco dei sacrifici fatti per inseguire il suo sogno: «Il sacrificio si sopporta per ciò che si ama, la violenza e l'umiliazione no». Ieri è arrivata anche la lettera aperta del presidente della Federginnastica italiana Gherardo Tecchi in cui conferma di voler far chiarezza su queste ombre sempre più scure.
Elisabetta Fagnola per “La Stampa” il 5 novembre 2022.
Francesca Poma ha 19 anni e tocca gli argomenti uno dopo l'altro, leggera, sorseggiando un the caldo. Dice che nulla di ciò che ha letto sui giornali sul mondo della ginnastica ritmica, l'ossessione del peso, certi insulti, la sottovalutazione del dolore fisico, nulla l'ha davvero stupita se non il numero di testimonianze, «quante raccontano la stessa cosa, a tanti livelli di questo sport, che io ho amato». Lei ha lasciato il centro tecnico di Desio lo scorso marzo «per studiare, e per stanchezza», dopo essere stata selezionata nel tempio della ritmica a 14 anni, aver vinto due campionati con la Polisportiva Varese, dopo i ritiri con la nazionale fra le riserve delle Olimpiadi di Tokyo.
Oggi studia Relazioni internazionali all'Università di Torino, è finalista a Miss Italia, vuole metterci la faccia: «Ci sono comportamenti tossici che vanno cambiati, a tutti i livelli. Perché di lì passano anche bambine molto piccole, e certe frasi ti restano dentro. È vero quel che ha raccontato Nina Corradini, dal tuo peso dipendeva la giornata. E vorrei che ciò che sta uscendo in questi giorni servisse a proteggere questo sport meraviglioso e chi lo fa».
Come ha iniziato?
«A sette anni qui a Torino, in una piccola società. Poi ho iniziato a gareggiare in A, sono stata notata da un'allenatrice di Desio, mi ha proposto di trasferirmi. Io ero determinata e ambiziosa, e rispondevo ai canoni: alta, magra. A quasi 15 anni sono passata al centro tecnico di Desio».
Il primo impatto?
«Per me era normale tutto, anche pesarsi la mattina, tutti i giorni. Sono stata un po' ospite della famiglia di una ragazza che si allenava con me, poi da più grande in hotel. Mi hanno messo subito sulla bilancia, certo, e vedevo che c'erano ragazze preoccupate, che venivano sgridate. Ma era il mio sogno, lo volevo a tutti i costi».
Sgridate nel modo in cui si è detto in questi giorni?
«Chi ritenevano avesse problemi di peso, sì. È tutto vero quello che ha detto Nina Corradini. In generale in base al tuo peso dipendeva il modo in cui venivi trattata».
Ce lo spiega meglio?
«Durante le esecuzioni, se una ragazza pesava di più poteva fare l'esercizio più bello della sua vita, ma era ritenuta inguardabile. Quando si pesava di meno, anche se si sbagliava comunque andava abbastanza bene lo stesso, cambiava proprio l'approccio. E poi cose che abbiamo sentito, "sei flaccida" a ragazze magrissime».
E lei?
«Io quando ero in forma pesavo 49 chili alta 1,77. Ero ritenuta perfetta. Oggi ne peso 57. Non avevo difficoltà a mantenere il peso, sono così di costituzione, solo con lo sviluppo è diventato un po' più difficile. Ma per alcune ragazze la bilancia era il terrore. È normale ci siano requisiti fisici in uno sport, pensiamo alla pallavolo. Ci sta la fatica, spingersi al limite negli allenamenti. Altra cosa è estremizzare i canoni estetici, altro sono certi comportamenti tossici che nelle bambine possono creare disagi forti: anche mia sorella minore ha fatto ritmica e in una società si è sentita dire che era grassa. Aveva 10 anni».
È capitato anche a lei?
«Solo una volta. Ma a me accadeva che quando sentivo dolore venisse sminuito. Ti senti una pedina, sostituibile».
Vi sentivate sostituibili?
«Io si, non parlo per le altre, molte sono ancora lì. Ho due ernie, avevo un dolore assurdo a fare certe flessioni della schiena, a volte dicevano che le prendevo in giro, che non avevo voglia, che ero irrispettosa. È successo anche a mia sorella, in una categoria più bassa: a 13 anni aveva dolori alla schiena, frattura da stress di due vertebre, è rimasta bloccata mesi. Certi modi ci sono a tutti i livelli».
Lei cosa si porta dietro?
«L'ansia del peso resta, pur non essendo stata bersagliata come altre. Tornavo dalle vacanze, mi pesavo: una volta ho preso due chili e ho pianto tantissimo, passavo un sacco di tempo allo specchio. Ti entra in testa, quando sei li le allenatrici sono il tuo adulto di riferimento, vuoi la loro approvazione. E questo c'entra anche con la mia partecipazione a Miss Italia, mi metto in gioco, porto la mia testimonianza, è una rivincita».
Si è confrontata con altre ex ginnaste?
«Si, tante a diversi livelli hanno continuato ad avere problemi di rapporto col peso, c'è proprio una mentalità diffusa di estremizzare la magrezza, forse arrivata dalle scuole dell'Est. Io vorrei lanciare un messaggio positivo, ho amato quello sport, e il problema non è lo sport. E ho avuto allenatrici che ho adorato. Ma servono nutrizionisti e psicologi nelle società sportive, che abbiano un ruolo vero, non solo di facciata».
SCANDALO GINNASTICA RITMICA, LA FEDERAZIONE SAPEVA MA HA INSABBIATO. LE MINACCE AI GENITORI: «MEGLIO NON DENUNCIARE...» Da leggo.it il 5 novembre 2022.
Il caso delle ginnaste della squadra di ritmica continua a scuotere lo sport italiano. Dopo la prima denuncia a Repubblica di Nina Corradini, si è aperto un vaso di Pandora che sta svelando giorno dopo giorno nuovi dettagli. Non solo gli allenatori, che pressavano oltre ogni limite umano le atlete, ma nel mirino ci sono anche i vertici della Federazione. Spuntano le minacce ai genitori: «Per il bene di sua figlia conviene non fare nulla».
Ginnastica ritmica, cosa è successo
Il presidente di Federginnastica Gherardo Tecchi ha promesso provvedimenti dopo le denunce. L'accademia di ginnastica ritmica di Desio, quartier generale della squadra azzurra, è stata commissariata d'urgenza. Ma negli anni passati, i provvedimenti non sarebbero stati così rapidi. Anzi, a volte sarebbero stati inesistenti. E quando qualche genitore provava a farsi avanti, sarebbe stato fermato anche con atteggiamenti minacciosi.
Nel 2015 Lara Paolini, ex ginnasta di Ascoli, sarebbe stata presa di mira dalla direttrice tecnica, che l'avrebbe espulsa in maniera «ingiustificata», scrive ancora Repubblica. La famiglia aveva denunciato il caso all'ex presidente federale Agabio. La federazione aveva però risposto in maniera elusiva. Desta particolare attenzione un messaggio ricevuto dal padre di Lara su WhatsApp: «Per il bene di sua figlia conviene non fare nulla. Sono stati categorici. Chiara (nome di fantasia della direttrice tecnica, ndc) organizza il campionato del mondo ed è stata molto categorica su questo. Lei decide».
Nel 2020 una famiglia di Roma, che vuole rimanere anonima, ha denunciato in Procura federale l'ex allenatrice della figlia (9 anni) per le offese e il trattamento che le riservava. Nessuna risposta. Lo stesso è successo a Sergio Marchetti, che nel 2018 aveva denunciato i comportamenti avuti con la figlia. Ma nessuno se ne era preoccupato. Percosse, minacce e vessazioni continue le accuse all'istruttrice, squalificata dalla Federazione per 3 mesi. «Ma lavorava lo stesso per loro ai mondiali di Pesaro. Abbiamo denunciato di nuovo ma la procura ha archiviato il caso», commenta Marchetti.
Il caso
Nina Corradini era stata la prima. Le ginnaste italiane hanno vuotato il sacco, dopo anni di violenze psicologiche, pressioni e insulti. «Mangiavo sempre meno — ha raccontato a La Repubblica Corradini — ma ogni mattina salivo sulla bilancia e non andavo bene: per due anni ho continuato a subire offese quotidiane». Come lei, anche Anna Basta: «Una volta non ho agito perché è entrata una persona in stanza e mi sono scossa. La seconda ero in mezzo alla gente». Utilizzava le Dieci Erbe, pastiglie che aiutano ad andare in bagno. Si è fermata quando ha capito di non vivere più «bene con me stessa, non riuscivo a guardami allo specchio», le sue parole a Repubblica. E poi Giulia Galtarossa: «Una volta fecero schierare le compagne davanti a me per farmi girare di spalle e mostrar loro quanto fosse grosso il mio sedere». Il caso resta aperto.
Ginnasta di 8 anni e lo schiaffo dell’allenatrice: «Così si migliora». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 14 novembre 2022.
«Il primo e spero ultimo schiaffo della sua vita mia figlia Monica non l’ha preso da me o da mio marito, ma dall’allenatrice di ginnastica artistica dopo un esercizio sbagliato. L’ho saputo per caso: una ragazzina più grande di lei mi ha vista fuori dalla palestra e mi ha riferito i fatti. Sono piombata in sala, cosa vietatissima ai genitori. Monica mi si è subito stretta addosso, con il segno rosso della sberla sulla guancia. C’erano altre bimbe e mi sono controllata: se avessi seguito l’istinto, avrei sbattuto l’allenatrice contro un muro. Mia figlia aveva otto anni, capisce?».
Marina, mamma di Monica (i nomi sono di fantasia), non è un genitore fanatico. Di quello che è accaduto alla sua bambina in una palestra del Nord-Est, della giustizia che non ha avuto dalla Federginnastica, non ha parlato pubblicamente fino quando è esploso lo scandalo delle molestie. Ora vuole farlo «perché nessuno subisca più comportamenti simili».
Marina, perché la ginnastica artistica per sua figlia? «Perché le piaceva, perché è uno sport bello, perché con la prima istruttrice Monica si allenava con gioia. Preferimmo l’artistica alla ritmica perché la questione peso è meno importante e lo sviluppo del corpo più armonico. A posteriori, qualche rischio l’avevamo sottovalutato».
Quale? «A otto anni Monica si allenava sei giorni a settimana, quattro ore al giorno. Bambine piccolissime preparavano i campionati italiani».
Quando sono cominciate a cambiare le cose? «Con la nuova allenatrice e un programma più agonistico. Tra le mamme correva voce che volassero schiaffi per esercizi sbagliati. Pensavo ad esagerazioni fino a quando Monica è tornata a casa dicendomi di aver preso un buffetto per aver commesso un errore».
Lei? «Andai subito dall’allenatrice: mi disse che la cosa non si sarebbe ripetuta. Mai più, le risposi a muso duro».
Poi? «Quell’episodio. Ripeto: se una ragazzina non mi avesse avvertito quasi pentendosi di averlo fatto, se non avessi visto la faccia di mia figlia forse non me ne sarei accorta. Quando le allieve si abituano al sistema non raccontano nulla a casa, credo per paura».
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Cosa le disse l’allenatrice? «Che mia figlia si era distratta e per questo era caduta dalla trave. Che era stata costretta a darle uno schiaffo e che infatti l’esercizio successivo era stato eseguito in modo perfetto».
Lei? «Portai via Monica: in quella palestra non è mai più rientrata e c’è voluto un anno per farle tornare voglia di sport. Ma con mio marito non ci siamo fermati, volevamo capire: abbiamo subito chiesto una riunione col presidente, la coach e i soci»
Risultato? «Silenzio assordante. La società difendeva la sua coach e copriva i suoi comportamenti. Eppure sapevano cosa succedeva. Ha parlato solo lei spiegando che quelli erano i suoi metodi educativi. Nessun’altro ha proferito parola. Nel frattempo avevamo raccolto le testimonianze di altre atlete che parlavano di schiaffi, tirate di capelli, umiliazioni. L’inchiesta penale sta dimostrando che i comportamenti erano sistematici».
Vi siete mossi per avere giustizia. «Non subito, eravamo sotto choc. Ma altri genitori hanno presentato un esposto alla Federginnastica su questioni amministrative, citando l’episodio».
E? «Ci ha convocato la procura federale. La bambina ha testimoniato. Abbiamo raccontato tutto, fornito i contatti di chi aveva subito episodi simili garantendo disponibilità a collaborare».
E i procuratori? «Molto tempo dopo, per via indiretta, abbiamo saputo che l’insegnante aveva “patteggiato senza colpa” con loro un mese di sospensione. Le sberle punite con un mese e il silenzio».
Come vi siete sentiti? « Soli. La Procura Fgi non ha tenuto conto della testimonianza, non ha sentito le altre ragazze, non ha indagato. E ha nascosto la sentenza. Ora la federazione invita le famiglie a denunciare, ma se non agisce a cosa servono le denunce?».
Che ambiente è quello della ginnastica? «Spero sia migliore di quello vissuto da mia figlia e dalle ragazze che stanno denunciando. Ma tante allenatrici avrebbero bisogno di un serio e costante confronto con uno psicologo: il passaggio dal ruolo di atleta a quello di coach senza nessuna preparazione può essere traumatico».
Come sta sua figlia? «Adesso bene: dopo un anno di pausa ha provato a riaffacciarsi in palestra e ora pratica con soddisfazione l’atletica leggera».
Avete presentato un esposto penale. Con che obbiettivo? «Che non succedano più fatti del genere, che ci siano controlli costanti sulle palestre della ginnastica. E che chi ha schiaffeggiato mia figlia non torni mai più ad allenare».
"Quando l'allenatrice si metteva gli anelli i ceffoni facevano ancora più male", ora a tremare è la ginnastica artistica. Riccardo Caponetti su la Repubblica il 10 novembre 2022.
Gli orrori che hanno sconvolto il mondo della ritmica, confermati anche da ex atleti di aerobica, si allargano ad un'altra disciplina. A raccontarlo tre ex ragazze di Serie A che per un periodo hanno condiviso la stessa palestra
Schiaffi sul volto e sul corpo. "Quando l'allenatrice si metteva gli anelli i ceffoni facevano ancora più male". Abusi di potere ("sono l'unica che può farvi arrivare alle Olimpiadi"), insulti e la nota dittatura alimentare: "All'inizio ci facevano prendere un pezzo di pane con l'insalata a pranzo, dopo neanche più quello. Due etti in più erano la fine del mondo".
Gli orrori che hanno sconvolto il mondo della ritmica, confermati anche da ex atleti di aerobica, travolgono anche la ginnastica artistica. A raccontarlo tre ex ragazze di Serie A, Laura Sirna, Virginia Scardanzan e Chiara (nome di fantasia), che per un periodo hanno condiviso la stessa palestra e allenatrice.
Non si sentivano da tempo, poi dopo l'inchiesta di Repubblica si sono ritrovate per raccontare il proprio passato. "Ci allenavamo in Veneto, non in un centro tecnico federale ma in una palestra considerata il punto di riferimento della regione, con un'istruttrice molto violenta". Al punto che Virginia, la più piccola tra loro, 24 anni e in passato convocata con la Nazionale giovanile, confessa di aver pensato di chiamare il Telefono azzurro: "Ero in pausa pranzo con una mia amica. Sapevo che queste persone aiutavano i bambini in difficoltà e volevo chiamarli. Io non ho ricevuto violenze fisiche, ma le mie compagne sì".
Ma cosa succedeva nella loro palestra? "Tra noi la parola violenza era un tabù. Ma ci teniamo a sottolineare che non tutti gli allenatori nella ginnastica sono così. Per fortuna, ci sono ancora ambienti sani", commentano prima di raccontare il loro mondo da incubo. Inizia Laura: "Una volta stavo facendo un esercizio alla trave ma ero molto stanca e sono caduta. L'allenatrice mi ha detto: 'Avvicinati'. Sapevo che mi voleva dare una sberla, così mi sono tirata indietro sperando che la trave alta mi potesse far da scudo ma il ceffone è arrivato lo stesso in volto".
Laura poi si rivolge a Simona: "Ricordi che un'ora dopo mi ha visto e mi hai detto: "Hai ancora il segno rosso in faccia"". Poi, continua: "Una nostra compagna ha ricevuto uno schiaffo così forte da farle uscire il sangue dal naso. Altre venivano tirate per i capelli giù dalla trave".
"L'allenatrice aveva costruito una barriera all'ingresso per non far vedere come venivamo trattate", aggiunge Virginia, prima di spiegare il complesso meccanismo psicologico della ginnastica: "A 7-8 anni ero ingenua e guardavo le mie compagne più grandi con ammirazione. Pensavo che avrei dovuto fare tutto come loro. Nella mia testa dovevo pesarmi tre volte al giorno, perché è quello che facevano le mie sorelle più grandi. Venivano insultate e picchiate? Anche io dovevo ricevere lo stesso trattamento. Così un mondo malato diventa la normalità".
Tocca a Chiara: "Quando andavamo a fare i collegiali a Brescia non potevo permettermi di sbagliare altrimenti mi diceva che la facevo vergognare. E prima dei campionati nazionali, a 10 anni, mi sono dovuta allenare con un dito del piede rotto". Laura, poi, è felice che si sono accesi i riflettori su questi atteggiamenti: "Purtroppo tante voci e grida di aiuto negli anni non sono mai state ascoltate. C'è stato un sospetto in passato su questa allenatrice e siamo state chiamate a testimoniare davanti al commissario di polizia. La cosa però è caduta perché tantissime ginnaste, soprattutto quelle che ancora si allenavano lì, non hanno detto la verità".
Oltre loro tre, anche un altro gruppo di ex ginnaste di artistica - circa 30, molte delle quali non vogliono essere citate - hanno firmato un comunicato congiunto per confermare come abusi mentali e umiliazioni siano comuni: "Anche noi ex ginnaste di artistica, avendo vissuto cose simili sulla nostra pelle, ci uniamo alle ragazze della ritmica. Se una volta simili comportamenti venivano tollerati e mascherati da una ricerca del risultato, oggi uno sport sano non può assolutamente giustificarli e voltarsi dall'altra parte. Denunciate il vostro disagio e quello che vi sta accadendo. Amiamo la ginnastica e insieme rendiamo più sicuro e bello il nostro sport, che rimane fantastico".
Riccardo Caponetti per “la Repubblica” il 14 novembre 2022.
Chiede alle allenatrici di non parlare con nessuno. Definisce le testimonianze delle ex atlete vittime di abusi come «quanto di peggio può uscire dall'indole umana». Dà la colpa dello scandalo che ha travolto la ginnastica italiana alla «società civile, alla responsabilità genitoriale e all'attività scolastica di base che non forma e non prepara i nostri ragazzi alla vita».
E infine Emanuela Maccarani, la direttrice tecnica della Nazionale di ritmica, sostiene che «le due ginnaste» (Nina Corradini e Anna Basta, le prime ex Farfalle a denunciare il sistema su Repubblica , ndr ) siano manipolate: «Credo che siano vittime degli abusi di alcuni adulti o comunque di persone anche specializzate nelle varie materie che in questo momento stanno vicino a loro».
Mentre la Federazione e tutte le istituzioni sportive mostrano solidarietà alle ragazze che hanno trovato il coraggio di rompere il silenzio dopo anni, Emanuela Maccarani - che finge di non sapere come ormai le testimonianze di maltrattamenti siano diventate centinaia - ha una visione diversa che emerge da una lunga nota vocale, di cui Repubblica è entrata in possesso: una registrazione di 6 minuti inviata via WhatsApp ad altre direttrici tecniche della Federazione.
L'audio fa rumore perché, in attesa che la giustizia federale faccia il suo corso (lei verrà ascoltata venerdì 18 a Desio dai procuratori), Maccarani con i media si «è chiusa in un silenzio forzatissimo» e perché dà l'impressione che voglia interrompere il flusso di notizie dall'interno: «La richiesta è quella di allertare tutte le vostre allenatrici e i vostri tecnici che ora verranno assediati sicuramente nei piccoli paesi e cittadine da intervistatori e da giornalai che non faranno altro che estrapolare piccole espressioni verbali o piccole testimonianze da altre testimonianze che vanno più in profondo. Per quanto riguarda il vertice della federazione e la mia posizione di responsabile della squadra azzurra non ci sarà dubbio che verrà tutto chiarito».
Insomma, mentre la Federazione fa mea culpa pubblicamente, Maccarani no: «Io sono una bella persona, leale e inattaccabile, non per i titoli che ho ma proprio per ciò che sono. Ed è per questo motivo che la mia tranquillità è fortificata dalla realtà.
Sono trent' anni che sono alla guida di tutto questo e se sono ancora qui è proprio perché non è mai uscita una menzogna o una bugia dalla mia bocca. Questo adesso mi darà la lucidità per ricostruire ogni passaggio, perché quando si raccontano le cose distorte poi è difficile potersi ricordare di tutto. Invece quando i fatti sono chiari, la ricostruzione è più semplice. Grazie di tutto il supporto di quasi tutte le persone tra di voi che non dimenticherò».
Intanto da tutta Italia le ragazze continuano a denunciare vessazioni e abusi di ogni tipo. L'associazione ChangetheGame ha mappato i report pervenuti in forma di segnalazione via mail, telefono e social. Le testimonianze firmate sono 39, di cui 18 dalla Lombardia, 5 dalla Toscana e 4 dalla Liguria.
I casi anonimi, invece, sono 78: anche qui domina la Lombardia (17), poi Toscana (13), Lazio (12) e Abruzzo (11). Alle 117 segnalazioni totali si aggiungono anche 25 testimonianze pubbliche presenti sotto i post Instagram sulle pagine di Anna Basta e Giulia Galtarossa. Non sono proprio eccezioni, è tutto il sistema in discussione.
"Digiuni, infortuni e sensi di colpa: la mia vita da farfalla della ritmica". Ginevra Parrini oggi ha 23 anni: era entrata in Nazionale all’età di 14, ma la gioia è stata presto rimpiazzata dallo sconforto. "Iniziarono subito a inculcarci il dogma della dieta". Paolo Lazzari su Il Giornale il 06 novembre 2022
Regole d’acciaio per plasmare corpi inscalfibili, impermeabili ai sentimenti. Così quei sorrisi acerbi sfumano in fretta in espressioni rigide. Il risultato va raggiunto ad ogni costo e pazienza se l’anima friabile di una ragazzina minorenne ne esce contusa. Certo, inizi presto a maneggiare la disciplina e ti tornerà utile per il resto dei tuoi anni. Magari sollevi anche qualche trofeo. Ma il prezzo da pagare è, troppo spesso, un urlo nero conficcato dentro per la vita.
Ginevra Parrini aveva soltanto cinque anni quando ha cominciato con la ginnastica ritmica: oggi che ne ha ventitre anche lei si fa coraggio e scava dentro un periodo che ha lasciato lividi. In nazionale, nel team di quelle farfalle che sono salite alla ribalta delle cronache, ci è arrivata quando ne aveva quattordici. Da lì in poi la trama comincia ad assumere tinte in controluce, fino a diventare tetra.
“Da piccola mi piacevano tutti gli sport. In particolare - racconta - mi disimpegnavo con la pallavolo, con la danza e la ginnastica ritmica, decisamente la mia preferita. Mi attiravano i body scintillanti, l’eleganza dei movimenti, la femminilità che scaturiva da ogni gesto. Se ne accorsero anche le mie prime allenatrici, che infatti dissero ai miei di puntare tutto in questa direzione. Anche perché avevo il fisico e il talento giusti”.
Quindi è deciso. Ginevra intraprende un percorso che all’inizio è lastricato di gioia e soddisfazioni abbondanti. Cresce in fretta e trangugia le tappe mescolando divertimento e determinazione. La nota una società più grande e lascia la tiepida zona di comfort locale. A quattordici anni approda nelle Farfalle, prima da individualista, poi in gruppo. Partecipa ai campionati europei, ai Mondiali e a diverse competizioni internazionali. Qualcosa però inizia ad incrinarsi.
“Iniziarono da subito a inculcarci il dogma della dieta, perché era fondamentale che il concetto ci arrivasse prima che diventassimo più grandi. Salivo sulla bilancia ogni giorno e mi ripetevano che dovevo dimagrire, che ero troppo grassa, che non avrei mai disputato le gare importanti in quelle condizioni. Ci ispezionavano le camere per vedere se nascondevamo del cibo e se lo trovavano venivamo punite con allenamenti ancora più stremanti”.
In realtà Ginevra è una ragazzina magra, dalla figura possente ma affilata. Però non basta. “Al mio ingresso in Nazionale ho capito subito che la situazione era pesante. Quelle che prima erano semplici richieste si sono accentuate, fino a diventare pressanti avvertimenti. Iniziarono a dirmi che se non dimagrivo, se mi ostinavo a mangiare ed anche a bere, non avevo rispetto per la mia famiglia e per il Paese che rappresentavo. Che ero un’ingrata. Questo concetto ce lo ribadivano spesso, a tutte. Il divertimento con gli amici era proibito. Dovevi soltanto allenarti, per 9 lunghissime ore al giorno: era la mia passione e lo facevo, ma qualcosa cominciava a pesarmi. Ricordo che prima degli Europei la nostra cena consisteva in una mela. Facevamo di tutto per rientrare nei canoni imposti: il senso di colpa è una manipolazione psicologica potente su una ragazzina”.
Qui iniziano gli scompensi. Il corpo di Ginevra, come quello di molte sue giovani colleghe, fluttua costantemente di peso. Le ricadute in termini di salute fisica e mentale sono un macigno che preme ancora oggi. “Ad un certo punto iniziarono a pesarci anche quattro volte al giorno. Io restavo a digiuno per lunghi periodi, perdevo anche 10 kg di fila e poi riprendevo peso in pochissimo tempo. Il corpo, destabilizzato, non rispondeva più a dovere. Il ciclo si interrompeva. Gli svenimenti si moltiplicavano”.
Traumi che si traducono in lunghe sedute dallo psicologo, ma non esiste cerusico dei sentimenti che tenga, quando sanguini da dentro. “D’un tratto cominciai ad avere terrore di mettere piede in palestra. Mi avevano influenzato a tal punto che non volevo più mangiare nemmeno a casa: pensavo di essere irriconoscente verso tutti, se addentavo qualcosa. Questi problemi alimentari me li porto dietro ancora oggi, insieme a quelli fisici. Ho cinque protusioni discali, ma loro al tempo facevano spallucce. Un giorno caddi sulla schiena durante un esercizio e non riuscivo più a rialzarmi. Mi sollevarono di peso dicendomi di camminare. Dovevo andare al pronto soccorso, ma negavano il problema. Mi feci le lastre e gliele stampai davanti, ma mi dissero che parlavo a sproposito, che tutte le atlete professioniste c’erano passate. In squadra c’era anche un fisioterapista, ma era interdetto alle ragazze più giovani: visitava solo le più mature”.
L’accusa, è chiaro, non è rivolta alla disciplina in sé, ma all’interpretazione che ne viene data. “Le mie società di origine mi hanno dato tanto e le ringrazierò sempre: con loro ho appreso una disciplina e una determinazione fuori dal senso comune. Impari il sacrificio, ti misuri con sfide enormi. Tutte cose che nella vita ti torneranno utili. Per questo consiglierei la ginnastica ritmica a chiunque: il problema è nato in nazionale, penso che sia lì che l'approccio debba mutare radicalmente. Nella migliore delle ipotesi hai davanti vent’anni di carriera: non puoi barattarli con una vita di privazioni e traumi destinati ad accompagnarti per sempre”.
Oggi Ginevra si sta gradualmente riprendendo. Ha lasciato quel mondo anni fa: dopo quella brutta caduta ha tentato di tornare, ma il dolore era un passeggero che scuoteva inevitabilmente il capo. Adesso lavora nel segmento del Wellness, ha al suo attivo una partecipazione a Miss Italia ed anche ad un programma tv. Le cose ripartono. Magari le farfalle restano impigliate nei retini della vita, ma l'anima non l'addomestichi. Paolo Lazzari
(ANSA il 4 novembre 2022) "Sono profondamente rattristata da tutto ciò che ho letto ultimamente. Confesso l'enorme disagio e malessere mio e delle Farfalle in questi ultimi giorni qui a Desio, del resto è impensabile mantenere calma mentre lo sport che amo è avvolto da una nube nera".
E' lo stato d'animo raccontato in una lunga dichiarazione all'ANSA da Alessia Maurelli, azzurra e capitana delle Farfalle della Ritmica alla luce delle recenti denunce di maltrattamenti in questa disciplina. "Sono stata educata al rigore e al rispetto del mio corpo - aggiunge l'atleta, che proseguirà l'attività nel centro di Desio - Questo sport non si spegnerà".
Il post di Alessia Maurelli:
Sono profondamente rattristata da tutto ciò che ho letto ultimamente.
Confesso l’enorme disagio e malessere mio e delle Farfalle in questi ultimi giorni qui a Desio.
Del resto è impensabile mantenere calma e indifferenza mentre lo sport che amo è avvolto da una nube nera di sofferenza e polemiche.
Leggo commenti del tipo “ma questo non è sport, è una tortura disumana, è un inferno di ambiente” e rimango pietrificata.
Respiro, poso il telefono e chiedo a me stessa : Ma tu perché fai questo sport?
Ti fai davvero un mazzo tanto, ogni giorno, da una vita, per una disciplina così disumana e subdola??
Certo che NO. Perché NON lo È. NON lo DEVE essere!!
E lo posso affermare con piena consapevolezza.
Da militare, da Cavaliere della Repubblica e da Capitana dell’attuale Squadra Nazionale di ginnastica ritmica. In quanto ginnasta veterana all’interno delle Farfalle, ma soprattutto da donna e sportiva particolarmente attenta a questi temi, non posso rimanere indifferente a tutto ciò.
Leggendo le vostre dolorose testimonianze voglio esprimere la mia vicinanza a tutte voi, accomunate dalla mia stessa passione, che avete e state soffrendo.
Tutto ciò mi ha fatto riflettere sul mio percorso, e mi reputo molto fortunata di essere cresciuta in un ambiente sano, a Ferrara, in una società nella quale sono stata educata alla disciplina, al rigore e al rispetto del mio corpo.
Mi rendo conto però che questa dovrebbe essere la normalità.. Questa forma mentale si dovrebbe radicare fin dall’inizio nelle famiglie, dove crescono e si formano le giovani campionesse del futuro. Il rispetto fra allenatore e atleta deve essere sempre presente, senza impedire di raggiungere il proprio sogno, senza distorcere la realtà e senza nascondere lo spirito di sacrificio necessario per raggiungere i vertici, ma in modo corretto e sano.
Per quel che vale, io posso riportare soltanto il mio vissuto personale: si tratta di un’esperienza legata principalmente alla Nazionale Italiana, e perciò può essere diversa da altri percorsi.
Per poter competere ed eccellere nelle competizioni mondiali è necessario molto lavoro ed è fondamentale la cura dei dettagli. Vale per noi Farfalle ma vi garantisco che vale per qualsiasi disciplina. Mi confronto spesso con altri amici, colleghi azzurri medagliati olimpici e non, e tutti noi, siamo accomunati da grandi sacrifici, pesanti rinunce e dal necessario obbligo di mantenere un fisico adatto ad ogni singola disciplina, regolato da un regime alimentare funzionale per poter rendere al massimo e scongiurare infortuni.
Sono stata convocata in squadra a 17 anni e la mia decisione di farne ancora parte a 26 (pur avendo già coronato il mio sogno olimpico a Tokyo) credo sia significativa: è una scelta dettata da tanti fattori, dal benessere fisico a quello mentale, dall’attaccamento alla maglia azzurra alla passione per questo sport e al lavoro di squadra. Mi ritengo una ragazza determinata che non teme le responsabilità, so di non avere il “posto prenotato” fra le titolari ma amo mettermi in gioco e condividere momenti in gruppo..
E ragazzi.. Detta come va detta, non sono ancora qui per la fama, per i soldi o perché vittima di manipolazione o sottomessa ad un sistema che decide per me.
I miei 9 anni in nazionale mi hanno permesso di vivere, in periodi ovviamente più o meno lunghi, insieme a più di 30 ginnaste che si sono avvicendate nella rosa. Io stessa ho assistito, nel corso del tempo, a continui ed esponenziali miglioramenti all’interno dell’ambiente sotto il punto di vista di tutela della nostra salute psico-fisica. Migliorie e progressi importanti, avvenuti anche grazie all’investimento dovuto alla crescita del movimento.
Da anni ormai abbiamo la presenza stabile di professionisti ed esperti che si occupano, con un particolare occhio di riguardo verso le ragazze più giovani, del nostro benessere psicologico e alimentare, con l’aggiunta di un gruppo di fisioterapisti 4/5 volte a settimana.
Dico spesso che noi non siamo compagne di squadra, siamo quasi sorelle. Condividiamo la vita 24h su 24. C’è un rapporto di complicità ed amicizia profonda che ci lega.
In questi giorni abbiamo molto parlato, ci siamo interrogate e confrontate. Personalmente la mia inquietudine è rappresentata dal dispiacere: mi dispiace che nessuno di Noi sia stata in grado di capire fino in fondo il malessere di alcune mie ex compagne di squadra.
Sono sicura che grazie alle indagini verrà fatta chiarezza, e mi auguro che si possa prendere spunto per migliorare e lavorare su ciò che non ha funzionato nel mio ambiente, così come in quello di alcune società in Italia. Lo si deve all’amore di uno sport troppo bello per spegnersi. Fare chiarezza è un dovere per tutte le persone che hanno fatto della ginnastica ritmica la propria vita con impegno e correttezza e tutte quelle che l’hanno abbandonata con dolore.
Consapevole di tutto ciò che ho vissuto, visto, affrontato e che posso testimoniare con molto materiale e fatti concreti, sono pronta ad esprimermi al 100% nelle apposite sedi, sperando che la mia esperienza possa aiutare le indagini a far chiarezza.
Esponendomi in prima persona, posso essere una portavoce per chi come me ha alle spalle un’esperienza positiva, ricca di momenti luminosi e persone meravigliose. Un'esperienza che già in questi anni è servita ad aiutare tantissime ragazze che mi hanno contattato in privato per avere consigli.
Mi auguro che non si spenga la speranza di piccole ginnaste che sognano di diventare farfalle e volare in una pedana olimpica.
Prima di concludere però ci tengo a condividere con voi, come avevo già fatto in passato, una mia esperienza legata proprio all'alimentazione, per poter lanciare un appello.
Il mio ricordo peggiore legato a questo tema è collegato alla sofferenza provata nell'aver letto sui social, alcuni anni fa, delle cattiverie gratuite, quando lo sviluppo mi aveva fatto mettere su un paio di chili.
Per il mio benessere mentale e fisico sono stata costretta a isolarmi per un po’ dal web, perché leggere frasi come “la Maurelli è molto appesantita” mi hanno fatto stare male e mi hanno resa insicura soprattutto nel momento di massima esposizione: la gara.
…Brutto commento sul mio fisico - insicurezza - brutta gara - commento ancora più brutto .. Questo il loop che ho vissuto per diversi mesi.
Poi però una frase della mia allenatrice - che non scorderò mai – è servita a infondermi una enorme fiducia prima degli europei a Guadalajara e mi ha trascinata via da questo terribile circolo vizioso.
Ma proprio perché nella ginnastica ci sono tante atlete giovani, giovanissime, non posso tacere. Quindi, anche quando scrivete o commentate, specialmente dietro a un social e, soprattutto quando giudicate un fisico o trattate proprio questi temi delicati, vi prego, siate tutti un po’ più gentili.
Sempre. Alessia
PARLA IL PADRE DI ALESSIA MAURELLI. Da polesine24.it il 4 novembre 2022.
(…) Consegna, o meglio consiglio, del silenzio anche per i familiari delle atlete azzurre. Il padre stesso di Alessia, Eugenio Maurelli spiega che “non posso dire niente anche perché è in corso una verifica sulle segnalazioni. Non abbiamo elementi per esprimerci”.
Allargando il ragionamento in via generale però sostiene che “quello della ginnastica ritmica è uno sport duro, come lo sono tante altre discipline sportive. Uno sport che prevede limiti di peso e allenamenti costanti. Le atlete lo sanno. Come in altre discipline ci sono sessioni di allenamento dure, che però temprano la persona, la portano ad essere in grado di esibirsi in tutte le palestre del mondo sotto lo sguardo di severe giurie. Si tratta di impegno fisico e psicologico, e come in tutti i campi, non tutti sono in grado di sostenerlo a lungo. Certo senza mai superare certi limiti, ma quello che si sente in questi giorni mi sembra davvero esagerato".
Da ansa.it il 4 novembre 2022.
"Mi sentivo brutta, volevo dimagrire in quel momento volevo sparire ed ero in imbarazzo: tutte le mie compagne mi fissavano durante le esecuzioni, lei le lodava, faceva paragoni fra di noi anche se loro facevano un livello più basso.
Tornata a casa, ebbi un attacco di panico. Volevo smettere con la ginnastica, non volevo più vedere nessuno. Ero spenta, ero lì davanti a lei e non potevo fare niente. Non riuscivo neanche a parlare, non ce la facevo più": sono le parole toccanti di una ragazzina di 13 anni, una giovanissima ginnasta, Ilaria, che ha affidato a un tema il proprio disagio dovuto a forme di violenza emotiva e bullismo da parte della sua istruttrice.
La mamma, insieme a quella di una compagna, ha dato la propria testimonianza all'associazione ChangeTheGame che combatte abusi e violenze nello sport. La ragazzina racconta tutto in un tema che colpisce la professoressa di italiano la quale subito informa la mamma. I genitori si attivano e portano il caso davanti alla Procura della Federginnastica che sanzionerà l'istruttrice con una squalifica di un mese e mezzo circa.
"Arrivata in palestra - scrive la bambina - tutte le mie compagne erano insieme, l'istruttrice le aveva mandate a riscaldare. Io e la mia compagna Ginevra eravamo le uniche che dovevano riscaldarsi velocemente per poi provare subito gli esercizi. Finito il riscaldamento, facciamo le spaccate dalle sedie e ci guardavamo. Il nostro umore era cambiato perché sapevamo cosa ci aspettava. Finita anche la spaccata, prendiamo gli attrezzi, cominciamo a ripassare gli esercizi.
Arriva il momento in cui dobbiamo farlo davanti a lei, alla nostra istruttrice, che fino a quel giorno ci aveva offeso e detto le peggio cose. Tocca a me, avevo ansia ed ero spaventata. Durante l'esercizio comincia a urlare di tutto e di più comincia a chiamarmi in tutti i modi: maiale, porchetta, ippopotamo. Già lì ero a pezzi, era solo metà esercizio. Volevo fermarmi, non continuare l'esercizio tanto sarebbe solo peggiorato ma non potevo.
Alla fine dell'esecuzione mi dice che non ero capace, che ero pesante nei movimenti, che non andavo bene e soprattutto una cosa che mi fece stare davvero male: 'cambia sport'. Quella voce risuonava nella mia testa, andai in bagno scoppiai a piangere".
Nadia Ferrigo per “La Stampa” il 4 novembre 2022.
Sola, faccia tirata e telefono in mano, Emanuela Maccarani ieri mattina se ne stava appoggiata al bancone del grande e desolato atrio dell'Accademia internazionale di ginnastica ritmica di Desio, provincia di Monza e Brianza. Non capita mai di vederla lì. Il suo posto è sempre, da sempre, a bordo pedana.
Le luci della palestra sono spente, non si sente la musica che otto ore e più al giorno, sei giorni su sette, scandisce gli allenamenti delle Farfalle. Fino a ieri pomeriggio, le "sue" Farfalle. L'ordinaria e inattaccabile disciplina della squadra nazionale di ginnastica ritmica è stravolta dalle storie raccontate a giornali e televisioni dalle ex atlete: l'obbligo di rispettare un regime alimentare ossessivo e scorretto, le umiliazioni, i lassativi. I disturbi alimentari, la paura.
«Ci sta arrivando addosso un mare di merda». Mima il gesto, un cerchio sopra la testa, proprio come fa da tutta una vita abbozzando i movimenti che poi le ragazze devono studiare in palestra. Non vuole ribattere alle accuse, scuote la testa. «Vedere scritte quelle cose sui giornali mi fa male. Ma non darò un'intervista a un giornale, a nessun giornale. Ci saranno delle novità, ne arriveranno di cose». Quali, quali cose? «Una conferenza stampa, forse. Non so ancora quello che farò. E poi la procura indaga, no? Vedremo. Basta, non dico più niente». Porte chiuse.
Al posto suo, e non in sua difesa, parla la Federazione. Nel tardo pomeriggio il presidente della Fgi Gherardo Tecchi con una delibera urgente dispone il commissariamento dell'Accademia di Desio. Il commissario sarà il vicepresidente vicario della Federazione Valter Peroni. Una volta alla settimana ci sarà «una verifica da parte di un ufficiale di servizio preposto a raccogliere eventuali fatti anomali da parte delle ginnaste».
Negli abusi raccontati dalle ex farfalle le protagoniste a volte sono le assistenti, altre le allenatrici. Ma a capo di tutte, di tutto, da più di vent' anni c'è lei. Emanuela Maccarani riceve l'incarico di allenatrice responsabile della Nazionale di ritmica nel 1996. La sua è una carriera straordinaria. Nessuno come lei. Le prime medaglie arrivano dopo un paio d'anni, ai campionati europei. Ancora più su, l'argento olimpico di Atene nel 2004. La medaglia d'oro ai campionati del mondo di Baku, soffiata all'eterna rivale, la Russia.
Olimpiadi, Mondiali, Europei e World Cup: è l'allenatrice italiana più medagliata di sempre.
Ammirata, invidiata: tutto il mondo vorrebbe rubare alle Farfalle la fantasia, l'estro, l'originalità dei suoi pluripremiati esercizi. Tanto che si chiacchierava di straordinari compensi a lei offerti - e rifiutati con orgoglio - dagli altri Paesi per avere un esercizio firmato Maccarani. E ora? Nessuno entra e nessuno esce da quel palazzone imponente tanto desiderato e voluto proprio da lei.
«Questo luogo è un'altra medaglia delle azzurre, vale come una medaglia - disse lei all'inaugurazione -. Finalmente le farfalle hanno una casa». Ma ieri mattina, sarà anche colpa di una nebbiolina tristanzuola o del grande, vuoto e incolto parco che lo circonda, l'Accademia pareva più che un traguardo di cui andare orgogliosi una grande nave spersa. A bordo resta solo una capitana indiscussa che se proprio non affonda, di sicuro naviga in cattivissime acque.
Le denunce delle ex ginnaste non arrivano solo dalle ex farfalle. Sono decine e decine, tantissime arrivano dalla Lombardia. Oltre alle Marche, dove si allena con la ex campionessa italiana Julieta Cantalupi la neo campionessa del mondo Sofia Raffaeli, è qui che si coltivano i talenti migliori.
Quassù quasi tutti i paesini - Desio, ma anche Senago, Lissone, Monza, Rho, Muggiò - ospitano una squadra giovane e agguerrita. Sempre più brave, sempre più allenate. Migliorano i risultati, si fanno più grandi i sacrifici. Così negli ultimi anni sono nati tanti piccoli centri tecnici. Anche se le ginnaste non sono tutte potenziali azzurre, sono tutte aspiranti azzurre: l'Accademia è il sogno, il massimo obiettivo da raggiungere. E per decine e decine di bambine e ragazze la quotidianità diventa otto ore al giorno di palestra, scuole serali, settimane e a volte mesi lontano da casa.
Allora è legittimo chiedersi: per quante di loro la bilancia è una tortura, il peso un'ossessione? Se lo fanno loro, le più brave, meravigliose, allora lo dovrò fare pure io, no? Nel primo baretto che si raggiunge a piedi dall'Accademia di Desio si chiacchiera di ginnastica ritmica come altrove si parla di calcio. Tutti sanno, tutti hanno letto. Nessuno pare particolarmente stupito, anzi. «Come sono mingherline, sempre più mingherline», dice.
«Ma non è mica giusto cosa vuoi che ingrassino delle ragazze che fanno tutto quello sport lì», ribatte un altro. «Una volta ho visto una ragazzina pranzare con quattro fette di mela e due, ma proprio due, di bresaola - borbotta il barista, che è lo stesso dal 1996, come lo è Maccarani allenatrice della nazionale -. Non me lo scorderò mai. Mi dispiace, ma no. Così non va più bene».
Tecchi (Federginnastica) e gli abusi sulle ginnaste: «Inaccettabili, ora cambia tutto». Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022
Il presidente fa autocritica: «Sono allibito, ho anche io due figlie che hanno fatto ginnastica, cosa avrei provato se avessero sofferto così? Lavoreremo per arrivare a zero casi»
Gherardo Tecchi dal 2017 è il presidente della Federginnastica, un mondo di 1400 società, 150mila tesserati, 5mila tecnici. Un mondo travolto, in particolare quello della ritmica, da uno scandalo senza precedenti: atlete denunciano umiliazioni, violenze psicologiche, un controllo ossessivo del peso, con metodi poco rispettosi (eufemismo) della dignità della persona.
Qual è il suo primo commento?
«Sono allibito, inca... issimo. Ho due figlie che hanno fatto ginnastica, ho allenato squadre di pallavolo in serie A. Ho pensato cosa avrei provato se fossero state le mie figlie a soffrire così. Concordo col ministro Abodi: nessuna medaglia vale il benessere di una persona. Non sono disposto ad accorgimenti o a scorciatoie per arrivare. Per arrivare dove, poi? A rovinare le persone? O i traguardi si raggiungono in un certo modo, o non si raggiungono. Niente di simile sarà più accettato, l’obiettivo è arrivare a zero casi. Zero».
Partiamo dall’ultimo provvedimento, il commissariamento del centro federale di Desio, dove si allenano le Farfalle: cosa significa?
«Il commissariamento era un atto dovuto per togliere la gestione del centro allo staff tecnico e affidarla al vicepresidente vicario Valter Peroni che andrà lì costantemente a controllare. Poi inseriremo un’altra persona, con competenze di psicoterapia, che si relazionerà con le ragazze».
La c.t. è Emanuela Maccarani, la più vincente dello sport italiano, membro della giunta Coni a cui anche l’altro giorno Malagò ha ribadito fiducia. Ora questa mossa cosa significa? È stata destituita? Lei le avrà parlato, che dice?
«Certo che le ho parlato, anche lei è allibita, mai si sarebbe immaginata una simile situazione. Chiariamo: le sono stati tolti i poteri di gestione del centro, ora va lì solo per allenare, l’aspetto tecnico non è stato toccato. Io credo alle ragazze, ma sono in corso le indagini della procura federale, noi vogliamo essere garantisti: poi quando saranno accertate le responsabilità interverremo in maniera durissima: che si tratti della grande allenatrice o dell’ultima».
Scusi ma com’è possibile lo stupore? Noi siamo abituati a pensare alle Farfalle e ai tecnici come un gruppo che vive in simbiosi, con le allenatrici che si occupavano di tutto.
«Questo è stato un nostro errore, consentire che le stesse persone avessero troppo spazio: non esiste che i tecnici controllino il peso, ci sono altre figure per questo, il medico, il nutrizionista».
A Desio esistono questi professionisti?
«Sì, ho aumentato io le figure presenti nei centri federali. A Desio ci sono quattro fisioterapisti, due medici (uno generico e uno sportivo), un preparatore atletico, uno psicologo e un nutrizionista. Alcune di queste figure però dovevano essere più presenti, non solo una volta al mese».
Genitori e atlete parlano di esposti o denunce già fatte anche alla Federazione: perché non vi siete mossi prima? Avete sottovalutato?
«La nostra è una famiglia molto ampia, ci possono essere screzi, contrasti. Ma è chiaro che c’è sfuggito più di qualcosa, mea culpa. C’era anche un’altra mentalità. Però abbiamo istituito a inizio anno il Safeguarding office, proprio per tutela degli atleti, siamo all’avanguardia».
Come funziona?
«Chi vive situazioni di disagio può segnalare in modo anonimo, istituiremo un numero di telefono. La Federazione è aperta ad ascoltare».
Crede che certi metodi una volta fossero più accettati, che sia cambiata la mentalità di ragazze e genitori e non dei tecnici?
«Quei metodi non sono mai stati accettabili. Però c’è stata una nebbia che non ci ha permesso di vedere le cose, siamo stati carenti. Ora basta. I tecnici a gennaio dovranno seguire un corso di formazione obbligatoria. Chi non lo fa è fuori. Questo è un mondo con poche risorse, che si basa sulla fiducia nei tecnici, se viene meno la fiducia cade tutto. Ora non vogliamo insabbiare niente, bisogna tirare fuori anche i casi del passato, denuncino alla procura».
Il centro del problema sembra essere il controllo dell’alimentazione e del peso.
«Tutti gli sport, in misura diversa, hanno a che fare con il controllo del peso. Se so che per essere Farfalla devo rispettare certi canoni e ho la forza di farlo bene, altrimenti posso fare ginnastica a livelli più bassi con soddisfazione. Il punto è se questo tema viene accompagnato da forme di derisione, da umiliazioni: è inaccettabile. Per esempio mai il peso in pubblico. Quando allenavo nella pallavolo due cose non facevo mai: pesare le atlete e far lavorare loro con i pesi. Servono professionisti, sennò si fanno danni».
Se il controllo non è riuscito nel centro di eccellenza di Desio, che cosa si può fare nelle società sul territorio?
«C’è anche un problema di emulazione, nelle società si vuole imitare il centro. Ma qui c’è stato un grave errore: dovevamo essere più presenti, lo saremo. È finita questa stagione, l’obiettivo è i zero casi. Meglio una medaglia di meno, ma avere solo gente contenta di aver fatto ginnastica, con il proprio peso».
Estratto dell'articolo di Riccardo Caponetti per roma.repubblica.it il 3 novembre 2022.
(...) È un autentico tsunami quello che sta travolgendo Federginnastica, dopo l'inchiesta di Repubblica sulle violenze psicologiche nella ginnastica ritmica. Dopo le denunce di Nina Corradini, Anna Basta e Giulia Galtarossa, molte atlete ed ex atlete hanno deciso di rompere il silenzio. Non solo ginnaste della Nazionale, ma anche di categorie inferiori. Ecco le loro parole.
I lucchetti alle mensole
Quasi nessuna vuole fare i nomi dei colpevoli, "è tutto il sistema che è sbagliato" ma molte ci mettono la faccia. Viene fuori il quadro di un "mondo infernale", "da incubo". Non singole "eccezioni", come le ha definite il presidente del Coni Malagò. "Per due anni della mia vita speravo tutti i giorni di alzarmi e di non venire insultata dalla mia allenatrice".
Sara Branciamore, 22 anni, campionessa italiana nell'individuale nel 2013: "Avevo paura della mia insegnante e nonostante ciò per un periodo ho vissuto a casa sua. Il cibo che mangiavo lo razionava lei: una volta mise il lucchetto alle mensole (...) Sono alta 165 cm ed ero arrivata a pesare 36 chili: per un anno non ho avuto le mestruazioni e ancora oggi sono irregolari".
"Hai il sedere come un baule"
"Mi sono ammalata di anoressia nervosa, sono stata diverse volte ricoverata in ospedale. Già a 10 anni venivo pesata", racconta Victoria Polidori, 21 anni: "Chi prendeva due o tre etti doveva correre intorno alla pedana con i pesi alle caviglie. Una società per cui ho gareggiato mi faceva contare le penne al pomodoro che mangiavo. Alcune frasi le ricordo bene: "Hai un sedere grande come un baule" o "quest'anno non gareggi se non dimagrisci"".
Mario Nicoliello per “Avvenire” il 3 novembre 2022.
Mens sana in corpore sano. Nell'accezione moderna la locuzione latina, tratta dalle Satire di Giovenale, ha portato il genere umano a dedicarsi all'educazione fisica. Lo svolgimento dell'attività sportiva è diventato propedeutico al benessere psichico e così, pur senza praticare in maniera continuativa una vera e propria disciplina, movimento ed esercizio fisico sono diventati un must. Quando l'attività motoria prende forma in una palestra e viene declinata nel rapporto con alcuni attrezzi si apre l'immenso cosmo della ginnastica, declinato in tante sfaccettature: dall'artistica alla ritmica, dall'aerobica all'acrobatica giusto per rimanere alle più diffuse.
Ciò che accomuna l'alto livello di queste specialità è la giovane età delle interpreti, giacché in tali ambiti l'universo femminile è più popoloso di quello maschile. Adolescenti che lasciano casa per andare a vivere nelle accademie, ragazze ancora in età scolastica che sudano tutto il giorno e studiano la sera, piccole donne la cui giornata viene programmata dagli allenatori o dalle allenatrici. C'è chi resiste e raggiunge la gloria eterna (leggasi medaglie alle Olimpiadi) o chi getta la spugna, denunciando i maltrattamenti subiti.
È l'occasione, quest' ultima, per far emergere i lati oscuri delle fabbriche di campionesse, luoghi dove non sempre accadono le cose giuste. Le recenti denunce di alcune ginnaste specializzate nella ritmica hanno riportato a galla il torbido che si nasconde dietro le quinte. A cominciare sono state Nina Corradini e Anna Basta, che sulle pagine del quotidiano La Repubblica hanno raccontato umiliazioni, costrizioni e pressioni, soprattutto legate al peso da mantenere. Due ex ginnaste accomunate da un vissuto simile, che hanno deciso di rompere il muro del silenzio, sbandierando violenze e umiliazioni subite, al fine di non farle mangiare. A ruota l'attenzione si è spostata sulla Procura della Repubblica di Brescia, dove due atlete locali - minorenni che nel frattempo hanno abbandonato l'attività sportiva - hanno presentato un esposto per presunti maltrattamenti psicologici subiti dagli allenatori.
Ieri è arrivato lo sfogo, sempre a Repubblica, di Giulia Galtarossa, costretta a spogliarsi davanti alle colleghe e umiliata poiché definita "maialina".
Finita nell'occhio del ciclone, la Federazione Ginnastica d'Italia ha chiarito in una nota di non tollerare alcuna forma di abuso e di aver immediatamente informato la Procura Federale e il Safeguarding Officer per gli accertamenti e le azioni di rispettiva competenza. Ieri mattina il ministro dello Sport e dei giovani, Andrea Abodi, ha incontrato il presidente del Coni, Giovanni Malagò, e il numero uno della Federginnastica, Gherardo Tecchi. « La dimensione del fenomeno sportivo è importante, ma deve essere chiaro che basta un caso per avere la stessa attenzione di centomila. Le medaglie sono un fattore di orgoglio nazionale, ma non ce ne sarà mai una che coprirà comportamenti non adeguati. Siamo praticanti di valori, non predicatori», ha spiegato Abofronte di al termine della riunione, aggiungendo: «C'è un tribunale ordinario a Brescia e uno federale prontamente sollecitati.
Quello che emerge andrà valutato, il confine tra il rigore e lo sconfinamento è una linea sottile. L'allenamento della ginnastica presuppone una preparazione fisica di un certo tipo. Ma le cose bisogna dirle agli atleti nel modo giusto, altrimenti si va oltre».
E il presidente Tecchi è netto: «Credo in quello che hanno detto le ragazze, voglio che queste cose siano sistemate e che l'ambiente sia più lindo e trasparente possibile. Non possiamo permetterci certe cose, ne va della credibilità della federazione ». Sul caso è intervenuta anche Marta Pagnini, ex capitana delle Farfalle azzurre due volte oro Mondiale, bronzo a Londra 2012. Con una lettera all'Ansa ha spiegato: «Uno degli aspetti fondamentali della ritmica é la grande disciplina che viene presto appresa dalle atlete, fin dai primi giorni in palestra e senza distinzione di livello: dalla pettinatura alla postura, dalla cura del proprio corpo al rispetto per le compagne e per gli insegnanti. Nel mio percorso ho dovuto far a tanti ostacoli, alcuni "fisiologici", classici del percorso di una ginnasta, altri assolutamente evitabili e che hanno lasciato piccole o grandi ferite nel mio cuore di bambina, adolescente e poi donna».
Non c'è pace insomma oggi negli ambienti della ginnastica, così come non ce n'era in passato. I riflettori mediatici hanno illuminato gli sfoghi di numerose campionesse straniere, intente a denunciare gli abusi fisici e psichici subiti dai tecnici, trasformando in molti casi gli allenatori in orchi. Un nome su tutti, quello di Simone Biles, che ha trovato il coraggio, insieme alle sue compagne, per accusare Larry Nassar, l'ex osteopata della Nazionale statunitense di artistica che ha abusato sessualmente di bambine e ragazze durante le sue sedute. Centinaia di minorenni, adescate con il pretesto di presunte sessioni di massaggi, e poi vittime innocenti di palpeggiamenti, violenze e atti di masturbazione.
A finire nel calderone sono stati anche i vertici della Federazione statunitense e quelli dell'Fbi che, pur sapendo, non hanno denunciato, ma anzi hanno insabbiato l'accaduto. « Biasimo Larry Nassar e incolpo anche un intero sistema che ha permesso e perpetrato i suoi abusi », fu il pesante sfogo pubblico di Simone Biles, la pluricampionessa che ai Giochi di Tokyo dell'anno passato dovette abbandonare il contesto agonistico per problemi di depressione, scaturiti proprio in seguito alla vicenda degli abusi. Problemi anche nella squadra della Romania, con atlete che si sono sfogate contro i metodi di coach Bela Károlyi, lo stesso che fu artefice della fioritura del fenomeno Nadia Comaneci negli Anni Settanta. Decenni più tardi alcune rumene hanno denunciato che Béla e la moglie Márta si comportavano regolarmente con brutalità per gli errori commessi in allenamento o in gara, mentre altre ginnaste di Bucarest e dintorni hanno sollevato accuse di abusi fisici. Successivamente quando la coppia è passata alle dipendenze degli Stati Uniti è stata coinvolta pure nell'affare Nassar. Luci e ombre quindi sulla ginnastica. Sport che fa breccia sui social e impazza in serie tv, libri e film. Eppure c'è del marcio dentro questo mondo.
Ilaria Barsacchi, l’ex ginnasta denuncia gli abusi: «Frattura del piede, ma per loro era un problema di peso». Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022.
Ilaria ha gareggiato in serie A, quando aveva 16 anni ha smesso: «Ero 38 kg. Venivamo pesate tutti i giorni, speravo che le mestruazioni non arrivassero mai. Avevo male a un piede, dicevano che era colpa del peso: invece era una frattura da stress al metatarso».
«Quando si ha a che fare con i disturbi dell’alimentazione, si arriva a un punto di non ritorno. Da lì in poi, o si finisce mani e piedi in un tunnel da cui è complicatissimo uscire, oppure ci si salva appena in tempo. Io ci sono riuscita». Il prezzo da pagare, però, è stato abbandonare la ginnastica ritmica. Per sempre. Ilaria Barsacchi oggi ha 22 anni e studia Lingue all’università. Dai 9 ai 16 anni ha dedicato la vita allo sport che amava, ha gareggiato in serie A e, quando l’amore per la disciplina è diventato un tormento, ha mollato.
Quando ha maturato l’intenzione di lasciare?
«A 15 anni avevo già avuto una prima crisi e volevo mollare. Poi ho deciso di continuare per un altro anno e mi sono impegnata fino al termine della stagione successiva. L’ultimo periodo, però, è stato un conto alla rovescia. Segnavo i giorni che mancavano al momento in cui sarei uscita definitivamente da quel mondo».
Come è arrivata a quel punto?
«Nella mia vita da ginnasta ho vissuto tanti anni stupendi. L’ultimo anno e mezzo, però, è stato devastante. Non riuscivo più a convivere con il peso di chi mi giudicava grassa e mi chiedeva di dimagrire. Capivo che il mio rapporto con il cibo stava diventando malato. Fino a quando mi sono resa conto che l’unico modo per “salvarmi” era fare un passo indietro. E l’ho fatto».
Anche lei vittima del quadernino?
«Venivamo pesate quasi tutti i giorni in cui ci allenavamo e il quadernino era lo strumento su cui le insegnanti annotavano l’andamento del peso. Ma non era tanto il quaderno in sé il problema, era il sentirsi giudicata e inadeguata».
A maggior ragione in un momento così delicato come l’adolescenza.
«Ricordo che speravo che le prime mestruazioni non mi arrivassero mai. Vissi male il primo ciclo e la crescita del seno. Il mio corpo stava cambiando, come era normale, ma non accettavo queste forme nuove. E il giudizio mi faceva male».
Quanto pesava?
«In quel momento circa 38 kg per 158 centimetri d’altezza. Ero anche dentro le severissime tabelle russe — che ho scoperto di recente, all’epoca non le conoscevo e nessuno me ne aveva mai parlato —, ma sembrava non fosse mai abbastanza. Sapevo di non essere grassa, ma ormai ero entrata nell’ottica di dover dimagrire. E per questo, con mia madre, sono andata anche da un nutrizionista».
Cosa le ha detto?
«Che avevo il 10% di massa grassa e non dovevo perdere peso. Mi ha dato una dieta, ma mi sembrava di mangiare uno sproposito rispetto a quello a cui ero abituata».
Tipo?
«Per alcune allenatrici, il menu prevede solo pollo e insalata».
Anche lei ha fatto uso di lassativi?
«Sì, meno di Nina e Anna, ma li compravo anche io. Di tanto in tanto li usavo, quando mi vedevo gonfia o mi sentivo grassa. Compravo anche delle pillole dall’erboristeria per dimagrire, ma alla lunga mi sono resa conto che non servivano a nulla».
La denuncia di Nina Corradini: «La coach ci umiliava per non farci mangiare»
E il rapporto col cibo com’era?
«Odio e amore. Ho attraversato la fase del controllo spasmodico della quantità di calorie di ciascun alimento, a volte non mangiavo il pranzo che mi preparava mia madre o mangiavo furtivamente un biscotto. Poi c’era il periodo in cui mi abbuffavo e, subito dopo, ero travolta dai sensi di colpa. Qualche volta ho provato anche a vomitare. Per fortuna non ci sono riuscita».
Questo la condizionava anche nell’allenamento e in gara?
«Non stavo più bene. Una volta avvertivo un forte dolore al piede. Continuavano a ripetermi che il problema fosse il peso. Dopo una gara, la peggiore della mia vita, è arrivata la prova che non era così».
LE DENUNCE DELLA GINNASTICA
Giulia Galtarossa: «Mi chiamavano maialino»
Il ministro Abodi: «Le medaglie non devono coprire comportamenti inadeguati»
Anna Basta: «Mi volevano sempre più magra, ho pensato al suicidio»
Nina Corradini: «L’allenatrice ci umiliava per non farci mangiare»
Cioè?
«Frattura da stress del metatarso. A occhio nudo non si vedeva nulla, ma dopo una risonanza, fatta a mie spese, la diagnosi è stata chiara. In quel momento ho provato una strana felicità: voleva dire che non era colpa mia e del mio peso, c’era un problema vero».
Come lo gestì?
«Mi fermai: avevo bisogno di terapie e riposo. Durante quello stop arrivò il primo ciclo mestruale. Quando ripresi ad allenarmi si fermò per poi tornare subito dopo aver smesso».
È allora che ha cominciato a maturare la decisione di smettere?
«Si, perché non ero più felice di fare qualcosa che avevo amato fino a quel momento. Ero consapevole dei miei limiti e lo sono tutt’ora, ma non avere più il piacere di competere in quello che continuo a ritenere uno sport bellissimo, è un’altra cosa. E, dal giorno in cui ho lasciato, non ho voluto saperne più nulla. Non ho allenato, non ho guardato più una gara, niente di niente. È un capitolo chiuso della mia vita».
Non ci ha mai ripensato?
«No, ma sono comunque grata alle tante persone che ho incontrato nel mio percorso perché la ginnastica mi ha regalato anche tanti momenti meravigliosi ed è stata un pezzo importante del mio percorso di crescita. Non voglio puntare il dito contro nessuno, spero solo che quella parentesi di sofferenze che ho vissuto io non siano costrette a viverla anche altre bambine e ragazze».
Cosa direbbe a un’allenatrice e a un genitore di una bambina che vuole fare ginnastica ritmica?
«Che serve più dialogo. Che certi metodi che derivano dal passato e da altre culture sono nocivi. E ai genitori che non devono abbandonare i figli per soddisfare la propria ambizione. Ho visto mamme e papà chiudere gli occhi dietro la promessa che le figlie sarebbero diventate campionesse. E fatto anche peggio di certe allenatrici. La salute, mentale e fisica, delle ragazzine è più importante di qualsiasi altra cosa».
Da “Repubblica” il 2 novembre 2022.
Dopo 10 anni l'ex campionessa mondiale di ritmica Giulia Galtarossa rompe il silenzio sulle umiliazioni e sugli abusi psicologi subiti dallo staff della Nazionale italiana. A convincerla le denunce affidate a Repubblica di Nina Corradini e Anna Basta. «Una volta - racconta - le allenatrici fecero schierare tutte le compagne davanti a me, poi una di loro mi chiese di fare un passo indietro e di girarmi di spalle per far vedere quanto fosse grosso il mio sedere».
Oggi Giulia, che con le Farfalle ha vinto due Mondiali, ha 31 anni e non ha dubbi: «Se mi chiedono di riconsegnare le medaglie vinte nella ritmica per riavere la felicità non avrei dubbi: direi di sì. L'esperienza all'Accademia di Desio mi ha rovinato la vita». L'ex atleta di Padova ancora subisce le conseguenze del trattamento ricevuto.
«Appena ho lasciato la ginnastica ho iniziato un percorso in un centro per i disturbi dell'alimentazione: mi hanno diagnosticato una sindrome da alimentazione incontrollata. Una malattia che ha condizionato la mia vita sociale, per tanto tempo non sono uscita di casa». Eppure Giulia nel 2012 aveva fatto presente alle allenatrici il proprio disagio: «Ma tutte hanno minimizzato il problema».
A Desio sapevano che lei non stava bene?
«Sì, ho anche pregato le allenatrici di mandarmi via. Loro però hanno fatto leva sul mio senso di colpa, facendomi pesare il fatto che la Federazione avesse fatto degli investimenti su di me. In realtà avevano bisogno solo di una pedina in più. Mi hanno fatto il lavaggio del cervello, per tanto tempo ho pensato fosse colpa mia e credevo davvero di essere grassa e brutta. L'unica mia colpa invece è essere rimasta in silenzio fino a oggi».
Perché in 10 anni non ha mai denunciato?
«Una parte di me voleva farlo, ma l'altra aveva paura. Ero indecisa fino a poco fa, poi sono venuta a sapere che le allenatrici della Nazionale ancora ieri (lunedì, ndr ) continuavano a dire in giro che i disturbi alimentari non esistono. Sono solo scuse, dicono, perché le ginnaste si sfogano sul cibo quando non arrivano ai risultati. Penso sia troppo».
Quando è entrata in Nazionale?
«A 16 anni, era il 2008. Nel 2009 mi hanno promosso titolare. Nella mia vecchia società si respirava un clima diverso, invece a Desio mi svegliavo ogni mattina con la consapevolezza che mi avrebbero pesato. L'aspetto peggiore erano i commenti che seguivano il controllo.
Sono arrivate a pesarmi anche 4 volte al giorno: era diventato un problema anche bere mezzo litro d'acqua dopo ore di allenamento. Una volta un'assistente dello staff mi ha urlato in un ristorante, un posto convenzionato con la federazione. Stavo sbucciando una pera. Entra e mi guarda con occhi sgranati, per poi dirmi: "Giulia, tu ti stai mangiando una pera?". Non potevo. Uno o due etti cambiavano la giornata in palestra. Una volta mi hanno dato una dieta e alla fine c'era scritto un messaggio per me: "Abbiamo un maialino in squadra"».
Avrebbe potuto partecipare alle Olimpiadi del 2012.
«Avevano una grande considerazione di me, ma poi la fiducia mi crollava quando mi dicevano che ero "inguardabile" per 2 etti in più. L'ho saputo un anno prima che non avrei partecipato ai Giochi Olimpici. Mi hanno messo fuori dai titolari dopo il Mondiale del 2011 perché avevo 2-3 chili in più».
Dopo qualche mese però è tornata a Desio come assistente nello staff tecnico.
«Io ero nell'aeronautica militare, quando sono stata chiamata erano 3 mesi che non uscivo di casa, avevo preso 25 chili e pesavo 90 chili. Ero depressa, non parlavo con nessuno, mangiavo di notte. Quella chiamata fu la luce, anche perché era un'occasione d'oro per riscattarmi e tornare a credere in me stessa. Però, in quel ruolo, mi sono sempre rifiutata di pesare le ginnaste. Mi sono battuta più volte, invano, fino a quando ho rivissuto delle scene brutte».
Oggi Andrea Abodi, ministro dello sport, incontrerà Malagò e il presidente della Federginnastica.
«La Federazione, per come la penso io, sta cercando di pararsi. Sarà costretta a fare qualcosa e quindi qualcosa succederà. Qualcuno sapeva cosa accadeva realmente, ma altri sono rimasti sconvolti: non sono tutti coinvolti».
Da “la Repubblica” il 31 ottobre 2022.
Non più. L'ex Farfalla azzurra di Roma non è l'unica a fare luce sulle pressioni psicologiche e le umiliazioni subite durante i due anni trascorsi a Cesano Maderno con Federginnastica. Dopo il suo racconto a Repubblica , parla anche un'altra atleta. Si chiama Anna Basta, è bolognese e ricorda bene le notti passate in piedi, a piangere.
Per due volte, l'ex stella della Nazionale di ritmica ha pensato al suicidio: «Una volta non ho agito perché è entrata una persona in stanza e mi sono scossa. La seconda ero in mezzo alla gente». Le sue memorie si ricavano dalle vecchie chat, dagli scambi con la madre su WhatsApp. È il 2019 e una mattina, alle 9.13, dopo non aver chiuso occhio (nelle orecchie «le urla delle allenatrici per il mio corpo») l'ex ginnasta si sfoga così: «Ho sognato la bilancia, un incubo».
Altro messaggio: «So che in 2 giorni posso tornare al peso di prima ma non devo toccare cibo. Significa che appena un giorno mangio una fetta di carne in più è la fine ». Poi, in un successivo momento di depressione, la confessione più grave: «Volevo fare ginnastica, non volevo soffrire e basta». Qualche settimana più tardi, alle 20, aveva ansia per le umiliazioni che avrebbe potuto ricevere la mattina seguente dopo il controllo della bilancia: «Sono molto gonfia e ho paura, anzi paurissima per domani».
La Farfalla adesso vola sopra il silenzio che cela il trattamento subito: «Appena ho cominciato a parlare ho incrinato molti rapporti, ci sono state reazioni brutte però io vado avanti, lo faccio per le bambine». La sua storia, così come quella di tante altre protagoniste che ora stanno cominciando a parlare, è infatti la stessa di molte adolescenti. «Per tanto tempo ho sofferto di attacchi di panico», racconta Anna, entrata nell'Accademia di Desio a 15 anni, nel 2016 e rimasta lì fino al 2020: «Nina usava i lassativi? Io prendevo le Dieci Erbe, delle pastiglie che aiutano ad andare in bagno. Il problema è che le ho usate in modo improprio».
Per rivivere l'inferno di Anna è necessario leggere i messaggi che si scambiava con la mamma. Screenshot datati 2019: «Mi dispiace che il mio corpo sia così». Ancora: «Mi rendo conto di essere arrivata a un punto in cui non vivo bene con me stessa, in cui non riesco a guardami allo specchio senza distogliere lo sguardo incazzata, in cui ho paura che le persone mi giudichino sempre», «vado a dormire e prego di essere felice il giorno dopo, senza ansie».
La mamma tentava di rassicurarla a distanza: «Vivevamo 11 mesi in ritiro e i miei genitori non pensavano fosse così grave la situazione, anche perché quando la vedevo tentavo di sdrammatizzare. Hanno capito davvero la realtà solo quando ho abbandonato l'Accademia e sono tornata a Bologna. Non pensavano di vedermi così distrutta».
Una volta a casa, Anna ha cominciato ad avere problemi con il cibo e ha iniziato un percorso con uno psicologo. Adesso sui social, sempre per sensibilizzare i giovani su questo argomento anche in relazione al Disturbo del comportamento alimentare, ha attivato una rubrica: "Non siete soli". «Con una nutrizionista pubblichiamo post sui disturbi alimentari. Ne hanno bisogno molti adolescenti, non solo del mondo della ritmica: i social ti inducono al perfezionismo», spiega Anna.
Purtroppo i casi di Nina e Anna non sono isolati e le vittime di abusi mentali sono anche ex ginnaste che non sono arrivate al loro livello. Vanessa, sotto il profilo di Anna, per esempio, si confessa così: «La ritmica mi ha rovinato la vita. Mi sono ammalata a 13 anni di anoressia, era il 1997, facevo agonismo. La mia istruttrice mi costrinse ad arrivare a 35 chili per 157 centimetri d'altezza. A 16 anni il primo infarto. Oggi ne ho 37, la malattia mi ha danneggiato il cuore e il corpo». Imma, invece, faceva danza classica: «Non dimenticherò mai le parole della mia ex insegnante: "Avete dei sederi enormi", "vi si vede tutto", "sembrate grasse". Ha creato paure e comportamenti non sani in ragazze oggettivamente magre. L'umiliazione è qualcosa che non si dimentica».
All'intervista di Nina Corradini, la Federginnastica ha risposto ieri con un comunicato: «Non tolleriamo alcuna forma di abuso. Lo sport, con la ginnastica in primis, è rispetto della persona, celebrazione del talento e del benessere. Sono state date disposizioni perché siano immediatamente informati la Procura Federale e il Safeguarding Officer per gli accertamenti e le azioni di rispettiva competenza.
Su questi profili la Federazione è impegnata a migliorare sia l'informazione che la prevenzione. Da poco è iniziato un progetto pilota e istituito il Safeguarding Officer, organo nuovo, con competenze specifiche, psicologiche e legali. Invitiamo tutte le ginnaste e i ginnasti, i tecnici e i dirigenti a farsi avanti e chiunque abbia informazioni contatti la Fgi, la quale garantirà riservatezza e ascolto». Anna Basta, nel 2020, aveva denunciato tutto «ai piani alti», ma «nessuno ha mai fatto nulla».
Jury Chechi compie 53 anni: le medaglie, la giravolta politica, la moglie «invisibile» del «Signore degli anelli». Lorenzo Nicolao l'11 Ottobre 2022 su Il Corriere della Sera.
E’ stato forse il più grande ginnasta italiano di sempre: senza infortuni e problemi con le giurie avrebbe dominato i Giochi nella sua specialità (gli anelli) per almeno 12 anni
Nome da astronauta
Compie 53 anni una delle glorie della ginnastica italiana, quel Jury Chechi di Prato che venne chiamato così dai genitori in onore del cosmonauta russo Gagarin. Piccolo e magro già da bambino, non lascia presumere che il suo futuro sia lo spazio, tantomeno una carriera sportiva. Invece, seguendo le orme della sorella che frequentava una palestra di ginnastica artistica, il ragazzo si fa presto notare e da quando aveva sette anni inizia a collezionare una lunghissima scia di successi.
Leggenda della ginnastica
A otto anni vince il suo primo Campionato Regionale Toscano, a 15 entra nel giro della nazionale juniores e, trasferitosi a Varese, si specializza nella disciplina degli anelli. Tra i 19 e i 25 vince sei titoli italiani consecutivi, per poi laurearsi campione dei Giochi del Mediterraneo, delle Universiadi, di quattro titoli europei e di cinque mondiali. Chechi diventa dominatore assoluto della disciplina nel corso degli Anni Novanta, tanto da essere ribattezzato il «Signore degli Anelli», richiamo metaforico al celebre romanzo fantasy di Tolkien. La sua impresa più importante resta però la medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, 72 anni dopo il trionfo di Francesco Martino a Parigi 1924.
Il bronzo ad Atene a 34 anni
Per varie complicazioni fisiche Chechi annuncia il ritiro nel 1997, per poi tornare due anni dopo con l’obiettivo di conquistare una medaglia ai Giochi di Sydney 2000. La rottura del tendine del bicipite brachiale sinistro lo costringe però a saltare il torneo, con il rischio che stavolta abbandonasse definitivamente la ginnastica agonistica. Nel 2003 il papà supera una malattia, motivo per il quale Jury aveva promesso di tornare a gareggiare, nell’eventualità di una guarigione. Da portabandiera all’età di 34 anni partecipa così ai Giochi di Atene. Spedizione nella quale conquistò il bronzo ma con un gran seguito di polemiche. Il successo del campione di casa Dimosthenis Tampakos venne contestato platealmente da un (platonico) riesame della gara, con un giudizio arbitrale imparziale che dimostrò come l’oro doveva andare proprio al campione italiano.
La tv
Oggi Chechi appare spesso in televisione, avendo avuto esperienze sia come ospite, sia come conduttore. Dopo aver preso parte al programma «Ninja Warrior» in onda sul canale satellitare Gxt, debutta nella stagione televisiva 2006-07 nella sesta edizione del talent show «Amici» condotto da Maria De Filippi. Un grande successo personale nella veste di supervisore degli allievi della ginnastica. Ai Giochi di Londra del 2012 lavora invece come commentatore per Sky Sport, per poi condurre sempre sulla stessa piattaforma la trasmissione «Più Forza nella Vita» l’anno successivo. Si ripeterà alle Olimpiadi di Tokyo su Rai Due in compagnia di Sara Simeoni, commentando le gare durante il programma il «Circolo degli Anelli», con grande successo di critica e di pubblico.
La politica
A differenza del suo successo sul piccolo schermo, Jury Chechi ha conosciuto diversi alti e bassi nella sua unica esperienza politica fino a questo momento, quando nel 2009 si fa eleggere come consigliere a Prato, nella sua città, con il Partito Democratico, per poi appoggiare il centrodestra (che aveva vinto), con il sindaco Roberto Cenni (Forza Italia, chiamato allora Popolo della Libertà) che proverà a nominarlo assessore allo Sport, segno di un evidente passaggio di fatto all’altro schieramento. Terminato il mandato, fa ritorno tra le fila del Pd, ma senza più la stessa credibilità. «Sono di sinistra, ma Cenni mi convince», aveva detto il campione all’epoca, precisando sempre di «aver rifiutato quella carica ma accettato volentieri di entrare a far parte dello staff di consiglieri del sindaco di centrodestra».
Lo spot Marvel
In tempi più recenti, nel 2021, viene ingaggiato dalla Marvel per la promozione del film Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli, attraverso un trailer che lo vede come protagonista, pubblicato il 7 settembre. Il campione italiano viene accomunato all’eroe del film per via del loro destino legato agli anelli, elemento che permetterà al protagonista di fare la differenza per riuscire a superare le difficoltà. «Gli anelli hanno cambiato il destino di Shang-Chi, ma anche il mio, perché mi hanno permesso di credere in me e di provarci fino in fondo, prima ancora di vincere» spiegò all’epoca Chechi.
Contro il ginnasta russo della Z
In tempi recenti, Jury Chechi ha criticato duramente il ginnasta russo Ivan Kuliak per aver mostrato la «Z» russa (simbolo della vittoria per l’esercito del Cremlino dall’inizio del conflitto in Ucraina) mostrata sul petto durante l’assegnazione delle medaglie su un podio, quando era stato un rivale ucraino a vincere la gara. «Un gesto da imbecille», aveva detto Chechi, aggiungendo di voler andare a Kiev per aiutare le persone travolte dal conflitto. «Non so come ma mi fa malissimo». Tra i provvedimenti presi dalle federazioni sportive internazionali, il campione non è però mai stato d’accordo con l’esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle competizioni.
L’amicizia con Antonio Rossi
A differenza di tanti atleti Chechi ha tessuto molte amicizie anche con sportivi divenuti celebri in ambito diverso dal suo. Sicuramente quella più nota è con Antonio Rossi, ex canoista, medaglia d’oro olimpica come Jury. Con lui è stato protagonista di tante iniziative benefiche, dalla lotta al Parkinson all’aiuto ai disagiati.
La compagna Rosella e i due figli
La relazione con la moglie Rosella Sambruna dura da anni, ma lei non è quasi mai apparsa in pubblico. Entrambi ginnasti, ma non con i medesimi risultati, si sono conosciuti alla fine degli Anni Novanta, quando Jury ancora gareggiava. Entrambi di Prato, dove la coppia risiede attualmente, dalla loro unione sono nati Dimitri, nel 2003, e Anastasia, nel 2005.
Jury Chechi: «L’allenamento calistenico è il mio segreto contro il decadimento, temo di invecchiare». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 4 Dicembre 2022.
L’ex ginnasta: «Grazie alla fama ho vinto gare senza meritarlo. Gli abusi nel mondo della ginnastica? Mi pare strano che la federazione sia caduta dal pero dichiarando di non saperne nulla»
Il Signore degli Anelli è sul palco, illuminato da un riflettore. Parla alla platea, spiega come i valori dello sport possano aiutare nel lavoro e nella vita. Jury Chechi , uomo-simbolo della ginnastica azzurra, olimpionico e pluri-iridato, è un bravissimo comunicatore, a volte perfino istrionico. Gli «speech» per i dipendenti delle aziende sono diventati — assieme a un agriturismo nelle Marche e a un’Academy ginnica — la sua nuova dimensione. Venti-trenta minuti, non di più. Condotti con carisma e sottolineati da applausi scroscianti quando conclude con la stessa bravura con cui usciva dagli attrezzi e atterrava sulle pedane.
Jury Chechi o Chechi Jury, come direbbe Michele Foresta, alias Mago Forest?
«Michele è un amico. Un giorno mi ha chiesto se poteva usare quella gag. E io: “Ma se l’hai già sfruttata un sacco di volte!”. Comunque, va bene Jury Chechi-Chechi Jury: così, uniti».
Prendiamo il toro per le corna: la ginnastica è nella bufera per gli abusi denunciati da alcune ex atlete della ritmica. Lei che idea s’è fatto?
«Aspetto la conclusione delle indagini. E se fosse tutto vero si dovrebbe trovare una soluzione affinché certe cose non si ripetano. Mi pare comunque strano che la federazione sia caduta dal pero dichiarando di non saperne nulla».
Ai suoi tempi ci sono stati episodi di body shaming?
«A livello maschile dico di no. Peraltro per tutti noi ginnasti il rapporto con il cibo è laborioso e complicato».
Ha lo stesso nome di Gagarin: ha mai pensato di fare l’astronauta?
«Mai. Sognavo di fare il ginnasta per vincere i Giochi olimpici: avevo le idee molto chiare fin da bambino».
Ma lassù, agli anelli, non è un po’ come andare nello spazio?
«No, è diverso: hai il controllo totale della gravità, del corpo. Nello spazio, invece, galleggi».
Deve molto a sua sorella.
«Se non avesse praticato la ginnastica, non avrei nemmeno iniziato. L’ho vista allenarsi e dissi che avrei voluto provare anch’io. Mia madre mi portò in palestra e così è nato tutto».
Aveva qualche alternativa?
«Il ciclismo: papà era appassionato. Io sono stato “saronniano”, ma sono amico pure di Francesco Moser».
I sacrifici imposti dalla ginnastica sono spiegabili?
«La verità è che non ho mai fatto sacrifici, ma solo scelte: a 14 anni ho deciso di trasferirmi a Varese perché lì c’erano strutture e condizioni per compiere un salto di qualità. Sacrificio è quando devi fare qualcosa che non ti va: io ho invece sempre fatto ciò che mi piaceva, usando però sempre rigore e disciplina».
Perché alla fine ha puntato sugli anelli?
«All’inizio ero più bravo al corpo libero. Invece dopo la rottura del tendine d’Achille, che mi è costata la rinuncia ai Giochi di Barcellona, mi sono dovuto specializzare negli anelli. Il tendine era riattaccato, ma non era più lo stesso».
La ginnastica è soggetta alla valutazione dei giudici. E non sono mancate le polemiche. Lei ha sempre avuto la sensazione di essere stato valutato in modo corretto?
«No. E non sempre gli errori sono stati commessi in buona fede, il che sarebbe stato in qualche modo giustificabile».
Stiamo parlando dei Giochi di Atene e del trattamento riservato alla medaglia d’oro Dimosthenis Tampakos, guarda caso un greco?
«Ad esempio... Quello è stato proprio uno sbaglio fazioso, voluto, in malafede. D’altra parte bisogna anche saper accettare certi episodi».
Lei ha detto che sarebbe stato da premiare con l’oro il bulgaro Jordan Jovtchev e non Jury Chechi.
«Sì, meritava di più lui, medaglia d’argento davanti a me».
È vero che la fama fa grado e che un campione è oggetto di benevolenza da parte dei giudici?
«Sì, può capitare l’opposto rispetto al cliché abituale della decisione contraria. Anche a me è successo di vedere perdonati alcuni errori: ho vinto gare che forse avrei dovuto perdere».
Due Giochi, Barcellona e Sydney, persi per infortunio. Quanto è difficile convivere con i duri momenti?
«Per me è stato tutto più facile perché alla fine ho comunque raggiunto gli obiettivi che mi ero prefissato. Ma per ripartire è servito uno sforzo mentale più duro di quello fisico».
Il professor Perugia dopo il secondo stop aveva pronosticato la fine della carriera: gli ha mai rinfacciato la previsione?
«È stato lui a fare ammenda, rammento ancora oggi la sua telefonata: ha confessato che non credeva nel recupero».
La notte dell’oro olimpico ad Atlanta era un momento da predestinato?
«Diciamo che il mio talento doveva finalmente trovare la giusta direzione. Predestinato? Non lo so, ma la differenza l’ha fatta il lavoro».
Non riusciva a fare pipì e ad assolvere al controllo antidoping: è rimasto sul luogo del trionfo fino alle 3 del mattino.
«Da giorni bevevo pochissimo! Volevo andare a dormire e imploravo di darmi la birra, che è diuretica. No, la birra no, ribattevano. Alla fine me ne hanno date due dita: sono bastate».
Aveva promesso a papà di fare di tutto per andare ai Giochi 2004.
«Era stato male, era finito in coma farmacologico. Non riuscivo a comprendere se capisse o meno. Ma ci facemmo una promessa reciproca: se guarisci, io non mi ritiro e provo a tornare all’Olimpiade. Lui ci teneva molto, ne avevamo già parlato prima che si ammalasse. Per me è stato uno stimolo determinante: nella vita le motivazioni sono tutto».
I suoi figli saranno a loro volta assi della ginnastica?
«Hanno provato, però non gliene frega nulla. Anastasia fa equitazione ad alto livello, è molto brava nel completo. Dimitri, invece, s’era dedicato allo judo ed era forte. Però un’ernia genetica l’ha costretto a smettere».
Jury Chechi s’è dato pure alla politica: ma è stato criticato quando ha sostenuto il candidato sindaco di Prato del centro-destra.
«Da giovane sono stato consigliere comunale per il centro-sinistra e per quell’area ho quasi sempre votato. Ma non ho ideologie particolari, io guardo al valore di chi è in lizza: voto le persone e i programmi».
Anche i figli hanno nomi russi: però lei ha attaccato il ginnasta Ivan Kuliak che ha messo sulla tuta la Z diventata simbolo della guerra in Ucraina. Non è una contraddizione?
«I nomi nascono dal fatto che mi piacciono i russi. Ma questo prescinde da altre valutazioni, ad esempio condannare Putin per l’invasione».
Quale personaggio del Signore degli Anelli vorrebbe essere?
«Boromir, che nella saga rimane dalla parte delle forze del Bene a differenza di altri personaggi».
È molto legato ad Antonio Rossi, anche per iniziative benefiche.
«Antonio è un amico. Anzi, è un fratello. Qualsiasi cosa facciamo assieme è utile e pure divertente. E ci piace aiutare chi ne ha bisogno».
Ci racconta la sua «toscanità»?
«Amo la mia regione e sono molto toscano. Ma mi sento anche marchigiano, lombardo, siciliano... Non capisco provincialismi e campanilismi».
Teme il decadimento fisico?
«Assolutamente sì. Ci lavoro giornalmente per combatterlo, anche se prima o poi dovrò affrontarlo».
Lei è un fautore dell’allenamento calistenico: ce lo spiega?
«Unisce la forza alla bellezza del gesto. Propone gli esercizi di base della ginnastica artistica, adatti a tutti. Eseguiti al meglio, evitano il decadimento fisico di cui parlavamo».
Ha girato uno spot per «Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli», film della Marvel.
«Di pubblicità ne faccio poca e solo se mi appaga. Mi piaceva l’idea degli anelli, quando me l’hanno proposto ho subito aderito».
Qual è stato il miglior Jury Chechi televisivo?
«Secondo me deve ancora arrivare. Posso imparare di più».
Ma il Circolo degli Anelli, durante i Giochi di Tokyo è stato un trionfo. E ora è in onda per il Mondiale di calcio.
«Penso che per fare buona televisione bastino un po’ di competenza e la correttezza».
Ha fatto anche l’arbitro nel remake di Giochi senza Frontiere.
«Dissi sì, amavo quella trasmissione degli anni 60 e 70. Purtroppo quando ho visto il format ho capito che era un po’ diverso da quello precedente. Difatti dopo un’edizione è finito tutto. Peccato: sarebbe stato bello riproporre i Giochi senza Frontiere dell’epoca».
A 53 anni ha una forma invidiabile. Deduzione: Jury Chechi a tavola non sgarra.
«No, sgarro eccome. Adoro la pizza: quando eccedo è per quella».
I Giochi olimpici sono diventati qualcosa di ipocrita? Dovrebbero celebrare la pace, però il mondo è spesso in guerra.
«Purtroppo è vero. Ma abbiamo un bisogno enorme di portare ancora avanti il messaggio olimpico: lo spirito dei Giochi è quanto di più importante ci sia».
Si candiderà mai alla presidenza del Coni?
«Non ho capacità e caratteristiche per fare la politica sportiva. Lo dico con dispiacere e orgoglio. Avrei potuto candidarmi a fare il presidente di una federazione, cambiando lo Jury Chechi che sono. Ma non è giusto e non lo faccio».
Sofia Raffaeli. Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 18 settembre 2022.
Crudelia De Mon alle clavette, Principessa Xena al nastro, acrobata del Cirque du Soleil al cerchio e infine se stessa, Sofia Raffaeli, alla palla, protagonista dell'esercizio sublime che ha stroncato le avversarie in un'affollatissima Armec Arena. Ieri, nel giorno di Santa Sofia e per giunta nell'omonima capitale bulgara, la 18enne marchigiana si è trasformata in regina dello sport italiano.
Nell'arco di un'ora e mezza, con una versatilità alla Brachetti, Sofia è diventata la prima azzurra della storia a vincere il titolo mondiale nel concorso generale, la disciplina più completa della ginnastica ritmica, portando a casa la quarta, su cinque, medaglia d'oro in palio nella rassegna iridata. E se non bastasse, ha regalato al primo colpo il pass per la nostra Nazionale per i Giochi di Parigi 2024: a quelli di Tokyo lei non venne convocata.
Eppure, ripreso fiato, davanti ai microfoni ha spiegato di «non essere soddisfatta del concorso per non aver saputo fare tutto quello che so fare: ripulire, lucidare gli esercizi come Julieta (Cantaluppi, la coach di una vita e il suo mito ginnastico di bambina, ndr) mi ha insegnato a fare in allenamento». La Formica Atomica marchigiana è tutta qui: voracità agonistica, applicazione maniacale, la perfezione vista come un asintoto a cui avvicinarsi senza mai raggiungerlo per poter sempre far meglio.
All'esordio con le clavette (al suono di Call me Cruella) Sofia ha perso l'attrezzo nell'ultimo movimento cominciando la gara dal terzo posto come nella prova individuale e lasciando alle avversarie (la tedesca Varfolomeev e l'eroina di casa Nikolova) la speranza di poter prendere il largo. Bravissima al nastro, brava ma insoddisfatta nel cerchio dove ha rinunciato a un rischio dopo aver lanciato male (tutto è relativo) l'attrezzo, Sofia ha cominciato a far volare la palla sapendo di dover puntare a 33.450 punti per superare la tedesca. Ne ha fatti 34.250.
La prova lei la racconta così: «Sapevo che ce l'avrei fatta, sapevo che l'unico rischio era quello di strafare. Sono entrata in pedana gasata, ho rinunciato volontariamente ad alcune delle mie maestrie e delle mie prese: insomma sono andata liscia liscia. Sì, potevo fare cose più difficili e più belle, ma va bene così».
Va decisamente bene così per una ragazzina di 18 anni che ha vinto quasi tutte le medaglie disponibili sia agli Europei di Tel Aviv che a questi Mondiali, nell'anno della Maturità e dell'arruolamento in polizia, ed ha già trovato la voglia di iscriversi al corso di Laurea in Psicologia scelto perché «la mente umana e i suoi segreti mi affascinano».
C'è tempo per i ringraziamenti, ai genitori che le hanno costruito una palestra in salotto, al nonno Nello «taxista» da e per gli allenamenti, alla Ginnastica Fabriano che la ospita e dove passa più tempo che a casa. Poi un pensiero alle sue Marche che provano a rialzarsi dopo la tempesta.
Sofia Raffaeli oro nel concorso generale ai Mondiali di ginnastica ritmica. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 17 Settembre 2022.
La «formica atomica», 18 anni, conquista la quarta medaglia d’oro in questi Mondiali dopo palla, nastro, cerchio e il bronzo alle clavette. Suo anche il pass per le Olimpiadi di Parigi 2024
Crudelia De Mon alle clavette, Principessa Xena al nastro, acrobata del Cirque du Soleil al cerchio e infine se stessa, Sofia Raffaeli, alla palla, protagonista dell’esercizio sublime che ha stroncato le avversarie in un’affollatissima Armec Arena. Ieri, nel giorno di Santa Sofia e per giunta nell’omonima capitale bulgara, la 18enne marchigiana si è trasformata in regina dello sport italiano.
Nell’arco di un’ora e mezza, con una versatilità alla Brachetti, Sofia è diventata la prima azzurra della storia a vincere il titolo mondiale nel concorso generale, la disciplina più completa della ginnastica ritmica, portando a casa la quarta, su cinque, medaglia d’oro in palio nella rassegna iridata. E se non bastasse, ha regalato al primo colpo il pass per la nostra Nazionale per i Giochi di Parigi 2024: a quelli di Tokyo lei non venne convocata.
Eppure, ripreso fiato, davanti ai microfoni ha spiegato di «non essere soddisfatta del concorso per non aver saputo fare tutto quello che so fare: ripulire, lucidare gli esercizi come Julieta (Cantaluppi, la coach di una vita e il suo mito ginnastico di bambina, ndr) mi ha insegnato a fare in allenamento». La Formica Atomica marchigiana è tutta qui: voracità agonistica, applicazione maniacale, la perfezione vista come un asintoto a cui avvicinarsi senza mai raggiungerlo per poter sempre far meglio.
All’esordio con le clavette (al suono di Call me Cruella) Sofia ha perso l’attrezzo nell’ultimo movimento cominciando la gara dal terzo posto come nella prova individuale e lasciando alle avversarie (la tedesca Varfolomeev e l’eroina di casa Nikolova) la speranza di poter prendere il largo. Bravissima al nastro, brava ma insoddisfatta nel cerchio dove ha rinunciato a un rischio dopo aver lanciato male (tutto è relativo) l’attrezzo, Sofia ha cominciato a far volare la palla sapendo di dover puntare a 33.450 punti per superare la tedesca. Ne ha fatti 34.250. La prova lei la racconta così: «Sapevo che ce l’avrei fatta, sapevo che l’unico rischio era quello di strafare. Sono entrata in pedana gasata, ho rinunciato volontariamente ad alcune delle mie maestrie e delle mie prese: insomma sono andata liscia liscia. Sì, potevo fare cose più difficili e più belle, ma va bene così».
Va decisamente bene così per una ragazzina di 18 anni che ha vinto quasi tutte le medaglie disponibili sia agli Europei di Tel Aviv che a questi Mondiali, nell’anno della Maturità e dell’arruolamento in polizia, ed ha già trovato la voglia di iscriversi al corso di Laurea in Psicologia scelto perché «la mente umana e i suoi segreti mi affascinano».
C’è tempo per i ringraziamenti, ai genitori che le hanno costruito una palestra in salotto, al nonno Nello «taxista» da e per gli allenamenti, alla Ginnastica Fabriano che la ospita e dove passa più tempo che a casa. Poi un pensiero alle sue Marche che provano a rialzarsi dopo la tempesta.
Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 17 settembre 2022.
Tre medaglie d'oro: palla, nastro, cerchio. E una di bronzo alle clavette, «colpa» di due prese mancate durante un esercizio di grande difficoltà. A 18 anni Sofia Raffaeli da Chiaravalle, Ancona, ha già scritto la storia della ginnastica ritmica italiana.
Giovedì in Bulgaria, la poliziotta marchigiana è stata la prima azzurra a vincere un titolo mondiale individuale. Anzi, se n'è presi tre grazie a esercizi stupefacenti. Oggi Sofia tenterà l'assalto all'ultima medaglia, quella del concorso generale che offre il pass diretto ai Giochi di Parigi 2024.
Sofia, davvero si è costruita una palestra in casa per allenarsi anche dopo le otto ore quotidiane alla Ginnastica Fabriano?
«È successo durante il Covid: i miei genitori hanno fatto spazio in salotto e abbiamo montato una pedana uguale a quelle da competizione».
Immaginiamo per fare stretching o al massimo qualche volteggio.
«No, ci lancio anche nastri, palle e clave. Cerco di stare attenta ma il soffitto è basso e ogni tanto sbaglio. Ho rotto un lampadario e svariati soprammobili».
Compagne e allenatrice la chiamano «Formica Atomica» perché è instancabile.
«Quella che in tv sembra una fluidità totale è frutto di un lavoro enorme. La sequenza viene costruita pezzo per pezzo e se considerate che ogni movimento va moltiplicato per i quattro attrezzi a volte le otto ore non bastano».
Julieta Cantaluppi, la sua allenatrice, dice che è una passione feroce a renderla così resistente.
«È vero. Posso sembrare una perfezionista, una maniaca dell'allenamento. In realtà amo alla follia quello che faccio e ci metto tutta me stessa perché la ritmica ti punisce se non lavori tanto».
La parte più faticosa dell'allenamento?
«Ripetere lo stesso movimento centinaia di volte, fino a memorizzarlo. E poi incastrarlo con quello prima e quello dopo».
La palla che lei lancia altissima ed esce dal campo visivo della telecamera sembra non atterrare mai. Però poi ricade sempre sui suoi piedi o sulle sue mani.
«Sulla palla e in generale sugli attrezzi in volo mantieni un controllo visivo che devi mascherare per non rovinare l'estetica dell'esercizio. La cosa più difficile, che mi è successa giovedì con la bacchetta del nastro, è dover recuperare l'attrezzo a un centimetro dal suolo, prima che tocchi terra e scatti la penalità. Devi essere rapida e imperturbabile».
Cerchio, clavi, nastro, palla. Vero che viaggiate sempre assieme?
«Verissimo. Sono oggetti costruiti su misura, sulle misure delle mie mani. In aereo le palle andrebbero sgonfiate e il cerchio smontato. Ma si potrebbero danneggiare. Così prima di ogni volo chiamiamo la compagnia aerea e spieghiamo la situazione. Il cerchio lo affido alle hostess: non entra nella bagagliera».
L'attrezzo più difficile da maneggiare?
«Il nastro: è lunghissimo e non sai mai bene dove prenderlo».
Quanto conta il pubblico?
«Tantissimo prima per caricarti e dopo per premiarti o consolarti. Durante l'esercizio è come se isolassi solo il canale audio della musica, sono in trance».
Si sente diversa dai suoi coetanei?
«Sono consapevole di esserlo. Esco pochissimo e quasi solo con le mie compagne per una pizza o un gelato e senza mai fare tardi. Per allenarmi ho scelto di frequentare un liceo paritario (Scienze umane, ndr) in orari serali e mi sono appena iscritta a un corso di laurea online in psicologia. Ma la diversità non mi pesa: sto seguendo un mio percorso e ne sono orgogliosa».
Il suo tempo libero?
«Serie tv, qualche libro, chiacchiere con i miei. Niente social, tanto sonno per recuperare la fatica degli allenamenti».
Ha avuto notizie dell'alluvione nelle sue Marche?
«Sì e mi hanno profondamente colpito. Sono legatissima alla mia terra e la porto sempre nel cuore».
Sofia Raffaeli, doppio storico oro mondiale nella ginnastica ritmica. La Repubblica il 14 Settembre 2022.
La 18enne di Chiaravalle ha vinto prima il cerchio, poi la palla, ai campionati iridati di Sofia, un traguardo mai raggiunto nelle altre quattro occasioni delle azzurre sul podio. "Molto felice, ma non sono stata perfetta". Bronzo per Milena Baldassarri alla palla
Doppio storico oro per l'Italia ai Mondiali di ginnastica ritmica. Sofia Raffaeli, 18enne di Chiaravalle, ha vinto la prova al cerchio con un punteggio di 34.850 battendo la bulgara Stiliana Nikolova (33.400) e la tedesca Darja Varfolomeev (32.150). Subito dopo, si è ripetuta nella finale con la palla, superando Verfolomeev (34.100) e l'altra azzurra Milena Baldassarri (32.400). "Sono molto felice" è emozionata l'azzurra dopo i due ori, "ho lavorato tanto per arrivare pronta ai Mondiali, ho cercato di fare del mio meglio e sono riuscita a coinvolgere il pubblico e la giuria. Ma qualche piccola imprecisione c'è stata al cerchio, e alla palla qualche ripresa non è stata come doveva essere: alla fine sono riuscita a salvare tutto". Giovedì altre due finali per lei.
A livello individuale le azzurre erano salite sul podio mondiale quattro volte, senza conquistare mai l’oro: la prima è stata Samantha Ferrari, bronzo alle clavette ad Atene 1991, seguita da Alexandra Agiurgiuculese, bronzo alla palla a Sofia 2018, Milena Baldassarri (ottava nella finale vinta al cerchio in Bulgaria) argento al nastro a Sofia 2018, e dalla stessa Sofia Raffaeli, bronzo al cerchio a Kitakyushu lo scorso anno.
A Sofia l'azzurra della Polizia di Stato, che si allena alla Ginnastica Fabriano, al cerchio si è esibita sulle note di “Vai, vedrai” del Cirque du Soleil, ottenendo un punteggio di 17.500 di difficoltà, 8.600 di componente artistica e 8.750 di esecuzione, per un totale di 34.850. Una prestazione superiore di più di 4 decimi di punto sulla bulgara Nikolova, seconda. Ancora più ampio il divario nella prova con la palla, danzata sulla base di "Nemesis" di Benjamin Clementine: Sofia si è presentata col miglior punteggio in qualificazione, e ha inflitto 8 decimi a Varfolomeev, frutto di un 17.600 di difficoltà, 8.650 di componente artistica e 8.650 di esecuzione. “Sono emozionata, sono state strepitose” il commento di Emanuela Maccarani, ct della nazionale di ritmica.
Vincitrice della Coppa del Mondo 2022, agli Europei in Israele aveva già scritto la storia della ritmica azzurra salendo sul podio continentale ben tre volte. In quell'occasione aveva dedicato le medaglie alle allenatrici Julieta Cantaluppi e Kristina Ghiurova, figlia e madre con un passato da atlete di alto livello. Tornata in Italia, Sofia ha poi affrontato la maturità in scienze umane al Centro studi Leonardo Da Vinci a Civitanova.
Sergei Bubka: saltare più in alto dei propri limiti. L’astista sovietico fu il primo ad infrangere la muraglia dei 6 metri d’altezza: successivamente ingaggiò una strenua battaglia contro sé stesso. Paolo Lazzari il 18 Dicembre 2022 su Il Giornale.
L’inverno a Luhansk è un tappeto di ghiaccio che indolenzisce i pensieri. Oggi è un pezzo d’Ucraina, ma nel 1963 si trattava ancora di Unione Sovietica. Chiaro che, se uno può scegliere, è preferibile soprassedere all’idea di praticare uno sport all’aperto. Molto meglio l’indoor - che non sarà comunque come ciondolare in una Spa, considerate le fessure che crivellano quei palazzoni uniformi – ma comunque smussa il gelo che tenta di abbordarti.
Sergei Bubka inizia ad impastarsi le mani in posti del genere quando ha soltanto nove anni, cioè nel 1972. Ha due occhi svelti, di un azzurro granulare. L’incarnato esprime un pallore alabastrino. È gracile, ma ha ricevuto in dote dal corredo genetico genitoriale leve lunghe ed elastiche. Serve qualche anno per comprendere che il salto con l’asta è la sua personalissima autostrada per un futuro radioso, capace di dissipare le la nube di povertà che grava su questi luoghi austeri.
La spinta decisiva giunge da Vitaly Petrov, l’allenatore che più di chiunque altro riuscirà a scorgerne le doti, restando al suo fianco per tutta la carriera. Vitaly non fa altro che agitare e stappare: la pozione che sgorga fuori è effervescente. Specie perché Sergei abbina ad un fisico che inizia ad affastellare muscoli guizzanti una dose di determinazione incontrastabile.
Appare per la prima volta sulla scena internazionale ad Helsinki, in occasione di un meeting. Salta 5 metri e 70 e, a soli vent’anni, sfoggia già un’attitudine ferale. A molti non sfugge un particolare che marcherà una differenza cruciale con gli avversari: Bubka sembra impugnare un’asta più spessa e robusta di quella dei suoi oppositori. Con un gingillo del genere lo spazio di manovra si comprime terribilmente e le spie luminose lampeggiano il rischio errore in sequenza. Quell’arnese pretende di essere domato ricorrendo ad un mix perfetto tra forza, abilità e talento.
Lui sa addomesticare anche i pessimisti. Si mormora, nell’ambiente, che il sogno dei 6 metri d’altezza sia destinato a rimanere tale. Il ragazzo li ascolta sbadigliando: a Parigi, il 13 luglio 1985, infrange l’ostacolo diventando il primo atleta nella storia dell’umanità a riuscirci. Da lì in poi sarà una corsa contro sé stesso. Perché Sergei sa che surclassare gli avversari è un’esperienza godibile, ma è altrettanto conscio del fatto che un atleta del suo lignaggio deve nutrirsi di sfide costanti.
Così l’obiettivo si sposta sempre un po' più in là, i centimetri si allungano, l’adrenalina festeggia nelle vene. Bubka sa anche un’altra cosa: che la Federazione Sovietica slaccia i cordoni della borsa quando uno dei suoi atleti la glorifica. Tra il 1984 e il 1988 migliora gradualmente il suo record, monetizzando quella spinta verso l’alto, quel duello infinito alla ricerca della migliore versione possibile di sé stesso.
Nel 1988, a Nizza, il suo corpo dinoccolato fluttua oltre un’asticella collocata a 6,06 metri d’altezza. Poco dopo ci sono le Olimpiadi di Seoul e tutti sono persuasi dal fatto che, a questo punto, riuscirà ad afferrare l’impensabile soglia dei 6 metri e 10 centimetri. Non ci riesce, ma vince comunque un oro.
L’impresa è solo rimandata: Sergei leviterà in aria oltre quella fatidica altura nel 1991, a San Sebastian, in Spagna. Un anno dopo le Olimpiadi di Barcellona gli infliggeranno una dilaniante delusione: nemmeno sul podio, per via di un calo di tensione. Umane fenditure sul dorso di un cyborg dell’atletica. Nel ’94, mentre alcuni menegrami hanno già sentenziato che la sua carriera sta per dissolversi lentamente, stabilisce un record ancora oggi intatto: vola a 6,14 metri gareggiando al Sestriere.
A fine carriera, guardandosi alle spalle, avrà messo via 35 record mondiali. La città di Donetsk gli dedica anche una statua. Sergei ne è orgoglioso, ma sa che il riconoscimento più grande è quello che si è conferito da solo. Diventare la migliore versione (sportiva) di sé stessi: in quanti possono dire altrettanto?
Sara Simeoni. Manuela Croci per "Sette - Corriere della Sera" il 18 settembre 2022.
«Oggi 19 ottobre 2017, sono seduta su una panchina al parco giochi dove c’è un campetto da calcio a 5 a sorvegliare i ragazzi di seconda media. Io sono “determinante” perché senza la mia presenza non sarebbero potuti uscire dalle mura scolastiche. Fa freddo, mi sto congelando, ma per fortuna quest’anno il tempo ci assiste e almeno non piove.
Spero di non ammalarmi. L’ex primatista del mondo di salto in alto pluridecorata, Grand’ufficiale della Repubblica italiana, tappa i buchi e si raffredda pensando alla pensione. Dalle ore 7.55 alle ore 14, finché non suona la campanella». Così Sara Simeoni, 69 anni, campionessa olimpica di salto in alto a Mosca 1980, scrive in Una vita in alto.
Lasciato l’agonismo è tornata a scuola.
«Ho dovuto rifare tutta la trafila. Primo passo, l’anno di prova per dimostrare che ero in grado di insegnare. La mia cattedra la teneva la docente che mi sostituiva, il mio compito era fare il potenziamento: ero a disposizione, andavo in palestra ma la lezione vera e propria la faceva la collega. All’inizio ci eravamo divise un po’ i compiti... ma alla fine faceva tutto lei. Così mi sono ritirata in buon ordine».
Com’erano i ragazzi?
«La scuola è sempre stata inibita nel fare tante cose, devi stare attento se gli studenti si fanno male, devi essere super assicurato... l’insegnante è costretto a compilare moduli per qualsiasi cosa, la burocrazia occupa quasi più tempo di quello che si riesce a dedicare all’educazione vera e propria».
Le piaceva insegnare?
«Molto. Quando tenevo le lezioni facevo fare ai ragazzi cose che - magari per paura - i colleghi non gli facevano fare. Erano molto diligenti: avevano l’entusiasmo di provare cose nuove, ma quando gli dicevo di fare attenzione perché nella foga potevano cadere o farsi male, mi ascoltavano».
Facciamo un passo indietro, lei ha iniziato con la danza.
«Mi piaceva tanto, ma quando è arrivato il momento di fare un’esibizione all’Arena, sono stata sostituita: ero troppo alta, nel gruppo “stonavo”. Ho capito che non ci sarebbe stato un seguito».
Com’è passata dalle punte all’asticella?
«Casualmente, grazie alla scuola. Ero alle medie e ci hanno detto che nella nostra palestra si allenava una squadra di atletica. Non sapevamo nemmeno cosa fosse. Con alcune amiche abbiamo deciso di provare, era divertente e soprattutto un modo per stare insieme ai coetanei».
Cosa ricorda della sua prima gara?
«Ero a Verona, al campo scuola di Basso Acquar: c’era la pista ancora in terra battuta e la buca di caduta era fatta con la sabbia, non c’erano i materassi. Le attrezzature non erano quelle sofisticate di oggi».
Andava ad allenarsi con ago e filo.
«Le divise erano unisex, bisognava adattarle».
Monaco ‘72, il debutto olimpico.
«Sono arrivata in auto con Eddie Ottoz. Una giostra di emozioni: far parte della squadra italiana, gli atleti provenienti da tutto il mondo, il villaggio con il suo brulicare di giovani, uno stadio imponente...».
Conserva ancora il cappello che le ha regalato un atleta del Lesotho?
«Certo, allora non sapevo nemmeno dov’era il Lesotho».
Il 4 settembre chiude la sua gara al 6° posto ed esce a festeggiare. Il mattino dopo l’atmosfera è completamente diversa, cosa ricorda?
«L’immagine è quella di un bel gioco che si è inceppato. C’era un silenzio assordante, le persone non sorridevano, i volti erano tesi. Non ci eravamo accorti di niente. Noi della squadra italiana eravamo vicini alla palazzina di Israele. C’era preoccupazione, però nessuno si aspettava l’epilogo che c’è stato. Chi aveva già gareggiato è rientrato, al villaggio sono rimasti solo gli atleti che dovevano scendere in pista».
Nel 1972 è iniziato anche il rapporto con suo marito.
«Abbiamo raggiunto la squadra maschile a Sochi perché c’era stato un errore sulla nostra destinazione. Il destino».
Erminio Azzaro diventa compagno di vita e allenatore.
«Non è stato facile. Da una parte era bellissimo perché la partecipazione a quello che fai è diversa se c’è un rapporto che va oltre lo sport, c’è ancora più attenzione. Per contro, quando le cose non andavano bene le arrabbiature si facevano sentire... ma passavano anche alla svelta».
Nello stesso periodo in cui lei si allenava a Roma con Erminio, a Formia c’era anche Mennea con il professor Vittori. Nel libro descrive un velo tra voi che non è mai caduto.
«Io sono sempre stata molto timida, non sono quella che fa il primo passo. Mennea era talmente immerso in quello che doveva fare che frequentava solo 2-3 amici. Ci vedevamo in allenamento, ma scambiavamo solo poche parole».
A Mosca 1980 siete stati protagonisti.
«Era la nostra Olimpiade, arrivavamo entrambi dal record del mondo. Il desiderio di prendere la medaglia era molto forte. Oggi, ogni anno hanno la possibilità di fare una gara che rimpiazza quella precedente, ma ai nostri tempi era tutto molto più dilatato. Se perdevi un treno, non eri sicura di esserci dopo quattro anni».
Com’è oggi la squadra azzurra di atletica?
«Sono bravi e anche un pizzico fortunati, fanno qualificazioni con misure e tempi che ai nostri tempi ce li sognavamo. A Eugene Elena Vallortigara è stata brava, vedere questi giovani fare buoni risultati mi riempie il cuore».
Ha detto che invidia un po’ la generazione di Instagram, avrebbe postato le foto di tutte le sue gare.
«Hanno la possibilità di realizzare e conservare una storia fatta di foto e video per qualsiasi gara o evento, è un grande ricordo. Io ho solo poche foto che mi sono state date nel tempo, soprattutto in bianco e nero».
C’è una sua foto che ha fatto la storia: lei che esulta a braccia alzate dopo il salto...
«.. e sotto le ascelle si vedono i peli. Non si stava tanto a guardare, gli obiettivi e i pensieri erano altri. Oggi invece sono così perfette, non capisco dove trovino tutto il tempo per l’acconciatura, la manicure...».
A proposito di capelli, lo scorso anno l’abbiamo vista in stile geisha al Circolo degli Anelli per l’Olimpiade di Tokyo.
«È nato tutto per caso. Un’acconciatura bizzarra, i primi post sui social, i commenti. È diventato un gioco in cui io e il parrucchiere della Rai abbiamo seguito l’onda».
Quanto si è divertita?
«Moltissimo. Alla fine siamo riusciti anche a coinvolgere Jury Chechi nel gioco, all’inizio si chiudeva un po’ come Mennea».
È pronta per Parigi 2024?
«Sì, mi piacerebbe anche andarci».
Sara Simeoni: «Con ago e filo adattavo le divise unisex. E per la vita ho scelto un marito-allenatore». Manuela Croci su Il Corriere della Sera il 4 Settembre 2022.
Gli inizi con la danza. Il debutto olimpico a Monaco ‘72 e l’attentato. Poi Mosca, la vittoria e la foto con i peli sotto le ascelle: «Ora sono tutte perfette, ma come fanno?!»
Sara Simeoni all’Olimpiade di Los Angeles nel 1984 vinse l’argento saltando 2 metri. Ai Giochi di Mosca 1980 aveva conquistato l’oro portando l’asticella a 1,97
«Oggi 19 ottobre 2017, sono seduta su una panchina al parco giochi dove c’è un campetto da calcio a 5 a sorvegliare i ragazzi di seconda media. Io sono “determinante” perché senza la mia presenza non sarebbero potuti uscire dalle mura scolastiche. Fa freddo, mi sto congelando, ma per fortuna quest’anno il tempo ci assiste e almeno non piove. Spero di non ammalarmi. L’ex primatista del mondo di salto in alto pluridecorata, Grand’ufficiale della Repubblica italiana, tappa i buchi e si raffredda pensando alla pensione. Dalle ore 7.55 alle ore 14, finché non suona la campanella». Così Sara Simeoni, 69 anni, campionessa olimpica di salto in alto a Mosca 1980, scrive in Una vita in alto.
La campionessa olimpica di salto in alto, Sara Simeoni, 69 anni, racconta la sua vita privata e di atleta nel libro una vita in alto (Rai libri) scritto con Marco Franzelli, in uscita il 6 settembre.
Lasciato l’agonismo è tornata a scuola.
«Ho dovuto rifare tutta la trafila. Primo passo, l’anno di prova per dimostrare che ero in grado di insegnare. La mia cattedra la teneva la docente che mi sostituiva, il mio compito era fare il potenziamento: ero a disposizione, andavo in palestra ma la lezione vera e propria la faceva la collega. All’inizio ci eravamo divise un po’ i compiti... ma alla fine faceva tutto lei. Così mi sono ritirata in buon ordine».
Com’erano i ragazzi?
«La scuola è sempre stata inibita nel fare tante cose, devi stare attento se gli studenti si fanno male, devi essere super assicurato... l’insegnante è costretto a compilare moduli per qualsiasi cosa, la burocrazia occupa quasi più tempo di quello che si riesce a dedicare all’educazione vera e propria».
Le piaceva insegnare?
«Molto. Quando tenevo le lezioni facevo fare ai ragazzi cose che - magari per paura - i colleghi non gli facevano fare. Erano molto diligenti: avevano l’entusiasmo di provare cose nuove, ma quando gli dicevo di fare attenzione perché nella foga potevano cadere o farsi male, mi ascoltavano».
Facciamo un passo indietro, lei ha iniziato con la danza.
«Mi piaceva tanto, ma quando è arrivato il momento di fare un’esibizione all’Arena, sono stata sostituita: ero troppo alta, nel gruppo “stonavo”. Ho capito che non ci sarebbe stato un seguito».
Com’è passata dalle punte all’asticella?
«Casualmente, grazie alla scuola. Ero alle medie e ci hanno detto che nella nostra palestra si allenava una squadra di atletica. Non sapevamo nemmeno cosa fosse. Con alcune amiche abbiamo deciso di provare, era divertente e soprattutto un modo per stare insieme ai coetanei».
Cosa ricorda della sua prima gara?
«Ero a Verona, al campo scuola di Basso Acquar: c’era la pista ancora in terra battuta e la buca di caduta era fatta con la sabbia, non c’erano i materassi. Le attrezzature non erano quelle sofisticate di oggi».
Andava ad allenarsi con ago e filo.
«Le divise erano unisex, bisognava adattarle».
Monaco ‘72, il debutto olimpico.
«Sono arrivata in auto con Eddie Ottoz. Una giostra di emozioni: far parte della squadra italiana, gli atleti provenienti da tutto il mondo, il villaggio con il suo brulicare di giovani, uno stadio imponente...».
Conserva ancora il cappello che le ha regalato un atleta del Lesotho?
«Certo, allora non sapevo nemmeno dov’era il Lesotho».
Il 4 settembre chiude la sua gara al 6° posto ed esce a festeggiare. Il mattino dopo l’atmosfera è completamente diversa, cosa ricorda?
«L’immagine è quella di un bel gioco che si è inceppato. C’era un silenzio assordante, le persone non sorridevano, i volti erano tesi. Non ci eravamo accorti di niente. Noi della squadra italiana eravamo vicini alla palazzina di Israele. C’era preoccupazione, però nessuno si aspettava l’epilogo che c’è stato. Chi aveva già gareggiato è rientrato, al villaggio sono rimasti solo gli atleti che dovevano scendere in pista».
Sara Simeoni, oggi 69 anni, nata a Rivoli Veronese il 19 aprile 1953
Nel 1972 è iniziato anche il rapporto con suo marito.
«Abbiamo raggiunto la squadra maschile a Sochi perché c’era stato un errore sulla nostra destinazione. Il destino».
Erminio Azzaro diventa compagno di vita e allenatore.
«Non è stato facile. Da una parte era bellissimo perché la partecipazione a quello che fai è diversa se c’è un rapporto che va oltre lo sport, c’è ancora più attenzione. Per contro, quando le cose non andavano bene le arrabbiature si facevano sentire... ma passavano anche alla svelta».
Nello stesso periodo in cui lei si allenava a Roma con Erminio, a Formia c’era anche Mennea con il professor Vittori. Nel libro descrive un velo tra voi che non è mai caduto.
«Io sono sempre stata molto timida, non sono quella che fa il primo passo. Mennea era talmente immerso in quello che doveva fare che frequentava solo 2-3 amici. Ci vedevamo in allenamento, ma scambiavamo solo poche parole».
A Mosca 1980 siete stati protagonisti.
«Era la nostra Olimpiade, arrivavamo entrambi dal record del mondo. Il desiderio di prendere la medaglia era molto forte. Oggi, ogni anno hanno la possibilità di fare una gara che rimpiazza quella precedente, ma ai nostri tempi era tutto molto più dilatato. Se perdevi un treno, non eri sicura di esserci dopo quattro anni».
Com’è oggi la squadra azzurra di atletica?
«Sono bravi e anche un pizzico fortunati, fanno qualificazioni con misure e tempi che ai nostri tempi ce li sognavamo. A Eugene Elena Vallortigara è stata brava, vedere questi giovani fare buoni risultati mi riempie il cuore».
Ha detto che invidia un po’ la generazione di Instagram, avrebbe postato le foto di tutte le sue gare.
«Hanno la possibilità di realizzare e conservare una storia fatta di foto e video per qualsiasi gara o evento, è un grande ricordo. Io ho solo poche foto che mi sono state date nel tempo, soprattutto in bianco e nero».
C’è una sua foto che ha fatto la storia: lei che esulta a braccia alzate dopo il salto...
«.. e sotto le ascelle si vedono i peli. Non si stava tanto a guardare, gli obiettivi e i pensieri erano altri. Oggi invece sono così perfette, non capisco dove trovino tutto il tempo per l’acconciatura, la manicure...».
A proposito di capelli, lo scorso anno l’abbiamo vista in stile geisha al Circolo degli Anelli per l’Olimpiade di Tokyo.
«È nato tutto per caso. Un’acconciatura bizzarra, i primi post sui social, i commenti. È diventato un gioco in cui io e il parrucchiere della Rai abbiamo seguito l’onda».
Quanto si è divertita?
«Moltissimo. Alla fine siamo riusciti anche a coinvolgere Jury Chechi nel gioco, all’inizio si chiudeva un po’ come Mennea».
È pronta per Parigi 2024?
«Sì, mi piacerebbe anche andarci».
Campionati europei di Monaco 2022: tutte le medaglie dell'Italia e il medagliere complessivo. La lista aggiornata quotidianamente con tutti i podi della squadra italiana impegnata agli Europei di Monaco in 9 discipline: atletica, beach volley, canoa sprint, ciclismo (pista, MTB, BMX freestyle, strada), ginnastica artistica, canottaggio, arrampicata sportiva, tennistavolo e triathlon. Gisella Fava il 21 agosto 2022 su olympics.com
Le medaglie d'oro dell'Italia agli Europei multisport di Monaco 2022: 14 ori (lista aggiornata alle ore 22 del 21 agosto)
Asia D'Amato, Ginnastica artistica, All-Around femminile
ITALIA, Ginnastica artistica, Team femminile: Alice D'Amato, Asia D'amato, Angela Andreoli, Martina Maggio e Giorgia Villa
Lamont Marcell Jacobs, Atletica, 100m maschile
Elia Viviani, Ciclismo su pista, Eliminazione maschile
ITALIA, Ciclismo su pista, Madison femminile: Rachele Barbieri e Silvia Zanardi
Rachele Barbieri, Ciclismo su pista, Omnium femminile
ITALIA, Canottaggio, Quattro di coppia pesi leggeri femminile: Giulia Mignemi, Paola Piazzolla, Silvia Crosio, Arianna Noseda
ITALIA, Canottaggio, Quattro di coppia maschile: Nicolò Carucci, Andrea Panizza, Luca Chiumento e Giacomo Gentili
Giacomo Perini, Canottaggio, PR1, Singolo maschile
ITALIA, Canottaggio, Quattro di coppia pesi leggeri maschile: Antonio Vicino, Martino Goretti, Niels Torre e Patrick Rocek
Ginmarco Tamberi, Atletica, Salto in alto
ITALIA, Caona sprint, K2 200m: Andrea Di Liberto e Manfredi Rizza
Federico Mancarella, Caona sprint, KL2 200m
Yeman Crippa, Atletica, 10000 maschili
Le medaglie d'argento dell'Italia agli Europei multisport di Monaco 2022: 18 argenti (lista aggiornata alle ore 22 del 21 agosto)
Martina Maggio, Ginnastica artistica, Corpo libero femminile
Alice D’Amato, Ginnastica artistica, Parallele femminile
Asia D’Amato, Ginnastica artistica, Volteggio femminile
Davide Plebani, Ciclismo su pista, Inseguimento individuale maschile
Simone Consonni, Ciclismo su pista, Omnium maschile
Matteo Bianchi, Ciclismo su pista, Specialità km maschile
Silvia Zanardi, Ciclismo su pista, Corsa a punti femminile 25km
ITALIA, Ciclismo su pista, Inseguimento a squadre femminile: Rachele Barbieri, Letizia Paternoster, Silvia Zanardi e Vittoria Guazzini
ITALIA, Canottaggio, Doppio pesi leggeri maschile: Pietro Ruta e Stefano Oppo
Gabriel Soares, Canottaggio, Singolo pesi leggeri maschile
Andrea Dallavalle, Atletica, Salto triplo
ITALIA, Canoa velocità, C2 1000m: Nicolae Craciun e Daniele Santini
Ahmed Abdelwahed, Atletica, 3000 siepi
ITALIA, Ginnastica artistica, Team maschile: Nicola Bartolini, Lorenzo Minh Casali, Andrea Cingolani, Matteo Levantesi e Yumin Abbadini
Esteban Farias, Caona sprint, KL1 200m maschile
Eleonora De Paolis, Caona sprint, KL1 200m femminile
Susanna Cicalis, Caona sprint, K1 5000m
Elisa Balsamo, Ciclismo su strada, prova su strada femminile
Le medaglie di bronzo dell'Italia agli Europei multisport di Monaco 2022: 18 bronzi (lista aggiornata alle ore 22 del 21 agosto)
Martina Maggio, Ginnastica artistica, All-Around femminile
Angela Andreoli, Ginnastica artistica, Corpo libero femminile
Matteo Giupponi, Atletica, Marcia 35km maschile
Yemaneberhan Crippa, Atletica, 5000m maschile
Filippo Ganna, Ciclismo su strada, Cronometro individuale maschile
Manlio Moro, Ciclismo su pista, Inseguimento individuale maschile
Vittoria Guazzini, Ciclismo su pista, Inseguimento individuale femminile
Miriam Vece, Ciclismo su pista, 500m femminile
ITALIA, Canottaggio, Otto maschile: Vincenzo Abagnale, Cesare Gabbia, Emanuele Gaetani Liseo, Matteo Lodo, Marco di Costanzo, Matteo Castaldo, Giuseppe Vicino, Leonardo Pietra, Enrico D'Aniello (timoniere)
ITALIA, Canottaggio, Doppio pesi leggeri femminile: Federica Cesarini e Valentina Rodini
ITALIA, Canottaggio, Doppio femminile: Stefania Gobbi e Kiri Tontodonati
Sara Fantini, Altetica, Lancio del martello
Osama Zoghlami, Atletica, 3000 siepi
Filippo Tortu, Atletica, 200m
Carlo Tacchini, Canoa sprint, Singolo 1000m
Carlo Tacchini, Canoa sprint, Singolo 5000m
Rachele Barbieri, Ciclismo su strada, prova su strada femminile
ITALIA, Caona sprint, K2 1000: Samuele Burgo e Andrea Schera
ITALIA, Atletica, 4x100 femminile: Zaynab Dosso, Dalia Kaddari, Anna Bongiorni e Alessia Pavese
Campionati Europei | Monaco 2022
Medagliere complessivo Europei di Monaco 2022: TOP 10
Top 10 Medagliere Monaco 2022
Paese
|
Oro
|
Argento
|
Bronzo
|
Medaglie totali
|
Germania |
26 |
20
|
14 |
60 |
Gran Bretagna |
24
|
19
|
17
|
60
|
Italia |
14
|
18
|
19
|
51
|
Francia |
11
|
17
|
22
|
50
|
Ungheria |
11
|
7
|
5
|
23
|
Spagna |
9
|
11
|
12
|
32
|
Paesi Bassi |
9
|
7
|
12
|
28
|
Polonia |
8
|
16
|
15
|
39
|
Romania |
8
|
2
|
5
|
15
|
Grecia |
6
|
4
|
0
|
10
|
Le medaglie vinte dall'Italia agli Europei di atletica 2022. La Repubblica il 18 Agosto 2022
Fantini, lancio del martello di bronzo
La quinta medaglia dell'Italia ai campionati europei l'ha conquistata Sara Fantini, bronzo nel lancio del martello. Volo vincente dell'azzurra di 71,58 metri. Oro alla romena Blanca Florentina Ghelber, argento alla polacca Ewa Rozanska.
Dallavalle d'argento nel salto triplo
Andrea Dallavalle ha conquistato la medaglia d'argento nel salto triplo maschile. L'azzurro ha saltato 17,04 metri al quinto salto, dopo aver iniziato la gara con due nulli. L'oro è andato al portoghese Pedro Pichardo (17,50), divenuto campione del mondo un mese fa a Eugene. Bronzo al francese Jean-Marc Pontvianne con 16.94.
Jacobs torna re, oro nei 100 metri
Marcell Jacobs vince l'oro nei 100 metri mettendosi alle spalle una stagione travagliata da tanti intoppi. Il campione olimpico si impone in 9"95 precedendo i britannici Zharnel Hughes (9"99) e Jeremiah Azu (10"13). "Grazie per chi ha tifato per me. È stata una stagione complicata, difficile. Portare l'oro a casa è entusiasmante e mi da fiducia per il futuro. In realtà non sono soddisfattissimo della gara, in semifinale mi sembrava di aver corso nettamente meglio. In finale un po' di tensione c'era, ma sono riuscito a uscire poi bene sulla distanza, fortunatamente. Siamo arrivati davanti a tutti, questo è l'importante".
Crippa, 5.000 di bronzo
Yeman Crippa si prende il bronzo nei 5.000 con il tempo di 13:24.83, preceduto in un'avvincente lotta a tre nell'ultimo giro dal norvegese campione del mondo Jakob Ingebrigtsen (13:21.13) e dallo spagnolo Mohamed Katir (13:22.98). Per il trentino delle Fiamme Oro è la seconda medaglia europea in pista dopo il bronzo conquistato quattro anni fa a Berlino nei 10.000 metri, specialità che affronterà domenica nella giornata finale degli Europei per cercare un altro podio.
Giupponi bronzo nella marcia 35 km
La prima medaglia dell'Italia a Monaco la regala Matteo Giupponi, bronzo nella 35 km di marcia in 2h30:34 dopo una gara condotta nelle posizioni di vertice. Alle spalle dell'imprendibile spagnolo Miguel Angel Lopez, oro in 2h26:49, l'azzurro viaggia sempre nel gruppo degli inseguitori mentre a una decina di chilometri dal traguardo c'è l'attacco del tedesco Christopher Linke che coglie l'argento in 2h29:30.
Europei di atletica, chi è Yeman Crippa, oro nei 10 mila metri. Gaia Piccardi, inviata a Monaco su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.
Il mezzofondista azzurro è autore di una grandissima volata a 250 metri dall’arrivo e chiude in 27’46’’13 davanti al norvegese Mezngi e al francese Schrub
Sulla pelle multicolore dell’Europa, nella notte che regala all’Italia il terzo oro continentale (11 podi in totale nel medagliere dominato dalla Gran Bretagna su Germania e Polonia), rimangono stampati i passi da gigante di un ragazzo italiano partito da Dessiè, Etiopia, e arrivato sulle montagne del Trentino grazie al cuore sconfinato di una coppia milanese, Roberto Crippa e Luisa Fricchione, tornati in Africa a più riprese per togliere da un orfanotrofio a 300 km da Addis Abeba, Yemaneberhan (in aramaico «il braccio destro di Dio») il nuovo re dei 10 mila metri, i suoi cinque fratelli e due cugini.
I genitori erano morti di malattie infettive. Come avete fatto a sbarcare il lunario, Roberto? «Riciclando i vestiti, investendo su cibo e, all’occorrenza, medicine. L’importante è che ciascuno, nella vita, avesse la possibilità di scegliere la sua strada». Yeman Crippa, 25 anni, ha trovato la sua a Monaco in una serata indimenticabile per l’atletica italiana, infuocata dall’impresa di bronzo delle ragazze della staffetta veloce, capaci di supplire all’assenza della 4x100 dei campioni olimpici (cambi perfetti al millimetro di Dosso, Kaddari, Bongiorni e Pavese): dopo aver scaldato le gambe nei 5 mila (bronzo), l’azzurro si è inventato una gara magistrale rimontando nell’ultimo rettilineo il norvegese (nato in Eritrea) Mezngi, andato in fuga dopo 24 giri di pista (su 25) senza sospettare che Crippa avesse tenuto in serbo le energie per l’oro.
VELOCISTA
Cambio secco di ritmo a meno di 300 metri dal traguardo, il francese Gressier lasciato sul posto, Mezngi risucchiato da una progressione irresistibile: l’Olympiastadion (intonso dai Giochi ‘72) è rimasto a guardare a bocca aperta Crippa Yeman from Italy, bravo a non sprecare nessuna delle occasioni che l’esistenza gli ha offerto. Occhi spiritati, bicipiti mostrati con orgoglio in eurovisione («Ho esultato come Jacobs per far vedere i muscoli, anche se io ne ho meno di Marcell!»), la dedica alla Crippa’s family («Le devo tutto») che ha perso la sorella Uonishet in un incidente d’auto in Etiopia, finalmente il meritato trionfo per il mezzofondista italiano più talentuoso («Ha un valore assoluto, lo aspettavo da tempo: quando la forma c’è, posso fare tutto»).
È un’Europa allargata, con l’Ucraina della bambina Mahuchikh (alto) e della veterana Bech-Romanchuk (triplo) nelle nazioni top-10, il continente accoglie Yeman tra le stelle dello sport fermando sul cronometro un tempo (27’46”13) che vale all’Italia il quarto oro europeo della storia sulla distanza dopo Cova (Atene ‘82), Mei (Stoccarda ‘86 davanti a Cova e Antibo) e Antibo (Spalato ‘90), l’ultimo conquistatore fiaccato dalla malattia, tifosissimo dell’erede: «Yeman è stato bravissimo, non potrei essere più felice, è giovane e vincerà ancora molto».
IL CAMPIONE
Suona l’inno di Mameli, Crippa si tiene stretta una medaglia storica («Nel club dell’oro dei campioni del passato adesso ci sono anch’io. Ho visto il norvegese andarsene, mi devo tirare le orecchie per aver guardato troppo il francese e aver rischiato di perdere l’attimo ma le gambe c’erano, mi sono gasato, per recuperare è bastato il minimo sforzo») mentre fratelli e cugini esultano: Neka (cameriere a Trieste, è l’altro atleta di casa), Kalamu (operaio a Tione), Gadissa (cameriere stagionale), Mekdes (commessa a Trento), Asnakec (parrucchiera a Milano), Mulu (cameriera in Trentino), Elsabet (rientrata in Etiopia, lavora nella cooperazione internazionale). La videochiamata con mamma Luisa prima di ogni gara, lo stipendio da poliziotto assicurato a fine mese, i primati nazionali dei 3 mila, 5 mila, 10 mila e mezza maratona (più quello europeo nei 5 km) in tasca, coach Pegoretti al fianco. Crippa viaggia leggero verso Parigi 2024 senza più paura di sognare. Tra Dessiè e Monaco corrono mondi: diecimila metri, in confronto, fanno ridere.
Yeman Crippa: «Sono cresciuto per strada, i miei genitori italiani mi hanno dato una vita normale. E l’atletica». Gaia Piccardi, inviata a Monaco di Baviera su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.
L’azzurro, campione europeo dei 10mila: «In Etiopia mi aspettava un’esistenza misera, da orfano in orfanotrofio. Sono partito dal nulla. Avere dei vestiti e dei libri di scuola in Trentino era già tantissimo»
La medaglia d’oro nei 10 mila all’Europeo al collo. La tessera del club riservato ai grandi mezzofondisti italiani della storia dell’atletica (Cova, Mei, Antibo) in tasca. Un piatto di pomodori e mozzarella, più il lusso di una birra («Fuori gara me ne posso concedere due alla settimana, non sempre rispetto la regola ma la media è quella»). La fidanzata Sofia, con cui convive in collina a Trento, quartiere Cognola, al fianco. Nella notte del trionfo, a Monaco, Yeman Crippa è l’uomo più felice del mondo.
Yeman, la sua storia di orfano etiope adottato bambino da una coppia italiana insieme ai cinque fratelli e ai cugini per vivere sulle montagne del trentino è tutto fuorché banale. In che modo il suo passato corre in pista con lei?
«Ho avuto una storia particolare, è vero. Mi sento tanto fortunato di essere potuto venire in Italia e di aver scoperto che c’è un’altra vita. Mi è stato dato un futuro diverso, migliore. E’ questo il motivo per cui questo oro che ho aspettato a lungo lo dedico a me stesso».
Una finale europea dominata.
«Ho impostato la gara sui cambi di ritmo: quando non sono in condizione li pago nel rettilineo finale. Ma qui a Monaco stavo benissimo, avevo rinunciato al Mondiale in Oregon per l’Europeo, una scelta non facile, però alla fine azzeccata. Avevo capito con il bronzo nei 5 mila che stavo bene, che riuscivo a fare cose belle, quindi nei 10 mila sono riuscito a gestirmi. Ho visto il norvegese andarsene, mi devo tirare le orecchie per aver guardato troppo il francese, ho rischiato di perdere l’attimo, ma le gambe c’erano: mi sono gasato, e per recuperare è bastato il minimo sforzo».
E poi ha mostrato alla telecamera i muscoli, come Jacobs.
«Ma io ne ho molti meno! Però nel gesto di mostrare i muscoli c’è potenza, volevo far vedere la mia e tirare fuori tutta l’emozione che avevo dentro. Subito dopo il traguardo ho fatto anche il gesto dell’esultanza di CR7 dopo un gol…».
Però lei è interista.
«Mio papà Roberto mi ha obbligato da piccolo a tifare Inter: in Trentino andavamo al bar a vedere le partite e quando l’Inter perdeva mi mettevo a piangere… che stupido! Sono un tifoso di calcio anche perché l’ho giocato: centrocampista centrale, mi hanno provato anche terzino ma correvo dappertutto a recuperare palloni. Perdevamo 11-0 e correvo solo io! Ho amato Stankovic e Eto’o: nelle prime garette di corsa, se vincevo, dopo il traguardo facevo la “sparata” come Dejan».
Più divertente correre e vincere da solo, anziché correre per altre dieci persone e perdere. Questo oro tanto atteso, alla fine, ha avuto il sapore dolce che si immaginava?
«E’ più bello di come me lo ero immaginato: sapevo dall’inizio che, se il norvegese fosse andato via, sarei andato a riprenderlo. Ma finché non raggiungerò i migliori al mondo non sarò soddisfatto. Ora mi guardo bene questa medaglia, poi con il mio allenatore Massimo Pegoretti cercheremo di capire come raggiungere i rivali che ho davanti. Ho vinto in Europa, ma il Mondiale e l’Olimpiade sono un’altra cosa».
In un mondo che viaggia a trecento all’ora, per come è fatto lei, Yeman, riuscirà ad assaporare questa vittoria o pensa già alla prossima gara?
«Non sempre riesco a godermi le cose belle: nella vita me ne sono successe di brutte ma anche di bellissime. Non mi sento mai il migliore, non mi sento mai appagato».
Quando incide la sua storia in salita in questa sensazione di insoddisfazione, secondo lei?
«Mi sento fortunato ad essere stato adottato: questa, in fondo, è la mia seconda vita. In Etiopia mi aspettava un’esistenza misera, da orfano in orfanotrofio, non avevo idea di come sarebbe andata a finire. I miei genitori adottivi mi hanno dato una possibilità: una vita normale, un tetto, la scuola, l’atletica. Sono arrivato in Italia da Dessiè, 400 km da Addis Abeba, un piccolo villaggio. Sono partito dal nulla. Avere dei vestiti e dei libri di scuola in Trentino era già tantissimo. I miei compagni avevano tutto, abiti di marca e giocattoli di cartoleria. Io non ho mai avuto né giochi né vestiti comprati, mai avuto cose materiali. Io e i miei fratelli ci siamo sempre dovuti meritare tutto, ma va bene così. Ho imparato a soffrire, a sacrificarmi, a lavorare con determinazione per un risultato. Il mezzofondo, in confronto, mi è parso quasi facile».
Ricorda i suoi genitori biologici, scomparsi quando lei aveva 5 anni?
«Ho qualche ricordo. Brutto. Se ne sono andati tutti e due per una malattia infettiva. Ma i bambini in Africa sono per forza molto avanti: crescono per strada, fanno e capiscono cose che un bambino italiano non farebbe e non capirebbe mai. Chi lascia un bambino per strada, in Italia? Nessuno. Ma in Etiopia è la normalità. Io sono cresciuto così».
E’ mai tornato a Dessiè?
«Più volte. La prima ero stracarico di emozioni. Non vedevo l’ora di tornare dove giocavo a nascondino con gli amici, di rivedere casa, il luogo dove sono venuto al mondo. Una volta lì, però, non sentivo più la scintilla. Il posto mi sembrava minuscolo, emotivamente vuoto. Le emozioni sono svanite. Le due sorelle che per prime mi hanno raggiunto in Italia l’hanno vissuta come me, i miei fratelli invece no: al ritorno in Etiopia si sono emozionati».
Ha nominato Jacobs. Cosa ha pensato quando ha visto Jacobs e Tamberi conquistare l’oro olimpico nello sprint e nell’alto, l’anno scorso a Tokyo, a dieci minuti l’uno dall’altro?
«In Giappone all’Olimpiade c’ero anch’io, ma a marzo ero stato fermo un mese per infortunio e ai Giochi, benché pensassi di essere bene allenato, ho scoperto di non essere in condizione. A Tokyo non ero io. Il mio obiettivo è diventare come Marcell e Gimbo, ci accomuna la voglia di fare vedere al mondo chi siamo. Le loro medaglie olimpiche hanno fatto scattare a tutti gli azzurri la voglia di pensare in grande. E’ stato proprio un salto mentale: è questo che ha cambiato l’Italia dell’atletica. All’Europeo di Berlino 2018 avevamo vinto 6 medaglie, qui 11, di cui tre ori».
La Torre, il d.t. della Nazionale, vorrebbe farle fare la transizione dal mezzofondo in pista alla maratona in strada. E’ pronto?
«Prontissimo, anche se so già che la pista mi mancherà... Io vorrei sperimentarmi su una maratona già la primavera prossima, ma le cose bisogna farle bene, vanno programmate e organizzate. La strada mi piace, le distanze lunghe anche: voglio proprio sbatterci il muso».
E quando si ritroverà fianco a fianco dei fortissimi africani, che pensieri le frulleranno per la testa?
«Già li incontro nelle call room delle mie gare internazionali, e mi chiedo: ma cos’ha lui più di me? In quali modi si sarà allenato meglio di me? Il keniano Kipkoge, per dire, è un’icona: non dubita mai di sé, ogni maratona la vince. Con gli africani ci parlo un po’ in amarico e un po’ in inglese. Però, Kipkoge a parte, loro spesso vanno allo sbaraglio, senza ragionare: si buttano in gara e come va, va. La loro forza è l’incoscienza. Mi hanno invitato tante volte ad allenarmi in Kenya. Prima o poi, magari, ci vado».
Intanto ci è andato in vacanza.
«L’anno scorso, con Sofia. Safari e poi mare». (interviene Sofia: «Oddio, mare… Io nuotavo, a lui ho allacciato il salvagente!»).
Tra poco più di un mese l’Italia sarà chiamata a votare, Yeman. Ha le idee chiare? «Assolutamente no! Mi devo studiare bene la situazione per capire da che parte stare».
Programmi imminenti?
«Una gara sui 3 km a Feltre, poi i 5 mila al meeting di Rovereto, dove proverò a scendere sotto i 13 minuti. Poi, finalmente, vacanza con Sofia. Formentera, Maiorca o Minorca: non abbiamo ancora deciso. Oppure Africa, in Madagascar. In ogni caso, relax. In vacanza non corro».
Marcell Jacobs svela le intimidazioni degli atleti inglesi, cosa facevano prima della gara. Il Tempo il 18 agosto 2022
Marcell Jacobs svela in un'intervista a La Repubblica le intimidazioni subite da parte degli atleti inglesi prima dell'avvio della finale dei 100 metri agli Europei di atletica. «L’atmosfera nella call room era pesante». Poi il velocista italiano l’ha alleggerita, prendendosi l’oro europeo in 9''95 e rimettendo a posto le gerarchie dei 100 metri piani.
Il campione olimpico, mondiale indoor ed europei racconta a Repubblica, quell’atmosfera «pesante» e spazza via un po' di riferimenti e paragoni scomodi: «Prima della gara, gli inglesi hanno cercato di darmi qualche spallatina, così per intimorirmi. Però alla fine si sono complimentati, Hughes si è avvicinato e mi ha detto: ho molto rispetto per te. Non ho mai avuto problemi di credibilità con gli altri sprinter, a dubitare di me è stata l’anno scorso la stampa inglese, non gli atleti. Mennea? Non si possono fare raffronti, ognuno ha il suo stile e la sua personalità. Sono contento di venire dopo Mennea. Il miglior modo di contare è quello di lasciare una scia, di stimolare chi viene dopo di te. Da bambino volevo essere uno da cui si poteva trarre ispirazione. Io stesso ho delle figure di riferimento: LeBron James, nel basket, uno che viene dal nulla, Lewis Hamilton che ha rivoluzionato la Formula Uno, e Usain Bolt che ha cambiato l’atletica».
Il ritorno di Jacobs più forte di tutto e tutti. È un altro sprint d'oro. Il campione olimpico conquista il trono europeo dei 100 in una stagione tormentata dai guai. Oscar Eleni il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.
Muscoli di seta, testa da campione, un calcio alle sventure in una notte magica senza vento. Marcello Jacobs esce dal fiume delle malvagità e rientra in quello delle delizie vincendo il titolo europeo dei 100 metri in 995 lasciando a 3 centesimi l'inglese Hughes e quasi un metro l'altro britannico Azu che lo sbirciava dall'ottava corsia mentre lui si metteva la corona. Si è portato al traguardo mesi di tormenti, un bagno misterioso dopo l'amarezza del mondiale lasciato prima di vedere i tori nell'arena di Eugene.
Ieri, invece, anche con quel tape tricolore sul polpaccio sinistro che ci aveva fatto tremare, è entrato da protagonista nel cinema paradiso di questa eurolimpiade organizzata a Monaco di Baviera dove lo sport italiano, cominciando dalla ginnastica femminile, per finire al ciclismo si pista si è proprio reinventato nel torrido di un'estate con tanti problemi.
Ne aveva di sicuro molti anche Jacobs perché dopo l'oro olimpico, il titolo mondiale indoor si è trovato contro gli stessi dei che aveva sbalordito. Per dargli carica e serenità l'Italia dell'atletica si era svegliata bene. Bronzo di Giupponi nella marcia, bronzo sui 5000 per Crippa, primato italiano nel decathlon di Dester che aveva portato via dopo 26 anni il record italiano al caro Poserina.
Notte magica finalmente, dopo tante notti girandosi dall'altra parte per non vedere tutti gli sfidanti nel saloon che lo aspettavano al varco insieme alla cattiva salute muscolare. Notte speciale portandosi dietro nella finale il due metri comasco Chituru Ali, al record personale di 1012 e poi soltanto spettatore in fondo alla fila nella corsa del suo principe elettore nella velocità che aveva ispirato anche un'altra italiana di nuova generazione, la Zaynab Dosso finalista nei 100 donne andato in scena nel tripudio italiano intorno a Jacobs e Camossi, i due grandi vincitori della notte.
Già in semifinale avevamo capito che tutto era cambiato nella notte bavarese dopo gli incubi dell'Oregon. Ha stravinto in 10 netti lasciando che le gambe andassero avanti, mentre le spalle gli dicevano calmati.
Ci eravamo preoccupati vedendolo un po' teso e con quel tape protettivo. Un brivido, ma poi quando è rientrato nella musica della presentazione con tutte le luci addosso e lo stadio dei 60 mila al buio allora non abbiamo più avuto dubbi. Come ha detto lui alla fine non il tempo che voleva, ma quando dopo 30 metri aveva lasciato luce fra i suoi chiodi e il campione uscente inglese Hughes allora era già ora di brindare. Non la progressione di Tokio, non la rabbia di Belgrado, ma soltanto la consapevolezza di un campione maturo.
Un'altra notte da numero uno. Chiedergli di più sarebbe esagerato anche per chi dubitava, augurargli buon matrimonio è l'unica cosa che dobbiamo fare sapendo che l'anno prossimo ci saranno altri mondiali e poi arriveranno le Olimpiadi a Parigi. Nella speranza che possa anche lavorare sereno per lasciare fuori dal saloon altri sfidanti.
Giulia Zonca per lastampa.it il 22 agosto 2022.
La 4x100 mancata diventa la staffetta infinita. Una riunione collettiva (piuttosto agitata) e molti confronti dopo l’ennesimo stop di Marcell Jacobs, le tensioni non si sono sciolte. Il presidente Mei parla di «errori evidenti con il senno di poi, sarebbe stato meglio schierarlo solo in finale», ma sul perché non sia successo c’è ancora molta confusione.
Paolo Camossi, il tecnico del campione olimpico, non condivide la ricostruzione che è circolata: «È stato chiesto a Marcell di correre senza pianificare altre possibilità, approfittando del fatto che lui è generoso, si spende per la squadra e su questa cosa si è giocato».
Non voleva correre?
«Se la direzione tecnica gli dice “senza di te non andiamo in finale” lui ci prova, non sa dire di no a una richiesta del genere».
L’errore è stato chiederglielo?
«È mancata una tutela perché i medici, dopo la risonanza fatta mercoledì, hanno consigliato tra le 24 e le 36 ore di riposo. Mi fa sorridere sentir dire “lo abbiamo fermato prima che si facesse male”. Lui si è molto arrabbiato perché ha sentito un dolore: non è stato bloccato in via precauzionale come sostengono. Semplicemente bisognava rispettare i tempi dettati dai medici».
L’armonia dell’Italia vincente si rompe.
«Mi dispiace, la squadra sta andando non bene, di più. Non vorrei che queste parole rovinassero l’atmosfera, ma non possiamo neanche stare a guardare. Non è rispettoso per lui, per quello che ha fatto».
Che cosa vi aspettavate?
«Che gli dicessero: “tranquillo, entri in finale, se non ci andiamo pazienza, hai già vinto il titolo, portato in alto l’Italia, dato emozioni”. Chiedergli altro è stato un grosso azzardo».
Si poteva evitare?
«Io avevo chiesto una riunione con il sottoscritto, la direzione tecnica e lo staff sanitario, dopo i 200 metri, per calcolare tutte le possibili combinazioni e a valutare con serenità, prendendoci tutto il tempo perché la squadra la puoi dare alle 8 di mattina».
L’incontro c’è stato?
«No. Siamo andati al campo il mattino dopo come è stato chiesto. Ed è stato un mio errore, dovevo impormi però io non avrei questo ruolo, non conto nulla per la staffetta. A Tokyo ero già partito quando hanno corso. In nazionale c’è un settore tecnico e un responsabile di settore. C’era la possibilità di dire me lo gioco in finale, ma evidentemente la richiesta di quelle 36 ore non è stata percepita o è sembrata eccessiva».
Il dt La Torre ha detto che vi siete già ritrovati sul campo a parlare tranquillamente.
«Io vivo di fiducia e ne do tanta, è la seconda volta che viene tradita e ci vorrà un po’ per chiarirsi. Non serve essere amici, si possono avere idee contrastanti ma obiettivi primari chiari»
Quale è il suo?
«Faccio tutto quello che è possibile per far correre forte Marcell. Quello che mi muove è vedere quel ragazzo che corre sciolto sorridente e che arriva davanti a tutti»
La federazione ha ammesso degli errori.
«È vero che dagli errori si impara, ma ogni sbaglio ha un peso e qui parliamo del campione dei 100 metri. Mi dispiace ma il campione olimpico non è stato gestito in modo adeguato. Non avrei voluto alzare polemiche, ma certe ricostruzioni non sono corrette per Marcell, per quanto si spende per la squadra, per quanta passione e anima ci mette e soprattutto perché sul collo porta l’ennesimo titolo».
Di Mulo responsabile della 4x100 che cosa le ha detto?
«Aveva detto a Marcell e pure a me, che lo avrebbe utilizzato solo per la finale. Cosa che non è successa».
Ha parlato con il presidente?
«Lo devo ringraziare, ci è stato vicino. Ha cercato di bilanciare le posizioni differenti, non sapeva nulla delle scelte che hanno portato alla selezione di Marcell in batteria. Ha sempre detto che non ama interferire».
Come sta ora Jacobs?
«È un po’ provato. Anche se è sereno perché abbiamo fatto un’analisi e alla fine abbiamo vinto tutte le gare tranne una in cui si è stirato un adduttore. Ha vinto l’oro in una gara difficilissima come i 60 metri ai Mondiali indoor e un Europeo. Abbiamo imparato a gestire certe situazioni e stiamo già modificando il programma per prevenire infortuni grazie anche alla struttura sanitaria della federazione».
Adesso che succede?
«Domani faremo un’altra risonanza, vedremo l’entità del danno al polpaccio sinistro. Ha avvertito la fitta quando ha fatto la prova del cambio con Patta nella parte di curva».
La stagione finisce qui?
«Vediamo, se è un po’ più che affaticato o c’è una piccola lesioncina. Nella prima ipotesi abbiamo perso dei giorni. Abbiamo passato mesi a rincorrere, dispiace perché qui è arrivato a posto, si sarebbe potuto evitare questo stop».
Riccardo Signori per “il Giornale” il 23 agosto 2022.
Sventola il bandierone allegro della nostra nazionale terra-acqua: atletica e nuoto hanno riempito un bel forziere di medaglie. Vabbe' poi ci si mette Paolo Camossi, allenatore di Jacobs, a rompere le uova nel medagliere con critiche alla guida tecnica della nazionale: dimenticando di essere comunque artefice di una certa frittata della staffetta 4x100 e che il dt La Torre può far scuola a tanti.
Ma al di là di uno Jacobs si o Jacobs no, tra mondiali ed europei è stato un gran vedere e un buon raccogliere. E l'Italia ha mostrato di essere squadra, sia che si agiti nell'acqua sia che si sprema in pista e per strada. Il nuoto lavora su una new generation, l'atletica raccoglie frutti seminati dalla precedente gestione e conferma che Stefano Mei è un presidente nato con la camicia.
Il mondo dell'acqua si è raccolto intorno alla leadership di Greg Paltrinieri, sfrontato esploratore degli orizzonti delle fatiche, l'atletica intrisa dei suoi malumori si è affidata alla sana follia di Gimbo Tamberi e all'individualismo da prima donna di Marcell Jacobs. E proprio in chiusura di Europei si è vista la differenza di un leader come Paltrinieri e quella di un presunto (non ancora presuntuoso) leader come il MJ di casa nostra.
Paltrinieri, sfinito dalle sue fatiche, non si è negato alla staffetta che poi ha portato l'ultimo oro del fondo. Jacobs, invece, ha interpretato una commedia degli equivoci sul suo stato di salute, sulla disponibilità e sulla vocazione a correre più per il tornaconto personale (si pensa anche ai meeting) che per la squadra.
Entrambi sono stati grandi dopo i momenti di sofferenza fisica, hanno fatto vedere tempra e stoffa di un campione, sono stati apprezzati all'estero e glorificati in questo anno di post olimpico, che non è mai facile. Però Greg ci ha lasciato con il palato dolce, Marcell con l'amarognolo in bocca. Paltrinieri resterà un ragazzone di successo. Jacobs dovrà riconquistare un rapporto di fiducia con compagni che cominciano a non gradire i tradimenti (con certificato medico) alla staffetta.
L'ultimo atto è stato perlomeno stravagante: Jacobs si rimette in piedi dopo l'infortunio ai mondiali dove ha salutato la compagnia ancor prima che andasse in pista, nemmeno avesse già prenotato l'aereo. Corre da fenomeno semifinale e finale europea: corroso da una contrattura sfodera un 995 che nemmeno Carl Lewis...
Grida di voler correre la staffetta, eppoi dopo un allungo di prova in pista, dove fila come una freccia, va dal fisioterapista e annuncia un dolorino, non al fastidioso polpaccio ma poco più sopra. Il mago dei muscoli lo carezza nel punto e dichiara lo stop.
Nel frattempo il tecnico della staffetta aveva fatto scaldare la riserva Polanco, avendo già capito la musica. Camossi dirà che non voleva farlo correre, mentre la gestione tecnica gli aveva chiesto la presenza in semifinale dove la squadra era indebolita dall'assenza di Tortu e di Desalu che aveva chiari problemi di fatica muscolare. Il referto per Jacobs dice: sovraccarico funzionale, che significa tutto e niente. Definiamola commedia degli equivoci, sperando che un giorno anche Marcell riesca ad essere un leader alla Paltrinieri. Sarebbe una medaglia in più.
I numeri di Jacobs: poteva vincere i Mondiali? Claudio Cucciatti su La Repubblica il 17 Agosto 2022.
Il successo a Monaco di Baviera ha riportato l'azzurro davanti a tutti, nonostante gli infortuni e una stagione tormentata. Ha chiuso la finale europea in 9 secondi e 95: serviva di più per vincere una medaglia negli Stati Uniti. Ma ha dato la sensazione di valere una prestazione migliore. Ecco perché resta il rimpianto per Eugene
Quarantaquattro passi e mezzo in fila per vincere un altro oro. Nove secondi e 95 centesimi, a quindici dal suo personale (record europeo) con cui vinse a Tokyo. Trecentottanta giorni dopo le Olimpiadi, Marcell Jacobs si è ripreso lo scettro del re, vincendo i 100 metri agli Europei di Monaco dopo la delusione dei Mondiali di Eugene, dove si era ritirato dalla semifinale per un problema muscolare. In questo 2022 a singhiozzo, Jacobs ha vinto anche l'oro mondiale indoor sui 60.
Jacobs, i numeri della finale
Partito in corsia 5, Jacobs ha avuto un tempo di reazione di 0,153 secondi: solo il quinto a scattare dai blocchi. Molto meglio il britannico Hughes, poi secondo al traguardo (0,135 s), e il suo connazionale Azu (0,140 s), bronzo alla fine. Ma meglio di Marcell è partito anche Chituru Ali, l'altro azzurro qualificato in finale (0,141 s, terzo alla partenza) e ultimo all'arrivo. E anche l'irlandese Olatunde (0,152 s), in corsia 7 alla destra di Jacobs.
Marcell ha corso i primi 50 metri in 5 secondi e 63 e la seconda parte della gara in 4 secondi e 32. Quattro passi e mezzo al secondo la sua frequenza, 42 km all'ora la velocità di punta toccata. Quattro centesimi il vantaggio finale su Zharnel Hughes (9"99), che agli Europei di Berlino 2018 vinse l'oro nei 100 e nella 4x100.
Quanto vale il tempo di Jacobs
Il tempo di 9"95 è apparentemente alto, ma è comunque il record eguagliato dei campionati europei. È lo stesso che Marcell Jacobs fece registrare a Savona il 16 maggio 2021 quando fissò il nuovo primato italiano, poi da lui stesso battuto: era la prima volta che scendeva sotto i 10 secondi ed era il secondo italiano di sempre, dopo Filippo Tortu, a riuscirci. Un mese dopo, a giugno a Chorzow, Marcell al rientro da un infortunio vinse in 10"06. Jacobs si è poi migliorato a Tokyo tre volte: 9"94 in batteria (+0,1 m/s di vento a favore), 9"84 in semifinale (+0,8 m/s), 9"80 in finale (record italiano ed europeo).
Dopo Tokyo Jacobs ha chiuso la stagione 2021 senza più correre. Sui 100 metri si è rivisto a Savona il 18 maggio 2022 (9"99 in semifinale al debutto stagionale, 10"04 in finale) e ha vinto il titolo italiano a Rieti il 25 giugno con 10"12 con vento contrario (-0,9 m/s) in finale (dopo un comodo 10"17 in batteria, comunque il miglior tempo). Ai Mondiali di Eugene a luglio aveva corso in 10'04 in batteria, per poi arrendersi prima della semifinale. Esattamente un mese dopo ha vinto l'Europeo.
Jacobs poteva vincere i Mondiali?
A Eugene, correndo in 9"95 Jacobs sarebbe finito terzo nella sua semifinale (quella in cui ha lasciato invece vuota la corsia numero 4) alle spalle di Seville (9"90) e Bracy (9"93). Sarebbe comunque entrato in finale col terzo miglior tempo. E in finale? Detto che è solo un gioco, e che la gara in pista è un'altra cosa, questo tempo non avrebbe consentito a Jacobs di finire sul podio: sarebbe stato quarto, a 9 centesimi da Kerley (9"86), a sette da Bracy (9"88) e cinque da Bromell (9"90). Ma avrebbe chiuso davanti a Seville (9"97), che in finale ci era arrivato proprio con il miglior tempo di 9"90. Va detto che a Monaco, in semifinale Jacobs ha chiuso in 10 netti rallentando vistosamente nel finale e dando la sensazione di valere un tempo molto più basso. E ha corso con una contrattura al polpaccio. "Quel poco di lavoro che abbiamo fatto ha funzionato", ha detto alla fine, sottolineando le difficoltà di preparazione a una gara che ha comunque vinto.
Cos'è è il taping e perché Jacobs lo ha usato
Gli sportivi lo conosco bene, gli spettatori meno pratici invece ne restano sempre incuriositi. Parliamo dal taping, il bendaggio adesivo utilizzato per curare gli infortuni muscolari: quello applicato al polpaccio di Marcell Jacobs era tricolore, impossibile non notarlo. Il grande pubblico ricorderà quando Mario Balotelli, dieci anni fa, si denudò a Varsavia dopo il secondo gol alla Germania agli Europei e mostrò il suo taping azzurro. Il cerotto non è medicato, va applicato da un professionista (medico o fisioterapista) e ha la funzione di contenere e guidare il muscolo, assecondando un corretto movimento.
Jacobs, il segreto dell’oro agli Europei di atletica: ha fatto un passo in meno rispetto ai Giochi di Tokyo. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022.
Il coach Camossi spiega: «Ha tenuto volontariamente più a lungo il piede a terra e ha trovato il compromesso tra velocità e controllo»
Il segreto di un oro in più è stato fare un passo in meno. Per conquistare il suo primo titolo europeo, Marcell Jacobs ha corso i 100 metri in 44,5 passi, uno in meno di Tokyo, disegnando falcate di 2 metri e 25 invece che di 2,19. Vi sembra un niente? Non lo è. «Lo sprint è matematica — spiega coach Paolo Camossi — e una falcata più ampia significa che Marcell, sia pure per un tempo non misurabile a occhio nudo, ha tenuto volontariamente più a lungo il piede a terra e quindi ha corso in maniera più controllata, più frenata, come aveva fatto in tutta questa difficile stagione per evitare che i problemi muscolari si potessero riacutizzare. La sua bravura è stata di trovare il giusto compromesso tra velocità e controllo. In semifinale ha rodato il motore provando la velocità di punta, in finale l’ha fatto girare al ritmo giusto ma senza rischiare di farsi male». Il 100 metri di Marcell Jacobs ai Giochi di Tokyo — con il bresciano che vinse da quasi sconosciuto, stupendo il mondo — è stato analizzato centinaia di volte in rete per capirne i segreti. In Giappone Marcell raggiunse la velocità di punta (43,9) dopo 72 metri, qui dopo 77 (i dati al momento sono solo stimati) arrivando «solo» a poco più di 43: progressione più prudente, calo finale più contenuto e meno rischi per le gambe.
Jacobs oro nei 100 metri: «Posso fare grandi cose»
Il secondo segreto sono le braccia. «Se potessi studiare Jacobs per un mese in laboratorio — spiega Alberto Enrico Minetti, ordinario di fisiologia umana all’Università di Milano — non mi interrogherei sui suoi tempi di reazione allo sparo, sul numero di passi, sui tempi intermedi e nemmeno sulla forza di gambe o piedi ma sulle braccia. Vorrei capire quanto conti nelle sue prestazioni la spinta di muscoli così sviluppati ma nello stesso tempo non ipertrofici come quelli di altri big. Lui è il prototipo di uno sprinter nuovo che avanza di piedi, di gambe e di braccia: su questo aspetto noi ricercatori di biomeccanica umana sappiamo poco, di certo meno del suo allenatore. Ma dietro i suoi 9”80 ci sono arti superiori che lo proiettano in avanti con grande energia». Gli risponde coach Camossi. «Quando ci fermiamo a prendere il caffè al bar — spiega il tecnico friulano — chi lo guarda è stupito dalla normalità del fisico di Marcell. Il lavoro sulle braccia è costante, in palestra e sul campo e anche in questi mesi difficili: se vedo un falso movimento glielo segnalo ma lui ha una capacità di non contrarsi mai come invece accade spesso con i velocisti negli ultimi 15/20 metri, quando la fatica dilaga».
Il terzo segreto è il lavoro sull’uscita dai blocchi. «Non è vero che abbiamo cambiato il primo piede di appoggio — spiega Camossi — perché Marcell scatta da sempre dai blocchi col destro più arretrato. È vero che abbiamo provato l’inversione in allenamento per stimolare i muscoli». Piede vincente e veloce non si cambia.
Giulia Zonca per “La Stampa” il 17 Agosto 2022.
Bisognerà smettere di scrutare le facce di Marcell Jacobs e iniziare a guardarlo correre. Perché è un piacere e soprattutto perché è quello che sa fare, come nessun altro in circolazione, come pochi al mondo.
Il campione olimpico si prende il titolo Europeo dei 100 metri ed è inutile ridurre in scala la portata del successo dopo tutto quello che è capitato tra i due ori. Conta che abbia di nuovo la bandiera legata in vita, come la porta lui e che sia sbucato fuori tra due inglesi che pensavano di poterlo fregare, che hanno immaginato di riuscirci e uno, l’argento Hughes, ha pure pensato di avercela fatta. Invece il podio dice così: Jacobs 9”95, primato dei campionati europei uguagliato, Hughes 9”99 e Azu 10”13.
Bruciare 100 metri in un tempo che non è il tuo perché una stagione di tormenti ti ha insegnato persino a frenare non è così scontato: «C’era tensione, la partenza non è stata granché. Ne sono uscito bene, meno male. Ho sentito il polpaccio chiudersi prima della semifinale. Avevo la testa piena di cattivi pensieri. Semplice contrattura, fortunatamente, ma la stagione è stata tutta complicata».
Tanto che sarebbe stato semplice archiviarla come persa, almeno quella all’aperto, perché a marzo Jacobs ha vinto un Mondiale indoor e con tutti gli specialisti al coperto. Una conferma che però non è bastata per tenersi al riparo dai dubbi quando tutto è iniziato a girare storto. E il mondo intero si è messo a scrutare la sua faccia.
Il volto patito al ritorno dal Kenya, dopo la gastroenterite, le smorfie alla prima uscita stagionale a Savona dove si ferma per la prima volta, l’espressione tirata alla presentazione del Golden Gala che non correrà e ancora occhi spavaldi prima di altri ritiri e lo sguardo serio ai campionati italiani di Rieti per guardare cronometri distanti da lui e la sicurezza sfoggiata in viso ai Mondiali di Eugene per poi ritirarsi in batteria. Una collezione di mimiche e intensità di occhiate, studiate più delle sue falcate e delle sue partenze.
Fino a qui, a Monaco, dove prima di essere l’unico italiano dopo Mennea re dei 100 metri agli Europei è ancora quello che si porta addosso una serenità diversa per poi essere il favorito che irrigidisce le mascelle perché all’improvviso ha il taping addosso e chi lo osserva si chiede se sarà davvero pronto a correre. Sì, Jacobs non ha avuto incertezze.
Il suo tecnico e mentore, Paolo Camossi, racconta i minuti prima della finale: «È stato bravissimo lui, forse non avrebbe dovuto rischiare ma ha voluto farlo e adesso ha zittito tutti quelli che lo hanno messo in discussione. L’ha voluta vincere. In batteria è stato imbarazzante da quanto si è mosso bene».
Nella batteria, chiusa in 10” netti senza tirare affatto, si è vista la sua capacità di alzare la frequenze, il suo talento, poi di nuovo la tensione, il dolorino, ma non era proprio il momento di fare la calcoli, lui voleva uscire da mesi di stallo, in fretta: «Sono contento e soddisfatto, anche se il tempo non è il top. Cerco sempre il meglio. Metà delle persone non pensavano nemmeno sarei venuto qui. Ma il lavoro paga e la dedica e per chi ha creduto in me e pure per chi non lo ha fatto. Se sto bene, vedrete ancora grandi cose. Chi mi dà contro mi trasmette ancora più energia per andare sempre più forte».
Non è il Jacobs spensierato che si è stretto il nodo del tricolore sul fianco dopo le Olimpiadi, però la bandiera sta ancora lì, appesa allo stesso modo, su un altro oro. Uno di quegli ori puri che vanno bene così, senza nessuna faccia da metterci sopra.
Giulia Zonca per “la Stampa” il 18 agosto 2022.
La medaglia è slavata e Marcell Jacobs preferirebbe averla «gialla, oro evidente», il titolo dei 100 metri agli Europei gli piace di più ogni ora che passa, soprattutto dopo aver sentito l'inno dentro l'Olympiapark dove Monaco consegna le sue medaglie.
Dove è stracolmo di gente e di applausi: «Ho fatto i conti, questo è il quinto podio nel giro di 5 anni e 5 mesi (incluso il Mondiale staffette) a pensarci è. .. bello. Venivo da una carriera in cui desideravo essere sul gradino più alto e facevo fatica ad arrivare in finale, guardare i risultati ora dà tanta fiducia».
Al traguardo ha messo il dito sulla bocca, dopo la premiazione ha meno voglia di far tacere tutti?
«Continuerò a dirlo, avrei voluto che quella foto girasse pure di più. Gli atleti vanno supportati. Andiamo in giro a rappresentare l'Italia, spingiamo il nostro corpo sempre al limite e capitano degli infortuni, degli incidenti. Siamo umani e ci si vuole vedere robot. Il sostegno è tanto, ma noi poi vediamo i commenti negativi gratuiti e non ci fanno bene, anzi. Io cerco di trasformare le energie negative in voglia di andare in pista e spaccare sempre di più».
Si è tolto un peso?
«Se lo saranno tolti gli altri. Io corro perché mi piace, senza pesi».
Lo stadio è impazzito per lei.
«Era una vita che non ne vedevo uno così. La presentazione l'ho sentita. Capisco Ali, alla sua prima finale importante, che ha patito l'emozione ed è arrivato ottavo.
Pure per me che sono più abituato non è stato facile. E poi tanto affetto, tante bandiere e c'era pure chi non era italiano e dopo i 100 metri sventolava il tricolore».
Prima della finale un altro brivido. L'indurimento al polpaccio. Come sta?
«Non bene e non male. Il fastidio lo sento, ho fatto tutti i trattamenti, continuerò.
Devo risolverla entro breve per la staffetta, magari faremo un controllo più approfondito».
Ha temuto di non farcela?
«Appena uscito dai Mondiali ogni pensiero si è spostato a Monaco. Se io non ho dolori riesco subito a correre abbastanza forte e l'idea di non venire non mi ha sfiorato».
Che cosa ha imparato in questa stagione tormentata?
«A cercare di dare priorità a tante cose piuttosto che ad altre. Gli errori ci stanno, però la preparazione era ottima. Quello che è successo non è stato ideale ma di certo ogni conseguenza ha insegnato qualcosa».
Ali, 23 anni, già in finale con lei. Subito un effetto traino?
«A me fa solo piacere. Essere da stimolo per le generazioni successive è quello che sognavo da bambino e, se mi viene dato come compito, sono contento. Ali ha un fisico che lo può portare a correre sotto i 9"90».
È il primo azzurro dopo Mennea a vincere gli Europei nei 100 metri.
«Non faccio paragoni. Ognuno ha la propria storia. Io sudo e soffro tutti i giorni per fare qualcosa di importante perché in futuro il metro di paragone possa essere io».
Chi c'era prima non poteva essere un modello diretto perché sono passati 44 anni.
Chi le ha fatto da guida?
«Non ne ho avuta una. Ho preso chi nello sport ha cambiato qualche cosa, Usain Bolt nella corsa, Lewis Hamilton, LeBron James che è venuto dal niente, gente che ha fatto certe imprese perché ne aveva necessità. Gente che non ha iniziato per divertimento. Mi rispecchio: uscire ad un certo schema è la mia situazione».
La staffetta oro olimpico non ha fatto una bella figura ai Mondiali.
«È stato difficile non essere lì con loro, credo sia stata un po' improvvisata all'ultimo momento e fosse difficile gestire i cambi. Però una gara andata male non toglie il valore. L'obiettivo è scendere in pista stavolta».
Rispetto al mondo che ha già battuto, ora a che punto si sente?
«Mi sento indietro. Vista la semifinale speravo in una finale più veloce, credevo di fare meno di 9"90, una vaga tensione l'ho sentita e questo polpaccio non mi ha fatto partire come avrei voluto, i primi 4 appoggi erano trattenuti, ho giusto messo giù il piede senza spingere».
Cercherà un confronto diretto con gli americani se i fastidi fisici daranno tregua?
«Siamo a fine stagione e le gare sono poche ma pure loro vogliono correre contro di me.
Per la finale di Diamond League non sono qualificato, ma c'è una nona corsia e Brommel e Bracy stanno animando via social la richiesta di una sfida, tutti la vorrebbero vedere credo. Kerley non c'è, gli altri sì. Sarebbe bello. Altrimenti guarderemo dove ha senso correre, probabilmente in Italia. Poi c'è un matrimonio e mi devo concentrare».
Si è occupato di qualcosa?
«La lista degli invitati l'ho fatta io. Nicole si è occupata di tutto per lasciarmi tranquillo».
Quanto è contato avere la sua futura moglie in tribuna?
«Le ho detto di non venire prima, ma di fare come a Belgrado, per i Mondiali indoor. Lì ci siamo visti solo dopo la gara e qui abbiamo fatto la stessa cosa, oro in entrambe le occasioni. Penso che faremo sempre così».
Prima di partire per Monaco ha incontrato Mourinho. Che cosa le ha detto?
«Continua per la tua strada. Non fare come Bolt, non darti al calcio. Corri e basta».
Giupponi innesta la marcia (di bronzo). Crippa sale sul podio e pensa già al bis. Il bergamasco nella nuova 35 km: "Ho sconfitto gli infortuni". Il trentino di origini etiopi: "Ok sui 5.000, ma voglio i 10.000". Giandomenico Tiseo il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.
Non è mai troppo tardi per realizzare i propri sogni. È stata questa la lezione di Matteo Giupponi, classe '88 e nativo di Bergamo, e di Yeman Crippa, fondista azzurro. Il lombardo è stato il primo a sbloccare la voce «medaglie» dallo zero agli Europei di atletica a Monaco (Germania). Nella innovativa 35 km di marcia, specialità nella quale ai Mondiali di Eugene Massimo Stano si era laureato campione iridato, Giupponi si è andato a prendere un bronzo che può valere una carriera con il tempo di 2h30'34. Una prestazione da protagonista quella dell'azzurro, sempre presente nel gruppo di migliori. Prova nella quale lo spagnolo Miguel Angel Lopez si è rivelato il più forte, oro in 2h26'49. A una decina di chilometri dall'arrivo, il tedesco Christopher Linke ha creato lo strappo, valso l'argento in 2h29'30, mentre Giupponi ha saputo portare a termine la sua azione iniziata ai -6 km dal traguardo, precedendo l'altro iberico Manuel Bermudez. Per il bergamasco, presto papà e legato sentimentalmente alla marciatrice azzurra Eleonora Giorgi, uno splendido dono dopo tanti sacrifici. Il terzo posto di ieri ha rappresentato, infatti, la prima medaglia internazionale del proprio percorso agonistico a livello assoluto, ricordando l'ottavo posto nella 20 km di marcia alle Olimpiadi si Rio 2016.
Per Crippa, dopo la rinuncia forzata ai Mondiali negli States a causa di un infortunio, la rivincita di ieri sera sui 5000 metri. Il trentino di origini etiopi ha saputo leggere al meglio la situazione, sapendo bene quando andare in testa e comprendendo il momento decisivo per fare la selezione. Al suono della campanella dell'ultimo giro, l'azzurro non è stato in grado di rispondere alla progressione del norvegese Jakob Ingebrigtsen che ha trionfato in 13'21.13 davanti allo spagnolo Mohamed Katir (13'22.98) e a Crippa (13'24.93). «Ho provato a lanciare la volata, poi loro ne hanno di più e mi hanno dato metri. Sono contento che sia arrivata questa medaglia di bronzo nei 5000 che non era scontata. Ora pensiamo ai 10000 (previsti il 21 agosto) e ci potremmo divertire di più», le parole dell'atleta italiano.
Giornata di ieri nella quale il capitano, Gianmarco Tamberi, era in gara per le qualificazioni del suo salto in alto. Il campione olimpico, reduce da non pochi contrattempi fisici, ultimo dei quali il Covid, voleva avere delle risposte da se stesso. I segnali sono stati buoni, con un 2.21 superato in maniera brillante al secondo tentativo e una qualificazione alla Finale di domani da condividere con Marco Fassinotti: «Sento di poter fare bene e sono contento di essere entrato in Finale perché voglio giocarmela al meglio», ha dichiarato Gimbo. Non è mancato anche un messaggio dedicato a Gregorio Paltrinieri, impegnato negli Europei di nuoto a Roma: «Lui è un supereroe, anche quando arriva secondo».
Il pugliese Stano vince la prima medaglia d'oro per l'Italia ai mondiali di Atletica: «Tokyo? Non era un caso». L'azzurro di Palo del Colle campione olimpico della 'venti', ha conquistato il primo posto per l'Italia nella 35 km di marcia maschile. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2022.
Il pugliese Massimo Stano vince la medaglia d’oro ai Mondiali di atletica in corso a Eugene nella 35 km di marcia maschile. L'azzurro delle fiamme oro della Polizia di stato di Palo del Colle e campione olimpico della 'venti', ha conquistato il primo posto davanti al giapponese Kawano e allo svedese Karlstrom.
«Ci tenevo a vincere questo mondiale, a dimostrare che Tokyo non è stato un caso e che potevo fare bene anche su una distanza diversa. Mi sentivo e nella mia testa non poteva finire che così». Lo ha detto Massimo Stano alla Rai dopo l’oro nella 35 km di marcia ai Mondiali di Eugene. «Sono contento di non aver deluso le aspettative e di aver portato un oro che tutti si aspettavano - aggiunge -, e perché così il movimento della marcia può avere nuova linfa. Una dedica speciale ad Antonella Palmisano, che non ha potuto gareggiare qui ma sono sicuro che sarebbe stata in grado di ripetersi come ho fatto io».
Il marciatore pugliese si è imposto col tempo di 2h23'14 nuovo record italiano. L’Italia torna all’oro iridato a 19 anni da quello conquistato da Giuseppe Gibilisco nel salto con l’asta a Parigi 2003. Sul podio con l’azzurro sono saliti il giapponese Masatora Kawano, medaglia d’argento, e lo svedese Perseus Karlstrom, terzo.
Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2022.
Olimpia e mondo, da ieri, hanno come capitale Grumo Appula (Bari) e come sindaco Massimo Stano, dalla Puglia con furore, l'unico atleta della compagnia dei celestini che un anno dopo si riprende tutto. Ai Giochi di Tokyo la 20 km di marcia, qui la 35, distanza spuria e scorbutica, con una gara velocissima (2h23'14", primato italiano e miglior prestazione mondiale che la Federazione chiederà venga omologato come record), in testa e di testa («Nella mia mente c'è solo la vittoria»), di sacrificio ma nemmeno troppo («Questo dolore lo conosco bene e poi a me fare fatica piace: nella sofferenza mi esalto»), alla Stano.
La miniera della marcia italiana non chiude - sesto titolo iridato in totale dopo Damilano ('87, '91) e Didoni ('95) nella 20 km, la Sidoti nella 10 km ('97) e Brugnetti nella 50 ('99) -, anzi rilancia: «Tra poco a Monaco ci sono gli Europei - ricorda a tutti Massimo con la faccia buffa da impunito -, mi piacerebbe completare una tripletta storica». La gara che ha riportato l'Italia sul tetto del mondo 19 anni dopo l'oro di Gibilisco nell'asta a Parigi 2003 è già in archivio.
L'ecuadoriano Pintado è il primo del gruppo dei leader a mollare, Stano e il giapponese Kawano si scrollano di dosso lo svedese Karlstrom, bronzo, e si giocano l'oro, spalla a spalla, nell'ultimo chilometro. Basta guardarli in volto: Massimo è rilassato, pensa alla moglie Fatima e alla piccola Sophie cui dedicherà la medaglia («Devo tutto alle mie donne»), musulmano per amore; Kawano ha la bocca spalancata, sembra l'urlo di Munch.
«Gli ultimi chilometri sono stati duri - ammette il campione olimpico e mondiale -, ma a meno 7 mi sono messo davanti per lanciare un messaggio: a voi altri lascio solo l'argento».
Telefona Antonella Palmisano, compagna di allenamenti a Castelporziano con Patrick Parcesepe, tecnico dei miracoli: «Massimo negli ultimi tre anni è cresciuto molto come uomo - racconta il coach -, e senza un grande uomo non c'è un grande atleta. Il matrimonio e la paternità gli hanno fatto fare uno scatto: la bimba è stata un acceleratore fantastico. Lui è rimasto umile e simpatico, un vero showman. Ed è al picco della sua forma che, statisticamente, dovrebbe durare fino ai Giochi di Parigi 2024».
Dove Massimo vorrebbe doppiare 20 e 35 km (ma in Francia sarà solo gara mista): «Prego il Cio di ripensarci e, per una volta, di farci arrivare dentro lo stadio, non in posti da lupi».
Si è allenato studiando, Stano («La settimana prossima ha un esame - dice Parcesepe -, in ritiro a Roccaraso lo sentivo che ripeteva diritto pubblico, mentre lo seguivo in bici mi parlava del libro di storia...»), e solo adesso si scopre che dopo il Golden Gala, cioè un mesetto fa, ha avuto il Covid. Asintomatico, però uno stop brusco sulla strada del Mondiale. Sceso dall'aereo che l'ha portato in Oregon, il mal di gola.
«Non me l'aveva detto, l'ho intuito vedendolo bianco come un lenzuolo» dice il d.t. La Torre. Antibiotico, ansia, altri patemi d'animo. Ma niente poteva fermare Massimo Stano nella sua marcia da Tokyo a Eugene. È stato il campione olimpico italiano meno glamour e celebrato («Non mi lamento: meno pressioni ho, meglio mi alleno, però spero sempre che la mia marcia cresca in popolarità»), è diventato l'unico in grado di confermarsi. Stano style, con diritto d'autore.
Gaia Piccardi per corriere.it il 26 luglio 2022.
Da chi hai preso la simpatia, Massimo? «Mah, nella mia famiglia sono tutti seri: io sono la pecora nera!». Eccolo, il campione olimpico e mondiale della marcia Massimo Stano: impossibile volergli male, persino gli avversari (anche il giapponese Kawano, argento nella 35 km di Eugene, che domenica l’azzurro ha soccorso sul traguardo) non riescono a odiarlo. Se Stano non fosse il marciatore più forte dell’orbe terracqueo, sarebbe un fumetto buffo.
Tokyo e Eugene hanno lo stesso sapore, Massimo?
«No. Il mondo e gli avversari sono gli stessi ma la gamma di emozioni che ho provato sul podio dell’Olimpiade non ha eguali. Ero pervaso di sensazioni. Il Mondiale viene subito dopo. Bellissimo, però il trono di Olimpia è unico».
Essere il quarto azzurro della storia dell’atletica a centrare due ori così prestigiosi dopo Cova, Damilano e Brugnetti vale?
«Eccome, se vale. Ci avevamo pensato a questa statistica, io e coach Parcesepe, prima della gara. Infatti lui mentre marciavo mi gridava: vai Massimo, scriviamo la storia! La vera sfida era riconfermarmi a un anno dai Giochi su una distanza diversa, e adesso scoppio d’orgoglio».
A Parigi l’obiettivo è doppiare 20 e 35 km ma il Cio prevede la 35 solo mista. Riuscirà a convincerlo?
«Mah, io ho provato a lanciare l’appello, poi vedano loro. La mia parola è molto piccola. Mi piacerebbe anche che la gara di marcia ai Giochi 2024 arrivasse dentro lo stadio olimpico: basta piazzare il traguardo in posti da lupi!».
Da bambino, a Palo del Colle (Bari), dove è cresciuto, che idoli aveva?
«Uno solo, supremo: Ivano Brugnetti, oro ad Atene 2004 nella 20 km. Avevo 12 anni, ero davanti alla tv: da quel giorno per me Ivano è un dio. Lui marciava più di istinto, io di testa però la mia strada l’ha tracciata lui: la sua gara in Grecia mi è rimasta stampata nel cervello. Un giorno di qualche anno fa ho preso il coraggio a due mani e l’ho chiamato: è stato gentilissimo. Ogni vigilia mi vedo un video che riassume il suo oro e mi gaso da morire. Ma imparo da chiunque: i nostri anni di carriera non sono abbastanza per maturare al 100%».
Mai sognato di fare il pompiere, l’astronauta, l’attore?
«Mai. Volevo fare il poliziotto: ho realizzato anche questo sogno. Sono fortunato».
La marcia è una miniera di medaglie però è sempre considerata la sorella minore dell’atletica in pista.
«Promuovere la marcia è un compito complicato. Si suda, si fatica, si sta in gara per due ore e mezza: come glielo spiego alla generazione Tik Tok, in questa vita in cui il tempo è sempre meno? A me la fatica piace, mi esalta ma chiedere ai ragazzi di oggi di fare fatica è un’impresa. La marcia è ancora vista come sculettamento, mi prendono in giro. Bisognerebbe inserirla come materia scolastica. Io, più che vincere il più possibile, non so che fare».
Bisogna averla nel dna, la marcia.
«Infatti mi dicono che mio nonno materno, che ho conosciuto troppo poco, camminava veloce».
Coach Parcesepe racconta che lei è cresciuto prima come uomo, poi come atleta.
«Sono andato via di casa a 18 anni, appena entrato in Polizia. Volevo la mia autonomia. Mi sono sposato con Fatima nel 2016, dopo anni di convivenza: grazie al matrimonio sono passato da ragazzo a uomo. Poi è arrivata Sophie e sono diventato responsabile di una personcina che dipende totalmente da me e da mia moglie. A me la paternità ha dato una forza incredibile. Vivo perché Sophie sia fiera del suo papi. Al 20° km, domenica, ho guardato la telecamera: ciao Sofi! In gara non ho smesso un momento di pensare a lei».
La conversione all’Islam fa parte del suo processo di maturazione, Massimo?
«Nasce come scelta per amore. Fatima mi ha seguito ovunque: ha cambiato città, lavoro e amicizie per permettermi di coltivare la passione per la marcia. Convertirmi era il minimo che potessi fare, in cambio, per lei. L’Islam mi ha dato tantissimo a livello mentale: il ramadan mi ha aiutato a imparare a seguire le regole, è un culto di una ricchezza incredibile. È stata una scelta libera, in autonomia, infischiandomene dei giudizi. Liberatoria, in ultima analisi. E legittima. Sto preparando l’esame di diritto: l’articolo 19 della Costituzione garantisce la libertà di culto».
Uno sfizio che si concederà prima di concentrarsi sull’Europeo di Monaco?
«Già fatto: dopo la gara ho divorato 6 fette di pizza e mi sono ingozzato di Pepsi. Un giorno di sgarro totale, ogni tanto ci vuole. Ora rientro in Italia e mi rimetto sotto con dieta e allenamenti».
All’Europeo tornerà sulla 20 km, come a Tokyo.
«Con una serenità totale. Dopo aver vinto Olimpiade e Mondiale mi sento un marciatore trasformato».
Il veloce proiettile Bob, figlio della guerra. PIERO MEI su Il Quotidiano del Sud l'11 Luglio 2022.
“Bullet Bob”, il proiettile Bob come veniva chiamato lo sprinter Robert Lee Hayes di Jacksonville, Florida, Stati Uniti d’America, perché al colpo di pistola del via il proiettile sulla pista era lui, se ne stava stanco e pensieroso sul suo letto nella stanza del Villaggio Olimpico a Tokyo, autunno 1964.
Era stanco perché aveva appena vinto la semifinale dei 100 metri, la gara delle gare ai Giochi. Aveva corso in 9.91! Il record del mondo, in quel momento, era di 10 secondi netti. Il suo tempo era dunque più che strepitoso anche se non era omologabile: il vento, nello Stadio Nazionale della capitale giapponese, lo aveva aiutato soffiandogli alle spalle a una velocità di 5,28 metri al secondo, mentre il massimo consentito era di 2 metri. Il crono non era statisticamente valido, ma la fatica non conosce le regole e dunque si faceva sentire ugualmente.
Era pensieroso perché di lì a qualche ora avrebbe dovuto correre la finale e vincere quell’oro che agli americani bruciava ancora d’aver visto interrotta una striscia che durava dal 1932, giacché a Roma ’60 erano stati sconfitti dal tedesco Armin Hary, un altro proiettile che sparava spesso ancor prima del colpo di pistola.
E poi, si arrovellava Bob, gli era toccata pure la corsia numero uno che era un pastrocchio da impantanarcisi: la pista era ancora in terra battuta, era piovuto e pioveva, e il giorno prima erano passati di lì i marciatori; erano arrivati in 26 (vincitore un inglese, Kenneth Matthews di Birmingham) e con il loro “tacco e punta” avevano lasciato una palude melmosa. Invece, pensava Bob, Enrique e Harry hanno avuto la fortuna dalla loro parte: la corsia tre per il cubano Enrique Figuerola e la cinque per il canadese Harry Jerome, di lì i marciatori non erano passati.
C’è sempre qualcosa che mi gioca contro, pensava Bob, che si autocommiserava spesso; diceva di sé “sono un figlio della guerra”, alludendo sì all’anno di nascita, il 1942, ma anche al fatto che era nato figlio di un altro uomo che non era quello di cui portava il nome che ai tempi era impegnato al fronte, ma di una relazione extra di sua madre. La quale, ora, sarebbe stata in tribuna seduta vicino a Jesse Owens: i soldi per il viaggio li avevano raccolti con una colletta i cittadini di Jacksonville.
Poi ripensava a tutti quegli allenatori e quelle università che non avevano voluto saperne di lui; i primi dicevano “sì, corre velocissimo, ma in tutte le direzioni meno che verso il traguardo”, alludendo al fatto che era stato tirato su più come giocatore di football americano che non come velocista. Poi aveva incontrato Griffin, il coach che lo aveva fatto sprinter insegnandogli la direzione giusta: aveva vinto le ultime 54 gare disputate.
E del resto quella pratica del football gli era venuta in soccorso proprio in chiave Tokyo ’64. Era successo che, verso i pre Trials che si svolgevano a New York, Bob avesse subito uno strappo muscolare, e dunque non aveva potuto essere selezionato fra gli otto che avrebbero disputato al Coliseum di Los Angeles la corsa del giudizio finale. Questa volta i selezionatori americani fecero un’eccezione: tolsero il diritto di presenza all’ottavo di New York, Paul Drayton, e chiamarono Bullet Bob. Lui aveva qualche dubbio e qualche chilo di troppo, non aveva potuto prepararsi davvero, però accettò la sfida.
Stava per perderla già prima di affrontarla, chiuso nell’ascensore dell’albergo che si bloccò al momento di andare a prendere la navetta. Pesavano troppo, tutti insieme, lui, il mingherlino della compagnia, con i suoi 86 chili, Al Oerter, discobolo, con i suoi 127, Jay Sylvester, altro discobolo, con i suoi 114, e Dallas Long, pesista, con i suoi 118. Quasi mezza tonnellata di muscoli. Quando li liberarono e arrivarono nella hall, la navetta era già partita. Lo stadio era a pochi metri, Bob decise di andarci a piedi. E allora quelle schivate del football gli tornarono utili per farlo con le macchine del traffico di Los Angeles. Arrivò giusto in tempo, corse, vinse in 10.1, si prese il biglietto per Tokyo.
Avrebbe voluto liberarsi di questi ricordi, parlarne magari con il suo compagno di stanza al Villaggio, il lunghista Ralph Boston, ma quello dormiva sempre. Poi, d’improvviso, la porta della camera si aprì e occupò tutto il vano Smokin’ Joe: era Joe Frazier. Anche lui, il ragazzo della South Carolina destinato a divenire un epico rivale di Mohammed Alì (“Thrilla in Manila” il match indimenticabile) era lì per una rivincita e un ripescaggio. La rivincita era quella di riportare in America l’oro dei massimi che l’azzurro Franco De Piccoli aveva trattenuto in casa a Roma ’60; il ripescaggio si doveva al fatto che Frazier era stato sconfitto ai Trials da Buster Mathis, pugile del Mississippi, che però durante gli allenamenti successivi si era fratturato un pollice ed aveva dovuto rinunciare ai suoi Giochi. Joe era stato chiamato a sostituirlo.
“Qualcuno ha una chewing gum?” fece Smokin’ Joe appoggiato agli stipiti e senza aspettare la risposta si avvicinò al letto di Bob mimando un assalto da ring; “Cercala nel mio borsone”, disse Hayes, alzandosi dal letto e puntando dritto verso la doccia. Frazier rivolse le sue attenzioni al dormiglione Boston tirandogli quel che gli capitava sotto mano. Quando Bob tornò sgocciolante, c’era un po’ di confusione in giro; non ci badò molto; si infilò qualche indumento, chiuse il borsone, lo tirò su e s’avviò; Ralph riprese a russare.
Era in camera di chiamata, Bob, quando aprì il borsone e andò a pescare le scarpe da gara. Le scarpe? Ce n’era una soltanto: la sinistra. E adesso? Non poteva uscire, non poteva farsene portare un’altra: era disperato. Se ne accorse Tom Farrell, il mezzofondista di New York che era appena arrivato quinto negli 800 metri. S’informò, guardò i piedi di Bob che gli sembrarono piccoli rispetto a tutto il resto. “Che numero porti?” gli fece; “Taglia 8” fece Hayes piagnucolando (è il 41 europeo); “Come me” sorrise Tom, mentre si sfilava la destra e la offriva a Bob; che la prese, se la infilò ed andò verso la gara. Partì “sparato” da quel Bullet Bob che era e vinse l’oro: 10 secondi netti.
Qualche giorno dopo Hayes era di nuovo in pista per la staffetta. Il coach si raccomandò di una sola cosa con Paul Drayton, Gerry Ashworth e Dick Stebbins, i primi tre frazionisti americani: “Preoccupatevi solo di dare il testimone a Bob”. Lo fecero. Hayes lo prese in mano che era quinto, corse i suoi 100 in 8.6 secondi come mai nessuno fin lì (e dopo solo un certo Usain Bolt) e arrivò primo.
Fu anche la sua ultima gara di atletica. Prima ancora di prendere il volo di ritorno negli Stati Uniti aveva firmato un contratto da professionista del football americano per i Dallas Cowboys: andò a vincere anche il Superbowl, un unicum di due miti, Olimpiadi e Superbowl, che solo lui è riuscito a realizzare. Accumulò dollari (che sperperò), steroidi, cocaina, alcool e alla fine, povero, triste e solo, un cancro al fegato se lo portò via a meno di sessant’anni. A Smokin’ Joe, dopo che aveva ritrovato la scarpa perduta sotto lo scendiletto di Ralph Boston, disse solo: “Non mettere mai più le mani nel mio borsone”.
Da gazzetta.it il 12 luglio 2022.
Una rivelazione shock, una confessione che ha lasciato a bocca aperta tutto il mondo dell'atletica, e non solo. Mo Farah, olimpionico sui 5000 e 10.000, non è arrivato nel Regno Unito dalla Somalia coi genitori come rifugiato, come aveva sempre detto, ma illegalmente dal Gibuti, costretto a lavorare come domestico a soli 9 anni. E' stato lo stesso campione a rivelarlo alla Bbc, aggiungendo che gli è stato dato il nome di Mohamed Farah dalle persone che lo hanno trasferito da Gibuti. Il suo vero nome è Hussein Abdi Kahin.
Il mezzofondista ha raccontato di essere stato portato in aereo dal Paese dell'Africa orientale da una donna che non aveva mai incontrato e poi costretto a prendersi cura dei figli di un'altra famiglia. In un documentario della Bbbc e dei Red Bull Studios ha dichiarato che i suoi genitori non sono mai stati nel Regno Unito. Sua madre e due fratelli vivono nella loro fattoria di famiglia in Somalia e il padre, Abdi, è stato ucciso.
DOCUMENTI FALSI— L'atleta ha raccontato che aveva circa otto o nove anni quando è stato portato via da casa per stare con la famiglia a Gibuti. È stato poi portato in aereo nel Regno Unito da una donna che non aveva mai incontrato e con cui non era imparentato, che gli disse che sarebbe stato portato in Europa per vivere lì con i parenti. La donna aveva con sé documenti di viaggio falsi che mostravano la sua foto accanto al nome Mohamed Farah.
Quando sono arrivati nel Regno Unito, ha proseguito Farah, la donna lo ha portato nel suo appartamento a Hounslow, a Ovest di Londra, e ha preso un pezzo di carta con i dettagli di contatto dei suoi parenti. "Proprio davanti a me, l'ha strappato e messo nel cestino. In quel momento ho capito di essere nei guai", ha spiegato il campione olimpico. Da quel momento è stato costretto a fare lavori domestici, con la donna che lo minacciava: "Se mai vuoi rivedere la tua famiglia, non dire niente". Qualche anno dopo, Farah rivelò a un suo insegnante di educazione fisica, Alan Watkinson, la sua vera identità, gli raccontò del suo passato e della famiglia per cui era costretto a lavorare. L'uomo contattò i servizi sociali, aiutando il futuro campione ad essere affidato a un'altra famiglia somala.
La vera storia di Mo Farah. Da bimbo clandestino a "baronetto" dell'atletica. Riccardo Signori il 13 Luglio 2022 su Il Giornale.
Il campione della corsa: "Ho un altro nome, io irregolare venduto a una famiglia inglese"
Una storia da riscrivere. Un campione da rimodellare. Le incredibili gare di Mo Farah, l'icona inglese delle corse lunghe del mezzofondo (oro dei 5mila e 10mila metri ai Giochi di Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016, oltre a tanti ori mondiali ed europei) sono diventate solo l'apparenza, la dimensione di un talento. Il campione è tutt'altro e forse dovremmo chiederci, ora, se anche in quest'ultima storia che ci ha raccontato ci sia tutta la verità o ne manchi qualche spicchio. La rivelazione è affiorata da una intervista della Bbc. Nemmeno a farlo apposta quando Boris Johnson, il leader dei conservatori, è andato a casa. La parte Tory ha sempre preferito la linea dura sull'immigrazione, anche se sono tanti i campioni dello sport immigrati, inseriti, con storie difficili e talvolta violente, che hanno gratificato l'Inghilterra con le loro imprese: dall'atletica alla boxe.
Mo Farah fatto Sir dalla Regina, gloria sportiva nazionale, oggi 39enne padre felice con tanto di prole, è uno di questi con l'aggravante, ha raccontato, di essere stato un immigrante clandestino. Anzi peggio. È arrivato nel Regno Unito non come rifugiato, così diceva quella che ormai è leggenda, bensì è stato venduto ed obbligato a lavorare da bambino come servo per accudire altri bambini in una famiglia somala. Secondo le leggi inglesi Mo, raccontandosi così, rischiava di incorrere nelle conseguenze per i tratti illegali dell'ingresso nel Paese e per aver ottenuto la cittadinanza. Ma il governo britannico ha fatto sapere che non ci saranno provvedimenti: Sir e Icona era e tale resterà. Ed è forse questa la ragione che lo ha indotto a riesumare tranquillamente la storia incredibile di un incredibile (a parole, non a fatti) campione. Lui, come tanti, infilato nei fatti di sport che insegnano a credere nel futuro e in se stessi. Poi, certo, ci vuole qualche colpo di fortuna e Mo Farah lo ha trovato in un insegnante amico. La prima storia diceva che Farah era arrivato dalla Somalia come rifugiato politico con i genitori. Oggi, invece, si scopre che la madre e due fratelli vivono in Somalia. Era neppur vero che il padre fosse consulente informatico, nato a Londra, trasferito in Somalia dove si era sposato, e tornato in Inghilterra.
Dunque la storia, nuova e si presume vera, parte con il piccolo Mo che, in realtà, si chiamava Hussein Abdi Karim, figlio di un contadino somalo ucciso durante la guerra civile, portato a Gibuti con la famiglia, venduto a 9 anni ed affidato ad una donna, che non conosceva, incaricata di farlo arrivare illegalmente, con passaporto falso, nel Regno Unito. Ma una volta giunto a destinazione, il bambino venne consegnato ad una famiglia che ne fece un servo. Hussein vide la donna stracciare il biglietto sul quale erano scritti i contatti con la sua gente e da quel momento capì, dice lui, «di essere nei guai». Anzi di peggio, davanti alla minaccia della donna: «Se vuoi rivedere la famiglia, non dire niente».
E niente fu, finché non venne mandato a scuola. Parlava male l'inglese e la tutor, Sarah Rennie, notò che i suoi genitori non si presentavamo mai. Era un bambino alienato che solo nella corsa esprimeva senso della vita, una sorta di linguaggio. Farah rivelò a Alan Watkinson, il professore di educazione fisica, la sua vicenda, il passato in Somalia, il servizio da schiavo a cui era sottoposto. E da qui cambiò la storia. I servizi sociali lo affidarono ad una famiglia somala. Gli arrivò la cittadinanza, iniziò il percorso nelle gare internazionali che lo hanno portato ad essere un fuoriclasse. Fuoriclasse in tutti i sensi, nel correre della vita. Chissà mai se Mo Farah avrà letto «If we must die» («Se dobbiamo morire»), poesia di Claude Mc Kay, autore afro americano che chiamava i neri d'America a morire con nobiltà, interpretandone la rabbia. Mo, anche se non l'ha letta, l'ha ben interpretata: è morto il suo passato, non la sua storia.
Michele Antonelli per gazzetta.it l'1 luglio 2022.
Velocità, classe, eleganza. Nato a Birmingham, Alabama, il 1 luglio 1961, Carl Lewis ha scritto la storia dell'atletica a suon di successi, protagonista – tra Mondiali e Olimpiadi – di un’epopea senza pari. Tutto inizia a Los Angeles, nel 1984, con la conquista di quattro medaglie d'oro che gli permettono di eguagliare il record di Jesse Owens del 1936: 100, 200, salto in lungo e 4x100.
Il "Figlio del vento", come venne ribattezzato in un’indimenticabile prima pagina della Gazzetta, trionfò poi nei 100 a Seul 1988 (gara che vide la squalifica di Ben Johnson), rassegna in cui confermò l'oro nel lungo, con argento nei 200. Nel lungo vinse poi a Barcellona '92 (dove salì sul gradino più alto del podio nella 4x100) e Atlanta ’96.
E ai Mondiali? Otto i titoli iridati messi in bacheca, con le vittorie nei 100 di Helsinki '83, Roma '87 e Tokyo ’91 a dar lustro al palmares, accompagnati dagli ori nel lungo a Helsinki e Roma e nella 4x100 a Helsinki, Roma e Tokyo. Successi valsi, nel 1999, la nomina dell’Iaaf ad atleta del secolo, dopo una carriera di risultati roboanti.
La passione per l’atletica è un affare di famiglia. Entrambi i genitori di Carl Lewis erano atleti e Carol, sua sorella, come lui scelse l’atletica leggera. Diplomatosi in seguito alla Willingboro High School, continuò gli studi all’università trasferendosi a Houston, dove iniziò a farsi notare in alcune gare di velocità. In carriera, il "Figlio del vento" ha migliorato 12 record del mondo, correndo i 100 metri per 15 volte sotto i 10" e restando dominatore nel salto in lungo per 65 gare consecutive: "Gli altri migliorano, noi Lewis siamo già perfetti", disse.
"Ho scoperto che un atleta non ha bisogno di proteine animali per avere successo. Il mio migliore anno nelle competizioni di atletica leggera è stato quando mi sono convertito al veganismo". Chiaro, semplice, diretto. Con queste parole, Carl Lewis commentò – in passato – il passaggio a un’alimentazione di tipo vegano per motivazioni di carattere etico e religioso. Curiosità. Nel 1987 incise inoltre un singolo musicale con il suo gruppo, Carl Lewis and the Electric Storm. Titolo? Break It Up.
"Two weeks until my birthday. Still working hard". Tradotto? Mancano due settimane al mio compleanno. Lavoro ancora duramente". Come mostrato dalle foto pubblicate sui social, il "Figlio del vento" continua a correre e a tenersi in forma, tra un allenamento e l’altro. Tra palestra, pesi, uscite in bici e workout a corpo libero il 61enne Carl Lewis non mostra i segni del tempo. Come le sue imprese, tasselli di una carriera da predestinato incastonati nella storia.
Carl Lewis, che fine ha fatto: Owens, lo spot coi tacchi, il no a Trump, Ballando con le stelle, la (difficile) carriera di tecnico. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera l'1 luglio 2022.
È stato uno dei più grandi atleti di tutti i tempi, fenomeno nello sprint e nel lungo e protagonista fuori dalle piste per la sua immagine da «divinità» ambigua, lontana e mai troppo amata. Oggi a 61 anni allena a Houston e continua a impegnarsi in battaglie sociali
Un fenomeno totale
L’età — dice lui — è solo un numero. E per raccontare i 61 anni di Carl Lewis, nato a Birmingham in Alabama l'1° luglio 1961, i numeri da soli potrebbero anche bastare: nove ori e un argento olimpico tra 100, 200, 4x100 metri e salto in lungo, otto ori, un argento e un bronzo mondiali. Quattro titoli nel salto in lungo li vinse in quattro edizioni consecutive dei Giochi, unico a riuscirci nell’atletica assieme al leggendario discobolo Al Oerter, uno dei tre in assoluto con il velista Elvstrom. Abbassò due volte il primato del mondo della 4x100, stabilì una volta quello dei cento, sfiorò soltanto i primati di Mennea sui 200 e soprattutto quello, leggendario, di Bob Beamon nel lungo (8,90) che gli fu soffiato in una incredibile finale mondiale (Tokyo, 1991) dal connazionale Mike Powell che balzò a 9,95: per Lewis una grandissima delusione nella gara che amava di più e dove nessuno ha più saltato le sue misure. Carl stabilì però quello indoor, saltando 8 metri e 79. Ebbe una carriera agonistica straordinariamente lunga, dal 1979 al 1996 quando vinse l’oro nel lungo ai Giochi di Atlanta a 35 anni. Insomma, un fenomeno totale.
Lewis come Owens
In tempi in cui le scarpe da pista non avevano il «tacco» e non esistevano speciali accorgimenti tecnologici, Lewis fu l’unico dopo Jesse Owens (negli anni Trenta) a dominare tutte le specialità di velocità e il lungo, con una versatilità oggi impensabile per sprinter molto più muscolati. Ai Giochi di Seul del 1988 fu umiliato sui 100 metri dal canadese Ben Johnson, pur stabilendo il nuovo record mondiale con 9”92. Johnson venne beccato dall’antidoping e cacciato dal Villaggio poche ore dopo, Lewis recuperò l’oro olimpico che gli spettava senza infierire più di tanto sull’avversario caduto in disgrazia.
Figlio del vento
Soprannominato il «figlio del vento», vera star planetaria dello sport, Lewis era molto lontano dal prototipo dello sprinter che andava e va per la maggiore: alto, aveva masse muscolari non ipertrofiche, puntava tutto su agilità e capacità di accelerazione nella seconda parte di gara, le qualità che gli permisero anche di eccellere nei salti.
La pubblicità coi tacchi a spillo
Dio degli stadi, Lewis non fu amatissimo dal pubblico per il suo ostentato narcisismo e la scarsa umiltà che lo allontanava dall’ipocrita immagine dell’atleta tipo: era una divinità e se ne rendeva conto. Rifiutò di essere sponsorizzato da Coca Cola giudicando l’ingaggio non adatto alla sua statura mediatica da rockstar, fu rifiutato da Nike che all’epoca ne giudicò l’immagine troppo ambigua: oggi di Nike è testimonial. E, proprio giocando sull’ambiguità, nel 1994 realizzò una leggendaria campagna pubblicitaria per la Pirelli («Il potere è nullo senza controllo», era lo slogan) dove, fotografato da Annie Leibovitz, posò sui blocchi indossando due scarpe rosse da donna con i tacchi altissimi. La campagna passò alla storia. L’America puritana lo mise in croce e gli diede del gay. Per l’altra America, quella più illuminata, divenne un’icona.
A «Ballando con le stelle»
Lewis aveva provato a lanciare la sua carriera di cantante quando ancora gareggiava (l’album del 1985 «non era male — sosteneva — solo che semplicemente non era buono»). Poi, terminata la carriera, ha tentato senza troppa convinzione di diventare un uomo di spettacolo totale e recitare divenne la sua priorità. Apparve in una serie TV e in sei film ma il «Tournament of Dreams» del 2007 non funzionò. Nel 2010 è stato ospite per una sera al programma tv «Ballando con le stelle» e ha danzato in coppia con la ballerina professionista Nancy Berti.
Anti Trump: la carriera politica
Nel 2011 Lewis annunciò l’intenzione di correre per il Senato nello stato del New Jersey con il partito democratico. Fu però costretto a ritirarsi dopo che i repubblicani avanzarono una protesta legata ai requisiti di residenza: anche se effettivamente nato nel New Jersey, Lewis aveva trascorso più tempo in California. Di recente, l’ex campione ha ammesso che quel suo tentativo di entrare in politica nacque perché era «annoiato», aggiungendo che la gente di New Jersey »ama lamentarsi, ma non gli piace fare nulla per risolvere i problemi». Famose poi le sue uscite contro Donald Trump ai tempi della sua presidenza: «È razzista, misogino e pieno di pregiudizi».
Il doping, l’alcol, il sociale
Ambasciatore Fao, paladino dei diritti civili e della lotta al doping nello sport, inciampò nel 2003 in una illazione secondo cui sarebbe risultato positivo per piccole tracce di stimolanti prima delle Olimpiadi del 1988. In realtà all’epoca non fu trovato positivo, ma la vicenda increspò la sua immagine perfettamente pulita. Una settimana dopo si schiantò con la propria auto contro un muro. Il suo livello di alcol nel sangue era oltre il limite e così fu condannato alla libertà vigilata con 200 ore in tre anni di servizio alla comunità con la disposizione di frequentare gli Alcolisti Anonimi.
La dieta vegana
Nel 1990, quando è ancora il più forte centometrista del mondo sceglie la dieta vegana per motivi etici e religiosi: «Ho scoperto che un atleta non ha bisogno di proteine animali per essere un atleta di successo. Infatti il mio migliore anno nelle competizioni di atletica leggera è stato quando mi sono convertito al veganismo».
Allenatore a Houston
Oggi Carl Lewis allena atleti di livello nazionale alla Houston University e vive vicino al campus accanto alla madre Evelyn . A chiamarlo e convincerlo è stato il suo vecchio compagno di squadra e amico Leroy Burrell. Gl inizi non sono stati facili perché, diceva, non sapeva come comunicare con atleti che avevano una frazione del suo infinito talento. «Ora so che quello che vogliono sentire è la verità — spiegò poi —. Dico ai ragazzi che ho vinto nove medaglie d’oro. Che sono stato l’olimpionico del secolo. Non prendo un centesimo per allenare per questa università. Non ho bisogno di niente da loro, ma voglio che vincano e voglio che lo facciano per l’Università di Houston, lo voglio per loro e lo voglio per la loro famiglie». Non ha dimenticato le campagne contro la fame nel mondo e il razzismo. Ha un figlio (Bakim) di cui si sa poco o nulla.
Nadia Comaneci. Il salto più lungo. Così decisi di fuggire dalla Romania del dittatore Ceaușescu. Nadia Comăneci su Il Corriere della Sera il 17 giugno 2022.
Nel libro “Lettera a una giovane ginnasta” (pubblicato dal Saggiatore), la campionessa olimpica Nadia Comăneci racconta la sua carriera atletica, le soddisfazioni e le difficoltà quotidiane di un’epoca complicata. Fino al momento in cui scelse, rischiando, di lasciare il suo Paese.
Più volte durante il resto delle sei ore mi sentii schiacciata dal peso di ciò che stavo facendo. Non riuscivo a credere che avessi preso la decisione di defezionare, che stavo rischiando la vita e di non rivedere più i miei genitori e mio fratello. Tuttavia, non ho mai pensato di tornare indietro. Dove sarei tornata? In casa mia dove a fatica riuscivo a pagare il riscaldamento? A un lavoro senza prospettive, per farmi trattare come se non avessi mai fatto nulla per il mio paese? Incontro a un futuro che non esisteva? Non equivaleva a morire?
Ci furono vari momenti in cui non credetti alle indicazioni della nostra guida. Diceva: «Se non teniamo la sinistra» finiremo un’altra volta in Romania. Tenete la sinistra, che razza di indicazione era? Volevo vedere una bussola, una cartina o qualcos’altro. Tuttavia non c’era altro da fare nell’oscurità che seguire quel tipo e sperare che sapesse dove stesse andando. Ci disse che dopo aver attraversato cinque metri di terra sporca e nera ci saremmo ritrovati nei pressi della frontiera. Attraversammo tanto sporco, ma nessun confine. È tutto così stupido, ricordo di aver pensato. Finirò ammazzata e tutto per seguire un tipo che non ha il senso dell’orientamento. Tuttavia non dissi nulla, nessuno poteva rompere il silenzio e parlare. Mi concentravo unicamente per evitare che mi battessero i denti.
Ci sono molti luoghi non recintati lungo il confine e liberi da guardie. Un paese non può controllare ogni centimetro quadrato del proprio confine. Avremmo dovuto attraversare la frontiera con l’Ungheria in uno di quei varchi. Così la nostra guida ci avrebbe portati fino alla strada dove ad attenderci con una macchina ci sarebbe stato Constantin. Ma non trovammo mai il punto esatto dove saremmo dovuti passare. Non trovavamo la strada, figuriamoci Constantin! Non ci rendemmo nemmeno conto di aver attraversato la frontiera ungherese, finché non scorgemmo una targa con un lungo nome e tante zeta ed esse. Certamente non si trattava di un nome rumeno. Il nostro gruppo inzaccherato camminava, camminava e camminava, dritto verso due agenti di polizia. Constantin ci disse che, una volta in Ungheria, se avessimo incontrato la polizia dovevamo dire l’unica parola che ci aveva insegnato, ovvero hello. Il fatto è che le guardie vollero andare ben oltre il nostro hello, cominciarono a fare domande e noi li guardavamo come idioti. In più, era abbastanza sospetto vedere un gruppo di sette individui camminare in una strada deserta alle due di notte. Dove diavolo stavamo andando? Le guardie ci chiesero di seguirli. Ci misero in una macchina e ci portarono al commissariato di polizia ungherese. Nel tragitto non volava una mosca. Non perché non potessimo parlare, ma perché eravamo ammutoliti dal terrore. Ciascuno di noi veniva interrogato separatamente.
Quando la polizia vide i miei documenti, mi offrirono immediatamente ospitalità in Ungheria. Ero una ginnasta famosa quindi, ai loro occhi, una bella preda. Quando ripenso oggi a quel momento mi domando perché valessi tanto per loro. La mia carriera era finita e sebbene fossi considerata un’allenatrice molto brava, cos’altro potevo dare all’Ungheria? Anche ad altri due del nostro gruppo venne offerto asilo. Agli altri invece venne detto che sarebbero dovuti rientrare il giorno dopo in Romania. Scoppiarono a piangere. «Ascoltate» dissi alla polizia «rimango solo a condizione che nel vostro paese possa restare l’intero gruppo.» Queste parole uscirono dalla mia bocca prima ancora che potessi soppesare davvero la situazione. La ginnastica mi ha insegnato a fare squadra, in questo caso la mia squadra era composta dai miei compagni di defezione. Ho solo pensato che non fosse giusto. Avevamo corso tutti gli stessi pericoli e attraversato il confine, dovevamo poter rimanere tutti. «Siamo arrivati insieme e insieme resteremo» dichiarai. Con mia totale sorpresa la polizia acconsentì. Non solo, ma a tutti offrirono una sistemazione in hotel per una settimana, finché non ci saremmo ripresi, buoni pasto e persino un aiuto per trovare lavoro. Sapevo che non saremmo rimasti in Ungheria, ma accettammo questa cortesia dal governo, poiché eravamo stremati dal freddo, affamati e avevamo un disperato bisogno di dormire.
Nel frattempo Constantin, vedendo che il piano era andato storto, ci intercettò un attimo prima che lasciassimo la stazione di polizia, disse ai poliziotti che ci avrebbe portato lui in albergo. Tuttavia, ne scelse un altro. Sapeva che i media e la polizia ci avrebbero trovati presto e voleva darci un po’ di tempo extra per riflettere sulla prossima mossa.
Vedi, amica mia, l’Ungheria non era la nostra destinazione finale. Era troppo vicina alla Romania. Decidemmo tutti assieme di provare a varcare il confine con l’Austria e di chiedere asilo lì.
Passammo una notte insonne, tutti ammassati in una stanza. Al mattino seguente, notai la mia foto sulla prima pagina di un giornale, ma non potevo capire cosa dicesse l’articolo. Sebbene non avessi bisogno di leggere, era abbastanza chiaro che ero già «ricercata» in Romania. Vai avanti, mi dissi, se non vuoi che la logica antidefezione comporti la tua riconsegna da parte degli ungheresi alla Romania. Più tardi quel mattino, il gruppo si divise in due macchine. Constantin ne guidava una e il suo amico l’altra. Eravamo diretti verso la frontiera con l’Austria.
C’erano sei ore di macchina per arrivare al confine austriaco. Nessuno stava seguendo né tenendo d’occhio le nostre macchine. Eravamo un passo avanti agli ungheresi e ai rumeni. Alla frontiera, gli austriaci fermavano le macchine a campione, per controllare i documenti. Constantin decise di lasciarci in un bar mentre avrebbe passato il confine per vedere se veniva fermato.
Al suo ritorno ci disse che era stato fermato e che sarebbe stato troppo rischioso tentare di passare con noi a bordo. Avremmo attraversato il confine da un’altra parte, di notte.
Che posso dire di quel momento? Semplicemente vai avanti e provaci. L’idea di passare un’altra notte nel tentativo di attraversare un confine non era il massimo, ma che altro potevo fare? Constantin ci disse che ci avrebbe atteso ancora una volta oltre il confine. Dovevo credergli, perché non c’erano alternative.
In ginnastica, potevo in qualche misura avere il controllo delle cose, se facevo bene venivo premiata, con l’apprezzamento del mio paese. Ma la vita era un’altra storia e il processo disumanizzante in Romania, nonché i pericoli e le incertezze della defezione mi dimostravano quanto fosse irrisorio il controllo che avevo sulle circostanze della mia vita.
Constantin ci disse dove attraversare la frontiera. Aspettammo il buio per essere pronti e iniziare a camminare. Ero più impaurita della prima volta, forse perché ero a un passo dal mio obiettivo e mancarlo ora sarebbe stato ancora più devastante che l’essere catturati in Romania. Rimani tranquilla, dicevo a me stessa. Concentrati sulla respirazione, sul silenzio e non perderti. Concentrati nel rimanere vigile. C’erano sette reticolati di filo spinato da superare e benché io non ricordi di aver sentito graffiare, il mio corpo si ricoprì di tagli da punte metalliche affilate. Sono incredibilmente coordinata ma è impossibile non restare feriti attraversando del filo spinato. La maggior parte del gruppo era coperto di sangue. Ci vollero circa due ore per superare tutti quei reticolati. Ero stravolta quando raggiungemmo la strada dove avrebbe dovuto raccoglierci Constantin. Ci aveva istruito a restare nascosti poiché sarebbero potute transitare macchine della polizia. Constantin disse che aveva progettato di rompere un faro in ognuna delle macchine, affinché potessimo capire quando uscire dal nascondiglio.
Sdraiati a pancia sotto, nascosti nell’erba, guardavamo ogni macchina che passava, attenti a quella con un faro rotto. Quando ne vedemmo due in fila con un solo faro, saltammo in piedi e ci infilammo nelle macchine. Quella notte, dormimmo tutti sul pavimento in un’unica stanza d’albergo. L’atmosfera in quella stanza, però, non poteva essere più diversa da quella dell’albergo in Ungheria. Finalmente stavamo festeggiando. C’era un’aria di sollievo generale e di gioia piena. Una volta in Austria, tutti tranne me andarono per i fatti loro. La maggior parte del gruppo andò in rifugi per senzatetto. Veniva dato loro un posto dove stare e dormire, in attesa che venisse qualcuno a offrire un lavoro. Una volta ottenuto un lavoro, con un garante, potevano fare richiesta al governo per ottenere la cittadinanza. Ero grata di non trovarmi da sola in un paese straniero di cui non conoscevo la lingua.
Da “Lettera a una giovane ginnasta”, di Nadia Comăneci, Il Saggiatore, 2022, pagine 224, euro 21
Sofia Raffaeli. Sergio Arcobelli per ilmessaggero.it il 20 giugno 2022.
Sofia Raffaeli ha scritto una nuova pagina di storia nella ginnastica tricolore. In trentasette edizioni precedenti degli Europei, infatti, nessuna azzurra era mai salita su un podio individuale nella ritmica. Ci ha pensato la 18enne marchigiana di Chiaravalle a colmare questo vuoto, addirittura portando a casa non una, non due, ma ben tre medaglie continentali: per l’esattezza due ori, al cerchio e alle clavette, ed un argento, alla palla.
La piccola e minuta Sofia, che vanta già un movimento che porta il suo nome, il `Raffaeli´ appunto, si è così riscattata alla grande dopo la delusione del quarto posto nel concorso generale individuale di sabato. E ora il sogno si chiama Parigi 2024. Prima, però, c’è una maturità da affrontare…
Sofia, che giornata è stata quella di ieri?
«Bellissima. Sono riuscita ad eseguire tutti e tre gli attrezzi in modo perfetto. Sono emozionata ma anche consapevole che c’è ancora molto da migliorare».
Come ha fatto a smaltire la delusione del sabato?
«Dopo il quarto posto nell’All Around che mi aveva lasciato l’amaro in bocca, volevo dimostrare al pubblico e alla giuria di saper fare tutto e bene».
Grazie a queste medaglie, lei è entrata nella storia della ginnastica tricolore, che tra l’altro sta vivendo un momento d’oro.
«Per me è un onore poterne fare parte, ma il merito non è solo mio. Dedico le medaglie in primis alle mie allenatrici Julieta Cantaluppi e Kristina Ghiurova, poi alla Polizia di Stato, il mio gruppo sportivo di appartenenza, alla Federazione Ginnastica che mi ha dato questa bellissima opportunità e, ovviamente, alla Ginnastica Fabriano dove mi alleno».
Studia e si allena a Fabriano?
«Sì, e quando torno dagli Europei ho gli scritti della maturità. Ho frequentato il quinto anno del liceo in scienze umane, anche se mia madre, Milena Martarelli, insegna ingegneria all’Università di Ancona ed è una molto matematica. Anche a me piace, ma per il liceo ho scelto un altro tipo di scuola e di materie. Mio papà, Gianni Raffaeli, invece fa l’architetto».
Come è nata la passione per la ginnastica?
«Quando ero piccola, mia mamma mi ha fatto vedere una gara di ritmica dove c’era anche la mia allenatrice Juli. E niente: sono andata da lì, mi ha fatto fare la spaccata e il giorno dopo ero già in palestra. Mi sono trovata subito benissimo con Juli, che mi ha cresciuta sin da piccola da quando ho iniziato a fare ginnastica a 6 anni. Penso che sia uno degli sport più belli che esistano».
Ha qualche hobby?
«Nell’ultimo periodo mi sono allenata tanto, non ho avuto molto tempo libero. Quando l’avevo cercavo di studiare il più possibile, in vista della maturità. Ma mi piace molto leggere, stare all’aria aperta visto che siamo tutto il giorno al chiuso nel palazzetto».
Che autori legge di solito?
«Mi piacciono molto i romanzi, tipo Anna Karenina o i libri di Jane Austen. Mi è rimasta questa passione da mia mamma che me li ha sempre letti».
Che rapporto ha, invece, con i social?
«Li uso, ma con moderazione. È bello ricevere i complimenti delle ragazze che fanno il tifo per me. Ma non mi piace per niente il fatto che molte coetanee stiano sempre con il telefono tra le mani, sempre su Tik Tok e Instagram, come se esistesse solo questo. La vera vita sta fuori. E questa cosa è peggiorata con il Covid. Vorrei far passare il messaggio che praticare uno sport sin da bambine può solo che far bene».
Prossimi impegni agonistici?
«A luglio gareggerò ai World Games a Birmingham. A settembre c’è il Mondiale a Sofia, in Bulgaria, che metterà in palio i primi pass olimpici per le prime tre classificate. Spero che il mio nome porti fortuna!».
Chi è il suo modello di riferimento?
«L’israeliana Linoy Ashram, che ha vinto le Olimpiadi di Tokyo e si è ritirata».
Cercherà di imitarla a Parigi?
«Intanto, sogno di partecipare a un’Olimpiade. Poi chissà».
Silvia Salis. "Io, principessa col martello, il potere e mio marito". Eleonora Barbieri il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
Olimpionica di atletica, vice-presidente del Coni, moglie del regista Fausto Brizzi, ha scritto un libro per bambini: "Contro i luoghi comuni".
Stella è «solo» una bimba mingherlina con il sogno di lanciare quel pesantissimo martello lontano, così lontano da battere anche i maschi... Stella vive praticamente sulla pista, a Villa Gentile, il campo storico dell'atletica a Genova: e pare proprio destino, che si dedichi al lancio del martello, ma l'allenatore Robori sembra non essere d'accordo. Che Stella non si arrenderà si capisce subito, anche perché è La bambina più forte del mondo, come si intitola il libro, pubblicato da Salani editore, che ha scritto Silvia Salis, la quale è... beh, una specie di Stella. Nata a Genova, ha iniziato a fare atletica a Villa Gentile a 6 anni ed è diventata campionessa di lancio del martello: molti successi, titoli nazionali a ripetizione, due Olimpiadi; poi il ritiro per infortunio e l'inizio di una nuova vita, nella politica sportiva, come membro del Consiglio federale Fidal e del Consiglio nazionale del Comitato olimpico italiano, fino a essere eletta - prima donna - vicepresidente vicario del Coni nel 2021. «Non avevo mai scritto nulla, però so che ai ragazzi il percorso dell'eroe piace...».
Silvia Salis, come le è venuta l'idea del libro?
«Avevo una storia che volevo raccontare, perché credo sia particolare. Ho vissuto in un campo di atletica: a tre anni con la mia famiglia ci siamo trasferiti in una casa con la pista davanti alla porta... Un sogno. E questo mi ha portato, poi, alla carriera sportiva, fino alle Olimpiadi, e a diventare vicepresidente del Coni a 35 anni. Mi sono basata su scelte non usuali, anche nel percorrere la carriera nella dirigenza sportiva».
Non proprio il regno delle donne.
«Qualcosa sta avvenendo ma resta un mondo molto maschile. Questa mia storia credo possa aiutare ragazzi e ragazze con inclinazioni un po' speciali».
La storia è tutta autobiografica?
«All'80 per cento. Per fortuna non ho mai ricevuto rifiuti dal mio allenatore... E il mio infortunio è stato diverso. E poi non mi sono mai dovuta allenare di nascosto, di notte, come Stella: ma questo mi serviva per far capire che, se hai un sogno, vivi anche con una certa indipendenza e trovi gli spazi per coltivarlo. A volte i ragazzi sono figli dei desideri dei genitori, invece il mio voleva essere un inno alla libertà. Qualcosa che bisogna allenare fin da piccoli».
È cresciuta davvero a Villa Gentile?
«Sì, a Genova Sturla, a cento metri dal mare».
Tutte le fortune.
«Tutte. Era un campo legato a tre istituti, fino al liceo: perciò, per tutta la scuola, mi sono mossa di 300 metri. E questo è stato fondamentale per diventare un'atleta, perché serve tempo per andare ad allenarsi».
Quando ha iniziato?
«I primi corsi di atletica a sei anni. Alla fine delle elementari ho cominciato a fare salto in lungo e poi, a 11-12 anni, il lancio del martello, che però per le donne non era ancora disciplina olimpica».
Quando lo è diventato?
«Nel 2000. Avevo quasi 15 anni. Ero davanti alla tv a guardare le Olimpiadi di Sydney e dissi a mio papà: Ah va beh, ci andrò anch'io. E poi nel 2008 le ho fatte davvero».
A quante Olimpiadi ha partecipato?
«Quasi tre. Mi sono ritirata pochi mesi prima di Rio. Mi ero allenata per qualificarmi, ma da due anni soffrivo di una pubalgia che mi distruggeva: non riuscivo a camminare, a guidare, a vivere... Era troppo».
Che cosa faceva ad atletica?
«I ragazzini fanno tutto: corsa, salto, giochi propedeutici, ostacoli bassi... Poi io facevo nuoto, pattini, bici: ero una scalmanata. Ero una di quelle bimbe impegnative, sa».
Nel salto in lungo come andava?
«Bene, però ero ancora ragazzina. È dopo le medie che ci si specializza ed è stato allora che ho incontrato il mio allenatore, secondo il quale avrei fatto bene nel lancio del martello, nonostante fossi secca».
Era troppo magra?
«Ho un fisico non comune per la mia specialità: certe colleghe sono alte 1,85 metri e pesano 85 chili... Non c'è allenamento per arrivare lì».
Non è certo bassa...
«Sono 1,79, ma non ero alta per il mio sport».
È bionda, alta, bella: sembra una principessa. Una principessa che fa il lancio del martello.
«La forza spesso viene associata a qualcosa di non femminile, invece le donne possono essere forti e poi essere, anche, quello che pare a loro. Per tutta la mia vita da atleta ho subito lo stupore di chi mi chiedeva: ma sei forte? C'è quella favola che le donne siano forti solo d'animo...».
Che la sua storia smentisce.
«Anche per questo ho scritto il libro. Perché i bambini devono sentire le bambine come loro pari; e perché le bambine devono sentirsi forti, come Stella. Quando mi allenavo ero dieci chili in più di adesso: i pesi e gli allenamenti avevano trasformato il mio corpo, ma ero felice, perché ero il mio strumento di realizzazione personale. Invece si dice: se fa questo sport si rovina...»
Non è così?
«Sembra che la bambine siano bamboline di ceramica... Per me è stato un cambiamento in cui mi sentivo realizzata, e poi vivevo fra atleti e atlete forti: il mio canone non era una ragazzina con la taglia 38».
Com'era la vita da sportiva?
«È diventata tale a tempo pieno dopo il liceo: avevo due allenamenti al giorno, ciascuno di 3/4 ore, poi la fisioterapia e altre attività; poi bisogna mangiare in un certo modo, dormire tanto, niente vacanze, le gare nei weekend. C'è un rigore deciso».
Che cosa l'ha conquistata nel lancio del martello?
«Tutta la sua difficoltà tecnica. Il fatto di dover imparare un movimento così complesso mi ha affascinato e mi ha anche permesso di dire la mia, sfruttando proprio l'aspetto tecnico».
È così complicato?
«Sì. È un movimento velocissimo, dove passi da un piede all'altro girando su te stesso, con questo attrezzo che ti tira; e devi capire esattamente quando lasciarlo, perché l'angolo di uscita è soltanto uno, altrimenti il lancio è nullo».
Quanto tempo serve per imparare?
«Anni e anni. E poi devi continuare, per fare sempre più metri».
Su che cosa ci si allena?
«Sulla forza esplosiva, la coordinazione, l'elasticità muscolare».
La forza è già dentro, o la puoi allenare?
«Un po' è parte del corredo genetico, ma l'allenamento è preponderante. Fai pesi, balzi, sprint, corsa veloce, una marea di lanci, esercizi di coordinazione motoria... Devi essere forte ma elastica, potente ma senza appesantirti».
È faticoso?
«Sì. E, tante volte, la fatica non ti permette di essere così lucido sulla complessità tecnica del movimento che, poi, dura due secondi».
La soddisfazione più grande?
«Qualificarmi per le Olimpiadi. Poter dire: ce l'ho fatta».
Quanto le è costato lasciare?
«La cosa più difficile è che, da un momento all'altro, viene a mancare il tuo ruolo, anche verso te stesso: sei una atleta, la tua vita ruota tutta intorno a lì e poi, a un certo punto, quella cosa non la puoi più fare. E tutto quello che hai fatto in precedenza, quelle abilità che hai sviluppato, non ti servono più, e perdono significato».
La vita dopo è difficile?
«Per tanti è difficile ricollocarsi e trovare nuove strade. Devi capire che cosa vuoi essere. Lo dico sempre ai giovani atleti: non aspettate di arrivare alla fine per capire quello che volete fare, perché ormai è troppo tardi; studiate, costruitevi una doppia carriera, e cercate di arrivare preparati».
