Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

DECIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Vintage.

Le prevendite.

I Televenditori.

I Balli.

Il Jazz.

La trap.

Il musical è nato a Napoli.

Morti di Fame.

I Laureati.

Poppe al vento.

Il lato eccentrico (folle) dei Vip.

La Tecno ed i Rave.

Alias: i veri nomi.

Woodstock.

Hollywood.

Spettacolo mafioso.

Il menù dei vip.

Il Duo è meglio di Uno.

Non è la Rai.

Abel Ferrara.

Achille Lauro.

Adele.

Adria Arjona.

Adriano Celentano.

Afef Jnifen.

Aida Yespica.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Alberto Radius.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Alec Baldwin.

Alessandra Amoroso.

Alessandra Celentano.

Alessandra Ferri.

Alessandra Mastronardi.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghese.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Gassman.

Alessandro Greco.

Alessandro Meluzzi.

Alessandro Preziosi.

Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.

Alessio Boni.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alessio Giannone: Pinuccio.

Alessandro Haber.

Alex Britti.

Alexia.

Alice.

Alfonso Signorini.

Alyson Borromeo.

Alyx Star.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Anastacia.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.

Andrea Sartoretti.

Andrea Zalone.

Andrée Ruth Shammah.

Angela Finocchiaro.

Angelina Jolie.

Angelina Mango.

Angelo Branduardi.

Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.

Anna Falchi.

Anna Galiena.

Anna Maria Barbera.

Anna Mazzamauro.

Ana Mena.

Anna Netrebko.

Anne Hathaway.

Annibale Giannarelli.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Ruggiero.

Antonello Venditti e Francesco De Gregori.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Capuano.

Antonio Cornacchione.

Antonio Ricci.

Antonio Vaglica.

Après La Classe.

Arisa.

Arnold Schwarzenegger.

Asia e Dario Argento.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Barbara Bouchet.

Barbara D'urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Quinta.

Beatrice Rana.

Beatrice Segreti.

Beatrice Venezi.

Belen Rodriguez.

Bella Lexi.

Benedetta D'Anna.

Benedetta Porcaroli.

Benny Benassi.

Peppe Barra.

Beppe Caschetto.

Beppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Guaccero.

BigTittyGothEgg o GothEgg.

Billie Eilish.

Blanco. 

Blake Blossom.

Bob Dylan.

Bono Vox.

Boomdabash.

Brad Pitt.

Brigitta Bulgari.

Britney Spears.

Bruce Springsteen.

Bruce Willis.

Bruno Barbieri.

Bruno Voglino.

Cameron Diaz.

Caparezza.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlos Santana.

Carmen Di Pietro.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carola Moccia, alias La Niña.

Carolina Crescentini.

Carolina Marconi.

Cate Blanchett.

Catherine Deneuve.

Catherine Zeta Jones.

Caterina Caselli.

Céline Dion.

Cesare Cremonini.

Cesare e Mia Bocci.

Chiara Francini.

Chloe Cherry.

Christian De Sica.

Christiane Filangieri.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Claudio Simonetti.

Coez.

Coma Cose.

Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.

Corrado Tedeschi.

Costantino Della Gherardesca.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Donzelli.

Cristiano Malgioglio.

Cristina D'Avena.

Cristina Quaranta.

Dado.

Damion Dayski.

Dan Aykroyd.

Daniel Craig.

Daniela Ferolla.

Daniela Martani.

Daniele Bossari.

Daniele Quartapelle.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Ballantini.

Dario Salvatori.

Dario Vergassola.

Davide Di Porto.

Davide Sanclimenti.

Diana Del Bufalo.

Dick Van Dyke.

Diego Abatantuono.

Diego Dalla Palma.

Diletta Leotta.

Diodato.

Dita von Teese.

Ditonellapiaga.

Dominique Sanda.

Don Backy.

Donatella Rettore.

Drusilla Foer.

Dua Lipa.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Eden Ivy.

Edoardo Bennato.

Edoardo Leo.

Edoardo Vianello.

Eduardo De Crescenzo.

Edwige Fenech.

El Simba (Alex Simbala).

Elena Lietti.

Elena Sofia Ricci.

Elenoire Casalegno.

Elenoire Ferruzzi.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Pedron.

Elettra Lamborghini.

Elio e le Storie Tese.

Elio Germano.

Elisa Esposito.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elodie.

Elton John.

Ema Stokholma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuele Fasano.

Eminem.

Emma Marrone.

Emma Rose.

Emma Stone.

Emma Thompson.

Enrico Bertolino.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Lucci.

Enrico Montesano.

Enrico Papi.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enzo Avitabile.

Enzo Braschi.

Enzo Garinei.

Enzo Ghinazzi in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Erika Lust.

Ermal Meta.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Eva Grimaldi.

Eva Henger.

Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.

Fabio Concato.

Fabio Rovazzi.

Fabio Testi.

Fabri Fibra.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fausto Brizzi.

Fausto Leali.

Federica Nargi e Alessandro Matri.

Federica Panicucci.

Ficarra e Picone.

Filippo Neviani: Nek.

Filippo Timi.

Filomena Mastromarino, in arte Malena.

Fiorella Mannoia.

Flavio Briatore.

Flavio Insinna.

Forest Whitaker.

Francesca Cipriani.

Francesca Dellera.

Francesca Fagnani.

Francesca Michielin.

Francesca Manzini.

Francesca Reggiani.

Francesco Facchinetti.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Sarcina e le Vibrazioni.

Franco Maresco.

Franco Nero.

Franco Trentalance.

Francis Ford Coppola.

Frank Matano.

Frida Bollani.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gabriel Garko.

Gabriele Lavia.

Gabriele Salvatores.

Gabriele Sbattella.

Gabriele e Silvio Muccino.

Geena Davis.

Gegia.

Gene e Charlie Gnocchi.

Geppi Cucciari.

Gérard Depardieu.

Gerry Scotti.

Ghali.

Giancarlo Giannini.

Gianluca Cofone.

Gianluca Grignani.

Gianna Nannini.

Gianni Amelio.

Gianni Mazza.

Gianni Morandi.

Gianni Togni.

Gigi D’Agostino.

Gigi D’Alessio.

Gigi Marzullo.

Gigliola Cinquetti.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giorgia Palmas.

Giorgio Assumma.

Giorgio Lauro.

Giorgio Panariello.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Allevi.

Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.

Giovanni Lindo Ferretti.

Giovanni Scialpi.

Giovanni Truppi.

Giovanni Veronesi.

Giulia Greco.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti: Mogol.

Giuseppe Gibboni.

Giuseppe Tornatore.

Giusy Ferreri.

Gli Extraliscio.

Gli Stadio.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Del Toro.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwen Adora.

Harrison Ford.

Hu.

I Baustelle.

I Cugini di Campagna.

I Depeche Mode.

I Ferragnez.

I Maneskin.

I Negramaro.

I Nomadi.

I Parodi.

I Pooh.

I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.

Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.

Il Volo.

Ilary Blasi.

Ilona Staller: Cicciolina.

Irama.

Irene Grandi.

Irina Sanpiter.

Isabella Ferrari.

Isabella Ragonese.

Isabella Rossellini.

Iva Zanicchi.

Ivana Spagna.

Ivan Cattaneo.

Ivano Fossati.

Ivano Marescotti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

J-Ax.

Jacopo Tissi.

Jamie Lee Curtis.

Janet Jackson.

Jeff Goldblum.

Jenna Starr.

Jennifer Aniston.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Rizzo.

Jim Carrey.

Jo Squillo.

Joe Bastianich.

Jodie Foster.

Jon Bon Jovi.

John Landis.

John Travolta.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli e Gloria Guida.

José Carreras.

Julia Ann.

Julia Roberts.

Julianne Moore.

Justin Bieber.

Kabir Bedi.

Kathy Valentine.

Katia Ricciarelli.

Kasia Smutniak.

Kate Moss.

Katia Noventa.

Kazumi.

Khadija Jaafari.

Kim Basinger.

Kim Rossi Stuart.

Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.

Klaus Davi.

La Rappresentante di Lista.

Laetitia Casta.

Lando Buzzanca.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Le Donatella.

Lello Analfino.

Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.

Levante.

Liam Neeson.

Liberato è Gennaro Nocerino.

Ligabue.

Liya Silver.

Lila Love.

Liliana Fiorelli.

Liliana Cavani.

Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Lorenzo Zurzolo.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luca Abete.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca Barbarossa.

Luca Carboni.

Luca e Paolo.

Luca Guadagnino.

Luca Imprudente detto Luchè.

Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.

Luca Tommassini.

Luca Zingaretti.

Luce Caponegro in arte Selen.

Lucia Mascino.

Lucrezia Lante della Rovere.

Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.

Luigi Strangis.

Luisa Ranieri.

Maccio Capatonda.

Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.

Mago Forest: Michele Foresta.

Mahmood.

Madame.

Mal.

Malcolm McDowell.

Malena…Milena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manuel Agnelli.

Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.

Mara Maionchi.

Mara Sattei.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Baldini.

Marco Bellavia.

Marco Castoldi: Morgan.

Marco Columbro.

Marco Giallini.

Marco Leonardi.

Marco Masini.

Marco Marzocca.

Marco Mengoni.

Marco Sasso è Lucrezia Borkia.

Margherita Buy e Caterina De Angelis.

Margherita Vicario.

Maria De Filippi.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Cucinotta.

Marika Milani.

Marina La Rosa.

Marina Marfoglia.

Mario Luttazzo Fegiz.

Marilyn Manson.

Mary Jane.

Marracash.

Martina Colombari.

Massimo Bottura.

Massimo Ceccherini.

Massimo Lopez.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Maurizio Lastrico.

Maurizio Pisciottu: Salmo. 

Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Gazzè.

Max Giusti.

Max Pezzali.

Max Tortora.

Melanie Griffith.

Melissa Satta.

Memo Remigi.

Michael Bublé.

Michael J. Fox.

Michael Radford.

Michela Giraud.

Michelangelo Vood.

Michele Bravi.

Michele Placido.

Michelle Hunziker.

Mickey Rourke.

Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.

Miguel Bosè.

Milena Vukotic.

Miley Cyrus.

Mimmo Locasciulli.

Mira Sorvino.

Miriam Dalmazio.

Monica Bellucci.

Monica Guerritore.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nada.

Nancy Brilli.

Naomi De Crescenzo.

Natalia Estrada.

Natalie Portman.

Natasha Stefanenko.

Natassia Dreams.

Nathaly Caldonazzo.

Neri Parenti.

Nia Nacci.

Nicola Savino.

Nicola Vaporidis.

Nicolas Cage.

Nicole Kidman.

Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.

Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nino D'Angelo.

Nino Frassica.

Noemi.

Oasis.

Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.

Oliver Stone.

Olivia Rodrigo.

Olivia Wilde e Harry Styles.

Omar Pedrini.

Orietta Berti.

Orlando Bloom.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Paola Barale.

Paola Cortellesi.

Paola e Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Quattrini.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Crepet.

Paolo Rossi.

Paolo Ruffini.

Paolo Sorrentino.

Patrizia Rossetti.

Patti Smith.

Penélope Cruz.

Peppino Di Capri.

Peter Dinklage.

Phil Collins.

Pier Luigi Pizzi.

Pierfrancesco Diliberto: Pif.

Pietro Diomede.

Pietro Valsecchi.

Pierfrancesco Favino.

Pierluigi Diaco.

Piero Chiambretti.

Pierò Pelù.

Pinguini Tattici Nucleari.

Pino Donaggio.

Pino Insegno.

Pio e Amedeo.

Pippo (Santonastaso).

Peter Gabriel.

Placido Domingo.

Priscilla Salerno.

Pupi Avati.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quentin Tarantino.

Raffaele Riefoli: Raf.

Ramona Chorleau.

Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.

Raul Cremona.

Raphael Gualazzi.

Red Canzian.

Red Ronnie.

Reya Sunshine.

Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Riccardo Chailly.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Manera.

Riccardo Milani.

Riccardo Scamarcio.

Ricky Gianco.

Ricky Johnson.

Ricky Martin.

Ricky Portera.

Rihanna.

Ringo.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Rusic.

Roberta Beta.

Roberto Bolle.

Roberto Da Crema.

Roberto De Simone.

Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.

Roberto Satti: Bobby Solo.

Roberto Vecchioni.

Robbie Williams.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rolling Stones.

Roman Polanski.

Romina Power.

Romy Indy.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ron Moss.

Rosanna Lambertucci.

Rosanna Vaudetti.

Rosario Fiorello.

Giuseppe Beppe Fiorello.

Rowan Atkinson.

Russel Crowe.

Rkomi.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Sally D’Angelo.

Salvatore (Totò) Cascio.

Sandra Bullock.

Santi Francesi.

Sara Ricci.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sebastiano Vitale: Revman.

Selena Gomez.

Serena Dandini.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio e Pietro Castellitto.

Sex Pistols.

Sfera Ebbasta.

Sharon Stone.

Shel Shapiro.

Silvia Salemi.

Silvio Orlando.

Silvio Soldini.

Simona Izzo.

Simona Ventura.

Sinead O’Connor.

Sonia Bergamasco.

Sonia Faccio: Lea di Leo. 

Sonia Grey.

Sophia Loren.

Sophie Marceau.

Stefania Nobile e Wanna Marchi.

Stefania Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi e Fabio Volo.

Stefano Bollani.

Stefano De Martino.

Steve Copeland.

Steven Spielberg.

Stormy Daniels.

Sylvester Stallone.

Sylvie Renée Lubamba.

Tamara Baroni.

Tananai.

Teo Teocoli.

Teresa Saponangelo.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tina Cipollari.

Tina Turner.

Tinto Brass.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.

Tommaso Zanello alias Piotta.

Tommy Lee.

Toni Servillo.

Totò Cascio.

U2.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Ultimo.

Uto Ughi.

Valentina Bellucci.

Valentina Cervi.

Valeria Bruni Tedeschi.

Valeria Graci.

Valeria Marini.

Valerio Mastandrea.

Valerio Scanu.

Vanessa Incontrada.

Vanessa Scalera.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Pivetti.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Vinicio Marchioni.

Viola Davis.

Violet Myers.

Virginia Raffaele.

Vittoria Puccini.

Vittorio Brumotti.

Vittorio Cecchi Gori.

Vladimir Luxuria.

Woody Allen.

Yvonne Scio.

Zucchero.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Solito pre Sanremo.

Prima Serata.

Terza Serata. 

Quarta Serata.

Quinta Serata.

Chi ha vinto?

Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Superman.

Il Body Building.

Quelli che...lo Yoga.

Wags e Fads.

Il Coni.

Gli Arbitri.

Quelli che …il Calcio I Parte.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …il Calcio II Parte.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Mondiali 2022.

I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I personal trainer.

Quelli che …La Pallacanestro.

Quelli che …La Pallavolo.

Quelli che..la Palla Ovale.

Quelli che...la Pallina da Golf.

Quelli che …il Subbuteo.

Quelli che…ti picchiano.

Quelli che…i Motori.

La Danza.

Quelli che …l’Atletica.

Quelli che…la bicicletta.

Quelli che …il Tennis.

Quelli che …la Scherma.

I Giochi olimpici invernali.

Quelli che …gli Sci.

Quelli che… l’acqua.

Quelli che si danno …Dama e Scacchi.

Quelli che si danno …all’Ippica.

Il Doping.

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

DECIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …il Calcio II Parte.

IL SASSUOLO.

Chi è Berardi, il Sassuolo, 100 gol in A: la fidanzata, i tortellini, il miglior amico Benassi. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2022.

L'esterno del Sassuolo e della Nazionale con la doppietta allo Spezia ha raggiunto il traguardo dei 100 gol in serie A: ritratto di un calciatore amato da Mancini che disse no alla Juve

Berardi, 100° gol

Campione d’Europa con l’Italia di Roberto Mancini, nel luglio scorso, a Wembley contro l’Inghilterra, Domenico Berardi ha raggiunto un traguardo importante. Grazie alla doppietta firmata contro lo Spezia, venerdì 18 marzo, il fantasista del Sassuolo ha raggiunto quota 100 gol in serie A e tutti con il club emiliano. È il terzo giocatore più giovane ad aver raggiunto la triplice cifra (27 anni e 229 giorni), dopo Edinson Cavani (25 anni, 341 giorni) e Gigi Riva (26 anni, 197 giorni). Una vita al Sassuolo, all’epoca era considerato uno dei migliori talenti italiani nel 1994. Qualche mese fa sembrava a un passo dalla Fiorentina, ma alla fine è rimasto con i neroverdi.

Il no alla Juventus

Nel dicembre 2015 Berardi disse no alla Juventus. I motivi? In primis, perché il fantasista del Sassuolo è tifoso dell’Inter e non ha voluto vestire la casacca bianconera. In secondo luogo, per il rischio di giocarsi il posto e finire in panchina, frenando così il suo percorso di crescita.

La fidanzata

La sua fidanzata è l’influencer Francesca Fantuzzi, nata nel 1994 e originaria di Sassuolo, dove è cresciuta e ha studiato. Stanno insieme da quasi 10 anni e i due hanno un figlio, Nicolò, nato a inizio 2021. I due si sposeranno (forse a fine campionato) e hanno scelto Enzo Miccio come Wedding Planner.

Benassi il miglior amico

Marco Benassi, centrocampista della Fiorentina, è da oltre un decennio il migliore amico di Berardi. Tra continue telefonate e WhatsApp, bagni in piscina e vacanze a Forte dei Marmi e alle Maldive, i due giocatori, e rispettive famiglie, sono legatissimi. Sognano di giocare insieme.

Tennis, fitness e camminate

Domenico e Francesca sono grandi appassionati di sport a tutti i livelli. La coppia appena ha un momento libero fa fitness, tennis, camminate. Oltre che andare insieme in bicicletta e nuotare.

Basta sfuriate in campo

Oggi Berardi è un ragazzo molto sereno, ha limato qualche eccesso caratteriale (in campo) degli anni passati e ha imparato anche a conoscere meglio il suo corpo. Il fantasista più volte dice di essere meno istintivo. E tutto questo gli ha permesso di migliorare sotto ogni aspetto della propria vita.

La passione per i tortellini

Berardi è molto attento all’alimentazione ma, vivendo in Emilia ormai da anni, ha un grande amore: i tortellini. In casa cucina Francesca, l’attaccante mangia tutto, ma la pasta fatta in casa è la pietanza che preferisce.

Esterno che piace a Mancini

Berardi è nato come esterno offensivo in un tridente. Gioca a destra, ma può giocare anche a sinistra. Sia nel Sassuolo sia in Nazionale occupa questo ruolo. Tanto da conquistare il c.t. Roberto Mancini. Per lui è una pedina fondamentale degli azzurri. È un giocatore veloce, abile nel dribbling e nei calci piazzati.

Gli inizi: dalla Calabria a Modena dal fratello

Berardi è nato a Cariati, in provincia di Cosenza, e spesso la Calabria ritorna nei suoi racconti. Ad esempio quando Di Francesco gli chiese se se la sentisse di giocare titolare in prima squadra lui rispose: «Sì, certo. Penserò di stare con i miei amici in Calabria». Dalla Calabria, ragazzino, Berardi partì per andare a trovare il fratello maggiore Francesco a Modena e lì, durante una partita di calcetto, venne notato da Pasquale Di Lillo che lo segnalò a Luciano Carlino, vice allenatore degli Allievi del Sassuolo. Ecco come è iniziata la sua avventura nel calcio

Esonero di Massimiliano Allegri

Il 12 gennaio 2014 al Mapei Stadium Berardi firma quattro gol al Milan e il suo Sassuolo vince 4-3 contro rossoneri. Notte nefasta per Massimiliano Allegri che dopo quella sconfitta viene esonerato da Silvio Berlusconi.

IL GENOA.

L’Euro Genoa di Aguilera e Skuhravy: un distributore di sogni. Paolo Lazzari il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.

Uno svelto uruguagio e un gigante boemo: l'improbabile coppia che fece impazzire il lato rossoblu di Genova e che dominava in Europa

Lo sguardo, appuntito, racconta risolutezza. Lui l’attacco ce l’ha scolpito in testa con una traiettoria lineare, che non contempla sbavature. Al bando le panzane moderne: pretende un corazziere ed un piccoletto svelto di testa e di gambe che gli graviti intorno. Discorso chiuso. Osvaldo Bagnoli si gratta meticolosamente la nuca, poi riavvia i capelli, già impomatati all’indietro. Nel suo identikit quei due non soltanto ci rientrano. Ci sguazzano, addirittura.

Il primo è un gigante boemo che svetta oltre il metro e novanta, spalle prominenti, incarnato dal pallore alabastrino. Ulteriori segni particolari: si compiace nello smantellare le difese. Ci sarebbe anche il nome: Tomas Skuhravy. Bagnoli, che ha ereditato un Genoa soltanto tiepido da Scoglio, sprimaccia i pensieri: adesso è autorizzato a sognare. Certo, il grifone non potrà eguagliare il suo Verona, ma aver caldeggiato questo acquisto potrebbe essere una delle migliori intuizioni del suo personalissimo 1990.

Skuhravy, laureato alla Sorbona del gioco aereo, ha maturato anche un PhD in “apertura degli spazi”. Il partner congeniale, dunque, per quel leggero uruguagio dribblomane che ha piluccato avidamente nelle aree di rigore altrui, l’anno precedente. Immerso alla nascita, talloni compresi, in un rivolo di anarchico acume calcistico, Carlos “Pato” Aguilera è l’altro tassello di un puzzle ineffabile. Quel che Elkjaer era stato per Galderisi una manciata di anni prima: touché.

Così, nell’anno che prelude ai mondiali italiani le notti magiche, sono quelle tessute da questa ammirevole coppia. L’incipit calcistico dei due fenomeni, a dire il vero tossicchiante, procura una momentanea impennata di fatturato per i farmacisti genovesi. Il mal di pancia tuttavia è destinato a svanire in fretta. Quando Tomas e Carlos dimostrano che ci si può dare del tu anche vivendo agli antipodi – calcistici, geografici, caratteriali – non ce n’è più per nessuno. Fila tutto come l’aveva immaginato Bagnoli: uno giganteggia, l’altro si infila in ogni pertugio. Alla fine le retroguardie avversarie sanguinano. Segnano entrambi una quindicina di gol a testa, azzerando il vaniloquio di chi non avrebbe scommesso duemila lire sul Genoa. Rossoblu quarti. Coppa Uefa.

La stagione successiva del duo da favola

L’anno dopo la distanza dal sogno è sesquipedale. Si parte addirittura dai trentaduesimi di finale, contro il Real Oviedo. Carlos e Tomas però non si sciroppano il viaggetto da soli. Al loro fianco spuntano il brasiliano Branco – santo tiratore con le tre dita – il prode capitano Signorini, l’arcigno Torrente e molti altri calciatori di spessore inoppugnabile. Sembra che finisca ancora prima di iniziare, perché il Grifone esce affondato in Spagna. Marassi, tuttavia, sa essere un formidabile correttore di destini avversi.

Aguilera e Skuhravy si inoltrano nella campagna europea con ecumenica attitudine: bastonano tutti, in egual misura. Anche quando l’urna – ghignante – propone il terrificante Liverpool, la convinzione non vacilla. Due a zero a Genova. Un altro paio ad Anfield, con il copyright di Pato: impresa prodigiosa, visto che nessuna italiana aveva mai espugnato il lato rosso del Merseyside. Ci vorrà tutta la solida verve dell’Ajax, in semifinale, per disinstallare lo sfrontato giochino.

Bagnoli adesso può allentare la tensione. Arrivarci soltanto vicino è una pastiglia amara da deglutire. Ma l’Euro Genoa di Aguilera e Skuhravy resta un’entropia che sa di buono ogni volta che lo spolveri.

Ivan Zazzaroni per il “Corriere dello Sport”  il 17 marzo 2022.

«Mi cago sotto. Ma lei la metta giù meglio, in una forma più elegante».  

Guardi che va benissimo così, professor Zangrillo: me la faccio sotto è un’espressione meno immediata. Lei ha reso l’idea. 

«Non vorrei usare le solite frasi di circostanza o noiose iperboli calcistiche, ma per noi quella col Torino è veramente la partita della vita».  

Non esageri. 

«Non esagero, no. Mi conceda qualche parentesi di irragionevolezza e una spiegazione. Avverto fisicamente la responsabilità, soprattutto da quando ho assunto la presidenza di un club che per me rappresenta qualcosa di speciale. Il Genoa è il secondo amore, dopo la mia famiglia. Sono cresciuto nell’ortodossia rossoblù. È stato il costante punto di contatto tra le mie origini e tutto il resto. Milano, un luogo che ti assorbe, gli studi, la professione, l’ospedale, la ricerca. Me lo sono portato dentro, il Genoa. Sempre. Avevo 14 anni quando lasciai Genova, ad aprile saranno 64 e mi piace pensare che questo incarico chiuda simbolicamente un cerchio esistenzial-sentimentale».  

Ci chiedemmo in tanti, lo scorso novembre, quando divenne presidente, cosa avesse spinto uno come lei a entrare nel calcio. 

«La consapevolezza di poter far bene. Partendo dalla mia crescita professionale, dalle capacità relazionali che mi riconosco, dalle dinamiche della gestione di un gruppo che sono parte integrante del mio lavoro. L’obiettivo che mi sono posto, al di là della fondamentale salvezza, sia chiaro, è aumentare la reputation del club. Che ha una storia straordinaria e deve recuperare la centralità all’interno del sistema calcio. Non sono concetti astratti, mi dia retta. Capisco che non è semplice far capire agli altri cosa sia la genoanità. Le porto un esempio recente. Avrà visto le immagini: alla fine della partita con l’Atalanta sono andato con Josh Warner e Andrés Blazquez sotto la curva per ringraziare la nostra tifoseria e mi sono commosso, ho pianto. Lo so, non è normale».  

Perché no? 

«Qualcuno mi avrà dato del coglione, ma solo un genoano può capire. E io lo sono, totalmente. Sempre tra i primi a informarsi sulla sede del ritiro estivo della squadra. Amavo seguirne i primi passi. Ricordo che ai tempi di Franco Scoglio scelsero Madonna di Campiglio, la mia seconda casa. Non può immaginare la felicità».  

Mi sta sorprendendo, lo ammetto. 

«Eppure non dovrebbe essere così, visto che lei ha a che fare ogni giorno con la passione, le emozioni che il calcio alimenta».  

Da qualche tempo prevalgono i conti, le assemblee di Lega, gli interessi particolari di alcuni presidenti e dirigenti, il non sistema. 

«Non è stato facile, il mio ingresso in via Rosellini. Chissà cosa viene a fare questo scemo, il medico di, l’amico di, tanto sappiamo chi lo porta. Nei primi quattro mesi, essendo una persona intelligente, mi sono limitato a osservare. Sono un clinico, allenato a studiare e individuare i caratteri, a interpretare atteggiamenti e reazioni. Diciamo che sono passato dalla curiosità e dalla diffidenza nei miei confronti al rispetto. Negli ultimi tempi ho espresso la mia opinione sui temi più importanti. Poche parole, concetti chiari e definitivi. Molta misura». 

La pecora bianca. 

«Molte cose dovrebbero cambiare all’interno della Lega, tutti hanno il dovere di sacrificare qualcosa in funzione dell’interesse comune. Anche sul piano dei comportamenti e del linguaggio sarebbe ora che ci si desse una regolata». 

La Grande Utopia. 

«Vede, io provengo da un altro mondo e faccio mio un pensiero del premio Pulitzer Dave Barry: “non avere mai paura di tentare qualcosa di nuovo. Ricorda: dei dilettanti realizzarono l’arca mentre il Titanic fu costruito da professionisti”». 

Ho afferrato. Vecchi e nuovi, professionisti e dilettanti, non hanno gradito la posizione della Federcalcio sull’indice di liquidità. 

«È molto spiacevole che qualcuno, in modo maldestro, punti l’indice sui conti di una o più società. Noi, come tutti in Lega, siamo molto preoccupati, ma riteniamo di poter rispettare gli impegni a testa alta». 

Sempre convinto che «contro il calcio ci sia un certo pregiudizio»? Sono parole sue. 

«È una filiera che produce fatturato e lavoro e quindi deve essere alimentata e protetta. Non deve prevalere l’immagine del calciatore iperpagato e lontano dalla realtà, ma quella di chi sostiene il sistema dalle fondamenta».  

È consapevole di rappresentare una scelta di rottura? 

«C’era la necessità di una rottura in termini di mentalità. E penso che il Genoa l’abbia dimostrato anche sul mercato. Il progetto è a medio-lungo termine ma non stiamo tralasciando assolutamente il breve. E il brevissimo, per questo penso a Genoa-Toro. Il nostro è un brand straordinario e mai utilizzato appieno, quasi riconosciuto più all’estero che in Italia. Modelli come Atalanta e Sassuolo sono da copiare e vincenti, e se hai alle spalle la storia esiste un trampolino di lancio importante. Il tutto in una città con una potenzialità e un appeal eccezionali in termini di turismo. Il Genoa è uno degli strumenti che devono rilanciare Genova e la Liguria».  

Il suo amico Briatore che tentò di portare Volpi alla Samp, cosa le ha detto? 

«Ha cercato in tutte le maniere di dissuadermi dall’accettare la presidenza». (Sorride).  

Tornando all’indice di liquidità, le ricordo che la Federazione di Gravina ha fatto l’impossibile negli ultimi due anni per salvaguardare la regolarità finanziaria, più presunta che reale, del campionato. 

«E io le ricordo a mia volta che non siamo ancora usciti dalla quaresima pandemica e dai suoi devastanti effetti sui conti, e non mi faccia aggiungere altro. L’imperativo era e resta la sostenibilità».  

 Domani sera affrontate una squadra, il Torino, che domenica sera ha subìto un enorme torto arbitrale. La cosa vi spaventa? 

«E perché dovrebbe? Lei allude a compensazioni o cose del genere? Preistoria». 

Io no? Il suo amico Galliani, uomo di notevoli malizie e esperienze, forse sì. A pensar male... 

«Adriano ha fatto i complimenti a Blessin: mi ha detto che si vede che siamo messi bene in campo».  

Tutto qui? Un bel glissons? 

«Sono convinto che Mariani vorrà dimostrare di essere un arbitro di personalità, in grado di sopportare le pressioni che derivano da una settimana pesantissima per la categoria. L’arbitro è un essere umano».  

Non tutti lo sono e non sempre. 

«Durante la partita l’arbitro si sottopone a un autentico test da sforzo, il cuore può raggiungere i 220, 230 battiti al minuto. Dubito che chi sta davanti alla tv sopporti stress simili». 

Risponda da clinico: cosa avrà visto il varista Massa? 

«Credo totalmente nella sua buona fede, proprio per la dimensione esagerata dell’errore che non autorizza retropensieri. Ad ogni modo non venga a parlare a noi di torti subiti...».  

Dice che sto parlando di corda a casa dell’impiccato? 

«A Genova abbiamo il vento di tramontana che spira da nord, mi auguro che domani non faccia cadere troppi giocatori».  

Adesso, sì, mi piace. 

«Nei giorni scorsi mi hanno spiegato che prima della partita un saluto di benvenuto all’arbitro è sempre gradito, un’ apprezzata forma di educazione. Ho chiesto se fosse così proprio a un direttore di gara e mi ha riposto di sì. Poi però durante l’intervallo vedo allenatori e giocatori che rientrano in campo parlando fitto fitto con arbitro e guardalinee e allora mi girano un po’ i coglioni». 

Ma professore! 

«È uscito il genoano».  

Comunque e ovunque. 

«Comunque e ovunque. Ma non in B, mi auguro».  

Professore, Johannes Spors, il ds, e Alexander Blessin sono scelte “algoritmiche” di Charles Gould. 

«Ha ragione, e io vorrei riuscire ad armonizzare i due aspetti: banalmente, storia e futuro. Ho un solido legame con Josh Warner e Andrés, li sento ogni giorno, sono uomini straordinariamente intelligenti e di azione. Pensi soltanto che Josh è partito dagli Stati Uniti per vedere la partita con l’Atalanta ed è rientrato da Bergamo la notte stessa». 

IL BARI.

Tuta non doveva segnare: quel (presunto) biscotto spezzato in Venezia-Bari. Il brasiliano entra in campo e segna al novantesimo, generando lo sconcerto dei compagni e l’ira degli avversari: "Quella gara era combinata". Paolo Lazzari il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.

Gennaio a Venezia è una sequela di spilli che fremono sotto pelle. Clima glaciale anche sugli spalti del Penzo: la gente accorsa sfrigola mentre i padroni di casa stanno per scendere in campo contro il Bari. Non è certo il match più indimenticabile della Serie A 1999, ma sarà senz’altro il più controverso. E il freddo dentro, al triplice fischio, lo avvertirà tutto tra le scapole un carneade brasiliano che di nome fa ufficialmente Moacir Bastos, ma si gira se lo chiami Tuta.

Mettiamo ordine in campo. Sugli spalti abbaia Zamparini e nel tunnel sfila Beppe Marotta. In campo la gara scorre via placida: la sblocca per i lagunari un vecchio arnese dell’area di rigore, Pippo Maniero. La rimette in pari per i pugliesi De Ascentis. Il linguaggio del corpo racconta quasi inequivocabilmente che le due contendenti, a secondo tempo inoltrato, intendono deporre le sciabole. I ritmi si fanno più blandi. I contrasti meno decisi. La gara decelera progressivamente.

Un po' come se il pareggio facesse gola ad entrambe. Impossibile stabilirlo con certezza, dal momento che l’inchiesta federale che ne sgorgherà durerà quanto un corto di Chaplin. L’incrinatura nasce quando mister Walter Novellino chiama dalla panchina Tuta. Gli dice di scaldarsi, svestirsi ed entrare al posto della stella Alvaro Recoba. Quello, che non spiccica fluentemente l’italiano, esegue. Appena entra in campo Maniero gli sussurra qualcosa all’orecchio. Lui fa segno di aver compreso.

Invece pare non aver capito per nulla. Squadre che proseguono al rallenty, ma al novantesimo irrompe proprio lui e la sbatte dentro. Due a uno Venezia, Tuta che esulta da solo, giocatori trasecolati. C’è chi tiene le mani tra i capelli. Chi fissa il vuoto. Nessuno lo celebra, e sarebbe già stranissimo così. Gli avversari lo applaudono. A fine gara De Rosa e Spinesi lo avvicinano furiosi: il primo allunga le mani nel tunnel. Maglie che si allungano, occhi fuori dalle orbite, bocche schiumose.

Nel post gara le ammissioni dello sconcertato brasiliano costringono la procura federale ad aprire un fascicolo: “Maniero mi ha detto di non segnare, che andava bene l’1-1”, confessa. Versione drasticamente smentita dal centravanti: “Non capisce l’italiano, gli ho detto che non dovevamo subire gol, che l’1-1 era buono per noi”. Vicenda singolare, considerato che comunque mancavano ancora quattro mesi alla conclusione del film. Tuta poi ritratta, ma nutre un insopprimibile convincimento interno.

Impossibile appurarlo con certezza, perché i giudici archiviano tutto, pur ammettendo che la storia lascia “margini di forte perplessità”. Nessun biscotto dunque: la versione ufficiale è che Tuta si è perso nella traduzione.

Un pomeriggio controverso che determina l’epilogo della carriera italiana della punta. Farà rientro in Brasile, dove capirà tutto benissimo e segnerà oltre 150 gol vestendo maglie pesanti, dal Palmeiras al Gremio. Tornando sulla vicenda, anni dopo, confermerà la sua versione: “Quella partita era combinata. Ho giocato in tutte le categorie e quella è l’unica volta in cui mi è successa una cosa del genere. Una vergogna e una mancanza di rispetto verso i tifosi”.

Gabriele Gambini per “la Verità” il 23 agosto 2022.

Si è conquistato sul campo l'appellativo di «Maestro», prerogativa di chi inventa calcio, lasciando un solco nell'immaginario collettivo per le generazioni a venire. Eugenio Fascetti, viareggino, 83 anni portati con luminosa lucidità, ha bisogno di poche presentazioni: sua è la classe di ferro dei mister abituati a lottare, suoi il carisma e la capacità di lettura delle partite che dividono gli allenatori dai mestieranti. 

La vita da giocatore, ruolo centrocampista. La consacrazione da allenatore, con gli anni splendidi a Varese, poi Lazio, Torino, Verona, Bari. Tante promozioni, tante salvezze conquistate con le unghie. 

«Ma attenzione», dice lui, rielaborando un pochino Giovambattista Vico: «Nel calcio valgono i corsi e i ricorsi della storia, nessuno inventa niente, tutto si rielabora, era dopo era, attingendo da ciò che è accaduto in passato».

Lei è rimasto nell'immaginario grazie al suo «caos organizzato». Quel suo Varese, negli anni Ottanta, era uno spettacolo da guardare.

«Caos, o anche casino organizzato, nacque da un principio su cui ho fondato la mia idea di calcio: l'imprevedibilità. Nel pallone non esistono dogmi, sistemi monolitici. Le squadre devono sapersi adattare all'avversario e sorprenderlo laddove non se lo aspetta. Senza offrire punti di riferimento». 

In quel Varese i ruoli dei giocatori cambiavano, ogni partita non recitava lo stesso copione.

«Un tempo le sostituzioni possibili erano solo due, non cinque. Le rose composte da 18 giocatori. Ma i ritmi già estenuanti, gli spazi stretti. Bisognava pensare velocemente, abbinare alla tecnica individuale la velocità e la coesione di gruppo. Da quei presupposti, provammo a non essere mai uguali a noi stessi. Camaleontici».

Un atteggiamento diverso rispetto a oggi?

«Oggi mi stupisco quando vedo i passaggi dal portiere al terzino e viceversa, i troppi palleggi, le idee fisse. Per me il rapporto spazio-tempo è fondamentale, conta giocare in verticale, non sono mai impazzito per per tiki-taka e affini». 

Ogni era ha le sue grandi invenzioni.

«In ogni era emerge un'idea nuova, che spesso tanto nuova non è. Pensiamo al falso nueve: già nel 1952, la grande Ungheria impiegava Hidegkuti in un ruolo simile, trasformandolo in un centravanti di manovra a cui molti, in seguito, si sono ispirati». 

Non si inventa nulla, dunque?

«Valgono i corsi e ricorsi della storia. Già l'Uruguay del 1950 giocava a cinque. Un bravo allenatore deve saper osservare, capire, rielaborare alla bisogna a seconda dei mezzi che ha a disposizione. Per me questa è l'essenza del mestiere».

Mai restato sorpreso da qualche formula?

«L'Olanda del calcio totale. Quella forse fu la novità vera più dirompente mai introdotta». 

Si dice che lei allenasse i suoi calciatori con grandi corse in salita.

«Durante un super corso per allenatori, ci mandarono all'estero a osservare i sistemi di gioco nelle altre nazioni. Finii in Scozia. Imparai dal tecnico del Celtic a migliorare le prestazioni atletiche dei giocatori allenandoli con corse in salita, scatti al massimo dello sforzo, abituandoli a produrre molto acido lattico, smaltendolo in fretta. Con il Dottor Arcelli, grande preparatore, perfezionammo questo tipo di allenamento». 

Portò le sue idee su molte panchine.

«Ho grandi ricordi del mio periodo alla Lazio, quando ci siamo salvati partendo da -9 e poi siamo andati in A. Ma molte altre esperienze sono state altrettanto belle».

Nessun rimpianto?

«Da giocatore e anche da allenatore, forse non ho avuto il cambio di passo per compiere uno scatto ulteriore. Ma ho fatto la gavetta, mi sono costruito il mio percorso. Non ho rimpianti». 

Allenò il Bari per diverse stagioni. Scoprì e lanciò un giovanissimo Cassano.

«Un giorno l'allenatore in seconda mi fa: "Tra i ragazzi della primavera c'è un fenomeno". Lo provammo in prima squadra. Appena lo vidi giocare pensai subito che avevamo di fronte un prodigio».

Che tipo era Cassano?

«Aveva circa 16 anni. Fisicamente fortissimo, in campo non lo buttavano giù neanche le cannonate. Tecnicamente maestoso. E poi sveglio, intelligente. Sapeva pensare giocate prima di tutti gli altri, con una velocità d'esecuzione inspiegabile per un ragazzo così giovane». 

Avrebbe dovuto fare di più, in carriera?

«Cassano è dello stesso livello dei Baggio, dei Totti, dei palloni d'oro. Di sicuro avrebbe potuto raccogliere ancora più soddisfazioni». 

Lo ha limitato il carattere?

«Ribadisco: è sempre stato un ragazzo molto intelligente. Di certo ha avuto un'infanzia problematica, e il desiderio di rivalsa ha inciso. Sul resto, non saprei». 

Altri giocatori allenati che l'hanno colpita?

«Tantissimi. Gianluca Zambrotta al Bari: veloce, potente, umanamente splendido. E al Verona Dragan Stojkovic: pure con una gamba sola, impartiva lezioni di calcio. Un professionista esemplare». 

Colleghi che le hanno dato filo da torcere?

«Carlo Mazzone, da sempre un avversario durissimo da battere. Avrebbe meritato maggiori fortune. Emiliano Mondonico. Era in grado di cambiare le sorti di una partita senza che tu nemmeno te ne accorgessi». 

Per chi tifa quest' anno?

«Nasco interista, poi divento laziale per simpatia. Vedo l'Inter molto bene, sa giocare ed è ben allestita nei vari reparti. Il Milan però ha creato un gruppo interessante e coeso. Può ripetersi ai massimi livelli. Vedo meno bene la Juventus».

Perché?

«Con Conte, il punto di forza della Juve era il centrocampo.

Quest' anno mi sembrano fragili in quel reparto». 

E la Nazionale?

«La prima giornata di campionato, Milan-Udinese, ha sintetizzato i problemi degli azzurri: in campo giocava un solo italiano, Calabria». 

Troppi stranieri in Serie A.

«È un dato di fatto. I vivai non producono giovani di valore come accadeva un tempo.

Veneto e Friuli, per esempio, decenni fa erano delle fucine di talenti. Oggi non più. Nelle primavere, per interesse, per costi o per altri motivi, metà dei calciatori vengono dall'estero. Il risultato è che abbiamo un buon centrocampo, ma in difesa e in attacco suonano campanelli d'allarme».

In difesa ci si aspetta il ricambio generazionale.

«Fino a oggi abbiamo retto con Chiellini e Bonucci. Dopo chissà. C'è Bastoni, bravo, ma un po' lento. In attacco è un mistero Ciro Immobile: con la Lazio segna 25 gol a stagione, con la Nazionale fatica a esprimersi». 

Un nuovo Fascetti all'orizzonte esiste?

«Non lo so. Ma mi piace molto il calcio espresso da Vincenzo Italiano, tecnico della Fiorentina».

Il 1996 di Igor Protti, il capocannoniere retrocesso. Paolo Lazzari il 16 Luglio 2022 su Il Giornale.

A fine stagione la sua convocazione per gli Europei sembra in cassaforte, ma Sacchi lo snobba. Stessa storia per le Olimpiadi.

Quando arriva al campo d’allenamento scuote la criniera di riccioli nodosi. L’aria è mesta. L’umore rigato da pensieri tetri. Com’è possibile, si chiede Igor Protti, che alla quarta stagione consecutiva con la maglia del Bari il mister ti metta in discussione? Uno pensa di essere un punto fermo e poi, d’un tratto, si ritrova a colloquio con Beppe Materazzi che ti infilza così: “Senti, per quest’anno penso che la coppia d’attacco sarà Andersson – Guerrero”.

Che poi Kennet, lo svedesone, ci può anche stare là davanti. Anzi, quella stanga si completa a meraviglia con Igor, folletto scattoso che di qualità ne possiede a mucchi, tranne l’altezza. Certo, lui preferirebbe Sandro Tovalieri, amico fraterno con il quale ha ingaggiato un milione di battaglie. Solo che le frizioni con Materazzi – ancora lui – l’hanno spinto all’Atalanta.

Igor però non si fa deprimere. Abbassa la testa e va da subito al doppio. In allenamento spacca le porte. Addomestica l’insolente dissenso di chi lo reputa una seconda scelta. Adesso tocca al mister rassegnarsi. Deve giocare, categoricamente. E lui non se lo fa dire due volte. Alla terza giornata crivella la Lazio con una tripletta memorabile. Da quel punto in poi si issa in cima alla classifica cannonieri, per non scenderne più.

Il suo manifesto calcistico è draconiano. Protti scende in campo, cannibalizza le retroguardie altrui e porta via. Inamida di incertezze i pensieri dei difensori, perché riuscire a decodificarne i movimenti è una missione impervia. Può calciare con entrambi i piedi, da qualunque distanza. L’area è il suo antro: nello stretto è una sentenza. Segna pure di testa, a dispetto della statura.

Alla fine i centri saranno 24. Un bottino che lo decreterà capocannoniere del campionato, al fianco di Beppe Signori (che però calcia 12 rigori, contro i 5 del barese). Alle loro spalle, il naso rivolto all’insù, ci sono Enrico Chiesa (22 gol), Batistuta e Branca (entrambi fermi a 19): non certo delle educande. L’epilogo lascia tuttavia sentori amari in fondo al palato. Complice una sconclusionata fase difensiva, il Bari retrocede malgrado la devastante verve realizzativa di Igor. Galletti penosamente in purgatorio con il capocannoniere della Serie A in squadra. Roba da teatro dell’assurdo.

Protti però potrebbe deglutire la delusione con la convocazione in Nazionale. Si gioca Euro ’96 e non portarlo sembra impensabile. Arrigo Sacchi però la vede diversamente e non lo chiama mai, nemmeno per un allenamento a Coverciano. Igor è interdetto. Ci sarebbe sempre il treno delle Olimpiadi: Cesare Maldini gli fa sapere che potrebbe chiamarlo come fuori quota, ma se la gioca con Branca. Alla fine la scelta ricade su quest’ultimo.

Sovrano dei gol, retrocesso, non convocato da due Nazionali. Sì, il 1996 di Igor Protti è stato surreale.

LA SAMPDORIA.

Dejan Stankovic allenatore della Sampdoria: i tarocchi, Arisa e Victoria Cabello, il segreto su Mourinho. La sua carriera. Gregorio Spigno su Il Corriere della Sera il 6 Ottobre 2022. 

Il serbo ex Stella Rossa prende il posto di Giampaolo. Gli inizi da calciatore, le vittorie con Lazio e Inter, il rapporto speciale con Ibrahimovic. Le cose che non sapete di lui

Stankovic alla Sampdoria

Ci è voluto un po’, a causa delle trattative e dei ritardi nella consegna del permesso di soggiorno, ma alla fine l’annuncio è arrivato: Dejan Stankovic è il nuovo allenatore della Sampdoria. È ufficiale. Il tecnico ex Stella Rossa guiderà oggi, 6 ottobre, il suo primo allenamento a Bogliasco, sostituendo così l’esonerato Marco Giampaolo. Un profilo cercato e apprezzato da tutti, quello dell’ex centrocampista dell’Inter, considerato in grado di invertire una rotta che, fino all’ottava giornata, ha condotto la Samp all’ultimo posto in classifica.

Come sarà la sua Samp

Giocherà con il 4-2-3-1 come modulo di riferimento, «Deki», sistema che ha utilizzato nelle 3 stagioni vissute alla guida della Stella Rossa. Audero in porta è intoccabile, mentre in difesa gli uomini sono contati o quasi (Augello e Bereszynski terzini, Colley e Murillo al centro). La mediana verrà irrobustita con la coppia Rincon-Villar. Gabbiadini tornerà titolare da esterno alto, al pari

Il 3° tecnico serbo della Sampdoria

Quando l’allenatore della Samp è di nazionalità serba, difficilmente stecca. Chissà che la dirigenza blucerchiata, nella scelta del nuovo tecnico, non abbia pensato pure a questo fattore. Prima di Stankovic, il club blucerchiato era stato allenato da altri due serbi nella sua storia: il primo è Vujadin Boskov, storico tecnico dello scudetto 1991, il secondo è Sinisa Mihajlovic, con cui la Samp aveva centrato la qualificazione ai preliminari di Europa League.

La strana coppia: Stankovic-Stramaccioni

Bisogna tornare alla stagione 2014-15, la prima di «Deki» da ex calciatore, in cui, però, il serbo trova subito impiego: a volerlo come braccio destro (e vice) è Stramaccioni, accasatosi all’Udinese. Un’esperienza non particolarmente brillante per nessuno, ma sicuramente formativa: la squadra bianconera chiuderà il campionato al 16° posto, l’anno successivo saluteranno sia Strama che Stankovic.

I successi con la Stella Rossa

Dopo l’esperienza in Friuli, Stankovic decide di tornare nella sua casa acquisita, l’Inter, con il ruolo di club manager. Un incarico che durerà un solo anno, perché nel 2017 accetterà la nomina di Ceferin come consulente dell’Uefa. Poi un altro ritorno all’Inter, in Primavera, più vicino al campo. Dura solo un mese, però, perché chiama la Stella Rossa che lo vuole come allenatore della prima squadra, e dire di no non si può. In Serbia vince 3 campionati e due coppe nazionali, ma nell’agosto scorso si dimette a causa della terza eliminazione ai preliminari di Champions (la prima contro l’Omonia, la seconda con lo Sheriff, la terza con il Maccabi Haifa).

Le previsioni dei tarocchi

Dejan Stankovic ha appena smesso di giocare quando va ospite del programma «Victor Victoria», su La7, ormai nove anni fa. Una signora gli legge le carte, c’è pure la cantante Arisa che osserva con attenzione e ovviamente Victoria Cabello, la conduttrice, alle spalle del serbo. Un quadro strano. Compare il Principe di Denari: uomo tenace e meditativo, caratteristiche tipiche di un allenatore. Il tarocco azzecca la previsione: «allenerai». Allenerà. Ora pure in serie A.

All’Inter grazie a Pandev

La storia di Stankovic all’Inter è nota: vinse tutto, scudetti, coppe, Triplete compreso (compagno di squadra di Thiago Motta che affronterà sabato, nel suo esordio, al Dall’Ara di Bologna). Ma dietro il suo arrivo a Milano si nasconde un a storia particolare, che vede protagonista anche un altro grande ex interista (protagonista anche lui del Triplete): Goran Pandev. Gennaio 2004, Lazio e Inter trattano uno scambio: il serbo finisce al club nerazzurro, che paga a Cragnotti 4 milioni più la comproprietà di Pandev. Tutt’oggi risulta uno degli affari più clamorosi avvenuti nel mercato di riparazione. In quel caso, ci guadagnarono tutti.

Tre Mondiali, tre nazionali diverse

Da calciatore, Stankovic è stato un perno della sua nazionale. O, meglio, delle sue nazionali. Plurale. Perché Dejan giocò in tre squadre diverse, in tre diverse edizioni dei Mondiali: Jugoslavia nel 1998, Serbia&Montenegro nel 2006, Serbia nel 2010. I conflitti geopolitici di qualche anno fa si riflessero inevitabilmente anche sul mondo del pallone, tanto che Stankovic (e altri come lui) rappresentò la sua nazione in forme differenti.

Il figlio portiere

Uno dei tre figli di Dejan, Filip, è un calciatore professionista. Nato nel 2002 a Roma, quando il padre giocava nella Lazio, Filip ha 20 anni e gioca come portiere nel Volendam, in Olanda, ma è di proprietà dell’Inter. «Il mio sogno è diventare il portiere titolare dell’Inter, con cui ho un contratto fino al 2024, e vincere il 10% dei trofei che ha vinto mio padre in carriera — ha raccontato di recente —. Dopo ogni partita parlo con lui, la mia famiglia mi sostiene sempre. Ho avuto modo di vivere da vicino gran parte della sua carriera. Io c’ero a Madrid quando ha vinto la Champions League con l’Inter ed era in campo a festeggiare. Sono un figlio orgoglioso e penso che anche lui come padre lo sia. In ogni caso, cerco di renderlo orgoglioso ogni giorno mostrando il meglio di me stesso».

L’amico Ibrahimovic

Stankovic è grande amico di Ibrahimovic. Ne ha parlato così di recente: «Non sono obiettivo quando parlo di Zlatan, l’amicizia va oltre la maglia. Non è un uomo, è un leone che combatte contro tutto e tutti. Ci insegna che niente è impossibile. Non so cosa farà, ma se testa e fisico staranno bene continuerà a fare la differenza. Per lui vale quel proverbio slavo: bisogna giocare finché “il pallone non si sgonfia”».

Il segreto su Mourinho

Dejan in carriera ha costruito un rapporto speciale con diversi allenatori. Tra loro Mancini e Mourinho, con cui ha vinto il Triplete: «Quando è arrivato in Italia credevo di aver già raggiunto il top di quello che potevo dare. Grazie a lui, invece, sono riuscito a dare ancora il venti-trenta per cento in più. Sa sempre che cosa chiedere ai propri giocatori e quali tasti toccare per farti avere la reazione di cui ha bisogno, dandoti anche complicità quando occorre».

Quando la Samp sfiorò la coppa dei Campioni. Il Doria di Boškov accarezzò un sogno impossibile, infranto soltanto nei tempi supplementari. Paolo Lazzari il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

Batte i polpastrelli sulla macchina da scrivere, ancora una volta, ma sa che quello è l’ultimo comunicato. In fondo lui coltiva un sogno lucido, per quanto apparentemente folle: da addetto stampa della Sampdoria a proprietario. Dalle pagelle scrupolosamente consegnate ai colleghi giornalisti, per informarli di come giudica il loro lavoro, al timone di un club che trasuda anima da ogni fessura. Il passo non è lungo, di più. Eppure le fortune incamerate con il suo gingillo parallelo - una cosetta chiamata mercato del greggio - adesso fanno la differenza. Così Paolo Mantovani - anni 49 e molta voglia di selezionarsi da solo il destino - colma una distanza sesquipedale e, nel 1979, afferra le briglie della società.

Tredici anni più tardi il volto di un club che sguazzava nelle retrovie del calcio italiano è levigato da corroboranti lifting. Meticoloso e ponderato, ogni anno il presidente acquista un potenziale campione ed evita di vendere i migliori. La crescita del Doria diventa irresistibile. In bacheca vengono premute coppe italia, supercoppe, una coppa delle coppe e, incredibile a dirsi, lo scudetto.

Adesso che è una sera di maggio del 1992, nella pancia del vecchio Wembley, Paolo contempla la sua creatura. Ancora non può sapere che gli resta soltanto un anno: un cancro ai polmoni lo assedierà senza sosta, avversario ingiocabile anche per uno come lui. Ora scruta Boškov e i suoi ragazzi mentre si aggirano sull’erba immacolata. Sa di aver condotto la Samp al suo apogeo. Manca soltanto un passo.

Ultima edizione della coppa dei Campioni. Tra un anno la giungla onnivora degli sponsor e dei primi diritti tv traccerà traiettorie che collidono con il romanticismo. La Champions League manderà in pensione il vecchio format per strizzare l’occhio alle urgenze del mercato. Ma intanto si gioca. I blucerchiati sono arrivati in finale senza eccessive paturnie. Hanno spazzato via il Rosenborg (7-1) e, pur tossicchiando, hanno spedito fuori carreggiata la sempre temibile Honved di Budapest.

I quarti di finale sono un boccone inedito: l’Uefa stabilisce che si debbano giocare con due gironi all’italiana. La Samp piazza i gomiti davanti a Stella Rossa, Anderlecht e Panathinaikos. Dall’altra parte fa altrettanto un’avversaria che si appresta a tiranneggiare il calcio continentale: il Barcellona di Crujiff. Brutta storia, specie perché i blaugrana hanno già sconfitto i genovesi nel 1989, in finale di coppa delle coppe. Ora hanno cambiato molti giocatori, ma sono - se possibile - ancor più temibili.

In porta giganteggia Andoni Zubizarreta. Davanti Ronald Koeman - centrocampista reinventato centrale - imposta e non disdegna, prolifico come pochi, incursioni verso le retroguardie altrui. In mezzo giostra un giovane Pep Guardiola, mentre il falso nueve Miki Laudrup, affiancato da Stoichkov e Salinas, minaccia di procurare un’indigestione di analgesici a Vierchowod e compagni. Chiaro che Boškov passeggi nervosamente nella hall dell’albergo del centro londinese dove alloggia la squadra. Ora rimbrotta Vialli, sfilandogli una sigaretta dalla bocca. Adesso incita Mancini, Lombardo, Pagliuca e tutti gli altri. Fuori ruggisce il boato di mezza Genova, giunta per accarezzare un sogno. Nel cielo, ma anche nella testa di Vujadin, si addensano però nubi grigiastre.

I presagi del tecnico trovano conferma in campo. La difesa blaugrana gioca ad altezza centrocampo, iniziando a tessere frotte di passaggi microscopici e sfinenti. La Samp agisce solo di rimessa, chiudendo ogni pertugio e, di fatto, rinunciando a giocare a viso aperto per non essere stritolata. Il copione si trascina - non privo di mezza manciata di sussulti - fino ai supplementari. Il catenaccio italico ha smussato la protervia catalana, rendendo la finalissima materiale contendibile. Quelli sono più forti, ma ai rigori le distanze si azzerano.

Il Doria non ci arriverà mai. Un fallo maledetto e contestato infrange i sogni di una città che si era sorpresa provinciale di lusso. Koeman - che anni dopo ammetterà come quel fischio fosse discutibile - si porta sul punto di battuta. Mancini inveisce. Invernizzi ciondola disperato con le mani tra i capelli. Vialli, in panchina, si copre gli occhi con un asciugamano.

Il resto è una sassata scagliata a 120 km orari. Pagliuca si protende, ma non basta. Il cuore di mezza Genova batte a vuoto per un istante. L’ex addetto stampa scribacchia un’ultima pagella. La tristezza avviluppa le viscere, ma è transitoria. Il voto alla sua Samp si avvicina paurosamente al dieci.

Gianluca Vialli compie 58 anni: lo scudetto alla Sampdoria, la Juventus, il flirt con Alba Parietti, la malattia, l’Europeo. La sua storia. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 9 Luglio 2022.

L’ex attaccante, oggi capo delegazione della Nazionale, vive a Londra con la moglie e due figlie. Ecco la sua storia dal castello con 60 stanze a Cremona al rapporto difficile con Sacchi e l’affetto di Mantovani

I 58 anni di Vialli

Sincero, coraggioso, amico, attaccante formidabile: Gianluca Vialli da Cremona compie oggi 9 luglio 58 anni. Un campione unico, in grado di fare la differenza anche fuori dal campo. L’amicizia fraterna con Mancini, i gol da ragazzo alla Cremonese, il presunto flirt con Alba Parietti, lo storico scudetto vinto con la Sampdoria, la Coppa dei campioni da capitano con la Juventus. Che carriera, che forza nel raccontarsi anche nei momenti più difficili, come la battaglia con il tumore. E poi l’ultimo trionfo, con la Nazionale ad Euro 2020. Che storia, la storia di Luca Vialli.

Il castello da 60 stanze

Partiamo dall’inizio, da Cremona dove Gianluca nasce il 9 luglio 1964, il più piccolo di cinque figli: Mila, Nino, Marco, Maffo. Cresciuto all’oratorio, «Sono della generazione di Carosello. E come tutti ho imparato dai preti a giocare a pallone; a patto di frequentare anche il catechismo». Anche perché a casa non c’è una gran passione per il calcio, ad eccezione del padre che tifa per la Juventus. Famiglia borghese, i Vialli abitavano in un castello del XV secolo a Grumello Cremonese, con oltre 60 stanze.

Gli inizi alla Cremonese

Vialli a 9 entra nelle giovanili del Pizzighettone, dove resta fino al 1978 quando va alla Cremonese. Con i grigio rossi esordisce in prima squadra a 16 anni: per questo motivo lascia gli studi. Si diplomerà come geometra solo nel 1993. In totale con la Cremonese tra campionato e Coppa Italia disputa 113 partite e realizza 12 gol. È determinante per il ritorno della squadra in serie A dopo 54 anni. Poi arriva la chiamata della Sampdoria.

Lo scudetto con la Sampdoria

Vialli è uno dei simboli della Sampdoria dello scudetto. Determinante con 19 gol in 26 partite. Lui e Mancini, al punto che il presidente Mantovani chiama i suoi due cani Gianluca e Roberto. «Crescemmo passo a passo. La coppa Italia. La finale di Coppa delle Coppe, persa. La finale di Coppa delle Coppe, vinta. E poi il 1991, l’anno dell’impresa», ha ricordato in un’intervista al Corriere.

La Coppa dei Campioni con la Juventus

Giocare nella Juventus per Vialli è stato «un onore, e un onere. Senti il peso della maglia, il dovere di riconsegnarla piegandola per bene e riponendola un po’ più in alto di dove l’avevi presa. E poi Torino, che aveva fama di città fredda e grigia, in realtà è meravigliosa». In bianconero arriva anche l’agognata Coppa dei Campioni, il 22 maggio 1996. All’Olimpico di Roma la Juve batte l’Ajax ai rigori e Gianluca alza la coppa con la fascia di capitano al braccio. Termina la carriera al Chelsea.

Testimone al processo per doping

Vialli è stato testimone al processo per doping. La Juventus fu assolta, ma venne fuori un largo uso di farmaci: «Avrei potuto vivere più serenamente quella vicenda, come altri colleghi. Non ce l’ho fatta. Fu un’ingiustizia». E ancora: «Non voglio riaprire vecchie polemiche. È possibile discutere se sia meglio per una distorsione dare il Voltaren, o andare 15 giorni in montagna a riposare. Non è possibile mettere in dubbio i risultati di una carriera. All’inizio ci ho sofferto. Poi ho capito che se ti preoccupi di quello che pensano gli altri appartieni a loro».

Nazionale, amore e odio

Da calciatore, il rapporto con la Nazionale è stato di amore e odio. Protagonista nell’Europeo dell’88, meno brillante nel Mondiale del 90 (in cui doveva essere la stella della squadra di Vicini), escluso da quello americano del 94 per incomprensioni con Sacchi: «Fu uno scontro di personalità. Ero abituato a dire quel che pensavo: con lui l’equilibrio tra tensione e serenità non c’era. Mi escluse, convinto che i miei dubbi avrebbero creato energie negative nel gruppo; e aveva ragione. Sbagliai io a rifiutare, quando per due volte mi richiamò, prima e dopo il Mondiale del ’94. Feci il permaloso. La maglia azzurra non si rifiuta mai». In totale con l’Italia Vialli gioca 59 partite dal 1985 al 1992, tre con la fascia di capitano, con 16 gol ma nessuno nella fase finale dei due Mondiali che ha disputato e uno solo agli Europei 1988.

La famiglia

Vialli ha sposato nel 2003 Cathryn Cooper, ex modella di origine sudafricana, oggi arredatrice in Gran Bretagna. Hanno due figlie Olivia e Sofia e vivono (da diversi anni) a Londra.

Il flirt con Alba Parietti

Leggenda narra di un flirt giovanile tra Vialli e la showgirl e conduttrice tv Alba Parietti. Si diceva che Gianluca scappasse dal ritiro della Nazionale al Mondiale 90 per incontrarla: «È una cosa che parte della mitologia, ma non lo dirò mai. Ci sono giorni in cui dico di si e altri in cui dico il contrario…», ha raccontato la diretta interessata qualche anno fa a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1.

La malattia

Dal 2017 Vialli combatte con un tumore al pancreas. Gianluca ha scelto di raccontare la sua storia in un libro: «Mi auguro possa servire a ispirare le persone che si trovano all’incrocio determinante della vita». Un anno fa, prima dell’Europeo, parlando del cancro lo ha definito «un compagno di viaggio indesiderato. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci vivere serenamente ancora per tanti anni perché ci sono ancora molte cose che voglio fare». Pochi mesi fa si è raccontato così alla trasmissione di Alessandro Cattelan «Una semplice domanda», in onda su Netflix: «Sono convinto che i nostri figli seguano il nostro esempio più che le nostre parole. Ho meno tempo di essere da esempio, adesso che so che non morirò di vecchiaia. Ogni mio comportamento mi porta a ragionare così. In questo senso cerco di essere un esempio positivo: cerco di insegnare loro che la felicità dipende dalla prospettiva con cui guardi la vita, che non ti devi dare delle arie, ascoltare di più e parlare di meno. Ridere spesso, aiutare gli altri. Questo è il segreto della felicità».

Il trionfo ad Euro 2020

Dal novembre 2019 Vialli è capo delegazione della Nazionale. Ha vissuto da protagonista la vittoria ad Euro 2020. Il suo abbraccio tra le lacrime con l’amico di sempre Mancini dopo la finale con l’Inghilterra resta una delle immagini più belle del trionfo azzurro.

Gianluca Pagliuca che fine ha fatto: gemello di Tomba, le donne, una vecchia simpatia per Putin, il figlio attaccante. Cosa fa oggi. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2022.

L’ex portiere campione d’Italia con la Sampdoria, i rimpianti per il rigore Iuliano.-Ronaldo e la mamma Maria Rosa.

Che fine ha fatto Gianluca Pagliuca?

Lo chiamavano il gemello di Alberto Tomba, con cui condivide data di nascita e una certa somiglianza fisica. A sci e scarponi Gianluca Pagliuca ha preferito i guantoni e il pallone. Con Sampdoria, Inter, Nazionale, trionfi e beffe. Era in campo sotto il sole di Pasadena, quando Baggio calciò alto rigore e sogni azzurri. C’era a Wembley, quando la Samp dei miracoli, quella di Vialli e Mancini campione d’Italia, fu piegata dalla punizione di Koeman. L’incidente con la Porsche, il figlio calciatore, amori e donne, Ronaldo e Lippi: Gianluca Raimondo (il suo secondo nome) da Bologna, 55 anni e una vita in cui non si è mai risparmiato. Come quando in porta volava da un palo all’altro. Oggi sporadicamente commenta il calcio in tv, e lavora con il Bologna. 

17 luglio 1994, Pasadena: Pagliuca bacia il palo dopo che lo ha «salvato» sul tiro di Mauro Silva. Ma la finale dei Mondiali la vincerà il Brasile ai rigori

Il gemello Alberto Tomba

Ma andiamo con ordine. Partiamo dal 18 dicembre 1966, reparto di maternità dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Lì nasce Pagliuca, e a poche ore di distanza nella stanza accanto arriva Alberto Tomba. «I gemelli», verranno chiamati in seguito.

Mamma Maria Rosa

Alberto inizia a sciare, Gianluca non ha voglia di studiare e inizia a giocare a calcio. Prima l’attaccante, qualche volta il portiere. Intorno ai 12-13 anni i suoi allenatori dell’epoca capiscono che tra i pali il ragazzo ha del talento. Non torna più indietro. Sempre accompagnato da mamma Maria Rosa, scomparsa nel 2017: «È stata fondamentale per me, fin da ragazzo. I miei si separarono che ero piccolo, e ho passato molto più tempo con lei —ha raccontato in una recente intervista a Il Resto del Carlino —. Mia madre è sempre stata al mio fianco. Avevo un procuratore, lei è stata la mia commercialista, è grazie ai suoi consigli che posso dire di aver saputo investire i miei guadagni».

Lo scudetto alla Sampdoria

Dopo gli inizi al Bologna arriva la Sampdoria, scelto personalmente dal presidente Mantovani. In blucerchiato, in una squadra composta da campioni come Mancini, Vialli, Pagliuca vince praticamente tutto, compreso il mitico scudetto del 91. Su cui Gianluca imprime i guantoni parando nello scontro diretto con l’Inter, a San Siro, un rigore al Pallone d’Oro Lothar Matthaus. «Fra i rigori parati è quello che ricordo con più affetto—ha ricordato in un’intervista a Sky —. Era uno scontro diretto, e quella vittoria ci lanciò verso lo Scudetto, che per me è stata la gioia più grande. Quando vincemmo per 3 notti non ho chiuso occhio. Mi sembrava di camminare sulla luna». Con i ragazzi di quella Samp è ancora in contatto: hanno una chat WhatsApp.

L’incidente

Nell’ultimo anno alla Samp, estate 1993, sull’autostrada Genova-Livorno fa un brutto incidente. Pagliuca guida la sua Porsche quando una brusca manovra di un tir lo manda a urtare un autotreno, poi il guardrail. L’auto è distrutta, Gianluca si salva grazie agli air bag. Se la cava con la frattura scomposta della clavicola sinistra, uno pneumotorace e diverse escoriazioni al volto e alle mani.

Il Mondiale americano

Pagliuca è titolare nell’Italia che arriva in finale al Mondiale americano del 94, perdendo ai rigori contro il Brasile. Gianluca bacia il palo che lo salva dopo un errore su un tiro di Mauro Silva, poi para il penalty di Marcio Santos. Ma non basta: «Se ci penso ancora oggi mi viene il magone —ho ammesso—. Io feci il mio, ma purtroppo noi ne sbagliammo tre. Ho parato quello di Marcio Santos, quelli che hanno segnato mi hanno spiazzato tutti e tre. L’unico rimpianto è sul rigore di Romario. La palla ha baciato il palo ed è entrata. Due centimetri più in là e avremmo vinto il Mondiale…».

Donne

Non ha mai negato di essersi divertito molto da ragazzo. Giovane, di successo, sempre impeccabile agli allenamenti. Ma la sera è spesso in giro per locali: «Perché, il sesso fa male? Nell’anno dello scudetto (alla Sampdoria, ndr) c’era questo rito: viaggio in auto da Genova a Bologna la domenica sera dopo la partita, il lunedì sera tavolo al Matis e il martedì pomeriggio in campo a Bogliasco. Oh, in campo le vincevamo tutte», ha ricordato di recente.

L’Inter e lo scudetto perso contro la Juve

Dell’esperienza all’Inter, dove arriva dopo gli anni a Genova, gli resta soprattutto lo scudetto perso nel 98: «La Juventus in carriera mi ha tolto un pezzo di vita e almeno un trofeo. Non ho mai ingoiato il rospo del rigore negato da Ceccarini per il fallo di Iuliano su Ronaldo in quello Juventus-Inter del ’98».

Oggi gioca a tennis

Ha giocato fino a 40 anni, tornando nella sua Bologna, poi si è ritirato. Si tiene ancora in forma, soprattutto con il tennis: «Faccio tornei amatoriali, sono un “quarta categoria”, mi diverto». Non è stato invece contagiato dal padel, come tanti suoi colleghi: «Non mi piace, secondo me fra un paio d’anni sbollirà. Gioco anche a basket con gli amici una volta alla settimana, tutti over naturalmente». Il calcio lo ha abbandonato: «Basta, non ce la faccio più. Gli amici continuano a chiamarmi, ma ormai sanno anche la risposta».

Tifoso Virtus

È un grande tifoso della Virtus Bologna. Ha un tatuaggio con la «V», nera simbolo della squadra di basket di Bologna, che segue spesso anche dal vivo.

Il figlio calciatore, Mattia Pagliuca (non tra i pali)

Il figlio Mattia, avuto dalla relazione con Aurora, gioca nella Primavera del Bologna. Non fa il portiere: «È attaccante, mezza punta e destro. Non è sinistro come ero io —ha spiegato in un’intervista al Corriere di Bologna —. Cerco di lasciarlo tranquillo e quando serve gli tiro su il morale. Parliamo sì, ma il giusto, non mi chiede tante cose. Ecco, io sono contento soprattutto se non sbaglia l’approccio, dopodiché può giocare bene come male, ci sta».

Putin e la Brexit

Ha una coscienza politica precisa. In un’intervista del 2016 a Il Resto del Carlino non nascose le sue simpatie per Vladimir Putin: «Ho sempre avuto il mito dell’America, adesso ammiro molto Putin. Perché è uno che ha carattere, sa quello che vuole e non ha paura a lottare per il proprio paese. Ultimamente le diverse elezioni mi stanno andando bene: se avessi potuto, avrei votato per Trump, e l’hanno eletto. Avrei votato per la Brexit, e l’hanno fatta, in Inghilterra».

Cosa fa oggi

Pagliuca come detto non gioca più a calcio, ma lo segue, «continua a piacermi da morire». Commenta ogni tanto in tv ed è preparatore dei portieri della Primavera del Bologna.

Pietro Vierchowod compie 63 anni: la Sampdoria e il padre soldato ucraino. Cosa fa oggi. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.

La storia dell’ex difensore campione del mondo nel 1982: la Champions League alla Juventus, lo scudetto a Roma e poi con Vialli e Mancini. Ora lavora con il Milan.

Vierchowod, lo Zar del calcio italiano

È sempre lo Zar del calcio italiano. Pietro Vierchowod, una carriera da mastino della difesa, compie oggi 6 aprile 63 anni. L’uomo capace di marcare Maradona e Van Basten gioca ancora a calcetto, è in forma, tifa Juventus (una passione nata da bambino) e ha ancora la grinta con cui ha vinto praticamente tutto tra Roma, Sampdoria e proprio Juve. Il carattere lo ha ereditato dal padre, un soldato dell’Armata Rossa originario di Kiev. A cui ovviamente deve il cognome particolare. Ma che fa oggi Vierchowod?

Il padre soldato ucraino

Andiamo con ordine, dal motivo per cui lo Zar è nato in Italia. Papà Ivan Luchianovic Verchovod, soldato ucraino fatto prigioniero in Italia durante la seconda guerra mondiale. Volevano deportarlo nei campi di lavoro in Siberia, così scappa sopra le colline di Bergamo e lì si stabilisce. Inizia a lavorare in fonderia, poi fa il facchino, meccanico, l’ortolano. Lavora anche Pietro, neanche sedicenne, come manovale e idraulico. «Per avere la cittadinanza italiana ha dovuto aspettare gli anni 80», ha raccontato al Corriere. «Il carattere “quadrato” l’ho preso sicuramente da lui. La sua etica della fatica era incredibile. Teneva i contatti con la famiglia oltrecortina, ma a metà anni 70 ha capito che avrebbe potuto essere dannoso per i suoi parenti. Così si sono persi i contatti».

Da idraulico allo scudetto a Roma

Pietro lavora come idraulico e intanto inizia a giocare per strada, a piedi nudi, poi all’oratorio. Velocissimo, parte come attaccante, poi per caso si mette in difesa. La prima squadra è la Romanese, pantaloncini blu e maglietta arancione, poi il Como, con cui gioca cinque anni e arriva dalla C1 alla serie A. Acquistato dalla Sampdoria, dopo un anno alla Fiorentina passa sempre in prestito alla Roma con Liedholm e Pruzzo. Spaesato nei primi giorni («Mangiavano pizza e wurstel»), si adatta al punto da vincere uno scudetto. Quella Roma Pietro l’ha definita la squadra più forte in cui ha giocato: «Da Maldera a Di Bartolomei, da Conti a Falcao, Ancelotti e Pruzzo, c’erano tanti campioni».

Campione del mondo

Nel mezzo il Mondiale vinto, in Spagna nel 1982. Un torneo nel quale Vierchowod non scende mai in campo. «Sono stato sfortunato. In finale avrei dovuto giocare io e non Bergomi — le sue parole in un’intervista al Corriere dello Sport —. Purtroppo mi infortunai. Non scesi in campo ma fu bello, sentii di far parte di un gruppo di grandissimi giocatori, la squadra più forte di sempre, anche rispetto a quella del 2006».

Sampdoria con Vialli e Mancini

Tornato alla Sampdoria dopo l’anno a Roma, in blucerchiato vince uno scudetto (storico, nel 1991), quattro volte la Coppa Italia, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa italiana. Fa parte di un gruppo unico, guidato in panchina da Boskov, in campo dai gemelli del gol, Vialli e Mancini. Stringono un patto, arrivano ad un passo dalla Coppa dei Campioni, battuti in finale dal Barcellona. «Abbiamo avuto molte più occasioni rispetto agli spagnoli. Evidentemente era destino, doveva andare così —ha ricordato in un’intervista al Corriere dello Sport—. Prendere gol su quella punizione dalla distanze di Koeman ci scocciò da morire, la vittoria sarebbe stata la chiusura di un ciclo iniziato tanti anni prima». Si rifà almeno in parte qualche anno dopo, quando vince a 37 anni l’attuale Champions League con la Juventus.

Il rimpianto Mondiale

Nel 1990, nel pieno della carriera, è nella Nazionale che perde in semifinale nel Mondiale di casa. Ha un rimpianto: «Vicini (il c.t., ndr) non mi ha fatto giocare la partita più importante. Prima del torneo mi disse che i giocatori importanti li avrei marcati io. In semifinale mi aspettavo di scendere in campo contro l’Argentina di Maradona. Non vuoi farmi giocare titolare? Capisco, ma a trenta minuti dalla fine in vantaggio per 1-0 perché non mettere chi poteva fermare Maradona? Restai in panchina con Ancelotti. Penso che con noi due in campo sarebbe cambiato qualcosa».

Hulk per Maradona

In carriera ha marcato tantissimi campioni, anche Ronaldo, quando aveva 41 anni: «Van Basten l’attaccante più forte, per eleganza, tecnica e cattiveria. Però contro di me non ha mai segnato su azione». Ma i duelli più belli sono quelli con Maradona, quando si giocava con il Napoli. «Una volta gli ero addosso, incollato. L’avevo, come si dice adesso, ingabbiato. Si è girato con una piroetta, un tunnel ed è volato via. Io allora sono scattato e l’ho raggiunto e chiuso in angolo e lui si è messo ridere: “Hanno ragione a dire che sei Hulk: ti manca solo il colore verde”».

Vieri e la Canalis come Pietro

Maradona il giocatore più forte mai affrontato, Hateley quello che alzava di più i gomiti. Poi Bettega, «molto cattivo ma un gran centravanti». Ha a che fare anche con generazioni successive di attaccanti. Tra cui Christian Vieri che, giovane e implacabile con chiunque, soffre la marcatura dello Zar. Al punto da chiamare la sua fidanzata dell’epoca Elisabetta Canalis «Pietro, come Vierchowod», per come lo marcava, seguendolo ovunque.

Allenatore

Dopo la Juventus Vierchowod ha giocato con Milan e Piacenza, chiudendo la carriera a 41 anni nel 2000. Diventa allenatore, e guida tra 2001 e 2005 Catania, Fiorentina (denominata Florentia Viola) e Triestina: tre incarichi e altrettanti esoneri. Nel 2008 è opinionista in Rai. Nel 2014, nove anni dopo l’ultima volta, torna ad allenare all’Honved Budapest, storico club ungherese in cui giocò Ferenc Puskas. Dura pochi mesi, così come breve è l’esperienza al Kamza, in Albania, nel 2018.

Candidato sindaco a Como

«Sento di poter dare una mano. So che è un impegno importante, ma voglio provare a fare ciò che posso». Con queste parole Vierchowod annuncia la sua candidatura alle comunali a Como, nel 2012. Raccoglie poco più del 2 per cento di preferenze.

Cosa fa oggi

E oggi, cosa fa lo Zar? Vive a Como con la moglie Carmen. Ogni tanto commenta ancora il pallone, il suo mondo, tra Sampdoria, Juventus, difensori e attaccanti. Poi lavora per i campi estivi del Milan.

Dagospia il 23 novembre 2022. COMUNICATO STAMPA

L’ultima puntata di Belve è con Massimo Ferrero che concede la sua prima intervista dopo l’uscita dal carcere. Viperetta con la sua solita verve dice subito: “Il mio piu’ grande errore? Venire a Belve.” Poi quando la Fagnani gli chiede se si sente una macchietta, risponde: “Le macchiette le porto in tintoria.” 

La Fagnani chiede a Ferrero perché  i tifosi della Sampdoria non lo amano. Lui dice non sono stato capito e scatenato contro i tifosi dice: “Al Marassi mi insultano, perché ho detto che il loro inno non era bello, era bello invece quello della Roma e i tifosi hanno cominciato a insultarmi e io non ho detto scusate tanto.” Fagnani allora chiede: “Le è dispiaciuto?” Ferrero con determinazione: “Non me ne è fregato un cavolo, perché i tifosi si sentono padroni delle società, venissero a lavorare!”

Torna poi a scontrarsi con la Fagnani quando si parla di politica. Ferrero dice: “Sono sessantottino e andavo a fare le guerre a Battipaglia quando lei non era ancora nata”. La Fagnani gli ricorda tutte le volte che ha cambiato idea: “Ha detto ci vorrebbe uno come Salvini, poi ha sostenuto la Raggi, Berlusconi”. Ferrero risponde piccato: “Lei sta dicendo un po’ di cazzate, non so se gliel’ha dette qualcuno.” La Fagnani ribatte: “L’ha detto lei!” Ferrero spiega: “Non ho mai cambiato idea, poi dopo il muro di Berlino è finita quell’idea che c’avevo io: quindi ora sono meloncino, stimo Meloni perché per è un talento naturale.”

Un’intervista accesa e divertente, tutta da gustare, dove Massimo Ferrero tra gaffe e polemiche racconta di sé, delle donne, del carcere.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 25 novembre 2022.

Massì, ammettiamolo: l'intervista che Francesca Fagnani ha fatto a Massimo Ferrero è stata la più interessante della serie «Belve», stagione 2022 (Rai2 e RaiPlay). La conferma è venuta da «Belve cult», il filmato che raccoglieva il meglio delle tre edizioni del programma, una sorta di grande riassunto. 

Di solito, si dice che un'intervista è riuscita quando l'interlocutore (maschile sovraesteso) «si racconta a cuore aperto» o «svela lati inediti di sé», tipo Eva Robin's.

Le interviste sono tutte recite, specie se montate: nessuna inquadratura è innocente, cioè «a cuore aperto». Fagnani ha un modo d'intervistare che non sembra concedere scampo alla vittima sacrificale, dietro il sorriso accattivante c'è sempre lo stiletto. È molto brava nel modulare il suo modo di porgersi.

Ferrero voleva ancora recitare la parte per cui è diventato famoso, la «Viperetta»: l'uomo del popolo, povero in canna, che è riuscito a entrare nel dorato mondo del cinema e del calcio credendo di essere più furbo degli altri. Per queste sue irruenze fuori dai canoni lo abbiamo irriso in tanti e, alla fine, l'ex presidente della Sampdoria è stato la prima vittima di sé stesso.

Ma l'altra sera Fagnani aveva di fronte uno sconfitto e ha fatto bene a non infierire, ad accettare le sue intemperanze («Lei sta dicendo un po' di caz...te, non so se gliel'ha dette qualcuno»), a lasciarlo sfogare: «Non ho mai cambiato idea, poi dopo il muro di Berlino è finita quell'idea che c'avevo io: quindi ora sono meloncino, stimo Meloni perché per me è un talento naturale». Dai, uno che dice che da produttore è andato in rovina perché ha fatto «film autorali» (non si sa bene quali) merita tutta la nostra comprensione. Sua nonna era una soubrette dell'Ambra Jovinelli e lui è ancora convinto dell'applauso del pubblico: «A me il popolo me ama». Clap, clap

Fabio Amendolara per “La Verità” il 4 aprile 2022.

Mentre le sue società andavano a gambe all'aria Massimo Ferrero, l'ex patron della Sampdoria noto come il Viperetta, non aveva perso la sua passione per il lusso. E, così, avrebbe fatto pesare sui bilanci già critici un contratto per una Ferrari Spider da 200.000 euro e un pesantissimo leasing da 600.000 per i primi due anni e da 900.000 per gli ulteriori otto per l'acquisto di uno yacht Azimut da vero vip, portando le aziende alla bancarotta.

Ma questa è solo una delle accuse che gli contesta la Procura della Repubblica di Paola (Cosenza), che ieri, a meno di quattro mesi dagli arresti, ha fatto notificare al Viperetta, che è ai domiciliari a Roma dal Natale del 2021 dopo aver passato qualche giorno a San Vittore, e agli altri otto indagati, la figlia Vanessa, il nipote Giorgio e l'ex moglie Laura Sini, il consulente Aiello Del Gatto, Roberto Coppolone, Cesare Fazioli, Paolo Carini e Giovanni Fanelli, un avviso di chiusura delle indagini preliminari (prodromico di solito a una richiesta di rinvio a giudizio). 

Il documento giudiziario ricostruisce il crac di quattro società che operavano nel settore alberghiero, turistico e cinematografico. Una di queste si sarebbe accollata un debito di oltre 1 milione di euro che altre aziende del gruppo Ferrero avevano nei confronti di Rai Cinema.

In un altro caso le passività avevano toccato quota -13 milioni di euro. Ma quello che veniva sottolineato nell'ordinanza che ha privato il Viperetta della libertà è che gli indagati avrebbero provveduto a distruggere o a sottrarre libri e scritture contabili danneggiando i creditori, ma anche rendendo difficile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, con tanto di passaggi sospetti direttamente sui conti personali del commercialista Del Gatto, originario di Torre Annunziata (Napoli) ma il cui studio era ad Acquappesa, in provincia di Cosenza. E il gip aveva evidenziato «un concreto e gravissimo pericolo di commissione di delitti analoghi». 

Viene denunciato, per esempio, il falso furto di un'Audi, all'interno della quale era custodita una borsa in pelle che conteneva tutta la documentazione contabile di una delle società finite in bancarotta.

Ferrero è considerato dalla Procura il «deus ex machina» dei reati di bancarotta che gli vengono contestati, perché, svolgendo l'attività dell'amministratore di fatto, avrebbe gestito illecitamente il patrimonio e le questioni societarie di tutte le aziende a lui riconducibili, mirando allo «svuotamento degli asset con successivo fallimento delle società». 

Ormai il Viperetta, che aveva affidato le sorti di alcune delle sue aziende allo studio di consulenza cosentino (motivo che ha radicato a Paola la competenza a indagare), veniva descritto come uno sconsiderato perfino dalla figlia Vanessa, che parlando di lui in una intercettazione si è fatta scappare: «Non ci sta con la testa, sta fuori». «Spregiudicato, pervicace e scaltro», invece, l'hanno etichettato i magistrati calabresi.

La Procura ha ricostruito che le società non avrebbero versato imposte e contributi previdenziali per quasi 6 milioni di euro. Ma sarebbero state riportate nei bilanci anche «riserve patrimoniali fittizie» per 1.890.000 euro. Ora gli indagati hanno 20 giorni per decidere se farsi interrogare dal magistrato, depositare documenti difensivi o aspettare la richiesta di rinvio a giudizio. Il difensore dell'ex presidente della Sampdoria, l'avvocato Luca Ponti, ha subito rimarcato «che nell'avviso di chiusura indagini non ci sono nuove contestazioni» rispetto all'ordinanza di custodia cautelare.

Da corriere.it il 9 marzo 2022.

«Una semplice domanda» è il docu-show (6 puntate dal 18 marzo, su Netflix) in cui Alessandro Cattelan discute di vita e ricerca della felicità con, tra l’altro, registi (Paolo Sorrentino), conduttrici (Geppi Cucciari), ex calciatori come Baggio e Vialli. 

Dell’intervista a quest’ultimo, il settimanale «Oggi», in edicola giovedì 10 marzo, anticipa alcuni estratti. «Io ho paura di morire, eh. Non so quando si spegnerà la luce che cosa ci sarà dall’altra parte. Ma in un certo senso sono anche eccitato dal poterlo scoprire», confida Gianluca Vialli che da anni combatte contro il cancro. «Però mi rendo anche conto che il concetto della morte serve per capire e apprezzare la vita. L’ansia di non poter portare a termine tutte le cose che voglio fare, il fatto di essere super eccitato da tutti i progetti che ho, è una cosa per cui mi sento molto fortunato».

E ancora: «La malattia non è esclusivamente sofferenza: ci sono momenti bellissimi. La vita — e non l’ho detto io ma lo condivido in pieno — è fatta per il 20 per cento da quello che ti succede ma per l’80 per cento dal modo in cui tu reagisci a quello che accade. E la malattia ti può insegnare molto di come sei fatto, essere anche un’opportunità. Non dico al punto di essere grato nei confronti del cancro, eh...».

Francesco Flachi. Flachi, la cocaina e i 12 anni di stop: «Ho pagato i miei sbagli, ora torno a giocare». Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2022.

Francesco Flachi, ex bomber di Fiorentina, Sampdoria Bari e Empoli, torna in campo dopo 12 anni di squalifica per droga nel torneo Eccellenza: «Così sono rinato». 

Sudato fradicio ma ancora pimpante dopo un allenamento vecchio stile con partitella, di quelli senza un attimo di respiro e con la voglia di mangiare l’avversario, Francesco annuncia la sua rinascita. «Sono tornato un bimbo, debutto il 13 febbraio se il mister me lo concederà», dice con un sorriso per poi tracannare l’ultimo sorso di acqua da una borraccia. Che non è stata riempita alla fonte della giovinezza, ma a vederlo così entusiasta Francesco Flachi, 47 anni, ex bomber di Sampdoria, Fiorentina, Bari, Empoli con una convocazione nella nazionale di Lippi nel 2004, sembra davvero un ragazzino. «I dodici anni di squalifica mi hanno fatto bene al corpo e allo spirito», scherza, ma non più di tanto, il calciatore fiorentino di nascita e dal cuore diviso tra viola e blucerchiati. Già, perché dopo qualche peccato e conseguenti provvedimenti disciplinari per il calcioscommesse e per un paio di positività all’anti doping, Flachi è stato trovato positivo alla cocaina e squalificato, per recidiva, sino al 2022. «Pena che ho appena scontata per intero, senza drammi e vittimismi — conferma Francesco —. Tutta colpa mia, mi sono complicato la vita, ho buttato alle ortiche una bella carriera ma non ho mai smesso di combattere. Troppi 12 anni di squalifica? Chi sbaglia deve pagare. E adesso torno in campo con una voglia immensa di sfondare la rete».

Nuova vita

Il debutto della nuova vita calcistica è previsto per domenica 13 febbraio alla ripresa del campionato di Eccellenza. La squadra è il Signa che affronterà il Prato 2000. A vederlo, salvo impegni calcistici, ci sarà anche il figlio Tommaso, 15 anni, promessa della Fiorentina. «Un bel match, se entro voglio fare gol – spiega Flachi -. Mi sento bene, corro e mi diverto. Non vedo l’ora di scendere in campo». Forse a vederlo ci sarà anche qualche tifoso di Fiorentina e Samp. Il passato è alle spalle? «Mai dimenticare – risponde -. Il dolore ti aiuta a cambiare, a crescere. I primi anni di squalifica sono stati tremendi. Ti mancano gli stadi, l’agonismo, i tifosi. Qualcuno mi trattava da drogato. Ho sbagliato un paio di volte ma non sono mai stato in tossicodipendente. Non gli ho dato ascolto, avevo ancora le spalle larghe anche se non è facile perdersi quando hai assaporato il sapore del successo e poi ti ritrovi a terra. Però, grazie anche agli amici, sono stato bravo. Mi sono ricostruito, ho scritto un nuovo capitolo della mia vita».

Le paninoteche

Raccontiamolo il Flachi 2, professione imprenditore che apre due paninoteche a Firenze ma il calcio non lo dimentica mai. «Uno dei locali era aperto di giorno, l’altro di sera – ricorda il giocatore – e c’era da faticare. Nella mia vita non avrei mai pensato di fare il paninaro e invece mi sono anche divertito. Poi arrivavano i tifosi, mi sostenevano, mi davano forza il coraggio. Ma il calcio ce l’avevo ancora in testa. Facevo l’opinionista in una radio locale e continuavo ad allenarmi per prepararmi al nuovo debutto. Ho superato momenti bui. Quegli anni m’hanno insegnato a non buttarmi via a risorgere. Grazie anche ai miei figli Tommaso e Benedetta che oggi ha 20 anni». E il futuro? «A giugno inizierò il corso per diventare allenatore – risponde Francesco – ma mi sento ancora un calciatore e dunque mi metto sul mercato. Ho tanta voglia, fiato e un bel piede da poter sfondare le reti».

LA FIORENTINA.

Socrates a Firenze, un dottore senza ricetta. Una parentesi imbevuta di politica, birra, sigarette e qualche guizzo: il brasiliano non si adattò mai al calcio italiano. Paolo Lazzari il 15 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Quando disfa il borsone estrae tutto in ordine cronologico. Prima lima la cartina intingendola nella saliva, quindi inizia a lavorarsi il tabacco. Poi è il turno del libro: accavalla quelle gambe da fenicottero sulla panca di legno consunto e si mette a sfogliarlo. È infilato dentro allo spogliatoio delle giovanili del Botafogo, da solo. Non perché sia in anticipo, come si potrebbe pensare di un professionista esemplare. No: lui ha elevato il ritardo e la lentezza dei gesti a mantra scrupoloso. Gli scarpini vengono rinvenuti solo da ultimo, frugando sul fondo. Serve una sequela di grida che fende la sua quiete per trascinarlo via: “Socrates! Socrates! Sono già tutti in campo”.

Quell’indolenza è un lusso accessibile: il talento che arma il suo piede destro è un flusso che scorre divampante da un encefalo intricato. Perché giocare bene a calcio significa anzitutto pensare bene. Lui ha tutti i collegamenti giusti tatuati internamente. Deve soltanto applicarli. Vede le cose con un paio d’istanti d’anticipo sugli altri. Ma non solo nel calcio. Lì ce l’ha trascinato suo padre: un tizio con la seconda elementare che ha maturato una singolare parafilia per i classici greci. I suoi fratelli, per dire, si chiamano Sostenes e Sofocles. Ribeirão Preto è il posto dove Raimundo Brasileiro Sampaio, impiegato pubblico, ha strappato una dignitosa scrivania. Questa attitudine allo studio, mista a certe stille congenite di curiosità, abita la casa in cui vivono trasmettendosi per osmosi.

Socrates si iscrive alla facoltà di medicina e inizia ad interessarsi di politica. La convivenza con il calcio diventa presto un incastro di difficile gestione. La sua non è insolenza: semplicemente gli manca il tempo per inseguire adeguatamente ogni suo flirt. Così un giorno piomba al campo d’allenamento ed emette la sua sentenza: “Ascoltate, da qui in avanti verrò soltanto alle partite”. Nasi che si arricciano. Mugugni in sottofondo. La materia non è tuttavia contendibile: nessuno può privarsi del suo ingegno calcistico.

È un fatto noto che il nostro si laurei in medicina, per poi conseguire pure la specializzazione in pediatria. Un dottore che addomestica le traiettorie più recalcitranti, distribuendo metaforiche compresse al cianuro ai suoi avversari. Sovrastante fisicamente, chirurgico nei passaggi, letale sotto porta. La sua dominanza pallonara è un booster che lo imprime nella costellazione dei più forti e si esprime, probabilmente, nel gesto tecnico per eccellenza: il colpo di tacco. Giunto al Corinthians, altra notizia acquisita, instaura una conduzione "democratica" nello spogliatoio che assurge a manifesto politico, in aperta collisione con la classe che ha paludato il Brasile. Da mezz’ala scintillante gioca i mondiali del 1982 e ci segna anche contro, in quell’epico 3-2.

Il flirt che non sbocciò

Quel che resta merlettato di mistero, invece, è il motivo sostanziale sul quale poggia il suo fallimento fiorentino. Tito Corsi tesse una trama acuta, sottotraccia: lo porta in riva all’Arno che è la stagione 84/85. La stampa è stizzita perché lo scopre d’un tratto. La tifoseria gigliata invece gongola e si sfrega i polpastrelli. La viola culla sogni europei. Non sanno, gli appassionati, che quella rimarrà una suggestione destinata a svanire dopo i primi tocchi.

Appena giunto in ritiro, sulle Dolomiti, rimpiange il tepore brasiliano. Dopo la prima sessione d’allenamento arranca penosamente, sconfitto da ritmi non contemplabili dalle sue parti. Nel frattempo però vive la città, dice di essere arrivato per leggere Gramsci e si perde tra i dedali dei sollazzi. In campo segnerebbe anche, ma l'approccio è caracollante. Il movimento lento. Le geometrie compassate. Alla prima apparizione si fa borseggiare un pallone sanguinoso e spedisce in porta gli avversari. “Sarà un caso”, fanno gli scongiuri dalla Fiesole. “Diamogli tempo per adattarsi”, ciarlano altri dalla Maratona. Nulla di tutto questo.

Infilzato dai suoi molteplici interessi, Socrates non riesce a correre dietro ad ogni impegno. E nella sua vita si aprono fenditure. Va in cerca di mistadelli per sottrarsi all’inverno italiano: sono il più delle volte locali in cui si beve bene, si fuma molto e si balla tanto. I ritmi della serie A, per quanto al rallenty rispetto ad oggi, sono impostati su una marcia superiore a quella che conosce. Viene da San Paolo, dove i suoi vizi sono rarefatti dentro ad una masnada di milioni di persone, mentre Firenze non offre vetri appannati. Un mix di sintomi che sfociano in malessere acuto. Bisognerebbe essere cerusici dei sentimenti per contrastarli.

A fine stagione, medico sfornito della ricetta giusta, torna mestamente in patria. Certo, ha distribuito qualche guizzo da fuoriclasse, ma non è bastato.

Viola di rabbia: quando la Fiorentina retrocesse. Paolo Lazzari il 2 Luglio 2022 su Il Giornale.

Nel 1992/93 si consumò un'impresa alla rovescia: dalla vetta alla serie B nel giro di di cinque mesi.

Piazzare i gomiti in vetta al campionato a dicembre e retrocedere a fine stagione. Parrebbe una missione impossibile, anche a volersi impegnare. Specie se, in squadra, possiedi pezzi d’argenteria scintillanti. Eppure quello che è successo alla Fiorentina nella stagione 92/93 è tutto vero. E dovrebbe essere categoricamente ascritto all’impudente categoria – peraltro non scarsamente abitata – dei miracoli contromano. Roba che fa trasalire e sgrana gli occhi al contempo.

La storia di uno dei più eccentrici auto – sabotaggi calcistici di sempre si nutre davvero di pasture inverosimili. Come ha fatto una squadra che premeva in rosa gente del calibro di Gabriel Omar Batistuta, Ciccio Baiano (arrivato dal Foggia di Zeman), Stefan Effenberg e Brian Laudrup – solo per soppesare i nomi più squillanti – ad avvitarsi in quel modo? Come fai ad essere seconda a dicembre, al pari di Inter e Torino, per poi inabissarti?

Spesso la risposta risiede nella testa. A volte è sufficiente spostare un singolo tassello per incrinare equilibri che si reggono su corridoi di cristallo. Il rumore del vetro che si infrange lo senti quando è troppo tardi. Il punto di rottura si consuma il 3 di gennaio. La viola di Gigi Radice ospita l’Atalanta di Marcello Lippi, altra rivelazione del campionato. L’impatto non sarebbe nemmeno dei peggiori, ma gli attacchi svaporano. Batigol e compagni costruiscono almeno cinque occasioni nitide, senza sfruttarle. Alla fine la Dea espugna il Franchi 0-1. Un passaggio a vuoto ci sta, verrebbe da pensare. Vittorio Cecchi Gori però la prende per il verso sbagliato.

Subito dopo il match inizia un delirante alterco sulla difesa a zona, con il patron e il mister che se le danno, verbalmente, di santa ragione. Anche davanti ai microfoni Rai i nervi sono tirati allo spasmo. Le dichiarazioni seccate. L’atmosfera surreale. Cecchi Gori schiuma una rabbia incontenibile. Due ore più tardi Radice, fino a quel punto quasi al comando della classifica, viene silurato.

Qui inizia il racconto alla rovescia. La proprietà chiama Aldo Agroppi, fermo da due anni e mezzo, un passato burrascoso a Firenze. Lo spogliatoio si crepa subito. Il passaggio di consegne è un trauma che smantella convinzioni faticosamente acquisite. La prima a Udine è una Waterloo: 4-0. Seguiranno due mesi e mezzo senza successi, ammantati da un’atmosfera tetra e ineffabile. Alla fine saranno appena tre le gare vinte sotto la gestione Agroppi. L’ultima, un ruggente 6-2 al Foggia, non servirà a niente.

Viola di rabbia, la squadra sprofonda in B nell’incredulità collettiva. Il cambio in corsa più improvvido di sempre. Come ribaltare un destino radioso per infilarsi in un vicolo fetido.

Alberto Gilardino che fine ha fatto: i capelli, il violino, la moglie, la carriera da allenatore. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.

Da poco lo si è rivisto in campo, a San Siro. Ha giocato nell’evento Integration Heroes Match, partita amichevole di beneficenza organizzata dall’ex stella nerazzurra Samuel Eto’o.

È riapparso il «Gila»

Si è rivisto Alberto Gilardino in campo, proprio a San Siro, in quello che è stato il suo stadio ai tempi del Milan. Ha giocato nell’evento Integration Heroes Match, partita amichevole di beneficenza organizzata dall’ex stella nerazzurra Samuel Eto’o. Tra gli ospiti, oltre ad Alberto Gilardino, Totti, Zanetti, Pirlo, Dybala, Maicon, Julio Cesar, Seedorf, Shevchenko e Filippo Inzaghi. Sui social in tanti hanno ironizzato sulla capigliatura dell’ex attaccante della Nazionale, campione del Mondo nel 2006 con Marcello Lippi, con tanto di gol nella seconda gara del girone agli Stati Uniti. C’è chi sostiene sia una via di mezzo tra l’attore Nicolas Vaporidis e l’ex wrestler Hulk Hogan.

Tornare ad allenare

«Voglio tornare presto ad allenare», le parole a San Siro di Gilardino in occasione dell’amichevole benefica. L’ex attaccante ha intrapreso la carriera da allenatore nel 2018, quando ha vestito i panni di vice allenatore di Luca Prina sulla panchina del Rezzato in serie D, diventando poi il tecnico della formazione bresciana l’anno successivo, nel periodo da febbraio a fine campionato. Una parentesi in cui Gila si è messo in mostra nei panni di allenatore, guadagnando la fiducia della Pro Vercelli in serie C e del Siena, sempre in C tra il 2020 e il 2021. Adesso è fermo da ottobre 2021 ed è in cerca di una nuova panchina.

Come giocava

Gilardino era un attaccante che prediligeva farsi servire in area di rigore, dove poteva sfruttare le sue doti di tempismo e opportunismo e le sue capacità di proteggere la palla, facendosi trovare in posizione sui cross dei compagni. Era anche capace di dare profondità alla squadra e di tirare di prima intenzione, così come di difendersi spalle alla porta e concludere a rete. Infine, era bravo nei colpi di testa.

La carriera

Nato a Biella il 5 luglio 1982, Gilardino è cresciuto nel vivaio della Biellese e del Piacenza debuttando in A nel 1999 e passando al Verona nel 2000 e nel 2002 a Parma. In Emilia ha segnato 50 gol in tre anni e ha conquistato il Milan nel 2005. In rossonero ha firmato 44 reti in 132 gare, vincendo la Champions nel 2007. Un’avventura altalenante. Poi ha vestito anche le maglie di Fiorentina, Genoa, Bologna, Guangzhou, Palermo, Empoli, Pescara e ha chiuso la carriera in B nel 2018 con lo Spezia. In Nazionale ha totalizzato 57 presenze e 19 sigilli.

La famiglia

Alberto Gilardino è sposato dal 2009 con Alice Bregoli, una ragazza di Cremona. I due hanno tre figlie: Ginevra, Gemma e Giulia. Sul proprio profilo Instagram ha 44,8mila followers e diverse sono le foto che lo ritraggono con la maglia azzurra della Nazionale.

L’esultanza

Alberto Gilardino è famoso per l’esultanza del violino. A Parma impazzivano dopo ogni gol. Così come in Nazionale, nelle grandi occasioni, come nel Mondiale 2006, dopo il gol agli Stati Uniti. «La mia esultanza è nata a Parma con Marchionni. Eravamo a cena, io suonavo il violino e lui si inchinava davanti a me. La partita dopo segnai e ripetemmo quella scena», ha raccontato in passato.

Amore per Firenze

Arrivato a Firenze nell’estate del 2008, Gilardino si presentava come un calciatore in cerca di riscatto dopo essere stato scaricato dal Milan. L’ambientamento in città fu perfetto: l’attaccante venne conquistato da Firenze che ritiene uno dei posti più belli del mondo. Le colline che fanno da corona alla città, e in soli dieci minuti di auto permettono di ritrovarsi circondati dalla natura e dal silenzio assoluto.

La sua terra

Biella, Cossato. Terra della lana e del riso. Qui è nato e cresciuto Gilardino. «Era sensibile alla lode e al richiamo. Affettuoso, ti faceva capire che ti voleva bene», ha raccontato diversi anni fa la sua maestra, Maria Ferrarotti. Durante le partite con gli amici, era troppo forte. Tanto che il maestro di educazione fisica (e scienze e matematica), Gabriele Cavagna, metteva quattro o cinque giocatori in più nell’altra squadra per mantenere l’equilibrio.

Il parroco

Don Fulvio, parroco di Cossato, sulla sua scrivania aveva una foto autografata da Gilardino: «Alberto è un ragazzo d’oro, sempre disponibile per l’oratorio in cui ha iniziato a calciare. Ci ha dato una maglia da mettere all’asta», disse.

Quel gol ad Anfield

9 dicembre 2009, ad Anfield Road contro il Liverpool vince la Fiorentina 2-1 nei gironi di Champions. Le reti viola sono di Jorgensen e di Gilardino, che firma uno dei tanti gol importanti in carriera.

Da labaroviola.com l'11 aprile 2022.

L’ex portiere della Fiorentina Sebastien Frey è stato ospite di Dazn, queste le sue parole e i suoi racconti sul periodo a Firenze: 

Per fortuna ai nostri tempi non c’erano i social, alcuni momenti vissuti negli spogliatoi, sono nati nello spogliatoio e rimangono nello spogliatoio, certe cose è bene sia cosi, adesso non sarebbe possibile. 

Nel 2008 Papa Waigo venne al campo vestito tutto di bianco, dalle scarpe alla camicia, tutto solo di bianco, entrò nello spogliatoio prima di Adrian Mutu, appena entrò Mutu lo vide, gli diede le chiavi della macchina e gli disse “Ok parcheggiatore vammi a parcheggiare la macchina” tra le risate generali.

Con Toni avevamo un bellissimo rapporto e ci prendevamo in giro su tutto, dalle macchina agli orologi. Fino al 2006 ero io la prima donna perchè avevo fatto più di lui, fino al mondiale, dove al rientro lui mi prese in giro in continuazione, ho rosicato di brutto. 

Il momento più bello alla Fiorentina è stato nell’estate di Calciopoli, una sera abbiamo aspettato tutti la sentenza, è stato un momento drammatico nel ritiro di San Piero, potevamo essere mandati anche in serie B, ci diedero 19 punti di penalizzazione e nello spogliatoio nessuno si tirò indietro, in quel momento abbiamo capito la forza di quel gruppo che ci portò a fare delle annate straordinarie

Il momento più brutto è stato il furto contro il Bayern Monaco, meritavamo di passare e poi la semifinale persa ai rigori contro il Rangers, volevamo e potevamo vincere un trofeo 

La parata più bella? Quelle più belle sono quelle decisive che ti portano dei punti, contro la Lazio le mie parate hanno portato alla vittoria, le parate quando vinci 4-0 o perdi 3-0 hanno un valore diverso da quelle che poi sono davvero decisive per il risultato, poi è anche vero che in quelle stagioni avevamo delle difese molto forti”

Adrian Mutu. Mutu, cosa fa oggi: «medico» per un ospedale dopo la gloria, le cadute, la cocaina, i guai con le donne, la laurea, i flop in panchina. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 21 Febbraio 2022.  

Il 43enne ex calciatore romeno, passato anche per Inter, Parma, Juve e Fiorentina, sponsorizza e sostiene un ospedale di Bucarest: è l’ennesima iniziativa solidale di uno dei più grandi talenti (sprecati) della storia del calcio fra grandi giocate in campo e una vita fuori sempre al limite. E pure oltre

Genio e sregolatezza

Nei primi anni Duemila Adrian Mutu è stato uno dei talenti più promettenti del calcio romeno, ricoprendo un ruolo di primo piano anche in serie A, come attaccante di Parma, Juventus, Fiorentina e, prima fra tutte, l’Inter, che lo portò in Italia dalla Dinamo Bucarest. Come per tanti altri talenti dello sport però, anche Adrian Mutu si è lasciato condizionare dalla sua vita fuori dal campo, con scelte che ne hanno condizionato rendimento e carriera in generale. Oggi, a 43 anni, rimane una delle figure più controversi del calcio europeo, amatissimo in patria ma sempre in bilico fra gloria e abisso.

Testimonial di un ospedale

In questi giorni Mutu è presente sui manifesti lungo le strade di Bucarest vestito da dottore: un modo per dare sostegno al terzo settore attraverso una pubblicità solidale, un progetto per salvare vite e sostenere la sanità nel suo Paese. È, più precisamente, l’esito di un contratto da testimonial stipulato con l’M Hospital, uno delle strutture mediche più all’avanguardia in Romania. Non è la prima volta, del resto, che l’ex campione, capocannoniere assoluto della nazionale rumena con 35 gol in 77 presenze, viene coinvolto in iniziative del genere: in passato sono state campagne di donazione di farmaci o di mascherine per il Covid, o anche ingenti somme di denaro. «Se fosse stato un medico attivo, Mutu avrebbe sicuramente indossato il camice dell’M Hospital», è lo slogan scelto dall’ospedale che ha sede a Bucarest. Non sono mancati però commenti ironici, in patria e in Italia, dettati dal suo passato burrascoso. Molti infatti lo ricordano, più che come un grande attaccante in campo, come ragazzo indisciplinato e inaffidabile fuori, un «bad boy» dal comportamento rivedibile che gli costò anche squalifiche, processi e pesanti multe.

Ascesa e declino da calciatore

Adrian Mutu appartiene infatti al club di tutti quei talenti che non sono mai riusciti a esprimere completamente il loro potenziale, non tanto per le opportunità avute, quanto per l’incostanza e il comportamento fuori dal campo. Arrivò in Italia a 20 anni, acquistato dall’Inter nel 2000, riuscendo poi a dare il proprio meglio con le maglie di Parma (31 presenze e 18 reti) e Fiorentina (112 presenze e 54 reti), ma nel pieno della sua carriera agonistica non sarà capace di fare il grande salto con il Chelsea in Premier League o con la Juventus in Serie A. Concluse la carriera da calciatore giocando per diverse squadre in patria, dopo aver militato al Cesena e all’Ajaccio per qualche anno. Il suo ritiro dal calcio giocato nel 2016.

Cocaina e doping

Tra eccessi, alcool, un flirt con una pornostar e notti brave di colui che era stato soprannominato «Briliantul», diamante in rumeno, la pagina più nera fu però quella vissuta ai tempi del Chelsea del presidente russo Roman Abramovich, appena arrivato alla guida di Blues. Nel settembre 2004 Mutu venne infatti trovato positivo alla cocaina, dopo appena un paio di presenze. Sospeso per sette mesi con quasi 24mila euro di multa da pagare, dopo che il club inglese aveva pagato il suo cartellino 17 milioni di euro. L’episodio diede vita anche a un lungo contenzioso, che si concluse solo nel 2018, con un lauto risarcimento a favore del Chelsea.

Il naso rotto al cameriere

Non rimase un episodio unico. Quando giocava con la Fiorentina fu fermato per colpa della sibutramina, un dimagrante-lassativo che rientrava comunque tra le sostanze proibite. La madre disse che lo usava lei e che il figlio lo aveva preso per sbaglio. Beccato più di una volta nel 2010, venne squalificato per altri nove mesi. Proprio in quel periodo venne accusato di aver rotto il naso al cameriere di una discoteca di Firenze, un gesto per il quale venne condannato nel 2015 al pagamento di un risarcimento di 14mila euro.

Le donne e le accuse di maltrattamenti

I suoi problemi non sono derivati solo dalle sostanze illegali. L’ex moglie Alexandra Dinu, dalla quale ha avuto un figlio, lo accusò di maltrattamenti, mentre per la seconda moglie Consuelo Matos Gómez, figlia dell’ambasciatore dominicano presso la Santa Sede, è rimasto coinvolto in una rissa, a causa di avances che le avevano rivolto (da lei ha poi avuto due figlie). Dopo il secondo divorzio, sposa nel 2017 l’ex miss Romania Sandra Bachici, dopo aver avuto da lei un altro figlio. Tra gli invitati a quelle nozze anche l’ex compagno di squadra Sebastian Frey.

I flop da allenatore

Con la volontà di riscattarsi, grazie anche le lauree in Giurisprudenza e in Scienze dello Sport all’Università di Bucarest, Mutu si è avventurato nella carriera d’allenatore, prima la Voluntari e la squadra araba dell’Al-Wahda, poi con la nazionale romena Under 21 e il Craiova, squadra della massima serie romena. Non molto fortunato in nessuno di questi casi, le esperienze in panchina si sono concluse dopo poco. Nonostante i magri risultati come allenatore, è stato sempre acclamato dai suoi tifosi, anche dagli spalti, con i fan che hanno preferito applaudirlo piuttosto che fischiarlo per i suoi trascorsi.

Il sogno Fiorentina

Adrian Mutu, nonostante le vicende avverse, anche da tecnico, non rinuncia però ai suoi sogni, e ha confessato più volte di voler un giorno diventare c.t. della nazionale maggiore rumena. Allo stesso tempo, ha raccontato che gli piacerebbe anche un ritorno in Italia, dove il più grande desiderio sarebbe quello di allenare la Fiorentina. «I più bei ricordi sono quelli con Cesare Prandelli, il tecnico che mi ha ispirato di più — aveva detto nel 2020 —. Farò esperienza in Romania, per poi provare a tornare in Italia e dare finalmente il massimo». I buoni propositi di un uomo forse diverso, che ha detto di aver imparato dai suoi errori. L’approccio migliore per rimettersi in corsa, anche dopo averne viste (e fatte) tante. 

Stefano Bettarini ha 50 anni: Simona Ventura, i tradimenti, le scommesse, “Ballando con le stelle”. Mezzo secolo sempre al massimo. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 4 febbraio 2022.

Prima calciatore, poi marito di Simona Ventura, personaggio televisivo e della cronaca giudiziaria, condannato per scommesse nel 2011. Tutte le storie di campo, ma soprattutto di vita, di uno dei calciatori da copertina degli ultimi 30 anni.

Mezzo secolo vissuto al massimo

Prima calciatore, poi personaggio televisivo, giocatore di padel, amante dei tatuaggi e marito di Simona Ventura per un decennio, durante il quale finirà spesso al centro delle cronache rosa. Per lui diverse partecipazioni ai reality in tv e un patteggiamento con la giustizia per il coinvolgimento nel calcioscommesse. L’ex difensore Stefano Bettarini compie 50 anni, mezzo secolo ricco di vicende di ogni tipo, dai fasti del campo a momenti più infelici, dopo i quali è riuscito comunque a ritagliarsi la sua vita pubblica e privata al di là dei gossip e di qualche disavventura legale. Nato a Forlì il 6 febbraio 1972, Bettarini trascorre l’infanzia tra Buonconvento e Siena, figlio di un noto dirigente di un’azienda di assicurazioni e allenatore di calcio. Fu proprio il padre a trasmettergli la passione per il pallone, un amore nato sin da quando giocava in piazza con i suoi amici di allora.

Dalla serie C alla Nazionale

Dallo Staggia Senese al settore giovanile dell’Inter, in breve tempo Bettarini esordisce in Serie C1, nella stagione 1991-92 giocando con il Baracca Lugo. Dopo le esperienze con Lucchese e Salernitana, nel 1997 approda in serie A con il Cagliari. Poi Fiorentina, Bologna e Venezia, fino alla piena maturità sportiva con la Sampdoria. Proprio in questo periodo, prima di chiudere la carriera a Parma, i rapporti con i blucerchiati vanno rapidamente deteriorandosi a causa del calcioscommesse, macchia indelebile della sua vita da professionista. Nel 2004 riesce comunque a esordire in Nazionale, sotto la guida del selezionatore e C.t. Giovanni Trapattoni.

Il calcioscommesse

Qualche assoluzione, ma anche un patteggiamento con la giustizia per un coinvolgimento in un caso di partita truccata. In origine venne messa sotto la lente di ingrandimento Modena-Sampdoria del 25 aprile 2004, che gli costò 5 mesi di squalifica, ma qualche anno dopo, nel 2011 e a carriera conclusa, viene indagato per una manipolazione di diversi risultati di serie A, serie B e Lega Pro, che vede tra gli altri coinvolti l’ex calciatore di Lazio e Nazionale Beppe Signori e il capitano dell’Atalanta Cristiano Doni. Nel luglio di quell’anno, deferito per violazione dei principi di lealtà sportiva, decide di patteggiare in primo grado una pena di 14 mesi di qualifica. Nel 2015 verrà accusato anche di associazione a delinquere, chiamato in causa anche da un pentito, ma quattro anni dopo, nel 2019, è il tribunale di Bologna a dichiarare estinta l’accusa.

Amore, liti (e tradimenti) con Simona Ventura

Anche chi non segue il calcio lo ricorda certamente per la lunga storia con la showgirl Simona Ventura, coronata con il matrimonio nel 1998, celebrato in diretta televisiva, e naufragata con il divorzio nel 2008, esattamente dieci anni dopo. Dalla loro unione sono nati i figli Niccolò e Giacomo, per quanto l’ex calciatore fosse stato presto accostato ad altre donne. Furono proprio i presunti tradimenti il motivo principale della rottura, anche se per il gossip tutte queste dinamiche devono ancora essere pienamente chiarite e le supposizioni continuano a far scrivere titoli sulle copertine patinate.

Il figlio aggredito

Il primo figlio di Bettarini, il 23enne Niccolò, è finito sulle pagine dei giornali nel luglio 2018 per essere stato vittima di un’aggressione fuori da un locale a Milano, durante la quale ha ricevuto diverse coltellate. Ricoverato all’Ospedale Niguarda, è stato poi dimesso senza complicanze e si è ripreso con una piena guarigione. La scorsa estate i suoi aggressori sono stati condannati in maniera definitiva. Otto anni di reclusione per Davide Caddeo e sei anni quattro mesi per Albano Jakej, dopo che la Cassazione aveva respinto il loro ricorso.

Tanti amori (veri e presunti)

Dopo il divorzio con Simona Ventura, Bettarini ha un flirt di un anno con la ballerina Samantha Togni, conosciuta durante la partecipazione al programma televisivo «Ballando con le stelle». Poi arriva la relazione con Ilenia Iacono, con la quale doveva sposarsi in America: le nozze invece saltano all’ultimo minuto per cause ancora non chiarite. Una breve relazione con Dayane Mello, prima di fidanzarsi con Nicoletta Larini, stilista classe 1994 di 22 anni più giovane: a detta di Bettarini, la donna della sua vita, quella con la quale spera ora di mettere al mondo un bambino. Altri flirt — non tutti confermati — gli sono stati attribuiti Barbara D’Urso, Marika Fruscio e Maria Rodriguez, in quest’ultimo caso durante il Grande Fratello Vip.

l Trust Project. Si tratta di un’iniziativa internazionale che coinvolge centinaia di testate in tutto il mondo e punta a chiarire da subito ai lettori la credibilità e l’autorevolezza di un contenuto giornalistico. Per farlo, assegna una etichetta riconoscibile sulla base di standard uniformi e condivisi.

La tv

Dopo aver lasciato il calcio, Bettarini diventa di fatto un personaggio televisivo conosciuto da tutti, estendendo la sua popolarità oltre il pubblico sportivo. Dai programmi di settore come «Mai dire gol» e «Quelli che il Calcio», passa prima da «Ballando con le Stelle» per poi debuttare nel mondo dei reality: «Grande Fratello Vip», «Isola dei Famosi», «Temptation Island». Concorrente, inviato, opinionista, giurato di Miss Italia, nel piccolo schermo ha praticamente ricoperto qualsiasi ruolo. Perfino quello di co-conduttore per la trasmissione Buona Domenica.

Tatuaggi

Tra le sue passioni c’è quella per i tatuaggi, che ha sparsi per tutto il corpo: due tribali, uno alla caviglia, un altro all’inguine, altri sul busto, sul dorso. Tra i più curiosi, spiccano lettere gotiche S e B, semplicemente le sue iniziali, e uno corsivo che dice: “Gli spiriti liberi non sono fatti per essere domati, hanno bisogno di restare liberi finché non trovano qualcuno di altrettanto selvaggio con cui correre”. Una spiegazione del suo carattere o un’allusione alla relazione ideale? Di certo uno spirito irrequieto sempre in cerca del nuovo, proprio come le tante avventure, sportive, professionali e d’amore vissute nei suoi primi 50 anni.

Da ilnapolista.it il 19 aprile 2022.  

Bellissima intervista del Corriere Fiorentino (a firma Roberto De Ponti) all’ex presidente della Fiorentina (nonché produttore cinematografico) Vittorio Cecchi Gori. Che tra pochi giorni compirà 80 anni. 

«La vita mi ha dato, mi ha dato tanto. Certo, qualche amarezza c’è stata, però la vita mi ha dato tanto. E quando riesci a fare le cose che ti piacciono, e le fai così bene che tutti te lo riconoscono, allora pensi che qualcosa di buono hai lasciato». 

Parla del suo passato nel calcio, dello scudetto quasi vinto.

«Quel quasi mi dà fastidio tuttora. Come sempre succede nel campionato italiano, all’ultimo ci sono un po’ di influenze esterne che in qualche modo intaccano il risultato. Subimmo qualche torto, ci fu qualche speculazione sul fatto che Edmundo fosse tornato in Brasile per il carnevale. Non era vero, nel contratto era previsto che dovesse rientrare per presentarsi a un processo. Ci furono malumori. E Batistuta si fece male. E poi avevamo subito torti arbitrali anche in Europa, la squalifica del campo dopo il Barcellona, quell’assurdo petardo l’anno dopo a Salerno in campo neutro dopo aver vinto 2-0 all’andata». 

Lei è sempre stato un terzo incomodo…

«Dappertutto. Io mi basavo sui successi in prima linea e non sulle banche, sulle alleanze, così ero facilmente colpibile. Oggi come allora vincono i grossi gruppi, i fondi, stranieri e non più italiani. Il calcio si presta a questo, però perde quella matrice vera che lo tiene in vita, che è il tifo della proprietà». 

Parla del rapporto con suo padre Mario, che acquistò il club, che poi si trovò lui a dirigere.

«Io sono stato fortunato, perché fra me e mio padre c’erano vent’anni di differenza. Ero nato molto presto, diciamo così. E mi ha sempre portato con sé: a 12-13 anni io ero già un produttore in erba. Ed è stato così anche per il calcio. Così mi sono trovato preparato alla tenzone, e in più con la fiducia di mio padre». 

Racconta di quando decise di comprare Batistuta.

«Ero a Los Angeles, mentre lavoravo per il cinema lo vidi in tv alla Coppa Libertadores e pensai: questo è perfetto per il calcio europeo. Allora dissi al nostro intermediario: portami Batistuta o non farti più vedere da me». 

E Batistuta arrivò con Latorre e Mohamed.

«Fu un giro legato a Batistuta. Mi toccò prenderli. Ma giocavano come me...».

Il miglior giocatore acquistato, però, non fu Batistuta, dice, ma Rui Costa.

«Batistuta era un leone, un trascinatore. Rui Costa era talento purissimo». 

Dopo 9 anni di permanenza in viola, vendette Batistuta alla Roma. Gli chiedono se avrebbe venduto Vlahovic alla Juventus, al posto di Commisso.

«Sì. Vlahovic non è Batistuta. Batistuta era decisivo, Vlahovic ti fa vincere contro le squadre medie, con le grandi devo ancora vederlo».

Sul rapporto con le donne:

«Guardi, a proposito di difetti della mia vita, se non ci fosse stato il gossip ne avrei solo guadagnato perché facendo cose così in vista il gossip ha preso il sopravvento su tutto. Sembro un facilone, e non è così. Le donne mi sono sempre piaciute, ma in maniera giusta, a prescindere delle campagne che si fanno oggi. Amare una donna significa rispettarla. E io avevo sempre bisogno di avere vicino una compagna, più che fare il Casanova. E le posso assicurare che io il divano del produttore non ce l’ho mai avuto». 

Ha prodotto tanti film di successo. Gli chiedono cos’abbiano in comune il cinema e il calcio.

«Poco o nulla, a parte il materiale umano. E il regista, che nel calcio è l’allenatore». 

Aurelio De Laurentiis ha seguito il suo percorso: dal cinema è arrivato al calcio.

«Ad Aurelio piaceva fare quello che facevo io. Quando io presi la Fiorentina si incaponì di prendere una squadra di calcio. Purtroppo lui prese il Napoli quando io persi la Fiorentina, così non ci siamo mai incrociati. Ma devo dire la verità: Aurelio è più bravo come presidente che come produttore. È un ottimo organizzatore, ha la stoffa».

Ritiene che la Fiorentina gli sia stata strappata di mano. Dice che hanno pesato i diritti tv.

«Hanno pesato i diritti tv. Io avevo un’enorme casa cinematografica, che poteva condizionare l’esistenza di una televisione. E quando si parla di comunicazione allora si toccano i vertici dello Stato. E il calcio aveva il problema dei diritti tv, cosa non risolta perché ancora oggi accadono le stesse cose che accadevano 30 anni fa. Ed è grave, perché io ci ho rimesso le penne per questo. 

Mi misero contro la Rai, ma io non ce l’avevo con la Rai. Io ero un produttore di programmi, non un diffusore. La pay-tv era un concetto che mi piaceva, ma non decollava mai, tant’è vero che a un certo punto cullai l’idea di creare una piattaforma, europea ma con buoni rapporti con l’America. In realtà sulla carta era una partita vinta, però ho smosso troppi interessi».

Crollò tutto.

«Non lo so neanche che cosa è successo. Non era una questione di soldi, era una questione di potere. E chi non mi voleva bene mi ha massacrato. Se ci penso oggi, a distanza di tanti anni, penso: è vero, quando cadi nella polvere la riconoscenza scompare. Però è vero che con il tempo ho ritrovato persone che mi vogliono bene. In fondo nella mia vita ho fatto tante cose sbagliate ma anche qualcuna giusta».

Vittorio Cecchi Gori. "Ecco la verità sulla mia malattia". Roberta Damiata il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Ora che Vittorio Cecchi Gori è uscito dall'ospedale, ci tiene a fare chiarezza sulle tante cose dette sul suo ricovero. "Niente Covid e nessuna polmonite", racconta in esclusiva a ilGiornale.it

Nessuno sapeva quando, ma Vittorio Cecchi Gori è tornato a casa. Lo ha fatto in silenzio, per evitare di alimentare le tante false notizie che sono uscite sul suo stato di salute. Ora sta bene ma ci tiene a fare chiarezza, e in esclusiva a ilGiornale.it, racconta la verità che smentisce i titoli allarmanti che lo davano ricoverato in fin di vita. Allo stesso modo il suo ricordo va alla scomparsa di Monica Vitti, di cui era molto amico, e con la quale aveva lavorato in tre film. Lo incontriamo nella sua casa romana.

Sig. Cecchi Gori, la prima cosa che mi viene da dirle è bentornato a casa. Come si sente?

"Bene. Per fortuna, e come può vedere, le cose che sono state dette sulla mia malattia sono false. Sono stato male solo un paio di settimane, di cui una soltanto passata in ospedale".

Parla del fatto che sarebbe stato ricoverato per polmonite come conseguenza del Covid?

"Esatto, il Covid e la polmonite non c'entrano. Sono stato ricoverato per problemi di respirazione, dovuti forse a qualche chilo di troppo che premeva sul torace. Soprattutto nel periodo di Natale non mi sono mosso molto. Quando ha visto che non respiravo bene, Rita (Rusic ndr) ha insistito molto affinchè mi ricoverassi. Così come il professor Francesco Landi che mi tiene in cura da tre anni".

Eppure si era parlato di lei in fin di vita, e di situazione grave...

"Le sembro uno che è stato in fin di vita? Questi problemi respiratori li avevo da un po' come dicevo, e in ospedale mi hanno aiutato a superarli, rimettendomi in sesto. È vero che mi hanno somministrato l'ossigeno, ma è l'unica cosa in comune con il virus".

Vedo che in casa c'è una bombola d'ossigeno, è sempre sotto controllo?

"Solo per sicurezza. In realtà mi sento bene, ma il professor Landi mi dice sempre che a 80 anni bisogna stare sotto controllo".

Quanti messaggi ha ricevuto in ospedale?

"Molti che mi hanno fatto tanto piacere. Invece sono stato male per la scomparsa di Monica Vitti, che conoscevo bene e con cui ho lavorato tanto".

Che ricordo ha di lei?

"Nella via esistono i fuoriclasse, e lei era una fuoriclasse. Grande attrice e grande donna di cinema e spettacolo. Brava in tutto. Anche quando non li dirigeva lei, i film erano della Vitti. Ho ricordi bellissimi. Con lei ho lavorato nell'"Anatra all'arancia" con Ugo Tognazzi e la regia di Luciano Salce. Andai a Londra a comprare i diritti per farne una commedia che uscisse in lingua inglese. Lei era fantastica in questo, mi seguiva, avevamo lo stesso modo di vedere le cose e ci comprendevamo al volo. Per varie ragioni il film non si fece poi in inglese, ma fu un successo strepitoso ovunque".

Non è l'unico film che ha prodotto con lei...

"No infatti. Anche "Ti ho sposato per allegria". In realtà quello fu più merito di mio padre che mio. Un film tratto dal lavoro di Natalia Ginzburg. Modernissimo e molto avanti per l'epoca. Un film precursore dei tempi. Lei era meravigliosa anche in questo. Prima gli attori che come la Vitti avevano lavorato in pellicole considerate impegnate, ad esempio quelle di Antonioni, difficilmente poi si dedicavano alla commedia. Ma lei no. Per questo era una grande donna di spettacolo. Con lei si passava dal cinema, al teatro, alla letteratura in maniera veloce. È riuscita a fare grandi cose. Con lei feci anche un terzo film: "Non ti conosco più amore" con Gigi Proietti e Johnny Dorelli".

Che donna era fuori dal set?

"Una bella persona. Aveva solo una cosa dove era fissata, le foto. Per il resto una donna con cui potevi parlare di tutto"

In che senso?

"Quando si trattava di scegliere le foto, lei doveva dare la sua approvazione. Le ritagliava tutte con le forbici e da 100 foto al massimo se ne tiravano fuori cinque. Ci ridevo tanto su questa cosa".

Che cosa le ha lasciato?

"Ho imparato tanto da lei, come donna e come professionista. L'unica cosa in questa enorme mancanza è che si è tornati a parlare di lei e del suo lavoro. Credo che tutti noi dovremmo prendere la strada da lei indicata, per il bene del futuro del cinema".

Recitava anche in inglese?

"Parlava bene l'inglese, anche se farlo per la commedia era complicato".

Un ricordo personale tra voi due?

"Proprio sul film "Ti ho sposato per allegria", dove recitava anche Maria Grazia Buccella che all'epoca era la mia fidanzata. Lei tifava molto per la nostra coppia. La Buccella vinse come attrice non protagonista un David di Donatello, e Monica non faceva altro che dirmi quanto fossi fortunato ad averla e che bel carattere che aveva. Questo perché a me piaceva anche un'altra ragazza, ed ero indeciso con chi stare, e lei mi dava i consigli. Era unica anche umanamente. Mi è capitato anche con altri attori di pensare che erano meravigliosi sia nella vita che nella professione, ma a livello di donne solo lei. Nonostante la sua umiltà, non aveva bisogno che nessuno gli insegnasse niente, sapeva tutto da sola".

Quanto era bella?

"Non è la definizione che preferisco di lei. Monica era intensa. Nel grande momento della Loren, lei ha rappresentato l'intensità del genere femminile. Oltra al fatto che sì, era bellissima".

Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scrivere romanzi. 

Fiorentina: Rocco Commisso, Vlahovic e il calcio all’americana (senza debiti e conti in Delaware). Mario Gerevini su Il Corriere della Sera 26 gennaio 2022.

Quando, in una recente intervista, Rocco Benito Commisso afferma «Qui non c’è nessuno, nessuno come me» (forse dimenticandosi il domicilio legale e fiscale condiviso nel Delaware con Milan, Venezia e Roma) non esercita la modestia o la diplomazia ma fa, orgogliosamente, i conti. La Fiorentina non ha debiti finanziari con nessuno, può contare su un patrimonio netto di 153 milioni, su un azionista, cioè lui, che ha versato direttamente nelle casse 75 milioni (solo nell’ultimo esercizio) più altri 25 milioni con la sponsorizzazione della Mediacom Communications che è sempre sua. E adesso che Vlahovic lascia il Franchi della Fiorentina per l’Allianz della Juventus, entreranno meno palle in rete (forse) ma 75 milioni in cassa (di sicuro). Così come era successo con i 60 milioni per Federico Chiesa. 

L’«odiata» Juve

È sempre l’«odiata» Juventus degli Agnelli-Elkann la controparte nei migliori affari. Il calcio all’americana di Commisso sembra un mix di cuore e ragione, passione e programmazione. Incassa e risparmia. Ma per poi investire, non per tappare buchi. Perfino la ragione sociale del club è stata modificata il mese scorso, senza troppa pubblicità: l’Acf Fiorentina spa è diventata srl. Motivo? «Razionalizzare l’organizzazione societaria» è scritto nell’atto notarile di dicembre. La srl costa meno, è più duttile e flessibile, tradizionalmente più “padronale” ma meno adatta a partnership e per nulla alla quotazione in Borsa: in Serie A è la forma giuridica di Salernitana, Sassuolo, Spezia Venezia e, adesso, anche Fiorentina. 

Cassaforte e meno debiti

Sono due anni e mezzo che l’imprenditore, nato 71 anni fa in Calabria a Marina di Gioiosa Ionica, ha preso in mano la Fiorentina con la sua holding privata Jmcc Corporation del Delaware, spingendo subito sul progetto del nuovo stadio, tuonando contro la burocrazia, polemizzando con procuratori sportivi e con alcuni colleghi presidenti. Un arco di tempo nel quale, contemporaneamente, ha alleggerito sensibilmente il debito della Mediacom Communications, il quinto operatore Usa di tv via cavo con 2,1 miliardi di dollari di fatturato (2020) e 1,3 miliardi di indebitamento al 30 settembre 2021.

ll mistero dei 4 miliardi

E ha scalato le classifiche (più suggestive che scientifiche) dei Paperoni. Forbes con 8,4 miliardi di dollari di patrimonio stimato lo ha messo al numero 98 tra i 400 miliardari americani 2021, staccando di parecchio sia il patron del Milan, Paul Singer, che quello della Roma, Dan Friedkin accreditati di circa la metà. Inutile chiedersi da dove siano sbucati 4 miliardi in un anno visto che nel 2020 Commisso era a quota 4,5 miliardi: le classifiche dei ricconi vanno prese così, con un po’ di invidia e senza farsi troppe domande. In fin dei conti da 4 a 8 miliardi cambia poco, da 0 a 4 sarebbe un’altra storia. Comunque il presidente viola secondo il Bloomberg Billionaires Index è, sempre con 8,4 miliardi, al numero 291 con Silvio Berlusconi al 292.

Bilanci e brochure

Per capire, nel concreto, quanto è “forte” Commisso, bisogna guardare sempre nella Mediacom Communications Corporation. I conti del gruppo americano, che fornisce dati, video e servizi telefonici a 1,5 milioni di famiglie e aziende in 22 Stati, vengono pubblicati trimestralmente sul sito web. Ma sono più che altro comunicati stampa, brochure, nulla a che vedere con i bilanci veri e propri. Quelli, a quanto pare, non sono disponibili né reperibili. E la ragione potrebbe essere questa: tutte le società di Commisso hanno sede legale in Delaware (compresa Mediacom Communications Corporation che ha gli uffici a New York dove dichiara di avere «sede principale»). Ciò, oltre a garantire legittimi vantaggi fiscali, permette di mantenere una grande riservatezza. Mediacom non è quotata in Borsa, il Delaware ha una normativa tutt’altro che stringente in materia di trasparenza e dunque è tutto in regola. Lo fanno in tanti gruppi internazionali. Del resto Commisso ha un solo socio cui deve rispondere direttamente: se stesso.

Il bravo debitore e gli ignoti finanziatori

Poi, certo, ci sono i finanziatori di quell’1,2 miliardi di debito, presumibilmente banche e investitori istituzionali, ma non è noto chi siano. Comunque l’imprenditore italo-americano ha dichiarato di aver sempre rispettato le scadenze, mai bucato i covenant (i parametri finanziari da rispettare pena il rientro del prestito). Tant’è che l’agenzia di rating S&P l’ha recentemente premiato alzando il rating da BB+ a BBB. Che cosa significa? Che Mediacom è un investimento non speculativo e relativamente sicuro anche se lontano (otto gradini) dal massimo grado di solvibilità. In sostanza è come l’Italia e un po’ meno della Exor targata Agnelli-Elkann (BBB+).

Un solo telefono

Per l’investimento nella Fiorentina, però, Commisso ha attinto dalla sua finanziaria personale Jmcc Corporation anch’essa radicata in Delaware come la controllata Columbia Soccer Venture, azionista diretto del club. La Fiorentina insomma fa parte degli asset familiari. Da notare che le holding proprietarie di Roma, Milan, Venezia e Fiorentina hanno tutte sede in Delaware al medesimo indirizzo di Wilmington (1209 di Orange street) con identico numero di telefono. Il commercialista è lo stesso: The Corporation Trust Company.

IL CAGLIARI.

Estratto dell'articolo di Paolo Camedda per goal.com il 4 novembre 2022.

Cresciuto nel Peñarol, Darío Silva approda al Cagliari nel 1995 e diventa 'Sa Pibinca'. Amato dai tifosi, ha poi giocato in Spagna e in Inghilterra. 

 […] Il 23 settembre del 2006 la vita de 'Sa Pibinca' cambia per sempre. Di ritorno da una festa assieme a due amici, Darío Silva viaggia a gran velocità con il suo pick-up, perde il controllo e va a sbattere contro un palo della luce. Le condizioni sono subito gravi. L'attaccante riporta la frattura del cranio e la frattura scomposta della gamba destra, mentre i due amici che viaggiavano con lui, anche loro ex calciatori, Elbio Pappa e Dardo Pereira, restano illesi.

"Mentre la sua coscienza vagava lontano - scrive il giornalista Paolo Piras in 'Bravi & Camboni' - i medici gli rimisero insieme le ossa del cranio fratturato, ma non poterono fare lo stesso con la gamba. Gliela amputarono fino al ginocchio". Inizialmente, l'ex attaccante, non si rende conto che non ha più la sua gamba destra. 

"Al risveglio, solo, in un letto - racconta ancora Piras - pensò di essere a casa di uno degli amici che erano con lui, dopotutto erano diretti lì. Da quel momento in poi fu il cervello a doversi allentare, per lasciare passare piano l'enormità del dolore".

"Darío scese dal letto sulla gamba sinistra e si mise la ciabatta, poi fu come in un sogno, teneva l'altra scarpa in mano e non capiva perché il piede - che sentiva, lo sentiva - non ci andava dentro. Aveva solo una ciabatta in mano e lo sguardo fuori fuoco verso il pavimento, poi sentì una sirena, si girò e vide un'ambulanza passare accanto alla finestra. In quei secondi di nebbia, mentre lentamente la coscienza in affanno lo guidava alla realtà, Darío scoprì che tutta la garra che aveva speso in quegli anni di pallone non era niente rispetto a quella che, a partire da quel giorno, avrebbe dovuto tirar fuori dalla sua testa rattoppata".

Silva non è però uno che si autocommisera, e i medici se ne renderanno presto conto. 

"Per fortuna nell'incidente non ho ferito nessun altro e sono stato il solo a subirne le conseguenze - dirà l'ex attaccante -. Quando sono andato dall'ortopedico mi hanno fatto una protesi: me la sono messa e sono uscito. Il dottore mi ha detto che non aveva mai visto una cosa simile: non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che riuscissi già a camminare. Secondo lui ripartire sarebbe stato difficile, ma io sono uscito perché volevo andarmene dall'ospedale. Quel giorno ho provato grande gioia: mi sembrava strano camminare di nuovo".

Nemmeno tre anni dopo, il 13 gennaio 2009, 'Sa Pibinca' è di nuovo in campo davanti ad un pallone: in un incontro di beneficenza fra vecchie glorie di Argentina e Uruguay, con incasso devoluto alla Fundación Niños con Alas ('Associazione bambini con le ali'), indossa nuovamente la maglia della Celeste e segna un rigore durante i 90 minuti e poi il penalty decisivo nella lotteria finale.

Perde gran parte dei risparmi della carriera calcistica, a suo dire truffato dai suoi procuratori, ma si rialza ancora. 

Fa l'agente di alcuni giovani giocatori, poi, tornato in Europa, si stabilisce a Málaga, dove dal 2019 lavora in un ristorante-pizzeria, la Frascati di Calle Rogelio Oliva, del suo amico italiano Antonello, ex massaggiatore di ciclismo.

"Sono azionista del locale e faccio parte del gruppo che lo gestisce - ha raccontato a 'Il Posticipo.it' -. Faccio un po' di tutto, lavoro anche in sala come cameriere a contatto coi clienti. La nuova vita mi piace: è diversa da quella che facevo prima, ma qui vengono sempre tanti giocatori e siamo vicini al mondo del calcio".

E il calcio di lui non si è mai dimenticato: dal 2020 l'uruguayano è uno scout del Cadice per l'Andalusia e il Sud America. In Sardegna è tornato in visita nel 2018, quasi vent'anni dopo aver lasciato Cagliari. Prima di andare all'allora Sardegna Arena, fa due passi nel nuovo lungomare Poetto, e vedendo una spiaggia molto più profonda di quella che conosceva lui, chiede a chi lo accompagna:

"Ma hanno spostato l'acqua?"

I suoi goal e i suoi errori clamorosi davanti al portiere resteranno sempre nella memoria dei tifosi rossoblù. Nel loro cuore 'Sa Pibinca' , avrà sempre un posto speciale. 

"I sardi per me sono come una famiglia: gente semplice e amabile - dirà l'ex attaccante -. Volevo fare come Gigi Riva: restare al Cagliari per tutta la mia vita e non lasciare mai la Sardegna. Ma le cose, purtroppo sono andate diversamente".

Gli eventi lo hanno costretto ad una nuova vita, ma lui ha saputo accettarla senza rimpianti.

Estratti del libro “Mi chiamavano Rombo di tuono”, scritto da Gigi Riva con Gigi Garanzini pubblicati da la Stampa il 20 ottobre 2022.

Gigi Garanzini, editorialista de La Stampa, è riuscito nell'impresa: far parlare Gigi Riva di se stesso. Non c'è un capitolo banale (abbiamo scelto tre estratti), non ci sono fotografie inutili: «Mi chiamavano Rombo di Tuono» è un prezioso distillato della vita del più forte attaccante del calcio italiano. E di un uomo che continua a fare della riservatezza la propria cifra distintiva.

Non so se nella storia del calcio, perlomeno italiano, c'è mai stato un secondo tempo come quello di Juventus- Cagliari il 15 marzo 1970. Così assurdo che a raccontarlo tanto tempo dopo mi dà quasi la sensazione di averlo sognato, o letto da qualche parte. Invece no, è esattamente quello che accadde, parola per parola, rigore per rigore, insulto per insulto all'allora principe dei fischietti, Concetto Lo Bello da Siracusa. 

Il primo tempo era filato via liscio. Oddio, liscio, il primo gol lo aveva segnato il nostro stopper nella nostra porta, ma diciamo - sorridendo - che con Niccolai poteva anche succedere. Pareggiai io poco prima dell'intervallo ed è ovvio che con due punti di vantaggio in classifica il risultato ci stava bene. Non avevamo fatto i conti con Lo Bello: in compenso li aveva fatti lui, sapendo oltretutto che per uno sciopero improvviso della sede Rai le telecamere erano spente e il secondo tempo della partita in registrata, come usava allora, non sarebbe andato in onda. Cominciò con un rigore per la Juventus, del tutto inesistente.

Protestammo a lungo, lui fu irremovibile, andò sul dischetto Haller e Albertosi parò. Mentre correvamo ad abbracciarlo, l'arbitro tornò a indicare il dischetto: il rigore era da ripetere. E lì perdemmo tutti quanti la testa, a cominciare da me. Mentre Albertosi piangeva di rabbia aggrappato al palo, io andai da Lo Bello e incominciai a riempirlo di parole, parolacce, insulti. Gli urlai che noi avevamo fatto sacrifici per un anno intero, e non era giusto che un coglione come lui li buttasse all'aria. Gli dissi anche di peggio, lui fingeva di non sentire e continuava a dirmi di pensare a giocare. 

Anastasi segnò il secondo rigore Rientrando a metà campo tornammo a dirgliene di tutti i colori Pensa a giocare, mi disse ancora un istante prima di far riprendere la partita. E a Cera, che era il nostro capitano, con quell'aria furba che sapeva fare: e voi pensate a buttar la palla in area su Riva. Il rigore per noi arrivò a qualche minuto dalla fine, per un contatto in area non meno discutibile di quello precedente. Stavolta furono loro a protestare a non finire, io ero così stravolto che non calciai benissimo e Anzolin in tuffo riuscì a toccare la palla, per fortuna senza prenderla.

Tornando a metà campo dopo abbracci interminabili perché quel gol valeva praticamente il titolo, Lo Bello mi fissò a lungo e la sua espressione diceva: «Allora, hai visto?». Gli risposi ancora un po' secco: «E se lo sbagliavo?». La parola fine la pretese lui: «Te lo facevo ripetere».

Non sono mai stato un chiacchierone. Mi piacciono i silenzi, mi piace semmai parlare con me stesso. Il silenzio è stata una parte importante della mia vita, che quand'ero troppo giovane mi ha detto: «Arrangiati». E io mi son dovuto arrangiare. Mi sono chiuso, questo sì. 

Ma non è vero che sono diventato triste o malinconico: ho dovuto semplicemente fare i conti con l'infanzia che ho avuto, con i lutti, con le nottate a occhi spalancati aspettando il sonno che non arrivava. Il calcio mi ha aiutato, mi ha dato tanto per non dire tutto. Ma quando sono uscito per sempre dal campo, dal sogno che si era avverato e aveva tenuto lontani, entro certi limiti, i fantasmi notturni, ho dovuto cominciare a fare i conti, fino a lì sempre rimandati, con quella parola. Depressione. 

Che fatico persino a pronunciare, perché significa farmi del male. Il calcio, la carriera, i gol erano stati la reazione che mi serviva: prima una spinta, poi un propellente vero e proprio a mano a mano che arrivavano i successi.

Venendomi a mancare tutto questo di colpo, non con un declino progressivo come avevo sempre pensato sarebbe successo, mi sono sentito perso. Per fortuna, nel momento peggiore, mi hanno salvato i figli. Prima è nato Nicola, poi Mauro, e la vita è tornata ad avere un senso. Grazie a loro quella brutta parola che ho scritto una volta sola, e non voglio ripetere, è stata superata. Comunque è regredita, tornando a manifestarsi ogni tanto ma non in quella misura. 

Un problema di testa con cui ho imparato a convivere. Mai del tutto, perché quando si rifà vivo rimane un brutto avversario da affrontare. Mi vien da dire che invecchiare non aiuta, per tante ragioni, ma è vero fino a un certo punto: avevo poco più di trent' anni quando l'ho conosciuta nella sua forma peggiore. Un altro periodo brutto, poco meno di dieci anni fa, ricordo di averlo raccontato al «Corriere della Sera». Convivere con la depressione.

Ma la mia grande passione è stato De André. Adoravo la sua musica, i suoi testi che erano poesia pura, e una volta guadagnato il diritto a sedermi davanti sul pullman della squadra, vicino all'autista ma soprattutto al mangianastri, la colonna sonora era scritta. Così come le lamentele dei compagni, che avevano altri gusti musicali, e peggio per loro. Provavano a protestare, facevano anche partire il coro dal fondo del pullman - «Basta, basta!» -, ma io alzavo l'audio e avanti con le canzoni di Fabrizio.

L'anno prima dello scudetto arrivò a Cagliari un buon centrocampista, Ferrero, che giocò qualche partita con noi. Ma soprattutto amava quanto me le canzoni di De André e l'anno successivo, quando già era passato alla Sampdoria, trovò il modo di farmi un regalo che non ho mai dimenticato. Non mi disse nulla prima. Aspettò che la partita fosse finita e poi, abbracciandomi, buttò lì che, se mi fidavo di lui, aveva organizzato una sorpresa per la serata. Morale, mi ritrovai all'ingresso di una villa, era buio, e mi parve di riconoscere la persona che mi veniva incontro. Fu un'emozione molto forte. Era davvero lui, Fabrizio De André, che, seppi poi, alla proposta di Ferrero di un incontro tra noi due aveva detto subito di sì. Passammo non so quanto tempo a guardarci, ad annusarci, praticamente in silenzio. Che io non sia mai stato un chiacchierone non è più una novità. Ma anche lui non scherzava. Ci volle del bello e del buono per rompere il ghiaccio di una doppia timidezza. Anzi servirono gli additivi, e anche lì le sigarette innanzitutto, poi un po' di whisky, sino a che poco alla volta riuscimmo a sgelarci.

Lui era un appassionato di pallone e tifoso del Genoa, e di calcio e di gol era curioso. Io cercavo di farlo parlare delle sue canzoni, di come nascevano e si sviluppavano, di come le interpretava. Gli dissi quali erano le mie preferite, cioè tutte, ma in particolare Preghiera in gennaio. Qualcuno ha scritto che a quel punto imbracciò la chitarra e me la cantò. Purtroppo non è vero, perché un fatto così indimenticabile, Preghiera in gennaio di notte cantata a tu per tu, sarebbe stato uno dei momenti più belli della mia vita. 

Ma fu ugualmente un incontro magico. Mi regalò una delle sue chitarre, ricambiai con una maglia del Cagliari, con la reciproca promessa di rivederci presto. La notte di Faber. 

Marco Madoni per “il Venerdì – la Repubblica” il 7 novembre 2022.

A righe e a quadretti. Per Gigi Riva non faceva differenza. Anzi, forse meglio a quadretti; potevano ricordare la rete della porta dei campi di calcio. Nei primi anni Settanta, in Sardegna, il volto in multicolor alla Warhol dell’idolo del Cagliari e della Nazionale conquistava addirittura le copertine dei quaderni Pigna per i bambini delle elementari. Persino di chi, continentale, tifava Juventus. Poco importa, Riva era Riva. 

Anzi Giggirriva, tutto raddoppiato, all’isolana, e tutto attaccato, miticamente, come conviene a quei pochi, pochissimi che dall’iperuranio riflettono la propria immagine in carne e ossa al centro degli stadi.

Questo soltanto per ricordare di chi parliamo; se mai qualcuno lo avesse dimenticato o se i più giovani non avessero idea del più grande attaccante del calcio italiano, 35 gol in azzurro su 42 partite, media pazzesca, un record che resiste da quasi cinquant’anni. E chissà per quanto tempo ancora. 

Vallo a fermare, Giggirriva. Ci hanno provato in parecchi sui campi, invano. Ci ha provato la vita, i tanti lutti in gioventù, il collegio, gli infortuni, la depressione, le crisi. Piegato ma mai spezzato. Come giunco deleddiano al vento. Lo sguardo triste in tutti i ritratti. La mascella forte. La maglia azzurra e quella bianca del Cagliari, con i bordi rossoblù e le quattro asole perforate dal filo a tenerla stretta. E sul petto, prima e dopo l’unico scudetto della storia, lo stemma sardo dei quattro mori. Allora con gli occhi bendati. Ossimoro esemplare per lui, Riva, che invece ci ha sempre visto benissimo. Soprattutto se doveva mirare alla rete avversaria. 

Poterci parlare, oggi come ieri, è impresa ardua. Riva ha perpetuamente blindato il suo privato, dribblato i giornalisti e i fotografi. Detto pochissimo. E ha fatto del rigore etico il tratto distintivo della sua esistenza. Un perfetto hombre vertical, o homine balente per dirla alla sarda. I suoi no sono da collezione: ai grandi club che lo avrebbero coperto di soldi, agli sponsor pubblicitari, al cinema, agli inviti, alle apparizioni pubbliche. Oggi vive all’ultimo piano in un condominio cagliaritano, mentre la maggior parte dei giocatori della Serie A contemporanea, viene da pensare, abita ville con non meno di cinque bagni. 

Eppure, per dire, lui ha disputato una finale mondiale con avversari Pelè e Rivelino, vinto quattro giorni prima la partita del secolo (scorso, ma forse non solo) contro la Germania, conquistato il titolo europeo con la Nazionale, messo in bacheca tre trofei di capocannoniere. Oltre al campionato del ‘70, chiaro. E, soprattutto, nessuno come lui in Italia aveva in dote un sinistro tanto esplosivo. La palla colpita quasi sempre di collo pieno, il piede a sfiorare appena il terreno, una dinamica perfetta. E la porta centrata nove volte su dieci. Vedi un po’.

Se oggi ci è possibile suonare al suo citofono lo dobbiamo al regista Riccardo Milani, autore di commedie di successo, che ha appena firmato un docufilm sulla vita e le gesta di Riva, Nel nostro cielo un rombo di tuono, con un titolo che riprende l’attributo cucito addosso al campione da Gianni Brera, e che uscirà nei prossimi giorni nelle sale. Ha fatto un’impresa, Milani, se vogliamo anche soltanto nel riuscire a tenere una telecamera accesa davanti a Riva. Ma è diventato prima di tutto suo amico. E per il lombardo Gigi, sardo di adozione, senza retorica, per carità, la detesta, l’amicizia è sempre valsa più di un gol. Roba non da poco.

E’ proprio Milani che ci apre la porta, presentandoci anche agli amici che fanno da compagnia a Riva in questa intervista in cui si parlerà di calcio e politica, di Draghi e Meloni, di De André e Zeffirelli, di Lo Bello e Rivera. E di un incontro segreto e finora mai rivelato con il bandito Graziano Mesina. 

Sul divano siedono anche il libero del Cagliari di allora, Giuseppe Tomasini, pronto a integrare i racconti dell’ex compagno divenuto praticamente un fratello, e l’amico Sandro Camba, dirigente della Federcalcio. Intorno, si muovono i due figli di Riva, Nicola e Mauro, che lo seguono amorevolmente, lo stimolano,

considerando che il papà, il 7 novembre 78 anni, da un po’ di mesi si rifiuta di uscire, prediligendo alle strade del capoluogo sardo che lo osanna, al ristorante quotidiano di Giacomo Deiana, ma anche alla spiaggia del Poetto, la sua poltrona bianca e le sigarette. 

Beh, Riva, almeno si godrà qualche partita in tv. In chi si rivede oggi: Benzema, Mbappé, Vlahovic?

“Non so”. Pausa. Segue lieve, timido imbarazzo. Poi l’affondo: “Io non vedo alcuna partita”. 

Lei non segue il calcio? E perché?

“Perché il calcio di oggi mi annoia. E’ così monotono, si passano la palla da una parte all’altra del campo, aspettando soltanto che si apra un varco. Troppo lento. Noi eravamo più rapidi, andavamo presto in verticale. E via a cercare il gol”.

Il gol, appunto, così importante per lei. Quell’esultanza con le braccia alzate, tese, i pugni chiusi, un gesto quasi adolescenziale, come se giocasse ancora nell’oratorio di Leggiuno da don Piero...

Anche qui si ferma un momento, sembra fissare il vuoto. Finché: “Per me il gol era la liberazione, voleva dire passare poi una settimana tranquilla, aver fatto bene il mio lavoro. Se per di più si trattava di una rete decisiva, allora ero ancor più contento per i compagni”. 

Eppure, per carità, per uno che era solito trasmettere emozioni zero, quel momento sembrava anche voler dire qualcosa in più, una specie di momentanea liberazione.

“Certo, era la rabbia che esplodeva. Nel calcio ho trovato quello che la vita non mi aveva dato. Non ho avuto un’infanzia facile, ho perso mio padre, mia sorella e mia madre, dimenticavo tutto per un momento soltanto quando giocavo a pallone. E a Cagliari ho avuto un po’ di serenità, un minimo, anche grazie ai miei compagni che mi hanno sempre aiutato. E grazie alla Sardegna che ha sempre manifestato grande affetto”.

Affetto che lei ha ripagato rinunciando ai grandi club del Nord, che la volevano a tutti i costi.

“Nella vita ero passato da un pianto all’altro. Qui tutto mi sembrava meno doloroso. Per forza ho rifiutato tre trasferimenti”. 

Tanto dolore, tanta gloria inframezzata da lunghi infortuni, poi le scarpette appese. Quindi, ci permettiamo di parlarne perché lo ha già fatto una volta anche lei pubblicamente, l’avvento della depressione.

“Parliamone pure, è una parola grossa, ma va detta. La porto addosso, ci sono abbonato. Ci sono cascato dentro quando ho smesso di giocare. Mi schiacciava. Ma ora sto meglio”. E la palla passa a Nicola: “Finalmente ha appeso l’abito di Giggirriva, è tornato a essere soltanto Luigi e si gode la famiglia”. Riprendiamo. 

Se non ama le partite, vediamo però che non si perde i tg.

“Ma c’è troppa politica, venti minuti su mezz’ora. Un’esagerazione, la gente è stanca e poi ecco che cosa succede”. 

Che cosa succede?

“Che votano in questo modo”. 

Cioè? Lei ha votato?

“Io no, perché sapevamo tutti come sarebbe andata a finire”. 

Non è quindi soddisfatto di Meloni premier?

“Per niente. Io la penso diversamente”. 

Ci scusi sempre, visto però che siamo in argomento: quando in passato ha votato, lo ha fatto a sinistra?

“Più al centro”. “Io invece a sinistra”, interviene deciso Tomasini, “mio padre era partigiano, ho sempre scelto così. E la situazione attuale proprio non mi piace”.

E Draghi? Lei, Riva, così autorevole, capace, apprezzato in tutto il mondo, potrebbe anche essere considerato, se vogliamo, il Draghi del calcio. In fondo per molti anni ha ricoperto il ruolo di dirigente della Nazionale.

“Draghi mi piace, è bravo, in quest’Italia che fatica…”. 

Chi non le piace, invece, guardando anche all’estero?

“Putin. Andrebbe fermato, ha sbagliato tutto invadendo un altro Paese libero”. 

E i No Vax?

“Mi hanno contestato perché ho scelto il vaccino, ma sono loro che dovrebbero stare zitti, non io”. 

Abbiamo parlato di sinistra, centro, destra. E stavolta è la politica che può darci una mano per tornare al calcio: secondo la definizione della Treccani, lei era un “centravanti”. Eppure indossava rigorosamente la maglia numero undici che allora contraddistingueva l’ala sinistra. Come si definirebbe?

“Un attaccante, semplicemente. Sebbene abbia sempre preferito giocare in mezzo”. 

In mezzo ma comunque lontano dai riflettori. Anche da quelli del cinema: il regista Zeffirelli la voleva in Fratello sole, sorella luna. E anche lì doveva interpretare, se ci è concesso, il ruolo di “prima punta”, San Francesco. Ha rifiutato rinunciando ad un cachet di quattrocento milioni. Si è mai pentito?

“Mai, volevo soltanto giocare al calcio”. 

Semmai le piacevano più le canzoni e in particolare quelle di De André. Si favoleggia di un suo lungo incontro con il cantautore. Animatissimo…

“Per carità, dopo esserci detti ‘ciao’ siamo stati per un’ora quasi in silenzio. D’altronde, con i nostri caratteri… . Poi tra una sigaretta e un whisky si è sciolto un po’ il ghiaccio. E alla fine, passate ore, lui mi ha regalato la sua chitarra e io la mia maglia”. 

Dove vi siete visti?

“A Genova, in casa sua, dopo una partita. Conoscendo la mia passione, aveva organizzato tutto a sorpresa un mio ex compagno che era andato a giocare nella Sampdoria”. 

Conosceva anche lui la sua passione?

“Beh, quando con la squadra salivamo sul pullman io avevo conquistato il privilegio di sedermi accanto all’autista. E insieme la gestione dei nastri musicali. Mettevo sempre Bocca di rosa e La canzone di Marinella. Anche se la mia preferita era Preghiera in gennaio“. 

E i suoi compagni, cantavano?

“Macché, mi tiravano di tutto, ma non mollavo. De André mi ha insegnato tanto, che se dicessi non saprei esattamente neanche che cosa. Forse ho ammirato il suo comportamento”. 

A proposito di buona condotta, di quella vicinanza ai più umili tanto cara a De André: lei ha aperto nel 1976 una scuola calcio particolare, nel quartiere di Sant’Elia, gratuita per i bambini provenienti dalle famiglie disagiate.

“Ne vado fiero. E’ stata la prima in Italia. E lì, tra gli altri, è cresciuto Nicolò Barella, ex Cagliari, ora dell’Inter e della Nazionale”. 

Gli azzurri, quindi: da giocatore e poi team manager, qual è stata secondo lei la squadra più forte? Quella di Valcareggi, di Bearzot, di Sacchi, di Lippi?

“La mia con dentro Baggio”. 

E chi avrebbe tolto?

“Non so, ma la lui doveva starci per forza, era bravissimo”. 

C’era Rivera. Andava d’accordo con lui?

“Ero obbligato: doveva passarmi la palla… Quando l’aveva tra i piedi, io scattavo, sapevo che da lì a poco mi sarebbe arrivata, precisa”. 

E con Boninsegna? Qualcuno ha parlato di dissapori.

“Favole, dormivamo anche insieme in foresteria. Magari se uno aveva segnato e l’altro no c’era qualche muso durante la settimana. Tutto qua”. 

Possiamo dire però che la sua spalla preferita era Gori.

“Perfetto, faceva spazio, creava gioco. Il mio ideale”. 

Chi soffriva di più come difensore?

“Burgnich. Era fatto di filo e di ferro”. 

Filu ’e ferru?

Risata. “Era di legno e di acciaio. Aveva un fisico spaventoso. E io non mi tiravo mai indietro. Eravamo simili. Mi metteva giù e diceva che non voleva, con l’espressione del viso un po’ falsa. Faceva parte del gioco: voleva eccome”. 

E Scopigno, allenatore del Cagliari campione?

“Un fuoriclasse, competente, sempre pronto a capire le situazioni. Un giorno con alcuni compagni ci eravamo chiusi in camera per non farci vedere, avevamo acceso così tante sigarette che il fumo si tagliava a quadretti. Lui bussa, a sorpresa: ‘C’è qualcuno che ha da accendere?’ “. 

Con gli arbitri come si trovava? Si parla di un diverbio con Lo Bello in un celebre Juve-Cagliari.

“C’è stato, ma con Lo Bello non vi erano problemi, semmai stima reciproca. D’altronde in campo lui era molto sicuro, competente. Aveva i suoi personalismi, però capiva di calcio. E non disdegnava di parlare con i giocatori. Era il migliore”.

Nel film di Milani si ascoltano molti giocatori di ieri e di oggi parlare di lei. Buffon la chiama “Gigione”.

“Con lui ho un grande rapporto, ma posso dire lo stesso con tutti i giocatori anche quando sono stato dirigente della Nazionale. In fin dei conti avevo mangiato lo stesso pane”. 

Resta un mistero, si chiama Grazianeddu, Mesina, il bandito sardo per eccellenza. Andava allo stadio camuffandosi e le scriveva dalla latitanza quando si ipotizzava un suo passaggio al Milan o alla Juventus: le chiedeva di non muoversi. Gli ha mai risposto?

“Mai”. Silenzio. “Però…”. Altro silenzio.

 Però?

“Un giorno, a Cagliari, me lo sono trovato in auto”. 

E che cosa voleva? Anche stavolta che restasse in Sardegna?

“Sì”. 

E lei mica avrà poi deciso così per via di Mesina?

Sorride. “Certo che no, io ho sempre deciso da solo. Figuriamoci se poi me lo diceva Mesina…”.

 Sempre in auto, ma infilati sotto il tergicristallo, si narra che lei trovasse spesso biglietti di ammiratrici.

“Qualcuno. Inviavo le foto a chi le chiedeva”. E riecco Tomasini: “Qualcuno? Se noi ne ricevevamo due a settimana, lui cento”. 

Riva, scusi, ma come è possibile che dopo tanti anni a Cagliari non parli ancora con il minimo accento sardo?

“Ho imparato soltanto le parolacce”. Nel salotto altra risata. Stavolta liberatoria. Anche perché per Riva la tortura, pardon l’intervista è finita. 

Usciti, sotto il palazzo, sentiamo le voci di un gruppo di bambini. C’è un oratorio. Un campo da calcio. Si gioca. Ma la maglia di tutti è rossonera, non la casalinga rossoblù. Dietro la divisa, come i calciatori professionisti di oggi, i piccoli atleti hanno già scritto il loro cognome. E viene da immaginarli, in caso di rete, esultare sull’esempio dei loro idoli, con i due pollici a indicare dietro le spalle. Altri tempi. 

A voltare le spalle siamo però poco dopo noi, quando, improvviso, un tripudio dal campetto ci richiama. C’è un bambino di origini asiatiche che corre slalomeggiando tra i compagni, braccia alzate, pugni tesi: “Gol, gol…”. E ce n’è un altro che si affretta a complimentarsi con lui. A voce alta. Con naturalezza: “E chi sei, Giggirriva?”. 

Dall’oratorio, andiamo in pace.

Fabio Liverani, morta la moglie Federica. Il post dell'allenatore del Cagliari. Gregorio Spigno su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022.

Si erano conosciuti quando avevano 13 anni per poi sposarsi anni dopo. La donna lascia anche due figli, Mattia e Lucrezia

Un grave lutto ha sconvolto l'allenatore del Cagliari Fabio Liverani e i suoi due figli Mattia (17 anni) e Lucrezia (13): è morta la moglie Federica. La donna era malata da tempo. Aveva 46 anni. Liverani le è stato vicino fino all’ultimo: era andato a Roma domenica scorsa, e la donna è morta nel primo pomeriggio di oggi. Ad annunciarlo è stato il profilo twitter del Lecce calcio, club che l’ex centrocampista di Lazio e Fiorentina ha allenato dal 2017 al 2020, conquistando una doppia promozione dalla serie C alla B e dalla B alla serie A. «L’U.S. Lecce esprime il più sentito cordoglio a mister Fabio Liverani per la perdita prematura della cara moglie e abbraccia i figli Mattia e Lucrezia partecipando al grande dolore per la scomparsa dell’amata madre».

Poi, nella tarda serata, Liverani stesso ha voluto ringraziare tutti per la vicinanza con un post pubblicato su Instagram, anche per pubblicizzare un nobile intento da parte sua e dell’ex moglie, ovvero una raccolta fondi per IFO, la struttura che, fino all’ultimo, le ha offerto supporto: «Un ringraziamento a tutti quelli che ci sono vicini in questo momento. Saluteremo Federica Giovedì 22 settembre alle ore 11:00. Le esequie si terranno presso la Chiesa di San Giuseppe Cafasso in Via Camillo Manfroni, a Roma».

«Federica ha espresso il desiderio di aiutare IFO, la struttura che ha offerto a lei e alla nostra famiglia un supporto tanto prezioso e importante. Sarà cura delle famiglie Frangipane e Liverani approntare un progetto di solidarietà in memoria della nostra amata Federica».

L'U.S. Lecce esprime il più sentito cordoglio a mister Fabio Liverani per la perdita prematura della cara moglie e abbraccia i figli Mattia e Lucrezia partecipando al grande dolore per la scomparsa dell'amata madre.

Poco dopo è arrivato anche il tweet del Cagliari, squadra attualmente sotto la guida di Liverani, che ha voluto far sentire la propria vicinanza al suo allenatore: «Il Cagliari Calcio si unisce al dolore di mister Liverani per la perdita di Federica, madre degli adorati figli Mattia e Lucrezia. A loro va l’abbraccio della famiglia rossoblù».

Il Cagliari Calcio si unisce al dolore di mister Liverani per la perdita di Federica, madre degli adorati figli Mattia e Lucrezia. A loro va l'abbraccio della famiglia rossoblù.

E anche la Lazio, in cui l’ex centrocampista ha giocato per cinque stagioni, ha manifestato sui social «profondo cordoglio a Fabio Liverani per la prematura scomparsa della moglie e partecipa al grande dolore dei figli Mattia e Lucrezia per la scomparsa dell’amata madre». Infine la Lega serie B: «Il presidente Balata e le associate della Lega B si stringono a Fabio Liverani, ai suoi figli e alla sua famiglia per la prematura scomparsa dell’adorata moglie e mamma Federica», scrive sui social il canale ufficiale della lega.

La S.S. Lazio esprime profondo cordoglio a Fabio Liverani per la prematura scomparsa della moglie e partecipa al grande dolore dei figli Mattia e Lucrezia per la scomparsa dell'amata madre

Il tecnico e la moglie si erano conosciuti quando avevano 13 anni, sui banchi di scuola, e anni dopo si erano poi sposati. Sono già tantissimi i messaggi di cordoglio arrivati sui social per Liverani (46 anni) e i suoi figli, a partire dal Lecce, società allenata in passato dall’ex calciatore.

Fabio Liverani e la moglie Federica Frangipane, morta dopo una lunga malattia: «Ha aiutato gli altri fino alla fine». Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.

La donna, 46 anni, è scomparsa martedì 20 settembre. Con l’ex calciatore si erano conosciuti a scuola, poi si erano separati. Ai figli diceva sempre: «Va tutto bene»

Federica è la ragazzina conosciuta a scuola, la fidanzata che lo ha incoraggiato negli anni del calcio all’oratorio. Federica è stata moglie di Fabio Liverani e soprattutto madre dei suoi figli, Mattia e Lucrezia. Federica era Federica Frangipane, scomparsa martedì scorso all’età di 46 anni, dopo una lunga battaglia contro il cancro. Liverani, molto più noto, è un ex calciatore di successo (fu acquistato nel 2001 dalla Lazio per 25 miliardi di lire), che adesso fa l’allenatore (è al Cagliari), e che non l’ha mai lasciata da sola, nonostante le loro strade si fossero divise da tempo. Coppia affiatata ma lontana dalle luci dei riflettori, negli anni belli e anche in quelli più difficili. La separazione non li aveva mai realmente divisi, uniti dalla volontà di crescere i loro figli in un clima di serenità. Anche durante la malattia, Federica ha combattuto con il sorriso della forza e della speranza, si è spesa per gli altri ammalati che come lei si sottoponevano alle cure oncologiche e ne subivano le conseguenze. Sul suo profilo Facebook poche foto ma sorridenti. A chi le chiedeva come stava, lei: «Benissimo, grazie».

Martedì il Lecce, il club dove Liverani ha allenato per tre stagioni, dal 2017 al 2020 conquistando una doppia promozione dalla serie C alla B e dalla B alla serie A, ha dato l’annuncio del lutto sui propri profili social e ha testimoniato così la vicinanza alla famiglia. Poi Cagliari, Palermo, Cosenza, Perugia, Viterbese, Napoli, Lazio: tutti i club dove Liverani è stato calciatore hanno scritto un messaggio per Federica. Romana, dal carattere esuberante. Solare, e per questo mai veramente sconfitta dalla malattia: chi le è stato vicino la racconta esattamente così. Ha combattuto insieme con i suoi ragazzi, ha avuto il sostegno del marito Fabio anche se di fatto marito non lo era più. E probabilmente, gelosa com’è sempre stata della sua vita privata, non avrebbe immaginato che di lei si sarebbe parlato così tanto, dopo. Neanche da sposa del calciatore famoso le era stata riservata tanta notorietà. Lei, la spalla di Fabio, che da ragazzino ha fatto fatica a entrare nel mondo del professionismo, ha vissuto bocciature e soddisfazioni che la carriera gli ha riservato. In silenzio, senza ribalte.

Federica e Fabio da separati hanno condiviso la crescita dei figli, che oggi hanno 17 e 13 anni. Hanno scelto insieme di far parte di una struttura, la «IFO», dedicata ai pazienti oncologici che ha aiutato Federica durante la malattia. L’allenatore del Cagliari sui social ha ringraziato tutti e ha voluto assecondare l’ultimo desiderio di lei: aiutare l’associazione che si occupa dei malati oncologici e che ha provato a salvarla. «Federica — ha scritto Liverani su Instagram — ha espresso il desiderio di aiutare IFO, la struttura che ha offerto a lei e alla nostra famiglia un supporto tanto prezioso e importante». Spiegandone le finalità: «La missione è ridisegnare l’organizzazione attorno alle esigenze del paziente e dei suoi familiari, partendo dall’informazione fino all’accoglienza, all’orientamento e alla dimissione». I funerali stamattina a Roma nella Chiesa di San Giuseppe Cafasso.

Fabio Liverani e la morte della moglie Federica: «Eravamo separati ma per lei avrei dato la vita». Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2022.

L’allenatore del Cagliari e i nove anni accanto a Federica malata di tumore: «Ho pensato anche di lasciare il calcio ma lei non me lo avrebbe permesso»

«Mia moglie era forte, ha combattuto fino alla fine. Mia moglie non c’è più». Fabio Liverani e Federica Frangipane non erano più sposati ma l’allenatore del Cagliari fa fatica a parlare della madre dei suoi figli, Mattia e Lucrezia, come di una ex. E non perché era malata. «Per il rapporto che c’era tra di noi: sereno e di affetto, anche per i ragazzi. Forte», dice. Federica aveva 46 anni, combatteva contro il cancro da nove.

Fabio, ci racconta la donna che ha sposato?

«Dire oggi che la mia ex era una donna dolce e di grande carattere può dare l’impressione del solito cliché: parlar bene di chi non c’è più. Le assicuro, invece, che Federica era proprio così. L’ho conosciuta ragazzina, aveva 13 anni, ed è stata una storia bella, bellissima. Anche quando tra di noi le cose hanno cominciato a non funzionare più».

Stavolta l’ha chiamata ex.

«Capita quando ci penso un po’ di più, ma d’istinto dico moglie. L’amore può finire, il bene era e resterà per sempre. Mattia e Lucrezia ci hanno vissuti così: due persone che hanno continuato a rispettarsi e stimarsi. Federica è stata la mia gioventù, le mie delusioni, i miei successi».

Poi?

«Poi, poco prima che si ammalasse, sono cominciate le incomprensioni. E la crisi definitiva del nostro matrimonio. La prima diagnosi non era terribile: un meningioma, un cancro al cervello di natura benigna. È stata operata una prima volta, poi è ricomparso ancora e ha subito il secondo intervento. Fino alla terza operazione, a quel punto non era più un male da poter combattere. Lei ha creduto di potercela fare fino a sei mesi fa. Sorrideva e lottava. Federica voleva vivere, per i nostri figli. Federica era la vita».

Lei per lavoro è lontano da Roma, come ha gestito la situazione. E come farà ora?

«Adesso alleno a Cagliari, dopo le partite andavo a casa a Roma. Da lei, dai ragazzi. L’ho fatto anche sabato scorso: Federica era costretta a letto, la malattia le aveva compromesso la mobilità di arti e muscoli. Stava male, non immaginavo però che due giorni dopo l’avrei persa. L’avremmo persa, tutti».

Ha mai pensato di lasciare il calcio?

«Per Federica ero pronto a sacrificare tutto. Lei non me lo ha permesso».

Anche la carriera?

«Avrei dato la mia vita se fosse servito a salvarla. Aveva ancora tanto da dare. I suoi desideri in punto di morte sono stati per gli altri».

Si riferisce all’iniziativa che ha messo in piedi suo fratello Emiliano e che lei ha condiviso sui social?

«Sì, di sostenere economicamente l’Ifo, la struttura ospedaliera che frequentava. Hanno attrezzature non nuovissime, ci sono tanti pazienti che hanno ancora speranze. Federica ha insistito molto. “Aiutiamoli, mi diceva”. Mio cognato si sta occupando della raccolta dei fondi».

Che cosa resta di Federica?

«La sua bontà, il suo sorriso. Resta anche l’affetto che il mondo del calcio sta dimostrando alla mia famiglia. È un mondo visto come privilegiato e basta. Invece ho scoperto sentimenti autentici. Veri. Sono qui a Cagliari ad allenare i miei ragazzi. Mi aiuta».

Manlio Scopigno, il filosofo in panchina che zittiva i prof all’università (e morì dimenticato). Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022. 

Gian Antonio Stella racconta l’allenatore di culto - e poi giornalista - Manlio Scopigno 

«Diventai filosofo ad honorem anche se all’università su Kant e Hegel risultavo una frana. Lo scherzo è durato oltre vent’anni. Lasciavo credere...», confidò ironico anni dopo Manlio Scopigno al nostro Franco Melli. 

«Mai rifiutata un’etichetta, ci mancherebbe altro. Dicevano, ad esempio, che nelle mie squadre regnava l’indisciplina, che battevo la fiacca, che trascuravo la parte atletica. Così noi smidollati andammo a vincere 4-0 a Torino, nell’ultima fatica della stagione dello scudetto». 

Lo smidollato numero uno, ovvio, era lui: figlio di un forestale appenninico nato a Paularo, un paese della Carnia ai confini dell’Austria ma cresciuto a Rieti e deciso fin da ragazzo a coltivare insieme due grandi passioni: il calcio e la cultura. Un’abbinata che a vari maestri del pallone e docenti universitari pareva insensata. 

Sergio Campana, centravanti del mitico Lanerossi Vicenza, laureato in giurisprudenza e per quarant’anni guida dell’associazione calciatori, ride ancora del conflitto: «Ero seduto su una panchina e studiavo non so quale testo universitario quando l’allenatore si avvicinò, mi squadrò e mi disse dandomi del lei: “Lei sta troppo seduto, i muscoli si irrigidiscono”. Dissi: “Quando andiamo col treno in trasferta come a Napoli, però, gli altri giocano a carte e restano seduti tutto il viaggio...”. “Cosa c’entra? Un conto è giocare a carte, un altro studiare. Non va bene”». 

Al «Filosofo», racconta il giornalista e saggista Luca Telese nei due libri pieni d’amore, aneddoti, storie sarde sul Cagliari del leggendario scudetto del 1970 («Cuori rossoblù» e «Cuori campioni») andò tutto al contrario. Lui, che amava i libri, a qualche professore non piaceva proprio. Era un intruso. Iscritto alla Sapienza di Roma, studente lavoratore dal mestiere un po’ anomalo, il giovane stava reggendo con piglio sciolto l’esame di letteratura italiana con l’assistente quando l’Ordinario, come Manlio si sarebbe sfogato anni dopo raccontando tutti i dettagli all’amico e scrittore Luciano Bianciardi, s’intromise di colpo con una domanda velenosa: «Scopigno, mi scusi: ma lei mi sa dire perché un calciatore, nella vita, dovrebbe avere bisogno una laurea in Lettere?». 

Sorpresa. Silenzio. Imbarazzo. 

Il ragazzo risponde: «No, io non glielo posso dire». Pausa. «È lei, professore, che dovrebbe spiegarmi perché mai un calciatore non dovrebbe ambire a una laurea in Lettere».

Una sfida.

Insiste il docente: «Vede, Scopigno, in questa società, che qualcuno vorrebbe sovvertire, tutto funziona bene perché i professori fanno i professori, i panettieri fanno i panettieri e gli uomini che amano correre in mutande per la gioia del pubblico fanno i calciatori». Uno schiaffo, scrive Telese: «Poi il cattedratico afferra la Divina Commedia e senza nemmeno aprirla, ma impugnandola a due mani come un’arma, cita dei versi: “Lo maggior corno della fiamma antica / cominciò a crollarsi, mormorando...”. Scopigno li conosce bene: “È il XXVI canto, quello di Ulisse”, dice. “La fiamma della sua anima dannata racconta a Dante della spedizione verso l’ignoto, il suo ultimo viaggio oltre i confini del mondo conosciuto...”» E via così. 

Non era tipo, il giovane Manlio che si illudeva allora di diventare un grande terzino prima alla Salernitana e poi al Napoli prima di essere costretto a smettere a causa di un bruttissimo incidente di gioco, da farsi strapazzare in quel modo. E l’avrebbe più volte dimostrato. Un esempio? La reazione annoiata alla sgarbata lettera di licenziamento ricevuta dal presidente del Bologna, che l’aveva da poco assunto dopo quattro anni di successi a Vicenza ed era deluso dall’infelice avvio dei rossoblù nel campionato 1965/66: «Se l’ho letta? Sì, purtroppo: ci sono due errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato». 

A farla corta: filosofo o no, in un mondo in cui la cultura non ha mai contato nulla e ancora pochi anni fa ha visto uno come Gigio Donnarumma rinunciare alla maturità per andare in vacanza a Ibiza, lui spiccava come Socrate o Schopenhauer. E ne approfittò, da buon Seminatore d’oro (premio guadagnato nel ‘67 dopo un fantastico campionato col Cagliari e dal Cagliari ricambiato col licenziamento in tronco per una notte brava durante una tournée americana quando, sfatto dall’alcool, osò far la pipì in un vaso di fiori nel giardino della nostra ambasciata a Washington) per seminare decenni di battute memorabili. 

Il tutto dopo aver esordito al suo arrivo tra i rossoblù promettendo: «Con il whisky ho chiuso definitivamente. D’ora in poi, solo champagne». Fu forse il primo a rompere certe ipocrisie prima dello scandalo del calcio-scommesse: «Nel calcio la cosa più pulita è il pallone. Quando non piove». Il primo a costruire una squadra spettacolare in grado allo stesso tempo di difendersi (record: undici gol subiti nel 1969/70) come nessuna prima e nessuna dopo: «Non capisco perché il catenaccio a dieci difensori fissi venga considerato vergognoso, mentre la zona a dieci difensori, uno accanto all’altro in successive linee, è arte e modernismo». 

Il primo ad abolire i ritiri ancora oggi usati da tanti suoi colleghi: «Sono invenzioni di allenatori questurini, avidi di lucrare perfino sulla diaria». Il primo a ridere delle elucubrazioni di tanti «maghi» schiavi di schemi e algoritmi: «Ho avuto una intuizione tattica geniale per raggiungere l’obiettivo dello scudetto: fare più reti e prendere meno goal». Il primo a sbuffare contro le comparsate televisive: «Sono un allenatore, non una soubrette: purtroppo mi mancano le belle gambe». 

E ancora fu tra i primi, nella scia di Nereo Rocco (che negli spogliatoi d’una finale di coppa aveva diluito la tensione radunando tutti a partire dal portiere Fabio Cudicini: «Bon, la tatica xè questa: ti, Fabio, ti sta in porta. Tuti i altri fora») a cercare di parlare, parlare sul serio, coi suoi giocatori. Avete presente i «sergenti di ferro»? Lui era il contrario: «Con Gigi Riva, amico di sempre, compagno di stanza al Cagliari e in nazionale, erano non meno di 40 Marlboro rosse a testa al giorno», racconterà Ricky Albertosi a Giancarlo Dotto. «Le nostre camere parevano fumerie. L’anno dello scudetto, un venerdì sera, antivigilia di Lazio-Cagliari, decisiva, imbastiamo un poker a quattro nell’albergo del ritiro romano. Io e la mia fortuna sfacciata, l’impenetrabile Riva, Angelo Domenghini e Sergio Gori, che bastava guardarlo in faccia per capire cosa aveva in mano. Intorno al tavolo, il resto della squadra a tifare. Assatanati. Litri di birra e decine di sigarette. Alle due e mezzo ci viene fame. Ordiniamo panini. Bussano alla porta, mi trovo davanti Manlio Scopigno, che avanza nella stanza facendosi largo in una nuvola di fumo. Rimaniamo tutti col fiato sospeso. Lui ci guarda e fa: “Do fastidio se fumo?”». «In mezz’ora eravamo tutti a dormire, ricorderà a Telese il mitico Gianluigi Cera, «E il giorno dopo vincemmo 3 a 0». 

Osannato prima per il miracolo del Vicenza, poi per essere stato il primo a vincere uno scudetto con una provinciale e senza acquisti miliardari, diceva: «Io non recito. Il calcio è un castello le cui fondamenta sono edificate sulle bugie. Io dico pane al pane e brocco al brocco, e passo per un tipo bizzarro». 

Costretto da problemi di salute e difficoltà crescenti nel reggere lo stress a lasciare prima la Roma e di nuovo il Vicenza che aveva creduto nella sua ripresa, mollò il calcio che non aveva ancora cinquant’anni. 

Dipinto tutta la vita con l’eterna sigaretta in bocca, cercò di restare nel giro come giornalista sportivo e s’inventò sul Giorno la rubrica «Senza filtro», dove cesellava cronache, ritratti e commenti, come scriverà Giulio Giusti nel libro Un filosofo in panchina, «mai banali o scontati, sempre propositivi e arguti». 

Se ne andò, ormai dimenticato, nel settembre ‘93. Nella sua patria adottiva, Rieti. 

In una delle ultime interviste, tempo prima, aveva malinconicamente raccontato a Melli: «Non fumo più. I polmoni riposano dal 1976. Mi sono sentito male a Vicenza. Poi la guarigione, la lista delle proibizioni, l’attesa accanto al telefono. Qualche dirigente chiamerà... Invece niente...».

Walter Mazzarri esonerato dal Cagliari. Chi è l’allenatore tra Cassano, l’Inter, la pioggia, l’inglese poco fluente e le ville di lusso. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2022. 

Il tecnico toscano, tornato in panchina dopo un’assenza di un anno e mezzo, non parteciperà alle ultime tre sfide salvezza. La carriera fra alti e bassi di un personaggio sempre originale.

Cagliari e l’esonero

È terminata dopo 34 partite — 32 di campionato e 2 di Coppa Italia — l’avventura di Walter Mazzarri sulla panchina del Cagliari. Il 2 maggio 2022 infatti i sardi hanno annunciato il suo esonero, seguito sconfitta interna con il Verona, la settima nelle ultime otto gare. Al suo posto, per le ultime tre giornate di campionato, ci sarà molto probabilmente Alessandro Agostini, ex difensore rossoblu’ e in questa stagione allenatore della Primavera, ma sull’avvicendamento si attende ancora la conferma da parte del club. Mazzarri era subentrato a Leonardo Semplici, a sua volta allontanato dopo le prime tre giornate di campionato.

Cagliari, cifre nere

Come detto, l’allenatore — che il primo ottobre 2021 ha compiuto 60 anni e la cui ultima esperienza, prima di quella sull’Isola, era stata al Torino fino al febbraio 2020 – era tornato su una panchina dopo un anno e mezzo. Aveva firmato un contratto biennale, ma in 34 incontri ha rimediato solo 7 vittorie — compresa quella in Coppa Italia contro il Cittadella — e 18 sconfitte.

Il maestro

Buon calciatore, chiusa la carriera da centrocampista nel 1995 alla Torres, Mazzarri inizia la sua nuova vita da allenatore come assistente di Renzo Ulivieri a Bologna dal 1996 al 1998 e quindi a Napoli nel 1998. Poi allena la Primavera degli emiliani e ad Acireale, in provincia di Catania, fa il salto in prima squadra. Poi allenerà Pistoiese, Livorno, Reggina, Sampdoria, Napoli, Inter, Watford e Torino. Sulla panchina della Reggina compie un vero miracolo nel 2006-07. Per le vicende di Calciopoli la squadra calabrese aveva avuto 11 punti di penalizzazione. Nonostante questo, Mazzarri guidò la Reggina alla salvezza e senza quel -11 il club si sarebbe qualificato in Intertoto.

La relatività dei successi

Sui palmares, Mazzarri (che vanta solo una Coppa Italia col Napoli nel 2012) ha una teoria che ha ribadito spesso, soprattutto quando vengono fatti paragoni con altri allenatori più vincenti: le valutazioni vanno commisurate ai mezzi a disposizione di un allenatore e di un club. «Basta andare a scorrere gli almanacchi: Reggina salvezza storica, Livorno ritorno in A dopo 55 anni, Sampdoria rinata, Napoli preso al sestultimo posto e portato in Champions. Quinto con l’Inter in un momento storico difficile per il club e a Torino il record dei 63 punti. Le sembra poco? Poi, certo, c’è chi dice: ma cosa ha vinto? Molte volte in questo ambiente, sbagliando, si parla di vincenti e non vincenti. Il lavoro dell’allenatore va valutato in base alle forze che ha. Chi consegue risultati superiori alle aspettative vince uguale».

Cassano e la mano davanti alla bocca

«La mano davanti alla bocca? L’ho inventata io alla Sampdoria per parlare con Cassano». Sono le parole di Walter Mazzarri quando con l’Inter vinse a Marassi per 4-0 contro la sua vecchia squadra. Quella della mano davanti alla bocca è l’usanza tipica di Mazzarri con i suoi giocatori per non far leggere il labiale alle televisioni. Dal 2007 al 2009 con «Fantantonio» sembra abbia funzionato questo metodo: «Sono stato uno degli allenatori a cui ha dato più retta. Con me ha fatto due grandi annate e ha riconquistato la Nazionale. Ma è stata una gestione faticosa».

La pioggia (e altri alibi)

Già sui social in queste ore qualcuno ricorda i vecchi alibi di Walter Mazzarri. Si parte dalla sua esperienza al Napoli (quadriennio 2009-2013) quando dopo la sconfitta contro il Viktoria Plzen disse: «Abbiamo sbagliato l’approccio. Oggi era il compleanno di Cavani e siamo stati troppo molli». Però, quella più ricordata è la famosa giustificazione dopo un pareggio contro il Verona quando allenava l’Inter: «La squadra era decimata e poi nel secondo tempo ha cominciato a piovere». Era il 9 novembre 2014: cinque giorni dopo, il 14 novembre, viene esonerato per la prima volta in carriera e sulla panchina nerazzurra torna Roberto Mancini.

La giacca strappata

Non è stato il primo e non sarà l’ultimo. Ma nella sua carriera Mazzarri è famoso per strapparsi (o semplicemente togliersi) la giacca quando le cose vanno male. Dalla panchina, storicamente, il tecnico è irrequieto e cerca in tutti i modi di incitare la squadra per trovare la vittoria. A Napoli il gesto di Mazzarri di togliersi la giacca era anche scaramantico, in quanto, dopo che restava solo in camicia, la squadra spesso segnava.

I dettagli

Dopo le partite, Mazzarri vuole riguardare i match a ripetizione per studiare la gara e prendere appunti. A volte va avanti così fino all’alba, si fa bastare qualche panino per cena e, anzi, spesso il pranzo gli veniva servito negli spogliatoi. Quest’ultimi sono il vero domicilio di Mazzarri, che di suo ha sempre dormito poco.

La cattedra

A luglio Mazzarri ha esordito a Coverciano come relatore nel corso Uefa A, giunto alla sua sesta e ultima settimana del programma didattico. Una presenza che il sito ufficiale della Figc ha definito «d’eccezione» proprio per l’esperienza che l’allenatore toscano ha potuto mettere al servizio dei corsisti. L’Uefa A è il secondo massimo livello di formazione per un tecnico riconosciuto a livello europeo, la cui qualifica abilita a poter guidare tutte le giovanili (comprese le Primavera), tutte le formazioni femminili (incluse quelle partecipanti al campionato di Serie A) e le prime squadre maschili fino alla Serie C inclusa.

Poco «inglisc»

Mazzarri ha fatto una esperienza mordi e fuggi al Watford (stagione 2016-2017), in Premier League, dove ottiene una salvezza ma anche il secondo esonero della carriera. Di quella avventura rimangono soprattutto le molte critiche per il suo inglese assai poco «fluent».

Manager e real estate di lusso

Intervistato di recente dal Corriere della Sera, Mazzarri aveva parlato del suo periodo senza squadra: «Faccio il manager. Ho messo su ville di lusso che affitto a un target alto. Ho voluto misurarmi con l’economia, sfruttando gli insegnamenti di imprenditori importanti che ho avuto come presidenti: Cairo e De Laurentiis, in particolare. Ho già ospitato vip, personaggi dello spettacolo. Tutti entusiasti. Quando facevo il secondo di Ulivieri e a Napoli lui mi presentò a Ferlaino, gli disse: presidente, il mio vice è un economista e poi un bravo tecnico. E ho indirizzato entrambi sugli investimenti».

IL PARMA.

Da fanpage.it il 6 ottobre 2022.

"Allenare è una cosa che mi manca, ma solo quell’aspetto. Il resto no". Alberto Malesani è l’ultimo allenatore italiano ad aver vinto con un club italiano in Europa ma il calcio per lui appartiene ad un'altra vita. 

Adesso c'è il vino e l'azienda di famiglia, La Giuva, che porta avanti un rapporto indissolubile con le sue radici e la sua terra. L'ex allenatore di Fiorentina, Modena, Palermo, Udinese, Siena e Bologna è stato molto apprezzato per diverso tempo per la modernità delle sue idee e per il modo in cui faceva esprimere le sue squadre: nel 1999 era secondo solo ad Alex Ferguson e Valerij Lobanovs'kyj nella classifica dei migliori allenatori UEFA. L'apice della sua carriera è arrivata a cavallo dei due millenni al Parma, quando i ducali vincono 3 coppe nell'arco di 4 mesi: la Coppa Italia, la Supercoppa Italiana e la Coppa UEFA; ultimo trionfo di una formazione italiana nella competizione.

Un brutto incidente d'auto, nel novembre del 2000, fu il preludio ad un periodo non felicissimo per Malesani: arrivò prima l'esonero con i gialloblù e poi la parentesi all'Hellas, che i suoi vecchi tifosi del Chievo non gli hanno mai perdonato e si concluse con una rocambolesca retrocessione. 

Le esperienze successive vedranno poche gioie e tante delusioni, ma il tecnico di San Michele riuscirà a ritagliarsi il suo spazio per come ha difeso il suo lavoro ai tempi di Panathinaikos e Genoa con due conferenze stampa che sono virali sui social ancora oggi. Queste cose, però, a lui non interessano più: "Ormai ho superato tutto, anche questo". A Fanpage.it Alberto Malesani si è raccontato a 360°, dalla sua carriera da allenatore fino alla sua passione per il vino e alla sua azienda di famiglia, con uno sguardo sul mondo del calcio attuale.

Malesani, l’idea di investire in un’azienda vinicola nacque dopo una trasferta a Bordeaux nel 1999: ci racconta questo momento?

"Lì ho preso la decisione, ma avevo già messo le basi prima. Io sono sempre stato vicino al mondo del vino, essendo cresciuto in queste zone e perché era la passione del mio papà. Lì si è concretizzata un’idea che mi aveva sempre affascinato". 

Com’è la sua giornata tipo oggi?

"Vado a letto presto e mi alzo molto presto la mattina, faccio colazione e raggiungo la cantina dove prendo un altro caffè, così poi posso iniziare la mia attività. Mi occupo soprattutto della parte agricola, che riguarda la terra più che la cantina in sé". 

Con la crisi che incalza e i costi che stanno aumentando, da imprenditore è preoccupato?

"Siamo preoccupatissimi e non bisogna nasconderlo. Stanno arrivando bollette che sono il triplo di quelle normali, soprattutto in un periodo come questo in cui noi lavoriamo molto con i frigoriferi. Dobbiamo appassire le nostre uve, visto che con la Valpolicella si lavora molto in questo senso, e bisogna utilizzare ventilatori. Cerchiamo di andare su vie naturali e abbiamo una piccola parte di sostenibile, ma adesso stiamo cercando di capire cosa fare per il prossimo futuro". 

Che annata è questa del 2022?

“È una bella annata. È partita molto bene e poi è diventata incerta per la siccità. Pur avendo noi l’impianto d’irrigazione, non era sufficiente. Facevamo fatica. Dopo abbiamo avuto l’aiuto dal cielo, perché la natura rimedia a tutto, con le piogge d’agosto. Un po’ meno quantità, ma tanta qualità”.

Segue ancora il calcio o l'ha messo da parte completamente? 

“Lo seguo in modo un po’ distaccato, ma lo seguo. Io tendo a guardare i giovani, ma ci sono degli allenatori che osservo sempre con piacere, tipo Ancelotti che è riuscito a rivincere tanti trofei e fa onore all’Italia confermandosi un grande gestore. Poi c’è Conte in Inghilterra che sta facendo buone cose, così come Spalletti a Napoli. Seguo con interesse Zanetti a Empoli e mi intriga molto De Zerbi al Brighton. Tutte situazioni diverse, ma ti portano a seguire per vedere se c’è qualcosa di nuovo”. 

Lei è l’ultimo allenatore italiano ad aver vinto in Europa ma spesso e volentieri non ha la riconoscenza che meriterebbe. Perché?

“Nonostante siano 8-9 anni che non alleno più, devo dire che mi ricordano in tanti. Anche quando sono in strada o rivedo vecchi colleghi e calciatori. Noto che c’è un aspetto di gratitudine per quello che ho fatto e ho più riconoscimenti adesso che allora”.

La sua ultima esperienza in panchina al Sassuolo durò solo 5 giornate: come la racconterebbe a distanza di anni?

“Era l’occasione per portare avanti le mie idee calcistiche in un club importante, che alla lunga ha mostrato il suo valore con delle basi solide e persone preparate. Purtroppo cinque giornate sono poche ed è difficile far vedere ciò che si ha in mente. Ma è la velocità del calcio, che va più forte di ogni altra azienda e se non si ottengono risultati subito si va incontro a queste cose.

Nel momento in cui si fanno dei resoconti è difficile farli in maniera completa, perché a Sassuolo dopo quelle 5 gare, in cui avevamo affrontato squadre più forti, andavamo a Bologna contro una pari livello. Ma non mi sono mai aggrappato a queste cose nella mia carriera. Non ho nulla contro il club e lo ritengo un’occasione persa per esprimere ciò che avevo dentro”. 

È sempre stato una persona vera, ma il calcio italiano è un posto per persone vere?

"Direi di sì, perché se parli chiaro e sei fedele al tuo pensiero non ti contraddici mai. Questo è importante soprattutto per chi è esposto mediaticamente, come accade nel calcio: essere se stessi è sempre la cosa migliore. Se uno è di natura ‘lamentone’ lo sarà anche come allenatore. Lo stesso anche se uno è sanguigno". 

Se ripensa agli anni chiave della sua carriera, c’è una scelta che non rifarebbe?

“È dura! Nel momento in cui ero all’apice, e venivo fuori da tre anni di Parma con trofei, forse non avrei dovuto accettare la panchina del Verona. Avrei dovuto avere pazienza e aspettare una panchina di pari livello, non fare un passo indietro per tornare a lottare per la salvezza. In realtà, però, non so neanche se sia così corretto fare questo discorso adesso: ho deciso di andare al Verona, dopo essere cresciuto nel Chievo, e ho deciso col cuore. Per vincere bisogna avere la squadra forte, questo penso sia chiaro a tutti, e se vuoi vincere devi avere in mano del materiale importante. Quando si arriva ad un livello e si fa un passo indietro, poi non è facile ritornare di nuovo lì. Il cuore ha prevalso sulla razionalità, ma non ho nessun rammarico. È la vita che va così“. 

Per un allenatore è più importante avere un’idea giusta o saper trasferire quella stessa idea ai giocatori?

“Direi entrambe. Ma c'è una differenza tra le due cose: un’idea probabilmente ce l’hanno tutti ma il difficile è trasferirla ad altri. Chi è piatto non può pretendere di fare nulla, mentre chi ha entusiasmo, passione e esuberanza prima o dopo avrà un’idea che dovrà essere in grado di trasferire". 

Fabio Cannavaro, in un'intervista a Fanpage.it, ha detto che il calcio è qualcosa di ciclico e quando si parla di ‘costruzione dal basso’ non viene menzionato il Parma di Malesani: è d’accordo?

“Io credo che quel Parma lì, sia come idee che come capacità di interpretarle, fosse un bel mix . Sarebbe molto attuale anche adesso. Se lei guarda la finale di Coppa Uefa contro il Marsiglia è difficile inquadrare la linea difensiva che accompagna la palla nel momento in cui si attacca: si notano spesso Thuram e Cannavaro molto vicini alla linea di centrocampo della mia squadra. Vuol dire che avevamo un certo tipo di idee, che adesso sono quasi diventate la normalità.

Però questo non vuol dire che quello è il calcio corretto e gli altri no, dipende molto da che tipo di squadra hai: adesso c’è una controtendenza ad aspettare, di muovere i calciatori sulle linee interne e non esterne. Ci sono tante varianti, l’importante è analizzare e avere sempre l’idea giusta per prendere le contromisure. Il calcio è sempre in evoluzione, ma in generale ha ragione Fabio quando menziona la costruzione di quel Parma: era il 1999, sicuramente eravamo moderni". 

Si parla tanto di scuola italiana e scuola europea, lei crede che davvero ci sia tutta questa differenza nella preparazione e nella lettura delle partite?

“Non credo ci sia più differenza. Dal punto di vista tattico e strategico abbiamo fatto scuola noi, mentre dal punto di vista motivazionale, delle scelte tecniche e della gestione societaria abbiamo fatto un piccolo passo indietro e sono avanzati gli altri. La globalizzazione ha coinvolto anche il calcio, tutto il mondo è paese ormai. Tutti sanno cosa fare e il calcio non è più quello di una volta. Non c’è più il mecenatismo ma tutto è industria”. 

Nonostante lei abbia allenato nel calcio lontano dai social, alcuni suoi video sono virali tutt’oggi: questa cosa le fa piacere oppure le crea un po' di fastidio?

“Ormai ho superato tutto, anche questo. Facciano quello che vogliono, io non ho nulla da dire su quella roba lì. Ho un'età per andare oltre. L’importante è che le persone che ti frequentano ogni giorno sanno come sei, il resto non conta“. 

Oggi c’è la tendenza a esaltare chiunque alla minima cosa positiva al calcio: lei avrebbe avuto un percorso e una storia diversa nel mondo attuale?

“Sarei stato certamente agevolato, soprattutto per come ho vissuto io il calcio in maniera viscerale: probabilmente certe esternazioni e certe esultanze oggi sono normali mentre prima no, così come il modo di vestire. Io venivo considerato un po’ fuori dagli schemi, mentre ora è stato sdoganato un po’ tutto. Giustamente. 

Uno non è bravo quando esulta se la sua squadra fa il quarto gol, mentre è bravo se insulta o fa altre cose in panchina: adesso tutti vengono coinvolti nella festa, magari anche in situazioni non determinanti. Credo che adesso sarei agevolato e non sarei visto come uno che fa le cose fuori dalle regole“.

Qual è la proposta che aspettava per tornare in panchina e non gli è arrivata.

“C'è una proposta che si è mai concretizzata, ovvero quella di non essere mai riuscito ad allenare una nazionale. Non ne ho fatto una malattia ma pensavo di meritarmi questa chance. È l’unica cosa che mi manca. C’è stato qualche abboccamento, ma arrivavo sempre secondo. È l’unico neo della mia carriera, per il resto sono felicissimo e non ho nulla da rimproverarmi”. 

Le manca tanto allenare?

"Qualche allenamento in giro qua e là l’ho fatto, per qualche squadra dilettante della zona. Allenare è una cosa che mi manca, ma solo quell’aspetto di campo. Tutto il resto, il contorno, assolutamente no". 

Le piacerebbe fare il commentatore/opinionista in tv o non l’è mai interessato quel mondo?

“Ho provato ma non sono adatto per fare quelle cose. Ho fatto qualcosa con la Rai, ma dopo un paio di volte ho detto stop. Andare in tv e commentare negativamente un mio collega, sapendo tutto quello che passa, le fatiche e le difficoltà che vive, mi rattristava. Non fa per me. Soprattutto perché quando lo facevano altri con me non mi piaceva moltissimo”. 

Nella classifica dei migliori allenatori UEFA del 1999 si è classificato dietro a due leggende come Ferguson e Lobanovs'kyj: è stato quello il punto più alto della sua carriera?

"Direi di sì. Purtroppo anche qui sono arrivato secondo, ma dietro a Ferguson e Lobanovs'kyj ci può stare". 

È stato Malesani a lasciare il calcio o viceversa?

"Entrambi, direi insieme".

Andrea Schianchi per gazzetta.it il 20 giugno 2022.  

Trent’anni fa, estate del 1992, sbarcò in Italia un ragazzo dallo sguardo furbo e dal sorriso beffardo: Faustino Asprilla. Aveva 22 anni, il Parma lo acquistò dal Nacional Medellin dopo che il capo dei narcos colombiani Pablo Escobar, patron occulto del club, diede il benestare. Velocissimo, estroso, abile nel dribbling, Asprilla conquistò la gente anche per il modo di festeggiare i gol: faceva la capriola. 

E ne fece parecchie: una a San Siro quando, con una punizione deliziosa, nel marzo del 1993, segnò l’1-0 e così interruppe il record di imbattibilità del Milan di Capello (58 gare senza k.o.). Oggi vive in Colombia, a Tulua Valle. Tifa per il Parma, "e per il mio amico Buffon: un fenomeno". 

Come se la passa, Tino?

"Alla grande. Ho un’azienda agricola, vendo canna da zucchero al governo colombiano. E attraverso una campagna pubblicitaria commercializzo preservativi. Sapete, il sesso per me è sempre stato importante...". 

Già, e che cosa ricorda del suo arrivo in Italia?

"La bella vita, le belle donne e... i rubinetti". 

I rubinetti? Ci spieghi.

"Volevo spedire ai miei familiari in Colombia qualcosa che potesse sembrare molto costoso: vidi dei rubinetti dorati in un grande magazzino, ne acquistai dieci scatole, le mandai in Sudamerica e io, per quelli di Tulua, diventai il riccone che aveva sfondato nel calcio italiano. Credevano fossero d’oro, mica di metallo. Dalle mie parti l’apparenza conta spesso più della sostanza". 

E l’impatto con il calcio italiano come fu?

"Fantastico. Al Parma mi trovai subito benissimo. Avevano appena vinto la Coppa Italia e poi assieme vincemmo la Coppa delle Coppe a Wembley e la Supercoppa Europea contro il Milan. Compagni meravigliosi: Apolloni, Osio, Melli...". 

Con l’allenatore Scala, però, ci furono polemiche.

"Io non stavo alle regole. Un giorno mi voleva far correre attorno ai bastioni della Cittadella e gli dissi che non ero mica Forrest Gump. Il calcio, per me, è sempre stato divertimento. Niente regole, niente schemi". 

Il calcio di oggi le piace?

"Lo guardo, ma sembrano tutti soldatini agli ordini dell’allenatore. Se sgarrano, fuori. Ditemi uno che dribbla al giorno d’oggi... Mi piace Vinicius del Real Madrid. 

Com’è la sua giornata-tipo?

"Sveglia a mezzogiorno. Colazione abbondante a base di frutta. Riposino pomeridiano. Doccia, cena e feste fino all’alba". 

E lavorare?

"Ho tanti dipendenti, ci pensano loro. Io dirigo. E a volte gioco ancora a pallone: ho una squadretta, qui a Tulua". 

Con il calcio si è arricchito?

"Mi ha permesso di vivere come faccio ora. Un bel privilegio". 

Le sue bravate hanno fatto storia: ricorda quella del gennaio 1995?

"Festeggiai il Capodanno sparando in aria quattro o cinque colpi di rivoltella, che cosa volete che sia dalle nostre parti? Solo che io ero un personaggio famoso, i poliziotti mi portarono in caserma, chiamarono i dirigenti del Parma che dovettero pagare la cauzione. E la domenica dovevo essere in campo perché c’era Parma-Juventus. Diciamo che non mi preparai al meglio". 

E quella volta che finì sulle prime pagine dei quotidiani per la relazione con una soubrette?

"Non era vero nulla, mai stato con quella ragazza. Mi misero in mezzo. Però le donne mi sono sempre piaciute, e parecchio. Una volta ho anche posato nudo per un giornale italiano, e il cavalier Tanzi, che mi voleva bene ma andava a messa tutte le domeniche, si arrabbiò moltissimo. Il fatto è che di fronte a una bella donna non so resistere: devo corteggiarla. Infatti, dopo il divorzio da Catalina, non mi sono mai più sposato. Tante relazioni, ma nessuna fissa. Sa che cosa facevo con i miei compagni al Parma?". 

Ci racconti.

"Ci allenavamo in Cittadella, a trecento metri dallo stadio Tardini. Per raggiungere il campo usavamo un pullmino. Alla fine dell’allenamento io mi mettevo alla guida e, anziché rientrare al Tardini per fare la doccia, con altri sei o sette andavamo in giro per Parma a salutare le belle ragazze e le commesse dei negozi. Questo era il mio mondo: libero, puro". 

E quando pensò di aver ucciso il presidente Pedraneschi?

"Mamma mia che paura! Per scommessa, da centrocampo calciai forte con l’intenzione di colpirlo proprio in testa, e ci riuscii. Lui cadde, sembrava morto. Non mi diedi pace finché non lo rimisero in piedi".

Faustino Asprilla, che fine ha fatto: il Parma dei sogni, Pablo Escobar, film a luci rosse, l’azienda di preservativi. Cosa fa oggi. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 7 marzo 2022.

L’ex attaccante del Parma e una vita piena di gol e pasticci. Compreso un arresto, dovuto alla sua passione per le armi. Oggi, tra le altre cose, vende condom.

Dal Parma ai condom

Gol, capriole, donne e risate. Imprevedibile e divertente, salvato dal pallone. Tino Asprilla, nato a Tuluà, centro chilometri da Calì, 52 anni fa e una vita da film tra calcio, armi da fuoco, narcotrafficanti, scherzi. Era nel Parma con un talento generale enorme, è passato dal Newcastle, con la sua Colombia come stella polare. Dopo il ritiro si è dato al mercato dei condom. Sì, questa è solo l’ultima attività, legata evidentemente alla passione più grande. Ma che fine ha fatto? Cosa fa oggi Asprilla?

Al Parma dopo l’ok di Escobar

Nella valle del Cauca, casa, era cosa normale girare armati di machete. Anche da bambini, Così fa Tino, che sognava di diventare un musicista di salsa ma era bravo e veloce con il pallone tra i piedi. Ai tempi del Cucùta Deportivo, la sua prima squadra, lo chiamavano «Pulpo» per la sua corsa scoordinata ma fluida. Arriva al Parma dall’Atletico Nacional, 3 miliardi e 750 milioni di lire, dopo aver ricevuto il benestare di Pablo Escobar. Sì, i cartelli della droga controllavano an che il calcio. A Parma lo chiamano «Tiramolla» e resta quattro anni: segna, fa capriole, combina pasticci, vince Coppa Italia, Coppa Uefa, Coppa delle Coppe e Supercoppa europea.

La multa mangiata

Negli anni al Parma si diverte e fa guai. Mangia, letteralmente, una multa da tre milioni di lire a tavola, con i compagni attoniti accanto. Compra ogni settimana dei rubinetti e li spedisce in Colombia. In un mese compra quattro auto, tutte Toyota. Il concessionario con quell’incasso se ne va alle Seychelles.

La storia con Petra Scharbach

Ha anche una storia d’amore, o presunto tale, con Petra Scharbach, bionda starlette della scuderia di Riccardo Schicchi, l’agente di Cicciolina. Petra un giorno decide di raccontare le acrobazie fuori dal campo di Tino, a suo dire «un superdotato da aver paura». Asprilla nega, lei conferma. Anche a distanza di anni. Nel 1993 posa nudo per una rivista, la didascalia sotto la foto recita: «Quello che vedete qui sopra è il mio regalo per le donne colombiane. E spero che i mariti non ci rimangano male».

Notti brave

Donne e sesso, anche prima delle partite. Come prima di una sfida contro il Napoli: «Il proprietario dell’hotel dove stavamo in ritiro era molto amico di Scala e aveva una figlia molto carina con cinque amiche che studiavano a Parma ed erano sempre lì. Una notte mi chiamano dicendo: “Vieni in questa camera’, sono andato. Non ricordo chi ci fosse con me, credo Crippa. Siamo stati fino alle 5 della mattina, ci siamo divertiti. Poi abbiamo giocato contro il Napoli e abbiamo perso 3-1. Non abbiamo dormito, abbiamo fatto festa tutta la notte, era impossibile vincere in quelle condizioni».

Lo scherzo di Shearer

Gioca due anni al Newcastle, dove stavolta è lui vittima di uno scherzo sui generis: «Il più brutto me l’ha fatto Alan Shearer. Eravamo a Londra, dovevamo giocare contro l’Arsenal ed ero in camera al telefono con la mia fidanzata —ha raccontato di recente—. Avevamo stanze singole. Sento graffiare fuori, poi a un certo punto suonano alla porta. Dico alla mia ragazza di aspettare al telefono. Metto l’occhio nello spioncino e quel pazzo mi ha messo l’estintore diretto verso l’occhio. Ho iniziato a non vedere nulla e a correre. La mattina dopo, a poche ore dalla partita, non vedevo nulla da un occhio. Era gonfio».

Salva la vita a Chilavert

Asprilla ha anche salvato una vita, quella di Jose Chilavert. Il 2 aprile 1997 è ad Asuncion per Paraguay-Colombia, qualificazioni ai Mondiali di Francia. A fine partita litiga furiosamente con il portiere icona paraguaiano: uno sputo, pugni, rosso diretto per entrambi e lite che prosegue anche negli spogliatoi. Poi riceve una telefonata da Julio Fierro, narcotrafficante colombiano, uno degli uomini di Pablo Escobar. «Mi chiama e dice “Puoi venire qui al mio hotel?” —ha raccontato di recente l’ex attaccante del Parma —. Sono arrivato ed era con altre 10 persone, tutte ubriache e accompagnate da donne paraguaiane. Sono andato con Aristizábal e ci hanno detto “Abbiamo bisogno che tu dia l’autorizzazione perché questi due uomini rimangano qui ad Asunción, vogliono uccidere quel ciccione di Chilavert”. Gli ho detto che era pazzo. Quel che succede in campo finisce in campo».

La passione per le armi

Ha sempre avuto una passione per le armi. Nel 2008 viene arrestato in Colombia per «possesso illegale d’arma da fuoco riservata all’uso militare». Un vigilante lo blocca mentre rientra in casa in compagnia di due donne, lui spara con una mitragliatrice allo stand dove si trova la guardia. «Mi hanno tenuto in carcere dieci giorni», dichiarerà poi, «e mi hanno fatto uscire perché non ne potevano più di me».

Attore in film a luci rosse

Uomo dai sogni particolari, Asprilla: «La cosa più audace che ho fatto — ha raccontato in un’intervista a Cromos —è stata fare l’amore ad alta quota su un volo da Bogotà a Londra. Il mio sogno è farlo in un campo da calcio con le tribune piene: se la gente apprezza ti applaude altrimenti può lanciarti sassi e pomodori». Negli anni gli è stato chiesto più volte di partecipare a clip video e anche film a luci rosse. Anche di recente, nel 2017, quando a provocarlo è stata la pornostar colombiana Amaranta Hank. Asprilla ha sempre rifiutato.

Vende preservativi

Nel 2014 l’ex attaccante di Newcastle e Parma si è trasformato in imprenditore: ha fondato la Tino Condones, una linea di preservativi. Promuove il suo marchio in uno spot con Valderrama con l’ironico slogan: «El Tamaño conta», ovvero «Le dimensioni contano». Un’idea nata per promuovere abitudini sessuali sane: «Consiglio a tutti i condom al sapore di guaiava. Quando ero piccolo avevamo nel nostro giardino un albero di guaiava e questo aveva un gusto e un sapore che s’addice tanto alle relazioni amorose». Oggi Faustino gestisce lo zuccherificio San Carlos, quello in cui suo padre ha lavorato per tutta la vita e ha la sua azienda di condom. Gira per il mondo, spesso torna a Parma ad incontrare i vecchi amici.

Dino Baggio. Dino Baggio compie 51 anni: la Juve, dieta vegana, attore a teatro, il guru della medicina alternativa. Che fine ha fatto. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022. 

L’ex centrocampista di Juventus, Parma, Lazio e Nazionale il 24 luglio 2022 compie 51 anni. Ha abbandonato il mondo del pallone. Segue i due figli, calciatori, e si affida a un guru della riflessologia per curare i dolori fisici. Non usa medicinali comuni, ma si è vaccinato

Compie 51 anni

Un cognome importante, legato per sempre al pallone. Baggio ma non Roberto, Dino. Tante volte gli hanno chiesto se fosse un parente del Divin Codino, un cugino magari. Non è così, Dino Baggio da Camposampiero, provincia di Padova, è stato uno dei migliori centrocampisti d’Italia negli anni ’90, finalista al Mondiale americano con la Nazionale: ha vinto tanto, Juventus, Parma, è ancora primatista di reti in Coppa Uefa, l’attuale Europa League. Oggi domenica 24 luglio 2022 compie51 anni: una data importante per un personaggio lontano dagli schemi, che ha scelto di allontanarsi dal mondo del calcio.Si è dato al teatro, è astemio, segue un regime alimentare vegano dopo essersi affidato a un guru della riflessologia plantare. E non solo questo. Che fine ha fatto il secondo Baggio più importante d’Italia?

L’omonimia con Roberto

Andiamo con ordine, iniziamo proprio dall’omonimia che si è portato dietro per una carriera intera. Quella con Roberto, condividono il cognome. «In tanti ancora mi chiedono se siamo fratelli. Non mi è mai pesato avere un cognome così importante. Anzi. Roby è stato uno dei forti giocatori al mondo, io ero solo contento che mi abbinassero a lui». Non sono parenti, ma sono ancora amici, anche a distanza di anni dal ritiro: «Lo sento spesso, quando capita ci vediamo, lui è un vero amico. Poi tra gli ex compagni ho buoni rapporti con Benarrivo e con Orlandini».

Ferito da un coltello lanciato dagli spalti

Con loro era al Parma, dove arriva dopo anni alla Juventus e con cui vince due volta la Coppa Uefa, poi una Coppa Italia e una Supercoppa. Ed è incolpevole protagonista di un curioso episodio. Durante i sedicesimi di finale di Coppa Uefa del 1998, contro il Wisła Cracovia, viene ferito alla testa da un coltello a serramanico tirato in campo da un tifoso polacco: se la cava con cinque punti di sutura e un grande spavento. E a fine stagione il Wisła viene sospeso dalle coppe europee per un anno e il suo Parma vince la competizione (terzo successo per Dino).

Il gesto dei soldi all’arbitro e la maxi multa

Serio e composto in campo, sempre. Tranne un giorno, nel 2000. Parma-Juventus, l’arbitro Farina gli mostra il cartellino rosso. Lui risponde mimando il gesto dei soldi tra le mani, come li stesse contando. Prende sei giornate di squalifica, una maxi multa da 200 milioni (di lire) e viene escluso dalla Nazionale: «Quel gesto mi è costato carissimo ma lo rifarei ancora un milione di volte», ha raccontato di recente. «Ce l’avevo col sistema non con l’arbitro ma anche facendo quel gesto plateale non è cambiato nulla. Dopo comunque si è visto cos’è successo con Calciopoli».

La moglie ex Non è la Rai

Baggio ha sposato l’ex volto di Non è la Rai Maria Teresa Mattei, che per lui lascia Roma e la carriera in televisione. Si conoscono quando Baggio gioca a Parma. «Ho continuato a lavorare a Buona domenica, per mesi ho fatto su e giù da Roma a Parma. Mi pesava, anche perché sapevo che Dino avrebbe potuto cambiare diverse squadre negli anni e non avere una casa fissa. Non mi piaceva stargli lontano, non credevo in un rapporto a distanza e temevo che alla lunga la nostra storia ne avrebbe risentito. Così quando mi ha chiesto di sposarlo ho deciso di mollare tutto per seguirlo». Abbandona i riflettori senza rimpianti, visto il clima di competitività e invidia che si era instaurato dietro le quinte del programma di Boncompagni. Con tanto di litigio con una delle più celebri colleghe, Ambra Angiolini: «Ha smesso di salutarmi e ha cominciato a evitarmi. Qualcuna delle ragazze, gelosa del rapporto che avevo con Ambra, aveva messo in giro la voce che ne parlavo male. Non ho mai saputo chi fosse, purtroppo quelle cose accadevano in un ambiente in cui si sgomitava per mettersi in luce». Sono ancora insieme, inseparabili.

Allenatore delle giovanili

Dopo il ritiro dal calcio, nel 2008, per un po’ ha allenato nel settore giovanile del Padova. Poi Montebelluna, dove è rimasto fino a un paio di anni fa. Lascia per un generale disamore verso il pallone e per seguire i suoi figli: «Si sono spostati a Monza. Io ho mollato per stargli vicino —ha raccontato in un’intervista al Corriere dello scorso luglio —. Adesso loro sono a Varese, continuo a seguirli e sono più in autostrada che a casa».

I figli calciatori

Ecco appunto, i suoi due figli calciatori, Leonardo e Alessandro. Il primo, classe 2003, è centrocampista come il papà, mentre il secondo, classe 2002, fa il difensore. «Leonardo è mezzala, centrocampista mentre il secondogenito di Baggio, Alessandro, è esterno destro e difensore destro. Giocano a Varese, in Lombardia. «Il mio impegno ora è di seguire la loro carriera sportiva».

Attore a teatro

Si è anche dato al teatro. Attore, anche se non per molto tempo, scritturato per un fotoromanzo, «La zona VI», insieme alla moglie, in cui interpreta un esponente dell’organizzazione criminale araba al centro di un intrigo internazionale. «È stata una parentesi per beneficenza in paese. Ho fatto tre apparizioni, ma non mi piaceva».

In pista a Misano

La vera passione di Dino Baggio, oggi, quale è? «Correre in pista con le macchine, ogni tanto vado a Misano e guido una Gt3 —ha rivelato—. Mi piacerebbe disputare un campionato di categoria».

Il guru e la medicina alternativa

Dopo il ritiro, per risolvere alcuni problemi fisici, si è affidato a un guru della riflessologia plantare. Una pratica che sostiene che ad ogni parte del piede corrisponda un organo, e che di conseguenza manipolando un punto preciso si vada a «curare» l’organo correlato (cioè riflesso, ecco il perché del nome). Il guru in questione è Michelangelo Chiecchi—incontrato durante un ritiro estivo in montagna, quando ancora giocava alla Triestina —che si definisce «insegnante di vita naturale». «Nel 2006 ho conosciuto Michelangelo ed è stato grazie al suo sistema di salute naturale che sono riuscito a guarire i dolori che avevo a ginocchio, caviglie e schiena —ha spiegato —. Il regime alimentare proposto da Michelangelo mi ha cambiato la vita perché finalmente posso fare a meno delle medicine». Non ne prende più, quando ha la febbre si fa una doccia gelata e annusa essenze. Però si è vaccinato contro il Covid. «È l’unica strada per bloccare il virus».

La dieta vegana

Così ha cambiato vita ed è diventato vegano. Non solo: consuma solo prodotti naturali e biologici. Seitan, ravioli di soia, cose del genere. Ai figli concedeva la coca cola vegana e il latte vegetale (riso, avena). Una filosofia che porta avanti da anni, e di cui è convinto: «La gente purtroppo conosce poco la ricchezza della cucina vegetale e fa fatica ad abbandonare l’idea di eliminare la carne. C’è chi dice che questo tipo di dieta faccia perdere la convivialità ma non è vero. Se mangio fuori mi accontento di un piatto di pasta in bianco o di verdure, se non c’è nient’altro di più appetitoso. La mia priorità è la salute, se devo stare a digiuno, non importa, anche quello non fa mica male».

Andrea Pistore per corrieredelveneto.corriere.it il 17 gennaio 2022.

È stato uno degli emblemi del calcio italiano a cavallo tra gli anni ’90 e il nuovo millennio. Un cognome importante: Baggio, tanto che infinite volte ci si è domandati se fosse un parente, magari fratello o un cugino alla lontana, di Roberto. Dino Baggio, padovano classe 1971, cinquant’anni appena compiuti, detiene ancora il primato di gol realizzati nelle finali di Coppa Uefa, l’attuale Europa League (5, tra andata e ritorno). Per scelta è «uscito» da un mondo del calcio in cui non si ritrova più come racconta senza giri di parole. 

Intanto cosa fa adesso Dino Baggio?

«Fino a un paio di anni fa ero a Montebelluna dove allenavo i giovani e dove giocavano anche i miei figli che poi si sono spostati a Monza. Io ho mollato per stargli vicino. Adesso loro sono a Varese, continuo a seguirli e sono più in autostrada che a casa». 

Quindi ha chiuso definitivamente con il calcio?

«Ho detto basta perché è diventato tutto complicato. C’è molta differenza rispetto a quando giocavo. Adesso ci sono troppi giri strani. Quando vedi i ragazzi che non scendono in campo anche se lo meritano ti tiri fuori e dici basta. In tanti posti sei obbligato a fare determinate scelte e allora non ne vale più la pena». 

Davvero non segue proprio più niente del pallone?

«Guardo qualche partita in televisione. Sono venuti a mancare i settori giovanili e quei ragazzini che facevi crescere. Ormai è più facile prendere uno straniero e pagarlo poco. Un peccato. Ogni tanto vado a vedere la serie la D dove è tutto più genuino». 

I suoi figli però giocano a calcio…

«Sin da piccoli non ho messo veti. Se vorranno continuare bene, altrimenti cambieranno. L’importante è che pratichino sport e che imparino lo spirito di sacrificio. Abbiamo visto alle Olimpiadi che non esiste solo il pallone».

A un certo punto della sua vita ha fatto anche teatro, sta coltivando ancora quella passione?

«No, era stata solo una parentesi per beneficenza in paese. Ho fatto tre apparizioni ma non mi piaceva. Il mio vero hobby è correre in pista con le macchine, ogni tanto vado a Misano e guido una Gt3. Mi piacerebbe disputare un campionato di categoria». 

Torniamo indietro al calcio giocato, è rimasto legato a qualche compagno?

«Con Roberto (Baggio, ndr). Lo sento spesso, quando capita ci vediamo, lui è un vero amico. Poi ho buoni rapporti con Benarrivo e con Orlandini». 

Ci tolga una curiosità, quante volte le hanno chiesto se lei e Roberto siete parenti?

«In tanti ancora mi chiedono se siamo fratelli. Non mi è mai pesato avere un cognome così importante. Anzi. Roby è stato uno dei forti giocatori al mondo, io ero solo contento che mi abbinassero a lui». 

Parlando di allenatori, di Nevio Scala che ci dice?

«È stato uno dei migliori. Mi ha voluto a tutti i costi a Parma. In spogliatoio noi due parlavamo più veneto che italiano, non sempre gli altri ci capivano. Quello è stato il Parma dei miracoli».

Quale la chiave dei successi?

«Avevamo uno squadrone formato tutto da nazionali che ha trovato l’apice con Malesani in panchina. Sono rimasto sette anni coi crociati. Zola era un fenomeno, poi c’era Tino Asprilla, un tipo scherzoso e un uomo spogliatoio. Portava allegria e stemperava la tensione con i suoi balletti e lo stereo sparato a palla». 

Mister Malesani com’era in quegli anni?

«Un innovatore. Mi piaceva il suo metodo. Giocavamo in maniera rivoluzionaria e sempre all’attacco. Ci si divertiva. Lui in carriera avrebbe dovuto essere più diplomatico, ha avuto troppi alti e bassi e ha pagato la poca linearità nei risultati». 

Parma nel cuore insomma…

«Tutt’ora ci torno quando posso e vado a trovare gli amici. Poi amo anche Torino, ma sponda granata, dove ho iniziato la mia carriera nelle giovanili».

E Carlo Ancelotti?

«Anche lui un ottimo tecnico. È un figlio di Sacchi, ha fatto il calciatore ed è sempre stato capace di capire i giocatori anche solo guardandoli. Era avvantaggiato da questo aspetto. Tutti gli abbiamo sempre voluto bene. Dove è andato ha vinto».

Un altro mister che l’ha allenata è stato Trapattoni, con lui avete vinto una Coppa Uefa alla Juventus, aneddoti?

«Un maestro del calcio. Avevo solo 21 anni ma mi ha sempre fatto giocare. Mi diceva “sei il mio Maldini”. Lui aveva una grande dote: a fine allenamento i giocatori dai 28 anni in su venivano mandati sotto la doccia mentre i giovani restavano mezz’ora in campo a fare tecnica tutti i giorni». 

Nell’ultima parte della sua carriera ha provato anche l’esperienza inglese col Blackburn, come mai è finito in Inghilterra?

«Dovevo andarci già 10 anni prima con il Middlesbrough e poi al Chelsea perché mi voleva Gianluca Vialli ma poi non abbiamo trovato l’accordo. Lì il calcio è bello, molto di più che in Italia e ho coronato anche questo sogno».

A proposito di Vialli e della sua malattia, che impressione ha avuto da fuori?

«Ha sempre combattuto da leone, com’è lui caratterialmente. Poi si è visto all’Europeo il carisma. Era l’uomo che serviva all’Italia, anche per quello che gli è successo. Un esempio per il gruppo azzurro. Sono sicuro che molti dei meriti per la vittoria Mancini li abbia spartiti proprio con Gianluca». 

Per lei la Nazionale cosa ha significato?

«Ho fatto 60 presenze, segnando 7 gol. Ero nella selezione di Usa ’94, siamo arrivati in finale di Coppa del Mondo. Noi abbiamo fatto il massimo, poi il resto era una lotteria. Abbiamo perso ai rigori col Brasile e pazienza. Più di così non si poteva fare ma sono pur sempre un vice campione del mondo e pochi giocatori possono vantarsene. Da ragazzino avrei messo la firma per un risultato simile». 

Chi è il giocatore in Italia che in questo momento la convince di più?

«Federico Chiesa. È la copia sputata del padre Enrico, stesso modo di giocare. Mi piace anche Manuel Locatelli».

Lo stadio più bello dove ha giocato?

«Forse quello di New York. Futuristico per l’epoca. Se devo dirne uno in Europa scelgo il Santiago Bernabeu di Madrid». 

Lei nel 2000 prese sei giornate di squalifica (oltre a una maxi multa da 200milioni) perché mimò all’arbitro Farina il gesto dei soldi. Pentito?

«No. Ce l’avevo col sistema non con l’arbitro ma anche facendo quel gesto plateale non è cambiato nulla. Dopo comunque si è visto cos’è successo con Calciopoli».

In questi giorni si è vaccinato ed è finito anche sui giornali locali, come mai ha voluto fare questo appello ai giovani perché si immunizzino?

«È l’unica strada per bloccare il virus e poi senza Green pass non puoi fare niente. Di restrizioni non se ne può più, la gente rischia di impazzire e non possiamo stare chiusi in casa un altro inverno. Speriamo che riaprano gli stadi con capienza al 100%, magari verso ottobre, perché il calcio senza tifosi non è calcio».

L’UDINESE.

Enrico Currò per repubblica.it il 26 ottobre 2022.

Serse Cosmi ha 64 anni e da 32 allena nel calcio, dove ha assaggiato tutte le categorie, dai dilettanti alla serie A, con tanto di incursione in Champions League alla guida dell'Udinese. Ma l'Uomo del fiume, nato e cresciuto vicino al Tevere di cui suo padre era guardiano, si era stancato di navigare: "Avevo esaurito le pile: troppe ingerenze assurde nel calcio italiano". 

Poi, a settembre, è arrivata la Croazia, con la panchina del Rjieka. E adesso lui, che ha assistito da spettatori interessato a Dinamo-Milan (incontrerà prima della sosta la squadra di Zagabria nella Super Sport Nhl, la serie A croata), ha ritrovato tutto l'entusiasmo, senza dimenticare però il fresco passato, che ancora lo addolora. 

Cosmi, che cos'era successo?

"Era successo che in Italia non si può più stare. Non si può più fare il mestiere di allenatore come si deve. Come si dovrebbe. All'estero sono rinato". 

Una folgorazione?

"Il fatto è che qui ho capito di avere perso dieci anni, gli ultimi: tempo sprecato. Qui ho capito subito la differenza". 

Qual è la differenza?

"Il rispetto dei ruoli, il rispetto delle persone. Per me è stata una catarsi, la definisco così". 

Il Rijeka non è una squadra di alta classifica.

"Ma ha strutture incredibili, una società seria. Vado di nuovo ad allenare felice, con tanta voglia di fare il mio lavoro. Da tanto tempo non mi capitava più. Magari avessi avuto il coraggio di andarmene via prima".  

Che cosa la tratteneva in Italia?

"Un preconcetto. L'assurda convinzione che il calcio sia solo in Italia. Ora mi chiedo: ma chi me l'ha fatto fare di sprecare tanto tempo? Ho scoperto un mondo diverso. Parlo in inglese, mi diverto, insegno, trasmetto le mie conoscenze. A parte che i posti, la costa di Opatija dove vivo, sono bellissimi". 

La sua è una scoperta tardiva?

"No, lo ripeto: mi è tornato l'entusiasmo, alleno volentieri. Ho il piacere del confronto quotidiano. E guardi che non sono l'unico a pensarla così. Ne ho parlato con altri colleghi e sono d'accordo con me". 

Ad esempio?

"Un collega molto famoso. Lo incontrai poco tempo dopo che era tornato in Italia e mi disse: sono passati dieci giorni e mi sono già reso conto di avere fatto una cazzata". 

Qual è secondo lei il problema principale del calcio italiano?

"Le troppe cose poco chiare. Le ingerenze. Le commistioni dei ruoli". 

E come si risolve?

"Nella maniera più drastica: cambiando gli uomini".

Cambiando i dirigenti?

"Cambiando gli uomini. Adesso la saluto, devo tornare a Rijeka".

Totò Di Natale compie 45 anni: l’Udinese, il fratello parcheggiatore, le rapine, il dolore per la madre. Che fine ha fatto. Gregorio Spigno su Il Corriere della Sera il 13 Ottobre 2022.

Il bomber di provincia, capace di segnare 209 gol in serie A, è rimasto nel mondo del calcio: ha fatto l’allenatore, ora è vicepresidente di un club in serie D. E non solo. Ecco cosa fa oggi

Il «bomber di provincia»

È stato tra i bomber più prolifici nella storia della serie A, attestandosi al 6° post all-time con 209 gol, con le maglie di Empoli e Udinese. Totò Di Natale, storico ex attaccante e capitano del club friulano, ha compiuto 45 anni il 13 ottobre. Bomber di provincia, con il calcio giocato ha smesso nel 2016, ma la sua carriera è stata costellata da scelte coraggiose e decisioni che lo hanno portato a diventare uno dei migliori attaccanti italiani. Oggi la sua vita è cambiata, ma il calcio è sempre un fedele compagno di viaggio.

Vicepresidente dell’Orvietana

È del settembre scorso la notizia dell’approdo di Totò Di Natale all’Orvietana, club di serie D, con la carica di vicepresidente. Una collaborazione molto attiva quella tra l’ex bomber e l’Orvietana, tanto che Di Natale viaggia spesso insieme alla squadra per seguire da vicino le gare dei «suoi» ragazzi. «Quando giocavo a Roma o a Napoli mi fermavo sempre tre giorni a Orvieto, in questa bellissima città — aveva confessato Di Natale alla sua presentazione —. Sono qui a disposizione del presidente per portare la mia esperienza e migliorare la società». E pure per non perdere di vista il figlio, che dopo aver fatto la trafila nelle giovanili di Fiorentina ed Empoli si è trasferito proprio a Orvieto alla prima esperienza tra i grandi. Si occupa poi della formazione di alcuni ragazzi nelle scuole calcio.

Allenatore alla Carrarese

Di Natale, però, è rimasto molto vicino ai campi da gioco fino alla scorsa stagione: nell’annata 2021-22, infatti, Totò è stato allenatore della Carrarese, in serie C. Ha chiuso la stagione al 10° posto, conquistando un posto per i playoff (da cui, però, la Carrarese è stata eliminata al primo turno). Il contratto che legava club e tecnico è stato rescisso consensualmente lo scorso 11 luglio, e Di Natale, in un’intervista a La Gazzetta dello Sport, ha rivelato: «Ho salvato la Carrarese, l’ho portata ai playoff. Ora aspetto e seguo mio figlio Filippo, classe 2004, che è andato via di casa per giocare a Orvieto in D. Lui sa bene che bisogna partire dal basso».

L’esperienza a La Spezia

Prima di scendere di categoria, Di Natale ha trascorso anche un biennio a La Spezia, tra il 2018 e il 2020. Iniziò ricoprendo la carica di consulente del club e collaboratore tecnico della prima squadra, che ai tempi era stata affidata alla guida di Pasquale Marino (i due avevano condiviso tre stagioni insieme a Udine). L’anno successivo, Totò ebbe la prima esperienza da allenatore vero e proprio con i ragazzini dell’Under 17. Un’esperienza positiva: 7 vittorie e 6 pareggi in 18 gare, con una media punti di 1,5 a partita.

Il no alla Juve

Diventò una vera e propria bandiera dell’Udinese, Di Natale: in Friuli 17 stagioni da professionista, gol, record e soddisfazioni di livello. Dalla Champions League (la stessa del cucchiaio su rigore del «Mago» Maicosuel ma non solo) all’Europa League. Di Natale, con la maglia dell’Udinese, conquistò la vetta della classifica marcatori addirittura per due stagioni consecutive e nel biennio 2009-2011 fecero meglio di lui in termini di gol segnati solo Cristiano Ronaldo e Messi, che però giocavano in Real Madrid e Barcellona: 86 gol il portoghese, 82 l’argentino e 67 Totò. Un legame di ferro quello tra l’attaccante e il club di Pozzo, tanto che Di Natale, pur di restare a Udine, rifiutò l’offerta della Juventus: «Sono fatto così — spiegò in seguito —. Le mie scelte sono sempre state di cuore e di testa, mai di soldi. Alla Juve ne avrei avuti tanti, poi in una società così importante. Ma avevo altre priorità. Il mio procuratore mi chiamò e mi disse che c’era questa possibilità, io risposi: “Ringrazia la Juve, ma io e la mia famiglia restiamo qua a Udine, mi sento uno di loro e mi piacerebbe finire qui la carriera”. Poi ho chiamato il presidente Pozzo e in due minuti si è risolto il problema».

La famiglia: il fratello parcheggiatore e la mamma

Di Natale nasce e v ive i primi anni nella periferia di Napoli, nelle case della ricostruzione post terremoto dell’80. Nel rione popolare di Pomigliano d’Arco la sua famiglia, di origini umili, vive una dimensione di sacrifici e disagi. Suo fratello per sbarcare il lunario faceva anche il parcheggiatore abusivo. L’ex attaccante della Nazionale ha sempre aiutato la famiglia, soprattutto i genitori. Il papà faceva il pittore, la mamma (a cui era legatissimo) casalinga. Anzi, dopo la doppietta segnata con la Nazionale nelle qualificazioni ad Euro 2008, corse in ospedale a Napoli perché la madre stava molto male. Per lui fu un grande dolore quando, dopo qualche mese, morì.

Le iniziative benefiche

Nobili anche diverse iniziative extra-campo da parte di Totò Di Natale, da sempre attento agli aspetti etici. Nel 2018, per dare una mano all’ex compagno di squadra Bernardo Corradi e al figlio dell’ex attaccante avuto con la showgirl Elena Santarelli, Di Natale tornò in campo a 41 anni sul campo del Donatello, per una partita benefica organizzata tra vecchie glorie dell’Udinese con l’obiettivo di ricavare alcuni soldi da devolvere in beneficienza per i bambini malati. Nel dettaglio, da devolvere al «Progetto Heal» che ha lo scopo di finanziare progetti di ricerca scientifica per favorire lo studio e la cura dei tumori infantili del sistema nervoso centrale. «Grazie Totò — scrisse Santarelli —, quando non chiedi nulla agli amici e loro sono bravi a stupirti».

Le rapine subite

Nel dicembre scorso, Di Natale ha vissuto una brutta esperienza: ad Empoli l’ex attaccante è stato rapinato — davanti ai suoi familiari — del suo orologio, dal valore di circa 30 mila euro. Per di più proprio di fronte alla sua abitazione. Sei persone contro il malcapitato Totò, a cui hanno puntato un coltello alla gola e una pistola alla tempia. E un fatto simile gli era accaduto già 10 anni prima, nel 2012, quando, sempre ad Empoli, una banda di ladri gli svaligiò casa.

Il figlio calciatore

Totò ha due figli: Filippo e Diletta. Filippo ha 19 anni (è un classe 2004) e gioca a calcio, esterno d’attacco dell’Orvietana, in serie D (la squadra di cui Di Natale è vicepresidente). Si è formato nel settore giovanile dell’Empoli, una delle squadre dove ha giocato anche il papà.

L’ATALANTA.

Cristiano Doni, che fine ha fatto: il chiringuito a Maiorca, il carcere per le scommesse, l’Atalanta e la vita a Bergamo, la moglie Ingrid. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera l'1 febbraio 2022.

Lo scandalo del calcioscommesse ha travolto la sua vita: ha aperto un locale sulla spiaggia, ma vive sempre a Bergamo dove è ancora «il capitano». «Mio figlio Lukas mi ha salvato la vita, non riguardo le partite di un tempo, ma sogno ancora quando arrivavo allo stadio tra i tifosi».

Doni e la nuova vita

C’è sempre un’ombra che attraversa gli occhi di Cristiano Doni. Non va via, nera e profonda, neanche oggi, nonostante gli anni siano 48 e la tempesta sia passata. Il miglior calciatore ad aver mai vestito la maglia dell’Atalanta, recordman per gol (112 reti in 296 gare), fa una fatica enorme a parlare della sua carriera. Non lo fa nelle poche apparizioni pubbliche, non lo fa con la famiglia. Non lo fa neppure con se stesso. Segnato per sempre dal «casino» che ha combinato. E che lo ha travolto, probabilmente anche oltre le sue reali responsabilità. Lui, amatissimo, capitano, leader, campione assoluto in una squadra normale. Non ricorda le partite più belle che ha giocato, segue la squadra di Gasperini da tifoso. Sognava di restare in società, divenire dirigente. Invece per dar luce alla sua seconda vita ha scelto il sole di Maiorca, dove ha aperto un chiringuito. Ma andiamo con ordine.

L’esultanza a testa alta

Nato a Roma da genitori liguri, a tre anni si trasferisce a Verona per seguire il lavoro del padre. Con il pallone tra i piedi Cristiano sa far tutto. Quando nel 1998 arriva all’Atalanta, Bergamo lo accoglie. Diventa la sua città. «Qui ho trovato tutto. Papà, per lavoro, girava molto e così anch’io mi sono ritrovato a lungo a non mettere radici. Invece, oggi, quando mi chiedono di dove sono, rispondo convinto e orgoglioso: sono di Bergamo». La maglia dell’Atalanta è la sua tuta da supereroe, come «il costume che trasforma Clark Kent in Superman», scherza quando torna dopo una breve parentesi alla Sampdoria. Ne diventa il miglior marcatore della storia, con un’esultanza da subito iconica: pallone in rete e corsa con mano sotto il mento, a mostrare la testa alta. Perché? «Uno scherzo con Comandini, un gioco che si faceva da ragazzini quando uno alzava la testa e diceva “ritiro” dopo aver insultato qualcun altro», ha spiegato in seguito. Secondo alcuni invece una risposta alle prime accuse di calcioscommesse per Atalanta-Pistoiese del 2000, da cui uscì assolto.

L’Atalanta

Quell’Atalanta è una squadra lontana dalla macchina da guerra targata Gasperini, fatica a restare in serie A. Ma Doni è di una categoria diversa: trequartista tecnico e veloce, si esalta con Vavassori, «che mi capì subito e mi sorprese» e stringe un rapporto schietto e diretto con Colantuono. Segna tanto e si guadagna un posto nella Nazionale di fenomeni che Trapattoni porta ai Mondiali del 2002 (lasciando fuori, tra gli altri, Roby Baggio).

In Nazionale col Trap

Una selezione di stelle, quella che il Trap schiera in Corea e Giappone. Due anni prima l’Italia ha perso la finale degli Europei al golden gol contro la Francia, che ai Mondiali del 1998 ci aveva eliminato ai rigori ai quarti. In una squadra fortissima Doni è tra i convocati, maglia numero 11. «Ero un intruso in quel gruppo straordinario. Trapattoni mi amava e giocai titolare le prime due gare — ha raccontato in una recente intervista al Corriere —. Era un gruppo più forte rispetto a quello che quattro anni dopo avrebbe vinto in Germania: difesa mostruosa, grande centrocampo e in attacco avevamo Totti, Vieri, Inzaghi, Del Piero e Montella. Arrivammo con vari acciacchi importanti e le varie conseguenze dello scudetto del 5 maggio. Ma stavamo crescendo gara dopo gara, e se avessimo superato l’ostacolo Corea credo che poi avrebbero fatto fatica tutti a fermarci, anche il Brasile di Ronaldo e Rivaldo». Resterà un rimpianto.

La lite con Conte

Nel 2009, uno degli ultimi anni di carriera, a Bergamo arriva un nuovo, giovane, allenatore: Antonio Conte. Con cui Doni litiga furiosamente dopo un Livorno-Atalanta. «Mentre esce dal campo io non lo guardo, ma mi dicono che applaude ironicamente la mia decisione e dice: “Complimenti per la sostituzione”. Per me la storia finisce lì — racconta l’ex tecnico dell’Inter nella sua biografia —. Ma al rientro negli spogliatoi lui dà un pugno sulla porta. Così lo faccio anche io, e aggiungo: “Guarda che i cazzotti li sappiamo dare tutti”. Lui si avvicina verso di me con il chiaro intento di cercare uno scontro. “Credi di farmi paura?”, grida facendosi largo tra i compagni che cercano di trattenerlo . “E tu credi di intimorirmi con questi gesti?». Questa invece la versione di Doni, alcuni anni dopo: «Mi ha mancato di rispetto davanti a tutti e gli ho risposto a tono. Poi ci siamo chiariti e ho cercato di aiutarlo solo per il bene dell’Atalanta. Molto più di altri».

Il calcioscommesse e il carcere

La sua avventura col pallone arriva all’epilogo la mattina del 19 dicembre 2011, quando dodici carabinieri fanno irruzione in casa sua e lo arrestano. Indagato nell’operazione «Last Bet», calcioscommesse. «Non dovevo mettere il naso in quella storia. So di aver sbagliato, non voglio passare per un santo. Ma mi fa male che poi tutto sia stato raccontato in maniera diversa: ogni cosa che dicevo veniva travisata». Finisce in carcere, si becca tre anni e mezzo di squalifica più altri due per illecito sportivo. «Quello che mi è successo è la cosa peggiore che possa capitare a un uomo oltre alla morte. I cinque giorni in prigione sono stati i più brutti della mia vita».

La moglie e due figli

In qualche modo, Cristiano si rialza. Lo fa grazie alla sua famiglia: la moglie Ingrid e i due figli, Giulia e Lukas, nato dopo il caos scommesse, che «ha salvato la mia vita». «Ho scelto di essere un padre presente con lui, stargli vicino, senza ovviamente trascurare l’altra che nel frattempo è diventata adolescente — ha raccontato in un’intervista a Il Tempo —. Mi spiace non essermela goduta troppo, quando era piccola, anche a causa del calcio. Mio figlio sa che suo papà è stato calciatore, anche se non mi ha mai visto. Raramente però gli faccio vedere immagini di allora. È una cosa che non mi piace».

Il chiringuito a Maiorca

Travolto dal vortice scommesse, sceglie Maiorca (dove aveva giocato un anno) per ripartire. Lì nel 2012 apre un locale sulla spiaggia, in società con il ristoratore bolognese Filippo Russo. «Chiringo beach», è il nome che ancora oggi porta il locale, al quale si è aggiunta una pizzeria. Ma non ha mai vissuto a Maiorca, se non per i mesi estivi, nonostante le voci che all’epoca raccontavano di una sua fuga in Spagna: «Fu la cosa che più mi fece male tra le tante falsità che si dissero. Io non scappai. Sarebbe stato facile farlo, ma non pensavo che fosse giusto, né per me né per la mia famiglia».

Sempre a Bergamo

Difatti Doni da Bergamo non se ne è mai andato. Oggi gestisce alcune attività in campo commerciale — oltre al chiringuito a Maiorca, il ristorante «Città dei mille» in via Martinella, a Bergamo — e immobiliare, e lavora per una società che fa scouting tra i giovani. Cammina senza problemi in centro città, i tifosi ancora lo chiamano capitano. Ogni tanto gioca a padel, qualche volta a calcio a sette con alcuni amici ed ex compagni di squadra, tra cui pure Ariatti e Pelizzoli. Appena può va allo stadio a vedere la sua Atalanta, altrimenti la segue in tv. Ma i suoi ricordi da calciatore, ecco quelli faticano ad emergere, affogati nel buco nero che lo ha inghiottito. Cristiano è alla continua ricerca di una redenzione che forse non si concederà mai. «Il ricordo più vivo? Non penso a un gol o a una partita in particolare. Ho una nostalgia incredibile dell’avvicinamento allo stadio, con il pullman. C’era sempre un fiume di tifosi ad accompagnarci, e tantissimi indossavano la mia maglietta. A volte mi capita di sognare quei momenti. Emozioni impagabili».

Malinovskyi, l’Atalanta lo mette sul mercato: Gasperini non lo vuole. Tutti i giocatori in rotta col tecnico. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 23 Agosto 2022

L’ucraino Ruslan Malinovskyi gioca e segna ma lascerà l’Atalanta. Gli appelli della moglie non convincono Gasperini. Che ha avuto problemi con diversi suoi calciatori

Il caso di Malinovskyi

È curioso il caso di Ruslan Malinovskyi, centrocampista ucraino dell’Atalanta. Sul mercato — piace in Premier League (ci sono Tottenham e Nottingham Forest) e nei giorni scorsi è stata intavolata una trattativa col Marsiglia (scambio con Under) — ma grande protagonista nel match contro il Milan di domenica 21 agosto (1-1), quando ha segnato il gol del vantaggio della Dea. Rete poi pareggiata da Bennacer nella ripresa. La sua esultanza è stata esplicita, indirizzata verso la moglie in tribuna. Che si è spesa molto sui social per chiamare in raccolta i tifosi dell’Atalanta. Ora sul banco degli imputati è finito Gian Piero Gasperini e sono in tanti a confrontare questo quasi addio con gli altri del passato, richiesti dal tecnico dei bergamaschi. In sostanza, Malinovskiy solo l’ultimo di tanti esempi di giocatori scaricati da Gasp.

Il Papu Gomez

Dicembre 2020: Papu Gomez litiga con Gasperini e poco dopo è costretto a lasciare l’Atalanta. Va in Spagna, al Siviglia. Tutto nasce da questione tattiche: «L’allenatore mi ha chiesto di spostarmi a destra, mentre io stavo facendo molto bene a sinistra. Ho detto di no. Immagino che l’aver risposto così, a metà gara e davanti alle telecamere, abbia creato la situazione perfetta perché si arrabbiasse. In quel momento ho capito che sarei stato sostituito all’intervallo e così è stato. Negli spogliatoi, però, lui ha oltrepassato i limiti e ha cercato di aggredirmi fisicamente». Versione smentita da Gasp.

Pierluigi Gollini

Sei mesi dopo tocca a Gollini. Estate 2021: il portiere si trasferisce al Tottenham, in Premier League. Resta a Londra una stagione, poi torna in Italia per difendere i pali della Fiorentina. E hanno fatto scalpore le sue parole nel giorno della presentazione con i viola: «Sono andato via non per scelta tecnica, ma per dei problemi con una persona». In molti hanno identificato questa persona con Gasp.

Martin Skrtel

Qualche anno prima non è andata meglio a Skrtel. L’ex difensore del Liverpool è arrivato a Zingonia il 9 agosto 2019. Dopo nemmeno un mese, il 2 settembre, è stato tagliato fuori da Gasperini senza essere mai sceso in campo con la maglia dell’Atalanta. Il motivo? Il suo mancato adattamento nella difesa a 3.

Simon Kjaer

Non va meglio a Kjaer, che avrebbe avuto il compito di sostituire, nella rosa di Gasperini, proprio lo slovacco ex Liverpool. Da settembre 2019 a gennaio 2020 il danese ha visto il campo solo sei volte. Viene ceduto al Milan su richiesta proprio del tecnico dei bergamaschi. Anche per Kjaer, che in rossonero ha vinto l’ultimo scudetto, il motivo sarebbe da ricercare per il suo mancato adattamento alla difesa a tre.

Timothy Castagne

Estate 2020: Castagne decide di lasciare l’Atalanta e andare in Premier League, al Leicester. Appena sbarcato in Inghilterra, l’esterno belga si lamenta di Gasperini: «È un allenatore che si arrabbia subito, che ha molte difficoltà a controllarsi. Non ho mai raggiunto il 100% delle mie capacità a causa del suo modo di lavorare». Più eloquente di così.

Da leggo.it il 2 settembre 2022.

Josip Ilicic non è più un calciatore dell'Atalanta. Lo sloveno e il club bergamasco hanno risolto il contratto consensualmente, con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale. "JoJo" ha chiuso l'avventura più importante della sua carriera, congedandosi dopo 173 partite e 60 reti segnate, con un messaggio emozionante sui social.

Il messaggio di Ilicic all'Atalanta

Sul suo profilo Instagram Ilicic ha salutato così società e tifosi nerazzurri. «Non è facile trovare le parole giuste per salutarvi, un insieme di emozioni e ricordi ho vissuto in questi 5 anni - si legge nel post -. 5 anni di gioia, felicità e magia, ma anche dolore e momenti non sempre facili. Grazie per avermi sostenuto e per esserci sempre stati. Grazie a chi mi è stato vicino, a tutti i tifosi, tutte le persone che lavorano dentro la società, allenatore e compagni. Grazie per l’affetto che mi dimostrate sempre. Insieme abbiamo fatto la storia, e la storia non sarà mai dimenticata. Sarete sempre nel mio cuore, forza Atalanta», le sue parole. Tra i messaggi d'affetto pubblicati nei commenti, anche quello dell'ex compagno "Papu" Gomez: «Grazie di tutto, campione».

I problemi di Ilicic

Josip Ilicic è stato un punto di riferimento all'Atalanta, fino all'arrivo della pandemia. Da quando il Covid è arrivato a sconvolgere la vita di tutti, lo sloveno non è stato più lo stesso. Le misure di contenimento, l'isolamento vissuto a Bergamo (una delle città che hanno sofferto di più) lo hanno scosso così tanto da fargli attraversare un periodo di depressione, che ha ovviamente inciso anche nelle prestazioni in campo. È rimasto fuori a lungo, tra il silenzio di società e persone care, per poi tornare a fatica e mai con la stessa forza che aveva prima del 2020.

«La testa è una giungla, anche i medici hanno difficoltà a decifrare certe cose», aveva detto il tecnico della Dea Gian Piero Gasperini, quando lo scorso gennaio il calciatore si era chiuso di nuovo in se stesso. Dopo mesi di difficoltà, è arrivata la decisione dell'addio consensuale, presa a malincuore da entrambe le parti. Adesso Ilicic potrà cercarsi con calma una nuova squadra. Per lui si è fatto avanti il Verona, ma si parla anche di un possibile ritorno al Palermo, club dove si era fatto notare per la prima volta in Italia.

L'infanzia traumatica, l'infezione batterica e il Covid. Che cosa ha Josep Ilicic, il talento dell’Atalanta rientra nel tunnel: “La testa è un giungla”. Redazione su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.

“La nostra testa è una giungla, non è facile per gli psicologi, figurarsi per noi”. Gian Piero Gasperini, allenatore dell’Atalanta, ha provato a spiegare così il momento che sta attraversando l’attaccante sloveno Josep Ilicic, che il prossimo 29 gennaio compirà 34 anni. Così come è accaduto durante il primo lockdown dovuto al covid-19, il calciatore bergamasco sta attraversando un momento delicato dal punto di vista personale e psicologico. “A Josip saremo sempre vicini, sono situazioni che vanno al di là del calcio e con lui abbiamo sempre avuto un rapporto con situazioni molto felici. E’ molto propositivo, è una persona normale” ha spiegato Gasperini dopo l’ultima partita pareggiata dall’Atalanta in casa della Lazio.

Per Ilicic è la seconda gara (dopo quella con l’Inter) saltata nel giro di una settimana per questioni di natura personale. “Noi lo aspetteremo tutta la vita come persona, come calciatore è imprevedibile. I medici non sanno darci una risposta, non posso darla io. Ne parlo questa volta per non parlarne più, è una cosa delicata” ha poi concluso il tecnico degli orobici, chiarendo che ad oggi è impossibile ipotizzare tempi di recupero né avanzare una diagnosi sulle sue condizioni.

L’infanzia traumatica con l’omicidio del padre

Ilicic già dopo il primo lockdown, dove risultò positivo al covid-19, tornò in campo solo ad ottobre 2020, mesi dopo la ripresa del campionato avvenuta a giugno. In quel periodo tornò a casa, in Slovenia, con l’ok dell’Atalanta, insieme alla moglie Tina Polovina e alle due figlie di sei e quattro anni. Adesso pare che si attraversando le stesse problematiche di un anno e mezzo fa. La sua infanzia non è stata per nulla facile. Nato a Prijedor, città della Bosnia ed Erzegovina a maggioranza serba, da una famiglia di etnia croata, quando aveva appena un anno rimase orfano del padre, ucciso da un vicino di origine serba. Dopo l’omicidio lui e la sua famiglia, da profughi di guerra, furono costretti a emigrare in Slovenia.

L’infezione batterica nel 2018: “Pensavo di non farcela, avevo paura di andare a dormire”

Ilicic è forse uno dei talenti più cristallini della serie A dove gioca dal 2010 dopo aver incantato il presidente del Palermo Maurizio Zamparini dopo una partita di Europa League giocata il giorno prima contro i rosanero. Dopo l’esperienza in Sicilia, ha vestito le maglie di Fiorentina e Atalanta. Nell’estate del 2018 è costretto a saltare l’inizio di stagione a causa di un’infezione batterica ai linfonodi del collo, con tanto di ricovero in ospedale. Rientra a ottobre e un mese dopo, in una intervista a Sky Sport, racconta il calvario vissuto: “La cosa più importante è che sto bene, è stato un episodio molto brutto e grave. Ma sono uscito vincitore, questa è la cosa più importante. Raccontarlo è sempre difficile, è stato un momento brutto per me e per la mia famiglia. Ma ora sono molto soddisfatto. Ci sono stati tanti momenti in cui ho pensato di non farcela, perché questa cosa non passava mai. Anzi, più passava il tempo e più peggioravo. A un certo punto ho pensato solo a salvarmi e non al lavoro, però piano piano siamo riusciti a risolvere tutto. Per fortuna sono ancora qua e posso giocare a calcio”.

Il suo racconto è da brividi: “Pensavo di non svegliarmi più la mattina e di non rivedere la mia famiglia, avevo paura di andare a dormire. Sono le cose più brutte che capitano nella vita. È stato duro riprendersi, parti da sotto zero e bisogna riabituarsi a muoversi e a correre, come se fossi un bambino. È stato un periodo lungo, ero sempre molto stanco. Ma è stata una soddisfazione ricominciare ad allenarsi e a stare in gruppo, mi mancava tanto”.

IL BOLOGNA.

Da repubblica.it il 16 dicembre 2022.

La famiglia Mihajlovic in un comunicato ha annunciato la scomparsa del tecnico serbo, definendo la sua morte "ingiusta e prematura". "La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Viktorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic. 

Uomo unico professionista straordinario, disponibile e buono con tutti. Coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia. Ringraziamo i medici e le infermiere che lo hanno seguito  in questi anni, con amore e rispetto, in particolare la dottoressa Francesca Bonifazi, il dottor Antonio Curti, il prof Alessndro Rambaldi, e il dottore Luca Marchetti. Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l'amore che ci ha regalato".

Cenzio Di Zanni per repubblica.it il 16 dicembre 2022. 

Nella foto ci sono tutti. Sinisa Mihajlovic, sua moglie Arianna Rapaccioni e i loro cinque figli (un altro figlio è nato da una relazione giovanile dell'ex allenatore). Quello postato dalla compagna compagna di vita del campione morto a Roma il 16 dicembre è uno dei ritratti più toccanti condivisi dalla donna sui social network. Il suo profilo Instagram continua a raccogliere like e commenti da quando si è diffusa la notizia della scomparsa dell'ex allenatore, nonostante lo scatto sia stato pubblicato nell'agosto 2021.

È così anche per altre decine di foto della coppia. Del resto per il campione la famiglia era tutto. Aveva conosciuto la sua compagna quando aveva 26 anni e giocava nella Sampdoria: da allora con la showgirl romana è nata una relazione solidissima. 

Rapaccioni lo ha scritto in un post fissato in alto sul suo profilo Instagram: "Come quando torni a casa, posi le chiavi all’ingresso e sorridi perché sai di essere al sicuro", si legge. E giù centinaia di commenti in quello che dal 2019, da quado Mihajlovic ha cominciato la sua battaglia contro la leucemia, è diventato un album di famiglia aperto alle miglialia di persone, ex tifosi e non, che hanno amato il campione serbo.

(LaPresse il 16 dicembre 2022) Lo scorso 3 dicembre l'ultima apparizione pubblica di Sinisa Mihajlovic, in occasione della presentazione del libro di Zeman, «La bellezza non ha prezzo» (Rizzoli). Un abbraccio commosso quello tra il boemo e l'allenatore serbo, rivale e avversario in campo ma amico fuori dal terreno di gioco. 

Mihajlovic è morto a 53 anni il 16 dicembre a causa della leucemia, contro cui ha lottato per tre anni; voleva sapere tutto da medici e infermieri: tre ricoveri e tre cicli di chemio, un trapianto, il ritorno in panchina a tempi record per la prima col Verona, gli occhi infossati, i chili persi, un altro sorriso dell’amatissima moglie Arianna. Ma la battaglia non è stata vinta.

(ANSA il 16 dicembre 2022)  Sinisa Mihajlovic è morto. Lo annuncia all'ANSA la famiglia del tecnico serbo.

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

Sinisa Mihajlovic, nato a Vukovar, in Croazia, il 20 febbraio 1969. Allenatore. Ex calciatore • «Il sergente» • Centrocampista e difensore. Uno dei calciatori più bravi a battere le punizioni di tutti i tempi: «Sono la sua specialità. Parabole improbabili, mai uguali, colpi da artista costruiti con la perseveranza dell’artigiano, sfruttando le doti rare del suo sinistro con traiettorie che regalano stupore» (Gianni Piva, la Repubblica, 14/2/2005) 

• «Sono cresciuto per strada. Ora so comportarmi da signore, ma la linea con il ragazzo di strada può essere sottile. Si dice che bisogna contare fino a 10, no? Quando giocavo ero a 1-2, adesso sono a 4-5, a 10 non ci arriverò mai» • «Penso al calcio 24 ore su 24: è la mia passione e mi fa stare bene» (Marco Mathieu, la Repubblica, 2/1/2017)

• Ha esordito nel Vojvodina a diciannove anni. Poi ha giocato con la Stella Rossa di Belgrado (dal 1990 al 1992), con la Roma (dal 1992 al 1994), con la Sampdoria (dal 1994 al 1998), con la Lazio (dal 1998 al 2004) e con l’Inter (dal 2004 al 2006) • Ha vinto tre campionati jugoslavi (1989, 1991, 1992), due campionati italiani (2000, 2006), tre supercoppe italiane (1998, 2000, 2005), quattro coppe Italia (2000, 2004, 2005, 2006), una coppa dei campioni (1991), una coppa intercontinentale (1991), una supercoppa Uefa (1999) • Dopo il ritiro, ha allenato l’Inter, il Bologna, il Catania, la Fiorentina, la nazionale serba, la Sampdoria, il Milan, il Torino, lo Sporting Lisbona. Dal 2019 è per la seconda volta tecnico del Bologna 

• «Quando si è fermato qualche secondo a guardare fisso davanti a sé dopo aver pronunciato la parola “leucemia”, con lui abbiamo pianto tutti. Non che Siniša Mihajlovic abbia mai avuto bisogno di motivazioni in vita sua, da quando da bambino andava in un campo dove c’erano due porte senza reti e tirava da una parte all’altra fino a sera, e si divideva col fratello un’unica banana (tanto che quando è diventato ricco ha detto alla madre che avrebbe comprato un camion di banane), a quando più grande ha visto la guerra fratricida in casa, le famiglie disgregate, gli amici che si sparavano tra di loro, lo zio, croato, fratello della madre, che voleva “scannare come un porco” suo padre.

Tra le macerie di Vukovar è nato il Siniša guerriero, quello che conoscono tutti, quello che “più stress c’è, più mi piace”, perché con quello che ha visto nella vita, cosa volete che siano le ansie del pallone?, che siano vincere da calciatore con Lazio e Inter o salvare da allenatore il Bologna. E quello che ieri ha alzato la testa per guardare dritta negli occhi la malattia e sfidarla come fosse uno dei tanti avversari incontrati e battuti sul campo: “Io la malattia la rispetto, ma vincerò, con la mia tattica, aggredendo e attaccando alto”» (Arianna Ravelli, Corriere della Sera, 14/7/2019). 

Titoli di testa «Le palle uno le ha o non le ha. Però l’allenatore deve farsi seguire. Io sono sicuro che se dico ai miei di buttarsi dal tetto loro prima lo fanno e poi mi chiedono perché» (Arianna Ravelli, Corriere della Sera, 29/1/2015)

Vita «Mio padre faceva il camionista. È morto a 69 anni, di tumore ai polmoni. Quando se n’è andato io non c’ero. Ci penso tutti i giorni. Durante la guerra lo imploravo di venire in Italia ma volle restare nel suo Paese» (a Andrea Di Caro, Gazzetta dello Sport, 20/2/2019) • La madre lavorava in una fabbrica di scarpe 

• Primo di due fratelli, Siniša cresce nella Jugoslavia di Tito. «Ero piccolo quando c’era lui, ma una cosa ricordo: del blocco dei Paesi dell’Est la Jugoslavia era il migliore. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava niente. Andavano a fare spese a Trieste delle volte. Con Tito esistevano valori, famiglia, un’idea di patria e popolo. Quando è morto la gente è andata per mesi sulla sua tomba. Con lui la Jugoslavia era il paese più bello del mondo, insieme all’Italia che io amo e che oggi si sta rovinando […] 

Sotto Tito t’insegnavano a studiare, per migliorarti, magari per diventare un medico, un dottore e guadagnare bene per vivere bene, com’era giusto. Oggi lo sapete quanto prende un primario in Serbia? 300 euro al mese e non arriva a sfamare i suoi figli. I bimbi vedono che soldi, donne, benessere li hanno solo i mafiosi: è chiaro che il punto di riferimento diventa quello» (a Guido De Carolis, Corriere di Bologna, 23/3/2009) 

• «Se non avessi incontrato il calcio, avrei fatto il ladro, il pugile, niente di buono» • «Comincia la sua carriera in Jugoslavia: prima al Vojvodina, sua città natale (75 presenze e 20 reti), poi alla Stella Rossa di Belgrado (36 presenze e 13 reti)» (Linkiesta, 16/9/2019)

• «A Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città» (a De Carolis) • «Ricordo lo sguardo di due ragazzini di 10 anni, imbracciavano i mitra. Avevano occhi da uomini in corpi da bambini. Occhi tristi che avevano già visto tutto, tranne l’infanzia» (a Di Caro) 

• «Ho visto la mia gente cadere, le città distrutte: tutto spazzato via. Il mio migliore amico ha devastato la mia casa. Mio zio, croato e fratello di mia madre, voleva “scannare come un porco”, disse così, mio padre serbo. Fu trovato dalla tigre Arkan, stava per essere ucciso, gli trovarono addosso il mio numero di cellulare, gli salvai la vita» (ibidem) • «Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?» (a De Carolis)

• «Dovranno passare due generazioni prima di poter giudicare cosa è accaduto. È stato devastante per tutti. Quello che racconto io, lo può raccontare anche un croato o un bosniaco. Abbiamo vissuto un impazzimento della storia» (a Andrea Di Caro, Gazzetta dello Sport, 20/2/2019) 

• «Quando ero più giovane avevo perennemente bisogno di dividere il mondo in ‘noi’ e gli ‘altri’. Mi caricava. Alcuni storici lo definiscono bisogno del nemico» (a Andrea Di Caro, Gazzetta dello Sport, 20/3/2015) • «Il 29 maggio del 1991, allo stadio San Nicola di Bari, la sua più grande vittoria come giocatore: vince infatti la Champions League con la maglia della Stella Rossa. Da quel momento, per 21 anni, rimarrà sempre in Italia» (la Repubblica, 13/7/2019)

• Diventa un grande giocatore. Milita due stagioni nella Roma, quattro nella Sampdoria, sei nella Lazio • «È l’apice della carriera: con i biancocelesti Mihajlovic vince un campionato, due Supercoppe Italiane, una Supercoppa Europea, una Coppa delle Coppe e due Coppe Italia» (Linkiesta) • «Come dice Boskov: uno stadio senza tifosi è come una donna senza seno. La curva Nord di quando giocavo io aveva un seno meraviglioso» (a Luca Valdiserri, Corriere della Sera, 4/4/2014) 

• «Hanno calcolato che il suo tiro di media viaggia a 165 km/h, a volte supera i 200. Il segreto? Baricentro basso e quel piedino da 41 e mezzo, una stranezza per uno alto 1,85» (Giulio Cardone, la Repubblica, 15/8/2003) • «Ogni volta che segno io c’è qualcuno che dice che la palla è entrata per una papera del portiere» (a Elisabetta Esposito, La Gazzetta dello Sport, 15/10/2003) • «Conclude all’Inter, dove a 35 anni è il giocatore più anziano ed esperto: due stagioni in cui totalizza 43 presenze e sei gol. A conti fatti, è una carriera memorabile, che conta 563 partite, tra Italia, Jugoslavia, squadre di club e nazionale. E 96 gol» (Linkiesta, 16/9/2019)

• Diventa allenatore. «Dapprima per due anni come vice nel club nerazzurro, quindi in Italia ha guidato Bologna, Catania, Fiorentina, Sampdoria, Milan, Torino e ancora Bologna, panchina sulla quale si è seduto a gennaio riuscendo a portare la squadra alla salvezza. Ha guidato anche la nazionale serba tra 2012 e 2013, fallendo la qualificazione ai Campionati del Mondo del 2014» • «Da quando ho cominciato la carriera di allenatore non ho mai smesso di studiare, aggiornarmi, mi confronto con colleghi stranieri, leggo tanto. Mi è servito tutto, anche qualche esperienza meno fortunata. Non si finisce mai di crescere. Vale per me come per la mia squadra». 

Polemiche Nel 2000 disse «nero di merda» a Patrick Vierà, dell’Arsenal • Nel 2003 sputò a Adrian Mutu, del Chelsea • «Parliamo tanto di razzismo in Italia, ma non più solo bianco o nero. Anche zingaro, o serbo di m... Si parla di razzismo solo con bianchi e neri, se si tocca un popolo intero va tutto bene. Ma questa è l’Italia. Comunque, chi mi ha chiamato zingaro lo aspetto, me lo venga a dire in faccia. Sanno dove vivo, vediamo se hanno le palle» (la Repubblica, 7/5/2017).

Vita privata Nel 1993 ha avuto un figlio, Marco, da una donna che lo ha lasciato prima di partorire. Mihajlovic l’ha riconosciuto • Sposato dal 2005 con Arianna Rapaccioni, romana, ex valletta, conosciuta in un ristorante della capitale nel 1995, quando lui giocava nella Lazio. Prima non era mai stato innamorato • «L’ho guardata e ho pensato: se avessi dei figli con lei, chissà come sarebbero belli» • «Ne sono venuti cinque, Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, uno più bello dell’altro, in effetti» (Ravelli 2019) 

• «Ha detto che le donne non capiscono di calcio, poi che il Toro gioca da maschio in casa e da femmina in trasferta. Non è il caso di cambiare linguaggio? “No, io non ho generalizzato, ho detto che non tutte le donne capiscono di calcio. Quanto all’altra frase, mi dispiace se qualcuno si è offeso, ma è un modo di dire. E poi “squadra femmina” nel senso di bella, ma volubile e distratta, lo diceva Gianni Brera. Guardi che io penso che le donne siano più forti: mia moglie ha partorito cinque figli e in casa mia comanda lei”» (Arianna Ravelli, Corriere della Sera, 14/11/2016) • «È una donna con le palle, forse ne ha più di me. E non è facile».

Vita pubblica «Il Kosovo è Serbia. Punto. Non si possono cacciare i serbi da casa loro. No, l’indipendenza non è giusta per niente» (a De Carolis) • Poco prima delle elezioni regionali in Emilia-Romagna del 2020 ha detto di stimare Matteo Salvini. «Ci siamo visti l’altro giorno. È stato un incontro più che piacevole. Lui è mio amico, ci conosciamo da tanti anni, dai tempi del Milan. Mi piace la sua forza, la sua grinta, è un combattente. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene. I grandi uomini fanno questo, nello sport e nella politica» (al Resto del Carlino).

Ricordi «Vukovar per me era la città più bella del mondo. Poi è diventato simbolo della guerra. Ci sono tornato due anni fa, dopo 25 anni... L’ultima volta era stata durante il conflitto nel 1991. Era tutto raso al suolo [...] Non volava un uccello, non c’era un cane. Spettrale». 

Ultime «Due giorni passati in camera a piangere, senza rispondere a nessuno, con tutta la vita che ti passa davanti» • Il 13 luglio 2019 tiene una conferenza stampa a Bologna in cui rivela di avere la leucemia • «Io credo che voi pensaste che la persona più lontana dalla malattia potessi essere io: grosso, forte, un atleta. Ho passato l’estate a giocare a padel. Bene, può colpire tutti e in un attimo ti cambia la vita. Per questo la prevenzione è fondamentale»

• «Ho fatto tredici chemioterapie in cinque giorni, ma già dopo il terzo avevano annientato tutto. Il primo ciclo è stato il più pesante, mi sono venuti anche degli attacchi di panico che non avevo mai avuto perché ero chiuso in una stanza con l’aria filtrata: non potevo uscire e stavo impazzendo. Volevo spaccare la finestra con una sedia, poi mia moglie e alcuni infermieri mi hanno fermato, mi hanno fatto una puntura e mi sono calmato»

• «Stavo male ma dovevo dare forza alla mia famiglia, perché se mi avessero visto abbattuto sarebbe stato peggio. Cercavo di essere positivo e sorridente, facevo finta di niente per non farli preoccupare. È stata dura» • Ricoverato all’ospedale Sant’Orsola segue le partite in diretta streaming • «Ha parlato al gruppo in videoconferenza prima della gara, l’ho sentito all’intervallo e durante la ripresa comunicava via microfono al collaboratore video, che riferiva a me immediatamente» 

• «Il carisma di Mihajlovic lo percepiamo comunque, anche se materialmente non è con noi» • I tifosi intonano cori sotta la finestra dell’ospedale. Lui si affaccia e li saluta • Il 25 agosto 2019, dopo 44 giorni dal ricovero, è seduto in panchina nella gara d’esordio del campionato con l’Hellas. 

Curiosità Legge Gandhi • Ammira Kennedy ma ce l’ha con gli americani perché hanno bombardato la Serbia • Gli piacciono tutti i generi di film, «meno quelli sentimentali che vede mia moglie, anche se poi mi emoziono facilmente e piango spesso» • «I giocatori ora fanno gli attori, hanno belle macchine, belle ragazze, il calcio sembra un hobby. Non è neanche facile motivare uno che ha tutto. Su 24 ore 10 dorme, 3-4 si allena, le altre 10 che fa? Io gli do una partita da vedere, oppure un film, come La ricerca della felicità. Se lo ricorda? “Non devi permettere a nessuno di dirti che non puoi raggiungere i tuoi sogni”. A volte il film lo scelgono loro» (alla Ravelli, 2015)

• Ai suoi calciatori fa vedere anche Il gladiatore, Alexander e Il volo della Fenice • È stato in pellegrinaggio a Medjugorje • «Quando si parla di sogni non penso ad alzare una Champions League o uno scudetto. Il mio è impossibile: poter riabbracciare mio padre» (a Di Caro) 

• Ilaria D’Amico dice che usa troppe parolacce: «C’è il momento per citare Dante e c’è quello per parlare come i ragazzi. Bisogna farsi capire in tutte le situazioni» • Parla inglese «Dicono che le lingue si imparano meglio da giovani, ma l’età vera la decidi tu. Io sarò giovane anche a 70 anni» • «Oggi non ho bisogno di nemici».

Titoli di coda «Non penso di essere un eroe, sono un uomo normale con pregi e difetti. Ho solo affrontato questa cosa per come sono io, ma ognuno la deve affrontare come vuole e può. Nessuno deve vergognarsi di essere malato o di piangere. L’importante è non avere rimpianti e non perdere mai la voglia di vivere e di combattere».

L'annuncio della famiglia per la scomparsa di Sinisa Mihajlovic: «Morte ingiusta e prematura». Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 16 dicembre 2022. 

Sinisa Mihajlovic è morto a 53 anni di leucemia mieloide acuta. Questo il comunicato della famiglia: La , con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic. Uomo unico professionista straordinario, disponibile e buono con tutti. Coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia. Ringraziamo i medici e le infermiere che lo hanno seguito in questi anni, con amore e rispetto, in particolare la dottoressa Francesca Bonifazi, il dottor Antonio Curti, il Prof. Alessndro Rambaldi, e il Dott. Luca Marchetti. Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato.

Addio a Sinisa Mihajlovic (1969-2022)

La moglie di Mihajlovic, il post per Sinisa: «Ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle». Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022

Arianna condivide un messaggio con una foto che la ritrae insieme a Mihajlovic, sorridenti: «Il cielo sarà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte». La figlia Viktorija: «Ovunque tu sia papà, io so amare fino a lì»

Un messaggio, poche ma intense parole, una linea che non si interrompe. Arianna è la moglie di Sinisa Mihajlovic, la donna che gli è stata accanto fino alla fine, sempre col sorriso, sempre a supportarlo. «È una delle tre cose più belle della mia vita», diceva l’allenatore scomparso ieri venerdì 16 dicembre. Ha aspettato qualche ora, Arianna, poi ha condiviso su Instagram un post dolce come la foto che lo accompagna, lei e Sinisa sorridenti e complici, felici e uniti: «Quando non sarai più parte di me, ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle, allora il cielo sarà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte». Poi un cuoricino rosso.

Un’immagine profonda e semplice, come la loro storia. Sinisa che conosce Arianna Rapaccioni nel 1995, al primo sguardo sono già innamorati. Hanno avuto cinque figli, Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas — Mihajlovic ne ha avuto un altro, Marko, nato da una precedente relazione —, non si sono più lasciati. Nel 2021 sono anche diventati nonni di Violante, la figlia di Virginia.

Un’altra figlia di Sinisa, Viktorjia, ha dedicato al papà una poesia di Montale, «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale». Poi ancora: «Ti amo con tutto il mio cuore papà, anima pura, rara, orgoglio della mia vita, mio eroe, mio grande amore. Ovunque tu sia io so amare fino a lì».

Sinisa Mihajlovic, gli ultimi giorni di agonia a Roma: una settimana di lotta disperata contro un'infezione. Elmar Bergonzini e Emanuele Zotti su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022

Una settimana fa faceva progetti con gli amici. Poi la situazione è precipitata. Il ricovero a Roma, il coma e l'addio alla vita circondato dalla famiglia

Finché ha potuto Sinisa Mihajlovic ha lottato, sostenuto dalle sue “colonne”: la moglie Arianna e i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas. Ma non solo. Ad accompagnare il guerriero serbo nella sua ultima battaglia sono stati anche la mamma Viktorija, il fratello Drazen e la nipotina Violante, che nell’ultima settimana non si sono mai allontanati dalla clinica Paideia. Un nucleo costantemente unito nella speranza, forse mai perduta, di affiancare Sinisa nell'ennesima partita da vincere. Stavolta però il destino – brutale, spietato, ingiusto - ha deciso che il finale sarebbe stato tragico e gonfio di dolore. 

Coraggio e forza di volontà Mihajlovic le ha dimostrate – ancora una volta - quando la malattia è tornata. I medici gli avevano detto che le possibilità di sopravvivere erano davvero minime. Ha sofferto, soprattutto fisicamente, ma è sempre andato avanti. Lo scorso 1 dicembre era andato addirittura alla presentazione dell'autobiografia di Zdenek Zeman, in una libreria in via Nazionale, e Sinisa ed era apparso sorridente e in vena di battute, felice di prendere parte ad un evento così importante per uno dei suoi maestri. Fino a sabato 10 Sinisa parlava al telefono con gli amici dei suoi piani futuri: aveva intenzione di finire il ciclo di chemio a gennaio per poi ricominciare a girare gli stadi di calcio per assistere dal vivo alle partite, restando così aggiornato. Non solo: fino a quando ha potuto, si è dedicato allo sport, non rinunciando mai a lunghe camminate, per restare attivo e provare a combattere, anche in questo modo, la malattia che lo debilitava e lo consumava.

  Dopo l'esonero di settembre da parte del Bologna, era tornato nella sua casa romana, il rifugio di sempre, per andare poi a curarsi alla clinica alla Paideia International. Ma domenica 11 dicembre, In maniera quasi inaspettata, le condizioni di Mihajlovic si sono improvvisamente aggravate a causa di un'infezione. La situazione è sembrata subito molto grave per via del sistema immunitario compromesso e delle terapie a cui si stava sottoponendo da più di tre anni per cercare di sconfiggere la leucemia. La febbre si è alzata di colpo e il ricovero si è reso immediatamente necessario. Le condizioni di salute sono peggiorate ulteriormente nel pomeriggio di lunedì 12, tanto da spingere la mamma Viktoria e il fratello Drazen a prendere l’aereo dalla Serbia e raggiungere in fretta e furia la clinica capitolina. 

Della mamma, Sinisa una volta disse: «Lei non parla l’italiano e i miei figli hanno poca dimestichezza con il serbo. Ma ogni volta che viene a trovarci a Roma e vedo come guarda i suoi nipoti, capisco che l’amore non ha bisogno di parole». Il giorno successivo, martedì, Mihajlovic è entrato in coma farmacologico: i medici hanno deciso di sedarlo per evitargli ulteriori sofferenze atroci. La moglie Arianna Rapaccioni, il grande amore della sua vita, conosciuta a Roma e con la quale ha messo al mondo cinque figli, formando un nucleo bellissimo e legatissimo, non lo ha mai lasciato solo, nemmeno per un attimo. Negli ultimissimi momenti di lucidità Mihajlovic ha riconosciuto Pino Capua, medico della Paideia ( e tifoso laziale) con cui ebbe modo si stringere amicizia ai tempi in cui giocò (e vinse praticamente tutto) nella Lazio, a cavallo degli anni ’90 e Duemila. 

Il suo cuore fortissimo, da grande atleta, ha continuato a lottare disperatamente e a battere ancora per qualche giorno. Fino a venerdì pomeriggio, quando si è arreso per sempre, circondato sino all’istante estremo dall’amore incondizionato dei familiari. Domenica 18 sarà allestita la camera ardente in Campidoglio, il giorno dopo - lunedì 19 – si svolgeranno i funerali, alle ore 11.

Inter e Milan piangono Mihajlovic: «Nessuno è mai pronto a salutare un compagno di viaggio». Il cordoglio della politica. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022

L'allenatore serbo morto per leucemia. Anche il Monza si stringe al dolore della famiglia. Salvini: «Lascia in eredità un enorme patrimonio di affetto e amore». Il governatore Fontana. «Uomo vero, schietto e mai banale»

«Non si è mai pronti a salutare un compagno di viaggio». Questo il messaggio pubblicato sui canali social dell'Inter per commemorare Sinisa Mihajlovic, ex calciatore ed ex vice allenatore nerazzurro tra 2004 e 2008. Morto a 53 anni per una leucemia mieloide acuta scoperta nel 2019, è stato protagonista nel campionato di Serie A fino allo scorso settembre sulla panchina del Bologna, che ha lasciato non per sua volontà ma in seguito all'esonero da parte della società. Di nazionalità serba, ha allenato anche il Milan nella stagione 2015/2016. «Riposa in pace» il messaggio di cordoglio del club rossonero, che ha osservato un minuto di silenzio prima della sfida amichevole di oggi contro il Liverpool a Dubai. Anche il Monza calcio e il suo vicepresidente Adriano Galliani «partecipano commossi al dolore della famiglia per la scomparsa di Sinisa, allenatore e uomo straordinario che ha saputo lasciare il segno nel cuore di tutte le persone che lo hanno conosciuto».

Fontana: «Uomo carismatico»

Pensieri e messaggi di stima sono arrivati anche dal mondo della politica. Così il governatore lombardo Attilio Fontana, tifoso milanista: «Tristezza e amarezza per la scomparsa di un guerriero dello sport e della vita. È stato per tutta la vita un uomo vero, schietto e mai banale, che nella carriera ha vestito i colori dell'Inter e del Milan. Un ottimo calciatore e un allenatore carismatico: lo ricorderemo tutti con stima e simpatia». 

Salvini: «Se ne va un amico»

Gli ha fatto eco Matteo Salvini, il ministro delle Infrastrutture e anche lui legato ai colori rossoneri: «Non ci voglio credere, stramaledetta bastarda malattia. Buon viaggio Sinisa, campione dentro e fuori dal campo». Ancora il segretario della Lega: «Se ne va un amico, una persona seria, una persona buona e generosa, un combattente che non aveva paura di dire ciò che pensava. Mai. Se ne va un papà, un marito, un nonno, che lascia in eredità un enorme patrimonio di affetto e di amore, a partire dalla sua splendida famiglia e da tutto il popolo dello Sport. Ci mancherai, tanto. Anzi, sarai sempre con noi».

Mihajlovic, il ricordo di Cairo: «Ha sempre vissuto tutto con passione». Storia di Carlos Passerini su Il Corriere della Sera il 16 dicembre 2022. 

«Un uomo coraggioso, fiero, ma anche generoso, autoironico. Sinisa era un combattente vero, sul campo e fuori, come ha dimostrato anche durante la malattia, diventando un esempio per tutti col suo messaggio, con la sua battaglia affrontata a viso aperto e col sorriso. L’immagine che mi resterà di lui è quella di un guerriero dal cuore buono. Mi mancherà, ci mancherà». Così Urbano Cairo, presidente di Rcs MediaGroup, ricorda Mihajlovic, che fu suo allenatore al Torino dal 2016 al 2018. La prima stagione si concluse con un brillante nono posto, a pochi punti dall’Europa, la seconda s’interruppe a gennaio con un esonero. Seguirono alcune incomprensioni di campo, poi risolte.

Fu lo stesso Sinisa a raccontarlo, nel corso di un incontro al Festival dello Sport di Trento organizzato dalla Gazzetta: «Quando mi fu diagnosticata la malattia, Urbano mi fu da subito molto vicino, mi venne a trovare, si rese disponibile per tutto quello che mi fosse servito. Non l’ho dimenticato». Tanto che Miha scelse Solferino come casa editrice per la sua intensa autobiografia, dal titolo «La partita della vita», scritta con Andrea Di Caro, vicedirettore della Gazzetta.

Video correlato: Addio guerriero, se ne va Sinisa Mihajlovic a 53 anni (Mediaset)

Confida Cairo: «Ho provato per lui grande affetto umano, oltre che ammirazione per il suo talento, prima da calciatore e poi da allenatore. Era eccezionale nella gestione dei giovani, aveva il coraggio di schierarli, dando loro fiducia. Spesso, quando capitava a Milano, ci trovavamo a cena e parlavamo di tutto, di vita vera, di famiglia, dei figli, non solo di calcio. M’impressionava la sua forza, la sua capacità di sorridere alla vita nonostante la malattia, continuando a lavorare. Credo sia questa la sua vera lezione, il suo messaggio, il suo insegnamento: vivere tutto con passione, sempre».

Sinisa un uomo ruvido, ma di cui ricorderemo la rara umanità. Storia di Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 16 dicembre 2022. 

Non ce l’ha fatta, Sinisa. Da giorni si attendeva questo esito, purtroppo. Ha combattuto come un leone, in linea con il suo carattere. Con la malattia si è arrabbiato, l’ha domata, l’ha sfidata, l’ha battuta nella partita d’andata. Ma poi quella è tornata più cattiva e lui non aveva più le forze di prima. Almeno quelle fisiche, perché il dono della volontà non gli è mai venuto meno. Giocatore di immensa qualità, intelligente e deciso, tecnico e sapiente, Mihajlovic era poi diventato un allenatore di prestigio. Ha guidato la nazionale Serba, il Milan, la Fiorentina, la Sampdoria, il Torino, da ultimo il Bologna. I suoi giocatori rossoblù andarono sotto la sua finestra in ospedale per fargli sentire quanto gli volevano bene. E il rude Sinisa si commosse. è stata sempre una battaglia. Quando era piccolo i suoi andavano a lavorare e gli lasciavano il fratello in cura: «Dalle 6, ora della loro uscita simultanea per andare a lavorare, spettava a me badare a Drazen. Mentre mio fratello ancora dormiva, io mi alzavo, mi vestivo e uscivo a prendere un litro di latte e un chilo di pane per la colazione. Ma per quanto facessi alcune cose da adulto, avevo appena cinque o sei anni. Con tutte le paure di un bambino. Appena tornavo a casa, mi rimettevo spalle alla stufa. Immobile. Con gli occhi sgranati fissavo la porta col terrore che qualcuno potesse entrare». E poi i primi calci, il talento che si vede a occhio nudo, le pallonate tirate addosso alla porta del garage davanti alla quale tornerà con la Coppa dei Campioni vinta con la Stella Rossa. E poi la guerra, quella che gli ha tagliato la vita. Ne parlammo una volta e lui mi colpì molto. «Mia madre era croata e mio padre serbo. La guerra l’ho subita due volte. Io sono metà e metà, cosa peggiore non c’è. In nessuna guerra ci sono buoni e cattivi o bianco e nero. Il colore che domina è il rosso del sangue degli innocenti. Queste guerre civili sono i peggiori crimini». Per Sinisa Mihajlovic la guerra che aveva segato in mille pezzi la Jugoslavia era stata un incubo. Pipe, il suo migliore amico fin da quando erano bambini, era un ragazzo croato. «Una volta viene a casa e dice ai miei genitori che devono andare via, che lui la casa la deve buttare giù. Mia madre e mio padre non lo hanno preso sul serio. Lui, dopo due giorni, è tornato con altri due e ha cominciato a sparare sulle mie foto. I miei hanno visto che era una cosa grave, sono scappati e lui ha buttato giù la mia casa. Dentro di me dicevo «ma come è possibile, eravamo due fratelli»,…... La prima partita dopo la guerra, in albergo, viene questo mio amico. Ci mettiamo a parlare. Lui era cosciente che io sapevo tutto e mi disse: «Sinisa tutti sapevano che io e te eravamo i migliori amici, e mi hanno detto che per dimostrare di essere davvero un grande croato proprio a te dovevo fare del male. Io ho cercato in tutti i modi di far capire ai tuoi genitori che dovevano scappare. Perché io la casa dovevo buttarla giù, sennò mi ammazzavano. Ma non volevo farlo con i tuoi dentro. Perciò ho sparato sulle foto, per fargli capire che dovevano andare via. Ho salvato la vita ai tuoi genitori e anche la mia. Aveva ragione e quel giorno io l’ho ringraziato, Pipe». Ora che se ne è andato, a 53 anni, tutti ricorderanno la sua forza e il suo carattere deciso, a volte ruvido. Ed è giusto, Sinisa era un uomo forte. Ma io, nelle occasioni in cui l’ho incontrato, ho sempre visto anche in lui una grande tenerezza. Anzi, di più. Una grande, rara, umanità.

E' morto Sinisa Mihajlovic. Giovanni Capuano su Panorama il 16 Dicembre 2022.

Il serbo si è arreso alla leucemia che stava combattendo da tre anni e mezzo. Aveva 53 anni. La sua lotta ha commosso il mondo del calcio. A settembre l'esonero dal Bologna

Sinisa Mihajlovic è morto. L'annuncio lo ha dato la famiglia dopo giorni in cui le indiscrezioni sul peggioramento della sua salute si erano rincorse. Il serbo, 53 anni, si è arreso alla leucemia che stava combattendo da tempo e che si era ripresentata nei mesi scorsi dopo un primo ciclo di cure che pareva aver dato effetto positivo, tanto da consentire il ritorno sulla panchina del Bologna fino all'esonero nello scorso mese di settembre con la squadra in difficoltà nell'avvio di campionato. La famiglia ha dato la notizia con un comunicato di poche righe: "La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel.dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic. Uomo unico professionista straordinario, disponibile e buono con tutti. Coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia. Ringraziamo i medici e le infermiere che lo hanno seguito in questi anni, con amore e rispetto, in particolare la dottoressa Francesca Bonifazi, il dottor Antonio Curti, il Prof. Alessndro Rambaldi, e il Dott. Luca Marchetti. Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato". L'annuncio della malattia era stato dato in una conferenza stampa il 13 luglio 2019, poi Sinisa era stato sottoposto a trapianto di midollo osseo presso l'ospedale Sant'Orsola di Bologna nell'ottobre dello stesso anno. A novembre il ritorno a casa e in panchina con una certa continuità, con il Bologna che lo aveva atteso e i giocatori che avevano risposto alla grande allo choc emotivo dell'assenza del loro tecnico. All'inizio del 2022 i primi segnali del ritorno della malattia, la necessità di fermarsi ancora per essere curato, l'esonero (mal digerito) da parte del Bologna e poi il precipitare della situazione fino alla scomparsa. Mihajlovic è sempre stato identificato come un combattente, sia da calciatore che nella sua carriera, troppo breve, in panchina. Nato a Vukovar, aveva iniziato con la maglia del Vojvodina per poi salire di livello con la Stella Rossa Belgrado e imporsi sulla scena internazionale insieme ad altri fenomeni di una generazione splendida come Savicevic, Jogovic, Stojanovic e Prosinecki. La vittoria della Coppa dei Campioni nella finale con il Marsiglia a Bari (anno 1991) il punto più alto prima che la guerra disperdesse tanto talento. In Italia il serbo è arrivato nel 1992 grazie alla Roma. Quindi Sampdoria, Lazio e Inter con le punizioni letali come marchio di fabbrica. Nel 2006 il ritiro da calciatore e l'inizio della carriera da allenatore.

Calcio, Sinisa Mihajlovic non ce l'ha fatta: è morto a 53 anni, lottava contro la leucemia. L'estate di tre anni fa gli era stata diagnosticata la malattia: era ricoverato da domenica scorsa in una clinica romana. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Dicembre 2022.

Questa volta a Sinisa Mihajlovic non è bastato il forte temperamento che, come allenatore, gli era valso il soprannome di "sergente": si è spento a 53 anni dopo una lotta estenuante con la leucemia, che lo aveva colpito tre anni fa. Tre anni di lotta e sofferenza durante i quali il tecnico serbo non ha rinunciato al suo lavoro cercando di ricacciare indietro con la sua grande passione l’ombra che si allungava su di lui. 

Lo annuncia oggi la famiglia del tecnico serbo, definendo la sua morte «ingiusta e prematura». «La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic». Come allenatore il Sergente era noto per la decisione e la severità con cui spronava i propri giocatori a dare il meglio di sé stessi, oltre che per la tendenza a dare fiducia agli elementi più giovani della rosa.

Ma, alla fine, la leucemia ha avuto la meglio. Era stato lo stesso Mihajlovic, nel luglio 2019, a dare la notizia di aver contratto la malattia. Voleva prenderla di petto, nel suo stile diretto, incapace di nascondersi, che si trattasse di difendere l’adorata Serbia o un compagno di squadra. «Io non gioco mai per non perdere, nel calcio come nella vita. Sconfiggerò il male - aveva detto l’allora tecnico del Bologna - e lo farò per mia moglie, per la mia famiglia, per chi mi vuole bene». A 53 anni - dopo alti e bassi, speranze di guarigione e ricadute - si Moles (Forza Italia Basilicata): «Esempio di tenacia che non dimenticheremo»

«Enorme dispiacere per la prematura scomparsa di Sinisa Mihajlovic. Ci lascia un grande sportivo, un uomo coraggioso che ha combattuto fino alla fine contro la malattia con la stessa energia che metteva in campo, circondato e sostenuto dall’amore della sua famiglia e dai tanti che facevamo il tifo per lui. Un esempio di tenacia che non dimenticheremo. Ai suoi cari giungano le mie condoglianze e la mia vicinanza in questo momento di immenso dolore». Così Giuseppe Moles, commissario di Forza Italia in Basilicata.è dovuto arrendere, lasciando un vuoto in quanti lo hanno apprezzato come centrocampista e difensore di tante squadre - dalla Stella Rossa di Belgrado all’Inter - e poi sulle panchine di vari club italiani: la stessa Inter, Catania, Fiorentina, Milan, Torino, Sampdoria. Ha vestito anche le maglie di due nazionali: Jugoslavia, e Serbia-Montenegro.

Nato a Vukovar, madre croata e padre serbo, Sinisa dopo aver vissuto gli orrori della guerra etnica si mette in luce con la Stella Rossa, vincendo la Coppa dei campioni a 22 anni. Attira l'attenzione con il suo potente sinistro, micidiale nei calci piazzati (28 le reti realizzate solo in serie A). Portato in Italia dalla Roma nel 1992, due anni dopo passa alla Sampdoria, dove diventa il pupillo del tecnico Sven Goran Eriksson che lo valorizza schierandolo al centro della difesa. Nel 1995 conosce la donna della sua vita, Arianna Rapaccioni, che sposa l’anno dopo e più di chiunque altro gli è stata vicina durante la battaglia contro la malattia. Dalla loro unione sono nati sei figli. A giugno 2021 avevano festeggiato le nozze d’argento dicendosi nuovamente sì, con una romantica cerimonia a Porto Cervo.

Nel 1998 si trasferisce alla Lazio. Sono gli anni dell’ultimo conflitto balcanico e quando la Nato bombarda Belgrado, con gli aerei che partono dalle basi in Italia, Mihajlovic non nasconde l'orgoglio di essere serbo. Come non rinnega l’amicizia per Zeliko Raznjatovic, ex capo ultrà della Stella Rossa, meglio noto come il comandante Arkan. Con il connazionale Dejan Stankovic, nel maggio del 1999, a Udine gioca con il lutto al braccio e, dopo aver trasformato un rigore, mostra la maglietta bianca con il bersaglio e la scritta «target», simbolo di quanti da oltre un mese protestano per gli ordigni contro la Serbia. In biancoceleste dal 1998 al 2004, diventa l’idolo della tifoseria che ripaga con un totale di 20 gol, suo record con la stessa maglia. Chiude la carriera nel 2006, dopo due stagioni all’Inter.

E' da tecnico che si guadagna ben presto il soprannome di «sergente» per i pesanti metodi di allenamento. Una carriera con più esoneri che successi, ma ovunque Mihajlovic è apprezzato per l'impegno e la dedizione al lavoro. La grinta, la voglia di essere in panchina nonostante gli effetti delle cure, lo fanno amare a Bologna più che altrove. E giocatori e tifosi lo ringraziano, andando a salutarlo sotto le finestre dell’ospedale, quando non può essere al suo posto. O recandosi in pellegrinaggio al Santuario di San Luca, con quelli della Lazio, per pregare insieme per il loro allenatore. La storia in rossoblù si chiude con l’esonero nello scorso settembre, amaro e non accettato: «Stavolta il sapore che mi lascia il mio voltarmi indietro è più triste», scrive rivolto a «fratelli e concittadini, dopo tre anni e mezzo di calcio, di vita, di lacrime, di gioia e di dolori». 

IL CORDOGLIO DAL MONDO DELLO SPORT

Appresa la notizia della morte di Siniša Mihajlović il direttore dell'Area Tecnica del Lecce Pantaleo Corvino ha inteso esprimere il suo personale cordoglio. Corvino, nel 2010, all’epoca direttore tecnico della Fiorentina, volle a Firenze Mihajlovic come allenatore. «Sinisa so che hai lottato da vero guerriero fino all’ultimo respiro della tua ultima partita, così come hai sempre fatto in campo. In questo momento trovo la forza solo per rivolgere alla moglie, ai figli e a tutti i suoi le mie più sentite condoglianze e la mia vicinanza. Ciao Siniša mancherai a tutti noi» la sua dichiarazione.

Moles (Forza Italia Basilicata): «Esempio di tenacia che non dimenticheremo»

«Enorme dispiacere per la prematura scomparsa di Sinisa Mihajlovic. Ci lascia un grande sportivo, un uomo coraggioso che ha combattuto fino alla fine contro la malattia con la stessa energia che metteva in campo, circondato e sostenuto dall’amore della sua famiglia e dai tanti che facevamo il tifo per lui. Un esempio di tenacia che non dimenticheremo. Ai suoi cari giungano le mie condoglianze e la mia vicinanza in questo momento di immenso dolore». Così Giuseppe Moles, commissario di Forza Italia in Basilicata.

Lo striscione dei tifosi del Bari

Anche i tifosi del Bari hanno voluto ricordare il tecnico ed ex calciatore Sinisa Mihajlovic con uno striscione. Un segno d'affetto e rispetto dei supporter biancorossi verso l'uomo di sport deceduto prematuramente questo pomeriggio.

Addio a Mihajlovic, il duro dal cuore grande. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Dicembre 2022

L'ex giocatore poi diventato allenatore si è spento in un ospedale di Roma. Cinquantatreenne, uomo, marito, papà e nonno. Ventidue anni da calciatore e sedici da allenatore. Tre anni fa la maledetta scoperta della leucemia mieloide acuta

E’ la notizia che nessuno sportivo avrebbe mai voluto ricevere: questa mattina ci ha lasciato un vero uomo di sport: Sinisa Mihajlovic. Si è spento in una clinica di Roma all’età di 53 anni. L’ex allenatore del Bologna ammalatosi di leucemia nell’estate 2019, è diventato un simbolo della lotta alla malattia, circondato dall’amore dei tifosi di tutta Italia, che ne apprezzano il cuore e la generosità nell’affrontare una partita così importante. Aveva reso noto della sua malattia in conferenza stampa il 13 luglio 2019: “Ho la leucemia, ma la batterò giocando all’attacco” senza però lasciare l’incarico di allenatore del Bologna. Pur a distanza, ha continuato a guidare i suoi ragazzi con passione e dedizione fino al ritorno in panchina, dopo alcune settimane e l’apparente guarigione. Il 29 ottobre 2019 si era sottoposto ad un trapianto di midollo osseo al Sant ‘Orsola di Bologna, il 22 novembre l’uscita dall’ospedale , e purtroppo ad inizio 2022 i nuovi campanelli d’allarme. E’ cittadino onorario di Bologna. Oggi l’annuncio della famiglia che ha spento ogni speranza.

Poco più di una settimana fa, l’ultima sua apparizione pubblica, partecipando alla presentazione romana dell’autobiografia di Zdenek Zeman, : dimagrito, con l’inseparabile zuccotto in testa, ma burbero e divertente come sempre. La sua inaspettata presenza a sorpresa, aveva quasi tranquillizzato i presenti: le voci che la situazione clinica avesse preso una brutta e definitiva piega negli ultimi mesi erano sempre più insistenti. Parla di altro, non della sua situazione. Non sbatte in faccia i suoi problemi, li affronta a testa alta da vero uomo, da vero campione. Ha giocato sino all’ultimo secondo dei minuti di recupero di una maledetta partita durata più di tre anni.

Questo il comunicato della famiglia: “La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel.dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic. Uomo unico professionista straordinario, disponibile e buono con tutti. Coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia. Ringraziamo i medici e le infermiere che lo hanno seguito in questi anni, con amore e rispetto, in particolare la dottoressa Francesca Bonifazi, il dottor Antonio Curti, il Prof. Alessandro Rambaldi, e il Dott. Luca Marchetti. Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato“.

Aveva iniziato la carriera da tecnico come vice di Mancini all’Inter, per passare poi a quella che sarebbe stata la sua prima e ultima panchina da allenatore, il Bologna. Poi Catania, Fiorentina, Sampdoria, Milan, Torino, una comparsata allo Sporting Lisbona durata solo 9 giorni (per il cambio del presidente) prima del ritorno nell’Emilia rossoblù. All’attivo anche un’esperienza sulla panchina della Serbia tra il 2012 e 2013.  

Mihajlovic aveva iniziato la carriera da calciatore in patria, nell’allora Jugoslavia. Figlio di madre croata e padre serbo, era nato a Vukovar ma cresciuto nella vicina Borovo, dove aveva mosso i primi passi da giocatore prima di passare alla Vojvodina. Nel 1990 il grande salto alla Stella Rossa Belgrado nella squadra dei “fenomeni”, quella di Savicevic, Prosinecki, Stojanovic, Jugovic, con cui vinse la Coppa dei Campioni battendo in finale al San Nicola di Bari l’Olympique Marsiglia. Arrivato in Italia nel 1992 aveva firmato per la Roma, nel nostro Paese che era diventato la sua seconda patria. Dopo la Roma, aveva giocato nella Sampdoria, Lazio ed Inter. In ogni squadra in cui ha giocato ha sempre vinto qualcosa o lasciato comunque il segno con una delle sue micidiali punizioni. Il ritiro dall’attività agonistica nel 2006 dopo aver realizzato 69 gol e servito 55 assist in 455 partite.Il premier Giorgia Meloni con un post su Facebook ha voluto ricordarlo: “Hai sempre lottato come un leone, in campo e nella vita. Sei stato esempio e hai dato coraggio a molte persone che si trovano ad affrontare la malattia. Ti hanno descritto spesso come un sergente di ferro, hai dimostrato di avere un grande cuore. Sei e resterai sempre un vincente. Addio Sinisa“.

Senza parole e con gli occhi gonfi di lacrime i membri (e amici) del suo staff: tutti ovviamente erano a conoscenza delle cure cui Sinisa si stava sottoponendo, ma non potevano immaginare un peggioramento così rapido delle sue condizioni di salute. Roberto Mancini, suo “fratello” dai tempi della Samp e poi della Lazio: insieme, guidati da Eriksson, hanno regalato al club allora presieduto da Cragnotti lo scudetto del 2000, è In lacrime da giorni . Profondamente addolorati i tifosi della Lazio, da sempre legatissimi a Mihajlovic, che ha giocato in biancoceleste per sei stagioni, dal 1998 al 2004, non a caso il periodo più vincente della storia laziale. In questi ultimi anni così difficili, non gli hanno fatto mai mancare il loro sostegno e affetto. Ricambiato, peraltro: come spesso da lui ribadito, Sinisa era rimasto tifoso della Lazio, passione trasmessa ai suoi figli.

 Mihajlovic aveva scelto tre fotogrammi per sintetizzare la sua vita: “La prima volta che ho visto Arianna; la nascita dei miei figli; la rincorsa, il sinistro e la palla all’incrocio“. Purtroppo quest’ultima palla è uscita. Ciao guerriero, ci mancherai.

L’ultimo saluto a Sinisa Mihajlovic è previsto per lunedì: i funerali verranno celebrati il 19 dicembre alle 11 nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, in Piazza Esedra a Roma. Redazione CdG 1947

Andrea Ramazzotti per gazzetta.it il 16 dicembre 2022. 

Sinisa Mihajlovic alla fine si è arreso, ma ha lottato come un leone contro la leucemia acuta mieloide che gli era stata diagnosticata, la prima volta, nell’estate 2019, quando era allenatore del Bologna. Con la squadra già in ritiro a Castelrotto, era stato lui stesso, il 13 luglio 2019, a rendere nota la battaglia che avrebbe affrontato. 

“Ricevere la notizia della malattia – ammise con gli occhi lucidi in conferenza stampa – è stata una bella botta e sono rimasto due giorni chiuso in camera a piangere e a riflettere. Mi è passata tutta la vita davanti... Ora che farò? Rispetto la malattia, ma la guarderò negli occhi, la affronterò a petto in fuori e so già che vincerò questa sfida, non vedo l'ora di andare in ospedale: prima comincio le cure e prima finisco. 

La leucemia è in fase acuta, ma attaccabile: ci vuole tempo, ma si guarisce. Non voglio far pena a nessuno, ma spero che da questa storia tutti capiscano due cose: nessuno è indistruttibile e la prevenzione è importante. Nella mia vita ho sempre dovuto combattere, nessuno mi ha regalato nulla e sono sicuro che da questa esperienza ne uscirò come un uomo migliore”.

Il padre di Sinisa era morto a causa del cancro e per questo il serbo si sottoponeva spesso a prove tumorali. Così nell’estate 2019 aveva scoperto la maledetta malattia che adesso lo ha portato via.

Mihajlovic si era sottoposto al primo ciclo di terapie al Sant'Orsola di Bologna già a luglio e, con l’ok dei medici, il 25 agosto era andato in panchina al Bentegodi per il match contro l’Hellas Verona. Poi un secondo ciclo, la visita sotto la finestra della sua stanza dell’ospedale ricevuta dalla squadra reduce dalla vittoria in rimonta a Brescia (4-3) e il trapianto di midollo osseo, il 29 ottobre. Al suo fianco, oltre allo staff dell’ospedale, il responsabile sanitario del Bologna, Gianni Nanni, che informava i giocatori sullo stato di salute del loro allenatore.

Le cose sembravano andare bene e il 26 novembre, chiuso il terzo ciclo di chemio, aveva parlato insieme ai medici del Sant’Orsola per fare il punto della situazione. “Questi quattro mesi sono stati difficili – confidò – ma voglio usarne una citazione di Vasco Rossi: 'Io sono ancora qua'. Non mollerò niente perché allenare mi fa sentire vivo". In quei lunghi 120 giorni tra chemio e operazione aveva allenato da remoto, ovvero collegato attraverso il pc con il suo staff e la squadra. Poi gradualmente era tornato a Casteldebole e allo stadio per le gare del Bologna. 

“Prima la pazienza non era il mio forte, ora mi godo ogni minuto di ogni giornata. Sembra una cosa da niente, ma prendere una boccata d'aria diventa una cosa bellissima. Non mi sono mai sentito un eroe per quello che sto facendo. Sono un uomo, dal carattere forte ma un uomo, con tutte le sue fragilità. E queste malattie non le puoi vincere solo con il coraggio: servono le cure. Voglio dire a tutte le persone malate gravemente che non c'è da aver paura, di piangere e di sentirsi deboli. Quello che non devono perdere mai è la voglia di vivere". 

 L’8 dicembre era in panchina per Bologna-Milan e venne accolto dall’ovazione del Dall’Ara. A gennaio 2020, pur dovendo mantenere certe precauzioni, pensava di aver superato il momento più difficile. E invece…

Nell’agosto 2020, al rientro dalla vacanza a Porto Cervo, Sinisa era risultato positivo al Coronavirus: era stato in isolamento due settimane, ma totalmente asintomatico. “Dopo la leucemia, tre cicli di chemio e un trapianto di midollo, il Covid è stato come bere un bicchiere di acqua” raccontò a settembre alla Gazzetta dello Sport. Seguirono mesi in cui Sinisa ha potuto pensare solo al campo e ai risultati positivi ottenuti con il Bologna, sempre salvato con anticipo.

 Il 27 marzo 2022 l’annuncio che la leucemia era tornata ad aggredirlo e il nuovo ricoverato al Sant’Orsola. "Questa malattia è molto coraggiosa nel tornare ad affrontare un avversario come me - disse -, ma sono pronto a darle un'altra lezione. Questo è il percorso della mia vita, a volte si incontrano delle buche improvvise, si può cadere e bisogna ritrovare la forza per rialzarsi". 

Dall'ospedale era uscito 35 giorni più tardi, il 2 maggio. Il 28 aprile, però, la squadra era andata a trovarlo un’altra volta per cantare cori da stadio ("Sinisa is on fire") sotto la finestra della sua stanza. C’era da festeggiare la vittoria del giorno prima nel recupero del Dall’Ara contro l’Inter. Il serbo non riuscì a trattenere le lacrime.

 Mihajlovic è stato esonerato dal Bologna il 6 settembre dopo che aveva ottenuto 3 pareggi e 2 sconfitte nelle prime 5 giornate. Ha chiuso l’esperienza sotto le due Torri dopo 164 panchine e 4 salvezze consecutive. “Dopo tre anni e mezzo di calcio, di vita, di lacrime di gioia e di dolori – scrisse in una lettera aperta - sarò sempre uno di voi che siete fratelli e concittadini”.

Poi con la consueta schiettezza: “Non capisco questo esonero. Lo accetto, come un professionista deve fare, ma ritenevo la situazione assolutamente sotto controllo e migliorabile. Faccio fatica a pensare che tutto questo dipenda solo dagli ultimi risultati e non sia una decisione covata da più tempo. Peccato. La malattia? Non mi sto più curando, sto solo facendo controlli, sempre più saltuari, e nulla mi impedisce di lavorare e andare in panchina”. Tre mesi dopo la situazione purtroppo è cambiata. Ciao Sinisa, ci mancherai.

Da lastampa.it il 16 dicembre 2022. 

«Abbiamo combattuto con lui, sempre al suo fianco, una lunga e dura battaglia». Il Policlinico Sant'Orsola di Bologna, dove Sinisa Mihajlovic è stato curato da quando gli è stata diagnosticata la leucemia mieloide acuta, ricorda così il campione dal cuore d’oro. L’ospedale rivolge «alla famiglia il più sentito cordoglio da parte di tutta la comunità del Sant'Orsola di cui Sinisa era entrato a fare parte». E aggiunge: «La consapevolezza che la malattia non sempre si può sconfiggere, nonostante le cure avanzate e l'impegno imponente, non attenua certo il profondo dolore per la sua scomparsa». 

La malattia gli era stata diagnosticata l’11 luglio 2019. Era stato lui stesso con coraggio ad annunciarla in una conferenza stampa. Da allora per Sinisa era iniziata la partita più difficile, combattuta guardandola sempre in faccia e continuando a lavorare, in campo e da remoto.

Ma la leucemia mieloide acuta, un tumore del sangue che si sviluppa nel midollo osseo, nel sistema linfatico e in altri tessuti, non gli ha lasciato scampo. È una malattia che generalmente progredisce molto velocemente, più comune negli uomini che nelle donne, che colpisce soprattutto dopo i 60 anni. 

Sono stati tre anni di sofferenza, di speranza, di ricadute che Sinisa ha affrontato come «un guerriero fino alla fine», ha ricordato Francesca Bonifazi, il suo medico: «Ha avuto il coraggio di affrontare la vita che amava sopra ogni cosa, nonostante una malattia che non conosceva. Si è  affidato ai medici e ha avuto il coraggio di lottare». 

Mihajlovic in videocall dall'ospedale fa vedere la stanza alla squadra: "Vista mare con pappagalli, non mollate mentalmente sono con voi"

Per la dottoressa Sinisa è stato «un esempio anche per gli altri pazienti», per chi soffre o ha sofferto per la stessa malattia. «Ha dato molto coraggio anche agli altri pazienti - ha spiegato -, che hanno provato un senso di comunanza nel vedere come ha affrontato la malattia e anche la recidiva». 

L’ex calciatore, è la conclusione della dottoressa, «era una persona con valori molto profondi. Non ha amato solo il calcio, che è stato il suo brodo primordiale, ma anche la sua famiglia che lo ha sempre sostenuto in modo coerente e costante».

Campione vero hai insegnato a tutti l'etica del coraggio. Grande giocatore, grande allenatore e padre di 6 figli. Piegato dalla recidiva di una leucemia mieloide acuta che l'aveva colpito nell'estate del 2019. Franco Ordine il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il tweet di Clemente Mimun, direttore del Tg5 e tifosissimo laziale, lanciato qualche giorno fa, dal testo lapidario («Forza Sinisa»), ci ha preparati al peggio e all'angoscia della tragica notizia. Che segna in un giorno livido di fine anno la resa di un vero guerriero della vita prima che del calcio, piegato dalla recidiva di una feroce leucemia (del tipo mieloide acuta) scoperta nell'estate del 2019 e ritornata all'assalto nel marzo scorso. Sinisa Mihajlovic, 53 anni esibiti con spavalderia fino a qualche mese prima, cittadino italiano nato a Vukovar ma cresciuto nel borgo vicino di Borovo, da madre croata e padre serbo, si è comportato fino in fondo a questi giorni complicati, da valoroso soldato. Ha «rispettato la malattia», come confessò in una commovente conferenza stampa il 13 giugno del 2019 in quel di Bologna, ma l'ha affrontata a petto in fuori cavalcando con coraggio la speranza di una guarigione, come gli è accaduto sui campi di calcio dove è passato lasciando tracce visibili prima da formidabile specialista di punizioni (28 gol se ne contano in carriera) e poi da allenatore ispirato nel coltivare talenti riconosciuti al primo allenamento (Gigio Donnarumma al Milan, Alessio Romagnoli alla Samp, Saka Lukic al Toro, Svanberg e Barrow al Bologna).

Temperamento sanguigno da giovanotto, caratteristica confermata da un paio episodi burrascosi in carriera con Vieira e Mutu, Sinisa in panchina è diventato un rigoroso capo-classe grazie forse ai cinque figli (Victorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas) avuti dalla moglie Arianna, la nipotina arrivata nel 2021, e il sesto figlio, Marco, riconosciuto, avuto da una precedente relazione, che ne hanno addolcito gli spigoli e lucidato i contorni tenerissimi di un uomo pieno di slanci generosi. Esponente di spicco di una Stella Rossa colma di geni (Prosinecki, Jugovic, Savicevic, Pancev) ma anche di molte sregolatezze, vinse la Champions nel maggio del 1991 a Bari contro il Marsiglia senza mai riuscire a collezionare un successo con la Nazionale dell'epoca.

Da allenatore non ha mai avuto la strada professionale spianata né imboccato scorciatoie. Debuttò in panchina all'Inter, dove aveva appena concluso la carriera calcistica con un gol datato 2006 all'età di 37 anni, al fianco di Roberto Mancini quale primo assistente. Fu il suo master. Toccò proprio a lui, in quei mesi, «mediare» tra il tecnico e Luis Figo all'epoca del burrascoso rapporto tra i due. Probabilmente capì in quei giorni Sinisa d'essere pronto per cominciare a nuotare da solo nell'oceano del calcio italiano. E così cominciò la vita da giramondo: la famiglia a Roma, saldamente amministrata dalla moglie Arianna, lui in volo di panchina in panchina.

Cominciò a Bologna, saltò a Catania prima di assumere l'incarico di ct della Serbia, quindi il ritorno in serie A e in Italia, a Genova, sponda Samp, poi la puntata al Milan chiusa da un prematuro esonero a pochi turni dalla fine della stagione, la chiamata del Toro di Cairo e infine il ritorno a Bologna, la città che ha assistito, con grande trasporto, al suo calvario e che nel novembre del 2021 gli ha fatto dono della cittadinanza onoraria. Per lui, seguiti dalla moglie Arianna, i tifosi bolognesi salirono in pellegrinaggio al santuario di San Luca.

A Milanello stupì spogliatoio, critica e tifosi con la decisione di far esordire, una domenica pomeriggio, 25 ottobre 2015 la data, in Milan-Sassuolo, un portiere-bambino di 16 anni, Gigio Donnarumma, terzo nella scala gerarchica dietro Abbiati e lo spagnolo Diego Lopez, titolarissimo secondo la vulgata calcistica dell'epoca. Il Milan vinse 2 a 1, Donnarumma subì gol su punizione ma diede inizio a una carriera folgorante che l'avrebbe portato sul tetto d'Europa. Ebbe coraggio anche allora Sinisa, un coraggio dettato dall'intuito che è una dote essenziale per un allenatore. Non fu la prima volta. Perché anche a Genova con la Samp gli capitò di misurare al volo il valore di un altro ventenne, Alessio Romagnoli.

Lo stesso coraggio mostrato durante la malattia, annunciata con qualche cedimento emotivo. Ecco la spiegazione postuma. Il primo colloquio tra il medico e Sinisa, nascosto ai più, era stato il seguente: «Dottore, mi dica la verità, si guarisce o si muore?». La risposta, dicono, fu: «Si muore». Davanti al pubblico invece Sinisa spiegò: «Non sono lacrime di paura, le mie. Ho rispetto per la malattia ma l'affronterò a modo mio, a testa alta e andando avanti, con la tattica che mi piace anche nel calcio». E nel racconto di un retroscena venne fuori il cordone ombelicale con la famiglia: «La cosa più difficile è stata far credere a mia moglie che non potevo allenare perché costretto a letto dalla febbre, io che non ne avevo mai avute in 20 anni precedenti». Anche allora Sinisa Mihajlovic provò a far passare un messaggio di grande fiducia nella medicina e nello staff sanitario del Sant' Orsola che lo avevano preso in cura e adottato per molte settimane.

Quando lo rivedemmo in panchina, una sera a Verona, con quel basco di lana che copriva la testa esaltando la sagoma del viso smagrito, sembrava proprio un soldato tornato in trincea.

L'ultima apparizione in pubblico di Sinisa è datata il 3 dicembre scorso. A Roma, quella sera, c'era la presentazione del libro di Zeman scritto con il vice direttore della Gazzetta dello Sport Andrea Di Caro. Fu una sorta di "carrambata" salutata con grande commozione dal pubblico. La foto simbolo dell'evento, Mihajlovic che baciava sulla fronte Zeman, di una tenerezza unica. Il guerriero Sinisa si è congedato così da noi che l'avremmo scortato volentieri in altre cento battaglie.

Quel bacio glielo restituiamo oggi lasciandolo in consegna a sua moglie Arianna, ai figli e ai tanti che gli hanno voluto bene.

Un uomo reso duro dalla vita che non ha mai voluto recitare. La Serbia, le bombe, il conflitto fratricida. Ma anche l'allergia per il politicamente corretto e l'ipocrisia. Tony Damascelli il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Hai finito di romperti le palle di piangere, Sinisa. Hai finito di spiegare che la vita ti ha messo fuori campo e che questa punizione non l'avevi mai disegnata con il tuo piede duro e magico assieme. Difficile accettare certe soluzioni, maledetta questa esistenza al contrario, ti spinge ad amare e poi ti ruba la speranza e il cuore. Sinisa Mihajlovic sei stato un serbo di quelli duri, anche spietati ma pure dotato di quella abilità di acciuffare l'intelligenza e la curiosità di chi ha avuto la sorte di incontrarti e di conoscerti. La malattia non ha mai un spiegazione, è maligna ed è cattiva, si accuccia alle tue spalle, è un'ombra, è un fiato schifoso, Tu hai capito che non potevi sfuggire e fuggire, hai resistito ma contro nessuno, perché la morte, invero, è nessuno, non ha un volto, non ha un'identità ma è feroce, prima o poi ti pugnala, per te è prima, non poi.

Sei stato un grande uomo di campo e di spogliatoio, hai segnato gol portentosi con traiettorie che sembravano stelle filanti, non voglio usare termini bellici, un arcobaleno che finiva dentro la rete e i portieri erano fessi immobili. Hai inveito contro gli arbitri, hai preso a calci bottigliette d'acqua e ciuffi d'erba, hai urlato la tua rabbia di uomo e campione, non hai mai recitato la parte ma era tutta roba vera, sangue tuo come lo è stato, puro, quando hai voluto parlare della terra di origine, dei tormenti, della sofferenza del popolo in guerra, delle morti atroci e fratricide, del senso di vite smarrite sotto i colpi di mortai e il crollo di vecchie case, come la tua dimora a Borovo. Questa fetta di vita mai l'hai negata, mai ti sei nascosto nel canneto degli ipocriti, dei voltagabbana o dei deboli di memoria, Zeljko Raznatovic era stato un tuo amico, gli dettero il soprannome di Arkan, la Tigre era un fanatico delle Stella Rossa, a Belgrado mormoravano che fosse un agente segreto e poi un militare criminale. Non erano soltanto sussurri ma grida, di gente straziata per i misfatti di quel delinquente. Gli sei stato grato per sempre, la Tigre salvò la vita a tuo zio quando lui venne catturato dalle unità paramilitari serbe.

Eppure la storia era incominciata male, ti aveva dato del pezzo di merda perché eri entrato sulle gambe di Stojkovic che era come la madonna ma gli avevi risposto sul muso chi cazzo sei tu, ti spacco la faccia. Mai hai rinnegato quell'epoca, hai avuto il coraggio, normale per te, di schierarti epperò ti sei dissociato, da uomo sano, dalle stragi e dalla codardia di certi assassinii. Per questo hai diviso, hai creato polemiche, hanno usato questa fetta della tua esistenza per farne propaganda, ad Arkan hai dedicato un necrologio, era il tuo eroe ma non per questo sei stato complice degli atti orrendi. Qui il tuo valore, qui la tua dignità, qui la tua coerenza, qui il tuo carattere controverso che non garbava alla gente imbastita e imbalsamata che aveva bisogno di manichini, Tu questi li usavi per piazzarli in barriera e poi stecchirli con i calci di punizione. Oggi, ovviamente, il corteo delle prefiche dimentica quegli insulti di fascista che ti avevano gettato addosso, stolti e ignoranti non avevano studiato gli anni del maresciallo Tito e di un nazionalismo jugoslavo che fece forte il Paese prima di ferirlo e spaccarlo.

L'ultima immagine è un bacio al tuo sodale Zeman, durante la presentazione di un libro, un gesto di affetto, come un saluto d'addio al mondo che hai frequentato e vissuto. Infine hai aspettato che la Tua Serbia lasciasse il mondiale, per poi accomiatarti da questo teatro di noi spettatori, improvvisamente attoniti e tristi.

Mancini ricorda il suo grande amico Sinisa Mihajilovic. Si sono conosciuti alla Sampdoria. Poi si sono ritrovati alla Lazio e all'Inter, prima come calciatori, poi da allenatori. Mancini e Mihajlovic hanno vinto tanto insieme, si sono divertiti e ci hanno fatto divertire. Orlando Sacchelli il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

"Questo è un giorno che non avrei mai voluto vivere, perché ho perso un amico con cui ho condiviso quasi 30 anni della mia vita, in campo e fuori". Il ct della Nazionale, Roberto Mancini, ricorda Mihailovic, scomparso oggi a 53 anni dopo una lunga malattia.

"Non è giusto che una malattia così atroce abbia portato via un ragazzo di 53 anni, che ha lottato fino all’ultimo istante come un leone, come era abituato a fare in campo - ha aggiunto Mancini -. Ed è proprio così che Sinisa resterà per sempre al mio fianco, anche se non c’è più, come ha fatto a Genova, a Roma, a Milano e poi anche quando abbiamo preso strade diverse".

Ne hanno passate tante insieme Sinisa e Roberto. Sui campi di allenamento, nei terreni di gioco, nei ritiri. Due vite legatissime dallo sport e dall'amicizia profonda. Ed è proprio con Mancini che Mihajlovic cominciò la sua seconda vita nel mondo del calcio, come tecnico. Il serbo fu chiamato come secondo di Mancini all'Inter, ove restò dal 1° luglio 2006 al 29 maggio 2008. Insieme vinsero due scudetti (2007 e 2008) e la Supercoppa italiana (2006).

Il Corriere dello sport riporta un curioso aneddoto ricordato da Mancini sul suo amico Sinisa. "Quando venne alla Sampdoria comprò una macchina gialla, un BMW sportivo. Me lo ricordo così. E un giorno andò a prendere Arianna alla stazione a Genova. Era fermo davanti alla stazione, con questa macchina gialla, e un signore, uscito dalla stazione, è salito dietro. Mihajlovic lo ha guardato e gli ha detto: 'Che cxxx fai qui dietro?' E il signore gli ha risposto: 'È un taxi…'. E Sinisa: 'Ti sembra un taxi questo?'".

Nel 2019 ad un evento organizzato dalla Gazzetta dello sport Mihajlovic ringraziò pubblicamente Mancini, che gli aveva aperto la strada come allenatore. E a cui era sempre rimasto legato, non solo professionalmente: "Il primo a venirmi a trovare in ospedale, abbiamo riallacciato la nostra amicizia".

Strano a dirsi ma questa grande amicizia era iniziata tanti anni prima con un litigio. I due si conoscono nel 1994, a Genova, quando entrambi sono calciatori. In mezzo al campo litigarono, per una incomprensione, dovuta forse anche all'eccesso di agonismo. Cose normali, che possono capitare. Fu la prima e l'ultima volta. Più avanti i due si ritrovarono di nuovo insieme, prima alla Lazio e poi all'Inter, prima da giocatori e poi da allenatori.

Lo sportivo serbo ma italiano d'adozione aveva 53 anni. È morto Sinisa Mihajlovic, addio all’ex calciatore e allenatore: dal 2019 combatteva contro la leucemia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Dicembre 2022

L’ultima apparizione in pubblico a inizio dicembre, in una libreria: per la presentazione del libro dell’allenatore e amico Zdenek Zeman. Appariva sorridente, Sinisa Mihajlovic. Oltre alla carriera da calciatore duro ma dal piede educato la gente aveva imparato a conoscerlo per il suo carattere nell’affrontare la leucemia che lo aveva colpito ormai più di tre anni fa. Era tornato in panchina e ad allenare. Fino a questo primo pomeriggio, quando la notizia della morte dell’ex calciatore e allenatore serbo è stata confermata dalla famiglia all’Ansa. Sinisa Mihajlovic aveva 53 anni, un italiano adottivo per i suoi lunghi trascorsi tra i campi e le panchine di Serie A. Aveva 53 anni e da tempo combatteva contro la leucemia: una malattia scoperta nel luglio del 2019 e rivelata in una conferenza stampa. “Sono sempre stato un uomo difficile, che si esaltava negli scontri. Ma con certi avversari la battaglia è più dura”, confessava nella sua autobiografia, La partita della vita, scritta con il vicedirettore della Gazzetta dello Sport Andrea Di Caro.

Lo chiamavano in effetti “Sergente” per il suo carattere forte e anche ruvido. Un marcatore duro, dotato però di un piede sinistro raffinato: era uno specialista nel calciare le punizioni. Era nato il 20 febbraio del 1966 a Vukovar, in Croazia, ed era cresciuto calcisticamente nel Borovo. Prima alle giovanili e poi in prima squadra. Il padre era serbo e la madre croata: le vite della famiglia, come quelle di tutte le altre famiglie, legate alla guerra che ha dilaniato la Jugoslavia.

Con la Stella Rossa di Belgrado ha vinto una Coppa dei Campioni prima di arrivare in Italia. Da centrocampista si era specializzato nel ruolo di difensore centrale. Ha giocato con Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Ha vinto da calciatore due scudetti, quattro Coppe Italia e quattro trofei europei. Aveva intrapreso la carriera da allenatore dopo il ritiro nel 2006: all’inizio come vice di Roberto Mancini nell’Inter. In panchina ha continuato tra Bologna, Catania, Fiorentina, Nazionale serba, Sampdoria, Milan, Torino, Sporting Lisbona e di nuovo Bologna. Dalla società rossoblù era stato esonerato lo scorso settembre, sostituito dall’ex centrocampista Thiago Motta.

Trent’anni di calcio non esenti da controversie, su tutte l’amicizia con il criminale di guerra Zeljko Raznatovic noto in tutto il mondo come “La Tigre di Arkan”, incriminato per genocidio e atti di pulizia etnica, ucciso nella hall di un albergo di Belgrado nel gennaio del 2000. Dal 1996 era sposato con Arianna Rapaccione, romana ex soubrette televisiva. Cinque i figli della coppia: Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas. Nel 1993 aveva avuto un altro figlio, Marko, da un’altra relazione. “Ho affrontato ogni partita come fosse la vita e la vita come fosse una partita”, ha raccontato.

A luglio del 2019 la scoperta della malattia: leucemia mieloide acuta. “Ho passato la notte a piangere e ancora adesso ho lacrime ma non sono di paura – aveva raccontato l’allora tecnico del Bologna – io da martedì andrò in ospedale e non vedo l’ora di iniziare a lottare per guarire. Ho spiegato ai miei giocatori che lotterò per vincere come ho insegnato loro a fare sul campo. Questa sfida la vincerò, non ci sono dubbi. La malattia è in fase acuta e aggressiva ma attaccabile, ci vorrà del tempo ma si guarisce”.

Un mese dopo, dopo tre ricoveri e un trapianto, era già in panchina. La sua battaglia aveva superato il pubblico degli appassionati di calcio: nel 2020 era stato ospite anche al Festival di Sanremo. Lo scorso marzo aveva fatto sapere in conferenza stampa di doversi di nuovo sottoporre a uun nuovo ciclo di cure per contrastare la ricomparsa della malattia. “Questa volta per usare un termine calcistico non entrerò in scivolata su un avversario, ma giocherò d’anticipo – le parole in conferenza stampa -. Questa malattia è molto coraggiosa nel tornare ad affrontare un avversario come me. Questo è il percorso della mia vita, a volte si incontrano delle buche improvvise, si può cadere e bisogna ritrovare la forza per rialzarsi”.

Si erano rincorse tra social e media negli ultimi giorni le notizie di un aggravamento delle condizioni di salute di Mihajlovic. Indiscrezioni trapelate ma mai confermate da fonti ufficiali. Questa mattina la conferma della famiglia all’agenzia di stampa. “La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic“, si legge nella nota trasmessa dalla famiglia all’Ansa. “Uomo unico professionista straordinario, disponibile e buono con tutti. Coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia. Ringraziamo i medici e le infermiere che lo hanno seguito in questi anni, con amore e rispetto, in particolare la dottoressa Francesca Bonifazi, il dottor Antonio Curti, il Prof. Alessndro Rambaldi, e il Dott. Luca Marchetti. Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Aveva 53 anni: l'infezione, il ricovero e il coma. Come è morto Sinisa Mihajlovic, l’addio all’allenatore che combatteva da anni la malattia. Redazione su Il Riformista il 16 Dicembre 2022

Addio a Sinisa Mihajlovic. L’ex difensore di Lazio, Sampdoria e Inter, e allenatore fino a pochi mesi fa del Bologna, non ce l’ha fatta. Dal luglio 2019 lottava contro la leucemia e da qualche giorno era ricoverato in gravi condizioni nella clinica Paideia  di Roma. Aveva 53 anni. Ad annunciare la sua scomparsa è stata una nota della famiglia: “La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic”.

“Uomo unico professionista straordinario, disponibile e buono con tutti”, le parole dei familiari. “Coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia. Ringraziamo i medici e le infermiere che lo hanno seguito in questi anni, con amore e rispetto, in particolare la dottoressa Francesca Bonifazi, il dottor Antonio Curti, il Prof. Alessandro Rambaldi, e il Dott. Luca Marchetti. Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato”.

Secondo quanto riferisce Repubblica, era ricoverato da domenica 11 dicembre presso la clinica Paideia, per un’infezione divenuta da subito grave a causa del sistema immunitario compromesso dalla malattia stessa e dalle pesanti terapie. Febbre alta e condizioni che sono precipitate nel giro di poche ore. Una evoluzione improvvisa e drammatica, visto che venerdì e sabato Mihajlovic parlava con gli amici dei suoi programmi futuri. Lunedì 12 le condizioni di Mihajlovic sono degenerate definitivamente: è entrato in coma farmacologico nel tardo pomeriggio.

L’ultima apparizione in pubblico è datata 1 dicembre 2022. Quel giorno Sinisa ha partecipato alla presentazione del libro dell’allenatore e amico Zdenek Zeman. Appariva sorridente, Sinisa Mihajlovic, si è seduto affianco al tecnico boemo e ha partecipato alla conferenza de “La bellezza non ha prezzo”.

Lo chiamavano in effetti “Sergente” per il suo carattere forte e anche ruvido. Un marcatore duro, dotato però di un piede sinistro raffinato: era uno specialista nel calciare le punizioni. Era nato il 20 febbraio del 1966 a Vukovar, in Croazia, ed era cresciuto calcisticamente nel Borovo. Prima alle giovanili e poi in prima squadra. Il padre era serbo e la madre croata: le vite della famiglia, come quelle di tutte le altre famiglie, legate alla guerra che ha dilaniato la Jugoslavia.

Con la Stella Rossa di Belgrado ha vinto una Coppa dei Campioni prima di arrivare in Italia. Da centrocampista si era specializzato nel ruolo di difensore centrale. Ha giocato con Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Ha vinto da calciatore due scudetti, quattro Coppe Italia e quattro trofei europei. Aveva intrapreso la carriera da allenatore dopo il ritiro nel 2006: all’inizio come vice di Roberto Mancini nell’Inter. In panchina ha continuato tra Bologna, Catania, Fiorentina, Nazionale serba, Sampdoria, Milan, Torino, Sporting Lisbona e di nuovo Bologna. Dalla società rossoblù era stato esonerato lo scorso settembre, sostituito dall’ex centrocampista Thiago Motta.

Trent’anni di calcio non esenti da controversie, su tutte l’amicizia con il criminale di guerra Zeljko Raznatovic noto in tutto il mondo come “La Tigre di Arkan”, incriminato per genocidio e atti di pulizia etnica, ucciso nella hall di un albergo di Belgrado nel gennaio del 2000. Dal 2005 era sposato con Arianna Rapaccione, romana ex soubrette televisiva. Cinque i figli della coppia: Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas. Nel 1993 aveva avuto un altro figlio, Marko, da un’altra relazione. “Ho affrontato ogni partita come fosse la vita e la vita come fosse una partita”, ha raccontato.

A luglio del 2019 la scoperta della malattia: leucemia mieloide acuta. “Ho passato la notte a piangere e ancora adesso ho lacrime ma non sono di paura – aveva raccontato l’allora tecnico del Bologna – io da martedì andrò in ospedale e non vedo l’ora di iniziare a lottare per guarire. Ho spiegato ai miei giocatori che lotterò per vincere come ho insegnato loro a fare sul campo. Questa sfida la vincerò, non ci sono dubbi. La malattia è in fase acuta e aggressiva ma attaccabile, ci vorrà del tempo ma si guarisce”.

Un mese dopo, dopo tre ricoveri e un trapianto, era già in panchina. La sua battaglia aveva superato il pubblico degli appassionati di calcio: nel 2020 era stato ospite anche al Festival di Sanremo. Lo scorso marzo aveva fatto sapere in conferenza stampa di doversi di nuovo sottoporre a uun nuovo ciclo di cure per contrastare la ricomparsa della malattia. “Questa volta per usare un termine calcistico non entrerò in scivolata su un avversario, ma giocherò d’anticipo – le parole in conferenza stampa -. Questa malattia è molto coraggiosa nel tornare ad affrontare un avversario come me. Questo è il percorso della mia vita, a volte si incontrano delle buche improvvise, si può cadere e bisogna ritrovare la forza per rialzarsi”.

Si erano rincorse tra social e media negli ultimi giorni le notizie di un aggravamento delle condizioni di salute di Mihajlovic. Indiscrezioni trapelate ma mai confermate da fonti ufficiali. Questa mattina la conferma della famiglia all’agenzia di stampa.

L'ex calciatore e allenatore. Chi è la moglie di Mihajlovic, Arianna Rapaccioni: il matrimonio lungo 26 anni e i 5 figli. Vito Califano su Il Riformista il 16 Dicembre 2022

Ad Arianna e Sinisa era bastato un anno: l’incontro, il colpo di fulmine, l’innamoramento. L’anno dopo erano già marito e moglie. Lei, Arianna Rapaccioni, showgirl e soubrette. Lui, Sinisa Mihajlovic, calciatore di Serie A. Una storia da anni Novanta, una storia italiana. Come un po’ era diventato lo stesso Sinisa Mihajlovic, l’ex calciatore e allenatore serbo morto oggi, a 53 anni, come ha confermato la notizia all’Ansa dopo giorno in cui notizie sul peggioramento delle sue condizioni di salute si rincorrevano senza riscontri. Il difensore e centrocampista dai modi duri ma dal piede delicato, gli appassionati avevano imparato ad apprezzarlo anche fuori dal campo: per il carattere con il quale aveva affrontato la leucemia mieloide acuta che gli era stata diagnostica tre anni fa.

Al suo fianco sempre lei, Arianna. La coppia si era sposata nel 1996 e insieme avevano avuto cinque figli. Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas. Mihajlovic aveva già avuto un altro figlio da una precedente relazione, Marko. Poco era cambiato una volta che aveva incontrato la donna della sua vita. Rapaccione stessa aveva raccontato a Domenica In come quel colpo di fulmine gli aveva stravolto la vita: “Sinisa è arrivato e mi ha stroncato la carriera, ho lasciato Luna Park a metà anno, nel ’95 l’ho conosciuto, nel ’96 ci siamo sposati. Ma ci siamo innamorati subito, ci siamo guardati e non ci siamo staccati più”.

Rapaccioni nei primi anni Novanta aveva lavorato come soubrette e ballerina in programmi televisivi come Luna Park e Quelli che il calcio. Quando lo ha incontrato, Mihajlovic giocava nella Sampdoria. “Il primo mese che sono stato insieme a mia moglie non l’ho neanche sfiorata con un dito. M’ero innamorato, non volevo che pensasse che stessi con lei solo per il sesso”, aveva detto in un’intervista a Oggi. Con una cerimonia nella Chiesa Stella Maris a Porto Cervo la coppia aveva festeggiato i 25 anni di matrimonio rinnovando la promessa di quella prima volta.

“Dopo quasi 25 anni di matrimonio e cinque figli so che le devo tutto: se non ci fosse stata lei accanto a me durante la mia battaglia contro la leucemia, non ce l’avrei fatta”, aveva confessato l’allenatore in un’intervista a Oggi. “Come quando torni a casa e posi le chiavi all’ingresso e sorridi perché sai di essere al sicuro”, aveva scritto la donna postando una foto con il marito. Su Instagram Arianna Mihajlovic è seguita da 107mila follower.

Chi era Sinisa Mihajlovic

Sinisa Mihajlovic nato il 20 febbraio del 1966 a Vukovar, in Croazia, ed era cresciuto calcisticamente nel Borovo. Prima alle giovanili e poi in prima squadra. Il padre era serbo e la madre croata. Con la Stella Rossa di Belgrado ha vinto una Coppa dei Campioni. In Italia ha giocato con Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Ha vinto da calciatore due scudetti, quattro Coppe Italia e quattro trofei europei. Aveva intrapreso la carriera da allenatore dopo il ritiro nel 2006: all’inizio come vice di Roberto Mancini nell’Inter. In panchina ha continuato tra Bologna, Catania, Fiorentina, Nazionale serba, Sampdoria, Milan, Torino, Sporting Lisbona e di nuovo Bologna. Dalla società rossoblù era stato esonerato lo scorso settembre, sostituito dall’ex centrocampista Thiago Motta.

A luglio del 2019 la scoperta della malattia: leucemia mieloide acuta. “Ho passato la notte a piangere e ancora adesso ho lacrime ma non sono di paura – aveva raccontato l’allora tecnico del Bologna – io da martedì andrò in ospedale e non vedo l’ora di iniziare a lottare per guarire. Ho spiegato ai miei giocatori che lotterò per vincere come ho insegnato loro a fare sul campo. Questa sfida la vincerò, non ci sono dubbi. La malattia è in fase acuta e aggressiva ma attaccabile, ci vorrà del tempo ma si guarisce”.

Un mese dopo, dopo tre ricoveri e un trapianto, era già in panchina. La sua battaglia aveva superato il pubblico degli appassionati di calcio: nel 2020 era stato ospite anche al Festival di Sanremo. Lo scorso marzo aveva fatto sapere in conferenza stampa di doversi di nuovo sottoporre a un nuovo ciclo di cure per contrastare la ricomparsa della malattia. “Questa volta per usare un termine calcistico non entrerò in scivolata su un avversario, ma giocherò d’anticipo – le parole in conferenza stampa -. Questa malattia è molto coraggiosa nel tornare ad affrontare un avversario come me. Questo è il percorso della mia vita, a volte si incontrano delle buche improvvise, si può cadere e bisogna ritrovare la forza per rialzarsi”. L’ultima apparizione a inizio mese in occasione della presentazione del libro dell’amico e ormai collega Zdenek Zeman.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Sinisa Mihajlovic, il cordoglio di Paolo Brosio: "Come ricevere un pugno nello stomaco". Anche Paolo Brosio, come molti altri ha reso omaggio a Sinisa Mihajlovic. I due - ha ricordato - passavano molto tempo insieme. Valentina Mericio su Notizie.it il 17 Dicembre 2022 

Non si ferma la lunga lista di cordoglio in memoria del campione e allenatore Sinisa Mihajlovic.

 Il giornalista nel corso di un suo intervento fatto a “Pomeriggio Cinque” ha spiegato che la notizia della scomparsa del tecnico serbo gli è arrivata dal CT della Nazionale Italiana Roberto Mancini: “Per me era come un fratello“, ha dichiarato Brosio, spiegando che la loro era un’amicizia speciale. 

Sinisa Mihajlovic, il ricordo di Paolo Brosio

Paolo Brosio, nel parlare del suo caro amico ha affermato: “È stato come ricevere un pugno nello stomaco”.

Ha poi raccontato qual è stata la reazione quando Roberto Mancini lo ha informato della scomparsa: “Quando me l’ha detto siamo scoppiati a piangere insieme. Roberto è un nostro grande amico in comune”. Sinisa ha però vicino a Paolo Brosio in una circostanza molto importante: “È stato tanto vicino alla fondazione che ho creato per i bambini croati a Medjugorje”. 

Roberto Mancini: “Un giorno che non avrei mai voluto vivere”

Nel frattempo il commissario tecnico azzurro ha espresso tutta la sua commozione per la perdita di una persona molto importante come Mihajlovic: “Questo è un giorno che non avrei mai voluto vivere, perché ho perso un amico con cui ho condiviso quasi 30 anni della mia vita, in campo e fuori”. 

Ha infine osservato: “Non è giusto che una malattia così atroce abbia portato via un ragazzo di 53 anni, che ha lottato fino all’ultimo istante come un leone, come era abituato a fare in campo”.

Mihajlovic: «La malattia mi ha fatto paura. Arkan? Ha fatto cose orrende ma non rinnego un’amicizia».  Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022

Ripubblichiamo l’intervista a Sinisa Mihajlovic uscita il 12 novembre 2020 sul Corriere. L’allenatore ed ex calciatore, morto oggi a 53 anni, raccontava la malattia, la guerra nell’ex Jugoslavia, Arkan — e il futuro

Ripubblichiamo l’intervista a Sinisa Mihajlovic uscita il 12 novembre 2020 sul «Corriere della Sera». Il campione — morto oggi a 53 anni — raccontava la malattia, la guerra nella ex Jugoslavia, Arkan.

Sinisa Mihajlovic, le sembra giusto che la lotta contro il cancro venga sempre definita come una guerra, come una battaglia da vincere?

«Oggi, solo oggi, capisco la domanda. Ammalarsi non è una colpa. Succede, e basta. Ti cade il mondo addosso. Cerchi di reagire. Ognuno lo fa a suo modo. La verità è che non sono un eroe, e neppure Superman. Sono uno che quando parlava così, si faceva coraggio. Perché aveva paura, e piangeva, e si chiedeva perché, e implorava aiuto a Dio, come tutti. Pensavo solo a darmi forza nell’unico modo che conosco. Combatti, non mollare mai».

E chi non ce la fa?

«Non è certo un perdente. Non è una sconfitta, è una maledetta malattia. Non esiste una ricetta, io almeno non ce l’ho. Tu puoi sentirti un guerriero, ma senza dottori non vai da nessuna parte. L’unica cosa che puoi fare è non perdere voglia di vivere. Il resto non dipende da noi».

Perché ne «La partita della vita», la sua autobiografia, ha scelto di raccontarsi dal letto d’ospedale?

«Non avrei potuto fare altrimenti. Adesso siamo qui a parlare, sul terrazzo della mia casa, davanti alla città più bella del mondo, Roma, mentre fumo il mio sigaro. Mi godo ogni momento. Prima non lo facevo, davo tutto per scontato. Conta la salute, contano gli affetti. Nient’altro. La malattia mi ha reso un uomo migliore».

Chi è Cgikjltfr Drnovsk, 69enne senza fissa dimora?

«Al Sant’Orsola mi avevano dato questa falsa identità, per non attirare curiosi che disturbassero altri malati. Dopo i primi due cicli di chemio, dimostravo altro che 69 anni. Trovavo ironico quel senza fissa dimora affibbiato a me, che in ogni stadio ero accolto dal coro di zingaro di m...».

Le pesava?

«Sono un uomo controverso e divisivo, si dice così? E ci ho messo anche io del mio. Facevo il macho, dicevo cose che potevo tenere per me. Ma se faccio una cazzata, e ne ho fatte tante, mi prendo le mie responsabilità».

Qualcosa che invece non rifarebbe?

«Ottobre 2000, Lazio-Arsenal di Champions League. Da quando gioco a calcio ho dato e preso sputi e gomitate e insulti. Succede anche con Vieira. Gli dico nero di m... Tre giornate di squalifica. Sbagliai, e tanto. Lui però mi aveva chiamato zingaro di m... per tutta la partita. Per lui l’insulto era zingaro, per me era m... Nei confronti di noi serbi, il razzismo non esiste...».

Quando capì che in Jugoslavia veniva giù tutto?

«Finale di Coppa di Jugoslavia 1990. Perdiamo contro l’Hajduk Spalato, gol di Boksic. Prima della partita, nel tunnel che porta al campo, Igor Stimac, croato, mio compagno di stanza nella nazionale giovanile mi dice: “Prego Dio che i nostri uccidano la tua famiglia a Borovo”, che è il paese dei miei genitori».

Ricorda il primo incontro con Zeljko Raznatovic, detto Arkan?

«Quando io giocavo nel Vojvodina, al termine di una partita combattuta l’avevo insultato non sapendo chi fosse. Quando mi ingaggiano alla Stella Rossa, mi convoca nella sua villa. Pensavo mi volesse ammazzare. Invece fu gentile, affabile. “Qualsiasi cosa ti serva, Sinisa, sai che puoi venire da me. Ti lascio il mio telefono”. Nei miei anni a Belgrado l’ho frequentato per circa 200 sere all’anno».

La fascinazione del male?

«Forse all’inizio c’era anche quello, poi diventammo davvero amici. Quando morì, pubblicai il famoso necrologio che mi ha attirato tante critiche per il mio amico Zeljko, non per il comandante Arkan, capo delle Tigri».

Vuole che le legga i crimini di guerra del suo amico?

«Non condividerò mai quel che ha fatto, e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita».

Risponderà alla lettera aperta che in attesa della cittadinanza onoraria di Bologna le chiede di dissociarsi dagli autori dei genocidi nei Balcani?

«No. Ho già detto quel che dovevo dire. Io la guerra l’ho vissuta dall’Italia, cercando di aiutare quanta più gente possibile. Una volta comprai il Messaggero . In prima pagina c’era la foto di tre ragazzi morti “vittime dei cetnici serbi”. Ma uno di loro era un mio ex compagno di classe. Un serbo. I serbi hanno fatto schifo, come anche i croati. Ma la storia è sempre scritta dai vincitori. Quindi, gli unici colpevoli siamo noi».

Si sente più serbo o italiano?

«Nel 2000, quando stavano per cominciare i bombardamenti per il conflitto in Kosovo, la mia famiglia era a Roma con me. Mio papà, un ex camionista, un uomo semplice, mi disse Sinisa, io torno a casa. Lo odiai per questo. Qui aveva tutto, e invece sceglieva la nostra casa semidistrutta in un paesino senza nulla? Ma erano le sue radici. Ci ho messo tanto a riconciliarmi con lui, ma poi ho capito».

Come andò l’incontro con Massimo D’Alema, all’epoca presidente del Consiglio?

«L’aveva organizzato Sergio Cragnotti, presidente della Lazio. Volevo fargli capire che i bombardamenti della Nato avrebbero provocato la morte di tanti innocenti. Fu cortese. Mi disse che non poteva farci niente. Quella era una guerra americana. Io non amo l’America, proprio no. Pensi che il midollo per il mio trapianto mi è stato donato da un cittadino statunitense. La vita è piena di sorprese».

Cosa ricorda del suo ritorno dopo la malattia?

«Venticinque agosto 2019. Prima di campionato a Verona. Peso 75 chili, ho solo 300 globuli bianchi in corpo. Imploro i medici di lasciarmi andare. Rischiavo di cadere per terra davanti a tutti e un paio di volte stavo per farlo. Nel sottopassaggio mi sentivo gli sguardi di compassione addosso. Quando mi sono rivisto in televisione, non mi sono riconosciuto».

Perché rischiare?

«Volevo dare un messaggio. Non ci si deve vergognare della malattia. Bisogna mostrarsi per quel che si è. Volevo dire a tutte le persone nel mio stato, ai malati che ho conosciuto in ospedale di non abbattersi, di provare a vivere una vita normale, fossero anche i nostri ultimi momenti».

Chi è oggi Mihajlovic?

«Un uomo che cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno. Tre giorni fa ho fatto gli esami, sangue, tac ai polmoni, midollo aspirato. Ogni volta mi prende l’ansia. Il prossimo controllo a giugno. Poi, due volte all’anno. Speriamo».

Non è stanco degli applausi e dell’affetto di tutti?

«Mi ha aiutato molto. Ma ora basta. Non vedo l’ora di tornare a essere uno zingaro di m...».

ADDIO A SINISA MIHAJLOVIC (1969-2022)

Serbo e fiero di esserlo: ecco il Mihajlovic "politico". Arkan, Milosevic, la guerra civile: le tante uscite "politiche" di Mihajlovic, serbo al cento per cento. Andrea Muratore il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Se la malattia e la morte di Sinisa Mihajlovic hanno destato tanta commozione nel mondo del calcio è anche perché nella debolezza l'ex giocatore di Stella Rossa, Lazio e Inter è parso quello di sempre: tenace, duro, coriaceo. Così era, Mihajlovic, sempre uguale a sé stesso, mai voltagabbana: a costo di prendere posizioni radicali, lo era anche in termini di visione politica. Una visione politica molto quadrata, radicale, mai ambigua, focalizzata sull'identità serba.

Non si può capire l'uomo Mihajlovic senza pensare al suo contesto di riferimento, quello in cui si affermò come volto pubblico e calciatore di successo: la Jugoslavia del tramonto che si avviava verso la guerra civile. E che alla vigilia dell'inizio della disgregazione dello Stato che fu di Tito era giunta, sui campi da calcio, sul tetto d'Europa e del mondo, grazie alla Stella Rossa Belgrado che vinse la Coppa dei Campioni nella finale di Bari contro l'Olympique Marsiglia e la Coppa Intercontinentale nella sfida contro i cileni del Colo-Colo.

Un vero e proprio Dream Team paragonabile solo a quello della nazionale di calcio della Jugoslavia, che dal croato Boban al montenegrino Savicevic riuniva i più grandi talenti del calcio balcanico e si sarebbe disgregata assieme al Paese nel 1992, venendo esclusa dagli Europei per via della guerra civile scoppiata nel Paese.

La guerra segnò profondamente l'allora 22enne Mihajlovic quando scoppiò nell'estate 1991. Anche - se non soprattutto - perché colpì la città natale di Vukovar, centro croato in cui era nato da madre croata e padre serbo. E portò, inoltre, alla luce i rapporti di Mihajlovic con Željko Ražnatović, conosciuto con il soprannome “Arkan”. A lungo capo ultras della Stella Rossa e criminale serbo, Arkan arruolò le famigerate "Tigri", un'unità paramilitare pescata tra le curve e le galere che nelle guerre jugoslave fu responsabile di crimini di guerra e pulizia etnica in Croazia e in Bosnia. Per ragioni di militanza sportiva il giovane MIhajlovic conosceva Arkan molto bene e alla sua morte, nel 2000, lo definì in un necrologio "un eroe per il popolo serbo". Parole che destarono scalpore ma che nel 2020 l'allenatore ai tempi in forza al Bologna spiegò parlando su Sky Sport a Paolo Condò e raccontò di come le "Tigri" risparmiarono suo zio, croato, trovando sul suo telefono cellulare il numero di Sinisa. Questo nonostante il fratello della madre avesse dichiarato esplicitamente di voler "scannare come un porco" il padre del centrocampista e difensore serbo.

In un'intervista rilasciata ad Andrea Di Caro de La Gazzetta dello Sport, pochi mesi prima, Mihajlovic aveva condannato la guerra dei Balcani in forma trasversale rifiutando però una colpevolizzazione esclusiva dei serbi: "Dovranno passare due generazioni prima di poter giudicare cosa è accaduto. È stato devastante per tutti. Quello che racconto io, lo può raccontare anche un croato o un bosniaco. Abbiamo vissuto un impazzimento della storia". Un uomo, un campione sul campo ma, prima di tutto, un serbo e un balcanico. Per il quale parole come storia, identità e nazione hanno un significato molto più profondo e divisivo di quanto avvenga in un Paese come l'Italia: e del resto pochi calciatori, come Mihajlovic si sono trovati a giocare in un Paese, l'Italia, mentre il suo Stato natale veniva attaccato da una coalizione comprendente, tra gli altri, lo Stato di residenza.