Ma il suo allenatore era così scettico come quello di Stella?
«No, anzi. Valter Superina mi ha allenato per 15 anni ed è stato come un secondo padre per me, con il quale ho trascorso tutti i giorni dai 15 anni ai 30...»
Esiste davvero la paura di vincere?
«Quando aspetti qualcosa per la quale lavori così tanto, più si avvicina, più sei spaventato. A volte hai perfino un senso di rifiuto».
E come si supera?
«Con l'esperienza».
Stella non vuole correre gli ostacoli, vuole essere libera.
«È la metafora del libro: gli infortuni, l'allenamento sono la frustrazione, che nella vita è fondamentale. Ai bambini si cerca di evitare qualsiasi frustrazione, ma la vita nel mondo reale è quella... Per un grande obiettivo ci sono grandi ostacoli, e vanno affrontati con fermezza, a volte anche aggirati. Bisogna capire il proprio livello e che cosa fare per migliorare».
Che cosa le manca di più dello sport?
«Il contesto. Vivere con gli amici, insieme, un sogno grande. L'amicizia che regala lo sport è forse la parte più bella».
Fra il 2010 e il 2015, in Italia, vinceva sempre lei.
«È stato un periodo buono in Italia, mi sono levata qualche soddisfazione. Lo sport è molto meritocratico e ti insegna quanto fai e vali, sportivamente: ci sono atleti che vincono le Olimpiadi, io ho partecipato. Posso dire di essere stata una buona atleta: sognavo di vincere le Olimpiadi, non è successo, però ho capito di avere anche molto altro nella vita».
Il «dopo»?
«Mi sono concentrata su quello. Alle elementari dicevo che avrei fatto il sindaco di Genova... Così ho studiato Scienze politiche».
Nel futuro che cosa vede?
«Quello che sto facendo, la politica sportiva. Sono nel posto in cui avrei voluto essere: quando hai una esperienza da condividere, il bello è poter incidere sulla vita delle persone. Il solo fatto di vedere una ex atleta che, a 35 anni, è vicepresidente del Coni, è un segnale che le cose stanno cambiando. E, magari, anche un ragazzo può aspirare a fare lo stesso percorso».
Quanto contano le donne nella dirigenza sportiva?
«Ai vertici qualcosa si è smosso, nel quotidiano meno. È chiaro che i numeri debbano cambiare. Certo, il piede nella porta va messo in vista, ma bisogna che porti a un riflesso sul territorio. La chiave è imparare a fare squadra, uomini e donne insieme, e non presentarsi come un team di genere».
Nel frattempo si è anche sposata, col regista Fausto Brizzi.
«Nel novembre 2020, con la mascherina. E poi mi sono risposata un anno dopo, alle Maldive, senza mascherina e coi piedi nella sabbia».
Ha destato scalpore perché si è fatta vedere col suo futuro marito proprio quando lui era nel mezzo del «ciclone», per le accuse - poi archiviate - di presunte molestie mosse da parte di alcune ragazze.
«Provo tristezza per chi basa le scelte della propria vita su quello che pensano gli altri, che poi non si sa chi siano questi altri... Io mi baso su quello che vedo. Mio marito non è stato assolto: non c'erano elementi per far partire il procedimento. Parliamo di niente. Io cerco di valutare le persone con indipendenza, e non con il metro della pubblica inquisizione, che trovo talmente ipocrita...»
Con un marito regista è entrata un po' anche nel mondo del cinema ora?
«Sì, di rimbalzo. Non è un mondo che invidi: preferisco un mondo più meritocratico, come quello dello sport. Però mi piace molto. Io seguo mio marito sul set, e lui mi segue alle gare».
Che sport le piacciono di più?
«Atletica, pallanuoto, perché sono ligure e mio padre ci giocava, e poi nuoto, sollevamento pesi, sport di combattimento. E anche il calcio, sono sampdoriana. Infatti avevo una rubrica sul Secolo XIX che si intitolava Calcio e martello...».
Chi è «la bambina più forte»?
«È tutte le bambine e i bambini che vogliono affermare chi sono, che cosa vogliono, le passioni che hanno. Venticinque anni fa c'era Billy Elliot che voleva ballare, oggi ci sono le ragazzine che vogliono fare judo e martello. E bisogna lasciarglielo fare».
Da ilnapolista.it il 24 maggio 2022.
"Thought I had a dick”. “Pensavano che avessi il cazzo”. Esattamente in questi termini Caster Semenya va allo scontro frontale con i vertici dell’atletica leggera mondiale. Li accusa di averla costretta a prendere farmaci che l’hanno “torturata” e l’hanno fatta stare così così male che temeva che avrebbe avuto un infarto.
In un’intervista esplosiva con HBO Real Sports, la due volte campionessa olimpica degli 800 metri e simbolo degli atleti con differenze nello sviluppo sessuale (DSD) ha affermato che abbassare artificialmente i suoi livelli di testosterone naturale per competere nelle gare femminili è stato “come pugnalarsi con un coltello ogni giorno”.
L’atleta sudafricana ha anche rivelato che quando i dubbi sul suo genere sessuale sono venuti fuori per la prima volta dopo aver vinto il suo primo titolo mondiale a 18 anni, si è offerta di mostrare ai funzionari i suoi genitali per dimostrare di essere una donna. “Pensavano che avessi il cazzo”, ha detto. “E io gli ho risposto ‘sono una femmina. Se vuoi vedere che sono una donna, ti faccio vedere la vagina. Va bene?'”.
Semenya è nata con testicoli interni. Le è stato detto che per continuare a correre nelle gare femminili avrebbe dovuto assumere farmaci per abbassare i suoi livelli naturali di testosterone. “Mi hanno fatto ammalare, mi hanno fatto ingrassare, avevo attacchi di panico, non sapevo se avrei avuto un infarto. È come pugnalarsi con un coltello ogni giorno. Ma non avevo scelta. Avevo 18 anni, volevo correre, volevo arrivare alle Olimpiadi, era l’unica opzione per me”.
Jonathan Taylor, avvocato di World Athletics, ha contestato che i farmaci somministrati a Semenya facessero male. “Jonathan deve tagliarsi la lingua e buttarla via – ha risposto Semenya – Se vuole capire come quella cosa mi ha torturato, li prenda quei farmaci. E capirà”.
Semenya, che ora ha 31 anni, ha assunto i farmaci per diversi anni prima di presentare una causa legale per le gare sulle distanze dai 400 metri al miglio. Dopo i ricorsi infruttuosi presso la Corte Arbitrale dello Sport (TAS) e la Corte Suprema Federale Svizzera, non ha potuto di difendere ai Giochi di Tokyo i titoli olimpici che ha vinto a Londra e Rio. Attualmente è in attesa di un’udienza presso la Corte europea dei diritti dell’uomo e, nel frattempo, ha gareggiato su distanze più lunghe, facendo segnare un personale di 8 minuti e 54 secondi su 3.000 metri a marzo.
In un feroce post su Twitter giorni dopo ha scritto: “Quindi, secondo World Athletics e i suoi membri, sono un maschio quando si tratta di correre i 400, gli 800m, i 1500 e il miglio. Poi una femmina nei 100, 200 metri e negli eventi a lunga distanza. Che razza di scemenza è?”.
Larissa Iapichino: «So cosa vuol dire perdere tutto. Io predestinata? Cerco la normalità». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 22 marzo 2022.
La saltatrice, figlia di Fiona May e Gianni Iapichino, a 19 anni scrive un’autobiografia. «Voglio essere una voce per le nuove generazioni: non smettete mai di sognare». Amici, amore, scaramanzia. Ritratto di una millennial.
Larissa, 19 anni non sono pochi per una biografia? «Mi piaceva l’idea di essere una voce per le nuove generazioni, per i ragazzi in formazione come me. Il messaggio è: non smettete mai di sognare». I suoi sogni Larissa Iapichino li coltiva in volo, tra la rincorsa in pedana e l’atterraggio nella buca della sabbia («e lassù non c’è il tempo di pensare: succede tutto troppo in fretta»). Papà Gianni Iapichino, ex astista, oggi è il suo allenatore; mamma Fiona May, nostra signora del salto in lungo per oltre dieci anni, osserva pensierosa (e silenziosa) dalla tribuna. Era destino che l’erede saltasse in alto o in lungo, l’esempio in famiglia e i geni buoni hanno tracciato la strada ma poiché Larissa è una millennial lungimirante, aperta all’esperienza e autodeterminata, si è parata le spalle con un brillante piano di fuga: «Sono studente lavoratrice all’Università di Firenze, facoltà di Giurisprudenza. Ho dato il primo esame, diritto Costituzionale, che è andato benino. Credevo fosse da remoto, invece all’ultimo hanno autorizzato la presenza in sede e, boom, ho fatto il mio debutto di fuoco!».
A proposito di debutti: oro agli Europei Under 20 di Boras (6,58 m) nel 2019, 6,80 a Savona due giorni prima della maggiore età, 6,91 ad Ancona eguagliando mamma. Cosa significa essere una predestinata?
«Davvero non lo so. In primis sono Larissa. Non sono il risultato né la misura né la figlia d’arte. Sono io con le mie debolezze, le mie emozioni, la mia vita fuori dall’atletica. Sto provando a diventare un’atleta ma soprattutto una donna. E nonostante questa idea della predestinazione, il percorso non è lineare: ci sono gli infortuni, le cadute, le gare sbagliate».
Raccontarsi per iscritto forse serviva anche ad esprimere ad alta voce una normalità che spesso non le viene riconosciuta?
«La normalità è fondamentale. Spiegare il periodo dell’infortunio che mi ha impedito di andare ai Giochi di Tokyo, ad esempio, è stato importante: mi sono spaventata, ritrovandomi stressata e demotivata. In un attimo, ho perso tutto: la forma fisica, le gare, l’Olimpiade».
È vero che da bambina sognava di fare il presidente degli Stati Uniti? «Ero dotata di una fervida immaginazione! Ai miei dicevo cose super fantasiose, immersa com’ero in mondi lontani. Il mio faro erano i libri fantasy, tipo Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo. Parliamo di mitologia, di una scintilla che mi ha convinto che c’è qualcosa di magico in tutte le cose».
E quando ha detto a Fiona che voleva andare alla Casa Bianca…? «Mamma mi ha accarezzato i ricci: in bocca al lupo, tesoro!».
Sono magici anche i social a cui i teenager si abbeverano?
«Il mio social di riferimento è Instagram: mi piace comunicare per immagini. Da esponente della generazione Z, frequento anche Tick Tock ma da spettatrice: mi vergogno a ballare, non posterei mai miei video. Alle medie ero iscritta ai canali degli You Tubers, oggi non più».
Come convive con gli haters?
«Maluccio. Il mio peggior difetto è essere permalosa: me la prendo per niente. Mamma dice: ci saranno sempre persone a cui non piacerai, scegli chi merita la tua attenzione. Gli odiatori si nascondono dietro uno schermo per criticare senza conoscere. Li ignoro».
Sul cellulare, la chat whatsapp più usata è quella con i Moschettieri.
«Io e i miei due più cari amici: ci conosciamo dalla prima liceo, siamo inseparabili. Allo Scientifico siamo entrati bambini e usciti quasi adulti. Oggi frequentiamo tutti lo stesso polo universitario. Quando l’atletica mi porta via per un po’, me li ritrovo sotto casa attaccati al campanello…».
E poi c’è Vittorio, di cognome Bartoli, giovane cestista a Treviso. Cos’è l’amore per una diciannovenne?
«Non sono tipo da troppe smancerie. L’amore è trovarmi in sintonia con un ragazzo gentile, provare a costruire un affetto profondo nonostante l’età. Essendo un atleta, Vittorio mi capisce: sa quanto sono disposta a sacrificare della mia vita privata allo sport».
Come è stato accolto dai Moschettieri?
«Di solito sono protettivi: chi è questo? Cosa vuole? Lui invece si è inserito benissimo. Mamma, che abitualmente è una criticona, e papà non hanno battuto ciglio. E la mia sorellina Anastasia non lo molla un secondo: anzi, spesso quei due si coalizzano contro di me!».
Fiona è un generale, scrive.
«Crescendo si è un po’ smussata, non c’è più bisogno di mettermi in punizione togliendomi il telefonino per settimane… Il regime rigido che c’era in casa mi ha formato. Papà io lo chiamo babbo-montagna: è grosso ma tanto buono, testone come me, da ragazzina per convincerlo a mandarmi a ballare dovevo lavorarlo ai fianchi per giorni. Subito era no, poi mi concedeva quasi tutto!».
Papà Gianni coach è una sua idea.
«Era il periodo dell’infortunio, la motivazione era rasoterra. Babbo ma se mi allenassi tu? Mi ha chiesto mille volte se ero sicura: non perché non si sentisse all’altezza, figuriamoci, ha allenato anche mamma, ma doveva essere una scelta ragionata. E, soprattutto, mia».
Il salto perfetto esiste?
«Mah, devono andare nel verso giusto troppe cose perché possano esistere troppi salti perfetti. È un terno al lotto: forse nella carriera di un’atleta ne esiste uno solo».
Eppure Gimbo Tamberi a Tokyo, per conquistare l’oro dell’alto cinque anni dopo essersi rotto il tendine della caviglia, ne ha imbroccati più d’uno.
«Strepitoso! Ero a Montecarlo, nel 2016, quando si fece male: avevo chiesto ai miei di portarmi al meeting come regalo dei 14 anni. Era un idolo, oggi Gimbo è il mio capitano in Nazionale. E poi a Tokyo, davanti alla tv, ho tifato per la mitica Vanessa Ferrari: la ginnastica è un mio vecchio amore».
È superstiziosa?
«Molto. La superstizione, prima di una gara o di un esame universitario, mi porta ad ammutolirmi. Non parlo più, non do informazioni, mi isolo. Anche la patente l’ho presa di nascosto. In pedana indosso sempre la catenina che mi regalò un’ex compagna di squadra che disegnava gioiellini: come pendente ha un piccolo chiodo».
Tatuaggi?
«Zero. Da eterna indecisa, se non sarò completamente convinta non ne farò».
Da maggiorenne, lo scenario di andare a votare per il governo del Paese le garba?
«Mi interessa eccome. Sarà un dovere, oltre che un diritto. Non mi piace fare le cose a caso: leggerò, m’informerò, voterò con coscienza e non con leggerezza».
L’atletica oggi è ancora un gioco divertente o è diventata un lavoro? «L’essere entrata nelle Fiamme Gialle l’ha trasformata in qualcosa di serio. Ma l’aspetto ludico non deve mai mancare. Non farei mai atletica controvoglia o per dovere».
E da grande, Larissa, come si immagina?
«Mi piace sognare, però sempre con i piedi per terra. Nel cassetto ho messo sogni enormi. Il più grande è l’Olimpiade di Parigi 2024, nella vita la laurea in Giurisprudenza. Ma, al di là di tutto, vorrei sentirmi una persona realizzata»
Da corriere.it il 3 luglio 2022.
Gianmarco Tamberi comunica di aver risolto il rapporto di collaborazione» con Marco Tamberi, padre e allenatore.
«È una decisione che stavo considerando da tempo — ha commentato Gimbo, oro nel salto in alto a Tokyo — , perché in questi anni di collaborazione a grandi risultati si sono alternate altrettanto grandi divergenze».
La scelta arriva a 12 giorni dai Mondiali di atletica in programma a Eugene, in Oregon. «Questa scelta , presa con doverose cautele e un pizzico di coraggio, nasce dall’analisi della stagione fin qui disputata – ha proseguito il saltatore azzurro–. Siamo ben al di sotto delle aspettative tecniche e c’è stato uno scambio di opinioni su cosa non stesse funzionando fin qui nella preparazione, ed è emersa una diversità di vedute. Non voglio in alcun modo compromettere la gara più importante dell’anno, insistendo su una strada che non ritengo giusta, e mangiarmi le mani a posteriori per non avere avuto il coraggio di prendere in mano la situazione. Questo c’è alla base della mia decisione».
«Non mi spaventa il fatto di essere affiancato in pedana da un altro allenatore – ha aggiunto Gianmarco –, è già successo molte volte in questi anni, per diversi motivi, e questa evenienza non mi ha mai precluso la possibilità di fare prestazioni di alto livello (due record italiani, best 2,38 mt, ndr), altrimenti non avrei mai fatto questa scelta. La mia priorità attuale è sistemare il problema fisico che ho alla gamba di stacco, unico eventuale impedimento alla possibilità che io superi misure competitive nella sfida mondiale di Eugene».
«Ora concentrerò tutte le mie energie sull’obiettivo iridato – ha concluso Tamberi – senza distrarmi su quale potrà essere la figura tecnica che mi affiancherà post 2022 nella preparazione della stagione successiva. Gareggiare supervisionato da un altro allenatore non è un azzardo, nella nostra disciplina il coach è essenziale in tutte le fasi di allenamento e programmazione, in gara sono gli automatismi e le sensazioni dell’atleta a essere i veri fattori determinanti ai fini della performance. Sono un agonista e calcolo ogni rischio».
Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 4 luglio 2022.
Lo stesso nome leggermente declinato, Marco/Gianmarco ma, soprattutto, la proiezione del sogno di ragazzo realizzata per interposta persona grazie all'oro dell'erede nel salto in alto ai Giochi di Tokyo dell'anno scorso non riescono nel delicato equilibrismo di tenere insieme padre e figlio.
A 11 giorni dal Mondiale di Eugene, evento clou dell'atletica nella stagione che deve confermare i valori della magica Olimpiade italiana, Gimbo Tamberi licenzia papà Marco rinunciando alla guida tecnica che l'aveva portato in pedana («Gianmarco preferiva il basket. Gli dissi che al massimo avrebbe giocato nelle serie minori; nell'alto, invece, gli bastavano due allenamenti per gareggiare con i migliori d'Italia. Lo aiutai a scegliere» ha raccontato Marco) e, tra gli alti e bassi di un rapporto mai facile, sul trono di Olimpia. «Sono stati anni di grandi risultati e divergenze - spiega Tamberi junior in un comunicato -, separarci è una scelta, presa con doverose cautele e un pizzico di coraggio, che nasce dall'analisi della stagione fin qui disputata».
Deludente, cioè, a parte il picco di Ostrava con un salto di 2,30 metri all'altezza della storia di Gimbo, avvilita da quel 2,23 di Rieti, ai Campionati italiani di domenica scorsa, condito da una brutta lite plateale con il collega Marco Fassinotti che era costata al fuoriclasse un'ammonizione per comportamento antisportivo (una storia di antipatia reciproca e provocazioni). «Siamo ben al di sotto delle aspettative - prosegue l'atleta -, c'è stato uno scambio di opinioni su cosa non stesse funzionando nella preparazione ed è emersa una diversità di vedute. Non voglio compromettere la gara iridata insistendo su una strada che non ritengo giusta e mangiarmi le mani dopo per non essere intervenuto».
Bye bye papà, ci eravamo tanto amati. Nella tradizione dei figli allenati dai padri (al Mondiale di Eugene la Nazionale italiana presenterà due coppie di parenti stretti: Filippo Tortu e coach Salvino, Larissa Iapichino e coach Gianni) i Tamberi non sono certo i primi che si dividono, già a Tokyo, travolto dalle emozioni dell'oro di Gimbo (condiviso con il qatariota Barshim), Marco aveva pronunciato a mezza voce una frase oggi premonitrice: «È la prima volta che mi succede di allenare un campione olimpico. E in futuro chissà se mi risuccederà». Incomprensioni, autorità parentale contestata, dolore; sì, anche dolore.
La simbiosi tra Marco e Gianmarco d'altronde nasce da un fatto che fa soffrire tutti in famiglia: la separazione tra Tamberi senior e la moglie Sabrina, ex saltatrice anche lei, anche lei allenata da Marco. Gimbo rimane ad Ancona a vivere con il padre; il fratello Gianluca, promessa del giavellotto, si trasferisce a Roma con la madre. È primatista italiano ma si è scontrato con il suo allenatore: Marco Tamberi. Sono dinamiche delicate, quelle tra consanguinei.
Figuriamoci tra padre e figlio. Nell'appartamento di Ancona, nel 2012, la pentola a pressione che sobbolle a fuoco lento sui fornelli di casa Tamberi esplode. «Io tendo a impormi, lui non è arrendevole» riassume Marco la coppia che scoppia. Gimbo si ribella facendosi del male: esce fino a tardi la sera, si presenta in ritardo agli allenamenti, rischia di buttare via tutto il suo talento. Il primo parricidio avviene lì. Per sfuggire alla convivenza, il saltatore va a vivere da solo contro la volontà del padre che forse teme - inconsciamente - di perderne il controllo e, poi, l'amore.
La carriera di Gimbo decolla. Continuare insieme era diventato troppo complicato. Già alla vigilia di Tokyo avevano sfiorato la rottura: «Troppe tensioni, troppi insulti: mi sono reso conto di aver quasi superato il limite» ha ammesso Marco in Giappone. Gianmarco va avanti da solo. Domani vola a Monaco di Baviera per risolvere un problema allo psoas (secondo le discipline orientali, non a caso, il muscolo dell'anima), da lì in Oregon. Al Mondiale si autogestirà sotto la supervisione della Federatletica. Una sfida inedita, un nuovo inizio.
Emanuela Audisio per “la Repubblica” il 4 luglio 2022.
Non voleranno più insieme. Broken wings . Le ali si sono affaticate, ma forse soprattutto consumate. Tamberi junior e senior divorziano. Niente più decolli per padre e figlio. «Divergenze di vedute». A Tokyo si erano abbracciati. L'oro olimpico premiava un percorso comune, un'eredità di famiglia, una fatica condivisa.
Saltatore in alto il padre Marco, e pure Gianmarco il figlio, che scherzando (ma mica tanto) protestava: «Passo più tempo con lui che con la mia fidanzata ». Ma in questa stagione il figlio era insoddisfatto e nervoso. Gimbo è volato solo una volta a 2.30, misura che quest' anno hanno saltato in 11, e si capiva che il suo disagio era più profondo.
Anche una settimana fa ai campionati italiani di Rieti la lite con Marco Fassinotti, ragazzo mite ed educato, con Tamberi nei panni di Kyrgios, aveva lasciato capire che Gimbo era inquieto e non stava bene. Ora dice: «È una decisione che stavo considerando da tempo, perché in questi anni di collaborazione, a grandi risultati si sono alternate altrettante grandi divergenze.
Questa scelta, alla vigilia dei campionati del mondo, nasce dall'analisi della stagione fin qui disputata, siamo ben al di sotto delle aspettative tecniche, c'è stato uno scambio di opinioni su cosa non stesse funzionando, è emersa una diversità di vedute. Non voglio in alcun modo compromettere la gara più importante dell'anno, insistendo su una strada che non ritengo giusta, e mangiarmi le mani a posteriori per non avere avuto il coraggio di prendere in mano la situazione».
Ai mondiali di Eugene ci sarà un solo Tamberi. Il padre dice: «Ovvio che io non andrò». Non si sa ancora se Gimbo sarà in condizioni di partecipare. È l'unico titolo che ancora gli manca. Lamenta un dolore alla gamba di stacco e domani volerà a Monaco per farsi (ri)visitare dal dottor Müller-Wohlfahrt, specialista che ha avuto in cura Maradona, Bolt, Jacobs, aspettando il suo verdetto.
E anche a Parigi nel 2024 la Tamberi family non salterà insieme. Questo non preoccupa Gimbo: «Gareggiare supervisionato da un altro allenatore non è un azzardo, nella nostra disciplina il coach è essenziale in tutte le fasi di allenamento e programmazione, ma in gara sono gli automatismi e le sensazioni dell'atleta a essere i fattori determinanti ».
Lasciarsi prima di farsi troppo male. Su padre e figli, Turgenev a parte, anche nello sport c'è molta letteratura. Il ct dell'atletica, Antonio La Torre: «Dare un giudizio sensato dall'esterno è impossibile. La decisione che ha preso Gianmarco è quella di un atleta di vertice, un campione olimpico, che immagino dolorosa, e che merita rispetto.
È ovvio che gli verrà dato tutto il sostegno affinché riesca ad esprimersi al meglio per i Mondiali e gli Europei, mentre per il futuro abbiamo più tempo per valutare». Insomma la scelta del nuovo coach avverrà in un secondo momento. Eddy Ottoz, bronzo olimpico nel '68 nei 110 ostacoli, ha allenato il figlio Laurent che nel '94 battè il suo record italiano fermo da 27 anni. «Ho dovuto smettere di seguirlo, era diventato impossibile, credeva di aver capito tutto e faceva scelte che io non condividevo e che non lo hanno portato a tempi che avrebbe potuto ottenere.
Anche Dedalo costruisce le ali per il figlio Icaro che nella sua arroganza disattende l'avvertimento di stare lontano dal sole». E intanto in Svizzera nei 200 dietro al clamoroso 19"63 del cubano Mena, Filippo Tortu è terzo nei 200 con 20"15, a quattro centesimi dal personale. Altro figlio allenato dal padre.
Da ilnapolista.it l'8 luglio 2022.
Gimbo Tamberi fa marcia indietro e annulla il licenziamento del padre Marco, anche se solo temporaneamente. Insomma, è una sospensione, una proroga. Una decisione frutto di una mediazione da parte della Federatletica presieduta da Stefano Mei.
Ieri pomeriggio il campiona olimpico ha diramato un comunicato in cui è contenuto l’annuncio ufficiale.
«Nel concentrare tutte le mie energie sull’unico obiettivo sportivo che ancora mi manca, ho già sottolineato quale sia la mia priorità assoluta: cercare di risolvere questo infortunio alla gamba di stacco. E la federazione, nelle ultime settimane, mi ha supportato in qualsiasi modo possibile. Da parte del presidente è arrivato l’invito, sia a me sia a mio padre, di continuare la collaborazione in vista degli imminenti impegni sportivi, al fine di scongiurare possibili problemi in gara ed entrambi abbiamo accettato di proseguire assieme. Non c’è valore più alto per me che la maglia azzurra e quindi ben venga questa soluzione. Darei l’anima per vedere il tricolore sul gradino più alto del podio e non lascerò nulla di intentato affinché questo si verifichi».
Si tratta, scrive il Corriere dello Sport, di una «sospensione della separazione tecnica», insomma, il divorzio avverrà, ma più in là. A fare pressione, si diceva, è stato Stefano Mei. Il quotidiano sportivo riporta le sue parole.
«Ho chiesto a entrambi di attendere la conclusione della stagione per valutare nel merito, e con serenità, i risultati. Un equilibrio così delicato come quello tra allenatore e atleta non può essere alterato alla vigilia di un appuntamento tanto importante. Ho trovato da parte di entrambi, come speravo, disponibilità a riprendere immediatamente il lavoro, e questo è quel che più conta».
Tamberi insieme al padre allenatore «licenziato» ai Mondiali di atletica di Eugene: perché ha cambiato idea. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 7 luglio 2022.
L’intervento del presidente federale Stefano Mei ha prodotto una sospensione della separazione tecnica tra i due: «Un equilibrio come quello tra allenatore e atleta non può essere alterato prima di un appuntamento così importante».
Contrordine, non si divorzia. A 48 ore dal comunicato con cui Gianmarco Tamberi annunciava l’inevitabile separazione dal padre-coach Marco, la coppia si è riformata, sia pure a termine, per i Mondiali di atletica di Eugene. «Il presidente Mei — ha spiegato Tamberi — ci ha invitati a continuare in vista degli imminenti impegni sportivi, al fine di scongiurare possibili problemi in gara, ed entrambi abbiamo accettato di proseguire assieme. Non c’è valore più alto per me che la maglia azzurra e quindi ben venga. Darei l’anima per vedere il tricolore sul gradino più alto del podio e non lascerò nulla di intentato». Marco Tamberi partirà per gli Stati Uniti nelle prossime ore per raggiungere il figlio, volato già Oltreoceano.
Separazione sospesa dunque tra i due Tamberi. «Ho chiesto ad entrambi — le parole del numero uno Fidal Stefano Mei — di attendere la conclusione della stagione per valutare nel merito, e con serenità, i risultati. Un equilibrio così delicato come quello tra allenatore ed atleta non può essere alterato alla vigilia di un appuntamento tanto importante. Ho trovato da parte di entrambi, come speravo, disponibilità a riprendere immediatamente il lavoro, e questo è quel che più conta».
Atletica, Tamberi-Fassinotti, la lite. L’olimpionico «Mi scuso, ma mi ha provocato per tutta la gara». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.
Gianmarco Tamberi si laurea campione italiano su Marco Fassinotti, discutono poi sui social Gimbo dà la sua versione: «Volevo stringergli la mano, ha sogghignato per prendermi in giro».
Un cartellino giallo in una gara di atletica leggera per comportamento antisportivo (e non per una falsa partenza, sanzione 18.5 del regolamento disciplinare) è un fatto raro. Che l’ammonizione poi sia stata comminata a un campione olimpico come Gianmarco Tamberi - noto tutti per la sua sportività - è un fatto ancora più eclatante.
Eppure è successo a Rieti domenica pomeriggio, immediatamente dopo la fine della gara di salto in alto dove Gimbo (nervoso e con problemi tecnici nella rincorsa) ha conquistato il suo sesto titolo italiano dopo uno spareggio con Marco Fassinotti. Arrivati a 2 e 26 con lo stesso numero di errori, i due hanno fallito entrambi la quota: per assegnare il titolo l’asticella è stata prima abbassata a 2 e 24 (superata da entrambi) e poi di nuovo a 2 e 26, quota oltre la quale è volato solo Tamberi.
Le immagini di Atletica Tv mostrano i due avvicinarsi e poi, dopo un rapido scambio di battute, Gimbo mandare due volte platealmente a quel paese (o peggio) il collega dell’Aeronautica. Il giudice-arbitro di pedana - che ha visto e sentito tutto - ha deciso di punire il gesto dell’olimpionico con un cartellino giallo per «condotta impropria o comportamento antisportivo» riportando la nota nel referto di gara. Sentiti a caldo, i due hanno dato spiegazioni opposte. Fassinotti, piemontese, 33 anni, atleta da 2 e 35, ha detto di aver soltanto voluto chiarire a Tamberi che «non avrebbe potuto effettuare altri tentativi a quote più alte», perché il regolamento non lo permette dopo uno spareggio. Tamberi ha invece detto di essere stato provocato dall’avversario.
A bocce ferme, Tamberi si spiega e si scusa su Instagram per la reazione ma continua ad accusare Fassinotti di provocarlo: «Ci tengo a scusarmi per il mio gesto - spiega - perché è sbagliato. In un momento di massima tensione, durante una gara, ho reagito ad una provocazione e ho sicuramente sbagliato. Una volta terminato il salto mi sono avvicinato verso Marco per dargli la mano e congratularmi con lui, perché aveva fatto un’ottima gara. Ma mentre gli tendevo la mano, lui ha risposto con un sogghigno, come a dire: “È vero che hai vinto, ma ciò che volevi non riuscirai ad ottenerlo”. Una presa in giro. In quel momento non ci ho visto più era tutta la gara che mi stava stuzzicando. Questa cosa era già successa in passato: mi ricordo benissimo quando nel 2013 cercai in tutti i modi di sconfiggerlo, ma lui non me lo permise e mi stuzzicò durante tutta la gara. La sportività è la cosa più importante: nel nostro sport e nella vita, quindi mi scuso».
Tamberi, già ammonito in passato per esultanza troppo «calcistica» (si era tolto la maglia dopo un buon salto), ha avuto problemi con la giuria anche all’ultimo Golden Gala dov’è stato richiamato a un comportamento più corretto per il modo troppo plateale e prolungato in cui chiamava l’applauso del pubblico durante i suoi salti.
Andrea Buongiovanni per gazzetta.it il 27 giugno 2022.
L’ultima giornata degli Assoluti è nel segno delle donne. In testa Elena Vallortigara che, sulla pedana dell’alto, vola (fino a 1.98). Come invece non riesce a fare Gimbo Tamberi, il più atteso del pomeriggio. Il campione olimpico vince il sesto titolo italiano all’aperto, ma non va oltre 2.26.
E dopo ben quattro errori alla quota. Quattro, sì. Perché in vetta alla classifica, superati 2.23, l’anconetano è appaiato a Marco Fassinotti. E qui, contrariamente a quanto accaduto ai Giochi con Mutaz Barshim, si va agli spareggi. Entrambi sbagliano appunto una quarta volta 2.26 e, poi, superano a 2.24. Si torna a 2.26: il piemontese fa nullo, il marchigiano va oltre l’asticella. Non basta per vincere la gara, perché l’australiano Starc, pur fuori classifica, il 2.26 lo ha centrato nei tempi opportuni. Poi...
IL BRUTTO EPISODIO— Una serata segnata da un brutto episodio, al di là di chi siano le colpe, che a Tamberi costa un cartellino giallo per comportamento antisportivo (“gesto plateale”), come da foglio gara ufficiale. Si vede Fassinotti che va a dare la mano al rivale e il rivale che lo allontana il malo modo. “Sono stato io a provare a salutarlo – sostiene Gimbo – e lui, come già altre volte in passato, mi ha apostrofato con una frase infelice. ‘Tanto non puoi saltare più mi ha detto, ben sapendo che il mio solo obiettivo di giornata era andare molto più in alto”. In ogni caso – anche se poi sul podio gli atteggiamenti sono stati più cordiali - un episodio da dimenticare, anche perché avvenuto sotto gli occhi di tanti giovani, ai quali poi Tamberi si è peraltro concesso con la consueta generosità.
"Ho sentito che chiedeva di proseguire - riferisce il portacolori dell’Aeronautica - per chiarirgli la situazione senza che si innervosisse ulteriormente, gli ho solo detto “Non credo che si possa”. Tutti, comunque, hanno visto come è andata. Io non me la sono nemmeno presa: faccia quel che vuole, come sempre. Ma siamo adulti: ho persino chiesto che non gli venisse dato il giallo, che per me l’accaduto non era un problema. Non è bello per un campione olimpico. La decisione di proseguire? Non ci siamo parlati: a me stava bene, penso anche a lui". Resta che il poliziotto, pensando ai Mondiali, vive un momento difficile. “Ho problemi tecnici – ammette – e in più il fastidio all’inserzione della gamba sinistra, quella di stacco, non mi fa stare sereno. Non è nulla di grave, ma mi condiziona negli ultimi tre appoggi. Spero di risolvere il tutto in fretta e che la maglia azzurra, come tante altre volte, mi consenta di cambiare pelle”.
CHE VALLORTIGARA!— Molto meglio va alla Vallortigara. La vicentina firma la seconda prestazione mondiale stagionale. Solo una volta, nel corso della carriera, ha fatto meglio. Il 22 luglio 2018, quando all’Olimpico di Londra, saltò un enorme 2.02. Poi diversi 1.96 e tanti guai fisici. Fino a questa definitiva resurrezione che la proietta verso risultati internazionali importanti. Nel mondo, all’aperto, quest’anno solo l’ucraina Yaroslava Mahuchikh, con un 2.01 e un 2.03 in attesa di omologazione, ha fatto meglio. “Ho trovato una nuova stabilità – dice la carabiniera – e ai Mondiali spero proprio di entrare in quella finale che, nelle rassegne internazionali assolute, mi è sempre sfuggita”.
LE ALTRE— Si diceva delle donne. Ayo Folorunso, nei 400 ostacoli, con 54”60, centra la seconda prestazione italiana all-time, a 6/100 dal record di Yadi Pedroso del 2013. Daisy Osakue lancia il disco a 63.24: solo lei stessa e Agnese Maffeis, con 63.66, han fatto meglio nella storia tricolore della specialità. Cresce di sei centimetri Larissa Iapichino che vince il titolo con 6.64 e conquista punti per il ranking che dovrebbero garantirle la conferma tra le “ripescate” per i Mondiali. Chiara Rosa, all’ultima gara di una carriera durata 27 anni, vince il 30° “scudetto”.
E, con le sue parole, commuove. Piacciono Dalia Kaddari (22”87/+0.6 nei 200) e Alice Mangione (51”65 nei 400). Meno gloria in campo maschile. Soprattutto perché nei 400 di Edo Scotti (45”69), dopo i recenti botti, si fa male Ale Sibilio che si ferma dopo 200 metri. Si teme un serio infortunio al retto femorale. Piace, su tutti, Nick Ponzio: 21.34 nel peso.
Ora l’attesa si sposta sulla composizione della squadra per Eugene. Con tutte le cinque staffette coinvolte, sarà composta da una sessantina di atleti. Il consiglio federale, riunito lunedì a Roma, la definirà in attesa dell’ufficializzazione dei target number di giovedì. Per i nomi degli staffettisti, invece, con ogni probabilità si attenderà la fine dei Giochi del Mediterraneo.
Elena Vallortigara: «Il bronzo Mondiale? Pensavo alla musica». Il fidanzato calabrese e il gelato: chi è. Gaia Piccardi, inviata a Eugene, su Il Corriere della Sera il 21 Luglio 2022.
Vallortigara conquista il bronzo nel salto in alto ai Mondiali di Eugene: «Penso positivo anche se vengo da stagioni difficili».
Elena Vallortigara, 30 anni, veneta di Schio, nella finale dell’alto al Mondiale di Eugene, dove saltando 2 metri ha conquistato un bronzo. Il suo personale è 2,02 (Afp)
«Adoro stare con me stessa: sono la mia migliore amica». Quando si è scoperta satura della solitudine dei numeri primi, lassù a due metri d’altezza in un luminoso pomeriggio di luglio a Eugene, Oregon, Elena Vallortigara da Schio ha deciso di tornare sulla terra per concedersi, dopo 30 anni e 301 giorni di spasmodica attesa, il brindisi che aspettava da una vita.
È nata così, in fondo a un viaggio esistenziale che avrebbe scoraggiato chiunque («Vengo da stagioni difficili, di infortuni e delusioni, in cui è andato male quasi tutto») e dopo una qualificazione dirimente («Mi ero data un ultimatum: se non fossi passata, non avrei continuato»), la medaglia di bronzo iridata che dà respiro all’Italia e allunga la carriera a Elena, vergine ascendente vergine, forte come il fil di ferro sotto una nuvola di pensieri negativi, esempio di longevità e resilienza senza sapere di esserlo: «Per carità, rispetto ai cinque ori olimpici di Tokyo io non sono nessuno. All’Olimpiade non ero entrata nemmeno in finale, ci tenevo a riscattarmi ma una medaglia mondiale mi sembrava fuori da ogni logica, ai grandi appuntamenti ero sempre arrivata acciaccata. Poi mi sono ritrovata in pedana, senza stress, contro le saltatrici migliori del mondo. E mi sono detta: sotto l’asticella siamo tutte uguali».
L’australiana Patterson oro a sorpresa (2,02), l’ucraina 20enne Mahuchikh argento per la sua terra tormentata e poi lei, il talento veneto biondo inesploso per bassa autostima, «nonna Elly» scherza Elena in un post su Instagram in cui fa la maglia in tribuna, aspettando il suo momento. C’è posto per tutti sulla corriera che scarica brutalmente Warholm dai 400hs di Dos Santos e il favoritissimo Ingebrigtsen dai 1500 di Wightman, Vallortigara ci sale in corsa, quasi fuori tempo limite, con sei salti perfetti, scavalcando due metri per la seconda volta in vita sua a quattro anni dal primo volo a planare oltre l’eccellenza (22 luglio 2018, Diamond League a Londra, 2,02) e bruciando sul podio l’altra ucraina fuggita alle bombe, Iryna Gerashchenko. Ma così, forse, è ancora più bello: «Sento di portarmi dietro un grande bagaglio di esperienza negativa però fondamentale per la mia crescita. Mi sono sempre sforzata di pensare positivo, di credere che le cicatrici si possono curare». Un bronzo come penicillina. «In gara sono rimasta tranquilla anche quando ho rotto una scarpa, tra i salti mi concentravo sulla musica per non pensare a niente, tanto che a un certo punto ho rischiato di addormentarmi! Con la medaglia, sul podio, credevo di crollare emotivamente, invece mi scopro serena».
Festeggiano Schio e Siena, la città di coach Stefano Giardi, dove Elena si è trasferita sei anni fa, non senza traumi («Non è facile fare amicizie. Almeno per me, che non sono mai stata un animale sociale. All’inizio mi ero incaponita e ci stavo male, poi sono tornata nel mio silenzio e sono stata benissimo»). Si commuove Sara Simeoni, la pioniera che Vallortigara ha studiato su YouTube: «La conosco sin da bambina, ha sofferto tanto, voleva lasciare lo sport. Ho cercato di starle vicina quando era in crisi, umana e tecnica: se i risultati non arrivano, l’asticella diventa un muro. Però ora, finalmente, Elena sa quanto vale».
È una gioia sobria e dolente quella di Elena Vallortigara, molto poco affine ai party italiani da strapaese, erano 11 anni che non arrivava una medaglia mondiale nell’alto femminile (Daegu 2011, bronzo dell’indimenticata Antonietta Di Martino), gli dei dell’atletica si sono decisi a sanare una palese ingiustizia. Lei ringrazia ogni membro del suo team, accenna a un fidanzato calabrese trapiantato a Siena e a un gelato («Il mio punto debole») con cui gratificarsi. Fatti un complimento, Elena, coraggio. «Se c’è una cosa in cui sono stata brava, è non aver mollato mai».
Andrea Buongiovanni per gazzetta.it il 28 giugno 2022.
Gimbo Tamberi decide di chiedere scusa a tifosi e appassionati per quanto accaduto domenica sera sulla pedana dell’alto degli Assoluti al Guidobaldi di Rieti (cartellino giallo per comportamento antisportivo compreso) e, per farlo, pubblica un lungo messaggio video sul proprio profilo Instagram. "Ci tengo a scusarmi per il mio gesto - dice -; in un momento di massima tensione, ho reagito a una provocazione e ho sicuramente sbagliato, quindi chiedo scusa a tutti i presenti e a chi ha guardato la gara. Sono caduto in una provocazione".
Il fattaccio avviene al termine di una gara anomala, terminata agli “spareggi” con Marco Fassinotti. Il campione olimpico conquista il sesto titolo italiano all’aperto della carriera, ma non andando oltre 2.26 al... quinto tentativo, misura che a venti giorni dai Mondiali di Eugene non può soddisfarlo. Fassinotti, dopo il salto vincente del rivale, si avvicina per stringergli la mano, ma Gianmarco per tutta risposta lo manda platealmente a quel paese.
"Sono stato io a provare a salutarlo - dirà il marchigiano - e lui, come altre volte in passato, mi ha apostrofato con una frase infelice: 'Tanto non puoi saltare più' mi ha detto, ben sapendo che il mio solo obiettivo di giornata era andare molto più in alto". "Ho sentito che chiedeva ai giudici di proseguire - avrebbe replicato il piemontese -: per chiarirgli la situazione senza che si innervosisse ulteriormente, gli ho solo detto 'Non credo si possa'.
Tutti, comunque, hanno visto come è andata. Non me la sono nemmeno presa: faccia quel che vuole, come sempre. Ma siamo adulti: ho persino chiesto che non gli venisse dato il giallo. Non è bello per un campione olimpico. La decisione di proseguire la gara agli spareggi? Non ci siamo parlati: a me stava bene, penso anche a lui".
La provocazione alla quale ora Tamberi si riferisce è legata propria alla frase "Tanto non puoi proseguire". "Una volta terminato il salto - è la versione di Gimbo - mi sono avvicinato a Marco per dargli la mano e congratularmi con lui, perché aveva fatto un’ottima gara. Ma mentre gli tendevo la mano, lui ha risposto con un sogghigno, come a dire: 'È vero che hai vinto, ma ciò che volevi non riuscirai ad ottenerlo'.
Una presa in giro. In quel momento non ci ho visto più, era tutta la gara che mi stava stuzzicando. E questa cosa era già successa in passato: mi ricordo benissimo quando nel 2013 cercai in tutti i modi di sconfiggerlo, ma lui non me lo permise e mi stuzzicò durante tutta la gara. Ma la sportività, come sa chi mi conosce, è per me la cosa più importante: nel nostro sport e nella vita. Quindi mi scuso".
Gianmarco Tamberi: «La sigaretta per sentirmi grande, il mio errore a 17 anni». Agostino Gramigna su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.
Il campione olimpico di salto in alto e testimonial Airc Gianmarco Tamberi: «Per me il fumo è una malattia sociale, e lo dico ai ragazzi». Il matrimonio con la fidanzata Chiara? «A settembre 2022»
Tamberi, partiamo da qui. Se ogni cittadino svolgesse dieci minuti di attività fisica al giorno, si potrebbero evitare negli Usa oltre 110 mila morti all’anno. «Chi lo dice?». Uno studio pubblicato su Jama Internal Medicine. «Non mi sorprende. Io sposo la formula: 0-5-30. Zero sigarette, cinque porzioni di frutta e trenta minuti di attività fisica ogni giorno». Gianmarco Tamberi, oro olimpico a Tokyo nel salto in alto, ha appena finito di allenarsi. Lo sport coincide con la sua esistenza. Forse per questo lo vive anche come una fede. Che aiuta a star meglio. Da anni è testimonial Airc, l’associazione che si occupa di prevenzione e di lotta ai tumori.
Lei è un salutista di ferro. Ha esortato i ragazzi a non fumare. Ha dichiarato: «Non fumatevi il cervello».
«Io parto dal presupposto che il fumo è una malattia sociale. È una cosa sbagliata. È successo anche a me a 17 anni. Volevo sentirmi grande. Bisogna aiutare i ragazzi a capire che non è la sigaretta in bocca che fa di loro un adulto».
Anche a lei è capitato di sgarrare. Diete aggressive, molti caffè...
«Era il 2014. Un periodo di transizione. Seguivo regole troppo rigide. Lo sport ad alti livelli mette a dura prova le mente e il corpo. Penso ancora all’infortunio del 2016».
Una mazzata.
«Altroché. Prima delle Olimpiadi di Rio. Stavo benissimo. Sognavo l’oro. Sul più bello mi sono infortunato a Montecarlo mentre tentavo di superare 2,40, la soglia che ho in testa da anni».
Se lo ricorda il primo salto?
«No. Non è come il primo amore. Io facevo basket. Poi essendo figlio di un saltatore ho provato. E ho vinto i campionati studenteschi»
Il suo primo amore invece non ha bisogno di ricordarlo. È ancora quello. «Già, Chiara»
Insieme da dodici anni. Un rapporto lungo. Se lo figura per sempre?
«Per sempre».
Chiara ricorre in ogni sua intervista. L’ha voluta a Tokyo contro il parere di molti. Lo calma. Ha messo a posto la sua testa. Più che amore.
«Sa stare al mio fianco come nessuno. A Tokyo è stata indispensabile. Forse perché siamo cresciuti insieme. Lei aveva 14 anni, io 17. C’è rispetto reciproco. Ha i miei stessi valori»
Che sono?
«Fedeltà e onestà».
Un giovane tradizionalista.
«Credo fortemente nei valori come la fedeltà nell’amore e l’etica sportiva. La verità è imprescindibile, la verità con se stessi. Pretendo molto».
È vero che è per questo che a volte litiga con suo padre, suo coach?
«Sì. Non voglio essere assolto, a prescindere. Lui mi mette l’asticella a 1,99? Io la porto a 2,01. Esigo la verità da me stesso».
Tamberi, lei sembra corrispondere al modello del maschio in carriera, che vive di ansie e stress. Chiara è sempre lì. A ruoli invertiti, lei farebbe lo stesso?
«Credo di sì».
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Matrimonio?
«Settembre 2022».
Ansie. Lei non dorme mai prima delle gare. Le è successo solo una volta: a Tokyo.
«Uno scherzo della natura. Avevo pure ingaggiato un esperto del sonno. Invece quella notte sono crollato. Mistero. Il corpo si è imposto alla mente».
Cosa le ha detto la mente quando a Tokyo il giudice di gara ha chiamato lei e Barshim per chiedere se volevate continuare a sfidarvi o vincere entrambi l’oro?
«Ho sussurrato a Barshim: “È stato un onore condividere questa gara con te”. Ci siamo guardati negli occhi. Non abbiamo avuto bisogno di pensare. Siamo grandi amici, sapevamo tutti e due cosa significa soffrire. Nessuno poteva toglierci l’oro».
C’è chi ha descritto la sua vita come capacità di superare ogni difficoltà. Come redenzione. Esagerato?
«No. È proprio così. Ora devo fare la doccia».
Davide Piasentini per gazzetta.it il 19 febbraio 2022.
Sembra un bambino al luna park, felice di salire su tutte le giostre, da cui poi non vuole più scendere. Gianmarco Tamberi vive il suo All Star Game come un sogno, la sfida delle celebrità come un’altra medaglia d’oro olimpica. Alla fine perde la partita, ma lascia comunque il segno. Come la nuova formula del Rising Stars Challenge, la sfida mista con giocatori di primo e secondo anno vinta da Team Barry con Cade Cunningham mvp tornata interessante dopo anni di schiacciate senza pathos.
TAMBERI SHOW— Non è la pedana olimpica di Tokyo, ma nella partita delle celebrità Tamberi vola come se lo fosse. A 1’35” dalla fine del primo tempo, si arrampica a rimbalzo e schiaccia in volo. Il pubblico esplode, la schiacciata (la miglior giocata della partita fin lì) diventa immediatamente virale (tanto che l’Nba la usa come promo per lanciare il voto per l’mvp del match sui social). “Saranno le scarpe” twitta LaMelo Ball di Charlotte, che col campione olimpico di salto in alto condivide lo sponsor tecnico e a cui per l’occasione ha prestato gli attrezzi del mestiere.
Gimbo chiude con 15 punti e 10 rimbalzi, giocando con un entusiasmo contagioso, come se quella fosse la partita che sognava di giocare da ragazzino, quando il basket veniva prima anche del salto in alto. Coach Dominique Wilkins se lo coccola, i compagni seguono i suoi consigli e si fanno contagiare dalla sua energia. Oltre alla schiacciata, Tamberi sembra sempre l’unico che gioca davvero, con un’intensità esaltante. Un sogno diventato realtà.
RISING STAR CHALLENGE Missione compiuta. L’Nba aveva bisogno di un modo per rilanciare la sua sfida del venerdì e l’ha trovato con questa formula che prevede un mini torneo a 4 squadre di 7 giocatori in cui in semifinale vince chi arriva primo a 50 e in finale chi arriva primo a 25. Una formula che ha trasformato le partite in sfide interessanti e competitive e che ha la benedizione anche dei giocatori. La vittoria se la prende Team Barry, col canestro decisivo firmato dalla lunetta da Franz Wagner chiude i conti con Team Isaiah sul 25-20, a cui non bastano 13 punti di Precious Achiuwa.
Già dalle semifinali si era capito che l’idea era quella giusta, approvata anche dai giocatori Nella prima Jalen Suggs di Orlando, uno dei 7 giocatori di Team Worthy (le 4 squadre hanno tutti nomi di grandi ex, allenatori d’eccezione), sbaglia il libero della vittoria sul 49-43. Team Isaiah (Thomas, ovviamente) ne approfitta per la rimonta e chiude i conti con due liberi di Bane, nonostante i 20 punti di Jalen Green. Nella seconda il punteggio resta sempre in equilibrio, con Tate di Houston che consegna il 50-48 a Team Barry (Cade Cunningham e Evan Mobley i migliori). E contribuisce a rendere di nuovo interessante il venerdì dell’All Star Game.
Bruno Ventavoli per “La Stampa” il 23 maggio 2022.
La vita non è come i cento metri, un rettilineo da bruciare in meno di dieci secondi. E' un percorso pieno di curve, incidenti, dolori. Certe volte sembra persino di correre all'indietro. E se la metafora vien fuori dalle labbra di Marcell Jacobs, è più che convincente.
Lui, il nostro eroe nazionale che vinse a sorpresa (facendo rosicare il mondo) due medaglie alle Olimpiadi di Tokyo, quelle surreali che rimbombavano di spalti vuoti, dimostrando all'Italia prigioniera del lockdown che avremmo potuto farcela, è stato protagonista anche al Salone del Libro. Osannato, selfizzato, coccolato dalla fluttuante tribù lettrice del Lingotto. Era qui per presentare la sua autobiografia che si intitola Flash, come i suoi fulminei sprint, e come i ricordi che illuminano un'avventura esistenziale fantastica, ma non facile, iniziata a El Paso, Texas, 28 anni fa.
Jacobs racconta che dietro un campione c'è un uomo, anzi che si diventa campioni soltanto quando l'uomo riesce a ritrovare se stesso. Una lezione di sport che tracima nella vita.
Ci sono i nonni che lo hanno allevato da bambino, i primi passi nello sport, i piedi infelici con il calcio, le amicizie, la carriera spiccata con il salto in lungo poi virata alla corsa veloce; c'è l'appassionante narrazione degli istanti che hanno preceduto la finale olimpica, fatta di paure, ripensamenti, piccoli gesti scaramantici, a ribadire che l'atletica è un rito perfetto;
c'è l'omaggio grato alle persone che lo circondano, l'allenatore, il massaggiatore la geniale mental coach, a sottolineare che un campione oltre ad essere una massa di muscoli unici e irripetibili è un solerte lavoro d'equipe; c'è la dettagliata topografia di tutti i tatuaggi che ricoprono la superficie del suo corpo, e di tutte le ferite interiori che la vita ha lasciato nel giovane Jacobs, bello di fama e di (alcune) sventure come un eroe pindarico.
Non è stato facile, dunque, arrivare alla gioia di Tokyo?
«No, affatto. Racconto bene nel libro che la mia vita non è stata sempre bella, limpida, lineare. Anzi, è piena di alti e bassi. Il primo grande vuoto si è chiamato Lamont Marcell Jacobs, mio padre.
A scuola tutti disegnavano una famiglia con due genitori. Io no. E mi inventavo un sacco di frottole. Per avere un'immagine di noi due insieme dovevo cercare tra le poche fotografie rimaste in casa. Attraverso un paio di istantanee, e le parole della mamma, quel bambino di sei sette anni che ero, si creò una specie di eroe, un marine che faceva guerre e girava per il mondo. Ma non era vero niente.
Ben presto mi sono sentito abbandonato. Ho eretto un muro per proteggermi. L'ho rivisto una sola volta in Florida, quando ormai ero adolescente. Fu come incontrare un estraneo. Convivo con la sua assenza da quando ricordo di essere vivo. E ho dovuto fare i conti con questa voragine per diventare me stesso».
C'è stata però una grande madre.
«Era una ragazza di sedici anni nata in provincia con il mito dell'America. Incrociò lo sguardo di un americano bello, alto quasi due metri, dai modi gentili. S' innamorarono, sognarono insieme. Poi l'amore è finito. E lei mi ha cresciuto da sola, sudando anche tre lavori perché non mi mancasse nulla. Mi ha insegnato che non si deve mai mollare. Ha sempre creduto in me, mi spingeva ad allenarmi quando ero adolescente incerto e fragile.
Mi ha spinto a credere nel mio sogno».
Lei sostiene che i velocisti sono le persone più pigre al mondo.
«Lo pensa anche Bolt. Per quanto mi riguarda io sono pigrissimo. Sono l'uomo più lento del mondo. Mi piace osservare, ascoltare, stare nei pensieri e prendermi tutto il tempo che serve. Sono in perenne ritardo. Dato che passo la maggior parte delle giornate in pista o in palestra, dove si deve andare al massimo, quando stacco, rallento, voglio godermi tutto quello che c'è intorno, tutto quanto la vita mi regala».
La vita le ha regalato due medaglie olimpiche: l'ha anche cambiata?
«Beh è bello che le persone ti riconoscono e ti ringraziano, più che per un autografo o un selfie, per le emozioni che ho donato. Mi ringraziano per le lacrime di gioia che ho fatto versare. In pista, invece, è tutto più arduo. Diventare il numero uno è difficile, restarlo lo è ancora di più. Ma dopo le Olimpiadi abbiamo fatto un ottimo lavoro. Per esempio sono diventato campione del mondo nei 60 metri, la parte della gara che dovevo migliorare».
Delle sue vittorie parla sempre al plurale?
«Assolutamente sì. E' vero che i 100 metri sono una gara individuale, l'apoteosi della solitudine. Quando sei ai blocchi di partenza il mondo intorno svanisce come in un acquario, ma tutto quello che viene prima, e dopo, è frutto di un lavoro di squadra. Sapevo di valere, però sono diventato quel che sono perché ho incontrato un piccolo team che ha messo insieme i pezzettini che rendono perfetto il puzzle».
Oltre agli allenatori che lavorano sui muscoli lei attribuisce un ruolo fondamentale a Nicoletta Romanazzi, mental coach.
«La prima volta che sono andato nel suo studio mi ha detto: "Ho guardato i video delle tue gare. E sai che cosa ho visto? Un elastico che ti trattiene. Quando corri sei legato, c'è un vero e proprio blocco. Dobbiamo capire dov'è e romperlo"».
E' evidente che ci siete riusciti.
«Mi ha spiegato che dovevo fare pace col mio io interiore, capire chi era mio padre, e incominciare a mettere l'energia al servizio dei miei sogni invece che bruciarla con la rabbia di essere stato abbandonato. Mi ha insegnato ad ascoltare il mio bambino interiore, a prendermi cura delle paure e delle emozioni.
E quella corda d'un tratto è diventata una fionda. La mente è un muscolo potente. Bisogna allenarla quanto i bicipiti. D'altronde gli antichi non dicevano mens sana in corpore sano?»,
Quando ha capito di saper correre?
«Ho fatto la seconda elementare in una scuola di suore. C'era un cortile che ricordo enorme nel quale giocavamo. Durante la ricreazione ci sfidavamo tra maschietti a corsa per farci belli davanti alle bambine.
Chi vinceva aveva diritto al bacio di una compagna e a poter dire che ci stava insieme. Vincevo sempre io, ero così veloce che a volte mi sedevo su una panchina, lasciavo che il gruppo mi raggiungesse, poi mi alzavo, li superavo di nuovo e tagliavo sempre per primo il traguardo. Alla fine mi esclusero dalle gare, consideravano ingiusto che vincessi sempre il bacio. Il destino, e la rabbia dei compagni, mi diedero un segnale chiaro sulla mia futura vocazione».
Il destino ha «parlato» con sua madre anche prima della finale olimpica
«Mentre ero a Tokyo, una mattina si fece una bella passeggiata a Manerba, nel pieno della pandemia. C'era un bel sole e voleva sentirsi felice. Davanti c'era un furgoncino per il lavaggio delle strade. Vide volare e poggiarsi a terra una carta della briscola, il gioco amato da nonno Osvaldo. La raccolse e se la mise nel portafoglio. Quando ho vinto anche la staffetta, l'ha tirata fuori per guardarla: era un due di ori».
Serena Coppetti per “il Giornale” l'11 luglio 2022.
Leggere il suo libro è come stare seduti sul suo divano, in un percorso di coaching come fa con chiunque arrivi in studio, seguendo quello che definisce un «non-metodo» capace però di far diventare «possibile l'impossibile» come scrive nella prefazione uno dei suoi più celebri successi: Marcell Jacobs, campione olimpico dei 100 metri.
Anche grazie a lei. Lei è Nicoletta Romanazzi, mental coach, ed ha appena scritto il libro «Entra in gioco con la testa» dove svela tutti i suoi trucchi. E che ci sia riuscita è un dato di fatto.
Per lei c'è un prima e dopo Olimpiadi, con un boom veloce come i record raggiunti da Jacobs e come i chili persi, 5 per la l'esattezza, uno per ogni atleta che aveva in gioco alle Olimpiadi. I nomi sono tanti, dalle medaglie Luigi Busà e Viviana Bottaro, calciatori come Matìas Vecino e Mattia Perin, il fantino Andrea Mari e tutti quelli di cui non si può dire il nome.
Perché?
«C'è purtroppo ancora l'idea che se uno va dal mental coach è perché ha un problema o è debole e quindi non è in grado di risolvere le cose da solo. Invece è proprio il contrario. Chi viene da me è coraggioso, ha deciso di guardarsi dentro, mettersi in gioco. E poi si affidano al mental coach anche ragazzi che già ottengono ottimi risultati e che vogliono migliorare le loro performance. Per fortuna ora si comincia a capire quanto il lavoro mentale può essere indispensabile per un atleta. Si lavora sul corpo, sulla tecnica e non sulla mente che può bloccare tutto in un nanosecondo? Puoi essere la persona più talentuosa, puoi avere un potenziale pazzesco ma se la testa va in tilt non porti a casa il risultato».
Che è un po' la storia di Marcell Jacobs. Com' è iniziata?
«Mi ha contattato il suo procuratore, l'anno prima delle Olimpiadi. Mi ha detto che seguiva questo ragazzo con un grandissimo potenziale, ma che non riusciva a esprimere in gara, perché andava in tilt anche fisicamente. Gli si indurivano le gambe, si irrigidiva e non riusciva a esprimere quello che vedevano potesse fare negli allenamenti. Lui è venuto qui con il suo allenatore Paolo Camossi, mi hanno un po' raccontato quello che succedeva, ho capito che se si scioglieva, avrebbe potuto tirare fuori grandi cose. Abbiamo iniziato».
E cosa è successo?
«Aveva una gara proprio pochi giorni dopo il nostro incontro. Mi ha detto guardami. Mi ricordo che mi è arrivata una sensazione netta, ho visto un grande elastico dietro la sua schiena, come se fosse trattenuto. Lì ho pensato... mamma mia, se si taglia l'elastico vola. E così è stato».
In cosa è essenziale il lavoro mentale?
«Intanto nessuno ci spiega mai come funziona la nostra mente, come funzionano le emozioni, perché andiamo in tilt prima di una gara o di una performance, che cosa crea uno stato d'animo. Abbiamo idee confuse. Cosi come spesso abbiamo la tendenza a dare la responsabilità all'esterno dei nostri risultati o della nostra vita. E quando facciamo questo, perdiamo completamente il nostro potere personale, siamo sotto scacco. Con l'inevitabile conseguenza che on possiamo più cambiare nulla. Dobbiamo solo sperare di avere la fortuna che le cose vadano meglio e non è detto che sia così... quindi la prima cosa che faccio con le persone, è aiutarle a riprendere in mano la responsabilità della propria vita».
Come?
«Intanto partendo dal fatto che siamo noi a scegliere il significato da dare alle cose che ci accadono. Anche le peggiori. Quando mi chiedono che lavoro faccio, dico la corniciaia, cambio la cornice delle cose. Uso la metafora di immaginare un tavolo con al centro un bel vaso di fiori e intorno al tavolo delle persone che lo disegnano. I disegni saranno tutti diversi, perché le angolature sono differenti. Ed è un po' quello che bisogna imparare a fare: osservare gli eventi della nostra vita dandogli altri significati rispetto a quelli che siamo portati a dare, magari negativi che ci creano uno stato d'animo che non dà accesso alle soluzioni».
Nello sport il mental coach è una figura ancora di nicchia.
«In Italia siamo un po' in ritardo. In America e nel nord Europa è difficile che un atleta non ce l'abbia. Comunque è una figura che comincia a svilupparsi anche in Italia».
Per esempio?
«Ci sono diversi atleti, come Matteo Berrettini, il tennista, e anche qualche squadra di calcio».
Non tutte le squadre di Serie A hanno un mental coach?
«No, io seguo diversi calciatori e alcuni di loro sono anche nella Nazionale italiana, e sono stati spesso in difficoltà a raccontare di avere un mental coach. Temono che il mister o la società possano pensare che abbiano dei problemi e quindi di essere messi da parte perché considerati deboli. Eppure nello sport agonistico non si può non lavorare sulla mente. Prenda l'Italia di Mancini per esempio...».
Ecco, prendiamola, quella che non si è qualificata ai Mondiali...
«Lì a un certo punto si sono bloccati. Era tutto un fatto mentale. Gli atleti quelli sono. Se hanno ottenuto risultati non è che improvvisamente hanno disimparato a giocare a calcio. Succede qualcosa nella testa che non permette di esprimere il proprio potenziale».
Dalla Nazionale italiana non è che per caso le hanno fatto una telefonata?
«No...» (ride).
È tifosa?
«Tantissimo, prima c'era solo la Roma. Ora è più difficile perché magari ho atleti in squadre che devono sfidarsi ed è una tragedia. Mi è successo diverse volte di avere due dei miei giocatori che giocano uno contro l'altro, come per esempio Mattia Perin, secondo portiere della Juventus e Davide Zappacosta terzino destro dell'Atalanta... Tifo per uno e per l'altro».
Perché ha scelto lo sport?
«È estremamente sfidante. Quando un atleta arriva da me, a fine settimana magari ha la gara e vorrebbe già portare a casa i risultati. Se sei stato bravo, nello sport il risultato è tangibile. Ma è sfidante anche la velocità, perché quel risultato non solo deve arrivare, ma deve arrivare subito. Mi piace anche il fatto che l'atleta sia molto disciplinato e questo mi aiuta. Il coaching è un allenamento mentale in cui io faccio la mia parte, ma poi ho bisogno che certe cose vadano allenate nella vita di tutti giorni. Non tutti lo fanno. Qualcuno si perde per strada».
Quanto dura il percorso?
«Dipende dalla persona e dall'obiettivo che si è posta. Io incontro le persone una volta ogni due settimane per un'ora e mezza. Di solito propongo un percorso di 6 sessioni, ma gli atleti vogliono sempre alzare l'asticella e raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi. Marcell, ad esempio, dopo le due medaglie d'oro alle Olimpiadi ora si è posto nuovi importanti obiettivi. Io sono 20 anni che lavoro su di me e non ho mai smesso. Ritengo sia un elemento essenziale per far bene la mia professione».
Come ha iniziato?
«Ero una ragazza piena di insicurezze, mi vergognavo persino ad entrare in un negozio da sola, mi sentivo costantemente inadeguata, non ero mai all'altezza, tutti erano più bravi, più belli e più simpatici di me. Sono uscita da scuola che non avevo le idee chiare su cosa fare della mia vita. Il papà aveva un'azienda che produceva cassoni per camion, ho pensato vabbè vado a lavorare nell'azienda di famiglia... Mi sembrava la scelta più logica».
Come ha scoperto il suo talento?
«Per 9 anni ho lavorato in azienda, mi annoiavo mortalmente, mi sono fatta venire tutte le malattie psicosomatiche della terra. Poi sono nate le mie figlie, due gemelle e dopo poco anche la terza. Mi sono dedicata totalmente a loro. Fintanto che...».
... Fintanto che?
«Il mio ex marito che lavora nella consulenza finanziaria mi ha portato a un corso di formazione sul raggiungimento degli obiettivi. Avevo 35 anni. Lì ho scoperto la figura del mental coach. Ho capito che era una professione fatta apposta per me. Ho iniziato un percorso personale. Ho fatto tantissima formazione. Ho frequentato corsi e approfondito moltissime tecniche, dal respiro all'ipnosi, dal problem solving alla programmazione neurolinguistica, dalla sfera coaching al voice dialogue. Verifico gli strumenti su di me e se sono efficaci comincio ad utilizzarli».
L'interesse per lo sport quando è arrivato?
«È iniziato abbastanza presto grazie alle mie figlie. Erano scatenate, ho contato di averle portate in ospedale 47 volte... equitazione a livello agonistico, poi rugby. Ho cominciato a lavorare con il loro team. E subito ci sono stati risultati pazzeschi, poi è stato un passaparola. Fintanto che non è arrivata la telefonata di un veterinario che mi ha proposto di lavorare con un fantino del Palio di Siena. L'ho seguito per 8 anni, e abbiamo vinto 5 pali insieme».
Prossimo obiettivo?
«Fare regolamentare la figura del mental coach. Non può essere sufficiente frequentare un corso on line di 5 giorni per ottenere un certificato da mentale coach. Penso che dovrebbe diventare consuetudine affiancare agli atleti un professionista che si occupi di lavorare sulla parte mentale. Un po' come è stato per la nutrizione. Tutti gli atleti a un certo livello hanno il nutrizionista. Tra i miei obiettivi c'è anche quello di costruire una mia scuola mia»
Il suo più grande successo?
«Sono tanti... Penso al fantino del palio di Siena, quando a causa di una caduta si ruppe il bacino in più punti, temeva di non correre mai più ma lo aiutai a cambiare la prospettiva da cui guardare questo evento per fargli percepire un valore positivo. È guarito più velocemente del previsto. A distanza di un anno esatto, vinse uno dei pali più belli della sua carriera».
Una specie di magia?
«Nessuna magia! L'importante è imparare a farsi domande che aiutino a cercare dentro di noi le migliori soluzioni. Un esempio è la storia di Viviana Bottaro, medaglia di bronzo nel karate Kata Tokyo 2020. L'anno prima aveva avuto un incidente, rotti tibia e perone. Mi diceva non ce la farò mai ad arrivare alle Olimpiadi, non sarò mai più quella di prima. Bene, le ho detto. Sarai altro. Nel suo caso, lei aveva una grande tecnica ma le mancava un po' il contatto con le emozioni. Noi abbiamo usato tutte le emozioni che lei aveva vissuto quell'anno a suo vantaggio. Ed è stata una finale da pelle d'oca su quel tatami. Tutte le parti che cerchiamo di nascondere arriveranno a sabotarci perché niente accetta di essere escluso».
Qualche consiglio buono per tutti?
«Numero uno: prenditi la responsabilità della tua vita. Due: impara a gestire le tue emozioni perché quando diventano nostre alleate ci permettono di raggiungere grandi risultati. Tre: se vuoi raggiungere un obiettivo ricordati che è necessario unire la testa con il cuore. Solo quando lavorano insieme riescono a darci tutta la spinta di cui abbiamo bisogno e...». (... pausa di silenzio) «... quattro: agisci! Per andare nella direzione che vuoi non basta la consapevolezza, bisogna impegnarsi ed agire. Ed anche allenarsi».
Possiamo dare anche un esercizio?
«Uno dei primi del mio libro, scrivere su un foglio quali sono tutti i punti di forza fisici, mentali, emotivi, e quando si pensa di avere finito, continuare a domandarsi: che altro ci potrebbe essere? Siate generosi!Siamo portati a portare l'attenzione a tutto quello che ci manca. Invece abbiamo tantissimi talenti che diamo per scontati e che ci rendono unici. Unici e non speciali».
Cioè?
«Cercare di essere speciali ci porta fuori, ci fa fare cose per attirare l'attenzione degli altri. Cercare la propria unicità, invece, ci porta dentro. E noi possiamo essere quel pezzo perfetto di puzzle solo quando siamo completamente noi stessi».
Emanuela Audisio per "il Venerdì - la Repubblica" il 15 maggio 2022.
Rigatoni al sugo, pollo con peperoni. Per Mr. Velocità. Si pranza sotto gli alberi, al riparo dal sole, accanto al campo di allenamento. Atmosfera rilassata da film di Tavernier. Appetiti di vita e di corsa. Muscoli tatuati.
Marcell Jacobs, 27 anni, campione olimpico dei 100 metri, è pronto a sorprendere. L'anno scorso a Tokyo scosse il mondo. Primo in una gara dove l'Italia non era mai riuscita a qualificarsi. Da esordiente a re. E ora da sprinter a scrittore.
Flash, si chiama la sua autobiografia per Piemme. Anche se la sua vita non è stata proprio un flash, ma una lenta costruzione, con curve e salti. Dal lungo alla corsa. Da bambino senza padre, a papà con tre figli. Da Desenzano a Gorizia a Roma. Da atleta che sbagliava i salti a un campione che non sbaglia più un rettilineo.
Nei 100 si corre in avanti, per scrivere invece?
«L'opposto. Bisogna guardare indietro, ripensare, rivivere. Tornare nei luoghi che magari ci hanno fatto soffrire per accorgersi che quelle tensioni non ci sono più. Mi è capitato alle scuole Rogazioniste di Desenzano che avevo frequentato con un feeling non proprio amichevole, ma che era solo nella mia testa. Insomma, se avevo visto ombre non le ho più trovate.
O forse ero suggestionato dal giallo del delitto dell'Alabarda avvenuto in una notte di tormenta del 1947 nella villa isolata sul lago di Garda del conte Giovanni Pellegrini Malfatti. Mi è piaciuto il rewind della mia vita, è stato bello e emozionante.
Ma vi avviso, non è ancora finita».
Il viaggio arriva alla finale di Tokyo: sarebbe stato interessante anche il dopo.
«Dirò la verità, io non mi sento cambiato da quella sera del primo agosto.
Anche ora mi chiedo: perché la gente mi guarda, perché si avvicina, cosa vuole da me? Non ho ancora metabolizzato quel successo. Quando sono rientrato in Italia, all'aeroporto di Fiumicino, c'era tutta la mia famiglia ad aspettarmi, mi ha fatto piacere, ma la mia vita non è cambiata. Non mi nascondo, mi alleno sempre nello stesso campo. L'unico cambiamento è che ho iniziato a giocare al golf, sono abbastanza coordinato, 185 metri con la mazza 6. A me piacciono tutti gli sport, basket e beach volley sono tra i miei preferiti. E che adesso in pista quello da braccare sono io. E poi volevo far capire che quel 9"80 viene da lontano. Da smarrimenti, da tormenti, da fallimenti».
Ci ha messo 26 anni per fermare quel cronometro.
«Sì. Non ero un predestinato, saltavo in lungo, mi facevo spesso male, una serie infinita di guai, ho fatto piangere il mio coach Paolo Camossi, ex triplista, nel 2019 agli europei indoor di Glasgow, con tre nulli, eppure mi sentivo in forma. Lì abbiamo deciso di passare allo sprint. A volte i problemi sono delle opportunità da sfruttare, mi sono dovuto fermare nel 2014 per un infortunio al ginocchio, l'anno dopo mi sono stirato il bicipite femorale. Nel 2016 mi faccio male a un tallone e non vado a Rio.
Però fantasticavo sulle mie iniziali: MJ. Come Michael Jackson, Michael Jordan, Michael Johnson. Tutti grandi nomi. Non mi sono mai scoraggiato, sentivo che prima o poi i pezzi si sarebbero sistemati. Sono andato anche a farmi visitare dal dottor Müller-Wohlfahrt a Monaco di Baviera, che curava anche Bolt, e che mi ha messo 18 aghi nelle gambe. Per me allenarmi è un divertimento, non un sacrificio, non sono un musone. Ma ognuno deve poter scegliere, senza dare ascolto alle critiche.
La tennista australiana Barty, numero uno, ha detto addio allo sport a soli 25 anni. Se vuole altro, ha fatto benissimo. Voglio che il libro serva a questo, a dire ai ragazzi: osate, uscite dagli schemi, credete in voi stessi. Fate qualcosa delle vostre vite, non abbandonate i sogni. Guardate me: non avevo niente, ero pieno di buchi psicologici, ma volevo arrivare».
Ma se non la voleva nemmeno correre la finale dei 100.
«Ero stravolto. Non assorbivo il fuso. All'alba ero già sveglio e la gara era di sera, il campo di allenamento era lontano, e io che in genere nel riscaldamento ballo un po', non l'ho fatto, l'unica cosa che mi interessava era arrivare in finale, quando mi sono buttato sul traguardo nemmeno mi ero accorto di aver corso in 9"84, non mi interessava il tempo, ma la qualificazione, e avuta quella mi sono detto: ho le gambe rigide, piene di crampi, ce l'ho fatta, basta, non corro più. Poi sono rinsavito».
Nel libro parla della rivalità con Filippo Tortu.
«Tortu è stata la mia kryptonite. L'avversario che mi indeboliva la testa, con lui ho imparato a perdere, che è una cosa importantissima. Mi batteva sempre perché ne ero ossessionato, era la mia debolezza, e quando vuoi a tutti i costi superare un rivale, parti giù sconfitto. Le nostre storie sono opposte, non c'è nulla di male ad essere diversi.
Ma la vita spesso fa male anche in corsia: lui il Cigno Bianco, io il Cigno Nero. Lui, predestinato, con una bella famiglia alle spalle e in più con un padre allenatore, sempre accanto a lui, io con un padre che non ho conosciuto fino al 2008, che non sapevo nemmeno disegnare tanto mi era sconosciuto, e comunque distante in America. Non ci vuole Freud per capire cosa mi annebbiava e mi faceva soffrire».
È il tema del libro: una madre, Viviana, molto indipendente, un padre, marine americano, molto assente, due fratellastri, Nicolò e Jacopo, molto amati, uno zio Giancarlo, ex motociclista, bronzo alle Paralimpiadi 2016, nonno Osvaldo che lo soprannominò "Motoretta".
«Mamma ha sempre avuto molto coraggio, quando si sono conosciuti con papà lei aveva 16 anni, lui 18, io sono nato a El Paso, in Texas, dove si erano trasferiti, poi però quando avevo pochi mesi è tornata in Italia a Manerba perché non le andava di seguirlo in Corea. Mi sono tatuato i nomi e le date di nascita dei miei fratelli, tanto ero contento di non essere più solo e infatti li portavo a giocare con me e anche oggi siamo molto vicini. A nonno Osvaldo che mi ha sempre incoraggiato e che non c'è più ho dedicato la mia vittoria a Tokyo. E anche al mio team. Il lavoro con la mental coach è stato importante, soprattutto nel ricucire la frattura con mio padre che per me era una catena».
L'atletica italiana è sempre più multiculturale, diversamente da quando ha iniziato lei.
«Vero. Soprattutto al vertice. Ai miei tempi c'erano solo Fiona May, e Andrew Howe che era il mio mito. La sua gara ai mondiali di Osaka nel 2007 è il primo ricordo che ho di una gara d'atletica in tv. Finalmente i nuovi italiani, ci chiamano così, emergono anche nello sport. Possiamo essere un esempio d'integrazione per le nuove generazioni che crescono e che qui studiano. Negli altri paesi, Francia, Gran Bretagna, è un processo già avviato da tempo, da noi ci si sorprende: e questi da dove sbucano?».
I figli migliorano un atleta?
«Ti insegnano ad avere responsabilità, a pensare e a vedere le cose non solo per te. Jeremy è nato che avevo 19 anni, da una precedente relazione, Anthony è del 2019 e Meghan del 2020, li ho avuti da Nicole che sposerò il 17 settembre, giorno del suo compleanno, alla presenza dei tanti parenti americani.
Io nella vita sono pigro e lento, lo so che tutti pensano che gli sprinter sono dei nevrotici, ma anche Bolt ha la mia stessa tendenza, alla mia prima gara non mi sono allacciato le scarpe e ho vinto con un piede scalzo, anche Usain ai mondiali juniores non riusciva a infilarsi una scarpa anche perché stava mettendo la sinistra nella destra.
Ma io mi addormento ovunque, non ho nessuna difficoltà a prendere sonno, però sono sensibilissimo ai bambini, nel senso che se di notte uno di loro si muove, io mi sveglio».
Sarà un anno pieno di sfide importanti: mondiali di atletica, europei.
«Esordirò anche sui 200 metri perché il mio allenatore dice che fanno curriculum e per variare un po'. L'idea è quella di fare come Mennea e di correre 100 e 200 agli europei del 2024, che si disputeranno a Roma a cinquant'anni dall'ultima volta. Avrò 29 anni, sarò ancora in forze, i miei muscoli lavoreranno ancora bene.
In più a fine stagione si conclude il rapporto con il mio sponsor e vedremo se e come rinnovare. La gente pensa che dato che noi ci divertiamo a fare sport dobbiamo accontentarci di correre senza pretendere nulla. Non è giusto, le nostre performance hanno un valore».
Lei corre veloce, ma ha paura di volare.
«Molta. Mi inchiodo sul sedile, mi metto gli auricolari e guardo il film 6 Underground. Ormai è il mio rituale anti-paura da quando ho fatto un viaggio in piena tempesta da Londra a Bruxelles, solo il nostro aereo è partito e il comandante ci ha fatto sapere che era un momento molto challenging, stimolante. Non lo avesse mai detto, mi sono avvinghiato al mio posto, e ho alzato l'audio. Non mi piace non avere controllo sulle cose, non amo andare in auto quando guida qualcun altro. Il mio rettilineo della felicità resta sulla terra».
Marcell Jacobs è tornato: è di nuovo campione italiano dei 100 metri. Antonio Prisco il 25 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il campione olimpico si impone senza brillare in 10''12. A 21 giorni dai Mondiali di Eugene lo sprinter azzurro è ancora alla ricerca della migliore forma
Marcell Jacobs ha vinto il suo quinto titolo italiano consecutivo nei 100 metri. Il 27enne sprinter delle Fiamme Oro, doppio oro olimpico nei 100 e nella 4x100, si impone in 10"12, con quasi un metro di vento contrario, davanti a Chituru Ali, secondo in 10"16 e Filippo Tortu, terzo in 10"24.
Sul rettilineo del Raul Guidobaldi di Rieti il campione olimpico, al rientro alle gare dopo 38 giorni a seguito di un guaio muscolare, è apparso un pò arrugginito nella prima parte di gara. Dopo una buona reazione allo sparo, fatica a mettersi in moto e nemmeno il lanciato, spesso irresistibile, è quello dei giorni migliori. L'azione è un po' legnosa, come se mancasse di agilità. Negli ultimi metri Marcell si è poi disteso.
Il lungo stop per l’infortunio al bicipite femorale sinistro, evidentemente, ha inciso. Ma la buona notizia è che, dal punto di vista fisico, i problemi sono superati. Giovedì prossimo 30 giugno Marcell Jacobs sarà in gara a Stoccolma nel meeting della Diamond League. A 21 giorni dai Mondiali di Eugene bisognerà accelerare per entrare nella forma migliore.
In mattinata era arrivata la sfida all'azzurro dal texano Fred Kerley. Il vicecampione olimpico ha dominato in 9"77 i 100 dei Trials statunitensi dopo aver fermato il cronometro in semifinale in 9"76 a Eugene, sulla stessa pista che il 15-16 luglio ospiterà le sfide iridate della specialità.
"Sono tornato? Non me ne sono mai andato, sono solo rimasto un pò nell'ombra". Le prime parole di Marcell Jacobs a fine gara. "Non sono soddisfattissimo del tempo ma l'importante era tornare a correre, ora c'è Stoccolma e poi i Mondiali - racconta ai microfoni di Rai Sport - Mi serviva ricominciare a gareggiare dopo aver fatto una sola gara all'aperto ed essere stato fermo per questo infortunio. In finale comunque le sensazioni erano migliori rispetto alle batterie".
Intanto ai Trials gli americani volano ma Jacobs non è preoccupato: "Hanno fatto ottimi tempi ma Eugene è una pista velocissima. L'importante per me era ritrovare l'assetto, non sono ancora capace di gestire un 100 metri completo e oggi ho voluto evitare contrazioni e cose strane. Ma ho avuto belle sensazioni e a Stoccolma cercheremo di spingere al 100%". La sfida è già lanciata.
Marcell Jacobs: «Sono l'uomo da battere: ne sono felice. Tra mangiare e essere mangiato, io mangio». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2022.
Il campione olimpico dei 100 torna venerdì a Berlino nei 60 m indoor: «Con l’estrazione del dente del giudizio la gamba destra, che andava un po’ a rimorchio della sinistra, si è sbloccata».
Centottantadue giorni dopo, è di nuovo Marcell Jacobs. Calzoncini e canotta, scarpette chiodate («Quelle non mi mancavano: le ho rimesse 25 giorni dopo i Giochi»), l’odore gommoso del tartan, lo sparo — bang — nelle orecchie. Ma, soprattutto, la scossa elettrica di una gara brevissima, i 60 metri indoor al cui confronto i cento sono una mezza maratona, l’esercizio di reattività e muscoli di cui è campione europeo: 6”47, 6 marzo 2021 a Torun (Polonia), il risultato che era stato un neon intermittente acceso sulle teste dei rivali. Tokyo, sto arrivando. Poi, in Giappone, è successo quel che sappiamo, è esploso il big bang che ha mandato in frantumi le gerarchie dell’atletica mondiale. Marcell Jacobs from Desenzano del Garda, Italy, due volte oro olimpico: nei 100 (9”80) e nella 4x100 con record italiano (37”50), insieme a Lorenzo Patta, Fausto Desalu e Filippo Tortu. 182 giorni fa, pare passata un’eternità.
Marcell è ora di tornare a correre, come natura crea. Venerdì sui 60 metri, nel meeting indoor di Berlino. Ha ancora fame?
«Più di prima! Guardare gli altri impegnati in pista mi ha acceso ancora più voglia e motivazione».
Sei mesi di stop sono tanti.
«Eh prima di tornare era necessario fare un bel lavoro: mi sono preso il tempo giusto per lavorare su volume e dettagli, il bagaglio da portarmi dietro nella stagione indoor».
Di cosa ha sentito di più la mancanza, in questo lungo periodo?
«Dell’adrenalina. Di quell’energia che si attiva ed entra in circolo quando mi accuccio sui blocchi e sento la voce metallica dello starter dire: ai vostri posti. In allenamento vado forte, ma in gara sono capace di tirare fuori un altro 50 per cento».
L’obiettivo a Berlino?
«Aspettarsi il record europeo (6”42, Dwain Chambers 2009 ndr) sarebbe azzardato. Quello è l’obiettivo di tutta la stagione in sala: devo scendere di 5 centesimi. La prima gara è funzionale alle altre: ritrovare le sensazioni, la fluidità di corsa, le dinamiche. L’anno scorso, all’inizio delle gare indoor, ero molto più indietro: sperimentavo una partenza nuova che adesso è totalmente acquisita. Venerdì a Berlino non mi prefiggo un crono. Mi prefiggo di vincere».
Avrà contro un plotone di tedeschi.
«Kranz l’ho battuto a Torun, Almas e Ansah-Peprah li conosco meno. Ma sono tranquillo, non ho ansie.
Il nuovo Jacobs è intervenuto a pulire i vecchi pensieri negativi. E il pensiero crea.
«È dal gennaio 2021 che sono focalizzato solo sulle mie capacità: le aspettative altrui non mi toccano più. Sono carico come una molla, se potessi scenderei in pista tra cinque minuti!».
L’ex di Jacobs: «A suo figlio neanche una telefonata di auguri»
Il bilancio del mese di allenamento a Tenerife?
«Buono. Non ho avuto acciacchi, con coach Camossi e il team siamo riusciti a lavorare bene. Nelle prime due settimane abbiamo continuato la preparazione invernale, quel volume di lavoro che mi permetterà di tenere alta l’intensità alle gare. Nelle altre due ci siamo dedicati ai dettagli: tecnica, esplosività, frequenza dei passi».
Dalle Canarie, via social, sono arrivati riscontri cronometrici interessanti. Ne parliamo?
«Volentieri. 6” netti nei 60 metri con crono manuale, senza blocchi. Benino ma l’anno scorso avevo fatto anche 5”94. Quando scendi sotto i 6”, però, sai che la forma sta arrivando. 14”91 nei 150 metri, che io odio. Una prova bruttissima, tra l’altro: esco dalla curva e mi trovo la Bora in faccia. Difficile mantenere l’assetto... Ma la miglior prestazione di sempre l’ho fatta nei 120 metri: 11” e qualcosa, io coi numeri sono negato, e per due volte!».
I benefici dell’estrazione del dente del giudizio li ha sentiti?
«Oh sì. La gamba destra, che andava un po’ a rimorchio della sinistra, si è sbloccata. Ho dovuto rimodulare le frequenze e imparare a controllarla. Lo scopo di pareggiare le due leve è raggiunto: ora corro molto meglio».
Con Camossi avete deciso di lasciare invariata la partenza, alla fine.
«Sì, quello è un lavoro che va fatto con costanza, ci vuole più tempo. Era un’idea: cambiare il piede di spinta per alternare sui blocchi la sollecitazione delle gambe. La riprenderemo, forse».
Nel bilancio della trasferta a Tenerife vanno inclusi anche i nuovi tatuaggi.
«Nove sedute dal tatuatore, ma ne è valsa la pena! I cinque cerchi, la scritta Italia in carattere giapponese, come sulla maglia azzurra a Tokyo, sull’avambraccio Ercole inginocchiato che tiene su l’oro olimpico, una pagoda con il monte Fuji sullo sfondo».
Quando disse: «Mio nonno ha lasciato mio padre, mio padre me e ora io...»
Però. Serviranno a impressionare il campione del mondo Christian Coleman, tornato a correre in 6”49 dopo 18 mesi di squalifica per i controlli antidoping saltati?
«Non l’ho visto così bene: a metà gara ha perso velocità, faceva fatica. Sui 100 avrebbe chiuso in 10”10. Piuttosto sono rimasto colpito da Trayvon Bromell, che ha corso in 6”50 e annunciato che ha già finito la stagione indoor».
Per Coleman ha stima?
«Io rispetto chiunque: tutti si fanno il mazzo come me, tutti coltivano sogni rispettabili. Coleman, tra le polemiche che hanno seguito il mio oro nei 100, aveva avuto belle parole per me. Sui blocchi lo saluterò, come saluto tutti».
Piccoli Jacobs crescono. Micah Williams 6”48 a Spokane, Terrence Jones 6”45 a Lubbock.
«Williams aveva corso i 100 in 9”91 ai trials Usa: so chi è, ci seguiamo sui social. Jones è un punto di domanda: tanto talento, ma in quello starter in Texas c’era qualcosa che non andava».
Quando è prevista la prima uscita all’aperto? Lì si riparte dal 9”80 di Tokyo.
«Non lo so ancora, ma sarà nei 200. È in funzione dei 100 e mi servirà per abbassare il mio crono nel mezzo giro di pista (20”61 ndr)».
Confessi: quante volte ha rivisto la finale olimpica?
«Sui social ogni volta che mi ci sono imbattuto ma ultimamente sto rivedendo i 100 di Tokyo in loop con un’altra intenzione: rivivere quelle sensazioni per caricarmi. Mi chiedo: come cavolo ho fatto a gestire quel momento...?».
Finalmente ha concesso un’intervista al Telegraph: la stampa anglosassone era stata la più feroce dopo i suoi due ori a sorpresa. Prima domanda: si dopa?
«Era scontato. In realtà non è stata la prima domanda ma vabbé. Certo vedi vincere ai Giochi uno che non è favorito e ti frullano mille pensieri per la testa. Nessun problema. So chi sono, so da dove vengo, so quanto mi sono impegnato per quel risultato. Le cose positive restano, quelle negative evaporano col tempo».
La stampa inglese contro Jacobs: sospetti di doping senza prove
Marcell, poche chiacchiere. Da venerdì l’uomo da battere è lei.
«Sono felice, è quello che ho sempre voluto. Tra mangiare ed essere mangiati, io ho scelto di mangiare: adesso sono gli altri che inseguono me. Non aspettatevi che vinca ogni gara da qui a fine stagione. Ma saprò arrivare primo quando più conta».
Da open.online il 19 febbraio 2022.
I britannici arrivati secondo dietro gli azzurri per un soffio nella staffetta 4×100 a Tokyo 2020 dovranno restituire le loro medaglie d’argento. Il Tribunale di Arbitrato dello sport di Losanna ha stabilito in via definitiva che da parte di Chijindu Ujah c’è stata la violazione delle regole antidoping, dopo che il britannico risultò positivo agli steroidi ai test dopo la gara vinta dall’Italia.
Tutti i risultati di quella squadra vengono quindi annullati, compresi i premi ricevuti. Viene quindi riscritto il risultato di quella gara, vinta dagli azzurri Patta, Jacobs, Desalu e Tortu, proprio con lo scatto memorabile di quest’ultimo che nel finale aveva bruciato l’avversario britannico. L’argento passa al Canada, che finì terzo sul podio, mentre la Cina riceverà il bronzo.
Arriva una beffa per i britannici e per i media del Regno Unito, che dopo i trionfi azzurri avevano insinuato sospetti di doping soprattutto per Jacobs che aveva conquistato uno storico oro nei 100. Accuse mai provate, a differenza di quelle contro Chijindu Ujah che aveva sempre provato a difendersi spiegando che era risultato positivo per colpa di un «integratore contaminato». Oggi si scusa con i compagni Zharnel Hughes, Nethaneel Mitchell-Blake e Richard Kilty, spiegando però che avrebbe assunto gli steroidi: «inconsapevolmente. Mi scuso ancora – ha detto – mi dispiace moltissimo che a causa di questa situazione debbano restituire le medaglie, e mi scuso anche con le loro famiglie e con i tifosi. Mi porterò dietro questo rimorso per il resto della vita».
Andrea Buongiovanni per gazzetta.it il 19 marzo 2022.
Marcell Jacobs colpisce ancora. Il campione olimpico dei 100 metri conquista anche i Mondiali indoor a Belgrado, dove si impone nella finale dei 60 in 6”41, record europeo tolto al britannico Dwain Chambers, che nel 2009 a Torino lo aveva fissato a 6”42. Argento e bronzo per gli statunitensi Coleman (6”41 come Jacobs) e Bercy, i rivali più pericolosi.
Il bicampione olimpico è raggiante: "Questo oro mondiale è magia, ma anche frutto del lavoro. L'importante era dimostrare a tutti che i successi di Tokyo non erano un caso. Un risultato figlio anche del grande lavoro a livello mentale, ringrazio tutto il team per questo sogno"
Jacobs conquista l'oro nei 60 metri ai Mondiali indoor di Belgrado. Antonio Prisco il 19 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il campione olimpico dei 100 metri vince al fotofinish sugli americani Coleman e Bracy. Con 6"41 stabilisce il nuovo record europeo.
Marcell Jacobs sa solo vincere. A sette mesi e mezzo da Tokyo 2020, il campione olimpico dei 100 metri conquista anche i Mondiali indoor a Belgrado, dove si impone nella finale dei 60 metri in 6"41 (record europeo), precedendo al fotofinish lo statunitense Christian Coleman. Bronzo per l’altro americano Marvin Bracy.
Nella seconda giornata dei Mondiali indoor di atletica in corso a Belgrado, Marcell Jacobs mette le cose in chiaro, una volta di più: è lui l'uomo più veloce del mondo. Sulla pista della Stark Arena della capitale serba il velocista azzurro si mette al collo un'altra medaglia d'oro, con una nuova prestazione strepitosa. Già in semifinale Jacobs aveva offerto le sensazioni migliori, fermando il cronometro dopo 6 secondi e 45 centesimi, tempo con cui aveva limato il record italiano, che già gli apparteneva.
Nell'ultimo atto, Jacobs esce abbastanza bene dai blocchi e sul lanciato rimonta clamorosamente sui due statunitensi, suoi avversari più accreditati. Proprio al fotofinish, l’azzurro batte Christian Coleman di ritorno da una squalifica per aver ignorato i test antidoping, per soli tre millesimi e rimane sul tetto del mondo, una volta di più. Per l’Italia si tratta della prima medaglia nei mondiali di atletica indoor 2022. Ma c'è di più la vittoria gli consente di stabilire il nuovo record europeo migliorando di appena un centesimo il precedente limite che dal 7 marzo 2009 apparteneva al britannico Dwain Chambers.
Le prime parole
"La magia continua? Magia ma anche duro lavoro. Sono arrivato qua cercando di trovare le migliori condizioni e abbiamo dimostrato ancora una volta di essere i più forti quando conta". Marcell Jacobs commenta così, ai microfoni di Rai Sport, l'oro sui 60 metri ai Mondiali indoor di Belgrado. "Volevo dimostrare che quello che ho fatto alle Olimpiadi non era un caso ma il frutto del duro lavoro di tanti anni - continua - Mi sono messo alla prova su una distanza che non era la mia, dovevo migliorare tanto e sono riuscito a farlo. E ora non vedo l'ora di tornare a fare i 100 metri per continuare a sognare e fare sognare".
Jacobs fatica a trattenere l'emozione: "Ho desiderato veramente questi momenti. Se dovessi vincere le tre grandi gare di quest'anno (Mondiali indoor, Mondiali ed Europei, ndr) avrei vinto tutto quello che c'è da vincere nell'atletica. E la prima è andata".
Il matrimonio Jacobs-Daza tra vip, merengue e il video-invito agli ospiti. Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 18 Settembre 2022.
Il «sì» di Marcell e Nicole a Gardone Riviera, nel Bresciano. Tra gli ospiti Malagò e Tamberi. Arrivano i parenti dagli Stati Uniti (ma tra loro non c’è il papà)
«Ti ho conosciuto ragazzo, e adesso sei un uomo». È stato Paolo Camossi, l’allenatore che lo ha accompagnato agli ori olimpici ed europeo, il primo a parlare (nei panni dell’emozionato testimone di nozze) alla cerimonia blindatissima con cui il re di Olimpia Marcell Jacobs e Nicole Daza sono diventati marito e moglie, nella Torre di San Marco a Gardone Riviera. Gli sposi erano arrivati in barca da Desenzano, prima lui, poi lei, ultima come vuole tradizione, avvolta in un abito da sirena con trasparenze e pizzi e scollo a vu sul décolleté, scelto qualche mese fa con la mamma nell’atelier milanese di «Nicole». Lo sposo, in Armani, ha dato il benvenuto con un abbraccio fraterno a Gimbo Tamberi, arrivato a bordo della sua decapottabile verde con la neo moglie Chiara Bontempi, sposata il 1° settembre a Pesaro. Grida entusiaste dei curiosi-tifosi appollaiati sul muretto del Vittoriale, dall’altra parte della strada.
La giornata
La festa era cominciata di mattina nel giardino di Villa Athena, il B&B dove l’amico di famiglia Alberto Papa in questi anni ha fatto costruire una pista per permettere al campione di allenarsi, a pochi metri dall’hotel della mamma, Viviana Masini, colonna e sostanza di Jacobs, madre e padre insieme della «motoretta umana», come lo aveva ribattezzato nonno Osvaldo quando da bambino correva come un pazzo fingendo di avere le ruote ai piedi. Un brunch vicino alla piscina ha riunito i parenti della sposa, arrivati dall’Ecuador, e quelli dello sposo, venuti dall’America, nonna Claudia in prima fila nel nome del padre, Lamont Jacobs, ancora una volta assente, ma presente nelle figure degli zii e dei cugini che hanno attraversato l’Oceano per essere accanto allo sprinter di acqua dolce, nato a El Paso e cresciuto con le «ciabatte» di pane burro e marmellata di nonna Rosanna a Castiglione delle Stiviere, prima di trasferirsi con la madre e il nuovo compagno nel Bresciano.
Musica e balli
C’erano tutti ed era una gioia vederli ballare la salsa e il merengue, chi con il sombrero in testa, mentre due ospiti con il costume mariachi sparavano (a salve) i colpi di un nuovo inizio: la vita di Marcell e Nicole con i piccolini Anthony e Meghan, arrivati dopo Jeremy, nato dalla precedente relazione del campione. Poi cambio d’abito e trasloco alla Torre di San Marco, la struttura acquistata da D’Annunzio nel 1925 che di fatto è un prolungamento del Vittoriale. Qui il presidente, Giordano Bruno Guerri, ha fatto trovare agli sposi lo stesso dono che il Vate fece al pilota Tazio Nuvolari, una tartarughina d’oro: «All’uomo più veloce del mondo, l’animale più lento».
Gli invitati
Gli ospiti sono arrivati uno dopo l’altro. Tra i primi, il compagno di staffetta a Tokyo Fausto Desalu; assente invece Filippo Tortu, che di quell’impresa d’oro aveva chiuso il cerchio. Il gioielliere delle fedi, Riccardo Risivi, ha raccontato come è nato il sodalizio con il campione: «Siamo diventati amici per caso, io e i miei due fratelli gli avevamo regalato un ciondolo con la bandiera dell’Italia prima che vincesse le Olimpiadi: gli abbiamo portato fortuna!». E sulle fedi: «Sono in oro bianco 18 carati, con un design a Dna, che contiene il simbolo dell’infinito, tempestate da brillanti naturali, del peso totale di tre carati». Dallo stesso laboratorio era arrivato l’anello di fidanzamento per Nicole: un diamante centrale taglio brillante di quasi un carato!
La luna di miele
«Se state vedendo questo video è perché siete delle persone molto importanti per me e Nicole», hanno detto Marcell e la fidanzata nel video-invito mandato ai 170 ospiti, divisi in 17 tavoli, ognuno con il nome di un fiore. E per la lista nozze: «La vostra presenza sarà per noi il dono più bello. Ma se desiderate farci un regalo aiutateci a contribuire al nostro viaggio di nozze». Destinazione Bali. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, pure lui presente, ha però raccontato: «Marcell ha pensato anche a qualcosa di molto bello, per quelli meno fortunati...». E poi ha scherzato: «Questa è l’estate dei matrimoni (dopo Federica Pellegrini e Gimbo Tamberi, ndr), e non è ancora finita. A ottobre tocca a Elia Viviani ed Elena Cecchini».
La festa a oltranza
Presenti il coordinatore del Centro Nazionale Fiamme Oro della Polizia di Stato, Sergio Baldo, la mental coach che ha aiutato il velocista a tagliare l’«elastico» che frenava la sua corsa, Nicoletta Romanazzi, e Marco Ventura, che cura l’immagine del campione. Per tutti un ombrellino bianco all’ingresso (che non è servito) e per le signore un copri tacchi di gomma (per non rovinarsi le scarpe). Aperitivo a Villa Fiordaliso, cena a Villa Alba, festa a oltranza per quel «bambino abbandonato», come si è definito Jacobs nell’autobiografia Flash, che nel giorno del suo matrimonio è riuscito a misurare intorno a sé soltanto amore.
Marcell Jacobs, il matrimonio con Nicole e il padre assente: “Mi ha bidonato, non l’ho sentito”. Redazione su Il Riformista il 17 Settembre 2022
L’uomo più veloce del mondo è pronto per l’altare. È il grande giorno del matrimonio per Marcell Jacobs e Nicole Daza, madre di Antony e Megan, due dei tre figli del campione olimpico dei 100 metri, la gara regina della velocità su pista.
Le nozze si celebreranno nel pomeriggio di sabato alla Torre di San Marco a Gardone Riviera, affacciato sul lago di Garda, nel giorno in cui Nicole compie 29 anni.
Sono 170 gli ospiti attesi per il matrimonio, ma tra questi non ci sarà Lamont Jacobs, il padre militare statunitense che lo abbandono quando era bambino assieme alla madre Viviana. Come raccontato da Marcel in una intervista alla Gazzetta dello Sport, i rapporti tra i due restano praticamente nulli, dopo un piccolo tentativo di rappacificazione dopo le Olimpiadi di Tokyo: “Non è venuto, mi ha bidonato. Stavolta non l’ho nemmeno sentito — ha spiegato al quotidiano —. Per fortuna che già da domenica scorsa sono arrivati dagli Stati Uniti mia nonna, gli zii e alcuni cugini, in tutto sedici persone. Si fermeranno fino a lunedì nell’hotel di mamma”.
Non è chiaro invece se sarà presente il primo figlio di Marcell, Jeremy, avuto a soli 17 anni dall’ex compagna Erika Szabo, che ora lo accusa di avere abbandonato il piccolo, di 8 anni. Nei mesi scorsi l’ex fidanzata aveva accusato il velocista azzurro di non aver pagato il mantenimento per il figlio: “Per un anno non ha pagato niente e parliamo di 300 euro”, aveva spiegato in una intervista a ‘Chi’.
Alla Gazzetta dello Sport Marcell ha invece raccontato il suo addio al celibato: “Ci siamo divertiti un bel po’, al venerdì con il concerto di Capo Plaza, mentre il sabato mi hanno vestito da carcerato e mi hanno ammanettato, portandomi in giro dal quartiere Fleming fino a ponte Milvio. Ho patito un caldo assurdo con quel travestimento”.
Quanto al viaggio di nozze, Marcell e Nicole trascorreranno due settimane “di assoluto relax” a Bali, “mentre gli ultimi sette giorni ci sposteremo in un resort alle Maldive”.
Elvira Serra per corriere.it il 19 settembre 2022.
Viviana Masini è una mamma stanca, ma felice. Sabato pomeriggio il primogenito si è sposato con Nicole Daza nella Torre di San Marco, a Gardone Riviera, davanti a 170 parenti e amici. Il fatto che lui si chiami Marcell Jacobs e sia l’uomo più veloce del mondo, che abbia vinto due ori olimpici e uno europeo, per lei è un dettaglio.
Il matrimonio era anzitutto una festa di famiglia, anticipata sabato mattina nel giardino di Villa Athena, a Manerba sul Garda, dove si sono incontrati i parenti della sposa arrivati dall’Ecuador e quelli dello sposo venuti dall’America, mentre un complesso con costume mariachi suonava salsa e merengue in un’atmosfera dolce e spensierata. È qui che ci ritroviamo.
Qual è stato il momento più emozionante?
«Mi porterò sempre nel cuore l’ultimo viaggio in barca con mio figlio, da Desenzano a Gardone, prima che diventasse l’uomo di Nicole. Mezz’ora insieme, una cosa solo mia e sua. Ci siamo raccontati tante cose condivise in questi 28 anni. Mi ha ringraziato ancora per le spinte che gli ho dato, per le scelte che ha fatto, per aver insistito quando voleva mollare con l’atletica e io invece ho trovato l’allenatore giusto per lui in quel momento».
Ventisei settembre 1994: Marcell Jacobs nasceva a El Paso, in Texas. Cosa ricorda di quel giorno?
«Un travaglio molto lungo, cominciato la domenica mattina. Ma lui non ne voleva sapere di uscire: era in ritardo di una settimana».
Non ci credo. L’uomo più veloce del mondo?
«Ma lui è l’uomo più lento! Se non fosse per Nicole, quando non si allena starebbe sempre sul divano».
Come finì?
«Mi sono ricoverata alle 23.30, mi hanno fatto l’epidurale e mi sono addormentata. Alle 6.30 mi sono svegliata di colpo, ho fatto 4 spinte ed è uscito. Avevo 22 anni. Con me c’era il papà, Lamont».
Le è spiaciuto che non ci fosse al matrimonio?
«Devo ammettere che mi è dispiaciuto al 50 per cento, perché comunque non amo le forzature. È una persona che ha un po’ di problemi fisici, ho quasi preferito così, piuttosto che vederlo qua che non stava bene e magari non riusciva a godersi la festa».
In compenso c’era nonna Claudia con altri 15 parenti americani, tra zii e cugini.
«Sì, ci tenevo moltissimo, perché quella è l’altra metà della famiglia di mio figlio: li ho ringraziati tantissimo per essere venuti e loro hanno ringraziato me. E poi nonna Claudia ha 78 anni! Marcell ha da sempre un rapporto molto bello con lei. A 10 anni ebbe una crisi di identità, pensava di essere stato adottato, così la feci venire per il suo compleanno e fu un momento bellissimo, lui non si staccava dalla sua gonna. Lei mi ha portato una foto molto dolce di loro due insieme sul divano, fatta a quei tempi».
Qual è stato il momento più divertente del matrimonio?
«Quando Anthony, il figlio più grande di Marcell e Nicole, che ha 3 anni, ha portato le fedi ai genitori e non si decideva a mollarle. Allora il padre lo ha preso in braccio ed è finita che è stato quasi lui a mettere l’anello al dito alla madre».
«Immaginavo che avrebbe fatto qualcosa di grande. Lo vedevo come un oratore su un palcoscenico: certo non avrei mai pensato ai 100 metri».
Qual è stato il momento più difficile come mamma?
«Diversi. Ritornare con un bambino piccolo dall’America, sconfitta da un fallimento, non è stato facile. Il passaggio di Marcell dall’infanzia all’adolescenza è stato molto impegnativo. L’altro momento duro è stato quando è andato a Gorizia, per allenarsi con Paolo Camossi: aveva 18 anni ed è cominciato il taglio del cordone ombelicale».
Ogni quanto vi sentite?
«Devo dirlo? Beh, almeno tre volte al giorno».
Quali sentimenti prova per Nicole, sua nuora?
«Nicole è una donna intelligente e capace ed è molto di polso, l’ammiro tanto. Ha quell’energia che dà una spinta in più a Marcell che, a parte in pista, è davvero l’uomo piu lento di questa terra. Sono molto contenta di questo matrimonio perché Nicole completa Marcell. Riconosco in lei quella vena di pazzia che avevo anch’io da giovane. È stata disposta a lasciare la sua famiglia e il suo lavoro a Novi Ligure per seguire mio figlio a Roma. Apprezzo la sua determinazione».
Cosa farà mentre loro saranno in luna di miele?
«Farò la nonna. Mi occuperò io di Anthony e Meghan. Tra poco scendo a Roma per stare in casa con loro».
Marcell Jacobs: «Non abbandonerò mio figlio Jeremy come mio padre ha fatto con me». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 3 Aprile 2022.
Intervista a Marcell Jacobs: «Il 17 settembre mi sposo con Nicole e verrà anche mio padre: ho spezzato la maledizione degli abbandoni. Doping? Chi mi accusa non sa quanto ho sofferto. La mia vittoria sui 60 metri indoor ai Mondiali più difficile anche dei 100 all’Olimpiade»
La colazione del campione è un cornetto alla crema, cappuccino, due spremute. Siamo alla pasticceria di Vigna Stelluti, a Roma, con Marcell Jacobs e il suo allenatore Paolo Camossi . Il campione è estroverso, sorridente, più di come appare in tv. Sembra anche più giovane dei suoi 27 anni. Parla con il corpo, mima quello che sta raccontando. E ha appena bissato il trionfo olimpico, vincendo l’oro sui 60 metri ai Mondiali indoor.
Come ha fatto, Marcell?
«È stata la vittoria più difficile. Venivo da un’annata super, in cui mi era andato tutto bene. In molti avevano sollevato mille dubbi: sarà deconcentrato, non avrà più fame… Tanti non conoscono l’atletica, pensano che si possa vincere l’Olimpiade così, con una botta di culo. Dovevo far capire che Tokyo non è stata un caso. È il frutto del lavoro di una squadra, di una vita».
Cosa può essere più difficile di una finale dei 100 metri olimpica?
«Una finale mondiale dei 60 metri indoor, e non solo perché alla fine vai a sbattere a 50 all’ora contro un materasso. Avevo contro Christian Coleman: campione del mondo e recordman in carica, che era stato sospeso e quindi doveva riguadagnarsi tutti i contratti. E io ogni anno provo a saltare la stagione indoor, perché sono pigro, ma poi il mio allenatore mi costringe...» (Jacobs e Camossi ridono).
Perché si è fermato dopo l’Olimpiade?
«Perché era stata una stagione lunghissima, complicata da un infortunio. E l’energia nervosa si era spenta. Avrei rischiato di farmi male».
Ha perso un sacco di soldi.
«Lo so, ma non fa niente. Questo sarà l’anno più importante della mia vita: ci sono i Mondiali e gli Europei. E avrò gli occhi di tutti puntati addosso. Mi studieranno per capire come battermi».
Dicevano che sarebbe andato a vivere in America.
«Si sono inventati un sacco di cose. Perché dovrei andare a vivere in America? Io sono italiano. Già ho lasciato Desenzano per Roma...».
Qual è il suo primo ricordo?
«Sono nato a El Paso, ma del Texas non mi è rimasto niente. Mi ricordo l’asilo dalle suore, e le prime vacanze in camper con i nonni, Rosanna e Osvaldo. Gli zii correvano in motocross e in mountain-bike: partivamo il giovedì, venerdì le prove, sabato le qualifiche, domenica la gara. Mio zio Giancarlo correva nel campionato mondiale. Poi ebbe un incidente».
Cosa gli accadde?
«Si era ritirato per un malanno ai tendini della mano. Lo invitarono a un revival di beneficenza. Per gareggiare si legò le dita con lo scotch, ma non riuscì a staccare l’acceleratore. Cadde. Lo portarono via in elicottero. Vertebra spezzata, gambe paralizzate. Però riusciva ancora a muovere su e giù i quadricipiti: così ha ricominciato ad andare in bici. A Rio 2016 ha vinto la medaglia di bronzo alle Paralimpiadi. Il primo olimpionico in famiglia è stato lui».
A scuola ha mai avuto problemi?
«Per che cosa?».
Per il fatto di essere scuro.
«Mai. Non saprei raccontarle un solo episodio negativo legato al colore della mia pelle. Semmai, quando mi facevano disegnare la mia famiglia, ero l’unico che disegnava solo la mamma».
Le è mancato il padre?
«All’inizio sì. Lo subivo. Poi mi sono abituato, e non ci ho pensato più. Dal restarci male sono passato alla mancanza di sentimento: papà non c’è, e basta. Mia madre Viviana ha trovato un nuovo compagno, e nel giro di due anni sono nati i miei fratelli, Niccolò e Jacopo».
È stato un bambino geloso?
«Tutt’altro. Li ho amati moltissimo fin da subito. Finalmente non ero più da solo a casa. In giardino li sottoponevo a un addestramento durissimo: circuito, flessioni, dodici minuti di corsa... Mi sono tatuato le loro date di nascita: 16 maggio 2002 e 25 settembre 2003. Io sono del 24 settembre. Giocavo a spingerli sul passeggino correndo velocissimo e facendo il verso della motoretta, e un giorno dissi alla mamma: grazie per avermi dato i miei fratelli. Adesso faccio lo stesso gioco a Roma con i figli piccoli, Meghan e Anthony».
Non ha mai visto suo padre?
«Quando avevo tredici anni mi hanno portato a Orlando, in Florida, per incontrarlo. Siamo andati a Disneyworld con i suoi parenti americani, è stato divertente. Ma non siamo rimasti in contatto. Fino a quando non l’ho cercato, per ritrovarlo».
Com’è suo padre?
«Si chiama come me, Lamont Marcell, ma è molto diverso. Mamma dice che sono identico a lui da giovane, ma non è vero: lui è decisamente più brutto (Jacobs sorride). È più alto, un metro e 98, e più ciccione. Ed è senza capelli. Come me».
«Lo odiavo per essere scomparso, poi ho cambiato prospettiva. E ho vinto»
Vi sentite ancora?
«Sì. Siamo riusciti a mantenere un rapporto. Ci scriviamo su Messenger, la chat di Facebook. Il 17 settembre mi sposo, e dall’America verranno in diciotto: lui, la zia, la nonna, due zii, i cugini... E dall’Ecuador verranno i parenti della mia donna, Nicole».
Perché il 17 settembre?
«Perché è il suo compleanno. È della Vergine: un po’ rompiscatole (sorriso), ma affidabile. Se dice una cosa, è quella».
A Massimo Gramellini lei ha raccontato: mio bisnonno ha abbandonato mio nonno, mio nonno ha abbandonato mio padre, mio padre me. E anche lei ha un primogenito con cui non vive.
«È una ricerca che abbiamo fatto con la mia mental coach, Nicoletta Romanazzi. Dovevamo ricostruire la catena degli abbandoni per spezzarla: come se ci fosse una maledizione da sfatare. Non era detto che dovesse essere per forza così, anzi, io non dovevo farlo succedere. Toccava a me interrompere la negatività. Anche per questo ho deciso che dovevo prendermi cura di Jeremy, che è nato quando avevo vent’anni, e ne compie sette a dicembre. Finita questa intervista parto per Desenzano, dove vive, e mi fermo una settimana. È vero, l’ho visto poco. Sta in un’altra città, e d’estate quando è in vacanza io gareggio in giro per il mondo. Ma sono suo padre, e per lui ci sarò sempre. Gli ho regalato l’I-pad, con cui facciamo le videochiamate».
Lei dove ha studiato?
«Le medie dai preti, dormivo in istituto. Poi mi sono iscritto al linguistico, dove eravamo due maschi e ventotto femmine. L’avevo scelto per quello... (sorriso). Ma non sono mai stato uno studente brillante. Così sono finito in un professionale che pareva un riformatorio: cinque anni di risse… almeno l’ho finito. Però ho sempre voluto fare l’atleta».
Sua madre ha raccontato che alla prima gara lei perse una scarpa.
«Avevo otto anni, ed ero già pigro: non avevo allacciato le scarpe, tanto erano strette... Vinsi lo stesso, con un piede scalzo. Un’altra volta, a Salò, ero l’unico con la corsia bagnata: in partenza sono scivolato e sono caduto rovinosamente. Mi sono rialzato, e ho vinto».
Non un’infanzia infelice.
«Sul camper dei nonni con mio cugino Elia, che ha la mia età, andavamo a Jesolo, Riccione, Roseto degli Abruzzi; e mi parevano grandi avventure. Poi abbiamo cominciato a viaggiare con la mamma: Calabria, Sardegna, Francia, Spagna, pure in crociera e al carnevale di Bonn, dove tiravano le caramelle. Con gli amici passavamo i giorni di Pasqua in tenda, nei boschi sopra il lago di Garda: i falò, i barbecue…».
Il suo sogno era il salto in lungo.
«E il mio rivale era Luca Cavalli».
«Tamberi che mi viene addosso, la rivalità con Tortu, il matrimonio»
Chi?
«Un ragazzo che a nove anni saltava più di quattro metri, come me. Purtroppo non ne so più nulla».
Il suo idolo era Carl Lewis?
«No. Andrew Howe. Italiano e mulatto, come me. Ero in Calabria quando vinse l’argento ai Mondiali, e davanti alla tv ho pensato: un giorno salteremo insieme».
E tra i personaggi storici?
«Jesse Owens. Quando ho gareggiato a Berlino all’Olympiastadion ho pensato a lui che vince quattro ori davanti a Hitler, e mi sono emozionato».
Lei è esploso tardi.
«Ho avuto una serie infinita di guai; e ognuno si è rivelato un’opportunità».
Primo guaio?
«2014: forte dolore al ginocchio. Risonanza: due buchi nel tendine rotuleo. Per un anno niente salti».
Secondo guaio?
«2015: al primo salto supero gli otto metri, ma mi stiro il bicipite femorale, e perdo gli Europei. Riprendo le gare: primo salto nullo; al secondo salto, dolore pazzesco: si è staccata una parte del tendine, il muscolo è sceso di quattro centimetri. Così decido di cambiare allenatore. E ho trovato lui».
Paolo Camossi.
«Mi unisco al suo gruppo a Gorizia, e mi trovo bene, io che mi allenavo nelle vigne. Però continuo ad andare in moto con gli amici. Un giorno per movimentare il circuito di enduro costruiamo un salto: ovviamente cado, sfrego la gamba sul pedalino, mi raschio la tibia fino all’osso. Addio moto».
Nuovi guai.
«2016: salto 8 e 48, sarebbe record italiano, ma per un bava di vento di troppo non vale niente. Poi vado ai campionati di Rieti: la pista è la migliore quando non piove e la peggiore quando piove; quel giorno piove, e mi infortuno al tallone, un male da non poter appoggiare il piede. Niente Olimpiade di Rio».
Neppure il suo 2017 fu granché.
«Supero subito gli 8 metri, arrivo agli Europei di Belgrado da favorito. Ma per pigrizia non provo le rincorse, mi ritrovo su una pista molto rimbalzante: stacco con il piede sbagliato, e non mi qualifico. Poi vado in America: Mondiale di staffette alle Bahamas, e stage a Phoenix. Ma ho un dolore al ginocchio che non mi fa correre. Viaggio di ritorno allucinante: Nassau-Charleston-Phoenix-Los Angeles-Roma-Trieste. Sempre maltempo, vuoti d’aria tipo montagne russe. Da allora ho paura di volare».
E come fa?
«Soffro. Dovevo rientrare da Londra: tutti i voli cancellati per un tornado, tranne il mio, per Bruxelles. Sto vedendo un film d’azione, 6 Underground, quando annunciano che il tornado si è spostato giustappunto sopra Bruxelles, e tenteremo un atterraggio d’emergenza. Panico. Così mi sono immedesimato nel film: gli altri gridavano e io stavo sparando dagli elicotteri. Da allora ogni volta che prendo un aereo guardo 6 Underground. E pensare che il mio secondo sogno, dopo la medaglia olimpica, è andare nello spazio. Prima o poi ci riuscirò».
Un anno fortunato l’ha avuto?
«Ogni salto era una fitta alle ginocchia: cartilagine usurata, continue infiltrazioni di acido ialuronico. Nel 2019 però mi sento finalmente in forma. Europei indoor di Glasgow. Primo salto: lungo, ma nullo. Secondo salto: lunghissimo, ma nullo. Se sbaglio anche il terzo sono fuori. Mi cede la gamba, faccio un saltino. Paolo si mette a piangere; io vorrei, ma non ci riesco. Allora decidiamo di passare alla velocità. Ancora una volta, il problema è diventato una fortuna».
Nel 2020 l’Olimpiade è saltata per il Covid.
«Quando arrivò la notizia sul telefonino, pensai che fosse un disastro. Ma da un male è nato un bene: perché non ero pronto. Avevo appena cambiato la tecnica di partenza. Se fossimo andati a Tokyo nel 2020, non avrei vinto. Da due anni avevo nelle gambe i tempi che poi ho fatto; ma dovevo ancora sbloccarmi».
Quando è arrivata la svolta?
«Berlino, inizio 2021. Io sono molto lento a entrare nei blocchi, anche perché è una posizione scomoda, e così gli avversari stanno scomodi più a lungo… Ma all’improvviso il giudice grida: pronti! In altri tempi avrei fatto tutto in fretta e sarei andato nel panico. Invece ho alzato il braccio e gridato al giudice: che fai? Avevo imparato a farmi rispettare».
Di solito alla partenza gli atleti si guardano di brutto. Lei prima della finale olimpica è andato a salutare tutti.
«Dopo la semifinale Ronnie Baker ha detto a voce alta, perché sentissi: non ce n’è per nessuno! Poi durante il riscaldamento è venuto nel mio rettilineo per disturbarmi, e io sono andato a salutarlo sorridendo. L’ho spiazzato. Prima dello sparo ho augurato a tutti “good luck”, buona fortuna: mi guardavano come un matto. L’ho fatto anche con Coleman, ai Mondiali. Lui era un po’ seccato...».
A Tokyo ha migliorato tre volte il suo personale: 9’’94 in batteria, 9’’84 in semifinale…
«Nel tunnel incontro Jimmy Vicaut, il primatista europeo, che mi fa: complimenti per aver battuto il mio record! Non me n’ero accorto».
Sentiva che avrebbe vinto?
«Non volevo neppure correre. Ero sveglio dalle 5 del mattino. Avevo visto la prima pagina della Gazzetta dello Sport: una mia gigantografia, accanto una fotina di Baldini, l’oro nella maratona ad Atene 2004, con il titolo: ti dico io come si vince... Solo fare i 500 metri a piedi per andare allo stadio mi aveva distrutto. Mi sentivo esausto. Gambe di marmo. Crampi. Pensavo: sono il primo italiano ad aver raggiunto la finale dei 100; posso anche ritirarmi».
Invece.
«Invece resto calmo. L’inglese accanto a me parte prima dello sparo e viene squalificato; io, immobile. Una volta mi concentravo sugli avversari, pensavo a batterli. Sbagliato. Devi concentrarti su te stesso, pensare solo a correre il più veloce possibile».
Però nella finale gli avversari li ha guardati.
«Con la coda dell’occhio. A sinistra non vedevo nessuno. Sul traguardo mi sono voltato a destra, per controllare di essere primo davvero».
E poi?
«Poi mi sono visto arrivare addosso Gimbo Tamberi che saltava. E non si trovava una bandiera per il giro d’onore. Forse nessuno pensava che avrei vinto. Paolo sì; ma non era nello stadio, tipo l’allenatore del film Momenti di Gloria, che scopre che il suo atleta ha vinto solo quando sente l’inno e vede da fuori la Union Jack salire sul pennone. Il mio invece mi ha visto sul maxischermo. Fatto sta che resto senza bandiera, fino a quando un tifoso sconosciuto mi passa un tricolore».
Le hanno dato fastidio le voci sul doping?
«Non mi hanno toccato per nulla. Sono state messe in giro da persone che non conoscono l’atletica, e non conoscono me. Gente che non sa nulla degli anni bui, delle sofferenze, di tutte le cose che le ho raccontato. Per loro un italiano non poteva vincere l’oro nei 100. Ma io lo so quanto ci ho messo».
Adombrò il sospetto pure un importante giornalista inglese del Times, Matt Lawton.
«E gli inglesi sono stati squalificati loro, nella staffetta».
Dopo lo storico oro italiano è sembrato che ci fossero dissapori con Filippo Tortu .
«A Tokyo tra noi c’era una bella intesa. Ogni squadra fa le sue mosse al momento di entrare in pista, e noi non sapevamo quali inventarci: Dragonball, o i Pokemon, visto che eravamo in Giappone? Poi ci siamo detti che non avremmo fatto nulla: la nostra mossa di entrata sarebbe stata vincere l’oro».
Com’è davvero il suo rapporto con Tortu?
«Normale. È un avversario. Tortu mi ha insegnato a perdere; perché non è facile saper perdere. All’inizio mi batteva. Io sapevo di poter essere più veloce di lui; ma non riuscivo a dimostrarlo».
Chi sarà il quarto staffettista ai Mondiali?
«Deciderà il ct, Filippo Di Mulo. Io non mi sono mai permesso di dire che devo essere io il quarto. Certo, mi piacerebbe. Ma l’allenatore dice che non può mettere l’uomo più veloce nel tratto finale, il più breve, anziché nel secondo, che dura quasi 130 metri».
A quale record può arrivare?
«Se glielo dicessi, mi porrei un limite. Se avessi detto che potevo scendere a 9’’85, non avrei fatto 9’’80. Mai porsi limiti».
Qual è il suo idolo fuori dall’atletica?
«Hamilton. L’unico mulatto della Formula Uno. Ed è tatuato, come me».
Quali tatuaggi si è fatto dopo Tokyo?
«Il racconto dell’Olimpiade, sul braccio sinistro: la fiaccola, Ercole che sorregge una medaglia d’oro, un paesaggio del monte Fuji con pagoda, i cinque cerchi, e “Italia” scritto con i caratteri giapponesi che avevamo sulla tuta».
È giusto escludere i russi dalle competizioni?
«Non saprei. Lo sport è sempre servito a fermare le guerre. Mi metto al loro posto; si diranno: io che colpa ho? Non ho preso io questa decisione…».
A Monza, quando ha conosciuto Hamilton, c’era anche Bolt; ma non vi siete incontrati.
«Eravamo in parti diverse del circuito. Ma dopo Tokyo Bolt ha avuto belle parole per me in pubblico, e mi ha scritto un messaggio in privato. Solo che io l’ho letto cinque giorni dopo».
Cioè lei non ha letto un messaggio di Usain Bolt, il più grande atleta di tutti i tempi?
«Le faccio vedere i messaggi che ho ricevuto dopo l’oro. Questi sono solo i direct che arrivano su Instagram dai profili verificati, con la spunta blu. Molti devo ancora leggerli adesso. Ma guarda! Mi hanno scritto pure Facchinetti e Barella, quello della Nazionale, e io non lo sapevo… Il messaggio di Bolt però l’avevo trovato, e gli ho risposto subito: Usain scusa il ritardo...».
E il nome Mennea, le dice qualcosa?
«Non l’ho mai incontrato, ma so che è una leggenda, che faceva allenamenti durissimi. Oggi tutti e tre i record europei della velocità sono di un italiano: i 60 e i 100 miei, i 200 suoi. Ora il mio allenatore vuole farmi provare i 200, ma io non voglio...».
Perché?
«Troppa fatica. Ma almeno una volta la gara di Pietro Mennea la devo fare».
Benjamin Sinclair Johnson junior, detto Ben. Oscar Eleni per "il Giornale" il 30 dicembre 2021. I momenti di gloria svaniti nel vento appiccicoso di Seul, prendendo a calci la vita e chi alle Olimpiadi coreane teneva in mano le provette che lo condannavano per doping. Nella tormenta di Markhant, a nord di Toronto, Benjamin Sinclair Johnson junior, detto Ben, festeggerà i suoi sessant' anni di lotta per vivere, cambiare la sua esistenza e quella di chi amava, un giorno prima che finisca questo anno orribile che renderà angoscioso ogni brindisi per il 2022.
Ben Johnson potrebbe dire che ora nel suo cielo c'è soltanto cibo pulito, vita sana, amore per gli altri, come nei giorni in cui cercava una luna diversa ai campi Flegrei, vent' anni fa, dopo aver lavorato con e per Maradona, che considerava un perseguitato dal sistema come lui, prima di provare a cambiare la consistenza atletica dei calciatori libici dove c'era anche il figlio di Gheddafi.
Caro Ben incubo della nostra olimpiade coreana, uomo più veloce della terra per un anno e qualche giorno, dal mondiale di Roma 1987 quando in 9" e 83 centesimi battè Carl Lewis il prescelto, per talento, sponsorizzazioni, fino al 9"78 della finale olimpica chiusa col braccio alzato dopo che la sua partenza a rana aveva lasciato senza saliva Carletto figlio del vento.
Lui e gli altri finalisti della corsa che, come poi scrisse nel suo documentato libro Richard Moore del Guardian, deve essere ricordata come quella «più sporca della storia». In effetti era così perché sei degli otto finalisti furono coinvolti in storie di doping, anche Lewis, l'inglese Linford Christie e Calvin Smith che si presero quelle medaglie del sabato senza sole per il ragazzo giamaicano di Falmouth che a 12 anni inseguiva piccioni nei parchi di Toronto per avere qualcosa sulla tavola. Quei tre giorni divennero inferno per tutti.
Da Milano, sede del Giornale, ci svegliò Pierluigi Fadda, una frase lapidaria per buttare nel cestino un pezzo su ogni metro di quella corsa fra giganti in terza e sesta corsia: Johnson dopato! Attaccammo pensando fosse stato soltanto un incubo anche se non avevamo bevuto birra, fatto una sauna, ballato in discoteca come Ben in quella sera di vittoria che per lui era di rivincita su una vita da rifugiato, sempre in fuga, sempre alla ricerca di affetti trovati spesso soltanto per interesse da chi si arricchiva con lui. Il villaggio giornalisti, però, si stava illuminando. Senza tende la luce arrivava per dire: ehi, roba grossa.
Altra telefonata, la conferma, cercando di capire come il tesoro nazionale del Canada, così lo definirono sul Toronto Star, sarebbe uscito dalla scena, come se la sarebbe cavata il suo allenatore Francis che, come il dottor Astaphan, ammisero i peccati del Ben che conosceva lo stanolozolo e altri pasticci del genere fin dal 1982.
Il principe de Merode, belga, presidente della commissione medica del CIO, dopo il controllo delle due provette, Johnson ci mise tanto per riempirle, bevendo di tutto, all'1 e 45 del lunedì mattina scrisse una lettera al comitato canadese per annunciare la squalifica. Alle 7 Anne Letheren, capo missione dei canadesi, informò Ben. Nella baraonda continuavamo a credere che il "povero" dagli occhi luminosi, ma sempre tristi, fosse davvero la vittima, nella speranza che tutto tornasse come al momento del risveglio da Milano. Niente.
Alle 3 del mattino del martedì la Letheren tornò da Johnson: «Ben ti amiamo, ma sei colpevole». Alle 10, mentre il ragazzo di Falmouth veniva "esiliato" dai Giochi, il CIO, in conferenza stampa, confermò che la finale di quel sabato sarebbe finita sul rogo con l'uomo che doveva lasciare il suo oro al grande nemico Carl Lewis che lo aveva tormentato correndo meglio in batteria e in semifinale, un'ora e mezza prima che l'uomo con la partenza a rana e scarpe diverse dalle sue lo lasciasse un metro dietro. Ancora oggi aspettiamo una telefonata per dirci che fu soltanto un incubo. Non arriverà mai.
Davide Rebellin. (ANSA il 30 novembre 2022) - Non ci sono ancora tracce del camion che a Montebello Vicentino ha travolto e ucciso mentre era in bicicletta l'ex campione Davide Rebellin. I Carabinieri stanno setacciando le immagini delle telecamere di sicurezza di un ristorante accanto al luogo dello schianto, per poter individuare targa e modello del mezzo. L'ex campione era uscito con la sua bici da corsa e probabilmente stava percorrendo la regionale 11 Vicenza-Verona per rientrare a casa, a Lonigo (Vicenza).
Tragica la circostanza in cui è avvenuto il riconoscimento della vittima. Un fratello di Rebellin, Carlo, aveva appreso dai media che c'era stato un incidente nella zona di Montecchio, un ciclista travolto da un mezzo pesante. Si è recato subito sul posto, forse per una sorta di presentimento, ed ha subito riconosciuto la bici del fratello, accartocciata.
(ANSA il 30 novembre 2022) - Sono stati 103 i ciclisti che hanno perso la vita sulle strade italiane nei primi otto mesi dell'anno nell'immediatezza dell'incidente, cui si debbono aggiungere i decessi avvenuti a distanza di giorni o settimane negli ospedali dopo il ricovero. Sono i dati forniti dall'Associazione sostenitori Polstrada (Asaps), dopo la morte in Veneto dell'ex campione Davide Rebellin, travolto in bici da un camion. Un incidente, ricorda l'Asaps, che sembra la fotocopia di quello in cui morì nel 2017 Michele Scarponi. "La scia di sangue sulle strade - commenta il presidente Giordano Biserni - purtroppo continua, con una particolare crudeltà anche per i ciclisti".
Aveva disputato la sua ultima gara poco più di un mese fa, il 16 ottobre, la Veneto Classic, sulle strade di casa, Davide Rebellin, scomparso oggi a 51 anni in seguito ad un incidente stradale. Avev chiuso con un trentesimo posto, dopo una carriera straordinaria che ne aveva fatto uno dei ciclisti professionisti più longevo al mondo. E alla fine di quella gara Davide Rebellin, nato il 9 agosto 1971 a San Bonifacio (Verona) ma cresciuto e residente a Madonna di Lonigo (Vicenza), aveva annunciato il suo ritiro.
Anche se ogni giorno, come avvenuto oggi, amava percorrere molti chilometri in bicicletta. Professionista per tre decenni esatti, dal 1992 al 2022 (anche questo è un primato), era è uno dei ciclisti italiani più vincenti in assoluto a livello internazionale. Era soprattutto uno specialista delle classiche del Nord Europa: aveva vinto l'Amstel Gold Race nel 2004, tre edizioni della Freccia Vallone (nel 2004, 2007 e 2009), una Liegi-Bastogne-Liegi nel 2004, oltre a una tappa al Giro d'Italia nel 1996, imponendosi in salita.
Il 9 agosto 2008, ai Giochi olimpici di Pechino, nel giorno del suo ventisettesimo compleanno, si era aggiudicato l'argento nella prova in linea, superato in volata a pochi metri dal traguardo dallo spagnolo Samuel Sánchez. Due anni dopo però, quella medaglia gli era stata tolta, per un presunto caso di doping, mai chiarito definitivamente, e poi caratterizzato da un lungo iter giudiziario.
L'ultima vittoria da professionista di Rebellin risaliva al 6 maggio 2018, all'età di 37 anni, nella terza tappa del Tour International de la Wilaya d'Oran, che poi concluse al secondo posto nella classifica generale, alle spalle di un compagno di squadra, il belga Laurent Évrard. (ANSA).
(ANSA il 30 novembre 2022) - "Sono turbata e rattristata dalla notizia della tragica scomparsa di Davide Rebellin, ciclista italiano che tante emozioni ha regalato agli amanti dello sport nella sua lunga carriera da professionista, conclusasi lo scorso 16 ottobre a 51 anni. Condoglianze alla famiglia". Lo scrive su Twitter la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
(ANSA il 30 novembre 2022) - La drammatica fine di Davide Rebellin, travolto da un autocarro mentre era in bicicletta sulle strade di casa, riaccende i fari sul tema della sicurezza dei ciclisti e richiama alla mente tanti altri incidenti della strada che hanno coinvolto campioni, come Michele Scarponi, morto nel 2017 travolto da un furgone, o Alex Zanardi, gravemente ferito nel 2020 dopo uno scontro tra la sua handbike e un camion.
"Non ci volevo credere quando l'ho saputo, ed è stato un vero choc - ha commentato al telefono con l'ANSA l'ex compagno di nazionale di Rebellin, Vincenzo Nibali -. Era una persona vera, molto tranquillo e un grande professionista e sapere che è morto così mi colpisce davvero, ma conferma che chi va in bici rischia ogni giorno. La sicurezza sulle strade è un obiettivo da perseguire a tutti i costi".
"Anche a me anni fa è capitato di essere 'stretto' dal rimorchio di un camion in una curva, durante un allenamento. Mi è andata bene, perchè sono stato solo sfiorato ma la sensazione di terrore l'ho ancora ben presente", prosegue Nibali, che avrebbe dovuto partecipare nel pomeriggio alla presentazione a Milano della Maglia Rosa del Giro d'Italia 2023, evento annullato dopo la notizia della morte di Rebellin.
Nibali è a favore della proposta di inserire nel codice della strada una norma che obblighi a rispettare la distanza minima di un metro e mezzo in fase di sorpasso di un ciclista. "E' un passo avanti, anche se poi nella pratica e su certe strade non è facile - afferma -. Un metodo più sicuro per andare su strade aperte in allenamento è state affiancati a due a due, perchè si è più visibili per chi è al volante". La sicurezza per i corridori è spesso messa a rischio anche in gara, dove purtroppo non si contano le cadute fatali ma anche gli incidenti dovuti a comportamenti irresponsabili di persone alla guida di auto o altri veicoli piombati nel bel mezzo di una corsa.
Nel 1971, mori' travolto da un'auto prima di una gara il campione del mondo Jean Pierre Monsere', campione del mondo in carica. Nel 2010, l'azzurro Thomas Casarotto si scontrò con un'auto finita nel percorso di gara durante il giro del Friuli e morì qualche giorno dopo in ospedale. Sorte simile, nel 2016, per il belga Antoine Demoitiè alla Gand-Wevelgem, travolto da una moto e morto in ospedale. Un paio di mesi prima, il 23enne francese Romain Guyot finì sotto un camion a un incrocio. Nomi e volti noti, triste copertina di una strage che riguarda professionisti ed amatori.
Da fanpage.it il 30 novembre 2022.
Una tragedia colpisce il mondo del ciclismo. Perché a 51 anni è morto Davide Rebellin, ex ciclista italiano che è stato investito da un camion nella tarda mattinata di oggi a Montebello Vicentino. La notizia è stata da ‘Il Giornale di Vicenza'. Rebellin è stato professionista per oltre trent'anni e solo sei settimane fa aveva chiuso la sua lunghissima carriera. Secondo una prima ricostruzione un camion prima di uscire dallo svincolo avrebbe travolto l'ex ciclista. L'autista del mezzo si è allontanato e non è chiaro se si sia accorto di quanto successo.
Colpisce fortemente questa notizia. In primis è una tragedia della strada, una delle tante che colpiscono. Poi la tragica morte di Rebellin riporta alla mente la triste fine di Michele Scarponi, grande ciclista che nel 2017 venne investito mentre si allenava in bicicletta nella sua Filottranno. E poi perché Davide Rebellin era entrato nel cuore di tutti gli appassionati, ma anche solo di chi seguiva da semplice sportivo anche le vicende del ciclismo, perché oltre a essere stato un grande ciclista ha corso da professionista a oltre 50 anni
Davide Rebellin e, a destra, in jeans, il fratello Carlo sul luogo dell’incidente. Il Corriere della Sera l’1 dicembre 2022
Sul piazzale del ristorante «La Padana» di Montebello in provincia di Vicenza - un punto di riferimento per i camionisti di passaggio in cerca di un locale per la loro pausa pranzo - c’è una grande macchia di sangue nel punto in cui il mezzo pesante ha trascinato il corpo di Davide Rebellin. La bicicletta del campione è una trentina di metri più in là, distrutta. Mentre i carabinieri stanno ancora ultimando i rilievi, a parlare con loro c’è Carlo Rebellin, il fratello del campione ucciso ieri, 30 novembre, in quell’incidente.«È morto facendo quello che ha sempre fatto: andare in bici», riflette. «Anche se da tempo abitava a Montecarlo, in queste zone mio fratello è cresciuto e si è allenato per anni. Conosceva queste strade come le sue tasche».
Come ha saputo dell’incidente?
«Mi ha telefonato mio cugino, dicendo che in paese giravano strane voci su un incidente: Davide qui lo conoscono tutti ed evidentemente qualcuno lo aveva notato. Ho provato a telefonargli ma lui non rispondeva. Ero preoccupato, ho chiamato i carabinieri e poi sono corso qui. Quando sono arrivato il corpo era a terra, coperto. Non me lo facevano vedere. Però c’era la sua bici: anche se è completamente distrutta, l’ho riconosciuta subito».
Dopo l’incidente l’autista del camion si è allontanato. Pensa a una distrazione?
«Davide stava pedalando intorno alla rotonda, sul lato della strada. Pare che il camionista l’abbia investito durante la manovra con la quale ha lasciato quella rotatoria per entrare nel parcheggio. Visto che com’era ridotto il corpo e il fatto che ha trascinato la bici per decine di metri, francamente trovo difficile pensare che si sia distratto al punto da non accorgersi di aver investito un ciclista. Ci sono le telecamere che potrebbero aver ripreso la scena: spero che i carabinieri trovino il responsabile».
Suo fratello si stava allenando?
«Sì, era arrivato un paio di giorni fa per motivi di lavoro e alloggiava da nostra madre, a Lonigo. Anche se aveva annunciato il ritiro, non aveva perso la passione per la bicicletta: non riusciva a starle lontano, era il suo grande amore. E così anche questa mattina, intorno alle 9.30, è partito di buon’ora per il suo "solito" allenamento: tre o quattro ore di pedalate, prima di tornare a casa. Mi aveva chiesto di andare con lui ma, per un imprevisto, ho dovuto rinunciare».
Il destino.
«Un destino crudele: a luglio è venuto improvvisamente a mancare nostro padre. E ora devo dire addio anche a mio fratello».
Davide Rebellin travolto e ucciso dal tir pirata: il presentimento del fratello. Libero Quotidiano il 30 novembre 2022
Il mondo del ciclismo e dello sport piange la scomparsa a 51 anni di Davide Rebellin, campione ancora in attività fino a qualche mese fa. Il vicentino è morto mentre andava in bicicletta, la sua grande passione, travolto da un camion pirata. Pare che uno dei primi a correre sul posto e a dare i primi soccorsi sia stato un fratello di Rebellin, Carlo, che appena saputo dai media che c'era stato un incidente nella zona di Montecchio, un ciclista travolto da un mezzo pesante appunto, si è recato subito sul luogo, forse per una sorta di presentimento, e ha tragicamente riconosciuto la bici del fratello, che era accartocciata sulla strada.
Professionista dal 1992 al 2022, Rebellin era uno specialista delle classiche, in carriera ha vinto un'edizione dell'Amstel Gold Race (nel 2004), tre della Freccia Vallone (nel 2004, 2007 e 2009) e una della Liegi-Bastogne-Liegi (nel 2004), oltre a una tappa al Giro d'Italia. Dopo una buona carriera da dilettante, medaglia d'argento ai campionati del Mondo. Nel 1992 è l'uomo di punta della nazionale italiana ai Giochi olimpici di Barcellona, ma corre in appoggio del compagno di squadra Fabio Casartelli che vince la medaglia d'oro. Esordisce da professionista dopo i Giochi olimpici, con un brillante nono posto al Giro di Lombardia e coglie il primo successo da professionista l'anno successivo, vincendo la classifica finale della Hofbrau Cup, breve gara a tappe tedesca. Dopo un paio di anni in sordina, si mette in luce nel 1996 al Giro d'Italia, dove trionfa nella tappa con arrivo a Monte Sirino e veste la maglia rosa indossandola per sei giorni consecutivi. Sesto nella classifica finale di quel Giro, si ripeterà con una buona prestazione alla Vuelta a España, che concluderà al settimo posto.
Nel 1997 sigla una prestigiosa doppietta, vincendo nel giro di pochi giorni la Clásica San Sebastián e il Gran Premio di Svizzera a Zurigo sfruttando la condizione raggiunta al termine della Grande Boucle, suo principale obiettivo della stagione. Così, ormai trentenne, dopo diverse stagioni in cui avrebbe potuto vincere molto di più, si specializza finalmente nelle gare in linea e nelle brevi corse a tappe conquistando la Tirreno-Adriatico 2001. Nel 2004 è protagonista di una stagione che lo vede vincente in Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi: diventa così il primo ciclista capace di conquistare le tre classiche delle Ardenne in una sola settimana. Nel 2007 la campagna delle Ardenne lo vede nuovamente protagonista: secondo, primo e quinto posto rispettivamente ad Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi. Onora poi l'ottava maglia azzurra ai campionati del mondo di Stoccarda, riuscendo a piazzarsi in sesta posizione.
Nel 2008 conquista la sua prima Parigi-Nizza e l'anno successivo vince per la terza volta la Freccia Vallone. Il 9 agosto 2008 ai Giochi olimpici di Pechino, nel giorno del suo trentasettesimo compleanno, si aggiudica la medaglia d'argento nella prova in linea. Medaglia poi revocata per una positività al doping, in particolare al Cera. Dopo sette anni, il 30 aprile 2015, venne assolto dalle accuse di doping ed evasione fiscale in quanto "il fatto non sussiste". Il 27 aprile 2011, al termine dei due anni di squalifica, rientra alle corse e alla bellezza di 40 anni vince la novantunesima edizione della Tre Valli Varesine. Negli ultimi anni di carriera riesce ancora a vincere alcune classiche italiane come la Coppa Agostoni, termina l'attività agonistica il 16 ottobre 2022 sulle strade di casa alla Veneto Classic, concludendo con un trentesimo posto alla veneranda età di 51 anni.
Rebellin, caccia al camion fantasma che l’ha travolto. La madre: «Voglio giustizia». Marco Bonarrigo e Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022
Vicenza, la Procura apre un fascicolo per omicidio colposo di Davide Rebellin. A quarantotto ore dall’incidente non c’è ancora traccia del mezzo pesante, potrebbe trattarsi di un tir rosso con targa tedesca
«Spero che trovino quel Tir, spero davvero che chi lo guidava non si sia accorto di nulla. Sarebbe atroce, inaccettabile che l’autista si fosse reso conto di aver investito Davide per poi ripartire come se avesse messo sotto un gatto o un cane, non un uomo». Sono le parole commosse di Filippo Pozzato che con Davide Rebellin, ucciso da un camion mercoledì mentre pedalava a Montebello Vicentino, ha condiviso 15 anni di carriera, i gradi di super talento del ciclismo azzurro (Pozzato ha vinto la Milano-Sanremo), gli allenamenti nel Vicentino e a Montecarlo dove entrambi vivevano. Ma a 48 ore dall’incidente, del mezzo pesante non c’è traccia. Montate su un palo alto tre metri, le telecamere di sicurezza nel parcheggio del ristorante «La Padana» di Montebello mancano di pochi metri la rotonda della Regionale 11 dove il fuoriclasse azzurro è stato travolto. In un orario compatibile con l’investimento (le 11.50), tra i dieci camion transitati in quel punto i carabinieri (che stanno visionando anche decine di registrazioni in luoghi vicini) si concentrano su un tir rosso con targa straniera (forse tedesca) che si immette nel parcheggio dall’unica entrata per uscirne dopo soli quattro minuti ripercorrendo la rotonda al contrario, passando a fianco del corpo dilaniato del campione: impossibile che l’autista non l’abbia visto in quel momento, possibile ma non certo che sia lui ad averlo investito, rendendosene conto o meno, entrando nel parcheggio. Il mezzo potrebbe essersi diretto verso il Brennero e ora trovarsi già lontano.
Le indagini
La Procura di Vicenza ha intanto aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Con enorme dignità, Carlo Rebellin, fratello di Davide, chiede all’autista di «farsi vivo, di spiegare la situazione perché noi familiari possiamo accettare qualunque errore umano ma non sopportiamo l’idea della fuga. Davide era espertissimo memoria, non possiamo credere che si sia trattato di un suo errore». Chi non riesce a darsi pace è Brigida Gattere, la mamma di Rebellin: «Spero che lo trovino — racconta in lacrime — e sperò che se verrà fuori che davvero è scappato dopo aver ucciso mio figlio, la giustizia possa fare il suo corso: non si può morire cosi». Pippo Pozzato cinque anni fa perse un altro grande amico come Michele Scarponi: «A Davide — racconta — la natura aveva regalato uno dei motori più potenti mai visti nel ciclismo e l’entusiasmo di un ragazzino. Qualcuno trovava patetico il suo gareggiare a 50 anni, ma chi come me lo conosceva bene sapeva che per lui la bici e la competizione erano naturale ragione di vita». Cresciuti entrambi nel Vicentino, diventati stelle dello sport si erano trasferiti a Montecarlo. «Lui riservatissimo, io più mondano — prosegue Pozzato — io aggressivo in gara, lui mite, pronto a chiedere scusa anche ai colleghi che gli facevano un torto. Prima del ritiro aveva partecipato alle corse "gravel" che io organizzo, credeva come me che il futuro del ciclismo fosse su strade sterrate per sfuggire a un traffico meno rabbioso di quello che c’è oggi qui in Veneto dove alcune ciclabili sono pericolose perché c’è un passo carrabile ogni 50 metri. È per lui, per Scarponi, per i cento ciclisti non famosi morti quest’anno che dobbiamo fermare questa tragedia».
Filippo Femia per "La Stampa" il 2 dicembre 2022.
Il tragico conteggio viene aggiornato quattro volte a settimana. Ogni 35 ore, in Italia, un ciclista viene ucciso. Travolto da automobilisti o conducenti di mezzi pesanti, nella stragrande maggioranza dei casi, in grandi città o sulle strade di paese. Una lunga scia di sangue certificata dai dati dell'Osservatorio Asaps (Associazione sostenitori e amici Polstrada), che scatta una fotografa per difetto. Alle vittime che si registrano al momento dell'incidente vanno infatti aggiunti i decessi avvenuti a distanza di tempo, a volte anche settimane, dall'impatto fatale.
«Non possiamo far finta di niente, i numeri sugli incidenti sono impressionanti», ha detto il ministro dello Sport Andrea Abodi dopo la morte di Davide Rebellin. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è detta «turbata e rattristata dalla tragica scomparsa». Ma se l'Italia non è un Paese per biciclette, con infrastrutture inadeguate e pericolose, parte della responsabilità è della politica.
L'ultima manovra messa a punto dall'esecutivo ha di fatto cancellato il Fondo della ciclabilità istituito dal governo Conte II nel 2019. Prevedeva lo stanziamento di 141 milioni per il triennio 2022-2024 (47 all'anno) per la «realizzazione di zone a 30 km/h, corsie ciclabili, case avanzate e aree di sosta per biciclette». Tecnicamente i 94 milioni per gli anni 2023 e 2024 sono stati «definanziati».
Tradotto: sono spariti dalle tabelle del ministero delle Infrastrutture, dirottati altrove per coprire altre voci di spesa. «Mentre tutte le principali città europee investono sulla ciclabilità e percorrono la strada di decarbonizzazione e riduzione dell'impatto climatico, l'Italia va nella direzione opposta: è evidente che questo governo punta sul vecchio modello che mette l'auto al centro del sistema», ragiona Claudio Magliulo, responsabile italiano di Clean Cities, network europeo di associazioni ambientaliste e per la mobilità alternativa.
Il dossier pubblicato insieme a Legambiente, Kyoto Club e Fiab, analizza l'infrastruttura delle ciclabili in Italia. Salvo qualche esempio virtuoso, il panorama è scoraggiante: le 14 città metropolitane hanno in media appena 1,5 chilometri di ciclabili per diecimila abitanti, un quarto delle città capoluogo non raggiungono il chilometro. A Helsinki e Ghent, per fare un paragone, ci sono 20 chilometri, mentre Amsterdam e Anversa arrivano a 15. Il modello del Nord Europa rimane un miraggio.
Secondo i calcoli di Clean Cities servirebbero 500 milioni all'anno fino al 2030 per correre ai ripari e finanziare un piano straordinario di promozione della ciclabilità urbana. «Ma qui siamo a zero. I più colpiti sono i piccoli comuni che non possono trovare i fondi altrove se non ci pensa lo Stato», aggiunge Claudio Magliulo.
Ma non è soltanto un problema di assenza di piste ciclabili.
Quelle esistenti sono spesso pericolose perché progettate e realizzate male: nessuna separazione fisica con le corsie dove marciano le auto o l'obbligo per le bici di percorrere nella zona tra la sede stradale e i veicoli in sosta. Paola Gianotti detiene un record Guinness: è la donna più veloce ad aver realizzato il giro del mondo in bici (30 mila chilometri 144 giorni). Dal 2019 gira l'Italia con l'associazione "Io rispetto il ciclista" per installare cartelli stradali che invitano gli automobilisti a rispettare una distanza minima di un metro e mezzo da chi è in sella. Finora ha raggiunto oltre 400 comuni, per un totale di 4 mila segnali.
Ma è convinta che l'iniziativa non sia sufficiente, anche se venisse inserita nel codice della strada. Va affiancata a pene più severe. «Purtroppo in Italia manca la cultura del rispetto dei soggetti più deboli della strada - si sfoga -: ciclisti, ma anche pedoni. Ci sono persone che hanno ucciso ciclisti e guidano ancora liberamente. Dopo casi di questo tipo la patente andrebbe ritirata a vita». E per insegnare la cultura del rispetto? «Dobbiamo raggiungere i fruitori futuri delle strade, i bambini: andare nelle scuole e sensibilizzarli. Solo così riusciremo a fare la differenza».
Filippo Grimaldi per gazzetta.it il 2 dicembre 2022.
È stato rintracciato in Germania il camionista che due giorni fa ha travolto e ucciso Davide Rebellin, 51 anni, mentre era in bici lungo la strada Regionale 11, a Montebello Vicentino, senza fermarsi e riprendendo anzi la marcia. Si è chiuso il cerchio delle indagini per individuare l’autista possibile responsabile dell’investimento, che era alla guida di un mezzo rosso, con targa tedesca. Ha 50 anni ed è già in Germania, non è stato arrestato perché secondo nel codice penale tedesco non esiste il reato di omicidio stradale.
I carabinieri hanno lavorato senza sosta dal momento in cui sono intervenuti sul luogo dell’accaduto per i primi rilievi, e hanno iniziato a visionare le telecamere della zona, prime fra tutte quelle del grande parcheggio del ristorante "La Padana" di Montebello, a poche decine di metri dal luogo dell’investimento. Queste mostrano un autoarticolato rosso che entra nell’area di sosta del locale e ne esce dopo circa quattro minuti, passando vicino al corpo del campione. Non c’è un nesso causale certo fra l’investimento e questo mezzo pesante, ma l’arco temporale (erano circa le 11.50 di mercoledì scorso quando Rebellin è stato investito) ha fatto scattare i controlli.
Come ipotizzato dagli investigatori, il mezzo e l’autista potrebbero avevano già lasciato l’Italia - forse utilizzando l’Autobrennero -. Ecco perché le forze dell’ordine italiane hanno chiesto l’ausilio dell’Interpol per riuscire a risolvere questo giallo. Ora si cercherà di comprendere se il guidatore del tir si sia accorto di avere investito Rebellin - e dunque la sua sia stata una fuga volontaria - oppure a causa dell’angolo cieco del mezzo pesante non abbia avuto la percezione dell’investimento. Le forze dell’ordine italiane hanno analizzato i frame tutte le telecamere, anche private, situate nell’area in cui compatibilmente potrebbe essere transitato il mezzo responsabile della morte di Rebellin, uno dei corridori più vincenti (64 i suoi successi in carriera) del ciclismo italiano moderno. Inizialmente sono finite al centro delle indagini una decina di mezzi pesanti, poi il numero è stato ristretto a un paio di autoarticolati.
Nel frattempo, la Procura di Vicenza ha a sua volta aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio stradale. Le esequie di Davide Rebellin, nato a San Bonifacio, nel Veronese, ma residente a Lonigo, nel Vicentino, si svolgeranno solo quando le autorità avranno concesso il nullaosta, quindi presumibilmente soltanto la settimana prossima.
Morte Rebellin, denunciato il camionista tedesco che l’ha investito e non l’ha soccorso. È sceso e ha guardato il ciclista agonizzante. Si tratta di Wolfgang Rieke (62 anni) già in Germania e quindi non sottoposto a fermo perché il codice penale tedesco non prevede il reato di omicidio stradale. Nel 2001 ha patteggiato per omissione di soccorso. Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022.
Individuato e denunciato a piede libero Wolfgang Rieke, l’autista del camion tedesco che, nel pomeriggio di mercoledì 30 novembre, a Montebello Vicentino, ha travolto e ucciso il 51enne ex campione di ciclismo Davide Rebellin, per poi allontanarsi facendo perdere le proprie tracce. Il camionista, sessantaduenne, è stato identificato grazie alla collaborazione tra carabinieri e polizia tedesca. Si trova già in Germania e non è sottoposto a fermo, perché il codice penale tedesco non prevede il reato di omicidio stradale. La procura della Repubblica di Vicenza, sull’incidente, ha aperto un fascicolo, come detto, per omicidio stradale aggravato dall’omissione di soccorso. A carico del camionista risulta un patteggiamento al tribunale di Foggia del 2001 per violazione dell’obbligo di fermata in caso di incidente con persone coinvolte. Nel 2014 gli era già stata ritirata la patente per guida in stato di ebrezza dalla Polizia di Chieti.
Le telecamere
I carabinieri avevano acquisito le immagini delle telecamere di sorveglianza della zona, in particolare quelle puntate sul parcheggio del ristorante «La Padana», poco lontano dal punto dell’incidente. I dispositivi elettronici - come speravano gli investigatori - hanno evidentemente ripreso il tir «incriminato» mentre accede all’area di sosta, intorno all’orario in cui è avvenuto l’incidente mortale. Erano stati ripresi due camion in entrata in tempi compatibili con l’investimento mortale. Le attenzioni si erano da subito concentrate sul tir con targa tedesca che, una volta entrato nell’area di sosta, era rimasto fermo nel piazzale per circa quattro minuti. Stando alla ricostruzione fatta da alcuni testimoni l’autista è sceso dal camion e si è avvicinato alla vittima, per risalire subito dopo nella cabina di guida del tir e allontanarsi. Lo stesso camionista è stato anche fotografato da alcuni dei presenti.
La dinamica
Le telecamere non sono riuscite a riprendere il momento dell’incidente ma solo gli istanti immediatamente successivi. La dinamica dell’investimento sembra comunque abbastanza chiara: Davide Rebellin sarebbe stato «agganciato» dal mezzo pesante all’uscita dalla rotatoria. Wolfgang Rieke l’avrebbe investito in pieno proprio con la manovra d’ingresso al parcheggio. Sul piazzale di sosta dei tir è rimasta un’ampia macchia di sangue. La bicicletta del campione di San Bonifacio è stata invece trovata a circa trenta metri di distanza: ripiegata su stessa. Carlo Rebellin, saputo di un incidente in zona che coinvolgeva un ciclista, mercoledì pomeriggio è corso sulla rotatoria di Montebello: nel «relitto» della bicicletta a terra ha subito riconosciuto quella del fratello.
La carta d’identità e le foto
Il mezzo pesante è risultato di proprietà di una società di spedizioni tedesca di Recke (Renania Settentrionale) ed era arrivato in Italia la mattina di mercoledì per una serie di carichi da fare a Verona. Grazie agli approfondimenti eseguiti dagli inquirenti nella società scaligera è stato possibile confrontare le foto della carta di identità del camionista con quelle scattate sul punto della tragedia. La polizia tedesca ha quindi individuato prima la ditta e poi l’autista.
Tragedia nel ciclismo, Rebellin ucciso da un camion: l'autista era stato già condannato a Foggia. L'uomo di origine tedesca era stato già condannato in passato per essere fuggito dopo un incidente. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Dicembre 2022
Un’altra vittima della strada, un altro campione che lascia troppo presto il mondo del ciclismo. Così come Michele Scarponi investito nella ‘suà Filottrano il 22 aprile 2017, anche Davide Rebellin paga con la vita le conseguenze di un incidente sulle cui dinamiche la polizia sta ancora indagando. Il 51enne ex campione di San Bonifacio, che aveva salutato l’attività agonistica lo scorso 16 ottobre nella Veneto Classic, non è sopravvissuto ad un impatto con un camion mentre si allenava in bici lungo la SR 11, presso Montebello Vicentino. Rebellin, investito, è morto sul colpo, mentre il guidatore del mezzo pesante non si sarebbe nemmeno fermato, forse per non essersi accorto dell’incidente. Professionista dal 1992 al 2022, Rebellin è stato uno specialista delle classiche: in carriera ha vinto un’edizione dell’Amstel Gold Race (nel 2004), tre della Freccia Vallone (nel 2004, 2007 e 2009) e una della Liegi-Bastogne-Liegi (nel 2004), oltre a una tappa al Giro d’Italia. La sua medaglia più bella, l’argento conquistato nella prova su strada alle Olimpiadi di Pechino 2008, gli fu invece revocata dal Cio per una positività al Cera; un’accusa di doping infamante che gli costò una squalifica di due anni e anche una lunga battaglia giudiziaria. Alla fine ne uscì assolto (così come dalle accuse di evasione fiscale). Nella sua lunga militanza nel ciclismo d’elite, Rebellin ha vestito le maglie di grandi formazioni come Team Polti, Francaise des Juex, Liquigas e Gerolsteiner prima di vivere una ‘seconda giovinezza' all’estero per poi chiudere con la Work Service. Il suo palmares conta anche l’argento ai Mondiali su strada di Stoccarda 1991 tra i dilettanti e l’oro in linea ai Giochi del Mediterraneo di Atene 1991. La morte di Rebellin, che nelle dinamiche può ricordare quella di Scarponi e il terribile incidente occorso ad Alex Zanardi, riapre drammaticamente il tema della sicurezza sulle strade. Una scia di sangue che sembra destinata a non esaurirsi mai.
Il camionista tedesco individuato e denunciato in Germania per l’investimento mortale di Davide Rebellin era del tutto conscio di quanto era successo: dopo l'investimento sulla rotatoria della regionale 11 era infatti sceso dalla cabina di guida del Tir, si era avvicinato alla vittima a terra, poi era risalito sul camion allontanandosi velocemente Un fatto riferito ai Carabinieri da testimoni oculari, alcuni dei quali lo avevano anche fotografato. Il 50enne, tra l’altro, era già stato condannato in Italia, a Foggia, nel 2001, per essere fuggito dopo un incidente senza prestare soccorso alle persone coinvolte
Michela Nicolussi Moro per il "Corriere della Sera" il 3 dicembre 2022.
Ha un volto e un nome il pirata della strada che il 30 novembre ha travolto e ucciso con il camion il campione di ciclismo Davide Rebellin, mentre si allenava lungo la Regionale 11, a Montebello Vicentino. Si tratta di Wolfgang Rieke, tedesco di 62 anni e fratello del proprietario della «Rieke Transporte Recke», l'impresa di spedizioni per cui lavora e che ha sede appunto a Recke, nella Renania Settentrionale-Vestfalia.
Pirata della strada perché gli inquirenti hanno accertato che non solo si è perfettamente reso conto di quanto accaduto, ma è perfino sceso dal tir, ha visto Rebellin morto ed è scappato. I carabinieri sono risaliti prima alla targa del mezzo visionando i filmati girati dalle telecamere di sorveglianza dei caselli autostradali e del ristorante «La Padana», attiguo alla rotatoria teatro della tragedia, e poi all'identità dell'investitore con una serie di controlli incrociati e grazie anche all'aiuto della gente, che l'ha fotografato.
Una nota ufficiale diffusa dal procuratore di Vicenza, Lino Giorgio Bruno, conferma: «In base alle testimonianze di persone immediatamente intervenute in soccorso del ciclista risultava che l'autista dopo l'investimento era sceso dal mezzo, avvicinandosi alla vittima, e subito dopo aveva ripreso posto a bordo dell'autoarticolato, allontanandosi.
Il conducente veniva fotografato dai presenti».
«Le foto scattate da alcune persone accorse dopo il drammatico incidente hanno contribuito a identificare l'indagato», conferma il tenente colonnello Salvatore Gueli, comandante del Reparto Operativo dei carabinieri di Vicenza.
Rieke, indagato per omicidio stradale e omissione di soccorso, è nel frattempo tornato in Germania, dove non può essere arrestato perché nel codice penale tedesco non esiste il reato di omicidio stradale. La collaborazione con le autorità locali, con il Centro di cooperazione della polizia italiana, austriaca e slovena di Thorl-Maglern e con l'Agenzia delle Entrate ha permesso agli investigatori di tracciarne gli spostamenti.
L'uomo ha precedenti penali specifici: nel 2001 è stato condannato dal Tribunale di Foggia per essere fuggito dopo un incidente senza prestare soccorso alle vittime. La pena è stata successivamente dichiarata estinta per decorso del tempo. Nel 2014 gli era stata invece ritirata la patente dalla Polizia stradale di Chieti, per guida in stato di ebbrezza.
Lo scorso 30 novembre Rieke era arrivato in Italia per caricare della merce e l'ultimo passaggio l'ha fatto, nel primo pomeriggio, in un'impresa di spedizioni internazionali con sede all'Interporto di Verona.
Proprio le verifiche effettuate con la società veronese, attraverso l'acquisizione di una copia della carta d'identità del conducente del tir e il confronto tra la foto del documento e le immagini scattate sul luogo dell'incidente hanno consentito di identificarlo.
La polizia di Steinfurt, la città in cui è stato rintracciato, in contatto con il Servizio di cooperazione internazionale di polizia (lo Scip), il primo dicembre, dopo aver parlato con il fratello dell'investitore, ne ha segnalato il rientro in Germania. Il camionista è passato prima per Berlino e poi è tornato a Recke. La Procura di Vicenza ha disposto l'autopsia sul corpo di Rebellin. Ora bisogna capire se, in base alla collaborazione con le autorità tedesche, Rieke possa essere sentito da loro.
Marco Bonarrigo per il "Corriere della Sera" il 3 dicembre 2022.
«Io e Davide siamo nati a 9 giorni e pochi chilometri di distanza. Assieme abbiamo cominciato a pedalare da bambini, assieme siamo approdati in Nazionale. Da professionista mi ha voluto in squadra come suo gregario e mi ha scelto come testimone di nozze. Ho perso un grandissimo amico».
Cristian Salvato, 51 anni, ex campione del mondo a cronometro, è il presidente dell'Accpi, quel sindacato dei corridori professionisti che troppo spesso piange per la loro tragica scomparsa.
Salvato, il camionista è stato finalmente identificato.
«Sono sollevato, ma anche incredulo: pare abbia visto Davide a terra e sia scappato, era recidivo, ma guidava...».
Come ha saputo della sua morte?
«Da un messaggio nella chat degli ex professionisti veneti: stavamo organizzando la cena per festeggiare il ritiro di Davide dall'attività. Non ci volevo credere come non volevo credere alla morte di Scarponi».
Chi era Rebellin?
«Un monaco buddista della bici: passione totale, dedizione assoluta, incapacità di voler male a qualcuno. Mai sentita una parolaccia nelle cadute. Si rialzava e sorrideva».
A 50 anni ancora in sella.
«Glielo chiedevo sempre. "Mi diverto" era la risposta. Credo che fosse un modo per dimostrare che la squalifica per doping del 2008 era ingiusta, che aveva mezzi fisici naturali così importanti da poter fare a meno dei farmaci».
Li aveva?
«Era un fuoriclasse».
Il ricordo più bello?
«Il primo ritiro con la nazionale a Livigno nell'89, poi il titolo mondiale della cronosquadre a Mosca nel 1989. Ci fermammo per tre volte ma battemmo comunque la corazzata sovietica di due minuti. Eravamo ingenui, felici. E poi il lavoro da gregario con lui, il capitano più buono del mondo. Fosse stato più cattivo avrebbe vinto di più».
Rebellin passava per maniaco della sicurezza.
«Fu tra i primi a mettere il casco quando non era obbligatorio, era prudentissimo e invitava tutti a imitarlo».
La sua morte servirà a qualcosa?
«Non lo so. Da dieci anni chiediamo invano l'inserimento nel Codice della Strada del metro e mezzo di distanza dai ciclisti in sorpasso. Niente. Potrei fare i nomi dei politici che al funerale di Scarponi giurarono che si sarebbero realizzate le ciclabili, per legge obbligatorie quando si costruisce una nuova strada. Niente. L'assoluta indifferenza non solo verso i professionisti, che sono quattro gatti, ma nei confronti di chi pedala per andare a scuola o fare la spesa è criminale».
Morte Davide Rebellin, la moglie: «L’orrore che hai passato mi strazia». Superperizia sull’incidente. Il post della moglie Francoise Antonini sui social. La procura di Vicenza indaga per omicidio colposo e omissione di soccorso. Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 3 Dicembre 2022.
Lo chiama «il mio Angelo». Francoise Antonini, la moglie del campione di ciclismo Davide Rebellin travolto e ucciso da un camion pirata mercoledì nel Vicentino, dice addio al suo grande amore. Lo fa con un messaggio sui social nel quale si rivolge direttamente al marito: «L’orrore di ciò che hai passato mi strazia... Andare avanti sapendo che non ci toccheremo mai più, non ci parleremo mai più, non ci sveglieremo mai più l’uno nelle braccia dell’altro mi fa a pezzi... I nostri bei progetti di coppia, che stavano finalmente prendendo forma ora che la tua impegnativa carriera era finita, e che non si realizzeranno mai, mi sta facendo a pezzi». Antonini, giunta a Lonigo (Vicenza) da Montecarlo, dove viveva assieme all’atleta di origini venete, è sconvolta. «Non poterti vedere e toccare per l’ultima volta perché te ne sei andato in modo così orribile - prosegue - mi mette al tappeto. Sto cercando di riprendere fiato, ma come posso respirare senza di te al mio fianco? Ti supplico dammi la forza di rialzarmi, e soprattutto riposa in pace... Ti terrò sempre nel mio cuore, per l’eternità».
La superperizia
Ma oltre il dolore, resta la rabbia per quanto accaduto. La procura di Vicenza si prepara a chiedere una superperizia che dovrà ricostruire, istante per istante, cos’è accaduto mercoledì intorno a mezzogiorno, in quella maledetta rotatoria di Montebello Vicentino in cui ha perso la vita il campione Davide Rebellin. Una consulenza tecnica che, unita ai risultati che arriveranno dall’autopsia, servirà a stabilire le responsabilità di Wolfgang Rieke, l’autista di 62 anni che con il suo tir ha travolto il ciclista, trascinandolo per alcuni metri, fino all’interno del parcheggio di un ristorante.
Le indagini per omicidio stradale e la misura cautelare
La procura di Vicenza indaga per i reati di omicidio stradale e omissione di soccorso, ma a a rendere tutto molto complicato è il fatto che l’uomo si trova già in Germania (a Recke, nella Renania settentrionale), e il codice penale tedesco non prevede il reato di omicidio stradale ma solo quello di omicidio colposo. Significa che l’autista - se le prove raccolte contro di lui reggeranno - verrà processato in Italia e, quando un’eventuale condanna diventerà definitiva, si potrà chiederne l’estradizione. Nel frattempo però, non è escluso che scattino altri provvedimenti: gli investigatori - sostiene l’agenzia Ansa - potrebbero arrivare a chiedere anche una misura cautelare viste le dinamiche dell’incidente e soprattutto il fatto che l’uomo, dopo aver ucciso Rebellin, si è dato alla fuga.
L’omissione di soccorso
Wolfgang Rieke lavora per la ditta di spedizioni del fratello e nei prossimi giorni sarà sentito in Germania dai rappresentanti della giustizia italiana o interrogato attraverso un collegamento in videoconferenza. Lì avrà l’occasione di ricostruire la sua versione di quanto accaduto mercoledì: la sua unica speranza di cavarsela è di dimostrare che non si sia accorto di quanto aveva fatto. Ma non gli sarà facile convincere i magistrati: le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza del ristorante mostrano che, dopo l’urto, il camionista si è avvicinato al campione agonizzante a terra, per poi ripartire senza prestargli soccorso. A quel punto il 62enne si è diretto a Verona, dove ha caricato della merce in un’azienda dell’interporto, e infine si è diretto oltre confine. Pare sia proprio nella società veronese che è stata acquisita la copia della carta d’identità del camionista: la foto è stata confrontata con quelle scattate sul luogo del sinistro da alcuni avventori e con le immagini delle telecamere, e questo ha permesso di indicare con certezza Rieke come l’autista alla guida del mezzo.
Slittano i funerali
Nelle prossime ore la procura notificherà al camionista un «avviso» affinché possa nominare un proprio consulente per assistere all’autopsia. Anche questa procedura prevede la collaborazione con le autorità tedesche e quindi difficilmente l’esame autoptico potrà svolgersi la prossima settimana. Slittano quindi a data da destinarsi i funerali del campione, che erano stati previsti per mercoledì mattina al Duomo di Lonigo.Restano i dubbi sul perché Wolfgang Rieke abbia agito in quel modo sconsiderato. La risposta, forse, va ricercata nei suoi precedenti giudiziari: nel 2001 il camionista tedesco era stato condannato dal tribunale di Foggia per essere fuggito dopo un incidente senza prestare soccorso alle persone coinvolte. Pena che però è stata dichiarata estinta per prescrizione. Non solo. Nel 2014 gli era stata invece ritirata la patente dalla polizia stradale di Chieti per guida in stato di ebbrezza. Rebellin si trovava a casa della madre, a Lonigo, solo da qualche giorno, e tutte le mattine andava ad allenarsi. Secondo il sindaco del paese, Pierluigi Giacomello «è inaccettabile l’assenza di provvedimenti: si tratta di un omicidio, questo autista va arrestato».
Elia Viviani. Luca Gialanella per gazzetta.it il 17 ottobre 2022.
I Mondiali di ciclismo su pista sul velodromo di Saint Quentin en Yvelines ci chiudono nel segno di Elia Viviani. Dopo l’oro olimpico nell’Omnium a Rio 2016 (e bronzo 2021), il campione veronese si supera e trionfa nella prova a Eliminazione, specialità nella quale aveva vinto il titolo iridato a Roubaix 2021.
Una prestazione sontuosa, quella del leader del gruppo azzurro, capace di reagire alla delusione del settimo posto nell’Omnium: battuti nettamente il neozelandese Corbin Strong e il britannico Ethan Vernon.
E così l’Italia chiude questi Mondiali con quattro ori e sette medaglie complessive. Domenica 23, poi, la medaglia più bella per Viviani: il matrimonio al Castello di Susans, in Friuli, con Elena Cecchini.
Filippo Ganna nella storia: il ciclista fa suo il nuovo record dell'ora. Antonio Prisco l'8 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Sul Velodromo di Grenchen il campione azzurro percorre 56.792 km e polverizza il record detenuto dal britannico Dan Bigham
Leggendaria impresa di Filippo Ganna, che questa sera al velodromo di Grenchen in Svizzera ha stabilito il nuovo record dell'ora di ciclismo su pista percorrendo 56.792 chilometri.
Il 26enne di Verbania, portacolori della Ineos, due volte campione del mondo di cronometro, è stato protagonista di una prestazione superlativa. In sella alla bicicletta Pinarello Bolide F HR 3D, stampata interamente in 3D in ogni suo componente, il ciclista azzurro è stato perfetto e soprattutto regolare sin dai giri iniziali. Ganna ha riportato il record del mondo dell'ora in Italia dopo 66 anni, dai 46,394 chilometri coperti da Ercole Baldini. Nel gennaio del 1984, Francesco Moser pedalò a Città del Messico per 51,151 chilometri ma quella fu una miglior prestazione umana sull'ora.
Ganna questa sera al velodromo di Grenchen, coprendo 56,792 chilometri in un'ora di gara, ha migliorato il precedente record del mondo che dal 19 agosto scorso apparteneva con 55,548 chilometri al britannico Dan Bigham. Per Filippo anche il record dei record, ovvero la migliore prestazione umana dell'ora di 56,375 km che risaliva al 6 settembre del 1996, prima dell'introduzione definitiva dell'albo dei record da parte della federazione internazionale, ed apparteneva al fuoriclasse cronomen britannico Chris Boardman.
Il commento dell'impresa
"Voglio ringraziare tutti, il supporto che mi avete dato è stato incredibile". Filippo Ganna si gode la storica impresa. "Ho centrato un obbiettivo incredibile, per me e tutto lo staff con cui ho lavorato per tutti questi mesi - spiega a caldo il 26enne campione piemontese. Meglio di Boardman? Questa mattina pensavo di voler battere il record di un solo metro, ma questo risultato è andato anche oltre le aspettative e non è male...".
"La prossima volta potrei provarci in un'altra parte di stagione, con le gambe più fresche - conclude l'azzurro - Ora è il tempo di recuperare e festeggiare tutti insieme. Il momento di cut-off è arrivato negli ultimi 5', le gambe stavano soffrendo tantissimo". Ganna è poi tornato sulla sua impresa ai microfoni di Raisport: "Tentare ancora il record? Magari tra una decina di anni per chiudere la carriera, alla Wiggins...".
La sua stagione, dopo tante critiche, termina con una gioia: "Al mondiale ero in giornata no, non ero così stanco... La gente prima di parlare è meglio ci penso di più". Infine, un altro ringraziamento ai tifosi presenti in Svizzera: "Quando mancavano gli ultimi 15', sentire tanti applausi e urla mi hanno fatto mettere il turbo".
50 anni fa Eddie Merckx volò sui pedali in Messico. Il cannibale belga infranse il record dell'ora in sella all'ultima vera bici tradizionale: mezzo secolo fa l'impresa a Città del Messico. Paolo Lazzari il 18 Settembre 2022 su Il Giornale.
Claudine irrompe nella stanza furente. Adesso lo contempla dall’altro lato del divano, i pugni stretti sui fianchi, l’espressione che non riesce a contenere un disappunto esondante. Nemmeno la sua intemerata è servita a nulla: “Guarda Eddie che ti devi anche riposare. Guarda che ci siamo anche noi”. Come colloquiare con il raggio di una bici: quello gira in tondo e se ne frega. Se c’è ancora uno scampolo di stagione da addentare, lui non può tirarsi indietro.
Certo, l'annata è stata bella carica. Soltanto diciotto giorni prima Merckx ha trionfato con draconiana attitudine al Giro di Lombardia. Prima ancora quelle leve tiranneggianti hanno pigiato sui pedali nel Giro del Piemonte, dell’Emilia e naturalmente in quello d’Italia. Ovunque ai concorrenti è stato strappato via, con incruenta superiorità, ogni rimasuglio di speranza. La civile protesta di sua moglie poggia su ulteriori valide argomentazioni: “In Messico? Dobbiamo andare fino in Messico?”.
Sì. Il cannibale stravaccato su una sdraio vista spiaggia, magari con un corroborante Martini Dry tra le dita, non ci sa proprio stare. Freme costantemente per stringere tra le mani il manubrio della sua bici. Ha premute dentro tonnellate di ciclismo. Così è deciso, si vola a Città del Messico con un obiettivo: infrangere il record dell’ora conquistato proprio in quelle terre dal danese Ole Ritter, nel 1968.
"Non lo farò mai più"
Oggi che è il 25 ottobre 1972 – vale a dire esattamente mezzo secolo fa – Eddie ci prova salendo in sella a quella che, ancora non può saperlo, sarà l’ultima bicicletta costruita secondo una certa tradizione. Quelle che arriveranno dopo, ne sa qualcosa Francesco Moser, al confronto risulteranno creature avveniristiche. Il caldo e l’altura sono impronosticabili convitati di pietra. Ma per intanto quel gran genio di Ernesto Colnago gli prepara una gemma rara per l’epoca: poco più di 5 kg di stazza, al servizio del corridore più potente: abbinata fotonica che promette di demolire il risultato precedente.
E così accade, infatti. Non serve un’immaginazione fervida per intuire che Eddie, quando si mette qualcosa in testa, non partecipa mai. Eddie vince, punto. Così al velodromo Augustin Melgar di Città del Messico Merckx passa, letteralmente, un’ora a volare sui pedali. Alla fine il nuovo record recita 49,432 km percorsi. Intercettato da un microfono volante dopo la memorabile impresa, cicatrizza stremato il suo pensiero: “Non lo farò mai più”.
Moser riuscirà a superare il belga nel 1984, ma avventurarsi in improvvidi paragoni è un esercizio sterile: pur non sottraendo nulla all’impresa, la bici del nostro italiano era di tutt’altra risma.
Ora le mani di Claudine non sono più strette sui fianchi. Abbracciano il marito, con tutto l’amore possibile. E con la consapevolezza, cronica, che nella scala della devozione Eddie metterà sempre due ruote al primo posto. Talento miscelato a folle ossessione: non si diventa cannibali per caso.
Tragedia nel mondo del ciclismo: a 37 anni muore d’infarto il campione di mountain bike Rab Wardell. Federica Palman il 24/08/2022 su Notizie.it.
Il ciclista è stato colpito da un infarto nel letto. La compagna Katie Archibald, leggenda del ciclismo su pista, ha provato a rianimarlo.
Lutto nel mondo del ciclismo: a 37 anni è morto improvvisamente il campione scozzese di mountain bike Rab Wardell.
Rab Wardell è morto improvvisamente per un infarto
Rab Wardell, divenuto professionista nel 2022, è stato colpito da un infarto mentre era sdraiato nel letto accanto alla compagna Katie Archibald, leggenda del ciclismo su pista britannico e vincitrice di due ori olimpici, nell’inseguimento a squadre a Rio 2016 e nell’americana a Tokyo 2020.
Aveva appena vinto i campionati MTB XC
La tragedia si è consumata all’alba di martedì 23 agosto 2022, solo due giorni dopo il successo del ciclista nei campionati MTB XC a Dumfries e Galloway, che Rab Wardell ha vinto con un’incredibile prova di resistenza nonostante tre forature.
“Non capisco cosa sia accaduto, perché se lo siano portato via ora, felice e in salute”
“Ho cercato e cercato di rianimarlo.
L’ambulanza è arrivata nel giro di pochi minuti ma il suo cuore si era fermato e non hanno potuto salvarlo“, ha raccontato Katie Archibald sui social.
“Ancora non capisco cosa sia accaduto, se sia tutto vero e perché se lo siano portato via ora, felice e in salute. Il mio cuore si è fermato con il suo. Lo amo così tanto e ho maledettamente bisogno di averlo qui con me ma se ne è andato.
Non posso descrivere il dolore che provo”, ha aggiunto la ragazza.
Decine i messaggi di cordoglio dei colleghi, increduli di fronte a questa morte improvvisa.
Letizia Paternoster dopo la caduta a 50 all’ora: non ricorda nulla dell’incidente, sarà operata in Italia. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera su il 14 Agosto 2022.
Scongiurati gli scenari peggiori dopo la caduta di ieri, l’azzurra rientrerà in Italia per sottoporsi a un intervento di sintesi della frattura alla clavicola. «Rientrerò presto», scrive lei su Instagram
La paura è passata. Di incidenti brutti Letizia Paternoster, campionessa del mondo in carica della corsa a eliminazione del ciclismo su pista, in carriera ne ha subiti tanti ma di quello di sabato sera a Monaco di Baviera, che ha gelato il pubblico della Munich Messe, non conserva fortunatamente alcuna memoria. Riavvolgendo il nastro della corsa, rivedrà che la sua caduta è stata provocata in minima parte da un suo cambio di direzione, ma soprattutto dall’investimento da parte della polacca Lorkowska che l’ha tamponata e schiacciata contro la barriera di cristallo. «Provo a sorridere e pensare ai grandi obiettivi che ho di fronte — scrive in mattinata su Instagram la campionessa azzurra — Ho rotto la clavicola in tre parti e ho avuto un trauma cranico... Tornerò presto. Grazie per tutti i vostri messaggi!».
Operazione in Italia
L’ultimo bollettino medico, rilasciato dal dottor Angelucci della Federciclismo alle 12 di domenica, spiega che «le condizioni cliniche dell’atleta (ricoverata alla München Klinik Bogenhausen, ndr) sono in costante miglioramento con progressivo recupero del trauma cranico commotivo. Lo staff medico della Nazionale, di concerto con l’atleta, la famiglia e il team (Trek-Segafredo), sta organizzando il rientro di Letizia in Italia per sottoporsi all’intervento chirurgico di sintesi della frattura della clavicola».
Paura passata
La grande paura iniziale — che il trauma cranico fosse più esteso e ci fossero interessamenti spinali — è passata, la stagione forse finita (l’obiettivo erano i Mondiali di Parigi in autunno, recuperare in due mesi è difficile ma non impossibile) ma Letizia tornerà a correre.
Terzo incidente
Nel 2018 la poliziotta trentina ebbe un incidente analogo in Coppa del Mondo, a Berlino: anche in quel caso un tamponamento e un trauma cranico ma dal punto di vista osseo Letizia se la cavò con una semplice contusione costale. Molto brutto quello nel velodromo di Roubaix tre anni fa, quando, cadendo in allenamento, si trovò con delle schegge del parquet nella schiena. Ma anche in quel caso Paternoster si rialzò e ricominciò a vincere.
Letizia Paternoster, l’incidente e il vuoto di memoria: «Non ho mai voluto rivedere le immagini». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera su il 24 Agosto 2022.
L’azzurra è stata protagonista di un brutto incidente durante gli Europei di Monaco. «Mia madre non guarda le gare, mi è andata bene. Dormo con una bici vicino al letto».
«Dell’incidente non ricordo nulla: ho un buco di memoria totale dalla sera precedente alla gara al mattino dopo, quando mi sono ritrovata distesa su un letto di ospedale. Non ho voluto rivedere le immagini: mi bastano il dolore, la radiografia della clavicola rotta in quattro parti e le sette viti che la tengono assieme dopo 4 ore di sala operatoria. Penso al futuro: vicino al letto tengo una bici da camera su cui salirò appena potrò».
La sera del 13 agosto, Letizia Paternoster, 23 anni, trentina, stella del ciclismo azzurro, sta lottando spalla a spalla sulla pista di Monaco di Baviera con altre 25 avversarie per il titolo europeo dell’Eliminazione, una delle prove più crudeli del ciclismo su pista: ogni tre giri, uno sprint e una ragazza che torna a casa. Dopo una quindicina di tornate, un botto terribile: Letizia resta a terra immobile a pancia in giù, tamponata a 50 all’ora dalla polacca che la seguiva. Per 20 minuti si teme il peggio: la campionessa del mondo è circondata da teli per proteggerla dai fotografi, i medici si affannano. Poi un sospiro di sollievo: Paternoster reagisce agli stimoli e viene caricata su una barella.
Letizia, è il suo terzo incidente grave in carriera. Il ciclismo su pista è così pericoloso?
«Come quello su strada: tu puoi prendere tutte le precauzioni possibili, ma quando ti investe un’avversaria oppure un’automobile puoi solo provare a proteggerti e sperare. Mi è andata bene: mi sono risvegliata, posso muovermi e tornare a gareggiare».
Il pericolo è il suo mestiere?
«La spericolatezza è parte di me, la porto dentro fin da bambina quando mi buttavo in Bmx nei boschi dietro a casa, a Trento. Ero matta e senza inibizioni ma sapevo controllare i rischi».
Come si controllano?
«Mescolando alla follia agonistica, istinto e ragione. Senza follia non avrai mai il coraggio d’infilarti in una spazio largo 50 centimetri a 55 chilometri l’ora, senza istinto non sai quando è il momento giusto per farlo e senza ragione ti fai sempre male».
I suoi genitori cosa ne pensano?
«Mia madre non ci pensa: non guarda le gare, tiene la tv spenta e spera che torni a casa in un pezzo solo. Mio padre è più forte: c’era a Monaco e si è precipitato a bordo pista».
Il commissario tecnico azzurro, Marco Villa, dice che lei a un certo punto si è svegliata e pensava di essere a Tokyo, alle Olimpiadi.
«Un delirio strutturato: sogno l’oro olimpico!»
Il ciclismo femminile italiano sta dominando su tutti i terreni, il Tour e il Giro donne hanno fatto grandi ascolti tv.
«Noi ragazze ce lo meritiamo: la gente sa riconoscere il valore di sacrifici e gesti atletici. Mi piacerebbe godermi questo momento di gloria dopo due anni da incubo: un lockdown infinito, una mononucleosi che mi ha ridotta a uno straccio. A metà ottobre voglio provare a difendere il titolo Mondiale a Parigi. Il mio allenatore e la mia squadra, le Fiamme Azzurre, mi stanno aiutando».
Cos’è la bici per lei?
«Libertà. Di pedalare in un bosco, per strada, su pista. Libertà di farlo truccata, sorridente ma liberare la mia ferocia quando gareggio. In bici ogni pregiudizio cade: provate a venire a prenderci, a noi donne. Vorrei che tutte le ragazze facessero sport, pedalassero e non si rimbambissero dietro a un tablet o a un telefonino».
In pista a Monaco c’erano tante ucraine, ospitate in Italia e altrove per potersi allenare lontano dalla guerra.
«Studio scienze politiche alla Luiss e anche la politica internazionale. Alle colleghe ucraine penso sempre, ma anche alle russe che pagano lontane dalle gare colpe non loro».
TOUR DE FRANCE, POGACAR CADE, VINGEGAARD LO ASPETTA E LO AIUTA E RIALZARSI
Da repubblica.it il 22 luglio 2022.
Quasi come la borraccia di Coppi e Bartali. Una diapositiva destinata a restare nei libri di storia del ciclismo. Al Tour de France, nella salita decisiva della diciottesima tappa, lo splendido gesto di sportività da parte della maglia gialla, Jonas Vingegaard. Il rivale in classifica, Tadey Pogacar, è all'inseguimento del gruppo di testa, ma disegna male una curva lungo la discesa dopo il Col de Spandelles e cade.
Pogacar perde secondi preziosi, Vingegaard potrebbe approfittarne per andare in fuga. Ma decide di aspettare, per sfidare il rivale ad armi pari. Attende che si rialzi, gli dà la mano, i due tornano in sella e ripartono. Una volta sui pedali, la stretta di mano prima di riprendere il duello spalla a spalla.
Vingegaard stacca Pogacar
Pogacar, nei chilometri successivi, accuserà la caduta e le fatiche delle tre settimane di corsa. Vingegaard lo staccherà e andrà a mettere una seria ipoteca - probabilmente la parola fine - sul Tour de France 2022. La maglia gialla da sola sulla salita di Hautacam, che ha vinto non solo la gara in strada.
Vingegaard: "Era giusto arrivare all'ultima salita insieme"
Alla fine della tappa Vingegaard ha raccontato cosa è successo lungo la discesa dopo il Col de Spandelles. "In una curva precedente avevo rischiato io di cadere. Poi ho visto Pogacar andare nella parte sporca della strada e sparire. Ho capito subito che era caduto. L'ho aspettato perché mi sembrava giusto arrivare insieme all'ultima salita. Abbiamo recuperato Van Aert e da lì in poi ognuno ha fatto la propria gara".
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 22 luglio 2022.
Nell’iconografia del Grande Ciclismo, l’immagine della stretta di mano fra Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar si affiancherà a quella famosa dello scambio di borraccia fra Fausto Coppi e Gino Bartali nel Tour del 1952.
Forse nella stretta di mano fra il danese e lo sloveno c’è qualcosa di più: non solo un gesto di sportività, di fair play ma un vincolo magico che stringe due grandi campioni, come se l’uno non potesse esistere senza l’altro.
Era l’ultima sfida sulle montagne dei Pirenei, prima della cronometro. Pogacar attacca la maglia gialla: una, due tre, quattro volte. Vingegaard risponde sempre, rischia persino di finire fuori strada (solo un’acrobazia lo salva). I due stanno volando giù per le stradine del Col de Spandelles, verso l’ultima salita, quella che porterà al traguardo di Hautacam. A un tratto, lo sloveno scivola e cade. Si rialza in fretta, ma è ferito e il morale dev’essersi perduto in quella cunetta dove la bici si è schiantata. E qui succede qualcosa di inaspettato che sembra non appartenerci: quando la vita si accende nella grandezza, gli eroi d’Olimpia sapevano che un dio li agiva.
La telecamera che segue Pogacar, rassegnata come lo spirito del corridore, mostra invece sullo sfondo una macchia gialla: è Vingegaard che ha smesso di pedalare e sta aspettando il suo grande rivale. E quando i due si ricongiungono, la mano dello sloveno cerca quella del danese per ringraziarlo, perché si entra nel mito quando si entra nel rischio: il rischio della sfida ma anche il rischio di tutto ciò che ci allontana dalla mediocrità dell’inessenziale.
Il bel gesto di Jonas Vingegaard viene premiato, come se davvero dall’alto qualcuno decidesse il destino degli umani: la caduta ha minato nell’animo Tadej Pogacar, gli ha tolto brillantezza. La vittoria va all’avversario e forse anche il Tour de France. Una tappa così resterà negli annali a ricordarci perché amiamo il ciclismo.
Tour de France, doping e sospetti: ma di Vingegaard e Pogacar possiamo fidarci. Ecco perché. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.
Il danese e lo sloveno hanno sbriciolato una serie di record, ma i paragoni con la pagina più buia del ciclismo non reggono per tante ragioni
Possiamo fidarci? Possiamo fidarci dei protagonisti del Tour de France più veloce di sempre (42.03 km/h), più entusiasmante e ricco di colpi di scena dei tempi moderni, chiuso domenica da un volatone vincente di Jasper Philipsen sugli Champs-Élysées? Possiamo fidarci di una corsa animata da tre marziani (Vingegaard vincitore, Pogacar e Van Aert stellari) quando secondo le statistiche di cannibali ne dovrebbe nascere solo uno ogni 50 anni? Una corsa in cui i velocisti si sono trasformati in grimpeur, storici record di scalata sono stati messi in discussione, gioia e drammi agonistici si sono alternati senza soluzione di continuità? E dove anche in una tappa lineare come quella di ieri, Pogacar e Ganna hanno provato a invertire un pronostico destinato ai velocisti con un numero da circo? Tra dieci giorni o dieci anni, il Tour 109 rimarrà memorabile o verrà sbriciolato dai soliti controlli retroattivi o da qualche inchiesta, come la maggior parte di quelli compresi tra il 1996 e il 2010 e oltre?
Sbilanciandoci (e rischiando clamorose smentite) ci sono molte ragioni per cui forse possiamo fidarci. Innanzitutto per il ritorno sulla terra di Tadej Pogacar: dopo due Tour vinti e dopo aver dominato su ogni terreno, lo sloveno ha preso due sventole pazzesche (Granon e Hautacam) che lo rendono più simpatico, ma sopratutto meno alieno. Tadej ha esagerato (nelle corse di primavera e qui, sprintando in modo seriale su ogni traguardo) e ha pagato. Jonas Vingegaard, poi, ha stupito ma non sconcertato. Che il danese fosse un enorme talento infatti si sapeva (2° nel 2021), ma dietro al suo successo ci sono una squadra (la Jumbo-Visma) di coesione e talento irripetibili e una preparazione maniacale, finalizzata solo a questa corsa.
Il terzo motivo è la credibilità di Wout Van Aert, il vero extraterrestre di questo Tour, il più forte ciclista al mondo. L’uomo che ha vinto due tappe in volata e una a cronometro e ne ha sfiorate altre cinque, non funziona a pile atomiche: i suoi 95 minuti di ritardo da Vingegaard in classifica generale ci fanno capire che tra un’impresa e l’altra Wout si è debitamente riposato, selezionando gli obiettivi. Quando si mette davanti al gruppo e tira alla morte, il belga fa la stessa fatica di chi è a ruota a centro gruppo.
IL CAMPIONE
Chi è Vingegaard, il vincitore del Tour de France 2022
La classifica generale, poi, mostra una stanchezza enorme e umanissima: solo sette corridori entro venti minuti dalla maglia gialla, solo quindici entro un’ora, nessuno scampato ad almeno un giorno di crisi più o meno profonda. I record di scalata, indicati da molti come segno di anormalità, vanno letti con cura.
Vero che Vingegaard sull’Hautacam ha avvicinato dopo 20 anni il dopatissimo Armstrong (36’34” contro i 36’19” dell’americano) ma vero anche tra il 1994 e il 1996 almeno dieci improbabili mutanti impiegarono fino a due minuti in meno del danese, con bici più pesanti, allenamenti più approssimativi e controlli assenti. Prima di gettare la croce su Vingegaard, bisognerebbe cancellare dall’albo d’oro quei primati improbabili e quasi offensivi. Il che non significa che l’attenzione non vada tenuta alta: l’Astana ha appena sospeso Miguel Angel Lopez, terzo al Giro 2018, sesto al Tour 2020, uno dei più forti scalatori al mondo, perché coinvolto in un’inchiesta giudiziaria sul doping in Spagna.
Riccardo Bruno per corriere.it il 5 luglio 2022.
Sono passati esattamente settant’anni, e i tifosi ancora si dividono, le fazioni si contrappongono. È Fausto Coppi che passa la borraccia a Gino Bartali? O è il contrario? La foto più famosa dello sport italiano è stata scattata da Carlo Martini, fotoreporter dell’Omega Fotocronache, il 6 luglio 1952 al Tour de France. E ancora fa discutere.
Nonostante il tempo passato, restano ancora alcuni dubbi, e anche qualche dettaglio sbagliato. Per esempio la data, c’è chi sostiene che la foto sia stata scattata il 4 luglio. Non può essere così, l’immagine si riferisce all’ascesa verso il Galibier, uno dei quattro colli che i corridori affrontarono il 6 luglio nella tappa Le Bourg d’Oisans-Sestriere (che vincerà Coppi con oltre sei minuti sul secondo arrivato). Anche il 4 luglio, nella tappa che per la prima volta arrivava sull’Alpe d’Huez, vinse Coppi e conquistò la maglia gialla. È la maglia che indossa nella foto (anche se l’immagine è in bianco e nero), mentre Bartali ha ancora la maglia verde con il tricolore che avevano gli italiani (non c’erano squadre ma un’unica selezione nazionale).
Veniamo al punto. Chi passa la borraccia a chi? Primo dubbio: è davvero una borraccia, oppure una bottiglia d’acqua? Bartali in effetti negli anni successivi parlò di una bottiglia d’acqua che era arrivata da una donna a bordo strada. Coppi invece parlò sempre di borraccia. È possibile che avessero ragione tutte e due, che si riferivano a due episodi diversi, perché quasi sicuramente ci furono diversi passaggi di «rifornimenti» tra loro. Come è normale che sia tra compagni della stessa squadra, tra campioni leali e rispettosi dell’avversario, anche se rivali e acerrimi nemici quando la corsa partiva e la strada si impennava.
Eppure i tifosi dell’uno e dell’altro si sono accapigliati per anni difendendo il loro beniamino, rivendicando la generosità del proprio idolo. A favore di Bartali deporrebbe il fatto che ha i due portaborracce già occupati. I sostenitori di Coppi non si sono mai convinti, per loro la postura è evidente: è Fausto che si gira per aiutare il compagno-nemico. Forse nessuna delle due posizioni è corretta. Se è vero quello che più tardi fece capire lo stesso fotografo Martini, parlando di una foto in qualche modo «organizzata».
«È un’immagine simbolo anche per questo — sottolinea Roberto Livraghi, storico del ciclismo e direttore del Museo Alessandria Città delle biciclette —. E che racconta l’amore spropositato dei tifosi per questi due grandi campioni. Ancora oggi ci chiediamo chi ha passato la borraccia a chi. A molte domande è stata data una risposta, altri punti rimarranno irrisolti per sempre, ma in fondo poco importa chi è stato. Diversi anni dopo lo stesso Martini fece capire che la foto era stata preparata, che i due si erano messi d’accordo. E poi risulta che non è stato l’unico passaggio di borraccia tra i due».
Due anni fa, una nuova rivelazione su una foto che non smette mai di stupire ed affascinare. Carlo Delfino, medico e storico del ciclismo di Varazze, trovò la foto originale nell’archivio di Marino Vigna, oro a Roma ’60 nell’inseguimento a squadre, ex ds di Eddy Merckx. Una sorpresa: accanto a Coppi e Bartali, c’è un altro corridore, il belga Stan Ockers, non uno qualsiasi, secondo in quel Tour.
Quando la foto vene pubblicata su Sport Illustrato, il settimanale della Gazzetta dello Sport, il belga venne tagliato. Ma a noi italiani interessavano solo loro due, i due campioni rivali: Ginettaccio che aveva già vinto il Tour nel 1938 e dieci anni dopo, e l’Airone che dominò quell’anno per la seconda volta dopo il trionfo nel 1949. I nostri eroi che conquistavano la Francia, che si facevano la guerra, ma che erano sempre corretti e leali.
Mario Cipollini. Marco Gasperetti per corriere.it il 17 ottobre 2022.
Colpevole di lesioni e minacce nei confronti dell’ex moglie. Mario Cipollini, l’ex campione di ciclismo, è stato condannato dal tribunale di Lucca a 3 anni di carcere e a risarcire la parte civile per 85 mila euro. «Sono contenta, giustizia è stata fatta, sono stati momenti difficili ma adesso posso vede un po’ di luce», ha commentato Sabrina Landucci, l’ex moglie di Cipollini, sorella di Marco Landucci, ex portiere di Inter e Fiorentina e allenatore in seconda della Juventus.
I tre anni complessivi di pena riguardano anche le accuse per le minacce all’attuale compagno della Landucci, Silvio Giusti. Nella sua requisitoria il pubblico ministero aveva chiesto due anni e mezzo.
Lesioni e minacce all'ex. Condannato a 3 anni: maglia nera a Cipollini. Pugno duro sul campione del mondo. È più di quanto aveva chiesto l'accusa. Pier Augusto Stagi il 18 Ottobre 2022 su Il Giornale.
È una sconfitta bruciante, una prima tappa che deve incamerare come persa, lui che era abituato a vincere e inanellare vittorie su vittorie, tanto da essere l'uomo più vincente di tutti al Giro d'Italia, con le sue 42 vittorie di tappa, meglio di Alfredo Binda ed Eddy Merckx. Il tribunale di Lucca ha condannato ieri il Campione del mondo di Zolder 2022 Mario Cipollini a 3 anni in un processo che lo ha visto imputato dei reati di lesioni e minacce alla ex moglie Sabrina Landucci. Con la sentenza in primo grado è stato stabilito anche un risarcimento di 80mila euro all'ex moglie e di 5mila euro al compagno della moglie, Silvio Giusti.
I fatti oggetti del processo per maltrattamenti e minacce risalgono al dicembre 2016 e al gennaio del 2017. Le indagini vennero avviate in seguito alla denuncia presentata dall'ex moglie, sorella di Marco Landucci, ex portiere di Inter e Fiorentina e oggi vice di Massimiliano Allegri alla Juventus, il 9 gennaio 2017. Negli atti del rinvio a giudizio la Procura di Lucca ha sostenuto che l'ex campione del mondo avrebbe compiuto «una serie di atti lesivi dell'integrità fisica e psichica» dell'ex moglie «con pugni, schiaffi, calci, con lesioni e minacce di morte». Nell'udienza dello scorso 22 giugno il pubblico ministero Letizia Cai aveva chiuso la sua requisitoria con una richiesta di 2 anni e mezzo di carcere per Cipollini. Nello specifico, il pm aveva chiesto 2 anni per maltrattamenti e lesioni nei confronti della signora Landucci, più altri 6 mesi per le minacce a Giusti. «È una sentenza difficile da commentare ma sono contenta ha detto scossa Sabrina Landucci -, anche se è stato un percorso difficilissimo e oggi è stata per me una giornata molto difficile. Giustizia è fatta».
L'ex campione iridato, ieri era assente in aula in occasione delle arringhe difensive dei suoi legali, gli avvocati Giuseppe Napoleone e Cesare Placanica. La sentenza è stata emessa al termine della camera di consiglio dal giudice monocratico Felicia Barbieri. «Le prime ore sono state dure - ha aggiunto l'ex moglie di Cipollini - perché le parole della difesa mi hanno ferito, mi hanno fatto molto male. Mi sono sentita offesa. La cosa che mi ha ferito più di tutte è l'immagine di madre inadeguata che è stata data di me».
Una vicenda dolorosa, per tutte le parti coinvolte, che vivrà di un secondo tempo. «In uno Stato di diritto, la parola fine è con la Cassazione spiega al Il Giornale l'avvocato Napoleone -. La pena che oggi viene irrogata dal mio punto di vista come anche del collega Cesare Placanica, fa capire che i reati contestati avrebbero richiesto una pena ben più pesante. Non dimentichiamo che il pubblico ministero titolare dell'indagine (dottor Mariotti, ndr) aveva formulato richiesta di archiviazione. Attendiamo il deposito delle motivazioni (entro 90 giorni da oggi, ndr) e la impugneremo alla Corte d'Appello di Firenze. Mario non ha commentato ma è fiducioso nella giustizia. Unico rammarico, per le figlie (Lucrezia e Rachele, che giovedì scorso erano con papà a festeggiare i 20 anni del titolo di Zolder, ndr): da questa vicenda non usciranno vincitori».
Da lagazzettadilucca.it il 23 giugno 2022.
Una durissima condanna quella richiesta poco fa dal pubblico ministero nel processo in corso di svolgimento presso il tribunale di Lucca che vede imputato l'ex campione del mondo di ciclismo Mario Cipollini accusato dei reati di maltrattamenti, lesioni e minacce nei confronti della ex moglie Sabrina Landucci e, in parte, anche del suo attuale compagno, l'ex giocatore di calcio rossonero Silvio Giusti.
Letizia Cai, infatti, al termine della sua requisitoria durata poco meno di un'ora, ha chiesto per Cipollini due anni e sei mesi di reclusione. Il pm ha esordito riandando indietro nel tempo e riassumento, uno dopo l'altro, gli episodi che hanno caratterizzato questa vicenda di violenza tra le mura domestiche, ma non soltanto. In primo luogo l'evento che ha, poi, convinto la vittima a denunciare l'ex marito ossia l'aggressione subita mentre si trovava all'interno del luogo di lavoro, il centro sportivo Ego di Sant'Alessio dove la donna svolgeva la sua attività e dove, tra l'altro, presta tutt'ora la propria opera.
In quella circostanza l'ex campione iridato afferrò la consorte per il collo e la sbattè al muro. Terrorizzata, Sabrina Landucci fu soccorsa da alcune persone che si trovavano in palestra e, successivamente, scelse di intraprendere la strada legale superando la paura di una bufera mediatica che avrebbe inevitabilmente travolto anche le figlie e vincendo anche la propria attitudine alla riservatezza.
Sebbene l'evento avvenuto nella palestra sia stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso, i comportamenti violenti del "Re Leone" - titolo che suona ormai quasi parodistico - erano cominciati molto prima, già dai primi anni di matrimonio. Il pubblico ministero, infatti, ha ripercorso i primi atti violenti e le prime minacce, come quando, in preda ad un attacco di gelosia, Cipollini arrivò a segare in due la bicicletta dell'allora compagna per paura che lei "disobbedisse" scegliendo di usarla senza il suo consenso.
Nonostante le dettagliate descrizioni dei fatti fornite dai testi della parte civile e del pubblico ministero, il noto ciclista ha continuato a smentire tutti i fatti, arrivando a negare un episodio avvenuto direttamente all'interno del tribunale, nell'ultima udienza, in cui Cipollini ha strattonato con forza Sabrina Landucci di fronte all'avvocato di lei e a decine e decine di testimoni.
Il ritratto datoci dal PM è quindi quello di un uomo "estremamente violento, estremamente minaccioso ed estremamente prevaricatore" la cui gelosia e cieca rabbia si è più volte riversata contro Sabrina Landucci ma anche contro il suo attuale compagno Silvio Giusti.
Proprio all'interno della già citata palestra Ego, Cipollini arrivò a definire Silvio Giusti un signor nessuno, urlando di fronte a numerose persone: "Tu non sei nessuno e non vali niente, mentre io sono Cipollini. Se un giorno alle 5 mi sveglio e voglio farti sparire non ti trova più nessuno, ho amici ovunque."
E' proprio l'idea di essere sostituito, evidentemente, che ha più volte animato la rabbia del ciclista, che già dall'inizio aveva impostato la relazione in modo profondamente unilaterale e tossico, facendo in modo che la compagna non possedesse niente di ciò che la circondava così da poterla controllare prima di tutto economicamente. E' infatti solo grazie alla "complicità" della domestica che la sig.a Landucci riuscì a portare via i vestiti quando nel 2013 decise per la seconda volta di trasferirsi dalla madre, arrivando a gettarli dalla finestra e poi spostarli di nascosto.
Per quanto il processo e le deposizioni dipingano una relazione tossica e pregna di violenza fisica e psicologica è importante far notare come, fortunatamente, le figlie dei due non siano rimaste in alcun modo coinvolte né nel processo, né nelle vicende mediatiche che lo hanno riguardato, grazie all'impegno degli avvocati e dei due protagonisti. "Un elemento che va sicuramente a nostro favore è il tipo di teste chiamati dalla difesa - ha affermato l'avvocato della signora Landucci, Sabrina Campione dopo l'udienza -, i quali hanno difeso l'imputato solo sui maltrattamenti e solo fino al 2009, perché tutti loro non vedevano la mia cliente da allora, alcuni addirittura dal 2004.
E' importante notare anche come nessuno di loro facesse parte della cerchia familiare, non abbiamo visto né la mamma, né un fratello di Cipollini: la sorella addirittura ha scelto di non rispondere piuttosto che tentare di scagionare il fratello." "Anche la testimonianza della Ventura - ha continuato l'avvocato - la domestica della coppia che tral'altro lavora ancora per Cipollini è determinante.
Lungi dallo smentire ciò che dice la sig.a Landucci, in realtà finisce per confermarlo, dando una versione dei fatti incredibile. Durante un litigio tra i due ex coniugi è stata lei a chiamare la mamma della sig.a Landucci, dicendole di muoversi che sua figlia rischiava di essere ammazzata. Lei ha parlato di una normale lite fra coniugi, con la sig.a che la chiamava mentre Cipollini la mandava via e che lei spaventata ha deciso di chiamare la madre."
"Quale moglie che litiga col marito chiama la domestica se non è in pericolo? Poi, lei si spaventa per sè stessa, ha affermato, ma ha poi chiamato la mamma di Sabrina - ha concluso l'avvocato - già questo può dirci molto sul tipo di situazione in cui questa donna si è trovata ed il modo istintivo in cui ha reagito tentando di proteggere la sig.a Landucci."
Non rimane, quindi, che aspettare la sentenza che arriverà il 13 luglio, anche se le motivazioni arriveranno come di consueto solo più avanti. Sarà allora che il giudice deciderà sui due anni e mezzo richiesti dal pubblico ministero e sugli 80 mila euro richiesti dalla parte civile come risarcimento.
Marco Gasperetti per corriere.it il 19 ottobre 2022.
A colloquio con l’ex moglie del ciclista Mario Cipollini, condannato a tre anni di carcere per maltrattamenti in famiglia, lesioni e stalking.
Signora Landucci, che cosa consiglierebbe alle donne che hanno avuto un’esperienza simile alla sua?
«Di denunciare subito, invece di aspettare anni come ho fatto io sbagliando. Quando la violenza entra in famiglia ogni speranza è persa. E allora una moglie deve chiedersi se è ancora una donna libera o la paura la sta rendendo schiava».
Sabrina Landucci, istruttrice in una palestra di Lucca, madre di due figlie, ex moglie di Mario Cipollini e sorella di Marco Landucci, ex portiere di Inter e Fiorentina e allenatore in seconda della Juve, oggi dice di sentirsi più libera. Lunedì, dopo anni di indagini e un processo difficile, l’ex campione mondiale di ciclismo è stato condannato a 3 anni di carcere per maltrattamenti in famiglia, lesioni e stalking. Lei si è sposata con Mario Cipollini per amore, poi il matrimonio è scivolato nel baratro della violenza.
Come definirebbe questi anni di convivenza impossibile?
«Anni difficili e di paura. Avevo l’assoluta volontà di portare avanti il matrimonio. Ero innamorata di quest’uomo e, sbagliando, sopportavo tradimenti, soprusi e violenze. Mi chiedeva scusa, mi giurava che era cambiato. E io volevo crederci ad ogni costo. Non ero una donna libera».
Quando ha capito che ormai la fine del matrimonio era inevitabile?
«Ci sono stati più episodi, terribili, e sono fuggita da casa con le figlie più di una volta. Ma ho sempre tentato di riallacciare un rapporto che ormai era irrecuperabile. Poi ho capito che non c’era più niente da fare e nel 2012 mi sono separata».
Ma non è stato il famoso tradimento del 2005 di Cipollini con la modella Magda Gomes a convincerla a lasciare suo marito?
«No. Di tradimenti ce ne sono stati molti e sono stati anch’esse violenze. Non solo fisiche, perché quando gli chiedevo conto di che cosa aveva combinato, lui mi picchiava, ma anche psicologiche. Sono stata denigrata, trattata come un oggetto, insultata davanti ai miei familiari. L’uomo che avevo conosciuto si era trasformato, non era più lui. L’amore era morto, per sempre».
Come ha affrontato la situazione con le figlie?
«Cercando di tenerle il più possibile fuori dai contrasti tra me e loro padre. Ed è stato per questo che per anni non ho denunciato. Non volevo provocare loro dolore. Sbagliavo: quando nella famiglia entra la violenza bisogna interrompere ogni rapporto e denunciare».
Di lei hanno detto che ha dimostrato un coraggio straordinario. Dove l’ha trovato?
«L’ho trovato quando ho conosciuto l’avvocato Susanna Campione, esperta in diritto di famiglia. È stata eccezionale, non solo come legale, ma come amica. Mi è stata vicino per questi lunghi e dolorosi anni e insieme abbiamo vinto».
Crede di essere diventata uno dei simboli delle donne?
«No, non sono un simbolo, sono soltanto una donna che ha combattuto. Però spero che la mia tristissima esperienza possa aiutare la causa delle donne maltrattate, offese, trattate come oggetti».
Però ha dovuto combattere anche contro chi la criticava.
«È stata una battaglia difficile, faticosa, pericolosa. Sono stata colpevolizzata. Quando si denuncia serve un coraggio che duri a lungo».
L’offesa peggiore?
«Mi hanno accusato di aver denunciato il mio ex marito solo per soldi e per raggiungere la notorietà».
La fama del suo ex marito le ha provocato problemi?
«Sì, molti. Intanto perché non volevo rovinargli la carriera ed è anche per questo che non l’ho denunciato subito. Poi temevo di combattere contro un Golia mediatico e di non essere creduta».
E adesso come si sente?
«Sollevata, ma questa vittoria, se così si può definire, è velata da una grande tristezza. Credevo in questo matrimonio e non avrei mai voluto che finisse così. Ma anche dalle sconfitte ci si può rialzare quando si combatte per una giusta causa».
Chi sono i ciclisti? Antonio Ruzzo il 14 giugno 2022 su Il Giornale.
C’è chi il ciclismo lo guarda in tv e chi invece sale in bici e pedala: 5 milioni e mezzo di appassionati “voyeur” e un milione e mezzo di praticanti che sudano e faticano, tanto per capirsi. Tanti comunque. Generalmente con un’estrazione sociale medio-alta, con buone disponibilità economiche e con l’idea fissa dell’agonismo (ancora la maggior parte) ma sempre di più con in testa l’idea che pedalare sia benessere e anche turismo . Sono i dati di una ricerca di mercato condotta qualche tempo fa da ESP GroupM Consulting Sinottica TSSP- “Tra le discipline sportive più seguite- conferma lo studio- il ciclismo occupa il settimo posto e la bicicletta rientra nella top 5 delle discipline più praticate con l’8,2% dei 23.600.000 milioni di italiani che fanno sport con continuità e sempre più consapevoli sui benefici della pratica sportiva, e in particolare del ciclismo e della mountain bike. In Italia ci sono 1.935.000 ciclisti regolari e si tratta di un movimento che sta passando dall’interpretazione agonistica della bici a quella turistica: la mountain bike e la sua evoluzione in E-bike, che fa registrare un boom di vendite come nuova forma di vacanza, e nell’Anno del Turismo Sostenibile sono dati incoraggianti”. L’analisi della community italiana del pedale conferma che il mondo del ciclismo ha ancora una forte matrice maschile (con l’82% di uomini) e un territorio di riferimento nel nord Italia con il 61% di tutti i praticanti, anche se vi è una quota rilevante al sud, isole comprese, con il 30% di affezionati ciclisti. Tuttavia, ciò che colpisce in questa indagine demoscopica, è la classe reddituale dei praticanti ciclismo: l’85% dei ciclisti si colloca nelle fasce di reddito media e alta a dimostrazione di come la bicicletta sia diventata oggetto di culto anche nelle classi più abbienti. Il profilo del ciclista è quello di un appassionato fortemente orientato verso benessere fisico e la propensione alla competizione: alla voce “life interests” il 22.5% risponde che interpreta il ciclismo come manifestazione agonistica e il 19.5% sottolinea il benessere fisico come effetto collaterale. “Approfondendo il tema agonismo- continua lo studio- abbiamo analizzato i dati della Federazione Ciclistica Italiana che nel 2016 ha registrato 70.714 tesserati, di cui il 38,3 % ha scelto la mountain bike come propria disciplina di riferimento, mentre resta prevalente l’utilizzo della bici da strada tra i praticanti italiani (54%)”. Tuttavia, questa visione “federale” non coincide con un mercato che da alcune stagioni sta andando verso una direzione off-road e che vede la mountain bike imporsi nel suo utilizzo a carattere diportistico: secondo dati Eurac Research riferiti a destinazioni turistiche nell’arco alpino, i praticanti di mountain bike sono 18,7 milioni contro i 15,7 milioni che scelgono la bici da strada.
Andare in bici? Per il 62% degli italiani è pericoloso. Antonio Ruzzo il 29 maggio 2022 su Il Giornale.
Per quasi nove italiani su dieci l’uso della bicicletta è importante nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e nella riduzione del traffico. Ma oltre la metà (62%) ritiene che andare in bicicletta sia troppo pericoloso. E’ quanto emerge dall’ultimo sondaggio Ipsos, condotto in 28 Paesi, tra cui l’Italia, che ha indagato le principali opinioni dei cittadini in merito all’utilizzo delle due ruote in occasione della giornata mondiale della bici che è fissata per il 3 giugno. L’indagine mette a fuoco anche tante altre cose. Ad esempio che un italiano su due ha una bici per muoversi ma che solo il 10 per cento la usa per andare a lavoro, che 26% la usa per fare sport e che il 37% va in bicicletta almeno una volta alla settimana quota che si riduce al 13% tra quanti dichiarano di utilizzare la bici come mezzo di trasporto principale. Bella la bici, anzi fantastica. Giusto sognarsela, godersela, promuoverla ed anche festeggiarla se servisse a qualcosa. Ma forse più che una giornata mondiale della bicicletta servirebbero alcune normalissime giornate di coraggio. Coraggio, ad esempio, di chiudere al traffico le strade di costa, sui laghi o sui passi qualche mattinata al mese, come un paio di volte l’anno fanno sullo Stelvio. Coraggio di creare la domenica un corridoio protetto con transenne mobili per permettere di correre, camminare o pedalare per uscire ed entrare dalla città senza rischiar la pelle. Lo fanno da sempre in Colombia a Bogotà, potremmo provarci anche noi. Coraggio di impedire, intensificando i controlli, che molte strade panoramiche la domenica diventino teatro dei gran premi motociclistici di invasati bardati come i piloti dei Gp. Coraggio difendere le ciclabili cittadine dalla sosta menefreghista e selvaggia. Coraggio di chiedere conto a chi amministra Comuni, Enti o parchi dello stato di manutenzione di alcune ciclabili che sono abbandonate a se stesse. Coraggio di promuovere sul serio il ciclismo tra i bambini mettendo a disposizione delle società che li allenano facendo i salti mortali qualche pista in più, senza parlare dei velodromi. Ma quello è un sogno… Coraggio di ricordarsi al di là degli infiniti dibattiti su ruoli, responsabilità e regole da rispettare senza distinzioni, che alla fine i ciclisti sono sempre quelli che sulle strade rischiano di più ed hanno la peggio.
Biniam Girmay. Ciro Scognamiglio per gazzetta.it il 18 maggio 2022.
Niente da fare. Biniam Girmay non ripartirà oggi per l’11esima tappa del Giro d’Italia, 203 km da Sant’Arcangelo di Romagna a Reggio Emilia. Il 22enne eritreo della Intermarché-Wanty-Gobert aveva ottenuto martedì la prima vittoria di sempre di un africano nero in un grande giro, battendo a Jesi Van der Poel al termine di una volata mozzafiato. Ma poi, durante la cerimonia di premiazione, il tappo dello spumante lo aveva colpito all’occhio sinistro costringendolo ad andare all’ospedale di Jesi per curare il trauma e per gli accertamenti, prima di raggiungere l’hotel a Riccione della squadra in serata.
L’occhio non sembra avere subito danni importanti ma la squadra ha comprensibilmente preferito la via della cautela, e già oggi verranno effettuati altri accertamenti: già ieri sera c’era grande pessimismo in tal senso. Girmay, primo africano di sempre a vincere una classica del Belgio (la Gand-Wevelgem), era al debutto al Giro d’Italia e nella prima frazione aveva sfiorato la rosa, chiudendo secondo battuto solo da Mathieu Van der Poel. A Jesi ha avuto la rivincita e scritto la storia, prima dell’inopinato incidente che lo ha costretto al ritiro. La corsa rosa riparte intanto con Lopez in maglia rosa: conclusione a Verona il 29 maggio.
Biniam Girmay è il primo ciclista eritreo della storia a vincere al Giro d'Italia. Il Tempo il 17 maggio 2022
Biniam Girmay, corridore eritreo della Intermarché-Wanty-Gobert Materiaux, si aggiudica in posto la decima tappa del Giro d’Italia 2022, la Pescara-Jesi di 196 chilometri, con cui diventa il primo ciclista eritreo a trionfare in 105 anni di storia della corsa in rosa. Non è il primo africano a riuscirci ma il terzo, visto che nel 1979 ci era riuscito il sudafricano Van Heerden, vincitore della settima tappa Chieti-Pesaro, mentre più volte è toccato a Froome, inglese nato in Kenya.
«Giornata straordinaria. La mia prima vittoria al Giro d’Italia, giornata storica per tutti. L’errore in curva? Pensavo fosse un rettilineo, ma c’è stata una curva sinistra e quindi ho rallentato, ma poi è stato facile rientrare. La volata con Van der Poel? Stupefacente, abbiamo fatto quasi 400 metri al termine di una giornata così. Tre giorni fa parlavamo di questa tappa, è stata complicata perché fin dall’inizio tentavano di partire, ma la mia squadra è forte». Queste le parole di Biniam Girmay all'arrivo.
Durante la premiazione c'è stato un o inconveniente per il corridore africano: nello stappare la bottiglia dello spumante consegnata ai vincitori della tappa gli è finito il tappo nell'occhio ed è poi dovuto ricorrere alle cure in ospedale.
Dalla vittoria storica al ritiro: la sfortunata vicenda di Biniam Girmay. La Repubblica il 18 maggio 2022.
Biniam Girmay si è ritirato oggi dal Giro d'Italia 2022. Il 22enne eritreo della Intermarché-Wanty Gobert non è ripartito a causa di un incidente avvenuto durante la premiazione per la vittoria di tappa conseguita a Jesi. L'atleta, infatti, è stato colpito all'occhio dal tappo della bottiglia di prosecco che stava stappando sul podio. Poco dopo è stato portato in ospedale, dove i medici hanno rilevato un'emorragia nella camera anteriore dell'occhio sinistro. Gli è stato quindi sconsigliato di riprendere l'attività fisica, per evitare l'espandersi dell'emorragia. Per l'atleta è stata comunque una giornata storica, in quanto è stato il primo corridore africano nero nella storia ad aver vinto una tappa del Giro. Sui social, Girmay ha ringraziato la squadra e i suoi fan per il supporto ricevuto. "Non vedo l'ora di partecipare alla prossima stagione, ci vediamo presto" ha detto in un video su Twitter. (A cura di Tommaso Bertini)
Furio Zara per gazzetta.it il 18 maggio 2022.
Può capitare a tutti, certo. Siamo tutti Fantozzi, partiamo per Pinerolo inforcando la bici alla bersagliera, ma il sellino è saltato e il tubo che lo sostiene è una dolorosa sentenza. Biniam Girmay che si è ferito all’occhio festeggiando sul podio con la bottiglia di spumante - maledetto fu il tappo di sughero - e che è stato costretto al ritiro dal Giro d’Italia ci dà la conferma che il destino beffardo è una pantera acquattata nell’ombra: appena ci distraiamo, quella salta fuori e ci dà un’unghiata micidiale.
Girmay si consoli: non è il solo, ma è solo l’ultimo ad entrare nella ristretta cerchia degli sportivi che si sono infortunati nel modo più strano, più assurdo, più imprevedibile.
A Serena Williams - per dire di come Girmay non abbia inventato nulla - capitò qualcosa di simile dopo la vittoria di Wimbledon nel 2010. Qualche giorno dopo - a Monaco di Baviera - andò in un bar a festeggiare, appoggiò incautamente il piede su una bottiglia di birra che era caduta per terra e se lo lacerò: due operazioni e mesi di stop.
Jari Litmanen - finlandese dell’Ajax anni 90 - era seduto al tavolino di un bar quando un amico aprì una Coca Cola, gli partì di mano e colpì l’occhio del calciatore. Rafa Nadal invece era invece seduto a tavola, a Cincinnati. Il cameriere gli servì il piatto e Rafa allungò la mano. Avete indovinato: il piatto scottava come lava incandescente, Rafa lo mollò, ma si bruciacchiò le dita. Gli andò bene: era la mano destra. Nadal è mancino.
Il problema è che gli sportivi pensano di magiare tutto. Cucina fatale: l’inglese Darren Bent si lesionò il tendine della mano affettando le cipolle per un soffritto. Il brasiliano che giocò nel San Paolo Anni 70 Muricy Ramalho - non è una barzelletta - pensò bene di ingurgitare per una settimana una supposta al giorno. Si fa un po’ di fatica a masticare, ma poi vanno giù che è un piacere: il buon Muricy fu costretto a saltare un paio di partite.
Sempre per rimanere nell’ambito delle scene-cult della commedia all’italiana. Piscina vuota, tuffatore che prende la rincorsa. Dove l’abbiamo già vista? Capitò al portiere Sebastian Frey - specialista in tuffi, non è una battuta - nella villa di famiglia a Nizza. Trampolino, due passi, saltello. Splash. Un uovo alla coque, se avete presente. Ahia.
Quella mattina il padre aveva ripulito la piscina e tolto gran parte dell’acqua. Ne era rimasta poca, di sicuro ad altezza bambino. Però si era dimenticato di dirlo al figlio. E dimmelo, no. Frey all’epoca stava all’Inter, era una giovane promessa. Quel tuffo gli costò le ultime tre giornate di campionato.
Una la saltò perché al collo aveva il collarino. Le altre due per punizione. E andò al Parma. Eh, Parma. Lì alle stramberie di Tino Asprilla c’erano abituati da un pezzo. Una volta tornò dalla Colombia infortunato. Prima versione: si è tagliato un piede passeggiando brillo al bordo di una piscina e pestando un vetro. Seconda versione: stava giocando con una pistola e gli è partito un colpo, che gli ha colpito di striscio le dita dei piedi. Se pensate ad Asprilla, sono verosimili entrambe.
Gonzalo Higuain - gita a Capri - si tuffò dal motoscafo e beccò in pieno uno scoglio. Otto punti di sutura. Martin Castrogiovanni, monumento del rugby, era a casa di un amico e si vide assalire da un cane. E no, Castrogiovanni non ebbe la meglio. Simpatico morso sul naso, quattordici punti di sutura. Non è che l’infortunio deve essere sempre clamoroso, da cartone animato.
Di Alessandro Nesta dissero che si era infortunato al tendine della mano giocando alla Playstation. Lui poi ha negato, adducendo l’infortunio ad una partita di Champions League; ma ammettendo di essere un giocatore compulsivo.
Però il suo amico e compagno di stanza in Nazionale, Andrea Pirlo, di recente l’ha smentito di brutto. Con affetto, ma l’ha smentito. “Eravamo con la Nazionale, avevamo giocato alla Play. Siamo andati giù a cena, Ale ha preso il piatto e gli è caduto. In pratica gli è crollato il tendine del polso”. Infortunio simile - tendine infiammato - anche per il "rookie" NBA, Neil Simmons.
Poi è chiaro che - se torniamo a Fantozzi - quando cominci a darti delle racchettate in testa - come fece il tennista Mikhail Youzhny - finisce che ti fai male. Capitò a Miami nel 2008, il moscovita cominciò a sanguinare copiosamente: scena splatter, ma volle comunque continuare. Sorpresa: vinse l’incontro.
Farsi del male da soli: come il giocatore di baseball americano Bobby Cruickshank che in una finale degli Anni 30 dopo un punto lanciò per aria la mazza per la felicità, ma si dimenticò di spostarsi quando quella cadde. Si chiama forza di gravità: testa sanguinante per Cruickshank.
Certo che quando ci si infortuna in maniera così banale e così sciocca e poi si perde un Mondiale, si può sfogliare il Catalogo delle Maledizioni e recitarlo a memoria, come una litania. Prendete Emerson, il Puma della Roma. Durante un allenamento con la Selecao si mise in porta. “Dai, vediamo se siete capaci di farmi gol”. Tiro di Ronaldinho. Questa la paro. Emerson si tuffò, lussazione della spalla, addio Mondiali in Corea-Giappone 2002.
Saltò la Coppa del Mondo, quella del 1970, anche Pietro Anastasi perché - versione girata ai giornalisti - un massaggiatore lo colpì con un asciugamano bagnato proprio lì: El Pube di Cristallo.
Con il ricevitore della MLB Brent Mayne siamo ai confini della realtà. Stava attraversando la strada e come ogni buon boy-scout guardò a destra e a sinistra, poi ancora a destra e poi ancora a sinistra. Daje e ridaje.
Dovette averci preso gusto, perché si infortunò alla schiena con il classico colpo della strega. Lo stesso colpo della strega che colpì Dida: era in panchina col Milan, si era alzato per raccogliere un pallone e - curiosamente - un altro portiere, l’inglese David James. Era a casa, stravaccato sul divano. Si allungò per prendere il telecomando sul tavolino: fuori due settimane.
Ancora baseball: un collega di Mayne degli anni 30 - Clarence Blethen - era solito togliersi la dentiera prima di giocare. Se la ficcava nella tasca dei pantaloni. Un giorno durante una partita scivolò all’indietro e - zag! - la dentiera si apre e gli morse il sedere.
Marco Asensio, talento del Real Madrid, si è sempre piaciuto troppo. In campo, ma pure a casa. Qualche anno fa saltò una partita di Champions per le conseguenze di una depilazione errata. Aveva esagerato e si era beccato un’infezione. Il suo collega Philippe Mexes si beccò un’infezione agli occhi per le troppe lampade solari.
È andata peggio a Paulo Diogo, in forza al Servette vent’anni fa. Dopo un gol lo sciagurato si arrampicò su per la rete di recinzione che divideva il campo dalla tribuna dei tifosi. La fede che portava al dito si impigliò sul fil di ferro, Diogo tirò con forza e - Nooooo! - perse due falangi dell’anulare. Provarono a riattaccarlo, ma niente. Beffa delle beffe: si beccò anche un cartellino giallo.
Il «campionissimo» Coppi, vita e morte del ciclista simbolo del dopoguerra italiano. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 settembre 2022.
La vita del campione italiano di ciclismo Fausto Coppi sarà raccontata dal documentario in onda oggi alle 21.10 su Rai Storia per il ciclo «Italiani». Coppi nasce a Castellania, Alessandria, il 15 settembre 1919: giovane garzone, a quindici anni compra la sua prima bicicletta. Diventa campione giovanissimo. A soli vent’anni, infatti, vince il suo primo Giro d’Italia: è il 9 giugno 1940, il giorno prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Coppi viene arruolato e trasferito in Africa: fatto prigioniero dagli Inglesi, trascorre quasi due anni in campi di prigionia.
Riesce a rientrare in Italia, a Napoli, solo alla fine del 1944. Finita la guerra, parte in bicicletta da Caserta e torna a casa a Castellania, in Piemonte, percorrendo oltre 800. Nel 1946, in un Paese distrutto, riparte il Giro d’Italia: comincia allora la mitica rivalità con Gino Bartali. Nel 1949 la consacrazione: Coppi è il primo ciclista ad aggiudicarsi Giro e Tour de France nello stesso anno ed è ormai per tutti il «Campionissimo». Collezionerà tante vittorie nelle classiche, nelle corse a tappe e il titolo di Campione del mondo su strada a Lugano. Importanti i primi anni ‘50 anche nella sua vita privata: a 28 anni muore l’amato fratello Serse, anche lui ciclista, durante una gara. Si separa dalla moglie, con cui aveva avuto una figlia, e inizia una relazione con Giulia Occhini, la «dama bianca». Il fatto suscita grande scandalo e problemi giudiziari. Dall’ unione, nel 1955, nasce il figlio Faustino. A fine 1959 Coppi partecipa a una gara in Africa. Qui contrae la malaria. Torna in Italia, ma la malattia, non diagnosticata, lo porta rapidamente alla morte il 2 gennaio 1960, a soli 40 anni.
L'epica del Giro che svelava la vera identità italiana. Andrea Muratore il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.
Curzio Malaparte in "Coppi e Bartali" raccontò nell'Italia postbellica la rinascita del Paese sulle tracce della rivalità tra i due campioni del ciclismo sulle strade del Giro.