Successe nel 1999, e Mihajlovic sostenne il governo serbo di Slobodan Milosevic contro i raid della Nato: "Siamo un popolo orgoglioso", disse nel 2009 al Corriere della Sera parlando di questa sua scelta. "Certo tra noi abbiamo sempre litigato, ma siamo tutti serbi. E preferisco combattere per un mio connazionale e difenderlo contro un aggressore esterno": posizioni nette, spesso divisive, forti, ma profondamente umane. Umano, troppo umano era Mihajlovic dietro il rigore del volto e la serietà dei suoi lineamenti. Non si nascondeva mai: in campo, in politica, nel commentare la sua storia personale e l'attualità. Sempre controcorrente, come tanti serbi di fronte all'Occidente: forse perché (in passato) così divisivo, ha unito tutti nella fragilità e nella sfida alla malattia. Di fronte alla quale conta esser ciò che vale la pena: un uomo degno di questa definizione.

Francesco Persili per Dagospia (15 novembre 2020) il 16 dicembre 2022.

“Ma chi cazzo sei? Io ti spacco la faccia”. Sinisa Mihajlovic fulmina quell'uomo che lo rincorre gridando: “Ehi pezzo di merda, io ti faccio finire la carriera”. Solo che quell’uomo è Zeljko Raznatovic, meglio noto come la Tigre Arkan, capo degli ultrà della Stella Rossa e criminale di guerra serbo. Tutto era nato per un’entrata killer di "Miha" su Stojkovic. 

La storia della loro controversa amicizia viene ricostruita nell’autobiografia che Sinisa ha scritto con Andrea Di Caro (Solferino). Dopo quel primo faccia a faccia ne seguiranno altri: “Nel periodo in cui sono stato a Belgrado, alla Stella Rossa, lo avrò visto almeno 200 giorni all’anno. Solo calcio, con lui non parlavo mai di politica”. 

 C’è un filo rosso che lega il Sinisa di ieri al Mihajlovic di oggi. È il coraggio di schierarsi e di vivere con coerenza prendendo posizioni scomode, azzardate, divisive come quando decise di fare un necrologio per Arkan. “Me lo rinfacciano da 20 anni ma non ho mai rinnegato quella scelta. Non lo feci per il militare Arkan. Lo feci per Zeljko. Possono i due piani rimanere separati? Non lo so. Allo stesso modo ripeto che lo striscione in suo onore comparso nella curva della Lazio non porta la mia firma”

Oltre cento esponenti del mondo della politica e dell'associazionismo dell'Emilia-Romagna gli hanno inviato una lettera per chiedergli di dissociarsi dai criminali di guerra come la Tigre Arkan. Mihajlovic non ha risposto ufficialmente ma il suo pensiero emerge con chiarezza nelle pagine del libro: 

“Non ho mai difeso la vita violenta di Arkan e le nefandezze di cui si è macchiato guidando le sue Tigri. I suoi crimini efferati restano. Sono orribili. E li condanno. Ma Zeljko era un mio amico e mi voleva bene. Grazie a lui ho salvato la vita di mio zio e sono potuto rientrare a Borovo per vedere la mia casa distrutta. La guerra nella ex Jugoslavia ha tanti colpevoli. In una guerra civile non esistono buoni e cattivi. Non c’è il bianco e il nero. Il colore predominante è il rosso. Del sangue degli innocenti”. Cosa sia stato quel conflitto fratricida viene narrato con dolore e sofferenza. Lo zio che vuole “scannare” il padre, l’amico che si presenta a casa dei genitori di Miha e intima loro di abbandonare tutto. Il giorno dopo torna e si mette a sparare sui muri, addosso alle foto di Sinisa, prima di distruggere tutto. Qualche anno dopo, a guerra finita l’amico incontra Mihajlovic e gli spiega che quello era l’unico modo per evitare che i suoi genitori fossero uccisi.

 Tra le vittime della guerra c’è anche una delle nazionali più forti della storia. Erano i brasiliani d’Europa. Geniali ma incostanti. Tra tutti i talenti, da Savicevic a Boban, da Stojkovic a Boksic, Miha sceglie Prosinecki, il compagno più forte insieme a Totti con cui ha giocato. Una volta con una finta mandò a vuoto l’avversario che si ruppe il crociato.

Un uomo in battaglia, Sinisa. Gli hanno contestato il carattere. Ma chi ha carattere, ha un brutto carattere, Pertini dixit. “Ho sentito su di me mille giudizi, spesso superficiali”. Lo hanno definito “rambesco” (un complimento) e gli hanno dato del fascista: “L’accusa più stupida. Io che sono nato sotto Tito! Nazionalista semmai, ma non fascista. Non ero il guerrafondaio e machista che molti si divertivano a dipingere anni fa e non sono l’eroe che ora a molti piace raccontare dopo la mia lotta alla malattia”. 

Mihajlovic ha deciso di raccontare direttamente dal letto d'ospedale la partita più importante della sua vita contro la leucemia. La diagnosi, la telefonata alla moglie, le parole di Walter Sabatini (“Resta il nostro allenatore. Preferisco lui al 20-30% che qualsiasi altro tecnico”). E poi il ricovero con la falsa identità di Cgikjltfr Drnovsk, 69enne senza fissa dimora (“Trovavo ironico che il senza fissa dimora lo avessero affibbiato a me, che in ogni stadio ero accolto dal coro di zingaro di merda”). Il ritorno in panchina e alla vita. 

 In ospedale ha avuto il modo di finire di leggere “Open”. Agassi odiava il tennis con tutte le sue forze? Sinisa invece ama il calcio da morire. E’ un uomo d’amore, per usare una categoria cara a Luciano De Crescenzo, e d’onore. E’ uno di quelli che rispetta la parola data, le promesse, i valori con cui è cresciuto. Una rarità in un mondo di quaquaraquà. Non fa sconti ai ragazzotti che con mezza partita si sentono già arrivati.  "Tanta forma, poca sostanza. Più che calciatori li definisco 'calciattori'. Sono quelli che dopo uno scatto, se perdono il pallone, invece di rientrare, si aggiustano i capelli".

Lui fa parte di un’altra generazione. Quella di chi sa che fatica e divertimento possono andare insieme. “Mi hanno fatto godere ogni tiro, ogni partita, ogni campionato e ognuna delle milioni di volte in cui ho preparato un calcio da fermo. Oggi un difensore centrale come ero io non esiste”. 

Nella stagione in cui vinse lo scudetto con la Lazio realizzò 13 reti. Guardiola gli confessò: “Purtroppo abbiamo giocato nello stesso periodo, altrimenti da tecnico, ti avrei preso subito. Saresti stato perfetto per il mio gioco” 

Tantissimi gli aneddoti da spogliatoio. La finale di Coppa Campioni contro l’Olympique Marsiglia e il sospetto che qualcuno dei rivali avesse fatto ricorso all’aiuto dei farmaci (“Un difensore alla fine dei supplementari era a terra e gli usciva bava bianca dalla bocca”), la rissa con Rizzitelli a Trigoria, quella volta che Giannini perse 4 milioni in una sfida a biliardo, le battute di Boskov a cui consigliò di far esordire un certo Francesco Totti: “A distanza di quasi 30 anni aspetto ancora che Francesco mi offra una cena”.

Ai tempi della Lazio, invece, resta epico lo scazzo tra Simeone e Fernando Couto. “Uno aveva preso delle forbici, l’altro un coltello. Se non li avessimo separati, si sarebbero ammazzati”. E Berlusconi? Uno straordinario presidente, probabilmente il migliore di ogni tempo. Non era convinto quando decisi di lanciare Donnarumma. Ma un insegnamento calcistico me lo ha lasciato: “Caro Sinisa, nel calcio se vinci sei un bravo ragazzo, se perdi sei una testa di cazzo…”

"Non sono un fascista come ha detto qualcuno per Arkan, sono più comunista di tanti". Mihajlovic e l’amicizia con la Tigre di Arkan: Zeljko Raznatovic, il criminale di guerra della Jugoslavia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Dicembre 2022

Sugli spalti dello Stadio San Nicola di Bari c’era anche lui: Sinisa Mihajlovic calciava e segnava il quarto rigore nella finale e la Stella Rossa di Belgrado vinceva la Coppa dei Campioni del 1991. E lui era Zeljko Raznatovic, noto come il comandante Arkan, la “Tigre di Arkan”, capo degli ultras della squadra della squadra della capitale serba e leader del gruppo paramilitare delle Tigri, responsabile di crimini contro l’umanità nelle guerre dei Balcani tra Croazia e Bosnia. Quando anni dopo morì, assassinato in una sorta di esecuzione nella hall di un hotel a Belgrado, Mihajlovic gli dedicò un affettuoso necrologio. E per quel necrologio venne sempre condannato.

È il lato considerato controverso e oscuro nella vita e nella carriera del calciatore serbo, per trent’anni in Italia e quindi italiano d’adozione per i trascorsi tra campi e panchine. Pallone che assunse grande influenza e significato nella deflagrazione e nella disintegrazione dell’ex Jugoslavia. Mihajlovic è morto oggi, a 53 anni, come confermato dalla famiglia. Dal 2019 lottava con una leucemia mieloide acuta. Oltre che per le sue caratteristiche di difensore arcigno ma dal piede delicato, gli appassionati di calcio e non avevano imparato ad apprezzarlo anche per il carattere con il quale aveva condotto la sua lotta contro la malattia. Non si era mai risparmiato Sinisa Mihajlovic, neanche nel raccontare il capitolo doloroso delle guerre che avevano funestato il suo Paese.

Chi era Zeljko Raznatovic

Guerre violentissime e fratricide. Arkan era nato nel 1953, in Slovenia: due matrimoni, sette figli, ricercato in diversi in Paesi europei e in galera tra Svezia, Belgio, Olanda e anche in Italia. Era stato tra gli uomini più ricercato dall’Interpol negli anni Ottanta per i suoi crimini coperti dall’attività di agente segreto per conto del governo jugoslavo (per l’UBDA, la polizia segreta jugoslava). Il soprannome arrivava forse da un falso passaporto turco o forse da una tigre che compariva in uno dei suoi fumetti preferiti. Il primo arresto a meno di 18 anni per la rapina in un bar di Zagabria. Di ritorno in Serbia aveva unito la tifoseria della Stella Rossa con i suoi Delije, “gli eroi”, e la società gli aveva donato una pasticceria diventata il suo “covo”.

Era stato convocato dai vertici jugoslavi per organizzare circa tremila uomini delle milizie volontarie che aveva reclutato tra i tifosi del Marakana, lo stadio della Stella , e tra i reclusi nelle carceri di Belgrado. Raznatovic aveva quindi gestito il Centro per la Formazione Militare del Ministero per gli Affari Interni serbo e formato la “Guardia Volontaria Serba” che avrebbe preso il nome di “Tigri di Arkan” – a quanto pare per via del cucciolo di tigre che il comandante sosteneva di aver rubato nello zoo di Zagabria – che a partire dall’autunno 1991 ha operato come unità paramilitare lungo la frontiera serbo-croata.

I crimini delle Tigri di Arkan

L’unità paramilitare di Arkan operava allora nel quadro della 6 brigata del corpo d’armata (JNA). Al 4 aprile 1992 risale la strage di 17 persone a Bijelijna da parte dell’unità: con una bomba nel Caffè Istanbul e un’altra bomba presso il macellaio del apese. Le Tigri sarebbero state accusate di altri 400 omicidi nei giorni successivi. La presidentessa della zona controllata dalla Serbia, Biljana Plavsicsi, si recò a Bijeljina per baciare Arkan davanti alle telecamere. Altra carneficina a Brcko: 600 vittime negli insediamenti bosniaco-musulmani con tanto di campo di concentramento. 40 vittime davanti alla moschea di Glogovac. Oltre 20mila persone massacrate a Prijedor e dintorni, 700 a Sanski Most, a Cerska 700 persone.

Le Tigri furono accusate anche di aver aiutato Ratko Mladic a portare a termine il genocidio di Srebrenica, con oltre ottomila vittime. L’unità rimase attiva fino all’ultimo giorno di guerra in Bosnia distinguendosi per efferatezza e per la pulizia etnica tra Banja Luka, Sanski Most e Prijedor. Raznatovic tramite saccheggi, contrabbandi di armi, benzina, sigarette e macchine rubate accumulò una fortuna. Era stato presidente di un club di calcio di una serie minore, l’FK Obilic di Belgrado, che vinse anche il campionato e partecipò alla Champions League. La presidenza passò alla moglie, la cantante folk Svetlana “Ceka” Velikrovic, che aveva sposato nel 1995, dopo gli attacchi della stampa italiana.

Raznatovic nel 1992 era stato anche eletto in Parlamento. Fu l’ex segretario di Stato americano Lawrence Eagleburger a indicarlo come responsabile di operazioni di ‘pulizia etnica’ per le quali era stato accusato anche dai giudici del Tribunale penale per la ex Jugoslavia dell’Aja. Alla vigilia della guerra del Kosovo Arkan disse minaccioso: “Se le truppe Nato entreranno in Jugoslavia i miei uomini combatteranno contro di loro”. Secondo la Nato, nella prima fase della guerra, le sue bande avevano ucciso centinaia di albanesi nella zona di Pec. Negli ultimi mesi di vita si era un po’ allontanato dal leader serbo Slobodan Milosevic. Venne ucciso il 15 gennaio 2000 nella hall dell’Intercontinental Hotel di Belgrado dove era seduto e chiacchierava con due suoi amici. A sparare un poliziotto 23enne in congedo, Dobrosav Gavric, che uccise anche altri due collaboratori di Arkan presenti. La notizia diede il là a diverse spedizioni punitive. Circa ventimila persone parteciparono ai suoi funerali.

L’amicizia con Mihajlovic

Sinisa Mihajlovic lo definì “un eroe per il popolo serbo” nel suo necrologio che, ammise in un’intervista a Il Corriere della Sera, avrebbe riscritto anche ad anni di distanza. Fu anche accusato di aver chiesto ai tifosi della Lazio di esporre all’Olimpico uno striscione dedicato ad Arkan. E in effetti uno striscione venne esposto nella partita contro il Bari, nella 19esima del campionato di Serie A: “Onore alla Tigre di Arkan”, del quale il calciatore si disse però estraneo. “Voi parlate di atrocità, ma non c’eravate. Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città. È giusto? Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?”.

Il primo incontro con Mihajlovic quando questi giocava nella Vidiova. A bordo campo Arkan e fu scontro a muso duro. Il calciatore non sapeva chi fosse, quando lo scoprì “il nome mi fa correre un brivido lungo la schiena”, ha raccontato nella sua autobiografia La partita della vita. Al ritorno niente partita per Sinisa, per sicurezza, che andò in tribuna e poi a mangiare un gelato fuori allo stadio: era la gelateria di Arkan. Il terzo incontro quando il centrocampista arrivò alla Stella Rossa. “Arkan fu gentile, affabile, alla mano. Simpatico. Quando era tranquillo, sapeva essere piacevole. Un uomo totalmente diverso dal sanguinario leader di milizie durante il conflitto che avrebbe devastato il Paese”. Per qualsiasi cosa, per ogni evenienza, il capo degli ultras gli lasciò suo numero di telefono.

Mihajlovic ha sempre preso le distanze dai crimini commessi da Arkan ma non ha mai rinnegato quel rapporto, confermando quello che aveva sempre sostenuto: che l’amicizia risaliva ai tempi della Stella Rossa e che l’ultras-paramilitare si “comportò sempre bene” con lui e con i suoi compagni di squadra. “Quando da Vukovar si spostarono a Belgrado, mia mamma chiamò suo fratello, mio zio Ivo, e gli disse: c’è la guerra mettiti in salvo, vieni a casa di Sinisa. Lui rispose: perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo doveva restare qui così lo scannavamo. Il clima era questo. Poi Arkan catturò lo zio Ivo che aveva addosso il mio numero di telefono. Arkan mi chiamò: ‘C’è uno qui che sostiene di essere tuo zio, lo porto a Belgrado’. Non dissi niente a mia madre, ma gli salvai la vita e lo ospitai per venti giorni”,

In quella stessa intervista al Corriere della Sera Mihajlovic replicava a chi lo aveva definito fascista, in più occasione, durante la sua carriera. “Che vuol dire nazionalista? Di sicuro non sono un fascista come ha detto qualcuno per la faccenda di Arkan. Ho vissuto con Tito, sono più comunista di tanti. Se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da Ali a Pablito, gli eroi dello sport traditi da un male. Muhammad tormentato una vita dal Parkinson, la salute precaria di Maradona, il cancro di Rossi. Oscar Eleni il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Forte contro tutto, ma la malattia sfidata come sanno fare i guerrieri, alla fine, gli ha fatto gol. Ciao inimitabile Sinisa che hai dato speranza, idee, nella tua meravigliosa odissea dell'esistenza fra il segno dell'acquario e quello dei pesci. Come diceva il grande bardo i coraggiosi trovano il giorno della morte una volta sola contrariamente ai vili. Tu hai saputo sfidarla convincendoci che la ragione di vivere è quella di poter restare morti a lungo, immortali nella memoria della gente. Vale per gli artisti, gli scienziati, i grandi che hanno dato luce nella gestione degli stati, nell'arena del grande sport.

Sono giorni di malinconia in mezzo a feste con troppi abbracci finti. Mihajlovic ci ha lasciato con lo stesso vuoto dei giorni in cui se ne sono andati altri eroi dell'arena. Adesso accendiamo una fiaccola sotto la finestra di Gianluca Vialli nella speranza che faccia come lo ha esortato il suo ex compagno Cabrini, trovando la forza di correre oltre la signora in nero, come, purtroppo, ultimamente non è riuscito a fare Paolino Rossi, anche se il suo sorriso è sempre con noi, come non ha potuto fare dopo galoppate storiche il mezzofondista Murray Halberg, campione olimpico che il rugby aveva storpiato, ma non battuto.

Non esiste difesa adeguata, schema logico, per evitare che sia la morte a segnare il gol decisivo anche urlandole in faccia. Come diceva Dumas, chi muore vive, mentre chi vede morire perde sempre. Sinisa e il suo modo di cercare una difesa, proprio come sta facendo Vialli. La trappola che non permise a Maradona di cercare altre magie esistenziali dopo quelle infinite sul campo di calcio. Il tormentato corpo a corpo di Cassius Clay che nei giorni della gloria come Muhammad Ali scoprì che tutte quelle battaglie, non soltanto sul ring, gli avrebbero rubato quasi tutto, anche se nel giorno dell'apertura ai giochi olimpici di Atlanta eravamo tutti in ginocchio pregando per quel campione tremolante che diceva alla bella gioventù olimpica continuate a credere di poter vincere contro la maledetta.

I gol della malasorte, la cattiveria dei testa coda per gli assi del volante e quella notte all'obitorio dove avevano portato Ayrton Senna tradito da una parabolica infame ci ha ossessionato come nei giorni, eravamo bambini, quando l'Italia si fermò per la tragedia di Superga che rubò la vita al grandissimo Torino.

Odissea nello spazio verde di tanti stadi, nell'atmosfera infuocata di un ring nello Zaire, nel tramonto vicino al barrio dove Diego aveva sconfitto la povertà, diventando il Mozart del pallone, affrontando la sfida a petto in fuori. Un modo per insegnare a vivere a chi è rimasto, sapendo che la medicina fa grandi cose ma deve anche arrendersi, che il destino per tutti i toreri dello sport è sempre il peggiore dei bari, ma capita d'inciampare nella radice malata, di non trovare l'angolo cieco dove Paolino Rossi si faceva trovare per trovare l'impossibile fino al titolo mondiale in quel 1982 dove la Spagna e il grande calcio scoprirono Pablito. Sulla collina dove i nostri campioni sono andati a guardare un mondo che ancora si fa la guerra troveranno tanti amici, una squadra, una palestra, una pista, un motore urlante, una piscina. Nella nostra Spoon River sportiva giocheranno, combatteranno ed alleneranno ancora. Saranno sempre i nostri derubati della vita nell'attimo in cui tentavano di evitare il gol definitivo, il ko, il testa coda, il rigore che, prima o poi, tocca a tutti di subire.

Cos’è la leucemia mieloide acuta, la terribile malattia diagnosticata a Sinisa Mihajlovic. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Dicembre 2022

Era l’estate del 2019 quando a Sinisa Mihajlovic i medici diagnosticarono una leucemia mieloide acuta. Un tumore del sangue molto aggressivo a cui sopravvive solo il 35-40% dei pazienti. Nonostante il tecnico serbo avesse lottato con tutte le sue forze, sottoponendosi a pesanti chemio e al trapianto di midollo, non ce l’ha fatta. È morto dopo tre anni e mezzo di battaglie. Un grave lutto per tutto il mondo dello sport.

La drammatica diagnosi è arrivata nell’estate del 2019 appena tornato dalle vacanze in Sardegna. Subito iniziò i pesanti cicli di chemioterapia e alla fine di ottobre 2019 si sottopose a trapianto di midollo osseo che gli aveva dato speranza nella sua lotta contro il male. A dicembre dello stesso anno l’allenatore aveva ripreso il suo posto in panchina. Poi a marzo 2022 l’annuncio in conferenza stampa che la malattia era tornata e aveva bisogno di iniziare nuovamente le cure. La leucemia mieloide acuta è un tumore molto aggressivo che si manifesta soprattutto negli uomini sopra i 60 anni.

“A oggi la terapia più efficace per molti pazienti resta il trapianto di midollo da donatore: la leucemia mieloide acuta, infatti, origina nelle cellule staminali presenti nel midollo osseo e si sviluppa molto rapidamente – ha spiegato al Corriere Paolo Corradini, presidente della Società italiana di ematologia (Sie) -. Succede però spesso, purtroppo, che la malattia si ripresenti dopo il trapianto. In base a diversi fattori prognostici del singolo paziente e all’aggressività della malattia, in circa la metà dei malati con leucemia mieloide acuta sottoposti a trapianto di midollo da donatore, il tumore si manifesta nuovamente a distanza di tempo”.

Come per tutti i tumori le cure sono una corsa contro il tempo. Più tardi si ricade nella malattia meglio è perché è sintomo che il corpo ha reagito bene al trapianto. “Ci sono poi nuovi farmaci efficaci che possono essere utilizzati, ma non sempre funzionano come sperato, purtroppo – dice Corradini, che è anche direttore della Divisione di Ematologia della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. È proprio sul fronte della lotta alle recidive che oggi si concentrano gli sforzi di molti ricercatori per trovare ulteriori cure in grado di debellare il tumore quando ritorna”. In Italia ogni anno sono circa 32mila le persone che si ammalano di questo terribile tumore del sangue.

Spesso i sintomi dei tumori del sangue non sono molto chiari e si manifestano anche come molto comuni o blandi. per esempio, febbre o febbriciattola (in particolare pomeridiana o notturna), un senso di debolezza che perdura, dolori alle ossa o alle articolazioni che non regrediscono. Così, un paziente su quattro ha dichiarato di non essersi rivolto immediatamente al medico per la difficoltà di cogliere la gravità della situazione anche a causa di sintomi che sembrano inizialmente sopportabili.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Che cosa è la leucemia mieloide acuta, la malattia di cui è morto Mihajlovic. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022

La leucemia mieloide acuta, diagnosticata a Sinisa Mihajlovic, è un tumore del sangue che colpisce ogni anno circa 3.500 persone in Italia, che origina nelle cellule staminali presenti nel midollo osseo e si sviluppa rapidamente

È un tumore del sangue molto aggressivo quello che si è portato via Sinisa Mihajlovic, come dimostrano purtroppo le statistiche: a cinque anni dalla diagnosi di leucemia mieloide acuta , infatti, sopravvive soltanto il 35-40% dei pazienti.

Era l’estate del 2019, quando, di ritorno da una vacanza in Sardegna, all’ex allenatore del Bologna veniva diagnosticata la malattia . Erano subito iniziati i pesanti cicli di chemioterapia e, alla fine di ottobre 2019, si era sottoposto al trapianto di midollo osseo da donatore che gli aveva restituito la speranza. A dicembre 2019, poco meno di cinque mesi dopo il primo ricovero in ospedale, l’ex calciatore aveva ripreso il suo posto in pianta stabile in panchina e da allora non l’aveva più abbandonato, pur sottoponendosi sempre ai controlli previsti per tutti i malati con il suo stesso percorso clinico. Fino all’annuncio dato a marzo 2022 in conferenza stampa: la malattia era tornata e Sinisa aveva iniziato un nuovo pesante iter di cure.

Quando il trapianto non funziona e il tumore ritorna

La leucemia mieloide acuta è una patologia estremamente aggressiva che colpisce con maggior probabilità gli uomini sopra i 60 anni, sebbene possa insorgere anche nei bambini. «A oggi la terapia più efficace per molti pazienti resta il trapianto di midollo da donatore: la leucemia mieloide acuta, infatti, origina nelle cellule staminali presenti nel midollo osseo e si sviluppa molto rapidamente — spiega Paolo Corradini, presidente della Società italiana di ematologia (Sie) —. Succede però spesso, purtroppo, che la malattia si ripresenti dopo il trapianto. In base a diversi fattori prognostici del singolo paziente e all’aggressività della malattia, in circa la metà dei malati con leucemia mieloide acuta sottoposti a trapianto di midollo da donatore, il tumore si manifesta nuovamente a distanza di tempo».

In pratica, anche i nuovi linfociti (le cellule del sistema immunitario deputate alla difesa del nostro organismo) ricevuti attraverso il trapianto da una persona sana non riescono a combattere la neoplasia che torna con una recidiva.

Più tardi si ricade meglio è (e per Sinisa erano passati quasi due anni e mezzo dal trapianto, ndr) perché il trascorrere del tempo indica che l’organismo del paziente è comunque riuscito a reagire . «Ci sono poi nuovi farmaci efficaci che possono essere utilizzati, ma non sempre funzionano come sperato, purtroppo — dice Corradini, che è anche direttore della Divisione di Ematologia della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano —. È proprio sul fronte della lotta alle recidive che oggi si concentrano gli sforzi di molti ricercatori per trovare ulteriori cure in grado di debellare il tumore quando ritorna».

Un impatto importante

Ogni anno sono circa 32mila gli italiani che si ammalano di un tumore del sangue, che in due terzi dei casi colpisce persone con più di 65 anni. La diagnosi di leucemia mieloide acuta arriva presto, in genere entro due settimane dal primo accesso del paziente al Centro di cura ed è accompagnata da emozioni quali paura, sconforto, rabbia, preoccupazione. Come emerge anche da un’indagine promossa dall'Associazione Italiana contro leucemie, linfomi e mieloma (Ail), «la scoperta di una patologia aggressiva come questa crea angoscia e preoccupazione nelle persone che ne sono colpite e comporta per la famiglia e il caregiver un impatto molto importante — sottolinea Sergio Amadori, ordinario di Ematologia e consigliere nazionale Ail —. Oggi lo scenario nazionale della presa in carico è di buona qualità (la sopravvivenza in Italia per molti tipi di cancro è superiore alla media europea). Il paziente, nel momento in cui comincia ad avere dei sintomi che fanno sospettare una malattia del sangue, viene inviato in un Centro di Ematologia che si preoccupa di affrontare il percorso diagnostico e terapeutico fino alla possibile guarigione o follow-up. La diagnosi deve essere fatta in tempi il più rapidi possibile».

Sintomi poco chiari

I sintomi di molti tumori del sangue sono per lo più vaghi, poco specifici e comuni a tanti disturbi, anche poco gravi: per esempio, febbre o febbriciattola (in particolare pomeridiana o notturna), un senso di debolezza che perdura, dolori alle ossa o alle articolazioni che non regrediscono. Così, un paziente su quattro ha dichiarato di non essersi rivolto immediatamente al medico per la difficoltà di cogliere la gravità della situazione anche a causa di sintomi che sembrano inizialmente sopportabili. Quasi il 60% si rivolge in prima battuta al medico di famiglia prima di essere indirizzato dall’ematologo. In ogni caso, entro due settimane dalla comparsa dei sintomi, l’80% dei pazienti viene preso in carico. Nella grande maggioranza dei casi (88%) l’ematologo comunica personalmente al paziente la diagnosi e ritiene molto importante il supporto che da Ail può arrivare ai malati. «I risultati di questa indagine ci confortano nella scelta di collaborare con gli ematologi, con i medici di medicina generale e con quanti operano sul territorio — conclude Giuseppe Toro, presidente nazionale Ail —. E proseguiremo con le nostre campagne di raccolta fondi per dare sostegno alla ricerca scientifica e garantire ai nostri pazienti terapie sempre più innovative ed efficaci che possano migliorare sempre di più la loro qualità di vita».

Nino Materi per “il Giornale” il 17 dicembre 2022.

Sinisa si fidava di loro. Un rapporto che era diventato negli anni sempre più stretto e confidenziale. Nulla a che fare con la freddezza medico-paziente che spesso, purtroppo, caratterizza gran parte della sanità italiana. Il professor Michele Cavo e la dottoressa Francesca Bonifazi, due eccellenze dell'ematologia hanno seguito Mihajlovic dall'inizio della malattia. Fin dal primo esame nel dipartimento terapie cellulari del Sant' Orsola. 

«Eravamo nell'agosto del 2019 - ricorda il professor Cavo che dirige l'Istituto di ematologia Seragnoli -. Capimmo che era necessario un trapianto di midollo osseo -. L'intervento venne eseguito il 29 ottobre e Mihajlovic fu dimesso il 22 novembre». Il comunicato medico recitava: «Le condizioni generali del paziente sono soddisfacenti».

La famiglia esultò su Instagram: «Più bella cosa non c'è. Si torna a casa». Sembrava la fine di un incubo. Invece la leucemia aveva solo deciso di fare una pausa e lo scorso marzo è tornata. Esattamente a tre anni dal trapianto. Le date sono importanti. Perché sono proprio tre gli anni entro i quali è più facile che scatti la recidiva, cioè il «rinnovo» della patologia. Il professor Cavo lo sa bene e infatti lo aveva previsto: «Nei pazienti over 60 le ricadute possono avvenire durante i primi 2-3».

L'età più giovane di Sinisa lasciava più margini all'ottimismo. Ora l'obiettivo terapeutico era di puntare su una terapia in campo oncoematologico basata sui linfociti T, una sorta di «guerrieri globulari», avrebbero dovuto fronteggiare gli attacchi della leucemia proteggendo il sistema immunitario. La prima tappa sarebbe stata il prelievo delle cellule da selezionare per affrontare la battaglia. Non c'è stato tempo. La guerra, ormai, era già persa.

Gli ultimi giorni di agonia di Sinisa Mihajlovic a Roma: una settimana di lotta disperata contro un'infezione. Elmar Bergonzini e Emanuele Zotti su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022.

Una settimana fa faceva progetti con gli amici. Poi la situazione è precipitata. Il ricovero a Roma, il coma e l'addio alla vita circondato dalla famiglia

Finché ha potuto Sinisa Mihajlovic ha lottato, sostenuto dalle sue “colonne”: la moglie Arianna e i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas. Ma non solo. Ad accompagnare il guerriero serbo nella sua ultima battaglia sono stati anche la mamma Viktorija, il fratello Drazen e la nipotina Violante, che nell’ultima settimana non si sono mai allontanati dalla clinica Paideia. Un nucleo costantemente unito nella speranza, forse mai perduta, di affiancare Sinisa nell'ennesima partita da vincere. Stavolta però il destino – brutale, spietato, ingiusto - ha deciso che il finale sarebbe stato tragico e gonfio di dolore. 

Coraggio e forza di volontà Mihajlovic le ha dimostrate – ancora una volta - quando la malattia è tornata. I medici gli avevano detto che le possibilità di sopravvivere erano davvero minime. Ha sofferto, soprattutto fisicamente, ma è sempre andato avanti. Lo scorso 1 dicembre era andato addirittura alla presentazione dell'autobiografia di Zdenek Zeman, in una libreria in via Nazionale, e Sinisa era apparso sorridente e in vena di battute, felice di prendere parte ad un evento così importante per uno dei suoi maestri. Fino a sabato 10 Sinisa parlava al telefono con gli amici dei suoi piani futuri: aveva intenzione di finire il ciclo di chemio a gennaio per poi ricominciare a girare gli stadi di calcio per assistere dal vivo alle partite, restando così aggiornato. Non solo: fino a quando ha potuto, si è dedicato allo sport, non rinunciando mai a lunghe camminate, per restare attivo e provare a combattere, anche in questo modo, la malattia che lo debilitava e lo consumava.

  Dopo l'esonero di settembre da parte del Bologna, era tornato nella sua casa romana, il rifugio di sempre, per andare poi a curarsi alla clinica alla Paideia International. Ma domenica 11 dicembre, In maniera quasi inaspettata, le condizioni di Mihajlovic si sono improvvisamente aggravate a causa di un'infezione. La situazione è sembrata subito molto grave per via del sistema immunitario compromesso e delle terapie a cui si stava sottoponendo da più di tre anni per cercare di sconfiggere la leucemia. La febbre si è alzata di colpo e il ricovero si è reso immediatamente necessario. Le condizioni di salute sono peggiorate ulteriormente nel pomeriggio di lunedì 12, tanto da spingere la mamma Viktoria e il fratello Drazen a prendere l’aereo dalla Serbia e raggiungere in fretta e furia la clinica capitolina.

Della mamma, Sinisa una volta disse: «Lei non parla l’italiano e i miei figli hanno poca dimestichezza con il serbo. Ma ogni volta che viene a trovarci a Roma e vedo come guarda i suoi nipoti, capisco che l’amore non ha bisogno di parole». Il giorno successivo, martedì, Mihajlovic è entrato in coma farmacologico: i medici hanno deciso di sedarlo per evitargli ulteriori sofferenze atroci. La moglie Arianna Rapaccioni, il grande amore della sua vita, conosciuta a Roma e con la quale ha messo al mondo cinque figli, formando un nucleo bellissimo e legatissimo, non lo ha mai lasciato solo, nemmeno per un attimo. Negli ultimissimi momenti di lucidità Mihajlovic ha riconosciuto Pino Capua, medico della Paideia ( e tifoso laziale) con cui ebbe modo si stringere amicizia ai tempi in cui giocò (e vinse praticamente tutto) nella Lazio, a cavallo degli anni ’90 e Duemila. 

Il suo cuore fortissimo, da grande atleta, ha continuato a lottare disperatamente e a battere ancora per qualche giorno. Fino a venerdì pomeriggio, quando si è arreso per sempre, circondato sino all’istante estremo dall’amore incondizionato dei familiari. Domenica 18 sarà allestita la camera ardente in Campidoglio, il giorno dopo - lunedì 19 – si svolgeranno i funerali, alle ore 11.

Sinisa Mihajlovic, la dottoressa che lo curava: «Un lottatore». La dottoressa ricorda il carattere forte e gentile dell’allenatore in un ritratto inedito. Annarita Faggioni su tag43 il 17 Dicembre 2022.

«Si è fatto amare da tutti anche qui, pur avendo una personalità decisa e a volte brusca. A me consigliò di acquistare un televisore costoso e alla fine l’ho fatto». Così la dottoressa che aveva in cura Sinisa Mihajlovic lo ricorda dopo la sua recente scomparsa. Le sue frasi sono rimaste nel cuore anche del medico Francesca Bonifazi del Sant’Orsola di Bologna.

Sinisa Mihajlovic, cosa ha detto la sua dottoressa

«Non ha mai avuto paura di soffrire e ha affrontato la malattia con coraggio. Ha sofferto molto, ma ha saputo accettare la fragilità che la malattia gli ha imposto» spiega ancora la dottoressa. «Sinisa è stato un uomo che aveva una grande voglia di vivere e amava la vita più di qualunque altra cosa. Poi è stato circondato dall’affetto dei suoi: sua moglie gli è stata vicina dal primo all’ultimo momento, sempre. Arianna è stata la donna che gli ha dato coraggio e che ha gestito la famiglia in una fase molto difficile» risponde al Corriere, che le chiede un ricordo di questo paziente.

«Si è fatto amare da tutti pur essendo un personaggio con una personalità decisa, a volte brusca. Tuttavia, non ha mai litigato con nessuno e si è fatto voler bene da tutti. Qua tutti ne parlano in modo affettuoso. C’è molto calore umano, ci ha lasciato una persona capace di grande empatia» ricorda.

Una testimonianza importante

«Dobbiamo dire che il trapianto di midollo osseo è la terapia più efficace per eradicare la leucemia mieloide acuta. In questo momento garantisce una minor possibilità di recidiva: purtroppo in questo caso la malattia è tornata, è stata molto aggressiva ed è stata refrattaria alle cure. Tuttavia, Sinisa si è rialzato anche di fronte alla recidiva: non più di una settimana fa camminava e faceva tanti chilometri a piedi» continua la dottoressa.

Il ritratto che ne esce è di uno sportivo che non si è mai arreso alla malattia e che ha sempre preso in considerazione il parere dei medici che lo avevano in cura.

Mihajlovic, dottoressa che lo curava. “Leucemia? Recidiva aggressiva, ma giorni fa…” Silvana Palazzo su Il Sussidiario il 17 Dicembre 2022.

Sinisa Mihajlovic, parla la dottoressa Francesca Bonifazi che lo aveva in cura: “Leucemia? Recidiva è stata molto aggressiva, ma fino a pochi giorni fa camminava per chilometri…”

Tutti descrivono Sinisa Mihajlovic come un lottatore, anche se quella contro la leucemia, e più in generale il cancro, è una battaglia che non conosce né vincitori né vinti. Si lotta per sopravvivere, l’ex calciatore e allenatore lo ha fatto senza la paura di soffrire. Lo ha raccontato Francesca Bonifazi, direttrice del Programma trapianto e del Programma dipartimentale terapie cellulari avanzate all’interno dell’Ematologia diretta dal professor Michele Cavo, all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Si tratta del medico che ha seguito il tecnico serbo dal secondo ciclo di chemioterapia e dal trapianto di midollo osseo e che parla ora dopo la morte di Mihajlovic. «Non ha mai avuto paura di soffrire e ha affrontato la malattia con coraggio. Ha sofferto molto, ma ha saputo accettare la fragilità che la malattia gli ha imposto», ha dichiarato al Corriere della Sera.

Anche la dottoressa ricorda la voglia di vivere di Mihajlovic, ma anche l’affetto della famiglia. «Sua moglie gli è stata vicina dal primo all’ultimo momento, sempre. Arianna è stata la donna che gli ha dato coraggio e che ha gestito la famiglia in una fase molto difficile». Pur essendo un uomo deciso, a volte brusco, si è fatto amare da tutti in ospedale. «Non ha mai litigato con nessuno e si è fatto voler bene da tutti. Qua tutti ne parlano in modo affettuoso. C’è molto calore umano, ci ha lasciato una persona capace di grande empatia», ha aggiunto Francesca Bonifazi.

Non mancano gli aneddoti nel racconto di Francesca Bonifazi al Corriere. C’è il retroscena sulla conversazione nella quale Sinisa Mihajlovic le aveva consigliato di acquistare un televisore molto costoso. «Già, è vero. E pensi che dopo le sue sollecitazioni alla fine l’ho comprato. Non ce l’avevo in casa da 8 anni. Anche se, ovviamente, molto meno caro di quello che suggeriva lui». Quando le è stato chiesto se si aspettava un peggioramento delle condizioni di Mihajlovic, la dottoressa Bonifazi ha premesso che «il trapianto di midollo osseo è la terapia più efficace per eradicare la leucemia mieloide acuta. In questo momento garantisce una minor possibilità di recidiva». Ma nel caso di Sinisa Mihajlovic la malattia è tornata: «È stata molto aggressiva ed è stata refrattaria alle cure. Tuttavia, Sinisa si è rialzato anche di fronte alla recidiva». Infatti, ha svelato che «non più di una settimana fa camminava e faceva tanti chilometri a piedi». Il medico ha voluto però precisare che il trapianto resta la migliore delle terapie in caso di leucemia. «Noi medici crediamo che l’unica maniera per alleviare il dolore che proviamo nel veder morire i nostri pazienti è di scommettere nella ricerca». A tal proposito, in merito alle cellule Car-T ha chiarito che attualmente funzionano per la leucemia cutanea, linfoma o mieloma, quindi casi diversi da quello di Sinisa Mihajlovic. Per la leucemia mieloide acuta, infatti, si è ancora in fase sperimentale.

Bergamo, Mihajlovic e la cura sperimentale al Papa Giovanni: «Ha vissuto la malattia con coraggio».  Fabio Paravisi su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.

L’ex calciatore e allenatore si era affidato al dipartimento di ematologia-oncologia dell’ospedale di Bergamo, diretto dal dottor Rambaldi. Oggi i funerali.

Nelle ultime disperate fasi della malattia che lo stava distruggendo, Sinisa Mihajlovic ha cercato aiuto anche all’ospedale Papa Giovanni. Perché dopo avere effettuato diversi tipi di cure negli ultimi tre anni, da quando aveva scoperto di essere stato colpito da leucemia acuta mieloide, all’ex calciatore era stata segnalata una nuova tecnica che viene praticata da Alessandro Rambaldi, direttore del dipartimento di Ematologia-Oncologia dell’ospedale di Bergamo. E qualche mese fa si è così rivolto al primario, che lo ha seguito, si legge in una nota del Papa Giovanni, «nella fase finale della sua malattia per un protocollo sperimentale».

Una malattia che però era ormai in stadio avanzato e non ha lasciato scampo a un paziente che, si legge ancora nella nota, «ha vissuto con grandissimo coraggio e dignità la sua malattia». Anche per questo, il nome di Rambaldi è compreso nel breve elenco dei medici che la famiglia Mihajlovic ha voluto ringraziare per avere seguito il loro caro «con amore e rispetto». La morte di Mihajlovic, che aveva fin dal primo momento annunciato la sua malattia in pubblico pur continuando ad allenare il Bologna, ha scosso tutto il mondo del calcio. Oggi, giorno successivo la finale dei Mondiali vinti dall’Argentina ai rigori, il funerale.

Mihajlovic? "Quando lo incontravi nei corridoi in ospedale...". Leonardo Iannacci su Libero Quotidiano il 18 dicembre 2022

Nei corridoi del reparto di Ematologia dell'Ospedale Sant' Orsola di Bologna, lo incrociavo spesso e la scena era la stessa: mostravo la mano con pollice, indice e anulare alzati nel segno del saluto serbo e l'uomo di Vukovar rispondeva con un beffardo «ohi, giornalista...». Poi, serio: «Tutto bene?». «Sì, la terapia procede, ma ci vedremo una volta tanto fuori di qua?». E Sinisa: «Chissà, Bologna è piccola». E filava via. Tra le braccia di Arianna. Sua moglie. Il destino ci fece incontrare, tempo dopo, in un'osteria bolognese di gucciniana memoria. Mi invitò al tavolo per finire la serata davanti una birra. Certe cose, evidentemente, uniscono davvero, come fossero le trincee di una guerra. Raccontarsi aiuta, riscalda.

In quella serata bolognese Mihajlovic era in forma, amava prendere e prendersi in giro: «Sai cosa diceva Boniperti di voi giornalisti? Siete un male, seppur necessario...». Parlava, Sinisa, parlava e parlava quella sera. Di andare a letto per rigirarsi tra le lenzuola non aveva affatto voglia. Spostava il discorso sempre sul calcio, ne adorava profondamente il mondo, gli uomini, le storie, gli aneddoti da spogliatoio, i difetti e i segreti. Anche quelli più maliziosi.

IN EMATOLOGIA

Capita, nel romanzo di una vita, di fare conoscenza con qualcuno persino in un ospedale. È accaduto al sottoscritto che, da quei «ciao» ha intrecciato con Mihajlovic un originale rapporto. Non di amicizia, non c'è nulla di più vergognoso dirsi amico di qualcuno senza esserlo veramente. Piuttosto, cameratesco. Perché eravamo in Ematologia spesso. Lui ricoverato per curare quella leucemia contro la quale ha lottato sino all'ultimo giorno, io per i day-hospital causati da una roba analoga che mi permette, però, di essere ancora qui a raccontarvi il "mio" Sinisa. Una quercia che ho conosciuto nei giorni un cui le foglie del corpo se ne stavano andando lentamente e inesorabilmente, un uomo diverso da quello che tutti conoscevano: magro e provvisorio, iroso in alcuni drammatici momenti della terapia, e con debolezze che venivano a galla. Ma un tipo dannatamente vero, capace di bruschi litigi e di altrettante dolci riconciliazioni.

Sulla leucemia, con me, non faceva lo spavaldo e si lasciò andare solo una volta: «È una bestia cattiva sai, durissima. Ma devo avere fiducia nei medici e non posso mostrare troppa la paura. La paura c'è, esiste. Quando giocavo, sentivo a volte qualche farfalla nello stomaco ma non potevo mostrarle ai compagni nè, soprattutto, agli avversari. Tantomeno dopo, quando allenavo. Ringhiavo ai miei giocatori e stavo con il petto in fuori perché sono fatto così. Sono uno nato a Vukovar, di padre serbo e mamma croata. Per questo la leucemia l'ho affrontata dicendo di volerla attaccare».

PRIMA TERAPIA

Il suo coraggio di avere paura affiorò al termine della prima terapia che lo riportò alla luce da un tunnel oscuro, susseguente a un delicato trapianto di midollo spinale. Pianse, quel giorno, in una conferenza stampa che scosse Bologna e l'Italia tutta. Non lo aveva mai fatto prima davanti ai giornalisti ma, frenando temporaneamente la terribile malattia, si era reso conto di essere diventato una sorta di eroe dei nostri tempi perla gente comune che stava curando leucemie e linfomi nei reparti dell'ospedale Sant' Orsola, sotto le direttive della dottoressa Bonifazi o del professor Zinzani. «Puoi togliere un ragazzo da Vukovar ma non Vukovar dal cuore di quel ragazzo», ci disse adattando un detto sudamericano sui barrio di periferia.

Se richieste, amava raccontare le sue vittorie di campo. Come calciatore della Stella Rossa di Savicevic, Stojanovic e Jugovic, e poi di Sampdoria, Roma, Lazio e Inter, Mihajlovic è stato un asso: ha vinto scudetti, trofei vari e anche una Coppa dei Campioni con la Stella Rossa a Bari, nel 1991, poi bissata da un'esaltante Coppa Intercontinentale. Da leader difensivo ha indicato ai compagni più giovani come si flirta con le punizioni, senza mai essere imitato al meglio: «Le tiravo di sinistro e in modo più diretto rispetto ai rigori, facevo più gol», amava ricordare a noi pennivendoli. «Certe volte dico ai miei giocatori di restare una mezzoretta in più al campo per migliorare le punizioni ma nessuno mi dà ascolto. Così, quando sono in partita e provano a tirarle, il pallone finisce sul tetto del santuario di San Luca, là sui colli».

Da allenatore giramondo ha sempre fatto bene nel primo anno di panchina a Catania, Fiorentina, Milan (dove lanciò il sedicenne Gigio Donnarumma), Sampdoria, Torino e Bologna, perdendosi un po' in quelli successivi. La Juventus lo adocchiò per il dopo Antonio Conte, per poi preferirgli Max Allegri. Non ebbe successo alla guida della nazionale della Serbia e stabilì un curioso record quando venne chiamato ad allenare lo Sporting di Lisbona: nove giorni di panchina e, poi, un brusco addio per accordi non onorati da parte del club lusitano. Mai fare una cosa simile a un serbo di scena. Una stretta di mano vale di più di un contrattoper gente come Sinisa, avrebbero dovuto saperlo nella terra del fado.

SERBO E MAI SERVO

Uomo di destra, serbo e mai servo e quindi libero di dire quello che pensava, Mihajlovic è stato coinvolto in controversie politiche non comuni per un uomo di calcio, mondo solitamente cioccolatizzato e ipocrita nel quale nessun dice quel che pensa. Sinisa arrivò a dedicare un necrologio a Zeliko Raznatovic, ultrà della Stella Rossa ma anche criminale serbo. Di Radko Mladic, generale accusato di genocidio, disse: «È un guerriero che combatte per il suo popolo». E del governo di Milosevic: «Nel momento in cui la Serbia viene attaccata, difendo il mio popolo e chi lo rappresenta».

Fedele a tali dogmi di vita, condivisibili o meno, ha sempre praticato e traslato la sua vita e il suo calcio: si è sempre difeso attaccando. «Era un leone», lo ha definito ieri Giorgia Meloni. Questo era Sinisa Mihajlovic, rapito in cielo giovane come gli eroi nell'epos ellenico, piegato da quella leucemia mieloide acuta che lo ha tormentato per 42 lunghi mesi, disarmandolo giorno dopo giorno. Lo piangono la moglie Arianna, i cinque figli, mamma e fratello, gli amici veri e coloro che ammirano le persone libere e tutte di un pezzo, a qualunque credo politico esse appartengano. Di Mihajlovic porterò sempre con me il ricordo di quei giorni nei corridoi di Ematologia, e del suo coraggio di avere paura. Le tre dita della mano, ben aperte, sono oggi rivolte al cielo nel credo socio-religioso della filosofia serba: Sloga, Srbina, Spasava. Addio Sinisa. 

Da sportmediaset.mediaset.it il 17 dicembre 2022. 

Si poteva essere d'accordo o meno con lui ma ogni volta che parlava era impossibile restare indifferenti. Una vita di calcio, di opinioni discusse e discutibili, una fede che non ha mai nascosto e l'esperienza drammatica di una guerra che ha coinvolto direttamente la sua famiglia. Sinisa Mihajlovic è stato anche questo, oltre che un grande giocatore e un buon allenatore. Riviviamo le frasi più iconiche di un grande personaggio. 

LA MALATTIA

- "Questa è la verità: abbiamo detto che avevo la febbre, mia moglie dentro di sé non ci ha creduto. Ho la leucemia"

- "Dobbiamo attaccarli alti in campo e fare gol. Io devo usare la stessa tattica che mi piace giocando a calcio. Io la sfida con la leucemia la vincerò. Per tutti quelli che mi vogliono bene. Per me"

- "Quando la vivi, all’inizio, è bruttissima ma dopo se hai la forza di reagire e riesci ad andare avanti nella vita è tutto di guadagnato perché capisci quali sono le cose importanti e sai che quello che può succedere è sicuramente meno peggio della guerra"

- "Ho scoperto una parte di me che non conoscevo: vivo tutto più intensamente. Mi godo ogni istante e ho imparato a contare fino a 6-7, prima di arrabbiarmi, so che posso arrivare a 8. A 10 non chiedetemelo, non è roba per un uomo come me"

- "Non penso di essere un eroe, sono un uomo normale con pregi e difetti. Ho solo affrontato questa cosa per come sono io, ma ognuno la deve affrontare come vuole e può. Nessuno deve vergognarsi di essere malato o di piangere. L’importante è non avere rimpianti e non perdere mai la voglia di vivere e di combattere" 

LA GUERRA

- "Prima della guerra per andare dai miei genitori dovevo fare 1,4 km, ma senza ponti eravamo costretti a un giro di 80 chilometri. Per mesi la gente ha sofferto ingiustamente. Bombe su ospedali, scuole, civili: tutto spazzato via, tanto non faceva differenza per gli americani. Sul Danubio giravano solo delle zattere vecchie. Come la giudico? Ho ricordi terribili, incancellabili, inaccettabili"

- "So dei crimini attribuiti a Milosevic, ma nel momento in cui la Serbia viene attaccata, io difendo il mio popolo e chi lo rappresenta"

- "Il Kosovo è Serbia. Punto. Non si possono cacciare i serbi da casa loro. No, l’indipendenza non è giusta per niente"

- "Vukovar per me era la città più bella del mondo. Poi è diventato simbolo della guerra. Ci sono tornato due anni fa, dopo 25 anni... L’ultima volta era stata durante il conflitto nel 1991. Era tutto raso al suolo. Non volava un uccello, non c’era un cane. Spettrale"

- "Ho visto la mia gente cadere, le città distrutte: tutto spazzato via. Il mio migliore amico ha devastato la mia casa. Mio zio, croato e fratello di mia madre, voleva 'scannare come un porco', disse così, mio padre serbo. Fu trovato dalla tigre Arkan, stava per essere ucciso, gli trovarono addosso il mio numero di cellulare, gli salvai la vita.

- "Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?"

- "Slavi, cattolici, ortodossi, musulmani: solo il generale Tito è riuscito a tenere tutti insieme"

- "Con Tito esistevano valori, famiglia, un’idea di patria e popolo" 

IL CALCIO

- "Con Mourinho non posso parlare di calcio perché non ha mai giocato e non può capire"

- "Se non avessi incontrato il calcio, avrei fatto il ladro, il pugile, niente di buono"

- "Messi e Ronaldo extraterrestri, impossibile per altri vincere Pallone d’Oro finché ci saranno loro"

- "Da quando ho cominciato la carriera di allenatore non ho mai smesso di studiare, aggiornarmi, mi confronto con colleghi stranieri, leggo tanto. Mi è servito tutto, anche qualche esperienza meno fortunata. Non si finisce mai di crescere"

- "Le palle uno le ha o non le ha. Però l’allenatore deve farsi seguire. Io sono sicuro che se dico ai miei di buttarsi dal tetto loro prima lo fanno e poi mi chiedono perché"

- "Come dice Boskov: uno stadio senza tifosi è come una donna senza seno. La curva Nord di quando giocavo io aveva un seno meraviglioso" 

LA FAMIGLIA

- "Mio padre faceva il camionista. È morto a 69 anni, di tumore ai polmoni. Quando se n’è andato io non c’ero. Ci penso tutti i giorni. Durante la guerra lo imploravo di venire in Italia ma volle restare nel suo Paese"

- "Quando si parla di sogni non penso ad alzare una Champions League o uno scudetto. Il mio è impossibile: poter riabbracciare mio padre"

- Quando ho visto per la prima volta mia moglie, l’ho guardata e ho pensato: se avessi dei figli con lei, chissà come sarebbero belli... Ne sono venuti cinque, uno più bello dell’altro"

- "Io penso che le donne siano più forti: mia moglie ha partorito cinque figli e in casa mia comanda lei. È una donna con le palle, forse ne ha più di me. E non è facile".

La moglie di Mihajlovic Arianna Rapaccioni, i sei figli e i nipoti: «A casa sorridi perché sai di essere al sicuro». Elisa Messina su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022.

La stessa compagna di vita dal 1995, Arianna Rapaccioni, cinque figli con lei, uno da una relazione giovanile. Una famiglia unitissima: «Sono un padre affettuoso, perché so cosa vuol dire avere genitori che non ti abbracciano»

Per Sinisa Mihajlovic — morto il 16 dicembre 2022 — la famiglia era il centro, il tutto. Nei tempi della sfida più dura, quelli della malattia, è stata sostegno e porto. Come scriveva Arianna, la moglie, sotto una foto di loro due fissata in alto nel profilo social: «Come quando torni a casa e posi le chiavi all’ingresso e sorridi perché sai di essere al sicuro».

Sinisa aveva 26 anni, giocava nella Sampdoria ed era già una star del calcio, quando nel 1995 conobbe Arianna Rapaccioni, romana, showgirl. Erano gli anni del binomio facile velina-calciatore: storie che a volte duravano il tempo di un gossip e un paio di paparazzate estive, a volte duravano per la vita. Come è capitato ad Arianna e Sinisa: cinque figli, Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas, «squadra» a cui nel 2005 si è aggiunto anche Marko, nato nel 1993 da una precedente relazione del calciatore. Anche se il rapporto con questo figlio cresciuto lontano era fatto di alti e bassi, come raccontava lui stesso e ne soffriva. Perché Sinisa amava essere un padre protettivo e soprattutto affettuoso: «Con i miei figli sono affettuosissimo. Anche perché io so cosa vuol dire avere dei genitori che non ti abbracciano».

Per un uomo dal carattere spigoloso, cresciuto nella povertà e che vedeva nel calcio uno stile di vita prima ancora che uno sport, la famiglia doveva essere e lo era diventata, una squadra. Tenuta insieme da tanto amore. E da qualche regola semplice. Come quella della tavola: tutti insieme, stessi posti da sempre, niente cellulare.

Era padre e già nonno Sinisa Mihajlovic: nel 2021 la secondogenita Virginia, legata anche lei a un calciatore, Alessandro Vogliacco, del Genova, ha dato alla luce Violante. Da allora le immagini dei nonni con la piccola di casa sono diventate il soggetto preferito del profilo social di Arianna Mihajlovic. Assieme alle foto con Sinisa o solo di Sinisa: per ogni scatto un messaggio d’amore.

«La prima cosa che ho pensato quando l’ho vista è stata: “Chissà come sarebbero belli i nostri figli”. Sono perfino andato a chiedere la mano a suo padre, come si faceva una volta» ha raccontato l’ex allenatore del Bologna in un’intervista a proposito del suo primo incontro con la showgirl che, per lui, lasciò il lavoro in tv.

La versione di Arianna? «Sinisa è arrivato e mi ha stroncato la carriera, ho lasciato Luna Park a metà anno, nel 95 l’ho conosciuto, nel 96 ci siamo sposati. Ma ci siamo innamorati subito, ci siamo guardati e non ci siamo staccati più». L’anno scorso hanno festeggiato 25 anni di matrimonio.

«È l’unica al mondo che ha più palle di me», ha detto lui di lei. Arianna, in effetti, è dappertutto nelle pagine del libro che il calciatore ha scritto con Andrea Di Caro, «La partita della vita» in cui ha raccontato la sua storia, l’infanzia difficile nella ex Jugoslavia, la guerra, la carriera calcistica, l’amore e poi la sfida della malattia. Ed eccola, quindi, Arianna: al suo fianco in ospedale che dorme su una sedia, Arianna che lo sprona a non lasciarsi andare, Arianna che lo stringe forte e lo rimprovera «quando mi lamento troppo».

«Senza di lei non ce l’avrei fatta» ha rivelato Sinisa dopo essere uscito, con successo, dal primo ciclo di cure. Ma quella partita, purtroppo, non era ancora finita.

Il pubblico della tv ha conosciuto anche le figlie grandi di Sinisa e Arianna, Viktorjia e Virginia perché insieme parteciparono all’Isola dei Famosi 2019. Avventura iniziata con entusiasmo ma poi chiusa dopo un mese per stanchezza e nostalgia di casa. Era un legame speciale e forte quello di Sinisa con le sue figlie femmine che, oggi, sono legate a due calciatori. E a calcio giocano anche i figli Miroslav e Dusan. Non poteva essere diversamente.

Viktorjia, 25 anni, la maggiore, che lavora nella moda e ha numeri da influencer sui social, ha ereditato dal padre una certa fierezza balcanica e la tendenza a parlare diretto: è lei, infatti, a difenderlo pubblicamente quando nel settembre di quest’anno, da allenatore del Bologna, è stato fischiato in campo e insultato sui social dopo il pareggio con la Salernitana (dopo pochi giorni fu esonerato dal presidente): «Volete insultare mio padre dal punto di vista lavorativo? Siete liberissimi di farlo, ci mancherebbe ma quando poi si tratta di famiglia, di salute e di tante altre cose vergognose che ho letto, no, non lo accetto più. Quello che scrivete è raccapricciante», spiegò alludendo al momento non felice della squadra e al fatto che da tre anni suo padre stava lottando con la leucemia. «Ricordatevi che stiamo parlando di un uomo, di un padre, ricordatevi che ci sono di mezzo dei ragazzi che potrebbero leggere quello che scrivete e rimanerne colpiti ed io mi vergogno per voi». A un certo punto, Viktorija aveva sentito l’esigenza, anzi l’urgenza, di scrivere un libro, «Sinisa, mio padre» uscito due anni fa quando lui aveva già combattuto la prima battaglia contro la leucemia. Scriveva per liberare le emozioni ed esorcizzare le paure: «Quando da bambina mi chiedevano di cosa hai paura, rispondevo: “che mio papà stia male”» rivelò lei, «la più emotiva della famiglia».

Virginia, 23 anni, secondogenita ma con il piglio responsabile da sorella maggiore, ama raccontare Mihajlovic in versione nonno: «Sapevo che saresti stato un bravo nonno, ma credimi, hai superato ogni mia aspettativa. Qui il vostro primo incontro, l’inizio di una storia d’amore grandissima» aveva scritto sotto il video in cui Sinisa prendeva in braccio per la prima volta la piccola Violante. Il papà era la roccia, anche quando stava male: «Era sempre lui che dava forza al resto della famiglia» raccontò una volta Virginia in tv negli studi di Verissimo.

Ma è di nuovo Viktorija che, quando Sinisa comunicò a marzo che la malattia era tornata, scelse di postare una sua foto dove il papà la abbraccia mentre dorme, dedicandogli le frasi di una canzone di Mengoni: «Io sono un guerriero. Veglio quando è notte. Ti difenderò da incubi e tristezze. Ti riparerò da inganni e maldicenze. E ti abbraccerò per darti forza sempre. Ti darò certezze contro le paure...». Lasciando intendere forse, che arriva per tutti un momento in cui anche il più forte e protettivo dei padri, diventa «figlio» e il «prendersi cura» deve passare di mano.

ADDIO A SINISA MIHAJLOVIC (1969-2022)

L'addio all'ex calciatore e allenatore. Chi era veramente Sinisa Mihajlovic: faccia tosta, scorrettezza e punizioni a 160km all’ora. Sandro Pieri su Il Riformista il 17 Dicembre 2022

Ha vissuto la sua vita, breve, sempre di corsa. Spavaldo, anche un po’ violento, nel bene e nel male. Se volevi capire chi era Sinisa Mihajlovic dovevi guardare come batteva le punizioni quando giocava in serie A. Restava per qualche secondo vicino al pallone, rincorsa brevissima, e poi un colpo secco. Micidiale: scaricava sul suo piede sinistro tutta la forza che aveva nei polpacci e nei quadricipiti. Dinamite. I portieri raramente avevano il tempo per vedere la palla arrivare. Una volta degli esperti di fisica calcolarono che le sue punizioni facevano viaggiare la palla tra i 160 e i 180 chilometri all’ora. Nessuna Ferrari, nessuna McLaren può raggiungere queste velocità in così pochi secondi.

A volte le sue punizioni erano secche: traiettoria dritta sotto la traversa. A volte a giro, all’incrocio dei pali. Qualche volta riusciva anche a far rimbalzare la palla davanti al portiere. Qui in Italia Mihajlovic ha segnato 38 gol in una quindicina d’anni. Tantissimi per un difensore. Di questi 28 su punizione. Una media pazzesca. Le squadre avversarie dovevano studiare la partita in modo da evitare di commettere fallo troppo vicino all’area di rigore. Sennò Sinisa era implacabile. Una volta segnò 3 gol su punizione nella stessa partita. Cosa che in precedenza era riuscita solo a Signori, negli anni 80, e ad Amarildo, nei 60. La vita la viveva con la stessa determinazione. La concepiva come una serie di colpi secchi. Era aggressivo come in campo.

Era nato a Vukovar, in Croazia, nel 1969, ma era serbo e ha vissuto in Serbia fino a 23 anni, prima di trasferirsi in Italia, dove è morto ieri, di leucemia, a 53 anni. Era serbo serbo, Sinisa, e serbo scorretto, nel senso che non fece mai nulla per non urlare la sua serbitudine, in una Italia e in un’Europa che considerava la Serbia di Milosevic il male dei mali. Lui invece la difese sempre, con quella sua faccia da schiaffi che era la sua grandezza. Difese anche Radzik, il generale di Srebrenica, difese l’assedio di tre mesi con il quale i serbi rasero al suolo la sua città natale.

Potevi dirgli tutto a Mihajlovic, ma nonché era un ipocrita. Lui lo sapeva, se ne vantava. La pagava. Beccò tante squalifiche, per razzismo, per violenza in campo. Non era uno stinco di santo, inutile negarlo, però era vero, solido, lealissimo.

Nel calcio giocato ebbe molta fortuna. Vinse la Coppa dei Campioni, l’unica vinta da una squadra serba, nel 1991, con la Stella Rossa. Poi venne da noi, nella Roma, poi nella Sampdoria, nella Lazio (dove restò otto anni) e alla fine nell’Inter. Da allenatore fu meno fortunato. Nel Milan stava andando bene, ma Berlusconi lo licenziò. Nel Bologna stava andando benissimo, ma fu colpito dalla leucemia, tre anni fa, si ritirò in ospedale, poi tornò ad allenare, combatté con tutte le sue forze, pianse, pianse tante volte perché aveva cinque figli e proprio non gli andava di morire. Chissà adesso se qualche ragazzo riuscirà a eguagliare i suoi record. A far viaggiare la palla, e la vita, a quasi 200 all’ora…

Sandro Pieri

Il ricordo dell'allenatore della Nazionale. Roberto Mancini piange l’amico Sinisa Mihajlovic: “Ho perso un fratello, ha ispirato il gol più bello della mia vita”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Dicembre 2022.

“Da ieri non ho più un fratello”, ha esordito così Roberto Mancini, allenatore della Nazionale Italiana di calcio nel suo lungo ricordo pubblicato sulla Gazzetta dello Sport dell’amico e collega, in campo e in panchina, Sinisa Mihajlovic. “Anche se di questo legame di sangue a volte ormai si abusa, nel parlare di amicizie, non mi sento di esagerare nel definirlo così: per me Sinisa lo era davvero, perché è stata la vita a renderci tali. Prima il calcio, e poi la vita“.

Mihajlovic è morto ieri. Dal 2019 combatteva contro una leucemia mieloide acuta. Si era curato ed era tornato subito in panchina. La scorsa primavera la notizia che avrebbe dovuto intraprendere un nuovo ciclo di cure. Aveva 53 anni. A confermare la notizia della morte, dopo giorni in cui si rincorrevano indiscrezioni su peggioramenti delle sue condizioni, la famiglia, la moglie Arianna Rapaccioni e i cinque figli che fino all’ultimo sono stati vicini allo sportivo.

Mancini e Mihajlovic sono stati compagni di squadra alla Sampdoria e alla Lazio. L’atleta serbo aveva cominciato la sua carriera da allenatore proprio al fianco di Mancini, sulla panchina dell’Inter. Il rapporto tra i due era sempre rimasto molto stretto. L’ultimo colloquio tra i due martedì mattina scorsa. “Me la porterò dentro per sempre quella chiacchierata: cose nostre come ce ne siamo dette tante, in quasi trent’ anni. Sono stati ventotto, per la precisione. Compagni di squadra e di panchina, sempre di spogliatoio perché anche, forse soprattutto, lì dentro ci siamo conosciuti fino a piacerci, a capirci, a litigare, comunque a diventare spalla uno per l’altro, quando per l’uno o per l’altro diventava necessario” .

Mihajlovic per Mancini “era un guerriero, non per modo di dire: la sua guerra era dimostrarsi più forte di chi lo sfidava. Per se stesso, non per far sentire deboli gli altri. Lo faceva con gli avversari, lo ha fatto con la leucemia. Per lui era sempre troppo presto per smettere di combattere e non era mai tardi per incoraggiare qualcuno, un amico, un compagno o un suo giocatore, a non mollare“.

Un ricordo speciale di un momento speciale: quello del gol di tacco su calcio d’angolo di Mancini in Parma-Lazio nella stagione 1998-1999, il gol più famoso dell’allenatore della Nazionale. “Il corner che aveva battuto Sinisa era disegnato, e in campo ci conoscevamo ormai così bene che sapevo perfettamente dove e come quel cross sarebbe arrivato. Quel corner era un regalo per sempre, perché mi ispirò il gol più bello che abbia mai segnato nella mia vita. Anche lui ne ha segnati di bellissimi, mai quanto l’ultimo: l’energia che ci ha trasmesso in questi tre anni, l’amore per la vita al quale ci ha educato. Per questo lo sento ancora al mio fianco, e lì sarà per sempre“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Andrea Di Caro per la Gazzetta dello Sport il 17 dicembre 2022.

Ora che sei già lì, voglio immaginarti com’eri, guascone e sorridente, in calzoncini e maglietta attillata a evidenziare quei bicipiti e quegli addominali di marmo, per quanto erano duri, con un pallone sotto al braccio. Si fa avanti Diego: “E tu che ci fai qui?”. “Sono venuto a sfidarti... Chiama Yashin o chi vuoi tu per stare in porta. Con la barriera o senza, non fa differenza. Diego, tu sei stato il più grande, ma a calciare le punizioni non esiste un sinistro come il mio”. 

Mentre prendi la rincorsa voci d’angelo intonano i cori delle curve del tuo cuore: “Pobedi Sinisa” (Vinci Sinisa), “E se tira Sinisa è gol…”. Spiegherai anche lassù che hai sbagliato più rigori che punizioni e come cambiavi all’ultimo il modo di tirare in base al movimento del portiere. Prenderai per il culo qualcuno dopo averne messe cinque di fila sotto all’incrocio e poi inviterai tutti a cena, perché “poi andiamo a mangiare” è una delle frasi che ti ho sentito ripetere più spesso.  

Cibo serbo, ovviamente, quello che digerisci solo tu, con i favolosi sarma che ti cucinava tua madre. Ma prima una grappa secca delle vostre, “che ti apre lo stomaco e fa venire appetito”. Ne ordinavi sempre due, una per te e una in ricordo di tuo padre. Stavolta ne basterà una sola, perché lui sarà accanto a te a bere la sua.

Mi sembra di vederti mentre racconti a tutti gli episodi della tua infanzia difficile, che ti hanno formato, della serranda davanti casa presa a pallonate per ore ed ore, i campi polverosi pieni di macellai prestati al calcio, la prima macchina a Borovo, la mitica Zastava Skala 128, e i riccioli al vento a cui tenevi tanto, fino ai successi prima col Vojvodina e poi con la tua Stella Rossa regina d’Europa... Poi ti fai serio e scende qualche lacrima quando rivedi i fotogrammi di una guerra fratricida, assurda e sanguinosa.  

“Un impazzimento della storia” lo definivi. La tua casa distrutta dal tuo migliore amico croato, Pipe. Le amicizie pericolose e gli errori di valutazione “ma bisognava essere lì e vivere l’orrore che ho vissuto io prima di giudicare”. E finalmente l’Italia, i primi vestiti di Versace e il gusto che si affina, la carriera che prende il volo e porta agiatezza e soldi che “mi consentono di vivere bene, li spendo, ma non li sperpero perché non dimentico il passato, i sacrifici fatti e che da bambino la felicità era un pezzetto di banana”. 

Roma, Samp, Lazio, Inter, che spettacolo eri da calciatore, che classe e che personalità. Successi, polemiche, trofei, gol e tackle… Dal campo alla panchina sempre a petto in fuori, “perché io gioco solo per vincere e la sconfitta mi fa incazzare”. Vice del tuo amico Mancini all’Inter, quindi Bologna, Catania, Firenze, la Nazionale serba, Samp, Milan, Torino, Bologna. 

“Il calcio è stata tutta la mia vita” e l’hai vissuto con passione e dedizione assolute. “Ma resta la famiglia il mio trofeo più bello” aggiungevi subito. Il primo incontro al ristorante “L’ultima follia” a Roma con Arianna “che appena l’ho vista ho pensato, io me la sposo. E che belli saranno i nostri figli...”. 

Quando in ospedale non ne potevi più, mi confidavi che l’unico sollievo era incrociare i suoi occhi incastonati tra cappellino e mascherina: “Non so spiegarti quanto siano belli, dopo quasi 30 anni Arianna mi fa battere il cuore come la prima volta”. Lo dicevi a me e spesso non avevi il coraggio di dirlo a lei, capoccione di un serbo. 

 I vostri cinque figli, tre maschi Miroslav, Dusan e Nikolas “che sono diventati più alti e grossi di me” e due ragazze bellissime, Viktorija e Virginia, di cui eri geloso. Fino a Violante, il gioiello che ti ha reso nonno. Sognavi una vecchiaia da cartolina: “Io a capotavola, una lunga barba bianca e tutta la famiglia intorno, figli e nipoti. A noi serbi piace così”.

Nel 2019 quando annunciasti al mondo che avevi la leucemia, quella cartolina che avevi in testa sembrò finire in mille pezzi: “Ho pianto tutte le mie lacrime, ora me la gioco e vediamo chi vince” hai detto prima di entrare al Sant’Orsola. L’hai sfidata la malattia e l’hai affrontata con un coraggio e una resistenza inimmaginabili. Non è retorica. Chi è stato accanto a te in questi anni, dentro e fuori dagli ospedali, lo sa. 

I medici che ti hanno bombardato con cicli di chemio, trapianti, cure di ogni tipo, si sono chiesti spesso come facesse il tuo corpo, minato da tante complicazioni dolorose, a resistere e a reagire: “Ha una forza fisica e psicologica sovrumana”. Il Bologna seguito da una stanza di ospedale, il ritorno in campo a Verona nell’agosto 2019, sfinito ma in piedi, un’immagine potentissima: “Ero più morto che vivo, ma avevo promesso che ci sarei stato. Non c’è nulla da nascondere e di cui vergognarsi nell’essere malato”.

 Il primo trapianto, il recupero veloce, quasi impressionante: “Mi sento meglio adesso che a 20 anni, se lo avessi saputo l’avrei fatto prima”, provavi a scherzare come sempre. Ma senza irridere mai la malattia “perché rispetto il mio avversario, ma farò di tutto con l’aiuto della medicina per batterla e guarire”. Avevi imparato a commuoverti: “Ora piango spesso e apprezzo ogni piccola cosa”. Non ho mai visto un uomo lottare come te, Sinisa. Mai. Né uno così ferocemente attaccato alla vita. 

La tua vita intrecciata alla mia mi riporta alla mente anni felici di un’amicizia fortissima, fraterna, nata d’estate a Porto Cervo in occasione della tua prima intervista da neo tecnico della Fiorentina. Venisti ad aprire il cancello di Villa Serbia: eri in costume da bagno, muscoli gonfi, tatuaggi e la faccia da duro. Minchia, quanto è grosso, pensai... Eri stato accolto a Firenze con diffidenza, a causa di vecchie tue dichiarazioni su Arkan. In giardino ti guardai negli occhi e misi giù la penna: “Sono qui per raccontarti non per giudicarti”. 

Parlammo di tutto compresi gli argomenti che avevano portato molti a puntarti il dito contro. Ci sono incontri che fanno sbocciare qualcosa di unico. Il rapporto professionale ha lasciato in pochissimo tempo il posto alla stima, alla fiducia, all’amicizia. Telefonate lunghe e continue, pranzi e cene (madonna quante cene, mi hai fatto prendere 7-8 chili), confidenze, interviste. Mai mi hai chiesto un favore sul giornale, mai ho parlato delle tue squadre nei miei commenti al campionato. Consigli sì, di quelli ce ne siamo dati tanti: “Harry, ho bisogno di te...”. 

Mi chiamavi così perché sostenevi che risolvevo problemi come Harry Potter che ti ricordavo per gli occhiali e il fisico lontano dal tuo. Abbiamo parlato di calcio e di vita, abbiamo “fatto nottata” dopo certe partite perse che non ti facevano prendere sonno. Abbiamo riso, scherzato, ci siamo abbracciati e non ricordo un litigio. Ma abbiamo discusso anche e qualche volta ti ho detto: “No, Sinisa questa è una cazzata...”. Un privilegio che concedevi a pochissimi.

 Non era facile convincerti, ma da uomo intelligente stavi ad ascoltare. E come una spugna facevi tue le cose che ritenevi giuste. Brillante, sveglio, paraculo, ma profondamente leale ed onesto. Con un codice di valori chiaro, virile, non facile da smussare. Preciso, puntuale e con un incrollabile senso del dovere. Eravamo diversi ma compatibili e forse per questo ci siamo trovati e voluti così bene. 

Mi piacerebbe ricordare solo il cazzeggio tra noi, ma non mi vanno via dalla testa quelle due telefonate. La prima, raggelante con cui mi svegliasti quella maledetta mattina di luglio: “Ciao Harry, devo dirti una cosa: non ho la febbre. Ho la leucemia”. E la seconda, forse anche peggiore: “È tornata, Andre’…”. E scusa se piango mentre me le ricordo, saranno gli anni che passano, ma non le tengo più dentro le emozioni.

Ci siamo sentiti al telefono domenica scorsa: “Ho avuto la febbre, ma ora mi sento meglio...” mi avevi detto con voce fioca ma viva. E avevi aggiunto particolari di tutte quelle complicazioni che continuavi ad avere e ogni volta mi chiedevo come facevi a sopportare tutto questo. Ci eravamo dati appuntamento a Roma: “Magari andiamo a mangiare...” mi avevi proposto. “Ma sì Sinisa dai vediamo, possiamo anche prendere un caffè a casa. Basta stare insieme”. 

Sapevi di stare male. “Se non funziona questa, è finita...”. Però non mollavi, perché non hai mai mollato in vita tua, e continuavi a leggere libri che potessero essere utili per il tuo lavoro e a programmare: “A gennaio facciamo un’intervista, andiamo a vedere qualche partita insieme. Vorrei andare un paio di giorni a Belgrado. Poi magari si va a Londra a trovare Conte e a vedere gli allenamenti”. “Ma sì certo, Sinisa, faremo tutto. Un passo alla volta...”. “Step by step...”. 

“Bravo, vedo che l’inglese non lo hai dimenticato”. “Ciao Harry”. “Ciao Sini, ti chiamo domani...”. E invece la telefonata me l’ha fatta tua moglie Arianna, una leonessa come te. Sono sceso di corsa da Milano e mi sono presentato in clinica con la scusa che avevo anticipato il viaggio. E, nonostante tutto, sei riuscito a scherzare ancora. Ti ho proposto: “Quando ti passa questa ennesima rottura di palle, vengo a camminare con te. Devo perdere qualche chilo...”. “Lo vedo, sembri Ciccio bello”. Il resto, lo teniamo per noi...  

Ti piaceva fare sorprese, l’ultima a Zeman a inizio dicembre, in occasione della presentazione del suo libro, la tua prima uscita pubblica dopo tanto tempo. Ti avevo visto il pomeriggio a casa tua e avevo pensato: non ce la fa a venire. Invece, come da accordi, sei arrivato, elegante e fashion come sempre, gli hai dato un bacio e l’hai fatto commuovere. Io so che sacrificio hai fatto per esserci. E sono felice che le ultime immagini pubbliche di te siano quelle sorridenti di quella sera. Zdenek, che usa poche parole, ma non le sbaglia quasi mai, oggi ti ha salutato così: “Era eroico”.

Ti ho visto magro come una stampella, trascinarti stanco in una stanza di ospedale, ma per me sei sempre rimasto un gigante. Però ti ho visto anche soffrire troppo in questi anni. Troppo. Come un pugile, cadevi, ti rialzavi, e tornavi a combattere. “Ti capisco Sinisa...”, ti ho detto durante uno dei tuoi ricoveri. “No, Andre’ non puoi capire”. Avevi ragione, non si poteva capire.  

La “Partita della Vita” è finita. Restano lacrime, ricordi e sorrisi. Leggetela la sua autobiografia, leggetela. Scoprirete un uomo non perfetto, ma assolutamente straordinario. Inizia così: “Mi chiamo Sinisa e sono nato due volte... Ma di vite ne ho vissute molte di più”. E adesso riposa, amico mio carissimo. Ci rivedremo un giorno.

ADDIO GUERRIERO. Ivano Tolettini su L’Identità il 17 Dicembre 2022

Quella “buca fatale”, come la chiamava Sinisa sicuro di prenderla a calci ancora una volta, come quando si era manifestata subdola con la febbre a 40° nell’estate di tre anni fa, gli è stata fatale. L’aveva affrontata di petto come nel suo carattere indomito, cercando di “giocare d’anticipo per batterla” come confidava con gli occhi umidi, ma non gli è stato sufficiente. Il mondo del calcio internazionale è in lutto e i tanti italiani, anche coloro che non sapevano nulla di pallone, ma si erano emozionati alle sue parole in televisione e sui giornali che prima annunciavano la malattia nel luglio 2019 e poi la recidiva lo scorso fine marzo, hanno appreso con commozione la sua “sconfitta”. L’ultima apparizione pubblica due settimane fa. Il “sergente” Sinisa Mihajlovic, com’era soprannominato per il suo carattere che in campo lo trasformava in un implacabile Aiace Telamonio, pronto a fare a botte e ad offendere gli avversari per difendere i compagni – si beccò 8 giornate di squalifica in Champions -, che aveva vinto la Coppa dei Campioni con la Stella Rossa di Belgrado e lo scudetto con Lazio e Inter, durante la presentazione della biografia di Zdenek Zeman si è materializzato alle spalle dell’allenatore boemo. Tra i due c’è stato un caloroso abbraccio e l’applauso del pubblico è scattato spontaneo. Nessuno immaginava che potesse essere l’uscita di scena del bravo allenatore di Bologna, Torino, Milan, Catania, Fiorentina, e per un anno anche della nazionale serba, diventato suo malgrado “guerriero” contro la leucemia mieloide acuta che da oltre tre anni aveva cominciato un pressing che neppure un campione della sua aggressività ha saputo domare. I suoi cinque figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dušan e Nicholas ( ne aveva avuto un sesto, Marko, che incontrò solo nel 2005 dopo averlo riconosciuto alla nascita nel 1993), la moglie Arianna Rapaccioni con i quali viveva a Roma, e il fratello Drazen hanno affidato a un comunicato il loro inconsolabile dolore: “Una morte ingiusta e prematura di un marito, padre, figlio e fratello esemplare”.

LA GUERRA

Ma prima di un campione sportivo dotato di un tiro mancino al fulmicotone preciso e devastante fino ai 160 all’ora, la biografia del 53enne nato jugoslavo, poi diventato serbo con lo sfacelo fratricida dello stato degli Slavi del Sud, era stata segnata dalla guerra. Lo ricordava spesso. E lo aveva sottolineato lo scorso 25 febbraio, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte dei russi, quando aveva detto: “Il conflitto armato non può e non deve essere l’unico modo per risolvere i problemi. A perdere è soprattutto la povera gente alla quale vanno i miei pensieri”. Sottinteso che lui aveva vissuto sulla propria pelle una situazione simile. Quando la Jugoslavia si era sfaldata “abbiamo vinto la Coppa dei Campioni”, quando Belgrado è stata bombardata dalla Nato “ho vinto lo Scudetto” e “ricordo che all’epoca avrei voluto che il mio allenamento e la mia partita durassero 24 ore perché solo in quei momenti potevo essere felice per non pensare al dramma del mio popolo. Quando da Aviano partivano i caccia chiamavo a casa e dicevo ai miei di andare nei rifugi”.

LA MALATTIA E LE REAZIONI

La bella storia del campione che aveva giocato in club importanti con cui aveva vinto tanti trofei prima di affermarsi anche come allenatore tutto di un pezzo vira implacabilmente tre anni e mezzo fa. Il Bologna è appena andato in ritiro quando Mihajlovic accusa una febbre molto forte. “Era vent’anni che non l’avevo, mi sono sottoposto agli esami e il responso è stato la leucemia. Una bella botta”, racconta ai cronisti in lacrime, avvisando però che “non sono di paura, rispetto la malattia, ma saprò superarla”. Quindi il trapianto del midollo, l’apparente guarigione, prima della ricaduta nove mesi fa. Il tutto vissuto con grande dignità, tornando in panchina e guidando il Bologna per due stagioni con buoni risultati. “Stavolta non piango, non entro in tackle, ma gioco d’anticipo per non farlo partire”, confessa in conferenza stampa in primavera quando la situazione clinica torna problematica. Sopporta il licenziamento con stile e sobrietà. “Dovevamo prendere un caffè assieme due settimane fa, ma all’ultimo non è venuto”, afferma commosso l’80enne Dino Zoff che gli abitava vicino. Le reazioni al suo ultimo dribbling che ha colto tutti in contropiede sono arrivate da tutto il mondo. Da quelle di Gianni Infantino, presidente della Fifa, in Qatar per la conclusione dei mondiali (“i suoi calci di punizione incarnavano una passione e una dedizione per la bellezza del calcio che hanno lasciato un segno”) a quelle di Totti, Salas, Berlusconi, e i suoi tanti compagni di squadra con cui ha vissuto i tanti alti e pochi bassi di una carriera vissuta da protagonista. L’ex portiere della Samp, Fabrizio Ferron, ricorda la tripletta che gli rifilò l’ex compagno Sinisa il 13 dicembre 1968, dopo essere passato alla Lazio: “Ci prendevamo in giro e siamo diventati amici per sempre”. Sinisa il guerriero era un uomo verticale.

Marco Beltrami per fanpage.it il 17 dicembre 2022.

Il calcio è in lutto per la morte di Sinisa Mihajlovic. Ha lottato come un leone fino alla fine l'ex centrocampista e allenatore contro la leucemia mieloide acuta. Un male che lo tormentava dal 2019, e che non gli ha lasciato scampo, con l'improvviso peggioramento degli ultimi giorni quando la situazione è precipitata. Difficile pensare che non vedremo più in campo il classe 1969 serbo, con il suo piglio, il suo carattere e la sua proverbiale schiettezza. 

Che le cose stessero prendendo una brutta piega lo si era capito da alcuni tweet di incoraggiamento, che invitavano Sinisa a combattere ancora una volta con la grinta di sempre. Il comunicato di oggi diramato dalla famiglia poi ha ufficializzato il decesso di Mihajlovic, che fino a sabato scorso già programmava il suo possibile ritorno in campo dopo la conclusione dell'avventura al Bologna. E ha dato il la ad una serie infinita di messaggi di cordoglio e affetto.

D'altronde l'ultima apparizione in pubblico dell'allenatore risale ad inizio mese, in una circostanza particolare. Miha dopo l'esonero di settembre dal club felsineo, non si era concesso particolarmente alle telecamere, anche per far fronte alle cure e ricaricare le energie. Il primo dicembre però eccolo spuntare a Roma in occasione di un evento pubblico, ovvero la presentazione dell'autobiografia di Zdenek Zeman "La bellezza non ha prezzo". 

Mihajlovic ha deciso di fare una sorpresa all'esperto allenatore boemo, con il quale dopo il rapporto tra alti e bassi in campo è nata una bella amicizia da colleghi in panchina. Sinisa seppur provato dalla malattia, si era mostrato molto sorridente e affettuoso nei confronti del più esperto collega salutato con un bacio. In quell'incontro con la stampa poi Miha ha colto l'occasione anche per celebrare il lavoro di Zeman.

Non è mancato un siparietto simpatico, con il mister che ha rivelato cosa diceva ai suoi giocatori quando affrontavano in campo le squadre in cui militava Sinisa: "Immaginavo le partite su di lui, o vi prende il ginocchio o vi fa passare. E purtroppo ci prendeva il ginocchio (sorride, ndr)".  

A quel punto Miha è stato al gioco: "Dai non ero così cattivo… ero lento, ma ero intelligente e partivo prima. Ma non era facile". E poi la stoccata simpatica: "Ci siamo incontrati, qualche volta ma non mi ricordo. So che ho vinto ma non mi ricordo". Con la battuta del boemo: "Perché a quel tempo eri più furbo, hai fatto gol su ostruzione in barriera".

In quell'incontro con la stampa poi Miha ha colto l'occasione anche per celebrare il lavoro di Zeman. Sottolineata in particolare la sua attitudine al gioco offensivo, con queste belle parole: "Zeman ha vinto molto più di altri che hanno vinto trofei. Ha valorizzato i giovani, ha fatto divertire giocatori e tifosi e ha detto sempre quello che pensava. È uno di quelli che ha portato qualcosa di nuovo. Da quando è arrivato lui in Italia si è cominciato a pensare di vincere e non solo di non perdere. È qualcosa di tipico dell’est Europa". E sono queste le ultime parole pronunciate in pubblico da Sinisa, mai banale.

Dario Freccero per “la Stampa” il 17 dicembre 2022.

Zenga: "Joao Pedro salta perché non vuole prenderla". Mihajlovic: "No, salta perché vuole fare una finta e inganna il portiere". E giù risate, con quei cappellini e le testone ravvicinate. Gag così, tra due allenatori nel post partita, non se ne vedono molte. Primo luglio 2020, Bologna-Cagliari è appena finita 1-1 e nel dopo gara Zenga e Mihajlovic danno vita ad uno show divenuto virale sui social.

Ci racconta Zenga?

«Sinisa era già davanti alla telecamera e mi fa "cosa fai li, vieni che commentiamo insieme". Intervengono da Sky in studio: "non si può, c'è il Covid". E Sinisa "e chissenefrega, hai paura tu Walter?". "Io? Ma figurati, ho paura solo di te". Così mi dà uno dei suoi auricolari e ci mettiamo attaccati a commentare e punzecchiare su ogni azione. È uno degli ultimi ricordi con lui ma sintetizza bene il rapporto di una vita intera: schietto, affettuoso, ironico, anti retorico».

Come definirebbe la vostra amicizia?

«Lui aveva detto una volta che ero il suo fratello maggiore e io l'ho sempre vista così, da fratello maggiore a minore anche se di pochi anni. Di certo siamo sempre stati vicini: abbiamo giocato insieme, allenato in staffetta a Genova, Catania e Belgrado, vissuti vicini a Milano, ci siamo sfidati, aiutati, provocati, presi in giro un mare di volte. Non ho parole per dire la sofferenza di sapere che non c'è più, ho avuto le lacrime tutto il giorno e ce l'ho ancora adesso».

Com' è iniziato tutto?

«Alla Samp nel biennio 1994-96 quando lui era partito terzino sinistro e poi spostato centrale. L'allenatore era Eriksson. Tra un portiere e il suo centrale nasce sempre un rapporto, nel nostro caso c'era anche il carattere: ci piacevano le stesse cose, così ci siamo trovati da subito». 

Tipo?

«La gente vera, gli scherzi, la spontaneità, la sfida su tutto. Quando era nato il mito delle sue punizioni quante volte lo sfidavo a Bogliasco dicendogli "se ne batti dieci non fai un gol"».

E lui segnava?

«Eccome se segnava! E più spostavo indietro il pallone, perché aveva quella sassata che tutti ricordiamo, più segnava. Quando l'ho capito era tardi purtroppo. Allora cambiavo strategia: "ok, però sei scarso sui rigori". Ma neppure io ero fortissimo... Siamo andati avanti così per mesi. Se lo sfidavi era divertentissimo perché ultra competitivo, non avrebbe accettato di perdere per nulla al mondo».

Passava per sergente di ferro, lo era?

«Quando mai! Se c'era una persona buona, di cuore, era lui. Poi che discorsi, era un serbo tutto d'un pezzo e considerava la squadra la sua famiglia e guai toccargliela. Tutte le volte che lo avete visto perdere le staffe e scontrarsi con qualcuno era per il senso di appartenenza, l'orgoglio, la difesa dei suoi. Ma la durezza, la cattiveria è un'altra cosa». 

La prima cosa di lui che le viene in mente?

«Direi la generosità». 

Un esempio?

«Quando sono andato ad allenare la Stella Rossa, a Belgrado, se non fosse stato per lui che mi ha aiutato ad inserirmi non so se ce l'avrei fatta. Se gli chiedevi una mano, lo trovavi sempre. Io ho fatto per lui la stessa cosa a Catania ma lui aveva meno bisogno del sottoscritto».  

Anche in panchina alla Samp avete fatto la staffetta nel 2015.

 «A Genova mi è andata meno bene quando sono subentrato a lui: lui aveva conquistato l'ottavo posto, quindi i preliminari europei, e la mia Samp è subito uscita. Ne avrei di cose da dire ma ovviamente lui vedeva lo sfottò del mio flop».  

Quando vi siete sentiti l'ultima volta? 

«A inizio mese poi non me la sono più sentita, sapevo che era peggiorato e soffrivo troppo. Uno battagliero come lui non riesci ad accettare che non vinca».  

È stato meglio da giocatore o da allenatore? 

«Non entro nel giudizio, sono troppo coinvolto emotivamente. Per me è stato fortissimo da giocatore, come prova la sua carriera, e un grandissimo pure da allenatore, perché se non sei bravo non finisci su tante panchine in Serie A. Però sfatiamo il mito di Sinisa tutto carattere e grinta: queste sono doti che aveva ma era soprattutto un grandissimo conoscitore di calcio e un uomo intelligente e sensibile. Mancherà al nostro calcio, ce n'è poca gente come lui».

Ivan Zazzaroni, Direttore del Corriere dello Sport-Stadio e del Guerin Sportivo per “la Stampa”, il 17 dicembre 2022.

Massimo Giannini mi ha chiesto di raccontare il "mio Sinisa" ai lettori de "La Stampa". Ovvero - ma non poteva saperlo - di descrivere (anche) un errore imperdonabile, che ho pagato, quello di averlo considerato a lungo "mio". In particolare da quando, nell'ottobre 2008, consigliai all'allora direttore generale del Bologna, Pier Giovanni Ricci, di dare all'ex vice di Mancini, pur se alla prima esperienza, il posto di Daniele Arrigoni che stava per essere esonerato. 

Suggerii proprio a Mancio di incontrare il dirigente per sostenere la candidatura di "Sini" - lo chiamavo così - e lui si prestò. Due giorni dopo la chiacchierata tra Ricci e Roberto, Sinisa mi chiese di accompagnarlo negli uffici milanesi dei Menarini dove incontrò la figlia del proprietario, Francesca. Una rapida stretta di mano prima di lasciarli soli. La convinse in meno di un'ora con la sua esuberanza, la voglia di fare, tanta personalità. 

L'esperienza a Bologna non si rivelò esaltante: sei mesi dopo, ad aprile, i Menarini lo licenziarono e presero Papadopulo, imposto - si disse - da Luciano Moggi. Catania, Fiorentina, Serbia, Samp, Milan, Torino, la Juve sfiorata due volte: nel giro di pochi anni, tra molti alti e qualche basso, l'allenatore Mihajlovic crebbe professionalmente, insieme alla nostra amicizia. A un certo punto pensai di avere ottenuto l'esclusiva del rapporto giornalista-tecnico: mi raccontava tutto, spesso si sfogava, condividevamo anche momenti di vita, non solo di calcio.  

Sinisa non era mio: è sempre stato ed è di tutti, in primo luogo della famiglia, Arianna, i cinque figli, la nipote, Violante, che gli somiglia nelle espressioni del viso, nelle finte cupezze, e della madre settantanovenne che non avrebbe dovuto veder morire un figlio, del fratello che gli ha donato il midollo per il secondo trapianto, degli amici, dei tifosi, della gente. E di Andrea, il collega della Gazzetta che ha avuto il merito di conquistarne la fiducia più piena.

Forte e naturale è stato l'abbraccio tra noi mercoledì sera nella camera 326, come naturale è stata la gelosia che qualche volta ho provato: Sinisa ha voluto unirci. Lui si mangiava la vita, tentava di dominarla, era divisivo, ma generosissimo, non temeva l'impopolarità derivabile dalle scelte più scomode. Voleva e doveva essere il più leale, il più elegante, il più trendy, il sempre giovane, il più profumato: la passione per le essenze esclusive l'ha coltivata fino alla fine. Aveva un amico, Paolo, che gli consigliava l'outfit, mentre ai figli chiedeva spesso di indicargli le nuove tendenze della moda.

I jeans dovevano essere skinny o baggy, a seconda del momento. Sinisa aveva poi le debolezze degli uomini solidi, la più singolare riguardava le scarpe. Aveva i piedi piccoli, 41 e mezzo, 42, ma acquistava solo calzature di due numeri superiori. Non riesco a scrivere del grande calciatore o del tecnico sempre aggiornato, curioso, muscolare e empatico. Oggi c'è solo l'amico, quello che dimenticava le incomprensioni spiegando che «non abbiamo più tempo per farci dei nuovi amici, meglio tenersi quelli vecchi».

In ospedale Arianna e Viktorija («sei magra come un'asciuga» le ripeteva), la maggiore dei cinque figli, mi hanno raccontato la camminata di libertà, il giorno stesso in cui è stato ricoverato: indebolito dalla malattia, sfibrato, stanco ma solo per gli altri, era uscito sotto la pioggia contro il parere della moglie e contro ogni logica. Sono stati gli ultimi chilometri della sua vita. Riconosciuto per un istante Mancio prima del sonno indotto, Sini l'ha salutato così: «Robi, fai il bravo».

Giuro che vorrei sapere cosa pensa del mio addio. So che troverebbe qualcosa da ridire anche stavolta. Forse pretenderebbe silenzio. Se è per questo, abbiamo sbagliato mestiere entrambi. A modo nostro, viviamo di sentimenti espressi, non secretati. E se non mi facessi, ora, un segno di croce, mostrerei di patire il rispetto umano, nascondendo per debolezza un dolore sincero.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 17 dicembre 2022. 

Una settimana fa, smagrito e indebolito dalle cure ma con il cuore e il cervello che pompavano soltanto voglia di vivere, era uscito la mattina presto per andare a camminare. Faceva freddo, molto freddo, pioveva. Arianna l’aveva pregato di restare a casa, di rimandare. Niente da fare: quando Sinisa si metteva in testa una cosa, quella doveva essere. 

E il più delle volte era. Rientrato dopo un paio d’ore s’era mostrato orgoglioso degli otto chilometri percorsi. Otto chilometri, e con pochissime piastrine nel sangue. Più tardi, mi ha raccontato Arianna, guardando la televisione che trasmetteva uno spot natalizio, la famiglia riunita a tavola, “Sini” aveva detto di sentirsi felice e che era quella la sua idea di felicità: lui, Arianna, i figli, i loro compagni e Violante, la nipote che tanto gli somiglia nelle espressioni, soprattutto nelle finte cupezze.

Sinisa era andato a camminare contro la leucemia e la logica: lui voleva essere più forte di tutto e tutti. Il più forte e il più bravo, l’allenatore più elegante - anche più del Mancio, suo fratello -, il più trendy e il più profumato: aveva il culto delle essenze particolari, introvabili, personalizzate, al punto che ti accorgevi del suo passaggio a un chilometro di distanza. 

A Paolo, l’amico eletto a fashion stylist, chiedeva in continuazione consigli sull’outfit. Che doveva essere speciale. Ai figli, invece, le nuove tendenze della moda. Nonostante la malattia gli stesse divorando l’esistenza ma non l’umore, fino a poche ore prima di entrare per l’ultima volta in ospedale Sinisa aveva programmato trasferte, impegni, telefonato agli amici, Leo, Stefano, Roberto, minacciando ritorsioni. Sinisa aveva fame di vita e soffriva di impazienza. Era duro, il più dolce tra i duri.

Dolce e profondamente religioso, in tanti anni di calcio nessuno l’ha mai sentito bestemmiare, e dire che di momenti difficili e tensioni ne ha dovuti affrontare. Quando gli capitava di incrociare espressioni blasfeme nello spogliatoio o in campo, si incazzava «come una bestia». La fede ha svolto un ruolo importante negli ultimi, delicatissimi anni.

La malattia l’aveva cambiato solo in parte, la sua seconda vita l’aveva spinto a riordinare le priorità. Il calcio, la squadra, l’allenamento, la vigilia, la partita e il dopo partita erano però rimasti al primo posto.

Giovedì mattina, quando l’ho visto per l’ultima volta sul letto della 326 e ho ascoltato il suo respiro, ho scritto una sorta di lettera all’amico: “Ti voglio bene, Sini. Te ne ho voluto per trent’anni. Anche nei momenti più difficili, uno in particolare, quello che non riesco a dimenticare e che non posso dimenticare, la stima e l’amicizia hanno sempre prevalso sui contrasti, sulle incomprensioni, sulle cattiverie di chi non poteva o voleva sapere la verità. 

E quando un paio di anni fa, al Parco dei Principi, mi spiegasti che «non abbiamo più tempo per farci dei nuovi amici, meglio tenerci quelli vecchi», capii che non poteva essere che così. Ci siamo presi in giro. Ci siamo confrontati, assolti, abbiamo parlato di calcio, di vita, di rapporti, di figli e nipoti. Anche di chi ci stava sulle palle. Il vero Mihajlovic io l’ho conosciuto.  

Chi ha potuto accedere alle tue confidenze e anche al tuo dolore ha ben chiaro che dietro certe sparate - quello l’attacco al muro, quell’altro non ha il coraggio di farsi vivo perché sa bene che se lo incontro le prende -; dietro certe asperità e divertenti esibizionismi, dicevo, c’era un uomo sensibile, di sentimenti, un padre che con i figli alzava la voce e minacciava punizioni pochi istanti prima di arrendersi all’amore. In casa eri il poliziotto buono, di Arianna il ruolo scomodo. Hai recitato una parte, quella del guerriero, che resterà nel cuore della gente. Anche se ho sempre preferito l’autenticità che nascondevi.

Aveva colpito tutti quel tuo modo di affrontare la malattia, la prima volta. Il faccia a faccia con un avversario più feroce e subdolo. Tu contro la leucemia: partiamo alla pari, avevi detto. Poi, però... quando lo scorso marzo si è ripresentata, tu che eri convinto di averla probabilmente sfangata, hai capito che sarebbe stata molto più dura: eri già passato attraverso un terribile calvario e non potevi sopportare l’idea di dover ricominciare. Hai indossato tutti i volti della malattia: il coraggio non ti è mai mancato. Il coraggio e l’imprudenza. 

Come quella volta a Verona: eri appena un’ombra che a fatica si reggeva in piedi. O quando lasciasti l’ospedale dopo un intervento chirurgico, naturalmente contro il parere dei medici. Oppure nei tanti blitz a Casteldebole per assistere agli allenamenti: volevi far capire che c’eri sempre e che saresti tornato. Te ne sei andato a pochi giorni dal Natale. Non si lascia un vuoto incolmabile proprio nel momento in cui abbiamo tutti più bisogno di calore, amore, famiglia, vecchi amici, buone notizie, serenità, pace. Non eravamo preparati. Sognavamo di rivederti con sorriso e muscoli e risentire la tua inconfondibile voce, quell’italiano che non digeriva gli articoli”.

«La cosa bella che ho visto oggi» mi ha scritto il dottor Nanni che dal primo momento gli è stato molto vicino e giovedì mattina ho atteso in ospedale «è la serenità della famiglia e in particolare di Arianna e della figlia Viktorija. Pur nella disperazione c’è la consapevolezza di averlo accompagnato fino a qui con tutto l’amore e l’affetto che una famiglia sa dare».

Una settimana fa mi è capitato di andare a sbattere contro i versi di un poeta serbo, Dorde Sibinovic. Non amo particolarmente la poesia, eppure la sua “Terapija” mi ha scosso: Sei chilometri di cammino veloce/attende il malato di cuore ogni giorno./ Il mio caso è specifico./All’inizio sono pronto al peggio/ poi mi soffermo aspettando un colpo improvviso…/ finché l’accelerazione non porta la gioia/ della nuova nascita senza malattia./ A casa giungo sudato/ e deluso/ per quanto tutto dura poco... 

Ciao, Sini, ho appena cancellato tutti i tuoi messaggi, non il tuo numero. I ricordi saranno la presenza della tua anima. Adesso però posso dirtelo: Arianna aveva ragione, quel berretto da pittore era orribile.

Maria Francesco Troisi per mowmag.com il 16 dicembre 2022.

“Esonero vergognoso”. Non solo lacrime per Sinisa Mihajlovic, che oggi va oltre, dopo aver lottato nella vita come nel campo. Luca Telese entra a gamba tesa e ricorda aspramente la sospensione del Bologna di inizio campionato, squadra che l'allenatore serbo ha salvato a una passo dalla serie B (2019). Una lunga storia d'amore finita voltandogli le spalle perché malato, almeno a parere del giornalista, che poi si aggiunge al coro d'omaggi per il grande calciatore e tecnico. Non solo, un uomo per bene, che ha restituito umanità al mondo del pallone. 

Telese, ci lascia Mihajlovic e nel mentre accusa su Twitter il Bologna: lacrime di coccodrillo...

«Non possiamo dimenticare l'esonero vergognoso. Ne parlavo con mio figlio di 16 anni, una cosa che pagheranno, visto che non ha prodotto nulla di buono. Cos'ha fatto il Bologna? Un punto e mezzo in più. Ma ha perso la dignità. Forse Mihajlovic avrebbe preferito una fine da combattente, sarebbe morto sul campo” 

Se fosse una sospensione concordata per l'aggravarsi della malattia?

“Non credo, esistono esempi di persone, come Steve Jobs, che non hanno mollato, e nonostante tutto. Sono certo che Mihajlovic avrebbe fatto lo stesso. L'esonero sanitario non ha precedenti nella storia, anzi forse uno, Manlio Scopigno, ma fu il medico a decidere, non la squadra” 

Sostiene persino l'irriconoscenza?

“Sostengo il gesto infame, la coltellata alla schiena. Meglio che la dirigenza non fiata e non si fa vedere, fa una miglior figura”. 

Come si spiega la decisione?

“Penso sia stato vittima di quella foto di inizio anno, in cui davanti ai giocatori era seduto abbacchiato, nient'altro che conseguenza dei cicli di chemio” 

Per il calcio quanto vale Sinisa?

“Per chi ama il calcio e lo ama davvero, e senza etichette, è stato un personaggio straordinario. Non a caso tifo Cagliari e ho simpatia per la Roma, eppure non posso che averne una stima immensa”

Emanuele Zotti per gazzetta.it il 19 dicembre 2022.

Roma si ferma per l’ultimo saluto a Sinisa Mihajlovic. L’orario dei funerali era fissato alle 11.30, ma già alle 10 oltre duemila persone erano radunate all’esterno della basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Tifosi presenti: tantissimi laziali ma anche bolognesi, milanisti, interisti, sampdoriani e della Stella Rossa. Il feretro ha lasciato il Campidoglio intorno alle 9.40 e ha raggiunto piazza della Repubblica – parzialmente chiusa al traffico per l’occasione – alle 10.15, seguito dalla famiglia Mihajlovic. La folla ha accolto l’arrivo con un lungo applauso. 

Una delegazione del Bologna – composta dal gruppo della prima squadra, Primavera e dirigenza – ha raggiunto la basilica. Presenti anche Angelo Peruzzi e Fabio Liverani. E poi sono arrivati i giocatori e la dirigenza della Lazio. Presenti anche il ministro dello Sport Andrea Abodi e quello dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida, il ct Mancini, Stefano Fiore, Vincenzo Montella e Massimo Ferrero, Giovanni Malagò, il presidente del Torino Urbano Cairo e il sindaco di Roma a Roberto Gualtieri.

Presenti anche Salsano Lombardo, Marchegiani, Iachini, Sereni, Orsi, Juric, Branca, Montella, De Sanctis, Peruzzi e Luca Cordero di Montezemolo e tanti altri. All’interno della basilica ci sono anche Gianluca Vacchi e Paolo Brosio. Presente anche una delegazione della Stella Rossa. Ci sono anche Gigio Donnarumma, Francesco Totti e Daniele De Rossi: Totti praticamente camuffato con cappuccio e felpa, De Rossi ha infilato l'ingresso laterale. I due hanno preferito rimanere fuori dalla zona riservata ad autorità e familiari e sono in piedi vicino ad Angelo Di Livio. Ci sono anche Stankovic, Jugovic, Franco Baresi, Gianni Morandi e Serse Cosmi. Sono entrati nella basilica, tra gli altri, anche l'ex portiere della Lazio Luca Marchegiani e Bruno Conti. A fare l'ingresso in chiesa per i funerali di Sinisa Mihajlovic anche l'aquila Olimpia, simbolo della Lazio, che è stata poi fatta uscire pochi minuti dopo. 

L'OMELIA—   Durante il funerale - celebrato dal cardinale Matteo Maria Zuppi arcivescovo di Bologna - è stata letta la lettera di San Paolo agli Efesini. "Con tante domande accompagniamo in quest'ultimo tratto Sinisa... - ha detto il card .Zuppi durante l'omelia - togliamo tante pietre dal nostro cuore come ha detto Sinisa. Ci stringiamo fra noi, anche fisicamente, e quanto fa bene...". E ha poi aggiunto: "Oggi sentiamo l'ingiustizia, nei nostri pensieri ci aiuta il Natale, Dio nasce per amore e accetta anche la morte per rinascere in cielo... Dio vuole che la morte, che è sempre ingiusta, non sia la fine ma la nascita. La malattia ci fa pellegrini alla scoperta di sé, Sinisa fece questa esperienza anche durante la guerra, che aveva un solo colore, il rosso del sangue, e aveva ragione. 

Grande è chi aiuta e ama la sua squadra, chi valorizza il talento, chi crede in lui quando non è nessuno, Sinisa lo ha fatto. Contro il vero grande nemico disonesto che è il male, è questa la squadra che serve. La famiglia di Sinisa era la sua squadra del cuore, amato fino alla fine. La sua squadra del cuore ha giocato come voleva lui, poche ore prima in clinica Arianna giocava con Violante e mi ha commosso. Per quella squadra dava tutto. È rimasto lo stesso: ruvido, schietto, generoso. E allo stesso tempo dolce e tenero.

La sua autenticità spesso lo ha portato al limite. A Medjugorje disse: ho cominciato a piangere, come un bambino, non riuscivo a trattenermi e mi sono sentito più forte e più uomo quel giorno che in tutta la mia vita. Su quella panchina mi sono ripulito, ho iniziato a pregare e da lì l'ho fatto sempre. Non per dire voglio, ma grazie. Mi sono sentito appagato e puro, come un bambino appena nato. Le fragilità non sono ostacoli ma opportunità. Sinisa non scappava, l'ha affrontato con coraggio e credo che ha dato tanto coraggio parlandone, piangendo davanti agli altri, condividendo il passaggio verso la fragilità. 

Il guerriero ha vinto con la dolcezza della fragilità. La fragilità è una porta, non un muro. Voglio dire a tutte le persone di non abbattersi. Grazie Sinisa. Il fischio finale per ogni credente è che con la morte di apre il secondo tempo della vita, spero tu stia bene. Oggi Sinisa è libero con te". Toccante discorso anche da parte di Vincenzo Cantatore, ex pugile con un passato nello staff tecnico del Bologna nel 2019: "Sinisa è stato semplicemente un guerriero".

L'USCITA—   Le esequie si sono concluse dopo circa un'ora e le persone hanno iniziato ad uscire dalla basilica: senza parlare, sono andati via il numero uno della Figc Gravina, il presidente del Coni Malagò, il ministro dello Sport Abodi. Esce il feretro tra gli applausi della gente, sorretto da Mancini, Lombardo, Stankovic e Cantatore. Escono Totti e De Rossi. Poi i cori e i fumogeni dei tifosi mentre l'auto si allontana dalla basilica, diretta al Verano, seguita dalla famiglia. I tifosi di Lazio Bologna e Torino hanno acceso fumogeni, intonando lo storico coro “E se tira Sinisa… è gol!”.

LE PAROLE—   "È stato un onore, un privilegio averlo come amico" sono le parole del c.t. della Nazionale Mancini. E Urbano Cairo l'ha ricordato così: "Era un grande amico, una persona a cui ero molto legato. Era molto simpatico. Lanciava i giovani e li sosteneva in maniera incredibile: metteva in campo un giovane e il giovane faceva bene perché aveva la sua grande fiducia. Era legatissimo alla famiglia, era un tutt’uno, ho letto che voleva diventare vecchio con barba bianca e circondato da nipoti, non ce l’ha fatta, ma resta nel cuore di tutti: una persona speciale. Con lui c’era una grande simpatia, quando lo esonerai non era contento, l’anno dopo vinsero e mi dissero che lui mi stava cercando. Quando si è ammalato l’ho chiamato e da lì in poi è stato come se non si fosse interrotto nulla. Un uomo di grande cuore e grande bontà con il quale c’era un’intesa immediata". Queste le parole di Igli Tare, ds della Lazio: "Ha dato tantissimo al calcio, lo ricordo con grande rispetto come un grande giocatore e un grande uomo".

Sinisa Mihajlovic. Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 7 Settembre 2022.

Licenziato, esonerato, cacciato, silurato: la sostanza non cambia, al lettore la scelta. Mandato via proprio nei giorni in cui Mihajlovic sta meglio: ha messo su 4 chili, recuperato energia. Joey Saputo, uomo di numeri, impazienze e latticini, sempre convinto di avergli consegnato il Real, avrebbe voluto chiudere con lui già a febbraio, soltanto il ripresentarsi della malattia lo indusse a non spingersi oltre il confine del pudore: il divorzio sarebbe risultato impopolarissimo nel periodo in cui all’allenatore veniva prospettato il secondo trapianto di midollo.  

Fuori per motivi tecnici, questo ha preteso che fosse scritto Sinisa: nessun accenno alla malattia.

Ma i tre punti nelle prime cinque partite non possono essere, e non sono, la vera ragione dell’esonero, non lo spiegano, giustificano. Perché sono i punti di una squadra che ha venduto tre pezzi importanti (Svanberg, Theate e Hickey) incassando 45 milioni e acquistato seconde e terze scelte, dovendo – con il ricavato delle cessioni – coprire il buco creato da alcuni obblighi d’acquisto scaduti. I punti di una squadra che soltanto a Milano con i campioni non è stata in partita e che per quattro volte si è trovata in vantaggio.  

Finisce malissimo una storia di valori prima esaltati e poi demoliti, e per chi - come me - si riconosce da oltre mezzo secolo nei colori, nell’anima e nei ricordi della squadra della sua città, Bologna, il dolore è forte, l’avvilimento sfiora la vergogna. Così come il sospetto che l’impopolare decisione sia diventata utilmente popolare anche per quella sconcia esibizione di condanna di Sinisa effettuata da certa tifoseria innominata, odiatori senza volto, rapinatori di sentimenti meglio definibili utili idioti. 

Credo e spero che soltanto Claudio Fenucci, l’ad, abbia tentato fino all’ultimo di evitare questo scempio: sapeva - lo conosce bene - che Mihajlovic, all’ultimo anno di contratto, avrebbe portato a 52 punti una squadra che considerava comunque più debole dell’ultima mantenendo la promessa-sfida con se stesso e il suo staff, i suoi ragazzi. 

Il calcio per Sinisa è ragione di vita e di lotta: da due mesi si presentava al campo abbandonando l’ospedale anche se non gli era permesso. Seguiva l’allenamento dalla panchina soltanto perché i medici gli avevano imposto di non esporsi ai raggi del sole, ma lavorava con la solita attenzione, la solita passione.  

Il canadese Saputo è il padre del licenziamento e deve assumersene la responsabilità: ridicolo che la società abbia inseguito la condivisione di questa decisione. Sinisa voleva restare per completare alla grande un’indimenticabile, terribile, ma anche dolce avventura. 

Se ci saranno risparmiate esibizioni di amarezza dirigenziale e altre ipocrisie di facciata, saremo grati a una proprietà troppo distante, non solo fisicamente, dal nostro ideale.

Il calcio è un’azienda e le aziende non possono permettersi un cuore: a volte basterebbe il cervello.

Il rispetto per Mihajlovic. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 6 settembre 2022.

I dirigenti del Bologna licenziano in tronco l’allenatore perché ha raccolto la miseria di tre punti in cinque partite e la prima reazione, figlia di questi tempi ipersensibili, è: guarda come ci siamo ridotti, non portano più rispetto nemmeno a un malato. Mihajlovic combatte da anni contro la leucemia e il Bologna finora gli era sempre stato vicino, per cui l’esonero diventa una pugnalata alle spalle, una scelta cinica che espelle definitivamente la poesia da uno sport dominato dai freddi numeri degli ingaggi e dei risultati. Però la si può raccontare anche in un altro modo. Mihajlovic non ha mai praticato il vittimismo né sopportato il pietismo. (Come politico avrebbe scarso successo). Dal giorno in cui si è ammalato, ha chiesto di essere giudicato in base al suo lavoro e non al suo stato di salute. Ora, è un dato di fatto che il suo lavoro stesse andando piuttosto male. Sicuramente non sarà dipeso solo da lui, ma nel calcio l’allenatore è il primo a pagare, non foss’altro perché è più economico sostituire il tecnico che la squadra intera. Si potrà non essere d’accordo con questo andazzo, ma qui non stiamo mettendo sotto processo i riti del calcio. Stiamo discutendo se Mihajlovic dovesse essere trattato diversamente da chiunque altro, in quanto colpito da leucemia. A un uomo con il suo carattere non si manca di rispetto mandandolo via nonostante sia malato, ma rinunciando a mandarlo via soltanto perché è malato. 

De Zerbi rifiuta di allenare il Bologna : lo ha fatto per rispetto a Sinisa Mihajlovic. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Settembre 2022.  

L' ex allenatore del calcio-spettacolo del Sassuolo aveva il gradimento di tutti ma con grande rispetto ha rifiutato la panchina: non ha un rapporto con Sinisa, ma ha solo fatto una scelta "umana". E non, come qualcuno ha insinuato, perché tentato da altre squadre

Quando il Bologna Calcio ha deciso di esonerare Sinisa Mihajlovic, si è sollevata un’ondata di proteste non soltanto da parte di una fetta dei tifosi rossoblù, ma anche di addetti ai lavori e osservatori esterni che non hanno apprezzato i tempi, il modo e l’epilogo soprattutto di un rapporto costruito in tre anni e mezzo. Prima un’intera città coinvolta, di cui è diventato cittadino onorario, poi il romanzo si è allargato all’Italia, ha sconfinato nel mondo: tutti spettatori scioccati e commossi dalla battaglia del tecnico . L’annuncio della leucemia l’11 luglio 2019, le lacrime in conferenza stampa, il club al suo fianco. La storia finisce così, era una favola, non lo è più. 

Il primo nome immediatamente circolato è stato quello di Roberto De Zerbi. Un profilo di allenatore che metteva d’accordo tutti, dall’Ad Fenucci al direttore sportivo Di Vaio, Sartori e persino il proprietario della società il canadese Joey Saputo. A quel punto è partita l’offerta, ma la risposta è stata sorprendente. Per tutti: “Vorrei, ma non posso farlo, dopo Sinisa”.

Un rifiuto che ha lasciato sorpresi tutti, al punto da ipotizzare una presa di posizione per amicizia tra i due tecnici. Ma non è così, non esiste alcun legame di amicizia tra De Zerbi e Mihajlovic: i due allenatori si conoscono dalle rispettive panchine, non si sono mai frequentati e quindi non sono amici. L’ex allenatore del Sassuolo ha soltanto fatto una scelta “umana“. Irrinunciabile per lui. “È l’ennesima dimostrazione di quanto valga De Zerbi: in panchina e fuori”, il commento del giornalista Fabrizio Biasin, seguito da centinaia di commenti di tifosi e appassionati.  

La stessa scelta fatta da De Zerbi quando è esploso il conflitto in Ucraina a febbraio, dove allenava la squadra dello Shakhtar Donetsk, lo ha spinto a dire ai suoi collaboratori: “Io resto qui, non abbandono i miei giocatori”, restando per giorni barricato in un hotel a Kiev con guardie armate all’interno mentre fuori esplodevano le bombe e riecheggiavano giorno e notte le sirene di allarme.

Questa volta “mister” De Zerbi ha deciso che non se la sentiva di prendere il posto un allenatore che sta combattendo una battaglia contro la leucemia decisamente più seria ed importante di una partita di calcio. Una decisione adottate senza entrare nel merito, senza mandare messaggi o voler dare l’esempio, ma soltanto per restare in pace con la coscienza. E non, come qualcuno ha volgarmente insinuato, perché “tentato da altre squadre“. Infatti l’unico club ad oggi, ad aver cercato De Zerbi era il Bologna. Una città affascinante, un pubblico splendido, ed una squadra interessante, nonostante alcune annate deludenti. In poche parole, un progetto che avrebbe stimolato molti allenatori a spasso.

Ma ci sono condizioni che, per qualche “vero” uomo di sport come Roberto De Zerbi, non possono essere accettate. Qualcuno a Bologna rifletta…

Esonero Mihajlovic, Saputo un miliardario del formaggio che l’ha salutato come fosse già defunto. Paolo Liguori su Il Riformista l'8 Settembre 2022 

Sinisa Mihajlovic era l’allenatore del Bologna, amato in questo momento da tutti perché malato di leucemia e ciò nonostante era rimasto in piedi al suo posto. Aveva trasmesso alla squadra quella forza necessaria per comportarsi bene e fare gruppo in campo. È stato esonerato. Molti hanno parlato di decisione spietata. La società avrebbe preso una decisione spietata: dopo un’ennesima costatazione di una ricaduta della malattia gli hanno detto ‘non ce la puoi fare, ci dispiace molto’.

Vorrei ripetere le parole esatte con le quali è stato esonerato: “Sarai sempre tra noi”. Chiunque avrebbe fatto gli scongiuri. Quel “Sarai sempre tra noi” è quello che si dice a uno che è già defunto, già trapassato.  Quelli che parlano di decisione spietata sbagliano. Si tratta di una decisione profondamente stupida, autolesionista. Non c’era bisogno di esonerare pubblicamente Mihajlovic perché malato.

Anche da malato, Mihajlovic era stato un motore fortissimo dello spirito di squadra del Bologna. Lo aveva portato a salvarsi. Lo aveva portato a fare un grande, grandissimo finale del campionato scorso nel suo nome. Dovunque andasse, attirava su di sé e sul Bologna le simpatie anche degli avversari e degli altri tifosi.

Persino se fosse un amuleto, una personalità di questo genere andrebbe conservata. Se uno si intende di calcio, di squadre di calcio e ama il calcio, sa benissimo che sir Ferguson è rimasto per molti anni sulla tribuna dello stadio dei sogni di Manchester dando la sua presenza. Ma potrei fare decine di altri esempi. Questi sono dei totem. Penso a Giggs, a Pelè che pure è stato malato a suo tempo.

Mihajlovic era un patrimonio del Bologna ma direi anche di un certo spirito del calcio. Il proprietario del Bologna è un italo-canadese – Saputo – figlio di un italiano emigrato a Montreal che è diventato multimiliardario facendo formaggi e latticini. Tuttavia, questi formaggi e latticini non gli sono serviti a capire come deve essere il mondo del calcio e dello sport. Non gli sono serviti a capire che Mihajlovic non andava esonerato ma andava tutelato e anche preservato come un patrimonio fino a quando non ce la dovesse fare più ma noi speriamo che Mihajlovic duri molto di più di Saputo al Bologna. Paolo Liguori

Mihajlovic e l’esonero. Atto di rispetto o di insensibilità? Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 9 Settembre 2022 

In questi giorni è accaduto un episodio che non può essere liquidato come una “storia di calcio”.

Quando lo sport si fonde con la vicenda umana del protagonista, tutto diventa più complesso. Quante volte si sente dire o si legge che un club esoneri un allenatore. Le reazioni possono essere molteplici, di dispiacere se da tifoso pensavi stesse facendo un buon lavoro, di sollievo se proprio non ti andava giù come stava facendo giocare la tua squadra, o di indifferenza se non te ne importava niente.

C’è però una variabile, di quelle che, se anche non sei tifoso di quella squadra, rende l’esonero dell’allenatore un episodio che ti coinvolge emotivamente, che ti fa porre delle domande cui è difficilissimo trovare una risposta che abbia senso. O meglio, che abbia un senso apparentemente giusto. L’allenatore esonerato di cui parlo è Sinisa Mihajlovic, la squadra che gli ha fatto guadagnare la porta, il Bologna. Ci sono due elementi in campo in questa vicenda, i risultati che un allenatore deve portare al suo club, ed oggettivamente erano piuttosto scarsi, 3 punti in cinque gare disputate e la malattia con cui questo guerriero combatte da tempo.

Una malattia bastarda, di quelle che ti chiedono uno sforzo fisico e psicologico da leoni.

Allora mi sono chiesta: “Ma come è possibile , sanno che è malato e lo mandano a casa? Che insensibili!!” Poi ho riflettuto e mi sono detta : “In fondo lo hanno trattato da persona sana infischiandosene della malattia. Non hanno scelto la strada della commiserazione e del vittimismo“. Difficilissimo trovare logicità in ciò che è accaduto e nelle modalità.

Poi finalmente una lettera che Sinisa ha rilasciato alla Gazzetta dello Sport e quindi mi sono aggrappata alle sue parole, ai suoi pensieri, per fare chiarezza nei miei: “Mi è capitato spesso di salutare tifosi, giocatori, società, città, per dire addio o arrivederci. Fa parte della carriera di un calciatore e di un allenatore andare via prima o poi. I cicli sportivi nascono, si sviluppano, regalano soddisfazioni, a volte delusioni e poi inevitabilmente finiscono. Nulla è eterno. Ma stavolta il sapore che mi lascia il mio voltarmi indietro un’ultima volta è più triste.”

Era davvero il momento giusto perché quel filo che lo legava alla sua squadra venisse reciso? O andava ricercata una perseveranza, una tenacia diversa, la stessa dimostrata da Sinisa contro quel male oscuro. Lo stesso campione serbo lo ribadisce nell’altro passaggio che lo ha portato a raccontarsi in queste parole: “Non sono mai stato un ipocrita, non lo sarò neanche stavolta: non capisco questo esonero. Lo accetto, come un professionista deve fare, ma ritenevo la situazione assolutamente sotto controllo e migliorabile. La società non era del mio stesso avviso. Siamo appena alla quinta giornata, faccio fatica a pensare che tutto questo dipenda solo dagli ultimi risultati o dalla classifica e non sia una decisione covata da più tempo. Peccato. Ci tengo però a dire, che le mie condizioni di salute sono buone e in costante miglioramento”.

Quando ci sono storie di vita che si legano a straordinarie vicende sportive come questa e’ difficile vedere oltre la semplicistica narrazione di un club che caccia il suo condottiero. Probabilmente ritornassero indietro, forse, Mihajlovic e la società rossoblu muterebbero solo un punto di questo addio: i tempi. Lasciarsi in questo modo tra contrasti e malintesi non rende giustizia a quello che Sinisa è stato per il Bologna e a quello che la stessa società ha rappresentato per lui.

Mihajlovic guerriero in campo e fuori, è stato di esempio per tante persone, malati e non, per la sua caparbietà contro la malattia e per il suo spirito di abnegazione al lavoro. Di tutta la scia di incomprensioni che lascia questa storia umana e calcistica ciò che rimane fermo è il tratto indelebile che Sinisa fissa su questa città. Allora non è un addio, ma probabilmente, come mi auguro,solo l’avvicendarsi di un altro percorso.

Sinisa Mihajlovic, il calcio non fa sconti: la vera storia dell'esonero choc. Leonardo Iannacci su Libero Quotidiano l'08 settembre 2022

E adesso, il dibattito è aperto. Tutti a cercare la verità, l'essenza della scelta del Bologna Football Club: ha fatto bene a esonerare Sinisa Mihajlovic? Oppure ha messo in atto una strategia cinica, legata esclusivamente alla realtà tecnica della squadra, tenendo conto della classifica attuale della squadra e non delle condizioni dell'uomo? Visto che stiamo parlando, appunto, di un uomo di calcio, come ama essere definito Sinisa, prima di tutto i fatti: da ieri il tecnico serbo non è più l'allenatore del Bologna. Durante un incontro che si è tenuto a Roma, dove si trovava per una giornata di riposo dopo il deludente pareggio di La Spezia e dopo l'ennesimo delicato controllo medico a cui si sottopone da anni, presenti anche l'Ad Fenucci, il direttore tecnico Sartori e il ds Di Vaio (assente il presidente Jey Saputo), Mihajlovic ha ricevuto la brutta notizia.

Paga - secondo la dirigenza l'avvio stentato di campionato visto che il Bologna occupa il 16° posto con soli tre punti in cinque giornate, ma avendo comunque incontrato già due big come Lazio e Milan. In prima fila, per sostituirlo, ci sono Thiago Motta, che piace dopo la bella stagione scorsa a La Spezia, e Claudio Ranieri. Contattato anche De Zerbi. Oggi si saprà il nome del prescelto, nel frattempo gli allenamenti saranno guidati dal tecnico della Primavera, Luca Vigiani.

IL NETTUNO D'ORO Cala così il sipario sulla lunga avventura professionale tra il club rossoblù e l'allenatore serbo. Un rapporto iniziato a gennaio 2019 quando Sinisa prese le redini di un Bologna sull'orlo della B e lo salvó con una cavalcata trionfale diventando l'icona dell'intera città. A tal punto che l'amministrazione pubblica lo premió con il Nettuno d'Oro, la statuetta che elegge un personaggio a bolognese Doc. Allora, mezza città storse il naso: il Nettuno a un serbo con idee politiche non certo di sinistra? Nella Rossa Bologna, tutto ciò era sopportato e non più supportato. Poi, visto che la vita riserva incidenti di percorso, anche gravi, arrivò la mazzata: durante un controllo ematico, nell'estate del 2019, emersero valori impazziti nel sangue di Sinisa, globuli e piastrine fuori dalla norma per una diagnosi agghiacciante: leucemia mieloide acuta. È cominciata, così, una via crucis fatta di chemioterapia e lunghi mesi in ospedale, con un trapianto di midollo e una ripresa parziale della salute, mentre la squadra, campionato dopo campionato, ha viaggiato a volte da sola con il suo allenatore chiuso in una stanza asettica dell'ospedale e poi eroico in panchina, «più morto che vivo», raccontò Sinisa. La "bastarda" (come chiama la leucemia) si è rifatta viva, implacabile, la scorsa primavera, poco prima del ritiro estivo del torneo in corso. Una maledetta recidiva che ha segnato gli ultimi mesi bolognesi del tecnico: «Ma io vado per la mia strada. Giudicatemi solo per quello che vivo nel calcio. Un mondo nel quale ci sono allenatori esonerati e quelli che saranno esonerati. Se succede, succede. Io ho la coscienza pulita». È successo. Ieri. Con Mihajlovic in panchina il Bologna ha ottenuto il massimo con il parco giocatori avuto a disposizione: due dodicesimi posti (2019/20 e 2020/21) e un tredicesimo (2021/22). Con 47 vittorie, 42 pareggi e 64 sconfitte.

DECISIONE DIFFICILE La decisione presa ieri dallo stato maggiore del club non è stata semplice: «É stata la più difficile che ho preso da quando sono presidente», ha detto Joey Saputo. Recita il comunicato ufficiale: «A Sinisa e al suo staff va un ringraziamento speciale per aver affrontato il lavoro in condizioni straordinarie e delicatissime con eccezionale dedizione e professionalità». E ancora Fenucci, l'ultimo a difendere Mihajlovic: «A Sinisa mi legheranno sempre un'amicizia e un affetto che vanno oltre i rispettivi ruoli professionali ma la squadra è prima di tutto patrimonio dell'intera città e dei tifosi». Tifosi che ora devono continuare a sostenere l'uomo Sinisa, non più l'allenatore: la partita che sta giocando è più importante di un pallone che rotola in rete o sfiora il palo. È un match da non perdere. 

Leucemia mieloide acuta: i bisogni dei malati e i sintomi. Come si vive con questo tumore. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2022.

È un tumore aggressivo (lo stesso diagnosticato a Mihajlovic) e l'impatto iniziale è molto duro. Gestione multidisciplinare, assistenza domiciliare e supporto psicologico le principali esigenze per una migliore qualità di vita.

La leucemia mieloide acuta è tumore del sangue che colpisce ogni anno circa 3.500 persone in Italia, che origina nelle cellule staminali presenti nel midollo osseo e si sviluppa molto rapidamente. È lo stesso tumore diagnosticato all'ex calciatore Sinisa Mihajlovic, spesso aggressivo, per il quale fortunatamente i progressi della ricerca scientifica hanno reso recentemente disponibili nuove cure in grado di allungare la sopravvivenza dei malati. Ma come vivono i pazienti italiani che soffrono di questa neoplasia? E i loro familiari? Quasi sono le loro necessità maggiori? A queste e altre domande ha cercato di rispondere l’indagine promossa dall'Associazione Italiana contro leucemie, linfomi e mieloma (Ail), realizzata da Doxa Pharma.

Patologia aggressiva 

Ogni anno sono circa 32mila gli italiani che si ammalano di un tumore del sangue, che in due terzi dei casi colpisce persone con più di 65 anni. La diagnosi di leucemia mieloide acuta arriva presto, in genere entro due settimane dal primo accesso del paziente al centro di cura ed è accompagnata da emozioni quali paura, sconforto, rabbia, preoccupazione. «La scoperta di una patologia aggressiva come questa crea angoscia e preoccupazione nelle persone che ne sono colpite e comporta per la famiglia e il caregiver un impatto molto importante - sottolinea Sergio Amadori, Ordinario di Ematologia e consigliere nazionale Ail –. Oggi lo scenario nazionale della presa in carico è di buona qualità (la sopravvivenza in Italia per molti tipi di cancro è superiore alla media europea). Il paziente nel momento in cui comincia ad avere dei sintomi che fanno sospettare una malattia del sangue viene inviato in un centro di ematologia che si preoccupa di affrontare il percorso diagnostico e terapeutico fino alla possibile guarigione o follow-up. Questo però è solo un aspetto della gestione di questi pazienti complessi, in cui il ruolo dei familiari, del caregiver, dei volontari e dei servizi territoriali diventa altrettanto importante. Naturalmente esistono alcune criticità. Non sempre, ad esempio, le strutture sono perfettamente organizzate per poter seguire l’intero percorso di cura del paziente. E questo è un punto fondamentale perché la diagnosi deve essere fatta in tempi il più rapidi possibile».Per il progetto «Leucemia Mieloide Acuta. Un viaggio da fare insieme» (realizzato con il supporto non condizionante di AbbVie), pazienti, caregiver, ematologi e volontari Ail hanno risposto a questionario online validato da un board scientifico composto da ematologi per mettere a fuoco il percorso malato e la sua qualità di vita, la gestione della patologia da parte dei clinici, i bisogni e le richieste di tutte le figure coinvolte.

Come inizia: i sintomi 

I sintomi di molti tumori del sangue sono per lo più vaghi, poco specifici e comuni a tanti disturbi, anche poco gravi: ad esempio, febbre o febbriciattola (in particolare pomeridiana o notturna), un senso di debolezza che perdura, dolori alle ossa o alle articolazioni che non regrediscono. Così, un paziente su quattro dichiara di non essersi rivolto immediatamente al medico per la difficoltà di cogliere la gravità della situazione anche a causa di sintomi che sembrano inizialmente sopportabili. Quasi il 60% si rivolge in prima battuta al medico di famiglia prima di essere indirizzato dall’ematologo. In ogni caso, entro due settimane dalla comparsa dei sintomi, l’80% dei pazienti viene preso in carico. Nella grande maggioranza dei casi (88%) l’ematologo comunica personalmente al paziente la diagnosi e ritiene molto importante il supporto che da Ail può arrivare ai malati.  «I risultati di questa indagine ci confortano nella scelta di collaborare con gli ematologi, con i medici di medicina generale e con quanti operano sul territorio - dice Giuseppe Toro, presidente nazionale Ail –. E proseguiremo con le nostre campagne di raccolta fondi per dare sostegno alla ricerca scientifica e garantire ai nostri pazienti terapie sempre più innovative ed efficaci che possano migliorare sempre di più la loro qualità di vita».

I diversi sottotipi

Il numero delle diagnosi di tumore al sangue è destinato ad aumentare insieme all’invecchiamento generale della popolazione, ma crescono anche le percentuali di guarigioni e di persone che convivono a lungo (anche diversi anni) con la neoplasia. Certo molto dipende dal tipo malattia ematologica in questione: ne esistono decine di sottotipi diversi appartenenti a tre grandi macro-gruppi: leucemie, linfomi e mielomi, che possono manifestarsi in forma acuta (più grave e aggressiva) o cronica. «Sotto il nome di leucemia mieloide acuta si riconoscono molte malattie che negli anni abbiamo imparato ad identificare grazie alla genetica e alla biologia molecolare – spiega Alessandro Rambaldi, professore di Ematologia, Dipartimento di Oncologia e Ematologia, Università di Milano e Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Papa Giovanni XXIII di Bergamo –: per questa ragione i pazienti sono riferiti a centri o a reti organizzative che garantiscano a ciascun paziente il più profondo e completo inquadramento biologico della loro malattia. Non ci si può prendere cura di pazienti ematologici se non si hanno a disposizione i laboratori per caratterizzare queste malattie. Capire quale forma abbiamo di fronte è cruciale anche per la scelta del trattamento. A una prima valutazione dei dati clinici ed ematologici deve seguire una prima valutazione della funzione del suo midollo osseo. Questa è una diagnosi d’emergenza. Subito dopo, partono tutta una serie di indagini per la caratterizzazione immunologica e citogenetica e molecolare che possono prevedere l’evoluzione, quantificare le cellule leucemiche e scegliere la terapia più adatta». 

Le nuove terapie 

Nonostante i notevoli progressi conseguiti negli ultimi anni, i trattamenti disponibili per la cura della leucemia mieloide acuta sono ancora limitati. Dal punto di vista degli ematologi il principale bisogno (78% delle risposte) è legato proprio alla disponibilità di farmaci innovativi. «Le terapie introdotte in questi ultimi anni sono farmaci che colpiscono specifici target cellulari – dice Alessandro Maria Vannucchi, direttore dell'Ematologia dell’azienda ospedaliera Careggi e della Scuola di Specializzazione in Ematologia dell’Università di Firenze –: questo differenzia le nuove molecole dagli schemi chemioterapeutici che sono stati utilizzati finora, che peraltro continuano a rappresentare lo scheletro sostanziale del trattamento di questa neoplasia. Alcuni di questi farmaci possono essere utilizzati in associazione alla terapia convenzionale, altri possono essere utilizzati in particolari gruppi di pazienti, per esempio nei cosiddetti “unfit” cioè nei soggetti che non hanno le caratteristiche per poter tollerare una chemioterapia convenzionale; altri ancora per pazienti che hanno perso la risposta al primo trattamento o per mantenere una risposta dopo il trapianto di cellule staminali. Questa serie di nuove molecole sta modificando il panorama terapeutico attuale della neoplasia, assicurando significativi miglioramenti in termini di sopravvivenza o di assenza di recidiva della malattia, ma nessuno di questi può da solo portare a guarigione». 

Perché serve un team composto da più esperti

Dal sondaggio emerge che nella maggioranza dei casi (80%) i pazienti italiani sono seguiti da un team multidisciplinare: ematologo, infermiere, psicologo e nutrizionista sono le figure oggi più attive sul paziente. Circa il 70% di pazienti, caregiver e volontari giudicano il team multidisciplinare come un elemento estremamente importante, ma viene auspicato anche l’inserimento dell’infettivologo e del palliativista, per un’assistenza il più completa possibile. «La presenza di diversi specialisti è importante perché si tratta di un malato complesso che nel decorso della malattia può presentare diverse complicanze ed ha esigenze molto peculiari a cominciare dalla nutrizione e dal supporto psicologico – sottolinea Fabio Efficace, responsabile Studi Qualità di Vita alla Fondazione GIMEMA – . Serve agire in completa sinergia e con un coordinamento ben organizzato: dati di letteratura confermano come il team multidisciplinare abbia ripercussioni positive addirittura sulla sopravvivenza e sulla migliore qualità di vita del paziente. La comunicazione è anche un aspetto cruciale così come la rapidità con cui vengono condivisi i dati di laboratorio, le condizioni cliniche del paziente e su come accetta e affronta la malattia». 

Come migliorare la qualità di vita

Pazienti, caregiver, ematologi e volontari ritengono comunque che il livello di qualità di vita dei pazienti con leucemia mieloide acuta risulti non elevato. La gestione dell’aspetto emotivo-psicologico è ciò che secondo ematologi, pazienti e volontari impatta maggiormente sul benessere dei pazienti. Anche il caregiver ne paga chiaramente le conseguenze, in particolare per l’impegno di cui il malato necessita e per il carico emotivo che deve affrontare.  Come migliorare? Secondo gli interpellati la proposta più apprezzata riguarda servizi di assistenza domiciliare che siano in grado di dare continuità alla gestione ospedaliera del paziente, ai quali va sicuramente affiancato un supporto psicologico per aiutare malati e familiari nella gestione quotidiana della patologia e del suo impatto sulla vita delle persone interessate.

Mihajlovic: la malattia è tornata, nuovo ricovero. L’annuncio in conferenza stampa: «Mi devo fermare, ho bisogno di cure». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

Il tecnico del Bologna annuncia un nuovo ricovero al Sant’Orsola per il ritorno della leucemia: «Stavolta non piango, perché conosco il percorso e gioco d’anticipo. Salterò qualche partita. Questa malattia è molto coraggiosa per aver voglia di affrontarmi ancora. Se non gli è bastata una lezione, gliene darò un’altra». 

Sinisa Mihajlovic ha annunciato in conferenza stampa sabato 26 marzo che la prossima settimana si dovrà assentare per intraprendere un nuovo percorso di cure che possa stoppare la malattia. «Devo iniziare un percorso terapeutico per evitare complicanze — ha spiegato il tecnico del Bologna —. Stavolta però non entrerò in scivolata come due anni fa, ma giocherò d’anticipo. Spero che i tempi saranno veloci, ma dovrò assentarmi alcune partite. Questa malattia è molto coraggiosa per aver voglia di affrontarmi ancora. Se non gli è bastata una lezione, io sono qui pronto a dargliene una seconda». 

LA CONFESSIONE

Mihajlovic e la leucemia: «Ho pianto e ho urlato, non ho mai perso la voglia di vivere»

Mihajlovic ha spiegato che, a differenza della prima volta nel 2019 quando annunciò di avere la leucemia, questo non è più il tempo delle lacrime: «Questa volta mi vedete più sereno perché so cosa devo fare e la situazione è molto diversa», ha detto, per poi aggiungere: «Si può cadere, ma bisogna trovare la forza per rialzarsi. All’inizio della settimana prossima sarò ricoverato in ospedale e so di essere in ottime mani. Seguirò la squadra dalla mia camera d’ospedale. Questo inizio di 2022 non è stato fortunato per la squadra, ma sono certo che i ragazzi non mi deluderanno. Io lotterò sempre insieme a loro e loro lotteranno per me. Non molleremo di un centimetro, risaliremo in classifica e tornerò qui. Voglio ringraziare il presidente e la città». Il tecnico ha concluso con una richiesta: « Rispettate il mio diritto alla privacy per il tempo che sarà necessario. Parlate di me come allenatore, ma lasciate l’uomo alle sue esigenze. Ci vediamo presto e forza Bologna».

Il 53enne tecnico serbo è arrivato al Bologna (dove aveva esordito come allenatore nel 2008) il 28 gennaio 2019 in sostituzione dell’esonerato Filippo Inzaghi, ma il 13 luglio dello stesso anno aveva annunciato di avere contratto una forma acuta di leucemia e di volersi sottoporre subito alle cure che gli avrebbero impedito di svolgere regolarmente il ruolo di allenatore. Il Bologna ha subito chiarito di volerlo aspettare per tutto il tempo necessario e il 25 agosto, mentre era ancora in cura presso l’ospedale Sant’Orsola di Bologna e dopo 44 giorni di ricovero, Mihajlovic era tornato a sorpresa a sedersi in panchina nella prima partita di campionato a Verona. Il 25 ottobre 2021 si era poi sottoposto a trapianto del midollo (donatore un giovane statunitense di 22 anni). Dimesso il 22 novembre 2019 dall’Istituto di Ematologia Seragnoli, sulla vita di Mihajlovic e della sua famiglia era tornata la serenità. «Se non ci fosse stata lei accanto a me non ce l’avrei fatta», raccontò il serbo parlando della moglie, Arianna Rapaccioni. Da allora una graduale e costante ripresa, che lo ha portato a raccontare più volte la sua esperienza trasmettendo parole di speranza anche quando nell’estate 2020 era risultato positivo al Covid durante una vacanza in Sardegna con la famiglia.

In tre stagioni col Bologna Mihajlovic ha conquistato un decimo e due dodicesimi posti, posizione che la squadra ricopre anche in questa sua quarta stagione in rossoblù. Iniziato molto bene, il campionato del Bologna ha subito a inizio anno una fase critica che ha provocato alcuni dissapori tra Mihajlovic e il presidente Joey Saputo, deluso per gli ultimi risultati e dubbioso sulla prosecuzione del rapporto. Il tecnico, che ha un contratto fino al 2023, ha sempre risposto che «l’obiettivo del Bologna non è la Champions, siamo nella posizione che ci compete».

Torna l'incubo leucemia. Ma Mihajlovic: "Le darò un'altra lezione". Marco Gentile il 26 Marzo 2022 su Il Giornale.

Sinisa Mihajlovic ha convocato una conferenza stampa a sorpresa per parlare delle sue condizioni di salute: "Dovrò assentarmi per qualche partita ma questa volta so cosa devo fare".

Sinisa Mihajlovic dovrà combattere ancora contro la leucemia. E' stato lo stesso allenatore del Bologna, con una conferenza stampa a sorpresa, ad informare sul suo stato di salute:"Dalle ultime analisi sono emersi dei campanelli d'allarme e la malattia potrebbe ritornare". La malattia fu diagnosticata a Sinisa due anni e mezzo fa e ora il tecnico dei felsinei ha spiegato che dovrà iniziare un nuovo percorso terapeutico. "Devo iniziare un percorso terapeutico per evitare complicanze ed eliminare sul nascere questa ipotesi negativa. All'inizio della settimana prossima sarò ricoverato in ospedale al Sant’Orsola nel 'programma dipartimentale terapie cellulari avanzate' diretto dalla dottoressa Francesca Bonifazi che mi ha già seguito nella fase precedente del mio percorso terapeutico. So di essere in buone mani".

Assente giustificato

Mihajlovic non sarà presente in panchina prossimamente ed è stato lui stesso ad annunciarlo ai giornalisti presenti: "Dovrò assentarmi per qualche partita. Questa volta mi vedete più sereno perché so cosa devo fare e la situazione è molto diversa. Spero che i tempi saranno veloci, ma dovrò assentarmi alcune partite. Seguirò la squadra dalla mia camera d'ospedale". La prima volta fu una botta per Sinisa che visibilmente commosso e provato per la notizia scoppiò in lacrime. Questa volta il serbo ha semplicemente voluto leggere una lettera in conferenza stampa: "Non entrerò in scivolata come due anni fa, ma giocherò d'anticipo contro questo male. Questa malattia è molto coraggiosa per aver voglia di affrontare ancora uno con me. Se non gli è bastata una lezione, io sono qui pronto a dargliene una seconda. Si può cadere, ma bisogna trovare la forza per rialzarsi".

In panchina per la salvezza

Mihajlovic conta di tornare presto a guidare il suo Bologna che ha 11 punti di margine sulla zona retrocessione ma che non sta facendo benissimo in questo 2022: "Questo inizio di 2022 non è stato fortunato per la squadra, ma sono certo che i ragazzi non mi deluderanno. Io lotterò sempre insieme a loro e loro lotteranno per me. Non molleremo di un cm, risaliremo in classifica e tornerò qui. Voglio ringraziare il presidente e la città, vi chiedo di rispettare il mio diritto alla privacy durante la terapia. Parlate dell'allenatore, ma non dell'uomo. Sempre forza Bologna", le sue parole prima di congedarsi per intraprendere una lunga e si spera vittoriosa battaglia.

Da tgcom24.mediaset.it il 25 febbraio 2022.

C'è la guerra che rimbalza sui social e nelle tv e poi c'è quella che resta ferma nella memoria ed è una ferita che fa sempre male. Sinisa Mihajlovic la guerra la conosce, l'ha vissuta nell'ex Jugoslavia e non l'ha mai dimenticata: "Ho letto una frase - dice il tecnico del Bologna alla vigilia della sfida contro la Salernitana -, che la guerra la fanno i ricchi ma sono i poveri a morire. Ricordo al mio Paese, vincemmo la Coppa dei Campioni e c’era la guerra. Quando vincemmo con la Lazio lo scudetto bombardavano. Io speravo sempre che i miei allenamenti durassero una giornata intera per non pensare alla guerra, perché tornavi a casa e vedevi, ascoltavi, guardavi alla televisione ciò che succedeva. Mi ricordo quando sentivo decollare gli aerei ad Aviano chiamavo mia madre per dire: 'Guarda, fra dieci minuti bombardano mettetevi sotto, in cantina'. Io spero solo che, da prima, la notizia della guerra non diventi presto la seconda, la terza o la quarta e dopo un mese non se ne parli più. Tutti dobbiamo dare un contributo". 

E ancora: "La guerra? Io so cosa significa", dice prima di andarsene commosso. Poi c'è il campo, una vittoria da conquistare a Salerno e una partita che ha tutta l'aria di non essere affatto semplice: "Prima di battere lo Spezia ho detto che voglio sempre vedere il lato positivo: ora che abbiamo vinto siamo a meno due dal nostro obiettivo stagionale ma domani c'è Salerno, che non è solo una città stupenda, è una squadra con una tifoseria eccezionale. 

Alla Salernitana Sabatini (al quale mi lega una grande amicizia, è una bellissima persona) ha fatto un grande lavoro in poco tempo e spero che si salvino vincendo tutte le gare tranne quella contro di noi. La Salernitana si gioca la vita, so come ci si sente in quei momenti: noi dobbiamo isolarci e concentrarci su noi stessi, sapendo che siamo più forti di loro ma non basta.  

E non dovremo sbagliare quello che io chiamo l’AIC: atteggiamento, intensità e concentrazione. Noi sappiamo qual è il nostro obiettivo, ovvero la classifica di sinistra, e sono fiducioso di poterlo raggiungere". 

Il cuore grande di Roma si stringe attorno alla famiglia Mihajlovic. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Dicembre 2022.

È un saluto pieno di commozione quello che in tantissimi stanno riservando a Sinisa Mihajlovic, nella Sala Protomoteca del Campidoglio, questa mattina aperta al pubblico per l’ultimo addio all’ex calciatore ed allenatore. Centinaia di persone, dalle prime luci del mattino, si sono messe in fila per entrare nella camera ardente adornata da corone di fiori

Un fiume infinito di persone ha voluto rendere omaggio da questa mattina a Sinisa Mihajlovic. Un uomo, uno sportivo, un calciatore venuto da lontano che la Capitale su entrambe le spoglie ha accolto, conosciuto e rispettato. Un amore con Roma mai nascosto dal calciatore serbo deceduto venerdì a 53 anni dopo una grave malattia. Nella camera ardente allestita questa mattina in Campidoglio c’è la moglie Arianna Rapaccioni circondata dai cinque figli, Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas, a cui nel 2005 si è aggiunto anche Marko, nato nel 1993 da una precedente relazione del calciatore, Viktoria la mamma di Sinisa ed il fratello Drazen. 

La bara è quasi sommersa dai fiori bianchi, ai lati la famiglia non smette di fissarlo, mentre sfila il pubblico: sono arrivati i tifosi. I suoi tifosi. Tantissimi laziali, romanisti, ma anche bolognesi, interisti, fiorentini.  C’è chi  lascia un ricordo accanto alla bara: una sciarpa, uno stendardo, un oggetto del cuore. Perché Sinisa era nel cuore di tanti.  Mihajlovic ha lasciato un segno nella sua carriera da calciatore prima e da allenatore dopo. Amore e rispetto. E’ una giornata da brividi e di grandi emozioni umane.

È un saluto pieno di commozione quello che in tantissimi stanno riservando a Sinisa Mihajlovic, nella Sala Protomoteca del Campidoglio, questa mattina aperta al pubblico per l’ultimo addio all’ex calciatore ed allenatore. Centinaia di persone, dalle prime luci del mattino, si sono messe in fila per entrare nella camera ardente adornata da corone di fiori inviate dalla FIFA e dai suoi ex club come Roma e Lazio.  Sul feretro sono state deposte anche le sciarpe di Torino e Bologna. Presenti molti tifosi del Milan.

Claudio Lotito abbraccia Arianna Mihajlovic

A rendergli onore c’è una corona della Fifa e una da inviata dal presidente Infantino, il gonfalone della Lazio. Presente anche il presidente Claudio Lotito che ha consegnato ai figli le maglie della Lazio con scritto Mihajlovic. “Il ricordo che ho è di un grande amico, di un grande uomo e di un grande padre – ha detto in lacrime il presidente della Lazio all’uscita dal Campidoglio – Deve rappresentare l’esempio non solo del calciatore ma dell’uomo. Ha avuto il coraggio di portare avanti una malattia che è stata devastante. Per noi è un esempio di dignità e di forza. Non ha mai fatto trapelare nulla, ha sempre avuto il sorriso. Questo dimostra che è un grande uomo” e anticipa che la Lazio farà in nome di Sinisa: “Qualcosa faremo in suo nome. Purtroppo era ammalato ma è peggiorato tutto insieme, penseremo a iniziative per celebrare il suo nome proprio come testimonial della Lazio e del nostro mondo“.

Il presidente del Senato Ignazio La Russa saluta Arianna la vedova Mihajlovic

Anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa si è messo in fila per omaggiare il campione serbo. Il segno della croce davanti alla bara poi il saluto alla moglie Arianna e ai figli. “Mihajlovic è stato un eroe non solo in campo ma anche nella vita, lo ha dimostrato fino all’ultimo“. Queste le parole del presidente del Senato ai microfoni di Rainews24, uscendo dalla camera ardente in Campidoglio . “L’ho apprezzato come allenatore ma anche come tirava calci alla vita. Mi piace ricordare che non solo ha finito con l’Inter ma è stato allenatore vincente anche con il Catania, due squadre a cui sono legato. Alla fine siamo tutti vicini a lui come uomo e alla famiglia”.

Nella Sala della Protomoteca è arrivato, a rendere omaggio a Sinisa, anche Andrea Della Valle, ex presidente della Fiorentina. L’imprenditore marchigiano ha abbracciato Arianna Mihajlovic, alla cui famiglia è legato da profonda amicizia. 

Con gli occhi bassi e velati dalle lacrime è arrivato anche Luciano Spalletti, attuale allenatore del Napoli . Il segno della croce e poi l’abbraccio alla famiglia con cui si è seduto in preghiera e religioso silenzio. Il suo viso parlava manifestando il dolore per aver perso un vero amico. “Il mio ricordo legato a Sinisa è quando ci siamo visti a Bologna l’ultima volta. Mi disse frasi carine sul Napoli, aveva a cuore la nostra situazione, gli piaceva come squadra e come città. Ci siamo sentiti spesso negli ultimi tempi, quando allenava il Bologna e aveva bisogno di un collaboratore mi aveva chiesto informazioni su uno che io conoscevo: abbiamo approfondito lì la nostra stima e la nostra amicizia”. ha detto Spalletti aggiungendo “Mihajlovic era uno che ti faceva subito capire chi avevi di fronte, non aveva il timore di doversi nascondere per poi fregarti o aggirarti. Era molto diretto, suscitava subito questo senso di persona vera”.

Giorgia Meloni fa le condoglianze alla vedova di Mihajlovic

Anche il premier Giorgia Meloni, ha reso omaggio alla camera ardente al Campidoglio, dichiarando: “Il significato che lascia nel mondo, non solo quello del calcio, una figura come quella di Sinisa Mihajlovic è il coraggio. Il coraggio porta con sé un insegnamento che Mihajlovic sapeva dare ed è la ragione per la quale era rispettato dalle persone che tifavano per le sue squadre e da quelle che tifavano contro le sue squadre. La vita – ha aggiunto Meloni parlando con i giornalisti – è una battaglia, devi saperla combattere. Lui l’ha fatto con onore, nel rispetto delle regole, nella sua vita calcistica, nella sua vita da uomo e nella sua lotta contro la malattia, fino all’ultimo. E questo vale la pena di sottolinearlo, perché è un grande insegnamento, al di là del ruolo che aveva nella società. Puoi essere un allenatore, un calciatore, qualsiasi cosa. Il punto è che quando hai un’influenza sugli altri il modo in cui conduci la tua vita lo trasferisci agli altri e lui questo lo sapeva fare. È il motivo per cui vale la pena di ringraziarlo“.

Alla camera ardente sono arrivati anche Bruno Giordano – visibilmente commosso – e la moglie che ha parlato a lungo con Arianna Mihajlovic. Presente anche il ds della Fiorentina Daniele Pradè che ha ricordato Mihajlovic: “È stato un campione nella vita. Tutto l’amore che adesso è intorno a questa famiglia è la dimostrazione di quello che ha fatto nella vita. Tutto questo amore servirà ad accompagnarli e a lenire la sofferenza. Un abbraccio fortissimo a loro, sono persone stupende“. Presente anche Pantaleo Corvino (ex ds dei viola ed attualmente al Lecce Calcio).

Alla chiusura della camera ardente, stanotte il feretro resterà in Campidoglio. Domani mattina verrà trasportato alla Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Redazione CdG 1947

IL FOGGIA.

Zdenek Zeman si confessa: «Ho odiato i comunisti, tifo Juve da sempre». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2022.

Racconta Zdenek Zeman, nell’autobiografia scritta con Andrea Di Caro, La bellezza non ha prezzo: «Ho visto tutto. Ho fatto tanti ritiri in hotel a 5 stelle e altrettanti in alberghi Miramare dove la padrona era anche la cuoca. Sono stato assunto da presidenti in doppiopetto e da poveri diavoli di periferia con cravatte improbabili. Ho allenato campioni che guadagnavano miliardi e giovani a cui dovevo prestare i soldi per la benzina...».

Che nome è Zdenek?

«Sidonius, in latino. Viene dalla radice zidati, che significa creare, costruire. Un nome, un destino. Ho sempre cercato di creare gioco e felicità. Bellezza, appunto».

Da martedì in libreria per Rizzoli «La bellezza non ha prezzo», l’autobiografia di Zdenek Zeman scritta con Andrea Di Caro, vicedirettore della «Gazzetta dello sport»Lei è nato a Praga nel 1947, due anni dopo l’arrivo dell’Armata Rossa. Come ricorda la Cecoslovacchia comunista? «Odiavo i comunisti. Come li odiava mio padre, medico. Al piano di sopra abitava il capo del partito di Praga 14, il nostro distretto. Papà talvolta urlava dalla finestra del bagno la sua rabbia contro il regime. Ogni tanto qualcuno spariva».

Chi spariva? «A un altro piano viveva un campione mondiale di hockey su ghiaccio. In una trasferta all’estero aveva pensato alla fuga; fu scoperto e arrestato. Lo rivedemmo dopo cinque anni».

Com’era la vostra casa? «Vivevamo in due stanze. Papà e mamma dormivano in tinello, mia sorella Jarmila e io in cucina. Ma non ci sentivamo poveri, anzi; rispetto agli altri eravamo ricchi».

Infanzia dura. «Ci costringevano a festeggiare il compleanno di Stalin e di Lenin, ma io non ho mai portato un fazzoletto rosso. In compenso avevo una mazza da hockey e quattro palloni, anche se ogni tanto gli zingari me ne rubavano uno. Facevamo il catechismo di nascosto. Eravamo una famiglia molto cattolica».

Lei lo è ancora? «Non sono più praticante. Ma quando morì il mio Papa, Giovanni Paolo II, mi misi in fila a San Pietro per andare a salutarlo. Volevano farmi passare avanti; rifiutai. La notte in coda fu bellissima».

Roma è la sua città d’adozione. «Vivo qui da 25 anni, ho allenato entrambe le squadre, e sia i laziali sia i romanisti mi vogliono ancora bene».

Come trova la capitale? «È una splendida città antica, e una metropoli moderna piena di problemi che nessuno affronta».

Perché? «Perché gli italiani rimandano sempre tutto a domani».

Lei per quale squadra tifa? «Sono sempre stato juventino. Da piccolo andavo a dormire con la maglia bianconera».

Zeman juventino? Ma se avete avuto polemiche durissime. «Con la Juve di Moggi, Giraudo e Bettega. Ma la Juventus non comincia e non finisce con loro. Era la squadra di mio zio Cestmir Vycpálek: il più grande talento del calcio cecoslovacco prima di Pavel Nedved, che portai in Italia. La differenza è che Nedved, lavoratore maniacale, voleva allenarsi pure il giorno di Natale; mio zio invece amava le gioie della vita. Era stato a Dachau, e il lager l’aveva segnato. Ma mi dicono fosse birichino anche prima».

Lei arrivò in Italia per la prima volta nel 1966, in Sicilia, proprio per far visita a suo zio. «Pensavo di non poter vivere lontano da Praga; non avevo ancora visto il mare di Mondello. Presi l’abitudine di passare l’estate a Palermo. Anche quella del 1968, quando a Praga arrivarono i carri armati sovietici».

E lei tornò in patria. «A inizio novembre. Volevo finire l’università. Il 16 gennaio del 1969 si diede fuoco Jan Palach. Il 30 giugno ripartii per l’Italia; il giorno dopo i comunisti chiusero le frontiere. Non vidi i miei genitori e mia sorella per vent’anni».

Suo zio Cestmir divenne allenatore della Juve. «E vinse due scudetti consecutivi, nel 1972 e nel 1973. Ero a San Siro quando il giovane Bettega segnò il gol di tacco al Milan. Esultai. C’erano Haller, Causio, Capello. Ricordo i derby: sulla panchina del Toro sedeva Giagnoni col colbacco...».

Il 1972 è anche l’anno del disastro aereo di Punta Raisi. «In cui morì mio cugino, il figlio di mio zio: Cestmir junior, detto Cestino. Un dolore terribile. Era il 5 maggio. Lo zio se n’è andato lo stesso giorno, trent’anni dopo, mentre la sua Juve vinceva uno scudetto insperato: 5 maggio 2002, il crollo dell’Inter all’Olimpico».

In Sicilia lei trovò la donna della sua vita. «Vidi Chiara e capii subito di essere innamorato. Siamo insieme ancora adesso».

E cominciò ad allenare il Bacigalupo. Presidente, Marcello Dell’Utri. «Andai a casa sua. Ricordo l’ascensore privato. Era già un uomo ricco».

Capiva di calcio? «Come Berlusconi: capiva il suo calcio, non quello dei suoi allenatori».

Poi lei passò alle giovanili del Palermo. «I campi erano in terra battuta: a ogni scivolata perdevi sangue, ora sono diventati campi nomadi. I tesserati erano due. Misi un annuncio sul giornale: cercasi calciatori. Si presentarono a decine. Presi tutti quelli che sapessero fare tre palleggi di fila».

E cominciò ad applicare la sua filosofia. «Gradoni, sacchi di sabbia, corse ripetute. In un torneo al Nord incontrammo Juve, Toro e Milan, dove giocava Paolo Maldini, e le battemmo tutte. Andavamo al doppio della loro velocità. Tuttosport scrisse: questo Palermo è una piccola Olanda».

Nel 1978 frequentò il supercorso di Coverciano, con Arrigo Sacchi. «C’erano anche Agroppi e Mondonico. Uno psicologo ci fece il test dell’ansia: trenta domande cui rispondere con la massima sincerità. Il più ansioso era Agroppi con il 90%, poi Mondonico con l’80. Pure Sacchi non scherzava».

E il suo livello di ansia? «Zero».

Dopo le giovanili del Palermo, il Licata. «Una Nazionale siciliana, tra loro parlavano tutti in dialetto. C’era pure Maurizio Schillaci, il cugino di Totò. Aveva più talento, ma gli mancava la testa: un bravo ragazzo dalle pessime frequentazioni. Quando mi rubavano l’autoradio mi rivolgevo a lui. Il giorno dopo me la riportavano».

Lei allenò Totò Schillaci al Messina, in serie B. «Aveva un senso pazzesco del gol: ne fece 23, anche se quasi tutti in casa».

Gianni Brera la definì «tetro ginnasiarca, carceriere dello Spielberg». «Pesavo i giocatori ogni mattina. Più si allenavano, più la partita diventava un divertimento. A fine stagione le altre squadre erano stanche; le mie correvano più di prima».

A Foggia inventarono la parola Zemanlandia. «Erano appena stati promossi in B. Il primo anno arrivammo ottavi, il secondo vincemmo il campionato. Signori-Baiano-Rambaudi fecero 48 gol».

Era il 1990. Il 9 novembre dell’anno prima era crollato il Muro. «Il presidente del Foggia, Casillo, mi caricò sul suo aereo privato e mi portò a Praga. Rividi mio padre, mia madre, mia sorella, e mi pareva di averli lasciati il giorno prima. Tutte le mie cose erano lì dove le avevo lasciate: i palloni, la mazza da hockey. Mi sono sentito felice».

Casillo poi finì in carcere. «E io andai all’uscita ad aspettarlo. Sapevo che era innocente. L’hanno riconosciuto dopo tredici anni».

Che tipo era? «Un generoso. Avevamo un terzino sinistro velocissimo, Codispoti, che al momento del cross combinava di tutto, con i piedi che aveva. Allora Casillo gli mise centomila lire nella scarpa: se non sbagliava poteva tenersele».

Come fu l’esordio in serie A? «Pareggiammo 1 a 1 a San Siro con l’Inter. Dissi a Matrecano, che avevo preso dalla Turris, C2, per 25 milioni di lire: “Tu marchi Klinsmann”. Klinsmann non toccò palla. Quando tornammo a San Siro con il Milan, dissi a Matrecano: “Tu marchi Van Basten”. Van Basten fece tre gol».

Al ritorno a Foggia ne prendeste 8. «Alla fine del primo tempo vincevamo 2 a 1. Ma i miei ormai erano ceduti ad altre squadre, pensavano solo a segnare. Si ritrovarono tutti nella metà campo del Milan, che li infilò in contropiede. Comunque chiudemmo noni, con il secondo miglior attacco della serie A. E Matrecano passò al Parma per sei miliardi».

Al Nord lei non ha quasi mai allenato. «Al Centro-Sud si mangia calcio. Una volta Boksic mi disse: a Torino vinci lo scudetto e dopo un’ora non frega niente a nessuno; a Roma avremmo festeggiato mesi».

Nella capitale lei arrivò nel 1994, ad allenare la Lazio. «Firmai nella sede della Banca di Roma, e trovai la cosa molto strana. C’era pure Geronzi, il banchiere, e mi chiese quale allenatore avrebbe dovuto prendere la Roma. Lui pensava a Trapattoni».

Lei cosa rispose? «Che ero appena diventato il tecnico della Lazio, e non potevo dare consigli ai rivali».

Ma nel 1997 ad allenare la Roma andò lei. «La Lazio mi aveva esonerato. Suona il telefono: “Sono il presidente Sensi”. Buttai giù: “E io sono Napoleone”. Era Sensi per davvero».

Lei denunciò l’abuso di farmaci nel calcio. La Juve finì sotto processo. «Ma solo perché a Torino c’era un magistrato coraggioso, Guariniello. Io ho puntato il dito contro il sistema, non solo contro la Juve, che aveva molti seguaci. E il problema non erano solo i farmaci. Erano anche i passaporti falsi. Era anche il condizionamento degli arbitraggi. Era anche lo strapotere della finanza».

A cosa si riferisce? «Al Nord c’era l’alleanza tra Juve e Milan; l’Inter ne era esclusa, e cercava di entrare nel sistema pure lei. Altre squadre, dal Parma alla Lazio al Perugia, erano in mano alla Banca di Roma: Tanzi e Cragnotti ne uscirono rovinati, come pure Gaucci. Che fece in tempo a caricare il suo Perugia a pallettoni, per far perdere lo scudetto del 2000 alla Juve, sotto il nubifragio».

In primo grado il medico dei bianconeri, Agricola, fu condannato, ma in appello fu assolto. «Non perché il fatto non sussistesse, ma perché “non era previsto dalla legge come reato”. Saltò il presidente del Coni, cominciarono controlli anti-doping seri. E i risultati si videro subito».

Cosa accadde? «Scoppiò lo scandalo del nandrolone. Giocatori trovati positivi inventarono scuse puerili. Couto del Parma, che era un capellone, diede la colpa a uno shampoo. Un altro, che era stempiato, a una lozione contro la caduta. Bucchi e Monaco del Perugia alla carne di cinghiale. Ci finirono dentro pure Davids e Guardiola. E io pagai un prezzo altissimo».

Vale a dire? «Il campionato 1998-1999 fu un calvario di torti arbitrali, che costarono alla mia Roma almeno 21 punti. A Udine ci inventarono un rigore contro. Avevamo un attaccante, Fabio Junior, immeritatamente detto l’Uragano blu, che non segnava mai; quando finalmente fece un gol, glielo annullarono, non si è mai capito perché. Episodi assurdi. I calciatori videro che i loro sforzi erano inutili, e qualcuno mollò. La quartultima giornata perdemmo 4 a 5 con l’Inter all’Olimpico. Si disse che l’Inter avesse contattato tre dei miei in vista dell’anno successivo. Ebbi l’impressione che alcuni fossero distratti, c’erano difensori che facevano i centravanti... Così con Sensi decidemmo di fare nuovi acquisti».

Invece Sensi la mandò via. «Il sistema lo convinse che con me in panchina non avrebbe mai vinto nulla».

Arrivò Capello, e nel 2001 vinse lo scudetto. «Ma con spese folli, tipo i 70 miliardi per Batistuta trentunenne, che costarono a Sensi il tracollo finanziario. E Capello non partecipò alla festa al Circo Massimo, che io non mi sarei perso per niente al mondo. Invece mi ritrovai senza contratto; del resto avevo sempre voluto accordi annuali. Mi avevano cercato il Real Madrid, il Barcellona, l’Inter. E avevo detto no a tutti».

Così si ritrovò a Napoli, poi a Lecce, di nuovo a Foggia, quindi a Pescara. Dove si imbatté in tre giovanissimi destinati a una grande carriera. «Immobile aveva fame. Insigne aveva talento. Verratti aveva bisogno di trovare la posizione giusta. Faceva il trequartista o la mezzala; lo impostai da regista davanti alla difesa. Dove gioca ancora adesso, nel Psg e in Nazionale».

Chi è stato il giocatore più forte di tutti i tempi? «Pelé. Per come si comportava fuori dal campo. Chissà cosa avrebbe fatto Maradona, se non fosse caduto schiavo della droga e delle cattive frequentazioni».

E il giocatore più forte che ha mai avuto? «Totti. Pareva avesse quattro occhi, due davanti e due dietro. Gli ho visto fare cose che sorprendevano tutti, anche me dalla panchina. Un’intelligenza calcistica prodigiosa. L’ho allenato due volte, quando aveva ventun anni e quando ne aveva trentasei, al mio ritorno alla Roma. Mi ha sempre seguito. E non abbiamo ma litigato».

Gascoigne? «Non giocava quasi mai. Infortuni. E scherzetti. Avevo un fischietto antico cui ero affezionato; un giorno in allenamento non lo trovai più. Gascoigne l’aveva legato al collo di un tacchino».

E Tommasi, che ora fa il sindaco di Verona, com’era? «Bravo e serio. Non mollava mai, neppure quando lo fischiava tutto lo stadio».

Perché lo fischiava tutto lo stadio? «Perché sbagliava troppi passaggi. Poi però i palloni li recuperava».

D’Alema dichiarò: «Zeman? A volte dire la verità è colpa gravissima». «Era presidente del Consiglio, venne a trovarci a Trigoria. Non ha le mie idee politiche; ma l’importante era che fosse romanista».

Quali sono le sue idee politiche? «Sono amico di Alessandro Di Battista. Mi ha anche proposto un seggio al Senato; ma la politica non fa per me, e forse neanche per lui. Nel 2018 però ho votato Cinque Stelle».

Sempre antisistema. «Qualche sistema buono ci deve pur essere. Però ne ho conosciuti pochi».

Resta il fatto che lei non ha mai vinto nulla. «Ma ho regalato emozioni, lanciato talenti. Il calcio è un gioco, e io l’ho vissuto così. Ho sempre preferito vincere 5 a 4 che 1 a 0».

San Siro va abbattuto? «No. Meglio semmai abbattere l’Olimpico: la partita si vede male per colpa della pista d’atletica, che si usa una sera l’anno».

Ma potrebbe servire per l’Olimpiade. «L’Olimpiade è nella migliore delle ipotesi uno spreco, nella peggiore un’occasione per rubare. Come lo fu Italia ’90. Come temo saranno i Giochi invernali di Milano e Cortina».

Alla fine del libro lei parla dei suoi due figli. «Il primo, Karel, fa l’allenatore da 15 anni, anche se non ha ancora trovato la squadra giusta. Il secondo, Andrea, odiava il calcio, che gli portava via il papà. Ha avuto un brutto male al colon, ma è guarito. Ha lavorato alla Lega contro i tumori, ha fatto le campagne anti-fumo. Il figlio di Zeman contro le sigarette...».

Quanto fuma al giorno? «Partivo da tre pacchetti. Ho ridotto a uno e mezzo».

Guardi che ha fumato un pacchetto e mezzo in tre ore. «Ero un po’ teso per l’intervista...».

E Zeman finalmente sorride.

Da sport.sky.it il 2 dicembre 2022.

Zdenek Zeman ha presentato a Roma il suo libro 'La bellezza non ha prezzo' (scritto con Andrea Di Caro). Presenti all'evento tanti ex suoi giocatori, come Eusebio Di Francesco, Luigi Di Biagio, Giuseppe Favalli, ma anche Sinisa Mihajlovic e Sandro Donati. "Mi hanno chiesto per dieci anni di scrivere un’autobiografia, io pensavo che fosse meglio post mortem, ma alla fine ho accettato", esordisce scherzoso l'allenatore.

"Io amato anche dai tifosi dei club che non ho allenato? Penso che il motivo sia perché a loro piaceva quello che le mie squadre provavano a fare, magari senza riuscirci". Si parla della sua esperienza alla Lazio: "Potevamo fare di più, anche se avevamo pochi ricambi. All'epoca non contava niente arrivare terzi o quarti in campionato, invece ora si festeggia". Una battuta Zeman la riserva anche ad Arrigo Sacchi: "Mi piaceva la sua cultura del lavoro, che ora si è un po' smarrita. Posso dire che contro di lui non ho mai perso", ridacchia.

Zeman: "Il calcio italiano sta male"

Al termine della presentazione, Zeman ha rilasciato altre dichiarazioni al microfono di Sky Sport 24, commentando anche le dimissioni del Cda della Juventus: "La Juve finisce spesso sotto l’attenzione delle procure. La procura di Torino si è mossa per prima, ma non credo che solo la Juve abbia attuato queste pratiche, le altre procure dovrebbero svegliarsi. La FIGC dice che le plusvalenze si possono fare, questo è sbagliato. Più passa il tempo e più la finanza sarà protagonista. Il calcio italiano sta male tecnicamente e finanziariamente"

Mihajlovic: "Zeman ha lasciato il segno"

"Zeman non ha vinto nessun trofeo, ma ha vinto molto di più di chi ne ha vinti molti: ha fatto giocare bene le sue squadre, ha fatto crescere i giovani, divertire i tifosi e i giocatori", sottolinea Sinisa Mihajlovic, che ha sorpreso l'amico con una 'carrambata'. "Prima di lui in Italia si giocava per non perdere, con lui si è iniziato a giocare per vincere. Ha lasciato il segno". Mihajlovic prosegue nel racconto dei suoi ricordi: "Quando affrontavamo le squadre di Zeman, erano c... amari. Gli attaccanti si incrociavano di posizione, andavano da tutte le parti.

Non è vero che non allenava la difesa. Però devo dire che quando andai a vedere la sua Roma a Trigoria nel 2012, non vidi in cinque giorni un solo esercizio difensivo!". Arrivano altri complimenti: "A Foggia abbiamo appreso la cultura del calcio vero", dichiara Roberto Rambaudi, ex giocatore del Foggia dei miracoli. "Zdenek è unico, tanti lo vogliono imitare, ma nessuno ci riesce".

Zemanlandia: quel miracolo del boemo con il Foggia. Nella stagione 92/93 il patron Pasquale Casillo gli vende mezza squadra: lui resiste e se la cava pescando (benissimo) in serie C. Paolo Lazzari su Il Giornale l'8 Ottobre 2022. 

Se ne sta seduto su una poltrona di pelle scomoda, lo sguardo perennemente perplesso che indugia sul foglio abbandonato sulla scrivania. L’uomo accanto a lui tamburella impaziente con le falangi della mano destra sul mogano intonso: è Peppino Pavone, il ds del Foggia. Quello che invece è lì davanti, intento a tirare freghi sulla lunga lista di nomi presentati, è il patron Pasquale Casillo. L’anno è il 1992. Precisamente, estate. Quando scende i gradoni ripidi dello Zaccheria, Zdenek Zeman si sorprende a sbuffare. Anche per uno con la sua flemma è decisamente troppo.

Che è successo? Che tocca tornare a incidere il disco quasi da capo, ecco cosa. Le signore feudali del campionato, tiranne indefesse, sono arrivate e hanno piazzato i gomiti tra le scapole lucide di quel 4-3-3 passionale. Shalimov all’Inter, Signori alla Lazio, Baiano alla Fiorentina. Come minimo fanno trentacinque gol in meno. Ma il sanguinamento è un fiotto che non termina qui. Ci sono anche Rambaudi all’Atalanta, Matrecano al Parma, Onofrio Barone al Bari e Mauro Picasso alla Reggina. Si potrebbe continuare, ma si fa prima a cicatrizzare la situazione così: Zemanlandia è stata smantellata. In totale fanno 53 miliardi delle vecchie lire. Il saccheggio ha assunto dimensioni colossali. La piazza è avvilita, ma il boemo non lascia che lo sconforto prevalga. Insieme al fedele Pavone redige minuziosamente una lista di talenti low cost, indicando una preferenza specifica: dalla prima scelta alla terza.

Nastro che balza in avanti. Zeman è sul prato deturpato dello stadio. I pali delle porte sono stati divelti e al centro del campo campeggia una scritta inequivocabile: CASILLO VATTENE. Poco più accanto però c’è anche la carezza dei tifosi: SCUSA, ZEMAN. La delusione si è tramutata in insopprimibile rabbia quando hanno appreso del ridimensionamento in atto. Casillo, su quel foglio, ha cancellato tutte le prime scelte. Dentro le ultime opzioni, quasi sempre carneadi che sguazzano in serie C. Il boemo inspira avidamente la terza sigaretta della mattina, poi vacilla per un istante. Stando così le cose, potrebbe anche andarsene. La stampa lo incalza sul punto. Lui, con quei modi affettati e lo sguardo sdegnato, emette la sua sentenza: “Resto, non fuggo”, sibila ai microfoni.

Nel ritiro di Campo Tures si ritrova al cospetto di una combriccola di sconosciuti. Certo, qualcuno è rimasto a bordo dell’imbarcazione crivellata. C’è il portiere Mancini, uno che ci sa fare decisamente anche in fase di impostazione. C’è il talentuoso Dan Petrescu là dietro. E c’è Igor Kolyvanov, attaccante sovietico non ancora sbocciato perché il sole se lo sono bevuto tutto quei tre piccoletti l’anno prima. Per suturare le molteplici fessure che si sono aperte nella pelle viva di Zemanlandia vengono pescate innumerevoli scommesse. Al centro della difesa ecco Di Bari (ex Bisceglie) e Bianchini, germoglio del vivaio della Lodigiani. Pasquale De Vincenzo, prelevato dalla Reggina, in C1, è il nuovo dieci. Dalla stessa categoria arriva anche Andrea Seno, chiamato a raccogliere l’ingombrante eredità del prolifico Shalimov. Una serie di salti di categoria potenzialmente letali. A dirigere l’orchestra, lì nel mezzo, viene chiamato un imberbe Luigi Di Biagio: arriva dal Monza, naturalmente serie C.

Certo, quel tridente che riduceva in brandelli le retroguardie avversarie non esiste più. Ma anche in questo caso il boemo afferra ago e filo e si mette a ricucire la sua creatura. Al centro dell’attacco gioca il russo, anche se non lo convince del tutto. Ai lati giostrano l’agile Bresciani, arrivato dal Palermo (retrocesso in C) e Oberdan Biagioni (dal Cosenza). Ci sono poi l’oggetto non identificato Medford e, più tardi, il fluttuante olandese Roy: lui, almeno, arriva dall’Ajax.

Zemanlandia bis è dunque servita. L’antipasto però risulta tiepido. Anzi, va proprio di traverso. L’inizio della stagione serve un tracollo senza fine nelle prime sette giornate. Poi quel motore ingolfato inizia a indovinare i giri giusti: i rossoneri affondano il Parma e poi, contro ogni pronostico, giustiziano la Vecchia Signora. Inizia un altro campionato. Di sofferenza, certo, ma con la l’idea fissa che salvarsi non può essere un’idea così peregrina. Che il calcio composto di idee e non di soli nomi altisonanti vale ancora qualcosa. Zeman, formidabile seduttore di intelletti, è il primo a crederci: la categoria da cui provieni non conta se hai la mente prensile per il suo modo di intendere le cose.

Così una squadra nata come sciagurato coacervo di rincalzi diventa caso di scuola per la scienza calcistica. Il Foggia si libra insolente oltre il pregiudizio e, a maggio, sconfiggendo la Samp, si mette in tasca la permanenza in Serie A. L’ultima partita, la debacle a Firenze (6-2, ma viola clamorosamente in B) coincide anche con il singulto conclusivo di questa seconda invenzione Zemaniana. Ci sarà poi anche un tris. Ci saranno anche Lazio e Roma, incise nel suo futuro. Ma per il momento il boemo inspira ossigeno buono e socchiude le palpebre: la felicità a volte si nasconde in interstizi sorprendenti.

Zeman, le sentenze: "In Italia i giocatori camminano. Chi è Francesco Totti". Leonardo Iannacci su Libero Quotidiano il 02 agosto 2022

«La prima cosa che ho amato dell'Italia? Il mare. Per questo sto tra Palermo e Mazzara. Ormai fuori dal calcio che conta, non mi resta che il mare anche se qualche partita la sbircio, ogni tanto». A 75 anni Zdenek Zeman ci scherza sopra anche se un fondo di verità c'è. Il calcio lo ha emarginato, non gli ha perdonato certe sparate contro il sistema, così l'abbiamo dovuto scovare laggiù, dove spira tanto il vento, nella sua Sicilia. Avvolto dai fumi delle sigarette, il boemo parla al rallentatore e, con smorfie attornianti, ci suggerisce di leggere oltre le righe di quello che sentenzia con voce metallica.

Zeman, perché ama tanto la Sicilia?

«Non c'è un perché, oppure ce ne sono tanti. Arrivai qui ragazzino da Praga e l'isola mi piacque subito, forse perché vive la storia e i propri drammi con dignità. Nelle ultime settimane Palermo ha ricordato Falcone e Borsellino, vittime del lato peggiore di questa terra. Ma qui dicono che i signori della mafia, negli ultimi tempi, se ne siano andati a Milano. Boh... Ma parliamo di calcio, non è meglio?».

Certo. A lei piace quello attuale?

«Partiamo da una certezza: il calcio è cambiato rispetto a un tempo, ma in meglio o in peggio? Tutti dicono che c'è progresso in tutti i settori della vita, facciamo quindi finta che il calcio sia cambiato in meglio».

Lei pensa il contrario?

«Se il calcio deve essere un business e basta, hanno ragione loro. Però io lo considero ancora uno sport».

Per quello fondò il partito di Zemanlandia, negli anni Novanta, una vera rivoluzione copernicana per il pallone?

«Ho sempre considerato il calcio un mezzo per non far dormire la gente allo stadio. Convinzione che mi veniva dalla pratica sportiva che ho fatto all'Università dello Sport a Praga dove giocavo a pallamano e a hockey su ghiaccio. Amo lo sport puro mai schiavo del business, fatto di divertimento ma anche di lavoro estremo».

Fu allora che nacquero le temutissime sedute di allenamento di Zeman?

«La preparazione fisica perfetta è la base del risultato che si ottiene, poi, in campo. Oggi vedo alcune squadre, anche top, che si allenano poco. I giocatori sono stanchi dopo due corsette, si mettono le mani ai fianchi. In Inghilterra corrono il doppio e si allenano meglio».

Per questo motivo la Champions manca in Italia dal 2007?

«Anche per questo. I giocatori tengono troppo la palla e camminano. Rallentano tutto. Non velocizzano, non mangiano il campo».

I detrattori dicono: Zeman ha vinto poco o nulla in carriera.

«Non mi è mai importato vincere a tutti i costi, quella è una regola arida oggi in voga, purtroppo anche in squadre che vorrebbero vincere in Europa. Ai miei giocatori, sin dai tempi del Licata, dicevo: segnate un gol in più dell'avversario. Giocate con gioia. E non è vero che disdegnassi la fase difensiva, la regola era cercare il risultato attraverso la bellezza».

Al Foggia creò una filosofia di gioco unica e Signori ne fu il profeta, vero?

«Grande Beppe. Ma il giocatore più forte che ho allenato in 30 anni di calcio è stato Totti a Roma. Vedeva cose in campo che altri, pur bravini, non riuscivano a notare. Francesco si allenava bene ma non ne aveva bisogno».

Oggi quale squadra le piace in Europa?

«Il PSG, non vince la Champions perché Neymar e Mbappè pensano solo a divertirsi. In Italia, invece, noto che c'è la tendenza di ricreare un campionato vario con sette sorelle, come una volta: Juve, Inter, Milan, Roma, Lazio, Napoli e Fiorentina. Tra esse mi convince di più il Milan. Ha vinto giocando meglio di tutte anche se Ibra è stato in campo poco o niente. Se ha avuto meriti, li ha evidenziati nello spogliatoio».

Esiste l'allenatore perfetto?

«È quello che insegna calcio, non quello che mette undici giocatori in campo per fare fortuna. Migliorare un giocatore che viene contestato da tutti rappresenta una vittoria importante. A me capitò con Tommasi, con Di Francesco».

Lei è considerato da Sacchi e Guardiola un maestro. Intravede, oggi, un giovane Zeman?

«Italiano. Ha fatto bene a Spezia e benissimo a Firenze. Ha gusto estetico e preparazione tattica».

Come vede la Roma con Mourinho?

«Mou è un personaggio che attira attenzione e piace tanto a voi giornalisti. Però il campo è un'altra cosa».

Per la Juve è un brutto colpo l'infortunio di Pogba?

«La Juventus non può basarsi su un giocatore. Deve essere costruita per vincere ma a prescindere da Pogba».

A proposito di Juventus, nel 1998 lei denunciò un calcio in mano alle farmacie. Poi puntò il dito contro Calciopoli e il calcioscommesse. Non si è mai pentito di quelle dichiarazioni?

«Se oggi ci fossero gli stessi problemi di allora, ripeterei per filo e per segno quello che dissi all'epoca. Ricordo che nel 1999, al mio secondo anno alla Roma, arrivammo quinti con 21 punti sottratti per strani errori arbitrali. Ora sono fuori dal calcio, come le dicevo, e spero che vicende simili o come quella capitata a Palomino, rimangano fatti isolati. Ma dicono che le cose siano cambiate. Non è così?». Tra il fumo della Marlboro, spunta l'ultima smorfia. 

Zeman, Foggia addio con la valigia: il tecnico sorpreso mentre aspetta l’autobus. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.

Persi i playoff per la serie B, i pugliesi e il tecnico boemo si sono separati. L’allenatore silenzioso diventa virale anche al momento della partenza dalla «sua» Foggia. 

Soltanto il 27 maggio si è conclusa la quarta avventura di Zdenek Zeman al Foggia (la seconda dal 1989 al 1994 passò alla storia come «Zemanlandia» per aver guidato i rossoneri in serie A), ma in queste ore è diventata virale la foto del tecnico boemo con la valigia che aspetta l’autobus per lasciare la città dopo la fine del rapporto di lavoro con il club.

Al di là dell’esito nefasto dei playoff di serie C, con l’eliminazione del Foggia al primo turno della fase nazionale per mano della Virtus Entella, il matrimonio tra l’allenatore e il presidente, Nicola Canonico, è stato segnato da frizioni e incomprensioni lungo tutta la stagione. Adesso questo addio è simboleggiato da un’immagine di grande eloquenza visiva che sta circolando nelle ultime ore sui social.

Si vede un uomo solo, Zeman, in una Foggia che appare deserta, con un trolley al suo fianco. Come una persona normale, apprezzata da tutti (tifosi dei rossoneri e no) per la sua semplicità, la sua normalità. L’essenza umana di un tecnico che nel corso degli anni si è fatto apprezzare per il suo modo offensivo di giocare e per le tante polemiche che ha scatenato con le sue dichiarazioni sul doping, su Calciopoli e altri temi delicati del nostro calcio.

Ora dà l’addio al Foggia, lasciando la città nell’attesa dell’autobus. Chissà dove proseguirà la vita lavorativa di Zeman. «Quando due non si trovano è meglio che si dividano. Mi spiace tanto perché sono legato alla città che ha fatto di tutto per farmi sentire bene. Vorrei continuare a fare calcio con chi me lo permette, qui ogni giorno c’era un problema e non si riusciva a cambiare. Non cambio io e non cambia il presidente, non c’erano le condizioni di poter lavorare insieme. Dal primo giorno eravamo in sofferenza, quello che si chiedeva non si riusciva a ottenere. Per me non si può lavorare, io immagino un calcio diverso e una dirigenza diversa», le sue ultime parole prima di quell’immagine diventata virale.

Zeman: «Lo scudetto? Il Milan ha meritato ma il Napoli lo ha perso. Benvenuta Var: gli arbitri mi tolsero 21 punti con la Roma». Michelangelo Borrillo, inviato a Foggia, su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.

Il tecnico boemo: «Di partite come quella che ha fatto l’Inter a Bologna, il Napoli ne ha sbagliate tre, tutte in casa. Il mio attacco al sistema? Lo rifarei, all’epoca non ero accettato e in un campionato mi tolsero 21 punti. Benvenuta Var».

Nemmeno Nils Liedholm ci era riuscito. Il veterano degli allenatori della Serie A rimase in panchina fino a 74 anni e 236 giorni. Zdeněk Zeman è andato oltre: ha festeggiato lo scorso 12 maggio il 75esimo compleanno guidando, sul campo, i suoi ragazzi. E non ha intenzione di smettere, almeno fino a quando continuerà a divertirsi — e a far divertire — con il pallone. Come ha fatto quest’anno, sia da allenatore del Foggia — ricostruito da zero e portato ai play off nazionali di serie C a raffica di gol — sia da spettatore del campionato di serie A più avvincente del terzo millennio. «Vinto meritatamente dal Milan, perché chi fa più punti ha sempre ragione». E miglior sintesi – tra le immancabili sigarette fumate al bar, lo stesso che frequenta da 35 anni quando è a Foggia, con i soliti 4 amici — non poteva esserci per chi ha sempre misurato le parole.

Maestro, così come la chiamano i suoi ragazzi, si è divertito da spettatore di questa serie A decisa negli ultimi 90 minuti?

«Dopo tanti anni si è vissuto un campionato incerto, e questo lo ha reso certamente avvincente. A un certo punto sembrava che non lo volesse vincere nessuno, con Milan, Inter e Napoli che facevano a gara per consegnarlo agli avversari».

Alla fine ha vinto la squadra che lo meritava di più?

«Lo ha detto il campo: chi fa più punti ha sempre ragione. Quindi sì, il Milan ha vinto lo scudetto meritatamente: è uscito meglio alla distanza».

Non pensa che l’Inter lo abbia buttato al vento nel recupero con il Bologna? Ha fatto affidamento per mesi su quei 3 punti ipotetici e alla fine non li ha conquistati.

«Risultati come Bologna-Inter li hanno avuti anche Milan e Napoli. Anzi, io penso che debba rammaricarsi più il Napoli che l’Inter per l’occasione persa».

Perché?

«Per me, e sottolineo per me, era il Napoli la squadra favorita. Di partite come quella che ha fatto l’Inter a Bologna ne ha sbagliate tre, tutte in casa consecutivamente, a metà campionato (Atalanta, Empoli e Spezia, ndr). Senza quelle tre sconfitte sarebbe stato un altro campionato».

Dopo dieci anni la Juventus ha chiuso senza alcun titolo. Colpa del tecnico Allegri come pensa gran parte del popolo bianconero?

«Nessuno si aspettava un campionato così della Juventus, ha pesato soprattutto la falsa partenza. Poi, però, la spiegazione si trova: la società nella scorsa estate non ha fatto investimenti e se non investi poi è difficile che raccogli».

La situazione attuale, per le società di vertice del calcio italiano, non sembra molto differente. La stessa Juventus ha liberato Dybala, il Napoli potrebbe vendere la sua punta di diamante, Osimhen, come fece un anno fa l’Inter con Lukaku. Dove sta andando il calcio italiano?

«Il calcio, non solo italiano, ha grossi problemi dal punto di vista economico. E le società tentano di limitare le perdite vendendo i migliori giocatori. La spiegazione è semplice e non riguarda solo la Serie A».

Così, però, aumenta la distanza con il calcio inglese e spagnolo, che primeggiano in Champions League, come dimostra la finale di sabato tra Real Madrid e Liverpool.

«Vero in parte: con la Premier League inglese la Serie A non può competere, sia per le differenti entrate sia per gli azionisti delle società inglesi. Ma la Spagna ha gli stessi problemi dell’Italia. Basti pensare al Barcellona e non solo perché non ha potuto trattenere Messi: oggi gioca con ragazzi del 2003 e del 2004 del vivaio».

A volte, però, anche i soci forti non bastano: guardi il Manchester City di Guardiola che vedrà in tv la finale di Champions tra Ancelotti e Klopp.

«Nella Champions attuale c’è molto equilibrio nelle sfide decisive: può capitare di essere eliminati pur giocando meglio. Ma per me Guardiola resta ancora il miglior allenatore d’Europa».

E cosa pensa di Mancini che dall’altare degli Europei vinti è passato alla polvere dell’eliminazione dai Mondiali in meno di un anno?

«Mancini ha cominciato molto bene la sua avventura in nazionale, culminata con la vittoria agli Europei. Certo pesa la mancata qualificazione ai Mondiali che, però, è legata a due rigori sbagliati, non dimentichiamolo. Per vincere deve girare tutto alla perfezione, fortuna compresa».

Anche gli Europei sono stati vinti ai rigori.

«Infatti il giudizio positivo su Mancini va oltre la vittoria: ha fatto un buon lavoro e lanciato molti giovani».

La vittoria azzurra di Wembley è arrivata inattesa: fra quanti anni una squadra italiana potrà tornare a vincere la Champions? Con questi presupposti sembra impossibile anche che arrivi in finale.

«Non è così, la speranza c’è: l’Inter quest’anno ha vinto a Liverpool e ricordo ancora una partita di qualche anno fa in cui la Juventus meritava di eliminare il Bayern che era ritenuto più forte. Ripeto, c’è molto equilibrio nelle sfide a eliminazione diretta e non sempre vince chi merita. Con due partite secche non è come in campionato, conta anche la fortuna».

Vuol dire che sarebbe favorevole a un torneo tra grandi d’Europa, la Superlega auspicata da diversi grandi club che renderebbe marginali i tornei nazionali?

«No, perché alla gente non piacerebbe. Alla gente continuano a piacere i campionati nazionali, come dimostrano anche gli stadi tornati pieni. Speriamo che duri questo momento e che non sia dovuto solo alla fame di calcio dopo due anni di chiusura. Al calcio in tv non si può rinunciare perché il sistema vive di quegli introiti, ma se le squadre giocano bene richiameranno sempre spettatori sugli spalti».

E torniamo al campionato nazionale, allora. Ha detto che in Europa il miglior allenatore resta Guardiola. E in Italia? Tra Pioli e Inzaghi che si sono contesi lo scudetto fino all’ultimo chi preferisce?

«L’allenatore che mi piace di più in serie A, come mentalità, è Italiano della Fiorentina».

Che non ha lottato per lo scudetto. Come succedeva a lei in Serie A. Ai suoi tempi, però, non c’era la Var e adesso che c’è, lei allena in C e la Var si ferma alla serie B. Si lamentò di un rigore non dato al suo esordio in A, Inter-Foggia, e se ne è lamentato nella sua più recente partita, Entella-Foggia. Le piacerebbe allenare senza gli errori arbitrali?

«Tendenzialmente dovrei essere contrario alla Var, perché a me piace un calcio più umano dove sbagliano sia i calciatori che gli arbitri. Però c’è stato un periodo in cui, anche senza Var, il calcio non era umano, perché gli errori arbitrali non erano per tutti. E allora dico benvenuta alla Var».

La lingua batte dove il dente duole, alle sue mai spente polemiche con Moggi. Si chiede mai che carriera avrebbe fatto se non avesse criticato per primo il sistema dell’epoca che poi venne certificato da Calciopoli? Se tornasse indietro lo rifarebbe?

«Sì, rifarei tutto, per il bene del calcio. Non so quale sarebbe stata la mia carriera se non lo avessi fatto; so, però, che nel mio secondo anno alla Roma, nel ’99, arrivammo quinti ma contai 21 punti sottratti per errori arbitrali».

Avrebbe vinto lo scudetto?

«Non lo so, faccia i calcoli…».

Sì, 75 punti contro i 70 del Milan. Si spiega così che Lazio e Roma hanno vinto lo scudetto solo dopo aver cambiato tecnico? Il sistema non voleva che lei vincesse?

«All’epoca non ero accettato dal sistema. Per lo meno in Italia. In quegli anni mi cercarono Real Madrid e Barcellona ma io non presi in considerazione le loro offerte perché avevo un impegno morale con la Roma».

E in Italia ha mai avuto contatti con Milan o Inter?

«Con l’Inter, dopo il secondo posto con la Lazio. Ma fecero altre scelte».

Il suo calcio di alta classifica, quindi, rimane legato alla doppia esperienza nella Capitale. Si sente più legato alla Lazio o alla Roma?

«Sono stato bene sia alla Lazio che alla Roma. Posso dire, però, che la tifoseria della Roma è più numerosa, calda e vicina alla squadra».

E tra Signori e Totti, i due calciatori più rappresentativi che ha allenato a Roma, a chi si sente più legato?

«Sono stato sempre e lo sono ancora dalla loro parte, si tratta di due ragazzi che fanno parte della mia storia calcistica. Signori l’ho visto nascere calcisticamente a Foggia ed esplodere alla Lazio, Totti l’ho visto prima esplodere e poi rinascere alla Roma nella mia seconda esperienza in giallorosso, quando qualcuno avrebbe voluto venderlo. Non posso scegliere tra i due».

Restando a Roma, ci spiega la sua recente polemica con Mourinho? Prima del derby e sulla Conference League.

«Da parte mia non c’è stata alcuna polemica, ma semplici constatazioni: prima del derby la Lazio era più in forma, ma non sempre vince chi sta meglio; e la Conference è un torneo nuovo a cui partecipano squadre di minore importanza rispetto a quelle di Champions ed Europa League».

Mourinho, dal suo canto, ha detto che non risponde a un allenatore che ha vinto solo due campionati di B.

«Anche questa è una constatazione: è vero che ho vinto solo due campionati di B».

Ma laddove li ha vinti, a Foggia e Pescara, continuano a ricordarsi per come li ha stravinti, dominando. Foggia, addirittura, viene ricordata ancora come Zemanlandia, grazie a un fortunato titolo della Gazzetta dello Sport. È orgoglioso del fatto che una città sia calcisticamente ricordata con il suo nome?

«Sì, mi fa piacere. Perché ho sempre pensato che i risultati sono importanti ma devono arrivare attraverso prestazioni che facciano divertire la gente. E se a Foggia ho appena concluso il mio ottavo campionato, sarà stato così».

Ci sarà anche il nono?

«Non dipende da me, ma da cosa vuole fare la società: ho un contratto fino al 30 giugno e fino ad allora ogni giorno è buono per vedersi e decidere».

Secondo lei Zemanlandia, l’epopea degli anni ’90 a cui adesso è stato dedicato anche un libro, potrebbe ripetersi nel mondo del calcio di 30 anni dopo?

«Si può far tutto, quando ci sono le condizioni. E 30 anni fa il calcio italiano era anche molto più competitivo».

Allora il suo obiettivo è tornare in A per diventare l’allenatore più anziano ad aver mai allenato in massima serie?

«Non inseguo questo record, il mio obiettivo è più facile da spiegare: allenare finché continuerò a divertirmi e finché qualcuno mi permetterà di sedermi in panchina».

Zeman, il Papa, la Treccani, la gaffe sulle donne, la sigaretta (quasi) abbandonata: 10 cose sul tecnico più rivoluzionario del calcio italiano. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2022.

L’allenatore boemo compie 75 anni: la sua è stata una parabola straordinaria unica, in nome del bel calcio sempre e comunque, anche a scapito del risultato. Ecco la storia di una vita mai banale, in campo e fuori.

Nato rivoluzionario

Espressione austera, seriosa. Flemmatico, inscalfibile nei suoi lunghi silenzi, profonde pause con tempi scenici. Eppure progressista, vent’anni avanti rispetto a tutti gli altri. Zdenek Zeman o lo si ama o lo si odia. Non è un concetto precostituito, non in questo caso. C’è chi lo difende e chi lo attacca, chi lo critica e chi lo esalta. È così per figure divisive come l’allenatore boemo, che il 12 maggio compie 75 anni. Il suo calcio offensivo è stato (in attesa di una nuova panchina) rivoluzionario e unico, dogmatico e con principi ben radicati. Il gioco prima dei risultati, divertimento e bellezza più importanti dei titoli. Gli hanno dedicato canzoni, hanno scritto libri e trattati su di lui, lo hanno imitato. Ma il boemo avvolto dal fumo, allenatore del Foggia dal giugno 2021, ha ancora tanti segreti.

Lo zio allenatore campione d’Italia con la Juve

Lo zio Cestmir «Cesto» Vykpalek è stato calciatore, di ruolo centrocampista, in Italia con Juventus, Palermo e Parma. Divenuto allenatore, ha vinto due scudetti (nel 71/72 e 72/73) con il club bianconero. Zdenek, figlio di un primario e di una casalinga, nell’estate del 66 lascia Praga (in fibrillazione per i moti di indipendenza dall’Unione Sovietica) con la sorella Jarmila proprio per andare a trovare zio Vykpalek a Palermo. Tornerà nell’ex Cecoslovacchia solo 22 anni dopo, ai tempi del Foggia, per assistere il padre malato.

Professore, allenatore di pallamano e istruttore di nuoto

Trasferitosi in Italia, si laurea con il massimo dei voti all’Isef di Palermo con una tesi sulla medicina dello sport. Sempre nel capoluogo siciliano diventa professore di educazione fisica all’istituto Gonzaga, poi allenatore di pallamano dell’Omeostasi Club, in serie B. Ossuto ma agile, dotato di un ottimo tiro da fermo, nelle partite della domenica mattina gioca anche qualche minuto. Sportivo poliedrico, in quegli anni è anche istruttore di nuoto e pallavolo. Poi inizia un lungo girovagare nelle serie minori del calcio, allenatore (nel 79 ottiene il patentino) di piccoli club siciliani. Fino alla chiamata del Palermo, che gli affida le squadre giovanili (Giovanissimi e Primavera). Da lì inizia la sua scalata.

Zemanlandia nella Treccani

Nel 1989 Pasquale Casillo, il re del grano patron del Foggia, chiede a Zeman di portarlo in serie A. Lo chiama «Sdengo» e gli affianca come d.s. e talent scout Giuseppe Pavone. Basta un anno per il salto nella massima serie. Nasce così «Zemanlandia», fotografia di un calcio spettacolare e bellissimo, perdente ma entrato lo stesso nella storia del pallone. Utilizzo ossessivo della zona, il sistema è inevitabilmente il dogmatico 4-3-3, i giocatori sbocciano e cambiano quasi ogni stagione. Nel Foggia dei miracoli (due volte nono in una serie A molto competitiva) esplodono campioni come Signori, Baiano, Rambaudi, Di Biagio e Kolyvanov. Da qualche anno il termine «Zemanlandia» è stato inserito come neologismo nel vocabolario Treccani come «sistema di gioco fantasioso e votato all’attacco ideato da Zdenek Zeman».

Venditti e lo Stato Sociale

«Il tempo sta scadendo ormai, tieni palla dai, il pareggio mai, tu non lo firmerai, perché non cambi mai, il sogno è intatto e tu lo sai»: sono questi i primi versi de «La coscienza di Zeman», canzone che Antonello Venditti ha dedicato al boemo nel 1999. Un inno alle folli e meravigliose contraddizioni del suo calcio, conosciuto dal cantautore negli anni romani del tecnico, definito «eroe solitario del nostro tempo». «Sono quattro anni che ti amo e non ti ho mai parlato di Zeman» è invece l’incipit del brano del 2014 de Lo Stato Sociale «In due è amore, in tre è una festa».

Papa in un film di Albanese

Antonio Albanese voleva far interpretare il Papa a Zeman nel film «Tutto tutto niente niente». L’attore, ai tempi del Foggia zemaniano, aveva creato a «Mai dire gol» il personaggio «Frengo», telecronista dj pugliese che raccontava le partite dei Satanelli con un linguaggio volutamente forzato e fantasioso. Per lui Zdenek era «Simpatia Zeman»: «Sono innamorato del suo silenzio poetico, fa umorismo tacendo».

La malattia del figlio

Negli anni siciliani, quando faceva l’istruttore di nuoto, Zeman conosce la nuotatrice Chiara Perricone, che diventerà sua moglie. Hanno avuto due figli: Karel (oggi a 45 anni allenatore del Lavello, serie D) e Andrea. Tramite quest’ultimo ha affrontato l’unica cosa che lo spaventa, la malattia. «Ho vissuto in questi ultimi anni il dramma di mio figlio Andrea che ha affrontato con coraggio una grave malattia — ha raccontato in un’intervista alla Gazzetta dello Sport nel 2019 —. In quel momento, in cui hai paura che il corso della natura si stia rovesciando, nulla ha più un senso. Ogni certezza si sgretola. È stato uno shock di cui parlo perché si è risolto abbastanza bene. Ma solo chi ha vissuto qualcosa di simile può capire sensazioni, il vuoto, il male dentro che niente può attenuare finché le cose non tornano al loro posto».

La gaffe sul calcio femminile

Calcio femminile lontano dalla svolta? Per Zdenek «è un problema di cultura. Di solito in Italia le donne stanno in cucina. Non lo so se è grave, certo è che i maschi devono mangiare». Nel febbraio 2020 questa era la (discutibile) idea del boemo: «Penso che in Italia ha già problemi il calcio maschile, nel senso che in serie C e serie D ci sono grossi problemi, e le donne di solito venivano sempre dietro nel calcio».

Sigaretta grande amore (ma ora ha quasi smesso)

Se chiudiamo gli occhi e pensiamo a Zeman, di sicuro la prima immagine lo ritrae con il consueto ghigno avvolto da una nuvola di fumo, la sigaretta fissa tra l’indice e il medio della mano destra. Ebbene, Zdenek ha quasi smesso: ora si concede cinque sigarette al giorno. «Sono tre mesi che praticamente non fumo più — ha detto un paio di anni fa alla Gazzetta dello Sport —. Sono sceso da tre pacchetti a 5-6 sigarette al giorno, e non perché ne avevo poche ma perché ho scelto da solo». Come tutto nella sua vita.

Il ritorno al Foggia

Il 26 giugno del 2021, dopo oltre tre anni di inattività, Zeman è tornato in panchina, richiamato proprio dal suo Foggia, in serie C. Il 7 novembre tocca quota 1000 panchine con squadre italiane nel 3-0 contro la Paganese, poche settimane dopo arriva a 100 vittorie in campionato con il club pugliese. A fine stagione si classifica settimo e si qualifica per i playoff. Proprio oggi, 12 maggio, il Foggia sfida la Virtus Entella. Zdenek in panchina, anche il giorno del suo 75esimo compleanno. «Sono abituato a festeggiarli, ormai sono tanti. Sono contento di esserci arrivato con una squadra da guidare — ha detto —. Mi auguro che i ragazzi facciano un regalo a me e alla città, anche perché per le partite giocate il giorno del mio compleanno non ho una statistica positiva».

Chi è lo Zeman di oggi?

Testa alta, schiena dritta. Avanti con le sue idee, senza piegarsi mai. Forse è per questo che i suoi seguaci, innamorati del suo calcio e della sua onestà, superano i detrattori, chi sottolinea i fallimenti e le poche vittorie. Che per lui non sono mai state l’unica cosa che conta. «Lo Zeman di oggi? Non voglio che nessuno mi copi. Gli allenatori iniziano in un modo, poi perdono tre partite e cambiano: siano coerenti — diceva in un’intervista del 2017 al Corriere —. Se giochi con i più forti perdi: io lo accetto. Gli altri fanno catenaccio e perdono lo stesso. Meglio allora far come pare a me e difendere le mie idee». Sempre Zdenek, tanti auguri.

LA SALERNITANA.

Da ilnapolista.it il 7 Luglio 2022. 

La Gazzetta dello Sport intervista Franck Ribery. Ha rinnovato il suo contratto con la Salernitana per un altro anno. 

«Sono fiero di me, la passione è una inesauribile fonte di energia. Ho 39 anni, ma spero di andare avanti ancora. Quando ero bambino, restavo a giocare fino alle 2 del mattino per le strade del quartiere. E oggi Ribery ha ancora la stessa voglia del bimbo Franck».

Sull’Italia, dove ormai è da quattro anni:

«L’Italia mi è sempre piaciuta: la mentalità, la lingua, il cibo. Firenze è meravigliosa e ha un pubblico incredibile. E poi Salerno… Ho trovato grande affetto: qui vivono tutti per il calcio. Quando non vinciamo vedo la tristezza negli occhi dei tifosi e mi dà fastidio. Io non sono tanto bravo ad accettare le sconfitte, non ho mai imparato. L’anno scorso ho capito che la situazione era difficile e ho fatto di tutto per raggiungere la salvezza. È diverso dalla vittoria di una coppa, ma le emozioni sono immense: quell’impresa resterà per sempre nel mio cuore».

Dice che lo amano tutti perché è uno che cerca il contatto umano.

«Sono una persona semplice che ha bisogno del contatto umano. I bambini, ma anche i tifosi adulti, sanno che io per loro ci sono sempre: una fotografia, un autografo, un sorriso. Il campione non può essere campione solo in campo». 

Sul rapporto tra testa e fisico a 39 anni:

«La testa ascolta il corpo e si regola. Io voglio andare al massimo, ma per riuscirci a volte devo rallentare e riposare. A 39 anni ci sta che il fisico ogni tanto abbia qualche problema. Ma il campione crede nelle cose, si avvicina giorno per giorno all’obiettivo».

Con il Bayern vinse tutto, eppure arrivò terzo nel Pallone d’oro dietro a Ronaldo e Messi.

«Fu ingiusto. Quello fu un anno incredibile per me. Avrei dovuto vincere io. Allungarono i tempi di consegna dei voti, successe qualcosa di strano. Mi sembrò una decisione politica». 

Non si è pentito di aver lasciato presto la sua nazionale?

«Nel 2014 era successo qualcosa di brutto. Non fui rispettato come uomo. Io sono corretto con tutti, ma se mi mancano di rispetto mi arrabbio».

Davide Nicola, ecco chi è l’allenatore della Salernitana: bici, Kobe Bryant, Manuel Agnelli, il figlio scomparso. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 15 maggio 2022.

Il tecnico della Salernitana, maestro delle salvezze quasi impossibili, cita l’ex cestista dei Lakers, ama leggere, le statistiche e la filosofia, soprattutto Platone: «Non si può aprire la testa se prima non si apre il cuore».

L’uomo delle rimonte impossibili

La Salernitana sogna con Davide Nicola, 49 anni compiuti il 5 marzo, arrivato sulla panchina dei granata il 13 febbraio scorso al posto di Stefano Colantuono, quando la squadra era ultima a 13 punti con 23 gare. Adesso è quartultima a +2 dal Cagliari terzultimo, a un passo dalla salvezza, anche se i sardi hanno una partita in meno, quella di stasera in casa con l’Inter. Nicola del resto è specializzato in rimonte clamorose, come quella del 2017 alla guida del Crotone, quando fece sognare una città intera. Cinque anni dopo ci riprova.

Il figlio perso per un incidente in bici

Davide Nicola è sposato con Laura, la compagna di una vita. Hanno quattro figli: Tommaso, Daniel e Valentino i figli maschi, Giulia (laureata in scienze infermieristiche) la figlia femmina. Una famiglia molto unita che nel 2014 ha dovuto affrontare una tragedia grandissima. Davide e Laura hanno infatti perso il loro secondogenito, Alessandro, per un incidente in bici. Quando Nicola si salvò con il Crotone, scrisse queste parole commoventi al figlio: «Ale, questa non è la mia vittoria, ma la nostra, proprio come quella della promozione in serie A del Livorno. Avrei voluto gioire con te, guardare i tuoi occhi e il tuo sorriso, prenderti per mano e insieme correre e festeggiare. Tutto questo è solo per te e ogni mia conquista è la tua, ogni mia vittoria sarà la tua, ogni mio sogno sarà anche il tuo. Voglio che il mio cuore continui a battere per te e tu possa vivere ancora attraverso me».

In bici per il Crotone

Non solo calcio. Davide Nicola ha un’altra grande passione: la bicicletta. Nel 2017, dopo la promozione in A con il Crotone, il tecnico della Salernitana ha pedalato dalla Calabria al Piemonte. Ha percorso 1.500 chilometri, perso tre chili, il dolore ai tendini si faceva sentire, ma la promessa (percorrere un personale giro d’Italia se avesse raggiunto la massima serie) era stata mantenuta. Felicemente.

La citazione di Kobe Bryant

«Sempre al massimo, mai mollare», è il motto di Davide Nicola, che sul proprio profilo Instagram (sul quale ultimamente pubblica tantissime foto con i giocatori della Salernitana), da 42,8mila followers, scrive: «Amare le sfide». Oltre a una citazione di Kobe Bryant, la stella dei Los Angeles Lakers scomparsa nel gennaio 2020 in un incidente in elicottero: «Fare quello che ti piace di più e farlo al massimo cercando di essere il migliore».

Lettura, filosofia e sport

Nella vita di Davide Nicola non esiste soltanto lo sport (calcio e ciclismo), ma anche la passione per la lettura, la fisica, la filosofia (Platone soprattutto: «Non si può aprire la testa se prima non si apre il cuore»). Il tecnico della Salernitana ama leggere, sapere, confrontarsi e informarsi. E ha una passione per le statistiche. Oltre, naturalmente, un ottimo allenamento anche del corpo con tantissima attività fisica.

Il primo successo in carriera

È il 29 agosto 2010. Davide Nicola debutta nel calcio professionistico in Lega Pro, sulla panchina del Lumezzane. Quel giorno è in programma la trasferta a Salerno, all’Arechi, suo attuale stadio. E proprio contro la Salernitana (1-0) ottiene il primo successo della sua carriera.

Sosia di Manuel Agnelli

Sono in tanti a sostenere che Davide Nicola abbia un sosia. Si tratterebbe di Manuel Agnelli, cantautore, polistrumentista, produttore discografico e personaggio televisivo italiano, fondatore e frontman del gruppo alternative rock Afterhours, che il 13 marzo ha compiuto 56 anni. A voi il giudizio.

IL TORINO.

Massimiliano Castellani per Avvenire il 16 dicembre 2022.

«Messi comunque ancora il Mondiale non l'ha vinto. Io invece sì», proclama con la solita simpatia contagiosa il bomber Ciccio Graziani. Per la generazione Z: trattasi di uno dei 22 eroi azzurri che vinsero il Mundial di Spagna dell'82. Sono trascorsi quarant' anni da quell'epico trionfo, e oggi sono ben 70 primavere per l'eterno Ciccio, nato a Subiaco (Roma) il 16 dicembre del '52. Rispetto a quelle notti magiche di Spagna ha qualche capello in meno, ma in compenso molte più giacche e montature di occhiali sgargianti da esibire nei salotti televisivi dove è diventato il più pirotecnico degli opinionisti di calcio. 

A proposito di opinionismo calcistico, Ciccio, le è piaciuto il Mondiale trasmesso interamente dalla Rai?

Se parliamo delle telecronache sì, le ho trovate ben gestite, da Rai, con qualcosa che potevano fare meglio, ma è un giudizio personale, da opinionista appunto. Non ho apprezzato affatto invece il talk serale, Il Circolo dei Mondiali, l'ho trovato poco centrato. Sono un grande amico di Yuri Chechi, ma è come se dicessero a me di parlare di Olimpiadi, gli risponderei «no grazie, non è il mio ramo». 

Anche Sara Simeoni, atleta leggendaria come Yuri, donna spiritosa e intelligente, ma messa lì al bancone mi è sembrata davvero in fuorigioco. Se devi parlare di un Mondiale, allora devi avere ospite fisso Marcello Lippi, Fabio Capello, uomini che sanno e che hanno vissuto di calcio. 

Poi ci sono gli espertissimi, come Lele Adani, per il quale Messi è il "verbo" e il commento tecnico diventa teologia applicata al gioco del pallone.

No, quella si chiama semplicemente "invadenza della seconda voce". Adani è uno molto competente a livello tecnico e tattico, ma si è fatto prendere la mano e con Messi è diventato fazioso, contravvenendo a una delle regole fondamentali del commento televisivo: l'imparzialità. Adani a un certo punto ha sovrastato un signor telecronista come Stefano Bizzotto, pensando di diventare lui la prima voce. Un consiglio amichevole per il futuro: Lele, più anedottica utile al telespettatore e meno enfasi, specie quella inutile. 

Per Adani il n.1 è sempre e solo Leo Messi, ma questo Mondiale conferma che il francese Kylian Mbappè è il nuovo re del calcio.

Mbappè è il futuro e me lo vedo già a portare sotto il braccio una collezione di Palloni d'Oro da qui a fine carriera. Una carriera agli inizi, eppure a 23 anni rischia di vincere il suo secondo Mondiale. È un fenomeno che mi ricorda il Ronaldo brasiliano: calcia con tutti e due i piedi, ha il colpo di testa e strappa in maniera fantastica sui 100 metri Io però, senza l'Italia in campo, tifo Argentina e non posso pensare che un giocatore fantastico come Messi chiuda la sua lunga e gloriosa parabola senza aver vinto la Coppa del mondo. Sarebbe ingiusto... (sorride) un Mondiale ripeto, l'ho vinto anch' io! 

Un po' ingiusta a noi è parsa anche l'uscita di scena, in lacrime, di Cristiano Ronaldo.

Lui ha fatto la storia e ancora oggi io sono convinto che quando hai Cristiano Ronaldo in squadra già sul pullman parti da 1-0. Con il Portogallo ha pagato le vicissitudini patite al Manchester United. Ronaldo rimane un leader individualista e un grande egoista, un po' come tutti i grandi realizzatori, però personalmente gli avrei dato qualche chance in più per evitargli questa piccola macchia dentro una grande, anzi straordinaria carriera, che non meritava di chiudere con una simile figuraccia. 

Ciccio, ha mai pensato in questi giorni alla seguente ipotesi: se l'Italia fosse arrivata a Qatar 2022 che figura avrebbe potuto fare?

C'ho pensato e andrò controcorrente: credo fermamente che avrebbe fatto una bella figura. Tipo da rivelazione come il Marocco? Non lo so, ma so che questo Mondiale ha riservato diverse sorprese e un livellamento in cui abbiamo visto che il basso si è un po' elevato, mentre l'alto è sceso un po' di qualità . E poi la nostra Nazionale un anno e mezzo fa ha vinto un Europeo dimostrando di potersela giocare alla pari con tutti, Francia compresa. Al prossimo Mondiale sono convinto che torneremo competitivi. 

Roberto Mancini ha qualcosa in comune con il suo amato ct Enzo Bearzot?

Sì, somigliano molto per due aspetti: la capacità di dialogo con i calciatori e la forte personalità che trasmette sicurezza al gruppo.

Nonostante Mancini sia rimasto a casa con la Nazionale, il calcio italiano è riuscito a far parlare di sé nel mondo con lo "scandalo plusvalenze" della Juventus

Non è una pagina di cui andare fieri, specie in un momento storico in cui tutto il nostro sistema calcio è pesantemente indebitato. Ma aspettiamo le sentenze prima di esprimere giudizi. Certo è che dai capi di imputazione qualcosa di importante dobbiamo aspettarcelo Sbaglia comunque chi invoca la Serie B per la Juventus. Non sarebbe logico, anzi sarebbe un ulteriore danno per l'immagine di tutto il calcio italiano. 

E lo dice uno che in campo è stato un "nemico storico" dei bianconeri: tra Torino, Fiorentina e Roma con la Juve di mezzo ho perso tre scudetti, arrivando sempre secondo. 

Torniamo al campionato di Serie A: quando il 4 gennaio riprenderà assisteremo ancora al monologo della capolista Napoli? Dipende unicamente dalla squadra di Luciano Spalletti. Ricomincia un torneo da 23 giornate con il Napoli che ha 8 punti di vantaggio sulla seconda. Finora hanno dimostrato di essere più forti, giocano un gran bel calcio e regalano poco agli altri. La speranza per chi insegue è che la sosta Mondiale gli può aver spezzato il ritmo. Perciò, io dico che solo il Napoli può rimettere in gioco le inseguitrici. Oggi sono 70 anni 

Ciccio, come festeggerà questo traguardo?

Intanto, come sempre, giocherò a calcetto con gli amici, ai quali offrirò dei pasticcini a fine partita. Poi sabato sera farò una cena con mia moglie, i figli e i nipoti. Sono entrato in un'età in cui la famiglia è prioritaria, poi viene tutto il resto, compresa l'amicizia e l'affetto dei tifosi e degli ex compagni di squadra. 

A cominciare dagli ex azzurri dell'82, quelli della chat sempre aperta. Beh, i ragazzi dell'82 avranno sempre un posto privilegiato nel mio cuore. Ogni tanto, faccio una cosa che so che capita anche ad alcuni di loro: alzare gli occhi al cielo e rivolgere un sorriso a Paolo (Rossi), a Gaetano (Scirea) e a Enzo (Bearzot), sapendo che anche loro tre ci sorridono da Lassù. Nei momenti difficili ci parlo e mi danno tanto conforto, perché so che posso ancora contare sul loro aiuto, come quando giocavamo insieme, nella nostra Nazionale.

Francesco Graziani compie 70 anni: portò l'Italia alla vittoria del Mondiale nell'82. Più che come uno dei grandi centravanti della Serie A, Francesco Graziani è ricordato per le sue giacche sgargianti e la simpatia contagiosa che lo rende così popolare. Prima della televisione, però, di ricordi importanti ne ha messi in fila davvero tanti. Luca Bocci il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Certi personaggi sono talmente entrati nella testa degli italiani da farli sembrare eterni, indistruttibili. Forse per questo che la reazione di molti ai 70 anni di Francesco “Ciccio” Graziani è stata simile alla mia: “Non ci credo, impossibile”. Poi ti fermi un attimo, fai due conti e ti ricordi come, quel giorno al Balaidos di Vigo, quando il suo colpo di testa fece scivolare N’Kono regalando all’Italia un posto ai quarti di finale, avevi appena 10 anni. Il tempo passa per tutti, anche per Ciccio. A vederlo ogni settimana in televisione mentre parla di calcio alla sua maniera, genuina, come se stesse al bar con gli amici, non si direbbe, ma di strada ne ha fatta proprio tanta da quando tirava calci ad un pallone nella sua Subiaco.

Raccontarne la vita è impossibile ma necessario. Per chi non ha avuto la fortuna di vederlo giocare, Ciccio è solo un personaggio televisivo, una nota di colore che fa sempre simpatia. Il fatto che sia stato uno dei più grandi bomber del calcio italiano è dimenticato da troppi. Ciccio da Subiaco al gol ha sempre dato del tu, fin da quando, 50 anni fa, passò dall’Arezzo ad una grande decaduta con l’ossessione di tornare a vincere, il Torino.

Il gemello del gol

Il nome di Graziani nella memoria dei tifosi granata non può essere separato da quello di Paolo Pulici e Claudio Sala, le pietre angolari sulle quali Gigi Radice avrebbe costruito il suo Toro all’olandese. Gli inizi, però, non sono affatto semplici: nonostante il primo gol segnato a Bologna il giorno del 21° compleanno, il rapporto con Fabbri non è dei più semplici. Troppo rude il tecnico, troppo esuberante lui. Quando alla fine della stagione 74/75 lo sposta sulla fascia destra, non gliele manda a dire, caratteristica che lo ha accompagnato per tutta la vita. A riportarlo in area e creare la coppia di avanti perfetta è Radice, che grazie a loro riesce a riportare lo scudetto al Toro, il primo dopo la tragica fine degli invincibili di Valentino Mazzola. Quando a Cesena arrivarono i punti decisivi sugli spalti c’era uno striscione emblematico: “Forza ragazzi, Superga vi guarda”. L’anno dopo fece ancora meglio dei 15 gol, vincendo il titolo di capocannoniere, ma al Toro non riesce la doppietta. Graziani faceva di tutto, anche il portiere, come successe contro il Borussia Moenchengladbach in coppa, ma il suo mestiere è fare gol. Le reti arrivano, in quantità industriale ma il Torino non riesce a ripetersi. Con la crisi finanziaria, uno spogliatoio in tumulto e la protesta del pubblico crescente, l’amore tra Ciccio e i granata si spegne. Alla Viola troverà Pecci ma non il suo gemello: Graziani è costretto a cambiare tutto e reinventarsi. Non sarà l’ultima volta.

Ciccio gregario mondiale

Alla corte dei Pontello Ciccio si trasforma da centravanti puro, il tipico rapace dell’area piccola, ad un gregario di lusso, una spalla per la punta titolare. Graziani si adatta senza troppi mugugni ed i risultati si vedono sia in campo che fuori. Nel nuovo ruolo Ciccio è ancora fondamentale nella cavalcata dei viola di De Sisti, che sfiorano il titolo nella stagione 1981/82. Qualche tempo fa, Graziani disse che senza l’infortunio di Antognoni con il portiere del Genoa Martina, avrebbero meritato il titolo. “Ci ha privato di una pedina fondamentale per molte partite. Con lui in campo avremmo sicuramente ottenuto quei due punti in più che avrebbero consegnato lo scudetto alla Fiorentina”. La generosità e umiltà gli garantiscono un posto a fianco di Paolo Rossi nella nazionale di Bearzot e un ruolo da titolare nel trionfo di Spagna '82. Dopo la comparsata in Argentina, stavolta Ciccio è protagonista, sia contro il Camerun che più avanti. La fortuna, però, non è dalla sua parte.

Lasciamo che a parlare sia lui, con un brano dell’intervista che ha rilasciato al Corriere Fiorentino: “Dopo sette minuti mi faccio male alla spalla in finale, proprio io che venivo considerato quasi indistruttibile. Mi chiedono se voglio rimanere con un’iniezione di novocaina, ma la partita è troppo importante e preferisco non mettere in difficoltà la squadra, perché davvero il noi veniva prima dell’io. Entra Altobelli e segna…”. Il ritorno trionfale, il rapporto speciale con l’altro gemello diverso, Antognoni, Bertoni e Massaro che tenevano sempre palla, un periodo felice macchiato dalla sconfitta nella rincorsa scudetto e il gol annullato che lui considera da sempre regolare. Parecchi rimpianti che non macchiano però il rapporto con la città. Basta sentire una qualsiasi delle trasmissioni che fa su Radio Sportiva per rendersi conto di quanto i tifosi viola gli vogliano ancora bene.

Quel maledetto rigore

La delusione convince Graziani ad accettare la corte della Roma di Liedholm che, dopo lo storico secondo scudetto, è a caccia di rinforzi per la cavalcata in Coppa dei Campioni. Tornare a casa per lui, che a Roma si è fatto le ossa ed era stato scartato dal Mago Herrera perché “troppo magro” è un riscatto di quelli importanti e Ciccio si lancia anima e corpo. Un cammino quasi trionfale che però si infrange sul beffardo ghigno di Bruce Grobbelaar e le sue sceneggiate nella porta dell’Olimpico. Quel rigore sbagliato non l’ha mai dimenticato: qualche tempo fa dichiarò che se lo sognava ancora la notte. Sul dischetto, però, si presenta, non come l’amico Falcao, troppo nervoso. Le due Coppe Italia non rendono meno amara la permanenza a Trigoria, dopo i maledetti rigori in finale e il terzo titolo sfuggito per poco nell’86. Ormai non segna più molto ma è sempre utile alla causa. L’aria però si sta facendo pesante: tempo di cambiare ancora, prima che la situazione degeneri. Le due ultime annate ad Udine sono malinconiche, tra infortuni e poche reti, ma al Friuli lo ricordano ancora con affetto. Si concede anche una fuga ante litteram verso campionati esotici come quello australiano ma, ormai, è il momento di appendere gli scarpini al chiodo. Tempo di guardare oltre, ma senza abbandonare il calcio. Quello è la sua vita.

L'allenatore col pallone

A chiamarlo per primo è la squadra della città che ha amato di più, Firenze. Dopo l’esonero di Giorgi è al timone della Fiorentina per pochi mesi, tempo di ottenere la salvezza e di approdare alla finale di Coppa Uefa, il doppio sfortunato incrocio con la Juve che all’ombra del Duomo nessuno dimenticherà nemmeno tra cent’anni. Ciccio però è poco politico ed ha poca voglia di fare quel che bisogna fare per tenersi una panchina. Ad Ascoli non dura nemmeno il tempo di debuttare in Serie B che già litiga col vulcanico presidente Rozzi e se ne va sbattendo la porta. Graziani viene spesso chiamato a campionato in corso, quando la situazione è già disperata o quasi. Alla Reggina fa il possibile ma non evita la retrocessione; l’anno dopo prende il posto di Bruno Bolchi all'Avellino ma neanche stavolta si salva.

La vita dell’allenatore, insomma, non fa per lui ma al calcio non riesce proprio a rinunciare. Nel 1993, dopo il fallimento della squadra della città di sua moglie, Arezzo, guida un comitato di tifosi ed imprenditori e fa rinascere la società, ripartendo dalla Serie D. Il calcio di provincia è difficile, ingrato ma Ciccio tiene duro. Gli anni 2000 lo vedono tornare in panchina prima al Catania, che riporta in B, poi a Montevarchi, dove dura ancora meno. Servirebbe qualcosa in grado di unire i due mondi che ama di più: il pallone e lo spettacolo. Per fortuna arriva una chiamata che gli cambierà la vita: farà l’allenatore ma seguito da uno stuolo di telecamere. Il programma si chiama “Campioni” e fa la storia della televisione italiana.

Ciccio il personaggio

Le due stagioni passate a Cervia fanno conoscere il campione di Spagna 82 in maniera impensabile qualche anno prima. Il campione del passato diventa un personaggio televisivo, una presenza ancora più riconoscibile, con i difetti ed i pregi di una persona mai banale e sempre schietta, onesta. La chiusura del programma è un colpo non semplice da superare ma Ciccio non si perde mai d’animo. Le comparsate si moltiplicano, i programmi diventano due, cinque, dieci, Graziani è molto ricercato, al pubblico piace, fa simpatia, la gente ci tiene a sapere cosa pensa. Il suo segreto lo confessa al collega del Corriere: “la gente si accorge se sei finto oppure no e sinceramente non ho fatto alcuna fatica, non ho interpretato nessuno, ero solo me stesso”. Invece di fare l’imbianchino a Subiaco con Pasquale, il suo piano B quando era giovane, ora passa da un programma all’altro, da un’intervista a rispondere alle domande del suo pubblico alla radio.

Come si sente a settant’anni? “Non li sento proprio e in questo mi aiuta la vita che faccio. Ho sempre creduto che una delle principali virtù dell’uomo fosse l’umiltà, per questo sono stato disponibile con tutti, dal magazziniere a chi dava i biglietti, ed è forse il motivo per cui si ricordano di me con piacere nelle città dove ho giocato”. Un personaggio che non si dà tante arie, con una famiglia normale, che non guida un macchinone da star del piccolo schermo, che ricorda sempre quando di soldi in casa ce n’erano pochi e la fatica che facevano i genitori per sbarcare il lunario. Forse è anche per questo che piace tanto. Ciccio non si è mai montato la testa e questo la gente lo capisce al volo.

Tanti auguri Ciccio

Settant’anni sono tanti ma non quando ti ostini a pensare solo al futuro. Dietro di sé tante memorie, l’amicizia col Presidente Pertini, i compagni di squadra che non ci sono più, gli eventi divertenti o curiosi che hanno riempito la sua vita, tutti lì, in fila, nella camera dei ricordi. Ti aspetteresti che una data così importante sia di quelle speciali, da festeggiare come si deve. La sua risposta al collega del Corriere è di quelle “alla Ciccio”, dirette, autoironiche. “Ma quando mai? Ti sembro uno da cerimonie pompose? Sarà bello sentire l’affetto di chi mi vuole bene, ma il mondo va avanti e bisogna stare al passo. Così come i gol segnati: belli, ma fanno parte del passato”. Cosa aggiungere? Tanti auguri a Francesco “Ciccio” Graziani da un altro ragazzo parecchio cresciuto che ha smesso di contare gli anni qualche lustro fa. Il futuro è nostro. Cento di questi giorni.

Ciccio Graziani: «A 12 anni ero imbianchino. Quando ero in ritiro giocavo a carte con i tifosi». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 17 ottobre 2022. 

«Zoff non ne voleva proprio sapere: “No, che il Vecio si arrabbia”. “Dai, Dino, sei l’unico che può convincere il mister, di te si fida, portalo con una scusa qui davanti alla piscina, che poi ci pensiamo noi”, abbiamo insistito io, Bruno e Marco, fino allo sfinimento». E quando il flemmatico portierone azzurro ha ceduto ed , ignaro, si è avvicinato, povero lui, a bordo vasca — in quella gloriosa mattina di libertà all’indomani di Italia-Brasile 3 a 2 con tripletta di Paolo Rossi ai verdeoro — dopo un giro corroborante di gavettoni tra compagni, i congiurati Graziani e Conti ( il saggio ) lo spinsero in acqua — pluf! — in tuta e occhiali da sole, pipa compresa. «Mica lo sapevamo che il ct non sapeva nuotare, lo abbiamo tirato su appena in tempo, tutto fracico», racconta e ancora si diverte quanto allora Ciccio (Francesco) Graziani da Subiaco come la Lollo, 69 anni, ex attaccante di sfondamento di Torino, Fiorentina e Roma, 132 gol in A, Campione del Mondo in quell’irripetibile 1982, quando si era davvero più felici, oggi commentatore a Sport Mediaset XXL e per Pressing, su Italia 1. «All’inizio Bearzot era furibondo, poi gli è passata: “Ma sì, ragazzi, la vittoria con il Brasile vale davvero un bel bagno”».

«Zio Donato era il portiere del monastero di Santa Scolastica, la domenica pomeriggio si giocava nel campetto contro i seminaristi che, oh, tiravano certi calci. Un giorno lo zio prese da parte mia madre: “Ma Francesco secondo te ha la vocazione? Sta sempre qua”. Quando mai. Ci andavo perché si mangiava benissimo, specie l’agnello al forno era una favola».

Mamma Annunziata non cucinava bene? «Altroché, però non c’erano tanti soldi, il pasto nostro era broccoli e patate ripassati, il pollo o il coniglio soltanto la domenica, io sono cresciuto a frittata e mortadella. E la mattina, prima di scuola, l’uovo sbattuto con lo zucchero».

Quattro figli, due maschi e due femmine, lei il più piccolo, era anche il cocco di casa? «Un pochetto. Quando mamma preparava la polenta, la versava sulla spianatora di legno in mezzo al tavolo e ci metteva una salsiccia per ciascuno. C’erano dei confini stabiliti entro cui potevi infilare la forchetta, da sedia a sedia, ma i miei fratelli spesso si rubavano pure la mia porzione, allora lei me ne regalava metà della sua».

Papà Antonio era muratore. «Usciva alle 6 di mattina e tornava alle 7 di sera, era sempre stanco, ma buono come il pane, mai uno schiaffo. Era mamma che mi gonfiava come una zampogna perché rompevo un paio di scarpe a settimana per giocare a pallone. O perché le avevo fregato qualche spicciolo dal borsellino per le sigarette, o mi dimenticavo di comprare il latte. “Ohi mà, la partita non era finita!”. Uh, quante me ne ha date! Ogni tanto agitava il mattarello, ma solo per mettermi paura».

. «D’estate, con mio fratello, scartavetravo le persiane o i cancelli e poi ci davo due passate di vernice. Ho imbiancato pure i muri dell’autoscuola del padre di Gina Lollobrigida».

Agli inizi fu scartato perché troppo gracile. «Non passai il provino con Roma, Lazio e Juve, ero così secco che mi facevi la radiografia con un accendino. Mi presero al Bettini Quadraro, zona Cinecittà, e dopo all’Arezzo. Nel frattempo ero cresciuto, forte e robusto. Ma papà non ha mai visto una mia partita, nessuna, nemmeno in Nazionale, gli veniva l’agitazione. Però quando segnavo pagava da bere agli amici dell’osteria».

Nel Torino, in coppia con Pulici, diventaste i Gemelli del Gol: 200 reti in 8 campionati (102 Paolo, 98 Francesco), lo scudetto nel 1976. «Eh sì, ma senza gli assist straordinari di Claudio Sala non saremmo andati da nessuna parte. Pulici era il compagno ideale, eravamo complementari, in campo non ci parlavamo nemmeno, bastava uno sguardo d’intesa. “Ne fermi uno e ti segna quell’altro”, si disperavano gli avversari».

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Com’è fare gol? «Una felicità enorme, un’emozione meravigliosa che ti scoppia nel cuore. Dura poco, sette, dieci secondi, ma sono i più belli della tua vita».

Un calciatore diventa davvero forte se si allena con gusto e con amore, sante parole sue. «Non basta essere bravi, ci vuole impegno e sacrificio. Prendiamo Vincenzo D’Amico. Con Gianni Rivera è stato forse il più bravo che abbia mai visto, doti eccezionali. “Se ti impegnassi di più, potresti diventare fantastico”, gli ripetevo. Invece appena sentiva la fatica si fermava».

Una volta infilò i guantoni e giocò in porta. «Coppa dei Campioni 1976-77, gara di ritorno, Torino contro Borussia Mönchengladbach, in trasferta. Minuto 71. Eravamo rimasti in otto, espulsi Caporale, Zaccarelli e pure il portiere Luciano Castellini. Il mister Radice scelse me. “Ciccio, vai tu in porta”. La mantenni inviolata. Il pubblico di Düsseldorf alla fine tifava per noi, a ogni mia parata partiva l’applauso».

Lisci sotto porta ne ha collezionati? «Lisci veri e propri no, certo ho sbagliato qualche pallone a quattro metri dalla rete».

O da undici, come il rigore spedito sulla traversa in Roma- Liverpool del 1984. «Me lo sogno ancora la notte».

Portava i capelli lunghi. «Quando li avevo, sì. Andavano di moda, li curavo molto. Ero un bel ragazzetto, eh. Ci tenevo al look, la domenica vestirsi era un rito. A 13 anni volevo i pantaloni bicolori e scampanati di Celentano, mamma non mi accontentava, così andai a Roma, a via Sannio, e ne comprai un paio quasi uguali alla bancarella, li pagai 8 mila lire».

Figurati quando ha cominciato a guadagnare. «Gli abiti di Versace mi mandavano al manicomio, giacche colorate, camicie a fiori, cravatte strane, mi sbizzarrivo, un megalomane, tutto abbinato. Di scarpe ne compravo poche, con il collo del piede grosso era difficile trovarle».

Tatuaggi? «Mai piaciuti, le emozioni belle le porti dentro di te, non serve scriverle sulla pelle».

Orecchini? «Mai. Mica perché li portava Maradona dovevamo imitarlo tutti per forza».

Si è sposato giovanissimo. «Avevo 21 anni, Susanna 17, il papà ha dovuto firmare i documenti. La vidi passeggiare per Arezzo con un fazzoletto giallo e blu del quartiere Santo Spirito. Colpo di fulmine».

«Non eravamo coscienti di essere così forti», ha raccontato per i 40 anni del Mundial ’82. Il primo sospetto? «Dopo la vittoria con l’Argentina abbiamo capito che si poteva fare e ci siamo detti: proviamoci. Oltretutto, prima di Italia-Brasile, i giornalisti brasiliani insistevano che i loro calciatori avevano paura di noi, ci sembrava impossibile».

Divideva la stanza con Giancarlo Antognoni. La notte lì si dormiva? «Più o meno, era Tardelli “Il Coyote”, quello sempre insonne. Giancarlo si fece male contro la Polonia, era depresso, convinto di non poter giocare la finale. La sera prima provai a consolarlo. “Dai che il professor Vecchiet ti ha messo la gommapiuma tra il calzino e la scarpa, semmai ti faranno un’iniezione per il dolore”. “No, no, vedrai che non ce la faccio”. “Ce la fai”. “No, non ce la faccio”. Andammo avanti così per due ore. Era mezzanotte, mi si chiudevano gli occhi. “Ascolta, non lo so se domani giochi, ma se non mi lasci dormire, domattina sarò uno straccio rimbambito e non giocherò nemmeno io”».

Antognoni no, lei invece giocò. Ma al minuto 7 uscì per infortunio alla spalla, bella sfiga. «Eh, a fine partita con Giancarlo ci siamo guardati: “Certo la nostra stanza non è stata fortunata”, ci siamo detti. Ma subito dopo: “Che ci frega, siamo campioni del Mondo!”

Cabrini riceveva tonnellate di lettere e regalucci dalle ammiratrici. A lei niente? «Eh, Antonio era speciale, uno scapolone, io invece ero già ammogliato... Certo per noi era diverso, io a Roma andavo dal macellaio, dal fruttivendolo, a fare una passeggiata in via Veneto, ogni tanto mi chiedevano un autografo ma niente di che. In ritiro a Brunico giocavo a carte con i tifosi fuori dall’hotel, i calciatori oggi non si godono niente, stanno sempre chiusi, soli».

Il «suo» Paolo Rossi. «Paolo era gentile, solare, sempre con il sorriso. Dopo l’Argentina lo vidi triste, solitario, a bordo piscina. “Che ti prende?”. “Non sto giocando bene, ho paura che il mister contro il Brasile mi lasci in panchina”. “Stai tranquillo, vedrai che giochi”. Giocò e segnò tre gol. Dopo, negli spogliatoi, mi abbracciò in silenzio e io quell’abbraccio non lo dimenticherò mai».

Nel 1994 per poco non abbiamo avuto Ciccio senatore. «Mi candidai con Forza Italia perché me lo chiese Berlusconi. “Ma io non so niente di politica”. “Proprio per questo”. Me ’mbriacò di parole e accettai. Presi 27 mila voti ma per i calcoli del proporzionale fu eletto un altro. “La ringrazio, Cavaliere, però non mi cerchi più”».

Aveva un programma? «No, però mi faccio in quattro per gli altri, come in campo, ero felice se un compagno mi ringraziava, farsi volere bene è bellissimo».

. «Mia moglie mi supplica: “Quella no, ti prego”, ma io non la ascolto, mi piacciono i colori, i quadri. So che a Mediaset mi vorrebbero più sobrio, ma io sono così. Forse a volte ho esagerato con il giallo fosforescente e il verde acceso».

E quegli occhialini colorati. «Li tengo in una vetrinetta, ne avrò ottanta».

Due anni fa cadde dalla scala: un volo di almeno 6 metri. «Riparavo la rete del campo di calcetto. Undici costole rotte, sei vertebre incrinate, mi è andata di lusso. Secondo me, mentre cadevo, Gesù ha detto a San Pietro: “Manda un angelo ad acchiapparlo”, altrimenti sarei morto».

Walter Casagrande, che fine ha fatto: la droga, Ascoli e Torino, l’infarto, Socrates. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022.

La tormentata storia dell’attaccante brasiliano è legata ad Ascoli e Torino (con cui ha segnato al Santiago Bernabeu contro il Real Madrid). «Mi sono fatto di tutto. Cocaina, eroina, canne, tequila, doping: per 20 anni ho giocato alla roulette russa»

Gli anni italiani di Casagrande

Dal magico aprile 1992, con il gol al Real Madrid (prima e finora unica rete del Torino al Santiago Bernabeu, nella semifinale di andata di Coppa Uefa) e la doppietta alla Juventus nel derby, alla droga, al ricovero in terapia intensiva e alla rinascita finale. Questo è il cammino di Walter «Casao» Casagrande, centravanti brasiliano, che il nostro calcio ha conosciuto tra il 1987 e il 1993 con le maglie di Ascoli (‘87-‘91) e Torino (‘91-‘93).

I problemi con la droga e l’infarto

Casagrande è stato molte volte al centro di vicende di cronaca: «Mi sono fatto di tutto. Cocaina, eroina, canne, tequila, doping: per 20 anni ho giocato alla roulette russa», aveva confessato qualche tempo fa. Una notizia che aveva toccato tutti, nonostante le sue abitudini fossero ben note. Ha sempre vissuto (e giocato) al limite. Già nel 1982 — a soli 19 anni — lo avevano trovato con diversi grammi di cocaina e aveva saltato i Mondiali di Spagna ‘82, quelli della sconfitta del Brasile contro l’Italia poi campione (3-2, tripletta di Paolo Rossi). Lui sostiene si sia trattato di un agguato premeditato. Volevano incastrarlo, insomma. Dopo quattro overdose e il ricovero in clinica per oltre un anno, cinque anni fa, il 30 maggio 2015, è stato anche ricoverato per un infarto. Si è ripreso pure da questa ennesima batosta.

La «Democrazia» con Socrates

In Brasile viene ricordato anche per aver fondato, quando giocava nel Corinthians nella prima metà degli anni ‘80 (ci è tornato poi nel 1994-95) «Democracia Corinthiana» insieme a Socrates e ad altri calciatori. Una voglia di gridare al mondo la libertà del Brasile, nonostante ci fosse la dittatura militare e la parola «democrazia» non fosse proprio ben vista.

La Coppa dei Campioni con il Porto

In Europa Casagrande arriva nel 1986 per indossare la maglia del Porto, fa giusto in tempo a vincere la Coppa dei Campioni nel 1987 e approdare in Italia, all’Ascoli di Costantino Rozzi, che lo paga un miliardo di lire.

Idolo ad Ascoli

Nelle sue quattro stagioni, tre in serie A e una in B, Casagrande realizza 38 reti in 96 presenze. Diventa un idolo: «Lo sono ancora», aveva detto in un’intervista rilasciata a La tribù del calcio. «La città era piccola e stupenda. Sono stato benissimo, ai piedi delle montagne e vicino alle spiagge. Ho solo bei ricordi». Quando nel 1989-90 l’Ascoli retrocede, Rozzi gli rivela che non può tenerlo per via del suo ingaggio, ma Casagrande resta, firma un contratto a obiettivi (novità assoluta per l’epoca) e riporta l’Ascoli in A, per poi dire addio e andare al Torino, che lo acquista per cinque miliardi di lire.

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Col Torino mattatore di Real e Juve

Con i granata Casao si toglie tante soddisfazioni, come quella di buttare fuori il Real Madrid nella semifinale di Coppa Uefa, poi persa in finale contro l’Ajax. Era il Toro di Emiliano Mondonico. Quello di Scifo, Martin Vazquez, Cravero, Lentini e un giovanissimo Christian Vieri. Il 19 aprile 1992, nel derby contro la Juventus (quattro giorni dopo il sigillo al Real), completò l’opera infliggendo una doppietta a Sergio Tacconi che mise in ginocchio la Juventus sotto gli occhi dell’ex Segretario di stato degli Stati Uniti (e poi Premio Nobel per la Pace) Henry Kissinger, seduto in tribuna accanto all’avvocato Gianni Agnelli.

I libri

Ha scritto tre libri. «Incrocio, dall’inferno alla sobrietà», pubblicato dopo la sua autobiografia («Casagrande e i suoi demoni») e «Socrate e Casagrande, una storia d’amore», testimonianza di un’amicizia vera.

La passeggiata con la maglia dell’Ascoli

A luglio Casagrande ha postato sui social una foto in cui passeggia al Parco Ibirapuera di San Paolo indossando la storica maglia dell’Ascoli della stagione 1989/1990 con lo sponsor Cocif. «Un’altra bella giornata e non può mancare la passeggiata al Parco Ibirapuera, con la mia bellissima maglia dell’Ascoli. Ho conosciuto tante persone gentili, come al solito. Ma la cosa insolita è stata trovare una coppia di Rio in coda per le vacanze a San Paolo. Ho amato questa famiglia!», la didascalia.

Musica rock e teatro

Casagrande ha un amore viscerale per la musica rock e il teatro. Oggi è telecronista e opinionista per la televisione brasiliana Rede Globo, apprezzato (nonostante la pressoché inesistente formazione scolastica) per il linguaggio ricercato e per le opinioni mai banali.

Alessio Cerci compie 35 anni, che fine ha fatto: Ventura, le liti, la moglie, le pernici scomparse. Oggi gioca a calcio a 8 con Totti. Matteo Lignelli e Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

L'anno scorso Cerci è finito fuori squadra all'Arezzo, in serie C. A soli 35 anni la sua carriera sembra avere sbattuto in una via senza uscita. Da Totti l'ultima chance

Alessio Cerci compie 35 anni

Il 23 luglio compie 35 anni da disoccupato Alessio Cerci, ala di Valmontone (Roma) con un passato tra Fiorentina, Roma, Torino e Milan tra gli altri, un Mondiale (2014) con la Nazionale e una parabola discendente che pare inarrestabile. Ala dai grandi mezzi fisici e tecnici, un metro e 78 chilogrammi per 78 chili e una progressione invidiata da molti, sinistro naturale, al momento è svincolato. E si tiene in allenamento lavorando insieme a Francesco Totti nella sua squadra di Calcio a 8.

La discesa infinita

Il Torino trascinato di nuovo in Europa dopo 19 anni insieme a Ciro Immobile. La convocazione per il Mondiale. Il trasferimento all’Atletico Madrid e il primo gol in Champions. Poi una lunga discesa, che non sembra terminata. In pochi mesi, a cavallo dell’estate 2014, la carriera di Alessio Cerci ha preso una strada molto diversa da quella che lui stesso si aspettava. Un declino che lo ha portato, sei anni dopo, a ottobre 2020, a ritrovarsi senza squadra e firmare un triennale con l’Arezzo in serie C. Ma — tra tante discussioni e una condizione fisica inizialmente precaria — non ha mai inciso e a marzo 2021 è stato addirittura messo fuori squadra.

La lite con un compagno in allenamento

Ad accendere gli animi è stata un’entrata in scivolata subita da Cerci in allenamento da un compagno più giovane. Un intervento forse duro ma privo di cattiveria, assicuravano da Arezzo. La reazione e la lite avevano portato a un confronto con i dirigenti, dal quale è nata l’ennesima discussione da quando l’esterno d’attacco mancino, 33 anni, ha firmato con il Cavallino. È stato l’ultimo di una serie di atteggiamenti sopra le righe, raccontano dalla Toscana, di un calciatore che non è riuscito a calarsi nella realtà della serie C, compresa qualche risposta di troppo nei confronti dell’allenatore. Certo non fu aiutato dalla condizione fisica, inizialmente precaria, né dai problemi alle ginocchia che si portava dietro da tempo.

«Qualche errore l’ho commesso»

«Se a 33 anni sono in Serie C vuol dire che qualche errore l’ho fatto, ma ho accettato la sfida perché credo di poter dare ancora molto», dichiarava in un’intervista al Corriere Fiorentino. Parole che auspicavano un cambio di rotta, anche sul piano del comportamento, invece Cerci non è riuscito né ad essere protagonista né a rilanciarsi come avrebbe voluto.

La moglie: Federica Riccardi, «Lady Cerci»

Federica Riccardi è la moglie di Alessio Cerci: si sono sposati il 4 giugno 2015 dopo essersi fidanzati sei anni prima. Hanno tre figli: Leonardo, nato nel 2016, e i gemelli Futura e Romeo arrivati nel 2019. Coppia molto unita, ha comprato casa a Formentera. Su Instagram Federica, fisico da modella, pubblica diversi scatti legati a catene di abbigliamento. E non manca di sostenere sempre il marito. Quando arrivò il trasferimento ai Colchoneros, che lasciò interdetti i tifosi del Torino, Federica — certo non la prima delle mogli o wags a farlo — si sfogò su Facebook con parole che fecero discutere: «Saluti Serie A, noi ce ne andiamo nel calcio che conta. In Italia si va avanti solo con prestiti, vecchie glorie riciclate, stranieri...giocatori che costano zero. I calciatori più forti se vogliono fare qualcosa di importante devono scappare via».

I momenti migliori? Con Gian Piero Ventura

La serie C è una categoria che cozza con il talento mostrato in carriera dal calciatore romano, che i suoi momenti migliori li ha vissuti sotto la guida di Gian Piero Ventura. «Con lui ho espresso il mio talento al cento per cento», ha ricordato lo stesso Cerci. Dopo le giovanili alla Roma (l’esordio in A nel 2004, con Capello) e il prestito al Brescia, nel 2007 incontra Ventura al Pisa. La squadra è appenata stata promossa in serie B e il tecnico gli cuce addosso un ruolo da titolare. Cerci segna 10 gol in 26 presenze però chiude in anticipo la stagione per un infortunio al menisco. I due si ritrovano nel 2012 al Torino, dove Cerci vive il periodo forse più felice, al fianco di Ciro Immobile, e piace a mezza Europa. Nella stagione successiva, 2013-14, ottiene il titolo di miglior assist-man della serie A e Prandelli lo porta al Mondiale brasiliano.

L’Atletico Madrid e «il calcio che conta»

«Rimpianti? L’unica cosa che non rifarei è andare via da Torino nell’ultimo giorno di mercato» ha ammesso Cerci poco dopo la firma con l’Arezzo. In effetti quel passaggio all’Atletico (per 15 milioni di euro più bonus) nell’ultimo giorno del mercato estivo del 2014 è la data spartiacque della sua vita. In Spagna non lascerà mai il segno, anche se il contratto verrà rescisso solo nel 2017, dopo i prestiti al Milan e al Genoa.

Le pernici scomparse

Purtroppo non è andata così. Dopo essersi liberato dall’Atletico, Cerci gioca l’ultima stagione in serie A (2017/18) con l’Hellas Verona. L’estate successiva passa in Turchia all’Ankaragucu, dove poi finiva fuori rosa e apriva un contenzioso con la società per il mancato pagamento di alcuni mesi di stipendio. Non andava meglio in B, alla Salernitana, con zero gol in dieci presenze e un’altra vicenda giudiziaria legata al dimezzamento del contratto arrivato a metà stagione. Così la scelta di scendere ancora, appunto in C all’Arezzo: 15 presenze e nemmeno una rete. La tredicesima casacca della sua carriera, la terza in Toscana dopo Pisa e Fiorentina, dove tra il 2010 e il 2012 non ha avuto un rapporto facile con i tifosi. Lasciandosi dietro il mistero delle pernici imbalsamate scomparse dal ristorante di Moena dove la squadra – durante il ritiro estivo – stava festeggiando il per il 25esimo compleanno di Cerci.

Il Totti Sporting Club

A dicembre 2021 dopo Arezzo, un altro cambio, anche se solo "romantico": va a giocare con il Totti Sporting Club, squadra di calcio a 8 dell'amico ed ex numero dieci della Roma Francesco Totti.

LA JUVE.

Rosi Vergnano è morta: addio alla moglie di Giampiero Boniperti. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera l’8 Dicembre 2022

Diceva di lei l'ex presidente della Juventus: «Due cose sono state fondamentali nella mia carriera di calciatore, il talento e mia moglie Rosi»

È sempre stata una figura fondamentale per la carriera del marito. Sempre al suo fianco. Sempre tenendosi per mano per tutta la vita. Rosi Boniperti, nata Vergnano, è stata la donna che, per tutta la vita, è stata accanto al marito Giampiero Boniperti, colonna della Juventus, sostenendolo in tutte le sue scelte professionali e rendendolo padre di tre splendidi figli Giampaolo Boniperti, Alessandro Boniperti, Federica Boniperti che hanno regalato ai genitori la gioia di diventare nonni per ben sette volte. Schiva e riservata, è sempre rimasta in disparte rispetto al marito, bandiera e presidente onorario della Juventus. 

Originaria di Torino, dove viveva ancora oggi dopo essere rimasta vedova da un anno, il marito era scomparso nella notte del 18 giugno 2021 nel capoluogo piemontese a causa di un’insufficienza cardiaca, aveva sempre avuto al suo fianco il sostegno e l'amore della famiglia. Nata e cresciuta a Torino, nonostante un marito famoso e sempre sotto i riflettori, Rosi Boniperti non avrebbe mai ceduto alle lusinghe del gossip e si sarebbe sempre tenuta a debita distanza dalle attenzioni mediatiche, dedicandosi sempre con amore alla famiglia. Sorella di un famoso rugbista torinese, e figlia di un grande tifoso granata, Rosi Vergnano e Giampiero Boniperti si erano sposati nel 1954 e non si erano mai più separati. La loro è stata una unione solida, fondata su un sentimento imperituro e su una grande riservatezza. 

«Due cose sono state fondamentali nella mia carriera di calciatore - ricordava sempre Boniperti-, il talento e mia moglie, Rosi». Un amore d'altri tempi il loro, grande ed unico. I funerali di terranno domani, venerdì 9 dicembre, alle ore 10 nella parrocchia di San Vito a Torino.

Quando a Platini annullarono il gol più bello della storia del calcio. Tokyo 1985, finale Coppa Intercontinentale tra Juventus e Argentinos Juniors. Il capolavoro del fuoriclasse francese venne ingiustamente vanificato: resta una sequenza di gesti di intatta bellezza. Paolo Lazzari il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Platini la prende con filosofia dopo il fischio dell'arbitro 

La pioggia scalfisce da giorni i tetti delle case di Tokyo. La città è ridotta ad un’immensa pozzanghera. Figurarsi lo stadio Olimpico: quello è un bacile che cinge un campo zuppo. Si discute a lungo se non sia il caso di rimandare la partita, perché quella poltiglia rischia di sfaldare lo spettacolo. Stormi di esperti botanici saggiano il terreno, tentano il rimbalzo e poi emettono l’inappellabile sentenza, che è un calcio alle frivolezze: c’è di peggio, si gioca. Nella testa del ragazzo francese anche i pensieri adesso si asciugano.

Argentinos Juniors–Juventus è la contesa tra due mondi. Da un lato il calcio ruvido, ma venato dall’estro debordante dei singoli, degli sfidanti sudamericani. Hanno addomesticato l’América de Cali ai rigori, sollevando la Copa Libertadores. Dall’altro la corazzata del vecchio continente, una Signora attempata eppure energica che piazza con discreta disinvoltura i gomiti tra le costole del calcio mondiale. Certo, più facile se in squadra spuntano Michael Laudrup, Scirea, Mauro, Cabrini e Tacconi. Più agile, specialmente, se al timone c’è il Trap e per il campo svolazza quel trentenne francese con il dieci sulla schiena.

Michel Platini è stato protagonista anche qualche mese fa, ma il (non) rigore decisivo segnato contro il Liverpool è un colpo che sfuma nel lacerante ricordo dell’Heysel. Non esiste un tasto interiore che ti consente di resettare. Il macigno è sempre conficcato all’altezza dello sterno, a bloccare il respiro. Eppure la vita, che non prevede resi per le sciagure distribuite, chiede di cederle il passo. Così si gioca. La Coppa intercontinentale, all’epoca chiamata anche Toyota Cup, è in fondo la Cassazione calcistica. Certifica la grandezza acquisita senza entrare nel merito: le è sufficiente la forma che assumi in novanta più recupero.

Quegli altri comunque non sono degli sprovveduti. In mezzo comanda Sergio Batista. Davanti si teme l’insolente verve di Claudio Borghi, l’indio che sussurra ai palloni. Il resto della cricca ha inciso dentro un calcio ancestrale e sfibrante: sanno contrastare e ricamare. Tipico degli argentini. Non a caso passano loro in vantaggio. Dopo un primo tempo di galleggiamento reciproco, Ereros buca la noia con un pallonetto che infila Tacconi. Laudrup pareggia prontamente, ma è in fuorigioco. È Platini a rimetterla sull’1-1, trasformando poco dopo un penalty con glaciale confidenza.

Poi scocca il minuto 68. Corner calciato da Mauro. Difesa argentina che impenna altrove il pallone, ma Bonini lo spinge di nuovo vero l’area. Qui si consuma il pezzo di prestigio. Platini stoppa di petto al volo, manda al cinema Pavoni con un sombrero di destro e calcia al volo di sinistro. È un tracciante inarrivabile per il tapino Vidallé. Le Roi corre festante verso il centro del campo. Il Trap sgrana quei fanali celesti. I compagni lo impacchettano dentro un abbraccio sapido. La felicità però è un arnese fragile. A mandarlo in frantumi ci pensa, con sprezzante sicumera, l’arbitro Volker Roth.

Snobista e tracotante, fischia un calcio di punizione per gli argentini. Fuorigioco di Brio, pare. Oppure un fallo, non si è ancora capito bene. Un’invenzione con gli ammennicoli. Una fregatura monumentale. Michel lo contempla per un istante, trasecolato. Prima si rifiuta di crederci, poi si accascia per terra, la mano sinistra a sorreggere la nuca. Pare una di quelle ragazze francesi in posa sul divanetto di stoffa, nella mansarda del pittore. Solo che le pennellate qui erano tutte sue. La faccia è quella di chi si sente talmente afflitto e depredato da essere colto da riso isterico.

La risolverà comunque lui, segnando il rigore decisivo, ancora una volta. Ma di quella notte umida resterà, imperterrito, il ricordo di un gol che forse aveva su impresso il destino inafferrabile delle cose migliori. Splendere molto, durare pochissimo.

Da repubblica.it il 6 ottobre 2022.

È morto nella notte a Napoli Giampiero Ventrone. L'ex preparatore atletico della Juventus e attualmente al Tottenham con Conte aveva 62 anni. Dalle prime informazioni, Ventrone sarebbe morto a causa di una leucemia fulminante. La tragica notizia è iniziata a circolare nella mattina di oggi, confermata da fonti vicino al club inglese: il "marine", come era stato soprannominato per la durezza dei suoi allenamenti, ha continuato a lavorare fino a qualche giorno fa insieme al suo ex calciatore e ora allenatore, Antonio Conte. 

Ventrone chiamato da Lippi alla Juve

La sua ascesa iniziò nel 1994, quando Marcello Lippi lo volle per preparare atleticamente la squadra che tre anni dopo avrebbe vinto l'ultima Champions League conquistata dal club bianconero. Diventato famoso per la "campanella" e per la durezza dei suoi allenamenti, chiuse la sua esperienza a Torino nel 2004, prima di peregrinare tra Ajaccio, Catania e i due club cinesi Jiangsu e Guangzhou. Dal 2021 era tornato nel calcio europeo accettando l'offerta del suo amico Conte, diventando preparatore fisico del Tottenham.

Da repubblica.it il 7 ottobre 2022.

È morto a Napoli Gian Piero Ventrone. L'ex preparatore atletico della Juventus e attualmente al Tottenham con Conte aveva 62 anni. Secondo quanto riferiscono fonti dell'ospedale Fatebenefratelli, il decesso è avvenuto stamane alle 6,45 per una emorragia cerebrale. Ventrone era arrivato al pronto soccorso dell'ospedale nella serata del 4 ottobre ed era stato messo subito in ventilazione meccanica perché in coma. Da qualche giorno aveva scoperto di essere affetto da leucemia mieloide acuta. 

La tragica notizia è iniziata a circolare nella mattina di oggi, confermata da fonti vicino al club inglese: il "marine", come era stato soprannominato per la durezza dei suoi allenamenti, ha continuato a lavorare fino a qualche giorno fa insieme al suo ex calciatore e ora allenatore, Antonio Conte. Che non se l'è sentita di affrontare i giornalisti nella conferenza stampa programmata a due giorni dalla sfida di campionato contro il Brighton. 

La Juve ricorda Ventrone

"Ricorderemo sempre la sua figura discreta, la sua cura dei dettagli, la sua filosofia del lavoro, e soprattutto quello che forse è stato il suo talento più grande: capire come il calcio (e quindi una delle sue componenti fondamentali, la tenuta fisica e atletica) stesse gradualmente entrando in una nuova era. Una nuova era che, in parte, ha contribuito a scrivere. Ciao, Gian Piero" scrive in una nota la Juve. 

"Siamo devastati nell'annunciare la scomparsa del preparatore atletico Gian Piero Ventrone. Mancherà a tutti, i nostri pensieri vanno alla sua famiglia e ai suoi amici in questo momento incredibilmente triste" il post del Tottenham.

"Una notizia che ci sconvolge, inaspettata e tremenda: ci ha lasciato Giampiero Ventrone - scrive l'Associazione italiana Allenatori Calcio -. Il preparatore atletico attualmente con Antonio Conte al Tottenham, e in passato alla Juventus con Lippi, ci ha lasciato questa mattina". "Una grande perdita per il nostro mondo e anche mia personale, in quanto mio grande amico - le parole del vicepresidente della componente preparatori atletici, Francesco Perondi -. E' stato uno dei personaggi importanti per affermare la nostra figura all'interno del mondo del calcio. Ci mancherà". 

Ventrone chiamato da Lippi alla Juve

La sua ascesa iniziò nel 1994, quando Marcello Lippi lo volle per preparare atleticamente la squadra che tre anni dopo avrebbe vinto l'ultima Champions League conquistata dal club bianconero. Diventato famoso per la "campanella" e per la durezza dei suoi allenamenti, chiuse la sua esperienza a Torino nel 2004, prima di peregrinare tra Ajaccio (dove in panchina c'era Fabrizio Ravanelli, un altro dei "suoi"), Catania e i due club cinesi Jiangsu e Guangzhou (con Fabio Cannavaro). Dal 2021 era tornato nel calcio europeo accettando l'offerta del suo amico Conte, diventando preparatore fisico del Tottenham.

I giocatori hanno fatto conoscenza dei suoi metodi durante la preparazione estiva effettuata dagli Spurs a Seul. Ritmi e carichi di lavoro inimmaginabili, che hanno messo ko diversi atleti. Hanno fatto il giro del web le immagini di Harry Kane che si accascia e vomita e il sudcoreano Son, che quasi sviene e resta agonizzante a terra.

Alex Del Piero si racconta: "La mia infanzia tra filari e vigne sulle colline del Prosecco". Martina Tripi su La Repubblica il 5 Ottobre 2022.  

Una chiacchierata con l'ex capitano della Juventus per raccontare il Veneto e le sue eccellenze, in Italia e nel mondo 

Come si fa a raccontare con parole nuove la Grande Bellezza di una terra come il Veneto che ospita alcune delle mete turistiche più conosciute, amate e visitate al mondo? Attraverso i suoi siti Unesco, ad esempio. È questo il tema della nuova Guida di Repubblica, dal titolo Veneto Paradiso dell'UNESCO. Un fascino diffuso che non ha lasciato indifferenti i tanti personaggi intervistati nel volume, come Alessandro Del Piero, nato a Conegliano, nel cuore delle Colline del Prosecco (tra i nove siti materiali Patrimonio UNESCO), e ancora legatissimo a questa terra. Pubblichiamo un estratto della sua intervista.  

Del Piero, qual è il suo primo ricordo legato al pallone?

"Un ricordo immortalato in una foto, la mia prima foto. Ci sono io piccolissimo, meno di un anno, in un prato con l’erba alta che quasi mi copriva, con un pallone giallo, più grande di me, che tenevo in mano, da seduto. Non l’ho mai abbandonato, in fondo, quel pallone. E ho cominciato presto a giocarci con i piedi". 

Ha cominciato a giocare nel campo parrocchiale di Saccon, poi è approdato al San Vendemiano. Qual è il suo legame con i luoghi della sua infanzia e quali i ricordi più belli?

"Sono ricordi legati ai luoghi dove giocavo con i miei amici: il campo dietro casa mia, teatro d'interminabili partite, undici contro undici ma anche uno contro uno. E io c’ero in entrambi i casi, nel teatro dove ho sognato di essere in Champions League e ai Mondiali, e di vincerli. E poi il campo parrocchiale di Saccon, quello della mia scuola elementare, dove ho giocato il primo torneo, con la mia squadra in maglia gialloblù, poi nella mia prima squadra, il San Vendemiano, in maglia biancorossa, e lì sono rimasto fino ai tredici anni. Quando è cominciata l’avventura da grande”. 

Da allora ne ha fatta di strada, sia a livello atletico che geografico: come descrive le Colline del Prosecco quando si trova all’estero?

"Con molto orgoglio, quando descrivo da dove vengo, dico che sono nato nella zona delle Colline del Prosecco, e mi rendo conto che lo conoscono tutti. Negli ultimi anni questo è diventato un “brand” fortissimo e ne sono contento, perché ha contribuito a fare in modo che tanta gente abbia scoperto i nostri territori". 

Cosa consiglierebbe di visitare a chi vi si reca per la prima volta?

"Nel giro di un’ora, da casa mia, puoi arrivare al mare o in montagna a Cortina, nelle Dolomiti, e in tante fantastiche città d’arte, a cominciare da Venezia. Però quello che mi piace sottolineare è la bellezza del territorio, che vivi girandolo e scoprendo fantastici panorami collinari. Ma anche i sentieri da percorrere a piedi e in bicicletta, le vigne, i numerosi ristoranti e gli agriturismi, per una straordinaria esperienza enogastronomica, anche nella stessa Conegliano, che offre grandi opportunità in questo senso".

Conegliano, suo luogo di nascita, è uno dei borghi più rappresentativi di questo territorio: come la ricorda?

"Il mio primo ricordo legato a Conegliano è legato al suo castello, e ancora oggi se ci penso è la prima cosa che mi viene in mente. Quando ero piccolo, e non avevo visto ancora nulla, per me andare al castello di Conegliano era come confrontarmi con qualcosa d'imponente, enorme. Per me rimane ancora il simbolo della città, con l’armeria, la torre, i cannoni, il luogo da dove ammirare il panorama delle colline nei dintorni. Ma Conegliano, non va dimenticato, è anche una città che possiede un notevole patrimonio artistico, e ha dato i natali al grande pittore Giovanni Battista Cima, conosciuto come Cima da Conegliano". 

Le Colline del Prosecco sono Patrimonio dell’Umanità UNESCO: crede che la candidatura e poi l’ottenimento di questo prestigioso riconoscimento sia stato utile a far conoscere ancora di più questo territorio nel mondo?

"Sì, ha aiutato e ha dato risalto al nome della zona, oltre al suo prodotto di punta. Ha anche spinto chi vive in questo territorio - persone operose, dedite al lavoro - a dare il massimo, a fare ancora di più per il proprio territorio. È un motivo di orgoglio e di prestigio, e non è solo un riconoscimento vuoto. Ha contribuito a migliorare la mentalità delle persone e soprattutto ha riconosciuto una meritata visibilità mondiale". 

Con il suo ristorante N°10 di Los Angeles è diventato ambasciatore della cucina italiana: cosa l’ha spinta a dare inizio a questo progetto e quali sono i grandi classici che non mancano mai nel menu?

"Secondo me la cucina italiana è la numero uno al mondo per qualità e varietà, anche se sono di parte come italiano e come proprietario di un ristorante italiano. Per me è stato importante fin da subito dare un tocco di familiarità e di "italianità" scegliendo nel modo migliore le materie prime. Pasta e riso non mancano mai, naturalmente, e anche un buon aperitivo con tanti assaggi di eccellenze italiane, che vengono particolarmente apprezzati". 

Tra i vini ha scelto alcune delle eccellenze del suo territorio?

"Abbiamo un’ottima cantina, con tanta varietà, in particolar modo di vini italiani. Ovviamente anche della mia zona".

La vigna, le viti: che significato hanno per lei?

"Significano casa, perché dietro casa mia io giocavo a calcio in un campo diviso in tre parti: la ghiaia, l’erba e i primi filari delle viti. E poi c’era la vendemmia, i carri con l’uva sopra, la festa del Paese, la compagnia, e il sapore dell’uva. È qualcosa che mi riporta e mi riporterà sempre alla mia infanzia e al mio paese". 

Salvatore Malfitano per gazzetta.it il 3 ottobre 2022.

"Sento un dolore nell'anima". D'altronde, tutta la sua carriera è stata vissuta in balia del sentimento, nel bene e nel male. E in un giorno così era ovvio che fosse travolto dalle emozioni. Gonzalo Higuain ha annunciato il ritiro dal calcio giocato, in una speciale conferenza stampa convocata dopo quella dell'allenatore dell'Inter Miami, Phil Neville. Il Pipita si è presentato ai microfoni visibilmente scosso, ha preso una lettera e ha cominciato a leggere dopo due sospiri profondi: "Grazie di essere qui, ho pensato in questi giorni alla mia carriera e ho scritto alcune righe. Questo è il momento di comunicarvi una notizia su cui sto riflettendo molto: dico addio al calcio, una professione che mi ha fatto sentire un privilegiato". 

 Da lì ha ripercorso tutta la sua carriera: il River Plate, il Real Madrid, i tre anni al Napoli in cui ha riscritto i record della Serie A fino al passaggio alla Juventus. "Quando i bianconeri hanno deciso di pagare la clausola, è stato incredibile: sono diventato il giocatore argentino più pagato della storia. Con Milan e Chelsea sono stato poco, ma sono onorato di aver vestito quelle maglie. Ringrazio infine l'Inter Miami, per la fiducia, i bei momenti, il sostegno durante i momenti difficili tra cui la scomparsa di mia madre e per avermi dato l'opportunità di giocare con mio fratello" ha proseguito. Poi, quando ha ringraziato la famiglia, non ha retto e si è lasciato andare alle lacrime. 

Prima di sottoporsi alle domande dei giornalisti collegati da tutto il mondo, tutti i compagni di squadra l'hanno abbracciato uno alla volta. C'è stato spazio anche per qualche tenero bacio alla figlia Alma. "Questa decisione è stata presa negli ultimi 3-4 mesi, l'ho comunicato al club e abbiamo trovato un accordo. Quando sono venuto qui, l'ho fatto col piacere di giocare a calcio. Infatti smetto in uno dei momenti migliori della mia carriera, quest'anno mi sono divertito moltissimo. Sento un dolore nell'anima, ma è ora di una nuova esperienza e di godermi la famiglia.

 Ho sempre sognato di chiudere la carriera così, ho trovato un gruppo fantastico e voglio ringraziarli per avermi fatto tornare la voglia di giocare, non avrei mai pensato di trovare tutto questo in Mls. È la decisione più difficile per un calciatore, ma preferisco ritirarmi a questo punto della mia carriera. Ora sono concentrato al cento per cento sulle partite che restano. Aver giocato nove anni con l'Argentina e aver partecipato a tre Mondiali è stata la cosa più bella. Ho solo parole di gratitudine per quello che ho ricevuto" ha concluso l'argentino. Ad ora, in 17 anni di carriera, ha collezionato 708 presenze e 333 reti, dati che potrebbero aggiornarsi in questo finale di stagione. 

  Phil Neville, la cui conferenza ha anticipato l'annuncio del Pipita, ha espresso parole di apprezzamento nei suoi confronti: "È uno dei migliori realizzatori che abbia mai visto, ha una mentalità da vero professionista, dà tutto in allenamento. Ha acquisito una conoscenza del gioco sul piano tattico e tecnico incredibile, ha assorbito tanti insegnamenti dopo aver lavorato con i migliori allenatori del mondo, come Capello o Sarri. Con ciò che ha fatto vedere nelle ultime settimane, ha dimostrato di essere un vincente".

Da ilposticipo.it il 4 ottobre 2022.

Gonzalo Higuain ha detto basta. Il Pipita ha annunciato l'addio al calcio, che pure gli ha dato parecchio, al termine della stagione della MLS. Del resto, che l'argentino fosse abbastanza stufo di quanto circonda il pallone era chiaro da qualche anno, ma vista l'ottima forma con la maglia dell'Inter Miami non ci si aspettava che il centravanti avrebbe appeso gli scarpini al chiodo. 

E Higuain lo fa a un'età che, soprattutto per gli standard odierni, non è neanche troppo avanzata. A 35 anni ci sono calciatori che fanno tuttora la differenza, basta pensare che l'ex juventino è coetaneo di Messi. Ma alla fine, non avendo più gli stimoli necessari, Higuain ha appeso gli scarpini al chiodo. Forse troppo presto. Come tanti altri colleghi.

Salvatore Riggio per corriere.it il 4 ottobre 2022.

Higuain si ritirerà dal calcio giocato alla scadenza del contratto con l’Inter Miami (il 31 dicembre 2022, quando avrà compiuto da poco 35 anni). «Sono qui per raccontarvi la mia storia», sono le sue prime parole nella conferenza stampa in cui ha dato l’annuncio. «Dopo 17 anni e mezzo da giocatore professionista, la carriera più bella che potessi fare, è giunto il momento di dire addio. 

Sento che il calcio mi ha dato molto. Io ho dato tutto me stesso e anche di più. Grazie a tutti coloro che hanno riposto la loro fiducia in me», ha continuato. Anche i suoi compagni di squadra attuali hanno voluto rendergli omaggio salutandolo di persona. Così come la dirigenza e soprattutto la sua famiglia. Da brividi l’abbraccio di tutta la squadra statunitense che ha voluto rendere omaggio all’argentino.

Il bullismo

Gonzalo ha dovuto fare i conti con prese in giro per qualche gol sbagliato (e dire che ne ha segnati una valanga, alcuni bellissimi), sfottò su qualche chilo di troppo in alcune circostanze e accuse varie per trasferimenti contestati (su tutti quello dal Napoli alla Juventus). «Non ero felice se in campo sbagliavo qualche gol, ma soprattutto per le ripercussioni attorno a me — ha spiegato in un’intervista a Espn —. Meme, insulti, prese in giro, il bullismo. La critica feroce era diventata all’ordine del giorno. La gente non si accorge del peso enorme che ti arriva addosso». 

E ancora: «In un qualsiasi stadio, in un supermercato, ovunque non ci si accorge dell’effetto devastante che hanno le parole delle persone. Ci sono tanti bambini e ragazzi che per paura non ne parlano e prendono poi decisioni drastiche». Infine: «Io ho vissuto per 15 anni in modo innaturale, non avendo gli stessi diritti di altri davanti agli insulti, ad esempio. Non puoi reagire perché se lo fai la ripercussione è doppia. Ho vissuto una vita nel calcio ai massimi livelli, e non ho mai potuto dire nulla quando mi hanno insultato, ho dovuto chinare la testa quando mi hanno mancato di rispetto. Oggi basta, non ce la faccio più».

Pavel Nedved, i suoi video privati diffusi sui social. Manlio Gasparotto su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

Niente più che una festa, niente di illegale se non la vita privata di persone note. Anche se qualche palpeggiamento intimo rende scomode le immagini

Un uomo barcolla nella notte torinese, in abito blu e capelli lunghi biondi. Da domenica notte questo filmato passa di telefonino in telefonino, ma l’identità di quell’uomo — che non si gira mai verso chi filma — resta un mistero anche se una parte del web, senza alcun dettaglio rivelatore l’ha immediatamente legato al nome di Pavel Nedved.

Non c’è invece alcun dubbio su chi, in un altro breve frame sempre sbarcato sulla Rete nella notte, dia vita a un trenino sfrenato, è l’ex Pallone d’oro che si diverte in un locale della città sulle note di Bailando, di Enrique Iglesias, come terzo vagone di un convoglio umano che canta felice. Niente più che una festa, niente di illegale se non la vita privata di persone note. Anche se qualche palpeggiamento intimo in questo secondo breve filmato rende scomode le immagini.

E non sorprende che da ambienti juventini filtri un certo fastidio per la pubblicazione dei video che ora sono di dominio pubblico e sui quali si sono scatenati commenti di ogni tipo. L’unica certezza riguarda la visita di alcune amiche di Nedved, arrivate in città insieme a quella che è l’attuale compagna dell’ex centrocampista boemo: sono state con lui a Marassi in questo periodo di fine estate. Vacanze italiane e divertimento, per loro e Nedved, da tempo separato.

I video intimi di Pavel Nedved finiti in rete, le reazioni ironiche dei tifosi e l’imbarazzo bianconero. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

Intanto la popolare cantante e attrice slovacca Dara Rolins posta sui social foto e filmati della sua relazione con il vicepresidente della Juventus

Pavel Nedved è finito nella bufera sui social per dei video che stanno circolando sul web. E subito gli utenti si sono divisi in colpevolisti e innocentisti. Così se c’è chi critica la «notte brava» del dirigente della Juventus, ed ex calciatore della Lazio e dei bianconeri, c’è anche chi lo difende. «È in crisi di mezza età? Quando capitano queste cose al di là dell’antipatia per il soggetto, provo sempre un po’ di tristezza», «Forse si spiega il declino societario bianconero sul mercato degli ultimi tre anni» o ancora: «Sperando che non sia l’unico penso che sia giunta l’ora che Pavel Nedved tolga il disturbo all’interno della società Juve». Ma appunto c’è chi va contro le critiche: «Per quanto mi riguarda Nedved può fare quello che vuole, ammesso che sia lui, dopo gli anni passati in campo a sputare sangue se vuole fare una serata alcolica può permetterselo. Sarebbe da condannare se lo facessero i giocatori attuali». E ancora: «La vicenda del presunto video su Nedved conferma quello che da tempo penso sui social, l’uso sbagliato da parte di molti. Tanti ne fanno uso come fossero investigatori privati andando a curiosare e ficcare il naso sulla vita altrui». Infine: «Ma davvero voi moralisti vi scandalizzate per queste cose?».

Nedved è ormai separato da sua moglie, ma nelle ultime settimane sono emerse indiscrezioni sulla nuova vita sentimentale con la popolare cantante e attrice slovacca Dara Rolins. Questa estate a Los Angeles, durante la tournée statunitense della Juventus, il vice presidente bianconero si divideva tra la squadra, gli amici come Alessandro Del Piero e la nuova compagna, Dara Rolins appunto. Fanno coppia fissa da tempo e in Repubblica Ceca i giornali sono scatenati. Le copertine sono tutte per loro. Sul proprio profilo Instagram (da 689mila followers, destinati a salire) Dara posta immagini e filmati su questo nuovo amore. Tornando ai video, in uno si vede un uomo di spalle che barcolla in abito blu e capelli lunghi biondi. Nel secondo non c’è, invece, alcun dubbio su chi sia il personaggio in questione. Si vede Nedved che si diverte in un locale di Torino sulle note di Bailando di Enrique Iglesias, come terzo vagone di un convoglio umano che canta felice. E a un certo punto allunga le mani sul seno di una di loro, palpeggiandola. Non sorprende un certo imbarazzo da ambienti juventini per la pubblicazione dei video che ora sono di dominio pubblico e sui quali si sono scatenati commenti di ogni tipo. Resta l’unica certezza: la visita di alcune amiche di Nedved, arrivate in città insieme a quella che è l’attuale compagna dell’ex centrocampista boemo. Sono state con lui a Marassi per Sampdoria-Juventus 0-0 di lunedì 22 agosto.

Pavel Nedved, i video delle notti finiti sui social e i sospetti: qualcuno ha voluto colpire lui o la Juve? Manlio Gasparotto su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

I filmati sarebbero di tre anni fa. La tempesta social lascia una domanda, per la bizzarra coincidenza di due video lontani nel tempo ma «pubblicati» in rapida successione. Come se qualcuno avesse voluto colpire il vicepresidente della Juventus o lo stesso club. 

Ingresso serio e silente, foto di rito, sorrisi. E via. Conferenza stampa per presentare un nuovo giocatore della Juventus, Arek Milik in questo caso, e c’è Pavel Nedved in sala con il ds Cherubini e l’ad Arrivabene. Si parla di calcio, pur se tra gli argomenti di discussione fuori dalla Continassa non ci sono solo il mercato e gli schemi di Allegri ma anche due video apparsi domenica. Immagini che la Juve non commenta, proteggendo la privacy del vicepresidente.

Il primo file — filmato da un gruppo di ragazzi — ritrae un uomo dalla lunga capigliatura bionda, di spalle, che si trascina ubriaco per le strade di Torino indossando un abito di ottimo taglio. È Nedved? Solo alcuni commentatori sul web ne sono certi. Siamo nel Quadrilatero, non distante dalla sua abitazione. E fine degli indizi. Più facile incontrare Pavel Nedved nei paraggi della Mole, dove ha diversi amici e frequenta alcuni locali. L’uomo del primo video non si vede in faccia, ma poco dopo eccone online un secondo dove il boemo si riconosce bene, balla con tre ragazze, è il terzo di un trenino che canta sulle note di un brano di Enrique Iglesias. E allunga le mani sulla prima ragazza… La palpeggia. Come fa anche la ragazza davanti a lui, mentre quella che spunta alle spalle è proprio la sua compagna di quei giorni: il video sarebbe di circa tre anni fa. Non sono immagini rubate bensì «fuoco amico» durante una festa, ma sono anche i frame che irritano qualcuno e scatenano i commenti oltre che una serie di meme sui social.

Immagini non collegabili comunque a quelle dei giorni scorsi, quando a Torino è arrivata con alcune amiche la cantante e attrice slovacca Dara Rolins, l’attuale compagna di Nedved (separatosi dalla moglie Ivana nel 2019, dopo 25 anni, e poi, nel 2021, da Lucie Anovcinova). Una vacanza, un giro del Piemonte tra castelli e laghi ma anche una gita a Genova, per Samp-Juve.

La tempesta social lascia una domanda, per la bizzarra coincidenza di due video così lontani nel tempo, girati da persone che non si conoscono ma «pubblicati» in rapida successione. Come se qualcuno avesse voluto colpire il vicepresidente della Juventus o lo stesso club. Certo un pessimo regalo per l’ex Pallone d’oro, che oggi, 30 agosto, festeggia i suoi primi 50 anni. A telefonini spenti.

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 22 settembre 2022.

Domani andrà in scena il cda della Juve, che già di per sé è qualcosa di importante e figuratevi in questo preciso momento storico. All'ordine del giorno c'è l'approvazione del bilancio della stagione 21/22. La perdita d'esercizio dovrebbe aggirarsi sui 250 milioni (euro più, euro meno); la relazione semestrale, approvata lo scorso 24 febbraio, aveva riportato un rosso di 132 milioni di euro, quella relativa al primo semestre 21/22 aveva ipotizzato «un sensibile miglioramento» a partire dall'esercizio 2022/2023. Insomma, ci faranno sapere (e anche oggi ci siamo travestiti da economisti un tanto al chilo). 

Ma la faccenda che più interessa i tifosi è un'altra e la sintetizzeremo con il domandone: «Che si fa con Massimiliano Allegri?». Il tecnico dei bianconeri è nel mirino di pubblico e pure di parte della dirigenza (leggi Nedved).

Il biondo Pavel vorrebbe far saltare un allenatore che, però, guadagna 7 milioni di euro (+2 di bonus) netti all'anno fino al 2025. Un sacco di soldi. Ecco perché la prospettiva più probabile è quella che vuole Allegri ancora in panca, quantomeno fino alla pausa per il Mondiale, primo concreto momento in cui tanti club faranno il loro bilancio di mezza stagione (anche l'Inter con Inzaghi, per dire).

Ecco, i rapporti tra il tecnico livornese e il dirigente ceco non sono ai minimi termini, semplicemente lo sono sempre stati. Fu Nedved a spingere per la "rivoluzione copernicana in nome del bel giuoco" di qualche stagione fa: arrivarono prima Sarri e poi Pirlo e alla fine patron Agnelli scelse di tornare al pragmatismo allegriano. 

Quello stesso pragmatismo che, però, al momento non ha portato frutti in termini di risultati (per non parlare del giuoco). E così Nedved è tornato più o meno silenziosamente alla carica, pur sapendo che c'è anche chi vorrebbe accompagnare pure lui all'uscita. I video magicamente comparsi qualche settimana fa con l'ex Pallone d'Oro immortalato mentre festeggia "allegramente", a qualcuno sono sembrati una sorta di «avviso ai naviganti», una cosa del tipo «il biondo non è più gradito e glielo stanno facendo capire».

Quel che è evidente è che tra Nedved e Allegri siamo più o meno nella fase "o lui o io", mentre tra i tifosi bianconeri c'è chi vorrebbe che se ne andassero entrambi. Alcune voci incontrollate parlano di un tentativo dello stesso Nedved di riportare a Torino - ovviamente a partire dalla prossima stagione - Antonio Conte, tecnico del Tottenham che, però, mal si lasciò con Andrea Agnelli (eufemismo). 

Che poi, pure di Agnelli si dice la qualunque: c'è chi mormora che presto il presidente potrebbe essere "ricollocato", ma è anche vero che questa voce girà praticamente da un lustro. Morale, la situazione è complicata non solo per i (non) risultati sul campo, ma anche - e forse soprattutto per lo scollamento interno. Vorremmo terminare questo articolo con il classico «c'è poco da stare Allegri» ma saremmo certamente patetici e quindi non lo faremo. 

Da ilnapolista.it il 23 settembre 2022.

Il Messaggero scrive del cda della Juventus in programma oggi paventando addirittura l’ipotesi che il vicepresidente Nedved sia pronto alle dimissioni. 

“Il futuro di Allegri non sarà argomento di dibattito diretto, anche perché tra i 10membri del consiglio di amministrazione bianconero gli unici ad avere esperienza in tema calcistico sono Andrea Agnelli, Maurizio Arrivabene e Pavel Nedved. Ma potrebbero esserci novità proprio riguardo il vicepresidente bianconero, con voci che si rincorrono da giorni sulle sue possibili dimissioni”. 

Mario Gerevini per corrriere.it il 23 settembre 2022.

Cuore e affari. Pavel Nedved e la cantante Dara Rolins hanno acquistato per quasi un milione di euro un pezzo di terra sul Lago Maggiore. «Pascolo», «bosco ceduo» e «seminativo» recitano le carte catastali di Leggiuno (Varese), sponda lombarda. Ma è chiaro che il vicepresidente della Juventus (436 mila euro di remunerazione l’anno scorso) e l’artista slovacca, molto nota in patria, non ci faranno l’orto. Il terreno, pagato 440 euro al metro quadro, è edificabile. 

I Kennedy come vicini

Dunque l’area di 1.970 mq potrebbe essere destinata a un’operazione di sviluppo immobiliare, oppure essere la base per costruire un villa, il loro buen retiro affacciato sul lago nella frazione di Arolo, poco distante, tra l’altro, dalla villa della famiglia Kennedy che fu di Eugenio Cefis, ex presidente di Eni e Montedison. Amore e fatturato si saldano poi in una società fifty-fifty dal nome altisonante che la nuova coppia ha costituito a Torino: Foxy Group.

Affari di coppia

Il primo step è del dicembre scorso quando Nedved, 50 anni compiuti il 30 agosto, e la coetanea Rolins acquistano in parti uguali il terreno (per il catasto sono in realtà cinque piccoli appezzamenti contigui). Mesi dopo, mentre tra Praga e Bratislava infuria il gossip sulla relazione non ancora pubblica tra la star della musica e il dirigente juventino (dal 2019 è separato dalla moglie e nei documenti ufficiali si dichiara «libero di stato»), nasce la società.

E la missione che si dà è ad ampio spettro, in Italia e all’estero: compravendita di titoli, concessione di finanziamenti, costruzione e gestione di immobili ma anche «gestione … dei diritti di immagine dello spettacolo e dello sport», ecc. Il «Group» nel nome fa supporre a sviluppi nell’attività e forse altri soci. Intanto il dirigente juventino e la compagna hanno conferito in Foxy Group il prezioso pezzo di terra sul Lago Maggiore. E non è terra qualsiasi: proprio lì nei prati di Leggiuno correva un bambino che poi è diventato Gigi Riva.

Da corrieredellosport.it l’8 novembre 2022.

Paul Pogba è l'ospite d'eccezione alla cerimonia di premiazione del Golden Boy. Il francese è qui per premiare la sua agente, Rafaela Pimenta, lui che nel 2013 fece suo questo riconoscimento. Il francese della Juve sarà costretto a saltare il Mondiale per infortunio, a gennaio per lui dovrebbe iniziare la stagione vera e propria con la maglia bianconera. Intanto, rassicura sulle sue condizioni fisiche una volta salito sul palco. 

Dice Pogba: "Per me era un sogno vincere questo premio, io voglio continuare a vincere. Come sto? Meglio, diciamo bene". Poi si lascia andare a un po' di romanticismo: "Rafaela Pimenta è la mia seconda mamma, mi ha aiutato tantissimo per la mia carriera. Mi ha fatto capire tantissime cose non solo nel mondo del calcio. È una persona importantissima per me e per la mia famiglia".

Infine, ecco un aneddoto su Mino Raiola: "Un ricordo di Raiola? Quando ero giovane, a Manchester, Ferguson voleva farmi firmare il rinnovo. Quando è arrivato Mino, ha guardato il contratto ed ha detto: "Questo contratto non lo farei firmare neanche al mio cane. Paul, alzati e andiamo via".

Da corrieredellosport.it l’8 novembre 2022. 

In occasione della premiazione del Golden Boy 2022 a Torino, Nicola Zalewski ha parlato ai microfoni di Calcionews24.com: "Ieri è stato un incidente di percorso e decisa da un episodio. Tra due giorni abbiamo una partita per rifarci. Mourinho va ringraziato per quello che fa per me e per la squadra, ci sentiamo molto a nostro agio con lui. Io mi trovo bene dove mi mette il mister, voglio dare il massimo per la squadra. Non abbiamo ancora avuto un confronto ma sicuramente il mister avrebbe speso una parola di conforto per noi. Europa? Qualsiasi squadra è difficile come lo siamo noi per gli altri“.

Zalewski ha parlato anche ai microfoni di SkySport: "Un'emozione unica essere qui, sono giornate indimenticabili. Il finale della scorsa stagione è stata particolare, mi sono impegnato molto e quest'anno devo confermarmi. Il mister è come un secondo papà per me. Come squadra dobbiamo migliorare ancora sotto dei punti di vista. Ieri la partita è stata decisa da un episodio e ora pensiamo alla prossima. I sorteggi di Europa League? Ogni squadra che affrontiamo è una partita complicata".

Pogba ha pagato 100mila euro al fratello, ma lui voleva 3 milioni. Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi, su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

Sulla vicenda indagano la Procura di Torino e gli inquirenti francesi. Il calciatore avrebbe anche firmato un documento con cui si impegnava a pagare la somma. 

Il caso Pogba continua con nuove rivelazioni. Il campione della Francia e della Juventus ha denunciato la banda formata dal fratello Mathias e da alcuni amici di infanzia, tra i quali due uomini che nel marzo scorso lo hanno sequestrato per alcune ore e minacciato con fucili d’assalto, chiedendogli tredici milioni di euro — uno per ogni anno di carriera — come ricompensa per la «protezione» che gli avrebbero fornito. 

Pogba alla polizia: «Sequestrato e minacciato in casa da mio fratello Mathias e la sua banda»

Secondo France Info, gli uomini armati pretendevano tre milioni subito e Paul Pogba avrebbe accettato di pagarli, ma le banche si sono rifiutate di fornire al campione una liquidità così importante. Pogba ha comunque recuperato 100 mila euro, e lo scorso aprile li ha versati alla banda. Il fratello Mathias e alcune persone del «clan Pogba» che finora accompagnavano il campione lo accusano di non averli aiutati finanziariamente e di non avere pagato per la protezione che gli ha assicurato 13 anni di carriera senza incidenti. Oltre ai 100 mila euro già pagati, Pogba avrebbe accettato di firmare un documento con il quale si impegna a pagare il totale della somma richiesta, e avrebbe anche accettato la presenza costante al suo fianco di un uomo chiamato «Babacar». 

Pogba, anche i fratelli giocano a calcio, ma solo Paul ha sfondato

Secondo il quotidiano sportivo L’Equipe, la posizione di Pogba è al centro dell’interesse degli investigatori. Il campione della Juventus a fine luglio si è rivolto alla polizia italiana a Torino, che ha trasmesso il dossier ai colleghi francesi, sul caso dal 3 agosto. Pogba finora potrebbe non avere detto tutto sull’origine della tentata estorsione, e gli inquirenti cercano di raccogliere più informazioni sui 100 mila euro pagati dal calciatore in aprile, e anche sui 200 mila che secondo lui un amico gli ha rubato usando la sua carta di credito a gennaio mentre era ospite nella casa di Manchester (all’epoca giocava ancora nello United). La polizia francese avrebbe proceduto a controlli bancari per verificare il racconto di Paul Pogba.

Kylian Mbappé, star del Paris Saint-Germain e compagno di Paul nella nazionale francese, è stato coinvolto suo malgrado nella vicenda da Mathias, secondo il quale il fratello avrebbe chiesto a uno stregone di lanciare un sortilegio contro Mbappé. Il campione del Psg è tranquillo e «sereno», dice il presidente della federazione francese Noel Le Graet, ma osserva gli sviluppi della vicenda «con occhio attento». Pogba, infortunato, ha deciso di non operarsi al ginocchio nella speranza di poter giocare ai Mondiali di dicembre in Qatar, ma a questo punto la sua presenza in campo sembra a rischio soprattutto per altre ragioni.

Massimiliano Nerozzi per il Corriere della Sera il 31 agosto 2022.

Tornando nell'amata Torino, Paul Pogba sperava di essersi liberato delle minacce, dei ricatti, delle richieste di milioni di euro (e del fratello Mathias), che l'avevano turbato a Manchester, ai tempi dello United, e scioccato a Parigi, quand'era in ritiro con la Nazionale: tutti incubi che si sono invece ripresentati nel mezzo dell'estate, davanti al centro sportivo della Continassa, quartier generale della Juve, alle porte della città.

Come fosse un action movie di Pierre Morel, tra modi da banlieue e propositi di vendetta. La security bianconera aveva respinto un paio di persone che chiedevano di lui, e il campione francese due giorni dopo, era il 16 luglio, aveva presentato denuncia alla polizia. Morale: ora in procura c'è un'inchiesta per estorsione aggravata, sulla quale indagano gli agenti della Squadra mobile.

Estorsione consumata, e non tentata, è l'ipotesi perché - secondo quanto riferito alle autorità francesi - Pogba sarebbe già stato costretto a consegnare 100 mila euro. Era successo a fine marzo, nella capitale francese, quando Paul sarebbe stato sorpreso da alcune persone, due delle quali armate di fucili automatici, per poi essere condotto in un appartamento: «Caro Paul, ci devi dare 13 milioni di euro». 

Uno per ogni anno di carriera, e per la «protezione» (non richiesta) che vecchi amici d'infanzia avrebbero offerto al giovane cresciuto con loro a Le Havre, poi diventato stella del pallone, tra Juve e United, fino alla coppa del Mondo del 2018. Pare una sceneggiatura da commedia all'italiana, ma le modalità sono da noir, tant' è che a Parigi tutto finisce all'Office central de lutte contre le crime organisé. Che indaga per estorsione.

Passa qualche mese e l'offensiva di Mathias sbarca sul web, che per queste cose è molto reale e poco virtuale: accusa Paul di pensare solo a se stesso e ai suoi affari, di averlo abbandonato, di essere un cattivo musulmano. C'è lui anche dietro al blitz parigino, sostiene il calciatore, ma Mathias nega. Lo stesso fratello sarebbe stato tra i personaggi che si erano presentati fuori dalla Continassa, due all'ingresso (respinti) e uno in auto.

 Persone che gli agenti, coordinati dal pubblico ministero Enrico Arnaldi di Balme, stanno cercando di identificare, anche grazie alle tante telecamere presenti al centro sportivo bianconero. Anche se molti indizi ci sono già nel racconto del giocatore juventino, tutelato dall'avvocato Rafaela Pimenta, che è anche il numero uno dell'agenzia che lo rappresenta. 

 Come se non bastasse, in questa storia c'è anche uno stregone: quello che, sempre secondo Mathias, Paul avrebbe ingaggiato per lanciare una macumba ai danni di Kylian Mbappé, star del Psg e suo compagno di Nazionale. «Ho le prove», sbotta Mathias, mentre il fratello nega categoricamente. Il fatto poi che, nello spogliatoio, Mbappé non sia esattamente amato aiuta: in Francia, è già un feuilleton.

C’eravamo tanto detestati: in un’inchiesta (archiviata) i rapporti tra i fratelli Pogba. Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022 

Nell’estate 2016 la Procura indagò sui conti di Paul 

Già a margine di una vecchia inchiesta della Procura di Torino — archiviata — emergevano i rapporti tesi (e ora presuntamente molesti) tra i fratelli Pogba, Mathias e Paul, detonati in questi ultimi giorni, tra social, denunce e nuove indagini. Nell’estate del 2016, quella del passaggio del Polpo dalla Juve al Manchester United, era infatti successo che si avviassero accertamenti di natura contabile sul centrocampista francese: morale, ne era nata un’inchiesta assegnata al pool che si occupa di reati economici per presunte irregolarità fiscali. Irregolarità delle quali, dopo approfonditi accertamenti, non era stata trovata alcuna prova, per cui la stessa Procura aveva chiesto l’archiviazione, accolta nel 2019 dal gip.

E se, all’epoca, il bersaglio dell’inchiesta era Paul, nel corso degli atti di indagine era spuntata anche la figura di Mathias e, anche, alcuni rapporti tra i due fratelli, non sempre lineari. O per lo meno curiosi, considerando il legame di parentela. Per capire l’aria che tirava, bastano le parole di Jean-Marc Ettori, presidente del Tours, dove Mathias giocò nella stagione 2018-19. In un’intervista pubblicata dal quotidiano Le Figaro, il dirigente ha raccontato un retroscena legato proprio ai fratelli Pogba. Un resoconto al limite della sit-com: «All’epoca ci fu proposto di prendere Mathias, ma all’inizio rifiutammo. Poi però il clan Pogba ci fece una controproposta». Ovvero: «Ci dissero che lo stipendio a Mathias l’avrebbe pagato Paul. E in più, lo stesso Paul sarebbe venuto a giocare un’amichevole e a vedere un paio di volte il fratello a Tours», ha spiegato ancora Ettori. Il club, che allora militava in terza divisione, accettò la proposta e sottoscrisse un contratto da circa 80 mila euro, che però, sempre a detta di Ettori, «non sono mai stati versati».

E se l’inchiesta della Procura fu poi archiviata, ora ce n’è una nuova, nella quale Paul Pogba è parte offesa, dopo aver presentato denuncia per estorsione. Prima (subita) a Parigi — dove avrebbe consegnato cento mila euro ad alcune persone, sotto la minaccia delle armi — poi per un tentativo di replay a metà luglio, fuori dal centro sportivo della Continassa. Quando due persone avevano chiesto di vederlo, ma erano state respinte dalla security. Un tentativo dietro al quale — secondo la denuncia — ci sarebbe sempre Mathias (che nega). Nel frattempo, molto era già esploso sui social, con i video dello stesso Mathias, che accusava di qualsiasi cosa il fratello. Tutte illazioni respinte da una nota dei legali del giocatore della Juve. Nella vicenda è entrato anche uno stregone che — sempre secondo la versione di Mathias — sarebbe stato ingaggiato da Paul per colpire Kylian Mbappé, star del Psg e, soprattutto, della nazionale Bleus. Per i giornali francesi, invece, Paul avrebbe smentito, raccontando agli investigatori di aver sì contattato un santone, ma per proteggersi dagli infortuni. A parte il crederci, pare non abbia funzionato.

Antonio Barillà per “La Stampa” l'1 settembre 2022.  

Sulla faida della famiglia Pogba, tra ricatti e minacce, c'è poco da scherzare, ma fin dall'inizio il richiamo allo stregone ha dato un tocco di stravagante levità. Accusato dal fratello Mathias d'aver commissionato un malocchio al connazionale Mbappé, il campione della Juventus avrebbe ammesso d'essersi rivolto a un "marabù" ma solo per essere protetto lui dagli infortuni.

Senza ombre, dunque, di maledizioni verso terzi. Ovunque stia la verità, il mandato è miseramente fallito: poiché Mbappé sta meravigliosamente e ha pure strappato un triennale da 150 milioni al Psg, mentre Paul è ko da luglio e di rientro in campo ancora non si parla, l'unica speranza è che il sortilegio preveda la formula "Soddisfatti o rimborsati".

Da gazzetta.it l'1 settembre 2022.

Fratelli contro oggi, ma molto legati fino a ieri. La guerra in atto tra i Pogba sorprende, anche alla luce di aneddoti che dalla Francia emergono su una famiglia che si è sempre messa in scena come compatta e solidale. Solo a marzo, per esempio, Paul aveva presenziato un evento per il lancio della società di Mathias, accusato ormai dal centrocampista di estorsione milionaria. In controtendenza con il 'sistema Pogba', come descritto dal presidente del Tours, Jean-Marc Ettori, dove Mathias giocò nel 2018-19.

"Quest’affare – spiega Ettori al quotidiano Le Figaro – non mi sorprende. All’epoca ci fu proposto di prendere Mathias, ma all’inizio rifiutammo. Poi però il clan Pogba ci fece una controproposta. Ci dissero che lo stipendio a Mathias l’avrebbe pagato Paul. E in più Paul sarebbe venuto a giocare un’amichevole e a vedere un paio di volte il fratello a Tours". 

Il club, allora in terza divisione, accettò e sottoscrisse un contratto da 80mila euro, che però "non sono mai stati versati" secondo Ettori, che ha rinunciato a un processo in Svizzera, perché troppo oneroso per la società. Per il presidente, a coordinare tutto sarebbe stata la madre Yeo Moriba, oggi legalmente schierata con Paul in questa faida che mette a rischio il posto del bianconero in nazionale. 

Anais Ginori per la Repubblica il 30 Agosto 2022.

La stella della nazionale francese Paul Pogba finisce dentro uno scandalo che mischia vendetta famigliare, piccola criminalità e stregoneria. Il calciatore francese, da poco tornato alla Juve dopo sei stagioni al Manchester United, accusa suo fratello maggiore Mathias di averlo ricattato con una banda di altri amici per ottenere il pagamento di 13 milioni di euro. 

Tutto è cominciato sabato con un messaggio che prometteva "rivelazioni esplosive" sul centrocampista della Juve e sulla sua agente, Rafaela Pimenta, che ha appena assunto la direzione della società di Mino Raiola, scomparso nell'aprile scorso. Nel video, postato in quattro lingue (francese, italiano, inglese e spagnolo), Mathias Pogba sosteneva che «tutti, compresa la Juve, devono sapere certe cose per poter decidere con cognizione di causa se lui (Paul Pogba, ndr ) merita davvero ammirazione, rispetto, un posto nella nazionale francese e se è una persona degna di fiducia».

Mentre si è scoperto che Pogba aveva già sporto denuncia a inizio agosto, è arrivata la replica dei suoi avvocati e di Pimenta. «Le recenti dichiarazioni di Mathias Pogba sui social network non sono purtroppo una sorpresa. Si aggiungono alle minacce e ai tentativi di estorsione», si legge nel testo nel quale viene precisato che indagano le autorità competenti in Francia ma anche in Italia. Ai magistrati francesi Paul Pogba ha raccontato un primo tentativo di estorsione che risale alla primavera scorsa. 

Pogba è stato minacciato in un appartamento a Parigi da amici d'infanzia e da due uomini incappucciati e armati di fucili d'assalto, che gli hanno rimproverato di non averli aiutati finanziariamente in cambio di una non meglio definita "protezione". La richiesta ammontava, ha spiegato la vittima, a 13 milioni di euro. Pogba sarebbe stato intimidito più volte da allora. La banda di "amici" sarebbe andata a minacciarlo prima nella sede del suo ex club, a Manchester, e poi persino nel centro di allenamento della Juventus. Il campione sostiene di aver riconosciuto il fratello Mathias tra gli uomini presenti. 

Non solo. L'idolo del calcio francese Kylian Mbappé è involontariamente coinvolto nell'oscura vicenda. Paul Pogba ha infatti dichiarato agli inquirenti che i suoi ricattatori volevano screditarlo diffondendo messaggi in cui avrebbe chiesto a uno stregone africano di fare un malocchio su alcuni giocatori, tra cui l'attaccante del Psg. Circostanza che il centrocampista nega ma che il fratello ha subito rilanciato sui social. «Kylian, ora hai capito?», ha commentato Mathias, sostenendo di avere le prove della richiesta di malocchio. «Mi dispiace per questo fratello, un cosiddetto musulmano che si occupa di stregoneria», ha concluso.

Anche Mathias è nato a Conakry, in Guinea, e ha intrapreso una carriera professionale ma molto meno fortunata del fratello più piccolo, passando per tredici club in tredici anni, approdando nel 2021 al Belfort, una squadra di quarta divisione del campionato francese, dove ha giocato solo dodici partite. Negli ultimi mesi, anche grazie alla fama dovuta al campione di famiglia, Mathias è stato ingaggiato come commentatore regolare del programma televisivo "L'Équipe du soir" sul canale del principale quotidiano sportivo.

Fino a qualche mese fa, il clan Pogba sembrava essere estremamente affiatato, mostrandosi spesso insieme sui social network. Mathias, il suo gemello Florentin e la loro madre, Yeo Moriba, erano regolarmente presenti sugli spalti per tifare i Bleus. E invece ora emerge una faida famigliare che sta appassionando la Francia vista la popolarità di Pogba e Mbappé. 

I due giocatori si ritroveranno nella nazionale di Didier Deschamps fra meno di tre mesi per disputare i mondiali in Qatar. Pogba è stato fondamentale nel 2018, contribuendo alla vittoria della Coppa del mondo in Russia. E per i Bleus ora rischia di ripetersi una sorta di maledizione. Come nel 2016 quando la vicenda del "sextape" tra Karim Benzema e Mathieu Valbuena aveva portato all'esclusione dei due giocatori dalla selezione, ci potrebbe essere un impatto sulla squadra.

Il presidente della Federazione calcistica francese, Noël Le Graet, ha tentato di rassicurare i tifosi sulla presunta rivalità tra Pogba e Mbappé. «Per ora sono solo speculazioni e spero che non ci saranno ripercussioni», ha detto Le Graet insistendo per mantenere Pogba come titolare dei Bleus. Il feuilleton rischia però di continuare, con nuove puntate sui social e nelle indagini della magistratura. 

Da repubblica.it il 10 settembre 2022.  

Solo per Pelé un governo era intervenuto direttamente nel calciomercato. Era il 1961 e il Brasile, per non far scappare O Rey in Europa, lo nomina per legge "tesoro nazionale". A maggio, più di sessant'anni dopo, è stato il presidente della Francia, Emmanuel Macron, a blindare Kylian Mbappé, pronto a passare dal Psg al Real Madrid.

Decisivo il tackle governativo: l'attaccante ha rinnovato col club di Parigi per una cifra spaventosa. Cento milioni alla firma e cento netti l'anno per tre anni. È stato lo stesso Mbappé, qualche mese dopo, a raccontare quella trattativa al Time, che gli ha dedicato la copertina, come riporta il New York Times. 

"Non avrei mai immaginato di parlare con il presidente del mio futuro e della mia carriera, quindi è qualcosa di pazzo, davvero qualcosa di pazzo - ha sottolineato Mbappé -. Macron mi ha detto: ‘Voglio che tu rimanga. Non voglio che tu te ne vada adesso. Sei così importante per il Paese'”. Macron ha convinto il ragazzo giocando sulla sua giovane età. "So che sogni il Real, ma hai tempo per partire, puoi rimanere un po' di più". "Certo", la risposta del calciatore. Che confessa: "Quando te lo dice il presidente, conta". Mbappé ha spiegato che del suo futuro si occupano "due persone speciali", i suoi genitori, e il suo avvocato, Delphine Verheyden.

Mpabbé e le liti con Messi e Neymar

L'attaccante ha poi parlato degli attriti nello spogliatoio del Psg, soprattutto con Messi e Neymar, e del suo presunto potere decisionale all'interno del club. "È tutto molto fastidioso, non è vero. Non è il mio lavoro e non voglio farlo perché non sono bravo. Sto bene in campo. E fuori dal campo, quello non è il mio ruolo". 

Mbappé e il Real Madrid nel destino

Eppure, anche se ha deciso di rimanere in Francia almeno per le prossime tre stagioni – spera di giocare le Olimpiadi quando Parigi ospiterà i Giochi nel 2024 – il fascino del Real Madrid rimarrà. Mbappé avrà solo 26 anni quando scadrà il suo ultimo contratto e resta la sensazione che la prossima volta che il Madrid chiamerà, nemmeno i miliardi del Qatar riusciranno a fargli cambiare idea. 

Mbappé: "Sento la vittoria del Pallone d'oro vicina"

Per ora Mbappé si è detto concentrato sul consolidamento del suo status di icona nazionale in Francia. Vuole vincere un altro Mondiale. Vuole alzare al cielo la Champions col Psg. Vuole soppiantare Messi e il rivale di lunga data dell'argentino, Cristiano Ronaldo, come miglior giocatore del mondo. E vincere il Pallone d'Oro. "Penso di essere molto vicino a questo obiettivo. Amo sognare, non mi pongo limiti".

Alessandro Grandesso per gazzetta.it il 23 settembre 2022.  

Le falene che invasero lo Stade de France durante la finale dell'Europeo del 2016, i pizzini piantati nel prato all'Old Trafford, la nottata da incubo di Kylian Mbappé al Parco dei Principi. Tutta opera del marabutto Ibrahim, detto Grande, pagato da Paul Pogba per influire sui risultati e colpire avversari e concorrenti. 

Allo stregone venivano consegnati fino a 100mila euro a malocchio, sempre in contanti. Nella notte è arrivata un'altra sfilza di messaggi di Mathias Pogba, il fratello del bianconero, accusato di estorsione e in carcere, ma che continua a raccontare i retroscena della faida familiare grazie a dei video automatizzati: "Se vedete questi messaggi significa che sono in carcere...".

Dopo un preambolo di vari tweet, con tanto di lettera aperta al centrocampista, Mathias legge di nuovo un lungo testo per svelare come Paul per anni, fin dal 2015 abbia pagato uno stregone, presentandogli dall'ex parigino Serge Aurier, oggi al Nottingham Forrest. Ibrahim, alias Grande, sarebbe anche il marabutto dell'ex nazionale Alou Diarra e di molti altri giocatori e personaggi dello spettacolo.

Negli anni, Ibrahim sarebbe diventato sempre più influente nella vita del centrocampista. Una sorta di confidente che veniva pagato dai 75mila ai 100mila euro a prestazione, anche due volte al mese. Secondo Mathias, Paul ne richiedeva gli interventi per cercare di condizionare le partite, far infortunare gli avversari, frenare l'ascesa di colleghi.

Come appunto Mbappé, che sarebbe stato stregato dal marabutto nella gara di ritorno di Champions League, che il Psg dopo aver vinto l'andata perse per 3-1, nonostante lo United fosse imbottito di riserve. Mbappé quella sera fu l'ombra di se stesso, ricorda Mathias che evoca anche la finale dell'Europeo del 2016: "Dove accaddero cose strane come l'invasione di falene".

Opera del marabutto a quanto pare, ma che non bastò per fermare il Portogallo, che vinse per 1-0, non però con la firma Ronaldo, infortunatosi nel corso della partita, ma grazie al meno noto Eder, ai supplementari. Così Pogba avrebbe pagato molto denaro allo stregone per il Mondiale del 2018, vinto dai Bleus, con il bianconero come protagonista. Da lì in poi il rapporto sarebbe diventato sempre più personale, tanto che lo stregone era considerato un membro della famiglia, invitato all'Old Traffod dove ha fatto piantare dei pizzini, con le maledizioni per colpire gli avversari.

A svelare il legame ai familiari di Paul, l'amico d'infanzia, Mam's, incarcerato con l'accusa di aver partecipato all'estorsione ai danni del centrocampista. E accusato da Pogba di avergli sottratto almeno 200mila euro. Mam's, amico d'infanzia, era l'uomo di fiducia di Paul che lo incaricava di consegnare valigette piene di denaro al marabutto, all'aeroporto di Parigi. Dove un giorno lo stregone fu bloccato dalla polizia. Dovette intervenire Pogba per garantire che si trattava di soldi destinati a opere di beneficenza in Africa. 

In ogni caso, Mathias evoca nei suoi messaggi anche una rete di contatti con presunti ambienti malavitosi, che ormai minacciano la famiglia dei Pogba. Paul avrebbe così garantito una protezione alla madre, in cambio però che si schieri dalla sua parte nella faida con Mathias, indagato e in custodia cautelare dalla scorsa settimana. Da dove continua a parlare, grazie all'automazione dei suoi conti social, tramite cui dipinge il noto fratello come un "piccolo principe viziato, egoista, ipocrita e impregnato del suo ego". 

Mbappé shock: "Ho pensato di lasciare la Francia, mi chiamavano scimmia e nessuno mi ha difeso". La Repubblica l’11 Novembre 2022.

L'attaccante della nazionale Bleus, a pochi giorni dall'inizio dei Mondiali in Qatar, accusa la Federcalcio d'oltralpe e rivela: "Dopo il rigore sbagliato con la Svizzera all'Europeo ho riflettuto molto. Poi ho capito che ci sono anche persone migliori e ho deciso di andare avanti per loro".

"Scimmia, mi urlavano scimmia. A causa loro e della loro ignoranza ho pensato di smettere di giocare a calcio". Kylian Mbappé, talento internazionale, attaccante della Francia campione del mondo e del Psg, a pochi giorni dall'inizio del Mondiale in Qatar ha parlato a Sports Illustrated. Raccontando anche di un momento personale durissimo, i giorni dopo il rigore sbagliato contro la Svizzera costato alla sua nazionale l'eliminazione dall'Europeo. Accusando nell'occasione il mancato sostegno della Federcalcio francese che non avrebbe, secondo il giocatore, preso posizione contro i razzisti. "Ho pensato che non potevo giocare per delle persone che pensano che io sia una scimmia. Poi, però, mi sono preso del tempo per riflettere e tutti mi hanno incoraggiato. Smettere non sarebbe stato un buon messaggio, perché penso di essere un esempio per molte persone. Ho voluto dire alle nuove generazioni 'Siamo meglio di così'".

Kylian Mbappé, quello che non sapete del bomber più forte del mondo: Holly e Benji, il soprannome, Macron, la fidanzata trans, lo stregone. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 7 Settembre 2022. 

Ha appena segnato due gol in 20 minuti contro la Juventus in Champions. Ecco perché il Psg ha investito oltre 300 milioni di euro su di lui

L’attaccante più forte

Due gol contro la Juventus in Champions in 20 minuti nella partita vinta 2-1 dal Psg contro i bianconeri. Basterebbero questo per capire che siamo di fronte a un bomber eccezionale. Se oggi però qualcuno ha ancora dubbi se considerare Kylian Mbappé l’attaccante più forte del mondo, si riveda la gara del Psg a Monaco di Baviera, sotto la neve, dell’aprile 2021. Sconfitto il Bayern Monaco 2-3, in una sorta di rivincita della finale di Lisbona del 23 agosto 2020, vinta dai tedeschi grazie a un gol di Coman. In gol già al 3’ su assist di Neymar, per poi realizzare il terzo gol dei francesi al 68’, al termine di un’azione travolgente. Il fuoriclasse francese del resto è uno dei pochi ad aver segnato in tutti i grandi stadi europei, nonostante abbia soltanto 23 anni (ne compirà 24 il 20 dicembre).

Il rinnovo grazie a Macron

Il suo rinnovo con il Psg è stato intricato e quando è arrivato ha fatto infuriare Florentino Perez, presidente del Real Madrid, che credeva di averlo già in pugno. Erano in tante a sognarlo. E come detto, in pole c’erano le Merengues. Le cifre con i parigini sono eclatanti: 130 milioni di euro alla firma e 90 milioni in tre anni. Grazie anche all’intervento del Presidente della Repubblica Francese, Emmanuel Macron. Che per il bene del calcio transalpino gli ha chiesto di restare..

Famiglia di sportivi

Nato a Bondy, nella regione francese dell’Ile-de-France, Kylian è cresciuto in una famiglia di sportivi originaria del Camerun e dell’Algeria. Suo padre Wilfried ricopre il ruolo di dirigente nella squadra calcistica dell’AS Bondy, mentre sua madre Fayza è stata una professionista della pallamano. Anche il fratello del padre, Pierre, è dirigente sportivo del Sedan e suo fratello adottivo è il calciatore Jirès Kembo Ekoko (attualmente svincolato), adottato dal padre di Kylian in età adolescenziale. I primi passi nel mondo del calcio Mbappé li muove proprio nell’As Bondy. Poi quasi 15 anni sbarca al Monaco.

CR7 è il suo idolo

Grande rispetto per Messi suo compagno di squadra, ma l’idolo di Mbappé è uno solo: Cristiano Ronaldo. Ha sempre affermato che il suo sogno fosse quello di sfidarlo con la maglia della Nazionale. In Nations League si sono affrontati in Francia l’11 ottobre 2020 (0-0) e in Portogallo il 14 novembre 2020 (vittoria francese per 0-1). Gara che tutti ricordano per il dialogo in campo tra Cr7 e Kylian diventato virale.

La passione per Holly e Benji

Mbappé aveva un altro sogno oltre a quello di affrontare Cristiano Ronaldo. Kylian voleva sbarcare nel mondo di «Holly e Benji». Il fuoriclasse francese, nell’estate 2019 in Giappone per presentare una nuova partnership commerciale, è stato accolto da Yoichi Takahashi, il creatore del cartone animato sul calcio più famoso del mondo, che per l’occasione ha creato una versione ad hoc di Mbappé, come se dovesse sfidare i due idoli della New Team alla stregua di un Mark Lenders o di un Julian Ross. Sul disegno il fuoriclasse del Psg, raffigurato con la divisa del club francese, è accompagnato dalla scritta «Benvenuto in Giappone», cordiale messaggio di Takahashi. Il suo amore per il manga giapponese si era già capito nel settembre 2018, pochi mesi dopo la vittoria Mondiale in Russia con la Francia. Dopo un infortunio alla spalla, l’attaccante postò su Instagram un selfie con una vistosa fasciatura con accanto un’immagine che mostrava Holly con un bendaggio simile.

Il soprannome

Il soprannome di Mbappé? Donatello. Il motivo? Lo svelò Meunier nel 2017, quando Kylian approdò a Parigi per comporre un tandem da sogno con Neymar: «Nonostante sia arrivato da poco, tutti lo chiamano Donatello per la sua somiglianza con le tartarughe ninja. Non credo che gli dispiaccia, noi lo troviamo divertente».

La ex fidanzata italiana

Mbappé, pur avendo avuto molte relazioni, non è mai stato sposato. In passato ha frequentato, però, una ragazza italiana. Si tratta di Marialuisa Jacobelli, modella italiana ed ex tentatrice di Temptation Island, già giornalista sportiva.

La fidanzata transgender

Kylian Mbappé però ora è al centro del gossip. Stando a quanto si legge sulla stampa estera l’attaccante starebbe frequentando la modella Ines Rau. I due uscirebbero insieme da qualche mese: sarebbero stati avvistati per la prima volta lo scorso maggio durante il Festival di Cannes. E successivamente i paparazzi hanno beccato il calciatore che scherzava con Ines: a bordo di uno yacht solleva la top model e insieme ridono spensierati. Nonostante le foto, i diretti interessati non hanno ancora commento i pettegolezzi. Ines Rau è nata a Parigi nel 1990 da genitori algerini ed è nota in tutto il mondo perché è stata la prima modella transgender a ottenere una copertina su Playboy nel 2017. A 16 anni Ines si è sottoposta ad un intervento chirurgico per cambiare sesso, ma solo a 24 ha trovato i coraggio di raccontare pubblicamente la sua storia. Inoltre, nel 2018 è uscito il suo libro autobiografico dal titolo «Woman». Con queste parole ha descritto la sua trasformazione da uomo a donna: «Sento che la mia anima finalmente è libera, come se si fosse aperto il lucchetto che mi teneva rinchiusa per tanto tempo. Questa volta sono totalmente una donna». Adesso le voci di una presunta storia con Mbappé.

La vicenda della «stregoneria»

Ma l’asso francese è finito recentemente sui giornali anche per una vicenda al limite tra lo sport e la cronaca giudiziaria. Quella che vede il compagno di Nazionale Paul Pogba coinvolto in una storia di ricatti da parte del fratello e di alcuni suoi amici. «Io preferisco aver fiducia nella parola di un compagno di squadra», ha detto Mbappé, indirettamente tirato in ballo nel caso che vede al centro, come detto, Paul Pogba. Si tratta della storia dello stregone gettata in pasto ai media dal fratello dello juventino. Ma il bianconero ha dato a Kylian «la sua versione dei fatti». In un secondo interrogatorio con la polizia Pogba ha ammesso di aver pagato uno stregone, ma ha negato di aver voluto fare stregonerie o un malocchio a Mbappé. «Si tratta della sua parola contro quella di suo fratello. Io voglio dare fiducia alla sua parola, nell’interesse della Nazionale francese. Voglio vedere come va, ma sono abbastanza distaccato da tutta questa storia», ha concluso Mbappé.

Le liti con Neymar

Altro problema con i colleghi calciatori è quello relativo al rapporto con il brasiliano che gioca con lui nel Psg. I due non si sopportano fin dal 2017. Ultimamente l’ultimo screzio è nato da un rigore fallito da Mbappé sabato 13 agosto nel 5-2 rifilato al Montpellier. A dimostrazione di quanto sia difficile, ma davvero difficile, la convivenza tra l’attaccante francese e Neymar. L’antefatto: Kylian, che ha deciso questa estate di restare a Parigi, e di diventare un simbolo della squadra rifiutando i continui corteggiamenti del Real Madrid, ha sbagliato un rigore sullo 0-0. Il secondo penalty, invece, ha deciso di tirarlo Neymar, che ha segnato e poi realizzato la sua personale doppietta, anticipando di qualche minuto il primo sigillo stagionale di Mbappé. Inoltre, il brasiliano – e se ne sono accorti alcuni tifosi del Paris Saint-Germain – ha messo due like a dei tweet che criticavano Mbappé, colpevole di aver sbagliato il primo tiro dagli 11 metri. Più di così.

Da ilposticipo.it il 7 settembre 2022.

Nasri contro Pogba. La querelle legata alla vicenda della famiglia del centrocampista francese campione del mondo continua a far discutere, anche e soprattutto alla luce di quanto sta emergendo nelle ultime ore quando Franceinfo, canale di notizie al di là delle Alpi, ha svelato che il centrocampista Campione del Mondo si è in effetti rivolto ad uno stregone, anche se non certo per "maledire" Mbappé.  Ad agitare ulteriormente le acque è stato poi l'ex calciatore del City, che ha espresso un giudizio pesantissimo sulla vicenda toccando un argomento assai delicato come la religione.

Pogba ha spiegato e ammesso, secondo quanto riportato in Francia,  di aver effettivamente usato gli sciamani nel suo secondo colloquio, precisando che il suo coinvolgimento era legato aun'organizzazione umanitaria che aiuta i bambini in Africa. Tesi che non ha convinto Nasri. L'ex calciatore ritiene che qualunque sia stata la ragione che abbia spinto Pogba ad affidarsi a uno stregone, non vi sia comunque alcun elemento che possa giustificare questa scelta. 

 "Paul Pogba è in contraddizione. È di fede musulmana. Se devi proteggerti da qualcosa, ti affidi ad Allah, non certo a uno stregone ”. Parole che hanno ovviamente suscitato molte reazioni sui social fra tantissimi utenti che faticano a concepire l'idea che ci si possa affidare a uno sciamano per risolvere qualsiasi tipo di controversia.

Il marsigliese, di origini algerine, tuttavia è ben consapevole di certe dinamiche. E ha affermato, come riportato da spots.fr, di non essere rimasto affatto stupito dalla vicenda di Paul Pogba  ricordando anche una esperienza personale. "Quando giocato nell'Arsenal ho visto giocatori africani che ricevevano continuamente chiamate dalle loro famiglie in Africa. Il consiglio che ho dato loro è stato quello di creare una struttura, una qualsiasi società che garantisse a tutti i loro familiari una occupazione e un posto di lavoro sicuro. Lo ritengo l'unico modo affinché i tuoi familiari non arrivino a creare problemi".

Pogba si opera al menisco: 40-60 giorni di stop, Juventus in allarme. Filippo Bonsignore su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.

Il centrocampista della Juventus il 2 agosto aveva scelto la terapia conservativa di cinque settimane, ora cambia idea: rientro tra metà ottobre e primi di novembre, il Mondiale è a rischio. Allegri: «Per me torna a gennaio»

Pogba si opera al ginocchio destro. Alla vigilia del debutto in Champions League in casa del Paris Saint-Germain, arriva la decisione clamorosa da parte del centrocampista della Juventus che, dopo aver scelto poco più di un mese fa di evitare l’intervento chirurgico per risolvere la lesione al menisco laterale e di affidarsi ad una terapia conservativa per non pregiudicare la sua presenza ai Mondiali, ha dovuto fare marcia indietro.

Era il 2 agosto scorso quando, dopo una decina di giorni dopo l’infortunio rimediato nella tournée negli Stati Uniti, Paul aveva optato per un percorso conservativo di 5 settimane, tre da svolgersi tra piscina, palestra e fisioterapia e due di lavoro differenziato in campo. I tempi però si sono allungati. Sabato scorso lo juventino ha postato sui social un video che lo ritraeva mentre correva su un tapis roulant gravitazionale (che permette di correre senza pesare sul ginocchio) e sembrava un primo passo verso la fase di recupero sul campo. Che è iniziata domenica ma è durata appena due allenamenti: l’ultimo dei quali oggi, mentre i compagni stavano svolgendo la rifinitura pre-Psg.

I test però non hanno dato esito confortante, tanto che è stato deciso, in accordo con la società, per l’intervento immediato. Una decisione che Allegri non ha preso benissimo: «Pogba questa mattina si è allenato, poi si è fermato e ha deciso di operarsi. Io devo calcolare che lo riavremo a gennaio, bisogna essere realisti. Il Mondiale? Che lo giochi o meno non è un problema mio».

Le alternative, come un mese fa, sono due: Pogba ha scelto la via più rapida, la meniscectomia, ovvero la rimozione della parte lesionata del menisco, che comporta uno stop di 40-60 giorni. L’altra opzione era la sutura della zona interessata dall’infortunio, che comporta circa 4 mesi per il recupero. Il rientro è previsto tra metà ottobre e i primi di novembre, il Mondiale è, ovviamente, a rischio.

Anais Ginori per corriere.it il 5 settembre 2022.

Paul Pogba ammette di aver pagato uno stregone ma, giura agli investigatori francesi, non per gettare il malocchio contro il compagno in nazionale Kylian Mbappé, come invece lo accusa il fratello. Il calciatore tornato alla Juve dopo sei stagioni al Manchester United ha dato diversi dettagli ai magistrati che indagano dopo che ha denunciato minacce e un tentativo di estorsione nel quale è coinvolto anche Mathias Pogba, suo fratello maggiore.

Dai verbali dell'ultimo interrogatorio, avvenuto ad agosto ma rivelato solo ora da France Info, il campione dei Bleus avrebbe confermato di aver dato dei soldi a un “marabout”, uno stregone africano. "I soldi - aggiunge però - erano una donazione per un'associazione che aiuta i bambini in Africa". In una serie di video diffusi sui social, Mathias Pogba ha invece accusato il fratello di aver voluto danneggiare con un rito di iettatura alcuni suoi compagni di squadra e in particolare la star della nazionale Kylian Mbappé.

La storia di minacce e ricatti è cominciata nella primavera scorsa, quando Pogba era ancora nel Regno Unito, ma è proseguita anche in Italia. Il centrocampista sostiene di essere stato intimidito da una banda di ex amici d'infanzia tra cui il fratello anche a Torino. Anzi l'annuncio del trasferimento alla Juve, dove guadagna 10 milioni di euro compresi i bonus, ha aumentato il pressing dei suoi presunti estorsori. “Penserai a noi ora” è un sms inviato da Mathias a maggio, presentato alla magistratura da Pogba a cui sarebbe stato chiesto il pagamento di 13 milioni di euro. 

Ai pm italiani che pure indagano sul caso il campione ha ammesso di aver già versato 100mila alla banda che lo ha ricattato. Inoltre ha confidato di aver dovuto cambiare telefono due volte per tentare di liberarsi dal gruppo che lo perseguitava. A luglio la madre del campione è stata minacciata a casa sua e Pogba aveva chiesto l'aiuto del capo della sicurezza dei Bleus.

Nonostante i toni molto spiacevoli dei messaggi diffusi sui social dal fratello, il centrocampista della Juve è convinto che Mathias sia a sua volta vittima di minacce e ricatti. Certo è che lo stillicidio di rivelazioni comincia a preoccupare seriamente l'allenatore Didier Deschamps e la federazione calcio francese in vista dei mondiali in Qatar.  

Da leggo.it il 17 settembre 2022.

Mathias Pogba, fratello maggiore del centrocampista della Juventus e della nazionale francese, Paul Pogba, ha confessato - durante il fermo che è stato deciso nei suoi confronti nell'inchiesta per estorsione - di essere stato all'origine del video di minacce con il quale era stato ricattato il fratello. Mathias Pogba, 32 anni, si era presentato spontaneamente alla polizia mercoledì scorso, ed era stato posto in stato di fermo insieme ad altre 3 persone. 

La vicenda riguarda una denuncia del 16 luglio scorso da parte di Paul Pogba alla procura di Torino, in cui si denunciavano tentativi di estorsione fra marzo e luglio 2022 per 13 milioni di euro. Mathias ha confessato, secondo una fonte vicina all'inchiesta di essere stato lui ad organizzare la diffusione - il 27 agosto - di un video di Mathias che prometteva «rivelazioni» su Paul.

Quest'ultimo, in uno degli interrogatori cui lo hanno sottoposto gli inquirenti francesi - che indagano a loro volta da luglio sulla vicenda - aveva dichiarato che il fratello era «sotto pressione» di persone che volevano rubargli il denaro.

Ancora la settimana scorsa, i legali di Mathias Pogba avevano riferito che il loro cliente si dichiarava «totalmente estraneo» a qualsiasi manovra di estorsione contro il fratello. Paul Pogba aveva detto, nel suo primo interrogatorio dopo la denuncia, di essere finito davanti ad alcuni amici d'infanzia e a due uomini col passamontagna, armati di fucili, che rimproveravano di non averli aiutati finanziariamente.

Uno dei due col volto coperto, sarebbe stato Mathias. Controverso il presunto ruolo nella vicenda di un presunto «marabout» africano: sulle motivazioni che avrebbero coinvolto l'uomo nella vicenda di «stregonerie» o malocchi, le versioni dei due fratelli sono state finora contrastanti.

Da corrieredellosport.it il 19 settembre 2022.

Paul Pogba costretto a vivere sotto scorta dopo le intimidazioni e le minacce subite negli ultimi mesi. A scriverlo è il francese Le Parisien che quindi prosegue a parlare del caso del centrocampista della Juve. Il giocatore sarebbe stato messo sotto protezione della polizia italiana. A dirlo al media transalpino sarebbe stato un membro dell'entourage del calciatore, attualmente infortunato e che dovrebbe tornare in campo a novembre.

Nei giorni scorsi, il fratello maggiore di Paul, Mathias Pogba, ha confessato – durante il fermo deciso nei suoi confronti nel quadro dell'inchiesta per estorsione – di essere stato all'origine del video di minacce con il quale è stato ricattato il fratello. Il 32enne Mathias si era presentato spontaneamente alla polizia mercoledì scorso e si era deciso lo stato di fermo insieme ad altre tre persone.

La denuncia per l'intera vicenda era stata presentata lo scorso 16 luglio da Paul Pogba alla procura di Torino. Il giocatore della Juve denunciava tentativi di estorsione avvenuti tra marzo e luglio del 2022 per 13 milioni di euro. Nel primo interrogatorio dopo la denuncia, Paul aveva detto di essere stato sequestrato da alcuni amici d'infanzia e da due uomini con il passamontagna, armati di fucile, che lo rimproveravano per non averli aiutati finanziariamente. Uno dei due con il volto coperto sarebbe stato Mathias. Si è scoperto successivamente che alcune delle persone coinvolte in questo caso si sarebbero presentate anche al centro sportivo dove si allena la Juve.

Da calciomercato.com il 20 settembre 2022.

"Avevo paura. Entrambi mi hanno puntato le pistole addosso". E' l'agghiacciante testimonianza di Paul Pogba. Le Monde ricostruire la deposizione fatta il mese scorso dal centrocampista della Juventus agli inquirenti, nell'ambito delle indagini sul caso che vede coinvolti il Polpo e i suoi fratelli.

I fatti risalgono al 19 marzo 2022, giornata che il francese aveva trascorso in gran parte con un amico d'infanzia, Boubacar C., a Roissy-en-Brie (Seine-et-Marne), la sua città natale, approfittando del ritiro della Nazionale: "Avevo paura. Entrambi mi hanno puntato le pistole addosso - dice Pogba -. Minacciato in questo modo, dissi loro che avrei pagato ma si misero a gridare: 'Stai zitto, guarda in basso'. Uno dei due incappucciati parlò all'orecchio di Roushdane; quando se ne andarono, Roushdane mi disse che dovevo pagarli, altrimenti eravamo tutti in pericolo".

 Verso mezzanotte, mentre si apprestava a tornare nel suo hotel parigino, Paul venne condotto da altri amici del quartiere, Adama C. e i fratelli Roushdane e Machikour K., in un appartamento a Chanteloup-en-Brie. Qui fu costretto a spegnere il telefono, che gli venne sequestrato; dopo pochi minuti fecero irruzione in casa due uomini incappucciati, con addosso giubbotti antiproiettile e pesantemente armati. Pogba venne quindi "invitato" da Roushdane C. a pagare 13 milioni di euro, di cui 3 in contanti, per la protezione che quei due uomini gli avrebbero fornito per anni. 

Mbappe: "Mago? Io credo in Pogba". TheWorldNews il 5 settembre 2022. 

"Preferisco prendere in parola i miei compagni", ha detto Kylian Mbappe. È stato rilanciato indirettamente in un caso visto nel centrale di Paul Pogba. Il giocatore della Juventus lo ha 'chiamato' al telefono e gli ha dato 'la sua versione dei fatti', hanno sottolineato oggi il PSG e l'attaccante francese alla vigilia della partita di Champions League contro la Juventus a Parigi.

Intanto la radio francese France Info, in un secondo giro di interrogatori con la polizia, ha ammesso che Paul Pogba aveva pagato per il "marabutto", ma che voleva dare a Kylian Mbappé la stregoneria e il malocchio. So che l'ho negato.

Vittima di una tentata estorsione, apparentemente per un valore fino a 13 milioni di euro, Paul Pogba ha finora affrontato una storia che è venuta alla luce attraverso messaggi minacciosi diretti contro di lui da suo fratello Matthias. coinvolti. Pogba ha detto agli investigatori francesi che lo hanno interrogato due volte ad agosto che il suo "ricattatore" gli avrebbe chiesto di girare il malocchio su un conoscente di famiglia, "Marabou", un messaggio che volevo screditarlo spargendo la voce sul PSG. Pogba ha negato.

"Questa è la sua parola al fratello - ha detto Mbappé - a beneficio della nazionale francese voglio credergli sulla parola". Mi piacerebbe vedere - ha commentato il centravanti - ma io "Sono praticamente tagliato fuori da tutte queste chiacchiere". E il mio rapporto con il mio compagno di squadra è sull'orlo del collasso? In una conferenza stampa, ho risposto: "Oggi preferisco credere sulla parola del mio compagno di squadra. Mi ha chiamato e ha dato me la sua versione." Fu radio France Info a leggere i verbali del secondo interrogatorio di Pogba ad agosto. È stato rivelato che il giocatore aveva detto agli investigatori di essere stato circondato da un amico d'infanzia e da due uomini in passamontagna armati di fucili. Secondo Pogba, gli aggressori avrebbero chiesto 13 milioni di euro, accusandolo di non aiutarlo finanziariamente. Il giocatore ha aggiunto di aver pagato 100.000 euro e ha riconosciuto suo fratello Matthias tra i passamontagna. Ma chi agirebbe "sotto pressione" dei ricattatori? Quanto al presunto Malocchio contro Mbappé, Pogba - riportato ancora da France Info - ha ammesso di aver pagato per il 'Marabù' ma ha ammesso di non aver lanciato il Malocchio o la stregoneria. . Lo farà per aiutare le organizzazioni umanitarie che aiutano i bambini in Africa e per ottenere prove che lo dimostrino.

Estratto dell'articolo di Andrea Sorrentino per il Messaggero il 21 settembre 2022.

Liberté, Égalité e Gendarmerie. Il calcio francese [...] è circondato da un gran tintinnar di manette, da scandali di ogni tipo, rivelando un sottobosco di perfidie e brutalità da far accapponare la pelle, per tacere della contiguità con la criminalità comune che emerge quasi da ogni storia. [...] 

L'ultima follia riguarda infatti il Paris St. Germain femminile, con l'arresto di Aminata Diallo, centrocampista di 27 anni, accusata di essere stata la mandante dell'aggressione a una sua compagna di squadra e pariruolo, Kheira Hamraoui, 32 anni: la giocatrice era stata presa a sprangate sulle gambe da due uomini incappucciati lo scorso novembre, poco dopo essere stata accompagnata a casa proprio dalla Diallo. [...] 

Pare che abbia assoldato gli aggressori per 500 euro con l'obiettivo di azzoppare la rivale: la considerava un ostacolo alla sua carriera, perché giocano nello stesso ruolo e la Diallo, col contratto in scadenza, temeva di non essere confermata dal club. Gli inquirenti sono arrivati a definire quello della Diallo un «vero odio» per la Hamraoui, descrivendo hitchcockianamente la sua «lenta deriva psicologica divenuta patologica» nei mesi prima dell'aggressione. [...]

Ma sono giorni terribili per molti, nel calcio francese. Addirittura il presidente della federazione Noel Le Graet, alla veneranda età di 80 anni, sarebbe accusato di molestie sessuali per via di certi messaggini inequivocabili ad alcune sue collaboratrici: Le Graet nega tutto, ma intanto è stato convocato d'urgenza dal ministro dello sport. Del resto si avvicinano i Mondiali in Qatar e la Patria non può fare figuracce, presentandosi con dirigenti in posizioni imbarazzanti.

Come quella (eufemismo) di Paul Pogba, che oltre ad aver ammesso strane contiguità con uno stregone per mandare il malocchio a qualcuno (ma non a Mbappé, giura lui) ha denunciato suo fratello Mathias per estorsione, e in effetti il fanciullone è finito ai ceppi anche lui, insieme ad altri tre malavitosi, con l'accusa di aver cercato di scucire qualche milione di euro al fratello famoso, che ora vivrebbe sotto scorta a Torino insieme alla madre.

Storiacce. Come quella che coinvolse Karim Benzema, accusato di aver consigliato al compagno di nazionale Valbuena di pagare alcuni ricattatori per un suo video porno, in quanto amico dei malviventi: Benzema si è sempre professato innocente, ma è rimasto fuori dalla nazionale per sei anni e per il «sextape» alla fine è stato condannato a un anno, con la condizionale. Allez les Bleus.

Benzema, che è senz' altro il centravanti più bravo d'Europa delle ultime stagioni, e candidato unico a vincere il prossimo Pallone d'oro, è un tipetto piuttosto vivace: nel 2010 era stato coinvolto anche, con Govou e Ribery, nella denuncia dell'escort minorenne Zahia Dehar: processati per aver fatto sesso con una minore, i tre si salvarono convincendo la corte di non sapere che trattavasi di ragazza non maggiorenne, e la scamparono.

[...] Storiacce anche queste, sicuramente figlie di una difficile coesistenza, in nazionale, tra giocatori di diverse estrazioni ed etnie. Un vecchio problema che ogni tanto riemerge, carsicamente, nella Francia che pure, nelle vittorie, si mostra come esempio di integrazione. [...] 

Il vicepresidente della Juventus vittima di invasione della privacy. Pavel Nedved come Sanna Marin, i video del festino privato dati in pasto ai social. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Agosto 2022 

Qualcuno ha giocato un brutto tiro a Pavel Nedved. Da stamattina sui social l’hashtag impazza, i commenti si sprecano, le immagini sono ormai virali. Qualcuno azzarda un paragone con il caso della premier della Finlandia Sanna Marin, al centro di una polemica salita alla ribalta delle cronache mondiali per le immagini girate a una festa privata con amici. Pochi giorni dopo è il turno del vicepresidente della Juventus, campione ceco e Pallone d’Oro.

I video hanno cominciato a circolare da ieri sera, passando di cellulare in cellulare, e sono ormai virali sui social network e sui media. In uno l’ex calciatore balla sulle note di un reggaeton, in un trenino disinibito con tre ragazze, forse in un locale di Torino. E allunga le mani. Non risulta nulla di non consenziente, niente di illegale. Un secondo video riprende una persona di spalle, che barcolla in strada, presumibilmente sotto gli effetti dell’alcol. Ha i capelli lunghi e folti, biondi, non si volta mai, non c’è alcuna evidenza si tratti dell’ex calciatore e dirigente juventino, ma tant’è. In un altro si vede il calciatore mentre si dirige verso il locale.

Si tratta sempre della vita privata di una persona, certo nota, ma in alcun modo ripresa in occasioni pubbliche o professionali. È l’ennesima invasione della privacy. Che poi possa risultare di cattivo gusto, a seconda dell’opinione personale, è un punto che lascia anche il tempo che trova. Nedved ha sempre provato a proteggere la sua sfera privata. Si è sposato con la connazionale Ivana, con la quale ha avuto due figli chiamati Pavel e Ivana, ed è stato dato dal gossip spesso separato o divorziato.

Dal 2019 il pettegolezzo, soprattutto in Repubblica Ceca, è via via cresciuto, pur senza alcuna dichiarazione ufficiale da parte della coppia. E si è scritto di altre relazioni dell’ex atleta, così come di un viaggio in questi giorni in Italia di alcune amiche di Nedved. Del gruppo farebbe parte anche l’attuale compagna dell’ex calciatore. Gossip. Non è chiaro però a quando risalgano i video. E se pure quella persona ripresa alle spalle, a tradimento, era davvero Nedved, non è filmata alla guida, alle prese con un atteggiamento pericoloso anche per altri oltre che per sé stesso. I video però sono diventati virali, l’invasione completa, il tiro mancino portato a segno. Sui social è compatta la tifoseria bianconera a difendere l’ex beniamino, tantissimi i meme e tanta ironia. Più utenti a condannare la diffusione delle immagini che il calciatore.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Devastata la vita privata dell'ex Pallone d'Oro. Chi è la nuova fidanzata di Pavel Nedved, la cantante e attrice Dara Rolins: foto e video prima della gogna. Redazione su Il Riformista il 29 Agosto 2022 

Ripreso con il cellulare e dato in pasto al mondo dei social, sempre pronto a puntare il dito e a indignarsi per qualsiasi cosa. Giornata difficile per Pavel Nedved, ex calciatore e Pallone d’Oro, da anni dirigente della Juventus dove ricopre l’incarico di vice-presidente del club più titolato d’Italia.

Il video del campione della Repubblica Ceca che balla in un locale di Torino con due ragazze è diventato virale in poche ore. Non è chiaro se sia stato girato lo scorso weekend o settimane precedenti. Resta tuttavia una invasione della privacy, una gogna gratuita, l’ennesima, che va a intaccare i rapporti personali dell’ex calciatore di Lazio e Juve.

Nedved da qualche mese ha infatti una relazione con Dara Rolins, popolare cantante e attrice slovacca. Entrambi hanno la stessa età, 49 anni, e dallo scorso aprile, così come emerge dal profilo Instagram della donna, seguita sui social da quasi 700mila followers, fanno coppia fissa con viaggi negli Stati Uniti (a Los Angeles la Juve era in tournée questa estate) e giornate spensierate sul lago di Como.

In questi giorni la Rolins è in Italia con alcune amiche. E’ stata a Villa Crespi a Novara e anche a Marassi per Sampdoria-Juventus della scorsa settimana (22 agosto) proprio insieme al vicepresidente bianconero. Le ragazze che ballano con lui nel video non sembrano, tuttavia, essere le amiche della Rolins, stando almeno alle foto pubblicate da quest’ultima sui social.

In precedenza Nedved, dopo la fine del matrimonio con Ivana Nedvědová, durato 25 anni e dal quale sono nati i due figli della coppia (che si chiamano come i genitori, Pavel e appunto Ivana), ha frequentato per un periodo la fantina ceca Lucie Anovcinova, più giovane di 15 anni. 

Da open.online il 29 agosto 2022.

Nei giorni scorsi Mathias Pogba ha minacciato «pesanti rivelazioni» sul fratello Paul. Lo ha fatto in un video pubblicato sui social network. 

Il fratello, calciatore attualmente senza squadra, di fronte alla telecamera ha affermato che «il mondo intero» come la Juventus e gli «sponsor meritano di sapere certe cose per decidere con cognizione di causa se lui (Paul Pogba) meriti davvero ammirazione, rispetto, il suo posto nella Francia, se è una persona degna di fiducia. 

Tutto questo rischia di essere esplosivo», ha concluso, senza ulteriori dettagli sulla natura delle proprie “rivelazioni”. Il giornale francese Franceinfo ha rivelato cosa c’è dietro le minacce al centrocampista della Juve. Ovvero un’indagine in corso per estorsione dopo una denuncia del calciatore.

«Le recenti dichiarazioni di Mathias Pogba sui social non sono purtroppo una sorpresa. Si aggiungono alle minacce e ai tentativi di estorsione da parte di una banda organizzata ai danni di Paul Pogba» – hanno spiegato gli avvocati Yeo Moriba (madre di Mathias e Paul Pogba) e l’agente del giocatore, Rafaela Pimenta. «Non ci saranno ulteriori commenti in relazione all’indagine in corso da parte delle autorità», hanno precisato. 

Secondo le rivelazioni di Franceinfo la storia è cominciata a fine marzo a Lagny-sur-Marne. Pogba si era recato nella località per visitare la famiglia. Ed è stato sequestrato in un appartamento nel quale ha trovato anche due uomini incappucciati con fucili d’assalto. Una banda gli ha chiesto 13 milioni di euro a titolo di pagamento per i servizi resi al giocatore da quando aveva 13 anni. 

Lo stesso ricatto è arrivato ad aprile a Manchester e a luglio fuori dal centro di allenamento della Juve. Mathias, che ha fatto parte dell’ultima visita della presunta banda, avrebbe accusato il fratello di non averlo mai aiutato economicamente. Della banda farebbe parte anche Florentin, gemello di Mathias. 

In base alle testimonianze Paul avrebbe domandato a una sorta di stregone di gettare un sortilegio nei confronti del collega del Paris Saint Germain Kylian Mbappé. Una circostanza smentita dallo stesso Pogba. Che accusa anche uno dei suoi amici di avergli rubato 200 mila euro attraverso una carta di credito.

Paul Pogba. Pogba, i ricatti del fratello e il "sequestro". Mathias "minaccia" rivelazioni choc. E spunta anche una banda armata. Davide Pisoni il 28 Agosto 2022 su Il Giornale.

Paul Pogba sta scoprendo che c'è di peggio di un infortunio che rischia di fargli perdere il Mondiale e di rovinargli l'estate del ritorno alla Juventus. Il francese infatti è finito nel mirino di una banda organizzata, di cui farebbe parte anche il fratello maggiore Mathias, che da mesi starebbe portando avanti un tentativo di estorsione ai danni del campione del mondo.

Il caso è esploso dopo che Mathias ha postato un video social in cui annunciava imminenti rivelazioni su «Paul e la sua agente Rafaela Pimenta», che guida l'agenzia dopo la scomparsa di Mino Raiola. «Tutto questo rischia di essere esplosivo», il messaggio finale del filmato che punta il dito anche contro il documentario The Pogmentary e mette nel mirino le reali condizioni fisiche del bianconero. Una minaccia per non rivelare video che potrebbero offuscare l'immagine del campione, di chi gli sta attorno e anche di Kylian Mbappè. A proposito del compagno di nazionale, secondo Pogba, i ricattatori l'avrebbero minacciato di rivelare che si era rivolto a un santone musulmano per lanciare un malocchio contro l'attaccante del Psg.

Il centrocampista della Juventus ha reagito in maniera decisa con un comunicato dei suoi legali parlando di «minacce» e «tentativi di estorsione da parte di una banda organizzata» nei suoi confronti, di Yeo Moriba (la mamma) e dell'agente Pimenta. «I fatti sono già stati denunciati un mese fa alla polizia italiana e francese», hanno spiegato.

Infatti un'indagine è già stata aperta in Francia. Secondo quanto ricostruito da Francetvinfo in base alle testimonianze rilasciate dallo stesso Pogba agli inquirenti, il tutto sarebbe iniziato a gennaio quando il giocatore ha cacciato dalla casa di Manchester un amico dopo aver scoperto che gli aveva sottratto 200mila euro con la carta di credito.

Poi durante la sosta per le nazionali di fine marzo, il campione del mondo ne ha approfittato per far visita alla sua famiglia, ma in quell'occasione è stato trascinato da amici d'infanzia in un appartamento dove avrebbe trovato anche due uomini incappucciati e armati con fucili d'assalto che lo incolpavano di non averli aiutati economicamente dopo essere diventato professionista. Nell'occasione a Pogba sarebbero stati chiesti 13 milioni dalla banda per avergli assicurato la privacy e la sicurezza durante la carriera. I ricattatori si sarebbero presentati anche ai centri d'allenamento di Manchester United (in marzo) e Juventus (a luglio e qui Paul avrebbe riconosciuto anche il fratello) per intimidire il giocatore. Da qui la decisione di sporgere denuncia. Quella che sembrava una faida familiare si sta rivelando una faccenda ben più grave. Più complicata del ritorno in campo.

Giuseppe Galderisi. Andrea Pistore su Il Corriere della Sera il 31 luglio 2022.

E’ l’uomo mai dimenticato. Giuseppe Galderisi per tifosi, compagni e amici è semplicemente “Nanu”: ha vestito la maglia gloriosa della Juventus di Trapattoni a inizio anni ’80, è tra gli eroi dello scudetto del Verona (1985), ha riportato il Padova in serie A nel ’94 per la prima volta (e ultima) dal post Nereo Rocco ed è stato il primo italiano a emigrante quando nel 1996 negli Stati Uniti è stata fondata la Major League Soccer.

Il bambino Giuseppe Galderisi come si è accostato al pallone?

«Avevo sette anni, vivevo in provincia di Parma, e tutti andavano in parrocchia per il calcio nel dopo scuola. Don Firmino prima di consegnarci la palla ci obbligava a seguire la dottrina e io pur di giocare facevo il chierichetto. Quando i miei genitori si sono trasferiti a Salerno nelle squadre locali mi chiamavano “Beppe ‘o Parmese”. Il primo provino con la Juve lo feci in una spiaggia di Marina di Vietri. Nel 1976 fui preso dai bianconeri e l’anno dopo mi trasferii a Villar Perosa in Piemonte».

Dell’esordio con la maglia della Vecchia Signora che cosa ricorda (Galderisi resterà in bianconero 3 stagioni, vincendo due scudetti e una Coppa Italia, ndr)?

«A 15 anni mi aggregai alla prima squadra. Avevo bruciato le tappe, ad agosto del 1980 giocai in Coppa Italia a Udine (2-2), poi in campionato il 30 novembre contro il Perugia. In pochi anni mi sono ritrovato fianco a fianco con i campioni che ammiravo attraverso le figurine. Se palleggiavo in allenamento con Furino ero più teso che nel prepartita la domenica. Mister Trapattoni è stato un padre, usando il bastone e la carota. Quell’ambiente mi ha insegnato a vivere. Ad esempio quando il presidente Boniperti mi ordinò di tagliarmi i capelli, lo feci subito».

In quel periodo aveva un legame speciale con Paolo Rossi, cosa vi univa?

«Era mio compagno di stanza. Dopo il mondiale del 1982 gli arrivavano pacchi enormi di lettere di tifose da tutto il mondo. Le scartavamo insieme e le leggevamo. Pablito è stata una persona straordinaria. L’ho visto l’ultima volta a Lucca dove allenavo quando mi fece una sorpresa».

È vero che l’avvocato Agnelli per lei nutriva una simpatia particolare?

«Ero la “mascottina” del gruppo. La domenica mattina scendeva in elicottero a Villar Perosa e con la squadra facevamo una passeggiata fino alla sua villa. Davanti all’avvocato ci mettevamo in fila, lui passava col bastone, salutava, mi prendeva sotto braccio e mi portava a camminare.

Dopo Torino si trasferì a Verona dove fu determinante per vincere lo storico scudetto. Che ambiente trovò?

«Ero appena arrivato e il secondo giorno di ritiro a Cavalese mister Bagnoli scrisse sulla lavagna i suoi undici titolari. Io non c’ero, volevo andarmene subito. Telefonai al presidente Boniperti, gli chiesi di essere trasferito ad Avellino. Lui si arrabbiò e mi disse “Stai lì, dacci dentro e non rompere le scatole”. Mi caricò e alla fine ho giocato tutte le partite».