Gino Bartali, Fausto Coppi e un dualismo rimasto nella storia fino ai giorni nostri, a simboleggiare le diverse anime dell'Italia della Ricostruzione: "Se Bartali è più uomo, Coppi è più sportivo", scriveva Curzio Malaparte nel suo racconto dell'Italia postbellica condotto con le lenti della rivalità sportiva più celebre del tempo. Bartali e Coppi pedalavano sulle strade di un Giro d'Italia divenuto, dal 1946, tra i simboli della ritrovata unità dell'Italia nata dalla Resistenza. Un Giro che affascinò Indro Montanelli, per diverse edizioni intento a seguirne la carovana, e stregò Malaparte, che nel suo Coppi e Bartali, traduzione italiana di un saggio pubblicato nel 1949 dalla rivista francese Sport Digest (Le deux visages de l’Italie: Coppi e Bartali), costruì un racconto del Paese nell'era repubblicana partendo da un dualismo noto anche all'estero.
"Democristiano" Bartali, "comunista" Coppi, secondo la vulgata dell'epoca. Ma per Malaparte questo dualismo è riduttivo. In Bartali e Coppi Malaparte vedeva due anime complementari del nostro Paese, due figli di due diverse province d'Italia capaci di portare un comune contributo alla riconciliazione nazionale. "Bartali appartiene a coloro che credono alle tradizioni e alla loro immutabilità, Coppi a coloro che credono al progresso", notava Malaparte, "Gino è con chi crede al dogma, Fausto con chi lo rifiuta, nella fede, nello sport e nella politica così come in ogni altro ambito". Il primo uomo dell'Ottocento nato per pedalare, il secondo uomo del suo tempo e atleta del Duemila in anticipo, per la cura spasmodica al dettaglio, ai particolari, alla preparazione atletica. E ancora, "Bartali crede all'aldilà, al paradiso, alla redenzione, alla resurrezione, a tutto ciò che costituisce l'essenza della fede cattolica" è per Malaparte come Montanelli il De Gasperi della carovana rosa, mentre "Coppi è un razionalista, un cartesiano, uno spirito scettico, un uomo pieno di ironia e di dubbi che confida solo in se stesso, nei propri muscoli, nei polmoni, nella buona sorte".
Per Malaparte Ginettaccio è un uomo nel senso antico e metafisico della parola, mentre Coppi è un meccanico, attento alla messa a punto del suo corpo-macchina. L'Italia che procedeva verso il boom economico tra tradizione e innovazione in larga misura scelse di fermarsi all'artigianato: in campo economico, con i distretti industriali; in campo sociale, con il placido rifugiarsi delle comunità all'ombra delle parrocchie e delle Case del Popolo; in campo sportivo, riscoprendo l'unità per mezzo della bicicletta ben prima che attraverso l'automobile e le grandi infrastrutture. Un'Italia che si trovava su più fusi orari storici, come sottolineato da Malaparte: "Mentre Bartali è passato dall'aratro alla bicicletta, Coppi, quando ha sposato la bicicletta, aveva già ripudiato la terra. Bartali è figlio di una zona della Toscana che è rimasta contadina, Coppi di una zona del Piemonte in cui il contadino appariva già tinto di spirito proletario".
E del resto l'Italia del tempo presentava molti dualismi di questo tipo. Dualismi che non sempre erano nati sulla scia di rivalità o competizioni, ma è difficile non vedere in fin dei conti in letture come quella di Malaparte (o Montanelli) dell'epica del ciclismo e dei suoi protagonisti la spasmodica ricerca di punti di riferimento capaci di identificare l'Italia con la rinascita figlia della fatica e dell'operosità. Come se fosse certo che, come ha scritto Contrasti, "nel susseguirsi di vittorie e sconfitte, trionfi e delusioni tra questi due titani della bicicletta, non possono che ritrovarsi le vicende umane, delle generazioni e dei popoli. Forse, come già Pindaro millenni prima, in questi atleti egli ritrova l’incarnazione della sofferta corsa degli uomini verso la pace, la libertà e la felicità". Una corsa paragonata a quella di un Paese intero che col duro lavoro sarebbe, proprio a partire dalla provincia, rinato dopo la distruzione bellica. La provincia, che è la vera natura dell’Italia, il liceo severissimo in cui la classe dirigente del Paese in ricostruzione si era formata (si pensi a Alcide De Gasperi, Enrico Mattei, Giorgio La Pira), era anche l'habitat naturale della rivalità Coppi-Bartali. Snodatasi per sentieri alpini ed appenninici, borghi e centri isolati nelle tappe lontane dalle grandi città. Capaci di ricondurre a unità un Italia figlia della sua anima più profonda, quella della particolarità, che nel sudore dei "girini" e nella dialettica tra campioni si riconosceva. Nel giorno in cui parte il Giro d'Italia, le parole di Malaparte parlano anche all'Italia della nuova Ricostruzione post-pandemica.
Gianni Oliva per “la Stampa” domenica 24 Luglio 2022.
Per l'anagrafe è Giulia Occhini, nata a Napoli il 23 luglio 1922, sposata Locatelli, due figli: per le cronache e per l'immaginario collettivo è la «Dama Bianca», donna fatale, seduttrice, maliarda, Circe, rovina famiglie, amante del «campionissimo» Fausto Coppi.
La storia (per nulla straordinaria) è quella di una relazione extraconiugale che matura e si consuma sino alla separazione dai rispettivi coniugi. Lei è una donna di fascino seducente, moglie di Enrico Locatelli, agiato medico condotto di Varano Borghi (Varese): accanto al marito, appassionato di ciclismo e tifoso «coppiano», conosce Coppi al termine della «Tre Valli Varesine» del 1948, ne ottiene l'autografo, poi segue alcune tappe del Giro d'Italia, inizia con il campione una corrispondenza epistolare, i due si incontrano.
Storia privata di un amore clandestino. Anche lui è sposato, sua moglie è Bruna Ciampolini, hanno una figlia, Marina, nata un anno prima: ma lui è «Coppi», il mito dell'Italia della ricostruzione, il fuoriclasse che, insieme a Gino Bartali, riscatta sulle strade del Giro e del Tour l'orgoglio di un'Italia massacrata dalla guerra fascista. L'amore non può restare segreto e, probabilmente, entrambi vogliono viverlo alla luce del sole.
Nella tarda primavera 1954 lei lo segue al Giro e, dopo la tappa alpina conclusasi a Saint-Moritz, un brillante giornalista de l'Equipe, Pierre Chany, prende spunto dal «montgomery» color neve indossato dalla donna e scrive: «Vorremmo sapere di più di quella "dame en blanc" che abbiamo visto vicino a Coppi». «Dama Bianca» è definizione vincente: sa di peccato e di sensualità, come tale entra nelle coscienze cancellando il nome anagrafico. Da quel momento la storia privata diventa scandalo pubblico: anatemi, pruriti, gossip, difese, schieramenti, demonizzazioni, inchieste, interviste, confidenze dei «bene informati».
Lui si separa consensualmente nello stesso anno: ma lui è un maschio. Lei, invece, la «Dama Bianca», viene denunciata dal marito per abbandono del tetto coniugale e per adulterio. I due sono sorpresi dalle forze dell'ordine nella residenza del campionissimo a Novi Ligure e la legge scatta inesorabile nella sua iniquità: per Coppi ritiro del passaporto, per Giulia Occhini un mese di carcere ad Alessandria, poi mesi di domicilio coatto ad Ancona, oggetto di ingiurie e villanie (persino il pontefice Pio XII interviene con una pubblica reprimenda). Sul piano privato, la vicenda evolve con il matrimonio celebrato a Città del Messico nel 1955 (mai riconosciuto in Italia) e con la nascita nello stesso anno a Buenos Aires di Angelo Fausto detto «Faustino».
Sul piano storico, invece, la vicenda è tutta da scoprire, perché riflette le contraddizioni di un'«Italietta» dove l'arretratezza sociale e culturale coesiste con lo sforzo di modernità alimentato dal «boom economico». In questa prospettiva, la storia della «Dama Bianca» è paradigmatica di un Paese a due velocità. Negli Anni 50 l'Italia è attraversata da un processo esplosivo in termini quantitativi: il Pil aumenta del 6-7% annuo, le «Seicento» e le «Cinquecento» Fiat sostituiscono le biciclette, gli elettrodomestici cambiano gli usi domestici, milioni di lavoratori si spostano da Sud a Nord rimescolando attitudini e gusti, le città industriali diventano metropoli. E' l'Italia della modernità e del progresso, che guarda ai modelli più avanzati dell'Europa. Ma è anche (forse soprattutto) l'Italia conservatrice, rurale, bigotta, imprigionata in una cultura che oscilla tra il perbenismo borghese e il tradizionalismo censorio.
E' l'Italia dove nell'estate del 1950 le cronache danno ampio spazio a un episodio avvenuto nel ristorante romano «Da Chiarina», in via della Vite, dove un giovane parlamentare democristiano destinato a diventare Presidente della Repubblica, Oscar Lugi Scalfaro, apostrofa con veemenza una signora bruna (Edith Mingoni in Toussan) che per il gran caldo si toglie un bolerino e resta con le spalle parzialmente scoperte.
Il deputato la affronta in modo brusco, accusandola di impudicizia, e l'episodio viene dilatato dall'informazione trasformandosi in un caso nazionale: denunce sui giornali, interrogazioni parlamentari, sfide a duello da parte del padre e del marito della donna (ufficiali dell'Aeronautica), discussioni sui limiti del pudore e sull'ostentazione delle «malefemmine».
E' la stessa Italia del «delitto d'onore», per cui «chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale» (art. 587 codice penale), beneficia di una pena largamente ridotta; è l'Italia che prevede (art. 544 codice penale) che il reato di violenza sessuale, anche se commesso a danno di una minorenne, venga estinto nel momento in cui lo stupratore accetta di «riparare» sposando la vittima (nel 1965 balzerà agli onori della cronaca una diciassettenne di Alcamo, Franca Viola, violentata e tenuta segregata per una settimana, che avrà il coraggio di rifiutare la «riparazione» e far arrestare il suo persecutore); è l'Italia che nel 1966 processerà a Milano tre studenti del liceo «Parini» per «oscenità a mezzo stampa» perché sul giornaletto della scuola, La Zanzara, hanno pubblicato un'inchiesta su ciò che gli studenti pensano dei «rapporti prematrimoniali».
Di questa Italia codina, la vicenda della «Dama Bianca» rappresenta il punto mediaticamente più rilevante per la notorietà del Campionissimo e per la disparità di giudizi. Dietro l'apparente divisione tra «innocentisti» e «colpevolisti» c'è un pregiudizio sottinteso: lui, per l'anticonformismo dell'atteggiamento, diventa icona della sinistra (contrapposto anche in questo al «cattolicissimo» Gino Bartali); lei, a destra e a sinistra, diventa il modello negativo della donna seduttrice, immorale, spregiudicata.
E' l'Italia di Don Camillo e Peppone, che deve fare ancora tanta strada per modernizzarsi: soprattutto, è un'Italia a due velocità, dove coesistono le lungimiranze della costituzione democratica del 1948 e le arretratezze del Codice Rocco. Non è questa la sede per domandarsi quanta strada è stata fatta da allora (una parte) e quanta debba esserne ancora fatta (molta di più): certo è che la vicenda della «Dama Bianca» è una pagina fondamentale della storia del nostro costume.
Se vogliamo capire l'Italia della «Guerra fredda», del «boom economico», dell'industrializzazione, della grande migrazione interna, dobbiamo partire da ciò che allora ha infiammato le discussioni, creato le partigianerie fra gli italiani: e da ciò che, forse, in positivo, ha insegnato a qualcuno che le relazioni extraconiugali non sono il peccato nato dalle tentazioni delle donne seduttrici, ma le scelte fatte insieme da un uomo e da una donna.
Unico risarcimento simbolico alla memoria: morta nel 1993 in seguito ad un incidente automobilistico nei pressi della Villa Coppi di Novi Ligure, la «Dama Bianca» è stata inumata nel vicino cimitero di Serravalle Scrivia e sulla lapide si legge «Giulia Occhini Coppi, 1922-1993».
Francesco Moser. Da ladige.it il 13 luglio 2022.
Francesco Moser e Carla Merz non sono più marito e moglie. Una delle coppie più famose e longeve del Trentino da qualche settimana e dopo 4 anni di separazione, si è ufficialmente sciolta.
I due ormai ex coniugi, hanno firmato infatti il documento di divorzio, mettendo la parola fine ad un'unione che durava da oltre 40 anni, e più precisamente da quell'8 dicembre 1980 in cui il campionissimo di Palù di Giovo, all'apice della carriera e la giovane Carla, erede di una delle famiglie più in vista dell'alta borghesia di Trento, consegnarono i loro "sì" ad una Piazza Duomo riempitasi all'inverosimile per festeggiare l'evento.
Ora, dopo la firma congiunta della separazione il 14 febbraio 2019, anche il vincolo matrimoniale fra Carla e Francesco è venuto meno, lasciando liberi i due ex protagonisti della favola del campione e della principessa, di tornare a pedalare nella vita non più in tandem, ma su biciclette diverse.
Francesco Moser divorzia dalla moglie Carla Merz dopo 41 anni. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.
La coppia si era sposata l’8 dicembre 1980, tre mesi fa aveva smentito il divorzio, ma era separata da quattro anni. La moglie sembra soffrisse la famiglia Rodriguez: il terzogenito Ignazio è fidanzato con Cecilia, sorella di Belen
Nessun paragone possibile con Ilary e Francesco. Ma anche loro, Francesco & Carla, sono (sia pure in modo diversissimo dai Totti) una coppia storica dello sport italiano che ha appena deciso di separarsi.
Francesco Moser e Carla Merz divorziano dopo quasi 42 anni di matrimonio. Lui uno dei grandissimi del ciclismo e dello sport italiano, lei elegante rampolla dell’alta borghesia trentina che si innamorò di questo ruvido figlio di contadini del borgo di Palù di Giovo che incantò l’Italia vincendo Giro, Mondiale, Roubaix e tanto altro. Lui sempre a zonzo per il mondo (anche dopo la fine della carriera, come testimonial o opinionista), lei — presenza discretissima — impegnata a crescere e bene i tre figli, Francesca, Carlo e Ignazio.
La coppia — separata dal 2019 — ha divorziato formalmente a inizio luglio. Al momento della separazione, i ben informati spiegarono che Carla soffriva la perdita della quiete familiare nel borgo in cui viveva da 40 anni trasformato in una sorta di buen ritiro della famiglia Rodriguez: il terzogenito Ignazio, infatti, ex promessa del ciclismo poi diventato modello e influencer, è da tempo fidanzato con Cecilia Rodriguez, sorella di Belen, e la coppia — con amici e parenti — soggiornerebbe spesso e volentieri nel maso di Palù.
Gli altri due figli, Francesca e Carlo, invece, si occupano attivamente dell’azienda vinicola di famiglia che sta raggiungendo — sia a livello qualitativo che quantitativo — una notevole eccellenza produttiva. Il destino dei coniugi Moser è lo stesso di tanti fuoriclasse del ciclismo italiano, come ad esempio Claudio Chiappucci e Gianni Bugno: attesi a una vita normale (e a una presenza in famiglia più continua) a fine carriera, non riescono ad abituarsi a ritmi ordinari e vanno sempre in fuga. La differenza è che il matrimonio con Carla è durato moltissimo. Come i Totti, anche i Moser (ma a parlare a giornalisti amici fu solo Francesco) tre mesi fa smentirono ogni voce di divorzio.
Francesco Moser e il divorzio da Carla dopo 41 anni: «Ma non ho nessuna nuova fiamma, lo garantisco». L’ex campione di ciclismo trentino di Palù di Giovo: «Non c’erano più le condizioni, ci siamo lasciati con serenità». Silvia M. C. Senette su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.
Nelle stesse ore in cui i riflettori italiani si surriscaldano per illuminare ogni scorcio della separazione tra il «pupone» Francesco Totti e il volto Mediaset Ilary Blasi, in Trentino a fare scalpore è la notizia del divorzio di un altro Francesco: il campione di ciclismo di Palù di Giovo, Francesco Moser. La coppia, apparentemente inossidabile, che il coriaceo pistard 71enne formava con la riservata e altolocata Carla Moser si è sgretolata al fotofinish, dopo una gara durata 41 anni e iniziata con quel «sì» pronunciato l’8 dicembre 1980 a Trento.
La crisi iniziata quattro anni fa
Il documento che «separa ciò che Dio ha unito», però, è solo «un atto burocratico del tribunale, l’ufficializzazione di un percorso di separazione iniziato quattro anni fa». A confermarlo è lo stesso «Sceriffo», raggiunto al telefono nelle vigne del suo Maso Warth, a Gardolo, in cui vive da solo. L’ormai ex moglie è invece tornata da tempo nella casa della sua famiglia di origine, lasciando quella proprietà in campagna che assieme, dopo i primi anni trascorsi da sposini in val di Cembra, avevano deciso di acquistare e ristrutturare. Lì Moser aveva creato con successo l’azienda agricola in cui oggi coltiva Moscato giallo, Müller Thurgau, Riesling, Gewürztraminer e Chardonnay, trasferendo dalle storiche cantine di Palù di Giovo l’arte vitivinicola avviata nel 1979. Una passione totalizzante, come nella tempra del grintoso ex ciclista su strada, ripresa una volta appesa la bicicletta al chiodo e che ha forse contribuito a raffreddare i rapporti con una moglie discreta e silenziosa, abituata a restare nell’ombra e a subire un confronto costante con priorità che la vedevano comunque seconda. «Se prima il ciclismo era la sua passione e lo accettavo, adesso mi pesa un po’ di più», ammetteva con sconfortata sincerità in una delle sue rarissime esposizioni mediatiche, ormai una decina d’anni fa.
Il campione: «Non c’erano più le condizioni»
Decisamente più disinvolto con fotografi e giornalisti, il campione delle due ruote — 273 le vittorie su strada nel suo palmarès — giura che, questa volta, la notizia del divorzio non è trapelata per sua volontà. «Sarà uscita dal tribunale — ipotizza Moser —. Di certo non l’ho data io. Anche perché non ho niente da dire: tanto la cosa è andata così e non c’è più niente da fare». Una velata amarezza che, nelle sue parole, si avverte a più riprese nonostante voglia precisare che i suoi rapporti con l’ex consorte siano piuttosto distesi. «Noi andiamo ancora d’accordo e qualche volta ci vediamo — spiega —. Ma ormai non c’erano più le condizioni e basta. Il nostro è stato un rapporto che è durato una vita, abbiamo avuto tre figli e molte soddisfazioni sempre condivise, però dopo trent’anni non c’erano più le condizioni che ci avevano uniti e ci siamo separati con serenità». L’ufficializzazione del divorzio era solo un passaggio burocratico, ma inevitabile. «Ormai avevamo cominciato un percorso che andava chiuso e l’abbiamo chiuso. Basta: non c’erano più soluzioni diverse da prendere in considerazione».
Nessuna nuova fiamma
Il pistard parla con serena rassegnazione. «Nessun pentimento — garantisce — È così e basta». Dentro di lui permane la convinzione e la soddisfazione di aver offerto ai tre figli, Francesca, Carlo e Ignazio, un modello di coppia e famiglia felice. «Siamo andati avanti per più di trent’anni senza mai problemi. Poi, però, è andata com’è andata. Va bene così. Dispiace solo che ora c’è chi avrà da ricamarci sopra, ma i miei figli hanno vissuto con noi questo cambiamento, sapevano che questo momento sarebbe arrivato. Oggi è inutile commentare quello che è stato, tanto non servirebbe più a niente». L’amarezza si stempera solo quando si sente domandare se ci si debba aspettare il colpo di scena di una nuova fiamma all’orizzonte. «No, no — ride di gusto —. Niente colpi di testa, niente di niente: escludo assolutamente di potervi stupire con qualche paparazzata».
Le parole del figlio Ignazio Moser
Molto distaccato e risoluto, invece, il figlio più giovane. Quell’Ignazio Moser su cui il padre campione aveva tanto puntato perché raccogliesse l’eredità del ciclismo agonistico ma che, dopo aver tentato di seguire le orme di famiglia (oltre a essere figlio di Francesco è anche nipote di Diego, Aldo ed Enzo e cugino di Moreno, tutti ciclisti professionisti), ha improvvisamente virato sulla strada del successo televisivo, avviando una carriera come opinionista, concorrente di reality, modello, conduttore e fidanzato di Cecilia Rodríguez, a sua volta sorella minore dell’arcinota Belén. Nonostante la sovraesposizione mediatica faccia parte del suo quotidiano, in questo frangente preferisce, comprensibilmente, sottrarsi ai microfoni. «Non vorrei parlare di vicende private — ammette —. Questa cosa riguarda i miei genitori, due persone molto riservate, e siccome so come funziona il mondo della comunicazione vorrei evitare che qualsiasi mia parola possa innescare un tam-tam di notizie che poi sarebbe difficile controllare. È una cosa loro ed è giusto che resti tra le pareti di casa». D’altronde in questo momento le sue attenzioni sono tutte per la compagna che proprio in questi giorni ha affidato ai social un messaggio tutt’altro che velato: «Sono prontissima a mettere su famiglia». Il record fissato dal grande campione è di 41 anni: chissà che Ignazio riesca a batterlo.
Moser compie 70 anni, i 12 fratelli, Saronni, il record dell’ora, il vino: 10 cose sul ciclista italiano che ha vinto più di tutti. Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera il 19 giugno 2021.
Ancora oggi è il ciclista italiano col maggior numero di vittorie su strada, battuto in campo internazionale solo da Merckx e Van Looy. Un campione che ha segnato un’epoca di dualismi, imprese e ricerche tecnologiche
La famiglia
Un Moser di Palù (frazione di Giovo, in provincia di Trento) non poteva che diventare ciclista. Sì, perché ben tre dei suoi dodici fratelli - Enzo, Aldo e Diego -, a livelli diversi, gareggiarono nel professionismo. Così anche Francesco – il più talentuoso di famiglia –, che pure si diede alla bici in età avanzata (18 anni), ma imponendosi quasi subito, in virtù delle proprie peculiarità: quelle del passista in grado anche di sprintare. E del discesista «implacabile». Lui che, relativamente alto e pesante, non potrà mai dirsi a suo agio sulle salite più «crudeli». In pochi mesi da dilettante è azzurro: ai giochi del Mediterraneo di Smirne (1971) subito argento e alle Olimpiadi di Monaco: ottavo in linea e nono nella crono a squadre. Premesse importanti per un baby-campione.
Il salto fra i professionisti e il Tour
L’anno dopo eccolo fra i professionisti (col fratello Aldo condirettore tecnico), vincendo la prima gara ufficiale: una tappa del Giro a Firenze. Nel ‘74 : primo al Giro del Piemonte, primo al Giro dell’Emilia e vincitore della classica Parigi-Tours. Nel 1975 la consacrazione fra gli emergenti: vittoria al Giro di Lombardia, Campione Italiano a Pescara, Trofeo Matteotti e due vittorie di tappa nel suo unico Tour de France (7° posto finale; Maglia Gialla per una settimana). «Ho sempre avuto sponsor italiani e ho scelto sempre il Giro — confesserà —. Un paio di volte ci abbiamo provato, ma c’era poco tempo per recuperare e avevamo anche pochi corridori. Non amavo molto le corse a tappe».
La consacrazione
A metà dei ‘70 il ciclismo mondiale è ancora dominato dal «Cannibale» Eddie Merckx che vince tutto e lascia poco agli avversari (in primis: Felice Gimondi). Così Francesco s’infila fra i due, come giovane outsider: nel ‘76 raccoglie la prima delle sei affermazioni alla «Sei Giorni» di Milano (in nove partecipazioni). Poi, nella storica maglia Sanson, vince tre tappe al Giro (Maglia Rosa per un giorno), finendo quarto nella generale. E al Mondiale su strada di Ostuni è secondo dietro Freddy Maertens, diventando però iridato nell’inseguimento su pista. Le sue caratteristiche di passista ben si sposano con le grandi classiche del nord Europa: nel ‘77 vince la prestigiosa Freccia Vallone; diventa iridato su strada “bruciando” allo sprint di San Cristóbal (Venezuela) Dietrich Thurau; consolandosi del beffardo secondo posto al Giro (dietro Michel Pollentier, che lo aveva staccato a Cortina d’Ampezzo). Nel ‘78 vince la prima delle sue tre Parigi-Roubaix, trionfa al Giro di Lombardia e si accontenta dell’argento ai Mondiali in linea (l’olandese Knetemann lo batte di mezza ruota). Poi arriva il 1979 ed esplode il suo storico rivale: Beppe Saronni (classe 1957) che a soli 22 anni, vince il suo primo Giro.
L’eterno rivale
Al Giro Moser vince tre tappe, è Maglia Ciclamino e Maglia Rosa per otto giorni, ma nella crono di San Marino cede al rivale che lo batte e lo supera definitivamente. I due più volte si punzecchiano davanti ai taccuini e alle telecamere: «Saronni non mi prenda per il c..., perché se io mi attacco alla sua ruota non gli faccio più vincere una corsa». L’Italia si divide. I bambini si sfidano in bici – «Io faccio Moser...tu sei Saronni»-, quasi tutti (anche i neofiti) prendono posizione. Si schierano. I due campioni hanno caratteristiche diverse (Saronni spinge di più in salita, ma è meno regolare). Nell’80 il dualismo si acuisce: Francesco vince la Tirreno-Adriatico, è secondo al Giro delle Fiandre, vince la terza Roubaix (sempre in solitaria) e punta al Giro, che va male: in Rosa cinque giorni, si ritira. Lo vince il francese Hinault.
Di passaggio
Seguono tre annate (dal 1981 al 1983) in cui il campione trentino sembra avviarsi verso un lento declino, si impone solo in alcune classiche minori (Giro dell’Umbria; Giro di Campania; Giro del Trentino) mentre Beppe Saronni emerge a scavallare la sua ombra (Campione del Mondo e vincitore al Giro nel 1982). E il dualismo non si assopisce. «Forse — spiegherà Saronni anni dopo — la rivalità fra noi era ancora più accesa di quello che scrivevano i giornali. Io mi divertivo a provocarlo, lui si arrabbiava tantissimo. Io ero percepito come il giovane che disturbava il campione predestinato...»
Il record dell’ora
Francesco Moser ha 33 anni: un’età che non prevede «colpi di coda». Ma non per lui: prima punta al record dell’ora su pista; e poi, sulla scorta della tenace preparazione per quell’impresa, vira dritto verso il suo «tabù»: la vittoria del Giro d’Italia. Nell’area rarefatta di Città del Messico, Francesco supera due volte il record (la prima, il 19 gennaio con 50,808 km; e quattro giorni dopo con 51,151). Lo fa spingendo la progettazione della sua bici ai confini col nuovo millennio. Fibre di carbonio e soprattutto: ruote «piene», lenticolari. Nel 2000 — per queste innovazioni — i suoi primati saranno cancellati; o meglio: «derubricati» a «miglior prestazione sull’ora». Ma in quel 1984 poco importa: l’Italia «da bere» gonfia il petto per il suo campione. E per la sua impresa atletico-tecnologica.
L’unico Giro
Dopo il record d’inizio anno il suo stato di forma è strabiliante. Vince la Milano-Sanremo e poi «schianta» Laurent Fignon al Giro d’Italia, sfruttando un tracciato che sembra disegnato per lui: salite meno «arcigne» e lunghe tappe per passisti. Decisiva l’ultima crono – con bici dalle ruote lenticolari – che gli permette di guadagnare 3” al km. E ottenere un distacco che lo mette in Rosa. Definitivamente. È il successo del campione maturo che fa felice metà dell’Italia ciclistica e commuove gli appassionati. Non solo: vinta una grande corsa a tappe, ora è un campione completo. Un obiettivo raggiunto, perfezionandosi negli anni.
Fine carriera
Gli ultimi anni di attività Pro seguono un declino ben gestito (ma inevitabile). E’ al Giro dell’85 ma, dopo un buon inizio in Rosa, il primato scivola via (sempre a vantaggio di Hinault); vince più tappe e arriva secondo con distacco nella generale. È primo al Giro dell’Appennino. Dopo un pregevole terzo posto alla Corsa Rosa dell’86 (con soli 12” di vantaggio su Greg Lemond) chiude nel 1988 con un palmarès unico; da leggenda.
La bacheca e il vino
Sono 273 le vittorie su strada da professionista di Francesco Moser. A tutt’oggi il ciclista italiano con il maggior numero di successi, davanti a Saronni con 193 e Mario Cipollini con 189; terzo assoluto a livello mondiale dietro Eddy Merckx (426) e Rik Van Looy (379). Terminata l’attività, svaniti due tentativi (a 42 anni) sul record dell’ora, tornerà alle vigne di famiglia e all’attività vitivinicola sulle colline intorno a Trento.
Anticipazione da Oggi il 5 maggio 2022.
La rivalità con Saronni? «Se invece di battagliare avessimo collaborato avremmo vinto di più… Non era un uomo di parola. Ho provato a fare dei patti con lui, ma non li rispettava».
Marco Pantani? «In salita era un fenomeno. Quando fu pizzicato con i valori sballati avrebbe dovuto accettare la sospensione e poi risalire in sella. Invece si comportò come se fosse vittima di un complotto».
Le gare di allora? «Era dura, era una lotta. I tifosi avversari ti venivano addosso, ti insultavano. Se erano a tiro gli mollavo un ceffone al volo. Ma le prendevo anche. Mi ricordo una volta sul Monte Bondone: un fan di Baronchelli mi sferrò un calcio sul ginocchio che mi fece vedere le stelle».
Francesco Moser parla al settimanale OGGI dei suoi Giri d’Italia, uno dei quali vinto nel 1984. E racconta le differenze tra ieri e oggi: «Eravamo ruvidi, ignoranti. Se volevi il rispetto del gruppo non dovevi tirarti indietro. Il trattamento era modesto: capitava di dormire in locande con i vetri rotti alle finestre... Io non avevo grandi esigenze... Al lusso non ero abituato…
Adesso girano più soldi, ma non li invidio: ai miei tempi si iniziava tardi. Io addirittura inforcai una bici da corsa che ero maggiorenne. Oggi iniziano ad allenarsi a 7 anni. Quando ne compiono 18 ne hanno abbastanza per averne piene le scatole prima ancora di iniziare davvero. E poi sono disciplinati, ligi agli ordini di scuderia, mai una parola di troppo. Io me ne fregavo: dicevo quello che pensavo».
Raymond Poulidor. Quell'eterno secondo sempre a ruota dei più grandi. PIERO MEI su Il Quotidiano del Sud il 4 Aprile 2022.
HA CORSO il Tour 14 volte e non lo ha vinto mai: eppure è salito otto volte sul podio (tre secondo, cinque terzo); nel 1964 ci andò vicino: perse per 55 secondi da Jacques Anquetil, pesò sull’esito il minuto di abbuono che “Jacquot” guadagnò sul traguardo della nona tappa, la Briançon-Monaco; alla fine, Poulidor sprintò e taglio il traguardo per primo. Ma non era la fine e neppure il traguardo. C’era ancora un giro di pista da compiere. L’acido lattico ebbe la meglio su Raymond, e il furbo Anquetil sprintò la volta giusta e si prese i 60 secondi che decisero il trionfo all’Arco di Trionfo, il luogo dove il Tour si conclude sempre a Parigi.
In quelle 14 volte, vinse sette fra tappe e semitappe: eppure non indossò mai, neppure un giorno, la maglia gialla. Una volta ci andò vicinissimo, la toccò quasi: fu quando, nel cronoprologo del 1973, a Scheveningen, in Olanda, alla fine dei 7,1 chilometri, l’olandese Joop Zoetemelk lo precedette appena di un secondo. Vinse anche molte altre gare, come la Sanremo o la Vuelta; però, giacché tante ne perse, fu “L’Eternel Second”; eppure i tifosi francesi l’hanno amato assai di più di quelli che arrivavano primi. Come il “maudit” Henri Pelissier, quello che si opponeva allo schiavismo degli organizzatori d’inizio secolo dicendo “non vogliono il cavallo ma il mulo, non il muscolo ma il callo”, concetto che potrebbe essere sottoscritto da molti campioni, non solo di ciclismo, del Terzo Millennio, quello dei mercanti. Pelissier morì “sparato” a 46 anni dalla fidanzata Camille, che ne aveva venti di meno, e che lo uccise con la pistola con la quale si era suicidata, due anni prima, Leonie, la moglie di Henri.
O come lo stesso Anquetil, l’elegantissimo “Jacquot”, sempre intorno belle donne e sul piatto ostriche (veniva di Normandia, del resto: Poulidor invece era un contadino dell’Aquitania, di un paesino, Masbauraud-Mérignat, 300 abitanti) la cui pedalata perfetta invitava i competenti a dire che “se gli metti una coppa di champagne sulla schiena, te la porta pedalando senza versarne una goccia” tale era l’equilibrio, mentre, dicevano sempre quelli, un bicchiere (d’acqua, ovviamente) sulla schiena di Poulidor, si vuoterebbe al primo colpo di pedale. O come Bernard Hinault, che chiamavano “le blaireau”, il tasso, perché come quest’animaletto se cerchi di prenderlo si nasconde nella tana e quando esce lo fa per morderti.
Hinault azzannò cinque Tour, tre Giri, un mondiale e una Roubaix fra l’altro. Poulidor, più delicatamente, era chiamato “Poupou”. Ha vinto meno corse ma più cuori, come fa ogni Ettore contro ogni Achille. La rivalità con Anquetil fu la più formidabile e storica nello sport francese: era negli Anni Sessanta; erano, a modo loro, Coppi e Bartali, il diavolo e l’innocenza come ha scritto un grande giornalista de “L’Equipe”, Pierre Chany. Venivano dalla campagna, ma Anquetil coltivava fragole (le “dispotiche fragole” le chiamava), Poulidor era più dedicato ai lavori pesanti, tanto pesanti che in famiglia non c’erano mai abbastanza braccia da far faticare e dovette abbandonare gli studi che pure gli piacevano. Anche a Jacquot, specie la matematica: una volta che vinse con 14 secondi di vantaggio fece subito di conto, “ce n’è tredici di troppo”.
Vincenzo Nibali, l'addio dello Squalo al ciclismo: le vittorie al Tour e al Giro, il rimpianto più grande. Cosa farà ora. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 6 Ottobre 2022.
Sabato al 116° Giro di Lombardia Nibali chiuderà la sua carriera. Ha vinto tutti e tre i grandi giri e le classiche monumento. È stato il più forte ciclista italiano dei tempi moderni
Nibali, l'ultima corsa
È l’ultima corsa: dopo diciotto stagioni da professionista (e dieci nelle categorie giovanili), Vincenzo Nibali (38 anni tra un mese) chiuderà la sua straordinaria carriera sabato al 116° Giro di Lombardia. Vincenzo è stato — al pari di Felice Gimondi, ma in un’epoca dove la concorrenza era enormemente più agguerrita — il più forte ciclista italiano dei tempi moderni. Come Felice, Nibali ha saputo vincere tutti i tre grandi giri e classiche-monumento diversissime tra loro come il Lombardia e la Sanremo mentre l'amatissima Liegi gli è stata scippata da un atleta poi rivelatosi dopato. Ha avuto coraggio lasciando Messina da adolescente, si è formato in Toscana e alla fine si è trasferito in Svizzera. Ha illuminato il movimento azzurro dopo gli anni bui del doping (restando sempre pulito) e l’ha tenuto vivo nelle ultimissime stagioni, quando il nostro ciclismo era decisamente in declino e senza protagonisti: di Nibali all’orizzonte non se ne vedono proprio.
Le squadre e lo staff
Nibali tra i professionisti è cresciuto alla corte di Giancarlo Ferretti alla Fassa Bortolo (2005), è rimasto per sette stagioni nella Liquigas (2006-2012), per quattro nell’Astana, dal 2017 al 2019 nella Bahrain e poi per due stagioni alla Trek-Segafredo. Per la sua ultima stagione il siciliano ha scelto di tornare con l’Astana di Vinokourov. Due le presenze chiave al suo fianco in carriera, quella del coach-mentore Paolo Slongo (fino al 2020) e quella che continua ancora oggi con il fisioterapista e confidente Michele Pallini che venerdì sera effettuerà il suo ultimo massaggio pre gara.
Debutto al Laigueglia, ultimo alla Liegi-Bastogne-Liegi
La prima corsa da professionista non si scorda mai: Vincenzo Nibali fa il suo debutto nel rutilante mondo dei pro il 15 febbraio 2005 al Trofeo Laigueglia. Ha 21 anni, veste appunto la maglia della Fassa Bortolo. Si piazza 35° nella corsa vinta dal lussemburghese Kirchen su Pellizotti e Tiralongo che più avanti diventeranno suoi compagni di squadra alla Liquigas. Il 22 marzo conquista la sua prima corsa a tappe, la Settimana Coppi e Bartali. Dal 17 al 24 aprile debutta in tre grandi classiche: l’Amstel Gold Race (si ritira), la Freccia Vallone e addirittura la durissima Liegi-Bastogne-Liegi dove arriva ultimissimo a 17’58” dal vincitore, quel Alexandre Vinokourov che poi sarà il suo team manager negli anni dell’Astana.
In carriera 1.354 traguardi
Palmares mostruoso a parte, il «motore» di Vincenzo Nibali è uno dei più potenti e resistenti del ciclismo moderno. In 18 stagioni di professionismo il siciliano ha pedalato per circa 570 mila chilometri di cui esattamente 221.060 in gare ufficiali. Nibali ha tagliato un traguardo per 1.354 volte nella sua carriera e ha una delle percentuali di ritiro più basse tra gli atleti in attività: per incidenti o malesseri (quasi mai per scelta tattica) è salito in ammiraglia solo nel 2% delle gare in cui è partito.
Le vittorie: 54 e tutte pesanti
Vincenzo ha vinto 54 corse: non tantissime in assoluto ma molto «pesanti». Il suo primo successo un anno dopo il debutto tra i professionisti: il 22 marzo 2006 conquista la seconda tappa della Coppi & Bartali a Faenza riuscendo a staccare il gruppo compatto. Alle sue spalle il russo Kushinski, Paolo Bettini e Ignacio Gutierrez. Il primo successo in una gara a tappe è il Giro del Trentino del 2008, dove batte Garzelli e Pozzovivo. La prima vittoria di rilevanza mondiale è il successo ad Asolo nella 14ª tappa del Giro d’Italia 2010 davanti al suo capitano Ivan Basso a Michele Scarponi e Cadel Evans.
Due Giri d'Italia, un Tour, una Vuelta
Nibali è uomo da grandi vittorie o grandi piazzamenti in grandissime corse inseguite con pazienza per anni e anni. Vincenzo ha disputato 11 Giri d’Italia vincendo quelli del 2013 e del 2016 e arrivando due volte secondo, due volte terzo e una volta quarto. Ha preso parte a nove Tour de France (1° nel 2014, 3° nel 2012, 4° nel 2015) e a sette edizioni della Vuelta, vincendo quella del 2012 e arrivando due volte secondo. Ha disputato 13 Milano-Sanremo, con la clamorosa vittoria del 2018 e un terzo posto, 15 Liegi (2° nel 2012 dietro a un kazako che poi si sarebbe rivelato dopato) mentre quello di sabato sarà il suo 14° Lombardia: ne ha vinti due ed è arrivato una volta secondo. Nel conto entrano nove campionati del mondo e quattro Olimpiadi.
Le cadute: una per la macchina fotografia di un tifoso
La carriera di Nibali non è stata tutta rose e fiori. Due le grandi occasioni agonistiche mancate, quella di una vittoria che sembrava certa ai Giochi di Rio de Janeiro 2016, quando cadde in modo rovinoso nella discesa conclusiva e si ritirò, e quella con cui si giocò il podio sempre nel finale ai Mondiali di Firenze del 2013. Nibali si fa male seriamente per la prima volta nel 2009, all’Eneco Tour procurandosi la frattura scomposta della clavicola. Poi c’è il celebre episodio del 19 luglio 2018 quando cadde con la bici impigliata nella cinghia della macchina fotografica di uno spettatore fratturandosi una vertebra. Nell’aprile 2021, poco prima del Giro, si frattura il radio del polso destro ma riesce comunque a prendere parte alla corsa rosa.
Nibali dopo il ritiro: creerà la sua squadra
Vincenzo Nibali vive a Lugano con la moglie Rachele e la figlia Emma. Non tornerà a Messina («Amo Messina ma adesso mi sta stretta») e non smetterà subito di andare in bicicletta: a marzo parteciperà con l’ex professionista Ivan Santaromita alla Cape Epic, una ultra maratona di mountain bike in Sudafrica. Il suo futuro è già deciso, sarà consulente del manager sudafricano Doug Ryder nella creazione di una nuova e ambiziosa squadra professionistica con base in Svizzera e ambasciatore del marchio di abbigliamento sportivo Q36.5.
Vincenzo Nibali al Giro d’Italia 2022: «Dopo il Covid sono crollato in bici, ma al ritiro non penso». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2022.
«Stavo male da delirare, ma ora sono pronto per il Giro. Smetterò senza preavviso, ora ho ancora voglia di correre. Non sono il tipo che pianifica gli addii»
«Dove sono oggi? Sulla luna. A 37 anni penso di averci passato quasi un anno e mezzo ad allenarmi. Quando sono atterrato per la prima volta, nel 2007, qui non prendeva nemmeno il telefono. Oggi c’è internet ma resta un posto abitato solo da ciclisti e astronomi».
Su quale versante della luna si trova, Vincenzo Nibali?
«Ai 2.152 metri della cima del Teide, a Tenerife: zero alberi, zero distrazioni, pochi esseri umani: perfetto per allenarsi e osservare le stelle, se reggi la solitudine. Sto concludendo le mie tradizionali due settimane di preparazione prima del Giro d’Italia. Domani volo a Catania per il Giro di Sicilia senza passare da casa».
La sua 18ª stagione da professionista non è cominciata benissimo.
«No. Ho disputato soltanto 12 giorni di gara, metà del solito. A febbraio ho contratto il Covid, curato a casa senza problemi apparenti. A contagio concluso, dopo essere risalito in bici, il tracollo: una notte sono stato così male che ho detto a mia moglie di chiamare l’ambulanza. Deliravo. I problemi alle vie respiratorie sono durati giorni e giorni. Mi sentivo uno straccio».
Ha approfondito?
«Credo che molti di noi abbiano sottovalutato l’infezione cercando di recuperare troppo in fretta, non a caso tanti colleghi sono fuori uso. Per questo, conclusa la Coppi & Bartali sono venuto in altura invece di gareggiare: volevo riprendermi completamente».
Ci è riuscito?
«Sì, ma sono in ritardo rispetto ai programmi. Correrò le quattro tappe siciliane, poi Freccia Vallone e Liegi, e poi volerò a Budapest per la partenza del Giro d’Italia. Negli anni ho imparato a fare buon viso a cattivo gioco: devi cavartela con quello che hai».
Tutti fragili tranne Pogacar che vola sempre e ovunque.
«È incredibile. In tv sembra che gli venga tutto facile, standogli a fianco ancora di più: non ho mai visto un corridore così dotato e così rilassato in gara. Mi ricorda me agli inizi, quando tutto veniva facilissimo».
Come fa un fuoriclasse a capire che un suo collega è ancora più fuoriclasse di lui?
«Nel caso di Tadej basta guardare come risale il gruppo, mi creda».
Punti deboli?
«Io sono entrato in crisi dopo la vittoria al Tour del 2014, quando per la prima volta ho sofferto la pressione esterna: prima mi addormentavo ovunque, poi tutto è diventato meno naturale».
Il Giro d’Italia quest’anno le dedica la 5ª tappa che arriva a Messina, a casa sua.
«Grande onore e grande emozione. Per me ormai casa è Lugano ma il mio cuore, i miei genitori e i miei amici sono in Sicilia. Con un solo cruccio».
Quale?
«I pericoli per chi pedala. Dieci giorni fa a Taormina un gruppo di 15 ciclisti (tra loro anche mio padre) è stato falciato da una macchina. Lui era in testa ed è rimasto illeso, sette sono finiti all’ospedale, uno è grave. Mi allenerò a Messina fino a Pasqua ma raddoppiando le attenzioni».
Lei dopo il Giro d’Italia ha in programma il Tour.
«Sulla carta sì. Ma ho deciso che dopo l’arrivo a Verona metterò un punto e deciderò il da farsi. Correre Giro e Tour significherebbe di fatto terminare la stagione a Parigi e invece io vorrei concluderla in maniera diversa, magari preparando bene il Lombardia che ho già vinto due volte».
Sarà la sua ultima stagione?
«Non rispondo mai, perché non so cosa rispondere. Anzi, non so cosa fare. Non riesco a pianificare il mio ritiro, come fanno altri atleti, a dire il giorno X dopo la corsa Y sarò un ex corridore. Penso a un finale che arrivi all’improvviso per ispirazione, ma non ho ancora capito da cosa dovrebbe essere ispirato».
Cosa le manca, lì sulla luna del Teide.
«Mia moglie e mia figlia, che non vedrò fino a Pasqua. Dopo 15 anni di Teide non mi sono ancora del tutto abituato alla solitudine».
Com’è il Giro di Sicilia che parte martedì da Milazzo?
«Impegnativo ma non durissimo, stimolante e insidioso. Come la Sicilia».
Ha sentito Sonny Colbrelli dopo l’arresto cardiaco?
«Gli ho scritto di godersi la famiglia, che per noi ciclisti è sempre lontana. Per pensare al ciclismo ha tempo».
Dagospia il 12 maggio 2022. Dal profilo Instagram di Marino Bartoletti.
Vincenzo Nibali, un po' emozionato ma sorridente (e alla fine anche commosso), ha appena annunciato nella sua Messina al "Processo alla tappa" che questo sarà il suo ultimo Giro d'Italia e che alla fine dell'anno si ritirerà dal ciclismo. Solo gratitudine per questo campione galantuomo che ha vinto tutto quello che poteva, che ha tenuto altissimo il buon nome del ciclismo italiano in anni non facili e che forse è in credito di un titolo olimpico e probabilmente anche di un titolo mondiale. Grazie Squalo buono! Regalaci ancora una pinnata d'orgoglio.
Nibali annuncia il ritiro dal ciclismo dopo l’arrivo a Messina. Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2022.
Lo Squalo lascerà a fine stagione: l’annuncio all’arrivo della quinta tappa del Giro d’Italia nella sua Messina. «Lascio il ciclismo, a cui ho fato tutto e che mi ha dato tanto. È arrivato il momento di restituire alla mia famiglia il tempo che ho dedicato alla bici».
Il bambino siculo cui papà Salvatore segò in due la bicicletta dopo l’ennesimo votaccio a scuola, scende di sella. Non oggi, non domani e nemmeno in cima a questo Giro d’Italia che è l’11esimo e l’ultimo (due trionfi, 4 volte sul podio); a fine stagione, probabilmente dopo il Lombardia già sbranato due volte (8 ottobre) e per i prossimi cinque mesi sarà nostra premura limitare i superlativi e ridurre la retorica al minimo sindacale però va detto: davvero come Vincenzo Nibali non ci sarà più nessun altro.
L’annuncio a Messina, il segreto di Pulcinella del veterano 37enne chiuso a chiave nel tascapane da Budapest («Aspettavo questo giorno, davanti al pubblico commovente della mia città»), poche sentite parole in diretta Rai («Chiuderò a fine anno, lascio il ciclismo») mordendosi il labbro per non piangere a dirotto come quel ragazzino che a 15 anni s’imbarcò in traghetto per il continente, direzione Mastromarco (Toscana) e ogni sorta di ben di Dio ciclistico. La tappa la vince il francese Demare di potenza su Gaviria (problema meccanico) e Nizzolo, lo spagnolo Lopez Perez si fa largo tra le granite e i cannoli di Via Garibaldi in rosa e in estasi («Il più bel giorno della mia vita»), la mozione degli affetti travolge Nibalino nostro tornato in blu Astana dopo i petrodollari del Bahrain e la parentesi Trek («Questa è la maglia che mi ha regalato tante emozioni», allude ai due Giri vinti e all’indimenticabile Tour 2014, in giallo dalla seconda tappa, un’esperienza surreale), compaiono improbabili compagni di scuola, sedicenti scopritori, parenti, amici di una vita, tifosi che lo abbracciano stretto per non farlo andare via: chi vincerà i grandi Giri per l’Italia dopo lo Squalo pensionato?
Ci sono Salvatore e Giovanna, naturalmente, i genitori del fuoriclasse che gestiscono una cartoleria dietro l’angolo, già meta di pellegrinaggi laici. Fioccano gli aneddoti («Giovanna mi regalò una bici Benotto, poi è nato Enzo e si è appassionato guardandomi pedalare» racconta il padre), cuore di mamma gronda affetto («Quello che decide mio figlio a me va bene»), nella residenza di Lugano sono rimaste sia la moglie Rachele che la figlia Emma, impegnata con scuola e pianoforte: verranno a Verona, capolinea di questo grand tour durato quasi vent’anni, una straordinaria campagna di acquisizione di trofei dalla Spagna (Vuelta 2010) alla Liguria (Sanremo 2018 con quel mitologico allungo sul Poggio), tra imprese, infortuni («Da quello sull’Alpe d’Huez ci ho messo un anno a riprendermi»), prese di coscienza: «Ritirarmi è una scelta meditata, va bene così. Ho dato tanto al ciclismo, sacrificando famiglia e affetti, è arrivato il momento di restituire ai miei cari il tempo che ho sottratto».
Sonny Colbrelli, compagno alla Bahrain per tre stagioni, manda saluti e baci dalla convalescenza («Magari adesso apriamo un negozio di orologi insieme, la nostra passione: hai ispirato un’intera generazione, sarà impossibile trovare un altro Nibali»), su Vincenzo tornato Enzino come all’inizio di questa storia piovono i messaggi di compagni, rivali, ex nemici, mentre sulla meritata Spoon river aleggia il ricordo di Michele Scarponi, l’amico che non c’è più.
L’Etna martedì ha scoperchiato i limiti del vecchio Squalo sdentato, che d’ora in poi (oggi si torna in continente) non ha più nulla da perdere: «Sul vulcano ho preso quattro minuti ma io questo Giro voglio godermelo. Vedremo se ci sarà spazio per puntare alle tappe...». Poi la sfida sarà inventarsi un’altra vita, a piedi, senza bicicletta e senza più cerette. Non tutti i mali vengono per nuocere.
Vincenzo Nibali visto da Gianni Mura. Cosimo Cito su La Repubblica il 12 Maggio 2022.
Perché il campione siciliano è stato qualcosa di diverso: le imprese e le vittorie "di qualità" al Giro e al Tour, ma anche le delusioni e le lacrime. Un ritratto e un viaggio nei ricordi attraverso gli articoli di Gianni.
Vincenzo Nibali è stato qualcosa di diverso. Non è stato uno dei tanti. Ha vinto meno – per quantità – di un medio velocista e ha vinto meno anche di Valverde, Gilbert, Sagan ha praticamente il doppio delle sue vittorie, Roglic l’ha superato, Pogacar lo supererà presto, e così Van Aert, Evenepoel, Van der Poel, e così hanno fatto anche Kristoff, Démare, per non parlare di Cavendish. Parliamo di numeri e quindi parliamo, quasi, del nulla.
Perché, sì, Nibali è stato qualcosa di diverso. C’è stata bellezza in tutto quello che ha fatto. Nel suo percorso di crescita, lento e costante. Ci ha messo cinque anni a salire sul podio del Giro, un tempo sconsiderato oggi, e ci ha messo molto per farsi “scegliere” dalla storia di questo sport. L’ha fatto, però, due, tre, quattro volte, e quelle restano piantate nel cuore e nei ricordi di chi c’era. Parliamo del giorno di Sant’Anna di Vinadio, quando attaccò sul Colle della Lombarda dopo, il giorno prima, aver ridato anima al suo Giro: aveva saputo al mattino della morte di Rosario Costa, un ragazzo del suo team giovanile. Al traguardo di Risoul pianse. Ma non bastava. Allora, a Sant’Anna, si buttò in discesa e come dimenticarli quei minuti lunghissimi che trascorsero tra la vetta e i piedi di quell’abisso?
Qualcosa di simile, anche se valse meno, accadde sullo Stelvio, l’anno dopo, nel 2017: un’altra discesa e un rivolo d’acqua letteralmente saltato con le ruote. Vinse. In discesa è il suo modo di vincere e servì anche a dimenticare Rio, ma anche il Mondiale di Firenze 2013, perso anche quello per una scivolata sull’asfalto bagnato. Nel Tour 2014, come scrisse Gianni Mura, “ha vinto a nord, a est, a sud”, con quel “volto andaluso” e con un’incredibile passione per questo dannato sport. Ecco la traccia che lascia Nibali: l’epica di alcune sue vittorie, anzi di tutte, l’etica del lavoro e l’aver superato un’intera carriera senza essere mai stato sfiorato neppure lontanamente da accuse, voci, sospetti e il pathos di alcune giornate, soprattutto qui al Giro: gli attacchi alla Nibali, una terza settimana alla Nibali, una vittoria alla Nibali, una discesa alla Nibali. Toccherà, in questi tempi grami – per noi italiani, non per il ciclismo certamente – chiedere una mano a Youtube. E ai vecchi articoli. Questa è una piccola selezione.
- Nibali, capolavoro finale. Mette la firma sui Pirenei, Parigi lo aspetta in giallo
- Una goccia che scava: l'anomalia di un italiano cresciuto nella fatica
- Nibali l'umile. Finalmente una gioia nel trionfo di Bernal
- La discesa stavolta è nemica. L'Olimpiade persa da Nibali nel suo giorno quasi perfetto
- Nibali, luce sul pavé: il padrone è lui
- Nibali compie l'impresa, una fuga da campione. "Può succedere di tutto"
- Nibali, che bel batticuore. Spettacolo sull'ultima salita, il Giro è di nuovo suo
- Il Giro a testa in giù. Nibali sullo Stelvio si regala una speranza
- Nibali dal Giro a Tokyo. "Il mio ultimo ballo"
Ciclismo, le mille storie di Vincenzo Nibali al Giro d'Italia
"Qui iniziai, qui finisco". Nibali fa il Giro d'Italia per salutare tutti i tifosi. Pier Augusto Stagi il 12 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il lungo, romantico addio a tappe dello Squalo che a fine stagione lascerà il ciclismo.
Non è un addio, ma una lunga e lentissima uscita di campo. Una sorta di ringraziamento lungo le strade d'Italia e non solo. Vincenzo Nibali ha scelto Messina (ieri vittoria allo sprint di Arnaud Demare, ndr), la sua Messina, per dare l'annuncio: «Questo sarà il mio ultimo Giro d'Italia, a fine stagione smetto».
La voce che si incrina e si fa flebile, le lacrime trattenute a stento che scendono a lui e, probabilmente, ai tanti appassionati che hanno seguito lo Squalo in questi anni. Si chiude una storia, che ora avrà un'appendice, tutta da godere, fino alla fine della stagione, in un'ipotetica e interminabile passerella di ringraziamento, perché questo sarà il resto di questo Giro, il resto di questa stagione. «Anche oggi in Sicilia ho avuto una accoglienza fantastica, il pubblico è stato davvero eccezionale. Sono emozionato, perché non capita tutti i giorni di arrivare con il Giro nella propria città: ho vissuto davvero emozioni... folli», ha detto commentando la tappa.
È un cerchio che si chiude, dopo diciotto anni di successi, diciotto anni di emozioni indimenticabili. Nella sua Messina, con la sua maglia quella dell'Astana - con la sua gente, con mamma Giovanna e papà Salvatore e il resto degli aficionados in ogni dove. Vincenzo annuncia in punta di piedi, con una punta di malinconia, il suo addio a fine stagione. Il magone che sale e che si fa ovo sodo, che si piazza lì e non va su e non va giù, che resta a mezza via, come qualcosa di dolce che si fa improvvisamente amaro. «Oggi sono qui, aspettavo da anni questa tappa, sapevo che ci sarebbe stata questa occasione. Voglio annunciare che questo sarà il mio ultimo Giro d'Italia e che chiuderò la mia carriera a fine anno. Penso che sia arrivato il mio momento, ho iniziato da ragazzino e aspettavo questa tappa per dare l'annuncio perché è in questa città che ho iniziato a pedalare. Sono andato via di casa a 15 anni per il ciclismo e penso di aver dato tanto a questo sport ed è giusto adesso che dedichi del tempo alla mia famiglia».
Lacrime che scendono lente e lievi, ad accarezzare la pelle: la nostra e la sua, quella di Rachele e di Vittoria, di tutti quelli che hanno apprezzato e apprezzano il campione che si è fatto Squalo. «La squadra è importante nel supporto di un corridore e anche i tifosi hanno la loro importanza, perché sono loro che ti aiutano certe volte a non rinunciare e a fare qualcosa di eclatante. Mi porto avanti con i ringraziamenti, e quindi li ringrazio».
Forse, oggi, anche chi ha sempre cercato il pelo nell'uovo, anche loro si uniranno a noi, come si fa nelle grandi famiglie: perché il ciclismo è una grande famiglia. Dal primo all'ultimo. Tutti assieme, accompagniamo il Nostro Enzo fino a Verona, fino a Parigi, fin dove volete voi, fin dove lui ci ha condotto, in un infinito ringraziamento bambino, che si è fatto adulto in una primavera che già profuma d'autunno.
Federico Danesi per "Libero quotidiano" il 12 maggio 2022.
Là dove era cominciato tutto, era anche giusto che tutto finisse anche se in realtà mancano ancora cinque mesi prima di chiudere il sipario. Ma Vincenzo Nibali non poteva che scegliere la sua Messina per dire basta, perché anche se da tempo vive nel Canton Ticino questa rimarrà casa sua per sempre.
«Ho aspettato la tappa di Messina, in realtà la aspettavo da qualche anno. Voglio annunciare che questo sarà il mio ultimo Giro d'Italia e a fine anno mi ritirerò. Ho raccolto tanto, cercando di dare il meglio di me. Il ciclismo mi ha sempre dato tanto, ma adesso è arrivato il momento di restituire qualcosa alla mia famiglia, ai miei amici, a chi mi è sempre stato vicino». Lo Squalo, per l'annuncio, ha scelto la sua terra ma anche un programma storico come il Processo alla Tappa che festeggia i suoi primi 60 anni.
Vincenzo ne compirà 37 a novembre, ma in realtà le ultime stagioni sono state faticose da portare avanti e anche poco appaganti. In gruppo dal 2005, può tranquillamente staccare la spina senza pentimenti perché nell'ultima decade ha vinto tutto. Ha cominciato con la Vuelta nel 2010 e chiuso con il Giro d'Italia 2016, mettendoci in mezzo un altro Giro nel 2013 ma soprattutto il Tour de France nel 2014. Prima di lui solo Felice Gimondi tra gli italiani era riuscito a mettere insieme i tre Grandi Giri in carriera. Non roba da poco.
I SUCCESSI GIUSTI Nibali non è un recordman di vittorie, ma ha scelto decisamente quelle giuste. Il Giro di Lombardia, tosto come lui e che porta la sua firma nel 2015 e nel 2017. Nessuno invece pensava che potesse fare lo stesso alla Sanremo e invece in quella del 2018 si è inventato il numero.
Da allora però, tanto fatica e soddisfazioni con il contagocce: la tappa del Tour a Val Thorens nel 2019, il Giro di Sicilia dello scorso anno, tutto qui.
In compenso è stato molto quello che ha regalato al ciclismo, soprattutto quando l'Italia aveva perso credibilità: «Ci sono state tante belle storie, tanti momenti speciali da vivere ma anche difficili con gli infortuni. In questo sport c'è il bello e il brutto, il ciclismo è passione, sacrificio, dedizione ma anche il tuo lavoro. Ora spero di poter fare in un modo diverso qualcosa per il ciclismo».
Restano alcune delusioni, come i Mondiali senza mai recitare veramente un ruolo da protagonista. Come le Olimpiadi di Rio che senza quella caduta nel finale difficilmente avrebbero visto Greg Van Avermaet mettersi al collo l'oro. Almeno però da oggi non potremo ricondurre tutto a lui e usarlo come scudo per difendere un movimento in rottura prolungata. A Messina, intanto, è stata volata, come era già scritto da tempo. Vittoria di Arnaud Démare (sesta tappa al Giro in carriera) su Fernando Gaviria. Terzo posto per Giacomo Nizzolo che si è trovato chiuso nel finale, e quarto per Davide Ballerini. In classifica generale resta al comando il giovane spagnolo Juan Pedro Lopez della Trek Segafredo. E oggi altra volata quasi certa a Scalea.
Sonny Colbrelli. Giandomenico Tiseo per “il Giornale” il 19 giugno 2022.
«Perché la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia». Vasco Rossi nella sua Sally rappresentava così quell'esile frontiera da varcare, in un labirinto di dubbi e incertezze. La vita è questo e, per chi compete, raggiungere la stabilità è complicato.
Il 2021 è stato l'anno dei trionfi italiani nello sport e chi si trova a raccontare le gesta degli azzurri deve costantemente aggiornare l'elenco dei successi. Il Bel Paese, dall'oscurità della pandemia, è stato abbagliato dalla luce delle vittorie di chi è riuscito a mettere insieme i pezzi del puzzle. L'ultima firma che viene in mente in ordine di tempo è quella di Sonny Colbrelli.
Lui, spesso piazzato, a 31 anni suonati si è tolto la soddisfazione di vincere la Regina delle Classiche, la Parigi-Roubaix. L'arrivo sul magico velodromo, il sigillo in volata e un urlo di gioia con la bicicletta rivolta verso il cielo sono stati gli ingredienti dell'impresa. La vittoria dell'uomo che sui pedali ha trovato la maturazione.
«Quest' anno la mia mentalità è cambiata. Ho chiesto il sostegno di un mental coach e dentro di me c'è qualcosa di diverso. Questo è ciò che ha reso il mio anno speciale», le parole del corridore, che ieri ha rinnovato con il contratto con la Bahrain Victorious fino al 2023. Non una novità. L'importanza di chi interviene nella testa è aspetto rilevante nell'annata dei sogni. Non si parla del druido Panoramix, ma di un preparatore che sa toccare le corde giuste da un punto di vista motivazionale.
Marcell Jacobs, oro olimpico a Tokyo nei 100 metri, ha rivolto i suoi pensieri a Nicoletta Romanazzi, ovvero colei che l'ha reso più tranquillo e concentrato in gara. Una maturazione di chi a 27 anni ha saputo guardarsi dentro e darsi una seconda possibilità. Percorso comune al compagno di Nazionale abbracciato poco dopo il trionfo, ovvero Gianmarco Tamberi (oro olimpico nel salto in alto).
Anche Gimbo deve ringraziare un altro mental coach, Luciano Sabatini, che c'è dietro la sua rinascita dopo l'infortunio che ebbe poco prima di Rio 2016. Sono questi i campioni dell'era pandemica, in grado di rialzarsi dalle cadute e di sublimare la ferrea determinazione nel raggiungimento del traguardo prestigioso.
Salute mentale, condizione indispensabile per centrare l'obiettivo. Ne ha parlato un altro esponente della second life, uscito distrutto da Barcellona '92, capace di risorgere dalle proprie ceneri ad Atlanta '96 con la doppietta olimpica nei 200-400 metri. Si parla di Michael Johnson che sul quotidiano spagnolo Marca nei giorni scorsi aveva svelato alcuni aspetti interessanti: «Mi ero allenato tutta la vita. Amavo il mio lavoro. Ma potevo fallire.
Potevo deludere i miei compagni. Ai Giochi di Barcellona avevo 24 anni. Ero imbattuto nei 200 metri da due anni, ero campione del mondo e favorito per l'oro. Poco prima dei Giochi ho avuto un'intossicazione alimentare. Dopo essermi ripreso, non pensavo che la malattia mi avrebbe colpito in pista. Mi sentivo bene. Fino a quando il colpo di pistola non ha dato il via. In quel momento mi sono sentito come se corressi nel corpo di qualcun altro. Sono passato ai quarti di finale, ma non sono arrivato in finale».
E quindi l'affondo: «La salute mentale è una questione che ci riguarda tutti. Quando si arriva al livello dove sono arrivato io, o dove sono Naomi Osaka e Simone Biles, fai il tuo lavoro davanti a milioni di persone». Pressione con cui convivere e da gestire, grazie al supporto di chi può indicare la via da seguire.
Filippo Maria Ricci per gazzetta.it il 22 marzo 2022.
Tranquillità. Questo è ciò che si respira all’Ospedale Universitario Josep Trueta di Girona, dove da ieri pomeriggio è ricoverato Sonny Colbrelli. Il ciclista della Bahrain ha passato una buona notte, e si è svegliato bene. La grande paura è alle spalle, l’umore positivo, anche se ovviamente c’è da capire cosa è successo ieri.
Un attimo dopo l’arrivo però ecco il dramma: Sonny si sente male. “Non ricordo nulla, mi sono accasciato e mi sono risvegliato in ospedale” ha detto il campione d’Italia alla Gazzetta ieri sera.
Dopo la rianimazione col defibrillatore per invertire l’arresto cardio-respiratorio, l’ambulanza ha percorso rapidamente i 35 chilometri per arrivare a Girona, dove Colbrelli è stato ricoverato. Non sappiamo ancora per quanto tempo dovrà restare qui in Catalogna. Bisogna fare gli esami del caso, per capire cosa ha portato all’arresto cardio-respiratorio e valutare tempi di recupero ed eventuali conseguenze. Grande incertezza, ma anche una relativa tranquillità dopo il grande spavento di ieri. Sonny sta bene, e questa è la cosa più importante.
Da ilnapolista.it il 23 marzo 2022.
La squadra di Sonny Colbrelli, la Bahrain Victorius, ha emesso un comunicato sulle condizioni del corridore italiano, colpito da un malore al termine della prima tappa della Volta a Catalunya. Secondo la nota, Colbrelli soffriva di un’aritmia cardiaca instabile di cui ancora non sono note le cause. Sarà sottoposto ad ulteriori test.
“Il nostro team medico può confermare che Sonny Colbrelli soffriva di un’aritmia cardiaca instabile che richiedeva la defibrillazione. La causa è ancora da definire e il ciclista italiano sarà sottoposto a ulteriori test all’Ospedale Universitario di Girona.
Il team desidera ringraziare Borja Saenz de Cos, infermiera d’emergenza presso il Sistema d’Emergencies Mediques) per la sua pronta assistenza al traguardo e per avere supportato il nostro staff medico nella gestione dell’incidente. La situazione clinica di Colbrelli è buona, gli auguriamo una pronta guarigione”.
Sonny Colbrelli e l'arresto cardiaco: «Come Eriksen: il cuore si è fermato, salvato dal paramedico». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.
Daniele Zaccaria, medico sociale della Bahrain-Victorius, spiega: «Senza l’intervento rapido e competente di Borja Saenz de Cos, il paramedico spagnolo che l’ha soccorso, Sonny non se la sarebbe cavata. Il problema è serio e andrà esaminato anche con valutazioni genetiche approfondite»
«Per capire cos’ha fermato il cuore di Sonny Colbrelli e la natura dell’aritmia che l’ha colpito servirà ancora qualche giorno, ma come con Eriksen non è detto che le risposte siano esaurienti. Una cosa è certa: senza l’intervento rapido e competente di Borja Saenz de Cos, il paramedico spagnolo che l’ha soccorso, Sonny non se la sarebbe cavata».
Daniele Zaccaria, medico sociale della Bahrain-Victorius, è a fianco del campione bresciano nel reparto di Cardiologia dell’Hospital Universitario di Girona, in Spagna. Colbrelli è crollato al suolo 200 metri dopo aver tagliato (2°) il traguardo della 1ª tappa del Giro di Catalogna lunedì 22 marzo. «Sonny sta bene — spiega Zaccaria —. Gli esami clinici, l’ecocardiogramma e la coronografia sono ok, lui ha pienamente recuperato la memoria e ricorda bene anche la volata. A noi però mancano alcuni elementi certi di valutazione: di certo il suo cuore si era fermato, di sicuro è ripartito solo col massaggio».
IL RITRATTO
Chi è Colbrelli: l'arresto cardiaco, la Roubaix, la fabbrica, l'obesità da bambino, Miami Vice
Resta qualche dubbio sull’uso del defibrillatore. «L’infermiere che gliel’ha applicato — spiega Zaccaria — sostiene che anche il defibrillatore automatico sia entrato in funzione e non abbiamo motivo di non credergli: aspettiamo però che venga scaricato il tracciato dalla memoria dell’apparecchio per avere dati più certi. In compenso, la “scatola nera” del computer di bordo non mostra anomalie fino alla fine della volata. I primi esami hanno escluso le ipotesi meno “importanti” come uno squilibrio elettrolitico o un attacco epilettico: quindi il problema alla base dell’arresto cardiaco è serio e andrà esaminato anche con valutazioni genetiche approfondite».
Colbrelli, che resterà in ospedale fino a fine settimana, ha interagito via social con i colleghi che gli hanno fatto gli auguri di pronta guarigione (da Viviani ad Evenepoel a Caruso) ma non ha postato nulla. Sui tempi di un suo eventuale ritorno in bici nessuno può pronunciarsi, di certo la stagione è terminata.
Cosimo Cito per “la Repubblica” il 28 marzo 2022.
Sonny Colbrelli è tornato in Italia a bordo di un aereo attrezzato con defibrillatore. Lo scarno comunicato della Bahrain Victorious, pubblicato ieri mattina, recitava così: «Altri esami verranno effettuati nei prossimi giorni in un centro di eccellenza italiano per la diagnosi e la cura delle malattie cardiovascolari».
Sarà il professor Domenico Corrado, direttore dell'Unità operativa dipartimentale per le cardiomiopatie aritmiche e Cardiologia dello Sport dell'Università di Padova a cercare di capire le cause dell'aritmia cardiaca che lunedì 21 marzo, dopo lo sprint nella prima tappa della Volta a Catalunya, a Sant Feliu de Guíxols, ha rischiato di ammazzarlo.
Fosse avvenuto in allenamento, in una corsa di livello inferiore, con gruppo più sfilacciato, senza cioè l'ambulanza immediatamente alle spalle, Colbrelli avrebbe avuto poche possibilità di sopravvivere. I soccorsi La prima volata della corsa catalana la vince l'australiano Matthews, il bresciano è secondo. Colbrelli è reduce da una forte bronchite, ha saltato la Milano-Sanremo, ma al Catalunya sembra il corridore brillante dell'ultimo anno.
«L'ho visto arrivare» racconta Gianni Marcarini, ex gregario di Poulidor che ora gira Francia e Spagna per vendere maglie del ciclismo e un suo libro di memorie, «volevo salutarlo, ci eravamo incontrati anche prima della sua Roubaix, mi sentivo anche un suo portafortuna. L'ho abbracciato, eravamo a 50 metri dall'arrivo, ma è scivolato a terra, aveva un piede ancora nell'attacco, le convulsioni, per pochi istanti ha anche continuato a pedalare con una sola gamba».
Marcarini ha poi visto arrivare i primi soccorsi, «l'ambulanza ci ha impiegato almeno 3-4 minuti, poi i sanitari hanno iniziato col massaggio cardiaco, gli hanno praticato un'iniezione di adrenalina, infine hanno usato un defibrillatore. L'ambulanza però non è ripartita subito, e ho pensato al peggio».
Il mezzo è arrivato a sirene spiegate all'ospedale universitario Trueta di Girona, un parallelepipedo arancione piantato accanto al riu Ter. Nelle ore successive i comunicati - più rassicurante quello del team, più allarmante e dettagliato quello della struttura - hanno inquadrato il problema: aritmia cardiaca instabile, arresto cardio-respiratorio, uso del defibrillatore. Al sesto piano dell'ospedale, tra pazienti di 84, 85, 77 e 79 anni, c'era anche il 31enne Colbrelli. Gli esami dell'equipe del dottor Brugada hanno dato «risultanze non definitive ». Vuol dire che non si sa, al momento, cosa abbia procurato l'aritmia: sforzo, il post-Covid, una malformazione congenita mai rintracciata?
Secondo un report della Società italiana di cardiologia dello sport, solo il 38% degli sportivi che richiedono l'idoneità sportiva conclude l'iter con elettrocardiogramma a riposo ed ecocardiogramma. Il 61% viene rinviato ad un secondo grado di giudizio e sottoposto a risonanza magnetica cardiaca, holter, coronarografia, studio elettrofisiologico endocavitario (SEF), test genetico.
L'ipotesi peggiore Ora Colbrelli dovrà ripetere tutti gli esami a Padova. E poi, probabilmente, dovrà sottoporsi a impianto di un defibrillatore sottocutaneo, come Eriksen. Secondo i "Protocolli cardiologici per il giudizio sull'idoneità allo sport agonistico", pubblicati dal Comitato organizzativo cardiologico, firmati anche dal professor Corrado, «l'idoneità sportiva dovrebbe essere negata negli sport a elevato rischio cardiovascolare».
A Eriksen, o anche all'astista tedesca Katharina Bauer, l'idoneità è stata concessa perché altrove non esistono protocolli così rigorosi. L'Italia è tra i pochi paesi d'Europa, anzi, a richiedere l'idoneità sportiva. Se non fosse italiano, con il defibrillatore Colbrelli potrebbe continuare a correre. La febbre Il 6 marzo Colbrelli aveva completato la prima tappa della Parigi-Nizza. A Mantes-la-Ville pioveva ed era freddo. «Ho parlato con Sonny in corsa» ha detto il belga Oliver Naesen, «e mi ha detto di non stare bene, di avere la febbre. È una cosa rischiosa partire in quelle condizioni con la febbre».
Colbrelli non si è mai dovuto fermare per Covid in questi due anni ed è vaccinato. La Parigi- Nizza l'avevano iniziata in 154 e, dopo 8 tappe, l'hanno chiusa in 59. Un virus stagionale ha eliminato il 38% dei partenti. Il gruppo sta male, ma bisogna correre per la squadra, per se stessi, perché niente allena più di una gara. Chi scende dalla giostra è perduto.
Gianni Bugno rivela: «Federciclismo mi ha offerto 30 mila euro per uno sponsor». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 3 settembre 2022.
Il caso provvigioni che ha portato alla denuncia e poi alle dimissioni di Norma Gimondi. Il campione di ciclismo: «Mi spiace essere fuori dal ciclismo, ma così non ci sto»
Gianni Bugno, uno dei campioni più amati della storia del ciclismo italiano, scandisce le parole con fatica e dolore: «Mercoledì scorso il presidente della Federciclismo, Cordiano Dagnoni, mi ha convocato nel suo studio a Milano. In via Rubattino c’erano anche Roberto Amadio, team manager delle nazionali, in collegamento video, e Mario Scirea, tecnico Fci. Mi hanno detto: “Gianni, c’è una provvigione anche per te: 30 mila euro”. Ho risposto: grazie, ma non mi dovete nulla. E me ne sono andato. Mesi fa gli avevo presentato lo sponsor Tci, per amore della maglia azzurra. Se volevano pagarmi potevano farmi un regolare contratto: ho la partita Iva. Uno di loro mi ha detto che sputo sui soldi, che tradisco un’amicizia. Mi spiace essere fuori dal ciclismo, ma così non ci sto». Si sbriciola il muro di silenzio sui 106 mila euro di provvigioni che il 6 agosto (secondo la Fci a causa dell’errore di un funzionario) la federazione aveva provato a far approvare al Consiglio federale senza averla mai messa in discussione. Dovevano essere liquidati alla società irlandese Reiwa Ldt. che — secondo il presidente Dagnoni — li avrebbe poi girati ad alcuni intermediari «senza partita Iva»: la Reiwa ha smentito tutto. Il caso esplose dopo le dimissioni del vicepresidente Norma Gimondi che bloccò l’approvazione. La Fci allora cambiò versione, annullò la delibera e attribuì al manager Amadio il procacciamento di due sponsor e a tre diversi soggetti quello degli altri.
Oltre a Bugno, ieri è intervenuto Luciano Modolo, titolare un’importante agenzia di intermediazione veneta. «La settimana scorsa — racconta Modolo — ho ricevuto una telefonata da Amadio che tra l’altro non rammentava nemmeno il nome della mia società: siamo la Futura Eventi, gli ho ricordato. Amadio mi ha comunicato che avevo maturato provvigioni per aver portato in federazione lo sponsor Acqua Dolomia. Bene, ma io non ho nessun contratto, nessun mandato da parte della Fci per poterle incassare: a che titolo ricevo il pagamento? Tra l’altro non so quanto mi spetti perché non abbiamo mai parlato di percentuali o ratei. Quando mesi fa Amadio mi chiese se conoscevo uno sponsor nel settore acque minerali, io gli segnalai Acqua Dolomia con cui lavoro da anni. Poi lui e la Fci sono scomparsi e io mi ero messo il cuore in pace: affare mancato. Ora mi dicono che dovrei incassare dei soldi…». Stando alle dichiarazioni di Bugno e Modolo — almeno nel caso di Tci e Dolomia (i due contratti quadriennali ammontano a diverse centinaia di migliaia di euro) — Amadio avrebbe provato a concordare una provvigione «a posteriori» senza mandato o accordo scritto. Per la Federciclismo le cose si complicano.
Gianni Bugno: «Da ciclista mi vergognavo dell'attenzione, fingevo di essere un camionista». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 9 marzo 2022.
L'ex campione di ciclismo, quando ha smesso con le corse ha fatto il pilota di elicottero: «Ho avuto un malore, forse per il Covid, e l'Enac mi ha sospeso la licenza di volo. Sono pronto a cominciare un'altra vita».
«Ho vissuto due vite: prima discreto ciclista, poi buon pilota di elicottero. Ora l’Enac mi ha sospeso la licenza di volo. Sono pronto per la terza vita». Il «discreto ciclista» Gianni Bugno (Giro d’Italia, due Mondiali, Sanremo, Fiandre e tanto altro) è uno dei corridori italiani più vincenti e amati di sempre.
Perché si tratta così male, Bugno?
«Ho letto Per non cadere, la mia biografia scritta da Tiziano Marino. Sa quanti episodi avevo dimenticato fingendo di non essere un ciclista?».
Cosa fingeva?
«Tu sei un camionista, mi dicevo quasi per sminuirmi. Mi vergognavo dell’attenzione attorno a me, temevo di risultare sbruffone. Mai guardata una mia corsa in tv, mai letto un articolo o un’intervista. Quando rivedo un filmato mi tappo le orecchie: odio la mia voce».
Bugno: «Io in bici con Indurain e Prodi»
È sempre stato così?
«Da ragazzino nascondevo trofei e fiori nei sacchi della spesa perché i vicini non li vedessero. Timidissimo, mi chiedo come ho fatto a diventare Bugno prima e pilota poi».
Come ha fatto?
«In bici e in volo mi trasformavo. Come i supereroi».
Perché è diventato pilota?
«Mi affascinava l’elicottero della Rai e dopo il Mondiale del 1992 ho cominciato a studiare. Primo volo nel 1995, pilota privato nel 1998, commerciale dal 2001».
Il bello dell’elicottero?
«Ogni volo ha mille variabili. Non è l’aereo, non ci sono automatismi».
Il ciclismo e le grandi rivalità, tutti i luoghi dove i campioni sono diventati leggenda
Quanto ha volato?
«Oltre 5.000 ore: trasporto passeggeri, dirette tv, piattaforme petrolifere, servizio in montagna e tanto elisoccorso.
Dicono che sia un fenomeno anche in volo.
«Ho cominciato tardi, ho lavorato il doppio per diventare bravo».
Per salvare vite umane bisogna…?
«Essere in forma, giocare in squadra, rispettare il protocollo, non superare i limiti».
La routine?
«Turni di 12/13 ore. Ricevi l’allarme, accendi il motore, aspetti l’ok della torre di controllo e decidi se alzarti o no».
Decide?
«Sì, con il meteo brutto devi essere certo di farcela. Qui non sei in bici: nelle tue mani c’è la sicurezza di altri».
Cosa preoccupa un pilota?
«La nebbia: sulle piattaforme dell’Adriatico ti avvolge in pochi attimi».
È difficile rifiutare una chiamata?
«È difficile resistere alle pressioni di chi chiede aiuto, del committente, del proprietario. Pensi al pilota del povero Kobe Bryant. Se decidi di no, non devi cambiare idea».
Spazio per l’emozione?
«Quando soccorri i bambini. Ma dura un attimo».
Atterraggi e decolli più difficili?
«In autostrada. Coordinarsi con la Stradale per evitare altri incidenti è complesso».
Perché non vola più?
«Perché il 27 aprile 2020 a Latina ho avuto un mancamento smontando di turno».
Cos’è successo?
«I miei medici dicono che il malore è stato una conseguenza del Covid e non si ripeterà. L’Enac però non mi riabilita e non posso volare».
E quindi?
«E quindi si ricomincia».
Cosa vorrebbe fare?
«Magari aiutare i tanti atleti che vedono buio dopo la fine della carriera. È un problema serio. Vorrei insegnare loro che il futuro va costruito con umiltà e tanto studio e che dopo lo sport ci può essere un futuro diverso e avvincente».
Non vuole dedicarsi alla famiglia, insomma?
«Quale? Ho due figli — bravi e autonomi —, un nipote, due ex mogli, ex compagne. Sono in buoni rapporti con tutti ma nelle separazioni ho colpe: troppo assente per essere un buon partner. Sono uscito di casa quarant’anni fa e non sono ancora tornato. Voglio lavorare».
Marco Bonarrigo per corriere.it il 14 febbraio 2022.
«Vuol sapere dove parte la Corsa della Questura? Esca da Porta Maria, imbocchi la rotonda e poi tenga la sinistra verso il parcheggio di via Marchi. Non può sbagliare. Ma mica vorrà partecipare? Non è una passeggiata, si fidi». Per il signor Poli (Bici Poli), che tu chieda indicazioni per raggiungere il Duomo di San Martino o la «Questura» è uguale: a Lucca sono entrambi monumenti storici.
Fino a dieci minuti prima delle 14, al Q8 di via delle Tagliate non c’è ombra di ciclisti. Poi, da lontano, si avvicina il primo, magro e tiratissimo. Poi altri due, poi uno sciame. Età? Dai trenta ai sessanta abbondanti. Bici dai 4 mila euro in su, carbonio a gogò, cambi elettronici, abbigliamento tecnico.
Una gara senza regole e clandestina
Alle ore 14 il via: tutti scattano come se non ci fosse un domani e nemmeno il semaforo, 400 metri più avanti. L’obbiettivo è tornare a Lucca il più velocemente possibile, dopo 73 chilometri. Sul tracciato vale (quasi) tutto, il Codice della Strada viene interpretato secondo (in)coscienza con l’unica certezza che quando il gruppo comincia a frammentarsi se perdi la ruota di chi ti sta davanti vai alla deriva.
Da quarant’anni, ogni mercoledì (primo pomeriggio) e domenica (mattina) a Lucca si svolge una corsa senza pettorali, organizzatori, freni e soprattutto regole.
Nel suo genere, la più famosa d’Italia. Sulla Questura, al compianto Franco Ballerini si attribuiva una frase: «I professionisti che vengono qui dovrebbero pagare l’iscrizione». Michele Bartoli, uno dei più grandi corridori da classiche dell’ultimo scorcio di secolo, ha nel palmares due Lombardia, due Liegi e un Fiandre: «Ci ritrovavamo davanti alla Questura io, Ballerini, a volte Gianni Bugno in trasferta, poi Sorensen, Cipollini, Sciandri e altri. L’obbiettivo era simulare il ritmo tiratissimo di una gara. Da soli non ce l’avremmo fatta quindi arrivavano una trentina di amatori a darci una mano. Per loro arrivare in fondo con noi (con quelli di noi che non si staccavano) era come vincere la Roubaix».
Il Giro della Questura si corre due volte la settimana su un percorso di 73 km con 250 metri di dislivello. Si esce da Lucca, si segue il Serchio fino a Migliarino Pisano, si svolta a destra costeggiando l’autostrada fino a Torre del Lago, si attraversa Viareggio e arrivati al Lido di Camaiore si piega a destra su Camaiore. Da lì si sale a Montemagno e poi a San Martino in Freddana da dove si scende su Lucca passando per Mutigliano.
Il Giro della Questura si corre due volte la settimana su un percorso di 73 km con 250 metri di dislivello.
Si esce da Lucca, si segue il Serchio fino a Migliarino Pisano, si svolta a destra costeggiando l’autostrada fino a Torre del Lago, si attraversa Viareggio e arrivati al Lido di Camaiore si piega a destra su Camaiore. Da lì si sale a Montemagno e poi a San Martino in Freddana da dove si scende su Lucca passando per Mutigliano.
Perché si chiama così?
La corsa si chiama così perché un tempo partiva davanti alla questura di via Cavour. Ora come allora, sfida all’ultimo sangue: i nomi del primo, secondo e terzo di ogni tornata passano subito di bocca in bocca tra i ciclisti lucchesi, tra i più ferocemente agonisti d’Italia.
Da dieci anni, da quando esiste Strava — il social network delle due ruote — ogni partecipante munito di computer e di un ego social sviluppato lascia le sue tracce sul web: quanto ci ha messo, che potenza ha espresso sul Montemagno, a che velocità è sceso verso Mutigliano.
La Questura non è più quella di una volta, dicono i più anziani. In parte è vero: dal 1995 al 2010 Lucca era per i professionisti quello che oggi sono Montecarlo o Lugano. Oltre agli stanziali, ci abitavano il sulfureo Bjarne Riis che vinse il Tour del 1996, poi — a periodi — il colosso Ullrich e a lungo Mark Cavendish. Ora i big vivono altrove ma alla Questura non si scherza lo stesso.
Il percorso
Eccoci a 45 chilometri all’ora a costeggiare il Serchio in direzione Migliarino e poi a destra per puntare su Torre del Lago e poi Viareggio, dove si piega a destra per San Rocchino per evitare l’Aurelia proibita alle due ruote: in macchina perdi contatto al primo semaforo, in bici qui si staccano in pochi.
La battaglia comincia dopo Camaiore, dove inizia l’unica salita, quel Montemagno dove i più in forma salgono di rapportone e la discesa su Lucca dove si cerca (a volte pericolosamente) di recuperare. Lo sprint al distributore di Monte San Quirico è immancabile. Il percorso della Questura ha primati certificati, appunto, da Strava. Il recordman (il tempo è poco superiore all’ora e 40’, a 42 pazzeschi chilometri orari di media, salite e semafori compresi) è un cinquantenne lituano naturalizzato toscano, quel Raimondas Rumsas che vinse il Giro di Lombardia del 2000, fu terzo al Tour de France del 2002 per finire poi coinvolto in (tristi e luttuosi) fatti di doping.
I partecipanti
Ma ci sono anche altri volti noti, come Stefano Cecchini, rampollo di una delle più note famiglie lucchesi e figlio di quel Luigi (alias Dottor Cecco) che è stato allenatore e mentore di quasi tutti i fuoriclasse del ciclismo dal 1990 al 2000. Ma anche l’ex pro russo Bazhenov, Mario Cipollini, il (velocissimo) imprenditore Matteo Pomini — Confcommercio — e avvocati, notai, imprenditori, dirigenti pubblici. Perché da sempre — a Lucca — il ciclismo è come il golf: roba per gente che conta. «A Lucca — conclude Michele Bartoli — è sempre stato così: fare un buon tempo alla Questura è una cosa di cui vantarsi nei circoli più esclusivi».
"I miei 90 anni a 300 all'ora e quei consigli di Enzo Ferrari". Pier Augusto Stagi il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Mercoledì all'Università Bocconi verrà festeggiato il Drake delle biciclette: "Lui mi disegnò le forcelle su un tovagliolo..."
È il Benvenuto Cellini della bicicletta (copyright Gianni Brera), per tutti è molto semplicemente il Maestro, anche se mercoledì prossimo Ernesto Colnago sarà professore, fors'anche per un sol giorno Magnifico Rettore della Bocconi, che l'ha invitato in pompa magna per festeggiare i suoi primi novant'anni. Oltre al rettore, quello vero, Gianmario Verona e al professor Tito Boeri, ci saranno in presenza e in remoto Beppe Saronni iridato '82, il ministro per l'Innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao, oltre al professor Romano Prodi e all'ex presidente della Ferrari, Luca di Montezemolo. Saranno in tanti a festeggiare il simbolo della bicicletta nel mondo, volto sempre a guardare avanti a sé, nonostante alle spalle abbia una storia difficile da condensare in poche righe di intervista. Ed è questa la cosa più difficile. La più facile e scontata è chiedergli subito come ci si sente dopo novant'anni di storia.
«Mi sento sorpreso, perché mi sembra quasi impossibile essere arrivato ad un traguardo simile. Me ne sento almeno venti di meno».
Sorpreso della Bocconi che la vuole onorare?
«Orgoglioso e intimorito: sarò all'altezza? Beppe Saronni, un campione che io da sempre considero come un figlio, ha sempre detto che la mia storia andrebbe raccontata nelle scuole: il suo desiderio sta per realizzarsi».
Prima l'Onu che l'ha appena premiato come ambasciatore della bici, adesso la Bocconi
«Pensi, un piccolo artigiano che ha cominciato la sua storia in un bugigattolo di cinque metri per cinque».
Un nome: Giorgio Albani, per Gianni Brera, il primo abatino della storia.
«Nel 1955 Giorgio, professionista di buon livello, mi invitò a pedalare con Fiorenzo Magni. Ad un certo punto ci fermammo a una fontana, Fiorenzo si lamentava per un fastidioso dolore alla gamba e io, molto timidamente e dandogli del lei, gli feci notare che aveva una pedivella storta. Albani esortò Fiorenzo: «Andiamo nella sua bottega per sistemarle». Fiorenzo in verità si rifiutò di entrare: «Non porto la mia bici in quel bugigattolo», disse. Poi si convinse, riparai la pedivella e ripartì. Fece un intero allenamento senza fastidi. Il giorno dopo mi mandò a chiamare da Isaia Steffano, il suo massaggiatore: il signor Magni ti vuole al Giro. Da lì cambiò la mia vita».
Tante le vittorie: quasi 60 titoli mondiali, 18 olimpici, oltre 800 successi. Molti di questi firmati Merckx.
«Eddy non è stato solo un grandissimo campione, ma è stato tra i pochissimi campioni a stimolarmi nella ricerca».
Prima Fiorenzo Magni ed Eddy Merckx, poi Enzo Ferrari: un altro che le ha cambiato la vita.
«Mi ero messo in testa di fare un telaio in carbonio. Chiamo Mauro Forghieri, all'epoca direttore tecnico della Ferrari, e ci incontriamo appena fuori Modena, alla trattoria La Rustica. Spiego a Forghieri che vorrei incontrare il Drake per parlargli della mia idea. Il giorno dopo ci ricevono. Io ero con mio genero Vanni e Beppe Saronni. Con il Drake c'erano suo figlio Piero e Forghieri. Gli esposi la mia idea, e la cosa che mi colpì è che mi rispose parlandomi in brianzolo, visto che ai tempi della Alfa Romeo aveva vissuto a Milano. Nacque lì una collaborazione durata trent'anni grazie a Ferrari Engineering e al mio amico Luca di Montezemolo».
Cosa ricorda di quell'incontro risolutivo?
«Gli rivelai imbarazzato di aver già superato i 50 anni, quindi di non essere più un ragazzino. Lui mi rimproverò: «Vergognati! mi disse deciso -. È l'età in cui ho cominciato a fare le cose migliori». Poi quando fummo a tavola, al Cavallino, fu lui a esortarmi a fare la forcella anteriore dritta. La disegnò su un tovagliolo al ristorante, mangiando mortadella: tornai a casa, ci pensai bene. E il mattino seguente la realizzai».
La vittoria che porta dentro?
«La Sanremo del '71 di Michele Dancelli, il record dell'ora di Merckx, i due Tour di Tadej Pogacar e la Parigi-Roubaix del '94, dopo una vigilia parecchio tribolata. I corridori non si fidavano a correre sul pavé con le bici in carbonio e soprattutto con la forcella dritta. Dopo un confronto franco con l'amico Giorgio Squinzi, il giorno dopo corremmo con bici in carbonio e forcella dritta e Franco Ballerini firmò un successo storico».
Cos'è per lei la bici?
«Come diceva Enzo Ferrari, il mezzo più perfetto che sia mai stato costruito. Le bici fatte bene e con cura, sono uniche».
Tanti gli uomini che ha incontrato lungo la sua strada, chi ha più a cuore?
«L'uomo che mi ha cambiato la vita è una donna: Vincenzina, mia moglie. Con lei ho fatto tutto. Da cinque anni si è solo allontanata, ma c'è. Siamo stati proprio un bel tandem». Pier Augusto Stagi
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 12 dicembre 2022.
«Per favore, chiedigli tutto quello che vuoi, ma non di Agassi». A volte, ti facilitano il lavoro. La gentile assistente che lo accompagnava durante il suo ultimo tour italiano si preoccupava della sua pressione, di non fare incupire un uomo giunto ormai alla soglia dei novant' anni.
Ma quel nome era la ragione che mi aveva portato a chiedere di poter intervistare la leggenda degli allenatori di tennis. Perché ai miei occhi Nick Bollettieri, scomparso la settimana scorsa, non era solo l'inventore dei picchiatori da fondocampo che oggi sono la razza e lo stile dominante, l'uomo che ha cambiato il tennis creando campioni su campioni, la maggior parte dei quali quasi incapaci di colpire una palla al volo, ma questo è un altro discorso.
Non era solo «il padrino», come veniva chiamato nel circuito in onore della sua veneranda età, infaticabile costruttore del proprio monumento, dedito sempre all'amabile recita di sé stesso. Per me è sempre stato una figura di frontiera, un passeur che per tutta la vita non ha fatto altro che camminare avanti e indietro su quel lago per definizione ghiacciato che è il rapporto tra padri e figli, su una superficie resa ancora più sottile dal tennis, sport del diavolo non perché una partita può cambiare in un momento, ma per le ossessioni che riesce a far degenerare in un attimo.
Era questo che mi interessava, e ancora oggi non ha smesso di farlo. Non c'è bisogno di scomodare i classici della letteratura, o di infilare qualche citazione sul fatto che tutti noi siamo il risultato della nostra relazione con chi ci ha messo il mondo, e che senza saperlo ci trasciniamo dietro ricordi, dolori e gioie di una vita passata illudendoci invece di essere numeri primi. Il tennis non è che un incubatore estremo di questo groviglio dal quale si dipana l'esistenza di ognuno.
E il vecchio Nick ne era il gran sacerdote, abituato da sempre alla mediazione con padri e madri pazzi d'amore convinti che il loro piccolo fosse un predestinato, con genitori che facevano sacrifici disumani pensando di realizzare sé stessi attraverso i loro figli, di famiglie che gli affidavano i primogeniti solo per calcolo economico e voglia di riscatto sociale. Ci aveva costruito sopra la propria fama e un notevole patrimonio, uscendone indenne. O quasi.
Perché è sempre stato chiaro che la sua era stata una esistenza vissuta in una sorta di transfert. La famosa accademia di Bradenton, oggi ce n'è una ad ogni angolo ma all'epoca fu la prima e rappresentò il primo passo verso la privatizzazione del tennis, era la sua vera casa. E i ragazzi che ci avevano vissuto in cerca di fortuna, come se fossero suoi figli. Non ricordava i nomi delle sue ex mogli, ne aveva avute otto, e faceva fatica anche con la sua vasta prole, sette figli per tacere dei nipotini.
Ma quando gli si nominava ognuno dei suoi tennisti, gli si accendeva lo sguardo. Tutti tranne uno. Il più amato. Andreino Agassi, che nella sua celebrata autobiografia, quell'Open che gareggia per il titolo di miglior libro mai scritto sul tennis, gli aveva riservato parole come scudisciate sulla pelle viva, dipingendo quel centro sportivo come «un campo di prigionia nobilitato, e neanche poi tanto», si era fatto beffe del suo presunto umanesimo rivelando quanto fosse ridotto a Bradenton lo spazio per lo studio e la scuola, e in ultima analisi lo accusò di essere diventato famoso sfruttando la sua fama.
Bollettieri ha sempre detto di non avere mai letto quel libro. Ed è sempre stato evidente che si trattava di una bugia.
Lo sapeva quasi a memoria, invece, almeno nell'ampia parte che lo riguardava. Così, nel circolo milanese che lo ospitava, dopo avere atteso che finisse i suoi novanta addominali giornalieri, che finisse il suo frugale pasto a base solo di mozzarella mentre esibiva un italiano da broccolino, «niente miezz' e mezzo, portamele intere, paisà» diceva al cameriere, una volta soli arrivò il momento di fargli quella domanda. Sui padri, e sui figli. Sul suo Agassi.
Chissà perché, ma rispose con una tale veemenza, quasi fosse stato punto sul vivo, più di altre volte, che sembrò quasi dismettere la sua maschera da Sogno americano, denti smaltati e abbronzatura da Florida, per tornare a essere nient' altro che Nicholas James, nato nella peggiore periferia di New York da Rita De Filippo e James Thomas Bollettieri, ex cameriere, ex studente di filosofia, ex soldato, uomo colpito nei sentimenti dalla sua creatura più importante, dal tennista con i capelli colorati attraverso il quale aveva raggiunto la consacrazione a guru e vissuto i momenti più esaltanti di una notorietà non certo sgradita.
«Vuoi che ti racconti le solite cose o ti dico la verità?» Prego, la seconda. «Il padre di Andre era un grandissimo stronzo, una persona che non mi è mai piaciuta. Mi chiamò alle tre di notte. Ho un figlio di dieci anni che alleno da solo e non ho più un dollaro in tasca, mi può aiutare? Gli dissi di portarmelo e se mi fosse piaciuto gli avrei fatto il cinquanta per cento di sconto sulla retta annuale. Ci palleggiai cinque minuti. E decisi che non avrebbe pagato nulla.
Il bambino era speciale. Ma era già ferito dentro, questo lo capii molto dopo. Le angherie e gli abusi psicologici del padre avevano già creato un solco troppo profondo nella sua testa. Anche adesso che ha una famiglia tutta sua, Andre rimane sempre quel ragazzo interrotto pieno di paure. Quel che scrive non conta, perché è ancora oggi insicuro, potrebbe cambiare idea come una foglia al vento».
A riprova di una sofferenza non ancora lenita dal tempo, chiese più volte di ammorbidire il concetto al momento di scrivere. Ma poi, tra una autoglorificazione e l'altra, un «come me nessuno mai» ripetuto come un mantra, l'allenatore che si vantava di avere allenato dieci numero 1 del mondo, cominciò a ripercorrere la sua storia attraverso i genitori dei suoi giocatori.
A partire dal primo, quel Jimmy Arias che appena sedicenne stupì il Foro Italico, rivelando l'esistenza di Bollettieri e della sua accademia. «Poverino, era succube del suo papà. Entrambi non avevano interiorizzato il taglio del cordone ombelicale. Si chiamavano di notte. Il padre lo convinse a non cambiare il rovescio a una mano, che era penoso. E la sua carriera naufragò». «La mamma di Jim Courier recitava la parte della madre coscienziosa, che mi ringraziava per la borsa di studio concessa alla sua famiglia. Poi mi scrisse una lettera dove una riga era dedicata alla scuola, e cinque pagine alla spiegazione dei difetti del rovescio di Jim».
A Richard Williams, un padre-tiranno ma uno dei pochi dei quali sembrava avere stima, pose la solita domanda.
Cosa vuole che faccia con le sue bambine, Venus e Serena?
Se ne avessi la più pallida idea, non sarei qui, fu la risposta. «Era quella giusta». A Karoly Seles fece una corte spietata per convincerlo a trasferirsi in America con la figlia Monica, e una volta arrivati disse ad entrambi che per prima cosa dovevano sciogliere quel legame di dipendenza che li univa, altrimenti non ci sarebbe mai stato alcun trofeo per quella bambina, che all'epoca aveva solo 12 anni. «E quella volta fui io a vergognarmi per quel che avevo appena fatto». Yuri Sharapov e la figlia Maria si presentarono in Florida seguendo il consiglio di Martina Navratilova. Avevano nello zaino una racchetta, un indirizzo, i soldi per un paio di pasti caldi, nient' altro.
Avrebbe potuto proseguire per ore. Ma poi con un sospiro di malcelata soddisfazione interruppe la carrellata con una considerazione che a suo avviso gli dava lustro. «Tutti questi ragazzi mi hanno sempre chiamato papà».
E forse in questa affermazione è racchiusa quella parte innegabile di nevrosi e di estremismo psicologico che fa parte della relazione di un coach con il proprio giocatore, di un giocatore con il proprio coach, soprattutto quando si tratta di suo padre, vero e putativo che sia. Jim Courier il rosso che a metà degli anni Novanta vinse quasi tutto usando la racchetta come una mazza da baseball, ha raccontato di aver pianto di dolore dopo il suo primo e più importante trionfo. Perché quel giorno al Roland Garros «papi» Bollettieri era nell'angolo del suo avversario. Tra lui e Agassi, aveva scelto il secondo, più talentuoso, più glamour, più conveniente.
E in fondo anche il kid di Las Vegas non ha mai perdonato al suo secondo padre di averlo lasciato per strada alla prima difficoltà, scegliendo altri talenti, altri futuri campioni con i quali mettersi addosso nuove medaglie. Love means zero , è il titolo del documentario dedicato nel 2018 al vecchio Nick. L'amore non significa nulla, siamo qui per i soldi, si chiama professionismo. Lui era il primo a saperlo, il resto è stato cinema. Bollettieri si è spento a novantuno anni nel suo letto, dopo aver flirtato a parole con l'illusione dell'immortalità, che tanto lo intrigava. Agassi, il suo ragazzo, il suo dolore, gli ha dedicato un tweet di ringraziamento, dicendo che aveva insegnato a lui e a molti altri come la vita possa essere vissuta al massimo. Il testo era lungo una riga e mezzo, al massimo due.
Riccardo Crivelli per gazzetta.it il 5 dicembre 2022.
Si poteva amarlo o disdegnarne i metodi, e per tanti ragazzi che sono passati da lui forse la seconda opzione è stata la più gettonata, ma non c’è dubbio che Nick Bollettieri, morto questa mattina a 91 anni, abbia rivoluzionato il tennis, ideando il "corri e tira" oggi diventato lo stile di gioco imperante e introducendo nell’allenamento la cura maniacale della preparazione fisica e il rispetto assoluto della disciplina, entrambi mutuati dalla sua esperienza militare come Marine.
Figlio di immigrati di origine napoletana, Nick cresce a Pelham, a due passi da New York, in un quartiere multietnico dove i soli sport conosciuti sono il soccer (il nostro calcio) e il football. Il padre sogna per lui una carriera da avvocato, ma nel suo destino il giovane Nick vede solo il tennis. Già laureato in filosofia, abbandona dopo tre mesi la facoltà di Giurisprudenza di Miami e inizia a insegnare su un campo pubblico di North Miami Beach.
All’epoca intasca tre dollari all’ora, arriverà a prenderne 300 volte tanto. Il vero miracolo comincia nel 1978, anno di fondazione della Nick Bollettieri Academy a Bradenton in Florida, che nel 1987 viene acquistata dal colosso del management IMG che comunque gli lascia la completa direzione tecnica della struttura.
I fondamenti sono semplici: il talento non basta, il giovane tennista deve affrontare la vita rafforzando anche la sua mente e il suo corpo. I suoi non sono certo metodi convenzionali, ma da lui passeranno 12 futuri numeri uno: Agassi, Becker, Rios, Courier e Sampras tra gli uomini; Serena e Venus Williams, Sharapova, Jankovic, Seles, Capriati e Hingis fra le donne.
IL PUPILLO— Ovviamente, il legame più famoso è quello con Agassi, il vero prototipo del suo giocatore ideale. Andre arriva all’Accademia a 14 anni per starci tre settimane, se ne andrà dopo 9 anni ormai prosciugato, come racconterà nella famosa autobiografia, da un rapporto sempre sul filo, lui genio ribelle guidato da un coach che non tollera il minimo sgarro: eppure sarà proprio Agassi a dargli il primo Slam in carriera e poi a d appoggiarne la candidatura alla Hall of Fame nel 2014. Quella di Bollettieri del resto è una dedizione totale al suo lavoro: sveglia alle 4.45, allenamenti fino alle 11.30 e poi ancora dalle alle 17. A fine giornata, il relax consiste in qualche buca di golf.
Bollettieri non fu un grande giocatore (qualcuno ironizza sul fatto che non sappia quasi giocare), ma il tennis è andato esattamente nella direzione da lui teorizzata. E anche la sua Accademia si è sviluppata e oggi si estende su un terreno di 450 acri (dai 40 iniziali) e offre lavoro a 650 persone. In tutto questo, ha avuto tempo di sposarsi otto volte e di crescere sette figli, senza mai dimenticare origini italiane: ha sempre scelto Capri per i suoi viaggi di nozze. È stato così anche con Cindi, la sua ultima moglie che ne ha dato la definizione ideale: "Quando l’ho sposato sapevo bene che io sarei stata l’amante: lui ha già sposato la sua Accademia". Addio, Nick. A tuo modo, sei stato un gigante.
Paolo Boccacci per “la Repubblica” il 7 dicembre 2022.
I ricordi di Panatta e quelli di Alessandro, un suo allievo speciale («per me era come un padre»), le partite a poker nel cuore della notte, un appuntamento mancato con papa Wojtyla, i pesi in palestra alle cinque e mezzo di mattina, gli allenamenti in campo dalle 6, le ultime lezioni romane a ottantotto anni, le sue frasi celebri.
Ora che tutti i giornali del mondo annunciano la morte di Nick Bollettieri, questo " sergente di ferro" della racchetta, anche Roma ricorda il figlio di immigrati italiani nato nel 1931 a Pelham, nello Stato di New York, il guru della sua Academy, il maestro dei campioni, da Courier a Sampras e Agassi e poi Venus e Serena Williams, l'uomo dalla lunga vita, 91 anni, 8 matrimoni, 7 figli e una grande passione: il tennis.
«Nick - racconta Panatta - lo incrociavo spesso a Roma quando veniva agli Internazionali con i giocatori che allenava. Un americano gioviale con un modo di fare quasi napoletano per l'effervescenza, anche per le origini della sua famiglia, e grande venditore della sua Academy. È un grande dolore averlo perso».
« Mi aveva mandato una sua foto, malato, a letto, solo tre giorni fa » aggiunge piangendo Alessandro Zoccoli, il proprietario del Circolo Tennis Sant' Agnese a piazza di Santa Costanza che dal 1997 al 2020 ha ospitato sui suoi campi la Bollettieri Tennis Academy « e sotto ci aveva scritto: " Devo trovare ancora un po' di forza per superare questo momento, ora scavo, scavo e la trovo la forza". Ecco chi era Nick».
Come era cominciato? «Tutto è iniziato all'inizio degli anni Novanta » continua Alessandro «quando io ero andato a studiare Economia a Berkley in California, ma ero innamorato pazzo del tennis e così avevo cominciato a frequentare la sua Academy in Florida. Tra tanti campioni io non ero nessuno, ma per me era diventato come un padre, vivevo spesso a casa sua, giocavo, stavo benissimo. Così poi è iniziata la storia del Sant' Agnese e dell'Academy con Nick».
I ricordi sono tanti. «A Bradenton la mattina alle cinque eravamo già in piedi e alle 5,30 passava in palestra e faceva pesi, e io con lui, odiava stare da solo. Poi ci allenava in campo dalle 6 alle 11, per riprendere nel pomeriggio. Nick era bravo e serio, aveva una parola buona per tutti. Salutista convinto, credeva nella squadra.
Quando gli chiedevano se aveva studiato il tennis, diceva " No, io guardo e poi vedo come posso farti giocare bene". E sempre trovava una soluzione e i colpi cominciavano a funzionare» . Tantissimi gli aneddoti. «Una volta era a Roma e mi chiama alle due di notte: " Alessandro, ho bisogno di te. Siamo qui all'Hilton a giocare a poker ma ci manca il quarto. Dai vieni". E la storia del Papa? "Promettimi una cosa, mi diceva, promettimi che mi porti dal Papa. Così mia madre aveva parlato con la parrocchia e avevamo prenotato i posti per la mattina dopo all'udienza di piazza San Pietro di Giovanni Paolo II.
Allora Nick sei pronto? " No, domani mattina devo allenare Serena Williams, non posso, ma porta in regalo a Wojtyla questi occhiali' e mi dà un paio dei suoi amati Oakley. Insomma la mattina c'erano solo le nostre sedie vuote. Ero solo. E a un certo punto il Papa ha anche salutato dal balcone "l'amico Bollettieri". Le sue lezioni al circolo sono durate fino a due anni fa. Gli mandavo ancora i video di mio figlio che giocava » . Sul sito del circolo Sant' Agnese c'è una frase di Nick: « Nei momenti di difficoltà, se cadi può non essere colpa tua, ma è certamente colpa tua se non ti rialzi. Devi credere per arrivare al successo».
Niente Davis, ma ora potenza mondiale. L'Italtennis al maschile in crescita: tanti talenti giovani, 19 giocatori nei primi 200. Marco Lombardo il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.
Niente paura, è solo l'inizio. E il fatto che poi la Davis l'abbia vinta proprio il Canada (sono bastati i due singolari contro l'Australia) è solo una piccola consolazione di un anno sfortunato ma comunque positivo.
La prima notizia è che l'Italia avrebbe potuto vincere il trofeo più affascinante del tennis, nonostante non sia più quello di una volta e nonostante si sia presentata senza i due migliori (salvo poi tirar fuori Berrettini dal cilindro nel doppio come mossa disperata). La seconda, invece, va oltre a una manifestazione che rappresenta un'eccezione nella vita di un tennista, e viene confezionata dai numeri che raccontano il progresso inesorabile del movimento maschile su tutte le superfici: nella storia dei tornei Atp gli azzurri ne hanno portati a casa 81 e ben 13 di questi sono arrivati negli ultimi due anni, 6 nel 2022. Ovvero due sull'erba (Berrettini a Stoccarda e Queen's), due sulla terra rossa (Musetti ad Amburgo e Sinner a Umago), altri due sul cemento (Sonego a Metz e ancora Musetti a Napoli). Se poi vogliamo aggiungere gli Slam, con la semifinale in Australia di Matteo, i quarti di Jannik a Wimbledon e ancora i quarti di entrambi a New York, il quadro è completo. E gli inevitabili rimpianti possono essere solo il punto di partenza di un futuro ancora migliore.
E allora: l'Italia non ha vinto la Davis, ma quanto sopra è il successo di un tennis che ha saputo fare squadra per diventare una potenza mondiale: i 19 giocatori nei primi 200 del mondo (di cui dieci sotto i 21 anni) e i tanti giovani di talento subito dietro, sono la fotografia di quanto sta succedendo. Poi, è vero, senza il Covid Berrettini avrebbe potuto vincere Wimbledon e senza gli infortuni (l'ultimo è quello di Bolelli a Malaga), probabilmente avremmo potuto celebrare qualcosa di più. L'importante però è che gli appassionati capiscano l'eccezionalità del momento: arrivare a lamentarsi per la sconfitta di sabato è un segno di ingratitudine e dimostra soprattutto la poca memoria in materia.
Il tennis italiano ora è grande, e c'è da rendere merito al lavoro fatto negli ultimi sette anni, quando le contrapposizioni tra tecnici e federazione sono state superate da un progetto comune, nel quale si conta anche il numero record dei tornei Challenger organizzati e che hanno fatto da base per l'esplosione dei talenti. E così che ora abbiamo a Torino le Atp Finals e Roma che diventa un Master 1000 «combined» di 10 giorni dal 2023. Ma soprattutto l'idea che c'è ancora molto da fare: recuperare le donne, per esempio, che sono stati il primo traino delle rinascita. E poi, sì, vincere la Coppa Davis.
Mario Piccirillo per ilnapolista.it l’8 novembre 2022.
L’anno scorso, appena un anno fa, Holger Rune era già un po’ famoso. Aveva da poco passato l’età per cui i giornali sarebbero quasi costretti a pixelarne la foto per deontologia professionale, e inveiva contro i “froci” in danese stretto. Ce l’aveva con se stesso per aver sbagliato un dritto, o forse con l’avversario, tal Thomas Etcheverry. Non s’è mai appurato. Il video fu tradotto, passato alla trafila dell’indignazione sui social, e infine processato dall’Atp. Multa, oblio, amen. Era giugno 2021, e Holger Rune vinse il suo primo Challenger, a Biella.
Ora è numero 10 del mondo, ha appena vinto il suo primo 1000 a Bercy battendo in finale, 7-5 al terzo, Nole Djokovic. All’inizio della settimana parigina, era stato cazziato da nonno Wawrinka che a rete lo congedava dopo essersi visto annullare tre match point, così: “Ti do un consiglio, smetti di comportarti in campo come un bambino”.
battuta, provando a chiuderlo con un ace di seconda. Ha fatto doppio fallo, ovviamente. Un altro – chiunque altro – avrebbe avuto un’epifania: quello di là è Djokovic! Uno che ha rovinato la leggenda di Roger Federer annullando a Wimbledon i due match point più infami della storia. E si sarebbe sciolto in una crisi di nervi. Rune invece ha annullato 6 palle del controbreak prima di vincere il torneo. I bambini, forse, fanno così. Non tutti, ma i predestinati sì.
Ora è prima riserva per le Finals, per cui snobba le Next Gen e si tiene pronto per Torino gufando uno strappo altrui. La traiettoria di questa parabola, che in un anno l’ha tradotto dal numero 103 del mondo alla Top 10, è puntellata di ulteriori record: è il primo 19enne da quando hanno installato i computer all’Atp capace di battere cinque Top 10 in uno stesso torneo.
Ma più che i numeri bisogna stare a sentire la mamma, per rendersi conto di chi sarà Rune. Chi è stato lo sappiamo, chi è lo vediamo. Il futuro possiamo leggerlo già:
“Vuole diventare il numero 1 fin da piccolissimo. Aveva 7 anni e stava giocando il suo primo torneo vicino a Copenaghen. Era stato battuto in finale e si era rifiutato di alzare il trofeo. Piangeva. Gli ho detto: ‘Mio Dio, accettalo’. Lui ha messo il trofeo in una borsa, quasi di nascosto. E quando siamo tornati a casa, ha strappato tutti i poster di Nadal dalla sua stanza. Nadal all’epoca era il numero 2. Holger ha detto: ‘D’ora in poi, sarò un tifoso di Roger Federer’. Ha cambiato la racchetta, i vestiti. L’unica cosa che desiderava per il suo compleanno era la polo azzurra che Federer indossava quando aveva vinto al Roland-Garros. Non so dove sono andata a trovarla, era una collezione di tre anni fa”.
“Non ci siamo mai detti in famiglia che dovesse essere il migliore. Siamo più gente che ripete di fare bene le cose, ma tutto qui. Forse è bastato questo a rendere Holger così com’è. Quando ha iniziato a giocare a tennis, ne è rimasto ossessionato. In casa, tirava la palla contro il muro. Lo lasciavamo a fare, ci stava per ore e ore.
Quando ci ripenso, Holger ha sempre avuto un’attività in cui provava e riprovava, anche con lo skateboard, memorizzava tutti i trucchi, guardava tutti i video possibili, li copiava e li ripeteva. Quando li ha imparati tutti, ha smesso. Col tennis non finisce mai. Gli avversari sono diversi, anche le superfici. E se sta cercando il tiro perfetto – penso che sia quello che sta cercando – allora ne avrà per tutta la vita! Un perfezionista non è sempre guidato dalla passione”.
“A scuola, Holger aveva un amico i cui genitori erano entrambi medici, eccellevano in matematica. Mio figlio si chiedeva perché non fosse bravo come quel ragazzino. Così abbiamo assunto un insegnante, veniva due volte a settimana, due ore ogni volta. Holger voleva essere bravo come il suo amico e alla fine ci è riuscito. Abbiamo dovuto dirgli che non poteva essere il migliore ovunque. Non potevamo prendere lezioni private in tutte le materie”.
E così il piccolo Rune scelse una cosa facile facile: “Batterò il record di Nadal a Parigi”.
A Parigi ha battuto, in fila, in cinque giorni: Hurkacz, Rublev, Alcaraz, Auger-Aliassime, Djokovic. “Ha aperto il cielo, scrive L’Equipe – ha rotto i cardini del vecchio mondo e si è precipitato nella breccia che Carlos Alcaraz, il più giovane numero 1 del mondo di tutti i tempi, aveva aperto in grande stile poche settimane fa a New York”.
Non si vedevano due Under 20 tra i migliori 10 del mondo dal 14 maggio 2007, e i due erano diciannovenni Novak Djokovic e Andy Murray. Rune è il vero “nuovo” Alcaraz. Per forza – come altro vuoi chiamarla – per aderenza agli schemi di gioco, per cupidigia. Ma è anche il suo contraltare caratteriale: uno, lo spagnolo, buono e penitente al limite del francescano, l’altro, il danese, irascibile e deviante, un invasato senza ritegno. Uno e due, i ruoli sono già assegnati. Resta il terzo incomodo vacante: il tennis potrebbe metterci quell’italiano basculante di Jannik Sinner, hai visto mai.
Estratto del libro “In ginocchio da te” di Carmelo Bene pubblicato dal “Fatto quotidiano” il 20 ottobre 2022.
A Dio Borg - Devo aver letto da qualche parte di Borg, non più "tennista". E mi dico, come può Borg non essere più ciò che non è mai stato? Come può il tennis in persona essere scambiato per un volgare tennista? È forse il caso di una ubriacatura collettiva sdrucciolata sull'asse metonimico? Si renda dunque il giusto omaggio all'atleta in cui, grazie a Dio, la racchetta, non fu mai vil oggetto separato, ma protesi di quello splendido pensiero chiamato appunto Björn Borg, a suo modo costituente una lezione vivente di teologia.
Trasuda in chi è avvezzo al tristo quotidiano desinare, certa malcelata consolazione, certa indecente allegrezza. Per un Borg finalmente ridimensionato all'"umano". Borg pari a noi?
Non si illudano. Si resta comunque dispari. Borg al suo ritiro è finalmente restituito al "celeste". A Dio Borg! A tutti gli altri: non resta che vincere e perdere da quei giocatori di briscola che sono.
"Tutto è dentro. Ciò separa".
(Hölderlin) - Di lui nulla hanno mai capito i culi infranti, spettatori e addetti del tennis cicisbeo, in solluchero al cospetto del "fantasista" che ammicca colpi da platea, estri accattoni. Borg sa e insegna che la fantasia è menomazione. I suoi colpi sono pura necessità. Non conoscono altra possibilità.
Dettano legge. Obbediscono a una legge. Sono sovrani. In Borg c'è tutto lo smontaggio del teatrino fantasista, del frollo soubrettismo alla McEnroe.
Più di McEnroe allora sarebbe stato grande Adriano Panatta, rovinato appunto da troppo italico estro, Borg è già tutto abissale concentrazione del senno di prima. Quel che segue in campo, match, mutande, avversario è solo una formalità.
Borg è il gigante, che vince e perde le sue battaglie ancor prima di entrare in campo. A presentarsi in campo è ciò che è già stato. E che dentro sorride della fregola competitiva dell'altro e di tutto il chiassoso immaginario che alberga in campo e in tribuna. La creatività è la dote dei sommi cretini.
McEnroe è un moccioso egotico. Borg al di là.
"In fiamme di dentro. Trapassa". (Hölderlin) - Sbuca poi fuor dell'osso petroso di alcuni addetti o sportivi ineducati un infame concetto, a sproposito di Borg: "Grande preparazione atletica, ma nullo spettacolo". Come se potesse bastare eccitare il muscolo! Come se Borg non fosse il grandioso spettacolo della sua concentrazione! Ricordo la semifinale Borg-Connors di due anni fa a Wimbledon, in cui Connors esibì il suo più grande Connors. Ma non bastò.
Lo spettacolo forse più grande in assoluto che mi sia mai toccato di vedere. Quasi quattr' ore di colpi incrociati a velocità paurosa, smash sotto rete, a fondo campo, a toccare l'intersezione delle righe. Servizi da sfondamento seguiti da risposte vincenti a doppia velocità. Già malandato al ginocchio, Borg in quell'occasione distrusse Connors e si distrusse.
Altri di più corposa immaginazione scadono nella mala interpretazione dell'"uomo di ghiaccio". Dice Céline: "È restare insieme che è difficile". Borg è un maestoso esempio di fortezza edificata sul nulla. Un caso di schizofrenia, hölderliniana. Quando si è già tutto da qualche altra parte, basta apparire per vincere. Borg vince al suo primo apparire. Gòngora è con me. Così, se non ricordo male: "Dove l'amor versando su Galatea petali di rose rosse da coppe di gigli bianchi quale sarà il suo colore o porpora di neve o neve rossa". È facile per chi poeta non è trasformare questa "neve" in "ghiaccio". Per chi non ha "intelletto d'amore". E non c'è critica senza amore.
Borg e il Brasile - A chi si meraviglia: onesto che si possa nello stesso tempo amare Borg e il Brasile rispondo che c'è nulla da meravigliarsi, purché non si voglia ridurre il gioco brasiliano al fantasismo da circo, d'avanspettacolo. Come Borg è il tennis; come Lauda è l'automobilismo e Leonard il pugilato, così il Brasile è il calcio. "The rest is silence".
28 gennaio 1983.
Estratto dell'articolo Vittorio Sabadin per “Il Messaggero” il 20 ottobre 2022.
L'ex campione tedesco di tennis Boris Becker ha perso otto chili in sei mesi di detenzione nelle carceri britanniche. Prima l'hanno rinchiuso a Wandsworth, dove si mangia davvero male. Ma ora è a Huntercombe, dove il cibo è ottimo. Il dimagrimento, di cui aveva un gran bisogno, viste le ultime foto, è quasi interamente dovuto al fatto che il regime carcerario gli vieta di bere alcolici, che erano diventati i compagni delle sue sventure.
Becker è stato condannato nell'aprile scorso a scontare due anni e mezzo per bancarotta fraudolenta, ma uscirà molto presto per buona condotta. Verrà probabilmente espulso dal Paese subito dopo e spedito in Germania. […]
In carcere […] Becker è diventato assistente insegnante di yoga e di fitness e 45 detenuti trascorrono il tempo allenandosi con lui. È molto popolare tra i carcerati e tiene anche corsi di meditazione e di nutrizione. Insegna pure come cavarsela nei momenti difficili, visto che è un esperto della materia. […]
È stato condannato a trascorrere due anni e mezzo in prigione con 20 capi di accusa per bancarotta fraudolenta, e per avere evitato di pagare i creditori trasferendo su altri conti centinaia di migliaia di euro, nascondendo proprietà in Germania e rifiutando di consegnare i suoi trofei, tra i quali le coppe di Wimbledon e la medaglia d'oro vinta alle Olimpiadi.
Il carcere ha una palestra, una parete da arrampicata e un campo in erba sintetica, e Becker si allena con regolarità. I parenti di alcuni detenuti avevano protestato dicendo che all'ex campione sono concessi favoritismi negati ad altri, ma si tratta pur sempre dell'ospite più famoso della prigione. […]
[…] Boris, che ha 54 anni, è in Gran Bretagna dal 2012 e in pochi anni ha dilapidato le sue risorse con investimenti assurdi affidandosi alle persone sbagliate. Ha solo la licenza media, perché da piccolo era già così bravo a tennis che il governo tedesco lo esentò dalla scuola dell'obbligo per permettergli di allenarsi. Tra pochi mesi sarà mandato in Germania e dovrà ricominciare una nuova vita. Ma non sarà difficile: è stato allenatore di Novak Djokovic e molti altri aspiranti campioni sperano di ricevere consigli da lui. […]
La carriera di Roger Federer, i colpi e i momenti migliori. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 15 Settembre 2022
Lo smash clamoroso con Roddick, la faccia stupita di Djokovic dopo un tweener irreale, l’epica delle sfide con Nadal: dieci momenti da ricordare di quello che per molti è il più grande tennista della storia
Roger Federer, il più grande
Ci ha provato in tutti i modi, fino all’ultimo. Si è dovuto arrendere all’unico avversario che non può battere: il suo fisico logorato da anni di battaglie. Roger Federer si ritira.La Laver Cup, nel fine settimana dal 23 al 25 settembre, sarà il suo ultimo torno. A Londra, dove ragazzino con codino e brufoli abbagliò il mondo nel 2001 battendo Sampras. E dove ha creato la sua leggenda, Wimbledon. Venti Slam, oltre 300 settimane al numero del mondo, 103 tornei Atp vinti. Sono numeri, non bastano per raccontare la grandezza di un atleta unico. Il suo tennis sempre all’attacco, brillante, magico: il rovescio a una mano, le volée, dritto e servizio, colpi eleganti e concreti. La sua incrollabile forza di volontà, resilienza. Un esempio? Non si è mai ritirato durante una partita. Mai, a 20 come a 35 anni, per una forma di rispetto superiore per il gioco che ama. Per ultimo, il suo essere un agonista feroce, ma allo stesso tempo fragile, umano. Possibile un tennis senza di lui? Certo, meno infinitamente meno ricco. Come Federer non ne nasceranno più.
Intanto riavvolgiamo il nastro, indietro nel tempo per riscoprire dieci magie, quando l’età era un aspetto secondario, la luce solo sul campo.
Federer-Sampras, Wimbledon 2001
Wimbledon, ottavi di finale, estate 2001. Più di venti anni fa. Un ragazzo con i brufoli in faccia, i capelli lunghi raccolti in un codino e una collanina che sbuca sopra al petto vince al quinto set — 7-6(7), 5-7, 6-4, 6-7(2), 7-5 — contro il sette volte campione Pete Sampras, imbattuto a Londra dal 1996, 31 partite di fila. «Il giorno in cui tutto è cambiato» scrive il Times, che sintetizza il passaggio di consegne (qui il video della partita). Roger a terra, in ginocchio, mani nei capelli dopo l’ultima risposta vincente col dritto.
Federer-Roddick, Basilea 2002
Un colpo che racchiude una rivalità. Così si può riassumere uno smash irreale con cui Federer passa un incredulo Andy Roddick nel torneo di Basilea, anno 2002. L’americano ha appena schiacciato sopra la rete, si sta girando convinto di aver chiuso il punto. Roger insegue la pallina correndo all’indietro, salta e colpisce con taglio a rientrare. Roddick va nel campo dell’avversario, gli porge la racchetta. Non riuscirà mai a battere Federer nelle tante finali importanti giocate uno contro l’altro (su tutte quella di Wimbledon 2009).
Federer-Nadal, Wimbledon 2007
Nel 2007 Roger è ancora nel suo prime, una sorta di essere perfetto sul campo da tennis. Periodo nel cui praticamente l’unico che riesce a batterlo è Rafa Nadal. Lo spagnolo ci va vicino anche nella sua seconda finale che giocano uno contro l’altro a Wimbledon: perde solo al quinto set, con un Federer affamato e cinico, ma completa le prove generali per l’impresa dell’anno successivo.
Federer-Haas, Roland Garros 2009
Quella con Tommy Haas, nel 2009 al Roland Garros, è la partita che ha di fatto permesso allo svizzero di centrare il Career Slam, vincere almeno una volta i quattro major. Perennemente stoppato da Nadal a Parigi, Roger non crede ai suoi occhi quando lo spagnolo cade ai piedi di Soderling. Gioca il giorno dopo contro l’amico Haas, top 10 che però in carriera raramente l’ha impensierito. Si ritrova sotto di due set, bloccato dalla tensione. Nel terzo parziale, al servizio sul 3-4, salva con un dritto ad uscire che spazzola la linea la palla che avrebbe portato il tedesco a servire per il match. Vincerà al quinto lanciandosi verso l’unico trionfo sulla terra parigina.
Federer-Djokovic, Us Open 2009
Campione a New York da cinque anni di fila, Federer si presenta allo Us Open del 2009 dopo aver vinto in rapida successione Roland Garros e Wimbledon. In semifinale domina Djokovic, capitalizzando tutte le occasioni (una rarità). Nel terzo e ultimo set, avanti 6-5 0-30, rincorre un pallonetto del Djoker e lo passa con un tweener: un colpo impossibile, giocato sotto le gambe, schiena alla rete, «il più bello della carriera» per lo stesso Roger.
Federer-Djokovic, Roland Garros 2011
La partita perfetta, la migliore mai giocata sulla terra. Nella semifinale del Roland Garros 2011 Federer supera in quattro set (7-6, 6-3, 3-6, 7-6) un Djokovic ancora imbattuto in quella stagione. Lo fa giocando un tennis spaziale, tutto anticipi e colpi rischiosi e un filo folli, con un ace a sigillare il tutto, nel tie-break finale.
Federer-Del Potro, Olimpiadi 2012
Quattro ore e ventisei minuti: tanto dura la semifinale del torneo olimpico del 2012 tra Roger e Del Potro, battuto per 19-17 dopo un interminabile terzo set. Federer, fresco campione a Wimbledon, torna a Church Road per cercare l’oro in singolare e dà tutto in una partita epica, con l’argentino che finisce in lacrime. In finale Federer, letteralmente svuotato dalla maratona precedente, perde contro Murray in quella che resterà, oramai per sempre, la sua ultima partita alle Olimpiadi.
Federer-Nadal, Australian Open 2017
Il torneo più bello, la finale più bella. L’Australian Open 2017, quel brivido di incertezza dopo sei mesi passati a casa per infortunio, in finale il rivale di sempre Nadal. Il rovescio invulnerabile, la testa libera da ansie. Federer vince 6-4, 3-6, 6-1, 3-6, 6-3. Con uno scambio pazzesco nel quinto set, 26 colpi, al termine del quale, stremato, mette a segno un dritto lungolinea in allungo.
Federer-Cilic, Australian Open 2018
Lo slam numero 20, il primo a toccare questa vetta (raggiunto poi da Nadal e Djokovic). Federer ci arriva in Australia, nel 2018, dopo una battaglia lunga cinque set con Marin Cilic (6-2, 6-7, 6-3, 3-6, 6-1). Nell’ultimo parziale soffre, annulla una palla break, poi si rialza. Fino al trionfo.
Federer-Nadal, Wimbledon 2019
L’ultimo capolavoro, la semifinale di Wimbledon 2019. Un torneo in cui Federer gioca benissimo. Anche contro Nadal, nella rivincita dell’epica finale del 2008. Roger, quasi 38 anni, vince 7-6(3), 1-6, 6-3, 6-4 con un tennis d’attacco, volée e dritti di controbalzo, un rovescio in stile Australia 2017. Sono passati poco più di due anni, sembra un secolo. Riusciremo a vivere il tennis senza Federer?
Valentina Iorio per corriere.it il 16 settembre 2022.
All’età di 41 anni, Roger Federer rimane il tennista più pagato al mondo, con un patrimonio di 450 milioni di dollari. Il campione che ha annunciato il suo ritiro, ha guadagnato nell’ultimo anno circa 90 milioni di dollari, quasi tutti da sponsorizzazioni. Le vittorie sono valse a Federer 130,6 milioni di dollari di montepremi. Una cifra che lo colloca al terzo posto nella storia del tennis, alle spalle dei suoi due più grandi rivali: Novak Djokovic (159 milioni) e Rafael Nadal (131,6).
I guadagni con gli sponsor
Ma per quel che riguarda i guadagni da sponsor non conosce rivali. Il contratto più ricco è quello da 300 milioni di dollari sottoscritto nel 2018 con Uniqlo, azienda giapponese di abbigliamento. Oltre a Uniqlo, a farsi rappresentare da Federer ci sono anche Rolex, Mercedes-Benz, Gilette, Credit Suisse, Moët et Chandon, Wilson, Jura, Netjets, Lindt, Barilla, Rimowa e Sunrise.
Le ville di Federer
In Svizzera, sul Lago di Zurigo, a Wollerau, aveva una villa di 500 metri quadrati sviluppata su tre piani con piscina, palestra, Spa e parcheggio sotterraneo, che ha venduto nel 2018. Nel 2021 ha ottenuto dalla città di Rapperswil-Jona il permesso per costruire un’altra mega-villa fronte lago. Un’altra delle sue proprietà si trova a Valbella, vicino a Lenzerheide, nel cantone di Graubunden.
Lo chalet, pensato inizialmente come casa per le vacanze, comprende vari edifici, più un campo da tennis e una piscina coperta. A questo si aggiunge il buen retiro di Dubai, dove Federer e famiglia passano buona parte dell’inverno. Si tratta di un enorme attico all’interno del complesso di lusso La Reve, con un terrazzo di 80 metri quadrati da cui può godere di una splendida vista non solo dell’oceano ma anche di due delle principali attrattive di Dubai, vale a dire il grattacielo Burj Al Arab e l’isola artificiale di Palm Jume.
L’investimento in «On»
Il principale investimento di Federer è la sua quota dell’azienda svizzera On, che produce scarpe sportive. Nel 2019, Federer era entrato come ambasciatore del marchio di scarpe fondato nel 2010 dall’ex atleta professionista Olivier Bernhard (a cui si sono uniti gli amici David Allemann e Caspar Coppetti), investendo poco meno del 3% del volume azionario. Un investimento che quest’anno gli ha fatto perdere circa 200 milioni.
Estratto dell'articolo di Stefano Boldrini per il Messaggero il 16 settembre 2022.
Adriano Panatta non è stato, e non è, uno dei tanti personaggi del tennis che amano semplicemente la grandezza di Roger Federer: tra l'ex campione romano - impegnato in questi giorni a Bologna nel ruolo di commentatore Rai della Coppa Davis - e il fuoriclasse svizzero c'è qualcosa di più: l'affinità elettiva di chi ha vissuto il tennis con eleganza e classe infinita. La bellezza del gesto tecnico ha consegnato alla leggenda Federer, ma è stato anche l'elemento portante della carriera di Panatta, altro campione che si è fatto amare non solo per i successi, ma pure per l'estetica dei suoi colpi.
Roger e Adriano appartengono alla stessa tribù, categoria di eletti, posti numerati e riservati: l'animo dell'artista impresso nel Dna. Le doti naturali che ispirano i capolavori non si studiano, non si apprendono, non si comprano nei supermercati dello sport: se non le possiedi, tutto inutile. Il tennis, semmai, ha una caratteristica in più rispetto alle altre discipline: esprime l'eleganza e la bellezza ai massimi livelli.
Il 15 settembre 2022 si consegna alla storia del tennis: si ritira Roger Federer.
«L'ho appena scritto su Twitter: Oggi non si è ritirato Roger Federer. Si è ritirato il tennis. Roger ha rappresentato il tennis come lo intendo io e, credo, come lo intendano milioni di persone. Unico, inimitabile».
Come sempre accade di fronte all'addio di un campione, si fanno i confronti e si scomoda la storia.
«Federer è stato il più bravo di tutti a giocare a tennis, non solo nella sua epoca, ma anche guardando al passato. Ci sono stati e ci sono campionissimi come Borg, Sampras, Agassi, Djokovic, Nadal, ma lui è stato qualcosa di più: ha simboleggiato la perfezione tecnica di questo sport. Ci sono personaggi che hanno vinto più di Federer, ma lui è riuscito a cogliere i successi con la bellezza del suo tennis. E' questa la vera differenza. La sua unicità».
Federer è stato il rinascimento del gesto tecnico in uno sport che aveva preso una piega muscolare.
«La sua straordinarietà è stata questa: è stato competitivo in uno sport dove, come è avvenuto anche in altre discipline, la forza atletica è diventata predominante. E' un processo naturale. La velocità e la potenza esprimono uno sviluppo inevitabile, ma Federer è stato la bellezza del tennis senza tempo. Nessuno come lui in passato e penso anche nel futuro».
Non ci sarà un altro Federer?
«Credo proprio di no. Roger è stato davvero qualcosa di speciale». Sui social e sui siti il tributo non è solo al campione, ma anche a quello che ha rappresentato. «Federer ha usato la racchetta con lo stile di un artista. Per questa ragione la gente che ama il tennis ha amato Roger e oggi sente di aver perso qualcosa di irripetibile».
Quando Federer detronizzò Pete Sampras a Wimbledon. Il 2 luglio del 2001 il corso della storia muta. Il vecchio Re viene deposto, una nuova monarchia illuminata si affaccia: durerà oltre vent'anni. Paolo Lazzari il 25 Settembre 2022 su Il Giornale.
La gente è accalcata sulle colline circostanti, afflitta dall’ammucchiata e da un’umidità inedita per Londra. I fortunelli che sono riusciti ad accaparrarsi un ticket, invece, scolano con rigoroso contegno calici di bianco nel parterre dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club. Vale a dire, Wimbledon. È il 2 luglio del 2001: l’estate erompe in tutta la sua fragorosa imperiosità e i tizi che popolano il campo centrale sono sinceramente rilassati. Sanno, in fondo, che l’esito di quella contesa è già inciso nella pietra. Da un lato il sette volte campione Pete Sampras, dominatore ruggente degli interi anni Novanta, seppur in coabitazione con Agassi. Dall’altro un poppante svizzero che, prima di questo benedetto torneo, non aveva mai nemmeno varcato il primo turno.
Roger Federer non ha nemmeno vent’anni. Si introduce dentro questo quarto turno sventolando un discutibile codino. Sfodera anche un sorriso malcelato, che deve avere a che fare più con la sferzata emotiva del momento che con la paura. Del resto lui non ha nulla da perdere. Lo segue il greco d’America, ciondolante, avvolto nei classici pantaloncini XL. Per la prima volta dopo un mucchio di anni, il suo incedere nel torneo è stato incerto, vacillante. Ha dovuto penare più del solito per sbarazzarsi di avversari infimi, solitamente trangugiati senza passare dalla masticazione. Risibili scalfiture? Non proprio.
C’è un antefatto che insaporisce la storia. Una di quelle svolte che concorrono a cambiare il corso rettilineo degli eventi. Per la prima volta Mr Eddie Seaward, il mitologico giardiniere del torneo, ha deciso – d’accordo con il board, s’intende – di cambiare il mix di sementi che compongono i campi. Risultato? La pallina rimbalza più alta e regolare, concedendo anche ai comuni mortali che arrancano sull’erba di provare a giocarsela. È tutt’altro che un frivolo dettaglio, anche se una parte della stampa, all’epoca, derubrica la questione al grado di dimenticabile fesseria: “I più forti vinceranno comunque”, la sentenza emessa.
Dunque si gioca. Tra un punto e l’altro Federer è sorretto dal tiepido sostegno di chi, dalle tribune, ama tifare per gli sfavoriti. Sampras possiede, invece, una claque esondante. Non che serva a molto, a dire la verità. Pete prova da subito a imporre la sua legge: del resto un Re non domanda. Pretende. Non si avvede ancora, il nostro sovrano, che la sua corona sta per essere scippata. Che quel ragazzino dallo sguardo benevolo e sicuro è destinato a detronizzarlo, grazie ad un tennis altrettanto regale. E pensare che, si annoterà in seguito, lo svizzero è per forza di cose ancora ruvido nelle movenze e tutt’altro che impeccabile nel tocco.
Avvinto da quella cappa di umidità trasecolante, il match si incanala in un corridoio di scambi che arriva a lambire le quattro ore di gioco. Sui quattro set pari Pete si divora l’occasione per chiuderla, complice una difesa maestosa da parte di Roger. Quella che doveva essere poco più di una passeggiata di salute si è trasformata in un declivio scosceso. Le crepe adesso sono a vista. Il regicidio sta per essere consumato. Succede tutto in fretta. Il servizio di Sampras. La risposta limpida di Federer. Il serve and volley floscio del campione. Il passante tramortente del nuovo astro. Il campo centrale sussulta. È ancora il 2 luglio 2001, ma qualcosa è cambiato per sempre. Il vecchio Re è morto. Inizia una nuova illuminata monarchia. Durerà, ormai lo sappiamo, più di vent’anni.
Genio e regolatezza. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 15 settembre 2021.
Per noi devoti del culto federeriano questo è un giorno di lutto, ma anche di sollievo: non avremmo retto la vista del nostro idolo che ritorna in campo dopo una pausa infinita e viene strapazzato da qualche spara-palline con la metà dei suoi anni e un decimo del suo talento. Come ha scritto il mio correligionario Marco Imarisio, ci piace immaginare che Federer si sia ritirato nel 2019, subito dopo avere vinto l’ennesimo Wimbledon al secondo match-point contro Djokovic (in realtà lo sbagliò e poi perse la partita, almeno così mi fu detto: io per la stizza avevo già spento il televisore). Federer è stato un atleta poetico, i suoi gesti sembravano versi in metrica: nitidi, essenziali e intrisi di quell’energica armonia che colleghiamo istintivamente all’idea universale di bellezza. Ma una simile definizione vale anche per altri geni dello sport, da Diego Maradona a Muhammad Ali. La differenza è che in loro, come in quasi tutti gli artisti, era presente una parte oscura: una sofferenza originaria, una maledizione perpetua di cui il talento rappresentava la ricompensa. L’artista Federer invece è stato pura luce senz’ombra, un uomo risolto che ha saputo domare gli istinti autodistruttivi che lo avevano indotto da giovanissimo a spaccare parecchie racchette. De André cantava: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior». Sui campi da tennis Roger Federer ha incarnato l’eccezione: il diamante da cui nascevano i fiori.
Da fanpage.it il 15 settembre 2021.
Il momento doveva arrivare e adesso è arrivato. Roger Federer si ritira e lascia il tennis. Il suo ultimo appuntamento tennistico sarà la Laver Cup, in programma a Londra dal 23 al 25 settembre. Si chiude un'era. Per milioni di tifosi sparsi in tutto il mondo è un momento molto triste. Ma lo sport è così e l'addio al tennis di Roger comunque non sorprende considerato che non gioca un match da più di un anno e che non è più inserito nella classifica ATP. L'annuncio ufficiale lo ha dato lo stesso giocatore svizzero con una lunga lettera pubblicata sui suoi profili social.
Pochi giorni dopo la fine degli US Open, torneo che ha vinto per cinque volte consecutive, e pochi giorni prima della Laver Cup, Roger Federer ha pubblicato sui social una lunghissima lettera in cui ha annunciato il suo ritiro dal tennis e ha spiegato che il suo fisico non regge più, giocare non è consigliabile. In fondo, pure se lui è una sorta di supereroe, Roger ha 41 anni e pensare a un ritorno nel tour era davvero complicato.
Da sport.virgilio.it il 15 settembre 2021.
La leggenda del tennis Roger Federer ha deciso di ritirarsi dopo la Laver Cup. L’annuncio ufficiale lo ha dato lo stesso fuoriclasse svizzero con una lunga lettera pubblicata sui suoi profili social. Il 20 volte vincitore di uno Slam, terzo di sempre dietro ai rivali Nadal e Djokovic, chiude la carriera col record maschile di otto trionfi a Wimbledon.
Con una lunga lettera sui social, Federer ha dato l’addio al tennis: “Alla mia famiglia del tennis e oltre, tra i tanti regali che il tennis mi ha fatto, il più grande senza dubbio, è avermi permesso di conoscere tante persone lungo la via. I miei amici, i miei avversari e ancor più importante, i miei tifosi che danno vita allo sport. Oggi voglio condividere delle news con voi.
Come sapete, gli ultimi tre anni mi hanno presentato delle sfide sotto forma di Infortuni e operazioni. Ho lavorato tanto per ritornare a una forma completamente competitiva. Ma conosco anche limite le capacità del mio corpo e il suo messaggio è chiaro. Ho 41 anni. Ho giocato più di 1500 partite in 24 anni. Il tennis mi ha trattato più generosamente di quanto io potessi immaginare, ma ora è arrivato il momento di capire di dire basta e terminare al mia carriera da professionista”.
Federer ha deciso: “La Laver Cup settimana prossima a Londra sarà l’ultimo evento ATP a cui parteciperò. Giocherò ancora in futuro, ma non a uno Slam e non in un torneo del circuito. E’ stata una decisione agrodolce, perché mi mancherà tutto quello che il circuito mi ha dato in questi anni. Ma allo stesso tempo, c’è anche così tanto da festeggiare. Mi considero una delle persone più fortunate al mondo. Mi è stato dato un talento speciale per giocare a tennis, e sono riuscito a farlo a un livello che mai avrei immaginato, per molto tempo, molto più di quello che pensavo”.
Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia il 15 settembre 2021.
Che cosa sarà il tennis senza Roger Federer? Sicuri di volerlo sapere? Accendete di questi tempi su Londra e saprete. Il tennis senza Federer sarà tennis. Ovvero, pena assoluta. Un lager a strapiombo sulla noia. Un gemito interminabile e senza senso. Le marionette contemporanee di Samuel Beckett.
Due ergastolani che si scagliano per ore pallate su pallate, fino allo sfinimento, cercando angoli estremi di una gabbia sempre più angusta, con la brutalità ottusa di chi sa che il pollice è verso, lo sbranamento sicuro, ma non possono tuttavia fare a meno di spendere ogni volta fino in fondo la loro belluria gladiatoria, antefatto in via di evoluzione dello scenario androide che da qui a poco li inghiottirà.
Vedo il passo robotico di Raonic, il suo servizio anomalo non arriva, esplode. Interessa? Zero. Vedo Murray, il suo chiacchiericcio isterico tra uno scambio e l’altro. Scambi interminabili, tutti uguali a se stessi, tutti banalmente stupefacenti.
Andy arriva ovunque con quella orrenda voglia pelosa sulla gamba destra. Quel verso da oca ingozzata, quando serve. Interessa? Meno che mai. Vedo il giapponese. Si chiama Nishikori, ma potrebbe chiamarsi qualunque cosa.
Vedo Djokovic, il serbo. Le sue ossa non hanno più giunture, ma elastici sottili. Si torce, si piega, s’allunga. Non si spezza. La sua faccia sul court diventa quella di un assassino. Nulla di più vicino a un serial killer. Si spezza invece la sua testa, ancora vagamente umana. Da qualche tempo, rigetta se stesso. Non ne può più di essere Djokovic. Interessa? Lui sì, qualcosa. Il minimo.
Nessuno, a meno che non sia un cretino, può sopportare troppo a lungo di essere un tennista oggi, in assenza di Roger Federer, la divinità che trascende il tennis. Chi ci prova perché fa i patti col diavolo, evapora un giorno di colpo. Guarda Rafa Nadal. Un benedetto teppista gli ha bucato il palloncino. Sopravvive da metafora sgonfia. Non c’è un circo onorevole per lui. Solo ossa e muscoli feriti a morte. Il tennis senza Roger è tennis. Miseria.
Roger e Rafa per mano. Se la foto diventa storia. I due immortalati a fine partita nel gesto che rende l'idea di una amicizia-rivalità unica. Marco Lombardo il 25 Settembre 2022 su Il Giornale.
La foto. Era l'una di notte ora di Greenwich e l'orologio del tennis si era completamente fermato. E quell'ora non si teneva più nessuno, era impossibile. «La tua famiglia: ne vuoi parlare?». «La mia famiglia...». Bam: il fiume di lacrime.
Quella foto. Durante il concerto organizzato per l'Ultima Partita alla Rod Laver Cup, è successo. Roger Federer e Rafa Nadal avevano appena perso il loro match contro Sock e Tiafoe, con il Re che ha avuto pure match point e servizio. Ma francamente: chissenfrega. C'era la musica, struggente, loro due seduti uno fianco a fianco in panchina, gli occhi rossi e affogati. Una mano tocca l'altra, chissà chi ha cominciato per primo, è un po' come la storia di quella famosa borraccia tra Coppi e Bartali. Non lo sapremo mai, probabilmente. Ma sappiamo che dentro quella foto c'è tutta una vita. La nostra, anche.
«È stata una giornata difficile, abbiamo fatto finta che fosse tutto normale. Ma alla fine non ce l'abbiamo fatta più. Non ce l'ho fatta più». Raccontare l'addio a Roger Federer tennista con le parole di Rafa Nadal è la sintesi di qualcosa di umanamente quasi inspiegabile. Mentre Djokovic partecipava al momento più struggente quasi imbarazzato, forse sapendo che per lui non potrà ma esserci un ritiro così, Rafa piangeva e piangeva. Confesserà più tardi in conferenza stampa: «In tutti questi anni Roger è stato sempre al mio fianco, è stato spesso davanti a me. Oggi se n'è andato un pezzo importante della mia vita».
La famiglia: quando Jim Courier in veste di intervistatore ha infilzato Federer con una domanda più precisa di uno dei suoi vecchi passanti, sapeva dove voleva arrivare. Roger appunto non si tiene più e scoppia in un pianto a dirotto. E quando, finita la cerimonia, la famiglia arriva, l'abbraccio lungo e appassionato con Mirka vale più di tante parole che in questi anni sono stati spese per e contro di lei. Poi, quello tenero con le due coppie di gemelli, mentre papà ormai ex tennista dice loro «non vi preoccupate, sarò un uomo felice con voi», conferma il fatto che questo giorno non è stato l'inizio di una fine, come capita a chi non riesce a cambiare, a chi dice che il ritiro - per uno sportivo - sia come una piccola morte. È vita, invece, è amore: «È stata una giornata perfetta. Non potevo sperare niente di meglio». Non potevamo chiedergli di più.
Amore e amicizia. Se davvero non solo tutto il mondo - ma anche quello che una volta sembrava essere il tuo peggior nemico - non riesce a smettere di piangere, e se all'improvviso ti ritrovi mano nella mano con lui e non ti vergogni di mostrare i sentimenti, vuol dire che non c'è altro che possa spiegare cos'è stato Roger Federer e perché nessuno sarà mai come lui. Quella con Rafa sarà per sempre «La Foto», le loro lacrime sono state le nostre, e nessuno si vergogni di averle versate. Diceva Napoleone: «Posso perdere una battaglia ma non perderò mai un minuto del mio tempo». Roger Federer invece non ha perso neanche questa volta. L'ultima.
L'addio del campione. Chi è la moglie di Federer, la manager ed ex tennista Miroslava Vavrinec: “Ha vissuto con me ogni minuto”. Vito Califano su Il Riformista il 15 Settembre 2022
E adesso Roger Federer avrà tutto il tempo che non aveva avuto prima: in 24 dei suoi 41 anni li passati ai vertici del tennis mondiale, un mito che ha inciso nel gioco, lo ha evoluto e allargato in platea grazie alla sua classe e alla sua eleganza. E avrà il tempo anche per la sua famiglia, per la moglie Mirka e per i quattro figli. Federe ha annunciato oggi l’addio allo sport agonistico, ha vinto in tutto 20 tornei del Grande Slam. Sicuramente tra i più grandi di sempre, per tanti il più grande di sempre.
Federer ha pubblicato sui social network un messaggio in cui ha parlato dei motivi del suo addio: un saluto e una spiegazione. Troppo dolore, il tempo che passa, nonostante la passione anche un mito dello sport è costretto a farci i conti. Il campione ha ringraziato anche la sua famiglia nel messaggio con cui ha reso noto l’addio allo sport: grazie alla “straordinaria moglie Mirka, che ha vissuto tutto, insieme a me, ogni minuto”; ai “miei meravigliosi figli”, ai “miei genitori e a mia sorella”.
Miroslava Vavrinec è manager e psicologa, anche lei ex tennista, svizzera di origini slovacche. Era nata a Bojnice, quando aveva due anni la famiglia si trasferì in Svizzera. A scoprirla fu Marina Navratilova, tra le tenniste migliori di sempre. Abbandonò lo sport nel 2002 a causa di problemi fisici: per un grave infortunio al piede. I due si conobbero alle Olimpiadi di Sydney 2000, entrambi in campo per la Svizzera. Non si sono più lasciati. Da manager Vavrinec ha seguito il marito ovunque. “Ogni minuto”, come ha scritto lui. Secondo molti Federer non sarebbe stato lo stesso, non avrebbe avuto la carriera che ha avuto senza il supporto e il lavoro della moglie.
Il matrimonio è arrivato nel nel 2009. Federer e Vavrinec hanno avuto quattro figli, due coppie di gemelli: Myla Rose e Charlene Riva, nati nel 2009, Leo e Lennart, nati nel 2014.
“Negli ultimi tre anni, tra infortuni e interventi, ho cercato di tornare competitivo – ha detto Federer nel messaggio video – ma mi è risultato difficile e il mio fisico mi ha mandato un messaggio”. “Devo riconoscere che è arrivato il momento di mettere fine alla mia carriera” e pertanto la Laver Cup, che si svolgerà a Londra dal 23 al 25 settembre prossimi, “sarà il mio ultimo evento Atp. Dopo 24 anni di carriera da professionista, e oltre 1500 partite disputate, ho provato a ritrovare la migliore forma fisica. Continuerò a giocare a tennis, ma non negli Slam o ai tornei del circuito Atp”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Il ritiro del re. Roger Federer è stato il dio del tennis, ma più delle vittorie ricorderemo la sua classe. Giuseppe Pastore su L'inkiesta il 16 Settembre 2022
Pur avendo vinto 20 Slam, 103 tornei, 1245 partite e dominato per anni il circuito Atp, il tennista svizzero ci ha insegnato a sopravvivere alla sconfitta, a non farsi divorare dal demone dell’insoddisfazione, svuotando il suo gioco di qualunque foga agonistica e lasciandoci solo pura arte da ammirare punto dopo punto
It was an early morning yesterday
I was up before the dawn
And I really have enjoyed my stay
But I must be moving on
Roger Federer è uno degli esempi che porto a me stesso quando devo ricordarmi che nella vita, checché se ne dica, raramente la prima impressione è quella giusta. Il primo ricordo di Lui risale a un primo turno di Coppa Davis 1999 in cui, sconosciuto 17enne, stava tenendo testa a Davide Sanguinetti, signor giocatore specialmente in Nazionale, prima di rovinare tutto con sette errori gratuiti consecutivi nel tie-break del secondo set. Avrebbe vinto lo stesso quella partita, e non solo quella; ma mi era rimasta in mente una sensazione di inaffidabilità ben poco svizzera, e da sostanziale ignorante del tennis mi ero rifugiato nel luogo comune del ragazzino di talento ma immaturo, senza testa. A quanto ho ripescato sull’archivio della Gazzetta, pure Rino Tommasi non c’era andato giù leggero: «Pagando una serie di infantili e clamorose ingenuità, Federer ha praticamente regalato a Sanguinetti il tie-break». Pure, il nostro capitano di Davis Paolo Bertolucci aveva annusato l’aria e all’inizio del week end si era augurato ad alta voce: «Vorrei tanto che esplodesse solo da lunedì prossimo».
Non mi è più capitato di dubitare di Federer. Anzi, mi sono volentieri fatto trascinare nell’ottimismo del suo gioco, nella purezza dei colpi anche spalle al muro, nel non derogare mai a dei principi di stile inammissibili per il 99% degli altri tennisti moderni. Pur avendo vinto 20 Slam, 103 tornei, 1245 partite (solo trenta in meno del primatista assoluto Jimmy Connors) e tutti gli altri record che trovate elencati dappertutto, ha perso tante altre volte «per educazione», secondo una frase sempre di Rino Tommasi che merita un approfondimento di curiosità.
Quando si parla di educazione e attitudine alla vittoria e alla sconfitta, la mente oppone subito Federer agli altri due alieni della storia contemporanea di questo sport, certamente più gladiatori di quanto lo sia mai stato Roger. Ma subito questo pensiero ci conduce a una falsa pista: l’idea che vincere sia l’unica cosa che conta, se applicata su larga scala a quindici o vent’anni di carriera, porta a conseguenze disastrose. Perciò mi perdonerete se non mi soffermo troppo sul Federer sportivo, o perlomeno non ancora, perché la sua vittoria più bella è stata proprio quella di sottrarsi al risultato, facendo leva su cinque-sei anni da dominatore per scendere a patti anzitutto col proprio cervello: lo scopo del gioco è sempre mettere a segno l’ultimo punto del match, questo è pacifico, ma non c’è più nessuno da sconfiggere.
Il Federer prima maniera, quello che ha regnato incontrastato perlomeno fino al 2007, è stato ovviamente di bellezza apollinea, degnamente celebrato da David Foster Wallace e da tutti gli epigoni, e la più grande invenzione della storia dopo la ruota – ovvero Youtube – ci consente di apprezzare l’Era Rogeriana in ogni suo quindici, anche quelli minori tipo torneo di Basilea (c’è quel famoso punto contro Roddick nel 2002 che sembra progettato al computer). Ma il Federer di colpo umano, ridisceso sulla terra dopo la finale di Wimbledon 2008 e scopertosi talmente fragile da scoppiare in un pianto dirotto dopo l’ennesimo lancinante Slam perso contro Nadal (Melbourne 2009, «God, it’s killing me…»), ha smesso i panni della scultura greca ed è diventato opera d’arte contemporanea.
Angelo precipitato sulla terra a pallate da Nadal e Djokovic, ci ha insegnato a sopravvivere alla sconfitta, a non farsi divorare dal demone dell’insoddisfazione, e poi ha fatto una cosa stupefacente. Ha cambiato il senso del proprio lavoro, passando da atleta a performer: ha svuotato il suo gioco di qualunque foga agonistica, anche quando si giocava gli Slam. Nelle fasi più ispirate era vero e proprio balletto, ammirato da spettatori disinteressati alla competizione e ipnotizzati dal suo meraviglioso footwork.
Si è inventato delle cose impossibili, come la SABR (Sneak Attack By Roger) esibita per la prima volta a Cincinnati nel 2015 contro Roberto Bautista Agut, che dopo un servizio se lo ritrovò improvvisamente acquattato all’altezza della linea del servizio. Letteralmente un “attacco furtivo”, roba da ladro gentiluomo, Cary Grant in Caccia al Ladro: il tentativo di Federer di rubare tempo al tempo, la spettacolare sfida – anzitutto con sé stesso, e mai contro un altro tennista – di poter giocare e vivere sempre con l’eleganza del controbalzo. E poi ha rivinto ancora, in un modo nuovo, commovente per chi lo aveva dato per finito troppo presto, ad esempio quando si era arreso a Stakhovsky a Wimbledon 2013 ed erano partite le campane a martello.
Da federeriano osservante e praticante non ho dubbi a indicare la mia/sua vittoria preferita: la finale degli Australian Open 2017, i cui 61 minuti finali del quinto set sono la versione tennistica e moderna della Rumble In The Jungle tra Ali e Foreman, con lo stillicidio finale di challenge e moviole che hanno reso drammatica anche la tecnologia. Col senno di poi avrebbe dovuto ritirarsi in quel momento, come il navigatore solitario finalmente tornato a Itaca dopo aver enormemente spostato in avanti i confini del tennis conosciuto, ballando da solo, l’art pour l’art, senza nemmeno lo straccio di una rivalità da cui farsi intossicare l’anima e i muscoli. Però ci avrebbe negato il più grande spettacolo tennistico di tutti i tempi, la finale di Wimbledon 2019 contro Djokovic, e di conseguenza ci avrebbe risparmiato quell’indicibile amarezza che però è parte di noi, di tutti gli amanti dello sport metafora della vita, e non andrà mai via.
Non si potrà mai essere eleganti quanto lo è stato Federer fin dal nome – Roger, come uno 007 – e cognome, che in italiano suona ancora più maestoso perché contiene la parola “fede” e la parola “re”, anche nel senso della nota musicale da far suonare all’organo della Cattedrale di Basilea. Chissà se è casuale che per annunciare al mondo il suo ritiro – che per un atleta è già una prima esperienza di morte – abbia scelto il giovedì pomeriggio, a una settimana esatta dalla dipartita della Regina Elisabetta.
Federer è stato un sovrano ovviamente buono, un dittatore illuminato nei suoi anni migliori pur avendo per forza di cose seminato vittime a cominciare da Andy Roddick, che forse deve ancora riprendersi dal trauma di quella finale persa 16-14 al quinto set e difatti, quel mattacchione, ha prontamente twittato: «Ora posso tornare ad allenarmi per Wimbledon». È uno dei pochissimi atleti della storia ad avere ideale status di patrimonio dell’UNESCO a partire dal fatto di essere svizzero – il Paese neutrale per eccellenza, che non prevede antipatie – lontanissimo dall’ostilità che Djokovic ama attirarsi con tutta l’ostinazione che ha in corpo, e che nemmeno un atleta e sportivo meraviglioso come Nadal è riuscito a evitare anche per il solo fatto di aver osato intralciare la strada di Re Roger.
Schegge isolate: il tweener a Djokovic a due punti dal match nella semifinale US Open 2011, un’ora e dieci di lezione gratuita a un imbambolato Berrettini a Wimbledon 2019, una celestiale semifinale (persa!) a Melbourne 2005 contro quel matto di Marat Safin, certe esibizioni lunari alle Finals di fine stagione, quando tutti i giocatori erano stanchi e le poche energie residue non bastavano a contenere da fondo gli zampillii di classe pura di Roger (ricordo soprattutto un Nadal brutalmente maltrattato 6-3 6-0, sarà stato il 2011). Già, la classe, e qui mi viene in mente un’altra celebre sentenza di Rino Tommasi, federeriana a 24 carati: «La classe è la prima di servizio vincente per annullare la palla break».
Qualche discepolo di buona volontà dovrebbe prendersi un mese di ferie e confezionare un video di tutte le palle-break annullate da Federer con un ace: chissà quanto durerebbe, chissà se un esploratore di qualche civiltà lontana proverebbe un palpito alla vista di tutta quella coolness così pura e intellegibile. Così come ci sarà da commuoversi come davanti ai baci finali di Nuovo Cinema Paradiso alla vista dei suoi turni di servizio più ispirati, a volte sotto il minuto di durata, alla varietà di colpi con cui affettava non tanto il suo avversario – da un certo punto in avanti le partite di Federer non prevedevano più un avversario, tantomeno per il pubblico che aveva occhi solo per lui – ma lo spazio-tempo circostante, come un Pollock con la tela bianca.
Qualcuno ha scritto che il tennis è uno dei rarissimi sport individuali che muove da un punto di partenza totalmente astratto: correre, nuotare, tirare di scherma, lottare sono tutte esigenze che l’uomo trasforma in azione fin dall’antichità, mentre non lo è affatto colpire una pallina facendo in modo che finisca in rettangoli delimitati da alcune strisce bianche per terra. Per noi ragazzi degli anni Duemila, Federer ha scritto poesia: un artista contemporaneo che ha ridato al tennis, un po’ avvilito dai cacciabombardieri che giravano nei primi anni Novanta – andate a rivedervi oggi certe partite di Ivanisevic, passato alla storia come un amabile genio pazzoide, e le troverete di una noia mortale – il classicismo che sembrava smarrito nel fatale passaggio dal legno alla grafite.
È stato l’assolo di tastiere di Rick Davies in “Goodbye Stranger”: un paradigma di classe senza tempo, che tutti noi al mondo riconosceremo finché camperemo. Ora il grosso rischio è quello di sentirsi vecchi, fastidiosamente simili a tutti quelli che petulano sulle racchette di legno e blaterano da anni «Ah, il tennis dopo McEnroe non ha più senso». Te lo promettiamo, Roger, non smetteremo di stupirci tanto facilmente. Arrivederci, straniero.
And I will go on shining
Shining like brand new
I’ll never look behind me
My troubles will be few
Gaia Piccardi per corriere.it il 13 settembre 2022.
Nella suite di un albergo affacciato su Times Square, Carlos Alcaraz potrebbe tirarsela da re del mondo. Invece dietro la tazzona di caffè spuntano gli occhi neri e stanchi del teenager che a New York si è preso il tennis, Us Open e n.1 della classifica, un sorriso dolce, quasi ingenuo, qualche brufolo, mani grandi.
Ha dormito pochissimo, senza la coppa («magari dormirò con la replica quando torno a casa»), dopo una cena al ristorante con il clan che è il nido caldo (uno dei tanti paragoni con Nadal) che gli ha permesso di crescere a dismisura durante le due settimane che hanno rivoluzionato lo sport.
Carlos, con quale sensazione si è svegliato dopo aver battuto Ruud in finale?
«Onestamente, quando ho aperto gli occhi, non ci credevo. Continuo a sentirmi una persona normale anche se è tutto incredibile: mai avrei pensato di ottenere così tanto ad appena 19 anni. Prendiamocela con calma, mi aveva detto il mio coach Juan Carlos Ferrero, divertiamoci…».
Si è divertito all’Open Usa?
«Senza sorriso, non riuscirei a giocare. Mi viene spontaneo, sono fatto così. A Montreal, all’inizio di agosto, quando ho perso subito da Tommy Paul per non aver saputo gestire la pressione, il sorriso l’avevo un po’ perso. Mi sono impegnato per recuperare gioia, me la sono portata dietro a New York. Qualche mio collega sembra che in campo sia triste, non si diverta. Non io. Io sono ancora il bambino di Murcia che a dieci anni sognava di diventare professionista».
Davvero non ha mai desiderato fare l’astronauta, il pompiere, il cowboy?
«Mai. Ho chiesto la prima racchetta a Babbo Natale: questa storia è cominciata così. A 14-15 anni, quando già mi allenavo a Villena, all’accademia di Ferrero, non avevo certezza del futuro ma sapevo che avrei dato tutto perché il tennis fosse il mio mestiere».
Che sacrifici le ha richiesto la realizzazione di questo desiderio? Lei non è un teenager banale.
«Ogni tanto mi mancano gli amici, poter fare tardi la sera senza la preoccupazione dell’allenamento del giorno dopo. Ho i gusti e le passioni di qualsiasi ragazzo, mi diverto con poco, uscendo a mangiare o ad ascoltare musica con i miei fratelli o con le persone con cui sono cresciuto. Adoro tutti gli sport: gioco a padel, a golf, a calcio anche se molto meno di un tempo. E tifo Real Madrid».
Alla sua età, in questa esistenza a 300 all’ora, c’è spazio per l’amore?
(arrossisce, sorride)
«No, un amore adesso non c’è».
Non ancora?
«Non ancora».
Quando ha capito che avrebbe potuto vincere l’Open degli Stati Uniti?
«Nel quarto di finale con Jannik Sinner. Un incontro durissimo, non so davvero come ho fatto a giocare con quell’intensità. Il match point annullato è stato il giro di boa: credo di essermi spinto dove non ero mai arrivato, Jannik mi motiva e credo di fare lo stesso effetto a lui, è una bella e utile rivalità. Avrei potuto vincere in tre set, lui in quattro, invece siamo andati al quinto. Cinque ore e 20 minuti in campo, non succede spesso!».
Perché lei e Sinner producete sempre scintille?
«Intanto perché ci stimiamo e andiamo d’accordo fuori dal campo. Il suo spagnolo è così così, il mio inglese mediocre, ma ci capiamo al volo. Jannik è sempre amichevole, si interessa: come stai? Come sta la tua famiglia? Come giocatore è sotto gli occhi di tutti: ha già battuto dei top 10, ha una palla pesantissima. Ma è la persona, prima del tennista, ad avermi colpito».
Il re l’ha sentito?
«Non personalmente, forse ha scritto qualcosa sui social…».
No, non re Felipe di Spagna. Rafa Nadal, re della terra.
«Aaaah, sì certo, Rafa mi ha scritto un bel messaggio. Ne ho ricevuti centinaia. Con calma risponderò a tutti».
Con Rafa condivide il dottore, Angel Ruiz Cotorro.
«Cotorro mi dà una mano ma ho anche il mio dottore personale, Juanjo Lopez. A questo livello, è necessario: mi aiuta a tenere sotto controllo il dolore. Ma non è vero che nell’allenamento prima della finale con Ruud zoppicavo, non so chi ha messo in giro questa voce. Certo ero stanco: chi non lo sarebbe stato dopo più di venti ore in campo…?».
Carlos, si offende se dico che lei è innanzitutto un atleta straordinario, e poi un fenomenale tennista?
«No, no, non mi offendo! Sono resistente, elastico, veloce. È necessario, nel tennis moderno».
L’hanno mai cronometrata?
«Sui 60 o sui 100 metri no, però a scuola mi facevano correre i 400…».
E in quanto li copriva?
«In 55 secondi. Ma dovevo correrne una serie, quindi me la prendevo comoda!».
È vero che adesso va a Valencia per il girone di Coppa Davis?
«Verissimo. Lo faccio per me, per la mia squadra, per il mio Paese».
Non starà esagerando?
«Non mi metto limiti. So che sono nuovo al vertice ed è appena finito un Open Usa surreale. Ma ho grandi sogni: non intendo sprecarli».
S.Seme. per “la Stampa” il 10 agosto 2022.
Roberta Vinci, che effetto le fa la notizia del ritiro di Serena?
«Era una notizia che doveva arrivare, bisogna anche avere il coraggio di dire basta. Ha avuto una bambina, è stata fuori, ha provato a rientrare, credo che abbia ponderato tutti i pro e i contro. Mi mette però un po' di tristezza, perché è la fine di un'era: quella del tennis che ho giocato io. Ma a un certo punto si deve aprire un nuovo capitolo, magari anche più bello, le auguro di essere felice».
È stata la più grande?
«Sì, per tutto quello che ha fatto fuori e dentro il campo. Serena ha un carisma enorme: è stata il tennis, come Federer, ha vinto tantissimo e attraversato molte epoche. Anche chi non segue lo sport sa chi è Serena Williams, mentre oggi difficilmente la gente conosce la numero 1 del mondo».
Lei le ha inferto la sconfitta forse più dura della carriera, nel 2015 a New York, negandole il Grande Slam
«Credo che non me l'abbia perdonata. Non siamo mai state amiche, ciao ciao e basta, del resto era sempre circondata da tante persone, la sorella, la madre, il padre, l'allenatore.
Ma per un periodo dopo non ha giocato, quella partita l'ha segnata. Come l'ha fatto, in positivo, anche con me. Non si aspettava quel risultato, cercava la ciliegina sulla torta del Grande Slam. Ma certo non è un risultato che cambia il giudizio sulla sua grandezza».
Perché era così difficile giocare contro di lei?
«Già prima di entrare in campo sapevi di avere davanti un mostro, quasi un'extraterrestre. Mentalmente, una sfida. Poi fisicamente lei era un treno, picchiava forte, sapevi che avresti dovuto provare a rispondere al servizio, a spostarla sul campo».
Lei come è riuscita a batterla a casa sua?
«Con il mio gioco vario, e la mia costanza: non ho mollato neanche dopo aver perso il primo set. E perché la tensione le ha giocato un brutto scherzo, ha fatto errori che non avrebbe fatto normalmente. Mentre a me quel giorno riusciva tutto».
Serena Williams perde al terzo turno dello Us Open e (forse) dice addio al tennis. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 3 Settembre 2022.
Dopo aver battuto la n. 2 al mondo, la leggenda del tennis e icona dei diritti civili degli afroamericani perde contro Ajla Tomljanovic 5-7 7-6 1-6.
E’ la fine della carriera di quella che per molti è stata la più forte tennista di ogn i epoca? Probabile, anche se Serena Williams subito dopo essere stata sconfitta in tre set (7-5, 6-7, 6-1) dall’australiana di origine croata A jla Tomljanovic al terzo turno degli Us Open ha dichiarato ai cronisti che l’assediavano per sapere se sarebbe tornata sulla sua decisione di ritirarsi «Non credo, ma non si sa mai». Del resto Serena aveva annunciato un mese fa il suo addio alle competizioni. E che probabilmente l’Us Open 2022 sarebbe stato l’ultimo torneo della sua carriera. La sconfitta di oggi con la Tomljanovic è arrivata paradossalmente un po’ inaspettata. Dopo aver battuto al secondo turno la numero due del ranking mondiale, l’estone Anett Kontaveit, l’incontro con Tomljanovic, 46esima in classifica, sembrava alla portata dell’americana. Nonostante la grande spinta degli oltre quindicimila presenti all’Arthur Ashe Stadium, Williams ha buttato via il primo set, perso 7-5 dopo essere stata avanti 5-3, poi vinto il secondo al tie-break dopo essere stata sul 5-2, infine crollata al terzo, con l’australiana passata dallo 0-1 al 4-1. Serena alla fine è parsa sopraffatta e delusa, inanellando una serie di errori non forzati, soprattutto con il dritto, che hanno dato strada libera all’avversaria, brava a tenere testa alla campionessa e al pubblico.
Per ora (a meno di possibili nuovi colpi di scena) possiamo dire che si chiude così ufficialmente la carriera di una giocatrice unica nel panorama mondiale, non solo per quanto ha fatto nel tennis, in quanto capace di vincere 23 titoli del Grande Slam, ma perché diventata icona dei diritti civili degli afroamericani, dimostrando che era possibile emergere anche in uno sport dominato dai bianchi. Serena lascia così dopo aver indicato la strada a migliaia di giocatrici afroamericane. Non raggiungerà però il record di 24 vittorie nei tornei del Grande Slam dell’australiana Margaret Court, ma la sua leggenda resterà intoccabile. Tra il suo primo titolo nel 1999 a Parigi e il suo 73° e ultimo ad Auckland nel 2020, Serena Williams, la più giovane di cinque figlie, ha dominato il circuito quasi incontrastata, per oltre 20 anni. Ha accumulato 94,8 milioni di dollari di soli premi nei vari tornei, ma molti di più attraverso le sponsorizzazioni. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato questo il destino di una ragazza nata a Saginaw (Michigan) e cresciuta a Compton, per lungo tempo un ghetto violento nella zona di Los Angeles. Con la sua potenza e la sua forza di volontà, ha battuto tutte le sue principali avversarie, dalla sorella Venus ad Ashleigh Barty, senza dimenticare le sue altre grandi rivali, Maria Sharapova, Viktoria Azarenka, Justine Hénin, Amélie Mauresmo, Kim Klijsters, e prima ancora Jennifer Capriati e Martina Hingis. Il suo dominio avrebbe potuto essere ancora più travolgente senza alcuni gravi problemi fisici e di salute (in particolare un’embolia polmonare che le è quasi costata la vita nel 2011).
Secondo molti commentatori però il ritiro di Serena arriva probabilmente più tardi del dovuto. Dopo l’ultimo titolo major (Australia 2017) e la nascita pochi mesi dopo della figlia Olympia, nata dal matrimonio con il cofondatore del social network Reddit Alexis Ohanian, ha giocato altre quattro finali (Wimbledon e US Open 2018, Wimbledon e US Open 2019) senza riuscire a conquistare il suo Graal. Poi si è gradualmente allontanata dal circuito. Negli ultimi anni, ha giocato solo pochi tornei all’anno con la priorità dei Major, concentrandosi sempre più sulle sue attività collaterali, in particolare nel campo della moda, piuttosto che sul tennis. Assente dal circuito da quando si è ritirata dal primo turno di Wimbledon 2021 per infortunio, quest’estate è tornata a sorpresa sempre a Wimbledon, dove è stata nuovamente eliminata al primo turno. Qualche settimana più tardi, dopo aver perso al secondo turno a Toronto e al primo turno a Cincinnati, ha deciso di mettere via le racchette. Serena Williams lascia comunque di lei un ricordo di dominatrice dei campi da tennis. E’ stata n.1 totale di 319 settimane, ovvero più di sei anni (la prima volta l’8 luglio 2002, l’ultima la settimana dell’8 maggio 2017),
Solo Martina Navratilova (332) e Steffi Graf (377) hanno trascorso più tempo di lei in cima alla piramide del tennis femminile. Con il suo addio Serena lascia un vuoto nello sport americano. Lo dimostrano le tante testimonianze di riconoscimento e di affetto riversate da celebrità e persone comuni al termine della sua ultima partita. «Campionessa. Eroina. Leggenda per sempre», ha twittato la star televisiva Oprah Winfrey, mentre l’ex first lady statunitense Michelle Obama ha salutato «una giovane ragazza di Compton» che è diventata «una delle più grandi sportive di tutti i tempi». «È stato un onore seguire il tuo viaggio. Voglio solo ringraziarti per essere stata un’ispirazione per tanti», ha scritto la superstar dell’NBA LeBron James. Chi l’avrebbe detto che avrebbe fatto tanta strada da quando papà Richard la allenava tra il suono degli spari delle gang di Compton?
Serena Williams annuncia il ritiro. Maria Strada su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022
La tennista americana Serena Williams dopo 23 Slam vinti: «Non ho mai voluto scegliere tra tennis e famiglia. Ma ho quasi 41 anni e qualcosa devo cedere»»
Serena Williams ha annunciato il ritiro dal tennis dopo il prossimo Us Open con un articolo scritto in prima persona su Vogue e pubblicato il 9 agosto. «Ma non mi piace la parola “ritiro”, preferisco “evoluzione” per parlare del prossimo passaggio», ha scritto la tennista, vincitrice di 23 Slam. «È la cosa più difficile che potevo immaginare». Lo aveva anticipato poco prima, quando era tornata al successo in una partita di singolare a Toronto: «Vedo la luce in fondo al tunnel, e si chiama libertà», poi il suo lungo racconto.
«Non mi è mai piaciuta la parola ritiro», ha scritto invece in prima persona. «Non la sento una parola moderna. Ho pensato a una evoluzione, ma voglio essere sensibile su come la impiego, questa parola, che significa qualcosa di molto specifico e importante per una comunità».«Credetemi, non ho mai voluto dover scegliere tra il tennis e la famiglia. Non penso sia giusto. Se fossi un maschio non dovrei scrivere questo, perché sarei là fuori a giocare e vincere mentre mia moglie faceva il lavoro fisico di espandere la famiglia. Forse sarei più una Tom Brady se ne avessi l’opportunità. Non fraintendetemi: amo essere una donna e ho amato ogni secondo della gravidanza di Olympia. Ero una di quelle noiose donne che amano essere incinte e lavorano fino al giorno in cui vanno in ospedale, anche se le cose si sono di molto complicate dall’altro lato. E ho quasi fatto l’impossibile: molti non hanno capito che ero incinta di due mesi quando ho vinto gli Australian Open nel 2017. Ma questo mese compio 41 anni e qualcosa devo cedere», aggiungendo poi su Instagram: «Ora, il conto alla rovescia è iniziato. Devo concentrarmi sull'essere una mamma, sui miei obiettivi spirituali e scoprire finalmente una Serena diversa, ma comunque eccitante. Intanto mi godrò queste prossime, ultime settimane».
Alla base ci sarebbe una richiesta della piccola Olympia , come racconta la stessa Serena all’inizio del suo lungo scritto: «Sta per compiere 5 anni, eravamo in macchina e stavamo andando a prenderle un nuovo passaporto prima di un viaggio in Europa. Stava usando una app educativa sul mio telefono e la voce robotica le ha chiesto: “Cosa vuoi essere quando crescerai?” Non sa che la sto ascoltando, ma posso sentire la risposta sussurrata al telefono: “Voglio essere una sorella maggiore”».
Dopo aver ammesso che con il marito Alexis e con i suoi genitori sente l’argomento come un taboo («Sono riluttante ad ammettere com me stessa o chiunque altro che sto per smettere di giocare a tennis» e «è come se non fosse vero finché non lo dici ad alta voce»), Serena spiega di averne parlato con il terapista: «E non indorerò la pillola. So che in molti sono felici e non vedono l’ora di andare in pensione, e io vorrei sentirmi così. Ashleigh Barty era numero uno del mondo quando a marzo ha detto stop. Caroline Wozniacki si è sentita sollevata quando lo ha fatto nel 2020. Lode a loro, ma per essere onesta, non c’è gioia in questo argomento, per me».
«So che è la fine di una storia iniziata a Compton, California, con una piccola bambina nera che voleva solo giocare a tennis» e «papà dice che ho preso in mano la prima racchetta quando avevo tre anni». E poi il racconto della sua carriera, dei suoi momenti felici nei corridoi dei tornei degli Slam, prima e dopo le gare «E ho superato Martina Hingis, e raggiunto Billie Jean King, una grande ispirazione per me, nel conto degli Slam. E stavo scalando la montagna Martina Navratilova. Dicono che non sono stata la più grande (il termine è GOAT, Greatest of all times, ndt) perché non ho superato il record di 24 di Margaret Court. Mentirei se dicessi che non volevo quel record. Ma non sto pensando a lei».
Il racconto dei gravi problemi avuti in gravidanza («un cesareo e una seconda embolia polmonare», «ho giocato mentre allattavo, ho giocato con una depressione post partum»). E il ritorno a una finale di uno slam. «Non sono riuscita a fare di più. Ma sono riuscita 23 volte. Ed è davvero straordinario. Ma in questi giorni, se devo scegliere tra il migliorare il mio curriculum nel tennis e migliorare la mia famiglia, scelgo la seconda».
Williams al momento è impegnata nel torneo Wta 1000 di Toronto ed è iscritta alla prossima tappa Wta 1000 di Cincinnati oltre che agli Us Open. Oltre ai 23 titoli Slam (con due Grandi Slam virtuali: quattro titoli consecutivi, ma non nello stesso anno solare, tra il 2002-2003 e il 2014-2015), in carriera ha vinto al 50 titoli in singolare.
È diventata la numero uno del mondo per la prima volta l'8 luglio 2002 ed ha occupato questa posizione per un totale complessivo di 319 settimane, terza nella classifica di tutti i tempi (dietro a Steffi Graf con 377 e Martina Navratilova con 331); è però al primo posto per settimane consecutive da migliore in graduatoria (186, al pari di Graf).
Il secondo stadio di Serena Williams, la diva che sta superando il suo mito. Carlo Annovazzi su La Repubblica l'1 Settembre 2022.
Arthur Ashe sempre pieno quando gioca, ma anche fuori il rito collettivo davanti ai maxischermi è ancora più grande. Una magia della quale è pervasa tutta New York per onorre la regina del tennis
Ci sono due stadi a Flushing Meadows quando entra in scena l'ultima diva. In quello ufficiale intitolato a Arthur Ashe i 23 mila che hanno conquistato il biglietto superando anche le attese digitali dei siti specializzati e che si mischiano ai vip in numero crescente, dopo Bill Clinton del lunedì mercoledì Tiger Woods, addirittura nel box della famiglia accanto a Venus, è l'immancabile Spike Lee. Fuori, nella piazza con la fontana centrale, se non altri ventimila una cifra che ci si avvicina parecchio. Tutti davanti ai maxischermi per il rito collettivo dell'anno. Serena Williams sta superando il suo mito, è diventata la star assoluta che va oltre il campo di tennis e New York è totalmente immersa nella atmosfera, siamo al Serena state of mind. Qui, si sa, sono bravissimi a creare gli eventi.
Ma stavolta c'è di più, c'è una figura nella quale la città si immedesima, tanto che si comincia a percepirne la differenza in piena Manhattan, pubblicità ovunque, da Times Square alla Grand Central Station, dai campi di Central Park al parchetto newyorkese per eccellenza, il Bryant. Ci sono immagini di Serena che ti avvolgono. E poi, la sera, quando l'ultima diva scende in campo, il place to be è all'interno del Corona Park, non ci sono Mets dall'altra parte della fermata del metrò che tengano, l'appuntamento dell'anno è lì, intorno allo stadio Arthur Ashe. E lì c'è il secondo stadio, una sorta di Henmann Hill o Murray Hill di Wimbledon anche se al posto del prato c'è uno spazio enorme tra i campi, con i bar a riempire bicchieri di Honey Deuce, il vero gadget da portarsi a casa.
Le cifre sono una testimonianza importante della febbre Serena, lunedì, al debutto, 29.402 spettatori solo per la sessione notturna, record assoluto di sempre. Ma Serena è nata per batterli, i record, e così mercoledì ecco i 29.959, sempre di più. Che, attenzione, si sommano a quelli già presenti con i biglietti ground giornalieri. E' così che si forma il secondo stadio, perché ai cinquemila arrivati per la sera solo per Serena si aggiungono quelli che dopo aver fatto incetta di gadget e goduto delle partite pomeridiane rimangono lì per la Storia. Decine di migliaia a soffrire e, finora, gioire, con boati che sovrastano quelli proveniente dal centralone. E il calore umano riscalda i numeri, dà loro un valore profondo. Ora New York crede in quello che sembrava impossibile, la prima sera c'è stata la celebrazione a fine match e tutto faceva pensare che fosse il saluto definitivo, Billie Jean King in campo, il filmato con la storia e la voce narrante di Anna Wintour. Ma "io sono Serena", come ha detto lei dopo aver sconfitto la Kontaveit e come spinta dal suo pubblico sta spostando più in là la sera del'addio. E la gente vuole accompagnare l'ultima diva. Il solo esserci è il senso della presenza nel secondo stadio, è l'ultimo segno d'estate. E lì, più ancora che in campo, si capisce quanto Serena valga davvero.
Da ubitennis.com il 9 agosto 2022.
Una disinvolta e raggiante Serena Williams si è presentata ai microfoni della sala stampa del Nationa Bank Open, dopo la prima vittoria in singolare arrivata a 430 giorni dalla precedente: la statunitense infatti ha battuto Parrizas Diaz 6-3 6-4 raggiungendo il secondo turno del WTA 1000 canadese.
A questo punto della tua carriera o della tua vita cos’è che continua a guidarti o ti fa venire fame in questo sport?
Non lo so. Immagino che ci sia solo una luce alla fine del tunnel. (Ride) Non lo so, direi che sono sempre più vicina alla luce, quindi… (ride). Sì, è così, ultimamente è stato così per me. Non vedo l’ora di arrivare a quella luce.
In che senso una luce?
La libertà. Amo giocare a tennis, per me è fantastico, ma so di non poterlo fare per sempre.
Come si è sentita durante la partita? Il tifo del pubblico l’ha aiutata?
Mi sono sentita bene, tornare a competere era quello che dovevo fare. Mentalmente non sono ancora al livello che desidero, ma è normale dopo aver giocato così poco negli ultimi due anni e scendere in campo mi aiuta a progredire sotto questo punto di vista. Fisicamente mi sento molto meglio in allenamento, sto aspettando di sentire buone sensazioni anche in campo, deve scattare quel clic.
Quanto è stato importante giocare davanti a Olimpia? Probabilmente è in un’età in cui ricorderà di aver visto la mamma in campo.
Vero, ero super emozionata perché non aveva mai assistito dal vivo a un mio match. Scorgendola in tribuna a un certo punto sono entrata in modalità mamma, chiedendomi: c’è il sole, ha la crema protettiva? E poi mi sono detta di rimanere calma (sorride), non era il caso di sbattere a terra la racchetta. In ogni caso sono contenta che questa prima volta sia avvenuta a Toronto.
Molte giovani giocatrici ne hanno parlato proprio in questi giorni: come ci si sente a sapere di aver avuto un impatto sulla crescita tennistica di ragazze come Gauff, Swiatek e Fernandez?
È una bella sensazione, lo so perché è capitato anche a me avere delle persone di riferimento. Sono contenta che sia così e da parte mia continuerò a incoraggiarle per fare in modo che lascino il segno e diventino sempre migliori.
Marco Imarisio per corriere.it il 26 luglio 2022.
Nella classifica dei migliori giovani che si contendono un posto nelle finali milanesi della Next Generation ci sono quattro italiani nei primi dieci posti, nove nei primi venti. Partiamo da qui, da una cosa mai vista nella storia del nostro tennis. Si parla tanto di Jannik Sinner, di Lorenzo Musetti, per tacere di Matteo Berrettini, che non è certo un ottuagenario. Ma dietro di loro c’è un’onda che sta per arrivare. Qualcuno ce la farà, qualcuno si perderà, come è normale che sia. Il tempo dei predestinati forse è finito con Roger Federer. Proprio la finale di Amburgo vinta da Musetti ci dimostra come anche il tanto celebrato Carlos Alcaraz abbia ancora tanto da lavorare.
Il presidente della Federtennis Angelo Binaghi non è un uomo facile. Possiede alcuni spigoli, alcuni anche aguzzi. Ma gli va dato atto di aver lavorato molto bene, decentrando, con un settore pubblico pronto ad aiutare l’impresa privata di genitori e circoli. In questo modo, è riuscito a invertire la tendenza del tennista italiano «con le spallucce vittimiste», come diceva Nanni Moretti in Aprile, che perde sempre per il vento, la sfortuna, mai per colpa sua, e gioca solo vicino a casa.
Quelli che non cambiano mai siamo noi appassionati, invece. Sempre pronti a dividerci, ad autonominarci commissari tecnici. Lorenzo Musetti è una meraviglia. Un dono per chiunque ancora cerca la bellezza in un mondo abitato ormai solo dalla forza bruta. Il modo in cui ha fatto impazzire Alcaraz con tocchi di controbalzo, variazioni, tagli, è solo un assaggio del suo potenziale cristallino, unico nel panorama attuale. Adesso Nicola Pietrangeli, lo nomina suo erede, contrapponendolo in modo implicito alle badilate dei nostri due giocatori più forti. Non ha torto, dal suo punto di vista. Musetti verrà sempre amato per come gioca, Berrettini e Sinner lo saranno solo per quanto vinceranno.
Ma è appena il caso di ricordare cosa si diceva del gioiello di Carrara pochi giorni fa, prima dell’impresa tedesca. Non c’è con la testa, in caduta libera, sbaglia le scelte in campo e fuori, ormai è andato. La musica era questa. Come se un ragazzo di vent’anni, e il discorso vale per tutti gli altri, non avesse diritto ai suoi periodi di luce e buio. Non abbiamo mai avuto una tale concentrazione di talento. Non abbiamo mai avuto così tanti giocatori con i quali praticare il nostro sport preferito: Guelfi contro Ghibellini, Coppi contro Bartali. Il futuro ci appartiene, almeno nel tennis. Proviamo allora semplicemente a godercelo, ognuno con le sue preferenze, tanto ce ne sarà per tutti i gusti
Lorenzo Musetti, dalla cantina di nonna Maria alle canzoni di Battisti e alla vittoria di Amburgo: chi è il talento del tennis italiano. Marco Calabresi su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.
Carrarese, 20 anni, Lorenzo Musetti ha appena battuto Alcaraz ad Amburgo: cresciuto palleggiando in cantina nel mito di Federer, chi è il campione azzurro che ci riprova a Umago
Con l'amico Alcaraz Musetti va a Umago
La mattina del giorno dopo il suo primo trionfo Atp, Lorenzo Musetti lo ha trascorso con la stessa persona che aveva provato a fermarlo, Carlos Alcaraz. I due, da Amburgo, si sono trasferiti assieme a Umago, in Croazia, dove oggi inizia un altro 250 sulla terra, con Carlos testa di serie numero 1, Sinner numero 2 e Musetti a cercare un clamoroso back-to-back. Intanto, con il titolo di ieri, Musetti ha guadagnato 31 posizioni del ranking: dalla 62 è salito alla 31, suo best ranking.
Gli inizi
La dedica più profonda, direttamente sul campo di Amburgo durante la premiazione, oltre che per i genitori (Francesco e Sabrina, che hanno seguito la finale in due posti diversi, motivi di scaramanzia) e per il suo team, è stata per nonna Maria. È nello scantinato di casa sua che Lorenzo, nato nel 2002 a Carrara, ha iniziato a tirare le prime pallate al muro. Da casa di nonna allo Junior Tennis Club di Carrara, e da lì a La Spezia, per sviluppare ancora di più un talento apparso a tutti naturale sin da subito.
L'incontro con Tartarini
È lì che Lorenzo ha conosciuto Simone Tartarini, il suo allenatore, che lo segue da sempre e che ieri Musetti è riuscito a far piangere - parole sue - per la prima volta. «Ci siamo capiti da subito, c’è un rapporto stupendo - ha raccontato in un'intervista al Corriere -. Lo dico subito: non vorrò mai altro coach all’infuori di Simone. È stato baby sitter in fase di crescita, educatore, secondo padre, maestro. Mi sento in debito con lui». Con Tartarini, nel box, anche i due preparatori Petrignani e Fiorucci e il tecnico federale Umberto Rianna: anche la Fit ha supportato Musetti sin da ragazzino, mettendogli a disposizione il centro di Tirrenia.
L'Australia Open junior
Nel gennaio 2019, Musetti si è fatto conoscere al mondo per la vittoria dell'Australian Open a livello Junior, in finale sull'americano Nava. Una vittoria arrivata annullando un match point e che cancellò il ricordo della sconfitta nello Slam precedente, quello di New York, dove era stato il brasiliano Thiago Seyboth Wild a negargli lo US Open. Nessun italiano, prima e dopo Lorenzo, ha trionfato da ragazzino nello Slam di Melbourne.
Il tatuaggio, i capelli e l'amore
Proprio la vittoria di uno Slam ha permesso a Musetti di vincere una scommessa con mamma Sabrina. Il trofeo? Un tatuaggio. Musetti ha scelto di farsi disegnare il suo elettrocardiogramma, il battito del suo cuore, «trafitto» da una racchetta. I capelli, invece, li stava facendo crescere per scaramanzia. Poi li ha tagliati, ma ora sono ricresciuti, anche se non abbastanza per legarli con un codino. Attualmente, Lorenzo non è fidanzato, dopo la rottura del suo legame sentimentale che risale allo scorso anno.
Il primo exploit al Foro Italico
Nel 2020, l'anno dello scoppio della pandemia in cui gli Internazionali d'Italia si sono giocati a porte chiuse, Musetti ha debuttato al Foro Italico superando due turni nel tabellone principale ed eliminando Wawrinka e Nishikori prima di arrendersi a Koepfer. L'anno prima, invece, lui e Sinner avevano dato spettacolo in un incontro di prequalificazioni, perso dopo quasi tre ore di gioco: fortunato chi lo ha visto dal vivo...
L'illusione con Djokovic e la crisi
La partita che avrebbe potuto lanciarlo e che invece è stata l'inizio di un tunnel è stato il match contro Djokovic nel Roland Garros dello scorso anno. In vantaggio di due set, però, Lorenzo è stato rimontato dal numero uno del mondo, e si è ritirato sul 4-0 nel quinto, Ne è seguita un'estate molto complicata, in cui importante è stato anche il confronto con uno psicologo messo a disposizione dalla Fit.
La vittoria della svolta
Nel marzo scorso, in Slovacchia in un match di Coppa Davis che vedeva l'Italia in parità prima dell'incontro decisivo, Filippo Volandri gli ha invece messo tutto nelle mani, responsabilizzandolo. E Lorenzo non ha fallito, battendo Norbert Gombos e regalando l'accesso alla fase a gironi alla squadra azzurra. È stata questa forse la vittoria che mentalmente lo ha reso più forte e che, probabilmente, gli ha permesso di superare ad Amburgo lo shock per i cinque match point non sfruttati contro Alcaraz, prima del trionfo finale nel terzo set.
Battisti, i Rolling Stones e LeBron James o Federer
Musetti ha raccontato di essere anche un appassionato di musica, ma non quella che ascoltano i coetanei, bensì quella anni Ottanta e Novanta. Da bambino, con il papà che la passione gliel'ha trasmessa, cantava «Con il nastro rosa» di Battisti, ma anche le canzoni dei Rolling Stones. La musica la ascolta anche con casse all'avanguardia, visto che Musetti ha confessato di spendere i suoi soldi soprattutto per oggetti tecnologici. Tra gli altri sportivi, invece, ammira LeBron James e Federer. È tifoso della Juventus: lo è adesso, ma lo era anche e soprattutto quando il portiere era un suo concittadino, Gigi Buffon.
Nick Kyrgios. Stefano Semeraro per la Stampa il 7 agosto 2022.
Nick Kyrgios non è solo un tennista, è un personaggio letterario. È dottor Jekyll e Mister Hyde, l'Arthur Rimbaud del tennis capace di passare da un'illuminazione a molte stagioni all'inferno. Pirandello approverebbe uno dei tatuaggi che ha sparsi sul corpo: «Dai una maschera ad uomo e ti mostrerà il suo vero volto». Un genio o un disadattato, dipende dai punti di vista, che quest' anno ha comunque stupito fan e detrattori, arrivando in finale a Wimbledon dopo anni di treni puntualmente mancati.
Proprio a Wimbledon si era rivelato sbattendo fuori dal torneo Rafa Nadal; poi erano seguiti anni fatti di lampi accecanti e di lunghi periodi di abulia. Figlio di George, un australiano di origine greca, e di Norlaila, malese di stirpe regale che ha rinunciato al suo titolo per diventare ingegnere elettronico, è cresciuto a Canberra, la tana dove ritorna appena può, amando prima il basket che il tennis.
In otto anni di carriera da professionista ha litigato con tutti, colleghi, arbitri, spettatori, accumulando un monte-multe imbarazzanti, facendosi squalificare per settimane e imporre un periodo di analisi. A Roma ha lanciato una sedia in campo e se ne è andato nel bel mezzo di un match, al Queen's ha mimato una masturbazione in campo; durante l'ultimo Wimbledon ha sputato a uno spettatore (che lo insultava), in Australia risposto al cellulare mentre giocava un doppio misto. Ma fuori del campo è amabile, gentile, brillante.
Durante la pandemia portava personalmente i pasti a casa a chi non poteva muoversi, si spende per molte iniziative benefiche. Nel 2018 ha confessato di essere arrivato anche a meditare il suicidio: «La sera bevevo 20 o 30 drink, poi la mattina andavo a giocare». Ora ne è uscito, ma non chiedetegli di stare più di qualche mese lontano da casa, perché la nostalgia lo uccide. Per John McEnroe, che si è offerto di allenarlo, «è il più grande talento degli ultimi dieci anni», ma lui rifiuta ogni coach.
«Non voglio imporre a nessuno un peso del genere», spiega con somma autoironia. In passato si è scontrato di brutto con Djokovic e Nadal (che lui chiama «Ralph») ma a Wimbledon con Il Djoker, che pure lo ha battuto in finale, ha inaugurato una «bromance», una fratellanza: «Ora ho capito che per arrivare in fondo ad uno Slam devi essere speciale».
Nessuno gioca come lui, santo e acrobata del tennis, in possesso di uno dei servizi più micidiali del circuito, imprevedibile con i suoi colpi da Circo. Ma nessuno ha ancora capito chi è veramente, Nick Hilmy Kyrgios.
Nick, Goran Ivanisevic dice che lei un genio del tennis ma che è impossibile prevedere quale sarà il suo prossimo colpo perché non lo sai nemmeno lei. È d'accordo?
«Be', sì e no. In realtà sono piuttosto strategico, quindi le mie tattiche non sono casuali. In realtà sento di avere un QI tennistico molto alto».
Si può dire che ha trasformato in «normali» colpi che prima sembravano solo da esibizione, come il colpo fra le gambe e il servizio dal basso?
«Sì, penso che il servizio da sotto sia una buona tattica, e ora lo vedo fare a tutti, da Bublik a Murray. Quando l'ho provato per la prima volta, contro Rafa, tutti dicevano che ero pazzo e che era una mancanza di rispetto. In realtà dopo tre ore che giocavo contro Nadal e non riuscivo a fargli un punto, ho provato a servire da sotto. Ora spero che tutti abbiano capito che è semplicemente un altro modo di fare punto».
John McEnroe si è proposto come suo allenatore: Lo prenderà in considerazione?
«No».
I campioni dello sport sono sempre sotto pressione, anche sui social media: dovremmo fare un passo indietro?
«Oggi c'è sicuramente un sacco di rumore di fondo con cui i giocatori non avevano a che fare 10 o 15 anni fa. La gente dice: "Non leggere i social media e non usare lo smart phone", ma è molto difficile. La pressione è enorme oggi e sicuramente è opprimente per molti atleti».
Tutta colpa dei social media?
«Sui social media si può criticare qualcuno e non ci sono vere conseguenze. Ora, che si tratti di abusi razziali o di semplice mancanza di rispetto, è considerato accettabile. Ma perché è accettabile?».
Lei litiga spesso con gli spettatori
«Sono diventati irrispettosi nei confronti degli atleti. Non è giusto. Vi è mai capitato di entrare in un supermercato e iniziare a rimproverare qualcuno che sta controllando la spesa? No. Allora perché lo fanno con me mentre sto giocando a Wimbledon? Perché? Vincere un torneo dello Slam è molto difficile, da quando sono nato ci sono riusciti in otto. Mentalmente devi essere un "animale" diverso. È difficile capire la pressione che devi sopportare, specie sui social media. Ho fatto uno sforzo per bloccare tutta quella negatività, ma i tennisti del passato non si rendono conto di che cosa significhi».
Ha pubblicato una foto di se stesso da bambino con una racchetta da tennis. Com' era quel bambino?
«Affamato. Molto affamato. Sono cresciuto a Canberra, su campi orribili, e ora ho avuto la possibilità di giocare la finale di Wimbledon. Penso che sia d'ispirazione per tutti i ragazzi che sono stati emarginati, maltrattati dai giornali, colpiti da molti punti di vista diversi».
Lei è arrivato ad una finale Slam dopo periodi molti difficili.
«Puoi sempre realizzare qualcosa di speciale, se credi in te stesso. La maggior parte delle persone intorno a me, a un certo punto della mia vita, ha pensato che non avrei mai raggiunto una finale del Grande Slam.Tutti hanno dubitato di me: ed era giusto. Ma io non ho mai perso la fiducia in me stesso».
Prima della finale ha detto che non avrebbe dovuto essere lì: in che senso?
«Io sono un ragazzo di Canberra. Un mese prima di arrivare a Londra ero a casa che giocavo a basket in un campetto con dei ragazzi, e gli ho detto "cercherò di divertirmi e magari di vincere Wimbledon". Mi sono ritrovato in finale, allenandomi al massimo un'ora al giorno. Ripensandoci mi chiedo: ma come ho fatto ad arrivare fin qui?».
Djokovic è l'avversario più difficile che ha incontrato?
«Non direi. Non ti fa sentire così male come Federer. Riesce a far sembrare tutto così veloce, il campo diventa così piccolo. Nadal e Djokovic ti permettono di giocare un po' da dietro, se non sei al massimo fai fatica. Ma Federer è in grado letteralmente di buttarti fuori dal campo molto velocemente».
Dove le piacerebbe giocare e contro chi la sua prossima finale Slam?
«Innanzitutto mi piacerebbe giocarla contro qualcuno più facile di Novak Riuscirci ancora a Wimbledon, o a Melbourne, sarebbe bello».
Che cosa cambierebbe se fosse il padrone del tennis?
«Le chiamate con l'Occhio di Falco dovrebbero essere obbligatorie ovunque. E lascerei perdere tutte le assurdità sul coaching in campo».
Durante la premiazione, dopo la finale, ha detto che non è certo di voler tornare a Wimbledon. Non sente di avere un lavoro da finire?
«Quest' anno ho incontrato persone fantastiche che mi hanno dato una motivazione in più.
Trovare qualcuno con cui mi piace stare, che mi protegge e mi spinge a essere una persona migliore e un tennista migliore, mi ha fatto capire che ho un talento immenso e ancora molto da dare a questo sport. Però credo che se avessi vinto, le mie motivazioni sarebbero scese un po', sarebbe stato difficile ricominciare a giocare i tornei più piccoli».
Che cosa ha imparato su di sé a Wimbledon che già non sapeva?
«È stato vincere il doppio in Australia che mi ha aiutato molto a livello di Grande Slam. Anche se si tratta di un doppio: vinci una partita, hai un giorno libero, ti alleni. Ho capito che uno Slam è un periodo molto lungo. Non puoi visitare la città, goderti il tempo come vorresti. Devi stare in casa, essere concentrato, far riposare la testa. All'inizio della mia carriera non mi ero reso conto che i giorni di riposo e di allenamento sono fondamentali. Nel 2014 il mio coach venne a prendermi al pub la sera prima di giocare con Nadal, quest' anno non ho bevuto neanche una birra».
Lei e i Next Gen reggerete il confronto con i tre Grandi?
«C'è un grande gruppo di giovani, Alcaraz è incredibile, Sinner avete visto cosa è in grado di fare. Ma non credo che né io né quei ragazzi saremo in grado di raggiungere il loro livello. Non vedrete mai più nessuno maneggiare una racchetta come Roger, competere come Nadal, vincere tanto e giocare così bene come Djokovic. Sarà un giorno triste quando se ne andranno. In un podcast ho detto che molti danno per scontato il talento di certi atleti. LeBron è in circolazione da 18 anni, sempre al vertice dell'Nba. E ancora lo critichiamo».
Ha molti fan in Italia: abbiamo speranza di vederla giocare qui le Finals?
«Sono un torneo a cui punto».
I Celtics, la sua squadra preferita, sono arrivati in finale Nba e lei a Wimbledon: vincerete entrambi nel 2023?
«Speriamo di sì».
Da ilnapolista.it il 13 luglio 2022.
In un’intervista a Wide World of Sports, Nick Kyrgios ha rivelato di aver attraversato un periodo in cui alcol e droghe gli hanno creato molti problemi, a livello familiare, personale e sportivo.
«Ho abusato di molto alcol e droghe e la cosa è andata fuori controllo. Ora non bevo quasi, ho bevuto solo un bicchiere di vino a cena. Ho dovuto ricostruire il mio rapporto con la mia famiglia e adottare abitudini più sane come stare a dieta, dormire bene, cercare di allenarmi un po’ di più».
L’australiano ha raccontato che la sua famiglia non era a conoscenza dei suoi disturbi. Voleva affrontare i problemi da solo.
«Ho respinto tutti quelli che mi volevano bene. Cercavo di gestire e affrontare i miei problemi personali da solo».
Ad allertare la sua famiglia e il suo entourage è stato Andy Murray. Lo racconta la madre Norlaila, in ‘Sydney Morning. Araldo’.
«John Morris, l’ex manager di mio figlio, mi ha detto che Andy Murray era preoccupato per Nick perché vedeva in lui tracce di autolesionismo».
La donna ha detto di essere ancora preoccupata per le condizioni del figlio, poiché non può stargli vicino per problemi di salute.
«E’ stato duro affrontare le critiche e cercare di proteggerlo, ma non posso proprio proteggerlo».
Francesco Persili per Dagospia il 25 ottobre 2022.
Il padel è davvero "il trionfo delle pippe” come sostiene Nicola Pietrangeli? Adriano Panatta affila la bandeja: “No, è una stupidaggine, odio questa spocchia sportiva dei puristi del tennis, se non vogliono giocare, non giochino, chissenefrega”.
Dopo anni di terra rossa, “Ascenzietto” è passato alle volée e alle uscite di parete sul campo blu. Non a caso nel suo Adriano Panatta Racquet Club a Treviso i campi di padel sono 6, come quelli da tennis. Lo spiega nel libro "Padel Mania", scritto dai giornalisti Sky Gianluigi Bagnulo e Dario Massara, che rappresenta un testo fondamentale per conoscere origini (messicane), personaggi e storie del gioco che sta facendo impazzire gli italiani. Altro che le battutine delle turbo-femministe sui maschietti obnubilati dal padel, questo è l’unico sport che può contare sul 50% dei praticanti donne.
“Piace a tutti perché è comodo, è l’unico gioco in cui la palla ti viene a cercare mentre di solito scappa via”, spiega Luciano Spalletti che, come tanti ex calciatori, si è fatto costruire un campo in casa.
A trasformarlo in show ci sta pensando il presidente della Federazione Internazionale Padel Luigi Carraro. Decisivo l’incontro in Qatar con il patron del Psg Al Khelaifi che ha portato alla creazione del Premier Padel, un circuito parallelo al World Padel Tour, con diretta tv e premi per i giocatori quadruplicati. “A Roma C'erano seimila persone per la finale", rimarca Carraro che ha ancora negli occhi Paquito Navarro "che dopo la sconfitta salta con i tifosi sulle note di "Paquito is on fire". Scene mai viste prima. È quello che volevamo ottenere”.
Storie pazzesche sottorete. L'argentino Belasteguin per non fa crescere i figli nella presunzione di avere un padre campione gli ha nascosto per anni di essere il numero uno. Oppure la seconda vita di Martin Di Nenno, che ha vinto il suo primo titolo 5 anni dopo un incidente stradale nel quale morirono due amici padelisti (Gaston Rodriguez e l’astro nascente Elias Estrella). In tutti i tornei sponsorizzati dalla birra Estrella a ogni ingresso in campo Di Nenno oggi evita di calpestare la scritta Estrella perché sarebbe come calpestare il nome di uno dei amici scomparsi.
E che dire poi di Robertina Vinci che dopo aver appeso la racchetta al chiodo invece di starsene sul divano si è messa a giocare a padel entrando tra le prime 100 del mondo. “C’è chi nasce con la camicia, io sono nata con la racchetta”
Alla promozione del gioco contribuiscono anche gli ex calciatori, alcuni dei quali si sono trasformati in imprenditori. In prima fila c’è Ibrahimovic che dopo i 5 centri in Svezia sta per aprire una struttura con 20 campi a Segrate, alle porte di Milano: “Ho visto giocare Cassano, già da come tiene la pala in mano si capisce che non è bravo. Gli italiani non reggono il confronto con gli svedesi. Il più forte? L’ex juventino Mellberg”.
Ma chi è stato il primo a portare il padel in Italia? Il primato se lo autoassegna il ct Roberto Mancini. “E’ stato un argentino a spiegarci nel 2007 cosa fosse il padel. Eravamo in un circolo di Bologna ed è lì che abbiamo messo su un campo e iniziato a giocare. Adesso è sulla bocca di tutti, ma quando l’ho conosciuto io nessuno in Italia ne aveva mai sentito parlare…”
Lorenzo Longhi per “Avvenire” il 6 Agosto 2022.
Là dove c'era l'erba ora c'è non una città, ma una cittadella fatta di campi da dieci metri per venti, divisi da una rete da tennis e delimitati da pareti lisce (spesso vetro temperato trasparente) e rete metallica in alto.
Diversi centri sportivi e svariati circoli in numerose città sono cambiati così: si sono evoluti nel nome del padel, sfruttando anche lo stop della pandemia per modificare le proprie strutture e ripartire con un'orda trasversale di praticanti, antidoto alla crisi che attanaglia invece gli altri sport.
Da un lustro a questa parte ci giocano tutti, perché «anche quelli scarsi si divertono» per dirla con Nicola Pietrangeli che, in una diretta Rai, così ha spiegato una sua battuta icastica ma innocente - «il padel è il trionfo delle pippe» - eppure perfetta per capire dove si debba ricercare il motivo del successo di uno sport nel quale oggi addirittura la domanda supera l'offerta, se è vero che in alcune città i campi vanno prenotati con settimane di anticipo.
A livello amatoriale, infatti, il padel non richiede eccelse capacità tecnico-atletiche.
Non servono le qualità fisiche necessarie a un tennista, non è necessario presidiare aree né sottoporsi a scatti improvvisi come nel calcetto, è più facile tessere relazioni sociali rispetto all'antiquato squash: due giocatori in coppia si dividono i cento metri quadrati dei due lati del campo, le racchette fanno anche simpatia perché riportano ai racchettoni da spiaggia, il resto sono servizi, risposte, rimbalzi, net.
E app per prenotazione campi e ricerca di compagni di squadra, piattaforme le quali, dopo la ripartenza, hanno assecondato il boom di uno sport che, in Europa, ha il maggior numero di praticanti in Spagna. E in Italia il 40% è rappresentato da donne.
Un censimento effettuato da Italy Major, torneo agonistico del nuovo circuito Premier Padel (per dire: tra i finanziatori c'è anche Qatar Sports Investment), e datato a fine aprile, ha dato i numeri dei tesserati: si tratta di 37 mila persone, circa 25 mila con tessera agonistica e 12 mila con tessera non agonistica.
Il padel è oggi una vera e propria assicurazione per la Fit, la Federtennis, i cui associati crescono principalmente grazie a questo gioco capace di attirare anche individui che mai avevano preso in mano una racchetta.
Se poi si va oltre e si ragiona sul numero di persone che regolarmente giocano a padel, senza alcuna tessera, le stime parlano di oltre 800 mila amatori, una cifra che potrebbe arrivare al milione se si considerassero nel novero anche coloro che vi giocano saltuariamente, senza alcuna regolarità.
Se i campi hanno abbondantemente superato quota 4 mila e continuano a sorgerne di nuovi (Lazio, Lombardia e Sicilia sono sul podio per numero di strutture), significa che il fenomeno è in continua crescita.
Sebbene la Federazione Italiana Gioco Padel sia nata nel 1991 a Bologna (il riconoscimento da parte del Coni e l'inserimento del settore all'interno della Fit risalgono al 2008), i numeri che il padel ha oggi non si devono prettamente all'azione federale, ma all'essere diventato uno sport cool grazie alla pratica di diversi personaggi famosi.
Come è accaduto per alcuni marchi della moda, il traino è arrivato dai testimonial: ex calciatori, attori, cantanti, modelle, star e influencer vari, tutti giocano a padel e inondano i social di immagini e video delle loro performance.
Va da sé che, assecondando lo spirito di questi tempi, se oggi non giochi allo sport che fa impazzire i Gianluca Vacchi (che non perde intervista per dire che vi dedica quattro ore al giorno) e i Totti, le Miriam Leone e le Vicky Varga o il poker della Bobotv, sei tagliato fuori. Come in una pubblicità di una vettura anni Ottanta, il padel piace alla gente che piace.
Il traino genera un giro economico vorticoso, al punto che diversi circoli sostituiscono i campi da tennis con quelli da padel (in uno dei primi se ne possono ricavare facilmente due dei secondi) più che raddoppiando gli incassi, al punto che un circolo con 4-5 campi può registrare tra i 3 e i 5 mila euro di prenotazioni al mese.
I quotidiani sportivi pubblicano pagine pubbliredazionali dedicate allo sport, i tornei si moltiplicano, il "vacchismo" spinge forte, la facilità e la trasversalità del gioco pure: il ferro è caldissimo e lo si sta battendo, plasmandolo alla bisogna. Calamitando così tanti praticanti, il padel ha un potere ambiguo: da un lato porta migliaia di persone ad alzarsi finalmente dalla poltrona riportandole all'attività sportiva, e questo è un bene in termini di salute, dall'altro è una manna per ortopedici e fisioterapisti, perché senza un minimo di allenamento farsi male è un attimo.
Problemi ai legamenti, dolori alle articolazioni, sovraccarico muscolare, epicondilite (il gomito del tennista): succede, se si presta scarsa attenzione ai movimenti, se non ci si riscalda, se si è "arrugginiti". E non accade di rado. Sin qui amatori e dilettanti, ma esiste anche una platea di professionisti ma che di padel vivono.
Oggi a livello di World Tour dominano gli spagnoli: nel 2020 e nel 2021 tra gli uomini si è confermata campione la coppia formata da Alejandro Galan Romo e Juan Lebron Chincoa (che vinse anche nel 2019 insieme a Francisco Navarro Compan), mentre tra le donne le regine sono Gemma Triay Pons, Lucia Sainz Pelegri e Alejandra Salazar Bengoechea. Nell'albo d'oro della manifestazione spiccano i plurivincitori l'argentino Fernando Belasteguin, il brasiliano Pablo de Lima e le spagnole Maria Pilar Sanchez e Marta Marrero.
Due i circuiti più ricchi: il World Padel Tour e l'Apt Padel Tour, i cui montepremi vanno dai 92 mila euro degli Open ai 105 mila dei Master Final e dai 90 mila per gli Open ai 140 mila dei Gran Master. L'italiano più illustre? Non un giocatore, ma il vertice assoluto della federazione internazionale: Luigi Carraro, presidente della Federazione Internazionale Padel. Dirigere federazioni, evidentemente, è il mestiere di famiglia.
Da corrieredellosport.it il 18 giugno 2022.
L’ex numero 3 al mondo, considerato uno dei migliori tennisti italiani della storia, a Estate in Diretta su Rai 1 ha detto la sua sul padel. Con un’espressione che sembra offensiva, ma in realtà cela un pensiero più profondo. “È il trionfo delle pippe”, ha detto, ma cosa intendeva veramente Nicola Pietrangeli?
Parole, riportate da Mr Padel Paddle, che hanno suscitato ilarità in studio, prima che Pietrangeli potesse chiarire: “Sono obbligato a fare una battuta, ma sia ben chiaro, è una battuta. Lo è perché permette a tutti di divertirsi. Non c’è dubbio che uno che gioca male a padel si diverte di più di uno che gioca male a tennis. Quindi faccio i complimenti al padel, perché il giocatore scarso di tennis la palla non la tocca mai e non si diverte. Qui le distanze sono più brevi”.
Come per ogni sport, c’è una grande differenza tra il praticarlo a livello amatoriale e professionistico: “I campioni sono campioni, lasciamoli perdere. Ma si diverte molto di più un giocatore scarso di padel e non uno scarso di tennis”.
Da ilnapolista.it il 6 luglio 2022.
Il padel registra un incredibile boom di appassionati, ma anche di infortuni. Oggi il Messaggero dedica al tema un’intera pagina, con le dichiarazioni dei medici. Come Andrea Grasso, ortopedico e traumatologo che si occupa con Consulcesi Club di formazione per medici e operatori sanitari.
«Stiamo assistendo sempre più a numerose rotture e lesioni del tendine di Achille, oltre a strappi e lesioni muscolari del polpaccio. A livello informale di ambulatorio, negli ultimi anni è lo sport in assoluto che porta più pazienti in ambulatorio».
Il direttore di Traumatologia dello Sport e Chirurgia del ginocchio del policlinico Gemelli di Roma, Enzo Adriani, spega:
«La differenza principale del padel rispetto al tennis sono le rotazioni. Giocando, viene sollecitato molto il ginocchio, tanto è vero che vediamo diverse lesioni del crociato anteriore. A rendere ancora più rischioso il gioco a 4, è lo spazio ristretto del campo, per cui è sempre possibile il trauma da contatto».
«Visto che tecnicamente è più facile rispetto al tennis, spesso si gioca impreparati. Non dimentichiamo poi che un 70 per cento dei pazienti operati di crociato per padel sono donne. Si tratta di una caratteristica fisica. Le donne sono più predisposte alle lesioni del crociato perché il bacino è un po’ più largo e il ginocchio un po’ più valgo. Questi infortuni, infatti, avvengono anche nel calcio femminile. Da un anno ormai li stiamo osservando anche nel padel».
Per evitare di infortunarsi occorre una buona preparazione atletica. Lo spiega il vicepresidente di Otodi, Società degli ortopedici e traumatologi ospedalieri italiani, Fabrizio Cortese.
«Il grande problema è che si tratta di uno sport ad alta velocità rispetto al tennis e spesso viene praticato da chi non ha un adeguato allenamento. Di solito, replicando con il movimento alto della testa, sia della battuta che del diritto, molti giocatori hanno problemi a livello dell’articolazione della spalla, oppure tendiniti a causa dell’uso eccessivo di alcuni muscoli. Stiamo osservando anche numerose distorsioni di caviglia, dovuti ai rapidi cambi di direzione».
Antonella Piperno per agi.it il 19 giugno 2022.
“Macchè “trionfo delle pippe”. Non sono per niente d’accordo con Pietrangeli e non capisco come gli sia venuto in mente di andare a rompere le scatole a quelli che si divertono con il padel, sminuendolo. Poteva farne a meno”.
Se avete visto ‘Una squadra’ la docufiction Sky sul team azzurro (Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli capitanati da Pietrangeli) che vinse la Davis nel ’76 già sapete quanto siano esilaranti i battibecchi a distanza, esaltati da un montaggio superlativo, tra Pietrangeli e Panatta: la disputa su chi sia stato tra loro due il tennista italiano che ha vinto di più, fatti e momenti epocali rievocati con due punti di vista quasi sempre opposti (Pietrangeli che racconta delle lacrime di pentimento di Panatta sulla sua spalla qualche anno dopo che la squadra spinse la federazione a metterlo alla porta come capitano, Adriano che con un’espressione più eloquente delle parole ribatte “ma quando mai, io non ho mai pianto sulla spalla di nessuno” e così via).
“La storia di ‘Una squadra’ continua e non per colpa mia…” sottolinea Panatta con l’AGI. Già, perché se ci fosse in preparazione una seconda stagione Procacci potrebbe farla iniziare dal padel, con Pietrangeli che a ‘Estate in diretta’ su Raiuno lo ha appena liquidato come “trionfo delle pippe” (sottinteso “dei tennisti scarsi”) e Panatta che intervistato dall’AGI, dissente, anzi rilancia: “Sono sicuro che il padel diventerà presto uno sport olimpico”, chiarisce il trionfatore di Roma e Parigi ’76 che nel suo circolo ‘Racquet club’ di Treviso ha voluto lo stesso numero di campi di tennis e padel, sei per specialità.
“Il padel è uno sport vero, e molto divertente - chiarisce - ha dato vita a un bel movimento ed è molto sociale, sia quando si gioca, sia fuori, non ho mai visto nel mondo del tennis tante chat di giocatori che, con la scusa di organizzare l’appuntamento settimanale, socializzano e scherzano fra loro. Ma soprattutto, in campo ci si sente molto meno soli rispetto al tennis”.
Panatta che oggi gioca molto più a padel che a tennis (“una volta a settimana, più o meno, mi diverto con gli amici”) smonta la teoria di Pietrangeli sottolineando che anche se il padel somiglia al tennis“è un altro sport, forse chi calca la terra rossa è avvantaggiato, ma neanche troppo. Ho visto la prima volta di un maestro di tennis, riusciva a palleggiare, ma la tecnica ha dovuta impararla da zero”.
Uno sport dove chi ha una certa età, visto il campo più piccolo, riesce a sopperire meglio a ginocchia scricchiolanti e usure varie rispetto alla terra battuta? “No, anche sui campi da tennis vedo tanti ottantenni, ci si diverte allo stesso modo, rispettando il proprio livello”.
Una piccola concessione a Pietrangeli, Panatta però la fa: “Il padel è un po’ più facile del tennis e i miglioramenti si vedono prima – spiega – ma ammetterlo non significa esasperare il purismo del tennis. Perché spesso il purismo diventa spocchia e io la spocchia, di qualsiasi tipo, proprio non la sopporto”.
Jelena Dokic. Da corrieredellosport.it il 14 Giugno 2022.
Jelena Dokic, 39enne ex tennista, sui social ha raccontato il proprio dramma. Straordinario talento della racchetta, l'ex numero 4 al mondo ha dovuto farei conti con una vita piuttosto complicata che l'ha portata a un passo dal farla finita. Prima il padre padrone, poi altri demoni che l'hanno condizionata. Jelena indica una data precisa, 28 aprile 2022, quando si trovava al 26° piano e ha pensato di buttarsi.
Per fortuna non l'ha fatta e sui social ha deciso di raccontare tutto: “28 aprile 2022. A momenti saltavo giù dal mio balcone al ventiseiesimo piano per togliermi la vita. Non dimenticherò mai quel giorno. Tutto è sfocato, tutto è buio. Non c’è suono, non c’è immagine, nulla ha senso… solo lacrime, tristezza, depressione, ansia e dolore”, racconta postando una foto di lei in lacrime.
L'incredibile racconto di Jelena Dokic
“Gli ultimi sei mesi sono stati duri. Un pianto continuo, ovunque. Dal nascondersi nel bagno al lavoro ad asciugarmi le lacrime così che nessuno vedesse, come quando sono a casa. Era diventato tutto insostenibile. Costanti sensazioni di tristezza e dolore non se ne andavano e la mia vita era stata distrutta. È colpa mia, non credo di meritare di essere amata e ho paura. So che ci sono molte cose di cui posso essere grata, ma poi comincio a odiare me stessa perché mi sento così e voglio solo farla finita. È un circolo vizioso che ho in testa. Sono quasi saltata di sotto dal mio balcone al ventiseiesimo piano il 28 aprile.
Non dimenticherò mai quel giorno, volevo solo che il dolore e la sofferenza finissero. Sono stata veramente al limite, non so come ce l’abbia poi fatta. Forse essere una professionista aiuta, mi ha salvato la vita. Questo non è facile da scrivere, ma sono sempre stata aperta e onesta e vulnerabile con voi e credo fermamente nel potere di condividere le nostre storie per attraversare questi momenti aiutandoci l’un l’altro.
Scrivo questo perché so che non sono l’unica a vivere questi momenti. Sappiate che non siete soli. Non vi dico che ora sto bene, ma sto sicuramente meglio e sono su una strada migliore. Alcuni giorni sono positivi, altri meno. Alle volte faccio un passo in avanti, altre faccio uno indietro, ma ora sto lottando e sento di poterne venir fuori”. Poi la promessa finale: “Tornerò, più forte di prima”.
Flavia Pennetta: «Fognini? Quando fa cavolate gliene dico di tutti i colori, poi lui si mette in castigo da solo. Ringrazio Moya che mi mise le corna». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022.
«La pazienza che non ha in campo Fabio la tiene per la famiglia. Il Roland Garros delle Leggende? Un regalo per me. Seles una delusione. La tennista più antipatica? Non Sharapova, Rodionova»
Flavia, da dove cominciamo?
«Da una foto dell’album della famiglia Pennetta: ho un anno, al massimo due, sono seduta in mezzo a un campo da tennis a Brindisi, la mia città. Gioco con la terra rossa come fosse sabbia al mare, perfettamente a mio agio. E la cosa pazzesca è che nel telefonino ho un video di Farah, la seconda dei miei tre figli: posa uguale, situazione identica, stessa faccetta estasiata. Spiccicata a me, che andavo a dormire abbracciata alla racchetta invece che all’orsetto di pelouche».
Per lo sport italiano Flavia Pennetta, 40 anni, fieramente pugliese, figlia di Oronzo presidente di tennis club e Concetta (bella come lei), nipote di Elvy prima giocatrice e poi maestra, ha rappresentato esattamente tutto ciò che è stata per Fabio Fognini: oggetto del desiderio, fidanzata, moglie, madre. L’amore, in entrambi i casi, è stato lento a nascere (primo titolo importante a Indian Wells, in California, a 32 anni; il botto a New York nel 2015: a 33 anni la tennista più attempata ad aggiudicarsi il primo titolo Slam della carriera), forse perché prima Flavia era impegnata a imparare a vincere con la Federation Cup, la Davis delle ragazze conquistata quattro volte insieme alla miglior generazione di giocatrici che l’Italia abbia mai avuto: con lei, Francesca Schiavone, Roberta Vinci (battuta nella finale dell’Open Usa), Sara Errani. E appena raggiunta la vetta della montagna, basta: ha deciso che da lì voleva scendere. Ritiro contestuale al trionfo più grande, un esercizio di stile non banale né scontato riuscito a pochissimi fuoriclasse.
Ripartiamo da due polaroid indelebili di quell’album.
«Grado, ho 16 anni: vinco il mio primo torneo vero e sono la ragazzina più felice del mondo. Sopot, Polonia, 2004: sono appena stata superata nel ranking dei punti da Tathiana Garbin, che così ha conquistato al posto mio la qualificazione ai Giochi olimpici di Atene. Un lutto, sono depressissima. Guardo in albergo, piangendo, la cerimonia d’inaugurazione. Almeno sto torneo lo vinco, mi dico. Detto, fatto. Ho festeggiato sempre da sola, in camera, con hamburger e patatine».
Invece di quel clamoroso trionfo a New York contro ogni pronostico nella stagione in cui Serena Williams doveva realizzare il Grande Slam, che ricordo conserva?
«La fifa blu che avevo la mattina della finale contro Roberta Vinci. Ero mangiata dall’ansia, in preda a un pianto isterico. A ripensarci ora, mi faccio ridere da sola. Solo io sapevo che quello sarebbe stato il mio ultimo Grande Slam e la vittoria di Roberta in semifinale su Serena Williams mi aveva caricata di una responsabilità mostruosa: io Serena non l’ho mai battuta in vita mia. Sette sconfitte, molte nette. Ho pensato di rinunciare, di non presentarmi».
Sarebbe stato un delitto. Come ha sciolto la tensione?
«Andando a passeggiare per Manhattan, io con i miei pensieri».
Crede nel destino?
«Credo in un destino che ci creiamo noi, con le nostre scelte. Nessuno ti obbliga. Poi nella vita ci vuole anche culo ma tu devi essere positivo: se vedi nero, le occasioni ti passano sotto il naso senza che tu te ne accorga».
Fabio Fognini è stato un’occasione?
«È stato un innamoramento dopo anni di amicizia, durante i quali abbiamo avuto altri partner. Fabio è un buon compagno di vita, il marito che mi aspettavo. Sembrerà strano che io lo dica, ma è un uomo paziente. La pazienza che non ha in campo la tiene per la famiglia. I maschi spesso sono immaturi, tendono a rimanere sempre nel ruolo di figli, faticano ad affrancarsi dalle famiglie d’origine. Fabio è cresciuto e migliorato, senza sfuggire alla regola. Grazie a Dio con sua madre e suo padre, che mi conoscono da secoli, vado d’accordissimo».
Si è mai vergognata di una sua mattana?
«Vergognata no, ma mi sento sempre a disagio quando fa qualcosa che non deve fare. Lo guardo e mi vedo come riflessa in uno specchio: comunque è mio marito, è il padre dei miei figli, le cavolate che combina non finiscono lì, in campo. Quando torna a casa gliene dico di tutti i colori e lui si mette da solo in castigo, silenzioso e imbronciato mentre si autoflagella. Quando vedo rispuntare mezzo sorriso sotto la barbetta, gli è passata».
Le hanno mai chiesto: Flavia, ma come fa a stare con Fognini?
«La risposta è facile: ci sto perché lo amo. E perché siamo due persone molto più simili di quello che appare».
Cosa gli regalerebbe di sé?
«Un pochino della mia razionalità e della mia — perché no? — paraculaggine. A Fabio mancano i filtri: o non parla o dice tutto, senza mezze misure. Infatti a fine carriera lo vedrei bene in un salotto televisivo a parlare di sport. Oltre a capirne, creerebbe dibattito».
Avete lasciato Barcellona per Milano. Perché?
«Perché è ora di pensare al futuro. Barcellona è la casa dove nel 2015 è nato l’amore con Fabio, l’abbiamo comprata insieme. Ricordo ancora il panico prima del rogito. Ho chiamato mia mamma: mà, aiuto! E lei: tranquilla Fla, stai comprando un appartamento, non è che ci stai facendo un figlio. Come no. Ne avrei fatti tre...».
Milano, dunque.
«È la città italiana che offre di più. Ed è comoda: io ho tre voli al giorno per Brindisi, Fabio è a meno di tre ore d’auto da dove è nato, Arma di Taggia. Abbiamo preso casa in una zona molto verde, non lontano dallo stadio. Quando smetterà di giocare, Milano gli riempirà il tempo. Ha già un’agenzia di scouting e management: a differenza di me ha l’occhio che vede lontano, sa cogliere i talenti. Anche io, dopo aver mandato a scuola i figli, mi vedo produttiva: telecronache e commenti, il tennis è la materia che conosco di più. Ma se mi proponessero un reality itinerante, tipo Pechino Express, ci andrei subito! Con Fabio o con la mia amica Francesca Schiavone: moriremmo dal ridere».
L’idea di un figlio che segua le orme di mamma e papà le piace?
«Perfetto! Io ne sarei entusiasta, Fabio meno. Ma insomma l’importante è che i figli abbiano una passione e la coltivino, che ci sia qualcosa che gli toglie il fiato come il tennis a noi».
Il torneo delle leggende vinto al Roland Garros in doppio con la Schiavone le ha fatto venire qualche prurito? In fondo Serena Williams, che è tornata a giocare sull’erba inglese, ha solo cinque mesi più di lei.
«Per carità! Accettare di giocare a Parigi è stato un regalo a me stessa: non facevo qualcosa per me da tanto tempo. Tre figli sono un bell’impegno, Fabio spesso è via per i tornei: quando il carico diventa eccessivo e mi sento tutto il peso addosso, sbotto. È normale».
Ha mai incontrato un mito dello sport che si è rivelato diverso da come se l’era immaginato?
«Oh sì. Da ragazzina amavo follemente Monica Seles. Poi, un giorno, l’ho incontrata nello spogliatoio di un torneo. Era chiusa in se stessa, ricurva, fragilissima. Mille anni luce lontana dalla sparamalpetto che pensavo».
Sparamalchè?
«Sparami al petto, detto di qualcuno tronfio e spavaldo. È brindisino puro».
La collega più simpatica?
«Francesca Schiavone e Gisela Dulko, argentina, mia storica compagna di doppio».
La più odiosa?
«Non risponderò Maria Sharapova, come si aspetta, perché la russa Rodionova era peggio: letteralmente insopportabile. Una volta, a Cincinnati, le ho quasi messo le mani addosso: Gisela ha dovuto separarci».
La fama di Flavia Pennetta acqua cheta crolla miseramente anche sotto il dito medio che mostrò, una volta impegnata in Federation Cup in Francia, all’arbitro.
«Una scemenza che non pagai con la squalifica solo perché l’arbitro non se ne accorse! Mi è andata bene. Il giorno dopo mi seppellirono di fischi: giocai con le orecchie bassissime».
Rifarebbe tutto?
«Tutto. Anche gli errori che ho commesso, e ne ho fatti, sono stati errori giusti. Certi momenti di coppia, certi fidanzati... Ciascuno, con il senno di poi, ha avuto un senso».
Pensa all’ex numero uno del mondo spagnolo Carlos Moya, oggi allenatore di Rafa Nadal, che la tradì su una rivista di gossip?
«Non è andata proprio così».
Come andò?
«A Carlos, che mi ha messo le corna, devo dire grazie perché se fossi rimasta con lui avrei smesso molto prima e non avrei mai vinto quello che ho vinto. Andiamo a dormire, buonanotte amore. Il giorno dopo sto giocando un match contro Cibulkova, che a fine set va in bagno. Ne approfitto per sbirciare il telefonino, c’è un messaggio di Carlos: chiamami. Oddio, è morto qualcuno, penso. Perdo l’incontro in cinque minuti, lo richiamo: cosa è successo? Tutto bene, dice lui, però sono uscite su un giornale delle foto con una mia amica a Amsterdam... E cosa state facendo, chiedo? Ci baciamo, risponde. Spatapam, sono caduta in terra, svenuta. Ho perso 11 chili in sei giorni: non mangiavo, non dormivo, non respiravo. L’avevo idealizzato, dopo l’ho capito. E invece mi ha fatto il regalo più bello e prezioso: lui poi si è sposato con l’amore della sua vita, a me ha ridato la vita».
L’ha ringraziato, ora che il reato è prescritto?
«Fossi matta! Mai!».