L’anno dopo arrivò il tricolore, quando avete capito che sareste entrati nella leggenda?

«All’esordio in casa con il Napoli di Maradona vincemmo 3-1. Il mister nel prepartita ci chiese chi avrebbe marcato l’argentino. Brieghel si alzò e disse: “ci penso io” e non gli fece toccare palla. Eravamo un gruppo strepitoso. A Capodanno andammo tutti in vacanza a Cavalese. Mentre facevamo il brindisi di mezzanotte Pietro Fanna disse “E’ il nostro anno, vinceremo lo scudetto”, fu una profezia. L’allenatore non voleva sentir parlare di tricolore. All’ultima giornata a Bergamo a 10 secondi dalla fine sono andato vicino la panchina gli dissi….”abbiamo vinto lo…?” e lui non ebbe coraggio di rispondere fino al triplice fischio».

Dopo il mondiale di Messico ’86 scese in B con la Lazio, cosa non funzionò?

«Correvo, mi sacrificavo ma non riuscivo a fare gol. Ho segnato solo una rete. Un anno disastrato ma i tifosi mi sono sempre stati vicini. Tutt’ora se torno a Roma mi accorgo che sono stato amato come pochi».

Quale fu la molla che l’ha spinta a trasferirsi a Padova, di nuovo in B?

«Potevo rientrare al Milan di Sacchi o andare in qualche altra squadra di A ma scelsi i biancoscudati per vincere. I primi 4 mesi fui fischiato, poi è scattata la molla. Segnavo sempre, l’Appiani diventava una bolgia che urlava “Nanu Nanu”. Abbiamo sfiorato la promozione per due anni, centrandola nel 1994 dopo lo spareggio col Cesena a Cremona. L’anno successivo siamo partiti male ma dopo il 3-3 di Napoli il campionato ha svoltato e abbiamo battuto il Milan, l’Inter, la Lazio, la Juve a Torino e ci siamo salvati a Firenze col Genoa».

In serie A ha conosciuto anche Alexi Lalas, il difensore-musicista americano dai capelli rossi. Ricordi?

«Un vero personaggio. Cantava e suonava in spogliatoio. Era un artista molto permaloso. Un giorno lo stavamo prendendo in giro, lui se n’è andato dall’allenamento in pieno inverno vestito da calciatore e l’abbiamo ritrovato che camminava in città. Quando è stata creata la Major League Soccer (campionato statunitense, ndr) è dovuto rientrare negli Stati Uniti dove era venerato e mi ha chiesto di andare con lui. Gli ho detto sì. Insieme a Nicola Caricola e Roberto Donadoni siamo stati i primi a emigrare».

Un’esperienza che racconta sempre con grande entusiasmo…

A Boston era un freddo incredibile, ci allenavamo all’interno e non mi piaceva. Volevano tagliarmi il contratto, alla fine la Lega mi ha trasferito in Florida dove non ho più messo un pantalone lungo e l’anno dopo sono arrivato a fare la partita delle All Star. Ho anche pensato di rimanerci a vivere per sempre.

Lei ha già una lunghissima esperienza in panchina come allenatore (tra le altre Cremonese, Mestre, Avellino, Foggia, Pescara, Benevento, Salernitana e l’anno scorso Mantova, ndr), come mai non ha mai fatto il salto di qualità?

«Ho concluso campionati strepitosi con tanti record ma non so perché non sono riuscito ad arrivare ai vertici. Spesso si è messa di mezzo la sfortuna. Ovunque sono stato apprezzato, raramente ho subito una contestazione».

A marzo compirà 60 anni, potesse farsi un regalo quale sceglierebbe?

«A Padova sono stato eletto giocatore del secolo, mi piacerebbe allenare e vincere con i biancoscudati per restituire qualcosa alla città che mi ha adottato. Finora nessuno ha avuto il coraggio di portarmi, ma sono convinto che arriverà l’occasione giusta.

Qualche giorno fa il ministro Brunetta ha raccontato di aver sempre sofferto per essere stato chiamato “nano”, lei come ha fatto ad accettare il nomignolo “Nanu”?

«Il soprannome è nato alla Juventus con l’accento sull’ultima U e solo perché ero scaltro e ne sono fiero. Con l’altezza non c’entrava. Maradona una volta mi fece una dedica su una maglia con scritto “Nano” e gli dissi “Diego fa niente, va bene lo stesso, tu puoi”. Se qualche giornalista titolava “Nano” mi infastidivo. E comunque sono 1.70, non sono così basso».

Ultima domanda, Maradona è stato il più forte di tutti i tempi?

«Senza dubbio. Ho giocato con tanti campioni e tutti la pensano come me. Era una persona umile, in allenamento prendeva calci e non fiatava. Più sei un campione meno hai bisogno di strafare, una caratteristica che ho ritrovato anche in Maldini, Vialli, Del Piero, Ancellotti e Baggio».

Zinedine Zidane . Zidane e la testata a Materazzi, tutta la verità: "Come mi insultò". Libero Quotidiano il 24 giugno 2022

“La testata a Materazzi nella finale di Berlino 2006? Marco non disse niente di mia madre, ha detto spesso di non aver insultato mia madre ed è vero. Ma ha insultato mia sorella, che in quel momento era con mia madre, che non stava bene”. E così per Zinedine Zidane i nervi sono scoppiati, tanto che allora il brutto gesto lo ha condannato all’espulsione prima dei calci di rigori che diedero il Mondiale all’Italia di Marcello Lippi. Quella in Germania fu anche l’ultima partita di Zizou con la Nazionale transalpina. Momenti che l’ex allenatore del Real ha ricordato in un’intervista con l’Equipe, per celebrare i suoi 50 anni (compiuti giovedì 23 giugno, ndr): “Se torno ad allenare è per vincere — aggiunge —. Lo dico con tutta modestia. Ecco perché non posso andare da nessuna parte. Il Psg? Mai dire mai". 

Zidane: “Real Madrid dopo la Juve? Serviva una spinta dalla mia carriera” - Il francese ha anche ricordato lo storico trasferimento da Torino a Madrid, una tappa significativa nella sua carriera: "È stato stupefacente — racconta — Non ho avuto scelta. È andata così. La Juve aveva il diritto di chiedere quello che voleva. E il Real Madrid a pagare. Avevo appena compiuto 29 anni. Avevo una certa esperienza. Ma sapevo che mi stavo perdendo, giocando per il Real Madrid”. E ancora: “A un certo punto, avevo bisogno di questa uscita per dare una spinta alla mia carriera — spiega ancora Zidane — Ero alla Juve da cinque anni, avevo vinto tutto tranne la Champions. Abbiamo perso due volte la finale (1-3 contro il Borussia Dortmund nel 1997, 0-1 contro il Real Madrid nel 1998, ndr). Avevo bisogno di questa rinascita, di una nuova sfida”.

Zidane sicuro: “La Champions da allenatore più bella? Quella contro la Juve” - Dopo i trionfi di Madrid e quell’eurogol nella finale di Glasgow contro il Bayer Leverkusen, da allenatore del Real, Zidane ha conquistato tre Champions League consecutive. E sulla più emozionante, non ha dubbi: "Sarebbe quella contro la Juve (Cardiff 2017, ndr) — conclude —. Non l'avevo mai vinta con loro da giocatore. Avevo giocato delle grandi partite, come quella contro l'Ajax nella semifinale di ritorno del 1997 (andata 1-2 ad Amsterdam, ritorno altro successo per i bianconeri per 4-1, ndr), ma non sono andato fino in fondo”.

Federica Cravero per repubblica.it il 22 giugno 2022.

È stata una storia d’amore durata 13 anni quella tra l’allenatore Massimiliano Allegri e l’ex compagna Claudia Ughi, da cui dieci anni fa è nato un bambino. Ma da oltre un anno la loro relazione viene raccontata nelle aule di giustizia, più che sui rotocalchi. Questo accade da quando il mister bianconero ha citato in giudizio Ughi per ridurre l’assegno di mantenimento del figlio da 10 mila a 5 mila euro al mese, dopo la fine dell'incarico da allenatore della Juventus nel 2019. Richiesta respinta. 

Ma la querelle continua ora in sede penale: Allegri nel 2021 ha infatti querelato la ex anche per appropriazione indebita e per violazione degli obblighi di assistenza familiare, sostenendo che la donna abbia impiegato per altri usi la cifra che doveva essere destinata al figlio.

Da quella denuncia è nata un’inchiesta condotta dalla guardia di finanza e coordinata dal pm di Torino Davide Pretti, che ha calcolato oltre 200 mila euro di spese indebite su 600 mila euro percepiti in questi anni dalla donna. Per questo è stato chiesto il rinvio a giudizio dell’indagata: l’udienza preliminare si aprirà il 5 luglio. 

Tutto nasce dagli accordi presi dopo la fine della relazione tra Allegri e Ughi. Secondo quanto stabilito nel 2017 al momento della separazione Allegri doveva versare ogni mese diecimila euro a favore del figlio, che continuava a vivere con la mamma e l’altra figlia di lei, nata da una precedente relazione, oltre a varie altre spese. Ma nel 2019 l’allenatore ha firmato il divorzio con la Juventus e cogliendo lo spunto di questa diminuzione di reddito, ha chiesto ai giudici di dimezzare il contributo fisso per il bambino.

Una domanda che è stata respinta per due volte, sia dal tribunale che dalla corte d’appello, anche perché nel frattempo Allegri ha ritrovato posto sulla panchina dello stadio della Juventus. Ma dall’analisi dei conti correnti depositati in quelle udienze, ha trovato materiale sufficiente per dimostrare la distrazione dei versamenti che finivano non solo per le spese di mantenimento del figlio, ma anche per investimenti personali della donna e anche per pagare la retta dell’università all’estero della figlia di lei.

Così, assistito dall’avvocato Pietro Nacci Manara del foro di Bari, ha portato la documentazione alla procura ed è stato avviato il procedimento penale in cui si è costituito come parte offesa. 

Dal canto suo la donna, difesa dall’avvocato Davide Steccanella del foro di Milano, ha sempre respinto al mittente qualunque accusa. In particolare ha rivendicato il fatto che il denaro sia servito per acquistare una casa a Livorno (dove entrambi sono cresciuti e si sono conosciuti), in cui il bambino passa le estati e i periodi di vacanza. 

Da golssip.it il 23 giugno 2022.

Caterina Collovati attacca Massimiliano Allegri. Di ieri le notizie secondo le quali il tecnico della Juventus ha denunciato la sua ex per appropriazione indebita. La donna avrebbe impiegato parte dei soldi destinati al figlio dell'allenatore, diecimila euro al mese, anche per altre spese e non solo per il mantenimento del loro ragazzo. 

La giornalista ha raccontato l'accaduto ai suoi follower e poi ha commentato scagliandosi contro Max: "Vivendo nella stessa casa con un'altra figlia avuta da una precedente relazione è chiaro che qualche euro del signor Allegri sia stato goduto anche dalla sorella del piccolo. Sarebbe orribile se una madre facesse vivere nel benessere un figlio si e l'altro no. Se offrisse pane e cipolla ad una e carne e pesce ad un altro. Mi chiedo per un signore che percepisce un contratto di 9 milioni di euro annui netti, dicasi 750 mila euro mese ...qual è il problema? A che livello di squallore porta l'antipatia verso una ex? Diciamolo con onestà esistono grandi allenatori di serie A ma uomini di serie C". 

Assolta la ex compagna di Allegri, Claudia Ughi. «Non spese per sé i soldi destinati al bambino». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022

La donna era accusata di malversazione e appropriazione indebita in merito alla gestione del denaro che il mister versa per il mantenimento del figlio nato durante la loro relazione

«Il fatto non sussiste». È una piena assoluzione quella pronunciata dal giudice Edmondo Pio nei confronti di Claudia Ughi, l'ex compagna dell'allenatore della Juventus Massimiliano Allegri. La donna era accusata di malversazione e appropriazione indebita in merito alla gestione del denaro che il mister versa per il mantenimento del figlio nato durante la loro relazione. «Speriamo che la famiglia ritrovi la sua serenità. Il primo a essere contento dovrebbe essere proprio il papà, che ora sa di aver affidato suo figlio a una brava mamma. A una madre "non snaturata"», commentano gli avvocati Davide Steccanella e Paolo Davigo Bonino che assistono la signora. 

Nel 2019 Allegri si «separa» dalla Juventus e due anni dopo, nel gennaio 2021, si rivolge al Tribunale di Torino. Racconta di «essere disoccupato» e che il «suo reddito è mutato per cessata collaborazione calcistica con la Juventus», perciò chiede che l’assegno mensile venga dimezzato: da 10 mila a 5 mila euro. Per ben due volte - in primo grado e in appello - i giudici civili respingono la richiesta. Ed è a quel punto che Allegri decide di presentare una denuncia in Procura, accusando la ex (dalla quale si era separato nel 2019) di appropriazione indebita e malversazione. 

Alla donna era contestato di aver distratto parte del denaro (195 mila euro) per investimenti ad alto rischio, per l'acquisto di un alloggio a Livorno durante il periodo del lockdown e per il pagamento delle rate universitarie della figlia maggiore nata da una precedente relazione. La Procura aveva chiesto per la donna una condanna a un anno e due mesi. Ma il giudice l'ha assolta.

Irene Famà per “la Stampa” il 23 giugno 2022.

La vita dei vip è perfetta. All'apparenza. Tra feste patinate e autografi ai fan. E pure le loro questioni sentimentali, tra tradimenti e riappacificazioni e matrimoni, appaiono facilmente risolvibili a chi vip non è. Apparenza, appunto. Perché i sentimenti, e i rancori, non guardano la notorietà. E la realtà, quando un amore finisce, è spesso la stessa: due adulti si rinfacciano mancanze ed errori, comunicano solo tramite avvocati, discutono sul versare o meno soldi ai figli. Massimiliano Allegri, di certo conosciuto per la sua carriera nel mondo del calcio ma che sui rotocalchi ci è finito spesso per questioni sentimentali, la sua ex compagna Claudia Ughi l'ha portata in tribunale a Torino. Perché? 

L'ha denunciata di appropriazione indebita e violazione degli obblighi familiari.

L'accusa di aver utilizzato parte dei soldi destinati al figlio, un ragazzo di 11 anni, per i propri interessi. Per la precisione, oltre duecentomila euro. Un accordo, i due, in sede civile nel luglio 2017 l'avevano trovato: l'allenatore bianconero si era impegnato a versargli diecimila euro mensili. Più le spese straordinarie, che poi sono quelle sanitarie, scolastiche e così via.

Nel 2019, però, la Juventus lo sostituisce con Maurizio Sarri e da quel momento Allegri resta fermo due anni, prima di tornare sulla panchina bianconera nell'estate 2021.

Così lui, il 27 gennaio 2021, chiede di abbassare la somma del mantenimento a cinquemila euro al mese. «Sono disoccupato da due anni», scrive nel ricorso. E accusa l'ex compagna di utilizzare i soldi per altri scopi, non per il figlio. «Ha distratto parte delle somme mensili», questi i termini giuridici. 

Il tribunale di Torino rigetta la sua istanza. Per ben due volte. La «disoccupazione» di Allegri è venuta meno. Certo, in quel periodo la sua condizione economica era cambiata, ma non c'era prova che quello stop avesse causato «una rilevante modifica economico-patrimoniale». Funziona così «in caso di patrimoni di rilevante entità», con «entrate da diversa origine e che vantano numerosi investimenti». E i ben informati aggiungono: «Il suo contratto scadeva il 30 giugno 2020. Nel primo anno di stop era comunque stipendiato dalla Juventus».

Il tribunale gli dà torto. Storia chiusa? Assolutamente no. Allegri insiste. E il 5 luglio 2021 denuncia la ex. Il caso finisce sul tavolo del pubblico ministero Davide Pretti, la Guardia di finanza indaga, acquisisce estratti conto, ricevute di pagamenti, e-mail che raccontano di movimenti bancari. La storia d'amore resta in tribunale. Tra due settimane Claudia Ughi siederà in aula per l'udienza preliminare. A decidere chi ha ragione e chi ha torto sarà la giustizia penale. 

«Ritengo l'accusa, oltre che infondata, anche profondamente ingenerosa per una madre che ha cresciuto nel migliore dei modi il figlio anche del querelante - commenta l'avvocato Davide Stancanella del foro di Milano, che difende la donna insieme con il collega di Torino Paolo Davico Bonino -. Confidiamo nella piena assoluzione». Massimiliano Allegri attacca. Claudia Ughi si difende. 

Non c'è stata nessuna «immoralità familiare», non ha «dilapidato i soldi del figli» a suo vantaggio. Quei duecentomila euro li ha «investiti in titoli» pensando al futuro della sua famiglia. Di cui fa parte anche un'altra ragazza, figlia di lei, nata da una precedente relazione. E ha acquistato una casa a Livorno, dove vivono i nonni, gli zii, i cugini. Dove lei e i figli «trascorrono oltre tre mesi all'anno», tra le feste scolastiche, i weekend. E il lockdown.

«Fu proprio Allegri a insistere che la famiglia trascorresse lì quel periodo» durante la pandemia, si legge negli atti. E ancora. Parte di quei soldi, Claudia Ughi li ha utilizzati per pagare la retta dell'università all'estero della figlia più grande. Ecco, forse è questa, al di là dei diverbi, la questione più amara di questa relazione finita in tribunale. Questioni giuridiche a parte. «Come si può rimproverare a una madre di non "pesare con un bilancino" tra due fratelli conviventi, facendo "figli e figliastri", nel momento in cui deve affrontare le spese quotidiane di vita comune del medesimo nucleo familiare?». 

La questione, si legge negli atti dell'inchiesta, è anche educativa. «Non pare consigliabile che, in una famiglia di tre persone, una madre acquisti, per fare un esempio, un maglioncino di minor pregio alla sorella rispetto a quello del fratellino, solo perché il padre del secondo è più ricco di quello della prima». 

Così come gli investimenti. Allegri, rappresentato dall'avvocato Pietro Gaetano Nacci Manara, obietta: se l'ex compagna dovesse morire, «a titolo esemplificativo e con tutti gli scongiuri del caso, le somme investite rientrerebbero nella successione in misura del 50% per ciascun figlio». 

Obiezione poco elegante, questo è certo. E comunque ci penserebbero i figli. Che sì, bisogna tenere lontano dai problemi, almeno così sostengono tutti. Ma poi fare pace è complesso, trovare un accordo, quando non ci si ascolta e forse non ci si sopporta più, è impossibile. E di quell'amore nato Livorno e durato 13 anni, nonostante i pettegolezzi, nonostante la cronaca scandalistica che raccontava di Allegri che lascia una fidanzata a due giorni dalle nozze, ora resta la querelle giudiziaria.

Torino, l’ex compagna di Allegri a processo: il pm chiede la condanna a un anno e due mesi. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022

Sul banco degli imputati Claudia Ughi: è accusata di aver «distratto» oltre 210 mila euro, denaro che il mister bianconero avrebbe versato per il mantenimento del loro figlio

Un anno e due mesi di reclusione. È la pena chiesta dal pm Davide Pretti nei confronti di Claudia Ughi, l’ex compagna dell’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri. La donna è finita sul banco degli imputati con l’accusa di appropriazione indebita. Per i magistrati avrebbe «distratto» — tra il 2018 e il 2021 — oltre 210 mila euro. Denaro che il mister bianconero avrebbe versato per il mantenimento del bimbo nato quando la coppia conviveva. «Una vicenda che mi addolora molto, soprattutto per i miei figli», ha detto la donna lasciando il Tribunale.

Mercoledì 28 settembre si è svolto il processo, nella formula del rito abbreviato, e l’imputata (difesa dagli avvocati Davide Steccanella e Paolo Davico) ha risposto alle domande del pm. La donna ha spiegato di aver gestito le finanze nell’interesse della famiglia e soprattutto dei figli, del più piccolo — nato dalla relazione con Allegri — e della maggiore, figlia di una precedente unione. Tra le spese contestate nell’atto di accusa ci sono la retta universitaria per la figlia, l’acquisto di una casa a Livorno nel periodo del lockdown e un investimento finanziario in titoli. Ipotesi che lasciano intendere — come si legge negli atti — «un’immoralità familiare» della donna. Claudia ha cercato di spiegare di aver agito da brava mamma e che l’investimento in titoli — che da solo vale 195 mila euro dei 210 contestati — voleva essere una garanzia per il futuro dei ragazzi.

Allegri denuncia l’ex compagna e madre di suo figlio: «Ha speso per sé i soldi destinati al bambino». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 22 giugno 2022

L’allenatore della Juventus ha presentato querela dopo aver chiesto al Tribunale di ridurre l’assegno di mantenimento da 10 mila a 5 mila euro 

Un amore che finisce e un accordo giudiziale che stabilisce quanto lui debba versare mensilmente alla ex per il mantenimento del figlio. Una cifra sostanziosa, 10 mila euro, che la donna però avrebbe in parte «distratto», destinandola a spese diverse rispetto alle strette necessità del bambino. E così, ora, lei dovrà presentarsi in Tribunale per rispondere di appropriazione indebita e violazione degli obblighi di assistenza familiare. Sarebbe una storia privata se non fosse per i nomi dei protagonisti. La parte offesa, il marito che versava gli alimenti e che ha fatto partire l’indagine presentando una querela, è l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri. Mentre sotto accusa c’è la sua ex convivente, Claudia Ughi.

I due si incontrano a Livorno nel 2003 e poco dopo vanno a convivere. Lei ha una bambina, nata da una precedente relazione. E nel 2011 nasce il loro primo figlio. Dopo 13 anni, nel 2017, la coppia si separa ed è in quel momento che di fronte al Tribunale viene sancito l’accordo per il mantenimento del piccolo. Il bambino sarebbe rimasto a vivere con la madre e la sorella, mentre il papà (ottenuto l’affidamento condiviso) si impegna a versare ogni mese 10 mila euro su un conto corrente dedicato. Quattro anni dopo, però, la situazione cambia. Nel gennaio 2021 Allegri si rivolge al Tribunale di Torino e chiede che vengano modificate le disposizioni economiche in favore della ex moglie per il mantenimento del figlio: in pratica, vorrebbe ridurre il versamento da 10 a 5 mila euro. Nel ricorso fa presente di essere «disoccupato» da due anni - dal maggio 2019, quando ha lasciato la panchina bianconera - e che la sua situazione finanziaria è cambiata. Il ricorso viene respinto, sia in primo grado sia in appello.

Ma nell’ambito di questa procedura, l’allenatore sostiene di aver scoperto che la ex avrebbe utilizzato i soldi che lui puntualmente versava per scopi diversi rispetto alle esclusive necessità del figlio: l’estratto conto metterebbe in luce pagamenti extra, come la retta universitaria all’estero per la figlia maggiore della donna. A quel punto Allegri deposita una querela in Procura. L’inchiesta viene affidata alla guardia di finanza e coordinata dal sostituto procuratore Davide Pretti. Il magistrato contesta alla donna (difesa dall’avvocato Davide Steccanella) l’appropriazione indebita e la violazione degli obblighi di assistenza genitoriale: in sostanza, secondo l’accusa, avrebbe «distratto» poco più di 200 mila euro in tre anni, dal 2019 al 2021.

Tra le spese contestate ci sarebbero la retta universitaria per la figlia maggiore, l’acquisto di una casa a Livorno nel periodo del lockdown e un investimento finanziario. Il 5 luglio la donna comparirà davanti al giudice per l’udienza preliminare. «Ritengo l’accusa oltre che infondata profondamente ingenerosa per una madre che ha cresciuto nel migliore dei modi il figlio anche del querelante — commenta Steccanella —. Confido nella piena assoluzione». Allegri, assistito dall’avvocato Pietro Gaetano Nacci Manara, sarà parte civile.

Claudia Ughi, l’ex compagna di Allegri respinge le accuse: «Poco sostenibile che si rimproveri a una madre di non fare “figli e figliastri”». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 23 Giugno 2022.

Gli avvocati della donna: accuse strumentali. L’allenatore della Juventus l’estate scorsa ha presentato una denuncia in Procura accusandola di aver «distratto in tutto o in parte a fini personali» il denaro versato ogni mese per il mantenimento del bambino.

La loro storia d’amore è stata raccontata dai rotocalchi, felici di indugiare sulla vita dell’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri e dell’allora compagna Claudia Ughi. Oggi, invece, gli strascichi di un rapporto che si è consumato dopo 13 anni di convivenza sono svelati dalle carte dell’inchiesta in cui la donna è accusata di appropriazione indebita e violazione degli obblighi di assistenza familiare. A farla finire sul banco degli imputati è stato il ct bianconero, che l’estate scorsa ha presentato una denuncia in Procura accusandola di aver «distratto in tutto o in parte a fini personali» il denaro versato ogni mese per il mantenimento del figlio, nato nel 2011.

Una relazione durata 13 anni

La vicenda giudiziaria è il capitolo finale di una relazione per anni felice. I due si innamorano a Livorno nel 2003 e poco dopo vanno a convivere. Lei ha una bambina nata da una precedente relazione. Nel 2011 nasce il loro primo figlio. Dopo 13 anni, nel 2017, la coppia si separa e in Tribunale viene sancito l’accordo per il mantenimento del piccolo. Ughi non chiede nulla per sé, ma ottiene un assegno mensile di 10 mila euro e un contributo per la casa, le vacanze e gli studi. Nel maggio 2019 Allegri si «separa» anche dalla Juventus. Due anni dopo, nel gennaio 2021, si rivolge al Tribunale di Torino. Racconta di «essere disoccupato» e che il «suo reddito è mutato per cessata collaborazione calcistica con la Juventus», perciò chiede che l’assegno mensile venga dimezzato: da 10mila a 5mila euro. L’udienza è fissata per settembre e nel frattempo Allegri (assistito dall’avvocato Pietro Gaetano Nacci Manara) querela la ex, accusandola di «aver usato per sé o per i suoi prossimi congiunti gran parte delle somme da lui versate esclusivamente per il figlio» e di averne compromesso il patrimonio con investimenti e acquisti di immobili in cui lei risulta unica intestataria. Arriva a ipotizzare che, in caso di morte, i beni sarebbero stati ereditati in maniera paritaria tra il loro figlio e la figlia di lei.

La retta universitaria per l’altra figlia

La Procura apre un’inchiesta. Il Tribunale civile respinge in primo grado e in appello la richiesta di revisione del mantenimento. L’inchiesta penale del pm Davide Pretti, invece, prosegue spedita. E la donna il 5 luglio dovrà comparire in udienza preliminare, accusata di aver «distratto» tra il 2018 e il 2021 oltre 200 mila euro. Tra le spese contestate ci sono la retta universitaria per la figlia maggiore, l’acquisto di una casa a Livorno nel periodo del lockdown (il bambino è nato nella città toscana e lì vivono i nonni) e un investimento in titoli.

La difesa della donna

Claudia Ughi, attraverso gli avvocati Davide Stecchella e Paolo Davico, respinge le accuse. Per i difensori la denuncia di Allegri sarebbe «strumentale», per «ridurre il contributo mensile a suo favore». I legali evidenziano il valore diseducativo dell’intera vicenda. «Appare — si legge nelle carte processuali — poco sostenibile che si rimproveri a una madre di non “pesare con il bilancino” tra due fratelli conviventi, facendo “figli e figliastri”». E ancora: «Sarebbe come pretendere che in un ambito familiare composto da tre persone, una madre acquisti un maglioncino di minor pregio alla sorella rispetto a quello del fratello, solo perché il padre del secondo è più ricco». Negli atti la Guardia di Finanza rileva che il denaro «non è stato dolosamente fatto sparire» dalla madre, ma investito nell’interesse del nucleo familiare di cui il bambino fa parte. Ma questo non è bastato a evitarle il Tribunale.

Allegri e Nina Lange Barresi, chi è il nuovo amore del tecnico della Juventus. Lo scoop di "Chi": Massimiliano Allegri con la sua nuova fiamma. La Repubblica il 17 Agosto 2022.  

I due sono stati fotografati a Lugano dal settimanale "Chi". Lo scorso ottobre la rottura tra l'allenatore e Ambra Angiolini.

L'allenatore della Juventus Massimiliano Allegri a Lugano mano nella mano con la sua nuova fiamma. Si tratta di Nina Lange Barresi, consulente finanziaria che vive in Svizzera: è la prima volta che vengono pizzicati insieme, ma sul loro amore circolavano già voci. Ora le foto pubblicate dal settimanale "Chi". Un anno fa l'allenatore della Juve faceva coppia con Ambra Angiolini: la relazione si è chiusa a ottobre, pare per un tradimento da parte di lui.

L'allenatore della Juve è sempre stato molto discreto per quanto riguarda la sua vita extra-professionale e anche alla sua compagna non piace esporsi troppo. Sui social network ha un profilo privato e di lei si sa solo che è proprietaria di una società di consulenza manageriale.

Prima di Nina Lange Barresi Allegri è stato per quattro anni con Ambra Angiolini, dal 2017 al 2021. Nessuno dei due ha voluto spiegare pubblicamente i motivi dell'addio, ma si è parlato di un tradimento da parte dell'allenatore, parole mai smentite.

Ambra Angiolini e Max Allegri: tutto ciò che c’è da sapere su una storia che continua a far parlare di sé. Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

L’attrice e l’allenatore della Juve si sono lasciati lo scorso anno, ma di recente Ambra ha dichiarato di aver dovuto affrontare 12 mesi di terapia per superare il dolore di quella rottura

12 mesi di analisi

<<Se non avessi fatto dodici mesi di psicoterapia, visto il mio ultimo ex, tu saresti sicuramente stato il prossimo>>. Con queste parole Ambra Angiolini si è rivolta a Samuel, concorrente di X Factor, il quale non ha nascosto di provare una certa attrazione per l’attrice che ora siede tra i giudici del talent show. Ambra non solo ha risposto alla provocazione con ironia, divertendo il pubblico a casa e in studio. Soprattutto ha svelato qualcosa di più sulla sua storia con Massimiliano Allegri, allenatore della Juventus, con il quale è stata legata sentimentalmente fino allo scorso anno. <<Oggi grazie a te – ha detto al concorrente – voglio dire alla mia psicoterapeuta che sono guarita>>. Un anno di terapia per andare oltre le paure, le sofferenze e le insicurezze che la fine di una relazione può portare. Oltre allo scherzo, Angiolini pare aver voluto mandare un messaggio a tutti coloro che stanno vivendo una situazione simile, raccontando la propria esperienza e suggerendo che farsi aiutare non è un male. Anzi può essere utile per andare avanti. Ma volgendo lo sguardo alla ex coppia, ripercorriamo insieme i passaggi cruciali della relazione tra Angiolini e Allegri.

Gli inizi della storia

Fu a Torino che iniziarono i corteggiamenti. Pare che l’attrice e l’allenatore si siano conosciuti nel capoluogo piemontese, dove abita Allegri. Lei si trovava in città per girare le riprese del film <<La verità, vi spiego, sull’amore>>, uscito nel 2017. Presentati da amici in comune, i due iniziarono a frequentarsi lontano dai fotografi per qualche tempo. Una love story che, però, non aveva tante possibilità di restare nell’ombra. E infatti il mister bianconero e l’attrice di <<Saturno Contro>>, nell’estate dello stesso anno, erano andati in vacanza insieme all’Argentario. Qui erano stati paparazzati e la loro storia era finita sul settimanale Chi.

Un amore a gonfie vele

<<Sono innamorata e felice>> aveva raccontato Ambra Angiolini a La Gazzetta dello Sport. L’attrice si è spesso raccontata, senza nascondere le sue emozioni. Nel 2018, ospite di Mara Venier a Domenica In, aveva dichiarato: << Massimiliano mi ha insegnato la tenerezza e la calma. Mi abbraccia senza stringere. MI ha fatto tornare gli occhi a cuore>>. Allegri è sempre stato più discreto, con poche dichiarazioni ma tanti di quegli abbracci spesso pubblicati sulle riviste. La storia andava a gonfie vele, tanto che qualcuno aveva parlato di matrimonio. Una notizia poi smentita dalla stessa Angiolini, la quale aveva spiegato: << Non sento l’esigenza di sposarmi. Ci ho messo tanto a piacermi e non sento più l’esigenza sociale di essere la moglie di qualcuno. Io amo un uomo e questo può bastare>>. In quel periodo stavano cercando casa insieme a Milano, la città in cui la coppia aveva deciso di convivere. Quella casa che in futuro avrebbe dato numerosi problemi ad Ambra.

Le storie precedenti e i figli

Entrambi avevano alle spalle storie importanti. Ambra Angiolini aveva avuto una lunga storia con Francesco Renga, dalla quale erano nati i suoi due figli, Leonardo e Jolanda, che oggi hanno rispettivamente 16 e 18 anni. Massimiliano Allegri, invece, negli anni ’90 aveva sposato la modella Gloria Patrizi, con la quale aveva avuto una prima figlia, Valentina. Un matrimonio durato qualche anno, poi la rottura e il successivo incontro con Claudia Ughi, consulente area psicologica della Juventus Football Club. Non si sono mai sposati ma sono stati insieme 8 anni e hanno avuto un figlio, Giorgio, che oggi ha 10 anni e gioca a calcio. Anche questa volta però la storia non ha avuto seguito e, ancora oggi, i contrasti tra i due non sono finiti. Di recente sono tornati in tribunale per quanto riguarda l’assegno familiare e per l’accusa di Allegri all’ex compagna di aver usato per sé i soldi destinati al figlio.

I tradimenti: il famoso capello biondo

Nonostante le loro storie passate, Ambra Angiolini e Massimiliano Allegri sembravano una coppia affiatata e felice. Questo fino allo scorso anno, quando si iniziò a parlare di tradimenti. <<Che finimondo per un capello biondo che stava sul gilet>> cantava Edoardo Vianello. E, da quanto raccontato dal settimanale Chi, pare che l’attrice abbia trovato proprio un capello non suo nella macchina del compagno. Subito è stata esclusa l’ipotesi del crine di cavallo e il settimanale di Alfonso Signorini ha riportato la notizia del tradimento. Da Allegri nessuna indiscrezione, a parte una, durante una conferenza stampa tenutasi in occasione di un match Juve-Roma. <<Della mia vita privata non ho mai parlato e non intendo farlo – ha raccontato – sono due cose che ho sempre diviso, va bene così ed è molto più importante parlare della partita>>.

Il tapiro e le polemiche

Dopo la fine della storia, accade ciò che non ci si sarebbe aspettati. Per Ambra Angiolini si è trattato di un tapiro d’oro, consegnatole da Valerio Staffelli di Striscia La Notizia. Ciò non è piaciuto a diverse persone. In primis a sua figlia Jolanda Renga, che sui social aveva dichiarato: <<So bene che, in quanto personaggio pubblico, secondo alcuni è giusto che la sua vita, anche privata, venga sbandierata ai quattro venti, ma è davvero necessario infierire?>>. Sulla questione si era espressa anche l’ex ministra Bonetti che aveva aggiunto: <<certamente si è scelto di andare dalla donna e non dall’uomo>>. Parole alla quale Antonio Ricci ha risposto e sul sito del programma Mediaset ha pubblicato una lista di nomi ai quali era stato consegnato il tapiro, sottolineando di aver dato spazio ai <<loro cuori spezzati, senza distinzione di genere>>.

Il percorso di Ambra dopo la rottura

Oltre alle polemiche e ai fatti di contorno, la fine della storia con Allegri ha rappresentato un momento difficile per l’attrice. La psicoanalisi l’ha aiutata ad affrontare quanto accaduto, un percorso durato dodici mesi, come raccontato a X Factor. Si è trattato di una sorpresa per i fan di Ambra Angiolini, anche se lei stessa, in precedenza, aveva dato voce alle sue difficoltà e alla voglia di stare di nuovo bene. <<Esiste per tutti un giorno zero, un momento in cui non si vince, non si perde, ma si riparte – aveva raccontato su Radio Capital – Ci si allontana dalle persone che diventano ricordi, da quelle che non restano, da quelle che in fondo non ci sono mai state. Negli inizi non si conosce sconfitta>>. Aveva parlato di un nuovo inizio della sua vita, ma proprio in questi giorni pare potrebbe esserci un nuovo inizio anche per i suoi sentimenti.

I nuovi amori

Sembra, infatti, che l’attrice stia avviando una relazione con Francesco Scianna, attore insieme al quale è stata fotografata a Roma. Diva e Donna ha pubblicato le immagini che ritraggono i due in atteggiamenti più che confidenziali. Pare che i due attori si siano conosciuti nel 2016 mentre stavano lavorando entrambi allo spettacolo teatrale <<Tradimenti>> di Michele Placido. Meno recentemente, sono state pubblicate delle foto anche della nuova fiamma di Max Allegri. Lei è Nina Lange Barresi, proprietaria di una società di consulenza manageriale. Sono stati sorpresi a passeggiare insieme a Lugano la scorsa estate. Pare dunque che entrambi abbiano voltato pagina.

Massimiliano Allegri: dalla nuova compagna, alla fidanzata lasciata all’altare e all’addio ad Ambra senza una parola. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021.

La sua è una storia contrassegnata da due grandi passioni: quella per il calcio e quella per le donne. Ma il calcio non l'ha lasciato mai

La nuova fiamma

Dopo la fine della storia d’amore con Ambra, Massimiliano Allegri ha una nuova compagna. L’allenatore della Juventus è stato paparazzato dal settimanale Chi a Lugano mentre passeggiava mano nella mano con Nina Lange Barresi, donna di cui si conosce molto poco, ad eccezione del fatto che viva nella città svizzera e che lavori nel mondo delle consulenze manageriali.

L'addio ad Ambra e la causa a Claudia

Era già tutto previsto, avrebbe cantato Riccardo Cocciante. Già perché dopo 4 anni Massimiliano Allegri non ha resistito e ha lasciato anche la sua ultima fidanzata, Ambra Angiolini. Senza una parola, pare. Tanto che la figlia dell'attrice Jolanda Renga parla apertamente di tradimento «in tutti i sensi». E del resto Max in campo sentimentale è stato sempre così. Non guarda in faccia a nessuno. Tanto che qualche giorno fa ha querelato la sua ex compagna Claudia Ughi: secondo l’accusa la donna che riceve da lui un assegno di mantenimento a favore del figlio di entrambi Giorgio, avrebbe in parte «distratto» la somma destinandola a spese diverse rispetto alle strette necessità del ragazzo.

Max e la Juventus

E dire che, secondo alcuni, Max sembrava cambiato. Da quando a maggio era tornato alla Juventus. Due anni dopo quell'estate del 2019, in cui, in lacrime, aveva salutato la Vecchia Signora. Dopo aver vinto cinque scudetti di fila, dando continuità ai tre consecutivi di Antonio Conte. Non solo. Portando la Juventus a giocarsi due finali di Champions: a Berlino nel 2015, sconfitto dal Barcellona e a Cardiff nel 2017 sconfitto dal Real Madrid. Al suo posto era arrivato Maurizio Sarri, esonerato poi dopo il nono tricolore di fila della Juventus. Adesso Allegri prende il posto di Andrea Pirlo. La sua avventura in bianconera arriva al capolinea con il quarto posto acchiappato nell’ultimo turno di campionato. Anche se ha conquistato la Supercoppa Italiana e la Coppa Italia.

Nato a Livorno

Max Allegri è cresciuto nel quartiere livornese di Coteto all’interno di una famiglia operaia, composta dal padre scaricatore al porto cittadino, dalla madre infermiera e dalla sorella minore. Con il padre portuale il suo destino sembrava segnato: «Dopo aver preso la patente B presi la C, perché con quella avrei potuto prendere la D che mi sarebbe servita per entrare in porto. La strada era già segnata. Non è che avessi scelta», raccontò una volta Allegri.

Vita «spericolata»

Fin da quando era calciatore Allegri era celebre per il suo fascino. Che però gli comportò anche una serie di disavventure amorose. Nel 1992 il neotecnico bianconero – in quel periodo un centrocampista del Pescara – sale agli onori delle cronache non solo sportive perché lascia la fidanzata dell’epoca, Erika, (quasi) all’altare. La abbandonò a due giorni dalle nozze: in preda ai ripensamenti, capì di non amarla e di non sentirsi pronto per il grande passo. Da qui la scelta clamorosa del dietrofront sentimentale.

Il matrimonio, le altre storie e i figli

Il tecnico si è poi sposato con Gloria Allegri nel 1994. In quel periodo gioca nel Cagliari. Un anno dopo, nasce la prima figlia della coppia: Valentina Allegri. Ma il matrimonio con Gloria naufraga ad appena quattro anni dall’inizio. In seguito, Allegri si lega, per 8 anni, a Claudia Ughi, madre del suo secondo figlio: Giorgio. I due, però, si separano mentre lei è ancora incinta: a una cena con amici, il mister incontra Gloria Patrizi, di 19 anni più giovane ed ex coniglietta di Playboy. Stanno insieme un paio di anni, ma nel 2014 la storia arriva al capolinea.

La relazione, durata 4 anni con Ambra Angiolini

Passano tre anni e dopo alcuni mesi di indiscrezioni mai confermate, Massimiliano Allegri e Ambra Angiolini, attrice ed ex stella tv di «Non è la Rai» escono allo scoperto. Una relazione che sembrava essere diventata solida nel corso degli anni. Tanto che i due annunciano le nozze per il 2019. Nozze che non si faranno mai. La relazione finirà, come detto, nell'autunno del 2021.

Ballerino per una notte

E dire che la vicinanza con Ambra aveva consolidato la sua passione per il mondo dello spettacolo. Il 19 settembre 2020 Allegri partecipa come ospite speciale alla prima puntata «Ballando con le stelle» (15esima edizione). Così il tecnico juventino diventa ballerino per una notte, come era successo con altri sportivi, tra i quali Alessandro Del Piero, Gabriel Batistuta e Roberto Mancini. Allegri esegue un tango insieme alla ballerina professionista Roberta Beccarini.

La carriera da calciatore

Come calciatore Allegri era spesso definito come un ottimo centrocampista che aveva una buona visione di gioco, ma che ha ricevuto molto meno di quanto avrebbe meritato. Dal 1985 al 1988 gioca nel Livorno, squadra della sua città. E vista la rivalità fa scalpore il suo trasferimento al Pisa nel 1988, con il quale gioca due gare in A. Dopo le stagioni alla Pro Livorno e al Pavia, nel 1991 Allegri va al Pescara. Conquista la promozione e nel 1992 colleziona 31 gare nella massima serie, segnando 12 reti (una anche al Milan nel 4-5 per i rossoneri del 13 settembre ‘92). In termini di gol, la sua annata migliore. Dal 1993 al novembre 1995 è al Cagliari per poi andare al Perugia. Dopo delle parentesi al Padova, al Napoli e ancora al Pescara, Allegri chiude la carriera nel 2003 all’Aglianese.

Il maestro Galeone

Come detto forse il suo periodo migliore da calciatore Allegri l’ha avuto nel Pescara. Notato da Pierpaolo Marino, dirigente a quell’epoca della squadra abruzzese, nel 1991 Allegri si trasferisce nel club agli ordini del tecnico Giovanni Galeone. Con lui instaura un profondo rapporto professionale e ancor più umano: «Ho avuto la fortuna di avere un maestro come lui, che magari non ha ottenuto grandi risultati ma che mi ha insegnato il piacere del calcio», ricorda anni più tardi lo stesso Allegri. Anche Galeone parla molto bene dell’arrivo di quel giovane centrocampista: «La squadra era già fatta, ma la dirigenza ingaggiò questo ragazzo che sinceramente non conoscevo. Dopo tre giorni mi era tutto chiaro, era un gran calciatore sul prato verde e un ragazzo serio e rispettoso, arrivò in punta di piedi e dopo poco era già il leader dello spogliatoio». Ancora oggi Allegri chiede molti consigli a Galeone. Per lui è un secondo padre.

La carriera da allenatore: dall’Aglianese allo scudetto con il Milan

Terminata la carriera calcistica Max comincia quella di allenatore da dove aveva finito, ovvero dall’Aglianese. Dopo Spal, Grosseto, Sassuolo e Cagliari nell’estate 2010 diventa allenatore del Milan. Quell’estate Silvio Berlusconi e Adriano Galliani acquistano Ibrahimovic e Robinho e Allegri alla sua prima stagione in rossonero vince lo scudetto. Il 18esimo della storia del club rossonero, a oggi l’ultimo vinto. L’anno successivo arriva secondo perdendo il duello con la Juventus di Antonio Conte. Nella sua terza stagione al Milan conquista il gradino più basso del podio, ma l’anno successivo – all’indomani della sconfitta del 12 gennaio 2014 rimediata contro il Sassuolo (4-3) – viene esonerato. Poi però andrà alla Juventus per inanellare una serie di trionfi.

Pogba: la Juventus, il sumo, Torino, la moglie modella boliviana, i figli, la dieta: le cose che non sapete. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2022.

Il centrocampista francese è vicino al ritorno alla Juventus: la sua vita a Torino, l’amore per gli spaghetti, i film e i look stravaganti.

Pogba, la Juventus ci prova

La Juventus ci prova, il Psg attende l’evolversi della situazione. A Torino sta andando in scena l’incontro tra la dirigenza bianconera e la scuderia di Mino Raiola, guidata adesso da Rafaela Pimenta, dopo la morte del famoso procuratore (il 30 aprile a Milano all’età di 54 anni). Pogba è in scadenza con il Manchester United e non ha nessuna intenzione di rinnovare il contratto con i Red Devils. Il Psg offre 15 milioni di euro a stagione, ma la Juventus è fiduciosa, anche se offre meno. Da ricordare che il centrocampista francese ha già indossato la casacca bianconera, dal 2012 al 2016, vincendo quattro scudetti, due Coppe Italia e tre Supercoppe Italiane. Tutto questo in 178 partite e 34 gol.

L’amore per Torino

Era abbastanza facile incontrare Pogba per strada a Torino. A differenza di molti calciatori, aveva scelto di abitare in città, esattamente in Corso Agnelli, a pochi metri dallo Stadio Olimpico, in un appartamento che apparteneva a Ciccio Grabbi, un ex giocatore che nella Juventus non ha avuto la stessa fortuna di Paul. Pogba era solito recarsi in centro per andare a mangiare il kebab: in via XX settembre uno dei suoi posti preferiti, da Aydin, non molto distante dalla stazione ferroviaria di Porta Nuova. Nei primi tempi in città consumava all’interno del locale, al massimo coperto da un cappellino per mimetizzarsi con la clientela abituale. Alla Juventus Pogba si fece voler bene subito dai compagni e presto anche dai tifosi, nel capoluogo piemontese — e nella zona di Vinovo, che frequentava spesso a margine degli allenamenti — ha proprio tanti amici che lo apprezzano per non aver mai cambiato modo di porsi nonostante la popolarità acquisita. Lo si beccava in giro per la città a bordo di una Maserati Coupé di colore blu elettrico.

Come gioca

Pogba è un incontrista ambidestro che possiede forza atletica, abilità nel pressing e personalità, caratteristiche che in mezzo al campo gli permettono di recuperare palloni e vincere contrasti. Dotato di visione di gioco, è capace di organizzare la manovra d’attacco e di accompagnarla, fornendo l’ultimo passaggio ai finalizzatori dell’azione oppure inserendosi lui stesso negli spazi. Cresciuto nel vivaio dello United, scoperto a 17 anni da Sir Alex Ferguson, che lo prese dal Le Havre. Ma giovanissimo si trasferisce alla Juventus, era il 2012 e aveva 19 anni, a parametro zero. Poi nel 2016 il ritorno all’Old Trafford alla cifra record di 105 milioni di euro. Una curiosità? A inizio carriera era un attaccante.

Basket, boxe e sumo le passioni

Pogba non ama solo il calcio, ma anche il basket, la boxe e il sumo. «Il mio eroe? Muhammad Ali. Credo abbia salvato delle vite. Un eroe è qualcuno che salva una vita, che aiuta le persone. E io penso che sia quello che lui ha fatto», ha detto.

Il paragone con Vieira, l’idolo Yaya Touré

Pogba è sempre stato paragonato, fin dagli esordi, a un suo famosissimo connazionale (che in Italia ha indossato le maglie di Milan, Juventus e Inter): Patrick Vieira, ma non ha mai nascosto che il suo modello è sempre stato Yaya Touré, ex stella di Barcellona e Manchester City e della Nazionale della Costa d’Avorio. Oltre al connazionale Abou Diaby, che in Premier ha giocato nell’Arsenal dal 2006 al 2015.

I look pazzi e l’amore per il cinema

Pogba ama la moda e i look pazzi, ma anche molto il cinema. I suoi film preferiti sono, nell’ordine, Pulp Fiction, Il Gladiatore e Scarface. Un suo sogno? Provare a recitare per diventare il nuovo Denzel Washington.

Raiola, Dalì e Monet

Per i francesi è il degno erede di Platini e Zidane (con la Nazionale ha vinto i Mondiali di Russia del 2018). Per Mino Raiola, invece, era prima un Dalì, poi un Monet. Ma lui vuole essere solo Pogba.

La compagna modella Maria Zulay

La sua compagna, nonché madre dei suoi due figli, è la modella Maria Zulay Salaues, vera star dei social: è nata nel 1994. È boliviana ma si è trasferita negli Stati Uniti per seguire il sogno di diventare modella. A Miami la sua carriera è decollata, ma questo non le ha impedito di dedicarsi ad altre sue passioni, lavorando anche come agente immobiliare e interior designer. Sul proprio profilo Instagram ha 763mila followers. Ha due sorelle maggiori, Gabriela e Carla, anche loro modelle. I due starebbero insieme dal 2018, anno in cui la modella lo ha seguito fino in Russia, dove si sono svolti i Mondiali. Anche sui social sembrano una coppia innamoratissima. Lui ha 53,6 milioni di followers su Instagram. Sul proprio profilo si possono vedere foto di vita quotidiana, con la famiglia e con il Manchester United.

La famiglia d’origine e i due figli

Pogba ha origini africane. Suo padre, Fassou Antoine, è nato in Guinea; sua madre Yeo Noriba è congolese. Sono migrati dall’Africa alla Francia. Ha due fratelli maggiori che sono anche calciatori. Florentin, il primogenito, attualmente gioca nel Saint-Etienne, mentre Mathias gioca in Olanda, allo Sparta Rotterdam. Adesso Pogba ha due figli.

La dab dance

Non solo calcio. Ma anche tanto spettacolo fuori dal campo. Tanto che nel 2016 il suo modo di esultare (braccia tese da una parte e testa dall’altra), consistente in un passo di dab, contribuì a fare di questa danza un fenomeno social.

La dieta e la chef italiana a Manchester

Pogba ha un grande amore: la cucina italiana. Il suo piatto preferito sono gli spaghetti alla bolognese. Quando si è trasferito a Manchester, ha convinto la chef italiana che lavorava per lui a Torino a fare altrettanto. Il francese ha inserito nell’accordo oltre allo stipendio anche la copertura delle spese scolastiche per la figlia. Cosa proprio non sopporta? L’alcol. È musulmano praticante.

Auto, ville, jet privato

Il centrocampista francese vive in una villa bellissima, ha un jet privato e adora le auto di lusso.

I soprannomi: Polpo, Pogboom e ora Pogback

Sono due i soprannomi di Pogba. Uno è Polpo Paul perché grazie alle sue lunghe gambe, paragonate da molti ai tentacoli di una piovra, recupera tantissimi palloni. Il secondo è PogBoom. Il motivo? Dimostra potenza e precisione balistica nel tiro da fuori area. Ma oggi è già diventato Pogback.

Franco Causio, che fine ha fatto: Juventus, l’Avvocato Agnelli, Pertini, la moglie brasiliana, la scuola calcio. Cosa fa oggi. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 4 Maggio 2022.

Il Barone, da ragazzo ha fatto anche il garzone da un barbiere, si è sposato due volte e ha avuto tre figli (uno ha anche fatto il calciatore). Dopo il ritiro si è costruito una nuova vita a Udine. Ecco che fine ha fatto.

Franco Causio, da Lecce al Mondiale

Barocco e fantasia, estro e corsa. Franco Causio da Lecce, 73 anni, una delle ultime ali, come venivano intese una volta. Bravo a fare tutto, finte, cross, dribbling. «Bianconero da una vita», scrive nella sua autobiografia, che racconta gli anni alla Juventus, la squadra a cui si è legato per gran parte della carriera. Poi la Nazionale, il Mondiale del 1982, la mitica partita a scopone sull’aereo con Bearzot, Zoff e Pertini. Per tutti è «Il Barone». Ha saputo reinventarsi dopo il ritiro, restando sempre attaccato a quel pallone che lo ha reso grande: commentatore, allenatore dei ragazzi. Ecco che fine ha fatto Franco Causio.

I soprannomi

Partiamo dal soprannome. Perché il Barone? «Un giornalista di Torino, Fulvio Cinti, diceva che avevo stile in campo e fuori. Mi piaceva vestire in giacca e cravatta, poi per come mi muovevo in campo». Ce ne è un altro, meno noto, «Brazil», inventato da Vladimiro Caminiti: «Lui fotografò così il mio modo di giocare, per la fantasia che mi portava a fare dei numeri a effetto e spettacolari. Ma sempre al servizio della squadra».

Garzone dal barbiere

La storia del Barone inizia a Lecce: partite in strada com gli amici, spazi stretti e tanta tecnica. Il padre, Oronzo, ha un deposito di bombole del gas. Franco per non pesare sul bilancio di famiglia fa anche il garzone di bottega da un barbiere. Intanto entra nel vivaio del Lecce, con cui esordisce in serie C nel 1965, a 16 anni. Poi un anno alla Sambenedettese e la Juventus, che lo nota e lo ingaggia nel 1966. Arriva a Torino a stento 18enne. Dopo due esperienze in prestito (Reggina e Palermo), torna alla Juventus e ci resta per undici anni.

Il ricordo di Armando Picchi

Causio ha indossato la maglia bianconera dal 1970 al 1981: 447 presenze, 72 gol, e tantissime finte, dribbling, cross. Vince sei scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa. Entra appieno nel mondo Juve. Tra le persone con cui lega di più c’è Armando Picchi, per un periodo suo allenatore. Di recente lo ha ricordato così: «Provo ancora un dolore lacerante. Quando morì, lo avremmo voluto salutare con la conquista della Coppa delle Fiere, ma nella doppia finale con il Leeds ci andò male. Di Armandino mi piace ricordare la gaffe che facemmo uno dei primi giorni di ritiro a Villar Perosa. Eravamo sul balcone dell’albergo. A un certo punto arrivò una Jaguar. Scese una ragazza stupenda, bellissima. Puoi immaginare i commenti. Poi, all’improvviso, da sotto la terrazza, comparve il mister: “O’ buhaioli, è la mi’ moglje!”. La figuraccia era oramai fatta, ma con quella battuta ci si fece tutti una gran risata».

La cena a casa dell’Avvocato

Diversi anche gli aneddoti raccontati negli anni sull’Avvocato Agnelli. «Ci sono state le telefonate alle sei del mattino, gli arrivi in elicottero a Villar Perosa. E invitava Boniperti a farmi tagliare i capelli e Giampiero rispondeva: “Lo lasci stare”. L’Avvocato sapeva veramente tutto, lo avevo soprannominato l’Enciclopedia. Una sera mi ha invitato a cena a casa sua, aveva una cineteca immensa. Abbiamo visto “Il profeta del goal”, il film realizzato da Sandro Ciotti, un altro grande, su Cruijff. E, dell’olandese, Agnelli sapeva tutto».

Le incomprensioni con Trapattoni e l’Udinese

Lascia Torino perché Trapattoni, l’allenatore di quella Juventus, che per primo gli aveva dato la maglia numero 7, dal 1981 inizia a preferirgli i più giovani Fanna o Marocchino. Causio passa all’Udinese e gioca una stagione su altissimi livelli, che gli vale la chiamata di Bearzot per il Mondiale di Spagna. Resta a Udine tre anni, si toglie diverse soddisfazioni, dice no alla Juve che voleva riportarlo indietro («Non finché c’è Trapattoni»), chiude tra Inter, Lecce e Triestina, nel 1988.

In Spagna grazie a Bearzot

Fa in tempo, come detto, a giocare il Mondiale del 1982. In campo nella finale contro la Germania: «Lo devo al Vecio, Bearzot, il primo che mi ha chiamato quando sono stato ceduto. Mi ha detto: “Fai vedere all’Udinese e a te stesso che non sei finito e sarai il primo nella lista per i Mondiali”. Ho avuto tanti allenatori, ma Bearzot è stato unico, un incompreso, massacrato da vivo, dimenticato da morto».

Il consiglio a Paolo Rossi

Il Mondiale dell’82 è anche Paolo Rossi e i suoi gol decisivi: «Durante Italia-Perù Bearzot mi mandò in campo al posto di Rossi. Poi ci trovammo uno accanto all’altro sui lettini dei massaggiatori. Vidi che Paolo non era contento della sua prestazione, lo guardai negli occhi e gli dissi: “Ti ho sostituito stavolta, ma mica ti porto via il posto. La prossima volta giocherai ancora tu e ti sbloccherai”. Lui mi sorrise e rispose: “Non lo so, vedremo”. Passarono altre due partite e si sbloccò».

Lo scopone con Pertini

Una delle immagini di quel Mondiale è la partita a scopone in aereo tra Causio, Bearzot, Zoff e il presidente della repubblica Pertini: «Il presidente voleva giocare. Io ho chiesto di stare col Vecio, lui ha scelto il capitano, Zoff. Abbiamo vinto grazie a una mia mossa, estrosa come quelle che facevo in campo e anche lì c’è stato di mezzo un 7, il mio numero, che ho calato al momento giusto. Che uomo Pertini! Un anno dopo era in visita a Udine e ha mandato un’auto dei Carabinieri a prendermi, per stare tutto il pomeriggio con me».

Due mogli e un figlio calciatore

Il Barone si è sposato due volte. Dal primo matrimonio ha avuto due figli: Barbara e Francesco. Gianfranco, l’ultimo, è arrivato dalla seconda e attuale moglie, Andreia, di origini brasiliane. Ha giocato anche a calcio, senza riuscire a raggiungere i livelli del padre. Attaccante, idolo Ibrahimovic, tifoso della Juventus ovviamente, oggi lavora con il padre.

Team manager, commentatore in tv

Da quando si è ritirato Causio vive a Udine, dove ha aperto un negozio di articoli sportivi. Tutti lo trattano come fosse un friulano doc. All’Udinese ha fatto anche il team manager, nel periodo in cui allenatori erano Guidolin e Zaccheroni. Poi è stato commentatore in tv per Sky Sport e Udinese Tv. Nel 2015 ha scritto con Italo Cucci il libro «Vincere è l’unica cosa che conta».

Il furto mentre è in Brasile

Nel dicembre del 2014, mentre è in Brasile per trascorrere il Natale con la famiglia della moglie Andreia Brito Dos Anjos, dei ladri gli svaligiano la lussuosa villa che Causio ha a Udine, zona Campoformido. Un vicino di casa si accorge della rete che protegge la villa tagliata. I carabinieri accerteranno che per manomettere il sistema d’allarme della casa i ladri hanno usato della schiuma da barba. Il bottino? Gioielli e orologi di valore.

Cosa fa oggi

Di recente il Barone ha aperto una scuola calcio a Udine, in collaborazione con la Juventus. Si chiama CF7 Academy, un marchio in cui spicca il suo numero 7 e che ricorda il celebre CR7 di Cristiano Ronaldo. Con Franco lavora, come detto, anche il figlio Gianfranco.

Bonucci: «De Ligt sulla Juventus frasi poco carine. Zaniolo? Le qualità calcistiche da sole non bastano». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

L’intervista alla Gazzetta del difensore ora capitano: «Mi sono confrontato con Allegri: il rapporto è diretto e schietto. La corsa scudetto? La più forte è l’Inter ma non dobbiamo provarci. Chiellini lascia un’eredità importante»

Con l’addio di Chiellini, che chiuderà la carriera in Mls, ai Los Angeles FC, inizia una nuova vita juventina per Leonardo Bonucci. Che in questa stagione avrà così un nuovo compagno di reparto. Non de Ligt, che ha deciso di trasferirsi al Bayern Monaco, ma Bremer, strappato all’Inter.

«La partenza di Matthijs non mi ha sorpreso. Alcune sue dichiarazioni lasciavano capire che non voleva restare alla Juventus. Però, penso che alla base di tutto serva rispetto, il gruppo con cui è stato per tre anni gli è servito per crescere e la società ha investito su di lui. Gli auguro il meglio, però certe frasi dette in Nazionale sono state poco carine. Ne abbiamo parlato dopo le vacanze e lui ha capito. Il Bayern è un grande club, ma non è detto che in una squadra top sei destinato a vincere», ha detto Bonucci nell’intervista rilasciata a La Gazzetta dello Sport.

E ancora: «Bremer è un giocatore di talento con un grande avvenire, negli ultimi due anni con il Torino è cresciuto tantissimo, ha potenzialità e un fisico impressionante. Per il dopo De Ligt la società ha fatto l’acquisto migliore. Noi abbiamo altri due difensori affidabili: Rugani è cresciuto negli ultimi due anni e Gatti ha qualità che ricordano me e Chiellini. Deve migliorarsi in tante cose, ma ha l’umiltà per diventare un difensore affidabile. È pronto per la Juve».

Il mercato bianconero prosegue. Piacciono Paredes per il ruolo di regista e si punta al ritorno di Morata in attacco. Ma uno dei nomi delle scorse settimane è stato quello di Zaniolo: «Ha grande talento e forse non conosce ancora le sue potenzialità, se resterà alla Roma potrà esaltarsi con Dybala, se arriverà da noi cercheremo di metterlo a suo agio. Ma alla Juve non bastano solo le qualità calcistiche», ha aggiunto Bonucci.

Per il difensore bianconero sono state settimane importanti, anche per trovare un’intesa con Massimiliano Allegri. Un tecnico con il quale i rapporti, in passato, non sempre sono stati idilliaci: «Il mio rapporto con lui? Diretto e schietto. A fine stagione ci siamo confrontati, dopo un anno in cui un po’ tutti siamo mancati in qualcosa ho rivisto in questi giorni l’Allegri che ha voglia di tornare a vincere. Dice che abbiamo il dovere di puntare allo scudetto? Con questa maglia non può essere altrimenti. Il tempo che passa deve essere quello tra una vittoria e l’altra. Io l’ho imparato dopo un anno difficile e speriamo che quello appena trascorso sia come la mia prima stagione bianconera, ovvero il preludio di tanti successi».

Ma per il tricolore non sarà facile. Le rivali sono agguerrite: «Credo che la squadra più forte sia l’Inter perché ha ritrovato Lukaku che può fare la differenza, anche se Dybala alla Roma mi incuriosisce perché può diventare un simbolo. Il mio incubo peggiore è sempre Zapata. Il Milan avrà la pressione di riconfermarsi, l’Inter se terrà Skriniar sarà la più completa, poi ci siamo noi e bisogna fare attenzione alla Lazio».

Sarà un duello importante che Bonucci affronterà con la fascia di capitano sul braccio: «Finalmente ce l’ho fatta. Ho sempre interpretato il mio ruolo dentro lo spogliatoio, ora sono il più vecchio del gruppo e l’esempio, la responsabilità e l’orgoglio di portare questa maglia dovranno essere ancora più forti. I compito di un buon capitano? Essere d’esempio, ma un buon capitano deve avere soprattutto un buon gruppo alle spalle. Noi siamo riusciti a vincere un Europeo anche grazie alla forza del gruppo. In questi giorni sto vedendo nella Juventus la voglia di stare insieme e l’entusiasmo. Bisogna essere duri quando serve e sorridere quando si può fare. In allenamento c’è un clima di entusiasmo e i nuovi sono molto importanti. Chiellini lascia un’eredità perché nella sua ventennale carriera alla Juve è stato un esempio con Buffon e Del Piero. Spero di aver appreso i suoi tanti pregi, io cercherò di essere me stesso e di mettermi a disposizione. Quando mi ha lasciato la fascia Giorgio mi ha detto “ora sono affari tuoi” perché dopo un anno in cui la Juve non ha vinto ripartire non è facile, la società sta facendo investimenti importanti per tornare subito al top, sta a noi creare l’alchimia per riportare la squadra dove merita».

Leonardo Bonucci ha 35 anni: lo sgabello, il Milan, le polemiche della moglie, la malattia del figlio. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2022. 

Il primo maggio ha festeggiato il suo compleanno con una doppietta che ha permesso alla Juventus non solo di conquistare la vittoria con il Venezia, ma anche la qualificazione alla prossima Champions League.

La doppietta per il compleanno

Domenica 1 maggio Leonardo Bonucci ha compiuto 35 anni, festeggiando nel migliore dei modi. Con una doppietta al Venezia (2-1), decisiva per qualificare aritmeticamente la Juventus in Champions. Nei momenti più importanti, il difensore della Juventus c’è. Sia in maglia bianconera sia con la maglia della Nazionale, come quando l’11 luglio 2021 a Wembley, nella finale degli Europei, ha segnato nella ripresa il gol del pareggio, rispondendo alla rete iniziale della squadra del c.t. Gareth Southgate, firmato da Shaw. Un gol che ha permesso all’Italia di arrivare ai rigori e vincere l’Europeo, 43 anni dopo l’ultima volta (nel 1968).

Il Bonucci calciatore

Bonucci è nato come centrocampista centrale, poi è stato arretrato. È un difensore centrale che può essere impiegato in una difesa a tre o a quattro. È un calciatore di grande personalità, che ama assumersi responsabilità e ruoli da leader in campo. In fase difensiva eccelle nei contrasti e nel gioco aereo, mentre in fase offensiva ben si disimpegna nell’impostare l’azione, effettuare lanci lunghi per i compagni e, in seconda battuta, attaccare gli spazi delle retroguardie rivali. E sottoporta è letale, come il Venezia sa, nei calci piazzati.

I figli

Grande difensore e grande papà. Bonucci ha tre figli: Lorenzo, quasi 10 anni, tifoso del Torino e di Belotti; Matteo, 8 anni, e Matilda, 3 anni. Quando non è impegnato con la Juventus o la Nazionale Bonucci è tutto per loro. E per la cagnolina Gina, un barboncino.

Il tiramisù

Bonucci segue una dieta precisa, anche grazie all’aiuto della moglie Martina, ma ama molto la pasta. Non riesce, però, a rinunciare al tiramisù fatto dalla moglie: «Con i Pavesini, anche se so che andrebbe fatto con i savoiardi. Non riesco mai a dire di no. È il mio piatto preferito». Il difensore della Juventus ogni tanto si diverte a cucinare, soprattutto i secondi e i piatti freddi.

Poteva fare il portiere

Bonucci da anni è uno dei migliori difensori d’Italia, non tutti sanno che ha iniziato, in famiglia, come portiere. Merito del fratello: «Ha quattro anni in più di me e mi metteva tra i pali. Giocavamo sempre allo stesso modo: lui tirava i rigori, io dovevo pararli». Non a caso il suo idolo, anche perché è nato a Viterbo, era Angelo Peruzzi. Poi è stato il turno di Alessandro Del Piero.

La moglie

Martina Maccari, la moglie, ha iniziato una grande avventura. Ha creato il progetto «nèttare» e da domenica 1 maggio, ha iniziato un cammino di 26 giorni e 575 chilometri per raccogliere fondi per l’ospedale di Torino Regina Margherita, lo stesso dove è stato curato e salvato il piccolo Matteo sei anni fa. È molto popolare ha 245mila follower su Instagram, ma in passato è anche stata protagonista di tante polemiche pubbliche, la più celebre quella dello scorso anno sul Covid quando disse «Sono piuttosto inc***a, perché ci stanno facendo vivere una vita di m**, qualcuno si svegli per far andare le cose un po’ meglio», ma molti ricordano anche quella contro la Festa della donna.

L’amore per la Ferrari

L’amore per lo sport coinvolge tutta la famiglia Bonucci: Leonardo ama tanto andare a vedere dal vivo la Ferrari. Suo cognato Federico è stato tennista e ora fa l’allenatore. Il suocero è maestro e istruttore di sci, Martina ha sciato per tanti anni e ha fatto sempre molto sport. E i piccoli anche: sciano, giocano a calcio, tennis e danza.

Il trasferimento al Milan

Nel luglio 2017 si trasferisce al Milan, ma quella in rossonero non fu una stagione proprio esaltante per Bonucci. Fascia di capitano e maglia numero 19, inizialmente sulle spalle di Kessie che ha poi virato sulla 79 (ora la 19 è di Theo Hernandez). Dopo un solo anno, Bonucci è rientrato alla Juventus, nell’agosto 2018. Il 29 settembre tornò al gol con la Vecchia Signora nel 3-1 al Napoli. Ma con il Diavolo segnò il gol dell’ex il 31 marzo 2018. Accolto dai fischi dei suoi ex tifosi, firmò il vantaggio. Poi vinse la Juventus 3-1. Non tutti sanno poi che Bonucci nella stagione 2005-2006 ha anche giocato una gara con l’Inter. Ed è così uno dei giocatori che può dire di aver militato in tutte e tre le grandi del calcio italiano.

Jovanotti

Bonucci e Martina amano Jovanotti. Il figlio Lorenzo, infatti, si chiama così in onore del cantante: «Eravamo appassionati della sua musica. “Il più grande spettacolo dopo il Big Bang” è stata la colonna sonora del nostro matrimonio. Quando allo Juventus Stadium parte quella canzone, cerco sempre lo sguardo di Martina», raccontò alcuni fa.

La malattia del figlio Matteo

«Eravamo in vacanza, Matteo aveva due anni. Mai pensavamo di dover affrontare una cosa simile, che nostro figlio fosse in pericolo di vita. All’improvviso crolla tutto. Abbiamo saputo della malattia quando siamo tornati a Torino. Non stava bene, c’era qualcosa che non andava. Abbiamo fatto un controllo e ci hanno detto che non si poteva aspettare, doveva operarsi subito. Matteo ha sviluppato un bel carattere, è un leone. Sa quello che è successo e pur non essendo viziato, a volte sa che può fare leva sulla cosa», ha raccontato Bonucci in merito alla malattia del secondogenito. Oggi il bambino sta bene.

Lo sgabello con il Porto

Porto-Juventus, 22 febbraio 2017. Dopo una delle tante litigate con l’allora tecnico della Juventus, Massimiliano Allegri, Bonucci non gioca quella partita di Champions, l’andata degli ottavi di finale. E allo stadio del club lusitano è in tribuna, immortalato dalle telecamere seduto su uno sgabello. Fu la goccia che fece traboccare il vaso e spinse il difensore ad accettare l’offerta del Milan. In quella annata i bianconeri arrivarono a giocarsi poi il titolo contro il Real Madrid, vittorioso 4-1 nella finale di Cardiff, in Galles.

Giorgio Chiellini. Chiellini: «Sono brutto, ma l’essere un campione mi ha fatto avere successo con le donne». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 23 Agosto 2022

Confessione alla «Bild» dell’ex capitano della Juventus e della Nazionale che precisa di riferirsi al periodo precedente al fidanzamento e poi al matrimonio con Caterina Bonistalli che è sua moglie dal 2014

C’è una cosa sulla quale Giorgio Chiellini, ex capitano della Juventus e della Nazionale, futuro commentatore tv, recrimina: è l’aspetto esteriore. Ha vinto tutto, Europeo 2021 compreso. Ma intervistato dalla Bild, per il podcast Team Serie A, l’ex capitano della Juventus si è lasciato andare a originali riflessioni extracalcistiche sulla propria vita privata: «Essere un calciatore di successo mi ha aiutato ad avere storie con più donne rispetto a quelle che avrei potuto avere se avessi fatto un altro mestiere. Come puoi notare tu stesso – ha scherzato – non sono certo il calciatore più bello della mia generazione. Anzi, direi che sono piuttosto brutto, un brutto anatroccolo».

Tra l’altro stessi concetti espressi a inizio 2022 in un altro podcast, ma quella volta insieme al Bonucci: «Sono più brutto della fame, ma la professione che ho intrapreso mi ha aiutato nella vita privata. Leo è molto più bello di me». Chiellini si è sposato nel 2014 con Carolina Bonistalli, dopo quattro anni di fidanzamento, ed è padre di due figlie, Nina di sette anni e Olivia di tre. Alla «Bild» il difensore ha parlato anche della sua avventura nella Mls. Nelle ultime tre partite, però, è stato escluso dai convocati da parte del tecnico Cherundolo per piccoli problemi fisici: «Los Angeles è una grande città, ma c’è un buon stile di vita, anche se il clima generale è diverso rispetto all’Italia. Sono contento della decisione che ho preso, non ho rimpianti», ha concluso.

Giulia Zonca per “La Stampa” il 13 giugno 2022.

Tutti gli addii sono appesi a un'immagine e quelle che definiscono il saluto dei campioni si somigliano: un giorno di festa a cui segue un armadio vuoto. Una foto di gloria dedicata a chi ha saputo fare qualcosa di straordinario e uno scatto quotidiano che è passato nella vita di chiunque. Giorgio Chiellini è l'ultimo a farci sbirciare nel suo armadietto, spazio quasi sacro che diventa all'improvviso terra di nessuno. 

È il passaggio definitivo, via la maglia, via il numero, via gli attrezzi del mestiere, via le scaramanzie e le abitudini. Si passa da campioni a ex nello spazio di un mini trasloco. Il tempo di svuotare un'anta e tutto cambia. 

Chiellini ha la sua avventura americana da godersi a pieno, ma il giorno del distacco resta questo, con la sacca degli azzurri davanti a quello che era il suo angolo. Dopo aver assorbito un'intera carriera di emozioni torna neutrale, privo di carica, in attesa di essere riassegnato.

Quell'anta che ora dondola senza più niente da custodire è stata sbattuta, aperta con orgoglio, presa probabilmente a pugni. Il capitano della Juve e della nazionale ci si sarà magari appeso al rientro da risultati sconfortanti, sarà rimasto a fissare il tesoro della certezza dopo le difese memorabili, ci si sarà seduto davanti distrutto o estasiato. Ci avrà appoggiato la testa sognante alla fine dell'impresa e la schiena dolorante al rientro dalla disfatta.

Alessandro Del Piero ha liberato l'armadietto dopo 19 anni in bianconero e lo ha fatto in un giorno senza allenamenti e senza persone intorno, lo ha chiuso e si è fermato fuori, dove lo avevano sempre aspettato i tifosi, come per togliere la distanza. Un giro di chiave e si passa da super a comune mortale. O quasi. Francesco Totti, ha abbandonato lo spogliatoio con un clic sulla gruccia in primo piano, un appendiabiti con la lupa della Roma e niente più.

Michael Phelps è andato per sottrazione. Fin da ragazzino ci appiccicava ritagli a strati: all'inizio era l'articolo sull'imbattibile Ian Thorpe, Phelps aveva 15 anni, stava per debuttare alle Olimpiadi di Sydney. 

Prima di quelle di Pechino, nel 2008, dove sarebbe diventato il più grande nuotatore della storia, sopra Thorpe, già ritirato, c'era Crocker, l'ultimo capace di batterlo. E poi via via, ritagli che gli consigliavano di non tornare dopo Londra 2012 e motivazioni che cadevano dopo qualche bracciata.

Ostacoli subito superati e trasformati in coriandoli nel suo armadietto che a un certo punto è stato vuoto. Di facce, parole e desideri. 

Tom Brady se ne è andato dopo aver fatto sedere la figlia sul ripiano ripulito. Una foto di niente non avrebbe avuto senso per chi in pratica ha tenuto in mano gli Stati Uniti. Meglio passare alla prossima generazione e alla prossima vita, senza una palla ovale da rincorrere.

Johan Cruyff ci ha fumato sopra. Il celebre scatto con lui seduto sulla panchina, avvolto dagli anelli di una sigaretta, davanti allo scaffale senza oggetti, non è quella dell'ultimo giorno.

Ha la maglia dell'Olanda, è ancora in attività, ma è quello il momento che è circolato quando Cruyff ha smesso davvero. Sceneggiato e perfetto. Beckenbauer invece ha un ritratto di schiena, i ricci e la sua mano da cui pende la numero sei. Erano anni in cui si voleva portare via qualcosa, oggi è meglio uscire leggeri dopo aver gestito dosi massicce di sentimenti smodati. 

Chiellini ci mette una faccia, però non è la sua, è l'emoji triste che sta lì fare da argine a reazioni ben più strutturate. E private. Eppure un istante di condivisione serve per il cambio di dimensione. Dall'applauso da star al trasloco, quanto di più banale e vulnerabile esista.

Giuseppe Nigro per gazzetta.it il 27 aprile 2022.

Era nell’aria ma lui in prima persona non ne aveva mai parlato. Dopo il successo della Juventus sul campo del Sassuolo, Giorgio Chiellini ha annunciato di aver deciso il giorno in cui scriverà la parola fine, intanto alla sua carriera in Nazionale: Italia-Argentina del 1° giugno a Londra, gli azzurri di Euro 2020 contro i detentori della Coppa America.

"È normale a 38 anni fermarsi e capire delle cose. Se sto bene gioco e salutiamo la Nazionale a Wembley, dove ho raggiunto l'apice della mia carriera - ha detto a Reggio Emilia ai microfoni di Dazn -. Sarebbe il top salutare la maglia azzurra con una partita celebrativa come quella con l'Argentina: in Nazionale sarà l'ultima sicuro. Lasciamo spazio ai ragazzi che son bravi". Intanto è al suo probabile ultimo mese anche in bianconero, anche se per ora glissa: "Lasciamo passare questo quarto posto importante, la finale di Coppa Italia, poi capirò con le mie due famiglie, quella a casa e quella al campo, cosa fare il prossimo anno. Ma ho 38 anni, è normale a fine anno mettersi lì e pensare un po' alle varie cose".

Arrivato all'estate scorsa, quella della gioia azzurra all'Europeo, col contratto scaduto, Chiellini era rimasto alla Juventus firmando un nuovo biennale, dunque con scadenza 2023. L'obiettivo dichiarato era quello di arrivare al Mondiale di Qatar 2022, ma la mancata qualificazione azzurra ha cambiato il panorama. Adesso ha tre strade aperte davanti: l’esperienza in Mls negli Stati Uniti, che è quella di cui parla da tempo, oppure l’inizio da subito del percorso dirigenziale che è notoriamente nel suo futuro, ma sullo sfondo si è profilata anche un’idea tutta da definire di restare nel gruppo azzurro con un ruolo diverso. Manca alla rosa l'ipotesi di andare avanti un altro anno con la Juventus: mancava un anno fa e siamo sempre qui, dipende anche da un finale di stagione in bianconero che faccia sentire a Chiellini di aver chiuso il cerchio.

Stefano Tacconi: il malore, la Juventus, le sigarette con Platini, la geisha a Tokyo, il vino, cuoco e stilista. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2022.

Il portiere che lotta in ospedale ad Alessandria ha vinto tutto con la Juventus. Secondo di Zenga in Nazionale, si è impegnato dopo il calcio in tante attività, facendosi affiancare spesso dal figlio Andrea.

Tacconi in gravi condizioni

La notizia è arrivata sabato pomeriggio: Stefano Tacconi ricoverato in prognosi riservata all’ospedale di Alessandria, in Neurochirurgia. Il sospetto è che sia stato colpito da un’ischemia (Il bollettino divulgato domenica 24 aprile parla di un aneurisma che ha causato un’emorragia cerebrale). L’ex portiere della Juventus aveva partecipato a un evento benefico venerdì, poi sabato mattina aveva cominciato a stare poco bene: un mal di testa, poi il malore e il ricovero. Il figlio Andrea ha postato su Instagram una storia con l’augurio al padre: «Riprenditi papi, sei un leone, vincerai anche questa battaglia». Dopo una vita tra i pali, oggi Stefano lavora proprio con il figlio. Ma andiamo con ordine.

Dalla Juventus al vino

Il portiere che ha vinto tutto. Con la Juventus, in Italia e in Europa. «Non sono secondo neanche a Buffon» dice sempre Stefano Tacconi, 64 anni da Ponte Falcino, un paesino alle porte di Perugia. Baffo lungo e sorriso sornione, in bianconero è arrivato sul tetto del mondo, decisivo anche nella Coppa Intercontinentale contro l’Argentinos Juniors, «il ricordo più bello». Poi due scudetti, la Coppa Italia del 1990 e i trionfi internazionali, la Coppa dei Campioni nella maledetta notte dell’Heysel, la Coppa Uefa e la Coppa delle Coppe. Tante parate, qualche guaio, attore e personaggio in tv con «L’Isola dei famosi», due amori e quattro figli, con cui oggi lavora. Sì perché Tacconi non si è mai fermato: imprenditore con la passione per la cucina, la moda che ha appena riscoperto, il suo marchio di vino. E non solo.

«L’Angelo di Ponte Felcino»

Partiamo dai primi anni a Perugia, figlio di due operai, Arsenio e Giannina, che lavorano in un lanificio. Stefano si iscrive all’istituto alberghiero e lì impara a cucinare, soprattutto piatti tipici umbri. Ma il pallone lo attira come una calamita. In porta lo mettono i fratelli maggiori, Giuseppe e Piero, loro centrocampisti. Ma Tacconi è bravo e viene notato da osservatore e general manager dell’Inter, che lo portano a Milano. Cresce nel settore giovanile del club nerazzurro, che intanto lo manda in prestito alla Pro Patria, Livorno. Prende il diploma di cuoco all’istituto alberghiero di Spoleto, poi l’Inter lo cede a titolo definitivo in serie B alla Sambenedettese. «L’Angelo di Ponte Felcino», così lo chiamano per gli occhi azzurri e i capelli biondissimi, viene notato dall’Avellino, appena tornato in A. Resta in Irpinia per tre anni, con altrettante salvezze raggiunte comodamente: «C’era la legge del Partenio, anche grazie ai tifosi. Quando arrivai, dopo due mesi, ci fu il terremoto che sconvolse tutto — ha ricordato di recente in un’intervista su Instagram —. Poi ci siamo uniti e abbiamo ottenuti grandi risultati. Quell’Avellino rimarrà per sempre nella storia».

Due sigarette con Platini

Lo chiama la Juventus, erede designato del regno di Dino Zoff. Resta a Torino nove anni e vince tutto. Due scudetti, una Coppa Italia, una volta le tre coppe internazionali, poi l’Intercontinentale a Tokyo. Stefano è protagonista nonostante alcune abitudini particolari: «Con Platinì fumavo due sigarette fra il primo e il secondo tempo —ha raccontato—. Poi bevevo la China Martini, però stavo bene. Ognuno ha il suo stile di vita, fumando e bevendo stavo bene a differenza di Galli che indossava il pantalone lungo anche a Ferragosto e aveva paura anche della pioggia e dell’influenza».

Il gol di Maradona da raccontare ai nipoti

Nel 1985 in un Napoli-Juventus Maradona segna un gol che resterà iconico. In porta c’è proprio Tacconi, battuto sul suo palo da una punizione a due battuta da posizione impossibile. «Se lo avessi parato, probabilmente mi avrebbero dato una medaglia— le parole di Stefano sulla rete subita—. È un onore aver preso gol da Diego, non la considero una sconfitta personale come portiere. Quando segnano certi campioni puoi anche ricordarlo per tutta la vita e raccontarlo ai nipoti. Mica hai preso gol da Cinciripini…».

La geisha a Tokyo

Il suo ricordo più bello con la Juventus è la Coppa Intercontinentale vinta contro l’Argentinos Juniors, l’8 dicembre 1985, in cui para due rigori. Pochi giorni prima della partita Tacconi si rilassa a modo suo: «A Tokyo eravamo sempre imbottigliati nel traffico. Trapattoni, poi, era una belva perché avevano messo sia noi che gli argentini nello stesso albergo —ha raccontato nel 2012 al Guerin Sportivo —. La tensione saliva a vista d’occhio. Non c’era altro che allenamento, mangiare e dormire. Io ho resistito fino al quinto giorno. Poi sono scappato e sono andato a cercarmi una geisha. La trovai e posso dire che dopo sono stato parecchio meglio. Nessuno mi ha detto niente. Mancavano due giorni alla partita. Erano tutti stressati. Io no».

La rivalità con Zenga

In Nazionale gioca poco, perché davanti a lui nelle gerarchie dell’allora c.t Vicini c’è Walter Zenga, con cui nasce una amichevole rivalità. In totale 7 presenze, tutte in amichevoli. Nel 1992 con l’arrivo a Torino dell’emergente Angelo Peruzzi lascia la Juventus, dopo nove anni e 382 presenze Passa al Genoa, dove resta fino al ritiro, nel dicembre del 1994, a 37 anni. Nel 2008, superati i 50 anni, è tornato brevemente in campo tra i dilettanti con l’Arquata.

In politica

Si è dato da fare dopo il pallone. Nel 1999 prova ad entrare in politica. Viene candidato da Alleanza nazionale per le elezioni europee, non riesce ad ottenere i voti necessari.

Attore e personaggio tv

Personaggio poliedrico, ha partecipato nel 2003 al reality «L’isola dei famosi». Ha anche fatto l’attore, interpretando se stesso nella pellicola autobiografica «Ho parato la luna», di Ornella Barreca. Spesso, ancora oggi, è opinionista di calcio in tv.

Cuoco e ristoratore

Tacconi è appassionato di cucina, ha anche scritto un libro di ricette umbre. «Mi ha sempre appassionato cucinare, le penne alla norcina sono il mio piatto, con salsiccia umbra, peperoncino e panna», ha raccontato. Nel 2016 diventa socio di un ristorante a Reggio Emilia, «La tana dello scoiattolo».

Il rischio sedia a rotelle

Negli ultimi anni ha avuto seri problemi alla schiena. Nel 2019 si è sottoposto ad un delicato intervento: «Avevo problemi a due vertebre —ha raccontato a Pomeriggio 5 —mi hanno detto: ”O ti operi o resti sulla sedie a rotelle”. È stato allora che ho iniziato ad avere una serie di paure». «Non avevo più il disco—ha aggiunto a Che tempo che fa —. Così mi hanno messo un perno in acciaio, con 4 viti. Il calcio ti dà, il calcio ti toglie».

La moglie Laura e i figli

Sposato in prime nozze con Paola Vincenzoni, Tacconi si innamora della modella Laura Speranza e la sposa, nel 2011. Hanno avuto quattro figli: Andrea, che per un breve periodo ha inseguito anche il sogno di diventare calciatore professionista (come portiere), Virginia, Vittoria Maria e Alberto. Ha avuto di recente qualche problema con la moglie, complice la pandemia e una proposta di lavoro arrivata dalla Cina, che però alla fine ha rifiutato: «Laura e i miei figli sono tutta la mia vita».

Cosa fa oggi

Tacconi, oltre a interessarsi ancora tanto del calcio, spesso opinionista anche in tv, ha una cantina di vini, «Junic», aperta con il figlio Andrea. Quest’ultimo si occupa della parte commerciale, va insomma dai ristoratori per vendere il vino. Stefano è invece l’immagine della società, che anche grazie alla sua popolarità organizza molti eventi promozionali. Ma non è finita qui.

Enoteche e moda

C’è una nuova avventura, in cui Tacconi si è buttato da poco: «Mi chiedevi dove stessero andando i nostri soldi, non ti tornavano i conti —le sue parole a Dipiù —. Ora, pubblicamente, posso dirtelo. Laura, insieme con nostro figlio Andrea, ho investito una parte considerevole dei nostri risparmi nell’apertura di due enoteche con annessa pizzeria, una ad Agropoli e un’altra in Ungheria, a Budapest, ma soprattutto in una linea di abiti sportivi. Fidati, sarà un successo». Il marchio lo ha chiamato Hope, speranza. Si tratta di pantaloni sportivi, felpe e magliette studiate per i giovani. «Sono entrato nella moda perché mi hai detto che non potevo allenare in Cina. Ti chiedo scusa, Laura, se ho fatto un investimento senza dirti nulla». Moda che, ha rivelato l’ex portiere, è da sempre una sua passione: «Disegnavo io le magliette che usavo per difendere la porta della Juve. Carta, penna e colori e poi via, davo tutto allo stampatore che, in qualche giorno, mi consegnava la mia maglia nuova. Ora, giunto a 64 anni, ho deciso di realizzare il mio sogno di diventare stilista».

Riccardo Bruno per corriere.it il 26 aprile 2022.

Come sta suo padre?

«È in coma farmacologico. Dopo l’emorragia cerebrale ha subito un intervento che è andato bene. Ora bisogna aspettare, vedere come reagisce il fisico. Il medico ha detto che c’è stato un leggero miglioramento, ma sono cose lunghe. La cosa che mi dà speranza è che lo vedo colorito, eppoi lui fisicamente è una roccia». 

Ha ragione Andrea, 24 anni, il figlio maggiore di Stefano Tacconi, 65 anni il prossimo 13 maggio, portiere della Juventus e della Nazionale di grande temperamento e vigore atletico. 

Un guerriero, questa volta impegnato nella sua partita più difficile. Sabato mattina Andrea era con lui quando si è sentito male. «Si era alzato con un po’ di mal di testa. Ha fatto colazione, ha preso un Oki. Non ha mai avuto niente, non ci siamo allarmati. Dopo un paio d’ore è crollato all’improvviso. Per fortuna ho chiamato subito i soccorsi». 

Siete quasi sempre assieme, lavorate anche insieme.

«Abbiamo una cantina vinicola. Collaboriamo con chi produce Nebbiolo, Barbera o Arneis, noi lo commercializziamo con la nostra etichetta Junic. Ha iniziato mio padre quasi per gioco, poi mi ha coinvolto». 

Suo padre è un grande appassionato di cucina.

«Si è diplomato all’Alberghiero, è un grande cuoco». 

A casa cucina lui?

«Pranzo e cena. Gli piace moltissimo». 

Piatto preferito?

«Gli piace preparare i risotti». 

Siete quattro fratelli. Dopo di lei sono nate Virginia (17 anni), Alberto (15) e Vittoria (13). Che padre è?

«Straordinario. Sempre presente, con me e con i miei fratelli». 

Lei ha anche provato a seguirne le orme in campo.

«Ho giocato come portiere in diverse squadre, Lazio, Como, Reggiana. Poi a 20 anni ho smesso». 

E suo padre?

«Era contento, ma mi ha sempre ripetuto: “Sentiti libero di fare le tue scelte”. Anche quando ho mollato, lui mi ha sostenuto». 

Che rapporti ha mantenuto suo padre con il mondo del pallone?

«Segue la Juve, è un tifoso accanito ma si è allontanato da quell’ambiente. Lui è una persona molto schietta, sincera e diretta e in certi contesti questo non va bene. Sostiene che i soldi nel calcio hanno rovinato tutto. Si sono persi certi valori, non ci sono più i campioni veri». 

Suo padre è ancora un personaggio molto popolare.

«È quello che più mi ha colpito in questi giorni. Mi hanno chiamato in tantissimi, da tutto il mondo. È una cosa che mi riempie di orgoglio». 

E ora non c’è che da aspettare.

«È in buone mani, all’ospedale di Alessandria sono tutti molto preparati. Sono fiducioso, e poi faremo una bella festa. Con il nostro vino».

Gigi Maifredi ha 75 anni: la Juve, lo champagne, Simona Ventura, il processo, Dalla e Guccini. Cosa fa oggi l’ex tecnico. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.

L’ex allenatore bresciano è stato una delle figure più controverse del calcio italiano degli anni 80-90: con il suo calcio spettacolo ha incantato a Bologna ma, arrivato alla Juve, ha clamorosamente fallito, iniziando l’inesorabile declino. Poi la seconda vita come personaggio televisivo

Gigi Maifredi ha 75 anni

Per l’ex calciatore e allenatore Luigi Maifredi, detto Gigi, quest’anno sono 75. Soffia le candeline il 20 aprile colui che tutti chiamavano «Omone» per il metro e 86 d’altezza in panchina, per il carattere impavido e a volte presuntuoso, per quella voglia di dare sempre il massimo, in provincia come nelle grandi piazze. Il Bologna è stato il suo più grande successo professionale, la Juventus l’esperienza che si ricorda come la più grande occasione della sua carriera d’allenatore, miseramente mancata. Sulle panchine ci sono nomi che scorrono. Nel bene e nel male quello di Maifredi, a differenza di tanti altri, resta difficile da dimenticare, non solo per le squadre allenate, ma anche per il suo pensiero.

Dallo champagne alla panchina

Quando era ancora un bambino di Lograto, un comune con meno di 4mila abitanti nella provincia di Brescia, Maifredi sognava di fare il vigile, l’autista o il fruttivendolo. Poi, con una carriera da calciatore terminata a soli 21 anni a causa della rottura di un menisco (Rovereto e Portogruaro le sue maglie, dopo quella delle giovanili delle Rondinelle), si intestardisce con il calcio e decide di fare l’allenatore. Lo stile di gioco delle sue squadre viene definito «spumeggiante», anche per via del legame con il suo precedente lavoro come rappresentante della Veuve Clicquot Ponsardin, azienda produttrice di champagne.

Lunga gavetta

Tra dilettanti, Serie C, C2 e Interregionale allenerà nella prima parte della sua carriera il Real Brescia, il Crotone, come allenatore in seconda di Oronzo Pugliese, personaggio che ispirò al cinema il celebre Oronzo Canà interpretato da Lino Banfi, il Lumezzane e l’Ospitaletto (Brescia). Un gioco spettacolare, che dopo 11 anni di successi ed esperienza in provincia farà gola al Bologna del presidente Luigi Corioni, lo stesso che aveva avuto in precedenza e che quindi conosceva bene.

L'Europa con il Bologna

Senza mai rinunciare al suo stile di gioco votato all’attacco, Maifredi conquista con i rossoblù prima la promozione in Serie A nel 1988, poi, dopo due stagioni nella massima serie, la qualificazione per la Coppa Uefa. Inevitabile l’interesse di club più grandi, come la Juventus del 1990-91, con la Vecchia Signora che decide di puntare su di lui al posto di Dino Zoff. Un trasferimento, racconterà il mister, che non sarebbe stato facile. «Lasciai Bologna dopo tre anni, non volevo tradire Corioni. Nella “Dotta” stavo da re e nell’Osteria dei Poeti cantavo fino alle 3 di notte con Dalla, Morandi, Guccini e Carboni...».

Maifredi e la Juventus

Più alte erano state le aspettative, maggiore fu la delusione al termine della stagione. Luca Cordero di Montezemolo per la sua Juventus puntò sull’«Omone», credendo che la sua sicurezza potesse trascinare i bianconeri lontano. Fu un flop che i tifosi ancora ricordano, perché dopo un discreto girone d’andata in campionato, in quello di ritorno la Juve calò sensibilmente fino al concludere la stagione al settimo posto, fuori dalle coppe europee dopo 28 anni di presenza continua. Maifredi sembrava il profeta di un calcio nuovo, in un’epoca di grandi trasformazioni tattiche, ma nulla andò come previsto e sperato dalla dirigenza bianconera.

Il declino

Dal fallimento con la Juventus in poi, il lento declino del tecnico di origini bresciane. Torna al Bologna nel 91-92 per riportarlo ancora una volta in promozione dal campionato cadetto, ma sarà esonerato già all’11ª giornata. Dopo 12 partite, stesso esito sulla panchina del Genoa, chiamato dal Grifone per sostituire il dimissionario Bruno Giorgi. Con Venezia, Brescia e Pescara non andrà meglio. Farà un tentativo all’estero con la tunisina Espérance e l’Albacete in Spagna, ma senza riuscire a lasciare il segno.

L'opinionista

Per la sua carriera in panchina non esprimerà mai grossi pentimenti, eccetto forse per le sue ultime stagioni, fino al 2000. «Negli ultimi anni ho allenato solo per soldi. Non ero più io, non ho lottato ed è l’unico rimpianto». Più recentemente, ha partecipato dal 2003 al 2009 al programma televisivo condotto da Simona Ventura “Quelli che il calcio”, quando Maifredi guidava scherzosamente una piccola squadra di ex calciatori per mostrare al pubblico di casa i gol della giornata, attraverso una sorta di moviola umana. Successivamente continua a lavorare in tv come opinionista per Mediaset Premium.

Il processo

Viene condannato in primo grado al pagamento di una multa di 400 euro, oltre alle spese legali di 1.350 euro, per aver insultato nel settembre 2010 due agenti di polizia locale a pochi chilometri dallo stadio Rigamonti di Brescia, dove era diretto per vedere una partita. Quel giorno c’era un posto di blocco per il quale l’ex allenatore avrebbe dovuto seguire una deviazione. Il classico «Voi non sapete chi sono io» è stato seguito dagli insulti, fino al processo. Dopo aver fatto appello, la vicenda giudiziaria si è conclusa con il pagamento del risarcimento, senza ulteriori conseguenze per Maifredi. Un atteggiamento tipico del suo carattere «elettrico», a volte perfino nel torto (in occasione dei 70 anni si era detto pronto a ricominciare tutto da capo). Un’indole capace di sedurre, ma anche di deludere, quando la voglia di vincere non viene effettivamente seguita dal successo.

Antonio Cabrini compie 65 anni: gli amori segreti, la mamma e le lettere delle fan, le scuse a Pertini. Che fine ha fatto. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera l'8 Ottobre 2022.

Colonna della Nazionale campione del mondo nel 1982, il Bell’Antonio vive a Milano con la seconda moglie: la politica, in tv con Maurizio Mosca e all’Isola dei Famosi, il primo amore, è nonno

Da Cremona a Madrid

Quando lo incontrano per strada giovani e grandi lo abbracciano, lo toccano, gli sorridono. Antonio Cabrini è sempre il Fidanzato d’Italia anche oggi sabato 8 ottobre che compie 65 anni. Non è più il ragazzo spettinato che correva come un trattore sulla sinistra, ma lo spirito è intatto, così come lo sguardo. Il Mondiale del 1982, una vita alla Juventus, due matrimoni diversi uno dall’altro, il padel, la politica, i libri. E ancora la confessione al presidente Pertini, sotto scorta a Torino, le lettere delle ammiratrici. Il Bell’Antonio, così lo ribattezzò Brera, da Cremona a Milano, dove vive da anni, dell’aspetta fisico ci ride su: «Sono stato il primo calciatore italiano a fare pubblicità, alla fine essere bello mi è servito». Ma è stato molto di più, inserito più volte nella lista del Pallone d’Oro, 13esimo nel 1978. Ma cosa fa oggi?

Quando lo incontrano per strade ragazze e ragazzi, giovani e grandi, lo abbracciano, lo toccano, gli sorridono. Antonio Cabrini è sempre il Fidanzato d’Italia anche oggi che gli anni sono 64. Non è più il ragazzo spettinato che correva come un trattore sulla sinistra, ma lo spirito è intatto, così come lo sguardo. Il Mondiale del 1982, una vita alla Juventus, due matrimoni diversi uno dall’altro, il padel, la politica, i libri. Il Bell’Antonio, così lo ribattezzò Brera, da Cremona a Milano, dove vive da anni, dell’aspetta fisico ci ride su: «Sono stato il primo calciatore italiano a fare pubblicità, alla fine essere bello mi è servito». Ma è stato molto di più, inserito più volte nella lista del Pallone d’Oro, 13esimo nel 1978. Ma cosa fa oggi?

Agricoltore mancato

Andiamo con ordine. Partendo dall’inizio. Antonio bambino a Cremona. Non doveva fare il calciatore. O meglio, papà Vittorio non voleva. «Per me prevedeva un futuro nell’azienda agricola di famiglia. E ha fatto di tutto per incanalare il destino verso quella direzione, chiamando addirittura il presidente della Cremonese, Luzzara, che conosceva personalmente. "Domenico, lascia perdere mio figlio Antonio. Ho bisogno di lui qui a Mancapane (il nome della cascina)». La risposta? «Vittorio, mi dispiace, ma tuo figlio è davvero bravo e non ho la minima intenzione di scartarlo». E ancora: «Faceva l’agricoltore, una persona generosa e altruista — ha raccontato in una recente intervista al Corriere —. Non mi chiese mai direttamente di rinunciare al pallone, però so che faceva telefonate qua e là, all’allenatore, per esempio, con cui si informava sui miei reali progressi».

Andiamo con ordine. Partendo dall’inizio. Antonio bambino a Cremona. Non doveva fare il calciatore. O meglio, papà Vittorio non voleva. «Per me prevedeva un futuro nell’azienda agricola di famiglia. E ha fatto di tutto per incanalare il destino verso quella direzione, chiamando addirittura il presidente della Cremonese, Luzzara, che conosceva personalmente. "Domenico, lascia perdere mio figlio Antonio. Ho bisogno di lui qui a Mancapane (il nome della cascina)". La risposta? «Vittorio, mi dispiace, ma tuo figlio è davvero bravo e non ho la minima intenzione di scartarlo». E ancora: «Faceva l’agricoltore, una persona generosa e altruista — ha raccontato in una recente intervista al Corriere —. Non mi chiese mai direttamente di rinunciare al pallone, però so che faceva telefonate qua e là, all’allenatore, per esempio, con cui si informava sui miei reali progressi».

I trionfi alla Juventus

Dopo tre anni tra Cremonese e Atalanta arriva la chiamata da Torino. Tredici stagioni alla Juve, di cui è stato anche capitano (negli ultimi due anni). In maglia bianconera ha totalizzato 440 partite e 52 reti, vincendo anche 6 scudetti. «Sono stati anni splendidi, indimenticabili. Il mio allenatore? Giovanni Trapattoni. Un uomo intelligente, un allenatore concreto, un grande lavoratore. Dietro una società straordinaria fatta da uomini competenti di calcio. Gli Agnelli certamente, ma anche Boniperti. Il giocatore sente la pressione di questi personaggi, sa che deve dare sempre il massimo». La gioia più bella? «La vittoria della Coppa Intercontinentale a Tokyo contro l’Argentinos Juniors ai calci di rigore nel 1985». Il momento più brutto invece l’Heysel, «Quel giorno non hanno perso solo il calcio e lo sport. Ha perso l’uomo». Un esperienza, quella in bianconero, molto importante per la sua crescita anche come uomo: «Una grande avventura, prima di tutto umana. Sono nato a Cremona, sono tutto sommato un provinciale. Ma l’aver vissuto a Torino mi ha insegnato tanto».

Dopo tre anni tra Cremonese e Atalanta arriva la chiamata da Torino. Tredici stagioni alla Juve, di cui è stato anche capitano (negli ultimi due anni). In maglia bianconera ha totalizzato 440 partite e 52 reti, vincendo anche 6 scudetti. «Sono stati anni splendidi, indimenticabili. Il mio allenatore? Giovanni Trapattoni. Un uomo intelligente, un allenatore concreto, un grande lavoratore. Dietro una società straordinaria fatta da uomini competenti di calcio. Gli Agnelli certamente, ma anche Boniperti. Il giocatore sente la pressione di questi personaggi, sa che deve dare sempre il massimo». La gioia più bella? «La vittoria della Coppa Intercontinentale a Tokyo contro l’Argentinos Juniors ai calci di rigore nel 1985». Il momento più brutto invece l’Heysel, «Quel giorno non hanno perso solo il calcio e lo sport. Ha perso l’uomo». Un esperienza, quella in bianconero, molto importante per la sua crescita anche come uomo: «Una grande avventura, prima di tutto umana. Sono nato a Cremona, sono tutto sommato un provinciale. Ma l’aver vissuto a Torino mi ha insegnato tanto».

Il rapimento del compagno della nonna

Vivere a Torino per tanti anni lo ha fatto crescere, nonostante in città in quel periodo il clima non fosse sempre sereno tra terrorismo e proteste sindacali. «Io stesso ho avuto una situazione difficile, perché ad un certo punto rapirono quello che era il compagno di mia nonna. Iniziarono le trattative, però i sequestratori sapevano bene chi ero io e che cosa facevo. Con grande discrezione, il club mi mise a disposizione un’auto blindata per un certo periodo. Ricordo ancora che Boniperti veniva negli spogliatoi a sentire l’umore. Era evidente che anche noi eravamo preoccupati per il clima che si respirava, e così ci tranquillizzava dicendo: “Andrà tutto bene”». 

Vivere a Torino per tanti anni lo ha fatto crescere, nonostante in città in quel periodo il clima non fosse sempre sereno tra terrorismo e proteste sindacali. «Io stesso ho avuto una situazione difficile, perché ad un certo punto rapirono quello che era il compagno di mia nonna. Iniziarono le trattative, però i sequestratori sapevano bene chi ero io e che cosa facevo. Con grande discrezione, il club mi mise a disposizione un’auto blindata per un certo periodo. Ricordo ancora che Boniperti veniva negli spogliatoi a sentire l’umore. Era evidente che anche noi eravamo preoccupati per il clima che si respirava, e così ci tranquillizzava dicendo: “Andrà tutto bene”».

Sull'aereo dei campioni con Pertini

Nel 1982 tocca il punto più alto con la notte di Madrid. Campione del mondo, un onore che lo accompagnerà per sempre. Con gli altri ex ragazzi, oggi sessantenni, ha una chat su WhatsApp. Lo chiamano tutti Cabro. «Per noi, anche se non vedi uno per anni, lo reincontri ed è come se l’avessi lasciato un minuto prima. Leggi nei suoi occhi una gioia che solo noi possiamo capire». Campione del mondo nonostante un rigore sbagliato nella finale poi vinta contro la Germania: «Ne fui alquanto scosso. Vivevo quell'errore come una colpa, non come una casualità sfortunata. Così, sull’aereo del ritorno, mi avvicinai a Pertini e gli sussurrai: “Chiedo scusa per l’errore”. Il presidente mi guardò e mi disse: “Non dica sciocchezze, abbiamo vinto, è un grande risultato di tutti”. Eppure io avevo sentito il bisogno di scusarmi con lui, che lì rappresentava tutto il Paese».

Nel 1982 tocca il punto più alto con la notte di Madrid. Campione del mondo, un onore che lo accompagnerà per sempre. Con gli altri ex ragazzi, oggi sessantenni, ha una chat su WhatsApp. Lo chiamano tutti Cabro. «Per noi, anche se non vedi uno per anni, lo reincontri ed è come se l’avessi lasciato un minuto prima. Leggi nei suoi occhi una gioia che solo noi possiamo capire». Campione del mondo nonostante un rigore sbagliato nella finale poi vinta contro la Germania: «Ne fui alquanto scosso. Vivevo quell'errore come una colpa, non come una casualità sfortunata. Così, sull’aereo del ritorno, mi avvicinai a Pertini e gli sussurrai: “Chiedo scusa per l’errore”. Il presidente mi guardò e mi disse: “Non dica sciocchezze, abbiamo vinto, è un grande risultato di tutti”. Eppure io avevo sentito il bisogno di scusarmi con lui, che lì rappresentava tutto il Paese».

Allenatore e c.t. dell’Italia femminile

Cabrini ha anche fatto l’allenatore. «Ho cominciato nel 2000 ad Arezzo. Poi ho allenato Crotone, Pisa, Novara, Siena e anche la Nazionale siriana. Per cinque anni, dal 2012 al 2017, sono stato il c.t. della Nazionale italiana femminile. Sono soddisfatto del mio lavoro con le ragazze, ho posto le basi per la ripresa della nostra Nazionale».

Cabrini ha anche fatto l’allenatore. «Ho cominciato nel 2000 ad Arezzo. Poi ho allenato Crotone, Pisa, Novara, Siena e anche la Nazionale siriana. Per cinque anni, dal 2012 al 2017, sono stato il c.t. della Nazionale italiana femminile. Sono soddisfatto del mio lavoro con le ragazze, ho posto le basi per la ripresa della nostra Nazionale».

Tv con Maurizio Mosca e politica

Ha fatto pure televisione. Nel 1993 conduce con Maurizio Mosca, Roberta Ferrari e Giuditta Paoletti della trasmissione «Zitti e Mosca». Partecipa anche all’Isola dei Famosi, nel 2008, ma si ritira dopo tre settimane a causa di un’ernia. Nel 2010 ha commentato il calcio per Dahlia Tv. In politica, invece, nel 2009 è entrato a far parte di l’Italia dei Valori, il partito di Antonio Di Pietro, divenendo responsabile dello sport per il Lazio. Nel 2015 è stato ambasciatore per l’Expo di Milano. 

Ha fatto pure televisione. Nel 1993 conduce con Maurizio Mosca, Roberta Ferrari e Giuditta Paoletti della trasmissione «Zitti e Mosca». Partecipa anche all’Isola dei Famosi, nel 2008, ma si ritira dopo tre settimane a causa di un’ernia. Nel 2010 ha commentato il calcio per Dahlia Tv. In politica, invece, nel 2009 è entrato a far parte di l’Italia dei Valori, il partito di Antonio Di Pietro, divenendo responsabile dello sport per il Lazio. Nel 2015 è stato ambasciatore per l’Expo di Milano.

L’amore con Consuelo

Ha avuto tanti amori, alcuni segreti come Iris Peynado. Si è sposato due volte. La prima da giovanissimo, nel 1981, con Consuelo. Restano insieme per diciotto anni, divorziano nel 1999. Hanno due figli, Martina (1984) e Edoardo (1988). «Ho visto crescere Edoardo e Martina, spero di essere stato un buon padre anche se non troppo presente». Martina lo ha fatto diventare nonno di Leonardo e Ludovica. 

Si è sposato due volte. La prima da giovanissimo, nel 1981, con Consuelo. Restano insieme per diciotto anni, divorziano nel 1999. Hanno due figli, Martina (1984) e Edoardo (1988). «Ho visto crescere Edoardo e Martina, spero di essere stato un buon padre anche se non troppo presente». Martina lo ha fatto diventare nonno di Leonardo e Ludovica.

Il matrimonio segreto

Marta Gannito, laurea in Economia a L’Aquila poi master in Bocconi, era una delle giovanissime fan del «Bell’Antonio». Lo ha sposato in gran segreto nel gennaio del 2019 a Milano, la città dove vivono da anni. A celebrare il sì, a villa Litta Modignani, il sindaco Beppe Sala. Tra i pochissimi invitati anche Paolo Rossi. «Marta è importante, è molto attenta a tutto quello che mi gravita attorno. Mi aiuta, mi risolve i problemi. È dolce però matura, più di me».

Marta Gannito, laurea in Economia a L’Aquila poi master in Bocconi, era una delle giovanissime fan del «Bell’Antonio». Lo ha sposato in gran segreto nel gennaio del 2019 a Milano, la città dove vivono da anni. A celebrare il sì, a villa Litta Modignani, il sindaco Beppe Sala. Tra i pochissimi invitati anche Paolo Rossi. «Marta è importante, è molto attenta a tutto quello che mi gravita attorno. Mi aiuta, mi risolve i problemi. È dolce però matura, più di me».

Le lettere delle fan

Per anni ha ricevuto lettere delle tantissime ammiratrici. La mamma, che da bambino lo portava agli allenamenti col Maggiolone di famiglia, rispondeva a ogni singola fan. «A casa arrivavano migliaia di lettere — ha raccontato il «Bell'Antonio» al Corriere —. Mamma rispondeva con pazienza a ogni singola dichiarazione, tanto che un giorno quelli delle Poste ci telefonarono: siccome li stavamo rendendo ricchi, vollero concederci una specie di annullo postale. In casa ho ancora cinque sacchi di quelli neri, dell’immondizia, pieni di lettere inevase. Povera mamma a un certo punto ha detto basta, non ne poteva più». Casa Cabrini era una sorta di museo, «c'erano trecce, ciocche di capelli, biancheria intima, fotografie, anelli». 

Per anni ha ricevuto lettere delle tantissime ammiratrici. La mamma, che da bambino lo portava agli allenamenti col Maggiolone di famiglia, rispondeva a ogni singola fan. «A casa arrivavano migliaia di lettere — ha raccontato il «Bell'Antonio» al Corriere —. Mamma rispondeva con pazienza a ogni singola dichiarazione, tanto che un giorno quelli delle Poste ci telefonarono: siccome li stavamo rendendo ricchi, vollero concederci una specie di annullo postale. In casa ho ancora cinque sacchi di quelli neri, dell’immondizia, pieni di lettere inevase. Povera mamma a un certo punto ha detto basta, non ne poteva più». Casa Cabrini era una sorta di museo, «c'erano trecce, ciocche di capelli, biancheria intima, fotografie, anelli».

La frase sbagliata su Maradona

Dopo la morte di Diego Maradona, tante volte suo avversario in campo, una frase di Cabrini scatena tante polemiche: «Maradona sarebbe ancora vivo se all’epoca fosse stato della Juve e non del Napoli». «Una leggenda vivente e un avversario gentiluomo — le sue parole all’epoca— che come tanti altri fuoriclasse ha saputo dare nello stesso tempo il meglio e il peggio. Sarebbe ancora qui con noi se fosse venuto alla Juve perché l’ambiente lo avrebbe salvato, non la società ma proprio l’ambiente. L’amore di Napoli è stato tanto forte e autentico quanto, ribadisco, malato». Successivamente, comunque, Cabrini ha voluto precisare che la frase polemica non aveva un’accezione morale: «Il mio non era un giudizio, ma sull’energia di una città che non poteva contenere tutta questa passione, le mie parole sono state travisate. Ho pensato che l’ambiente ovattato nel quale ho vissuto alla Juve l’avrebbe protetto. Chiedo scusa a chi si è sentito offeso». 

Dopo la morte di Diego Maradona, tante volte suo avversario in campo, una frase di Cabrini scatena tante polemiche: «Maradona sarebbe ancora vivo se all’epoca fosse stato della Juve e non del Napoli». «Una leggenda vivente e un avversario gentiluomo — le sue parole all’epoca— che come tanti altri fuoriclasse ha saputo dare nello stesso tempo il meglio e il peggio. Sarebbe ancora qui con noi se fosse venuto alla Juve perché l’ambiente lo avrebbe salvato, non la società ma proprio l’ambiente. L’amore di Napoli è stato tanto forte e autentico quanto, ribadisco, malato». Successivamente, comunque, Cabrini ha voluto precisare che la frase polemica non aveva un’accezione morale: «Il mio non era un giudizio, ma sull’energia di una città che non poteva contenere tutta questa passione, le mie parole sono state travisate. Ho pensato che l’ambiente ovattato nel quale ho vissuto alla Juve l’avrebbe protetto. Chiedo scusa a chi si è sentito offeso».

Scrittore di gialli

Ha scritto tre libri, «raccontando le mie esperienze di calciatore e un giallo, “Ricatto perfetto”, che è stato presentato anche a Crema. Ho voluto scrivere un giallo senza violenza e sangue, avevo tempo libero e mi sono divertito». L’ultimo suo lavoro è «Ti racconto i campioni della Juventus», edito da Giubaudo, in cui realizza un ritratto dei grandi del passato e del presente. 

Ha scritto tre libri, «raccontando le mie esperienze di calciatore e un giallo, “Ricatto perfetto”, che è stato presentato anche a Crema. Ho voluto scrivere un giallo senza violenza e sangue, avevo tempo libero e mi sono divertito». L’ultimo suo lavoro è «Ti racconto i campioni della Juventus», edito da Giubaudo, in cui realizza un ritratto dei grandi del passato e del presente.

Cosa fa oggi

Oggi? «Lavoro per la Federazione come coordinatore della squadra “Legends”, sono quasi 500 i giocatori che hanno vestito almeno una volta la maglia azzurra — ha raccontato di recente a La Provincia di Cremona—. Partecipiamo a tornei e manifestazioni benefiche. Inoltre sono mental coach in alcune aziende».Tra le sue passioni c’è il padel. «Per anni ho giocato a tennis», racconta il campione del mondo di Spagna ’82. «Alcuni amici mi hanno invitato a provare il padel ed è stato amore. Una droga sportiva. È un modo perfetto per tenersi in allenamento, gioco tre volte a settimana anche se giocherei tre volte al giorno». È stato lui a far conoscere questo sport alla moglie che è diventata membro della giunta esecutiva e responsabile tecnico del settore padel nazionale dell’ASI (Associazioni Sportive Sociali Italiane) e socia di Padel4Fun, una rete di circoli milanesi con centri affiliati in Lombardia, Piemonte e Abruzzo. 

Oggi? «Lavoro per la Federazione come coordinatore della squadra “Legends”, sono quasi 500 i giocatori che hanno vestito almeno una volta la maglia azzurra — ha raccontato di recente a La Provincia di Cremona—. Partecipiamo a tornei e manifestazioni benefiche. Inoltre sono mental coach in alcune aziende».Tra le sue passioni c’è il padel. «Per anni ho giocato a tennis», racconta il campione del mondo di Spagna ’82. «Alcuni amici mi hanno invitato a provare il padel ed è stato amore. Una droga sportiva. È un modo perfetto per tenersi in allenamento, gioco tre volte a settimana anche se giocherei tre volte al giorno». È stato lui a far conoscere questo sport alla moglie che è diventata membro della giunta esecutiva e responsabile tecnico del settore padel nazionale dell’ASI (Associazioni Sportive Sociali Italiane) e socia di Padel4Fun, una rete di circoli milanesi con centri affiliati in Lombardia, Piemonte e Abruzzo.

Tortelli di zucca e risotto con la liquirizia

Col tempo anche Cabrini ha messo su un po’ di pancia. Nulla di che. Quando può si concede un pranzo o una cena dalle sue parti, in zona Cremona. «Non sono un mangiatore e un bevitore, ma quando torno a casa porto spesso i miei amici a pranzo o a cena a Livrasco da Corrado o a Casalbuttano da Scolari. Possono assaggiare i marubini, i tortelli di zucca o il risotto alla milanese con zafferano e liquirizia o con le scaglie di cioccolato, il cotechino e i bolliti».

Col tempo anche Cabrini ha messo su un po’ di pancia. Nulla di che. Quando può si concede un pranzo o una cena dalle sue parti, in zona Cremona. «Non sono un mangiatore e un bevitore, ma quando torno a casa porto spesso i miei amici a pranzo o a cena a Livrasco da Corrado o a Casalbuttano da Scolari. Possono assaggiare i marubini, i tortelli di zucca o il risotto alla milanese con zafferano e liquirizia o con le scaglie di cioccolato, il cotechino e i bolliti».

"Il mondiale più bello e quella fake news su me e Paolo Rossi". Filippo Ferraioli il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

Per Brera era "il bell'Antonio", per il Paese intero un simbolo. Oggi 40 anni fa la sua Italia-Brasile

Quaranta anni oggi, 5 luglio 1982. Italia-Brasile divenne una magia: per il cuore e per il credo. Viverla e riviverla è tutt'uno. Antonio Cabrini, detto "Brerariamente" bell'Antonio, era uno di quelli con la bacchetta magica fra i piedi e si sta godendo il come eravamo: interviste, interventi, tv. «Quel Brasile era la squadra più forte del mondo. Ma noi sapevamo di essere forti, consapevoli della forza del gruppo nonostante partite iniziali non proprio ad alto livello: poi ci fu l'Argentina. Il Brasile è stata una sorta di continuità del momento felice». Ora il nostro naviga verso la soglia dei 65 anni, ha scritto libri, è responsabile delle Legends (azzurre), è uno stakanovista del padel. «Una specie di droga».

Scrissero i giornali: Il Brasile siamo noi

«Il Brasile siamo noi? Quella fu una partita in cui giocammo meglio di loro, con più intelligenza. Dovevamo vincere, a loro bastava un pari. Eravamo squadre diverse: noi più strutturati».

Eravate più forti rispetto alla nazionale di Argentina '78?

«In Argentina avevamo una squadra più potente. Qui eravamo più cinici. Con l'orgoglio e la volontà di portare a casa la vittoria. Quella del '78 era una grandissima nazionale. Ce ne siamo resi conto dopo e abbiamo fatto tesoro».

Spagna '82 vissuta tra polemiche iniziali e silenzio stampa

«Una scelta valutata e ponderata. Vissuta con serenità. Le polemiche ci hanno indotto al silenzio. Per non leggere più sui giornali parole nostre: a quel punto potevano solo inventare».

E le insinuazioni sui legami Cabrini-Rossi?

«Battuta infelice di un giornalista italiano. Non voleva creare quel caso, poteva restare una battuta se non fosse stata ripresa in modo sbagliato: all'estero e in Italia».

Visto Bearzot allora, ne ha visti altri nel calcio?

«No, direi difficile replicarlo. Non era solo un tecnico: era un trascinatore, padre più che allenatore. Bisogna essere predisposti al lavoro col gruppo per renderlo un blocco e sapere che quel gruppo farebbe qualunque cosa per te».

Bearzot friulano in ogni aspetto

«Era un personaggio solitamente inquadrato e rigido. Come un padre».

Dopo 40 anni, nell'aria si respira ancora sapore di festa

«Credo che quella Coppa sia rimasta nella storia come la più bella vinta dalla nazionale, senza offesa per gli altri, e conquistata da una nazione. Intorno a noi c'era un Paese riabilitato alla faccia del mondo. È rimasto un segno indelebile, incancellabile per l'Italia sportiva. Era un periodo difficile, lo sport è stato appiglio per restare a galla. Siamo passati da problemi enormi al senso di rinascita».

Per lei, cremonese, quest'anno festa doppia: anniversario con l'Italia, promozione della Cremonese

«Certo, tutto piacevole ma a Cremona il difficile viene ora: non sarà facile restare in A».

Fra le storie di Italia-Germania si torna al rigore sbagliato da Cabrini. E se fosse stata una chiave positiva, una sveglia?

«Non fu quello il problema. Eravamo convinti di essere più forti. L'episodio non smontò l'idea. Sapevamo che il nostro modo di giocare ci avrebbe portato a vincere. La convinzione era di avere 60 chance noi e 40 loro. Lo avevano capito pure i tedeschi: avevano giocato i supplementari con la Francia, un giorno in meno di riposo. Parlavano i piccoli particolari».

La finale '82 ha messo in ombra Italia-Germania 4-3 in Messico.

«Quel 4-3 sarà sempre ricordato ma questa è stata una finale diventata leggendaria con il contorno di Italia-Argentina e Italia-Brasile. E stata la vittoria della coppa del mondo».

Il Giornale ha indetto una petizione per intitolare una via, una tribuna, a Silvio Gazzaniga che, 50 anni fa, modellò la coppa. D'accordo?

«Sempre d'accordo con qualcosa fatto in senso positivo. Bello perché c'è lo zampino di un italiano».

A proposito di bello: Cabrini lo rappresentava nel calcio ed anche in senso estetico. Oggi vediamo atleti tatuati, figurini da social e da selfie. Che dire?

«Cambia il mondo, cambiano il calcio e gli atleti: va accettato. Le tecnologie e quanto sta dietro sono diventate fondamentali, creano immagine: è tempo di Facebook, Instagram, di milioni di follower. Però vorrei vedere questi ragazzi, tatuati a 20 anni, come saranno a 70: forse faranno un po' impressione».

Chiudiamo con l'immagine ricordo della sua coppa del mondo

«L'arrivo in aereo a Ciampino: 40mila persone in pista che non lasciavano andare avanti. E adesso la soddisfazione che si parli ancora di noi: è rimasto qualcosa nel cuore dei tifosi».

Antonio Cabrini: «Ricevevo migliaia di lettere dalle fan, rispondeva mia madre. Un amore del passato? Iris Peynado». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022

Il campione del mondo 1982: «Vincemmo ma portavo il peso del rigore fallito contro

la Germania. Dopo la partita mi scusai con Pertini e lui rispose: non dica sciocchezze»

Cabrini, quando ha cominciato a giocare a calcio?

«Da bambino. E con me, a quattordici anni, su quel prato di Cremona c’era anche Cesare Prandelli. Sono cresciuto con il pallone e così anche le mie amicizie più care. Cesare è il primo».

Papà Vittorio, però, la voleva nell’azienda di famiglia, è così?

«Faceva l’agricoltore, una persona generosa e altruista. Non mi chiese mai direttamente di rinunciare al pallone, però so che faceva telefonate qua e là, all’allenatore, per esempio, con cui si informava sui miei reali progressi».

E magari sperava che lei rinunciasse?

«C’era sempre mamma, che mi accompagnava a fare i provini».

Una mamma complice?

«Be’ per anni lei ha risposto personalmente alle centinaia di lettere che arrivavano a casa».

Le famose aspiranti alla mano del «Bell’Antonio», come la chiamava Gianni Brera? «Ma mi fa parlare di questo oggi che ho 64 anni, una moglie e due figli grandi?»

Ma la sua bellezza era leggendaria.

«A casa arrivavano migliaia di lettere. Mamma rispondeva con pazienza a ogni singola dichiarazione, tanto che un giorno quelli delle Poste ci telefonarono: siccome li stavamo rendendo ricchi, vollero concederci una specie di annullo postale».

E sua madre ha risposto a tutte?

«No, in casa ho ancora cinque sacchi di quelli neri, dell’immondizia, pieni di lettere inevase. Povera mamma a un certo punto ha detto basta, non ne poteva più».

Le mandavano anche dei souvenir?

«A un certo punto ci ritrovammo con una specie di museo in casa: trecce, ciocche di capelli, biancheria intima, fotografie, anelli».

Lei è stato una «bandiera» della Juventus e della Nazionale. Simbolo di una solidità difensiva che è importante in una squadra. Qualche volta, l’essere associato con insistenza (come in questa intervista!) alla bellezza fisica le ha dato fastidio?

«Ma no, con i compagni ci si divertiva anche per questo. Una volta andammo a inaugurare uno stadio a Campobasso. Arrivammo con il pullman, figuriamoci se si poteva parlare di servizio d’ordine. I miei compagni decisero di farmi andare in avanscoperta per farsi quattro risate e così mi buttarono giù quasi di peso: nei circa cinquecento metri dal parcheggio all’albergo ho perso la camicia, mi hanno strappato parte dei pantaloni e mi sono ritrovato con le mani piene di catenine d’oro».

Le ha tenute?

«No».

E quale ricordo conserva, oggi, di quella Juve a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, nella quale lei è stato anche capitano?

«Una grande avventura prima di tutto umana. Vede, io sono nato a Cremona, sono tutto sommato un provinciale. Ma l’aver vissuto a Torino mi ha insegnato tanto. Per esempio, a essere più sobrio: ieri come oggi Torino è la città ideale per un calciatore, perché anche se ti riconoscono per strada, la ritrosia sabauda impedisce loro di fermarti e chiederti un autografo o una foto».

Ma Torino, in quegli anni, aveva ben altri nodi: le proteste sindacali, il terrorismo. Voi calciatori eravate comunque già ben pagati: siete stati mai contestati?

«Un punto interessante: i cancelli di Mirafiori e il campo dove noi ci allenavamo erano vicini. Io tante volte sono passato da solo con la macchina in mezzo ai picchetti di protesta. Eppure non ho mai avuto nessun problema. Mi sono fatto l’idea che quegli operai ci abbiano sempre considerati simili a loro. Tutti eravamo alle dipendenze di un’azienda molto potente e dunque vedevano in noi dei lavoratori. Certo, privilegiati rispetto a loro, ma sempre lavoratori».

E la società che atteggiamento aveva?

«Le faccio un solo esempio che spiega tante cose. Io stesso ho avuto una situazione difficile, perché ad un certo punto rapirono quello che era il compagno di mia nonna. Iniziarono le trattative, però i sequestratori sapevano bene chi ero io e che cosa facevo. Con grande discrezione, il club mi mise a disposizione un’auto blindata per un certo periodo. Ricordo ancora che Boniperti veniva negli spogliatoi a sentire l’umore. Era evidente che anche noi eravamo preoccupati per il clima che si respirava, e così ci tranquillizzava dicendo: “Andrà tutto bene”».

Boniperti è quello che vi voleva tutti ammogliati nel più breve tempo possibile?

«Sì, era convinto che il matrimonio ci avrebbe dato stabilità e solidità, ma, anni dopo, ha confidato a mia moglie Marta che aveva sbagliato tutto: “La maggior parte di quelli che si sono sposati giovani oggi sono separati”, ammise».

Una prima moglie, Consuelo Benzi, i due figli Martina e Eduardo, la moglie attuale, Marta Sannito. Non sembra una vita scapestrata.

«Non lo è, anzi. Ma sono cresciuto in una squadra importante in un periodo in cui il calcio non era ancora spettacolo, bensì sport. E i valori dello sport venivano coltivati, protetti. La disciplina, la lealtà in campo, lo spirito di gruppo. Tutto questo c’è anche oggi, certo, però le voglio raccontare un episodio legato al celebre Mondiale dell’82 in Spagna, quello vinto dall’Italia».

Parla del rigore che lei sbagliò in finale?

«Proprio quello. Per me fu un colpo terribile, sia perché all’epoca non si coltivava l’importanza degli errori come si fa oggi, sia perché capivo di aver sbagliato in una cosa che mi riusciva sempre bene e questo mi faceva molta rabbia. Comunque, ne fui alquanto scosso e, anche se poi il Mondiale lo vincemmo lo stesso, io avevo quel peso dentro. Che vivevo come una colpa, non come una casualità sfortunata. Così, sull’aereo del ritorno, mi avvicinai a Pertini e gli sussurrai: “Chiedo scusa per l’errore”. Il presidente mi guardò e mi disse: “Non dica sciocchezze, abbiamo vinto, è un grande risultato di tutti”. Eppure io avevo sentito il bisogno di scusarmi con lui, che lì rappresentava tutto il Paese».

Quel Mondiale è parte della nostra storia recente. La partita a carte sull’aereo con Pertini, il sorriso di Bearzot. Che ricordi ha lei?

«Io e Paolo (Rossi, ndr.) eravamo in stanza assieme. E Tardelli veniva a romperci le balle, come d’altra parte faceva con tutti, perché non dormiva e non a caso il mister lo chiamava Coyote. E allora Bearzot ogni tanto piombava in camera per riprendersi Marco e cominciava a farci la predica sull’importanza di riposare, di essere lucidi l’indomani, eccetera. Il problema è che poi anche lui si sedeva accanto a noi e cominciava a parlare di tattica, strategie, ruoli. Io e Paolo volevamo soltanto dormire, ma come facevamo a dirglielo?»

E vai di notti insonni!

«Però che perfidi i giornalisti quando fecero insinuazioni sul fatto che io e Paolo dormivamo assieme. Quelle cose ci amareggiarono molto e così decidemmo per il silenzio stampa».

Lei ha citato Prandelli, ma anche Pablito è stato un suo caro amico. Un ricordo?

«Un ricordo buffo. Paolo era goloso di caramelle e così girava sempre con le tasche piene. Però se gliene chiedevi una diceva sempre che non ne aveva. E quando doveva mangiarne, la scartava in tasca e se la portava alla bocca con la stessa velocità con cui scattava sul campo. Io penso che lui provasse quasi imbarazzo per questa golosità, come se fosse una debolezza. Questo ricordo me lo rende ancora più caro».

Un’altra figura importante nella sua carriera è stato Giovanni Trapattoni.

«Un uomo inflessibile. Non dimenticherò mai quella volta che mi indicò un percorso da fare di corsa entro un certo tempo. Quando aggiunse: “Se io trovo uno che, nello stesso arco di tempo, fa un passo in più, lo metto al tuo posto».

È vero che Gianni Agnelli vi telefonava alle sei del mattino?

«Eccome. Chiamava soprattutto Platini, ma una volta chiamò anche me e io non ricordo nemmeno che cosa risposi. Ma vorrei dire una cosa: Agnelli non era soltanto il proprietario della squadra, era un uomo che di calcio capiva davvero e che sapeva tenere certi equilibri. Platini lo scelse lui, così come anche altri. E ci teneva moltissimo alla squadra: un giorno lo vidi arrivare al campo di allenamento seguito da un uomo non tanto alto e ben vestito. Lo riconoscemmo poco dopo, era Henry Kissinger. Al campo l’Avvocato portava intellettuali, imprenditori, grandi protagonisti di quella che era la geopolitica dell’epoca: una visione molto lungimirante non tanto della squadra, quanto del calcio nella sua interezza».

Antonio, piccolo momento di gossip spicciolo: del suo flirt con Sonia Braga già sappiamo. Ci rivela adesso un altro amore del passato che non tutti sanno?

«Devo proprio?»

Eh sì.

«Iris Peynado».

La bellissima attrice di «Non ci resta che piangere»?

«Una donna straordinaria. Invece Sonia Braga, che all’epoca era la donna di Robert Redford, me la presentò Gianni Minà, a New York, nel corso di una festa. Ma non è che io abbia avuto milioni di amori, eh».

Com’era Maradona fuori dal campo?

«Un ragazzo dolce e disponibile, è stato quello che si è caricato addosso tutte le problematiche della squadra e della società. Meno male che a me non toccava averci a che fare durante la partita, perché era davvero il più forte di tutti. E anche corretto: in campo con lui ci andavano molto pesante, ma io non gli ho mai visto fare scorrettezze evidenti».

Cabrini, ce la confessa una debolezza?

«Se rispondo risotto alla milanese con zafferano e una spolverata di liquirizia va bene?» Di più. «Tortelli di zucca. Oltre non vado».

Marcello Lippi compie 74 anni: il passato da elettricista, Mina e Celentano, la pittura, sigari e whisky dopo il Mondiale. Cosa fa oggi. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.

Il tecnico campione del mondo con l’Italia nel 2006 compie 74 anni: i trionfi in panchina con la Juventus, brioche e bomboloni nella pasticceria di famiglia, il Festival di Sanremo e l’allenatore che ha preso come modello. Ecco che fine ha fatto.

Da Viareggio al tetto del mondo

Da bambino giocava «fino a quando faceva buio in pineta», è arrivato a vincere un Mondiale. Una vita legata al pallone per Marcello Lippi che oggi, martedì 12 aprile, compie 74 anni. Il mare di Viareggio accompagna la storia dell’ex c.t., uomo di tante panchine e successi: alla Juventus, e poi con l’Italia del 2006. Non ha mai avuto paura di cambiare, sperimentare, rischiare, la lunga esperienza in Cina lo testimonia. Vagabondo del calcio, antifascista convinto, amante della pittura e della musica, Mina Celentano e i Beatles, i sigari e il whisky, la pesca e le onde. «Lippi è il miglior prodotto di Viareggio dopo Stefania Sandrelli», diceva l’Avvocato Agnelli. Con una storia lunga.

Elettricista e pasticcere

Partiamo dall’inizio. Lippi bambino, ragazzo, già al lavoro: «Mio padre aveva una pasticceria. Ha fatto tanti lavori, mio padre. I dolci sono stati una costante: prima ha fatto il rappresentante, poi ha preso un laboratorio in cui li produceva direttamente, poi la pasticceria. Io facevo le brioche e i bomboloni, andavo a fare le consegne ai bar. Ricordo certe teglie piene di dolciumi... Le mettevo sul manubrio della bici e andavo — ha raccontato in un’intervista di qualche anno fa al Corriere—. E poi mi piaceva decorare le torte con la crema. Sono stato sempre portato per il disegno. Al di là della pasticceria di famiglia, un anno ho lavorato anche come elettricista».

Antifascista convinto

Inizia a giocare a calcio da giovanissimo, nel vivaio della Stella Rossa di Viareggio: «Era una specie di cellula comunista ma la politica non c’entrava, anche se in pullman ci facevano cantare ‘‘Bella ciao’’ e ‘‘Soffia il vento’’. L’anno prima giocavo nella squadra dei preti». Di estrazione socialista, nel 2018, sollecitato dal sindaco di Stazzema, comune antifascista teatro di un eccidio nazista con 530 morti, si è iscritto all’anagrafe virtuale istituita dal municipio toscano. «Da versiliese sento molto questo impegno —le sue parole all’epoca—. Siamo cresciuti nel mito della Resistenza, consapevoli di cosa era accaduto in questa terra. Oggi viviamo in un mondo che sembra andare allo scatafascio, si vedono e si sentono episodi inquietanti. Ecco perché dobbiamo impegnarci tutti perché certe cose non succedano più».

Il modello da seguire

La squadra con cui si impone è la la Sampdoria, dove inizia a giocare come libero, il ruolo che si porterà per tutta la carriera. A Genova, dove resta oltre dieci anni, incontra quello che considera il suo modello, Fulvio «Fuffo» Bernardini: «Una persona di grande cultura, che sapeva sempre metterti a tuo agio. All’epoca era uno dei pochi calciatori ad essersi laureato, tanto è vero che lo chiamavamo il «dottore». Ai tempi della Samp abitavamo entrambi a Bogliasco e capitava spesso di andare insieme a pescare. E parlavamo di tutto, non soltanto di calcio. Mi sono sempre detto che se fossi riuscito a prendere da lui anche soltanto il 5 per cento delle sue doti, sarei stato una persona felice. Un giorno, preparando una partita con il Milan, decise di piazzare Corni su Rivera ma si raccomandò: “Marcalo ma non stargli troppo vicino. La gente paga ed è giusto che possa ammirare i suoi numeri...”. Senza dubbi è stato lui la figura più importante della mia vita professionale»

I trionfi alla Juventus

Comincia presto ad allenare, sempre a Genova, le giovanili della Sampdoria. Dopo aver girato diverse squadre, tra cui anche Atalanta e Napoli (dove incontra per la prima volta un giovane Cannavaro), arriva alla Juventus e vince tutto. Lo fa in due cicli. Nel primo, dal 1994 al 1999, arrivano tre scudetti (1994-95, 1996-97 e 1997-98), una Coppa Italia (’95), due Supercoppe italiane (’95 e ‘97), una Coppa dei Campioni (’96, ma perde altre due finali), una Supercoppa europea (’96) e una Coppa Intercontinentale (’96). Nel secondo, dal 2001 al 2004, vince altri due scudetti (2001-02 e 2002-03) e due Supercoppe italiane (2002 e 2003), ma perde ancora la finale di Champions League contro il Milan, questa volta ai rigori.

Sigari e whisky in Germania

Del Mondiale del 2006, l’ultimo in cui l’Italia ha vinto una partita (almeno nella fase ad eliminazione diretta), sappiamo già tutto. Ma la notte del trionfo contro la Francia come ha festeggiato Lippi? «Tornai in albergo, mi chiusi in stanza, presi un sigaro, un bicchiere di whisky, misi il dvd nel televisore e mi riguardai tutto: le chiacchiere del pre partita, la partita, e tutto il dopo partita, e bevendo e fumando feci le 6 del mattino. Senza mai dormire».

La famiglia

Il grande amore della sua vita è la moglie Simonetta Barabino, conosciuta nel 1973 a Genova e sposata dopo soli nove mesi, il primo luglio del 1974. Insieme hanno avuto due figli, Davide e Stefania: il primo è imprenditore e agente sportivo, la seconda si è dedicata alla fotografia. «Spesso lui non c’era, ma è stato bravissimo a gestire il rapporto con me e mio fratello Davide», dichiarò proprio Stefania. «Nei momenti in cui era presente l’abbiamo sentito tanto vicino a noi: era molto attento e aveva l’ultima parola nelle decisioni familiari. Da adolescenti, poi, le uscite domenicali con gli amici dipendevano un po’ anche dal risultato: quando vinceva papà era molto più permissivo con noi».

Mina alla Bussola

Da ragazzo era un frequentatore assiduo della Bussola, storico locale della Versilia dove si esibivano i migliori cantanti dell’epoca: lui riusciva a entrare sempre grazie a un cugino direttore di sala. «Forse solo Frank Sinatra non ha cantato alla Bussola ma Celentano e Mina, da sempre i miei preferiti, ci venivano spesso». La passione per la musica è variegata: oltre a Mina e Celentano, ascolta Battisti e Cocciante così come Beatles e Rolling Stones (con una predilezione per i Beatles). E leggenda lo vuole abile anche come cantante: «Al militare, dopo il contrappello, facevamo dei piccoli spettacoli e io imitavo Sergio Bruni e Dino: i miei cavalli di battaglia erano ‘‘Il mare’’ e ‘‘I tuoi occhi verdi’’».

La pittura

Gli piace da sempre la pittura. «Nel ’71-’72 andai a vivere presso una famiglia. Il padrone di casa amava dipingere e aveva uno studio: mi disse di non fare complimenti e di andarci quando avessi voluto. Così dipinsi tre o quattro quadri, alcuni a soggetto marino, altri con volti di donna. Non erano capolavori ma si vedeva la mano di uno che ci sapeva fare. Non so dove siano finiti, devo averli persi in qualche trasloco». Una passione che ha coltivato negli anni. Nel 2009 ha acquistato trenta dipinti del pittore di Viareggio Antonio (Tòno) D’Arliano.

A Sanremo con Pupo

Lippi è stato anche a Sanremo, nel febbraio del 2010, pochi mesi prima del (disastroso) Mondiale in Sudafrica. L’allora c.t. della Nazionale ha accompagnato il trio Emanuele Filiberto-Pupo- Luca Canonici con la canzone «Italia amore mio». «Vi tranquillizzo subito, non sono qui per cantare», scherzò salito sul palco dell’Ariston. Non fu un gran successo, tra fischi per la canzone e i cori per Cassano, che giocava alla Sampdoria e Lippi non voleva convocare.

Marcello Lippi: «Mia moglie? Quando l’ho conosciuta ho fatto una figuraccia. Tutti mi conoscono per il Mondiale 2006, anche se con la Juve ho vinto tanto». Paolo Tomaselli su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.

Mare, pineta o bomboloni della pasticceria di famiglia. Marcello Lippi, qual è stato il profumo più forte della sua infanzia?

«Quello del mare, a due passi da casa: trascorrevo sei mesi all’anno in costume e gli altri sei a giocare in Pineta. La mia vita era questa».

Il rapporto con il mare come si è evoluto? «Il rapporto si è rafforzato, perché per me non esiste una vacanza senza il mare: faccio immersioni e soprattutto adoro tuffarmi, mia moglie dice che esagero, pensa sia pericoloso, ma non prendo rischi. E quando faccio i primi tuffi della stagione sono la persona più felice di questo mondo».

Il mare l’ha mai tradita?

«Fortunatamente no, non mi sono mai sentito in pericolo».

Marcello Lippi compie 74 anni: il passato da elettricista, Mina e Celentano, la pittura, sigari e whisky dopo il Mondiale. Cosa fa oggi

I dolci hanno avuto ruolo importante?

«Mio padre aveva un laboratorio di pasticceria e dato che non andavo tanto bene a scuola davo una mano, portavo i dolci ai bar: quanti me ne sono caduti».

La scuola non le piaceva?

«Non avevo voglia, pensavo al pallone e basta».

Ha lavorato un anno da elettricista: nessuno le avrà mai detto «non sai neanche avvitare una lampadina». «In effetti qualcosina ho imparato, montavo i lampadari, non ero così scarso».

Il boom economico, gli anni della Bussola. Cos’era la Versilia di quegli anni?

«Quell’aria l’ho respirata tutta: c’era voglia di divertirsi e in questo la Versilia era uno dei luoghi più importanti, tra musica e belle donne. Io poi avevo una fortuna particolare: mio cugino era direttore della Bussola e mi faceva entrare anche se non avevo una lira in tasca».

Comodo così.

«Sì ma io entravo con una ragazza, prendevo un tavolino e ci mettevamo a sedere. Lui arrivava e mi diceva: io ti faccio entrare ma i tavoli lasciameli liberi».

Poi si è preso le sue rivincite?

«Sì, perché ci tornavo da calciatore di serie A ed erano tutti felici di quello che mi stava succedendo. Cugino compreso».

Il primo settembre 1970 si era presentato alla Samp con l’unico vestito buono. La forma era importante.

«Sì, i miei genitori mi accompagnarono, dovevo mettermi il vestito: ma era un gessato di flanella e si moriva di caldo».

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Sono tornati di moda i sigari, anche tra gli allenatori: lei li ha sempre fumati?

«Per la verità ho sempre fumato la sigaretta, da quando avevo quindici anni, e ho continuato anche da calciatore. Quando allenavo ne fumavo così tante che mi faceva male la gola e tossivo, così passai ai sigarini più leggeri e fumo gli stessi da allora, danesi. Rigorosamente mai al mattino».

Il suo ‘68?

«Da militare e calciatore. Sapevamo quello che accadeva attorno a noi, ma il nostro sogno era quello di diventare professionisti, non altro».

Da giocatore fu accostato a Juve, Milan e Inter, ma rimase alla Samp. Ha qualche rimpianto?

«Sarebbe assurdo averne con tutte le soddisfazioni arrivate dopo, da allenatore».

C’è un giocatore nel quale si rivedeva?

«Non mi rivedevo io, ma il grandissimo Fulvio Bernardini, allenatore della Samp e mio primo punto di riferimento diceva che ero identico a Franco Janich del suo Bologna: classicheggiante e un po’ lento».

Non ha mai amato troppo un altro accostamento, quello a Paul Newman. Poteva andarle peggio, non trova?

«Questo è sicuro. Non era sgradevole, ma non l’amavo».

Con sua moglie come vi siete conosciuti?

«Quando giocavo nella Samp, conoscevo il padre, presidente di tutti i club del Genoa della Liguria. Una sera, sul lungomare in corso Italia, facevo un po’ lo scemo: ero abbracciato a una ragazza e avevo gli occhiali da sole, anche se erano le nove. Entrò questo signore con la famiglia, quindi anche con la figlia, e mi salutò, non feci una gran bella figura. Ma non fu l’unica».

Ovvero? «Il giorno dopo esco di casa e dall’altra parte della strada c’era lei, ci salutiamo, ma non la riconosco. Un anno dopo eravamo sposati».

Con Stefania e Davide che padre è stato?

«Abbastanza comprensivo, anche se ho sempre tenuto la famiglia a Viareggio: mia moglie è stata molto brava a fare praticamente tutto da sola».

Il 12 aprile sono nati anche Flavio Briatore e . Con chi mangia la torta?

«Con Briatore l’ho mangiata già tante volte, siamo stati anche in società nel Twiga. Berrettini lo seguo, ha classe e carattere, mi piace molto».

Con il calcio ha frequentato tanti potenti, chi le è rimasto impresso?

«Quando arrivai alla Juve, il Dottor Umberto si avvicendò con l’Avvocato, che mi fece solo una telefonata all’inizio, come in bocca al lupo. A Villar Perosa l’estate successiva però c’era anche lui e disse di fronte a tutti una cosa molto forte: “Vedete quel signore lì, se la Juve è tornata quella che era prima è merito suo”. Da allora siamo entrati in confidenza: a Napoli avevo vissuto vicino a una villa sul mare che apparteneva agli Agnelli e lui era molto legato a quel luogo, gli ricordava momenti fantastici. Ne parlavamo spesso».

In Cina ha conosciuto il presidente Xi Jinping.

«Sì, amava molto il calcio e con il nostro arrivo ci fu un impazzimento generale, perché vincemmo la Champions asiatica per la prima volta nella storia cinese. Mi mandava complimenti e saluti attraverso i ministri dello sport, che erano molto presenti. Poi mi volle in Nazionale: abbiamo fatto abbastanza bene».

Come mai un gigante del genere non ha continuità calcistica?

«È un fatto culturale. I ragazzi fanno altri sport, come il ping pong. Le società hanno costruito centri sportivi enormi, uno addirittura con 96 campi: qualcosa si è mosso, ma ora sembra tornato tutto come prima».

Cosa le piace leggere?

«Riviste scientifiche, anche di medicina».

La passione giovanile per la pittura non l’ha più esercitata?

«No, anche se ero bravino».

Quando si parla del si sottolinea l’effetto che ha avuto Calciopoli per compattare la Nazionale. Pesò così tanto?

«Ebbe un peso per me, perché rompevano le scatole anche a mio figlio, per la Gea. Ero arrabbiato perché non aveva neanche una stanza negli uffici della Gea, non ne faceva parte. Dissi al presidente federale che, a prescindere dal risultato, alla fine me ne sarei andato. Venne fuori tutta la verità, ma sono stato di parola. Anche se Gattuso mi pigliava per il collo, dicendomi: “Dove vai, vinciamo anche gli Europei!”».

I calciatori furono anche definiti «bamboccioni». Lo erano?

«No, era un gruppo di persone di alto livello, con grande personalità. Ho avuto un sacco di leader carismatici. Grandi uomini e grandi calciatori, ecco perché abbiamo vinto».

Perché non nascono più quei campioni in Italia?

«La presenza degli stranieri ha un peso, ma c’erano anche negli anni di Del Piero e Totti. Il motivo non lo so, ma so che di bravi ce ne sono ancora».

La finale del Mundial, l’11 luglio ’82, dove la guardò?

«A casa, da solo, come tutte le partite. Non voglio nessuno che faccia commenti, che mi chieda cosa avrei fatto, che mi disturbi».

Il ricordo della vittoria di quella Nazionale è più forte rispetto a quella del 2006?

«Non credo, anche se non si vinceva da tanto e avrà fatto più sensazione. Però se giro per il mondo tutti si ricordano del 2006. Ovunque vado, mi conoscono tutti come l’allenatore campione del mondo, più che della Juve, anche se con la Juve ho vinto tantissimo».

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Lei aveva capito che era il Mondiale giusto?

«Sì, la convinzione era maturata fortemente, anche per qualche episodio positivo. Ero convinto che avremmo vinto».

Nella prossima serie A ci saranno 7 allenatori toscani. Solo un caso? «Forse sì, ma non c’è dubbio che i toscani abbiano conoscenze calcistiche, esperienza, passione e anche quella scaltrezza e quella furbizia che servono in questa professione».

Con Sacchi è andato spesso a cena?

«Non ce n’è bisogno, ci sentiamo, c’è grande stima reciproca. Poi ho un grande rapporto con Ancelotti».

C’era qualche collega con cui non si prendeva?

«Sì, ma non glielo dico».

Ha una fama di duro: lo è mai stato troppo?

«Non sono mai stato un duro, ma ho sempre cercato di fare capire una cosa: il grande obiettivo è costruire un gruppo con stima e voglia di stare assieme, per mettere a disposizione degli altri le proprie grandi qualità. Io mi preoccupavo di questo. E quando c’era qualcuno che la pensava diversamente lo pigliavo metaforicamente per un orecchio e lo toglievo dal gruppo».

Rapporto con la religione?

«Non di grande entusiasmo, ma di grande rispetto».

Invidia chi crede che ci sia qualcosa dopo la morte?

«Non solo credo che ci sia qualcosa dopo la morte, ma credo anche che ci sia un Dio, qualcosa di sovrannaturale che ha creato tutto questo».

Che rapporto ha con le paure, come quella della morte?

«Paure non ne ho, quando sarà il momento arriverà, ma non ci penso. Guardo il mare e penso al futuro».

Fabio Cannavaro. Fabio Cannavaro al Benevento: Pallone d’Oro, la flebo al Parma, attore, la figlia blogger. I segreti. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022.

L’ex capitano della Nazionale campione del mondo nel 2006 è a un passo dalla panchina del Benevento. Ecco quello che non sapete di lui

Cannavaro al Benevento

Un campione del Mondo sulla panchina del Benevento. Si tratta di Fabio Cannavaro: il club giallorosso ha raggiunto un accordo con l’ex capitano della Nazionale, che la notte di Berlino il 9 luglio 2006 alzò al cielo la Coppa del Mondo. Intanto, a Benevento sono ore molto calde. Fabio Caserta, attuale tecnico, attende comunicazioni sull’esonero. Il club, che nelle ultime ore di mercato ha rinforzato la squadra con elementi importanti come Simy, Ciano, Leverbe e Schiattarella, sembra deciso a cambiare. E il direttore sportivo Pasquale Foggia ha raggiunto un accordo con Cannavaro, senza panchina dal settembre 2021, dopo l’esperienza in Cina al Guangzhou Evergrande. Si attende soltanto l’ufficialità. Per l’ex difensore sarebbe la prima panchina in Italia.

La carriera e come giocava

Cannavaro è cresciuto nelle giovanili del Napoli, giocando dal 1992 al 1995 in prima squadra, per poi indossare le maglie di Parma, Inter, Juventus, Real Madrid, ancora Juventus e Al Ahli. Ed è qui a Dubai che è iniziata, con il ruolo di vice, la sua carriera da allenatore per poi proseguire in Cina con il Guangzhou Evergrande, in Arabia Saudita con l’Al Nassr e ancora in Cina con il Tianjin Quanjian e sempre il Guangzhou Evergrande. Nel 2019, per un mese, è stato c.t. ad interim nella Nazionale cinese, prendendo il posto di Marcello Lippi. Cannavaro è stato un difensore centrale (a inizio carriera giocava anche come terzino). Le sue doti principali erano velocità, capacità di anticipo, leadership e precisione negli interventi in scivolata. Notevole anche il suo stacco di testa, aveva un grande carisma in campo.

Il Mondiale del 2006 e il Pallone d’Oro

In Nazionale ha collezionato 136 presenze (segnando due gol), ed è secondo nella classifica di tutti i tempi con l’Italia alle spalle di Gigi Buffon (176), vincendo da grande protagonista il Mondiale del 2006 in Germania, ai rigori contro la Francia. Le prestazioni eccellenti nella manifestazione iridata hanno spinto critica e tifosi a soprannominarlo «il Muro di Berlino». Fu il giocatore migliore di Germania 2006, tanto da vincere il Pallone d’Oro. È stato il quinto italiano a ricevere questo premio dopo Omar Sivori (1961), Gianni Rivera (1969), Paolo Rossi (1982) e Roberto Baggio (1993).

La famiglia

Cannavaro è sposato con Daniela Arenoso. I due si sono conosciuti nel 1990 grazie a un amico comune, Alfredo. Da lì, non si sono più lasciati. Le nozze vennero celebrate nella chiesa di Sant’Antonio a Posillipo nel 1996, ma Daniela gli è rimasta accanto ovunque, da Napoli a Parma, da Milano a Torino, da Madrid agli Emirati e anche in Cina. Un’unione straordinaria, la loro, che ha portato alla nascita dei suoi tre figli: Christian (1999), Martina (2001) e Andrea (2004, anche lui calciatore, gioca nella Lazio Primavera).

La figlia blogger

Fabio è il fratello maggiore di Paolo, a sua volta ex difensore e capitano del Napoli. Fabio è diventato famoso sui social negli ultimi anni non solo per il suo account Instagram, dove mostra immagini della sua vita lavorativa ma anche professionale, ma anche per la figlia. Martina Cannavaro non è una star, ma quasi. È blogger, amante del buon cibo e della moda.

Il film «Volesse il cielo»

Al di fuori del campo, Cannavaro ha fatto anche una comparsa da attore nel film del 2002 «Volesse il cielo» di Vincenzo Salemme, insieme agli amici e colleghi Vincenzo Montella e Ciro Ferrara. Con l’ex difensore della Juve, suo idolo da ragazzino, ha anche fondato un’associazione che si occupa di aiutare i ragazzi dei quartieri disagiati di Napoli. Inoltre, l’ex azzurro ha scritto anche un libro, intitolato «La mia storia – dai vicoli di Napoli al tetto del mondo».

La punizione del Guangzhou

Vinto il campionato cinese nel 2019 con il Guangzhou Evergrande, nel dicembre 2020 emerse che Cannavaro e il suo staff italiano furono bloccati in Qatar per 12 giorni, assieme a tutto l’organico della squadra. La vicenda accadde nel novembre di quell’anno, dopo l’eliminazione della squadra dalla Champions asiatica. All’allenatore e al suo staff fu ordinato di restare in albergo. Inizialmente si pensava che si trattasse di un protocollo di sicurezza legato al Covid. Si trattò, invece, di un trattamento punitivo deciso dalla dirigenza nei confronti dei tecnici italiani, per l’eliminazione e forse anche di più per la sconfitta in finale di Super League con gli arcirivali del Jiangsu Suning. La decisione sembrò potesse essere legata anche al nodo contrattuale non ancora sciolto. Il soggiorno «obbligato» durò 12 giorni e si concluse solo grazie all’intervento dell’ambasciata italiana in Qatar.

La polemica della flebo

«Non è doping, ma solo una flebo di un farmaco che non è nella lista del doping». È questa, nell’aprile 2005, la spiegazione di Cannavaro, a «Striscia la notizia», la sera dopo la trasmissione del video in cui il calciatore (allora nel Parma) si vede farsi una flebo di Neoton nella stanza di un hotel di Mosca il giorno prima della finale (vinta) di Coppa Uefa nel maggio 1999. «La flebo conteneva il Neoton che non risulta nella lista del doping. Forse la gente si è spaventata un po’ per la flebo in se stessa. Però in quella camera c’era allegria, un clima disteso, e quindi nessuno può pensare che si siano fatte cose strane, anche perché a riprendermi ero io», disse.

Calciopoli

Fu marginalmente coinvolto in un filone di Calciopoli quando emersero dalle intercettazioni: nel 2004 Luciano Moggi per mesi tenne con Cannavaro colloqui telefonici per convincerlo a trasferirsi a Torino. Ottenuto il suo assenso, bisognava convincere anche l’Inter. Allora Moggi ha insistito perché l’ex difensore comunicasse al club nerazzurro di avere problemi fisici.

La bandiera dei festeggiamenti

Nel 2007, quando giocava nel Real Madrid, durante i festeggiamenti per la vittoria della Liga, Cannavaro sventolò un tricolore con fascio littorio al centro. Dell’episodio si scusò pubblicamente, dichiarando di aver ricevuto quella bandiera da alcuni tifosi a fine partita e di essersi accorto solo in seguito del simbolo fascista.

Gianluca Oddenino per “la Stampa” il 12 aprile 2022.

La ferita sanguina ancora. Fabio Cannavaro ripensa ad un altro Mondiale senza l'Italia e non si dà pace. «Fa male perché dal 2006 non riusciamo più a dire la nostra, ma quello che mi rattrista ancor di più è la rassegnazione: come se fosse normale ormai». Il capitano della Nazionale campione del mondo è andato a salutare Marcello Lippi nella sua Viareggio, alla vigilia del 74° compleanno dell'ex ct, ma nel menù non c'era la Macedonia. 

Fabio Cannavaro, che cosa sta succedendo al calcio italiano?

«Bisogna cambiare in fretta, qui perdiamo una generazione: nelle coppe europee non andiamo avanti e così in Nazionale. Non ci rendiamo conto che dalle altre parti vanno a tremila all'ora: non siamo più i più belli e i più forti». 

Come si rilancia un sistema?

«Non so la cura e non spetta a me, ma è evidente che c'è un'organizzazione che non sta funzionando. È un meccanismo che va cambiato, perché più andiamo avanti e peggio è». 

In Serie A gli italiani sono solo il 35% dei giocatori. Manca la base da cui ripartire?

«È un dato pesante, ma anche in Premier giocano pochi inglesi. Noi non abbiamo le strutture e puntiamo poco sui giovani: in Italia uno a 18 anni deve fare esperienza, mentre all'estero gioca. Così come gli allenatori: bisogna fare tanta esperienza (sorride, ndr), poi vedi che ci sono Gerrard e Lampard in panchina...».

Dopo l'eliminazione ai playoff si è parlato di Cannavaro in Nazionale...

«Anche se mi ha fatto piacere, non c'era niente di vero. Però non è questione di un allenatore, ma di un sistema che sta fallendo da troppi anni». 

Ma lei sogna l'azzurro?

«Credo sia normale, la mia storia parla di questo... Ho avuto la fortuna di alzare la Coppa del mondo, ma ora c'è un allenatore che ci ha fatto vincere l'Europeo. In futuro vedremo: devo lavorare e avere la mia possibilità». 

La vedremo in Serie A?

«Per adesso no. Ho fatto diversi colloqui con squadre all'estero, Inghilterra e Spagna, ma anche con nazionali. Però c'è un problema: in Italia pensiamo che gli altri campionati non esistano. Io sono 6 anni che alleno e in Cina si gioca a calcio, non fanno mica un altro sport». 

A chi darebbe la palma di miglior allenatore?

«Italiano alla Fiorentina sta facendo molto bene». 

Lei ha giocato con Napoli, Inter e Juve. Da spettatore interessato, come vede questo campionato?

«Bello aperto. Ci sono ancora tanti punti in palio e può succedere di tutto». 

Ma lei lo vede aperto a 4 squadre o la Juventus è fuori dopo la sconfitta con l'Inter?

«È aperto a 4 squadre, vedendo gli ultimi risultati. La Juve non molla mai e questo è il campionato delle sorprese». 

La Juventus che cosa può avere in più per sperare nell'incredibile ribaltone?

«La Juve mette pressione a tutti e quando è lì può fare la differenza, ma è anche vero che ci sono tre squadre davanti». 

Può essere aiutata da questo torneo a "ciapanò"...

«Vero, è un campionato strano. Siamo stati abituati a vedere squadre che in questo periodo prendevano terreno sulle altre e ora sembra che nessuno lo voglia vincere: ecco perché tutte e quattro rientrano in questo finale di campionato». 

Il Napoli ha avuto il braccino?

«Contro la Fiorentina era un'occasione importante e giocava in casa... Sta diventando una costante, peccato». 

Il Milan senza attaccanti è primo, può vincere lo scudetto?

«Può davvero vincerlo chiunque: il finale sarà molto interessante».

L'Inter è tornata ad essere la favorita?

«Ha il morale più alto e una partita in meno: aiuta». 

È rimasto stupito dalle difficoltà della Juve?

«Sì, mi ha stupito l'altalena di risultati. La Juve è forte, soprattutto dopo il mercato di gennaio, e mi hanno impressionato anche i tanti infortuni. Dopo tanti anni che vinci in Italia sta cercando di cambiare e ci può anche stare». 

De Ligt e Vlahovic sono il futuro garantito per ripartire?

«Sono i due pilastri perché sono forti. De Ligt è stato condizionato da episodi negativi, ma sa giocare di reparto e a livello individuale. È giovane, è forte e mi piace molto».

E Vlahovic?

«Era da tanto che non vedevo un attaccante così... Fa reparto da solo, gioca per i compagni e in area è devastante». 

Come l'avrebbe marcato?

«Non so se mi sarei divertito, ma sarebbe stato molto interessante (ride, ndr)». 

Lui sembra patire le marcature a uomo...

«Lo soffrono anche i difensori, però, non credete... Se riceve palla con l'uomo attaccato, lui fatica. Ma se ha spazio non lo fermi più». 

Chiellini sta riflettendo sul suo futuro. Da capitano a capitano, che consiglio gli darebbe?

«Di giocare fino a quando può farlo, deciderà lui quando smettere. Perché a volte sono gli altri che decidono per te. Giorgio deve capire poi che cosa fare, ma è intelligente e ha una cultura personale per fare quello che vuole».

Lilian Thuram. Francesco Persili per Dagospia il 2 aprile 2022.

“Da bambino, appena arrivato in Francia, non sognavo di diventare calciatore. Volevo farmi prete”. “Padre” Thuram si racconta su Dazn a ‘Linea Diletta’ e rivela diversi aneddoti legati alla sua infanzia, prima a Guadalupa e poi a Parigi: “Sono diventato negro all’età di 9 anni, quando sono arrivato a Bois-Colombes, periferia di Parigi. A scuola mi diedero dello 'sporco negro' e pensarci è ancora uno shock per me. 

Quando abitavo in Guadalupa non era così: noi bambini giocavamo e basta, senza pensare al colore della pelle. In Francia, invece, negli spogliatoi se c’era un furto o qualcosa che spariva, tutti pensavano fosse opera del nero o dell’arabo. Questo per me è razzismo”. L'ex difensore di Monaco, Parma, Juve e Barcellona, ambasciatore della lotta contro le discriminazioni, affonda il colpo: “Quando giocavo in Italia e alcuni tifosi facevano il verso della scimmia, ho capito che il razzismo è un problema culturale, un’abitudine, una trappola”. 

Thuram parla di Nelson Mandela e del faraone Chefren (nome che ha dato anche a uno dei due figli) e invita a pensare come esseri umani: "I calciatori bianchi devono prendere posizione. Dichiararsi neutralie non schierarsi è la più grande delle ipocrisie". Il suo plauso va a Eminem che si è inginocchiato durante l'halftime show del Super Bowl: “Ha dimostrato che tutti possono denunciare il razzismo. Non bisogna essere di colore per avvertire il problema: possono sentirlo tutti. Inginocchiarsi prima delle gare è un gesto potente che permette al resto del mondo di capire che sei d'accordo nel denunciare la violenza”.

Per i calciatori francesi della nuova generazione Thuram “è più di un calciatore” ma il campione del mondo con la Francia black-blanc-beur del 1998 esclude un futuro in politica: “La mia missione è quella di combattere il razzismo attraverso l'educazione”. Lo sport può aiutare. “Il calcio è vita. La mia carriera è un sogno. Impossibile desiderare di meglio. Un calciatore in cui si rivede? “Nessuno”. Uno che marcava come Cannavaro non è facile trovarlo? “No, uno bello come Cannavaro non è facile trovarlo. Fabio è mio fratello, mi ha insegnato a parlare napoletano. Accà nisciuno è fesso. Io sono un po’ napoletano…”

Lilian Thuram: «I normali sono bianchi. Noi neri contiamo meno degli orsi polari». Stefano Rodi su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.

L’ex calciatore e le battaglie anti razzismo della sua Fondazione: «Le discriminazioni resistono. Al confine Ucraina-Polonia quelli come me vengono respinti perché animali. Gli altri? Rifugiati». 

L’ex calciatore Lilian Thuram, 50 anni, a Parigi nei locali della sua fondazione che ha l’obiettivo di combattere il razzismo.

I locali della Fondazione Thuram, a pochi passi dal boulevard Saint Germain a Parigi, sono luminosi e accoglienti. Vecchi poster francesi sulle colonie dell’Africa occidentale, che oggi fanno quasi sorridere, accanto a ritratti di Nelson Mandela. Qui il grande difensore del Parma, della Juventus e della nazionale francese, campione del mondo nel 1998, organizza la sua battaglia per l’educazione, convinto che «non si nasce razzisti, lo si diventa». Lilian Thuram va nelle scuole, scrive libri che fanno discutere. L’ultimo a uscire in Italia, come sempre per add editore, si intitola Il pensiero bianco.

Che cosa significa «pensiero bianco»?

«Semplicemente l’idea che essere bianchi è meglio».

Thuram ha il record assoluto di presenze con la maglia della nazionale francese: 142 presenze in 14 anni e si è laureato campione del mondo nel 1998, campione d’Europa nel 2000 e vincitore della Confederations Cup nel 2003. 

Oggi, tranne pochi suprematisti, nessuno lo sostiene più apertamente.

«Eppure è ancora così. Il pensiero bianco fa parte della normalità. Che essere bianchi sia meglio è un dato di fatto: facilita la vita, è un sistema di valori dominanti che si trova alla base dela cultura occidentale. Lo sappiamo tutti ma pochi sono pronti ad ammetterlo».

Nelle prime pagine del suo libro lei cita «il pensiero nero»: Toni Morrison, Maryse Condé, Martin Luther King, James Baldwin, Aimé Césaire, Frantz Fanon. Se esiste un pensiero nero, qual è il pensiero bianco?

«Prima di tutto diciamo che il pensiero nero è una costruzione del mondo occidentale. È il pensiero bianco, quello, mai definito con chiarezza, fondato in secoli di legittimazione del suprematismo bianco (apartheid, segregazione e altro), che ha strutturato il mondo. La maggior parte dei bianchi preferisce non affrontare i milioni di morti causati dalle violenze del mondo occidentale. I neri sanno di essere neri, mentre i bianchi preferiscono pensare a sé stessi come “normali”. Perché la normalità, tuttora, è bianca».

«Niente è eterno. neanche il capitalismo. le cose cambieranno quando la predazione, a danno di uomini e natura, non sarà più sostenibile»

Lilian Thuram nel 1996 al debutto nel Parma, sua squadra fino al 2001. Dal 2001 al 2006 ha giocato e vinto due scudetti con la Juventus. 

Non crede nei progressi delle lotte antirazziste?

«Certo, ma la violenza continua e pochi vogliono ammetterlo. Io sono nero e so che i neri non hanno le stesse libertà dei bianchi. I bianchi non devono sentirsi accusati personalmente, non parlo mai di individui ma di costruzione sociale. Ancora oggi in Francia un nero ha molte più probabilità di essere fermato e controllato dalla polizia, e meno probabilità di essere scelto per un lavoro, a parità di competenze. E questa minore libertà la vediamo anche con quello che sta succedendo in Ucraina».

Perché anche la guerra in Ucraina è toccata dal «pensiero bianco»?

«Perché alla frontiera con la Polonia i bianchi vengono accolti come esseri umani (rifugiati) e i neri respinti come animali? Secoli di storia hanno prodotto l’odio per il nero (la negrofobia) una mentalità che è difficile cancellare in pochi anni, nel mio libro ricordo che il razzismo non è più ufficiale come poteva esserlo ai tempi del Codice nero di Luigi XIV, ma resiste un odio legato alla struttura economica e politica. Lei e io siamo uomini, e sappiamo che in quanto tali la vita per noi è più facile rispetto a quella delle donne. Come il sessismo resiste nonostante le leggi, resiste anche una gerarchia legata al colore della pelle. Negarlo, fare finta di niente, accettarlo come la normalità, significa perpetuare questa violenza».

Lilian Thuram ha scritto il libro Il pensiero bianco. Non si nasce bianchi, lo si diventa (add editore, 18 euro) e lo presenterà sabato 9 aprile ad Ascona (Svizzera) per gli eventi letterari monte verità 

Lei è arrivato nella Francia metropolitana, in Europa, dalla Guadalupa, all’età di nove anni.

«E mi è stato subito chiaro che in quanto nero ero considerato inferiore».

Adesso di anni ne ha 50, la società è cambiata, lei ha avuto un successo straordinario, è stato ed è amatissimo dai tifosi.

«Certo, ma questo non cambia i termini del problema. Anzi, quando denuncio il razzismo, c’è chi si infastidisce e sottolinea che dovrei essere grato alla Francia per quello che mi ha dato. Ci rendiamo conto del paternalismo di questa frase? Quello che potrei aver dato io alla Francia non conta, devo ringraziare perché pur essendo nero ho avuto una bella carriera. E quando si parla dei calciatori che mettono il ginocchio a terra come segno di protesta antirazzista, molti si scocciano: in sostanza noi dovremmo chiudere la bocca e accettare le violenze fatte ai neri? Se venisse chiesto di poggiare il ginocchio a terra per gli orsi polari, tutti applaudirebbero. I neri sono meno importanti degli orsi polari? C’è chi non vuole capire che la mia non è una lamentela personale, né un’accusa ai singoli individui. Parlo di una struttura politica profonda, che è l’espressione di una necessità economica. La gerarchia in base al colore della pelle è una costruzione per legittimare le violenze del capitalismo, ed è per questo che non scomparirà tanto facilmente. Il pensiero bianco non riguarda solo i bianchi».

Anche i neri possono «pensare bianco»?

«Certo, e la prova è che in Africa, in Asia, molte donne usano prodotti per sbiancarsi la pelle. Non sono solo i bianchi a pensare che essere bianchi sia meglio».

Un intellettuale francese, Pascal Bruckner, ha scritto più di un libro per denunciare quello che secondo lui è un eccessivo complesso di colpa degli occidentali, che sarebbero troppo portati ad autoflagellarsi per crimini - come lo schiavismo - che molte civiltà hanno commesso.

«Chi sostiene che in Francia oggi il colore della pelle non determina in alcun modo le opportunità e le libertà di una persona fa un discorso razzista. Chi rifiuta di vederlo forse lo fa anche perché non ha alcun interesse a cambiare la situazione. E Bruckner, essendo un uomo, bianco e appartenente a una classe agiata, non ha interesse a che le cose cambino».

È un tema presente nelle elezioni presidenziali francesi di questo aprile?

«È presente il razzismo, con tanti candidati che fondano il loro programma sulla lotta all’immigrazione, come se tutti i problemi dipendessero dagli immigrati, ovvero dai non bianchi, ricreando il “noi” e “loro”, una classica arma delle classi dominanti che vogliono rompere la solidarietà tra le persone».

Ha fiducia nel futuro?

«Niente è eterno, neanche il capitalismo e il razzismo. Le cose cambieranno quando la predazione non solo a danno degli uomini ma anche della natura non sarà più sostenibile. Indifferenza e neutralità non sono più possibili. Smetteremo di definirci con le identità di nero, di bianco, di uomo, di donna, di ebreo, di musulmano, di cristiano, di buddista, di ateo, di clandestino, di povero, di ricco, di vecchio, di giovane, di omosessuale, di eterosessuale... l’unica identità che conta è quella umana».

Da corriere.it il 13 marzo 2022.

Andrea Pirlo e Valentina Baldini si sono sposati sabato 12 marzo in Comune a Torino. La cerimonia, che si è conclusa con una poesia di Pablo Neruda, è avvenuta in municipio a Torino e a unirli in matrimonio è stato Mimmo Portas, il leader dei Moderati. 

Andrea e Valentina, che hanno due figli gemelli, Leonardo e Tommaso, nati a New York nel 2017, stavano insieme dal 2014, e la loro unione all’epoca aveva suscitato non poco scalpore: il 42enne ex campione — al momento disoccupato dopo avere allenato la Juventus nella scorsa stagione, vincendo una Supercoppa italiana e la Coppa Italia e venendo poi esonerato al termine del campionato — per lei si era separato dalla prima moglie Deborah Roversi (dalla quale aveva avuto due figli, Niccolò e Angela), non senza polemiche e liti.

Pirlo e Baldini, 44enne immobiliarista e pierre torinese di buona famiglia, amante del fitness, una relazione in passato con Riccardo Grande Stevens, figlio di Franco Grande Stevens, che è stato amico strettissimo dell’avvocato Gianni Agnelli, si erano conosciuti otto anni fa al Golf Club di Torino, e per il campione, allora alla Juventus, è stato il classico colpo di fulmine. La separazione di Pirlo con la prima moglie era così stata repentina e piuttosto burrascosa. 

Pirlo si separa dalla moglie: a lei andranno 55mila euro al mese

Deborah Roversi nel 2017 in una lettera a Vanity Fair, aveva raccontato la storia dell'amore con Pirlo («Eravamo entrambi sedicenni, Andrea giocava da poco nel Brescia ed entrambi non sapevamo che sarebbe diventato un campione») e le conseguenze per la sua vita: «Ho rinunciato a me stessa: è difficile raccontare l’abnegazione, la rinuncia e l’annullamento di me stessa al fianco di un campione», chiarendo altresì la questione dell'assegno mensile post divorzio: «L’assegno non è quello divorzile — disse — ma quello che la legge stabilisce nella separazione de coniugi. L’importo è inferiore di quasi due terzi, una volta dedotto «l’assegno di mantenimento dei figli e le imposte». 

Anche Grande Stevens, la cui storia con Baldini all'epoca della rottura durava da dieci anni, aveva parlato della sua ex compagna in un'intervista a Chi del 2014: «Sarò sincero: non porto nessun rancore. Però vorrei specificare che ci sono anche altre componenti che entrano in gioco in una separazione: magari patologie, come per esempio lo “shopping compulsivo”, che possono obbligarci ad allontanare alcune persone anche dopo molti anni di relazione».

Valentina Baldini — che sul suo account (privato) di Instagram si definisce «mamma di due gemelli biondissimi, mamma di Pablo (il cane di famiglia, ndr), appassionata di Arte e creatrice di DOGS VILLAGE» — aveva fatto parlare di sé lo scorso giugno quando aveva difeso via social il futuro marito attaccando Federico Bernardeschi, critico con Pirlo per il modo in cui lo impiegava alla Juventus. La futura moglie del Maestro lo aveva definito ironicamente «genio incompreso» e aveva aggiunto: «Quando in campo dimostri un milionesimo di quello che hanno fatto i veri campioni. Ma decidi di “rischiare” l’intervista dopo aver fatto un gol al San Marino».

Valentina Baldini: «Andrea Pirlo non è un romanticone. Il mio ex? L’ho ferito e non potevo prevedere come avrebbe reagito». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

La moglie dell’ex campione del mondo e dell’ex allenatore della Juve: «Non sono una pr e non soffro di shopping compulsivo». «Le nozze? Un brindisi tra amici a casa». 

Si sono sposati sabato 12 marzo a Torino. Lui è Andrea Pirlo, è stato allenatore della Juventus, è detto il Maestro o il Metronomo per la precisione con cui dettava i tempi in campo, al Milan, alla Juve e in Nazionale. Lei è Valentina Baldini, da otto anni al suo fianco, un profilo Instagram privato, mai un’intervista, mai una foto. Però nel 2014, per mesi, erano finiti loro malgrado sulle cronache rosa. Lui lasciava la moglie Deborah Roversi, sposata 13 anni prima, lei finiva una relazione decennale con un nome in vista della Torino bene, il finanziere Riccardo Grande Stevens, figlio di Franzo, storico legale di Gianni Agnelli. Si parlò di «Juventiful», una soap bianconera dove Gigi Buffon lasciava Alena Seredova per Ilaria D’Amico e andava a vivere a casa del Riccardo lasciato da Valentina e poi lo stesso Riccardo veniva fotografato con l’ex signora Pirlo e diceva a Vanity Fair «potrebbe nascere qualcosa, ma magari fra tre anni, ora sarebbe di una cafoneria micidiale». In tutto ciò, Valentina zitta, pure quando veniva dipinta tutta shopping e palestra. Ora mi sta davanti, carrè biondo riccio, occhi guizzanti blu, tailleur, bretelle, ha guidato lei da Torino a Milano, posa le borse, dice qualcosa sul fatto che cade dappertutto. A sorpresa, sembra più una bellezza da fumetto che una femme fatale.

Riservata, silenziosa... Lei è il contrario della classica Wags, perché è sempre stata un passo indietro?

«Perché non mi piace vivere di luce riflessa, perché il personaggio pubblico è lui e perché, incontrandolo, ho visto Andrea e non Pirlo».

Perché ora quest’intervista?

«Sebbene non abbia mai patito quello che è stato scritto su di me, forse mi fa piacere farmi conoscere per come sono. A me dà fastidio la banalità, l’idea facile per cui una sta con un uomo perché è famoso o ha denaro».

Di lei si sa solo che è nata a Torino, che è immobiliarista e Pr.

«Sbagliato: Pr non lo sono mai stata, immobiliarista nemmeno. Al super, uno mi si è avvicinato, mi fa: ho una casa molto bella da venderle. Io, per educazione, sono anche andata a vederla».

Buffon si era rifugiato nella casa da cui lei era uscita.

«Mi chiamava per chiedermi la password del Wi-Fi, era una telenovela. Eravamo tutti sui giornali, ma io su giornali, prima, non c’era mai stata».