Ma insomma Flavia, chi è la più grande tennista italiana di sempre: Francesca Schiavone che ha vinto il Roland Garros 2010 o lei che ha conquistato l’Open Usa 2015?
«Francesca è stata la prima a prendersi uno Slam, io la prima top 10 azzurra della classifica mondiale. In più, ho un torneo Master 1000 che lei non ha. Vale più Parigi o New York? Con Fra, pur volendoci un gran bene, ne discutiamo spesso. E allora facciamo che valgono pari: l’amicizia è più importante dei record».
Gabriela Sabatini. Dagospia il 9 giugno 2022.
“Gabriela Sabatini? Qualcosa di diverso e di più di un semplice innamoramento. Addirittura una sorta di coito oftalmico”. Ri-leggere Gianni Clerici è un’educazione alla libertà, una fenditura di luce nell’afosa cappa del politicamente corretto. Non c’è miglior serve&volley per gli occhiuti carcerieri della parola che l’elogio dello Scriba per “il sudore sotto le ascelle” di Gaby con il mistico affiorare di “uno splendido capezzolo sotto la stoffa intrisa di sudore”.
Una divulgazione seducente come certe volée di McEnroe: “Anche senza essere gay, da uno che ha una mano così mi farei certamente accarezzare!”, disse in telecronaca Gianni Clerici, sempre all’incrocio delle righe tra eleganza e cazzeggio.
“Bingo Bongo stare bene solo in Congo”, il duetto da Studio 1 con Rino Tommasi con cui era solito salutare l’inizio degli Australian Open, oggi manderebbe in tilt il severo protocollo editoriale a cui si attengono le tv. E le icastiche definizioni di Kim Clijsters “una pastorotta bionda” e di Justine Henin “magretta, bruttina, introversa sino a divenire cupa” avrebbero probabilmente lo sgradevole effetto di aizzare la canea social e di sicuro quello di scatenare le erinni turbo-femministe.
Eppure c’è stato un tempo in cui si poteva definire “negro” Artur Ashe, “italopitechi” i bifolchi del Foro Italico che fischiavano i rivali di Panatta, e fare innocuo body-shaming su Michelino Chang, “un bambino dal crapone enorme, dalle gambotte corte e stortignaccole”.
Si era più liberi o forse semplicemente Gianni Clerici è stato un genio nello spostare l’asticella della libertà di espressione dove voleva lui. Il bacio al ginocchio di Venus Williams, i lamenti della Seles “simili alla fase finale di un orgasmo” e i “gruantoli” (via di mezzo tra grugniti e rantoli) di Maria Sharapova, “una che, a chiudere un istante gli occhi, ricorda le esternazioni della povera Moana Pozzi”, rappresentano atti unici di erotizzazione dell’agonismo. Vette di sprezzatura inarrivabili per gli “arrotini” del politicamente corretto.
Leonardo Iannacci per “Libero quotidiano” l'1 giugno 2022.
È stata semplicemente la più forte. E non soltanto della teenager canadese Leylah Fernandez, già finalista agli US Open 2021 e battuta sul campo per 6-2, 6-7, 6-3. Ieri Martina Trevisan, 166 centimetri di grinta e tenerezza, ha definitivamente sconfitto, sotto il cielo di Bois de Boulogne, in una Parco sì bella come lo può essere soltanto in maggio, ben altri perfidi rivali che le hanno graffiato la vita: ad esempio i ricordi dei troppi fantasmi che hanno afflitto la sua mente quando era ancora un'adolescente e fu costretta al ritiro dal tennis per quattro lunghissimi anni a causa di una grave e perdurante forma di anoressia.
E poi le paure di non tornare ad essere più un'atleta come lo era prima della malattia, quando si vedeva troppo grassa, soprattutto nelle gambe, e si colpevolizzava non mangiando mai. Infine, i timori di non riuscire a tornare ad essere una tennista di livello, di diventare come le grandi campionesse azzurre che aveva visto dominare quando lei era adolescente a Firenze: la Pennetta, la Schiavone, la Errani, la Vinci.
Ieri, invece, Flavia, Francesca e Roberta, presenti qui al Roland Garros nelle vesti di leggende del tennis che fu, hanno applaudito convinte questa 28enne fiorentina che ha affrontato e vinto l'anoressia con salutari sedute di yoga e che, quando può, si precipita allo stadio a tifare per la squadra viola di mister Italiano.
A casa, tutti atleti: fanno il tifo per lei mamma Monica, maestra di tennis, e papà Claudio che è stato un calciatore arrivato a giocare in serie B. Il fratello Matteo è un ex tennista che ha vinto il doppio a Wimbledon nella categoria juniores. Tecnicamente Martina è una tennista mancina, con un diritto che fa male, diventata campionessa e approdata ieri alla prima semifinale major della sua carriera dopo una battaglia dura ed emozionante con la Fernandez, chiusa al terzo set dopo 140 minuti di gioco teso e vibrante.
Nella semifinale in programma domani sul campo centrale dell'impianto parigino dedicato all'aviatore francese morto durante la Prima Guerra Mondiale, la Trevisan affronterà la diciottenne statunitense Coco Gauff che nei quarti di finale ha inflitto una sonora lezione alla connazionale Sloane Stephens alla fine un derby Usa terminato 7-5, 6-2.
Domani è un altro giorno e i favori del pronostico sono tutti dalla parte della Gauff, indicata come l'erede di Serenona Williams. La Trevisan, però, ha già battuto proprio a Bois del Boulogne, due anni fa, la 18enne americana: vinse in rimonta con il punteggio di 4-6, 6-2, 7-5.
E Martina ha confermato ieri di avere un feeling particolare con il Roland Garros: nel 2020, con il mondo prigioniero della pandemia, aveva già stupito Parigi e, dopo aver regolato la Gauff, era approdata sino ai quarti di finale, battuta solo da Iga Swiatek. Già allora Martina si era guadagnata l'ammirazione di tutti per la tenacia mostrata in campo e il tennis aggressivo. Doti che le sono state care ieri contro la Fernandez, scesa in campo dolorante per problemi di vesciche.
Il racconto del match giocato all'ora di pranzo, mentre lungo la Rive Gouche della Senna i parigini si gustavano zuppe di cipolla e plateau de fromage, ha visto Martina partire decisa, andare sul 3-1, quando la Fernandez è stata costretta a chiamare medico e fisioterapista per cercare di lenire il fastidio al piede. Implacabile, la Trevisan ha chiuso il primo set per 6-2.
Altalenante la seconda frazione di gioco che ha visto la canadese giocare con più continuità. Martina, però, ha avuto una prima possibilità di chiudere il match visto che si è trovata in vantaggio per 5-4 e 40/30, ma è stata incapace di farlo, perdendo malamente al tie-break, quando ha rivisto i fantasmi del passato.
Tutto finito? Macché, la Fernandez non aveva fatto i conti con il carattere di Martina, con la cattiveria tennistica dell'azzurra che ha dominato il set decisivo con un parziale di 7 punti di fila, per portarsi sul 4-0 al termine del game più lungo e chiudere per 6-3. Mai così bella, Parigi, deve essere sembrata a Martina che ha raccontato divertita: «Alla fine del secondo set, perso al tie-break, ero stanca e avevo bisogno di andare in bagno perché mi scappava la pipì.
Restare in una toilette, lontano dal pubblico e dallo stress, mi è servito. Stavo giocando per andare in semifinale e avevo ancora un set davanti a me, quindi era giusto ripartire da zero». Rispetto a due anni fa, quando era stata la sorpresa arrivando ai quarti, la Trevisan non vede parallelismi: «È una situazione diversa. Nel 2020 avevo poca esperienza. Oggi la sto vivendo in maniera migliore rispetto ad allora e vorrei non finisse mai». Come non crederti, Martina?
Martina Trevisan, riti e segreti: la cena da sola, il tonno scottato, il fidanzato Marco in arrivo al Roland Garros. Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2022.
Vigilia tranquilla per la toscana, impegnata nella semifinale del Roland Garros contro la 18enne americana Coco Gauff: la routine scaramantica dell’azzurra che ha stupito il campionato del mondo sulla terra battuta.
Piccole Martine crescono a tonno scottato e riso bianco (menù vincente non si cambia), ma l’11° match consecutivo (i 5 del Wta 250 di Rabat, in Marocco, vinto dieci giorni fa, più i 5 di Parigi fino alla semifinale), oggi contro l’enfant prodige Coco Gauff sul centrale del Roland Garros, vale qualche piccolo sacrificio: la cena in camera da sola, ieri sera, per non distrarsi e rischiare di perdere — gli dei del tennis non vogliano — quella magia che ha accompagnato Martina Trevisan da Firenze, 28 anni, scorpione, moderatamente juventina, figlia di Monica storica maestra del Ct Perignano e Claudio ex attaccante (una stagione in B al Mantova), sorella del talentino Matteo e di Claudia, fidanzata con Marco che ha una pompa di benzina a Pontedera, nella sua marcia sulla rive droite .
«Disturbi alimentari e Covid alle spalle: mi sono ripresa il tennis»
E allora lo chef siciliano conosciuto a Parigi le ha recapitato il pasto in albergo, Marco Catarsi (coach) e Donato Quinto (fisioterapista) l’hanno lasciata tranquilla con i suoi pensieri e la visualizzazione della routine che l’aspetta al circolo: «Le abitudini sono importanti nell’ordine mentale di Martina — spiega Catarsi, nomen omen, che la conosce da quando aveva 4 anni —. L’allenamento alla stessa ora, le racchette incordate nello stesso posto, il medesimo asciugamano, gli integratori infilati nella borsa in sequenza precisa. C’è un po’ di scaramanzia...». E se servirà, contro la Gauff, tornerà in bagno a lavarsi la faccia: «Perso il secondo set con la Fernandez sprecando il match point — racconta il coach —, la pausa toilette è stata importante. È tornata tranquilla, mi ha sorpreso. Ho detto a Quinto: se si prende il primo game, si prende la partita». La conosce bene, Matteo; aveva ragione.
Martina Trevisan in semifinale al Roland Garros: l’anoressia, la crisi, la psicologa, il ritorno. Così è rinata la tennista italiana
Con Gauff, n.23 a 18 anni, fresca di diploma di high school, è un’altra storia, però non scontata. Martina, mancina, ieri si è allenata con un tennista (maschio) destrorso, come Coco: «Gli abbiamo chiesto di riprodurre le traiettorie dell’americana: la chiave sarà cambiare il ritmo allo scambio, sfruttare il mancinismo di Martina, non dare riferimenti». Tra Rabat («Il clic contro Muguruza, vincitrice Slam: Martina perdeva 6-3, 3-1, ha recuperato, vinto e acquisito la fiducia che si porta dietro») e Parigi c’è un po’ di stanchezza ma anche quella consapevolezza che nel 2020, quando a sorpresa Trevisan raggiunse i quarti qui al Roland Garros, mancava.
Le due stagioni successive sono servite a fare esperienza, conoscere l’ambiente, raccontare dell’anoressia al passato remoto, impostare il lavoro con la psicologa, smaltire il Covid («Pochi sintomi ma una grande spossatezza quando sono tornata in campo» ricorda lei), costruire la giocatrice che è adesso. «Il lavoro dà i suoi frutti — gongola il coach — fisicamente e mentalmente. La tennista che affronta Coco Gauff non ha nulla a che vedere con la ragazzina dell’exploit di due anni fa». Dalla Toscana arriveranno mamma e ragazzo, la mozione degli affetti. La nuova classifica (top 30 e numero uno d’Italia scavalcando Camila Giorgi) imporrà una programmazione diversa («Senza pressioni particolari, però»), il sindaco di Firenze è già pronto a consegnarle le chiavi della città, Parigi a promuoverla codice d’accesso ai meccanismi perfetti della regina Swiatek. C’è tempo. Oggi serve solo giocare bene a tennis. Da sinistra, col sorriso, alla Martina Trevisan.
Il difficile mestiere degli «invisibili» raccattapalle del tennis. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.
Ball boys e ball girls, come si chiamano in inglese, sono parte essenziale del gioco. Devono essere rapidi, scattanti, «servizievoli».
Mentre davo un’occhiata alle imprese di Jannik Sinner e di Lorenzo Sonego (è del Toro) al Roland Garros la mia attenzione è stata colpita dai raccattapalle. Su cui non si presta mai abbastanza attenzione, a cominciare dal nome. Che è brutto, ammettiamolo. Se i cronisti che a bordo campo strappano commenti agli atleti venissero chiamati raccattaopinioni, ci sarebbe una mezza sollevazione. In inglese, i raccattapalle si chiamano ball boys o ball girls e suona meglio. Provate un po’ a seguirli. Diversamente dai raccattapalle del calcio, che intervengono meno e la cui missione principale è quella di affrettare il recupero palla se la squadra di casa sta perdendo o di rallentarlo se invece sta vincendo, i ball boys e le ball girls sono parte essenziale del gioco. Devono essere rapidi, scattanti, «servizievoli» (meraviglioso il momento in cui forniscono le tre palle a chi è di servizio e questi, con un colpo d’occhio, ne rispedisce una indietro) ma soprattutto quasi invisibili, mai protagonisti.
l’impressione che vengano addestrati a fare i raccattapalle in un concetto più generale di educazione al tennis. Prima della pandemia, dovevano essere tempestivi nel porgere l’asciugamano al giocatore nel momento della richiesta: non si diventa, la butto lì, buoni tennisti se prima non si frequenta la scuola dei raccattapalle. Mi chiedo sempre come facciano a capire le manie scaramantiche dei vari tennisti (servire Nadal dev’essere un incubo), a sopportare gli sfoghi dei perdenti, a prendersi qualche pallonata e far finta di niente. Ricordo, tanti anni fa, di un raccattapalle che, durante una partita di calcio, allontanò con un piede il pallone che stava per entrare in rete senza che l’arbitro se ne accorgesse. Ecco, una cosa così è impensabile su un campo da tennis. Questioni di raccattonaggio.
Il presidente della Federtennis, Binaghi attacca il presidente del Coni Malagò: “Voleva danneggiare gli Internazionali”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Maggio 2022.
Il presidente della Federtennis in passato aveva annunciato (basta rileggere le collezioni dei giornali) che con lui "non si sarebbe mai ripetuto il caso del satrapo Galgani” , per 20 anni di presidenza della federazione Italiana Tennis. Ma cosi non stato ed infatti Binaghi è incollato sulla sua poltrona da 21 anni in attesa di poter sostituire un giorno Giovanni Malagò dalla presidenza del Coni…
In occasione della tradizionale conferenza conclusiva degli Internazionali Bnl d’Italia, il presidente della Federazione Italiana tennis Angelo Binaghi nell’ elencare i numeri della manifestazione, ha imbastito una polemica a distanza con il presidente del Coni, Giovanni Malagò: “Prima ha cercato di non far giocare Djokovic, poi non voleva che ci fossero i russi, ma noi abbiamo analizzato bene le sue parole e non è vero che il Cio aveva dato dichiarazioni differenti rispetto a quelle osservate da ITF, ATP e WTA. Malagò ha chiesto di intervenire nell’autonomia dello sport, proprio lui che si è sempre lamentato in passato di questo. Ha cercato di indirizzare il governo verso una decisione che avrebbe danneggiato gli Internazionali“.
Secondo il “discusso” Binaghi “Non far giocare i russi, e questo Malagò lo sa bene, avrebbe avuto una serie di conseguenze che vanno dallo sciopero dei giocatori alla possibile revoca della licenza del torneo: in sostanza addio agli Internazionali – ha continuato – devo dire grazie a Draghi e al governo che hanno capito tutto. Al Governo non chiediamo soldi, ma di poter operare senza interferenze per lo sviluppo del torneo“. Il fatturato del torneo è di circa 42 milioni di euro, quello della Fit di oltre 146 milioni di euro. L’indotto viene valutato dalla Fit (ma non spiega come viene fatto il calcolo) intorno ai 150 milioni di euro. Una manifestazione che ormai sembra più una manifestazione per fare “cassa” ed attrarre sponsors che un evento prettamente sportivo, e che notoriamente riempie le tasche della Federtennis che rifiuta gli accrediti a chi non esalta l’operato del presidente Binaghi. Come accaduto tempo fa al nostro giornale “reo” di aver ospitato l’opinione di un giornalista del calibro di Antonello Valentini.
Ma cosa aveva detto il presidente del Coni, Giovanni Malagò, prima del torneo? “Da presidente del Coni e membro del Cio, mi occupo di politica sportiva e non di politica – aveva affermato Malagò in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera – In Italia, ribadisco, rappresento il Cio. E l’Executive Board ha raccomandato a tutte le federazioni di non invitare atleti russi e bielorussi ai tornei e alle manifestazioni sportive. Wimbledon, che è un circolo privato, si è attenuto a questa indicazione. Tutte le più importanti federazioni internazionali, sottolineo tutte, hanno accolto e seguito le raccomandazioni del Cio“. “Spetta al Governo prendere una decisione – aveva aggiunto Malagò – Starà studiando il caso, valuterà la situazione, poi farà una scelta, sono convinto la migliore per il Paese. Come membro Cio, non posso che aderire all’invito del Comitato olimpico internazionale“.
Binaghi si è arrampicato sugli specchi : “Noi rientriamo nel punto due di quanto scritto dal Cio e il board dell’ITF ha sospeso la Russia e Bielorussia da tutte le competizioni a squadre, cancellate le competizioni in quei paesi e come succede a Roma i giocatori russi e bielorussi sono autorizzati a giocare, ma senza nome della nazione e i colori della bandiera” dimenticando che non è un torneo per nazioni come la Coppa Davis !
Il n.1 della Federtennis in carica dal 2001 ha evidenziato il successo di questa edizione del torneo, grazie al ritorno del grande pubblico sulle tribune del Foro Italico, con il 100% della capienza consentito dopo gli anni della pandemia: “Abbiamo già superato i 16 milioni di ricavi da biglietteria, e con i dati della finale, supereremo i 230 mila spettatori paganti. A noi risulta il più grande risultato nella storia di manifestazioni sportive a ricorrenza annuale nel nostro Paese”.
Binaghi ha sottolineato come gli Internazionali 2022, per quanto riguarda numero di spettatori paganti complessivi e ricavi da biglietteria, abbiano superato anche i dati corrispondenti dell’edizione 2019 del Gran Premio di Monza di Formula 1, che aveva attirato 155.230 spettatori per un incasso di 15,6 milioni. Che fino a questo momento rappresenta il record per un evento sportivo singolo a cadenza annuale in Italia.
“Ma c’è una differenza fra noi e loro – ha concluso Binaghi – Noi non utilizziamo un euro di contributi pubblici”, ha rimarcato il presidente della Fit. L’incasso di oltre 16 milioni, rappresenta un aumento dell’ 875% rispetto al 2004. Un dato che è stato sempre in crescita nel corso degli anni con l’unica esclusione dei due anni legati alle restrizioni anti Covid, 2020 e 2021“.
Entusiasta anche Vito Cozzoli amministratore delegato di Sport & Salute (ex Coni Servizi), società pubblica proprietaria degli impianti sportivi del Foro Italico, ha sottolineato il ruolo centrale del sistema Foro Italico per lo sport italiano e mondiale: “Attraverso il successo degli Internazionali festeggiamo il ritorno alla normalità, ma soprattutto l’idea che lo sport è un investimento fondamentale per la persona singola e per la società. Sono particolarmente orgoglioso di aver ospitato, attraverso il torneo, 27.000 bambini delle scuole tennis. Adesso dovremo essere capaci di portare questi numeri fuori dall’agonismo del grande evento per garantire attraverso lo sport la crescita dello sport a tutti i livelli sul territorio, partendo dalle periferie”.
La Fit ha stanziato soltanto l’1% dell’incasso (circa 160.000 euro) per la federazione ucraina tennis a sostegno dei giovani giocatori che sono costretti a prepararsi all’estero. Ignoti e non divulgati gli importi incassati dai ricavi dagli sponsors e dal merchandising della manifestazione, che forse avrebbero potuto garantire un contributo sicuramente più sostanzioso.
Il presidente della Federtennis in passato aveva annunciato (basta rileggere le collezioni dei giornali) che con lui “non si sarebbe mai ripetuto il caso del satrapo Galgani” , per 20 anni di presidenza della federazione Italiana Tennis. Ma cosi non stato ed infatti Binaghi è incollato sulla sua poltrona da 21 anni in attesa di poter sostituire un giorno Giovanni Malagò dalla presidenza del Coni… Redazione CdG 1947
Da ilnapolista.it il 7 giugno 2022.
Tra i tennisti italiani degli anni Settanta e Gianni Clerici e Rino Tommasi non ci sono stati rapporti semplici. Paolo Bertolucci lo ha scritto chiaramente su Twitter:
Nemmeno Adriano Panatta ha mai amato Gianni Clerici (scomparso oggi, a 91 anni) né Rino Tommasi. Lo ha ribadito in una intervista tre giorni fa al manifesto.
Il tuo rapporto con i mass media non deve essere stato facile negli anni in cui eri sotto i riflettori.
Non solo io ma tutta la squadra, abbiamo avuto i giornalisti di tennis contro. Specialmente due soloni come Gianni Clerici e Rino Tommasi.
E, a parte qualche rara di eccezione di libertà intellettuale, gli altri si lasciavano influenzare da questi due. Oggi la stampa è molto più ben disposta verso giovani come Berettini e Musetti. Non dico che all’epoca mia non meritavamo le critiche, ma non ci faceva piacere leggere cose dure scritte con disprezzo e classismo…
Classismo addirittura?
Si, perché eravamo quattro ragazzi provenienti da famiglie modeste: figli di custodi, di ferrovieri, Zugarelli era cresciuto nella strada… Quel tipo di giornalisti, invece, pensava che si potesse essere intelligenti solo con una laurea, mentre sappiamo benissimo quanti coglioni laureati ci sono in giro.
Noi abbiamo sdoganato il tennis dei club, dei circoli un po’ chiusi, luoghi in cui l’italiano medio aveva pudore a entrare perché non si sentiva a proprio agio. Con le nostre vittorie abbiamo contribuito al boom del tennis e tutti hanno iniziato a giocare. Ecco, se c’è un grande merito, al di là delle coppe vinte, è stato rendere il tennis uno sport democratico, per tutti.
Nella serie si vede Gianni Minà darti il tormento durante la partita e poi negli spogliatoi.
Sai con Gianni eravamo molto amici, poi lui si poneva in una certa maniera e onestamente non mi ha dato nessun fastidio. Oggi se provi ad avvicinarti a un giocatore ci sono i body guard che ti sbattono immediatamente fuori dal campo.
Omar Camporese. Francesco Barana per ubitennis.com il 15 agosto 2022.
«La Coppa Davis? Non è solo tennis, ma tanto altro. Io mi trasformavo…». Omar Camporese scorre i ricordi con un filo di nostalgia: «Più di un filo, la nostalgia c’è eccome» sorride l’ex tennista bolognese, numero 18 del mondo nel 1992 dopo aver sconfitto Lendl e Ivanisevic nei trionfali Atp di Rotterdam e Milano, oggi maestro di tennis e direttore del Green Garden di Mestre. «Turbodiritto», così lo chiamava il mitico Giampiero Galeazzi in quelle dirette-maratone sulla Rai degli anni 80-90, nel torneo dell’insalatiera batteva i più forti dell’epoca: dal 1989 al 1997 gli scalpi sono tanti, da Sampras a Bruguera, da Stich a Emilio Sanchez, fino al canto del cigno di Pesaro contro Moya.
Ora attende che la Davis sbarchi nella sua Bologna dal 14 al 18 settembre, per la seconda fase all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno. «Da una vita la città non ospitava un grande evento tennistico. Era ora. Negli anni 90 Bologna era la capitale del tennis italiano con me e Paolo Canè, anzi, la capitale dello sport con Tomba nello sci, Virtus e Fortitudo che giocavano per lo scudetto nel basket e il Bologna che aveva Baggio. Poi il tennis è passato un po’ di moda in città».
L’evento di Casalecchio può aiutare a riaccrescere l’interesse…
«Me lo auguro, in Italia sta succedendo. Abbiamo Sinner e Berrettini, e Governo e Federazione stanno portando nel nostro Paese grandi manifestazioni come le Atp Finals e appunto la Coppa Davis».
Se pensa alla Davis cosa le viene in mente?
«La trasferta a Maceiò, in Brasile, nel 1992. Mai visto un pubblico simile. Tra l’altro eravamo anche un po’ impauriti perché, nel turno precedente, a Becker gli avevano tirato i serpenti ed era impazzito».
A voi i serpenti furono risparmiati…
«Fortunatamente sì, ma fu una torcida. Contro Mattar mi sembrò di vincere solo contro il mondo».
Lei e Canè in quegli anni eravate tra gli uomini più famosi d’Italia…
«Allora il tennis passava in Rai, milioni di italiani stavano incollati alla tv il sabato e domenica per guardare la Davis. Arrivavi alla massa. Poi in Davis ho giocato quasi sempre bene»
Si trasformava, ha detto. Cosa sentiva?
«Il tennis è uno sport individuale, pensi solo a te stesso. In Nazionale invece mi eccitavo nel sapere di giocare per il mio Paese, insieme ad altri colleghi. Ero talmente preso che preparavo la mia stagione Atp in base al calendario della Coppa Davis. Ci ho sempre messo qualcosa in più, ho vinto match che in altri contesti forse avrei perso”.
Ha battuto i più grandi, tranne Becker…
«L’ho sconfitto solo in doppio. Ma nel ‘91 a Dortmund subii e subimmo un furto. Avevo superato Stich e con Becker, allora numero uno del mondo, era il match determinante per il passaggio del turno, ma fu l’unico nella storia in cui cambiarono il giudice di sedia talmente era inadeguato. Ero avanti di due set e non mi diede un punto sulla palla break del 3-2 del terzo set, quando fece ripetere a Becker una seconda di servizio nettamente out. Con quel punto avrei messo mano sulla partita. Ricordo che tra il terzo e quarto set, nei 15 minuti di pausa, sfasciai lo spogliatoio dalla rabbia».
In compenso c’è la vittoria con Moya a Pesaro.
«Abbracciai Adriano (Panatta ndr) alla fine. Ero nella fase finale della carriera, dopo esser rimasto fuori a lungo per l’epicondilite al gomito destro, ma fui convocato all’ultimo per il forfait di Gaudenzi. Eppure quel giorno sapevo che potevo battere Moya. Ripeto, in Davis ho sempre trovato stimoli particolari».
Ha citato Panatta, che rapporto aveva con lui?
«Di ammirazione e stima. Il giocatore lo conoscono tutti, ma lui è stato anche un grande Capitano, con una capacità di lettura delle partite che non ho mai visto in nessun altro. Eravamo una vera squadra: prenda Paolo Canè, la gente credeva che fossimo rivali, invece siamo sempre stati e siamo ancora grandi amici».
Sinner e Berrettini sono più forti di lei e Canè, eppure voi eravate più popolari. Come mai?
«Il tennis è ancora troppo confinato nelle pay tv, o sui canali tematici. Così ti segue solo la nicchia degli appassionati. Noi avevamo la Rai e, mi permetta, giocavamo la vera Coppa Davis, quella delle trasferte in campi ostili, quella al meglio delle cinque partite concentrate nel fine settimana. Un insieme di condizioni che creavano l’epica, da tre anni a questa parte hanno stravolto tutto».
Nel 2019 i nuovi proprietari, capeggiati dall’ex calciatore Piqué, hanno rivoluzionato la formula. Panatta sarcasticamente la chiama appunto la «Coppa Piquè», ma anche il pubblico non ha apprezzato visti gli spalti mezzi vuoti sia a Torino l’anno scorso che nelle finali di Madrid.
«Oggi con questa formula strampalata si arriva persino a giocare di notte: ma chi lo guarda il tennis di notte? Eppoi mi faccia dire…»
Dica.
«I giocatori degli anni Novanta erano più forti. A differenza di oggi, tutti i top ten avevano vinto almeno uno Slam o un Masters 1000; e al numero uno si alternavano Wilander, Becker, Edberg, Lendl, Agassi, Courier, poi è arrivato un certo Sampras. C’erano delle rivalità da mozzare il fiato e noi italiani ci siamo sempre fatti rispettare contro questi fenomeni e la gente si esaltava. Adesso c’è ancora Djokovic, ha giocato pochissime partite quest’anno, ma nessuno lo ha superato. Qualcosa vorrà pur dire».
Chi le piace oggi?
«Alcaraz è fantastico, sa giocare, fa tutto benissimo, ha la mano e il tocco. Lui è il più forte di tutti. Poi c’è Sinner, che però rispetto ad Alcaraz ha qualcosa in meno e gli serve un po’ di tempo. Ecco, una rivalità di Sinner con Alcaraz potrebbe ricreare un’epica del tennis italiano».
In passato ha mosso qualche critica a Sinner…
«Premesso che ho sempre detto che è forte, lo esortavo a variare il suo gioco, ora vedo che ci sta provando. Nelle palle corte è cresciuto tanto, comincia anche ad andare di più a rete. Ma soprattutto Sinner mi ha conquistato sul piano emozionale».
Alla faccia di chi dice che è freddo…
«Ma va, lui è un altoatesino atipico, esuberante, si esalta e lotta in campo. E buca lo schermo, ha carisma, la gente impazzisce per lui. L’anno scorso ero a Torino a commentare per la Rai le Atp Finals: con Berrettini c’era l’entusiasmo che normalmente si riserva a un campione italiano che gioca in casa, con Sinner quell’entusiasmo sulle tribune è diventato delirio. Eppoi c’è un’altra cosa, la più importante…»
Quale?
«Sinner ci tiene tantissimo alla Nazionale, lo si è visto in Davis a Bratislava e a Torino. Insomma, ha tutto per diventare un’icona popolare».
Dopo il no alle Olimpiadi era quasi passato per anti-italiano…
«Credo che quella scelta non sia dipesa da lui, ma ripeto in Coppa Davis poi si è riscattato alla grande. Da questo punto di vista è come me e Canè».
Paolo Bertolucci. Stefano Semeraro per La Stampa l'1 agosto 2022.
Domenico Procacci, regista e produttore de "La Squadra", il docufilm sui quattro moschettieri italiani della Coppa Davis anni '70, ha ragione: «Panatta e Bertolucci sarebbero stati una strepitosa coppia comica». Cinquant' anni di amicizia e sfottò, zingarate e frecciatine che ora sono ripartite via twitter esilarando l'Italia.
Paolo Bertolucci, pure sui social vi prendete in giro ora?
«È iniziato quando ho fatto un post per invitare tutte le nonne d'Italia a fare gli auguri al «vecchio» Panatta».
Adriano ha risposto dandole del pischello e pubblicando la «wish list» per il suo compleanno, che cade il 3 agosto: maxi confezione di pannoloni, apparecchio Amplifon, 10 scatole di Prostamol, salvavita Beghelli
«Sono regali che hanno fatto a lui e che vuole riciclare: una caduta di stile. Lui è romano, e magari duemila anni fa era padrone del mondo, ma se parliamo di ironia contro un toscano neanche entra in campo».
Servizio, e risposta.
«Ma io gli rispondo in un secondo, lui ci mette venti giorni e consulta sceneggiatori, scrittori, giornalisti, perché da solo non è capace».
La vostra prima volta?
«Ad un torneo giovanile a Cesenatico, e mi è stato subito sull'anima. Sa: il pariolino che arriva dal grande circolo, con maestro e clan al seguito. Aveva 12 anni e già si parlava di lui, io 11 e venivo da Forte dei Marmi, uno sconosciuto accompagnato da mia zia perché i miei dovevano lavorare. Poi mi battè anche. Non è stato amore a prima vista».
Quando è scoccata la scintilla?
«È stato un matrimonio combinato, come in India. Mario Belardinelli ci convocò in quattro a Formia per il primo college tennistico: io, Adriano, Mario Caimo e Totò Bon, che poi ha giocato anche in nazionale a Rugby. Mattina scuola, pomeriggio tennis. Belardinelli ci mise in camera insieme».
Immaginiamo gli scherzi.
«C'erano Ottolina, Ottoz, Mennea, Berruti, il padre di Gigi Buffon. Noi avevamo 15,16 anni, la sera i grandi facevano irruzione nelle camere e tagliavano i capelli a tutti, si figuri Panatta. Mettevamo gli armadi contro le porte e Adriano dormiva con il coltello sul comodino. Io li avvertii: se gli toccate i capelli, quello vi accoltella sul serio».
Risultato?
«Non sono mai entrati».
Che cosa non sopportava di Adriano?
«Era un rompicoglioni terribile. Sbagliava lui ed era colpa mia. Le facce, le occhiate come per dire: "guarda con chi mi tocca giocare". La verità è che io sono riuscito a vincere in doppio nonostante la palla al piede di Panatta».
Un pregio?
«Se hai bisogno, lui c'è. Ho avuto momenti difficili nella vita, a modo suo mi è sempre stato vicino».
Cosa le invidia?
«La capacità di sopportazione».
E lei, cosa invidia ad Adriano?
«La sicurezza. Ne "La Squadra" si racconta di quando perdemmo in doppio con l'Inghilterra perché lui voleva "dare una lezione" a David Lloyd. Roba da vaffanculo negli spogliatoi. Al suo posto avrei tenuto lo sguardo basso, Adriano invece fece uno dei suoi sorrisi: «tranquilli, domani batto Taylor». Poteva sembrare presunzione, ma in quel momento capii che avevamo già vinto».
Vi sentite spesso?
«Sono passati anche mesi senza un messaggio, ad esempio durante la pandemia. Un giorno squilla il telefono: "Che fai?". "Sto in casa, come tutti". "Io mi rompo le scatole. Cosa potremmo fare? Cuciniamo qualcosa, dai". Lui a Treviso, io a Verona, capisce? Al telefono. Bisogna prenderlo com' è».
Però in cucina è bravo.
«Sì ma sembra un chirurgo: "Passami l'olio, passami il sale". Non muove un passo. E io faccio da sguattero».
Sui vini è l'opposto.
«Lasciamo perdere. Se viene a cena si presenta con due bottiglie di vino, ma si vede chiaramente che è alle elementari».
Il momento più intenso della vostra carriera?
«L'ultima partita. Perdiamo in Davis contro l'Argentina di Vilas e Clerc a Roma, nell'83.
'"Paolo - mi fa - Io smetto". "Bene - gli rispondo - così smetto anch' io perché mi sono rotto le palle". Andando verso gli spogliatoi, ci siamo scambiati un sorriso di liberazione e di complicità che voleva dire: "Oh, è finita. Ma quanto ci siamo divertiti"».
Vi inseguite anche nella vita.
«Lui, mi insegue. Romano, sposa una toscana e viene a vivere a Forte dei Marmi. Io divorzio e mi sposto a Verona, lui dopo un po' divorzia e si risposa a Treviso. Uno stalker».
Mai litigato per la politica?
«No, anche se mi fa ridere, si professa di sinistra e vive nella regione più leghista d'Italia.
Mi diceva: "Ma che vai a fare a Verona, che c'entri tu con i veneti". Ora gli piace Zaia: "È uno giusto". Un uomo di sinistra che vive come uno di destra. Anche adesso».
In che senso?
«Quasi tutti i weekend è a Cortina. Me lo immagino che va per i boschi, con il bastone, a cercare funghi».
Chi sta invecchiando peggio?
«Non c'è gara. Io esco tutte le sere, vado alle feste, in discoteca. Gli mando dei video e mi risponde: "Guarda con chi sono riuscito a vincere delle partite". Un vecchio».
Mai stati concorrenti in amore?
«Mai. Ho raccolto qualcosa, per dire così, di sponda: pensavano che flirtando con me avrei convinto Adriano ad andare con loro. Però ultimamente in una occasione c'è rimasto malissimo».
Racconti.
«Ci ha scritto una signora: "Con Barazzutti andrei volentieri a cena, con Zugarelli potrei avere un flirt, per Panatta una piccola sbandata. Ma mi innamorerei follemente di Bertolucci". Come gli è bruciato: "Il mondo si è rovesciato". A me viene da ridere, lui rosica».
Cos' è l'amicizia?
«Non è la frequentazione, quella viene per caso, per opportunità. È fare una telefonata e sapere che l'altro arriva, non importa se sta a 100 metri o 500 chilometri».
Chi è più bravo a commentare in tv?
«Se la partita è interessante, Adriano regge. Ma appena cala si abbiocca. Io resisto di più».
Perché non fate una trasmissione insieme?
«Di proposte ne abbiamo parecchie, vedremo. Mi piacerebbe un seguito del docufilm di Procacci».
Non farete più coppia in campo?
«Le racconto le ultime due. La prima per un doppio per beneficenza, con la moglie di Ancelotti e una ex modella. La moglie di Carlo dice: "Io gioco con Panatta". Ovviamente abbiamo vinto io e la ex modella. A rete, la signora Ancelotti mi fa: "L'anno prossimo gioco con te". L'aveva già scaricato».
La seconda?
«Doppio vecchie glorie a Parigi. La sera prima usciamo, facciamo tardi. La mattina dopo arriviamo al Roland Garros e ci sono i nostri avversari che si stavano allenando da un'ora e mezza. "Qui si mette male", gli dico. Pensavo di essere lì per divertirmi, ci hanno rovinato. No, capitolo chiuso». Gli faccia un augurio di cuore.
«Spero che a Cortina trovi tanti funghi».
Poi magari cucina un risotto e la invita.
«Il vino però lo porto io».
Paolo Bertolucci, a sinistra con la polo blu, con la coppa Davis del 1976. Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2022.
Roma 9 luglio del 1983: nella fornace del Foro Italico, Panatta e Bertolucci perdono in tre set il doppio di Coppa Davis con gli argentini Clerc e Vilas. L’Italia esce di scena, e quel giorno segna la fine di un’epoca d’oro per il tennis italiano: quattro finali di Davis in cinque anni (tutte in trasferta) e lo storico trionfo del 1976 a Santiago del Cile. «Paolo, ci siamo divertiti» mormora Adriano Panatta a Paolo Bertolucci, amico e compagno di doppio di una vita. Anche le belle storie finiscono ma a farci tornare indietro ci ha pensato Domenico Procacci, produttore e fondatore della Fandango, che quell’epopea l’ha magistralmente raccontata da regista in una serie su Sky, Una Squadra, con grande successo di critica e di pubblico.
Bertolucci, «Una Squadra» è un vero spasso. Lei e Panatta siete una perfetta coppia cinematografica.
«Guardi (sonora risata, ndr), io ho dormito in camera più con Adriano che con mia moglie. Sì, ci siamo divertiti, perché ci piaceva giocare a tennis. Potevamo girare il mondo, conoscere gente e culture, imparare le lingue; poi abbiamo pure iniziato a guadagnare, ma il piacere di giocare non lo abbiamo mai perduto».
Ma se lo aspettava un simile successo?
«Sinceramente no. È oltre le aspettative. Noi siamo stati del tutto naturali, non conoscevamo nemmeno le domande: il montaggio è fantastico e il lavoro di archivio che hanno fatto è stato qualcosa di incredibile. Ci hanno riportati a quegli anni, ho rivisto immagini che non ricordavo o mai avevo visto, come ad esempio una vecchia finale tra Panatta e Vilas a Buenos Aires nel 1975. La gente mi scrive, mi ferma per strada e persino al supermercato... Domenico Procacci ha fatto un capolavoro».
Si considera veronese a tutti gli effetti, ormai?
«Sono undici anni che vivo a Verona. Città stupenda, a misura d’uomo, una città viva con una sua umanità. Qui ci si chiama al telefono e in 10 minuti ci si vede per un caffè. Infatti Panatta che mi segue sempre è venuto pure lui in Veneto, a Treviso...».
E poi si mangia bene...
«In un posto così uno come me si sente a casa (altra risata, ndr). C’è il gusto dell’enogastronomia, a Verona ho scoperto la pastissadade caval, e poi i bolliti. Quanto ai vini, beh, oltre alla Valpolicella c’è ampia scelta».
Ci ha lasciati «lo scriba», Gianni Clerici. Con voi non fu mai tenero, giusto?
«Un intellettuale e un grande scrittore. Diciamo che non ci siamo mai amati, ma sempre rispettati».
Con voi il tennis ebbe un risvolto sociale: segnaste il passaggio dal «tennis bianco» in circoli esclusivi a un tennis quasi per tutti.
«Vero, l’abbiamo capito dopo. Allora non ce ne rendevamo conto, eravamo sempre all’estero con in valigia quattro libri e l’immancabile Settimana Enigmistica. Con Bartezzaghi era dura... Mai conosciuto ma mi sarebbe piaciuto incontrarlo».
La si ricorda come doppista, ma Paolo Bertolucci è stato un signor singolarista, numero 12 al mondo…
«In Davis giocavo solo il doppio, in una squadra che aveva due tennisti nei primi dieci al mondo. Il mio timbro era quello: ma in carriera ho vinto un torneo come Amburgo che, allora, valeva come Roma o Montecarlo».
Veniamo ad oggi: Nadal è l’highlander?
«A Roma l’avevo visto piegato in due dal dolore. E non pensavo riuscisse a fare quello che ha fatto. È un fenomeno assoluto».
E Djokovic?
«Lui può ancora far bene. Lo vedevo come strafavorito nella corsa agli Slam, ma ora qualche dubbio ce l’ho. Bisognerà anche capire se potrà giocare gli Us Open. Al momento, senza vaccino sarebbe escluso, vedremo che cosa succederà».
Federer saluterà tutti a casa sua, al torneo di Basilea?
«È fermo da due anni. Se deve rientrare per arrivare almeno ai quarti, mi può anche star bene; a un Federer fuori ai primi turni non voglio nemmeno pensare».
I nostri come li vede?
«Berrettini è rientrato adesso, speriamo riesca a ritrovare la miglior condizione per Wimbledon, perché sull’erba è tra i primi tre al mondo. Sinner è alle prese con una miriade di problemi fisici. Pensavo saltasse i tornei sull’erba per sistemarsi fisicamente e preparare la trasferta americana sul cemento, invece lo vedremo a Wimbledon, sebbene non dia punti».
Bertolucci, conferma che a tennis non gioca più?
«Ma certo, fa malissimo...».
Massimo Laganà per “Oggi” il 12 maggio 2022.
O Capitano! Mio capitano. Nicola Pietrangeli, 88 anni indimostrati, fu il prode condottiero che nel 1976 guidò per mano i nostri quattro moschettieri verso la conquista della Coppa Davis: per la prima e unica volta, nella storia del tennis tricolore. Una docuserie ripercorre quel sofferto trionfo. Si intitola Una squadra. Narra l’impresa di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli. Dopo un veloce passaggio nelle sale cinematografiche, il film sarà disponibile su Sky a partire dal 14 maggio.
Pietrangeli fu il capitano non giocatore del team. Il mister, in termini calcistici. Grande tennista a suo tempo, con un grande cruccio, manco a dirlo: la mancata conquista della Coppa Davis. Lacuna che ha colmato da allenatore.
Il felice epilogo del 1976 si concretizzò con uno schiacciante 4-1 a nostro favore, nella finale in Cile, dove le difficoltà furono più politiche che tecniche. Una consistente parte dell’opinione pubblica era contraria alla trasferta dei tennisti azzurri nel Paese sudamericano, retto all’epoca dal dittatore fascista Pinochet. Pietrangeli si oppose al boicottaggio e si batté per andare a Santiago. Piantonò la tv, litigò con dirigenti sportivi e uomini di partito. La spuntò.
Oggi, acciaccato per una caduta, ci riceve nella sua casa romana alla Balduina. Semisdraiato sul divano extralarge, in vestaglia, coccolato da un gatto e circondato dai trofei ottenuti in carriera.
Non le domando se lo rifarebbe. Le chiedo un’opinione sulle attuali sanzioni per i tennisti russi, che non potranno giocare al prossimo torneo di Wimbledon.
«Sono una colossale sciocchezza. E lo affermo a prescindere dalla circostanza che mia madre fosse una contessa russa. Sono sempre stato contrario alla commistione tra sport e politica. A maggior ragione in questo caso. Nei tornei il giocatore rappresenta se stesso, non la propria nazione. Che senso ha punirlo?».
Sa che il suo amico Panatta ha espresso lo stesso pensiero con analoghe argomentazioni? A proposito, siete amici?
«Amico è una parola grossa. Nel 1978 la banda dei quattro organizzò un complotto per mandarmi via.
Per la cronaca, l’anno precedente eravamo arrivati in finale. Eppure, dopo un primo e un secondo posto, la ricompensa fu un calcio nel sedere. Non ci parlammo per cinque anni».
Qualcuno sostiene che lei fosse troppo ingombrante. Troppo Pietrangeli.
«Ognuno ha il proprio carattere con relativo ego. Io ho fatto Pietrangeli per l’intera esistenza e non mi è andata poi così male. La verità è che erano quattro ottimi giocatori, divisi su tutto. L’ho spiegato al regista, Domenico Procacci. Il film lo doveva intitolare Le squadre. Panatta e Bertolucci stavano sempre per conto loro. Barazzutti e Zugarelli, idem. E non sto qui a raccontarle insulti e sfottò, che Adriano riversava a ruota libera alle spalle di Corrado».
Lei era un collante?
«Il collante. Tant’è che, dopo il mio esonero, furono eliminati al primo turno, quando Adriano si fece battere da un cameriere ungherese. E vuol proprio sapere come commentò, a caldo, la disfatta? “A quest’ora Nicola si starà masturbando per la gioia”».
Cosa provò per la vittoria in Cile?
«Un’immensa emozione. Ci andai perfino a dormire, con la Coppa Davis. Tuttavia orgoglio e soddisfazione si mescolarono all’amarezza. C’è una foto emblematica. Noi in aeroporto, al ritorno da Santiago, con la mitica insalatiera (così è ribattezzato il trofeo, ndr). Da soli. Nessuna autorità ad accoglierci, nessun festeggiamento. Sembrava che il Paese si vergognasse del nostro successo».
La residenza a Montecarlo è stato il suo modo di vendicarsi?
«È un favore che mi chiese Ranieri di Monaco, per dare lustro al suo principato».
Messo con le spalle al muro, se oggi dovesse andare a cena con uno dei suoi quattro moschettieri, chi sceglierebbe?
«Panatta, al volo. Fu lui a rompere il ghiaccio e a ricucire lo strappo. Nel 1983. Eravamo a Cortina, non ricordo più perché. Di certo avevamo bevuto il giusto. A un tratto cominciò a piangere sulla mia spalla e mi chiese scusa».
Lei lo conosceva bene.
«Ero amico di suo padre, Ascenzio, custode del mio circolo, il Tennis Club Parioli. Infatti io l’ho sempre chiamato “Ascenzietto”. La prima volta che giocammo contro non lo riconobbi. Il nome “Adriano” non mi diceva nulla. Lo battei a fatica. Poi lui a fine match mi disse con la solita faccia da impunito: “Tanti saluti da mio padre”. Allora compresi che era Panatta».
Siete molto simili, fondamentalmente.
«Aveva un temperamento da leader. In Cile, nel doppio decisivo, si mise la maglietta rossa, per recitare un po’ il ruolo dell’eroe di sinistra senza macchia. Convinse il compagno Bertolucci a fare altrettanto. Ovviamente non mi informò; sapeva che il mio cuore politico è sulla sponda opposta. Ma gli voglio bene lo stesso».
Chi è il più forte tennista tricolore di ogni tempo? Lei o Adriano?
«Basta guardare il palmares. Ho vinto più io da solo che loro quattro insieme. Con il dovuto rispetto per Panatta, che è stato un grande giocatore. A me manca soltanto Wimbledon. È il vero dispiacere della carriera. Fino all’anno scorso ero l’unico italiano arrivato in semifinale sull’erba londinese. Sono contentissimo che Matteo Berrettini abbia battuto il mio record. Penso che riuscirà a conquistare il torneo».
Wimbledon a parte, lei era una promessa della Lazio.
«Ho presentato la Domenica Sportiva e ho pareggiato i conti con il calcio».
Con il dovuto rispetto, com’è riuscito a girare un film assieme a Virna Lisi, La donna giusta, nel 1982?
«Perché era una carissima amica. Comunque ho recitato anche con Peter Ustinov in C’era un castello con 40 cani, se è per questo. Sono stato un uomo versatile. Mi piacevano sfide e avventure».
Lei è divorziato, ha avuto una lunga storia con Licia Colò e adesso è single. Appurato che Wimbledon è il cruccio sportivo, nutre invece qualche rimpianto più esistenziale?
«Soltanto gli stupidi non ne hanno. Con le donne ho chiuso. Alla mia età si diventa pigri, abitudinari. Egoisti. Con Licia siamo rimasti in buoni rapporti, sono andato al funerale della madre. Sinceramente, non ho mai capito perché mi abbia lasciato. Credo che per lei fosse importante avere un bambino. Buffo: io passo per un rubacuori. In realtà sono sempre state le donne a mollarmi e mai il contrario».
È in buoni rapporti con i suoi tre figli?
«Ottimi! Vanno d’accordo tra di loro e mi vogliono bene. La nuova arrivata in famiglia è una nipotina meravigliosa. Ha un anno e mezzo. L’hanno chiamata Nicola. È la bimba più bella che abbia mai visto. Del resto, porta il mio nome».
Una squadra. Il favoloso documentario sui Sandra e Raimondo che vinsero la Coppa Davis in Cile. Guia Soncini su l'Inkiesta l'11 maggio 2022.
Domenico Procacci ha prodotto e diretto una serie Sky sulla nazionale italiana degli anni Settanta. Il mattatore è Panatta: uno dei pochissimi casi mondiali di vertiginosamente figo da giovane così come da anziano.
Se avessi vinto una partita di tennis ogni volta che in questo secolo ho sentito dire «Fandango sta per dichiarare bancarotta, questione di settimane», sarei Serena Williams. Passano gli ultimatum, e Domenico Procacci è sempre lì, sempre con quel talento per far raccontare storie a tizi la cui caratteristica precipua è l’essere, da adulti, il più figo della classe.
Una volta Francesca Archibugi ha quasi chiamato la croce verde perché ho detto che i film, specialmente quelli non di finzione, li fa chi li scrive: il regista è uno che decide dove mettere la macchina da presa, capirai. «Dove mettere la macchina da presa è fondamentale», sibilò col tono di una il cui sottotesto è «ma io perché perdo tempo a parlare con questa cretina».
Adesso Domenico Procacci non solo produce ma fa pure la regia della cosa più bella che abbia visto da parecchissimo tempo: “Una squadra”, storia della nazionale italiana di tennis degli anni Settanta, sei puntate su Sky e Now dal 14 maggio. Lo scrivono, con lui, giovani promesse come Sandro Veronesi; lo fa, il prodotto, la retromania di quando i talk-show erano sornioni, i rotocalchi erano familiari, le canzoni erano roba come Un giorno credi, Splendido splendente, Domani è un altro giorno; ma – sono abbastanza certa che Veronesi e Procacci concorderanno – tutto questo sarebbe robetta se in mezzo alla scena non ci fosse quello lì.
Uno dei pochissimi casi mondiali di vertiginosamente figo a trent’anni e vertiginosamente figo a settanta; uno che ti fa venire voglia di lanciargli le mutande quand’è arrogante (quasi sempre) e quand’è umile (quasi mai); quand’è esile (nelle immagini d’epoca) e quand’è inquartato (in quelle del presente); quando racconta versioni dei fatti diverse da quelle degli altri e gli altri sono Bertolucci e i due sembrano Sandra e Raimondo a distanza, e quando invece (con Pietrangeli) s’incazza se le versioni divergono. Insomma: Adriano Panatta – dio o chi per lui ce lo conservi.
La parte Rashomon è ovviamente la più divertente, ed è una di quelle sceneggiature che possono avvenire solo con materiale del secolo scorso. Oggi, di Panatta che va sugli spalti a menare il tifoso argentino (e per sbaglio ne mena uno italiano), ci sarebbero mille filmati fatti da mille telefoni, oltre che decine di nettissime immagini delle telecamere ufficiali. Allora, c’è una ripresa da lontano, in bianco e nero, in cui s’intravede imprecisata confusione tra gli spalti, e le versioni dei fatti raccontate oggi da quelli che c’erano, che com’è umano la dinamica la ricordano ognuno a modo suo. Neanche sulla regione di provenienza del tifoso pestato sono d’accordo.
(È tutto Rashomon tranne le partite, probabilmente unici momenti in cui erano presenti a sé stessi e l’amigdala faceva il suo. Cinquant’anni dopo, Panatta ricorda che il tal punto nella tal partita del tal torneo lo fece con una veronica dopo che il servizio era passato a quell’altro a metà del set).
In “Una squadra” sono stupendi tutti, anche quelli che ci sono solo tramite racconti altrui. Belardinelli, l’allenatore che prima di loro aveva allenato Mussolini, il quale non sapeva fare il rovescio. Duce, stamattina proviamo il rovescio. Belardinelli, anche stamattina andremo per diritto. (La racconta Panatta, mentre va un cinegiornale in cui Belardinelli palleggia con Mussolini, e pensi che TikTok non ha inventato niente).
Elenco non esaustivo di aneddoti meravigliosi presenti in “Una squadra”. Ovviamente riassunti da me non valgono: sta tutto in come li raccontano, come gesticolano, come si contraddicono. E sono tutti di Panatta e Bertolucci, il genere di attori che si mangiano la scena e ai comprimari Zugarelli e Barazzutti restano briciole d’attenzione. Forse c’è un secondo film da scrivere, sulle classi sociali diverse tra quelli che apparentemente sono parificati. Zugarelli così classe operaia, con una falange amputata «perché allora non si andava tanto per il sottile»; Barazzutti che prende un volo normale mentre quei due si scialano il premio partita sul Concorde. Forse certi dettagli che restano marginali potrebbero farne una storia fitzgeraldiana.
Intanto, però, c’è questa Squadra qui, con un numero di storie che neanche in un anno di cinema inventato.
La partita a Montecarlo in cui da sorteggio possono scegliere se servire o ricevere nel doppio, il trentenne Panatta sceglie di rispondere, e l’avversario ragazzino si avvicina: ma sei sicuro? Guarda che io servo molto bene. Panatta va da Bertolucci e dice oh, ma chi è ’sto brufoloso arrogante? Si chiama John McEnroe.
Il cinema romano nel quale Panatta va a vedere un film con l’allora fidanzata Loredana Berté con minigonna inguinale, e all’intervallo qualcuno dalla galleria urla: ah Pana’, e grazie ar cazzo che non vinci mai.
Bertolucci che per sbaglio riparte dai Roland Garros con le Superga di Panatta, a Parigi le Superga non ci sono, Panatta non vuole cambiare scarpe per la finale, chiama il proprietario del negozio di articoli sportivi da cui si serve a Roma, quello apre il negozio di domenica e porta le scarpe al caposcalo di Fiumicino che le consegna a un pilota. Pensa oggi, con quarantasette addetti alle p.r. dello sponsor che aspettano l’atleta con cento prototipi in apposita suite.
Gianni Minà che, tra un set e l’altro d’una partita che Panatta sta perdendo, va a mettergli il microfono in bocca mentre riprende fiato. «Era Gianni Minà: se era un altro, je dai ’na racchettata».
Panatta e Bertolucci che si tolgono il saluto, una di cento volte in cui si mettono il muso, ma quella volta nel mezzo d’un doppio.
Panatta che è lucidissimo nel dire che l’insofferenza della squadra nei confronti di Pietrangeli era dovuta all’impietosità dei trentenni verso i cinquantenni; Panatta settantenne e Pietrangeli ottantottenne che però ancora bisticciano a distanza su chi abbia vinto le partite più difficili. (La coppa Davis Pietrangeli la vince solo da capitano non giocatore, e ci si fotografa a casa col gatto che ci è finito dentro: Instagram un secolo prima di Instagram).
Bertolucci che ha come premio partita la pasta e fagioli che di solito non può mangiare perché gli altri non ingrassano e lui sì. (Bertolucci di grandissima lunga il più immedesimabile, non solo quando dice che rimorchiava gli avanzi di Panatta, ma anche quando arriva il cileno che lo chiama «Bertolucci el gordo»).
Pietrangeli che dice che dopo che l’han fatto fuori non si son parlati per cinque anni, poi una sera al Biblò di Cortina Panatta gli ha pianto sulla spalla; cambio scena, Rashomon: «Io non ho mai pianto sulla spalla di nessuno, tantomeno di Pietrangeli».
Pietrangeli che la prima volta che lo vede giocare dice a Panatta «a regazzi’, guarda che le palle corte le ho inventate io».
Borg che la sera prima d’una partita tra loro pretende di restare fuori a bere, Panatta vuole andare a letto ma lui insiste, se sei mio amico devi restare, «sì sono tuo friend, però non mi puoi rompe’ le palle». Alla fine è Panatta a mettere a letto un Borg così devastato dall’alcol da renderlo sicuro che il giorno dopo lo farà nero, e invece il giorno dopo quello è fresco come niente fosse. «A ogni cambio campo mi faceva I feel great, e io gli sputavo».
Newcombe sconfitto da Panatta; quando Galeazzi gli chiede cosa sia successo nella semifinale che porterà al gran dilemma – la finale della coppa Davis è nel Cile del Pinochet: l’Italia deve andarci o no? – risponde: è successo che lui ha vinto e io ho perso.
E il Cile, che apre la prima puntata e sembra che parli di oggi, coi cattivi convinti d’essere buoni che minacciano i giocatori che vogliono andare a giocare tra i mostri, «Brutto fascista, ammazziamo te e tutta la tua famiglia», i giornalisti che commentano «ma di danno a Pinochet je ne fa più se se ritira la Fiat che se se ritira Panatta», Modugno che canta «ma non mischiamo con faciloneria la dittatura alla democrazia». (Quando vanno a giocare in Sudafrica nessuno fa un plissé: mica tutte le buone cause sono uguali).
Il Cile che il documentario lo chiude, occupa quasi tutta l’ultima puntata, Panatta che alla finale pretende lui e Bertolucci mettano le magliette rosse, come simbolo, come protesta contro il regime, ma nessuno se li fila, nessuno lo scrive: la tv è in bianco e nero.
Vincono, tornano, e da parte delle istituzioni è più l’imbarazzo che la contentezza. «Sembrava avessimo sparato al gatto invece di aver vinto una coppa Davis», dice Barazzutti.
«Trovo che la continuità sia noiosa, ma molto noiosa», dice Panatta di sé. Se fossi amica di Procacci gli suggerirei di non firmare mai più per nessuna ragione al mondo una regia. Di lasciarci, come fece Margaret Mitchell, con l’illusione che ci sarebbero potuti essere altri cento suoi capolavori, e che sia stato un capriccio essere il genio d’un’opera unica.
Panatta: «Che magia sposare Anna» Bonamigo: «Adriano fa le facce anche sul campo di padel». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022
Panatta, Bonamigo e la vita insieme a Treviso. «Lui non canta mai con le donne, io ce l’ho fatta»
Anna si fa di colpo seria e appassionata come tutte le donne che ci tengono a tracciare con precisione i contorni di un grande amore, smette di scherzare (è simpatica), posa il caffè e dice: «Ci siamo risposati da molto adulti, ciascuno dopo un primo divorzio. Lui a 70 anni suonati, io qualcuno in meno. Non abbiamo mai smesso di credere nell’istituzione matrimonio, avevamo ancora voglia di sentirci una famiglia. Il nostro è un amore maturo ma allegro, continuiamo a stupirci ogni giorno». Adriano riemerge da una nuvola di fumo e fa Adriano, scanzonato e ironico da quando mandava ai matti Bjorn Borg sulla terra rossa di Parigi: «Storia meravigliosa… ma di chi parli, amore mio?».
Anna Bonamigo e Adriano Panatta, lei avvocato (civilista), lui eterno ragazzo col ciuffo, la coppia più bella di Treviso dove lui, romano di Roma, si è trasferito per passione . Sposati il 10 ottobre 2020 a Ca’ Farsetti, Venezia, dall’amico comune ed ex magistrato Carlo Nordio, conoscenti da sempre, ritrovati a Capri nell’estate 2013, quando Anna ballava scalza con Peppino (di Capri) e Adriano stava incollato al divano, fedele alla (personale) regola di vita: «L’uomo non dà la manina per strada, non canta e non balla». Perché no? «Hai mai visto Robert Mitchum cantare o ballare?».
Anna, come è cominciata?
«Me lo ricordavo rigido, a Capri quell’anno lo trovo ammorbidito ma non succede nulla. Torno a Treviso, mi chiama: devo organizzare lì una cosa di tennis, mi prendi appuntamento col sindaco? Lo accolgo, lo porto in giro, chiacchieriamo. Iniziamo a sentirci. Un giorno, rivedendolo, mi accorgo che gli si è acceso l’occhietto».
Adriano: «Non mi risulta».
Anna: «Inizia a corteggiarmi. Poi mi ha confessato che aveva capito male la mia età!».
Adriano: «Ma non è vero!».
Nessuna esitazione a infilarsi in una storia con l’Adriano nazionale, eroe di Davis?
«Mille dubbi! Ero titubante. Il passato sportivo, la fama da sciupafemmine…».
Adriano: «Ma de che?!».
Anna: «Mi ero separata dopo 23 anni di matrimonio, però speravo ancora nell’amore. Infatti è nato un sentimento fortissimo. Dopo qualche mese, Adriano mi chiama: vengo a vivere da te a Treviso».
Una scelta netta.
«Dopo una vita raminga, io credo che con me a Treviso Adriano abbia trovato una casa, una stabilità, una normalità che gli mancava. Il cinema e la pizza, in bici sul fiume, cose che non aveva mai fatto».
E poi l’investimento sulla città: l’ex Sporting Club Zambon rilevato a un’asta e trasformato nell’Adriano Panatta Racquet Club.
Adriano: «Un progetto a cui ha subito partecipato il mio caro amico Philippe Donnet, Ceo del Gruppo Generali e mio testimone di nozze. Tutti i trevigiani, inclusa Anna, hanno iniziato a giocare a tennis qui. Abbiamo ridato vita a questo spazio, riqualificato la zona, riportato la gente allo sport dopo la pandemia».
Ha ancora voglia di andare in campo a insegnare dritto e rovescio, Adriano?
«Solo con i ragazzini, gli adulti mi annoiano. La scuola è in mano a mio cugino, tradizionalista come me: dire che non insegniamo il rovescio a due mani è eccessivo però di certo qui le rotazioni esasperate non sono benvenute».
La proposta di nozze è stata tradizionale come il bel rovescio di Panatta, Anna?
«Un biglietto che accompagnava un mazzo di rose il 29 gennaio, giorno del mio compleanno: auguri, amore, vuoi sposarmi? Post scriptum: solo se te la senti, eh».
Adriano: «Mica mi sono messo in ginocchio con l’anello!».
Anna: «Poi hai fatto anche quello».
Com’è Adriano, quando non fa Panatta?
«Sensibile, generoso. Vero. Mai uno sgarbo. Non è il tipo che ti tiene aperta la portiera, quando andiamo in giro insieme lui avanza ad ampie falcate e a me tocca inseguirlo sul tacco 12 ma è come se mi aprisse la strada: va avanti e controlla. Il suo più grande pregio è che è presente. Nessun gesto eclatante, ma c’è».
Il suo passato di campione lo rende un compagno impegnativo?
«Eh, un po’ sì. Gli impegni, gli inviti, la riconoscibilità. Ha momenti in cui si estranea e io faccio fatica a capire. Ma so come prenderlo: quando ha bisogno di stare solo, gli lascio i suoi spazi. Poi, passato il silenzio, torna. Ed è di nuovo simpaticissimo».
Adriano: «Sono fatto a modo mio, a volte mi do fastidio da solo. Sai che c’è? A me le lunghe conversazioni sullo stesso argomento mi stufano. Ho molto rispetto per la libertà degli altri, ogni tanto ho bisogno di godere della mia».
Davvero non ha mai cantato in presenza di una donna?
Anna: «Sì che ha cantato! Una volta, in auto da Roma a Treviso, abbiamo ripassato a squarciagola tutto il repertorio di Battisti».
Adriano: «Infatti volevo lasciarti giù a Roncobilaccio».
Le famose facce di Adriano, celebrate anche dal documentario di Procacci sulla Davis del ‘76, «Una Squadra».
«Uh, non ne parliamo. Quando giochiamo a padel, oltre alle facce, mi ruba tutte le palle. Ora capisco cosa ha passato il povero Paolo Bertolucci in doppio…».
Torniamo al matrimonio. Ho la sensazione sia stato un giorno speciale, Adriano.
«Lo è stato. Per la prima volta in vita mia sono riuscito a riunire nella stessa stanza i miei tre figli, i miei due nipoti e i miei due fratelli. Magico. Peccato per quell’usanza barbara imposta da Anna la sera prima…».
Cioè?
«Case separate, lo sposo non deve vedere la sposa, cose medioevali, maddai!».
Anna: «Ci tenevo!».
Adriano: «Non ti ho raccontato una cosa buffa. Fumavo fuori da Ca’ Farsetti, aspettandoti. Passa una coppia di giovani sposini, lei stupenda, aria mediorientale. Famo a cambio? ho chiesto al marito. Abbiamo riso come scemi. Poi sei arrivata tu, bellissima. E ho capitolato».
Si è commosso, Anna?
«Aveva l’occhio lucido ma si è tenuto».
Adriano: «Altra regola: l’uomo vero piange molto, ma sempre da solo».
Per cosa si litiga a casa Panatta-Bonamigo? Anna ha avuto una breve militanza politica a Treviso nel centrodestra, Nordio mentore; Adriano è noto sinistrorso. La politica vi divide?
Anna: «Fu una campagna di servizio, una parentesi interrotta dalla scomparsa improvvisa di mio padre, che mi spinse a prendere in mano lo studio. Le affinità politiche tra me e Adriano non mancano, magari le idee le esprimiamo in modo diverso ma spesso ci ritroviamo a dire le stesse cose».
Adriano: «Io sono da sempre liberale e progressista, anticomunista e antifascista nella stessa identica maniera. Alla mia età, dopo averla frequentata all’opposizione a Roma con Rutelli, alla politica credo poco. Scelgo le persone, non i partiti».
E se Anna volesse tornare alla politica attiva?
«Serve troppo pelo sullo stomaco, né lei né io siamo persone così. La sconsiglierei vivamente. Per amore, solo per amore».
Silvia Fumarola per la Repubblica il 16 ottobre 2022.
È stato un mito del tennis. Con quel "Pof pof", battuta del film La profezia dell'armadillo, lo hanno scoperto i giovani. Grazie alla serie La squadra di Domenico Procacci gli appassionati di tennis hanno conosciuto l'umanità dei campioni della Coppa Davis, quattro amici-complici: lui, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli oltre al caposquadra Nicola Pietrangeli.
Adriano Panatta da domenica pomeriggio su Rai 2 sarà protagonista con Paola Ferrari di Domenica dribbling. Romano, classe 1950, nel 1976 è stato il numero 4 al mondo, quell'anno vinse gli Internazionali d'Italia e il Roland Garros (dove nei quarti di finale fece l'impresa, riuscì a battere Björn Borg), carriera fomidabile anche in doppio con Bertolucci. Si è ritirato dall'agonismo nel 1983, negli anni è stato adottato da cinema e tv. Vive con la seonda moglie Anna Bonamigo a Treviso, dove ha rilevato un circolo sportivo.
Com'è la nuova vita in tv?
"Mi diverto a fare televisione se mi fanno fare me stesso. Mai avuto un copione, ho sempre lavorato improvvisando. Mi piace intervenire sul momento, per dire una cosa spero intelligente. Ai tempi di (ah)iPiroso con Antonello, amico fraterno, non conoscevo la scaletta. "Almeno vuoi dirmi chi è l'ospite?". "No" era la risposta "altrimenti non rendi""
Per "Domenica dribbling" chi l'ha chiamata?
"Alessandra De Stefano, la direttrice di Rai Sport. Voleva che facessi le telecronache della coppa Davis, non ci penso per niente. Ero stato ospite al Circolo degli anelli, mi è simpatica. Ho detto subito: sai come lavoro in tv, faccio un po' come mi pare. Abbiamo parlato e eccoci qua".
Segue i programmi sportivi?
(ride) "Non mi entusiasmano molto. Il calcio, secondo il mio punto di vista, viene trattato in modo un po' ecumenico. Sembra che non si possa dire niente".
Sarà perché i tifosi sono suscettibili?
"Se si incavolano si incavolano, tanto si arrabbierebbero lo stesso. Nella maggior parte delle interviste i calciatori dicono: dobbiamo impegnarci di più. Poi tutti usano la parola "importante". Ma perché? Un giocatore non è importante, è bravo".
Il rapporto con Paola Ferrari?
"La conosco da trent'anni, siamo amici. Sono ruoli diversi. Lei fa la televisione io faccio Panatta, cerco sempre il lato ironico".
Ironia che confina col cinismo romano.
"Non confina, lo travalica".
La battuta sul colpo piatto, "Pof pof" è cult;"La squadra" un successo. Che effetto fa essere riscoperti a 70 anni?
"Sono rimasto sorpreso. La cosa meravigliosa è che prima di girare quella scena ero andato a giocare un doppio: io e Margherita Buy contro Giovanni Veronesi e Nanni Moretti. Dovevo stare alle 4 a Fiumicino: vinciamo il primo set, il secondo sono avanti; se avessi perso avrei dovuto giocare il terzo e addio. Ho detto: "Margherì spostati", ha mille paure anche quando gioca a tennis. Vinciamo 6-4. Moretti fa: "Scusa, se avessimo vinto il secondo set, come avresti fatto?". "Perché, l'hai vinto?"" .
Ed è andato a girare.
"Hai letto il copione?" chiede mia moglie. No. "Adesso che fai?". "Lo leggo lì due volte e lo faccio mio, non devo fare tutto Dante come Benigni". Quel dialogo l'aveva scritto Procacci. Grazie alle domande del giovane attore mi sono immedesimato, mi facevano rodere. Ho risposto come farei nella vita. Un solo ciak".
Ci ha preso gusto, ha recitato in "Tutti per 1-1 per tutti" di Veronesi.
"Una cosa orrenda. Giovanni me la pagherà. "Dai, mi devi fare un cameo". Va bene. Poi mi ha chiesto di mettere la parrucca. "Eh no", gli ho risposto "la parrucca no"" .
Poi se l'è messa.
"Sembravo mia zia Zoe, le volevo un bene dell'anima. Ridevano tutti".
È sempre stato bello. Nessun complesso di superiorità?
"Mai sentito superiore. Ero un po' piu caruccio di Bertolucci".
Perché il tennis di una volta era più elegante?
"I nostri movimenti erano più aggraziati, i colpi più morbidi, meno strappati. Erano diverse le racchette. Adesso sembra che si menino. Tutti gli sport sono più veloci e sono cambiati gli atleti: il più piccolo è alto come me, che sono un metro e 85".
Che tipo di tifoso è?
"Non sono un fanatico, quando vince la Roma sono contento ma se perde non mi viene il malumore. Conosco lo sport, so cosa può succedere. Un notaio ligio tutti i giorni alle regole che allo stadio si scatena mi fa ridere. Mia moglie quando la Roma segna un gol si stupisce: tu non esulti? Esprimo di rado l'entusiasmo, mai capito i tifosi che passano il tempo a suonare il tamburo. Intendiamoci, possono farlo: ma perché?".
Che consiglierebbe a Francesco Totti?
"Non posso dare consigli a nessuno, le questioni personali sono sacre, tante sfaccettature non si sanno, la gente giudica. Non si fa".
Il cuore batte ancora a sinistra?
"Ha una domanda di riserva? Sono fondamentalmente un liberale progressista. Antifascista e anticomunista. Spero, come credo, che in Italia siano finite sia una cosa che l'altra".
Adriano Panatta: «Non conosco l’invidia: vincevo, perdevo. Ma nel ‘76 sono stato il migliore sulla terra rossa». Sandro Veronesi su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022.
Lo scrittore Sandro Veronesi imbastisce un dialogo-intervista con l’amico e campione di tutti i tempi Adriano Panatta: «Ero il numero 4 e non me ne fregava nulla». Sul piccolo schermo “Una squadra”, docu-serie Sky, riporta in auge i protagonisti italiani della vittoria in Coppa Davis. I ricordi del campione e i suoi giudizi sferzanti sugli avversari
Questo dialogo-intervista tra uno scrittore famoso e un campione di tennis che ha fatto la storia dello sport avviene a poche settimane dalla presentazione di «Una squadra», docu-serie Sky Original in sei puntate «da vedere tutte d’un fiato» come ha scritto sul Corriere Aldo Grasso, «perché mescolano sport e politica, tv, storie personali e versioni discordanti di quelle stesse storie». In questo incontro con Sandro Veronesi (tra gli autori della serie) raccontato sulle pagine di 7 in edicola il 22 luglio, Adriano Panatta ribadisce la sua versione, ma anche l’emozione di ritrovarsi con i vecchi compagni di gioco 46 anni dopo la conquista della Coppa Davis. Buona lettura
Come va, Adriano?
«Come gli antichi».
La prima cosa che vorrei chiederti è questa: il tennis fino agli Anni 60 era uno sport d’élite, lo giocavano i bon vivants, le persone ricche, Pietrangeli. Poi arrivate voi: tu, il figlio di un custode, Bertolucci, il figlio di un maestro, Barazzutti, il figlio di un vigile, e Zugarelli, diciamo, un ragazzo di strada. Arrivate voi, vincete la Coppa Davis e il tennis in Italia diventa uno sport popolare. C’era un po’ di orgoglio sociale, diciamo così, nelle vostre vittorie? L’orgoglio del figlio del custode che espugna uno sport un po’ classista?
«No, onestamente no. Non ho mai avuto voglia di rivincite sociali, perché non conosco l’invidia. Anche quando ero piccolino e abitavo dentro al Tennis Parioli e vedevo questi che arrivavano con le automobili, non ho mai avuto invidia, perché ero un bambino molto felice. E poi io al Parioli ci sono stato fino ai 9 anni, e non frequentavo il circolo. Stavo nella mia casa dietro il circolo, che era recintata. Avevo il mio muro dove giocavo a tennis tutto il giorno. Non giocavo con i soci, non mi ricordo di aver mai giocato con i soci».
Appunto. E questo non ha lasciato nessuna volontà di rivalsa, nulla?
«No, ti giuro: zero. Perché non mi mancava nulla. Poi successe che arrivarono le Olimpiadi a Roma, per cui il Circolo Tennis Parioli di viale Tiziano fu dismesso e il mio papà perse il lavoro. Fece domanda di un nuovo impiego al Coni e lo mandarono alle Tre Fontane, all’Eur, davanti al Luna Park, dove c’era il Centro Coni di tennis, e noi andammo ad abitare lì dentro. Capito? Di nuovo dentro un circolo. Ho vissuto per 18 anni dentro un impianto da tennis. Per cui non è che mi accorgevo che il tennis era d’élite. Io ci abitavo, nel tennis».
Un’altra cosa che vorrei chiederti, relativa a questa serie televisiva che hai fatto insieme ai tuoi ex compagni di Coppa Davis: mentre il tuo rapporto con Paolo Bertolucci è sempre rimasto vivo, ho avuto l’impressione, correggimi se sbaglio, che il tuo rapporto con Barazzutti e Zugarelli si sia come rivitalizzato. Che fare questa cosa insieme sia stata un’ultima vera emozione legata a quell’avventura di quarant’anni fa. Mi sbaglio?
«No, è un’impressione giustissima. Perché io Zugarelli l’avevo visto ogni tanto, molto di rado, quando giocavamo a golf insieme, mentre con Barazzutti ci eravamo proprio persi di vista. Ci siamo incrociati, che ti posso dire, una volta o due al Roland Garros, a vedere il torneo, ma proprio di sfuggita: “Ciao Corrado”, “Ciao Adriano”, tutto qua».
Invece ho visto che c’è dell’affetto.
«Ma l’affetto c’è sempre stato. Può succedere però che col tempo si assopisca un po’, diciamo così. Invece nell’occasione di Torino, quando la serie è stata presentata, c’è stata una specie di magia che lo ha risvegliato, ed è ricominciato tutto da capo».
Anche perché, diciamolo per l’ennesima volta, una celebrazione per voi, squadra di Davis, non c’era mai stata.
«No».
Voi siete arrivati a Fiumicino con la coppa in mano e nessuno vi si è filato. Niente.
«No».
Nemmeno dopo. Dieci, venti, trent’anni dopo. Niente
«No, assolutamente».
Perciò l’impressione è che Una squadra , col successo che ha avuto e ha ancora, abbia anche un valore risarcitivo, per voialtri cinque.
«Questo sicuramente, perché oltretutto molta gente non ci conosceva. Ci conosceva magari per i risultati sportivi, ma non è che conoscessero le persone. Invece da tutte queste interviste è uscito il lato straordinariamente umano e malinconico di Zugarelli. È uscita una vena ironica di Barazzutti, e la sua bella proprietà di linguaggio. L’ironia di Paolo nei miei confronti, la mia nei confronti un po’ di tutti. È uscita anche la personalità di Pietrangeli. È venuto fuori tutto ciò che eravamo davvero».
È venuta fuori la profondità dell’amicizia tra te e Bertolucci, confessata nella sua interezza dentro la serie.
«Sì, e posso dirti una cosa? Quando lui dice “Io ho avuto due sorelle e il fratello che non ho avuto è Adriano”, io sono rimasto molto colpito».
Anch’io, perché si sentiva che era una cosa vera.
«Anche se non l’ho detto, mi ha colpito molto. Non glielo dirò mai, ma lo dico a te».
Va bene.
«Metti caso che tu lo scrivi».
Chissà. Hai visto mai.
«E puta caso lui lo legge. Perché non lo credevo, ti giuro. Non credevo».
Poi c’è una cosa che dice Barazzutti e che ha toccato me. Lui era stato il numero 1 mondiale a livello juniores, aveva vinto l’Orange Bowl, e a un certo punto dice “Tra i professionisti ho fallito, sono arrivato solo al numero 7”. Cioè, lui ci aveva creduto, e quindi c’è questa nota malinconica perché non è mai diventato numero 1. Ce l’hai avuta pure tu questa delusione? Anche tu ci sei rimasto male a esserti fermato al numero 4?
«Non vorrei sembrare cinico però no, non me ne frega niente. La cosa di cui sono orgoglioso, ti dico la verità, è che nel ‘76 secondo me io sono stato il numero 1 al mondo sulla terra battuta, che è la superficie dove sono cresciuto. Aver dimostrato questo per me è più che sufficiente. Mi hanno sempre accusato che non mi allenavo abbastanza, ma non è vero. Anzi, non è che non sia vero, è proprio posta male la questione, perché se uno è qualcosa non può essere anche un’altra cosa. Io sono quella cosa lì, quello che si vedeva, io che vincevo e anche io che perdevo».
Una delle cose che sono state sicuramente più gratificanti per te te l’ho sentita raccontare e ti chiederei di riraccontarmela. È successa mi pare nello spogliatoio di Palm Springs e ha come protagonista Arthur Ashe...
«No, sai dov’era? Era a Palm Desert, perché si fece un anno a Palm Desert, che poi sarebbe diventato Palm Springs...»
Me la racconti? Perché è bella.
«Allora io quell’anno non giocavo tanto bene, credo fosse il 1981. Lendl è entrato negli spogliatoi e io stavo lì seduto insieme ad Arturo. Lendl mi fa ciao... Lui ce l’ha sempre avuta con me per quello scherzetto che gli ho fatto in Coppa Davis».
Sì, quel servizio smorzato che gli hai fatto, ridicolizzandolo. Nella serie si vede.
«Stava attaccato alla rete di fondo, lontanissimo: lo so che tra professionisti non si fa ma è stato più forte di me e gliel’ho fatto. E insomma Lendl entra nello spogliatoio e mi fa “dove giochi settimana prossima?”. E io rispondo a Las Vegas. E lui fa “Ah, ma entri nel tabellone o devi fare le qualificazioni?”. Io stavo per mandarlo affanculo e invece Arturo ha alzato gli occhi e ha detto “Ivan, non mi sembra che tu abbia già vinto uno Slam, giusto?”. Ricordi che Lendl non riusciva a vincere un torneo dello Slam? Era già fortissimo, il numero 2 del mondo, ma gli Slam ancora non li vinceva, e Arturo gli ha detto: “Tu stai parlando col Signor Panatta, che fa parte del nostro club; per cui quando ti rivolgi a lui dovresti chiamarlo Mister. Prima vinci uno Slam e poi fai queste battute stupide”. Ma Arturo era un personaggio meraviglioso. Era un aristocratico».
Altri grandi?
«Lew Hoad. Forse ti ho già raccontato quando Lew Hoad a Wimbledon mi ha insultato».
No. Non la so questa storia.
«Allora, Lew Hoad: tu lo sai chi è?»
Diamine. Pietrangeli mi ha detto che è il più forte giocatore che abbia mai incontrato.
«Lew Hoad quando era in giornata anche Lever diceva che era ingiocabile. E Lew Hoad, non so per quale motivo a un certo punto venne a giocare in Italia, credo fosse il suo ultimo anno, e giocammo insieme credo a Lecce, pensa, un torneo. E poi andammo a Wimbledon. E un pomeriggio io stavo nel bar dei giocatori di Wimbledon e stavo ordinando da bere al bancone e c’era anche Hoad insieme a non ricordo chi, tipo John Barrett, e lui mi viene vicino e mi fa: “Volevo dirti una cosa che non ti ho mai detto: tu sei veramente una testa di cazzo”...»
Salute!
«Io ho detto “ma come, Lew, ma che ti ho fatto?”. “No, sei una testa di cazzo perché tu questo torneo potresti vincerlo quando ti pare e non lo vinci. Pensaci”. Allora io ero, e sono ancora - non lo vedo mai, purtroppo -, amico di John Newcombe. Vado da lui e gli dico “John, cazzo, Lew mi ha detto questa cosa” e John mi fa “Ti ha fatto un complimento immenso. Lui i compimenti non li fa mai. Ti ha detto che sei una testa di cazzo ma è il suo modo di farti un complimento perché pensa che tu possa vincere Wimbledon”. Io allora chiedo a John se mi insegna un po’ a giocare sull’erba, e lui mi fa “guarda, questo weekend vado a casa di miei amici qui vicino a Londra, dove hanno un campo da tennis. Vuoi venire con me?” E dunque andammo lì e giocammo su questo campo in erba, e lui mi spiegò un po’ tutte le geometrie del gioco sull’erba: cioè la volée in campo aperto, come muoversi, come coprire la rete, e io l’ho trovata una cosa bellissima, che un giocatore, tuo avversario, si mettesse lì a farti migliorare. C’era ancora questa roba qua, allora, ma va detto che gli australiani sono sempre stati delle persone eccezionali».
Di Lendl abbiamo detto. Altri antipatici, rosiconi? Qualcuno che era particolarmente piacevole battere?
«Connors. Connors quando l’ho battuto ho goduto tantissimo e ho sofferto tantissimo quando ho perso quel match a Flushing Meadows in cui stavo giocando così bene e ci stavo facendo un pensierino. Tu pensa che lui quel torneo l’ha vinto non perdendo mai un set: solamente con me ha vinto 7-5 al quinto».
Eh sì, me lo ricordo.
«Lui sì, era particolarmente antipatico in campo e fuori: voleva fare lo spiritoso ma non ci riusciva».
Ora ti chiedo però di quello che per me è un mistero: Borg. Mi parli un po’ di lui?
«Allora, io come forse tu sai chiamo Borg “il matto calmo”. Perché lui è il matto calmo. Cioè anche per come giocava, c’era una vena di pazzia, no? Sempre con quella testa bassa quando cambiava campo. Non sorrideva mai. Io ho visto chiunque fare un sorriso in campo: lui no. Lui finché ha giocato era una persona, poi si è trasformato. Proprio - è un’esagerazione, ovviamente - come dottor Jekyll e Mr Hyde. In campo lui era Jekyll, Hyde ogni tanto dava qualche segnale ma lui riusciva a controllarlo. Aveva sempre questo atteggiamento freddo, rigido, e sopportava, anche quando non giocava bene, non faceva mai una mossa di stizza. Ma si vedeva che aveva paura di Hyde. Quell’Hyde che poi, dopo che ha smesso di giocare, è venuto fuori e lui ha cominciato a essere tutti e due».
Ti piace il tennis di adesso?
«Allora: se vedo giocare Federer, Nadal, Djokovic, Murray, anche Berrettini, sì. Tsitsispas. Shapovalov. Il loro tennis mi piace perché giocano bene, e anche gli altri - ci sono tanti che giocano bene no? Anche Alcaraz, che è diciamo il giocatore in questo momento più emergente, è uno che gioca un tennis vario, fa una palla corta, viene a rete. Sono quelli che giocano sempre uguale che non mi piacciono».
Uhmm... Te la metto in un altro modo. E ci metto anche una cosa che hai detto tu in televisione, quando facevi il commentatore. A un certo punto te la prendesti con la Seles perché la Seles fu la prima che si serviva sistematicamente dal gridolino e dal gemito per darsi il tempo rimbalzo-colpo, e urlava qualcosa che sembrava “A-Chi!” E tu dicesti “ma cosa vuole questa. A chi? A te!”. Ricordi?
«Sì, certo. Secondo me quella era palla disturbata».
E allora ti rifaccio la domanda. Prima si stava zitti, si giocava vestiti di bianco, nessuno vociava, nessuno diceva “a-chi”. Ti piace il tennis di ora con queste urla da energumeni che quasi non si sente nemmeno la chiamata dell’arbitro?
«Mi fa schifo. Mi fa schifo, sul serio. Mi fa schifo».
Oh... Allora, potevi dirlo prima. Cioè uno salta la rete, dà una bella racchettata nel collo dell’avversario e gli dice “ Ora devi urlare!”. Dico bene?
«Adesso questo mi sembra un po’ esagerato, però potrebbe essere un’idea».
Vedi che smettono.
«No, ma quello non è colpa loro».
Glielo insegnano, lo so.
«Bravo. Si sono succedute tante metodologie di allenamento tra cui anche questa cazzata di “A-Chi!”, o comunque di gridare e di gemere a ogni singolo colpo che uno fa».
Bisognerebbe vietarlo.
«Il fatto è che lo fanno in tanti, per cui la Wta e l’Atp la concedono».
Così come bisognerebbe mettere la regola che ci si veste prevalentemente di bianco, come a Wimbledon, perché c’è una tradizione senza la quale il tennis non esisterebbe.
«Ma guarda, tornando ad Arthur Ashe, mi sa che è stato lui il primo che si è vestito col colore, lui aveva anche delle magliette a strisce. Ma era elegantissimo, era un bel ragazzo, era alto 1.90, magro, per cui gli stavano anche bene anche le strisce, no?»
Aveva una racchetta bellissima, anche. Sembrava fantascienza rispetto alle vostre.
«La Head».
Già. La Head Competition.
«La tradizione del tennis è rispettata pure col colore, se c’è l’eleganza. Ricordo che feci una telecronaca in finale a Parigi quando vinse Wawrinka, e dissi che Wawrinka era vestito come un turista tedesco di Dresda a Milano Marittima. S’incazzarono, ma era la verità».
Anche le canotte: Nadal, prima. Adesso Zverev.
«La canotta non si può guardare. Va bene per il basket, va bene per la pallavolo, ma nel tennis la canotta non si può guardare».
O Agassi che giocava con i pantaloncini di jeans... Ma de che? Insomma, se il tennis è nato così ci sarà una ragione, o no?
«Cambia tutto, Sandro».
Ecco, infatti. Ti faccio l’ultima domanda, su come è cambiata la Coppa Davis. Ai ragazzi di ora, diglielo, che non lo sanno: cos’era la Coppa Davis per un giocatore come te, forte, che girava il mondo e vedeva anche girare dei bei quattrini, per i suoi tempi?
«Era la cosa più importante. Tutto si fermava se uno giocava la Coppa Davis. Io nel ‘76 non ho giocato il Master. Dimmi tu, se oggi vinci uno Slam e un 1000, più il resto, al Masters ci vai no?». Di corsa. «Be’, io non ci andai, per fare la Coppa Davis. Si andava ad ambientarsi in India se si doveva giocare in India, oppure in Sudafrica, e ci si stava un mese, pensa, un mese. Immagina oggi dire a chiunque “Stai fermo un mese per giocare la Coppa Davis”. Questo ti risponde “Ma sei scemo?”. Però allora era così. Poi a un certo punto alcuni giocatori tipo Connors hanno cominciato a non giocare la Coppa Davis perché non la sentivano come la sentivamo noi. Uno che la coppa Davis l’ha sempre giocata è stato McEnroe. Mac alla Davis non ci rinunciava, ma era un fatto di cultura».
E quel torneino schizofrenico a squadre che giocano adesso, col secondo singolare che si disputa all’una di notte, e che chiamano Coppa Davis, c’entra qualcosa con quella che giocavi tu?
«Nulla. Quella non è la Coppa Davis, dai».
Però si chiama così. Bisognerebbe chiamarla in un altro modo, almeno, perché così l’ammazzi due volte. Che poi, cosa c’era che non andava nella vera Coppa Davis? E negli incontri tre set su cinque? E nel quinto set senza tie-break? Cosa c’era di sbagliato nelle magliette bianche, me lo dici?
«La verità, Sandro, te l’ho già detta. Passa tutto. Passa tutto. “Un c’è nulla ‘a ffare”, come dite a Prato».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 24 maggio 2022.
Se Adriano Panatta non fosse stato quel grande campione è che è stato, avrebbe potuto intraprendere la via dello spettacolo. Ha tutto del grande attore: la prestanza fisica, il senso dell'umorismo, l'arroganza in giusta misura, la battuta pronta, lo sguardo malandrino.
Avrebbe potuto contare persino su una formidabile spalla, Paolo Bertolucci, che lo conosce come le sue tasche e lo asseconda, ieri come oggi, nelle sue performance, sportive e attoriali. Le sei puntate di «Una squadra» di Domenico Procacci (Sky) sono da vedere tutte d'un fiato perché mescolano, in un vortice di ricordi, sport e politica, tv, sorrisi e canzoni, storie personali e versioni discordanti di quelle stesse storie.
E poi le immagini in bianco e nero di Guido Oddo, Giampiero Galeazzi e Gianni Minà («Era Gianni Minà: se era un altro, je avrei dato 'na racchettata», ricorda Panatta a commento di immagini in cui si vede Minà chiedere con la sua abituale insistenza un'opinione ad Adriano mentre sta perdendo).
Come ricordano le cronache sportive, dal 1976 al 1980 la squadra di tennis da battere in Coppa Davis era l'Italia. Era formata da quattro campioni: Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta e Tonino Zugarelli. A capitanarli, un ex grande campione come Nicola Pietrangeli, un altro dall'ego smisurato.
Per ragioni diverse, in quei cinque anni raggiunsero la finale quattro volte, vincendo solo nel 1976 contro il Cile, a Santiago, in casa di Pinochet. Per anni è stata una vittoria di cui vergognarsi. Persino Domenico Modugno scrisse una canzone contro. «Una squadra» è una delle più formidabili serie sportive che mi sia capitato di vedere: per la ricostruzione di quelle imprese, la capacità di raccontare i caratteri dei protagonisti (Panatta e Bertolucci sono creature di Dino Risi, Barazzutti e Zugarelli di Petri), per la scrittura (il montaggio regala colpi di scena a non finire).
Andrea Sereni per corriere.it il 28 luglio 2022.
Protagonisti come quando erano in campo. Adriano Panatta e Paolo Bertolucci hanno i capelli ormai tendenti al grigio e qualche chiletto di troppo, eppure lo sguardo è sempre guizzante. Soprattutto insieme, uno accanto all’altro, come in un lunghissimo doppio. Il loro è uno show, un botta e risposta continuo fatto di scherzi, ironie, battute, affetto. «La squadra», la serie tv sulla mitica formazione che vinse la Coppa Davis, ha riproposto il loro rapporto, due ragazzi cresciuti insieme che mai si sono lasciati. E ora i messaggi che magari prima si mandavano in privato li condividono sui social.
«Volevo ricordare a tutti che il 3 agosto è il compleanno di Paolo Bertolucci (70 anni, ndr) — l’ultimo tweet sfottò di Adriano —. Vorrei fargli un regalo e sono indeciso tra: maxi confezione di pannoloni; apparecchio Amplifon; 10 scatole di Prostamol; salvavita Beghelli. Si accettano consigli». Si aggiunge anche Ivan Ljubicic, ex tennista croato oggi allenatore di Federer: «Se gli vuoi male, regalagli 10 sedute di allenamento nella palestra più vicina. Se gli vuoi proprio male, trova il modo di farlo giocare», scherza. La risposta di Bertolucci? «Caro Adriano — ha twittato Paolo — il tentativo di riciclare i regali ricevuti per il proprio compleanno é un gesto misero, squallido e sordido».
Scherzano, ovviamente. Si prendono in giro con la complicità intatta di quando giocavano insieme. Sono ironici, divertenti, tanto che le persone commentano i loro post e chiedono: «Tra quanto una nuova risposta? Sono ansioso di sapere». Simile show era andato in onda il 9 luglio, quando Adriano ha compiuto 72 anni. «Nonne di tutta Italia, ricordatevi di fare gli auguri al vecchio Panatta. Oggi è il suo compleanno!», aveva scherzato Paolo, oggi commentatore per Sky Sport. Non lo avesse mai detto: «Ha parlato il pischello... Spero ti venga una colite domani mentre commenti la finale di Wimbledon. Brutta merdaccia!!», la replica piccata.
Il successo de «La squadra» è stato possibile soprattutto grazie a loro, a questa voglia di prendersi amabilmente in giro, di saper scherzare volendosi bene. «Domanda a Bertolucci che faceva in Spagna quando io stavo a fa’ a cazzotti con una tribuna intera — racconta Adriano nella serie —. Non è venuto a aiutarmi. Stava in tribuna e accudiva le nostre signore che svenivano preoccupate». La risposta: «Sinceramente ero anche contento, finalmente qualcuno che lo menava». E ancora, Panatta in versione intima: «Paolo devo parlarti. Ho deciso di smettere col tennis». Replica sferzante: «Meno male, così smetto pure io». Ironia feroce nascosta da sorrisi complici, un’amicizia forse unica nel mondo dello sport. «Con Adriano c’è un legame indissolubile — ha raccontato Bertolucci —. A 13 anni eravamo già assieme. Ho dormito più volte in camera con lui che con mia moglie. Non ho mai avuto fratelli o sorelle, ma se dovessi pensare a un fratello per me è Adriano». Almeno fino al prossimo post.
Adriano Panatta compie 72 anni: il taglio di capelli, la rissa col pubblico, la Bertè, la Davis, la rivalità con Pietrangeli. Marco Calabresi su Il Corriere della Sera il 9 Luglio 2022.
Per capire chi è stato Adriano Panatta da qualche settimana c’è uno strumento in più: la docu-serie «Una squadra» che racconta un periodo storico contrassegnato dalle gesta dei giocatori che vinsero la Davis nel 1976
Panatta, una leggenda italiana
Per capire chi è stato Adriano Panatta, che oggi compie 72 anni, da qualche settimana c’è uno strumento in più: la docu-serie» Una squadra» (disponibile su SkyGo e Now), che racconta le imprese di Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli — campioni di Coppa Davis nel 1976 — ma non solo quelle. Panatta, fuoriclasse con la racchetta, ma anche fenomeno di massa e che la vita se l’è sempre goduta e continua a farlo.
Gli inizi
Figlio di Ascenzio, custode dei campi del circolo tennis Parioli, Panatta (soprannominato «Ascenzietto»), da bambino sognava di diventare nuotatore, ma fu proprio il papà a iscriverlo ai corsi del circolo in cui lavorava, quando Adriano aveva sei anni. A nove, la famiglia si trasferì all’Eur, ma una delle prime svolte della carriera fu il trasferimento a Formia nel 1964 con Mario Belardinelli. E fu proprio nella località del sud del Lazio che si iniziò a formare quella che nella serie tv viene definita «Una squadra».
Lui e Pietrangeli
Il 27 settembre 1970, il tennis italiano visse un momento di passaggio di consegne: a Bologna, nella finale dei campionati italiani, Panatta sconfisse in cinque set Nicola Pietrangeli, che di anni ne aveva 37 ma non si immaginava di perdere contro un ragazzino di 20. Panatta giocò qualche colpo sfrontato: «Lui era Pietrangeli e non se poteva fa’ niente», ha raccontato Panatta ricordando quel giorno. I due, però, si sarebbero ritrovati insieme, sotto la stessa bandiera, quando Pietrangeli divenne capitano non giocatore della squadra di Davis.
Adriano, Bertolucci e il Concorde
All’interno di quella squadra, c’erano due coppie per abitudini e modo di vivere: Panatta e Bertolucci da una parte, Barazzutti e Zugarelli dall’altra. I primi due più «viveur», gli altri due meno. «I due clan, fuori dal campo, si parlavano a malapena, si spogliavano e correvano separati», ricorda Pietrangeli. «Io e Paolo eravamo gli scapoloni», ha raccontato Adriano. «Quando eravamo a Roma avevamo un appartamento al Fleming — ha proseguito Bertolucci —. Panatta cucinava, io facevo lo sguattero. Quando ci fermavamo per qualche giorno lì, facevamo pochi allenamenti e tanto divertimento». Per raccontare lo stile totalmente diverso rispetto a «Bara» e «Zuga», in quel periodo al rientro da una trasferta in Sudamerica, Panatta e Bertolucci decisero di prendere il Concorde per fare tappa a Parigi e andare a trovare due amiche conosciute tempo prima (sperperando tutto quello che avevano guadagnato nel torneo); Barazzutti, invece, prese il volo di linea.
Il taglio di capelli
Eppure la carriera di Panatta all’inizio non fu del tutto agevole e anche il cammino in Coppa Davis di Adriano all’inizio fu difficile. Quando il capitano di Coppa Davis era infatti Orlando Sirola, Panatta rischiò di non essere convocato più. Il motivo? Il rifiuto di tagliarsi i capelli. «Non lo avrei fatto nemmeno davanti a un plotone di esecuzione — ha raccontato Panatta —. Lo trovavo ingiusto e idiota». Poi arrivò papà Ascenzio. «E se te lo chiedessi io di tagliarti i capelli?». «Se lo chiedi tu lo faccio — rispose —. Li tagliai, ma non ho mai perdonato quello che mi ha fatto Sirola».
Il meraviglioso ‘76 (e quelle scarpe perse)
L’anno d’oro di Panatta è stato il 1976, quando Panatta vinse gli Internazionali d’Italia al Foro Italico, il Roland Garros e la leggendaria Coppa Davis in Cile, con la finale che rischiò di non giocarsi per i noti problemi politici e che ha ispirato «Una squadra». «Il pubblico del Foro Italico è spietato. Quando vincevo mi osannavano, quando perdevo me ne dicevano di tutti i colori». La mattina della finale del Roland Garros, invece, Panatta non trovò le scarpe nello spogliatoio di Parigi: le aveva prese, per sbaglio, Bertolucci, che era già partito per andare a giocare un altro torneo. Così Panatta chiamò un amico (Bartoni) proprietario di un negozio di sport e se ne fece mandare un paio da Roma in aereo in fretta e furia. Arrivarono poco prima dell’inizio della finale con Solomon.
Con la Berté al cinema
Adriano negli anni ‘70 era celebre anche per la sua «dolce vita». Famosa la sua storia con Loredana Bertè, cantante straordinaria e donna avvenente. «Una volta andammo al cinema insieme con lui e la Berté — racconta Bertolucci —. Lei era stupenda. E così nel buio della sala un ragazzo gridò “Ah Panà ora capisco perché non vinci più un...”»
La scazzottata col pubblico a Barcellona
Nel 1977, l’Italia giocò da campione in carica un match di Coppa Davis in Spagna: sul 3-1, con gli azzurri già sicuri di passare il turno, Panatta scese in campo per una partita ininfluente ai fini del risultato e perse 6-1 6-0 contro Javier Soler. I tifosi cominciarono a lanciare oggetti (soprattutto cuscini) in campo all’indirizzo di Adriano, che reagì, scavalcando la recinzione e venendo alle mani con qualche tifoso. «È finita che ho dato un cazzotto fortissimo a un italiano, ma mica gli potevo chiedere il passaporto».
I contrasti con Pietrangeli
Il 1978 fu l’anno dello strappo tra la squadra e Nicola Pietrangeli, che fu sollevato dalla guida dell’Italia di Davis che con Panatta ha sempre avuto un rapporto conflittuale. «Con i giocatori non ho parlato per cinque anni — ha spiegato Pietrangeli —. Poi, una sera a Cortina, Panatta piangendo ha confessato le sue colpe». «Non ho mai pianto sulla spalla di nessuno, mi sono lasciato convincere», la risposta di Panatta. «Potevi dirlo cinque anni fa», la controreplica di Pietrangeli. «Una squadra» racconta anche i contrasti tra le due leggende del tennis, stemperati però dallo stesso Panatta: «Nicola pensa ancora di essere stato il più forte di tutti i tempi, non solo a tennis ma anche a calcio. Gli voglio bene, ma certe volte ti fa cadere le braccia, non è obiettivo. Però è ora di piantarla, siamo stati tutti e due bravini...».
Il matrimonio a 70 anni
Oggi Panatta vive in Veneto: «I 70 non me li sento addosso — ha raccontato due anni fa in un’intervista al Corriere della Sera —. Sto bene, ogni tanto ho un po’ di mal di schiena. Però il tennis, alla fine, è stato gentile con me». Nel settembre del 2020 ha sposato Anna Bonamigo, il suo secondo matrimonio dopo quello con Rosaria Luconi, con cui ha avuto tre figli, Rubina, Niccolò e Alessandro.
COPPA DAVIS 1976-80. Divisi erano campioni, insieme hanno fatto la storia del tennis. DOMENICO PROCACCI su Il Domani il 28 aprile 2022
I quattro giocatori – Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Tonino Zugarelli –, il loro capitano Nicola Pietrangeli non erano irraggiungibili.
Ecco, io ho SEMPRE la roba da tennis, lì in macchina, nel bagagliaio che a questo serve, o no
Un doppio a cui avrebbe preso parte anche Sandro Veronesi, fratello di Giovanni, con noi a cena, anche lui affascinato da Adriano e per questo quella sera abbastanza silenzioso, e chi lo conosce può capire la grandiosità di questo particolare.
Parliamo di tennis. Ma prima di guardare ai massimi livelli e occuparci di grandi campioni è opportuno volgere lo sguardo verso il basso. La quarta categoria. Un mondo a sé, un inferno, dove vedi notai, avvocati, capitani d’azienda che rubano i punti a ragazzini di 14 anni, amicizie in frantumi, racchette spaccate. Il livello è quel che è, d’altronde la definizione “giocatore di quarta categoria” è piuttosto chiara, ma questo conta poco. Quell’inferno l’ho attraversato, per qualche anno, ma ora ne sono fuori. Sto bene. Sono 587 giorni che non gioco una partita di torneo. Sto bene davvero. Non ci ricasco. Di quel periodo ho ricordi per lo più spiacevoli, spesso legati a sconfitte incredibili contro avversari improbabili.
Ecco, nonostante io sia ormai fuori dal tunnel e giochi in partita solo di rado, questo mi continua ad accadere. Esiste un numero altissimo, forse infinito, di giocatori nettamente inferiori a me tecnicamente, e soprattutto stilisticamente, con i quali riesco regolarmente a perdere. Il maggior esponente di questo folto gruppo è Giovanni Veronesi. Un giocatore che, con un unico aggettivo, potremmo definire inguardabile, ma che incredibilmente, anzi più che incredibilmente, vince con me quasi tutte le volte che giochiamo.
Una sera di qualche anno fa Giovanni Veronesi mi ha invitato a cena a casa sua dicendo che ci sarebbe stato un ospite che sarei stato felice di conoscere. L’ospite era Adriano Panatta e sì, certo, sono stato contento di conoscerlo. Era uno dei miei miti da ragazzo, mio e di tanti della mia generazione.
È stata una serata molto piacevole, Adriano ha raccontato aneddoti divertentissimi, gli abbiamo fatto mille domande e la si poteva anche chiudere così, in gloria. Ma Giovanni, che non ha il senso del limite in assoluto, né quello dei suoi limiti tennistici in particolare, ha lanciato l’idea di giocare un doppio, buttata lì, ai saluti. Un doppio a cui avrebbe preso parte anche Sandro Veronesi, fratello di Giovanni, con noi a cena, anche lui affascinato da Adriano e per questo quella sera abbastanza silenzioso, e chi lo conosce può capire la grandiosità di questo particolare.
UN DOPPIO
Panatta, uomo aperto a mille esperienze, ha subito accettato, come fosse una cosa normale, e una settimana dopo mi sono ritrovato in campo ad ascoltare da vicino “la bellezza del rumore di un colpo piatto”, come avrebbe detto poi Adriano nel suo splendido cameo nel film La profezia dell’armadillo.
In quello stesso periodo mi è successo di leggere Sei chiodi storti di Dario Cresto-Dina, un bellissimo libro sulla squadra e sulle vicende legate alla vittoria italiana della Coppa Davis in Cile nel 1976. Lì ho cominciato a pensare che questa storia meritasse un racconto per immagini.
Avevo apprezzato il documentario di Mimmo Calopresti La maglietta rossa, ma ritenevo che ci fosse ancora spazio per raccontare in maniera più approfondita non solo quella vittoria, con tutto il contorno politico, ma soprattutto quella squadra. I sei personaggi, i sei chiodi storti raccontati da Cresto-Dina, avevano già nel libro una statura da protagonisti, perché non l’avrebbero dovuta mantenere sullo schermo? I quattro giocatori – Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Tonino
Zugarelli – il loro capitano negli anni 1976-1977 Nicola Pietrangeli non erano irraggiungibili, e il direttore tecnico Mario Belardinelli, purtroppo scomparso, lo avrebbero raccontato loro. Mi era capitato di incontrare Nicola in occasioni più vicine al mondo dello spettacolo che dello sport, e ne avevo già apprezzato la brillantezza, peraltro nota. Quindi mentre cominciava a girarmi in testa questa idea, Alessandro Vannucci, un caro amico comune, mi ha portato a conoscere Corrado Barazzutti.
Ero pronto a incontrare un uomo chiuso, freddo, di poche parole. Tutto il contrario. E in mezzo a tutto questo contrario a un certo punto Corrado mi fa «giochiamo? Hai la roba da tennis?”. Ecco, nonostante io sia ormai lontano da qualsiasi forma di ossessione per questo sport, distante dal rischio di dovermi affidare alle cure di un buon analista per capire finalmente a quale trauma infantile addebitare quella lunga lista di sconfitte assurde, e al contrario viva ora il tennis con sano, assoluto distacco, quasi con disinteresse, ecco, io ho SEMPRE la roba da tennis, lì in macchina, nel bagagliaio che a questo serve, o no?
Giocare, lo so, è una parola grossa, ma almeno un lato del campo la merita, e quindi, dopo aver giocato prima con Panatta e poi con Barazzutti non sono riuscito a fermarmi. Sempre nel libro di Cresto-Dina avevo letto di Zugarelli maestro al Circolo Tennis Paolo Rosi. Ci sono andato.
Con un impegno, una dedizione e un atteggiamento che fanno pensare più a un serial killer che a un appassionato di tennis, ci sono andato e gli ho chiesto di darmi qualche lezione. Forse non c’è stato quel salto di qualità che nel mio tennis prima o poi arriverà, ma da allora posso dire, e dico spesso, di aver giocato con tre dei quattro componenti di quella mitica squadra.
Ho saputo solo dopo che Paolo Bertolucci fa un punto d’orgoglio di non aver più giocato da quando ha smesso col professionismo, e questo rende più difficile completare il mio ormai evidente disegno. Ma intendo dedicare tempo nei prossimi mesi a convincerlo che potrebbe essere molto bello dopo tanti anni riprendere la racchetta e scambiare qualche colpo, a prescindere, assolutamente a prescindere da chi ha di fronte. Ce la farò.
LA VITA DELLA SQUADRA
Nel frattempo, l’idea di fare qualcosa su quella vittoria si era un po’ allargata e mi sembrava interessante raccontare tutto l’arco di vita di quella squadra, grosso modo gli anni ’70, con un’attenzione particolare agli anni dal ’76 all’80. In quei cinque anni la squadra italiana raggiunge la finale quattro volte. Troppe per essere dovuto a un tabellone favorevole, o a una rinuncia, o anche a un exploit.
Significa essere fortissimi, significa essere stati in quegli anni la squadra più forte del mondo. Approfondire l’argomento di un progetto è una cosa che da produttore mi succede abbastanza spesso, ma qui ho capito che mi ero spinto troppo in là e che questa volta non avrei cercato un regista a cui affidare il lavoro, ma sarei andato avanti io stesso. Ho quindi chiesto a Sandro Veronesi di partecipare alla scrittura.
Sandro non è soltanto, si fa per dire, uno degli scrittori più importanti in circolazione, due Premi Strega e chi più ne ha più ne metta, ma è anche un grande conoscitore e appassionato di tennis. Vive però, tennisticamente parlando, in una dimensione parallela, metaverso si direbbe oggi, dove elabora e purtroppo cerca di mettere in pratica teorie che si avvicinano più alla fantascienza che allo sport. Spinto dal suo amore, che pur condivido, per il serve & volley, non può però trattenersi dal giocarlo sempre e ovunque.
In un incontro dove eravamo insieme contro suo fratello Giovanni e Panatta, e dove non abbiamo fatto neanche un game, a un certo punto Adriano ha fermato la palla e con molto affetto gli ha detto: «Sandro, io capisco che tu batta e scenda sulla prima e sulla seconda, anche se la seconda la tiri a due all’ora, ma almeno, ti prego, non me la mettere sul dritto…».
A noi si è aggiunto Lucio Biancatelli, ed è con loro due che ho preparato le diciassette interviste che ci sono servite a realizzare una docu-serie di oltre cinque ore, divisa in sei puntate. Il montaggio però fa letteralmente a pezzi le interviste, le intreccia, le combina col materiale di repertorio, è una vera riscrittura, tanto che il montatore Giogiò Franchini è entrato a pieno titolo tra gli autori. È venuta quindi l’idea, non a me, di proporre quasi nella loro interezza le interviste ai principali protagonisti di questa storia. Queste cinque interviste sono in effetti il cuore di questo lavoro.
A ognuna sono state dedicate due giornate piene. La prima è stata quella a Nicola Pietrangeli, poi Zugarelli, Barazzutti, Bertolucci e per ultimo Panatta. Personalmente le avrei presentate in questo stesso ordine, ma la casa editrice ha deciso che narrativamente era meglio una sequenza diversa e non ho visto margini di trattativa. La memoria ha regole sue, si sa. È normale non ricordare fatti anche importanti accaduti cinquant’anni prima.
È anche normale che a volte la memoria possa edulcorare, migliorare o romanzare quanto è realmente accaduto.
Questo testo è estratto dal libro Una squadra, in uscita il 12 maggio per Fandango. La docuserie omonima sarà al cinema dal 2 al 4 maggio e dal 14 maggio su Sky e Now.
DOMENICO PROCACCI. Domenico Procacci fonda la Fandango nel 1989, da allora ha prodotto più di 100 film e diverse serie tv. Fandango è anche una casa editrice, un’etichetta discografica, una società di distribuzione e una international sales company. Una Squadra è il suo primo, e certamente unico, libro.
Da ilnapolista.it il 12 aprile 2022.
Commentando il tabellone sfortunato di Fognini a Montecarlo, dove al secondo turno gli tocca il campione in carica Tsitsipas, Ubaldo Scanagatta ricorda su Ubitennis quando i sorteggi si potevano ancora “manipolare”, con un paio di aneddoti gustosi:
“Per anni a Roma quando si doveva proteggere al meglio le chances di Pietrangeli prima, di Panatta poi, e via via tutti gli altri, si faceva di tutto. Ci sono stati anche tempi, e li ricordo bene, in cui i sorteggi non erano proprio… cristallini. Se si poteva dare una mano ai “nostri” la si dava.
Una volta venne fuori un sorteggio disastroso per Panatta a Milano e il direttore del torneo Carlo della Vida che era presente sentendo estrarre il nome di un terribile avversario esclamò: “Ma non è possibile!”. E lo disse con tale veemenza che il poveretto incaricato del sorteggio si spaventò a tal punto che preso alla sprovvista ributtò immediatamente il numerino nel sacchetto. E ne estrasse un altro. Molto più abbordabile. Una scena indimenticabile”.
A Roma, ricorda Scanagatta, “si erano inventati le palline ghiacciate da tirar su per individuare gli avversari da pescare per i nostri”, poi “si decise che non era più il caso di fare figure cacine perché oramai ci si era rovinati la reputazione a livello mondiale”. E dunque “accadde che Panatta venisse sorteggiato al primo turno contro il campione del Foro dell’anno precedente (Gerulaitis)… che però arrivò in condizioni del tutto diverse rispetto all’anno precedente. Anche perchè pensarono bene di metterlo in campo all’indomani del suo arrivo”.
Francesco Persili per Dagospia il 29 aprile 2022.
La Coppa dimenticata. “Panatta ha ragione. La vittoria italiana della Davis in Cile nel1976 è passata in sordina”. Mario Giobbe, che raccontò quell’impresa per il GR2, rivela a Dagospia aneddoti e retroscena di quello che fu definito “l’altro cammino di Santiago”. Dalla martellante campagna per boicottare la finale (“Non si giocano volée con il boia Pinochet”) con giornali, politici e intellettuali di sinistra che criticavano la scelta di andare in Cile dove regnava il regime di Pinochet al “coraggio” del capitano Nicola Pietrangeli che voleva a tutti costi partire per andare a conquistare “l’insalatiera d’argento”.
“In Italia successe l’iradiddio ma alla fine riuscimmo a partire. Una volta arrivati a Santiago fummo accolti dalle forze dell’ordine che ci accompagnarono in albergo. Ogni volta che uscivamo c’erano sempre questi signori”, ricorda Mario Giobbe, che è stato consulente di Domenico Procacci per il documentario “Una squadra” (al cinema il 2-3-4maggio e sul canale "Sky Documentaries" dal 14 maggio) dedicato ai tennisti azzurri Panatta-Bertolucci-Barazzutti-Zugarelli che vinsero la Coppa Davis in Cile.
Oltre al capitano Pietrangeli, un ruolo decisivo in quella trasferta lo svolge Mario Belardinelli, più di un direttore tecnico, “un secondo padre” per i 4 moschettieri azzurri. “Nel 1974 andammo in Sud Africa a giocare la semifinale di Coppa Davis. Nella saletta dove la sera veniva proiettato un film, l’unico giornalista ammesso ero io. E Panatta e Bertolucci mi chiedevano di passargli la sigaretta…”.
Fioccano aneddoti su Adriano che dopo la vittoria al Roland Garros contro Solomon al tie-break del quarto era “distrutto”: “Quando entrai nello spogliatoio, lo trovai su un lettino, mi confessò: “Se fossimo andati al quinto set, avrei perso il match”.
Sulla maglietta rossa, che ha ispirato anche un film-documentario di Mimmo Calopresti, Mario Giobbe rimanda al suo libro-disco “Le mani sulla Davis” nel quale Bertolucci rivela: “Prima di scendere in campo ci fu qualche discussione sul colore della maglietta con la quale saremmo dovuti scendere in campo. Alla fine la ebbe vinta Adriano, e indossammo la maglietta rossa. All’intervallo altra discussione, ma stavolta vinsi io, e tornammo in campo con la maglietta azzurra”.
Delle giornate di Santiago Mario Giobbe ricorda anche il primo esperimento di seconda voce “tecnica”. Accanto a lui chiamò Lea Pericoli (“brava anche come commentatrice”). Anni dopo, fu sempre lui a tenere a battesimo Nicoletta Grifoni, la prima voce femminile a “Tutto il calcio minuto per minuto” (“Roberto Bortoluzzi mi disse: “Ma come ti sei permesso a far entrare una voce femminile nel calcio?”)
Della impresa in Cile ci restano racconti e spezzoni video reperibili su Youtube ma non le immagini che sono scomparse dalle Teche Rai: “Non si sa come è soprattutto perché…”.
La generazione d’oro del tennis italiano (che arrivò in finale di Davis anche nel ’77 contro l’Australia, nel ’79 contro gli Usa e nell’80 contro la Cecoslovacchia) non è stata adeguatamente celebrata. “Dopo la vittoria della Davis 1976 ci fermammo con i giocatori per una settimana a Rio de Janeiro. Quando tornammo all'aeroporto c’era poca gente, è vero. Ma c’erano state le polemiche e soprattutto era il 24 dicembre…”. Barazzutti ha spiegato che agli Internazionali d’Italia sarebbe opportuno un ricordo di quell'impresa: “Tre anni fa al Foro Italico fecero una specie di omaggio ai 4 moschettieri e a Pietrangeli. Fu una cosa molto deludente, non c’era nessuno sugli spalti”.
Nessuna similitudine tra la richiesta di boicottaggio della finale di Santiago e l’esclusione dei russi da Wimbledon come segno di solidarietà verso l’Ucraina. “Sono situazioni completamente diverse. I tennisti russi Medvedev e Rublev, poi, hanno fatto appello alla pace”. Il futuro del tennis italiano? “Con Berrettini, Sinner, Sonego e Musetti finalmente abbiamo un gruppo che si può paragonare a quello che vinse la Davis in Cile. Una bella squadra. Ci vorrebbe un Nicola Pietrangeli e un Mario Belardinelli…”
Da ilnapolista.it il 29 aprile 2022.
La Coppa Davis celebrata con quasi cinquant’anni di ritardo. Vinta nel 1976, se ne parla di più adesso che all’epoca. Fu una finale contestata perché l’Italia andò a giocarla nel Cile di Pinochet. Domenico Procacci ha realizzato una docu-serie in cinque puntate che andrà su Sky, di cui c’è una versione cinematografica nelle sale dal 2 al 4 maggio, e anche un libro. La Stampa lo intervista. Lui paragona i cinque protagonisti a cinque attori:
«Adriano è Gassman. Bertolucci, Tognazzi. Zugarelli chiaramente Manfredi. Barazzutti lo vedo come lo Stefano Satta-Flores di “C’eravamo tanto amati” di Scola».
E Pietrangeli?
«Adolfo Celi. Anche per la somiglianza fisica. Panatta e Bertolucci poi sono stati campioni nello sport, ma resto convinto che l’Italia abbia perso una grande coppia comica. Totò e Peppino? Anche un po’ Sandra Mondaini e Raimondo Vianello».
Cinque puntate sono state sufficienti?
«Avrei voluto intervistare Borg, Nastase…Ci sono episodi rimasti fuori come quello di Bertolucci che a Napoli “salva” Borg, letteralmente sequestrato dal tassista perché non ha contanti e pretende di pagare con la carta di credito… Per quello c’è il libro. All’inizio mi sembrava inutile, invece raccoglie le interviste una per una e regala cinque differenti punti di vista».
Boris Becker. Boris Becker, carcere per 2 anni e mezzo: la sentenza dopo la condanna per bancarotta. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.
L’ex campione di tennis tedesco sconterà almeno metà della pena in galera. Il giudice: «Non si è mai pentito».
Nel giorno del giudizio ha messo la cravatta di Wimbledon, a righe verdi e viola. Come simbolo di una gloria che tempo ed errori hanno spazzato via. Boris Becker è stato condannato per bancarotta fraudolenta a due anni e mezzo di carcere dal tribunale di Southwark, sud di Londra. Dovrà scontare almeno metà della pena dietro le sbarre, il restante periodo sarà invece in regime di semilibertà.
Nel pronunciare la sentenza ieri il giudice, Deborah Taylor, ha sottolineato come l’ex tennista «non abbia ammesso la sua colpa o provato rimorso. C’è stata da parte sua una totale mancanza di umiltà». Becker è stato ritenuto colpevole per quattro dei 24 reati fiscali per cui era finito sotto processo, nato per prestiti mai ripagati alla banca privata Arbuthnot Latham (3,6 milioni di euro) e a un uomo d’affari inglese (altri 1,6 milioni). Non solo: non ha dichiarato una proprietà immobiliare in Germania e, per nascondere denaro ai creditori, lo ha trasferito su conti di altre persone, nella maggior parte dei casi familiari.
All’udienza — in cui il p.m. ha definito la sua condotta «deliberata e disonesta» — Becker, 54 anni e sei titoli dello Slam (di cui tre a Wimbledon), è arrivato mano nella mano con l’attuale compagna, Lilian de Carvalho Monteiro, a cui aveva appena comprato un mazzo di fiori. Elegante ma teso, cappotto blu a coprire l’abito grigio, il viso arrossato sotto i capelli biondo platino, ben dritti in testa. Si è portato anche un borsone verde militare della Puma, strapieno di vestiti. Con lui pure il figlio maggiore Noah, avuto dalla prima moglie Barbara.
Una delle cause del fallimento, secondo il suo avvocato, Jonathan Laidlaw, che ha provato a evitare il carcere al vecchio Bum Bum dicendo che i soldi sono finiti non per alimentare uno stile di vita sopra le righe, ma piuttosto per le spese legate al divorzio e al mantenimento dei quattro figli. «Quest’uomo ha oramai la reputazione in pezzi — ha detto —. Non avrà più alcun contratto su cui guadagnare, ha già pagato quello che gli spettava». Evidentemente non abbastanza.
Da sempre controverso nel rapporto con soldi e legge, Becker si è affidato di nuovo alle persone sbagliate, che hanno gestito il suo patrimonio (oltre 45 milioni di euro guadagnati solo in carriera) in modo «caotico». Tante le zone grigie della vicenda, tra cui il tentato ricorso, nell’estate del 2018, a una presunta immunità diplomatica in quanto consulente della Repubblica Centrafricana per lo sport nell’Unione europea. Una carica mai esistita.
Eppure sembrava essersi rilanciato Boris quando, tra il 2013 e il 2016, si è seduto nel box di Novak Djokovic, allenatore insieme al fido Marjan Vajda. Riflessivo e furbo, attento e complice, ha saputo far crescere il serbo nell’eterno duello con Federer e Nadal, portandolo a vincere sei slam. Anche consulente della federtennis tedesca, si è fatto pian piano accerchiare dalle ombre. Fino al fallimento, dichiarato nel giugno del 2017. Non è servito, un paio d’anni dopo, vendere all’asta oltre 70 cimeli conquistati in carriera: ha raccolto circa 750 mila euro, poco per arginare l’onda di debiti che lo aveva già travolto.
Recidivo, nel 2002 era stato condannato dal tribunale di Monaco di Baviera a due anni di reclusione con la condizionale per evasione fiscale per 1,7 milioni di euro. Un precedente che nella sentenza di ieri ha avuto peso. «Non hai ascoltato l’avvertimento che ti è stato dato allora — le parole del giudice — e questa è un’aggravante significativa».
Alle porte del carcere, campione alle corde, pochi giorni fa Becker ha incontrato un regista di documentari, George Chignell, con il quale sembra stia pensando di girare un film sulla sua vita. Amori ed errori, cadute e trionfi. Lo rivedrà in poltrona con la cravatta di Wimbledon sul petto.
Da gazzetta.it il 2 maggio 2022.
Boris Becker, 54 anni, condannato pochi giorni fa a due anni e mezzo per reati fiscali, è rinchiuso in uno dei peggiori carceri dell’Inghilterra, dove le violenze sono all’ordine dei giorni e la qualità della vita molto pesante. A raccontare lo scenario è un reportage del Daily Mail.
Dopo la condanna a Londra a due anni e mezzo di carcere per bancarotta fraudolenta, Boris Becker è stato portato in cella a bordo di un furgone penitenziario. L'ex campione tedesco di tennis si era presentato in Tribunale con la compagna, Lilian de Carvalho Monteiro.
DA INCUBO— La prigione di Wandsworth, racconta il giornale inglese, è uno squallido edificio vittoriano di 170 anni, sovraffollato (oltre 1.300 persone) e infestato dai topi. I detenuti trascorrono più di 22 ore al giorno in celle fatiscenti.
Secondo il rapporto stilato da Charlie Taylor, ispettore capo delle prigioni, l'abuso di droghe e i problemi di salute mentale sono elevatissimi: un gruppo di carcerati è stato descritto mentre camminava "sbattendo le palpebre alla luce del sole" dopo più di una settimana al chiuso. E il personale della prigione ha usato la forza 1.295 volte nel periodo preso in esame, quasi quattro volte al giorno.
CONDIZIONI DISUMANE — Il Daily Mail ha raccontato nel dettaglio le prime ore di carcere di Becker. "Fonti carcerarie affermano che è probabile che la star del tennis trascorrerà fino a quindici giorni nel carcere di categoria B prima di essere spostato in un carcere di categoria C di sicurezza inferiore.
Dopo essere stato condannato alla Southwark Crown Court poco prima delle 16, Becker, con i suoi effetti personali in una sacca Puma, è stato condotto in un furgone della prigione per i 45 minuti di auto attraverso il sud di Londra fino alla prigione, a meno di due miglia dal Wimbledon's Centre Court, dove Becker ha vinto il suo primo di tre titoli a Wimbledon nel 1985 a soli 17 anni.
Dopo aver aspettato in un'area di accoglienza, è probabile che al sei volte campione del Grande Slam sia stato detto di spogliarsi e poi cercato armi o sostanze vietate. Becker sarà quindi stato intervistato per valutare il rischio di suicidio o autolesionismo, prima di essere condotto in una cella dell'E-Wing, dove soggiornano i nuovi prigionieri durante un periodo di induzione di tre giorni. Se fosse arrivato entro le 19.30 potrebbe aver avuto tempo per una doccia. In caso contrario, ha dovuto aspettare altre 24 ore. La sua prima notte al "Wanno" – come HMP Wandsworth è conosciuto dai suoi detenuti – è probabile che sia stata terrificante".
TERRORIZZATO— Il giornale ha poi riportato le testimonianze di alcuni detenuti usciti da quel carcere. Tutti hanno descritto uno stile di vita molto lontano da quello a cui Becker era abituato. Se sarà fortunato, verrà trasferito all'H-Wing, soprannominato il Ritz dai colletti bianchi rinchiusi lì. Nonostante questo, ha soltanto sei docce per 86 celle, la maggior parte delle quali ha due detenuti. L'unico modo per sopravvivere, ha detto Taylor, è tenersi lontano dai problemi. Ma sicuramente, la prima notte l'ex tennista sarà stato "terrorizzato".
Boris Becker: il carcere, la bancarotta, le mogli, poker e scacchi, la mega villa a Maiorca, Edberg, Djokovic. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.
Vita, amori e follie dell’ex tennista, condannato a due anni e sei mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta.
La condanna a due anni e mezzo
Boris Becker è stato condannato per bancarotta fraudolenta a due anni e mezzo di carcere dal tribunale di Southwark, sud di Londra. Dovrà scontare almeno metà della pena dietro le sbarre, il restante periodo sarà invece in regime di semilibertà.
Nel pronunciare la sentenza ieri il giudice, Deborah Taylor, ha sottolineato come l’ex tennista «non abbia ammesso la sua colpa o provato rimorso. C’è stata da parte sua una totale mancanza di umiltà». Becker è stato ritenuto colpevole per quattro dei 24 reati fiscali per cui era finito sotto processo tra cui sequestro di proprietà (una regale villa a Maiorca), occultamento di debiti (non ha mai restituito circa 3,6 milioni ricevuti in prestito dalla banca Arbuthnot Latham). Non solo: non ha dichiarato una proprietà immobiliare in Germania e, per nascondere denaro ai creditori lo ha trasferito su conti di altre persone, nella maggior parte dei casi familiari.
L’attuale compagna
All’udienza — aula numero uno del tribunale che guarda il London Bridge — Becker, 54 anni e sei titoli dello Slam (di cui tre vinti a Wimbledon), è arrivato mano nella mano con l’attuale compagna, Lilian de Carvalho Monteiro, a cui aveva appena comprato un mazzo di fiori.
I quattro figli
In tribunale è stato accompagnato dal figlio maggiore Noah, avuto con la prima moglie Barbara. Becker ha altri tre figli: Elias Balthasar, Amadeus Benedict Edley Luis (avuto con la seconda moglie Sharlely «Lilly» Kerssenberg) e Anna (avuta dalla modella Angela Ermakova).
Re a Wimbledon a 17 anni
Becker arriva come un ciclone sul tennis. Vince a soli 17 anni Wimbledon, ne aggiungerà altri due in carriera battendo Lendl e Edberg. Ma proprio il Centre Court gli volta le spalle, con quattro finali perse (due ancora con Edberg, poi Stich e un giovane Sampras). In totale vanta 64 titoli, di cui 6 Slam (uno allo Us Open, due in Australia).
Le idee di suicidio
Nel 1991, a 24 anni, confessa di aver pensato al suicidio: «Una volta ero in piedi sulla finestra, sarebbe bastato un passo per saltare di sotto. Ma l’ ho chiusa, mettendomi tutto dietro le spalle. Ho deciso in quel momento di cominciare una nuova vita.». Parole che fanno riferimento ai primi anni di carriera, in cui ha rischiato di essere schiacciato dalle aspettative. Solo nell’89 ha potuto liberarsi dell’ansia che lo attanagliava, con la vittoria agli Us Open.
Allenatore di Djokovic
Tra il 2013 e il 2016 si è seduto nel box di Novak Djokovic, allenatore insieme al fido Marjan Vajda. Riflessivo e furbo, attento e complice, ha saputo far crescere il serbo nell’eterno duello con Federer e Nadal, portandolo a vincere sei slam. Di recente ha svolto anche il ruolo di consulente della federtennis tedesca.
La prima moglie
Becker è stato sposato due volte. Il primo matrimonio è del 1993, con la modella Barbara Feltus Pabst. I due si sono lasciati nel 1999, per un tradimento del tennista. Così lei si è trasferita in Florida con i due figli Noah e Elias quando ha scoperto che il marito aspettava un figlio da un’altra donna (Angela Ermakova). Nel 2001 il divorzio tra Becker e Barbara.
La figlia fuori dal matrimonio
Come detto Becker ha una figlia, Anna Ermakova, nata dalla storia di una notte con la modella tedesca Angela Ermakova: inizialmente non era stata riconosciuta dal padre. Becker poi venne smascherato dalle analisi del Dna nel 2001: nel 2007 il campione ne ottenne l’affido condiviso. La nuova paternità gli costò la fine del matrimonio con la prima moglie Barbara, da cui aveva avuto altri due figli, appunto Noah e Elias Balthasar.
La seconda moglie
Nel 2005 inizia a far coppia con la modella olandese Lilly Kerssenberg, che sposa quattro anni più tardi. Hanno avuto un figlio, Amadeus Benedict Edley Luis, e si sono separati nel 2018.
La precedente condanna
Nel 2002 viene condannato dal tribunale regionale di Monaco di Baviera a due anni di reclusione con sospensione della pena per evasione fiscale per 1,7 milioni di euro. Un precedente che nella sentenza di ieri ha avuto peso. «Non hai ascoltato l’avvertimento che ti è stato dato allora — le parole del giudice — e questa è un’aggravante significativa».
La mega villa a Maiorca
Nel 1995 Becker compra una mega villa a Maiorca, e la ribattezza «Son Coll». Nel 2007, già nei guai a livello finanziario, tenta di venderla per circa 15 milioni di euro. Nulla di fatto, finché viene disposta la messa all’asta della proprietà, per ripianare i debiti di Becker.
I cimeli venduti
Nel 2019 per tentare di ripagare i debiti è stato costretto a mettere all’asta molti dei cimeli accumulati in carriera. Già l’anno precedente il banditore Wyles Hardy & Co aveva organizzato una prima vendita di 82 lotti, ma il tre volte vincitore di Wimbledon l’aveva bloccata, appellandosi all’immunità diplomatica. Ha venduto oltre 70 cimeli, raccogliendo circa 750 mila euro, poco per arginare l’onda di debiti che lo aveva già travolto.
Vegetariano
Becker è vegetariano convinto. Nel suo periodo di collaborazione con Novak Djokovic i due si sono trovati, oltre che sul fronte tennistico, anche su questo aspetto (anche Nole è molto attento all’alimentazione).
Poker e scacchi
Ha da sempre una forte passione per poker e scacchi. «Io sono un giocatore nato con la voglia di vincere e tutto ciò fa parte della mia indole. Che sia tennis o siano gli scacchi, io voglio giocare non solo per farlo, ma perché mi piace mettermi alla prova». Così ha sfidato anche il campione Garry Kasparov in una partita giocata via internet. Perdendo.
Inflitti trenta mesi di reclusione. Boris Becker condannato per bancarotta, l’ex campione di tennis dovrà andare in carcere: frode da 3 milioni di euro. Carmine Di Niro su Il Riformista il 29 Aprile 2022.
Da ‘Bum Bum’ in campo, come lo chiamavano i tifosi per l’esplosività del servizio e l’abilità nel serve-and-volley, al botto in tribunale. L’ex campione tedesco di tennis Boris Becker, sei volte campione Slam, è stato condannato dalla giuria della Southwark Crown Court di Londra a 2 anni e mezzo di carcere per reati fiscali.
Il 54enne tedesco era stato giudicato colpevole all’inizio del mese di aprile di quattro capi di accusa e rischiava fino a sette anni di carcere. Il suo avvocato, Jonathan Laidlaw, ha tentato ogni carta per evitare che per l’ex campione di tennis si aprissero le porte del carcere, con una condanna sotto i due anni, ma la speranza è stata vana. Becker dovrà trascorrere in galera la metà della pena e solo successivamente potrà ottenere i domiciliari.
Il giudice Deborah Taylor ha annunciato la sentenza davanti a un Becker in vestito grigio e con una cravatta nei colori verde e viola di Wimbledon, accompagnato in aula dalla fidanzata Lilian de Carvalho Monteiroa e il suo primogenito Noah. Secondo l’accusa il tre volte campione di Wimbledon è responsabile di bancarotta fraudolenta: Becker ha trasferito centinaia di migliaia di sterline dopo il fallimento del giugno 2017 dal suo conto aziendale ad altri conti, compresi quelli della ex moglie Barbara e della moglie da cui si era separato Sharlely ‘Lilly’ Becker. Complessivamente, la cifra ritenuta oggetto di frode è di 2,5 milioni di sterline, pari a 3 milioni di euro al tasso attuale.
Non solo. L’ex tennista, poi diventato commentatore televisivo e anche allenatore del campione serbo Novak Djkokovic, è stato anche condannato per non aver dichiarato una proprietà in Germania e aver nascosto un prestito bancario di 825mila euro e azioni di un’azienda tecnologica. Becker è stato invece assolto da altri 20 capi di imputazione, comprese le accuse di non aver consegnato i suoi numerosi premi, tra cui due trofei di Wimbledon e una medaglia d’oro olimpica.
La strategia difensiva dell’avvocato Jonathan Laidlaw non ha funzionato: il legale di Becker ha chiesto clemenza nei confronti dell’ex campione, sottolineando come il suo cliente non avesse speso i soldi per uno “stile di vita sontuoso” ma piuttosto per il mantenimento dei figli, l’affitto e le spese legali e aziendali. Dall’inizio del processo inoltre Becker, ha ricordato in aula Laidlaw, ha subito “pubbliche umiliazioni” e non ha potenziali guadagni futuri.
Spiegazione che non ha convinto il giudice Taylor che, pronunciando la sentenza, ha sottolineato: “È da notare come lei non abbia ammesso la sua colpa e nemmeno rimorso. C’è stata da parte sua una totale mancanza di umiltà“.
Ad aggravare la posizione del campione tedesco, capace di vincere Wimbledon nel 1985 a 17 anni, da non testa di serie, è stata anche la sua recidività. Becker era già stato condannato in Germania per evasione fiscale, nel 2002.
La bancarotta che è costata oggi la condanna riguarda invece un prestito mai ripagato da circa 5 milioni di dollari ottenuto dall’ex tennista dalla banca Arbuthnot Latham nel 2013 per l’acquisto della sua villa di Maiorca, in Spagna. Becker ha poi dichiarato bancarotta, ma nascondendo asset mai dichiari alle autorità fiscale britanniche, tra cui un altro prestito e quote di una società.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
LA PARABOLA DEL TENNISTA. Becker: così il più giovane vincitore di Wimbledon, trent’anni dopo è finito in galera. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 29 aprile 2022
A 17 anni ha stregato il mondo con il suo turbo-tennis, diventando il più giovane campione di Wimbledon. Tuffi, ace, risposte vincenti: Boris Becker è stato un campione di precocità e dal talento strabordante.
Smesse le vesti del campione, il tedesco ha però mostrato fragilità e commesso parecchi passi falsi. Una prima condanna per evasione fiscale nel 2002 non gli era costata la galera per pochi mesi. Nella sua seconda vita è stato coach di Djokovic ed era pronto a firmare con Sinner.
Il giudice che lo ha condannato a due anni e mezzo di reclusione per bancarotta fraudolenta ne ha ritratto un profilo sconfortante, quello di un uomo irresponsabile e disonesto. Almeno metà della pena la sconterà in carcere
Aveva il mondo in mano. Con i tuffi e i servizi scagliati ai duecento all’ora, un alieno di 17 anni di nome Boris Becker era atterrato sul campo centrale di Wimbledon facendo sbiadire in un lampo il resto della concorrenza. «Non appena quel ragazzo troverà il modo di tenere in campo le sue bordate, saranno dolori per tutti».
Lo sosteneva il geniale John McEnroe, fino ad allora custode del tennis nel tempio londinese, e la sua profezia si sarebbe avverata nel 1985, con il primo trionfo di Becker nello Slam dell’immortalità tennistica. Bum Bum, come lo chiamavano in patria, ha trascinato il tennis nell’era contemporanea, quella della potenza combinata alla tecnica, un passaggio repentino dal bianco e nero al technicolor.
A fine carriera, neanche troppo lunga, il campione tedesco aveva accumulato – o meglio, incassato – non solo tre titoli ai Championships, due Australian Open, uno Us Open e la prima posizione mondiale ma l’equivalente rivalutato di 120 milioni di dollari tra montepremi e sponsorizzazioni. Una montagna di denaro, una fama planetaria, porte spalancate dappertutto: idolo delle folle in Germania, vent’anni fa Boris Becker era una superstar poco più che trentenne appena pensionata, dal carisma che – termine beffardo da usare oggi - catturava.
Qualcuno presagiva per lui un futuro da capitano di coppa Davis, macché, da imprenditore di successo, e magari pure da leader politico o cancelliere: il suo vecchio manager, il magnate Ion Tiriac – giocatore medio, poi banchiere miliardario in dollari – pareva incline a diventare il suo mentore anche una volta abbandonata la racchetta.
Ma la storia è andata in un’altra maniera. La sicurezza nel rispondere vincente di rovescio o la bravura impavida nel chiudere nell’angolo volée impossibili, Becker non le ha sapute trasmutare nella vita senza scarpe da tennis. Anzi. Chiuso un primo matrimonio con una attrice di colore, Barbara Feltus, scelta che ai tempi (trent’anni fa) aveva creato malumori in una parte dell’opinione pubblica nazionale, gli è toccato pagare milioni per il divorzio e il mantenimento dei due figli. Che sono diventati tre quando è stato costretto ad ammettere una serata peccaminosa con una modella in un celebre ristorante londinese di sushi; quattro dopo il secondo matrimonio, pure quello finito a carte bollate.
LA SECONDA VITA
Boris Becker e Novak Djokovic (Copyright 2016 The Associated Press)
Frattanto, la sua seconda vita stentava ad avviare i motori. Una partecipazione societaria in una azienda di telai, ospitate televisive a gettone alla BBC, l’amore non retribuito per il poker e sì, tre anni da coach aggiunto di Novak Djokovic, una carica fugace da responsabile del tennis maschile per la Deutscher Tennis Bund (la federazione) e una nomina, che ora suona grottesca, nell’organo di consulto economico del Bayern di Monaco.
Su un binario parallelo, i doppi falli si accumulavano: una prima condanna per evasione fiscale nel 2002, che il giudice del 2022 gli ha ricordato come «un campanello d’allarme che lei ha deciso di non ascoltare, nonostante le fosse stata concessa la sospensione condizionale».
Un pasticciaccio in un resort a Marbella, con un buco di qualche milione lasciato ad arrostire sotto il sole. Fino alla crepa definitiva nel vascello, l’accusa di frode fiscale a Londra, la sua terza casa dopo il paesiello natio di Leimen e la residenza di comodo nel Principato di Monaco - perché già allora, mica solo ora i grandi dello sport cercavano rendersi immuni dall’agenzia delle entrate.
Un processo per fallimento iniziato nel 2017 che ha accertato quanto segue: il signor Becker ha occultato al fisco britannico due milioni e mezzo di sterline tra liquidità e asset, ha sempre negato gli addebiti «mostrando di non aver maturato alcun senso di colpa e anzi, cercando di scaricare responsabilità sugli altri» ed è colpevole di quattro capi d’accusa.
La giuria lo ha assolto per altre venti ipotesi di reato, tra cui quelle di aver nascosto i suoi trofei più prestigiosi per evitare fossero messi all’asta. Il suo legale ha provato a sostenere la tesi del campione in buona fede e mal consigliato, consapevole di essere finito sul lastrico «dopo divorzi onerosi e mancati guadagni una volta terminata la vita sportiva».
Niente da fare: trenta mesi di reclusione nel carcere di Southwark. Becker, segnato da cinquantaquattro anni di vita dalle stalle alle stelle e ritorno - e pure da mesti interventi di lifting facciale - ha ascoltato la sentenza indossando una cravatta con i colori verde-viola del club di Wimbledon, quello che soleva chiamare «il mio giardino». Ci ha giocato sette finali ed è socio (chissà se ancora d’onore) del circolo più esclusivo al mondo.
A inizio anno, era pronto il contratto per diventare il supercoach di Jannik Sinner: chissà, forse pensava di cavarsela anche stavolta. Sotto i due anni di condanna, sarebbe scattata la condizionale e invece no, dovrà espiare in cella metà della sanzione. Scatta il Serving time, ironizzano gli inglesi. Perché da loro, guarda il caso, significa due cose che più diverse non potrebbero essere e che Becker è riuscito nell’impresa di intestarsi parimenti: tirare una palla di servizio e finire in galera. FEDERICO FERRERO
Stefano Semeraro per “la Stampa” il 30 aprile 2022.
L'immagine di Boris Becker è stampata nella nostra memoria mentre scende a rete, un terremoto rosso al seguito del servizio più famoso del tennis. Pensarlo rinchiuso dietro le sbarre di una prigione, invece che sul Centre Court di Wimbledon, è strano, irreale, quasi grottesco. Abituiamoci, purtroppo, all'idea, anche se il campione ha i margini per appellarsi ed evitare l'umiliazione della divisa a strisce.
Il campione tedesco già nel 2002 era stato condannato per due anni, con la condizionale, per un reato contro il fisco tedesco. Ieri la giudice Deborah Taylor della Southwark Crown Court di Londra lo ha giudicato colpevole di 4 delle 24 delle accuse relative alla bancarotta del 2017 (6 milioni di euro di insolvenza) e condannato a due anni e mezzo.
Di anni in cella ne rischiava addirittura sette, Bum Bum, che vive in Inghilterra dal 2012, per aver trasferito in maniera illecita centinaia di migliaia di sterline da uno dei suoi conti ad altri conti - compresi quelli delle sue ex mogli Barbara e Shirley - , nel tentativo di ritagliarsi un «tesoretto» con cui sfamare alcuni dei suoi debitori (un buco di 3 milioni di euro). In particolare Becker non ha denunciato una sua proprietà immobiliare in Germania e 850.000 euro investiti in una società. La corte lo ha invece assolto da altre 20 accuse, fra le quali la vendita di molti dei suoi trofei tennistici - comprese due delle sue tre coppe di Wimbledon.
Davanti al giudice Boris si è presentato con una delle cravatte dell'All England Club, elegante in un completo grigio, e tenendo per mano la fidanzata Lilian de Carvalho Monteiro, ma invecchiato, con le borse sotto gli occhi, l'espressione rabbuiata e il passo claudicante che gli ha regalato la caviglia distrutta da tanti anni di serve & volley. Il suo avvocato Jonathan Laidlaw ha provato a sostenere che l'ex n.1 del mondo i soldi li aveva spesi in beneficenza e per sostenere le spese legali, ma l'accusa rappresentata da Rebecca Chalkey ha definito «deliberato e disonesto» il suo comportamento, aggiungendo che Becker tenta ancora «di incolpare» altri delle sue malefatte.
Ci si può chiedere che fine abbiano fatto i 50 milioni di dollari guadagnato in carriera (25 in soli montepremi), e quelli incassati in tempi più recenti come coach di Novak Djokovic, responsabile tecnico della federtennis tedesca, o apprezzatissimo commentatore tv. Bum Bum, oggi 54enne, sostiene di averli impiegati per pagare i suoi costosi divorzi e il mantenimento dei quattro figli, e non, come sospettano in molti, solo per sostenere uno stile di vita faraonico.
«Lei non ha dimostrato nessun segno di pentimento e di rimorso, né umiltà»,lo ha rampognato la giudice Taylor. Una qualità, l'umiltà, che non fa parte del bagaglio del rosso di Leimen, diventato a 17 anni, nel 1985, il più giovane campione nella storia di Wimbledon. Ai tempi della bancarotta Becker si era dichiarato «imbarazzato e scioccato e aveva offerto in risarcimento anche la sua fede nuziale. Da Monzon a Maradona, da Arantxa Sanchez a Tyson, da Brehme a O.J. Simpson, si allunga così tristemente la galleria dei fuoriclasse passati dalla gloria dei campi al buio di una guardiola.
Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 30 aprile 2022.
Dall'erba verde di Wimbledon al cemento freddo del carcere: Boris Becker, il talento del tennis che ha alzato la coppa del prestigioso torneo a soli 17 anni diventando il più giovane di sempre ad averlo mai fatto, è stato condannato a trenta mesi di prigione per reati finanziari. Dopo aver sperperato la propria fortuna di 38 milioni di sterline e aver dichiarato bancarotta nel 2017, Becker ora è stato dichiarato colpevole di aver nascosto più di 2,5 milioni di sterline (circa tre milioni di euro) ai propri creditori.
Tra questi, denaro per 390mila sterline trasferite alle ex mogli Barbara e Sharlely, una casa in Germania, un debito bancario e diverse quote di una società tech. Reati per i quali, ha detto ieri la giudice Deborah Taylor nell'aula di tribunale di Southwark, «non ha mostrato alcun segno di rimorso» né «ne ha accettato le responsabilità». Con l'aggiunta, ha rimarcato, di non aver «prestato attenzione agli avvertimenti precedenti», riferendosi alla condanna per evasione fiscale nel 2002 in Germania, dove gli erano stati inflitti altri due anni di carcere con condizionale e una multa di 300mila sterline. «Lei ha perso la sua carriera, la sua reputazione e tutte le sue proprietà - gli ha detto la giudice leggendo la sentenza - E mentre riconosco l'umiliazione che ha provato a causa di questi procedimenti, non ho visto alcun segno di umiltà».
Parole che ricordano quelle impiegate poche ore prima dai legali dell'ex atleta, che nella dichiarazione finale alla corte hanno descritto la parabola discendente del loro assistito «non come una semplice caduta in disgrazia» ma come una «umiliazione pubblica» e un livello «che nessun'altra bancarotta nella storia inglese» aveva mai raggiunto. «Una carriera distrutta, una reputazione in frantumi così come ogni possibilità futura di guadagno», circostanze che lo costringono, avevano detto, «ad affidarsi alla carità degli altri».
Una prospettiva difficile da immaginare per il campione 54enne tedesco, che durante la sua carriera è stato numero uno del ranking mondiale, ha conquistato tre Wimbledon, due Australian Open, un Us Open e una medaglia d'oro alle Olimpiadi. Un successo che gli ha permesso uno stile di vita lussuoso, e a quanto pare impossibile da mantenere dopo il ritiro dai campi di gioco avvenuto nel 1999.
Nonostante l'impegno come commentatore per la BBC e quello nel 2013 di allenatore di Novak Djokovic, che durante la sua guida fino al 2016 ha conquistato sei Grandi Slam. Due divorzi molto costosi, il mantenimento dei quattro figli e una vita di eccessi tra cui una casa in affitto a Wimbledon del valore di 22mila sterline al mese lo mettono alle strette ma il colpo di grazia alle sue finanze arriva con il tentativo di acquistare una villa a Maiorca, nel 2017, per la quale firma un prestito che non riesce a ripagare.
Costretto a dichiarare bancarotta - con debiti di 49.1 milioni - e a denunciare tutti i propri averi per ripagare i creditori, l'anno successivo vede andare all'asta alcuni dei suoi trofei e memorabilia per un totale di circa 700mila sterline. Non tutti, però, perché alcuni di essi, dichiara di averli perduti.
L'ultimo giorno di libertà ieri Boom Bomm - così era chiamato per il suo potente servizio - lo ha trascorso con la compagna Lilian de Carvalho Monteiro e nel pomeriggio ha raggiunto l'aula in attesa del verdetto indossando la cravatta con i colori di Wimbledon, accompagnato dalla donna e dal primo figlio Noah. L'ex tennista era stato dichiarato colpevole l'8 aprile scorso e rischiava una condanna fino a sette anni.
Di questi due anni e mezzo che gli sono stati inflitti, la metà li trascorrerà in carcere e il resto in semilibertà. La stampa inglese lo descrive mentre freddo e impassibile, dopo la lettura della sentenza si abbassa per allacciarsi le scarpe e afferrare la sua borsa. Entrambi marcati Puma. Ai suoi piedi, questa volta, non una borsone di racchette e asciugamani da tenere in panchina, ma qualche ricambio per la sua prima notte in carcere.
Chris Evert e il diario sul tumore alle ovaie: i video dall’ospedale, l’amicizia della Navratilova. Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.
«Dopo il tennis, ho una nuova sfida: si chiama cancro alle ovaie, è stato scoperto per tempo, mi aspettano sei cicli di chemioterapia». Il 15 gennaio scorso questa lettera è piombata nella casella mail di Martina Navratilova, Billie Jean King, Tracy Austin, le amiche di una vita spesa sul campo da tennis e vissuta da Christine Marie Evert detta Chris, 67 anni e 18 titoli del Grande Slam tra il ‘74 e l’86, da regina. Americana della Florida, tre figli dal secondo dei tre mariti (l’ex sciatore Andy Mill, gli altri sono l’ex tennista inglese John Lloyd e l’ex golfista Greg Norman), un celeberrimo fidanzamento con Jimmy Connors negli anni 70 (da innamorati vinsero Wimbledon nel 1974: il matrimonio saltò sull’altare perché Chris, incinta, decise da sola di interrompere una gravidanza), a 67 anni sta giocando la partita della vita a testa alta, ogni step della malattia è raccontato in piccoli video sui social che hanno lo scopo di normalizzare un percorso di guarigione condiviso con i follower e sostenuto, a partire dall’ex rivale di mille battaglie Navratilova, da tutta la comunità internazionale del tennis.
E allora scopriamo che l’ospedale di riferimento di Chris Evert è la Cleveland Clinic di Fort Lauderdale, in Florida, il chirurgo che l’ha operata di isterectomia (è così che la campionessa ha scoperto il tumore) è il dottor Joel Cardenas, l’infermiera è Gladys e chi le tiene compagnia durante le flebo è Andy, il padre dei suoi figli: «Il miglior ex marito del mondo» (al completamento delle pratiche di divorzio, nel 2006, fu lei a liquidare lui con un assegno da 7 milioni di dollari).
La scelta di aprirsi al racconto di un momento difficile, da Fedez alla Evert, non è più rara. Ma nel ‘73 non era così scontato accadesse: quando a 37 anni a Lea Pericoli, grande campionessa del passato, venne diagnosticato un tumore al collo dell’utero, Lea decise immediatamente di parlarne: «Non si tratta di coraggio: nel momento in cui me lo dissero mi prese un accidente, avevo una paura del diavolo — ricorda —. Su invito del professor Umberto Veronesi, uomo fantastico, ottimista e gentile, decisi di reagire raccontandolo al pubblico. Era uno sfogo, certo, ma pensai anche che avrei potuto aiutare qualcuno a superarlo. Non volevo fosse un segreto: e allora l’ho detto a tutti!».
Chris è andata oltre. Condivide consigli spassionati («Fatevi controllare periodicamente, non saltate gli appuntamenti col dottore, rispettate il vostro corpo: la prevenzione è fondamentale»), aneddoti personali («Mia sorella Jeanne è morta dello stesso male nel febbraio 2020, a 62 anni»), perplessità («Ho sempre avuto il controllo del mio tennis e della mia vita, adesso non so come reagirò alle cure» ha detto all’inizio del ciclo di chemioterapia), statistiche («Il mio cancro è al primo stadio, se l’avessi scoperto tre mesi più tardi sarebbe potuto essere al terzo o quarto stadio. E se non avessi fatto nulla, avrebbe raggiunto l’addome»). L’ultimo video è di martedì scorso. Cappellino, mascherina, ago nel braccio pieno di lividi: «Ciao a tutti, vi parla Crissie. Questo è Benadryl, per farmi rilassare, poi nella flebo ci sono degli steroidi per mantenermi forte (non ditelo alla Wta, l’associazione delle tenniste professioniste!) e un anti nausea. Ho dovuto posticipare la seduta di chemio di una settimana perché avevo i globuli bianchi troppo bassi, ma ora sono pronta. Me ne mancano due. C’mon».
Jeanne Evert è l’angelo custode che veglia sulla sua guarigione. Nell’ottobre 2017 le due sorelle correvano per non perdere un volo per Singapore quando Chris si accorse che Jeanne era senza fiato. «Il tumore alle ovaie non si manifesta, è silenzioso e asintomatico: tutti i miei esami prima dell’isterectomia erano negativi, incluso l’antigene 125, tutti i giorni andavo in palestra o correvo o giocavo a tennis. La forza con cui Jeanne affrontò la sua malattia mi motiva ogni giorno, il suo ricordo è la mia ispirazione. È mia sorella a guidarmi attraverso questa esperienza».
L’ultima visita dal dottor Cardenas è stata una gioia: il tumore non si è diffuso, al 90% il ciclo completo di chemioterapia dovrebbe risolvere il problema. È dal 1971, quando — rovescio a due mani, frangetta bionda, killer istinct — debuttò 16enne all’Open Usa che Chris Evert ispira l’America. Raccontare la sua storia, questa storia, era un gesto necessario.
Ashleigh Barty. Per capire perché Ashleigh Barty lascia il tennis bisogna guardare il suo passato. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 23 marzo 2022.
Ashleigh Barty, la numero uno del tennis, ha deciso di smettere di giocare. La tennista più forte del pianeta aveva distese da conquistare avanti a sé.
I motivi della sua decisione possono essere ritrovati nel suo passato. Dopo una fulgida carriera da giovanissima, nel 2014 ha fatto sapere che il tennis era uno sport troppo per vagabondi, e le sarebbe piaciuto vivere la sua adolescenza in modo più stanziale. Con l’arrivo del Covid, senza alcuna esitazione, ha preferito abbandonare tutta la stagione 2020.
Chi spera possa anche tornare una terza e ultima volta, forse si è fatto sfuggire lo sguardo da donna liberata e finalmente sollevata, tenuto durante il dialogo d’addio. Di sbagliato, semmai, c’è che se ne va non solo la più forte, ma anche la migliore di tutte.
FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.
Stefano Semeraro per “la Stampa” il 24 marzo 2022.
Ashleigh Barty, la regina timida del tennis è scesa dal trono e ha salutato il suo mondo. A 25 anni, senza drammi. Senza farsi distrarre dal fruscio dei post e dei tweet pieni di «wow» e di «clamoroso» che atterravano sui social. Lo ha fatto da numero 1, come Justine Henin nel 2008, e alla stessa età di Bjorn Borg. Un addio d'altri tempi, quando lo sport anche per i fuoriclasse era una stagione breve, non occupava un'intera esistenza. E soprattutto non riempiva il conto in banca con una mano, svuotando l'anima con l'altra.
All'amica del cuore ed ex compagna di doppio Casey Dellacqua ha spiegato che si ritira perché dal tennis ha ottenuto tutto. Anzi, quanto basta: il numero 1 per 121 settimane, tre Slam, Wimbledon compreso, 15 tornei in singolare e 12 in doppio, 23 milioni di dollari di montepremi. Di continuare a girare il mondo per ritoccare qualche statistica, sorry, non se parla neppure. «Non ho più la spinta necessaria, fisicamente non ho più niente da dare.
Sono felice, e questo è il mio successo». È stata una bambina prodigio, la ragazzina «aussie» con la faccia da monella svelta e il braccio incantato, nipote di una aborigena della gente Ngaragu, figlia di due golfisti neanche male, nata per inseguire e colpire una pallina. Sul campo a quattro anni, ha iniziato presto a collezionare trofei. Tanto che il suo coach Jim Joyce un giorno gliene buttò qualcuno nella spazzatura: «ne vincerai di più importanti».
Campionessa Under 18 a Wimbledon a 15 anni, doppista sublime, nel 2014 si era inceppata una prima volta: colpa di chi le aveva disegnato davanti un futuro troppo veloce. Molte pressioni, manciate di antidepressivi. La cura sono stati i due anni passati fuori dal tennis a giocare a cricket con le ragazze di Western Suburbs, neanche a dirlo miglior battitrice della squadra. A ripescarla, nel 2016, ci ha pensato Casey: «ehi, sorella, nel tennis hai un lavoro da finire».
Non ci ha messo molto. Il Roland Garros e il numero 1 nel 2019, Wimbledon nel 2021, gli Australian Open - lo slam di casa che nessuna australiana vinceva da 44 anni - dominato a gennaio senza perdere un set. Ash finalmente ha seguito le sue vie dei canti, si è raccontata la storia che voleva lei, non quella che le sussurravano gli altri. Quando nel 2020 ha perso malamente in semifinale a Melbourne si è presentata in sala stampa con in braccio la nipotina di 11 mesi, Olivia. Messaggio chiaro: una sconfitta non è la fine del mondo, la vita è altrove.
Lontano dai divismi di Serena Williams, dalle ansie che erano state sue e che oggi bloccano Naomi Osaka e altri campioni fragili. Durante la pandemia «Ash» è rimasta in Australia anche dopo la ripartenza del circuito. È rientrata quando se l'è sentita, da numero 1. Ha completato il viaggio. «La vittoria a Wimbledon mi ha cambiato molto, come persona e come atleta. Era il vero obiettivo della mia vita, eppure ho sentito che mi mancava qualcosa. Poi è arrivato l'Australian Open, la maniera perfetta per celebrare la mia carriera. Qualcuno non comprenderà, lo capisco. Ma ho tanti altri sogni, e non prevedono di viaggiare rimanendo lontana dalla famiglia e da casa. Non smetterò mai di amare il tennis, ma ora voglio godermi il prossimo capitolo». Lo scorso novembre si è fidanzata con Gary Kissick, golfista come i suoi genitori, sente forti e profonde le sue radici nella comunità dei nativi australiani, di cui è ambasciatrice. Per la campionessa olimpica Cathy Freeman «è un modello straordinario. Testa sulle spalle, molto attenta alla sua comunità, non troppo legata al successo. Meravigliosa». Anche nel capire che i trofei di cui parlava il suo vecchio allenatore non si vincono solo sul campo da tennis.
Da Il Messaggero il 24 marzo 2022.
Alberto Cei, psicologo dell'Università San Raffaele di Milano, ci aiuta a decifrare il ritiro di Ash Barty. E' questo l'addio ideale di un campione?
«Una volta era così, si diceva che bisognava lasciare quando si era al vertice. Oggi, pensando per esempio a un Buffon che per continuare accetta di giocare in serie B diciamo che, lasciando lo sport, i campioni hanno un po' l'idea di perdere anche se stessi e quindi continuano. Proprio perché provano ancora piacere e dimostrano tanta passione. Cosicché anche il mondo esterno valuta questo prolungamento della carriera in modo diverso rispetto al passato».
Tanti campioni si dimostrano fragili: lo sport è diventato troppo duro?
«L'attività è rimasta quella, ma è molto più difficile per l'esposizione pubblica, per la necessità di corrispondere alla forte e continua domanda che gli arriva dalla gente e dagli sponsor. Tutti vogliono da te e non è facile avere un auto-controllo. Questa è la prima generazione di sportivi che vive questa sollecitazione in modo così violento: prima c'era solo Borg, nel tennis, oggi, con questi campioni a livello planetario - come li chiamo io -, tutti sanno chi sei e questi atleti non possiedono spesso la corazza necessaria per sostenere queste grandi attenzioni».
Il numero 1, Nadal, si porta sempre dietro nei tornei parenti ed amici: i campioni planetari hanno bisogno della casa e della mamma?
«Alla fine sì: padre, madre, fratelli, e anche amici, come Valentino Rossi: sono i personaggi decisivi per la serenità dei campioni, la rete di persone di cui sanno di potersi fidare. Più sono vincitori seriali, più hanno pressioni, più necessitano di questo bisogno emotivo da parte di queste persone che gli ricordano casa. E così se le portano dietro più che possono».
Matteo Cannavera. Da leggo.it l'11 marzo 2022.
Il tennis italiano piange Matteo Cannavera. Il 25enne, ex giocatore sardo, è stato trovato morto nel letto della sua abitazione a Brooklyn, New York martedì sera. Una tragedia senza un perché che travolge di nuovo una famiglia già colpita 5 anni fa dalla morte del padre. Il corpo di Matteo, affermato broker finanziario, è stato trovato dal socio Ryan Villaruel mentre la fidanzata era in Florida per lavoro.
Ignote ancora le cause del decesso. Il giovane sarebbe morto nel sonno. La polizia ha disposto l'autopsia per accertare le cause del decesso. La madre e il fratello gemello Alessandro sono in partenza per New York, alcuni intoppi di natura burocratica hanno impedito per ora l’immediato trasferimento negli Stati Uniti.
Matteo comincia a giocare a tennis a dieci anni. Campione d’Italia under 13 nel 2008, l’atleta di Quartu Sant’Elena (Cagliari) ha avuto una carriera giovanile di altissimo livello nel nostro Paese: alto, magro e rapido negli spostamenti, aveva un gran servizio e un’ottima sensibilità.
Per questo giocava molto bene anche il doppio. Cannavera, iscritto al liceo scientifico, decide di svolgere il quarto anno a Denver e di trasferire lì anche la sua passione per il tennis. Tornato in italia per gli esami di maturità ricevette tantissime borse di studio universitarie. Così il ragazzo decise di accettare quella dell'Adelphy University. Determinato e orgoglioso, decide di rifare la valigia e lasciare la famiglia Matteo per abbracciare il suo promettente futuro. Volò a garden City (New York) per studiare economia e finanza senza mai abbandonare il campo da tennis.
L'esperienza Americana
L’impatto fu straordinario: a New York il sardo veste i colori dell'Adelphy vincendo per due anni consecutivi il premio di Player of The Year, e ricevendo anche un premio dal sindaco di Garden City e dal rettore per meriti di studio.
Nel suo primo anno a New York viene travolto dalla morte del padre, al quale era legatissimo. Ma va avanti e ancor prima di laurearsi comincia a ricevere offerte di lavoro: consulenze per banche e aziende, ma lui non ha fretta e termina gli studi.
Gli studi
Nel 2018 Cannavera si laurea acquisendo il titolo di Bachelor of Science in Finance, poi con un socio, Villaruel, fonda la Villavera, una società che si occupa di investimenti “focalizzati esclusivamente su tecnologia blockchain, token, valuta digitale e criptovalute”. Era un brillante operatore finanziario che aveva cominciato a illuminare il cielo della borsa. La pressione del lavoro però lo obbligò ad abbandonare lo sport. Aveva da tempo una fidanzata, cristina, con la quale c'erano in piedi anche progetti importanti.
Il dolore del suo allenatore
Carlo Porqueddu, storico allenatore di Matteo nonché padrino alla sua cresima non riesce neanche a parlare: «Un dolore immenso mi avvolge. Non riesco a trovare le parole per descrivere cosa sto provando.
Posso solo ringraziare Matteo e la sua famiglia per avermi dato la possibilità di conoscere tutti loro e di essere cresciuto come uomo e come professionista attraverso il suo percorso. Lo ringrazio per aver contribuito a dare prestigio alla Quattro Mori Tennis Team e ad essere stato di ispirazione e di esempio per altri nostri giovani atleti...
In questo breve video riassumo una parte di quanto ci ha dato e dei bei momenti che abbiamo condiviso...Matteo era un ragazzo combattivo e determinato, generoso con tutti e moralmente ineccepibile. Estremamente sensibile ed intelligente, molto riservato ma ricco di amici che gli volevano bene. È questo il ricordo che tutti noi abbiamo di lui e che ci permetterà di andare avanti pensando che sarà accanto a noi..ci mancherà tantissimo..», scrive sui social Carlo.
Le reazioni social
Matteo era un modello da seguire, un modello seguito dai più giovani come dice anche Pietro Sole, amico quattro anni più piccolo di lui, ne ha seguito le orme: «Da bambino sei come una spugna, cerchi di prendere come riferimento quelli che sono un passo avanti. Matteo era il mio punto di riferimento. Era un ragazzo determinato ma allo stesso tempo educato, intelligente e molto sensibile.
Teneva tantissimo al tennis e all’università. Mi ha insegnato l’importanza delle giuste connessioni, di parlare con le persone, di crearsi una strada nonostante le difficoltà nel vivere dall’altra parte del mondo lontano da famiglia e amici. Io ho iniziato a pensare agli Stati Uniti solo grazie a lui e poi mi sono convinto a intraprendere il percorso. Era il mio mentore, ero ammirato da lui. Non era uno che cercava di imporre le proprie idee ma era bravissimo ed efficace nel dare consigli».
Il sorriso, l’educazione e la maturità di Matteo resteranno per sempre impressi nel cuore di tutti coloro che hanno condiviso esperienze, viaggi e tornei con lui. Il fratello Alessandro, straziato dal dolore, ha un pensiero per il gemello Matteo: «Ho sempre ammirato la sua forza di volontà, la sua determinazione. Lo porterò sempre nel mio cuore».
Matteo Berrettini. Marco Calabresi per corriere.it il 30 luglio 2022.
Una mazzata terrificante. Matteo Berrettini è positivo al Covid: niente Wimbledon per il tennista italiano, finalista 2021, a poche ore dal primo turno contro il cileno Garin (lo sostituirà lo svedese Elias Ymer). «Ho il cuore spezzato nell'annunciare che devo ritirarmi da Wimbledon a causa del risultato positivo del test COVID-19», ha annunciato il romano su Instagram. «Ho avuto sintomi di influenza e mi sono isolato negli ultimi giorni. Anche se non sono stati sintomi gravi, ho deciso che era importante sottopormi a un altro test questa mattina per proteggere la salute e la sicurezza dei miei avversari e di tutti quelli coinvolti nel torneo», ha spiegato ancora il 26enne, numero 11 del tennis mondiale.
Berrettini era tra i favoriti del torneo dopo aver vinto di fila Stoccarda e Queen’s (nove vittorie consecutive dal momento del rientro dopo un intervento alla mano) e imbattuto sull'erba in stagione. Il romano, inserito nella metà del tabellone con Rafa Nadal, puntava a migliorare il risultato dello scorso anno, cioè a vincere il suo primo Slam dopo la sconfitta patita da Djokovic lo scorso 11 luglio. In questa edizione si era già registrato un altro ritiro eccellente, quello di Cilic che si era allenato sul centrale assieme a Djokovic, mentre Berrettini aveva lavorato insieme a Nadal.
Anche il croato ha dovuto dire arrivederci al 2023 ai Championships a causa del Covid, ed è inevitabile temere un focolaio che potrebbe coinvolgere prima di tutto proprio Novak Djokovic (che ieri ha esordito sul centrale battendo in quattro set il sudcoreano Kwon) e Rafa Nadal: il serbo, nei giorni precedenti il torneo, si era allenato proprio con Marin Cilic, mentre Nadal era stato il primo nella storia — assieme proprio a Berrettini — a calpestare l'erba del centrale prima dell'inizio della competizione.
Berrettini, negli ultimi giorni, si era isolato nella casa affittata e in cui alloggiava insieme al suo staff (quest'anno, infatti, non è necessaria la «bolla» per partecipare ai Championships): aveva deciso di annullare tutti i suoi appuntamenti con i media alla vigilia del match contro Garin e, cosa più allarmante, ieri non era sceso in campo per allenarsi e prendere ancora più confidenza con l'erba di Wimbledon. Purtroppo c'era un motivo, emerso a poche ore dal debutto, dopo un tampone svolto in autonomia.
Marco Lombardo per “il Giornale” il 29 giugno 2022.
Ci sarà un motivo perché esistono le tradizioni. Per esempio quella di non aprire il Campo Centrale di Wimbledon, fino a quando il campione uscente non inaugura il programma.
Poi, all'improvviso, cambia tutto, ed ecco che la sfiga si abbatte sui Championship. E su Matteo Berrettini. Insomma: nel Paese in cui il Covid si affronta ormai con un'alzata di spalle, il tennis comincia a tremare di nuovo. Lunedì è stato il croato Cilic a dare forfait e ieri è toccato a Matteo, campione gentleman anche nella sfortuna.
I due protagonisti dell'evento accaduto venerdì 23, quando l'organizzazione ha permesso un allenamento inedito sull'erba del Center Court: prima a Berrettini e poi a Cilic, appunto. Solo che i loro sparring partner erano nientemeno che Nadal e Djokovic. Con un incrocio di abbracci e pacche sulle spalle che adesso semina il terrore.
La bomba mediatica è esplosa ieri a mezzogiorno, quando invece di scendere in campo contro Garin l'italiano ha pubblicato un post in bianco e nero su Instagram: «Con il cuore spezzato devo annunciare il mio ritiro da Wimbledon. Ho avuto una piccola influenza e mi sono isolato. Nonostante i sintomi siano lievi, ho deciso di sottopormi al test per proteggere la salute dei miei compagni di gioco e di tutte le persone coinvolte nel torneo».
E qui sta il punto: nel Regno Unito non c'è più obbligo di isolamento per i positivi, perché il Covid viene considerato ormai niente più che un'influenza. E dunque a Wimbledon possono giocare tutti, vaccinati e non, tamponati e non, e così quello di Berrettini è stato davvero un gesto da gentleman. Non era infatti obbligato a farlo, almeno fino a ieri, perché vista la malaparata gli organizzatori stanno pensando di reinserire il tampone obbligatorio.
La domanda però resta: quanti avrebbero fatto lo stesso al suo posto? La risposta social si abbatte proprio su Nadal e Djokovic: «Possibile che Rafa, dopo aver fatto di tutto per curarsi il piede, rinunci per il Covid?». E poi: «L'avete visto Nole al primo match di lunedi? Sembrava stanco». Sospetti, alimentati dalle parole della francese Cornet: «Già al Roland Garros ci sono stati dei casi, ma nessuno parlava, come se ci fosse un tacito accordo tra noi giocatori. Siamo stati un anno e mezzo in una bolla, ora una psicosi sarebbe fuori luogo».
Nadal comunque è sceso in campo ieri contro Cerundolo (ha vinto in 4 set, avanza pure Sonego in 5) mentre a Berrettini non resta che un antidoto al malocchio. Dalle Atp Finals di Torino ha infilato infortuni e un'operazione alla mano, con tre mesi di stop. E dopo due tornei su fila vinti sull'erba, ecco una nuova maledizione: «Il sogno è finito per quest' anno, ma tornerò più forte». Non c'è dubbio, ma il Covid intanto resta per tutti l'avversario da battere.
Da ilnapolista.it il 29 giugno 2022.
La tennista francese Alizé Cornet ha rilasciato alcune dichiarazioni all’Equipe da Wimbledon. Ha commentato il ritiro di Matteo Berrettini per Covid. Il tennista italiano non è stato l’unico a ritirarsi perché contagiato, lo ha fatto anche Marino Cilic.
«Ci sono sempre stati giocatori che si sono ritirati perché malati. Non voglio sottovalutare l’effetto Covid. Ci sono giocatori che hanno la gastroenterite, l’influenza. Alcuni anni nei tornei c’era un’ecatombe di gastroenteriti a causa del cibo non molto fresco.
Ci sono stati due, tre, quattro giocatori che si sono ritirati, è stata solo sfortuna. Non si introduce certo un protocollo per i malati di gastroenterite! Il Covid ora è entrato nei costumi della gente, ci sono i vaccini, ecc. Se torniamo a questa roba non ci sto! Al Roland Garros c’è stata un’epidemia di Covid, nessuno ne ha parlato. Nello spogliatoio ce l’avevano tutti e non abbiamo detto niente. Quando roba del genere esce sulla stampa, su grandi giocatori del genere, si comincia ad attizzare il fuoco e questo mi preoccupa un po’».
Temi che questi nuovi casi portino ad attuare un protocollo urgente per il resto del torneo?
«Spero che avranno il buon senso di non farlo. Hanno già portato via i punti. Quello sarebbe la ciliegina sulla torta».
Non hai paura?
«Ma di cosa? Abbiamo pagato il prezzo, siamo stati in una bolla per un anno e mezzo, siamo stati tutti vaccinati, va bene. Ad un certo punto, devi cercare di essere un po’ coerente su come procedere. Fa parte della nostra vita il Covid, è così che è. Ci sono giocatori che lo prendono nel posto sbagliato. Penso che la psicosi sarebbe davvero fuori luogo. Abbiamo mangiato il nostro pane nero e spero che ormai sia passato».
Al Roland Garros, alcune persone avevano Covid e l’hanno nascosto, secondo te?
«Quando vedi che Krejcikova si ritira dicendo che ha il Covid e che l’intero spogliatoio è malato. Ad un certo punto… forse abbiamo avuto tutti l’influenza. Il fatto è che si hanno tre sintomi, la gola che prude, giochiamo e tutto va bene. Al Roland, sì, penso che ci siano stati alcuni casi e che per un tacito accordo tra di noi lo abbiamo taciuto. Non faremo l’autotest per trovarci nella merda! Dopo, ho visto ragazze che indossavano mascherine, forse perché sapevano e non volevano indossarle di nuovo. È anche necessario avere uno spirito civico».
Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 30 luglio 2022.
Caro Merlo, a me il gesto di Berrettini non pare per nulla commovente. Non era tenuto a fare il tampone, e ne ha fatti due, tanto per essere sicuro di essere positivo. Viene il sospetto che volesse trovare una scusa per non scendere in campo, ma ottenere il plauso di (quasi) tutti, come sta succedendo. Attilia Giuliani
Risposta di Francesco Merlo: C'è, inconsapevole, un concentrato di Arcitaliano, che sicuramente Berrettini non merita. Si comincia con il malanno come virtù (la Traviata). Poi c'è il rifugio gozzaniano: "Non amo che le rose che non colsi. / Non amo che le cose / che potevano essere e non sono state".
C'è il borghese stanco di Longanesi: "Esibiva medaglie che non aveva conquistato". Quindi il Moretti di "mi si nota di più...". Infine, e vale per lei e per me, cara Giuliani, c'è Andreotti: "A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca".
Paolo Fiorenza per fanpage.it il 30 luglio 2022.
Matteo Berrettini ieri ha annunciato col "cuore spezzato" di essere costretto a dare forfait al torneo di Wimbledon a causa della sua positività al Covid. Il 26enne tennista romano sarebbe dovuto scendere in campo di lì a qualche ora nel suo incontro di primo turno contro il cileno Garin, invece il suo posto in tabellone è stato preso dal lucky loser svedese Elias Ymer, che si è messo in tasca le 50mila sterline (oltre 58mila euro) destinate allo sconfitto e ha salutato velocemente il torneo perdendo tre set a zero.
L'annuncio di Berrettini, dato via social a corredo di una sua foto in bianco e nero a testimoniare lo stato d'animo plumbeo, ha tolto dal terzo Slam stagionale uno dei favoriti della vigilia, il terzo secondo i bookmaker alle spalle del campione uscente Djokovic (che aveva battuto in finale l'azzurro l'anno scorso) e Nadal. Del resto, il romano veniva da due tornei consecutivi vinti sull'erba, a Stoccarda e al Queen's, dimostrando di essere ormai uno dei migliori specialisti sulla superficie, dopo aver pienamente recuperato dall'operazione alla mano dello scorso marzo che gli aveva fatto saltare tutta la stagione sulla terra battuta.
Con queste premesse, le aspettative di Berrettini e dei suoi tifosi erano altissime, e Matteo aveva davvero la sensazione che questo potesse essere l'anno buono, quel momento magico – che capita poche volte nel corso di un'intera carriera – in cui la condizione psicofisica e tecnica si incontra con congiunture astrali favorevoli per realizzare la vittoria della vita. "Sono sempre stato cauto con le parole, ora sento che non serve più nascondermi – aveva detto qualche giorno fa – Sto giocando bene, scoppio di fiducia: entro nel torneo con la ragionevole certezza di poter arrivare lontano. La strada per la finale la conosco già. Mi sento più pronto, più forte, migliore. A Parigi, Londra e New York, nel 2021, ho perso sempre da Djokovic. Direi che è arrivato il momento di batterlo".
La legittima ambizione del nostro campione si è scontrata con l'esito di un tampone che lo ha gelato. Un tampone cui non era obbligato a sottoporsi, visto che in Inghilterra le restrizioni anti Covid sono state completamente rimosse. Non si è obbligati a segnalare di essere positivi né a mettersi in isolamento, si consiglia semplicemente di restare a casa e limitare i contatti. Un approccio al virus che nel torneo di Wimbledon si è tradotto nell'assenza totale di protocolli atti a limitare il contagio, sia per i giocatori che per il pubblico.
Berrettini avrebbe potuto ignorare i sintomi che gli suggerivano che non stesse bene e dunque non sottoporsi al tampone – come avrebbero fatto tacitamente molti tennisti al recente Roland Garros, a sentire la francese Alize Cornet – ed invece, con grande senso di responsabilità nei confronti degli altri, lo ha fatto, accettandone le conseguenze per lui molto pesanti: rinunciare a un treno che non è detto che ripassi più, sia da un punto di vista sportivo che economico (chi vince Wimbledon si porta a casa 2 milioni di sterline, ovvero oltre 2,3 milioni di euro).
"Ho avuto sintomi influenzali e sono stato in isolamento negli ultimi giorni – ha spiegato Matteo su Instagram – Nonostante i sintomi non siano gravi, ho deciso che era importante fare un altro test questa mattina per proteggere la salute e la sicurezza dei miei avversari e di tutti le altre persone coinvolte nel torneo. Non ho parole per descrivere l'estrema delusione che provo. Il sogno è finito per quest'anno, ma tornerò più forte". Parole che gli fanno onore e sono la conseguenza coerente della posizione che Berrettini ha sempre assunto sulla necessità di impegnarsi nella profilassi per limitare i contagi del Covid.
Le stesse parole sono state tuttavia usate sui social per ridicolizzare il romano, con vergognosi insulti da parte di account negazionisti del Covid e No vax. Il sentimento civico e l'empatia per il prossimo mostrate da Berrettini si trasformano dunque – agli occhi di queste persone – in stupidità per aver rinunciato ad una barca di soldi in nome di qualcosa che esisterebbe solo per i ‘Covidioti'. Matteo sarebbe dunque un "cogl***e" per aver sacrificato il proprio interesse (e non poco) per quello superiore degli altri. "Immagina non avere una linea di febbre e farti un tampone sapendo che se risulterà positivo ti scordi il torneo più importante al mondo e 2,5 milioni di euro. Immagina essere più cretini", si legge in un tweet.
E ancora: "Vorrei elogiare il genio di Berrettini: si sentiva il raffreddore e ha rinunciato a un possibile approdo nei primi 4, magari un'altra finale di Wimbledon (in soldoni, tra 1 e 2 milioni) per la sua Covidiozia. E niente, si gode morendo dalle risate". "Hai protetto gli altri da che? Dall'influenza? Ma per favore, sei solo un coniglio, é questa la verità – scrive un altro hater – Se tutti gli atleti si fanno un tampone al giorno, nel 90% dei casi, sei positivo. Idiota". Fino ad arrivare al titolo di "Covidiota dell'anno".
Matteo Berrettini, quanto guadagna: tra sponsor e tornei quasi 10 milioni vinti. Debora Faravelli il 02/02/2022 su Notizie.it.
Quanto guadagna, tra tornei di tennis e sponsor, Matteo Berrettini e a quanto ammonta il patrimonio di uno dei tennisti italiani più amati.
Tennista tra i più forti e popolari al mondo, a soli 25 anni Matteo Berrettini è stato il primo italiano a disputare almeno i quarti di finale in tutte le prove del Grande Slam: nonostante la sua giovane età, i suoi guadagni sfiorano già i 10 milioni di euro tra tornei e sponsor.
Da corrieredellosport.it il 2 febbraio 2022.
"Sono felicissimo e emozionato, è un palcoscenico diverso. Senza la racchetta non mi sento tanto a mio agio”. Lo ha dichiarato Matteo Berrettini, ospite a Sanremo. Il tennista azzurro, eliminato da Nadal in semifinale agli Australian Open, ha aggiunto: "Nadal, Djokovic e Federer? Loro hanno vinto tantissimo ed hanno esperienza. Spero di superarli prima che smettano...".
Nel quarto di finale del primo Slam stagionale contro Monfils, è stato anche 'bersagliato' da qualche fischio e insulto di troppo, lasciandosi poi andare a match vinto: "E' importante avere carattere ed essere rispettosi, ma dopo 4 ore e passa di battaglia ho tirato fuori l'adrenalina e quell'energia per vincere la partita. E mi sono voluto sfogare. Spero sia stato apprezzato". Sulla sua fidanzata, la tennista australiana di origini croate Ajla Tomljanovic: "Quando ci alleniamo devo farla vincere sennò si litiga. Ci vediamo nei tornei più importanti che giochiamo assieme. Lei vive in Florida, io in Europa, la mia vita è sempre in giro...".
Da liberoquotidiano.it il 2 febbraio 2022.
Il futuro maschile del nostro tennis ha due nomi, oramai noti a tutti: Matteo Berrettini e Jannik Sinner. Dopo gli ottimi Australian Open giocati da entrambi — il primo è uscito in semifinale contro Nadal (poi vincitore del Grande Slam in finale contro Medvedev), il secondo ai quarti con Tsitsipas —, per entrambi gli azzurri il futuro è fatto di crescita e vittorie sul campo.
E non solo, ad aumentare sarà sicuramente anche il… conto in banca! Qualche giorno fa, infatti, La Gazzetta dello Sport ha provato a stimare quanto i due guadagnano: Matteo ha lasciato di recente il suo vecchio sponsor per firmare con il famoso marchio italiano Hugo Boss e le scarpe Asics. Proprio la multinazionale famosa anche per i profumi e per l’abbigliamento, ha raddoppiato l'ingaggio con il nuovo numero sei al mondo, che incassa ben 500 mila euro ogni 12 mesi.
Sinner, numeri superiori a Berrettini!
Se fra tutto Berrettini guadagna in totale due milioni di euro da tutti i suoi sponsor, a sorpresa per Sinner va ancora meglio, dato che, come riporta Qui Finanza, ha una lunga lista di marchi che hanno puntato su di lui in quanto possibile numero uno al mondo. Da Gucci, a Rolex e Lavazza: Jannik ha un valore commerciale di tre milioni di euro. Due talenti in crescita non solo sul campo, e che vogliono far sognare tutta l’Italia per le loro giocate, ma anche per il loro portafoglio.
Se Berrettini ha sfiorato la vittoria a Wimbledon nel 2021, perdendo solo in finale contro Novak Djokovic, Sinner lo ricordiamo per la vittoria alle NextGen Finals di Milano, anche se nel corso degli ultimi mesi l'atleta altoatesino ha conquistato diversi tornei Atp, ha vinto il primo match della carriera alle Finals di Torino a dicembre scorso e infine raggiunto la Top-10 mondiale.
Jannik Sinner. Jannik Sinner, il fratello adottivo, la fidanzata, Gucci, pizza e grigliate: i segreti della stella del tennis italiano. Marco Calabresi su Il Corriere della Sera il 07 Luglio 2022
Il tennista azzurro tra lo sci, il rapporto con il fratello Mark, il nuovo coach Vagnozzi affiancato da Cahill, la compagna Maria Braccini che lo ha seguito a Wimbledon
Vicino a Djokovic
La battaglia sportiva contro Novak Djokovic non ha fatto altro che confermare una cosa: Jannik Sinner è sempre più vicino ai grandissimi del tennis. Due set da campione di Sinner, poi tre da alieno di Nole che gli hanno negato la semifinale a Wimbledon, su una superficie in cui prima di questa edizione dei Championships non aveva vinto una partita in carriera in un tabellone principale. Ma il futuro e il presente sono nelle sue mani, in campo e fuori.
Under 21
Probabilmente, anche il suo 21° compleanno lo festeggerà negli Stati Uniti, giocando tornei sul cemento. Tutta un’altra location rispetto a San Candido, dove nacque il 16 agosto 2001 ma solo perché nella vicina Sesto (non Sesto Pusteria come spesso si riporta, ma solo Sesto, Sexten in tedesco) non ci sono ospedali. I genitori, che mai si vedono al seguito del loro figlio, vivono la popolarità di Jannik nel rifugio Fondovalle (in tedesco Talschlusshütte) in Val Fiscalina, da cui ci si arrampica verso le Tre Cime di Lavaredo.
Il rapporto col fratello
Mamma Siglinde cameriera, papà Hanspeter cuoco e il fratello Mark, di tre anni più grande e che la famiglia adottò. «Parliamo di tutto — ha raccontato Jannik a proposito del rapporto con Mark —. Io lui e la mia famiglia siamo una squadra». Che parla tedesco, come in quasi tutta la Val Pusteria: Sinner ha studiato in una scuola media tedescofona, mentre le superiori le ha frequentate in italiano, lontano dalle montagne ma a Bordighera, dove Riccardo Piatti lo portò a crescere.
Sugli sci con Lindsey Vonn
Era una promessa dello sci, Sinner, tanto da diventare campione italiano all’età di sette anni. Poi, pian piano, la montagna è rimasta una passione e il tennis è diventato una priorità. Ma, quando può, un ritorno sulle nevi se lo concede: ha fatto amicizia con Lindsey Vonn, ci ha sciato a Plan de Corones, dopo averla conosciuta qualche mese prima negli Stati Uniti. «È bello incontrare una campionessa che guardavo gareggiare da piccolo».
Gucci e gli altri sponsor
È di poche settimane fa — dopo gli Internazionali e prima del Roland Garros — la partecipazione di Sinner allo show Gucci Cosmogonie, a Castel del Monte (Andria), a ufficializzare una partnership che va ad aggiungersi a quelle con altri marchi di livello mondiale, come Nike che gli aveva fatto firmare un contratto da 150 milioni di euro in 10 anni. Prima di questo accordo, Sinner aveva già un logo che esibisce sul cappellino e sui capi di abbigliamento suoi e del suo staff.
Da Piatti a Vagnozzi-Cahill
Fino all’Australian Open, al fianco di Sinner c’era Riccardo Piatti. Poi è cambiato tutto, più di una volta: il nuovo responsabile del suo team è l’ascolano Simone Vagnozzi, a cui prima di Eastbourne si è affiancato il super-coach Darren Cahill. Umberto Ferrara cura la preparazione atletica, Jerome Bianchi è invece diventato il suo fisioterapista. Un cambio radicale con il quale Sinner spera di stabilizzarsi anche dal punto di vista fisico dopo una prima parte di stagione tormentata, tra vesciche, il problema all’anca a Roma e quello al ginocchio al Roland Garros.
Pizza e grigliate
Se l’esperienza a Wimbledon è finita con la standing ovation del centrale dopo la sconfitta contro Novak Djokovic, la trasferta inglese era iniziata con una grigliata di carne in giardino: a Sinner, compatibilmente con la dieta, piace la buona cucina italiana, da provare anche quando è lontano da casa nostra. Come lo scorso anno, quando per festeggiare il suo 20° compleanno a Cincinnati gli fecero trovare una pizza, con il due e lo zero disegnati col salame su un letto di mozzarella.
Fidanzato riservato
Nel suo box, in giro per il mondo, non si vede la famiglia ma non si vede neanche la compagna, Maria Braccini, influencer da quasi 80mila follower ma con il profilo Instagram privato. C’era stato un momento di crisi subito dopo i primi indizi social, con voci di una rottura, ma la coppia ha poi ripreso quota, anche se sul profilo di Jannik — che nel frattempo ha raggiunto i 630mila seguaci — di foto romantiche con Maria non c’è traccia.
Jannik Sinner: «Il tennis, il cambio di allenatore, la sciata con Lindsey Vonn e la voce di Ibra». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.
Il tennista altoatesino si racconta: «Solo tra i miei boschi smaltisco la stanchezza, ho iniziato a leggere, per ora biografie di sportivi». Sui tennisti russi e bielorussi esclusi da Wimbledon: «Gli atleti non dovrebbero essere coinvolti nelle discussioni politiche».
In un’esistenza corta vent’anni, otto mesi e venti giorni ma piena di cose (cinque tornei vinti, due quarti di finale Slam, varie ed eventuali) e già pericolosamente inclinata verso l’agiografia spinta e il superlativismo assoluto (tutto ciò che lo riguarda, sul megafono acritico dei social, è straordinario, eccezionale, incredibile e/o formidabile), ci pensa Jannik Sinner da Sesto Pusteria, con laconica asciuttezza, a tenerci con i piedi per terra: «A me piace giocare a tennis. Tutto il resto — la classifica, la popolarità, il successo — viene dopo».
Dopo il giochino che faceva in cameretta quando aveva 7 anni (a proposito di agiografia), raccontato dal primo maestro, Heribert Mayr di Brunico: «Aveva una voglia incredibile di migliorare e una fretta indiavolata di imparare. Non stava mai fermo né accettava di sbagliare, benché fosse agli inizi. Finita la lezione, riprendeva subito in mano la racchetta: palleggiava contro la parete della camera, cercando di centrare l’interruttore e di spegnere e accendere, con la pallina, la luce». Dopo l’improvvisata super mediatica che gli fece Fiorello durante il festival di Sanremo 2020, quando Jannik si allenava a Bordighera con l’ex coach Riccardo Piatti. Dopo le curiosità spicciole che riguardano un ragazzo italiano di grande talento, già top 10, oggi numero 12 della classifica mondiale, disposto a bruciare le tappe: alla Playstation sceglie il Manchester City di De Bruyne, quando torna a casa (poco) sbrana volentieri il Wiener Schnitzel di nonna Maria, i capelli li taglia solo quando gli fanno le «alette» sotto il cappellino, per un periodo ha frequentato una modella-influencer. Disinnescata qualsiasi scintilla di polemica sulla definizione di altoatesino o sudtirolese («Chiamami come ti pare, per me è uguale. Sono nato a un passo dall’Austria, sono italiano, gioco la Davis in azzurro e mi alleno con un coach italiano» ha detto al Corriere ), non resta che parlare dell’unico argomento che, da bravo nerd 3.0, gli interessa — il tennis — con qualche digressione fuori campo.
Jannik alla sua età stupisce per la maturità e la non disponibilità a perdere. Si racconta che da bambino, in Alto Adige, battuto a calcio pianse per giorni.
«Ci sono sconfitte più preziose di tante vittorie: ti fanno male però aiutano a crescere, sono lezioni necessarie. È vero che quando gioco a tennis vorrei sempre vincere. A me quello che interessa è crescere di livello nel torneo: a Montecarlo, per esempio, anche se sono uscito nei quarti, mi sono piaciuto».
La differenza con il n.3 tedesco Sasha Zverev, alla fine, sono state due palle sul nastro.
«Due palle sul nastro di troppo, però».
Tra Montecarlo e Madrid, in vista degli Internazionali del Foro Italico a Roma, al via lunedì, una settimana di stacco. Qual è il suo concetto di riposo?
«Vacanze poche e corte, fin qui. Sono sempre stato un dormiglione: la mia giornata tipo di riposo è dormire fino a tardi, giocare con la Playstation e tornare a letto... La cosa che mi riposa di più in assoluto è tornare a casa da mamma Siglinde, papà Hanspeter e mio fratello Mark. Sento molto la natura e le mie montagne: con una passeggiata nel bosco sono in grado di recuperare mesi di stanchezza. Posso permettermelo di rado, però».
Lo scorso marzo, alla vigilia dell’impegno di Davis contro la Slovacchia, è salito a Plan de Corones per una sciata con Lindsey Vonn. Come è andata?
«Benissimo! Sciare con lei era uno dei miei sogni. Io vengo dallo sci, slalom e gigante, di cui sono stato campione italiano junior. Da ragazzino mi piaceva Bode Miller ma incontrare Vonn è stato mitico: è arrivata a casa mia, siamo saliti insieme, ci siamo conosciuti».
Le ha chiesto qualche utile consiglio?
«È stato interessante capire come una campionessa affronta lo sport, ascoltare i sacrifici di una carriera, imparare dai suoi infortuni. Reputo le ore passate con Lindsey un privilegio».
E se le chiedessero di fare l’apripista a Milano-Cortina 2026, l’Olimpiade invernale italiana?
«Eh, mi piacerebbe... Me l’hanno già chiesto in Val Gardena un paio d’anni fa, per la gara di Coppa del Mondo. Ne ho parlato con il mio primo maestro di sci, ero tentato ma poi non mi sono fidato».
Di chi?
«Di me stesso! Mi conosco troppo bene: al cancelletto voglio buttarmi giù di testa, senza freni, essere competitivo fino al traguardo. E invece oggi sono costretto ad andare piano, a sciare conservativo per non rischiare di farmi male, sarebbe un bel guaio. Insomma, a Milano-Cortina dovrei dire di no, però sciando con la Vonn mi è venuta un’idea: la prossima volta che vado in montagna mi compro una GoPro, la monto sul casco e poi pubblico tutto in una storia su Instagram».
Perché dopo sette anni con Riccardo Piatti ha cambiato allenatore, Sinner? Squadra che vince, di solito, non si cambia.
«Mi sono buttato nel fuoco. A me sembra un gesto di coraggio».
Cosa cercava di diverso?
«Con Simone Vagnozzi sto di più in campo, privilegiamo la qualità sulla quantità, abbiamo alzato il livello. Ho sperimentato cose diverse, che prima non sentivo».
Può fare un esempio?
«È difficile da spiegare... Le cose più o meno sono sempre le stesse, ma Simone me le spiega diversamente, o perlomeno a me arrivano in modo nuovo. Parliamo di più».
L’impressione è che, da teenager, a un certo punto abbia cominciato a starle stretta la disciplina di Piatti.
«Non dico che prima fosse sbagliato il lavoro che facevo, tutt’altro: con Riccardo per sette anni abbiamo fatto cose incredibili, lo ringrazio ancora. Se sono arrivato fin qui è proprio grazie alla base di lavoro che mi portavo dietro. Però, insomma, sentivo che un cambiamento era diventato necessario. Dopo un giorno con Simone mi sembrava di conoscerlo da vent’anni».
L’ascesa furibonda dello spagnolo Carlos Alcaraz, che ha due anni meno di lei ed è già top 10, ha inciso nella sua voglia di cambiamento?
«No, ognuno gioca il suo tennis e fa il suo percorso. Non penso mai a Carlos, alla sua velocità di crescita, al suo talento. Penso a me stesso».
Viviamo tempi difficili, Jannik. I superprofessionisti dello sport vivono in una bolla ovattata ma fuori c’è la guerra e il torneo più importante del mondo, Wimbledon, ha deciso di bandire russi e bielorussi per non dare visibilità e prestigio al regime di Putin. Giusto o sbagliato?
«Quello che sta succedendo in Ucraina è una tragedia: i miei pensieri sono con le famiglie di chi soffre, con i bambini coinvolti nel conflitto. A me dispiace per i tennisti russi, sono davvero triste per loro: a mio parere gli atleti non dovrebbero mai essere coinvolti nelle discussioni politiche. Spero che la guerra finisca e che tutto si risolva al più presto possibile. È un tema molto delicato, non saprei che altro aggiungere».
È vero che lo scorso gennaio, all’inizio della stagione in Australia, aveva pensato a Boris Becker (oggi in prigione per bancarotta fraudolenta) come super coach?
«È uno dei nomi che avevamo immaginato, gli altri non li dico. Per ora scelgo di fare le cose semplici: io, l’allenatore, il fisioterapista e il preparatore atletico. Nessun super coach; non è detto che non possa arrivare ma non è il momento».
In una vita itinerante, zeppa di rivali, è possibile avere un migliore amico?
«Ho ottimi rapporti con tanti giocatori del circuito: ci si incontra regolarmente ai tornei, si chiacchiera, si va a cena. Ma la persona che mi conosce meglio di tutti è Alex Vittur, ex giocatore delle mie parti. La mia storia di tennista è cominciata con lui quando avevo 12 anni, grazie ad Alex sono andato a Bordighera da Piatti, mi conosce a memoria, sa tutto di me. È amico, fratello, famiglia».
Il ritorno del 40enne Roger Federer in palestra è una buona notizia per il tennis?
«Direi di sì, anche se la strada è lunga. Con il talento che ha, Roger può sempre sorprendere. Mi piacerebbe affrontarlo prima che si ritiri, è l’unico dei Big Three che mi manca, con Nadal e Djokovic ho giocato. Sarebbe bellissimo: lo racconterò ai miei nipoti in montagna, davanti al caminetto».
Questo tennis così fluido, senza un vero dominatore, potrebbe favorire quel definitivo cambio generazionale di cui lei è l’alfiere insieme ad Alcaraz?
«I migliori sembrano in difficoltà ma la verità è che Nadal ha vinto l’Australian Open e che Djokovic, che ha scelto di non fare il vaccino e fin qui ha giocato poco, ritroverà la forma in vista di Parigi. Io non so se siamo pronti per un ribaltone però di certo sono fortunato ad essere lì nel gruppo di testa. È un tennis divertente da giocare e, credo, da vedere».
Tre oggetti che non possono mai mancare sul suo comodino.
«Un tablet per serie e film quando viaggio, un computer per giocare a Fortnite con gli amici. E un libro: ho cominciato a leggere!».
Beh questa è la notizia migliore di tutta l’intervista, Jannik. Salinger, Dostoevskij?
«LeBron James».
Ah, ecco.
«Mi sono appassionato alle biografie sportive: Open di Agassi è in lista d’attesa, sto finendo il libro della Vonn, ho letto Adrenalina di Ibrahimovic. Io, tifoso rossonero, ho incontrato Ibra a Milanello: la sua voce mi è rimasta stampata in testa, per curiosità ho comprato la sua bio e boom, l’ho trovata bellissima. Mi piacciono anche i libri di psicologia dello sport, ma a Roma e Parigi porto LeBron, che è grosso e mi dura».
E un suo libro quando?
«È presto. Voglio aspettare ancora un po’ per avere più cose belle da raccontare».
Emanuela Audisio per “il Venerdì di Repubblica” il 7 maggio 2022.
Giacca a vento scura su una felpa rossa, cappuccio sulla testa, camminata dinoccolata. Potrebbe essere uno skateboarder, un boscaiolo, un surfista in gita nella baia più ricca del Mediterraneo. Invece è un Top 12 della racchetta.
Quando si scopre la testa, viene fuori la chioma arancione che nel suo sport porta bene, da Rod Laver a John McEnroe. Jannik Sinner, vent' anni, è il braccio armato del tennis italiano. Anche accelerato e intenso. Se tira non è per far tornare indietro la palla, stile già definito sturm-und-bang.
Cinquecento posti scalati in due anni. Un fenomeno fatto a modo suo: «Tu non sei umano», gli rinfacciò il kazako Aleksandr Bublik, sconfitto, al momento della stretta di mano. Si aspettava un ragazzino, non un grande dittatore. Da qui la delusione: da quale pianeta vieni? Il marziano, come Ice-Borg, non si lascia distrarre, resta concentrato, più gli altri si arroventano più lui si raffredda.
Perché Sinner non esce mai dalla sua bolla, la sua essenza è dentro il campo, le misure della vita sono quelle del suo rettangolo preferito: 23,77 metri di lunghezza e 10,97 di larghezza. «Quando sono in campo sto bene, tutto torna, il rumore di fuori si spegne, anzi non esiste più, tutto ha una sua logica».
Se Sergio Leone amava Clint Eastwood perché l'attore aveva solo due espressioni - una con il cappello e una senza - Sinner il cappello quando gioca non se lo toglie mai. Bel sorriso. Viene dalle montagne, si è trasferito (per allenarsi) al mare, è residente come molti tennisti nel principato di Monaco.
Haus Sinner è a Sesto Pusteria, comune del Trentino-Alto Adige, nemmeno duemila abitanti, paese con una stazione meteo, ma senza ospedale, per questo Jannik nasce a San Candido, terra di confine. Riservato, non molto espansivo, meno congelato di Gustavo Thoeni che dopo l'oro olimpico nello sci a Sapporo rispose a 107 domande 84 volte con un monosillabo.
Dice: «Non bevo, né vino né birra». Ah è astemio, allora. «Cosa vuol dire?». Zero alcolici. Jannik ha imparato prima il tedesco e poi l'italiano. Aggiunge: «Devo tagliare il cibo. Niente fritti, purtroppo i dolci mi fanno impazzire, ma ho dovuto cancellare anche quelli. Via tiramisù e panna cotta».
Ma se è magro da far spavento. «La nutrizione è importante, se ti alimenti male sei più debole. E io voglio fare attenzione a tutto, lassù l'aria è sottile». Traduzione: ai vertici della classifica mondiale si arriva in pochi, anche i particolari contano e magari una fetta di Sacher ti stronca la salita. Nello sport si chiamano marginal gains: l'obiettivo si raggiunge occupandosi anche dell'un per cento, degli aspetti irrilevanti. Però se te lo dice un ragazzo di vent' anni fa effetto. Perché capisci che la sua vita è capitalizzare ogni gesto. Il resto è solo uno sfondo.
Sinner con la racchetta vuole arrivare lassù, dove l'aria è rarefatta. «Da me pretendo il cento per cento, voglio sempre lottare, mi esalto nei punti importanti, sono programmato così».
Dice proprio programmato. Da bambino sciava, a sette anni è stato campione italiano di categoria in gigante, ma nel 2015 c'è stata l'occasione per fare il salto e lui è partito per il mare, per la Liguria, per studiare e mangiare tennis tutto il giorno all'accademia di Riccardo Piatti. «Il tennis ha questo di bello, che se perdi un punto puoi subito rifarti, invece se scendi dalla montagna e fai uno sbaglio sei condannato.
E a me di arrivare quinto o sesto non andava. Perché è inutile girarci attorno, io se non vinco la partita non dormo la notte, anzi mi domando perché, voglio subito riallenarmi per non rifare gli stessi errori. Non sono di quelli che allargano le braccia, se perdo il match-point è ancora peggio, e se mi prendono a pallate mi viene l'umore nero».
Bene, non giriamoci attorno, come è stata la vita da baby professionista? «I miei genitori, di origine tedesca, mi hanno sempre appoggiato, si chiamano Siglinde e Hans Peter, lavorano presso un rifugio della Val Fiscalina.
Ho un fratello, Mark, di tre anni più grande a cui sono molto legato. Però quando, dopo una sconfitta, chiamavo mamma per farmi consolare mi rispondeva che non poteva stare al telefono perché aveva da fare. Papà è cuoco, quando viene a trovarmi a Montecarlo sono contento, perché mi cucina, mamma serve ai tavoli».
Il senso del lavoro, la strada da fare, la costruzione della perseveranza. Mai un lamento, un gemito, il dolore si gestisce, inutile imprecare. Sinner ha una carnagione molto delicata, piedi ossuti, dita lunghe. Il suo tallone d'Achille: le vesciche al piede destro. Inquadrato spesso dalla telecamera, senza calzino, incerottato, nel momento della sua via Crucis.
«Le mie ossa hanno appena smesso di crescere, così mi ha detto il medico, sono andato a fare esami in un centro che non rivelo, per vedere di risolvere il problema.
Bendo i piedi, metto imbottitura nelle scarpe, ma niente ha funzionato.
Ognuno ha le sue fragilità, in questo momento sono fuori Medvedev, Nadal, Berrettini, tutti per infortuni di gioco.
Non serve maledire, né farti compatire, devi saper accettare e continuare a combattere».
In tanti si stancano, anche a guardare il mondo dalla vetta. L'australiana Ashleigh Barty, numero uno, ha appena dato l'addio al tennis, a nemmeno 26 anni è già una ex, dice che vuole fare altro. «Mi ha sorpreso, eccome. Io non ci penso proprio.
Però lei è fatta così, bisogna capirla, aveva già smesso anni fa per darsi al cricket, forse il campo le stava stretto o voleva stare di più con il suo fidanzato, prossimo marito. Di sicuro è una che ama provare cose nuove, però i suoi sogni li ha realizzati, ha vinto quello che voleva». L'idea che un sentimento possa far deviare la traiettoria di una pallina non fa per lui che appartiene alla Tennis Nation. «A me non verrebbe in mente di lasciare, credo nemmeno tra un po', però per un tennista prof australiano le trasferte sono impegnative, veramente down under, giù di sotto.
Metti che sei il numero 150 del mondo e ti piace tornare spesso a casa: te lo devi scordare perché ti devi pagare le spese e fare avanti e indietro con l'Australia è massacrante». E quanto lo è il pensiero di una guerra alle porte mentre la pallina rimbalza in campo?
«È brutto, noi la guerra non la conosciamo, ma i miei nonni sì e oggi basta un missile e tutto finisce, insomma c'è una tecnologia che fa molti danni. Però penso che vietare i tornei ai tennisti russi non sia giusto, non hanno colpe, e tra l'altro spesso vivono tutti all'estero».
C'è una corrente di pensiero anglosassone che la reputa poco divertente, anzi noioso, per lo spettacolo del tennis che avrebbe bisogno di tipi più stravaganti, con personalità più eccentriche. Agli spettatori piace vedere tennisti chiassosi e geniali, che litigano, magari perdono, ma fanno audience, tipo Kyrgios, che lei ha battuto a Miami. E non la monotonia al potere.
«Ognuno ha la sua modalità, ci conosciamo, non si possono stravolgere caratteri e gioco per compiacere il pubblico. Però penso che il rispetto venga prima di tutto, io ci tengo. Posso migliorarmi, la strada è ancora lunga, ma non sarò mai quel tipo di giocatore eclettico, che viene a rete, preferirò sempre stare dietro, sul fondo. Questo non vuol dire che non farò smorzate, palle corte, mi sto attrezzando per qualche scelta in più e già mi sembra di fare più punti con il servizio.
Ho il potenziale per andare lontano». Voi NextGen siete la generazione che doveva mandare a casa i Big Three, i tre grandi vecchi oligarchi del tennis, Federer, Nadal e Djokovic, 109 anni tutti insieme, rischiate anche di offuscare quella di mezzo, Medvedev, 26 anni, Zverev, 24, Tsitsipas, 23. «Se allude ai successi dello spagnolo Carlos Alcaraz, 18 anni, si vedeva subito la sua straordinarietà, non solo ha talento, ma ha qualcosa più degli altri. Noi ai Big Three dobbiamo molto. Tre giocatori diversi e ognuno con grandi qualità. Quella che reputo una fortuna, e lo dico da atleta, è averli visti giocare, allenarsi, aver potuto guardare il modo in cui lavorano. E a volte anche condividerlo. Un'occasione immensa».
Dopo sette anni con coach Piatti a Bordighera, ha deciso di cambiare aria e guida. Quasi volesse liberarsi di un padre putativo. E se ne è andato via di casa una seconda volta. Per alcuni voglia di libertà, per altri irriconoscenza. Per lei? «Sentivo che dovevo cambiare e trovare nuovi stimoli.
Ci ho pensato, ho deciso, ho fatto. Io sono così, vado, non ho paura, mi butto, anche se non è stata una cosa semplice, al momento dell'addio mi sono emozionato, perché significava separarsi da tutto un gruppo e un ambiente con cui ero cresciuto. Sì, mi sono commosso, perché quando lasci sai che i rapporti cambieranno. Ora sto lavorando con Simone Vagnozzi, ci vuole tempo, a volte sono soddisfatto e altre no, i momenti in cui le cose non vanno come vorresti ci sono sempre».
Sinner tifa Milan e ama gli eroi che durano. «Sono stato un fan di Tomba e di Kobe Bryant, mi piacciono LeBron James e Ibrahimovic perché alla loro età sono ancora dei performer, ho trovato eccezionali le parate di Donnarumma agli europei di calcio». Agli Internazionali di Roma c'è. «Sì, mi piace giocare in Italia e sono contento torni il pubblico, perché in fondo non sono così musone, essere amati e sostenuti è bello».
E la musica? «Non la uso per caricarmi, però ascolto spesso le canzoni di Avicii, il dj svedese, morto nel 2018». Sì, si è suicidato a 28 anni, troppo stressato dalla fama e dall'abuso di alcol. Chissà se Sinner è veramente un imperturbabile e chissà quando alzerà la testa oltre le righe del campo. Per lui il futuro ha il formato rettangolare. Giura: «Sarà divertente».
Da ilnapolista.it il 13 aprile 2022.
La Gazzetta dello Sport intervista Jannik Sinner. Il tennista italiano parla della rottura con Piatti e non solo.
Il divorzio da Piatti
«Nessuna verità scabrosa, nessuna sveglia al mattino con la voglia improvvisa di cambiare tutto. Semplicemente, era venuto il momento di prendere una decisione per provare a diventare un giocatore ancora migliore. È stata una scelta unicamente personale, senza influenze esterne, come tutte quelle che ho assunto nella mia vita ».
C’era un’esigenza tecnica?
«C’era l’esigenza di un passo avanti. Quando sei un giocatore professionista, devi tenere conto di tutti gli aspetti. Tecnico, fisico e mentale: conta l’insieme. Io non dimentico i sette anni con Riccardo, dove mi hanno portato. Ma avevo bisogno di uno scatto. E sono convinto che non tutti avrebbero avuto il coraggio di prendere una decisione come la mia».
Vedremo mai Sinner in campo senza cappellino?
«No, perché mi serve per tenere dentro i capelli che sono sempre troppo lunghi. Non è che mi senta Sansone che perde le forze se li taglia, è che sono pigro e non riesco ad andare dal parrucchiere».
I social
«Non mi piacciono molto, lo ammetto, sottraggono troppe energie mentali. Se devo parlare con gli amici, gioco a Fortnite: così ci teniamo in contatto divertendoci pure».
Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" il 14 febbraio 2022.
Premessa: cambiare coach non è reato, però è una scelta che può provocare macerie, in chi lascia e in chi è lasciato. Sembra esserci la voglia di un ritorno a casa nelle molliche di pane seminate da Jannik Sinner per strada in questi giorni difficili di rottura - civile, ma rottura (c'è un contratto, gli avvocati di mezzo) - con coach Riccardo Piatti, seguire il sentiero conduce in Alto Adige dove tutto cominciò.
L'ex tennista oggi manager Alex Vittur, brunicense, classe 1984, miglior classifica n.605, grande amico di Andreas Seppi, è il primo che nota il talento del barone rosso. Tira cannonate ma ancora scia. Siamo al bivio. Hanspeter e Siglinde, i genitori di Jannik, di Alex si fidano, gli chiedono di stare accanto al figliolo che nel frattempo ha scelto il tennis, ne diventa il mentore e l'ascoltatissimo consigliere. Vittur segnala un Jannik 13enne a Massimo Sartori (coach di Seppi), che lo segnala a Piatti, che lo invita a Bordighera. Il resto è storia. Le notizie di questo periodo sembrano un nastro riavvolto al contrario: in vista del ritorno nel circuito a Dubai, dal 21 febbraio, Sinner si prepara a Montecarlo con l'ex pro Simone Vagnozzi, un tempo allenato da Sartori, che gli fu presentato da Vittur.
Come a voler rivendicare, postumo ma non fuori tempo massimo, un diritto di primogenitura sulla scoperta del campione, disposto a lasciare Sesto Pusteria per una vita da globetrotter ma forse mai emotivamente partito dalle sue montagne.
Ed è facile (suggestione?), adesso che il figlio ambizioso ha preso le distanze dal padre sportivo, rintracciare qua e là, come chiazze grigie di sterrato in un manto di neve, i segnali di insofferenza di Sinner, niente che lasciasse presagire il grande gelo al ritorno dall'Australia; sembravano tutti momenti di una dialettica tra un ex bambino in avanzamento veloce e un tecnico esperto e autorevole.
E invece no. Jannik ha molto patito le critiche che gli sono piovute addosso dopo il rifiuto all'Olimpiade di Tokyo, scelta tecnica di Piatti, quel bagno di umanità e senso di squadra che poi il n.10 del mondo avrebbe fatto a novembre con la Davis, uno step di crescita fondamentale. Ai più attenti non era sfuggito che a New York, post Giochi e roventi polemiche, alla fine di un allenamento all'Open Usa Jannik aveva reagito stizzito a Piatti, inedita insubordinazione.
Lo sfogo rabbioso di Melbourne («Io la testa la uso, ma tu devi stare calmo!»), a gennaio in mondovisione, l'abbiamo visto tutti. E se ora la narrazione della crisi tramanda un'intolleranza totale di Sinner verso Piatti (viaggia troppo poco, non ne condivide la programmazione - lui vorrebbe giocare a testa bassa tutti i tornei, l'altro predilige gli obiettivi-chiave - e, addirittura, certe interviste con la stampa), sarebbe sbagliato sgualcire il buono che questi anni di duro lavoro hanno prodotto e la reputazione di un tecnico che merita rispetto.
Di certo ci sono gli allenamenti a Montecarlo (dove Sinner vive) con Vagnozzi e l'attesa dell'annunciazione del super coach: Magnus Norman, ex n.2, 45 anni, già eccellente nel resuscitare Wawrinka, garanzia di serietà. Ma un po' di amaro in bocca rimane, eccome.
Dagospia il 16 febbraio 2022.
Come si è arrivati al divorzio tra Sinner e il suo coach Piatti? Dopo gli Australian Open finiti con la sclerata dell’azzurro contro il suo coach in tribuna ("Io uso la testa ma tu stai calmo, cazzo"), c’è stata una spaccatura sulla programmazione. Piatti aveva previsto un periodo di allenamento e il rientro all’inizio di marzo per la qualificazione di Davis: L'obiettivo della stagione era giocare una sessantina di partite, per diventare numero 8 al mondo.
Sinner, che attualmente è numero 10, invece vuole giocare il più possibile per scalare la classifica e anche per le esigenze legate ai vari sponsor tanto che risulta iscritto all'Atp 500 di Dubai, che inizia il 21 febbraio.
C’è da dire che l’altoatesino non è più il ragazzino arrivato con un avvenire tutto da costruire al circolo di Piatti a Bordighera. Ora Jannik è "il predestinato", l’astro nascente del tennis mondiale, un'azienda da 3 milioni di euro l’anno tra partner commerciali e pubblicità.
Il suo mentore Piatti e la moglie press-agent Gaia, che hanno accompagnato Sinner nell’ascesa, ora sono distrutti. Non si aspettavano la rottura. Si sono allungate delle ombre anche sull’amico commercialista Alex Vittur con cui Jannik ha parlato nei giorni in cui è stato in Alto Adige. Quale il suo ruolo nella vicenda? Secondo i soliti ben informati alcuni suoi consigli hanno ancora di più allontanato Sinner da Piatti. Voci, veleni, rumore di fondo.
Sicuramente all’azzurro non andava più a genio il fatto che Piatti non lo seguisse personalmente in ogni torneo. Il coach ha un’avviatissima accademia, a Bordighera, e talvolta non accompagnava il suo allievo prediletto sul circuito. Una situazione che Sinner non era più disposto a tollerare.
E ora? Quel che è certo sono le prime immagini di Sinner che si prepara per il torneo di Dubai con Simone Vagnozzi, l’uomo che ha condotto Cecchinato alla semifinale del Roland Garros. Il resto sono indiscrezioni. C’è chi è certo che arriverà lo svedesone Magnus Norman, che ha costruito il fenomeno Wawrinka, chi non esclude Becker. Mentre non si hanno più notizie di McEnroe che pure si era proposto con una intervista che aveva mandato su tutte le furie Piatti…
Da ilnapolista.it il 13 febbraio 2022.
Il Messaggero offre un’analisi interessante della rottura tra Sinner e Piatti.
Piatti è uno dei tecnici più bravi nel promuovere i primi, fondamentali, passi di un giovane verso il vertice. (…) Evidentemente non ha accettato – o l’ha fatto solo parzialmente – che Jannik non sia più il 13enne sceso dalle montagne per abbeverarsi al tennis a Bordighera ma un adolescente con le idee molto più chiare e il legittimo desiderio di discutere e decidere le scelte che lo riguardano.
Possono recuperare? Difficile. Potrebbe Piatti accettare un ridimensionamento del suo ruolo? Ancor più difficile. Anche perché è umanamente distrutto dopo essersi profuso nella costruzione del primo campione Slam della carriera, senza pensare alla ricaduta d’immagine per la sua Accademia.
Emanuela Audisio per la Repubblica il 13 febbraio 2022.
A un certo punto vai via di casa. O da quella che lo è diventata. Sei o ti credi grande, più cresciuto, vuoi una risposta ai tuoi nuovi bisogni. E soprattutto non vuoi più essere figlio. Credi di poter avere di più, ma soprattutto altro. Sei convinto che per crescere servano altri strumenti, altre menti, altri aiuti.
Tu dai tutto, ti impegni, ti sacrifichi. E allora perché non riesci a salire in cima? Forse qualcuno ti suggerisce: chi ti guida è troppo old style , per lui sei solo un ragazzino, la tua indipendenza non può fare rima con obbedienza. La storia dello sport è piena di rotture, di tagli del cordone ombelicale, insieme a te non ci sto più. Inutile dire se sia giusto o no. Capita e basta.
Scappi dai padri, dai tutori, dai maestri. Da chi ti ha scoperto. Cerchi nuova linfa per le tue ambizioni. Soprattutto se vieni da un momento di frustrazione. Non ti senti valorizzato, ecco l'hai detto o forse l'hai solo pensato. Vuoi cimentarti, vuoi stimoli, alzare la posta, spostarti al tavolo dove si gioca molto sul serio. Non è stato Pasolini a dire che i maestri vanno mangiati in salsa piccante? Intendeva che bisogna sbarazzarsene, se la rivoluzione non è un pranzo di gala, non lo è nemmeno cercare la propria strada. Anche se provi imbarazzo, se devi tutto a chi ti ha tenuto per mano, quando gli altri nemmeno ti vedevano. Poi magari si torna indietro, però ora ci si divide.
Pietro Mennea, atleta, e Carlo Vittori, allenatore, insieme sono arrivati ad un record mondiale e a un titolo olimpico. Il primo si lamentava che l'altro gli facesse bere solo acqua («e nemmeno gassata»), si sono dati del lei per tutta la vita, e a un certo punto la coppia di successo è scoppiata. Come ha detto Caroline Wozniacki, che aveva lavorato prima con Arantxa Sanchez poi con David Kotyza per ritornare ad allenarsi con il padre Piotr: «L'avevo cambiato perché voleva stare più a casa a riposarsi, ma ci siamo ritrovati, il rapporto con il coach è complesso, ci stai insieme tante ore al giorno e se non ci vai d'accordo il proprio tennis ne risente».
Serena Williams che deve tutto a papà Richard non si fa da tempo più allenare da lui, ma da Patrick Mouratoglou. Rafa Nadal non è più seguito dal 2017 dallo zio Toni, che lo ha allevato tecnicamente, e che ora si occupa del canadese Auger-Aliassime. Il coach Marian Vajda, che ha cresciuto Nole Djokovic, fu licenziato nel 2017 per Andre Agassi e Radek Stepanek, ma poi richiamato un anno dopo perché i risultati non arrivavano. Maria Sharapova, russa, la Miss che sedusse il mondo con cinque Slam, quella che lanciò la moda dei gemiti ad ogni colpo, licenziò il padre Jurij (che si era sacrificato per lei) addirittura con una mail, ma bisogna dire che nel 2013 ebbe il fegato di esonerare anche Jimmy Connors, non proprio un signor nessuno, dopo una sola partita. Perché? «Si limitava a farmi saltare la corda».
Sinner ha 20 anni, Piatti, 63. Uno vuole arrivare, l'altro vuole insegnare. Il primo ha fretta di raccogliere, il secondo conosce i tempi della semina. Chi si dedica al professionismo vuole essere figlio unico, pretende tutte le attenzioni, non si tratta di capricci, ma di complicità. Alex Schwazer si separò da Saluzzo e dal guru della marcia Sandro Damilano perché quest' ultimo allenando anche i cinesi non poteva più seguirlo come prima. Esiste il diritto di provare, di cambiare, di ripensarci. Come diceva Yogi Berra, giocatore e allenatore di baseball, famoso anche per trovare le parole: «Quando arrivi ad un bivio, prendilo».
Dagospia il 15 febbraio 2022.
Come si è arrivati al divorzio tra Sinner e il suo coach Piatti? Dopo gli Australian Open finiti con la sclerata dell’azzurro contro il suo coach in tribuna ("Io uso la testa ma tu stai calmo, cazzo"), c’è stata una spaccatura sulla programmazione. Piatti aveva previsto un periodo di allenamento e il rientro all’inizio di marzo per la qualificazione di Davis: L'obiettivo della stagione era giocare una sessantina di partite, per diventare numero 8 al mondo.
Sinner, che attualmente è numero 10, invece vuole giocare il più possibile per scalare la classifica e anche per le esigenze legate ai vari sponsor tanto che risulta iscritto all'Atp 500 di Dubai, che inizia il 21 febbraio.
C’è da dire che l’altoatesino non è più il ragazzino arrivato con un avvenire tutto da costruire al circolo di Piatti a Bordighera. Ora Jannik è "il predestinato", l’astro nascente del tennis mondiale, un'azienda da 3 milioni di euro l’anno tra partner commerciali e pubblicità.
Il suo mentore Piatti e la moglie press-agent Gaia, che hanno accompagnato Sinner nell’ascesa, ora sono distrutti. Non si aspettavano la rottura. Si sono allungate delle ombre anche sull’amico commercialista Alex Vittur con cui Jannik ha parlato nei giorni in cui è stato in Alto Adige. Quale il suo ruolo nella vicenda? Secondo i soliti ben informati alcuni suoi consigli hanno ancora di più allontanato Sinner da Piatti. Voci, veleni, rumore di fondo.
Sicuramente all’azzurro non andava più a genio il fatto che Piatti non lo seguisse personalmente in ogni torneo. Il coach ha un’avviatissima accademia, a Bordighera, e talvolta non accompagnava il suo allievo prediletto sul circuito. Una situazione che Sinner non era più disposto a tollerare.
E ora? Quel che è certo sono le prime immagini di Sinner che si prepara per il torneo di Dubai con Simone Vagnozzi, l’uomo che ha condotto Cecchinato alla semifinale del Roland Garros. Il resto sono indiscrezioni. C’è chi è certo che arriverà lo svedesone Magnus Norman, che ha costruito il fenomeno Wawrinka, chi non esclude Becker. Mentre non si hanno più notizie di McEnroe che pure si era proposto con una intervista che aveva mandato su tutte le furie Piatti…
Serena e Venus Williams. Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 febbraio 2022.
«Io e Serena non siamo mai state libere. Fin da bambine, tutto ciò che abbiamo fatto è stato lavorare». Sul numero di marzo della rivista Harper’s Bazaar, Serena e Venus Williams, fotografate in costume da bagno, raccontano i loro progetti per il futuro.
«Penso che per me e Serena la libertà è surreale. Non siamo mai state libere». Nell'intervista, Venus ha scherzosamente elaborato i loro piani per quando si ritireranno dal tennis. «Serena e io diciamo che diventeremo body builders dopo il tennis. Potrebbe essere estremo. Potrebbe non succedere esattamente così, ma non si sa mai».
Nel frattempo, Serena ha spiegato di non pensare alla sua eredità. «È qualcosa a cui non penso né voglio», ha detto. «Non voglio pensare a cosa sto lasciando. Penso solo a chi sono ogni singolo giorno a porte chiuse e dietro le telecamere. Ed è su questo che mi concentro».
Venus è stata anche reticente nel discutere l'impatto della sua eredità, dicendo: «Sono così ispirato anche da altri changemaker. Adoro il design. Adoro il tutoraggio. Amo trasmettere quello che so».
Sebbene entrambe le sorelle abbiano ottenuto risultati straordinari nelle loro lunghe carriere, Venus si è affrettata a elogiare sua sorella, citando i 23 titoli del Grande Slam di Serena. «Serena è quella con tutti i trofei», ha detto ad Harper's, nonostante sia stata incoronata sette volte campionessa del Grande Slam.
Venus ha anche riflettuto sulla copertura mediatica delle sorelle nelle loro prime carriere. «Di solito in una famiglia c'è un buon giocatore e poi l'altro non è eccezionale», ha detto Venus. «E penso che la gente abbia detto a Serena che non sarebbe stata eccezionale. L'impavidità con cui si è avvicinata al gioco è stata qualcosa che ho sempre ammirato molto».
«Lei non accetta di essere seconda. Lei stessa mi ha detto esplicitamente che gioca per il primo posto». Le sorelle hanno anche discusso di King Richard, il film acclamato dalla critica del 2021 di cui sono state produttrici esecutive.
King Richard segue l'ascesa alla grandezza di Venus e Serena, ma è in gran parte incentrato sul padre Richard, interpretato da Will Smith. Venus ha detto: «Penso che la gente non abbia nemmeno pensato a quello che è successo prima che diventassimo professioniste».
Serena ha osservato: «Questo non è un film sul tennis. Questo è un film sulla famiglia». Ha spiegato la sua visione del film, paragonando King Richard a un film di supereroi. «Sono una sognatrice e amo la Marvel», ha detto Serena ad Harper's. «Penso che King Richard sia come Iron Man e che ci siano ancora altre storie attorno ad esso».
«La prossima, ovviamente, sarebbe la storia di Venus, e poi c'è sempre la storia delle nostre altre tre sorelle, e poi c'è la mamma, e poi c'è la storia di Serena». «Quando lo guardo, vedo che comprende tutto questo genere di cose da supereroi».
Serena ha spiegato come il ritratto nel film del padre, che ha dato la priorità alla salute e alla felicità rispetto alla carriera, ha sfidato la percezione comune di molte persone dei genitori degli atleti professionisti. «Molte persone hanno questa storia diversa di padri sportivi, specialmente padri del tennis, che sono davvero prepotenti», ha detto. «E non era necessariamente mio padre. Tutti dicono, “Beh, come fai a giocare a tennis per così tanto tempo?' È perché non siamo cresciuti in un ambiente in cui era qualcosa che detestavamo”».
Serena ha detto che era spesso riluttante a raccontare a suo padre delle sue ferite poiché sapeva che avrebbe insistito affinché si riposasse prima di continuare a giocare. «Mi dice sempre “Prenditi il tuo tempo. Starai bene. Non giocare”».'
Ha anche condiviso un importante consiglio che Richard ha dato a lei e ai suoi fratelli. Serena ha detto: «Mio padre ci ha sempre detto di pianificare in anticipo. Se non riesci a pianificare, hai intenzione di fallire».
Ha aggiunto: «Non abbiamo mai programmato di giocare solo a tennis e di essere solo tennisti. Avevamo pianificato di fare di più».
Serena ha anche discusso del ritratto nel film della sua sorellastra Yetunde, uccisa in una sparatoria nel 2003, e della reazione della figlia di quattro anni Olympia al film.
«Ci siamo assicurati di eliminare le cose che non erano adatte ai bambini», ha detto Serena. «Non ha mai incontrato mia sorella maggiore. Dice di capire che Tunde non è nei paraggi. È stato interessante per me in un modo triste, ma almeno la conosce un po' meglio».
Serena ha anche sottolineato gli stretti legami della famiglia. Ha spiegato che, sebbene non celebrino le feste da quando sono cresciuti come testimoni di Geova, fanno delle riunioni di famiglia una priorità. Ha detto: «Ci piace davvero trovare sempre il modo per stare in compagnia».
Venus ha anche valutato l'importanza della loro famiglia come modello per altre famiglie afroamericane, anche se ha affermato che la loro famiglia era «solo unica per noi stessi». Ha continuato: «Ovviamente siamo una famiglia afroamericana ed è importante che le persone vedano le famiglie afroamericane in quella dinamica ... per avere un modello di ruolo». Anche se, ha affermato: «La nostra famiglia era super unica».
John McEnroe. Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" il 25 gennaio 2022.
La montante nouvelle vague nostrana a Melbourne, Matteo Berrettini e Jannik Sinner due azzurri nei quarti di finale di uno Slam per la prima volta dal '73 (Panatta e Bertolucci al Roland Garros), lo motiva tanto quanto quel celebre match di primo turno contro Tom Gullikson sul vecchio campo numero uno di Wimbledon durante il quale pronunciò la frase più iconica del repertorio: «You cannot be serious!». Correva il 22 giugno 1981. «È incredibile che un commento fatto 41 anni fa e mai più ripetuto mi sia rimasto appiccicato addosso per tutta la vita...».
All'alba dei 63 anni (li compirà il 16 febbraio, acquario nonostante il fuoco che lo incendiava), lontano oltre sette lustri dall'ultimo dei suoi 7 titoli Major (Us Open '84), John McEnroe, talent Eurosport, è come te lo ricordi, solo canuto. Acuto come gli angoli delle sue volée, divertente come il suo tennis, esagerato come quella volta che suggerì un uso improprio della racchetta a una socia dell'All England Club che non si sbrigava a lasciargli il campo: «Che generazione ha l'Italia! Berrettini ormai è un solido top 10, ma il vero prospetto è Sinner: io lo pronostico plurivincitore Slam! E non mi sbaglio».
John, all'Australian Open non si parla d'altro che del suo imminente ingresso accanto a coach Riccardo Piatti nel team Sinner.
«Non sto trattenendo il respiro, ma aspetto che Riccardo mi chiami per definire! Con Jannik sta facendo un gran lavoro, però non glielo riferisca sennò il mio amico si monta la testa... A New York a fine agosto, in una giornata di pioggia prima dell'Us Open, Jannik è venuto ad allenarsi al mio club. Lì ho parlato con Riccardo, ribadisco la mia disponibilità part time a consigliare il ragazzo, che è una spugna: impara qualcosa da ogni palla, assorbe tutto, è un lavoratore straordinario. E poi ho visto il rispetto nel suo sguardo: non che io sia una leggenda, ma mi guardava con certi occhi...».
La partnership con Piatti non sarebbe una primizia: nel 2016, quando era allenato da Riccardo, anche grazie ai suoi consigli il canadese Milos Raonic raggiunse la finale di Wimbledon.
«Anche quello fu un lavoro part time: a tempo pieno non ci sono per nessuno! Affiancare Jannik sarebbe interessante anche per me». Cosa la colpisce di Sinner? «Insieme a Kyrgios, il talento migliore dell'ultimo decennio. Sa fare tutto, è sottile ma si sta irrobustendo. Avevo una piccola perplessità sul carattere: all'inizio lo vedevo trattenuto, come se tenesse le emozioni imbottigliate. Ma sta imparando a liberare, e usare a suo vantaggio, anche quelle».
Lo vorrebbe più cattivo? Com' era lei in campo?
«Oh sì, a Jannik insegnerei ad essere un bad boy come me! Lo vorrei vedere più espansivo, rumoroso, rock, esattamente come sono i tifosi italiani: nella mia carriera non ho mai giocato in un posto più chiassoso del Foro Italico! Chi è emotivo e non ha vergogna di mostrarlo, mi piace. Adoro Medvedev che litiga con il pubblico, Zverev quando perde il controllo, Jannik quando urla al cielo, come alla fine del match con De Minaur, vinto anche contro il tifo. Jannik ha una marcia in più perché è disposto a tutto per migliorare. Rispetto a soli sei mesi fa, infatti, è un altro giocatore».
E Berettini, numero 6 del ranking da lunedì, non ha la sensazione che sia ancora sottovalutato?
«Fisicamente impressionante, dritto mostruoso, servizio da paura. Matteo è un'ottima notizia per il tennis: un bravo ragazzo e un campione pieno di valori, vorrei somigliargli tanto è figo! La presenza che ha sul campo Berrettini, con quell'altezza e quelle spalle, nel tennis moderno ce l'hanno in pochi. La mia sensazione è che stia tirando fuori tutto dal suo tennis, non è agile come altri top players però mi ha davvero stupito il carattere con cui ha respinto l'assalto di Alcaraz, che ha sette anni meno di lui. Con Monfils nei quarti lo vedo favorito: si merita la semifinale dell'Australian Open come Sinner, che deve battere Tsitsipas».
Berrettini e Sinner arrivano con perfetto tempismo: il tennis mondiale è entrato in un processo di ricambio.
«Il risultato degli Slam non è mai stato così aperto: vedremo molti vincitori nuovi nei prossimi anni. Nadal che a 35 anni gioca ogni punto come fosse l'ultimo ha tutta la mia stima, nel serbatoio di Roger Federer, 40 anni, non ho idea di cosa sia rimasto e Djokovic chissà quando e come tornerà dopo la disavventura con la dogana di Melbourne».
Lei l'ha difeso.
«Se le autorità australiane avevano deciso che fosse obbligatorio il vaccino per entrare nel Paese, non dovevano esistere zone grigie in cui infilarsi. Djokovic sul vaccino ha convinzioni molto forti e io non sono nessuno per contestarle. Certo pretendere di giocare a tennis così, in un mondo pandemico, non gli facilita la vita».
Tornerà più forte di prima?
«Conosciamo la sua capacità di resilienza, sotto pressione è di gran lunga il migliore. Non mi stupirei».
Anche lei, John, nel gennaio 1990 fu squalificato a Melbourne.
«Tutt' altra circostanza. Fa un caldo bestiale, affronto lo svedese Pernfors negli ottavi. Sono un po' nervoso e l'arbitro, Gerry Armstrong, mi dà prima un warning e poi un penalty point. Non ci sto, chiamo il giudice arbitro, faccio un po' di casino e mi sfugge una parola di troppo... Peccato che il mio amico Sergio Palmieri, manager all'epoca, non mi avesse avvertito che in Australia, da quell'anno, dopo il penalty point alla terza violazione c'era direttamente la squalifica. Colpa sua!».
Ci aiuti a dirimere l'annosa questione, McEnroe: chi è il più grande di ogni tempo?
«Io la faccio fuori così: Nadal è il migliore sulla terra, Djokovic sul veloce, Federer sull'erba e, in assoluto, per lo stile. Io idolatravo Rod Laver, ma Roger nei suoi giorni migliori era di una bellezza unica e ineguagliabile».
Rafa Nadal. Rafa Nadal, il matador con la racchetta. Il primo Roland Garros vinto dallo spagnolo, raccontato da Gianni Clerici. Nel giugno del 2005 lo “scriba” recentemente scomparso raccontava l’allora astro nascente del tennis sull’Espresso. Mite e pacato nel privato, assassino implacabile nel campo. Gianni Clerici su La Repubblica l'8 Giugno 2022.
Avevo visto, nel pomeriggio del 3 giugno, Rafael Nadal battere Roger Federer, il n. 1 del mondo, sui campi del Roland Garros, a Parigi. Non era certo la prima volta che vedevo Nadal. Era stato facile intuirne le enormi possibilità confrontando la sua carta d'identità con il successo sul n. 2 del mondo, l'americano Andy Roddick, nel match che aveva dato l'avvio alla vittoria della Spagna sugli Usa, nella finale di Coppa Davis del novembre scorso a Siviglia.
Il mestiere di spettatore professionista mi aveva poi condotto a cantare le sue gesta nelle recenti, vittoriose prove di Montecarlo e Roma, che fanno parte delle Superseries, e cioè di due delle nove gare mondiali di maggior importanza, seconde solo ai quattro grandissimi tornei chiamati Grand Slam. In quel pomeriggio parigino, Rafael Nadal aveva battuto Roger Federer con le sue forze sottili, ancor prima che con la tattica offensiva, col suo spaventoso diritto colpito da destra verso sinistra. Insieme al golf, il tennis è vicenda che si svolge prima di tutto all'interno di noi stessi, per poi esternarsi non solo nei colpi, ma nel linguaggio del corpo. Mi era parso che mai, nemmeno per un istante, Rafa avesse dubitato di poter vincere. Il suo faccino infantile era stretto come il pugno che brandiva a ogni scambio difficile risolto in proprio favore. Segnato il punto, si librava per un istante con un saltello faunesco, fletteva il braccio destro, chiudeva il pugno per inviare un messaggio visivo all'avversario: un'occhiata non cattiva, non provocatrice, ma perforante. Una sottolineatura di quanto era appena avvenuto, e di quel che si preparava a verificarsi.
Roger Federer è, tra i contemporanei, il giocatore più completo. Più completo anche di Nadal. Eppure, di fronte a quella sorta di dinamo umana, di quella irradiazione di forze sottili, Federer si era via via smarrito, e infine contrariato con se stesso, atteggiamento perdente se ce n'è uno. Questo pensavo in una pizzeria degli Champs Elysées dov'ero capitato per caso, di fretta.
A un tavolino d'angolo sedeva il giovane campione, insieme a suo zio Toni, prima ancora padre putativo che allenatore, e a un altro ex-tennista, Carlos Costa, ora agente di Rafael. Dopo qualche minuto, un cameriere chiacchierino ebbe a informarmi che quegli spagnoli mangiavano sempre lì, mangiavano quasi sempre pizza o pasta, erano tipi tranquilli quanto gentili. Il mio angolo visivo era ideale. Non che non avessi visto mai Nadal da vicino. L'avevo addirittura intervistato, insieme a due colleghi inglesi, ero stato addirittura utile, con il mio modesto spagnolo, a chiarire qualche interrogativo, visto che il giovane parla giusto basic english. Ma, quando si intervista, si fa maggior attenzione alle parole; così come quando si assiste al gioco, si fa maggior attenzione ai gesti. Da quel mio tavolino, osservavo per la prima volta il viso, le espressioni. E mi sorprendevo nel notare la tranquillità, addirittura la dolcezza, sottolineata dalla curva quasi infantile delle gote, dalle labbra carnose: connotazioni che, insieme ai lunghi capelli ondulati, lasciavano affiorare, a tratti, un suggerimento di femminilità. Come una simile pacatezza, una simile dolcezza, subisse un'assoluta metamorfosi, trasformandosi in guerriera implacabilità, trascende la cultura dello scriba, che ha del dottor Freud una conoscenza poco più che scolastica.
Era, certo, addirittura ovvio, pensare al Dottor Jekyll e Mr Hyde di Stevenson, o rimemorare i due ritratti marmorei del Cardinal Barberini firmati dal Bernini, o addirittura, come osserva Flavio Caroli nel recentissino "Le tre vie della Pittura", rabbrividire di fronte all'Innocenzo X del Velázquez ferocemente rivisitato da Francis Bacon. Ma rimaneva, e rimarrà a lungo, il dubbio sulla dicotomia tra il grande bambino dolcissimo, e l'implacabile assassino da sport, che potrebbe forse diventare il nuovo Borg del tennis mondiale. Lo svedese Bjorn Borg, ricordo ai non addetti, vinse non ancora diciannovenne il suo primo Roland Garros nel 1974. Il suo gioco era, allora, una novità, che giungeva insieme ai primissimi mutamenti nei materiali di costruzione delle racchette. Alla sua propria destra, Borg colpiva un diritto che, dal perno del gomito, faceva percorrere all'avambraccio una semi-circonferenza, impartendo alla palla una rotazione in avanti detta lift . Sulla sinistra, impugnava il manico con due mani, gesto che suggerì allo scriba il neologismo bimane. E, con un movimento mutuato dall'hockey, suo sport d'infanzia, colpiva certi passanti che scoraggiavano l'avversario appostato a rete. Quando lo svedese strappò quel primo Grand Slam, pochissimi critici osarono affermare che una simile vicenda non solo non fosse casuale, ma sarebbe continuata anche sull'erba di Wimbledon. I prati, infatti , sembrerebbero proibiti a chi non colpisca - diciamo in gergo - attraverso la palla, a chi non sia in grado di attacchi senza soste, e di decisivi colpi al volo. Borg non pareva aver niente di tutto questo. Ma, come Nadal, era divorato da una brama infernale. Lungi dal cambiare gesti, seppe adattarli tanto bene ai prati che finì per vincere ben cinque volte di fila quel che resta il più grande torneo del mondo.
Tutto ciò mi è venuto a mente mentre sentivo Nadal parlare a una trentina di colleghi spagnoli, dopo che era finita la prima parte della conferenza stampa, quella che si svolge in inglese. Goffo sino alla banalità nell'inglese d'accatto, Nadal si esprimeva nel suo spagnolo di accento maiorchino con assoluta precisione, ludicidità, e addirittura humour. L'affermazione più interessante mi parve quella in cui sottolineò di non aspirare a essere un tennista immortale. Vorrei - avrebbe affermato - essere il migliore dei miei tempi, e connotare questi anni con il mio nome. Dichiarazione che potrebbe suonare presuntuosa, se non delirante, a chi non fosse stato lì, a sorprendersi per la serenità e l'assoluta mancanza di presunzione racchiuse in quelle parole. Che poi Nadal riesca davvero ad affermarsi come un tennista all courts, lui che sembra avere, per ora , soltanto le caratteristiche tipiche dei campi rossi, è ipotesi non facile da percorrere. Anche perché, battuto a Parigi, Roger Federer prenderà quasi sicuramente la rivincita a Wimbledon. E ancora perché alle spalle dei due sta affacciandosi un altro genio della racchetta, il francesino Richard Gasquet. Ma tutto ciò riguarda il futuro, ancorché immediato.
Il passato prossimo di quel che gli spagnoli chiamano Rafa è vicenda di totale predestinazione. Nasce il 3 giugno 1986 da famiglia borghese e vivamente sportiva, nell'isola di Maiorca. Degli zii , uno, Miguel Angel, è calciatore del Barcellona e della Nazionale, un difensore che mette paura. L'altro, Toni, è insegnante di tennis, e, ammaestrato da simili Chironi cresce il giovane Achille, a bordo spiaggia, già proprietario di una barchetta, quotidiana insidia ai pesci. Destro nel tracciare le prime lettere sui banchi delle elementari, diventa tennista mancino il giorno in cui, vedendolo rinviare una palla fuori portata, zio Toni lo irride: «Perché non ci provi davvero, con la sinistra?».
Ed eccolo mancino per sempre, nonostante nel rovescio bimane la mano destra abbia parte non secondaria. Non solo nel tennis, il piccolo Rafa appare straordinario, ma anche nel calcio. Intorno ai dieci anni, il consiglio di famiglia decide che sarà una star singola, e non un qualunque pedatore di successo imbrancato con altri dieci. Iniziano d'allora le prime affermazioni, addirittura internazionali, in una famosa gara under 12 che si svolge ad Auray, in Bretagna. Di qui l'approdo tra i grandi, che lo condurrà al professionismo, a un'ascesa-discesa vertiginose, dal n. 818 nel 2001, tra i primi cinquanta nel 2003, a uno stop per una frattura da stress all'anca sinistra, perno troppo sollecitato dei suoi gesti violentissimi. Nel dicembre 2004 l'atleta era però tanto ristabilito da riguadagnare le luci della ribalta nell'incontro che lo segnalava all'attenzione internazionale, la vittoria in Davis sugli Usa citata all'avvio, sotto gli occhi di 26 mila aficionados in delirio. Ora, a 19 anni compiuti il 3 di giugno, Rafael Nadal ha stabilito un nuovo record, prontamente battezzato "lo Slam del Rosso", vincendo uno sull'altro i tornei di Montecarlo, Barcellona, Roma e Parigi. E non è finita.
Adriano Panatta per “La Stampa” il 7 giugno 2022.
Che cosa si può dire di più di Rafa Nadal, ora che ha vinto il suo quattordicesimo Roland Garros, e il ventiduesimo Slam in assoluto? Credo che tutti gli aggettivi siano stati spesi per questo straordinario campione, il più grande di sempre sulla terra battuta e uno dei più grandi in assoluto. Quando l'ho visto trionfare agli Australian Open in gennaio, lo confesso, alla mia età mi sono commosso.
E non tanto per le qualità del tennista, che è fuori discussione da tempo, ma per l'ammirazione che ho provato per l'uomo. Chi non è stato giocatore non può capire la frustrazione di non poter dare il massimo per colpa degli infortuni, di doversi fermare, la sensazione di non poter essere completamente padrone del proprio destino. Ecco, Nadal è riuscito a superare anche questo ostacolo, e mostrarci che la passione che prova per il tennis è più forte di ogni problema.
Credo che dobbiamo fargli un applauso per quello che sta facendo a favore del tennis, e dello sport in generale. A Roma l'avevo visto tormentato dal dolore, quasi piegato, a Parigi è rinato. Al Roland Garros mi è capitato quasi sempre di giocare bene, anche per me è un torneo particolare, quasi magico, ma lui va oltre ogni limite. Non parlo della finale, Ruud non era chiaramente un avversario alla sua altezza, ma della forza interiore che ha saputo tirare fuori.
Due settimane fa non era nemmeno sicuro di poter scendere in campo, ha dovuto saltare una parte importante della stagione sulla terra battuta. Il ritiro di Zverev in semifinale può averlo favorito, ma per alzare un'altra volta la Coppa dei Moschettieri, a 36 anni compiuti da pochi giorni, ha dovuto comunque restare in campo a lungo, fare appello a tutte le energie. Parigi è il suo regno, ma sarebbe diminutivo considerarlo il migliore sulla terra. Ha dimostrato di meritarsi un posto fra i più grandi di sempre, non solo del tennis ma dello sport in generale.
Da ilnapolista.it il 6 giugno 2022.
“Ogni passo che fa Nadal, quasi trascinando i piedi, con apparente paura che questo appoggio possa essere l’ultimo, provoca la stessa sensazione di quando si vede un bambino di due anni o un avanzato novantenne: sa dove vuole andare, ma il suo corpo non ha ancora deciso se intende accompagnarlo a destinazione. Sembra che si romperà, ma non è così. Rafa non si rompe mai. Come mai? Perché è uno psicopatico. Un fottuto psicopatico“.
Ovviamente si spiega, l’editorialista spagnolo. La Psicopatia è un'”anomalia psichica per la quale, nonostante l’integrità delle funzioni percettive e mentali, il comportamento sociale dell’individuo che ne soffre risulta patologicamente alterato”. Ecco, appunto, Nadal: “è chiaro che il suo comportamento sociale è patologicamente alterato. Che stai facendo li? Perché continui a forzare quando non hai più niente da dimostrare? Rafa, che diavolo stai facendo a te stesso? Rafa, in ogni caso, grazie”.
“Con la punizione disumana a cui sta sottoponendo quel piede che minaccia di distruggerlo per il resto della sua vita, Nadal sta facendo un favore a tutti noi. Continua a regalarci settimane indimenticabili”, scrive ancora.
“Ogni giorno che resta in attività è per noi un privilegio… e un sacrificio per lui. Qualsiasi essere umano normale si sarebbe arreso, ma è assurdo dover spiegare a questo punto che Rafa non lo è. Normale, dico. Umano sì, lo stiamo scoprendo ora quando dopo ogni partita il dolore lo spinge a una sincerità insolita tra leggende del suo calibro (ce ne sono due o tre), sempre interessato a trasmettere grandezza e non debolezza”.
“Cosa peserà di più – si chiede – l’eredità o il dolore? Nell’ultimo mese ha dato sempre più segnali che Clark Kent sta finalmente battendo Superman e la fine è imminente. “Vorrei un piede nuovo”, sì, ma non per camminare felice sulla spiaggia con Xisca, ma per provare a vincere altri 22 Slam. Benedetto psicopatico”.
Nadal e i suoi segreti: beve acqua di mare e odia il formaggio, ha paura dei ragni e guida malissimo. La moglie amore di una vita. Marco Calabresi su Il Corriere della Sera il 6 Giugno 2022.
I tic e i riti in campo sono noti. Ma il campione spagnolo vincitore del Roland Garros per la quattordicesima volta ha abitudini, fissazioni e paure. Ecco quali.
«Penso sempre di poter perdere»
Rafa Nadal, il giocatore che nella storia del tennis ha vinto più tornei dello Slam, sa essere mostruoso in campo quanto incredibilmente normale fuori. Con le sue abitudini, le sue fissazioni, le sue paure. Tutte, tranne quella di perdere. «Ma penso sempre di poter perdere», raccontò in un’intervista al Corriere. «Lo penso tutti i giorni, contro qualsiasi avversario. E questo mi aiuta tantissimo
L’acqua di mare
Un aiuto, a Rafa, arriva anche...dall’acqua di mare, con effetti benefici. Nadal l’ha conosciuta qualche anno fa: gli venne passata proprio durante una partita dell’Australian Open contro Tim Smyczek. Arriva dai Laboratorios Quinton, lo aiuta contro i crampi e le lesioni muscolari grazie agli elettroliti contenuti nella bevanda. Solo nei quarti di finale di Melbourne contro Denis Shapovalov, Nadal ha perso quattro chili, ma grazie anche all’acqua di mare ha giocato al massimo gli altri due match contro Berrettini e Medvedev che gli hanno permesso di conquistare il 21° Slam della sua carriera.
La paura dei ragni, e non solo
Chi, da bambino, non ha avuto paura di qualcosa? Anche Rafa, da piccolo, tremava. Davanti ai cani, per esempio, ma aveva paura anche dei tuoni, delle moto e del buio. Ha raccontato che, quando è in casa da solo, preferisce dormire sul divano accanto alla tv, e quando un notte saltò la corrente nel suo appartamento, chiamò immediatamente sua madre, terrorizzato. E poi l’aracnofobia, la paura dei ragni, che resiste tuttora.
Formaggio? No, grazie
Girando il mondo, per un tennista non è sempre facile rispettare la dieta. Di sicuro, in quella di Rafa non c’è il formaggio. «Non lo mangio, non l’ho mai mangiato, non mi piace», ha raccontato Nadal che, pur provenendo dalla terra delle tapas e del queso, preferisce addentare altro. Il pesce, più della carne, mentre tra gli alimenti poco graditi ci sono anche i pomodori e il prosciutto.
Tic e riti prima di servire
La routine di Rafa, in campo, è incredibilmente sempre la stessa. Come identica, in diagonale, è la posizione delle due bottiglie davanti alla sedia dove riposa durante i cambi di campo. «Se non mettessi le bottiglie così, significherebbe che nelle pause potrei pensare a qualcosa di diverso dal gioco — ha detto —. In questo modo, le rendo uguali ogni volta in modo da potermi concentrare esclusivamente sul gioco e su ciò che mi aspetta». E poi i movimenti prima di servire: un tocco allo slip nel pantaloncino, poi la spalla sinistra, quella destra, l’orecchio sinistro, il naso, l’orecchio destro, cinque rimbalzi della pallina a terra. Con una variante, quando si gioca su terra: una pulita alla linea di fondo con un piede e due racchettate ai talloni per togliere la terra da sotto le scarpe. Solo quest’ultimo, un rito condiviso con tutto il circuito. «Ha meccanizzato una routine per scrollarsi incertezze di dosso tra un punto e l’altro — sostengono gli psicologi —. Quello che fa Nadal è stabilire delle regole quando non c’è il gioco, perché questo gli permette di non disordinare la coscienza, di non farsi assalire dal caos».
Francisca, l’amore di una vita
Quando Nadal ha conosciuto Maria Francisca «Xisca» Perello, la sua carriera era appena iniziata. Rafa aveva 19 anni; si è sposato nel 2019, 14 anni dopo aver conosciuto l’amore della sua vita. Il suo matrimonio è stato celebrato al castello La Fortaleza, a Maiorca, con 350 ospiti invitati a cui è stato vietato di scattare foto con i cellulari. Fu la sorella minore di Rafa, Maribel, a presentargli Xisca: le due ragazze erano compagne di scuola, al collegio Pureza de Maria di Manacor.
Lo yacht da favola
Da buon maiorchino amante del mare, Nadal quando può trascorre il tempo libero sul suo yacht, acquistato nel 2019. Una barca personalizzata con soluzioni super lussuose, a partire dalla piscina-spa alimentata da una cascata d’acqua, il garage per le moto d’acqua, i salottini. In tutto ci sono quattro cabine per gli ospiti nelle parti inferiori del catamarano e due per l’equipaggio, può quindi ospitare un totale di 12 persone. E’ lungo 24 metri ed è costato quasi 5 milioni di euro.
La guida non proprio irreprensibile
Nell’intervista al Corriere, scortando Aldo Cazzullo a Manacor, Nadal non si è mostrato perfetto nella guida. Dossi presi troppo forte, frenate improvvise. E si narra che causò un incidente per evitare di far cadere dei croissant dal parabrezza.
Niente autografi (da collezionare)
A ogni bambino o tifoso che gli chiede un autografo, Nadal non risponde mai di no, a meno che non sia il regolamento a impedirlo, cosa per esempio successa a Melbourne prima dell’Australian Open per questioni di distanziamento tra atleti e spettatori. Lo zio di Rafa, Miguel Angel Nadal, è stato calciatore del Barcellona: sarebbe stato facile quindi per Rafa avere gli autografi di tutti i suoi beniamini. Invece ha confessato di non possederne neanche uno: «Preferisco le foto».
Tutto comincio da Barletta
I primi autografi in Italia, forse, Rafa li firmò a Barletta. È in Puglia che lo spagnolo vinse il suo primo titolo Challenger, nell’aprile del 2003. Doveva compiere ancora 17 anni, arrivava dalla sconfitta in un altro Challenger (a Cagliari, contro Filippo Volandri), ma seppe riscattarsi battendo Albert Portas, di 13 anni più grande. Poche settimane dopo si qualificò per la prima volta per il Master di Montecarlo dove, da qualificato, si guadagnò i punti per entrare nei primi 100 al mondo. Quasi 20 anni dopo è ancora lì a lottare e a vincere.
Nessuno come Nadal. La rimonta da leggenda dell'uomo "normale". Marco Lombardo il 31 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Sotto di due set, ribalta Medvedev dopo 5 ore agli Australian Open e vince il 21° slam: record.
Non poteva che essere epico il trionfo dell'uomo normale, del campione che ha fatto della straordinarietà un'eccezione di vita. Cinque ore e mezza, cinque set, sotto di due, un'impresa che forse è la più grande della sua carriera: «Non lo so, davvero, ma certamente la più inattesa». Rafa Nadal pochi mesi fa era in stampelle e ogni giorno si faceva una domanda sul suo futuro. Quando se l'è poi tolte entrava in campo per allenarsi, ma il guaio al metatarso del piede gli lasciava solo tormenti, per i quali interrompeva lo sforzo senza sapere se il giorno dopo sarebbe riuscito a riprovarci: «Avevo già avuto infortuni, ma in quei casi sapevo che serviva solo tempo per guarire. Stavolta non c'erano certezze ed è stata dura». Guardatelo dov'è ora, il primo ad aver vinto 21 Slam, dopo aver staccato i suoi eterni rivali, dopo aver sfidato l'impossibile, «polverizzato» da uno sforzo sovrumano per tutti. Medvedev è battuto, e «non bisogna mai sottovalutare un campione». Lo ha detto il suo amico Roger Federer complimentandosi: «Sono orgoglioso di condividere quest'epoca con te e onorato di avere una ruolo nello spingerti ad avere sempre più successi, così come tu lo hai fatto per me negli ultimi 18 anni». E sì, sono arrivate anche le congratulazioni di Djokovic, un po' più asettiche ma sincere: «Enhorabuena». Congratulazioni, appunto.
Ma com'è successo? Bisogna tornare indietro nel tempo, quando un ragazzo capelli lunghi e mutandoni si avventurava nel mondo del tennis con il titolo di predestinato. Zio Toni era il suo coach educatore e un giorno rivelò il segreto del suo potere: «A Rafa ho insegnato prima di tutto una cosa importante: quando è in campo è una persona straordinaria, ma appena esce è come tutti gli altri». Non è mai stato uno slogan per Rafa, ed è bastato una volta andare a trovarlo a Puerto Cristo, vicino alla sua Manacor, isola di Maiorca, per capire che quel ragazzo era diventato davvero un uomo normale. La sua famiglia, la sua fidanzata diventata poi moglie, i suoi amici, le sue origini: questo conta di più per lui, capace di costruire un'Accademia per dare una speranza ai ragazzi di diventare come lui, e perfino di comprare un pezzo di terreno nella vicina Minorca per evitare di vederla deturpata da un mega insediamento turistico. Sono le piccole cose che fanno grandi le persone. E fanno le persone straordinarie.
Ecco perché ora il tennis celebra il trionfo incredibile di Nadal, che solo adesso - che è il più vincente di tutti i tempi - si permette di alzare (ma non troppo) la voce: «Non so se sono il più grande, non sta a me a dirlo. Ma adesso non posso più nascondermi: voglio essere quello che vincerà di più. Voglio essere il più grande tra i grandi. Perché alla fine è questo lo sport, competizione. E io sono competitivo. Però non è un'ossessione. Chiunque di noi tre vincerà più Slam, potremo comunque dire che abbiamo realizzato i nostri sogni. E saremo felici». Questo, più ancora di un record nel tennis, spiega cos'è Rafael Nadal. Un vero uomo.
Marco Lombardo. Caporedattore del “Giornale”, autore, moderatore, formatore e - soprattutto - dinosauro digitale. Ama lo sport e la tecnologia e si occupa di tecnologia un po' per sport. Raccontato sempre TraMe&Tech.
Da ilnapolista.it il 31 gennaio 2022.
“Poteva dire basta: ho già fatto tutto. Nadal poteva essere a casa a vivere di rendita, godendosi tutto ciò che ha guadagnato, una vita stabile, l’obiettivo di invecchiare in pace”. E invece ha scelto di diventare immortale nella sofferenza. Buttandocela in faccia, tutta questa resistenza alle cose della vita. Tra i tanti commenti che affollano tutti i giornali del mondo, per Marca Nadal è una lezione ambulante. Che va oltre lo sport. E’ un’icona di questo tempo pandemico.
“Pensate a voi stessi. Alla durezza della pandemia. Gli adolescenti hanno perso anni che non torneranno mai più. I rapporti sociali sono andati in frantumi. Le famiglie si sono trovate faccia a faccia. La solitudine ci ha preso tante volte, ci siamo lasciati andare, fisicamente e psichicamente, abbiamo smesso di battere le mani dalle finestre.
Ci siamo abituati a vivere con la mascherina, a scappare dal bancone di un bar, abbiamo smesso di comprare giornali, di viaggiare, siamo diventati più ermetici e scontrosi, molto diffidenti, poco solidali, i bambini vanno a scuola uno schermo, gli adulti lavorano da casa con un figlio che gli salta sulle spalle, abbiamo smesso di abbracciarci e baciarci con le persone che amavamo. Eppure ci siamo ancora.
Pensate a Rafa Nadal, atleta di 36 anni a giugno, da sei mesi non gareggiava ai massimi livelli, a dicembre anche lui è stato contagiato dal coronavirus, ha passato giornate difficili, a Natale non sapeva se poteva essere di nuovo Rafa Nadal. Pensate al suo sacrificio, al suo costante spirito di rivincita, alla sua inesauribile voglia di continuare a fare ciò che gli piace, contro tutto, contro tutti, contro l’inesorabile scorrere del tempo. Pensate a quanto sia difficile essere all’altezza della propria leggenda“.
Per Marca le obiezioni sul “miliardario Nadal, con la sua casa a Manacor e il suo yacht, la sua vita negli hotel di lusso, la sua fama, le sue copertine, il suo brand” non hanno senso, perché “la sofferenza non contempla il conto in banca. Il suo nome sarà ricordato per sempre. Ha raggiunto l’immortalità. Eppure è ancora qui che piange, soffre, si arrabbia. Con i suoi piccoli tic, i suoi vamos, la competitività. Il suo spirito, come quello di tanti altri, è un vaccino per combattere lo scoramento di questo tempo”.
Emanuela Audisio per “la Repubblica” l'1 febbraio 2022.
E vogliamo ancora lamentarci dei nostri mali? Delle salite, delle cicatrici, della fatica di invecchiare? Del fatto che dobbiamo combattere con chi ha dieci stagioni meno di noi? Ma basta, invertiamo la rotta, che ormai nessuno si fa più rottamare, mettiamoci sulla scia di Nadal, che a quasi 36 anni è ancora capace di sputare fuoco. Yes, he can.
Proprio un'impresa Down Under, dell'altro mondo. Dinosauro a chi? Guardatelo: zuppo di sudore, sempre più stempiato, con il naso rosso di chi è sbronzo di fatica. Ma senza fine, come la sua era. Non per il record di 21 Slam, non per aver staccato gli altri, non per aver giocato e vinto la seconda finale più lunga degli Slam (5 ore e 24 minuti), anche l'altra, persa nel 2012 sempre a Melbourne, è roba sua (contro Djokovic, 5h 53'), non per aver trionfato nello stesso torneo dopo 13 anni, non per i 13 titoli del Roland Garros, non per rischiare ora di meritarsi il titolo di chi è più big tra i Fabulous Three.
Ma per ricordarci che non è tutto gioco nella vita, che bisogna prepararsi agli sforzi, alla frustrazione, e non bisogna cedere al disastro, anche se ci cade addosso. Si chiama capacità di durare, di resistere, di non guardare all'infinito, ma al punto da finire, di non sperdersi in quel rettangolo che ora è pieno di sabbie mobili.
E di saper cucire la pazienza, la maggior parte delle volte che lo scambio è durato più di 9 colpi il punto è stato suo. I titoli e i successi contano, ma qui c'è un ex ragazzo che a settembre era in stampelle, operato al piede sinistro, contagiato dal Covid, che dopo aver subito altri interventi a caviglie, ginocchia, schiena, polso, non sapeva nemmeno se considerarsi ancora un giocatore, tanto era vicino al ritiro, sussurrato al suo clan e ora pubblicamente ammesso («Solo 45 giorni stavo pensando di dover smettere»).
Sette mesi di stop nel 2021 per la sindrome di Hoffa quando già nel 2008 il noto chirurgo di origine sudafricane Mark Myerson aveva sentenziato: «È un miracolo che Nadal giochi ancora». Dottore, non c'entrano i miracoli, c'entra la densità con cui è fatto Nadal. Sa cosa dicono in Spagna? «Quando hai perso la speranza, pensa a Nadal».
Due set di svantaggio contro il bizzarro e intelligente russo Medvedev, che sembra un Dostoevskij con la racchetta, e che nel terzo set sul 3-2 con tre palle break pensava di essere ormai padrone di una corrente che dominava. Peccato (per lui) che Rafa sia di quelli che sull'orlo del precipizio non solo puntano i piedi, ma sono capaci di numeri straordinari. In difficoltà io? Ma figuriamoci, ti faccio un paio di palle corte, qualche passante e con un po' di pazienza sul baratro ci finisci tu.
Di quelli che pensano che lo strazio è un dono, un mattone con cui costruire, una possibilità su cui lavorare. Solo da lì puoi comprendere la tua inadeguatezza, cambiare tattica, ritrovare forze. Nadal era stanco, ma anche Medvedev ormai era un rigido baccalà. E non c'è nulla di peggio di andare in fuga, di arrivare quasi al traguardo e di accorgerti che si è allungato, ti hanno ripreso e ora invece di pensare a quello che puoi ancora avere ti biasimi per quello che hai perso. Djokovic, campione uscente assente, e Federer, che di Rafa è più amico, gli hanno inviato le congratulazioni.
Loro lo sanno di essere (forse) più forti e di avere più talento, ma sanno anche quel vecchio ragazzo a quota 21 non è tipo da «ci penserò domani». Quando le piogge torrenziali e l'alluvione hanno colpito Maiorca, Rafa che è di Manacor si è messo gli stivali, ha preso lo spazzolone e ha spalato via il fango. Ospitando gli sfollati nella sua accademia e donando un milione di euro. Non gli si conoscono vizi, se non la maniacalità dei tic, la passione per la Nutella, e per l'andare in mare (con il suo yacht).
Se anche il telecronista spagnolo Alex Corretja, ex tennista di lungo corso, ex numero due del mondo, uno che di finali ne ha giocate e vinte, si mette a piangere all'ultimo punto, vuol dire che al di là del ranking sei il numero uno nello scassare i cuori. E non bastasse c'è sempre Brecht: «Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi; altri che lottano un anno e sono più bravi; ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi; però ci sono quelli che lottano tutta la vita: sono gli indispensabili».
Antonio Giuliano per "Avvenire" l'1 febbraio 2022.
Non dovete badare alla carta d'identità: classe e talento non hanno età. Quante volte, soprattutto di recente, lo sport ci ha messo in guardia dal sottovalutare i campioni in là con gli anni. Si fa presto a definirli "bolliti", ma poi ci stupiscono con le loro imprese che se ne infischiano del tempo che passa. Che sia una rovesciata, un canestro o uno slalom sugli sci, i fuoriclasse non invecchiano mai. L'ultima lezione arriva dall'altro mondo, dalla racchetta di un veterano del tennis che in Australia ha riscritto la storia di questo sport.
È accaduto domenica, ma negli occhi abbiamo ancora i colpi surreali con cui il 35enne Rafa Nadal ha rimontato il russo Medvedev, dieci anni più giovani di lui, nella finale di Melbourne. Lo spagnolo è diventato il tennista più vincente di sempre nei grandi tornei con 21 slam conquistati. Un trionfo clamoroso a dispetto del covid che lo aveva colpito lo spagnolo qualche settimana fa, oltre agli infortuni e la schiena dolorante che gli hanno fatto anche pensare di appendere la racchetta al chiodo. Eppure è riuscito a mettere in bacheca di nuovo l'Open d'Australia, per lui sempre ostico: qui aveva vinto solo una volta, tredici anni fa.
Una partita infinita, da batticuore, perché Medvedev, in vantaggio di due set a zero, già pregustava di diventare il nuovo numero uno mondiale (ora è 2°). E invece la strepitosa rimonta, conclusa al quinto set dopo cinque ore e 24 minuti con il punteggio di 2-6 67(5) 6-4 6-4 7-5. Con il russo sbigottito a fine partita: «Mi congratulo con Rafa, sono rimasto a bocca aperta per quello che ha fatto, è stato pazzesco. Ad un certo punto gli ho chiesto se fosse stanco.
Dopo i primi due set ha alzato il livello del suo gioco: speravo che si stancasse, ma evidentemente non è stato abbastanza ». Tutti in piedi ad applaudirlo, anche i due grandi rivali della triade leggendaria che ancora domina questo sport: Novak Djokovic e Roger Federer (superati da Nadal negli slam vinti, sono fermi a quota 20).
Lo svizzero, 40 anni, si dimostra un fuoriclasse anche di sportività: «Mai sottovalutare un grande campione. Che partita. Al mio amico e grande rivale Nadal sincere congratulazioni per essere diventato il primo uomo a vincere 21 titoli del Grande Slam. Qualche mese fa stavamo scherzando sul fatto che entrambi fossimo con le stampelle. Incredibile». Mai dire mai, insomma, quando di mezzo c'è la stoffa del campione.
Non è mai troppo tardi per rinascere. Prendete il nostro Giuliano Razzoli, 37 anni, pronto di nuovo a giocarsi il sogno olimpico a Pechino dopo aver vinto l'oro ai Giochi di Vancouver nel 2010. Un trionfo che allora lo lanciava come erede di Alberto Tomba, ma poi una carriera segnata da tanta sfortuna con una miriade di infortuni.
Una strada sempre in salita affrontata però con la saggezza e l'umiltà di un campione: «Se non avessi avuto tutti quegli infortuni non avrei avuto quella voglia di riscatto e di tornare ad alti livelli che invece ho adesso.
La mia avventura è stata bellissima così». Originario di Villa Minozzo (Reggio Emilia), "Razzo" è convinto: «Niente è casuale». Due anni fa al Messaggero di Sant' Antonio rivelò: «Ho avuto la fortuna di nascere e crescere in un paesino piccolo, dove, a differenza delle grandi città, dispersive, la tradizione cattolica c'è sempre stata. I miei genitori, il paese, la comunità, mi hanno trasmesso il valore della fede. E la fede ti aiuta a crescere e a maturare, ad andare avanti nei momenti belli e anche in quelli in cui qualcosa non va bene».
Quindici giorni fa il ritorno sul podio in Coppa del Mondo a distanza di sei anni, ora punta in alto anche alle Olimpiadi invernali che si aprono venerdì: «Mi sento vicino ai migliori perché non ho mai sciato bene come adesso. Ai Giochi non si va solo per partecipare». Ma basta allargare lo sguardo ad altre discipline per riconoscere che non sono pochi i grandi vecchi che continuano a stupire.
Nel basket dei sogni della Nba, la scena la sta rubando Chris Paul che a 36 anni sta trascinando al vertice i Phoenix Suns. Eppure anche nella deludente fin qui stagione dei Lakers, continua a firmare prestazioni impressionanti ancora un "certo" LeBron James che di anni ne ha ormai 37. Un calcio all'età arriva anche dal mondo del pallone. A 55 anni Miura è ancora in campo in Giappone (in quarta divisione), ma se parliamo di alti livelli basta rimanere nei nostri confini per guardare i "numeri" del 40enne Ibra col Milan. Lui che punta a un altro anno in rossonero e al Mondiale in Qatar (se la Svezia si qualificherà) non ha nessuna intenzione di smettere.
Come Buffon, 44 anni, che è tornato a Parma, oggi in Serie B, e ora sogna un'avventura anche in Messico. Chi può dirlo quando "devono" smettere? E quanto incidono premi e sponsor? Solo loro possono saperlo. Certo per continuare a fare la differenza ci vogliono ancora costanza e passione. A noi non resta che goderceli fino a quando rimarranno in campo, consapevoli che potranno stupirci, come i veri artisti. Perché, come diceva Chesterton: «La dignità dell'artista sta nel suo dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo».
Gianluca Cordella per "il Messaggero" il 31 gennaio 2022.
Partiamo dal luogo comune: Rafa Nadal è il tennista più forte di tutti i tempi sulla terra rossa, ma quando si tratta di individuare il migliore di sempre bisogna scegliere tra Roger Federer e Novak Djokovic. E ancora così? Meglio non chiederlo a Nicola Pietrangeli che di campionissimi troppi ne ha affrontati e, più in generale, visti.
«Un quesito che non avrà mai risposta perché non c'è la controprova. Chi può dire cosa avrebbe fatto Nadal contro Pancho Gonzales? Però una cosa a favore di Rafa devo dirla». Prego...
«Per la prima volta dopo tanti anni ho visto una partita dall'inizio alla fine. Uno spettacolo bellissimo. Medvedev è un giocatore fantastico, ma non un fuoriclasse. Mi è venuto in mente un paradosso: chi ha perso, non se lo meritava, ma chi ha vinto se l'è meritato».
Anche perché chi ha vinto, fino a qualche mese fa, non era nemmeno certo di tornare a giocare.
«I francesi direbbero chapeau di fronte a questo signore che resterà nella leggenda di questo sport. Vogliamo parlare di quello che ha fatto a Melbourne?».
Parliamone: si aspettava la rimonta dopo i primi due set?
«No e chi dice il contrario è bugiardo. Come può risalire così uno che negli ultimi sei mesi ha giocato solo un torneo? E di fronte non aveva uno qualsiasi. Medvedev è una macchina da guerra, non ha punti deboli. Forse solo qualche blackout a livello di testa».
Torniamo al dibattito sul più grande di tutti. Se restringiamo ai tre soliti noti, cos' ha Nadal più di Djokovic e Federer?
«Sono tre giocatori completamente diversi. Federer è il più gradevole da vedere ed è la sintesi migliore tra vecchio e nuovo. Nadal ti stupisce, per la capacità che ha di stare sempre dentro la partita, di lottare su tutti i punti. Djokovic non ti stupisce, è uno schiacciasassi e basta».
Passano gli anni, però, e sono sempre loro quelli da battere...
«Non me ne voglia nessuno, ma, fino a qualche anno fa, quelli che vengono spacciati adesso per nuovi campioni erano robetta. Uno che a 35 anni vince una finale 7-5 al quinto è un fenomeno. Tutti gli altri, bravi eh, ma non parlatemi di fenomeni».
Le dico questi numeri: dal primo Slam di Federer (Wimbledon 2003) a ieri sono stati giocati 75 Major e 61 li hanno vinti i Fab Three...
«Ecco. Punto e a capo. Conferma quello che dicevo».
Il trionfo di Nadal dà una nuova dimensione anche alla sconfitta di Berrettini in semifinale?
«Se qualcuno ha criticato Matteo ha fatto male, ma non mi stupisce: l'italiano non è uno sportivo, ma un tifoso. Dimentica che perdere fa parte del gioco. Vogliamo dire che la sconfitta di Matteo in finale a Wimbledon è stata una delusione? Ragazzi, non scherziamo: un italiano che batte il mio record 61 anni dopo... Arrivare secondo in uno Slam non è da tutti. E poi bisognerebbe ricordare che negli ultimi 4 Slam Matteo ha perso solo contro Djokovic e Nadal. Tutti gli altri li ha messi in fila».
Da un italiano a un altro: è un'eresia dire che la forza mentale di Jannik Sinner un po' ricorda quella di Nadal?
«Lo spero. Jannik ha 20 anni e può migliorare ancora. Lo scorso anno dissi che avrebbe chiuso il 2021 tra i primi 10 e così è stato. Adesso sento di dire che chiuderemo l'anno con due italiani in top ten, magari uno tra i primi 5. Ma non mi stupirei di trovare Matteo e lui 3 e 4 del mondo o 4 e 5».
Federer sui social ha usato belle parole per celebrare il record dell'amico e rivale.
«Un campione è nobilitato anche dalla grandezza degli avversari. Torniamo a quei 61 Slam in tre: avete idea di cosa sarebbe successo se uno dei tre non fosse mai esistito? Altre che record di 21 titoli...».
Nadal-Medvedev all’Australian Open: il gesto di fairplay all’origine della sua vittoria. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 30 gennaio 2022.
Nadal, sotto di due set, ha alzato la racchetta per zittire il pubblico che era tutto per lui e stava infastidendo l’avversario: la sua rimonta è conseguente. Nadal non si alimenta dell’odio altrui, come Ibra, non vuole inimicizie, è totalmente concentrato sullo sport.
Pareva finita. Rafael Nadal era sotto di due set a zero contro il favorito: la prospettiva che — a 35 anni, e a due mesi dall’operazione disperata al piede per evitargli il ritiro — potesse rimontare, era remotissima. Il pubblico, già schierato per lui, era scatenato: un po’ per affetto, un po’ per vedere ancora un po’ di tennis. Così ha preso a fischiare Medvedev, e ad applaudire i suoi errori. Il russo ci è cascato e ha risposto con un gesto polemico. Quando subito dopo ha sbagliato la prima di servizio, gli spettatori sono esplosi in un boato. È stato allora che Nadal ha alzato la racchetta, ha zittito il pubblico che lo stava sostenendo, e gli ha chiesto di smettere di infastidire l’avversario avviato verso un’apparentemente inevitabile vittoria.
È una cosa che non succede mai. Non che gli spettatori infastidiscano il favorito; che l’altro lo difenda. Solo Adriano Panatta – un campione la cui sopravvivenza sulla scena non si spiega solo con lo spirito del mitico 1976, ma con l’intelligenza, lo humour, l’umanità – alla finale di Roma 1978 difese Borg; ma il pubblico gli stava tirando le monetine. Il fatto poi che Rafa abbia rimontato, vincendo i tre set successivi e il ventunesimo Slam — record assoluto nella storia —, non è secondario, ma conseguente. Da anni vado scrivendo che Rafael Nadal è il più grande tennista e uno dei più grandi sportivi di ogni tempo. Ora che questa personale opinione assume una dimensione oggettiva, forse è il caso di chiederci come possa questo immenso campione conciliare la correttezza assoluta con la mostruosa forza mentale, l’educazione che tutti gli riconoscono con la ferocia agonistica da dio incaico con cui ha demolito in semifinale un tennista italo-monegasco (oltre a finanziare una Fondazione che aiuta i bambini poveri e disabili in mezzo mondo, Nadal — a differenza di Berrettini e Sinner — paga le tasse nel suo Paese, ed è uno dei primi contribuenti del Regno di Spagna: quindi contribuisce a pagare medici, infermieri, ospedali e terapie intensive. Quando l’ho scritto ho ricevuto insulti feroci. Altri mi hanno detto: sì, hai ragione, però è retorica. No, cari amici: è carne e sangue, morte o vita, soffocamento o respiro).
Altri campioni, come il grande Ibra, si alimentano dell’odio altrui, si caricano con il tifo avverso, cercano la rivalità. Anche Nadal ovviamente ha delle inimicizie. Una volta litigò con Berdych, ottimo tennista oggi dimenticato, che l’aveva battuto agli Open di Spagna e si era lamentato per il tifo del pubblico. Dopo quella partita, Rafa sconfisse Berdych per diciassette volte di fila. Quando gliel’ho fatto notare, ha risposto: «Ti assicuro che non coltivo inimicizie. Anzi, ho voluto recuperare il rapporto con Berdych, volevamo anche giocare il doppio insieme. L’inimicizia me cansa, mi stanca».
Questo non vuol dire che Nadal sia buono (anche se lo è); vuol dire che è totalmente concentrato sulla partita, sullo sport. Che vuole usare ogni energia del suo corpo e ogni scintilla della sua intelligenza per vincere. Per battere l’avversario, o per recuperare da un infortunio che pareva definitivo. Perché la debolezza, la fragilità, la sfortuna non possono essere rimosse o negate; possono essere trasformate in forza. Sul ventunesimo, inatteso, clamoroso Slam di Nadal grava l’assenza del numero uno del mondo, Novak Djokovic, bloccato da se stesso. Nole, altro grandissimo tennista, pretendeva di entrare in Australia e vincere il titolo dei campionati d’Australia senza rispettarne le regole. In un Paese serio, non è stato possibile. Nadal ha fatto il vaccino, ha fatto il Covid, ha rispettato le regole, ha vinto. Poi magari Djokovic conquisterà altri Slam, gli strapperà il record, si rivelerà il più forte. Più forte persino dell’uomo che nella storia ha giocato a meglio a tennis (ovviamente Roger Federer). Ma da oggi è ufficiale: Rafael Nadal è il più grande.
Dagoreport il 31 gennaio 2022.
L’insalatiera vinta da Nadal agli Open d’Australia di tennis non è una insalatiera. Quella che il tennista ha ri-alzato a Melbourne è una riproduzione in argento del Vaso Warwick, uno dei pezzi archeologici più affascinanti la cui storia nasce, ovviamente, a Roma.
Il Vaso Warwick è una monumentale scultura romana (294 x 195 cm. con piedistallo) composta da marmi diversi, sotto forma di coppa a due manici, decorata con maschere sceniche e motivi legati al culto di Bacco. I frammenti del vaso, del II secolo, furono recuperati da Gavin Hamilton con Giovan Battista Piranesi nel 1770, a Villa Adriana. Furono integrati tra il 1772 e il 1775 probabilmente dal restauratore Grandjacquet su ideazione di Piranesi, ma per disposizione di William Hamilton.
Un disegno di Piranesi, contenuto in una lettera al collezionista inglese Charles Townley del 1772, mostra il progetto di ricostruzione del vaso, con varie invenzioni di bottega e nuovo marmo anticato, quindi si può ritenere una sua ideazione. E’ decorato con teste di sileni e baccanti coi loro tirsi sopra di esse e pelli di tigri in circonferenza; i due gran manichi a grottesco rappresentano grandi tronchi di viti che vanno a terminare serpeggiando.
Piranesi voleva trattenere il vaso presso il suo museo, ma era troppo il vantaggio economico di cederlo e Hamilton se ne assicurò la gestione. Fissò il prezzo nell’estate 1775 a 300 sterline. Pensava di venderlo al British Museum, che non lo acquistò poiché il trustees lo giudicò troppo costoso. Fu così ceduto da Hamilton a suo nipote, George Grenville, conte di Warwick.
Il vaso finì così in Scozia, a Glasgow, dove si trova, e iniziò la fortuna della sua riproduzione. Una prima copia fu realizzata dalla Manifattura di Giovanni Volpato, una delle più attive nell’Urbe, dopo il 1786 e molti artisti che non poterono usufruire dei calchi si servirono di questa riproduzione e delle incisioni di Piranesi per creare copie di più piccole dimensioni. Napoleone decise che il Vaso Warwick“ sarebbe stata la prima opera da esportare” al Louvre dopo la mai riuscita occupazione dell’Inghilterra.
Per gli orafi dell’Ottocento fu una vera attrazione. Fu ricreato da Paul Storr, il maggiore argentiere del periodo Regency. Storr lo riprodusse in argento come rinfrescatoio per re Giorgio IV: una copia (anziché l’originale rifiutato) è ora esposta al British. Rebecca Emes, Edward Barnard e Benjamin Smith lo riprodussero come calice da centrotavola. Il Vaso Warwick fu riprodotto da Boschetti in rosso antico per papa Pio IX (il pezzo è al Toledo Museum in Ohio).
Alcune copie create da François-Gédéon Reverdin passano ancora all’asta. Gli australiani deciso di chiamarla insalatiera e la fecero diventare il premio per il vincitore del torneo di tennis di Melbourne.
Djokovic, il pasticcio in Australia conferma: lui è il più forte, Federer e Nadal sono i più grandi. Aldo Cazzullo Il Corriere della Sera il 9 Gennaio 2022.
Il caso del Covid e Djokovic: Novak nel circuito non è amato, Nadal è universalmente ammirato, Federer è il dio del tennis. La ferocia del serbo attinge dallo stesso pozzo buio da cui vengono le follie antiscientifiche, le pallate al giudice di linea, la tigna no-Vax.
Se tutti quanti noi — che già così abbiamo le nostre fisime e le nostre asperità — avessimo vinto venti Slam, saremmo insopportabili pure a noi stessi. Ciò premesso, quel che sta accadendo in Australia aiuta a capire meglio chi siano i tre più grandi tennisti della storia, e quali fantasmi si portino dentro. Il tennis è il più cerebrale dei giochi. È un incrocio tra il pugilato e gli scacchi. Uno stupido può vincere la finale olimpica dei cento metri, può battere tutti i record del nuoto, può persino diventare un grande calciatore; ma non sarà mai un buon tennista.
Va da sé che Novak Djokovic (e non Novax Djokovid: nessuno è responsabile del nome che porta, e i nomi non si storpiano mai), Roger Federer e Rafael Nadal, immensi tennisti, sono anche uomini molto intelligenti. E allora perché? Perché Djokovic si è intestardito al punto da farsi rinchiudere in un centro per immigrati clandestini, e da esporsi a una brutta figura mondiale? Tutti sanno che nel circuito Djokovic non è amato.
Nessuno può raccontare di aver subito un torto o di aver ricevuto una cattiva parola da Nadal, che è universalmente ammirato ; al limite chi non lo conosce può trovarlo un po’ noioso (mentre nella vita quotidiana è delizioso e ama parlare anche degli argomenti che in pubblico evita, come la politica). Federer da giovane urlava in campo e spaccava le racchette; poi ha imparato a governare se stesso, e ha mostrato una precoce maturità, grazie anche a una moglie molto presente e a quattro figli (Nadal, oltre a pagare le tasse nel suo Paese, spende moltissimo per occuparsi dei bambini disagiati, ma figli suoi non ne ha ancora).
Djokovic fa l’amicone, si congratula con gli avversari che lo battono — dopo l’eliminazione al primo turno dell’Olimpiade di Rio ha abbracciato Del Potro per mezzo minuto —, elogia i giornalisti, arringa il pubblico in almeno cinque lingue, va in tv da Fiorello, fa le imitazioni dei rivali, sa ridere pure di se stesso; ma talvolta non riesce a governare il proprio lato oscuro. L’infanzia difficile, le ombre della guerra, una costruzione più lenta e complessa rispetto a Roger e Rafa, la scoperta dei problemi e dei limiti del proprio corpo: molte cose possono averlo condizionato. Ma, soprattutto, Djokovic è un vero fighter; anzi, è un vero killer. Federer è il dio del tennis, Nadal il suo Prometeo. Federer gioca danzando grazie al proprio dono naturale, Nadal si è innalzato sino all’Olimpo grazie alla sua intelligenza superiore e alla sua straordinaria capacità di combattere. Ma Djokovic in campo è il più feroce. Quello che gioca i punti importanti con lucidità chirurgica. Che al Foro Italico annulla un match-point (sempre a Del Potro) con una palla corta millimetrica. Una ferocia cui attinge dallo stesso pozzo buio da cui vengono le follie antiscientifiche, le pallate al giudice di linea, la tigna No-Vax che l’ha portato prima a prendersi il Covid in un assurdo torneo auto-organizzato in piena pandemia, poi a cacciarsi nel pasticcio australiano.
Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” l'11 gennaio 2022.
Giuliano Ferrara, lei dunque sta con Nole Djokovic, il furbetto del visto?
«Sì, ma io lo chiamo il grande esentato. Contro di lui c'è una caccia all'untore isterica. Anche perché è il numero uno, guadagna 154 milioni di euro all'anno e ha un bel sorriso strafottente».
Per molti c'è una disparità di trattamento.
«Sono indignato per la sciocca tendenza di massa a considerare tutto con il metro della giustizia retributiva. La legge è uguale per tutti e se c'è un'infrazione va punita. Ma le esenzioni esistono, eccome. Djokovic l'aveva».
Molto dubbia, in realtà. Il suo caso è stato vissuto come quello di un privilegiato miliardario che aggira le regole.
«Perfino una liberal come Martha Nussbaum ha scritto che se uno interpretasse in modo rigorista il brocardo della legge uguale per tutti, sarebbe come un architetto che usa solo la linea dritta. E invece esistono anche le curve».
Djokovic ha sbandato in curva.
«Un altro guru dei giustizialisti del tennis, Umberto Eco, ha detto che la democrazia è accettare l'ingiustizia minore per evitare le ingiustizie maggiori».
Non la pensano così le autorità politiche australiane.
«I bestioni che amministrano le frontiere australiane sono gli stessi iper salviniani che volevano tirare siluri contro le barche dei migranti. L'esenzione si fa per questioni legali e lui ha vinto in tribunale. Quindi contro Djokovic non c'è più il diritto, ma una campagna ideologica e la forza bruta».
Per il padre Srdjan, è «uno Spartaco che è stato crocifisso come Gesù Cristo».
«Le colpe dei padri non ricadono sui figli».
Djokovic non è un cattivo maestro?
«Le mie posizioni su Agamben e compagni sono note, non ho nessuna condiscendenza verso i no vax. Ma ora che siamo quasi tutti vaccinati, che la maggioranza dia la caccia a una minoranza di "untori", che li odi addirittura, mi pare una cosa vergognosa».
Lei è attratto da Djokovic perché va controcorrente?
«Sono molto attratto dal suo slice e dalla copertura alare del campo. Il tennis, poi, è uno sport asettico. E lui è il Maradona della racchetta».
Da ilnapolista.it il 18 gennaio 2022.
“Se non vieni vaccinato, questo non ti rende automaticamente una persona cattiva. Ci sono molte persone che la pensano come Novak, si fidano del loro forte sistema immunitario e forse hanno anche una visione diversa del mondo. In quanto società democratica, dovremmo consentire anche queste altre opinioni.
Nel frattempo abbiamo appreso che nonostante tre vaccinazioni si può anche contagiarsi e trasmettere la malattia. Questa è la cosa diabolica: non esiste una soluzione migliore, solo temporanea. Novak ha fatto una scelta diversa da me e dalla maggior parte delle persone. Ma non ha fatto nulla di illegale”.
Boris Becker difende Djokovic. In una lunga intervista alla Faz l’icona del tennis tedesco, ex allenatore del serbo dice che Djokovic “non deve pagare il conto da solo”. Ma che “se vuole continuare a concentrarsi sul tennis, deve fare dei cambiamenti”.
Becker descrive il carattere di Djokovic come quello di “un combattente di strada con il motto ‘io contro il mondo’. Il fatto che Novak sia fischiato in realtà gli succede ad ogni Grande Slam. Non lo disturberà se lo stadio è contro di lui. Da 20 anni il mondo del tennis è diviso tra i fan di Roger Federer e Rafael Nadal. Un serbo arriva e rovina la festa. Questo è il problema di fondo, che sta interferendo con due leggendarie leggende del tennis. E’ rispettato dalla maggior parte, ma non amato.
La sua prospettiva sulle questioni sportive, culturali e politiche differisce anche da quella del pubblico in generale. Mangia vegano ed è molto religioso. Non viene dalla Svizzera neutrale, non viene dalla Spagna popolare, viene da un paese di guerra civile chiamato Serbia, che un tempo si chiamava Jugoslavia. Ma è una persona meravigliosa, ama la sua famiglia più di ogni altra cosa, ama il suo paese d’origine, la Serbia, più di ogni altra cosa, ha ancora amici di prima che non ha dimenticato. È un combattente incredibile”.
Dagospia il 16 febbraio 2022. IL TWEET IRONICO DI RYANAIR
La sintesi del discorso di Nole (“Non sono un no vax ma non voglio vaccinarmi”) ha scatenato l’ironia dei social. In prima fila anche il colosso low cost Ryanair: “Non siamo una compagnia aerea ma facciamo volare gli aerei”
Vincenzo Martucci per il Messaggero il 16 febbraio 2022.
«Non sono un non vax, ma rinuncerei agli Slam piuttosto che essere costretto a vaccinarmi contro il Covid. Sì, questo è il prezzo che sono disposto a pagare. Con questa clamorosa dichiarazione nell'intervista in esclusiva alla BBC, Novak Djokovic è pronto a battere un altro record dopo quello di numero 1 della classifica ATP Tour che sta tenendo complessivamente da 350 settimane ma che lascerà automaticamente il 26 febbraio a Daniil Medvedev se il russo vincerà il titolo nella stessa settimana ad Acapulco.
A prescindere da come il 34enne serbo si comporterà al torneo di Dubai dal 21 febbraio, il primo stagionale, dalla coppa Davis di novembre a Madrid, e prima di un prolungato stop fino almeno a metà aprile se non addirittura fino a luglio a Wimbledon, il Major che a oggi potrebbe giocare con nun tampone negativo.
Quest' anno Nole ha saltato il primo Slam, a Melbourne, ed è già virtualmente escluso anche dai primi tre Masters 1000 del 2022, sul cemento Usa, a Indian Wells e Miami, e sulla terra europea, a Montecarlo, oltre che dal secondo Major, sul rosso di Parigi. Come in Australia, infatti, le regole anti Covid dei paesi delle prossime principali prove del circuito ATP prevedono l'obbligo di vaccino per gli atleti, o almeno, nel caso francese, la guarigione dal Covid da non più di 4 mesi.
Il torneo di Montecarlo, che si disputa su territorio francese, rispetta le regole dettate dal presidente Macron, e ha informato il campione serbo - residente nel Principato - che, senza le necessarie dispense sanitarie, non ne accetterà l'iscrizione. Gli altri Masters 1000 sulla terra europea, Madrid e Roma che seguono a maggio, non si sono ancora pronunciati in merito ma, considerando che Parigi ha chiarito che nessuno potrà partecipare al Roland Garros dal 22 maggio se non è vaccinato, è ipotizzabile che si allineeranno.
Nole può permettersi di lasciare tanto spazio ai rivali diretti, soprattutto a Rafa Nadal che ha appena superato lui e Federer a quota 21 negli Slam-record, e darà l'assalto al Roland Garros numero 14? E riuscirà a tenere testa agli sponsor che premono sul manager, l'italiano Dodo Artaldi, e sui 30 milioni di dollari l'anno che gli versano (a fronte di un patrimonio netto di 220 milioni di dollari)?
Anche se Novak ha confidato sempre alla BBC di sperare che le regole cambieranno nel prossimo futuro perché pensa «di poter giocare ancora per diversi anni», la sua immagine è in picchiata, forse in modo irrimediabile. Espulso dall'Australia, senza poter difendere il titolo, sulla sua testa pende la minaccia di un'esclusione per tre anni down under come per quelli cui è stato cancellato il visto.
«Non mi piace che si pensi che abbia fatto qualcosa per ottenere un test positivo e alla fine andare in Australia. C'è stato un errore di dichiarazione del visto che non è stato commesso deliberatamente. Ma il motivo per cui sono stato espulso è perché il ministro dell'Immigrazione ha usato la sua discrezione per annullarmi il visto in base alla sua percezione che avrei potuto creare un sentimento anti-vax nel Paese, cosa con cui non sono d'accordo. Per me non è stato facile».
Il campione, fierissimo rappresentante della sua Serbia, ha chiarito a suo modo: «Non sono contrario alle vaccinazioni, non escludo di vaccinarmi in futuro, e capisco che a livello globale, tutti stanno cercando di fare un grande sforzo per gestire questo virus e mettere, si spera, una parola fine a questa situazione.
Ma per me la libertà di scegliere che cosa far entrare o no nel proprio corpo è essenziale. Il principio è capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato per ciascuno di noi. E io come atleta professionista di alto livello ho sempre controllato, studiato, verificato attentamente tutti gli integratori che assumo: tutto ciò che entra nel mio corpo come carburante. E, sulla base delle informazioni che ho raccolto, ho deciso per il momento di non ricevere il vaccino». E' un no-vax oppure no? Ormai ha gettato la maschera.
Da il Messaggero il 16 febbraio 2022.
Un mese fa, in pieno Nolegate, l'inossidabile Sergio Palmieri, direttorissimo degli Internazionali d'Italia, ebbe a dire: «Chi sta alle regole può entrare e giocare, e alle regole attuali Djokovic può giocare il torneo».
Lapalissiano. Ma leggete tra le righe: non sarà un sussulto etico a mettere in discussione la partecipazione del numero uno del mondo (che per quella data potrebbe aver perso il trono) alla settantanovesima edizione degli Internazionali, in programma dal 2 al 15 maggio. Se le norme glielo consentiranno, e se il potenziale danno d'immagine provocato dalla sua presenza non sarà superiore al danno economico che produrrebbe la sua assenza, re Nole ci sarà, con la tutta la sua aura di no vax.
NESSUN TIMORE Del resto, va detto che della presenza di sportivi non vaccinati, o vaccinati con sieri non riconosciuti, non si preoccupano nemmeno quelli del calcio, e sì che Italia-Macedonia (con discreta presenza tra i rivali di non immunizzati o immunizzati con Sputnik) è assai più incombente, essendo stata fissata il 24 marzo prossimo, dunque ancora dentro lo stato di emergenza.
A maggio, ci si augura tutti di muoverci con maggiore libertà. Djokovic, comunque, ci arriverà con la patente di guarito ancora valida, se le regole saranno le stesse di oggi, e se - innanzitutto - diamo per buona la sua positività al Covid, su cui nei caldi giorni australiani lungamente ci si è interrogati, ma tant' è: secondo i suoi avvocati lo ha contratto il 16 dicembre, e dunque sarebbe coperto fino a giugno (attenzione: non per la Francia, dove hanno ridotto a 4 mesi la validità del pass vaccinale da guariti).
Peraltro, se non avesse i requisiti per il green pass rafforzato, sulla carta al campione serbo non sarebbe vietato giocare, non essendo il tennis uno sport di squadra, ma gli sarebbero preclusi spogliatoi, alberghi, mezzi di trasporto, almeno tutti quelli che prendono i comuni cittadini.
A ben vedere, una vita difficile da sostenere per una quindicina di giorni. Certo, se in questi mesi montasse nuovamente l'ondata di indignazione per il fiero capopopolo no vax, che nei giorni del tira e molla di Melbourne convinse definitivamente il governo australiano a non indietreggiare, prendendosi il rischio di cause milionarie, come si metterebbero gli organizzatori di Roma?
E dei tornei spagnoli a cavallo del nostro appuntamento (Barcellona e Madrid)? Va detto che a queste latitudini, da quando è scoppiato il caso Djokovic, un po' tutti hanno osservato un religioso (e conveniente) silenzio. Solo l'assessore alla Sanità del Lazio, l'ormai popolarissimo Alessio D'Amato, un mese fa minacciò di non farlo avvicinare alla Capitale, e ieri ha saggiamente ricordato: «Se tutti avessimo ragionato come Djokovic, avremmo avuto i morti nelle strade. È solo grazie ai vaccini che possiamo guardare con fiducia al futuro e le scelte individuali devono sempre collimare con gli interessi generali».
Mattia Feltri per "la Stampa" il 16 febbraio 2022.
Della santissima trinità del tennis contemporaneo, Rafael Nadal è il mio preferito, Roger Federer ha vette di sublime sconosciute agli altri due, ma penso il più forte sia Novak Djokovic. Parlo di santissima trinità perché ormai nessuno di loro vive di grandezza propria, ma per imporsi sulla grandezza altrui in un'ascesa all'epica, e lo testimonia la contabilità: insieme hanno vinto sessantuno tornei dello Slam. Per intenderci, i tre giganti di quand'ero bambino - Bjorn Borg, John McEnroe e Jimmy Connors - ne assommano ventisei.
L'irreale equilibrio di venti Slam a testa è stato incrinato lo scorso mese in Australia da Nadal, che ha vinto il ventunesimo approfittando anche dell'assenza cronica del quarantenne Federer e di Djokovic, espulso perché non vaccinato. Nei giorni scorsi si era detto che per sopravanzare Nadal e certificarsi il migliore di sempre, Djokovic avrebbe infine ceduto al vaccino ma, in un'intervista alla Bbc, ha invece confermato di essere pronto a pagare qualsiasi prezzo, e cioè a saltare ogni torneo, compresi quelli dello Slam, in cui la vaccinazione sia obbligatoria.
Non ha parlato di rettiliani, di dittatura nazisanitaria, non ha negato il Covid, ha parlato soltanto dell'armonia in cui vive col suo corpo e della sua libertà di scelta. Non credo abbia ragione, ma la mitezza delle parole e l'enormità che è disposto a sacrificare - le solide chance di trionfare nella più lunga e inebriante battaglia della storia dello sport - impongono di rivedere il pigro ritratto collettivo che abbiamo fatto dei renitenti al vaccino, anche soltanto per guardare in faccia il talebano che è in noi.
Giampiero Mughini per Dagospia il 16 febbraio 2022.
Caro Dago, c’è che io detesto gli appellativi diciamo così “generalisti”, quelli che mettono dentro un’unica parola gente inevitabilmente la più diversa. Già mi fanno ridere i termini “fascista” e “antifascista” usati oggi, a un secolo dall’agguato di una banda di mascalzoni a Giacomo Matteotti.
Mi indispongo se qualcuno mi dà del “siciliano”, io che sono nato a Catania ma non conosco una sola parola di dialetto siciliano. Se qualcuno dice che io sono stato “un giornalista”, lo correggo dicendo che sono uno che ha tratto la sua pagnotta dai giornali, dentro di me un giornalista non lo sono mai stato.
Divento una belva se qualcuno mi appioppa l’appellativo di “juventino sfegatato”, ossia di uno che ragionerebbe col fegato e non con la testa, io che in tema di sport come in tutti gli altri campi adoro le sfumature: e che dall’aver fatto lo sport agonistico so che cos’è il rispetto e la cavalleria nei confronti degli avversari, senza i quali non esisterebbe quel gran teatro che è lo sport, la competizione leale, Sofia Goggia che vince una medaglia d’argento per essere scesa giù sulla neve qualche centesimo di secondo di tempo in più della sua magnifica avversaria svizzera.
Stessissimo discorso per i “no vax”. Ovvio che all’origine c’è una necessità sanitaria primaria, ossia che la circolazione del virus sia avversata dal fatto che la gran parte di noi si è vaccinata. Detto questo, se conosco un no-vax mi sforzo di far venire la persona specifica che è, di capire il più possibile le sfumature, di reagire con accortezza e intelligenza. Ho due care amiche che sono no-vax, per me restano innanzitutto delle care amiche.
Così come in fatto di accortezza e di intelligenza, perso che Djokovic la meriti al sommo grado. Uno che mette a repentaglio una carriera quantificabile in milioni di euro per ciascuna vittoria, la merita eccome la nostra attenzione, il nostro rispetto. Non è che una regola cambia a seconda di chi la deve rispettare, se una celebrità o uno qualsiasi, è che c’è un problema specifico che ha nome “Djokovic” e non c’è bisogno di usare l’ascia per risolverlo.
Nel caso suo esiste una soluzione terza, che comporti il massimo di garanzie sanitarie per chi se lo troverà nei paraggi e che però non schianti un destino? Io penso di sì, anzi ne sono sicuro. Ne sta parlando un innamorato pazzo di Roger Federer, che non ha ancora dimenticato quei due ultimi servizi con cui Roger si giocò un Wimbledon di pochi anni fa che Djokovic finì per vincere. Questo, a proposito di sfumature.
Claudio Del Frate per corriere.it il 6 febbraio 2022.
Il governo della Serbia ha deciso di revocare definitivamente i permessi per l’estrazione del litio - minerale raro considerato strategico per il futuro - inizialmente concessi a una multinazionale del settore. La società presa di mira è la Rio Tinto, a capitale anglo australiano, la terza al mondo del settore: per questa ragione più fonti hanno legato lo stop alla maniera al recente caso Djokovic al quale il governo australiano ha impedito la partecipazione agli Open di tennis in quanto non vaccinato.
Una «ritorsione» da parte del governo di Belgrado, a sua volta pressato anche da grandi proteste ambientaliste contro l’avvio dell’attività estrattiva; o al contrario una vendetta australiana per la retromarcia sul progetto.
Il dialogo tra il governo serbo e la Rio Tinto risale al 2006: al centro della discussione un’area lungo il fiume Jadar, nella zona meridionale del Paese, vicino al confine con la Bosnia. Nelle montagne della zona gli esperti individuano un grande giacimento di litio, minerale ritenuto strategico per più usi, il principale dei quali la costruzione di batterie per le auto elettriche.
La richiesta è in costante ascesa, basti pensare che nel corso del 2021 il prezzo del litio è cresciuto del 437%. E nella regione dello Jadar il litio abbonda: si stimano 136 milioni di tonnellate, una delle riserve più grandi del pianeta. La Rio Tinto avvia il dialogo con Belgrado: nel luglio 2021 arriva a mettere sul piatto un investimento di 2,5 miliardi di euro per inaugurare l’attività estrattiva nel 2027.
Nel frattempo, però sono cresciute e si sono fatte molto veementi le proteste contro l’apertura della miniera: si temono danni ambientali su un’area molto vasta, inquinamento delle acque , disboscamenti, esalazioni. Ma anche eccessive concessioni agli interessi privati della multinazionale. Il governo serbo è sotto pressione: vede le elezioni alle porte, ha intavolato il dialogo con Bruxelles per l’adesione alla Ue.
Il 7 gennaio la premier Ana Brbic annuncia che lo strappo con la multinazionale è vicino. A metà dello stesso mese deflagra il caso Djokovic: il numero uno del tennis mondiale viene bloccato al suo sbarco in Australia perché non vaccinato. Messo in stato di fermo, viene espulso il 16 dello stesso mese dal Paese. Il 20 gennaio - quattro giorni dopo - Belgrado annuncia che la concessione alla Rio Tinto è stata ritirata: il progetto salterà nonostante il suo valore economico e strategico.
«Djokovic non ha infranto nessuna norma o legge ma è venuto in Australia con la buona volontà di giocare a tennis, ma è stato trascinato, senza la sua volontà né malizia, in un gioco politico» dichiara il ministro degli esteri serbo Starovic. «Vogliono imbastire una presunta questione politica su principi che non vi sono» incalza il capo dello Stato Alexander Vucic.
Rompe gli equivoci il quotidiano di Belgrado Republika secondo il quale l’espulsione del campione di tennis da parte del governo australiano è solo un «danno collaterale», una «vendetta trasversale» per le proteste contro la miniera della Rio Tinto. Lo stesso Djokovic, sui suoi canali social, aveva pubblicato immagini delle manifestazioni ambientaliste.
Al momento, dunque, il via all’estrazione del litio è bloccata, Australia e Serbia restano ai ferri corti e la contemporaneità tra lo stop alla concessione e l’espiulsione del tennista dagli Open viene letta da Belgrado in chiave di ritorsione.
Caso Djokovic, Ibrahimovic sostiene il tennista: “Contrario al vaccino per poter lavorare”. Ilaria Minucci il 23/01/2022 su Notizie.it.
Il calciatore Zlatan Ibrahimovic ha rilasciato un’intervista durante la quale si è schierato a favore del campione di tennis Novak Djokovic.
Il calciatore svedese Zlatan Ibrahimovic ha rilasciato un’intervista durante la quale ha commentato quanto accaduto al campione Novak Djokovic, schierandosi a favore del tennista.
Caso Djokovic, Ibrahimovic sostiene il tennista: l’intervista
Nella giornata di domenica 23 gennaio, il quotidiano domenicale francese Le Journal du Dimanche ha pubblicato una recente intervista rilasciata dal centravanti del Milan Zlatan Ibrahimovic.
Nel corso dell’intervista, Ibrahimovic ha presentato il suo libro intitolato Adrenalina che a breve uscirà in Francia. In questo contesto, tuttavia, al calciatore svedese sono state rivolte anche alcune domande legate al caso esploso in Australia che ha avuto come protagonista il tennista numero uno al mondo, Novak Djokovic.
Caso Djokovic, Ibrahimovic sostiene il tennista: “Contrario al vaccino per poter lavorare”
Commentando quanto accaduto a Novak Djokovic, Zlatan Ibrahimovic ha dichiarato: “Vaccinarsi per ragioni di salutenon è la stessa cosa che farlo per disputare un torneo di tennis.
Ognuno deve poter avere la sua opinione”.
Inoltre, rispondendo a una domanda più specifica inerente al caso Djokovic, il centroavanti del Milan ha precisato: “Chi si fa un vaccino, lo fa perché ci crede, perché pensa sia efficace contro la malattia”.
Caso Djokovic, Ibrahimovic: “Io mi sono vaccinato perché penso che il vaccino mi protegga, non per poter giocare a calcio”
Infine, Zlatan Ibrahimovic ha concluso il suo discorso relativo alla scelta individuale di farsi inoculare il vaccino, ribadendo quanto segue: “Ognuno ha la sua opinione.
La gente non dovrebbe essere obbligata a vaccinarsi soltanto per poter andare al lavoro”.
In relazione alle sue decisioni personali rispetto al vaccino anti-Covid, poi, il calciatore ha precisato: “Io mi sono vaccinato perché penso che il vaccino mi protegga, non per poter giocare al calcio. Sono due situazioni diverse”.
Estratto dell'articolo di Matteo Pinci per "la Repubblica" il 19 gennaio 2022.
(…) «Melbourne? Gli australiani sono abituati ai canguri, che ne sanno del tennis» racconta Vanja mentre arrostisce hamburger. «Lo hanno molestato, crocefisso», dice un ragazzo che porta in spalla una borsa da cui spuntano le impugnature di due racchette, «lo hanno trattato come un criminale». In un Paese diviso dal referendum per garantire più autonomia alla giustizia, che ha portato al voto meno di un terzo della popolazione, il popolo di Nole è compatto, solidissimo, un fronte quasi militare.
(…) Nole studia la prossima mossa: una richiesta di risarcimento danni da 5 milioni di euro al governo australiano per quella che, a Belgrado, chiunque passeggi per strada non fatica a definire "una tortura". "Vaccino o fine della carriera", titolava ieri il giornale serbo Informer .
Già, perché senza vaccino, l'unico Slam in cui Djokovic potrà competere sarà, almeno per quest' anno, Wimbledon. Ma se la pandemia si protraesse? Due sponsor - una banca, un produttore di orologi svizzero - hanno confermato il loro sostegno al tennista serbo. Ma per quanto, ancora? «Le regole d'ingresso le decidono gli Stati, ma se queste regole siano umane o anche solo opportune, be', questa è un'altra storia», dice Blazo Nedic, esperto di diritto dell'immigrazione.
La premier Ana Brnabic alla Cnn lo difende: «Per me Djokovic non è un No Vax, ha fatto una scelta personale, non so perché non voglia vaccinarsi. Quando organizzò l'Adria Tour noi avevamo messo i vaccini a disposizione dei tennisti che non potevano vaccinarsi nei loro Paesi e Nole allora era favorevole alla possibilità di vaccinarsi per chi lo chiedeva». (…)
Da ilnapolista.it il 19 gennaio 2022.
Novak Djokovic futuro presidente della Serbia? Questo il titolo provocatorio di Libero che scrive della proposta arrivata dalla Serbia dopo la lunga telenovela che ha visto protagonista il numero uno del mondo del tennis.
Dopo l’espulsione dall’Australia, in Serbia si rincorrono le voci su una possibile candidatura di Novak Djokovic, numero uno del- la classifica Atp e No vax, come fu- turo presidente.
Il riferimento è ad un sondaggio di qualche anno fa che dava il tennista come il preferito dai cittadini per la carica di capo dello Stato.
Ovviamente dovrebbe essere solo una provocazione, ma con Nole non si può mai essere sicuri di niente considerando la battaglia che ha portato avanti in Australia per mantenere il punto sulla sua scelta di non vaccinarsi contro il covid.
Novak, allora, la politica a suo modo l’ha già fatta, sostenendo che il Kosovo è il cuore della Serbia, contestando prima dall’interno e poi dall’esterno la leadership del tennis con il suo sindacato Ptpa (professional tennis players association).
Djokovic acquisisce l’80% di QuantBioRes, società danese che sta sviluppando una cura contro il Covid. Ilaria Minucci il 19/01/2022 su Notizie.it.
Il tennista Novak Djokovic ha acquisito l’80% di QuantBioRes, una società danese che sta lavorando allo sviluppo di una cura contro il Covid.
Il CEO di QuantBioRes ha annunciato alla Reuters che l’80% della società danese è stata acquisita dal campione del mondo di tennis Novak Djokovic. Lo staff del tennista, recentemente escluso dagli Australian Open, non ha ancora rilasciato alcun commento in merito alla vicenda.
Djokovic acquisisce l’80% di QuantBioRes, società danese che sta sviluppando una cura contro il Covid
Il tennista serbo Novak Djokovic è entrato in possesso dell’80% di QuantBioRes, una società specializzata in biotecnologie con sede in Danimarca che sta lavorando allo sviluppo di una cura contro il SARS-CoV-2.
La notizia relativa all’interesse del campione per l’azienda danese era già trapelata nei mesi scorsi e, in Italia, era stata riportata da Il Sole24 Ore.
Nella giornata di mercoledì 19 gennaio, tuttavia, è arrivata la comunicazione ufficiale rispetto alla transazione.
In particolare, l’acquisizione di QuantBioRes da parte di Djokovic è stata riferita a Reuters dall’amministratore delegato dell’azienda, Ivan Loncarevic.
Sulla base di quanto riportato sul registro delle imprese danesi, Novak Djokovic – che aveva comprato le prime quote di QuantBioRes nel 2020 – possiede il 40,8% della società mentre sua moglie Jelena ne possiede il restante 39,2%.
Djokovic acquisisce l’80% di QuantBioRes, l’intervista al CEO della società
In occasione dell’intervista rilasciata a Reuters, il CEO di QuantBioRes Ivan Loncarevic ha spiegato che l’investimento effettuato da Novak Djokovic risale al mese di giugno 2020 ma non ha voluto rivelare le cifre della transazione.
Per quanto riguarda l’azienda, invece, è stato precisato che QuantBioRes ha assunto undici ricercatori in Danimarca, Slovenia e Australia e sta concentrando tutte le proprie energie nello sviluppo di un peptide capace di impedire al virus del Covid-19 di infettare le cellule umane, in modo tale da porre fine alla pandemia.
Nel corso dell’intervista, il CEO Loncarevic si è detto certo che i primi test clinici della società partiranno entro la prossima estate e verranno condotti nel Regno Unito.
Djokovic acquisisce l’80% di QuantBioRes, nessun commento dallo staff del tennista
In relazione all’acquisizione dell’80% di QuantBioRes da parte di Novak Djokovic, lo staff del tennista numero uno al mondo non ha ancora commentato le affermazioni pronunciate dal CEO della società.
Al momento, il campione è reduce dall’esclusione dall’Australian Open e dall’espulsione dall’Australia poiché non vaccinato contro il coronavirus e non in possesso di un visto valido che gli consentisse di restare regolarmente nel Paese.
Francesco Semprini per "La Stampa" il 20 gennaio 2022.
Recupero a fondo campo o clamoroso contro break di un match deciso a tavolino? L'opinione pubblica si divide ancora una volta dinanzi all'ennesimo colpo di scena della vicenda che ha come protagonista Novak Djokovic.
Il numero uno della classifica Atp ha acquistato l'80 per cento di QuantBioRes, azienda danese di biotecnologie che sta lavorando allo sviluppo di una cura per il Covid-19. A riferirlo alla Reuters è Ivan Loncarevic, a.d. della start-up che si occupa di «cure e trattamenti contro la batterio-resistenza e contro i retrovirus», tra cui il Covid-19.
Djokovic ne acquisisce le quote a giugno 2020, alcuni mesi dopo l'inizio della pandemia. La società sta studiando un metodo di «neutralizzazione» del Sars-CoV-2, ovvero una «cura alternativa» al vaccino.
QuantBioRes conta sul contributo di undici ricercatori distribuiti tra Danimarca, Australia e Slovenia che stanno sviluppando un peptide (composto chimico) in grado di inibire il virus. Le prove cliniche inizieranno la prossima estate in Gran Bretagna per la messa a punto di quello che Loncarevic sottolinea essere un trattamento e non un vaccino. Secondo il registro danese delle imprese, Djokovic e sua moglie Jelena possiedono rispettivamente il 40,8% e il 39,2% della società, ovvero di fatto la famiglia del tennista dei record è azionista di maggioranza della start-up.
La notizia assume rilevanza maggiore dopo il doppio fallo commesso dal campione che, invano, ha tentato di entrare in Australia senza la vaccinazione richiesta dalle autorità di Canberra.
Con l'obiettivo di conquistare il 21esimo titolo del Grande Slam, che lo avrebbe elevato al di sopra dei rivali Roger Federer e Rafael Nadal. Il progetto si è infranto per due volte sullo scranno dei tribunali nazionali, e così Djokovic, che ha schiacciato tutti i suoi avversari ovunque, su terra rossa, erba e cemento (Forbes lo ha inserito tra i 50 atleti più pagati al mondo per il 2021), ha perso la partita più difficile fuori dai campi da tennis.
Dopo la battaglia legale, che lo ha tenuto in un limbo per dieci giorni, infuocando il dibattito mondiale tra chi invocava giustizia ed equità di trattamento sul vaccino e vax scettici, il tennista è stato costretto a lasciare l'Australia, dove in teoria non potrà mettere piede per tre anni.
«Estremamente deluso» pur «rispettando la sentenza», come ha commentato a caldo prima di salire a bordo di un volo per Dubai, si è trascinato dietro un caso diplomatico tra Canberra e Belgrado. E ora sta scaricando le frustrazioni lontano dai riflettori nella sua Serbia, ma rischia di essere escluso dagli Open di Francia a maggio.
Parigi esclude qualsiasi eccezione della legge sul vaccino. C'è chi dice che la divulgazione della notizia del suo attivismo nella ricerca sia il tentativo di un rilancio d'immagine nella lotta al virus, o che sia stata fatta filtrare per aumentare appetito e interesse su QuantBioRes. O più semplicemente il campione 34enne starebbe puntando tutto su una cura alternativa per il Covid prima che l'anagrafe e le autorità sportive condannino in via definitiva le sue ambizioni stellari.
L’esilio del re Nole: Djokovic a Belgrado diventa un martire. Matteo Pinci su La Repubblica il 17 Gennaio 2022.
Dopo aver perso la battaglia legale in Australia, il n. 1 del tennis mondiale è tornato in Serbia dove è stato accolto come un eroe nazionale. Per tornare a sentirsi un re, Novak Djokovic ha scelto di rifugiarsi nell’unico posto che lo faccia sentire a casa. La sua nuova prigione ha pareti dorate, non è più il ricovero per immigrati da cui l’Australia l’ha cacciato domenica ma è l’attico che ha acquistato pochi anni fa nel cuore di Belgrado, 250 metri quadri e 545 mila euro.
Tatjana Dordevic Simic per “La Stampa” il 17 gennaio 2022.
C'è un video della radiotelevisione serba RTS in cui appare il giovane Djokovic che alla domanda dell'intervistatore, un ragazzo che sembra qualche anno più vecchio di lui e che gli aveva chiesto quale sarebbe stato il suo sogno della vita, Novak decisamente rispondeva di voler diventare il numero uno al mondo.
Aveva solo sette anni in quel video, Novak Djokovic, oggi il miglior giocatore di tennis che ha sempre creduto nei suoi sogni. «Come ragazzo sognavo spesso di giocare il torneo di Wimbledon», ha detto una volta Djokovic. L'ha giocato ed ha vinto, ben sei volte. Nella sua carriera finora ha vinto tutti gli altri tornei più importanti, venti in totale quelli dello Slam. E se si fosse aggiudicato il torneo dell'Australian Open 2022 che comincia oggi, sarebbe stato il giocatore con più tornei Slam vinti nella storia del tennis.
Purtroppo, questo suo sogno non si potrà avverare in quanto Novak Djokovic ieri è stato espulso dall'Australia dopo la sentenza definitiva del tribunale federale di quello Stato che ha respinto all'unanimità il ricorso del campione serbo contro l'annullamento del visto. La saga Djokovic che ha trascinato il mondo dello sport, ma anche il mondo intero in quanto lui sarebbe arrivato in Australia non vaccinato contro il Covid, pare sia finita.
Negli ultimi dieci giorni la caccia mediatica mondiale al campione serbo lo ha fatto diventare da uomo bravo e forte a No Vax menefreghista. L'affaire così ha avuto una immediata eco internazionale che in Serbia si è subito declinata su toni nazionalistici, facendo di lui l'ennesima vittima di un popolo su cui sono cadute tutte le colpe per la guerra negli anni Novanta nei Balcani Occidentali.
Lo stesso pensa il padre del campione serbo che ieri ha scritto sui social in riferimento alla battaglia del figlio persa contro il governo australiano: «Il tentativo di assassinare il miglior sportivo del mondo è finito, 50 proiettili nel petto di Novak». Un messaggio che avrebbe trovato il sostegno di migliaia di fan di Djokovic nel suo Paese di origine, se non fosse stato cancellato qualche ora dopo dallo stesso padre, che ha detto di essersi limitato a condividere il post di un altro sostenitore di Nole.
Oltre alla retorica impiegata dal padre di Djokovic in tutta questa vicenda che riprende molti cliché che dagli anni Novanta hanno fatto la fortuna della propaganda nazionalista serba, il sostegno immediato alla battaglia persa dal tennista è arrivato subito da parte del presidente serbo Aleksandar Vucic. «Questa sembra la caccia alle streghe», ha detto Vucic, aggiungendo che Novak ora può tornare in Serbia, dove è sempre il benvenuto e dove può guardare tutti negli occhi a testa alta.
Dalle parole del padre che giustificatamente voleva solo difendere il figlio e dalle parole del presidente serbo che pare abbia solo voluto difendere il suo cittadino, per caso numero uno al mondo, sembra che tutto l'Occidente compresa l'Australia odi la Serbia. Difendere Djokovic non significa difendere il Paese. Lui non è né una vittima di un attentato né una strega.
In questo momento, purtroppo, risulta piuttosto una marionetta nelle mani del governo di Belgrado, che sta strumentalizzando la popolarità del campione. Djokovic sicuramente non sarebbe partito per l'Australia se non gli fosse stato rilasciato un visto valido e se non ci fossero state le garanzie da parte degli organizzatori dell'Australian Open. D'altra parte, avrebbe potuto indovinare a che cosa sarebbe andato incontro in quanto per entrare in Australia bisogna essere vaccinati.
Che sia colpa sua o dipenda da qualche errore umano del suo staff durante la compilazione dei moduli per ottenere il visto, come ha dichiarato di recente lo stesso Djokovic, lui non giocherà uno dei più grandi tornei. Rischia anche il divieto di ingresso in Australia per tre anni. Ma nonostante ciò sembra che abbia perso questa volta e mentre sta tornando in Serbia, per il suo popolo che lo aspetta impaziente, lui rimane il numero uno. Per sempre.
Novak Djokovic "ha truccato i tamponi": scandalo infinito, le prove che possono cancellare la sua carriera. Libero Quotidiano il 28 gennaio 2022.
Novak Djokovic sta assistendo agli Australian Open sicuramente con sofferenza, dato che sarebbe stato tranquillamente in lizza per la vittoria finale. Ma adesso ha problemi ben maggiori a cui pensare rispetto al tennis, dato che il serbo si è esposto a una figuraccia mondiale, se si escludono i no-vax che lo hanno elevato al pari di una divinità. Solo che nel mondo reale quelle persone non contano nulla, gli sponsor disarmati dalle posizioni e dalle azioni di Djokovic invece sì.
Intanto sono emersi nuovi dubbi sul tampone che Novax ha presentato per entrare in Australia e cercare di partecipare al Grande Slam. Secondo quanto riportato dalla BBC, un gruppo di ricerca tedesco ha rilevato notevoli discrepanze relative ai numeri di serie della documentazione presentata dal tennista serbo, che potrebbe quindi essere falsa. In particolare, il numero di serie del test positivo del 16 dicembre appare fuori sequenza con un altro campione raccolto dalla stessa BBC ed è anche superiore a quello del secondo test risultato negativo, effettuato sei giorni dopo.
Quello che non torna è chiaro: dato che tutti i risultati dei tampone hanno un codice di conferma univoco, la BBC non si spiega perché il secondo effettuato da Djokovic ha un codice precedente al primo. Un errore di laboratorio? Forse, ma le autorità serbe e il tennista per ora tacciono, e questo non gioca certo a loro favore…
Djokovic espulso dall'Australia. "Sono deluso, ora mi riposerò". Marco Lombardo il 17 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Respinto l'appello del tennista serbo, da sempre in lotta con rivali, pubblico e governi. Il viaggio verso Dubai.
Sul volo che ha riportato Novak Djokovic verso casa c'era una certezza - la sua - ma anche tante domande sul futuro. Non riguarda solo il tennis, anche se è davvero una notizia che agli Australian Open partiti nella notte non ci sia il numero uno del tabellone. Ma è una questione più grande, in tempi di emergenza e in un'era umana in cui il dissenso ha più voce della maggioranza. Ed è anche un caso umano, quello di un grande campione che non ammette mai di essere dal lato sbagliato della vita. Così che, finendo per giocare sempre uno contro tutti, poi capita che alla fine si perda.
Novak Djokovic è stato espulso da Melbourne e dal Paese alla fine di una giornata in cui lui e i suoi avvocati si sono aggrappati con le unghie a una realtà di vetro lucidissimo. La Corte Federale, composta da tre giudici, non ha fatto altro che sancire l'ovvio: «Non sta a noi giudicare il merito, ma solo se la decisione del ministro dell'Immigrazione sia irrazionale. E non lo è». Fine della storia, visto ritirato: ma come si è arrivati fin qui? Esistono tre aspetti: personale, generale e sociale.
Il primo è la differenza che tutti hanno sempre visto tra il campione serbo e i suoi grandi rivali Federer e Nadal. Loro più amati e lui sempre in cerca di amore. Ed è troppo differente la storia familiare e sportiva di Roger&Rafa, arrivati da un ambiente benestante, educati con rispetto per loro e per gli altri, con tecnici e consiglieri giusti e amici che qualche volta ti fanno notare che magari stai sbagliando. Un'altra cosa è Novak, cresciuto a Belgrado sotto le bombe, con dei genitori - soprattutto il padre - in cerca sempre di rivincita (ieri Srdjian ha detto «Nole è stato colpito con 500 pallottole nel petto»), in un Paese di cui è l'immagine assoluta e con un clan che lo teme e lo rispetta. Diciamolo: nulla di quello che si fa, anche compilare un modulo per passare la frontiera, avviene senza il suo consenso. Un magnifico tennista, però un uomo che pensa di avere sempre contro tutto e tutti: gli avversari, il pubblico, la medicina, i governi. Tant'è che l'unica volta in cui la gente era completamente al suo fianco, la finale di New York che poteva regalargli l'immortalità del Grande Slam, ha fallito. Non era abituato.
Novak per questo è diventato il paladino dei no-vax - ed è questo il secondo punto -, finendo però per giocarsi anche il loro appoggio: era chiaro ieri, davanti al tribunale, che non fosse più una questione di principio ma solo personale. «Avete detto che è contrario ai vaccini, ma lui non lo ha mai dichiarato: perché non glielo chiedete adesso?» ha implorato il suo avvocato. Era l'ultima carta che però ha fatto crollare tutto il castello. E l'effetto collaterale è aver messo in chiaro che il mondo, davanti a una pandemia globale, viaggia e viaggerà sempre in ordine sparso: il ministro della Salute francese ha già fatto sapere che a Parigi, a maggio, Novak potrà entrare anche da non vaccinato, in un nazione che va verso l'obbligo e dove i tennisti locali devono farsi il siero per giocare. C'è logica in questo? Non c'è appunto.
E poi, infine, c'è il rispetto delle regole, anche sbagliate magari. Un'abitudine persa di cui Djokovic rappresenta l'uomo bandiera: per cambiarle si dovrebbe combattere, e invece si tenta sempre di aggirarle. L'Australia è un Paese con il 91% della popolazione vaccinata, era chiaro che Novak non potesse passare. L'Australia non è nemmeno un Paese perfetto, tutt'altro, come tutti. Però nessuno vuol rispettare più le regole per guadagnarsi visibilità, fino a quando però si mette l'Io davanti a tutti e così alla fine vincono loro. Poi, ti resta qualcuno che ti farà credere di essere stato un eroe: ne vale davvero la pena?
Marco Lombardo. Caporedattore del “Giornale”, autore, moderatore, formatore e - soprattutto - dinosauro digitale. Ama lo sport e la tecnologia e si occupa di tecnologia un po' per sport. Raccontato sempre TraMe&Tech.
(ANSAmed il 17 gennaio 2022) - Un Paese piccolo e per molti poco conosciuto, ma estremamente fiero del suo passato e della sua storia, e soprattutto fortemente orgoglioso dei suoi campioni e successi sportivi.
La Serbia, nei dieci giorni che hanno sconvolto la vita e la carriera del suo Novak Djokovic, ha confermato più che mai il suo fortissimo orgoglio nazionale, alimentato in questi ultimi anni dalla politica assertiva e muscolare del presidente Aleksandar Vucic, sempre più propenso a posizioni nazionalpatriottiche e desideroso di fare del suo Paese il 'primo della classe', una sorta di mini-potenza regionale nei Balcani.
"Djokovic può tornare in Serbia a testa alta e guardare tutti negli occhi", ha detto Vucic dopo il decreto di espulsione del campione serbo dall'Australia. Una decisione questa accolta come un grave affronto, quasi un sacrilegio nei confronti del numero uno del tennis mondiale, un supercampione che in Serbia è considerato un'icona, alla stregua di un eroe, e a sostegno del quale nei giorni scorsi a Belgrado a migliaia avevano manifestato sfidando il gelo.
Negli anni scorsi un sondaggio aveva rivelato che nel caso di una sua candidatura alla presidenza della repubblica, il cui voto in Serbia è a suffragio universale, l'amato Nole vincerebbe agevolmente con un enorme distacco. Ciò spiega le reazioni dure e perentorie di Belgrado all'espulsione del campione decretata dalle autorità australiane. Una decisione definita "scandalosa, politica, inaccettabile", con Djokovic vessato e trattato alla stregua di un "assassino seriale".
La stampa in questi giorni, sulla scia delle emozioni e di quello che viene ritenuto un accanimento del mondo intero contro la Serbia, si è spinta fino a ricordare i raid aerei della Nato nella primavera 1999 contro il regime di Slobodan Milosevic, e quella che viene considerata una eccessiva severità del Tribunale dell'Aja nei confronti quasi esclusivamente dei criminali di guerra serbi e non invece di quelli croati, bosniaci o kosovari. Tuttavia Novak, sottolineano tutti, lungi dall'essere stato umiliato, ne uscirà ancora più forte, pronto a nuove battaglie eroiche, come quella combattuta fino alla fine a Melbourne.
(ANSA-AFP il 17 gennaio 2022) - Novak Djokovic è atterrato oggi a Dubai, dopo essere stato espulso dall'Australia a causa delle regole di vaccinazione contro il coronavirus. Il numero 1 del mondo di tennis ha lasciato l'aereo con due borse e una mascherina, dopo essere atterrato all'aeroporto internazionale emiratino alle 5:32 ora locale (le 2:32 in Italia).
Djokovic avrebbe dovuto essere stamani il protagonista del match di apertura degli Australian Open, ma il serbo non vaccinato non difenderà il suo titolo dopo che la Corte federale australiana ha respinto la sua richiesta di appello contro la cancellazione del suo visto, portando alla sua espulsione dal Paese.
Nole ha lasciato ieri Melbourne con i suoi allenatori alle 22:51 ora locale (le 12:51 in Italia), senza far sapere quale sarà la sua destinazione finale. Questa ingloriosa partenza, quando aspirava al decimo titolo degli Aus Open e al 21mo di uno slam, è l'epilogo di una telenovela di 11 giorni che mescola politica e diplomazia sullo sfondo dell'opposizione alla vaccinazione anti-Covid.
Mario Piccirillo per ilnapolista.it il 16 gennaio 2022.
Né santo né santone. Manco martire. Novak Djokovic s’è infilato una decina di giorni fa in una “walk of shame”, come la chiamano gli inglesi: una sfilata della vergogna, in cui tu passi e la gente tutt’attorno sputa e inveisce. C’era entrato da semi-leggenda del tennis, il numero uno un po’ naif.
Ne esce senza nemmeno l’etichetta di talismano dell’indecenza, il no-vax più celebre del pianeta. Un campione ribaltato dalla stessa noncuranza con cui sperava di imporsi oltre le leggi d’un Paese straniero, ma ancora peggio: contro gli interessi della politica in anno elettorale. Un mostro finale che nessuno sano di mente ambirebbe a combattere. Il risultato è che Djokovic, in preda ad un crisi quasi psicotica di masochismo, s’è rovinato deliberatamente da solo.
Mentre il mondo scopriva quanto fosse deteriore tutto il pregresso, magari finora nascosto nella nicchia tennistica: l’ultranazionalismo folkloristico della sua famiglia, il polpettone mistico delle sue fissazioni, l’anti-scientismo con cui ha affrontato due anni di pandemia. Dieci giorni di opinionismo perpetuo hanno scavato dappertutto, non lasciando nulla al non-detto.
Alcuni temevano che l'”accanimento” del governo australiano producesse il contraccolpo ideologico, trasformando un campione mondiale in eroe anti-vaccinale. Quel fronte si nutre del complottismo spicciolo, l’occasione di potersi giocare la carta Djokovic era ed è enorme. Ma lui no, ha tradito anche l’integerrimo ordine degli anti-tutto.
Perché è rimasto lì a pietire il posto agli Australian Open, fino all’ultima arringa dei suoi avvocati. Ha affrontato quello che il suo collega tennista-novax Sandgren ha definito “un rituale d’umiliazione” con spirito collaborazionista. Nell’ultima udienza il suo legale s’è spinto a rinfacciare al governo che Djokovic “non ha mai apertamente criticato i vaccini”, sfidandolo: “Perché non glielo avete chiesto adesso cosa ne pensa?”. Come a voler suggerire una resa condizionata. Avrebbero magari potuto trattare una dichiarazione d’intenti per salvare capra e cavoli. Solo che gli australiani c’hanno i canguri, e ai confini (di principio e geografici) ci tengono un po’.
Morale: Djokovic ha perso, su tutti i fronti. In questi giorni c’è stato il tempo di ravanare nella storia per rintracciare qualche precedente. L’Équipe ricorda che nel 1974 Jimmy Connors venne espulso con Evonne Goolagong dal Roland-Garros per una controversia con la federazione francese. Era nato un circuito alternativo, loro avevano aderito e la faccenda stava finendo in tribunale.
Connors venne escluso dallo Slam cinque giorni prima dell’inizio del torneo e non sarebbe più tornato in Francia per cinque anni. Djokovic rischia tre anni di “ban” dall’Australia.
Altri, con sprezzo del pericolo, avevano paragonato la battaglia di Djokovic a quella di Cassius Clay (all’epoca ancora si chiamava così, Muhammad Ali) che mise in gioco reputazione e carriera per opporsi alla guerra del Vietnam. Djokovic è andato alla guerra per opporsi ad un vaccino che salva la vita a milioni di persone. Coerente il finale: a uno la gloria, all’altro l’onta. Ma è chiaro che invece i riferimenti adeguati alla vicenda sono usciti tutti dalle allegorie del suo clan: Gesù Cristo crocifisso, Spartaco, cose così.
Ampiamente fuori dal pantone della logica, in linea con l’isteria diplomatica che ha governato le reazioni in quest’ultima settimana. Ed è in questo contesto quasi fumettistico che s’è perso l’onore di Djokovic. Ha scelto di abitare un altro pianeta, ma nel frattempo non è riuscito a farsi testimonial di quella sorta di opposizione macchiettistica che lo voleva leader d’una rivoluzione. Avrete ascoltato in questi giorni il silenzio assordante dei suoi sponsor. Il Sole 24 ore ha stimato che il prossimo anno potrebbe perdere non meno di 30 milioni di euro di sponsorizzazioni.
Il commento del Sole è azzeccato: “Dopo aver speso fior di milioni per allineare il loro brand a un lifestyle desiderabile, a uno sportivo di successo, a un professionista stimato, oggi si ritrovano ad aver sponsorizzato Pippo Franco”. Lo stacco di credibilità, mentre il suo aereo lo riporta in Europa, è tutto qua. Djokovic s’è rappreso. Ha ammesso qualcuno dei suoi errori più marchiani, altri li ha lasciati in carico al suo entourage. Ha annaspato, nell’incubo di tutti i pr: né di qua, né di là.
Solo e soltanto paccheri a destra e a manca. Lo avevano cantato come l’uomo arrivato in Australia a combattere l’ingiustizia, l’ipocrisia e per qualche ragione pure il colonialismo. E’ stato ruminato dal circo dei media, lui e le sua bolla di accoliti e supplicanti. L’Australia, una nazione insulare vasta, polverosa e atomizzata da due anni di isolamento estenuanti, affaticata, l’ha preso di petto. Lui e le sue fisime sul potere mentale disintossicante. Depurasse l’acqua con le preghiere a casa sua. Sconfitto, con ignominia. Non c’è di peggio, per uno sportivo.
Djokovic espulso dall’Australia: la sentenza respinge il ricorso. Marco Calabresi su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2022.
La Corte federale dell’Australia ha espulso Djokovic, non vaccinato contro il Covid, revocandogli il visto: non giocherà gli Australian Open. Ora rischia un divieto di ingresso nel Paese di tre anni.
Novak Djokovic ha perso il suo ricorso contro la decisione dell’Australia di cancellargli il visto, e sarà dunque espulso dal Paese. Il 34enne serbo numero 1 del tennis mondiale non potrà dunque difendere il suo titolo all’Australian Open, il primo dei tornei dello Slam della stagione 2022 al via lunedì 17 gennaio, e andare alla caccia del suo 21° Slam in carriera, che gli farebbe staccare Rafa Nadal e Roger Federer, entrambi a quota 20.
La sentenza è arrivata alle 7.45 italiane (le 17.45 in Australia) di domenica 16 gennaio dalla Corte federale australiana, chiamata ad esprimersi sull’appello del tennista serbo contro il ritiro del visto. Con una decisione unanime i giudici James Allsop, Anthony Besanko e David O’Callaghan hanno respinto il ricorso di Djokovic. Le motivazioni saranno pubblicate in seguito.
Che cosa succede adesso
Il serbo rimarrà in stato di fermo a Melbourne fino alla sua espulsione. Una sentenza di espulsione, usualmente, porta con sé un divieto di ingresso nel Paese per tre anni: un enorme ostacolo sul sogno di Djokovic di conquistare il Grande Slam (di vincere cioè in un anno solare tutti e 4 i trofei principali del tennis mondiale). Il serbo avrebbe dovuto esordire lunedì 17 alla Rod Laver Arena contro il connazionale Kecmanovic. Al suo posto in tabellone entra un «lucky loser»: è l’italiano Salvatore Caruso, numero 150 del mondo.
L’udienza nella notte
Nel corso dell’udienza della notte italiana i tre giudici avevano ascoltato per diverse ore le argomentazioni del governo australiano, secondo il quale la presenza del numero uno del tennis mondiale, non vaccinato, rappresenterebbe un «rischio sanitario» e «potrebbe incoraggiare il sentimento contro i vaccini», e quelle degli avvocati del serbo, che hanno invece definito la decisione delle autorità «irrazionale» e «irragionevole». Il numero uno del mondo, a caccia del suo 21° Slam in carriera, si è sempre difeso sostenendo di aver contratto il virus lo scorso dicembre (per la seconda volta da inizio pandemia) e di essere quindi esentato dall’obbligo di vaccino. Fattore accettabile per gli organizzatori dell’Open — è stato inserito nel tabellone del torneo come testa di serie numero 1 — ma non per le autorità sanitarie.
La partenza per l’Australia
Ecco la ricostruzione di quanto accaduto negli ultimi 12 giorni. Il 4 gennaio il tennista annuncia ai followers su Instagram di essere in partenza per l’Australia, ha con sé una esenzione medica al vaccino che dovrebbe garantirgli l’ingresso nel Paese nonostante le rigide norme locali per fronteggiare la pandemia.
Il visto revocato e le incongruenze
Djokovic arriva all’aeroporto Tullamarine di Melbourne in piena notte e viene chiuso in una stanza, sottoposto ad un interrogatorio di oltre sette ore al termine del quale scatta la revoca del visto d’ingresso. Il campione ammette di non essersi mai vaccinato contro il Covid e rivela di essere risultato positivo al virus il 16 dicembre. Ma, come verificabile su Internet e sui social network, nei giorni successivi alla positività il campione ha partecipato a eventi pubblici, rilasciato un’intervista all’Équipe e si è fatto fotografare (senza mascherina) in presenza di altre persone. Inoltre emergono errori nella compilazione del modulo d’ingresso, in cui dichiara di non aver viaggiato nei 14 giorni precedenti l’arrivo in Australia e invece è stato in Spagna. Per Nole sarebbe un errore «umano e di certo non deliberato» commesso dal suo agente, l’italiano Edoardo «Dodo» Artaldi.
L’hotel per gli immigrati irregolari
Djokovic viene trasferito nel centro di permanenza Park Hotel in stato di fermo, ma i suoi legali presentano ricorso e la prima sentenza del giudice Anthony Kelly è favorevole al campione (solo per un errore procedurale del dipartimento Immigrazione). Così Novak lunedì sera corre a Melbourne Park ad allenarsi, condivide una foto con la racchetta in mano e coach Ivanisevic al suo fianco. L’odissea però non è finita. E a poche ore dalla prima partita degli AO, al via lunedì, arriva la nuova revoca del visto decisa da ministro dell’Immigrazione.
Djokovic va espulso dall'Australia, respinto il ricorso. Paolo Rossi su La Repubblica il 15 Gennaio 2022.
Confermata la tesi del governo: il tennista rappresenta un "rischio sanitario", dando fiato alle tesi No Vax. La replica del difensore: "Non ha mai dato sostegno al movimento".
Novak Djokovic non giocherà gli Australian Open. Finisce così la saga tra il campione serbo di tennis e il governo australiano. L'appello ha dato ragione al governo australiano che lo ritiene un pericolo pubblico, un rischio per la collettività. Questa la sentenza dei tre giudici che, all'unanimità, hanno deciso contro il campione serbo e a favore della decisione del ministro Hawke che gli aveva di nuovo revocato il visto. Ora il numero uno del mondo dovrà lasciare il paese quanto prima. Djokovic era rappresentato dal consulente legale di Hall & Wilcox, tra cui Paul Holdenson, QC, Nick Wood, SC e Nik Dragojlovic. Stephen Lloyd, SC, appare con Christopher Tran, Naomi Wootten e Julia Nicolic per il Ministro dell'Immigrazione.
È una sentenza significativa con ramificazioni internazionali e implicazioni politiche interne. Il tribunale della Corte federale ha deciso di confermare la decisione del ministro dell'Immigrazione. I motivi della decisione dovrebbero essere resi pubblici lunedì. Resta da verificare se il serbo potrà entrare nei prossimi tre anni perchè la legge non lo prevede, di solito.
Il capo della giustizia, il giudice Allsop, aveva voluto anche chiarire che l'appello non era un ricorso contro la decisione del governo esecutivo, ma si trattava di una revisione della decisione sulla legittimità o legalità della decisione.
In teoria anche questa decisione potrebbe essere impugnata presso l'Alta Corte australiana, ma non vi è alcuna possibilità che il caso venga preso in esame prima di domani, momento in cui Djokovic dovrebbe esordire nello Slam di Melbourne. Per cui, sembra davvero finita. Gli Australian Open cominceranno senza di lui, e questo potrebbe avere implicazioni anche sul resto della carriera del serbo. Entrerà in tabellone un italiano, Salvatore Caruso. E il russo Rublev salirà come testa di serie.
Alla fine le discrepanze tra Tennis Australia e le regole del governo Australia sono evidenti.
L'udienza è durata quasi 5 ore. L'avvocato di Djokovic, Nick Wood, ha cercato di smontare la tesi del governo, e cioè che le opinioni anti-vaccino di Djokovic sono una minaccia pubblica e potrebbero causare "disordini civili". Per Wood, il giocatore anche se non è vaccinato non ha mai dato sostegno ai no vax e non è mai stato associato al movimento. Il governo "non sa quali siano le attuali opinioni del signor Djokovic", ha insistito Wood.
L'avvocato del governo Stephen Lloyd ha detto che il fatto che Djokovic non sia vaccinato due anni dopo la pandemia e abbia ripetutamente ignorato le misure di sicurezza - compreso il mancato isolamento mentre era positivo - è una prova sufficiente delle sue opinioni.
È l'atto finale di una lunghissima controversia legale che non ha riguardato solo la mancata vaccinazione del tennista ma anche gli errori e le omissioni sui suoi documenti di viaggio. Una storia infinita in cui difficilmente ci saranno vincitori.
Da lastampa.it il 14 gennaio 2022.
L’Australia ha cancellato per la seconda volta il visto di Novak Djokovic spiegando che il numero uno mondiale del tennis può «rappresentare un rischio per la comunità» non essendo vaccinato contro il Covid. Il campione adesso rischia di essere espulso già nelle prossime ore, nel frattempo dovrà tornare nell’hotel dei rifugiati dove era stato trattenuto al suo arrivo nel Paese.
Gli avvocati del tennista stanno preparando il ricorso contro il provvedimento del governo: il tennista serbo numero uno del mondo rischia di non potere competere agli Australian Open e di non poter rientrare nel Paese per tre anni. Intanto, Djokovic dovrà presentarsi per un colloquio con i funzionari dell’immigrazione.
Il ministro dell’Immigrazione, Alex Hawke, ha utilizzato poteri discrezionali per annullare nuovamente il visto di Djokovic, dopo che un tribunale aveva cancellato la precedente revoca e lo aveva rilasciato lunedì dalla detenzione per immigrati. «Oggi ho esercitato il mio potere ai sensi della sezione 133C(3) del Migration Act per annullare il visto detenuto dal sig. Novak Djokovic per motivi di salute e buon ordine, sulla base del fatto che fosse nell'interesse pubblico farlo», ha detto Hawke in una dichiarazione.
Il governo «è fermamente impegnato a proteggere i confini dell’Australia» ha proseguito Hawke che ha poi spiegato di aver «considerato attentamente» le informazioni fornite da Djokovic, dal Dipartimento degli affari interni e dall'Australian Border Force. In base all’articolo del Migration Act che il ministro ha utilizzato per esercitare il suo potere di annullare il visto, Djokovic non sarebbe stato in grado di ottenere un visto per venire in Australia per tre anni, se non in circostanze impellenti che ledono gli interessi dell'Australia.
Djokovic, campione in carica dell’Australian Open, era stato sorteggiato come prima testa di serie a avrebbe dovuto affrontare al primo turno il connazionale Miomir Kecmanovic. L’Australia ha vissuto alcuni dei lockdown più lunghi al mondo e ha un tasso di vaccinazione del 90% tra gli adulti. Un sondaggio online di News Corp ha rilevato che l’83% degli australiani è favorevole all’espulsione di giocatore.
Da ilnapolista.it il 14 gennaio 2022.
“Anche i ricchi si vaccinano”. La telenovela australiana è finita, Novak Djokovic – ormai ambasciatore internazionale dei no vax – torna in Serbia e non giocherà gli Australian Open.
Il ministro dell’immigrazione ha cancellato la decisione del tribunale e ha espulso il tennista serbo. Ha esercitato i suoi poteri e ha chiuso la vicenda.
In precedenza il Ministro dell’Economia australiano, Simon Birmingham aveva ricordato: “La nostra politica non è cambiata. Si entra con vaccino o con esenzione medica accettabile. Continueremo ad applicare questa politica con rigore”.
A questo punto, per Djokovic non c’è più nulla da fare. A meno che non voglia impugnare la decisione del ministro e che lui non commetta un errore procedurale.
Resta da vedere se Djokovic sarà squalificato per tre anni per l’eventuale falsificazione del tampone.
Da ilnapolista.it il 14 gennaio 2022.
Riccardo Pirrone, pubblicitario e Social Media strategist, fa notare sul Sole 24 Ore che da quando è cominciata la vicenda di Djokovic in Australia, si avverte un’assenza: i suoi sponsor. Sono rimasti tutti in silenzio, non si sono esposti. Parliamo di brand del calibro di Lacoste, Head, Asics, Peugeot, Hublot, Ukg e la banca Australiana ANZ.
“Non ci sono comunicati stampa, nessun post su Facebook e neanche l’ombra di un Tweet da parte dei brand che lo hanno scelto come testimonial. Cosa ne pensano gli sponsor delle dichiarazioni del tennista? Perché non si dissociano? O perché non lo difendono? Ma questi sponsor sono davvero innocenti? Il loro è un silenzio maldestro. Cerchiobottista. Forse i brand sono imbavagliati da contratti pieni di penali?”, si chiede Pirrone.
“L’immagine di Djokovic ormai è compromessa. Si stima che il prossimo anno potrebbe perdere non meno di 30 milioni di euro di sponsorizzazioni. E quanto perderanno i brand? Chi vorrà più indossare le scarpe di un campione in escapologia legale?”
“Dopo aver speso fior di milioni per allineare il loro brand a un lifestyle desiderabile, a uno sportivo di successo, a un professionista stimato, oggi si ritrovano ad aver sponsorizzato Pippo Franco”.
(ANSA-AFP il 14 gennaio 2022) - Novak Djokovic è di nuovo in detenzione. Lo rendono noto i suoi avvocati.
Secondo il governo, infatti, la presenza in Australia del numero uno del tennis mondiale, non vaccinato contro il Covid, "potrebbe incoraggiare il sentimento contro i vaccini". Le autorità australiane hanno presentato per questo una memoria davanti alla giustizia, chiedendo l'espulsione del serbo dal Paese. "L'Australian Open è molto più importante di qualunque giocatore". Sono le parole di Rafa Nadal commentando la situazione di Novak Djokovic, ancora in stato di fermo in attesa che venga discusso il suo appello contro l'espulsione dall'Australia.
"L'Australian Open sarà un grande Australian Open con o senza di lui", ha concluso lo spagnolo.
Stefano Semeraro per “La Stampa” il 14 gennaio 2022.
Adesso siamo davvero al quinto set, anzi, al tie-break del quinto set. Il territorio dove di solito Novak Djokovic si trasforma in avversario imbattibile perché ripete freddamente gli stessi schemi vincenti di sempre, mentre gli altri cercano di strafare.
Stavolta non potrà replicare, perché la partita si gioca fuori dal campo, in un'aula da tribunale dove, forse per la prima volta in vita sua, il Djoker non dispone di risposte vincenti. In ballo non c'è solo una questione burocratica, o un dilemma sul vaccino; ma il resto della sua carriera, un bando di tre anni dall'Australia, la credibilità stessa della sua immagine.
E un pezzo di futuro del tennis. Il ministro australiano dell'immigrazione Alex Hawke - una vocale in più dell'Hawk Eye che decide le chiamate nel tennis - ha deciso di revocare di nuovo al numero 1 del mondo, che rifiuta di vaccinarsi, il visto che il giudice della Federal and Family Court gli aveva restituito quattro giorni fa, dopo il primo respingimento del 5 dicembre. E lo ha fatto spiegando che Djokovic, in quanto famoso e non vaccinato, rappresenta addirittura un pericolo «per l'ordine sociale e la salute pubblica» australiana.
«Mr Djokovic - sostiene Hawke - è visto come un modello nella comunità sportiva e al di fuori, la sua presenza in Australia può favorire il disinteresse per le precauzioni nei confronti della positività al Covid. In particolare, il suo comportamento può incoraggiare altri ad emularlo».
Da numero uno del tennis, a pericolo pubblico numero uno. Poco dopo la scorsa mezzanotte - le 10,15 di sabato a Melbourne - Djokovic si è dovuto presentare ad un colloquio con due funzionari dell'Immigrazione, assistito dai suoi legali. Poi, come stabilito nella udienza straordinaria convocata ieri dopo la decisione del ministro Hawke, è stato trasportato in detenzione in un «luogo concordato» fra le parti, ma sconosciuto al pubblico, per evitare che ripartisse il circo delle contestazioni.
Stasera, quando saranno le 23 in Italia, il giudice federale dirà una parola si spera definitiva, prima che lunedì inizino gli Australian Open. All'avvocato Nick Wood, che difende Djokovic, rimangono carte disperate: un vizio di forma, un giudizio contrario alla legge. Ieri ha tentato di agitare il pericolo che, se davvero Djokovic sarà espulso, i No Vax scendano di nuovo in strada provocando disordini. Ma non è servito.
«Gli australiani hanno affrontato molti sacrifici durante la pandemia», ha affondato il premier Scott Morrison, accusato dai suoi rivali di aver strumentalizzato la faccenda in vista delle elezioni federali. «E si aspettano giustamente che i risultati di quei sacrifici siano difesi». Al contribuente australiano il processo costerà più di mezzo milione di dollari ed è facile prevedere che il trauma di questi giorni si trasformerà in una ferita difficile da rimarginare, anche considerando quanto sia importante lo sport per l'identità nazionale «aussie».
Il tennis nel frattempo sta osservando con sconcerto - come quando sull'autobus il controllore cerca di trascinare fuori un passeggero agitato e senza biglietto - fra i comunicati cerchiobottisti dell'Atp, il silenzio fragoroso della federazione internazionale e la perdita di stile del Roland Garros - «da noi potrebbe giocare anche senza vaccinarsi» - che fa a pugni con il celodurismo Pro Vax di Macron.
I colleghi di Djokovic, come l'opinione pubblica australiana che al 90% lo vorrebbe «out», gli sono quasi tutti contro. «Non voglio infierire su di lui, ma la maggioranza dei giocatori si è vaccinata», ha detto Andy Murray. «Lo ammiro, ma avrebbe dovuto vaccinarsi per il bene comune», sostiene Martina Navratilova, mentre Rafa Nadal da giorni ha sottolineato che «chi si vaccina può giocare gli Australian Open». In tanti, come ha sintetizzato Stefanos Tsitsipas, ancor più che le posizioni no vax gli contestano di aver voluto imporre «le sue regole personali, facendo fare la figura degli stupidi a tutti gli altri». La domanda che dovrebbe farsi ora Djokovic è soprattutto una: ne valeva la pena, campione?
Edoardo Artaldi, il manager italiano che Djokovic accusa per l’errore nel modulo di ingresso in Australia. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2022.
Edoardo Artaldi conosce Novak Djokovic dal 2009 ed è con lui da quando è sbarcato in Australia. «Viviamo assieme 24 ore su 24». Il n.1 di tennis sembra attribuire a lui l’errore nella compilazione del modulo con gli spostamenti in cui mancava il viaggio in Spagna. Tra le persone che hanno condiviso i momenti complicati di Novak Djokovic in Australia c’è l’agente italiano Edoardo «Dodo» Artaldi con la sua partner Elena Cappellaro, gli unici a essere rimasti nell’équipe del campione serbo anche dopo la rivoluzione da lui decisa nel 2017.
Artaldi ha conosciuto Djokovic nel 2009, quando lui lavorava per la Sergio Tacchini e il tennista era quarto nella classifica Atp. Artaldi concluse un contratto di sponsorizzazione con Djokovic, «sapevamo che aveva le potenzialità per diventare numero uno», cosa che accadde appena due anni dopo.
Quando poi Djokovic ha lasciato il brand Sergio Tacchini per un altro sponsor, Artaldi lo ha seguito diventando il suo manager e uomo di fiducia: una relazione professionale che ormai è anche personale. «Praticamente viviamo assieme 24 ore su 24 e sette giorni su sette – ha detto tempo fa Artaldi al canale italiano della radio australiana Sbs —. Cerchiamo di essere il più professionali possibile ma il rapporto ormai è piuttosto personale. Elena e io cerchiamo di creare l’atmosfera di cui ha bisogno, visto il tanto tempo che passa in giro per il mondo e lontano dalla famiglia».
L’amicizia tra Djokovic e Artaldi ha avuto un ruolo anche nella donazione che il campione ha fatto nel 2020, quando le immagini dei morti per l’epidemia a Bergamo facevano il giro del mondo e Djokovic decise di fare una donazione agli ospedali bergamaschi. Il cugino di Artaldi è Massimo Borelli, primario del reparto di anestesia e rianimazione dell’Ospedale di Treviglio. «Novak l’ha fatto col cuore, come gesto di solidarietà nei confronti dell’Italia intera – disse allora Artaldi —. Non avrebbe voluto rendere pubblica la donazione ma dall’ospedale ci hanno chiesto di poterne dare notizia, per ringraziare lui e per spingere altri a fare lo stesso».
Il legame di ferro tra il numero uno del tennis mondiale e l’italiano Artaldi è ora messo alla prova, vista la piega che ha preso l’avventura australiana.
Artaldi è stato accanto a Djokovic fin dal primo momento dell’arrivo all’aeroporto, assieme al coach croato Goran Ivanisevic e al preparatore atletico argentino Ulises Baldo.
Djokovic sembra attribuire ad Artaldi «l’errore umano» nella compilazione del formulario che ha complicato la sua posizione non citando il precedente viaggio dalla Serbia alla Spagna.
«Quanto alla questione del formulario di viaggio – ha scritto Djokovic nella sua dichiarazione su Instagram —, è stata presentata dalla mia équipe in mio nome, come ho detto ai funzionari dell’immigrazione al mio arrivo, e il mio agente presenta le sue sincere scuse per l’errore amministrativo compiuto quando ha spuntato la casella sbagliata a proposito dei miei spostamenti prima di venire in Australia».
Dall’esito della vicenda australiana (qui le ultime notizie, con il nuovo fermo) potrebbero dipendere molti aspetti della carriera del 34enne campione serbo.
L'Australia annulla il visto a Djokovic: il tennista No Vax va espulso. Paolo Rossi su La Repubblica il 14 gennaio 2022. Il ministro dell'immigrazione Hawke ha esercitato il suo potere dopo alcuni giorni di riflessione: "Ho deciso per motivi di salute e buon ordine, a tutela dell'interesse pubblico". I legali del serbo hanno già preparato il ricorso per permettergli di scendere in campo lunedì: dovrà presentarsi sabato a un colloquio con i funzionari dell'immigrazione ma non sarà detenuto. Il numero uno al mondo rischia di essere bandito dal Paese per tre anni. Il premier Morrison: "Protetti i sacrifici fatti dai cittadini durante la pandemia".
L'Australia ha deciso: Novak Djokovic va espulso. Il ministro dell'Immigrazione Alex Hawke ha usato il suo potere personale per annullare il visto del tennista serbo. I suoi legali stanno già preparando il ricorso immediato e dialogano con il governo. Nole dovrà presentarsi sabato a un colloquio con i funzionari dell'immigrazione e fino ad allora non sarà detenuto.
Il numero uno del tennis era stato sorteggiato nel tabellone del torneo che prende il via lunedì. Hawke ha dichiarato: “Ho esercitato il mio potere ai sensi della sezione 133C (3) della legge sulla migrazione per annullare il visto del signor Novak Djokovic per motivi di salute e buon ordine, sulla base del fatto che ciò era nell'interesse pubblico. Questa decisione ha fatto seguito alle ordinanze del Circuito federale e del Tribunale della Famiglia del 10 gennaio 2022, che riformavano una precedente decisione di annullamento per motivi di equità procedurale. Nel prendere questa decisione, ho considerato attentamente le informazioni fornitemi dal Dipartimento degli affari interni, dall'Australian Border Force e dal signor Djokovic. Il governo Morrison è fermamente impegnato a proteggere i confini dell'Australia, in particolare in relazione alla pandemia di COVID-19".
Ma non è la parola fine a questa storia. I legali del numero uno del tennis mondiale hanno già presentato il ricorso, con l'obiettivo che venga valutato entro domenica, in modo da consentire a Djokovic di restare in tabellone e partecipare agli Australian Open di cui è campione uscente e ha vinto nove volte nella sua carriera. Nole avrebbe dovuto esordire contro il connazionale Kecmanovic.
Di certo è che il serbo dovrà lasciare l'hotel a quattro stelle dell'organizzazione per ritornare al Park, la struttura di detenzione degli immigrati senza visto e, ovviamente, la rifinitura di allenamenti in vista dello Slam, sarà messa a dura prova. Al momento gli Australian Open non lo hanno ancora rimosso dal torneo. E, per Djokovic, si prospetta un ulteriore problema: quando l'Australia cancella un visto, la persona non può rientrarvi per i successivi tre anni.
La decisione arrivata di venerdì nella serata australiana sembra non lasciare spazio e tempo alla difesa, che invece punta a un'ingiunzione immediata per consentirgli almeno di scendere in campo nel primo turno, in attesa di un vero processo nella prossima settimana. Ma questo priverebbe ulteriormente di credibilità il torneo, con Djokovic in campo in attesa di giudizio.
"Protetti i sacrifici fatti dagli australiani durante la pandemia"
"Gli australiani hanno fatto molti sacrifici durante la pandemia e giustamente si aspettano che il risultato di quei sacrifici venga protetto". Il premier australiano Scott Morrison ha commentato così la scelta dell'esecutivo che guida di annullare il visto di Djokovic. "Prendo atto della decisione del ministro dell'Immigrazione e comprendo che, a seguito di un'attenta considerazione, ha intrapreso un'azione per annullare il visto di Djokovic detenuto per motivi di salute e buon ordine, sulla base del fatto che ciò era nell'interesse pubblico. La pandemia è stata dura per ogni australiano, ma siamo rimasti uniti e abbiamo salvato molte vite. Insieme abbiamo raggiunto uno dei tassi di mortalità più bassi. L'economia ora è forte e la percentuale di vaccinazione è tra le più alti al mondo".
IL TENNISTA DIVENTATO IDOLO DEI NO-VAX. Ci sono troppe cose che non tornano nella versione di Djokovic su Covid e Australia. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 10 gennaio 2022.
Djokovic non ha chiarito alcuni passaggi della vicenda. Il primo è quello relativo alle sue uscite pubbliche a Belgrado (il 16 e 17 dicembre) nei giorni della sua presunta positività (che sarebbe iniziata il 16).
C’è poi lo strano tempismo con cui Djokovic contrae l’infezione. Visto che la sua partecipazione all’Australian Open era prevista da tempo, come pensava di accedere alla competizione prima di infettarsi?
Djokovic è adesso il primo vero idolo no vax mondiale e di fama indiscussa. Un idolo forte, luccicante, idolatrato dalle folle, ora anche ammantato di eroismo perché si è dimostrato disposto a perdere faccia, soldi e lavoro in nome della sua “fede”.
La vicenda di Novak Djokovic apre una serie di questioni di un certa serietà, che rischiano di finire nell’oblio regalato da nuovi tronfi sportivi e dalla capacità propria dello sport di sciogliere le macchie sulle uniformi degli sportivi alla velocità di un giro in lavatrice.
Come prima cosa, Djokovic non ha chiarito alcuni passaggi della vicenda. Il primo è quello relativo alle sue uscite pubbliche a Belgrado (il 16 e 17 dicembre) nei giorni della sua presunta positività (che sarebbe iniziata il 16).
C’è poi un video che lo ritrae in strada a giocare a tennis, il 25 dicembre. Su questo neppure mezza parola e, visto che ad accertare i fatti che coinvolgono l’eroe nazionale dovrebbero essere le autorità serbe, ho come il sospetto che fischietteranno allegramente.
Il secondo passaggio riguarda lo strano tempismo con cui Djokovic contrae l’infezione. Visto che la sua partecipazione all’Australian Open era prevista da tempo, come pensava di accedere alla competizione prima di infettarsi?
Perché il Covid lo ha avuto a un mese dall’inizio, è stato un evento inatteso, imprevisto (si suppone) , non ha mai detto «Non andrò in Australia perché non mi vaccino». Quali erano i suoi piani? Sarebbe interessante conoscerli. Perché così viene da pensare che ne avesse uno e molto preciso. Andato in porto.
Terza questione. La famiglia Djokovic. Roba da far sembrare sorelle e madre della Ferragni un gruppetto normale. Se c’è una cosa che i genitori degli sportivi non dovrebbero mai fare è diventare fan esagitati, imbarazzanti dei propri figli, con scene da circo Barnum (o da no-vax in piazza, mi verrebbe da dire) come quelle a cui abbiamo assistito in questi giorni. E poi discorsi da esagitati con deviazioni mistiche («è Gesù», «verità e giustizia!», «combatteremo in strada!») o idiozie paranoiche tipo quelle del fratello («Nole è vittima di bullismo»).
Poi uno si stupisce se alle partite di calcio dei pulcini ci sono genitori che si menano a bordo campo. Immaginatevi la vita del bambino Djokovic cresciuto nel culto della sua persona. Probabilmente avranno conservato i suoi denti da latte in una teca anti-proiettile.
Djokovic è adesso il primo vero idolo no-vax mondiale e di fama indiscussa. Un idolo forte, luccicante, idolatrato dalle folle, ora anche ammantato di eroismo perché si è dimostrato disposto a perdere faccia, soldi e lavoro in nome della sua “fede”.
Se è vero che gli sportivi di fama sono gli idoli più trasversali anagraficamente, socialmente, geograficamente, Djokovic è il più grande testimonial che si potesse trovare per la causa no vax. Per una qualsiasi causa.
IDOLO NO-VAX
Giusto per chiarirci, nessuno sportivo al mondo del suo peso si è esposto per i vaccini quanto si è esposto lui per il diritto a non vaccinarsi, lottando per una questione di principio. E nessuno, tra i pro-vax in attività, lo ha fatto principalmente per paura di perdere qualcosa. Ecco, i no-vax escono vincenti nella guerra dei testimonial, adesso hanno il loro condottiero. Che farà proseliti e rinsalderà le convinzioni di decisi e indecisi, potete giurarci.
L’unica questione che potrebbe rimanere aperta e sfavorevole per il tennista è quella degli sponsor. Quanti avranno piacere ad avere ancora il loro logo sulle sue scarpe, racchette, maglie?
In quanti proporranno nuovi contratti e rinnoveranno i vecchi, sapendo che comunque, agli occhi dei pro-vax, è uno che sì, dona un milione di euro a un ospedale, ma poi forse non si fa scrupoli a girare col Covid e a non vaccinarsi, contribuendo a riempire quegli stessi ospedali?
Questa vicenda, infine, è un precedente scivoloso anche per il rigidissimo governo australiano, che da ora in avanti dovrà dimostrare di essere altrettanto rapido nello sbrigare i ricorsi dei cittadini respinti all’immigrazione.
Perché ho come la sensazione che se uno arriva in Australia da vincitore del torneo Open tartufo di Norcia, i contenziosi non si risolvano così rapidamente.
Naturalmente, mi auguro che giochi e venga battuto da un vaccinato di 19 anni. Ma non dimentichiamo che è Gesù, probabilmente ha la resurrezione facile.
SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.
TUTTA LA STORIA, DALL’INIZIO. La “spiegazione” sui social di Djokovic potrebbe costargli fino a 5 anni. IVANA MINGOLLA su Il Domani il 10 gennaio 2022.
In un post su Instagram, il campione ha spiegato di aver ricevuto l’esito positivo del tampone molecolare il 17 dicembre, dopo avere effettuato il test il giorno prima. Per l’Australia avrebbe dunque dichiarato il falso in tribunale, affermando di essere risultato positivo il 16
Novak Djokovic, il numero uno al mondo di tennis, ha cercato di spiegare, con un lungo post su Instagram, le varie incongruenze emerse intorno al periodo in cui era positivo al Covid-19 ma non rispettava l’isolamento, come ha ammesso lui stesso.
Djokovic ha scritto che il 14 dicembre era stato a una partita di basket a Belgrado, dopo la quale diverse persone erano risultate positive al virus. Poiché aveva degli eventi pubblici in programma, il 16 ha fatto un tampone rapido dal quale è risultato negativo e ha continuato con le sue attività.
Nello stesso giorno, per un «eccesso di scrupolo», ha effettuato anche un tampone molecolare, il cui esito però non è arrivato subito. Così ha spiegato il motivo per cui il 16 e il 17 dicembre ha partecipato ad alcuni eventi pubblici, invece di restare in isolamento.
Djokovic ha riferito che l’esito del molecolare che gli comunicava la sua positività è arrivato solo il 17 dicembre. A quel punto aveva già in programma da tempo un’intervista con il quotidiano francese L’Equipe. Pur essendo positivo non voleva «deludere il giornalista», ha detto, perciò si è recato ugualmente all’appuntamento nonostante fosse positivo al coronavirus, ma, dice, preoccupandosi di rispettare il distanziamento e di indossare la mascherina.
IN AUSTRALIA HA DICHIARATO IL FALSO
I giornali australiani The Age e The Sydney Morning Herald hanno fatto sapere che ora il ministero degli Affari interni australiano ha preso agli atti quanto dichiarato dal tennista sui suoi canali social, che è discrepante con quanto affermato nella dichiarazione giurata in tribunale, dove aveva indicato il 16 dicembre come data nella quale era risultato positivo al test (non il 17).
I due giornali hanno scritto che in base alla legge australiana, la pena massima per il reato di dichiarazione mendace in tribunale è di cinque anni.
LA QUESTIONE DELLA REVOCA DEL VISTO È ANCORA APERTA
Intanto, mentre il ministero degli Interni valuta la questione della discrepanza tra quanto affermato da Djokovic in tribunale e quanto asserito dopo su Instagram, procede separatamente la questione della eventuale revoca del suo visto.
Il ministro dell’Immigrazione, Alex Hawke, potrebbe infatti annullarlo in modo unilaterale per ragioni di salute pubblica, sulla base del fatto che l'infezione da Covid-19 negli ultimi sei mesi non è un'esenzione valida per non essere vaccinato.
Non solo, secondo le testate australiane, il ministro dell’Immigrazione «potrebbe anche valutare di cancellare il visto del tennista serbo per i cosiddetti character grounds, cioè elementi legati a condanne o violazioni commesse», il riferimento è alla dichiarazione falsa sulla data della sua positività.
La decisione dell’Immigrazione sarebbe dovuta arrivare il 12 gennaio, ma gli avvocati dello sportivo hanno presentato una documentazione aggiuntiva, la cui valutazione produrrà un prolungamento dei tempi di decisione.
IL GIUDICE AVEVA LIBERATO DJOKOVIC
Lunedì 10 gennaio, Djokovic, era stato liberato dal giudice di Melbourne, Anthony Kelly, al termine di un processo celebrato dopo che il tennista era rimasto in stato di fermo alla frontiera australiana per 5 giorni.
DJOKOVIC BLOCCATO IN AEROPORTO, L’INIZIO DELLA VICENDA
Il tennista serbo Novak Djokovic era arrivato a Melbourne nella tarda serata del 5 gennaio scorso, per disputare il torneo internazionale degli Australian Open di Melbourne, tra il 17 e il 30 gennaio. Già nove volte vincitore degli Open australiani, Djokovic correva per il decimo podio.
All’ingresso nel paese però, le autorità l’avevano arrestato per una esenzione vaccinale ritenuta invalida. Djokovic aveva presentato una documentazione da cui risultava essere esente dal vaccino, perché già guarito dal Covid.
A Melbourne, le autorità di frontiera australiane, l’Australian Border Force, dopo un interrogatorio, hanno disposto il fermo del tennista serbo, con annullamento del visto, perché la sua documentazione sanitaria recante una esenzione dal vaccino contro il Covid-19 appariva «non valida», per le regole anti-Covid vigenti nel paese.
L’ESENZIONE VACCINALE
Alle autorità australiane, che seguono dei protocolli molto rigidi relativamente alle misure di contenimento dei contagi, il campione serbo aveva fornito, già prima di giungere nel paese, una documentazione da cui risultava essere «esente» dalla vaccinazione, perché guarito di recente dall’infezione da Covid, riportando come data di diagnosi dell’infezione il 16 dicembre 2021.
I documenti di Djokovic che dimostrano che il 16 dicembre era positivo al Covid-19
La data riportata dalla documentazione di Djokovic, che attesta come riferimento il 16 dicembre, era però incoerente con la circostanza che ha visto il tennista partecipare, lo stesso giorno e nei giorni successivo del 17 e 18 dicembre, a degli eventi pubblici, quando invece sarebbe dovuto essere in isolamento.
Gli eventi sono stati riportati sui social, come ad esempio quello del 17 dicembre, di cui lo stesso Djokovic ha condiviso le foto su Twitter.
Nella conferenza stampa (successiva al verdetto del giudice australiano che ha dato ragione al tennista) tenuta dai genitori del giocatore, alla domanda posta dai giornalisti, su come fosse stato possibile che Djokovic si trovasse all’evento il 17 dicembre invece di essere in isolamento, i genitori hanno interrotto la conferenza stampa.
IL CAMPIONE NO-VAX
Djokovic è noto per le sue posizioni contrarie al vaccino, ma non aveva mai risposto alla stampa circa il suo stato vaccinale. Dalla trascrizione dei verbali dell’interrogatorio in aeroporto, diffusa successivamente, emerge che per la prima volta Djokovic ha risposto apertamente un «No» alla domanda in cui gli si chiedeva se fosse vaccinato.
LA SENTENZA DEL GIUDICE
Dopo giorni in stato di fermo, in aeroporto, nella sua “stanza di detenzione” al Park Hotel, è arrivato il processo, nella giornata di lunedì 10, e in serata la sentenza del giudice di Melbourne, Anthony Kelly ha dato ragione a Djokovic.
Il giudice ha definito «irragionevole» la decisione dell’Australian Border Foce di annullare il visto, ritenendo l’esenzione vaccinale presentata da Djokovic «valida». L’esenzione fornita da Djokovic ai funzionari dell'aeroporto gli era stata concessa da Tennis Australia, l’organo che gestisce il gioco del tennis nel paese, e da due commissioni mediche.
Il giudice ha inoltre stabilito la cancellazione dell’annullamento del visto, deciso dalla polizia di frontiera, e ha ordinato al «governo di pagare le spese legali, disponendo il rilascio immediato del tennista serbo entro 30 minuti dal verdetto e la restituzione del passaporto».
LA CONTROMOSSA DEL GOVERNO
Dopo la sentenza, però, mentre la vicenda sembrava conclusa, è arrivata la contromossa del governo australiano. Il portavoce del ministro dell’Immigrazione ha fatto sapere che «il processo resta in corso» perché il ministro sta valutando di ricorrere al potere, concessogli dalla legge, di annullare il visto. «Resta a discrezione del ministro dell'Immigrazione Hawke – ha detto il portavoce – prendere in considerazione l'annullamento del visto del signor Djokovic sotto il suo potere personale di cancellazione ai sensi della sezione 133C (3) della legge sulla migrazione».
IL COMMENTO DI DJOKOVIC DOPO IL VERDETTO
A poche ore dalla sentenza, il tennista ha scritto sulla sua pagina Twitter. «Sono lieto e grato che il giudice abbia annullato la mia cancellazione del visto. Nonostante tutto quello che è successo, voglio restare e provare a competere agli Australian Open. Rimango concentrato su quello. Sono volato qui per giocare uno degli eventi più importanti che abbiamo davanti ai miei fantastici tifosi».
IL POST SU INSTAGRAM
A distanza di due giorni, Djokovic è venuto fuori con nuove rivelazioni. Sulla sua pagina Instagram ha dato la risposta a quella domanda che dopo il processo i giornalisti avevano posto ai genitori, in conferenza stampa. Cioè, perché il 17 dicembre partecipava a un evento pubblico, se il 16 era risultato positivo al Covid. I genitori del campione avevano interrotto la conferenza stampa.
Due giorni dopo, senza alcun riferimento a quella conferenza stampa, il campione ha scritto su Instagram di voler affrontare le continue cattive informazioni circa la sua positività, e ha dato la sua versione dei fatti, risolvendo ogni apparente incongruenza.
Djokovic ha ammesso inoltre che la dichiarazione di viaggio, conteneva informazioni non corrette. Una casella spuntata per errore dai membri del suo staff, per cui il suo agente ha chiesto scusa. Aveva dichiarato di non aver viaggiato nei 14 giorni precedenti, mentre in realtà si era recato in Spagna dalla Serbia. «È stato un errore umano – si è giustificato – certamente non intenzionale. Viviamo in tempi difficili in una pandemia globale e questi errori a volte possono verificarsi. Oggi, il mio team ha fornito ulteriori informazioni al governo australiano per chiarire la questione».
GLI AUSTRALIAN OPEN DI MELBOURNE
Novak Djokovic, conosciuto come Nole, è un tennista serbo, primo nella classifica degli Atp, l’Association of Tennis Professionals, che riunisce i giocatori professionisti di tennis a livello internazionale.
Djokovic era arrivato in Australia nella serata dello scorso 5 gennaio 2021, per disputare i campionati di tennis Australian Open, che si svolgeranno tra il 17 e il 30 gennaio. Si tratta di una competizione che ha già vinto per nove volte.
Gli Australian Open sono il primo dei quattro tornei annuali di tennis del Grande Slam, che si aprono a Melbourne nella stagione invernale e si concludono a New York (Us Open) in quella autunnale, passando per Parigi (Roland Garros) e Londra (Wimbledon). Ora, il tennista serbo era in corsa per il decimo podio di Melbourne.
IVANA MINGOLLA. Classe 1984. Pugliese, si è laureata in relazioni internazionali alla Sapienza di Roma e ha conseguito un master di II livello in politica internazionale alla Lumsa. Ha studiato giornalismo di guerra, all'Institute for Global Studies di Roma, e giornalismo d'inchiesta, alla Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Ha lavorato per Teleambiente, oggi scrive per Domani
Da fanpage.it l'11 gennaio 2022.
Novak Djokovic è sempre in copertina, il tennista serbo ha vinto il ricorso, il giudice gli ha detto ragione e grazie a quella sentenza ha saputo di avere la possibilità di giocare gli Australian Open, e soprattutto di muoversi liberamente in Australia. Anche se in questa vicenda tutto cambia rapidamente e ora il numero 1 ATP è in attesa di sapere se arriverà, per lui, un ulteriore provvedimento da parte del Governo australiano che potrebbe espellerlo. Ma intanto è stato reso noto l'interrogatorio a cui Djokovic è stato sottoposto quando è stato fermato all'arrivo a Melbourne. Interrogatorio avvenuto in aeroporto.
The Age ha pubblicato la conversazione tra il tennista e chi lo ha interrogato e cioè dall’addetto della dogana. La prima domanda a cui risponde è quella sul motivo della sua visita in Australia: «Sono un tennista professionista e il motivo principale per cui vengo in Australia è la partecipazione agli Australian Open a Melbourne, Victoria». Djokovic ammette subito di non essere vaccinato contro il Covid: «Sei vaccinato per il Covid-19?», la risposta: «Non sono vaccinato».
Poi arriva la domanda su eventuali positività del passato, il giocatore afferma di essere risultato due volte positivo, la prima a giugno del 2020, la seconda nel dicembre scorso: "Sì. Ho avuto il Covid due volte, a giugno 2020 e di recente sono risultato positivo – PCR – 16 dicembre 2021. Ho anche i documenti per confermare che se vuoi posso fornirti». E ‘grazie' a quel secondo contagio ha ottenuto l'esenzione medica.
Poi si passa a tecnicismi, il doganiere chiede a Djokovic se ha avuto un filo diretto con il governo federale o con Tennis Australia: «I documenti li ho forniti, non li ho con me, ma posso trovarli elettronicamente, abbiamo inviato un'e-mail a un pannello medico indipendente che è stato selezionato dal governo federale australiano per esaminare le richieste di esenzione medica che abbiamo inviato. C'erano due panel, uno federale e l'altro legato allo Stato del Victoria e del Tennis Australia», e soprattutto Nole spiega quali dati ha fornito e a chi: «Dato che sto partecipando agli Australian Open che sono gestiti da Tennis Australia, la mia comunicazione è stata diretta a loro perché è stata questa la procedura, a cui sono stato presentato, che mi hanno informato che questo è il modo per farlo. E a loro ho dato tutti i miei test PCR, positivi e negativi, i miei anticorpi e alcune informazioni aggiuntive e poi le hanno inviate al panel medico indipendente del Victoria, al governo statale del Victoria, al panel medico indipendente».
I toni si alzano, però, poco dopo, quando chi gli pone le domande e ha potere decisionale comunica a Djokovic che il visto sarà annullato. Il giocatore si infuria: "Non capisco, mi state cancellando il visto?". Voglio dire, non riesco davvero a capire cos'altro vuoi che vi fornisca. Ho fornito tutti i documenti che Tennis Australia e il governo dello Stato di Victoria mi ha chiesto di fare nelle ultime tre o quattro settimane, questo è quello che stiamo facendo. Quindi mi state dando legalmente 20 minuti per cercare di fornire informazioni aggiuntive che non ho? Alle 4 del mattino? Voglio dire, mi avete messo in una posizione molto imbarazzante, alle 4 del mattino non posso chiamare il direttore di Tennis Australia, non posso sentire nessuno del governo dello Stato del Victoria, sono in una posizione scomoda. Tutto ciò che mi è stato chiesto di fare è qui".
Il rappresentante della frontiera fa capire a Djokovic che il visto non lo avrà e a quel punto il 20 volte vincitore Slam si infuria per davvero: «Non sarei qui seduto di fronte a te se non rispettassi tutte le regole e i regolamenti stabiliti dal tuo governo. Voglio dire, per me è un po' scioccante che tu mi dia l'avviso di annullare il mio visto in base a cosa? Mi dai 20 minuti per fare cosa? Ti dico subito che non ho nient'altro da dirti. Se puoi, aspettiamo le otto del mattino e poi posso chiamare Tennis Australia e poi possiamo provare a capirlo. Ma in questo momento? Voglio dire, sono appena arrivato all'una di notte, non so cos'altro posso fare in questo momento. Semplicemente non ha alcun senso. Voglio dire, ho fatto tutto il possibile. In questo momento posso chiamare il mio agente. Mi hai detto di non usare il telefono, quindi non sto comunicando con nessuno, nessuno sa cosa sta succedendo».
A Djokovic poi è stato comunicato che non avrebbe potuto fare ciò che voleva e che sarebbe finito all'Hotel Park, dove risiedono migranti e richiedenti asilo, e del quale si è lamentato tantissimo e da dove si è fatto sentire. In attesa di essere trasferito ha scritto un ‘affidavit', un esposto in cui ha delineato il suo viaggio in Australia, volo partito dalla Spagna con passaggio per Dubai, e ha spiegato tutto, ha parlato dei documenti richiesti che aveva con sé e ha raccontato del dialogo con il doganiere: «Tutto è durato solo pochi minuti, l’ufficiale mi ha accompagnato in una piccola stanza con un tavolo, due sedie e una videocamera, mi è stato detto che la conversazione sarebbe stata registrata. Mi è stato chiesto anche di spegnere il mio telefonino e di metterlo nella borsa. Poi mi è stato concesso di andare nel corridoio a riposare su un divano. Molte ore dopo mi è stato consegnato un documento in cui mi è stata annunciata l'intenzione di annullare il mio visto. Non ho firmato perché ero confuso, contrariato e confuso. Erano le 4 del mattino e avevo bisogno di aiuto, ho chiesto di parlare con i miei avvocati, ma mi è stato detto che non era possibile».
Da ilnapolista.it l'11 gennaio 2022.
Mentre ancora sul capo di Novak Djokovic pende la spada di Damocle di una potenziale espulsione dall’Australia, gli editorialisti di tutto il mondo commentano il comportamento assurdo del campione del tennis. La Süddeutsche Zeitung riepiloga il “caso” e alla fine scrive: “Sono immagini inquietanti quelle che rimarranno di Djokovic. Anche perché si inseriscono perfettamente nel suo album personale di Corona-party, in cui le istantanee del suo tour di Adria sono incollate in prima pagina”. “Djokovic potrebbe un giorno aver collezionato i trofei di tennis più importanti della storia, ma sarà ricordato come un egoista.
Come un anticonformista che per negligenza mette a repentaglio la vita e la salute degli altri. Per quanto mostruoso possa sembrare, data la mancanza di scrupoli, sarebbe meglio che Djokovic avesse falsificato i risultati positivi del test PCR. E’ fuori questione? Mettiamola così: il documento porta il timbro dell’Istituto di Sanità Pubblica della Serbia, “Dr. Milan Jovanovic Batut” di Belgrado. Qual era il piano di Djokovic? Non poteva sapere che sarebbe stato infettato dal Covid, giusto in tempo…”.
Da ilnapolista.it l'11 gennaio 2022.
E Renata Voracova? Perché Djokovic sì e Renata Voracova no? Nelle stesse condizioni del tennista serbo, la tennista ceca è stata costretta a lasciare l’Australia e a tornarsene a casa. Il caso Djokovic è esemplare, scrive El Pais, della totale irrilevanza del diritto. Si tratta solo di Djokovic, non di leggi o giustizia. Per Santiago Segurola “la differenza sostanziale tra la situazione di Djokovic e quella di Voracova sta nella posizione divergente che occupano sulla scala del tennis. Djokovic è il più grande vincitore di tornei nella storia del tennis, con 20 titoli del Grande Slam”.
“A questo punto della sua carriera, Djokovic è al di sopra del tennis. Ha raggiunto il grado che trasforma una star dello sport in una gigantesca emittente politica e commerciale. Non è l’unico, ma è uno dei pochi in grado di generare correnti di opinione, monitoraggio e conflitto su scala planetaria”.
El Pais sottolinea anche che la guerra diplomatica tra Australia e Serbia non s’è scatenata, per gli stessi motivi, tra Australia e Repubblica Ceca. Renata Voracova, 80esima nel circuito mondiale femminile, non se l’è filata nessuno. E chiude il pezzo ricordando il pericolo “messianico” di personaggi come Djokovic, uno che crede davvero di poter purificare l’acqua inquinata con la preghiera.
Da ilmessaggero.it l'11 gennaio 2022.
Novak Djokovic lo ammette: due giorni dopo essere risultato positivo al coronavirus ha infranto le regole di isolamento per incontrare un giornalista per una intervista. Su Instagram, Djokovic ha ammesso che sì, avrebbe dovuto rimandare. «Mi sono sentito in dovere di condurre l'intervista a L'Equipe perché non volevo deludere il giornalista», ha scritto Djokovic nel post di Instagram.
Djokovic, intervista da positivo
Il numero del Tennis mondiale ha garantito che in quell'occasione ha «preso le distanze sociali e ho indossato una mascherina, tranne quando è stata scattata una fotografia». Nel post, il campione serbo ha anche accusato il suo agente di aver commesso un errore nel modulo di viaggio per l'Australia, dove è andato per giocare gli Open 2022. È invece «disinformazione», ha aggiunto, quella che sostiene che sia andato in giro dopo il test positivo del 16 dicembre.
«Errore umano»
Novak Djokovic ha ammesso in un post su Instagram che la dichiarazione di viaggio rilasciata alle autorità di frontiera al suo arrivo in Australia conteneva informazioni non corrette, avendo affermato nel questionario Covid che non aveva viaggiato nei 14 giorni precedenti, mentre in realtà si era recato in Spagna dalla Serbia. Il tennista, che dopo una prima vittoria in tribunale attende ancora la decisione definitiva del governo di Canberra sul visto per restare nel Paese e partecipare agli Australian Open, ha parlato di un «errore umano e certamente non volontario» di un membro del suo staff, precisando che «nuove informazioni» sono state fornite alle autorità australiane per «chiarire questa questione».
Marco Calabresi per il “Corriere della Sera” l'11 gennaio 2022.
Il palleggio prolungato ripreso da un drone alzato da una tv australiana sul Melbourne Park per riprendere clandestinamente l'allenamento di Novak Djokovic è metaforico. Sono state ore di lunghi scambi: di accuse, di carte bollate, di rimbalzi di responsabilità, con Djokovic che per primo ha strappato il servizio. Il match point, però, ha continuato ad avercelo in mano il governo, nella persona del ministro dell'Immigrazione Alex Hawke, che non è comunque tra le teste di serie dell'Australian Open.
Novak, invece, c'è: è la numero uno, Tennis Australia non vede l'ora di averlo in campo, figuriamoci se poteva pubblicare un elenco sub judice. Sarà stranissimo, da lunedì, parlare solo di tennis: Berrettini, Sinner e gli altri azzurri, ahinoi, sono diventati dei puntini lontani rispetto alla spy story di quest' ultima settimana. Ogni giorno ne esce una, e tutte sembrano essere contro Nole, del quale gira un audio sul web dei giorni scorsi - probabilmente destinato a un parente, forse al fratello - con la voce provata dalla stanchezza.
«Per ora sono un uomo libero, vediamo cosa ci riserva il domani». Ma alla fine, però, si torna sempre alla notte all'aeroporto Tullamarine, dove Djokovic è arrivato sicuro di andare al nastro bagagli e poi in hotel, mentre invece è stato tenuto fino all'alba sotto interrogatorio dalla polizia di frontiera. Nel travel form che si compila per entrare in Australia, Nole ha dichiarato di non essersi mosso dalla Serbia nei 14 giorni precedenti il viaggio, ma il web e i social non perdonano, soprattutto con una celebrità planetaria, presa d'assalto da tifosi in cerca di selfie e da cacciatori di foto.
Nelle due settimane prima di imbarcarsi a Melbourne, Djokovic ha viaggiato eccome, stabilendosi per qualche giorno a Marbella, ad allenarsi con temperature più favorevoli. «Fornire informazioni false e fuorvianti è un reato grave. Potresti (riferito al soggetto che lo compila, ndr ) essere anche passibile di una sanzione civile». Tradotto: vaccinato o meno, chi dichiara il falso va a casa. Non è tutto: un'indagine del quotidiano tedesco Der Spiegel avrebbe addirittura messo in dubbio l'autenticità del tampone positivo del 16 dicembre (quello dopo il quale Djokovic è comunque apparso in eventi pubblici senza neanche la mascherina), che in realtà sarebbe del 26.
A migliaia di chilometri da Melbourne, intanto, è tornata a casa Renata Voracova, la 38enne doppista della Repubblica ceca che ha vissuto una situazione simile a quella di Djokovic. Entrata in Australia da non vaccinata, non le è bastato dimostrare di aver avuto il Covid. «In realtà ero in una situazione diversa da quella di Novak - ha raccontato -. Poi lui è il numero uno e non ha problemi economici.
Quando mi è stato detto che il mio visto era stato cancellato e quanto sarebbe stato difficile riaverlo indietro, non aveva senso per me rimanere in Australia. Di sicuro, però, chiederò un risarcimento a Tennis Australia. Spero non ci sia bisogno di finire in tribunale, ma solo il viaggio mi è costato 2.500 euro». Quelli che Djokovic guadagna con un dritto.
Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" l'11 gennaio 2022.
Gli urletti di Sharapova, l'impulso di frugare nel retro dei calzoncini di Nadal, l'andatura ciondolante di Murray, all'epoca uno dei Big Three del tennis. Avremmo dovuto capire dall'inizio, dal km zero dei tornanti lungo i quali Novak Djokovic ha saputo risalire un destino già scritto agganciando i due sodali in fuga, Federer e Nadal, alla stratosferica quota di 20 titoli Slam, che il Djoker aveva un'irresistibile propensione per i guai e i giudizi spietati.
Le imitazioni hanno funzionato il tempo di farsi notare, strappare qualche sorriso in tribuna, stop. Poi un gigante del tennis non ancora ufficialmente in pensione ha preso da parte Djokovic in spogliatoio: un bel gioco dura poco, ragazzo. E a quel punto, intelligentemente, per fare strada l'ex bambino serbo cresciuto allenandosi sul fondo di una piscina vuota di Belgrado sotto i bombardamenti della Nato si è aggrappato al suo talento migliore: la resilienza controcorrente.
Risorgere quando tutti sperano di vederti tramontare, vedi la finale di Wimbledon 2019: Freud ci è andato a nozze. Ma anche lì, al centro della sua nicchia ecologica, non sono mancati incidenti di percorso. Al netto della quota di tifosi di Federer e Nadal che ancora oggi non gli perdonano di essersi intromesso, terzo geniale incomodo, nella rivalità sportiva del millennio, a lungo Djokovic ha avuto nel circuito la fama di quello che enfatizzava gli infortuni, chiamando il medical time out per spezzare l'inerzia all'avversario.
All'Open Usa 2008 (anno del primo Major), Djokovic ne invoca due nei cinque ruggenti set con cui batte lo spagnolo Robredo. Il suo avversario nei quarti, Andy Roddick, reagisce con ironia («Ci mancava solo che dicesse che ha l'aviaria e la Sars!»), poi i sospetti si susseguono. Carreno Busta al Roland Garros 2020 («Ogni volta che il match si complica, vuole il dottore»), Fritz in Australia l'anno scorso, quando Djokovic accusa un infortunio agli addominali, minaccia il ritiro e poi conquista il torneo (nono Australian Open). Se le teorie no vax di Djokovic sono note, spesso a esporlo alle critiche sono stati i modi e i luoghi in cui le ha espresse.
Ha dell'incredibile che il n.1 non si sia reso conto che parlare del potere di trasformazione delle molecole dell'acqua con la forza del pensiero in diretta social e in piena pandemia con Chervin Jafarieh, sedicente guru del benessere, fosse inopportuno. E che annunciare il suo viaggio in Australia su Instagram, sette giorni fa, con un garrulo messaggio («Buon anno a tutti!
Sono diretto down under con un'esenzione») senza fornire spiegazioni sulla natura e il motivo dell'exemption avrebbe potuto irritare - come poi è successo - l'opinione pubblica di un continente blindato dentro i propri confini dalle politiche anti Covid di un governo in campagna elettorale, che ha usato il narcisismo di un fuoriclasse come voto di scambio. Un vero leader spiega, chiarisce, si rende trasparente anziché approfittare di scorciatoie impopolari (un torneo riservato ai soli vaccinati avrebbe tagliato fuori Djokovic e uno Slam senza il migliore è meno appetibile per tutti).
L'ultima enorme controversia che ha coinvolto e travolto Novak Djokovic prima di questo orribile pasticcio con la dogana di Melbourne era stato il cartellino rosso all'Open Usa 2020 per la pallata alla giudice di linea. Squalifica immediata, episodio sfortunato, certo, ancora una volta (un caso?) con al centro lui, il peggior nemico di se stesso.
C'è sempre un «se» nella vita di ogni uomo. Se il Djoker considerasse tutte le controversie in cui si è infilato come un'occasione di crescita, anziché come ingiustizie che rafforzano la sua convinzione di essere in missione per conto di Io, non sarebbe Djokovic, l'uomo dei 20 Slam con la freccia lampeggiante per il sorpasso. Generoso e arrogante, talentuoso ed egocentrico, adorabile e odioso, indistruttibile e friabile, tutto o niente. Si crede Dio in terra e invece è molto (forse troppo, per lui, da accettare) umano.
Claudio Del Frate per corriere.it il 10 gennaio 2022.
Novak Djokovic ha ammesso di non essere vaccinato e di aver contratto il Covid non una ma due volte. Lo ha dovuto fare con l’addetto della dogana dell’aeroporto di Melbourne che lo ha successivamente trattenuto. Djokovic ha anche esibito un certificato (in serbo) che attesta la sua malattia. La decisione di vietare l’ingresso nel Paese al numero uno del tennis mondiale è stata poi annullata dal tribunale australiano.
Ecco la trascrizione del dialogo avvenuta tra il campione e il doganiere all’aeroporto (riportata sul sito della polizia di frontiera).
Intervistatore: «Grazie. Posso chiederle quali sono le ragioni del suo arrivo in Australia oggi?»
Djokovic: «Sono un giocatore professionista di tennis e la principale ragione del mio arrivo è la partecipazione all’Australian Open a Melbourne, Victoria»
I: «Grazie. Ora una domanda riguardante la sua vaccinazione. Lei è vaccinato...?»
D: «Non sono vaccinato...»
I: «...per il Covid 19? Non vaccinato?»
D: Non sono vaccinato»
I: «Grazie. Ha mai avuto il Covid?»
D: «Sì»
I: «Quando?»
D: «L’ho avuto due volte, ho avuto il Covid nel giugno del 2020 e ho avuto il Covid recentemente - sono stato testato positivo - il 16 dicembre 2021»
I: «Grazie. Qual è la data? 16 dicembre?»
D: «16 dicembre 2021. Ho i documenti che possono confermarlo, se vuole posso fornire - appena un...»
I: «Grazie. Faccio una fotocopia di questi documenti...»
D: «Sì, questo è il test molecolare - questo è- sì, poi questo è il test positivo molecolare del 16 dicembre»
Dopo questa conversazione Djokovic è rimasto a lungo trattenuto in un ufficio piantonato da due agenti e poi trasferito al Park Hotel, fino all’udienza con il tribunale, avvenuta da remoto. L’ingresso del tennista in Australia è stato poi concesso sulla base del fatto che Djokovic non avrebbe avuto modo di spiegare la situazione.
Djokovic ha poi scritto di suo pugno un «affidavit», un esposto a sua volta pubblicato sul sito della polizia . Il campione serbo ripercorre le tappe del suo arrivo in Australia . «Martedì 4 gennaio sono partito dalla Spagna per arrivare a Melbourne, via Dubai...», specificando i documenti che aveva con sé.
A proposito del suo arrivo, ecco le parole messe nero su bianco dal tennista: «Il mio dialogo con l’addetto al controllo passaporti è durato solo pochi minuti. Ho capito che l’ufficiale non era soddisfatto dei miei documenti ...l’ufficiale mi ha accompagnato in una piccola stanza con un tavolo, due sedie e una videocamera. ...mi è stato detto che la conversazione sarebbe stata registrata...il dialogo si è interrotto 6 o 8 volte perché l’ufficiale mi diceva di dover parlare con un suo superiore. Mi è stato chiesto anche di spegnere il mio telefonino e di metterlo nella borsa...Poi mi è stato concesso di andare nel corridoio a riposare su un divano».
«Diverse ore dopo - prosegue il racconto di Djokovic - mi è stato consegnato un documento con il quale mi veniva annunciata l’intenzione di annullare il mio visto....Non ho firmato quella comunicazione perché ero confuso...non capivo cosa stesse accadendo, non capivo perché stessero annullando il mio visto. Ero contrariato e confuso. Erano le 4 del mattino e avevo bisogno di aiuto. Ho chiesto di parlare con i miei avvocati, mi è stato risposto che non era possibile...»
Djokovic resta in Australia: la sentenza al termine dell’udienza di Melbourne. di Redazione online su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2022.
La Corte federale ha annullato la revoca del visto del tennista serbo, che quindi può entrare nel Paese. La difesa: consegnati tutti i documenti medici. Sospesa l’espulsione, ma il governo può ribaltare la decisione.
Novak Djokovic ha vinto la prima partita dell’anno, la battaglia legale contro il governo australiano: può restare a Melbourne e iniziare la preparazione per il primo torneo dello Slam dell’anno, gli Australian Open (al via lunedì 17 gennaio), che proverà a vincere per la decima volta. Il giudice Anthony Kelly ha ritenuto irragionevole la decisione di annullare il visto del serbo, disponendone il rilascio entro trenta minuti dalla sentenza. Djokovic ha riavuto passaporto ed effetti personali, e ha lasciato il Park Hotel, la fatiscente struttura dove era stato parcheggiato dopo essere arrivato lo scorso mercoledì all’aeroporto Tullamarine di Melbourne. Non è finita qui: il governo federale potrebbe impugnare la decisione del tribunale e annullare nuovamente il visto del tennista, che non è vaccinato contro il Covid (lo ha ammesso nell’interrogatorio con l’ufficiale di frontiera australiano).
Il ministro per l’Immigrazione Alex Hawke starebbe infatti considerando la possibilità di esercitare un potere personale di cancellazione del visto di ingresso restituito al numero 1 del tennis mondiale. Potrebbe insomma, in base alla legge australiana sull’immigrazione, espellere comunque Djokovic. Il giudice Kelly si è detto «molto preoccupato se il ministro usa la sua discrezione personale per annullare nuovamente il visto» ed espellere dall’Australia il tennista serbo.
Lo stesso giudice ha spiegato, nella sentenza attesa per le 20 australiane ma arrivata alle 17.16 (le 7.16 italiane), che «se Djokovic avesse avuto più tempo per consultare i suoi legali, avrebbe risposto in maniera più chiara al Border Force». Si riferisce alle convulse ore dell’arrivo di Novak a Melbourne. Bloccato prima in aereo, poi chiuso in una stanza dell’aeroporto Tullamarine, con due guardie a sorvegliare la porta, interrogato di notte dagli ufficiali di frontiera per oltre sette ore. Un colloquio nel quale, rispondendo a precisa domanda, Nole dice che «non è vaccinato» contro il Covid, e che è stato contagiato due volte, l’ultima lo scorso 16 dicembre. Per questo ha ricevuto da Tennis Australia e dallo Stato di Victoria una esenzione medica dal vaccino, obbligatorio per chiunque voglia entrare in Australia.
Questa la motivazione sottolineata dai legali del tennista in apertura dell’udienza alla Corte federale di Melbourne. Così è cominciato l’ultimo, e definitivo, atto della battaglia legale con le autorità australiane: Djokovic vuole rimanere nel Paese e inseguire il 21° Grande Slam. Il governo di Canberra, invece, ribadisce il diritto di respingere il campione: l’ingresso nel Paese è consentito solo a chi è vaccinato contro il Covid-19 o a chi esibisce valide ragioni mediche per non farlo. Per l’udienza era stata predisposta una diretta streaming, più volte sospesa (come, all’inizio, anche l’udienza) per i numerosi problemi tecnici.
La Corte federale di Melbourne si è pronunciata sul ricorso del campione contro la cancellazione del visto. Un visto che — attacca l’avvocato Nicholas Woods, alla guida della squadra di legali del tennista — «le autorità australiane hanno cancellato senza alcuna fondata evidenza». E anche il giudice, Anthony Kelly, ha chiesto «cosa Djokovic avrebbe potuto fare di più per ottenere il visto», considerando che le autorità australiane concedono un’esenzione temporanea dal vaccino a chi è stato infettato dal coronavirus negli ultimi 6 mesi. Il giudice ha preso atto che Djokovic ha presentato alle autorità, in aeroporto, la documentazione medica, con l’esenzione data da Tennis Australia, l’organizzatore del torneo che parte il 17 gennaio, e da due pareri medici. Kelly ha ordinato che il top player durante l’udienza sia rilasciato dall’hotel adibito a centro per l’immigrazione, dove Djokovic ha trascorso le sue ultime quattro notti, dopo la revoca del visto al suo arrivo.
L’avvocato dell’atleta 34enne ha difeso la condotta del suo assistito, affermando che Djokovic ha rispettato tutti i requisiti di legge: «Il signor Djokovic ha dichiarato di disporre di una esenzione medica», ha spiegato l’avvocato, ricordando che le linee guida del Gruppo australiano di consulenza tecnica sull’immunizzazione (Atagi) prevedono la possibilità di «rinviare la vaccinazione contro la Covid-19 di sei mesi per le persone che abbiano ricevuto una diagnosi di positività al Sars-Cov-2 tramite test Pcr». Tanto che il suo assistito non ha neanche capito di non essere in regola: «L’impressione schiacciante che si ricava dalla lettura della trascrizione» della dichiarazione resa da Djokovic alla polizia di frontiera è che lui fosse «assolutamente confuso» — ha detto Woods —, poiché riteneva di avere tutta la documentazione in regola e non capiva quale errore avesse commesso. I legali di Djokovic già sabato avevano preparato 35 pagine di memoria difensiva, nella quale veniva attestata la positività di Djokovic il 16 dicembre. Data diventata poi oggetto di controlli e polemiche, perché quel giorno Djokovic ha partecipato a eventi pubblici e senza mascherina.
Il caso all'Australian Open. “Djokovic ha avuto il covid a dicembre, l’esenzione è legale”, il ricorso degli avvocati. Antonio Lamorte su Il Riformista l'8 Gennaio 2022.
Gli avvocati di Novak Djokovic hanno dichiarato che il loro assistito, il numero uno del tennis mondiale, avrebbe diritto all’esenzione dall’obbligo vaccinale per entrare in Australia in quanto lo scorso dicembre è risultato positivo al covid-19. “La data della registrazione del primo test covid positivo – si legge nella documentazione – è il 16 dicembre 2021”. Il caso dell’Australian Open è diventato mondiale, virale: un pasticcio che ha riguardato governo del tennis e governo federale e che dovrebbe risolversi nel giro di un paio di giorni.
La vicenda è esplosa dopo che il tennista serbo aveva pubblicato una foto sui suoi canali social facendo sapere di essere in partenza per l’Australia dove avrebbe preso parte all’Australian Open. Competizione di cui è detentore, primo Grande Slam della stagione 2022, che ha vinto nove volte. E dove gli atleti, per partecipare, avrebbero dovuto dimostrare di aver ricevuto il vaccino anti-covid o di essere in possesso di un’esenzione. Djokovic, che non ha mai nascosto le sue riserve sui farmaci anti-coronavirus e sulla gestione della pandemia, senza mai rivelare se aveva ricevuto o meno il preparato, aveva anticipato di aver ottenuto l’esenzione medica per partecipare.
Il tennista era stato bloccato all’arrivo all’aeroporto di Melbourne e sull’annullamento del suo visto si deciderà lunedì 10 gennaio. Al momento si trova al Park Hotel di Carlton utilizzato dalle autorità per alloggiare gli immigrati, e da dove non può uscire in base alle norme australiane sull’immigrazione. Il ministro dell’Interno Karen Andrews ha chiarito comunque all’emittente Abc: “Il signor Djokovic non è detenuto in Australia, è libero di andarsene quando vuole e la polizia di frontiera lo aiuterebbe a farlo”.
Quella del governo era stata anche una risposta alle parole della madre del campione, Diana. “Lo tengono come un prigioniero, non è giusto, non è umano. Spero che rimanga forte, anche noi stiamo provando a dargli un po’ di energia per andare avanti. Spero che vinca la sua battaglia, il suo alloggio è terribile. È solo un piccolo hotel per gli immigrati, ammesso che sia un hotel. Con gli insetti, è tutto sporco, il cibo è terribile”. Il padre del tennista Srdjan aveva invece descritto il figlio come il “simbolo e il leader del mondo libero, un mondo di nazioni e persone povere e oppresse. Potranno incarcerarlo stasera, incatenarlo domani, ma la verità è come l’acqua, perché trova sempre la sua strada. Novak è lo Spartacus del nuovo mondo che non tollera l’ingiustizia, il colonialismo e l’ipocrisia”.
Due gli elementi che però mettono in discussione il ricorso degli avvocati: la lettera inviata il 7 dicembre da Tennis Australia avrebbe dato come termine ultimo ai tennisti per l’esenzione medica il 10 dicembre e le foto scattate a Djokovic in occasione del ritiro e del conferimento di alcuni premi al Novak Tennis Center. Altra novità del giorno: alle manifestazioni No Vax di oggi in Italia sono spuntate, a Bologna, delle racchette e delle bandiere della Serbia.
Il torneo australiano inizierà il 17 gennaio. Djokovic rischia, secondo la legge australiana, molto rigorosa in termini di politiche di immigrazione, tre anni di “squalifica” (pena comminata a tutti coloro trovati in possesso di visto irregolare), ovvero di non poter fare più ingresso sul territorio australiano. Gli è stata negata la richiesta di spostarsi in un altro luogo dove potersi allenare. A valutare il ricorso contro la sua espulsione il giudice Anthony Kelly. Sostenitori e tifosi da giorni protestano per l’isolamento del loro beniamino nei pressi dell’albergo di Melbourne.
La moglie di Novak Djokovic in un tweet nel giorno del Natale ortodosso aveva voluto ringraziare chi si sta mobilitando per il marito: “Grazie a tutti voi che state facendo sentire l’amore per mio marito. Sto cercando di respirare profondamente per mantenere la calma e cercare di comprendere quello che sta accadendo. Credo che l’unica legge che tutti debbano rispettare, attraverso qualunque confine, sia quella dell’amore e del rispetto per gli esseri umani. Amore e perdono non sono mai un errore ma una grande forza”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Novak Djokovic. Stefano Semeraro per “la Stampa” il 14 Novembre 2022.
Novak Djokovic non è solo uno straordinario campione sportivo, capace di vincere sette volte Wimbledon, 21 tornei del Grande Slam e rimanere più a lungo di tutti numero 1 del mondo, per ben 373 settimane. È un uomo che ha il coraggio di difendere le proprie idee, a costo di schierarsi contro tutto e tutti, senza paura di pagarne le conseguenze. A 35 anni è ancora il favorito delle Atp Finals di Torino, e ha ancora tanti progetti da realizzare, tante battaglie da combattere, fuori e dentro lo sport.
Dopo tanti successi, quali sono i sogni di Novak Djokovic? Come uomo, prima che come sportivo.
«Ho molti sogni e molto grandi. Il più grande di tutti è essere il miglior papà possibile per i miei due figli, Stefan e Tara. Per capire cosa significa essere genitore devi leggere, confrontarti, studiare, imparare. È come un lavoro, perché nessuno nasce genitore.
Noi ci concentriamo spesso sulle cose da insegnare ai nostri figli, su come formare il loro carattere. Io credo però che la cosa fondamentale sia lavorare su se stessi, imparare a rimanere calmi quando ti criticano e ti attaccano, sfruttare l'esperienza, avere la consapevolezza che le esigenze più importanti sono quelle dei figli, non le tue. Sono cose a cui penso ogni giorno».
Non un compito facile, per chi per mestiere viaggia in continuazione.
«Purtroppo passo ancora tanto tempo lontano da loro e questo mi fa sempre più male, specie se devo lasciarli per più di 7-10 giorni. Se parti per America e Australia devi stare fuori anche un mese, e quando sono piccoli in un mese succedono tante cose».
Neanche la vita di coppia è facile per uno sportivo.
«Io e mia moglie Jelena stiamo insieme da quando ho 18 anni. Lei, come la mia famiglia, ha fatto tanti sacrifici per consentirmi di inseguire il sogno di diventare il miglior tennista del mondo, ora poi sta facendo un lavoro incredibile con i nostri figli. E tutto questo aiuta me. Voglio migliorare anche nei suoi confronti, darle l'attenzione che merita».
Poi c'è il Djokovic imprenditore. Come se la cava?
«Ho tanti progetti: il mio centro tennis in Serbia, la fondazione con cui aiuto l'educazione dei giovani, una bibita sportiva che sto sviluppando da due anni e che uscirà presto sul mercato. Non so se sono bravo o no, il mio obiettivo è mantenere sempre la mente aperta, informarmi, imparare. Essere la miglior versione possibile di me stesso in tutto ciò che faccio»
Le sue idee e i suoi atteggiamenti spesso le hanno attirato critiche molto dure.
«Sì, lo so che la gente a volte pensa che io sia finto, che faccio certe cose perché voglio essere amato. Non è così, io cerco solo di essere genuino. È una cosa che stiamo perdendo. Non è possibile piacere a tutti ma ormai il politicamente corretto ci costringe a rinunciare a esprimere con rispetto, senza odio, ma con libertà, le proprie idee.
La libertà di parola per me oggi è solo un'illusione».
Che cosa glielo fa pensare?
«Ne ho avuto un esempio straordinario quest' anno, con quello che mi è capitato attorno alla questione del vaccino. Io mi sono espresso per la libertà di poter disporre del proprio corpo, e subito sono stato tacciato di essere un no-vax, cosa che non sono. Se non fai parte di un certo modo di pensare, diventi subito il cattivo. Non va bene».
Come diceva Voltaire, non condivido le tue idee ma mi batterò fino alla morte per permetterti di esprimerle.
«Ecco, questa è la vera democrazia».
Lei ha fatto tanto per la Serbia: la politica la tenta?
«Si può essere utili al tuo Paese in ambiti diversi dalla politica. Io rispetto gli atleti che si impegnano in politica, anche a livello sportivo, ma finisci sempre per essere condizionato. La politica un tempo era il modo per alcune persone di successo di restituire qualcosa al proprio Paese, alla propria comunità, oggi non è più così. Oggi c'è tanta falsità, tante bugie, i politici non sono trasparenti, usano la stampa e i media per manipolare le opinioni a proprio vantaggio. E badi che non faccio distinzioni fra destra e sinistra, non mi interessano».
Che cosa le interessa, allora?
«Tutto ciò che ha che fare con la salute, ad esempio. Ma mi interessa anche parlare di ciò che non va nel mondo del tennis. Uno sport che come popolarità e diffusione viene dopo solo al calcio e al basket della Nba, che è seguito e praticato ovunque, anche in Cina ci sono tantissimi campi, ma che dà di che vivere ad appena 500 persone: le sembra possibile? Anche qui c'entra la manipolazione dei media: si parla solo dei 2 o 3 milioni che guadagna chi vince uno Slam, e non delle migliaia di giocatori in tutto il mondo che non hanno la possibilità di farne un lavoro».
Per questo ha fondato una sua associazione, la Professional Tennis Player Association.
«Ho provato a cambiare le cose dall'interno, per 7-8 anni sono stato nel board dell'Atp, ma è impossibile. Capisco le esigenze dei tornei, e forse ad alto livello si sta lavorando bene. Ma fino a quando non ci sarà chi difende al 100 per cento gli interessi dei giocatori non riusciremo a lavorare davvero per la base».
Lei ha un talento comico spiccato, come Fiorello qualche anno fa ci ha fatto scoprire, le sue imitazioni restano memorabili. Le sarebbe piaciuto fare l'attore?
«Forse sì. Amo il teatro, soprattutto la commedia, ci vado spesso con la mia famiglia e ho tanti amici attori. Ho anche recitato in due o tre occasioni con Dragan Jovanovic, il più famoso attore brillante serbo.
In un suo spettacolo molto popolare c'è un personaggio che entra in scena con due ragazze sottobraccio ed è l'unico che riesce a intimorire gli altri. Dragan mi ha detto: "È il ruolo perfetto per te!". Sono due battute, dura un minuto, ma è stato molto divertente. E prima di entrare in scena sentivo battermi il cuore a mille, proprio come prima di un grande match».
Il campo come un palcoscenico?
«Sì, in fondo anche il tennis è così: sei uno sportivo ma devi anche fare spettacolo. Io vorrei sempre che il pubblico andasse a casa contento di essersi divertito».
A Torino in questi giorni ha avuto modo di incontrare i tanti calciatori serbi di Juventus e Torino?
«Ho incontrato Radonjic in albergo, gli ho augurato di vincere il Mondiale, il primo per la Serbia: visto che l'Italia non c'è... Spero di incontrare anche Vlahovic, anche lui in partenza per il Qatar. Seguo tutti gli atleti serbi, essendo uno sportivo anch' io capisco i loro problemi»
In futuro allora si vede più come ministro dello Sport o della Salute?
«Non lo so. Per ora mi vedo come un professionista dello sport».
Lei è milanista: vede il bis dello scudetto?
«Difficile. Siamo a otto punti dal Napoli, che sta giocando benissimo. Però quest' anno vinceremo la Champions».
Lei è un esperto di alimentazione, un argomento su cui ha scritto anche un libro: a Torino come si mangia?
«Edoardo Artaldi, il mio manager, conosce tutti i ristoranti, rigorosamente italiani, e qui mi ha portato a mangiare il tartufo bianco, che mi fa impazzire. Io sono quasi 100 per cento vegano, e ci sono dei buoni ristoranti vegani in città, ad esempio l'Orto. Sì, si mangia bene a Torino, una bellissima città.
Ma posso dire una cosa?».
Prego.
«Ieri sono arrivati i miei figli e ho notato che in centro per i bambini ci sono pochi spazi per giocare».
Stefan e Tara sono sportivi e amano il tennis?
«Tara fa ginnastica e danza, anche un po' di tennis, ma non le piace più di tanto. Mio figlio Stefan invece è molto concentrato su questo sport. Chissà perché».
Da poco anche Rafa Nadal è diventato padre: Rafa junior e Stefan si sfideranno in futuro?
«Be', ci sono otto anni di differenza, ma il figlio di Rafa è come suo papà, magari vincerà il Roland Garros a quindici anni. Vedremo».
A Londra quest' anno ci siamo tutti commossi, lei compreso, per l'addio di Federer. Lei ci promette che continuerà a giocare ancora a lungo?
«Non posso promettere, perché se io se prometto una cosa, poi per forza devo mantenerla, e in questo caso non posso promettere niente perché non è prevedibile come il mio corpo e la mia mente reagiranno in futuro. Però posso promettere che continuerò a giocare finché ce la farò, e ne avrò voglia».
Ci sono i giovani che premono
«Ecco, questa è sicuramente una motivazione. Sono molto felice per Alcaraz e Rune, per i risultati che stanno ottenendo da ventenni, ed è sicuramente positivo per il tennis che ci siano nuovi volti alla ribalta. Ma dentro di me c'è sempre un guerriero che ha voglia di lottare. Non voglio lasciare che i giovani vincano i tornei. Li rispetto molto, ma sono fatto così: quando sono in campo li voglio spaccare in due». -
Il campione del tennis mondiale ha fatto ricorso. Australian Open, negato il visto a Djokovic: “Nessuno è al di sopra delle regole”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Gennaio 2022.
Dopo ore di attesa e trattative alla fine Novak Djokovic non parteciperà agli Australian Open. Almeno per il momento. Il numero uno del tennis mondiale infatti non è vaccinato e per questo motivo lo Stato di Victoria, dove si trova Melbourne non gli ha concesso il visto di lavoro, negandogli l’ingresso in Australia. L’organizzazione del torneo l’aveva autorizzato a giocare “con un’esenzione”, pur se non vaccinato. “Djokovic non è riuscito a fornire prove adeguate per soddisfare i requisiti di ingresso in Australia”, si legge nella nota dell’Australian Border Force.
E quindi la decisione finale: “Il suo visto è stato cancellato. Le regole sono regole, nessuno è al di sopra”, ha detto il primo ministro australiano Scott Morrison. E così Djokovic dovrà tornare in Serbia, probabilmente già nelle prossime ore. Ma il campione non ci sta ed è deciso a fare ricorso contro la decisione. Lo rendono noto i funzionari di giustizia. Il giudice di Melbourne, Anthony Kelly, esaminerà in queste ore la richiesta dell’atleta serbo.
La vicenda ricorda un po’ il film The Terminal. Djokovic è arrivato all’aeroporto di Tullamarine in piena notte. Non essendo vaccinato non gli è stato permesso di mettere piede su territorio australiano: lo hanno accompagnato in una stanza dell’aeroporto dove è stato interrogato per 6 ore dalle autorità di frontiera non è stato in grado di dimostrare agli ufficiali prove evidenti che giustificassero la sua richiesta di “esenzione” dal vaccino.
Intanto in tutto il mondo scoppiava la polemica. “Sono scioccato da quello che sta succedendo a Novak— le parole del Ministro dello sport serbo Vanja Udovicic —, e non posso credere che qualcuno si dia il diritto di molestare il miglior atleta del mondo in questo modo. La Serbia è con te!”. Ancora più duro il comunicato del papà del tennista, Srdjan Djokovic: “Tengono prigioniero mio figlio per cinque ore. Questa è una lotta per il mondo liberale, non solo una lotta per Novak ma per il mondo intero. Se non lo lasciano andare entro mezzora, ci ritroveremo per strada”.
“Da questo momento, Novak è diventato un simbolo e un leader del mondo libero— dice Srdjan —, ha dimostrato che la verità non può più essere nascosta. Possono imprigionarlo stanotte, possono metterlo in catene domani, ma la verità è come l’acqua e trova sempre la sua strada. Novak è lo Spartaco del nuovo mondo — conclude il padre del numero uno—, che non tollera l’ingiustizia ma combatte per l’uguaglianza di tutte le persone del pianeta, indipendentemente dal colore della loro pelle e da quale Dio pregano e quanti soldi hanno”.
E intanto il campione 34enne restava nella stanza piantonato da due agenti. Una fonte del governo federale aveva affermato — secondo quanto riportano The Age e Sydney Morning Herald — che c’erano diversi punti interrogativi sul fatto che Djokovic avesse una documentazione adeguata per dimostrare il motivo della sua esenzione. La fonte aveva affermato che non era chiaro se un’infezione da Covid-19 negli ultimi sei mesi — che si sospetta sia la giustificazione per l’esenzione del giocatore — fosse sufficiente per garantire l’ingresso in Australia secondo le linee guida federali.
Ma il governo australiano ha tenuto duro anche davanti al campione mondiale del tennis: le regole ci sono e vanno rispettate da tutti. “Il governo federale ha chiesto se sosterremo la richiesta di visto di Djokovic per entrare in Australia – ha twittato il ministro dello sport Jaala Pulford – Non gli forniremo supporto per la richiesta di visto individuale per partecipare all’Australian Open 2022. Siamo sempre stati chiari su due punti: l’approvazione dei visti è di competenza del governo federale e le esenzioni mediche sono di competenza dei medici”. Poche ore prima dello stop all’aeroporto, la ministra dell’Interno australiana Karen Andrews aveva affermato che “sarà il governo federale a far rispettare i nostri requisiti al confine australiano, qualunque cosa Tennis Australia e il governo del Victoria hanno potuto decidere su un giocatore non vaccinato presente al torneo”. E infine lapidario il primo Ministro Morrison: “Se queste prove sono insufficienti, allora non sarà trattato in modo diverso da nessun altro e tornerà a casa con il primo aereo. Non ci saranno regole speciali per Novak Djokovic”.
In tutto questo non è chiaro perché Djokovic non avesse il vaccino. Certo è che si è sempre rifiutato di rivelare se si fosse vaccinato o meno e dai suoi social ha sempre fatto intravedere l’ombra delle sue convinzioni anti vaccinali. Potrebbe certo avere anche altri motivi di salute per cui non ha potuto fare il vaccino.
Secondo fonti citate dal Sydney Morning Herald, è possibile che gli organizzatori del torneo abbiano garantito al fuoriclasse serbo l’autorizzazione a giocare dopo aver ricevuto prove di un contagio da Sars-CoV-2 nei sei mesi precedenti la richiesta: sarebbe questa, infatti, la più comune delle motivazioni addotte da chi ha presentato richiesta di esenzione dal vaccino per poter partecipare al torneo. Secondo quanto affermato dalla responsabile medica di Tennis Australia, la dottoressa Carolyn Broderick, né la sua organizzazione né gli esperti governativi hanno testato la veridicità dei documenti presentati nella domanda di ammissione — non solo di Djokovic, ma di tutti gli altri tennisti.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Caso Djokovic, il governo australiano smentisce l’entourage del tennista: “Non è prigioniero, può andarsene quando vuole”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.
Novak Djokovic non è detenuto in Australia. Le autorità del Paese assicurano sulla libertà del numero uno al mondo e rispediscono al mittente la denuncia arrivata dall’entourage del tennista serbo. Il ministro dell’Interno Karen Andrews ha dichiarato all’emittente Abc: “Il signor Djokovic non è detenuto in Australia, è libero di andarsene quando vuole e la polizia di frontiera lo aiuterebbe a farlo”.
Al campione è stato annullato il visto all’arrivo in Australia, ed è ora al Park Hotel di Carlton utilizzato dalle autorità israeliane per alloggiare gli immigrati, da dove non può uscire in base alle norme australiane sull’immigrazione mentre i suoi avvocati lavorano al ricorso presentato contro l’ordine di espulsione emesso nei suoi confronti
Il detentore del titolo degli Australian Open è stato fermato mercoledì al suo arrivo all’aeroporto di Melbourne, per problemi riscontrati col suo visto di ingresso. Djokovic aveva inizialmente ottenuto un’esenzione vaccinale dagli organizzatori del torneo, che inizierà il 17 gennaio, ma questa non è stata ritenuta sufficiente dalla polizia di frontiera.
Al di là della possibilità, concreta, di saltare l’Australian Open stroncando sul nascere la possibilità di rincorrere un’altra volta il Grande Slam, e rischiando il trono mondiale, Djokovic rischia, secondo la legge australiana molto rigorosa in termini di politiche di immigrazione, tre anni di “squalifica” (pena comminata a tutti coloro trovati in possesso di visto irregolare), ovvero di non poter fare più ingresso sul territorio australiano.
La mobilitazione di fans e manifestanti sotto l’hotel di Melbourne hanno creato non pochi problemi alla polizia locale. I media australiani parlano di arresti dei manifestanti più violenti, mentre la richiesta di Djokovic di spostarsi in un luogo in cui possa allenarsi nel caso la situazione si risolvesse a suo favore, è stata negata.
La moglie di Novak, intanto si è fatta sentire sui social. In un tweet nel giorno del Natale ortodosso, ha voluto ringraziare chi si sta mobilitando per il marito: “Grazie a tutti voi che state facendo sentire l’amore per mio marito. Sto cercando di respirare profondamente per mantenere la calma e cercare di comprendere quello che sta accadendo. Credo che l’unica legge che tutti debbano rispettare, attraverso qualunque confine, sia quella dell’amore e del rispetto per gli esseri umani. Amore e perdono non sono mai un errore ma una grande forza”.
Riccardo Annibali
La donna si è espressa duramente sulla situazione del marito fermo a Melbourne. Chi è Jelena, la moglie di Novak Djokovic: “L’unica legge che tutti devono rispettare è l’amore e il rispetto per gli esseri umani”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.
Da giorni si dibatte il caso di Novak Djokovic, il campione del tennis bloccato nell’aeroporto di Melbourne dove dovrebbe partecipare agli Australian Open. Il tennista non è vaccinato e quando alla frontiera gli hanno chiesto il motivo, lui ha presentato di un’esenzione medica non ritenuta idonea. Djokovic ha fatto ricorso ed è rimasto nel Park Hotel di Melbourne in attesa della decisione del giudice. Intanto la moglie Jelena Ristic, da lontano si è espressa sui social sul caso.
“Oggi è Natale per noi, il mio augurio è che tutti siano sani, felici, al sicuro e insieme alle famiglie. Vorremmo essere tutti insieme oggi, ma la mia consolazione è che almeno siamo sani. E da questa esperienza cresceremo”, scrive sui social Jelena.
Ma chi è la compagna di vita del campione? Jelena ha 35 anni, è imprenditrice, accanto al campione di tennis serbo da oltre dieci anni. I due si sono conosciuti da ragazzini, quando lei era alle superiori e lui un giovane tennista in cerca di gloria. Entrambi frequentavano la stessa scuola di Belgrado. A 18 anni si sono fidanzati ma le loro strade si sono divise. Novak è volato in Germania per frequentare un’accademia di tennis, mentre Jelena si è trasferita a Milano per studiare alla Bocconi.
La love story è continuata anche a distanza. I due spesso si vedevano a Milano ed è questo il motivo per cui entrambi parlano bene l’italiano, tanto che tra loro in privato si chiamerebbero “amore”, in italiano. I due hanno costruito negli anni un amore forte e indissolubile che dura ancora oggi. La Ristic, terminati gli studi di economia, ha deciso di seguire Djokovic in giro per il mondo, accompagnandolo nei vari tornei. Appena lui ha cominciato ad avere qualche soldino, l’ha portata in un ristorante a Montecarlo e ha ordinato la tartare senza sapere cosa fosse. Ebbene, quando ha scoperto che si trattava di carne cruda è rimasto di sasso e da allora i due ridono a crepapelle ogni volta che vedono la “tartare” su un menù.
Nel 2014 i due sono convolati a nozze e pochi mesi dopo la nascita del loro primogenito Stefan e tre anni dopo della figlia Tara. I due hanno fondato la Novak Djokovic Foundation, associazione che aiuta i bambini che vivono in zone povere come Serbia, Croazia e Bosnia. Lo slogan della fondazione è “Ogni bambino ha bisogno di un campione per credere nei propri sogni”.
Jelena è la fan numero uno del marito e non gli ha mai fatto mancare il suo appoggio. Anche in occasione del recente caso che ha bloccato il marito a Melbourne. “Grazie a tutti voi che state facendo sentire l’amore per mio marito – ha scritto su Twitter – Sto cercando di respirare profondamente per mantenere la calma e cercare di comprendere quello che sta accadendo. Credo che l’unica legge che tutti debbano rispettare, attraverso qualunque confine, sia quella dell’amore e del rispetto per gli esseri umani. Amore e perdono non sono mai un errore ma una grande forza”, ha poi aggiunto Jelena, già finita al centro delle polemiche nei mesi scorsi per aver condiviso un video (poi rimosso) sul legame, totalmente infondato, tra pandemia da Covid-19 e rete 5G, la tecnologia di quinta generazione per le reti di connessione mobile.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Il ritratto del padre e del 'clan' serbo. Chi è il padre di Novak Djokovic: dai paragoni con Gesù e Spartaco alle liti con Federer. Carmine Di Niro su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.
Come Spartaco, “combatte le ingiustizie”. Anzi, come Gesù “che hanno crocefisso e umiliato”. Sono i ‘paragoni illustri’ di Srdjan Djokovic, il papà di Nole, numero uno al mondo del tennis che attualmente è in una situazione di ‘limbo’ istituzionale, respinto dalle autorità australiane al suo arrivo ‘Down Under’ per partecipare al primo Slam del 2022.
Novak, come ormai noto anche a chi non è appassionato di tennis, si trova (fino a lunedì) al Park Hotel, una struttura utilizzata dal governo federale australiano per ospitare persone in situazione irregolare: Djokovic si è visto infatti respingere l’ingresso nel Paese, ottenuto grazie ad una dubbia esenzione vaccinale, a causa del suo visto non compatibile con l’esenzione medica dal vaccino anti Covid-19.
Lunedì la situazione di Nole si risolverà, in un verso o nell’altro: i suoi avvocati hanno ottenuto un’ingiunzione provvisoria per fermare l’espulsione del tennista ed è stata concordata un’audizione davanti al giudice Anthony Kelly che dovrà decidere del futuro del tennista.
Il rischio per Nole non è solo quello di perdere la posizione numero uno del ranking mondiale, non potendo difendere la vittoria dello scorso anno, ma anche di non fare più ritorno sul territorio australiano per i prossimi tre anni. “La legge locale è molto rigorosa in termini di politiche di immigrazione – ha spiegato la professoressa di diritto pubblico all’Università di Sydney Mary Crock -, e questa è la pena prevista per chi viene trovato in possesso di un permesso irregolare“.
LA REAZIONE DELLA FAMIGLIA – Dalla Serbia il papà Srdjan ma anche l’esecutivo nazionale, che lo considera un eroe nazionale, tutti si sono schierati al suo fianco.
Le parole più forti sono quelle del padre, che ha definito Novak “lo Spartaco del nuovo mondo che non tollererà ingiustizia, colonialismo e ipocrisia, è prigioniero ma più libero che mai. Si è convertito nel leader del mondo libero, delle persone povere e con necessità. Lotta per l’uguaglianza delle persone”.
Circostanza, quella di Novak “prigioniero”, smentita dal ministro dell’Interno australiano Karen Andrews: “Il signor Djokovic non è detenuto in Australia, è libero di andarsene quando vuole e la polizia di frontiera lo aiuterebbe a farlo”.
IL PADRE E LO STRANO ‘ENTOURAGE’ DI NOLE – Ma le ‘stravaganze verbali’ di Srdjan Djokovic non sono una novità per gli appassionati di tennis. Un uomo diretto, che più volte in passato si è lasciato dai legittimi elogi al figlio agli insulti nei confronti dei suoi grandi rivali sul campo, lo svizzero Roger Federer e lo spagnolo Rafa Nadal.
“Federer probabilmente è il migliore giocatore della storia ma come essere umano è l’esatto contrario”, disse nel 2013. “A livello personale è un ometto”, disse ancora di Federer nel 2018 in riferimento a un match di Coppa Davis del 2006 tra Svizzera e Serbia che vedeva in campo Nole e Stan Wawrinka.
Partita di play-off in cui un giovane Nole aveva fatto un ‘dubbio’ uso del Medical Time-Out in un momento chiave del match, senza apparenti motivi fisici, per poi riprendersi e vincere il match al quinto set. Comportamento criticato dal team svizzero, anche in base ai precedenti di Djokovic, che in quegli anni era nell’occhio del ciclone per questa ‘abitudine’. Un Federer definito anche in altre occasioni “non una brava persona”, impaurito dal figlio che “minacciava il suo dominio”.
Giudizi pesanti anche su Nadal: “Rafa era il suo migliore amico, finché non ha iniziato a vincere. Quando le cose sono cambiate, la loro amicizia si è interrotta. Non è un comportamento sportivo”.
In giro per il tour assieme a Nole c’è spesso la moglie Jelena Ristic, con cui è sposato dal 2014. Anche lei è finita al centro della bufera, ma per le sue posizioni sul Coronavirus: nel bel mezzo del primo lockdown, Instagram è stato costretto a oscurare un video che aveva postato in cui sosteneva che ci fosse una correlazione tra la diffusione del virus e il 5G.
Del ‘clan’ Djokovic ha fatto parte anche il guru-santone Chervin Jafarieh, personaggio arrivato a teorizzare come attraverso le emozioni e la preghiera l’uomo può modificare le molecole dell’acqua.
Non da meno il fratello minore Djordje, formalmente organizzatore dell’Adria Tour tenuto nel giugno 2020 tra Belgrado e Zara, diventato di fatto un ‘Covid party’ in piena pandemia con pubblico senza mascherina e distanziamento e gli stessi partecipanti tra i tennisti risultati positivi al Covid (tra cui Djokovic). Djordje che nelle scorse ore ha definito la detenzione del fratello Novak “il più grande scandalo diplomatico sportivo”.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Novak Djokovic, il padre che lo paragona a Gesù, la moglie Jelena, il guru: i segreti del cerchio magico. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 6 gennaio 2022.
Il tennista n.1 al mondo no vax, respinto dall’Australia per un visto d’entrata sbagliato, è circondato da un clan che lo protegge: dal saluto al sole e gli abbracci agli alberi, al guru che «con le emozioni cambia le molecole dell’acqua»
C’è una strana magia che circonda Novak Djokovic, il tennista migliore al mondo, uno degli sportivi più vincenti della storia. Ci si è avvolto Nole, nelle sue convinzioni mistiche, dentro una famiglia che lo ha eletto super uomo. E che lo protegge ciecamente, lui «Spartaco del nuovo mondo» secondo papà Srdjan, che lo ha paragonato anche a «Gesù Cristo che hanno crocefisso e umiliato».
Così capita che un atleta di questo (altissimo) livello voli in Australia ma resti prigioniero di un conflitto di competenza tra il governo federale dello Stato di Victoria (dove si trova Melbourne) e quello centrale. Messo in isolamento, due guardie a controllare la porta, interrogato per ore nei locali dell’aeroporto di Tullamarine. Respinto per un visto d’entrata sbagliato, ora rinchiuso — almeno fino a lunedì — nell’hotel di Melbourne usato dal governo per detenere persone in situazione irregolare, già teatro di un incendio e oggetto di accuse di scarsa igiene e mancata manutenzione.
Possibile che il numero uno voli in Australia senza essere sicuro di poter entrare in un Paese reduce da 262 giorni consecutivi di lockdown? Non è difficile credere che qualcuno, all’interno del suo staff (ad esempio il manager italiano Edoardo Artaldi), lo avesse messo in guardia.
Ma non è semplice avere a che fare con Nole. Che ama dimostrare quanto potere può esercitare. Il grottesco Adria Tour, un’esibizione a porte aperte da lui organizzata in piena pandemia (nel giugno 2020 tra Belgrado e Zara), rivelatasi poi una sorta di Covid party, è stato un primo tentativo di dimostrarsi superiore al pensiero comune sul coronavirus. «Trovo terrificante che la società ti giudichi in base a un vaccino — ha detto a dicembre —. Non voglio partecipare a una guerra che stanno fomentando i media. Pertanto non rivelerò se sono vaccinato o meno». Anche i termini utilizzati, mai casuali.
E sono tornati mercoledì, quando papà Srdjan non aveva notizie del figlio interrogato in aeroporto ed è sbottato: «Novak è un simbolo, lotta per un mondo libero. Potranno incarcerarlo stasera, incatenarlo domani, ma la verità è come l’acqua, perché trova sempre la sua strada — le sue parole ai media russi —. Come Spartaco combatte le ingiustizie». E ancora, rivolgendosi oggi in una conferenza stampa al primo ministro australiano Scott Morrison: «Noi siamo umani, lui non lo è. Ha osato attaccare ed espellere Novak. Avrebbero voluto mettere in ginocchio lui e tutta la Serbia. Ma noi siamo orgogliosi. Guardando la storia, non abbiamo mai attaccato ma ci siamo sempre difesi. Questo è quello che sta facendo Novak, che è il nostro orgoglio. Si sta difendendo dagli organizzatori, mostrando a tutti da che tipo di gente proviene».
Non un tipo semplice, Srdjan. Ha visto Novak bambino tirare palline sul fondo di una piscina vuota durante i bombardamenti Nato su Belgrado, e da quel momento si è aggrappato a lui in una scalata sociale con, ai suoi occhi, tanti nemici. Lo ha sempre seguito ai tornei, il volto corrucciato. accanto a lui la moglie Dijana — che oggi ha parlato del figlio come di «un agnello sacrificale solo perché si è imposto come un uomo rivoluzionario che sta cambiando il mondo—, inseparabili. Ha litigato con Federer a Montecarlo, quando Nole era ancora l’usurpatore: lo ha criticato sempre, gli ha dato del villano, poco sportivo, «non una brava persona», impaurito dal figlio che «minacciava il suo dominio».
Una presenza ingombrante, insomma, che a volte lo stesso Novak ha redarguito: «Voglio bene a mio papà, è il mio più grande sostegno. Ma non posso controllare tutto quello che dice. Ognuno deve esprimere la propria opinione, anche se non sono sempre d’accordo con le sue uscite. È una persona emotiva e vuole proteggermi».
Djokovic è circondato da un vero clan. Anche il fratello minore, Djordje, in queste ore ha definito la detenzione di Nole «il più grande scandalo diplomatico sportivo» prima di sottolineare che Novak non è stato l’unico giocatore a cui è stata concessa l’esenzione medica. «Aveva lo stesso documento di diversi tennisti che sono già in Australia — ha detto nella già citata conferenza stampa con papà Srdjan —. È stato trattato come un criminale mentre è un uomo sano e rispettabile e uno sportivo che non ha messo in pericolo la vita di nessuno e non ha commesso alcun reato».
La famiglia, decisiva per Djokovic. La moglie, Jelena Ristic, «è la persona più completa che conosca», dice Nole. Sposati dal 2014, insieme da quando erano al liceo. Sciano, ballano, fanno yoga, parlano bene l’italiano, entrambi, perché lei ha frequentato l’univeristà Bocconi a Milano. Seguono una dieta particolare, che per ora non impongono ai due figli, Stefan e Tara. Anche Jelena ha idee controverse: durante il primo lockdown, Instagram è stato costretto a oscurare un video che aveva postato in cui sosteneva che ci fosse una correlazione tra la diffusione del virus e il 5G.
Nole nello stesso periodo ha iniziato una serie di dirette intitolate «The Self-Mastery Project», in cui discuteva di salute, fenomenologia e esistenza con un santone della medicina alternativa, Chervin Jafarieh (seguito anche da Mike Tyson). Tra le varie teorie, la più discussa è quella in cui si afferma che attraverso le emozioni e la preghiera l’uomo può modificare le molecole dell’acqua. Prima di Jafarieh Djokovic si è affidato anche a Pepe Imaz, un guru che lo ha introdotto ai poteri della telecinesi e lo ha convinto a cambiare la propria dieta, eliminando del tutto le proteine animali. Solo nel 2017 Novak lo ha allontanato, richiamando al suo fianco lo storico allenatore Marian Vajda, che ha reinserito (seppur in minima parte) la carne e il pesce nella sua dieta.
Un uomo particolare, dicevamo. La sua routine quotidiana inizia con un saluto al sole che sorge, una sessione di abbracci, canto e yoga. Con un rapporto di connessione col mondo vegetale, come un albero di fichi con cui diceva di avere una relazione intima: «Mi piace scalarlo e sentirmici in contatto», spiegava dopo l’ultimo successo all’Australian Open. Lo stesso torneo che lo ha attratto, suadente come il possibile sorpasso ai 20 Slam di Federer e Nadal, e poi lo ha allontanato. Rinchiuso in un hotel, in attesa di giudizio. Una vicenda che poteva essere gestita in modo diverso, da tutti.
Rossella Fiamingo: «Grazie a Diletta Leotta ho capito che cos’è l’amicizia. Paltrinieri non è geloso». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2022.
La spadista: «Le canzoni di Elodie mi portano fortuna in gara». «Non mi reputo una gran bellezza: sono una ragazza normale. Un calendario sexy? Assolutamente no»
Dal trono di spade, dove si è già seduta nel 2013 e nel 2014 grazie a due titoli iridati consecutivi, al fidanzamento con Gregorio Paltrinieri , il re delle acque, passando per l’amicizia con Diletta Leotta e con Elodie. Rossella Fiamingo ha capito che oggi non di solo sport vive un atleta: eccola allora puntare sulla «trasversalità mediatica», frequentando altre ribalte oltre alle pedane della scherma. Missione riuscita, non solo grazie al compagno importante o alle conoscenze di tendenza: piace anche per la femminilità e per lo sguardo dolce, da fatina delle fiabe.
Si dice che la festa d’agosto con Diletta Leotta ed Elodie sia stata piena di scintille.
«Ma no, le scintille riguardavano al massimo i vestiti: quello di Diletta era pieno di Swarovski, il mio era azzurro “brillantinato”. Il compleanno di Diletta è l’evento estivo dell’anno, stavolta era in Sardegna: nessuna delle amiche strette se lo perde; ed è come la festa di Sant’Agata, che dura non un giorno ma qualche giorno».
Un lungo rito pagano, pare di capire.
«Cominciamo a fare gli auguri a Diletta il 14 agosto, poi si arriva al 16, giorno del compleanno, e si è ancora lì a celebrare».
Com’è nata l’amicizia con lei e con Elodie?
«Elodie l’ho conosciuta tramite Diletta: ci siamo trovate subito, è alla mano ed è facile andare d’accordo. Diletta Leotta, invece, l’ho incontrata nel 2015 negli studi di Sky. Ci conoscevamo indirettamente tramite un cugino che faceva scherma. Lei stessa ha ammesso di averci provato, ma non l’ho mai vista in pedana. Da quell’incontro, in sala trucco, non ci siamo più staccate».
Un’amicizia vera.
«Il tempo la sta cementando: quando ci va di stare assieme ci cerchiamo. Siamo poi piuttosto timide, siamo coetanee — io sono nata un mese prima — e abbiamo gli stessi interessi. Se una persona è sincera e mi trovo bene, la frequento, famosa o meno che sia».
Diletta è una reginetta dei social: è lei ad aver orientato Rossella Fiamingo in questo mondo?
«Ho cominciato in autonomia, forse prima di lei. Condividiamo degli aspetti, ma apparteniamo a realtà diverse: lo sport per me, lo spettacolo per lei. Siamo influencer? No. Non è un obiettivo mio e nemmeno Diletta l’ha nelle mire: le influencer fanno quello di mestiere».
L’hanno punzecchiata: Rossella Fiamingo si distrae con i social e si allena meno bene. Come replica?
«È una baggianata. Non condivido tutto della mia vita, solo foto ed emozioni. Mettendoci però la faccia».
Su Instagram è «Rossellina91»: è un nome tranquillo o è un codice per mascherare una pantera?
«Nome tranquillo. È nato prima “Rossipuppi”, su Twitter, diminutivo dato dai fratelli Daniele ed Enrico Garozzo con cui stavo spesso assieme. Puppi viene da polpetta, in siciliano: da piccola ero tracagnotta, avevo le guance gonfie e loro dicevano che assomigliavo, appunto, a una polpetta. Poi su Instagram l’ho cambiato: ho messo il primo nome a caso ed è diventato il cavallo di battaglia».
Ci descrive Rossella Fiamingo?
«Sono una sportiva determinata, ma allo stesso tempo sensibile. Alcune cose le patisco, però sono fredda: in pedana possono farmi qualsiasi cosa, io rimango di ghiaccio e nei momenti delicati non mi scompongo. Infine, sono ambiziosa da morire: le medaglie non mi bastano mai».
Vuole essere un modello per le giovani?
«Mi piace esserlo, ma non troppo. Le mamme mi usano come esempio perché mi sono laureata in dietistica, suono il piano, tiro di scherma. Dicono che sono da imitare, ma a me non va tanto: magari finisce che una ragazza mi odia. Non sono la “perfettina” della situazione: ho i miei difetti, a cominciare dall’essere super-disordinata».
Quanto è cosciente di essere carina?
«Non mi reputo una gran bellezza: sono una ragazza normale, anche se curata e femminile. Forse prima non accettavo i difetti, però da quando ho imparato ad assecondare imperfezioni e limiti mi sono staccata da certi stereotipi della bellezza. E mi sono vista migliore».
Poserebbe per un calendario sexy?
«Assolutamente no: non è nel mio stile e non è un’ambizione».
Critica le ragazze che spingono sulla sensualità?
«Ognuno di noi ha dei sogni. I miei hanno sempre riguardato lo sport. Alcuni aspetti per me sono volgari, per altri invece no: non giudico nessuno, però non punto a quello».
La spadista Fiamingo che cosa porta in pedana del personaggio?
«Nulla. Semmai mi rifaccio agli studi di piano, ad esempio il lavoro di ore e ore sulle stesse cose per ricordarmi che la dedizione paga».
Due titoli mondiali e un argento ai Giochi, prima medagliata olimpica italiana nella spada individuale. Eppure si pensa che Rossella Fiamingo avrebbe potuto fare di più. È vero?
«Il grande rammarico resta la finale olimpica di Rio: in vantaggio 11-7, sono stata ripresa e battuta negli ultimi secondi. Ma le sconfitte aiutano a tirare fuori il meglio di noi stessi. Sono contenta della carriera, che continuerà almeno fino a Parigi 2024: penso già al Mondiale 2023 di Milano, che qualificherà ai Giochi e che sarà una vetrina per il mio sport».
C’era un’alternativa alla scherma?
«Facevo danza e ginnastica artistica. E cantavo, dopo aver provato pure la danza del ventre perché non mi piaceva l’idea che potessi essere poco aggraziata nel camminare. Alla fine mi sono ritrovata con scherma e piano».
Decisamente un’altra prospettiva...
«I genitori mi hanno spinto su queste due strade: li ringrazio, forse non avevo capito niente. Pensavo di cantare e ballare come le pop star, mi immaginavo anche di appartenere a quel tipo di mondo. Ma la verità è che sono timida».
Non si direbbe: semmai, riservata.
«No, timida: al pianoforte non mi sono mai esibita in pubblico. Papà mi ha fatto scoprire la scherma e mi è piaciuta subito. Mamma mi ha messo alla tastiera: mio fratello non era interessato, io l’ho compensata di una delusione e nel 2013 mi sono diplomata».
La storia con Gregorio Paltrinieri che cosa le dà?
«Greg, che a sua volta è timido, mi fa vedere quanto è campione e quanta voglia ha di vincere. È un lavoratore, è un calcolatore come me, è perfino più ambizioso. Viviamo di stimoli, confronti e condivisioni: ci spingiamo e ci aiutiamo a vicenda; ci capiamo al volo, ci siamo trovati sia sul piano umano sia su quello sportivo».
Come la mettiamo con la gelosia?
«È presente in modo moderato. Da siciliana, sono gelosa se non mi sento amata. Ma per ora sono al centro dell’attenzione e sono trattata come vorrei. Gregorio non è geloso, ma se lo è non lo dà a vedere».
È un compagno, un fidanzato o un quasi marito?
«Un fidanzato: quello che poi verrà, verrà».
Perché un anno fa avete tenuto nascosta la relazione? È stato lui, mesi dopo, a svelarla su Instagram.
«Pensavamo che la cosa potesse disturbarci. Erano in arrivo i Giochi di Tokyo: non vivevamo le Olimpiadi da 5 anni, non volevamo che le nostre imprese sportive finissero in secondo piano rispetto a una storia sulla quale la stampa si sarebbe buttata a pesce. La novità era solo per noi due».
Gregorio non ha l’ha mai seguita in azione dal vivo e ha ammesso di soffrire quando la vede tirare in tv o in streaming. E lei?
«Agli Europei di Roma ho rotto il ghiaccio: prima volta “live” delle sue gare. È stato emozionante e strano: c’era lui, ma c’erano anche tante persone che lo sostenevano. Comunque ci scriviamo o ci sentiamo nelle pause. Greg è anche gasato dalla scherma: vorrebbe provare, magari gli darò qualche lezione».
La miglior Fiamingo deve ancora arrivare?
«Penso di sì. Posso crescere, sto raccogliendo i frutti del lavoro di anni: grazie a Gregorio ho anche trovato equilibrio e stabilità».
Ci sono state campionesse come Flessel, Vezzali e Di Francisca che sono tornate ad altissimo livello dopo una maternità. Lei lo farebbe?
«Non lo so. Sono molto schematica, ma una cosa del genere non riesco a pensarla: non mi piace programmare il mio privato. Infine, è presto per pensare a un figlio».
Ci parla della Fiamingo pianista?
«Lo devo, come detto, a mia mamma, docente al Conservatorio di Palermo. La mia insegnante è stata però una sua collega, la cui figlia è stata invece seguita da mia madre. Sì, ci siamo scambiate le mamme...».
Non faceva prima a rimanere con la sua?
«C’era troppo nervosismo quando lavoravamo assieme».
Chopin, la sua passione.
«Soprattutto i Notturni: sono i brani che preferisco perché romantici. Ma in questi anni ho suonato di tutto».
Le piacciono anche la musica reggae e quella latina.
«Le amo soprattutto d’estate. Seguo pure la musica italiana, Elodie l’ho ascoltata durante gli Europei e i Mondiali: un suo motivo, ne sono sicura, mi ha portato fortuna».
Come si immagina nella vita futura?
«Sto seguendo un master sull’alimentazione sportiva, suono il piano, sono schermitrice: ancora non ho scelto, magari un giorno lancerò una linea dietetica».
Che cosa c’è in lei della sua Sicilia?
«La passione per il cibo mediterranea, per le granite, per la ricotta salata. Ho poi nel cuore i paesaggi, conosco bene il territorio e certi luoghi hanno fascino perché non sono cambiati. Infine, sono stregata dall’Etna. E ho un desiderio: vedere, una volta, un’eruzione dal vivo».
Elisa Di Francisca: «Con la vita da atleta ho chiuso: vorrei essere la prima donna c.t. della scherma. Vezzali? È più importante di me». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.
La fiorettista: «È stata una decisione sofferta ma presa con consapevolezza. Si può sempre tornare indietro, ma non nelle cose importanti».
Con un piede sulla soglia di quella stanza buia e spaventosa chiamata vita, nel momento in cui la campionessa deve trovare il coraggio di dire a se stessa che la carriera di sportiva è finita — finita per davvero —, Elisa Di Francisca ha deciso di organizzare una grande festa . Nella sua Jesi, il comune marchigiano dove il leggendario maestro Ezio Triccoli importò la scherma negli anni Quaranta del secolo scorso, avendola appresa da un sottufficiale inglese nel campo di internamento di Zonderwater, in Sud Africa; all’Hemingway Cafè di Piazza Spontini, 1.400 metri scarsi a piedi dal Club Scherma dove Elisa è nata («A Jesi quando ero piccola ne parlavano tutti: la scuola di Triccoli sfornava campioni come una catena di montaggio, essere un maschiaccio era considerata una buona qualità di partenza in uno sport in bilico tra nervi e aggressività»), perché a questa storia di cappa e fioretto non poteva mancare una dimensione letteraria. L’ha intitolata «L’ultimo assalto», la festa di stasera con musica, drink, amici, famiglia, galleria di foto e quel pizzico di autocelebrazione che una fuoriclasse dello sport al passo d’addio non può farsi mancare. Le altre piangono e si disperano, lei ordina un giro di Spritz per tutti. Pura Elisa.
E se è chiaro che il ritiro dalla scherma di Elisa Di Francisca, primogenita di Giacomo, siciliano di Villarosa (Enna), e Ombretta, sorella di Martina e Michele, strettissima parente di due ori (Londra 2012) e un argento (Rio 2016) olimpici, 7 ori mondiali, 13 europei, due coppe del mondo (più tutto il resto) nell’era della cannibale Valentina Vezzali (rapporti turbolenti, tra le due, ça va sans dire), era già nei fatti, un punto fermo a questa straordinaria scalata all’Olimpo da cui è uscita trasformata nel corpo e nell’anima doveva ancora essere messo. Perché se Elisa, 40 anni a dicembre, era tornata in pedana dopo l’arrivo di Ettore, c’era un certo prurito a volerci riprovare anche dopo la nascita di Brando: in una disciplina pesantemente de-russizzata, a soli due anni dai Giochi di Parigi 2024, non sarebbe stata follia. Invece no. Silenziato l’egoismo della sportiva di razza («Per la seconda gravidanza avevo già rinunciato all’Olimpiade di Tokyo: fare un figlio in piena pandemia è stato un grande atto di fiducia nel futuro»), tacitate le sirene del marketing (la mamma bis che torna in pedana avrebbe prodotto titoli ad effetto), è il momento di voltare pagina. Definitivamente.
Basta, Elisa.
«Basta, sì. È stata una decisione sofferta ma presa con consapevolezza. Si può sempre tornare indietro, ma non nelle cose importanti. Quindi con la vita da atleta ho chiuso. Mio marito Ivan è prezioso però con due bambini diventa faticoso tutto: dall’organizzazione degli allenamenti alla logistica degli spostamenti. E poi, posso dire...?».
Dica.
«Largo ai giovani! L’Italia si sta comportando benissimo agli Europei di Antalya. Questa è la generazione che ci porterà sul podio a Parigi dopo un’edizione dei Giochi giapponesi sfortunata. Guardo le gare alla tv, soffro, mi innervosisco, faccio un tifo sfegatato. Tiferò la Nazionale azzurra del mio ex maestro Stefano Cerioni, un leader che sa farsi ascoltare, per sempre».
E se di quella Nazionale, in un futuro imprecisato, lei diventasse il primo commissario tecnico donna?
«Sì, mi piacerebbe: potrebbe essere un bell’obiettivo da inseguire. Con calma, studiando, preparandomi. Mi porto dietro l’esperienza dell’atleta ma il c.t. è un altro mestiere. Parto da zero, però la sfida è interessante: in Italia mancano le donne dirigenti, a qualsiasi livello. Intanto, strada facendo, cerco di capire se è un ruolo che saprei e potrei, eventualmente, ricoprire».
Da dove si ricomincia?
«Dal corso istruttori a Chianciano, la prima settimana di luglio. Trasmettere ai giovani i valori che ho appreso dallo sport è uno scenario che mi motiva molto: la scherma è vita, la scherma mi ha salvata da brutte situazioni. Dovrò prendere il patentino di secondo livello: i livelli sono quattro, con l’ultimo puoi andare a insegnare all’estero».
L’erede in pedana è sua nipote Zoe, che si allena al Club scherma Jesi come la zia?
«Per carità, no: non carichiamo Zoe di questa responsabilità. Ho sempre pensato che la mia erede potesse essere Alice Volpi, che è seguita da Giovanna Trillini: dopo i Giochi di Londra la scelsi come maestra, portandola in Nazionale. Alice ha un pizzico di follia, come me, pur essendo — per fortuna sua — più introversa. È matta, godereccia, ha un vissuto particolare: mi rivedo molto in lei».
Però Zoe non ha scelto il basket o il volley o il nuoto. Tira di fioretto.
«Perché se cresci a Jesi — la culla della scherma — è naturale, quasi scontato. Perché l’ha vissuta dentro casa: tutti e tre noi fratelli Di Francisca siamo saliti, con fortune alterne, in pedana. Se non sarò mai la maestra dei miei figli, che lascerò liberi di scegliere il loro sport senza che abbiano lo spettro di mamma sulla spalla, potrei pensare di allenare Zoe, un giorno. Un’Olimpiade a bordo pedana di mia nipote, perché no?».
Di cosa va più fiera, in una vita di sport, Elisa?
«Della donna che sono diventata. Dei miei cambiamenti. Della rivoluzione copernicana che ho messo in atto. Trascinata da cattive amicizie, sarei potuta andare verso l’oblio, la crisi, l’autodistruzione. Tra le tante sliding doors della vita avrei potuto prendere quella sbagliata: ho rischiato di farlo, a 18 anni, con un amore violento e abusivo».
Però ha saputo uscirne, riprendendo in mano la sua esistenza. Come ha fatto?
«Imparando ad amarmi. Insulti, bestemmie, minacce e, alla fine, uno schiaffone che mi ha aiutato a svegliarmi. La società, il sentire comune, i film, la leggenda dell’amore romantico, persino le pubblicità congiurano contro noi donne. E se non hai gli strumenti, o se non ci sbatti il muso come è capitato a me, non lo capisci. L’amore, quello vero, andrebbe introdotto alle elementari, come materia della scuola dell’obbligo. Ogni volta che sento parlare di femminicidi, donne picchiate o uccise, ho una reazione. D’istinto. Il problema è nostro, di noi donne. Cosa ci manca? Nulla. Una donna può essere manager, astronauta, scienziata, sindaco, amministratore delegato, capo di Stato, pugile, soldato. Il guaio è che non tutte conoscono il proprio valore».
Nessuno ce lo insegna. È una conquista quotidiana.
«Vero ma la parola femminicidio andrebbe rigirata al maschile, perché la violenza sulle donne è principalmente un problema degli uomini. E delle donne che glielo permettono. C’è sempre un’alternativa, un altro modo di vedere, e fare, le cose. Ecco perché, più che dei risultati ottenuti in carriera, sono fiera del mio cambiamento. Prendersi la responsabilità delle proprie decisioni, anche quelle brutte e storte, non è facile. Ma a un certo punto della vita, va fatto».
Crede nel destino?
«Sì. Il caso non esiste. Era scritto nella mia storia che io avessi due figli maschi. Nella nostra famiglia non ci sono ruoli, io e Ivan ci alterniamo in tutto, nessuno comanda. Il messaggio che proviamo a dare a Ettore e Brando è la condivisione. Crescendo, insegnerò ai miei piccoli uomini il rispetto per le donne».
La cosa di cui, invece, è meno orgogliosa?
«Mi dispiace non essere riuscita a far capire a qualcuno le mie intenzioni. Penso a degli amori del passato, di cui ho probabilmente urtato la sensibilità. Ma all’inizio di questo percorso avevo molta rabbia dentro: l’aggressività ha impedito che io mi esprimessi in modo diverso. All’epoca, non potevo fare altrimenti».
Dove sono tutte le sue medaglie?
«Gli ori di Londra, la mia conquista sportiva più preziosa, sono appesi nella casa mia e di Ivan, a Roma, dove mi sono trasferita da quando stiamo insieme. Pendono in salotto da un chiodino, come fossero salami a stagionare. Un angoletto di muro dedicato a me. Nell’ordine: oro individuale, oro a squadre, argento di Rio e, sopra tutte, il bronzo al Mondiale di Budapest 2019, l’ultima medaglia individuale che ho vinto, già mamma di Ettore. In bella vista ho scelto di mettere la gara che mi è venuta meno bene, per ricordarmi che migliorare è sempre possibile».
I rapporti con il totem Valentina Vezzali non sono mai stati facili. Se oggi vi incontraste in ascensore, cosa succederebbe?
«Per le norme anti-pandemia, non potremmo mai salire in ascensore insieme! Farei passare lei, che come sottosegretario allo Sport è più importante e va sempre di fretta, e aspetterei quello successivo...».
Astuta Di Francisca. Ma alla fine, girata la boa dei suoi primi quarant’anni, qual è la cosa che la spaventa di più in una vita non più da atleta?
«La paura è una compagna di viaggio fedele. Me la portavo dietro ogni giorno anche in pedana, negli assalti. Ho una parte fragile che d’ora in poi, senza corazza e senza maschera, sarà esposta. Se devo essere onesta, mi spaventa tutto. Temo di non essere all’altezza dell’insegnamento ed è una paura irrazionale, dopo vent’anni di scherma professionistica, lo so. Da settembre lavorerò sulla Tiburtina nel centro sportivo delle Fiamme Oro, il mio corpo militare. Avrò a che fare con una realtà particolare, insegnerò scherma a bambini che provengono da zone di Roma disagiate. Vorrei arrivare a tutti, vorrei trovare un linguaggio comprensibile che mi permetta di comunicare la bellezza di questo sport e i valori che mi hanno dato una disciplina, permettendomi di imboccare la strada giusta».
A volte il messaggio più efficace è l’esempio, Elisa.
«Ho seminato i mostri che mi inseguivano. Dentro, ora, quando chiudo gli occhi e mi ascolto, non c’è più musica cacofonica: sento un bellissimo silenzio».
EMANUELA AUDISIO per la Repubblica il 22 giugno 2022.
Lo chiama l'ultimo assalto. Darà l'addio stasera, nella città dove tutto è iniziato, dove i fioretti non sono le buone intenzioni, ma armi per colpire. Anche se è da due anni che non mette più la maschera. Elisa Di Francisca, 39 anni, campionessa olimpica a Londra e argento a Rio, saluta il suo mondo. Lascia la pedana, ufficialmente. Sposata con Ivan, due figli. È stata l'atleta diversa, sincera e istintiva, sempre contro. La donna che si fa male provando la vita, che rompe gli schemi, ribelle alla retorica. Mai meno, senza troppo, soprattutto il talento. Fioretto e tacchi a spillo. Dolori e piaceri. E un libro "Giù la maschera" in finale al Bancarella.
Chi ha invitato alla sua festa?
«La scherma di Jesi, quelli che mi vogliono bene, le colleghe di rientro dagli Europei di Antalya dove l'Italia è andata benissimo, vediamo se Alice Volpi farà in tempo, spero di avere con me Elisa Vardaro, con cui condividevo la stanza, la preparatrice atletica Annalisa Coltorti, quelle poche amiche rimaste».
Ci sarà Giovanna Trillini, la sua ex allenatrice?
«No. Si è offesa per quello che ho scritto nel libro "Giù la maschera" e non mi parla più. È molto arrabbiata per le mie parole, ma a voce le ho detto anche peggio: è una brava maestra, ma è un'eterna seconda, si mette da sola nell'angolo e poi si lamenta che non viene considerata. Io con lei ho risolto, ma Giovanna non vuole più avere nessun rapporto con me e la mia famiglia, peccato perché ai Giochi come allenatrice ce l'ho portata io».
E la sottosegretaria Valentina Vezzali?
«Non l'ho invitata. Meglio che non perda tempo, pensi a lavorare per lo sport italiano e a fare in modo che istruzione e attività fisica non siano nemiche. Il lunedì m' interrogavano apposta quando ero di rientro dai tornei. Come ho risolto? Non andando a scuola quel giorno».
Manca il ct Stefano Cerioni.
«Mi ha detto che proverà a venire. Dipende dagli aerei, anche lui sta tornando dalla Turchia. Anche lui non voleva che la nostra storia sentimentale finisse nel libro. Si è raccomandato: non scrivere niente. Stefano, mi conosci, gli ho risposto, come posso stare zitta?
Parlo dei conflitti terribili con mio padre che ora è diventato un genitore adorabile e che forse si è dato un po' più di strumenti e non parlo di te, che stavi con me, e che sei andato ad allenare in Russia la mia nemica Deriglazova che mi ha battuta in finale a Rio?».
Le manca la scherma?
«Ogni secondo. Mi manca il procedimento mentale che c'è dietro alla maschera, il fatto che devi trovare una soluzione, che devi confrontarti con chi hai davanti. Da febbraio 2020, da quando ho vinto a Kazan la prova di fioretto, non ho più fatto sport. Non va bene, bisogna che rimetta in moto il fisico, con palestra, bici, corsa. Mi devo reinventare».
Cosa farà ora?
«Il 3 luglio a Chianciano faccio un corso federale per diventare istruttrice di bambini. Vediamo se sono in grado, il primo livello mi spetta di diritto come campionessa olimpica. Mi piacerebbe trasmettere valori: sacrificio, sudore, allenamento. Far capire che la sconfitta insegna e che il successo ha tutt' altro sapore. Poi penso di continuare a Roma in un centro sulla Tiburtina dove fanno anche pugilato e karate. Non è un quartiere privilegiato, c'è un traffico pazzesco, ci metterò due ore ad arrivare, mi attrezzo con un motorino, mi piace lavorare dove c'è vivacità e difficoltà. Anzi ci porto anche Brando, il mio secondogenito, che da poco ha fatto un anno, ma che è già una piccola bestia, prende tutto a testate».
A Tokyo poteva esserci.
«Ho preferito di no. Ho smesso in un momento particolare, c'era la pandemia, le persone morivano, mancava ancora il vaccino, e io sono claustrofobica. Ho avuto paura, di risultare positiva, di non poter tornare da mio figlio Ettore, di averlo lontano. Essere madre ti cambia la percezione del mondo, forse avrei potuto vincere ancora una medaglia, ma io non vado alle competizioni per partecipare, l'idea di arrancare non mi piace. Quando ti capita di dare sempre più la mano alla tua avversaria e dirle: brava, mi hai messo una stoccata che non avevo previsto, vuol dire che qualcosa è cambiato.
La tedesca Ebert diventata campionessa europea è quella che ai mondiali d Lipsia nel 2017 mi portava la sacca. Rispetto la scelta diversa di Federica Pellegrini e di Aldo Montano, ma io non sono così. Non si tratta di essere giusti o sbagliati, ma diversi. Capisco la difficoltà di non sentirsi più nessuno, ma la vita va vissuta e affrontata anche fuori dalla scherma».
La parola ex fa paura.
«Credo preoccupi di più sbarcare in un mondo dove la meritocrazia non vale più. Nello sport decidi tu di te stessa, ci sei tu sotto la maschera. Quando smetti devi svestirti, andare nuda, con le tue fragilità, senza corazza. Devi resettare tutto, faccio un esempio: il mio abito da matrimonio non lo metterò più. È servito quel giorno, e basta. Invece da atleta hai sempre una prossima volta. Io devo molto all'esempio che ho avuto a Jesi da Vezzali e Trillini, erano in palestra anche a Natale, ad allenarsi e a rimettersi in discussione. Posso non andarci d'accordo, ma quella fame la rispetto».
In chi si rivede?
«L'ho sempre detto, in Alice Volpi vedo un'erede, anche se non so se augurarglielo. Ha un po' di follia, però lei è introversa, grazie a Dio. Mi piace l'americana Lee Kiefer, primo oro Usa nel fioretto a Tokyo, dallo stile irregolare, corre a destra e a sinistra, e non capisci mai dove piazza il fioretto. Ammiro la disciplina delle giapponesi. Ma le azzurre a Parigi avranno buone armi»
Elisa, cosa lascia?
«Il senso della verità. Sono stata una scapestrata, ma ho sempre lavorato duro. E ora sono in pace. Fa niente se mi danno della lesbica, della puttana, dell'ammazza-bambini, perché da giovane ho abortito, mi interessa il giudizio di chi mi conosce e di chi non crede che amore sia violenza. Ai giovani dico che capita di finire in un tunnel, ma cercate sempre la luce in fondo. Non smettete di credere in voi stessi, non c'è un modo per essere perfetti, ma c'è invece quello di uscirne fuori. E sarà il vostro».
Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio Grandis, detta Bebe Vio. Raffaele Panizza per “la Repubblica” il 13 maggio 2022.
Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio Grandis, detta Bebe, percepisce se stessa come una sorta di ipercreatura, una stazione spaziale a cui il destino ha lanciato componenti fiammeggianti: le braccia, le gambe, la sua acrobatica bellezza. E da oggi due mani nuove nuove con cui risponde al telefono, l'auto col cambio automatico parcheggiata a bordo strada, ancora sudata dall'allenamento di scherma.
Racconta di due strumenti tecnologici pazzeschi, con l'invaso colorato d'argento, fatto apposta per abbinarsi all'abito Dior con cui il 17 maggio sfilerà sul red carpet di Cannes, all'apertura del Festival del Cinema. Così sofisticate, dice, che è riuscita persino a mangiare il sushi con le bacchette, piccola acrobazia che per anni le era stata preclusa.
Due medaglie d'oro nel fioretto paralimpico individuale. Un argento in quello a squadre. Decine di titoli mondiali.
A 25 anni Bebe vive un momento d'impegno totale: ha lanciato la Bebe Vio Academy, struttura dove ragazzini disabili e normodotati fanno sport insieme, in una democrazia dei corpi che sogna di vedere in futuro applicata ovunque. Il meningococco che l'ha colpita nel 2008, una malattia che nel 97% dei casi uccide, rimane sullo sfondo di ogni parola come una nascita, come un luogo originario, come un risveglio. E nel presente, da rimandare al mittente in nome di tutta la sua dirompente fragilità, una piccola condanna alla perfezione che in troppi tendono a proiettarle addosso: la santità.
Con le mani nuove imparerà a suonare uno strumento?
«Temo proprio che questo non accadrà mai. Pensi che non riesco neppure a tenere il tempo degli applausi».
Quali sono le voci sempre presenti nella sua mente?
«Quelle dei bimbi nella mia Academy: trenta ragazzini dai sei ai diciotto anni, metà normodotati e metà disabili, che si sfidano in super competizione tra loro, si prendono in giro, si aiutano, ridono, senza pudori né barriere. Ogni palestra del pianeta dovrebbe essere così. Questa è l'utopia del mondo che vorrei».
A 25 anni si sente trattata da donna o sempre da simbolo?
«In realtà, incarnare un ruolo è sempre stata una scelta mia: sono diventata un esempio per i bambini quando ero a malapena una bambina anch' io. E poi lo sono divenuta per gli adulti quando adulta non ero ancora. Alla fine, sono semplicemente una persona che ha avuto tantissime sfighe nella vita, e che ha saputo sempre trarne il meglio».