Il suo ex non fu discreto nelle interviste.

«Ho accettato tutto quello che ha detto. Pure che sarei affetta da shopping compulsivo, cosa che mi ha fatto molto sorridere. Però, io l’ho ferito e non puoi prevedere come reagirà una persona ferita. La scelta più coraggiosa sarebbe stata dire: non sono più innamorata. Invece, ho permesso che circolassero voci e gli arrivassero. Ho sbagliato».

Lei, nella vita, cosa fa?

«Ero iscritta a Psicologia, poi, ho conosciuto Riccardo e ho abbandonato l’università per seguire le mie vere passioni. Mi sono iscritta all’Accademia di Belle Arti e ho studiato fotografia allo Ied. L’altra passione sono i cani: sto per lanciare Dog Village, un social per geolocalizzare al parco gli amici a quattro zampe o consultare il veterinario».

E suo marito, invece, fermo da maggio, che farà?

«Andrà avanti a fare l’allenatore, appena avrà occasione giusta».

Il vostro primo incontro?

«La mia conoscenza in campo calcistica era limitata. Pensavo che avesse un altro cognome».

Cioè, l’ha scambiato per un altro calciatore?

«Non dirò chi, se no passo per cretina. Comunque, lui arriva alla Juve e, a Torino, frequentavamo gli stessi posti. Poi, a forza di incontrarsi per strada e nei ristoranti, qualcosa di me l’avrà colpito».

E come si è accorta che l’aveva notata?

«Vedi uno che ti guarda, quindi o hai qualcosa in faccia di strano, cosa che a me può capitare, o ha notato che ero abbronzata e avevo i giornali d’arte sotto il braccio».

Su cosa vi siete trovati lei e suo marito?

«Non facciamo mai drammi di nulla. Ci consideriamo fortunati. Anche lui ama l’arte e ci accomuna il gusto per gli scherzi, ci divertiamo a farne agli amici. Andrea fa battute. Non è serioso come si crede».

I due gemelli come sono?

«Come devono essere due maschi di quattro anni e mezzo: supervivaci. Uno è tutto me e uno è tutto Andrea. Leonardo è come il padre: più bisognoso di attenzioni, ti frega di più perché è furbo, ruffiano. Tommaso è dinamico, ma più sensibile, come me».

Suo marito ha due figli grandi, come è stato il ritorno ai pannolini, che papà è?

«Uno che non si è mai occupato di pannolini e pappe né gliel’ho mia chiesto: ora le femministe mi sbraneranno, ma a me basta che lui coi figli ci giochi e ci passi del tempo. E lui ci gioca proprio: in casa, c’è sempre allegria. I gemelli li abbiamo molto voluti. Tanti mi dicono: hai due gemelli, poverina! E io: fossero queste le sfortune! Noi abbiamo iniziato a cercare un figlio che avevo già 37 anni. Oggi, sembra che tutti hanno i figli tardi, ma non è vero che è facile. Ho fatto le cure di fertilità quando Andrea giocava a New York, lì hanno regole etiche più lasche e ci hanno proposto i gemelli. Da figlia unica, ho detto subito sì».

Rapporti tra fratelli grandi e piccoli?

«Fantastici. Il giorno del matrimonio, i bimbi portavano le fedi, Tommy è scappato piangendo: lo hanno recuperato Nicky e Angela».

Come avete deciso di sposarvi?

«Non c’è stata una proposta, Andrea non è un romanticone: l’abbiamo deciso perché è meglio fare le cose bene, se ci sono bambini. Sono andata a cercare il vestito il 3 marzo. Dico: mi sposo il 12 marzo. E le commesse: del 2023? La festa l’abbiamo messa su in cinque giorni. Eravamo alle Maldive con amici e, da lì, ho chiamato un’amica e le ho chiesto di organizzare un brindisi a casa. I 90 invitati, nessuno famoso, sapevano solo di un aperitivo. Mi è pure caduto il telefono in acqua e sono stata due giorni senza. Questo è molto da me».

Silvio Longobucco. E' morto Longobucco: con la Juventus vinse tre scudetti e sfiorò la Coppa dei Campioni, ma Rep lo beffò.  Maurizio Crosetti su La Repubblica il 2 Aprile 2022.

L'ex difensore aveva 70 anni ed era malato da tempo. Con i bianconeri disputò la finale di Belgrado del 1973. Ha legato il suo nome anche al Cagliari dove militò per 7 stagioni.

Era la Juve dei cognomi strampalati, Cuccureddu, Longobucco, quadrisillabi che raccontavano l'Italia dove Italo Allodi andava a comprare i giocatori per l'avvocato Agnelli. Il sardo Antonello Cuccureddu si infortunò alla vigilia della finale di Coppa dei Campioni 1973, la prima dei bianconeri, e il calabrese Silvio Longobucco prese il suo posto. Lui, una riserva, dal primo minuto in campo a Belgrado contro l'Ajax di Cruyff, una delle squadre più grandi di ogni tempo.

Antonello Cuccureddu: «Preparo il campo per i ragazzini. Vorrei scoprire il nuovo Del Piero». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2022.

Alghero, l’ex campione della Juventus e la foto fatta dal figlio diventata virale: «Gli incontri più emozionanti? Quelli con Pelé e con Sivori, il mio idolo». Amarcord: «Sogno le mie vecchie partite». L’orgoglio: la stella allo Stadium di Torino 

L’ultimo romantico del calcio si chiama Antonello Cuccureddu, ha 72 anni e 434 partite alle spalle con la maglia della Juventus, per la quale ha firmato 28 gol, sei scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa. Il suo nome è stampato su una delle 50 stelle della Walk of Fame allo Stadium di Torino. E forse è anche per questo scarto tra ordinarietà e leggenda che è diventata virale la foto che gli ha scattato ad Alghero sabato mattina il primogenito Luca, mentre tracciava le linee del campo con la calce, poi pubblicata dalla pagina Facebook di «Calcio - Ultimi Romantici».

«Cuccu», ma fa sempre lei quel lavoro?

«No, qualche volta anche mio figlio. Ma io mi diverto! Quando ero bambino giocavo sul fango, per strada. Adesso per molti genitori senza il sintetico sembra che i figli non possano giocare. E invece impari di più: uno stop su questo campo ha rimbalzi diversi. E comunque il nostro è bello morbido, sabbioso».

La traccialinee sembra una carriola con il coperchio. Come funziona?

«Ah, fa benissimo il suo lavoro: stendiamo il filo prima sull’area, poi sulle linee laterali, quindi si traccia e si passa sopra con la calce. Se non piove, dura due settimane. Sabato dovevo farlo perché giocavano i miei esordienti, che hanno 10-11 anni: il nostro campo è regolamentare, ma loro giocano a nove».

Tutto questo succede nella sua scuola «Apd Antonello Cuccureddu 1969»: l’anno dell’esordio in Serie A.

«In due anni ero passato dal Fertilia alla Torres al Brescia alla Juventus. La prima partita in maglia bianconera la giocai proprio in Sardegna, contro quel Cagliari di Gigi Riva che a fine stagione avrebbe vinto lo scudetto. Il giorno dopo un giornale titolò “figlio cattivo”, perché avevo segnato il gol del pareggio. Ma io giocavo per vincere, sempre, anche quando dopo dodici anni lasciai la Juve per la Fiorentina e mi ritrovai ad affrontare i miei ex compagni».

Come fu il salto a Torino?

«Tanti sardi mi aiutarono, io avevo appena vent’anni. Il primo che conobbi e con cui sono rimasto amico è Scanu, il parrucchiere che aveva il negozio vicino allo stadio. Ma anche con i compagni mi sono trovato subito bene: Cabrini, Benetti, Gentile... Con lui uscivamo sempre, prima di sposarci».

E sua moglie è sarda o «continentale»?

«Mia moglie, Ivana Mazzi, è toscana. L’avevo conosciuta nel ristorante dove andavamo a mangiare, lei era lì con amici. Non capisce nulla di calcio, credo sia venuta a una sola partita in tutta la mia carriera, e forse è stata una delle mie fortune. Ma se l’immagina se tornavo a casa dopo aver perso e mi toccava litigare sulla prestazione?».

Sogna ancora le partite?

«Eh sì. A parte l’esordio, la partita che non posso dimenticare è quella contro la Roma che ci fece conquistare lo scudetto del ‘73, all’ultima giornata di campionato. Segnai il gol della vittoria a tre minuti dalla fine. A quei tempi si scendeva in campo con la radio in panchina per sentire cosa facevano le altre squadre: il Milan, che in classifica era in vantaggio di un punto, stava perdendo. Allora le persone giocavano la schedina tutte le settimane, le famiglie riempivano gli stadi. Era un altro mondo...».

Gli incontri che l’hanno emozionata di più?

«Mi sono emozionato molto con Pelé in Canada. E poi con Sivori in Argentina, nel 1978: era il mio idolo. Nella mia Club House, qui ad Alghero, ci sono tutte le foto: il debutto in Nazionale con Giacinto Facchetti, quella con Paolino Rossi, gli scudetti...».

Dopo, allenò anche un giovanissimo Del Piero.

«Sì, nella Primavera della Juve. Che ragazzo straordinario...».

Sta cercando un nuovo Del Piero nella sua scuola?

«Ancora non l’ho trovato, ma si nota già da piccoli quando hanno quel talento in più e bisogna seguirli e accompagnarli. Dalla prossima stagione, comunque, vorrei far decollare un progetto che coinvolge la Juventus. Qui di fianco a me c’è l’Alghero che è gemellata con il Cagliari Calcio».

Quali regole impone?

«La scuola prima di tutto: se uno va male a scuola sta in panchina. E poi, seconda regola, gioca solo chi si allena. Ai genitori suggerisco, se i ragazzini non studiano, di togliergli per punizione il telefonino o il computer o la bicicletta, ma non lo sport, che è scuola di vita: altrimenti gli viene la depressione».

E i genitori-allenatori li incontra mai?

«Devo dire che sono tutti molto rispettosi, e poi io i loro figli li faccio ruotare sempre. Ma quando qualcuno esagera faccio una domanda semplice? Ma tu nella vita hai giocato al calcio? No. E allora guarda e ascolta. E nessuno protesta».

Se va a Torino a vedere una partita paga il biglietto?

«Eh, se dovessi comprare il biglietto significa che il mondo è crollato».

Beniamino Vignola oggi, con la maglia della Juventus e con quella dell’Avellino. Lorenzo Fabiano su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2022.  

È il 7 gennaio del 1979; allo Stadio Curi di Perugia tra i padroni di casa e il Verona finisce 1-1. Al 38’ del primo tempo Beppe Chiappella, allenatore dei gialloblù in una disgraziata stagione che sfocerà nella retrocessione, manda in campo un ragazzino dal sinistro d’oro, cresciuto nel vivaio. Si chiama Beniamino Vignola. Quel pomeriggio debutta in serie A e sarà per lui l’avvio di una carriera che lo porterà su palcoscenici di alto prestigio.

Vignola, aveva 19 anni: sulle gradinate del Bentegodi la chiamavano «Vignoleta», se lo ricorda?…

«Eh certo, “Vignoleta” (ride, ndr). Ero partito da Cà di David a due passi dalla città, dove stavano i miei nonni materni. Un anno e mi prese il Verona, dove feci tutta la trafila delle giovanili».

Il presidente era allora «el Commenda» Saverio Garonzi. Che ricordo ne ha?

«Mi vedeva bene e mi fece il primo contratto. Ero bravo tecnicamente ma leggerino. Ogni anno facevano la scrematura tra chi restava e partiva: “è bravo il ragazzino, però…”. C’era sempre un “però”. Guido Tavellin, responsabile del settore giovanile, credeva in me, io mi irrobustii un po’e così nel 1978 arrivai alla prima squadra allenata da Ferruccio Valcareggi che mi portò per la prima volta in panchina. Ho avuto la fortuna di trovare grandi maestri come Mascetti, Maddè, Busatta, Superchi, fino a quel matto di Zigoni. Da loro ho imparato cose che mi son rimaste tutta la vita».

Dopo un anno, da Verona si ritrovò ad Avellino. Come nacque quel trasferimento?

«Dovevano sistemare i conti. Avevo richieste da squadre più vicine a casa, ma la miglior offerta venne dall’Avellino. Io volevo giocare in serie A e non ci pensai due volte. Partivamo da - 5 di penalizzazione per il calcio scommesse, e non pensai nemmeno a quello; fu un’annata straordinaria, ci salvammo e fu un’impresa che ancora ricordano dopo quarant’anni. L’anno più esaltante della mia carriera».

Era il 1980: ad Avellino visse il dramma del terremoto in Irpinia…

«Devastante. Allo stadio c’era la tendopoli, noi calciatori eravamo dei privilegiati e ci portarono via. La città sembrava fosse stata bombardata, come Kiev oggi. Terribile. Ad Avellino ho vissuto un’esperienza molto formativa. Arrivai che ero un ragazzino e andai via che ero un uomo».

Lei e Stefano Tacconi vi ritrovaste poi davanti a Giampiero Boniperti a Torino nella sede della Juventus. Bel salto, no?

«Io e Tacconi abbiamo giocato insieme sette anni, tre all’Avellino e quattro alla Juve. Trovarsi davanti a Boniperti era qualcosa di inimmaginabile. Il Comunale era un tempio del calcio, e c’era da aver paura solo ad entrare nello spogliatoio: era un gruppo di campioni di grandissima personalità e carisma, i campioni del mondo in Spagna con due fuoriclasse come Platini e Boniek».

Le Roi Michel, lei il suo vice. Mica male.

«Aveva stima di me, perché gli piacevano i giocatori tecnici. Il primo anno giocammo insieme, e lui era contento perché poteva stare un po’ più avanti e cercare il gol. Un numero 10 che, nonostante i grandi attaccanti che c’erano allora in Italia, ha vinto per tre anni di fila il titolo di capocannoniere della serie A. Un fuoriclasse assoluto, vincitore di tre Palloni d’oro consecutivi. Paragonare oggi Dybala a Platini è una bestemmia calcistica; Dybala è un grande giocatore, ma per favore lasciamo stare Platini».

Come si rapportava Platini nello spogliatoio?

«Una persona molto semplice e disponibile. Il fatto che fosse francese poteva farlo passare per altezzoso, ma non era affatto così. Era molto legato al gruppo e non ha mai fatto la primadonna. Anche perché in quello spogliatoio, con i campioni che c’erano, sarebbe stato assai difficile. Non appena alzava la voce gli dicevano “Ehi, guarda che qui i campioni del mondo siamo noi”».

Il gol nella finale di Coppa delle Coppe a Basilea nel 1984 contro il Porto, è il momento più bello della sua carriera?

«Sì. Per tirare un po’ l’acqua al mio mulino, dicevo: “Più che il numero, conta il peso dei gol”. La mia maglia numero 7 è esposta al museo della Juventus a Torino, ed è un grande onore per me. A Paolo Garimberti, presidente del museo, scherzando ho detto: “Finché un altro numero 7 non segnerà un gol vincente in una finale europea, la mia maglia rimarrà lì, vero?”. Ho rischiato con Cristiano Ronaldo, e adesso ne è arrivato un altro niente male (Dusan Vlahovic, ndr); perdere il posto, significherebbe che è l’anno buono per tornare a vincere una coppa europea. Speriamo».

Il suo ritorno al Verona non fu felicissimo. Cosa non andò?

«L’anno prima il Verona aveva vinto lo scudetto, e fu una stagione tribolata. Io non fornii prestazioni di alto livello, ma la squadra aveva dato tutto l’anno precedente, e ripetersi era difficile. Fanna, Marangon e Garella erano andati via; arrivammo io, Verza e Giuliani. Quelli prima di me avevano fatto qualcosa di storico, diciamo che arrivai al momento sbagliato, anche perché chi arriva per ultimo paga. A pensarci bene, forse fu un errore andare in quel momento al Verona».

E poi?

«Feci un altro errore, tornare alla Juventus. Non ebbi il minimo dubbio, ma sarebbe stato meglio provare a ripartire da un club meno importante. Giocai poco, il treno era passato, la poesia finita. Mi ritengo però contento della carriera che ho avuto. Ho fatto anche le olimpiadi di Los Angeles con la maglia azzurra».

Il «dopo» è sempre un momento molto delicato nella vita di un atleta. Lei nel lavoro si è messo un’altra maglia numero 10.

«Ho smesso a 32 anni, giovanissimo per la vita fuori dal calcio. Nel calcio sei un privilegiato, ma poi ti ritrovi nel mondo del lavoro e intraprendere un’attività non è facile. Mio suocero aveva avviato un’attività nel commercio di vetri per le auto, oggi abbiamo due ditte, Vetrauto e Vetrocar, che mandiamo avanti io e mio cognato. La mia fortuna è stata trovare una macchina ben rodata in famiglia. Io ci ho messo passione e voglia di fare».

E il calcio di oggi le piace?

«È un altro mondo, sono passati quarant’anni. La tecnica è venuta meno a scapito di forza fisica, corsa e velocità. Non appena si vede un giocatore tecnico, lo si osanna; quando Pirlo ha lasciato la Juve si son messi a piangere un po’ tutti».

Magari, il sinistro di Beniamino Vignola farebbe ancora comodo…

«Beh dai, qualche volta sì».

Totò Schillaci, che fine ha fatto: eroe di Italia 90, amori, tradimenti, Baggio e Lentini, reality in tv. Cosa fa oggi. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2022. 

Da Italia 90 alla tv Occhi spiritati, braccia al cielo. Totò Schillaci è Italia 90, il Mondiale dei sogni infranti, la Nazionale bellissima e forte, l’Argentina di Maradona che ci batte ai rigori. Le Notti magiche e la Juventus, Boniperti e la storia tormentata con Rita Bonaccorso, Roby Baggio e il calcio in Giappone. Salvatore detto Totò, 57 anni da San Giovanni Apostolo, Palermo, è rimasto nell’immaginario di tutti noi, eroe mancato ma alla fine celebrato, amato. Dopo il pallone si è dato alla tv, reality show, politica, film. Ma cosa fa oggi?

Le notti magiche. Italia 90, il suo Mondiale. Totò ne è protagonista assoluto: «Dal nulla sono diventato capocannoniere e secondo nella classifica del Pallone d’Oro — ha raccontato in una lunga intervista al Daily Mail —, nonché uno dei calciatori più importanti al mondo in quel momento». Continua ad essere, ancora oggi, il volto di quel torneo. Resta alla Juventus (che lo aveva acquistato nel 1989) fino al 1992, quando il presidente Boniperti prende Vialli dalla Sampdoria e lo lascia andare all’Inter. In nerazzurro non riesce a fare la differenza (11 gol in 30 partite in due anni), così nel 1994 diventa il primo calciatore italiano a giocare in Giappone, al Jubilo Iwata, dove resta fino al ritiro, nel 1997.

La testata a Baggio. Non era nel suo miglior momento quando, ai tempi della Juventus, litiga con Roby Baggio. E gli rifila una testata. «Passavo un periodo un po’ brutto, lui negli spogliatoi mi provocava e scherzava. Io ero seduto e stavo leggendo il giornale, lui con la gamba continuava a colpire il giornale. Io gli dicevo “basta, finiscila”. Una, due, tre volte… Alla quarta mi sono alzato e ad un certo punto di ho mollato una testata. Trapattoni si presentò con i guantoni e scherzando disse “La prossima volta usate questi”».

Amore e tradimenti (anche con Lentini). Schillaci è stato sposato dal 1987 al 1995 con Rita Bonaccorso, che negli ultimi tempi ha avuto problemi economici, tanto da essere costretta a dormire in una roulotte. Un amore intenso, finito per gelosie e tradimenti reciproci. Il più famoso, quello di Rita con Gianluigi Lentini: «L’amore con Gigi l’ho avuto per reazione, perché Totò da mesi frequentava un’altra donna, anzi ci viveva insieme. Glielo dissi: “Prima o poi te la farò pagare”. Non ci credeva. Con Lentini è durata un anno, dopo il suo incidente d’auto ci siamo lasciati». È ancora in contatto con Totò, con cui ha avuto due figli, Mattia e Jessica. «Mi ha regalato una villa e mi ha sostenuto con gli alimenti finché la legge glielo ha imposto — ha raccontato di recente in un’intervista alla Gazzetta —. Con Lentini ci siamo sentiti al telefono di recente, si è informato su alcune cose, mi ha detto di essere felicemente fidanzato. È stato carino».

Con Aldo Giovanni e Giacomo. Schillaci è l’idolo di Aldo Baglio, comico palermitano del trio Aldo Giovanni e Giacomo. L’omaggio arriva nel film più celebre del gruppo, «Tre uomini e una gamba» (1997), in una scena nord contro sud in cui Totò viene definito «el gran visir de tücc i terun», «il gran visir di tutti i terroni», in riferimento alle sue origini siciliane. Una citazione che resiste ancora oggi nell’immaginario collettivo dei fan.

In politica con Forza Italia. In politica, con Forza Italia di Berlusconi. Alle elezioni amministrative del 2001 si candida come consigliere comunale della sua città, tra le file di Forza Italia. Viene eletto con circa 2mila voti, ma dopo due anni si dimette, stanco ed evidentemente provato. Dopo qualche anno cambia schieramento: durante le elezioni regionali siciliane del 2017 si è pubblicamente schierato a favore di un candidato di centrosinistra, Fabio Micari (che voleva portare le Olimpiadi del 2032 in Sicilia).

Naufrago all’Isola dei Famosi, poi il cinema. Dopo la politica si butta in tv. Ritrova popolarità con «L’Isola dei famosi», a cui partecipa nel 2004 con una rinnovata chioma, dopo un trapianto di capelli. Un’edizione —quando il programma era condotto da Simona Ventura — di gran successo, in cui Totò si mostra in una veste diversa, più intima, al pubblico. È uno dei tre finalisti, terzo alle spalle di Kabir Bedi e Sergio Muniz. Si dà anche al cinema: nel 2008 ha una parte nel film «Amore, bugie e calcetto», poi recita nel ruolo di un boss mafioso in «Squadra antimafia - Palermo oggi». Ha avuto anche un cameo in «Benvenuti a tavola - Nord vs Sud».

Rapper Schillaci rapper. Una volta, per la canzone «Gli anni degli anni», scritta dal cantautore romagnolo Mario Fucili, in arte 78 Bit, sesto posto a Sanremo 2002. Un brano che ricorda l’estate da sogno del 1990, un racconto delle emozioni provate in quel Mondiale (QUI il video). La canzone gli regala anche una certa popolarità social tra i più giovani. «Quello che mi fa felice è incontrare ragazzini di generazioni più recenti rispetto alla mia che sanno tutto di me. Potenza di social e youtube. Di questo vado veramente fiero», ha detto di recente.

Gli amici di Italia 90. Totò è ancora in contatto con i compagni della Nazionale di Italia 90. «Sento un po’ con tutti, soprattutto Stefano Tacconi e Moreno Torricelli. Giriamo spesso con la Juve. Spesso ci incontriamo e facciamo una sorta di reunion. È un modo per rivederci e stare insieme facendo contenti i tifosi».

Il ritorno a scuola. Un volto noto in tv anche oggi. Schillaci è stato tra i protagonisti del programma di Italia 1 «Back to school», in cui personaggi noti tornano sui banchi di scuola per sostenere l’esame di quinta elementare. Non poche le difficoltà dell’ex calciatore (anche la Juventus, quando giocava, voleva migliorasse il suo italiano), rimandato al primo esame: «Nella mia pagella i voti indicati erano tutti 1 e 2, sembrava la schedina del totocalcio», l’ironia di Totò durante il programma. E ancora: «Quando andavo a scuola a metà strada mi fermavo a giocare a calcio con i miei amici».

Cosa fa oggi. Oggi Schillaci ha 57 anni e vive nella sua Palermo con la seconda moglie Barbara Lombardo, il cagnolino Nina e il figlio di lei, mentre i suoi tre figli (Mattia e Jessica, nati dal primo matrimonio, e Nicole, frutto di una relazione successiva) sono sparsi per l’Europa: il primo in Portogallo e le due femmine una a Verona e l’altra a Chiasso. Ha rapporti cordiali con l’ex moglie Rita Bonaccorso. A Palermo ha creato un centro sportivo per ragazzi, il «Louis Ribolla», che aiuta i bambini dei quartieri più difficili per farli crescere aiutandoli a socializzare.

Schillaci: "Per tirarmi fuori dai guai il calcio si è preso gli anni migliori". Angelo Carotenuto su La Repubblica il 16 maggio 2016.

Le Notti Magiche, il gossip, ma anche la mafia degli anni '90 e un calcio di oggi che non riconosce. L'attaccante che infiammò i Mondiali italiani si racconta

SBUCÒ dal nulla e aveva gli occhi a palla. I gol in B col Messina lo portarono alla Juve. Un anno di Juve lo portò ai Mondiali. I Mondiali del '90 lo portarono in cima. Totò Schillaci è stato un lampo, fra presidenti discussi, arresti in famiglia, telefonate registrate dall'anti-mafia, il dolore per la droga di suo cugino Maurizio: lo racconta nell'autobiografia "Il gol è tutto", domani in libreria. "La gente pensa che esista solo il campo. Invece per resistere nel calcio bisogna accettare altre cose. Io le ho accettate. Se vuoi essere un personaggio, devi stare al gioco. La sincerità è un bene a cui si rinuncia. Perciò esiste il calciatorese, quella lingua in cui si parla e non si dice niente".

Che cosa non racconta un calciatore?

"Alla mia prima partita, nello spogliatoio del Messina, c'era un barattolino di perline rosse. Pastiglie di Micoren. Ognuno ne prendeva due, servivano a spezzare il fiato. Le presi anch'io, fidandomi dei medici".

Era il prezzo da pagare?

"La mia vita è stata difficile. Sono nato di sette mesi, i nonni mi scaldavano con bottiglie d'acqua calda. Abitavamo in via della Sfera 19. Un segno. La sfera era il pallone e il 19 la maglia ai Mondiali. Al Cep avevo cattive compagnie, ma il calcio mi distraeva, e per distrazione mi sono salvato. Non andavo volentieri a scuola, ma i pericoli so vederli".

La mafia?

"Gli anni '90 a Palermo sono stati terribili. Ho aperto tardi gli occhi. Pensavo a giocare, per me la mafia era una realtà locale. Il pizzo, il totonero, le bische. Finché una sera, in ritiro, Trapattoni si avvicina e mi fa: avete ucciso anche Falcone. Gli risposi: mister, ero con Baggio, chieda a lui cosa ho fatto. Non scherzava, l'aria era pesante. Ma andai a ripeterglielo quando lasciai la Juve: non l'ho ucciso io, né quei siciliani che non meritano pregiudizi. Non vengo da una famiglia benestante. Mio padre ci portava al mare a Mondello, al posto del salvagente avevo una camera d'aria per stare a galla. Ho fatto il panettiere, il gommista, l'ambulante, ho consegnato il vino, vendevo frutta. Volevo dei soldi in tasca, il calcio è stato la mia camera d'aria. Giocavo per ore col Super Tele, il pallone leggero. Nemmeno Pelé ci fa tre palleggi col Super Tele".

È più insidiosa la celebrità o la povertà?

"La povertà l'ho superata, la celebrità l'ho sofferta. Non volevo essere famoso, volevo giocare a pallone. La mia vita è cambiata senza che cambiassi io. Quando accettai l'offerta del Jubilo, ai giapponesi dissi: voi siete penultimi in classifica, io da bambino ero ultimo. Bersaglio dei bulli. Fra i 17 e i 34 anni niente è stato normale. Per tirarmi fuori dai guai, il calcio s'è preso i miei anni migliori".

Lei racconta di fughe dai ritiri e donne disponibili.

"Per un calciatore il sesso è facile. Cercavo attenzioni. A Torino sono stato discriminato. Offese, sfottò, le scritte sotto casa. Andai in crisi. Convertivo la rabbia in sesso. Ho tradito molto. Ma il tradimento è come una bibita gasata. Toglie la sete subito, poi hai di nuovo la gola secca".

Si pente di qualcosa?

"Sbagliai a minacciare Poli dicendogli: ti faccio sparare. Ma lui aveva sputato, il gesto più volgare. Chi ti vuole sparare, dai, non ti avverte. E mi pento di quella volta con Baggio. Leggevo certe cose su mia moglie Rita, ero furioso. Lui col piede muoveva il giornale: non darci importanza, ripeteva. E muoveva il giornale. Mi alzai e gli diedi una testata".

Fu difficile lasciare Rita Schillaci?

"Rita Bonaccorso, perché Schillaci? La Juve non voleva che ci separassimo. Portavo in campo i tormenti. Gossip, malignità. Tutti a telefonarmi quando Lentini ebbe l'incidente mentre andava da lei. Negli stadi insultavano. Non bastava terrone e mafioso, non bastava il coro "ruba le gomme". No: pure cornuto. In società non ne parlavano, ma le persone intelligenti accennano, fanno capire. Comprarono Vialli. Dovetti andar via. Ora sono cambiati i tempi, dopo Gianni Agnelli vedo che è cambiata pure la Juve. Sui capelli lunghi, sulla puntualità, sugli amori".

Alla Juve non piaceva nemmeno come parlava. Le diedero un'insegnante di italiano. Lei provò a portarla a letto.

"Non ero l'unico a non saper parlare. La maggior parte dei calciatori è ignorante. Guardate come sbagliamo gli investimenti. Una donna semplice come mia madre è stata sempre più brava di me a capire quali fossero le persone di cui non fidarsi".

Sbagliò a fidarsi pure della politica?

"Candidarmi a Palermo non fu una mia scelta. Vennero a chiedermelo persone a cui non potevo dire di no. Mi hanno convinto a portare voti a Forza Italia. Sono stato spesso usato come un gioiellino da esibire".

Perché oggi è fuori?

"Ho una scuola calcio a Palermo, spendo il mio nome per gli altri. Se avessi fatto l'allenatore, avrei ripreso la solita vita. Alberghi, aeroporti, stadi. Questo è. Ma preferisco vivere. Ora se vado a Parigi, la torre Eiffel la vedo".

E come sono i ragazzi italiani?

"Si fanno portare la borsa dalla mamma. Invece dovrebbero imparare a portare il peso delle responsabilità. Non sono abituati. Quando sbagliano, è sempre colpa degli altri".

Chi le piace nel calcio attuale?

"Ho conosciuto Maldini, Baresi, Tacconi, Bergomi. Non ce ne sono come loro. Vedo ragazzi irrispettosi, come irrispettose sono le società verso le loro bandiere. Il mio calcio non c'è più. Nel mio calcio potevi scommettere cinquemila lire con Gianni Brera se scriveva che non avrei segnato di testa. I suoi articoli dovevo farmeli spiegare, ma gli dimostrai che di testa facevo gol".

Cosa sanno i suoi figli delle notti magiche?

"Jessica s'è laureata senza far sapere di essere mia figlia. Mattia è all'università. Nicole vive in Svizzera con la madre. Sono stato assente ma gli ho consentito di studiare. Spero non sia stato un peso chiamarsi Schillaci, anche se qualche effetto negativo l'avranno provato. Io mi sono sempre raccomandato: se c'è chi sparla di me, non rispondete. Mai. Certe volte, la lingua migliore è il silenzio".

Moreno Torricelli, che fine ha fatto: la falegnameria, il soprannome Geppetto, la Lancia Thema e il dramma della moglie. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 9 Settembre 2022.  

Ex terzino di Juventus e Nazionale, con la maglia bianconera ha vinto la Champions League del 1996 e la successiva Intercontinentale, ma anche tre scudetti

Una bacheca da sogno

Di tanto in tanto interviene in qualche trasmissione tv per commentare il calcio di casa nostra. D’altronde lui, arrivato dal nulla fino al tetto d’Europa, ha una bacheca ricchissima di trofei, a cominciare dalla Champions League vinta con la Juve nel 1996 (l’ultima dei bianconeri), oltre alla successiva coppa Intercontinentale, la coppa Uefa vinta qualche stagione prima, tre scudetti, eccetera.

Il falegname «Geppetto»

Quella di Moreno Torricelli è la storia di un ragazzo della provincia lombarda ritrovatosi d’un tratto sul tetto d’Europa. Giocava in difesa in squadre dilettantistiche nel tempo libero. Per vivere, invece, lavorava in un mobilificio. Faceva il magazziniere e il falegname, hobby che ha conservato anche dopo aver lasciato il calcio, ragion per cui Roberto Baggio lo soprannominò «Geppetto», nomignolo che si è portato dietro per tutta la carriera.

Dalla D alla A in un attimo

Il suo passaggio dai dilettanti ai professionisti nel 1992 fu improvviso. Merito di Giovanni Trapattoni (che allenava i bianconeri) e Claudio Gentile che, appese le scarpe al chiodo, era tornato da collaboratore nel club con cui aveva giocato per oltre un decennio. I due lo apprezzarono in occasione di una partita amichevole contro la Caratese, in cui Torricelli faceva il terzino, e gli proposero di trasferirsi a Torino.

Da 1,2 a 80 milioni (di lire)

Ad attendere Torricelli per la firma del contratto, l’allora amministratore delegato della Juve Giampiero Boniperti. Un incontro raccontato dallo stesso ex calciatore in un’intervista: «Andai da Boniperti con i miei due procuratori. Lui uscì dall’ufficio e disse: “Buongiorno Moreno, vieni con me. Voi potete aspettare fuori, grazie”. Non gli piacevano i procuratori. Dentro, c’erano le sue scarpe, i trofei, i palloni in cuoio: che emozione. Mi diede uno stipendio di 80 milioni di lire. Per me, che come falegname ne guadagnavo un milione e 200 mila al mese, era un’enormità».

Il primo stipendio

Con il primo stipendio il terzino compra una Lancia Thema e una cassetta dei Black Sabbath, anche perché nel frattempo gli avevano rubato la sua vecchia Bmw di seconda mano acquistata qualche anno prima.

Trapattoni come un padre

«Al Trap devo tutto. Ha avuto il coraggio di lanciare un dilettante. E all’inizio la sua umanità è stata fondamentale. Aveva l’età di mio padre, era brianzolo, mi son trovato subito a mio agio. Mi parlava in dialetto, mi chiamava legnamè (falegname in dialetto). Quando finiva l’allenamento mi teneva a migliorare il sinistro perché avevo una zappa al posto del piede. Ma lo faceva anche con altri, con Conte per esempio».

Il dramma della moglie

Dopo la Juventus e la Fiorentina, Torricelli va per due anni all’Espanyol, prima di rientrare in Italia all’Arezzo, dove conclude la carriera nel 2005. Comincia ad allenare, ma nel 2010 la sua vita arriva a una drammatica svolta. La moglie Barbara si ammala di leucemia e muore dopo poco tempo a 40 anni. Lui decide di lasciare il calcio e dedicarsi in tutto e per tutto ai tre figli Arianna, Alessio e Aurora. «Ho deciso di smettere col calcio —ha raccontato — da quando una malattia ha portato via mia moglie e io sono rimasto a casa per seguire i ragazzi nella loro crescita. Abitavamo in una villetta in collina a Firenze, da quando avevo iniziato ad allenare. L’ho conosciuta che eravamo giovanissimi, frequentavamo gli stessi amici e gli stessi posti. Lei ha lottato con tutte le sue forze fino all’ultimo giorno. Da quando Barbara ci ha lasciati la mia vita non è stata più la stessa».

In Valle d’Aosta

Qualche anno più tardi Torricelli decide di trasferirsi con i figli in Valle d’Aosta, nel piccolo comune di Lillianes, terra d’origine della sua seconda moglie. Lì è tornato a occuparsi di calcio e a seguire i settori giovanili di un piccolo club locale.

I corsi di formazione

Negli ultimi anni, Torricelli ha cominciato anche a raccontare la sua esperienza in occasione di seminari e corsi di formazione organizzati dalle aziende e dalle scuole.

Gianluigi Buffon. Da ilnapolista.it il 14 Giugno 2022.

Gianluigi Buffon intervistato da France Football. Prendiamo qualche domanda dal penultimo numero del mensile. 

Dopo il colpo di testa di Zidane a Materazzi durante la finale dei Mondiali del 2006, cosa ha detto all’arbitro Horacio Elizondo?

Niente! Quando ho visto quel che era successo, l’ho segnalato con grida e grandi gesti al guardalinee, in modo molto spontaneo. In quel momento mi aspettavo tutto tranne quello che è successo, è stato davvero sorprendente.

Per noi, è stata una grande chance vista la piega che stava prendendo la partita. “Zizou” era in forma incredibile e poteva cambiare il match. È una partita che abbiamo giocato nel miglior modo possibile, la Francia era molto forte, probabilmente la più forte, bastava vedere il loro cammino. Solo una squadra con la nostra mentalità poteva vincere. 

Cosa odi di più del mondo del calcio?

I luoghi comuni. Questo vale per la vita in generale. Mi fa impazzire. Credo negli individui e nella differenza basata sui meriti. Odio anche il politicamente corretto… anche se probabilmente ne faccio uso anche io.

Lo faccio per non mancare di rispetto agli altri. Anche le cose vere possono essere spiacevoli, causare danni a qualcun altro e, dal momento che è tutto pubblico, lo crea davanti agli occhi del mondo, e non è bello. Mi succede soprattutto quando mi viene chiesto di giudicare altri giocatori, mi infastidisce. Devi sempre dire le stesse cose per non sembrare scortese.

Perché la Juventus è coinvolta in tanti scandali?

Ha sempre una spada di Damocle sopra la testa. Tra i suoi sostenitori e i suoi avversari, è al centro dell’attenzione in tutta Italia. Quello che succede alla Juve fa sempre rumore. È stata accusata di molte cose, è stata spesso punita, e più o meno per cose che anche altri club hanno commesso.

E lo dico senza mettermi a difendere la Vecchia Signora. Quando questo accade alla Juventus, tutti gli altri si proteggono dietro di lei perché sanno che è lei che scatena il clamore più forte.

Ilaria D’Amico, la tua compagna, è giornalista sportiva. Questo ha cambiato il modo di guardare alla professione?

No, l’ho conosciuta quando avevo già molta esperienza del giornalismo, avevo già un’idea. Capisco che fate un lavoro complicato, che dovete ottenere le notizie buone, ho un grande rispetto per questo.

Tuttavia, a volte vi manca completamente l’obiettività, siete troppo condizionati da fattori esterni. Alcuni anni fa ho visto, ad esempio, che un giornalista ha iniziato a cambiare opinione in base a ciò che ha letto sui social network. Si erano invertiti i ruoli, ho pensato che eravamo fregati. 

Sei arrabbiato per non aver mai vinto il Pallone d’Oro?

Non c’è sempre una logica. Nel 2003, sono stato votato come il miglior giocatore della Champions League (la Juventus era stata battuta in finale dal Milan ai rigori), una rarità per un portiere, e non sono finito nemmeno nella top 5 del Pallone d’Oro (ha vinto Nedved davanti a Thierry Henry, Paolo Maldini, Andrey Shevchenko e Zinedine Zidane. Buffon arrivò nono).

I giornalisti non se ne sono accorti? Non hanno avuto coraggio? Non mi interessa perché, alla fine, non mi interessano certi premi, però mi piace la meritocrazia, perché è sport, e spesso non la trovo. Inoltre, per me, la più grande ingiustizia intorno al Pallone d’Oro è stata quella subita da Iniesta, che era forte come Maradona, Messi o Ronaldo.

Antonio Barillà per “la Stampa” il 14 aprile 2022.

Un romanzo lungo 1.131 partite, 501 completate senza prendere gol: la prima a 17 anni contro il Milan, l'ultima d'una serie apertissima a 44 contro la Reggina, sempre con la maglia del Parma. In mezzo 10 scudetti con la Juventus, la Ligue1 vinta con il Psg, la Coppa del mondo sollevata a Berlino, una collezione unica di record e trofei, la Serie B accettata e vinta in bianconero che considera tra le medaglie più belle. 

Gigi Buffon, dalla porta, ha visto il calcio e il mondo cambiare: il contropiede si chiama ripartenza, la playstation ha pensionato il biliardo nei ritiri, il pallone è diventato tecnologico e lui è sempre lì ad agguantarlo, deviarlo, respingerlo. 

Buffon, come fa a fermare il tempo?

«Il segreto è sentire dentro l'orgoglio, il desiderio di poter essere speciale. Non ho mai voluto sentirmi ordinario, mi annoia la monotonia e sono nemico dei luoghi comuni: credo che siano gli altri a metterti dei limiti e tu finisci per seguirli. Io vado oltre con entusiasmo, confortato ovviamente dai riscontri del campo». 

Ha appena rinnovato il contratto: giocherà almeno fino a 46 anni.

«Il Parma mi ha dimostrato fiducia: alla mia età, di solito, ogni giorno è un esame». 

Per sperare nel sesto Mondiale, primato assoluto, le toccherà spegnere 48 candeline.

«Se l'Italia si fosse qualificata, non credo sarei stato convocato. La meritocrazia è dalla mia parte, ma ci sono altri discorsi cui dare precedenza e rispetto: considerate le scelte degli ultimi anni, è giusto così». 

È il secondo Mondiale di fila senza Italia.

«Già nel 2010 in Sudafrica, dopo l'eliminazione con la Slovacchia, osservai che la globalizzazione stava cambiando valori e gerarchie e che avremmo dovuto cominciare a festeggiare anche le qualificazioni. Da allora abbiamo avuto illusioni, momenti di gloria come l'Europeo, ma non avevo sbagliato: caratterialmente siamo unici, perciò nelle difficoltà sappiamo far blocco e andare fuori giri, quando però c'è calma ci mancano qualità e spavalderia. Ipermotivati diamo il massimo, altrimenti possiamo perdere con chiunque». 

Giusto andare avanti con Mancini?

«È stato l'artefice principale del rinascimento vissuto con l'Europeo, ma dopo una batosta così qualche responsabilità ce l'ha anche lui. C'è modo e modo di uscire, se perdi ai rigori con il Portogallo nessuno può rimproverarti, dopo la caduta con la Macedonia del Nord ripartire è più duro: alle prime difficoltà, potrebbero tornare i fantasmi, riaffiorare i capi di imputazione. Diciamo che l'equilibrio è sottile».

Cannavaro è rimasto colpito dalla rassegnazione.

«Condivido e da un certo punto di vista mi fa piacere: anni addietro avremmo assistito a gogne mediatiche, perciò rilevo nelle critiche soft una crescita del senso civico. Mi auguro, ovviamente, al di là delle reazioni, che chi occupa ruoli apicali nel calcio trovi la rabbia e le soluzioni per ripartire». 

Anche Donnarumma, suo erede, è finito nel mirino...

«Il tempo e le prestazioni leniranno tutto. Certo, dopo momenti così non è più concessa nessuna sbavatura, ma ci siamo passati tutti: con la sua bravura non avrà altri impicci». 

Un nome per la ripartenza?

«Tonali. Mi ha colpito la sua crescita». 

Per lo scudetto è corsa a tre o a quattro?

«Assistiamo a campionato sui generis, di solito una squadra domina e altre la infastidiscono: quella che sembrava dominare era l'Inter, ma poi ha avuto diversi passaggi a vuoto, s' è rilanciata vincendo a Torino e adesso la rivedo favorita». 

La Juve ha perso una chance.

«Se avesse vinto, lotterebbe a sua volta, ma questo è il campionato dei rimpianti. Anche l'Atalanta, con il ritmo degli anni scorsi, avrebbe potuto ambire al titolo». 

Esteti o risultatisti: con chi si schiera?

«Ero un risultatista convinto, oggi non ho una risposta: dipende dal materiale umano, dalle responsabilità e dagli obiettivi, da quello che chiede la società all'allenatore». 

Allegri è l'uomo giusto per ricostruire la Juventus?

«Il campo dice che il gruppo sta migliorando».

Quali attaccanti la impressionano oggi?

«Vlahovic è dominante per fisico, qualità, forza, rabbia. Mi piacciono Zapata e Lautaro. E Ibrahimovic che a 40 anni può vincere ancora da solo». 

Dybala lascerà la Juve

«Non me l'aspettavo, ma la società è stata onesta, diretta, spiegando che non è più funzionale al progetto. Non gli hanno rinnovato il contratto per questo, non certo perché lo ritengono scarso: Paulo troverà altrove l'opportunità di fare grandi cose, ma non vorrà dire che la Juve ha sbagliato». 

Cosa le lascia questo ritorno in B con il Parma?

«Un po' di incazzature perché le cose non sono andate come pensavamo: diciamo che è stato un anno utile per prendere la mira. E poi conferme che cercavo, perché ho fatto cose pregevoli. Divertimento. Emozioni forti. Avversari e stadi inediti come Terni, Cittadella, Cosenza. Alla fine, tra A e B non c'è così tanta differenza».

Quale partita, nella sua carriera infinita , rigiocherebbe per cambiare il risultato?

«Parma-Brescia 1-3, finale del Torneo di Viareggio '96. Dopo10' ci trovammo in 9 e ancora oggi, scherzando, rinfaccio quei due rossi a Trentalange». 

Quale vorrebbe rivivere?

«Real Madrid-Juventus 1-3, quella del rigore di Ronaldo in extremis. Siamo usciti dalla Champions, ma ho provato emozioni incredibili, mi sono sentito orgoglioso di essere capitano di quella Juve». 

Martin Turk, il suo vice, è nato nel 2003: come si sta in uno spogliatoio di ragazzini?

«Lui veniva al mondo e io perdevo la finale di Champions con il Milan. È importante capire dove sei, con chi devi relazionarti. Non farei presa ammorbando con discorsi da vecchio saggio: punto sull'esempio e, per creare empatia, sulla condivisione anche di banalità, tipo il gioco della morra. Non mi viene difficile, è la mia natura, e mi aiuta a trovare una chiave di comunicazione». 

Lei ha detto: "Con la testa sono già oltre il calcio".

«Ho tanti interessi e mi sento appagato quando imparo cose nuove. Negli ultimi mesi ho ripreso a studiare inglese. Ne parlavo con Ilaria: la conoscenza mi dà energia e benessere». 

Ha definito Ilaria "Moglie, compagna e amica".

«Troviamo sempre il modo di essere felici. Sappiamo sorridere e scherzare. Oltre all'attrazione, c'è condivisione». 

Louis Thomas, David Lee e Leopoldo Mattia, i suoi figli, indossano già i guantoni?

«Sono tutti portati per lo sport. Louis Thomas ha 15 anni e da un paio fa il portiere: è un ragazzo d'oro, gli manca quel pizzico di sana strafottenza che nel ruolo aiuta».

Nei giorni scorsi ha incontrato Vlad, 12 anni, portierino ucraino fuggito dalla guerra che sognava di conoscerla.

«È stato un momento intenso, di quelli in cui capisco d'essere fortunato, e mi chiedo se lo merito, perché con niente ho il potere di far felice un bimbo».

Gigi Buffon, Parma e il rinnovo fino a 46 anni: il Mondiale, la D’Amico, la depressione, il gioco. La storia del portiere a caccia di record. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

Il campione del mondo rinnova con il Parma per due stagioni: tornando in A batterebbe anche «nonno» Ballotta. Il percorso di una carriera che attraversa 4 decenni

In campo oltre i 46 anni

Eterno Gianluigi Buffon. Ha rinnovato il contratto con il Parma fino al 30 giugno 2024, quando avrà 46 anni. Nella giornata di lunedì 28 febbraio il presidente Kyle Krause ha, infatti, annunciato il prolungamento del rapporto con il portiere, che continuerà a far parte della rosa (almeno) per altre due stagioni. Il campione del mondo potrebbe così entrare nell’Olimpo dei calciatori over 46, che dopo decenni di carriera riescono ancora a dire la loro. In questa stagione in B, la seconda della sua carriera dopo quella con la Juventus nel 2006-07, Buffon ha disputato 23 gare. Per un totale, con la maglia degli emiliani, di 243 presenze.

Le vittorie e la carriera

Buffon entra nelle giovanili del Parma 1991 e debutta in A il 19 novembre 1995, al Tardini, nello 0-0 contro il Milan. Nel 2001 si trasferisce alla Juventus per 105 miliardi di lire, poco più di 54 milioni di euro (75 miliardi di lire, circa 38 milioni di euro, più Bachini). Resta in bianconero anche in B, nel 2006-07. Ma lascerà nel 2018, a 40 anni, per andare al Psg. Torna a Torino e ci resta due anni, come secondo portiere. Dall’estate 2021 è al Parma. Buffon in carriera ha vinto 10 scudetti, cinque Coppa Italia, sei Supercoppe Italiane, un campionato francese, una Supercoppa Francese, una Coppa Uefa e un Mondiale con la Nazionale nel 2006. Nel 2006 arriva secondo alle spalle di Fabio Cannavaro nella classifica del Pallone d’Oro.

Famiglia di sportivi

Buffon nasce a Carrara, in Toscana, anche se di origine friulana, di Latisana, in una famiglia di sportivi: la madre Maria Stella Masocco è stata tre volte campionessa italiana di getto del peso e lancio del disco; lo zio Dante Masocco ha giocato a livello nazionale e nella serie A1 di basket; il padre Adriano ha militato nella nazionale di getto del peso e le sorelle Guendalina e Veronica sono state pallavoliste affermate. Inoltre, è parente di Lorenzo Buffon, portiere di Milan, Genoa, Inter, Fiorentina e della Nazionale. Lorenzo è cugino di secondo grado del nonno di Gianluigi.

Le caratteristiche

Insieme a Dino Zoff, Buffon è considerato il portiere italiano più forte di tutti i tempi. È dotato di grande carisma e temperamento. Abbina a un ottimo senso della posizione eccellenti doti tecniche, fisiche e atletiche. Completo nelle uscite alte e molto abile anche nelle uscite basse. Inoltre, Gigi ha palesato negli anni una progressiva maturazione sul piano caratteriale e tecnico. Possiede ottimi riflessi e notevole agilità. Si distingue anche per la costanza di rendimento, la concentrazione, il buon rinvio col piede destro e l’ottimo controllo di palla.

Il modello? Il leone indomabile, N’kono

Gigi Buffon nasce calcisticamente come centrocampista. Ma all’età di 12 anni, quando guarda i Mondiali di Italia 90 resta folgorato dal portiere di quel Camerun che incanta tutti, spingendosi fino ai quarti (prima Nazionale africana ad arrivare tra le prime otto). Si tratta di Thomas N’Kono, ancora oggi considerato il portiere africano più forte di tutti i tempi. Nel corso degli anni, i due sono anche diventati buoni amici. Tanto che il primogenito di Buffon si chiama Luis Thomas.

La diatriba dei numeri: l’88

Dopo aver saltato gli Europei in Olanda e Belgio nel 2000, per una frattura alla mano sinistra rimediata in un’amichevole tra la Nazionale e la Norvegia, Buffon nella stagione 2000-2001 chiese al Parma di poter indossare la maglia 00 che simboleggiasse «le palle», il coraggio per rimettersi in gioco. La Federcalcio rifiutò questa richiesta e Gigi virò sul numero 88 (a indicare quattro palle). Ma questa scelta fu oggetto di critiche perché è un numero che viene usato in ambienti neonazisti come acronimo di «Heil Hitler», in quanto la H è l’ottava lettera dell’alfabeto. Da qui l’ultima decisione, senza critiche: la maglia 77.

Tifoso del Genoa

Nato a Carrara in Toscana, Buffon fin da bambino fa il tifo per il Genoa. Gigi era talmente innamorato dei colori rossoblù che da piccolo andava spesso a Marassi accompagnato dallo zio genovese. Il suo sogno era finire la carriera con i Grifoni. Chissà…

Il diploma da ragioniere (comprato)

Una grande, grandissima, pecca di Buffon è quello di aver comprato nel 1996 un diploma falso di ragioneria per potersi iscrivere alla Facoltà di Giurisprudenza a Parma. All’epoca l’estremo difensore di Carrara patteggiò davanti al Gip una pena di sei milioni di vecchie lire (3.098 euro).

Il film con Lino Banfi

Buffon ha vestito i panni del Pubblico Ministero nel 2008 nel film «L’Allenatore nel Pallone 2». Un sequel del ben più noto «L’Allenatore nel Pallone» del 1984. Quella di Buffon è una scena con Lino Banfi, Francesco Totti e Alessandro Del Piero. Oltre che aver fatto, negli anni, il testimonial per diverse aziende, apparendo in molte pubblicità.

L’amore per Superman

È nota la grande passione di Buffon per Superman. Ai tempi della prima esperienza con il Parma (dal 1995 al 2001, poi si trasferì alla Juventus) indossava sempre la maglia del supereroe della DC Comics sotto la divisa dei ducali.

Il servizio civile

Nel 2001 Gigi ha svolto il servizio civile nella comunità di recupero tossicodipendenti Betania di Parma. Lo faceva ogni mattina prima di andare ad allenarsi. Insieme a lui anche l’ex attaccante Marco Di Vaio.

L’amicizia con Andrea Pirlo

Tra i tanti amici che ha nel mondo del calcio, Buffon è molto legato ad Andrea Pirlo. Con lui in Nazionale ha vinto il Mondiale di Germania 2006, ai rigori contro la Francia il 9 luglio a Berlino, e sono stati tanti i trofei conquistati con la maglia della Juventus. Pirlo lo ha anche allenato nel 2020-2021, vincendo Coppa Italia e Supercoppa Italiana.

La passione per il tennis e per Federer

Buffon è anche un grande appassionato di tennis ed è amico del campione Roger Federer. Lo stesso portiere ha ammesso di sentire spesso lo svizzero e di scambiarsi consigli. «Il tennis mi affascina: non solo come sport ma anche come spunto per la mia attività agonistica. Sono un tifoso di Federer: ci sentiamo spesso e mi entusiasma la sua forza mentale», confidò qualche anno fa in un’intervista a «Tuttosport».

I record: imbattibilità, presenze, età

Nella sua carriera detiene tantissimi record. In primis, è suo il record di imbattibilità nella Serie A (a girone unico), avendo mantenuto la sua porta inviolata per 974’ nella stagione 2015-2016 (battendo quello di Sebastiano Rossi, Milan, nel 1994 di 929’) con la Juventus. È il giocatore con più apparizioni nella storia della serie A (657), nonché quello che ha giocato più partite nel massimo campionato italiano con la maglia della Juventus (489). Insieme a Paolo Maldini è, inoltre, uno dei due calciatori italiani ad aver superato le 1000 presenze in carriera. Figura poi al secondo posto tra i giocatori più anziani ad aver disputato un incontro nella massima serie italiana, dietro solo a Marco Ballotta (44 anni, un mese e otto giorni), e al secondo posto anche per quanto riguarda la Champions, dietro lo stesso Ballotta (43 anni e 252 giorni). Con 176 presenze è il giocatore che ha giocato più gare in Nazionale. E tanti altri ne ha raggiunti con la maglia della Juventus. Infine, ha disputato cinque Mondiali (e sogna Qatar 2022): Francia 98, Giappone-Sud Corea 2002, Germania 2006, Sudafrica 2010 e Brasile 2014. Come lui solo Antonio Carbajal, Rafael Márquez e Lothar Matthäus.

Alena, Ilaria e i tre figli

Il 16 giugno 2011 Buffon si sposa con la showgirl ceca, Alena Seredova. Da lei ha avuto due figli: Louis Thomas, nato il 28 dicembre 2007, e David Lee. La coppia si è separata nel 2014. In seguito si è legato sentimentalmente alla giornalista, Ilaria D’Amico, con la quale, il 6 gennaio 2016, ha avuto il suo terzo figlio, Leopoldo Mattia.

La depressione

Buffon ha svelato di aver sofferto una forte depressione nel 2004-2005: «Avevo 24, 25 anni. Facevo un campionato normale: non bene, ma neanche male. Non avevamo più obiettivi con la squadra. Lo descrivo in maniera semplice. Inizialmente la scambi come stanchezza. Del resto, o hai una malattia, o hai preso un virus, o ti è successo qualcos’altro. Ho fatto le analisi: non avevo malattie. Ho iniziato a dire: “Qua è qualcos’altro…”. Finché un giorno mi alzai dal letto e mi sentii le gambe senza energie, cioè tremavano. Non mi era mai capitato. Mentre andavo al campo, avevo problemi anche a guidare. Le gambe si muovevano da sole. Arrivato al campo, andai dal dottore e chiesi aiuto. Dopo una piccola discussione, mi disse: “Questi sono segnali di un’iniziale depressione. Stai attento a quello che stai facendo”. Non ebbi miglioramenti. Ero stanco prima di fare allenamento. Quando mi tuffavo mi sentivo senza energie. Il dottore mi disse che c’erano pasticche, io risposi che no, assolutamente, questa cosa qua era una roba che dovevo risolvere io, senza l’aiuto di farmaci. Se tu trovi sempre la situazione che risolve i tuoi problemi, non sarai mai in grado di risolverli veramente, di giudicarti e di pesarti per quello che vali. Cercherai sempre aiuti esterni, alibi, scuse. Devi vivere a seconda dei tuoi limiti e delle tue virtù. Devi cambiare le carte in tavola, devi trovare alternative e stimoli nuovi, differenti».

Le scommesse

Nel maggio 2006, a ridosso dello scoppio di Calciopoli, Buffon risultò tra gli indagati in un giro di scommesse clandestine, circostanza che avrebbe potuto comportare una squalifica. Dichiaratosi estraneo ai fatti, nel dicembre dello stesso anno, dopo ulteriori indagini fu prosciolto dalle accuse.

Da blitzquotidiano.it il 25 febbraio 2022.

Dopo le voci su Ilary Blasi e Totti e la separazione (questa sicura e confermata) tra Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi arriva un nuovo retroscena che coinvolgerebbe Gigi Buffon e Ilaria D’Amico. 

A riportare quella che al momento resta solo un’indiscrezione è il magazine Nuovo nel numero in edicola questa settimana. Buffon e la D’Amico stanno insieme dal 2013 ed hanno anche un figlio. Si tratta di Leopoldo Mattia che ha 6 anni. La coppia, secondo quanto scrive la rivista diretta da Riccardo Signoretti, starebbe vivendo un momento di “crisi profonda”. Voce non confermata affatto dal calciatore e dalla giornalista da sempre molto riservati sulla loro vita privata.

Ma da che cosa nasce questa presunta crisi? La colpa sarebbero i moltissimi impegni professionali di lui, attualmente portiere e capitano del Parma. Altro problema sarebbero le nozze che tardano ad arrivare:  “Dicono che Ilaria D’Amico sia stanca di attendere un matrimonio che non arriva mai”, ha confidato una collega al settimanale.

A scatenare la crisi, ribadiamo al momento solo presunta, non c’è l’ex moglie Alena Seredova. Lei e l’ex portiere della Nazionale sono stati sposati quattro anni ed hanno due figli insieme (David Lee e Louis Thomas). La soubrette è al momento su altri lidi, dato che sta vivendo una storia d’amore con il manager Alessandro Nasi, storia che procede a gonfie vele. Anche lei, due anni fa hanno avuto la loro prima figlia, Vivienne Charlotte. 

Beppe Furino ricoverato per un’emorragia cerebrale. Timothy Ormezzano su Il Corriere della Sera il 22 febbraio 2022.

L’ex bandiera della Juventus è in gravi condizioni (ma cosciente) al Santa Croce di Moncalieri. Nedved: «Gli facciamo il nostro in bocca al lupo». 

Giuseppe Furino è ricoverato in ospedale, in gravi condizioni. La bandiera della Juventus tra gli anni Settanta e Ottanta, capace di vincere 8 scudetti con la maglia bianconera, è stato colpito da un’emorragia cerebrale e ora si trova presso la Stroke Unit dell’ospedale Santa Croce di Moncalieri. Le sue condizioni, secondo quanto si apprende da fonti sanitarie, sono stabili pur nella loro gravità. È cosciente, comunque, ed al momento sarebbe esclusa la possibilità di un intervento chirurgico.

Il dolore per la moglie morta di Covid

Furino, 75 anni, nel marzo 2021 aveva raccontato proprio al Corriere della Sera il suo «dolore indescrivibile» per la scomparsa della moglie Irene, deceduta dopo aver contratto il Covid: «Purtroppo credo di avere fatto da untore, portando a casa il virus. Ci ha preso tutti, in famiglia. Ma mentre noi guarivamo lei cominciava ad avere seri problemi di saturazione. Da quando è stata ricoverata non l’ho più vista. Non dimenticherò mai questo dolore tremendo». La Juventus è andata in campo con un pensiero anche per il suo vecchio capitano e Pavel Nedved poco prima del match lo ha voluto salutare: «Abbiamo saputo e ci dispiace, gli facciamo un in bocca al lupo perché è un idolo e spero che i ragazzi facciano una bella prestazione e vincano per lui, gli farebbe piacere...».

Manlio Gasparotto per il “Corriere della Sera” il 23 febbraio 2022.

Quasi un anno fa piangeva Irene, la moglie, la compagna di sempre, uccisa dal Covid. Ora Giuseppe Furino - capitano di mille battaglie bianconere, uomo dei record prima di Del Piero e Buffon: 534 partite e 8 scudetti - lotta in un letto dell'ospedale Santa Croce di Moncalieri, colpito da un'emorragia cerebrale. Furino sta male da domenica, ma forse ha superato il momento più critico, evitando anche un'operazione. È cosciente, elemento importante. 

E dopo 48 ore la sua situazione è «stabile, stazionaria nella sua criticità» fanno sapere i medici, fiduciosi sulle possibilità che il versamento possa riassorbirsi e che quindi si possa avere una prognosi più chiara. Ma sono state ore di grande paura per Federica, la figlia, giornalista e madre di Ludovico e Manfredi, i nipotini cui Beppefurino (tuttattaccato , come in una filastrocca, come si recitava negli Anni Settanta) dedicava tutto il tempo che poteva, soprattutto dopo la tragedia di marzo.

«Hanno 8 e 6 anni, ma al momento tutti e due se ne fregano del calcio» raccontava. Il mondo bianconero, così, nella serata del ritorno in Champions League, ha vissuto un martedì complicato, con il pensiero (e migliaia di messaggi sui social) a questo signore di 75 anni, tanto umile quanto deciso, in campo come fuori. Ha sempre sottolineato di «non essere una bandiera», ma Furino è tra quelli che hanno fatto più grande la storia del club, capitano per 8 stagioni (dal 1976 al 1984) in un periodo compreso tra il 1969 e il 1984 nel quale mise insieme 528 partite unendo con un solido cordone bianconero il periodo che porta da Haller a Platini.

Periodo nel quale lui imparò a trasformarsi, passando alla storia come un mastino del centrocampo, lui che aveva invece piedi buoni, tempi e visione di gioco. «Mi rivedo in Vidal» confidò un giorno, sottolineando subito «ma lui è più forte». Campione straordinario in campo, fuori ha resistito a lungo a Boniperti, cedendo solo nel 1991 quando accettò di occuparsi del vivaio. 

La «sua» Primavera, affidata a Cuccureddu, vinse scudetto (dopo vent' anni) e Viareggio regalando a Del Piero i suoi primi successi bianconeri. Poi preferì Moncalieri, l'attività di assicuratore, la vita con Irene che nel 2015 lo convinse a candidarsi a sindaco. Fu una delle rare sconfitte di un uomo che proprio non sa smettere di dare battaglia.

Furino, ex Juve: «Ho attaccato il Covid a mia moglie che è morta. Un dolore che non dimenticherò mai». L’ex bandiera bianconera ha perso la moglie, Irene, per la pandemia: «Credo di essere stato l’untore che ha portato la malattia in casa: noi guarivamo lei peggiorava. Non la dimenticherò mai». Timothy Ormezzano su Il Corriere della Sera il 29 marzo 2021.

La bandiera bianconera presenta il match con il Palermo. E racconta le sue scelte di vita - di Matteo Cruccu /Corriere Tv

Per «Doppio Ex», il format settimanale di Corriere.it, Beppe Furino presenta Palermo-Juventus, visto che la bandiera bianconera trascorse un anno in rosanero a inizio carriera. Ma è l’occasione anche per raccontare scelte di vita: dopo aver smesso di giocare Furino decise di fare l’assicuratore, attività impensabile oggi per un giocatore.

Beppe Furino. Beppe Furino, chi è: 8 scudetti con la Juventus, la moglie morta di Covid, la politica come impegno, il rimpianto della panchina. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 22 febbraio 2022.

Il mediano della Juventus, 76 anni da compiere, è ricoverato per un’emorragia cerebrale nella sua Moncalieri. Due anni fa il lutto per la moglie, uccisa dal Covid.

Otto scudetti in bianconero

Giuseppe Furino, tra gli anni 70 e 80 bandiera della Juventus (534 presenze, 19 gol, tra il 1969 e il 1984), dal 22 febbraio 2022 è ricoverato nella Stroke Unit dell’ospedale Santa Croce di Moncalieri. L’ex calciatore, 76 anni il prossimo 5 luglio, ha avuto una emorragia cerebrale. Le sue condizioni, secondo quanto si apprende da fonti sanitarie, sono stabili pur nella loro gravità. Escluso al momento l’intervento chirurgico. Con la maglia bianconera, Furino ha vinto otto scudetti - battuto solo da Gigi Buffon - . Non solo, l’ex centrocampista juventino (che in carriera ha indossato anche le maglie di Savona e Palermo, sua città natale), ha conquistato anche due Coppe Italia, una Coppa Uefa e due Coppe delle coppe. Con la Nazionale è stato vice campione del Mondo a Messico 70.

Il ruolo: mediano prezioso

Furino è stato un mediano. Un recupera palloni, tanta corsa: un centrocampista prezioso nel gioco della Juventus, che in quegli anni ha saputo vincere tanto sia in Italia sia in Europa. E lui, oltre a esserne diventato capitano, è stato il simbolo di un gruppo vincente.

Il dramma della moglie morta: «Ho portato io il Covid in casa»

Nel marzo 2021 l’ex capitano della Juventus ha vissuto il dramma della morte della moglie Irene dopo aver contratto il Covid. «Mi sento in colpa, l’ho portato io in casa e ho contagiato tutti - aveva raccontato al Corriere della Sera - , questo è il mio senso di colpa infinito. Sono confuso, è successo così in fretta, la situazione è precipitata e ci ha contagiato tutti», aveva detto raccontando il suo «dolore indescrivibile».

La politica

Furino nel 2015 si è candidato a sindaco della città di Moncalieri, dove si è stabilito dopo il ritiro del 1984, nelle file della coalizione di centrodestra, non venendo eletto ma diventando consigliere. Otto mesi dopo, le dimissioni: «Ho trovato una realtà molto diversa da quella che mi aspettavo. Io pensavo che chi si impegna per l’amministrazione di un Comune deve mirare allo stesso obiettivo: il buon governo della città». Nel 2017 ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Agropoli.

La famiglia

Furino è nato a Palermo il 5 luglio del 1946. Il padre era un maresciallo della Guardia di Finanza e, seguendo il padre, è cresciuto cambiando spesso città: dopo aver lasciato la Sicilia si è trasferito ad Avellino, poi a Napoli, ad Agropoli e infine all’età di 15 anni arrivò a Torino dove iniziò a giocare nel settore giovanile della Juventus.

L’idolo: Sivori

Da ragazzino Omar Sivori è stato l’idolo di Furino, dal 1957 al 1965 centravanti della Juventus, per poi giocare tre anni al Napoli e chiudere la carriera nel 1968. In bianconero Sivori ha vinto tre scudetti e tre Coppe Italia.

Il soprannome: Furia furin furetto, capitano con l’elmetto

Furino è stato un mediano aggressivo, infaticabile e duro nei contrasti, nonostante il fisico non imponente, nonché generoso nell’aiutare i compagni. Per queste caratteristiche si è guadagnato da parte dei tifosi il soprannome di «Furia», ripreso anche dal giornalista Vladimiro Caminiti che lo fece diventare «Furia-furin-furetto», affiancandolo a quello di «Capitano con l’elmetto».

Assicuratore

Furino a Moncalieri ha aperto un’agenzia di assicurazioni, con annessa subagenzia, attività avviata sin da quando era in campo, e Furino allora come ora voleva dire fiducia: chi gli affidava i soldi, come i palloni, era sicuro che lui non li buttava via.

Il rimpianto: non aver fatto l’allenatore

Dopo il ritiro, nel 1984, è entrato nel settore giovanile della Juventus e c’è rimasto fino al 2004. «E qui c’è il mio maggiore rimpianto. Perché la Juve voleva che diventassi allenatore, che prendessi il patentino: ma per una cosa e per l’altra, per non poter lasciare l’attività che era avviata, ho sempre rinunciato. E ora me ne pento: con il senno di poi, ci avrei provato», ha sempre detto.

Roberto Baggio. Roberto Baggio: «L’Italia doveva andare di diritto ai Mondiali, è una vergogna». Andrea Sereni su Il Corriere della Sera Giorno il 2 Giugno 2022.

Il Divin Codino: «Andrebbero cambiate le regole, a me sembra una follia». Su Mancini: «Agli Europei ha fatto qualcosa di straordinario, deve continuare a lavorare con i giovani»

«La vergogna più grande è che l’Italia non sia andata di diritto ai Mondiali per aver vinto l’Europeo. È come se l’Argentina da campione del Sudamerica non andasse ai Mondiali, è scandaloso». A Roberto Baggio non va giù l’assenza della Nazionale di Mancini da Qatar 2022. Per lui, che un Mondiale l’ha perso ai rigori, i campioni d’Europa avrebbero dovuto esserci: «Andrebbero cambiate le regole, a me sembra una follia, avranno diritto questi ragazzi a un premio per quello che hanno fatto oppure no? Se io fossi stato in quella squadra avrei fatto fatica ad accettarlo». «Una partita si può perdere con chiunque: prendi un gol, rimani a casa e non vai ai Mondiali dopo quello che hai fatto agli Europei? Lo trovo assurdo. Non è giusto», ha proseguito Baggio, parlando a margine del taglio del nastro del nuovo volo ITA Airways Roma Fiumicino-Buenos Aires.

Roby andrà in Argentina con il nuovo Airbus A350 a lui dedicato, per la serie degli aerei con la livrea azzurra che omaggia i campionissimi dello sport italiano. «Sono emozionato ed orgoglioso nel volare sull’aereo Ita dedicato a me. Ora torno in Argentina dopo tre anni che ci manco: un legame forte per un luogo che mi ha affascinato trenta anni fa per i suoi colori, la sua gente, la storia».

Italia-Argentina, la Finalissima che gli azzurri hanno perso con un netto 3-0: «Non si può paragonare la serenità dei giocatori argentini con il nostro stato d’animo attuale — ha spiegato Baggio —. Mancini l’ho visto la settimana scorsa e gli ho detto “stai lì a lavorare”. Agli Europei ha fatto qualcosa di straordinario, quello che ha fatto rimane e va rispettato. Abbiamo dei talenti che non trovano spazio in campionato. È un problema noto».

Talenti come Nicolò Zaniolo, protagonista con la Roma in Conference League, «un giovane che mi ha colpito», spiega Baggio. «Purtroppo gli infortuni l’hanno penalizzato molto. Spero possa tornare ai livelli di una volta senza avere altri problemi — continua il Divin Codino —. Il gol segnato nella finale di Conference gli può fare bene, gli dà fiducia e gli farà vedere il futuro con maggiore serenità».

Il campionato «è stato bello. Ci ha fatto star lì con il fiato sospeso tra Milan e Inter, entrambe meritavano di vincerlo — prosegue il Divin Codino —. Non mi sarebbe dispiaciuto neanche il Napoli, che ha perso Osimhen per diversi mesi. Senza questo problema non so come sarebbe finita. La Juventus? Vincere per nove anni di fila non capita per caso. È giusto che respiri un po’».

Roberto Baggio: «Voglio così bene a Zucchero che lo chiamo alle 4 del mattino». Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 4 Giugno 2022.

L’ex fuoriclasse: a 15 anni e io e la mia futura moglie decidemmo i nomi dei figli

«Finalmente dopo tre anni posso tornare in Argentina», sospira Roberto Baggio, 55 anni, seduto in una delle poltrone del «Roberto Baggio», l’Airbus A350 nuovo di zecca che Ita Airways ha dedicato all’ex calciatore e che la sera del 2 giugno è decollato per Buenos Aires. Il velivolo sta sorvolando l’Africa e punta dritto verso l’Atlantico. E Baggio, lo sportivo, non smette di firmare autografi dei passeggeri. Il codino c’è ancora. La sua voglia di parlare con tutti anche.

Che effetto le fa viaggiare su un aereo che porta il suo nome?

«Una sensazione strana. Devo ancora metabolizzare, magari le rispondo tra un mese».

Come mai è così legato all’Argentina?

«La prima volta sono andato nel 1991 e da allora l’ho fatto ogni anno fino a quando la pandemia non mi ha bloccato. Ci andavo con mio papà. Poi una volta l’allora presidente della Diadora mi ha portato nella provincia di Santa Fe e mi sono innamorato di quegli spazi immensi, dei tramonti con colori indescrivibili. Lì ritrovavo me stesso dopo undici mesi di fatica nei campi».

In Argentina si è ritirato per qualche tempo dopo aver smesso nel 2004.

«Ero nel Brescia e ho giocato la mia ultima partita il 16 maggio contro il Milan. Quella sera ho fatto la cosa più bella che potevo fare quel momento: prendere un volo per Buenos Aires. Ero deluso perché non avevo segnato, ci tenevo. Sono andato via per starmene in pace».

Perché non vedeva l’ora di smettere?

«La mia è stata una carriera di sofferenza. Mi ricordo gli ultimi tempi: mi dava fastidio non poter fare le cose assieme ai miei compagni per i miei acciacchi. Sembrava fossi un privilegiato e invece ero uno sfigato che non vedeva l’ora della domenica per giocare perché poi sarebbe venuto l’incubo, il lunedì o il martedì, con le ginocchia che si gonfiavano».

Soffre ancora?

«Sì, faccio fatica a fare anche un po’ di corsa: inizia a far male il tendine, la caviglia, il polpaccio».

Come erano le ultime sfide?

«Uno strazio. Tornavo a casa e avevo problemi alle gambe. Mia moglie, che sapeva tutto, scendeva giù a darmi una mano e io mi attaccavo alla portiera».

Diciotto anni dopo l’ultima partita però Roberto Baggio resta un calciatore famoso.

«E la cosa mi rende molto felice. Ma diciamo che non ero molto amato dai suoi colleghi perché non rilasciavo interviste, non andavo in tv: preferivo far parlare il campo. Molti la vedevano come atto di mancanza di rispetto quindi appena potevano mi davano addosso. E io subivo».

La faceva soffrire?

«Sì, non lo trovavo giusto».

Quante cicatrici ha?

«Tantissime. Mia madre mi dice “ma che hai litigato di nuovo con un puma?”. Ne ho per le operazioni e per le scarpate ricevute in partita».

I tifosi non hanno mai smesso di scriverle. Cosa l’ha colpita di più?

«Quando sono stato in Cina avevo un gruppo di tifosi locali che mi seguiva in ogni mio spostamento. Durante la pandemia, quando l’Italia ne aveva più bisogno, hanno contattato mia figlia sui social per mandarmi 60 mila mascherine: una volta arrivate le ho date all’ospedale di Vicenza e in giro. È una cosa che mi ha toccato profondamente perché si erano preoccupati di me».

Parliamo dei figli.

«Valentina e Mattia lavorano nella stessa azienda. Leonardo, il più piccolo, studia».

Mattia non fa più il cuoco?

«Lo fa a casa, ci usa anche come cavie dei suoi piatti».

Lei e sua moglie non siete mai intervenuti nei progetti di carriera dei figli?

«Mai. Abbiamo sempre detto loro di fare quello che possono fare con passione e amore. Leonardo adesso gioca a calcio e ogni volta che lo vado a prendere in macchina gli chiedo se si è divertito. L’unica cosa che mi interessa è che possano stare bene».

Quando vi siete conosciuti lei e sua moglie Andreina?

«A 15 anni e mezzo. Ma già due settimane dopo avevamo deciso che avremmo avuto una femmina e un maschio, come primi due figli, e che li avremmo chiamati Valentina e Mattia».

Qual è la ricetta di questo matrimonio?

«La purezza che ha mia moglie e il suo forte senso della famiglia».

Perché lei c’è stata quando lei era via a giocare.

«Esatto. Ho cercato di tenerla al riparo dai miei problemi lavorativi perché lasciarla tranquilla e far crescere i nostri figli, al resto ci pensavo io».

Moglie, amica, confidente.

«Guardi, le faccio leggere una cosa che ho mandato proprio ieri alla chat di famiglia…»

(Qui Baggio recupera il messaggio: è la foto di un biglietto di auguri ad Andreina firmata dai tre figli e da lui che inizia così: «Moglie, mamma, amica e compagna di fede…»)

Prima un passeggero, chiedendole l’autografo, ha detto che la storia del rapporto problematico con papà Florindo gli ricordava il suo…

«Nonostante tutto penso che si debba andare incontro ai nostri genitori perché il giorno in cui non ci saranno più ci resterà la sofferenza di non aver detto loro quello che provavamo davvero. Io sono riuscito a rompere questo muro e ad andare incontro a mio padre».

Suo papà parlava poco…

«Era abituato a dimostrare le cose con il lavoro. Lo sentivo sotto alla mia camera tutta la notte nella sua officina a maneggiare il ferro. Lo criticavo perché non era sensibile, ma ha tirato su otto figli, aveva debiti e mutui da pagare, faceva fatica a darci da mangiare a tutti».

E sua mamma Matilde ?

«La colonna portante della famiglia. Sono le donne che tengono in piedi tutto».

A proposito di difficoltà, nella prima cena a casa della sua futura moglie le hanno messo sul tavolo una bistecca intera e lei che ha fatto?

«Mi è venuto d’istinto dividerla per otto, come facevamo in casa. Non avevo capito che era tutta per me».

Pen sa ancora a quel rigore sbagliato in Usa 94?

«Sì, non andrà mai via. Riesco a gestirla, ogni tanto a letto però mi tormento e mi dico che magari se avessi segnato forse sarebbe andata peggio e poi mi addormento».

Sua figlia dice che però la notte lei spesso non dorme per pensare a scherzi da fare agli amici.

«Cerco di tenerli vivi così. L’ultima volta, in Argentina, abbiamo comprato una finta vipera gialla e l’abbiamo attaccata dietro a uno dei nostri amici. Quando sono giù di morale mi riguardo il video di quello scherzo».

Il cantante Zucchero si è lamentato che l’ha chiamato alle 4 del mattino per andare a caccia.

«Sì, non era contento (ride, ndr). Lì ho capito che lui era abituato ad andare a dormire a quell’ora, non ad alzarsi. Gli voglio molto bene».

Tornerebbe mai nel mondo del calcio?

«Non lo so. Sto tanto bene fuori, con le mie cose in mezzo alla natura. Mi sono reso conto che il tempo passa troppo veloce e la vita è fatta per fare le cose che ci piacciono».

Lei colleziona le paperelle come si è visto in «Una semplice domanda» di Alessandro Cattelan.

«Ne ho migliaia, alcune le ho portate in Argentina, hanno un significato personale».

Qual è stato il volo che l’ha spaventato di più?

«Nel 1985, un Vicenza-Saint Etienne per farmi operare al ginocchio. Dodici ore di volo, ho visto la morte non so quante volte per i temporali: sosta ad Albenga, sosta a Mentone… non so come siamo riusciti a sopravvivere».

E quello più divertente?

«Un volo Alitalia per Buenos Aires con un amico che non c’è più: abbiamo fatto impazzire un’assistente di volo perché lui faceva benissimo il verso del gatto ogni volta che lei passava».

Roberto Baggio con Cattelan su Netflix: «Quando ho smesso volevo sparire». La Panda 4X4, le oche di legno, il buddismo. Andrea Sereni su Corriere della Sera il 22 marzo 2022.

Alessandro Cattelan nel fortino di Robi Baggio. Nella mitica Panda 4X4, in giro per le campagne vicentine, in casa accanto a una sfilza di anatre e oche intagliate nel legno. L’uomo dietro il campione, perso nelle sue abitudini, felice nel suo mondo. Cattelan va da Roberto e lo racconta in modo inedito nella prima puntata di «Una semplice domanda», il nuovo show targato Netflix, che ha prodotto anche «Il Divin Codino», film del 2021 sulla vita di Baggio.

Roberto Baggio, il film: gli attori e il confronto con le persone reali. Sacchi, la moglie, Mazzone: le somiglianze

Roberto accoglie Cattelan ad Altavilla Vicentina con una preghiera buddista, un caffè e una lunga chiacchierata. Poi lo porta nella stanza dove c’è un’enorme collezione di oche e anatre di legno, opera di Robi. « Questo è il mio regno — dice Baggio —. Saldo, lavoro il legno, ho la passione per le cose vecchie da caccia e ogni tanto mi diverto a costruire anatre in sughero e in legno». Un autentico fortino di anatre e oche in legno costruite dallo stesso Baggio: «Non riesco a contarle, mi perdo. È la raccolta di tanti e tanti anni, dietro a ogni pezzo c’è la storia di una famiglia e a me questa cosa mi tocca perché da una parte l’ho vissuta».

Un paio di anni fa Valentina, la figlia di Roberto, ha pubblicato su Instagram uno scatto del . Baggio porta in giro Cattelan proprio su quella mitica auto: «Nella Panda io ci vado nei boschi», dice Roberto. Che poi parla di come è diventato un calciatore: «Da bambino mi veniva tutto facile, ho sempre giocato a calcio. Quando sei piccolo impari i trucchi del mestiere e te li porti per la vita. Poi è chiaro, uno deve avere del talento, una predisposizione. Secondo il buddismo è qualcosa che ci portiamo da una vita precedente. Sono cose che fanno parte del nostro karma, del nostro bagaglio e ci indirizzano verso una determinata strada piuttosto che un’altra. Magari io nella vita precedente ero un atleta, con due ginocchia messe meglio».

Baggio: «Ripenso ancora al rigore di Pasadena. E fa ancora male come il primo giorno...» Baggio il Pallone d’Oro, gli infortuni, gli Europei saltati, il dannato rigore e la Panda 4x4 Baggio e le storie tese con Sacchi, Capello e Lippi: «Mai a un Europeo, non venivo convocato» Roberto Baggio, Diodato gli dedica la canzone «L'uomo dietro il campione» Baggio e il professore in tv che non sapeva fare tre palleggi. I tifosi: «Ce l'ha con Adani» Baggio e l'infortunio che stava per troncargli la carriera: «Dissi a mia madre: uccidimi» Baggio, il film: gli attori e il confronto con le persone reali. Sacchi, Mazzone: le somiglianze

L’addio al pallone, Milan-Brescia, 16 maggio 2004: « Venivo da vent’anni di dolori e infortuni di tutti i tipi. Quando ho smesso sono andato in Argentina, non volevo vedere più nessuno, volevo stare da solo, alla fine è stata una liberazione». Oggi del calcio «mi manca giocare», dice Robi. «Però purtroppo come tutte le cose belle arriva un giorno che devi dire basta. Io sono stato un po’ costretto perché era diventato difficile anche allenarmi. Ma non ho rimpianti». 

Il Divin Codino si confessa al Venerdì di Repubblica. La nuova vita di Roberto Baggio: “Non guardo il calcio, oggi tutti professori: mi diverto a spaccare la legna”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 19 Febbraio 2022. 

Una nuova vita bucolica, lontana dal calcio e a contatto con la natura nella sua abitazione di Altavilla Vicentina, piccolo paese veneto dove vive con la moglie Andreina Fabbi e i tre figli. Roberto Baggio oggi ha 54 anni, da 17 non gioca più a calcio, mondo dal quale è uscito definitivamente il 23 gennaio 2013 quando ha rassegnato le dimissioni da presidente del settore tecnico della Federcalcio. “Non ci tengo alle poltrone. Il mio programma di 900 pagine, presentato a novembre 2011, è rimasto lettera morta, e ne traggo le conseguenze” disse fotografando appieno il declino del calcio italiano.

A pochi giorni dall’uscita de “Il Divin Codino” su Netflix (26 maggio), un film biografico che racconta la sua carriera da calciatore, Roberto Baggio ha rilasciato una lunga intervista ad Emanuela Audisio sul Venerdì in edicola il 7 maggio. Da anni vive senza pallone e si dedica alla vita in campagna, alla caccia e al buddismo: “Faccio la cosa più bella, sono a contatto con la natura, faccio dei lavori che mi danno grande soddisfazione. Mi accontento delle cose piccole ma sono quelle più belle, più vere alla fine”.

Ancora oggi, 17 anni dopo quel 16 maggio 2004 (giorno dell’ultima partita della sua carriera, Milan-Brescia), Baggio riceve pacchi di lettere da tutte le parti del mondo. “E’ una cosa bellissima, sorprendente, perché sono passanti tanti anni” dice. “Cosa vedono in Baggio dopo che il calciatore non esercita più? Forse la semplicità che mi ha sempre contraddistinto nella mia vita, forse questo apprezzano” commenta.

Ultimo attaccante italiano a vincere il Pallone d’Oro (1993), il Divin Codino ha segnato oltre 300 gol in carriera (di cui 205 in serie A): “Tutti quelli che hanno fatto della mia epoca oggi sarebbero felici di giocare in un calcio dove oggi gli attaccanti sono protetti da queste nuove regole. Se penso solo ai 9 metri e 15 per un calcio di punizione… dico che mi sarebbe piaciuto anche ai miei tempi”.

Addio al calcio: “Non riuscivo a scendere dall’auto”

“Lasciare (il calcio, ndr) mi ha ridato vita e ossigeno, stavo soffocando, troppo male, dolore fisico, quando da Brescia rientravo a casa, non riuscivo ad uscire dall’auto, chiamavo Andreina, mia moglie, che mi aiutava ad aggrapparmi al tetto e poi a far passare il corpo. Ho sempre saputo che il calcio aveva una fine. La gente si stupisce: come, non metti più gli scarpini, non ti viene voglia? No, e allora? Bisogna che ci mettiamo d’accordo: quelli che senza pallone si sentono appagati e felici sono dei falliti?”.

E poi ancora: “Spacco la legna, uso il trattore e la sera sono così stanco che mi gira la testa. Totti non voleva smettere, io non vedevo l’ora. Ibrahimovic è della stessa pasta di Francesco”.

Il film su Netflix: “Messo in risalto tutte le mie difficoltà”

“Le difficoltà che tutti possono incontrare nella loro vita, ho voluto mettere in risalto questo. Non ci dobbiamo arrendere, dobbiamo andare avanti e che dobbiamo avere, al di là di tutto, un grande amore verso i nostri genitori. Dare tutto, non avere rimpianti ed essere soddisfatti del percorso che abbiamo fatto”.

Le critiche a chi oggi va in tv: “Oggi professori, prima incapaci di palleggiare”

“Il calcio senza pubblico è tristissimo, mi fa piangere. Non guardo le partite, non mi divertono quasi mai. Mi dette disagio dare giudizi sugli altri, non vado in tv. Vedo colleghi che sentenziano da professori, ma me li ricordo incapaci di fare tre palleggi con le mani”.

Oggi Baggio segue il calcio femminile e il basket: “Tifo per i Los Angeles Lakers“.

L’addio a Firenze

“Sono riconoscente a Firenze perché quando ero rotto mi ha aspettato due anni, anzi tre. Io non volevo lasciare la Fiorentina, avevo 23 anni, stavo comprando casa, mi ero spostato, aspettavamo una bambina, ma ho scoperto che i proprietari uscenti, i Pontello, mentivano, mi avevano già ceduto agli Agnelli. Sono andato due volte a Roma a parlare con Cecchi Gori e la seconda lui mi dice: se non vai alla Juve non mi fanno comprare la società. E così sono passato per mercenario. Hanno scritto che non avevo carattere perché a Firenze con la Juve mi sono rifiutato di battere un rigore contro la Fiorentina, ma ero già d’accordo con il mio allenatore Maifredi che se ne sarebbe occupato De Agostini, perché il portiere era Mareggini con cui mi ero allenato per anni e che mi conosceva benissimo”.

Su Diego Maradona e Paolo Rossi

“Due persone a cui tutti eravamo legati, due esempi importanti nel calcio. Hanno segnato epoche e hanno fatto la storia del calcio mondiale. Ho avuto la fortuna di averli come amici. La morte di Paolo Rossi è stata ingiusta, si era rifatto una vita anche lui e meritava di avere più tempo. Se da Maradona ti aspettavi una fine improvvisa, da lui no”.

L’attacco a Sacchi: “Niente Europei per colpa degli schemi”

“Arrigo Sacchi non mi portò agli Europei del 1996 per dimostrare che gli schemi sono più importanti dei giocatori: non è arrivato ai quarti di finale… Non ce l’ho con gli allenatori, ma l’unico con cui mi sono trovato bene è Carletto Mazzone: un uomo libero e realizzato che non si metteva in competizione con i calciatori”.

Il rigore sbagliato a Usa ’94

“L’unico che nella mia vita ho tirato alto e non so perché. Ancora non me lo perdono: ho passato sere a sognare che lo buttavo dentro, ma quel giorno avrebbero potuto uccidermi e non avrei sentito niente”.

Competizione allenatori-giocatori: “Salvo solo Mazzone”

“Non ce l’ho con gli allenatori, credo che una certa gelosia da parte loro ci sarà sempre, noi abbiamo i piedi, loro la lavagna. L’unico con cui mi sono trovato bene è stato Carletto Mazzone, perché era un uomo libero e realizzato, non si metteva in competizione con i giocatori. Ad ammazzare me e tutti quelli come me è stato il calcio tattico, scendere in campo solo per neutralizzare gli altri. Ma se il gioco diventa solo un affare, che esclude il gioco, non ha più senso”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Bendtner: «Arrivato alla Juve ho visto fumare in bagno Buffon, Pirlo e altri 10 giocatori». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2022.

Il giocatore danese: «Il mio primo giorno, ho trovato 12 giocatori nei bagni, che prendevano un caffè, chiacchieravano, stavano insieme e fumavano una sigaretta». 

Anche un giocatore come Nicklas Bendtner, che nella sua carriera non si è mai fatto mancare nulla, protagonista soprattutto di episodi extracalcistici, riesce a stupirsi ancora. Lo ha raccontato lui stesso riferendosi al suo arrivo alla Juventus nell’estate 2012 (avventura non proprio fortunata, 11 presenze e zero gol). «Non riuscivo a trovare i ragazzi, era tutto un po’ strano, soprattutto perché era il mio primo giorno. E poi ho trovato 12 giocatori nei bagni, che prendevano un caffè, chiacchieravano, stavano insieme e fumavano una sigaretta. È stato qualcosa di eccezionale e mi ha fatto pensare che sarebbe stata un’esperienza divertente», ha rivelato l’ex attaccante danese nell’intervista rilasciata all’emittente radiofonica «Bbc 5».

Nicklas Bendtner: «Così ho perso 6 milioni di sterline giocando a poker»

Una cosa per lui inaspettata: «Se ci si poteva ritrovare in bagno a fumare con Buffon o Pirlo? Sì e cosa puoi dire a due così?», ha aggiunto. E ancora: «Se guardi alla loro carriera e a che gran professionisti sono, è stato un qualcosa che mi ha aperto gli occhi. L’etica professionale che dimostravano in campo e il senso di cameratismo che c’era negli spogliatoi era incredibile, quindi nessuno si poneva il problema del fumo». Una cosa che in Premier potrebbe diventare un vero e proprio caso di stato. Inconcepibile Oltremanica: «È divertente perché mi ricordo quando Mario Balotelli è venuto in Inghilterra e tutti quanti parlavano di lui che fumava in bagno. Ed è diventato un caso sui giornali, un calciatore che fuma. Ma in ogni squadra in cui sono stato c’era qualcuno che fumava. Era una cosa molto comune in Italia, molto di più rispetto che in Inghilterra».

Bendtner non è nuovo a questi retroscena, anche personali. In passato raccontò di come avesse perso 450 mila euro in 90 minuti, da ubriaco, alla roulette: «Sono troppo ubriaco per sedermi a un tavolo – disse –. Ma la roulette è una questione diversa: rosso, nero, rosso, nero. Quanto può essere difficile? Dopo 90 minuti ho perso un sacco di soldi che tra l’altro non avevo. Il mio conto in banca era scoperto, ma fortunatamente alla fine sono riuscito in qualche modo a recuperare. Questa esperienza mi ha scosso. È stato il campanello d’allarme che ha aiutato a spezzare quell’incantesimo. Non sono mai stato un ragazzo a cui interessano i soldi come un modo per mettersi in mostra. All’inizio era più una questione di divertimento e di stare con le persone che ti piacciono. Mi sono appassionato troppo allo stile di vita che veniva fornito con i soldi».

Dino Zoff. Testo di Dino Zoff per la Gazzetta dello Sport il 16 luglio 2022.

Un Mondiale come quello di Spagna '82 non si ripeterà. Dal lato tecnico è stato un Mondiale spettacolare, con tanti gol tutti su azione. Le tre partite iniziali, come sempre, sono le più difficili, hai la responsabilità di superare il primo turno, e mille incognite. Chiedete alla Germania Ovest nel 1974, che è dovuta tornare a casa scortata dal cellulare della polizia. Poi in Spagna c'è stato tutto un contorno di polemiche, dalle critiche feroci prima al silenzio stampa dei giocatori, in un crescendo rossiniano fino all'apice della piramide. Quindi sarà difficile rifare, sotto tanti aspetti, un Mondiale come quello, anche se a Bearzot non hanno dato nessun onore, ma questo fa parte delle mode del calcio.

La partita con l'Argentina è stata una svolta. Un match fisico, d'altri tempi, come non se vedono più nel campionato italiano, perché oggi l'arbitro interviene molto più spesso, e infatti soffriamo in campo internazionale. Invece quella partita è la quintessenza del calcio: ci vuole l'artista, Maradona, però ci vuole anche il contatto, all'interno delle regole. Io mi sento un uomo di sport, quando allenavo, ero molto duro con i miei giocatori quando commettevano delle scorrettezze. A uno dei miei per un'entrata da dietro rimproverai: "Sei un coniglio". 

E poi venne il Brasile. Di quella partita tutti ancora ricordano la mia parata decisiva sul colpo di testa di Oscar. Effettivamente quell'intervento aveva una componente di difficoltà notevole, perché non potevo respingere semplicemente la palla, i brasiliani erano tutti in area pronti a ribattere. Io la fermai sulla linea, ma ho passato qualche secondo terribile perché i brasiliani esultavano e gridavano al gol, io non riuscivo a trovare l'arbitro. E in quei momenti ripensai a un episodio precedente, contro la Romania in amichevole, quando assegnarono il gol con la palla che era venti centimetri fuori.

Con il Brasile, diciamo che mi è andata bene. 

Quella fu anche la partita che sbloccò Paolo Rossi. L'ennesimo merito di Bearzot che gli viene poco riconosciuto. È stato lui ad avere l'intuizione giusta, ci ha fatto un discorso semplice. Ci ha detto: noi siamo italiani. In tutti i campi abbiamo dei fenomeni. Difettiamo forse nell'organizzazione, ma in tutti gli altri campi, dalla moda al giornalismo, abbiamo dei picchi straordinari. Perché non adoperare anche nel calcio questa nostra inventiva, questo nostro modo di essere? Perché dobbiamo giocare come gli olandesi se siamo italiani?

Quelle parole sono state decisive, da lì in avanti il Mondiale è stato in discesa, anche se le energie disperse erano tante. Io arrivai in finale in riserva, esaurito dalle conferenze stampa sempre più tese. Mentre parlava il capitano avversario tutta la stampa, anche italiana, ascoltava attentamente, e quando toccava a me le prime volte si alzavano e andavano via. Io non ho mai fatto una piega, non mi sono mai arrabbiato. Ero di una tranquillità olimpica, ma dentro di me sostenevo una grande fatica. Un altro uomo straordinario, legato a quell'impresa, fu il presidente Pertini. La famosa partita a carte in aereo metteva tutti sullo stesso piano: non c'erano più il presidente, il portiere, ma solo il gioco delle carte a unirci. Pertini era il massimo della democrazia: al ritorno, siamo arrivati al Quirinale all'ora di pranzo. A tavola il presidente ha voluto Bearzot da una parte e me dall'altra, e poi tutti i giocatori. E ha aggiunto: se c'è posto per i ministri bene, sennò vadano pure al ristorante. 

Oggi vedo una brutta stagione.

Io sono rimasto innamorato del calcio, dello sport, ma vedo comportamenti leggeri che esulano dall'ambito sportivo.

Un giocatore che si butta per terra non mi piace. Lo dicevo già ai miei giocatori quando allenavo: "Alzati, vai avanti". Ecco, nello sport le regole sono regole, non c'è spazio per mentire.

Una volta, giocavo già in Serie A, presi un gol con un tiro dalla distanza. E mio padre mi disse: «Come mai quel gol lì?". Io gli risposi: "Sai, non mi aspettavo che tirasse". "Perché, fai il farmacista?" mi inchiodò lui. Ero il portiere, dovevo aspettarmelo. Non c'erano mai scuse, era questo il concetto di sport. A quanti dicono che l'importante è vincere, io rispondo che è vero, perché vincere dà la misura della tua forza. Ma secondo le regole. Io ho fatto undici campionati senza saltare una partita, oggi probabilmente, di fronte a certe furbizie, non so se saprei trattenermi. Io sono così, io credo nell'uomo.

Estratto dell'articolo di Paola Saluzzi per “Avvenire” il 25 febbraio 2022.

Parla il portierone azzurro che il 28 febbraio fa 80 anni: «In casa mi hanno insegnato a lavorare bene, in campo mai mancato di rispetto a nessuno» Dino Zoff, ottant' anni (il 28 febbraio) e non sentirli... verrebbe da dire come un vecchio spot di quando il portierone di anni ne aveva 40, ed era campione del mondo con la Nazionale di Enzo Bearzot.

Dino, tu sei lezione, insegnamento, valore. Ma da bambino volevi giocare a calcio e fare il portiere?

Non so se volevo, lo facevo. Da bambino, ero lo "scemo del villaggio" perché da piccolissimo mi buttavo. I più grandi ne approfittavano per farmi tuffare, però allora non esistevano i sogni di dire: da grande farò o non farò Ai miei tempi non c'era ancora la televisione, si giocava e c'era il presente e il futuro era qualcosa di troppo lontano per pensare a cose tipo la Serie A. Non si poteva pensare così in alto. (...)

Quando sei partito non ti ha fermato più nessuno.

Beh sì. Da Udine, dove mi ero fatto male, sono andato a Mantova, dove ho trovato anche mia moglie. Poi Napoli e infine la mia seconda casa, la Juventus... 

Cosa pensi del mondo di oggi e dei tanti cambiamenti?

Giusto che il mondo cambi, ma molte volte vengono meno quelle cose importanti che dovrebbero valere per tutte le generazioni: comportamenti, educazione, attenzione per il prossimo, dignità. Questi sono valori che dovrebbero esserci sempre. 

Rispetto e dignità, specie nei confronti dell'avversario, quanto contano oggi nel calcio?

Fondamentali. Per esempio, a me capitava di non esultare mai oltre il limite e lo facevo solo per rispetto degli altri. Oggi invece uno fa gol, si fa un balletto, ben studiato prima e questo vuol dire che non c'è rispetto per l'avversario. Giusta l'esultanza, ma se mi fai un balletto davanti alla faccia allora posso darti anche un calcio nel sedere - sorride - . La simulazione poi è insopportabile. A volte capita il calciatore che si butta giù per guadagnarsi un rigore o un fallo. A me vedere certe scene mi fa uscire di testa! 

Zoff capitano in tutto e per tutto. Tra le tante imprese straordinarie c'è quella mitica parata sulla linea di porta con il Brasile (colpo di testa di Oscar) al Mundial di Spagna '82. Ci racconti cosa hai provato in quegli attimi...

 Sono quegli istanti decisivi per la carriera di un portiere. Era una parata difficile, avevo avversari davanti e non potevo respingere... I brasiliani che esultavano per il gol, io non vedevo l'arbitro che per fortuna aveva visto giusto... palla sulla linea. Sono stati tre secondi terribili che hanno cambiato la storia della Nazionale e anche la mia. 

Quanto era speciale Enzo Bearzot?

Era un comandante vero e un comandante vero fa andare le navi sulla rotta giusta. Enzo Bearzot era un uomo di cultura anche se ingiustamente sbeffeggiato, aveva tutte le qualità migliori e i media come spesso accade non sempre riescono a descrivere a fondo la vera essenza di un uomo. 

 Tra voi parlavate in friulano?

Si, certo. Per me il "Vecio" Bearzot è stato un uomo fondamentale. Si è giocato la vita per il sottoscritto. Venivo dal Mundial d'Argentina del '78 con tante critiche e a lui gli hanno addossato anche quelle che mi riguardavano. Mi sono sentito responsabile, e perciò vincere il Mundial di Spagna è stato anche un po' un risarcimento personale per la grande fiducia che Bearzot aveva sempre riposto nella mia persona. 

Insieme da sempre con tua moglie Anna. Ma chi indossa la fascia da capitano in casa Zoff?

Da sempre abbiamo i nostri ruoli ben precisi e continuiamo ad esercitarli. Beh, comunque per me a casa è difficile fare il capitano. 

Forse perché con noi donne è difficile essere capitano titolare?

No - sorride - ma avete una forza importante, e lo dico con sincerità. È così e va anche bene. 

Che nonno è nonno Dino?

Cerco di essere un po' più. Non saprei come descrivermi, provo a volte con qualche smanceria in più rispetto al genitore che sono stato, ma non mi viene bene. 

Non ti vengono bene le smancerie?

No, no, però si vede, quindi mi apprezzano così come sono... Del resto sono 80 anni che sono sempre me stesso.

Massimiliano Castellani per “Avvenire” il 25 febbraio 2022.  

Il Paese dei duellanti. Nel ciclismo Coppi contro Bartali, nel pugilato Benvenuti vs Mazzinghi, nel calcio, lì davanti, Rivera e Mazzola, più indietro, in porta, il duello storico, dal 1968 fino a tutti gli anni '70, è stato quello tra Ricky Albertosi e Dino Zoff. Per l'80° compleanno di Zoff, il suo storico sfidante, l'82enne Albertosi manda attraverso Avvenire i suoi auguri «più sinceri a Dino», ma con altrettanta tosca schiettezza del pontremolese di nascita, ripercorre le tappe del loro confronto, umano e sportivo. 

Partiamo dal campo Albertosi, che portiere è stato Zoff?

Uno dei migliori numeri 1, all'epoca noi portieri avevamo solo l'1 sulle spalle. Sicuro, uno dei migliori d'Europa.

Ma scusi, Zoff nell'82 ha vinto il Mundial di Spagna, a 40 anni, quindi forse voleva dire uno dei migliori del mondo di sempre?

No, d'Europa di sempre. E tra quelli ovviamente ci sono anch' io. 

Punti di forza del n.1 Zoff?

Eccezionale tra i pali, un po' meno nelle uscite. Grande dedizione e spirito di sacrificio. Con quel fisico che si ritrovava, due gambone il doppio delle mie, se non si allenava duro tutta la settimana alla domenica era difficile che potesse giocare... 

Insomma, la sfida era tra Zoff il non atletico contro l'olimpico Albertosi?

Beh, penso che riconoscerà anche lui che io ero più scattante e non avevo bisogno di tutto quell'allenamento per essere in forma. E poi lui è sempre stato tatticamente misurato e razionale, io invece quella sana follia del portiere l'ho sempre mostrata, anche per far divertire il pubblico. Per Dino e per la Juve prima di tutto veniva la vittoria, per me, a Cagliari come al Milan, divertire la gente era la priorità. 

Avevate un vizio in comune però, il fumo.

Non mi ricordo Dino con la sigaretta in bocca, ma è anche vero che assieme siamo stati forse una volta o due. A Fiuggi nel ritiro della Nazionale prima dell'Europeo del '68, quando lui prese il mio posto... Mi ero fratturato un dito e con la mano steccata il ct Ferruccio Valcareggi non poteva schierarmi, così chiamò Zoff che aveva debuttato al posto mio a Napoli... e poi fu lui a vincere gli Europei. 

E qui cominciano i "veleni"?

 Dopo l'Europeo Valcareggi considerava me titolare e quando, prima del Mondiale di Messico '70, mi schierò nell'amichevole di Lisbona, Zoff ci rimase malissimo... Aveva perso il posto. 

Però poi la ruota nel '78 girò a favore di Zoff, titolare al Mundial d'Argentina e lei a casa, davanti alla tv...

Lì le scatole sono girate a me. Il nuovo ct Bearzot voleva portarmi in Argentina, mi telefonò dicendomi: «Te la senti di venire a fare il terzo? E io: ovvio, sarebbe il mio 5° Mondiale, vengo anche solo per portare le valigie agli altri. Ci lasciammo con la promessa di risentirci e infatti Bearzot lo fece, ma per comunicarmi che Zoff non si sentiva sicuro se io fossi andato. Quindi era meglio che restassi al mare... 

Per ripicca quando Zoff incappò nella "gara no" contro l'Olanda lo criticò aspramente.

Io ho un pregio, dico sempre quello che penso. Mi chiesero un parere su quei gol preso da 40 metri e dissi che erano state due papere e che al posto suo quei tiri li avrei parati... Risultato? Quando in campionato ci ritrovammo per Juve-Milan andai a salutarlo, ma Dino si voltò dall'altra parte. Se l'era segnata... 

Dalla sfida alla "guerra".

Ma durò poco. L'estate seguente ci sbattemmo faccia a faccia in un albergo a Punta Ala: un sorriso e un abbraccio al volo, pace fatta. Siamo sempre stati dei gentiluomini. Io poi l'ho seguito anche da allenatore. Quando abitavo a Cremona un paio di volte andai a vedere la sua Lazio a Parma e a fine partita scendevo nello spogliatoio a salutarlo. 

Meglio Zoff da calciatore o da allenatore?

Beh, anche come allenatore e poi da ct della Nazionale Dino ha fatto bene. Con l'Italia agli Europei del 2000 fu sfortunato. 

Per colpa del "golden gol" dello juventino Trezeguet e le critiche feroci dell'allora premier Silvio Berlusconi Zoff si dimise da ct. Lei lo avrebbe fatto?

No, io piuttosto facevo dimettere Berlusconi da premier. Ma io e Dino abbiamo due caratteri agli antipodi, lui timido e permaloso, io sfrontato e senza peli sulla lingua... (...)

Carlos Passerini per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.

Dino Zoff, lunedì compie ottant' anni: qual è il primo ricordo della sua vita?

«La campagna friulana, un pallone, la porta senza pali. Poi il resto: le corse, i giochi, i primi tuffi nell'Isonzo, i boschi, le bestie, mio padre e mia madre, nonna Adelaide che mi allenava a parare lanciandomi le prugne. E il dialetto. A volte mi accorgo di pensare in friulano». 

Legge ancora le Poesie a Casarsa di Pasolini?

«Prima di addormentarmi. Ho iniziato qualche anno fa. È proprio vero che, quando s' invecchia, riaffiorano nitidi i ricordi dell'infanzia». 

Ce n'è una che s' intitola Dedica, dice: «A no è aghe pí frès-cie che tal mè país», nessuna acqua è più fresca di quella del mio paese.

«Quando la vita va verso il 90', cresce un'esigenza di tornare a dove tutto è iniziato. Il richiamo della terra». 

E il primo ricordo dei suoi vent' anni?

«Sempre un pallone. Il calcio che diventa un mestiere. Prima era solo una passione. Lavoravo in officina, riparavo motori a Gorizia: sessantamila lire di paga. Lì è iniziato tutto: Udinese, poi a Mantova dove ho incontrato la mia Anna che ancora oggi mi sopporta, quindi il Napoli, la Juve». 

Quaranta. Buttiamo lì: i Mondiali dell'82?

«La notte di Madrid, Bearzot, Scirea, la partita a scopone con Pertini in aereo. Sì, è vero che poi si scusò per l'errore. Mi scrisse un telegramma: "Vieni a trovarmi. Giocheremo a scopone e cercherò di non fare più gli errori che mi hai giustamente rimproverato". Grande uomo». 

Sessanta.

«Gli anni da allenatore. Emozioni diverse, ma sempre intense. Come la storia delle dimissioni da c.t. all'Europeo del 2000. Le frasi di Berlusconi dopo la finale persa con la Francia andarono oltre la critica. Dimettersi, in un Paese in cui nessuno si fa da parte, fu un gesto rivoluzionario». 

C'è sempre il pallone di mezzo, in ogni ricordo. Il calcio è stato il grande amore della sua vita?

«Vocazione, più che amore. Il pallone che rotola è una delle cose più vicine alla felicità». (...) 

Papa Wojtyla una volta l'ha definita «collega».

«Mi disse che anche lui aveva giocato in porta e capiva le responsabilità che avevo». 

La foto in bianco e nero di lei che balla in una discoteca degli anni Settanta spopola sul web. Perché?

«Perché mi avete sempre fatto passare da musone, ma non lo ero. Mai stato un festaiolo, eh, però sono stato giovane negli Anni 60 e 70...».

Come festeggerà?

«Con la famiglia, a casa, come in questi anni di pandemia. Ho rispettato le regole: mi fido di chi sa più di me».

Lunedì sarà inondato di messaggi d'auguri. Ma come faranno i suoi compagni del Mundial? Dicono che nella famosa chat su WhatsApp lei non ci sia.

«Ho un telefono vecchio, come me. Non so neanche cos' è, WhatsApp. Se vogliono farmi gli auguri, mi sa che dovranno telefonare». 

Cosa desidera per i suoi 80 anni? L'Italia qualificata al Mondiale?

«Tiferò con tutto il cuore, sono sicuro che ce la faremo. Mancini e i ragazzi non devono farmi nessun regalo, sono campioni d'Europa, devono solo fare quel che sanno e tutto andrà per il meglio». Quindi che regalo vuole? «Che il buon Dio mi lasci qui ancora un po', per veder crescere i miei nipotini». 

Estratto dell’intervista di Walter Veltroni a Dino Zoff per Oggi il 14 febbraio 2022.

«Ottanta anni? La morale comune vorrebbe dicessi che mi sento come se ne avessi venti. Ma non è vero. Me li sento pesanti. Faccio fatica a capire le nuove generazioni, c’è sempre un attrito. Lo vedo, tutto il bello di questo mondo nuovo. Ma mi sembra anche che si stiano perdendo delle cose, nei comportamenti, nel rispetto del prossimo». 

Dino Zoff compie ottant’anni il 28 febbraio e in un’intervista al settimanale OGGI in edicola racconta la partita a carte più famosa della storia sportiva, quella con il Presidente Sandro Pertini sull’aereo che riportava a casa l’Italia Mundial, nel 1982: «Io ero in coppia con lui. I nostri avversari erano Causio e Bearzot. Quando si gioca a scopone scientifico si azzerano tutti i ruoli, sociali e istituzionali. Pertini si arrabbiò con Bearzot e Causio, ma in realtà era scocciato perché perdemmo. Quando ho smesso di giocare al calcio mi ha mandato un bellissimo telegramma in cui si prendeva tutte le responsabilità della sconfitta».

Ma c’è spazio anche per le frizioni con Berlusconi: «Quell’attacco arrivò come un fulmine a ciel sereno. Di me si può dire che sbaglio, che in una partita da portiere o da allenatore non ho fatto bene. Ma non si può dire che sono “indegno”»; le lezioni del padre («Mi ha insegnato a non accampare mai scuse. Una volta presi un gol stupido e lui mi chiese come mai. Io risposi: “Non mi aspettavo che tirasse”. E lui: “Perché, tu di mestiere fai il farmacista?”»); le confessioni sincere: «Hai presente il fair play, quella scena di tutti i giocatori che alla fine della partita applaudono gli avversari? A me sembra una grande ipocrisia. Se il mio avversario si è buttato a terra per ottenere un rigore, se ha fatto un fallo cattivo su un mio compagno di squadra io non lo applaudo affatto». L’intervista è di Walter Veltroni, le fotografie sono di Oliviero Toscani.

Si è molto discusso di una tua foto in discoteca.. "Ricordo che quando uscivo dalla discoteca alle 6 di mattina, incrociavo gli operai che entravano al lavoro con il "baracchino" dove tenevano il cibo e mi vergognavo. Da ragazzo avevo fatto il meccanico motorista in un'officina e mio padre si spezzava la schiena nei campi. Il lavoro va rispettato. Tutto, sempre"

Pietro Paolo Virdis: «Andai in India da Sai Baba e diventai un suo seguace. Il bomber? È mia moglie».  Giorgio Terruzzi su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2022.

Pietro Paolo Virdis, da Sassari, classe 1957. La biografia calcistica, copiosa e gloriosa, contiene un dato eclatante: 24 rigori tirati, 23 realizzati. Nervi e coraggio. Con una predilezione alla solitudine?

«Il coraggio di affrontare una responsabilità penso di averlo avuto sin da ragazzo ma non credo che calciare davanti al solo portiere denoti particolare audacia. Piuttosto, per un attaccante, avere la possibilità di affrontare un unico avversario e non undici mi è sempre sembrata una bella opportunità. In aggiunta, sto parlando di qualcosa che sembrava sintonizzato sulla mia natura. Però non mi considero un solitario. Il rigore, in fin dei conti, è un’occasione da sfruttare, applicando un talento».

«Il gusto di Virdis» è il nome del suo ristorante-enoteca a Milano. A proposito di gusti: qual è la ricetta per vivere in pace?

«La ricetta richiede un lavoro continuo su te stesso, sulle qualità come sui difetti. Il che può dare momenti di serenità. Ma non è mai finita. Alti e bassi. Io sono sulla strada, resto in campo, c’è sempre da migliorare». Che poi, il vero bomber del ristorante è Claudia, sua moglie... «Assolutamente sì. Senza di lei questo progetto non sarebbe nato. Ha svolto ogni pratica burocratica all’inizio e poi si occupa della cucina sin dal primo giorno. È grazie a lei che le persone escono sazie e contente dopo essere arrivate affamate. Io cerco di assisterla, di fare del mio meglio con i vini ma il nome del ristorante dovrebbe essere Il gusto dei Virdis, plurale. Come minimo».

Una famiglia come una squadra. Eppure di dice che un attaccante deve essere egoista. È un luogo comune?

«Mah, anche se parliamo di calcio, non credo che l’egoismo sia totalmente dominante. Il grande attaccante è anche quello che fa crescere un intero gruppo, quindi non penso debba guardare troppo se stesso, con la fissa di fare gol. Certo, è quello lo scopo principale, da lì viene una consacrazione. Facciamo così: 80% egoismo, 20% altruismo».

La frase «Ama e servi tutti» cosa le fa venire in mente?

«Un principio. Complicato e bellissimo quando si riesce a metterlo in pratica. Rimanda al predicatore indiano Sai Baba. Negli anni Novanta mia moglie ed io leggemmo di lui, ci incuriosì. Decidemmo di andare in India per vedere se i racconti su quell’uomo capace di fare tanto e bene per gli altri corrispondevano a verità. Beh, era tutto vero. Cominciammo a seguire i suoi insegnamenti. E di comportarci di conseguenza. La frase che ha citato è una sintesi esauriente. Indica un modo di stare al mondo che corrisponde ad una aspirazione».

Disse no alla Juve nel 1977, come aveva fatto il suo mito e compagno di squadra a Cagliari, Gigi Riva, nel’ 73. Lui rimase, lei si convinse a partire. Pentito?

«Dovetti accettare di trasferirmi a Torino. Venivo da una mancata promozione in serie A e desideravo riportare in alto quella squadra. Avevo vent’anni ed era il mio sogno, alimentato anche da quanto aveva fatto Riva. Avrei voluto emularlo. Ma Gigi Riva era Gigi Riva, io ero un giovane che si affacciava sul palcoscenico e a un certo punto dovetti cedere. Non mi trovavo nella condizione di rifiutare e temevo di dover smettere di giocare. Forse avvertivo che avrei avuto qualche difficoltà nella Juve, anche se il mio non era un no diretto a quella squadra, era semplicemente un sì al Cagliari. Mi sarei comportato allo steso modo dovendo partire per Milano o Bologna. Pentito: all’inizio certamente, vennero anni difficili. Ma pensandoci oggi credo di aver fatto bene. Il tempo cambia le lenti con le quali guardi il mondo, ti guardi addosso».

A proposito di vini. Particolari e sardi, soprattutto. La scelta indica una restituzione, una radice. Il legame con la propria terra non si spezza mai?

«Certo. L’amore per la Sardegna è profondo ed è aumentato nel tempo a causa della lontananza. Cerco di ricambiare ciò che ho ricevuto dai luoghi dell’infanzia con intensità crescente. In cantina tengo prodotti provenienti da tutta Italia ma cerco sempre più di promuovere vini della mia regione d’origine. Che sono molti e di straordinaria qualità».

Meglio un cliente-tifoso o un cliente che non la costringe a ricordare e raccontare?

«Ma no, è sempre un piacere incontrare chi domanda di una partita, di un gol, di un giocatore. Finisce che si parla di momenti che furono gioiosi anche per me. Per fortuna sono molti ed è bello condividerli con gli altri».

Voglio diventare un calciatore: è il sogno di molti ragazzini. Come realizzò il suo?

«Non ho un ricordo preciso, un momento chiave. Penso sia stato un desiderio cresciuto lentamente, dentro di me, mettendomi alla prova, giocando all’inizio con i mei compagni di scuola nel campetto sotto casa e poi nelle squadre giovanili. Non ho mai detto o pensato: devo diventare un campione. Preferivo fare i conti con quello che avevo davanti, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Con un amore, questo sì, per il calcio, per ciò che cercavo di fare. All’età di 13 anni mi fecero giocare con quelli di 15, poi con quelli più grandi quando avevo compiuto i 16. E a 17 anni mi chiamarono in serie A. Tappe e crescita. Senza mai pensare: ecco sono arrivato dove desideravo».

Passione e divertimento. Poi il calcio diventa una professione. Cosa serve sapere quando tocca fare sul serio?

«Questo è un aspetto che impari a conoscere presto: cresce l’interesse per ciò che fai, aumentano le pretese. Ti accorgi che non si tratta più soltanto di un passatempo da condividere con gli amici. Per me la crescita è stata lenta ma poi, quando ho raggiunto un livello più alto, ho subito compreso che si trattava di una professione, con tutto ciò che questo comporta. Del resto, vieni ingaggiato e poi piazzato in campo per svolgere un compito. E tutto ciò comporta una responsabilità e quindi uno stress da prestazione. È così per ogni lavoro».

Due scudetti e una Coppa Italia vinti con la Juve tra il 1978 e il 1982, uno scudetto, una Supercoppa italiana e una Coppa Campioni vinti con il Milan tra il 1988 e il 1989. Di cosa è fatta una grande squadra?

«Dalla stoffa, in primo luogo, di ogni singolo giocatore. E poi da una condivisa, comune mentalità votata al raggiungimento del risultato. Può anche non esistere armonia tra compagni fuori dal campo se poi scatta qualcosa nell’imminenza e durante una sfida: identica fame, la stessa voglia di dare il massimo. Funzionano da stimolo reciproco e fanno la differenza».

Ha segnato 102 gol. Capocannoniere nel 1987. Come mai nemmeno un giorno in Nazionale?

«Forse non ho mai colto il momento giusto per farne parte. C’è sempre stato qualche grande attaccante che ha occupato il ruolo, chiudendomi la porta d’accesso. Significa che magari non ero destinato o che non sono riuscito ad esprimermi al meglio nei momenti decisivi per indossare la maglia azzurra. Non ho responsabilità da distribuire a qualcuno. È andata così».

Riva e Bettega; Zico e Van Basten. Da quale compagno ha imparato di più?

«Penso di aver preso qualcosa da tutti i campioni che ho potuto osservare da vicino. Anche a questo serve il talento: ad assorbire ogni spunto utile, sin da quando sei ragazzo. Però, se penso ad esempio ai rigori, riconosco di essere cresciuto grazie a Paolino Pulici. Arrivò a Udine per sostituirmi perché mi ero infortunato. Lo tenevo d’occhio mentre calciava dal dischetto. Alzava la testa all’ultimo istante per non dare riferimenti al portiere. Un vero caposcuola».

Grandi calciatori e grandi allenatori, da Trapattoni a Sacchi. Cosa distingue un buon maestro?

«La duttilità. Per fare sì che ogni atleta renda al massimo. Magari basta un esercizio mirato, specifico. Oppure una frase, due parole pronunciate poco prima della partita. In questo era bravissimo Gigi Radice: sapeva trovare un tocco, il discorso perfetto per darti la carica. Ho ricordi preziosi di Nils Liedholm, di Mario Tiddia che mi accolse a Cagliari nell’80 quando chiesi a Boniperti, presidente della Juve, di farmi tornare nella mia vecchia squadra per ritrovare una sicurezza che credevo perduta. Tiddia fu fantastico, seppe guidarmi senza affrettare, senza forzare, ripristinando una condizione mentale perfetta. Tornai alla Juve l’anno successivo e vincemmo il campionato».

Ad allenare ha provato anche lei: tre squadre, cinque anni per poi chiudere con il pallone...

«Mah, forse non ho incontrato le giuste corrispondenze. Fatto sta che è mancato un senso, lo stimolo per continuare».

I suoi figli Matteo e Benedetta preferiscono un padre campione o un padre ristoratore?

«Benedetta non mi ha mai visto giocare, quando è nato Matteo avevo trent’anni e smisi poco dopo. Del loro papà calciatore hanno saputo attraverso gli altri. Mi sa che preferiscono il ristoratore».

Giorno di chiusura del ristorante: domenica. È un omaggio alla vecchia passione?

«È un omaggio alla famiglia. In questo modo riusciamo a stare assieme almeno un po’».

Meraviglia di fronte al talento di un atleta. Quando è accaduto?

«Accade continuamente. Quando guardo certi gesti di Messi o di Ronaldo. Mi innamorai di Johan Cruijff per la sua velocità, per la capacità di trascinare una intera squadra. Mi ha sbalordito ripetutamente Usain Bolt: fisicità espressa in modo straordinario».

Ma lei, ad un ragazzino, consiglierebbe di giocare a calcio o di studiare enologia?

«Credo che potrebbe fare entrambe le cose. Giocare a pallone e, nel tempo libero, studiare. Energie da accumulare e da sfogare sul campo. Perché no?»

Da calciomercato.com il 24 gennaio 2022.

I difensori della Juve Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini sono stati ospiti di "Muschio Selvaggio", il podcast condotto dal noto cantante Fedez. Ecco le dichiarazioni dei due difensori:  

Queste le parole di Bonucci: 

ALLENAMENTO 

"Siamo un po’ stanchi: facciamo tanto allenamento, con piscine, acqua fredda. Quanto dura l’allenamento? In tutto quattro o cinque ore. In campo stiamo un’oretta e mezza, poi la preparazione e il post allenamento". 

CAMBIAMENTI 

"Quando ero giovane pesavo all’incirca dieci chili in meno". 

ITALIA-INGHILTERRA

"Qual è la differenza? Noi l’abbiamo provato qualche settimana fa a Londra contro il Chelsea, dove abbiamo perso 4-0. Sono ritmi più elevati, si gioca un calcio più fisico. Devi saperti adattare subito quando passi dal campionato alla Champions League, dove incontri squadre che hanno ritmi diversi". 

EUROPEO

 "Con la Nazionale il periodo è molto più breve. Devi capire i compagni che hai di fianco, con cui magari ci hai giocato solo poche volte in un anno. È tutto più accentuato. La nostra fortuna è che abbiamo fatto gruppo sin dal primo giorno, dal ritiro in Sardegna. Da lì si era capito subito che potevamo fare qualcosa di diverso. La consapevolezza di vincere si costruisce mano a mano". 

RITI 

"All’Europeo li abbiamo avuti tutti, dalle musiche, alla grigliata dopo le vittorie, a Vialli che faceva finta di perdere il pullman. È successo una volta e abbiamo vinto 3-0 e da lì in ogni trasferta da Coverciano il pullman partiva, dopo cinque minuti si fermava e arrivava Vialli che però era già lì pronto. Poi le canzoni, tra cui quella napoletana che nemmeno noi sapevamo". 

RIGORI 

"Preoccupazione? Io ho tirato i rigori sia con la Spagna che con l’Inghilterra è non ho visto nulla di quello che accade intorno". 

PASTASCIUTTA 

"Reazioni della stampa inglese? Non so cosa abbiano detto. Tanti italiani ci hanno scritto e ringraziato per aver fatto vivere loro un sogno. Noi eravamo i primi a viverlo".

Queste invece quelle di Chiellini: 

DIFFERENZA CON LA PREMIER 

"Anche nel calcio inglese sono più grossi rispetto agli altri. Un giocatore italiano che va a giocare in Inghilterra deve fare un lavoro diverso, perchè c’è un diverso modo di allenarsi e di giocare. Questo cambia da nazione a nazione, da campionato e campionato". 

EUROPEI-CAMPIONATO 

"Cosa cambia? Innanzitutto quando giochi in Nazionale rappresenti tutta l’Italia. Non ci sono fazioni, ma riunisci un popolo intero. E questa non è una cosa da poco. Insulti post europeo non appena si ritorna nei club? Fa parte del gioco. Anche se poi nella vita privata c’è rispetto, salvo in pochi casi».

EUROPEI

"Che potevamo far bene all’Europeo ce lo aspettavamo, vincere c’è una buona dose di fortuna. Il nostro obiettivo era arrivare ai quarti di finale, che non avrebbero detto tutto ma sarebbe stato un risultato giusto". 

MANCATA QUALIFICAZIONE

 "In quell’anno ci eravamo tutti e due, dal 2010 ci siamo sempre stati". 

RIGORI

"Con la Spagna ho scelto la curva italiana e tirare per primo, mentre con l’Inghilterra ho perso la curva ma ho scelto di ritirare ugualmente. A parità di condizioni tirare per primo è un leggero vantaggio, perchè non sai ancora cosa ha fatto l’altro. Se dovessi scegliere tra curva o tirare per primo? Tiro per primo, senza dubbio". 

PARTITE 

"Quando giochi fuori è tutto ovattato. Durante l’azione non percepisci nulla, ti accorgi di ciò che ti sta intorno solo quando la palla va fuori o ci sono interruzioni. Durante l’azione senti la voce del compagno, ma non dei tifosi". 

SULLE RELAZIONI 

"Se fare il calciatore ci fa avere più possibilità di conquiste? Guardami Fedez, sono brutto come la fame. Direi di sì". 

Mario Sconcerti per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2022.

Davanti a un rinnovo di contratto, tra giocatore e società mi viene sempre spontaneo scegliere la società. Non perché sia più buona, solo perché è l'unica indispensabile. Il giocatore, anche molto forte, può sempre essere sostituito, la società no. Dybala ha sostituito Tevez alla Juve, Tevez aveva sostituito nel tempo Ibrahimovic e sopra a tutti ha sempre navigato Del Piero che a sua volta aveva eliminato Baggio. Ci sarà chi sostituirà anche Dybala. Ma in questo caso il problema non è il giocatore. Dybala gioca da sette anni nella Juve, di lui la Juve conosce qualunque sfumatura del gioco e dell'anima, è perfettamente in grado di dargli una valutazione economica.

È un finto scopo aspettare altre dimostrazioni. Dybala è nel momento migliore, tra due o tre anni comincerà ad essere qualcosa meno, ma quello che resta è un tempo accettabile. Perché allora siamo in questa strana guerra che l'Avvocato avrebbe risolto con un mazzo di rose alla compagna di Dybala? Non può essere una questione di soldi, la Juve spenderebbe molto di più per sostituire Dybala. E non può essere una questione tecnica. Se il giocatore è sano, e deve esserlo visto che gioca, è un titolare in quasi tutte le squadre d'Europa. 

Allora, qual è il vero problema? È che siamo davanti a un confronto asimmetrico. La società ha tante bocche, può parlare ogni volta che lo ritiene opportuno. Dybala deve per contratto tacere. Sappiamo quindi solo i bisogni della Juve, non quelli di Dybala.

Arrivabene è un grande professionista, porterà alla Juve un vantaggio di serietà e competenza nel suo ramo, ma prima di entrare a gamba tesa nel nuovo mondo deve conoscerlo e stare attento alle lusinghe della comunicazione. Lui e Nedved hanno fatto diventare emotivo, quindi poco gestibile, un problema che era solo economico. E hanno fatto diventare universale un problema che era strettamente privato. Non si discute in pubblico lo stipendio di nessuno. Ripeto, tra la Juve e Dybala è sempre da scegliere la Juve, è lì la casa comune, lo spartito, Dybala è solo un interprete. Ma per capire bene le strane complicanze di una storia che è sempre stata acqua di fonte visto che a ottobre c'era già l'accordo ufficiale, non bisogna partire da Dybala. Lui non è cambiato, fa un lavoro semplice.

Bisogna partire dalla Juve, è lì che sono avvenuti i cambiamenti. Non nella posizione o nelle cifre, quelle sono meno importanti. La Juve è cambiata come uomini, come psicologia di azienda. È come fosse spaventata, ma non è chiaro da cosa. È come non avesse più nostalgia del futuro. Non credo a una crisi economica grave. La società è stata risanata da settecento milioni di aumento di capitale in due anni. Nessuno in serie A ha fatto aumenti di capitale nemmeno a fronte della pandemia. 

La Juve continua a partire da una differenza economica incolmabile per gli altri, ma commette errori insistenti e i più svariati: ha cacciato in due anni due tecnici che avevano vinto il campionato per poi riassumerne uno a costi quasi doppi e responsabilità maggiori; Ronaldo se n'è andato da solo improvvisamente e quasi gratis; si è portata sulle spalle il caso Suarez, la Superlega, la questione plusvalenze. La Juve ha possibilità vaste di mercato anche solo scambiando giocatori, alla peggio vendendone qualcuno. Ma non ci riesce. Questo è un grande problema.

L'Atalanta ha preso 50 milioni per Romero che era un giocatore della Juve. Le strade quindi ci sono ancora, ma non le imbocca la Juve. A volte penso abbia già preso Vlahovic e questo la freni preparandosi a pagarne il prezzo intero, commissioni comprese (venti milioni). Altre che stia implodendo qualcosa in una società che sta portando in evidenza l'anomalia della sua fonte. Agnelli non è il proprietario, per i finanziamenti deve chiedere ad altri. E chiedere non è giustamente il suo mestiere. C'è insomma da qualche parte nella complessità della Juve un problema profondo che l'essere Juve non permette di coprire quanto servirebbe.

Dybala non c'entra niente, è una conseguenza. Non arriva a toccare la Grande Macchina della Juve, la impolvera. Il nodo è nel peso che avvolge la società, l'assenza di idee, questa nuova disposizione di un'azienda padrona ad inseguire gli altri, a non avere più prepotenza. È come un leone che aspetta ferito una preda: ma ferito da chi? Da cosa?

Pasquale Bruno. Ivan Zazzaroni  per il Corriere dello Sport il 18 giugno 2022.  

«Vlahovic, Chiesa, Dybala, Zaniolo, Lukaku? E questi sarebbero campioni? Non fatemi ridere. E perché non parliamo dei difensori di oggi? Sogno di vedere Bonucci costretto a marcare in campo aperto Maradona o Van Basten, Careca o Aguilera. I veri fenomeni erano quelli di un tempo, di un calcio in cui la serie A dominava il mercato: Vierchowod, Gentile, Francini, Ferrara, Annoni, anche Villa». 

Sulle prime ho pensato: Pasquale Bruno deve aver fuso le bronzine: sta preparando la sua decima Sellaronda Hero, avrà i muscoli in pappa e il cervello in lockdown. Poi, conoscendolo bene, mi sono reso conto che avrebbe detto le stesse cose anche se fosse appena riemerso da una seduta di massaggi ayurvedici.  

 Animale compie sessant’anni domani. «Quattro gambe buono, due gambe cattivo» secondo George Orwell che morì dodici anni prima della nascita di Pasquale Bruno e non poté quindi trovare su un campo di calcio altri riscontri al suo assunto. 

«La mountain bike è un mezzo più simile a me, al mio carattere» mi confessava ieri l’ex guerriero del Comunale tra un tornante e l’altro «nella bici da strada non mi riconosco. Salite, discese, salti, difficoltà, fango, sono io. Sellaronda Hero è lunga 86 chilometri, duemila metri di dislivello, pendenza massima dell’11 per cento. Altro che Cannavaro che passeggia su strada. Impiego una decina di ore. Quando ero più allenato, otto. I più forti la chiudono in quattro e mezza. Per arrivare fin qui undici ore di pulmino ci siamo fatti, partendo da Lecce».  

Il migliore di tutti noi, Adalberto Bortolotti, ti definì così: «Bruno non è un violento, ma un esibizionista della violenza». 

«Non ero un attore, non recitavo. Tutto istinto e radici e il sangue che mi ribolle nelle vene. Ancora oggi riesco a litigare con chi arriva da dietro urlando “pista! pista!”. Non gli lascio il passaggio e lo prendo a maleparole. “Va’ alle Olimpiadi, coglione!, se mi stai dietro vuol dire che sei scarso”. Soccombo solo a casa, tutte sconfitte». 

Un classico.  

«Con cinque femmine non conto un cazzo, mi arrendo anche alle due nipotine, Sara e Sofia, le figlie di Chevanton. Marcella, mia moglie, mi sopporta dall’84. Quanti anni sono?».   

Trentotto. Forte in aritmetica, eh?  

«Lei ha sempre odiato il calcio, come le nostre figlie. Un giorno una di loro, Sandra, o forse fu Marta, mi chiese a cosa servisse la bandierina. Risposi che le avevano messe per segnalare l’atterraggio di un aereo. Marcella è venuta allo stadio una volta sola, contro la Lazio. Espulso. Non ne ha più voluto sapere».   

Sei ancora il recordman dei cartellini rossi, il Nobby Stiles o il Vinnie Jones de noantri.  

«Montero ne ha presi di più. Ho stabilito il primato dei gialli e delle giornate di squalifica. Un campionato e mezzo ho saltato. Otto domeniche soltanto dopo quel derby famoso».   

E hai chiuso bottega a trentacinque anni. 

«In Scozia, mi fermai per permettere a Marta di non perdere un anno di scuola, ma avrei proseguito volentieri. In seguito, con il Wigan, una sola presenza. Amo l’Inghilterra, il calcio inglese, la Scozia, quella gente».   

Al punto che collabori come intermediario con alcuni professionisti del Regno.  

«Più che altro sono amici. Jason Ferguson, il figlio di Sir Alex, Peter Reid, Sam Allardyce, Harry Redknapp».   

Complimenti, una bella compagnia di marpioni.  

(Ride). «Jason è un caro amico, ci conosciamo da una vita. Nel calcio scozzese ritrovai la libertà, nessuna sceneggiata, zero falsità e ipocrisie, tutto dentro i 90 minuti. Finita la partita, finito tutto».  

Una volta ammettesti di non avere amici neppure tra i compagni di squadra.  

«Non frequentavo nessuno. Al massimo qualche bevuta con Ian Rush. Chiusa la stagione, me ne tornavo nel mio Salento, arrivederci e grazie a tutti. Salento, altro che Formentera e la Sardegna».   

Sospetto che tu abbia avuto un’infanzia difficile, caro Pasquale.  

«Stai scherzando? Bellissima. La strada, il pallone, ore a giocare, gli amici, il sole. Ero il figlio del sarto, mia madre casalinga. Spesso consegnavo ai clienti gli abiti confezionati da papà. Anche mio suocero era sarto, a Lequile, un paese a meno di 8 chilometri da San Donato di Lecce. 

I due si conoscevano. Mio padre, quando seppe con chi mi vedevo, mi raccomandò di non fare cazzate. “Marcella è la figlia di un amico, stai molto attento”. Un soggetto, duro, schiena dritta. “Mesciu Pino”, il signor Pino lo conoscono tutti, è una leggenda del calcio giovanile salentino, juventino sfegatato. Tradì la Juve solo per la squadra nella quale giocavo io, ma quando lasciai il calcio tornò all’antico amore. Oggi ha 87 anni e sta in grazia di Dio».   

Il tuo rapporto con la Juve è pessimo: non le risparmi nulla.  

«Tre anni ci ho giocato. Una settantina di partite. Ho conosciuto la Juve vera, l’avvocato Agnelli, Boniperti. Dopo aver vinto la coppa con Zoff in panchina, mi presentai da Boniperti e gli chiesi di restare. Mi spiegò che stava per lasciare la presidenza a Chiusano e il comando a Montezemolo e che sarebbe arrivato Maifredi. “Mi spiace, ma tu e Rui Barros non rientrate nei piani dell’allenatore, dovete andare via - fu chiaro -, prometto che ti mando a giocare dove vuoi”. Lo pregai di farmici pensare e quando lo rividi dissi che mi sarebbe piaciuto il Toro, Torino era tutta granata, gli amici mi parlavano solo del Toro. Uno, due, tre e presi la malattia».   

E lui?  

«“Perché proprio da quelli?”. Però fu di parola».   

Da quel momento, sei diventato un ultrà granata.  

«Ho respirato profondamente l’anti-juventinità. Un sentimento forte che a Firenze si è accentuato. I fiorentini odiano la Juve più dei torinisti. Ricordo che nell’anno di Maifredi l’Avvocato veniva a vedere il Toro di Mondonico, una domenica Franco Costa della Rai gli chiese il motivo del tradimento. E lui: “Mi diverte”».   

Tu e Baggio non vi amavate.  

«Vero, ma Robi è stato il più grande calciatore italiano di tutti i tempi... Juve-Fiorentina 1-2 al Comunale, gol di Baggio e Di Chiara, entrai in scivolata, mi mandò sulla pista e segnò a Tacconi».   

Gli sferrasti un pugno.  

«Espulsi tutti e due. A fine partita venne verso il nostro spogliatoio accompagnato da due massaggiatori. Me ne disse di tutti i colori. Pensai, meglio che me lo tolgano di torno sennò lo uccido».   

Muscolare e eccessivo, sempre.  

«Mi chiedono spesso di contare quante partite avrei giocato con le nuove regole».   

La risposta?  

«Gli arbitri neanche mi ammonirebbero con gli attaccanti attuali, scarsi come sono. Non gliene darei motivo. Avrei bisogno di anticipare Belotti o Immobile quando ogni stop di Belotti finisce a tre metri? Non sto scherzando. Prima facevo fallo perché era impossibile anticipare Van Basten, Careca, Pato Aguilera, Ruben Sosa, e Maradona manco lo cito. Con la qualità che hanno adesso, figurati... Il calcio di oggi evito di guardarlo, una sofferenza, una tristezza, una noia. Anche la Nazionale l’ho vista poco e quel poco a strappi».   

«È vero, ho commesso un fallo volontario, in più avevo in tasca una pistola, una lupara e la magnum...».  

«Devo averlo detto dopo un Torino-Brescia di trent’anni fa. Pensa se quelle parole le avessi pronunciate oggi».  

Dovresti farci un pensierino tu.  

«Eppure c’era più umanità, allora. E più verità. La paura mangia l’anima e io paura non ne avevo e non ne ho».   

Sei sempre stato un provocatore.  

«Dimostri di non avermi ancora capito, bro. Io la libertà me la prendevo con i piedi e proseguo con la lingua. Dici che sono peggio di chi si nasconde dietro le buone maniere, l’ipocrisia e le sceneggiate? Io sono sempre vero, autentico».  

Vogliamo ricordare il dito medio ai 100mila del Bernabeu? 

«Ma scusa, 31 marzo ‘92, semifinale di coppa Uefa col Real Madrid, arriviamo allo stadio e i tifosi ci prendono a sassate, i vetri del pullman infranti, Giorgio Paretti, il preparatore, sanguinante. Lasciamo i borsoni nello spogliatoio e penso alé, ci siamo. Quando ci presentiamo sul campo prima della partita e vedo il Bernabeu pieno, mostro il medio al pubblico. Hierro, che era una bestia, Michel, Butragueño e Chendo se ne accorgono, scoppia la rissa. Rientro nello spogliatoio e Mondonico: “cosa è successo?”. Niente mister. Butragueño non tocca palla e noi andiamo in finale».   

S.A. per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2022.

Pasquale Bruno, detto O' Animale, ex difensore di Lecce, Como e Juve, bandiera del Torino, è uno dei grandi cattivi del nostro calcio. Bruno, sa che oggi i ragazzi possono giocare e arbitrare? «Interessante. Ho una società a Parabita, vicino alla mia Lecce, si chiama Soccer Dream: mi piacerebbe se qualcuno dei nostri giovani lo facesse. Ma non dovrebbero esserci i genitori».

Sono un problema?

«A volte io prendo il fischietto, in campo ci sono bambini di 7-8 anni, arbitrano i dirigenti. Ebbene, dopo 5 minuti mollo tutto: non riesco a sopportare quello che ascolto in tribuna». 

È per questo che si fatica a trovare nuovi arbitri?

«I ragazzi crescono in un ambiente malsano, hanno paura. Io li capisco. È la nostra cultura, ce l'abbiamo sempre con l'arbitro».

Gli insegnamenti sbagliati arrivano dall'alto.

«Prendete Mourinho: la Roma è settima e lui dà la colpa agli arbitri. Ma si può? E ora, se il Milan non vince lo scudetto, ha senso dare la responsabilità a Serra? Ha sbagliato, va bene, però c'è un limite a tutto. Meno male che Pioli ha avuto buon senso». Lei ha giocato in Scozia. «Li adoro, hanno un'altra testa: niente chiacchiere e polemiche, semmai un bel tackle duro. Quello è calcio, guai a chi simula». 

Da noi ci sono i simulatori?

«Non li vedete? Tutti gridano e si mettono le mani sulla faccia anche se vengono sfiorati sul petto. L'esempio è Bonucci: in Italia fa quello che vuole, con la Nazionale lo hanno espulso in due minuti».

Ma lei non era quello cattivo? (ride)

«Non sono pentito, eh... Ma a volte mi dico: forse qualche volta ho esagerato».

Se potesse, farebbe l'arbitro?

«Sì, mi piacerebbe: avrei il carattere giusto. E ammonirei subito tutti i simulatori, tanto li conosco uno per uno». 

Luigi «Gigi» Sartor. Gigi Sartor: «Ero “Mister Miliardo”. Poi l’arresto, la droga. Ora pago i miei errori». Il giocatore trevigiano: dall’esordio nella Juventus agli scandali: «Guadagnavo 200 milioni a mese, adesso sono ai domiciliari. Il calcio non mi ha mai reso felice». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.  

«Metà anni Novanta, io gioco nel Vicenza. Davanti a noi c’è il Padova ma non sto bene: per tutta la settimana ho fatto delle infiltrazioni per un forte dolore al piede. Mister Guidolin dice che devo stringere i denti, perché quella partita è importante. A un certo punto Nicola Amoruso si lancia in avanti, palla al piede. In pochi secondi è di fronte al portiere, sta per tirare ma io scatto, lo recupero e gli porto via il pallone un attimo prima che faccia gol».

Bella. Ma davvero crede sia questa l’azione più significativa di tutta la sua carriera?

«Aspetti, non è finita. A quel punto esco perché il dolore è insopportabile. La sera faccio la risonanza e i dottori scoprono che avevo giocato con una frattura al piede. Rimasi fermo per quattro mesi. È il genere di sacrificio che richiede il calcio. Uno dei tanti che devi essere disposto ad accettare».

Luigi Sartor, trevigiano, 46 anni, tra il 1992 e il 2009 ha vinto tre Coppe Uefa con indosso la maglia di Juventus, Inter e Parma, e due Coppe Italia col Vicenza e, di nuovo, col Parma. Ancora minorenne fu ribattezzato «Mister Miliardo»: mai prima di allora una società (la Juve) aveva osato pagare una cifra a nove zeri per il cartellino di un baby-calciatore. Mentre pesca tra i ricordi degli anni dei trionfi, degli autografi e degli stadi pieni, è nella cucina del suo appartamento nel capoluogo emiliano dove sta scontando ai domiciliari la condanna a un anno e due mesi per detenzione di droga. L’hanno arrestato il 12 febbraio: con un complice coltivava piantine di marijuana in un capannone a Lesignano Palmia. Da allora, può uscire solo al mattino, per lavorare in una ditta di Parma. Il calcio non lo segue quasi più. «Mia madre gestiva un negozio a Mogliano Veneto – racconta - papà era un militare dell’Aeronautica e lo vedevo solo la sera. Sono cresciuto tra i campi, le vigne. Da bambino ero piuttosto indipendente, fantasticavo di diventare un supereroe anche se sapevo che probabilmente sarei finito a fare l’idraulico o il fornaio».

Quando ha iniziato, invece, a sognare di fare il calciatore?

«Non l’ho mai sognato. Mi piaceva l’atletica, ero velocissimo. Ma i miei amici giocavano tutti a calcio e così, per non stare sempre da solo, mi presentai nel campetto dove si allenavano e chiesi se potevo entrare nella squadra. Avrò avuto 9 o 10 anni. Dopo qualche tempo passai alle giovanili del Padova».

Fu lì che la notarono i talent scout della Juve…

«A 15 anni un dirigente del Padova mi convocò, pensavo volesse cacciarmi perché avevo combinato qualcosa. Invece disse: “Andiamo a Milano. I tuoi genitori sono già avvisati e ci raggiungeranno”. Era la prima volta che salivo su un taxi. Arrivammo nella sede del calciomercato e parlammo a lungo coi dirigenti del Milan. Poi con quelli della Juve. Ricordo che guardavo mamma e papà cercando un consiglio e mio padre era come imbambolato, con lo sguardo nel vuoto. Due giorni dopo ero di nuovo su un taxi, stavolta diretto a Torino».

Adolescente, era già un giocatore strapagato.

«Tutti mi fissavano, sui giornali c’era la mia foto con su scritto “Ecco Mister Miliardo”. Fu uno choc. Ma parliamoci chiaro: non valevo quei soldi. Nessun calciatore di 15 anni li vale. Credo che le giovanili di Milan e Juve innescarono un’asta al rialzo inseguendo la logica di impedire alla società rivale di mettere le mani sui giovani talenti. Ad ogni modo il denaro finì tutto al Padova: io non venivo pagato. Avevo però uno sponsor che versava cinque milioni di lire ai miei genitori e mi inondava di materiale tecnico. Per guadagnare qualcosa, rivendevo le scarpette ai miei compagni per 30mila lire».

L’esordio con la prima squadra arrivò a 17 anni…

«Trapattoni entrò nello spogliatoio e mi disse: “Domani giochi con noi a Firenze”. Nello stadio mi tremavano le gambe, è una sensazione che non si può descrivere. Ero agitato, non mi sentivo pronto. Feci autogol e perdemmo due a zero».

Fu comunque il suo ingresso nel calcio che conta. Poi il passaggio alla Reggiana, ma poi anche all’inter, al Vicenza, all’Hellas… E la Nazionale. Sarà stato al settimo cielo.

«Il calcio non mi ha mai dato felicità. Gratificazioni tante, soldi anche. Ma non credo di essere mai stato felice in quel mondo. Quando a 21 anni guadagni 200 milioni al mese, la prima cosa che accade è che ti ritrovi circondato da una pletora di persone che vogliono trascinarti in giro, che insistono per sfoggiarti come fossi un trofeo, per portarti a cena al ristorante che tanto poi il conto lo pagherai tu, perché sei ricco… Ma soprattutto, quelle persone ti danno sempre ragione. E quando ti abitui così, finisci con l’allontanare i veri amici, gli unici che avrebbero il coraggio di dirti quando stai sbagliando o di avvertirti se ti stai cacciando nei guai».

In quegli anni ha giocato con Baggio, Del Piero, Batistuta…

«Ho grande stima di loro, sono dei fuoriclasse. Io invece non mi sono mai sentito un campione: al posto dei piedi ho dei ferri da stiro, non ero bravo tecnicamente. Però ero velocissimo e ho costruito la mia carriera sempre sullo stesso schema: lasciavo entrare l’avversario e, quando si allungava la palla, io scattavo, lo affiancavo, lo superavo, e gliela portavo via. Tutto qua. Se li avessi affrontati frontalmente, gli attaccanti mi avrebbero probabilmente dribblato senza grosse difficoltà».

Prima accennava al cacciarsi nei guai… Il 19 dicembre 2011 finì in carcere per lo scandalo calcioscommesse, nell’ambito dello stesso filone in cui indagarono anche Beppe Signori.

«Fu drammatico, in un attimo la mia vita era distrutta. Mi sono sempre professato innocente e infatti il cosiddetto “gruppo di Singapore”, col quale avrei fatto da tramite per pilotare le scommesse in Asia, ne uscì pulito. L’intera inchiesta si è rivelata - in gran parte - solo una bolla di sapone. È lì che ho smesso di credere nella Giustizia».

Se la cavò pure lei, con la prescrizione. Invece Signori ci ha rinunciato e nei mesi scorsi, dieci anni dopo il blitz, è stato assolto.

«Volevo fare la stessa scelta, ma il mio avvocato mi disse: “Una prescrizione non si rifiuta mai”. Decisi di dargli retta. Col senno di poi sarebbe troppo facile dire che fu uno sbaglio».

Perché quest’anno s’è messo a coltivare marijuana?

«Ho fatto una cazzata, l’ho subito ammesso in tribunale. Quel mio amico mi disse che la cannabis serviva a suo padre, malato di cancro. Io andavo solo a innaffiare e di certo non mi sarei messo a spacciare droga…».

Quasi cento piante per le cure palliative di un’unica persona?

«Lo so, lo so… Ho sbagliato e, come vede, sto scontando la pena».

Per tante persone i calciatori sono dei modelli da imitare. Crede che la sua vicenda possa insegnare qualcosa?

«Vuole la morale della storia? Non c’è. O forse è quella che mi insegnavano mamma e papà quand’ero bambino: la vita ti mette davanti a scelte giuste o sbagliate, spetta a te imboccare la strada corretta. E se non ce la fai, alla fine, c’è sempre un prezzo da pagare».

Patrice Evra. Alessandro Grandesso per gazzetta.it il 12 gennaio 2022.  

Resta un tabù quasi assoluto, l'omosessualità nel calcio, maschile. Lo dice Patrice Evra in un incontro con i lettori del quotidiano Le Parisien, per presentare la versione francese della sua autobiografia. Un libro confessione, dove l'ex terzino di Manchester United e Juventus, svela per che in ogni squadra ci sono almeno due gay. E poi parla degli abusi subiti da tredicenne: “Devo testimoniare per spingere ragazzi e ragazze vittime di violenze a non chiudersi nel silenzio”.

GAY

Quello degli abusi sessuali è un capitolo che Evra aveva già ampiamente raccontato in varie interviste in Inghilterra, dove ha vissuto gran parte della sua carriera, anche da capitano dei Red Devils. Ma Evra fa un passo in più e punta dritto verso un altro territorio oscuro del mondo del calcio professionistico: “Nel calcio tutto è chiuso. Se da calciatore dici che sei gay, sei morto. Ricordo una volta venne una persona a parlare di omosessualità alla squadra. Certi colleghi dissero che l'omosessualità era contro la loro religione e che se c'era un gay in spogliatoio bisognava cacciarlo dal club. Io ho giocato con gay, ne hanno parlato con me, da soli, perché hanno paura di aprirsi pubblicamente. Ci sono almeno due gay per squadra. Ma nel calcio se lo dici sei finito”. 

SILENZI

Una testimonianza importante, nonostante Evra in passato si sia illustrato in dichiarazioni non proprio rispettose, dando del “frocetto” a chi lo criticava, o anche ai giocatori del Psg dopo l'eliminazione dalla Champions, per mano del Manchester United nel 2019. In ogni caso, Evra, molto seguito anche sui social si esprime pure sulla necessità di non rimanere nel silenzio, quando si subiscono abusi sessuali da ragazzini: “L'ho raccontato non tanto per me, ma per chiunque si trovi nella mia stessa situazione di quando fui stuprato da 13enne. Ho tenuto dentro tutto per anni fino a quando, guardando una trasmissione televisiva sul tema, non scoppiai in lacrime e confessai tutto a mia moglie. Bisogna sempre parlare e denunciare chi commette tali atti, anche se i colpevoli sono dei familiari, per non vivere nel trauma”.

RAZZISMO

Infine, Evra ribadisce la sua battaglia contro il razzismo, bollando come insufficiente quanto fatto finora: “Quando è venuta fuori la storia della Super Lega tutto il pianeta calcio ne ha parlato, con prese di posizioni radicali. Mi sono chiesto perché non si fa lo stesso per combattere il razzismo. Semplicemente perché non c'è in gioco denaro. Non è una soluzione vietare ai razzisti di andare allo stadio. Bisogna invece parlarne nelle scuole, nelle famiglie”.

LA LAZIO.

Maurizio Sarri. Alessandro Bocci per corriere.it il 25 ottobre 2022.

Scorbutico, polemico, incallito fumatore, l’uomo in tuta, allergico alla giacca e soprattutto alla cravatta, sembra appartenere a un’altra era e invece è modernissimo quando si chiude nel suo laboratorio e inventa un calcio che, nel momento in cui funziona, non ha eguali. Maurizio Sarri è tornato, o forse non è mai andato via. Bastava cercarlo, aspettarlo, aiutarlo. La Lazio che domina in casa dell’Atalanta è una piccola meraviglia e ci ha ricordato il Napoli più bello di De Laurentiis. Sarrismo puro, l’elogio della bellezza, che i napoletani hanno sbandierato con orgoglio durante il lungo braccio di ferro con la Juventus. 

Ora Mau se lo gode la Lazio, perfetta, elegante, fatta proprio a immagine e somiglianza del suo allenatore, un calcio fatto di triangolazioni rapide e verticali, di inserimenti perfetti, di controllo esagerato del pallone in ogni zona del campo. Qualcuno lo ha paragonato al tiki taka, che ha esaltato il Barcellona di Guardiola, ma lo stesso Sarri si è affrettato a precisare che lui, con la filosofia catalana, non c’entra niente. Il controllo del gioco, nel calcio sarriano, non è mai fine a se stesso, lo sviluppo raramente è orizzontale, ma porta in fretta nell’area avversaria. Nel calcio perfetto, e in certo momenti utopico del tecnico di Figline Valdarno, ogni reparto deve muoversi in funzione dell’altro. Il collettivo prima del singolo.

La rivoluzione, al secondo anno in biancoceleste, parte da lontano, dalla difesa con orientamento sulla palla anziché sugli avversari. Gli esterni bassi della linea a quattro sono assaltatori, gli esterni alti frecce che colpiscono al cuore ma al tempo stesso pronti a sacrificarsi in un duro lavoro di copertura che garantisca l’equilibrio necessario. I numeri spiegano la trasformazione da un anno all’altro. 

La Lazio non prende gol da sei partite e 569 minuti, in totale ne ha incassati 5 contro i 19 della scorsa stagione. La differenza è qui, ma anche nella fiducia della squadra nel lavoro quotidiano a Formello. La Lazio adesso crede nel suo demiurgo. Sono stati bravi Lotito a Tare, che al secondo anno hanno deciso di accontentare, nei limiti del possibile, i desideri dell’allenatore, andando incontro alle sue richieste sul mercato.

Sarri non è un integralista, ma il suo gioco si sviluppa secondo canoni precisi, quello che non hanno capito alla Juventus. A Torino, lo hanno ingaggiato cercando poi di snaturarlo. Un feeling mai nato che però ha portato lo stesso uno scudetto. Se lo avessero seguito nel lavoro di costruzione magari le cose sarebbero andate diversamente. Meglio per la Lazio, che non lo dice ma, sotto sotto, spera di andare oltre il sogno di ritrovare un posto in Champions. 

Oggi è, insieme al Napoli e forse più del Milan, la squadra migliore, più logica, lucida, divertente. Abile a trasformarsi. Con Immobile, il capocannoniere del campionato (infortunato), cerca la verticalità. Con Felipe Anderson falso nove non dà punti di riferimento e migliora il palleggio. In ogni caso un calcio artistico, limitato all’Olimpico dalle condizioni del campo che penalizza la precisione tecnica del gioco. Sarri se ne è lamentato, come spesso degli arbitri, del calendario, del calcio ostaggio delle televisioni.

A volte è brutale, sgradevole. Altre divertente, sarcastico come i toscani sanno essere: «Non so cosa sia il sarrismo, dovete chiederlo a mia moglie». E ride mentre se ne va da Bergamo, consapevole che è nata una stella, ma che la strada è lunga e tortuosa: «Un mese fatto bene riesce a tutti, per vincere bisogna essere bravi tutta la stagione». È la prossima sfida. La più difficile.

Claudio Lotito. Elezioni Politiche 2022. Lotito show, il comizio in Molise a suon di gaffe: “Non lo conosco, ma mio nonno era abruzzese di Amatrice” (che ora è nel Lazio). Carmine Di Niro su Il Riformista il 29 Agosto 2022 

Con una battuta è riuscito nell’impresa di compiere una gaffe e mezza. Parliamo di Claudio Lotito, vulcanico presidente della Lazio e candidato con Forza Italia nel collegio uninominale del Senato nel piccolo Molise, con grande insoddisfazione degli attivisti locali del partito che hanno dovuto fare i conti con la candidatura imposta dall’alto dello stesso Lotito e del leader dell’Udc Lorenzo Cesa (alla Camera).

Intervenendo al Centrum Palace di Campobasso per la presentazione dei candidati di Forza Italia, davanti allo stato maggiore del partito, Lotito nel corso del suo discorso è incappato in uno scivolone imbarazzante: “Lo ammetto, non conosco il Molise ma quando mi hanno indicato per la Regione sono stato onorato perché le mie origini, mio nonno materno, era abruzzese di Amatrice”.

Dunque nessuna conoscenza del Molise, ma qualche problemino anche col Lazio: Amatrice infatti fa parte della provincia di Rieti. Lotito poi, contattato dal Corriere della Sera, ha replicato sottolineando (a ragione) che Rieti fa parte della provincia di Rieti ‘solo’ dal 1927, anno di creazione della Provincia sotto il regime fascista, mentre in precedenza il territorio era parte della provincia de L’Aquila.

“Conoscendo benissimo Amatrice, dove ho una bellissima azienda agricola da 300 ettari e tre ville, ho affermato a ragion veduta che è territorio abruzzese perché quando mio nonno è nato, e parlo dell’Ottocento, faceva parte degli Abruzzi e della provincia de L’Aquila. Anzi, c’è un tentativo di referendum per riportare Amatrice a L’Aquila”, prova a giustificarsi l’imprenditore.

Nel suo intervento a Campobasso Lotito, tirando in ballo il ‘tormentone’ del “Molise non esiste”, ha sottolineato come quello molisano sia “un territorio fantasma”. “Oggi per venire qui ho impiegato un sacco di tempo, ho visto le strade che sono quelle degli anni ’60, ma proprio non è possibile valorizzare il territorio senza infrastrutture all’altezza”, le parole del presidente della Lazio e candidato di Forza Italia.

Quindi un passaggio calcistico, rievocando un episodio del 1987, quando la Lazio con uno spareggio contro il Napoli provocò la retrocessione del Campobasso, evocando un possibile “risarcimento” ai tifosi rossoblù, che hanno visto questa estate il club venire escluso dal prossimo campionato di serie C.

“Non è possibile che il Molise non abbia una squadra tra i professionisti. Non sono venuto qui dicendo che compro il Campobasso per prendere i voti, no. Io dico solo che sono a disposizione, anche con un coinvolgimento in prima persona, perché voglio, questo lo dico da candidato e spero da eletto ma dipenderà da voi, che il Campobasso torni nel calcio professionistico: i tifosi meritano questo”, le parole di Lotito che hanno provocato ulteriore bufera.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 4 agosto 2022.  

«Ne fumo settanta, ottanta al giorno, tre pacchetti mi vanno tutti». Maurizio Sarri in una smorfia complice: capisce di avermi turbato. Poi mi sorride. «Ho fatto gli esami un paio di mesi fa, con tanto di liquido di contrasto, è tutto a posto».   

In effetti sembra in gran forma. 

Eccoci uno di fronte all’altro in un’insolita one to one. Mi godo il gioco di riflessi fra ieri e oggi, contagiato dal la sua affabilità e da una serenità quasi complice . Perde qualche minuto per elencar e le bellezze del nuovo centro sportivo, Formello land: il Lazio Lab, l’enorme palestra, i cinque campi al piano superiore.

«Di sotto è un po’ claustrofobico, ma ugualmente fantastico , se ripassi ti porto in giro e te lo mostro. Questa è la sala d i video, alle cinque e mezza s’analizza insieme il Valladolid, giochiamo sabato. Loro alzano immediatamente gli esterni difensivi, i centrali si allargano e i due centrocampisti fanno questo movimento (lo illustra con le dita), uno si abbassa e l’altro si mette dietro , si scambiano spesso la posizione. Non sarà semplice attaccarli con il nostro 4-3-3».   

Partiamo bene. Maurizio, quale la squadra che ha espresso il calcio più vicino alle tue idee?  

«L’ultimo Napoli, quello dell’ultimo anno intendo. Giocava il calcio che avevo in mente, un calcio di coinvolgimento totale. Ma anche nelle stagioni di Empoli avevo ricevuto dai ragazzi quello che volevo. Al Chelsea e alla Juve sono stato troppo poco per poter incidere in maniera pesante. E poi oggi è più difficile, più il tempo passa e più si afferma l’individualismo, e non solo nel calcio. È un cambiamento generazionale, non mi piace e impone degli adattamenti. Anch’io sono cambiato, in parte mi sono adeguato».   

Oggi non puoi non soddisfare alcune mie curiosità, chiarire alcuni passaggi della tua carriera. Partiamo dai contrasti con Chiellini nelle prime settimane alla Juve.  

«Nella fase iniziale non ce ne furono. Se ricordo bene, nella prima partita Chiellini giocò e segnò pure. E due giorni prima della seconda, col Napoli, si ruppe i crociati. E r a una Juve giunta a fine ciclo e io me ne accorsi subito».  

Aveva Ronaldo.

«Ho il rimpianto di non averlo potuto allenare da giovane. Ho trovato un giocatore che si era affermato attraverso un certo calcio ed era diventato un’icona mondiale. L a squadra doveva adattarsi a lui, non il contrario. Con me segnò 33 gol in campionato e quattro in coppa e insomma non è mai semplice convincere un campione con fatturati del genere a cambiare percorso».   

Il tuo percorso.  

«A me piace un calcio in cui tutti s i mettono al servizio del collettivo per sviluppare un gioco in cui i movimenti, tanto quelli difensivi quanto quelli offensivi, non prevedono esenzioni di alcun tipo».   

Ti dobbiamo alcuni termini che sono diventati di uso comune. Prima di Sarri la difesa non “scappava” all’indietro.  

Sorride stringendo gli occhi. «Anche l’introduzione del drone in allenamento mi dovete».   

Giusto, a Empoli.  

«Fu davvero casuale. Da due mesi si girava sul tetto della tribuna per inquadrare la linea difensiva e verificare gli allineamenti dei quattro. Ma a un certo punto l’osservazione risultava in diagonale e quindi imperfetta, imprecisa, inutile. Un amico di Accardi, che possedeva la licenza per l’impiego dei droni, ci disse che sarebbe stato facile per lui fornire il servizio ideale… ed era esattamente quello che volevo. Oggi i droni li usano tutti: ai ragazzi puoi mostrare le immagini dall’alto e intervenire per correggere chi ha fatto il movimento sbagliato, ritardato o anticipato».   

Sei considerato tra i pochi allenatori in grado di migliorare i calciatori, un altro è Conte.  

«Abbiamo filosofie diverse però, al di là della bravura di Antonio, quello che fa la differenza è sempre la disponibilità dei ragazzi, la fame, la voglia di perfezionarsi. Con i “non arrivati” è più facile. In carriera il più veloce a comprendere quello che chiedevo è stato Albiol, difensore di  livello superiore . In pochissimo tempo capì tutto , al punto che io potevo anche starmene a casa, l’allenamento avrebbe potuto dirigerlo lui».  

Hai cambiato anche la sostanza tattica di Mertens.  

« Avevamo tre esterni d’attacco per due posti, la grande qualità di Lorenzo e l’equilibrio che garantiva Callejòn erano imprescindibili, così Mertens trovava poco spazio. A Bergamo, in dieci contro undici, tolsi Higuaìn e misi Dries centrale. Venti minuti mostruosi, prese due rigori, insomma li fece impazzire. L’anno dopo, quando persi Milik durante la sosta della nazionale - si ruppe i crociati - decisi di riproporlo in quella posizione» .   

Maurizio, cosa rappresenta la Lazio per te , oggi ?  

«Qui sto bene, mi piace l’ambiente, ho la possibilità di esprimermi e soprattutto di divertirmi. Anch’io sono cambiato, ora il lavoro mi deve procurare divertimento, è cambiato il mio sentimento nei confronti del calcio. Mi piace anche la gente laziale, da fuori mi ero fatto un’idea completamente diversa , sbagliata . Il 99 per cento del popolo laziale è formato da famiglie, da giovani. E lavorare in un club che non appartiene a un fondo ma a una famiglia, mi dà gusto. Allo stesso tempo mi rendo conto delle difficoltà economiche che si possono incontrare, minori risorse, certo».   

Il capofamiglia n on è popolarissimo tra la sua gente . L’hanno ribattezzato il “gestore”. 

«Non riesco a capire fino in fondo i motivi della sua impopolarità, come l’hai definita. Comunicazione? Possibile. Ma Lotito ha preso la Lazio che era un disastro e bene o male la tiene costantemente tra le prime 5, 6 e in Europa. Pensa, io lo trovo piacevole, è un uomo di spirito ed è uno che ti ascolta».   

Il mondo si è fatto un’ idea diversa 

«Lotito avrà mille altri difetti, ma è di rara intelligenza, ha una cura ossessiva dei dettagli e soprattutto sul piano sportivo lascia piena autonomia».   

Allora è Tare che non digerisci.  

«Non ho mai avuto problemi con lui. Possiamo non concordare sulla valutazione di un giocatore o su alcune scelte, ma questo rientra nella normale dialettica di un gruppo di lavoro».   

Sul mercato quanto incidi?  

«Se non mi viene chiesto un nome non lo faccio. Illustro le caratteristiche tecniche, i parametri caratteriali della figura che mi serve, e pongo molta attenzione sul dato anagrafico . La stagione scorsa eravamo una delle squadre più vecchie d’Europa, il ricambio era necessario».  

Perderai Luis Alberto?  

«Per il secondo anno di seguito ha espresso la volontà di finire la carriera in Spagna. Più che in Spagna in generale, proprio a Siviglia. Non so dirti se l’avrò ancora a inizio settembre. Ragazzo intelligente, gran bel giocatore e carattere, se vuoi, particolare».   

E Milinkovic, negli ultimi mesi è cresciuto tanto?  

«Sergej è di livello altissimo, piccoli difetti e potenzialità ancora inesplorate. In alcuni momenti della partita privilegiava l’estetica, la giocata che definisco effimera, a scapito dell’efficacia. Però è vero, nell’ultima parte del campionato ha cercato la funzionalità e ha fatto la differenza».   

Ricordo che pochi mesi prima dell’ arrivo a Roma , quando ancora ti si immaginava altrove, mi sorprendesti dicendo che secondo te la Lazio aveva vinto meno di quanto avrebbe potuto. Ricordo ancora le tue parole: ha un centravanti che garantisce 30 gol all’anno e il centrocampo più forte d’Italia, il più completo .  

«Il perché l’ho capito dopo»

Sorride di nuovo.  

Chiarisci.  

«Le manca l’equilibrio della grande squadra. Tanto quello mentale quanto quello tattico. Nella partita secca poteva e può battere chiunque, il guaio che è molto spesso si fa mancare , si perde . Quello che desidero quest’anno è mostrare una squadra vera e dai primi allenamenti ho ricevuto sensazioni molto positive».   

Nella stessa città lavorano gli opposti, tu e Mourinho.  

«A me Mourinho sta anche simpatico. Le differenze dipendono in prevalenza dal punto di partenza, dalle origini. Io sono cresciuto tra i Dilettanti, gente di un altro livello, dove per vincere dovevo incidere tanto, e in modo feroce, per compensare i limiti dei singoli. Mourinho è partito dal Barcellona e ha investito molto sulla qualità dei giocatori. Tra Stia e Barcellona c’è un bel cazzo di differenza… E poi io sono toscano di monte. Come Luciano (Spalletti, nda)».  

E Allegri di scoglio, Lippi di sabbia…  

«Anche Mazzarri è di sabbia, siamo brutta gente».   

Non ti ho ancora chiesto di Acerbi.  

«Nulla di tecnico, a fine stagione ha espresso il desiderio di cambiare aria e la società cercherà di accontentarlo, per questo sono stati fatti altri programmi».  

Da corrieredellosport.it il 6 settembre 2022.

Ciro Immobile chiude il caso evasione. Di stamattina la notizia sulla questione riguardante il suo passaggio dalla Juve al Genoa di dieci anni fa. Il bomber della Lazio, con un post su Instagram, fa chiarezza: 

“Rispondo agli articoli di questa mattina che parlano di una mia vicenda personale: senza entrare nelle questioni tecniche che lascio chiarire ai professionisti, tengo a ribadire innanzitutto la mia buona fede rispetto alle contestazioni mosse tempo fa dall’Agenzia delle Entrate e, cosa più importante, ricordo che l’importo richiesto era stato già bonificato prima della pubblicazione della sentenza della Cassazione. Con affetto, Ciro Immobile”.

Il tutto chiuso con l’emoji di tre limoni, sfottò che Ciro usa ironicamente quando deve rispondere a qualche critica. Poi la storia polemica: "Ci tenevo a ringraziare tutte le prime pagine che hanno pensato a me, non mi era mai capitato di finire in prima pagina nemmeno quando ho vinto la Scarpa d'Oro! Sono soddisfazioni! Grazie di cuore".

Da calciomercato.com il 6 settembre 2022.

Ciro Immobile è finito nei guai con il fisco italiano ed è stato condannato dalla quinta sezione civile della Cassazione per evasione fiscale in merito al passaggio dalla Juve al Genoa datato 2012. Per i giudici della sezione tributaria i due club sono estranei alla vicenda, ma il trasferimento del centravanti italiano è il centro dell’indagine della Guardia di Finanza che poi ha portato al verdetto dei magistrati di pochi giorni fa. 

All’epoca Immobile aveva solo 22 anni e viene valutato 4 milioni di euro dal Genoa che lo acquista dalla Juventus. A gestire la trattativa c’è Alessandro Moggi, figlio di Luciano e noto agente, che in quell'ocasione ricopre il ruolo di consulente del Genoa nell'affare. 

Secondo gli inquirenti, tuttavia, Moggi ha però agito anche con un mandato diretto per ricoprire il ruolo di manager del calciatore e, di conseguenza, deve essere lo stesso giocatore a pagarne compenso e relative tasse al fisco.

"Maggiore Irpef dovuta" è quanto scritto dai giudici nell’ordinanza, fatto che, purtroppo per Immobile, non è avvenuto. Il capitano della Lazio si è difeso dicendo che all'epoca "il mandato era stato dato in esclusiva a un diverso agente, Marco Sommella" eppure gli inquirenti hanno trovato dei rapporti diretti fra Sommella e Moggi come, ad esempio, versamenti su conto bancario con causale "compenso Immobile” che hanno smentito la tesi difensiva e portato alla condanna.

Ciro Immobile. Estratto dall'articolo di Enrico Currò per repubblica.it il 21 settembre 2022.

Ciro Immobile, tornato in Nazionale da leader, ha un sassolino nella scarpa, anzi un masso. Lo scaglia contro gli odiatori seriali da tastiera: gli haters possono rovinare la vita, non solo nel calcio: "C'è un punto limite da non oltrepassare: il mondo social è meraviglioso, ma a volte ti distrugge. Anche quello che è successo ad Acerbi va oltre. Quando si va sulla famiglia, io perdo un po' la pazienza. Denuncio.

 Io l'ho fatto quando sono stati toccati i miei figli, quando hanno augurato alla mia famiglia e a me cose indicibili. Purtroppo il mondo dei social è pieno di profili falsi e non sempre è facile risalire agli autori. Ma si deve fare qualcosa, soprattutto per le cattiverie gratuite".

Una soluzione, nel mondo del calcio, c'è: la sta mettendo in pratica l'Uefa, che al recente Europeo di calcio femminile ha avviato la piattaforma in grado di individuare e punire i colpevoli. Immobile sposa questa linea: "Va importata anche in serie A. Se l'Uefa porta avanti questo processo, è giusto che arrivi anche in Italia". 

C'è stato un momento in cui il fenomeno montante dell'odio social ha toccato pesantemente il centravanti della Lazio, anzi ce ne sono stati due, in coincidenza con le due mancate qualificazioni della Nazionale per il Mondiale: nel 2017, quando a Milano l'Italia uscì ai play-off con la Svezia, e nel marzo scorso, quando ha fatto il bis con la Macedonia del nord a Palermo.

Le critiche e gli attacchi, oltre all'amarezza, stavano spingendo Immobile all'addio alla maglia azzurra. A 32 anni, con quella partita siciliana giocata con la fascia da capitano al braccio, alla guida di un attacco che non era riuscito a segnare lo straccio di un gol a un'avversario mediocre, era diventato un incubo costante: "Per me questa maglia rappresenta tutto, la Nazionale deve trasmettere questo stesso sentimento a chiunque faccia questo mestiere. Ma ci sono stati momenti di grande delusione, oltre a quelli di gioia e di felicità come l'Europeo. La mancata qualificazione ai Mondiali è stata appunto una delusione enorme. Le critiche ti segnano, è ovvio che ognuno di noi, come persona, non possa lasciare passare questa cosa come se nulla fosse. Anche se sei la persona più positiva al mondo, questi momenti ti segnano.

Siamo essere umani, abbiamo dei sentimenti. E io avevo tanti dubbi, avevo pensato di lasciare la Nazionale. Ma poi, tornando col club, ho avuto la sensazione di potere dare ancora tutto, che potesse servire la mia presenza. Così ho deciso. Fino a quando il mister avrà bisogno di me, sarò a disposizione, in campo e fuori. Noi veterani possiamo aiutare i giovani. Credo che Mancini non abbia mai avuto dubbi su di me. La decisione l'abbiamo preso un po' io e un po' la mia famiglia: abbiamo parlato e deciso che era giusto che io continuassi. Il Mondiale americano è uno degli obiettivi che mi sono posto. Nel 2026 voglio esserci". […]

Roberto Di Matteo, che fine ha fatto: dopo la Champions vinta è sparito. Il no ad Abramovich e alla Svizzera. Pierfrancesco Catucci per il “Corriere della Sera” il 10 settembre 2022.

Pochi mesi dopo la vittoria della Champions League col Chelsea, fu esonerato per non aver fatto giocare Fernando Torres. All’Aston Villa suscitò «l’odio» di Agbonlahor. Ora ha 52 anni e vive a Londra con la famiglia

Ex centrocampista

Non capita a tutti di vincere una Champions League da allenatore e poi, dopo pochi anni, sparire dai radar. È la storia di Roberto Di Matteo, ora 52enne, ex centrocampista di Lazio, Chelsea e Nazionale (esordì in azzurro subito dopo il Mondiale di Usa 1994) e poi vice allenatore e allenatore dei Blues con cui salì all’improvviso sul tetto d’Europa.

Dalla Champions lampo all’esonero

L’ascesa fino alla Champions League è fulminea. Tornato al Chelsea a giugno 2011 da secondo allenatore dopo aver giocato 4 stagioni in Blues, diventa il primo allenatore dopo l’esonero di Vilas Boas a marzo 2012. Due mesi più tardi vince la FA Cup e, soprattutto, la Champions. Viene riconfermato per la stagione successiva e a novembre esonerato «per colpa» di una netta sconfitta contro la Juventus sempre in Champions.

Il no ad Abramovich

Si narra che, oltre ai risultati non all’altezza della Champions League vinta pochi mesi prima, tra i motivi dell’esonero dal Chelsea ci fosse anche un no ad Abramovich. Il patron del club «pretendeva» che il tecnico facesse giocare Fernando Torres (acquistato per 50 milioni di sterline), nonostante lo spagnolo non fosse in condizione. L’allenatore non lo accontentò: il resto è storia.

Il sogno Usa

Chiuso il capitolo Chelsea, Di Matteo è stato un anno e mezzo fermo, è tornato per una stagione sulla panchina dello Shalke 04, in Germania, poi è tornato in Inghilterra per pochi mesi su quella dell’Aston Villa e, dall’ottobre di quell’anno, è scomparso dai radar. «Mi sono fermato per stare in famiglia dopo decenni trascorsi fuori casa — ha raccontato nel 2020 in un’intervista alla Gazzetta dello Sport —. I contatti non sono mancati, ma volevo uno stop. Ora si può ricominciare. Un giorno vorrei allenare negli Stati Uniti. Il soccer, come lo chiamano laggiù, sta diventando sempre più popolare. Mi piacerebbe un’esperienza da quelle parti».

L’odio di Agbonlahor

L’ultima esperienza della sua carriera da allenatore è stata segnata anche dalla lite con Gabriel Agbonlahor, uno dei giocatori più rappresentativi dell’Aston Villa all’epoca. In un’intervista successiva, il calciatore ha detto di odiare Di Matteo per una storia che riguarda il rapporto tra il tecnico e un altro giocatore, Stiliyan Petrov che si era ritirato per una forma acuta di leucemia: quattro anni più tardi decise di tornare a giocare e riprese ad allenarsi con la ex squadra. Agbonlahor raccontò che Di Matteo spense le sue velleità dicendogli che non gli avrebbe offerto un contratto. «Lo odierò per il resto della mia vita. Qualsiasi altro manager con solo un pizzico di cuore gli avrebbe offerto un contratto a gettone. Avrebbe potuto offrirgli un contratto di un mese, di sei mesi, valutare come stava. Devi essere proprio spietato e senza cuore per non dargli nemmeno una possibilità. Se mai vedrò Di Matteo, gli dirò “Sei una nullità”».

Genitori emigranti

Roberto Di Matteo è nato a Sciaffusa, nella Svizzera tedesca, cittadina famosa per le cascate dove papà Florindo e mamma Gianna emigrarono negli anni Sessanta in cerca di lavoro abbandonando Paglieta, comune abruzzese nei dintorni di Chieti. «Avrei accettato qualsiasi lavoro pur di tornare a casa» raccontò poi il centrocampista.