A Roma per un po' è stata vicina di casa del maestro Bernardo Bertolucci.
«Il problema è che non avevo idea di chi fosse: per me era il caro vecchiettino che passava il tempo sulla carrozzina nel giardino del vicino e che mi lasciava le letterine sotto la porta per invitarmi a bere il tè. Andavo a casa sua, vedevo gli Oscar appoggiati sulla mensola e pensavo fossero finti. Poi un giorno ho incontrato Paolo Ruffini per strada e l'ho invitato a bere una cosa insieme a noi: Paolo, ti presento Berni. Quando l'ho visto inginocchiarsi a terra, in adorazione, ho capito tutto. Purtroppo, dopo un paio di settimane, è morto».
Una parola che usa spesso è "sfiga". Come esorcizza la sfortuna?
«Godendomela tutta quanta. Con la certezza che in base a come la prendo, una cosa bella poi arriverà. Se la sfortuna non te la godi alla fine non la conosci, e non puoi trarre la linfa che porta. Solo l'idea di subire una nuova amputazione, e non potere più tirare di scherma come ho rischiato accadesse un anno fa, mi lascia senza risorse. Se mi togli la spada, mi ammazzi davvero».
Che paure ha?
«Ho paura di non essere abbastanza. Paura delle persone che ti circondano, che come possono crearti possono anche distruggerti. E poi, ho scoperto che si può anche avere paura di essere felici». Un'altra cosa che dice di frequente è: "conquistare il mondo".
Per instaurare quale legge?
«Quella che spinga tutti a non limitarsi a pensare alla propria felicità, ma a contribuire a quella degli altri. Rendere felici gli altri è la cosa che mi piace di più al mondo». Poi non si stupisca se le danno della santa. «Secondo la definizione di mia madre: "una strozzabile rompiballe". Altroché santa. Sono una bella stronza, io».
Nel suo gruppo scout la chiamavano "la fenice". Quando guarda le sue ceneri alle spalle, cosa vede?
«Non sono una persona che si guarda indietro, e il futuro per me è l'unico orizzonte. I miei genitori mi hanno impostata così, esattamente come hanno fatto i miei allenatori. Alla fine, se penso a cosa sono, mi rispondo: "il prodotto di tante mani felici", modellata da un artigianato sapiente. Anche fisicamente se ci pensa è lo stesso: le mie dita le fa qualcun altro.
Le mie gambe pure. Io, Bebe, alla fine sono un riassunto di tante persone». Pensa che la vita sia una gara?
«Sono cresciuta in una palestra. Ho due fratelli e ho dovuto lottare per tutto.Sono sempre in gara con me stessa e coi limiti che gli altri impongono a loro stessi. In lotta per convincere i miei bimbi che possono correre anche con una gamba sola, e in lotta coi loro genitori che non li lasciano rischiare. La vita è una gara in cui l'avversario è ciò che credi di non poter fare».
Lucia Esposito per “Libero quotidiano” il 13 agosto 2022.
Con una sola foto Bebe Vio ha urlato il più grande, divertente, ironico, disinvolto e disarmante vaffaculo alla sfiga. In vacanza all'Isola d'Elba la campionessa decide di tuffarsi in mare, ma prima deve staccare dal proprio corpo le protesi. Poteva raccontarci di quanto sia faticoso andare in spiaggia e dover togliersi pezzi di sé, poteva spiegarci di quanto la malasorte si sia accanita contro di lei, poteva declamare per ore tutto il cahier de doléances, ma Bebe, ancora una volta, incanta tutti: stacca le braccia e le lascia sul lettino, insieme al cellulare e un cartello con la scritta "Torno subito".
Due parole che racchiudono mille discorsi. La disabilità non mi ferma: non solo torno, malo faccio subito. Non mi vergogno delle mie braccia finte. Non voglio nascondermi, anzi le mie protesi le sfoggio al sole distese sul lettino, accanto al mio cellulare. Guardatele pure ma, per favore, niente commiserazione. Spostate altrove i vostri sguardi morbosi e/o pietosi. Io sono questa. Ho gli arti finti, ma sono ancora qui. Faccio il bagno e mi godo l'estate con la leggerezza dei miei anni e la spensieratezza di questi giorni d'estate.
Uno scatto più forte di tutta la retorica sui disabili e sull'accettazione della diversità. La schermitrice con una fotografia mette il silenziatore a tutti i bla bla di cui ci si riempie la bocca e dà una stoccata a tutte quelle donne che pateticamente si coprono il sedere perché si vergognano delle smagliature, quelle che trattengono aria come palloncini per tirare in dentro la pancia e sfoggiare addominali che non hanno.
Bebe Vio se ne frega e sorride. Altro che body positivity, questa fotografia è una lezione di vita. E anche un affondo contro chi costruisce grattacieli di problemi dal nulla. Tira di fioretto Bebe, ma questa foto è tagliente come una sciabolata. Il sorriso di Bebe Vio è un inno alla vita, è un raggio di luce in un mondo ammorbato dai piagnistei e da una litania di lamentele. Ecco, Bibi ha la capacità di raddirizzare le cose storte, di trovare uno spiraglio anche davanti a muri altissimi. Nel 2008 Beatrice Maria Adelaide, Marzia Vio Grandis (che lei ha alleggerito nel semplice Bebe Vio) ha solo undici anni.
Viene colpita da meningococco. Meningite fulminante. Una malattia che solitamente uccide. Lei se la cava con una bruttissima infezione che costringe i medici ad amputarle gli arti. Dopo cento giorni, poco più di tre mesi, Bebe esce dall'ospedale e va a scuola. Ci vogliono le spalle di Atlante per sopportare a soli undici anni tutto questo. A Che tempo che fa confessò di aver pensato al suicidio. Suo padre le chiese in che modo volesse morire. E lei gli rispose: «Buttandomi dal letto».
Al che lui replico: «Guarda, il letto non funziona, se vuoi ti porto alla finestra. E aggiunse: «Bebe, ma non rompere le palle che la vita è una figata!». «E io - raccontò la campionessa - sono rimasta lì a pensare che la parte dura era finita e a quel punto era tutto relativamente in discesa. È stata questa frase a illuminarmi». Bebe si aggrappa alle parole di papà Ruggero, si convince che sì, la vita è prima di tutto una gran figata. Allora anche se hai solo undici anni chiudi in un nascondiglio del cuore i cattivi pensieri, ingoi il dolore insieme agli antibiotici e accetti braccia e gambe finte pur di attraversarla tutta questa vita che ti ha calpestato. «Rischiodi morire 50 volte, poi risorgo 51», ha detto Bebe in un'altra intervista. Lei è più fortee più testarda della sfiga.
Quando il 22 marzo scorso le sono arrivati gli arti nuovi sui suoi seguitissimi social la schermitrice scrive: «Evvai! Mi sono arrivate le mani ed i piedi nuovi. Non avrei potuto fare questo senza l'incredibile evoluzione tecnologica degli ultimi anni. E chissà quanto ancora potrà migliorare la nostra vita in futuro».
La felicità sono mani e braccia più evoluti tecnologicamente che le permettono di fare movimenti più lenti e più precisi. E lei guarda già avanti e pensa a quanto potranno ancora migliorare i suoi arti bionici. Bebe ha la capacità di esorcizzare la sfortuna convinta che prima o poi una cosa bella arriverà. Si prende beffa della sfiga senza fare le corna, ma guardandola in faccia e fotografandola pure. E il suo sorriso in ogni scatto è la più grande e autentica dichiarazione d'amore per questa vita che resta- nonostante tutto- una gran figata.
Giovanni Gagliardi per repubblica.it il 13 agosto 2022.
Simpatica, ironica e divertente come sempre, Bebe Vio non si è lasciata sfuggire l'occasione per un'ottima battuta, anche mentre è in vacanza al mare. Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio Grandis, questo il nome completo della campionessa paralimpica, si trova all'Elba, dove ha anche partecipato alla sfida per raccogliere rifiuti in spiaggia con ragazzi e ragazze di tutte le età. E dall'isola ha postato una foto sul suo profilo Instagram seguito da 1,3 milioni di follower.
Nell'immagine si vede un lettino da spiaggia, un asciugamano, le sue due "braccia" cioè le protesi e sopra il cartello "Torno subito". Uno scatto che fa sorridere e che, come è nel suo stile, sdrammatizza riuscendo però anche a colpire nel segno, guadagnandosi i complimenti e le faccine divertite dei suoi tanti fan.
Bebe Vio, la campionessa
Due medaglie d’oro nel fioretto paralimpico individuale. Un argento in quello a squadre. Decine di titoli mondiali. A 25 anni Bebe vive un momento d’impegno totale: ha lanciato la Bebe Vio Academy, struttura dove ragazzini disabili e normodotati fanno sport insieme.
È stata da poco invitata a Portland, headquarter mondiale di Nike, per parlare del futuro dello sport e della comunicazione inclusiva insieme a campionesse come Serena Williams, unica italiana del Nike Athlete Think Tank. Mentre WEmbrace Games (nome da quest’anno dei Giochi senza barriere, festa sportiva organizzata da Art4sport, associazione creata dai suoi genitori) si terrà il 13 giugno al Foro Italico di Roma e vedrà in scena amici di Bebe, sportivi, attori, musicisti.
"Trarre il meglio dalla sfiga"
Il meningococco che l’ha colpita nel 2008, quando aveva 11 anni, è una malattia che nel 97 per cento dei casi uccide, nel suo caso le provocò un'estesa infezione tanto da costringere i medici all'amputazione degli arti. Dopo 104 giorni di ricovero uscì dall'ospedale e riprese immediatamente la scuola. "Sono semplicemente una persona che ha avuto tantissime sfighe nella vita, e che ha saputo sempre trarne il meglio", ha detto in una intervista a D lo scorso maggio.
"Così esorcizzo la sfortuna"
E a proposito di "sfiga", la campionessa ha anche spiegato qual è il suo modo di esorcizzare la sfortuna: "Godendomela tutta quanta. Con la certezza che in base a come la prendo, una cosa bella poi arriverà. Se la sfortuna non te la godi alla fine non la conosci, e non puoi trarre la linfa che porta. Solo l’idea di subire una nuova amputazione (per una infezione da stafilococco che l'aveva colpita l'anno scorso ndr), e non potere più tirare di scherma come ho rischiato accadesse un anno fa, mi lascia senza risorse. Se mi togli la spada, mi ammazzi davvero".
Valentina Vezzali: cobra, Crudelia, killer, «sì, mi chiamavano così. Ho lottato per le atlete madri». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2022.
La sottosegretaria allo Sport, la famiglia e la politica: «Ho usato a Palazzo Chigi le tecniche imparate in pedana. Dopo aver partorito i miei figli ho vinto 2 ori. Sensi di colpa? Mai, ho sempre amato le sfide».
La chiamavano Cobra, Nikita, Crudelia, Mangusta... Accadeva quando tirava di fioretto e vinceva tutto: sei ori, un argento, due bronzi alle Olimpiadi e poi 16 titoli mondiali e via così fino a essere la donna più vincente dello sport italiano. E da quando Mario Draghi l’ha voluta sottosegretaria allo Sport, Valentina Vezzali ancora sa tirare stoccate. Tipo, in piena pandemia, alla Figc e alla Lega Serie A che reclamavano aiuti, rispose che i cittadini non avrebbero capito e che, comunque, il calcio era in crisi già da prima. Ora, mi sta davanti nella sua casa di Jesi con un’inattesa felpa rosa da ragazzina.
Quale nomignolo l’ha seguita in politica?
«Mi chiamavano Cobra perché sapevo attendere il momento giusto per colpire; Mangusta perché è l’unico animale che mangia il cobra; Killer perché non do tregua... Erano soprannomi sulle tecniche di duello».
Riformulo: quale tecnica si è portata dietro in questa seconda vita?
«Anche in politica contano momento e modo in cui decidi di fare l’azione. Però, qualcuno mi chiamava anche “Vale perché valgo” e i miei collaboratori sanno che esigo molto da me e dagli atri. Il lavoro è il lavoro, ma nella vita privata mia madre mi chiama Grace Kelly per come sono dolce. Accompagno i figli a scuola, al catechismo, piango davanti a un film, amo mettere i tacchi e un abito femminile».
Prima di Draghi, la volle Mario Monti. Era il 2013, lei diventò deputata, incinta del secondo figlio e 83 giorni dopo il parto vinceva un oro ai Mondiali di Budapest. Come ha fatto allora e come fa oggi a tenere insieme tutto?
«All’epoca, stavo tre giorni a Roma, magari finivo in aula alle tre di notte, salivo in macchina e arrivavo a Jesi all’alba, mi allenavo per Rio 2016, avevo le gare nei weekend, stavo coi due figli giusto un giorno e mezzo. Già quando era nato Pietro nel 2005, inventai i 400 metri in passeggino: io mi allenavo, mamma lo portava a spasso e, al momento giusto, me lo dava per allattarlo. Avevo chiesto al pediatra se allenandomi toglievo tempo al bambino. Mi rispose: i figli sentono se la mamma è felice, se stai bene, lui sta bene. E questa, oggi che continuo a fare su e giù con Roma, resta la mia filosofia. Poi, conta la qualità del tempo insieme, non la quantità».
Anche col primogenito aveva vinto un oro ai Mondiali subito dopo il parto.
«Il piccolo venne a Lipsia con me e mia madre, ma il Commissario tecnico mi vietò di dormire con lui e io, la notte, scappavo dal ritiro per raggiungerlo. Vinto l’oro, però, ebbi il permesso di tenerlo nel dormitorio. Pensi che, prima che partorissi, le mamme venivano depennate dalla Federazione, ma io volevo dimostrare che si può essere madri e vincere e, ora, le mie colleghe in maternità hanno l’indennità di allenamento e il congelamento del ranking. Se ho un obiettivo, ce la metto tutta per vincere».
Il suo primo disegno di Legge prevedeva d’inserire il diritto allo sport nella Costituzione e ora la Commissione Affari Costituzionali del Senato ha modificato in questa direzione l’articolo 33. Qui l’obiettivo qual è?
«Prendere atto del valore educativo e sociale dell’attività sportiva e promuovere il benessere psicofisico in ogni sua forma: l’Italia è nella top ten del medagliere olimpico, ma al quintultimo posto in Europa per numero di praticanti sportivi, il mio obiettivo è buttare giù dal divano gli italiani e metterli in condizione di praticare sport».
Draghi le ha mai raccontato d’aver fatto scherma da piccolo?
«Al primo colloquio dopo l’insediamento. Ha praticato dai 7 agli 11 anni, poi è passato al basket, è diventato istruttore. Quando gli ho detto che nelle scuole primarie non esisteva l’insegnante di scienze motorie, ha chiamato all’istante il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, così dal 2021 abbiamo una legge che introduce l’educazione fisica alle elementari. Dal prossimo anno, le quinte avranno un insegnante laureato in materia e, di anno in anno, si arriverà alle prime».
Il Pnrr destina allo sport un miliardo. Riusciremo a spenderlo bene e nei tempi stabiliti?
«È un lavoro duro ma sono certa che riusciremo a costruire i 100 impianti previsti e a spendere i 300 milioni per le palestre scolastiche».
Il mondo delle federazioni sportive è governato da uomini, lei sente mai diffidenza?
«Credo che presidenti federali e organismi sportivi stiano apprezzando la mia disponibilità al dialogo e capendo che quando dico una cosa la faccio».
In lockdown, respingendo le richieste per il calcio non deve essersi fatta degli amici.
«Il calcio unisce le famiglie, sostiene gli sport minori, ma bisogna intervenire in modo strutturale, perciò ho istituito un tavolo governativo per trovare misure che non siano ristori a pioggia»
Il presidente della Fondazione Milano Cortina 2026 Giovanni Malagò si è appena lamentato sostenendo che i soldi ancora non arrivano.
«Quando mi sono insediata, la Società Infrastrutture non era stata ancora istituita, io l’ho fatta diventare realtà in due mesi e mezzo, mentre in due anni non era stato fatto nulla. Ora, la Fondazione deve fare un cambio di passo e riuscire a lavorarci insieme. Siamo indietro, ma noi italiani diamo il meglio nelle emergenze».
Che spazio resta per sé in una vita piena come la sua?
«Dedico ai figli tutto il tempo libero. Dal 2017, sono anche una mamma separata».
La fine del matrimonio con l’ex calciatore Domenico Giugliano è il prezzo pagato alla carriera?
«Anche lui aveva una nuova attività, non ci vedevamo mai, non parlavamo più, ma non mi aspettavo che finisse. È stata una sconfitta. Per un anno, non ci siamo parlati. Poi abbiamo recuperato e ora, se sono a Roma, lui sta anche a casa coi figli per non farli spostare. Io torno il venerdì, riparto il lunedì. Devo tutto a mia madre che sta coi ragazzi quando sono via: è il mio modello, papà è morto che avevo 15 anni e lei ha tirato su tre figlie. Senza di lei non ce la farei, le voglio bene».
Sensi di colpa verso i figli ne ha?
«Sono una donna che non si tira indietro davanti alle sfide e spero che questo sia da stimolo per loro, per andare verso ciò che li rende felici. Mi auguro, un giorno, di sentirmi dire: mamma, sono orgoglioso di essere tuo figlio. Loro sono proprio gli occhi attraverso i quali vedo il mondo».
Si è commossa. Com’è il mondo di questi ultimi due anni visto attraverso i loro occhi?
«Pietro ha 16 anni e ha sofferto. Prima del lockdown, aveva ripreso la scherma, era bravissimo e miravamo al Mondiale. Poi, con la pandemia crolla tutto e lui si chiude in se stesso. Dormiva sempre, seguiva la Dad al buio, era ingrassato di 30 chili. Ma ora sta reagendo, si è messo a dieta, va a scherma, ha voti alti a scuola. Andrea ha un carattere più forte, vuole sempre arrivare primo, fa atletica, calcio. Mi manda video buffi quando fa gol».
Diventare sottosegretaria allo Sport era un obiettivo o è capitato?
«Col senno di poi, nella mia autobiografia del 2012, c’era già un programma politico».
Margherita Granbassi: «In amore sono sfortunata, la tv con Santoro mi è costata la divisa da carabiniere». Flavio Vanetti Il Corriere della Sera il 9 Gennaio 2022.
L’ex campionessa: «Mi sento mitteleuropea, Roma è sporca»
Margherita Granbassi, ex campionessa del fioretto, ora presentatrice con escursioni nel giornalismo: le donne hanno ormai conquistato un ruolo centrale nello sport e in ciò che ruota attorno?
«Sì, lo sport è più avanti rispetto ad altri mondi e lo è pure sul fronte dell’immagine che ha saputo dare alla donna».
È stata una fortuna o una disdetta competere negli anni di fuoriclasse come Vezzali e Trillini?
«I due “monumenti” erano modelli da copiare. Ma allo stesso tempo non mi permettevano di essere del tutto sicura di me. Non ero una piena di autostima: ho dovuto lavorare per sbloccarmi. Morale: senza Valentina e Giovanna avrei vinto prima».
L’avversario importante crea motivazioni...
«Quando l’imbuto si restringe, capisci che devi battere... quelle lì. Detto questo, ho avuto un nemico più tosto: gli infortuni. La mia carriera è stata conclusa dagli incidenti».
Quanto ha lottato per salvaguardare il territorio dai mostri sacri?
«Tanto, anche perché sono cresciuta senza campioni a fianco, come accadeva alle colleghe di Jesi. Non ho mai conosciuto l’“odore” di una medaglia importante, al massimo scrivevo i pensierini sul diario e seguivo Andrea Magro, mio maestro e poi futuro c.t.: girava il mondo, prima da arbitro e poi da tecnico, e in palestra attaccava ai muri i poster dei fuoriclasse».
Ma un titolo iridato alla Vezzali l’ha negato...
«Nel 2006, a Torino. L’anno prima avevo vinto la Coppa del Mondo, ma avevo fatto schifo al Mondiale. Volevo essere concentrata e spensierata per riscattarmi: Valentina dava mazzate, ti consumava sul piano emotivo e alla fine mollavi. Serviva un salto di qualità mentale: quando ho girato l’interruttore, molto è cambiato».
In politica la Vezzali è forte quanto l’atleta?
«Le sarà difficile replicare ciò che ha ottenuto in pedana. Ma farà bene e sono certa che il suo impegno sia pari a quello della sportiva. Però mi ha sorpreso la sua nomina a sottosegretario: pensando al mio sport, avrei immaginato una Diana Bianchedi».
È vero che le compagne erano anche «serpenti»?
«Qualcuna lo è ancora... La scherma non ha un ambiente facile: con certe colleghe la competizione non era solo in pedana».
Essere bella quanto l’ha aiutata?
«In pedana poco. Magari in altri ambiti mi ha agevolato: in questo sono stata fortunata».
C’è molta omosessualità nella scherma?
«Sì, soprattutto tra le straniere».
Lei ha mai subito avances?
(risata) «Avevo una corteggiatrice».
La scherma passa per essere un ambiente libertino.
«Non più di altri sport: si condividono passione, tempi e spazi, così scatta la legge del maso chiuso».
Fuori i nomi dei «cuccatori».
«Non potrei mai! Al massimo mi sbilancerei su qualche straniero».
La aiutiamo invece con un italiano: Gigi Tarantino...
«Gigi prima di tutto era decisivo per il clima della squadra: se ero di cattivo umore, sapeva farmi sorridere. Sono contenta che sia diventato c.t. della sciabola».
La sua passione per il giornalismo?
«Erano giornalisti un nonno e un prozio, ero stregata dai loro racconti. Così quando ho avuto occasione di fare esperienze giornalistiche non me le sono perse».
Poi è entrata nell’orbita di Michele Santoro.
«È stata un’esperienza importante e dura: mi hanno classificata politicamente, ho sofferto. In quel momento io e la politica eravamo le cose più lontane che potessero esserci».
Santoro era identificato come uomo di sinistra: lei ha scontato quell’etichetta?
«C’era strumentalizzazione. Mi incavolavo per le critiche, ma mi arrabbiavo anche per le lodi sperticate. Ma certe occasioni vanno colte. Non tutte, peraltro: io ho detto più dei no che dei sì».
Santoro l’ha aiutata a reagire?
«Sì, ho scoperto la sua umanità. Ma ho dovuto lasciare l’Arma, a malincuore: rischiavo di essere un burattino, senza conoscere il burattinaio. Uscì un’intervista a Francesco Cossiga, che non aveva nemmeno visto la prima puntata: gridava allo scandalo per una “Carabiniera vestita da velina che andava da Santoro”. Era un attacco gratuito: il mio look era quanto di più serio si potesse immaginare».
Ora è più vicina alla politica?
«No, la vedo sempre con timore pur avendo ricevuto proposte da tutte le parti. Però mi fa ancora paura, soprattutto perché gli italiani la vivono come se fosse il calcio».
Tante trasmissioni alle spalle, quale le è rimasta nel cuore?
«L’ultima avventura, a Tokyo con Discovery-Eurosport, è stata emozionante: con un bel gruppo di colleghi ho raccontato un’Olimpiade pazzesca. Ma sono anche contenta di Green Dream, serie web nel settore nella sostenibilità ambientale: pensavo a mia figlia e al suo futuro».
È stata quinta a «Celebrity MasterChef», perciò cucina bene...
«Abbastanza, nonostante qualche disastro. Cucinare mi diverte e mi rilassa: mi riescono bene i primi di pesce e i risotti, anche se a MasterChef per un risotto ho preso un grembiule nero. Ho un difetto: in cucina non sono ordinata».
Poi è stata protagonista in «Drive Club» e «Sirene».
«Il primo ha appagato la passione per i motori, il secondo mi ha permesso di raccontare le forze dell’ordine: ho partecipato a una missione della Finanza in una casa di riposo dove avvenivano maltrattamenti. Se comunico bene mi brillano gli occhi come quando salivo in pedana».
Cerioni, ct del fioretto: «Ho sbagliato, le proteste non dovevano finire sui giornali»
Con chi scapperebbe?
«Oddio!! Dipende... Se dovessi scoprire l’Italia chiamerei Vittorio Sgarbi. All’estero, invece, andrei a Malibù a trovare Pierce Brosnan, attore dal fascino intramontabile».
È una «sciupamaschi»?
«No, semmai sono stata un po’ sfortunata in amore: sono separata dal padre di mia figlia Léonor».
Sognava la stabilità?
«Sì, e una famiglia numerosa. Mi sarebbe piaciuto trovare l’amore della vita in giovane età. Non è andata così, ma ho avuto una bambina bellissima e vivo con grande romanticismo. Sono innamorata dell’amore e sono convinta che da qualche parte ci sia. La passione per mia figlia non avrà uguali, ma ho voglia di incontrare la persona giusta».
Un desiderio per Léonor?
«Che diventi una donna libera, capace di amare chi vuole e di realizzare i suoi progetti».
Quali sono i ricordi della Margherita bimba?
«Sognavo a occhi aperti, mi immaginavo campionessa. Vedevo i Giochi e mi emozionavo: poi quel traguardo l’ho raggiunto. La Margherita di oggi sogna invece di essere felice e di rendere tale chi ha vicino».
Dieci secondi per giudicare l’Italia.
«La vedo come a volte vedevo me. Ovvero, con grandi potenzialità non del tutto espresse».
C’è un incubo che la insegue?
«No, però qua e là mi faccio sorprendere dai sensi di colpa: a volte sono condizionata dal timore di far soffrire gli altri».
Ha una laurea in economia aziendale: com’è il rapporto con i soldi?
«Pessimo, però rimango rilassata: ci tengo all’indipendenza finanziaria, ma non do grande importanza al denaro. Sono molto semplice, non amo il lusso sfrenato e l’esibizione».
Spesso a una ragazza per sfondare basta l’avvenenza.
«Ormai è una questione di mercato, con relative convenienze. Per cambiare la situazione bisognerebbe lavorare sulla società».
È ora che l’Italia abbia una donna premier o presidente della Repubblica?
«I tempi sono maturi da un pezzo. Ma che sia uomo o donna, l’importante è che sia la persona adatta al ruolo».
Qual è il podio delle donne ammirate da Margherita Granbassi?
«Rita Levi Montalcini, Oriani Fallaci e Margherita Hack, triestina acquisita. Guardo però anche alle donne dietro le quinte che non hanno raggiunto il successo, a quelle che si battono ogni giorno e magari hanno subìto violenza».
Quanto si riconosce nel clima mitteleuropeo di Trieste?
«Tanto. In famiglia abbiamo radici austriache e slovene. La zona di confine mi ha dato grande apertura e la capacità di adattarmi alle situazioni: la mia generazione si sente figlia di un territorio che in un punto ha tre confini; un passo lo fai in Italia, uno in Austria, uno in Slovenia».
Trieste è ritenuta la città più vivibile.
«Ma io, per sport e lavoro, mi ero trasferita a Roma. E non è la stessa cosa!».
Coraggio, vuoti il sacco.
«Imperano la sporcizia e la mancanza di senso civico: il mio quartiere, vicino a Ponte Milvio, è carino ma è tenuto in modo indecente. Molto di Roma mi fa soffrire: sarebbe la città più bella del mondo. Io provo a fare la “nordica”: sfrutto la pista ciclabile anche se fatico a riconoscerla, giro in bici, faccio la differenziata. È una città tenuta in ostaggio dalla politica? Sì, da anni».
Una svolta è possibile?
«Ne serve una orientata anche verso lo sport. Mi sono laureata con una tesi sul turismo sportivo: le città dovrebbero aiutare la mobilità della gente per cambiare atteggiamenti e mentalità».
Margherita ha nuovi progetti all’orizzonte?
«Mi piace scrivere, ma quando si accende la telecamera scatta qualcosa in me pur essendo di una timidezza quasi patologica. La verità è semplice: amo comunicare e adesso l’idea è di farlo come autrice di programmi. Ho scritto dei format, forse il sogno nel cassetto è vederli in tv»
· I Giochi olimpici invernali.
La sfilata di autocrati al banchetto di Xi per l’apertura dei Giochi. Gianluca Modolo su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.
Nella lista di leader invitati ci sono Al Sisi e Mbs, Vucic e Tokaev. Tutti hanno in comune gli stretti rapporti economici con la Cina. Il russo Putin, l’egiziano Al Sisi, il saudita Bin Salman, il serbo Vucic, il kazako Tokaev: tutti insieme al tavolo di Xi Jinping. Tra boicottaggi diplomatici annunciati da mesi (Stati Uniti in primis) per denunciare gli abusi nel Xinjiang, la stretta su Tibet e Hong Kong e, da ultimo, la vicenda della tennista Peng Shuai, e “gentili” rifiuti data la situazione Covid (Giappone, tra gli altri), al banchetto preparato per l’apertura dei Giochi e sugli spalti dello stadio Nido d’uccello la sera del 4 febbraio per la cerimonia inaugurale, Xi si ritroverà accanto soltanto — e probabilmente non gli dispiacerà — una cerchia ristretta di una ventina di dignitari stranieri fidati: non tutti propriamente...
E Xi usa i Giochi come arma diplomatica "Per Putin ci sarà un occhio di riguardo". Luigi Guelpa il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Diffuso l'elenco dei leader che saranno ricevuti all'inaugurazione delle Olimpiadi invernali. Il Cremlino: "Si parlerà anche della crisi".
Le olimpiadi invernali di Pechino servono a Xi Jinping per mostrare al mondo la rinnovata potenza della Cina. Saranno funzionali a rafforzare il consenso interno, cementare i legami tra il regime e alcuni grandi interessi privati che hanno contribuito a finanziare l'evento, ma soprattutto a irrobustire il dialogo con lo storico alleato russo. Xi osserva con grande attenzione le manovre di Putin nel Donbass, vorrebbe quasi invitare il leader del Cremlino a invadere i confini ucraini per comprendere meglio le eventuali contromosse dell'Occidente, e casomai armare le sue truppe e sbarcare a Taiwan. Saranno quindi giochi politici quelli che si apriranno martedì prossimo, perché a dispetto della retorica le olimpiadi sono un fenomeno politico come pochi altri, con buona pace degli atleti e delle loro gesta.
Non a caso il presidente cinese riceverà oltre venti leader stranieri la settimana prossima. Oltre a Putin ci saranno anche il presidente egiziano, Al Sisi e il principe ereditario saudita Bin Salman. Arriverà anche il discusso presidente kazako Tokayev, e dall'Europa il polacco Duda, il serbo Vucic, il principe Alberto di Monaco e il granduca Enrico del Lussemburgo. Putin sarà l'ospite che riceverà un trattamento di favore. Secondo quanto si legge nel programma, il capo del Cremlino, oltre a partecipare alla cerimonia d'apertura dei giochi nel pomeriggio del 4 febbraio, «terrà un evento con Xi per rimarcare la solidità dei legami», conferma il suo portavoce Dmitry Peskov. «L'incontro sarà a tutto campo - aggiunge - e vedrà impegnati i due Presidenti sia da soli che insieme alle delegazioni. Putin e Xi sincronizzeranno i loro orologi sui settori principali di cooperazione». I due leader discuteranno in particolar modo del dialogo fra Russia e Stati Uniti, tra Mosca e Nato, di garanzie di sicurezza e della stabilità strategica in Europa. Va ricordato che alla delegazione russa, incluso Putin, sarebbe vietato partecipare alle competizioni internazionali dopo lo scandalo del doping di Stato. L'ostacolo è stato aggirato grazie all'invito personale di Xi. Si tratta di uno scambio di favori, visto che proprio Xi si recò nel 2014 a Sochi in occasione dei giochi a cinque cerchi russi. Da quella data sono cambiati gli scenari internazionali, e il rapporto tra Mosca e Pechino si è ulteriormente rafforzato. Il comune fronte anti-occidentale, e una forte sussidiarietà economica, hanno fatto sì che i due Paesi aumentassero notevolmente i loro rapporti commerciali dal 2014 a oggi. Per la Russia la Cina, con le sue necessità di risorse energetiche, rappresenta un mercato enorme, in crescita e vicino. Allo stesso tempo, la Cina fornisce alla Russia beni manifatturieri e investimenti a prezzi competitivi.
Il mondo starà a guardare con grande attenzione al bilaterale Putin-Xi, ma a distanza di sicurezza. La kermesse è segnata dal boicottaggio diplomatico di diversi Paesi occidentali, per le violazioni dei diritti umani sugli uiguri. Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada e Danimarca non invieranno delegazioni diplomatiche a Pechino. Altri Paesi si aggrapperanno invece alle restrizioni della pandemia per giustificare l'assenza. Luigi Guelpa
Gabriele Carrer per formiche.net il 30 gennaio 2022.
Telefoni e computer di atleti, staff e giornalisti italiani impegnati a Pechino 2022 sono “al sicuro”. I timori di violazioni e sorveglianza sono “infondati”. Per questo, il Coni non ha pensato di mettere a loro disposizione telefoni usa e getta. È quanto spiega l’ufficio stampa dell’organismo a Formiche.net in vista delle Olimpiadi invernali che inizieranno il 4 febbraio nella capitale cinese.
Altre delegazioni, tra cui quella degli Stati Uniti, hanno fatto scelte diverse.
A differenza delle passate edizioni dei Giochi, per quelli di Pechino non sono attesi grandi attacchi informatici da Paesi culle di hacker come Corea del Nord, Iran e soprattutto Russia per via dei loro legami geopolitici con la Cina.
Piuttosto, hanno avvertito gli esperti della società Recorded Future, bisogna aspettarsi offensive di hacktivisti decisi a prendere di mira la Cina (anche attraverso gli sponsor dell’evento) per i diritti umani violati e tentativi di violare la sicurezza e la privacy degli atleti e ai giornalisti.
La mente corre al precedente delle Olimpiadi estive del 2008 a Pechino, quando i giornalisti hanno scoperto di non poter accedere a molti siti web, nonostante le ripetute promesse del Comitato olimpico internazionale e dei funzionari cinesi di un accesso illimitato. Il Cio aveva poi ammesso di aver stretto un accordo con le autorità cinesi accettando alcune restrizioni.
Questa volta la situazione è, se possibile, ancor più complicata vista la stretta della censura che il governo cinese ha messo in atto negli ultimi anni, in particolare dopo le proteste a Hong Kong e la visibilità internazionale alla situazione degli uiguri nello Xinjiang.
Questioni che hanno spinto alcuni Paesi al boicottaggio diplomatico dei Giochi. Tra questi, gli Stati Uniti e il Regno Unito. Non l’Italia, che sarà rappresentata dall’ambasciatore a Pechino Luca Ferrari, in assenza di Valentina Vezzali, sottosegretaria allo Sport, risultata positiva al Covid-19, e che sta lavorando con la Cina in vista del passaggio di testimone: tra quattro anni i Giochi invernali si terranno, infatti, a Milano e Cortina.
Pechino ha promesso alle delegazioni libero accesso alle piattaforme di social media e altri siti web nel villaggio olimpico di Pechino aprendo temporaneamente e localmente il suo “Grande firewall”.
Le autorità cinesi hanno detto che atleti e media avranno accesso illimitato a Internet attraverso speciali carte Sim. Inoltre, tramite le ambasciate cinesi nel mondo, hanno respinto i timori delle delegazioni spiegando che i dati sono “al sicuro”.
“È un modo per la Cina di diffondere facilmente narrazioni positive sulle Olimpiadi di Pechino, in mezzo a tutte le critiche sui diritti umani”, ha detto Kenton Thibaut, China Fellow presso il Digital Forensic Research Lab dell’Atlantic Council al sito Axios.com.
Più duro Victor Cha, vicepresidente del Center for Strategic and International Studies: “Si danno queste arie come se stessero permettendo la libertà di parola e di movimento, cose che sono sinonimo della tradizione liberale delle Olimpiadi.
Ma in realtà, tutto è attentamente monitorato”. Poi ha aggiunto: “Anche se permettono l’accesso ai social media, non credo che nessun atleta twitterà qualcosa su Hong Kong o Taiwan”. Secondo Thibaut, anche il Wi-Fi in dotazione rappresenta un rischio: gli atleti che lo utilizzano “devono semplicemente presumere che tutto ciò che stanno facendo sia monitorato”.
Nelle scorse settimane il New York Times aveva raccolto i timori, sotto anonimato, di alcuni atleti spaventati: criticare il governo cinese pubblicamente potrebbe scatenare dure reazioni.
Anche perché “il governo cinese ha gli strumenti e le capacità per tracciare e monitorare ciò che gli atleti stanno facendo e ciò che dicono, e non ha paura di usare misure coercitive se lo ritiene necessario”, ha detto Steven Feldstein, senior fellow al Carnegie Endowment for International Peace, a Axios.com.
Gli esperti di sicurezza informatica raccomandano telefoni usa e getta, utilizzo di Vpn, carte Sim non fornite delle autorità cinesi. E nei giorni scorsi gli analisti di Citizen Lab hanno riscontrato problemi di crittografia nell’app My2022, obbligatoria per gli atleti per il monitoraggio delle condizioni di salute e la prevenzione della diffusione del Covid-19.
Molte le delegazioni che stanno correndo ai ripari, come riporta Axios.com. Le autorità olandesi hanno invitato gli atleti a lasciare telefoni e computer portatili a casa. Quelle britanniche hanno messo a disposizione dispositivi usa e getta per gli atleti interessati.
Quelle tedesche hanno fornito smartphone del partner Samsung e invitato gli atleti a utilizzare soltanto l’app My2022, per il monitoraggio delle condizioni di salute. Quelle statunitensi hanno avvertito che “ogni dispositivo e ogni comunicazione, transazione e attività online saranno monitorati” e ha invitato gli atleti a usare dispositivi usa e getta.
Dagotraduzione da Axios il 2 febbraio 2022.
È probabile che il Covid causi un calo del pubblico, della fanfara e del prestigio solitamente associati a chi ospita le Olimpiadi.
Il quadro generale: stadi vuoti, divieto di visitatori stranieri e una migrazione alimentata dal COVID tra gli spettatori globali lontano dalla TV e allo streaming probabilmente ridurranno l'attenzione che Pechino sperava di raccogliere dai Giochi.
Dettagli: la rigida politica zero-COVID della Cina ha portato i funzionari del paese a vietare gli spettatori stranieri, così come la maggior parte dei fan cinesi.
Un sistema "a circuito chiuso" isolerà tutti i partecipanti olimpici e il personale dai residenti locali. Alcuni governi hanno affermato che non invieranno delegazioni di funzionari a causa del COVID.
Il governo cinese ha pianificato di utilizzare le Olimpiadi per il debutto globale della sua nuova valuta digitale nazionale e ha fatto pressioni su McDonalds, Nike e altri grandi marchi affinché accettassero pagamenti nella nuova valuta durante i Giochi.
Ma la mancanza di visitatori stranieri e l'isolamento dei partecipanti alle Olimpiadi intaccheranno il lancio di alto profilo previsto da Pechino. Lo yuan digitale sarà ancora uno dei soli tre metodi di pagamento che gli atleti stranieri potranno utilizzare nelle sedi olimpiche.
Contesto: il pubblico televisivo statunitense delle Olimpiadi di Tokyo lo scorso anno ha subito il passaggio a piattaforme di streaming come Netflix e Hulu durante la pandemia. La NBC, che ha i diritti statunitensi per trasmettere le Olimpiadi, si affidava ancora principalmente alla TV per la sua trasmissione olimpica e la sua nuova piattaforma Peacock, l'unica piattaforma di streaming per mostrare le Olimpiadi, non ha attirato molti spettatori.
Anche la mancanza di fan sugli spalti, il tifo e il senso di condivisione di accompagnamento, hanno ridotto l'entusiasmo tra gli spettatori. Il che ha anche eliminato quello che di solito è uno degli scatti più importanti e virali delle Olimpiadi, il video dei familiari degli atleti seduti sugli spalti per poi reagire alla vittoria del loro atleta.
Per affrontare questi problemi alle Olimpiadi di Pechino, la NBC trasmetterà in simultanea i familiari degli atleti che guardano da casa nella speranza di cogliere momenti di gioia ed eccitazione. La società ha anche semplificato la visione dei Giochi su Peacock.
Cosa guardare: Tokyo è stata la prima Olimpiade di TikTok . A Pechino, i video virali di TikTok degli atleti possono aiutare a riportare parte del pubblico e dell'entusiasmo.
Arresti e torture, la Cina vince le Olimpiadi della paura. Pechino pronta a ospitare i Giochi invernali, mentre la repressione colpisce anche donne e bambini. Ma il presidente del Coni boccia il boicottaggio: «Il mio ruolo è solo sportivo». Fabrizio Gatti su l'Espresso il 17 gennaio 2022.
Il regime nazionalcomunista cinese è pronto per il ritorno sul palcoscenico globale. Venerdì 4 febbraio lo stadio nazionale di Pechino ospiterà in mondovisione la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali. È il primo appuntamento internazionale con la Cina, a due anni esatti dallo scoppio della pandemia. L’Italia sportiva parteciperà ai massimi livelli, a cominciare dal presidente del Coni, Giovanni Malagò.
Dagotraduzione dalla Reuters il 26 gennaio 2022.
Gli organizzatori delle Olimpiadi di Pechino stanno al passo con la tradizione di mettere a disposizione degli atleti i preservativi, nonostante le dettagliate linee guida sul distanziamento sociale volte a frenare la diffusione del COVID-19 all'interno del "circuito chiuso" in cui i Giochi si svolgeranno.
«Tutte le unità legate alle Olimpiadi forniranno quantità adeguate di preservativi gratuitamente al momento opportuno alle persone che hanno effettuato il check-in per rimanere all'interno del circuito», hanno detto gli organizzatori a Reuters via e-mail martedì.
I Giochi si svolgeranno dal 4 al 20 febbraio a Pechino e nella vicina città di Zhangjiakou all'interno di una bolla che separerà rigorosamente gli atleti e il personale dei Giochi dal pubblico.
I giornalisti che hanno fatto il check-in al Guizhou Hotel, che si trova all'interno del circuito chiuso, hanno trovato cinque preservativi avvolti singolarmente in ogni stanza. Erano confezionati singolarmente in buste di diversi colori decorate con l'immagine di una lanterna cinese.
Gli organizzatori non hanno detto immediatamente quanti preservativi avrebbero distribuito.
Nel playbook sulle misure COVID-19 per il personale dei Giochi, agli atleti viene chiesto di ridurre al minimo le interazioni fisiche come abbracci, dare il cinque e strette di mano e di mantenere una distanza sociale di almeno due metri dagli altri concorrenti.
In vista dei Giochi di Tokyo della scorsa estate, gli organizzatori hanno dichiarato di aver pianificato di regalare circa 150.000 preservativi, ma hanno detto agli atleti di portarli a casa piuttosto che usarli nel villaggio olimpico a causa delle regole di distanziamento sociale e delle misure del coronavirus.
Un gran numero di preservativi è stato distribuito ai Giochi dalle Olimpiadi di Seoul del 1988 per aumentare la consapevolezza sull'HIV e l'AIDS, e gli organizzatori di Tokyo hanno affermato che il Comitato Olimpico Internazionale ne aveva chiesto la continua distribuzione.
La Cina delle Olimpiadi alla conquista del mondo. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.
Com’è cambiato il Paese dal 2008 al 2022, e come l’Occidente è rimasto indietro. Da un’Olimpiade all’altra sembriamo più consapevoli delle minacce cinesi.
Dai Giochi estivi di Pechino nel 2008 alle Olimpiadi invernali del 2022: il confronto tra i due eventi a 14 anni di distanza rivela tutto ciò che è cambiato nel mondo. Quanto è diversa la Cina di oggi, e la percezione che ne abbiamo noi. Quanto è più debole l’Occidente, che diffida di Xi Jinping ma si rivela incapace di ridurre la propria dipendenza dal made in China. Qualche coincidenza è emblematica. I Giochi del 2008 si aprivano mentre l’America stava per sprofondare nella crisi dei mutui, un tornante decisivo del suo declino. E in quei giorni la Russia attaccava la Georgia sotto gli occhi di un George W. Bush impotente perché impantanato in troppi conflitti (Iraq, Afghanistan).
Ai Giochi del 2008, che seguii come corrispondente da Pechino, nessuno si sognò di immaginare un boicottaggio. La Repubblica Popolare fu omaggiata da delegazioni governative di alto livello e Vip da tutto il mondo. Era il momento in cui «scoprivamo» la nuova superpotenza in tutto il suo fulgore, e per rendersi bella la capitale aveva chiamato archistar internazionali a costruire edifici spettacolari. Gli abusi contro i diritti umani erano già ben visibili: pochi mesi prima dei Giochi c’erano state rivolte in Tibet, schiacciate col pugno duro dell’esercito. Ma il capitalismo occidentale era in piena luna di miele con la «fabbrica del pianeta», dove oltretutto riusciva a delocalizzare le produzioni più inquinanti. In particolare la simbiosi tra l’economia americana e quella cinese sembrava perfetta, una complementarietà armoniosa. Nell’establishment americano molti teorizzavano che a furia di arricchirsi i cinesi sarebbero diventati proprio come noi: più liberi, più democratici.
I Giochi invernali 2022 si apriranno in un mondo irriconoscibile. La crisi dei mutui, allargatasi fino a diventare uno schianto finanziario globale, fece esplodere contraddizioni enormi dentro gli Stati Uniti: consentì l’elezione di Barack Obama ma alimentò una rabbia operaia contro i danni della globalizzazione, che ci avrebbe dato Donald Trump. La Cina fu l’unica grande economia a salvarsi, usando con vigore tutti gli strumenti del dirigismo e del capitalismo di Stato. Risale al 2008 una sorta di «epifania» cinese: la rivelazione di tutte le fragilità occidentali agli occhi della dirigenza comunista. Cominciò a manifestarsi un complesso di superiorità, e l’ascesa dell’autocrate Xi Jinping dal 2012 ha confermato una classe dirigente sempre più sicura di sé, fino all’arroganza. È nata nella diplomazia cinese la generazione dei «guerrieri lupo», con un linguaggio nazionalista e bellicoso che spazza via le cautele tradizionali. Dalle Nuove Vie della Seta all’espansionismo anche militare in Asia e in Africa, un progetto egemonico ha preso corpo.
Il Covid poteva deragliare la marcia trionfale della Cina. Il bilancio finale è prematuro, per adesso Xi è convinto di aver trasformato una potenziale débacle in una vittoria. Continua a perseguire una irrealistica politica del «Covid zero», l’estirpazione completa del virus, con costi umani enormi. I Giochi blindatissimi che stanno per aprirsi sono il culmine di questo esperimento estremo. L’apparizione di piccoli focolai di contagio ha fatto scattare nuovi lockdown in grandi città come Xian; restrizioni mirate hanno colpito i porti di Shanghai, Tianjin, Ningbo. La xenofobia viene alimentata dall’alto con fake-news ufficiali sul contagio importato attraverso prodotti stranieri. Atleti e allenatori vivono in una «bolla» isolata. Le vendite di biglietti sono state chiuse. La capitale, sede principale dei Giochi e anche della classe dirigente, è circondata da un cordone sanitario. Gran parte della popolazione cinese, in particolare i migranti delle campagne, subirà divieti di viaggio durante la festività del ricongiungimento familiare, il Capodanno lunare. Ci sono tutte le condizioni perché la società cinese, dopo due anni di restrizioni, sia una «pentola a pressione» pronta a esplodere, ma finora non sono giunti fino a noi dei segnali di tensioni sociali gravi.
Alla pandemia si aggiungono tutti i problemi antecedenti: la crescita economica continua a rallentare; le bolle finanziarie soprattutto nel settore immobiliare sono mine vaganti; il crollo della natalità e la rapida decrescita demografica provocano un invecchiamento a cui la Cina è impreparata. Affrontare insieme questi problemi sembra quasi impossibile: terapie d’urto contro le bolle speculative, o per la riduzione delle emissioni carboniche, sarebbero un ulteriore freno alla crescita che Xi non si può permettere.
Alle sue debolezze nascoste la Cina risponde con un’esibizione di autostima, che contrasta con lo stato d’animo dell’Occidente: angosciato e depresso. Da un’Olimpiade all’altra sembriamo più consapevoli delle minacce cinesi, più spaventati, e al tempo stesso più insicuri di noi stessi. Il «boicottaggio diplomatico» di questi Giochi — che significa solo non mandare delegazioni governative di alto rango — vede gli alleati divisi (l’Italia è tra i Paesi che non partecipano). I dazi di Trump, le varie forme di embargo e sanzioni, la strategia delle alleanze di Biden, non hanno scalfito la macchina da guerra delle esportazioni made in China. Al contrario. Le economie occidentali soffrono per scarsità di prodotti e manodopera, inflazione; le penurie vanno dalle navi porta-container ai camionisti. L’unica cosa che non scarseggia sono le importazioni dalla Cina: basta entrare in una farmacia europea a comprare delle mascherine, o navigare nel catalogo di Amazon, per averne conferma. Xi Jinping almeno finora è riuscito in un’impresa inverosimile: ha «sequestrato» 1,4 miliardi di cinesi con la semi-chiusura delle frontiere, senza indebolire l’apparato industriale del suo Paese.
Xi ha un mare di problemi e il trionfalismo della sua propaganda non deve farci velo. Ma finora quello più facile da gestire siamo noi occidentali. Il record storico dell’attivo commerciale cinese a 676 miliardi di dollari a fine 2021 ha chiuso il secondo anno della pandemia in modo clamoroso. Nello scacchiere geopolitico, Medvedev nel 2008 irritò Pechino guastando l’inaugurazione dei Giochi con l’operazione-Georgia; oggi l’asse tra Cina e Russia si è consolidato e incoraggia le mire di Putin in Europa.
Pechino, aperti i Giochi olimpici invernali. Gli azzurri sfilano in mantella tricolore, braciere acceso da un'atleta uigura. Mattia Chiusano, Alessandra Retico su La Repubblica il 4 Febbraio 2022.
L'Italia dietro alla portabandiera Michela Moioli, penultima davanti alla Cina. Due settimane di gare, chiusura il 20 febbraio. Al "Nido d'uccello" solo tremila spettatori per le rigide norme anti Covid. Putin applaude gli atleti russi. Il presidente del Cio Bach cita John Lennon: "Give peace a chance". La ventiquattresima Olimpiade invernale è iniziata. La cerimonia d'apertura dei Giochi di Pechino 2022, blindata per le rigide norme anti Covid volute dalla Cina, si è tenuta al "Nido d'uccello", lo stadio costruito per le Olimpiadi 2008, con una capienza al 60 per cento. La capitale cinese è la prima città al mondo ad aver ospitato sia l'edizione estiva che quella invernale. A differenza di quattrodici anni fa, hanno preso parte tremila comparse, e non quindicimila.
Novantuno nazioni partecipanti, esordio per Arabia Saudita e Haiti. L'Italia, rappresentata da 118 atleti, sfila in mantella tricolore e mascherina guidata dalla portabandiera Michela Moioli, campionessa in carica nello snowboard che ha sostituito l'infortunata Sofia Goggia. Il presidente del Cio Thomas Bach cita John Lennon nel suo discorso: "Date una chance alla pace". Poi l'accensione del braciere: due atleti, tra cui una della minoranza uigura, la fondista Diniger Ylamuijang, sono stati gli ultimi dei 1.200 tedofori che hanno portato la fiaccola negli ultimi tre giorni attraverso i luoghi delle gare di questi Giochi.
Il conto alla rovescia è partito da 24, secondo il calendario lunare in cui ogni mese è diviso in due Jie Qi (periodi). Ognuno dei 24 periodi, che durano due settimane, ha un nome che corrisponde al rapporto dei cinesi con la natura. I nomi dei mesi sono stati stilizzati abbinandoli a immagini degli sport invernali. Il countdown termina con una celebrazione della primavera, la vita nuova che segue il gelo, e un'esplosione di verde. Poi i fuochi d'artificio con la parola "Spring".
Le telecamere inquadrano Xi Jinpging e Bach mentre la bandiera cinese passa fra le mani di cinesi di 56 etnie diverse, tra cui gli uiguri. Viene issata la bandiera e viene eseguito l'inno nazionale della Repubblica Popolare Cinese, la Marcia dei Volontari. Il direttore della cerimonia inaugurale è Zhang Yimou, regista di Lanterne Rosse. Ha guidato un team operativo con un solo straniero, il consulente creativo Scott Givens.
La cerimonia spettacolare prosegue con l'omaggio al Fiume Giallo: una goccia d'inchiostro cinese si trasforma in un flusso d'acqua azzurra che sgorga dal cielo. Dall'acqua emerge un blocco di ghiaccio su cui vengono proiettati i nomi della città che hanno ospitato i Giochi invernali in passato. Sei giocatori di hockey giocano con un puck virtuale, il ghiaccio si rompe e si scioglie e compaiono i Cinque Cerchi, tutto grazie alla tecnologia laser. Sotto, gli atleti delle 91 nazioni che parteciperanno ai Giochi.
La prima nazione a sfilare è la Grecia, come da tradizione: è la culla dei Giochi. La sua delegazione è di cinque atleti, i portabandiera sono Maria Ntanou e Apostolos Angelis, entrambi atleti di cross-country.
Poi tocca a Turchia, Malta e Madagascar, l'ordine segue l'alfabeto cinese. L'Italia sfila per penultima, in quanto organizzerà i Giochi del 2026 a Milano e Cortina. Ultima la Cina. Molti Paesi hanno scelto due portabandiera, per gli azzurri Moioli che sostituisce Goggia, infortunata e in cerca di un miracoloso recupero per partecipare alla discesa del 15 febbraio. Dei 118 atleti delle delagazione sfileranno solo 50, gli altri sono già concentrati sulle gare di domani.
La sfilata prosegue con Malesia, Ecuador, Eritrea. Poi la Giamaica con Jazmine Fenlator-Victorian (bob) e Benjamin Alexander (sci alpino). Dopo Belgio e Giappone (124 atleti) è la volta di Taipei/Taiwan, con quattro atleti (Yu ting Huang e Ping-jui Ho i porta bandiera), e di Hong Kong, con tre partecipanti e il portabandiera Sidney Chu (short track). Il pubblico cinese applaude le due squadre.
Seguono Danimarca, Ucraina, Uzbekistan e il Brasile, che ha 11 atleti ma sfila solo con i portabandiera, Jaqueline Mourao e Edson Iuques Bindilatti. Mourao, ciclista ma anche atleta di biathlon e cross-country, è una dei due atleti ad aver partecipato anche a Pechino 2008. Dopo di loro, sui led illuminati del pavimento, Pakistan, Israele, Timor Est, Macedonia del Nord, Lussemburgo e Bielorussia.
Poi è la volta dell'India col portandandiera Arif Mohd Khan. Come gli Usa, il Paese boicotterà diplomaticamente i Giochi e non trasmetterà le gare in diretta. Ecco anche Lituania, Nigeria, Ghana, Canada e San Marino. I portabandiera del Monte Titano sono Anna Torsani e Matteo Gatti, entrambi dello sci alpino. Per il Kyrgyzstan lo sciatore Maksim Gordeev. Quindi Armenia, Spagna, Liechtenstein (due atleti in totale). Anche l'Iran presenta due portabandiera: la sciatrice Atefeh Ahmadi e il collega Hossein Saveh Shemshaki. Seguono Ungheria, Islanda, Andorra, Finlandia e Croazia.
È poi la volta dell'Arabia Saudita, Paese esordiente ai Giochi invernali insieme ad Haiti. Il portabandiera è Fayik Abdi, slalomista che si è presentato con il costume tradizionale. Seguono Albania, Argentina, Azerbaigian con Vladimir Litvintsev (pattinaggio di figura) e Lettonia. La bandiera della Gran Bretagna è in mano a Dave Ryding, che a 35 anni ha vinto lo slalom di Kitzbuehel, primo successo britannico in coppa del mondo, e Eve Muirhead, bronzo nel curling a Sochi.
Dopo la Romania sfilano gli atleti russi, senza la bandiera nazionale per la squalifica dopo i casi di doping ma con quella del Roc, il comitato olimpico russo, sotto gli occhi di Vladimir Putin, che ha incontrato Xi Jinping prima della cerimonia. Il portabandiera è Vadim Shipachyov, uno degli hockeisti oro a PyeongChang che cantarono l'inno nazionale nonostante il bando della Russia per doping.
Sfilano la Francia con Tessa Worley e Kevin Rolland, la Polonia, Porto Rico (la portabandiera è Kellie Delka dello skeleton, con William Flaherty dello sci), Bosnia-Erzegovina e Bolivia. Poi è la volta della Norvegia, la nazionale da battere, prima del nel medagliere all-time dei Giochi invernali inseguita dagli Stati Uniti. I portabandiera norvegesi sono Kjetil Jansrud, rivale di Dominik Paris, e Kristin Skaslien del curling, battuta qualche ora prima dall'Italia. Seguono Kazakistan, Kosovo, Bulgaria.
Ecco gli Stati Uniti, le Isole Vergini e Samoa, col portabandiera Nathan Crumpton che sfida il freddo a torso nudo. Tocca poi a Thailandia, Paesi Bassi, Georgia, Colombia, Trinidad & Tobago e Perù. Nello stadio suona la marcia dell'Aida, prima dell'ingresso in pista di Irlanda, Estonia, Haiti, Repubblica Ceca, Filippine, Slovenia, Slovacchia, Portogallo, Corea del Sud, Montenegro, Cile, Austria, Svizzera (168 atleti, il quinto contingente qui a Pechino), Svezia, Mongolia (con i due portabandiera in abiti tradizionali), Nuova Zelanda, Serbia.
Per Cipro il portabandiera è lo sciatore Yianno Kouyoumdjian, per il Messico il pattinatore Donovan Carrillo e la sciatrice Sarah Schleper, e poi il Libano con Manon Ouaiss e Cesar Arnouk, due sciatori. La Germania, salutata dal presidente del Cio Bach, ha scelto Claudia Pechstein (speed skating) e il bobbista Francesco Friedrich. Doina Descalui (slittino) porta la bandiera della Moldova, Arnaud Alessandria quella del Principato di Monaco, Yassine Aouich quella del Marocco.
Terzultima a sfilare l'Australia poi, finalmente, è il momento dell'Italia, con una mantella che ricorda una bandiera: l'omaggio voluto da Giorgio Armani per il tricolore. Molto concentrata Michela Moioli nel suo ruolo di portabandiera, in onore anche dell'amica Sofia Goggia che avrebbe dovuto essere al suo posto questa sera prima dell'infortunio di Cortina. Tra gli azzurri saluta e sorride Marta Bassino, nel gruppo si riconosce anche il pattinatore Daniel Grassl. In tribuna si alza e saluta Federica Pellegrini, per la prima volta dall'altra parte come membro del Cio. Un colpo d'occhio bellissimo. Alla sfilata 50 atleti sui 118 che gareggeranno (ottava delegazione più numerosa a Pechino).
Chiude la sfilata la Cina padrona di casa, salutata dal presidente Xi, in piedi sorridente.Cinesi in tenuta rigorosamente rossa e bandierine al vento. Poi la chiusura della cerimonia con un altro effetto laser spettacolare: enormi fiocchi di neve che cadono sul pavimento azzurro, ognuno con all'interno il nome di uno dei 91 Paesi partecipanti. Ogni fiocco diverso dall'altro, per rappresentare l'unicità di ogni nazione.
Il presidente del Cio Bach ha preso la parola, lanciando un appello nel nome di John Lennon e del suo "Give peace a chance": "La missione olimpica è questa: unirci in una competizione pacifica, costruendo sempre ponti, mai erigendo muri. Unendo l'umanità in tutte le sue diversità. Questa missione è fortemente sostenuta dall'Assemblea delle Nazioni Unite, che ha adottato la risoluzione sulla tregua olimpica. In questo spirito olimpico di pace mi appello a tutte le autorità politiche del mondo, affinché si impegnino in questa tregua olimpica". Una chiaro riferimento alle tensioni di queste settimane, soprattutto sul confine tra Russia e Ucraina. "Give peace a chance" la citazione del numero uno del Cio.
Il presidente del Coni Giovanni Malagò, ancora positivo al Covid, ha seguito la cerimonia in un albergo a poche centinaia di metri dallo stadio. "La cerimonia d'apertura è sempre un'emozione indescrivibile, unica e ogni volta che la vedi, dal vivo o in televisione, come è toccato a me, capisci perché le Olimpiadi sono l'unico spettacolo al mondo globalizzante. Mi sono molto emozionato a vedere sfilare Michela Moioli con la bandiera. L'ho sentita al telefono poco prima dell'ingresso in campo. Era tesa ma felice. La squadra era elegantissima con la mantella disegnata da Giorgio Armani. Il tricolore è sempre da brividi".
Il primo a entrare nello stadio con la fiaccola olimpica è Luo Zhihuan, primo cinese campione del mondo negli sport invernali (pattinaggio di velocità 1963). A seguire i campioni olimpici cinesi Zhang Hui, Li Jiajun, Shen Xue, Han Xiaopeng e Zhang Hong. il gigantesco fioco di neve col nome di tutte le nazioni partecipanti si alza col fuoco olimpico all'interno mentre i bambini figuranti compongono un cuore.
Cina da "preda" a "predatore" nel giro di due Olimpiadi. Vittorio Macioce il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.
I Giochi del 2008 furono un’illusione: da predatori siamo preda della Cina. L’obiettivo globale del regime: sostituirsi alle libertà occidentali.
L'estate era solo un inganno, con le speranze che si sono incancrenite in fretta, troppo avidi, noi, troppo ingenui, troppo miopi per vedere quello che stava lì, davanti a tutti. È che c'è sempre un alibi per relegare la miseria di libertà nel sottoscala delle cose inutili. Cosa vuoi che sia? Un compromesso si trova, soprattutto quando si parla di sport e sotto lo sport ci sono gli affari. È lo spirito olimpico che conta. Il potere va bene, ma la politica, come radice umana, quella deve restare fuori. E così sia.
Pechino 2008, come una festa, cinque cerchi e la Cina apre le porte. È la grande scommessa, un mercato così immenso che non fai neppure in tempo a contarlo. È la fiera dell'Est. Si compra e si vende. Non c'è nulla di più ipnotico della globalizzazione. Il futuro è una giostra e Beijing non è mai stata così vicina. Il simbolo è un uomo stilizzato in vernice bianca in campo rosso. Si muove senza sapere dove andare. Le mascotte sono cinque Fuwa, bambole della fortuna. La Cina è la regina dei giochi e vince 100 medaglie, cinquantuno sono d'oro. Gli Stati Uniti di Obama sono già un impero in dismissione. Terza c'è sempre la Russia. L'Italia è nona, dietro al Giappone e davanti alla Francia. Sono gli anni del fulmine Bolt. È un'apparizione di nove secondi e sessantanove centesimi. Il quarantunesimo passo sembra quasi al rallentatore, come se avesse voglia di sospendere il tempo, di fermarsi lì ancora un altro po', per godersi la scena, per non dover scappare via. Sono gli otto ori di Michael Phelps, lo squalo di Baltimora, che va oltre l'impossibile segnato dal baffo anni '70 di Mark Spitz. Sono Federica Pellegrini e Valentina Vezzali e la marcia improvvisa di Alex Schwazer. È il principe Carlo che diserta l'inaugurazione per ricordare al mondo che in Tibet la libertà è morta da tempo. La sorpresa è che il pubblico di Pechino applaude gli atleti di Taipei, il nome clandestino che Taiwan è costretta a portare sotto la fiaccola. Il segretario del Partito comunista è Hu Jintao, l'uomo in grigio, che parla poco, padre della «società armoniosa», dove la dittatura non è certo meno morbida, ma ci si preoccupa degli ultimi, riconoscendo che il comunismo è un'utopia e nella realtà c'è chi è troppo ricco e chi è troppo povero. È la Cina che si ingegna a far crescere una classe media. Tutti hanno voglia di crederci, soprattutto gli occidentali, che sognano accordi commerciali e non si sono accorti che i cacciatori sono già diventati prede. Sono loro che verranno colonizzati. L'estate di Pechino è una fata Morgana. È un errore di prospettiva. È un miraggio.
Tocca all'inverno svelare l'illusione. Sono passati quasi tre lustri e Pechino è una regina di ghiaccio. Non sorride e non si nasconde. Adesso è l'Occidente che rinserra le porte, senza respiro per le sue paure e convinto che da Est non arrivi nulla di buono. Pechino 2022 non è una festa. È dubbi e sospetti. È l'inquietudine di chi non sa più tornare indietro e continua a scommettere come il giocatore d'azzardo che ha perso troppo per poter rinunciare a un ultimo tiro di dadi, giocandosi l'ultima libbra di speranza, l'ultimo pezzo di carne. La mascotte è un panda e si chiama Bing Dwen Dwen. È rivestito da un guscio di ghiaccio e il palmo della mano sinistra a forma di cuore. Xi Jinping è il segretario del Partito comunista. È stato di fatto eletto a vita. Non è molto diverso da un imperatore. Non teme di mostrarsi al mondo. Un giorno si giocherà tutto sulla scacchiera di Taiwan. È l'ossessione di una sola Cina, una potenza globale che fonda la sua forza sul capitalismo di Stato, su un connubio di ideologia e religione, su comunismo e confucianesimo e sull'idea che la libertà e la democrazia siano il punto debole dell'Occidente. La sua Cina è diffidente e l'inverno non riesce a nascondere il marcio e la paura. L'1% più ricco della popolazione detiene ora il 31% della ricchezza (non molto lontano dal 35% negli Stati Uniti) e la maggior parte delle persone in Cina rimane relativamente povera: 600 milioni di persone sopravvivono con un reddito mensile inferiore a 1.000 yuan (circa 136 euro) al mese. I giovani si sono riversati nelle metropoli urbane per cercare lavoro, le regioni rurali sono state prosciugate e lasciate al degrado, mentre secoli di vita familiare allargata comunitaria sono stati sconvolti in una generazione, lasciando gli anziani senza figli e senza risorse. La feroce crisi immobiliare di questi mesi e la pandemia senza fine hanno fatto il resto. La Cina, in apparenza mai così forte, ora ha paura di sciogliersi come neve.
Una chiave per conoscerla è seguire una figura che appare poco, ma è il teorico della politica conservatrice di Xi Jinping. Wang Huning è uno dei sette signori del comitato centrale del Partito comunista. È l'unico a non aver mai governato direttamente una provincia. Il suo ruolo è un altro. Chi non lo ama lo paragona a Rasputin, altri parlano di lui come una sorta di Talleyrand o di Kissinger. È l'ispiratore della politica del «sogno cinese». È un sogno imperiale. La promessa è che la Cina non assomiglierà mai alla società americana. A presenziare la cerimonia di apertura ci sarà Vladimir Putin. L'inverno di Pechino è maledettamente reale. Vittorio Macioce
Tra venti di guerra e l’ombra del Covid la Cina in vetrina apre i suoi Giochi e mostra i muscoli. Tony Damascelli il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Coreografia da favola ma stadio mezzo vuoto. Uiguri accendono il braciere. Impassibile Xi, Russia senza bandiera, Italia avvolta dal tricolore.
Una fiaba. L'incantesimo della cerimonia ai Giochi di Pechino per riportarci indietro ai sogni d'infanzia, al mondo delle favole, i giochi delle luci, la magia dei colori, i cicli della natura, il viaggio attraverso le stagioni, i germogli di vita mossi da tremila figuranti, e tra i danzatori una ragazza italiana, Heléna Sambucini, ombre buie e poi chiare, nel Nido d'Uccello, lo stadio della capitale di Cina, trasformato nel fantastico mondo delle Olimpiadi invernali, davanti a Xi Jinping, avvolto in un giubbone a proteggersi dai meno 8 del termometro, lui, leader massimo, segretario generale del Partito Comunista, Presidente della Repubblica Popolare Cinese, fermo come una statua, anzi un monumento, appena un cenno con la mano, nemmeno una smorfia sul viso e dagli occhi quando ha sollevato la mascherina per proclamare l'inizio dell'evento.
La Cina sta racchiusa in quell'immagine, lontana, vicinissima e astuta, con i suoi incantamenti bianchi e d'argento, ideati e allestiti dall'arte scenica del cineasta Zhang Yimou, il regista di Lanterne Rosse, candidato all'Oscar nel 1992, poi direttore della cerimonia di apertura dei Giochi invernali del 2006, l'operaio della Rivoluzione culturale, condannato poi a pagare la vergogna di una multa di un milione di dollari per avere violato la legge del figlio unico, avendone avuti sette e non denunciati tre. Queste, dicono, sono cronache di un tempo e di una Cina che furono, Pechino oggi sforna la rivoluzione del capitale, il mondo scopre non pipistrelli e laboratori del male ma il Lego di una città magica, Bejingland, grattacieli, autostrade, aeroporti, il significato dei Giochi è il messaggio di purificazione, come al tempo della Germania nazista e Berlino Trentasei.
Il mondo in diretta televisiva, senza il minculpop del governo, ha visto non tre, non sette ma mille e ancora mille bambini, cantare, correre, pattinare, sciare, giocare, ridere, la Cina del futuro nel tentativo di oscurare il passato e il presente mai totalmente definito da quelle stesse giovani creature poi destinate a lavori clandestini, la sofferenza e il silenzio dopo la gioia e i canti. La bandiera cinese, le grande stella gialla, simbolo del partito comunista, le altre quattro più piccole, a rappresentare le classi sociali, operai, studenti, contadini e soldati, è passata tra le mani di uomini e donne e militari dei cinquantasei gruppi etnici che compongono la popolazione, il drappo rigido e perfetto è finito nelle mani dei cittadini uiguri il cui genocidio culturale resta una macchia non cancellabile.
Il virus ha tenuto semivuoto lo stadio per poi aprire la finestra e la porta all'ingresso degli atleti in rappresentanza di ottantasette paesi. I nostri azzurri penultimi per alfabeto cinese, avvolti in una enorme mantella tricolore griffata Armani, il sorriso largo di Michela Moioli a guidare la folla biancorosseverde, e poi l'improbabile portabandiera albanese, Denni Xhepa, sciatore diciottenne di Pinerolo, iscritto allo sci club Sestriere, quello di Samoa calzava le infradito e il torso ignudo perché anche le Olimpiadi devono avere il loro Achille Lauro, Nathan Crumpton, bravo nello skeleton e sicuramente in ipodermia dopo la passeggiata sotto zero. Mai è stato inquadrato Putin, per scelta o desiderio, la squadra russa ha sfilato senza bandiera, la squalifica di Stato non permette di essere rappresentata ufficialmente, sono i giochi dei Giochi.
Ma è il caso di ricordare una delle follie nostrane, la Rai per le Olimpiadi ha coinvolto 68 persone, come hanno ricordato i titoli di coda alle immagini, tra questi quattro parrucchieri e un capo trucco e parrucco, un perfetto carnevale di Stato. Asterischi avvilenti a margine di una festa di fantasie, altri bambini hanno disegnato un grande cuore di luci, poi due tedofori, un fondista uiguro e una atleta della combinata nordica, hanno acceso la fiamma nell'enorme fiocco di neve che riportava i nomi di tutti i Paesi in gara, i magici fuochi d'artificio hanno dato l'idea di riscaldato il gelo dell'aria. La bolla del Covid sembrava lontanissima nella notte di Pechino. Tony Damascelli
Lo show di Xi, gli autocrati e le bugie di regime. Gian Micalessin il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Che lo sport sia anche una guerra combattuta dagli atleti anziché dai soldati lo sappiamo fin dal 1936 quando Adolf Hitler trasformò le Olimpiadi in un palco affacciato sulla potenza del Terzo Reich.
Che lo sport sia anche una guerra combattuta dagli atleti anziché dai soldati lo sappiamo fin dal 1936 quando Adolf Hitler trasformò le Olimpiadi in un palco affacciato sulla potenza del Terzo Reich. Caduto il Fuhrer toccò all'Unione Sovietica e agli alleati del Patto di Varsavia schierare plotoni di nuotatrici-virago pronte a dominare le vasche olimpiche a colpi di ormoni. Del resto anche le Olimpiadi di Roma del 1960 contribuirono, seppur più bonariamente, a mostrare il volto di un Italia pronta ad intraprendere la strada della rinascita dopo un difficile dopo guerra. In tema di paragoni però, i giochi invernali di Pechino ci riportano inevitabilmente alla Berlino del 1936.
Con una differenza sostanziale. Là, nonostante le persecuzioni fossero già incominciate, le deportazioni di massa e il genocidio degli ebrei dovevano ancora iniziare. A Pechino invece lo schermo dei cinque anelli, oltre a proiettare l'immagine di una Cina sempre più potente in campo economico e militare, nasconde anche un genocidio già avviato. La farsa dell'accensione del braciere olimpico affidata alla fondista uighura Diniger Ylamuijang punta a distogliere la vista dagli orrori dello Xinjiang dove, dal 2017 ad oggi, oltre un milione di musulmani sono stati deportati in campi di lavoro. Ma la repressione della minoranza uighura va di pari passo con la normalizzazione del Tibet dove una capillare colonizzazione ha trasformato in minoranza la popolazione originaria. Il tutto mentre continua l'irreggimentazione di Hong Kong dove il principio di «uno stato due sistemi», introdotto per garantire lo stato di diritto almeno fino al 2047, è stato cancellato a colpi di leggi speciali. Davanti allo schermo dei cinque anelli il regime cinese schiera invece gli alleati e gli amici chiamati a sancire, con Vladimir Putin in testa, la politica di contrapposizione all'Occidente. Una politica che è anche lotta per il controllo di energia e commerci. Perché se la sintonia con il presidente russo è sinonimo di alleanza strategica a livello planetario quella con il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sissi, padrone di Suez, è simbolo della lotta per il controllo delle rotte commerciali. Dietro i posti d'onore riservati al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, all'omologo degli emirati Mohamed bin Zayed e all'emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani s'intravvede invece il tiro alla fune intrapreso per strappare all'Occidente le forniture di gas e petrolio. Ma non sono le uniche sfide.
Ogni stella sul medagliere simboleggerà anche le flotte di droni, portaerei e lanciamissili schierate dal presidente Xi Jinping per dominare il Pacifico. Mentre le ferree misure sanitarie imposte per evitare i contagi, e garantire l'indiretto controllo di ospiti e atleti, non devono farci dimenticare un'altra verità nascosta. Ovvero che sotto i panni del «grande infermiere» si cela l'untore responsabile dello scoppio pandemia e della sua diffusione a livello globale.
Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.
La cerimonia d'apertura. Olimpiadi invernali, la propaganda del regime di Pechino: il braciere acceso da un’atleta uigura. Redazione su Il Riformista il 4 Febbraio 2022.
La 24esime edizione dei Giochi olimpici invernali hanno ufficialmente il via con la cerimonia d’apertura tenuta il 4 febbraio, nel pomeriggio italiano, nello Stadio Nazionale di Pechino, il “Nido d’uccello” costruito per le olimpiadi del 2008. Una cerimonia sfarzosa durate circa due ore, diretta dal registra cinese Zhang Yimou, un uomo capace di tre nomination agli Oscar per i film Hero, Ju Dou e Lanterne Rosse, conclusasi con l’accensione del braciere olimpico da parte degli atleti di casa Dinigeer Yilamujiang e Zhao Jiawen.
Una cerimonia blindata a causa delle restrizioni per l’epidemia di Covid-19 alla quale hanno partecipato 3mila comparse, mentre la capienza dello stadio era ridotta al 60 per cento. Migliaia le persone che hanno sfidato le temperature proibitive della capitale, dove si sono registrati anche i dieci gradi sotto zero.
In pista invece hanno sfilato 91 nazioni, tra cui alcune all’esordio come Haiti o l’Arabia Saudita. Per l’Italia la delegazione composta da 118 atleti, che ha sfilato in mantella tricolore, è stata capitanata dalla portabandiera Michela Moioli, campionessa in carica nello snowboard che ha sostituito l’infortunata Sofia Goggia, che è rimasta in Italia nel tentativo di recuperare la condizione fisica in vista delle gare di sci alpino della prossima settimana.
Importante e dal sapore smaccatamente propagandistico la scelta di far accendere il braciere olimpico a Dinigeer Yilamujiang, atleta della minoranza uigura, che da tempo subisce la repressione brutale del regime di Pechino nello Xinjiang.
Giochi olimpici che, come spesso accade, sono anche occasioni politiche. Al “Nido d’uccello” non c’erano diplomatici statunitensi, britannici, australiani, neozelandesi e canadesi perché i loro paesi hanno scelto di boicottare le Olimpiadi in segno di protesta verso le repressioni e i crimini commessi dal governo cinese contro le minoranze nel paese.
Non ha mancato l’appuntamento di Pechino invece il presidente russo Vladimir Putin, che per l’occasione ha anche incontrato l’omologo cinese Xi Jinping. I diplomatici russi, che non avrebbero dovuto essere presenti a causa delle sanzioni internazionali per lo scandalo del doping di stato, erano invece allo Stadio Nazionale perché invitati dalle autorità di Pechino.
Sebastian Bach, il presidente del Comitato olimpico internazionale, nel suo discorso di apertura delle Olimpiadi invernali ha lanciato un appello alla pace internazionale citando John Lennon e il suo “Give peace a chance”. Per Bach infatti la missione olimpica è di “unirci una competizione pacifica, costruendo sempre ponti, mai erigendo muri. Unendo l’umanità in tutte le sue diversità. Questa missione è fortemente sostenuta dall’Assemblea delle Nazioni Unite, che ha adottato la risoluzione sulla tregua olimpica. In questo spirito olimpico di pace mi appello a tutte le autorità politiche del mondo, affinché si impegnino in questa tregua olimpica”. Un messaggio ovviamente rivolto alle tensioni tra Russia e occidente sulla crisi in Ucraina.
Da ilnapolista.it il 4 febbraio 2022.
“In testa alla lista degli invitati c’è Vladimir Putin, "un vecchio amico", come Xi Jinping, il capo di stato cinese e leader del partito, ha recentemente nobilitato di nuovo il suo omologo russo.
E poi ci sono Kassym-Jomart Tokayev, il presidente del Kazakistan, che di recente ha fatto reprimere la rivolta nel suo Paese; capi di stato dal Kirghizistan all’Uzbekistan e dall’Egitto al Qatar; il principe Alberto II di Monaco, il granduca Enrico di Lussemburgo; dall’Europa, il presidente della Polonia Andrzej Duda, i colleghi della Serbia e della Bosnia-Erzegovina; ma anche António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, e Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità”.
La Süddeutsche Zeitung descrive la tribuna Vip della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali di Pechino quasi come fosse una di quelle vecchie barzellette: “Ci sono un tedesco, un cinese eccetera”. In realtà proprio i tedeschi non ci saranno, come molti altri sono in boicotaggio diplomatico più o meno ufficiale.
Ma è indicativo che nel giorno in cui si aprono ufficialmente i Giochi cinesi, la stampa in Germania si premuri di segnare un confine morale: va bene lo sport, la cronaca degli eventi, ma cari lettori sappiate che queste Olimpiadi fanno politicamente un po’ schifo.
Il pezzo d’apertura della SZ si intitola appunto “Una vergogna speciale”, giusto per toccarla pianissimo. E il secondo articolo, a contorno, sfotto ironicamente Bach, il presidente del Cio: “E’ bellissimo essere presidente del Cio”. Dentro lo accusano di danzare sulle uova, di “armeggiare” col governo cinese e – riassumendo moltissimo – di fregarsene dei diritti umani. “Il Cio si è sempre schierato con gli autocrati, ma i Giochi invernali di Pechino mostrano drasticamente quanto lo sport si sia allontanato dai suoi valori”.
“Lo sport tiene le borse aperte e allo stesso tempo si benda gli occhi per ignorare le atrocità nel Paese: torture e morte degli uiguri, internati nei campi a centinaia di migliaia, repressioni a Hong Kong e in Tibet. Questa è una rottura con molte cose, anche per una cricca che ha sempre avuto simpatia per autocrati e dittatori. È difficile da accettare”.
“Il mondo dei cinque anelli non è mai stato un paradiso di democrazia e trasparenza, ma il recente cambio di millennio ha aperto la strada a un Olimpismo che alla fine è sproporzionato”. “I Giochi sono diventati il tipo di evento che l’apparato cinese sognava: con una sorveglianza continua, un controllo costante. Il mondo sta diventando un po’ più chiuso in questi giorni, un po’ più cinese – non il contrario, come si sognava anni fa”.
Lo Spiegel si prende la briga di pubblicare addirittura un pezzo-disclaimer, per spiegare ai suoi lettori il motivo per cui seguirà gli eventi, e riporterà la cronaca delle gare. Si giustifica, ammettendo che questi “saranno uno degli eventi più complicati e discutibili della storia dello sport”: “È una situazione in cui le Olimpiadi non avrebbero dovuto esserci. Non in questo paese, non in questo momento”. “Dì quello che è, era il motto del fondatore dello Spiegel Rudolf Augstein . Con questa massima riferiremo sui Giochi invernali delle prossime due settimane: sulle circostanze della tragedia di Pechino, sulla vita in bolla, ma ovviamente anche sui risultati sportivi”.
E’ un modo di fare giornalismo sportivo che da queste parti è abbastanza sconosciuto. Le Olimpiadi – soprattutto queste – non sono solo atleti che gareggiano, medaglie, storie meravigliose e consueta retorica annessa. Sono anche politica, denuncia, fatti sgradevoli di cui il lettore tedesco deve venire a conoscenza. Anche chi sfoglia il giornale curioso di sapere chi ha vinto cosa. Il racconto dello sport, fatto bene. Senza socchiudere gli occhi.
DAGONEWS il 7 febbraio 2022.
Non abbastanza cibo. Pasti non commestibili. Nessuna attrezzatura per l'allenamento. Alcuni sfortunati olimpici, risultati positivi al coronavirus alle Olimpiadi di Pechino, denunciando le loro condizioni nei covid hotel.
«Mi fa male lo stomaco, sono molto pallida, e ho enormi occhiaie nere intorno agli occhi. Voglio che tutto questo finisca. Piango ogni giorno. Sono molto stanca», ha scritto su Instagram l’atleta russa di biathlon Valeria Vasnetsova da uno dei cosiddetti hotel di quarantena di Pechino. Ma il suo problema non è legato al covid bensì al cibo.
La Vasnetsova ha pubblicato una foto di ciò che ha detto essere "colazione, pranzo e cena già da cinque giorni": un vassoio con pasta in bianco, una spremuta all'arancia, carne carbonizzata, alcune patate e niente verdure.
Ha detto che per lo più è sopravvissuta mangiando pasta perché è "impossibile" ingurgitare il resto, "ma oggi ho mangiato tutto il grasso della carne perché avevo molta fame". Ha aggiunto di aver perso molto peso e "le mie ossa stanno già sporgendo".
La Germania vuole stanze più grandi e più igieniche e consegne di cibo più regolari in modo che gli atleti alla fine siano ancora in grado di competere.
Ma Vasnetsova ha passato il suo tempo in quarantena facendo sostanzialmente l’investigatrice e si è accorta che, dando uno sguardo al cibo lasciato fuori dalle stanze ad atleti e personale che lavora ai giochi, c’è un trattamento diverso. Il medico della sua squadra, per esempio, aveva frutta fresca, un'insalata e gamberi con broccoli. «Onestamente non capisco perché c'è questo atteggiamento nei nostri confronti, noi siamo gli atleti?!» si è lamentata sui social.
Stefano Mancini per “La Stampa” il 7 febbraio 2022.
«Ho deciso di gareggiare per la Cina». Apriti cielo: l'universo social, almeno quello occidentale, non ha gradito che Eileen Gu, baby campionessa di freestyle, rinunciasse alla nazionalità americana ereditata dal padre e plasmata negli States per prendere quella cinese della mamma. Eileen, che per i suoi nuovi connazionali diventa Ailing, ha fatto il suo coming out nel giugno del 2019 all'età di 15 anni.
«È stata una scelta difficile - ha spiegato su Instagram -. Il mio obiettivo è quello di diventare una fonte di ispirazione per le migliaia di ragazzi e ragazze cinesi che si avvicinano a questa disciplina. Vorrei incoraggiare a praticare questo sport estremo che amo tanto». C'è chi ha capito e chi ha criticato. Pochi l'hanno presa bene. «Hai tradito il Paese che ti ha fatto crescere e diventare quello che sei», è stata l'accusa più comune. Trecentomila followers per una diciassettenne che scia sembrano tanti, ma alla descrizione base vanno aggiunti alcuni dettagli.
Primo, la bellezza. Non è un particolare da poco, ma ancora non basterebbe a giustificare la copertina di Vogue. Eileen ha in più uno stile che fa innamorare la sua generazione (e anche quella dei padri), vince negli sport che piacciono ai giovani (e a cui i Giochi Olimpici riservano sempre più spazio), è una testimonial naturale delle linee di abbigliamento per teenager. Soprattutto, è la grande favorita dei Giochi di Pechino 2022 nelle specialità halfpipe (il mezzo tubo molto utilizzato anche dallo skateboard) e slopestyle (l'uso di rampe o ostacoli per consentire acrobazie).
Niente a che vedere con lo sci tradizionale, i paletti, le porte, la velocità. Qui si vola. Quando decolla, Eileen sembra soggetta a una forza di gravità differente, che le permette di volteggiare in aria per un tempo che sembra non finire mai. Nata a San Francisco, Gu ha trovato comunque il tempo per prendere confidenza con la neve fin da quando aveva 3 anni. Nel 2019 ha vinto il suo primo evento di Coppa del Mondo, poco prima di optare per la cittadinanza materna.
Come concilia le due culture? «Quando sono in Cina sono cinese e parlo mandarino, quando sono in America sono americana e uso l'inglese». Una delle sue motivazioni è avvicinare popoli così diversi attraverso lo sport. Brava nello sport e brava a scuola: nel 2020 ha concluso due anni in uno per avere più tempo per la neve e la preparazione al grande evento.
«Credo che sia importante avere una vita completa, ed essere capaci di differenziarsi. Sono stata alla Paris Fashion Week nel 2019 e credo sia stata la più bella settimana della mia vita... senza offese per lo sci». A 17 anni cerca l'affermazione definitiva. Già la sua sola presenza è fonte di curiosità. Non porterà pubblico dal vivo, visto che l'Olimpiade è a porte chiuse, ma l'attendono gli spettatori in tv e soprattutto il popolo del web che impazzisce per le gallerie fotografiche che ne evidenziano il fisico da modella.
Le ultime sue uscite in pista sono state un trionfo. La reginetta del freestyle ha portato a casa tre medaglie conquistate negli X Games del 2021 ad Aspen, alla sua prima esperienza in questo genere di competizione. Qualcuno ancora la definisce rookie, novellina. A partire da oggi può diventare grande.
Daniela Cotto per lastampa.it il 18 febbraio 2022.
«Tutto viene deciso dalla testa. Ho lavorato tanto su questo aspetto, è stato decisivo per vincere le mie tre medaglie». Ailing Eileen Gu, 18 anni, star cinese di origine americana, studentessa, modella per Vuitton, volto copertina di questi Giochi tristi, si è presa anche l’oro nell'halfpipe (dopo quello nel big air e l'argento nello slopestyle). Un trionfo. È la prima sciatrice dello freestyle a centrare tre medaglie in una Olimpiade.
Tutti aspettavano un altro exploit di Mikaela Shiffrin, ma la campionessa dello sci alpino è andata in tilt, a terra nel morale e nei trionfi con zero medaglie in cinque gare. E invece è spuntata lei, Eileen.
Il volto fresco e controverso dell’Olimpiade di Pechino che l’ha assoldata per rafforzare il bottino e lanciare nuovi messaggi di modernità. Capelli biondi che spuntano sotto il casco, fisico da pin-up, e storia interessante.
La differenza tra lei e la Shiffrin però, la fa la bandiera. La Shiffrin, nata a Vail e molto legata alle sue origini, difende quella a stelle e strisce, mentre la Gu, nata a San Francisco da padre americano e madre cinese, bilingue, ha scelto di difendere i colori della Cina per onorare la patria della mamma, figlia di un ingegnere del governo di Pechino emigrata poi negli Usa.
In trionfo nel bellissimo impianto di Zhangjiakou, la Gu spiega il segreto che l’ha portata così in alto e che le ha permesso di dividersi tra mille attività. «La preparazione mentale», e ripete il concetto come un mantra.
I suoi trionfi hanno un valore pesante nel medagliere della Cina che, con otto ori e 14 medaglie, ha mostrato un enorme miglioramento rispetto a quattro anni fa a Pyeongchang, dove ha portato a casa solo un oro.
Aiutato dai due successi di Gu, nel Big Air e nell’halfpipe, il Paese ora è alla pari con gli Stati Uniti, al terzo posto per medaglie d'oro, a pochi giorni dalla fine dei Giochi. Lei, incurante delle critiche che le muove la stampa Usa («La sua apparizione alle Olimpiadi non poteva arrivare in un momento peggiore per l’alta tensione Usa-Cina»), spiega che vuole «unire i due Paesi, fare da ponte».
«Con lo sci - aggiunge – spero di promuovere la comprensione tra i due popoli, aiutare l'amicizia tra le due nazioni». E ancora: «Sono molto orgogliosa di vedere che Pechino ha battuto il suo record di successi. E ha fatto gradi progressi nel frestyle. Qui l’amore per la mia disciplina è cresciuta tantissimo».
Marco Bonarrigo per corriere.it il 12 febbraio 2022.
Per quale motivo una fuoriclasse 15enne del pattinaggio artistico su ghiaccio, in forma olimpica, dovrebbe assumere un farmaco che cura l’angina, e va dosato con estrema cura su pazienti in condizioni serie, se non ha l’angina? E perché la trimetazidina, principio attivo del Vastarel a cui Kamila Valieva è stata trovata positiva, è considerata doping «pesante» dall’agenzia Mondiale antidoping? Perché unisce i tre requisiti che definiscono dopante un prodotto: migliora la prestazione, offre un vantaggio iniquo rispetto agli avversari e fa male alla salute di chi è sano.
Il Vastarel «interviene nel metabolismo energetico della cellula esposta all’ipossia o all’ischemia ed evita la caduta dei tassi intracellulari» recita il foglietto illustrativo del farmaco che si vende solo dietro presentazione di ricetta medica. A un soggetto malato impedisce pericolose riduzioni di flusso del sangue verso il cuore, in uno sano lo migliora tout court: più sangue al cuore durante uno sforzo violento (il gesto del pattinatore lo è) significa più resistenza, reattività e lucidità durante salti e piroette.
«Conservando il metabolismo energetico in cellule esposte all’ipossia o all’ischemia — recitano i manuali medici — la trimetazidina previene una diminuzione dei livelli intracellulari di ATP, garantendo in tal modo il corretto funzionamento delle pompe ioniche e del flusso di sodio-potassio transmembrana mantenendo l’omeostasi cellulare».
Kamila è e resta un fenomeno ma il dubbio che il quadruplo salto che esegue sul ghiaccio — prima donna al mondo — sia aiutato da un farmaco dopante è perfettamente legittimo.
(ANSA il 14 febbraio 2022 ) - Il Tribunale di arbitrato dello sport (Tas) ha autorizzato la 15enne pattinatrice russa Kamila Valieva a continuare a gareggiare alle Olimpiadi invernali di Pechino nonostante non il test psoitivo all'antidoping.
La Corte ha reso noto di aver respinto gli appelli del Comitato olimpico internazionale, dell'Agenzia mondiale antidoping e dell'Unione internazionale di pattinaggio per il ripristino della sua sospensione, permettendo alla Valieva di partecipare al concorso individuale che si aprirà domani.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 15 febbraio 2022.
La squadra della pattinatrice russa Kamila Valieva, colpita dallo scandalo doping prima delle Olimpiadi invernali di Pechino, ha detto che la ragazza potrebbe essersi contaminata bevendo dallo stesso bicchiere del nonno che assume farmaci.
La quindicenne è risultata positiva lo scorso Natale al farmaco per l’angina trimetazidina, o TMZ, che può essere utilizzato dagli atleti per migliorare le proprie prestazioni, soprattutto negli sport di resistenza.
La mamma di Valieva e i suoi avvocati hanno affermato, durante un’udienza, che la sostanza potrebbe essere entrata nel corpo di Valieva perché la ragazza ha condiviso un bicchiere d’acqua con il nonno, che assume farmaci per il cuore. È uno degli argomenti presentati durante l’Udienza della corte arbitrale per lo sport domenica sera, riportato oggi dalla Pravda.
Nel briefing quotidiano del Comitato Olimpico Internazionale, il membro del Cio Denis Oswald ha confermato che la mamma e il suo avvocato hanno sostenuto questa tesi.
Gianluca Cordella per “il Messaggero” il 15 febbraio 2022.
Mi si nota di più se non gareggio o se gareggio, vinco e non vado sul podio? Non ce ne vogliano Nanni Moretti, per la storpiatura della citazione, e Kamila Valieva che, doping o non doping, di tutto questo caos avrebbe fatto volentieri a meno. Ma il vortice di mosse e contromosse che ha risucchiato il caso della fenomenale pattinatrice russa somiglia tanto alle nevrosi del Michele di Ecce bombo.
Kamila gareggia sospesa e smarrita perché, meglio chiarirlo subito, se anche la vicenda dovesse concludersi con una colpevolezza accertata, appare difficile immaginare un dolo di questo tipo pensato e realizzato da una ragazzina di 15 anni appena. Ma tant' è. Kamila, o Miss Perfect come viene soprannominata per evidenti doti sportive, oggi sarà al via del singolo femminile olimpico, con i galloni di favorita dopo l'oro conquistato nel team event a suon di salti quadrupli.
Sarà al via ma da qui a dire che potrà raccontare di questa medaglia ai suoi nipoti ce ne corre. Perché la partita è ancora lunghissima: la giovane fuoriclasse russa, per ora, ha ottenuto solo il via libera per gareggiare.
Il Tas di Losanna, attraverso la propria Divisione ad hoc a Pechino (presieduta dall'avvocato italiano Fabio Iudica), ha deciso di non sospendere l'atleta per la positività rilevata da un test del 25 dicembre e comunicata l'8 febbraio dal laboratorio accreditato Wada di Stoccolma. Scatenando le ire degli altri, Usa in testa: «È un altro capitolo del sistematico e pervasivo disprezzo per lo sport pulito da parte della Russia».
Ma la valutazione, diciamo così, è stata di cuore. «Impedire all'atleta di gareggiare ai Giochi olimpici le avrebbe causato un danno irreparabile». Si è scelto di preservare la ragazza per la giovanissima età e anche per il vuoto normativo che aleggia intorno a lei: la giurisprudenza in materia di doping non prevede sanzioni prima del compimento dei 16 anni.
E, d'altra parte, l'evidente ritardo nella comunicazione del risultato del test - che ovviamente non è imputabile all'atleta ma al laboratorio - ha impedito alla Valieva, «di stabilire determinati requisiti legali a suo vantaggio», in sostanza di difendersi al meglio dalle accuse.
Nulla da fare dunque per Cio, Wada e Isu (la federazione internazionale di pattinaggio), che avevano chiesto all'unisono lo stop. Il Comitato olimpico internazionale, comunque, ha cercato di portare a casa qualcosa, soprattutto in vista di possibili stravolgimenti futuri della classifica di Pechino, se dovesse arrivare la squalifica di Kamila. Intanto al programma libero non accederanno 24 atlete, ma 25, nel caso altamente probabile in cui Valieva sia una delle prime 24.
E, secondo punto e più importante, se la russa centrerà una delle tre medaglie - altro evento quotato al mimino dai bookies - non ci sarà cerimonia del podio. Niente medaglia, niente fiori, niente inno. E rinvio a una generica «dignitosa cerimonia di premiazione» da organizzarsi quando il caso doping della pattinatrice sarà finalmente arrivato a termine (per lo stesso motivo non è stata effettuata nemmeno la premiazione della prova a squadre).
E questo divieto di inno e bandiera fa tanto più sorridere considerando che, essendo la Russia squalificata fino al 16 dicembre per il precedente scandalo del doping di Stato, Valieva non avrebbe potuto in ogni caso festeggiare il podio con i simboli del suo Paese ma avrebbe dovuto farlo con quelli che il Cio ha scelto per il Roc, il Comitato olimpico russo, dietro la cui egida stanno gareggiando gli atleti di Mosca ammessi ai Giochi.
Kamila Valieva è risultata positiva, come detto, il 25 dicembre scorso ai campionati nazionali di San Pietroburgo. La sostanza incriminata è la trimetazidina, contenuta nei farmaci che curano l'angina. E i riflettori, più che sulla giovanissima fuoriclasse, finiscono sullo staff che lavora intorno a lei, a cominciare da Eteri Tutberidze, l'allenatrice dai brutali metodi (dal controllo del peso al divieto di bere mentre si lavora) che non cerca un legame con i propri atleti «altrimenti non rendono». «Con i ragazzi lavoro poco perché hanno bisogno di sentirsi amati, alle ragazze non si deve voler bene», la sua filosofia. La Rusada, anche per ripulirsi dopo il caso che ha portato alla maxisqualifica, ha avviato subito una procedura su Eteri e sul suo staff. Anche se poi a pagare con l'eventuale squalifica e con la revoca della medaglia sarà Kamila. I danni irreparabili, appunto.
PROTETTA FINO AGLI ECCESSI. Nessuno tocchi Kamila Valieva. Il garantismo che rovina lo sport. PIPPO RUSSO su Il Domani il 16 febbraio 2022
A causa della giovanissima età Kamila Valieva gode dello status di persona protetta garantito dal codice mondiale antidoping. L’incertezza sulle sanzioni ha indotto il Tas a assumere un provvedimento iper-garantista e anche un po’ paternalista.
In attesa delle controanalisi i risultati conseguiti da Valieva durante i Giochi saranno sub iudice. Ma questa circostanza da “positiva, ma” è già un vulnus alle politiche antidoping, che perdono legittimità.
Il mondo dello sport reagisce malissimo a un trattamento ritenuto di privilegio. E nelle polemiche circolate in queste ore entrano anche motivi razziali o legati al covid, che trascinano in basso il livello del dibattito.
PIPPO RUSSO. Sociologo, saggista e giornalista italiano. È docente a contratto di sociologia all'Università degli Studi di Firenze.
Marco Bonarrigo per corriere.it il 16 febbraio 2022.
Incollati alla tv per vederla volteggiare, avvolta nel vestitino viola, anche i più diffidenti di noi ieri hanno percepito un contrasto stridente come il rumore dei pattini sul ghiaccio: cosa diavolo c'entra con il doping Kamila Valieva? Chi e con quale coraggio ha profanato il suo talento, somministrandole - a 15 anni - un farmaco proibito per farla roteare meglio?
Di ferite, dopo una settimana al centro del caso doping dell'Olimpiade di Pechino, Kamila però è sembrata riportarne poche: giusto l'indecisione nell'atterraggio del triplo Axel d'apertura e il pianto a fine esercizio tra le braccia della maestra Eteri Tutberidze. Sulle note di «In Memoriam» di Krill Richter, dopo quello a squadre, Valieva ha dominato anche il programma corto dell'individuale.
La seconda medaglia d'oro, se domani vincerà, non le sarà consegnata in attesa di controanalisi, processi, appelli, contrappelli e ricorsi dove si fronteggeranno schiere di legali e periti. Lei e la Russia da una parte (per molti simbolo di un male endemico), il resto del mondo dall'altra. Ma ieri per 2'58" Kamila ha danzato sulla testa del mondo: assorbita con eleganza la sbavatura iniziale, ha inanellato un triplo Flip per poi eseguire la combinazione triplo Lutz-triplo Toeloop.
Per i giudici, semplicemente la migliore: 82.16 punti per lei, 80.20 per la connazionale Anna Shcherbakova, 79.84 per la giapponese Sakamoto, l'unica alternativa alla Russia. Domani c'è il libero: Kamila pattinerà sulle note del Bolero di Ravel e strapparle la terza medaglia (virtuale) sarà difficilissimo: ieri le avversarie, che forse la immaginavano fragilissima, sono rimaste scioccate dalla sua freddezza. Attorno a lei, intanto, si sta scatenando l'inferno.
Il Cio e la Wada le hanno giurato vendetta, umiliati dalla loro stessa incapacità di gestire i controlli: rivedranno tutto al microscopio, dal contenuto delle provette ai dettagli procedurali per trovare il modo di farla fuori. Il percorso è chiaro e lungo: analisi del campione B appena terminati i Giochi nel (pigro) laboratorio di Stoccolma e poi il via ai processi.
Kamila ha 15 anni ma il doping è doping, dicono i giuristi: pur col rispetto dovuto a un'adolescente, le medaglie non le saranno mai consegnate e il suo entourage verrà indagato e punito. Ma i russi hanno buone carte da giocare.
Dai referti - se n'è già parlato durante l'udienza del Tas - emergerebbe una positività leggerissima, frutto della smisurata (troppo?) capacità di analisi delle nuove macchine.
Abbinata alla giovane età, giocherà un ruolo chiave: cari giudici, ve la sentite di spezzare il sogno di una ragazzina bollandola per sempre con il marchio di dopata? E poi, colpo di scena, il sito russo Dossier Center ha riportato estratti dell'udienza del Tas dove la mamma di Kamila, la signora Alsu, avrebbe sventolato una confezione del farmaco incriminato, il Vastarel, che papà Valieva assumerebbe per curare i suoi problemi di cuore. Lei potrebbe averlo preso, suggerisce il sito, bevendo dallo stesso bicchiere.
Ma ieri, quando la sceneggiatura sembrava già a buon punto, il New York Times ha rivelato di aver avuto accesso alle analisi di laboratorio: nelle urine di Valieva, oltre alla trimetazidina, vietata, ci sarebbero stati anche L-carnitina, aminoacido di sintesi, e Hypoxen, un potente farmaco antiossidante: prodotti non proibiti ma la cui presenza nel corpo di un'atleta sana è inquietante.
Gaia Piccardi per il corriere.it il 17 febbraio 2022.
L’oro triste di Pechino 2022 va alla Russia. Ma a sorpresa non a Kamila Valieva, la 15enne al centro del caso doping più clamoroso dell’Olimpiade, la bambina che va in pezzi sotto la pressione spropositata di una medaglia che era obbligata a vincere, alla fine è solo quarta.
La regina di Pechino è la campionessa del mondo in carica, Anna Shcherbakova, 17 anni, bellissima in viola nel Maestro e Margherita, due quadrupli eseguiti alla perfezione e poi un programma senza eccessi né esagerazioni, l’Himalaya su cui invece è caduta Valieva.
Prima dopo il corto, Kamila può solo buttare via un oro ipotecato già nella gara a squadre. A 15 anni ha sulle spalle il peso della Russia, delle aspettative, delle polemiche scatenate a Pechino dalla sua positività, impunita e rovente. Ecco i salti più difficili: il quadruplo Salchow le riesce, il triplo Axel è viziato da uno step out, Kamila è chiaramente fuori asse; sbaglia la combinazione quadruplo-triplo, cade, si rialza, ricade.
Non è la solita Valieva, lo stress di questi giorni terribili si fa sentire. È un Bolero imperfetto e ciò nonostante appassionato, cala il tasso tecnico dell’esercizio e precipita il contatore dei punti, Valieva perde la compostezza ma non la lucidità, arriva in fondo con la faccia di chi ha visto un fantasma, le ultime sono trottole meste: sul ghiaccio si consuma il suo dramma sportivo.
Guantini rossi sul volto, lacrime scroscianti. Eteri Tutberidze, la maestra-matrigna della scuola di Mosca capace di sfornare campionesse in batteria, l’abbraccia con freddezza: Valieva è già passato, è in archivio, adesso che la Wada la squalifichi pure, tanto la Russia piazza sul podio Shcherbakova oro e Trusova argento, con la giapponese Sakamoto, unica credibile alternativa allo strapotere della Grande Madre, bronzo. Sakamoto è sontuosa nel suo bel programma libero di vecchia scuola, in grado di tamponare con classe e mestiere la raffica di salti quadrupli dell’armata russa, ma il terzo posto è il massimo a cui può ambire.
Il piano diabolico di Tutberidze ha successo: Alexandra e Anna erano gli assi calati sul ghiaccio nel caso in cui Valieva avesse fallito la missione della vita. La Russia trionfa però non le riesce la tripletta. Agli Stati Uniti, che monopolizzarono il podio dell’artistico maschile a Cortina 1956, resta in tasca il record: Hayes Jenkins oro, Ronnie Robertson argento, David Jenkins bronzo.
Con Valieva fuori dal podio, il Cio autorizza (a differenza della gara a squadre) la premiazione: ci sono i fiori, le medaglie, la mascotte, i sorrisi sotto le mascherine anti Covid. Non c’è l’inno russo, la Grande Madre squalificata per doping ha portato a Pechino atleti «neutri»: il destino di una gara spietata ha punito Kamila la bambina cattiva ma quel podio con la sublime musica di Tchaikovsky ci ricorda che molto ancora non funziona sotto il cielo di Mosca.
Valieva, il crollo in gara alle Olimpiadi dopo il caso di doping. L’allenatrice: «Perché ti sei arresa?» Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2022.
La 15enne al centro del caso doping cade due volte e butta la medaglia d’oro. Vincono comunque altre due russe, in un clima da psicodramma: oro Shcherbakova, 17 anni, argento a Trusova che poi crolla: «Odio questo sport, non pattinerò mai più»
Da gazzetta.it il 18 febbraio 2022.
Il presidente del Comitato olimpico internazionale, Thomas Bach, ha detto di essere stato “molto turbato” dalla prova della russa Kamila Valieva nella finale di pattinaggio libero, quando è caduta più volte ed è sembrata schiacciata dalla pressione dello scandalo del doping che l’ha travolta e della conquista dell’oro a tutti i costi.
«Ero molto turbato quando l’ho vista in tv», ha affermato Bach, secondo cui la pattinatrice quindicenne è stata trattata con «una tremenda freddezza» dagli allenatori dopo la disastrosa prova che l’ha vista finire quarta, ai piedi del podio.
«Vederla lottare sul ghiaccio, vedere come cerca di ricomporsi e finire il suo programma, puoi vedere in ogni movimento del linguaggio del corpo, puoi sentire che questo è stato un immenso stress mentale. Quando poi ho visto come è stata accolta dal suo più stretto entourage, con quella che sembrava essere una tremenda freddezza, è stato agghiacciante. Invece di darle conforto, invece di aiutarla, erano distanti. E se interpretavi il linguaggio del corpo, era anche peggio perché c’erano anche dei gesti sprezzanti».
Bach ha poi aggiunto che il Cio esaminerà le regole relative ai limiti di età per le competizioni per adulti, e anche se gli atleti minorenni dovrebbero subire le stesse sanzioni antidoping degli atleti senior. Ma ha aggiunto «questo richiede un attento studio».
Dopo gli errori nell’esercizio che l’ha fatta finire ai piedi del podio, la Valieva, in lacrime e sconvolta, è tornata nell’angolo in attesa dei voti e la sua allenatrice Eteri Tutberidze le ha chiesto ripetutamente «perché l’hai lasciato andare, perché? Dimmelo...», disinteressandosi completamente del suo stato emotivo. «È stato agghiacciante vedere come è stata accolta dall’entourage».
Bach ha detto di sperare che la Valieva «abbia il sostegno della sua famiglia, il sostegno dei suoi amici e il sostegno delle persone che l’aiutano in questa situazione estremamente difficile» e ha ribadito che il Cio aveva chiesto all’Agenzia mondiale antidoping (Wada) di indagare sugli allenatori e sui consulenti intorno a Valieva.
Dagotraduzione dall’Ap il 18 febbraio 2022.
La medaglia d'oro ha detto di sentirsi vuota. La medaglia d'argento si è impegnata a non pattinare mai più. La favorita se ne è andata in lacrime senza dire una parola.
Dopo una delle serate più drammatiche nella storia del loro sport, per il trio russo di giovani stelle del pattinaggio artistico il futuro è incerto.
Con un caso di doping che le pende sulla testa, la detentrice del record mondiale Kamila Valieva dovrà affrontare una possibile sospensione e un’allenatrice che come prima risposta le ha rivolto solo critiche.
«Perché l'hai lasciato andare? Perché hai smesso di combattere?» ha chiesto Eteri Tutberidze – la severissima allenatrice che sarà indagata per il test antidroga fallito di Valieva - mentre parlava con la quindicenne dopo che la ragazza era caduta due volte ed era uscita dalla gara senza medaglia.
Il presidente del Comitato Olimpico Internazionale Thomas Bach si è detto turbato dall'intensa pressione sui giovani pattinatori, in particolare Valieva, e ha criticato i suoi allenatori senza nominare Tutberidze.
«Quando in seguito ho visto come è stata accolta dal suo entourage più vicino, con quella che sembrava essere una tremenda freddezza, è stato agghiacciante vederlo», ha detto in una conferenza stampa oggi. «Piuttosto che darle conforto, piuttosto che cercare di aiutarla, potresti sentire questa atmosfera agghiacciante, questa distanza».
Alcuni nel pattinaggio hanno spinto per alzare l'età minima per la partecipazione alle Olimpiadi da 15 a 17 o 18 anni. Quando Valieva si è classificata quarta e se ne è andata in lacrime, ha ricevuto un messaggio di sostegno dalla medaglia d'argento 2018 Evgenia Medvedeva.
«Sono così felice che questo inferno sia finito per te», ha scritto Medvedeva su Instagram. «Ti apprezzo davvero e ti amo e sono felice che tu possa rilassarti ora, tesoro. Mi congratulo con te per la fine delle Olimpiadi e spero che tu possa vivere con calma e respirare».
Sfortunatamente per Valieva, non riesce ancora a rilassarsi. Il test antidroga fallito che ha sconvolto la sua vita è ancora sospeso sopra la sua testa.
Sebbene le sia stato permesso di continuare a pattinare a Pechino dalla Corte Arbitrale dello Sport per evitare «danni irreparabili», quella sentenza è valida solo fino a quando non sarà risolta l'indagine completa sul suo test del 25 dicembre per la sostanza vietata trimetazidina. Il caso potrebbe richiedere mesi e comunque costare a Valieva e ai suoi compagni di squadra russi la medaglia d'oro che hanno vinto nell'evento a squadre della scorsa settimana.
Anche la seconda classificata Alexandra Trusova era disperata dopo che i suoi cinque salti quadrupli storici non si sono rivelati sufficienti per battere la compagna di squadra Anna Shcherbakova alla medaglia d'oro. «Odio questo sport», ha gridato a lato della pista. «Non andrò più sul ghiaccio».
Trusova ha detto che era contenta dello skate ma non del risultato, un’apparente critica al giudizio che che dato a Shcherbakova abbastanza punti extra per l'abilità artistica per mantenerla in vantaggio.
A fine gara si sentiva Trusova piangere dicendo che era l'unica senza una medaglia d'oro. Le russe hanno vinto l'evento a squadre usando Valieva due volte invece di permettere a Shcherbakova o Trusova di pattinare in uno dei programmi femminili. Quella vittoria potrebbe essere annullata a causa del caso di doping di Valieva.
Trusova in seguito ha detto che i suoi commenti sul non pattinare di nuovo erano stati «emotivi», il risultato della mancanza della sua famiglia e dei suoi cani, ma non parteciperà ai campionati del mondo del mese prossimo.
Delle tre adolescenti, Trusova ha avuto la relazione più litigiosa con Tutberidze. Ha cambiato brevemente allenatore, tornando al campo di Tutberidze nel maggio dello scorso anno. E la sua selezione musicale sembrava inviare un messaggio. Ha ballato il suo lungo programma su "Cruella" dalla colonna sonora del film.
Shcherbakova sembrava incerta su come reagire al dramma che si stava svolgendo intorno a lei e ha detto che si sentiva dispiaciuta per Valieva. «Continuo a non capire cosa sia successo. Da una parte mi sento felice, dall'altra sento questo vuoto dentro».
Shcherbakova è arrivata a Pechino come campionessa del mondo dal 2021, ma i punteggi da record di Valieva l'hanno trasformata in una perdente per le suoe compagne di squadra più giovani. Essere chiamata campione olimpico era "irreale", ha detto Shcherbakova. «Non mi sento come se stessero parlando di me».
Pechino 2022, Remi Lindholm soffre il freddo e si congela il pene. Felice Emmanuele e Paolo de Chiara il 22/02/2022 su Notizie.it.
Alle olimpiadi invernali di Pechino 2022, durante una gara di quasi 30 km, un atleta finlandese si congela il pene. Il freddo era insopportabile.
Inconvenienti del mestiere
Alle Olimpiadi invernali di Pechino 2022, si è svolta una gara estremamente difficile, da un punto di vista fisico, per un atleta olimpico finlandese. Durante il percorso, il gelo ha provocato in Remi Lindholm forti dolori a tutto il corpo. L’atleta ha raccontato che in particolare ha sofferto nelle parti basse del corpo, l’organo principalmente interessato è stato il pene.
Pechino 2022, un atelta finlandese si congela il pene
Un distacco di quattro minuti dal vincitore della gara ed una 28esima posizione per Remi Lindholm. Il percorso era già stato inizialmente dimezzato a causa delle condizioni meteo avverse, ciò nonostante le difficoltà sono state enormi. Quanto accaduto alle Olimpiadi invernali di Pechino 2022, per Remi, è stata una delle gare più difficili della sua vita.
Le parole di Remi Lindholm
A raccontare la vicenda è Fanpage, che ha riportato parti di un’intervista dell’atleta finlandese alla stampa. “È stata una delle peggiori competizioni a cui ho partecipato. Si trattava solo di resistere e combattere contro quel freddo incredibile”, ha affermato Remi. Una volta terminata la gara, Lindholm ha chiesto al suo staff di dargli qualsiasi cosa potesse combattere il freddo. Ironicamente, Remi, ha dichiarato che a causa di una scelta dell’intimo poco consona alla gara, ha avvertito il freddo in tutta la zona inguinale e nel pene.
Ci sono voluto circa 15 minuti prima di riacquistare la propria sensibilità. Durante e dopo la gara non riusciva più a sentire il suo organo genitale.
Inconvenienti del mestiere
Remi Lindholm è abbastanza sfortunato perchè non è la prima volta che gli capita un episodio del genere. Nel novembre 2021, durante i Mondiali in Lapponia ha avuto un incidente simile. L’atleta finlandese però è solo dispiaciuto di non aver fatto la gara che voleva.
Per quanto riguarda il congelamento del pene, ha infine dichiarato che fa parte degli incovenienti di chi pratica uno sport invernale come il suo.
Federica Brignone, Olimpiadi: è bronzo nella combinata femminile. Daniele Sparisci su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.
Sci alpino, Federica Brignone ha conquistato la medaglia di bronzo nella combinata alpina femminile alle Olimpiadi di Pechino 2022. È il 16/o podio dell’Italia in questi Giochi invernali.
Il trionfo dopo la tempesta. Federica Brignone è bronzo nella combinata alle Olimpiadi di Pechino. La valdostana ha compiuto una formidabile rimonta nella seconda manche, lo slalom, finendo dietro alla coppia svizzera: oro a Michelle Gisin, fidanzata del nostro gigantista Luca De Aliprandini, e argento a Wendy Holdener. È un podio importantissimo che proietta l’Italia a quota 16 nel medagliere. E lo è per la nostra azzurra, la più vincente di sempre in Coppa del Mondo: doppia medaglia in Cina, aveva aperto le danze con l’argento nel gigante.
Fede ha dimostrato una classe superlativa e un carattere di ferro, resistendo alle polemiche innescate da certe sue uscite su Milano-Cortina e non commentando le dichiarazioni della madre, l’ex sciatrice Ninna Quario, su Sofia Goggia.
Aveva concluso la prima manche, la prova di discesa, in ottava posizione con un ritardo di 69 centesimi dal vertice. Un ritardo causato da un «eccesso di prudenza« aveva spiegato. Sapeva di potersela giocare, ma non poteva aspettarsi l’ennesimo errore di Mikaela Shiffrin in queste Olimpiadi: l’americana è caduta nello slalom, la disciplina che l’ha consacrata regina. È la terza uscita in questi Giochi dove puntava a quattro medaglie, fra le porte strette si era buttata via subito e lo stesso era accaduto all’inizio nel gigante. E questo nonostante la tracciatura del suo tecnico, Mike Day.
Per Federica è la terza medaglia olimpica, quattro anni fa a Pyeongchang aveva conquistato il bronzo nel gigante, aveva fallito l’occasione nel superG ma si è rifatta nella combinata, specialità che resiste soltanto ai Giochi, aveva vinto la coppa di specialità nel 2020, l’anno della conquista della Coppa del Mondo generale. A 31 anni ha raggiunto l’apice della maturità agonista, nonostante i tormenti e le insicurezze . Mai un’italiana era salito sul podio olimpico di una specialità inventata ottantasei anni fa.
Maria Rosa Quario per “il Giornale” il 28 marzo 2022.
Non cronaca, non commento, nemmeno un'intervista. L'ultimo intervento sulle pagine di questo Giornale che dal 1986 ha dato spazio ai miei articoli è per un saluto, un ringraziamento e una spiegazione del perché, dopo trentasei anni, ho deciso di abbandonare il mestiere intrapreso appena chiusa la carriera agonistica.
Molti, ne sono certa, penseranno che le polemiche seguite alle mie dichiarazioni durante l'ultima Olimpiade siano la causa di questa decisione, ma ciò è vero solo in parte. Diciamo che l'episodio è stato solo la goccia (per essere spiritosa potrei dire la Goggia) che ha fatto traboccare il vaso.
Era da un po' infatti che motivazioni ed entusiasmo stavano venendo meno, perché rendermi conto che il giornalismo in cui ho sempre creduto non esiste quasi più, che le notizie non si trovano sul campo parlando e curiosando, ma vengono dettate dai social e poi elaborate a tavolino, con titoli a fare sensazione seguiti spesso da zero contenuti, bé, questo davvero non mi piace più. L'impressione, drammatica, è che ormai l'informazione sia manipolata, ai lettori o ascoltatori si propone solo un aspetto della realtà, un lato della medaglia, senza chiedersi se sia quella giusta da mostrare. Da parecchi anni ormai attorno alle piste dello sci eravamo quattro gatti, ma non perché mancassero risultati allo sci azzurro, anzi! È che fare il giornalista forse non serve più, le notizie arrivano da altre fonti e per condividerle basta uno smartphone sempre connesso.
Fra l'altro, con le restrizioni dettate dalla pandemia, andare in giro era diventato complicato e a volte assurdo, con bolle da rispettare sentendosi spesso molto stupidi. Al parterre delle gare dovevi stare a due metri dagli atleti, ma se prendevi la seggiovia e andavi in cima alla pista potevi anche abbracciarli! Anche questo ha contribuito a farmi disamorare del mio lavoro, che ho sempre considerato meraviglioso, nonostante il freddo, le levatacce o le fatiche di lunghi e spesso scomodi viaggi. Nulla però in confronto alla bellezza di stare in montagna, nel vivo dell'azione, a contatto con i migliori sciatori del mondo.
Continuerò a seguire le gare, da casa o dal vivo. Assisterò alla crescita di giovani talenti e all'addio di vecchi campioni. Ai tanti bravi giornalisti ancora in circolazione vorrei dire non mollate, c'è assoluto bisogno di voi! E a questo Giornale, che mi ha sempre permesso di scrivere liberamente quello che volevo e pensavo, dico solo grazie, un grazie da estendere a chi mi ha letto in tutti questi anni.
Dagospia il 16 febbraio 2022. Da Radio Capital
"Sofia Goggia è molto egocentrica", interviene così al Tg Zero di Radio Capital Maria Rosa Quario, ex sciatrice e madre di Federica Brignone dopo l'argento della figlia al gigante delle Olimpiadi di Pechino e dopo l'argento della Goggia nella discesa libera.
"Sofia - continua Quario - ha una determinazione impressionante ma il suo infortunio non era così grave perchè è tornata dopo 23 giorni e se uno si rompe una gamba non credo che possa tornare in pista dopo 23 giorni".
Maria Rosa Quario non ha dubbi: " Sofia si vede molto al centro dell'attenzione, si piace, si loda tanto e gode. Cerca attenzione da morire. Federica invece è timida e non le importa piacere alla gente." Infine Quario puntualizza: "Sofia e Federica non sono mai state amiche, non si sono mai prese. Goggia ultimamente ha detto che sono amiche, ma non è vero!"
Da ilnapolista.it il 17 febbraio 2022.
Maria Rosa Quario non si ferma. La madre di Federica Brignone (che nel frattempo ha vinto la medaglia di bronzo in combinata) continua a imperversare con le sue accuse nei confronti di Sofia Goggia. Stamattina lo ribadisce scrivendo un altro articolo per Il Giornale. In cui prima scrive che lei ha competenza per scrivere (ed è vero, è stata una sciatrice di ottimo livello) e che non c’entra niente che sia la madre di Federica Brignone (ehm ehm), che l’infortunio di Sofia è stato enfatizzato e scrive di vergognosa gestione mediatica dell’argento di Sofia Goggia.
Dove sta il problema allora? Sta nel fatto che le mie terribili colpe, la mia diffidenza venga presentata come l’esternazione o peggio lo sfogo della «mamma della Brignone». Questo no, non l’accetto e mi girano anche un po’ le scatole. Cosa c’entra? Come ho scritto sopra, faccio questo mestiere e mi sono iper specializzata sullo sci alpino e gli sport invernali dal 1986, anno in cui mi sono ritirata dall’agonismo dopo 12 stagioni in nazionale e nove di coppa del mondo, a buon livello direi, ma questo è ininfluente. 1974-2022: vivo di sci e mastico sci da 48 anni dunque, volete concedermi un po’ di competenza ed esperienza nel settore?
Il mio parere è che si è esagerato, prima, durante e soprattutto dopo nel far passare Sofia Goggia come l’eroina dei due mondi (siamo in Cina, no?), offuscando in modo vergognoso e ingiusto non solo l’impresa della sua compagna di podio Nadia, ma anche di tutti gli altri atleti che avevano gareggiato a Pechino e magari vinto medaglie.
Ho anche osato dire che la Goggia è egocentrica. Sì, lo ribadisco e sfido chiunque a dimostrarmi il contrario, pronta a fornire diversi esempi per avvalorare la mia tesi. Vi do solo l’ultimo in ordine temporale: non vi sembra egocentrica una persona che molte ore dopo la gara telefona a casa non per condividere la sua gioia e il suo orgoglio ma per sapere quali sono state in Italia le reazioni alla sua medaglia?
Ribadisco le mie scuse se ho offeso qualcuno, ma confermo anche tutto quello che ho detto (a Radio Capital), purtroppo ripreso, enfatizzato e commentato, spesso in modo offensivo, come ormai è lecito fare soprattutto sui social, senza doverci nemmeno mettere la faccia. Sono pronta ad affrontare le «gravi» (queste sì, lo saranno) conseguenze di non essermi mai prostrata ai piedi di Sofia Goggia. Spero solo che a pagarne le conseguenze non sia anche mia figlia: sarebbe davvero ingiusto.
Simone Battaggia per gazzetta.it il 17 febbraio 2022.
Nel giorno in cui si parla di lei - suo malgrado - in contrapposizione a Sofia Goggia, Federica Brignone coglie la sua seconda medaglia a Pechino 2022. Dopo l’argento in gigante, ecco il bronzo in combinata. La valdostana finisce alle spalle di due svizzere, Michelle Gisin e Wendy Holdener. Clamorosamente fuori Mikaela Shiffrin, che esce nella manche di slalom quando era favorita per l’oro anche grazie a una buona prova nella discesa, sciata con gli sci di Sofia Goggia. Nicol Delago e Marta Bassino, le altre due azzurre al via dello slalom, sono pure loro uscite, mentre Elena Curtoni aveva abbandonato durante la discesa.
L’azzurra aveva chiuso la discesa all’ottavo posto, più lenta di Mikaela Shiffrin e davanti a Holdener e Gisin. In zona mista non aveva commentato le affermazioni fatte il giorno prima in Italia dalla madre Ninna Quario, che aveva definito Sofia Goggia "egocentrica" mettendo in dubbio la gravità dell’infortunio superato per conquistare l’argento in discesa.
"Se voglio fare bene il mio lavoro devo rimanere concentrata - aveva detto Federica -, pensare allo sci e non sprecare energie sentendo o dicendo qualcosa. È già così stressante essere qui per competere, non posso perdere energie in altro".
Prima di lei nello slalom è scesa Ester Ledecka, oro olimpico di gigante parallelo di snowboard, capace di disputare una più che discreta manche. Mikaela Shiffrin, strafavorita, è invece clamorosamente uscita, chiudendo così nel peggiore dei modi le gare individuali di un’Olimpiade finora fallimentare, senza medaglia.
A quel punto toccava a Federica, che ha attaccato nella parte alta e ha tenuto in quella finale, senza rischiare troppo. “Non credo che basterà per l’oro”, diceva a caldo. E infatti è stata superata prima da Holdener e poi da Gisin. Michelle, la fidanzata di Luca De Aliprandini, ha vinto in 2’25”67, con 1”05 di vantaggio su Wendy Holdener e 1”85 su Federica Brignone.
DUE COME I GRANDI— La 31enne carabiniera di La Salle diventa quindi la prima sciatrice italiana a salire due volte sul podio in un olimpiade dopo Deborah Compagnoni, che ce l’aveva fatta a Nagano 1998. La lista è completata da Gustavo Thoeni (1972), Alberto Tomba (1988 e 1992), Isolde Kostner (1994) e Christof Innerhofer (2014). La valdostana ha ancora una chance a disposizione, il team event di sabato che disputerà insieme a Marta Bassino, Luca De Aliprandini e Alex Vinatzer. In questa edizione dei Giochi invernali l’Italia è arrivata a 16 medaglie: due ori, sette argenti e sette bronzi.
Goggia: "L'infortunio? Guardate la risonanza". Giorgio Coluccia il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Sofia ricorda l'impresa, ringrazia la Brignone per la sfida fra loro e riceve il Tapiro.
L'aereo che riporta in Italia Sofia Goggia atterra a Malpensa alle 13.22, con una ventina di minuti di ritardo rispetto all'orario previsto. Poco importa, la medaglia d'argento olimpica ottenuta in discesa libera è già al collo. Il ritorno a casa avviene esattamente dieci giorni dopo lo sbarco della speranza a Pechino, con una valigia carica di sogni e incognite. All'uscita dal Terminal 1, davanti ai tifosi accorsi per l'occasione, i primi abbracci sono per i genitori, Ezio e Giuliana, e per il fratello Tommaso, ma ci sono anche il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, e i rappresentanti delle Fiamme Gialle, il suo gruppo sportivo militare d'appartenenza. «Torno a casa con un risultato incredibile - esordisce - Ho fatto qualcosa di grandioso, se penso che la prima volta dopo aver messo gli sci in Cina sono scoppiata a piangere davanti al mio fisioterapista. Per un traguardo del genere alla partenza ci avrei messo la firma». Successivamente i sorrisi in bella mostra davanti ai fotografi, con la medaglia e il mazzo di fiori, lasciano spazio ad altri sentimenti quando viene incalzata sulla polemica nata a distanza con Maria Rosa Quario, firma del nostro quotidiano. «In discesa libera sorvolare mi viene bene, lo faccio anche in questa occasione. Rispetto a quanto è stato scritto non voglio aggiungere altre parole e alimentare questioni inutili. Appena sono scesa dall'aereo ho scritto a Federica per complimentarmi per il suo bronzo». Sulla caduta avvenuta durante il superG a Cortina e sull'entità dell'infortunio la sua risposta è perentoria: «Se il volo che ho fatto in pista non dovesse bastare, c'è una risonanza magnetica sotto gli occhi di tutti. Il dottor Andrea Panzeri, che mi ha visitata, mostra ai medici praticanti il video della caduta per spiegare come ci si rompe un crociato. Il mio era del tutto sfilacciato». Più tardi la consegna del Tapiro di Striscia, per lei il terzo, motivo ovviamente le osservazioni fatte dalla nostra Quario. «Parla sempre di me e dice che sono egocentrica: il Tapiro dovremmo darlo a lei», la replica, prima di aggiungere invece sulla rivale azzurra «Federica è una cara compagna di sci, con il cronometro ci stimoliamo a vicenda. Anzi, devo ringraziarla, perché senza quello che mi ha dato a livello sportivo non sarei la sciatrice che sono oggi».
Ora per Sofia Goggia in rapida successione arriveranno un breve periodo di riposo, ulteriore fisioterapia e poi il ritorno in pista per la tappa di Coppa del Mondo con le due discese di Crans Montana (26 e 27 febbraio). È in testa alla classifica di specialità, ma deve completare l'opera in vista delle finali in terra francese di metà marzo: «Mercoledì andrò in Svizzera, lì ho già vinto tre volte. Però c'è un lungo tratto in piano nella parte centrale che potrebbe crearmi problemi perché non riesco ancora a mettermi nella mia solita posizione aerodinamica. Spero con la riabilitazione di acquisire ulteriore forza nella gamba, evitando l'operazione chirurgica». Giorgio Coluccia
Flavio Vanetti per il Corriere della Sera il 23 febbraio 2022.
Di fatto è ancora un «no comment», ma stavolta è modulato in modo più articolato, soprattutto per prendere le difese dei medici che l'hanno visitata dopo l'incidente di Cortina e seguita nel recupero che le ha permesso di partecipare ai Giochi. Sofia Goggia, intervenendo a «Non Stop News» di Radio Rtl 102.5, è tornata (anche) sulle uscite di Ninna Quario, ex sciatrice della Valanga Rosa e madre di Federica Brignone. Dopo il rientro dalla Cina, Sofia, vincitrice dell'argento della discesa, aveva preferito «glissare e sorvolare come quando gareggio in libera».
Il concetto rimane, però la situazione che si è creata «è stata una questione sgradevole» taglia corto la bergamasca. Soprattutto perché di mezzo c'è un giudizio (da parte di Ninna Quario) che mette in dubbio la diagnosi dei medici della Fisi: «L'altro giorno sono andata a fare un controllo dal dottor Herbert Schönhuber, che mi segue da quando avevo 14 anni: mi ha confidato che quando ha preso in mano il mio ginocchio a momenti sveniva tanto era in cattive condizioni». E questa è la sola cosa che conta: «Non ho bisogno di fomentare una polemica che è offensiva proprio nei confronti di chi agisce per il bene degli atleti, senza sostenere di certo il falso. È la prima volta che ne parlo chiaramente: non credo meriti di più, anche se è stata la prima cosa che mi è stata chiesta all'arrivo».
Merita invece una rapida riflessione - così pensa Sofia - l'accusa di egocentrismo lanciata da Quario: «L'egocentrico mette al centro dell'attenzione i propri problemi e lo sport ad alto livello implica una sorta di egoismo perché l'atleta deve pensare a sé: ognuno di noi è egoista per riuscire a conseguire gli obiettivi desiderati. Comunque, se c'è una persona che polemizza, questa è lei».
Adesso però si ritorna in pista, a Crans Montana nel fine settimana arrivano due discese e il focus delle azzurre deve essere solo sui risultati: Sofia, in particolare, proverà a mettere al sicuro la terza Coppa del Mondo della libera. Sembra che Carlos «Mani di pietra» Duran non abbia mai pronunciato il famoso «no más» nel match del 1980 contro Ray Sugar Leonard. In compenso, pensando a questa querelle, lo diciamo noi.
Da ilnapolista.it il 24 febbraio 2022.
La Federazione sport invernali, con tempi pachidermici, prende posizione. Dirama un comunicato che prima spara nel mucchio contro le polemiche ma poi va giù duro (senza peraltro citarla) contro Ninna Quario madre di Federica Brignone che aveva accusato Sofia Goggia di aver enfatizzato l’entità del proprio infortunio. Nella prima parte del comunicato, che qui riportiamo dopo, la federazione se la prende con le troppe polemiche che hanno finito col nascondere gli ottimi risultati ottenuti alle Olimpiadi.
Cominciamo dalla parte più interessante: “La Federazione, inoltre intende tutelare l’operato della propria Commissione Medica, additata – in modo estremamente grave – di raccontare falsità in merito allo stato di salute degli atleti che ha in cura – si legge ancora nella nota – La Commissione Medica federale ha sempre seguito gli atleti con la massima serietà professionale e attenzione, nel rispetto dei dati scientifici e degli esami clinici, assumendosi la responsabilità delle decisioni in merito ai tempi di recupero, a seguito di infortuni, avendo come priorità la salvaguardia dell’incolumità degli atleti stessi.
Il suo operato, unito al lavoro di tecnici e fisioterapisti, fa di questo settore una eccellenza italiana nel mondo dello sport. Per tale motivo la Federazione diffida chiunque dal mettere in dubbio la correttezza e la professionalità dell’operato della Commissione Medica FISI e sarà pronta a difenderne le ragioni in ogni sede necessaria”.
Poi, la prima parte: “La Federazione Italiana Sport Invernali condanna pesantemente le troppe voci che si susseguono da giorni, con toni molto polemici, attorno agli atleti delle Nazionali. Non sono accettabili giudizi personali rivolti ad atleti da persone estranee alla Federazione, così come sono esecrabili giudizi espressi sull’operato federale, da parte di soggetti che non hanno alcuna cognizione di causa. I fatti sono ancor più gravi, se emergono durante un evento di grande rilevanza come i Giochi Olimpici”. È quanto si legge in una nota pubblicata dalla Federazione italiana sport invernali sul proprio sito.
“Tutto ciò che continua, da giorni, ad essere al centro delle cronache, non porta altro risultato che far crescere la tensione fra atleti e atlete, non permettendo loro di mantenere il massimo della concentrazione verso i rispettivi impegni agonistici e concentrando lo spazio mediatico riservato alle nostre discipline in inutili polemiche che nulla hanno a che fare con lo sport, a scapito invece delle imprese compiute dagli stessi. Per tali motivi, la FISI pretende che certe affermazioni e toni polemici cessino immediatamente, per lasciare spazio allo sport, ai risultati agonistici e agli obiettivi che gli atleti possono raggiungere prima della fine della stagione”.
Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 22 febbraio 2022.
La polemica su Nina Quario, la madre di Federica Brignone, ha tenuto banco sui giornali. È sembrato uno scontro a distanza con Sofia Goggia, che ha dimostrato di essere una delle atlete più talentuose degli ultimi tempi.
Soprattutto ha avuto una grande sportività dopo l'infortunio. Ora, "solleticata" da RTL 102.5, è tornata a parlare di quello che ha detto pochi giorni fa la madre della Brignone nei suoi confronti.
“La questione è stata sgradevole, però alla fine cerco di sorvolare. Io, i dottori, anche gli stessi allenatori sapevano benissimo quale fosse la situazione. L’altro giorno dopo essere atterrata sono andata a Milano a fare un check dal mio ortopedico da quando ho quattordici anni e mi ha detto che quando ha preso in mano il mio ginocchio dopo Cortina ha guardato il dottor Panzeri negli occhi e gli è venuto da svenire, perché era messo in condizioni pessime.
Non ho bisogno di fomentare questa polemica che è stata molto sgradevole e penso anche offensiva non tanto nei miei confronti quanto nei confronti di gente qualificata, come i dottori della federazione, che agiscono per il bene degli atleti e di certo non vanno a sostenere il falso.
È la prima volta che ne parlo chiaramente, è stato l’argomento di cui mi han chiesto appena atterrata a Malpensa e ho chiaramente glissato, non merita parole extra”, ha raccontato la sciatrice.
“L’egocentrico penso che metta al centro dell’attenzione i propri problemi, lo sport ad alto livello implica una sorta di egoismo, perché l’atleta deve pensare a sé e ognuno di noi lo è per riuscire a conseguire un percorso personale che porterà a obiettivi desiderati. Se c’è una persona che mi fa sempre le polemiche è sempre lei, chissà come mai”.
Poi la Goggia ha parlato della situazione legata all'ultima Olimpiade. “Chiaramente a livello di medaglia è stata un’edizione molto ricca - ha detto -. Rispetto alle scorse c’è stato un oro in meno ma ci sono state tante medaglie in più, tanti argenti e bronzi in più, tutto sommato è stata una trasferta molto positiva per l’Italia, anche in ottica Milano-Cortina 2026, mi sento già carica solo adesso a pensarci.
Mi viene voglia di impostare questi quattro anni al meglio per riuscire a essere pronta per quell’evento anche se ancora tanto lontano. Pechino 2022 è stata un’Olimpiade un po’ strana con tutte le restrizioni della pandemia, penso che soprattutto sia stato difficile arrivarci dopo un inverno dove abbiamo girato davvero tanto. In ottica Olimpiade penso sia stata la parte più stressante”.
Come si prepara la Goggia per Milano-Cortina 2026? “È tanto presto. Ho fatto quindici ore di lavoro al giorno, iniziavo le terapie alle 6.15 e finivo alle 21. Tutto il giorno eravamo in giro tra palestra, fisioterapie. Abbiamo fatto di tutto per poter metterci nelle condizioni di poter sciare", ha risposto.
"Il primo giorno in Cina per me è stato traumatico, ho perso tanto tono muscolare ed è stato davvero difficile. Il ginocchio aveva avuto il suo trauma distorsivo e lo patisco ancora adesso.
Il fatto che sia riuscita a fare argenti in discesa con pochissimi giorni di sci è perché mi son buttata giù e ho avuto coraggio nel farlo: è una disciplina che da tanto tempo ho dominato e domino, ma è stato difficilissimo.
Ho fatto un giorno e mezzo di riposo ma oggi sono a Verona perché devo continuare il mio percorso riabilitativo perché la gamba non è ancora a posto. Dovessi iniziare una stagione in queste condizioni mi verrebbe male, tengo duro e cerco di vincere la coppa del mondo di discesa, cosa non scontata.
Racimolo le mie energie e le indirizzo al conseguimento di questo obiettivo. Milano-Cortina sarà la nostra olimpiade italiana, sono già emozionata. Il 24 giugno 2019 ero con la delegazione del CONI e l'abbiamo portata a casa contendendocela con gli svedesi. Sarà la nostra olimpiade, la mia ultima e sarà stupenda”.
Striscia la Notizia, Sofia Goggia travolge la madre della Brignone: "Parla sempre di me. Forse...", una frase durissima. Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022.
Tra le protagoniste indiscusse di questi giorni c'è Sofia Goggia, la sciatrice azzurra autrice di una clamorosa impresa ai giochi olimpici invernali di Pechino 2022, con un bronzo strappato poco più di 20 giorni dopo un grave infortunio al ginocchio. E come spesso capita ai protagonisti, ecco che anche la Goggia è finita nel mirino di Striscia la Notizia.
Già, il tg satirico di Canale 5, nella puntata in onda giovedì 17 febbraio, ha infatti consegnato alla sciatrice un tapiro d'oro, ovviamente la consegna era affidata allo storico inviato Valerio Staffelli. La ragione? Le parole di Ninna Quario, ex sciatrice ma soprattutto madre di Federica Brignone, la rivale storica della Goggia (no, tra le due non corre affatto buon sangue).
La madre della Brignone ha sparato ad alzo zero, affermando che la Goggia è "un'egocentrica" ed avanzando dubbi sulla reale entità dell'infortunio al ginocchio, poiché ha reputato i tempi di recupero troppo rapidi. "Guardi l'ecografia", aveva già replicato una tostissima Sofia.
E quando Staffelli la raggiunge, ecco che picchia ancor più duro. Parlando della Quario, infatti, afferma: "Parla sempre di me e dice che sono egocentrica: il Tapiro dovremmo darlo a lei". Dunque, sul rapporto con la Brignone afferma: "Federica è una cara compagna di sci, con il cronometro ci stimoliamo a vicenda. Anzi, devo ringraziarla, perché senza quello che mi ha dato a livello sportivo non sarei la sciatrice che sono oggi", conclude Sofia Goggia. Le crediamo?
Daniela Cotto per "la Stampa" il 18 febbraio 2022.
Federica Brignone è raggiante. Ha gli occhi che ridono, sistema i capelli e si aggiusta gli orecchini. Si coccola il bronzo della combinata, la seconda medaglia vinta in questi Giochi cinesi impegnativi come una salita sull'Everest. L'azzurra, 31 anni, valdostana, diventa la seconda italiana a centrare due podi olimpici nella stessa edizione dopo Deborah Compagnoni (Nagano 1998).
E la prima in assoluto a conquistare una medaglia in combinata. Federica, che effetto le fa?
«Questo bronzo l'ho vinto con la testa e con una gara intelligente. La combinata è una delle mie passioni, perché si mescola tutto. Le slalomiste che vanno forte in discesa e le discesiste che fanno slalom, è sempre interessante».
Dopo la seconda prova in discesa era nervosa e ha urlato a suo fratello Davide "Basta, non so sciare!". Come si è calmata?
«Lui si è innervosito, ha ragione perché perdo energie, ma io non sono così sicura di me stessa. Ho sempre bisogno di conferme. Mi basta sbagliare una prova come all'inizio e saltare una porta per andare in palla. È un mio problema».
Poi come ha svoltato?
«Ho staccato un giorno, ero troppo stanca e stressata. Non avevo dormito prima e dopo l'argento e quando è arrivata l'amarezza del superG sono andata in tilt. Arrivare qui è stato difficile, non abbiamo mai potuto rilassarci. E poi con queste follie dei test non è una passeggiata. Non sai mai se ti fanno correre o meno per un cotton fioc nel naso... ti fa venire un certo giramento di pancia. Non sei sereno, può succedere di tutto, è come giocare a tombola».
Quanto è stressante la vita qui?
«Tanto. E l'avvicinamento anche. Un mese prima di venire in Cina non potevo tornare a casa e vedere la mia famiglia. L'attenzione per non contagiarsi è stata altissima. Adesso cerco di farmi scivolare tutto. Mi sono concentrata sulle cose giuste, ne sono orgogliosa».
Il segreto per ritrovare la via?
«Riposarmi di testa. Ho meditato, ho cercato di scollegarmi guardando gli altri sport. Ho vissuto il villaggio olimpico, giocato a calcetto e ping pong».
Lei è la stakanovista dei Giochi. Ha già partecipato a quattro gare e domani tornerà in pista nel team event.
«La polivalenza è faticosa. Le svizzere Gisin e Holdener, oro e argento della combinata, mi hanno detto che sono matta a partecipare alla gara di Coppa del mondo a Crans Montana nel prossimo fine settimana, ma quella è la mia pista e non me la posso perdere».
Ha fatto le Olimpiadi che voleva?
«Sì. Con due medaglie sono felice. Il nostro sport è talmente difficile che vincere non è mai scontato».
Federica, che cosa pensa dell'intervista polemica di sua madre (Maria Rosa Quario, ex azzurra) a Radio Capital, con frecciate alla Goggia?
«Alt! Io non so niente, non ho letto niente: anche perché altrimenti mi sarei arrabbiata e non avrei dato il massimo, altro che medaglia! Sono qua per sciare. Dall'inizio della stagione a Soelden mi sono tolta dai social. Non ho letto e così sono a posto con la coscienza».
Si aspettava l'argento in discesa di Sofia e il bronzo di Nadia Delago?
«Sinceramente sì. Nadia ha scelto il posto giusto per il podio, ha sciato benissimo. È stata grande. Come Sofi, dopo quello che ha vissuto. Ma su di lei non avevo dubbi».
E il crollo della Shiffrin?
«Questo fa capire quanto sia tosto il nostro sport e quando conti la testa. Lei si era isolata, è andata in crisi per la troppa pressione, si è stressata: anche lei è umana»
Daniela Cotto per lastampa.it il 17 febbraio 2022.
Non deve essere facile per Federica Brignone avere una mamma ex campionessa di sci e giornalista sportiva. Perché lei ha vissuto le dinamiche e le emozioni della Coppa del mondo e delle Olimpiadi prima di te, ha gioito e sofferto come te. E, per quei meccanismi di amore che si instaurano tra genitore e figlia con un cordone ombelicale mai reciso, le sensazioni vengono tramandate. Come per osmosi. Spesso le energie negative mandano in tilt entrambe. Il corto circuito è successo ieri.
Quando Maria Rosa Quario, mamma della Brignone, dopo l'argento di Federica in gigante e dopo quello della Goggia in discesa, ha dichiarato a Radio Capital: «Sofia è molto egocentrica, ha una determinazione impressionante ma il suo infortunio non era così grave perché è tornata dopo 23 giorni.
E se uno si rompe una gamba non credo che possa tornare in pista dopo 23 giorni». Boom. Di più: «Sofia si vede molto al centro dell'attenzione, si piace, si loda tanto e gode. Cerca attenzione da morire. Federica invece è timida e non le importa piacere alla gente». Gran finale: «Sofia e Federica non sono mai state amiche, non si sono mai prese. Goggia ultimamente ha detto che sono amiche, ma non è vero!».
Ecco, il punto. Non è necessario essere amiche per convivere in squadra. Lo sport si nutre di rivalità, di sangue, e le due regine dello sci italiano si sono conosciute, frequentate (solo in pista), tollerate e poi «lasciate». Ma la loro rivalità è stata fondamentale perché ha portato in alto entrambe.
Hanno caratteri opposti. Federica ha vinto la Coppa del mondo generale, unica italiana a riuscirci, un argento mondiale e due medaglie olimpica. É forte, ha una tecnica sopraffina, ma non buca il video. Istintiva, patisce tuttavia i cali di tensione e fatica a gestire la pressione. Come successe l’anno scorso ai Mondiali di Cortina, quando Marta Bassino vinse l’oro nel gigante parallelo e lei andò in tilt.
Sofia Goggia viaggia su estremi opposti, non potrebbe essere più diversa. Olimpionica di discesa in Corea, domina il palcoscenico e ha la comunicazione nel sangue. Legge, suona il pianoforte e si butta già a oltre 100 chilometri all’ora. Il 23 gennaio è caduta nel supergigante di Cortina, per i Giochi sembrava finita, ma un recupero lampo l’ha portata in Cina. «Hai visto che è arrivata Sofia?», «No, ero in pista» la risposta stizzita di Federica quel giorno. Poi l’argento di Goggia in discesa: un’impresa sportiva e umana che, nel parterre di Yanqing, ha commosso tutti e a parità di medaglie ha oscurato il secondo posto di Fede nel gigante.
Due campionesse, rivali e diverse accomunate da una profonda passione per lo sci che le spinge a sopportare allenamenti da fachiro. In pista ci vanno con il cuore. Amiche? No, non lo sono, non potranno mai esserlo, perché è nella natura dello sport. Quando c’è in palio una medaglia sono una contro l’altra, ma sempre con rispetto. Sofia ha imparato un po’ di gigante da Federica, che è stata affascinata dall’apertura mentale della bergamasca. Adesso vivono da separate in casa e si allenano insieme solo in velocità per problemi organizzativi. Ormai sono giovani donne che hanno preso in mano le redini del loro destino.
La Brignone ha trovato pace allenandosi con il fratello Davide e la Goggia è entrata nella dimensione internazionale di un’olimpionica. Sulle orme della Vonn, di cui è grande amica: con uno sponsor che le mette a disposizione il fisioterapista per 15 giorni e l’elicottero per gli spostamenti. Ognuna ha preso le misure all’altra, come si fa con la vicina di scrivania che ti sta antipatica. È la vita e, come ripete sempre il coach Gianluca Rulfi a Sofia, «lavora e fatti gli affari tuoi». Sante parole. Ma in tutto questo cosa c’entra Maria Rosa Quario? Proprio nulla se non far passare in secondo piano i risultati di Federica.
Da repubblica.it il 17 febbraio 2022.
"Non commento, preferisco non commentare. Se ho sentito la Brignone? Le ho fatto i complimenti per il bronzo appena sono scesa dall'aereo". Sono le prime parole di Sofia Goggia all'arrivo all'aeroporto di Malpensa, di ritorno dai Giochi invernali di Pechino in cui ha conquistato uno straordinario argento in discesa, incalzata dalle domande sulle dichiarazioni polemiche della madre dell'altra sciatrice azzurra, Maria Rosa Quario, che ha parlato di 'egocentrismo' e di 'un infortunio non grave'. "Preferisco glissare, come quando sorvolo in discesa libera che mi viene bene.
Non voglio proferire parola e alimentare inutili questioni - ha aggiunto la campionessa bergamasca - La risonanza magnetica parla chiaro. Il medico che mi ha visitato mostra ai suoi praticanti il video della caduta di Cortina come esempio di come ci si rompe un crociato: la bontà di quel volo è chiara".
"Medaglia incredibile, fatto qualcosa di grandioso"
Frecciate e polemiche che non scalfiscono comunque la portata dell'impresa compiuta dalla Goggia, poco più di tre settimane dopo il problema al ginocchio. "Porto a casa innanzitutto una medaglia incredibile, quando sono partita avrei firmato se me l'avessero detto, ma soprattutto la consapevolezza di aver fatto qualcosa di grandioso per me indipendentemente dal colore della medaglia - sottolinea Sofia tornando sul risultato colto a Pechino e guardando già alle prossime sfide –
La gamba necessita ancora di tanta riabilitazione per acquisire forza, ora conto di riposarmi almeno un giorno e mezzo e poi ricominciare il percorso riabilitativo che avevo iniziato e che ho cercato di mantenere anche in Cina. E poi mercoledì andremo a Crans-Montana dove ci sono delle discese su cui voglio restare concentrata per portare a casa la coppa del mondo. Mi ha veramente riempita di gioia l'affetto degli italiani, vale più di una vittoria perché significa aver lasciato qualcosa nel cuore delle persone, forse non solo per i risultati sportivi, ma per la ragazza che sono".
"Shiffrin? Dovevo darle anche sci slalom"
Sollecitata dai cronisti, la Goggia commenta anche il gesto di aver dato i suoi sci di discesa alla statunitense Mikaela Shiffrin per la combinata. "Con il senno di poi le avrei dato anche gli sci da slalom: scherzi a parte, la Shiffrin mi ha ricordato un po' la Biles a Tokyo 2020. Il campione che è sempre campione, che ha sempre fatto tutto per fare la differenza, poi è uscita in slalom, in gigante cosa mai capitata. E' una brava ragazza, una grande campionessa", afferma l'azzurra, precisando che non ha mai usato in gara quegli sci, perché "il mio sci 27, il mio 'bambino', ormai è consumato".
La ditta Atomic, marca degli sci della Goggia e della Shiffrin, ha provato il tutto per tutto per cercare di aiutare la statunitense a rialzarsi dopo le delusioni delle gare olimpiche, ma anche in combinata, uscendo nello slalom, non sono arrivati i risultati sperati. "Ho incontrato la madre della Shiffrin una volta, le ho detto 'Eileen sono solo gare di sci. Non cambia il suo valore umano, lei gli ori li ha'. Brucia e fa male, è quello per cui lavoriamo e viviamo ma bisogna riuscire a dare leggerezza a quello che sembra un peso insostenibile".
Dagospia il 17 febbraio 2022. Da Un Giorno da Pecora
La seconda medaglia di mia figlia Federica? “Chi arriva in fondo ha sempre ragione, oggi ne aveva davanti tre più forti di lei, una è caduta e lei è arrivata sul podio. Ho sentito Federica al telefono, era contentissima, mi ha detto anche lei 'è andata bene, era molto difficile”. A parlare, ospite di Rai Radio1, a Un Giorno da Pecora, è Maria Rosa Quario, giornalista, ex sciatrice e mamma di Federica Brignone. “Ero convinta che fosse alle 4 la prima manche della gara e ho acceso solo cinque minuti prima. Ed erano già al numero 13. Meno male che Federica aveva il numero 16, sennò non l'avrei nemmeno vista...”
Sua figlia qualche giorno fa aveva detto di aver 'fatto schifo' in gara al punto che non avrebbe voluto partecipare alle Olimpiadi di Milano Cortina. “Non è una notizia, lei non ha mai detto di volerle fare, perché nel 2026 avrà 36 anni. Per il resto Federica si butta sempre troppo giù, questo è il suo grosso problema: quando scia male è molto ombrosa, mentre quando fa bene è molto felice”.
Hanno provocato un bufera le sue dichiarazioni su Sofia Goggia, definita 'egocentrica'. “Ho risposto ad una domanda che mi hanno fatto in radio. Mi avevano chiesto perché avessero avuto una così diversa risonanza l'argento di mia figlia e quello della Goggia. E io ho detto che c'è modo e modo di porsi: chi vuole far parlare di sé e chi vuole solo dire ho fatto una medaglia, e finisce lì”.
Lei avrebbe detto anche che l'infortunio della Goggia non era poi così grave...”Non vorrei avere offeso nessuno - ha detto a Rai Radio1 Quario - mi piacerebbe mettere il punto su questa cosa. Per esperienza dico che in base alla diagnosi mi sembra davvero strano che dopo pochi giorni faccia l'impresa che ha fatto Sofia. Non ho detto che non si era infortunata ma che forse non era così grave”.
Tra l'altro sembra che la Goggia avesse prestato gli sci a Mikaela Shiffrin per la gara di oggi. “Non credo che la Shiffrin potesse prendere uno sci vecchio non credo che Sofia le potesse dare i suoi sci per battere Federica. ”Chi delle due è più forte? “Sono entrambe fortissime: Sofia è velocissima, ha una velocità che tutti sognano, fuori dal comune ed in discesa libera non c'è paragone. In gigante è più forte Federica e forse scia meglio tecnicamente”.
Cosa farebbe per far riappacificare le due atlete? “Vorrei che Federica vincesse la coppa del mondo di Super G, Sofia quella di discesa, che merita più di chiunque altra – ha affermato la giornalista a Un Giorno da Pecora - e che poi facessero una foto insieme brindando con le due coppe”.
Sofia Goggia: «Federica Brignone? Mi ha spronato a dare il meglio. Devo dare un esame con il prof Orsini». Aldo Cazzullo Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2022.
La campionessa di sci argento olimpico 2022 e oro 2018: «La polemica con Federica Brignone? Cercherò di andare avanti in un rapporto di civiltà. Dopo l'infortunio ho attinto a una riserva speciale, ma ne sono uscita devastata. In gara canto Fedez».
Sofia Goggia — argento olimpico nel 2022, oro nel 2018, prima italiana in libera, seconda nella storia dopo il leggendario Zeno Colò a Oslo 1956 — è una tigre che legge Kavafis. Al cancelletto di partenza sputa nella neve, e al caffè della piazza di Bergamo Alta conversa di psicologia.
Sofia, qual è il suo primo ricordo?
«La baita sopra Cogne, dove salivamo d’estate. Papà aveva comprato dei ruderi per andare a caccia. Un bivacco a 2.241 metri: niente telefono, niente elettricità; candele e acqua di sorgente. Sono gelosa di quella baita: mi dà il senso dell’essenziale. La gente è chiusa, ma se la conquisti diventi di famiglia. Ancora adesso si dicono, in patois: è arrivata Sufei…».
E il primo ricordo pubblico?
«Per la mia generazione è l’11 settembre. Ero sulle mura di Bergamo con mia mamma, stavamo andando a trovare la zia. Incontrammo una signora che aveva il figlio in America, e ci raccontò tutto».
Papà e fratello ingegneri, mamma insegnante. Lei a chi somiglia?
«Io sono Ezio. Sono mio padre. Ingegnere e artista: una figura ossimorica. Adesso ha una mostra di tele a olio ispirate a Hermann Hesse, qui in città alta. Entrambi i genitori sono due martelli orobici: quando si mettono in testa una cosa, la fanno. Ma la sregolatezza l’ho presa da papà».
Com’era da bambina? Giocava con le bambole?
«Le odiavo. Ho la fobia delle bambole. Un vicino che mi era affezionato mi regalò una Barbie; la gettai dal terrazzo. Io volevo giocare a calcio con mio fratello Tommaso. E poi il nuoto, il tennis. Il pianoforte, più strimpellato che suonato. La moto, da enduro. Ma le bambole no. Ancora oggi, quando entro in certe pensioni austriache che ti propinano bambolotti di qua e di là, mi prende il terrore».
Andava d’accordo con suo fratello?
«Ci picchiavamo di continuo. E le ho più date che prese. Da grande tornava dall’Università con la ragazza che ora è sua moglie, e non ho mai potuto viverlo come un individuo unico. Ne ho sofferto. Ora abbiamo un bel rapporto».
Quando ha iniziato a sciare?
«A 4 anni. Gli sci avevano le righe, tipo burberry, e sulle punte due orsetti che stringevano un cuore».
È vero che da bambina cadde dalla seggiovia?
«Ero molto piccola. Mi sono seduta in un angolo, gli altri erano più pesanti e sono saliti tutti insieme, così sono scivolata. Però mi sono aggrappata con le mani al poggiapiedi».
L’incubo di ogni sciatore.
«Mi tirarono giù con la scala».
Era veloce fin da subito?
«Ho avuto la fortuna di trovare un maestro, Nicola, che ha visto in me il talento agonistico. Mi sentivo “giusta” se sciavo bene. È come se nella vita avessi sempre cercato qualcosa per sentirmi quel diritto di essere “giusta”, che ogni individuo dovrebbe avere dalla nascita».
Come se vincere fosse un dovere?
«No. Come se fosse l’unica via per avere il diritto di esistere. È un meccanismo patologico, lo so».
Da atleta ha sempre avuto lo psicologo?
«Sì. Il primo ce lo diede la federazione, ora è consulente alla Juventus. Poi ne ho cercato uno a Bergamo. Ora sono approdata a una psichiatra di Brescia. All’Olimpiade in Cina avevo ancora una paura latente per la caduta di Cortina, e abbiamo usato il tapping».
Cos’è il tapping?
«Una tecnica per rivivere l’esperienza e rimuoverla. Incroci le braccia, le dita si appoggiano alla rotula, ti immergi nella sensazione brutta, e scandendo un ritmo dettato dallo psicologo enfatizzi la paura e la sostituisci con l’azione giusta…».
Fa anche yoga?
«Poca. Per un periodo ho fatto molta meditazione. Ma è un palliativo: se ne abusi, va a coprire problemi che prima o poi ritornano».
Prima della partenza ascolta musica?
«Preferisco il silenzio. Metto le cuffie insonorizzanti che mio padre usa al poligono. Ascolto il battito del cuore. Mangio due datteri. Non è superstizione; è un rito che segui per sentirti sicuro. Poi in gara a volte canto».
Canta mentre scia?
«Canticchio. Despacito. Hola di Mengoni. Quest’anno a Lake Louis sono scesa cantando Sapore di Fedez».
Pure all’Olimpiade?
«No, all’Olimpiade silenzio assoluto».
L'argento a Pechino 23 giorni dopo l'infortunio
Un infortunio può diventare una forza?
«Nei campioni l’infortunio riflette quasi sempre un conflitto emotivo interiore. Si chiama causazione adeguata. Dipende da qualcosa che hai dentro, su cui devi lavorare. Ci sono atleti martoriati, e altri che non hanno mai nulla».
Crede ai segni del destino?
«Il destino te lo crei tu. Ma non nego che possa esserci un disegno. In Cina avevo segnali bruttissimi: alcuni del mio staff hanno preso il Covid già in Italia, in allenamento nel superG sono caduta alla terza porta… Era come se la vita mi stesse dicendo: “Sofia attenta, stai facendo una mission impossibile, fermati perché finisci male”. Ma avevo una vocazione tale verso la discesa olimpica, verso la medaglia, che è stata più forte di tutto. Ho attinto a una riserva accessibile solo quando sei in condizioni estreme. Ne sono uscita devastata. E lo sono tuttora».
Il 22 gennaio lei vince la libera di Cortina. Il giorno dopo cade in superG. Tutti la ricordiamo mentre va via in lacrime, sorretta a braccia.
«Prendo una cunetta in curva, faccio una spaccata a cento all’ora, il piede sinistro mi gira, una capovolta a terra, ed ecco il patatrac. Sento subito il male da “tirone” al crociato. Ho spaccato uno sci e un attacco. Chiamano il toboga ma non lo voglio, a Cortina non posso scendere se non con le mie gambe. Però non sento più le ginocchia, scio solo con i piedi».
La portano in elicottero a Bresso.
«Mi aspettano al bar dell’eliporto, sono duecento metri ma non ce la faccio, mi devono sorreggere. Alla Madonnina il dottor Herbert Schoenhuber mi prende in mano il ginocchio e mi fa, con il suo accento altoatesino: qui c’è qualcosa al crociato. In quei momenti sei apatico, non sai cosa pensare e sperare. Faccio la risonanza: il crociato è saltato per il 50%, mi sono lesionata tutta: collaterale interno ed esterno, crociato anteriore, capsula, testa del perone, inserzione dei muscoli flessori nel punto d’angolo esterno del ginocchio…».
E il dottore?
«Mi dice: Sofi, ce la puoi fare. E non c’è stato un solo giorno in cui ho avuto il dubbio di non farcela. Anche se ne mancavano solo 23 alla discesa in cui dovevo difendere l’oro olimpico. Herbert è così bravo che ha chiamato la mia migliore amica per dirle: state vicini a Sofia. Io inizio subito le terapie».
Quali?
«Sgonfio il ginocchio siringandolo. Comincio con il lavoro nella parte alta del corpo, per dare anche uno stimolo ormonale. Poi tutte le cure per tamponare l’infiammazione. La Red Bull mi manda il fisioterapista che segue il capo, Dietrich Mateschitz: così arriva questo austriaco che sembra David Bowie, ma si chiama in realtà Harry Quenz, su un aereo pieno di attrezzature con cui allestisce la camera degli orrori».
Cosa c’era dentro?
«La cyclette per la pedalata eccentrica, al contrario, e le macchine per fare 7-8 terapie diverse. Ogni mattina alle 6 busso alla camera di Harry con un caffè preso al bar di sotto, e andiamo avanti fino alle 7 e mezza di sera, quando arriva il mio massaggiatore dalle mani magiche, Domenico Pesenti. Tra lui, i fisio di Mantova e il mio preparatore Flavio Di Giorgio abbiamo creato un vortice tale da mandarmi in Cina zoppa, ma in grado di provarci».
Quando ha rimesso gli sci?
«In Val d’Ultimo, dopo dodici giorni. Vado in palestra alle 5 e mezza, lavoro fino alle 8, Harry mi prepara la colazione, poi partiamo in elicottero. Provo le porte da gigante, le ultime sono su un dosso e lì freno, ma capisco che posso farcela. La domenica parto per la Cina».
Sensazioni?
«Lo spirito olimpico, il bel clima: tutto falso. L’Olimpiade è una gara di sopravvivenza. Ognuno bada a fare il proprio risultato. E io sono in una condizione diversa dagli altri atleti del villaggio. La sensazione di solitudine è enorme. I mostri nella testa, fortissimi».
Quali mostri?
«L’ansia, l’assenza dello skiman e di chi mi aveva seguito a casa, ritrovarsi nell’ambiente della squadra in circostanze così cambiate… anche se il dottor Panzeri e il fisio Devizzi mi sono sempre vicini. E poi ripenso al nonno. Rileggo il suo trafiletto».
Quale nonno? Quale trafiletto?
«Entrambi i miei nonni hanno fatto la ritirata di Russia. Nonno Angelo, il padre di mio padre, era nei granatieri di Sardegna. Ha portato a casa un rullino di foto, con un trafiletto scritto da lui: c’erano quelli che cadevano nella neve, quelli che impazziti tornavano indietro, e c’era lui, con la gamba semicongelata, che contava le ultime energie, per sopravvivere. Intendiamoci: non oserei mai accostare una gara di sci a quella tragedia. Però la testimonianza del nonno mi ha sempre dato tanta forza».
Prima prova.
«La tensione tra i tecnici è pazzesca. Nel test di superG sono caduta. Poi entro nella casetta della partenza della libera, vedo i cinque cerchi e mi dico: il mio posto è qui. L’avevo scritto a nove anni: da grande voglio vincere la medaglia d’oro olimpica nella discesa libera».
Però in quella prova arriva sedicesima.
«Parto prudente. Nell’imbuto del Dragone sono caduti due o tre maschi, ho un po’ di patema. La seconda prova la cancellano, nella terza faccio il settimo tempo».
Cos’ha pensato in gara?
«A nulla. Quando all’arrivo vedo che sono prima caccio quell’urlo formidabile, quel grido di liberazione in cui c’è tutta la mia essenza, tutto il sangue che ho sputato in quei 23 giorni, tutto il dolore che prima non potevo permettermi di sentire… ma poi mi dico subito che quattro decimi di vantaggio sulla Nadia Delago sono pochi».
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La svizzera Suter la batte. Argento. Comunque un’impresa storica. Come ha reagito quando Maria Rosa Quario, campionessa della «valanga rosa» e madre della grande Federica Brignone, ha espresso dubbi sulla gravità del suo incidente di Cortina?
«Ci sono rimasta malissimo. E ho chiesto alla clinica di mandarmi il referto, così da farlo vedere. Com’è possibile, mi sono chiesta, che accada questo? Che vengano messi in discussione i medici, i verdetti di strumentazioni all’avanguardia? E questo solo perché l’impresa che ho fatto va oltre gli standard a cui siamo abituati».
Come sono davvero i suoi rapporti con Federica?
«Cercherò di andare avanti in un rapporto di civiltà, condividendo quello che c’è da condividere, cercando di imparare da lei a livello sciistico. Da sempre dico che Federica mi ha spronato a dare il meglio di me. Prendo il buono dalla situazione».
Lei come si giudica?
«Non mi basto mai. Penso che potrei essere sempre migliore. È una costruzione incessante. Ma è anche una condanna».
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Lei è la prima, dai tempi di Tomba e Compagnoni, a diventare un personaggio, ad andare oltre lo sci. Come lo spiega?
«È il carisma che puoi avere a renderti personaggio. C’è chi vince, anche molto, ma è piatto. Io sono quella che sono anche grazie alle sconfitte e agli infortuni. Ho perso i Mondiali di Cortina 2021 per una caduta sulla pista di rientro a Garmisch: frattura del piatto tibiale. Anche per questo voglio arrivare all’Olimpiade Milano-Cortina».
Quando ha avuto il primo grave incidente?
«A 14 anni mi si è girato il ginocchio, in gigante, e mi sono fatta il crociato destro».
Poi ci fu la caduta di Altenmarkt, quando batté la testa. Sua madre ha raccontato che per due mesi lei non rispose agli sms.
«Era un po’ una scusa… Da giovane ero ribelle. A settembre andavo in Argentina ad allenarmi, ci vado ancora, e da Ushuaia non sentivo i miei, cercavo l’indipendenza anche con la lontananza. Comunque ad Altenmarkt la botta la presi: finii nelle reti, e le reti si stamparono sul casco, che si tinse del viola della mucca Milka, lo sponsor dell’epoca».
Lei si rivelò ai Mondiali 2013, a Schladming.
«Non avevo ancora finito una gara in Coppa del mondo, e mi dicono: vai ai Mondiali. E io: va bene, è una corsa come le altre. Quell’approccio spregiudicato mi aiutò. Arrivai quarta, mentre Lindsey Vonn si spaccava. Un altro segno del destino, forse».
Con la Vonn siete amiche, vero?
«Ci scriviamo. È una grande donna. La rivedo mentre dà i consigli alle compagne, sulla linea da tenere, i rischi da evitare. Questo significa essere una campionessa, lasciare un’eredità. Stimo moltissimo anche Deborah Compagnoni. E Isolde Kostner».
Anche all’Olimpiade era così serena?
«La prima, Pyeongchang 2018, è stata un gioco: le neve non sa che ci giochiamo l’oro; vado giù, faccio del mio meglio e poi vediamo. Così ho vinto. Anche stavolta in Cina ero senza pressione: cosa puoi aspettarti dalla numero 1 al mondo che cade tre settimane prima della gara e si azzoppa? Potevo arrivare prima o sedicesima: tutta la costellazione delle possibilità sarebbe stata giustificata. Quindi non avevo pressione. L’ho sentita di più a fine stagione, quando dovevo vincere la Coppa del mondo di discesa, e non ne avevo più».
Però l’ha vinta.
«Ero un animale ferito, ma non potevo guardare la ferita; dovevo ragionare come se fossi stata sana».
Dietro l’oro olimpico c’è la storia del tappo.
«Alle preolimpiche in Corea, insieme con l’ambasciatore italiano, arriva una scienziata. Brindiamo a lambrusco e lei mi dice: tieni il tappo, me lo ridai l’anno prossimo, quando vincerai i Giochi. A casa mia mamma per poco non me lo butta via. Lo porto in Corea, ma per il superG lo dimentico, e perdo: sono in testa, mi lascio prendere dal piacere di sciare, commetto un errore. Per la libera infilo il tappo nella tasca destra della giacca. E all’arrivo trovo lei, la scienziata, che me lo chiede».
E dopo?
«Sono salita sulla montagna, mi sono arrampicata su un albero, ho scritto le mie emozioni sul diario, e ho pianto».
Anche prima dell’Olimpiade 2018 lei aveva vinto a Cortina, ed era caduta il giorno dopo.
«Mi sono ribaltata per 44 metri; e non mi sono fatta nulla. Ogni tanto il Signore santo guarda giù. Come quando ho avuto l’incidente in macchina: cado nel precipizio, mi capovolgo, mi fermo; ma non vedo la strada, vedo il tetto delle case… Sono atterrata su un furgone. Non trovo più la mia medaglietta del santuario di Oropa. Ma sono incolume».
Lei crede?
«Vado in chiesa, in Duomo, da don Fabio. Mi piace pensare che ci sia qualcosa».
Come immagina l’Aldilà?
«Devo aspettarmi l’Inferno dantesco o la beatitudine del Paradiso? Non lo so. Ho letto “La biologia delle credenze” di Bruce Lipton: parla della traccia che ogni individuo lascia, come se l’universo sentisse il passaggio di ciascuno di noi».
Lei studia all’università.
«Scienze politiche alla Luiss. Ora devo dare l’esame con il professor Orsini».
Non trova bizzarre le sue idee sulla Russia?
«Al contrario: le trovo stimolanti. Dobbiamo sempre preferire la discussione alla propaganda».
Come mai è ancora single?
«Ho avuto un unico grande amore. Una relazione complicata, finita malissimo. Sono caduta in una di quelle situazioni che mai avrei pensato di vivere. Ho sofferto tanto, mi ha devastata. Ora non ci penso, finché gareggio. Poi magari mi innamoro domani mattina…».
Sarà corteggiatissima.
«Ho sempre cercato uomini più maturi di me».
Vorrebbe figli?
«Sì. Ma magari non diventerò mamma, devo trovare il principe azzurro…».
«Quell'unico amore che mi ha distrutta»
In che periodo va in vacanza?
«Questo. Zaino in spalla con Avventure nel mondo. Bolivia, Seychelles, Cile, Mauritius, Ruta Maya in Messico…Ora sono indecisa tra Oman e Cuba».
Come ha passato il lockdown, così pesante qui a Bergamo?
«Ad allevare galline. Fu un periodo terribile, le ambulanze che suonavano ogni cinque minuti… Così sono diventata socia di questo allevamento a Lonno, una frazione di Nembro: 2.500 galline che vivono felici tra gli alberi. Le uova le consegnano ragazzi che erano in difficoltà e hanno trovato un posto accogliente. Il silenzio del periodo ha dato voce a una piccola attività».
Si considera femminista?
«Credo che le donne debbano lottare per i loro diritti, compresa la parità di retribuzione. Ma le donne sono donne; gli uomini, uomini. Non mi piace quando dicono: donna con le palle. Perché devi giudicarmi da quello che non ho, che non sono?».
Ci sono omosessuali tra gli atleti?
«Tra le donne qualcuna sì. Tra gli uomini direi di no. Devono gettarsi giù dalla Streif di Kitz…».
È giusto che i transgender gareggino con le donne?
«A livello di sport, un uomo che si trasforma in donna ha caratteristiche fisiche, anche a livello ormonale, che consentono di spingere di più. Non credo allora che sia giusto».
Cosa distingue un atleta da un campione?
«Il fuoco sacro, qualcosa di inestinguibile che ti brucia dentro. E la capacità di convertire la pressione in spinta propulsiva. Ci sono i leoni da allenamento. E ci sono quelli che vincono».
È vero che ha un sogno ricorrente?
«Non è un sogno, è una visione. Arrivo in una stanza buia con la tuta dell’Olimpiade, vedo una bambina, le faccio una carezza, e quella bambina sono io. Non so se sarebbe felice della Sofia di oggi».
Perché non dovrebbe esserlo?
«Ve l’ho detto: non mi sento mai “abbastanza”. Si può sempre essere migliori».
Qual è la sua poesia preferita di Kavafis?
«Itaca. L’avevo letta in un periodo in cui ero un po’ intrippata… Con il tempo l’ho capita. Vuol dire che la cosa importante nella vita non è la meta; è il viaggio».
Sofia Goggia e quelle frasi sugli atleti gay e transessuali, la campionessa si scusa: “Non volevo discriminare nessuno”. CHIARA BALDI su La Stampa il 17 aprile 2022.
«Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Mi dispiace e mi scuso con tutte le persone che si sono sentite offese per la frase che è uscita nell’intervista del Corriere che, sicuramente, quando l’ho pronunciata, non voleva essere di natura discriminatoria». Dopo una intera giornata di polemiche Sofia Goggia rompe il silenzio con un tweet in cui chiede scusa per le parole, pronunciate in una intervista al Corriere della Sera. Ma cosa aveva detto la campionessa? «Se ci sono omosessuali tra gli atleti? Tra le donne qualcuna sì. Tra gli uomini direi di no. Devono gettarsi già dalla Steif di Kitz», aveva detto Goggia facendo riferimento alla difficile pista austriaca e si è espressa anche sulla possibilità che i transgender gareggino con le donne. «A livello di sport – aveva aggiunto – un uomo che si trasforma in donna ha caratteristiche fisiche, anche a livello ormonale, che consentono di spingere di più. Non credo allora che sia giusto». Le reazioniParole che hanno suscitato lo sdegno non solo sui social – dove le due risposte di Goggia hanno circolato in molteplici screeshot e tweet – ma anche della politica. Il primo a insorgere è stato il sottosegretario all'Interno ed esponente di Iv, Ivan Gasparotto: «Leggo sgomento che secondo Sofia Goggia un atleta gay non sarebbe in grado di fare una discesa libera. Prima di dire cose del genere, gentile Sofia, converrebbe fermarsi a pensarci due volte: la velocità è un vantaggio in gara ma con le parole può diventare un grosso problema». Mentre Vladimir Luxuria ha spiegato che quello di Goggia è un «pensiero davvero umiliante: questa idea di misurare l'eterosessualità attraverso la virilità è assurda. Se uno è capace di sfidare certe altezze lo fa indipendentemente dall'orientamento sessuale. Quella della Goggia è un'idea un po' vecchia, secondo cui i gay di fronte ad una discesa ripida tornano indietro urlando e sculettando. Da sempre per qualcuno lo sport è dimostrazione di machismo. Già detto dagli uomini è terribile, ma detto da una donna è davvero umiliante». Per Marco Arlati, membro della segreteria nazionale Arcigay, le parole della sciatrice sono «sbagliate e fanno riferimento a una mentalità vecchia. Spero vivamente che Sofia si scusi e che capisca che le sue parole sugli atleti gay sono farcite dì stereotipi sbagliati e senza senso e potrebbero alimentare odio verso la comunità LGBTI+. In Italia e nel mondo - ha aggiunto – c'è una difficoltà oggettiva nel fare coming out, in Italia molto forte. E queste dichiarazioni danno la percezione del pensiero che purtroppo aleggia ancora nel mondo sportivo. Gli atleti e le atlete sono tali indipendentemente dal genere, dall'identità dì genere e dall'orientamento sessuale». «Per quanto riguarda la questione transgender – conclude Arlati –, ci sono indicazioni precise dal Coni e dal Cio, che sono gli organi più idonei per dare indicazioni sui regolamenti».
Gustavo Bialetti per la Verità il 19 aprile 2022.
Lo scandale du jour riguarda Sofia Goggia e le sue idee sugli omosessuali nello sport.
Conversando con Aldo Cazzullo e Flavio Vanetti sul Corriere della Sera, la sciatrice ha attaccato l'assurda moda di far gareggiare gli atleti trans, biologicamente uomini, con le donne: «A livello di sport, un uomo che si trasforma in donna ha caratteristiche fisiche, anche a livello ormonale, che consentono di spingere di più. Non credo allora che sia giusto»; ma, nella risposta precedente, alla domanda se ci fossero omosessuali tra gli atleti, aveva detto: «Tra le donne qualcuna sì. Tra gli uomini direi di no. Devono gettarsi giù dalla Streif di Kitz».
Buona la prima, male la seconda: protestare contro i marcantoni messi a competere con le ragazze sulla base della loro personalissima percezione di sé ha un senso, fare congetture sul coraggio di un atleta deducendolo dal suo orientamento sessuale no (ma va detto che la sportiva ha subito iniziato il percorso di redenzione, pubblicando un tweet di scuse).
La Goggia è una sciatrice, non una filosofa, una sociologa, una giornalista o una politica. Ha diritto alle sue opinioni e anche ai suoi pregiudizi. Il suo profilo pubblico si limita a quanto mostra sulle piste. Bisognerebbe semmai chiedersi se abbia senso intervistare la Goggia e chiederle: «Ci sono omosessuali tra gli atleti?». Ce ne saranno nella stessa percentuale del resto della società, immaginiamo. Ma perché chiederlo alla Goggia, se non per tirarle un trappolone o per costringerla alla frase fatta politicamente corretta? E, già che ci siamo, che domande sono «Come mai è ancora single?», «Vorrebbe figli?», «Sarà corteggiatissima»? Sono le domande degli zii impiccioni al pranzo di Pasqua. Logico che poi le risposte esprimano la stessa rilassatezza del post grigliata.
Giochi misogini. L’esasperata competizione tra le atlete azzurre alle Olimpiadi invernali. Valeria Viganò su L'Inkiesta il 19 febbraio 2022.
La polemica sterile tra Sofia Goggia e Federica Brignone e lo scontro tra Arianna Fontana e la federazione hanno fatto vedere il lato peggiore dello sport. La solidarietà tra donne esiste ancora? Non dovremmo aspettarci un modello alternativo di porsi?
Che sta succedendo alle Olimpiadi Invernali di Pechino? Al di là dei peana per le medaglie vinte, 2 ori, 7 argenti e 7 bronzi, al di là della gioia per le imprese puramente sportive, le prestazioni e i risultati, serpeggia ed esplode la polemica. E che polemica, ce n’è per tutti e tutte.
Ho assistito, essendo da anni appassionata di curling, che mi fa lo stesso effetto calmante del golf, alla soddisfazione di vedere due dei 300 praticanti italiani di questo “tirare e spazzare dei pietroni sul ghiaccio con estrema precisione”, essere in cima al mondo. Aver vinto in una delle discipline più misconosciute dello sport, è stata accompagnata da un comportamento gioioso e signorile dei vincitori, improvvisamente alla ribalta.
Una compostezza che invece è mancata nello sci e nel pattinaggio su ghiaccio. Sono giorni che si sprecano commenti alle dichiarazioni della plurimedagliata Arianna Fontana che a muso duro ha minacciato di non partecipare alle prossime olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026.
Il contendere sta nel presunto ostracismo della Federazione di cui fa parte verso il ruolo del suo allenatore e marito italo americano. Lei vorrebbe che assumesse un ruolo di caposquadra e i dirigenti no. Rimanga il tuo allenatore, le dicono, ma non l’allenatore di tutti i pattinatori. Arianna addirittura accusa alcuni componenti della squadra maschile di averla deliberatamente ostacolata, fino a farla cadere, quando si allenava con loro. Talmente tanto da essere scappata in Ungheria a prepararsi per le Olimpiadi.
Non so quale sia la verità, certo è un’accusa pesantissima e circostanziata alla quale non è stata data una risposta adeguata. Ho provato un brivido lungo la schiena pensando a quando io giocavo a calcio con i maschi e non mi passavano mai la palla, come non esistessi, anzi fossi un disturbo. Quando poi accadeva che facessi delle giocate, si accorgevano che ero più brava di loro. Ma nel caso dello short track è evidente che ci siano interessi importanti, sponsorizzazioni, premi e quant’altro.
Il marito di Arianna pare non aver aperto bocca pubblicamente e forse ha fatto bene. La misoginia è dovunque, il sottile fastidio che tra tutti gli atleti la più brava, anzi una campionessa, sia una donna esiste. Di solito sono gli uomini che si tirano dietro, per così dire, e favoriscono le donne a cui sono legati. Invece qui la singolarità è che Arianna si è trovata lei nella posizione di pretendere che il suo allenatore assumesse un ruolo più importante. Non sarebbe giusto in entrambi i casi, ad personam è a mio parere una parolaccia. Ma l’aver indicato una vessazione maschile reale anche nella pratica sportiva non è da poco.
Arianna è uscita dalle righe, dal bon ton, dal savoir faire verso il suo mondo, il polverone che ha alzato non è il primo, con la differenza che non è stata una faida tra atleti ma una messa in discussione di un sistema. Quando accade emerge sempre la domanda amplificata dai maledetti social: è egocentrismo, narcisismo o una giusta causa? Non sappiamo, ciò che è certo è che se lo può permettere, come lei nessuna ha vinto tanto e, cosa non da poco, i dirigenti fino ad arrivare a Giovanni Malagò che è intervenuto, sono tutti maschi. Chissà perché?
Il sistema c’entra poco nell’altra polemica rovente, tra la stoica e bionica Sofia Goggia e Federica Brignone, sua compagna di squadra, due campionesse di discesa con gli sci. Solo che la Brignone, e qui dispiace ammetterlo, ha una madre molto ingombrante, grande sciatrice anche lei. Vi ricordate i veleni nella Nazionale di scherma lunghi decenni, tra Valentina Vezzali, Giovanna Trillini, Arianna Errigo, Elisa Di Francisca, Diana Bianchedi, Margherita Granbassi e altre? Una faida quella sì, infinita. Dopo tanto tempo se ne parla ancora. Sospetti, alleanze, giochi sporchetti. Tutto per essere la migliore, la più medagliata, la più famosa.
Ecco, la rivalità tra Goggia e Brignone si era sempre mantenuta lungo binari di correttezza reciproca, vinceva una e vinceva l’altra. Poi, complici le stratosferiche vittorie di Goggia, l’equilibrio è venuto meno e non per colpa loro. Le due ragazze sono diversissime, Sofia estroversa, chiacchierona, istintiva, si butta giù dalle piste come una matta e rischia, rischia tanto. È fatta così. Federica è meno portata all’assalto, ragiona di più.
La differenza però è che Federica, sempre gioiosamente contenuta non ha contenuto la genitrice, famosa ex-campionessa anche lei, che ora scrive su Il Giornale e commenta lo sci. Il cognome è diverso Quadrio, ma pesano come un macigno la sua presenza, la sua opinione, l’antipatia ormai espressa chiaramente verso Goggia, contendente di sua figlia, che nelle sue parole di mamma diventa nella traduzione di un sottotesto neanche tanto velato, una sbruffona, una che per farsi notare si inventa gli infortuni o li aggrava, le dà della megalomane, insomma un quadretto per niente edificante.
E qui viene da chiedersi, perché le donne alimentano così tanto il conflitto tra loro, perché la competizione è esasperata come e peggio degli uomini? Non dovremmo aspettarci un modello differente, alternativo di porsi, facendo leva su alcune qualità che ci dovrebbero appartenere come genere femminile? Una comprensione degli eventi e dei sentimenti maggiore, la capacità di accettare uno sbaglio, l’assunzione delle proprie responsabilità. La solidarietà tra donne esiste ancora?
Mi fa paura dirlo ma finché c’era una subordinazione spaventosa era facile. Molto più difficile, nel percorso enorme che ancora si deve fare, è non replicare il modello maschile del potere nel momento in cui il proprio successo viene allo scoperto, si ha notorietà e fama. E vale non solo nello sport, ma in ogni ambito in cui una donna ha parola potente che influenza.
Perché è così facile poi portarsi dietro i soliti conflitti, le solite invidie, il solito cinismo e livore che non è proprio di una vicinanza. Mi sarei aspettata qualcosa di diverso, e non basta essere madri per avere il diritto di colpire i nemici, anzi le avversarie, della propria figlia, usando il disvalore personale, la disistima, il fango. No, non va bene. Per cambiare le cose non bisogna aderire a un sistema e sgomitarci dentro, occorre semplicemente anteporne un altro.
Flavio Vanetti per corriere.it il 13 marzo 2022.
«Esaminata» da un astrofisico, sulla base di uno studio che risale al 1997. Sofia Goggia ha partecipato a un podcast organizzato dalla Red Bull e ha avuto modo di raccontare aspetti inediti della sua personalità e anche della sua vita: un «viaggio» particolare, che Luca Perri, lo scienziato conduttore, ha affrontato «passando dal guardare l’universo con il naso all’insù alla navigazione nelle profondità della mente».
Assieme a Sofia sono stati intervistati altri 11 tra atleti e atlete di alto livello, tutti appartenenti alla scuderia di sportivi seguita dal gruppo di Dietrich Mateschitz. Tutto prende le mosse – così ci racconta Perri, che tra l’altro è bergamasco come la campionessa azzurra – da «Experimental generation of interpersonal closeness».
Era un test basato su 36 domande formulate per creare a tavolino intimità fra due persone. Il suo ideatore, lo psicologo Arthur Aron della Stony Brook University di New York, voleva scoprire se due soggetti, dopo che si erano posti a vicenda queste domande, si sarebbero sentiti più vicini, e se fra loro sarebbe nato un legame più diretto e intimo.
Sembra paradossale che sia stato coinvolto un uomo che si occupa di galassie, stelle e altre realtà del cosmo, ma a pensarci bene non è poi così assurdo: «Che cosa fa un astrofisico quando cerca una risposta? Rivolge lo sguardo lontano, anzi lontanissimo, a centinaia di migliaia, se non a milioni, di anni luce da sé. Ed è esattamente quello che ho fatto quando il mio sguardo è caduto sul mondo dello sport, davvero quanto di più distante ci possa essere dalla mia persona».
Un (piccolo) rimpianto
Il racconto è molto articolato e tocca vari temi: dalla sua trama è bene estrapolare alcuni passaggi suddividendoli per argomenti. Il punto di partenza è uno sguardo al passato: Sofia rifarebbe tutto? Non precisamente. «Sceglierei ancora questa carriera, ma forse cambierei il mio percorso e mi metterei prima a fare preparazione pre-sciistica, cosa che invece non ho mai fatto quando ero piccola. Vengo da una famiglia che non ha alcun imprinting culturale sportivo e la carriera sarebbe magari ancora più vincente e costellata di meno infortuni... Però a dire la verità gli infortuni mi hanno sì tolto dalle gare, ma mi hanno anche dato una forza interiore incredibile».
Una furia fin dalla nascita
Perché Sofia ha una carica agonistica tanto alta? Perché è nel suo Dna: «Mia mamma mi ha sempre descritta come una furia: sono uscita dalla sua pancia che già piangevo e come dice lei tiravo giù le tende. Sono sempre stata una bambina molto solare e con tante passioni, ma la voglia di vincere ha prevalso su tutto.
La mia forza interiore è la cosa di cui sono più grata alla vita perché è stato il mio aiuto più grande, anche se in realtà devo ancora scoprire il suo massimo potenziale. Quando ho capito di poter diventare una campionessa? Non c’è stato un momento preciso: credo che questa sia una convinzione innata».
Il maestro di sci
Foppolo (precisazione del bergamasco Perri: «Non deriva da “foppare”, che nel nostro dialetto vuol dire anche vomitare, ma da “foppa”, che significa conca») è il luogo in cui è cominciata l’avventura sulle nevi di Sofia Goggia e dove la futura campionessa ha conosciuto Nicola, il primo maestro.
«Gli devo tantissimo: mi ha forgiato perché è stato sia insegnante sia educatore: mi ha trasmesso la fame, con il significato di voler aver fame e voler essere affamati. Questo si è tradotto nel desiderio di vincere la competizione, mi ha insegnato la disciplina, mi ha insegnato tutto…».
Gli affetti di una vita
Una volta scoperte le origini della passione, è fondamentale comprendere quali altri elementi hanno partecipato a far diventare Sofia la persona che è oggi. «La fortuna della mia vita è di avere avuto e di avere ancora una famiglia che mi supporta e soprattutto il fatto di aver avuto una volontà che mi ha tirato fuori da buchi neri incredibili...
Ho due o tre persone a cui voglio veramente bene: sono sostanzialmente le persone con cui sono cresciuta. Il mitico Ferdi (Nicolò) lo amo come se fosse un fratello; poi ecco la mia migliore amica, la dottoressa Federica che era una compagna sia mia sia di Ferdi ai tempi del liceo. Le voglio bene come se fosse una mia sorella»
A ritroso sì, ma solo per Belle
È noto l’amore di Sofia per Belle, un pastore australiano che ha rimpiazzato il precedente cane di famiglia, un setter morto all’età di 17 anni. Ma nel podcast spiega come questo legame con l’animale, che qualche volta ha fatto capolino perfino sui podi della Coppa del Mondo, sia speciale: «Se potessi tornare indietro, ripeterei il momento in cui sono andata a ritirare Belle: aveva due mesi e mezzo… Rivivrei un po’ la gioia di avere un cucciolo in casa, il mio cane per me costituisce un mondo. Amo tantissimo Belle, forse rivivrei un po’ il suo tempo quando era cucciolo».
La sfida dell’amore
A proposito di affetti e di questioni di cuore. Sofia Goggia ammette che il tema è un po’ complicato per lei, almeno per le esperienze attraverso le quali è fin qui passata: «Che ruolo gioca l’amore nella mia vita? Allora, non ho avuto tante relazioni. Anzi, ne ho avuta una e pensavo fosse amore; invece mi ha distrutto. Sono sempre alla ricerca di amore, soprattutto di amor proprio, l’amore per me stessa, e cerco di sperimentarlo il più possibile… So che la mia sfida al di fuori delle gare di sci è proprio quella».
Compleanno e crisi
Anche una campionessa capace di essere decisa ha i suoi momenti di debolezza. Della sciatrice Sofia Goggia conosciamo i momenti di «up» e di «down», oltre alle circostanze in cui ha versato lacrime (per le conseguenze degli infortuni, prima di tutto).
Ma in questa occasione la sciatrice fredda e vincente svela un cedimento di ordine umano e personale: «L’ultima volta che ho pianto davanti qualcuno è stata nel corso di una videochiamata con mia mamma. All’alba dei 29 anni sono andata in crisi perché quel compleanno mi ha un po’ spaventata: è l’ultimo prima dei 30 anni e alla fine ho avuto un momento di difficoltà… Dopo ho detto: “cavolo faccio questa vita da sempre e al di fuori non è che mi sia costruita tanto”».
Il lavoro del cervello
Vincere non è solo questione di talento, coraggio e buona preparazione. Di mezzo, per arrivare al vertice, serve anche lavorare con la testa. Un momento chiave, in questo senso, per Sofia è quello che precede il sonno: «Prima di andare a dormire dico al mio cervello “riguarda la discesa e sognala, con le linee giuste”... È come dargli un compito, è un modo di continuare a studiare e di immagazzinare le informazioni, per esempio dopo le prove. Quindi il cervello lavora per me ed è sempre così».
E se il mondo finisse ora?
Nel podcast troverete tante altre curiosità sulla Sofia campionessa e donna. Vi proponiamo l’ultima che abbiamo scelto, legata a una provocazione estrema: e se il mondo finisse tra poco? «Allora, se scoprissi che il mondo finirà stasera, esprimerei tutto il mio amore alle persone che amo. Direi loro che le amo immensamente e di sicuro farei sentire il più possibile quanto amore provo nei loro confronti».
Flavio Vanetti per il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.
La sua terza Coppa del Mondo di discesa Sofia Goggia l'ha vinta da «sbalengata», termine «che certifica lo stato d'animo di chi è agitato e ha un mix di emozioni che fanno deviare dall'obiettivo». Alla libera delle finali di Courchevel-Meribel, dove doveva respingere il tentativo estremo di Corinne Suter di sorpassarla, è arrivata proprio così, a dispetto dei 75 punti di vantaggio: «Una brutta ultima prova, mentre Corinne era stata magistrale. Ho avvertito la tensione, martedì sera ho ritrovato l'equilibrio e ora dico che la pressione è il succo dello sport: c'è chi la regge e chi si fa schiacciare da essa. Io ho resistito».
Sui social ha pubblicato una foto in cui stringe a sé il globo di cristallo: «Ti coccolo, mia terza bambina». Tre Coppe del Mondo di specialità come Federica Brignone, una in più di Isolde Kostner, la «liberista» eccellente che ha preceduto il fulmine di Bergamo. Tutto è bene quel che finisce bene, anzi quello che nemmeno comincia. Quando Sofia è andata al cancelletto, con il pettorale n. 5, il trofeo - sequel di quelli del 2018 e del 2021 - era infatti già suo: Suter, scesa con il 3, era terza, quindi bocciata prima dall'aritmetica che le concedeva chance solo con un primo o un secondo posto.
Lei non sapeva di essere una regina confermata e ha provato a mettere in pista quello che oggi può dare, «perché il fuoco lo fai con la legna che hai». Dodicesimo posto, non un capolavoro («Non mi riconosco nella Goggia post-infortunio: ho dominato fino a gennaio, ma poi ho dovuto lottare fino all'ultimo, imparando a costruire anche da zero») nel giorno della vittoria numero 74 di Mikaela Shiffrin, felice anche perché il fidanzato, il norvegese Kilde, s' è preso la coppa della libera pur dando addio a quella generale, ormai nelle mani dello svizzero Odermatt (per inciso, sempre in discesa, l'Italia è terza con Paris).
La metafora di Sofia è un treno che va a 200 orari: «Tutte noi siamo lanciate. Ma il mio convoglio s'è fermato all'improvviso: ho dovuto aggiustarlo, riavviarlo e riacciuffare le altre. Da Cortina in poi è stato logorante». È così la stagione delle delizie e delle croci («Quando dominavo sciavo in un certo modo; poi ho dovuto adottare un altro stile») ed è anche il tempo del bilancio. Vale di più l'argento olimpico o questo trofeo? «Per l'impresa in sé dico la medaglia: mi ha spinto oltre i limiti. Ma la coppa mi rammenta che, prima di farmi male, in libera ero imbattuta dal 2020».
Un'annata da sei successi, un secondo e un terzo posto, giudicata «con un 7 in pagella» (voto stretto, professoressa), si chiude con un fisico da riportare a lucido - niente superG oggi - e con riflessioni da fare «per capire come gestire meglio alcune situazioni». La terza «coppetta» finirà in libreria, dove Sofia aveva creato lo spazio per qualcosa di superiore: «Sì, avevo fatto un pensiero al trofeo assoluto. Ci riproverò. Che cosa mi manca per scavalcare Shiffrin, che si appresta a battere Vlhova pur avendo vinto meno del solito? La continuità, ma anche una tecnica più solida per compensare i momenti in cui la forma cala».
È un orizzonte da mettere nel mirino, nonostante tutto: «Non so se la stagione mi ha regalato più sicurezza, però alle sofferenze ha aggiunto le energie mentali per recuperare: ora sono in debito di forze. Magari sarò più sicura a posteriori: ho fatto cose grandissime in condizioni pessime e questo mi ricorderà chi sono».
Sofia Goggia: «Ho avuto una sola storia d’amore e mi ha distrutto». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.
La campionessa di sci si racconta in un podcast Red Bull: il primo maestro, le due persone chiave della sua vita, la crisi dei 29 anni, il lavoro col cervello prima di dormire
«Esaminata» da un astrofisico, sulla base di uno studio che risale al 1997. Sofia Goggia ha partecipato a un podcast organizzato dalla Red Bull e ha avuto modo di raccontare aspetti inediti della sua personalità e anche della sua vita: un «viaggio» particolare, che Luca Perri, lo scienziato conduttore, ha affrontato «passando dal guardare l’universo con il naso all’insù alla navigazione nelle profondità della mente». Assieme a Sofia sono stati intervistati altri 11 tra atleti e atlete di alto livello, tutti appartenenti alla scuderia di sportivi seguita dal gruppo di Dietrich Mateschitz. Tutto prende le mosse – così ci racconta Perri, che tra l’altro è bergamasco come la campionessa azzurra – da «Experimental generation of interpersonal closeness». Era un test basato su 36 domande formulate per creare a tavolino intimità fra due persone. Il suo ideatore, lo psicologo Arthur Aron della Stony Brook University di New York, voleva scoprire se due soggetti, dopo che si erano posti a vicenda queste domande, si sarebbero sentiti più vicini, e se fra loro sarebbe nato un legame più diretto e intimo. Sembra paradossale che sia stato coinvolto un uomo che si occupa di galassie, stelle e altre realtà del cosmo, ma a pensarci bene non è poi così assurdo: «Che cosa fa un astrofisico quando cerca una risposta? Rivolge lo sguardo lontano, anzi lontanissimo, a centinaia di migliaia, se non a milioni, di anni luce da sé. Ed è esattamente quello che ho fatto quando il mio sguardo è caduto sul mondo dello sport, davvero quanto di più distante ci possa essere dalla mia persona».
Un (piccolo) rimpianto
Il racconto è molto articolato e tocca vari temi: dalla sua trama è bene estrapolare alcuni passaggi suddividendoli per argomenti. Il punto di partenza è uno sguardo al passato: Sofia rifarebbe tutto? Non precisamente. «Sceglierei ancora questa carriera, ma forse cambierei il mio percorso e mi metterei prima a fare preparazione pre-sciistica, cosa che invece non ho mai fatto quando ero piccola. Vengo da una famiglia che non ha alcun imprinting culturale sportivo e la carriera sarebbe magari ancora più vincente e costellata di meno infortuni... Però a dire la verità gli infortuni mi hanno sì tolto dalle gare, ma mi hanno anche dato una forza interiore incredibile».
Una furia fin dalla nascita
Perché Sofia ha una carica agonistica tanto alta? Perché è nel suo Dna: «Mia mamma mi ha sempre descritta come una furia: sono uscita dalla sua pancia che già piangevo e come dice lei tiravo giù le tende. Sono sempre stata una bambina molto solare e con tante passioni, ma la voglia di vincere ha prevalso su tutto. La mia forza interiore è la cosa di cui sono più grata alla vita perché è stato il mio aiuto più grande, anche se in realtà devo ancora scoprire il suo massimo potenziale. Quando ho capito di poter diventare una campionessa? Non c’è stato un momento preciso: credo che questa sia una convinzione innata».
Il maestro di sci
Foppolo (precisazione del bergamasco Perri: «Non deriva da “foppare”, che nel nostro dialetto vuol dire anche vomitare, ma da “foppa”, che significa conca») è il luogo in cui è cominciata l’avventura sulle nevi di Sofia Goggia e dove la futura campionessa ha conosciuto Nicola, il primo maestro. «Gli devo tantissimo: mi ha forgiato perché è stato sia insegnante sia educatore: mi ha trasmesso la fame, con il significato di voler aver fame e voler essere affamati. Questo si è tradotto nel desiderio di vincere la competizione, mi ha insegnato la disciplina, mi ha insegnato tutto…».
Gli affetti di una vita
Una volta scoperte le origini della passione, è fondamentale comprendere quali altri elementi hanno partecipato a far diventare Sofia la persona che è oggi. «La fortuna della mia vita è di avere avuto e di avere ancora una famiglia che mi supporta e soprattutto il fatto di aver avuto una volontà che mi ha tirato fuori da buchi neri incredibili... Ho due o tre persone a cui voglio veramente bene: sono sostanzialmente le persone con cui sono cresciuta. Il mitico Ferdi (Nicolò) lo amo come se fosse un fratello; poi ecco la mia migliore amica, la dottoressa Federica che era una compagna sia mia sia di Ferdi ai tempi del liceo. Le voglio bene come se fosse una mia sorella»
A ritroso sì, ma solo per Belle
È noto l’amore di Sofia per Belle, un pastore australiano che ha rimpiazzato il precedente cane di famiglia, un setter morto all’età di 17 anni. Ma nel podcast spiega come questo legame con l’animale, che qualche volta ha fatto capolino perfino sui podi della Coppa del Mondo, sia speciale: «Se potessi tornare indietro, ripeterei il momento in cui sono andata a ritirare Belle: aveva due mesi e mezzo… Rivivrei un po’ la gioia di avere un cucciolo in casa, il mio cane per me costituisce un mondo. Amo tantissimo Belle, forse rivivrei un po’ il suo tempo quando era cucciolo».
La sfida dell’amore
A proposito di affetti e di questioni di cuore. Sofia Goggia ammette che il tema è un po’ complicato per lei, almeno per le esperienze attraverso le quali è fin qui passata: «Che ruolo gioca l’amore nella mia vita? Allora, non ho avuto tante relazioni. Anzi, ne ho avuta una e pensavo fosse amore; invece mi ha distrutto. Sono sempre alla ricerca di amore, soprattutto di amor proprio, l’amore per me stessa, e cerco di sperimentarlo il più possibile… So che la mia sfida al di fuori delle gare di sci è proprio quella».
Anche una campionessa capace di essere decisa ha i suoi momenti di debolezza. Della sciatrice Sofia Goggia conosciamo i momenti di «up» e di «down», oltre alle circostanze in cui ha versato lacrime (per le conseguenze degli infortuni, prima di tutto). Ma in questa occasione la sciatrice fredda e vincente svela un cedimento di ordine umano e personale: «L’ultima volta che ho pianto davanti qualcuno è stata nel corso di una videochiamata con mia mamma. All’alba dei 29 anni sono andata in crisi perché quel compleanno mi ha un po’ spaventata: è l’ultimo prima dei 30 anni e alla fine ho avuto un momento di difficoltà… Dopo ho detto: “cavolo faccio questa vita da sempre e al di fuori non è che mi sia costruita tanto”».
Il lavoro del cervello
Vincere non è solo questione di talento, coraggio e buona preparazione. Di mezzo, per arrivare al vertice, serve anche lavorare con la testa. Un momento chiave, in questo senso, per Sofia è quello che precede il sonno: «Prima di andare a dormire dico al mio cervello “riguarda la discesa e sognala, con le linee giuste”... È come dargli un compito, è un modo di continuare a studiare e di immagazzinare le informazioni, per esempio dopo le prove. Quindi il cervello lavora per me ed è sempre così».
E se il mondo finisse ora?
Nel podcast troverete tante altre curiosità sulla Sofia campionessa e donna. Vi proponiamo l’ultima che abbiamo scelto, legata a una provocazione estrema: e se il mondo finisse tra poco? «Allora, se scoprissi che il mondo finirà stasera, esprimerei tutto il mio amore alle persone che amo. Direi loro che le amo immensamente e di sicuro farei sentire il più possibile quanto amore provo nei loro confronti».
Goggia da urlo: argento eroico. Bronzo per Delago. Marco Gentile il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Oro alla svizzera Suter, argento per Sofia Goggia, bronzo per Nadia Delago: è questo il podio della discesa libera alle Olimpiadi di Pechino.
Sofia Goggia si dimostra una fuoriclasse di assoluto livello e nonostante i postumi, recentissimi, dall'infortunio è riuscita a rimettersi subito sugli sci e a prendersi la medaglia d'argento, nella discesa libera femminile, alle Olimpiadi di Pechino. L'atleta bergamasca è stata battuta solo dalla campionessa del mondo in carica, la svizzera Corinne Suter, terza un'altra italiana Nadia Delago a completare un podio sa sogno. Non era mai successo che due italiane finissero sul podio olimpico in discesa libera, era successo invece in SuperG.
Goggia è tornata in pista 23 giorni dopo l'infortunio di Cortina e ha fatto segnare un tempo incredibile con 1:32:03 nonostante una lesione parziale del legamento crociato già operato nel 2013, una piccola frattura del perone e una sofferenza muscolo tendinea. Qualsiasi altro atleta avrebbe mollato ma non Sofia che ha voluto fortemente questa medaglia. Suter ha vinto l'oro con soli 16 centesimi di vantaggio sull'atleta azzurra avendo chiuso con il tempo di 1:31:87.
Emozione incredibile
"Questa è una medaglia incredibile", le parole di Sofia Goggia al termine della discesa libera. "Ho trovato una forza incredibile dentro di me, e viaggiavo con una sorta di luce. Sono contenta di aver dato tutto per essere qui. Ho dato tutto quello che potevo. Sono stata davvero felice della mia sciata. Sentivo che la velocità c'era nella parte alta perché saltavo molto ovunque. Mi dispiace per l'ultima parte, sentivo che forse in alcune parti della pista avevo un po' di vento contro, ma è qualcosa che non puoi controllare. Alla fine sono felice del mio risultato, perché essere qui alle Olimpiadi dopo il mio incidente a Cortina non era affatto garantito".
"È comunque una medaglia. È ancora una grande medaglia. È una medaglia incredibile per la condizione degli ultimi 20 giorni. Mi sono sempre detta che se fossi riuscita a superare la prova che mi è stata data dopo Cortina, questa caduta, probabilmente la gara di discesa sarebbe stata la parte più facile per me. Ho trovato una forza incredibile dentro di me, e viaggiavo con una sorta di luce. Sono contenta di aver dato tutto per essere qui oggi, sono contenta e grata di aver potuto ottenere un'altra medaglia, e sono contenta di me stessa", la conclusione della fuoriclasse bergamasca.
Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito
Gianluca Cordella per il Messaggero il 16 febbraio 2022.
Le montagne selvagge di Yanqing appena spruzzate di bianco. In mezzo sbuca la lingua di neve su cui si sono date battaglie le velociste della discesa olimpica. Colonna sonora improbabile di questo quadro di quiete naturale il po-po-po che si solleva dallo staff azzurro in festa. Ecco. Se siete amanti dei contrasti e degli accostamenti assurdi siete i benvenuti nel mondo di Sofia Goggia.
Un luogo fantastico in cui accade che una principessa dai modi spericolati e più coraggiosa di molti cavalieri senza macchia si rivesta d'argento con una medaglia che è la sublimazione di quei contrasti assurdi di cui sopra. Una campionessa infortunata, un legamento parzialmente lesionato, un perone fratturato, un'Olimpiade da rincorrere e una gara quasi vinta, un oro sfumato per 16 centesimi.
Come può far parte tutto dello stesso racconto? Le vie sono due: l'atto di fede o lo sforzo di fantasia. Il primo è quello che Sofia ha usato per andare avanti, per credere che non fosse da folli pensare di sbarcare in Cina, dopo il crac di Cortina, per provare a confermare il titolo olimpico di Pyeongchang. Il secondo è quello che da 24 ore sta esercitando ognuno di noi per convincersi di aver assistito a qualcosa di reale. «Se nella mia via vita ho creduto a Babbo Natale e agli unicorni volanti posso credere anche alla Goggia». Una cosa così.
PAROLA ALLA SCIENZA In attesa che la scienza ci dia conforto, registriamo quello che abbiamo visto. O che crediamo di avere visto. Nell'ordine. Una campionessa - Sofia - che alle Olimpiadi non doveva nemmeno esserci ha vinto una medaglia d'argento. Una ragazza alla prima partecipazione ai Giochi e mai sul podio di Coppa del Mondo - Nadia Delago - ha centrato una clamorosa medaglia di bronzo. Un podio olimpico che per quattro minuti buoni è stato tutto azzurro prima che una botta di pragmatismo svizzero (con il volto di Corinne Suter) arrivasse a ripristinare una parvenza di logica.
Goggia, Delago e mettiamoci anche Elena Curtoni, a lungo davanti a tutte. Mai l'Italia olimpica aveva vissuto una giornata così, in discesa. Tre azzurre nelle prima cinque, due sul podio contemporaneamente. Roba che non si vedeva dal SuperG di Salt Lake 2002 con Daniela Ceccarelli oro insieme a Karen Putzer bronzo. Non se ne abbiano a male Nadia ed Elena, però, se ci concentriamo su ciò che ha fatto Sofia.
OLTRE I LIMITI Un'impresa talmente incredibile da averci davvero fatto credere che sì, in fondo non è sbagliato rimanerci male per quell'oro sfumato per una folata di vento contrario, come ha detto Giovanni Feltrin, tecnico delle donne jet azzurre. L'impossibile ce lo ha raccontato il volto di Sofia.
Raggiante al traguardo quando guarda il tabellone. Il bacio alla telecamera. Poi la smorfia quando la Suter passa davanti a tutte e quel broncio che fatica ad andare via. Poi di nuovo, finalmente, il sorriso che si apre nel «Ciao fans!» a favore di tv. Il momento in cui Sofia decide che quell'argento è più un miracolo che un'occasione persa. A 23 giorni da quel 23 gennaio.
Un lasso di tempo infinitamente breve per recuperare dall'infortunio patito sulle nevi di casa, l'ennesimo prima di un grande evento. Lo scorso anno in circostanze simili perse i Mondiali di Cortina. Il titolo iridato, guarda un po', se lo prese la Suter che brava è brava e sicuramente non si lascia scappare le occasioni in assenza della discesista più forte. Dicevamo dell'infortunio. In tanti, forse tutti, avrebbero mollato. Non la bergamasca delle Fiamme Gialle. Che ha iniziato a rincorrere quel sogno. Gli allenamenti sui social sempre più estenuanti, fino al 4 febbraio, quando rimette ai piedi gli sci per l'ultimo test pre-partenza. Il 6 vola verso Pechino carica di sorrisi, ma sbarcata in Cina prevale la paura.
C'è il forfait al SuperG: è scontato, ma sembra un segnale negativo. Per fortuna arrivano le prove della discesa e Sofia c'è, lo dicono i tempi, lo dice lei. Racconta Claudio Zorzi, l'ortopedico che l'ha operata: «L'abbiamo curata con infiltrazioni di plasma ricco di piastrine». Una tecnica rivoluzionaria, che l'ha rigenerata. «Felici di aver contribuito». C'è gloria per tutti. Un oro, anzi no, un argento bellissimo.
La festa a Casa Italia, i complimenti del Presidente Mattarella che la aspetta a Roma e Sofia che guarda avanti: «Tra due giorni riparto, c'è una coppa del mondo di discesa da difendere». Tutto normale, tutto come se nulla fosse successo. Ed è allora che ci viene il dubbio. Ci siamo inventati questa medaglia o ci siamo inventati, prima, l'infortunio e il dramma sportivo? La scienza ci aiuti: perché è certo che entrambe le cose non possono essere accadute davvero.
Giacomo Rossetti per il Messaggero il 16 febbraio 2022.
Non c'è niente da fare: Sofia Goggia è diventata uno dei volti per lo sport italiano non solo per il suo talento smisurato (l'argento di Yanqqing è lì a dimostrarlo), ma anche per la sua indole istrionica, la sua capacità di tenere viva l'attenzione di stampa e tifosi.
Dopo la sua più grande impresa in carriera - ai di là del colore della medaglia - Sofia è allegra ma non così tanto da poter esser definita euforica. Semmai è rilassata: missione compiuta, recita il suo sorriso stanchissimo, quello di chi è consapevole di aver fatto tutto ciò che poteva.
«Alla vigilia avrei firmato per vincere l'argento, faccio i complimenti a Corinne Suter. Mi dispiace un po' per l'oro, ma è stata quasi una giornata facile dopo un periodo veramente tosto».
È una medaglia dedicata a qualcuno in particolare?
«No, questa medaglia è per me stessa e per tutti coloro che hanno creduto nel mio recupero. Dopo Cortina sembrava tutto andato in fumo».
Quali sono stati i giorni più duri tra quelli che hanno preceduto la discesa libera?
«Beh, il lunedì dopo la caduta ero parecchio giù di morale. Ma il momento più difficile è quando ho rimesso gli sci qui a Yanqqing».
Cosa l'ha fatta andare avanti in quei momenti?
«Non è da tutti buttarsi giù per una pista mai provata prima. Anche nelle giornate più buie, ho sempre avuto in me una luce che mi ha guidata, e di questo sono grata. Nel momento in cui mi veniva da essere blasfema e bestemmiare contro il cielo, mi sono detta: se questo è il disegno per me, lo accetto».
Non tutti i medici avrebbero dato il via libera a gareggiare dopo il suo incidente
«Sono grata a coloro che mi hanno visitata, penso siano stati anche minacciati dai loro colleghi (ride, ndr) perché si sono presi delle responsabilità allucinanti, che con altri pazienti non si sarebbero assunti. Ho sempre preso le loro parole come il Vangelo. Sono convinta che il crederci fino alla fine abbia accelerato il processo di guarigione delle mie cellule».
Cosa le ha detto Michela Moioli prima della finale?
«Vai e prenditi ciò che è tuo. Mi è dispiaciuto tanto quando Michi è caduta e non è andata in finale, è la mia gemella. Però certo, se avesse vinto più medaglie di me (ride, ndr)».
Attualmente lei è la sportiva azzurra più famosa nel mondo.
«Sono consapevole di quanto la mia gara fosse attesa in Italia: mi hanno scritto in tantissimi, alcuni pregandomi di rinunciare per preservare la salute. Ho fatto i dovuti scongiuri!».
Le resterà il rimpianto per esser partita infortunata?
«Mi dispiace di non essermi goduta l'Olimpiade come avrei voluto, ma mi è andata bene. Ricordo che il dottor Panzeri ha detto: il video del volo a Cortina lo userei per far capire come rompersi due crociati».
Ha parlato con la sua amica Lindsey Vonn?
«È stata la prima persona che ho sentito in videochiamata prima della premiazione. Le ho confessato che volevo l'oro, e lei mi ha risposto che conosce bene quella sensazione». Insieme a lei festeggia anche Nadia. «Sono contenta per la piccola Delago, ha girato tutta la stagione intorno al podio e poi ci è salita nel momento più importante».
Prima di prendere il volo per la Cina, cosa ha fatto?
«Ho dato una carezza e un bacino alla medaglia d'oro di Pyeongchang 2018, l'ho separata da tutte le altre e le ho lasciato uno spazietto vicino. Mi sono detta, non sia mai che servirà»
E adesso che si fa?
«Torno a casa, mi riposo tre giorni sul divano, poi si va di nuovo in pista perché c'è una Coppa del Mondo di discesa da vincere!».
La campionessa stupisce tutti. La lezione di Sofia Goggia, dall’infortunio all’argento in 23 giorni: “Guidata da una luce”. Redazione su Il Riformista il 15 Febbraio 2022.
Dall’incubo infortunio a un argento alle Olimpiadi di Pechino che vale oro e che rappresenta un vero e proprio miracolo. Era lo scorso 23 gennaio quando Sofia Goggia riportò la lesione parziale al legamento crociato sinistro e una piccola frattura al perone dopo la caduta in discesa a Cortina. Quel giorno disse: “Cercherò di difendere il titolo olimpico in discesa”.
Ventitre giorni la conferma: sulla “Rock” di Yanqing, la 29enne di Bergamo incanta tutti e conquista il secondo posto nella discesa libera ai Giochi di Pechino ad appena 16 centesimi dalla svizzera Corinne Suter che si aggiudica l’oro. Un risultato insperato alla vigilia. Una giornata da ricordare per l’Italia che sale sul terzo gradino del podio con Nadia Delago, 24enne di Bressanone (Bolzano), alla sua prima partecipazione nella rassegna a cinque cerchi. Buona prova anche per Elena Curtoni che ha chiuso quinta
Costretta a rinunciare al ruolo di portabandiera a causa dell’infortunio, Goggia era arrivata nei giorni scorsi a Pechino nel tentativo, remoto, di difendere l’oro conquistato quattro anni fa a Pyeongchang. Una vera e propria impresa la sua, condita da un urlo liberatorio dopo aver tagliato il traguardo.
“Ho dato tutto quello che potevo. Sono stata davvero contenta della mia sciata – ha commentato a caldo -. E’ ancora una medaglia. E’ ancora una grande medaglia. E’ una medaglia incredibile per le condizioni degli ultimi 20 giorni”.
Poi ha aggiunto: “Sono arrivata qui con la forza di volontà, penso di aver avuto una progressione incredibile sia a livello fisico che sugli sci. Avere il coraggio di buttarsi giù da una discesa nuova dopo Cortina e farlo con quella scioltezza lì non credo sia da tutti. Io però ci ho veramente creduto, anche nelle giornate più buie”. “Ho sempre avuto una luce che mi ha guidata – ha aggiunto – Altrimenti non sarei riuscita a fare quello che ho fatto oggi”.
Per l’Italia si tratta della medaglia numero 13 a Pechino: nella storia dello sci mai due azzurre erano salite sul podio olimpico nella discesa (a Salt Lake nel 2002 era successo in supergigante con l’oro di Daniela Ceccarelli ed il bronzo di Karen Putzer).
“Una grandissima Italia! – ha esultato il presidente del Coni, Giovanni Malagò che ha seguito la prova delle azzurre dalle tribune dell’impianto cinese – Un risultato eccezionale che conferma la forza delle nostre velociste. Due medaglie che fanno la storia. Non ci sono parole per l’argento di Sofia: considerando come è arrivata qui e come era la situazione finora pochi giorni fa, la sua prestazione è encomiabile”.
Da sportal.it il 15 Febbraio 2022
Sofia Goggia scatenata dopo l'argento ottenuto a Pechino 2022 nella discesa libera.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una telefonata al presidente del Coni Giovanni Malagò ha voluto inviare un messaggio agli Azzurri impegnati alle Olimpiadi di Pechino, che hanno finora conquistato 13 medaglie. "La prego di rivolgere alle atlete e atleti italiani i miei complimenti per i risultati sinora conseguiti e per il comportamento avuto in queste Olimpiadi. Siete stati molto bravi, continuate così".
Mattarella si è soffermato in particolare su Sofia Goggia, capace di conquistare un argento nella discesa libera dopo un grave infortunio: "Un particolare saluto va a Sofia Goggia. L’ho seguita, ho visto quanti sacrifici ha fatto per tornare dopo l’infortunio. A lei i miei più vivi apprezzamenti, ovviamente da estendere ai tecnici, ai dirigenti e alle federazioni. Al vostro rientro in Italia vi aspetto al Quirinale".
Lo stesso Mattarella ha poi fatto i complimenti personali alla Goggia, che ha risposto emozionata al telefono: "Scusa pres, avrei voluto portarti un oro, ma sarà per la prossima volta", sono le parole riportate da Sky.
Da ilnapolista.it il 15 Febbraio 2022
Sofia Goggia delusa nonostante un argento straordinario, i fuoriclasse non conoscono l’«a testa alta».
Sembra assurdo ma Sofia Goggia riesce persino a essere un pizzico delusa dopo un’impresa straordinaria come la conquista della medaglia d’argento in discesa libera. La bergamasca ha perso l’oro per 16 centesimi, preceduta da una perfetta Corinne Suter. Al terzo posto un’altra italiana: Nadia Delago.
L’impresa di Sofia Goggia è stata doppia. È riuscita a tornare in posta dopo il terribile incidente di Cortina. È stata in forse fino a pochi giorni fa. Ma oggi ovviamente è scesa in pista. E lo ha fatto per vincere. Sul traguardo non è riuscita a trattenere la delusione dopo essere stata superata da Suter.
Goggia ha perso troppo terreno nel canalone finale. Ma bisogna anche riconoscere i meriti all’avversaria che centra la doppietta mondiale-olimpiade. Goggia è scesa col pettorale 13 e quando è arrivata ha tirato un grido che era al tempo stesso di liberazione e di gioia. In quel momento, c’erano tre italiane sul podio: seconda la Delago, terza Curtoni (che poi è arrivata quarta).
Goggia deve essere molto soddisfatta, è riuscita a rientrare in pista nonostante le difficoltà fisiche. Molto probabilmente senza infortunio avrebbe vinto la medaglia. Ovviamente è impossibile per lei accontentarsi. Una fuoriclasse scende sempre per vincere, considera il secondo posto è una sconfitta. Il suo volto è stato eloquente, anche se dopo un po’ è riuscita a sorridere. La comprendiamo. I fuoriclasse non concepiscono l’“a testa alta”.
Sofia Goggia e l'argento 'impossibile': "Ispirata da una sorta di luce". Alessandra Retico su La Repubblica il 15 Febbraio 2022
Il secondo posto dell'azzurra dietro la svizzera Suter e davanti a Nadia Delago rappresenta un 'miracolo' sportivo a 23 giorni dall'infortunio che sembava avere chiuso ogni spiraglio.
Stanotte è andata via la luce a Bergamo alta, esattamente come quattro anni fa alla vigilia della discesa a PyeongChang. A riaccenderla in Cina, con una magia, è sempre lei. L'argento di Sofia Goggia nella libera ha qualcosa di raro dentro e anche sfuggente: non solo la perseveranza e il coraggio, ma la convinzione che la realtà non abbia limiti, se non quelli che noi umani gli mettiamo.
Follia, agonismo feroce, capacità di soffrire: Sofia Goggia non è solo una grande sportiva, ma una grande italiana. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2022.
Il secondo posto alle Olimpiadi invernali, dopo l’infortunio, ha consacrato la campionessa bergamasca
Quando quattro anni fa Sofia Goggia vinse l’oro olimpico nella discesa, un anziano pensionato milanese scrisse una lettera al Corriere. Raccontava di aver visto in questa giovane donna bergamasca una forza morale che l’aveva colpito, come anche la gioia di rappresentare il nostro Paese, l’attaccamento al tricolore, il legame con i valori di lealtà nella competizione che avevano ispirato la sua vita. La lettera fu pubblicata nell’apposita pagina, senza particolare enfasi.
Sofia Goggia la lesse, scrisse al Corriere e chiese l’indirizzo del pensionato, per mandargli una lettera di ringraziamento e una sua foto con dedica. Per quel che ne sappia, mai in tempi recenti uno sportivo aveva fatto una cosa del genere. Non possiamo biasimarli. Uno sportivo di successo, non necessariamente un campione, ha moltissime cose da fare. Gli allenamenti, gli sponsor, la comunicazione, spesso affidata ai social media manager, e poi la necessità di restare concentrati sulla gara, di non farsi distrarre dalla vita.
Sofia Goggia non è così. È esattamente il contrario. Lei dalla vita trae la forza e la concentrazione per gareggiare. Vive quel che le sta accadendo come una grande avventura, e la gente che la ama non la distrae, anzi fa crescere in lei quella forza morale che aveva giustamente colpito il pensionato milanese.
Sofia non è esplosa subito. Si vedeva che era una fuoriclasse, una vincente, ma all’inizio si lasciava trascinare dalla foga e dal suo immenso coraggio, e commetteva spesso qualche errore. L’oro olimpico di Pyeongchang 2018 l’ha consacrata. Ora l’argento di Pechino 2022, a tre settimane da una caduta che poteva costarle la stagione e forse la carriera, fanno di lei una dei grandi nella storia dello sport.
Lo sci è uno sport particolare, che può essere crudele. Non è uno sport di squadra. Non conosce i momenti comunitari di altri sport individuali: la staffetta nell’atletica e nel nuoto, la Coppa Davis nel tennis. È una disciplina che, soprattutto nella discesa libera, ha ancora una dimensione epica, quasi eroica, perché rappresenta una sfida alla montagna, alla velocità, e anche alla morte.
La discesa libera evoca ancora le vittorie di Zeno Colò con gli sci di legno, la Streif di Kitzbuhel dove lo slalomista Gustav Thoeni quasi uguagliò il più grande di tutti i tempi, Franz Klammer, e dove Kristian Ghedina gettò al vento una vittoria facendo la spaccata sul salto finale, a evocare lo spirito folle nascosto dentro di lui.
Un po’ di follia è nascosta anche dentro Sofia Goggia; altrimenti farebbe un altro mestiere. Ma in lei prevale l’agonismo feroce, la capacità di soffrire, la resistenza mentale che ha liberato nell’urlo belluino sfuggitole l’altra notte quando ha visto sul tabellone di essere in testa. E pazienza se subito dopo la meravigliosa prospettiva di un podio tutto azzurro è sfumata a causa della svizzera Corinne Suter (il cui nome pur senza demeriti è destinato a restare nella lista nera del nostro sport accanto a Pak-Doo-ik, a Carlos Monzon e all’arbitro Moreno: per i più giovani, l’autore del gol con cui la Corea del Nord ci eliminò dai Mondiali del 1966, il pugile che mise fine alla carriera di Nino Benvenuti, l’arbitrò che ci costò i Mondiali del 2002).
Cinquant’anni fa, vincendo l’oro nel gigante a Sapporo 1972 (e quattro Coppe del mondo), Gustav Thoeni insegnò a sciare agli italiani, e portò l’Alto Adige in Italia, mostrando ai connazionali che nel Sud Tirolo non c’erano più “bombaroli”, ma italiani di lingua tedesca. Erano gli anni che molti cinquantenni di oggi associano ai “pullman della neve” che partivano dalle città la domenica mattina prima dell’alba: attrezzatura rudimentale, panini con la milanese fredda nella carta stagnola, maglioni che facevano le scintille; ma eravamo la prima generazione che la domenica andava a sciare.
Poi arrivò Alberto Tomba, a portare sulla neve lo spirito allegro e un po’ smargiasso degli anni 80. Da allora abbiamo avuto molti sciatori fortissimi, ma pochi che siano riusciti ad andare oltre lo sport, ad entrare nelle nostre vite. Forse soltanto Deborah Compagnoni e Kristian Ghedina: due storie segnate dalle vittorie ma anche dagli infortuni e dalle tragedie; Deborah sulla neve ha perso il fratello, Kristian la madre. Perché lo sci non è solo tute colorate, sponsor e social media manager; è, come la vita, anche dolore, carne e sangue. Per questo l’argento di Sofia Goggia, rialzatasi dopo la caduta, fa di lei non soltanto una grande sportiva, ma una grande italiana. Nel Pantheon accanto a Sara Simeoni, Valentina Vezzali, Federica Pellegrini. E per lei, come per noi, non è ancora finita.
Sofia Goggia, scriveva da bambina: “Sogno di vincere la discesa libera alle Olimpiadi”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Febbraio 2022
L’oro olimpico di Pyeongchang 2018 l’ha consacrata. Adesso a tre settimane da una caduta che poteva costarle la stagione e forse la carriera dopo l’argento di Pechino 2022, è diventata una dei grandi nella storia dello sport.
Sofia Goggia non aveva ancora 10 anni, il 2 ottobre del 2002, e sulla scheda degli obiettivi dello sci club “Goggi” scriveva: “Sogno di vincere le olimpiadi nella discesa libera“. Un obiettivo realizzato a Pyeongchang nel 2018 con l’oro, e quasi ripetuto a Pechino con un argento dopo un recupero straordinario dall’infortunio. Elisa Calcamuggi a Bergamo ha incontrato l’amico di infanzia di Sofia nel ristorante dove la Goggia è di casa.
Quando quattro anni fa Sofia Goggia vinse l’oro olimpico nella discesa , un anziano pensionato milanese scrisse una lettera al Corriere della Sera. Raccontava di aver visto in questa giovane donna bergamasca una forza morale che l’aveva colpito, come anche la gioia di rappresentare il nostro Paese, l’attaccamento al tricolore, il legame con i valori di lealtà nella competizione che avevano ispirato la sua vita. La lettera fu pubblicata nell’apposita pagina, senza particolare enfasi.
Sofia Goggia lesse quella lettera e scrisse al Corriere della Sera e chiese l’indirizzo del pensionato, per mandargli una lettera di ringraziamento e una sua foto con dedica. Per quel che ne sappia, mai in tempi recenti uno sportivo aveva fatto una cosa del genere. Uno sportivo di successo, non necessariamente un campione, ha moltissime cose da fare. Gli allenamenti, gli sponsor, la comunicazione, spesso affidata ai social media manager, e poi la necessità di restare concentrati sulla gara, di non farsi distrarre dalla vita.
Sofia Goggia non è così, lei è esattamente il contrario. Lei dalla vita trae la forza e la concentrazione per gareggiare. Vive quel che le sta accadendo come una grande avventura, e la gente che la ama non la distrae, anzi fa crescere in lei quella forza morale che aveva giustamente colpito il pensionato milanese.
Sofia non è esplosa subito ma si vedeva che era una fuoriclasse, una vincente, ma all’inizio si lasciava trascinare dalla foga e dal suo immenso coraggio, e commetteva spesso qualche errore. L’oro olimpico di Pyeongchang 2018 l’ha consacrata. Adesso a tre settimane da una caduta che poteva costarle la stagione e forse la carriera dopo l’argento di Pechino 2022, è diventata una dei grandi nella storia dello sport.
Da gazzetta.it l'11 febbraio 2022.
Dopo le medaglie a squadre, Dorothea Wierer conquista il primo podio olimpico individuale del biathlon femminile azzurro. Doro è terza nella 7.5 km sprint dietro alla norvegese Roeiseland e alla svedese Oeberg. Grande prova al poligono, con zero errori, la Wierer è stata veloce anche sugli sci.
Davide Ghiotto è di bronzo nei 10.000 del pattinaggio velocità. Nella batteria con il campione olimpico e mondiale Nils Van der Poel, l’azzurro ha segnato un tempo di 12’45”98, il terzo dietro a Van der Poel e Roest. E’ la nona medaglia per l’Italia ai Giochi di Pechino.
Dorothea Wierer, il marito, il mascara, l’uncinetto, i dolci (proibiti), gli allenamenti durissimi: chi è la regina italiana del biathlon. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022.
La 31enne azzurra ha conquistato il bronzo olimpico che le mancava dopo una grande carriera: atleta straordinaria in pista e donna di successo fuori, grazie a un’immagine unica e a una grande presenza social
La medaglia che mancava
Dorothea Wierer ce l’ha fatta. Dopo una carriera di successi nel biathlon, a 31 anni le mancava solo la consacrazione olimpica. È arrivata al terzo tentativo, a Pechino, con il bronzo nella gara sprint (7,5 km) dietro due giganti della specialità come la norvegese Marte Roeseiland e la svedese Elvira Oeberg, veloci sugli sci e precise al poligono. Per la campionessa italiana delle Fiamme Gialle è comunque un grande successo che la incorona fra le più grandi interpreti del biathlon.
Ragazza prodigio
Nata a Brunico il 3 aprile 1990, Dorothea Wierer vive la sua infanzia ad Anterselva, nel cuore dell’Alto Adige, crescendo a pane e sci. Ha sempre amato andare in palestra e in bicicletta in mezzo ai paesaggi naturali che le offriva la sua regione, poi da adolescente ha deciso di dedicarsi totalmente al biathlon, grazie alla passione trasmessa dai fratelli Robert e Richard. Riesce da subito a mostrare le sue qualità, conquistando a soli 18 anni la medaglia d’oro ai Mondiali nell’individuale a Ruhpolding nel 2008 e diventando così la prima italiana a farlo ai Mondiali giovanili. Tra gli juniores è invece la quarta a vincere così tanto, grazie alle tre medaglie d’oro e al dominio dei Mondiali che si disputavano in Repubblica Ceca, eguagliando i record di Karen Putzer, Nadia Fanchini e Alessandro Pittin.
Gli allenamenti di Dorothea
Nessuno dei successi sportivi conseguiti da Wierer è frutto del caso: battendosi con i talenti scandinavi e le avversarie più forti, si è ritagliata il suo spazio attraverso la fatica e gli allenamenti, senza mai perdere il ritmo. Le gare finiscono a marzo e la stagione sportiva inizia a maggio, con il solo mese di aprile, quello del suo compleanno, per il riposo. Parte dei suoi allenamenti sono la corsa in montagna, la bicicletta in alta quota, le lunghe sessioni in palestra e lo skiroll. Ovviamente non manca il poligono, con la Deborah che ogni volta riparte dalle basi, iniziando con il tiro da fermo e con una lunga fase di pratica alla carabina separata da quella dello sci. Solo nella fase finale mette tutto insieme, cercando di migliorare a quel punto la resistenza e lo sforzo, così da essere pronta anche nelle gare più dure.
La dieta vincente
La preparazione della regina del biathlon è rigorosa anche quando riposa. Un grande valore aggiunto è per lei rappresentato da un’alimentazione rigorosissima, che prevede come unico sgarro il mese del compleanno. Soprattutto agli inizi, come figlia di un cuoco, per lei non deve essere stato facile. Ha confidato più volte di amare i dolci, la pasta e la cioccolata, ma sono solo una rara eccezione. Per i pasti quotidiani è attenta, una road map alimentare che segue nel corso dell’estate e soprattutto nei mesi invernali, quelli delle gare.
La famiglia
Al suo fianco c’è sempre il marito Stefano Corradini, che le è accanto dal 2015, dopo averla conosciuta proprio in pista: ex fondista, oggi allena, e segue la moglie nelle lunghe trasferte. I due non hanno figli, ma Wierer ha più volte confidato questo desiderio in ottica futura.
Make-up e uncinetto
Per Wierer condurre una vita da sportiva non significa trascurare la dimensione estetica. Se da una parte nel 2015 ha declinato la proposta di posare nuda per la copertina della versione russa di Playboy, dall’altra la regina azzurra del biathlon non rinuncia mai al trucco neanche in gara. Per lei la femminilità è importante: «Non c’è niente di male se un po’ di mascara può farti sentire a tuo agio». Dorothea nel tempo libero si dedica anche all’uncinetto, una sua antica passione.
I social e gli sponsor
Dorothea è anche ricercatissima dagli sponsor. Un successo d’immagine che si riflette nei social network, da lei molto utilizzati. Su Instagram è seguita da 620mila follower, coi i quali condivide sia gli allenamenti e le vittorie che le vacanze in barca e le serate con gli amici. Tra vita quotidiana e successi in pista non mancano video e post sponsorizzati, realizzati però con uno storytelling molto efficace, capace di riflettere, per ogni prodotto pubblicizzato, le sue abitudini e la sua vita quotidiana.
Stefano Mancini per lastampa.it il 12 febbraio 2022.