Il no alla Nazionale svizzera

La sua carriera di calciatore cominciò con la maglia dello Zurigo prima e dell’Aarau poi. E gli svizzeri provarono in ogni modo a fargli cambiare nazionalità. Anche uno zio tentò di convincerlo: «Mi diceva: “Fai come Sforza e Pascolo. Prendi il passaporto elvetico, così vai in Nazionale e giochi pure i Mondiali”. Ma io non me la sono sentita di fare quella scelta a causa del calcio. Io mi sono sempre sentito italiano per cultura, per tradizioni, per il senso che ho della famiglia». E un Mondiale poi l’ha giocato comunque, Francia 1998 (con l’Italia eliminata ai quarti dalla Francia ai rigori).

Il lockdown in Inghilterra

Dopo l’ultima esperienza da allenatore all’Aston Villa, Di Matteo è rimasto a Londra con la famiglia, anche durante il lockdown per il Covid: «Sono stato a casa, con la famiglia — ha raccontato due anni fa alla Gazzetta —. Ho i figli sparsi nel mondo, ma sono tornati qui e abbiamo sfruttato questi 3 mesi di libertà limitata per parlare, confrontarci e condividere anche le piccole cose. All’inizio c’erano le preoccupazioni per i miei genitori, in Abruzzo, ma quando ho capito che erano al sicuro mi son tranquillizzato».

Igli Tare, chi è: Lotito, la Lazio, Inzaghi, le minacce di morte al figlio, Guardiola, le plusvalenze. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 6 luglio 2022.

Dopo 13 anni da ds del club biancoceleste la storia dell'ex centravanti albanese sembra agli sgoccioli: l'ultima lite col presidente lo testimonia. Una carriera iniziata fra lo scetticismo generale che ha poi prodotto tanti affari e qualche critica. Ecco la sua storia

Tare e la crisi con Lotito

Non si respira un’aria felice in casa Lazio quest’estate e la cosa è appare strana visto che la forza del club in questi anni è stata proprio la solidità della struttura societaria. La coppia composta dal d.s. Igli Tare e dal presidente Claudio Lotito ha lavorato in sinergia stagione dopo stagione, riuscendo a costruire squadre competitive senza spese esorbitanti. Qualcosa, però, sembra scricchiolare nel rapporto tra i due e, dopo 13 anni fianco a fianco, le voci su una crisi tra i due si fanno insistenti. Il tutto è nato dall’evento di presentazione delle magliette per la stagione 2022-2023 di lunedì 4 luglio. Tare e Lotito sono stati immortalati in piazza del Popolo a Roma nel mezzo di una discussione accesa (poi smentita dalla Lazio il giorno dopo). Già criticato per certi acquisti sbagliati e per la difficoltà a liquidare i numerosi esuberi della rosa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso per Tare sarebbe stata la volontà di Lotito di portare in società Angelo Fabiani, ex direttore sportivo della Salernitana. Un ingresso di cui Tare — eufemismo — non sarebbe entusiasta, vedendovi un principio di ridimensionamento del proprio ruolo. La situazione resta complessa, e Tare, con solo un anno ancora di contratto, potrebbe anche lasciare il club.

Tare-Lotito, insieme dal 2008

Tutto cominciò nel 2008, tra un certo scetticismo diffuso. Tare aveva appena concluso la carriera alla Lazio e Claudio Lotito gli ha offerto un ruolo nella dirigenza biancoceleste. L’ex attaccante non era convinto di intraprendere questa nuova avventura, ma alla fine si convinse e accettò e il 20 aprile 2009 prese a Coverciano il diploma di direttore sportivo con il massimo dei voti. Raccontò Tare un giorno: «Quando il presidente Lotito mi chiese di accettare questa avventura tra me e me dissi "questo è un pazzo". All’inizio del mio percorso siamo stati sempre insieme, anno dopo anno ha capito le mie qualità, facendosi via via da parte sia sulla scelta del giocatore sia sulle trattative».

Mago delle plusvalenze (e fu vicino al Milan)

Tare oggi ha molti estimatori nel mondo del calcio e qualche tempo fa era finito nel mirino di Paolo Maldini come possibile nuovo direttore sportivo del Milan. Il motivo? Con un budget ridotto il più delle volte riesce a portare a casa giocatori sconosciuti e sorprendenti che dopo un anno valgono il triplo: questo gli fatto guadagnare il soprannome di «mago delle plusvalenze». L’ideale per qualsiasi squadra di questi tempi. E non solo: tra le aspiranti ai servizi di Tare, nel caso dovesse lasciare la Lazio, oltre ad alcuni club di Bundesliga (Eintracht, Leverkusen e Lipsia), c’è anche la Federcalcio albanese che lo vedrebbe bene per un incarico manageriale.

Sei lingue, «one man market»

Tare parla sei lingue: albanese, italiano, inglese, tedesco, spagnolo e greco. Particolare molto importante nelle trattative di mercato. Tare — che non si avvale di osservatori e di scout e viene infatti chiamato anche «one man market» — è anche famoso per la sua empatia: va personalmente a trattare con le famiglie delle giovani promesse che riesce a scovare in giro per l’Europa, ha una grande capacità di dialogo e sa creare un grande rapporto con le persone con le quali si trova a lavorare.

I grandi colpi di Tare

Tare è stato protagonista di tanti acquisti, qualcuno inevitabilmente sbagliato e altri che hanno portato nelle casse della Lazio trofei e plusvalenze clamorose. La lista è lunga. Keita se lo è andato a prendere direttamente a Barcellona, Klose è stato convinto a sposare il biancoceleste grazie soprattutto al rapporto con Tare, coltivato fin dai tempi del Kaiserslautern. Inoltre, Tare ha creduto in Immobile dopo il fallimento in Germania e ha scoperto Milinkovic-Savic, preso per poco più di 10 milioni e ora valutato almeno 60-70. Dal Brasile ha pescato Hernanes e Felipe Anderson e in Olanda ha battuto la concorrenza per De Vrij. In Spagna ha preso Luis Alberto.

Tare e Simone Inzaghi

Tare ha un rapporto fraterno con Simone Inzaghi. I due hanno giocato assieme alla Lazio dal 2005 al 2007 e poi avviato una proficua collaborazione quando l’attuale tecnico dell’Inter nel 2010 ha iniziato la carriera da allenatore nelle giovanili biancocelesti fino a conquistare la panchina della prima squadra nel 2016.

Le minacce di morte al figlio

Tare ha un figlio, Etienne, 18 anni, che ha giocato nella Primavera della Lazio. Il ragazzo, nel settembre 2021, denunciò le minacce di morte ricevute sui social, che ce l'avevano col padre ma purtroppo non risparmiavano neanche la famiglia: «Sono laziale da quando sono bambino, esulto ogni volta che vince la Lazio, mi dispero quando perdiamo. Vesto questi colori con orgoglio e senso di appartenenza. Rispetto ogni tipo di critica perché la libertà di parola e di espressione sono le cose più belle che esistano. Ma dispiace leggere certe parole, si può non essere d’accordo con alcune scelte , si può criticare ma mai dovrebbe mancare il rispetto. Mai. Nei miei confronti, di mio padre e della mia famiglia».

Poco social

Sul proprio profilo Instagram Tare ha 16 mila followers e solo 13 post: uno di questi è dedicato a Diego Armando Maradona, scomparso il 25 novembre 2020. Un altro su Mandela («Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso)». E c’è un aforismo al quale è legato Tare: «Ammiro la verità del tempo. Rivela sempre la realtà delle cose e delle persone».

Tare, Sacchi e Guardiola

Tare ragazzino è cresciuto seguendo il Milan di Arrigo Sacchi, quello dei tre olandesi, ha individuato nella grazia di Marco Van Basten la fonte da cui abbeverarsi e ispirarsi, anche se le sue caratteristiche di giocatore non concedevano grandi possibilità di emulazione. Nel gennaio 2001 è arrivato al Brescia e ha condiviso lo spogliatoio con Roberto Baggio e Pep Guardiola. Due giocatori di grande classe, non solo in campo.

Tare calciatore

Nato a Valona in Albania il 25 luglio 1973, Tare ha iniziato al Partizan Tirana nel 1994, ma 12 mesi dopo è nella seconda serie tedesca con il Waldhof e poi nei campionato regionali con il Ludwigshafen, fino a raggiungere la Bundesliga con Karlsruhe e il Kaiserslautern (nell’intermezzo il Fortuna Sittard sempre nella seconda serie). Poi nel gennaio 2001 lo sbarco al Brescia e nel 2003 al Bologna, fino agli ultimi tre anni alla Lazio, dal 2005 al 2008. Alto un metro e 92, Tare era un centravanti molto forte di testa, che sapeva coprire bene l’area ed era un punto di riferimento in avanti per i suoi compagni di squadra per aprire spazi verso le porte avversarie. Non segnava molto (82 reti in 394 gare), ma sapeva creare problemi alle difese rivali. Con la maglia dell’Albania Igli Tare ha disputato 68 partite (ottavo con più presenze di sempre) segnando 10 reti ed indossando in quattro occasioni anche la fascia di capitano.

Carlos Passerini per il “Corriere della Sera” il 30 settembre 2022.

«Il Milan può aprire un'era. L'anno scorso ha vinto a sorpresa ma con merito. E ora può ripetersi. Giocatori, personalità, esperienza: la seconda stella è alla portata». Dal suo buen ritiro di Miami, Alessandro Nesta dice la sua sul campionato di serie A. E senza girarci intorno, mette il Diavolo davanti a tutti. 

Vincere è difficile, rivincere di più.

«Io ero più scettico l'anno scorso. La squadra è cresciuta. E poi le altre sono in difficoltà. Immagino un testa a testa col Napoli. Sono le squadre con le idee più chiare: società, allenatore, giocatori. C'è una progettualità precisa».

Da allenatore: quanto ha inciso Pioli?

«Sono sincero, l'ho sempre reputato un ottimo allenatore, già alla Lazio e alla Fiorentina, ma che fosse così bravo non lo immaginavo. Ha fatto un'impresa da grandissimo». 

Che succede all'Inter?

«Da fuori mi sembra in difficoltà anche fisicamente. Risentono delle difficoltà societarie? Se è così, non deve essere. Sta ai giocatori, all'allenatore, alla dirigenza fare squadra e superare le crisi. Ma serve farlo alla svelta». 

Allegri ha perso la Juve?

«Non è tutta colpa sua. C'è una confusione più generale, da anni fanno un passo avanti e due indietro, manca una linea precisa, anche sul mercato. Non c'è chiarezza». 

Le romane?

«La Lazio ha qualità, la Roma vive di entusiasmo. Faranno un campionato simile». 

Nazionale: la botta Mondiale fa ancora male.

«Una delusione enorme. C'è un ricambio generazionale in corso, stiamo pagando quello, va completato il passaggio. Scamacca, Raspadori: hanno bisogno di tempo. Anche ai miei tempi succedeva che dopo una grande vittoria ci fosse una grande caduta, fa un po' parte del dna italiano. 

Ricordatevi il Mondiale 2006, poi ci fu il fallimento del 2010.

Ma rialzeremo la testa. Mancini sa cosa fare. E questa Nations l'ha dimostrato». 

C'è più disamore per l'azzurro rispetto ai suoi tempi?

«Spero di no. Certo, i ritmi di oggi sono più alti dei nostri, si gioca sempre, c'è più fatica. Ma io a Londra alla finale degli Europei c'ero e ho visto un grande gruppo. Fidatevi: torneremo presto». 

Toloi, Bonucci, Acerbi: lunedì in Ungheria i difensori centrali erano tutti over 30.

La scuola italiana è in crisi?

«Sono generazioni, momenti, fasi. Non è colpa della scuola, di insegnanti, ma di genetica. Noi nati fra '74 e '77 eravamo forti, infatti abbiamo vinto il Mondiale. Chiellini sta smettendo, Bonucci è in là con gli anni. Serve un ricambio, ma non è facile. Bastoni mi piace, però deve giocare, crescere. Soprattutto in Champions, lì si diventa forti.

Una stagione buona la fanno tutti, ma devi essere ad altissimo livello tre-quattro anni per fare il salto di qualità». 

Altri difensori italiani che le piacciono? Ci sono?

«Bastoni e Bastoni. Spero che impari a giocare anche a quattro, deve crescere». 

Il Milan l'anno scorso ha vinto anche grazie alla miglior difesa: pregi e difetti della coppia Tomori-Kalulu?

«Sono moderni, hanno coraggio, giocano alti e non temono l'uno contro uno. Certo, fossero italiani sarebbe meglio per la Nazionale, ma così non è. Pazienza». 

Skriniar non è più lui. Che gli succede?

«Tutta l'Inter è partita male, non solo lui. Forse voleva andare via, non lo so. Ma per me resta fortissimo».

Che ne pensa della vicenda De Ligt? Voluto a tutti i costi, strapagato, se n'è andato sbattendo la porta e accusando la Juve di scarsa ambizione in Champions.

«Io certe dichiarazioni non le avrei fatte. Ti hanno pagato 70 milioni, ti hanno voluto a tutti i costi, sei stato infortunato per tanto tempo. Vai al Bayern? Vacci e basta». 

Romagnoli era considerato il suo erede, ma ha fatto il percorso opposto: dal Milan alla Lazio, nel pieno dell'età. Un passo indietro?

«Al Milan ha comunque giocato diversi anni ad alto livello. Poi sono arrivati nuovi in difesa e lì giocava di meno. Ha fatto una scelta di cuore, è tornato a casa, in una società importante, con un allenatore che fa giocare bene le sue squadre. Per me ha fatto bene». 

E Nesta che scelta ha fatto? Adesso fa l'opinionista in tv. Non vuole più allenare?

«No, la televisione non è il mio mestiere. Qualcuno mi ha chiamato, ma non mi convinceva la proposta. Arriverà, in Italia o all'estero». 

A proposito di estero: com' è la serie A vista da fuori?

«Servono gli stadi nuovi. Non si può più aspettare. Quando dal campo vedi il pullman parcheggiato vuol dire che qualcosa non va. Senza gli stadi non saremo mai a livello della Premier, neanche lontanamente. I ricavi sono il punto di partenza. Poi cresce tutto: più ricavi, più giocatori forti, più qualità».

Alessandro Nesta alla Lazio: un difensore insuperabile. Paolo Lazzari il 3 Settembre 2022 su Il Giornale.

Durante il periodo biancoceleste la sua arte difensiva ha raggiunto l'apogeo

Alessandro Nesta alla Lazio: un difensore totale

In quelle palazzine tutte uguali di Cinecittà stanno premute assieme almeno trecento anime. Gente che si scambia pezzi di vita per ragioni di forza maggiore: addensati in alveari brulicanti, non è che abbiano altra scelta. Questo fazzoletto di terra e cemento popolare è intriso di un’identità sedimentata nel tempo. Sono tutti romanisti. Tutti. Pessimo tempismo, dunque, abitare nel bel mezzo di un'enclave giallorossa con un padre patologicamente dipendente dalla Lazio. Il ragazzo però sa gestire con disinvoltura la pressione.

Il biancoceleste inizia a mescolarsi così nelle vene di Alessandro Nesta. Il fratello vuole giocare a pallone. Lui inizia a frignare, chiedendo di poter fare altrettanto. Assecondato. Stavolta il tempismo è quello giusto. L’intuizione feconda. Comincia come ala, con la voglia di rivalsa che monta dalle viscere, eredità inconfondibile di chi cresce in contesti svantaggiati. Più tardi la classificherà più precisamente come “maggiore dose di furbizia acquisita per strada”.

Da bordocampo, dopo aver inspirato un paio di boccate avide da un mozzicone fumante, un boemo dall’aria perennemente perplessa lo chiama con un cenno del capo. “Ascolta, non sei un'ala. Sei un difensore centrale. Ora tu giochi qua, sarai il titolare della Lazio”. Una sliding door con su incisa la scritta “Stringere la mano a Zdenek Zeman, grazie”. Nesta non ci dorme per diverse notti. Inspira l’aria frizzante della capitale affacciato alla finestra, la testa che è un groviglio inestricabile. Il pensiero di quella responsabilità così ingombrante lo assedia senza sosta. Preoccupazioni infondate: in quelle zolle di campo, in quell’Olimpico accarezzato tante volte in sogno, ci prenderà casa.

L’inizio però rischia di essere frastornante. In allenamento entra duro su Paul Gascoigne, venerato come oggetto di culto vivente a Formello e dintorni. L’eccentrico asso britannico si frattura tibia e perone. “Corsi a ripararmi a Civitavecchia - ricorda Nesta - perché i tifosi mi volevano ammazzare. Gazza non solo mi difese, ma mi regalò anche due canne da pesca (gesto nonsense pienamente nel suo repertorio, ndr). Peccato che non abbia mai imparato a pescare”.

Quanto a difendere, invece, ci sapeva fare benissimo. Anzi: Alessandro Nesta ha incarnato - nel suo periodo laziale - il prototipo del difensore definitivo. Il repertorio è sconfinato. Possiede un senso della posizione memorabile. L’anticipo come caratteristica genetica. Imperiosi stacchi di testa. E poi quella scivolata: arte maneggiata con cura da pochi altri eletti - leggasi alla voce Maldini e Cannavaro - olio su tela che racconta coraggio da vendere e letture prodigiose. Lo scatto è disarmante, il vigore e la pulizia degli interventi una combinazione letale. Il tutto, condito da un’eleganza esondante nelle movenze. Avventurandosi in un paragone faunistico, Nesta è un cigno che dispiega ali poderose davanti all’area di rigore. Una simile e inaudita grazia bagna pochi eletti. La categoria, per intenderci, è la stessa in cui si ascrive il nome di Roger Federer. L’edonismo applicato ad una brutale efficacia: un mix che borseggia i cuori praticamente da sempre.

I centravanti - e come biasimarli - tentennano e preferiscono fare giri larghi. Non che serva a molto: Nesta li scova sempre, ergendosi a invalicabile muraglia umana. Qualità da fuoriclasse che issano verso l’alto la Lazio, facendo sollevare trofei in passato completamente implausibili. Rimuginarci sopra è un esercizio asfittico. Certo, è stato fenomenale anche al Milan. E in nazionale, per quanto costantemente sgambettato dalla malasorte. Ma nel suo periodo biancoceleste ha contemplato tutti da due spanne più su.

Diego Simeone e la ex moglie Carolina Baldini, lite furibonda (via media) a 15 anni dalla rottura. Ecco perché. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.

Il Cholo risponde pubblicamente su La Nacion a un'intervista tv della mamma di Giovanni, attaccante del Verona: «Ha infranto codici familiari forti e io non ho più pazienza». Il riferimento del tecnico è alla presunta storia di lei con un bagnino nel 2007 quando i due erano ancora una coppia. 

Diego Pablo Simeone contro Carolina Baldini, ex prima moglie e madre di Giovanni, detto il Cholito, attaccante del Verona, di Gianluca (centravanti del CD Ibiza) e Giuliano (attaccante della selezione B dei Colchoneros). Perché? Perché al tecnico dell'Altetico Madrid, attualmente sposato in seconde nozze con Carla Pereyra, non sono andate giù le ultime dichiarazioni della ex modella con cui è stato sposato dal 1998 al 2008. «Per i ragazzi la separazione è stata dolorosa — ha raccontato Carolina in una chiacchierata con Angel De Brito nel programma «Los Angeles de la Mañana», un famosissimo appuntamento del lunedì su América TV in Argentina, dove spesso è ospite anche Wanda Nara —. È stata fatta mantenendo buoni rapporti. C'è sempre qualcosa da sistemare, non ho intenzione di mentire. Ma la verità è che è stato molto amichevole. Sono stata io a prendere la decisione di separarci. Quando lui ha trovato una partner e ho capito che intendeva mettere su famiglia, ovviamente, gli ho detto di divorziare. Come potevo non firmare il divorzio se tutto era già finito? Oggi è già tutto risolto, sono passati più di 10 anni. Sono single da un anno, mi piacerebbe avere però una relazione, ma non voglio più figli».

Il Cholo, che non ama mai parlare della sua vita privata, non l'ha presa bene e ha deciso di rompere il silenzio sulla vicenda, rispondendo alla ex moglie in un'intervista al quotidiano argentino La Naciòn: «Sono stanco che venga qui a parlare dopo 15 anni. A maggior ragione sapendo che non ho mai parlato di tutto quello che è successo e dei danni che ha causato. Continua a parlare come se nessuno avesse memoria. Mi sono stancato di cercare di prendermi cura dei miei figli e di proteggerli dall'ambiente. Non si può tornare indietro. Ha infranto codici familiari forti e io non ho più pazienza». A cosa si riferisce il Cholo? Probabilmente alle immagini del 2008 in cui Carolina, al tempo in cui erano ancora sposati, era stata fotografata insieme a un bagnino in spiaggia. Carolina ai tempi aveva smentito ci fosse una storia tra loro, ma mesi dopo i due andarono addirittura in vacanza insieme, in Messico. E questa cosa Simeone non gliel'ha mai perdonata.

Bruno Giordano, Maradona, i gol, le scommesse e il carcere, la moglie e il boss, il libro con Bagni: che cosa fa oggi. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2022.

L’ex centravanti di Lazio e Napoli ha vissuto una carriera luci e ombre, fra trionfi, grandi giocate, uno dei maggiori scandali del calcio italiano, un grave infortunio e sfortunate vicende familiari. Dopo il ritiro ha allenato e fatto il dirigente: oggi è opinionista tv e ha scritto con l’ex compagno un volume sugli anni di Napoli. Per Maradona era il più grande attaccante italiano di quei tempi.

Bruno Giordano,

Potenza al tiro da prima punta, classe da trequartista. Per queste caratteristiche viene ricordato dai tifosi Bruno Giordano, oggi 65enne, il giocatore più prolifico nelle coppe nazionali che abbia mai avuto la Lazio e partner di Maradona e Careca nel Napoli che vinse il primo scudetto della sua storia proprio il 10 maggio di 35 anni fa. Alle luci del campo, però, per Giordano si sono spesso alternate le ombre di tante vicende personali che ne hanno condizionato anche la carriera. L’affetto per il campione tuttavia non è mai mancato, rinnovato nel corso della sua recente carriera di allenatore e nel suo presente di dirigente e opinionista tv.

L’infanzia difficile

La mamma morta in un incidente stradale, la sorella Silvia in carcere più volte per consumo di droga, spaccio e furti vari, come quello di alcuni gioielli a Trastevere nel 1983 ai danni di alcune ragazze. Bruno Giordano è riuscito ad affermarsi nel calcio in un contesto familiare non privo di difficoltà, salvato soprattutto dal pallone. Tra le viuzze dello storico quartiere romano caro al poeta Trilussa e l’oratorio di Don Orione, il giovane Bruno evidentemente ha messo bene in mostra il suo talento, fino a quando non lo notò il selezionatore ed ex calciatore argentino Enrique Flamini.

Giordano e la Lazio

Bruno Giordano viene così scoperto già all’età di 13 anni e entra nelle giovanili della Lazio. Gioca nella primavera in un periodo florido per la società che nel 1974 vince anche il suo primo scudetto. Giordano debutta sulla scia di elementi di spicco del club come Chinaglia, Manfredonia e Agostinelli, in un gruppo allenato dal compianto Tommaso Maestrelli. Segna subito il gol vittoria al suo debutto in prima squadra contro la Sampdoria, si afferma presto come indiscusso numero 9, laureandosi anche capocannoniere nella stagione 1978-79 con 19 reti.

Il calcioscommesse e la promozione

Nel suo periodo d’oro, arriva però la tegola calcioscommesse. La Lazio vive una stagione altalenante, ma per Giordano tutto precipita quando al termine di Pescara-Lazio il 23 marzo 1980: la Guardia di Finanza aspetta il calciatore all’uscita dagli spogliatoi e lo porta al carcere di Regina Coeli con i compagni di squadra Manfredonia, Cacciatori e Wilson. Dopo alcuni giorni nel carcere romano a nulla valgono le sue spiegazioni, perché la giustizia sportiva al termine del processo lo squalifica per 3 anni e 6 mesi, con i biancocelesti retrocessi in B.

I Mondiali mancati

Sono anni bui per l’attaccante, anche se gli verrà data comunque data la possibilità di allenarsi a Tor di Quinto. Diverse squadre lo vorrebbero al temine della sospensione ma lui preferirà rifarsi con la promozione in A della sua Lazio. Obiettivo raggiunto nel 1983 nella stagione del rientro. Il grande rimpianto sarà però quella della Nazionale, con la quale colleziona solo 13 presenze e una rete. Numeri al di sotto delle sue qualità, perché proprio a causa della squalifica il bomber non ha modo di partecipare ai Mondiali di Spagna del 1982 e dovrà guardare i compagni festeggiare in tv. Una beffa, se si pensa che la Figc decise di riabilitare lui e i suoi compagni proprio a seguito di quel trionfo con un’amnistia generale. Nel 1986 fu invece lo stesso Bearzot ad escluderlo dalla lista dei convocati.

L’infortunio

I guai dell’attaccante sono però anche fisici: un tackle a tenaglia di Antonio Bogoni, stopper dell’Ascoli, in una partita della Lazio contro i bianconeri nel dicembre del 1983, Giordano rimedia una frattura alla gamba che richiederà almeno quattro mesi di recupero. L’urlo di dolore provocato da quell’entrata assassina è ancora oggi qualcosa che viene rievocato dai tifosi allora presenti nello stadio marchigiano. Nonostante l’infortunio, una nuova rinascita, perché il bomber segnerà al suo rientro contro il Napoli dopo appena 32 secondi di gara, nell’aprile del 1984.

Giordano e Maradona

I maggiori successi sportivi (scudetto nel 1987 e Coppa Italia) arrivano però con il Napoli, società con la quale ha totalizzato in campionato 78 presenze e 23 reti, abbracciata dopo il peggioramento e gli ormai insanabili rapporti con la proprietà biancoceleste. Gli anni tra il 1985 e il 1988 sono il periodo d’oro della squadra partenopea, trascinata da una leggenda come Diego Armando Maradona. Fu proprio il Diez argentino, con il quale componeva il tridente ribattezzato MA-GI-CA (Maradona-Giordano- Carnevale o Careca), uno dei più grandi estimatori di Giordano, con l’opinione della leggenda riconfermata da queste parole: «Careca è stato il più bravo con il quale abbia giocato, ma tra gli italiani c’era certamente Bruno Giordano. Rimane il più sudamericano dei calciatori italiani».

La moglie e il boss della Magliana

Con la seconda moglie Susanna Bartoli, Giordano ha vissuto un rapporto più sereno e avuto due figli, Marco e Rocco, entrambi calciatori, ma la relazione con la prima, Sabrina Minardi, è stato molto più burrascoso. Gelosa per le copertine del marito nel pieno della carriera in compagnia di tante donne di successo, Minardi accetta inconsapevolmente il corteggiamento di Enrico «Renatino» De Pedis , che scoprirà solo in seguito essere il boss della banda della Magliana. Un coinvolgimento che vale la crisi del matrimonio e non pochi timori per la propria sicurezza, minacciata più volte. I criminali per ritorsione tentano di rapire anche la prima figlia del calciatore, Valentina, fino a quando lo stesso Renatino non viene freddato da due killer nel 1990.

Allenatore, dirigente e opinionista

Conclusa la carriera giocando con Ascoli e Bologna, Giordano decide nel 1993 di intraprendere la carriera da allenatore. Tra le sue squadre, Monterotondo, la prima esperienza, poi Ancona, Lecco, Reggina, Messina, Pisa e lo stesso Ascoli, fino all’esperienza ungherese sulla panchina del Tatabanya. Nel 2016 passa al ruolo di dirigente tecnico e generale del Gragnano, squadra di Serie D del napoletano, ma negli anni successivi subentreranno diverse difficoltà, fino alla retrocessione del club in Eccellenza e Prima Categoria, oltre a quelle economiche legate alla pandemia. Il presente di Giordano è così caratterizzato principalmente dall’attività di opinionista in tv.

Il libro con Bagni

«Una volta i difensori difendevano, per questo i paragoni del calcio di allora con quello di oggi è per me improponibile. La vita degli attaccanti odierni è molto più facile, sono molto più tutelati rispetto a una volta». Parola di Giordano, che in un libro appena scritto con l’ex compagno Salvatore Bagni rivive i fasti di un Napoli indimenticato, ma visto attraverso una luce diversa, per chi vuole conoscere tutto sulla squadra partenopea di quell’epoca. «Che vi siete persi» non ricorda solo i momenti più belli di quel trionfale 1987, ma anche tanti aneddoti di 35 anni fa che solo un campione come Giordano, che ne ha vissute di ogni genere, può raccontare.

Dagospia il 30 luglio 2022. Da “I Lunatici – Radio 2”

Bruno Giordano è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai2 dall'1.15 alle 2.30 circa.

 L'ex attaccante della Nazionale, che in carriera ha vestito le maglie di Lazio, Napoli, Ascoli e Bologna, ha parlato del libro che ha scritto con l'ex compagno di squadra Salvatore Bagni, 'Che vi siete persi...', a proposito del primo scudetto vinto dal Napoli di Maradona: "E' stato bello scrivere questo libro, è un ricordo che passa attraverso me e Salvatore e che racconta ciò che è successo in quella annata straordinaria. Ci sono tanti aneddoti, si parla tanto di Diego Armando Maradona, la luce era lui, noi eravamo attorno alla sua luce.

Credo sia un atto dovuto anche alla città, quello scudetto non fu soltanto un fatto sportivo, ma anche una rivalsa sociale per tutti i napoletani. A Napoli è più difficile vincere perché manca l'abitudine, ma siamo stati la dimostrazione che se costruisci una squadra forte puoi fare qualcosa di straordinario. Ci sono stati due scudetti, vittorie europee, Coppe Italia. Al Nord sanno come si vince, sono abituati, ma se tu ti organizzi bene prima o poi riesci a combatterci".

Sul Napoli di Maradona: "Io mi ricordo che in un Lazio-Napoli, giocavo nella Lazio, quando Diego mi capitava vicino mi diceva che l'anno dopo sarei dovuto andare a giocare con lui. Ci incrociammo già in una partita tra Italia e Argentina. Fu straordinario nel periodo in cui mi ruppi una gamba, mi mandò un telegramma. Fu straordinario quando arrivai a Napoli. 

Lui e Allodi mi volevano a Napoli. Prima di firmare il contratto Allodi mi passò Diego al telefono e lui mi disse che era felicissimo del mio arrivo a Napoli. Maradona in campo non ti faceva pesare il suo essere Maradona. Era generoso e disponibile con tutti, in campo e fuori. E' un personaggio che sotto alcuni aspetti non è stato raccontato in tutto e per tutto.

A dicembre insieme alla moglie Claudia riempiva i pulmini di giocattoli e andava a regalarli ai bambini negli ospedali di Napoli. Era un leader assoluto. Uno dei pochi, se non l'unico, ad essere amato da tutti. Compagni e avversari. Ha preso tanto calci senza mai dire niente, si rialzava più forte di prima. Un qualcosa di straordinario. Sono felice e orgoglioso di averci giocato accanto. Maradona saltava gli allenamenti? Per quello che ho visto io, in tre avrà saltato una decina di allenamenti. 

Era sempre presente, quando aveva un obiettivo ci arrivava al massimo della condizione. Era sempre presente. Un Capitano vero. Non portava soltanto la fascia ereditata dal mitico Bruscolotti, ma era un Capitano sempre presente. Agli allenamenti, alle riunioni, ovunque. Se tu non ti alleni, anche se sei Maradona, a certi livelli duri tre mesi. Non anni, come è capitato a Diego".

Sul titolo del libro, 'Che vi siete persi': "Era uno striscione che i tifosi misero fuori al cimitero di Secondigliano. 'Che vi siete persi', rivolto alle persone al cimitero che purtroppo non c'erano più. Da lì a breve ci fu un altro striscione in cui c'era scritto 'Ma siete sicuri che ce lo siamo perso?" 

Sulla morte di Maradona: "Un mese prima gli avevo mandato un messaggio per il suo compleanno. Nell'ultimo anno e mezzo facevo fatica a sentirlo, forse chi gli era accanto limitava o escludeva le telefonate. Fino a un anno e mezzo prima c'eravamo sentiti. Fino al 2018 quando ci siamo visti, Maradona stava benissimo. Poi dopo quel periodo ci siamo sentiti sempre più di rado e nell'ultimo anno solo con qualche messaggio. Ero andato a fare un allenamento il giorno della sua morte, mi chiamò un mio amico, mi disse quello che era successo. Poi iniziarono ad arrivarmi decine di chiamate e capii che era vero". 

Ancora Giordano: "Per noi andare al bar a Napoli a prendere un gelato con i nostri figli era possibile. Diego ci diceva che per lui non era così. Diceva che noi eravamo fortunati. Non poteva uscire, anche per questo usciva soltanto ed esclusivamente la notte. Il suo mondo era invivibile. Io gli sono stato molto affianco. Ricordo una volta una trasferta a Torino, uscimmo un pomeriggio perché doveva comprare una musicassetta, dopo cinque minuti si creò il caos e fummo costretti a tornare in albergo".

Sulla Lazio: "Nel mio immaginario non ero un attaccante. Quando giocavo accanto a Chinaglia giocavo più dietro, il mio idolo era Cruijff, quando poi Chinaglia andò in America Maestrelli mi diede la maglia numero 9 ed iniziai a prenderci gusto a far gol. Ma non sono nato da centravanti. Ho dovuto sostituire il mito di Chinaglia, forse la mia incoscienza da ragazzino mi ha portato a fare quello che ho fatto. Se avessi avuto qualche anno in più forse mi sarebbero tremate le gambe. Il gol più bello della mia carriera? Quello alla Juventus, con un doppio pallonetto. L'incoscienza del giovane, che a volte però serve".

La Roma provò ad acquistare Giordano due volte: "Due volte la Roma provò a prendermi. Negli anni '80 ho avuto un periodo di grande amicizia con il Presidente Viola. Nel 1985 Chinaglia mi convocò a casa sua per dirmi che aveva concluso il mio trasferimento alla Roma. Io rifiutai, non potevo indossare la maglia giallorossa. Se Viola stato in un'altra squadra ci sarei andato di corsa. Con la Roma, essendo io un qualcosa che rappresentava la Lazio, non l'ho mai presa in considerazione come ipotesi". 

Su Costantino Rozzi, presidente dell'Ascoli: "E' stato il mio testimone di notte, per portarmi ad Ascoli fece un pressing alla Gattuso. Ad Ascoli sono stato benissimo. Rozzi era un personaggio straordinario. Oggi con i soldi delle tv avrebbe portato l'Ascoli stabilmente nelle prime cinque o sei posizioni".

Chi è Acerbi: il sorriso in Lazio-Milan, il tumore, i flirt, la compagna, le preghiere. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2022.

Il difensore della Lazio e della Nazionale è un personaggio spesso al centro delle polemiche: non nuovo alle liti coi tifosi, in passato ha combattuto e vinto un tumore. Da allora prega due volte al giorno.

Acerbi e il sorriso in Lazio-Milan

Francesco Acerbi è finito nuovamente al centro delle polemiche, tanto da essere preso nuovamente di mira dai tifosi della Lazio, per quel ghigno immortalato dalle telecamere al minuto 92 di Lazio-Milan 1-2 del 24 aprile, subito dopo il gol vittoria firmato da Tonali. Accade tutto in un attimo: Marusic perde palla, errore di Acerbi in area che non respinge efficacemente di testa il cross e allora ne approfitta Ibrahimovic, che fa da ponte per Tonali, bravo a insaccare. Lì arriva il ghigno di Acerbi, forse ironico, che fa arrabbiare Marusic. Il terzino gli va addosso urlando, nervosissimo. Faccia a faccia. Rissa sfiorata, tensione alle stelle. Poi Acerbi si è spiegato sui social: «Ora basta. Ho sempre dato tutto per questi colori e sono fiero di aver vinto i trofei con questa maglia. C’è stato qualche attrito, lo ripeto come ho già fatto, ho sbagliato e chiesto scusa. La risata di questa sera era isterica per aver perso i due punti in maniera rocambolesca e non perché ero felice di aver perso. Non vorrei nemmeno che un tifoso pensasse questo di me».

Acerbi e lo scontro coi tifosi laziali nel dicembre 2021

Per Acerbi essere al centro delle polemiche non è una novità. Il 17 dicembre scorso Acerbi, dopo avere segnato il 2-0 al Genoa (match terminato 3-1), andò sotto la curva e si portò il dito sul naso. Sembrò voler zittire gli ultra, non proprio soddisfatti di questo avvio di stagione della loro squadra. Da lì il polverone, segno che fra il difensore campione d’Europa con la Nazionale e simbolo dei biancocelesti e il il tifo organizzato della lazio, qualcosa si era rotto. «Acerbi uomo senza onore, via da Roma subito», avevano scritto gli ultrà. Così, addirittura, i tifosi della Lazio hanno deciso di non esultare al suo gol del 2-1 contro il Venezia (partita poi finita 3-1) il 22 dicembre 2021.

Come gioca Acerbi

Al di là della disattenzione nell'ultima partita contro il Milan, Acerbi è un difensore centrale affidabile e solido. Mancino, ha spiccate doti di leadership e ha grande personalità, che fa sentire in campo. La statura – 192 centimetri – gli consente di vincere la maggior parte dei duelli fisici ingaggiati con gli avversari, anche nel gioco aereo. In alcune circostanze è anche decisivo in fase offensiva: in questa stagione ha firmato tre gol in campionato.

Acerbi e il passato al Milan

Francesco Acerbi è nato il 10 febbraio 1988 a Vizzolo Pedrabissi, in provincia di Milano. Ha iniziato a giocare nel Pavia in C1, per poi andare al Renate in D e allo Spezia in B e tornare al Pavia in Lega Pro Seconda Divisione. Nel 2010 si consacra in B alla Reggina, e sale in A prima Chievo nel 2011, poi al Milan nel 2012. Ma l’avventura in rossonero non va come dovrebbe andare. Solo 10 presenze e addio al Diavolo già nel gennaio 2013 per tornare al Chievo. Ma è al Sassuolo (dal 2013 al 2018) a farsi apprezzare moltissimo, tanto da finire poi alla Lazio. In Nazionale ha collezionato 23 presenze e un gol, debuttando contro l’Albania a Genova il 18 novembre 2014.

La lite con Bakayoko

13 aprile 2019, Milan-Lazio 1-0, gol di Kessie. La gioia per la vittoria sfugge di mano ai rossoneri. I giocatori festeggiano sotto la Curva Sud, ma l’ivoriano e Bakayoko si presentano con la maglia di Acerbi in mostra, come un trofeo di guerra. L’immagine diventa subito virale sui social. Il motivo? Il botta e risposta tra il difensore della Lazio e Bakayoko nei giorni precedenti al match, su Twitter. Acerbi aveva detto: «Come singoli non c’è paragone fra noi e il Milan». Baka aveva replicato: «Ok, ci vediamo sabato». La controreplica di Acerbi aveva avuto toni distensivi: «Non mi interessano le parole, non volevo mancare di rispetto a nessuno! Il calcio regala queste sfide che si trasformano in emozioni, il calcio è solo un gioco ma è quello più bello del mondo». Poi la resa dei conti, ma dopo aver visto la scena della sua maglia portata sotto la curva, Acerbi si è sentito preso in giro ha detto la sua, sempre su Twitter: «Sono dispiaciuto perché ho scambiato la maglia per mettere fine alla questione, fomentare odio non è sport ma un segno di debolezza». Acerbi era infatti andato da Bakayoko a fine gara per chiarire e chiudere la vicenda proponendo uno scambio di maglie. Il rossonero però, dopo aver accettato la maglia del 33 della Lazio, è subito andato sotto la curva rossonera mostrando il bottino. Una brutta scena davvero.

Acerbi e il tumore

Francesco Acerbi nel 2013 scopre di avere un tumore a un testicolo ed è operato d'urgenza all'ospedale San Raffaele di Milano. A settembre torna in campo ma, dopo una serie di controlli, ecco una recidiva. Altro ciclo di cure e un nuovo successo. Questa volta definitivo. Una battaglia che il difensore racconta nel libro «Tutto bene – La mia doppia vittoria sul tumore».

I flirt di Acerbi

In passato nella vita privata di Acerbi ci sono stati diversi flirt. Nel suo passato c’è una relazione con una ragazza di origine romagnola, Serena Bianchi, finita intorno al 2017. Ma il difensore sale alla ribalta, nel gossip, per un flirt con la modella cubana Ariadna Romero, che partecipò all’Isola dei Famosi 2019. Invece, nell’estate 2020 viene alla luce la relazione di Acerbi con l’attuale compagna, Claudia Scarpari.

Chi è la compagna di Acerbi

Acerbi e Claudia Scarpari, un avvocato di Mantova, sono molto uniti e affiatati e nel giugno del 2021 sui social hanno condiviso anche la notizia dell’arrivo della prima figlia, che si chiama Vittoria ed è nata nel settembre scorso. «Benvenuta al mondo, vita nostra. Siamo follemente innamorati di te», ha scritto la neomamma Claudia Scarpari postando su Instagram (dove ha 7.361 follower) una foto della bimba appena nata. Lei ha altri due figli avuti da una precedente relazione.

La fede

Acerbi ha più volte raccontato di pregare due volte al giorno, di mattina e sera, e di essere stato aiutato tantissimo – nei momenti difficili – dalla fede. Nel novembre 2018 fu immortalato in chiesa, con il c.t. Roberto Mancini e Chicco Evani, prima di un allenamento con la Nazionale. Inoltre, prima delle partite si vede spesso con le mani unite in segno di preghiera. Un ringraziamento verso il cielo. 

I social

Acerbi è molto attivo sui social. Sul suo profilo Instagram ha 240mila follower, che vengono aggiornati sia sulla sua vita sportiva sia con gli eventi della sua vita quotidiana. E molti sono gli scatti con la sua compagna e la sua piccola Vittoria.

I tatuaggi di Acerbi

Acerbi ha molti tatuaggi sul corpo: dal petto alla schiena, passando per braccia e gambe. Uno degli ultimi realizzati è nel basso ventre. Si tratta di un leone, animale che il difensore della Lazio ama molto per il suo carattere, il suo temperamento e la sua voglia di non arrendersi mai. Proprio come lui. 

Da corrieredellosport.it il 27 aprile 2022.

La partita con il Milan è stata per tutti un frullatore di emozioni e frustrazioni e così, dopo un’iniziale reazione dettata dall’istinto, ho deciso di prendermi 48 ore per riflettere e trovare le parole giuste per condividere i miei pensieri e le mie sensazioni, a cuore aperto. Non ho la pretesa che vengano condivisi, ma la speranza che quantomeno vengano ascoltati e compresi. 

Purtroppo da qualche mese vivo una situazione a livello personale che non mi sarei mai aspettato di vivere. Avverto una sensazione di solitudine che umanamente mi ferisce. Con questo non intendo puntare il dito contro nessuno: è una mia sensazione personale che sicuramente non mi può lasciare indifferente, in campo e fuori. Ma in un momento di difficoltà, la mia famiglia mi dà equilibrio e serenità per affrontare comunque tutto a testa alta. 

Il luogo comune nei confronti dei calciatori è che il nostro lavoro e i nostri guadagni ci rendano immuni agli stati emotivi - positivi e negativi - che caratterizzano la normalità di un essere umano. E per questo si tende a giudicare il calciatore come se fosse privo di emozioni e sentimenti, che nel nostro lavoro sono spesso molto forti e contrastanti. Spesso sbagliamo anche noi, siamo esseri umani, è giusto ricordarlo sempre.

Non mi sono mai sottratto ai miei doveri e alle mie responsabilità perché sono un uomo e un padre di famiglia, prima ancora che un calciatore. Per questo ho sempre accettato oneri e onori del mio lavoro, ben consapevole che le critiche per le prestazioni in campo fanno parte del gioco. 

Ciò che non posso accettare sono le illazioni sulla mia integrità personale e professionale, sulla mia serietà e sul mio impegno a difesa dei colori della Lazio, con o senza la fascia di capitano al braccio. Dopo la partita con il Milan ho letto e sentito insinuazioni assurde che non posso e non voglio accettare. E il solo fatto di essere qui a dover difendere la mia integrità e la mia professionalità, mi ferisce profondamente. 

Non sono perfetto, non sono un robot, ma sono una persona seria e un calciatore leale. E su questo non si dovrebbe nemmeno discutere.

Non dimentico ogni singolo istante di questi anni alla Lazio, in cui ho rappresentato un punto di riferimento e ho ricevuto stima, affetto e sostegno, arrivando a indossare con orgoglio la fascia di capitano. Porterò questi ricordi sempre con me, non c’è critica o contestazione che possano cancellare tutto ciò che ho ricevuto in questi anni.

Ovviamente sono dispiaciuto per tutto ciò che è successo in passato e per le tensioni che ne sono derivate nell’ultimo periodo. Mi sono scusato più volte per gli episodi in cui ho commesso qualche errore, per eccessiva impulsività e poca lucidità. 

Il futuro, per quanto mi riguarda, è la prossima partita con la maglia della Lazio, quella che ho sempre onorato e indossato con orgoglio. Mi piacerebbe che tutti insieme potessimo voltare pagina, almeno per concludere la stagione nel migliore dei modi, con dignità e rispetto reciproco.

Giuseppe Guastella per il Corriere della Sera il 21 aprile 2022.  

Per tutti i «Parapei» sono i Sarri in questa terra di ciclisti, di partigiani, di persone serie che sanno non prendersi sul serio. Perché poi li chiamino così, Amerigo Sarri non lo sa esattamente, ma suo figlio Maurizio, l'allenatore della Lazio e prima di Juventus, Chelsea e Napoli, quel soprannome al quale tiene come cosa cara l'ha fatto mettere in onore del nonno Goffredo, che fu partigiano, all'ingresso della stupenda villa incastonata nella collina che dà sul Valdarno, dove la dolce primavera attutisce le inquietudini di questi tempi. 

Amerigo, 94 anni a novembre, una forma strepitosa che gliene toglie venti, possiede la sobrietà di chi per tutta la vita ha fatto l'operaio e non si monta la testa per la fama del figlio, di cui è fierissimo, né tanto meno per la ricchezza, evidente dall'opera di architettura in cui vive l'intera famiglia: la moglie Clementina di 88 anni, sposata nel 1957; il 63enne Maurizio, quando può tornare, e il figlio di questi, Nicolé, 36. Quando parla di ciclismo, gli occhi balenano al riaccendersi dei ricordi di una carriera da professionista lasciata all'inizio perché non gli dava da vivere. 

Quando è nata questa passione?

«Nel 1940. Ero con il mi' babbo e vidi passare Coppi al Giro d'Italia. "C'è uno della Legnano che sta da solo, dicevano". "Sarà il Bartali", dissi io. Invece era il Coppi». 

E cominciò con la bici?

«No, avevo imparato a sei anni e non ho mai smesso. Probabilmente sono nato con la bicicletta nel cervello». 

Quali erano i suoi idoli?

«Bartali, Coppi...». 

Li ha conosciuti?

«Ci ho corso insieme, con il Bartali eravamo amici». 

Quando iniziò a correre?

«Nel '46 come allievo, subito dopo la guerra, non c'erano né strade né ponti. Poi dilettante. Eravamo tanti, in ogni paese c'era una squadra». 

Com' era il ciclismo allora?

«Più bello di quello d'oggi. Più genuino. Sarà perché son vecchio, quel ciclismo m' è rimasto nel cuore». 

Si guadagnava correndo?

«No. Nei dilettanti ho vinto più di cinquanta corse e due selezioni per i mondiali. Un dilettante che oggi vince così piglia un sacco di soldi». 

Quali gare ricorda?

«Tra le tante, una a Gaiole in Chianti, una barzelletta. Si rimase sull'ultima salita io e il Falsini (Valeriano, scomparso un anno fa, ndr ) si imboccò la discesa e alla prima curva mi saltò il filo di un freno, alla seconda anche l'altro. Falsini vide che ero senza freni, ma io gli dissi: "Ti batto lo stesso in volata". A Gaiole vinsi io. Da professionista feci tre corse in Belgio, le Valli Varesine e chiusi con il Lombardia nel 1953». 

Perché smise?

«I soldi non bastavano per campare e non mi piaceva l'ambiente». 

Mi dica di Bartali.

«Io ero coppiano, ma Bartali era una persona eccezionale. Quando passava in allenamento da Figline (Valdarno, paese di Amerigo Sarri, ndr) si fermava con noi dilettanti e si andava assieme in bicicletta. La nostra amicizia è durata finché è morto. Una persona di serietà e correttezza enormi. Come atleta aveva tutto». 

Le ha mai parlato di quando faceva la staffetta per la Resistenza?

«Non era uno che ne parlava volentieri. Era riservato, non gli interessava nulla di mettersi in mostra. Ma si sapeva quello che aveva fatto».

Basta con le gare, lavoro.

«Operaio: 10 ore al giorno e 5 nei festivi. Ho montato gru per un'impresa che mi mandò a Lovere, sul Lago d'Iseo, e poi a Napoli».

Dove nacque suo figlio .

«Quando iniziò a parlare, parlava bergamasco ( ride ). Sentiva tutti che chiamano i padri "papà" e lo faceva anche lui. "Nun so' papà, sono babbo", gli dicevo, perché in Toscana si usa così. Cominciò a chiamarmi "ba-pà"». 

A lui non piaceva la bici?

«Come no. Ha vinto anche delle corse da esordiente. Veniva in bicicletta con me. Una volta, mentre era svincolato, gli chiesero che partita gli sarebbe piaciuto vedere, rispose: "Se c'è una tappa del Giro d'Italia o del Giro di Francia, guardo quella». 

Che ciclista era?

«Forte in pianura, velocissimo, predisposto per le salite brevi. Smise da esordiente a 13 anni perché gli amici giocavano a calcio e andò anche lui. C'era la fila dei direttori sportivi che non volevano che smettesse. Arrivò dilettante». 

Andava bene nel calcio?

«Insomma ( sorride ). Come ciclista poteva fare strada, come calciatore... Aveva un po' i piedi per conto loro. Era un difensore, uno spogliatore».

Cosa?

«Uno che con le buone o le cattive non ti faceva passare». 

E come allenatore?

«L'allenatore l'aveva nella testa da piccolo. Metteva in corridoio le figurine dei calciatori e gli faceva fare i passaggi». 

Era tifoso?

«Da bambino era per il Napoli. Una volta si andò a vedere Fiorentina-Napoli con la 500 targata Firenze. Sull'autostrada i napoletani ci salutavano. All'arrivo mi accorsi che aveva messo dietro un telone "Forza Napoli!". Si andò in curva con i napoletani, ma la Fiorentina vinse 2-0». 

Ha lavorato in banca.

«È sempre stato bravissimo. Ha cominciato nella sede centrale della Banca Toscana, poi in Inghilterra, in Lussemburgo, in Olanda».

Ne è orgoglioso.

«Sì. Come figliolo».

Parlate mai di calcio?

«Io il calcio non lo guardo».

Non segue suo figlio?

«No. Se c'è da dare un po' di tifo lo faccio per la Fiorentina. E faccio il tifo per mio figlio». 

Lui va ancora in bici?

«Ha una mountain bike qui, di quelle a pedalata assistita. Ci va nei boschi».

Che gliene pare del ciclismo di oggi?

«Son forti tutti, troppo, non è possibile. Non so se per le biciclette o per la preparazione. Quello che non mi torna è tutta questa gente che gira nel ciclismo. Troppi direttori e preparatori atletici». 

Lei poi riprese a correre?

«Come cicloamatore, ho vinto un campionato italiano. Fino alla pandemia».

Risalirà in sella?

«Meglio di no, per l'età, ma se ci risalgo ci rivo'».

Francesco Persili per Dagospia il 12 marzo 2022.  

Sapete cosa vuol dire avere “la vita distrutta” e “pensieri di morte” a causa di un’inchiesta giudiziaria? “Mi hanno definito il capo dei capi. Come Totò Riina”. Peccato che a parlare non sia un pericoloso boss ma Beppe Signori, uno dei più grandi bomber del calcio italiano. “Avevo il patentino di allenatore di prima categoria, potevo allenare una Nazionale ma all’improvviso tutto è cambiato”, scrive nel libro “Fuorigioco” (Sperling&Kupfer) 

Beppe Gol viene indicato da una inchiesta della procura di Cremona sul calcio-scommesse come “il grande manovratore” di un’associazione criminale. All’ex attaccante giocare a carte, scommettere con i compagni di squadra è sempre piaciuto (famosa la sfida di mangiare in 30 passi un Buondì Motta) ma lo ha fatto sempre lecitamente. 

Immaginate la sua reazione quando si è trovato catapultato nel gorgo di intercettazioni in cui viene nominato con “uno pseudonimo perché pronunciare il suo vero nome sarebbe stato troppo pericoloso”.

A mettere i brividi è il racconto dell’odissea giudiziaria “i cui danni sono irreversibili indipendentemente dall’esito finale”. 

La casa messa a soqquadro, gli agenti che frugano anche nelle sue mutande, la “rabbiosa impotenza” davanti alla gogna mediatica: “A un giornalista dico: “Abbiate pietà, lasciatemi in pace” e il giorno dopo mi ritrovo in pagina un articolo con il titolo: “Signori chiede scusa: Abbiate pietà”.  

Immediato scatta il paragone con Enzo Tortora. La necessità di dare il grande nome in pasto all’opinione pubblica. I sospetti di colpevolezza frettolosi (“il gruppo di imprenditori di Singapore non era quello della banda finita nell’inchiesta”). Spunta addirittura un fantomatico papello (in realtà erano degli appunti presi per compiacere l'interlocutore). 

Con l’ergastolo sportivo arriva la damnatio memoriae: “Il Bologna per i miei 50 anni mi onora dei suoi auguri e compare sul Corriere della Sera un articolo: ‘Signori, la festa degli smemorati’ in cui si scrive che non avrei dovuto “più mettere piede su un campo da calcio neanche per una festa perché così si ostinano a dire le sentenze”.

La vicenda è durata 10 anni. E’ finita con l'assoluzione penale che ha portato alla grazia concessa l’anno scorso dal presidente Figc Gravina per quanto riguarda la parte sportiva. 

Signori è riuscito ad avere la sua seconda possibilità. Può rimettere insieme i pezzi di una carriera folgorante. A Roma è un’istituzione. I laziali addirittura sono scesi in piazza dopo la cessione al Parma. Sulla lite a Vienna con Eriksson (“Mettiteli nel culo i tuoi complimenti”) che lo costrinse all’addio l’ex attaccante scrive: “Sven ha recentemente ha ammesso di aver sempre avuto l’intenzione di vendermi perché secondo lui non avevo la giusta mentalità e di averlo sempre detto a Cragnotti mentre a me aveva detto che ero indispensabile”.

Gli aneddoti su Zeman e sulle ripetute in mezzo alle macchine davanti allo stadio di Foggia si alternano alle battute di Carletto Mazzone (“Ahò per me è dura capì 24 teste, famo che voi capite la mia che è solo una”). la ricostruzione del rapporto con Guidolin che si presentò negli spogliatoi con due enormi cani al guinzaglio (“E’ così che vi voglio, cazzo, aggressivi”) si mischia al racconto del mondiale di Usa ’94 e alle storie tese con Sacchi: “In finale sbagliò a non fare i cambi prima dei rigori pur avendo due specialisti a disposizione come Zola e il sottoscritto”.

Con le sue 188 reti, Beppe gol è il nono nella classifica marcatori di tutti i tempi. Il suo sogno è allenare i ragazzi e magari insegnarli come si battono da fermo i rigori. “L'idea di tirarli così mi è venuta guardando un torneo di freccette in tv. Avevo notato che per ottenere la massima precisione nel colpire il bersaglio i giocatori stavano immobili, privilegiavano l’accuratezza del movimento rispetto alla potenza”. 

Non è l’unico ad essersi specializzato in questa tecnica. “Oggi il miglior interprete è Kessié”. Anche Neymar ha provato a imitarlo, quando era al Barcellona: "Mi avevano chiamato dalla Catalogna per una consulenza telefonica. Poi dopo un paio di errori il brasiliano ha deciso di cambiare strategia". Non è semplice emulare Beppe Signori. Signori si nasce…

Beppe Signori. In un documentario ascesa e caduta di Beppe Signori talento puro del calcio anni ’90. Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Giugno 2022.

Presentato al Biografilm Festival, Fuorigioco – Una storia di vita e di sport è il docufilm che racconta la storia del grande campione Beppe Signori, disponibile su Sky Documentaries on demand e in streaming su NOW.

È un originale docu-film sulla vita di Beppe Signori, l’ex attaccante che ha militato in numerose squadre (Piacenza, Foggia, Lazio e Bologna) e che è stato vicecampione del mondo con la Nazionale Italiana nel 1994. Il film vuole essere occasione per ripercorrere le tappe della sua carriera e concentrarsi sugli ultimi anni in cui è stato prima indagato nell’ambito del calcio scommesse, quindi radiato da ogni categoria dalla giustizia sportiva, ma alla fine scagionato: il 23 febbraio 2021 il Tribunale di Piacenza lo ha assolto con formula piena dall’accusa di aver truccato il risultato della gara tra Piacenza e Padova (risalente al 2 ottobre 2010 e terminata con il punteggio di 2-2), accusa per cui Beppe Signori e il suo avvocato Patrizia Brandi del Foro di Bologna avevano rinunciato in precedenza alla prescrizione.

Il documentario vede la partecipazione di molti volti noti dello sport e dello spettacolo legati alla vita di Beppe Signori: da Zdenek Zeman, l’allenatore che l’ha fatto debuttare in Serie A con il Foggia, a Francesco Guidolin, l’ultimo Mister con il quale ha condiviso l’esperienza nel Bologna, dal Divin Codino Roberto Baggio con cui trascorreva le serate del Mondiale ’94 a Gianluca Pagliuca che non è mai riuscito a parargli un rigore.

Nato da una idea di Paolo Rossi Pisu e Emanuela Zaccherini e diretto da Pier Paolo Paganelli, il nuovo progetto è targato Genoma Films.

Leonardo Iannacci per Libero Quotidiano il 3 marzo 2022.

Beppe è tornato a sorridere. Quando lo incontravamo per le vie di Bologna, con le spalle ricurve, lo sguardo liquido, il passo lento, non era la freccia che avevamo visto segnare 188 gol in serie A, vincere tre classifiche dei cannonieri e sfiorare il mondiale a Usa '94. Era un'altra persona, piegata da accuse infamanti: associazione a delinquere nell'ambito delle scommesse clandestine nel calcio. 

Oggi Beppe è un uomo nuovo: assolto perché il fatto non sussiste, scampato a quell'inferno, riabilitato dalla Federcalcio, è tornato a fianco della moglie Tina e dei suoi cinque figli. In questi giorni l'ex bomberissimo di Foggia, Lazio e Bologna (e della Nazionale) sta curando l'uscita della biografia "Fuorigioco" (Sperling&Kupfer) e di un docu-film che andrà in onda su Sky. 

Beppe, la tua vicenda giudiziaria ci ha ricordato quella di un'altra vittima della malagiustizia: Enzo Tortora. Accusato, rovinato, infine assolto.

«Hai ragione, Tortora subì l'onta del carcere, io degli arresti domiciliari. La sua Odissea durò 5 anni, la mia il doppio: 360 mesi durante i quali non ho vissuto e ho visto in faccia la morte, nel 2019, a causa di un'embolia polmonare».

Nel libro, dove i flash-back della vicenda si alternano col racconto della tua carriera, non sono pochi i resoconti processuali relativi all'inferno legale nel quale eri precipitato.

«Sono stato additato per anni come il boss di un'organizzazione internazionale che operava nel mondo delle scommesse. Vi rendete conto? E tutto perché un innocente bigliettino con il risultato di Atalanta-Piacenza, non scritto da me per combinare la partita, è stato scovato dagli inquirenti in casa mia. Nella vicenda di Tortora trovarono il suo nome sul taccuino di un pentito e fu considerata una prova contro di lui. Il parallelismo è pazzesco». 

Tortora e Signori, assolti entrambi in modo pieno. Cosa aggiungere?

«Tra i 134 imputati dell'inchiesta, il sottoscritto è stato l'unico a non essere mai stato interrogato dal giudice, non ho mai capito il motivo. E nelle 80.000 intercettazioni dell'inchiesta il cognome Signori non appare. Ero innocente fino al midollo ma non per chi mi accusava. Devo tutto alla mia avvocatessa, Patrizia Brandi. Un giorno mi consigliò: non ricorreremo alla prescrizione nei processi di Modena e Piacenza, sarebbe una prova provata che cerchi una scappatoia e resterebbero dubbi su di te. Andiamo fino in fondo e avrai l'assoluzione piena. Così è stato». 

Dieci anni durante i quali non hai potuto urlare la tua rabbia.

«Ero frustrato e depresso, avvolto da quell'impotenza che si prova quando il processo mediatico, silenziandoti, ha già deciso che sei colpevole». 

Un processo così lungo equivale a un pezzo di vita che se ne va?

«Certamente. Avevo mia moglie Tina accanto ma devo chiedere scusa soprattutto ai miei cinque figli. In quegli anni sono stato egoista, ero in un baratro e ho pensato poco a loro».

Chi ti è stato vicino?

«I miei vecchi tifosi e molti amici del calcio, da Zoff a Zeman, da Casiraghi a Baggino... Molti, non tutti. Non chiedermi però chi mi ha deluso, quelle persone non esistono più per me». 

Parliamo di calcio, ti va? Zeman: un genio o...?

«Sportivamente parlando, un genio. Con il 4-3-3 mi ha lanciato a Foggia e nella Lazio. E poi è una persona divertente a telecamere spente». 

Sacchi, un maniaco del 4-4-2, invece?

«Insieme a Zeman ha cambiato il calcio. Arrigo allenando campioni e costruendo la squadra dalla difesa, Zeman dall'attacco». 

Mondiali 1994: ti rifiuti di giocare la finale con il Brasile, perché?

«Quello resta il grande rimpianto della mia vita sportiva. Ero sfinito, dissi a Sacchi, sbagliando: "Gioco ma da punta, non più da esterno come nelle altre partite". Mi guardò basito. Risultato: ho osservato la sequenza dei penalty dalla panchina. Non ho giocato un minuto e, nella Lazio, ero un rigorista...». 

Beppe, chi vince lo scudetto quest' anno?

«Milan, farà l'impresa». 

C'è un altro Signori?

«Considerando che essere mancini è un plus, dico Dybala e Vlahovic». 

A fine mese l'Italia si gioca l'ultimo jolly nei playoff per i mondiali. Ce la facciamo?

«Io dico di sì. E gli uomini decisivi saranno Immobile e, soprattutto, Berardi». 

Oggi che uomo sei, Beppe?

«Più vecchio e segnato da quel terribile 1 giugno 2011, giorno in cui i carabinieri vennero a prendermi alla stazione Termini. Mi crollò il mondo addosso. Vorrei allenare, soprattutto in un settore giovanile. Ma una cosa l'ho imparata: perde solo chi si arrende. L'importante è uscire in tempo dal fuorigioco».

Beppe Signori, il calcioscommesse, la malattia, il sogno di allenare: «Assolto dopo dieci anni di inferno». Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.

L’ex bomber di Lazio e Bologna racconta in un libro («Fuorigioco») la vicenda giudiziaria del calcio scommesse. «Accusato di essere il capo della banda. Ma in 70mila intercettazioni non ho mai parlato con nessuno. Ho rinunciato alla prescrizione e sono stato assolto: non volevo zone grigie, ora è chiaro che ero innocente». 

«E adesso ci vorrebbe un presidente disposto a scommettere su di me». La battuta di Beppe Signori arriva dopo un’ora di chiacchierata-sfogo, qualche caffè, alcune precisazioni dell’avvocato-amica-alleata Patrizia Brandi e 192 pagine scritte per lanciare uno sguardo da superstite agli ultimi dieci anni di vita e diventate un libro, «Fuorigioco». Il manifesto dell’innocenza riconosciuta da due tribunali, Modena e Piacenza, dopo aver rinunciato, cosa piuttosto rara, alla prescrizione (nel terzo, a Cremona, invece la prescrizione è intervenuta) e per festeggiare la grazia sul piano sportivo.

Le scommesse sono al centro di questa intricata vicenda. Lei viene arrestato il 1° giugno 2011 con l’accusa di essere il capo di una banda che combina partite per avere risultati sicuri su cui puntare.

«Io a capo di una banda, come Totò Riina. Solo che è provato che su 70mila intercettazioni o contatti io non abbia mai parlato con nessuno della banda. Come facevo? E senza sim segrete».

Lei era ossessionato dalle scommesse però: celeberrima è diventata quella su quanti morsi servivano a finire il Buondì palleggiando. La sua fama l’ha danneggiata?

«Sicuramente. Assieme al fatto di essere famoso e di non essere tesserato, la mia “eliminazione” sportiva non recava danni a nessuno, a parte a me, che volevo allenare».

Lei scrive che prima non credeva a quelli che si professano innocenti quando vengono arrestati.

«Sempre pensato “se li arrestano qualcosa avranno fatto”. Poi è successo a me: 1° giugno 2011, sto tornando a Bologna da Roma dove ero andato a trovare i miei figli, mi chiama mia moglie Tina, mi dice agitata che sono venuti degli agenti a perquisire casa. Due poliziotti mi avvicinano alla stazione Termini, non so perché. Inizia un incubo lungo 10 anni. Per un mix di cattiva sorte, superficialità, narcisismo mediatico. Condannato senza processo, non uscivo più di casa, provavo vergogna anche se non avevo fatto niente, tutte le volte che la tv ne parlava era come se mi tagliassero una gamba».

Ci torniamo. La vicenda giudiziaria ha rischiato di travolgere la sua carriera, i gol (188 in A, anche qui, aveva scommesso ne avrebbe fatti 200), il Foggia, la Lazio, la Nazionale. L’inizio avrebbe dovuto essere all’Atalanta, però.

«Giocavo nella squadra del mio paese, la Villese, quando mi sceglie l’Atalanta: ho 10 anni. Al primo allenamento vado a Bergamo con la corriera: mi vengono a prendere in stazione, ma al ritorno mi lasciano in strada. Io non so cosa fare, mi spavento, piango. E quando per miracolo torno a casa decido che non voglio più giocare per l’Atalanta».

Subito dopo arriva il provino all’Inter.

Dura 7 minuti: il portiere fa un rinvio, il pallone mi colpisce in faccia, cado svenuto ma segno. Mi prendono per tenerezza. Poi però puntano su Fausto Pizzi e a 15 anni mi mollano».

Poi Foggia e Zeman.

«Divento attaccante. Anni spensierati. Ci allenavamo in un centro vicino allo Zaccheria. Per rientrare, sporchi, infangati, passavamo in mezzo al mercato, con le signore che facevano la spesa».

Il resto è noto, lei diventa un idolo alla Lazio. Ci sono due screzi nella sua carriera: la lite con Eriksson a Vienna nel ‘97 in Coppa Uefa che sancisce l’addio e il no a Sacchi per giocare «da terzino» la finale Mondiale in Usa. Rifarebbe tutto?

«Con Eriksson sì: mancava onestà, aveva deciso dall’inizio di non puntare su di me, non me l’ha mai detto. Con Sacchi no: oggi direi “gioco anche al posto di Pagliuca”».

Veniamo allo snodo che ha segnato la sua vita: 15 marzo 2011, lei che va all’appuntamento con i suoi commercialisti, dove ci sono Bellavista e Erodiani, loro sì al centro delle combine. Perché ci va?

«L’antefatto: io ero amico di Gigi Sartor. Lui in Cina ha conosciuto degli investitori di Singapore, che non sono però quelli dell’inchiesta scommesse, non c’entrano niente, sono solo di Singapore, vogliono comprare una squadra di B e vogliono spendere il mio nome come futuro allenatore. Mi danno come compenso 32mila euro, che io deposito in Svizzera, con nome, cognome, modulo antiriciclaggio. Per la procura diventa un conto cifrato, sa perché? Perché scelgo di identificarlo con delle cifre. Comunque, vado a quell’incontro per sostituire Sartor. Poi non vedo mai più nessuno».

Ma perché scrive le condizioni della combine? Il famoso «papello», la prova regina per l’accusa.

«Mi chiedono di puntare dei soldi su Atalanta-Piacenza combinata e io rifiuto subito. Così per convincermi che sono gente seria mi dicono: “dai scrivi come va a finire, scrivi a che condizioni si può fare”. Io per non discutere scrivo, metto il bigliettino nella tasca dei jeans e me ne dimentico. Ma è provato che nessuno ha accettato di fare niente. Fosse rimasto nei jeans, il bigliettino sarebbe andato distrutto e non sarebbe successo nulla, invece mia moglie svuota le tasche e il papello sta sul comò per due mesi e mezzo, dove lo trova la polizia».

Lei non ha commesso reati, non ha combinato partite: però sembrava disposto a scommettere su partite combinate da altri, non è grave?

«No, un attimo: io ero disposto a sfruttare dritte, magari di squadre che non volevano impegnarsi. Ma quando sento che sotto c’è qualcos’altro, mi tolgo».

Perché nei processi sulle combine ha rinunciato alla prescrizione ma a Cremona, dove era rimasta l’associazione a delinquere, no?

«Rinunciare alla prescrizione non è banale. Non volevo restare nel grigiore, i miei avvocati precedenti mi avevano proposto di patteggiare, ma sarebbe sembrato ammettere una colpa, ho cambiato avvocati e con Patrizia abbiamo scelto la strada più difficile. Ed è uscito che sono innocente. Perché non ho patteggiato a Cremona? Perché sarei ancora in ballo e volevo tornare nel calcio».

Lei ha avuto un malore piuttosto serio nel 2019.

«Un embolo partito dal polpaccio destro mi ha bucato il polmone. Avevo iniziato a sputare sangue, ero in ospedale, quando è impazzito il cuore. È chiaro che lo stress ha avuto un bel peso: ero nel mezzo della battaglia in cui mi giocavo tutto».

Ora che ha vinto cosa sogna?

«Di allenare i giovani: servono maestri di calcio. Scommettete su Signori».

Nel libro 'Fuorigioco' l'ex calciatore racconta i suoi '10 anni d'inferno'. Beppe Signori, dalla gogna calcioscommesse alla rinascita: “Trattato come Riina, condannato senza processo ma poi… innocente”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 28 Febbraio 2022. 

L’innocenza, riconosciuta da due tribunali, e un libro in uscita il 1° marzo (‘Fuorigioco. Perde solo chi si arrende’) per raccontare i suoi ‘10 anni d’inferno’. Beppe Signori, ex bomber della Lazio e del Bologna, si sfoga in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. E lo fa partendo da quel 1° giugno 2011, la data che cambierà la sua vita: è il giorno in cui viene arrestato con l’accusa di essere il ‘boss’ di un’organizzazione che combina partite in un’inchiesta sul calcioscommesse. ‘Io a capo di una banda, come Totò Riina. Solo che è provato che su 70mila intercettazioni o contatti io non abbia mai parlato con nessuno della banda. Come facevo? E senza sim segrete” sottolinea.

“Condannato senza processo”

Una gloriosa carriera sportiva lunga 13 stagioni in serie A, con 188 gol e 344 presenze. Il provino all’Inter, le vittorie nella Lazio, infine il Bologna. La Nazionale, con cui diventa vicecampione del mondo nel 1994. Il ritiro, nel 2004, e poi l’inchiesta giudiziaria che lo travolgerà nel 2011. Beppe Signori sta tornando a Bologna da Roma, dove era andato a trovare i figli, quel maledetto 1° giugno. “Due poliziotti mi avvicinano alla stazione Termini, non so perché. Inizia un incubo lungo 10 anni. Per un mix di cattiva sorte, superficialità, narcisismo mediatico” racconta. “Condannato senza processo, non uscivo più di casa, provavo vergogna anche se non avevo fatto niente, tutte le volte che la tv ne parlava era come se mi tagliassero una gamba”.

Il sogno di tornare nel mondo del calcio

Una vicenda giudiziaria che arriva a minare la sua salute mentale, oltre che quella fisica: una ‘tempesta’ terminata solo nel 2021. Signori viene assolto con formula piena dai tribunali di Modena e Piacenza dopo aver rinunciato alla prescrizione. Una scelta che invece non avviene per il processo a Cremona: “Rinunciare alla prescrizione non è banale. Non volevo restare nel grigiore, i miei avvocati precedenti mi avevano proposto di patteggiare, ma sarebbe sembrato ammettere una colpa, ho cambiato avvocati e con Patrizia abbiamo scelto la strada più difficile” spiega al Corriere. “Ed è uscito che sono innocente. Perché non ho patteggiato a Cremona? Perché sarei ancora in ballo e volevo tornare nel calcio”. 

Dopo un malore piuttosto serio nel 2019, quando ha rischiato un infarto (“Un embolo partito dal polpaccio destro mi ha bucato il polmone. Avevo iniziato a sputare sangue, ero in ospedale, quando è impazzito il cuore”) ora il suo sogno, sottolinea l’ex bomber, è di fare l’allenatore. “Servono maestri di calcio. Scommettete su Signori”. Mariangela Celiberti

La vicenda nell'autobiografia dal titolo: "Fuorigioco. Perde solo chi si arrende". Il calvario da innocente di Beppe Signori: “Dieci anni buttati nei processi che nessuno mi ridarà mai”. Rossella Grasso su Il Riformista il 27 Maggio 2022. 

“Il calciatore conosciuto, non tesserato, che scommetteva. L’identikit perfetto per essere arrestato. Più di dieci anni dopo sono stato assolto perché il fatto non sussiste”. Le parole di Beppe Signori, ex calciatore, sono ancora cariche di amarezza per l’assurda vicenda giudiziaria che lo ha travolto. Un calvario durato oltre dieci anni ma che ha visto una lieta conclusione ma per il campione solo in parte: “Dieci anni persi perché il mio sogno era quello di continuare a fare quello che ho sempre fatto nella mia vita, calpestare un campo verde. Nel 2011 mi è stata tolta questa possibilità. Il sogno si è interrotto ma spero, non dico di recuperare il tempo perché quegli anni nessuno te li restituirà mai, ma ricominciare e guardare avanti al futuro”.

Beppe Signori, 54 anni, è il nono marcatore di sempre nella storia della Serie A. Nel corso della carriera ha indossato le maglie di Piacenza, Foggia, Lazio, Sampdoria e Bologna, città nella quale tuttora vive. Dal 1992 al 1995 è stato giocatore della Nazionale di calcio italiana, con cui ha disputato i Mondiali di USA ’94, sotto la direzione di Arrigo Sacchi. Il 1° giugno 2011 è stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta legata al calcioscommesse e il successivo 9 agosto la FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio) lo ha radiato a vita. “Da idolo delle tifoserie in un attimo a un delinquente, ma ero innocente”, racconta Signori.

Dopo dieci anni di processi istituiti da più tribunali (Cremona, Bologna, Modena, Piacenza), viene assolto da tutti i capi di accusa per i reati non caduti in prescrizione, e il 1° giugno 2021 viene riabilitato dalla FIGC con un provvedimento di grazia emesso dal presidente Gabriele Gravina. Una vicenda che ora l’ex calciatore racconta con grande amarezza: “Tutto è iniziato il primo giugno 2011 e si conclude il 1 giugno del 2021. Ho saputo di essere arrestato da mia sorella con una telefonata. La Procura di Cremona aveva già venduto la notizia ai giornali. Mentre ero sul treno tornando da Roma a casa a Bologna mia sorella mi chiese in lacrime in quale carcere fossi. Io ne rimasi sorpreso. Lei mi disse che la notizia era su tutti i giornali. Controllai sullo smartphone ed era così. Ovunque c’era la mia foto, la mia faccia con la maglia e i titoli che dicevano ‘Signori arrestato per il calcio scommesse’. Io sono stato l’ultimo a saperlo”.

Signori passò circa 10 giorni agli arresti domiciliari. Poi continuò a vivere quegli anni atroci in cui non riusciva nemmeno ad accendere la televisione per non incappare in programmi che parlavano di lui e non aveva voglia nemmeno di uscire. Quell’accusa infamante per un campione come lui era davvero troppo. “La cosa che più mi ha ferito è stata la leggerezza con cui fu portata avanti l’indagine – dice – Se veramente ci fosse stato tutto questo coinvolgimento da parte mia e degli altri, eravamo in 135, lasciare andare in prescrizione una cosa così significa che veramente c’era poco o niente. Dieci anni buttati via, soldi spesi inutilmente, a livello psicologico una situazione pesantissima. Ogni volta che accendevo la tv sentivo il mio nome e andavo in crisi. Mi venne anche un’embolia polmonare”.

Signori racconta di essersi trovato per caso in mezzo a quell’indagine sul calcio scommesse. “C’era una schiera di persone che scommetteva su determinate partite. Tra questi c’erano due miei commercialisti. Il tutto iniziò da un incontro fatto il 15 marzo 2011 a cui ho partecipato come colui che doveva dare dei soldi. In quella circostanza ho rifiutato ma sono finito dentro l’indagine. Mi hanno fotografato e sono partiti i pedinamenti. Sono stato coinvolto come il ‘capo dei capi’, senza un’intercettazione. Così mi sono visto costretto a comprare 87mila intercettazioni per capire. Qualcuno faceva il mio nome ma nulla più”.

La storia continua: “Quando mi sono presentato al primo interrogatorio di Garanzia, chiesi al Gip cosa c’entrassi io. Dopo 3 minuti il Pm si alzò e andò via dicendo che quell’interrogatorio era inutile. Evidentemente pensava che gli raccontassi chissà che cosa. Dopo quella volta io il Pm non l’ho più rivisto, non mi ha più interrogato. Ho fatto 48 minuti di interrogatorio totali. Essendo anche il ‘boss dei boss’ mi sembra un po’ riduttivo. Poi negli anni ho chiesto più volte di essere interrogato e mi è sempre stato negato”.

“In quel momento probabilmente avevo l’identikit del perfetto uomo che aveva una certa conoscenza a livello mediatico, che poteva tener su un’inchiesta di questo genere, che gli piaceva scommettere, e questo non l’ho mai nascosto, ma erano sempre fine a se stesse, non per andare ad alterare il risultato di qualche partita. Un po’ come quella del Buondì in 30 passi. Me lo potevo permettere perché non ero tesserato, ero un semplice cittadino che scommetteva sulle partite come fanno tanti italiani. Forse proprio per questo potevo essere trattato in quel modo”.

Nel 2014 insieme a Patrizia Brandi, suo avvocato, decide di iniziare una battaglia per far emergere la verità. “Siamo arrivati fino in fondo e alla fine ho avuto la piena assoluzione perché il fatto non sussiste. Questo mi ha dato la possibilità di riaprire quello con la federazione, tanto che sono stato graziato. Ho rinunciato anche alla prescrizione perché mi sentivo innocente e volevo dare una risposta ai miei figli. Per me è stato un sollievo, ho dato a loro e a me un grande sollievo”.

Ed è proprio ai figli che ha dedicato il libro autobiografico dal titolo “Fuorigioco. Perde solo chi si arrende” (Sperling & Kupfer). Il volume è stato presentato nel salotto del Lido Varca d’Oro di Varcaturo, diretto dal manager Salvatore Trinchillo, per la rassegna i Varcautori, curata da Vincenzo Imperatore. Il volume si snoda in 11 capitoli. Proprio quanti sono i giocatori in campo nelle partite di pallone. Ed è lì che Signori vuole tornare presto, ricominciare da dove aveva lasciato.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Giuseppe Signori. Beppe Signori, dalla Nazionale all'embolia cerebrale: "Colpa dei pm", la drammatica denuncia. Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Un giovane prende la palla e dribbla, con velocità ed astuzia, il difensore avversario nello stadio Pino Zaccheria di Foggia e con la palla al piede calcia, in modo preciso e violento, nella porta difesa da un grande portiere, quel Claudio Taffarel che pochi anni dopo diventerà campione del mondo con la nazionale brasiliana. «Il mio primo gol in serie A fatto alla quinta giornata di campionato è forse quello che maggiormente mi è rimasto nel cuore». Chi parla è Giuseppe Signori, per tutti Beppe, centottantotto gol nel campionato di serie A italiano e nono marcatore assoluto al pari di Alessandro Del Piero e Alberto Gilardino. Beppe Signori aveva ventun anni e stava segnando in quella squadra allenata da Zdenek Zeman chiamato il "Foggia dei miracoli ", alla cui presidenza c'era un grande imprenditore, purtroppo mancato quest' anno: Pasquale Casillo. Il "Foggia dei miracoli" nasce nel 1989 ed è stato caratterizzato dal modulo (4-3-3, spiccatamente offensivo) e dal gioco spumeggiante. Quella squadra, dopo aver vinto il campionato di serie B nell'anno 1990-91 con il miglior attacco del campionato, si ritrovava a giocare con una squadra impegnativa come il Parma. Il Foggia però, con quello che era considerato il "trio delle meraviglie" dei giovani Baiano, Rambaudi e Signori, non era da meno. 

Beppe, dapprima nel 1991 il tuo primo gol in serie A e poi, tre anni dopo, la chiamata in nazionale da parte di Arrigo Sacchi per i Mondiali in Usa. Hai qualche ricordo?

«Ho il ricordo che purtroppo fummo ad un passo dal vincere i Mondiali. Avevamo iniziato molto male e fummo ripescati dopo il girone di qualificazione ma piano piano la squadra salì fino ad arrivare alla finale con il Brasile».

E lì, ai rigori, perdeste...

«Iniziò Baresi sbagliando ma rimediò Pagliuca parando il rigore successivo ma poi, purtroppo, fallì Massaro, la cui conclusione non irresistibile venne respinta proprio da Taffarel a cui avevo segnato il mio primo gol in serie A. Sul dischetto andò Dunga per il Brasile che non sbagliò, spiazzando Pagliuca ed a questo punto i verdeoro, a un tiro dalla fine, si ritrovarono in vantaggio 3- 2: per vincere, sarebbe bastato che il loro ultimo rigorista facesse gol. Ma non fu necessario arrivare a ciò poiché Roberto Baggio, nonostante fosse uno degli specialisti dagli undici metri, tirò alto il quinto e ultimo penalty degli azzurri. Il Brasile vinse così il mondiale».

Quel mondiale che venne dedicato ad Ayrton Senna, il pilota brasiliano morto ad Imola il 1 maggio di quell'anno. Ci sono analogie tra la nazionale del 1994 e quella di oggi campione d'Europa?

«Secondo me non molte e come ho già detto noi abbiamo iniziato molto male mentre l'Italia campione d'Europa è partita molto bene con la consapevolezza delle proprie forze. Mancini ha avuto la capacità di ricreare e ricostruire un gruppo che dopo Totti e Del Piero si era sfilacciato facendosi male da solo e non solo...».

Cos' altro?

«Mancini ed il suo team fatto dal massaggiatore, dall'accompagnatore, da Lombardo e Salsano passando da Evani e Vialli hanno costruito entusiasmo tra la gente è questa è la cosa più importante. Il nostro Paese, dopo un anno e mezzo di pandemia, aveva bisogno anche di questo momento di leggerezza e condivisione».

Secondo te chi è stato il leader del gruppo?

«Ti rispondo dicendo che il gruppo è stato leader. Mancini ha costruito qualcosa di formidabile con una panchina lunghissima dove ogni giocatore, quando chiamato a rispondere, dava il meglio di se e diventava indispensabile».

Hai voglia di fare qualche esempio?

«Locatelli è entrato ed ha fatto una doppietta decisiva. Stessa cosa Chiesa, Berardi, Pessina. Lo stesso Immobile è stato decisivo anche tornando in difesa e giocando con umiltà. Senza parlare di Spinazzola che fino all'infortunio ho considerato il miglior giocatore degli europei».

Tra un anno ci saranno i mondiali a Dubai. Non credi che le aspettative elevate possano essere un elemento di criticità nel gruppo?

«I mondiali sono un'altra storia a parte. Io credo che nazionali come Germania, Spagna o Francia non siano mai in crisi ed a queste dobbiamo aggiungere le squadre sudamericane come Argentina, Brasile, Colombia: insomma tra un anno sarà tutto diverso ma con questo gruppo credo che potremmo dire sempre la nostra».

Dove hai visto, e con chi, le partite?

«Con qualche amico e sempre con la mia famiglia».

Hai detto, durante la partita Italia-Spagna, "il primo che sbaglia il rigore vince la partita". Ed hai avuto ragione. Come mai questa tua affermazione?

«Statisticamente, anche se sembra paradossale, è così. Questo accade perché cambia, per chi calcia i rigori seguenti, il livello di tensione e concentrazione e subentra la consapevolezza che non possono sbagliare. Così è stato anche per la finale Italia-Inghilterra».

Due date importanti nella tua vita: 1 giugno 2011, il giorno in cui sei stato arrestato, e dieci anni dopo il 1 giugno 2021 in cui sei stato riabilitato dalla Figc con il presidente Gravina. Come sono stati questi anni?

«Durissimi soprattutto all'inizio dove sono entrato mio malgrado in un tritacarne mediatico impressionante. Sono stato molto male perché sapevo della mia totale estraneità ai fatti. Tu pensa che di questa indagine che vedeva 135 imputati hanno fatto prescrivere tutto senza mai andare a processo».

Prescrizione a cui tu hai rinunciato...

«Io, pur conoscendo il rischio, ho voluto che si celebrasse nei tribunali il contraddittorio tra accusa e difesa. Ed abbiamo vinto e questa è stata una grande gioia».

Cosa hai detto ai tuoi familiari, ai tuoi figli riguardo questa vicenda giudiziaria?

«Che se prima mi stimavano come il calciatore Signori adesso dovevano credere in papà Beppe. Così è stato».

Hai avuto delusioni?

«Mi ha deluso chi sapevo già l'avrebbe fatto».

Ed invece chi ti è stato vicino?

«La mia famiglia a partire da mia moglie Tina, i miei figli ed i miei genitori. Tutti loro sono stati la mia vera forza per affrontare ogni criticità e superare gli stress».

Per questo stress hai anche rischiato la vita?

«Due anni fa mi hanno preso all'ultimo momento per una embolia cerebrale. Per fortuna ero già in ospedale a Bologna e si sono accorti immediatamente; ma credimi lo stress di dieci anni di ingiustizia ti fa davvero del male profondamente».

Anni difficili anche per la pandemia visto che tu sei di Alzano Lombardo, l'epicentro del coronavirus?

«I miei genitori abitano lì ancora adesso ed io ero estremamente preoccupato per gli sviluppi del Covid. Per fortuna ne siamo usciti tutti in modo positivo nonostante qualche perdita avuta tra alcuni amici».

Ma vi siete ammalati?

«Sì, tutti, ma per fortuna in modo leggero».

E adesso cosa farà Beppe Signori?

«Intanto faccio il padre di sei bellissimi figli e credimi non è cosa da poco, ma certamente il mio sogno sarebbe quello di riprendere ad allenare una squadra di calcio».

E questo sarebbe il giusto risarcimento per un campione che ingiustamente è dovuto rimanere fuori dalla vita sportiva non per proprie responsabilità.

Daniele Magliocchetti per "il Messaggero" l'1 giugno 2021. Gabriele Gravina concede la grazia a Giuseppe Signori. Sarà ufficiale oggi, con un provvedimento firmato dal presidente federale in persona. A dieci anni esatti dal suo arresto, per la vicenda legata al calcio scommesse, la Figc lo riabilita e da oggi, con effetto immediato, Beppe-Gol potrà tornare nel mondo che gli appartiene e più ama, quello del pallone. E dalla porta principale. Una battaglia durata dieci anni e che il numero uno della federazione, particolarmente coinvolto dalla vicenda, ha voluto fare sua, tanto che ha fatto in modo che l'ufficio legale della Figc fornisse nel più breve tempo possibile il parere preliminare per accelerare l'iter della grazia da poter firmare. Detto, fatto.

LACRIME DI GIOIA Per l'incontenibile gioia dell'ex attaccante di Foggia, Lazio, Bologna e Nazionale, che ieri, appena appresa la notizia dal suo avvocato Patrizia Brandi, si è messo a piangere, commosso come, forse, non è mai stato nella sua vita. Una liberazione. L' ultimo atto, quello più atteso e tanto desiderato. Emozionati tutti e due, l'ex giocatore e il suo legale, che non hanno mai smesso di credere e lottare per l'innocenza a livello penale e sportivo. L'arrivo della grazia è una notizia che farà impazzire due popoli, quello biancoceleste e rossoblù, ma anche la stragrande maggioranza degli italiani che amano il calcio e lo sport. Roma e Bologna, due piazze che, nel tempo, hanno sempre sostenuto Signori, fino a organizzare una raccolta firme per riabilitare Re Beppe direttamente inviata al presidente Gravina. Per lui nel 1995 cinquemila tifosi della Lazio sono scesi in piazza per non farlo andare via, visto che Cragnotti l'aveva ceduto al Parma. Ed erano pronte a rifarlo.

LA RINASCITA Dal primo giugno del 2011, al primo giugno del 2021, dieci anni dove è successo di tutto, a pensarci bene sembra quasi la sceneggiatura di un film. A partire proprio da quella drammatica mattina del 2011, quando l'attaccante venne arrestato e condotto in carcere perché coinvolto nello scandalo del calcio-scommesse. Si diceva fosse il «regista occulto» di una rete internazionale, colui da cui partivano le indicazioni per manipolare i risultati di gare di A e B. Fandonie. Bugie messe in giro da persone poco raccomandabili che l'avevano coinvolto a sua insaputa perché sapevano della sua passione per il gioco. Beppe giocava, sì, ma l'ha sempre fatto in modo onesto e regolare. Più lo urlava, più veniva etichettato come mostro. Ed è stato proprio questo a distruggerlo nell' anima, tanto che, durante gli anni dei processi, in cui non ha saltato nemmeno un'udienza, è stato male, ricoverato in ospedale, il cuore ha rischiato di non reggere. Distrutto, ma, nonostante gli cominciassero a mancare le forze e la speranza, non ha mai mollato. Non aveva pensato di ricorrere alla prescrizione, perché era innocente e voleva dimostrarlo, ma a Cremona, nel processo principale, è arrivata, mentre a Piacenza e a Modena, due procedimenti dove era accusato di aver manipolato tre partite, è stato assolto con formula piena «perché il fatto non sussiste».

Dieci anni di accuse gravissime. Una vita rovinata. Ma adesso la riabilitazione e la possibilità di rimettersi in gioco e fare quello che più gli piace, lavorare sul campo, allenare. Già perché Beppe l'anno prima del disastro aveva ottenuto il patentino d' allenatore, superando brillantemente il Supercorso di Coverciano e, nonostante le lotte legali, non ha mai smesso di aggiornarsi. E chissà che ora, ottenuta la grazia, non ci sia già qualche società interessata alle idee calcistiche di un ragazzo che ha fatto 188 gol in serie A, di un campione che ha fatto sognare tanti. Ma soprattutto di un uomo vero, onesto che vuole solo tornare su un campo di calcio. Libero e felice.

Da gazzetta.it il 15 dicembre 2020. Il procedimento sul calcioscommesse è prescritto: lo hanno deciso i giudici del tribunale di Cremona chiudendo il processo nei confronti degli ultimi cinque imputati tra cui Beppe Signori, vicecampione del mondo con la nazionale italiana nel 1994 e l'unico a essersi presentato in aula questa mattina. "Mi piaceva scommettere ma l'ho sempre fatto in modo leale e non ho mai truccato alcuna partita. Mi hanno rovinato la vita solo perché il mio nome garantiva interesse mediatico": lo ha detto questa mattina, in tribunale a Cremona, Giuseppe Signori, ex bomber di Foggia, Lazio e Bologna oltre che della nazionale. Oltre a Signori, erano imputati l'ex calciatore serbo Almir Gegic, l'ex capitano del Bari Antonio Bellavista, l'ex portiere della Cremonese Marco Paoloni e il corriere Valerio.

Beppegol era innocente: 10 anni di calvario prima della riabilitazione dell’ex calciatore. «Il fatto non sussiste»: Signori non era colpevole di calcio scommesse. Ma il pm bollò come inutili le sue dichiarazioni. Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 3 giugno 2021. Dalla scommessa del Buondì Motta da mangiare in trenta passi in diretta tv, a quelle decise a tavolino dai gestori occulti del totonero anni 2000, il passo – almeno nell’ipotesi degli inquirenti – era stato brevissimo. Un passo accompagnato dai titoli dei giornali che lo indicavano come mente occulta del nuovo calcio scommesse e che è finito per costare a Beppe Signori, lo spietato angelo biondo di Zemanlandia, dieci anni di calvario giudiziario interrotto solo lunedì, con il provvedimento di grazia arrivato dalla giustizia sportiva – che segue le due assoluzioni «perché il fatto non sussiste» della giustizia ordinaria di Piacenza e Modena – per opera del presidente federale Gravina. Una storia giudiziaria dai tratti surreali quella di Beppegol. Una storia che prende il via dalla passione smodata dell’ex calciatore per le scommesse – alcune di quelle architettate durante i ritiri con in compagni di squadra sono diventate patrimonio comune della storia recente del calcio italiano – e che finisce con le manette che scattano il primo giugno del 2011, quando una coppia di agenti lo preleva alla stazione centrale di Bologna per condurlo in Procura. «Mi hanno intercettato, seguito, pedinato – ha detto Signori intervistato a margine dell’udienza che lo ha scagionato –. Fino in Svizzera, fino al Mc Donald, fino allo zoo. Non sono mai riusciti a trovare niente. Anche nelle intercettazioni, il mio nome non saltava mai fuori». Quando l’ennesimo scandalo legato alle scommesse clandestine esplode nell’estate di 10 anni fa, Beppe Signori viene indicato dagli inquirenti come “mente” del gruppo: l’uomo in vista, l’ex calciatore che si portava dietro l’etichetta di “amante delle sfide”, quello in grado di organizzare il sottobosco clandestino di scommettitori e calciatori sul viale del tramonto. «Ho chiesto di essere interrogato dal pm tantissime volte – ha dichiarato Signori all’indomani della riabilitazione sportiva che gli consentirà di rientrare nel calcio dalla porta principale, l’unica adatta ad un vice campione del mondo – ma sono stato sentito solo dal gip, il pm andò via dopo pochi minuti bollando l’interrogatorio come “inutile”». Articoli su articoli, trasmissioni televisive, barzellette feroci: l’arresto di Beppe Signori – che trascorrerà una decina di giorni ai domiciliari prima di essere rimesso in libertà – suscita così tanto scalpore da diventare protagonista di uno dei primi meme virali a imperversare sul web. Poi, dopo la gogna mediatica «che mi ha procurato un sacco di problemi, anche fisici e che ha segnato profondamente la mia famiglia», i processi, le assoluzioni, e ora la riabilitazione anche in quel mondo del calcio che, salomonicamente, un po’ lo ha protetto, un po’ lo ha gettato al fiume. «Sono molto soddisfatto per essere stato assolto con la formula de “il fatto non sussiste” – ha detto Signori ai giornalisti presenti lunedì in Tribunale a Modena in occasione dell’udienza che ha chiuso finalmente il cerchio giudiziario –. Sono andato avanti fino alla fine perché sia io che il mio avvocato abbiamo creduto alla mia innocenza: volevo la verità e volevo uscire a testa alta da questa situazione. Finalmente siamo alla fine, sono passati dieci anni, dieci anni lunghi che non mi restituirà più nessuno, ma io sono un combattente nato e passerò sopra anche a questo. È un risultato importante, perché la prescrizione avrebbe potuto lasciare qualche ombra di dubbio, invece abbiamo lottato e abbiamo ottenuto il massimo, a questo punto guardo avanti con fiducia e ottimismo. Vorrei rientrare nel mondo del calcio». E se Signori, il folletto imprendibile capace di stregare le tifoserie di Foggia, Lazio, Sampdoria e Bologna, può finalmente guardare a un futuro sgombro di sospetti e illazioni per la sua nota passione per il gioco d’azzardo, altrettanto soddisfatta si è dichiarata l’avvocato dell’ex calciatore, Patrizia Brandi: «Non abbiamo dubitato un momento solo dell’innocenza di Beppe, tanto da decidere di rinunciare alla prescrizione. Questa assoluzione chiude la bocca a tutti quelli che a suo tempo lo hanno lapidato. Questo è un finale che non lascia repliche, nessun sorrisetto, nessun ammiccamento. La fine di una storia che dice che Signori non ha fatto niente ma è stato travolto da un tritacarne terrificante per 10 anni».

Ivan Zazzaroni per il “Corriere dello Sport” il 2 giugno 2021. Proprio come quando scattava sulla fascia ed era quasi impossibile frenarne la corsa. Pallone sul sinistro, la testa bionda e riconoscibilissima leggermente abbassata, la porta, il gol. «Sono passati dieci anni, precisi precisi». Adesso sorride, Beppe Signori, oscillando tra diversi gradi di esistenza. Riesce ad abolire ogni distanza tra realtà e delirio. Perché in un delirio ha vissuto e da un delirio è da poco uscito. «E poi uno non dovrebbe essere scaramantico. Oggi venivo arrestato. Oggi, proprio oggi. Il primo giugno 2011 mi accompagnavano in questura a Bologna, il primo giugno 2021 è finito tutto. La grazia dopo due assoluzioni piene. Né manette né gabbio, grazie a Dio. Ho fatto quattordici giorni ai domiciliari e basta. La galera me l’hanno risparmiata. Ma risparmiare il carcere al boss dei boss non è forse una colpevole incongruenza? Una vicenda nata male, la mia. Sotto tanti aspetti. Mai, ripeto mai sono stato interrogato dal pm che ordinò l’arresto. Ho subìto solo l’interrogatorio di garanzia da parte del gip, e dopo dieci, undici giorni, i tempi naturali, mi spiegarono. Il pm si sedette di fianco a me, il tutto durò quarantotto minuti, il più breve. E dopo tre minuti il pm si alzò e disse: “Vado via, vista l’inutilità di questo interrogatorio”. In seguito ho chiesto decine di volte di essere riascoltato, ma ho sempre ricevuto la stessa risposta. No no, no no. E questo mi ha fatto pensare». 

A cosa? 

«Che ero soprattutto - lo si ricava dall’ordinanza - il volto dell’inchiesta. Duemilaundici, non c’era niente. Non c’erano Mondiali, né Europei. Un nome abbastanza noto in Italia e nel mondo che non fosse tesserato, il mio. C’erano tutte le condizioni per trasformarmi da mente, finanziatore e scommettitore nella faccia da mostrare al pubblico. Carne da macello. Io ho acquisito le intercettazioni, in 70mila registrazioni il mio nome non esce mai... Non ci sono», e lo sottolinea scandendo le tre parole. 

Beppe, al di là dello sputtanamento, della dignità calpestata, del dolore provato… 

«Fermati! Fisici, psicologici, tanti i danni che mi ha procurato questa storia. Cicatrici enormi. Due anni fa mi è partito un trombo dal polpaccio che ha bucato il polmone. Mi sono ritrovato al Sant’Orsola sdraiato, intubato, perché stavo per schiattare. Ovviamente al trombo hanno concorso diversi fattori, però l’inchiesta ha contribuito a debilitarmi, insomma l’ho somatizzata. Le troppe sigarette hanno fatto il resto. Così come mi piaceva scommettere, mi piaceva fumare. Ho pagato, ho pagato tutto e troppo». 

Tu eri un ludopatico, questo non è un segreto. 

«Ludopatico, no. Che mi sia sempre piaciuto scommettere, lo sanno pure i muri. Già da ragazzino vivevo di sfide, ho sempre considerato il mio modo di scommettere un incentivo a migliorare». 

Non capisco. 

«Ricordo che alla Lazio feci una scommessa con Maurizio Neri. Era un periodo in un cui non riuscivo a segnare, mi trovavo in grande difficoltà. Scommisi che a fine stagione avrebbe giocato meno minuti lui rispetto ai gol che avrei segnato io. La vinsi, naturalmente. È un esempio stupido, se vuoi, ma la sfida del Buondì Motta e altre ancora come le vuoi catalogare? Per come sono fatto di carattere, non esiste che io vada da un calciatore per dirgli “ascolta, ti do i soldi se perdi la partita”». 

Hai bruciato tanto denaro nelle scommesse. 

«Leggende metropolitane. La verità è che mi piace il gioco, frequentare il Casinò, vinci, perdi, rivinci, riperdi. Il giocatore non vuol sapere prima come andrà a finire, l’adrenalina è l’accensione, il rischio il senso della puntata. Quando sono entrato in questo vortice la cosa più straniante è stata proprio questa. Se io sono un giocatore e conosco già il risultato finale non sono un giocatore». 

Qual è stato il momento più difficile? 

«L’arresto, sicuramente l’arresto. Mi sembrava di essere finito dentro un film. Fermato, accompagnato in questura… Mi chiamò mia sorella mentre ero sul Frecciarossa per Bologna e chiese in quale carcere mi avessero portato. Che cazzo stai dicendo? le dissi. E lei: Perché sei stato arrestato. Io arrestato? Ma se sono sul Frecciarossa. Arrivato a Bologna domandai ai due poliziotti in borghese che mi vennero a prendere cosa stesse accadendo. Risposero che era per una questione relativa a delle società. Pensai subito a mio padre, avevamo delle società insieme, che cazzo avrà combinato? Mi mostrarono la foto del tg con il lancio “arrestato Beppe Signori per il calcioscommesse”. Ero incredulo, loro che mi guardavano quasi sorpresi. Furono gentilissimi, uno dei due mi spiegò che la procura di Cremona aveva già venduto la notizia… La mia vita è stata completamente stravolta. Dalle situazioni più delicate, i bimbi che andavano a scuola a Roma. Sai, Roma e Lazio - “tuo padre se vende le partite” - ai rapporti con le persone. Nicolò aveva dieci anni. Per loro fu molto pesante. E pesante lo è stato per Tina, mia moglie». 

Non hai mai smesso di lottare, questo sì. 

«Ho avuto dei grossissimi momenti di sconforto, in particolare all’inizio. Non dico che ho pensato a gesti estremi… O meglio, ci ho pensato, ma non ho mai preso in considerazione l’idea di farla finita. C’erano i figli, mia moglie, gli amici più stretti che mi sono stati accanto, alcuni dei quali sono venuti a mancare, i miei familiari, mia sorella. Se entro in un negozio e rubo una mela, mi rivolgo all’avvocato e gli spiego che ho rubato una mela e che dobbiamo trovare un escamotage per uscirne puliti. Il problema sorge quando non entri nemmeno nel negozio e ti accusano di aver rubato la mela. Giustificare una cosa che non hai fatto è assurdo, ci sono momenti in cui non ci stai più con la testa». 

Così come togliere ogni dubbio a certa gente per la quale resti colpevole nonostante due sentenze. 

«Non mi curo di loro. Ho voluto fugare qualsiasi tipo di dubbio, non con la grazia, ma con l’assoluzione piena perché il fatto non sussiste. Dieci anni ci sono voluti, sono questi i tempi della giustizia in Italia. Non ho bisogno di convincere nessuno. Non più. Domando solo: è possibile che in questi dieci anni non abbiano trovato nulla? Sono stato l’unico che ha voluto andare fino in fondo. Io ero già sereno dopo le due assoluzioni, mi han dato grande forza. Ho affrontato vari processi, numerosi interrogatori, sono entrato in un ambiente che non era il mio. Il tribunale. Non so se l’hai mai provato, ma stare davanti a persone che non ti conoscono e sono lì per giudicarti è un’esperienza sconvolgente. Temi che un testimone racconti delle cagate che poi devi smontare. Ringraziando Dio, nei due processi, sia a Modena, sia a Piacenza, i testimoni dell’accusa hanno confermato che io non ero mai stato neppure nominato. Dico Carobbio e Gervasoni, che hanno ammesso di aver combinato delle partite. Il nome di Beppe? Mai sentito: non sono presente nelle intercettazioni perché non parlavo con queste persone e allora come facevo a organizzare e finanziare le puntate? Con i segnali di fumo? Io, il boss dei boss. Mi hanno intercettato, seguito, pedinato. Fino in Svizzera, da McDonald’s, allo zoo. Ho comprato le intercettazioni perché volevo entrare nella testa di chi mi accusava». 

A 53 anni e dopo un’esperienza del genere si può ancora ricominciare? 

«È già una vittoria rivedere il numero del tesserino da allenatore ottenuto nel 2010, pochi mesi prima dell’arresto. Volevo fare l’allenatore. Dietro una scrivania non mi ci vedevo. Oggi mi piacerebbe rimettermi in gioco, faccio la battuta: vorrei scommettere su me stesso».

Nel calcio le scommesse illegali sono all’ordine del giorno e di scandali con i calciatori tra i protagonisti ne abbiamo vissuti più di uno. 

«Ci sono stati processi, condannati, assolti, vittime e carnefici. Non ho mai vissuto in un paradiso e tra gli angeli, solo uomini. Con i loro difetti, debolezze che non giustifico». Fa una lunga pausa. «Ho inseguito la verità. Processuale, non esterna. Ho combattuto da solo e con i miei avvocati. Se non avessi ottenuto l’assoluzione piena avrei pagato di persona. Mi è stato chiesto perché non ho voluto rinunciare al processo di Cremona. Volevo il bianco, non il grigio della prescrizione. Sono contento così, Ivan. Guardo negli occhi i miei figli e Tina, i miei familiari, mia sorella, e li vedo finalmente felici. Tina è stata fondamentale, la perquisizione l’ha subita. Io ero a Roma e hanno perquisito la mia casa a Bologna, quando non c’ero, abbastanza strano. Ma come: il boss dei boss tu non l’arresti? Il Riina della situazione non lo interroghi? Perché non mi hai voluto ascoltare? Da Cremona a Bologna, di nuovo a Cremona, processi rimbalzati da un posto a un altro come palline di gomma. I giornalisti che mi telefonavano, volevano sapere, chiedevo loro soltanto pietà, cosa avrei potuto dire? Alcuni si sono comportati malissimo. C’è una frase che riassume quello che ho patito: il dolore rovescia la vita, ma può determinare il preludio di una rinascita».

LA ROMA.

Liedholm e la sua cricca: lo scudetto a Roma dopo 41 anni. Nel 1983 i giallorossi vinsero il campionato da contestati e sfavoriti: il colpo di prestigio del maestro svedese. Paolo Lazzari il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

D’accordo. L’estate del 1982 non contempla altri sentimenti: solo una gioia esagerata, che copre ogni preoccupazione. L’Italia campione del mondo riempie le piazze e gonfia i cuori. Poi però lentamente quella botta di felicità che ti aveva aderito all’anima inizia a scollarsi. Le cose scivolano gradualmente verso la normalità. La stagione va sfumando, il buonumore si dissolve ed un nuovo campionato si appresta a suonare il gong.

Che poi non sarebbe un male, a meno che uno non tenga per la Roma e si ritrovi a sfogliare la lista degli acquisti altrui. Perché la Juve si è messa in casa Platini e Boniek. L’Inter ha prelevato Hansi Muller e Collovati. La Fiorentina ha piazzato il colpo Passerella. I giallorossi, invece, sembrano essersi mossi sotto traccia. Dino Viola ha concesso mandato di fare shopping, ma gli acquisti non fanno vibrare nessun punto sopito in fondo al petto. Wierchowod è un centrale di razza, ma non esalta. Lo stesso vale per Maldera, giunto dal Milan, mentre per l’attacco spunta Iorio del Bari.

La piazza rumoreggia, ma Viola sa che il suo investimento migliore si trova già in squadra. Se il patron sfrega il sogno scudetto praticamente da quando è arrivato, è perché confida senza esitazioni nella forza placida di Nils Liedholm e nelle levate d’ingegno del Divino Paulo Roberto Falcão. Avvitandosi intorno a questi architravi la Roma deve costruire le proprie fortune. Così Dino tamburella per qualche istante con le falangi sulla gigantesca scrivania in mogano, poi impartisce direttive nitide al suo direttore sportivo, Nardino Previdi. Quello non è così convinto, ma in fondo se lo dice la proprietà è vangelo e buonanotte all’autonomia.

Viola gli ha espresso un concetto asciugato da ogni fronzolo: “Decide Nils, devi fare la squadra che vuole lui”. Dall’Inter arriva “lumachina” Prohaska, regista bagnato dalla luce della provvidenza calcistica, ma dal passo evidentemente cadenzato. Agli altri sodali precedentemente rammentati vanno aggiunti Nela, il terzino Nappi e il fantasista Chierico, riscattato dopo una manciata di performance abbaglianti. Gregari di lusso secondo la dirigenza, dal momento che in squadra hai già gente come Carletto Ancelotti, Bruno Conti, il Principe Giannini e quel bomber di Pruzzo. Complementi d’arredo per i tifosi, che si aspettavano ben altro per un deciso cambio di passo.

A lasciare perplessi è, specialmente, la sovrabbondanza di registi e terzini. Pare una squadra sbilanciata, costruita senza logica, sulla scia delle bizze di un profeta appannato. Quando però la disposizione mentale diventa trasposizione tangibile sul campo, appare evidente a tutti come il disegno dello svedese sfoggi contorni chirurgici.

La Roma parte con il piglio giusto e si arrampica in cima alla classifica in fretta. Ancelotti e Falcão ricamano, Conti dribbla qualsiasi cosa si muova, la difesa regge e l’attacco sembra aver fatto una doccia di cinismo. Sulla scia della Lupa si colloca per un pezzo il sorprendente Verona di Bagnoli, neopromossa terribile. Non durerà troppo a lungo. Giallorossi campioni d’inverno e in controllo anche per la seconda parte di stagione. La Juve, tossicchiante all’inizio, si riprende sospinta dai colpi di Platini: prevale due volte su Liedholm, ma non basterà.

Dodici gol per Pruzzo, sette a testa per Di Bartolomei e Falcão. Il contributo dirompente dei primi violini e quello silenzioso dei flauti minori. Quella di Nils è una sinfonia priva di sbavature. A fine stagione sarà di nuovo scudetto, quarantuno anni dopo la prima volta: praticamente un’era geologica.

In fondo l’estate del 1982 resta un sogno lucido, ma quella successiva non è andata affatto peggio, se tenevi per la Roma.

Toninho Cerezo in Italia: un trapezista a centrocampo. L’asso brasiliano è rimasto tra i più amati sia a Roma che a Genova: fece incetta di successi sfoggiando un lignaggio tecnico superiore. Paolo Lazzari il 12 Novembre 2022 su Il Giornale.

L’immagine è sempre più sfumata, sgretolata dal cinismo del tempo che scorre. Però non si è dissolta interamente. Anche oggi, a sessant’anni di distanza, riesce a indovinare i tratti di quella maschera dalle guance bianche e rosse e un pomello rosso in punta di naso. Rendeva le sue giornate più tenere un autentico spasso. In Brasile lo chiamavano “Moleza”: era il pagliaccio più famoso dell’intero Stato. Ed era soprattutto suo padre. Toninho Cerezo lo avrebbe perso per sempre quando aveva soltanto sette anni, decisamente troppo presto. Nota non a margine: pure la mamma gravitava assiduamente nel circuito circense.

La prematura dipartita di Moleza la costringe a lavorare e a spostarsi ancora di più. Così il piccolo Antonio Carlos – Toninho, per tutti – cresce tra le quattro mura di un orfanotrofio a San Antonio, Belo Horizonte. È un gancio alla bocca dello stomaco, ma quella felicità svanita d’un tratto lui la ripesca nel cortile della struttura, dietro ad un pallone che rotola. Quel corredo genetico circense pettina l’intuito calcistico, facendolo sbocciare in fretta.

I primi mestieranti del pallone che se ne avvedono lo trascinano nella zona di Lourdes, quella dove si allena l’Atletico Mineiro. Toninho sfoggia già un repertorio ruggente: alto e dinoccolato, procede con movenze che parrebbero compassate perché infatti lo sono, ma non perde mai il controllo. Sa presidiare ogni zona del centrocampo ed è pure un incursore formidabile. Però il campo dista troppo da Belo Horizonte e la saudade è un concetto che viaggia anche per linee interne. Prima getta la spugna, poi ci ripensa, convinto da chi ne sa più di lui che quel talento non merita uno scempio. Non può essere dilapidato. Si avvita da qui una storia di successo che lo issa ai vertici della contesa brasiliana: Telé Santana scommette su di lui, senza più tornare indietro.

Le sue inafferrabili cadenze non sfuggono nemmeno oltreoceano. Così, dopo il mondiale dell’82 (a quello del '78 era arrivato terzo), il telefono trilla fino a sobbollire. Niels Liedholm ha appena perso Herbert Prohaska e deve rimpolpare il centrocampo con presenza e cervello. L’endorsement arriva direttamente da un altro mostro sacro giallorosso, Paulo Roberto Falcao, che ha avuto modo di apprezzarne le doti in nazionale. La trattativa pare un garbuglio inestricabile. Quando finalmente Dino Viola trova l’intesa con l’Atletico, la Federcalcio infila un bastone tra i raggi: stop al tesseramento di nuovi stranieri. Roma trasecolata, come anche l’Udinese, che stava per mettersi in casa un certo Zico. Solo l’intervento di Sandro Pertini sbloccherà l’impasse: “Cerezo e Zico? Mi piacerebbe vederli in Italia”.

Così eccolo, per una cifra che lambisce i 6 miliardi della vecchie lire. Va a comporre un centrocampo sinceramente illegale, se si considera che oltre a lui e Falcao giostrano in quelle zolle Di Bartolomei, Ancelotti e Bruno Conti. Roba da alzare le mani e andarsene. Anche nella capitale non smarrisce quei tratti identitari. Il suo è un samba lento, ma corrosivo. A chi lo accusa di muoversi alla moviola risponde fuori dai denti: “Sono uno tutto cervello, mica devo correre come gli altri”. Alla prima stagione si piazza subito secondo, ricama e si diletta in prolifiche incursioni. Ha lo sguardo allegro di chi si diverte, infatti sotto quei baffi folti stampa spesso un sorriso: “Il calcio è felicità, gioia di vivere. Il calcio è riso con i fagioli”. Con la Roma ride forte anche quando solleva contro il cielo una coppa Italia. Se la spassa un po’ meno quando è costretto a uscire per crampi nella finale di coppa dei Campioni contro il Liverpool ed assiste ad un’indigesta sconfitta ai rigori.

Quando in panchina si appollaia Sven Goran Eriksson, uno che lo maneggia quasi fosse materiale incandescente, il suo impiego comincia a distillarsi. Però quando entra risulta sempre decisivo: la gente di Roma lo idolatra, adora i suoi ricci intricati, i baffi improbabili, quell’atteggiamento che pare indolente e poi invece, a conti fatti, è un consommé di classe e tenacia. Tratti genetici che lo aiutano a vincere un’altra coppa Italia.

Quando scoccano i suoi trentuno anni la storia si impiglia: il club non gli rinnova il contratto e Toninho è costretto a cercarsi un’altra squadra. Avrebbe un principio di accordo con il Milan, ma poi i rossoneri preferiscono allungare lo sguardo altrove. Avvilito, riceve d’un tratto un invito a casa dal presidente della Sampdoria, Paolo Mantovani. Ci va e trova l’intera famiglia schierata ad accoglierlo. È un gesto che lo prende in contropiede, ma comunque il Doria offre solo 800 milioni di stipendio, contro il miliardo e mezzo che gli garantiva il Milan. Allora si alza dalla pelle comoda di quella poltrona piazzata in salotto, persuaso a declinare. Poi torna indietro, dicendo che deve appartarsi in un’altra stanza per sentire il parere di sua moglie Rosa.

Passa una caterva di interminabili istanti. I convitati nel salottino scrutano le reciproche pupille. Poi Toninho riemerge e abbraccia Mantovani: “Presidente, mio presidente”. Quelli si interrogano su quel chiassoso ripensamento. “Se non firmo, Rosa divorzia”, spiega Cerezo. Risate collettive, contratto siglato. Nel viaggio di ritorno il suo agente, Dario Canovi, si complimenta per la trovata. Toninho prima sembra assorto e fissa la strada, poi si volta di scatto verso di lui: “Guarda che io Rosa non l’ho mai sentita”.

A Genova dovrebbe incanalarsi verso la parte discendente della sua carriera, invece fa spallucce. Continua a incollare difesa e attacco con sorprendente disinvoltura, confermando quel soprannome “Tiramolla”, che ne identifica al meglio la missione calcistica di trapezista del centrocampo, sempre in equilibrio perfetto tra i due reparti. Lo aiuta un collettivo invidiabile: Boskov in panca, Vialli e Mancini davanti, lo zar Pietro Vierchowod e Pagliuca a murare la difesa. Diventa in fretta un totem che arraffa trofei in serie: altre due coppe Italia, una coppa delle coppe, una supercoppa italiana e, sopra ogni cosa, lo scudetto.

Al campo porta sempre i suoi cani. Boskov arriccia il naso, ma poi alla fine ci gioca, perché in fondo sono i cani di quel gran genio di Cerezo e allora va bene, anche perché gli ha detto che tolgono il malocchio. Con il Doria trangugia anche un calice amaro: un’altra sconfitta in finale di coppa dei Campioni, stavolta per mano del Barcellona. Torna in patria con un peso invidiabile di trofei e amore guadagnato premuti in valigia. Forse la faccia di Moleza se la ricorda sbiadita. Il suo tragitto italiano è invece nitidissimo.

Da repubblica.it il 2 novembre 2022. 

Il primo squillo sul telefono, a partita finita, non è stato esattamente come gli altri. “Complimenti, Cristian”. Dall’altra parte del “filo”, come si sarebbe detto prima dell’era wireless, c’era il suo agente. Che però non è un agente come tanti, ma si chiama, Francesco Totti.  

La prima telefonata arrivata dopo il suo secondo gol in Serie A al 18enne (ancora per un paio di settimane) Cristian Volpato, è stata quella del giocatore più influente della storia della Roma: “Bravo Cri’, bravo”. E chissà che effetto fa sentire un mito che ti chiama mentre sei ancora nello spogliatoio dopo il tuo secondo gol in Serie A.

In più, non è che l’ex capitano sia uno da telefonate quotidiane: si fa sentire, sì, ma non con una frequenza assordante, anzi, anche perché Cristian sta imparando l’italiano ma ancora non è molto fluido, e Totti non parla l’inglese. Ma quando serve sa essere velocissimo. La sua chiamata infatti ha anticipato persino quella di mamma Claudia, che segue da vicinissimo la carriera del giovane trequartista nato a Camperdown, in Australia. 

Volpato è fresco di rinnovo: a settembre la Roma ha sottoscritto con lui il primo, vero legame da giocatore della prima squadra: eredità del gol, il primo in Serie A, che aveva segnato a gennaio contro il Verona, prima di ripetersi poche ore fa al Bentegodi. Il paradosso è che, per arrivare a firmare, ha dovuto superare anche le resistenze di chi non ti aspetteresti. Sì, perché proprio Totti era il meno convinto. 

Aveva provato a convincerlo ad aspettare, a guardarsi intorno. A sbloccare tutto due “messaggi”: quello del general manager della Roma, Tiago Pinto, che ha telefonato alla mamma Claudia, invitandola a presentarsi da sola per chiudere il rinnovo. E poi l’invito di José Mourinho al ragazzo. Una cosa del tipo: “Sei matto a non firmare?”. E se te lo dice un totem come il tecnico portoghese, è un po’ difficile fare finta di nulla.  

Anche perché José ha un certo gusto nel lanciare i giovani. E non soltanto quando le risorse non permettono voli pindarici sul mercato. Lo ha fatto più o meno ovunque, tirando fuori il meglio da molti. Anche da chi magari non aveva esattamente le stimmate del campione. Al Porto, per esempio, aveva fatto brillare la stella di tale Carlos Alberto, un brasiliano di 20 anni rivelatosi poi meno di una meteora, ma che con lui è diventato il secondo più giovane marcatore di una finale di Champions dopo Kluivert.  

All’Inter illuse il mondo di aver pescato dalla Primavera una specie di erede di Maldini: a quei livelli Davide Santon non ha giocato più. È andata meglio con Alvaro Morata, che Mourinho fece esordire a Madrid col Real, e poi con Scott McTominay, scovato tra i giovani del Manchester United ed elevato a titolare fisso. Alla Roma sta moltiplicando gli sforzi: un anno fa Zalewski, ora Volpato.  

Francesco Balzani per leggo.it il 18 settembre 2022.

Chioma bionda da rockstar, fisico da corridore e volto scavato. Lo chiamavano Figlio del Vento perché la leggenda vuole che fosse capace di percorrere i 100 metri in 11 secondi. Claudio Paul Caniggia è un simbolo del calcio anni 90, anche se viene ricordato soprattutto per il gol fatale in semifinale contro gli azzurri nei mondiali italiani del 1990. Il compagno di giochi (fuori e dentro il campo) preferito da Maradona ha diviso la sua carriera italiana tra Verona, Bergamo e Roma. Con gioie, dolori e una squalifica per doping proprio nella capitale. Oggi vive a Marbella e si gode la sua numerosa famiglia. 

Roma-Atalanta, per lei è il derby d’Italia. Per chi tiferà?

«Bergamo è la mia seconda casa. Lì ho lasciato tanti amici e grandi partite: le due vittorie contro la Juve per esempio. Oppure quella contro il Milan e la Samp di Vialli e Mancini. Ci sarebbe bastato poco per competere per lo scudetto. Non sono ipocrita e dico che l’Atalanta è più nel mio cuore ma auguro a entrambe di lottare per lo scudetto. Basta con Juve, Inter e Milan.

A Roma doveva essere l’erede di Voeller, l’inizio fu incoraggiante. Poi il doping… Ho sbagliato, ho pagato. Ma la punizione è stata esagerata, non era un inganno. La cocaina non ti fa giocare meglio. Avrebbe avuto più senso una squalifica inferiore e un periodo ai servizi sociali, come succede negli Stati Uniti. Comunque di Roma ho tanti bei ricordi, soprattutto per aver ammirato le opere di Michelangelo e Leonardo. Una passione che ho trasmesso a mio figlio che oggi dipinge». 

Ha ammirato anche un Totti giovane...

«Quando veniva ad allenarsi con noi si intuiva già che avrebbe fatto una carriera fantastica, Meritava un altro finale di carriera. Ora mi dispiace per quello che gli sta succedendo». 

Immagino il dolore per Maradona.

«Immenso, ha lasciato un vuoto enorme. Non ho mai visto verso nessun altro il rispetto, l’ammirazione e la paura che gli avversari avevano per Diego. Con lui ho condiviso tanto, quando rivedo i nostri filmati piango». 

Torniamo ad oggi. Roma-Atalanta sfida da Champions, chi è favorito?

«Negli ultimi anni l’Atalanta di Gasperini mi ha reso orgoglioso, ha fatto un cammino importante soprattutto nelle coppe europee. E mi sembra sia in ripresa. Oggi però la Roma ha Mourinho che è un fenomeno ed è una squadra consapevole. Ho gioito per la Conference. Si gioca all’Olimpico? Allora dico Roma».

E Dybala?

«Un grande calciatore e un bravo ragazzo, in Nazionale deve far vedere di più, ma credo che l’esperienza a Roma possa aiutarlo anche in questo. D’altronde Messi non sarà eterno».

Verso il ballottaggio. Chi è Damiano Tommasi, l’ex calciatore sorpresa alle elezioni comunali a Verona.  Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Giugno 2022. 

La sorpresa della tornata delle elezioni amministrative si chiama Damiano Tommasi. L’ex calciatore di Serie A e della Nazionale, campione d’Italia con la Roma, avrebbe conquistato un risultato compreso in una forchetta tra il 37 e il 41% al primo turno delle comunali a Verona, dove il centrosinistra non governa dal 2007. Si parla già di risultato storico. A seguire Federico Sboarina, candidato del centrodestra e sindaco uscente, si attesta per gli exit poll del consorzio Opinio Italia per la Rai tra il 27 e il 31%.

Tommasi era uno dei sei candidati a sindaco a Verona. È sostenuto da una larga coalizione di centrosinistra ma non è iscritto ad alcun partito. Rivendica la natura civica della sua candidatura. Ha deciso, in campagna elettorale, di incontrare i segretari dei partiti che fanno parte della coalizione soprattutto in privato. È successo per esempio con il segretario del Partito Democratico Enrico Letta e con il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte.

Tommasi ha 48 anni, classe 1974, ha cominciato a giocare a calcio nel 1985. Ha contribuito alla promozione in Serie A dell’Hellas Verona. È diventato tra gli anni Novanta e i Duemila un punto di riferimento del centrocampo della Roma. Era soprannominato “chierichetto”, “anima candida”, “calciatore operaio”. Ha spesso criticato aspetti controversi del calcio sui quali però atleti e dirigenti evitano di esprimersi per non diventare impopolari: il razzismo, la violenza, i bilanci aggiustati delle società.

Divenne per tanti il “calciatore operaio” soprattutto per la sua decisione, a 31 anni e dopo un infortunio, di tornare a giocare con uno stipendio minimo, simile a quello di un operaio. È diventato nel 2009 il primo italiano a giocare in un campionato professionistico cinese. Fino al 2020 e stato Presidente dell’Associazione Italiana Calciatori, il sindacato dei calciatori, e ancora oggi fa parte del Sindacato Internazionale dei Calciatori, la FifPro. Gioca ancora oggi con i dilettanti del Sant’Anna d’Alfaedo, squadra del suo paese.

Già nel 2017 il suo nome circolava come candidato sindaco. Possibilità che all’epoca declinò. Questa volta ha accettato “perché sono padre di sei figli e vorrei crescessero in una città che ha finalmente voglia di esprimere la sua identità: moderna e vivibile, solidale e ottimista” si legge sul suo volantino elettorale. La sua coalizione “Rete!” è sostenuta da sei liste che comprendono diversi partiti – il PD, Sinistra Italiana, Articolo Uno, Possibile, Azione, +Europa, Europa Verde, Demos, Volt – e 2 liste civiche – Traguardi e Damiano Tommasi Sindaco. È appoggiato anche dal M5s che però non ha presentato alcuna lista.

Tommasi ha sei figli, è sposato con Chiara ed è obiettore di coscienza. Cita spesso don Lorenzo Milani e il suo programma è una sorta di manifesto di valori e di idee. È cattolico e la sua candidatura è stata benedetta da monsignor Guido Todeschini, fondatore e direttore di Telepace. Ha fondato con la moglie una scuola paritaria bilingue che comprende asilo nido, infanzia, primaria e secondaria di primo grado. Studia Scienze della formazione. Ha costruito un programma in 11 tavoli tematici cui hanno preso parte sia tecnici che politici. Ci son più donne che uomini nelle sue liste. I candidati non hanno mai ricoperto incarichi politici in precedenti amministrazioni.

Tommasi ha annunciato che qualora dovesse essere eletto terrà per se le deleghe allo Sport e alla Famiglia. Ha dribblato i commenti sul tema della famiglia tradizionale, molto sentito a Verona, parlando di diritti da garantire a tutti e di argomentazioni ideologiche che non condivide. Non ha mai attaccato i suoi avversari e ha rivendicato frequentemente di non essere né di destra né di sinistra. Ha parlato invece di sostenibilità ambientale, lotta alla dispersione scolastica e asili nido in ogni quartiere, nomine in base al merito e alle capacità, sì al filobus, abbattimento delle barriere architettoniche. Ha evitato bagni di folla e grande cartellonistica in campagna elettorale preferendo gli incontri con le persone in strada.

Se agli spogli al via oggi alle 12:00 dovesse essere confermato il suo arrivo al ballottaggio, che si terrà il prossimo 26 giugno, potrebbe approfittare della rivalità nel centrodestra tra Sboarina (sostenuto da Lega e Fratelli d’Italia) e Tosi (Forza Italia e Italia Viva). “Avendo sempre fatto pochi gol non so come si esulta, di solito finita la partita ero quello più stanco, mi limitavo a gioire dentro. Vale la pena essere qua”, ha commentato Tommasi. L’affluenza al primo turno è stata in calo rispetto all’ultima tornata elettorale, si è fermata al 54,35%.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Trionfo della Roma, con Mourinho vince la Conference League! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Maggio 2022.  

Delirio giallorosso nella Capitale al fischio finale a Tirana: caroselli in tutte le strade della città, e arriva il tweet del club: festa nel pomeriggio. È stata la vittoria dei tifosi giallorossi che da oggi avranno qualcosa da rispondere ai rivali della Lazio: se i biancocelesti avevano alzato l'ultima Coppa delle Coppe, i giallorossi hanno alzato la prima Conference League.

La storia del calcio europeo stanotte si tinge di giallorosso. Quattordici anni fa il 24 Maggio 2008, Francesco Totti alzò la Coppa Italia al cielo, ultimo trofeo romanista. Questa notte è stata la volta della Roma di José Mourinho con la fascia di capitano sul braccio di Lorenzo Pellegrini, in campo e sotto gli occhi della sua leggenda e di tutto il romanismo, ad alzare un’altra coppa, europea, mai così attesa nella Capitale. 

José Mourinho diventa leggenda nel calcio : il quinto trionfo su cinque finali in panchina, adesso “Special One” anche nell’essere unico allenatore a vincere tutti i trofei continentali insieme a Trapattoni. È stata anche la vittoria di Nicolò Zaniolo, vero “mattatore” della serata con il suo guizzo in campo che ha “bucato” la porta del Feyenoord, vendicando la Barcaccia. È stata la vittoria dei tifosi giallorossi che da oggi avranno qualcosa da rispondere ai rivali della Lazio: se i biancocelesti avevano alzato l’ultima Coppa delle Coppe, i giallorossi hanno alzato la prima Conference League.

“Questa notte è ancora nostra” cantava Antonello Venditti, e questa è stata la notte della Roma, la notte di Roma. Al triplice fischio finale nello stadio Tirana preso d’assalto da oltre 30mila tifosi romanisti nella Capitale italiana si è scatenato il delirio a tinte giallorosse: dallo stadio Olimpico, completamente avvolto dall’emozione di oltre cinquantamila tifosi, fino a tutte le piazze della città diventate mille cuori pulsanti d’amore e di gioia per festeggiare il trionfo della squadra di mister José Mourinho tutta la notte, in attesa del ritorno dei campioni come annunciato sui social: “Torniamo da Tirana questa notte, ma non sappiamo ancora quando… Domani pomeriggio, però, festeggeremo tutti insieme a ROMA. Vi aggiorneremo in mattinata con il programma. DAJEEEEE DAJEEEEE DAJEEEEEE!”

José Mourinho si presenta ai microfoni di Sky Sport in lacrime, un pianto di emozione difficile da frenare. “Ci sono tante cose che passano nella mia testa… Mi aspettavo questo coinvolgimento della gente, sono unici, si capiva già quando sono arrivato undici mesi fa…“. Poi, quando le lacrime smettono di scendere, “Special One” inizia la sua analisi: “Come ho detto ai ragazzi nello spogliatoio a Torino, lì abbiamo fatto quello che dovevamo fare, ossia qualificarci per l’Europa League, abbiamo fatto il nostro lavoro. Oggi non era lavoro, era storia. Abbiamo scritto la storia, sì. Fin dall’inizio avevamo capito che la Conference League poteva essere un traguardo possibile. Anche se poi alla fine sono entrate anche squadre forti. Era una competizione sulla quale puntavamo, senza però perdere l’obiettivo principale, che era quello di qualificarci per Europa League“.

Mister Mourinho è molto chiaro sul suo futuro giallorosso: “Io rimango, non ci sono dubbi, anche se arriva qualche voce… Io voglio rimanere a Roma, c’è da capire soltanto quello che i nostri proprietari, che sono persone meravigliose, vogliono fare nella prossima stagione. Perché possiamo dare seguito a un progetto molto bello, c’è soltanto da capire la direzione da prendere. E’ storia della Roma, ma anche storia mia. Ho saputo poco fa che soltanto io, Trapattoni e Ferguson abbiamo vinto trofei europei in tre decadi diverse. Cosa c’è di diverso rispetto alle altre vittorie? Un conto è farlo con il Manchester United, con squadre costruite per centrare questo obiettivo, un conto è farlo con il Porto, con l’Inter dopo tanti anni e oggi con la Roma”.

” E’ molto molto speciale, una cosa che ti fa diventare immortale. In questo momento penso a me, ma di più a questa gente romanista che sta facendo festa. Certo che mi sento romanista. Io sono di tutti quelli che con me fanno una famiglia, che cercano un obiettivo, che stanno insieme nei momenti difficili. Oggi, con tutto il rispetto per i miei vecchi club, io mi sento romanista al cento per cento. Adesso vado in vacanza e mi vado a sedere in spiaggia, davanti a casa mia, a ripensare a tutto questo”.

Mourinho in lacrime dopo la vittoria della Roma in Conference League. Fabrizio Roncone, inviato a Tirana, su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

Qui, adesso, tutti pensano che, nove mesi fa, sia stato giusto seguire Mourinho nel suo mondo. Con le sue spiazzanti allucinazioni, la sua umanità così piena di sarcasmo e feroce determinazione, il suo voler vincere per diritto. 

Fagliela vedere ai tuoi tifosi, questa coppa Conference, Lorenzo Pellegrini.

Mettila su nel cielo di Tirana per tutti quei romanisti che sono cresciuti con la struggente filastrocca di Conti Peccenini Rocca, per quelli che in terza elementare fecero festa il giorno che fu acquistato Sperotto, per le cupe domeniche di pioggia in cui all’Olimpico si aspettava l’ingresso di Scarnecchia, e poi per gli adolescenti che persero l’innocenza quando fu annullato quel gol a Turone, e naturalmente per tutti quelli che continuavano ostinati a cantare l’inno dopo i 7-1, per quelli che al Circo Massimo da Antonello Venditti ci andarono lo stesso dopo i rigori persi contro il Liverpool, in quella tremenda notte di sogni, di coppe e di campioni, notte di lacrime e preghiere.

La vita (apparentemente) agra del tifoso romanista viene saldata da serate come questa. Una festa che già qui appare eccessiva, e figuriamoci a Roma, da dove arrivano Whathapp di straziante felicità. Del tutto irragionevole, stordente, e perciò incomprensibile. Ma capire gli amori degli altri, lo sapete, è sempre complicato.

Qui, adesso, tutti pensano che, nove mesi fa, sia stato giusto seguire Mourinho nel suo mondo. Con le sue spiazzanti allucinazioni, la sua umanità così piena di sarcasmo e feroce determinazione, il suo voler vincere per diritto sempre e ovunque, anche a Tirana, stanotte, in una finale che — per onestà intellettuale — va detto non vale un quarto delle finali cui era abituato.

Lo sguardo si alza dal Mac portatile e scorre sul prato a intercettare proprio lui: che piange. Perché anche gli sciamani sanno piangere.

Immagini in dissolvenza. Abraham che vuole cullarsi la coppa. Ibanez balla con Mancini, lui che s’era convinto fosse una coppa per infilarci gli ombrelli. Rui Patricio e Cristante prendono per mano Bove e Zalewski, e tutta la squadra finisce così sotto la curva giallorossa.

È una notte caldissima, le lacrime di molti s’appiccicano sulle guance. Ciascuno vive dentro la sua battente, personale gioia. Che poi nell’euforia efferata del calcio succede così: finisci sempre per pensare a qualcuno che non c’è più, che non può festeggiare con te. Quella madre che insegnava nella scuola dietro campo Testaccio, i nonni alla finestra, e poi il cielo giallorosso, con Agostino e Dino Viola, Albertone e Gigi. Intanto continuano ad arrivare messaggi dallo stadio Olimpico. Dove ci osservano dai megaschermi. Settecento chilometri in un battito. Dimmi cos’è — canta Venditti — che ci fa sentire vicini anche se siamo lontani.

La partita, adesso, appare un dettaglio.

Vincerla o perderla, come detto, per i tifosi romanisti sarebbe stata quasi la stessa cosa. Quasi. La familiarità con la sconfitta aveva preparato le pance, non i cuori. Lì tutti speravano di poter finalmente mettere qualcosa di bello nel cappello dei ricordi.

Forse non ha nemmeno troppo senso rileggere i primi appunti sulla Moleskine: olandesi che partono aggressivi, Roma un po’ schiacciata. Poi si fa male Mkhitaryan (riacutizzarsi del vecchio infortunio), entra Sergio Oliveira. Che, subito, dimostra di avere più gamba. È una scossa per il centrocampo giallorosso. Manovra fluida (e Smalling, dietro: un gigante).

Mourinho urla al giovane Zalewski di salire sulla sua fascia, Pellegrini inizia a fare quello che sa fare, si butta tra le linee, testa alta e palleggio elegante, da lui a Cristante, il pallone finisce a Mancini: lancio per Zaniolo. Controllo di petto e colpetto delicato. Zaniolo segna sempre in Europa. Infatti non sbaglia nemmeno stavolta (sembrerebbe un gol facile: e invece, a riguardarlo, è una roba seria).

Pensieri forastici, all’intervallo. I tifosi romanisti devono domare le ansie più strazianti. Legittime: gli olandesi tornano in campo e, in quattro minuti, prendono un palo e scheggiano una traversa. Mou, con le mani: state calmi. Escono Zaniolo e Zalewski, entrano Veretout e Spinazzola. Di colpo t’accorgi che manca un quarto d’ora. Negli incantesimi accade tutto in fretta. Restano sospiri e immagini. E «Grazie Roma», adesso, a palla dagli altoparlanti.

Mkhitaryan-Inter: il matrimonio con ospite Al Bano, le otto lingue, Raiola, la dieta e il vino rosso. I sei segreti. Valentino Della Casa - Redazione Di Marzio su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

Gioca a calcio per onorare la memoria del padre Hamlet, ha viaggiato nel mondo ma in Italia ha trovato una seconda casa. La storia di Mkhitaryan, il giocatore della Roma in trattativa con l’Inter.

La trattativa con l’Inter

Per spostarsi da Roma a Milano ci vogliono tre ore di treno. Praticamente nulla, per uno che è stato abituato a viaggiare nel mondo. Henrikh Mkhitaryan di strada in carriera ne ha fatta parecchia: Armenia, Ucraina, Germania, Inghilterra. Anche il Brasile. E ora, dalla Capitale, potrebbe trasferirsi all’Inter. La trattativa per il classe ‘89 è in stato avanzato ma non ancora conclusa, in attesa di un potenziale rilancio della Roma. L’armeno è silenzioso da calciatore ma riesce a far comunque parlare molto di sé. Andiamolo a conoscere meglio.

Il contratto e il legame con Mino Raiola

La prima volta che si era accordato con la Roma nel 2019, era arrivato in prestito dall’Arsenal a circa 3,5 milioni di euro. Stipendio percepito: 3 milioni. Dopo una buona stagione con Fonseca (28 partite complessive e 10 gol), era tornato dal prestito, per poi risolvere il suo contratto con i Gunners e firmare a inizio settembre a parametro zero di nuovo con i giallorossi. L’anno scorso, poi, aveva nuovamente prolungato il contratto fino al 2022 a 4 milioni di euro più bonus. Era stata una delle ultime trattative portate personalmente avanti da Mino Raiola, a cui Henrikh ha dedicato un commosso post su Instagram nel giorno della sua morte: «Mi mancherai moltissimo mio agente, mio migliore amico, mia famiglia».

Il matrimonio a Venezia, Al Bano e la passione per le lingue

Il legame con l’Italia non è nato nel 2019, ma da molto prima. Il giocatore armeno è infatti sempre stato legato alla nostra cultura: ama la canzone italiana, tanto da aver chiesto ad Al Bano di presenziare alla sua festa di matrimonio, avvenuto proprio nel 2019. Location? L’isola di San Lazzaro degli Armeni: piccolo gioiello all’interno della laguna di Venezia. A proposito di cultura: ama studiare le lingue. Parla fluentemente, oltre all’armeno, l’italiano, il tedesco, il francese, il russo, il portoghese, l’inglese e anche un po’ di ucraino.

Il «praticantato» in Brasile e la carriera da record

Le lingue sono figlie di studio, ma anche di un lungo percorso che lo ha visto muoversi tanto in giro per il mondo. Henrikh ha infatti scelto di giocare a calcio per onorare la memoria del padre Hamlet (lo stesso nome è stato dato al figlio, che ha ora due anni), morto giovanissimo a 34 anni per tumore al cervello. A 14 anni, era a San Paolo in Brasile per uno stage dove ha potuto conoscere anche l’ex «italiano» Hernanes. Poi, dopo gli esordi in Armenia, ha scelto di trasferirsi in Ucraina, dove nella stagione 2012/2013, con 25 gol nello Shakhtar, è stato incoronato capocannoniere del campionato. La chicca? Mai nessuno ha segnato come lui nella storia del campionato ucraino. Ha anche giocato in Bundesliga: tre anni al Borussia Dortmund prima del passaggio, nel 2016, al Manchester United e quindi all’Arsenal.

La questione politica

A proposito di record o di curiosità: è stato il primo giocatore armeno a scendere in campo in serie A ed è molto legato alle sue origini. È noto l’episodio che nel 2019 gli aveva impedito di partecipare alla finale di Europa League tra Chelsea e Arsenal a Baku, per le tensioni politiche tra Turchia e Armenia. Ma anche quella volta, Henrikh aveva saputo andare oltre: solo un tweet per dire che gli dispiaceva molto non esserci, ma che avrebbe fatto il tifo a distanza per i suoi compagni.

Social? No grazie. E quell’obiettivo in campo…

I social, infatti, non sono proprio per lui: li usa poco, è molto riservato, e posta quasi sempre immagini di lui in campo. Sul quale vuole restare ancora a lungo: per continuare a giocare sta portando avanti una vita particolarmente attenta all’alimentazione. Pochi pasti fuori casa, dieta ferrea e allenamenti extra per farsi trovare sempre pronto e continuare almeno fino al 2026 (questo è il suo obiettivo). L’unico sgarro? Un bicchiere di vino rosso ogni tanto. Un’altra tradizione italiana, già.

Leonardo Spinazzola. Stefano Carina per “il Messaggero” il 24 maggio 2022.

Il sorriso contagioso ti conquista. Affabile, disponibile, Leonardo Spinazzola ha una luce diversa negli occhi. L'ultimo anno lontano dai campi lo ha cambiato, lo ha reso una persona diversa. La serena innocenza con la quale ammette che ad un certo punto del suo recupero ha temuto seriamente di non farcela, ti disarma. Ha avuto paura ma ora vuole recuperare il tempo perduto. A partire da domani. 

Allora Spinazzola, a che punto siamo?

«Boh, non lo so nemmeno io (ride). No, dai siamo a buon punto.

Ho fatto i miei primi step contro Venezia e Torino, mi sono sentito a mio agio. Adesso devo giocare, mi serve minutaggio per tornare, acquisire maggiore consapevolezza anche se quella in realtà non l'ho mai persa. In campo mi sono subito trovato bene, come se fosse trascorso poco tempo dall'ultima gara quando invece, guardando indietro, forse è un bene che mi sia dimenticato quanto accaduto». 

C'è stato un momento in questo lungo anno lontano dai campi dove ha temuto di non farcela?

«Sì, lo ammetto. È successo quando non vedevo i risultati. Lavoravo di continuo, arrivavo a Trigoria alle 9 di mattina, andavo via alle 16 ma niente. La gamba era come morta, non riuscivo a far crescere il muscolo. 

Quello è stato il momento più difficile. Mi sentivo impotente e lì ho pensato seriamente di non farcela. Poi è cambiato qualcosa e di colpo sono ripartito, iniziando a lavorare meglio». 

Ma è cambiato qualcosa a livello psicologico o fisico?

«Non lo so, probabilmente doveva trascorrere soltanto del tempo». 

E allora come è possibile che dopo tre mesi ha dichiarato di voler tornare a novembre?

«Assicuro che all'epoca ero consapevole di quello che dicevo.

Nei primi tempi vedevo tanti miglioramenti che mi hanno fatto pensare di poter tornare molto prima. Tra l'altro essendomi già rotto un crociato, con la testa che avevo in quel periodo volavo...

L'Europeo che avevo disputato mi dava forza e mi son detto, perché no? Stavo bene, lo giuro. I primi tre mesi sono stati in discesa, poi mi sono bloccato, di colpo. Il muscolo che non cresceva, i carichi troppo pesanti che non reggevo, ho dovuto fare un passo indietro. L'importante è avercela fatta». 

Mourinho ha definito Roma una grande piazza

«Aggiungo fantastica. C'è un popolo che ti spinge, ti sprona. Caloroso, generoso, come abbiamo visto con il Venezia. Quando vede una squadra con la testa, grinta e carattere ti ripagano con un affetto immenso. Ha vinto poco? Eh vabbè, domani proveremo a portare un trofeo». 

All'Europeo è stato protagonista assoluto ma poi si è fatto male e ha visto i suoi compagni alzare la coppa. Stavolta dopo aver visto tutte le partite ai box, sogna il percorso inverso?

«Me lo auguro per i miei compagni che hanno fatto un grande percorso, per la città, per i tifosi e anche per me. Chiudere questa stagione con un trofeo e magari giocare la finale sarebbe un sogno». 

Vive questa finale come una rivincita per quella che non ha potuto disputare?

«Sinceramente no, perché mi sento di aver vinto anche io l'Europeo, giocando o non giocando ho dato il mio contributo e voglio darlo anche domani» 

Meglio dall'inizio o in corsa?

«L'importante è alzare la coppa. Posso giocare anche un minuto o restare in panchina, l'importante è vincere. Non ci penso a partire titolare o meno. Quello che conta è essere disponibile, perché veramente sono felice di esser tornato, di poter correre, di poter aiutare i miei compagni». 

Trova delle similitudini tra il gruppo azzurro che ha trionfato la scorsa estate e questo della Roma?

«Sì, come compattezza è simile. È chiaro che poi in nazionale essendo tutti italiani è più semplice. Io ad esempio non so parlare inglese, che gli dico a Maitland e agli altri? Al massimo mi posso esprimere a gesti (ride). Scherzi a parte, l'importante è essere compatti in campo». 

Un anno e mezzo fa è stato ad un passo dal lasciare la Roma. Guardandosi indietro, ritiene che alla fine sia andata bene così?

«Certamente, ma non lo dico oggi, l'ho sempre pensato. Da quel giorno sono migliorato mentalmente, come persona, come atleta e come uomo. Ringrazio il destino? Sì». 

 Destino preso per mano col solito sorriso. E che ieri gli ha regalato in anticipo la convocazione in azzurro.

La tragedia dello storico capitano della Roma. “Parlate di dolore e fallimento ai vostri figli”, l’insegnamento di Luca Di Bartolomei in ricordo del padre “Ago”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Maggio 2022.  

“Certo che botta parlare di suicidio a tuo figlio”, scrive Luca Di Bartolomei. Era la mattina del 30 maggio del 1994 quando il padre Agostino, storico calciatore e capitano della Roma campione d’Italia, esplodeva un colpo solo, dritto al cuore, con la sua Smith & Wesson calibro 38 e si toglieva la vita. Aveva 39 anni. Luca ne aveva 11.

Di Bartolomei convive con quella tragedia da sempre. È un analista aziendale, impegnato da tempo sui temi della detenzione delle armi e della legittima difesa. Ha scritto un libro-pamphlet, edito da Baldini+Castoldi, intitolato Dritto al cuore. Scriveva della società: della propaganda che portava la gente a essere sempre più intollerante, razzista, classista violenta. Alla macchina dell’informazione che racconta un’Italia molto più violenta di quello che è nella realtà. Al senso di sicurezza che di fronte a tutto questo un’arma, una pistola, può dare l’illusione di fornire.

“Più armi in circolazione significano solo più sangue”, scriveva Di Bartolomei che ragionava da padre, pensava ai suoi bambini in quelle pagine, al futuro. Quel momento che avrebbe dovuto prima o poi affrontare con i suoi piccoli è arrivato inaspettato, all’improvviso, un fulmine a ciel sereno. Di Bartolomei lo ha raccontato in un post su Facebook ricordando quanto può essere tossico credere in una società che educa alla perfezione e al successo a tutti i costi.

“Un we a discutere con Andrea di come sia morto il nonno e del suicidio dopo che giovedì 2 bambini gliene hanno parlato a scuola. Forse sono arrivato tardi: in fondo ha 8 anni ma per una volta credo di aver trovato le parole giuste. Certo che botta parlare di suicidio a tuo figlio. Ad ogni modo e senza pensare minimamente di dispensare consigli ecco, cercate il modo di parlare ai bambini del dolore o del fallimento – come naturale parte della vita. Credo sia una cosa che si fa sempre poco ed è un grande errore”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Claudio Ranieri, la Roma, il Leicester e l’ovazione: chi è il tecnico giramondo tra l’odio per Domenech, il Dandi come genero e la barca coi compagni del Catanzaro. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.

Ovazione da doppio ex durante la semifinale di Conference League. I successi e le curiosità della straordinaria carriera di un allenatore di grande esperienza e profonda umanità.

Roma, Leicester e l’ovazione dell’Olimpico

Standing ovation per Claudio Ranieri da parte del pubblico dello stadio Olimpico. Durante la semifinale di ritorno di Conference League, Roma-Leicester (che ha visto la vittoria giallorossa e l’approdo della squadra di Mourinho alla finale del 25 maggio), l’ex tecnico dei giallorossi e della squadra inglese — con l’inedita vittoria della Premier League — giovedì sera è stato inquadrato dalle telecamere e la sua immagine è stata trasmessa sui maxi-schermi. Per lui applausi da entrambe le tifoserie, quindi la risposta dell’allenatore romano che si è alzato in piedi, visibilmente commosso, per salutare il pubblico.

Il Watford e l’’esonero dopo tre mesi dal ritorno in Premier League

Il ritorno in Premier League di Claudio Ranieri era durato solo tre mesi. Il tecnico romano era arrivato al Watford vantando una vasta esperienza alla guida di alcuni dei più grandi club europei, con titoli vinti in Premier League, Coppa Italia e Coppa del Re, ricordava il club inglese che milita in Premier League nel dare l’annuncio a inizio ottobre. E invece, con due sole vittorie in 14 incontri, era arrivato l’esonero.

Grande carriera

L’esperienza precedente era stata a Genova, con la sua Sampdoria, da cui si è allontanato spontaneamente a maggio. Sbarcato sulla panchina blucerchiata nell’ottobre 2019, il tecnico romano aveva deciso di non rinnovare il suo contratto in scadenza a giugno. Ottenuta la salvezza in largo anticipo, aveva comunicato la sua scelta alla società e agli stessi giocatori ritenendo la sua missione in blucerchiato ormai compiuta. Pareva volesse andare alla ricerca di una nuova sfida e di nuovi stimoli. Lunedì 4 ottobre sono arrivati, con la formalizzazione del suo approdo al Watford.

La favola di Leicester

Un ritorno in Premier League, quindi, dove nel 2015-2016 era stato protagonista della più bella favola del calcio, una delle più belle della storia dello sport. La vittoria in Premier con il Leicester, l’anno precedente promossa dalla Championship (la serie B inglese). L’eventuale vittoria delle Foxes era data come «altamente improbabile» dai bookmakers britannici. Per farvi un esempio: sarebbe stato più «probabile» – sempre secondo le quotazioni – che il Mostro di Loch Ness si palesasse dall’omonimo Lago, che gli Alieni atterrassero sulla Terra o che Kim Kardashian divenisse presidente degli Stati Uniti. Invece Claudio «King» Ranieri ribaltò i pronostici, compiendo un’impresa straordinaria.

Ogni estate in barca coi compagni del Catanzaro

Per Claudio Ranieri c’è stata una sola squadra paragonabile, dal suo personale punto di vista, al suo glorioso Leicester. Era il Catanzaro di Gianni di Marzio, quello di Palanca, Silipo e gli altri, in cui disputò da calciatore ben 8 stagioni, dal 1974 all’82 . «Capisco non sia un grande esempio — ha raccontato —, meglio Guardiola. Ma quella era una squadra come il Leicester, un gruppo di amici che viveva insieme». Ranieri per dieci anni ogni estate ha portato i giro per il Mediterraneo sulla sua barca i suoi amici di allora. E ancora adesso capita spesso che nella sua villa in Toscana si facciano grandi cene di squadra.

Prime esperienze

Dopo aver allenato Vigor Lamezia, Campania Puteolana, Cagliari, Napoli e Fiorentina (riportandola in A), nel 1997 diventa tecnico del Valencia. È la sua prima esperienza all’estero. Nel 1998-1999 arriva quarto in Liga e passa all’Atletico Madrid, ma dopo 26 gare si dimette. Così nel settembre 2000 si trasferisce in Inghilterra e va ad allenare il Chelsea. In quattro stagioni arriva quinto, poi sesto, quarto e secondo. Nel 2004 Roman Abramovich lo sostituisce con José Mourinho. Inizialmente con lo Special One c’erano stati dei contrasti, ma tra i due poi i rapporti sono migliorati. Prima di tornare in Italia, al Parma, Ranieri allena ancora il Valencia nel 2004-05, ma viene esonerato.

Biennio bianconero

Prima di accettare l’offerta della Juventus, Ranieri aveva guidato il Parma, tra febbraio e giugno 2007, a una clamorosa salvezza grazie ai gol di Giuseppe Rossi, raggiunta all’ultima giornata con il 3-1 rifilato all’Empoli. Va alla Juventus nel 2007 prendendo il posto di Didier Deschamps, che aveva guidato i bianconeri alla promozione in A. Appena tornata nella massima serie, la Vecchia Signora arriva terza alle spalle di Inter e Roma. L’anno successivo, a due giornate dal termine, con la Juventus al terzo posto ma con un solo punto di vantaggio sulla Fiorentina quarta (posizione che faceva disputare i preliminari di Champions invece dell’accesso diretto), viene esonerato a favore di Ciro Ferrara che chiuderà in seconda posizione.

Il tricolore sfiorato con la Roma

Il 2 settembre 2009 corona il suo sogno: Ranieri diventa allenatore della Roma subentrando a Luciano Spalletti. Così dopo una lunga carriera, ritorna nella sua città natale, nella stessa società in cui era cresciuto e dove aveva mosso i primi passi da giocatore. Il 6 dicembre 2009 vince per 1-0 il suo primo derby della Capitale da allenatore. Sfiora pure lo scudetto. L’11 aprile 2010 porta la Roma a superare la capolista Inter di un punto, battendo l’Atalanta per 2-1. Ma il 16 maggio 2010 chiude il campionato al secondo posto con 80 punti, due in meno dei nerazzurri di José Mourinho, dopo che per 37’ la squadra era stata virtualmente campione d’Italia. Nella stagione successiva rassegna le dimissioni il 20 febbraio 2011 dopo il k.o. contro Genoa. Alla Roma tornerà tra marzo e giugno 2019, prima dell’ultima esperienza alla Sampdoria.

All’Inter

Il 22 settembre 2011 prende il posto di Gian Piero Gasperini sulla panchina dell’Inter. Con una striscia positiva di otto vittorie consecutive, tra cui quella nel derby del 15 gennaio 2012, porta la squadra a risollevarsi in campionato dopo un avvio stentato. Tutto vanificato da una serie di nove gare senza successi. Per questo, il 27 marzo 2012 dopo il k.o. contro la Juventus viene esonerato e sostituito da Andrea Stramaccioni, promosso dalla Primavera interista.

In Francia

Nella sua carriera da giramondo delle panchine, Ranieri ha allenato anche in Francia, e per la precisione il Nantes. In quella circostanza finì per incrociare la spada con Raymond Domenech, ex C.t. francese, che all’epoca, eravamo nel 2017, presiedeva il sindacato dei tecnici francesi. Ranieri aveva già compiuto 65 anni d’età, e quindi aveva superato il limite imposto dal medesimo sindacato per assumere la guida di una squadra. Alla fine la spuntò Ranieri, che venne regolarmente confermato nell’incarico. La stagione francese non andò comunque per il meglio, il Nantes chiuse al 10mo posto, e l’allenatore italiano si dimise dopo solo un anno.

La 500 al Cagliari

La 500-Ferrari Quando nel 1988 sbarcò in Sardegna, per guidare il Cagliari (finito in serie C1), convinto di essere «alla guida di una Cinquecento», Ranieri dopo il primo allenamento telefonò entusiasta alla moglie. Quando la consorte gli chiese come fosse andata la giornata, l’allenatore rispose: «Mi chiedi come va? Mi sento come un pilota alla guida di una Ferrari». I fatti gli diedero ragione. In tre stagioni doppia promozione e salvezza nel 1991.

Il Dandi come genero

Nella serie televisiva di «Romanzo criminale», tratta dall’omonimo film di Michele Placido, nei panni del «Dandi» recitava Alessandro Roja, attore nato nella Capitale. Ma cosa ha a che fare con la famiglia di Claudio Ranieri? È suo genero: è sposato con la figlia dell’allenatore romano.

Giuseppe Giannini, che fine ha fatto: la Roma, Totti, l’Avvocato Agnelli, la politica, il ristorante, le sfortune. Cosa fa oggi il Principe. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 21 Aprile 2022.

Capitano e leader della Roma, nell’era post Falcao e pre Totti, Giannini è diventato allenatore e anche c.t. (del Libano). Ristoratore con le figlie e tifoso, ecco che fine ha fatto.

Il Principe di Roma

Elegante, carismatico, capitano, in una parola Principe. Guida e orgoglio della Roma, simbolo anche sfortunato e controverso, Giuseppe Giannini ha segnato un’epoca: dopo Falcao, prima di Totti. Che lui ha aiutato a crescere. Proteggeva la sua squadra il Principe, si batteva per i compagni. Ha detto no pesanti, ha vinto (poco) e ha sofferto (tanto), come con la Nazionale, leader ai Mondiali del 90, quelli del sogno divenuto incubo. Ha fatto anche l’allenatore, con alterne fortune. Voleva tornare alla Roma, per ora non c’è riuscito. Ma cosa fa oggi, a 57 anni, Giannini?

Gli inizi

Andiamo con ordine. Dal principio, Roma, Quartiere Africano, dove il padre Ermenegildo gestisce un bar. A tre anni Giuseppe si trasferisce sui Colli, dove inizia a giocare a pallone. Prima nella parrocchia di San Giuseppe a Frattocchie e poi nel Santa Maria delle Mole. La prima vera squadra è l’Almas, preludio della chiamata della Roma. Debutta nel 1982, a 17 anni, e vince pur senza alcuna presenza in campo lo scudetto del 1982/1983. L’anno dopo raccoglie l’eredità di Falcao e entra in prima squadra. Ci resterà fino (quasi) al termine della carriera.

Il più grande rimpianto

Nel 1986 ha già il numero 10 sulle spalle e la fascia da capitano al braccio. In quella stagione si annida il suo più grande rimpianto sportivo. Una partita maledetta: «Roma-Lecce 2-3, quando sfumò lo scudetto alla penultima giornata. Cosa accadde quel giorno? Che eravamo già cotti dalla settimana prima a Pisa, avevamo vinto in rimonta ma non c’era più brillantezza, troppo stanchi di testa e di gambe dopo la grande rincorsa alla Juventus, durata mesi. Sto ancora cercando di dare una spiegazione di quello che è successo poi: inizi, vai in vantaggio, poi sbraghi, sei cotto, non riesci a reagire. Pure se loro erano andati sul 2-1 dovevamo almeno pareggiare, se non vincere, invece non avemmo la forza».

Il no alla Juve e all’Avvocato Agnelli

Giannini è bello e bravo. Capelli lunghi, sguardo feroce, leadership ostentata e vera. Lui, romano e romanista, trequartista e regista, gestione e verticalizzazioni. L’Avvocato Agnelli se ne innamora, lo vuole alla Juventus. Gli arriva ad offrire un assegno in bianco, ma il Principe dice no. «Per me Boniperti offrì 21 miliardi di vecchie lire al presidente Dino Viola per portarmi alla Juventus — ha raccontato in una recente intervista all’Avvenire —. Tornassi indietro? Rifarei la stessa scelta d’amore verso la Roma».

Roma: gioie e dolori

Sfortunato, mai al posto giusto nel momento giusto. Anche in Nazionale, con quella semifinale ai Mondiali del 90 persa ai rigori contro l’Argentina di Maradona. Con la Roma gioca in totale 476 partite, con 76 gol, tra il 1981 e il 1996. Arriva per tre volte la Coppa Italia, poi una finale di Coppa Uefa persa contro l’Inter e un’altra, sempre di Coppa Italia, persa con il Torino. Una partita che racchiude in un certo senso l’essere Giannini: il Principe segna tre gol (unico a riuscirci in finale di Coppa con Domenighini), ma la sua tripletta non basta, ad alzare la Coppa sono i granata. L’ultima amarezza la vive in Europa, quarti di Coppa Uefa: segna di testa il gol del 2-0 contro lo Sparta Praga, esulta come impazzito sotto la Curva Sud. Ma ai supplementari dopo il gol di Moriero arriva la rete di Vavra: il 3-1 non basta alla Roma, Giannini il giorno dopo annuncia: «Me ne vado».

L’addio in lacrime: «Non doveva finire così»

Dietro l’addio anche frizioni con l’allora nuovo presidente Franco Sensi, che non lo amerà mai. Il Principe emigra in Austria, gioca altri tre anni fra Sturm Graz (che gli offre un miliardo di lire l’anno, una lussuosa villa e una decina di viaggi aerei pagati per l’Italia), Napoli (chiamato da Carletto Mazzone) e Lecce, poi il ritiro. Il 17 maggio del 2000 organizza il suo addio al calcio, all’Olimpico, tra vecchie glorie giallorosse e compagni della Nazionale del 90. Ma la Lazio pochi giorni prima ha vinto lo scudetto, e i tifosi sono arrabbiati. Così la festa si trasforma in un incubo: invasione di campo, zolle e porte distrutte, il Principe che saluta in lacrime. «Non doveva finire così», dice al microfono rivolto allo stadio, abbracciato a Bruno Conti e Francesco Totti.

Giannini allenatore

Appesa al chiodo la maglia numero 10 Giannini diventa allenatore. Anche qui non ha molta fortuna: «Sulla mia strada ho incontrato purtroppo malavitosi, pazzi scatenati, persone inaffidabili di ogni genere —ha raccontato in un’intervista al Corriere di Roma —. Poi per carità, anche io ho le mie colpe, ho sbagliato di sicuro qualche valutazione, delle persone e delle situazioni». Dal 2004 gira tra Foggia, Sambenedettese, Massese, Gallipoli (con cui ottiene una promozione dalla serie C alla B), Verona, Grosseto. Fa anche il c.t., del Libano: «Una bella esperienza, in quei due anni ho conosciuto il mondo arabo, culture affascinanti. E non parliamo della tensione che hai quando vivi lì, per le situazioni pericolose e lo stato di guerra. Nel primo anno abbiamo avuto vicino a noi quattro attentati. Un’altra volta è esploso un appartamento a trecento metri da me, c’erano dentro dei terroristi. Senza contare che ai matrimoni e ai funerali i libanesi sparano in aria, devi stare attento alla ricaduta dei proiettili. Ripensandoci, ho rischiato molto. Ma mentre ero lì avvertivo più che altro l’adrenalina della situazione».

Il tentativo in politica

Nel 2005 tenta il salto in politica: è tra i candidati di Forza Italia alle regionali del Lazio, ma non viene eletto (lui come altri sportivi come Felice Pulici, ad esempio).

Il (mancato) ritorno alla Roma

Ha provato diverse volte a rientrare alla Roma. «Certo che mi piacerebbe lavorare nella Roma, l’ho sempre voluto. Poi un po’ ci ho messo del mio, per stare in disparte, qualche passo l’ho sbagliato. Di sicuro hanno lavorato a Trigoria tante persone che la Roma non ce l’avevano così addosso come me, ecco». Dalle frizioni con Sensi è tutto fermo: «Le cose si sono guastate all’epoca, sì —le sue parole al Corriere —. Mi hanno fatto passare per quello che voleva stare lontano dalla Roma e se ne fregava. Diciamo che con modi diversi e in epoche diverse, ho passato quello che ha passato poi Francesco Totti. Lui ha avuto l’allenatore contro, Spalletti, e io ebbi Ottavio Bianchi. Lui ha avuto problemi con la società, da Baldini a Pallotta, e io con Sensi».

Il Principe e il futuro re

Gli resta, come una spilla appuntata sul petto, l’aver svezzato Totti. «Quella di Francesco è la cosa a cui tengo di più. Sotto la mia ombra, o partendo da me, è cresciuto il più grande giocatore nella storia della Roma. Questo non me lo può togliere nessuno. Anche lui ha ammesso che sono stato un riferimento, io non lo sbandiero ma Francesco lo dice spesso, anche nei film e nelle interviste, e mi fa enormemente piacere, perché è la verità».

Cosa fa oggi

Il Principe oggi vive a Castelgandolfo, in un superattico affacciato sul lago, a quattro passi dal Palazzo Pontificio che per secoli ha ospitato i papi in estate. È sposato con Serena, la compagna di una vita. Hanno due figlie, ormai grandi, Francesca e Beatrice, «sono nella ristorazione e mi sono dedicato a quello, di recente abbiamo aperto pure un locale in Sardegna. Sono anche nonno: Nina, uno spettacolo». L’ultima esperienza in panchina è datata 2017, al Racing Fondi: «Mi hanno messo nel dimenticatoio. Per una serie di circostanze sono stato allontanato, ho avuto esperienze positive e negative ma hanno pesato più quelle negative. Poi non ho mai avuto un agente o una batteria di procuratori alle spalle, così non è che pensano a me quando capita un lavoro. Vedo allenatori che vengono esonerati e dopo poche settimane trovano un altro incarico. Ma non piango, non è nella mia indole, è solo una constatazione. Quindi mi occupo di altre cose e faccio il tifoso». Della Roma, ovviamente.

Roberto Pruzzo, che fine ha fatto: la Roma, Paolo Rossi, la depressione, l’hotel e il ristorante. Cosa fa oggi. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.

L’ex bomber della Roma, uno scudetto e tanti gol, il rimpianto Nazionale, oggi compie 67 anni: commenta il calcio in radio e tv, poi è imprenditore.

Dalla Roma alla Versilia

I baffoni e l’aria sempre imbronciata ci sono ancora, i capelli meno, quelli si sono un po’ diradati, e ora tendono al bianco. Ma Roberto Pruzzo è lì sotto, 67 anni oggi primo aprile. Il tempo è passato anche per O’Rey di Crocefieschi, uno dei più grandi attaccanti degli anni 80. Lo scudetto con la Roma nel 1983 come momento più alto, poi tanti gol, qualche delusione, quel dualismo con Paolo Rossi che gli costò il Mundial dell’82. Dopo il ritiro Pruzzo ha fatto per un po’ l’allenatore e il dirigente, ora è imprenditore. E non solo, commenta in radio e in tv la sua Roma, la Fiorentina e il calcio, il suo grande amore. Ma andiamo con ordine.

I primi anni al Genoa

Nato a Crocefieschi, piccolo comune in provincia di Genova, gioca scalzo per strada, di fronte al ristorante «7 nasi» dello zio. Lì viene notato dal presidente dell’epoca del Genoa, Renzo Fossati, che lo porta a Genova. L’esordio in serie A arriva il 2 dicembre 1973, poi la retrocessione e conseguente risalita, con Pruzzo che vince la classifica cannonieri della serie B. Dopo poco lo chiama la Roma.

Lo scudetto alla Roma

In giallorosso Pruzzo diventa «Il Bomber». Fuma, a volte eccede a tavola, ma segna, tantissimo: in totale 138 reti in 314 presenze. La Curva sud lo elegge idolo: «Lode a te, Roberto Pruzzo» cantano in coro. Per Gianni Brera è un «ligure di razza nordica, gatto sornione, abulico e freddo quanto basta ad intuire d’acchitto quando serve a prodigarsi su una palla e quando no». Vince tre volte la classifica cannonieri, e nel 1982/83 arriva lo scudetto. Resta ancora qualche anno, anche dopo l’addio del mentore Liedholm. Il 15 maggio 1988 gioca l’ultima partita con la Roma: lascia dopo uno scudetto, quattro Coppe Italia e tre titoli di capocannoniere (è re dei bomber anche nel 1986). Chiude la carriera nella Fiorentina, da riserva: segna un unico gol, nell’ultima partita, contro la Roma.

Il rimpianto Mondiale

C’è un rimpianto, nella carriera di Pruzzo. Il Mondiale del 1982. Il c.t. Bearzot decide di convocare Paolo Rossi, reduce da due anni di squalifica, e lascia a casa Pruzzo, implacabile centravanti della Roma, capocannoniere della serie A. Come riserva chiama Franco Selvaggi, nettamente inferiore a Pruzzo, per non creare un dualismo con Pablito. Critiche e contestazioni, ma quella scelta «mi penalizzò ma fu giusta», ha ammesso in seguito Roberto.

L’unico fuoriclasse

Ha giocato con tanti campioni, Falcao, Bruno Conti e non solo. Ma come fuoriclasse sceglie Cruyff, «per me è stato il più grande di tutti —ha detto in un’intervista a Il Messaggero—. Nella mia classifica precede pure Maradona e Pelè. Poi non può mancare Ronaldo il brasiliano che se non si fosse infortunato forse lo avrebbe avvicinato. Oggi? Soltanto Messi e Cristiano Ronaldo».

Al cinema con Lino Banfi

Vanta qualche piccola comparata in alcuni film. Nel 1983, insieme a Carlo Ancelotti e Luciano Spinosi, partecipa alla partita finale del film «Don Camillo», di e con Terence Hill. L’anno seguente appare ne «L’allenatore nel pallone», con Lino Banfi, in cui torna anche nel seguito del 2008.

Brutti pensieri

Dopo il ritiro è stato per qualche anno allenatore, poi per breve tempo dirigente. Ha vissuto anche momenti difficili, come ha raccontato nella sua autobiografia: «Ogni tanto penso che sia giunto il momento di togliermi dai coglioni…». E ancora: «Cosa mi resta della mia carriera da centravanti? I gol sbagliati e le sconfitte. Delle vittorie ho goduto poco, perché sono subito volate via. Le sconfitte no, sono rimaste qui. E ancora ci combatto. La retrocessione in B del Genoa causata anche da un mio rigore sbagliato e la finale di Coppa Campioni persa con il Liverpool (nonostante il mio gol...) ancora mi vengono a trovare ogni tanto».

Il ristorante a Roma

Oggi Pruzzo gestisce un ristorante a Roma, l’Osteria del 9, inaugurata nel 2016. Nel locale ci sono tanti riferimenti alla Roma, ai protagonisti della storia giallorossa. Spesso c’è anche Roberto, che firma autografi e si presta per foto ricordo.

L’albergo in Versilia

Ha anche un albergo, in Versilia. Si chiama L’Hotel il 9, si trova a Lido di Camaiore. Struttura a 3 stelle, è gestita dallo stesso Pruzzo insieme alla figlia Roberta.

La famiglia

Durante un ritiro a Lucca conosce Brunella Picchi: la sposa il 20 agosto del 1976. Hanno avuto una figlia, Roberta, nata a Lucca il 7 agosto 1979. Tifosa della Roma, segue spesso il padre, e lo aiuta a gestire l’hotel in Versilia.

Opinionista

C’è anche il pallone nella sua vita. Pruzzo commenta la serie A, con un focus particolare su Roma e Fiorentina, in radio e tv locali.

Bruno Conti. Roberto Faben per “La Verità” il 2 novembre 2022.

Bruno Conti è un italiano esemplare, non solo per aver dato gaudio agli italiani, ai Mondiali di Spagna del 1982, ma anche perché onora il padre e la madre. È inoltre grato alla sua sposa, Laura, sempre amata, che gli ha dato Daniele e Andrea, entrambi calciatori. E poi ci sono i nipoti, cinque, 3 figli di Daniele e 2 di Andrea. 

Un quadro famigliare che, nel libro redatto con Gianmarco Menga, Un gioco da ragazzi (Rizzoli), definisce un'«opera d'arte». Erano sette fratelli, lui compreso, 4 femmine e 3 maschi, nati a cresciuti a Nettuno (Roma), in via Romana 142. Il papà faceva il muratore. Madre casalinga, di quelle di un tempo. Da ragazzo interruppe la scuola. Doveva lavorare. 

Fece il mattonatore e poi consegnò bombole del gas a domicilio, portate a mano. Pelè disse che al Mundial di Spagna fu il migliore. Oggi coordina i ragazzini under 10 e under 16 della Roma. 

In Italia-Perù, primo turno di quel Mondiale, segnò una rete strepitosa.

«Sbagliai, lo feci di destro, però bello».

Quella sera dell'agosto 1970, lei aveva 15 anni, suo padre disse no all'offerta di andare a giocare a baseball negli Stati Uniti nella Major League Baseball.  Se fosse stato un sì, sarebbe partito?

«Assolutamente sì. Vivendo a Nettuno, non c'era disponibilità di campi, solo quello dell'oratorio, andavo a fare il chierichetto pur di trovare un campetto. Il baseball lo giocavi d'estate e d'inverno facevi calcio. 

Quando si sono presentati una sera a casa il presidente Alberto De Carolis e quello del Santa Monica, senza che sapessi nulla, io neanche parlai, ma sarei partito alla grandissima 

Quando mio padre rispose "Mio figlio è troppo piccolo", non mi sono risentito. Oggi, che lavoro nel settore giovanile, vediamo molto l'esasperazione di un bambino Io pensavo solo a divertirmi. Ecco perché ho ottenuto risultati». 

Amava più il baseball o il calcio?

«Mi piacevano ugualmente tutt' e due, perché diciamo che Dio mi ha dato queste doti naturali, l'inventiva, la tecnica, io nel baseball ero bravo come lanciatore, curva, drop, palla lenta, studiavo giornalmente un lanciatore del Nettuno, Alfredo Lauri. Anche nei tornei di calcio, tutti mi chiamavano». 

Da ragazzino, una voce le diceva: «Un giorno sarai un calciatore famoso»?

«Ai miei tempi, quando vedevo le partite, mi piaceva Gianni Rivera, l'eleganza, gli assist per Pierino Prati, ma non ho mai pensato a una cosa del genere. L'unica persona che ha creduto in me è stato mio zio Fiore, faceva il barbiere a Nettuno, mi portava a fare i provini nella Roma, mi accompagnava a Tre Fontane a fare allenamento con la primavera, gli devo tanto, mio padre si alzava alle 4 del mattino e tornava la sera alle 7, non avevamo la macchina, pensavo di più a portare da mangia' a casa, mia madre mi diceva "va' a lavorare, che ti dà il pallone?"».

In un provino, Helenio Herrera la ritenne troppo gracile. Talvolta alcuni talenti non sono riconosciuti

«Beh, da quello che so, si è verificata la stessa cosa con Messi, che fece provini anche in Italia A volte si valuta più il fisico che la tecnica. Xavi, Iniesta, ma anche Politano del Napoli, per dire Herrera, e anche il Bologna, mi dissero: "Bravo tecnicamente, ma non puoi giocare a calcio per il fisico". Non ho mai mollato, ma non perché pensassi di diventare un calciatore importante». 

Esordì in serie A, con la Roma, da titolare, il 10 febbraio 1974, in Roma-Torino, all'Olimpico.

 «Ho procurato un calcio di rigore, con un cross, che poi Angelo Domenghini sbagliò. Finì zero a zero». 

Come controllò l'emozione, pensando che debuttava davanti a 55.000 spettatori?

«Fui convocato il sabato, non sapevo che avrei giocato. Liedholm non mi disse nulla. Quando, nello spogliatoio, ha dato la formazione, arrivò al numero 11, e disse: "Bruno Conti". 

Non vedevo l'ora di entrare in campo. Già a salire le scalette dell'Olimpico ti tremano le gambe, all'Olimpico girare la testa dalla curva Sud alla Monte Mario è tanta roba, ti trovi in un mondo incredibile, ma ui l'ho affrontata con molta serenità». 

Nils Liedholm era un fanatico della scaramanzia. Formazioni decise in base all'oroscopo dei giocatori, spargeva in campo due pizzichi di sale. Bisogno di sicurezza?

«Io, sinceramente, non sono scaramantico e invece Liedholm, un grande professionista, aveva questa cosa già al Milan, prima di arrivare alla Roma. Al Milan conobbe il mago Mario Maggi. Poi, quando andavamo a giocare al Nord, contro Juve, Inter e Milan, ci portava da lui a Busto Arsizio. Quando si entrava in campo, andavi sotto la curva a prendere un mazzo di fiori regalato, ma non si potevano portare nello spogliatoio. Liedholm diceva no». 

Essendo svedese, uno penserebbe alla razionalità. E invece…

« Un giorno partiamo da Trigoria per andare all'Olimpico. C'era un po' di traffico, l'autista del pullman dice: "Mister, se magari facciamo un'altra strada". Rispose: "No". Non voleva cambiare strada. In pullman o aereo, viaggiava sempre al solito posto». 

Oltre a questo, che ricordo ha di lui?

 «Liedholm è stato un padre per me, un maestro in tutto. Non potrò mai dimenticare il primo allenamento con la prima squadra. Venivo dalla primavera, entriamo in campo e, davanti a tutti i giocatori, Picchio De Sisti, Cordova, mi dice: "Fai vedere questo stop d'interno". Il calcio l'ha insegnato a tutti, la sua famosa ragnatela, il gioco a zona

Quando la Roma, dopo il Genoa, voleva cedermi al Pescara, ha voluto a tutti i costi che tornassi a Roma. Grande Barone! È stato tutto per me». 

Il mago Maggi, le diede un amuleto portafortuna che portava nella catenina in Italia-Perù

«Una sera, prima dei Mondiali, andammo a Busto Arsizio. Non credo tanto a queste cose, però il mago, col camino acceso, mi diede l'amuleto dicendomi: "Lo vuoi mettere? Non lo vuoi mettere? Fai come vuoi". All'epoca, giocando, si potevano ancora portare le catenine. Già in preparazione ho messo il ciondolino di ferro nella catenina. C'era un ventaglio stretto sopra, che si allargava sotto. Liedholm non mi ha detto nulla. L'ho voluto attaccare. Mi ha portato fortuna».

Ce l'ha ancora?

«Sono sincero, magari per i tanti traslochi, non me lo trovo più». 

E Bearzot era scaramantico?

«No, scaramantico mai, mai visto qualcosa di particolare. Prima di partire c'erano ben altre cose da pensare, ad esempio le polemiche sulla convocazione di Paolo Rossi. Non era mai sereno». 

Al «Vecio» giocavate qualche scherzo

«Sì, come quando io e Ciccio Graziani l'abbiamo buttato in piscina dopo la partita col Brasile». 