Undici medaglie: con l’argento in snowboard della coppia formata da Michela Moioli e Omar Visintin l’Italia supera il bottino di quattro anni fa in Corea, dove la spedizione azzurra si fermò a quota 10 (ma con tre ori, uno in più rispetto a oggi).
Al «Genting Snow Park» di Zhangjiakou, nella finale A, Michela e Omar sono stati preceduti solo dalla coppia americana composta da Nick Baumgartner e Lindsey Jacobellis. Nella seconda run, quella della Moioli, l'azzurra era riuscita a superare la statunitense nella prima parte del tracciato, ma poi ha subìto il controsorpasso.
Per Visintin è la seconda medaglia a Pechino 2022 dopo il bronzo nella prova individuale, mentre PER Moioli, oro a PyeongChang, è un riscatto importante dopo la caduta nella prova individuale. Il bronzo è andato al Canada, mentre l’altra coppia azzurra, quella formata da Lorenzo Sommariva e Caterina Carpano, ha concluso la finale al quarto posto dopo avere accarezzato a lungo il podio.
«Avrei messo subito la firma su argento o bronzo. Dopo la medaglia nella gara individuale, sapevo che il team era una grande chance di conquistare una medaglia con Michela che è in straforma ed è bravissima. Poteva solo che andare bene», ha esultato Visintin. Altrettanto contenta la sua compagna: «L'individuale è andata come sappiamo, quindi ci tenevo veramente tanto a prendere una medaglia con Omar. Era la prima volta di questa gara alle Olimpiadi e alla fine è una possibilità di medaglia in più. Ero tesa, molto, però avevo Omar che, oltre a partire davanti, mi ha trascinato con la sua tranquillità e positività, e ho cercato solo di fare una bella gara».
«Il primo obiettivo è raggiunto: abbiamo superato il numero di medaglie vinte a PyeongChang (10, ndr) -. Così il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha commentato il risultato dei quattro azzurri -. Lo abbiamo fatto grazie a una disciplina come lo snowboard dove siamo diventati una potenza mondiale. Complimenti a Caterina e Lorenzo che hanno lottato fino all'ultimo. Questa Italia può regalarci altre gioie».
Michela Omar Moioli e Visintin argento nel doppio misto di snowboard a Pechino 2022. Mattia Chiusano su La Repubblica il 12 febbraio 2022.
Italiani secondi dietro gli Usa nella specialità al debutto alle Olimpiadi. Anche se è stata a lungo in testa prima del sorpasso di Jacobellis, per la portabandiera è la rivincita dopo la delusione dell'individuale. Quarti Carpano-Sommariva. Malagò: "Abbiamo già superato PyeongChang 2018, e non è finita". L'undicesima medaglia azzurra, un argento che fa storia: Michela Moioli e Omar Visintin salgono sul podio di una gara al debutto alle Olimpiadi. In una finale vinta dagli Usa di Nick Baumgartner e Lindsey Jacobellis in cui le coppie azzurre erano addirittura due su quattro, con Caterina Carpano e Lorenzo Sommariva quarti alla fine dopo una caduta.
Da corrieredellosport.it il 10 febbraio 2022.
Omar Visintin ha conquistato la medaglia di bronzo nello snowboardcross ai Giochi Invernali di Pechino. Il 32enne altoatesino, originario di Merano, ha chiuso al terzo posto la finale al Genting Snow Park di Zhangjakou, alle spalle dell'austriaco Alessandro Haemmerle, oro, e del canadese Eliot Gondin, argento.
Si tratta della prima medaglia italiana nella storia della specialità. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha commentato così il risultato: "Grande Omar! Oggi ci siamo ripresi quello che avevamo perso ieri con la Moioli. Una prova di carattere in una finale tutt'altro che facile. Mi piace sottolineare che questa è l'ottava medaglia vinta in sette discipline differenti. Non credo che al mondo ci siano tante altre nazioni che possano vantare questo primato".
Da sport.sky.it l'8 febbraio 2022.
Un percorso netto nel round robin, con 9 vittorie su 9 partite, Svezia sconfitta in semifinale e vittoria contro la Norvegia in finale. Stefania Constantini e Amos Mosaner hanno regalato la prima medaglia d'oro all'Italia del curling nel doppio misto. Scopriamo chi sono i due azzurri
Stefania Constantini ha 22 anni ed è nata a Pieve di Cadore anche se vive da sempre a Cortina d’Ampezzo, dove, in attesa di entrare a far parte a tutti gli effetti delle Fiamme Oro, lavora in un negozio di abbigliamento
Amos Mosaner, 26 anni, trentino di Cembra, è alla seconda olimpiade consecutiva in carriera; nel Torneo di Qualificazione Olimpica del dicembre 2017, una sua "bocciata" aveva regalato il pass olimpico per Pyeongchang 2018 alla Nazionale maschile per quella che allora era stata la prima qualificazione ottenuta sul ghiaccio dagli azzurri dopo Torino 2006, quando partecipammo in quanto nazione ospitante.
Paolo Marabini per la Gazzetta dello Sport il 13 febbraio 2022.
Mentre quel ragazzone di Amos, con il suo bel nome biblico e i suoi quasi due metri di altezza, celava con fatica la commozione, lei sfoderava il suo bel sorriso, così semplice e genuino, contagiando tutti di estatica felicità. Stefania nel Paese delle meraviglie lo aveva abbracciato con tenerezza, quel compagno speciale - di storica vittoria, ma non di vita - sussurrando il suo nome con lievità, come a dirgli «hai ben visto che cosa abbiano combinato, amico mio?».
Precisa e decisa Stefania Constantini ci ha stregato, sin dal primo dei sei giorni di questo torneo pazzesco e immacolato, con i suoi 22 anni incantati, a impartire indicazioni, con la sua sicurezza sul ghiaccio, la sua precisione chirurgica nel piazzare le stone, la sua personalità decisa e quella capacità di governare ogni istante del match.
Come ha fatto con l'ultimo punto, quello che ci ha portato in paradiso, ma poteva anche trascinarci nel purgatorio di una medaglia d'argento, che sarebbe stata pure storica e bellissima. Ma volete mettere l'oro? Eppure mica ha tremato Stefania, su quel matchball da batticuore. Glaciale, imperterrita, per nulla attanagliata dalla paura. Solida sul ghiaccio del Cubo pechinese, tutti in religioso silenzio a seguirla nell'ultima, decisiva scivolata.
«Ero sicura di me stessa - ha ammesso dopo la premiazione -. È un tiro che faccio sempre, mi sono detta "vai tranquilla, lo sai fare". E così ho fatto». «Del resto - ha aggiunto con disarmante leggerezza - gestire queste situazioni fa parte dello sport». Sarà anche la forza dell'abitudine, sarà anche che è proprio lei che abitualmente apre e chiude, mentre Amos - considerato uno dei migliori bocciatori al mondo - fa il lavoro sporco, altrettanto importante.
Fatto sta che quell'ultimo lancio, impugnando venti chili di stone, avrebbe potuto far tremare la mano a chiunque. Ma non lei, la ragazza che sussurra alle pietre. Il destino Viene da Cortina, Stefania, anche se è nata a Pieve di Cadore. A 9 anni si è trasferita con la famiglia nella perla della conca ampezzana e, pochi mesi dopo, raccogliendo l'invito di una compagna di scuola, si è presentata all'Olimpia Curling Club Cortina. E lì s' è disegnato il suo destino, sino al giorno dell'incontro con Amos. Era il 2018. Fino a quel momento lui giocava in doppio con Alice Cobelli, tuttora la sua fidanzata, poi è bastata una gara con Stefania, l'intesa di gioco subito perfetta, e da lì il cammino a braccetto sino all'oro di Pechino «che un po' la vita me la stravolgerà, anzi tantissimo», dice lei, che pure ha trovato l'amore sul ghiaccio: il fidanzato, Domenico Della Santa, gioca infatti a hockey nelle file del Fassa, in serie A.
Neopoliziotta Fino a tre settimane dall'inizio dei Giochi, Stefania lavorava come commessa in un negozio d'abbigliamento. Poi è arrivato l'ingresso nelle Fiamme Oro. E mai arruolamento poteva essere più profetico. Appena tornerà in Italia, l'attende la caserma di Moena per gli ultimi dettagli che la faranno diventare una giocatrice di curling professionista, con un eventuale futuro da poliziotta finita la carriera. Ma è così giovane, Stefania, che è ancora presto per pensare al futuro anteriore. Quello semplice, invece, è il ritorno a casa, nella sua Cortina che ieri, all'ora di pranzo, era in piazza, davanti al maxischermo, a godersi il giorno più bello della vita della prima medaglia d'oro olimpica ampezzana. E chissà quante volte avrà pensato a Pechino come trampolino di lancio per l'Olimpiade prossima - che sarà proprio lì, nel giardino di casa, sul ghiaccio che Stefania conosce come le sue mani - non immaginando invece che ci sarebbe arrivata da campionessa in carica.
Da corrieredellosport.it l'8 febbraio 2022.
Stefania Constantini e Amos Mosaner conquistano una straordinaria medaglia d'oro alle Olimpiadi Invernali di Pechino. Il duo azzurro vince la finale contro la coppia norvegese formata da Kristin Skaslien e Magnus Nedregotten per 8-5 regalando all'Italia una medaglia storica. Parte subito in salita con la Novergia che strappa 2 punti, ma nel 2° end c'è l'immediato riscatto degli azzurri che rimettono tutto in parità. Nel terzo periodo l'Italia passa in vantaggio e nel quarto con grande qualità inizia la fuga che porta il punteggio sul 6-2 all'intervallo.
Al ritorno sul ghiaccio il duo norvegese recupera una sola lunghezza che Consantini rende vana al sesto gioco riportando il distacco sul +4. Prima dell'ultimo end la forbice si accorcia a +2, ma il doppio misto azzurro nell'ultimo periodo controlla alla grande e con la sbocciata finale della 22enne cortinese chiude l'incontro con un oro: il secondo per il Team Italia dopo quello di Arianna Fontana.
CIRO SCOGNAMIGLIO per la Gazzetta dello Sport il 13 febbraio 2022.
Pranzo e curling per 3 milioni di italiani, almeno. «Nel 2021 abbiamo vinto tantissimo nello sport - nota Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere della Sera e docente universitario - e ricordo una battuta "Ora ci manca solo che lo facciamo pure nel curling"... Adesso che è successo, i valori degli ascolti sorprendono fino a un certo punto». I numeri, anzitutto: per la finale Italia-Norvegia di martedì, dalle 13.30 alle 14.47 su Rai2 ci sono stati 2.346.000 spettatori (16,1% di share, 5 milioni di contatti unici), oltre ai 298.000 su Eurosport (2,1%): 2.644.000. Numeri che non comprendono chi ha seguito per esempio attraverso Raiplay (44.000 device collegati).
Curiosità: in Trentino-Alto Adige lo share è schizzato al 46,1%. «Da quando si alzarono gli ascolti per la vela grazie ad Azzurra, a inizio anni 80 - osserva Grasso - succede sempre questo fenomeno un po' pavloviano (da Pavlov, lo scienziato russo del riflesso condizionato, ndr). Basta che ci siano atleti azzurri in evidenza, anche se in sport che in pochi conoscevano e praticavano, e diventano immediatamente popolari. Gli italiani si scoprono tutti velisti, tennisti, sciatori... Conta l'atleta italiano più che lo sport in se stesso». E non di soli ascolti televisivi si tratta. «Contemporaneamente, aumentano i discorsi, l'amplificazione mediatica. Tutti si sentono esperti di cose che fino a quel momento non conoscevano.
Certo, il curling stupisce di più perché in Italia si pratica pochissimo e in tv passa in pratica solo per l'Olimpiade, non ci sono altri momenti con trasmissioni dedicate per esempio. Ma è comunque una occasione per alimentare l'orgoglio nazionale, un sentimento che ha più importanza dell'interesse specifico per la disciplina». Ma il discorso si può allargare anche all'evento televisivo in generale. «Riferiamoci a tutto quello che esce della norma - conclude Grasso - e l'esempio del Festival di Sanremo è clamoroso. Non è che lo si guardi solo per le canzoni, ma anche per condividere con gli altri un momento di discussione, di unità. Noi siamo Nazione soprattutto grazie alla televisione. E lo sport è perfetto in tal senso, come rito e liturgia immediati: l'inno, il colore della maglia, il tricolore. Così, improvvisamente, ci ricordiamo di essere tutti italiani».
Luca Beatrice per mowmag.com l'11 febbraio 2022.
Noi italiani siamo fatti così e per certi versi è il nostro bello. Negli anni ’80 - quelli del grande Real, dei Roy Rogers come jeans, di Happy Days e di Ralph Malph - scoprimmo la barca a vela grazie alle imprese di Azzurra e del Moro di Venezia.
Uno sport da ricchi, ricchissimi, che si potevano permettere in pochi, eppure diventammo subito esperti tanto da introdurre del linguaggio termini da iniziati quali randa, cazzare, tangone - a proposito di quest’ultimo, indimenticabile l’esilarante scena di Fantozzi e Filini che non lo trovano e cominciano a danzare. Anni di bermuda bianche, di Timberland senza calze anche in pieno inverno, di abbronzature color mogano persino al ponte dei morti.
Tralasciando la competenza acquisita su questioni giudiziarie (mani pulite), finanziarie (lo spread), epidemiologiche e tornando su argomenti più leggeri, l’attenzione mediatica di questi giorni è incentrata sul curling, attività sportiva pressoché misconosciuta ora sulle prime pagine dei giornali, in tv e sui social.
La coppia Stefania Constantini – Amos Mosaner ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino e giù titoloni: è curling mania, l’Italia pazza del curling, esplode la festa. Nonostante sia uno sport antichissimo, le fonti sostengono sia stato inventato in Scozia nel XVI secolo, la sua interpretazione è moderna perché ci giocano insieme maschi e femmine. Inclusivo e paritario, un bel passo avanti.
Fin qui tutto bene, d’altra parte lo sport nel 2021 ha trainato l’orgoglio azzurro per il calcio europeo e per il record di medaglie olimpico, però alzi la mano chi prima di dieci giorni fa avrebbe scommesso di entusiasmarsi per uno strano gioco di bocce su ghiaccio, chi ne conosceva le regole o capiva la sottile differenza tra il vincere e il perdere.
Negli anni di stradominio juventino in serie A lo usavo per prendere in giro gli amici di Inter, Milan, Napoli, Roma ecc… con frasi tipo “perché non segui il curling visto che nel calcio non tocchi palla”.
Sicuramente nel giro degli alternativi che non capiscono niente ma hanno il compito di romperti le palle ogni volta che aprono bocca, ci sarà già qualcuno convinto assertore di uno sport puro e sano, non contaminato dal giro di soldi e dai capricci di miliardari viziati.
Immagino madri e padri di sinistra che spingeranno i loro poveri figli a sondare questa nuova disciplina, perché va bene essere ideologici ma di moda.
Guardando questi strani movimenti con altrettanti strani aggeggi - Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport, tra i pochi ad andare controcorrente li ha definiti “una scopa e un bollitore” - mi è tornato in mente ancora una volta il passaggio di un celebre monologo di Giorgio Gaber “ma giocate al calcio, deficienti”. Ce l’aveva con il tennis ma si può riadattare alla bisogna.
Intendiamoci, io non ce l’ho con gli atleti - 350 federati in Italia - che praticano il curling. Ce l’ho con i tifosi del curling, con quelli che il curling, con le invasioni di commenti sulle chat, di esperti di cultura capaci in pochi giorni di farsi un’opinione sul curling.
Anni fa mio figlio, a proposito delle elezioni americane, fece un’osservazione molto arguta: “Fossi negli Usa voterei Trump non perché lui mi piaccia, anzi, ma perché mi stanno davvero sulle palle quelli che lo odiano”.
Ecco a me stanno sulle palle quelli che ora sanno tutto di curling e invece di parlare con me di Dusan Vlahovic o di Marc Marquez mi raccontano storie patetiche di cui non mi frega niente.
Che per arrivare all’oro olimpico Stefania e Amos hanno dovuto affrontare molti sacrifici, lui ex impiegato in un’azienda agricola, lei ex commessa lontana dal fidanzato per allenarsi, ragazzi normali che con il loro sudore hanno coronato un sogno.
Opinionisti improvvisati scandalizzati perché nelle principali città italiane non ci sono piste per il curling. E insistono, una boccata d’ossigeno, di aria pura mentre noi che seguiamo il calcio e i motori restiamo dei poveri scemi maschilisti ammaliati da sport che non esprimono valori ma solo denari.
Io non ce l’ho con i due atleti, ci mancherebbe, anzi sono felice per loro, però diffido chiunque di parlarmi del curling o di qualsiasi altro sport in cui non ci sia la Juventus o un motore. Non mi interessa nulla, non ne voglio sapere niente, sono uno all’antica io, sono ignorante e di queste mode non so che farmene.
Da ilnapolista.it il 9 febbraio 2022.
La Faz elogia Stefania Constantini la donna del curling italiano che in coppa con Amos Mosaner ha regalato all’Italia uno storico oro olimpico.
Il quotidiano tedesco scrive che “buona linea” è diventata ormai un ritornello. “Buona linea” è il commento elogiativo di Stefania un buon lancio di Amos Mosaner e anche un invito a non usare troppo la scopa.
La Faz definisce quella della coppia italiana una inaspettata marcia trionfale. Nove vittorie e zero sconfitte nel round robin, fino alla finale ora in corso contro la Norvegia della coppia formata dalla 36enne Kristin Skaslien e Magnus Nedregotten: furono bronzo alle Olimpiadi del 2018. In semifinale hanno poi battuto con “un clamoroso 8-1” gli svedesi Almida de Val e Oskar Eriksson.
La Faz scrive che il curling viene spesso ridicolizzato ma ha sempre la sua copertura televisiva.
La Faz, riprendendo la Gazzetta, scrive che la Constantini è Ariete “comunemente considerato come un segno di forza di volontà”.
Suo padre era un giocatore di hockey su ghiaccio, il suo ragazzo è un portiere di hockey su ghiaccio, ma Stefania amava lo sport di calcio sul ghiaccio, una specie di versione prescolare del curling, anche da studentessa delle elementari.
A 16 anni aveva partecipato ai Giochi Olimpici Giovanili di Lillehammer. Nel frattempo ha lavorato anche in un negozio di abbigliamento per poter permettersi il suo hobby sportivo.
La 36enne Kristin Skaslien e il suo compagno di cinque anni Magnus Nedregotten hanno vinto la medaglia di bronzo alle Olimpiadi del 2018. Ma hanno anche subito una sconfitta per 8:11 contro l’Italia nel turno preliminare di Pechino. Non avevano nulla da opporre alle “buone linee” di Stefania Constantini.
Salvatore Riggio per corriere.it il 9 febbraio 2022.
Sono la coppia del momento: Stefania Constantini e Amos Mosaner hanno vinto l’oro nel doppio misto del curling alle Olimpiadi invernali di Pechino, entrando nella storia. Mai l’Italia — dove ci sono appena 500 praticanti, e appena 20 atleti di alto livello — era arrivata solo a immaginare un trionfo simile.
Il merito è di due ragazzi tranquilli fuori dal ghiaccio ma feroci dentro: lei, 22 anni, lui 26; lei di Pieve di Cadore, lui di Cembra, a due passi da Trento; lei delle Fiamme Oro, lui delle Fiamme Gialle. Entrambi uniti da una passione per uno sport scoperto da piccoli (lei a 8, lui, figlio d’arte, a 5 anni) e mai più abbandonato, anzi affinato nel tempo fino alla realizzazione del sogno della vita.
Una relazione solo professionale
Stefania e Amos sono entrambi fidanzati, ma non fra di loro. Il che, nel curling, sembra essere una rarità (lo sono per esempio anche i norvegesi Kristin Skaslien e Magnus Nedregotten che hanno perso contro gli italiani la finale a Pechino).
«Giochiamo insieme da un anno, ci troviamo bene ma solo professionalmente», dice Amos, che è fidanzato da 7 anni con Alice Cobelli, 24enne, anche lei giocatrice di curling, con la quale faceva coppia prima di passare con Stefania. Che racconta: «Amos è uno dei migliori al mondo e io sono felice di giocare con lui». L’amore però è tutto per Domenico Dalla Santa, hockeista portiere del Fassa nella Alps Hockey League. I due sono fidanzati ufficialmente dal 2015 e sono estremamente riservati. Stefania su Instagram ha il profilo privato, con solo 4 foto.
Giacomo Rossetti per "il Messaggero" l'8 febbraio 2022.
Claudio Amendola aveva previsto l'exploit del curling italiano. Tutto vero.
Nel 2013 l'attore romano, 58 anni, debuttava dietro la macchina da presa con La mossa del pinguino, commedia con Edoardo Leo, Antonello Fassari, Ricky Memphis ed Ennio Fantastichini, in cui a fare da padrone era proprio lo sport giocato con scope e stones, croce e delizia dei quattro scalcagnati protagonisti, che coltivano il sogno di andare alle Olimpiadi di Torino 2006 - dove credono di poter vincere - confidando sul (presunto) scarso numero di praticanti di questo sport.
E dopo lunghe peripezie, alle Olimpiadi ci arrivano sul serio. Ovviamente non vincono, anzi perdono tutti gli end, però riescono lo stesso a fare un punto grazie alla mossa del pinguino, una tecnica di lancio particolare.
A Pechino la realtà ha superato di gran lunga la fantasia: la coppia mista azzurra composta da Amos Moisaner e Stefania Constantini ha raggiunto l'ultimo atto del torneo, battendo 8-1 i maestri svedesi.
Amendola, la Nazionale italiana di curling è in corsa per l'oro alle Olimpiadi. Pare impossibile, ma lei aveva predetto tutto, lo ammetta!
«Non so se posso dire di essere stato un profeta oppure se sarebbe giusto ammettere di aver fatto un grandissimo errore, quando ritenni che non avremmo mai potuto vincere una medaglia olimpica. Mi sbagliavo di grosso, però a mia discolpa bisogna dire che non ero l'unico a pensarla così! Quindi preferisco prendermi la gloria di averlo previsto».
Il curling le piace come sport?
«Molto: durante le riprese de La mossa del pinguino avemmo modo di provarlo. E' complicatissimo! Ci sono milioni di possibilità in ogni tiro, le variabili sono davvero tante. Sono contento che, seppur a distanza di anni, il mio film abbia portato fortuna agli azzurri. All'epoca considerammo il curling come lo sport in cui era più improbabile che l'Italia vincesse un alloro olimpico».
Quindi se c'è una partita in televisione la guarda?
«Eccome! Visto che siamo finalisti olimpici, direi che da questo momento tutte le gare vanno seguite con una certa prosopopea. Per essere sinceri, non mi aspettavo che i nostri atleti arrivassero fin lì».
Cosa vorrebbe dire vincere addirittura la medaglia d'oro?
«Anche ottenere uno storico argento costituirebbe una spinta enorme per tutto il movimento, e sarebbe la dimostrazione che il lavoro paga. Negli ultimi anni c'è stata un'enorme crescita nel curling azzurro. E' il segnale che lo sport potrebbe avere una valenza formativa assai maggiore di quella che ha adesso, nelle palestre (o dovrei dire non-palestre) delle nostre scuole».
La sfilza di vittorie della coppia italiana era impronosticabile. Quali sono i passi da fare ora, secondo lei?
«L'impresa dell'Italia dimostra che anche gli sport considerati minori possono ottenere grandi risultati. Pensate se nel nostro Paese, accanto ai vari licei che esistono già, esistesse anche una scuola di formazione sportiva».
Ha un augurio da mandare ad Amos Mosaner e Stefania Constantini?
«Nessun augurio, semmai un profondo ringraziamento per quello che sono riusciti a realizzare. Il loro successo per me vale doppio. E fatemi dire che in qualche modo mi sento un po' loro mentore (ride, ndr)».
Giulia Zonca per la Stampa l'11 dicembre 2017.
Stretti sul ghiaccio di Plzen, in Repubblica Ceca, gli azzurri del curling scivolano dentro la prima Olimpiade conquistata senza inviti. Una partita storica che ricollega la nazionale al 2006: l'anno in cui l' Italia ha scoperto che esisteva uno sport mai considerato prima.
Allora siamo entrati nel tabellone a Cinque Cerchi per diritto dovuto, la legge degli ospiti, dodici anni dopo troviamo un posto fra i migliori dieci per merito acquisito, per la vittoria degli uomini nella gara decisiva del torneo di qualificazione contro la Danimarca: 6-5, negli extra end. Oltre l'ultimo gioco e oltre la paura. Era tutto previsto anche se tutto è diverso.
L' unico punto fermo della nazionale resta Joel Retornaz, ventitreenne con gli occhialini e i capelli a spazzola nel 2006 a Pinerolo (squadra per cui oggi gioca) ed esperto skip con la lunga barba da saggio oggi. La barba è stata pure più folta di così perché Retornaz ha accompagnato la nazionale «per un lungo viaggio». La federazione ha investito e il ct Marco Mariani ha creato una struttura intorno al quartetto. Le donne sono state più sfortunate, hanno perso l'ultimo playoff.
Riferimenti culturali Questi scacchi invernali hanno attirato 5 milioni di italiani davanti alle dirette del febbraio 2006 e continuano a esercitare uno strano fascino sul pubblico. Intermittente eppure deciso, tanto da creare quasi una letteratura di genere.
I primi a portare il cervellotico gioco in una dimensione pop sono stati i Beatles anche se forse tra «stone», la pietra di 18 chili da spingere per fare punteggio, e «stoned», voce del verbo sballare, hanno fatto un po' di confusione. Dopo le scene girate in Austria per «Help»non ricordavano più nulla.
Hanno raccontato che durante le riprese hanno fumato l'impossibile: l'effetto surreale comunque ha funzionato.
Poi c' è stato James Bond e i Simpson, che hanno anticipato il curling misto ormai diventato realtà. Persino un film italiano del 2014, «La mossa del pinguino» di Claudio Amendola, che sfrutta un po' di stereotipi sul tema, ma racconta di quanta sintonia si crea in un quartetto di curling.
Retornaz è rimasto ipnotizzato proprio da questa forza: «Non è uno sport che capita per caso, lo devi cercare e amare.
L' aspetto più difficile è proprio riuscire a praticarlo perché in Italia ci sono rari posti dove ti puoi allenare. Anche noi, in nazionale, abbiamo un solo professionista».
Amos Mosaner, l'uomo che ha segnato il punto decisivo contro la Danimarca è anche un atleta dell'Aeronautica, riceve lo stipendio da un gruppo militare. Il resto del gruppo lavora. Retornaz fa l'imprenditore a Lugano, Simone Gonin, altro elemento del club di Pinerolo, è un tecnico del ghiaccio e Daniele Ferrazza (Club Cembra, come Mosaner) fa il falegname. «Ci si arrangia, anche così siamo diventati una gruppo che può giocarsela con tutti, anche con i più forti».
Cambio di mentalità Non si offendono se qualcuno li paragona a chi si diverte con le bocce: «L' apparente semplicità è uno dei fattori che avvicinano altri mondi al curling, chiunque pensa di poter fare lo stesso nel vialetto di casa. E allora: "Giocate con le pentole a pressione?", "che fate con gli scopettoni?", un po' di sana ironia che aiuta». Invece quanta preparazione serve per andare ai Giochi? «Anni di allenamento, bisogna unire l'astuzia degli scacchisti e tutt' altra forza perché loro muovono un pedone, noi lanciamo un sasso a 40 metri». Per la tattica rivolgersi a Soren Gran, «tecnico svedese che ha cambiato la nostra filosofia: siamo diventati offensivi, non più attendisti». E siamo arrivati alle Olimpiadi. Non resta che preparare i pantaloni colorati come quelli dei norvegesi o magari anche solo sincronizzare le barbe che ci sono già: «Non mi ero neppure accorto che la portiamo tutti. Ora ci si ragiona, quando ci rendiamo conto che si va davvero in Corea». E senza inviti.
Mayer oro nel superG a Pechino 2022. Flop azzurro tra le polemiche. Alessandra Retico su La Repubblica l'8 Febbraio 2022.
L'austriaco, terzo nella libera, bissa il successo di quattro anni fa a PyeongChang diventando anche l'unico a conquistare 3 titoli in tre Giochi consecutivi. Sul podio anche l'americano Cochran-Siegle e il norvegese Kilde. Italia lontana dai migliori: fuori Innerhofer, Marsaglia 18°, Paris 21°, Casse si sfoga sui social.
Litiga col cancelletto al via, poi lo apre e nessuno lo vede più. Matthias Mayer, bronzo ieri in discesa, va a prendersi l'oro olimpico nel superG (in 1'19''94) ribadendo il titolo di 4 anni a fa a PyeongChang. L'austriaco, 32 anni, che diventa l'unico ad aver vinto 3 titoli in tre Giochi consecutivi (d'oro a Sochi 2014 in discesa) scende col pettorale n°13 quando ormai i norvegesi Kilde e Sejersted stavano festeggiando con entusiasmo vichingo il 1° e 2° posto al parterre.
Short track, Italia d'argento nella staffetta mista. Arianna Fontana, nona medaglia olimpica. Mattia Chiusano La Repubblica il 5 febbraio 2022.
Il quartetto azzurro (Arianna Fontana, Martina Valcepina, Pietro Sighel e Andrea Cassinelli) chiude la finale alle spalle della Cina, bronzo all'Ungheria. E' una medaglia di squadra, anche se brilla su tutti una protagonista. Con l'argento nella staffetta mista dello short track, una delle novità dell'edizione 2022, Arianna Fontana ha conquistato la nona medaglia olimpica (uno oro, tre argenti e cinque bronzi) che la rende l'atleta più medagliata nella storia del suo sport ai Giochi, scavalcando l'americano Apolo Anton Ohno e il russo Viktor An.
Mario Nicoliello per gazzetta.it il 5 Febbraio 2022.
Dalla pista lunga a quella corta è sempre Italia. Arriva ancora dal pattinaggio, ma stavolta è lo short track, la seconda medaglia italiana ai Giochi di Pechino. Arianna Fontana, Martina Valcepina, Pietro Sighel e Andrea Cassinelli si rivestono d’argento nella staffetta mista.
Due uomini e due donne che esultano sotto il tetto del Capital Indoor Stadium, celebrando nel migliore dei modi il battesimo a cinque cerchi di questo nuovo format di gara. Nella finale A gli azzurri sono secondi alle spalle della Cina e davanti all’Ungheria, mentre il Canada è quarto. Il duello spalla a spalla è il bello dello short track, disciplina imprevedibile e spettacolare, con cadute sempre dietro l’angolo.
Ne sanno qualcosa i favoritissimi coreani, fuori nei quarti, e soprattutto statunitensi e russi che si sono eliminati a vicenda in semifinale dopo un autoscontro. L’Italia è uscita indenne dai tre turni con i nostri cinque eroi – occorre dare merito anche a Yuri Confortola che ha disputato il primo turno al posto di Sighel – che si sono meritati la medaglia. A brillare sull’anello corto, ripetuto per 18 volte, è stata soprattutto Arianna Fontana, che con questo argento entra ancora di più nella storia olimpica: la valtellinese sale infatti sul podio per la quinta edizione consecutiva dei Giochi.
Da ilnapolista.it il 9 febbraio 2022.
Dev’essere un bell’ambientino la federazione sport invernali. Bisogna dire che anche osservatori esterni come noi, hanno sempre nutrito dubbi. Per quel che riguarda lo sci alpino, hanno avuto a disposizione un patrimonio di talenti difficilmente ripetibile: Goggia, Brignone, Bassino ma anche Curtone e altre. Eppure basta guardare che ne è oggi di Marta Bassino un talento prezioso ridotto a sciatrice che ha smarrito la bussola.
Federica Brignone si è allontanata dalla federazione per allenarsi col fratello di Davide e i risultati le stanno dando ragione. Resta Sofia Goggia che vince a prescindere ma che – è la nostra impressione – se fosse seguita in maniera diversa, con uno staff professionistico (perché è così che si gestiscono le fuoriclasse), avrebbe potuto vincere molto di più. Ne accennò persino Mattarella.
Tutti si lamentano della Federazione. Quelli che perdono e quelli che vincono. Le accuse di Arianna Fontana – incredibilmente ignorate dai media che ora si stanno arrendendo alla realtà – lambiscono il codice penale, addirittura ha detto che atleti maschi la facevano cadere di proposito. È dovuta fuggire in Ungheria per allenarsi e per farlo insieme col marito. Anche nel suo caso, come in quello della Brignone, i risultati dicono che ha fatto bene.
Repubblica scrive: Federica Brignone ha ribadito la bontà della sua separazione (parziale) dalla Nazionale per farsi seguire dal fratello Davide che, nel mormorio generale, di fatto è il suo coach da 5 anni. L’anno scorso, in crisi tecnica e personale, Federica lo ha preteso: o con lui o smetto. Sua madre Ninna Quario ha parlato a Repubblica di «energie negative da cui doveva allontanarsi».
La Gazzetta ignora il tema. La Stampa riporta una bella dichiarazione democristiana del presidente della Federghiaccio Andrea Gios: «Non intendiamo commentare le critiche di Arianna. Siamo felicissimi del risultato, da una campionessa straordinaria di quel livello accettiamo ogni critica. Chiariremo tutto senza polemizzare».
Su La Stampa però troviamo un colonnino sulla debacle dello sci alpino maschile di velocità che ha chiuso con zero medaglie proprio come quattro anni fa. Senza dimenticare le accuse di Marsaglia.
Anche Federico Pellegrino medaglia d’argento nello sprint di fondo, si è allontanato dalla Nazionale per allenarsi con un altro allenatore come scrive Il Giornale: per costruire lo splendido argento di ieri nello sprint ha dovuto aggregarsi a un team russo allenato dal tedesco Markus Kramer, dopo la delusione del ritiro dei fondisti azzurri dal Mondiale dello scorso anno, deciso dalla federazione per un caso di Covid tra i cuochi. Il valdostano e il compagno De Fabiani la ritennero una scelta precipitosa che vanificava tutta la loro stagione e, dopo le dimissioni del ct Selle, la decisione di proseguire in autonomia è stata inevitabile.
Sempre sul Giornale ci pensa Ninna Quario (mamma Brignone) a togliersi qualche altro sassolino dalle scarpe e lo fa partendo proprio da Pellegrino: «Ho avuto la fortuna e l’intelligenza di scegliere bene le mani nelle quali mettermi per dimostrare il mio valore». E le medaglie per la Fisi diventano due, arrivano da due «Fede» valdostani con la testa dura che ancora una volta non hanno fallito nel momento che conta.
Paolo Marabini per gazzetta.it il 18 febbraio 2022.
"Arianna non mi rivolge la parola da mesi. L’ultima volta è successo il 12 ottobre alla consegna dei Collari del Coni". La risposta di Andrea Gios, presidente della Federghiaccio, nel corso dell’incontro con la stampa a Casa Italia dice molto di quali siano i rapporti tra la Fisg e la sua atleta più medagliata, oltre che più conosciuta.
Un caso che ha tenuto banco per tutta l’Olimpiade, sin dal giorno della prima medaglia, quella d’argento vinta dalla 31enne valtellinese con i compagni della staffetta mista, rincarato poi dopo l’oro sui 500 e ribadito al termine dei 1500 d’argento, mercoledì sera, quando l’Angelo Biondo è diventata con 11 podi l’azzurra più medagliata (uomini compresi) dei Giochi invernali.
"Sapevo che si sarebbe sfogata – ha esternato Gios – ma come Federazione non abbiamo nulla da rimproverarci. Abbiamo sempre lavorato con il massimo scrupolo, nell’interesse della Federazione e di Arianna.
Lei è il nostro più importante asset. Però ci sono delle regole, non è che gli atleti possono scegliere loro gli allenatori della Nazionale. Il nostro obiettivo è far crescere tutti gli atleti, Arianna compresa”. Gios è poi entrato più nei dettagli. “Lei è stata messa nelle condizioni che noi ritenevamo ottimali per poter svolgere la sua attività, seguendo le richieste sue e del marito-allenatore senza che ci potessero essere ripercussioni sul gruppo. E i risultati lo dimostrano, i suoi e della squadra".
IL NODO C.T.— Alle accuse della campionessa olimpica di short track, secondo la quale la Fisg l’avrebbe addirittura ostacolata nel suo avvicinamento ai Giochi, Gios ha risposto ricordando che la “federazione si è assunta tutte le spese per la preparazione di Arianna in questi tre anni. Lobello ci ha presentato un programma e noi abbiamo assecondato pienamente le richieste del tecnico, sostenendo tutte le spese, dall’appartamento ai macchinari, quando Arianna ha deciso di staccarsi dalla Nazionale e di andare ad allenarsi in Ungheria.
Quando in Ungheria sono venute meno le condizioni per restare, e Arianna e Anthony sono dovuti rientrare, e sono tornati nel gruppo azzurro, non c’è stata nessuna emarginazione da parte nostra. Semplicemente Lobello non era il responsabile tecnico della Nazionale, quindi aveva delle limitazioni. Ma non gli è stato certo impedito di allenare Arianna”. Il nodo è proprio questo.
“Non crediamo che Lobello abbia le carte in regola per essere l’allenatore di tutta la Nazionale di short track. Noi abbiamo altri 18 atleti. Non c’è solo Arianna” ha detto Gios. Domanda: “Ma allora il pomo della discordia ruota attorno alla figura di Lobello come c.t.”?”. Risposta di Gios: “In passato sì. Adesso non so se Arianna rivendica ancora questo e lo pone come punto principale. Non ci parliamo dal 12 ottobre scorso, qui lei mi evita, ha evitato anche gli incontri a Casa Italia con gli altri compagni di squadra. Comunque i contatti con lei li ha sempre tenuti Ippolito Sanfratello, il nostro segretario generale, quasi quotidianamente".
"ACCUSE AI COMPAGNI SGRADEVOLI"— Si torna a parlare anche delle scorrettezze in allenamento, che Arianna ha denunciato nei giorni scorsi, ricordando come i compagni (uno in particolare) avrebbero tentato di danneggiarla in pista, cercando di farla cadere. “La parte più stonata delle esternazioni di Arianna – ha detto Gios – riguarda questa vicenda, che peraltro risale a tre anni fa, che avevamo affrontato e chiarito a suo tempo e per noi era morta e sepolta.
Era emerso che si fosse trattato di una situazione tipica di un allenamento comune, nella quale un'atleta donna si trova a dovere fare i conti con compagni che hanno una struttura fisica decisamente più importante, per cui i contatti che ci possono essere nello short track non sono gli stessi che ci sarebbero fra donne.
Peraltro questi stessi uomini che lei accusa si sono allenati per anni con Arianna, l’hanno fatta crescere, l’hanno portata sino a queste medaglie. Trovo questa sua uscita sgradevole, ha distrutto il clima della squadra in un momento così importante. Credo molto nel gruppo, ci si scontra e ci si chiarisce negli spogliatoi, poi vince il gruppo. Arianna è una campionessa straordinaria, a me serve un leader.
Durante un’Olimpiade non si fanno dichiarazioni del genere”. Ma allora è alle viste un confronto? Sarà giocoforza necessario, ma non sarà in tempi brevissimi. Il 19 marzo ci saranno le elezioni federali, Gios è candidato unico: “Prima del rinnovo del Consiglio non ha senso discutere di questo caso. Ma sarà una delle nostre priorità a elezione avvenuta. Di certo noi cercheremo di agevolarla e aiutarla, come abbiamo fatto finora. Ma se Lobello vuole diventare l’allenatore della Nazionale, dico subito che non è possibile”.
Arianna Fontana, il presidente della federghiaccio: "Le abbiamo dato tutto, lei ha spaccato la squadra". Mattia Chiusano su La Repubblica il 18 Febbraio 2022.
Andrea Gios replica alle accuse della campionessa azzurra: "E' stata sostenuta in ogni cosa, suo marito per noi non può allenare l'intero gruppo squadra. Lei non mi parla e non mi saluta più. Ho bisogno di leader, non solo che vincano medaglie, ma che trascinino gli altri. L'episodio della caduta? Un'uscita che ha distrutto il clima nel gruppo. E' una campionessa straordinaria, ma ho bisogno che condivida e noi dobbiamo essere uniti"Dopo due settimane di medaglie, record e attacchi pesantissimi di Arianna Fontana, la federghiaccio ha risposto una volta per tutte: parlando di una nazionale "spaccata". Non sarà forse felice la fuoriclasse dello short track, la donna italiana più premiata alle Olimpiadi con i suoi undici podi, ma le dichiarazioni del presidente Andrea Gios non sono esattamente quello che si aspettava per
Fontana e Federazione. È ghiaccio bollente per colpa di un marito. Giandomenico Tiseo il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Arianna: "Mi vogliono chiudere in una scatola". Il n.1 Gios: "Non mi parla e non mi saluta...". Pattini veloci e roventi sul ghiaccio di Pechino (Cina). L'avventura italiana dello short track alle Olimpiadi Invernali è terminata in casa Italia e c'è di che sorridere. Una spedizione fortunata nella quale Arianna Fontana ha scritto un'altra pagina di storia: la fuoriclasse di Polaggia è stata capace di conquistare ben 11 medaglie olimpiche tra il 2006 e il 2022, con le ultime tre (1 oro e 2 argenti) vinte in Cina. Per Fontana la soddisfazione di essere l'italiana più medagliata di sempre nei Giochi Invernali, staccando di una lunghezza un'atleta del calibro di Stefania Belmondo.
Numeri e imprese che potrebbero essere la trama di una favola, ma l'evoluzione della storia ricorda più un episodio della Signora in giallo. Sì, perché i contrasti emersi tra la campionessa valtellinese e la Federghiaccio sono divampati nelle Olimpiadi. Di stracci ne sono volati e Fontana ha manifestato disagi e maltrattamenti. Ci si riferisce agli attacchi in allenamento ricevuti da alcuni compagni di squadra (uomini) e alla mancata tutela della FISG in merito soprattutto alla posizione occupata dal coach/marito, Anthony Lobello.
«Non spetta a me fare il primo passo, abbiamo cercato di fare tante volte noi il primo passo per cercare di trovare una soluzione. Dall'altra parte quello che vogliono fare è mettermi in una scatola, dalla quale sono dovuta uscire in questi anni per poter essere qua competitiva», le parole dell'azzurra in riferimento al trasferimento in Ungheria per allenarsi nel periodo post PyeongChang 2018.
Un contrasto importante in cui le parole del n.1 della Federghiaccio, Andrea Gios, si sono fatte sentire. «Arianna Fontana non mi parla e non mi saluta neanche. Un incontro ci sarà sicuramente, non c'è chiusura da parte mia se continuiamo con questo modello. Se lei ha bisogno di andare all'estero saremo i primi a cercare una squadra che la ospiti, poi c'è sempre la possibilità di allenarsi con noi, ma se il nodo della questione è che suo marito diventi allenatore della Nazionale, questo noi non possiamo accettarlo. Ci sarà modo di parlarsi, non ho nessuna preclusione, Arianna è un patrimonio della nostra Federazione, che non vorrei dilapidare», ha sottolineato Gios. Il n.1 della FISG ha poi precisato un altro aspetto importante relativo alla questione «attacchi in allenamento» da parte di uno degli staffettisti vincitori del bronzo a Pechino: «Si tratta di un episodio di tre anni fa a Courmayeur. Quando ci si allena con una certa intensità, se una donna va a contatto con un uomo che pesa di più possono accadere queste cose. La questione per noi era chiusa. Un'accusa inaccettabile perché quei ragazzi, che l'hanno fatta cadere, sono gli stessi che negli ultimi sei mesi l'hanno supportata per centrare i suoi obiettivi». Il futuro quindi appare a tinte fosche. Giandomenico Tiseo
Pechino 2022, Arianna Fontana contro i vertici del pattinaggio: "Non mi sono piegata al sistema, costretta a lasciare l'Italia". Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022.
L’argento nello short track a Pechino 2022, non ha fatto solo urlare di gioia Arianna Fontana. Poco dopo il podio, la pattinatrice lombarda ha lanciato frecciate dure contro la Federazione, in particolare verso il presidente della Federghiaccio, Andrea Gios: “Adesso esce la tensione di tutta l’Olimpiade — aveva detto Fontana —. Ho dovuto trattenere molte cose. Nei prossimi giorni avrò modo di buttar fuori tutto quello che ho dentro. Il presidente Gios? Io sono dovuta andarmene dall’Italia (è andata ad allenarsi in Ungheria, ndr) per potere fare quello che ho fatto. Non sono stata alle loro regole e al loro sistema”. Poche ore dopo le parole dell’olimpica, è arrivata pronta la risposta decisa del numero uno della Fisg: “Dal 2006, Arianna ha sempre attaccato la Federazione — ha tuonato — È nel suo carattere ed è anche un aspetto della sua forza.
“L’accusa lanciata da lei che sarebbe stata fatta cadere più volte in allenamento? Inaccettabile — ha aggiunto Gios — ha distrutto il clima della squadra. Sono i maschi che hanno pattinato con lei e che per anni le hanno fatto da sparring partner, di sicuro negli ultimi sei mesi, aiutandola a crescere". L’episodio legato alla Fontana “è successo tre anni fa, siamo stati informati subito, Ippolito Sanfratello (il segretario della Federazione, ndr) ha parlato con i ragazzi — dice ancora il presidente della Federghiaccio — Ma era un episodio di allenamento, che succede molto spesso, nelle simulazioni di gara. Per noi la questione era chiusa. E dopo tre anni Arianna è andata in Ungheria, è tornata e si è allenata negli ultimi sei mesi con questi ragazzi, ma non saluta loro”.
"Giovedì tutta la squadra di short track è stata invitata a mezzogiorno a Casa Italia — ha spiegato Gios — Arianna è andata da sola la sera. Oggi vince chi sa fare squadra, io ho bisogno di leader, non solo di medaglie. Arianna è una campionessa straordinaria ma vorrei che fosse anche una leader". E ancora: ”Questo è l'aspetto che più mi dà fastidio di questa vicenda — ha aggiunto in conferenza stampa da Casa Italia a Yanqing — a metà Olimpiadi non si devono fare dichiarazioni di questo genere. Fuori si deve stare uniti, ma questo vale non solo nello sport ma nella vita". Arianna Fontana “non mi parla e non mi saluta neanche — ha continuato il presidente della Fisg — Un incontro ci sarà sicuramente, non c'è chiusura da parte mia se continuiamo con questo modello. Se lei ha bisogno di andare all'estero saremo i primi a cercare una squadra che la ospiti, poi c'è sempre la possibilità di allenarsi con noi, ma se il nodo della questione è che suo marito diventi allenatore della Nazionale (Anthony Lobello, ex pro, ndr), questo noi non possiamo accettarlo". Per poi concludere: ”Ci sarà modo di parlarsi, non ho nessuna preclusione, Arianna è un patrimonio della nostra Federazione, che non vorrei dilapidare".
Arianna Fontana e lo scontro con la Federazione per il marito allenatore: «Non può essere il coach di tutti». Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino, su Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022.
La campionessa di short track aveva accusato di essere stata vittima di dispetti in pista. Il presidente Gios: «Ci vuole pazienza, spiegherò la situazione dopo il 19, adesso ci sono le gare. Arianna? Vorrei avessero tutti la sua cattiveria, certo poi è polemica».
Ma a noi italiani piace polemizzare al bar sport anche quando vinciamo? A giudicare dal caso (ri)aperto dall’angelo biondo Arianna Fontana dopo l’oro nei 500 m di short track qui a Pechino, sì. La signora Fontana si è lamentata perché il marito Anthony Lobello, suo allenatore e consigliere, non è apprezzato quanto merita dalla Federghiaccio. E ha ricordato di aver ricevuto assurdi dispetti in pista, quattro anni fa, da parte di «pattinatori maschi che hanno cercato di farmi cadere mentre mi allenavo». Storia vecchia, ma se la supercampionessa delle 10 medaglie olimpiche in 5 edizioni (oggi in pista con la staffetta donne 3000 m) ha sentito il bisogno di tirarla nuovamente fuori, uno strato di ruggine sui pattini deve essersi accumulato.
Il dottore commercialista Andrea Gios, presidente della Federghiaccio ed ex campione di hockey con l’Asiago, 48 presenze e due mondiali con la Nazionale, finora è stato fuori dalla mischia, dimostrando calma olimpica. Si gode il pomeriggio a Casa Italia con i suoi atleti e dice: «Spiegherò la situazione il 19, alla fine dei Giochi, perché ora abbiamo ancora altre quattro possibilità, dopo aver già preso cinque medaglie sul ghiaccio» (Lollobrigida; Fontana; staffetta mista, sempre con Arianna in squadra; curling di coppia, Ghiotto, ndr). Gios ha dalla sua la forza di questi numeri, ma dice subito: «Arianna Fontana è forte, è in forma, nei 1.500 può dire la sua e regalare all’Italia un’altra grande gioia». E il caso Lobello? Arianna dice che lui è un grandissimo allenatore e la Federazione lo snobba, lo tiene ai margini. Per il presidente «il caso non c’è, lui la segue e la allena, per lei è il migliore e ha ragione dal punto di vista dei risultati personali. Lo abbiamo accettato, resta il fatto che noi non possiamo farlo responsabile di tutta la squadra, perché ci sono altri allenatori che hanno una dozzina di atleti da medaglia, mentre lui ne ha una sola, anche se grandissima».
Gios è convinto che «nello short track abbiamo un’organizzazione perfetta, uno staff tecnico meraviglioso, che cura il minimo dettaglio nel centro federale di Bormio. Fanno un miracolo se si tiene conto che da noi ci sono 80-100 atleti senior, mentre le superpotenze sportive ne hanno migliaia».
Chi è Anthony Lobello? Italo-americano, 37 anni, ex campione di short track, ha vestito la maglia Usa e poi quella azzurra, è legato ad Arianna da quando si sono conosciuti ai Giochi di Torino 2006, sposato con lei nel 2014. Si definisce così sul suo profilo Instagram: «Aspirante marito. Studente per tutta la vita. Atleta olimpico in pensione. Appassionato di finanza. Allenatore. Sempre alla ricerca della prossima onda da cavalcare». Quella considerazione «aspirante marito» sembra voler dire ad Arianna, 31 anni, che è impegnato a migliorare sempre anche come compagno di vita. Bella coppia.
Andrea Gios è contento dei risultati sportivi: «Non sono arrabbiato, sapevo come la pensa. Io vorrei che tutti i nostri atleti fossero come lei, che ci mette l’anima e anche cattiveria, sul ghiaccio. È sempre stata anche polemica, e forse il marito ha accentuato questo lato del suo carattere». L’unica cosa che gli dispiace è quella storia delle scorrettezze in allenamento subite da parte di atleti maschi di cui ha parlato Arianna. «Ne parlerò dopo, ci vuole la pazienza di un padre, ma io ho altri 13.597 figli a cui pensare, perché sono tanti i nostri atleti tesserati». Seguito alla prossima puntata. Perché a noi italiani litigare un po’ al bar sport piace sempre.
Mario Nicoliello per gazzetta.it il 16 febbraio 2022.
C’è un angelo biondo che vola sul ghiaccio di Pechino. È Arianna Fontana, che con l’argento nei 1500 metri dello short track diventa l’italiana più plurimedagliata ai Giochi invernali con 11 metalli. La pattinatrice valtellinese è meravigliosa nella gestione di una finale complessa, al termine della quale si accomoda sul secondo gradino del podio. L’oro è della coreana Choi, il bronzo dell’olandese Schulting. Una medaglia meravigliosa che l’azzurra festeggia sul ghiaccio avvolta nel tricolore.
Nel primo turno, Fontana avanza in scioltezza alle semifinali. Nella seconda batteria, si mantiene in quinta posizione nei giri iniziali, lasciando sfogare le altre, poi pian piano risale, per chiudere seconda alle spalle della sudcoreana Kim. Passano le prime tre di ogni serie, più le migliori tre tra le quarte classificate, quindi la pratica è agevole.
Semaforo verde per Cynthia Mascitto, terza nella quarta batteria, rosso per Arianna Sighel, sorella maggiore di Pietro, quinta nella prima batteria e quindi eliminata. In semifinale, Fontana è nella prima serie, quella sulla carta più complicata. Stavolta parte subito avanti, si mantiene nelle posizioni di vertice e nel giro conclusivo risale in seconda posizione che mantiene fino all’arrivo. L’azzurra chiude alle spalle della coreana Lee, ma davanti alla canadese Boutin, prima delle eliminate. Niente da fare per la Mascitto, terza nella seconda semifinale.
INFINITA— In finale la Fontana è di fronte a due coreane, due olandesi, una belga e una cinese. L’azzurra scatta dalla seconda fila, quindi nei giri iniziali è l’ultima del trenino. La cinese Han tenta la fuga, ma il gruppo si ricompone, con Fontana a risalire. Alla campana dell'ultimo giro l'azzurra è seconda, posizione che mantiene sul traguardo. Per l’Italia è la quindicesima medaglia in terra cinese: migliorato di una unità il bottino di Albertville 1992.
Da ilnapolista.it il 16 febbraio 2022.
Prosegue il clima infuocato nella federazione italiana sport del ghiaccio. Teoricamente, è stata una grande giornata con una medaglia d’argento e una di bronzo. Arianna Fontana ha vinto l’argento nei 1.500 metri di short track e subito dopo ha proseguito con le sue accuse. Aveva parlato di pattinatori che l’attaccavano sul ghiaccio, che la facevano cadere. E ai giornalisti ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “I maschi li ho già perdonati, era solo uno che ha continuato ad attaccarmi sul ghiaccio. Tutti fanno errori, le cose io le ho perdonate da tempo, ma non dimentico. Se è uno dei quattro della staffetta che ha vinto il bronzo oggi? Sì”.
“Le lacrime? Ho tante emozioni che adesso posso lasciare andare. Ho dovuto trattenere tante cose, nei prossimi giorni avrò modo di rilasciare tutto quello che ho dentro”.
“Il presidente Gios ha detto “faremo di tutto per avere Arianna a Milano-Cortina, però deve stare sotto le nostre regole”. Io sono dovuta andarmene per poter essere qui e fare quello che ho fatto. Non sono stata nelle loro regole, nel loro sistema perché sapevo che non poteva funzionare per me. Mettere già quel puntino non mette delle buone speranze”.
Il marito, il suo allenatore Anthony Lobello, non ha voluto parlare con i giornalisti. L’agenzia Agi riporta che è forte la tensione tra la Federghiaccio e il ristretto gruppo-Fontana. Stando a fonti internazionali, Anthony Lobello l’estate scorsa e’ stato allontanato dalla pista ghiacciata di Budapest dove era in allenamento con Arianna.
Il bronzo nella staffetta sui 5mila metri è stato vinto da Tommaso Dotti, Andrea Cassinelli, Yuri Confortola e Pietro Sighel. Uno di questi è l’atleta accusato da Arianna Fontana.
Fontana ha poi aggiunto, parlando esclusivamente dei risultati: “È la mia migliore Olimpiade di sempre, è una Olimpiade da incorniciare. Sono qui con un’altra medaglia d’argento. A Sochi avevo preso tre medaglie e pensavo che sarebbe stato difficile fare meglio ma ce l’ho fatta. Dopo Pyeongchang non sapevo cosa sarebbe successo e invece torno a casa con due argenti e un oro, meglio di quattro anni fa. Non potevo chiedere di più”.
Chi è il pattinatore azzurro che avrebbe provato a danneggiare Arianna Fontana? Una dichiarazione dell’atleta italiana più medagliata della storia delle Olimpiadi ha riaperto un caso “denunciato” solo qualche giorno fa. Da nextquotidiano.it il 17 febbraio 2022.
Dopo essersi tolta qualche sassolina dalla scarpa (anzi, dai pattini) Arianna Fontana è tornata a parlare di quell’atleta azzurro che – secondo la sua “denuncia” pubblica – le avrebbe reso la vita sportiva (in allenamento) impossibile, cercando di farla cadere e danneggiandola. La prima arrivò solo qualche giorno fa, pochi istanti dopo aver conquistato la medaglia d’oro olimpica nei 500 metri di short track. E ieri, dopo l’argento sulla lunga distanza (1500 metri) ha rincarato la dose stringendo il cerchio.
Al termine della gara di ieri, dove Arianna Fontana ha conquistato il secondo gradino del podio issandosi a quota 11 medaglie alle Olimpiadi invernali, la pattinatrice italiana ha voluto rintuzzare quella polemica resa pubblica solo qualche giorno prima. E rispondendo a una domanda dei giornalisti, ha esplicitamente dichiarato: “Gli attacchi degli uomini di cui ho parlato? Ho perdonato da tempo, ma non dimentico. Alla fine è solo uno degli uomini che mi ha attaccato sul ghiaccio ad aver continuato. Sì, è uno dei quattro di oggi (ieri, ndr).
Di cosa parla? Pochi istanti prima del suo argento nei 1500 metri, la staffetta maschile azzurra aveva conquistato uno storico bronzo nella disciplina. Gli atleti italiani in gara erano quattro: Tommaso Dotti , Andrea Cassinelli, Yuri Confortola e Pietro Sighel. E proprio uno di loro, dunque, è uno degli uomini accusati dalla campionessa italiana. Ovviamente il nome non è stato fatto da Arianna Fontana, ma l’indicazione è arrivata e il cerchio si è stretto a conclusione di una polemica che dura da giorni. Ma l’origine di questo caso va ricercato nel passato: “La prima stagione dopo Pyeongchang 2018 c’erano atleti maschi che mi prendevano di mira sul ghiaccio, facendomi cadere – aveva dichiarato subito dopo l’oro nei 500 metri a Pechino 2022 -. Provavano ad attaccarmi ogni volta che ne avevano l’opportunità. Non era sicuro per me allenarmi in Italia con la squadra e questo è uno dei motivi per cui me ne sono dovuta andare in Ungheria”.
Arianna Fontana la verità sulle liti: «Ecco chi mi ha fatto cadere e come. Short track, un ambiente tossico». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.
L’atleta più medagliata alle Olimpiadi (11) racconta cos’è successo: «Dotti e Cassinelli fanno traiettorie pericolose davanti a me, e mi dicono che non mi vogliono agli allenamenti. Il giorno del contatto con Dotti arriva: a 50 km/h contro le balaustre. Tanti cambi di tecnici, anche a un mese dai Giochi, è un asilo».
«Hanno detto che non sono una leader, che ho spaccato la Nazionale. Non sono mai stata una da grandi discorsi: faccio parlare i risultati. Essere sul ghiaccio da 16 anni è un modo di essere leader. Se non mi interessasse la squadra, oggi starei zitta».
Arianna Fontana dal 2006 è lo short track italiano. Con i tre podi di Pechino (un oro, due argenti) è diventata l’azzurra più medagliata alle Olimpiadi della nostra storia sportiva (11, una in più della Belmondo). Polemiche, accuse, lacrime, trionfi: a Pechino 2022 non si è fatta mancare nulla. Questa è la sua verità.
«È dal 2010 che vivo male certe situazioni con gli allenatori. Mi stavano trasformando in una fondista: avevo quasi perso le mie doti di sprinter. In avvicinamento a Vancouver, ho imparato a gestirmi da sola. Dopo il Canada i tecnici sono Eric Bedard e Kenan Gouadec, coppia formidabile. Ma dura poco. Da Sochi 2014 in poi, rimane solo Gouadec. Deve gestire 15-20 atleti, troppi: Anthony Lobello, ex pattinatore nel frattempo diventato mio marito, si offre di dargli una mano. Ti faccio il ghiaccio e le lame, propone. Cose pratiche, non di allenamento. Non avrai mai niente a che fare con il team, si sente rispondere. Ci rimaniamo malissimo: Kenan era al nostro matrimonio. Da lì in poi, le cose peggiorano. È spesso in ritardo, a volte non lucidissimo: non è più lui. Scema la fiducia di tutta la squadra. Sanfratello (oggi segretario della Federghiaccio, ndr) sa tutto. Mi rendo conto che devo trovare una soluzione. Alla fine di una lunghissima riflessione, scelgo Anthony come allenatore. Nel maggio 2017 diventa ufficiale. Sul ghiaccio lavoro con Gouadec, fuori con mio marito. Kenan non la prende bene, inizia a fare un ostruzionismo sciocco. Mi metto il paraocchi e tiro dritto verso Pyeongchang 2018: c’è il primo oro individuale da vincere. In Corea, infatti, il lavoro paga. Rientrati in Italia, il Coni ha un’idea: Anthony c.t. delle ragazze. Sei sprecato a lavorare solo con Arianna, gli dice Sanfratello. Ma quando lui chiede di impostare a modo suo il quadriennio olimpico, chiede autonomia, espone la sua visione fatta anche di umanità e sensibilità, l’accordo salta e la Federghiaccio ritira la proposta. Eppure siamo atleti, non macchine».
Festival di allenatori
«Gouadec diventa d.t. ma gestisce la squadra dall’Australia; per una stagione arriva un americano, poi un francese, Ludovic Mathieu. Siamo a Baselga di Pinè, il presidente Gios mi propone di riunirmi al gruppo. Anthony è netto: Mathieu non ha capito nulla di Arianna, le strade restano separate. Quello che succede poco dopo a Courmayeur, gli dà ragione. Mathieu mi chiede di pattinare con i ragazzi: Tommaso Dotti e Andrea Cassinelli si mettono a fare tracce pericolose davanti a me, cambi di direzione, accelerano e decelerano. Roba pericolosa. Parlottano, è palese a tutti: vogliono farmi cadere. Diventano sempre più aggressivi, io mi tengo a distanza, finisco l’allenamento, me ne vado. Alla riunione tecnica del giorno dopo, ammettono: non ci sta bene che ti alleni con noi. Mi aspetto conseguenze, invece la Federazione butta il problema su mio marito: dà fastidio vederlo sul ghiaccio. Morale: Cassinelli smette, ma Dotti continua con i suoi giochetti per tutta la stagione. Un ambiente tremendo. Ogni giorno mi sveglio con l’angoscia e il mal di stomaco, chiedendomi: oggi cosa succederà? Cosa faremo io e Anthony di sbagliato? E il giorno del contatto tra me e Dotti, naturalmente, arriva: vado dritta contro le balaustre a 50 all’ora, la caviglia si gonfia. A Salt Lake City, in Coppa del Mondo, per precauzione rinuncio alla staffetta. Gios mi manda a dire che o partecipo o faccio le valigie. Sempre lui, a Pechino, ha detto che i ragazzi sono gli sparring partner ideali per crescere, che dovrei ringraziarli. Quindi il contatto in piena velocità con un uomo che pesa venti chili più di me sarebbe utile? Ma di cosa stiamo parlando...? In Giappone Dotti ci riprova: accelera, io imposto la traccia in modo da bloccarlo, a fine allenamento le altre azzurre vengono da me a congratularsi».
Cultura sportiva
«A un anno da Pechino, la Federazione cambia di nuovo c.t. Dal Canada arriva Fred Blackburn. Penso: finalmente uno bravo con cui impostare il lavoro. Concordiamo gli allenamenti in funzione della staffetta. Due mesi prima dei Giochi se ne va e torna Gouadec. Tutto assurdo. Il vero problema è che un atleta ha il diritto di allenarsi in un ambiente sereno, il nostro invece è tossico: nel linguaggio, nei pensieri, negli atteggiamenti da bulli di certi colleghi. Tutti hanno paura di esprimersi, ci sono giovani appena entrati in squadra che vogliono già smettere. È importante che l’atleta venga ascoltato, non usato come mezzo per arrivare alle medaglie. C’è un tema di cultura sportiva da cambiare: in Italia è un asilo, manca professionalità. Io a Milano-Cortina 2026 ci vorrei arrivare, chiudere ai Giochi italiani come ho iniziato sarebbe una favola ma altri quattro anni così non li faccio».
Arianna Fontana, Dotti la querela: «Io offeso e umiliato dalle sue dichiarazioni». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
La campionessa dello short track aveva raccontato al Corriere che l’atleta la aveva fatta cadere apposta in allenamento. «Ho ricevuto insulti e minacce da parte di tifosi».
Una polemica infinita che vede un nuovo capitolo. Tommaso Dotti, azzurro dello short track, ha decido di querelare Arianna Fontana, che in un’intervista al Corriere lo aveva accusato, assieme all’altro compagno Andrea Cassinelli, di aver deliberatamente eseguito manovre pericolose durante un allenamento. Manovre che, alla fine, hanno anche portato a uno scontro in pista tra Fontana e Dotti. Una ricostruzione smentita da Dotti che adesso ha deciso di andare in tribunale.
Le accuse di Arianna Fontana
Fontana, l’azzurra più medagliata in assoluto ai Giochi (11, una in più della Belmondo) aveva raccontato di «un ambiente tossico», e che i due atleti le avevano esplicitamente detto di non volerla in allenamento con loro. Questa la ricostruzione di Arianna. «Tommaso Dotti e Andrea Cassinelli si mettono a fare tracce pericolose davanti a me, cambi di direzione, accelerano e decelerano. Roba pericolosa. Parlottano, è palese a tutti: vogliono farmi cadere. Diventano sempre più aggressivi, io mi tengo a distanza, finisco l’allenamento, me ne vado. Alla riunione tecnica del giorno dopo, ammettono: non ci sta bene che ti alleni con noi. Mi aspetto conseguenze, invece la Federazione butta il problema su mio marito: dà fastidio vederlo sul ghiaccio. Morale: Cassinelli smette, ma Dotti continua con i suoi giochetti per tutta la stagione. Un ambiente tremendo».
La replica di Tommaso Dotti
Il 28enne atleta milanese nega tutto, e in un documento inquadra così la vicenda: «Ho atteso e riflettuto molto prima di decidermi a predisporre e divulgare queste mie dichiarazioni, in quanto come atleta e uomo di sport non ho voluto alimentare una polemica che ritengo sterile. Reputavo infatti che con il mio silenzio si potesse evitare di dare ulteriore corso ed enfasi ad una tristissima vicenda che, una pur stimata e atleticamente indiscutibile collega, ha ritenuto di instaurare».
Poi Dotti entra nel merito, sostenendo che le dichiarazioni di Fontana «sono totalmente inesistenti e privi di alcuna reale portata» e «non mi hanno soltanto offeso e umiliato come professionista e come uomo, ledendo l’immagine che nel corso di anni di sacrificio e duro lavoro sono riuscito a costruire, ma hanno comportato in danno mio e dei miei familiari una serie di insulti, minacce, improperi da parte di tifosi e spettatori che onestamente non ritengo di dover meritare».
Il documento nel quale Dotti cita anche la presa di posizione della Federazione sport del ghiaccio («Il fatto stesso che la Federazione, con apposito comunicato, abbia preso distanza da quanto consegnato da Fontana alla stampa, ritengo deponga ampiamente a mio favore e non possa che porre in risalto la totale assenza di veridicità in quanto dichiarato dalla collega»), si conclude proprio con l’annuncio della querela: «Mio malgrado sono costretto a incaricare i miei legali per tutelare presso tutte le sedi competenti la mia immagine di persona, di atleta e, ritengo, dell’intero sport»
Liti, veleni e parenti. Dietro le medaglie c’è un’Italia spaccata. Alessandra Retico su La Repubblica l'8 Febbraio 2022.
La minaccia di Fontana: “O si cambia o nel 2026 non gareggio”. La fuga di Brignone. I dubbi su Goggia. E l’accusa di Marsaglia: “Pressioni per fare posto a Casse”. Le Olimpiadi dei ribelli. Nello sci alpino volano stracci. E sul ghiaccio sbrinano accuse e rabbia. Atleti che non vincono e protestano contro le proprie federazioni. Che vincono e protestano lo stesso. Chissà che non c'entri anche questa reclusione in un anello sanitario così asfissiante che la tentazione di aprire il cancello è più breve dell'atto di farlo.
Mario Nicoliello per gazzetta.it il 7 febbraio 2022.
Il Filo di Arianna Fontana è ancora d’oro. La valtellinese porta in dote alla truppa tricolore il primo metallo pesante ai Giochi di Pechino, quinta medaglia complessiva. La Fontana si riveste del colore più prezioso nei 500 metri dello short track al termine di una finale mozzafiato.
Al primo via, poi abortito, l’azzurra era caduta nella curva iniziale dopo un contatto con Suzanne Schulting. Al secondo sparo, l’olandese parte forte e va al comando, ma poco prima della campana la Fontana effettua il sorpasso decisivo, tuffandosi sul traguardo e urlando festante. Alle spalle dell’azzurra chiudono la Schulting e la canadese Boutin.
Con questa medaglia la Fontana eguaglia Stefania Belmondo in testa alla classifica dei plurimedagliati italiani ai Giochi invernali con 10 podi. Ovviamente il bottino potrà essere incrementato strada facendo sempre qui in Cina, visto che ancora il percorso olimpico di Arianna non è ancora concluso.
Da ilnapolista.it l'8 febbraio 2022.
Dopo aver vinto l’oro olimpico a Pechino nello short-track (il primo oro della spedizione olimpica italiana, il secondo della sua carriera: per lei dieci medaglie olimpiche in tutto), l’atleta azzurra di Sondrio ha tenuto una conferenza stampa al vetriolo, in cui ha mosso accuse durissime nei confronti della federazione italiana.
«Tutto quello che posso dire è che io e il mio coach (che è anche suo marito, ndr) ne abbiamo passate tante. Molte situazioni difficili, c’erano che persone che non ci volevano qui. Non ci hanno aiutato affatto. Anzi hanno provato a non farci venire qui, trovando un modo per farci del male ma noi siamo stati in grado di superare tutto questo.
Dopo le Olimpiadi di Pyongyang, la prima stagione ci sono stati atleti maschi che mi prendevano di mira sul ghiaccio facendomi cadere. Provavano ad attaccarmi ogni volta che ne avevano l’occasione. Per la mia incolumità non era più sicuro allenarmi con il team in Italia, è il motivo per cui siamo andati in Ungheria, la Federazione non mi ha aiutato molto sulla decisione di aver mio marito Anthony Lobello come coach. Lui è stato molto importante per l’oro a Pyongyang, allora anche in federazione sembravano molto felici, non so perché abbiano cambiato idea. Andarmene è stata la decisione migliore e infatti oggi ho vinto un altro oro.
Chi è Arianna Fontana: i tatuaggi, la dieta, i tacchi alti, il marito allenatore: i segreti dell’oro nello short track alle Olimpiadi di Pechino. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2022.
Arianna Fontana è diventata l’atleta che ha vinto più medaglie alle Olimpiadi, 10, assieme a Stefania Belmondo. Ha rinviato la maternità, ama fare shopping e pescare con il marito americano
Arianna sempre la più forte
A due giri dal termine era dietro Suzanne Schulting, poi lo scatto finale, proprio delle grandi campionesse. Dopo la medaglia d’argento nella staffetta mista, l’oro nei 500 short track è ancora suo, proprio come accaduto ai Giochi di Pyeongchang nel 2018. Arianna Fontana entra di diritto fra le leggende dello sport italiano con ben dieci medaglie olimpiche. Anche a Pechino l’azzurra nata a Sondrio 31 anni fa conquista il piazzamento più importante, il primo fino a questo momento della spedizione italiana ai Giochi appena iniziati. Costanza e determinazione premiano chi a questi livelli concorre da Torino 2006 (quando conquistò il suo primo podio a cinque cerchi), perché anche alla sua quinta Olimpiade Fontana si è riconfermata la più forte, sfiorando ancora una volta sulle lame la velocità di 50km/h. Dal marito coach a una dieta ad hoc, fino alla passione per i tatuaggi e le scarpe. La vita conosciuta e non di una regina dei ghiacci dalla carriera apparentemente intramontabile.
Come Stefania Belmondo
In primis il record. L’ex campionessa di sci di fondo Stefania Belmondo sembrava irraggiungibile con le sue dieci medaglie olimpiche, invece Arianna Fontana al record sembra aver sempre creduto, continuando a vincere da quando aveva 15 anni fino ad oggi, quando di anni ne ha 31. Per la pattinatrice ora si contano nel palmares personale due ori, cinque argenti e cinque bronzi, la stessa identica composizione di quello della fondista. Un accostamento che sarà certamente per Fontana uno stimolo in più in occasione delle prossime competizioni.
Allenatore-marito
Lo ha baciato subito dopo il trionfo bis nello short track e l’oro riconfermato. L’esempio migliore per dare il massimo la campionessa lo ha in casa, perché il marito 37enne Anthony Lobello è un ex campione e pattinatore di short track italo-americano, quindi uno che della disciplina se ne intende. I due si sono conosciuti alle Olimpiadi di Torino e sono sempre rimasti l’uno accanto all’altra, prima del matrimonio del 31 maggio 2014 e dopo. Un legame pubblico e privato perché, da quando ha lasciato l’agonismo, Anthony ha sempre seguito come allenatore la sua Arianna, seguendo ormai da anni ogni fase degli allenamenti e della preparazione della moglie. Anche a costo di qualche polemica con la Federazione.
Passione tatuaggi
Per chiari motivi non è facile vederli quando gareggia, ma Arianna Fontana ha avuto da sempre la passione per i tatuaggi. Su tutti la manta gigante che le copre gran parte della schiena, simbolo che richiama l’acqua, la leggerezza e la libertà, proprio come vuole sentirsi sulle lame. Ne ha altri, sia sul braccio sinistro, sia sul destro, elementi come le onde o il serpente, temi che richiamano la natura selvaggia. Metaforicamente, tanto la sua indole combattiva in pista, quanto il carattere fiero e indipendente nella vita.
Gli hobby: lo shopping, i tacchi alti, la pesca
Inutile dire che la sua calzatura preferita siano proprio i pattini, da quando piccolissima a quattro anni amava andare su quelli a rotelle. Tuttavia ama i tacchi e vestirsi in modo glamour, per quanto sia davvero difficile trovarla, anche sui suoi canali social, senza l’amata divisa o le adoratissime lame. Nel tempo libero si diverte anche con lo shopping, attività nella quale prevale su ogni altro desiderio proprio quello di collezionare scarpe. «Spesso poi non le metto, ma mi piace l’idea di averle». Ha poi confessato di dedicare del tempo alla pesca, un hobby praticato in compagnia del marito negli Stati Uniti, che le permette di meditare, rilassarsi e anche di ritrovare la concentrazione.
La dieta vincente
Leggera e ben calibrata. Questa la dieta di chi vuole essere la più veloce sui pattini. Arianna Fontana mangia secondo criteri che le permettano di avere sempre il massimo delle energie, senza appesantirsi. Proteine e giusto apporto di carboidrati, ma anche tanta frutta e verdura a chilometro zero. «Ogni tanto posso però concedermi qualche sfizio», ha confessato. «Non resisto a cioccolato e pizza». L’alimentazione ferrea si combina chiaramente con un programma d’allenamento dettagliato e costante, con la campionessa che si dedica a durissime sessioni in palestra e lunghissime pedalate per mantenere sempre tonica la muscolatura, anche quando non pattina.
Portabandiera a Pyeongchang
Anche prima del successo di Pechino, Arianna Fontana era comunque una delle campionesse più in vista tra le atlete e gli atleti azzurri degli sport invernali. All’epoca aveva conquistato «solo» cinque medaglie in tre edizioni dei Giochi, ma di fatto si trattava di un palmares che le permetteva di essere già una leggenda. Una bandiera tricolore meritatissima portata con orgoglio dalla punta di diamante dello short track azzurro. Dopo quattro anni e una pandemia non sembra essere cambiato nulla e Arianna è sempre lì, sul gradino più alto del podio.
Maternità rimandata
Per Tania Cagnotto, Francesca Dallapè, Valentina Vezzali ed Elisa Di Francisca, fino a Martina Valcepina (collega della neo-iridata nello short track), la maternità è stata uno stimolo in più per l’attività agonistica. Arianna Fontana ha invece preso una decisione diversa, concentrandosi al momento unicamente sulla pista di ghiaccio. «Non credo di poter essere sia mamma che atleta», queste le parole di chi deve dare sempre il 100% e vive l’agonismo come una missione vera e propria. Per adesso c’è solo l’idea, perché di quattro anni in quattro anni Arianna Fontana ha finora continuato a raccogliere senza soluzioni di continuità i frutti del proprio impegno di pattinatrice. Fino a quando proseguire, prima di dedicarsi ad altro, dipenderà solo da lei.
Ha conquistato la prima medaglia quando non avevano ancora 16 anni. Chi è Arianna Fontana, la leggenda vivente dello short track: oro alle Olimpiadi di Pechino e una carriera da record. Giovanni Pisano su Il Riformista il 7 Febbraio 2022.
Arianna Fontana ha regalato il primo oro all’Italia alle Olimpiadi Invernali di Pechino 2022. L’atleta di Sondrio, 31 anni, ha trionfato nei 500 metri dello short track, raggiungendo 10 medaglie nelle competizioni olimpiche (la seconda d’oro dopo l’edizione del 2018 a Pyeongchang, in Corea del Sud), eguagliando la fondista Stefania Belmondo. Il primato assoluto appartiene allo schermidore Edoardo Mangiarotti a quota 13.
Ma Arianna continua a macinare record su record confermandosi una vera e propria leggenda vivente dello short track. Ha conquistato infatti medaglie in cinque edizioni diverse delle Olimpiadi: da Torino 2006 a Pechino 2022. Nelle Olimpiadi invernali disputate in Italia nell’anno in cui la Nazionale di Lippi conquistò il Mondiale, Fontana non aveva ancora compiuto 16 anni quando ottenne un bronzo in staffetta (con Marta Capurso, Mara Zini, Katia Zini e Cecilia Maffei). Era la più giovane medagliata olimpica della storia dello sport italiano. Ora, dopo aver eguagliato la Belmondo e superato una icona come Valentina Vezzali, ha messo nel mirino il recordman olimpico italiano Mangiarotti.
Per la Fontana è la seconda medaglia di questa edizione: nei giorni scorsi, infatti, ha vinto l’argento nella staffetta mista dello short track. Le altre le ha conquistate a Vancouver 2010 (bronzo nei 500 metri). Quattro anni dopo a Sochi arrivano un argento nei 500 metri, un bronzo nei 1500 metri e un altro bronzo in staffetta insieme a Lucia Peretti, Martina Valcepina ed Elena Viviani.
In Corea del Sud nel 2018 la consacrazione dopo aver vissuto un periodo difficile con la federazione italiana. Fontana è la portabandiera azzurra e trionfa nella finale dei 500 metri short track vincendo per la prima volta l’oro. Poi conquista un argento nella staffetta e un bronzo nella finale dei 1000 metri.
“Arianna sei nella storia! Mi hai commosso. Che sofferenza! Ti meriti 10 e lode” commenta il presidente del Coni, Giovanni Malagò. “Ho vissuto questa finale totalmente in apnea, nella mia stanza, non potendo ancora essere lì, al tuo fianco, a palpitare e gioire con te. Con questa decima medaglia hai raggiunto Stefania Belmondo al top delle atlete azzurre più medagliate nella storia dello sport italiano. E sai bene che non è ancora finita”.
Nel corso della sua carriera si è laureata Campionessa europea per 7 volte, in occasione delle manifestazioni svolte a Ventspils nel 2008, a Torino nel 2009, a Heerenveen nel 2011, a Mladá Boleslav nel 2012, a Malmö nel 2013, a Torino nel 2017 e a Dresda nel 2018, conquistando la medaglia d’argento a Krynica-Zdrój nel 2006 e a Dresda nel 2010, e chiudendo in terza posizione a Dresda nel 2014.
Ai campionati mondiali di Sheffield nel 2011 e ai campionati mondiali di Shanghai nel 2012 ha vinto la medaglia di bronzo nella classifica generale (overall). Nel 2015, a Mosca, disputa il suo miglior mondiale, conquistando una medaglia in tutte le discipline (oro sui 1500, bronzo sui 500 e i 1000 e in staffetta), che valgono il secondo posto e la medaglia d’argento finale.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
Mario Nicoliello per gazzetta.it il 19 febbraio 2022.
Si gode la seconda medaglia dei Giochi e intanto si prepara a sventolare il tricolore nella cerimonia di chiusura. Francesca Lollobrigida sprizza gioia dappertutto, mentre racconta la sua finale nella zona interviste. "È stata una medaglia fantastica, voluta e cercata. Tutti abbiamo lavorato alla grande. Io, il mio staff, i miei compagni e la Federazione. È una medaglia individuale, ma è frutto di un lavoro di squadra”.
Quattro anni fa al termine della Mass start di Pyeongchang il settimo posto l’aveva fatta piangere. Adesso il bronzo di Pechino la fa sorridere: “Da quella gara fallita è partito il mio cambiamento. Dopo quella delusione volevo smettere e invece mi sono posto obiettivi che ho raggiunto.
Volevo una medaglia nelle gare classiche e una nella Mass start. Entrambe ottenute”. Programmi rispettati quindi, e come corollario ecco l’imprevisto ben accetto: “Sarei dovuta ripartire domani, invece mi fermerò un giorno in più per essere alfiere alla chiusura. Mi riconosco in pieno nei valori del tricolore, non porterò la bandiera individualmente, ma per il mio sport”.
Prossimo obiettivo: organizzare il viaggio di nozze. “Con mio marito andrò alle Maldive, ma prima ci sono ancora altre settimane di fuoco con i Campionati italiani a Baselga, i Mondiali all around in Norvegia e le finali di Coppa del mondo in Olanda. Ci tengo a chiudere bene la stagione”.
Poi tornata dalla luna di miele si potrà programmare il quadriennio che porta a Milano-Cortina: “Quattro anni sono lunghi, perché non sono più giovincella. Il periodo va impostato bene, per dosare le forze. Ci siederemo a un tavolo con i tecnici e la Federazione e decideremo il percorso migliore da seguire”. Francesca sogna che in Italia arrivi finalmente una pista coperta dove potersi allenare (“Ci consentirebbe di aumentare la base e di essere nelle stesse condizioni delle nostre rivali”) ed esprime un auspicio anche su Arianna Fontana: “Spero possa esserci anche lei a Milano-Cortina 2026”.
L'argento del pattinaggio sul ghiaccio. Francesca Lollobrigida, chi è la pattinatrice prima medaglia dell’Italia alle Olimpiadi di Pechino. Redazione su Il Riformista il 5 Febbraio 2022.
Ora è lei la “Lollo”. Francesca Lollobrigida conquista la prima medaglia per la delegazione italiana alle Olimpiadi invernali di Pechino 2020. Per lei, pronipote di Gina Lollobrigida (il nonno paterno era imparentato con l’attrice), è arrivata la medaglia d’argento nel pattinaggio su ghiaccio.
Un secondo posto nei 3000 metri dietro l’inarrivabile olandese Irene Schouten, che ha chiuso i 3 chilometri con un 3’56”93 che le vale il nuovo record olimpico. Francesca è arrivata alla sue spalle staccata di 1”13, facendo fermare il tempo a 3’58”06. Ultima a chiudere il podio la canadese Isabelle Weidemann.
Un argento dal sapore storico: la medaglia conquistata da Francesca è la prima nella pista lunga per l’Italia nella rassegna a cinque cerchi. Nessuno prima della pattinatrice di Frascati era riuscita in una tale impresa. Una gara che Lollobrigida ha corso all’attacco, rimanendo in testa fino al secondo chilometro quando l’olandese Schouten ha ‘messo il turbo’ superando e staccando la 30enne azzurra.
“Splendida, combattiva ed emozionante. Che orgoglio Lollo! – twitta la Federazione Italiana Sport del Ghiaccio -. L’azzurra fa un capolavoro sul ghiaccio di Pechino e regala all’Italia la prima medaglia di questa rassegna”. “Fantastica Lollo, fantasticaaaaa!”, scrive invece con caratteri maiuscoli l’Italia team.
FRANCESCA LOLLOBRIGIDA È ARGENTO OLIMPICO sui 3000 metri!!! L’azzurra fa un capolavoro sul ghiaccio di Pechino e regala all’Italia la prima medaglia di questa rassegna Splendida, combattiva ed emozionante. Che orgoglio Lollo!
Da Francesca alla vigilia ci si aspettava un risultato di livello, ma il podio è probabilmente una sorpresa. Fino al 2019 Lollobrigida, che ha 30 anni e fa parte del gruppo sportivo dell’Aeronautica Militare, ha corso anche sui pattini a rotelle.
Da allora è passata definitivamente alla pista lunga del pattinaggio su ghiaccio ed è la sola atleta italiana nel pattinaggio su pista lunga. Campionessa europea nei 1500 metri mass start, alle Olimpiadi invernali di Sochi (Russia) era arrivata 23esima nei 3.000 metri, mentre a Pyeongchang (Corea del Sud) si era piazzata tredicesima nei 3.000, decima nei 1.500 e settima nella mass start.
Mario Nicoliello per gazzetta.it il 5 Febbraio 2022.
La prima freccia tricolore fa subito centro. Francesca Lollobrigida si riveste d’argento nei 3000, confermando le grandi attese della vigilia. Era arrivata qui col secondo crono di iscrizione e al termine dei sette giri e mezzo dell’anello pechinese si è inchinata solo all’olandese Irene Schouten, che l’ha battuta di 1”13.
Quello conquistato dalla romana è un argento dal sapore storico: la Lollobrigida è infatti la prima azzurra della pista lunga a salire sul podio a cinque cerchi. Non c’era riuscita mai nessuna italiana prima di lei, quindi il valore del suo risultato è immenso. “Non voglio riflettere sulla storia, preferisco pensare a me stessa. Volevo questa medaglia e me la sono guadagnata. Ad essere sincera avevo sognato il bronzo, quindi sono riuscita anche a fare meglio di quanto avessi potuto immaginare".
La pattinatrice laziale è stata in testa fino al secondo chilometro, quando la rivale olandese ha messo la freccia e l’ha staccata. “Ho gareggiato spalla a spalla con la Schouten che ha una parte iniziale più debole della mia, ma in compenso ha uno spunto finale migliore, perciò l’unica tattica possibile era quella che ho fatta. Partire forte per metterle pressione e stressarla psicologicamente. È stato un tira e molla a ogni incrocio, ma quando negli ultimi due giri è passata avanti ho capito che non l’avrei più ripresa, anche considerando che lei avrebbe concluso sulla corsia interna”.
COMPLEANNO E ALTRE GARE— L’azzurra, pronipote della famosa attrice Gina (“Non l’ho mai né vista né sentita perché, devo essere sincera, non ho tempo di sentire nemmeno i miei parenti più stretti. Più famosa di lei? Non mi permetterei mai”, ha detto), è apparsa emozionatissima sul podio mentre riceveva la mascotte olimpica: “Stringere nelle mani il pupazzo olimpico era l’obiettivo alla partenza dall’Italia”. Per la medaglia dovrà aspettare invece domani sera: “Spero che questo mio risultato possa ispirare tante ragazze a provare la nostra disciplina. Non ci dimentichiamo che tra quattro anni abbiamo i Giochi in casa”. Intanto Francesca ha anche altro da festeggiare: lunedì compirà infatti 31 anni: “Non potrò concedermi cose speciali perché quel giorno avrò i 1500 e poi il 10 farò i 5000. A quel punto staccherò un poco, visto che la mass start sarà solo il 19”. La prima è andata, ma i suoi Giochi sono lontani dall’essere conclusi. La fata Francesca ha ancora altri dardi nella faretra.
Pechino 2022, sapete di chi è nipote Francesca Lollobrigida? Una scoperta inaspettata. Libero Quotidiano il 05 febbraio 2022.
Francesca Lollobrigida ha vinto l’argento nei 3000, confermando le grandi attese della vigilia. Al termine dei sette giri e mezzo dell’anello pechinese si è inchinata solo all’olandese Irene Schouten, che l’ha battuta di 1”13. La Lollobrigida è infatti la prima azzurra della pista lunga a salire sul podio. “Non voglio riflettere sulla storia, preferisco pensare a me stessa. Volevo questa medaglia e me la sono guadagnata. Ad essere sincera avevo sognato il bronzo, quindi sono riuscita anche a fare meglio di quanto avessi potuto immaginare".
La pattinatrice è stata in testa fino al secondo chilometro, quando la rivale olandese ha messo la freccia e l’ha staccata. “Ho gareggiato spalla a spalla con la Schouten che ha una parte iniziale più debole della mia, ma in compenso ha uno spunto finale migliore, perciò l’unica tattica possibile era quella che ho fatta. Partire forte per metterle pressione e stressarla psicologicamente. È stato un tira e molla a ogni incrocio, ma quando negli ultimi due giri è passata avanti ho capito che non l’avrei più ripresa, anche considerando che lei avrebbe concluso sulla corsia interna”, ha confessato alla Gazzetta dello Sport.
L’azzurra è pronipote della famosa attrice Gina (“Non l’ho mai né vista né sentita perché, devo essere sincera, non ho tempo di sentire nemmeno i miei parenti più stretti. Più famosa di lei? Non mi permetterei mai”, ha detto), è apparsa emozionata sul podio mentre riceveva la mascotte olimpica: “Stringere nelle mani il pupazzo olimpico era l’obiettivo alla partenza dall’Italia”. “Spero che questo mio risultato possa ispirare tante ragazze a provare la nostra disciplina. Non ci dimentichiamo che tra quattro anni abbiamo i Giochi in casa”. Lunedì. 7 febbraio, compirà infatti 31 anni: “Non potrò concedermi cose speciali perché quel giorno avrò i 1500 e poi il 10 farò i 5000. A quel punto staccherò un poco, visto che la mass start sarà solo il 19”.
Da gazzetta.it il 6 febbraio 2022.
L'azzurro Dominik Fischnaller è medaglia di bronzo nello slittino (singolo maschile) alle Olimpiadi invernali di Pechino. Si tratta della terza medaglia per l'Italia dall'inizio dei Giochi invernali. La medaglia d'oro è andata al tedesco Johannes Ludwig, mentre ad aggiudicarsi l'argento è stato l'austriaco Wolfgang Kindl. Chiude undicesimo l'altro azzurro in gara, Leon Felderer.
"GIORNI DURI"— "Questa medaglia ha tanto valore per me. Gli ultimi quattro anni sono stati difficili. Nel 2018 è mancato così poco al podio. Ora sono contento di aver conquistato la medaglia2. Così Dominik Fischnaller dopo aver conquistato la medaglia di bronzo ai Giochi di Pechino. "La positività al Covid di mio cugino Kevin? Sono stati giorni duri. Ho fatto la medaglia anche per mio cugino. Spero esca presto dal Covid. Il tecnico Zoegeller è molto importante per me e per tutta la squadra, è stato fatto un buon lavoro durante l'estate, mi hanno costruito una nuova slitta. La dedica va alla mia famiglia ma anche a me stesso. Sono stati quattro anni duri e ci ho creduto. Da terra mi sono rialzato", ha concluso.
LA GIOIA DI MALAG0'— “E' una medaglia alla quale tenevamo tantissimo. Ci avevamo puntato già quattro anni fa a PyeongChang. Purtroppo in Corea Dominik fu beffato per soli due millesimi di secondo. Oggi si è preso la sua grande rivincita. Sono felice per lui, per Armin, per la Federazione". Sono le parole di elogio per l'azzurro Fischnaller del presidente del Coni, Giovanni Malagò. "Hanno lavorato seriamente e duramente in questi anni e oggi possiamo dire che l'Italia ha trovato l'erede di Zoeggeler, soprattutto in prospettiva Milano Cortina 2026. Considerando che in Italia non abbiamo una pista, questa medaglia si può definire quasi un miracolo. Permettetemi infine di rivolgere un saluto allo sfortunato Kevin al quale dò appuntamento tra quattro anni a Cortina", conclude il n.1 del Coni.
Da gazzetta.it il 7 febbraio 2022.
Sempre gigante: dopo il bronzo di 4 anni fa a PyeongChang Federica Brignone è ancora sul podio olimpico. Con una gara da applausi Fede si è migliorata dopo il terzo posto della prima manche ed è d'argento, battuta solo da Sara Hector, la svedese che quest'anno sta dominando la specialità. Sul podio sale anche Lara Gut, che con il miglior tempo della seconda manche ha rimontato dall'ottavo posto. A 31 anni e 208 giorni Federica Brignone è diventata la più vecchia della storia a vincere una medaglia nel gigante olimpico.
"Se ci penso è incredibile perché sono venuta qui senza essere salita in questa stagione sul podio in slalom gigante": sono le parole di una raggiante federica Brignone dopo l'argento in gigante. "Oggi ero davvero molto concentrata, ho aspettato come non mai la seconda manche e mentre aspettavo mi sono detta: oh mio Dio, è così lungo. Sapevo che dovevo solo sciare e pensare alla mia sciata, quando sono arrivata al cancelletto dentro di me ho detto: alla fine è solo una gara di sci".
Alla domanda, cosa significa questa seconda medaglia olimpica, la sciatrice azzurra ha risposto, "molto, quattro anni fa ero terza e avevo sempre detto che se fossi tornata con una medaglia sarebbe stato un grande sogno: conquistarla alla prima gara è fantastico".
La gara è rimasta ferma a lungo per l'infortunio della statunitense Nina O'Brien, sesta dopo la prima manche e caduta malamente a due porte dal traguardo.
Federica Brignone è argento nel gigante alle Olimpiadi di Pechino. Daniele Sparisci, inviato a Pechino, su Il Corriere della Sera il 07 febbraio 2022.
A Yanqing la valdostana è seconda, l’oro alla svedese Sara Hector.
Federica Brignone si prende l’argento nel gigante alle Olimpiadi di Pechino, è la quarta medaglia in quest’edizione dei Giochi per l’Italia. E ha un valore altissimo perché Fede migliora il terzo posto di quattro anni fa a Pyeongchang, infilare due podi olimpici di fila è un’impresa che riesce a pochi. Una magia sulla neve artificiale di Yanqing, che va ben oltre le più ottimistiche previsioni.
Conferma la serenità ritrovata della valdostana dopo un 2021 pieno di tensioni e di errori, e ricorda che pur avendo scoperto una nuova vocazione per la velocità - è leader della specialità in Coppa del Mondo- sa ancora sciare alla grande anche fra le porte larghe. Eccome. Si è arresa soltanto alla regina della specialità, la svedese Sara Hector. Che ha dovuto volare evitare la beffa da parte dell’azzurra, il vantaggio che aveva dopo la prima discesa si è ridotto a 28 centesimi. Terza è la svizzera Lara Gut-Behrami, una bella rimonta la sua.
LE MEDAGLIE AZZURRE
N. 1: l’argento di Lollobrigida nel pattinaggio di velocità
N. 2: l’argento della staffetta mista dello short track
N. 3: il bronzo di Fischnaller nello slittino
N. 4: l'argento di Brignone nel Gigante femminile
Federica ha dovuto aspettare a lungo prima di disputare la seconda manche, più di quattro ore (in mezzo era stata piazzata la discesa maschile, recupero di lunedì) anche per la brutta caduta dell’americana Nina O Brien che si è procurato un infortunio serio al ginocchio. È la seconda è stata ancora meglio della prima, un concentrato di tecnica e di freddezza. Non per caso è la sciatrice più vincente di sempre fra le italiane con 19 centri in Coppa. Ha lavorato sulla concentrazione mentale, sull’equilibrio per sbloccare quelle energie che non riusciva a liberare : «Perdevo tempo in cose inutili» ha raccontato. E adesso, a 31 anni, è capace di esprimersi al meglio, ha domato una neve infida. Aveva buone sensazioni dopo le prime sciate e le ha confermate.
Esulta il presidente del Coni Giovanni Malagò: « Una Federica strabiliante, eccezionale, una medaglia di grande valore, al di là del colore. Sapevamo che questa era una delle sue carte da giocarsi in questi Giochi e lei si è confermata al top. Sapevamo che lei voleva fortemente una medaglia a queste Olimpiadi e per ora ha centrato la prima. Le sono grato a livello personale e lo sport italiano le è riconoscente. Avanti così Federica».
È stata una gara piena di sorprese, alcune anche amare per l’Italia. Marta Bassino è uscita dopo tre porte, un grave errore: «Ho fatto due porte e alla terza sono scivolata, non son praticamente nemmeno partita. Sono molto dispiaciuta, dovrò far passare un attimo questo momento per ritornare a guardare avanti a partire da domani». È successo anche alla migliore di tutte, Mikaela Shiffrin ha saltato una porta, uno sbaglio rarissimo per una come lei: «Non mi era mai capitato» ha detto con l’umore a terra, nemmeno il fidanzato, il norvegese Kilde, ha brillato nella discesa vinta da Feuz.
Sofia Goggia. Flavio Vanetti per il “Corriere della Sera” il 14 novembre 2022.
Sofia Goggia, campionessa dello sci, olimpionica nel 2018: domani, 15 novembre, compie 30 anni.
«È un punto di svolta. Ci penso. L'anno scorso, per i 29, sono andata in crisi: il compleanno è stato triste. Non mi spaventano tanto l'età, ma è chiaro che le lancette dell'orologio si muovono e che i giri della Terra intorno al Sole non mi lasciano indifferente».
Che cosa si regala per un compleanno particolare?
«Non sono una che pensa a certe cose. Mi sento come un pesce fuor d'acqua, non ho una risposta: è una domanda che non mi sono posta e nel passato non mi sono fatta regali per scadenze o obiettivi raggiunti».
Nemmeno la famiglia ha mai provveduto?
«Mica tanto. Sotto questo aspetto siamo un po' frugali e io non ho ricevuto molti cadeaux».
Immaginiamo che a Copper Mountain, dove siete in allenamento, ci sarà una festa per il Sofia' s birthday.
«Anche l'anno scorso in questo periodo eravamo in Colorado: le compagne mi prepararono un tiramisù. Questa volta arriverà Lindsey Vonn, andremo a cena. Ci siamo sentite, le ho ricordato del compleanno e mi ha detto: "Let' s go out together". Ecco, mi regalo una serata con lei».
Ci descrive com' era la bambina Sofia Goggia?
«È sempre stata attiva e con una testa da competizione. Ero tenace e anche un po' ansiogena: volevo dimostrare di essere brava ed era un modo per essere accettata. Sono sempre stata più "vecchia": tra i 10 e i 14 anni ho vissuto con una maturità diversa, probabilmente a causa delle scelte fatte per inseguire lo sport. Nella mia vita non ho mai conosciuto la leggerezza e un po' l'ho sofferto. Anzi, meglio: mi è mancata la spensieratezza e mi sono dovuta difendere dall'ansia».
Ansia perché notava difetti in sé stessa?
«No, perché sono fatta così: sono sempre alla ricerca di qualcosa, mi è difficile raggiungere la pace interiore».
Com' è stato il passaggio all'adolescenza?
«In verità non me lo ricordo. Ma anche da adolescente sono stata molto seria, forse perfino di più di oggi».
Com' era messa con amicizie e socialità?
«Non ho trascorsi super-felici. Per conciliare le mie scelte ho inevitabilmente messo da parte le relazioni che si instaurano da giovani. L'esperienza del liceo, ad esempio, quasi non la ricordo: non c'ero mai, ho dovuto iscrivermi in un istituto privato, ero presa di mira da parte di chi frequentava regolarmente».
Intende bullizzata?
«Non dico questo, per carità. Ma non ero ben vista: ero in giro per le gare, come tipo ero "scialla". Uscivo raramente al sabato sera, non sono mai andata a ballare: un po' per scelta, perché alla domenica dovevo essere sulle piste, e un po' per indole».
Ma Sofia a scuola andava bene?
«Sì, lo studio mi è sempre piaciuto. E non mi sono mai sentita dare della secchiona».
Da bambina, così ha raccontato, non giocava con le bambole.
«Non le ho mai avute. I bambolotti mi fanno anzi paura: quando entro nelle pensioni austriache, dove abbondano, crepo di terrore. È la mia fobia e ignoro da che cosa dipenda».
Se non giocava con le bambole, con che cosa si divertiva?
«Con i Lego e con le trottole. E andavo molto in bicicletta».
Le donne spesso vanno in caccia dei loro difetti: lo fa anche lei?
«Vivo nei difetti. Ma con il lanternino cerco di identificare i miei pregi. Accettarsi, per una donna, è sempre complicato».
Quanti i flirt giovanili?
«Nella mia vita non ho mai avuto tante relazioni. L'amore è sempre stato un capitolo sporadico».
Da bambina pensava ad altro per il futuro o lo sci è sempre stato dominante nei progetti?
«Vedevo solo quello: a 9 anni, in un tema, ho scritto che di mestiere volevo fare la campionessa di sci. Ho avuto la forza e il coraggio di inseguire l'obiettivo nonostante gli infortuni e le difficoltà del percorso, perché provengo da una famiglia che ha un buon imprinting culturale ma non ha una matrice sportiva».
Ha mai immaginato di diventare professoressa come sua madre?
«Per carità! Nell'ultimo anno da privatista, mamma mi dava lezioni di italiano: su Leopardi mi ha fatto un c... che nemmeno immaginate. Le ho dovuto dire che mi aveva rotto le scatole».
Ci traccia il bilancio dei primi 30 anni?
«Se mi guardo indietro, dico che la Sofia dei 20 anni non avrebbe pensato di ottenere così tanto: ai Giochi ho un oro e un argento, ho vinto gare, medaglie mondiali, tre Coppe del Mondo di discesa; e in questo Paese sono qualcuno. Non immaginavo questo, ma questo è quello che mi ha motivato nel tempo».
Si vede mamma, un giorno?
«Ora che sbarco nei 30 mi guardo indietro. Ma il prossimo decennio sarà densissimo di cose e una donna, tra i 30 e i 40 anni, se pensa alla maternità deve programmarla. Non so che cosa il destino mi riserverà dopo il ritiro: mi piacerebbe laurearmi e vivere una vita appagante e ambiziosa, ma senza lo sci. E un figlio potrebbe completare il mio essere donna».
Post scriptum. Un quarto d'ora dopo la telefonata, arriva un sms da Sofia. Ha scoperto che ci sarebbe un regalo che gradirebbe farsi, per il trentesimo compleanno: «Vorrei provare a essere la persona che ancora non sono, garante dei miei valori. Vorrei regalarmi quell'enorme dose di coraggio che serve per essere integri fino in fondo. Forse riuscirei a essere la donna di cui avevo bisogno quando ero piccola».
(ANSA il 17 dicembre 2022) – Una meravigliosa Sofia Goggia, con la mano sinistra rotta ed operata a Milano solo nel tardo pomeriggio di ieri, ha vinto la seconda discesa di coppa del mondo di St. Moritz in 1.28.85. Per lei è il successo n. 20 in coppa del mondo, azzurra più vincente di sempre insieme a Federica Brignone. Al traguardo Sofia ha ricevuto un lunghissimo applauso dall'esperto pubblico svizzero e gli inchini di omaggio delle sue rivali già giunte al traguardo e ben consapevoli di aver assistito ad una impresa straordinaria dell'italiana.
Alle spalle di Goggia in questa discesa2 sono arrivate la slovena Ilka Stuhec e la tedesca Kira Weidle. ''Quando prima della gara ho sciato in campo libero ed ho visto che potevo mettermi in posizione ad uovo - ha detto Sofia ai microfoni Rai - mi sono detta che oggi in pista non ci sarebbe stata altra ragazza piu' felice di me di gareggiare: se scio come so, posso farcela. Comunque è stata sicuramente più dura l'anno scorso recuperare per Pechino. Lì era una gamba qui una mano. Cosa vuoi che sia per una mano?''.
Per l'azzurra - che ha gareggiato con un tutore alla mano destra fissata con cerotti al bastoncino - è la terza vittoria oltre ad un secondo posto su quattro discese sinora disputate: sempre più' regina delle ragazze jet. Con questa vittoria Sofia passa poi al secondo posto della classifica generale di coppa con 425 punti. Davanti a lei solo l'americana Mikaela Shiffrin, oggi buona quarta, con 475.
Alle spalle di Goggia in questa discesa2 sono arrivate la slovena Ilka Stuhec in 1.28.28 e la tedesca Kira Weidle in 1.29.37. Per l'Italia c'è anche il buon 8/o posto in 1.30.01 di Elena Curtoni, vincitrice venerdì proprio davanti a Goggia. Poi c'è da segnalare la gara in 1.30.53 della trentina Laura Pirovano che ha spigolato cadendo a ridosso del traguardo che ha tagliato scivolando nella neve.
Più indietro Nadia Delago ( 1.30.80) e sua sorella Nicol (1.30.88), Marta Bassino in 1.31.13 mentre una Federica Brignone non ancora al top ha chiuso in 1.31.18. Contrariamente a quanto avvenuto nella prima discesa di venerdì, si è gareggiato sull'intero tracciato in condizioni di neve perfette e con un bel sole che ha progressivamente un po' velocizzato la pista. Domani a St. Moritz tocca al superG.
Sofia Goggia si racconta in un docufilm: «Ho un carattere divisivo, ma sono fatta così. Nello sci e nella vita ho ancora molto da imparare». Silvia Cimini su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.
L’anteprima al teatro sociale di Bergamo in occasione della consegna della medaglia d’oro civica. Dopo gli ultimi due anni difficili dice: «ma alla fine è tornata la primavera».
Un luogo speciale — il Teatro Sociale, con platea piena e moltissimi bambini e ragazzi accorsi per conoscere il loro idolo — per un Consiglio comunale altrettanto straordinario, nel quale è stata premiata con la Medaglia d’Oro e la Civica Benemerenza colei che è oggi una delle personalità simbolo di Bergamo: Sofia Goggia.
«Per il talento, la determinazione, e la tenacia con cui ha saputo raggiungere i suoi straordinari obiettivi sportivi, superando anche l’ostacolo di gravi infortuni, la sua carriera rappresenta un esempio di vita, che va oltre la dimensione dello sci ed è motivo di orgoglio per la nostra città nel mondo», recitava la motivazione del premio. E la festeggiata ha fatto onore a queste parole, svelando al pubblico una dimensione più intima e rilassata di quella che la vede sempre alla ricerca della velocità e «in continua tensione verso nuovi orizzonti» come lei stessa ha confessato nell’intervista con Omar Schillaci, vicedirettore di Sky Tg24.
Durante la cerimonia di premiazione, infatti, è stato proiettato in anteprima il docufilm «Sofia» realizzato dalla regista e produttrice Didi Gnocchi, che ha seguito Goggia durante tutta la scorsa stagione, intervistandola a casa e nei suoi luoghi del cuore, tra cui le immancabili strade di Città Alta che, dice Sofia, «mi colpiscono ogni volta per la loro bellezza, nonostante io le conosca da 29 anni».
Le immagini e le parole di Sofia (emozionata nell’uniforme della Guardia di Finanza, che rappresenta attraverso il Gruppo sportivo Fiamme Gialle) hanno reso l’idea di una carriera e di una vita che il sindaco Giorgio Gori ha definito «un incredibile ottovolante di emozioni, tra discese ripide e risalite inaspettate». In particolare, Goggia si è concentrata sulla «devozione», scegliendo questo termine per descrivere il rapporto assoluto che la lega allo sci, lo sport che ha scelto e che le ha dato «picchi incredibili a livello di risultati, tra Olimpiadi, Mondiali e Coppe del Mondo», ma anche attimi in cui «mi sono sentita quasi inadeguata, dopo l’oro di PyengChang mi sono chiesta: e ora che succede?». Sono stati due anni difficili, ha confessato, «ma alla fine è tornata la primavera».
Proprio quando sentiva di essere nella miglior stagione della sua carriera, ha raccontato, l’infortunio di Cortina a pochi giorni dalle Olimpiadi non sarebbe stato superabile senza «le persone giuste», quelle che le hanno dato sostegno quando c’è n’era bisogno, nonostante un carattere che, ammette, per qualcuno può essere «divisivo, ma semplicemente sono fatta così»: medici e fisioterapisti, ma anche e soprattutto papà Ezio («con un carattere così simile a me») e mamma Giuliana, schiva professoressa di lettere che ricorda ancora quando, alla prima gara a San Simone, la piccola Sofia le chiese subito dopo il traguardo «Ho vinto?».
E dopo tanti anni, per Goggia è ancora così: prima di salutare affettuosamente i suoi fans c’è stato tempo per dare appuntamento a Milano-Cortina 2026 per riprendersi i 16 centesimi che a Pechino l’hanno separata dall’oro olimpico, assicurando che «nello sci ho ancora molto da imparare, cerco continuamente di migliorarmi, non solo come atleta per alzare costantemente l’asticella, ma anche di crescere come persona, cercando il mio equilibrio».
Manuela Di Centa: «Dicevano che ero dopata, capisco la sofferenza di Jacobs. L’Everest? Ti insegna l’umiltà». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 16 giugno 2022.
L’ex campionessa di sci: ero innamorata di Nadia Comaneci. All’inizio ho fatto atletica perché volevo imitare mio cugino Venanzio Ortis. Con i rimborsi per andare e tornare da Udine mi sono pagata gli studi.
Per illuminare Manuela Di Centa , regina bi-olimpionica dello sci di fondo, basta chiederle della sua terra, il Friuli a ridosso dell’Austria, la Paluzza dove la casa un po’ residenza e un po’ «bed and breakfast» guarda i primi tornanti dello Zoncolan. Una casa di Cramars, mestiere carnico contro la miseria, mutuato dal tedesco Krämer, commerciante. «Gli ambulanti partivano da Aquileia, Grado o Venezia, risalivano la via Iulia Augusta e passavano di qui: mettevano le merci in una gerla rigida a cassetti». Spalle forti, gambe buone e spirito di sacrificio. «Anch’io mi sento un po’ Cramars. Questa è pure terra di migranti: nel ‘700 erano le donne a tenere i conti, i mariti partivano. La donna sapeva leggere e scrivere e aveva carisma».
Il tempo ha cambiato la situazione?
«Non tanto, da noi c’è ancora semplicità. E un museo ricorda che Paluzza era zona di guerra. Anche in questo caso le donne hanno fatto la storia grazie alle portatrici carniche: 1.200, inclusa mia nonna materna. Giorgio Napolitano mi chiese di valorizzare le loro vicende».
Ci parla allora di Irma Unfer Englaro?
«Il primo messaggio la nonna me l’ha dato mantenendo il cognome da nubile: ha anticipato la storia di un secolo. Tra il 2006 e il 2008 io e Alessandra Mussolini ci siamo battute per una legge ad hoc, ma non abbiamo nemmeno raccolto le firme d’appoggio. Ci schernivano, i tempi non erano maturi a differenza di oggi: pure io ho cominciato a firmare con il mio cognome».
Torniamo alla nonna.
«Mi ha insegnato le priorità: rispetto, lavoro, non sprecare, sapere che cosa vuol dire avere da mangiare. Ad ogni compleanno voleva un pollo, un regalo “concreto”. Quando andavo in trasferta, magari con mio cugino Venanzio Ortis, il mezzofondista, ci consegnava il cioccolato e al ritorno domandava: che cosa vi hanno dato per bocca? Voleva sapere se ci avevano sfamato».
Poi c’erano i racconti bellici.
«Povere bambine, avevano tra 9 e 12 anni, salivano al fronte con gerle pesanti 50 chili: contenevano munizioni, biancheria, cibo, medicine. Erano muli “umani”, quelli veri trovavano strade troppo strette. I sentieri di nonna Irma sono gli stessi dove mi sono allenata io e dove ora si allena mia nipote Martina».
Manuela Di Centa guarda al passato con gioia o con nostalgia?
«Con nostalgia mai. E più che guardare, “sento”. Sento e ricordo fatiche, viaggi, paure, malattie, gioie, incontri. E rivivo la morale di papà: mi ha abituato ad amare la natura, il freddo, la neve. Vinci davvero solo nella situazione in cui ti senti meglio».
Anni 90, il nostro sport femminile decollò grazie anche alle fondiste.
«Nel 1982, quando vinsi l’argento ai Mondiali, era presto: la Fisi nemmeno si accorse di me. La federazione non era pronta all’equilibrio tra maschi e femmine. La svolta nel 1991: il Mondiale in Val di Fiemme segnò un salto culturale. Abbiamo cominciato a far paura alle potenze del fondo».
Donne nello sport: quale sceglie?
«Ho ammirato Lea Pericoli, forte e femminile. Poi Sara Simeoni, la “donna alfa”. Guardavo Sara e mi interrogavo: chissà che cosa mangia, anch’io voglio essere magra così! Altri idoli? Nawal El Moutawakel, prima medagliata musulmana, Irena Szewińska, Nadia Comaneci — ero innamorata di lei — e poi Katarina Witt».
Katarina, per la quale ai Giochi 1984 si beccò una multa.
«L’Italia era vestita da Valentino, avevamo un bellissimo cappotto. Volevo andare a vedere Katarina, ma a Sarajevo nevicava sempre. Le canadesi avevano un eskimo con cappuccio: proposi a una di loro lo scambio dei capi e lei accettò. Fui punita perché lo scambio, oggi in voga, era vietato».
Tomba, Compagnoni, Di Centa, Belmondo: il quadrilatero d’oro della neve, tra sci alpino e fondo.
«Siamo stati protagonisti in un periodo eccezionale, per merito anche della Fisi del generale Valentino: ha tolto la distinzione tra maschi e femmine, ha dato alle donne pari dignità e pari possibilità».
Manuela Di Centa-Stefania Belmondo: si è voluto costruire una rivalità alla Coppi-Bartali?
«Un po’ sì, però sono fiorite malignità assurde. Le campionesse hanno caratteri differenti, guai se non fosse così. Stefania ed io abbiamo vissuto questa situazione, ma era qualcosa di stimolante: a carriere terminate abbiamo convenuto che è stato bello».
Ha dato fastidio chi mormorava che lei si dopava?
«Sì, certo. Ma ho alzato un argine. Mi immedesimo in Marcel Jacobs dopo quello che hanno detto su di lui a Tokyo: come rispondi a un attacco del genere? Andando avanti per la tua strada».
Nel Cio si è battuta per il passaporto biologico.
«Siamo stati io e il pattinatore norvegese Olav Koss a promuoverlo. Non avevamo afferrato che cosa dovesse essere, ma avevamo capito che avrebbe aiutato chi era malato e non lo sapeva. Pure io mi sono ritrovata inguaiata, quasi non lo si sa. Ho trascorso due mesi in ospedale a Pisa: avevo la tiroidite di Hashimoto, diagnosticata in Finlandia. Dissi al professor Pinchera: “Dopo aver conquistato un bronzo iridato in queste condizioni, se lei mi rimette a posto io vinco tutto”. Lo ringrazio ancora oggi».
Il professor Conconi era un mago o un apprendista stregone?
«Francesco mi ha aiutato ed è lui ad avermi mandato da Pinchera. Era discusso per l’emo-autotrasfusione? Anche quando era lecita, mi sono schierata contro. Da ragazza mi allenavo tirando fuori patate dalla terra: non avrei mai accettato certe cose».
Ai Giochi ha portato la bandiera olimpica ma non quella italiana. Dispiaciuta?
«Avrei dovuto essere portabandiera nel 1998, ma la mia gara era fissata per il giorno dopo. Ho rinunciato a malincuore, poi nel Cio mi sono battuta per una maggiore attenzione verso gli atleti-alfieri».
In compenso suo fratello Giorgio, olimpionico a Torino, l’ha avuta a Vancouver.
«Gli ho detto: lo farai pure per me. Invidiosa? Come potrei? È il mio piccolo! Lo portavo in carrozzina, lo cambiavo, gli ho fatto da mamma».
Suo cugino, Venanzio Ortis appunto, l’ha ispirata.
«Lo vedevo con il tricolore, volevo imitarlo. Ho fatto anch’io atletica, il primato regionale dei 10 mila è ancora mio. Prendevo la “corriera” e andavo ad allenarmi a Udine: l’atletica, grazie ai rimborsi e ai gettoni, mi ha mantenuto gli studi».
Martina Di Centa, sua nipote: ha talento?
«Deve valorizzare le sue doti. Le ho detto: sei pronta a lavorare duro? Non serve subito la risposta, però pensaci».
Manuela sull’Everest, il tetto del mondo.
«Fu nel 2003, per “colpa” di mio marito Fabio che è stato skyrunner. A Bormio, insieme a lui, ho esplorato il mondo che guarda in alto. Fabio detiene il record di scalate in velocità, contava di aggiungere il primato di ascesa veloce dell’Everest. Io avrei organizzato la missione e l’avrei raccontata».
Andò bene a lei, meno a lui.
«Dovevo salire con sherpa e bombola; invece Fabio l’avrebbe fatto senza ossigeno e in velocità. I percorsi erano diversi, ci saremmo ritrovati in cima. Sopra gli 8.000, nella “zona della morte”, l’ho aspettato. Ma non arrivava, così sono salita, piantando la bandiera olimpica e quella italiana. L’Everest ti fa capire quanto devi essere umile: lassù comanda la natura».
Che cosa è successo al marito?
«Avevano sbagliato le previsioni: aveva equipaggiamento per un freddo normale, invece era tosto. Per non rischiare, s’è fermato».
Lei crede ancora nella politica?
«La vita umana è fatta anche dalla politica. Sono orgogliosa di essere riuscita a far introdurre il liceo a indirizzo sportivo».
Oltre al Coni, il Cio. Da membro onorario e da dirigente.
«Sono stata la prima donna eletta come atleta. Un’esperienza privilegiata, dall’altra parte della barricata: nello sport ci sono problemi che quando sei atleta ignori».
Qualche aneddoto?
«Quando si cercava di rendere olimpico il salto femminile dal trampolino, l’obiezione era: “Se cadono, picchiano il seno, zona sensibile: siamo preoccupati”. Io dissi: “Avete ragione: è la stessa cosa che penso quando immagino un maschio che cade e batte i testicoli”. Silenzio di tomba. Tempo dopo quella battaglia è stata vinta».
I Giochi hanno ancora senso?
«Solo se si segue la nuova agenda che il Cio ha adottato, basata sulla sostenibilità, sulla flessibilità e sul dare anche a Paesi piccoli la chance di organizzarli».
L’Italia si avvicina a Milano-Cortina 2026.
«Spero si trovino gli “sci” giusti, vedo tanti ritardi. Ma la macchina funzionerà. Stiamo poi lavorando sul piano turistico in modo strategico: prima, durante, dopo. A Torino 2006 non c’erano ancora questi criteri, è stata Londra 2012 a valorizzarli».
Lei è laureata anche in scienze politiche. Ha forse pensato alla carriera diplomatica?
«Mi sarebbe piaciuta, legandomi allo sport che è un passaporto universale. Ma avrei dovuto avere meno di 35 anni: invece mi sono laureata a 50».
Che cosa farà nella prossima vita?
«Per ora mi godo questa e l’incarico con il ministro Garavaglia. Cerco di unire turismo e sport: sappiamo quanto vale l’uno e quanto l’altro, ma manca l’interazione tra i due dati. Scoprirlo aprirà nuovi orizzonti».
"Discese truccate", la denuncia italiana che fa tremare lo sci. Marco Mensurati, Fabio Tonacci su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.
Le irregolarità nelle qualificazioni a Pechino segnalate dalla professoressa Federiga Bindi. "Gli atleti migliori rallentano per favorire sciatori modesti".
Il Sistema delle discese al rallentatore è sotto gli occhi di tutti, ma per anni e anni nessuno ha avuto il minimo interesse a denunciarlo. Porta il folclore alle Olimpiadi, dicono. Permette agli Eddie The Eagle di tutto il mondo di avere il quarto d'ora di celebrità all'ombra dei Cinque Cerchi: sciatori poco più che dilettanti di Paesi dove non nevica mai che in eventi minori si qualificano e permettono al Comitato organizzatore di ampliare il ventaglio delle nazioni partecipanti.
Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci, Marco Mensurati per "la Repubblica" il 28 gennaio 2022.
Il Sistema delle discese al rallentatore è sotto gli occhi di tutti, ma per anni e anni nessuno ha avuto il minimo interesse a denunciarlo. Porta il folclore alle Olimpiadi, dicono. Permette agli Eddie The Eagle di tutto il mondo di avere il quarto d'ora di celebrità all'ombra dei Cinque Cerchi: sciatori poco più che dilettanti di Paesi dove non nevica mai che in eventi minori si qualificano e permettono al Comitato organizzatore di ampliare il ventaglio delle nazioni partecipanti. (...)
E così è bastato un articolo scritto qualche giorno fa da una professoressa italiana di Scienze Politiche sulla rivista specializzata Skiracing a scatenare il putiferio. Un fiocco di neve si è fatto valanga e ha travolto la vigilia dei Giochi. La denuncia della prof Federiga Bindi ha 54 anni, un passato da sciatrice, oggi ha una cattedra all'università di Tor Vergata ma non ha perso la passione per il suo sport: dirige l'Alta Badia Ski Academy.
Dopo l'articolo, che raccontava di gare taroccate in cui atleti di buon livello sono chiamati appositamente per andare piano e permettere agli altri di migliorare nel ranking valido per la qualifica, le hanno chiesto un rapporto che è al vaglio del Comitato olimpico internazionale e della Federazione mondiale di sci (Fis).
Anche grazie al materiale raccolto da Bindi, tre eventi organizzati tra novembre e gennaio a Dubai, Malbun e Kolasin sono stati messi sotto indagine e quattro pass in più sono stati concessi in gran fretta a mo' di risarcimento ad Austria (2), Germania, Francia. I punteggi sospetti «Mi sono accorta che qualcosa non andava a novembre, quando uno dei nostri ragazzi stava provando a qualificarsi ai Giochi», spiega a Repubblica la professoressa. «Uno dei suoi competitor diretti ha partecipato alla gara indoor di Dubai a novembre ed è riuscito ad abbassare notevolmente il suo punteggio (nello sci alpino più è basso, più la performance è stata buona, ndr)».
In quella competizione, di livello medio-basso e categoria Entry Level, i quattro col ranking migliore, tra cui l'italiano Federico Vietti finito anche nel giro della Nazionale, fanno incomprensibilmente prestazioni pessime. Ben al di sotto dei loro standard abituali. La conseguenza è stata - e qui sta lo scandalo - che a qualificarsi per Pechino grazie ai tempi registrati nello slalom di Dubai sono stati sciatori meno che modesti come l'indiano Arif Mohd Khan, il kirghiso Maksim Gordeev e il saudita Salman Alhowaish, a scapito ad esempio dei professionisti dell'Austria, il cui team maschile olimpico si è ridotto da 11 a 9 a causa del tetto imposto alle iscrizioni ai Giochi. (...)
«Se dovessimo accettare 10 sciatori italiani, 10 austriaci, 10 svizzeri, la federazione giamaicana cancellerebbe la gara. Sarebbe impossibile per noi andare alle Olimpiadi in tale situazione ». Alle discese di Malbun, dunque, correranno solo dieci ragazzi e Alexander stacca il biglietto per Pechino. «Io non ho fatto altro che prendere e mettere a confronto i dati delle gare. Ma il banco è saltato perché gli austriaci hanno sbattutto i pugni sul tavolo di fronte al Cio e alla Fis», chiosa Federiga Bindi. «Alexander, Khan, Gordeev e altri cinque atleti altri hanno tolto il posto a loro e anche all'Italia».
"Qualcosa più grande di loro" Tra gli sciatori fatti iscrivere agli slalom sotto inchiesta e che sono scesi con tempi sospetti ci sono anche due italiani, Vietti e Michele Gualazzi. «Li hanno mandati i comitati regionali - si difende Flavio Roda, presidente della Federazione italiana sport invernali (Fisi) - non possiamo controllarli tutti. Non voglio dire che abbiano fatto una cosa irregolare, però penso siano caduti in una cosa più grossa di loro. Spero che il loro pensiero fosse quello di partecipare a una gara normale e che invece si è rivelata taroccata. E comunque non sono andati così piano, uno ha vinto e l'altro è arrivato quinto ».
Roda, che tutto voleva prima della cerimonia inaugurale tranne questa involontaria pubblicità, se la prende con il nuovo regolamento della Federazione mondiale di sci, che a suo dire avvantaggia Paesi outsider, e con il Cio. «Doveva essere più serio e annullare le gare, invece non ha preso un provvedimento, se n'è lavato le mani. Questi eventi fatti apposta per dare pass ad atleti privi di valore olimpico lasciano con l'amaro in bocca». Che cosa ne sarà dei beneficiari del Sistema, che hanno in tasca il pass, non è chiaro. Per ora rimangono nelle liste di partenza.
Pass facili per Pechino, i giochi sporchi dello sci. Marco Mensurati, Fabio Tonacci su l'Espresso il 27 gennaio 2022.
A otto giorni dalle Olimpiadi invernali sospetti su qualificazioni truccate: i migliori atleti frenavano per aiutare rivali sconosciuti. Minacce a un minorenne: "Vai troppo forte". Coinvolti anche gli italiani Vietti e Gualazzi.
Bianco è il colore della neve e della purezza. Ma niente di candido è avvenuto sulle piste che hanno assegnato gli ultimi posti utili per i Giochi invernali di Pechino. Almeno tre gare internazionali - Dubai, Kolasin e Malbun - sarebbero state truccate per permettere a Paesi dove mai è caduto un fiocco di neve di qualificare un proprio sciatore.
Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci e Marco Mensurati per “la Repubblica” il 27 gennaio 2022.
Bianco è il colore della neve e della purezza. Ma niente di candido è avvenuto sulle piste che hanno assegnato gli ultimi posti utili per i Giochi invernali di Pechino. Almeno tre gare internazionali - Dubai, Kolasin e Malbun - sarebbero state truccate per permettere a Paesi dove mai è caduto un fiocco di neve di qualificare un proprio sciatore. Ampliando così la rosa delle nazioni partecipanti, redistribuendo i fondi ai comitati olimpici nazionali e, potenzialmente, aumentando gli introiti dei diritti televisivi.
Su quelle piste sono scesi atleti di buon livello che improvvisamente si sono dimenticati come si scia, e si sono visti dilettanti ottenere punteggi che neanche Alberto Tomba ai tempi d'oro. Tra imbrogli, pagamenti non dovuti e minacce di morte al cancelletto di partenza. Se ancora non fosse chiaro, un enorme scandalo si sta abbattendo sulle Olimpiadi a meno di dieci giorni dal loro inizio.
E promette guai a tanti. Il misterioso comunicato Cio Il 24 gennaio scorso il Comitato Olimpico Internazionale (Cio) divulga una nota con cui comunica a sorpresa di aver aumentato di quattro, da 153 a 157, il numero degli sciatori ammessi a Pechino. «La richiesta ci è arrivata dalla Federazione mondiale di sci (Fis) - spiega il Cio - perché alcuni eventi di qualificazione sono attualmente in corso di revisione». Quali eventi siano sub judice , e perché, non viene specificato.
Si dice però che «dei quattro posti in più, due spettano all'Austria, uno alla Germania, uno alla Francia». Repubblica, grazie a documenti esclusivi e testimonianze dirette, è in grado di rivelare quale spinosa faccenda si celi dietro l'asettico comunicato del Cio e come, nel silenzio delle Federazioni dello sci alpino e dei comitati olimpici nazionali, stia terremotando la vigilia dei Giochi.
La gara indoor di Dubai
I tre eventi sospetti si sono tenuti nell'impianto indoor a Dubai (17-20 novembre), sul tracciato di Kolasin in Montenegro (22-23 dicembre) e sui pendii di Malbun nello stato del Liechtenstein (12-13 gennaio). Partiamo da Dubai.
La competizione è una Entry League, di livello assai inferiore rispetto a quelle della coppa del mondo che vengono trasmesse in tv. Sono fatte apposta per dare la possibilità agli atleti che hanno meno esperienza di fare una gara internazionale più alla loro portata e racimolare qualche punto. Qui va fatta una premessa: per come è calcolato il ranking nello slalom e nel gigante, più uno ha un punteggio alto, più è scarso. Si può andare alle Olimpiadi solo con un ranking inferiore a 160 e ogni nazione con uno sciatore sotto questa soglia ha diritto a un pass.
Per esigenze di uniformità tra le gare disputate in giro per il mondo, inoltre, il computo del punteggio finale è ponderato con le performance dei quattro partecipanti migliori. Fine della premessa, torniamo allo Ski Dubai, il più grande impianto al chiuso del pianeta, dove trova posto una pista di 80 metri di larghezza e 400 di lunghezza. Nei giorni della gara emiratina, a cui partecipano 23 atleti, i quattro più forti scendono col freno a mano tirato. Hanno performance di molto inferiori al loro livello abituale.
Tra di loro, iscritto dalla Federazione italiana (Fisi), c'è anche Federico Vietti, classe 1996: ha un ranking di 49.48, ma in pista ottiene 77.6, 79,3, 74,9, 73,1. Un periodo storto, si potrebbe pensare. Le stesse defaillance a cronometro le vediamo però anche negli altri tre top level: i bielorussi Terzic e Lokmic, l'albanese Tola. Per effetto di risultati così scadenti, si qualificano alle Olimpiadi l'indiano Arif Mohd Khan, il kirghizo Maksim Gordeev e il saudita Salman Alhowaish, primo della sua nazione a guadagnarsi il pass per i Giochi invernali.
Il report riservato
«Nessuno di costoro è stato in grado di ripetere la performance di Dubai nei successivi appuntamenti», si legge in uno dei report inviati alla Federazione internazionale, al Cio e alla nostra Fisi, che hanno fatto aprire l'inchiesta interna. Vi si sottolinea come Gordeev, dopo la gara negli Emirati, ha rinunciato alle tre seguenti in calendario e come Alhowaish abbia fatto in vita sua nove discese ufficiali, tutte in questa stagione.
Ma il report, che compara con tabelle e statistiche i tempi ottenuti nelle qualificazioni, va oltre e individua in Montenegro e in Liechtenstein altre due situazioni che hanno regalato pass olimpici.
Piero Gros. Flavio Vanetti per il “Corriere della Sera” il 18 settembre 2022.
Piero Gros non le manda mai a dire. Come non le mandava a dire ai rivali che affrontava nelle gare di sci in quegli anni '70 tanto complicati quanto affascinanti. «Ero un predestinato? Diciamo che avevo talento. Sono stato scomodo? Lo divento sempre, se mi attaccano». A noi Pierino è sempre piaciuto: mai banale, sincero, diretto.
Nella Valanga Azzurra non era il «casinaro» Erwin Stricker, ma era alternativo: capelli lunghi e spettinati, la sua sciata era uno spruzzo di rock. Poi è stato sindaco (ma non politico), telecronista (lo è ancora), capo dei volontari di Sestriere ai Giochi 2006. Ed è, più che mai, «figlio della montagna e della vocazione contadina».
Cominciamo dall'8 dicembre 1972?
«Val d'Isère, gigante della Coppa del Mondo. Mario Cotelli, d.t. dell'Italia, mi aveva spedito in Australia a fare gare e accumulare punti. Poi ero andato bene in Coppa Europa, quindi aveva deciso di farmi esordire sulla ribalta maggiore».
Un debutto con un pettorale impossibile, il 45. Eppure...
«Vinsi uscendo dalle buche. Pochi giorni dopo mi ripetei nello slalom di Madonna di Campiglio: avevo il 42. Due su due all'esordio: sono ancora il più giovane "deb" vittorioso nella Coppa del Mondo, trofeo che avrei conquistato nel 1974 a 19 anni e una manciata di mesi, pure questo un record».
Questi primati resteranno per sempre.
«Mi aspetto che siano superati: un limite è fatto per essere cancellato».
Lo sci si è pure evoluto.
«Ho visto come si allenava il Marcel Hirscher giovane: io non ce l'avrei fatta, all'inizio ero scarso di fisico. Però ero atleta: mi ero formato aiutando a tirare funi nel bosco e a levare il letame dalle stalle. Poi vincevo sbagliando di meno e tenendo duro. Però vado più forte oggi, a quasi 70 anni, che all'epoca».
Perché si è parlato più di Thoeni che di lei?
«Perché Gustavo come risultati è stato superiore, la sua luce ha illuminato pure me. Ma io e lui ci siamo sempre rispettati».
Mondiale 1974 a St. Moritz: Gros leader a metà gara, Thoeni ottavo a 1''42. Ma Gustavo azzeccò la rimonta e vinse, lei sbagliò. Quell'episodio non le è rimasto sul gozzo?
«È l'unica volta in cui ho pianto. Quell'anno ero più forte, non a caso vinsi la Coppa del Mondo. Furono scritte tante fesserie: avevo David Zwilling a un centesimo e dopo il bronzo in gigante volevo l'oro.
Ho rischiato, sono caduto: ho perso da favorito. Per me Gustavo non esisteva, ma comunque chapeau a lui. Piuttosto, una gran rimonta l'ho fatta pure io l'anno dopo ai Giochi. Stessa situazione: ottavo dopo la prima manche, poi oro. Però quella discesa non è mai stata mitizzata come quella di Thoeni».
Si sente trascurato?
«Non vorrei fare la vittima, i dimenticati sono altri: ad esempio i vari personaggi di un'Italia che non sa fare sistema. E nello sport abbiamo più degli altri, ma offriamo di meno a prezzi più cari. Nello sci club di Salice d'Ulzio, il mio paese, ho abolito le coppe, che non servono e costano, destinando i soldi alla formazione».
Sport, pragmatismo ed etica.
«Mi allenavo dietro casa, risalendo la collina con gli sci in spalla: duro, ma fattibile. Non avevo niente, i ragazzi oggi hanno tutto ma vanno salvati dalle comodità, dando loro una visione».
Quale, ad esempio?
«Non ne esiste una in assoluto. Io arrivai quando Thoeni trascinava: aggiunsi le parole, che lui usava poco. Miscelare la mia spigliatezza e la sua riservatezza: quella fu una visione».
Berchtesgaden, 7 gennaio 1974: Gros, Thoeni, Stricker, Schmalzl, Pietrogiovanna. Una cinquina creò la Valanga Azzurra.
«C'era l'austerity, c'era la crisi come oggi. Ma adesso la percepiamo di più, c'è chi stenta ad arrivare al 27 del mese. All'epoca vivevamo la nostra passione: famosi, acclamati, benestanti. Restituimmo tutto con i risultati: creammo un gruppo vincente di 10-12 atleti, diventammo un fenomeno sociale».
Perché questa definizione?
«Perché eravamo il modello per 5 milioni di praticanti. Le squadre, un tempo ospitate, oggi pagano per allenarsi: è tramontato il concetto che il campione fa pubblicità gratis. Lo sci vale il 3% del Pil, è uno scandalo come è trattato».
Thoeni e Gros come Beatles e Rolling Stones. Lei chi sceglie?
«I Beatles, ho tutti i dischi. Mi piacevano i Rolling Stones, ma non ho mai sbavato per il rock».
Alberto Tomba sarebbe stato da Valanga Azzurra?
«Avrebbe dovuto cambiare approccio. La Federazione l'ha tolto dal concetto di squadra. Magari sbaglio, ma Tomba non ha vissuto il clima che abbiamo avuto noi: sport vero, rispetto, unità facendo chiasso la sera, soprattutto con Stricker, un tipo da Zelig. Alberto si è isolato: credo che ai compagni non fregasse nulla di lui perché faceva quello che voleva».
Perché allora Tomba ha avuto successo?
«Perché oltre ai risultati è stato un personaggio: la gente vuole la stravaganza e non il Thoeni che parla poco».
Però Gustavo ha affiancato Fabio Fazio a Sanremo. Lei sarebbe andato al Festival?
«No, anche perché mai mi hanno invitato. Gustavo è stato pure ospite di Amanda Lear ed è entrato, in vestaglia, nel suo letto a parlare non ricordo più di che cosa: io non avrei accettato».
Il taciturno Thoeni s' è sbloccato.
«Mi ha sorpreso per certe cose che ha fatto, perfino al cinema. Pure a me chiesero di fare un film. Ma per rimediare la stroncatura che ebbero Gustavo in "Un centesimo di secondo" e anni dopo Alberto in "Alex l'ariete", ecco, anche no».
Spuntò Ingemar Stenmark e la Valanga finì.
«Ingo, un fuoriclasse. Un atleta che si è affermato dal nulla, senza tante balle. Ha vinto 86 gare, io 12; ma in Svezia sono ancora popolare grazie alla nostra rivalità. È stato un vantaggio correre contro Stenmark, ma se guardo a come siamo finiti come squadra, entro nella polemica».
Ovvero?
«Non fummo capaci di innovare, la base era ancora ottima perché lo stesso Stenmark ammise che ci copiava. Serviva solo un'evoluzione, invece cambiavamo allenatori e la situazione era la stessa».
Così lei si ribellò.
«Nel 1976 Cotelli chiamò Alfons Thoma: ci litigai dal primo giorno. Il suo modo di fare disgregò la Valanga. Me la presi anche con Cotelli, quando sul Corriere scrisse che a Innsbruck avevo vinto perché Stenmark era caduto».
Cotelli, appunto: senza di lui ci sarebbe stata la Valanga Azzurra?
«Non ci sarebbe stata senza Oreste Peccedi: aveva un debole per Thoeni, ma era un tecnico tanto bravo che glielo perdonavi».
Sull'epilogo della Valanga calò la tragedia di Leonardo David.
«Ho vissuto il suo dramma fin dalla caduta di Cortina, in azzurro eravamo compagni di stanza. Ci sono state troppe leggerezze, prima di tutto da lui e dalla famiglia: al processo l'ho detto. Leo ha sottovalutato la situazione e i mal di testa che aveva».
Piero Gros ha smesso a 28 anni: uno sbaglio?
«Nel 1982 arrivai sesto ai Mondiali senza skiman e allenatori ufficiali. E con sci rimediati. Mi sentivo scartato, proseguire così non aveva senso. Dissi al presidente Gattai che volevo 50 milioni di lire: avevo una famiglia, non ero più un allocco di 18 anni e i soldi servono a un atleta. Certe cose una federazione non può scordarle: la Fisi invece l'ha fatto».
Le hanno fatto soffrire pure la nomina a maestro di sci.
«In quanto oro olimpico lo sono diventato "ad honorem". Ma volevano farmi superare un esame, dopo un corso. Spiegai che non avevo nemmeno aperto il libro della teoria. Dovevo dimostrare qualcosa? Mi diedero ragione».
Sindaco di Salice d'Ulzio, dal 1985 al 1990, ma anche coordinatore dei volontari del villaggio di Sestriere a Torino 2006.
«Quattro anni prima mi telefonò Yukari, una giapponese di 18 anni: voleva fare la volontaria. Le risposi: "Sei la prima candidata: se non trovi sistemazione, dormi da me". Infatti la ospitai».
Perché ha mollato la politica?
«Perché un politico o scende a compromessi o lotta contro i mulini a vento: entrambe le cose non mi vanno».
Che cosa avrebbe fatto senza lo sci?
«Il carpentiere o il falegname. Sono contadino e montanaro, presiedo un consorzio agricolo e mi occupo di alpeggi e pascoli per mantenere la tradizione della transumanza. Non voglio che vadano in rovina i luoghi dove il nonno e papà si spezzavano la schiena a falciare l'erba».
Come vede il nostro sci oggi?
«Le ragazze sono forti, ma Goggia e Brignone devono smussare la rivalità. E Bassino dovrebbe piantarla di sprecare energie nella velocità. Dietro di loro non vedo molto. Però il problema del ricambio è più serio tra i maschi: si lega anche ai costi alti, lo sci sta diventando sport per ricchi».
Piero Gros, telecronista per la TSI.
«Dopo tre anni con la Rai ho avuto l'offerta degli svizzeri: sono ancora con loro dopo 26 anni. Mi piace e mi diverte».
Lei è della Val di Susa: è pro-Tav o no-Tav?
«Non so giudicare se l'alta velocità serva. Ma sotto il Gottardo gli svizzeri hanno creato un tunnel di 56 km e nessuno ha detto nulla. Certe polemiche mi ricordano il no al nucleare: non lo vogliamo, però già a Grenoble trovi le centrali e a noi fanno pagare l'energia il 40% in più».
È vero che a volte usa gli sci al contrario?
«Solo per cazzeggiare: io li metto così, vediamo se mi battete».
L'Intelligenza Artificiale avanza: un giorno un robot batterà un umano sugli sci? «Impossibile. Potrebbe accadere in discesa, ma non in gigante o nello slalom, dove conta la reazione istintiva. Qui l'uomo vincerà sempre».
Piero Gros: «Mi ribellai alla valanga azzurra. Brignone e Goggia vadano più d’accordo». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 21 Luglio 2022.
«Mi allenavo spalando letame: vado più forte oggi di allora. Thoeni? Più celebrato di me, mi ha sorpreso facendo un film: l’avevano offerto anche a me, ma farmi stroncare come lui o Tomba...»
Piero Gros non le manda mai a dire. Come non le mandava a dire ai rivali che affrontava nelle gare di sci in quegli anni ’70 tanto complicati quanto affascinanti. «Ero un predestinato? Diciamo che avevo talento. Sono stato scomodo? Lo divento sempre, se mi attaccano». A noi Pierino è sempre piaciuto: mai banale, sincero, diretto. Nella Valanga Azzurra non era il «casinaro» Erwin Stricker, ma era alternativo: capelli lunghi e spettinati, la sua sciata era uno spruzzo di rock. Poi è stato sindaco (ma non politico), telecronista (lo è ancora), capo dei volontari di Sestriere ai Giochi 2006. Ed è, più che mai, «figlio della montagna e della vocazione contadina».
Cominciamo dall’8 dicembre 1972?
«Val d’Isère, gigante della Coppa del Mondo. Mario Cotelli, d.t. dell’Italia, mi aveva spedito in Australia a fare gare e accumulare punti. Poi ero andato bene in Coppa Europa, quindi aveva deciso di farmi esordire sulla ribalta maggiore».
Un debutto con un pettorale impossibile, il 45. Eppure...
«Vinsi uscendo dalle buche. Pochi giorni dopo mi ripetei nello slalom di Madonna di Campiglio: avevo il 42. Due su due all’esordio: sono ancora il più giovane “deb” vittorioso nella Coppa del Mondo, trofeo che avrei conquistato nel 1974 a 19 anni e una manciata di mesi, pure questo un record».
Questi primati resteranno per sempre.
«Mi aspetto che siano superati: un limite è fatto per essere cancellato».
Lo sci si è pure evoluto.
«Ho visto come si allenava il Marcel Hirscher giovane: io non ce l’avrei fatta, all’inizio ero scarso di fisico. Però ero atleta: mi ero formato aiutando a tirare funi nel bosco e a levare il letame dalle stalle. Poi vincevo sbagliando di meno e tenendo duro. Però vado più forte oggi, a quasi 70 anni, che all’epoca».
Perché si è parlato più di Thoeni che di lei?
«Perché Gustavo come risultati è stato superiore, la sua luce ha illuminato pure me. Ma io e lui ci siamo sempre rispettati».
Mondiale 1974 a St. Moritz: Gros leader a metà gara, Thoeni ottavo a 1’’42. Ma Gustavo azzeccò la rimonta e vinse, lei sbagliò. Quell’episodio non le è rimasto sul gozzo?
«È l’unica volta in cui ho pianto. Quell’anno ero più forte, non a caso vinsi la Coppa del Mondo. Furono scritte tante fesserie: avevo David Zwilling a un centesimo e dopo il bronzo in gigante volevo l’oro. Ho rischiato, sono caduto: ho perso da favorito. Per me Gustavo non esisteva, ma comunque chapeau a lui. Piuttosto, una gran rimonta l’ho fatta pure io l’anno dopo ai Giochi. Stessa situazione: ottavo dopo la prima manche, poi oro. Però quella discesa non è mai stata mitizzata come quella di Thoeni».
Si sente trascurato?
«Non vorrei fare la vittima, i dimenticati sono altri: ad esempio i vari personaggi di un’Italia che non sa fare sistema. E nello sport abbiamo più degli altri, ma offriamo di meno a prezzi più cari. Nello sci club di Salice d’Ulzio, il mio paese, ho abolito le coppe, che non servono e costano, destinando i soldi alla formazione».
Sport, pragmatismo ed etica.
«Mi allenavo dietro casa, risalendo la collina con gli sci in spalla: duro, ma fattibile. Non avevo niente, i ragazzi oggi hanno tutto ma vanno salvati dalle comodità, dando loro una visione».
Quale, ad esempio?
«Non ne esiste una in assoluto. Io arrivai quando Thoeni trascinava: aggiunsi le parole, che lui usava poco. Miscelare la mia spigliatezza e la sua riservatezza: quella fu una visione».
Berchtesgaden, 7 gennaio 1974: Gros, Thoeni, Stricker, Schmalzl, Pietrogiovanna. Una cinquina creò la Valanga Azzurra.
«C’era l’austerity, c’era la crisi come oggi. Ma adesso la percepiamo di più, c’è chi stenta ad arrivare al 27 del mese. All’epoca vivevamo la nostra passione: famosi, acclamati, benestanti. Restituimmo tutto con i risultati: creammo un gruppo vincente di 10-12 atleti, diventammo un fenomeno sociale».
Perché questa definizione?
«Perché eravamo il modello per 5 milioni di praticanti. Le squadre, un tempo ospitate, oggi pagano per allenarsi: è tramontato il concetto che il campione fa pubblicità gratis. Lo sci vale il 3% del Pil, è uno scandalo come è trattato».
Thoeni e Gros come Beatles e Rolling Stones. Lei chi sceglie?
«I Beatles, ho tutti i dischi. Mi piacevano i Rolling Stones, ma non ho mai sbavato per il rock».
Alberto Tomba sarebbe stato da Valanga Azzurra?
«Avrebbe dovuto cambiare approccio. La Federazione l’ha tolto dal concetto di squadra. Magari sbaglio, ma Tomba non ha vissuto il clima che abbiamo avuto noi: sport vero, rispetto, unità facendo chiasso la sera, soprattutto con Stricker, un tipo da Zelig. Alberto si è isolato: credo che ai compagni non fregasse nulla di lui perché faceva quello che voleva».
Perché allora Tomba ha avuto successo?
«Perché oltre ai risultati è stato un personaggio: la gente vuole la stravaganza e non il Thoeni che parla poco».
Però Gustavo ha affiancato Fabio Fazio a Sanremo. Lei sarebbe andato al Festival?
«No, anche perché mai mi hanno invitato. Gustavo è stato pure ospite di Amanda Lear ed è entrato, in vestaglia, nel suo letto a parlare non ricordo più di che cosa: io non avrei accettato».
Il taciturno Thoeni s’è sbloccato.
«Mi ha sorpreso per certe cose che ha fatto, perfino al cinema. Pure a me chiesero di fare un film. Ma per rimediare la stroncatura che ebbero Gustavo in “Un centesimo di secondo” e anni dopo Alberto in “Alex l’ariete”, ecco, anche no».
Spuntò Ingemar Stenmark e la Valanga finì.
«Ingo, un fuoriclasse. Un atleta che si è affermato dal nulla, senza tante balle. Ha vinto 86 gare, io 12; ma in Svezia sono ancora popolare grazie alla nostra rivalità. È stato un vantaggio correre contro Stenmark, ma se guardo a come siamo finiti come squadra, entro nella polemica».
Ovvero?
«Non fummo capaci di innovare, la base era ancora ottima perché lo stesso Stenmark ammise che ci copiava. Serviva solo un’evoluzione, invece cambiavamo allenatori e la situazione era la stessa».
Così lei si ribellò.
«Nel 1976 Cotelli chiamò Alfons Thoma: ci litigai dal primo giorno. Il suo modo di fare disgregò la Valanga. Me la presi anche con Cotelli, quando sul Corriere scrisse che a Innsbruck avevo vinto perché Stenmark era caduto».
Cotelli, appunto: senza di lui ci sarebbe stata la Valanga Azzurra?
«Non ci sarebbe stata senza Oreste Peccedi: aveva un debole per Thoeni, ma era un tecnico tanto bravo che glielo perdonavi».
Sull’epilogo della Valanga calò la tragedia di Leonardo David.
«Ho vissuto il suo dramma fin dalla caduta di Cortina, in azzurro eravamo compagni di stanza. Ci sono state troppe leggerezze, prima di tutto da lui e dalla famiglia: al processo l’ho detto. Leo ha sottovalutato la situazione e i mal di testa che aveva».
Piero Gros ha smesso a 28 anni: uno sbaglio?
«Nel 1982 arrivai sesto ai Mondiali senza skiman e allenatori ufficiali. E con sci rimediati. Mi sentivo scartato, proseguire così non aveva senso. Dissi al presidente Gattai che volevo 50 milioni di lire: avevo una famiglia, non ero più un allocco di 18 anni e i soldi servono a un atleta. Certe cose una federazione non può scordarle: la Fisi invece l’ha fatto».
Le hanno fatto soffrire pure la nomina a maestro di sci.
«In quanto oro olimpico lo sono diventato “ad honorem”. Ma volevano farmi superare un esame, dopo un corso. Spiegai che non avevo nemmeno aperto il libro della teoria. Dovevo dimostrare qualcosa? Mi diedero ragione».
Sindaco di Salice d’Ulzio, dal 1985 al 1990, ma anche coordinatore dei volontari del villaggio di Sestriere a Torino 2006.
«Quattro anni prima mi telefonò Yukari, una giapponese di 18 anni: voleva fare la volontaria. Le risposi: “Sei la prima candidata: se non trovi sistemazione, dormi da me”. Infatti la ospitai».
Perché ha mollato la politica?
«Perché un politico o scende a compromessi o lotta contro i mulini a vento: entrambe le cose non mi vanno».
Che cosa avrebbe fatto senza lo sci?
«Il carpentiere o il falegname. Sono contadino e montanaro, presiedo un consorzio agricolo e mi occupo di alpeggi e pascoli per mantenere la tradizione della transumanza. Non voglio che vadano in rovina i luoghi dove il nonno e papà si spezzavano la schiena a falciare l’erba».
Come vede il nostro sci oggi?
«Le ragazze sono forti, ma Goggia e Brignone devono smussare la rivalità. E Bassino dovrebbe piantarla di sprecare energie nella velocità. Dietro di loro non vedo molto. Però il problema del ricambio è più serio tra i maschi: si lega anche ai costi alti, lo sci sta diventando sport per ricchi».
Piero Gros, telecronista per la TSI.
«Dopo tre anni con la Rai ho avuto l’offerta degli svizzeri: sono ancora con loro dopo 26 anni. Mi piace e mi diverte».
Lei è della Val di Susa: è pro-Tav o no-Tav?
«Non so giudicare se l’alta velocità serva. Ma sotto il Gottardo gli svizzeri hanno creato un tunnel di 56 km e nessuno ha detto nulla. Certe polemiche mi ricordano il no al nucleare: non lo vogliamo, però già a Grenoble trovi le centrali e a noi fanno pagare l’energia il 40% in più».
È vero che a volte usa gli sci al contrario?
«Solo per cazzeggiare: io li metto così, vediamo se mi battete».
L’Intelligenza Artificiale avanza: un giorno un robot batterà un umano sugli sci?
«Impossibile. Potrebbe accadere in discesa, ma non in gigante o nello slalom, dove conta la reazione istintiva. Qui l’uomo vincerà sempre»
Piero Gros: «Smisi di sciare a 28 anni perché non guadagnavo. Oggi difendo pascoli e transumanza». Il campione della Valanga azzurra: «Quel periodo finì con l’arrivo di Alfons Thoma. Con Thoeni rivali, ma mai uno sgarbo. Da Goggia a Paris bravi, ma dietro non c’è nessuno». Lorenzo Fabiano su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2022.
Piero Gros, 67 anni, è stato uno dei protagonisti della Valanga azzurra
Quella voglia di attaccare sempre, di farli correre sulla neve gli sci e divorarsi i paletti uno dopo l’altro. Piero Gros è stato un grande campione, certo, ma la sua grandezza rimane soprattutto quella di aver incarnato, fino ad esserne un’icona, lo spirito degli anni Settanta: capelli lunghi e spettinati, la sua sciata era un graffio di rock, un riff di ribellione, irriverenza e libertà. E così è oggi, in quel suo modo di dire le cose esattamente come le pensa. Schietto, senza fare sconti a nessuno. A 67 anni, nonno di un nipotino che porta a sciare, Piero la gioventù se la porta dentro e quel suo spirito libero di allora, rimane lo stesso.
Piero, partiamo dall’8 dicembre del 1972…
«Andavo bene nelle gare di Coppa Europa. Mario Cotelli, direttore tecnico della Nazionale, mi mandò a far gare e punti in Australia. Pochi giorni prima dell’inizio della Coppa del mondo a Val d’Isère mi feci fare due gare di Coppa Europa a Courchevel, dove andai bene. Mi convocò quindi per il gigante di apertura di Coppa del mondo a Val d’Isère. Ero già da primo gruppo, ma l’aggiornamento dei punteggi la Fis lo faceva a marzo. Partii nel terzo gruppo col 45 di pettorale, e vinsi uscendo dalle buche tra una porta e l’altra. Pochi giorni dopo feci doppietta vincendo anche lo slalom di Madonna di Campiglio col 42. Sono tuttora il più giovane sciatore ad aver vinto una gara di Coppa del mondo e anche il più giovane ad averla vinta, due anni dopo nel 1974. Una grande soddisfazione, perché vincere a vent’anni non è come vincere a trentacinque».
Lei ha smesso a 28 anni, oggi in pista abbiamo i quarantenni. Come lo spiega?
«Ho fatto otto anni sempre nei primi al mondo. Massima stima per chi a 40 anni è ancora lì, ma non mi entusiasma. La gente vuol vedere volti nuovi come Alex Vinatzer fiondarsi giù a mille. Quando un atleta arriva a 32-33 anni, può anche cominciare a pensare a fare altro. Io credo che lo sport non sia tutto nella tua vita, a un certo punto c’è anche altro».
Ma perché lei ha smesso così giovane?
«Perché non guadagnavo. Arrivavi nei primi dieci e ti dicevano che eri una mezza tacca. A 28 anni ai mondiali di Schladming del 1982, chiusi sesto con un paio di sci raffazzonati che mi diede Marc Girardelli. Non avevo neanche lo skiman, nonostante arrivassi nei primi dieci. Allora, se non vincevi non guadagnavi. Ero sposato con un figlio, per fortuna avevo lo stipendio di finanziere, e avevo messo da parte qualche soldino quando vincevo. Allora non potevamo accettare sponsorizzazioni; oggi è diverso, trovi uno sponsor e qualcosa porti a casa. Comunque non ho rimpianti, di eterno non c’è nessuno».
La Valanga Azzurra sì. È una leggenda consegnata all’infinito.
«Noi eravamo sempre in quattro o cinque nelle prime posizioni. Abbiamo vinto tutto. Almeno fino al 1976, quando io vinsi l’oro olimpico in slalom a Innsbruck. Siamo stati un fenomeno sociale, negli anni ’70 c’erano cinquemila persone a sciare d’estate sui ghiacciai: oggi senza gli sci club sui ghiacciai non ci sarebbe nessuno. In Italia si contavano quattro milioni di sciatori, con aziende del settore che andavano alla grande e oggi non ci sono più».
Gustavo Thoeni e Piero Gros, come dire Beatles e Rolling Stones…
«Quando nel 1972 sono arrivato io, Gustavo aveva vinto già due Coppe del mondo e le olimpiadi. Dal 1973 in poi, abbiamo fatto sostanzialmente pari. Siamo sempre stati amici. Una volta vinci tu, una volta vinco io, ma la cosa più importante è il rispetto; corri nella nazionale italiana, rappresenti il tuo paese, e i valori dello sport vanno rispettati. Sempre. Io non ho mai dormito in camera con Gustavo, non sono mai andato in vacanza con lui, ma nessuno dei due ha mai parlato male dell’altro. Non c’era proprio il motivo. La rivalità esiste in gara, l’arrabbiatura sul momento ci sta come ci sta un gesto di stizza, ma poi finisce tutto lì. Io e Gustavo ci siamo sempre stimati, ci vediamo e ci sentiamo ancora oggi».
Poi arrivò Ingemar Stenmark.
«Un fuoriclasse. Nessuno ha vinto 86 gare di Coppa del mondo come lui. Un anno arrivò a vincere 13 giganti di fila. Fenomenale. Gli allenatori non capirono che noi atleti non eravamo in crisi, perché arrivavamo secondi. Ci fu imposto di cambiare modo di sciare, ma l’unica cosa che potevamo fare era sperare in un suo errore e cogliere l’occasione. Ma che vuoi fare di fronte a uno che ti vince 13 giganti di fila? Continuavamo a cambiare allenatori e la storia era sempre la stessa. Passavamo il tempo a guardare Stenmark, quando Stenmark guardava come sciavamo noi italiani. Lo ha ammesso lui stesso qualche anno fa. Ma secondo lei è scarso uno che arriva quarto o quinto in Coppa del mondo? Nel 1978 presi l’argento in slalom, dopo aver fatto il miglior tempo nella prima manche, ai mondiali di Garmisch, proprio alle spalle di Stenmark. Davanti avevamo uno irraggiungibile, mica era un disonore arrivargli subito dietro».
Lei come la prese?
«Mi ribellavo e facevo di testa mia. Nel 1976 Mario Cotelli chiamò ad allenarci Alfons Thoma, col quale litigai dal primo all’ultimo giorno. Veniva dalla squadra C, era un bravo allenatore, ma in quanto a rapporto umano eravamo allo zero. Una volta, a maggio a Misurina dove stavamo per la preparazione atletica, mi rimproverò perché arrivai a correre in ritardo alle 9 del mattino: “Ehi ragazzo! Che sia l’ultima volta che arrivi in ritardo!” mi rimproverò severo. Non lo potevo accettare. Il suo atteggiamento contribuì a disgregare la Valanga Azzurra».
Il suo rapporto con Mario Cotelli?
«L’ho conosciuto nel 1972, era il direttore tecnico di una grande squadra; Mario era un bravissimo manager, un uomo dal grande intuito e altrettanta visione, ma il nostro allenatore era Oreste Peccedi, e con lui Walter Schwienbacher e Tullio Gabrielli. Anche Mario non capì che con Stenmark c’era poco o nulla da fare. Con lui me la presi quando scrisse sul Corriere che a Innsbruck avevo vinto perché era caduto Stenmark. Poi ci siamo chiariti».
Un pensiero ad Alessandro Casse, appena scomparso e uomo di grande importanza per lei.
«È stato amico, fratello, padre e allenatore per me. Mi ha seguito dai 12 ai 16 anni e mi ha portato in Nazionale C. Lui e Aldo Zulian, che mi ha seguito fino ai 12 anni, sono le persone più importanti nella mia crescita. Quando nel 1976 io vinsi le olimpiadi, Alessandro fece il record del mondo del Chilometro Lanciato».
Veniamo ad oggi: come la vede la squadra italiana?
«Le ragazze vanno fortissimo, ma dietro a Goggia, Brignone, Bassino e Curtoni, vedo poco. Mancano le giovani, in slalom siamo zero. Non capisco poi perché Marta Bassino voglia fare le discese; sarebbe meglio che in un anno olimpico si concentrasse sul gigante, la sua specialità. Va bene il superG, ma la discesa che c’entra?».
Ma qualche discesa la faceva anche lei, Piero.
«Sì, ma solo per prendere i punti delle combinate. Non rischiavo nulla, mi beccavo fior di secondi, ma prendevo punti utili per la classifica generale. Nel 1976 feci secondo in combinata a Wengen. Oggi le combinate non ci sono più».
Della squadra maschile, cosa dice?
«È un po’ lo stesso discorso. Non vedo giovani. De Aliprandini, bravissimo peraltro, ha 31 anni; Paris ne ha 32 e dietro di lui non spunta nessuno. L’unico giovane che è emerso è Vinatzer. Abbiamo delle punte, certo, ma parlare di squadra mi sembra difficile».
Chi vince la Coppa del mondo?
«Mi pare che Marco Odermatt abbia già messo le cose in chiaro. È un fuoriclasse, corre in tre discipline, vediamo quanto reggerà. Quest’anno, tuttavia, il vero grande appuntamento sono le olimpiadi».
Come segue oggi lo sci?
«Da anni collaboro con la Tv Svizzera Italiana. Ho seguito lo sci per tanti anni, ne ho seguito l’evoluzione. Io non ho imparato a sciare sullo skilift, a sei anni facevo 900 metri a piedi per andare a prendere la seggiovia. Da trent’anni una cosa del genere è impensabile. Ero già un atleta, perché aiutavo tutto il giorno i miei genitori a tirare le funi nel bosco, a portare fuori il letame dalle stalle, giocavo a pallone e andavo in bici, non avevo bisogno di far pesi. Ho cominciato a fare ginnastica a 15 anni, perché ce la facevano fare in Comitato. Guardi oggi quanti esercizi fanno in partenza gli atleti: questo perché lo sci è diventato soprattutto fisico; conta anche il talento, e ci mancherebbe, ma la condizione fisica è sempre più rilevante. È così ormai in tutti gli sport».
Le piace?
«Il livello si è alzato molto. Diciamo che una cosa che non mi piace è vedere atleti con un team privato tutto per loro».
Come dovrebbe cambiare la Coppa del mondo?
«Semplice: dovrebbero esserci 8 discese, 8 supergiganti, 8 giganti e 8 slalom. Vince chi fa più punti. Se facciamo 9 gare, mettiamo uno scarto. Sono per il libero punteggio, ma se vuoi premiare l’atleta più forte devi dargli la chance di sbagliare una gara. Se la Coppa del mondo ha un senso, deve andare incontro a chi corre per vincerla. C’è una bella differenza tra chi fa tre discipline, se non quattro, e chi ne fa due».
Nella vita ha fatto anche il sindaco, al suo paese, Salice d’Ulzio. Mai pensato a una carriera politica?
«L’ho fatto cinque anni, ma mai avrei mai mollato il mio mondo per la politica».
E oggi cosa fa Piero Gros?
«Sono quasi in pensione, mio nipote Thomas ha 4 anni e mi diverto a portarlo a sciare sulle nostre montagne».
«Sono nato e cresciuto in montagna in una famiglia contadina. Non ho mai dimenticato le mie origini, alle quali sono tuttora molto legato». Queste sono sue parole.
«È così. Sono presidente di un consorzio agricolo, mi occupo di gestione del territorio e di pascoli per mantenere la tradizione della transumanza. Non voglio vedere andare in rovina i pascoli dove mio nonno e mio padre si spezzavano la schiena a falciare l’erba. Noi siamo montanari grati alla montagna».
Deborah Compagnoni. Deborah Compagnoni: «Federica Brignone, Sofia Goggia, Arianna Fontana, cosa penso delle Olimpiadi». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 21 febbraio 2022.
Compagnoni è ambasciatrice delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026: «L’argento di Brignone la medaglia più emozionante. Goggia ha strameritato la medaglia. Fontana, valtellinese come me, è stata formidabile»
Alla televisione, dividendosi tra Santa Caterina e gli studi Rai, da ambasciatrice di Milano-Cortina 2026 Deborah Compagnoni non ha perso un minuto dell’Olimpiade di Pechino.
La medaglia italiana che in Cina l’ha emozionata di più, Deborah?
«Beh per averla vissuta personalmente a Lillehammer ‘94 e Nagano ‘98 (due ori, ndr), quella d’argento di Federica Brignone in gigante: nella seconda manche ero in ansia, è stata bravissima. Quando è toccato alla Goggia in discesa ho sperato che non accedessero imprevisti, ma Sofia è scesa prudente dopo l’infortunio e ha strameritato la medaglia».
Ricorderemo Pechino 2022 come un’Olimpiade memorabile?
«Ho percepito un’ottima organizzazione. Ma mi hanno colpito anche i gruppetti di cinesi sugli spalti con le bandiere delle varie nazioni, essendo Giochi a porte chiuse. Ce la ricorderemo soprattutto come un’Olimpiade blindata, speriamo l’ultima».
Con Milano-Cortina i Giochi tornano a casa: al centro dell’Europa, sulle Alpi e con un fuso congeniale.
«Sarà un’Olimpiade, rispetto a Pyeongchang e Pechino, con una marcia in più. Giochi organizzati per la gente tra la gente, accessibili al tifo».
Cosa prevede il suo ruolo da ambasciatrice?
«Il mio sostegno al valore della sostenibilità, declinata su tre aspetti: economica, cioé sarà un’Olimpiade che si autofinanzierà il più possibile; ambientale perché si adatterà al territorio e non viceversa, con un rispetto massimo per l’ambiente; sociale perché si lega ai nostri territori, la mia Lombardia e il Veneto, ma non solo: saranno i Giochi di tutti, la gente tornerà a tifare sulle Alpi. Non a caso è stato il pubblico a votare logo e inno. E Malika Ayane ha cantato quello di Mameli nel segmento della cerimonia di chiusura dedicato all’Italia. Emozionante».
Fontana, Goggia, Brignone, Lollobrigida, Constantini, Wierer, Delago... Sono stati Giochi delle donne, come già succedeva ai suoi tempi con lei, Belmondo e Di Centa.
«Fontana, valtellinese come me, è stata formidabile. Da Torino 2006 a Milano-Cortina 2026: se dopo vent’anni di short track chiudesse in un’altra Olimpiade casalinga, sarebbe un segnale di straordinaria longevità. Tutte le azzurre mi sono piaciute».
A volte un po’ litigarelle, ma pazienza.
«Esagerazioni, argomenti che non trovo interessanti. Mi piace di più parlare di sci: per me gli argenti di Sofia e Federica valgono uguale».
Il suo sci alpino ha un problema al maschile: l’oro manca da Razzoli a Vancouver 2010, Pechino è la seconda Olimpiade senza medaglie.
«Non si può pensare di costruire una squadra giovane di punto in bianco, i veterani devono dare l’esempio, poi si cresce insieme. Spero che Paris faccia da faro per Milano-Cortina, in fondo in Cina il francese Claery ha vinto un argento in discesa a 41 anni! Manchiamo nello slalom donne e nel gigante uomini, ma anche il fondo femminile deve lavorare per recuperare il gap. Quattro anni sembrano tanti, invece passano in un momento».
Una bella sfida.
«Per i tecnici azzurri sicuramente. Il vivaio c’è, poi ci si perde nel passaggio da junior al professionismo, quando diventa difficile conciliare scuola e sci. E i soldi: lo sci è una disciplina che costa parecchio, le famiglie andrebbero sostenute economicamente».
Il caso Valieva, una pattinatrice russa dopata a 15 anni, l’ha colpita?
«Molto. In Russia c’è un sistema spietato che recluta le ragazzine giovanissime e le costruisce senza sconti: come fa una bambina, senza “aiuti”, a reggere quel ritmo? Valieva non ha colpe però è una vita distrutta. Straziante».
Torniamo a Milano-Cortina, quale valore aggiunto dà a un atleta l’Olimpiade in casa?
«C’è chi si gasa e chi si sente troppo responsabilizzato. A me sciare sulla nostra neve piaceva e il tifo mi faceva sentire bene: al Mondiale del Sestriere vinsi due ori. Però non ci sono regole: ciascuno reagisce a modo suo».
E se ad accendere il braciere nel 2026 fossero Compagnoni e Tomba, i nostri totem dello sci?
«Sarebbe bellissimo ma lo spirito olimpico non è solo lo sci alpino. È più ampio».
Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2022.
La valanga si è portata via Jacopo ma non il suo sorriso.
«Era bellissimo e speciale. Un mese fa la morte di mio fratello sembrava sospesa, irreale, adesso invece l'incredulità si è fatta concreta e dolorosa. Lo sento di più, oggi, il lutto». Deborah Compagnoni è tornata a casa, Santa Caterina Valfurva. L'albergo di famiglia è in mano a Yuri, il maggiore, papà Giorgio trova conforto nelle nipotine, è mamma Adele ad aver bisogno più di tutti del calore di questa figlia campionessa e globetrotter, nata per sciare, tre ori in tre edizioni consecutive dei Giochi (più tutto il resto), cuore grande e ginocchia di cristallo.
«Darsi spiegazioni, come si fa? - si chiede Deborah, accomodata tra il legno di un salotto affacciato sulla sua valle -. Io credo nel destino. Quando deve accadere, accade. Mi piace pensare così perché mi aiuta a vivere meglio. Provo a essere forte, a tenere su i miei. Jacopo aveva un'energia stupenda, conosceva la montagna a menadito, non si può dire che abbia commesso alcun errore. È andata così. Certo, per chi resta, è straziante».
Santa Caterina, dove tutto è cominciato su un paio di scietti azzurri senza marca («Avrò avuto 2-3 anni, papà che è maestro ha notato subito che su quelle due piccole assi ci sapevo stare, andavo dietro a Yuri però non era scontato arrivare in Coppa del mondo: il talento non basta, ci vogliono disciplina e tenacia, bisogna imparare a sbagliare»), è il luogo dell'anima.
Qui Deborah ha vinto, perso, si è innamorata, ha riso e pianto.
«Don Giovanni, il parroco, suonava le campane per i miei successi. I trofei sono esposti in hotel, le medaglie le ho io a Treviso, i pettorali di una carriera sono in uno scatolone chissà dove, mai più aperto né con i miei figli né con i nipoti. Non mi è mai piaciuto vantarmi».
Trionfare con umiltà, in effetti, è sempre stata una delle sue specialità, assieme a una scorrevolezza straordinaria. «La prima medaglia, al Mondiale junior '86, l'ho vinta in discesa libera. All'epoca non ci stavo troppo a pensare: mi piaceva tutto, avevo voglia di sciare, mi iscrivevo a ogni gara e in squadra non si stava tanto a sottilizzare. Oggi si specializzano subito. Nel 1988 mi sono rotta il ginocchio sinistro e da lì in poi sono stata costretta a scegliere. La disciplina in cui mi trovavo più a mio agio è il gigante: è il raggio di curva che normalmente fai anche nello sci libero, lo stile più naturale».
Senza infortuni quanto avrebbe vinto di più?
«Come nel caso di Jacopo, la storia non si può cambiare. Quante cose si potevano fare diversamente? Mi piace cogliere gli aspetti positivi degli stop forzati: impari a conoscerti di più, a trattarti meglio, a coltivare la pazienza. È un lavoro di testa. Io durante gli infortuni ho sempre fatto tante cose, anche dipinto».
Le ginocchia, a 51 anni, si fanno ancora sentire?
«Considero il sinistro, quello che mi ruppi all'Olimpiade di Albertville '92 il giorno dopo aver vinto l'oro in superG, il mio ginocchio sano. Con il destro, invece, che fu operato male inserendo un legamento artificiale, ci convivo da quando avevo 18 anni. Nei fuori pista un po' bruttini devo stare attenta».
Il grido in diretta mondiale di Albertville risuona ancora nelle orecchie di un'intera generazione di italiani, Deborah.
«Ho capito subito che non era un infortunio banale. C'è l'urlo di Tardelli per il gol al Mondiale che ha dato gioia agli italiani e poi c'è il mio...».
Ci avviciniamo all'Olimpiade di Pechino con una squadra femminile fortissima. Segue ancora lo sci? Continua a piacerle?
«In ventidue anni, da quando ho smesso, oltre agli attrezzi è cambiato tutto. Con i social le notizie fanno il giro del mondo in un secondo, gli atleti sono personaggi».
Sofia Goggia, Federica Brignone (che l'ha superata nel numero di vittorie in Coppa del mondo), Marta Bassino: si rivede nella valanga azzurra?
«Di Sofia mi piace l'istinto, il fatto che non faccia calcoli: scende di pancia, anch' io ero un po' fatta così. Federica è l'unica polivalente e ha una bella caratteristica che condividiamo: riesce sempre a riprendersi senza farsi abbattere, questione di carattere. Marta ha alti e bassi però in gigante la sua tecnica è sopraffina: bellissima da vedere. Mi piacciono perché hanno una loro umanità, non sono solo macchine da guerra».
Lei e Tomba siete stati i simboli di un'Italia che negli Anni 90 si dava appuntamento davanti alla tv per fare il tifo. Perché secondo lei siete ancora così presenti nella memoria collettiva?
«I social non esistevano, i telefonini neppure, c'era un unico canale, in chiaro, che trasmetteva le gare. La notizia nasceva nel momento in cui io e Alberto tagliavamo il traguardo e noi eravamo disposti a raccontarci lì, in tv, con i piedi ancora nella neve, dentro gli scarponi, non era possibile cercarci su Google. Tifavano per noi anche i non sciatori, io e Alberto ci mettevamo i risultati e la costanza: eravamo diventati una certezza, una garanzia, quasi due amici fedeli per gli appassionati».
Mezza Italia sperava che vi fidanzaste...
«Oh no, eravamo troppo diversi! Per come la concepisco io, cioè come un valore importante, quella con Alberto non è mai stata un'amicizia stretta, certo ci capivamo perché condividevamo le stesse esperienze ed emozioni. Oggi ci sentiamo per gli auguri di compleanno, un saluto a Natale, cose così».
Nella storia del costume è rimasta la celebre affissione pubblicitaria di un reggiseno, che grazie a lei vendette 10 mila pezzi in una settimana. Castigata per il senso del pudore odierno ma pur sempre la mossa che non ti aspettavi dalla fatina delle nevi, Deborah Compagnoni.
«E pensi che Giulia, la mia storica manager, non dovette nemmeno insistere troppo per convincermi! In una vita scandita dai ritmi dell'atleta, concedermi quell'escursione era stato come ossigenarmi i polmoni.
Mi sono buttata, divertendomi. A quei tempi una famosissima top model, Eva Herzigova, era testimonial di un reggiseno concorrente. Un giorno, in un'intervista, si lamentò di certe sportive bruttarelle che le facevano concorrenza. Le risposi con un sorriso dalla copertina dell'Espresso: non te la prendere, Eva, anzi se vieni su in montagna ti insegno a sciare...».
L'emozione più intensa di tutte?
«Gli ori sono tutti belli uguali: rappresentano il raggiungimento di un obiettivo per il quale hai sacrificato tanto della tua vita privata. Il primo oro olimpico, ad Albertville, non feci nemmeno in tempo a festeggiarlo: il giorno dopo mi portavano via in barella con il ginocchio a pezzi.
Io in Savoia non ci volevo nemmeno andare: non mi sentivo pronta, alla vigilia della partenza con la Nazionale mi sono nascosta a casa della nonna. È venuto mio fratello a stanarmi! A Lillehammer, due anni dopo, e a Nagano nel '98, invece, ci tenevo ad esserci: in Giappone ero più adulta, matura, consapevole. Dopo aver vinto l'argento in slalom corsi il gigante rilassata, come chi non ha proprio nulla da perdere. Oro. Forse la medaglia che mi sono goduta di più. È stata anche la mia ultima vittoria in carriera».
Cosa aspetta a scrivere un libro?
«Tutti scrivono libri, o fanno finta. Nel febbraio '98 mi divertii a sceneggiare una storia di Topolino, "La torta nevosa". Ma perché scrivere un libro, poi? Per raccontare per l'ennesima volta le cose che tutti sanno?».
Forse varrebbe la pena di aspettare Milano-Cortina 2026, l'Olimpiade italiana di cui è ambasciatrice.
«Partiamo da un concetto di base: lo sport è centrale nella società e ha un impatto positivo sulla salute, l'occupazione e la coesione sociale. Per la Fondazione Milano-Cortina seguirò vari progetti: quello a cui tengo di più è la sostenibilità dei Giochi italiani. Il 93% delle sedi di gara sono esistenti o verranno realizzate con strutture non permanenti e modulari che permetteranno di essere riutilizzate in futuro e messe a disposizione delle esigenze della comunità. Progettazione, costruzione e funzionamento di tutti gli impianti dovranno apportare valore alle comunità prima, durante e dopo l'evento.
Dimostrare che i Giochi olimpici possono essere in prima linea nella sostenibilità e fare in modo che resti un lascito positivo è essenziale per mantenerne l'attrattiva a lungo termine. Con tutto il rispetto per Pechino 2022, Milano-Cortina riporterà l'evento al centro dell'Europa e delle Alpi: saranno davvero le Olimpiadi di tutti e dell'inclusione». Sostenibilità significa anche pesare meno sui costi pubblici.
«L'idea di partenza è che i Giochi pagheranno i Giochi. La Fondazione Milano-Cortina 2026 si finanzierà attraverso i contributi del Comitato olimpico internazionale e con un'attività di ricerca sponsor e vendita di diritti di marketing e commerciali. Non peserà sulle tasche della gente, insomma».
Nel programma dei Giochi 2026 entrerà per la prima volta lo sci alpinismo, grande amore di suo fratello Jacopo.
«Non ha bisogno di impianti di risalita: è lo sport più ecologico che esista. Qui in Valtellina c'è una tradizione radicatissima. Quando ho una mattina libera, piuttosto che fare sci libero, prendo le pelli e vado con gli sci d'alpinismo dove non arriva nessuno, dove la neve è intonsa e incontaminata. E allora mi sento libera, e un po' più vicina a Jacopo».
I suoi figli hanno ereditato la sua passione per lo sport e lo sci?
«Agnese e Tobias sono grandi, studiano negli Stati Uniti, dove lo sport fa parte del programma delle università. Luce ha 15 anni, me la godo ancora, è molto dedicata allo studio».
E nell'amore, Deborah, crede ancora?
«Ne vedo poco in giro, nel mondo, e me ne dispiaccio. Però sì, certo, ci credo ancora ciecamente. L'amore in ogni sua forma: è la forza che mi tiene in piedi e mi fa andare avanti».
Michael Phelps. C’era uno squalo a Baltimora: Phelps, una pinna lungo il dorso. Dal disturbo dell’iperattività all’incetta del medagliere. Lo statunitense Michael Phelps, detto "il proiettile di Baltimora", è stato probabilmente il più grande nuotatore di sempre. Paolo Lazzari il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.
La clinica dista una manciata di minuti da casa, una villetta senza pretese che lambisce un quartiere residenziale di Baltimora. Più le lancette scorrono, più il dottore assume un’aria compassata. La preoccupazione di Debbie si arrampica insopprimibile dalle pareti dello stomaco, mentre Michael dondola sulla sedia, incapace di trovare poso. Poi il medico dischiude quelle labbra sottili ed emette il funereo verdetto. “Senta, signora. Suo figlio ha un deficit dell’attenzione e un disturbo da iperattività”. Debbie sente che le stanno grattando via la vita. Però poi il dottore fa anche un’altra cosa. Le allunga un flaconcino di pillole, rassicurandola: “Gliene dia una al giorno dopo i pasti, dovrebbe migliorare”.
La famiglia Phelps resta a galla senza un padre. Ci sono le sorelle Whitney e Hilary, c’è una madre apprensiva e c’è un terremoto di bambino. Ha leve lunghe, spalle ampie e orecchie prominenti. Sfreccia da una parte all’altra della casa, strilla, riga ogni momento di conquistata quiete. E non riesce mai a concentrarsi su più di una cosa. Le sue consanguinee, di cinque anni più grandi, provano a svignarsela appena possono. Quando però la misura è colma, implorano la mamma: “Senti, perché non lo mandi a nuoto? Il Maryland è pieno di piscine. Fallo sfogare in una vasca”.
Debbie non se lo lascia ripetere due volte e lo iscrive al primo corso utile. Prima di farlo immergere, premurosa, avverte il suo allenatore circa i problemi del figlio. Ad un certo punto, lungo quel bordo piscina, estrae anche il flaconcino con le pillole colorate dalla borsa. L’uomo lo osserva, poi scruta il ragazzo. Quindi afferra il flaconcino e lo getta via. Debbie adesso è confusa. Il tizio invece fruga sicuro nel suo borsone, poi torna indietro con un lettore cd. Infila le cuffie a Michael e mette su un po’ di musica. Eminem, per la precisione. Poi rivolge uno sguardo benevolo alla mamma: “A suo figlio non servono medicine. Gli serve solo un po’ di ritmo”.
Quel passaggio immette Phelps nella corsia della vita. Bob Bowman, che resterà al suo fianco per tutta la carriera, è l’uomo che accende l’interruttore nella trama. “Lascia perdere tutto il resto. Fai una cosa sola: nuota”. E Michael, che certo non difetta di energie, inizia a sbracciare. Tra le sue indecifrabili increspature, l’acqua racchiude un destino radioso. A quindici anni è già il più giovane atleta a prendere parte alle Olimpiadi (a Sidney) dal 1932: arriva quinto, ma il mondo inizia a voltarsi di scatto quando passa.
Intanto la sua cassa toracica si espande. Le spalle erompono verso l’esterno. I muscoli guizzano. Tra le scapole, giurerebbero gli addetti ai lavori, sta spuntando una pinna. Nel marzo del 2001 confeziona un altro primato: diventa il più precoce nuotatore al mondo ad infrangere il record dei 200 farfalla, il suo cortile di casa. Michael si è staccato dal bordo, per non fermarsi più. Yokohama, Barcellona, Atene: ovunque si tuffa, fa incetta di medaglie. Per tutti diventa in fretta “lo squalo di Baltimora”, o “il cannibale”, o ancora “Kid”. Raffigurazioni icastiche del medesimo dominio, una ricetta che mixa limpida tecnica a impulsi tribali.
Medagliere Europei nuoto 2022. Medaglie Italia: saliamo a 67 podi, con ben 24 ori! Claudio Franceschini il 21.08.2022 su Il Sussiadiario.net
Medagliere Europei nuoto 2022: le medaglie dell’Italia diventano 67 con 24 ori, nella giornata conclusiva (domenica 21 agosto) altre quattro medaglie che aumentano il nostro grande bottino.
Nel medagliere degli Europei nuoto 2022 l’Italia tocca quota 67 medaglie: non ci ferma più nessuno, dalla giornata di oggi arriva un altro oro corredato qualche minuto prima da un argento. Andiamo con ordine: avevamo salutato lo splendido trionfo di Domenico Acerenza nella 10 Km di fondo in acque libere, e poco più tardi l’argento di Ginevra Taddeucci. Ebbene: entrambi hanno partecipato alla staffetta 4×1250, che nelle acque di Ostia ha vinto la medaglia d’oro nel team event. Argento all’Ungheria, bronzo alla Francia che ha dovuto nuotare senza Marc-Antoine Olivier, secondo questa mattina; come detto però, appena prima avevamo vinto un argento con Lorenzo Marsaglia e Giovanni Tocci, nella finale dei tuffi sincro dal trampolino 3 metri.
MEDAGLIERE EUROPEI NUOTO 2022
Italia 24-24-19
Gran Bretagna 10-7-8
Ucraina 9-6-1
Germania 6-2-7
Ungheria 5-8-3
Olanda 5-1-8
Svezia 4-2-2
Francia 3-8-10
Romania 3-1-0
Svizzera 1-4-0
Grecia 1-2-1
Lituania 1-0-3
Bosnia 1-0-1
Israele 1-0-0
Medagliere Europei nuoto Roma 2022. Medaglie Italia: Paltrinieri oro, siamo a 60. Mauro Mantegazza su Sussidiario.net il 20 Agosto 2022.
Il medagliere degli Europei nuoto Roma 2022 per l’Italia strabilia ogni giorno di più, oggi fin dal mattino perché abbiamo appena vissuto una 5 km di nuoto di fondo in acque libere semplicemente trionfale in campo maschile, con Gregorio Paltrinieri vincitore e medaglia d’oro davanti al compagno di squadra Domenico Acerenza, che ha quindi portato la medaglia d’argento all’Italia. Per completare un ideale podio tutto italiano, non poteva mancare la medaglia di bronzo arrivata grazie a Giulia Gabbrielleschi nella medesima gara al femminile, per una mattina trionfale nel mare di Ostia dopo due giorni di rinvii. Ricordiamo anche cosa era successo nella giornata di ieri, dedicata esclusivamente ai tuffi: vittoria e medaglia d’oro di Chiara Pellacani nel trampolino 3 metri femminile e medaglia di bronzo per Elisa Cosetti nella gara femminile dei tuffi dalle grandi altezze.
Il medagliere degli Europei nuoto Roma 2022 vede quindi l’Italia toccare la cifra tonda di 60 medaglie complessive, suddivise in 21 ori, 22 argenti e 17 bronzi, con il nuoto di fondo in acque libere che immediatamente porta onoro, un argento e un bronzo per cominciare a contribuire al trionfo totale in questi Europei di nuoto Roma 2022 che non potremo mai dimenticare. L’altra medaglia d’oro è andata all’Olanda con Sharon Van Rouwendaal, in questo modo la sua Nazionale sale al sesto posto ma possiamo tra l’altro dare per ufficiale e matematico il primo posto finale dell’Italia nel medagliere degli Europei di nuoto Roma 2022: verrebbe da dire che non sia nemmeno più una notizia, ma con 12 ori di vantaggio sul secondo posto dell’Ucraina nemmeno una clamorosa e inverosimile serie di eventi potrebbe cambiare il destino.
Le medaglie vinte dall'Italia agli Europei di nuoto 2022. La Repubblica il 18 Agosto 2022.
L'Italia della 4x100 misti uomini è d'oro
L'Italia polverizza il resto d'Europa. La staffetta della 4x100 misti uomini è azzurra: medaglia d'oro per Thomas Ceccon, Nicolò Martinenghi, Matteo Rivolta e Alessandro Miressi. I nuotatori italiani hanno chiuso in 3'28"46, nuovo record dei campionati. Argento alla Francia con 3'32"50, bronzo all'Austria con 3'33"28.
La staffetta 4x100 misti uomini. Da sinistra: Ceccon, Rivolta, Martinenghi e Miressi (afp)
Quadarella d'argento nei 400 stile
Simona Quadarella ha vinto la medaglia d'argento nei 400 stile libero. L'azzurra, con il tempo di 4'04"77, è stata preceduta dalla tedesca Isabel Marie Gose (4'04"13). Bronzo all'ungherese Ajna Kesely (4'08"00).
Simona Quadarella (reuters)
Razzetti argento nei 200 misti
Alberto Razzetti ha vinto la medaglia d'argento nei 200 misti, la sua terza medaglia in questo Europeo. L'azzurro ha chiuso in 1'57"82, dietro all'ungherese Huberto Kos (1'57"72). Bronzo al portoghese Gabriel Jose Lopes (1'58"34).
Alberto Razzetti (ansa)
Cusinato bronzo nei 200 farfalla
Ilaria Cusinato ha vinto la medaglia di bronzo nei 50 farfalla, che ha gareggiato con la cuffia di Greg Paltrinieri. L'azzurra (2'07"77) è stata preceduta dalla bosniaca Lana Pudar, oro in 2'06"81. Argento per la danese Rosendahl Bach (2'07"30).
Ilaria Cusinato in gara nei 200 farfalla (reuters)
Ceccon d'oro nei 100 dorso
Thomas Ceccon ha vinto la medaglia d'oro nei 100 dorso, dopo l'argento nei 50. L'azzurro in 52"21 ha preceduto il greco Apostolos Christou (52"24), bronzo al francese Yohann Ndoye Brouard (52"92).
Thomas Ceccon, campione europeo dei 100 dorso (reuters)
Pilato, argento nei 50 rana
Benedetta Pilato ha vinto la medaglia d'argento nei 50 rana. L'azzurra ha toccato in 29"71. Oro alla lituana Ruta Meilutyte, 29"59. Bronzo alla britannica Imogen Clark, 30"31.
Benedetta Pilato (afp)
Deplano, argento nei 50 stile
Leonardo Deplano ha vinto la medaglia d'argento nei 50 stile libero, la gara più veloce della vasca. L'azzurro ha nuotato in 21''60, a due centesimi dall'inglese Proud, medaglia d'oro. Bronzo per il greco Gkolomeev.
Leonardo Deplano (reuters)
Tuffi, Pellacani-Santoro bronzo nel sincro misto
Chiara Pellacani e Matteo Santoro vincono la medaglia di bronzo nel sincro misto dal trampolino 3 metri. Gli azzurri totalizzano un punteggio di 283.85 chiudendo alle spalle della Germania (294.69) e della Gran Bretagna (290.76).
Staffetta 4x100 sl mista di bronzo
L'Italia è medaglia di bronzo nella staffetta 4x200 stile libero mista. Gli azzurri Stefano Di Cola, Matteo Ciampi, Alice Mizzau e Antonietta Cesarano tocca in 7'31"85, alle spalle della Gran Bretagna (7'28"16) e della Francia (7'29"25).
La staffetta azzurra: da sinistra Stefano di Cola, Matteo Ciampi, Alice Mizzau e Antonietta Cesarano (reuters)
Paltrinieri argento nei 1500
Gregorio Paltrinieri è secondo e medaglia d'argento nella finale dei 1500. Il campione di Carpi chiude in 14'39"79 ma non può nulla contro l'ucraino Mykhaylo Romanchuk che si impone in 14'36"10. Bronzo al francese Damien Joly in 14'50"86.
Sara Franceschi bronzo nei 200 misti
E' di bronzo la medaglia conquistata nei 200 misti da Sara Franceschi. La 23enne livornese ha nuotato in 2'11"38 ed è stata preceduta dall'israeliana Gorbenko, oro in 2'10"92, e dall'olandese Steenbergen, argento in 2'11"14.
Oro e argento, rana azzurra con Martinenghi e Cerasuolo
L'Italia domina la finale dei 50 rana. Oro a Nicolò Martinenghi, che fa il bis dopo il successo nei 100. Il varesino chiude in 26"33, seguito dall'altro azzurro Simone Cerasuolo (26"95). Medaglia di bronzo al tedesco Lucas Matzerath (27"11).
La farfalla di Razzetti è di bronzo
Terzo posto e medaglia di bronzo per Alberto Razzetti nella finale dei 200 farfalla. Il 23enne ligure ha chiuso in 1'55"01 alle spalle degli ungheresi Kristof Milak (oro in 1'52"01) e Richard Marton (argento, 1'54"78).
Tuffi, Bertocchi oro e Pellacani bronzo nel trampolino un metro
Elena Bertocchi oro e Chiara Pellacani bronzo. A distanza di un anno e tre mesi, il podio del trampolino da un metro degli Europei di tuffi resta invariato, almeno per il piazzamento delle due italiane. Bertocchi si è laureata per la terza volta 'Regina d'Europa' dal metro dopo Kiev 2017 (era l'edizione dedicata ai soli tuffi) e Budapest 2020 (svolta nel 2021). Per la 27enne milanese un punteggio di 264.25, la 19enne romana è terza con 259.05 perdendo l'argento al quinto ed ultimo tuffo. Seconda la svedese Emma Gullstrand con 259.65 punti.
Tuffi piattaforma, Timbretti-Di Maria oro nel sincro misto
Sarah Jodoin Di Maria ed Eduard Timbretti Gugiu hanno conquistato la medaglia di bronzo nel sincro misto dalla piattaforma 10 metri. La coppia ha totalizzato 290.28 punti. L'oro è andato ai britannici Kyle Kothari e Lois Toulson con 300.78. Argento agli ucraini Sofiia Lyskun e Oleksii Sereda con 298.59.
Quadarella, oro bis: trionfo nei 1500. Caramignoli bronzo
Simona Quadarella si prende anche l'oro dei 1500 stile libero dopo quello negli 800. La campionessa romana comanda dall'inizio alla fine chiudendo in 15'54"15, alle sue spalle l'ungherese Mihalyvari Farkas. Medaglia di bronzo per Martina Rita Caramignoli in 16'12″39.
Ceccon si prende l'argento
Dopo l'oro nei 50 farfalla e quello nella staffetta, Thomas Ceccon è argento nei 50 dorso. Il 21enne veneto nuota in 24"40, nuovo record italiano, ma si arrende per 4 centesimi al greco Apostolos Christou (24"36). Bronzo al tedesco Ole Braunschweig (24"68).
Martina Carraro argento nei 200 rana
Martina Carraro è argento nei 200 rana. L'azzurra chiude con il tempo di 2'23"64 cedendo solo alla svizzera Lisa Mamie (2'23"27). Bronzo per la lituana Kotryna Teterevkova (2'24"16).
Sincro, argento nel libero a squadre
Italia sul podio anche nel libero a squadre femminile, la gara che chiude il programma del nuoto artistico. Domiziana Cavanna, Linda Cerruti, Costanza Di Camillo, Costanza Ferro, Gemma Galli, Marta Iacoacci, Francesca Zunino, Enrica Piccoli, Marta Murru e Federica Sala vincono l'argento on il punteggio di 92.6667, posizionandosi alle spalle dell'Ucraina, oro con 95.1000. Bronzo alla Francia con 90.5667.
Tuffi, Italia oro nel Team Event
Italia d'oro nella gara che ha aperto il programma dei tuffi agli Europei. Nel Team Event gli azzurri Sarah Jodoin Di Maria, Andreas Sargent Larsen, Chiara Pellacani e Eduard Timbretti Gugiu trionfano con il punteggio di 402.55 davanti all'Ucraina (399.05) e alla Gran Bretagna (384.70).
Cerruti e Ferro di bronzo
Dal nuoto artistico arriva un'altra medaglia. Linda Cerruti e Costanza Ferro hanno conquistato il bronzo nel duo tecnico. Le due atlete liguri, compagne di club nella Marina Militare e nella Rari Nantes Savona, vent'anni in acqua insieme, amiche anche fuori dalla piscina, hanno totalizzato 90.3577 punti. Oro alle gemelle ucraine Maryna e Vladyslava Aleksiva (92.8538), argento alle gemelle austriache Anna-Maria ed Eirini-Maria Alexandri (91.9852).
Minisini-Ruggiero, ancora un oro
Giorgio Minisini e Lucreazia Ruggiero si prendono un altro oro nel nuoto artistico. Dopo quello nel duo libero, la coppia azzurra si ripete nel duo misto. I due romani hanno ottenuto il punteggio di 89.7333. Medaglia d'argento alla Spagna, con la coppia Emma Garcia e Pau Ribes Culla (84.7667); bronzo alla Slovacchia, con Jozek Solymosy e Silvia Solymosyova, con il punteggio di 77.0333.
La staffetta 4x100 è d'oro
L'Italia è medaglia d'oro nella 4x100 stile libero maschile. La staffetta formata da Alessandro Miressi, Thomas Ceccon, Lorenzo Zazzeri e Manuel Frigo precede tutti con il tempo di 3'10"50 davanti a Ungheria e Gran Bretagna.
Pizzini bronzo nei 200 rana
A 33 anni Luca Pizzini sale sul podio nella finale dei 200 rana vincendo il bronzo con il tempo di 2:09:97. Oro all'inglese James Wilby, l'argento va al finlandese Matti Mattsson.
Scalia d'argento
Silvia Scalia si prende la medaglia d'argento nei 50 dorso. L'azzurra è seconda in 27"53 alle spalle della francese Analia Pigree (27"27). Bronzo all'olandese Maaike De Waard (27"54).
Libero combinato, Italia d'argento
Argento per l'Italia nel libero combinato agli Europei. Per le azzurre il punteggo è 92.6667. E' la medaglia numero 50 della Nazionale di sincro nella storia degli Europei. Oro all'Ucraina, bronzo alla Grecia. Insieme al capitano Gemma Galli, volteggiano Domiziana Cavanna e Linda Cerruti, Costanza Di Camillo e Costanza Ferro, Marta Iacoacci, Marta Murro, Enrica Piccoli, Federica Sala e Francesca Zunino.
Minisini si prende un altro oro
Giorgio Minisini è ancora d'oro, per la terza volta a Roma. Il 26enne romano trionfa nel solo libero dominando la gara. Terzo titolo dopo quello nel singolo e nel duo misto libero.
Linda Cerruti argento nel solo libero
Terza medaglia per Linda Cerruti nel nuoto artistico. L'azzurra è argento nel solo libero alle spalle dell'ucraina Marta Fiedina. E' la terza medaglia a Roma per la 28enne nata a Savona.
Paltrinieri re degli 800, Galossi è di bronzo
Gregorio Paltrinieri domina gli 800 stile libero regalando all'Italia un grande oro. Il carpigiano chiude in 7'40"86 precedendo il tedesco Lukas Maertens. Medaglia di bronzo per il classe 2006 Lorenzo Galossi in 7'43"37, nuovo record del mondo juniores.
Pilato oro e Angiolini argento nei 100 rana donne
Arrivano due medaglie dai 100 rana femminili. Benedetta Pilato è oro in 1'05"97. Fantastico argento per Lisa Angiolini con 1'06"34, terza la lituana Meilutyte in 1'06"50.
Miressi bronzo nei 100 stile libero
Medaglia di bronzo per Alessandro Miressi nei 100 stile libero. L'azzurro ha chiuso in 47"63 alle spalle dell'ungherese Kristof Milak. Oro e record del mondo per il 17enne rumeno David Popovic in 46"86.
Sincro, Minisini e Ruggiero oro nel duo misto libero
Giorgio Minisini e Lucrezia Ruggiero vincono l'oro nel duo misto libero. Gli azzurri hanno totalizzato in finale 89.7333 punti. Argento alla Spagna con 84.7667, bronzo alla Slovacchia con 77.0333. Per Minisini è il secondo oro nella rassegna continentale dopo quello vinto ieri nel solo tecnico maschile.
Cerruti e Ferro bronzo nel duo libero di sincro
Medaglia di bronzo per Linda Cerruti e Costanza Ferro nel duo libero di nuoto artistico. Le azzurre hanno totalizzato 91.700 punti, battute soltanto da Ucraina (oro con 94.733) e Austria (argento con 93.000).
Italia argento nella staffetta 4x100 mista mixed
La staffetta italiana è argento nella 4x100 mista mixed. Gli azzurri Thomas Ceccon, Nicolò Martinenghi, Elena Di Liddo e Silvia Di Pietro toccano in 3'43"61 alle spalle dell'Olanda vincitrice in 3'41"73. Bronzo alla Gran Bretagna in 3'44"69.
Quadarella ancora d'oro negli 800
Simona Quadarella si veste ancora d'oro negli 800 sl. La 23enne romana vince il terzo titolo europeo consecutivo sulla distanza chiudendo con il tempo di 8'20"54. Sul podio anche la tedesca Isabel Marie Gose (8'22"01) e la turca Merve Tuncel (8'24"33).
Doppietta azzurra nei 100 rana: oro Martinenghi, argento Poggio
Nicolò Martinenghi si conferma il più forte nei 100 rana. Dopo l'oro mondiale arriva anche il titolo europeo per il 23enne varesino, che in 58"26 precede l'altro azzurro Federico Poggio (58"98). Bronzo al lituano Andrius Sidlauskas (59"50).
Ceccon oro nei 50 farfalla
Thomas Ceccon vince un oro storico, primo azzurro a conquistare il titolo europeo nei 50 farfalla. Ceccon si è imposto in 22"89 davanti al francese Maxime Grousset (22"97) e al portoghese Diogo Matos Ribeiro (23"07).
Margherita Panziera trionfa nei 200 dorso
Terzo oro europeo consecutivo nei 200 dorso per Margherita Panziera. L'azzurra si è imposta in 2'07"13 precedendo la britannica Katie Shanahan (2'09"26) e l'ungherese Dora Molnar (2'09"73).
Sincro, Italia argento nella specialità highlight
L'Italia è d'argento nel nuoto artistico, specialità highlight. Le azzurre Domiziana Cavanna, Linda Cerruti, Costanza Di Camillo, Costanza Ferro, Gemma Galli, Veronica Gallo, Marta Iacoacci, Marta Murru, Enrica Piccoli, Federica Sala chiudono con 91.7000 alle spalle dell'Ucraina vincitrice con il punteggio di 94.0667. Bronzo alla Francia.
Giorgio Minisini oro nel Solo tecnico del sincro
Giorgio Minisini ha vinto la medaglia d'oro nel Solo tecnico di nuoto sincronizzato. L'azzurro, all'esordio internazionale nel singolo, ha incantato il pubblico del Foro Italico con l'esercizio "A Plastic Sea", dominando con 85.7033 punti (26.4000 di esecuzione, 25.9000 l'impressione artistica, 33.4033 gli elementi). A completare il podio lo spagnolo Fernando Diaz Del Rio, medaglia d'argento con 79.4951 punti, e il serbo Ivan Martinovic, bronzo con il punteggio di 58.4951.
Linda Cerruti argento nel Solo tecnico del sincro
Linda Cerruti ha vinto la medaglia d'argento nel Solo tecnico del nuoto sincronizzato agli Europei di Roma. L'azzurra ha ottenuto un punteggio di 90.8839, Circa due punti meglio della greca Evangelia Platanioti (88.9965), quarta, che ai Mondiali di Budapest le aveva negato il podio. Oro all'ucraina Marta Fiedina, con 92.6394, Bronzo all'austriaca Vasiliki Alexandri (90.0156).
Argento nella 4x200 stile uomini
L'Italia ha vinto la medaglia d'argento nella staffetta 4x200 stile libero ai campionati europei di Roma. Gli azzurri Marco De Tullio, Lorenzo Galossi, Gabriele Detti e Stefano Di Cola hanno toccato il blocchetto in 7'06"25 dopo l'Ungheria (7'05"38). Bronzo alla Francia 7'06"97.
L'Italia della 4x200 stile (reuters)Alberto Razzetti oro nei 400 misti uomini
Il primo oro dell'Italia agli Europei di nuoto lo conquista Alberto Razzetti nei 400 stile uomini. Secondo l'ungherese Verraszto, terzo l'altro azzurro Pier Andrea Matteazzi.
Per Andrea Matteazzi di bronzo nei 400 misti uomini
Nella stessa gara dell'oro di Razzetti, 400 misti uomini, l'Italia ha vinto anche la medaglia di bronzo. L'ha conquistata Pier Andrea Matteazzi, che si è piazzato terzo alle spalle dell'ungherese David Verraszto.
Sincro, argento nel tecnico a squadre
La prima medaglia per l'Italia agli Europei arriva dal sincro. Nel tecnico a squadre le azzurre sono seconde con il punteggio di 90.3772. Meglio del team italiano composto da Domiziana Cavanna, Linda Cerruti, Costanza Di Camillo, Costanza Ferro, Gemma Galli, Marta Iacoacci, Marta Murro ed Enrica Piccoli fa solo l'Ucraina con 92.5106. Bronzo per Francia con 88.0093.
Arianna Ravelli per corriere.it il 23 giugno 2022.
Ora sta bene, ma per qualche minuto ha fatto tremare l’intero impianto del nuoto sincronizzato e milioni di telespettatori a casa. Alla Szechy pool, mentre era in corso la finale dell’esercizio libero, la statunitense Anita Alvarez, 25 anni, ha accusato un malore. E’ svenuta ed è stata per diversi secondi sott’acqua, prendendo tutta l’organizzazione alla sprovvista se è vero che nessuno stava intervenendo.
È stata poi l’allenatrice degli Usa, la spagnola Andrea Fuentes, a tuffarsi, a soccorrerla e a trasportarla a bordo vasca. Soltanto allora il personale medico e paramedico è intervenuto. Trasportata in infermeria e visitata, Anita (una sincronetta che vanta una partecipazione olimpica a Rio e una certa ironia se è vero che nella bio di presentazione scrive «ho preso due volte l’ascensore con Michael Phelps e ho pestato i piedi a Michelle Obama quando mi ha abbracciato in una visita alla Casa Bianca») è stata giudicata fuori pericolo. Poco dopo, anche per tranquillizzare tutti sulle sue condizioni, è tornata in gruppo, accolta dall’abbraccio del suo staff e dall’applauso di tutte le atlete presenti nella piscina di allenamento.
«È stato davvero un grande spavento, mi sono dovuta buttare in acqua perché i bagnini non lo stavano facendo — ha raccontato a Marca l’allenatrice , colei che probabilmente con la sua prontezza ha salvato la vita di Anita —. La cosa peggiore è stata accorgersi che non respirava, lì mi sono davvero spaventata. Ora comunque si è ripresa a sta bene».
Ancora non è chiaro che cosa abbia provocato il malore, si pensa a un mix di caldo (la piscina del nuoto sincronizzato è all’aperto) e stress per la gara. Il team Usa ha poi raccontato che non è la prima volta che ad Anita capita: un altro svenimento le era successo durante le qualificazioni meno di un anno fa. Secondo l’allenatrice nei prossimi giorni Anita sarà sottoposta ad altri esami per scoprire la causa del malore: i piani sono di farla riposare oggi nella speranza che sia pronta per gareggiare domani, venerdì 24, nell’esercizio libero a squadre.
Nella stessa gara, vinta dalla giapponese Inui, l’azzurra Linda Cerruti, 28 anni, di Genova, si è classificata al quarto posto.
Linda Cerruti. Da repubblica.it il 25 agosto 2022.
La gioia del trionfo, la condivisione sui social delle otto medaglie (6 argenti e 2 bronzi) vinte agli Europei di Roma con la tipica del sincro. Tutto rovinato da commenti fuori luogo, espliciti, volgari e sessisti. E Linda Cerruti, inevitabilmente e comprensibilmente, c'è rimasta male.
"Come ogni anno, dopo mesi e mesi di sacrifici (sveglia alle 5, allenamenti e fisioterapia fino a sera, repeat) è arrivata quella settimana in cui alzo la testa fuori dall'acqua, e respiro...", spiega prime di usare parole dure con chi l'ha insultata. "Sono rimasta basita nonché schifata dalle centinaia, probabilmente migliaia, di commenti fuori luogo, sessisti e volgari che ho letto.
Trovo a dir poco vergognoso leggere quest'orda di persone fare battute che sessualizzano il mio corpo. Un sedere e due gambe sono davvero quello che resta, l'argomento principale di cui parlare?
L'unica cosa che posso fare è denunciare l'inopportunità di quei commenti, specchio di una società ancora troppo maschilista e molto diversa rispetto a quella in cui un domani vorrei far nascere e crescere i miei figli. Ringrazio le persone che mi hanno difeso e hanno apprezzato la foto per quello che è: l'immagine di un'atleta di nuoto artistico orgogliosa dei suoi risultati".
Il post di Linda Cerruti su Instagram
Come ogni anno, dopo mesi e mesi di sacrifici, è arrivata quella settimana in cui alzo la testa fuori dall’acqua, e respiro. Sia chiaro, non mi sto lamentando, ma sto solamente riportando la realtà quotidiana che è stata più che ripagata da una carriera piena di soddisfazioni.
Due giorni fa ho condiviso una foto fatta nella spiaggia in cui vado da sempre, in cui ho coltivato i primi sogni e che per me ha anche un forte valore simbolico. La foto mi ritrae in una posa artistica, tipica del mio sport, a testa in giù e in spaccata, insieme alle otto medaglie vinte in quello che è il miglior campionato europeo della mia carriera. Il post è stato ripreso da vari giornali fra i quali @gazzettadellosport , @tuttosport , @larepubblica e @ilfattoquotidianoit .
Stamattina una mia amica mi invia uno di questi post condiviso dalle testate giornalistiche sulla loro pagina Facebook, lo apro e rimango letteralmente basita nonché schifata dalle centinaia, probabilmente migliaia, di commenti fuori luogo, sessisti e volgari che lo accompagnano. Qui sopra, scusandomi in anticipo con le giovani atlete che mi seguono per quanto leggeranno (ma l’alternativa è il silenzio, che è uno dei motivi per cui oggi leggiamo ancora queste cose), riporto alcuni screenshot esemplificativi della pochezza di alcune frasi a commento della foto.
Dopo più di 20 anni di allenamenti e sacrifici, trovo a dir poco VERGOGNOSO e mi fa davvero male al cuore leggere quest’orda di persone fare battute che sessualizzano il mio corpo. Un sedere e due gambe sono davvero quello che resta, l’argomento principale di cui parlare?
Il minimo, nonché l’unica cosa che posso fare, è denunciare l’inopportunità di quei commenti, specchio di una società ancora troppo maschilista e molto diversa rispetto a quella in cui un domani vorrei far nascere e crescere i mie figli. Ci tengo, allo stesso tempo, a ringraziare tutte le persone che hanno preso le distanze da questi commenti, mi hanno “difesa” ed hanno apprezzato la foto per quello che è: l’immagine di un’atleta di nuoto artistico orgogliosa dei suoi risultati. E’ questa l’Italia che orgogliosamente rappresento portando la bandiera tricolore in giro per il mondo.
Daniele Cotto per “La Stampa” il 26 agosto 2022.
Linda Cerruti ha appena caricato in auto la mountain bike, dopo un pomeriggio catartico trascorso a pedalare nell'entroterra ligure con il fidanzato Francesco. Troppi pensieri ancora la tormentano. È finita nel tritacarne mediatico, vittima di messaggi sessisti, e ora deve, suo malgrado, scacciare i fantasmi.
«Con la fatica ho cercato di cancellare l'amarezza per tutte quelle frasi maschiliste che ho ricevuto sui social. Possibile che questa gente sappia occuparsi solo di un sedere e di due gambe, ignorando le vittorie? Siamo atlete, non oggetti». Parla con calma, la regina della disciplina più spettacolare del nuoto, la stella della Marina Militare.
Non chiamatela sincronetta, lei è molto di più: è diventata un simbolo del successo italiano, un'artista della piscina che il mondo ci invidia. Spiega i concetti basilari del suo sport spettacolare, pur dovendosi difendere per quella "colpa" inesistente: aver postato su Instagram una posa acrobatica, provata mille volte in allenamento, con le gambe in spaccata sulle quali ha appeso le otto medaglie.
Sono i sei argenti e i due bronzi vinti agli Europei di nuoto terminati domenica scorsa a Roma. Una foto artistica, sportiva. Fatta con ironia e orgoglio, un flash per rivivere le emozioni di quelle giornate intense nelle quali lei, l'azzurra vincente di Noli (Savona), 28 anni e tanti interessi coltivati dopo il liceo scientifico, è stata ancora protagonista esaltando il tricolore. Un'esplosione di gioia che i "leoni da tastiera" hanno interpretato e commentato a modo loro. Da beceri. Linda, con la sua presa di posizione serena, offre un esempio di coraggio e di civiltà.
Cosa vuole trasmettere alle donne vittime di questi attacchi?
«Spesso la soluzione scelta è mettere tutto a tacere, ma non è giusto. Il mio messaggio non cambierà il mondo, però è un segnale, un passo importante. È necessaria una rivoluzione culturale per superare queste orrende dinamiche sociali.
Ho riflettuto molto su quello che è successo e poi ho deciso di prendere provvedimenti concreti denunciando il fatto alla Polizia Postale, che ringrazio. Perché ci tutela. Il mio atteggiamento è un invito a tutte le donne a credere e a lottare per una società migliore nella quale far crescere i nostri figli. Non dobbiamo aver paura».
Cosa ha provato quando sui social ha letto le reazioni alla sua foto?
«Profonda tristezza. Sono schifata per i commenti volgari, fuori luogo. Sono centinaia, forse migliaia. Ho scattato quell'immagine sulla spiaggia che frequento da sempre, dove sono cresciuta e dove ho coltivato i primi sogni da atleta».
Qual è secondo lei la motivazione che spinge queste persone ad insultare?
«Credo ci sia molta leggerezza. Chi non è atleta non sa e non capisce quanta fatica c'è dietro ad una medaglia, è un sogno che si avvera. E vuoi festeggiare. Avevo fatto la stessa foto nel 2010, l'anno dell'esordio in Nazionale. Poi l'ho ripetuta nel 2018 quando ho vinto sette medaglie agli Europei. E poi c'è questa, con otto. Bella. Ma interpretata male. Per fortuna ho ricevuto anche moltissimi messaggi di solidarietà e tanti complimenti».
Ci racconti la sua giornata da atleta.
«Sveglia alle cinque, poi in acqua alle sei e un quarto e allenamento fino alle 12. Pausa per il pranzo e dalle 15,30 si ricomincia, dividendosi tra palestra e piscina fino alle otto di sera. Quindi cena e fisioterapia. E verso le nove e mezzo di sera crollo, non restano molte energie. Ecco, questa è la nostra vita, voglio spiegare che dietro ad ogni medaglia c'è una fatica immensa. Altro che storie».
Ciò che è successo è lo specchio del degrado della nostra società?
«Pochi giorni fa ho sentito una mia collega francese che ha dovuto affrontare lo stesso problema. Purtroppo è un fenomeno esteso, non solo un malessere italiano».
Quali sono i suoi programmi ora?
«Come ogni anno, dopo mesi di sacrifici, è arrivato il momento in cui alzo la testa dall'acqua e respiro. Ora mi godo questi giorni a casa, poi mi dedicherò al camp organizzato dalla mia società, la Rari Nantes Savona, per le giovanissime. A settembre, invece, stacco tutto e volo in Indonesia».
Si sarebbe mai immaginata un dopo Europeo così strano?
«No, mi creda. Però adesso non ne voglio più parlare. Perché non è giusto dare spazio a persone così. Con la denuncia ho fatto la mia scelta. Dobbiamo agire, tutti insieme: le parole a questo punto non servono più».
Benedetta Pilato ha pianto “per Stefano” dopo aver vinto agli Europei di nuoto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Agosto 2022
Vince la medaglia d'oro dei 100 stile "rana", poi le lacrime per Nurra, videoanalista apprezzato nel mondo del nuoto scomparso in Turchia
Campionessa del mondo dei 100 e primatista mondiale dei 50 nel nuoto a soli diciassette anni, la tarantina “Benny” Pilato ha portato un filo di tristezza agli Europei di Roma, dimostra di avere anche tanto cuore e maturità nel voler ricordare una delle tante persone che popolano il mondo del nuoto dietro le quinte, e che contribuiscono a realizzare le performance dei campioni. Agli Europei di nuoto di Roma. la 17enne tarantina ha toccato in 1’05″97, davanti all’altra azzurra Lisa Angiolini, sorprendente argento in 1’06″34.
Benedetta Pilato è cresciuta agonisticamente nella Fimco Sport, poi, nel 2019, è stata tesserata per il Circolo Canottieri Aniene di Roma, lo stesso di tanti altri campioni del nuoto azzurro, anche se Benny, vista la giovane età, ha ottenuto la possibilità di continuare ad allenarsi sempre con lo stesso allenatore che la sostiene fin da quando era bambina, Vito D’Onghia che lei chiama affettuosamente “Uccio“.
Una gioia dai contorni diversi: il titolo di Benedetta (settimo per l’Italia in vasca) era atteso e prevedibile, la medaglia di Angolini, che aveva smesso di nuotare per tre anni prima di riprendere e credere nuovamente in sé stessa, è un sogno di una notte di mezza estate.
Lo Stefano di cui parlava la Pilato dopo la sua vittoria di ieri è Stefano Nurra, videoanalista morto lo scorso 4 agosto in Turchia, a soli 54 anni: aiutava il tecnico della tarantina, Vito D’Onghia, ed era apprezzato non solo in Italia, come testimoniano le foto delle sue sedute di fronte al video con campioni come Sara Sjoestroem. Nurra nato nel 1970 a Sassari, in passato aveva collaborato con numerosi club italiani, aiutando l’evoluzione della videoanalisi applicata al nuoto. Dal 2013 viveva in Turchia, dove aveva messo su famiglia e dove è stato sepolto. Benny Pilato lo ha ricordato sui social, come tanti altri nuotatori che avevano apprezzato il suo lavoro nel tempo.
Benedetta Pilato è tanto emotiva pronta a liberare il pianto, quanto si manifesta implacabile in vasca. Lacrime nel 2019 quando a soli a quattordici anni vinse la medaglia d’argento mondiale nei 50 rana, ma quelle erano lacrime diverse da quelle degli Europei, in un tripudio di folla che ha dato vita ad una vera e propria festa al Foro Italico. Una festa in cui lei era una delle protagoniste più attese.
Quando ieri Benedetta ha conquistato la sua attesissima medaglia d’ oro nei 100 rana, felice di vedere salire sul podio al secondo posto la sua amica-compagna di squadra Lisa Angiolini, non si è lasciata ad andare alle solite manifestazioni di gioia adolescenziale. ”Io l’avevo detto, dopo i maschi noi avremmo fatto uguale. E’ stato bello, il pubblico è spaziale. Sono contenta per Lisa, non se lo aspettava“. Queste le parole di Benedetta Pilato intervistata al termine della gara pensando all’oro di Martinenghi, ed un doveroso un omaggio al “pubblico spaziale” romano che l’ha adottata, ha voluto fare una dedica: “Volevo salutare Stefano, che ci ha aiutato tanto”. ma non è riuscita a completare la frase, che è scoppiata in lacrime allontanandosi dalla telecamera Rai.
Andrea Fuentes, l’allenatrice che ha salvato Anita Alvarez a Budapest: «Mi sono buttata perché i bagnini non lo stavano facendo. Non respirava». Arianna Ravelli, inviata a Budapest su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022.
Parla l’allenatrice che si è buttata in piscina e ha soccorso Anita Alvarez: «Ho visto che invece di risalire scendeva verso il fondo e mi sono buttata. Quando l’ho soccorsa aveva la mascella serrata e non respirava».
La protagonista dei Mondiali di nuoto mercoledì 22 giugno è stata lei, l’allenatrice spagnola della squadra Usa di sincronizzato (o, come preferiscono chiamarlo gli addetti ai lavori, nuoto artistico). È per merito di Andrea Fuentes, infatti, se la giornata di gare alla Szechy pool non si è trasformata in un dramma. La paura, in ogni caso, è stata tanta quando durante le prove Anita Alvarez, la sincronetta del team Usa, 25 anni, già in squadra ai Giochi di Rio e Tokyo, si è sentita male e invece di risalire dopo un’evoluzione in acqua ha cominciato a crollare verso il fondo della piscina.
Momenti drammatici che hanno preso tutti di sprovvista se è vero che nessuno tra i bagnini o il personale medico e paramedico stava intervenendo. La più pronta di tutte è stata proprio Andrea, che senza pensarci troppo si è buttata in acqua: «Ho visto che invece di risalire stava scendendo e ho pensato: “qui sta succedendo qualcosa di strano”. Perché in quei momenti hai bisogno di respirare e cerchi di risalire. Così mi sono buttata perché i bagnini non lo stavano facendo».
Per fortuna. Quando ha risollevato Anita, a quel punto aiutata anche da un ausiliario, si è accorta che non stava respirando: «È stato davvero un grande spavento — ha raccontato l’allenatrice —. Quando sono riuscita a prenderla in braccio, la sua mascella era serrata così forte che non respirava. Lì mi sono davvero spaventata. Ha continuato a non respirare per almeno due minuti. Ora comunque si è ripresa a sta bene».
Non è la prima volta che Anita è vittima di un malore simile. Continua Andrea: «Sì, un anno fa le è successo, ma non così gravemente. Comunque alla fine siamo riusciti a rianimarla e tutto è andato bene».
Un post condiviso da Andrea Fuentes (@andreafuentes83)
Fuentes — 39 anni catalana di Valls, ex sincronetta vincitrice di due argenti olimpici a Pechino 2008 e di un argento e un bronzo a Londra 2012 che ne fanno la spagnola più titolata del sincronizzato (che ha lasciato come atleta nel 2013 in polemica con la Federazione) —in un post su Instagram ha poi sdrammatizzato con ironia: «L'esercizio di Anita è stata la sua migliore performance di sempre, ha spinto verso i suoi limiti e li ha trovati... (segue faccina sorridente, ndr)». Poi ancora una rassicurazione: «Anita sta bene, lo hanno detto anche i medici. Sono cose che succedono anche in altri sport: ciclismo, maratona, atletica... alcuni non arrivano al traguardo, alcuni lo fanno a fatica o svengono. Anche il nostro sport è molto difficile. Ma ora è il momento di riposare e recuperare».
La vicenda drammatica di Anita stride comunque un po’ con i piani previsti per lei per i prossimi giorni. Dopo altri esami per capire cosa le sia successo, è in programma una giornata (quella di oggi) di assoluto riposo e poi il tentativo domani, venerdì, di gareggiare nella prova libera a squadre. Sperando che Andrea debba intervenire solo per fornire indicazioni tecniche.
Andrea Fuentes e Anita Alvarez: «I due minuti più brutti. Si è scontrata con il suo limite». Arianna Ravelli, inviata a Budapest su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022.
«Capita anche in altri sport, nelle maratone, nel ciclismo, solo che loro svengono in terra e respirano. Anita era in acqua e non respirava. Dico sempre alle ragazze: dovete dare tutto, ma non così!».
La treccia, l’occhio vispo, la parlantina spigliata di un’allenatrice che salva le vite. È di Andrea Fuentes , ex campionessa di nuoto sincronizzato — con tre argenti e un bronzo la spagnola più medagliata alle Olimpiadi — il volto di questo Mondiale di nuoto. Tutti hanno visto le foto di Anita Alvarez, una delle sincronette del team Usa, che concluso l’esercizio precipita svenuta verso il fondo della piscina, e Andrea che si butta vestita («la polo pesava 20 chili!»), la prende e la riporta su. Fuori da quel blu potenzialmente mortale, verso l’aria. Verso la vita. Il giorno dopo Anita è in camera a riposare ma oggi dovrebbe tornare in acqua, Andrea è a bordo vasca con il resto della squadra Usa. Oggi ci si può scherzare su. «Io dico sempre alle ragazze dovete dare tutto, ma non così tanto...».
Andrea ci racconta dall’inizio cos’è successo?
«È successo quello che capita in molti sport, nel ciclismo, nelle maratone, li vedete anche nelle finali olimpiche, mentre corrono bum!, di colpo cadono privi di sensi. Solo che loro sono sulla terra. Loro possono respirare, Anita non poteva. Ed era sola in piscina. Ma se chiede a tutte le squadre qua, ciascuna ha una storia così da raccontare».
Cosa succede a un atleta in quei momenti?
«Il nostro è uno sport molto duro, fai movimenti veloci, il cuore accelera i battiti, non respiri perché sei in apnea. Il nostro lavoro di sportivi è incontrare il limite, vuoi capire cosa può riuscire a fare il tuo corpo. E a volte scopri che ci sei arrivato. Anita è andata a sbatterci contro».
Lei è stata pronta a intervenire, i bagnini sono stati molto lenti però, pare aspettassero il segnale dell’arbitro.
«Anita stava andando verso il basso: non era normale, perché in quel momento desideri respirare, sei stanca e cerchi l’aria, lei invece stava scendendo, allora ho cominciato a urlare “ehi ehi ehi”, ma i bagnini erano paralizzati, così mi sono buttata io».
Per fortuna che lei è una campionessa olimpica.
«Campionessa no, sono arrivata seconda (ride), però so nuotare bene, vado veloce».
Poi l’ha portata su.
«Era pesante. Ho cercato di farla respirare, ma non respirava. Il cuore non aveva problemi, il battito era regolare, però non respirava. Provavo ad aprirle la bocca perché lei la teneva chiusa: come insegnano al pronto soccorso le ho girato la testa su un lato per farle sputare l’acqua. Il bagnino non sapeva cosa fare, alla fine ho dovuto soccorrere entrambi. L’ho tirata su, l’ho schiaffeggiata e la chiamavo: “Anitaaaaa!”. Poi ha iniziato a sputare acqua e da lì è andata meglio. I medici le hanno controllato il cuore, la pressione, la saturazione, il livello di glucosio ed era tutto a posto. Lei però era ancora stordita. Poi le hanno premuto molto forte il mignolo. È una manovra che induce il rilascio di adrenalina, finalmente ha urlato “Aaaaaah”. Era il segnale che stava bene».
Sono stati i cinque minuti più brutti della sua vita?
«Penso siano stati due minuti. Ma brutti, brutti».
Lei ha lasciato il nuoto in polemica con la Federazione spagnola che aveva rimosso la sua coach Anna Tarres accusata di metodi troppo duri. Non è che questo sport chiede troppo alle atlete?
«Quando sei uno sportivo sei tu che chiedi di lavorare duro, vuoi passare i tuoi limiti e vuoi sempre migliorarti. Capisco che sia difficile da capire, ma d’altronde per me è difficile capire come si può stare 12 ore davanti al computer».
Alla fine è arrivata settima.
«È stato il miglior risultato della sua vita. Ma non importa il risultato, importa essere sempre un po’ meglio di ieri».
Anita ricorda qualcosa?
«Per due minuti niente. Ricorda l’ultimo movimento, con il braccio in alto, io che urlo “bene!”. Poi bye bye. L’altro ricordo è quello dei medici che le premono il mignolo».
Che tipo è Anita?
«Tosta, lavoratrice, perfezionista, sin troppo. Abita a New York, la sua famiglia viene dal Messico. Ama il triahtlon, le piace la fatica, fa chilometri e chilometri in bicicletta: io non potrei mai!».
Oggi gareggerà?
«Per il dottore sta bene. Lei mi chiede “per favore, per favore. Voglio finire il Mondiale a testa alta, non sott’acqua”».
Da ilnapolista.it il 24 giugno 2022.
Anita Álvarez è quasi affogata ai Mondiali di nuoto, mentre nessuna telecamera la riprendeva. E’ stata salvata dalla sua allenatrice Andrea Fuentes, che si è tuffata vestita a recuperarla dal fondo della vasca. La foto ha fatto il giro del mondo. Lei, la sincronette svenuta, ora sta bene ed è finita a Good Morning America. Spiega a El Paìs cosa è successo, ed è un disvelamento di un mondo sconosciuto ai più.
“Come in ogni sport, spingiamo il nostro corpo al limite e a volte un po’ di più. Le persone non se ne rendono conto perché abbiamo un’immagine di armonia e felicità. Sorridiamo con il trucco. Quelle piccole cose nascondono quanto sia tremendamente impegnativo. Quando l’allenamento finisce ci sentiamo come se stessimo morendo. Non possiamo nemmeno muoverci. La gente non immagina quanto siano frequenti questi svenimenti. Ho attirato molta attenzione perché mi è successo in un Mondiale. Ma in questo sport, i nuotatori svengono ogni giorno. Non succede solo a me”.
Ti sei resa conto che stavi raggiungendo il limite?
“No. Mi sentivo come se stessi lasciando tutto in piscina. Nell’ultima figura, dove devo salutare alzando un braccio, ricordo di aver pensato: ‘Spingi quel braccio! Non mollare ora! Dai il massimo fino all’ultimo secondo!’. In passato mi sono sentita come se stessi svenendo. Questa volta penso di essere stato molto connessa mentalmente, così nel mio ruolo, vivendo il momento così intensamente, che mi stavo davvero godendo la mia performance. Continua, continua, continua…
A volte non senti dolore finché non ti fermi. È come l’atletica. Mi piace correre. A volte stai correndo e il momento in cui ti fermi è quando senti il colpo. In questa routine mi sentivo benissimo, stanca come sempre ma mi divertivo. E quando ho sentito che potevo finalmente permettermi di rilassarmi è stato quando tutto è diventato nero. Non ricordo nient’altro”.
Cosa hai pensato quando hai visto le foto del salvataggio di Andrea Fuentes?
“All’inizio mi hanno scioccato. Non mi aspettavo che una cosa del genere venisse pubblicata. Ma poi l’ho presa con calma. Non volevo vederla pessimisticamente. Ora penso che le foto siano belle in qualche modo. Vedermi laggiù in acqua, così pacifica, così silenziosa, e vedere Andrea scendere con il braccio teso cercando di raggiungermi come un supereroe…
A volte il posto più tranquillo della Terra è sott’acqua: quando ti siedi sul fondo della piscina in silenzio. Senti che non pesi, sei con te stessa. Lo amo. A volte ho bisogno di quel momento. E nelle foto sembra tutto molto naturale, anche se sollevare una persona dal fondo di una piscina e portarla in superficie è molto difficile. Soprattutto quando ti immergi a dieci piedi di profondità nei tuoi abiti da strada. Stamattina Andrea ha detto che aveva la lombalgia!”
Il Mondiale di Álvarez non è mica finito…
“Ho riposato molto, tutta la notte e tutto il giorno. Il mio corpo si sente del tutto normale. Questa è una cosa che mi è già successa. Ti riposi e il giorno dopo torni in acqua. Devi farlo da non caricarti la testa di paura. I medici mi hanno controllato. Sento che il mio corpo può gestirlo ed è tutto nella mia mente.
Voglio finire questa competizione, che è stata la migliore negli Stati Uniti da molto tempo. Sono molto contento del mio assolo e ora non voglio perdere il mio impegno con la mia squadra nella finale delle prove libere. Voglio finire a testa alta. Voglio che i miei colleghi sentano di potersi fidare di me e questo ci rende più forti”.
Cosa hai imparato da Andrea?
“Da piccola la seguivamo quando nuotava, e quando abbiamo saputo che ci avrebbe addestrati, siamo rimasti sbalorditi. Non ci ha deluso né come allenatore né come persona. Non vuole solo che abbiamo successo come atleti. Vuole che siamo esseri umani migliori”.
Da repubblica.it il 24 giugno 2022.
Anita Alvarez costretta a rinunciare alla finale della gara a squadre del nuoto sincronizzato. È finito il Mondiale di Budapest della sincronette americana di 25 anni che è svenuta in acqua mercoledì pomeriggio alla fine dell’esercizio del singolo libero e che è stata salvata grazie alla sua allenatrice, la spagnola Andrea Fuentes, che si è tuffata in acqua vestita per recuperarla dal fondo della piscina Szechy sull’Isola Margherita di Budapest. La Fina, la Federazione internazionale del nuoto, ha deciso di fermarla nonostante i parametri regolari riscontrati dopo gli accertamenti medici.
Per la nazionale americana l'atleta sarebbe potuta scendere in vasca. "Secondo noi - spiega Selina Shah - medico della nazionale americana di nuoto artistico - poteva gareggiare, è perfettamente in grado di farlo. Lei si sente bene fisicamente. Adesso è triste per la decisione. ma sosterrà la squadra. Ancora non conosciamo le motivazioni della FIna".
Alvarez: "Scioccata dalle foto dello svenimento, ma sono a loro modo belle"
Quando Alvarez ha visto per la prima volta le foto del suo svenimento in acqua, ha detto di essere rimasta "scioccata". Poi ha giudicato gli scatti pubblicati dall'Afp "belli, in un certo modo. Non mi aspettavo che fosse pubblicato qualcosa del genere - ha raccontato a El Pais -, poi ho cambiato visione, cercando di trovare il lato positivo di questa vicenda. È strano vedersi sott'acqua così tranquilla, calma, e vedere Andrea che si tuffa con il braccio teso cercando di raggiungermi, come se fosse un supereroe.
A volte il posto più tranquillo della terra è sott'acqua, quando ti siedi sul fondo della piscina in silenzio. Ti senti leggera, sei concentrata su te stessa. Mi piace. A volte ho bisogno di certi momenti. E, nelle foto, tutto sembra molto naturale". Adesso può guardarle, il pericolo è alle spalle.
Quando all’alba Greg bambino nuotava da Lipari a Vulcano. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 9 luglio 2022.
Caro Aldo, Gregorio Paltrinieri ha vinto due medaglie d’oro, una d’argento e una di bronzo, in un’unica edizione dei campionati mondiali di nuoto e quasi cinquanta contando anche Europei e Olimpiadi. Ma non è una giovane e bella ragazza e per lui non è stato coniato nessun assurdo soprannome, tant’è che non è né divino né predestinato, ma è più modestamente un fuoriclasse. Possiamo sommessamente dire che anche lui è vittima di discriminazione da parte dei media? Nessuno ha dubbi, direttori e direttrici di mass media in primis, noi consumatori in secundis, che se il testimonial è una bella e vincente ragazza in costume, il successo mediatico è di gran lunga superiore a quello di un ragazzo per quanto questi sia bravo, bello e vincente. Eva Volkoren
Cara Eva, Lei ha perfettamente ragione. Gregorio Paltrinieri è già il più grande nuotatore italiano di tutti i tempi. Eccezionale ai Mondiali, avrebbe vinto anche i Giochi di Tokyo l’anno scorso, se non vi fosse giunto debilitato da una malattia. Sarà competitivo anche tra due anni all’Olimpiade di Parigi, se vorrà. Eppure ha un decimo della fama di Federica Pellegrini. Va detto che pure la Pellegrini è stata grandissima, oltre ad aver avuto una carriera molto lunga. Inoltre è donna di carisma e di fascino, sa usare i social, e ha sempre fatto notizia anche lontano dalla piscina (da ultimo con l’addio al nubilato). Anche Paltrinieri però ha una storia interessante. E non mi riferisco tanto al fidanzamento con Rossella Fiamingo, la campionessa di scherma, quanto alla sua formazione. Lo intervistai a bordo vasca a Rio 2016, dopo l’oro sui 1500, e ricordo aneddoti strepitosi: tipo quando a dieci anni, in vacanza con i genitori alle Eolie, si svegliava prima dell’alba, si tuffava nelle acque scure dal catamarano in rada davanti a Lipari, nuotava fino a Vulcano, e tornava quando i genitori avevano appena fatto colazione. «Mia mamma, che non ha mai fatto un bagno in vita sua, era terrorizzata. Per fortuna papà la metteva tranquilla: “Greg sa nuotare”, le diceva, “cosa vuoi che gli succeda…”». Il rapporto tra Gregorio e Luca Paltrinieri è stato accostato a quello tra Valentino e Graziano Rossi: non si sa chi sia il più matto, il figlio o il padre, ex nuotatore, direttore della piscina di Novellara (Reggio Emilia; ma la famiglia è di Carpi, Modena). «Con papà facevamo le gare — ha raccontato Gregorio —. Lui non mi lasciava mai vincere. Allora mi arrabbiavo. Poi ho capito che è stato meglio così. Non dimenticherò mai l’emozione, la prima volta che me lo sono lasciato dietro».
Da ilnapolista.it il 30 giugno 2022.
Ieri c’è stata l’ennesima impresa di Gregorio Paltrinieri, che ha vinto la 10 chilometri, la classica gara di fondo, davanti all’altro italiano Domenico Acerenza. Oggi La Stampa lo intervista. Racconta le emozioni all’arrivo:
«Stavo godendo e sapevo pure di avere Mimmo (Acerenza) dietro, me lo sentivo sui piedi. Lo so riconoscere, è il mio migliore amico».
Con questo successo è diventato un campione che esce dal nuoto, si compara ai grandi dello sport?
«Adesso ci sta. Le leggende non mi sembrano più su un altro pianeta. Credo sempre molto in me e prestazioni del genere sono incredibili: fino a quattro anni fa non me lo potevo neanche immaginare. Per arrivare a quattro medaglie in un Mondiale ho imparato a essere lucido, consapevole».
Il suo allenatore la considera «un Kobe Bryant».
«Mi ci ritrovo, mi contraddistingue la determinazione che era anche la sua cifra, per questo lo chiamavano Black mamba. Ho sempre pensato di valere. Anche dopo un risultato sballato, io penso di essere il più forte del campo gara».
Come mai i suoi compagni di allenamento finiscono sempre sul podio con lei?
«Alziamo il livello della competizione a ogni nuotata. Non sono uno che si accontenta e non lo faccio neanche con gli altri. Noi ci insultiamo ogni giorno perché ci piace così: appena lo batto glielo rinfaccio, lo provoco, ci prendiamo pesantemente in giro, ma su qualsiasi dettaglio: chi mette più gambe, più braccia…».
Si definisce un nuotatore diverso.
«Non mi piace quando mi dicono che cosa devo fare. Pretendo libertà e il mio attuale tecnico, Fabrizio Antonelli, me la dà. Parliamo, se sono stanco inventa una soluzione, se sono stufo cambia copione, se mi sento giù, mi motiva. Qui, tre giorni prima delle gare stavo ancora un cesso e lui mi ha detto “fidati e sappi che se gli 800 vanno male poi sei così pronto che ti risollevi”».
La Nazionale di oggi è diversa da quella di ieri:
«In nazionale, prima ognuno gareggiava per sé, oggi si trae forza l’uno dall’altro e succede perché le nuove generazioni sono disinvolte».
Lei non lo era?
«Noi siamo stati indottrinati con il mito Phelps: sempre solo, con i cuffioni in testa, serio. Essere straordinari era sinonimo di quel modo di porsi. Oggi vedete come arriva Ceccon ai blocchi? Sciallo, la prende per quello che è ed è una freschezza di cui avevo bisogno».
Archiviato Phelps?
«Le imprese no, l’atteggiamento alla Phelps non esiste più. Non mi è mai appartenuto, ma capivo che le cose venivano prese con una certa gravità e ti veniva chiesto di fare lo stesso. È girata l’aria: ora sono tutti svegli, si gioca, si scherza».
Mattia Chiusano per repubblica.it il 30 giugno 2022.
Per capire cos'è successo a Budapest, basta tornare indietro di un mese a Setubal. Era già tutto scritto, anche se le calde acque del lago Lipa non hanno le correnti atlantiche spesso contrarie della costa portoghese, e la temperature non scendono intorno ai 17 gradi.
"La 10 km di Setubal è la più dura che c'è" dice il giorno prima Fabrizio Antonelli a Gregorio Paltrinieri. "Se vinci questa" pronostica il barbuto tecnico dell'Esercito, "non c'è niente di peggio dopo". La domenica Greg rivive la sua esaltazione all'ennesima potenza ("Ci meniamo, ma c'è strategia, tattica, quando ti stacchi dal "branco", quando insegui chi va via").
Il risultato è trionfale: vince Paltrinieri, che trascina al secondo posto proprio Domenico Acerenza. La strategia lo vede al comando per quasi tutta la gara, con uno strappo negli ultimi mille metri. Ricorda qualcosa? Quasi fosse stata concepita da un software, la gara si è ripetuta molto simile, anche se allo spettatore giunge l'immagine canonica delle spallate e sgomitate in acque spesso infestate da alghe.
Ma se dalla scienza si passa al campo delle emozioni, per capire basta solo lo sguardo di Paltrinieri che si illumina quando parla di nuoto in acque libere: "Quando nuoti in mare provi una sensazione incredibile, non vorresti mai più tornare in vasca, solo per allenarti. Tra dieci anni già so che continuerò a nuotare in mare, mi dà il senso del benessere".
Tutto questo prima non c'era, quando il carpigiano era uno splendido esemplare di campione di vasca, incoronato con la medaglia d'oro dei 1500 a Rio de Janeiro. Prima dello shock di due anni fa, quando il suo mentore Stefano Morini ebbe la notizia che avrebbe perso al centro federale di Ostia non uno, ma due atleti: Acerenza, e appunto Paltrinieri, dopo nove anni di vita e successi in comune. Il richiamo degli abissi era già forte, e a guidarlo verso un percorso sportivo c'era anche un tecnico ben attrezzato, Fabrizio Antonelli.
Non accolto benissimo, quando si seppe la notizia, perché forte era il sospetto che potesse andare perduto uno dei capitali dello sport italiano. Lasciando la stabilità di Ostia, per entrare in una compagnia vagante che - finita la stretta del Covid - si è avvicinata alle Olimpiadi di Tokyo con una specie di tournée on the road: "Il nostro gruppo di 3 tecnici e 6 atleti" spiegò Antonelli quando "Greg" vinse l'oro europeo 2021 dei 5 km, "ha fatto i salti mortali per non perdere un allenamento. Eravamo a Siracusa, e non siamo potuti partire per lo stage in quota a Cervinia per la zona rossa in Val d'Aosta. Siamo stati in un resort a Piombino, poi finalmente a Cervinia. E ancora Roma, Acquacetosa e Foro Italico, prima di Tokyo andremo in Turchia. Tenere la guardia alta: anche questo farà bene a Greg, ne sono convinto".
Non sapeva, Antonelli, che di lì a poco sarebbe arrivata un'altra tappa, la più cattiva: la mononucleosi, che non ha però impedito a Paltrinieri di conquistare a Tokyo l'argento negli 800 stile libero e il bronzo nella 10 chilometri. Per ricominciare con le sane, vecchie abitudini, i girovaghi del fondo (col biomeccanico Roberto Baldassarri, il preparatore atletico Francesco Speranza, la fisioterapista Federica Borghino) si sono rivisti dal 3 al 23 settembre al Centro Federale di Ostia, e l'avvicinamento a Budapest - dopo una gara in Israele a marzo - ha previsto 19 giorni di allenamenti e gare a Piombino, in provincia di Livorno, in attesa delle prove di Alghero e Setubal (World Series).
Ma non c'è solo il fascino del mare e della vita un po' gitana, a rendere il progetto Acque Libere utile per Paltrinieri. C'era una lezione, tra spallate e boe, ad arricchire il repertorio di un campione assoluto, secondo la visione di Antonelli: "Bisogna saper leggere le situazioni, è importante l'idea di mettere una mano davanti agli altri: rompere un tabù".
L'algida divisione in corsie del nuoto in vasca, difende con un galleggiante l'integrità di un nuotatore, ma più passa il tempo più campioni del cloro si stanno buttando in mare per apprendere.
Compreso Greg: "Gli avversari lo cercano" diceva il tecnico, "hanno capito che soffre questo tipo di situazione. E' un bene che lui lo abbia accettato: ora sa che in quei momenti può tenere la posizione. Sarà un vantaggio in un periodo storico in cui lui dovrà fare a spallate anche in piscina". Alla fine, è stato Greg a prendere a spallate il Mondiale e i suoi avversari, con due medaglie d'oro tra piscina (1500) e acque libere (10 km): entrambe sono specialità olimpiche.
Questa passione per le battaglie del mare non ha reso Paltrinieri solo un campione più decorato, ma anche un "missionario", disposto a spendere la sua fama per avvicinare la gente al suo sport con un progetto. Un circuito con forti tinte ambientaliste chiamato Dominate The Water, che si svolgerà tra fine luglio e la fine di settembre a Lignano Sabbiadoro, Taranto, Stintino e Positano. "Vogliamo far provare quale sia la sensazione di nuotare in mare, aggiungendo eventi collaterali che riguardano la pulizia delle spiagge, la conoscenza della vita marina". Antonelli, in fondo, ha trovato terreno facile da coltivare: dentro Greg, il mare era già diventato oceano.
Stefano Arcobelli per gazzetta.it il 27 giugno 2022.
Senza respiro. Dal cloro al bacino del Lupa Lake, dall’oro nei 1500 al bronzo con la staffetta di fondo, capitan Greg è al centro del mondo. Instancabile Paltrinieri: oggi 5 km, tanto per continuare. Rilanciato nuotatore dei due mondi, questo Gregorio delle meraviglie si toglie i peli dalla felpa e la battuta gli viene spontanea: "Il lupo perde il pelo ma non il vizio". Il vizio di mettere la mano davanti: mai come stavolta ha aggiornato la storia dei 1500 con il 3° oro personale, per poi tuffarsi nel mondo che lo attrae sempre di più: quello dei caimani.
Ha rivisto la gara del trionfo?
"Ho dormito poco, ero pieno di adrenalina. Sì, è stata bella. Ho nuotato bene. Ho fatto quello che volevo fare. Quindi sono molto contento. Non mi sono emozionato, non ho pianto. È quello per cui mi alleno e che ho sempre sognato. Alla fine ti prepari mentalmente a tutte queste cose, poi quando succedono resti scioccato. È stata bella. Le ragazze della pallanuoto le ho sgridate, ho detto: “io vengo a vedere voi e voi non venite da me? Cos’è questa storia?” Le ho viste...".
Ha sfiorato ancora il record mondiale dopo 10 anni e rifatto il suo primato europeo.
"I 1500 mi hanno riportato a un livello a cui facevo fatica ad arrivare. Riparto da questo oro. Ci sono poi gli Europei. L’idea era “scaricare”, essere al top per gli Europei. Adesso andremo in altura. C’è una stagione da finire bene e ci sono ancora queste due gare di fondo. È lunghissima".
Il capitano non poteva essere da meno degli altri campioni del mondo azzurri.
"Ho visto gli altri vincere i primi giorni e la squadra è fortissima. Tutti impariamo da tutti. Domenica sera Martinenghi mi ha scritto un bellissimo messaggio, e io gli ho risposto così: “Tu puoi stimare me come atleta ma io imparo da te”, perché alla fine vedendo gli altri, come si approcciano alle gare, abbiamo tutti stili diversi. Vedere loro stimola anche me. Tantissimo. Loro sono giovani e con una testa diversa. Se la squadra è forte, l’uno con l’altro ci trasciniamo. L’ambiente è positivo e giocoso. Secondo me è la situazione migliore per gareggiare. Sì, Capitan Greg mi piace. Ho parlato con tutti".
Non è mai sazio: anche il bronzo in staffetta nel fondo.
"Non lascio nulla. Anche se il programma non aiuta, è assurdo, i 1500 e dopo 12 ore il fondo, ora la 5 km, è assurdo. Così costringi a scegliere o a farle male certe gare. Visto che sono qui provo tutto, un anno fa vinsi 3 ori europei. La staffetta è stata dura, era una situazione complicata, avevo Wellbrock e Rasovszky attaccati. Siamo arrivati sul podio ed è un bel risultato. Mi dispiace per l’arrivo, ma era un frazione difficile".
Il fondo lo fa per diventare re del popolo delle spiagge di quest’altra estate azzurra?
"Il fondo intanto mi aiutato ad essere migliore in piscina, ad affrontare le situazioni imprevedibili. In mare esce di più la mia personalità e quel senso di libertà che la vasca non può darmi. Il fondo è molto sottovalutato in Italia, nessuno lo conosce. Tutti gli sport all’aperto ci danno la possibilità di stare in mezzo alla natura, di goderti tutto. Io che l’ho conosciuto tardi provo un piacere enorme a nuotare in questi bacini, vorrei semplicemente farlo conoscere e lasciare un impatto positivo. C’è tutto l’aspetto eco-sostenibile che noi vogliamo dare al nostro circuito Dominate the water in giro per le spiagge italiane. Ognuno può dare una mano".
Tutto ciò non la distrae dall’eccellere in piscina.
"La fame è la stessa che avevo prima di vincere l’oro olimpico a Rio anche se sono cambiato io come persona. Ho sempre voglia di dimostrare chi sono e ciò che posso fare. E’ la mia motivazione quotidiana. Mi piace la competizione, voglio essere sempre tra i migliori. Devo essere sempre arrogante dentro di me, ho dimostrato di poter stare lassù. Prima ero il dominante, adesso c’è da lottare ogni volta con il coltello tra i denti. La situazione è cambiata ma non la mia voglia di far bene: è la soddisfazione più grande, la competizione".
Dopo il ritiro della Pellegrini, il nuovo leader doveva essere un vincente.
"E’ bello essere leader, ti senti sicuro, diventi figura di riferimento. Penso a un LeBron James, quando vedo qualsiasi gara penso al basket, all’uomo che risolve le partite, un Kobe Bryant che si carica la squadra sulle spalle. Anche nel nuoto, i risultati di uno possono caricare la squadra. Qui abbiamo fatto bene e tutto il movimento è cresciuto di conseguenza. Il leader deve vincere ma anche portare i giusti messaggi".
La popolarità l’ha sempre evitata. E adesso?
"Ho cercato sempre di essere vero, me stesso, di fare ciò che mi piace: non faccio compromessi quando mi chiedono cose in cui non mi ritrovo. Anche con Rossella (la fidanzata Fiamingo, ndr), non voglio essere popolare solo perché sono stato in vacanza con Diletta Leotta. Ammiro uno sportivo forte per quello che trasmette in campo".
Cosa l’appassiona?
"Il basket lo seguo sempre tanto (anche ieri dopo l’oro ha esultato come i suoi idoli James Harden e Carmelo Anthony, ndr). Il tennis è molto simile al nuoto: devi lavorare tanto di testa. Vedo Nadal e Djokovic che sembrano sempre a fine carriera con tanti giovani come Alcaraz che li possono superare ma non succede. Si può perdere un match ma con l’impegno e la voglia restano ancora lì al vertice. Anche io ci riesco dal 2012".
A Parigi, a quasi 30 anni, potrebbe diventare il primo italiano sul podio in 3 Giochi.
"Ah già, non lo sapevo: 3 Olimpiadi sono tante, ci penserò...".
Da ilnapolista.it il 27 giugno 2022.
Thomas Ceccon grande protagonista ai mondiali di nuoto a Budapest. Oro e record mondiale nei 100 dorso, protagonista della staffetta che ha vinto l’oro nella 4×100 misti. Repubblica propone un ampio e interessante approfondimento con un paragrafo dedicato alla triste parentesi del nonnismo della Nazionale di nuoto.
«Thomas è così, nemmeno nei periodi peggiori confidava qualcosa», e il riferimento è agli episodi di nonnismo di cui è stato vittima quando è entrato nella nazionale maggiore. Si parla di valigie zuppe di olio («E toccava a me pulire»), di dentifricio sui vestiti. «C’era un gruppo di atleti che avevano dieci anni in più» ricostruisce il padre, «e facevano scherzi di cattivo gusto.
I grandi non hanno accettato né Burdisso né Thomas, forse perché non riservava il rispetto che si aspettavano. Mio figlio non è tipo da leccare il culo. Lui e altri esordienti andavano così con gli atleti stranieri, che li accoglievano sugli spalti, invece di fare il tifo con gli altri azzurri. Non è un caso se oggi lui dice, come ha fatto a Budapest: “L’Italia adesso è un bel gruppo, dove ci si sente uniti, si fa il tifo l’uno per l’altro”. Si fa parte di un gruppo — aggiungo io — dove finalmente lui si sente a suo agio».
Piero Mei per “il Messaggero” il 26 giugno 2022.
L'America siamo noi è il possibile claim dell'Italia del nuoto, dei quattro ragazzi che s' erano detti «che bello l'inno, lo canteremo in coro». Quattro ragazzi, in ordine d'entrata Thomas Ceccon dorsista, Nicolò Martinenghi ranista, Federico Burdisso, farfallista, e Alessandro Miressi, stile liberista, che hanno vinto l'ultima gara maschile nel nuoto mondiale a Budapest, la staffetta veloce quattro stili, che è il compendio del nuoto intero.
Hanno battuto gli imbattibili americani nella prima occasione che si è presentata per batterli, giacché i due primi frazionisti d'Italia altri non sono che i freschi campioni del mondo e uno di loro, Ceccon, lo è diventato prendendosi pure il record del mondo. Dunque eccoli pronti a tuffarsi, con Burdisso e Miressi a sostituire quelli del mattino, Piero Codia e Lorenzo Zazzeri, che hanno reso possibile l'impresa della Band dei Quattro con il loro impegno nella qualificazione.
Ceccon nuota la sua parte in 51.93, fa dunque meglio dell'americano Murphy (52.57); Martinenghi prende il tuffo per primo e per primo chiude la frazione (57.47 per lui , 57.86 per l'avversario Fink); Burdisso tiene botta anche se l'americano di turno, Andrew, più specialista nel breve, va più veloce: 50.63 per Federico, 50.06 per lo yankee. Il lungo Miressi (più di due metri) può dunque tuffarsi con un margine di vantaggio pure se minimo.
Mirex contro il furibondo americano Held. Da far tremare i polsi. Ma non a Miressi, che nella prima vasca va più piano dell'americano che lo sorpassa. Ha avuto torto chi ha pensato è finita così, perché Miresi ha la seconda vasca proibita e anche se non ha mostrato gran forma fin qui, è uno di quelli alla Paltrinieri, da poter dire, come Greg, sono ancora qui. Il 47.48 di Miressi fa chiudere l'Italia a 3:27.51, che è il record europeo che fece la Gran Bretagna a Tokyo. I quattro americani sono secondi, i quattro britannici terzi.
Primi i quattro italiani. Che mettono 28 centesimi di secondo di distacco e battono quegli Stati Uniti che hanno avuto a Budapest il più vincente campionato del mondo della loro fantastica storia.
Ma è fantastica anche la storia di questa Italia giovane giovane; il più vecchio dei quattro ha 24 anni. La medaglia che vincono è la quinta d'oro dell'Italia, che così ne riporta a casa 9, con i due argenti e i due bronzi, dopo depennato quello di Ceccon: mai un bottino più alto.
«Non potevamo perdere, e non abbiamo perso», dice con quel pizzico si sbruffoneria che ha da essere in un campione, Federico Burdisso.
«Ho vinto un altro oro e un argento, ma questo è il più bello» dice Martinenghi. E Ceccon, anche lui all'oro doppio, confessa: «Tutto bello sì, ma è per Greg che mi è scesa una lacrima». E c'è un altro claim da mettere in acqua per questi «americani d'Italia». Di solito vengono festeggiati, da un po' di ani, i nuotatori azzurri come I meravigliosi che sono nel Terzo Millennio che ha trasformato il nuoto da sport che fa bene a tutti (come è vero) in sport che vince più di tutti.
Non sono solo meravigliosi, ma memorabili. E il bel Danubio blu s' è tinto d'azzurro e d'oro. Come quando c'era la Pellegrini, che sarà felice come tutti noi: c'è vita, e che vita!, in piscina.
La beffa di Thomas Ceccon ai Mondiali di nuoto. Premiato col bronzo, "ma ora ridacci la medaglia". Il Tempo il 25 giugno 2022
Una beffa atroce per l'azzurro Thomas Ceccon. Aveva vinto la medaglia di bronzo nei 50 dorso ai Mondiali di nuoto a Budapest, ma dopo la premiazione l'organizzazione gli ha chiesto indietro la medaglia.
Ceccon era arrivato quarto in vasca, ma la momentanea squalifica del vincitore americano Justin Ress, escluso inizialmente dal podio, aveva fatto scalare tutti di una posizione. Ress era stato punito er una presunta irregolarità: l'essersi completamente sommerso all'arrivo al traguardo. Poi il ricorso degli americani che è stato accolto dalla Fina, con l'imbarazzo per Ceccon a cui è stata chiesta indietro la medaglia con cui aveva già posato sul podio.
"Grottesco se non fossimo a un mondiale; se fosse una scenetta di una sit-com farebbe anche ridere" il commento sarcastico della Federnuoto.
Ceccon si è consolato subito dopo, vincendo il secondo oro di giornata per gli azzurri (e il terzo personale dopo quello nei 100 dorso) nella staffetta 4x100 mista (Nicolò Martinenghi, Federico Burdisso ed Alessandro Miressi gli altri tre in vasca) che ha visto il quartetto italiano chiudere davanti proprio agli americani.
Giorgio Coluccia per “il Giornale” il 3 luglio 2022.
Il ritorno a casa del figliol prodigo è una festa che ormai va avanti da giorni. Alle piscine Leosport di Creazzo si è presentato lo stesso campione che anni prima era solo un ragazzino qualsiasi, leggermente in sovrappeso e alquanto iperattivo. Per la sua prima allenatrice, Anna Vallarsa, sarà sempre il «bocia».
Anche adesso che Thomas Ceccon, vicentino classe 2001 trapiantato a Verona, ha sfondato ai Mondiali di nuoto a Budapest vincendo l'oro nei 100 dorso e nella 4x100 mista, oltre al bronzo nella 4x100 stile libero, a cui si sommano due record del mondo e due primati italiani. La stella è sbocciata, il baffo resta uno dei tratti distintivi, ma dietro si cela un sorriso largo così e la voglia di spaccare il mondo.
Ceccon, a mente fredda sente di aver completato il salto in una nuova dimensione?
«A livello sportivo sì, a livello personale intendo restare quello che ero. Con i piedi per terra, la voglia di fare sacrifici e l'umiltà che non deve venire meno neanche quando tocchi l'apice. Ho iniziato a girare il mondo a sedici anni, soltanto io conosco la strada che ho fatto. Anzi io e miei genitori, papà Loris e mamma Gioia».
Quindi niente più bravate ed esuberanza?
«Si cresce e si cambia, poi quando arrivi ad alti livelli ti rendi conto di cosa c'è in ballo. Da ragazzo prestavo meno attenzione a certi atteggiamenti, ascoltavo poco i consigli e qualche volta di troppo sono arrivato tardi agli allenamenti.
Facevo fatica a stare entro certi limiti, ma non mi sono mai lasciato trascinare dai vizi. Al primo posto ho sempre messo sudore e fatica perché vedevo quanti sacrifici facevano i miei genitori e quanto impegno ci metteva il mio tecnico Alberto Burlina».
Si farà un regalo speciale dopo i successi iridati?
«Non ci ho ancora pensato, adesso è il momento di pensare agli Europei di Roma. Però ci tengo a dire che non fanno per me cellulari all'ultimo grido o i vestiti firmati. Attualmente non sono nemmeno fidanzato, un giorno mi piacerebbe comprare casa e intanto mi diletto con gli investimenti sulla blockchain. Quel mondo mi attrae, il futuro passerà anche da lì».
Il nonnismo subito in Nazionale è una pagina archiviata?
«Ora non c'è più nulla di tutto questo, vedo un gruppo coeso e senza competizione interna nonostante siamo tutti ragazzi forti. Ho sofferto, ho fatto ancora più fatica a integrarmi e per fortuna appartiene ormai al passo».
Perché era stato preso di mira?
«Forse perché ero l'ultimo arrivato e anche molto giovane. Avevo 16 anni, qualcuno ne aveva almeno 15 di più. Non sono riuscito a inserirmi in quel gruppo e di certo non ho pensato di essere accomodante solo per fare un piacere a qualcuno».
Con il trasferimento a Verona ha pensato di ricalcare le orme di Federica Pellegrini?
«Vorrei confrontarmi con lei, l'ho vista intere giornate sbattersi in vasca senza patire la sofferenza. Una campionessa incredibile. Il giorno del mio arrivo a Verona lo ricordo ancora, lì avevo capito che stavo cominciando a diventare grande e il futuro sarebbe stato tutto nelle mie mani. Direi proprio un bel bagno di consapevolezza».
Il tecnico Alberto Burlina è stato un po' anche il suo angelo custode?
«Ha una pazienza infinita, l'ho fatto invecchiare in anticipo. Quando andava male ascoltavo solo i suoi consigli, soltanto lui riusciva a rimettermi in carreggiata. E io in poco tempo tiravo fuori le mie armi migliori, magari mettendoci un pizzico di esuberanza per allontanare ansie e paure».
La smorfia dopo il trionfo dei 100 dorso da dove salta fuori?
«Ai grandi tempi in allenamento ho sempre risposto al mio allenatore di controllare il cronometro, nel caso in cui si fosse rotto. Sono uscito dall'acqua, ho visto il tempo e mi sono davvero impressionato».
Ha già messo nel mirino un nuovo grande traguardo per gli Europei di Roma?
«Vediamo, dipende tutto dal mio fisico. Ho recuperato dagli sforzi di Budapest, mi sento bene, ma tenere uno stato di forma così brillante per tanto tempo è praticamente impossibile. Parteciperò da primatista del mondo, non sono uno che si nasconde.
Anzi, le nuove sfide mi caricano».
Parate, interviste e televisioni. La notorietà inizia già a pesare?
«Non ero abituato, questo lo ammetto. Già a Budapest dopo aver parlato con i giornalisti di tutto il mondo mi sono sentito prosciugato. Ero esausto, gli appuntamenti con i media dopo una gara fanno crescere esponenzialmente stanchezza e stress da competizione».
Taglierà i baffi solo in caso di medaglia olimpica?
«Non credo che una cosa comprometta l'altra (ride; ndr). I baffi non voglio tagliarli e innegabilmente la medaglia a Parigi ho già cominciato a sognarla».
Paltrinieri compie un capolavoro mondiale e conquista la medaglia oro nei 1500 sl. Pilato medaglia argento nei 50 rana. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Giugno 2022.
“L’800 mi è scocciato così tanto che volevo rifarmi”. Greg trionfa a Budapest e resta fino all'ultima vasca sotto il record del mondo. Seconda medaglia per la 17enne tarantina Benedetta Pilato dopo l'oro nei 100 rana e ottava top-3 per gli azzurri in vasca.
Gregorio Paltrinelli fa tremare mai come stavolta, per 1475 metri il record mondiale detenuto dal 2012 dal cinese Sun Yang . Greg dalla corsia numero 1 se ne va solo, mentre ad ogni passaggio il suo allenatore Fabrizio Antonelli gli urla di andare. Ai 200 Greg arriva in 1’53”71, ai 400 è sotto il limite di Sun Yang a 3’51”04, ai 600 è a meno 27 centesimi, incrementa agli 800 a 1”26 in 7’44”19. I suoi passaggi sono irrefrenabili, a tempi impossibili per gli altri, incrementando ai 100 a 1”96 in 9’41”14.
Gli altri avversari Wellbrock e Romanchuk (che era stato battuto da Paltrinieri proprio qui nel 2017) se lo ricorda bene il vero Greg, lo vedono volare in corsia e sembrano quasi inermi . La folla incendia di tifo e passione la Duna Arena di Budapest, ai 1200 Greg è 2”69 sotto il vecchio primato. Un solo uomo al comando in vasca: è tornato Greg: ai 1300 è a -2”79, mentre gli altri combattano per l’argento e il bronzo, Paltrinieri atleta del gruppo Fiamme Oro della Polizia di Stato, invece combatte e nuota solitario contro il cronometro. Ai 1400, al suono della campana è sotto di 2”81. Un crescendo incredibile, quasi lunare e senza fatica Greg vola verso il record mondiale, ai 1450 è 1”23, soltanto nell’ultima vasca il record resiste clamorosamente ma è straordinario il suo record europeo di 14’32”80. Sun Yang si salva ancora col suo 14’31”02: 28”69 è l’ultima vasca dell’azzurro, che torna l’uomo d’oro dei 1500 dove aveva trionfato l’ultima volta nel 2017 e col record anche dei campionati trionfa sull’americano Bobby Finke da 14’36”70 e sul campione uscente, il tedesco Florian Wellbrock 14’36”94.
“È un sogno, sapevo che potevo vincere due ori in vasca. – ha detto Paltrinieri ai microfoni di Rai Sport – L’800 è andato così e mi è scocciato così tanto che per questa gara ho pensato ‘piuttosto muoio’. I miei amici mi hanno detto che ero quotato a 26 e me la sono presa. È stato bello. Queste sono le gare che mi piace fare. Ogni tanto non mi vengono, ho tanta carne sul fuoco in questi giorni: volevo dimostrare che io sono sempre qua. C’è gente che voleva farmi il tampone dopo l’800, ma io sto bene ed è per questo che ero deluso. Ho dato una bella dimostrazione. Io faccio questo perché mi piace e mi diverto, perché l’euforia delle gare non la cambierei con nulla al mondo”. Per Paltrinieri quello di oggi è il terzo titolo mondiale dopo quelli del 2015 e 2017.
Benedetta Pilato conquista la medaglia d’argento nei 50 metri rana arrivando alle spalle della lituana Ruta Meilutyte. L’azzurra ha concluso con il crono di 29.80, sporcato da una brutta partenza per la grossa carica di tensione emotiva. “Aver fatto il record del mondo l’anno scorso mi ha messo pressione, ma è comunque una medaglia mondiale, sono contenta“. Seconda medaglia per la 17enne tarantina dopo l’oro nei 100 rana e ottava top-3 per gli azzurri in vasca. Redazione CdG 1947
Giulia Zonca per “la Stampa” il 25 giugno 2022.
La campionessa del mondo dei 100 rana Benedetta Pilato chiarisce le urgenze della sua generazione quando spiega perché la gara vinta non è stata veloce come avrebbe desiderato: «Ero in pre ciclo, non avrei dovuto secondo il calendario, ma mi ci sono ritrovata e non stavo proprio benissimo». La giornata di cui parla è finita con un oro, si toglie subito dall'orizzonte il dubbio che si tratti di chissà quale insormontabile problema, «ma si potrà dire che gli uomini ai Mondiali o alle Olimpiadi devono essere in forma e poi dipende tutto da loro, mentre noi abbiamo condizioni fisiche che non possiamo controllare e che certe volte ci destabilizzano?».
Sì, si può dire, ma solo di recente. Questa diciassettenne che oggi nuota la finale dei 50 rana lo sa benissimo: «Per me non è un tabù, sono molto aperta e anzi al mio allenatore, che è arrivato adesso, ho chiesto di portarmi gli assorbenti. Necessità. Non vedo la vergogna». Non c'è e il Mondiale dei teenager travolge pure certi convenevoli.
La generazione zeta vuole poterne parlare: «è uno dei fattori che magari mi portano a essere un po' più lenta qui. Io non sono troppo regolare quindi è difficile gestirmi. Potrei prendere gli anticoncezionali per essere sicura delle date, ma poi pure quelli potrebbero avere effetti indesiderati e quindi sto così. Pace».
Lei lo dice a Budapest mentre a Wimbledon le tenniste si organizzano per il bianco assoluto con crescente fastidio. Il dibattito è iniziato con un tweet seccato di Monica Puig, oro ai Giochi di Rio: «Bene, aggiungiamo allo stress di un grande avvenimento pure l'ansia per il bianco, atlete che pregano di non avere le mestruazioni nei giorni in cui si gioca per colpa del dress code». La frecciata è arrivate alle ex che oggi commentano in tv, loro hanno appoggiato la mozione rimpallata dentro l'ennesima partita tra i sessi iniziata da Billie Jean King e mai finita. In sostanza, le donne sostengono che se il bianco obbligatorio causasse qualche problema agli uomini lo avrebbero già levato dal regolamento mentre siccome la questione è tutta al femminile si andrà avanti con eleganza e candore per l'eternità. Forse.
La generazione Benny strappa, «qui tra noi non mi pare proprio un argomento proibito, sarà che siamo piccoli e forti, non so. Io parlo con tutti, di tutto, senza problema. Poi si cambia, nella rana circola una ragazza nata nel 2008...», tanto per quantificare la distanza rispetto alle vecchie abitudini, ai pudori che hanno contribuito a qualche ansia inutile.
Sempre Pilato: «Ognuna la vive secondo le reazioni del proprio fisico, mi piacerebbe semplicemente che fosse un parametro, da mettere lì. Insieme a tutti gli altri». Federica Pellegrini lo ha fatto dopo le Olimpiadi girate a vuoto, nel 2016. Una gara studiata al millimetro nella distribuzione dello sforzo, poi cambiata all'improvviso per colpa di un ciclo anticipato: «L'avevo calcolato malissimo, si è fatto sentire».
Qinwen Zheng dopo la sconfitta all'ultimo Roland Garros contro Iga Swiatek ha motivato con i «crampi premestruali» la fatica di reagire. Il soggetto ha perso il sospetto di scusa e pure mosso a qualche ricerca mirata. A Milano c'è appena stato il primo Festival del ciclo mestruale che ha giocato assai sul gran numero di persone che lo trova inutile. Invece le organizzatrici e le relatrici hanno compilato un diligente programma pieno di buoni motivi per farlo e ripeterlo.
L'approccio destrutturato di Benny Pilato non chiede attenzione o considerazione, nemmeno una ulteriore riduzione dell'Iva sugli assorbenti, che pure ci starebbe, solo la libertà di portare l'argomento dentro l'infinità di variabili che già occupano la preparazione di un'atleta di alto livello. Non si tratta di trovare un equilibrio a tutti i costi, solo di levare di mezzo almeno un'ansia extra.
Che sia per il bianco imposto quando proprio non ha senso indossarlo o che sia per fingere indifferenza a tutti i costi. Pilato ci tiene a precisare che i record del mondo oggi non sono previsti, «però la mano davanti la voglio mettere». Per fermare il cronometro prima degli altri e per spingere via anche le ultime resistenze su quel che si può dire oppure no.
Claudio Cucciatti per il corriere.it il 28 giugno 2022.
Ai Mondiali di Budapest Benedetta Pilato ha parlato del suo ciclo mestruale con la stessa disinvoltura con cui nuota e vince in piscina. «Nella finale dei 100 ero in fase pre-ciclo anche se non dovevo esserlo, non mi sentivo bene e infatti il tempo non è stato dei migliori». Col sorriso sincero dei suoi 17 anni ha frantumato un tabù che ha condizionato le atlete per decenni. La forza di una generazione che si sente libera.
Prima di lei aveva toccato pubblicamente l'argomento Federica Pellegrini, dopo la finale dei 200 stile dei Giochi di Rio 2016. «Mi sentivo come su un'altalena, con cali repentini e stanchezza». Vanessa Ferrari ha svelato invece di prendere la pillola per avere un calendario più regolare.
Ciclo mestruale, come gestire allenamenti e gare
Dolori e reazioni sono soggettivi, ma gli allenatori all'avanguardia studiano oggi metodi per sfruttare al massimo ogni momento del corpo delle atlete. Tanto da allineare le tabelle d'allenamento al processo che porta all'ovulazione. Ma come si gestisce oggi il ciclo di professioniste che devono presentarsi con frequenza in pista o in vasca?
Prendiamo come riferimento, giorno 1, il primo di mestruazioni. Per 4-7 giorni le perdite possono generare dolori, stanchezza, sbalzi di condizione fisica e d'umore. Poi qualcosa cambia. «Intorno al decimo o undicesimo giorno - spiega Antonio Gianfelici, presidente della sezione romana medico-sportiva Fmsi e medico federale di pesistica, canoa kayak e badminton - il corpo femminile entra nella fase anabolizzante, quella col maggior numero di ormoni in circolo. In teoria, il periodo di maggior resa fisica». In allenamento, quindi, si può provare a spingere di più. Ed è il momento migliore per trovarsi in gara in un Mondiale o alle Olimpiadi.
Poi le donne entrano nella fase catabolica, in cui conviene allenare la ventilazione e stressare meno il fisico, che inizia a prepararsi per la nuova ovulazione. Quella fase "pre" che ha smontato parte dei piani di Benedetta Pilato a Budapest. Fino a tornare al punto di partenza, alle mestruazioni. Nei giorni delle perdite, il periodo più delicato da gestire, l'atleta deve ascoltare e rispettare il proprio corpo.
«Ogni donna ha la propria sindrome mestruale. C'è chi non se ne accorge neanche, chi invece non riesce a muoversi. L'importante è ribadire - prosegue Gianfelici - che il ciclo deve avere regolarità, è un sintomo di buona salute. Se salta significa che nell'organismo c'è qualcosa di strano che altera le funzioni vitali».
La pillola anticoncezionale prima di un'Olimpiade
Tra le sportive professioniste, con l'avvicinarsi di Olimpiadi e Mondiali, è consuetudine abbastanza diffusa l'utilizzo della pillola. «In un quadro clinico sano - spiega il medico del Coni - si può introdurre per un breve periodo, due-tre mesi prima, per regolare al meglio il ciclo in vista di un grande evento come l'Olimpiade. Ma si tratta di una scelta personale che deve spettare sempre all'atleta».
Sport di squadra, il ciclo si sincronizza
Operazione più facile per gli sport individuali, meno per quelli di squadra. Anche se gli ultimi studi, effettuati su alcuni gruppi di suore di clausura, hanno dato risultati inaspettati. «Se delle donne stanno a contatto per molto tempo, come può accadere per una squadra di nuoto sincronizzato o di ginnastica ritmica - chiarisce Gianfelici - il ciclo di tutte tende a sincronizzarsi e a stabilizzarsi nello stesso periodo. È una risposta ancestrale del corpo umano che la scienza sta approfondendo». Un altro aspetto da tenere in considerazione, quindi: un buon tecnico deve saper ascoltare il corpo delle atlete ed esaltarlo in ogni momento.
Le atlete prima di Benedetta Pilato
Sfogliando i libri di storia, uno dei primi casi divenuti pubblici di prestazioni condizionate dal ciclo risale alle Olimpiadi di Hitler, Berlino 1936. L'oro degli 80 ostacoli femminili era una questione italiana. Ma quel giorno il duello tra Claudia Testoni, la favorita, e Ondina Valla fu condizionato dal ciclo mestruale, che nella notte della vigilia aveva fatto tremare entrambe di freddo nonostante fosse agosto. Prima della partenza fu consegnata una zolletta di zucchero imbevuta di cognac a testa. Rimedio rudimentale come rudimentale era il cronometro che decretò la vittoria di Valla (netta) e il quarto posto di Testoni (più incerto). Eppure Testoni era stata nella prima metà di gara in testa, per poi cedere di botto. Sara Simeoni, nel 1978, saltò 2,01 metri durante il primo giorno di ciclo.
Arianna Ravelli per corriere.it il 29 giugno 2022.
Campione del mondo nei 1500 e nella 10 km
Gregorio Paltrinieri ha ancora una volta fatto centro. Prima ha vinto il titolo mondiale sui 1500 metri stile libero, con il record europeo di 14’32″80 e sfiorando il record mondiale, poi ha fatto il bis nel fondo conquistando l’oro nella 10 km, specialità olimpica, realizzando così una doppietta leggendaria.
Una nuova doppia impresa di un campione che non sembra conoscere confini, dalla piscina su 800 e 1500 alle acque libere del fondo, dove — appena trasferitosi dalla vasca dove sabato 25 giugno si era concluso il programma del nuoto — aveva conquistato subito un bronzo nella staffetta mista 4x1500 e un bellissimo argento nella 5 chilometri.
Il suo straordinario Mondiale di Budapest si chiude così con 4 medaglie, a conferma che a 27 anni, nonostante una lunga carriera fatta di trionfi e fatiche immani, Greg è forse a un livello mai raggiunto prima.
Detti: amico, rivale, ex compagno
Anche se i successi in piscina continuano ad arrivare copiosi, da tempo Paltrinieri ha deciso di gareggiare anche nel nuoto di fondo in acque libere. La scelta di dedicarsi anche al fondo ha comportato un cambiamento radicale nella vita sportiva di Paltrinieri che ha lasciato il centro federale di Ostia, il suo storico allenatore Stefano Morini, e di conseguenza anche Gabriele Detti, per anni compagno di vasca e di stanza, il primo rivale, e il costante stimolo.
«A un certo punto si cambia, una cosa che andava bene fino a un giorno, il giorno dopo non va più bene, succede, non è colpa di nessuno, ma è chiaro che quello che sono oggi lo devo anche al mio passato», le parole di qualche giorno fa di Greg.
L’architettura come passione
Greg non ama variare solo nel nuoto, è un tipo dai mille interessi: iscritto a Scienze Politiche e relazioni internazionali a Roma anche se adesso lo studio è stato messo un po’ da parte. La sua passione vera però è l’architettura. «Vero, a scuola ero bravo nel disegno tecnico, amo il design e l’architettura d’interni».
La fidanzata Rossella Fiamingo
Per quanto riguarda l’ambito sentimentale Paltrinieri dall’anno scorso sta con la spadista Rossella Fiamingo.
«Con Rossella Fiamingo sto vivendo una storia molto bella. Per me, è amore. Ci siamo conosciuti anni fa e ritrovati, all’evento di uno sponsor, prima dell’Olimpiade in Giappone. A Tokyo ci siamo avvicinati moltissimo, ore e ore a parlare, una cosa stranissima per me, che prima delle gare mi ritiro nel mio spazio e spiccico pochissime parole. Lo sport ci separa, purtroppo. Cerchiamo di vederci il più possibile: io di sicuro sono in una fase in cui tutto quello che voglio è lei. Vorrei fare tutto con Rossella: con le ragazze precedenti non mi era mai capitato» ha detto Greg al Corriere della Sera.
La fidanzata «storica»
Per ben 9 anni Paltrinieri era stato fidanzato con Letizia Ruoli. Letizia, nata come lui a Carpi nell’ottobre 1995, era riservatissima, di lei si sapeva solo che era laureata in Medicina, aveva fatto un Erasmus in Spagna a Valencia ed era stata un anno in Messico per un tirocinio.
Il surf con gli squali in Australia
Paltrinieri ha fatto un’esperienza di allenamento in Australia: è grande amico dei mostri sacri australiani, Mack Horton, oro olimpico nel 400 stile a Rio: «Un amico e un grande lavoratore, con Thorpe ho fatto pure la telecronaca di una sua gara. Grant Hackett si è rivelato un mio fan», racconta Paltrinieri.
In Australia ha scoperto il surf, anche vicino agli squali bianchi, pur con qualche timore. «I miei amici australiani la fanno un po’ troppo facile, dicono siamo in 200, mica attaccheranno proprio te, ma io ero perplesso...».
«Mi hanno sempre detto che nuoto male»
E simile al surf è anche la nuotata di Greg, che dice di sé «di volere avere sempre la sensazione di essere sulla cresta dell’onda, quasi sollevato dall’acqua». Uno stile di nuotata che non rispecchia i canoni classici dei libri di testo: «Per tutta la vita mi sono sentito dire che nuotavo male — ha raccontato Greg in questa video intervista al Corriere —, in realtà questo modo è quello più adatto a me».
L’inizio da ranista
Non tutti lo sanno, ma per tutta l’infanzia Paltrinieri è stato ranista. Poi, racconta lui, «d’improvviso quasi da un giorno all’altro, ho perso la coordinazione, e mi sono spostato sul mezzofondo. Direi che è andata bene così».
Tifoso della Juve, dei Knicks e di Dovizioso
Greg è tifoso della Juve (ma non baratterebbe una Champions per l’oro olimpico) e grande appassionato di basket, tifoso dei New York Knicks, in particolare di Carmelo Anthony, amico personale del corregionale Marco Belinelli.
A basket giocava anche da bambino, «ma ero una schiappa». Più recentemente ha scoperto la MotoGp e, dopo averlo conosciuto, è diventato un tifoso di Andrea Dovizioso.
L’impegno per la riapertura delle piscine
Paltrinieri si è molto esposto nel 2021 per chiedere la riapertura delle piscine al chiuso durante i lockdown dovuti alla pandemia. Ha anche dedicato una medaglia ai «bambini che non possono coltivare i propri sogni, come invece sono riuscito a fare io, quando da piccolo andavo in piscina e sognavo di diventare un campione, mi dispiace che a loro da due anni a questa parte sia stata preclusa questa opportunità».
Checco Zalone
Un’altra passione di Greg è Checco Zalone: «Per me è la fotografia perfetta dell’italiano medio, racconta bene i nostri difetti e fa ridere. Se non piace agli snob pazienza».
Francesco Ceniti per gazzetta.it il 4 luglio 2022.
Avviso ai naviganti: la coppia più glamour e medagliata d’Italia non ha nessuna intenzione di fermarsi. Una medaglia tira l’altra, come fossero ciliegie. In questa (per loro) magica estate 2022 è stata Rossella Fiamingo a fare da apripista: due argenti conquistati nella spada agli Europei in Turchia, individuale e a squadre. Poi il testimone è passato a Gregorio Paltrinieri e lo squalo azzurro a Budapest ha azzannato i rivali ai Mondiali di nuoto: due ori (1500 in piscina e 10 km in acque libere), un argento (5 km) e un bronzo (staffetta mista 4x1,5 km).
Insomma, siamo 4-2 per Greg che però "gioca" su più tavoli, leggi gare. Ma forse il meglio deve ancora venire: dal 15 luglio sono in programma i Mondiali di scherma in Egitto, mentre dall’11 agosto Paltrinieri avrà a Roma la grande occasione della vetrina europea. Insomma, attenti a quei due (cuori innamorati) con le luci che si accedono di nuovo sulla Fiamingo.
Rossella, sta vivendo giornate intense…
"Giudicate voi: dopo una colazione abbondante, alterno una seduta di preparazione alla lezione col maestro. Alle 13 pranzo, poi riposo e un po’ studio fino alle 18, quindi di nuovo in palestra fino alle 21.15. Faccio spuntini a metà mattina e pomeriggio. Questo a Catania, ma a breve (da domani a Tirrenia, ndr) andrò in ritiro con la Nazionale: lì sarò in pedana mattina e pomeriggio, in mezzo un pisolino di un’ora per recuperare le forze".
Nel 2014 e 2015 è stata la regina mondiale di spada (nessun’italiana c’era riuscita): tornare sul trono dopo 7 anni è possibile?
"Certo, ci credo e vado lì per giocarmela".
Ha ritrovato risultati e brillantezza dopo un periodo difficile, come c’è riuscita?
"Passato il blocco del Covid, ho ritrovato la voglia di competere ad alti livelli e di lottare fino alla fine".
Durante le Olimpiadi di Tokyo ha ricevuto insulti sui social, l’hanno definita "ex atleta". Che cosa le ha fatto più male?
"Sono una ragazza molto sensibile e resto di sasso quando le persone puntano il dito senza conoscermi. Ma ora è cambiato il mio atteggiamento sulle critiche: l’indifferenza è l’arma migliore. Penso solo a lavorare bene e gareggiare per me… Anche per questo sono più brillante".
Lei è una ragazza solare, ama condividere le sue emozioni in rete: si è mai pentita?
"No, mai. Posto delle cose in maniera naturale, non ci penso troppo. Non ho orari e nessuno che mi gestisce il profilo. Pubblico quello che mi piace: la scherma, la mia Sicilia e i viaggi. Posto tanto, ma non tutto: ci tengo alla mia privacy, ci sono cose che mi piace tenere per me".
Sarà una coincidenza, ma l’amore ha messo le ali sportive a lei e a Gregorio Paltrinieri…
"Beh, ci carichiamo a vicenda e seguiamo sempre tutte le nostre gare. Solo una volta non è andata così: la mia finale europea a squadre e la sua finale degli 800 ai Mondiali erano in contemporanea ed è stato impossibile seguire il nostro rito (e Paltrinieri è arrivato quarto, ndr)".
Gregorio ha chiuso la sua fatica mondiale alla grande, vincendo la 10 km...
"Sono molto orgogliosa di lui. Ha fatto un’altra prestazione da re".
Adesso le parti s’invertono: Paltrinieri vedrà i Mondiali di scherma?
"Lo farà sicuramente, ma in tv. E comunque anche a distanza si gasa un sacco durante i miei assalti".
Poi ci saranno gli Europei di nuoto a Roma…
"Lo so bene… Seguirò Greg per la prima volta dal vivo, sarò in tribuna a fare il tifo per lui. Non vedo l’ora, sento già l’emozione salire".
Avete già pensato alle vacanze? Il mare vi chiama…
"Uhm, le vacanze sono lontane: siamo troppo concentrati sui nostri obiettivi. Certo, dal 22 agosto potremmo finalmente rilassarci e partire. Ancora non abbiamo deciso il posto, ma la parola d’ordine sarà relax. Andremo al mare per farci cullare dalle onde".
In questo periodo l’Italia è avvolta dal caldo, lei nel 2020 si è laureata in dietistica: qualche consiglio a chi non vuole rinunciare allo sport in queste condizioni?
"È importante idratarsi tanto per compensare le perdite di liquidi, aumentare il consumo di frutta e verdura di stagione. Io evito succhi e the freddo perché contengono elevate quantità di zucchero, come le bevande gassate. Il mio spuntino estivo preferito è frutta fresca e yogurt".
Chiudiamo con i prossimi Mondiali: in un mondo di urlatori (quello degli schermitori) lei resta sempre in silenzio, anche dopo aver piazzato la stoccata. Ma se arrivasse il terzo titolo iridato?
"Urlerei dentro. E forse scapperebbe un urletto anche fuori…".
Arianna Ravelli per corriere.it il 29 giugno 2022.
Ancora Greg, sempre Greg. Dalle acque bollenti del lago Lupa, dalla fatica, dalle alghe escono un oro e un argento storici per l’Italia: nella 10 km di fondo vince Gregorio Paltrinieri (1h50’”56”8 per lui) davanti all’amico e compagno di allenamenti Domenico Acerenza, terzo il rivale di sempre e di tutto, il tedesco Wellbrock. È la quarta medaglia per Paltrinieri dopo l’oro nei 1500, l’argento nella 5 km e il bronzo nella staffetta mista 4x1500, è la prima doppietta dell’Italia nel fondo ai Mondiali.
«Non poteva esserci niente di meglio: in due sul podio. Sentivo che dietro di me c’era Mimmo, lo riconoscevo da come mi toccava i piedi e mi sentivo a casa — scherza Greg , nell’ultimo 1500 ho tirato come se fosse un 1500 in piscina. Quattro medaglie ai Mondiali? Assurdo, dopo il quarto posto nell’800 ho pensato di tornare con zero medaglie, avevo nuotato così male e così teso... ma forse mi serviva solo rompere il ghiaccio. Sapevo di stare bene, durante la preparazione però ti vengono mille dubbi, invece dimostrare con i risultati la propria condizione è la cosa più bella».
E con Greg di fianco è più facile trasformare ogni allenamento in una sfida stellare. Lo sa bene Acerenza che adesso è qui a commentare la sua medaglia più importante: «Non so se sto sognando, ma in acqua mi sentivo super tranquillo, mi sentivo bene, ero pieno di energie e sono stato super lucido anche per lo sprint finale».
Fabrizio Antonelli, l’allenatore di entrambi, sintetizza così: «Un miracolo sportivo». Wellbrock sembrava irraggiungibile nel Lupa Lake, ma Greg e Mimmo si sono caricati a vicenda in questi giorni e hanno studiato come batterlo. «L’avevamo sognata così, la nostra partita non si poteva giocare negli ultimi 100 metri perciò abbiamo cercato una volata più lunga, è andata meglio di quanto ci aspettassimo».
La gara sui 10 km
La battaglia dei Caimani delle acque libere nella 10 km si incendia subito. Se un anno fa qua si nuotava con le mute per proteggersi dal gelo, adesso anche le calotte contribuiscono a far soffrire il caldo (e Acerenza se la toglierà quasi subito).
Sono dieci chilometri di nuoto fianco a fianco, strappi tentati, marcature strette, sfide lanciate senza nascondersi. Gregorio Paltrinieri conosce a memoria i suoi rivali e loro conoscono lui, anche se nei 1500, partendo dalla corsia 1, è riuscito a sorprenderli, con una tattica di gara subito all’attacco dalle prime bracciate.
E l’obiettivo è lo stesso anche oggi nella gara di fondo più importante perché si disputa sulla distanza olimpica: far uscire subito dalla zona di comfort il tedesco Wellbrock (già vincitore della 5 km, con Greg argento) che però questa volta lo marca strettissimo e conduce quasi sempre. Un primo strappo non riesce.
A metà gara il tedesco è primo, con l’ucraino Romanchuk (che si è allenato con lui nei mesi scorsi, dopo essere scappato dalla guerra, mentre il padre è al fronte) che lo tallona, Acerenza terzo e Paltrinieri quinto che perde posizioni nella tonnara della virata.
Ma i Caimani sono tutti lì assieme e davanti, staccati dal resto del gruppo, ai 6,5 km Greg prende la testa per un attimo e prova un secondo strappo, ma anche questa volta il tedesco lo riprende subito. Vanno avanti così quasi a braccetto, fino a quando Greg, dopo aver finto di dirigersi verso il rifornimento, negli ultimi 1500 prende il suo lato preferito e mette il turbo.
Questa volta si crea un discreto margine: sono in quattro, Paltrinieri primo, Acerenza secondo, il francese Olivier e il tedesco Wellbrock che va però a prendersi subito il terzo posto. Il suo recupero finirà lì. Quando Greg va in testa e prende il largo, nessuno può fermarlo, non in questi Mondiali ed è così, con l’ennesima dimostrazione di forza e naturalezza, trascinandosi dietro l’amico Mimmo, che SuperGreg va a prendersi il suo secondo oro ai Mondiali. Dritto nella storia del nuoto.
Le donne
Nella 10 km delle donne, vince l’olandese Van Rouwendaal (vicecampionessa olimpica a Tokyo, oro a Rio quattro anni prima e allenata da una vecchia conoscenza come Philippe Lucas, già coach per un periodo di Federica Pellegrini), davanti alla tedesca Beck e alla brasiliana Cunha: 14° posto per Giulia Gabbrielleschi, rimasta imbottigliata nel gruppo all’ultimo giro («Ho patito l’inesperienza»), e diciottesima Rachele Bruni, argento a Rio: «Per me è un po’ una rinascita. Ho cambiato completamente vita per cercare di tornare tra le più forti; so che nessuno mi regala niente e devo lavorare tanto; so anche che non valgo queste posizioni, ma rispetto a Tokyo dove sono arrivata a oltre due minuti dalla prima ho ridotto il gap cronometrico e sono pronta a ricominciare».
Paltrinieri e la staffetta immensi: oro e record europeo dei 1500 e della 4x100 mista. Mattia Chiusano su La Repubblica il 25 Giugno 2022.
A Budapest la medaglia d'oro dei Giochi di Rio va subito al comando e sfiora il record del mondo: "Ma come si erano permessi di quotare la mia vittoria a 26?". Ceccon e Martinenghi portano l'Italia davanti agli Stati Uniti, Burdisso resiste, Miressi supera Held nel finale. Benedetta Pilato argento nei 50 rana, battuta dalla lituana Meilutyte. Thomas Ceccon per un'ora e mezzo bronzo "al Var" dopo la squalifica di Ress, poi i giudici ridanno all'americano la medaglia d'oro: l'azzurro quarto
Due imprese storiche per lo sport italiano, nello stesso pomeriggio. I 1500 incoronano il più grande Gregorio Paltrinieri di sempre, proprio nel momento in cui sembrava in calo dopo gli 800 che non avevano soddisfatto lui per primo. La 4x100 mista, già bronzo a Tokyo, scende in acqua per battere gli Stati Uniti, Thomas Ceccon nella frazione a dorso prende spazio a Murphy, Nicolò Martinenghi nella rana allunga su Fink fino a 97 centesimi di vantaggio, Federico Burdisso a farfalla resiste a Michael Andrew e consegna quattro decimi di vantaggio ad Alessandro Miressi, che all'inizio accusa il sorpasso di Ryan Held, poi lo supera andando a prendere una medaglia d'oro mai conquistata, oltretutto con record europeo (3'27''51). Prima dei due ori, era arrivato l'argento di Benedetta Pilato nei 50 rana, mentre Thomas Ceccon per un'ora e mezzo ha avuto un bronzo dei 50 dorso sfumato quando i giudici hanno ridato l'oro all'americano Ress. Cinque ori, due argenti e due bronzi alla fine: per l'Italia è l'edizione più vincente di sempre ai Mondiali di nuoto.
Paltrinieri, quasi quattro secondi di vantaggio
Una gara sempre al comando, per Gregorio Paltrinieri, oltre la linea del record del mondo fino agli ultimi cento metri. Una prova senza speranza per i suoi avversari, che partivano favoriti salvo scoprire che l'azzurro oggi era imbattibile, pronto a infliggere quasi quattro secondi al secondo, l'americano Bobby Finke, campione olimpico a Tokyo. "Volevo dimostrare che sono ancora qua" le sue parole subito dopo il trionfo. Il 14'32''80 di Budapest vale il record europeo, secondo miglior tempo della storia, e abbassa il 14'33''10 stabilito da lui stesso al Sette Colli 2020. Argento all'americano Finke (14'36''70), bronzo al tedesco Florian Wellbrock (14'36''94).
Paltrinieri: "Mi sono detto: preferisco morire in vasca"
"Sapevo che potevo vincere due ori in vasca, gli 800 sono andati in quel modo e mi sono così scocciato, lo giuro, che mi sono detto: 'Piuttosto muoio in vasca oggi, non c'è altra soluzione'". Così Gregorio Paltrinieri commenta la sua impresa ai microfoni della Rai. "I miei amici mi dicevano 'sei quotato a 26', e io rispondevo: 'Ma come si permettono di quotarmi così?'. Veramente è finita tutta la fiducia nei miei confronti? Sono partito di testa mia, queste sono le gare che mi piacciono. In questi giorni è successo un po' di tutto, e io voglio dimostrare che sono ancora qua. C'è gente che mi voleva fare i tamponi, mi dicevano che non stavo bene. Stavo bene, ho fatto solo male una gara, ma sapevo di valere questi tempi ed ero arrabbiato con me stesso per quegli 800. Oggi è una bella dimostrazione. Io faccio questo perché mi diverto, non lo cambierei con nulla al mondo. Poi ci sono i momenti in cui perdi, e ti chiedi 'Dove stai sbagliando?', perchè io investo tutto me stesso per andare forte in acqua. Sono contento di averlo dimostrato".
Miressi: "Paltrinieri ci ha gasati"
"Incredibile, abbiamo preso tantissime medaglie" esulta Thomas Ceccon dopo l'oro della staffetta mista. "Questa la sognavamo, abbiamo fatto dei parziali pazzeschi e ce la siamo meritata". Alessandro Miressi è stato decisivo per l'oro in un'edizione del Mondiale in cui non aveva brillato: "Sono contento, siamo stati veramente bravi. Era l'ultima gara, dovevamo dare tutto, e poi la prestazione di Gregorio ci ha gasati". "Anch'io sono stato motivato da Gregorio" conferma Federico Burdisso. "Avevamo un'opportunità che non potevamo perdere, infatti ce la siamo portata a casa. Meglio di così non potevamo fare, sono contentissimo". Per Nicolò Martinenghi "è la medaglia più bella. Prima della gara ci siamo detti, sarebbe bello cantare un inno tutti insieme per la prima volta. Una giornata fantastica".
Pilato d'argento, battuta sui 50 rana
Prima di Paltrinieri, sono arrivate altre due medaglie italiane nell'attesissima ultima giornata dei Mondiali di nuoto di Budapest. Dopo aver vinto i 100 rana Benedetta Pilato si piazza seconda nei 50 rana in cui è primatista mondiale: oro alla lituana Ruta Meilutyte (29''70), argento all'azzurra (29''80), bronzo alla sudafricana Lara Van Niekerk (29''90). "Ho sentito molto la tensione" spiega la diciassettenne tarantina, che ripete lo stesso piazzamento nella stessa gara fatto a 14 anni ai Mondiali coreani 2019. "Meno di questo tempo non potevo fare, lo avevo capito già nei giorni scorsi. Ho sbagliato la partenza ma sono comunque contenta: questa è sempre una medaglia mondiale".
Riabilitato Ress, Ceccon dal bronzo al 4° posto
Una medaglia di bronzo "al Var" era arrivata invece da Thomas Ceccon, all'inizio quarto nei 50 dorso, poi risalito sul podio dopo la squalifica dell'americano Ress che aveva concluso la gara primo. Dopo un'ora e mezzo però i giudici hanno restituito l'oro all'americano, facendo scalare al quarto posto il veneto. Oro a Justin Ress (24''12), argento all'altro americano Hunter Armstrong (24''14), bronzo al polacco Ksawery Masiuk (24''49), quarto posto a Ceccon (24''51) che aveva come intuito dopo la squalifica dell'atleta Usa. "E' come se non ce l'avessi al collo. Il tempo? Ho fatto un pò peggio di quello che pensavo, c'era un pò di tensione ed ero nervoso, non ero fluido come ieri. Peccato perché mi sentivo bene. E' arrivata una medaglia ma mi sento comunque quarto". Il suo bilancio si chiude con due ori (100 dorso con record del mondo e staffetta mista) e un bronzo (4x100 stile libero).
Sjostrom, ventesima medaglia mondiale
La svedese Sarah Sjostrom ha vinto i 50 stile libero, conquistando il secondo oro a Budapest dopo i 50 farfalla e la ventesima medaglia mondiale della sua carriera. Con un tempo di 23''98 la ventottenne ha battuto la polacca Katarzyna Wasick e, a pari merito al terzo posto, l'australiana Meg Harris e l'americana Erika Brown.
Cupping, cosa sono i "lividi" sul corpo dei nuotatori ai Mondiali di Budapest. Libero Quotidiano il 25 giugno 2022
Le foto dei nostri nuotatori con i "lividi" sul corpo mentre sono impegnati nelle vasche dei mondiali di Budapest, stanno facendo il giro del mondo. Ma cosa sono quei segni violacei sul busto e sulle braccia? Si tratta delle conseguenze del cupping, una terapia ereditata dalla medicina cinese che lascia questi strani cerchi, come fossero dei lividi, sulla pelle. Di fatto questo tipo di terapia consiste nel disporre sulle parti doloranti del corpo alcune ventose di vetro di forma sferica che ricordano vagamente la forma di alcune tazzine. Poi una volta posizionate sul corpo dell'atleta queste sfere vengono riscaldate. Le sfere creano una sorta di effetto sottovuoto che stimola i muscoli, agevola il flusso sanguigno e soprattutto allevia il dolore. "Detto in parole non scientifiche", ha spiegato l’azzurro Nicolò Martinenghi, oro nella 4x100 mista e nei 100 rana, "staccano la pelle in superficie e riattivano la circolazione. Io mi trovo molto bene, l’ho sempre fatto". Come ricorda ilCorriere, la pratica sarebbe antichissima e potrebbe risalire anche agli egiziani e ai greci. La tecnica è utilizzata da diverso tempo. Ade esempio alle Olimpiadi di Rio 2016 fu utilizzata dal campione americano Michael Phelps. "Ho chiesto ieri di fare un po’ di “coppettazione” - aveva detto -perché mi sentivo un po’ dolorante. Il mio allenatore deve averlo fatto un po’ forte, e mi ha lasciato qualche livido". Ora a quanto pare questa pratica spopola anche tra i nostri atleti.
Orgoglio Quadarella nella gara della Ledecky. Italia per il poker d'oro. Sergio Arcobelli il 25 Giugno 2022 su Il Giornale.
Simona agguanta un bronzo pesante negli 800. Oggi Pilato, Ceccon, staffetta e Greg per il record.
Cambia il mondo, in questo caso il mondiale, ma io no. È questo il senso della medaglia conquistata da Simona Quadarella, bronzo negli 800 stile libero in 8'1900 dietro la mostruosa Katie Ledecky (80804) e l'australiana Kiah Melverton (8'1877).
Da Budapest 2017 a Budapest 2022, la 23enne romana è ancora sul podio, proprio nella vasca in cui si rivelò cinque anni fa con un bronzo nei 1500, che stavolta però le sono andati male. Ma super Simona è tornata. «Si vede che mi serve una botta forte per tirare fuori qualcosa in più. È stato difficilissimo in questi giorni, non ne avete idea. Sono contenta di tornare a casa con una medaglia. Dove ho trovato le forze dopo la delusione dei 1500? L'ho trovata parlando con le persone giuste e stando accanto a loro».
Anche un anno fa, alle Olimpiadi di Tokyo, l'allieva di Christian Minotti aveva agguantato una medaglia, sempre un bronzo negli 800, reagendo ad un risultato ben al di sotto delle aspettative proprio nei 1500. «Questa volta è stato più difficile» confida. «Dai 1500 ne sono uscita malissimo. Forse peggio dell'anno scorso. Quest'anno non me l'aspettavo per niente. Forse c'è un problema con questi 1500 che sono la mia gara ancor prima degli 800. Cercherò di risolvere questa cosa». Anche perché tra un mese e mezzo ci sono gli Europei in casa, a Roma, «dove voglio confermare i tre titoli europei», tra le altre cose vinti nel maggio di un anno fa sempre a Budapest. Una Quadarella da applausi, davanti a mamma e papà. «La dedica? A mia madre. Per questo, ci tenevo a conquistare una medaglia».
Ma non è ancora finita. Perché oggi, nell'ultima giornata (ore 18 su Rai 2), l'Italia delle corsie va a caccia di un traguardo storico: il poker d'ori. Infatti, finora non è mai accaduto che una spedizione azzurra tornasse a casa con più di tre medaglie del metallo più pregiato. Dopo i trionfi di Martinenghi, Ceccon e Pilato, si può ancora sognare. A partire dai 50 rana, con Benedetta Pilato che, dopo il successo nei 100 rana, si tufferà dalla quarta corsia assegnata a chi ottiene il miglior crono nelle semifinali. «Anche la corsia 5, la stessa dei 100, mi andava bene... Ora speriamo di essere ancora la più veloce», commenta la 17enne tarantina. Altro millennial d'oro dell'Italnuoto è Thomas Ceccon, il favoloso dorsista da record del mondo nei 100 dorso, che dovrà trovare le forze per due gare da medaglia: i 50 dorso e la staffetta mista. In quest'ultima, tornerà in acqua Nicolò Martinenghi, l'oro dei 100 rana ed argento sui 50. Lui che è un tifoso interista vorrebbe fare il triplete. Ma l'Italia può calare anche l'ultimo asso: Paltrinieri, che cerca una reazione nei 1500.
Medaglie ai Mondiali di nuoto 2022: oggi Martinenghi vince l’argento nei 50 rana. Paltrinieri quarto negli 800. Arianna Ravelli, inviata a Budapest su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022.
Argento per Tete Martinenghi nei 50 rana dopo l’oro nei 100 dietro all’americano Fink. Paltrinieri deluso, vince Finke, Detti sesto. Bronzo nel sincronizzato per la squadra tecnico.
Un oro sfuggito o un’impresa riuscita? È comunque una conferma l’argento per Tete Martinenghi nei 50 rana dopo l’oro nei 100: al tocco solo 3 centesimi lo separano dall’americano Finke: 26’’45 contro 26’’48. Terzo l’altro americano Andrew in 26”72. Quinto Simone Cerasuolo, ed è un ottimo risultato se si pensa che era in dubbio fino all’ultimo ed ha raggiunto il gruppo più tardi perché si era preso il Covid. Per Tete (che poi ha gareggiato anche con la staffetta mista mista — ovvero tutti gli stili e uomini e donne assieme — che ha chiuso quinta) sapremo presto se prevarrà la soddisfazione per un’altra medaglia mondiale o il rammarico del grande agonista che vuole sempre toccare per primo. Alla vigilia della gara dei 100 al suo allenatore aveva detto: «O primo o terzo, secondo non voglio arrivare». Ma è possibile che ragionandoci su troverà dolce anche questo argento nei 50, dove agli Europei un anno fa aveva conquistato il bronzo. Comunque sia l’umore, il cambio di passo di Martinenghi è evidente: manca sempre sir Adam Peaty, ma Tete — dopo il bronzo olimpico nei 100 — è costantemente ad altissimi livelli.
Paltrinieri quarto
Una delusione mondiale invece per capitan Greg. È la gara dove ha vinto l’argento a Tokyo con i postumi della mononucleosi, di cui è primatista europeo, «quella che ultimamente forse mi riesce meglio», aveva detto in batteria. Gregorio Paltrinieri però — incredibile dictu — negli 800 questa volta resta ai piedi del podio: ai Mondiali di Budapest vince in volata l’americano Finke (già oro a Tokyo) che si gestisce per 700 metri e poi parte a razzo superando il tedesco Wellbrock e l’ucraino Romanchuk (è scappato dalla guerra e si allena in Germania proprio con Wellbrock) che per lunga parte di gara ha condotto in testa, dopo la partenza veloce del brasiliano Costa. Sesto Gabriele Detti che in batteria si era qualificato con un tempo migliore di Paltrinieri.
Ma le finali sono un altro territorio, Greg in genere vi trova sempre una riserva di forze inaspettate. Oggi no. «È stato un 800 di livello altissimo. Gli altri riescono a gestire la gara fino ai 700 e poi ad andare, adesso io non ne ho più di così, l’unica forse è provare a staccarli subito, ma non ci sono riuscito — le sue prime parole —. Certo, brucia, io più di così oggi non potevo fare. Questo tempo tante volte ti portava a vincere, ma io adesso devo migliorare». Sono parole di impotenza che non siamo abituati a sentire pronunciare da SuperGreg.
Ora bisognerà resettare in fretta perché gli impegni sono appena cominciati: dopo la piscina Greg (dove lo attende comunque la gara dei 1500) si sposterà al Lupa Lake per le gare nei 5, nei 10 km e nella staffetta. «Sono Mondiali molto impegnativi per me, l’importante sarà gestire le energie». Ma a questo è abituato. È invece inedito il ruolo di capitano, dopo dieci anni di Nazionale e l’addio di Federica Pellegrini (che vedendo la sua finale dei 200 oggi ha qualche rimpianto), tocca a Paltrinieri: «Sono orgoglioso di essere capitano di una Nazionale così forte, mi ricordo quando ho iniziato io il capitano era Pippo Magnini, uno che aveva un carisma particolare. Se ho fatto discorsi? In realtà da bravo capitano sono arrivato dopo tutti gli altri, qualcuno aveva già gareggiato perciò ho dato delle pacche sulle spalle e ho detto “bravi”! (ride, ndr). No scherzo, poi ho parlato singolarmente un po’ con tutti».
Bronzo nel nuoto sincronizzato
È arrivato invece già un altro risultato storico dal nuoto artistico: nell’esercizio squadra tecnico le azzurre hanno conquistato un bronzo con 91.0191 punti dietro la Cina (94.7202) e il Giappone.
Da repubblica.it il 21 giugno 2022.
Grande giorno per il nuoto artistico ai Mondiali di Budapest. Giorgio Minisini, 26 anni, e Lucrezia Ruggiero, 22 anni, entrambi romani hanno conquistato l'oro nel duo misto tecnico. Confermata in finale la prima posizione dell'eliminatoria di sabato (88.5734) ma migliorato anche il punteggio con 89.2685 punti, di cui 27.3 per l'esecuzione, 27.1 per l'impressione artistica e 34.8685 per gli elementi. Un trionfo arrivato sulle note del Requiem di Giuseppe Verdi, la composizione sacra del 1800 che l'autore dedicò ad Alessandro Manzoni con il quale condivideva i valori risorgimentali di libertà e giustizia che condussero all'unità d'Italia.
Per Minisini è il secondo successo iridato dopo quello insieme all'ex capitano della nazionale Manila Flamini, per Ruggiero è la prima medaglia internazionale all'esordio assoluto. Tesserati con Aurelia Nuoto e Marina Militare, sono allenati dal direttore tecnico della Nazionale Patrizia Giallombardo.
Alle loro spalle argento al Giappone con una coppia completamente nuova rispetto a quella che ha conquistato il bronzo in Corea del Sud, composta dai fratelli Tomoka e Yotaro Sato, 21 e 18 anni il prossimo agosto, che totalizzano 86.5939 (a Gwangju c'erano Abe Atsushi e Adachi Yumi) e i cinesi Shi Haoyu e Zhang Yiyao terzi, che erano stati quinti nel 2019, con 86.4425.
"Che bello! Non è stato facile, avevamo paura del Covid, è stato bello nuotare bene in finale e oggi festeggiamo. Domani ci sveglieremo pensando al prossimo obiettivo", ha detto Minisini a caldo dopo l'impresa. "Non ho parole, dopo tre anni di lavoro, vincere una medaglia al primo Mondiale e' una grande emozione. Grazie a tutti, sono contenta di aver raggiunto questo traguardo con Giorgio, persona davvero speciale", il commento di Ruggiero.
Bronzo dal libero combinato
La giornata super del nuoto artistico italiano ai Mondiali di Budapest è completata dalla medaglia di bronzo della squadra femminile nel libero combinato. Domiziana Cavanna, Linda Cerruti, Costanza Di Camillo, Costanza Ferro, Gemma Galli, Marta Iacoacci, Marta Murru, Enrica Piccoli, Federica Sala e Francesca Zunino concludono la prova con 92.0333 punti (27.6 per l'esecuzione, 36.9333 per l'impressione artistica e 27.5 per la difficoltà) e conquistano la decima medaglia della storia del nuoto sincronizzato ai campionati del mondo, la prima in questa specialità. Confermate le prime tre posizioni del preliminare. Vince la squadra dell'Ucraina con 95.0333 davanti al Giappone con 93.5667 punti.
Stefano Arcobelli per gazzetta.it il 21 giugno 2022.
Da una meraviglia all'altra: dall'oro con record mondiale di Ceccon al trionfo di Benny Pilato, che nei 100 rana vince dopo aver virato quarta ai 50. Un'impresa nella specialità olimpica dopo il record mondiale nei 50 in questa piscina. Benny batte la tedesca Anna Elendt di 5 centesimi e l'olimpionica di Londra, Ruta Meylutite da 1'06"02, sotto il podio la regina di Rio Lilly King, l'americana che ha sempre stimato la diciassettenne tarantina per il coraggio con cui affronta le gare. Un vero capolavoro.
Un oro per prendersi la madre di tutte le rivincite: quella della delusione olimpica che molti le ricordavano fino a ieri. Un oro per ribadire che non è più solo una cinquantista e che alla prima finale mondiale coglie l'attimo come hanno saputo fare finora Ceccon, Martinenghi e la staffetta. Dalla più precoce medagliata mondiale a questo oro a 17 anni che ha il sapore di un altro step importante per diventare la migliore ai Giochi di Parigi. Uno spettacolo. Una risposta e una dedica al suo allenatore Vito D'Onghia che sta sempre a casa a soffrire e gioire e con il quale la simbiosi è totale. Questa figlia del Sud che si prende il mondo è la più bella delle favole sul Danubio sempre più azzurro.
LACRIME— "Sono super felice, questo era il mio sogno e stasera è diventato realtà". La gioia di una emozionata Benedetta Pilato, scoppiata in lacrime a bordo vasca dopo il trionfo nella finale dei 100 rana: "Era la mia prima finale mondiale nei 100 rana e già ero contenta di averla raggiunta. Aver vinto è davvero sorprendente. Prima della gara piangevo di gioia per Ceccon che mi ha fatto rivivere le sensazioni provate quando ho stabilito il record mondiale e adesso eccomi qua con l'oro al collo. Sono stracontenta e soddisfatta del mio lavoro e del mio percorso".
Alessandra Sensini. Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2022.
Tutta colpa di babbo Goffredo. «Ci portava sempre in barca, a noi quattro sorelle, fin da piccoline.
Quel giorno gli giravo intorno urlando "voglio andare in acqua, voglio andare in acqua". Lui mi prese e mi lanciò in mare». Era la sua regola: sfida i tuoi limiti. È diventato il motto anche di Alessandra Sensini, pluricampionessa olimpica di windsurf, la toscana che negli anni Ottanta fece scoprire all'Italia le tavole che sfrecciavano sulle onde e nel vento, non più esclusiva dei fisici scolpiti della California. «Quel giorno babbo si buttò a prendermi, perché stavo andando giù. Da allora in poi mi ha insegnato a competere, soprattutto con me stessa».
Merito del babbo, allora?
«È stato lui a darci l'impronta. Mia mamma è morta che avevo sedici anni ma ha avuto a lungo problemi con la salute e non poteva starci dietro molto. È stato mio padre la nostra guida».
Tutte donne in famiglia a parte lui?
«Babbo non faceva distinzioni di genere. Aveva figlie femmine? Vabbé, lui aveva la passione per il mare e s' andava in mare, inverno ed estate, con ogni tempo. Eravamo la sua squadra».
Un femminista involontario?
«Beh, sì. Ci ha fatto crescere con l'idea di essere sempre pronte a tutto, indipendenti e forti. Amava gli sport d'acqua che a quei tempi, a livello competitivo, erano maschili».
Come si rapportava Alessandra coi ragazzi?
«Da subito mi sono trovata a competere con loro. Facevo pallacanestro e giocavo da playmaker in una squadra maschile. Con il windsurf gareggiavo con coetanei maschi. Io mi trovavo a mio agio, se loro soffrivano non lo so proprio».
Perché alla fine ha scelto il windsurf?
«Perché era uno sport con una strada ancora tutta da tracciare, non dipendevi da un allenatore né da una squadra. Alla fine ho trovato nel windsurf quella libertà che cercavo. A 15 anni sono salita su un aereo e non ho più smesso».
Cos' è la competizione per Alessandra?
«Fin da ragazzina volevo fare l'atleta. D'altronde, con mio padre non facevo in tempo ad imparare uno sport che mi buttava a fare una gara. Anche se non ero in condizione. Però era duro solo nello spingermi a finirla. Potevo arrivare anche ultima, ma se partecipavo a una gara dovevo arrivare in fondo. Per cui lo sport io l'ho conosciuto essenzialmente attraverso questa competizione che da subito è diventata più una sfida con me stessa che con gli altri. Ero un'autodidatta e dovevo capire da sola cosa fare per vincere».
Sei olimpiadi e quattro medaglie, 10 titoli mondiali, 5 europei, due ai giochi del Mediterraneo, una world cup del circuito professionistico windsurf e 23 titoli italiani. Di tutte queste vittorie, qual è il ricordo più bello?
«Ce ne sono tanti però non posso non dire la medaglia d'oro olimpica. In quel momento è il sogno che si avvera, l'obbiettivo che centri, unico, difficile. È il momento in cui devi performare al massimo, hai solo quella chance. E si è svolta in Australia, un Paese che ho amato da subito».
Racconti...
«Sono partita il 25 dicembre del 1987 e lì ho festeggiato i diciotto anni, il 26 gennaio. Mi innamorai della gente, dello stile di vita, dell'energia che ti caricava ogni giorno, l'oceano e la luce e il vento. Non potevo non vincere le Olimpiadi».
E cosa le ha detto babbo Goffredo?
«La mattina dell'ultima regata, a Sidney, venne a farmi il consueto saluto davanti alla base nautica. Era tutto carino "non ti preoccupare, vada come vada, tanto noi ti si vuole bene lo stesso". Poi, mentre se ne stava andando, non si tenne. Si girò e mi disse "comunque se vinci è meglio". E fu bello, per me. Mi misi a ridere».
Qual è invece il ricordo più brutto?
«L'Olimpiade di Atene. Ero in grado di vincere l'oro, ce l'avevo al collo praticamente. Invece, quando sono entrata per l'ultima prova una serie di fatti e coincidenze mi hanno fatto perdere la concentrazione. Quando accadono queste cose ti dai sempre la colpa, anche se pure quelli che mi stavano accanto non hanno aiutato».
La sconfitta abbatte o insegna?
«Le sconfitte insegnano sempre. A capire l'errore e ad accettarlo. Solo così riesci a migliorare, a lavorare sui punti deboli. È sbagliato chiamarle sconfitte. Anche per i giovani, non è la terminologia giusta. Non sono sconfitte, sono tappe. Che inevitabilmente, in qualsiasi campo, devi affrontare. Nessuno vince subito nella vita».
In gara vince di più la testa o la passione?
«Tutte e due. La testa perché devi sapere affrontare la paura prima di entrare in gara; è necessaria ma non deve diventare un limite. Devi saperla trasformare. La testa è fondamentale in uno sport tecnico e tattico come la vela o il windsurf dove devi prendere in considerazione il vento, la posizione degli avversari, la boa, le onde, la corrente...
Una marea di informazioni che devi costantemente elaborare, mettendole peraltro in un ordine di priorità che cambia in continuazione. Però, poi serve il cuore, perché è lui che non ti fa fermare, che ti fa superare i limiti».
E nella vita?
«Nella vita utilizzo un po' lo stesso sistema. Ma non è che proprio funzioni... (ride) ... Nella vita ci sono sfumature diverse».
È più complicata di una gara di windsurf?
«Da morire, sicuramente sì. La vita è difficile. Nello sport alla fine c'è un numero che è nero su bianco, una volta ti può andare male, puoi anche essere boicottata, però la costanza premia. E dà il valore. Non puoi essere costantemente sfigata. La vita non è così. Tu fai qualcosa che ti sembra buono e gli altri non apprezzano».
Cos' è la gioia di vivere?
«Io sono contenta quando sto con persone a cui voglio bene, amici o familiari... ma la gioia vera è quando sono in mezzo al mare e plano con un windsurf o una barca o un kite, quando ho la sensazione di navigare veloce sul mare, nella maniera che amo io».
Il 26 maggio parlerà anche di questo, nello showroom milanese di Roberto Ricci Designs per la rassegna «Sea on words - Parole da aMare». Un ex atleta di windsurf anche Roberto e un amico. Un ricordo che vi lega?
«Nel 1991, finita una regata in Malesia, finimmo su delle isole remotissime, incontaminate... Dormivamo in stanze con lampade a petrolio, per fare la doccia tiravi su l'acqua da un pozzo, il bagno era un buco per terra, e il ristorante era un pescatore che dietro uno scoglio cucinava in un wok il pescato del giorno.
Al mattino apro la porta e vedo questo spettacolo di palme e sabbia bianca e acqua trasparente. Era solo natura, nessun rumore. L'essenzialità. Un'esperienza simile l'ho vissuta nella traversata dell'Atlantico, 19 giorni in barca senza telefono, in mezzo all'oceano. La prima settimana avevo mille pensieri, poi è scattato qualcosa, entri in uno stato di pace sul mare che è sempre vivo e ti tiene a galla».
Un mare da proteggere...
«Bisogna adottare nuovi stili di vita, inquinare il meno possibile. Serve una campagna per educare al rispetto dell'ambiente e a vivere nella natura. La politica può fare molto, sia creando servizi sia imponendo regole ma anche aiutando le aziende a migliorare, a essere plastic free».
Cos' è l'amore per lei ? Su internet non si trova nulla sulla sua vita privata...
«Te lo presento il mio amore, eccolo qui - e prende in braccio il suo cane, uno schnauzer nano nero, ndr - . Si chiama Maui, come l'isola delle Hawaii. Scherzi a parte, l'ho cercato molto l'amore.
Forse sono rimasta a un ideale d'amore da film. Nella prima parte della mia vita non ho avuto tempo, non riuscivo a conciliare sport e amore. Non essendo dentro gruppi sportivi, dovevo anche crearmi una strada, mettere da parte dei soldi per dopo... Era un lavoro».
E poi?
«Da grande l'ho forse vissuto come una teenager, d'altra parte lo sport ti lascia giovane di testa. Oggi, dopo tanti tentativi ho capito le dinamiche. E sto bene con Maui».
Fin da piccola ha viaggiato. Rimpianti? Forse la rinuncia alla vita privata?
«Oggi no. Ma quando finisci la carriera agonistica, devi quasi reimparare a vivere. Prima eri la campionessa, dopo perdi i punti di riferimento e devi ricostruire il tutto. Ci ho messo un po' di anni a fare questo percorso. Onestamente, mi sarebbe piaciuto avere una famiglia. La volevo, l'ho anche cercata, però non è venuta».
Invece, ha fatto un master di management fino a diventare vice-presidente del Coni.
«Mi piace molto l'aspetto tecnico e stare con i ragazzi. La parte politica è invece qualcosa che necessariamente devi imparare a conoscere per svolgere meglio il lavoro pratico. È stata una bella esperienza, un periodo di grandi scoperte e alcuni momenti difficili».
Nel 2009 è stata candidata con il Partito democratico, poi disse mai più. Perché? Ride.
«Era una candidatura europea e forse nell'ingenuità mia, o per come mi era stata proposta, pensavo davvero di andare a rappresentare l'Italia in Europa. Feci la campagna a modo mio. Capii subito che quell'ambiente non faceva per me. Non mi trovai a mio agio, insomma».
Oggi che progetti ha?
«Sono felice alla direzione tecnica del settore giovanile della Federazione italiana Vela, e aprirò finalmente una scuola di vela a Marina di Grosseto con mio nipote Manuel».
Come sta la vela italiana?
«Sta bene. Anche perché questa pandemia ha avvicinato moltissima gente all'aria aperta, a fare sport più legati alla natura. C'è stata una crescita nei numeri delle scuole vela molto importante, quindi anche la pratica nell'agonismo si è allargata. Lo scorso anno a Tokyo la vela italiana ha vinto un oro, era dalla mia medaglia di Sydney che non accadeva. Il trend è positivo».
Un messaggio ai più giovani?
«Fare sport significa stringere nuove amicizie, creare un gruppo, che ti seguirà per il resto della vita. Lo sport non è solo sacrificio. E non necessariamente devi farlo a livello agonistico».
Però se vinci è meglio direbbe il babbo...
Benedetta Pilato vince l’ oro mondiale nei 100 rana. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2022.
La Pilato alle ultime Olimpiadi era stata protagonista in negativo. Come accade spesso nello sport, era caduta nel dimenticatoio, ma oggi la 17enne ha dimostrato oggi di essere una vera campionessa.
E’il trionfo di Benny Pilato, 17 anni, che vince nei 100 rana dopo aver virato quarta ai 50, una meraviglia dopo l’altra. Un vero capolavoro. Un’impresa quella giovane nuotatrice tarantina nella specialità olimpica dopo il record mondiale nei 50 in questa piscina. Benny ha battuto la tedesca Anna Elendt di 5 centesimi e l’olimpionica inglese, Ruta Meylutite da 1’06″02, sotto il podio la regina di Rio Lilly King, l’americana che ha sempre stimato la diciassettenne tarantina per il coraggio con cui affronta le gare. Nella scorsa edizione, che si era tenuta nel 2019 in Corea del Sud, la Pilato era arrivata seconda nei 50 metri rana.
La nuotatrice tarantina, che non ha ancora compiuto 18 anni, ha disputato una finale perfetta vinta in 1’05″93. Un tempo entusiasmante. L’ha preparato riuscendo a nuotare in maniera per lei quasi innaturale. Nei primi 50 metri di vasca si è frenata, proprio lei che ha una prima vasca esplosiva ed ha il record mondiale della brevissima distanza, e questa volta è uscita alla distanza. Negli ultimi venti metri è riuscita a superare la lituana Ruta Meilutyte (terza in 1’06″02) e a lasciare dietro di sé la tedesca Anna Elendt (seconda in 1’05″98).
La Pilato alle ultime Olimpiadi era stata protagonista in negativo. Come accade spesso nello sport, era caduta nel dimenticatoio, indicata come fuoco fatuo, qualcuno l’ha ritenuta una ragazza immatura forse sopravvalutata. Valutazioni e considerazioni vergognose che Italia ben conosciamo. In realtà la 17enne ha dimostrato oggi di essere una campionessa, superando il momento difficile ed a questo campionato Mondiale in vasca ha tirato fuori una grande prova anche di maturità, dimostrando di saper gestire le proprie energie e saper portare avanti una strategia di gara. “Era la mia prima finale mondiale nei 100 rana e già ero contenta di averla raggiunta. Aver vinto è davvero sorprendente” aggiungendo “Prima della gara piangevo di gioia per Ceccon, che mi ha fatto rivivere le sensazioni provate quando ho stabilito il record mondiale e adesso eccomi qua con l’oro al collo . Sono stracontenta e soddisfatta del mio lavoro e del mio percorso. Sto crescendo anche se resto sempre la più piccola della squadra, quindi me la godo. Siamo una nazionale fortissima. Siamo uniti, vinciamo, sembra venire tutto facile».Così Benedetta Pilato, ha commentato la sua medaglia d’ oro conquistata nei 100 stile rana ai Mondiali di nuoto a Budapest.
Una medaglia oro conquistata a soli 17 anni che è la conferma di un nuovo passo in avanti nella sua maturazione atletica e personale, un passaggio importante e fondamentale per diventare la migliore ai Giochi di Parigi. Un vero spettacolo. Un favola di sport. Il suo allenatore Vito D’Onghia con il quale la simbiosi di Benedetta è totale resta sempre a casa a soffrire e gioire . La carriera di questa figlia del Sud che conquista il mondo è sicuramente la più bella delle favole di uno sport il cui podio e sempre più colorato di azzurro.
Il sindaco di Taranto Melucci: “Benedetta è l’emblema della nostra comunità“
“La comunità ionica manda un grandissimo abbraccio al suo gioiello, Benedetta Pilato. È veramente un momento particolare per la storia di Taranto, lei è l’emblema della trasformazione che la nostra comunità, a partire dai più giovani e a partire dallo sport, sta compiendo” cosi ha commentato il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci la vittoria della 17enne tarantina. “Il nostro impegno lo rinnoviamo con lei, con tutti i giovani della sua generazione per l’impiantistica sportiva della città che si sta rinnovando in vista dei Giochi del Mediterraneo. Forza Benny, auguri e complimenti!”. Redazione CdG 1947
Thomas Ceccon. Arianna Ravelli per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022.
Il guascone è rimasto senza parole, lo sregolato ha lasciato spazio al genio, il baffuto ha i giorni contati. Quando pensi di aver inquadrato Thomas Ceccon, lui ti stupisce e fa vedere un altro stile. Nostro signore della polivalenza, 21 anni da Schio, qui per stupirvi: se domenica sembrava aver sacrificato qualcosa al suo desiderio di gareggiare in tante discipline (semifinale dei 100 dorso nuotata in leggerezza in 52''12, dopo venti minuti ancora in acqua per la finale dei 50 farfalla con la medaglia che sfuma per pochi centesimi, ma i complimenti degli americani), ieri ha fatto vedere che la strada è quella giusta.
Una strada tutta sua, da spavaldo-timido, che si è appena lasciato con la fidanzata, ha idee solidissime («Niente vestiti firmati, i soldi li userò per comprare casa») ma apprezza il premio in Nft, l'opera d'arte digitale, che dice non lascerà mai il suo allenatore ma che è attirato da un'esperienza negli Usa.
Ceccon. Oro nei 100 dorso, la gara che adesso sente più sua («La conosco a memoria»), con record del mondo: 51''60. «E mi sa che siamo tipo in 4-5 italiani a esserci riusciti». Per la verità Thomas tra gli uomini siete solo tu e Giorgio Lamberti, poi ci sono state le ladies Calligaris, Filippi, Pellegrini e un anno fa qui a Budapest nei 50 rana Benny Pilato, che è in un angolo che piange per te e cerca di restare concentrata sulla sua gara.
È un'Italia che emoziona e si emoziona, si gasa a vicenda, giovane, unita, senza prime donne, guidata dal capitano Paltrinieri che oggi si butta negli 800. Tete Martinenghi, oro nei 100 rana che oggi proverà la doppietta nei 50, aspetta dieci minuti bagnato che Ceccon arrivi per potergli saltare addosso. In un angolo della sala conferenze c'è l'amico Nicolas Burdisso, ex compagno di malefatte in Nazionale (quando erano più piccoli li hanno separati perché facevano troppo casino) che ride quando Thomas si incespica in inglese.
Il meno contento di tutti sembra lui («Mah, forse perché non c'erano i russi in gara, o forse non ho ancora realizzato)», ma con Ceccon niente è come sembra, a Tokyo sembrava fare il gradasso e poi invece ha rivelato di avere avuto «mooolta paura sui blocchi, una cosa che non avevo mai provato. Qui com' è andata? Insomma...».
Mancavano i russi Rylov e Kolesnikov, oro e argento ai Giochi, d'accordo, ma perché a nessuno venisse il dubbio che la vittoria valesse di meno, Thomas ci ha messo anche il record. «Non è stato facile in realtà vincere, l'americano Murphy è andato veloce.Ma il record è tanta roba. Se sono stupito? Sì e no, in semifinale sapevo che mi ero tenuto negli ultimi 15 metri. Bastava ripetersi e tirare fino alla fine, oggi non avevo rivali», dice come fosse una cosa qualunque, senza mezza lacrimuccia, qualche nota dell'inno accennata sul podio, e poi piegato dagli spasmi e dalla stanchezza che lo fanno accucciare in zona mista. «Ho fatto solo quello che mi viene meglio, nuotare».
Il nuotatore Thomas nasce per colpa dei capelli lunghi del fratello Efrem, mamma Gioia ex pattinatrice e papà Loris ex calciatore volevano che i figli facessero sport sin da piccoli: «Giocavamo anche a tennis, ma mio fratello con i capelli lunghi aveva troppo caldo, così abbiamo continuato in piscina». Il progetto Ceccon nasce invece qualche anno fa quando ha lasciato Schio con il suo allenatore Alberto Burlina e si è trasferito a Verona, nella stessa palestra di Federica Pellegrini.
«La vedevo tutti i giorni spaccarsi la schiena a 30 anni». E poi è stato protetto, innanzitutto da se stesso. «Lo abbiamo seguito quando faceva il ribelle - racconta Burlina - noi, la famiglia, la Federazione, bastava accompagnarlo, il talento c'era». E quindi perché limitarlo a una disciplina? «Abbiamo da sempre provato a fargli fare tante gare e tante volte ci è andata male». Non hanno mollato e sono arrivati al record del mondo.
Arianna Ravelli per corriere.it il 20 giugno 2022.
Ha vinto l’uomo capace di mettersi al collo un bronzo in staffetta 4x100 stile, migliorare due volte il record italiano nei 5o farfalla, (poi la medaglia è sfuggita), e mettersi al collo un oro mondiale nei 100 dorso. Thomas Ceccon, suo signore della polivalenza, in attesa di riprendere i 200 misti, «ma ci ripenserò dopo che avrò vinto una medaglia olimpica nei 100 dorso».
«Devo ancora realizzare, 51”60 è un tempo molto forte. Bastava fare la gara di ieri tenendo gli ultimi 15 metri e l’ho fatto, ma non mi aspettavo questo tempo», le prime parole dopo la gara di Ceccon. Una medaglia d’oro da record del mondo, « in Italia l’hanno fatto 4 atleti forse, è un traguardo che per la carriera di uno sportivo è tanta roba — continua l’azzurro nell’intervista a bordo vasca con la Rai — .
Oggi gli americani sono andati molto forte, Murphy si nasconde sempre e poi in finale tira fuori quello che non ha. L’altro ragazzo (Armstrong ndr) ha la mia età e sapevo che poteva andare forte. La gara di ieri mi ha dato tanta sicurezza, oggi non dico che sapevo di vincere ma secondo me non avevo rivali. Mancavano i due russi, sarebbe stata una sfida ancora maggiore. L’obiettivo non è questo, è più in alto, ma già così sono contento», chiude Ceccon.
Dosare le energie, le forze, fisiche e mentali, è la specialità più difficile per Thomas, from Schio: non a caso nei 50 farfalla è andato a pochi centesimi dalla medaglia, ma venti minuti prima aveva gareggiato nella semifinale dei 100 dorso. Trasferito a Verona dove intende comprare casa e dove si allenava con Federica Pellegrini («All’inizio pensavo a lei come alla Divina, ma poi l’ho vista in vasca farsi il mazzo come gli altri e a trent’anni, non facile»), Thomas è un tipo curioso che pensa di fare un’esperienza in America («Ma non a studiare eh! Andrei tipo a vedere come si allena Dressel»), intanto porta una ventata di internazionalità nel nostro mondo.
Delusione per Simona Quadarella solo quinta nei 1500, stravinti dal solito fenomeno Ketie Ledecky che conquista il 17° oro ai Mondiali, dopo quello nei 400. L’americana è partita con un ritmo forsennato, da record del mondo. Simona l’ha guardata scappare, sembrava una tattica di contenimento, invece non è mai riuscita ad alzare il ritmo, nonostante le batterie nuotate in scioltezza e chiuse con il secondo tempo. Se nel 2019 con Ledecky fuori gioco aveva vinto il titolo, qua Simona chiude quinta staccata di una vasca in 16’03’’84. Troppo brutta per essere vera.
Giulia Zonca per “Specchio – La Stampa” il 18 aprile 2022.
Il nuotatore che al primo giorno dei campionati italiani, utili per la qualificazione ai Mondiali di questa estate, si presenta non rasato e con i baffoni è Thomas Ceccon, ex ribelle che ci tiene a non omologarsi del tutto al copione della piscina.
Lui è sempre stato il giovane di talento purissimo, tanto dotato da non essere concentrato, così giovane e già in nazionale anche se non educato al ruolo, da inquadrare, da abituare al professionismo, da svezzare, da domare e a un certo punto argento e bronzo con le staffette olimpiche. Dentro il gruppo dopo essere stato un solitario alternativo e ora pronto a diventare l'uomo da battere. Il pass per i Mondiali lo ha preso, anche con i baffoni e dopo settimane buttate causa Covid.
Ha messo la testa a posto?
«Non mi pareva di averla fuori posto, forse prima non ero a mio agio. Ora vedo molti ragazzi freschi che si affacciano tra i grandi, li conosco, per cui la nazionale non è più aliena. A lungo siamo stati io e Federico Burdisso e basta. Eravamo i più piccoli, considerati casinisti e in disparte. Ora la squadra senior è stata travolta dai nuovi arrivi e più giovani ci sono meglio è».
La sua prima nazionale come la ricorda?
«Europei in vasca corta a Copenaghen, 2017. Non è andata benissimo. Erano tutti over 25, molti trentenni, io sedicenne e quindi legato all'unico coetaneo, sempre Fede, tra noi e gli altri si è creata come una frattura. In realtà semplicemente non conoscevamo nessuno e i veterani non aiutavano. Ci hanno detto "benvenuti" e poi a distanza. Non sapevamo come muoverci».
Differenze generazionali?
«Probabile. Non le saprei neanche definire, a me sembra che noi, i ventenni di oggi, siamo proprio di un'altra pasta rispetto a chi c'era prima, però ci sta che io sia coinvolto e non abbia la percezione reale. Mi pare che questa nazionale sia unita, condivida, quella precedente era molto competitiva anche all'interno. Vai a sapere, magari se lo chiedi a loro rispondono che erano in sintonia, io facevo fatica. Così è molto più semplice, certo, dopo l'addio di Federica Pellegrini ci manca un capitano».
A che cosa serve un capitano in uno sport individuale?
«A trascinare e lei non aveva bisogno di fare nulla per riuscirci. Con lei tutti si sentivano di dover spingere al massimo, dare il meglio, soprattutto in staffetta perché vuoi sentirti all'altezza, dimostrare di valere quel livello. Federica ti metteva la pressione giusta, le bastava uno sguardo».
Le medaglie alle Olimpiadi di Tokyo l'hanno liberata?
«Mi hanno dato fiducia. E mancava. Fin da piccolo ero quello bravo, poliedrico, naturalmente portato e poi sembrava sempre che io non fossi all'altezza delle mie qualità però gli standard non li avevo fissati io. Ai Giochi qualcosa è scattato, una prova superata che mi ha tolto un po' di punti interrogativi da dosso».
Per esempio, ha avuto il permesso di tornare in stanza con il suo amico Burdisso. Vi avevano separati.
«Sì, terapia d'urto. Ci vedevano più folli di quanto fossimo. Stavamo troppo insieme, sono successi due o tre episodi strambi, situazioni da spogliatoio, diciamo così. Nulla di grave anche se è partito il ritornello: si guastano a vicenda».
Era vero?
«Non credo. Mi immagino, provando a guardare da fuori, che la carica di due ragazzini in grado di andare più forti di tanti già titolati fosse difficile da gestire. Magari tra un po' arriva gente nata molto dopo di me che va come un treno e io reagisco allo stesso modo».
Lei nasce mistista, una promessa in una specialità complicata. Poi che succede?
«Per me le gare con i quattro stili restano top, le facevo stravolentieri però nel tempo i 100 dorso sono diventati la prova più concreta e il programma si è fatto incompatibile, con i 100 stile e i 100 dorso ci sono più probabilità. Mi gioco questa strada, poi si vedrà».
Rosolino l'ha definita «il nostro Phelps».
«Perché faccio le sue gare, non perché sono come lui. Non mi tufferei nemmeno nel paragone, sto alla larga».
Staffette: 4x100 e mista, l'Italia, con lei in formazione, sul podio ai Giochi in entrambe le gare. Dove volete arrivare?
«La mista soprattutto ha un potenziale pazzesco e siamo tutti grandi amici: Miressi l'ho conosciuto per ultimo e ora abbiamo un rapporto splendido, Martinenghi è proprio un socio e Fede è Fede anche se lui è specialista dei 200 delfino e nei 100 va capito che succede. Io sono curioso di vedere se mi è scesa la scimmia della paura».
Scusi?
«Terrore pre gara. Non mi era mai successo, anzi, in passato mi hanno dato dello sbruffone per l'approccio, sempre esagerazioni. In ogni caso, a Tokyo mi assale proprio la tremarella, l'ansia da prestazione. E mi dico "è il debutto, la prima batteria, passa", invece va sempre peggio, divorato dalle aspettative. L'energia nervosa consumata mi ha tolto centesimi buoni».
Il momento più duro?
«Ogni volta che mi ritrovavo nella stanza di chiamata, mi mettevo il costume e pensavo "io non esco, non nuoto". Ci sto lavorando».
Con un mental coach?
«Non ancora, prima devo mettere a posto certi meccanismi, abituarmi».
I Mondiali di giugno si aggiungono a un calendario già pieno. Meglio averli o si rischia l'eccesso?
«Quando è saltata l'edizione di Fukuoka avrebbero dovuto aspettare il 2023 invece la federazione internazionale non voleva lasciare il calendario libero alla Isl, la Lega indipendente. Non si stanno simpatici. Così hanno inventato i Mondiali di Budapest, una competizione extra. Poi la International swimming League è pure saltata per colpa della guerra in Ucraina. Un po' di confusione, comunque questi Mondiali ci sono, valgono e io voglio andare alla grande».
Un Mondiale senza i russi quindi senza diversi concorrenti.
«Esatto, anche se sono perplesso. Un singolo nuotatore che può fare contro una guerra così?».
Magari non andare alla parata per Putin con la zeta al braccio come ha fatto Rylov, oro nei 100 e 200 dorso a Tokyo.
«Lui fa parte dell'esercito russo, è proprio la sua squadra intendo. Siamo sicuri che avesse alternative? Non poteva dire no e forse proprio per questo subito dopo ha detto che ai Mondiali non ci sarebbe andato. Magari per levarsi l'imbarazzo prima delle decisioni sulla nazionale».
Lei che cosa avrebbe fatto al suo posto?
«Non si può rispondere, io non so che conseguenze avrebbe dovuto affrontare Rylov se si fosse negato».
Alberto Burlina: il suo tecnico quando tutti la indicavano come baby fenomeno, il suo tecnico quando tutti dicevano che lei era troppo indisciplinato e il suo tecnico oggi, da ventenne sbocciato.
«Lo conosco da sempre. Ci capiamo, ci intendiamo e in tutti questi anni, in questi cambiamenti, mi sono sempre fidato di lui. Mi ha aiutato nelle fasi più toste. Dopo il trasferimento a Verona non è stato facile, ottima struttura ma io sempre solo. E intrattabile».
Come l'ha superata?
«Alberto mi ha trovato dei compagni di allenamento, anche se ora sono rimaste solo le ragazze e con loro non è che posso tirare, neanche se io faccio dorso mentre loro fanno stile. Pazienza, ormai riesco a motivarmi lo stesso».
Punti di riferimento nello sport?
«Direi Phepls, ma poi chi ci arriva lì? No, seguo un credo personale: non guardare gli altri, ma te stesso».
Musica prima delle gare?
«Sicuro, a piacere: dalla classica, alle canzoni italiane, al rock o rap. Quel che gira».
Letture?
«Qualche volta. Ora ho sul comodino la biografia di Peaty, il ranista da record, sempre nuoto, ma leggo anche testi di filosofia, dieci pagine al giorno e poi crollo, ma piano piano».
Serie tv?
«Decine, anche lì ampio raggio di generi diversi, basta che non siano roba da donne».
Quali sono roba da donne?
«Quelle che possono vedere solo loro, tipo "Orange is the new black"».
Si è fidanzato?
«Sì. Con Giorgia Biondani, una delle ragazze che nuotano a Verona con me. Lo sanno in pochi, è una storia recente e non è che sto a postare foto insieme o che. La mia vita privata non la spiffero».
Ha proprio messo la testa a posto.
«Diciamo così, ho fatto un po' di esperienza. Se non altro mi lasciano tranquillo».
Gregorio Paltrinieri. Arianna Ravelli per il “Corriere della Sera” il 9 agosto 2022.
Nel 2022 che chiede indietro allo sport italiano tutto quello che ha dato il 2021 («Non è che si può sempre vincere, poi allarghiamo l'orizzonte: un anno storto non basta a dare giudizi sulla carriera di un atleta» è la mano tesa, per esempio, all'amico Gimbo Tamberi), Gregorio Paltrinieri e il nuoto sono la nota in splendida controtendenza: addirittura in crescita. Capitano della Nazionale più forte di sempre, arriva agli Europei di Roma al via giovedì sotto il cono di luce delle star dopo un Mondiale chiuso con quattro medaglie, di cui due ori nei 1500 e nella 10 km.
Greg dica la verità: dopo la delusione degli 800 a Budapest qualche dubbio era venuto anche a lei?
«Ci sono momenti in cui credi tantissimo in te e momenti in cui dubiti tantissimo. Io mi faccio sempre un sacco di domande: "Sono pronto?", "Quello che sto facendo è giusto?", e spesso ho pure poche risposte. È successo ai Mondiali, anche se nel fondo del mio cuore sapevo che potevo fare bene, dovevo solo riuscire a tirarlo fuori».
Il mondo esterno arriva a turbare la sua bolla, leggere che gli scommettitori la quotavano a 26?
«Non sei una macchina, quello che senti all'esterno vagamente ti può condizionare, anche se per me alla fine è tutta benzina. Però non pensate che sia tutto così lineare, sbagli una gara e riparti... È più difficile di così, ma penso che la bravura dei campioni sia trovare il modo di uscirne, anche in tempi stretti».
Il modo di uscirne per lei è stato studiare una tattica del tutto originale, affascinante e rischiosa nei 1500: fare un tempo non veloce in batteria, in finale partire dalla corsia 1, laterale, e scappare via. Ci vuole un controllo del proprio corpo totale: basta sbagliare di pochi decimi e si resta fuori dalla finale.
«Una tattica che nessuno condivideva! Erano tutti contrari, tutti a dirmi che era una stupidaggine, che una corsia valeva l'altra, che era un rischio inutile, che dovevo solo pensare alla mia gara. Invece io e il mio allenatore Fabrizio Antonelli credevamo che potesse darmi un vantaggio.
Non lo fa mai nessuno perché è rischioso, sì, puoi restare fregato. Però se a me dà fastidio avere i miei rivali Wellbroch e Romanchuk ai lati ha senso. Così sono rimasto fuori dalla lotta, non ho dato la scia a nessuno e ho chiuso con il record europeo».
Si può replicare a Roma?
«A me affascina, ormai siamo a un livello così alto che tutto serve per vincere. Non so se lo posso fare sempre, perché ormai gli altri lo sanno, studieremo altre strategie».
Buttarsi nelle acque libere l'ha aiutata ad affinare la tattica?
«Sì, in mare c'è molta più strategia, in due ore succedono tante cose, io cerco di prendere quello che mi serve e portarlo in piscina. È anche per questo che ho provato le acque libere: per cercare nuovi stimoli, sfuggire alla noia».
Il suo allenatore ha detto che a Budapest abbiamo visto l'inizio del Greg 2.0, mentre prima le sue prestazioni erano ancora merito del suo precedente coach Morini.
«I risultati sono sempre anche il frutto di quello che hai fatto prima. Certo, ho cambiato molto: per dire, sono ancora in altura, a Livigno, e scenderò a Roma solo il giorno prima degli Europei, una volta ci andavo due mesi prima».
Roma significa Mondiale 2009, significa il record di Federica Pellegrini. Lei quanto si sente vicino dal battere il record del mondo del discusso Sun Yang (14'31''02)?
«Non è mai la mia prima preoccupazione, quella è vincere le gare».
Baratterebbe quindi il record con cinque medaglie in cinque gare?
«Sì, l'obiettivo è salire cinque volte sul podio in cinque gare. Certo, ci sto provando a battere il record del mondo, ogni volta mi avvicino un po' di più, ho fatto 14'32'', sono lì, manca poco».
Un aiuto per gli spettatori: con quanto vantaggio deve arrivare agli ultimi 100 metri in cui Sun Yang metteva il turbo per essere sicuro di chiudere col record?
«Mmmmh... 3'' davanti, perché lui chiudeva fortissimo, potrebbero bastare».
Si è reso conto che i suoi 1500 a Budapest sono stati qualcosa di speciale? La piscina era una bolgia, Popovici, il 19enne fenomeno romeno re dei 100 e dei 200, era tra gli spalti con gli italiani a fare il tifo per lei. Come lo spiega?
«Popovici era scatenato, ogni volta che mi incontrava mi chiedeva qualcosa, era un mio super tifoso. Mi sono reso conto che era la gara più attesa, come una volta erano i 100. Credo dipenda dal fatto che siamo quattro per tre posti, diversissimi. Io che prima vincevo sempre, poi non ho più vinto, Romanchuk ucraino con il dramma della guerra, Wellbroch aveva fatto il record in vasca corta, l'americano Finke che all'Olimpiade ci ha demoliti. Una bella lotta».
Quest' estate anche la sua fidanzata Rossella Fiamingo ha disputato Europei e Mondiali di scherma, com' è stato vederla gareggiare?
«Mamma mia, che ansia. Quando gareggio io so come la vivo, lei non sai cosa sta pensando, come sta, la vorresti aiutare... Le ho viste tutte in tv le sue gare ed è stato devastante. Adesso capisco quando i miei familiari dicevano che soffrivano a guardarmi. Comunque è stata una super estate anche per lei. Dopo gli Europei possiamo finalmente staccare: andremo in vacanza in Messico per due settimane, Yucatan».
Le piace la popolarità che cresce attorno al nuoto?
«Sì, molto. Da spettatore la cosa che mi piace di più è quando arrivi a conoscere gli atleti anche extrasport, per esempio il documentario trasmesso su Netflix "Drive to survive" ha fatto appassionare tantissimo alla F1».
Si potrebbe fare anche per il nuoto?
«Magari, è un'idea, sarebbe bellissimo, io parteciperei».
Dal recordman del mondo Ceccon a Martinenghi a Pilato, facile fare il capitano in una squadra così...
«Vero! Molti sono cresciuti con le mie gare, come io ho fatto vedendo Rosolino, ma le giuro loro insegnano tantissimo a me. Non c'è mai stato un gruppo che funzionasse così bene come ambiente, siamo tutti partecipi uno alle cose degli altri».
Ha detto che non si aspettava la crisi di governo. Gli atleti spesso si guardano bene dal parlare di politica.
«Io seguo l'attualità e se mi chiedono dico la mia. Per esempio penso sia sbagliato escludere russi e bielorussi dalle gare, lo sport deve unire. Comunque la gente ha mille casini, ora c'è anche la crisi politica, spero che possiamo regalare un momento di gioia e unire gli italiani. Vi ricordate lo spirito di Tokyo? Sembrava fosse tutto figo, fossimo un popolo vincente, torniamo lì».
Paltrinieri, campione del mondo a Budapest nei 1500: la fidanzata Fiamingo, la passione per l’architettura, Checco Zalone. Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 26 Giugno 2022.
Vincendo ancora una volta i mondiali sulla distanza più amata ha dimostrato di essere un campione che non conosce confini, dalla piscina alle acque libere, dove ha conquistato già un bronzo nella staffetta 4x1500 e un argento nella 5 km
Campione del mondo sui 1500
Gregorio Paltrinieri ha ancora una volta fatto centro. Vincendo a Budapest il titolo mondiale sui 1500 metri stile libero, facendo il record europeo con 14’32″80 e sfiorando il record mondiale. Una nuova impresa di un campione che non sembra conoscere confini, dalla piscina su 800 e 1500 alle acque libere del fondo, dove — appena trasferitosi dalla vasca dove sabato si è concluso il programma del nuoto — ha conquistato subito un bronzo nella staffetta mista 4x1500 e un bellissimo argento nella 5 chilometri. Per completare il suo straordinario Mondiale a questo punto gli manca solo una medaglia nella 10 chilometri, in programma mercoledì 29 giugno.
Detti: amico, rivale, ex compagno
Anche se i successi in piscina continuano ad arrivare copiosi, da tempo Paltrinieri ha deciso di gareggiare anche nel nuoto di fondo in acque libere. La scelta di dedicarsi anche al fondo ha comportato un cambiamento radicale nella vita sportiva di Paltrinieri che ha lasciato il centro federale di Ostia, il suo storico allenatore Stefano Morini, e di conseguenza anche Gabriele Detti, per anni compagno di vasca e di stanza, il primo rivale, e il costante stimolo. «A un certo punto si cambia, una cosa che andava bene fino a un giorno, il giorno dopo non va più bene, succede, non è colpa di nessuno, ma è chiaro che quello che sono oggi lo devo anche al mio passato», le parole di qualche giorno fa di Greg.
L’architettura come passione
Greg non ama variare solo nel nuoto, è un tipo dai mille interessi: iscritto a Scienze Politiche e relazioni internazionali a Roma anche se adesso lo studio è stato messo un po’ da parte. La sua passione vera però è l’architettura. «Vero, a scuola ero bravo nel disegno tecnico, amo il design e l’architettura d’interni».
La fidanzata Rossella Fiamingo
Per quanto riguarda l’ambito sentimentale Paltrinieri dall’anno scorso sta con la spadista Rossella Fiamingo. «Con Rossella Fiamingo sto vivendo una storia molto bella. Per me, è amore. Ci siamo conosciuti anni fa e ritrovati, all’evento di uno sponsor, prima dell’Olimpiade in Giappone. A Tokyo ci siamo avvicinati moltissimo, ore e ore a parlare, una cosa stranissima per me, che prima delle gare mi ritiro nel mio spazio e spiccico pochissime parole. Lo sport ci separa, purtroppo. Cerchiamo di vederci il più possibile: io di sicuro sono in una fase in cui tutto quello che voglio è lei. Vorrei fare tutto con Rossella: con le ragazze precedenti non mi era mai capitato» ha detto Greg al Corriere della Sera.
La fidanzata «storica»
Per ben 9 anni Paltrinieri era stato fidanzato con Letizia Ruoli. Letizia, nata come lui a Carpi nell’ottobre 1995, era riservatissima, di lei si sapeva solo che era laureata in Medicina, aveva fatto un Erasmus in Spagna a Valencia ed era stata un anno in Messico per un tirocinio.
Il surf con gli squali in Australia
Paltrinieri ha fatto un’esperienza di allenamento in Australia: è grande amico dei mostri sacri australiani, Mack Horton, oro olimpico nel 400 stile a Rio: «Un amico e un grande lavoratore, con Thorpe ho fatto pure la telecronaca di una sua gara. Grant Hackett si è rivelato un mio fan», racconta Paltrinieri. In Australia ha scoperto il surf, anche vicino agli squali bianchi, pur con qualche timore. «I miei amici australiani la fanno un po’ troppo facile, dicono siamo in 200, mica attaccheranno proprio te, ma io ero perplesso...».
«Mi hanno sempre detto che nuoto male»
E simile al surf è anche la nuotata di Greg, che dice di sé «di volere avere sempre la sensazione di essere sulla cresta dell’onda, quasi sollevato dall’acqua». Uno stile di nuotata che non rispecchia i canoni classici dei libri di testo: «Per tutta la vita mi sono sentito dire che nuotavo male — ha raccontato Greg in questa video intervista al Corriere —, in realtà questo modo è quello più adatto a me».
L’inizio da ranista
Non tutti lo sanno, ma per tutta l’infanzia Paltrinieri è stato ranista. Poi, racconta lui, «d’improvviso quasi da un giorno all’altro, ho perso la coordinazione, e mi sono spostato sul mezzofondo. Direi che è andata bene così».
Tifoso della Juve, dei Knicks e di Dovizioso
Greg è tifoso della Juve (ma non baratterebbe una Champions per l’oro olimpico) e grande appassionato di basket, tifoso dei New York Knicks, in particolare di Carmelo Anthony, amico personale del corregionale Marco Belinelli. A basket giocava anche da bambino, «ma ero una schiappa». Più recentemente ha scoperto la MotoGp e, dopo averlo conosciuto, è diventato un tifoso di Andrea Dovizioso.
L’impegno per la riapertura delle piscine
Paltrinieri si è molto esposto nel 2021 per chiedere la riapertura delle piscine al chiuso durante i lockdown dovuti alla pandemia. Ha anche dedicato una medaglia ai «bambini che non possono coltivare i propri sogni, come invece sono riuscito a fare io, quando da piccolo andavo in piscina e sognavo di diventare un campione, mi dispiace che a loro da due anni a questa parte sia stata preclusa questa opportunità».
Checco Zalone
Un’altra passione di Greg è Checco Zalone: «Per me è la fotografia perfetta dell’italiano medio, racconta bene i nostri difetti e fa ridere. Se non piace agli snob pazienza».
Paltrinieri: «Senza l’acqua e Rossella Fiamingo non sono capace di vivere». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.
L’inizio a rana, la crescita di colpo che l’ha costretto a passare allo stile libero, l’incapacità di godersi le vittorie, l’amore con la schermitrice nato a Tokyo e l’amicizia con Tamberi: l’oro di Rio de Janeiro si racconta.
È nato rana e diventato uomo seguendo l’evoluzione della specie, letteralmente: «A dieci anni, da ranista, ero molto forte. Poi ho dovuto abbandonarla per decisione non mia: in un’estate sono cresciuto tutto d’un botto, non ho più trovato la coordinazione e il sincronismo tra braccia e gambe. Mi sono rifugiato nello stile libero e ho scoperto una straordinaria acquaticità». Gregorio Paltrinieri, 27 anni, anima lunga, spalle larghe, testa pensante e baffetti provvisori («Alla prima gara, mi rado: l’aerodinamicità per un nuotatore è tutto»), fuoriclasse del cloro e del sale, raro esemplare di bipede senza branchie capace di completare con disinvoltura la transizione dalla piscina alle acque libere, in una vita precedente doveva essere pesce. Per forza.
Carpa, spada o rana pescatrice Gregorio?
«Mah, va bene anche alga o medusa. La realtà è che io, lontano dall’acqua dolce o salata, reggo davvero poco. Anche quando l’allenamento per le gare diventa noioso, faticoso e ripetitivo (cinque ore al giorno, sei giorni su sette, significa oltre 100 chilometri nuotati alla settimana), dopo un po’ l’elemento fluido mi manca. Cerco l’acqua, spinto da un misto di nostalgia e desiderio di agonismo, anche in montagna».
Cos’è l’acqua per lei?
«Abbraccio, coccola, emozione: tutto. L’acqua è vita. È quello per cui ho sempre lavorato, è il senso delle mie giornate da quando avevo dodici anni, è il mezzo attraverso cui pormi degli obiettivi. In breve, è sentirmi a posto con me stesso: se me la togli, mi privi della mia essenza. Come un pesce spiaggiato che boccheggia, ha presente? È come se le mie sensazioni in acqua venissero amplificate: provo gioie e dolori incredibili, di cui ormai non mi stupisco più. In acqua, per me, diventa tutto normale».
Qual è il suo primo ricordo in costume da bagno?
«Ho tre mesi, sono nella piscina di Novellara gestita da papà. Ho pochissimi ricordi, data l’età, ma conservo ancora le foto del corso di acquaticità a cui mi iscrissero i miei genitori. Nel primo ricordo vero ho la prima medaglia al collo: un 25 metri a rana, bronzo. Ho sei anni».
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Seriamente: lei crede alla reincarnazione?
«Mi piacerebbe: il concetto di reincarnazione mi ispira un sacco. Da piccolo ero appassionato anche di altri sport, ma poi tornavo sempre al nuoto. Sono certo che non in tutte le situazioni terrestri saprei cosa fare e mi sentirei a mio agio: a volte ho paura di sbagliare, come tutti, di comportarmi in modo non adeguato. In acqua, invece, in ogni circostanza in cui mi metti me la cavo: la soluzione la trovo sempre. L’altro giorno sono andato a Ostia per allenarmi in mare. Arrivo in spiaggia con il mio coach e trovo dei cavalloni giganti: burrasca totale. Allenamento rinviato, naturalmente, ma io ho immaginato di buttarmi dentro, e all’idea mi sentivo in pace. Il mare è un elemento che conosco».
Così bene da non temerlo?
«Mai avute preoccupazioni. E sì che ne ho passate tante: ho attraversato alghe e meduse, mi pizzicavano in faccia, mi si incastravano nel costume, s’infilavano dappertutto... A Grosseto e Abu Dhabi era pieno. Mi fa schifo, magari. Paura mai».
E l’idea dello squalo che compare dagli abissi più profondi, tipo nel film?
«Oddio, quella proprio no! Mi butto e via, non ci penso più. Anche in Australia, dove di squali è pieno e ci sono i cartelli che ti avvertono: se fai il bagno e vieni mangiato, la responsabilità è tua».
Cosa si pensa durante una gara di 10 chilometri che dura quasi due ore?
«Alla strategia, agli avversari, alle meduse. Guai prendersi vacanze mentali dalla competizione, è severamente vietato. Resto vigile, passo il tempo nuotando e disinnescando i rivali».
Tutto questo furore agonistico basculante nasce dalle sfide sportive da piccolino con papà Luca, tra Carpi e la casa di famiglia vicino a Sarzana?
«La miccia si è innescata proprio così. O forse quella era già una conseguenza del mio essere nato competitivo, chi lo sa. La certezza è che sfidavo papà a qualsiasi attività e gioco, desideravo fortissimamente batterlo e lui non me lo permetteva: tornavo a casa piagnucolando dalla mamma ma mai una volta in vita sua mio padre ha lasciato apposta che lo battessi per farmi piacere. Se non lo meritavo, non vincevo. Un grande insegnamento di vita».
E quando quel giorno è arrivato?
«In vacanza in Sicilia, gara di nuoto in piscina sui 25 metri. Ricordo una gioia incredibile».
Ha mai rinunciato a una sfida?
«Non lo farei mai. Se ti tiri indietro una volta, è finita».
Il successo, per esempio un meraviglioso oro nei 1.500 ai Giochi di Rio de Janeiro 2016, riesce a goderselo, Gregorio?
«Non mi sono mai veramente goduto una vittoria. Mai. Me lo impedisce come sono fatto: cerco sempre il pelo nell’uovo, vorrei di più, sento subito questa malinconia che mi proietta verso la prossima sfida. Passo più tempo a cercare l’errore che a far festa. In Brasile, ad esempio: ho vinto ma senza record del mondo. Ho trascorso giorni a rimproverarmelo. L’euforia pura è durata sì e no cinque secondi: quando ho toccato la piastra e ho visto che ero primo. Stop».
Quella malinconia di fondo, di cosa sa?
«Da bambino, nel mio immaginario chi vinceva un’Olimpiade era un supereroe. Quando poi mi sono ritrovato in quella situazione, mi sono reso conto che ero rimasto un ragazzo come tutti. Altro che superpoteri. Non è vincere che mi fa stare bene, perché non mi sento mai appagato: è lavorare tutti i giorni per un sogno».
Però si sente innamorato di una brava schermitrice. Ha voglia di parlarne?
«Con Rossella Fiamingo sto vivendo una storia molto bella. Per me, è amore. Ci siamo conosciuti anni fa e ritrovati, all’evento di uno sponsor, prima dell’Olimpiade in Giappone. A Tokyo ci siamo avvicinati moltissimo, ore e ore a parlare, una cosa stranissima per me, che prima delle gare mi ritiro nel mio spazio e spiccico pochissime parole. In quel contesto, invece, stare con Ross mi faceva bene. Lì mi si è accesa la lampadina. Oh-oh, sta succedendo qualcosa... Dopo Tokyo sentivo di voler ancora stare con lei. Siamo partiti per le vacanze nella sua Sicilia e zac».
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Zac nel senso che non vi siete più lasciati?
«Lo sport ci separa, purtroppo. Cerchiamo di vederci il più possibile: io di sicuro sono in una fase in cui tutto quello che voglio è lei. Vorrei fare tutto con Rossella: con le ragazze precedenti non mi era mai capitato».
Cosa le è piaciuto di Rossella?
«La sua sensibilità: è dolcissima. Si emoziona per ogni cosa, mi sa ascoltare, mi capisce al volo e prova tutte le sensazioni al massimo. Ha tre anni in più di me, ma non pesano. Il matrimonio? Ma no, è presto: tutti e due abbiamo mille obiettivi da raggiungere».
Che ci facevate la notte di Capodanno in canoa in mezzo al golfo di Napoli?
«Una pazzia! L’idea romantica era vedere i fuochi d’artificio dal mare. L’ho convinta a indossare la mia muta da fondo, faceva un freddo bestia. Siamo a tre chilometri dalla costa, senza una luce, i fuochi sono pazzeschi; poi succede l’imprevedibile. A mezzanotte e mezzo cala una nebbia densissima, mai vista a Napoli! In più, c’è il fumo dei fuochi che peggiora la situazione. Ci abbiamo messo due ore a rientrare, sbattendo contro barche ormeggiate che non vedevamo: avevamo perso il senso dell’orientamento. Per me una situazione eccitante, per lei no. Ha ricominciato a parlarmi dopo un paio di giorni...».
Sofia Goggia che a Pechino agguanta l’argento nella libera ventitrè giorni dopo l’infortunio le ha ricordato un certo Paltrinieri che a Tokyo conquista l’argento negli 800 e il bronzo nella 10 km dopo aver avuto la mononucleosi?
«In Sofia mi sono rivisto in pieno. L’avvicinamento a Tokyo è stato un periodo difficilissimo da gestire, tra alti e bassi e la malattia».
Quando tutto sembra perduto, in quali meandri di sé si vanno a reperire le energie per non lasciarsi sfuggire un evento inseguito per quattro lunghi anni?
«Nei meandri dell’incoscienza, dove sennò? Ti chiedi: perché proprio a me? Ero nella forma della vita, non mi ero mai allenato tanto. E prima dell’Olimpiade mi ritrovo completamente fermo per tre settimane per colpa della mononucleosi. Pensavo davvero di non meritarmelo. Da solo ti fissi solo su cose negative, da solo non ce l’avrei mai fatta. Le persone vicino a me mi dicevano: Greg, anche se arrivi a Tokyo al 50% delle tue potenzialità, sei sempre il più forte. Non era vero, naturalmente, ma quando i dottori mi consigliavano di non partire io ho scelto di crederci. Fisicamente, né io né Sofia eravamo lontanamente al top della forma: decisivo è l’approccio mentale. La testa può tutto. E io mentalmente non sono mai stato così forte come in Giappone l’estate scorsa».
Il piano di battaglia per Parigi 2024 è lo stesso? 800 e 1500 in piscina e 10 km nella Senna?
«Sì. Voglio fare le tre gare. A maggior ragione dopo Tokyo, dove non ero io».
L’amicizia con Gimbo Tamberi, oro nel salto in alto dopo essersi rotto il tendine della caviglia alla vigilia di Rio 2016, è vera o c’è un po’ di marketing?
«Verissima! A Rio venne a tifare per me in piscina con il gesso e le guance rigate di lacrime. Ci siamo parlati ed è scattato qualcosa. Lui è molto più esuberante di me, il suo animo è prorompente però siamo molto più simili di quello che può sembrare. Gimbo era stato derubato dei Giochi 2016, si è ripreso tutto con gli interessi cinque anni dopo. Fighissimo. Come si fa a non diventare amico di un tipo così?».
Giulia Zonca per "La Stampa" il 19 giugno 2022.
Iniziano i Mondiali di nuoto e non c'è Federica Pellegrini. Per entrare nell'era che le succede forse c'è ancora bisogno di farsi accompagnare da lei. La prima a stranirsi ora che siamo arrivati al primo start: «Non sono depressa, triste o simili solo che è una situazione inedita con cui devo fare i conti».
C'è qualcosa di cui era sicura di sentire la mancanza che invece non incide nella sua nuova vita?
«Nuotare. Ero certa che quell'abitudine marchiata nella mia esistenza fin da bambina sarebbe stata un richiamo invece no. Sono entrata in acqua sette volte da quando ho smesso, e appena ci sono so che è il mio elemento, lo riconosco, però ero convinta sarebbe stata un'assenza morbosa. Per niente».
Tre gare che regaleranno emozioni in questi Mondiali.
«I 100 uomini rana con Martinenghi pronto a grandi cose. I 100 rana donne con le nostre ragazze scatenate. Le staffette maschili dove siamo proprio forti. E belli. Aggiungerei le tracce bonus: le prove di Ledecky. E per me restano i 200 stile libero da spiare: senza più padrone e senza più italiane, purtroppo».
Battere Ledecky, proprio ai Mondiali, sempre a Budapest, nel 2017, è stata la sua più grande soddisfazione?
«Sì. Lì non se lo aspettava proprio nessuno. Lei strapazzava chiunque in tutto lo stile libero, dai 200 ai 1500 metri e io avevo 29 anni, per i non italiani ero fuori dai radar».
Tre cartoline dei suoi Mondiali.
«Roma 2009, la perfezione. Shanghai 2011, tornare a vincere i 200 e i 400 stile libero dopo aver perso la mia guida, Castagnetti e proprio Budapest 2017 da cui mi sono portata a casa una soddisfazione pazzesca e un abbraccio con Malagò dove si è sciolta tutta la fatica e la tensione accumulata dopo le Olimpiadi di Rio. Ce lo ricordiamo spesso a vicenda».
Alle Olimpiadi del 2024 si vede a bordo vasca o commentatrice in tv?
«Di sicuro al lavoro con il Cio, per il resto dovrò decidere. Ho ricevuto offerte importanti su entrambi i fronti. Nel bordo vasca mi ci vedo ma non ad allenare, c'è già un tecnico in famiglia basta e avanza. Vedere Matteo (Giunta) che faceva la valigia per seguire i suoi nuotatori a Budapest è stata la cosa più strana fino a qui».
Per il Cio lei è in commissione atleti. Come trattate il tema di chi ha cambiato sesso? Proprio nel nuoto il caso di Lia Thomas che ha vinto nei campionati universitari dopo la transizione da uomo a donna è diventato un caso.
«Il tema è superdelicato. Il Cio si è esposto e ha lasciato alle singole federazioni la possibilità di regolamentarsi in materia. Da sport a sport i parametri cambiano molto. Penso che si debba arrivare a definire un protocollo scientifico basato su studi attenti e formularlo al dettaglio. Parto dal presupposto che lo sport debba essere aperto a tutti, maschi, femmine, fluidi e trans però se a livello amatoriale è giusto lasciare libere le iscrizioni, a livello olimpico bisogna garantire una competizione equa».
Forse la parità passa anche dagli atteggiamenti, isolare sul podio Lia Thomas aveva senso?
«Lei non sta vivendo un periodo facile. Difende un principio legittimo che però urta la sensibilità delle altre. Non si sono sentite protette e questo non può succedere. È un territorio ancora inesplorato, dal punto di vista fisiologico non abbiamo ancora le risposte che servono. Allenarsi da uomo per 18 anni vuol dire definire il corpo e la resistenza in un modo che magari resta anche dopo una transizione. Servono linee guida certe e purtroppo non siamo lì».
Ha dato consigli per i Mondiali al fidanzato e suo ex allenatore Matteo Giunta?
«Il nostro rapporto di complicità rispetto al bordo vasca è rimasto. Io i suggerimenti li do ma lui è navigato. Sono curiosa di vedere che cosa combina. Non è una minaccia».
Gli augura di trovare un'altra atleta del suo livello o vuole restare l'unica stella che ha allenato?
«Resterò l'unica Pellegrini nella sua carriera, ma mi aspetto che lavori con i campioni e secondo me una l'ha già per le mani. Non faccio il nome per scaramanzia, tanto credo che la vedrete».
Come è andato l'addio al nubilato?
«Non pensavo di divertirmi tanto, è stato sfrenato ma non sguaiato».
Si è ubriacata?
«Sì, ma senza perdere il controllo o stare male. Niente eccessi patetici».
Spogliarellisti?
«Avevo messo il veto. L'idea mi imbarazza troppo».
I preparativi per il matrimonio di agosto a che punto stanno?
«Noi il matrimonio che sognavamo lo abbiamo immaginato, ora tocca al nostro wedding planner, Enzo Miccio, metterlo in pratica. Io alzo le mani».
I quattro cani ci saranno?
«Saranno presenti da comprimari, lontani dalla chiesa».
Ha sempre voluto sposarsi in chiesa?
«Abbiamo valutato anche altre ipotesi, poi la mia storia mi ha portata lì. Sono cresciuta con l'idea dell'abito bianco e della cerimonia tradizionale».
Chi fa il testimone?
«Mio fratello e adesso gli tocca preparare il discorso. Mi aspetto discorsi intensi durante la festa, tanto per mettere pressione. Adesso che finalmente posso darla agli altri e non averla addosso, ecco quello non mi manca. Essere caricata di aspettative e proiezioni oltre che dei miei sogni. L'unico che resterà rilassato è lo sposo».
L'ultima volta che lo ha visto stressato?
«Da atleta lo mettevo in ansia. Gli mancherà il fatto di non dormire, non mangiare e sentirsi travolto».
Che ha pensato davanti alle foto postate per seminare il dubbio che lei fosse incinta?
«A un certo punto mi è venuto davvero il dubbio di esserlo. Io non sono mai stata miss pancia piatta, ma insomma. Mi è piaciuta la solidarietà delle altre donne che hanno mandato tanti scatti di profilo per scherzarci su, con commenti tipo: "Io all'ultimo mese", "In attesa dei gemelli". Ho riso».
Forse è solo curiosità fuori dal segno.
«Tranquillizzo i cercatori di gossip. Io voglio una famiglia, presto però non subito. Ho un po' di cose da fare adesso, compreso questo benedetto viaggio intorno al mondo rimandato troppe volte. Lo abbiamo fissato per dicembre visto che la Isl, la Swimming League, non ci sarà».
Lei era un volto della competizione voluta dall'ucraino Grigorishin. È naufragata o solo sospesa per la guerra?
«Non lo so, me ne sono un po' tirata fuori perché tanti nuotatori e soprattutto allenatori non sono stati interamente pagati. Alcuni per niente. E non si fa così, è inaccettabile».
Come vede questa Italia del nuoto dopo di lei?
«Benissimo, ci divertirà. Dopo Tokyo gli azzurri hanno creato un gruppo unito, i ragazzi sanno darsi la carica a vicenda. Sono molto diversi da come eravamo noi: noi eravamo una nazionale di prime donne questa è una nazionale di amici».
Paltrinieri ha preso il testimone da capitano.
«La persona giusta. Per i meriti e poi perché è coraggioso e internazionale, questo suo cimentarsi sia in piscina sia nelle acque libere non è proprio da italiano».
A quasi un anno dal ritiro della campionessa di nuovo. Federica Pellegrini e la trasformazione del suo corpo: “Cambiato in tre mesi, ora ho il seno”. Redazione su Il Riformista il 28 Ottobre 2022
A quasi un anno dal ritiro dalle gare agonistiche, Federica Pellegrini commenta la sua nuova vita, iniziata a 34 anni con il matrimonio con l’ex allenatore Matteo Giunta e la trasformazione, inevitabile dopo lo stop agli allenamenti in piscina, del suo corpo. “Smettendo di nuotare sapevo che il mio corpo sarebbe cambiato. Ero terrorizzata dal mio metabolismo, invece il fisico si è adeguato bene. A un certo punto – spiega in una intervista al settimanale femminile Grazia – il mio seno ha cominciato a diventare più rotondo e mi ha spiazzata. Allora mi sono detta: ‘Incredibile, ho il seno!‘”.
“Facendo meno attività ho meno fame di prima, quindi il mio peso è rimasto lo stesso – commenta La Divina – Però un conto è allenarsi tutti i giorni, facendo palestra tre volte la settimana e acqua dieci volte. Un conto è farlo due o tre volte la settimana o quando riesci. Il corpo cambia dal punto di vista muscolare”.
Dai muscoli pettorali a forme più morbide: “Non girando più le braccia in acqua mi sono accorta del cambiamento dopo tre mesi. E la cosa mi ha stupita”. Nell’immediato futuro Federica Pellegrini parteciperà al programma Rai “Pechino Express” insieme al marito. Inoltre lavorerà a un Academy che vuole scovare i nuovi talenti del nuoto italiano. “Quest’ultima avventura la sento mia, perché mi permette di restare nel mio ambiente. Ci sarà questo passaggio di testimone tra me e le nuove generazioni. Credo tanto nel riuscire a trasmettere la mia passione per l’acqua e il nuoto”.
Federica Pellegrini insultata a Jesolo sbotta sui social: venite a dirmi in faccia che sono una tr***. Il Tempo il 10 febbraio 2022.
Pesanti offese sono apparse questa mattina sui cartelli del lungomare che Jesolo ha dedicato a Federica Pellegrini. Ad accorgersene sono stati alcuni cittadini che hanno segnalato il gesto alla Polizia Locale. Un gesto pensato da una persona, o anche più, per il momento sconosciuta, dato che si è premurata di incollare sopra i cartelli originali, delle insegne gialle con la stampa realizzata appositamente. I vigili hanno immediatamente provveduto alla rimozione dei cartelli apparsi nella zona di piazza Marina e subito sono iniziate le indagini per cercare di risalire agli autori.
La campionessa azzurra nel nuoto si è sfogata con una serie di storie pubblicate sul suo profilo Instagram. "Stamattina Jesolo si è svegliata con un adesivo, stampato in una tipografia con gli stessi caratteri dell'originale, appoggiato sopra un cartello del mio lungomare che riportava esattamente queste parole: "Quella tr*** di Federica Pellegrini campionessa olimpica di arroganza e mitomania". Su queste ultime due cose - spiega la Pellegrini con gli occhi lucidi e la voce provata - non posso dire nulla perché a qualcuno può sembrare così. Su "quella tr***" avrei qualcosa da dire, a me non sposta più di tanto perché è una presa di posizione arrogante e rancorosa. Mi faccio due risate, qualcuno si è preso anche la briga di stamparmi in faccia che sono una zoc****. Spero che ci sia qualche telecamera che abbia ripreso questo fatto per vederlo in faccia e chiedergli come mai, se mi conosce così bene per darmi della tr***. Mi auguro che li becchino perché quando succedono queste cose serve una punizione esemplare. Mi dispiace che al mondo ci sia ancora nel 2022 questa gente, che perde del tempo per attaccare un cartello finto e non viene a parlarmi in faccia e dirmi: "Sai che mi stai sulle pal**?". La prossima volta vieni direttamente da me a dirmelo in faccia. Anche se sono una donna posso controbattere. Se c'è una telecamera ci sarà da ridere".
«L’inciviltà non risparmia nessuno, nemmeno una campionessa dello sport e della vita, alla quale rivolgo la mia totale solidarietà». Queste le parole con cui il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, commenta l’episodio. «È un bruttissimo gesto, oltre che un reato - aggiunge Zaia - che non va assolutamente derubricato a goliardata, ma affrontato con rigore e stigmatizzato con forza. Sempre più persone, ogni giorno - conclude il Presidente della Regione - vengono fatte oggetto di minacce o gesti ostili, ai quali va data da tutti una forte risposta di civiltà. Mi auguro che i responsabili vengano presto individuati e puniti con le modalità consentite dalla legge».
«Gesti da condannare senza se e senza ma - aggiunge Zaia - i cui responsabili spero siano stati immortalati dalle telecamere e vengano presto individuati. Sono responsabili di un atto ignobile - conclude Zaia - di un ingiustificabile attacco personale a Federica, ma anche contro l’intera comunità veneta».
«Federica Pellegrini è un simbolo di impegno, costanza, abnegazione e passione. Tutti i successi che ha ottenuto nella sua carriera da nuotatrice e l'apprezzamento che ha ricevuto anche nei ruoli che ha ricoperto, e sta ricoprendo, fuori dalla vasca, sono tutti meritati - commenta il sindaco di Jesolo Valerio Zoggia - È un esempio per i giovani, ma in questi anni ha lanciato messaggi importanti anche agli adulti. Siamo profondamente dispiaciuti per il gesto meschino che ha deturpato la targa apposta nel tratto di lungomare a lei dedicato. Un atto che manifesta solo la grande invidia di qualcuno nei confronti di Federica. I dipendenti di Jesolo Patrimonio hanno subito provveduto a rimuovere la scritta e le forze dell'ordine hanno già avviato le indagini per individuare i responsabili».
Federica Pellegrini insultata sui cartelli del lungomare a Jesolo. Lei replica: «Me lo dicano in faccia». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.
Gli insulti stampati su cartelli di colore giallo, lo stesso sfondo delle tabelle originali installate nel 2015. I cartelli sono stati poi rimossi. Pellegrini su Instagram: «Mi faccio due risate, spero che una telecamera li abbia ripresi».
Insulti sui cartelli del lungomare, un mix di epiteti fra lo sgradevole e il cattivo gusto, vittima Federica Pellegrini. L’ex campionessa di nuoto — ritiratasi ufficialmente dall’attività nel novembre scorso e appena tornata da Pechino dove è stata in quanto membro del Cio — è rimasta vittima dell’attacco questa mattina, 10 febbraio, a Jesolo, la sua città: all’altezza di Piazza Marina nel tratto del lungomare delle stelle a lei intitolato, epiteti di vario genere sono stati stampati su cartelli di colore giallo, lo stesso sfondo delle tabelle originali installate nell’agosto 2015 alla presenza dell’atleta. In uno si leggeva: «Campionessa olimpica di arroganza e mitomania». L’episodio è stato segnalato alla polizia locale da alcuni cittadini e Jesolo Patrimonio ha provveduto a rimuovere le scritte, mentre le forze dell’ordine hanno già avviato le indagini per individuare i responsabili.
In serata, Federica ha voluto dire la sua con una storia su Instagram e, come è nel suo carattere, non ci ha girato troppo attorno, focalizzandosi sull’insulto più brutto, scritto sul cartello: «Sull’arroganza e la mitomania non posso dire niente, perché forse lo posso sembrare, ma le persone che mi conoscono sanno che non sono così. Sull’offesa, però, avrei qualcosa da dire». La campionessa dice comunque di non esserci stata male: «Vorrei anche capire chi si è preso la briga di stampare un cartello uguale, uguale a quello che c’erano, è andato in tipografia. In ogni caso a me cambia niente, è una presa di posizione invidiosa e rancorosa. Mi faccio due grosse risate, ma spero che qualche telecamera li abbia ripresi, perché voglio vederli in faccia e chiedergli perché, se li hanno ripresi ci divertiamo.. In ogni caso avrei apprezzato molto di più se fossero venuti a dirmele in faccia certe cose». E poi rivolgendosi direttamente all’autore del cartello: «Avresti dimostrato più palle, guarda che anche se sono donna, posso controbattere».
Pellegrini: «Il mio futuro? Non avrei problemi a fare solo la mamma»
Tra le tante condanne dell'episodio, sono arrivate anche quella del presidente della Regione Veneto, Luca Zaia («Gesti da condannare senza se e senza ma, da non derubricare come goliardata. È un ingiustificabile attacco personale a Federica e all’intera comunità veneta. Spero che i responsabili vengano presto individuati»), del sindaco di Jesolo, Valerio Zoggia: «Gesto meschino che manifesta solo la grande invidia di qualcuno nei confronti di Federica» e dal presidente della Federnuoto Paolo Barelli: «Spero vivamente che gli autori dei cartelloni offensivi vengano individuati e puniti. Quanto avvenuto è un atto premeditato, un gesto di grande inciviltà e totale mancanza di rispetto nei confronti di una persona, prima che di una campionessa di nuoto, da sempre esempio per stile di vita, abnegazione, correttezza e temperamento. Federica fa bene a farsi due grosse risate, ma noi ci auguriamo che la giustizia intervenga e stigmatizzi gesti sempre più ricorrenti che alimentano un linguaggio ingiurioso, minaccioso e violento».
Federica Pellegrini: «Il matrimonio con Matteo Giunta? Mi agitavano più le gare». Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 17 Agosto 2022.
La più grande nuotatrice italiana si racconta a pochi giorni dalle nozze con Matteo Giunta: «La prima idea era sposarsi in spiaggia, ma troppo complicato. Lo faremo in chiesa, sono credente. Vedendo le gare ho capito che ho elaborato il lutto del ritiro: per continuare avrei dovuto violentarmi, sarei stata la macchietta di me stessa»
Avvolta dal calore del pubblico del Foro Italico, con in acqua la Nazionale più forte di sempre, guardando i suoi 200 stile vinti dall’olandese Steenbergen con un tempo che lei otto mesi fa avrebbe nuotato in scioltezza, è stata toccata dalla magia e punta dalla nostalgia, ma poi Federica Pellegrini si è fatta una domanda: «Avresti voglia di ritornare alla vita di prima, a quegli allenamenti? Ricominciare? Mi sono risposta di no. Ho capito che l’elaborazione del lutto del ritiro era finita. Ho chiuso il cerchio».
La nuova vita è cominciata, l’ha raggiunta prima che Fede ci pensasse troppo, altre routine («sveglia alle 6.30 per portare fuori i cani») si sono sostituite a quella di vasche, gare, allenamenti, il matrimonio con Matteo Giunta, l’allenatore che l’ha accompagnata negli ultimi anni di carriera, si avvicina (27 agosto, data mai confermata, Venezia, scartata l’idea di sposarsi sulla spiaggia). «Agitata? Sono abituata a ben altre pressioni».
Federica, pensieri ed emozioni da madrina degli Europei di Roma?
«Mi sono emozionata, lo sapevo: questa piscina di cemento e mattoni ha veramente qualcosa di magico, nuoti e vedi le piastrelle, non come in quelle piscine prefabbricate di oggi. La voglia di buttarsi ci sarà sempre, anche tra dieci anni quando verrò coi miei figli. Qui ho fatto qualcosina…».
Un record del mondo che resiste dal 2009, per esempio, nei 200 stile. Mentre il nuovo fenomeno del nuoto Popovici ha frantumato quello dei 100 sl l’altro giorno.
«Con Popovici ha tremato davvero lo stadio, bellissimo. Il mio record credo cadrà la prossima stagione, sono contenta che abbia compiuto 13 anni perché è un numero che ha un valore simbolico per me. Adesso facciano ciò che vogliono».
Com’è stato tornare a contatto con la squadra?
«L’altra sera ho portato un chilo di gelato, mi avevano detto “non possiamo uscire, daiii…”. Ho fatto due chiacchiere con i veterani, c’è un legame ancora forte».
Si è commossa al bronzo nei 200 rana di Luca Pizzini, allenato dal suo futuro marito Matteo Giunta.
«Sì, Luca ha 33 anni, ci siamo allenati tanto assieme, voleva tornare a casa con una medaglia dalla moglie che aspetta un bambino. Cinque mesi fa, quando ho smesso, era lui che piangeva! Ero contenta anche per Matteo, sa com’è: si dice che io avrei potuto anche allenarmi da sola, ma non è vero, è bello ottenga riconoscimenti per il suo lavoro».
Con il suo tempo della finale di Tokyo qui avrebbe vinto: pentita di aver smesso?
«No, sapevo che in una finale europea i tempi sarebbero stati più o meno in questo range. Ma io come sarei arrivata qui? Avrei dovuto allenarmi per altri otto mesi, e non potevo certo sapere che sarebbe scoppiata una guerra e che i russi non ci sarebbero stati. Quando ho fatto la mia scelta, il livello dei 200 si stava alzando…».
C’è qualcosa di sé che ha scoperto nella nuova vita?
«Quando smetti di fare la vita che hai fatto per vent’anni ti senti un po’ spaesata, alla mattina ti chiedi “e adesso? Come riempio la giornata?”. Poi è venuto tutto naturalmente, l’agenda si è riempita da sola. Pensavo di fare più fatica ad adattarmi, ho letto di persone che rischiano la depressione. Per adesso mi ritengo molto fortunata, forse perché la mia ultima gara è arrivata quando sentivo che il mio corpo non ce la faceva più. Quindi perché devo ricominciare a violentarmi e lavorare su un corpo che non è più quello di prima? Sono concreta: si dice sempre che l’età non è importante ma non è così. Sarei diventata una macchietta di me stessa: il mio orgoglio mi ha aiutato ad evitarlo».
Ha lasciato un’Italia fortissima, una squadra di giovani affiatati e, lei dice, diversi da voi.
«Sicuramente più uniti, noi eravamo di meno ed era più facile si creassero rivalità, tutti volevamo essere la prima donna. Loro sono riusciti a entrare in un meccanismo molto americano, dove il mio risultato porta al miglioramento del risultato di un altro. Mi sarebbe piaciuto essere parte di una squadra così».
Li trova anche più smaliziati di voi alla loro età?
«Sono la generazione dei social, io mi ricordo quando ho avuto il primo telefono e quando ci scrivevamo le lettere tra compagni. Sono più preparati anche ad affrontare il plotone d’esecuzione post gara dei media».
È stato un plotone di esecuzione per lei?
«Beh, dai, certe volte sì».
Nell’articolo che ha scritto per il Corriere citava un’Academy che le piacerebbe realizzare, in Sardegna ha fatto da maestra di nuoto ai bambini. È un futuro possibile?
«Fare lezione ai bambini è stato molto divertente, è nato per gioco. Matteo e io stiamo ancora definendo questo progetto di Academy, spero di farlo partire nell’anno nuovo, ci saranno dei camp per allenarsi».
Che mamma crede che sarà?
«Difficile dirlo. Coi cani sono molto brava e mi hanno detto che è un buon test. Anche se devo dire che con quattro cani un pochino la voglia di maternità si è attenuata (ride). Stiamo cercando una casa più grande, con un giardino, se riuscissimo a trovare la soluzione giusta su Verona si accelererebbe anche tutto il resto».
Gli animali sono diventati una parte importante della sua vita.
«Direi che Vanessa, il primo bulldog francese, me l’ha cambiata la vita, entri nel mondo dell’amore folle per gli animali. Gli impegni miei e di Matteo sono programmati in base a loro. Qui sono in una mezza vacanza: dormire fino alle nove per me è utopia, alle 6.30 sono già fuori con loro. Ma è un aiuto, mi fa tenere una certa disciplina».
Lei e Matteo vi sposate in chiesa: una scelta meditata?
«Io sono credente, Matteo anche, forse un po’ meno. Avevamo pensato di sposarci in spiaggia all’inizio: le famiglie storcevano il naso, ma insomma è il nostro matrimonio. Però era complicato come logistica, “e se poi piove?”. Così abbiamo scelto Venezia e non poteva che essere in chiesa. Al momento sarà che sono distratta dagli impegni qui a Roma ma non sono molto agitata: è più facile prepararsi per le nozze che per una gara importante, sono abituata ad altre pressioni. Anche se un matrimonio a Venezia è un bello sbattimento! Città complicata e, soprattutto, dispendiosa».
Viaggio di nozze?
«Andremo in America, nei nostri luoghi del cuore. Eravamo abituati a fare un collegiale tutti gli anni, ci mancano. Il giro del mondo è un desiderio da tempo ma per ora rimandiamo».
Il giorno della cerimonia si immagina tante lacrime?
«Spero che non piangerà nessuno perché se inizia uno poi seguono tutti gli altri!».
Nel docu-film Underwater sulla sua vita si piange tantissimo. A un certo punto lo fa anche Matteo ricordando la medaglia mancata a Rio.
«Abbiamo fatto un azzardo perché abbiamo scelto di raccontare gli ultimi anni, più difficili: è stato un percorso molto emozionale. Quando ho visto il film in anteprima, su uno schermo piccolino, al momento in cui Matteo piange sono crollata anche io».
Nel documentario dice che l’amore per lei è sempre stato più importante dell’amicizia.
«Per me è stato così, so che molti dicono l’amicizia sia più importante. Io non ho mai avuto un rapporto di amicizia più forte dell’amore che in quel momento provavo per un uomo. Invidio quelli che hanno degli amici da sempre, che si sentono tutti i giorni, si raccontano tutto, Matteo ce l’ha un amico così. Adesso ci sono delle ragazze, con cui sta crescendo un buon rapporto ma non dico chi perché non voglio portare sfiga…».
Un pregio di Matteo come tecnico e come compagno di vita.
«È un tecnico intelligente, che non impone un metodo fisso ma sa adattarsi. È una persona molto sensibile però molto integra: sì, direi un mix di queste due cose».
L’ha definito anche all’antica.
«Per certe cose sì, il giorno che posterà sui social foto sue davanti allo specchio mi preoccuperò!».
Lei è membro Cio in rappresentanza degli atleti, ha capito in che ambiti vuole concentrarsi?
«La cosa che mi piace di più è lavorare sulla parità di genere, sia per gli atleti sia per chi lavora nello sport. E mi attira occuparmi di professionismo sportivo: le Federazioni più ricche ci devono pensare seriamente».
L’incontro che le resterà nel cuore?
«Quello con i due Papi, Ratzinger e Francesco, mi ha fatto sentire la potenza di quelle figure. Quando è entrata nella stanza con Ratzinger mia mamma si è messa a piangere perché avvertiva appunto la potenza di quel luogo».
L’esperienza in tv ha tirato fuori un altro lato di lei: chi è stato il suo maestro, diciamo il Castagnetti (lo storico allenatore dei primi successi) dello spettacolo?
«Sono rimasta affascinata da Claudio Bisio: si vede che ha studiato tanto per fare quello che fa, ma anche che ce l’ha dentro, canta, suona, intrattiene… Mi sono appoggiata tanto a lui, soprattutto il primo anno. In tv mi sono molto divertita, per ora la giuria però è congelata. Sky non ha rinnovato con Italia’s got talent e Fremantle sta cercando di rivenderlo ad altre piattaforme. Vedremo».
Dopo vent’anni se dovesse riassumere cosa le ha insegnato lo sport cosa direbbe?
«Lo sport ti arricchisce sempre, non c’è un’altra scuola di vita così importante in Italia. Ti sbatte in faccia la meritocrazia, il valore del fair play, il fatto che per un centesimo si perde o si vince, e non ci sono scuse».
Federica Pellegrini, confessioni: «Ora voglio sentire cosa si prova ad avere la pancia». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 9 Settembre 2022.
La campionessa si racconta per la prima volta dopo il matrimonio con Matteo Giunta. E si scopre una persona diversa. «Quando sei in acqua ti senti un po’ come Dio, smettendo ho temuto il vuoto: invece è stata una liberazione»
Federica Pellegrini, 34 anni, la più grande nuotatrice italiana della storia, primatista mondiale in carica dei 200 metri stile libero ed europea dei 400 (fotoservizio di Maki Galimberti)
La piscina in disuso sotto i suoi piedi è completamente vuota, ma la vita senz’acqua e senza nuoto di Federica Pellegrini non è vuota affatto. È invece scintillante come il blazer di paillettes e i tacchi a spillo coi quali, incongruamente, lei si erge sul blocco di partenza. La vita dopo il ritiro dal nuoto è il sole d’estate verso cui porge la faccia; è la naturalezza con cui segue le indicazioni del fotografo che le chiede di inarcare la schiena, scoprire una gamba; è il solitario che brilla allo stesso anulare della fede. È suo marito che passa, saluta, avvisa «porto da mangiare ai quadrupedi», i loro quattro cani. È lei che dice che il vuoto l’ha temuto: «Decidere di smettere di fare quello che hai fatto per vent’anni non è stato facile, perché quando sei in acqua ti senti un po’ Dio, un po’ un super eroe. Però, ho subito un Covid duro, non ho mai recuperato al cento per cento e, già da un anno, il corpo mi diceva di fermarmi. Se fossi andata avanti, non avrei performato come prima e non me lo sarei perdonata».
«MI PIACE LITIGARE, NE HO BISOGNO: FA BENE, TI SFOGHI, RESETTI, RICOMINCI DA CAPO... NON SOPPORTO I TRADIMENTI». «I QUATTRO CANI RIMARRANNO, I FIGLI ARRIVERANNO: NON VEDO L’ORA»
Federica, un oro olimpico, sei ori ai Mondiali, 11 record del mondo, il vuoto l’ha temuto, ma si sbagliava: «Dopo il ritiro, ho cominciato a fare tremila cose, non sono stata a casa a guardare il soffitto». Fra le «tremila cose» ha organizzato il matrimonio, celebrato il 27 agosto a Venezia. Dieci anni fa, cominciava ad allenarsi con Matteo Giunta che ora è suo marito: «Per due anni, è stato il mio preparatore atletico», ricorda, «poi, è diventato l’allenatore effettivo e, negli ultimi quattro anni, siamo stati insieme, abbiamo convissuto».
Il matrimonio era un sogno, un desiderio, un traguardo?
«Sono cresciuta in una famiglia unita, il matrimonio era la favola della mamma in abito bianco, dei miei genitori quando si sono incontrati. Mamma era di Murano, faceva la commessa in un negozio di vetri in piazza San Marco, mio babbo lavorava al vicino Bar Florian. Leggenda racconta che mamma è entrata al Florian chiedendo una camomilla perché aveva mal di pancia e mio babbo, la sera, ha detto a sua madre: oggi, ho conosciuto la donna che sposerò. Nella mia testa, l’abito bianco c’è sempre stato. Però, crescendo, capisci anche che potrebbe non arrivare. A un certo punto, mi ero detta che, se non avessi trovato la persona giusta, quella del “per sempre”, non ci sarei stata male».
«CON MATTEO INNESCO LITI INCREDIBILI PER CAVOLATE. ERO A FORMENTERA CON LE AMICHE, CHIAMAVA POCO.HO URLATO: “NON VUOI SAPERE CHE FACCIO?”»
In che cosa Matteo è l’uomo del «per sempre»?
«È il mio opposto, io sono istintiva e lui invece è riflessivo, combaciamo bene. Sia nello sport sia nella vita, lui sa come disinnescarmi. Io innesco, lui disinnesca».
Che c’è da disinnescare e perché sta ridendo?
«Siccome con lui è assolutamente impossibile litigare, ogni tanto, io innesco perché, fisiologicamente, ho bisogno di litigare: fa bene, ti sfoghi, resetti, ricominci da capo. Ho tirato su delle litigate per cavolate incredibili, solo per chiuderlo in un angolo e vedere una sua reazione».
La cavolata più stupida inventata per litigare?
«Ero a Formentera con le amiche. Mi chiamava poco, non era preoccupato, non era geloso. Ho piantato un casino. Ho urlato: ma ti frega qualcosa di quello che sto facendo? E lui: ti sto lasciando tranquilla perché sei con le amiche».
Lei ne ride, ma che cos’ha a favore della gelosia?
«Non sono abituata ai non gelosi. Io lo sono, un po’ di natura e un po’ perché le mie storie passate mi hanno portata a stare in guardia dello sport preferito dei maschi: il tradimento».
«QUANDO VINCI A 16 ANNI, C’È CHI TI VUOLE SFRUTTARE IN QUALCHE MODO. IO HO REAGITO COME UN RICCIO, PER GLI ALTRI ERO CHIUSA E ANTIPATICA»
Sta dicendo che è stata molto tradita?
«Ho come questo sospetto».
Quanto corroborato da indizi e prove?
«Parecchie prove, tanti indizi. Sono rimasta scottata, ho subito l’infedeltà in modo abbastanza sistematico: fidarmi totalmente è difficile. A volte, quelle paure tornano fuori e si fanno sentire».
Scoprendo di essere stata tradita, ha lasciato o ha perdonato?
«Ho lasciato, ho perdonato, ho rilasciato e riperdonato. Poi, passato l’innamoramento, mi sono resa conto che perdonare era sbagliato».
In passato, anche lei è stata accusata di aver tradito.
«Ho tradito, non posso dire di no, ma ho tradito solo quando di lì a poco la storia è finita. Tradire sistematicamente è diverso. Io non concepisco chi tradisce per sport. Infatti, non sono una che fa ingelosire: si vede che non ho grilli per la testa; non sono una che flirta».
«HO I CODICI DEL SUO TELEFONO, LUI NON LI CAMBIA: ALTRIMENTI AVREBBE QUALCOSA DA NASCONDERE... MA NON CI ENTRO TUTTI I GIORNI»
Dunque, ora, quanto e come è gelosa di suo marito?
«Ogni tanto, gli faccio una scenatina, ma non vivo col dubbio costante».
Mi racconta «una scenatina»?
«Per dei messaggi su Instagram, inviati da una che faceva la gatta morta, con lui che rispondeva sornione».
Quindi, lei è entrata nei suoi messaggi privati?
«Io, se ho il dubbio, entro nel suo telefono. So tutti i codici».
Lo dice con espressione furbesca.
«Matteo sa che li ho. E non li cambia: se no, vuol dire che ha qualcosa da nascondere. Però, non entro nel suo telefono tutti i giorni».
Mi stava raccontando perché è lui quello giusto.
«Che è molto bello è secondario. È molto interessante e intelligente: con lui puoi discutere di tutto, di politica, di film, di metodologia dell’allenamento e preparazione atletica di qualsiasi sport e lo trovi sempre preparato. Poi condividiamo un’anima wild : viviamo in costume, scalzi, coi capelli bagnati, prendiamo, partiamo. Avevamo anche pensato di sposarci in spiaggia, col bagno finale, ma ha prevalso la tradizione. Ed è l’uomo giusto anche perché ha accettato di programmare la sua vita con me in base a quattro cani: cosa non scontata».
Federica Pellegrini in una foto scattata per «7» da Gianni Giansanti nel 2008, l’anno del suo primo oro olimpico nei 200 stile libero
I «quadrupedi» li ha chiamati.
«Quattro bulldog francesi, molto impegnativi: non puoi lasciarli tutto il giorno da soli. Ogni due o tre ore, a casa, deve tornare qualcuno. Non tutti gli uomini si sarebbero prestati».
Con quanti bambini e quanti cani si immagina?
«I cani rimarranno quattro. I figli arriveranno, li desideriamo, ma vedremo come va intanto con uno. Non vedo l’ora di essere madre. Parlano tutti della connessione incredibile con qualcosa che sta crescendo dentro di te: ho una gran voglia di sentire che effetto fa avere la pancia».
La neosposa Jennifer Lopez ha preso il cognome del marito Ben Affleck: giusto, sbagliato, antifemminista?
«Io, se a un evento introducono me e Matteo come i signori Giunta, non ci trovo niente di male».
Che cosa le piace della vita dopo il nuoto?
«La farò ridere: la cosa che mi è piaciuta di più è il weekend lungo, una scoperta incredibile. Per me, il weekend iniziava il sabato alle 11 dopo l’allenamento e finiva la domenica sera a letto presto».
Me ne racconti uno.
«Le racconto un viaggio. A marzo, ho fatto una crociera bellissima con mamma fra Mar Rosso e Giordania. La crociera era il sogno di mamma da sempre, ma quando me l’hanno proposta, d’istinto, avevo detto no, perché, per me, marzo era il clou della stagione di allenamento e uno stop era impossibile».
Che cosa farà da grande, resterà nel nuoto, farà televisione o che altro?
«Mi sono presa de tempo per capirlo. Italia’s Got Talent e la puntata delle Iene condotta con Nicola Savino sono state esperienze divertenti. Se la tv verrà e mi accorgo che sono abbastanza capace, va bene. Nel nuoto, ci sono già a livello istituzionale, sono membro del Comitato Olimpico Internazionale e sono nella commissione atleti della Federazione Internazionale Nuoto, ma mi piacerebbe fare qualcosa coi ragazzi a contatto con l’acqua: stiamo studiando un progetto, vedremo».
Dopo il ritiro, cosa è stato sorprendentemente facile e cosa difficile?
«La cosa più difficile è stata smettere sapendo che da lì a poco ci sarebbero stati gli Europei a Roma. La più facile è stata non entrare più in piscina: non sento la mancanza dell’acqua. Non l’avrei mai immaginato. In questi mesi, sarò entrata in vasca sei o sette volte in totale».
Quando lo fa, tiene i tempi o fa una nuotatina come tutti?
«Mi alleno coi ragazzi del centro federale di Verona: è la cosa che non volevo più fare, ma se dovessi nuotare avanti e indietro da sola, mi annoierei. Quest’estate, sono stata in Sardegna, il terzo giorno ho detto: mamma, sto nuotando troppo, basta».
Ha avuto una carriera longeva, ha sfidato tre generazioni di avversarie, quanto ci teneva a chiudere in bellezza?
«Avrei fatto di tutto per un’ultima Olimpiade. E, alla finale nei 200 stile libero, ho fatto un traguardo che, data la difficoltà dei mesi precedenti, è stato incredibile. Ho pianto tantissime lacrime. Erano non di gioia o di rabbia, ma uno sfogo per cominciare a svuotare quello che avevo tenuto dentro per anni: il nuoto ti chiede di essere un robot, di tenere a freno le emozioni. Smettere di farlo è stata un po’ una liberazione».
La sensazione è che già da qualche anno era più leggera. Per esempio, fa cose buffe su Instagram.
«È vero, sono più aperta. Crescendo, ho capito che non tutti vogliono farmi del male. È una cosa su cui ho lavorato e un pochino è stato merito di Italia’s Got Talent . Vedere che, da giurata, tante persone mi dicevano che era bello conoscermi per come sono mi ha dato il coraggio di aprirmi sempre di più».
Perché ha pensato che tutti volessero farle del male?
«Quando vinci la prima medaglia a 16 anni, c’è chi si avvicina solo perché sei la Pellegrini, chi ti vuole sfruttare in qualche modo, chi ti fa del male personalmente. Essendo molto giovane, la tendenza è stata chiudermi a riccio. E sono stata considerata l’antipatica chiusa».
Oggi l’ho vista ridere tanto. Mentre posava per le foto, durante l’intervista...
«Rido spesso, rido per un film che fa ridere, rido se una persona è divertente. Rido. Mi ritengo molto felice».
Pochi hanno il coraggio di dirsi felici.
«Perché? Dice che porta sfiga? Io non sono felice 24 ore al giorno tutti i giorni, ma è proprio raro che sia veramente triste».
Se gliel’avessi chiesto a 20 anni se era felice?
«A quell’età, pensi solo a quello che non sta andando. La felicità è una conquista recente: è difficile rendersi conto di quello che si ha, non è sempre tutto perfetto, ma, ora, anche se succede qualcosa di brutto, mi sento fortunata di avere la mia famiglia, mio marito, la mia vita».
Come è fatto un momento di felicità perfetta?
«Uno recente è che sono arrivata in aeroporto, Matteo era fuori in macchina con le quattro bestie, sono salita e mi hanno assalita con baci, slinguazzate... Ecco, quello è il mio momento di felicità perfetta».
Paolo De Laurentiis per il Corriere dello Sport il 9 agosto 2022.
L'Europeo da madrina, dopo tanti successi in vasca. Federica Pellegrini, 34 anni appena compiuti, sta preparando le valigie. «Una strana sensazione».
Perché?
«Le borse sono sempre quelle, però sto portando più vestiti che costumi. Ma cuffia e occhialetti li ho messi dentro, non si sa mai. Due bracciate…».
E’ stato difficile staccarsi dal nuoto?
«Ormai è passato un anno e devo dire che all’inizio ho fatto fatica. Sono una persona metodica, che organizza le sue giornate. Senza la consuetudine dell’allenamento mi sono dovuta riadattare. Il primo mese, alle otto e mezzo di mattina spesso mi chiedevo: “ora che cacchio faccio tutta la giornata?”»
E poi?
«Ho trovato nuovi ritmi e fatto una scoperta rivoluzionaria»
Sarebbe?
«Il weekend lungo. Una cosa fantastica: dal venerdì alla domenica, tutti per me. Per anni, i miei fine-settimana sono stati dal venerdì sera al sabato mattina».
C’è stato anche il tempo per una crociera.
«Con mamma, qualche mese fa. Era il suo sogno ma a papà non piace. L’ha proposto a me».
Risposta?
«Istintivamente ho detto “non posso”. Poi ho riflettuto: perché non posso? Ho molti impegni ma il tempo ora riesco a trovarlo. Siamo state benissimo. Avere ritmi di vita normali è stato il vero cambiamento».
Le gare mancano?
«Manca l’emozione, non la tensione, anche se negli ultimi anni si era affievolita. Di sicuro non mi mancano le litigate con Matteo (Giunta, suo ex allenatore e futuro marito, ndr) prima di un evento importante: io vivevo i miei momenti da atleta, lui da tecnico. Abbiamo discusso spesso».
Avete comunque trovato un nuovo equilibrio, una volta usciti dal rapporto atleta-allenatore.
«Direi di sì, visto che tra meno di un mese ci sposiamo»
Mondiale di Roma 2009. Il primo pensiero?
«Chiudo gli occhi e sento il boato dei tifosi».
E i record del mondo? Le vittorie?
«Quelli dopo. Il ricordo più netto è la gente, le tribune piene come fosse uno stadio, sentivo tremare la terra sotto i piedi. Gareggiando all’estero lo abbiamo visto tante volte, quando lo vivi in prima persona è un’altra cosa».
Roma 2009 è anche Alberto Castagnetti, morto pochi mesi dopo quei giorni straordinari.
«Mi manca come credo manchi a tutto il movimento. Una figura come la sua, di quello spessore tecnico e umano, penso sia insostituibile».
E’ così diverso gareggiare in casa?
«Sì e sono sicura che i ragazzi vivranno tutto come una festa. Perché l’Europeo è più abbordabile di un Mondiale e perché i successi delle staffette traineranno tutto il gruppo. Sono contenta che si torni allo Stadio del Nuoto in una grande competizione internazionale. Ne trarrà beneficio tutto il movimento: sarà una vetrina importantissima, tecnica e mediatica. Una gara di questo livello davanti al tuo pubblico diventa anche più importante di un Mondiale».
Quanto c’è di Federica Pellegrini nel nuoto che vediamo oggi?
«Non voglio dirmi le cose da sola. So soltanto che i risultati portano i risultati, quando arrivano le vittorie c’è sempre la risposta del movimento. Ma deve dirlo qualcuno da fuori, non io»
La squadra è fortissima.
«E crescerà ancora: una 4x100 stile libero che va sul podio all’Olimpiade e al Mondiale alza incredibilmente il livello. Vuol dire che, potenzialmente, con un quinto o sesto posto ai campionati italiani si mette nel mirino una medaglia internazionale»
A Roma da ex atleta ma da primatista del mondo dei 200 stile libero. Quell’1’52”98 è ancora negli almanacchi.
«Il record ha da poco compiuto 13 anni, mi fa piacere perché è il mio numero preferito. Ma prima o poi cadrà, in realtà pensavo succedesse in questi giorni ai Giochi del Commonwealth: Ariarne Titmus ci è andata vicina più di una volta. Penso che sarà lei a farlo»
Com’è lo sport visto da fuori?
«Un mondo gigantesco, dietro c’è un lavoro incredibile oltre a molta politica sportiva. Scopri cose di cui, da atleta, proprio non ti rendi conto».
Sport preferito da spettatrice?
«La pallanuoto, la seguo sempre volentieri ma in realtà a me appassiona proprio il nuoto. Forse dipende dal fatto che sono molto legata al gruppo azzurro, ragazzi che conosco benissimo. Ma vedere una gara mi entusiasma. Chissà se sarà così anche in futuro, sono convinta di sì».
La parità di genere è nel Dna del nuoto. Negli altri sport ancora non è così.
«Culturalmente c’è ancora molta strada da fare e i paragoni tecnici sono anche sbagliati: lo sport maschile è diverso da quello femminile, non dimentichiamo che fino a poco tempo fa le donne erano proprio escluse da alcune discipline e serve tempo per arrivare ad alto livello. Ma faccio fatica a pensare che una schiacciata di Paola Egonu sia meno spettacolare di una di Zaytsev».
Quali sono le cose giuste da dire a un bambino che sogna di diventare un campione?
«Di divertirsi senza pensare troppo a vincere o guadagnare. Il nuoto non è lo sport giusto per questo».
Federica Pellegrini oggi è felice?
«Sì, molto»
Il matrimonio di Federica Pellegrini e Matteo Giunta a Venezia: il sì in chiesa. Alessandro Fulloni e Paola Caruso su Il Corriere della Sera il 27 agosto 2022.
Le nozze nella Chiesa di San Zaccaria e il ricevimento al JW Marriott. Tra gli ospiti non ci sarà Filippo Magnini, ex della nuotatrice e cugino dello sposo
Sono circa le 18 e la Divina ha detto sì da qualche minuto. Quando esce dalla chiesa di San Zaccaria, a due passi da piazza San Marco, le circa 300 persone — un po’ curiosi, un po’ tifosi, un po’ gente arrivata qui a Venezia apposta per vederla vestita di bianco, radiosa — assiepate dietro dei nastri che fanno da transenna, «travolgono» tutto. Applausi, urla che ricordano la curva di uno stadio, fischi d’allegria tra campane che suonano. I primi sono i bambini, tanti. Si infilano sotto le gambe dei bodyguard — che in effetti sorridono e fanno poco per bloccarli — e raggiungono Federica Pellegrini, 34 anni, e Matteo Giunta, 40, freschi sposi.
Gli sposi escono dalla chiesa (Foto Andrea Pattaro)
La baraonda è incontenibile. Dietro ai piccoli incalzano i genitori, chi scatta foto, chi si gira fulmineo per un selfie, chi prova a strappare una battuta all’ex campionessa e al marito, suo allenatore dal 2013. I due paiono non badarci, Fede è semplicemente raggiante. Dà un bacio a Matteo, stringe mani, si offre ai fotografi per qualche istante e poi sottobraccio al compagno allunga il passo verso la Riva degli Schiavoni dove l’attendono un motoscafo e il vaporetto che porta gli invitati — 160 in tutto — all’Isola delle Rose dove, al Venice Resort Marriott, c’è la cena nuziale.
Per il matrimonio la nuotatrice dallo sconfinato palmarès — un oro olimpico e sei mondiali, senza stare a contare il resto — veste classico, un abito in mikado di seta avorio. A sorpresa, lo firma Nicole Cavallo di «Nicole Milano» e non Armani come tutti davano per scontato vista la storica sintonia tra la Divina e il Maestro. Lo scollo è a barca con un lungo strascico e velo ricamato a tema floreale: tutto semplice, zero fronzoli. Matteo — al quale un gruppetto di ragazze urla: «Sei bellissimo!» — è in smoking blu con reverse nero e un maxi papillon che non pare drittissimo.
La cerimonia doveva cominciare alle 16 ma Fede — noblesse oblige — arriva con 40 minuti di ritardo. È papà Roberto a scortarla per la cerimonia officiata da don Antonio Genovese, l’ex parroco di San Vito e Modesto di Spinea che ha visto crescere la campionessa. Ma prima dell’ingresso in chiesa, una delle più belle di Venezia, c’è un siparietto tra padre e figlia che sostano all’ingresso per un mezzo minuto abbondante, il tempo di sistemare lo strascico. I fotografi rumoreggiano: «Fede, dai, girati! Uno scatto con papà! ...». Ma loro niente. Poi, impietosita, è lei a sollecitare lui, con pacche sulla spalla e un buffetto, a voltarsi.
Clic, clic, clic... si entra. Poi il sì, fatidico. All’uscita, ecco parenti e amici storici. Tanti atleti o ex atleti: i nuotatori Domenico Fioravanti, Federico Scozzoli, Laura Letrari, l’ex pattinatrice su ghiaccio Valentina Marchei e la mental coach Roberta Ioppi, la conduttrice di Italia’s Got Talent Lodovica Comello. Tra le damigelle d’onore, cinque, l’inseparabile amica del cuore, la ranista Martina Carraro. Non c’è l’ex Filippo Magnini, due volte iridato nei 100 stile libero, sposato dal 2021 con l’ex velina Giorgia Palmas, e cugino di Matteo.
Ci sono invece Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Ntv, e quello del Coni Giovanni Malagò , all’uscita della funzione visibilmente commosso. «È una grande giornata di felicità — dice il numero Uno dello sport italiano —, questi sono due ragazzi che si amano veramente e penso che saranno felici tutta la vita» (qui la fotogallery).
Poi via, verso il Marriott e i suoi giardini di rose. Il menù, chissà perché, resta segreto. Si sa solo che «è un omaggio al Veneto». La torta dovrebbe essere stata preparata dalla star dei pasticcieri Igino Massari ma lui, pur tra gli invitati, non lo conferma: «Eh, vedremo...».
Prima dell’imbarco sul vaporetto si attarda sul molo mamma Giulia, fermata da tutti: «Se sono più felice oggi o dopo una medaglia d’oro? Due cose diverse... Ma conta solo la gioia di Fede».
Dopo la cerimonia gli sposi si dirigono in motoscafo verso la location del ricevimento
Federica Pellegrini e Matteo Giunta, un Sì pop. Le nozze per pochi sono un bagno di folla. Benedetta Perilli su La Repubblica il 28 agosto 2022.
C'è una tradizione al Grand Hotel Danieli di Venezia. Quando il cantante del pianobar intona la canzone dei Bee Gees How deep is your love, la serata è finita. I camerieri sistemano il bancone e i clienti tornano nelle loro stanze. Chissà se ieri sera Federica Pellegrini e Matteo Giunta avranno fatto in tempo ad ascoltarla? Dopo la grande festa al JW Marriott sull'isola privata delle Rose - con cena a base di piatti veneziani aperta da ravioli di rapa rossa con granchio ed erbe agli agrumi dello chef Giorgio Schifferegger, e chiusa dai confetti dell'italiana Maxtris - la coppia ha scelto per la luna di miele la stessa suite dove nel novembre 2021 l'ex allenatore chiese in ginocchio la mano della campionessa. We belong to you and me, dice la canzone - ci apparteniamo - e la cartolina del loro matrimonio veneziano sembra confermarlo.
Le nozze blindate di Federica Pellegrini e Matteo Giunta
Doveva essere un evento blindatissimo, con ben due esclusive già vendute (il ricavato dovrebbe andare in beneficenza), ma gli sposi hanno trasformato le nozze nella chiesa di San Zaccaria - dalla mozzafiato cripta subacquea - in una festa condivisa. Si è capito all'arrivo della sposa, che secondo il programma sarebbe dovuta entrare in chiesa protetta da bodyguard con ombrelli per non svelare l'abito. E invece l'ex nuotatrice si è presentata con 45 minuti di ritardo completamente scoperta: occhiali da sole, abito in mikado di seta avorio, scollo all'americana, ampia gonna. Tra i capelli un grande fiore a fermare il velo di 4 metri decorato da ricami 3D. "Il fiore e gli occhiali sono stati il tocco personale che Federica ha voluto portare a un abito made to measure, ovvero che abbiamo realizzato insieme in base alle sue richieste. La rappresenta in pieno: è elegante nel tessuto ma moderno e grintoso nelle linee. Come lei". A parlare è Nicole Cavallo, 26 anni, piemontese, direttrice creativa della maison Nicole Milano, marchio indipendente del colosso della moda nuziale Pronovias. Contro ogni pronostico che voleva Giorgio Armani, grande amico della sposa, autore dell'abito bianco, è stata lei a realizzarlo.
Il matrimonio celebrato dall'amico don Antonio Genovese
E non è stata l'unica sorpresa: a celebrare le nozze Federica Pellegrini ha voluto don Antonio Genovese, il parroco-amico che la seguiva da ragazza. "Non mi aspettavo che mi chiedesse di sposarla - risponde affannato mentre lascia la chiesa in una giornata dal tasso di umidità altissimo - Gli sposi erano emozionati e lo ero anche io. Gli ho augurato di volersi sempre bene, soprattutto nei momenti di difficoltà". A stupire è anche il clima estremamente disteso di sposi e famiglia. Matteo Giunta, in abito blu, si è intrattenuto a lungo fuori dalla chiesa con il fratello Tommaso, suo testimone, e con i genitori di Federica Pellegrini che l'hanno aiutato a sistemare il papillon, entrambi in blu; il fratello e testimone della sposa, Alessandro, anche lui in blu ma damascato, ha intrattenuti i fotografi con battute e aneddoti. E anche la sposa, sottobraccio al padre Roberto, ha scherzato e riso prima di attraversare la navata, decorata da rose, ortensie e fiori di cera, accompagnata dal suono di viola e violino nell'esecuzione del brano che lei ha voluto, Dolce sentire.
Nozze Pellegrini-Giunta, 160 ospiti e pochi vip
Circa 160 gli ospiti tra i quali il presidente del Coni Giovanni Malagò, l'ex presidente Ferrari Luca Cordero di Montezemolo, la stilista Lavinia Cigna Biagiotti, la presentatrice Lodovica Comello, lo chef Iginio Massari, che per gli sposi ha preparato la torta nuziale. Tantissimi poi gli amici e colleghi del mondo dello sport: da Luca Pizzini e Marco Orsi a Domenico Fioravanti, da Valentina Marchei a Femke Heemskerk. Ma assenti, solo in chiesa, i quattro bulldog della coppia. A orchestrare il matrimonio è stato Enzo Miccio. Il wedding planner più famoso d'Italia ha gestito la giornata con classe dimostrando di saper ovviare anche ai problemi inattesi. Come quando un forte vento ha iniziato ad alzarsi, agitando non poco le signore impegnate a domare gli spacchi dei colorati abiti in seta, e facendo oscillare una grande decorazione floreale che Miccio ha messo in sicurezza piazzando dietro ai fiori un "uomo-albero" che lì è rimasto durante tutto l'arrivo di ospiti e sposi. Come si dice in inglese: problem solving.
Le risate di Federica e Matteo e la festa privata blindata
Ad attendere gli sposi dopo il lancio del riso, fedi luccicanti firmate da Damiani al dito, un bagno di folla per le calli di Venezia. Tra i tanti fan della nuotatrice spuntano anche il ristoratore ironico che scherza sul menù ispirato alle nozze, pane e acqua, e la futura sposa che ha scelto di festeggiare il suo addio al nubilato proprio durante le nozze di Federica. "La sua forza e la sua tenacia sono per me un grande esempio, mi ispiro a lei e mi piacerebbe molto sposarmi in Laguna ma chi ha i soldi per una festa così?", spiega Silvia di Vicenza. Poi la coppia ha raggiunto la riva degli Schiavoni per imbarcarsi sul motoscafo verso la festa, quella sì veramente blindata, sull'Isola delle Rose. A salutarli, gli applausi dei passanti. Un trionfo di popolarità che in tempi di certezze flebili suggerisce una riflessione: la semplicità paga.
Giulia Zonca per “la Stampa” il 30 settembre 2022.
Quando Federica Pellegrini si leva dalla testa il tocco di laurea e inizia a leggere, parte un lungo respiro che torna fino al 2016. Olimpiadi di Rio, lei ci entra con la forma migliore, la convinzione dei giorni di gloria e ne esce quarta. Incredula. Scatta un periodo di introspezione che poteva pure portare al ritiro e invece la rilancia. Vincerà altri due Mondiali e sarà la prima a dire in Italia: «Il professionismo deve studiare il ciclo mestruale». Ora il tema è il soggetto della tesi con cui diventa dottoressa in scienze motorie all'Università San Raffaele di Roma, laurea honoris causa consegnata per il merito di aver fatto vibrare l'Italia.
La sua tesi inizia con un'analisi della diversa percezione dello sport maschile e femminile. A che punto siamo?
«La donna atleta si è dovuta muovere in un ambito gestito da uomini, con regole e parametri fissati da uomini. All'inizio non eravamo incluse poi siamo state sopportate, ora i numeri portano verso l'uguaglianza, ma nei primi dieci anni di carriera ho vissuto sulla mia pelle certe evidenti differenze».
Si ricorda degli episodi?
«Tanti. Non serve rievocarli e non sono qui a far polemiche retroattive, oggi voglio dare il colpo definitivo a un tabù».
Il ciclo mestruale è ancora argomento da evitare?
«Adesso se ne parla, i più giovani soprattutto, ma ho deciso di raccontare la mia storia proprio per dimostrare che serve un approccio sistematico, serve raccogliere dati, andare oltre l'ovvio».
Definisca l'ovvio.
«Il ciclo è una cosa che ricapita ogni mese a tutte le donne e non può essere sta gran cosa. Però qui parliamo di prestazioni di alto livello dove un decimo di secondo fa la differenza quindi tutti i fattori devono essere considerati.
Incluso il ciclo».
Opposizione comune. Ogni singola donna reagisce in modo diverso quindi gli studi sono inutili.
«Non lo sarebbero se si arrivasse ad avere moltissimi dati, peccato sia quasi è impossibile perché la risposta base che si dà alle atlete è: prendete un anticoncenzionale per calmare le oscillazioni. Così facendo però condizioni anche altri fattori e levi pure i benefici che il ciclo, in fase ovulatoria, può dare».
Questi studi in realtà li hanno fatti ai tempi della Germania dell'Est.
«Per i fini più sbagliati. Per sfruttare le atlete, non per aiutarle a esprimere il proprio potenziale. Si è arrivati a favorire e poi interrompere gravidanze per stimolare la produzione di ormoni maschili. Il punto di vista più sbagliato e quindi pure le analisi più assurde. Via tutto, qui bisogna ripartire dai fondamentali. Quando io ero adolescente è stata mia madre a dire al mio allenatore che non mi sentivo a mio agio nei giorni del ciclo con l'abbigliamento da piscina. Bisogna parlare, confrontarsi. Inserire il fattore mestruazioni negli schemi degli allenamenti, non semplicemente dire prendi la pillola».
Lei lo ha fatto?
«Tre volte in carriera, l'ultima nel 2020 per tenere il ciclo sotto controllo e non ritrovarmi nelle date clou dei Giochi di nuovo come a Rio: hanno spostato le Olimpiadi per il Covid. E sai che c'è? Ho capito che funziono meglio quando il mio corpo risponde a ritmi naturali».
Da quella tabella che ha compilato ogni mese che ha capito?
«Abbiamo capito meglio come funzionavano i cali prestativi, abbiamo calibrato le sessioni di lavoro. molti progressi». Il suo tecnico oggi è suo marito. Non tutte partono da questa confidenza. «Ai tecnici di nuova generazione conviene prendere dimestichezza con l'argomento perché le ragazze ne vogliono parlare.
Poi per i parametri scientifici servono medici, persone competenti che ti aiutino a esaltare ciò che in quelle date funziona come sempre, la resistenza per esempio». La parità passa anche da qui?
«Ne sono sicura. Saremo più complicate, ma vale la pena conoscerci meglio». In Italia la parità tra uomini e donne a che punto è? «Credo si stia uscendo dalla fase quota rosa per arrivare a una concreta partecipazione. Abbiamo la prima astronauta capo di una stazione, la prima ad arbitrare in serie A, probabilmente una Premier e io non parlo mai di politica e non voglio qui valutare i partiti di appartenenza, ma sono tutti passi decisivi di cui essere orgogliose. Ogni nuova frontiera è uno strattone anche se poi bisogna crescere».
Come? Dove?
«Le donne, parlo della maggioranza, devono essere pronte a competere a livello formativo con gli uomini. Allo stesso modo. Non si passa davanti perché a quella casella manca una figura feminile: è stato un approccio a tratti necessario e spero si sia quasi oltre».
“Tante vittorie, e pensare che a 3 anni non voleva entrare in piscina”. Federica Pellegrini, le emozioni della mamma al matrimonio “Ho pianto alle nozze di mia figlia”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Agosto 2022
Federica Pellegrini ha coronato il suo sogno d’amore. Sabato le nozze a Venezia con Matteo Giunta, il suo allenatore. I fiori, l’abito bianco da sposa, la grande festa e le emozioni immortalati in foto e video. Un matrimonio che ha fatto sognare, come la ‘Divina’ ha abitato a fare con i suoi fans. Un’emozione enorme anche per la famiglia della nuotatrice. Per mamma Cinzia Lionello, del matrimonio, resta impressa un’immagine negli occhi e soprattutto nel cuore: “Dentro la chiesa, quando Virginia Castagnetti, cantante lirica e figlia di Alberto, l’allenatore indimenticabile che per primo prese per mano Fede, con quella sua voce unica… ha intonato in apertura l’Hallelujah di Cohen e poi l’Ave Maria di Schubert…”.
La mamma di Federica Pellegrini ha raccontato al Corriere della Sera di non essere riuscita a trattenere le lacrime in quel momento: “poi mi sono voltata e mi sono accorta che più o meno tutti erano in lacrime. Tanti si erano proposti per cantare in chiesa ma Fede, concordando anche con Enzo Miccio, il vulcanico organizzatore del matrimonio, da subito è stata categorica: ‘Lì deve esserci solo Virginia…’”. Un modo quello per ricordare l’ex ct della nazionale di nuoto e il coach di tante vittorie di Federica in un momento per lei così importante.
Il coach morì nel 2009 per un infarto ma per l’atleta è stata una figura importante, come racconta la mamma: Castagnetti è stato per Federica, “quello capace di trasformarla, ammorbidendone il carattere, non semplice. È stato forse un secondo padre del quale mio marito Roberto non è mai stato geloso. Di lui serbo nitidamente un ricordo: la prima volta che gli affidammo Fede, sì e no ventenne, ci presentammo e Alberto rispose: ‘Venite a riprenderla fra 15 giorni’. Tutto rigorosamente in dialetto veronese. Nel congedarci sorrise: ‘E se ci son problemi, ve ciamo’”.
Mamma Cinzia racconta della Federica Pellegrini bambina, e del suo esordio nel nuoto. Mamma e papà la accompagnarono in piscina insieme al fratello Alessandro “perché il nuoto fa bene, un pensiero che fanno tanti genitori quando cominciano a far frequentare gli impianti ai propri figli. Di certo non lo porti con l’idea di farne un campione. Ma evidentemente il destino era un altro”. E continua a ricordare quel primo tuffo in piscina di Federica “che allora aveva tre anni. All’inizio non voleva saperne di starci, non era facile farla nuotare. Poi però crescendo, un istruttore l’ha segnalata per il preagonismo”.
Poi le scommesse per gioco, quel ‘dai vediamo se ce la fai’ a bordo piscina ma solo per scherzare perché Federica “non aveva bisogno di essere stimolata, si stimolava da sola. Però si notava che aveva chiaro in testa dove volesse arrivare”. Fino al giorno del suo sì a Matteo Giunta, suo allenatore e uomo importante della vita. I due durante la cerimonia hanno ballato a sorpresa un tango: “A un tratto sono scomparsi e sono tornati vestiti da tangheri perfetti. Nessuno sapeva nulla, io non sapevo nemmeno che lo ballasse. Poi mi ha confessato che stava esercitandosi da mesi. Che sintonia avevano! E poi che brava la mia Fede”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Vito Lamorte per fanpage.it il 14 luglio 2022.
Scrivere la storia non è da tutti. Di questo Federica Pellegrini ne è ben cosciente adesso, ma quando ha iniziato non aveva la stessa percezione. Un conto è viverla da fuori e un conto è essere parte di una enorme pagina dello sport italiano e mondiale. La ragazza classe 1988 di Mirano non è stata solo una delle sportive italiane importanti di sempre, ma con il passare degli anni è diventata una vera e propria icona e simbolo per una generazione.
La più forte nuotatrice della storia azzurra ha vinto 19 medaglie mondiali e due medaglie olimpiche ed è l'attuale detentrice del record del mondo nei 200 stile libero. La Divina è stata sempre sotto i riflettori, da quando fece il suo esordio come staffettista nella 4 x 100 stile ai mondiali di Barcellona del 2003, ma il suo è stato un percorso fatto di sacrifici, rinunce, sudore e fatica che ha portato a grandi vittorie e a momenti di difficoltà da cui è riuscita sempre a uscirne a testa alta. Da qualunque lato la si prenda, la carriera della Pellegrini è qualcosa di irripetibile.
Dallo scorso autunno per la Pellegrini si è aperta una nuova pagina tutta da scrivere e lo farà con Matteo Giunta, suo ex allenatore e futuro marito. A Fanpage.it ha parlato della sua carriera, ripercorrendo vari momenti e analizzando anche i motivi del suo ritiro dopo Tokyo, soffermandosi sul nuovo corso del nuoto azzurro e sul ruolo come membro del CIO.
Federica, da dove cominciare? A Budapest si è tenuto il primo Mondiale di nuoto senza di lei.
"Ma la carriera mi manca meno di quanto si pensi: l’acqua resta il mio elemento naturale, ma ho preso la decisione giusta al momento giusto e non ho rimpianti. Volevo fare altro e la mia storia con il nuoto agonistico si era conclusa, ho avuto la tentazione di tirare fino agli Europei di Roma, perché amo l’atmosfera di quell’impianto, ma poi ho capito che non avrei avuto la forza di continuare per tanti mesi ancora".
Come vede la squadra azzurra in vista degli Europei?
"Molto bene, abbiamo una generazione straordinaria, un mix fra veterani e giovani che potrebbe regalarci un bottino di medaglie indimenticabile. Voglio andarli a vedere anche perché il tifo di Roma non si batte e la piscina è stupenda!".
A Tokyo ha nuotato la finale in 1'55:91 e con questo tempo avrebbe preso la medaglia di bronzo ai Mondiali: non ha ‘rosicato’ nemmeno un po’?
"Più che altro è stato strano vedere tempi così alti, a me non è mai capitato di fare gare con crono come questi. Comunque no, non ho rosicato, qualche soddisfazione ai Mondiali me la sono presa".
Lamberti, Pellegrini, Ceccon: cos’ha di speciale la piscina di Verona?
"È una splendida struttura, ma poi sono importanti le persone: atleti e allenatori. Sono felice che la tradizione continui!".
Nel periodo in cui c’è la rana più veloce di sempre, Martinenghi ha piazzato un oro straordinario: che margini di crescita ha questo ragazzo?
"Avevo detto alla vigilia che mi aspettavo grandi cose e non mi ha deluso, è un campione e può regalarci ancora soddisfazioni incredibili".
Benedetta Pilato si è rifatta da alcune critiche con un oro nei 100 davvero pazzesco: che consigli le daresti per isolarsi dal mondo esterno?
"Benedetta è un grande talento, è stata precocissima e questo può comportare qualche battuta d’arresto fisiologica. Questo oro mondiale è la sua rivincita, deve ripartire da qui e non farsi condizionare dai commenti. Ha davanti una carriera importante".
Oggi ha un ruolo importante all'interno dal CIO. Come si sta approcciando?
"Con grande senso di responsabilità e lo stesso impegno che ho messo da atleta. C’è tanto da fare e mi sono candidata perché voglio dare un contributo concreto, soprattutto sulla crescita complessiva dello sport femminile. C’è un gap da colmare, ma non ho problemi a rimboccarmi le maniche e lavorare duro".
‘È da quando avevo 15 anni che la gente si aspettava da me grandi imprese'. Cosa vuol dire per una giovane atleta sentire il peso della responsabilità?
"Sono esplosa giovanissima, la pressione è stata la mia compagna di viaggio, nel bene e nel male; ha rischiato anche di schiacciarmi, ma alla fine ce l’ho fatta. Certo, quando sei adolescente, età complessa già normalmente, il rischio di farsi travolgere è davvero alto. Ci vogliono scelte giuste e un ambiente che ti sappia proteggere e guidare".
La bulimia attraversata durante l’adolescenza non era di dominio pubblico fino all’uscita del documentario: che messaggio lancerebbe alle ragazze su questo tema?
"Viviamo in un’epoca dove il culto dell’immagine e di una perfezione, quasi irreale, sono dominanti. Il messaggio fondamentale da passare è quello di accettarsi, ma mi rendo conto che, soprattutto per certe fasce d’età, può essere davvero complesso. Non ho una ricetta sinceramente, trovare il proprio posto nel mondo e vivere serenamente i cambiamenti del proprio corpo è una conquista difficile, che si raggiunge poco a poco, col sostegno di chi ti vuole bene".
‘Gli uomini che contano sono quelli che non hanno bisogno di cose da uomini': in che modo si deve combattere il sessismo nel mondo dello sport?
"Il problema forse non è il sessismo nello sport, ma nella società in generale. Lo sport, purtroppo, non fa eccezione. Si combatte rivendicando il diritto delle donne a non essere considerate inferiori. È incredibile che nel 2022 si debbano ancora combattere certe battaglie, ma è evidente che siamo ancora indietro e la cultura maschilista è ancora dominante".
Perché una parte della critica non ha perdonato alcune sconfitte a Federica Pellegrini?
"Più vinci, più sei famoso e più ci sarà gente che non aspetterà altro che cadi. È una cosa fastidiosa ma bisogna conviverci, in Italia il successo non viene perdonato".
Quanto è stato importante Alberto Castagnetti per la carriera di Federica Pellegrini?
"Fondamentale, senza di lui non so la mia carriera come sarebbe stata. Mi ha recuperato nel momento più difficile e con lui ho dato la svolta vincendo l’Oro ai Giochi Olimpici di Pechino e poi facendo la doppietta ai Mondiali di Roma nel 2009. La sua scomparsa è stata un trauma, ci ho messo un po’ a metabolizzarla, resterà una delle figure più importanti della mia vita".
Qual è la vittoria a cui è più affezionata? E perché?
"Faccio fatica a segnalarne una sola, per fortuna sono state tante. Sicuramente Pechino 2008 e Roma 2009 sono eventi che rappresentano il momento in cui il mio percorso sportivo è salito di livello. In 2 anni sono diventata campionessa olimpica, mondiale (anche nei 400), peraltro con doppio primato del mondo. Meglio di così sarebbe stato impossibile".
Che effetto fa essere fonte di ispirazione per tante altre persone?
"È una responsabilità e un onore, a volte gli sportivi non si rendono conto di quante persone li guardino e traggano ispirazione dalle loro gesta. L’importante è rimanere umili ed essere disponibili quando incontriamo le persone che ci amano e ci seguono".
Sarà possibile vedere Federica Pellegrini a bordo vasca come coach delle nuove generazioni?
"Al momento lascio volentieri questo compito a Matteo (Giunta, ndr), ma un motto della mia vita è “Mai dire mai'".
· Quelli che si danno …Dama e Scacchi.
Da ilnapolista.it il 21 ottobre 2022.
Il campione del mondo di scacchi, Magnus Carlsen lo aveva accusato di essere un baro. Ora il giovane scacchista americano Hans Niemann si difende passando al contrattacco. Il 19enne ha infatti citato in giudizio sia Carlsen che la piattaforma online Chess.com, che aveva scoperto alcune irregolarità nelle partite online di Niemann.
Niemann chiede 100 milioni di dollari di danni. Accusa Chess.com e Carlsen di essersi accordati per bandirlo dalle competizioni professionistiche, come rappresaglia per la sua vittoria su Carlsen nella Sinquefield Cup di settembre a St. Louis.
“La mia causa parla da sé”, ha scritto Niemann su Twitter, pubblicando il testo integrale della denuncia, con le sue motivazioni e ragioni, per rendere chiari a tutti i suoi motivi.
Nella denuncia si legge che la richiesta di risarcimento è stata avanzata “per riprendersi dai devastanti danni che gli imputati hanno inflitto alla sua reputazione, carriera e vita diffamandolo egregiamente e colludendo illegalmente per metterlo nella lista nera dalla professione a cui ha dedicato la vita”.
Secondo quanto scrive la Bbc, gli avvocati di Chess.com hanno già respinto le accuse di Niemann. Le hanno definite “prive di fondamento” ed hanno aggiunto che la società “non vedeva l’ora di mettere le cose in chiaro a nome di tutti i giocatori di scacchi onesti”. Né Carlsen né i suoi avvocati hanno invece ancora voluto commentare le accuse.
Scacchi, Niemann e le 100 partite vinte barando: «Ha usato un vibratore». Gregorio Spigno su Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022.
Un report di 72 pagine di Chess.com certifica che il baby prodigio statunitense, 19 anni, avrebbe ricevuto assistenza illecita in oltre 100 partite. Un «vibratore anale» tramite piccoli movimenti gli consigliava la mossa più azzeccata da fare
L’allarme lo aveva lanciato un suo avversario, rifiutandosi di giocare contro di lui «perché vince le partite barando». Ora, un report di addirittura 72 pagine redatto da Chess.com, piattaforma che ospita più di 90 milioni di giocatori di scacchi online, inguaia il campione americano Hans Moke Niemann. Il «grandmaster» diciannovenne, balzato agli onori delle cronache per aver battuto un mese fa il numero uno al mondo, Magnus Carlsen, avrebbe ricevuto assistenza illecita in più di 100 partite, appartenenti a tornei che garantiscono a loro volta grossi premi in denaro per chi conquista la vittoria finale.
Un’ascesa improvvisa (e decisamente troppo rapida), quella di Niemann, che grazie ad un software avrebbe così ingannato centinaia di professionisti, di fatto rubando enormi somme. Chess.com ha condotto un’indagine molto approfondita, analizzando nel dettaglio ogni partita giocata dal diciannovenne: «Probabilmente ha ricevuto assistenza illegale in più di cento partite», è il verdetto finale. Il norvegese Carlsen, ex numero uno al mondo di scacchi, dopo aver incassato la sconfitta da Niemann era stato chiaro: «Se parlo io sono guai grossi…», lasciando intendere le irregolarità dell’avversario che, anche nel post-partita, spiegando le sue tattiche per battere il più forte al mondo non aveva convinto quasi nessuno.
LA POLEMICA
Scacchi, caso Carlsen-Niemann, il norvegese accusa: «Ha barato»
L’accusa parla di un «vibratore anale» che di fatto, tramite piccoli movimenti, consiglia a Niemann la mossa più azzeccata da fare. Risposta del neo campioncino? «Posso anche giocare nudo». Convinto tutti così? No, nessuno. Anche perché neppure i precedenti corrono in suo soccorso: aveva già ammesso di aver imbrogliato, Niemann, una volta a 12 anni e un’altra a 16. E in più tutto verrebbe confermato da una telefonata con il direttore proprio di Chess.com, Danny Rensch. Nel frattempo, comunque, Niemann è stato escluso dal prossimo torneo, il cui montepremi è fissato a un milione di dollari: «La sua crescita è stata troppo irregolare», conclude il report.
Lorenzo Nicolao per corriere.it il 2 maggio 2022.
Aveva detto che sarebbe servita un’impresa. Dopo 22 delle 24 partite che andavano giocate in finale, Matteo Bernini l’ha compiuta davvero. Il 33enne livornese è il nuovo campione mondiale di dama nella categoria Gayp (Go As You Please), ovvero ad apertura libera.
Dopo essersi qualificato al grande incontro contro l’ex detentore del titolo, il sudafricano Lubabalo Kondlo, addirittura nel 2019, Bernini ha potuto solo in questi giorni sfidare il rivale, dal momento che ogni attività agonistica nel mondo della dama è stata sospesa per via della pandemia.
Nello stato americano dell’Oklahoma, a Tusla, i damisti si sono sfidati al meglio di 24 incontri, con la sfida chiusa già al 22esimo, dal momento che l’italiano aveva già conseguito tre vittorie prima che si disputassero le ultime due partite. Nella dama è infatti molto facile pareggiare, tanto che le partite vengono spesso decise a favore di un giocatore quando l’avversario commette un errore o anche una banale svista, motivo per il quale la disciplina richiede grandissima concentrazione.
Chi è
Con grande modestia Bernini aveva confidato solo qualche mese fa che battere l’attuale campione in carica sarebbe stato molto difficile. «Mi alleno due ore al giorno, ma Kondlo è bravissimo, dovrò dare il massimo». Diplomato perito elettronico all’Istituto tecnico industriale e dopo aver lavorato in passato come postino in una società privata, vincere il massimo titolo della dama era però il suo sogno.
Tutto questo sempre preferendo l’italiano e le materie umanistiche alla matematica, a differenza del preconcetto diffuso: «Qualcuno pensa che un giocatore sia come un computer, un mostro nella matematica. Non è vero — spiegava Matteo —. Però le mosse sono infinite, servono adattamento, memoria, scaltrezza e capacità di prevedere le intenzioni dell’avversario».
Matteo ha iniziato a giocare a 19 anni nel 2008, perché sua mamma, collega di lavoro dell’arbitro internazionale e Maestro di dama Gianfranco Borghetti, confidò a quest’ultimo che al figlio piaceva la dama. Qualcuno pensa che. Da quel giorno in poi una costante ascesa, anche perché è cresciuto a Livorno, in quella che può essere ritenuta per titoli vinti la città italiana della dama. «Sono nato in una città di grandi maestri, per questo ho sempre avuto buone sensazioni sul poter far bene. Spero poi che in futuro questo gioco diventi una disciplina per professionisti, proprio come gli scacchi».
Livorno, capitale della dama italiana
Come ha ammesso il nuovo campione del mondo, il successo viene da lontano ed è frutto di una tradizione, dal momento che il suo primo tifoso a Tusla è stato il Gran Maestro Michele Borghetti, altro livornese, figlio dell’arbitro Gianfranco, e già quattro volte campione del mondo, con all’attivo 13 titoli nazionali e 54 trofei a squadre vinti.
Prima di essere sconfitto, si era laureato campione del mondo battendo proprio Kondlo nel 2015, tanto che si può dire che in questo modo il titolo sia tornato a casa, riconquistato da un damista livornese. La disciplina non si tinge però d’azzurro solo nella città toscana, perché l’attuale campione del mondo nella variante delle tre mosse è l’ingegnere foggiano 45enne Sergio Scarpetta. Dopo il recente successo, è lui che Bernini vorrebbe affrontare per unificare simbolicamente i titoli internazionali.
Come funziona la dama agonistica
La Federazione internazionale di Dama (Fmjd) riconosce tre differenti categorie. Quella dove ha trionfato Matteo Bernini è la Gayp, non vincolata in fase d’apertura, mentre quella che vede attualmente campione Scarpetta è la 3-move, ovvero con le prime due mosse del bianco obbligate e sorteggiate di volta in volta. Il terzo titolo mondiale riconosciuto dalla Federdama mondiale è quello sulla damiera a 100 caselle, invece di 64, detta anche dama internazionale.
L’Italia è in questo modo detentrice di due dei tre titoli ufficialmente riconosciuti, nelle categorie anche dette «inglesi». Per arrivare in finale occorre superare le qualificazioni, vinte da Bernini nel 2019 alle Barbados con il successo al World Qualifying Tournament. Sulla base dei risultati e dei punteggi ottenuti nei tornei in patria sono le singole federazioni nazionali a selezionare i propri atleti e il neo-campione si era guadagnando questo diritto battendo proprio l’iridato Borghetti, di 15 anni più grande.
Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 3 maggio 2022.
«Campione del mondo, campione del mondo, campione del mondo». Nessuno lo aveva mai visto esultare così, Matteo l'analista, il ragazzo dalla freddezza assoluta. E anche lui si è sorpreso nel sentirsi i lucciconi agli occhi. Per poi essere travolto da una gioia irrefrenabile che l'ha spinto ad abbracciare persino il compassato arbitro americano. Anche i computer umani hanno un cuore.
«Il mio ha iniziato a battere all'impazzata quando lo straordinario avversario che avevo davanti si è arreso», ammette il neo iridato della dama inglese mondiale categoria apertura libera. Matteo Bernini, 33 anni, livornese sino al midollo, ha appena conquistato il titolo negli Stati Uniti battendo nella finalissima (dopo 24 partite estenuanti) il detentore del titolo, il sudafricano Lubabalo Kondlo, un tipo tosto che non perdona la minima distrazione.
«Ed è stata una felicità enorme perché questa finale, con la pandemia, era stata rimandata - racconta Matteo -. Si doveva svolgere nel 2019 e il tempo non passava mai. Mi allenavo come un matto sei ore al giorno e sognavo la corona d'alloro». Gli ultimi sei mesi sono stati fantastici per il neo campione.
Diploma di perito industriale, ex postino, ex disoccupato, a ottobre è stato assunto al Comune di Rosignano Marittimo come amministrativo all'ufficio appalti. «Un bel posto che dovrebbe diventare fisso, quasi non ci credevo più. Ma non fraintendete. Il lavoro sarà sempre in cima alla mia agenda, prima della dama, ovviamente, che per me è una passione».
Per capirlo basta guardarlo negli occhi quando racconta gli ultimi attimi della vittoria.
«Avevo iniziato all'attacco - ricorda -. Poi ho deciso di cambiare tattica e ho giocato in contropiede. Lubabalo veniva avanti convinto che io fossi in difficoltà e l'ho infilato come faceva una volta la nostra Nazionale di calcio. Sono stato bravo e ho solo messo in pratica gli insegnamenti del mio maestro, Michele Borghetti. È andata bene e ora sono al settimo cielo».
Che non è quello di Saturno della Divina Commedia. «Lo so bene, anche perché ho interpretato il Sommo Poeta - racconta -. Eh già, perché ho anche l'hobby del teatro e in una pièce sull'Inferno nel quale l'Alighieri incontra gli iracondi sono diventato Dante. Mi ricordo ancora le parole: "Sono immerso nel fango e sento gente che urla"». Matteo parla, spiega il retroscena della vittoria.
«Nessun segreto, ho solo tanta memoria. E poi non esageriamo: è vero, questo gioco sembra essere fatto per me ma devo migliorarmi ancora. Anche perché la dama è una continua scoperta. Le mosse sono infinite, servono adattamento, scaltrezza, capacità di prevedere le mosse dell'avversario. Qualcuno pensa che un giocatore sia un mostro nella matematica. Non è vero. A scuola la matematica non mi piaceva. Semmai amavo la letteratura».
E adesso quali sono i programmi? «La prima cosa, arrivato a Livorno, sarà una cacciuccata - svela -, una cena a base di cacciucco, con almeno un centinaio di amici, colleghi e parenti per festeggiare. Pagherò io, il mondiale mi ha portato in tasca 7 mila euro. Poi non toccherò le pedine per qualche giorno e infine tornerò ad allenarmi per il campionato italiano, quello europeo e il mondiale del 2024. Forse sarà in Italia. Accidenti devo difendere il titolo. Me l'ero già dimenticato».
· Quelli che si danno …all’Ippica.
Gianfranco Dettori, un mostro anche per Prince Paddy. PIERO MEI su Il Quotidiano del sud il 18 luglio 2022.
Prince Paddy guardò forse di traverso quel ragazzetto piccolo che gli si avvicinava, stivali ai piedi e frusta in mano. Prince Paddy era un purosangue sauro: aveva il grande campo visivo di tutti i cavalli, il cui sguardo spazia per 340 gradi dei 360 possibili, un buio solo perpendicolarmente davanti agli occhi (grandi 6,5 centimetri per 5) e dietro la coda. Secondo gli studi, vedono anche due colori, il verde e il blù, che poi sono l’erba e l’acqua, le cose che servono loro per sopravvivere in libertà. I colori dell’uomo, invece, non li distinguerebbero: gli basta percepirne la sagoma e regolarsi. Di solito si regolano a lasciarlo salire in sella: all’inizio cercano di liberarsi, ma gli strumenti inventati dall’uomo per domarli finiscono per convincerli.
Prince Paddy non era quasi mai convinto: lo tenevano, l’uomo riusciva a salire in groppa, ma lui cercava ogni mossa per buttarlo giù e comunque se vinceva l’uomo, il cavallo si lasciava guidare fino alla pista, d’allenamento o da corsa che fosse, e lì prendeva subito un galoppo sfrenato e quel piccoletto in sella pure se si attaccava al morso fino a far sanguinare l’animale, non la aveva mai vinta.
I RITRATTI DI PIERO MEI
Era, Prince Paddy, quello che in scuderia definiscono “una bestiaccia”. Il vecchio Ely Evans che lo allenava era disperato, più ancora il Cavalier Ernesto Coccia, che ne era proprietario. Il ragazzetto mascherato da fantino al lavoro mattutino in quell’alba alla fine degli Anni Sessanta (i purosangue si allenano quando non è ancora giorno) era appena arrivato dalla Sardegna, venuto “in continente” a cercare fortuna. Nome e cognome: Gianfranco Dettori. Dopo molte vittorie sarebbe diventato “Il Mostro”: di bravura, naturalmente.
Gianfranco veniva da Serramanna, un paese del Campidano, nel sud della Sardegna, che tra tante altre bellezze è anche terra di cavalli. È un territorio d’uomini antichi, già in età prenuragica, il villaggio di Cuccuru Ambudu e qualche Menhir. Voleva una nuova vita, più bella di quella del papà minatore, Gianfranco era diciottenne (è del 1941) e venne a cercarla a Roma: valigia di cartone, una mezza idea di cimentarsi sul ring. Si dette subito da fare, come lavapiatti e garzone di fruttivendolo, si presentò all’ippodromo. Prima a quello del trotto, a Tordivalle, poi gli dissero che le misure sue erano quelle del fantino e si presentò a Capannelle, alla prima scuderia entrando a destra, quella del conte Vittorio di San Marzano.
Si proclamò “cavallaro”, lo ingaggiarono. Puliva i box all’inizio, anche quello di Prince Paddy. Sentì della disperazione degli uomini per quella “bestiaccia”, si propose per provarci lui e gli dissero di sì. Prince Paddy magari capì tutto, o forse no. Fatto sta che si comportò come Bucefalo con Alessandro Magno. Si fece cavalcare, si fece guidare, obbedì in tutto e per tutto. Nemmeno Bolkonsky e Wollow, Lemoss o Tolomeo, i cavalli dell’avvocato Carlo d’Alessio in sella ai quali Gianfranco ormai “Mostro” conquistò le grandi corse d’Inghilterra e l’applauso della Regina Elisabetta forse gli presero il cuore e gli crebbero l’autostima come fece Prince Paddy, che fu anche il primo cavallo montato in corsa.
Poi avrebbe vinto 3.798 corse, un po’ meno delle oltre quattromila vinte dal recordman italiano, Enrico Camici, il fantino di Ribot. Ma Camici era stato in sella trent’anni, ritiratosi a 57, Gianfranco ha smesso a 51. Con Camici si incrociò ai tempi in cui andò a lavorare per la Dormello-Olgiata, che era la più grande e vincente scuderia italiana dei tempi. Dirà poi Dettori: “Lì ho imparato tanto, da Camici a spiarlo, e dai cavalli che erano tutti campioni”. Dopo venne l’incontro con Sergio Cumani, un signore milanese che è stato uno dei più grandi allenatori di sempre. Aveva passione e studiava. Capiva uomini e cavalli. Lo obbligò alla staffatura sempre più corta, un buco alla volta, che fatica!, e gli spiegava: “Devi preoccuparti di mantenere l’equilibrio e perciò sei costretto all’immobilità. Ciò non disturba il cavallo, non gli turba l’azione, l’assetto e quando lo devi comandare con la frusta e con le redini lo fai in maniera composta e, quindi, più efficace”.
Fu efficacissimo: riuscì a costruire una rivalità addirittura con Lester Piggott, il fantino che andava per la maggiore in quegli anni negli ippodromi inglesi dai nomi di leggenda, Epsom, Ascot, Newmarket, e di tutto il mondo.
E siccome nell’ippica, specie tra i purosangue, quel che conta è la genealogia, va ricordato che “il Mostro” ha un figlio più “mostruoso” di lui (in senso latino, dove “monstrum” stava per prodigio): Lanfranco, che gli inglesi chiamano Frankie. Secondo alcuni critici che ne capiscono, se Gianfranco è stato il miglior fantino di sempre in Italia, Frankie lo è nel mondo.
Un giorno, il 28 settembre 1996, Frankie ha montato sette cavalli nelle sette corse in programma ad Ascot: Wall Street, Diffident, Mark of Stim, Decorated Hero, Faithfully, Lochangel e Fujiyama Crest. Vinsero tutti e sette: un record. Il “Times” intitolò “Sette vittorie in un pomeriggio trasformano gli uomini in dèi”. Quando seppe che proprio Fujiyama Crest, ormai vecchio, stava per finire all’asta destinato alla macellazione, Frankie mandò ad acquistarlo in Galles e lo portò nel giardino di casa.
Acrobazie a cavallo con il volteggio, l’arte equestre più sconosciuta. Eugenia Nicolosi su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.
A dispetto delle credenze, è una disciplina adatta a tutti e inclusiva. Ce la racconta Lara, l’unica istruttrice del Sud Italia: “In alcuni Paesi, come la Francia, il volteggio è da tempo una tappa obbligata per chiunque intenda montare”.
Da Roma in giù la conoscono come Lara, l'unica istruttrice di volteggio del sud Italia a presenziare ai campionati internazionali di questa disciplina acrobatica che mescola ginnastica artistica, musica ed equitazione. La Federazione la conosce invece come Larissa Corsetti, 54 anni e lavora con i cavalli da quando di anni ne aveva venti.
Ha iniziato a insegnare volteggio da grande dopo aver attraversato tutte le categorie: dai primi passi come tecnico di equitazione di campagna al complesso teatro equestre “Zingaro” di Etienne Regnier. Era il 2011 quando “Etienne mi ha fatto scoprire questa disciplina”, ricorda, estremamente coreografica, ricca di regole e che nell'Europa del nord esiste dagli anni Ottanta. Le coreografie si eseguono sul cavallo al galoppo, bardato unicamente da un fascione con due maniglie.
Come sport - di nicchia - in Italia è arrivato a metà dei Novanta, ma le sue radici sono antiche: stando alla Federazione italiana sport equestri (Fise) già in epoca romana venivano promossi giochi con acrobazie a cavallo e tra Medioevo e Rinascimento spopolava il musicale Voltige, cugino stretto del più noto Dressage che prevede la monta all'inglese. “In alcuni Paesi, come la Francia, il volteggio è da tempo una tappa obbligata per chiunque intenda montare”, spiega Corsetti. Senza sella, senza redini e con una intensa preparazione atletica a terra, consente al cavaliere di conoscere alla perfezione i movimenti del cavallo e di padroneggiare i propri. “Salti sul cavallo già in corsa e sei senza sella: sei obbligata a sentire ogni vibrazione e impari a riconoscere le sfumature”.
È uno sport che si può praticare a ogni età ed è inclusivo, viene anche usato per l’ippoterapia e nella riabilitazione psicomotoria. Tra gli allievi di Corsetti infatti anche diverse persone con disabilità tra cui una ragazzina con problemi genetici legati allo sviluppo, alcuni non vedenti e alcuni non udenti. “In questo caso gli altri hanno voluto imparare il linguaggio dei segni per confrontarsi con loro sulle musiche e sulle coreografie”, è uno sport di squadra. La disciplina, sopratutto in categoria agonistica, è “completa e complessa”, commenta.
Larissa Corsetti, 54 anni, istruttrice di volteggio Tuttavia, gli addetti ai lavori italiani restano legati al salto ad ostacoli. “È ancora visto come lo sport equestre per eccellenza”, continua. “Alcuni colleghi mi prendono in giro, per loro siamo quelli con le tutine” per via delle tute colorate che si indossano in gara. Ma da quel 1995 che ha visto l'Italia partecipare agli internazionali con cinque atleti i numeri del volteggio sono cresciuti. Nel 2018 erano 325 tra volteggiatori e volteggiatrici di cui 150 in classe agonistica e 175 in ludica. E i cavalli? Corsetti spiega che sono parte della squadra tanto quanto il longeur che sta al centro del campo facendo da perno all'intera performance e gli acrobati. Aggiunge che “non è facile formare un cavallo da volteggio”.
A Palermo, dove lei insegna, ce ne sono soltanto tre: Avalon, Queen, e Roy Boy. Ed è un errore pensare che possa arrivare dal salto a ostacoli. In più non esiste in tal senso un mercato, almeno non nel nostro Paese: “i cavalli vanno preparati da zero e l'iter dura circa tre anni”, un iter che forse verrà intrapreso da Ambra, l'ultima arrivata in scuderia “ma dobbiamo ancora capire se le va”. Anche dopo l'animale da volteggio ha un allenamento e uno stile di vita diverso. C'è un massaggiatore, qualcuno che lo monta ogni giorno e qualcuno che lo passeggia settimanalmente per assicurargli una buona respirazione perché “in gara deve tenere un galoppo cadenzato anche per mezz'ora di seguito”. Inoltre, “oltre a una predisposizione naturale al movimento armonico occorre che abbia un buon carattere e non provi fastidio di tipo fisico né psicologico nel sentire qualcuno che compie acrobazie sul suo dorso. Deve essere attento chi li addestra”.
Una disciplina equestre di squadra ma che mette al centro il cavallo. E lo fa più delle altre. “È necessario costruire la complicità e avere fiducia. Fondamentale è prima di tutto il rispetto assoluto del cavallo. Di ritorno cresce nell'acrobata il senso di rispetto per il prossimo. In maneggio si coltivano sentimenti e valori che altrove un po' stanno sparendo”.
Dagonews il 25 novembre 2022.
Un bodybuilder ha avvertito dei pericoli di assumere steroidi dopo che il suo corpo è diventato pieno di piaghe e acne. Dave Hartrey, 24 anni, ha iniziato a usare steroidi a 20 anni, anche se gli steroidi hanno aiutato a gonfiare il suo corpo, hanno anche avuto un effetto sulla sua pelle. Si pensa che i farmaci a volte possano causare dell'acne come effetto collaterale.
Dave ha deciso di ritirarsi dallo sport. Ha quindi iniziato a interrompere l'assunzione di steroidi, ma non prima di aver subito un'altra grave crisi. Le cicatrici gli hanno causato "un dolore straziante" e lo hanno costretto a restare in casa per nove mesi.
Ora sta supplicando i medici di aiutarlo a sbarazzarsi dei segni che coprono la maggior parte del suo corpo. Ha aggiunto: "Ora sono in lista d'attesa per un consulto su come rimuovere o iniettare le cicatrici con il laser, ma non ho ancora piani concreti".
'Per farlo mi costerà 250 euro a sessione e al momento non sono esattamente sicuro di quante sessioni avrò bisogno! Nonostante non provi più dolore, Dave dice che le cicatrici possono essere incredibilmente pruriginose e sono qualcosa con cui probabilmente dovrà fare i conti per il resto della sua vita.
DAGONEWS il 2 agosto 2022.
Valdir Segato, bodybuilder brasiliano conosciuto perché si iniettava olio per gonfiare i muscoli, è morto a 55 anni: era diventato una star di Tik Tok con 1.6 milioni di follower che seguivano i suoi video.
Nonostante il rischio di ictus, amputazione degli arti e infezioni erano anni che continuava a iniettarsi synthol per pompare bicipiti, pettorali e i muscoli della schiena.
Segato, originario di San Paolo, in precedenza aveva detto di essere stato ispirato dal fisico di Arnold Schwarzenegger e da personaggi di fantasia come Hulk, e aveva parlato di come fosse orgoglioso di essere conosciuto per le strade come "il mostro".
Il vicino Moisés da Conceição da Silva ha raccontato che il bodybuilder aveva affittato una proprietà costruita sul retro della casa della sua famiglia a Ribeirao Preto, nel sud-est del Brasile. Nel giorno della morte si è precipitato da loro perché si sentiva male e gli mancava il respiro: «Erano circa le 6 del mattino. È venuto strisciando e ha bussato alla finestra di mia madre. Quando lei si è svegliata, lui ha detto "aiutami, aiutami. Sto morendo».
Segato è stato portato al North Emergency Care Unit (UPA), ma non è stato possibile salvarlo. Il fratello di Moisés, Jadson da Conceição, ha detto a "O Globo" che non era la prima volta che Segato doveva essere portato d'urgenza in ospedale per mancanza di respiro. La prima volta erano riusciti a salvarlo. Ma questa volta non c’è stato nulla da fare.
Morto il bodybuilder Valdir Segato: si iniettava olio nei muscoli. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 4 agosto 2022.
Aveva 1,7 milioni di follower su TikTok e puntava a gonfiare a dismisura i suoi muscoli. È morto nel giorno del 55° compleanno
Il lavoro in palestra non gli bastava. Lui voleva di più, voleva che i suoi muscoli fossero sempre più gonfi. I 60 centimetri di circonferenza dei bicipiti non erano sufficienti, i pettorali sempre più simili a due seni non lo soddisfacevano. E allora, oltre agli esercizi in palestra, il brasiliano Valdir Segato, 55 anni, star su TikTok con oltre un milione e mezzo di follower, ha cominciato ad assumere anche una miscela di olio, lidocaina e alcol benzilico contro il parere di qualsiasi medico avesse consultato. E ha pagato con la vita.
È morto nel giorno in cui ha compiuto 55 anni il bodybuilder brasiliano che si era proiettato completamente nel mondo virtuale dei social network, tanto da trasferirsi in solitudine a Ribeirao Preto, a 300 km da San Paolo, dove era nato e cresciuto, per allenarsi e produrre contenuti per i suoi profili social. Lo chiamavano Hulk, Schwarzenegger o He-Man. «Questo mi soddisfa» raccontava. E ancora: «Ho raddoppiato le dimensioni dei miei bicipiti, ma voglio comunque essere più grande». Perché non era mai abbastanza e per questo aveva fatto ricorso anche a sostanze chimiche che iniettava direttamente nei muscoli. Come il Synthol che aveva proprio lo scopo di gonfiarli sempre più: «I medici — spiegava in un’intervista al Daily Mail — mi hanno più volte consigliato di smettere di usare quella sostanza, ma è una mia decisione… lo faccio perché mi piace».
Alla lunga, però, il suo corpo non ha retto. «Erano circa le 6 del mattino — racconta al giornale brasiliano Globo un vicino che lo ha visto per l’ultima volta da vivo — e lui è venuto strisciando e ha bussato alla finestra di mia madre. Ha bussato più volte fino a quando lei si è svegliata e le ha detto: aiutami, aiutami perché sto morendo». L’uomo è stato trasportato d’urgenza al North Emergency Care Unit, ma non ce l’ha fatta. Sul corpo, comunque, è stata eseguita l’autopsia, i cui risultati non sono stati comunicati.
Da ilnapolista.it il 28 giugno 2022.
Il Tour de France prende il via venerdì a Copenaghen, e “come le rondini che annunciano la primavera” ecco che il doping e le tattiche della polizia per contrastarlo, tornano sulle prime pagine dei giornali. E’ una tradizione ormai, fa parte del rito. E El Paìs dedica una pagina alla strategia delle forze dell’ordine: arrivano le spie, gli infiltrati nelle squadre.
Le perquisizioni negli hotel sono un grande classico. Si parte dal principio della presunta colpevolezza. “Che non ci siano positivi non significa che non ci sia doping”, ha detto alla vigilia del Tour Amine Lanaya, direttore generale dell’UCI in un seminario dal titolo illuminante: “Oltre i controlli, un programma di intelligence indipendente per affrontare il doping nel ciclismo”.
Tutti, convinti che i controlli a tappeto servano solo a catturare i più incauti o disperati, concordano sul fatto che la strategia deve cambiare. Meno controlli, più intelligence, più informazioni. “Dobbiamo infrangere l’omertà del gruppo ricorrendo all’intelligence“, afferma l’ufficiale di polizia Nicholas Raudenski, direttore dell’intelligence dell’International Testing Agency (ITA), l’ufficio antidoping del Comitato Olimpico Internazionale (CIO).
“Serve un’intelligence proattiva. Agenti attivi, spie all’interno delle squadre”. Ricorda – scrive El Paìs – gli usi della polizia spagnola, che collocava alcuni agenti come falsi camerieri al Parador del Teide all’epoca in cui il dottor Michele Ferrari aveva una stanza riservata tutto l’anno e nelle sue strutture sciamavano ciclisti da mezzo mondo.
E Amine Lanaya aggiunge: “Dobbiamo infiltrarci nelle squadre. Pagare informatori per sapere cosa succede all’interno. Abbiamo bisogno di queste informazioni. Ditelo ai corridori, che abbiano paura“.
Il ciclismo, lo sport più colpito dal doping, lavora sodo per recuperare una credibilità forse irraggiungibile, e mette sul tavolo il divieto di tutti i tipi di iniezioni, quella dell’analgesico oppiaceo Tramadol, quella dei corticosteroidi, prodotti e metodi vietati solo nel ciclismo: “Riguadagnare credibilità non ha un prezzo, ma ha un costo molto alto”. dice David Lappartient, presidente del ciclismo mondiale.
Già dallo scorso Tour si era passati alla tattica dei controlli a sorpresa: i cosiddetti accompagnatori al termine della tappa si avvicinano ai corridori prescelti e li portano direttamente al centro di controllo. Questo a volte ha generato, dice un responsabile del controllo nel Tour, che gli accompagnatori a volte non trovavano i ciclisti scelti e che non si presentavano. “A volte dovevamo salire van della squadra dove i corridori aspettavano per tornare in hotel, fare uno spuntino e una doccia, e lì prelevare un campione di urina…
Questa pratica senza preavviso si espanderà. A qualsiasi ora, al mattino, prima delle tappe, più tardi, la notte, l’agente potrà salire sui bus della squadra per effettuare i controlli. Nessun corridore può essere sicuro di non passare il controllo… E saranno sempre controlli rivolti a quei ciclisti che sospettiamo di più grazie alle informazioni fornite dal nostro servizio di intelligence”.
Da ilnapolista.it il 7 giugno 2022.
Rafa Nadal, per tutta la carriera, è stato inseguito dal sospetto. Quel bicipite sovradimensionato, la resistenza alla fatica, la carriera infinita, il recupero dagli infortuni. Il doping. Ora che il suo piede, la sindrome, il dolore, le cure sono diventate quasi argomento di conversazione dopo l’impresa al Roland Garros, il tema s’è riscaldato. Ci sono ciclisti, come Guillaume Martin o Thibaut Pinot che qualcosa da dire ce l’hanno. Il parallelo con il ciclismo viene spontaneo: Nadal può parlare apertamente di infiltrazioni e lo chiamano “eroe”, dicono. Lo facessimo noi saremmo immediatamente crocifissi.
Le iniezioni di corticosteroidi – spiega L’Equipe – non sono certamente più autorizzate in competizione dal 1 gennaio, ma le infiltrazioni di anestetici come la xilocaina, localmente e quindi senza diffusione nel sistema sanguigno, sono all’ordine del giorno in quasi tutti gli sport, come pallamano, tennis, calcio o rugby. Nel ciclismo, invece, i regolamenti sono un po’ più severi. Dal 2011 l’UCI ha adottato il principio del “No ago”, che non compare nel codice mondiale antidoping.
Tuttavia, ci sono delle eccezioni. C’è diritto di utilizzare un anestetico in iniezione locale, ma è poi necessario fare la dichiarazione via e-mail all’UCI. Questa non è una condizione di esclusione dalla gara. Quando una situazione medica lo richiede, alcuni farmaci iniettabili possono essere utilizzati anche per curare il vomito o forti dolori addominali, sempre a condizione che il servizio medico dell’UCI sia informato per giustificare la situazione e l’uso di tali farmaci.
Dopo la finale del Roland Garros, Nadal ha rivelato il protocollo di cura che intende seguire, un trattamento quasi disperato che consiste in pratica nella desensibilizzazione permanente dei nervi del piede, come si devitalizza un dente. Dopo c’è solo l’operazione, e la fine della carriera agonistica.
Il tema è interessante: qual è il limite consentito? L’Equipe ha intervistato Guillaume Martin, che dopo aver chiuso il Giro d’Italia 14esimo ha iniziato la sua preparazione per il Tour de France.
“Quello che ha fatto Nadal sarebbe stato impossibile in bici, e lo trovo normale. Se siamo malati o infortunati, non corriamo, non gareggiamo, mi sembra buon senso. Per diverse ragioni. Innanzitutto per la salute degli atleti. A lungo termine non sono sicuro che farà bene alla caviglia di Nadal. E inoltre, i farmaci e ancora più infiltrazioni non solo hanno un effetto curativo, ma possono sicuramente avere effetti sulle prestazioni o essere dirottati per migliorare le prestazioni”.
“Se un ciclista fa la stessa cosa è già vietato, ma anche se così non fosse, tutti lo aggredirebbero definendolo dopato perché c’è un background culturale. Mentre le persone lodano Nadal per essere riuscito ad arrivare così lontano nel dolore. Credo che anche Zlatan Ibrahimovic abbia parlato anche delle sue infiltrazioni al ginocchio. Passano per eroi perché allontanano il dolore, ma in realtà usano sostanze per farlo e, di nuovo, è molto al limite. Il vincitore delle gare di bici, in particolare quello Tour, anche se dietro non c’è nessun elemento, è sistematicamente accusato di doping”.
“Perché c’è una storia, non si può negarla”. Ma, dice ancora Martin “potrebbe essere il momento di andare avanti. Il ciclismo si è ricostruito poco a poco in relazione a questa storia negativa e quindi era necessario dimostrare che eravamo più puliti del bianco”. “C’è questa voglia di ribaltare i luoghi comuni ma ovviamente c’è ancora da lavorare”.
“Ho fatto un intero Giro di Catalogna e poi un Giro di Sicilia con la tendinite al ginocchio, soffrivo, non sapevo se sarei riuscito a finire la tappa o a ripartire il giorno dopo. Forse sarebbe stato più facile con un’infiltrazione ma non lo so nemmeno, in effetti”.
Martin dice che ci dovrebbe essere “una certa omogeneizzazione dei regolamenti tra i diversi sport. Il tennis, ad esempio, ha parametri abbastanza simili al ciclismo, è uno sport di resistenza con accelerazioni. Non vedo perché ci devono essere regolamenti diversi”.
Può esistere un’altra definizione di doping oltre a una definizione puramente regolamentare? Un approccio più filosofico o etico? “I regolamenti antidoping UCI (International Cycling Union) per me sono un minimo. Ci sono molte cose che sono permesse e che io stesso mi proibisco. È tutta la questione delle zone grigie, della diversione di alcuni farmaci che normalmente si usano per curare i tumori, la sclerosi multipla per esempio. Non mi vedo prendere questo genere di cose per essere un ciclista migliore. Eppure è consentito”.
“Se diciamo che il doping fa male alla salute, c’è una facile contro-argomentazione: fare sport ad un livello molto alto non fa bene alla salute. Questo è l’argomento inconfutabile. Dire che il limite è tra ciò che è proibito e ciò che è autorizzato, neanche questo mi sembra il criterio giusto. Quindi è più una questione di etica personale, diciamo che devo prendere il paracetamolo per fare una corsa in bicicletta? Qual è il significato di tutto questo? Per me perde ogni significato se iniziamo a distinguere le sostanze”.