Sì arrabbiò?

 «No, tale era l'euforia. Lo facemmo mentre Bearzot passeggiava a bordo piscina. Non sapeva nuotare, lui in tuta con il suo borsello, ci siamo buttati in dieci, c'è stata una risata incredibile. Il nostro papà». 

Bearzot fumava la pipa. Lei un pacchetto di sigarette al giorno. Problemi zero?

«Io sono nel settore giovanile, magari non è nemmeno bello dirlo. Ma proprio è la mia vita Fumo fin da ragazzino, vendevano le sigarette a 20 lire l'una, quelle sciolte, poi mio padre, quando rientravo la sera, mi sentiva l'alito e prendevo le caramelle di menta Bearzot sapeva che qualcuno di noi fumava, Causio, Dino Zoff Ma non ci rimproverava, gli interessava il nostro rendimento in campo». 

Ha smesso?

«Adesso fumo la sigaretta elettronica».

Tra voi azzurri, parlavate delle vostre vite private?

 «Se oggi racconto la nostra vita nel calcio ci prendono per patetici Si parlava tantissimo tra noi, di problemi, di famiglia, di situazioni, non ci sono più queste cose. Oggi, con questi social e telefonini, non c'è più dialogo». 

Il pranzo al Quirinale voluto da Pertini fu una festa.

«Persona alla mano, stupenda. Al Quirinale 5-6 bicchieri per ciascuno. Bevevi un sorsetto e c'era subito un cameriere dietro che versava. Allora Pertini disse: "Non voglio più nessuno, facciamo tutto noi"». 

Al Santiago Bernabeu, in Italia-Germania, pensava a suo padre e sua madre che la stavano guardando in tv?

«Sì. Tutto quello che ho fatto è nel pensiero di mio padre e mia madre, anche adesso che non ci sono più. Quando mi presero alla Roma, feci di mio padre Andrea l'uomo più felice del mondo. Era romanista».

Crucci per aver sbagliato il rigore nella finale di Coppa dei Campioni del 30 maggio 1984 Roma-Liverpool?

«Lo sbagliammo io e Ciccio Graziani. Dopo quella finale però vincemmo subito la coppa Italia. Sono venuto a sapere che mai nessuno ha vinto per tre anni consecutivi un mondiale, uno scudetto e una Coppa dei campioni». 

Con Ottavio Bianchi, nuovo allenatore della Roma, un rapporto infelice. Gli tirò una pallonata.

 «Sì, fu un po' una reazione, non c'era un minimo di considerazione nei miei confronti, ma non perché ero campione del mondo, stavo bene fisicamente. Situazione non bella». 

Vuol dedicare un pubblico pensiero a sua moglie Laura?

«Il merito è tutto suo. Ha cresciuto i nostri figli, non è voluta mai apparire, alle cene di squadra mai venuta perché diceva "il personaggio sei tu". E adesso, quello che ha fatto coi figli, lo fa coi nipoti». 

E ad Agostino Di Bartolomei, che purtroppo volò via in quel modo?

«Mi ha inserito in questo mondo, fu il primo ad accogliermi alla Roma. Ad Agostino devo tanto, tutto». 

Pensa di riabbracciarlo nell'aldilà?

«Penso di riabbracciare tutti, Di Bartolomei, Bearzot, Paolo Rossi, Scirea, potremmo davvero tornare indietro nel tempo, sì, per com' era il rapporto e per come siamo fatti noi». 

E un ricordo per sua mamma, Secondina, e per le sue fettuccine?

«Quelle fettuccine, il sabato e la domenica, erano uno spettacolo. Fatte in casa. Se mio padre diceva che alle 20 si cenava, nessuno doveva mancare. Vorrei che questi valori famigliari tornassero».

Leonardo Iannacci per “Libero Quotidiano" il 23 marzo 2022.

Non ha mai avuto paura di Platini o Maradona, dei giornalisti sì. Da ragazzino, quando si presentavano in ritiro, fuggiva in bagno: «Stavo chiuso anche per un'ora, non temevo le loro domande, pensavo solo di essere inadeguato nell'eloquio, di non essere all'altezza. Non avendo studiato, provavo imbarazzo con gente che manovrava le parole, la grammatica». Bruno Conti, cavaliere di Madrid 1982, ce lo racconta al vernissage dell'autobiografia Un gioco da ragazzi (Rizzoli), scritto a quattro mani con Gianmarco Menga. 

Bruno, è un libro per i 40 anni del Mondiale di Spagna '82?

«Anche, ma soprattutto per raccontare ai ragazzi di oggi un mondo che non c'è più, soprattutto un calcio diverso nel quale l'umanità non era ancora stata messa in buca da social, egoismi o procuratori».

Sei cresciuto in un'altra Italia, ci racconti un flash?

«In famiglia eravamo in 9, mamma, papà e sette figli e dormivo in un solo letto insieme ai miei tre fratelli. Prima di diventare padrone della maglia numero 7 della Roma e della nazionale, per sbarcare il lunario ho fatto il muratore e ho portato in spalla bombole di gas». 

Nel libro racconti che hai rischiato di diventare un giocatore di baseball.

«A Nettuno, dove vivevo, si giocava d'estate con mazza e palline e, d'inverno, a calcio. Un giorno il dirigente di una squadra di baseball di Santa Monica venne a casa, voleva portarmi in California. Avevo 15 anni. Papà rispose senza staccare gli occhi dalle fettuccine: Brunetto non si muove da Nettuno!». 

Il calcio ti rapì giovane...

«Gli inizi furono tosti, la bassa statura era un problema. Mamma Secondina mi diceva: il calcio nun te darà mai da magnà». 

La prefazione del libro l'ha firmata Totti: tu e Francesco rappresentate l'epos della Roma?

«In un certo senso sì: siamo gli unici due giocatori della Lupa ad aver vinto scudetto e mondiale». 

La delusione più cocente?

«La Coppa Campioni persa all'Olimpico, ai rigori, contro il Liverpool. Quella volta non bastarono neppure gli amuleti di Liedholm, superstizioso in tutto».

Il tuo grande cruccio?

«L'insonnia. Nel 1982, in ritiro, passavo le notti a parlare con Tardelli, un altro Coyote. Aspettavamo l'alba ascoltando Battiato». 

Viriamo al presente: passata la sbornia del derby?

«Sì. Ma la gioia resta, vincere 3-0 con la Lazio è un orgasmo. E Mourinho è incredibile. Appena arrivato, in 20 giorni ha capito tutto della città, dei tifosi. Il tecnico vincente c'è, la società progetta, i giovani non mancano». 

A proposito di giovani, Zaniolo?

«"Cos' ha? Non lo metterete in discussione perché ha avuto un momento di appannamento. Viene da infortuni terribili. È un patrimonio del club. Se resterà a Roma? Chiedetelo alla società, io coordino il settore under 16». 

Capitolo azzurro: domani c'è il primo bivio con la Macedonia del Nord. Il "MaraZico" di Spagna '82 come la vede?

«Dispenso ottimismo sfrenato. Ho fiducia totale in Mancini». 

Ben venga questa ventata positiva, da dove spunta?

«Dalla forza del gruppo. Sono sicuro, ad esempio, che tornerà decisivo Donnarumma».

Dopo Spagna '82 e Berlino 2006, Bearzot e Lippi sono stati colpiti da una nefasta "sindrome di riconoscenza" verso i cavalieri che hanno compiuto impresa. Stavolta?

«Il calo c'è stato ma scommetto che domani rivedremo i leoni di Wembley». 

Da Pellegrini a Mancini, sino allo stesso Zaniolo, potrebbero essere i giocatori della Roma a risultare decisivi...

«Una conferma che a Roma abbiamo grandi talenti». 

Il calcio italiano, però, non sta vivendo settimane brillanti. Che cura propone per tornare al top?

«Un esempio da seguire è quello del Milan. Maldini e Massara hanno tracciato per i club una strada solida, tecnica e morale». 

Nel 1982 Pelè la incoronò re del mondiale, ricorda?

«Diventai rosso per l'emozione. E pensare che, anni prima, durante una tournée a New York, lo incontrai e gli chiesi timidamente una foto insieme. Lui mi guardò in modo strano, pensando: ma chi è questo qui?». 

Bearzot, un secondo papà?

«Davvero. Nella notte di Madrid, divorando con lui un chilo di adorate noccioline, tanto che eravamo soprannominati "le due scimmiette", mi disse; Bruno, quando ti convocai per la prima volta i giornalisti dissero che mi era venuto un "cortocircuito cerebrale". E invece abbiamo vinto il mondiale». 

Lei vive da mezzo secolo sul pianeta Roma. Mai ceduto alla tentazione di abbandonarlo?

«Prima di ogni Roma-Napoli, Maradona mi sussurrava: vieni a Napoli, vieni a Napoli da me. Non ho mai dato retta a quel meraviglioso fratellino di calcio. Una volta gli sorrisi: Diego, come potrei? Prova a leggere la parola Roma al contrario...». 

Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 27 Febbraio 2022.

 Va veloce. Come sempre. L’urgenza lo divora. Lo incrocio in un ristorante al centro di Salerno, «L’Unico», nome che gli si addice parecchio. Non mi lascia nemmeno il tempo di salutarlo. «Posso fare una premessa? Sono un uomo felice, tardivamente felice. Io adoro essere amato e, qui a Salerno, mi sento amatissimo, senza riserve, senza distinguo». Walter Sabatini non vuole nessuno vicino. Non gli piace sentirsi fisicamente assediato. Assegna i posti a tavola, Un triangolo, lui, io e il giovane assistente Pietro Bergamini ai tre vertici.  

 Sei capace di ricambiare quando ti si ama così tanto? 

«No. Ma sto contraendo un debito che mi peserà tutta la vita».

Puoi migliorare sotto questo aspetto… 

«Escludo. Però, il debito con Salerno so di doverlo onorare e farò di tutto perché succeda».  

Quanto è stato difficile dire sì a Iervolino? 

«Tanto. Ero terrorizzato all’idea di retrocedere, paura tutt’ora attiva. Non sono mai retrocesso nella mia vita. Ha prevalso il senso della sfida. Di atti incoscienti ne ho fatti tanti. Perché non farne un ultimo?». 

Perché ultimo? Non darti limiti. 

«Un’incoscienza simile non avrà eguali».  

Credi nella salvezza? 

«Ciecamente». 

Hai il contratto fino a giugno. Resterai anche in caso di retrocessione? 

«Sarebbe doloroso, ma mi sono impegnato verbalmente a rimanere con il presidente e con la gente. Da parte mia rispetterò la parola, poi dipenderà dal club».  

Nicola fece un’impresa simile al Crotone in una situazione ancora più estrema. 

«Ha replicato col Genoa. Nicola è un fenomeno. Un uomo che va raccontato oltre che un grande allenatore».  

Quando l’hai scoperto che è un fenomeno? 

«Sempre saputo. È un uomo intelligente, colto, sensibile. Un leader naturale. Mi piace l’osmosi che ha con i suoi collaboratori e i giocatori. Sa quello che dice e sa come dirlo».  

Perché allenatori come lui non accedono ai top club? 

«Purtroppo, è schiavo del cliché che lo vuole specialista in salvezze miracolose. Una trappola. In effetti, non si capisce che cazzo ci faccia a Salerno o a Crotone. Allena la Salernitana ma potrebbe allenare l’Inter».  

E tu che cazzo ci fai a Salerno invece che in un club da scudetto? 

«Te l’ho detto, Salerno mi ha ridato il senso ormonale della sfida… Vuoi sapere quando mi ha stregato definitivamente Nicola? Questa mattina nell’allenamento. Quando ha urlato a un giocatore, Kastanos: “Rincorrilo ferocemente con felicità!”».  

La storia di Pirlo. Era lui la tua prima scelta? 

«Era un’ipotesi. Non decollata, non per colpa sua. Ero alla ricerca di entusiasmo. Pretendevo entusiasmo. Era difficile, mi rendo conto. I dubbi prevalenti di Andrea erano legittimi».   

I tuoi rapporti con il presidente Iervolino? 

«È uno special one. Un imprenditore giovane, pieno di risorse. Ha energia, intelligenza, coraggio. Sarà un presidente che segnerà il calcio italiano nei prossimi dieci anni. Troppo orgoglioso per essere uno di passaggio».  

Mercato funambolico il tuo. Andato esattamente nella direzione in cui volevi che andasse? 

«Le ho fatte tutte le operazioni che volevo. Ha prevalso il mio leggendario buco di culo. Traduci tu per la carta stampata. Sono un uomo fortunato».  

Il caso più eclatante? 

«Ho agganciato questo Ederson, un giocatore di 22 anni che presto andrà a fare la mezzala in un grande club. Oggi gli ho visto fare due accelerazioni impressionanti».  

Ne hai presi due di brasiliani. Anche un centravanti. Hanno capito bene in che mondo sono finiti? 

«Mikael l’ha capito soprattutto a tavola. Ha perso comunque tre chili. Un ragazzo volenteroso, ha bisogno di tempo, farà bene. Mazzocchi e Verdi sono state due operazioni brillantissime. Ci aiuteranno molto». 

Reazioni al secondo gol di Verdi su punizione contro lo Spezia? 

«Ero impassibile di fuori, ma mi si è rotta una bottiglia dentro. Ti si è mai rotta una bottiglia dentro? Verdi è un grande talento, ma deve essere benvoluto, al centro di una storia. Se lo emargini diventa un giocatore normale».  

Fazio e Perotti. Due giocatori con una storia importante nella tua Roma. 

«Una meraviglia averli qui. Sono venuti a stupire. Fazio è un capo, ha già superato le ruggini. Perotti, imprevedibilmente, è stato subito in grado di giocare. Era fermo da un anno. Ci sta mettendo un entusiasmo infantile». 

Dimmi di Ribery. 

«Il giorno dopo il mio arrivo, mi fa: “Direttore, io non ce la faccio più a stare a Salerno. La gente ride quando perdiamo. A me non viene da ridere quando perdo”».  

E tu? 

«Dove cazzo vai, Franck, te ne vai ora che arrivo io? Il giorno dopo mi dice: “Ci ho ripensato, resto”. E io: “Guarda che lo scenario è cambiato, ho preso tanti giocatori nuovi, potresti non essere sicuro del posto”. “Vorrà dire che mi batterò…”. Capisci che umiltà? I grandi come lui odiano perdere».  

Perché cambi undici giocatori e, all’inizio, non cambi l’allenatore? 

«Mi dai la possibilità di ristabilire la verità su Colantuono. Lo vedevo lavorare ventre a terra, con entusiasmo, mi sembrava corretto dargli una chance. Se ci salveremo sarà per un punto e dovremo ringraziare Colantuono, i due punti presi con Spezia e Genoa in una situazione drammatica. Prima perché c’erano pochi giocatori e poi perché troppi».  

Perché allora l’hai esonerato? 

«Perché si doveva completare un’operazione così radicale. Gli sono grato, ci ha consegnato un gruppo attendibile. Lui di questi tempi è in una grande sofferenza, anche perché il presidente ha detto sbadatamente una cosa che non doveva dire: “Preferisco lottare disordinatamente per restare in serie A, che andare ordinatamente in serie B”. Ripeto, se ci salviamo sarà anche merito suo».  

Domani si torna da avversari a Bologna. Stato d’animo? 

  «Avevo deciso di non andarci. Poi ho detto ai ragazzi: “Voglio bene ai giocatori del Bologna, ma in questi giorni ho capito che voglio più bene a voi, quindi verrò allo stadio”. Sarà una tempesta emotiva, ma io vivo da sempre nella tempesta».  

Cosa non ha funzionato nella storia di Sabatini a Bologna? 

«Userò una citazione da Troisi: Pensavo fosse amore e invece era un calesse»  

Da parte della società? 

«Sono stato dimesso da Saputo dopo una brutta sconfitta in casa. Gli avevo comunicato che ero a sua disposizione per qualunque decisione volesse prendere. La mattina dopo è venuto in ufficio: è meglio che le nostre strade si dividano».  

A distanza di mesi ti sei dato una spiegazione? 

«L’unica è che gli stavo sul cazzo. Perché, complessivamente, sono un uomo che sta sul cazzo, alle persone, spesso ai presidenti».  

I presidenti sono uomini pragmatici. 

«Quando hanno la cultura e la conoscenza per capire. Il calcio con me a Bologna poteva prendere una direzione che non ha avuto il tempo di prendere».  

Un Bologna che senti ancora molto tuo. 

«Resta fortissimo il legame con la città. Anche perché mio figlio ha una storia d’amore e tutti i sabati va a Bologna dalla fidanzatina».  

La squadra fa una grande fatica. Alti e bassi. 

«Alcuni giocatori non stanno rendendo all’altezza delle loro possibilità. Arnautovic è un fenomeno, l’ho voluto fortemente, ma non ha risposto al cento per cento».  

Dimmi di Mihajlovic. 

«Uomo meraviglioso. Insospettabilmente sensibile e tenero. So che è anche un ottimo allenatore».  

Lo è o potrebbe diventarlo? 

«Lo è già, ma è ora che stringa i cordoni. Deve arrivare a raccogliere qualcosa. Scegliere una società che allestisca una squadra per fare i 65, 70 punti per uscire dal grigiore». 

Tipo? 

«L’avrei visto benissimo alla Lazio».  

Peggio Saputo o Pallotta? 

«Per lungo tempo ho pensavo meglio Saputo, poi ho dovuto ricredermi. Con Pallotta litigavo, ma almeno ci sentivamo. Con lui abbiamo messo su una Roma che ha giocato un grande calcio. E comunque non mi ha scandalizzato essere dimesso. Mi è successo anche con Zamparini».  

  Il tuo Zamparini. 

«Un presidente meraviglioso, fatto salvo l’essere un turbolento incredibile, immarcabile. Ho imparato tantissimo da lui. Mi ha trasferito il suo coraggio e la non sopportazione delle sconfitte».  

Pregio o difetto? 

«Chi fa il nostro mestiere deve saper convivere con la sconfitta, io ancora oggi, alla mia età, rimango paralizzato dalla sconfitta. Allargo questo sentimento anche al comportamento dei giocatori quando sono sotto il livello che mi aspetto. Sentimenti che ti stremano. Sono stato stremato dal calcio». 

Nicola e Mihajlovic a parte, l’allenatore con cui hai avuto il più grande feeling? 

«M’è successo di parlare molto con Spalletti, ma lì il livello delle nostre discussioni era sempre confinante con la follia». 

L’esonero più doloroso? 

«Tutti. Quando si esonera un allenatore è sempre una sconfitta personale. In assoluto, dico Rudi Garcia. Ma era un esonero inevitabile e giusto, aveva perso la spinta, l’appeal con la squadra».  

Hai detto: un errore non prendere prima Spalletti. 

«Mi spiace averlo detto, non si danno bastonate a chi sta fermo, mi ha dato fastidio averlo fatto. Ma era la verità. Se prendo Spalletti un mese prima, forse vinco il campionato con la Roma. Quell’anno aveva fatto 87 punti».  

Bene Spalletti a Napoli. 

«È sotto gli occhi di tutti. Nonostante un presidente che non gli concede tutto quello che gli serve. La convivenza con De Laurentiis non deve essere semplicissima». 

Doloroso anche il tuo addio all’Inter.

«Il più grande errore professionale della mia vita. L’accettare una richiesta interna che prevedeva io fossi fuori dall’organigramma».  

Non dovevi fare ombra a qualcuno… 

«Non so. Un errore tragico, il mio. Dovevo rescindere il contratto prima di cominciare. Una situazione insostenibile».  

Dzeko con la maglia dell’Inter? 

«Orrido. Io ho solo pensieri stupendi per lui. Gli auguro sempre il meglio. I tifosi della Roma non hanno capito che erano due o tre anni che lo volevano cacciare».  

Alisson, Marquinhos, Benatia, Castan, Emerson Palmieri, Nainggolan, Pjanic, Salah, Dzeko. 

«Perché mi fai questo?»  

Che ti suscita? 

«Niente. Sai perché? La mia vita è stata la versione umana del mito di Sisifo. Io non sono Sisifo inviso a Zeus, sono il macigno che perpetuamente arriva in cima a e poi cade a fondo».   

Chi è Sisifo? 

«La mia virtù che mi spinge su insieme alla mia ostinazione e la voglia di farmi male. O forse perché il piano della vita è inclinato».  

L’esperienza più stremante.

«La Roma, nessun dubbio».  

Finita perché? 

«Pallotta aveva nominato Baldini come suo consulente personale. Può un direttore sportivo serio accettare una cosa del genere?».  

Interferiva molto Baldini? 

«Non ci riusciva neanche a farlo, ma era un bordello. Gli agenti non sapevano da chi andare. Pallotta mi lasciò libero solo dopo aver portato a termine il mercato».  

Il giocatore della tua storia di dirigente?

«Pastore. Giocatore e ragazzo meraviglioso. Una sconfitta penosa che la sua storia si sia interrotta. Sfortuna nera e lui s’è un po’ lasciato andare. Mi ha fatto male che i tifosi della Roma non l’abbiano conosciuto al suo meglio. Pastore non era un giocatore. Era un sogno in movimento».  

Gioco di fantasia. Mourinho e Sabatini insieme alla Roma. 

«Come ti può venire in mente?»  

Addirittura? 

«Mourinho è un teatrante di successo, io invece voglio fare il calcio vero. Lui potrà rispondere che ha vinto tutto e io niente. Avrebbe ragione, ma non cambio la mia risposta».  

Non gli riconosci competenze calcistiche da allenatore top? 

«Lui va bene per un certo tipo di squadra, un certo contesto, un certo tipo di obiettivo».  

Sbagliato dunque per la Roma? 

«Guardo i risultati. Lascia stare le partite perse. I giocatori messi al rogo, declassificati. Mi pare tutto molto discutibile».  

Ti arrivasse una telefonata dai due americani: “Vieni alla Roma, a lavorare con noi e Mourinho?” 

«Gli farei un applauso, gli darei ragione, ma risponderei: “Rimango qua Salerno dove la gente mi ama”».  

Definisci la stagione di Mourinho fin qui. 

  «La considero un’annata interlocutoria. Roma è una realtà speciale. Va studiata, capita. Ora che l’ha fatto, Mourinho proverà a fare meglio, non certo con giocatori come Oliveira».  

I tifosi lo amano senza riserve. 

«Anche per colpa tua… Cazzo…Quell’Ave Mourinho…».  

Sarri alla Lazio? 

«Quando la Lazio gioca, lo fa davvero bene. Maurizio è un lavoratore del calcio, sta in campo, bestemmia, s’incazza, gli viene la polmonite ma se ne frega. E fuma più di me. Ci siamo detti un giorno: come mai non abbiamo mai lavorato insieme. Pensa che disastro».  

La cosa più ignobile che hai fatto per portare a casa un giocatore? 

«Ne ho fatte tante. Finte, bugie gravi, magheggi. Non farò nomi. Posso dire che per portare Salah alla Roma ho fatto un magheggio fantastico. Mentre gli altri dibattevano sul che fare a Firenze, io ero a Londra a chiudere con il giocatore».  

Il colpo di cui vai più fiero? 

«Marquinhos. Franco Baldini cercò di boicottare l’operazione. Lo fecero passare per uno troppo magro, fisicamente inadeguato. Non sapendo che avevo già concluso l’affare».  

Plusvalenza notevole. 

«M’ero impegnato con un obbligo d’acquisto a 4 milioni con il Corinthians. Quando ricevemmo un’offerta di 30 milioni dal Paris, la disapprovazione diventò gaudio».  

Un rimpianto ce l’hai? 

«Cos’è il rimpianto?» 

Mi basta come risposta. Dimmi di Ilicic. 

«Un ragazzo tendente alla depressione, un solitario che fa fatica a ridere. Quando ci si mette un fattore esterno, nella sua testa si scatena il peggio. Ne ho uno così anche a Salerno». 

Chi è? 

«Federico Bonazzoli. Un campione. Si nasconde la faccia sotto collari, berretti, orpelli vari. “Ma che cazzo ti nascondi”, gli faccio, “sorridi alla vita, sei bello, sei bravo, sei ricco”. Un giocatore con dei colpi sublimi».  

I guai di Ferrero ti hanno turbato? 

«Né caldo né freddo. Mi sono lasciato convincere quella volta da Carlo Osti, un fratello. Lui e Giampaolo mi hanno accerchiato»  

Dimmi di Vlahovic alla Juventus. 

«Una roba ignobile. Insopportabile. Come fai a non avere nessuna riconoscenza per la società che ha creduto in te? Lo stesso vale per Donnarumma con il Milan. Qui entrano in gioco le qualità umane».  

  Il tuo pupillo Massara al Milan. 

«Sono orgogliosissimo di lui. Competente come pochi. Uomo leale. Per tentare di difendere Monchi, ci ha rimesso la poltrona di direttore sportivo alla Roma».  

Avverti pregiudizi nell’ambiente legati alla tua salute? 

«Molti ci giocano sopra. Qualcuno ha detto di me che sono un morto che cammina».  

Come stai? 

«Da dio. So che certe cose posso farle, altre no, sono prudente. Posso fare quello che so fare meglio: il dispensatore di felicità. È, in fondo, il segreto del calcio, dare felicità alla gente».  

Come ti è cambiata la vita dopo la malattia ai polmoni e il coma? 

«A volte non capisco bene se sto vivendo o sognando. Non è male…».  

Cosa dà dignità alla vita? 

«L’onestà e il far felici gli altri. Nel caso mio anche l’esistenza di Santiago, mio figlio. Lui ha dato un senso alla mia vita. L’unica persona che voglio abbracciare e toccare. Quando è nato scricciolo settimino, me lo mettevo sul petto per farlo addormentare. Si addormentava ascoltando il rumore del mio corpo, i polmoni che graffiavano e il cuore che batteva».

Dagospia il 26 Febbraio 2022. Dal profilo Facebook di Rosella Sensi

È proprio vero che la vergogna non conosce fondo. Ho letto l’inutile e ripetitiva intervista a Pallotta apparsa questa mattina su un quotidiano. Ho letto le solite chiacchiere, le solite giustificazioni ma la storia si narra coi fatti, coi numeri e coi trofei. Oggi l’eredità debitoria della Roma è enorme e non permette a un club che era costantemente tra le big di competere per gli obiettivi che la nuova proprietà vorrebbe.

Ancora fatti: Pallotta è stato il presidente meno vincente della storia romanista, il più assente, lontano da una realtà che avrebbe meritato ben altri risultati e ben altro affetto. Parla di bancarotta ma probabilmente non conosce nemmeno il significato della parola.

Da corrieredellosport.it il 26 Febbraio 2022.

 James Pallotta torna a raccontare la sua esperienza da presidente della Roma. L'ex patron giallorosso ha rilasciato un'intervista sulle frequenze della radio statunitense Sirius: “Abbiamo fatto delle cose interessanti a Roma, altre di cui sono meno contento. Mi piacerebbe che, quello che abbiamo costruito come club, venisse portato avanti per fare bene. Ovviamente vorrei vedere la squadra andare bene, sembra che ci sia ancora del lavoro da fare in campo e anche altri aspetti da sistemare, quindi non sono contento di vederli all’8° posto in classifica ma spero che lo capiscano”. 

Sente che il suo lavoro non sia stato apprezzato?

Molti dimenticano che dal 2012 al 2020, per nove anni, nessun’altra squadra a parte la Juventus ha vinto il campionato. Nove anni consecutivi in cui il club più ricco d’Italia – dotato di un proprio stadio – ha dominato. Nonostante tutto questo, siamo arrivati secondi per tre volte e terzi in altre due stagioni, oltre a raggiungere la semifinale di Champions League. Questo è probabilmente un andamento migliore rispetto qualsiasi altra rivale che abbiamo sfidato in Italia al di fuori della Juventus. Guardo alla squadra che avevamo messo insieme e, francamente, penso che se non fosse stato per il Fair Play Finanziario che ci ha costretto a dover vendere dei giocatori, quella Roma sarebbe al primo posto oggi. 

Nel corso degli anni abbiamo avuto Salah, Alisson, Nainggolan, Dzeko, Pjanic, Strootman, Paredes, Emerson Palmieri, Manolas, Benatia, Marquinhos. Walter Sabatini ha fatto un lavoro incredibile nello scovare talenti prima degli altri e sfortunatamente il modo in cui funziona il mondo del calcio – vendere per rispettare il Fair Play Finanziario o i giocatori che vogliono andarsene – è semplicemente la dura realtà della vita quando non sei uno dei club più ricchi al mondo. 

Quindi il Fair Play Finanziario aiuta i club più ricchi a rimanere i più forti?

Non ci sono dubbi. Le grandi squadre sono riuscite a farla franca con ogni genere di cose. I proprietari possono ottenere tutto. Quando noi generavamo circa 200milioni di euro di ricavi, Real Madrid o Barcellona o altri club che volevano i nostri giocatori, avevano 800 o 900 milioni di entrate. Quindi è davvero difficile competere con loro senza fare trading di calciatori. In un certo senso, abbiamo costruito un modello come quello che sta usando l’Atalanta oggi e che tutti lodano. Prendevamo giocatori, migliorando la squadra, poi li vendevamo per bilanciare i conti, sapendo che persone come Sabatini e altri potevano trovare nuovi calciatori per mantenere la squadra competitiva. Solo così abbiamo potuto fare quello che abbiamo fatto – qualificandoci sempre per la Champions League finché non ho fatto una caz… prendendo Monchi. 

Adesso è la Juve che è peggiorata o gli altri club stanno facendo meglio?

Entrambe le cose. Pensavo che la Juventus fosse la squadra più forte degli ultimi nove anni, ma ora, quando guardi alle indagini in corso, inizio a metterlo in dubbio. Avevano il loro stadio e più del doppio dei nostri ricavi, ogni volta che avevamo un buon giocatore in rosa dovevamo preoccuparci se sarebbe arrivata la Juve a prenderselo. Lo hanno fatto con il Napoli, il Milan, lo hanno fatto con noi con Pjanic, e lo hanno appena fatto con la Fiorentina. Ma poi vedi le indagini in corso (sulle plusvalenze, ndr), non sappiamo cosa ne verrà fuori, ma sembra chiaro che la Juventus potrebbe aver fatto qualche “giochino” con il calciomercato. Altre squadre stanno andando meglio e il campionato è cresciuto, ma in generale penso che la Juventus non abbia più la stessa squadra di una volta.

Perché è stato così difficile lavorare a Roma?

Quando abbiamo acquistato la società, siamo stati i primi investitori stranieri nel calcio italiano. Il campionato era un disastro. Gli accordi televisivi a livello internazionale sembravano uno scherzo. C’era molta violenza e razzismo negli stadi. Sapevamo dai sondaggi che le famiglie non si sentivano al sicuro andando a vedere le partite, le presenze erano in calo. La Serie A si sentiva la migliore al mondo ma era diventata la terza o quarta Lega nel frattempo.

Gli stadi erano vecchi allora, ora lo sono ancora di più. Il campionato italiano era probabilmente indietro di 20 anni rispetto alla Premier League. Rispetto a quello che abbiamo venduto, il club da noi acquistato nel 2011 era molto diverso. Non mi interessa cosa dicano i precedenti proprietari o altri, abbiamo ereditato una società che aveva debiti enormi, ricavi bassi ed era in bancarotta. So che mi prenderò altra mer.. dicendolo, ma abbiamo negoziato l’acquisto della Roma con Unicredit e se sto trattando con una banca, allora significa che la banca possiede quella squadra. Sono fatti. (...)

Francesco Totti. "Mi dispiace che si sia interrotto così il nostro rapporto". Totti e il rapporto con Spalletti: “Mi piacerebbe riparlare con lui, resta uno dei migliori allenatori in circolazione”. Redazione su Il Riformista il  16 Dicembre 2022

“Se mi piacerebbe riparlare con Spalletti? Certo che sì, tanto ricapiterà. Per il rapporto che abbiamo avuto, mi dispiace che si sia interrotto così”. Parole di Francesco Totti. L’ex bandiera della Roma rompe il silenzio sul suo ex allenatore dopo anni di polemiche, documentari e serie tv dove la figura dell’attuale allenatore del Napoli non ne usciva benissimo. La colpa sarebbe riconducibile al ritorno di Luciano Spalletti alla guida della Roma coinciso con la fine della carriera di Totti che nella sua ultima stagione ha giocato pochissimo, spesso subentrando a pochi minuti dal fischio finale.

“Con lui mi sono espresso al massimo, mi ha cambiato ruolo, mi ha fatto fare tantissimi gol, ho avuto un rapporto che andava oltre il calcio” spiega Totti direttamente da Qatar dove si trova con gli altri ex campioni del mondo di Germania 2006. In una diretta su Twitch sul canale “BepiTv1”, Totti commenta l’ipotesi di un chiarimento: “Capiterà sicuramente. Mi dispiace aver interrotto il rapporto con lui, per me resta uno dei migliori allenatori in circolazione”.

Poi sulla cavalcata del Napoli di Spalletti, in testa alla classifica prima della sosta mondiale con otto punti di vantaggio sul Milan, aggiunge: “Il Napoli sta viaggiando a ritmi impressionanti, impensabili, per me resta uno dei migliori allenatori in circolazione. Se la squadra lo ascolta, può arrivare lontano”.

Nel corso della diretta, Totti ricorda poi la sua ultima stagione da calciatore, con Spalletti che gli riservava pochi minuti in campo: “Più stavo bene e meno venivo preso in considerazione. Ogni volta che entravo facevo gol o assist e il match contro il Torino, quando entrai e feci due gol, è stata una gioia che metto sotto solo allo scudetto e al Mondiale”. Ricorda anche la standing ovation del Santiago Bernabeu di Madrid: “Mi concesse solo 16 minuti? Sono stato fortunato quel giorno. Quella standing ovation mi resterà sempre dentro”.

Un epilogo che paragona a quello accaduto di recente a Cristiano Ronaldo: “Da fuori mi sembra un po’ di rivedere la mia storia, ma da fuori è difficile giudicare. Quello che è successo lo sanno solo loro, ma parliamo di uno dei due o tre migliori al mondo e quindi merita rispetto”.

In una intervista a Danz lo scorso agosto, Spalletti aveva così commentato il rapporto con Totti, mostrando tutte le sue magliette: “Ce le ho proprio tutte. È un calciatore che per me è stato fondamentale, come apporto alla squadra, come personalità, come forza di trascinare lo stadio durante le partite. Ho ancora la maglia che gli abbiamo portato quando si è infortunato con l’augurio di tutta la squadra, ‘forza capitano’. È il tipo di giocatore a cui non bisogna dire niente quando entra in campo e che tira dietro tutto il resto della squadra da solo. Quando giocava in Champions, se c’era qualcuno che non aveva la personalità di volere la palla e fare quelle giocate cui era abituato e si lasciava intimorire, ci pensava lui. Mi dispiace per come è andata a finire – spiegava ancora Spalletti a DAZN – perché avevo un ottimo rapporto con lui. Mi innamoro davvero dei miei giocatori perché il mio sogno da bambino è sempre stato quello di lavorare e condividere lo spogliatoio con questi giocatori”.

Da ilnapolista.it il 14 aprile 2022.

Un’intervista alla Gazzetta dello Sport di oggi per Francesco Totti. Sul suo addio al calcio giocato, ancora. Non nasconde una certa difficoltà a parlarne, anche se sono passate cinque anni. Viene fatto un parallelo tra quella che fu la sua situazione e quella attuale di Ibrahimovic, quarant’anni come Totti e un ritiro che sta diventando un tormentone. Per l’ex Capitano della Roma però ci sono delle differenze. 

«Così mi vuoi male… (sorride, ndr). Sono passati 5 anni ma le sensazioni me le ricordo tutte e guardando Ibra nell’ultimo periodo le rivivo. Anche se la mia situazione era un po’ diversa dalla sua. Io non avevo avuto particolari infortuni. Sentivo di poter ancora dare il mio contributo, ma fui messo subito da parte e se giochi tre minuti o cinque o dieci una volta ogni tanto diventa uno stillicidio»

Non nomina mai Spalletti, ma torna sul suo ultimo anno di carriera.

«L’ultimo mio anno non lo auguro al mio peggior nemico. Fu pesantissimo a livello mentale. Logorante. Perché quando dopo una vita in campo non giochi con continuità, soprattutto a una certa età, il fisico non lo stai facendo riposare, lo stai facendo arrugginire. Quando ti abitui solo a subentrare, piano piano perdi il ritmo partita.

E quando poi entri ti accorgi che arrivi secondo sul pallone, che stai perdendo quei centesimi di secondo che fanno la differenza. Perché la testa ti dice ancora perfettamente cosa fare, ma le gambe ci arrivano un attimo dopo. Tu lo sai di essere più bravo degli altri ma se il fisico non “resta in partita” diventa dura. Zlatan in questo momento gioca poco e mi immagino le sue difficoltà anche perché il suo corpo è una macchina impegnativa» 

Per Totti Ibrahimovic ha una fortuna, rispetto a lui.

«Da quel che mi sembra dall’esterno la sua voglia di stare in campo è forte come quella del Milan di averlo ancora a disposizione. Il problema non è il tecnico o la società, sono il numero di minuti di gioco e cosa comportano per lui fisicamente nei giorni successivi, quando devi recuperare e subentrano fastidi che prima non avevi mai avuto. Se uno anche a 40 anni ha un infortunio serio, ma poi recupera e torna a posto è un conto: ma se i fastidi sono continui…».

Il consiglio

«È una decisione troppo personale. Io spero continui finché ne ha voglia, ma solo se il fisico gli consente di poter essere decisivo come è sempre stato. Ma giocare dieci minuti per poi fermarsi, passare più tempo in infermeria che sul terreno di gioco, essere impiegato col contagocce… Eh, così è pesante. 

Ibra è stato un leone in campo e fuori. Io che lo stimo tanto gli auguro di non trasmettere mai un senso di tenerezza in chi lo vede in seconda fila in panchina o peggio ancora fare fatica in campo. Io nell’ultimo mio anno, rivedendomi in tv, in panchina, mi facevo tenerezza. Ibra nella carriera ha scelto, anche per caricarsi, di essere divisivo. 

A lui piace essere anche fischiato, e spero per lui che abbia sempre una parte dello stadio che lo acclama e una che lo maledice, perché lo teme. Senza dover trascinare il finale. Io so che significa vivere una stagione in cui resti a guardare e nel mio caso stavo pure bene fisicamente. Un anno può diventare infinito».

Un futuro da dirigente?

«Uno come Ibra, per l’immagine e l’impatto che ha, credo lo vorrebbero tutte le società. Certi atleti o ex atleti da soli hanno più seguito di un club intero. Ma bisogna stare attenti a non diventare un poster o una bandiera da sventolare solo quando serve. Il giorno che deciderà di smettere, Ibra capisca cosa vuole fare realmente: quale ruolo operativo pensa di poter occupare. 

E quando gli dovesse arrivare la proposta pretenda chiarezza e trasparenza. Due sono le domande da porre: cosa devo fare e con chi devo farlo. Deve saperlo subito, dopo diventa troppo tardi».

Elisabetta Murina per fanpage.it il 20 marzo 2022.

Ilary Blasi ha rotto il silenzio sulle voci riguardo la crisi nel suo matrimonio con Francesco Totti. Ospite nel salotto di Verissimo con Silvia Toffanin, nella puntata di domenica 20 marzo, la conduttrice de L'isola dei Famosi ha fatto chiarezza sulla sua relazione e parlato della sua nuova avventura lavorativa, in partenza lunedì 21 marzo su Canale 5. 

Ilary Blasi smentisce la crisi con Francesco Totti

Silvia Toffanin ha chiesto a Ilary Blasi cosa ha pensato di tutte le notizie circolate negli ultimi tempi sulla crisi nel suo matrimonio con Francesco Totti.

La conduttrice ha spiegato come ha vissuto le indiscrezioni, che davano praticamente per certa la separazione: "Su questa cosa si è detto tanto, anche troppo. È stato un accanimento mediatico nei miei confronti e della mia famiglia. Noi non dobbiamo dare spiegazioni a nessuno. La nostra preoccupazione è stata per i figli”.

E ha poi aggiunto che non è la prima volta, in quasi 20 anni di matrimonio, che i giornali parlano di separazioni e tradimenti tra loro: “Da quando mi sono fidanzata con Francesco Totti è sempre successo che circolassero queste notizie. È stato un accanimento mediatico, durato in tutto tre giorni e poi si è affievolito, è stato veramente schifoso. La cosa che è stata vergognosa è che quotidiani nazionali hanno dato la notizia per certa e hanno fatto una grande figura di merda”.

La verità su Noemi Bocchi e la foto allo stadio

Per la prima volta si è parlato di tradimenti reciproci: l'ex capitano della Roma con una donna di nome Noemi Bocchi, fotografata allo stadio durante una partita, e la conduttrice con un collega, Luca Marinelli. 

Ma Ilary Blasi ha smentito ogni presunta conoscenza extra matrimoniale: "Io lui non lo conosco. Non conosco neanche Noemi. Francesco forse l'ha incontrata a un centro sportivo. Quella foto scattata allo stadio mi ha dato una certezza, che ci fosse un'organizzazione di qualcuno".  

La conduttrice de l'Isola dei Famosi, quindi, ha smentito ogni crisi con il marito e ha precisato: "L'unica crisi che ricordo è quella quando lui stava smettendo di giocare, è stata una cosa sua e un po’ me lo aspettavo. Siamo pronti alla prossima sfida. Non devo esibire mio marito sui social tipo trofeo".

Estratto Da repubblica.it il 25 febbraio 2022.

Lentamente, ma inesorabilmente, la conduttrice ha preso il controllo della famiglia e anche delle questioni economiche: messi da parte, anche in questo campo, i riferimenti passati dell'ex numero dieci, che si sono visti sostituire (verbo odiato da qualsiasi calciatore) da altre figure, come Silvia Blasi, sorella di Ilary. È stata lei in passato a gestire - tra l'altro - i profili social dell'ex capitano giallorosso: adesso Totti ha affidato la comunicazione ad altre persone. 

Ilary ha deciso di essere l'unica a condurre il gioco in casa, per porre fine a abitudini che non le piacevano: Francesco, da sempre uomo molto generoso, prestava a tanti amici e conoscenti molti soldi (chi li ha chiesti per comprare case, chi per mettere su attività, qualcuno per sviluppare progetti e idee). E spesso quei soldi non tornavano più indietro. Perché tanto Totti&Ilary sono ricchi. Lei ha deciso di porre un freno alle richieste. E di fare una selezione durissima su chi poteva ricevere il loro aiuto. 

Cosa succederà del patrimonio di casa Totti-Blasi è un capitolo in stesura in questi giorni. Quelli già pubblicati - che fanno parte della biografia del campione del mondo del 2006, Un capitano, scritta con Paolo Condò - sono stati affidati al Var. Per rivedere attentamente dove devono andare, ora, i proventi del libro e della serie tv che ne è stata tratta, Speravo de morì prima. E come sono stati gestiti finora. 

La rassegna poi continuerà, e non sarà breve. Francesco Totti, con varie società ha molte proprietà immobiliari, alcune anche affittate al Comune di Roma. Ci sono anche un centro sportivo, i negozi e i ristoranti, anche questi dati in affitto, nel centro commerciale Euroma2, vicinissimo alla villa in cui la famiglia ha vissuto negli ultimi anni.

Tre sono i figli, tre gli appartamenti comprati poco distante, a via Amsterdam, nel cuore della zona più elegante del Torrino, dove la coppia ha vissuto in un attico con piscina, poi dato in affitto al portiere Allison e, successivamente, a Zaniolo. Due abitazioni le ha comprate solo lui, una solo lei. (...)

Alessandro Catapano Rosario Dimito per "il Messaggero" il 25 febbraio 2022.

Buono, ma non fesso Francesco Totti. Indole che potrebbe tornargli utile in un'eventuale causa di separazione. Perché se è vero che nell'ultimo decennio ha progressivamente affidato la gestione della sua immagine alla moglie Ilary e alla cognata Silvia, accettando che i suoi storici collaboratori finissero ai margini, diversa - molto diversa - è stata la gestione delle attività immobiliari, in cui l'ex Capitano ha investito una parte cospicua dei suoi guadagni da calciatore, mal contati poco meno di novanta milioni di euro netti in venticinque anni di carriera.

Della Numberten srl, fondata nel 2001 alla vigilia dello scudetto, la holding cui oggi fanno capo le sette società con cui opera nel mercato immobiliare, Totti detiene il 100% delle azioni, il fratello Riccardo è il presidente, la mamma Fiorella l'altro consigliere. L'azienda ha un patrimonio netto di 7 milioni di euro e macina utili per circa 4. Stesso discorso per la Vetulonia srl, l'altra società immobiliare di cui Totti è socio e amministratore unico.

Su questo campo, la famiglia Blasi non tocca palla. O almeno, marito e moglie - che sono in regime di separazione dei beni - non hanno partecipazioni comuni. Come nella gestione dei giovani calciatori assistiti dal procuratore Totti, il mestiere che l'ex Capitano ha scelto dopo essersi allontanato dalla Roma (e che ora potrebbe subire qualche complicazione per via di un nuovo regolamento approvato dal Coni).

Sono tre società (IT Scouting srl, CT10 srl, Coach Consulting srl) gestite con gli agenti sportivi Giovanni Maria Demontis e Pietro Chiodi. E' nella gestione della sua immagine e della sua storica scuola calcio che Totti - azionista allo 0,09% anche del Campus Bio-medico - ha ceduto progressivamente campo alla famiglia della moglie. Ilary (90%) e il suocero Roberto Blasi (10%) sono gli unici azionisti della Number five srl, la società che contratta tutti gli ingaggi extracalcistici dell'ex capitano (e non solo): comparsate in tv, spot pubblicitari, royalties su libri, film e serie televisive. Mentre nella società sportiva dilettantistica Sporting club Totti, che gestisce tutte le attività della Longarina, un tempo affidata al fratello Riccardo, oggi nelle mani del suocero, compaiono la moglie Ilary (90%), il cugino Angelo Marrozzini (5%) e il marito della cognata Ivan Peruch (5%).

STORIA DI UNA CRISI Fa una certa impressione che una delle creature predilette dei Totti - la mitica scuola calcio, appunto - sia stata data completamente in appalto alla famiglia Blasi, e spiega - questa come altre scelte professionali degli ultimi anni - perché il rapporto tra marito e moglie si sia progressivamente deteriorato, fino a far emergere in superficie la crisi. 

Al netto delle questioni più intime, e delle vicende personali in cui l'uno e l'altra possono essere incappati - ieri Totti era dato ancora a Milano per impegni personali (come ben documentato da Dagospia), ma qualcuno giurava di averlo avvistato nei pressi dell'abitazione di Noemi Bocchi -, alla base della crisi coniugale c'è anche, o forse innanzitutto, una gestione di sé che Totti ha prima avallato, poi tollerato, ma con un'insofferenza crescente.

Nella parte finale della sua carriera, e particolarmente da quando si è ritirato, Totti ha accettato che l'organizzazione della sua vita professionale finisse progressivamente nelle mani della cognata Silvia e, più recentemente, dell'altra sorella di Ilary, Melory, che ha perso il suo impiego di ortottica. Le due cognate sono divenute via via più centrali nella gestione di Francesco, mentre i suoi storici collaboratori, a cominciare dal fidatissimo Vito Scala, si defilavano. Emblematica, in questo senso, fu l'organizzazione della festa dei suoi 40 anni, nel 2016, da cui rimasero fuori amici storici, per far posto al coté di volti più o meno noti con cui Totti si accompagna da qualche anno, sempre più annoiato.

L'impressione è che Francesco e Ilary siano arrivati ad una resa dei conti anche su questo fronte, che l'uno voglia riacquistare i suoi spazi, magari anche tornando a lavorare nell'amata Roma, e l'altra voglia sentirsi libera di fare le sue scelte, senza compromessi. Un esito scontato, per chi li conosce bene, ma non per questo meno doloroso. Ci sono attività, case, soldi di mezzo, ma innanzitutto i ragazzi, e quelli vanno protetti da tutto questo.

LIRIO ABBATE MARCO LILLO - I RE DI ROMA. Lirio Abbate e Marco Lillo da Il Fatto Quotidiano del 6 marzo 2015.

Uno stralcio de ”I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale” di Lirio Abbate e Marco Lillo, (Chiarelettere, 272 pagine, 14.90 euro)

Il 19 maggio 2014, meno di tre mesi prima di presentare la richiesta di arresto per i protagonisti di “Mafia Capitale”, i pubblici ministeri romani mettono nel mirino i Caat, una parolina criptica che sta per Centri di assistenza abitativa temporanea, uno scherzetto da quasi 43 milioni di euro di spese all’anno nel bilancio di Roma Capitale. (…) 

Questi centri vengono creati nel maggio del 2005 con una delibera del consiglio comunale ai tempi in cui è sindaco Walter Veltroni. Negli anni successivi vengono attivati alloggi di emergenza in numerosi palazzi, quasi sempre in periferia, di proprietà dei soggetti che ne fanno richiesta dopo un apposito bando del Comune. (…) 

L’amministrazione spende 42 milioni e 597.000 euro all’anno per 33 residence, a cui si sommano i centri della Eriches 29, di Salvatore Buzzi, che ospitano complessivamente 584 persone. Nell’elenco dei Caat troviamo grandi immobiliaristi (…). La procura finora non ha mosso accuse sull’emergenza abitativa. Non mancano casi di estrema “concentrazione”. Su 18 strutture a disposizione del Dipartimento Politiche sociali, ben 16 sono delle solite “coop bianche” (…). 

Alla fine le cooperative vicine a Comunione e liberazione racimolano grazie ai Caat del Comune più di 8 milioni di euro. Secondo il prospetto del Campidoglio, consegnato ai pm nel maggio del 2014 e poi girato al Ros dei carabinieri, Eriches 29 – quindi il versante “rosso” – costa alle casse dell’amministrazione pubblica ben 5 milioni e 179.000 euro, circa 740 euro al mese per immigrato (…).

Grazie a Odevaine 5 milioni vanno alla società di Francesco Totti

Nella lista consegnata dal pm Luca Tescaroli al Ros per le “concordate verifiche” c’è anche, all’undicesimo rigo della tabella dei Caat, il residence della Immobiliare Ten, amministrata dal settembre del 2009 da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma, e controllata indirettamente per l’83 per cento proprio dal fuoriclasse giallorosso, mentre il restante 17 per cento è diviso tra la mamma e il fratello stesso.  

La catena societaria a monte del palazzo di via Tovaglieri, zona Tor Tre Teste, è composta da tre società che fanno tutte riferimento al numero impresso sulla maglia del “Capitano”: a valle c’è l’Immobiliare Ten, proprietaria dell’immobile affittato al Comune; più su c’è invece l’Immobiliare Dieci che possiede – oltre al 100 per cento delle quote della Ten – anche altri due palazzetti (ora uniti in un unico stabile, ndr) in via Rasella, a due passi da via Veneto.  

Più su ancora c’è la holding di famiglia, la Numberten Srl: per l’83 per cento di Francesco Totti, per il 6,7 per cento del fratello maggiore Riccardo, amministratore di tutte e tre le società, e per il 10 per cento circa della mamma Fiorella Marrozzini. La società Immobiliare Ten del Capitano ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l’affitto di 35 appartamenti arredati in una zona dell’estrema periferia romana. 

Grazie al canone accordato dall’amministrazione, la società ha potuto realizzare negli anni utili interessanti: nel 2013 (ultimo bilancio depositato in Camera di commercio), 128.000 euro; nel 2012 addirittura 184.000. 

Il punto è che il grande affare di Francesco Totti con il Campidoglio è stato fatto, come è accaduto per il gruppo Pulcini e per Salvatore Buzzi, grazie anche a un signore che oggi è in galera: Luca Odevaine. Nessuno è indagato per queste storie, ma resta lo sperpero di denaro pubblico (…). Il 16 ottobre 2007, dopo la pubblicazione di un bando sulla Gazzetta ufficiale il 13 agosto 2007 e dopo l’arrivo delle offerte, viene nominata dal direttore del Dipartimento Politiche abitative del Comune di Roma in carica, Luisa Zambrini, una commissione di gara. (…) Il presidente della commissione è il “dottor Luca Odevaine”.

Qualche giorno prima, il 27 settembre, l’Immobiliare Dieci Srl “spara” l’offerta: per l’affitto di via Tovaglieri chiede un canone annuale complessivo di 1 milione e 280.851 euro. Una cifra spropositata. In pratica Francesco Totti, o meglio, l’amministratore di allora che non era il fratello Riccardo – subentrato solo nel 2009 – ma il commercialista Adolfo Leonardi, chiede al Comune di Roma di pagare più di 3.000 euro al mese per ognuno dei 35 appartamenti del palazzo di Tor Tre Teste.

Lo stesso giorno il Campidoglio dispone di sottoporre l’offerta a un “parere di congruità tecnica” e “a seguito di tali verifiche l’amministrazione di Roma ha informato l’Immobiliare Dieci Srl di essere interessata all’offerta in locazione della struttura” però “a un canone di locazione di 15 euro/mq per mese e 9,50 euro/mq per mese per i servizi gestionali pari a un canone annuo di 714.481 euro oltre Iva al 20 per cento (in tutto fanno 857.000 euro) di cui 437.437 euro oltre Iva al 20 per cento per le unità abitative e 277.000 e 44 oltre Iva al 20 per cento per i servizi di pulizia delle parti comuni (tre volte alla settimana), la portineria 24h, la pulizia al cambio inquilino e la manutenzione ordinaria”. 

Il contratto, dalla cifra originaria di 857.000 euro, forse per gli aumenti automatici, sale poi a 908.000 euro l’anno. Un’enormità se si pensa che la società di Totti ha comprato l’immobile con un leasing, poco prima di affittarlo al Comune di Roma, e lo ha pagato 6 milioni di euro più Iva. In pratica, se il Campidoglio avesse acquistato a rate il palazzo invece di pagare la locazione e i servizi di portierato e pulizie alla società di Totti, avrebbe speso quasi la stessa cifra entrando, però, in possesso di un bene.

Il contratto è scaduto il 31 dicembre 2014 ma l’amministrazione continua a pagare anticipatamente ogni mese i 75.000 euro di affitto per le 35 unità immobiliari di questo palazzo di periferia. (…) La società, inoltre, incassa gli affitti dei negozi – per un totale di 1900 metri quadrati – che sono esclusi dal contratto con il Comune. Al piano terra, infatti, troviamo un bel bar, della catena Blue Ice, e un supermercato Conad. Nel 2007 questi affitti extra erano pari a 231.000 euro all’anno. (…) 

“Infiltrazioni in camera da letto, piove dal bagno di sopra, gli scarafaggi ci tormentano”

Lo stabile è il classico immobile costruito per ospitare uffici, non certo appartamenti residenziali. “Quando siamo entrati qui – racconta Elisa Ferri che abita con il marito e tre figli piccoli in un appartamento di 75 metri quadrati al primo piano – era tutto in ordine con i mobili ancora imballati. Dopo sei anni e mezzo la situazione è ben diversa. La manutenzione è fatta male. Da un mese nella nostra camera da letto e nel bagno ci sono le infiltrazioni che vengono dall’appartamento del piano di sopra. Uno schifo! Non possiamo fare intervenire i nostri idraulici e siamo costretti ad aspettare quelli della proprietà”. 

E ancora: “In realtà qui in via Tovaglieri non c’è nessuno della Immobiliare Ten di Francesco Totti. Siamo costretti a passare tramite il portiere che mi risulta lavori per una cooperativa (…)”. “Non sappiamo nemmeno il cognome del responsabile con cui parliamo. Io – si lamenta Elisa Ferri – so solo che si chiama Stefano. Nonostante le promesse, però, a casa mia dopo un mese non è venuto nessuno, piove da sopra e la macchia si allarga a vista d’occhio. Anche l’ascensore è rimasto rotto per settimane questa estate senza che nessuno intervenisse nonostante la presenza di anziani.  

La casa è molto umida. Le pareti e i tramezzi sono troppo sottili e questo palazzo non è stato costruito per essere abitato ventiquattr’ore al giorno, ma solo per lavorarci”. E come se non bastasse, “il Comune spende tanto per la bolletta elettrica. Inoltre siamo tormentati dagli scarafaggi. Io penso che Francesco Totti non immagini nemmeno in che situazione ci troviamo. Qui non lo ha mai visto nessuno. Pensi che nel palazzo si era diffusa la voce che aveva regalato tutto al Comune”.

In realtà non è così. La Immobiliare Ten, amministrata da Riccardo Totti, in questa storia si è comportata come una società che massimizza il profitto. Semmai è il Comune che ha fatto beneficenza al calciatore più ricco di Roma. Tra affitto e spese, gli appartamenti “ci” costano l’uno 2.161 euro di affitto al mese. Un canone degno del centro di Roma, non certo di Tor Tre Teste. Un bell’autogol per tutti. 

Quello stabile a due passi da via Veneto che ospita gli uffici dell’Aise

A questo punto è interessante capire la storia del palazzo di via Tovaglieri. Inizialmente il proprietario, come accaduto per altri residence poi affittati come Caat al Comune, è la società Fimit Sgr, un grande fondo immobiliare italiano nato nel 1998 per iniziativa di Inpdap e Mediocredito Centrale. Fino a maggio del 2007, alla guida c’è Massimo Caputi, un manager molto importante che ha guidato colossi come Invitalia e Grandi Stazioni (…).

Il 30 maggio 2007 l’Immobiliare Dieci Srl stipula un preliminare con Fimit per comprare il palazzo di via Tovaglieri e due stabili in via Rasella. La società del Capitano si impegna ad acquistare il “pacchetto” a 16 milioni e 950.000 euro. Il prezzo è buono per gli acquirenti e permette al fondo di fare una plusvalenza di 3,3 milioni. 

Il vero affare per i Totti sono i due palazzetti accanto a via Veneto, mentre quello di Tor Tre Teste viene infilato giusto per venderlo. In via Rasella, infatti, il Capitano compra immobili quasi totalmente liberi da inquilini, con una superficie netta da affittare pari a 1.860 metri quadrati al prezzo di 10 milioni e 950.000 euro, tutt’altro che elevato per quella zona (…)

Ben diversa, almeno sulla carta, la situazione di via Tovaglieri. (…) Nel maggio del 2007, quando la società di Totti firma il contratto preliminare di acquisto al prezzo di 6 milioni con Fimit, è un mezzo bidone: difficile da affittare e con un valore in calo. Tra il preliminare e il definitivo però le cose cambiano. (…)  

Il 16 ottobre viene nominata la commissione che deve valutare le offerte, presieduta da Luca Odevaine, e venti giorni dopo, il 7 novembre, la società di Totti stipula il contratto definitivo di acquisto con Fimit per il palazzo di via Tovaglieri. Sembra un azzardo ma il 16 dicembre 2008, il Comune e l’Immobiliare Ten firmano il contratto di locazione. (…) Via Tovaglieri, grazie al contratto per sei anni rinnovabile tacitamente, è una gallina dalle uova d’oro (…).

I due palazzi di via Rasella sono stati invece uniti e ristrutturati. Oggi ci sono gli uffici amministrativi dei servizi segreti italiani. L’Immobiliare Dieci detiene in leasing lo stabile e ottiene, nel 2013, ricavi per 1 milione e 70.000 euro. Probabilmente pagati tutti dall’Aise (Agenzia informazione e sicurezza esterna). Sul palazzo c’è anche la targa della presidenza del Consiglio. 

L’Immobiliare Dieci sostiene per via Rasella una rata del leasing pari a 545.000 euro ai quali bisogna assommare altri costi e ammortamenti. Alla fine, il netto utile è di 182.000 euro nel 2013.  (…) Francesco Totti, pur essendo il maggiore azionista delle due società immobiliari e quindi “il beneficiario” economico principale, non è amministratore delle due società e potrebbe non essere a conoscenza della genesi e dell’evoluzione dei rapporti con il Comune di Roma e con la presidenza del Consiglio per la locazione dei palazzi di via Tovaglieri e di via Rasella. 

Francesco e Luca, romanista sfegatato, si incontravano negli uffici del Comune

In Comune raccontano che Francesco Totti, ai tempi di Veltroni sindaco, aveva un buon rapporto personale con Luca Odevaine. L’allora braccio operativo del primo cittadino è un romanista sfegatato. Il Capitano lo conosceva bene e andava anche a trovarlo talvolta nel suo ufficio in Campidoglio. A testimonianza di un rapporto profondo tra i due, c’è un necrologio pubblicato in occasione della morte del padre di Luca, Remo Odevaine (…): “Sinceramente addolorati per la triste circostanza porgiamo le nostre condoglianze. Vito Scala e Famiglia, Francesco Totti e Ilary Blasi”. 

Il necrologio è datato 15 novembre 2005, quindi precedente alla decisione, da parte della commissione presieduta da Luca Odevaine, di affittare per sei anni a un canone complessivo che supera i 5 milioni di euro il palazzo di proprietà della società dell’amico Francesco. Nonostante ciò, Odevaine non riterrà più opportuno astenersi da quel ruolo che spetterebbe a persone “terze” e in Comune nessuno dirà nulla.

Il rapporto tra i due non si è mai interrotto, come il contratto di affitto. Una traccia di questa stima reciproca si trova anche sui quotidiani del 24 gennaio 2013. Quel giorno Odevaine, sotto la bandiera di Fondazione Integra/Azione e in collaborazione con Legambiente e cooperativa Abitus, organizza una partita contro il razzismo (…). “L’iniziativa – scrive Repubblica – è stata apprezzata dal capitano dell’A. S. Roma, Francesco Totti” (…). 

Un’altra “battaglia giusta” potrebbe essere anche quella contro gli sprechi, che dovrebbe imporre a Totti – certamente all’oscuro dei malaffari di «mafia Capitale» – di migliorare la condizione degli inquilini del palazzo di via Tovaglieri e al Comune di chiudere al più presto il contratto con la società Immobiliare Ten e trovare una sistemazione più degna per 35 famiglie.

Da quotidiano.net il 25 febbraio 2022.

Il calciatore della Roma, Francesco Totti, avrebbe pagato 'in nero' alcuni vigili urbani per l'attività di vigilanza ai figli: è una delle circostanze raccontate da Luca Odevaine. "E' vero che dei vigili urbani facevano vigilanza ai figli di Totti - ha affermato Odevaine, ribadendo quanto già detto a suo tempo da Salvatore Buzzi - ma lo facevano fuori dall'orario di lavoro e venivano pagati in nero, dallo stesso Totti". 

Secondo Odevaine, "l'esigenza era nata dal fatto che era giunta una voce di un progetto di rapimento del figlio di Totti. Ne parlai con il colonnello Luongo dei carabinieri, il quale, tenuto conto della genesi e della natura della notizia, convenne con me che non era il caso di investire il comitato per la sicurezza ma che si poteva trovare un modo per provvedere".

Allusioni, assenze, voglia di cambiamenti. Ilary e Totti, la rottura è imminente? Laura Rio il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il "Capitano" e la showgirl vivrebbero già separati. Dopo 20 anni di amore. La coppia più bella di Roma, una delle poche dello star system a resistere per due decenni, una favola per i tanti fan, in crisi. Ilary Blasi e Francesco Totti si starebbero per separare, almeno così ha spifferato Dagopsia. E, si sa, in queste cose il sito di D'Agostino ci azzecca quasi sempre. Insomma, se così fosse, si infrangerebbe il sogno di una storia spettacolare, tra il Capitano amato come pochi nella storia del calcio e la showgirl più bella della televisione che ha generato tre figli: Cristian, Chanel e Isabel. Un amore che ha superato crisi anche grazie a tanta ironia e allegria. Tanto che qualcuno li ha ribattezzati i Sandra e Raimondo dei giorni nostri. Secondo Dagospia l'ultimo segnale della rottura sarebbe una lite esplosa lo scorso 4 febbraio durante una gita in famiglia.

E la conferma sarebbe arrivata pochi giorni fa: Ilary era in pizzeria senza Francesco nel nuovo ristorante aperto da Briatore e avrebbe finito la serata in locali e party romani. I sospetti erano cominciati quando a settembre la Blasi non si era presentata al party per i 45 anni di Francesco. E c'è chi racconta che vivrebbero già in case diverse a Roma. Poco tempo fa lei raccontava in un'intervista: «Le cose con Francesco funzionano, ma nella vita non si sa mai, tutto può cambiare. Voglio essere indipendente e non appesa a un uomo».

La loro storia d'amore era cominciata vent'anni fa quando Ilary faceva la letterina per il programma Passaparola. Quando Francesco la vide in tv si innamorò immediatamente. Le fece una corte tanto spietata che alla fine cedette. La relazione divenne di dominio pubblico nel derby del 10 marzo 2002 quando l'ex calciatore dopo un gol mostrò la maglia «6 unica», lei si trovava sugli spalti e tutti capirono. Nel 2005 il matrimonio in diretta tv. La proposta di matrimonio sulla spiaggia di Santa Severa all'ombra del Castello. E, speriamo, che la favola non finisca. L'abbiamo vista pochi giorni fa, Ilary, mentre stampava un bacio in bocca a Michelle Hunziker nel suo show. Pareva raggiante. A marzo condurrà l'Isola dei Famosi, e sarà in onda come la sua amica Michelle pochi giorni dopo la separazione? Laura Rio

La separazione di Totti e Ilary Blasi: lei avrebbe avuto un flirt, lui si sarebbe innamorato di un’altra. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2022.  

L’ex capitano della Roma e la conduttrice televisiva vivono da separati in casa. La crisi iniziata con i tradimenti (reciproci).

E non vissero per sempre felici e contenti. Francesco Totti e Ilary Blasi non stanno più insieme. Non si amano più. Di fatto sono già due separati in casa e la metratura da stadio della loro dimora dell’Eur certo gli evita incontri troppo frequenti. Dopo venti anni d’amore, quasi 17 (ahia) di matrimonio e tre figli, dopo le dediche in campo, il pollice in bocca ad ogni gol, la maglietta alzata sulla scritta «6 unica», le foto in spiaggia a Sabaudia sempre belli, sempre scolpiti, i battibecchi domestici come Sandra e Raimondo, i ritratti al tramonto su Instagram, tra uno spot per il detersivo (lui) e uno per l’ammorbidente (lei), il giro d’addio all’Olimpico con tutta la famiglia, la favola è finita e non è finita bene.

Un improvviso ma dettagliato post sul sito Dagospia, a metà pomeriggio di lunedì, è stato il fischio di inizio. Poi è bastato fare qualche telefonata, insomma chiedere in giro ai contatti giusti per scoprire che sì, già da tempo qualcuno sapeva, qualcosa in giro si mormorava, sempre con rispetto e circospezione, perché trattasi pur sempre dell’iconico numero 10, del Capitano c’è solo un Capitano, del vero e solo re di Roma riconosciuto, anche se con un solo scudetto nel palmares.

Francesco Totti e Ilary Blasi si lasciano, una storia lunga 20 anni e tre figli: dal matrimonio all’Ara Coeli alla serie tv

Tra l’ex Letterina di Passaparola con remote simpatie laziali e l’eterno simbolo giallorosso, mancano forse soltanto le carte bollate (la spartizione patrimoniale non sarà delle più semplici) ma tutto il resto c’è: falli, risse, ammonizioni e cartellini rossi. Dicono — ma vai a sapere se è vero — che la crisi si sia aperta già da tempo. Da quando Ilary avrebbe avuto un flirt con un collega tv. Quando Francesco l’ha scoperto — o qualcuno l’ha amichevolmente avvisato — ovviamente non avrebbe gradito e avrebbe reso la cortesia. E unica, Ilary, non lo sarebbe stata proprio più. I più arditi degli informatori sostengono che, corteggia qua e occhieggia di là, alla fine l’ex Pupone diventato Campione del Mondo nel 2006 si sarebbe innamorato di un’altra, con cui starebbe da un po’ e di cui sembrerebbe molto preso.

Eppure da fuori tutto sembrava quieto, e il matrimonio celebrato il 19 giugno 2005 all’Aracoeli e in diretta Sky — la sposa aspettava già il primogenito Cristian, poi sarebbero arrivate Chanel e Isabel — di quelli indissolubili, da crepare d’invidia. «Lui mi guarda come le prime volte, non so se sia una formula o semplice fortuna», raccontava Ilary in giorni non sospetti. Più di recente invece ammetteva: «Le cose con Francesco funzionano, ma nella vita non si sa mai, tutto può cambiare. Voglio essere indipendente e non appesa ad un uomo». Piano piano l’armonia si sarebbe incrinata. All’ultima festa di compleanno di Francesco, per i suoi 45, il 27 settembre, Ilary non c’era. E il 5 febbraio, durante una gita di famiglia a Castel Gandolfo, i due avrebbero litigato. Zero post sui social, manco un cuoricino. Lei si sta preparando a condurre l’Isola dei Famosi. Lui sabato era allo stadio, accanto all’amico Daniele De Rossi. Conferme pubbliche non ce ne sono. Nemmeno smentite, però. Triplice fischio, la partita è finita, tutti sotto le docce. E all’ultimo romantico dei tifosi romanisti non resta che ripetere: «Speravo de morì prima».

Francesco Totti e Ilary Blasi si lasciano, una storia lunga 20 anni e tre figli: dal matrimonio all’Ara Coeli alla serie tv. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 21 Febbraio 2022.  

L’indiscrezione bomba sull’addio dell’ex Pupone e della showgirl dopo 20 anni d’amore e un matrimonio da sogno e in diretta tv.

20 anni insieme

Francesco Totti e Ilary Blasi starebbero per lasciarsi dopo 20 anni di amore e un matrimonio durato 17 anni, con tre figli (Isabel è la minore). L’indiscrezione proviene dal sito di Dagospia, che parla di un litigio tra l’ex capitano della Roma e la soubrette risalente allo scorso 5 febbraio, durante una gita a Castel Gandolfo.

L’allora Pupone e la showgirl si sono sposati il 19 giugno 2005 a Roma, nella Basilica dell’Ara Coeli. Lei bellissima in abito bianco, lui elegantissimo in tight. Non sembrava proprio una parabola calciatore-velina...

Dal 2013 abitano nell’attico del palazzo EuroSky in un appartamento da 36 stanze dotato di ogni lusso e comfort. Con loro anche il gatto Donna Paola, che era stato causa di una crisi coniugale rientrata in soli due giorni.

I tre figli

Cristian, Chanel e Isabel sono i tre figli di Francesco Totti e Ilary Blasi. Il primogenito è nato il 6 novembre 2005 e gioca infatti nel settore giovanile della Roma. La secondogenita, con il nome scelto dal fratello, è nata il 13 marzo 2007 e somiglia molto alla mamma. Isabel è invece nata il 10 marzo 2016.

Il compleanno mancato e il San Valentino 2021

Non è noto se e cosa abbiano fatto Ilary Blasi e Francesco Totti per il San Valentino 2022. È certo, però che al 45° compleanno dell’ex calciatore, lo scorso 27 settembre, Ilary non fosse presente alla festa. Nell’aprile precedente lui, invece, per i 40 anni di lei si era lanciato in una struggente dedica: «La metà degli anni li abbiamo passati insieme.. ora sei arrivata a 40 ... abbiamo costruito le fondamenta della nostra casa, ora dobbiamo aggiungere i mattoni. Ci aspetta ancora tanta vita....insieme!!!!auguri amore mio!».

Lo scorso anno, per San Valentino 2021, si erano scambiati delle rose (finte) e lei aveva regalato a lui un «mazzo» di cioccolatini, ricevendo uno scherzoso «vaffa» e poi due ceste di vere rose rosse, tra le risate dei figli.

La serie tv

Nell’autunno 2021 è andata in onda la serie tv tratta dalla sua autobiografia «Un capitano», scritta insieme al giornalista Paolo Condò, che riprende sei momenti cruciali della vita dello storico numero 10 romanista, uno per ogni puntata. La regia è di Luca Ribuoli.

Francesco Totti-Pietro Castellitto

Il ruolo di Francesco giovane è interpretato da Pietro Castellitto, figlio di Sergio e della scrittrice Margaret Mazzantini. Castellitto junior, grande tifoso romanista,ha studiato per mesi il personaggio Totti: i due sono stati anche a pranzo insieme in più di un’occasione.

Ilary Blasi-Greta Scarano

La persona più importante nella vita di Francesco finora, sua moglie Ilary, è portata in scena dall’attrice Greta Scarano, già famosa per aver partecipato a film come «Suburra» e «Smetto quando voglio» e a serie televisive come «Romanzo Criminale» e il recente «Il nome della rosa».

L’addio al calcio

C’era proprio tutta la famiglia il 28 maggio 2017 per il congedo di Totti dal pallone.

Le maglie «6 unica» e la crisi già da tempo

Il 10 marzo 2002 Totti annunciò al mondo dopo il derby che l’amava con la celebre maglietta «6 unica». Nove anni dopo, il 13 marzo 2011, lo ribadì: «6 sempre unica». Ma, come detto, la crisi sembrava durare da tempo. Lo scorso 27 settembre Totti era senza Ilary per i suoi 45 anni. Poi, riferisce il Messaggero, la lite alla gita a Castel Gandolfo. E, recentemente, Blasi commentava in un’intervista all’apparenza innocente: «Le cose con Francesco funzionano, ma nella vita non si sa mai, tutto può cambiare. Voglio essere indipendente e non appesa ad un uomo».

Non solo calcio: red carpet e Gran Premi

Spesso Ilary e Francesco Totti sono andati insieme in giro per il mondo, una delle coppie più glamour del jet set italiano.

Estratto dell'articolo di Anna Lupini per la Stampa il 22 febbraio 2022.

La notizia della possibile separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi lascia con l'amaro in bocca. I rumors, lanciati tra gli altri da Dagospia e confermati dai soliti ben informati, non lascerebbero spazio a dubbi, ma si resta in attesa della voce dei protagonisti sulla questione con un filo sottile di speranza. Un amore leggendario, durato 20 anni e vissuto anche da Roma, come tutte le vicende che riguardano il suo figlio prediletto, il Capitano.

(…)

di recente anche il profilo Instagram di Ilary parla chiaro. Fa un viaggio in Lapponia e al suo fianco c'è un amico fidato: Luca Tommassini. Una presenza che non crea problemi e non desta sospetti e che oggi, lealmente, declina la richiesta di ogni commento, rimanendo quello che è: un amico fedele al fianco di Ilary. Anche l'ultima uscita di Ilary, a ballare nello storico locale Muccassassina, è con Luca.

Ivan Rota per Dagospia il 22 febbraio 2022.

Divertente l’inizio del GF Vip con il conduttore che stigmatizza il bacio saffico tra Soleil Sorge e Delia Duran (e le definisce due evidenziatori) perché anche i bambini guardano. Poi Alfonso Signorini lo manda in onda a inizio programma quando i bambini lo guardano. Riprende in effetti il giudizio di numerosi concorrenti. Secondo Nathalie Caldonazzo, infatti, molti telespettatori potrebbero essere rimasti colpiti da tali scene che avrebbero urtato la sensibilità: “Tu devi anche calcolare determinate cose. Non è che tutti possono capire e a tutti può piacere questa cosa, questo lo devi mettere in conto. Perché poi questo GF Vip magari è visto anche nel paesino fatto di famiglie tradizionali con figli e tutto”.

Terremoto in Casa Totti. Si dice che Francesco Totti non abbia gradito il bacio tra la moglie Ilary Blasi e Michelle Hunziker nel programma Michelle Impossible. Inoltre a Milano si vocifera che il campione veda spesso una ragazza che ha partecipato a un’edizione dell’ Isola dei Famosi condotta proprio dalla Blasi. Quest’ultima di contro è stata avvistata con un attore impegnato presentatole dalla sorella Melory a una cena con Igor Righetti e Miriam Leone.

Melory, altra sorella di Ilary Blasi ha perso il lavoro e scrive sui social: ”è la sorella di... chissà quanto sarà raccomandata! Ma sei talmente raccomandata da essere disoccupata!", ha aggiunto la cognata di Francesco Totti. "Non è facile per me accettarlo, dopo tutti questi anni di impegno, studio e dedizione al mio lavoro. Ma lo voglio affrontare così, con il sorriso e una linguaccia. Inoltre spero di abbattere i pregiudizi che a volte vengono fatti dietro a un semplice cognome! Ce la faremo, si ricomincia".

Sempre più lanciato Cristiano Malgioglio ospite ormai quasi fissi a Che Tempo che fa dove la scorsa settimana ha incontrato Dargen D’Amico  che in più occasioni ha detto di stimare il cantautore. D’Amico, dopo il successo al Festival di Sanremo con Dove si Balla  potrebbe collaborare con la Malgy con un pezzo che potrebbe ripetere il successo di Mille. Con lo zampino di Fedez? 

Parte la settimana della moda a Milano e si parte, si fa per dire con un botto ai confini della realtà: alla sfilata di Sophia Nubes, oggi sfileranno in passerella Fabrizio Corona e Nina Moric. Dopo liti, abbandoni, scenate e altro i due ex si ripresentano insieme…

Il GF Vip è finito con una rissa da saloon causata involontario dall’eliminato Kabir Bedi. La “tigre della magnesia” in studio ha tirato le somme del suo percorso e ha di nuovo rimproverato Manila Nazzaro di aver tradito Soleil e Katia Ricciarelli che subito si è scagliata contro l’ex Miss Italia. Quest’ultima ha risposto per le rime sostenuta da una Miriana Trevisan per la quale ci sarebbe voluto l’esorcista. La soprano, candidata all’eliminazione con Daniele Silvestri e la Caldonazzo, ha chiesto al pubblico di farla uscire perché è stanca. Sì, è stanca di vedere certe facce e di ascoltare le voci insopportabili delle due santerelline Manila e Miriana. Nella notte la Ricciarelli è stata consolata da Jessica che le ha persino portato da mangiare ma ha ribadito la sua volontà di uscire e di non capacitarsi del fatto che ora Lulú non la saluti.

Sempre là Ricciarelli. Katia, rivolgendosi a Soleil, dice: “Ti hanno tirato una trappola e ci sei cascata come una pera cotta. Meglio che lui (Alex Belli) non si avvicini più, con me ha chiuso”. “Mi sento una cogli**a” risponde con un filo di voce Soleil, mentre asciuga le lacrime. Ma Katia attacca anche il bacio che Delia “ Duran Duran” (così l’hanno soprannominata) e Soleil si sono date in giardino nel corso della festa organizzata dal GF Vip. Forse in fondo la soprano è troppo ingenua… e poi non farsi mancare nulla sfancula Belli. Inoltre Soleil nomina Davide Silvestri perché in confessionale ha criticato il bacio artistico senza parlare direttamente con lei.

Il triangolo no. Basta. Nell’ ordine Alex aveva chiesto alla finta moglie di lasciare entrambi il GF Vip. Poi i due hanno litigato. Ora finalmente è stato cacciato dalla casa, ma Delia non ci ha proprio pensato a seguirlo. Lui le ha persino dato della porcellina per il bacio con Soleil che prima dice di amarlo, poi nega e non lo saluta prima che esca. Poi, dopo aver detto che Solel ha un animo splendido, Delia nomina Soleil. Un delirio. Adesso cosa si inventeranno le sue amiche nemiche? L’attenzione su di loro scema, quindi continuano a buttare legna sul fuoco, ma ormai è legna bagnata… 

E ci si mette anche Teo Mammucari, uno dei volti di punta di Madiaset che non le manda a dire: “Il Grande Fratello Vip? E’ un genere che detesto. Dopo tre minuti che li guardo vomito. E’ tutto finto, nella Casa del GF Vip non sanno nemmeno cosa sia il significato di amore”…

Una testata ha dedicato un articolo con il seguente titolo: “Chiara Ferragni e Fedez, lei vola a New York e si trasforma in Catwoman e lui fa il baby sitter a Milano” e con questo occhiello “Chiara Ferragni sul social indossa gli attillati panni della temibile Catwoman”. L’influencer si é incazzata e ha risposto via social:” Una mamma che lavora perché deve essere giudicata negligente? Una mamma che si sente bene con il proprio corpo perché si deve sentire in colpa? Una mamma che non dimentica di essere anche donna, moglie, lavoratrice, figlia, amica, perché deve essere discriminata?”

Totti e Ilary, Noemi Bocchi all’Olimpico e i post spariti da Instagram: la crisi e la doppia smentita.  Giovanna Cavalli, Gianluca Piacentini su Il Corriere della Sera il 23 febbraio 2022.

Totti: «Ricordo che ci sono di mezzo dei bambini e i bambini vanno rispettati». In giornata voci di un nuovo flirt dell’ex capitano della Roma.

La smentita (doppia) arriva via Instagram, come si usa ormai. Francesco Totti compare verso le otto di ieri sera, con un video e poche parole. «Non è la prima volta che devo smentire queste fake news su di me e la mia famiglia e sinceramente mi sono stancato», dice serio, giubbotto nero, felpa grigia, un muro sullo sfondo. «Ricordo che ci sono di mezzo dei bambini e i bambini vanno rispettati». Fine. 

Pochi minuti dopo Ilary Blasi posta il filmato di una cena familiare al ristorante «Rinaldi» al Quirinale, con la tavola apparecchiata. Lei ride in sottofondo. Si vedono la piccola Isabel, il primogenito Cristian e il Capitano, con la stessa felpa grigia. Ritratto di una famiglia normale in una sera qualunque. Messaggio subliminale: «Ma quale crisi? Qui non c’è nessuna crisi, tutto bene». Già la mattina peraltro la showgirl aveva pubblicato una story dal treno per Milano, in cui faceva la linguaccia. Uno sberleffo a chi le vuole male, forse.

Eppure per tutta la giornata il gossip sulla fine del matrimonio Totti-Blasi era stato l’argomento di tendenza. Con sempre più precisione nei dettagli — e con foto — sulla presunta nuova fiamma che l’ex Capitano della Roma avrebbe già portato nel suo luogo sacro del cuore, lo stadio Olimpico. Non accanto a lui, non esageriamo, ma due file più indietro e due teste più a destra, in tribuna, il 5 febbraio scorso a sorbirsi il mesto pareggio tra Roma e Genoa, il viso seminascosto dalla mascherina, nome sull’accredito in quota Totti: Noemi Bocchi. Finora, per i più, una perfetta sconosciuta. Sarebbe lei, 34 anni, studi in Economia aziendale e bancaria alla Lumsa, romana e ovviamente romanista, la possibile misteriosa femme da cercare dietro la separazione tra l’ex Pupone e Ilary Blasi, dopo un ventennio di amore, magliette alzate, dediche e cucchiai, in un matrimonio che il prossimo 19 giugno potrebbe non festeggiare il diciassettesimo anniversario.

Biondissima, capelli lisci, broncio sexy sulla foto di Instagram, a prima vista Noemi potrebbe sembrare un’altra sorella Blasi, tanto è evidente la somiglianza. Un ex marito, Mario Caucci, imprenditore e dirigente del Tivoli Calcio 1919 (ma giallorosso sfegatato da Curva Sud, #Romaloveofmylife il suo hashtag di battaglia), due figli bellissimi, un profilo Facebook senza pretese, con soli 578 amici (ma tra questi compaiono Stefano Ricucci, Aida Yespica, i due celebri chirurghi plastici Giulio Basoccu e Giacomo Urtis),il gossip capitolino narra che abbia partecipato a passate selezioni per l’«Isola dei Famosi», il reality dei naufraghi che ricomincerà il 21 marzo (condotto dall’Ilary originale). Ristorante preferito «L’isola del Pescatore» sulla spiaggia di Santa Severa. Lo stesso in cui Francesco chiese a Ilary di sposarlo, con i petali di rosa rossa sparsi sul pavimento e la loro canzone (L’emozione non ha voce di Celentano) a tutto volume. Appassionata di calcio e di padel (gioca nella «Spritz Girls»), proprio su uno di questi campetti avrebbe conosciuto il Capitano, qualche mese fa.

E secondo un report del sito Dagospia , lady Bocchi sarebbe già stata avvistata sulla tribuna dell’Olimpico, sempre a prudente distanza di qualche sedia, quel 4 dicembre del 2021, per Roma-Inter, ovvero il ritorno di Totti sugli spalti, dopo due anni di lontananza, accolto da ovazione collettiva. Mentre la Magica perdeva 3 a 0, i due, sempre secondo questa ricostruzione, si messaggiavano di continuo sul cellulare. Quanto a Ilary, spesso sarebbe uscita a cena in comitiva con la sorella Melory e altra gente, tra cui Luca Marinelli, fascinoso attore di «Lo chiamavano Jeeg Robot» e « Diabolik».

Altri indizi considerati rivelatori. Spariti i post romantici su Instagram, ricorrenze non festeggiate insieme (al compleanno n.45 di lui, l’ex Letterina non si è vista) uscite mondane separate, come secondo qualcuno lo sarebbe il domicilio. Il numero 10 Campione del Mondo nel 2006 lascerebbe spesso il villone dell’Eur, per rifugiarsi in quello meno smisurato di Casal Palocco, dove viveva con i genitori, con la scritta Tottigol, in mattonelline rosse, incastonata sul fondale della piscina.

Da repubblica.it il 22 febbraio 2022.

Se certi amori finiscono, non servono giri immensi per capire cosa c'è dietro: basta guardare due file più in alto. Dove è seduta lei, a distanza di sicurezza da Francesco Totti. Non sufficiente per chi sa. All'Olimpico c'è anche Noemi, bellissima, bionda, capelli lunghi e lisci: era allo stadio quando l'ex capitano era sugli spalti per Roma-Genoa. Un segnale che il rapporto tra i due è molto stretto. 

La passione del calcio di Noemi, laureata in economia, non è improvvisa: l'ex marito, imprenditore, è dirigente di una squadra laziale. Una squadra dilettanti, con giovanili elite. Quanto sia appassionata o quanto sia tifosa della Roma non si sa. Anche il Padel è una passione di Noemi. E che Totti abbia una passione sfrenata per questo sport non è un caso.

La storia tra i due è iniziata mesi fa. Era rimasta nascosta, ma in città è stata svelata ed è iniziata a circolare quando lei è scappata all'improvviso da un locale trendy vicino a Colle Oppio, da una festa. Per andare da Totti che aveva avuto un incidente in macchina. Niente di grave, ma la fuga era significativa. 

A chi ancora non sapeva, a chi non aveva seguito il buio social della coppia Totti-Ilary, a chi non erano arrivati i sussurri di una rottura per le continue liti tra i due (dovute anche perché lei lo aveva allontanato dal suo gruppo storico di amici) è tutto risultato chiaro. Non c'è stato bisogno nemmeno di guardare chi ci fosse vicino a Totti durante Roma Genoa. Per ora resta alle spalle. Le basta pochissimo per scendere al suo fianco: appena due file più in basso. 

Estratto dell'articolo di Anna Lupini per la Stampa il 22 febbraio 2022.

La notizia della possibile separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi lascia con l'amaro in bocca. I rumors, lanciati tra gli altri da Dagospia e confermati dai soliti ben informati, non lascerebbero spazio a dubbi, ma si resta in attesa della voce dei protagonisti sulla questione con un filo sottile di speranza. Un amore leggendario, durato 20 anni e vissuto anche da Roma, come tutte le vicende che riguardano il suo figlio prediletto, il Capitano. (…)

di recente anche il profilo Instagram di Ilary parla chiaro. Fa un viaggio in Lapponia e al suo fianco c'è un amico fidato: Luca Tommassini. Una presenza che non crea problemi e non desta sospetti e che oggi, lealmente, declina la richiesta di ogni commento, rimanendo quello che è: un amico fedele al fianco di Ilary. Anche l'ultima uscita di Ilary, a ballare nello storico locale Muccassassina, è con Luca.

Ivan Rota per Dagospia il 22 febbraio 2022.

Divertente l’inizio del GF Vip con il conduttore che stigmatizza il bacio saffico tra Soleil Sorge e Delia Duran (e le definisce due evidenziatori) perché anche i bambini guardano. Poi Alfonso Signorini lo manda in onda a inizio programma quando i bambini lo guardano. Riprende in effetti il giudizio di numerosi concorrenti. Secondo Nathalie Caldonazzo, infatti, molti telespettatori potrebbero essere rimasti colpiti da tali scene che avrebbero urtato la sensibilità: “Tu devi anche calcolare determinate cose. Non è che tutti possono capire e a tutti può piacere questa cosa, questo lo devi mettere in conto. Perché poi questo GF Vip magari è visto anche nel paesino fatto di famiglie tradizionali con figli e tutto”.

Terremoto in Casa Totti. Si dice che Francesco Totti non abbia gradito il bacio tra la moglie Ilary Blasi e Michelle Hunziker nel programma Michelle Impossible. Inoltre a Milano si vocifera che il campione veda spesso una ragazza che ha partecipato a un’edizione dell’ Isola dei Famosi condotta proprio dalla Blasi. Quest’ultima di contro è stata avvistata con un attore impegnato presentatole dalla sorella Melory a una cena con Igor Righetti e Miriam Leone.

Melory, altra sorella di Ilary Blasi ha perso il lavoro e scrive sui social: ”è la sorella di... chissà quanto sarà raccomandata! Ma sei talmente raccomandata da essere disoccupata!", ha aggiunto la cognata di Francesco Totti. "Non è facile per me accettarlo, dopo tutti questi anni di impegno, studio e dedizione al mio lavoro. Ma lo voglio affrontare così, con il sorriso e una linguaccia. Inoltre spero di abbattere i pregiudizi che a volte vengono fatti dietro a un semplice cognome! Ce la faremo, si ricomincia".

Sempre più lanciato Cristiano Malgioglio ospite ormai quasi fissi a Che Tempo che fa dove la scorsa settimana ha incontrato Dargen D’Amico  che in più occasioni ha detto di stimare il cantautore. D’Amico, dopo il successo al Festival di Sanremo con Dove si Balla  potrebbe collaborare con la Malgy con un pezzo che potrebbe ripetere il successo di Mille. Con lo zampino di Fedez? 

Parte la settimana della moda a Milano e si parte, si fa per dire con un botto ai confini della realtà: alla sfilata di Sophia Nubes, oggi sfileranno in passerella Fabrizio Corona e Nina Moric. Dopo liti, abbandoni, scenate e altro i due ex si ripresentano insieme… 

Il GF Vip è finito con una rissa da saloon causata involontario dall’eliminato Kabir Bedi. La “tigre della magnesia” in studio ha tirato le somme del suo percorso e ha di nuovo rimproverato Manila Nazzaro di aver tradito Soleil e Katia Ricciarelli che subito si è scagliata contro l’ex Miss Italia. Quest’ultima ha risposto per le rime sostenuta da una Miriana Trevisan per la quale ci sarebbe voluto l’esorcista. La soprano, candidata all’eliminazione con Daniele Silvestri e la Caldonazzo, ha chiesto al pubblico di farla uscire perché è stanca. Sì, è stanca di vedere certe facce e di ascoltare le voci insopportabili delle due santerelline Manila e Miriana. Nella notte la Ricciarelli è stata consolata da Jessica che le ha persino portato da mangiare ma ha ribadito la sua volontà di uscire e di non capacitarsi del fatto che ora Lulú non la saluti.

Sempre là Ricciarelli. Katia, rivolgendosi a Soleil, dice: “Ti hanno tirato una trappola e ci sei cascata come una pera cotta. Meglio che lui (Alex Belli) non si avvicini più, con me ha chiuso”. “Mi sento una cogli**a” risponde con un filo di voce Soleil, mentre asciuga le lacrime. Ma Katia attacca anche il bacio che Delia “ Duran Duran” (così l’hanno soprannominata) e Soleil si sono date in giardino nel corso della festa organizzata dal GF Vip. Forse in fondo la soprano è troppo ingenua… e poi non farsi mancare nulla sfancula Belli. Inoltre Soleil nomina Davide Silvestri perché in confessionale ha criticato il bacio artistico senza parlare direttamente con lei.

Il triangolo no. Basta. Nell’ ordine Alex aveva chiesto alla finta moglie di lasciare entrambi il GF Vip. Poi i due hanno litigato. Ora finalmente è stato cacciato dalla casa, ma Delia non ci ha proprio pensato a seguirlo. Lui le ha persino dato della porcellina per il bacio con Soleil che prima dice di amarlo, poi nega e non lo saluta prima che esca. Poi, dopo aver detto che Solel ha un animo splendido, Delia nomina Soleil. Un delirio. Adesso cosa si inventeranno le sue amiche nemiche? L’attenzione su di loro scema, quindi continuano a buttare legna sul fuoco, ma ormai è legna bagnata… 

E ci si mette anche Teo Mammucari, uno dei volti di punta di Madiaset che non le manda a dire: “Il Grande Fratello Vip? E’ un genere che detesto. Dopo tre minuti che li guardo vomito. E’ tutto finto, nella Casa del GF Vip non sanno nemmeno cosa sia il significato di amore”…

Una testata ha dedicato un articolo con il seguente titolo: “Chiara Ferragni e Fedez, lei vola a New York e si trasforma in Catwoman e lui fa il baby sitter a Milano” e con questo occhiello “Chiara Ferragni sul social indossa gli attillati panni della temibile Catwoman”. L’influencer si é incazzata e ha risposto via social:” Una mamma che lavora perché deve essere giudicata negligente? Una mamma che si sente bene con il proprio corpo perché si deve sentire in colpa? Una mamma che non dimentica di essere anche donna, moglie, lavoratrice, figlia, amica, perché deve essere discriminata?”

Francesco Totti, "ma quale smentita?". Dagospia bombarda: "Gli diamo un consiglio, magari Ilary Blasi..." Libero Quotidiano il 22 febbraio 2022.

"Peccato che non smentisca un bel niente". Francesco Totti bolla come "fake news" le indiscrezioni sulla fine del suo matrimonio con Ilary Blasi e Dagospia, che per primo ha lanciato lo scoop, risponde per le rime. Martedì sera, a sorpresa e dopo due giorni di gossip incendiario, l'ex capitano della Roma pubblica su Instagram una manciata di Stories da interpretare, appunto, come una smentita alle voci che circolano insistentemente e che fanno parlare quella metà d'italiani non interessati alla guerra in Ucraina o al caro-bollette. 

"Nelle ultime ore - spiega Totti, visibilmente stanco, contrito e irritato - ho letto sui media tante cose su di me e soprattutto sulla mia famiglia. Non è la prima volta che mi succede di sentire queste fake news. Mi rivolgo a tutti voi che scrivete queste cose di fare attenzione perché di mezzo ci sono dei bambini. E i bambini vanno rispettati. E sinceramente mi sono veramente stancato di dover smentire".

Ma Dago, come detto, non ci sta: "L’ex capitano della Roma si limita a suggerire ai media di 'fare attenzione' (che è, una minaccia?), perché di mezzo ci sono dei bambini, e 'i bambini vanno rispettati'. Nessun riferimento al suo grande amore per Ilary, né alla nuova fiamma, Noemi Bocchi", sottolinea il sito fondato e diretto da Roberto D'Agostino, che fa riferimento alla giovane papazzata a pochi metri da Totti pochi giorni fa allo stadio Olimpico. 

"P.S. - è la velenosa conclusione di Dagospia - Consigliamo al Pupone di cambiare social media manager, vista la qualità delle inquadrature delle stories. E visto che c’è, magari può trovare anche uno "stylist" che gli suggerisca di indossare qualcosa di meglio della tamarrissima felpa con il codice fiscale stampato sopra. Magari anche la moglie gradirebbe...".

Dagonews il 22 febbraio 2022.

Tutti gli indizi della love story tra Francesco Totti e Noemi Bocchi portano all’Olimpico: Roma-Genoa non è stata la prima volta in cui la nuova fiamma del Pupone è stata avvistata in tribuna vicino all'ex capitano giallorosso. Già il 4 dicembre 2021 contro l’Inter, la donna che ha preso il posto di Ilary nel cuore di Totti, era seduta alcune file dietro il Pupone. 

In quella serata, il Capitano era tornato dopo 2 anni all’Olimpico a vedere la Roma. Aveva incontrato il sindaco Gualtieri e si era commosso per le ovazioni e i cori dei tifosi. Una serata magica. A fargli compagnia, con discrezione, anche la nuova fiamma DAGONOTA il 22 febbraio 2022.

Francesco Totti ha pubblicato su Instagram delle “Stories” in cui “smentisce” il Dago-scoop sulla fine del matrimonio con Ilary Blasi. Peccato che non smentisca un bel niente! 

L’ex capitano della Roma si limita a suggerire ai media di “fare attenzione” (che è, una minaccia?), perché di mezzo ci sono dei bambini, e “i bambini vanno rispettati”. 

Nessun riferimento al suo grande amore per Ilary, né alla nuova fiamma, Noemi Bocchi. Pochi minuti prima, anche la Blasi aveva postato un video con il marito a cena al ristorante Rinaldi al Quirinale. 

PS. Consigliamo al Pupone di cambiare social media manager, vista la qualità delle inquadrature delle sue stories. E visto che c’è, magari può trovare anche uno "stylist" che gli suggerisca di indossare qualcosa di meglio della tamarrissima felpa con il codice fiscale stampato sopra. Magari anche la moglie gradirebbe...

Dago-trascrizione il 22 febbraio 2022.

Nelle ultime ore ho letto sui media tante cose su di me e soprattutto sulla mia famiglia. Non è la prima volta che mi succede di sentire queste fake news. Mi rivolgo a tutti voi che scrivete queste cose di fare attenzione perché di mezzo ci sono dei bambini. E i bambini vanno rispettati. E sinceramente mi sono veramente stancato di dover smentire che somiglia tanto a Ilary. I due durante la partita non facevano altro che scambiarsi messaggini...

Liberi Totti. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 22 febbraio 2022.  

Lungo tutta la penisola, con epicentro inevitabile sui colli di Roma, si respira una certa aria di scoramento per la crisi del diciassettesimo anno tra Ilary Blasi e Francesco Totti, «che insieme sono così carucci». Una delusione solo parzialmente riscattata dalla notizia, peraltro smentita, che Berlusconi starebbe per risposarsi, mettendo finalmente la testa a posto sulla soglia della quarta età. Per pareggiare l’eventuale deflagrazione della love-story tottiana ci vorrebbe ben altro: come minimo, la vox populi reclama che Michelle Hunziker e Ramazzotti ritornino sotto lo stesso tetto. Siamo davvero strani. Il numero dei divorzi aumenta più rapidamente delle bollette della luce. E i matrimoni, ormai persino quelli civili, sono così sporadici e cagionevoli che tra un po’ ci daranno un bonus anche per sposarci. Eppure, ci si ostina a pretendere proprio dai Famosi quell’ultima riga delle favole che non riusciamo a scrivere nelle vite normali. Quell’amore eterno che era obiettivamente più facile promettersi nel medioevo, quando tra guerre e carestie il «per sempre» era destinato a durare pochissimo. Una coppia come Blasi e Totti, cresciuta sotto i riflettori e sottoposta - immagino - a una sfilza continua di tentazioni, che riesce a restare insieme per quasi vent’anni e a crescere ben tre figli, contribuendo eroicamente al ripopolamento delle nostre esauste contrade, andrebbe festeggiata con la stessa enfasi con cui in passato si celebravano le nozze di platino. 

Da gossip.it il 23 febbraio 2022.

Simona Ventura entra a gamba tesa con un post sul social sull’argomento che catalizza i media da lunedì scorso: la crisi tra Francesco Totti e Ilary Blasi. La conduttrice 56enne non crede alla smentita dell’ex Capitano della Roma? 

Le dichiarazioni del campione sul presunto crack con la moglie sono arrivate nella serata di ieri nelle IG Stories del 45enne, arricchite poco dopo da alcune foto che ritraevano lo sportivo e la presentatrice 40enne insieme ai figli a cena in un famoso ristorante della Capitale.

SuperSimo, che in passato ha avuto una separazione piuttosto burrascosa con Stefano Bettarini, da cui ha avuto due figli, elargisce consigli alla coppia che, almeno stando alle sue parole, parrebbe trattare da ‘ex’.

"Leggendo (e sentendo) della ‘presunta‘ separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, vorrei dare qualche consiglio non richiesto, dovuto all’esperienza. 

La separazione è già di per se un lutto! E' dolorosissima! Quella pubblica lo è anche di più. Ai miei tempi i social non c’erano e quindi direi che oggi i figli vengono ancora meno tutelati”, scrive.

 “Francesco e Ilary sono due persone perbene, che si sono amate per 20 anni - prosegue la Ventura - Sapranno sicuramente uscire da questa tempesta senza disunirsi, continuando a comunicare ed essere in sintonia anche se a volte sarebbe più facile cedere alle provocazioni ed andare in guerra. In momenti come questi è facile per persone ‘vicine‘, ‘amiche‘, di soffiare sul fuoco ed entrare come un coltello nel burro della vostra coppia... Non permettetelo!”. 

Parrebbe che per lei i due siano ormai solo 'ex', almeno stando al suo post social

Simona Ventura conclude dando la sua solidarietà ai due, che sarebbero rimasti insieme al momento, così sembrerebbe trasparire dal suo pensiero, solo per il bene dei tre pargoli, Cristian, 16 anni, Chanel, 14 e Isabel, 5: “Nel mio piccolo vi abbraccio forte e vi auguro, dopo la tempesta, di ritrovare affetto e amicizia. 

Si può non essere più sposati ma si può (e si deve) essere buoni genitori! Buona fortuna”. L’ex conduttrice dell’Isola dei Famosi sa qualcosa che le regala la certezza di questo clamoroso addio? 

Totti e Ilary, parla Mario Caucci, marito di Noemi: Situazione grottesca. Maria Egizia Fiaschetti e Giuliano Benvegnù per corriere.it il 23 febbraio 2022.

Parla Mario Caucci, marito di Noemi Bocchi, la trentaquattrenne da due giorni al centro dell’attenzione per la presunta relazione con Francesco Totti. Caucci, che è team manager del Tivoli Calcio e ceo della Caucci Marble, la mattina del 23 febbraio l’ha trascorsa nella tribuna dello stadio «Tre Fontane», all’Eur, per la finale di Coppa Italia Eccellenza fra Tivoli e Civitavecchia.

Sollecitato a parlare dell’affaire Torri-Blasi, ha detto: «La situazione è grottesca, non so cosa dire. Ho dato mandato ai miei legali di occuparsi della vicenda. Ho visto il video di Francesco Totti in cui chiede di avere più rispetto dei nostri figli e sono d’accordo: attenzione per i nostri, come per i loro».

Da fanpage.it il 23 febbraio 2022.

Dopo l'uscita della notizia della relazione con Noemi Bocchi, per il Capitano Francesco Totti non c'è pace. Casualmente, a poche ore dal gossip, con Ilary Blasi si sono geolocalizzati in uno dei ristoranti più famosi di Roma. I paparazzi li hanno aspettati all'uscita e alla richiesta di un bacio, hanno risposto: "Sono 20 anni che ce li diamo". 

Totti ha pensato bene di uscire dal locale con in braccio la figlia Isabel, una specie di scudo almeno per le domande incessanti, visto che le foto non potevano essere evitate in alcun modo. Insieme a Ilary, sono stati il bersaglio dei flash almeno per una ventina di minuti, il tempo necessario per liberarsi dal capannello di paparazzi e rimettersi al volante per fare ritorno a casa. 

"Attenti, che non ho l'assicurazione" ha scherzato lui, mantenendo quel profilo ironico che da sempre lo contraddistingue, "dai, fatemi andare che dobbiamo partire per la settimana bianca", ha concluso, sfrecciando via sulla sua auto.

Ilary Blasi invece si era defilata in compagnia dell'altra figlia Chanel, ma non è stata risparmiata dagli "assalti" di giornalisti e fotografi. A chi le ha chiesto se la linguaccia condivisa nelle stories IG del pomeriggio fosse una risposta sarcastica al gossip su Noemi Bocchi, che in qualche modo stava minando la serenità della sua famiglia, ha risposto con un sorriso che sì, era proprio un modo per relativizzare una notizia (a suo parere) priva di fondamento.

Eppure, il bacio con il marito non c'è stato e il rifiuto, motivato con la consuetudine al gesto in così tanti anni di matrimonio, non è stato particolarmente convincente, o almeno non ha sedato il chiacchiericcio delle ultime ore, condito con nomi e cognomi. (...)

Il Messaggero riporta la scena: Ilary era uscita già dal locale insieme alla figlia Chanel. E quando giornalisti e paparazzi hanno chiesto un bacio, Totti ha risposto: “Sono venti anni che ci baciamo. E poi lei dice che adesso le piacciono le donne. E ora fatemi andare che dobbiamo partire per la settimana bianca”. Niente bacio.

Gianluca Piacentini e Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 23 febbraio 2022.  

La smentita (doppia) arriva via Instagram, come si usa ormai. Francesco Totti compare verso le otto di ieri sera, con un video e poche parole. «Non è la prima volta che devo smentire queste fake news su di me e la mia famiglia e sinceramente mi sono stancato», dice serio, giubbotto nero, felpa grigia, un muro sullo sfondo. «Ricordo che ci sono di mezzo dei bambini e i bambini vanno rispettati». Fine.

Pochi minuti dopo Ilary Blasi posta il filmato di una cena familiare al ristorante «Rinaldi» al Quirinale, con la tavola apparecchiata. Lei ride in sottofondo. Si vedono la piccola Isabel, il primogenito Cristian e il Capitano, con la stessa felpa grigia. 

Ritratto di una famiglia normale in una sera qualunque. Messaggio subliminale: «Ma quale crisi? Qui non c'è nessuna crisi, tutto bene». 

Già la mattina peraltro la showgirl aveva pubblicato una story dal treno per Milano, in cui faceva la linguaccia. Uno sberleffo a chi le vuole male, forse. Eppure per tutta la giornata il gossip sulla fine del matrimonio Totti-Blasi era stato l'argomento di tendenza.

Con sempre più precisione nei dettagli - e con foto - sulla presunta nuova fiamma che l'ex Capitano della Roma avrebbe già portato nel suo luogo sacro del cuore, lo stadio Olimpico. 

Non accanto a lui, non esageriamo, ma due file più indietro e due teste più a destra, in tribuna, il 5 febbraio scorso a sorbirsi il mesto pareggio tra Roma e Genoa, il viso seminascosto dalla mascherina, nome sull'accredito in quota Totti: Noemi Bocchi.

Finora, per i più, una perfetta sconosciuta. Sarebbe lei, 34 anni, studi in Economia aziendale e bancaria alla Lumsa, romana e ovviamente romanista, la possibile misteriosa femme da cercare dietro la separazione tra l'ex Pupone e Ilary Blasi, dopo un ventennio di amore, magliette alzate, dediche e cucchiai, in un matrimonio che il prossimo 19 giugno potrebbe non festeggiare il diciassettesimo anniversario. 

Biondissima, capelli lisci, broncio sexy sulla foto di Instagram, a prima vista Noemi potrebbe sembrare un'altra sorella Blasi, tanto è evidente la somiglianza. Un ex marito, Mario Caucci, imprenditore e dirigente del Tivoli Calcio 1919 (ma giallorosso sfegatato da Curva Sud, #Romaloveofmylife il suo hashtag di battaglia), due figli bellissimi, un profilo Facebook senza pretese, con soli 578 amici (ma tra questi compaiono Stefano Ricucci, Aida Yespica, i due celebri chirurghi plastici Giulio Basoccu e Giacomo Urtis), il gossip capitolino narra che abbia partecipato a passate selezioni per l'«Isola dei Famosi», il reality dei naufraghi che ricomincerà il 21 marzo (condotto dall'Ilary originale). 

Ristorante preferito «L'isola del Pescatore» sulla spiaggia di Santa Severa.

Lo stesso in cui Francesco chiese a Ilary di sposarlo, con i petali di rosa rossa sparsi sul pavimento e la loro canzone ( L'emozione non ha voce di Celentano) a tutto volume. 

Appassionata di calcio e di padel (gioca nella «Spritz Girls»), proprio su uno di questi campetti avrebbe conosciuto il Capitano, qualche mese fa.

E secondo un report del sito Dagospia , lady Bocchi sarebbe già stata avvistata sulla tribuna dell'Olimpico, sempre a prudente distanza di qualche sedia, quel 4 dicembre del 2021, per Roma-Inter, ovvero il ritorno di Totti sugli spalti, dopo due anni di lontananza, accolto da ovazione collettiva. 

Mentre la Magica perdeva 3 a 0, i due, sempre secondo questa ricostruzione, si messaggiavano di continuo sul cellulare. 

Quanto a Ilary, spesso sarebbe uscita a cena in comitiva con la sorella Melory e altra gente, tra cui Luca Marinelli, fascinoso attore di Lo chiamavano Jeeg Robot e Diabolik . Altri indizi considerati rivelatori.

Spariti i post romantici su Instagram, ricorrenze non festeggiate insieme (al compleanno n.45 di lui, l'ex Letterina non si è vista) uscite mondane separate, come secondo qualcuno lo sarebbe il domicilio. 

Il numero 10 Campione del Mondo nel 2006 lascerebbe spesso il villone dell'Eur, per rifugiarsi in quello meno smisurato di Casal Palocco, dove viveva con i genitori, con la scritta Tottigol, in mattonelline rosse, incastonata sul fondale della piscina.

Estratto dell'articolo di Alessia Marani Ilaria Ravarino per "il Messaggero" il 23 febbraio 2022.

[…] Il coreografo Luca Tommassini, vittima in passato di aggressioni omofobe, è più che mai vicino a Ilary, è il suo amico del cuore. Con lui Ilary ha solcato il tappeto rosso della prima di House of Gucci a novembre. E sempre con lui ed Ennio Meloni ha trascorso tra novembre e dicembre qualche giorno in Lapponia: senza marito e senza mai parlarne. Un silenzio anomalo. Anche a cena nella nuova pizzeria di Flavio Briatore a Roma, Ilary è andata senza Totti. Anzi, c'è chi scommette che durante una cena con il giornalista Igor Righetti e l'attrice Miriam Leone, Blasi avrebbe conosciuto «un attore impegnato» presentatole dalla sorella Melory. […]

Estratto dell'articolo di Nino Materi per "il Giornale" il 23 febbraio 2022.  

Sotto sotto, forse, si amano ancora. O no. Sta di fatto che il modello estetico di «nuova partner ideale» (per lui) e «nuovo partner ideale» (per lei) è la fotocopia dei vecchi compagni. Ci spieghiamo meglio. A dar credito alle malelingue, Francesco Totti (che però smentisce tutto: «Solo una fake news») sarebbe in crisi con la moglie Ilary Blasi, frequentando una sua sosia di qualche anno più giovane; al contempo Ilary Blasi vedrebbe un «pupone» molto somigliante a quello originale. Insomma, entrambi attratti vicendevolmente dai rispettivi cloni. […] 

Mentre l'ex centravanti azzurro è stato visto allo stadio (e altrove) con la bella (e giovane) Noemi Bocchi («laureata in Economia, appassionata di calcio e di padel», fa sapere quel ficcanaso di Dagospia), la ancora fascinosa Ilary è stata reiteratamente avvistata a fianco di un bel fusto che sembra l'alter ego del «pupone» giallorosso. […]

Alessia Marani per il Messaggero il 23 febbraio 2022.

Mario Caucci come ha reagito apprendendo la notizia che la sua ex moglie Noemi Bocchi sarebbe la causa della possibile fine del matrimonio di Francesco Totti con Ilary Blasi?

«A dire il vero, se vogliamo essere precisi, per la legge, è ancora mia moglie, non siamo separati legalmente. Mi hanno chiamato in tanti stamattina e sono sgomento. Ma non è stata una sorpresa, nel senso che non mi ha sorpreso affatto il comportamento di mia moglie. Il suo agire disinvolto non mi stupisce...». 

Ma aveva sospetti? Di fatto, per la legge, sua moglie l'avrebbe tradita nientemeno che con il Capitano, un mito vivente...

«Di Totti posso dire soltanto che è il mio salvatore (ride, ndr). Che io so bene che cosa c'è oltre, dietro il semplice lato estetico di una persona, e a lui, se davvero ci fosse questa liaison, va tutta la mia comprensione, nessuno meglio di me potrà comprenderlo». 

Mi pare di capire che con Noemi non vi siete lasciati in buoni rapporti.

«No, per niente. Per me è stato molto doloroso separarmi e vorrei chiudere definitivamente questa storia, ma non si trova l'accordo. Ossia lei lo ostacola». 

Lei è una persona molto facoltosa, è Team Manager del Tivoli Calcio e Ceo della Caucci Marble, storica azienda di famiglia. C'è una guerra in atto per la separazione?

«Sì, e nella quale io mi sto difendendo». 

Nessun sospetto, dunque, su Totti?

«No, fino a oggi mai uscito questo nome. Non ne sapevo niente». 

Ma lei sa come si possano essere conosciuti Noemi e Francesco? Frequentate gli stessi ambienti?

«Non ho idea, abbiamo amicizie diverse».

Eppure è un paradosso, dicono che lei sia tifoso della Roma.

«Non rispondo», ride.

Forse si sono conosciuti per lavoro, di cosa si occupa sua moglie, dicono sia una flower designer?

«Eh, bella domanda. Lo chieda a lei, perché io non lo so». 

Da quanto tempo siete sposati?

«Da dieci anni e abbiamo due figli, uno di 8 e una di 10. Eravamo giovanissimi».

Ed è molto che vi siete separati?

«Diciamo non da molto tempo, qualche mese».

A ottobre eravate ancora insieme? È in quel periodo che si dice che sia iniziata la love story tra Noemi e Francesco. Può essere che si frequentassero quando eravate ancora insieme?

«Guardi, non ho idea».

In caso dovrà spiegarlo agli avvocati nella causa di separazione...

«Eh beh. Credo proprio di sì. Doveva essere più attenta».

Che vuole dire?

«Che se fosse vero doveva usare più attenzione. Anche e soprattutto per i nostri figli e anche per quelli della coppia. Parliamo di cinque ragazzini che ne potrebbero subire le conseguenze. Penso che da tutta questa storia, se vera, c'è solo lei che ne può trarre un vantaggio mediaticamente, mentre al Capitano... tutta la mia comprensione». 

Dagonews il 23 febbraio 2022.  

Le strade dell'amore sono infinite ma hanno snodi precisi, che passano attraverso quei Cupido occasionali (o professionali) che mettono in contatto anime, cuori e coratelle. O più prosaicamente creano un ponte tra domanda e offerta. E' il caso di Alex Nuccetelli, ex compagno di Antonella Mosetti e padre della ex gieffina Asia. Classe 1977, è un Pr e body builder molto attivo nella vita notturna romana.

Amico dei vip, è finito nelle cronache rosa per le chiacchieratissime avventure con Sara Tommasi, Valeria Marini e Melissa Satta. Uno con le mani in pasta dappertutto, che organizza feste, eventi, cene a cui partecipavano (e partecipano anche oggi) i calciatori della Roma (destinazione preferita il ristorante "Le Gru" a Ponte Milvio). Fu lui, ad esempio, a presentare Ilary Blasi a Francesco Totti nel lontano 2001. 

Ed è stato sempre il prezzemolino Nuccetelli ad aver messo in contatto il "Pupone" con Noemi Bocchi, attraverso uno dei suoi eventi, quelli in cui calciatori e vip possono chiacchierare amabilmente con attrici, modelle, bonazze varie. Così va il mondo: si scambiano due parole, e tra una tartina al salmone e un congiuntivo sbilenco, da cosa può nascere cosa.

E tra Totti e Noemi Bocchi la fiamma s'accesa da tempo. "Da più di un anno", dicono le malelingue. Al punto che il giorno di San Valentino, Francesco Totti avrebbe fatto consegnare alla biondissima Noemi un mazzo di tredici rose rosse, una per ogni mese della loro "conoscenza". 

I veleni romani inzuppano la lingua biforcuta nella crisi coniugale di Totti e Ilary: "Sarà contenta la madre del Capitano, mamma Fiorella, visto che ha sempre detestato la Blasi. Quando si fidanzarono non fu per niente contenta. Gli disse: 'Te metti co' 'na ballerina, mah'…". 

"E' andata bene anche a Ilary - insistono gli "addetti ai livori" - si è liberata del "cerchio magico" di amici e tuttofare che gravita intorno a Totti (con l'ex compagno di squadra Vincent Candela, in testa) che lei non sopportava più. Non amava per niente "le loro abitudini..." 

Totti e Ilary, Noemi Bocchi all’Olimpico e i post spariti da Instagram: la crisi e la doppia smentita. Giovanna Cavalli, Gianluca Piacentini  su Il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2022.

Totti: «Ricordo che ci sono di mezzo dei bambini e i bambini vanno rispettati». In giornata voci di un nuovo flirt dell’ex capitano della Roma.

La smentita (doppia) arriva via Instagram, come si usa ormai. Francesco Totti compare verso le otto di ieri sera, con un video e poche parole. «Non è la prima volta che devo smentire queste fake news su di me e la mia famiglia e sinceramente mi sono stancato», dice serio, giubbotto nero, felpa grigia, un muro sullo sfondo. «Ricordo che ci sono di mezzo dei bambini e i bambini vanno rispettati». Fine. 

Pochi minuti dopo Ilary Blasi posta il filmato di una cena familiare al ristorante «Rinaldi» al Quirinale, con la tavola apparecchiata. Lei ride in sottofondo. Si vedono la piccola Isabel, il primogenito Cristian e il Capitano, con la stessa felpa grigia. Ritratto di una famiglia normale in una sera qualunque. Messaggio subliminale: «Ma quale crisi? Qui non c’è nessuna crisi, tutto bene». Già la mattina peraltro la showgirl aveva pubblicato una story dal treno per Milano, in cui faceva la linguaccia. Uno sberleffo a chi le vuole male, forse.

Eppure per tutta la giornata il gossip sulla fine del matrimonio Totti-Blasi era stato l’argomento di tendenza. Con sempre più precisione nei dettagli — e con foto — sulla presunta nuova fiamma che l’ex Capitano della Roma avrebbe già portato nel suo luogo sacro del cuore, lo stadio Olimpico. Non accanto a lui, non esageriamo, ma due file più indietro e due teste più a destra, in tribuna, il 5 febbraio scorso a sorbirsi il mesto pareggio tra Roma e Genoa, il viso seminascosto dalla mascherina, nome sull’accredito in quota Totti: Noemi Bocchi. Finora, per i più, una perfetta sconosciuta. Sarebbe lei, 34 anni, studi in Economia aziendale e bancaria alla Lumsa, romana e ovviamente romanista, la possibile misteriosa femme da cercare dietro la separazione tra l’ex Pupone e Ilary Blasi, dopo un ventennio di amore, magliette alzate, dediche e cucchiai, in un matrimonio che il prossimo 19 giugno potrebbe non festeggiare il diciassettesimo anniversario.

Biondissima, capelli lisci, broncio sexy sulla foto di Instagram, a prima vista Noemi potrebbe sembrare un’altra sorella Blasi, tanto è evidente la somiglianza. Un ex marito, Mario Caucci, imprenditore e dirigente del Tivoli Calcio 1919 (ma giallorosso sfegatato da Curva Sud, #Romaloveofmylife il suo hashtag di battaglia), due figli bellissimi, un profilo Facebook senza pretese, con soli 578 amici (ma tra questi compaiono Stefano Ricucci, Aida Yespica, i due celebri chirurghi plastici Giulio Basoccu e Giacomo Urtis),il gossip capitolino narra che abbia partecipato a passate selezioni per l’«Isola dei Famosi», il reality dei naufraghi che ricomincerà il 21 marzo (condotto dall’Ilary originale). Ristorante preferito «L’isola del Pescatore» sulla spiaggia di Santa Severa. Lo stesso in cui Francesco chiese a Ilary di sposarlo, con i petali di rosa rossa sparsi sul pavimento e la loro canzone (L’emozione non ha voce di Celentano) a tutto volume. Appassionata di calcio e di padel (gioca nella «Spritz Girls»), proprio su uno di questi campetti avrebbe conosciuto il Capitano, qualche mese fa.

E secondo un report del sito Dagospia , lady Bocchi sarebbe già stata avvistata sulla tribuna dell’Olimpico, sempre a prudente distanza di qualche sedia, quel 4 dicembre del 2021, per Roma-Inter, ovvero il ritorno di Totti sugli spalti, dopo due anni di lontananza, accolto da ovazione collettiva. Mentre la Magica perdeva 3 a 0, i due, sempre secondo questa ricostruzione, si messaggiavano di continuo sul cellulare. Quanto a Ilary, spesso sarebbe uscita a cena in comitiva con la sorella Melory e altra gente, tra cui Luca Marinelli, fascinoso attore di «Lo chiamavano Jeeg Robot» e « Diabolik».

Altri indizi considerati rivelatori. Spariti i post romantici su Instagram, ricorrenze non festeggiate insieme (al compleanno n.45 di lui, l’ex Letterina non si è vista) uscite mondane separate, come secondo qualcuno lo sarebbe il domicilio. Il numero 10 Campione del Mondo nel 2006 lascerebbe spesso il villone dell’Eur, per rifugiarsi in quello meno smisurato di Casal Palocco, dove viveva con i genitori, con la scritta Tottigol, in mattonelline rosse, incastonata sul fondale della piscina.

Noemi Bocchi, chi è la donna indicata come la nuova fidanzata di Totti (e che somiglia molto a Ilary). Salvatore Riggio  su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2022.

La storia fra i due durerebbe già da qualche mese. Il 5 febbraio lei e Francesco erano assieme all’Olimpico divisi solo da due file: separata, laureata in Economia, ama il padel, la musica e i viaggi. E ricorda moltissimo la moglie dell’ex campione.

«Fake news»: così Francesco Totti ha smentito con un video su Instagram la crisi coniugale. E ha chiesto di «rispettare i bambini». Due giorni dopo la notizia di una separazione imminente, l’ex capitano giallorosso posta un video. E a pochi minuti di distanza anche Ilary Blasi sceglie di utilizzare lo stesso social per mostrarsi a cena con il marito e i tre figli in un ristorante romano.

La prima indiscrezione della crisi tra Francesco Totti e la moglie Ilary Blasi era filtrata lunedì 21 febbraio. Poi era arrivato il nome della nuova fiamma dell’ex capitano della Roma. «Si tratta — queste le voci — di Noemi Bocchi: bionda, capelli lunghi e lisci, notevole somiglianza con Ilary. Sabato 5 febbraio era allo stadio Olimpico per assistere a Roma-Genoa, seduta due file dietro Totti». Noemi è laureata in Economia, è mamma di due figli e l’ex marito, imprenditore, è dirigente di una squadra dilettanti laziale. Sembra abbia una grande passione, trasmessa a Totti: il padel. Oltre alla musica e ai viaggi.

Tra Torri e Noemi è iniziata mesi fa

Indiscrezioni raccontano che la storia tra i due sarebbe iniziata mesi fa, nell’ottobre scorso, ma, come spesso accade in questi casi, la love story è rimasta ben nascosta (e non è stato facile, visto quello che rappresenta Francesco per la Capitale, sponda romanista), fino a quando sono cominciate a circolare voci che hanno acquisito consistenza quando lei scappò all’improvviso da una festa in un locale alla moda vicino a Colle Oppio per raggiungere Totti che aveva appena avuto un incidente con l’auto. Nulla di grave, ma resta la notizia della fuga precipitosa di Noemi.

Via da casa

E il matrimonio di Francesco con Ilary Blasi? Nonostante le smentite, a Roma si parla di numerose liti. L’ultima durante una gita in famiglia sulle rive del lago di Castel Gandolfo, nella zona dei Castelli Romani. Totti veniva dato pronto a lasciare la villa del Torrino per tornare nella sua casa a Casal Palocco. Lui, invece, nega tutto.

Da video.corriere.it il 24 febbraio 2022.

Parla Mario Caucci, marito di Noemi Bocchi, la trentaquattrenne da due giorni al centro dell’attenzione per la presunta relazione con Francesco Totti. Caucci, che è team manager del Tivoli Calcio e ceo della Caucci Marble, la mattina del 23 febbraio l’ha trascorsa nella tribuna dello stadio «Tre Fontane», all’Eur, per la finale di Coppa Italia Eccellenza fra Tivoli e Civitavecchia.

Sollecitato a parlare dell’affaire Totti-Blasi, ha detto: «La situazione è grottesca, non so cosa dire. Ho dato mandato ai miei legali di occuparsi della vicenda. Ho visto il video di Francesco Totti in cui chiede di avere più rispetto dei nostri figli e sono d’accordo: attenzione per i nostri, come per i loro».

Estratto dell’articolo di Alessia Marani Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 24 febbraio 2022.

(…) Intanto c'è un altro menage che continua a subire contraccolpi. Da Dubai una donna spiega: «Ho convissuto quasi due anni con Mario Caucci, la storia con Noemi era finita già nel 2017. 

Abbiamo avuto un figlio che lui non ha più visto». Insomma il gossip si è scatenato. Eppure le amiche del padel giurano che «fino a non molto tempo fa il marito di Noemi mandava un energumeno a controllarla, lei faceva molti misti, forse lui era ancora geloso perché è molto carina». 

VI RACCONTO IO LA VERITÀ SU FLAVIA VENTO. Dagospia il 24 febbraio 2022. Estratto dal libro di Francesco Totti e Paolo Condò, ''Un Capitano'', edito da Rizzoli.

(…) A differenza del primo, che è un sogno, il secondo è un incubo. Si materializza nella famosa intervista a «Gente» in cui Flavia Vento sostiene di aver passato una notte d'amore con me a casa sua. È tutto falso, ma come sempre succede in questi casi prima gira la voce che sia in arrivo la polpetta avvelenata e poi, una volta uscita e smentita la notizia, si inizia a dire che la storia contiene troppi particolari perché sia stata inventata. 

Dev'essere vera. In base a questo discorso, allora, ogni romanzo, ogni film dovrebbe riguardare qualcosa di realmente accaduto: nelle fiction i particolari abbondano... La verità è che io conosco la Vento una sera in cui Ilary non c'è, a un evento sulla Tuscolana: per pubblicizzare un nuovo modello di condizionatori vengono invitati alla festa calciatori e showgirl, il solito mix delle serate romane.

Lei mi viene presentata, è una ragazza carina, parliamo qualche minuto e poi, come succede in queste situazioni piene di gente, ci separiamo perché sia lei sia io abbiamo incrociato nuove persone da salutare, e per quella sera non ci vediamo più. La settimana successiva sono con gli amici al Prado, ristorante di Trastevere, quando Giancarlo e Angelo mi segnalano che a un altro tavolo c'è una ragazza che sta cercando di attirare la mia attenzione. 

È la Vento. Saluti e sorrisi da una parte all'altra della sala, voglio dire senza alzarsi per venirsi incontro, poi ciascuno si dedica alla propria compagnia. Andando via c'è un'altra serie di saluti da lontano, e stop. Me ne vado a casa a dormire. Ecco, nella sua versione quella è la notte incriminata. 

L'intervista inquieta molto Ilary, com'è normale che sia: ha scoperto recentemente di essere incinta, mancano poche settimane al matrimonio, non è un buon momento per gestire le infedeltà del quasi marito. Soprattutto se ci fossero. lo invece le spiego per filo e per segno i miei due contatti con la Vento, che poi sono quelli appena raccontati, e la prego di credermi perché è la mia parola contro la sua, e per lei la mia dovrebbe valere di più.

Infatti Ilary mi crede, e la storia sarebbe finita se qualche giorno dopo Fabrizio Corona non telefonasse a Vito per dirgli che esiste una seconda parte dell'intervista, più dettagliata, unita ad alcune fotografie compromettenti. Lui è pronto a venderle a «Gente» per cinquantamila euro, ma se volessimo ritirare tutto dal mercato per la stessa cifra non avrebbe problemi a darcele. A noi la scelta.

Vito riceve la telefonata mentre è al Campidoglio, a preparare il piano di sicurezza per il matrimonio. Si consulta con mio fratello Riccardo, perché loro due gestiscono il conto bancario aperto proprio per le nozze, e insieme decidono di pagare a prescindere dalla mia estraneità alla storia: giudicano che in quei giorni la precedenza spetti alla tranquillità di Ilary, qualsiasi cosa possa turbarla va cancellata.

Si consigliano anche con Maurizio Costanzo, che del mondo dell'informazione sa tutto e mi è vicino dai tempi dei libri di barzellette. lo vengo avvisato dell'accordo soltanto a pagamento avvenuto, e la cosa non mi piace per niente perché non ho nulla da nascondere: non a caso, al dunque Corona consegna a Vito un dattiloscritto firmato dalla Vento nel quale ci sono ben poche novità rispetto alla prima parte dell'intervista, e nessuna fotografia. L'evidenza del bluff. 

Due anni dopo il mio caso verrà valutato all'interno dell'inchiesta "Vallettopoli", ma archiviato perché quella manifestata da Corona era stata una disponibilità priva di minacce, e quindi non un' estorsione. La differenza è sottile, ma ciò che mi interessa è uno degli accertamenti compiuti dalla polizia durante le indagini: quella famosa notte incriminata il mio telefono non risulta mai agganciato alla cella della zona in cui abita Flavia Vento. 

Spero proprio che questo particolare inedito tolga di torno i dubbi residui. È in quel periodo che dedico a Ilary una nuova esultanza, il dito in bocca, destinata a diventare definitiva. A lungo si è pensato che fosse un modo per segnalare i figli in arrivo o, dopo le loro nascite, la tenerezza dei primi passi. Non è così. 

Quando Ilary si concentra, perché legge la scaletta di un programma oppure studia il menu per la mia festa di compleanno, il dito le torna in bocca proprio come quando era bambina. Non se ne accorge nemmeno, è il gesto più "suo" in assoluto perché evidentemente viene dall'inconscio. 

Replicarlo dopo ogni gol - i miei momenti professionalmente importanti - è un omaggio alla donna che mi ha cambiato la vita. È un modo per dirle che continuo ad amarla come quando la vidi in Tv la prima volta restando senza parole, o come quando decisi di non restituire una palla a Montella, perché dovevo costruirci il nostro futuro.

Da corriere.it del 26 ottobre 2018 

Sembrava un tentativo di riconciliazione. E invece si è trasformata in una lite furibonda in diretta. Il collegamento tra Ilary Blasi e Fabrizio Corona al Grande Fratello Vip si è concluso con una serie di accuse reciproche. «Il veto non è mai esistito», dice Ilary Blasi a Fabrizio Corona in apertura del collegamento, per difendersi subito dalle accuse di aver creato problemi ad un intervento dell'ex re dei paparazzi nella casa. 

«Guarda che non è una scelta intelligente tirare in ballo questa cosa- le risponde lui piccato- Ti rendi conto di quello che mi hai detto in puntata?». Ma lei a quel punto scatta, e replica con veemenza, accusandolo di «quello che è successo tredici anni fa

La rabbia della conduttrice 

«L'hai fatto in un momento in cui io mi dovevo sposare ed ero incinta del mio primo figlio», dice ancora addolorata. Ma quando lui prova a replicare ancora, Ilary è impietosa e lo assale: «Stai facendo la figura del caciottaro-lo accusa, ricordando quando lui la accusava di parlare in tv con un accento romano marcato, da caciottara, appunto-racconti le tue storie, per fare gli scoop prometti ad aspiranti soubrette per fare delle interviste finte chissà che cosa.

Prendila con filosofia, noi siamo andati avanti, sei tu che sei rimasto indietro: tutta Italia ha capito che tu fai gli scoop e li disfai. Io non ci casco. Ti devi prendere la responsabilità di quello che dici, non puoi venire qua e fare lo show. Ciao Fabrizio e buona vita», conclude Ilary chiedendo di chiudere il collegamento. 

Una rivincita per la conduttrice, che si becca l'applauso del pubblico. E una sconfitta per Corona, che già dal confronto con la ex, Silvia Provvedi, era uscito già pesto. Ma su Instagram poco dopo si sfoga: «Ora ti faccio vedere cosa combino».

Franco Bechis per Libero Quotidiano del 23 ottobre 2016

(...) I legali di Sgarbi chiameranno a testimoniare anche il calciatore Francesco Totti e Flavia Vento. Anche loro furono con ruoli diversi sfiorati dall' inchiesta di Potenza, che ipotizzò un ricatto di Corona e della Vento nei confronti di Totti. La show girl avrebbe rilasciato interviste a settimanali scandalistici su un suo presunto flirt con il calciatore, che era alla vigilia del matrimonio con Ilary Blasi, già in stato interessante. 

Corona avrebbe trattato con l' entourage di Totti un compenso di 50 mila euro per non fare pubblicare l' intervista. Ma nel prosieguo del procedimento anche questa accusa sarebbe saltata. La diffusione sulla stampa dell' epoca dell' intera vicenda ha creato però problemi alla vita dei protagonisti, che probabilmente non hanno oggi un affettuoso ricordo di John Woodcock.

Francesco Totti "in fuga" da Ilary Blasi? Dove, come e con chi l'hanno beccato: il caso si complica. Libero Quotidiano il 24 febbraio 2022

Una tranquilla serata "da single" o quasi, per Francesco Totti. Le malelingue ovviamente trionfano in queste ore, nonostante la smentita dell'ex capitano della Roma che ha bollato come "fake news" le voci di crisi coniugale con Ilary Blasi. Il gossip però continua a impazzare, si inseguono le indiscrezioni su presunti flirt dell'uno (Noemi Bocchi, giovane romana conosciuta su un campo di padel) e dell'altra (la Blasi è stata avvistata a cena con l'attore Luca Marinelli). Martedì sera, per spazzare via i pettegolezzi, Ilary ha pubblicato su Instagram un video in cui era a cena, con tutta la famiglia, in un noto ristorante di Roma. 

Ora, sempre su Instagram, ecco Totti a cena, ancora una volta. Ma a Milano e senza la moglie. L'ex Pupone è stato immortalato al Forte, noto marchio versiliano sbarcato sotto la Madonnina, in compagnia dell'amico Lorenzo Tonetti che ha pubblicata una foto sulle sue Instagram Stories. Nel locale lanciato dal giovane imprenditore Andrea Reitano nell'esclusivo palazzo Moscova, a due passi dall'Hotel NH di Porta Nuova, Totti forse cercava un po' di privacy e tranquillità, lontano dai sussurri maligni della Capitale, ma ha trovato ahilui altri riflettori. Anche perché il ristorante è già meta ambita di molti vip, e così a pochi tavoli dal campione del mondo 2006 ecco attovagliati Flavia Pennetta e Fabio Fognini, glorie del tennis azzurro.  

Dopo aver gustato una cena a base di crudo di pesce, scrive Leggo.it, Totti non si è sottratto al caloroso saluto dei due colleghi sportivi, raggiungendoli al loro tavolo e intrattenendosi per qualche chiacchiera serale.

Noemi Bocchi, "l'energumeno che la controllava": Francesco Totti, indiscrezioni da incubo sulla presunta amante. Libero Quotidiano il 24 febbraio 2022

Si sprecano le indiscrezioni su Noemi Bocchi, la presunta nuova fiamma di Francesco Totti. L'ex capitano della Roma ha smentito, martedì sera, le voci di una sua crisi coniugale con Ilary Blasi, ma molti dettagli convincono gli esperti di gossip che la coppia sia effettivamente scoppiata. E di Noemi (avvistata già a fine dicembre all'Olimpico, a poche poltroncine di distanza da Totti) continuano a parlare in tanti. L'ormai ex marito Mario Caucci, imprenditore e romanista sfegatato, le aveva riservato pensieri non proprio dolcissimi ("Se è vero, Totti mi ha salvato") e ora, scrive il Messaggero, salta fuori anche una donna, da Dubai.

La signorina si presenta a sua volta come una ex di Caucci: "Ho convissuto quasi 2 anni con Mario, la storia con Noemi era finita già nel 2017 - sottolinea -. Abbiamo avuto un figlio che lui non ha più visto". Un ménage decisamente affollato, per tutti. E intanto sempre il quotidiano romano pubblica le confidenze di alcune amiche di padel della Bocchi, che giurano che "fino a non molto tempo fa il marito di Noemi mandava un energumeno a controllarla, lei faceva molti misti, forse lui era ancora geloso perché è molto carina". Non a caso, radio-gossip riferisce che Noemi e Totti si siano conosciuti proprio su un campo da padel, nuova grande passione di Francesco da quando ha lasciato il calcio. 

"Non li ho presentati io - mette in chiaro Alessandro Nuccetelli, pr molto noto nella Roma vip ed ex marito di Antonella Mosetti -. Conosco Noemi da quando è una ragazzina, ma non l'ho presentata io a Francesco. Lui conosce tutti. Noemi è una tifosa romanista, poi ci sono le foto che li ritraggono vicini allo stadio, anche se a diverse poltroncine di distanza, ma non li ho fatti incontrare io personalmente". C'era il suo zampino invece nella storia tra Totti e la Blasi: "Vent'anni fa ero nella sala hobby a casa di Francesco - ricorda - stavamo guardando in tv Passa parola e lui mi disse: Quanto mi piace quella letterina, me la sposo. Io conosco Ilary da quando è piccola, era del mio quartiere, Monteverde".

Da leggo.it il 24 febbraio 2022.

Francesco Totti cerca pace. Lontano da Roma, lontano dalla luce dei riflettori di questi giorni, lontano dai flash dei fotografi. L'ex Capitano della Roma infatti, al centro dell'attenzione per la presunta separazione da Ilary Blasi, è stato avvistato a Milano. Ieri sera infatti, probabilmente al termine di alcuni impegni di lavoro, ha scelto di cenare da Forte, uno dei ristoranti più in voga di Miami, che ora è sbarcato a Milano. A conferma anche una stories di Instagram, pubblicata dal suo amico Lorenzo Tonetti.

Totti, che era in compagnia di due amici e di Lorenzo Tonetti, ha gustato un una cena a base di crudo di pesce. Totti, che forse era alla ricerca di una serata riservata, ha invece incontrato anche Flavia Pennetta e Fabio Fognini che stavano cenando qualche tavolo più in là. A fine serata Totti si è intrattenuto con la coppia di tennisti, raggiungendoli al loro tavolo.

Alessia Marani Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 24 febbraio 2022.

Prima i rumors, poi le smentite che, tuttavia, non arrivano così prepotenti a rischiarare il cielo e, infine, il silenzio. Tacciono i social: niente più storie postate dai protagonisti, anzi scompaiono anche alcune foto, come quelle dal profilo di Ilary Blasi, che immortalavano l'amore con Francesco Totti nato ormai vent' anni fa e forse arrivato ai titoli di coda. Un silenzio che sembra parlare per tutte le persone coinvolte, come a dire: «Non dobbiamo aggiungere nient' altro».

Ma sulla saga dei Totti's le persone comuni e i tifosi si appassionano, alcuni persino si disperano. Perché quella coppia - il Pupone e la letterina - ha fatto sognare. Il motivo è semplice: mette insieme la normalità di una famiglia come tante, tre figli, le vacanze a Sabaudia, la spesa al supermercato, e l'eccezionalità del successo, della notorietà travolgente. 

Anche i famosi possono essere come noi e noi, dunque, possiamo essere come loro. Di più, possiamo essere felici come loro, ma poi cosa resta agli altri se la storia finisce? Francesco Totti, sua moglie Ilary Blasi, la presunta nuova compagna, la 34enne Noemi Bocchi, il marito di lei, l'imprenditore delle Cave Mario Caucci: chi viene intercettato risponde che «non è il momento di parlare».

«Ci sono in mezzo gli avvocati e dei bambini, è una situazione grottesca», dirà proprio Caucci prima di prendere posto, ieri, sulla tribuna dello stadio Tre Fontane per assistere al match del Civitavecchia contro il Tivoli calcio, di cui è patron. L'ex moglie (la coppia non è ancora legalmente separata) avrebbe una relazione con il Capitano che, però, ha smentito via social, parlando di Fake news prima di trascorrere una serata in un ristorante della Capitale con la moglie e i tre figli. 

«Devo andare in settimana bianca», diceva Totti martedì sera provando a liberare se stesso e la famiglia dalla folla di fotografi e tifosi che in coro di fronte al ristorante chiedevano un bacio della coppia (mai arrivato). La vacanza a confermare un menage consolidato: tutti a sciare come ogni anno.

L'unico che rompe il silenzio è il pr Alessandro Nuccetelli, l'uomo che secondo Dagospia avrebbe fatto incontrare Noemi Bocchi e Francesco Totti seppure rivendichi solo il ruolo di cupido tra il Capitano e la Blasi. «Non li ho presentati io, conosco Noemi da quando è una ragazzina, ma non l'ho presentata io a Francesco», spiega. Nuccetelli gestisce alcuni locali e organizza delle serate allo stesso tempo trendy e riservate, non si esclude che i due si siano conosciuti ad una sua festa.

«Francesco conosce tutti - prosegue Nuccetelli - Noemi è una tifosa romanista, poi ci sono le foto che li ritraggono vicini allo stadio, anche se a diverse poltroncine di distanza, ma non li ho fatti incontrare io personalmente». Insomma, Alessandro si dice artefice solo della magia tra Ilary e Totti: «Vent' anni fa ero nella sala hobby a casa di Francesco - ricorda il pr - stavamo guardando in tv Passa parola e lui mi disse: Quanto mi piace quella letterina, me la sposo. Io conosco Ilary da quando è piccola, era del mio quartiere, Monteverde». 

Il resto è storia conosciuta fino a quella partita contro la Lazio, il famoso 5 a 1 che farà alzare a Totti la maglia lasciando leggere la scritta sei unica. «Stanno insieme da vent' anni, non ho conosciuto coppie idilliache e loro sono come tutti noi - prosegue Nuccetelli - Dico questo: possono essere terze persone a decidere la fine di un matrimonio?

Ma se lui volesse avere altre relazioni e anche lei ne volesse avere ed entrambi decidessero di continuare a stare insieme, chi è può dire che non deve essere così? Io non giurerei mai su mia figlia che si sono portati rispetto per vent' anni, per quello che vedo e per come va il mondo, loro non sono migliori di altre coppie, vivono con tantissime pressioni, con mille tentazioni però se volessero continuare la loro storia a prescindere credo sia un loro diritto». 

Intanto c'è un altro menage che continua a subire contraccolpi. Da Dubai una donna spiega: «Ho convissuto quasi due anni con Mario Caucci, la storia con Noemi era finita già nel 2017. Abbiamo avuto un figlio che lui non ha più visto». Insomma il gossip si è scatenato. Eppure le amiche del padel giurano che «fino a non molto tempo fa il marito di Noemi mandava un energumeno a controllarla, lei faceva molti misti, forse lui era ancora geloso perché è molto carina».

Giovanna Cavalli per il "Corriere della Sera" il 24 febbraio 2022.

E niente, a quella doppia smentita via Instagram non crede quasi nessuno, anzi i più meticolosi segnalano che marito e moglie nei video non portavano la fede al dito. Non è bastato l'appello contro le false notizie («Lo conosco da quando aveva 13 anni, quello non era Francesco, così cupo, lui che un sorriso non lo nega mai», confida uno storico cronista sportivo) e nemmeno il filmino di una tranquilla cena in famiglia. 

Con chi parli parli, in giro sono tutti convinti che la crisi matrimoniale tra Totti e Ilary Blasi sia reale. E nemmeno tanto recente. E non solo sentimentale. Il sito Dagospia insiste: Noemi Bocchi e il sempiterno Capitano giallorosso si frequenterebbero da mesi. Qualcuno li avrebbe visti scambiarsi effusioni in un ristorante dei Parioli.

Per San Valentino lui le avrebbe inviato 13 rose rosse. A presentarli sarebbe stato il pr e body builder Alex Nuccetelli (ex marito di Antonella Mosetti), lo stesso che venti anni fa fece da Cupido tra la letterina Ilary e il numero 10 della Roma. In effetti Noemi è sua amica su Facebook. E Totti lo segue su Instagram. Questo Nuccetelli poi era nella lista dei prossimi naufraghi all'Isola dei Famosi (condotto da chi? Ma da Ilary), all'ultimo però è stato scartato senza appello. 

E va forte pure il gossip su Luca Marinelli, magnetico protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot e Diabolik (peraltro molto somigliante a Totti, così come Noemi Bocchi sembra un'altra Blasi), con cui la showgirl si sarebbe vista spesso a cena, perché amico della sorella Melory. Se questa di Marinelli è una storia vera non si sa. A turbare la quiete domestica di casa Totti-Blasi sarebbero anche questioni economiche.

Ormai la fruttuosa gestione del patrimonio e della preziosa immagine del Campione nel mondo (secondo il sito Qui Finanza solo da calciatore avrebbe incassato oltre ottantaquattro milioni di euro netti) è passata sempre più nelle mani delle sorelle di Ilary, Silvia e Melory, e dei rispettivi mariti, che avrebbero messo da parte Vito Scala, ex preparatore atletico, grande amico e fidato tuttofare di Francesco. Un'ingerenza a cui l'interessato sarebbe insofferente.

Ma non c'è granché che possa fare, visto che molte quote e attività sono intestate alla moglie. Oltre che una coppia, Totti e Blasi sono un'azienda milionaria. Separarsi sarebbe complicato, costoso e sconsigliabile. Una sofferenza da ogni punto di vista. Ed è anche per questo, oltre che per amore degli adorati figli Cristian, Chanel e Isabel, che Francesco e Ilary, se mai c'è stata rottura, cercheranno di restare insieme. 

Daniele Autieri per "la Repubblica - Edizione Roma" il 24 febbraio 2022. 

Non saranno come il patron di Amazon Jeff Bezos e l'ex-moglie MacKenzie, che hanno chiuso la " cosa" con un accordo da 38 milioni di dollari, né come Bill e Melinda Gates che si sono detti addio senza far trapelare i termini di un benservito che vale una proporzione del patrimonio da 200 miliardi di dollari che la coppia ha accumulato negli anni, ma la rottura tra Francesco Totti e Ilary Blasi - oltre al sogno infranto del re di Roma e della sua regina - fa saltare il banco di una coppia di ferro anche dal punto di vista finanziario, capace nel corso dei 16 anni di matrimonio di costruire un piccolo impero economico.

Pochi mesi dopo il 19 giugno del 2005, quando il "pupone" di Roma e la " letterina" hanno sceso le scale dell'Aracoeli, lui in tight lei in abito bianco, la Totti e Ilary era già una spa, una società per azioni mossa non dai colpi di genio del campione, ma dall'abilità di entrambi nel reinvestire i guadagni sportivi e televisivi. 

Nel 2007 i due sono infatti soci della Never Without You srl, un marchio d'abbigliamento promosso insieme ad altri calciatori, mentre il Capitano fonda prima la Numberten, che gestisce i suoi diritti d'immagine e dove detiene la partecipazione di maggioranza, quindi controlla altre due società, la Longarina srl e la Immobiliare Dieci, entrambe attive nel settore immobiliare.

Negli anni la rete di società cresce e sotto la capogruppo Numberten nascono una serie di piccole srl ( la Ft 10, la Immobiliare Acilia, la Immobiliare Ten) che lavorano nella compravendita immobiliare e danno risultati variabili, da ricavi di 1 milione di euro a qualche piccola perdita. Per la coppia d'oro gli affari non vanno sempre a gonfie vele. 

Nel 2017 viene messa in liquidazione la Never without You, la società con cui erano partiti insieme dieci anni prima. Il sogno di creare un marchio popolare, capace di entrare nel business «del commercio all'ingrosso e al minuto» ( come si legge nella ragione sociale dell'azienda) non si realizza, ma questo non intacca la carriera imprenditoriale della coppia. Nonostante i tanti investimenti, la forza economica dei due rimane quella della loro immagine e della loro professione: Totti il campione e Ilary la showgirl che arriva a condurre "Le Iene" e il "Grande Fratello". Sono quindi le sponsorizzazioni e i super ingaggi, ancor più delle iniziative imprenditoriali, a far esplodere il giro d'affari della coppia che oggi è difficilmente quantificabile. 

Ci ha provato qualche mese fa il sito Money. it che ha analizzato i guadagni di Totti nelle sue venticinque stagioni da professionista, arrivando a quantificare come soli introiti della carriera calcistica 84 milioni di euro netti. Ilary Blasi, considerata ormai una star della televisione, viaggia comunque a ritmi elevati: secondo il settimanale Oggi il cachet della presentatrice per la conduzione dell'Isola dei Famosi si è aggirato sui 50mila euro a puntata. Una cifra che va messa in asse con le tante conduzioni di successo della Blasi, dal Grande Fratello Vip a Zelig. Calcoli mai confermati dalla showgirl che rimane comunque una delle conduttrici più pagate d'Italia. 

Al suo fianco, Francesco ha continuato a galleggiare nel suo brodo: il mondo del calcio che lo ha sempre trattato come un re. Oggi, oltre alla Numberten e alla Longarina, Totti risulta socio e amministratore della Vetulonia srl, ancora una volta votata all'immobiliare, ma soprattutto della IT Scouting, la società che ha costituito per avviare la sua nuova carriera di scopritore di talenti. Dopo tanti anni insieme anche le vie della Totti e Ilary spa sembrano allontanarsi, e qualcuno si chiede se il re e la regina stiano già trattando su come dividersi il regno. 

Totti e Blasi, l'amore che vorremmo noi (e magari loro non più). Natalia Aspesi su La Repubblica il 23 Febbraio 2022.

Tutti li adorano e li vogliono insieme, ma il Capitano e la presentatrice non sono più quelli di vent'anni fa. La loro famiglia è un esempio di come le cose dovrebbero essere ma non sono.

Non vorrei in questo momento essere la signora Noemi, la cattiva di turno, che come capita spesso, proprio nel momento del trionfo si sente dire “Scusa, mi sono sbagliato, non ci avevo pensato prima ma io devo proteggere i miei piccini”. Fosse solo una questione di corna, le corna potrebbero continuare indisturbate senza per questo far singhiozzare Cristian, Chanel e Isabel, né mettere in lutto stretto una intera città, Roma, e forse l’Italia tutta, il mondo non so, magari è distratto dall’Ucraina.

Ilary Blasi e Francesco Totti, "l'inesausta volontà di lei": cosa c'è davvero dietro la crisi di coppia. Libero Quotidiano il 23 febbraio 2022.

Il Capitano e la Regina, la favola di Francesco Totti e Ilary Blasi "è finita". Repubblica non crede granché alle smentite incrociate dell'ex bandiera della Roma e della conduttrice di Mediaset, con una manciata di Instagram Stories direttamente da un noto ristorante della Capitale. "Nonostante il sussurro che l'ha preceduta, la fine sorprende - nota Gabriele Romagnoli con la sua consueta bella penna -, perché la coppia, anche nel mondo a cui appartiene, aveva una sua eccezionalità". 

Innanzitutto, il ruolo decisamente ultra-mediatico della Blasi, partner in prima fila esattamente come il famosissimo e celebratissimo marito. "Era una 'regina del popolo', più popolare che regale. Una Evita descamisada". Amati anche perché riducevano "la distanza che, in termini non soltanto economici, li separava dalla gente". Due figli di Roma, "venivano dalla pancia" della Città eterna e a quella continuavano a parlare, senza divismi. Erano protagonisti di una sorta di "sit-com di famiglia che faceva eco alla più indissolubile delle coppie: i Vianello".

Sedici anni da sposati "sono un bel pezzo di strada in un mondo che accende segnali per favorire le deviazioni", prosegue la firma di Repubblica. "Un lungo rettilineo, poi il bivio dopo che troppo era cambiato. Sanno loro quanto abbia influito la noia di lui, l'inesausta volontà di lei. E di che cosa andranno ora in cerca: della diversità o della replica aggiornata". E il fatto che Noemi Bocchi, la presunta nuova fiamma di Totti, secondo molti assomigli in maniera quasi inquietante alla Blasi sarebbe già un primo inequivocabile segnale.

Dagospia: Totti, c'è un Cupido in comune con Ilary. Il commento della mamma del Pupone non lascia dubbi. Giada Oricchio su Libero Quotidiano il 23 febbraio 2022.

“La mamma sarà contenta”. Francesco Totti ha smentito, Ilary Blasi pure: non c’è crisi dopo 17 anni di matrimonio. O forse sì, ma è stata una buriana ed è passata. Fatto sta che “Dagospia” (e non solo) torna alla carica, almeno per quanto riguarda la conoscenza dell’ex capitano della Roma e Noemi Bocchi. Dopo lo scoop su una rottura imminente, il sito racconta anche chi, come e dove Totti e Noemi si sono conosciuti. La bionda 33enne, due figli e in attesa di separazione, somiglia a Ilary Blasi e nemesi vorrebbe che a presentarla al “Pupone” sia stato lo stesso Cupido di 17 anni fa, alias Alex Nuccetelli.

Vi ricorda qualcuno? Ebbene sì, è stato il marito di Antonella Mosetti, prezzemolina tv, ex GFVip, ora star di OnlyFans. Dagospia scrive in punta di fiele: “Le strade dell'amore sono infinite ma hanno snodi precisi, che passano attraverso quei Cupido occasionali (o professionali) che mettono in contatto anime, cuori e coratelle. O più prosaicamente creano un ponte tra domanda e offerta. E' il caso di Alex Nuccetelli, ex compagno di Antonella Mosetti e padre della ex gieffina Asia. Classe 1977, è un Pr e body builder molto attivo nella vita notturna romana. (…). Uno con le mani in pasta dappertutto, che organizza feste, eventi, cene a cui partecipavano (e partecipano anche oggi) i calciatori della Roma (destinazione preferita il ristorante "Le Gru" a Ponte Milvio). Fu lui, ad esempio, a presentare Ilary Blasi a Francesco Totti nel lontano 2001”. Corsi e ricorsi storici, vecchie abitudini dure a morire. Dunque, l’impertinente Dagospia è convinto che Nuccetelli abbia messo in contatto l’ex calciatore con Noemi Bocchi “attraverso uno dei suoi eventi, quelli in cui calciatori e vip possono  chiacchierare amabilmente con attrici, modelle, bonazze varie.

Così va il mondo: si scambiano due parole, e tra una tartina al salmone e un congiuntivo sbilenco, da cosa può nascere cosa”. Ora, il sito fondato da Roberto D’Agostino (colui che ha avuto il coraggio di annunciare l’inesistenza di Mark Caltagirone nel Prati-gate e la fine della storia Hunziker-Trussardi, nda) aggiunge un altro tassello: “La fiamma s'accesa da tempo. "Da più di un anno", dicono le malelingue. Al punto che il giorno di San Valentino, Francesco Totti avrebbe fatto consegnare alla biondissima Noemi un mazzo di tredici rose rosse, una per ogni mese della loro conoscenza”.

Totti sarebbe un romanticone, la di lui madre invece starebbe facendo salti di gioia: “I veleni romani inzuppano la lingua biforcuta nella crisi coniugale di Totti e Ilary: "Sarà contenta la madre del Capitano, mamma Fiorella, visto che ha sempre detestato la Blasi. Quando si fidanzarono non fu per niente contenta. Gli disse: 'Te metti co' 'na ballerina, mah'…E' andata bene anche a Ilary - insistono gli "addetti ai livori" - si è liberata del "cerchio magico" di amici e tuttofare che gravita intorno a Totti (con l'ex compagno di squadra Vincent Candela, in testa) che lei non sopportava più. Non amava per niente "le loro abitudini…”. Incredibile ma vero: potrebbe esserci l’happy end, il “vissero tutti e cinquantamila felici e contenti”.

Fake fregnacce. Lo vedo solo io che il Novecento sopravvive nella pazienza dell’amante (presunta) di Totti? Guia Soncini su Linkiesta il 24 Febbraio 2022.

Il matrimonio del Pupone e dell’ex Letterina, addirittura trasmesso in televisione, sembra un reperto del secolo scorso se messo a confronto con le nozze instagrammate dei Ferragnez. Ma crisi o non crisi qualcosa di quegli anni sopravvive ancora e dà speranza

Sul mercato del prosciutto, quant’è quotata una voce di separazione su Instagram? Il 12 gennaio, quando nelle loro storie è comparsa una foto di mani unite su cuscini del letto, una smentita muta dopo giorni di illazioni e piccole signore in giallo che notavano la mancanza della fede al dito di lui, Chiara Ferragni ha guadagnato 6418 follower: meno del giorno prima, meno della metà del giorno dopo (le storie smettono d’essere visibili dopo un giorno); suo marito ne ha guadagnati 1562: in montagna, nella vacanza che avrebbe causato la crisi, ne acquisiva ogni giorno cinque volte tanti.

L’altroieri, Ilary Blasi ha messo nelle storie un video di lei a tavola col marito e i bambini, con tag al ristoratore (nella cui pagina, dopo la foto con gli ancora coniugi, ce n’è una con Conte – il segnaposto, no il cantante); il suo ancora marito, Francesco Totti, ha messo nelle storie quattro video in cui, con l’aria serena di Bellini e Cocciolone, diceva d’essere stufo di smentire «fake news» (in romano antico: fregnacce). Quel giorno i follower di Ilary Blasi sono aumentati di 31360, quelli del suo ancora marito di 31126.

Se c’è una cosa che ci ha insegnato la pandemia, è che niente è meno oggettivo dei numeri. Da quelli che vi ho appena trascritto possiamo, a seconda della disposizione d’animo, dedurre: che gli italiani sono più interessati al matrimonio Blasi che a quello Ferragni; che tra Ilary e il marito ci sia più equilibrio numerico che tra Chiara e il marito; che la vita dei Ferragni sia meno incarnata nel loro matrimonio di quanto lo sia quella di Ilary e Francesco (e questo nonostante Chiara e il marito abbiano messo in onda un documentario di coppia, mentre il marito di Ilary il documentario se l’è fatto da solo); che i documentari bisogna sbrigarsi a farli prima che crolli tutto; che a non smentire non è rimasta neanche la regina d’Inghilterra, figuriamoci le celebrità locali; che è finito il Novecento.

Io dei Totti non volevo occuparmi. Non avevo – non ho – niente da dire: non ho mai seguito lo sport cui gioca lui, né i programmi che conduce lei. L’unica ragione per cui li tenevo presenti era che mi pareva rappresentassero, appunto, la fine del Novecento: la cerimonia di nozze in diretta televisiva invece che frammentata in storie Instagram da quindici secondi.

Era il 2005, le nozze del calciatore e di quella che per tutta la vita sarà «l’ex Letterina» (puoi condurre tutti i Grande Fratello del mondo senza che ce li ricordiamo quanto gli stacchetti di Passaparola) le trasmise Sky. Ieri vi ho ricopiato Chuck Klosterman sulla durata dei decenni che ha a che vedere con la percezione culturale e non col calendario: il Novecento, un secolo che si è svolto in tv, è finito nel 2005.

Quando, nel 2018, si sono sposati i Ferragni, non conosco nessuno che non abbia passato la giornata a cliccare «segui» sugli Instagram di tizi che non sapevamo chi fossero ma erano lì, col loro prezioso telefono e un pacchetto dati benedettamente gratuito, a farci i filmini degli sposi emozionati, del bambino biondo, della suocera tatuata, delle decorazioni identiche a tutte le altre decorazioni di banchetti di nozze che da allora in poi abbiamo visto precise identiche in ogni matrimonio instagrammatico. Nel 2018 la televisione era già morta, lunga vita alla televisione.

Adesso, però, i giornali si buttano sulla vociferata crisi tra i coniugi Blasi con la brama di chi dice «di questi sì che possiamo occuparci a tutta pagina, questi hanno un mestiere, a questi sappiamo cosa scrivere nelle didascalie». Sottinteso: mica come i Ferragni. Sottinteso: questi sono del nostro mondo (quello delle edicole e dei maniscalchi: che nostalgia).

Avendo Ilary instagrammato una linguaccia in un autoscatto su Frecciarossa (stava sempre nelle storie, se ve la siete persa ormai è andata, come nel Novecento quando i programmi televisivi andavano guardati mentr’erano in onda), i segugi della notizia hanno addirittura scovato una foto analoga del personaggio più interessante di questa soap, tale Noemi Bocchi (non mi lamenterò mai più di quanto alle medie fosse impegnativo chiamarsi «Guia»).

Non so se sia vero che la signora Bocchi ha una relazione clandestina con Francesco Totti, ma dell’ampia copertura a lei fornita dai giornali mi sembrano notevoli due dettagli.

Uno è il lessico del marito (ovviamente anche lei ne ha uno, separando), che al Messaggero si dice «sgomento», e precisa che «il suo agire disinvolto non mi stupisce»: se avete mai sentito parlare Totti, converrete che la signora è discontinua nella tipologia di uomini con cui conversare.

L’altra è la foto che tutti i giornali pubblicano a presunta riprova della relazione. Totti seduto in tribuna allo stadio che saluta la folla; e lei, due file più indietro, che gli guarda il profilo (quello del volto, no quello Instagram). Quindi, nel ventunesimo secolo, ci sono ancora donne che pur di dividere uno spazio pubblico con l’amante sono disposte a sedersi in disparte e ad aspettarlo devote, a scrutargli amorevoli un orecchio finché qualcuno non svelerà la loro presenza ai giornali. Quindi, forse c’è una sola ragione per sperare che questa faccenda sia vera, ed è la possibilità di trarne una flebile speranza: almeno nel ruolo dell’amante che pazienta a lungo, il Novecento non è finito.

DAGONOTA il 23 febbraio 2022.

Oddio, occorre tornare ai tempi d’oro della cronaca rosa con i paparazzi all’assalto della coppia proibita Fausto Coppi con la Dama Bianca e gli amori romani della principessa Soraya o le scappatelle di Gianni Agnelli con Anitona Ekberg, per ritrovare il gran bordello infiammato da due celebrità, Ilary Blasi e Francesco Totti, che combinano insieme il massimo di popolarità: Sport e Tv. 

E in tempi di separazioni via web o attraverso dispacci di agenzia che, a dispetto del passato, mettevano burocraticamente fine ai loro matrimoni, lo scoop di questo disgraziato sito sulla storia agli sgoccioli dell’ottavo Re di Roma e della Pupona sembra infrangere quel tabu dell’intoccabilità che i giornali-sandwich (Marchette&Pubblicità) riservano solitamente ai morti di fama.

Per non dire della Rai che costringe a farci pagare un canone per la passerella dei Morti di Fama. Qui dilagano le ospitate degli artisti che non raccolgono soldi al cinema o in teatro nonostante gli applausi (finti) che ricevono nei vari (e avariati) studi di via Teulada. 

Come a dire? Un occhio benevolo per tutti i nostri clienti salvaguardati dagli uffici del marketing e dalle potenti società di comunicazione. E se Dagospia scoperchia l’imbroglio di un sistema dei media incapace di stare sulla notizia già al collasso, la rincorsa allo scoop della coppia scoppiata Blasi&Totti assume nelle redazioni toni ridicoli e patetici. 

Primo, tentare di ridimensionare i fatti e la verità. Secondo, far osservare ai lettori che da tempo si vociferava della crisi tra la soubrette e l’ex capitano della Roma. 

Terzo, noi siamo una testata seria, mica un sito pettegolo. Quinto, giocarsi la carta del baro con la direzione: Dagospia è un sito di tette e culi. Ma di osceno c’è solo un sistema dei media senza principi etici e professionali. Ammoniva Leo Longanesi: “Chi si dà un padrone è nato per servire”. 

Valentina Lupia per “la Repubblica” il 27 Febbraio 2022.  

Un aereo dedicato e intitolato a Francesco Totti. Dopo la bufera mediatica legata alle voci di una presunta rottura con la moglie Ilary Blasi, arriva l'omaggio al "Pupone" della Ita Airways.

La compagnia aerea ha infatti deciso di riservare un Airbus 330 all'ex capitano dell'As Roma, icona del calcio, amatissimo non solo in Italia ma in tutto il mondo. L'iniziativa fa parte di « Naming Azzurri», progetto che porta i campioni italiani tra i cieli di tutto il mondo. 

Da dicembre dello scorso anno Ita Airways ha introdotto nella sua flotta degli aerei con la nuova livrea azzurra, dedicandoli ai più grandi sportivi della penisola, «ambasciatori nel mondo della determinazione, forza, passione e grinta, elementi che da sempre hanno portato in alto la bandiera del nostro Paese » , commentano dalla compagnia aerea.

E così l'A330 in onore dell'ex numero 10 giallorosso è il settimo aereo dedicato ad un big dello sport mondiale, dopo i due A319 intitolati a Gino Bartali e Pietro Mennea, i tre A320 a Paolo Rossi, Pietro Mennea e Sara Simeoni e l'A330 in onore di Tazio Nuvolari. Nomi, questi, scelti anche col supporto degli utenti dei social network grazie a sondaggi lanciati sui canali della compagnia (e su quelli de La Gazzetta dello Sport, partner dell'iniziativa). 

Tra i più gettonati, appunto, quello di Totti, idolo dei romanisti ma considerato dal resto del mondo uno dei migliori giocatori italiani di tutti i tempi. Dal 1998 al 2017 è rimasto capitano della " maggica", con due " g" come da pronuncia dei tifosi. Ora Ita Airways gli intitola un aereo.

«Il 15 ottobre 2021 quando abbiamo dato l'avvio alle nostre operazione di volo abbiamo presentato la nuova livrea con un rendering, oggi vederla volare nei cieli ci dà la misura del lavoro svolto - commenta Giovanni Perosino, chief marketing officer di Ita Airways - La nostra livrea è nata azzurra, il colore che simboleggia da sempre le nazionali sportive Italiane, e quali ambasciatori migliori se non i grandi campioni italiani per testimoniarlo nel mondo?» si chiede. 

Fabiano Minacci per biccy.it il 27 Febbraio 2022.  

Francesco Totti è stato fra i protagonisti della sesta puntata di C’è Posta Per Te, chiamato da Noemi come regalo ai suoi genitori, grandi tifosi della Roma. 

La ragazza ha usato l’ex Capitano per “chiedere scusa al padre ed alla madre per non essere stata una figlia perfetta”.

Secondo quanto raccontato da Noemi, infatti, a 16 anni è rimasta incinta di un ragazzo che i suoi genitori non hanno mai ben visto. “Siete i genitori migliori del mondo e vi ammiro tanto. 

Non avete avuto una vita facile, ma, nonostante ciò, non mi avete mai lasciata e soprattutto non mi avete mai giudicata“. Lo stesso Francesco Totti, una volta entrato in studio, ha riservato belle parola ai due signori. 

“Trovare genitori come voi non è facile“.

La registrazione della sorpresa con Francesco Totti è stata presumibilmente realizzata la scorsa estate, quando i sospetti di una rottura fra lui ed Ilary Blasi erano assai lontani. 

Alla luce dei recenti sviluppi però la conduttrice de L’Isola dei Famosi ha voluto mostrare di nuovo ai fan che fra lei e Totti non c’è nessun aria di crisi. 

Ieri sera, infatti, ha pubblicato una storia su Instagram in cui guarda l’ospitata del marito a C’è Posta Per Te.

«Totti-Blasi, un pranzo allontana la rottura. La crisi? Sarebbe nata anche perché lui voleva un figlio e lei no». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022. «Chi» pubblica delle foto in cui i due sembrano aver ritrovato l’armonia perduta. Ma, secondo Oggi, le ragioni della freddezza sarebbero molto profonde. Sembrerebbe tornata l’armonia tra Ilary Blasi e Francesco Totti, il settimanale Chi li ha sorpresi insieme in un ristorante romano a pranzo e ha pubblicato delle foto esclusive: “Insieme. Uniti. Sereni. Sono queste le prime parole che vengono in mente nel rivedere Francesco Totti e Ilary Blasi a pranzo durante una tranquilla domenica in famiglia come tante altre”. Le foto pubblicate certificherebbero il ritorno dei due alla serenità, dopo le voci sulla rottura.

La ricostruzione di Oggi

Ma a dar retta invece alla ricostruzione di Oggi nell’ultimo numero in edicola, fra Ilary Blasi e Francesco Totti le ragioni della crisi sarebbero state profonde. «Di sicuro le ragioni della rottura, se rottura ci sarà, sono più profonde - si legge sul settimanale ancora in edicola - . Lei avrebbe voluto girare una sitcom sulla loro routine familiare, lui avrebbe tentennato fino a far morire il progetto. Il clan dei Blasi avrebbe preso troppo “campo” nel centro sportivo dei Totti alla Longarina, vicino Ostia». Insieme da vent’anni e sposati da diciassette, Totti e la Blasi hanno tre figli - Christian, Chanel e Isabel - e proprio la questione figli sarebbe stata un altro elemento di discussione fra i due. «Francesco avrebbe voluto aggiungere un figlio, preferibilmente un maschietto, alla contabilità familiare - riporta infatti l’articolo di “Oggi” - e lei si sarebbe opposta per ragioni di carriera».

Totti e Ilary, divorzio o crisi risolta? “Ecco come stanno davvero le cose”. Alice Coppa il 04/03/2022 su Notizie.it. 

I retroscena dietro la presunta crisi tra Ilary Blasi e Francesco Totti. Tutto quello che c'è da sapere. 

Crisi risolta per Ilary Blasi e Francesco Totti? Le indiscrezioni sono diventate sempre più insistenti e continuano a moltiplicarsi nonostante le smentite dei due diretti interessati.

Ilary Blasi e Francesco Totti: la crisi

Le voci di una crisi hanno travolto Ilary Blasi e Francesco Totti che, attraverso i social, hanno cercato di placarle mostrandosi di nuovo insieme.

Nei giorni successivi le indiscrezioni non si sono fermate e c’è chi ipotizza che la crisi tra i due sia stata causata da problemi ben precisi:“lei avrebbe voluto girare una sitcom sulla loro routine familiare, lui avrebbe tentennato fino a far morire il progetto; il clan dei Blasi avrebbe preso troppo ‘campo’ nel centro sportivo dei Totti alla Longarina, vicino Ostia. Soprattutto Francesco avrebbe voluto aggiungere un figlio, preferibilmente un maschietto, alla contabilità familiare e lei si sarebbe opposta per ragioni di carriera”, si legge ad esempio sul settimanale Oggi.

Dunque, secondo le indiscrezioni, Noemi Bocchi – la donna a cui è stata attribuita una liaison con l’ex Capitano – c’entrerebbe poco o nulla nella presunta crisi tra i due vip.

Ilary Blasi e Totti: le smentite

Quando il rumor sulla presunta crisi è diventato sempre più insistente, Francesco Totti lo ha smentito con un video sui social in cui ha affermato:

“Nelle ultime ore ho letto sui media tante cose su di me e soprattutto sulla mia famiglia.

Non è la prima volta che mi succede di sentire queste fake news”, ha dichiarato, e ancora: “Mi rivolgo a tutti voi che scrivete queste cose. Fate attenzione, perché di mezzo ci sono i bambini e i bambini vanno rispettati. E sinceramente mi sono veramente stancato di dover smentire”.

Ilary Blasi e Francesco Totti? "Noemi non c'entra, quelle voci pesantissime sul figlio": uno choc, "le vere ragioni della crisi". Libero Quotidiano il 02 marzo 2022.

Nonostante Ilary Blasi e Francesco Totti siano stati immortalati ancora assieme, molti sono pronti a scommettere che la presunta crisi non sia del tutto passata. Anzi, le motivazioni sarebbero ben più profonde. Stando a quanto rivelato dal settimanale Oggi, "lei avrebbe voluto girare una sitcom sulla loro routine familiare, lui avrebbe tentennato fino a far morire il progetto; il clan dei Blasi avrebbe preso troppo 'campo' nel centro sportivo dei Totti alla Longarina, vicino Ostia. Soprattutto Francesco avrebbe voluto aggiungere un figlio, preferibilmente un maschietto, alla contabilità familiare e lei si sarebbe opposta per ragioni di carriera".  

Insomma, il presunto allontanamento non avrebbe nulla a che fare con Noemi Bocchi, la donna che da giorni viene etichettata come la nuova fiamma dell'ex capitano della Roma. E come lei non c'entrerebbe un eventuale tradimento della conduttrice nei confronti del calciatore. A ostacolare, se la separazione fosse vera, la coppia più famosa del mondo del calcio anche il distacco dalla Roma.

"L'ex fuoriclasse - si legge - l’avrebbe voluto più morbido (e sono in molti a scommettere che un Totti “deblasizzato” tornerà in società). E anche se viene segnalato un tentativo di ricucire, per qualcuno siamo già alla fase delle carte bollate e degli studi legali. Fosse vero, ci sarà una battaglia: non sui figli, che entrambi amano troppo per coinvolgerli in una faida giudiziaria, ma sui soldi". Secondo il magazine infatti c'è un patrimonio da spartire visto che la Blasi ha sempre rivendicato una certa autonomia.

ILARY BLASI ALL'ANSA, IL MIO MATRIMONIO CON TOTTI È FINITO

(ANSA l'11 luglio 2022) - "Dopo vent'anni insieme e tre splendidi figli, il mio matrimonio con Francesco è terminato. Il percorso della separazione rimarrà comunque un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia. Invito tutti a evitare speculazioni e, soprattutto, a rispettare la riservatezza della mia famiglia". Così Ilary Blasi annuncia all'ANSA la separazione da Francesco Totti, in una dichiarazione diffusa dalla sua agente. 

TOTTI ALL'ANSA, SEPARAZIONE DA ILARY DOLORE INEVITABILE

(ANSA l'11 luglio 2022) "Ho tentato di superare la crisi del mio matrimonio, ma oggi capisco che la scelta della separazione, pur dolorosa, non è evitabile": così Francesco Totti annuncia all'ANSA la separazione da Ilary Blasi, con la quale è sposato da 17 anni. "Tutto quello che ho detto e fatto negli ultimi mesi è stato detto e fatto per proteggere i nostri figli, che saranno sempre la priorità assoluta della mia vita. Continuerò a essere vicino a Ilary nella crescita dei nostri tre meravigliosi figli, sempre nel rispetto di mia moglie. Confido - conclude Totti - nel massimo rispetto della nostra privacy, soprattutto per la serenità dei nostri figli". 

Anticipazione da Chi l'11 luglio 2022

Mentre Totti e Ilary Blasi ufficializzano la loro separazione consensuale, il settimanale Chi pubblica nel numero in edicola da mercoledì le immagini esclusive che confermano il legame fra Francesco Totti e Noemi Bocchi. 

Due giorni prima dell'annuncio, infatti, Totti è stato a casa di Noemi dalle 20 e 30 alle 2 e 30 di notte, accompagnato da un amico a bordo di una Smart. Il Capitano si è recato a casa della donna, lasciando la propria auto in un parcheggio e facendosi portare dall'amico. E poi, sempre insieme con lui è tornato a riprendere la propria macchina a notte fonda.

Le voci sulla crisi della coppia Totti-Blasi si susseguono dall'inizio dell'anno e si è parlato di nuove relazioni da entrambe le parti, anche se sempre smentite per proteggere la famiglia. Totti e Noemi sono stati visti più volte al ristorante Isola del pescatore a Santa Severa. Poi allo stadio. E ancora a Monte Carlo e a Tirana insieme.

Il settimanale Chi ricostruisce in modo dettagliato la separazione tra Totti e Ilary Blasi. Tutto sarebbe partito quando il Capitano ha letto alcuni messaggi compromettenti sul telefono della moglie. Si vocifera di una relazione con un aitante giovane per il quale la Blasi avrebbe letteralmente perso la testa e che avrebbe frequentato lontano dai riflettori durante le sue trasferte milanesi per condurre “L'isola dei famosi”. Così quando Totti ha smentito la crisi, la rottura era già in atto, ma il numero uno della Roma ha cercato di fare il possibile fino all'ultimo per proteggere i figli.

Giada Oricchio per Il Tempo del 23 febbraio 2022

Francesco Totti e Ilary Blasi smentiscono le voci di una presunta crisi matrimoniale con tanto di terzi incomodi, ma Dagospia, il sito dello scoop, replica. Ieri pomeriggio, Francesco Totti, felpa con codice fiscale, volto tirato e afflitto, “da prigioniero di guerra”, ha invocato (o “mandato un avviso ai naviganti”) rispetto per i tre figli minori e liquidato come “fake news” le indiscrezioni in una serie di storie Instagram ripostate dalla moglie.  

“Nelle ultime ore ho letto sui media tante cose su di me e soprattutto sulla mia famiglia – ha detto l’ex Capitano della Roma -. Non è la prima volta che mi succede di sentire queste fake news. Mi rivolgo a tutti voi che scrivete queste cose di fare attenzione perché di mezzo ci sono dei bambini. E i bambini vanno rispettati. E sinceramente mi sono veramente stancato di dover smentire.  Poi è andato a cena con Ilary e i bambini, si sono lasciati paparazzare da una siepe di fotografi, hanno bofonchiato che non è vero niente e si sono dileguati nella secca e frizzante notte romana.

Ma Dagospia non ci sta e rilancia: “Totti ha smentito in un video (peccato che non smentisca un bel niente). L’ex capitano della Roma si limita a suggerire ai media di 'fare attenzione' (che è, una minaccia?), perché di mezzo ci sono dei bambini, e 'i bambini vanno rispettati'. Nessun riferimento al suo grande amore per Ilary, né alla nuova fiamma, Noemi Bocchi (l’ipotetica fiamma secondo alcuni quotidiani, nda)”.

Il sito fondato da Roberto D’Agostino si è concesso una coda velenosa: “Consigliamo al Pupone di cambiare social media manager, vista la qualità delle inquadrature delle stories. E visto che c’è, magari può trovare anche uno "stylist" che gli suggerisca di indossare qualcosa di meglio della tamarrissima felpa con il codice fiscale stampato sopra. Magari anche la moglie gradirebbe...”.  

Intanto il video non ha calmato le acque, anzi. Dopo lui, lei, l’altra, sarebbe spuntato anche l’altro “un attore molto somigliante a Totti” scrivono diverse testate giornalistiche. 

Ida Di Grazia per leggo.it l'11 luglio 2022.

Francesco Totti e Ilary Blasi si separano: ecco tutto quello che sappiamo. Torna il "problema" Noemi Bocchi. I rumors dei mesi scorsi ora trovano conferma, una delle coppie più amate con un comunicato congiunto, annuncia l'addio dopo diciassette anni di matrimonio. Era 19 giugno del 2005. 

La bomba è esplosa lo scorso febbraio quando Dagospia parlò della crisi tra Francesco Totti e Ilary Blasi e per la prima volta compare il nome di Noemi Bocchi, la presunta fiamma del "Pupone" che avrebbe fatto crollare il castello d'amore. In serata sempre secondo il sito di Roberto D'Agostino verrà pubblicato un comunicato congiunto che ufficializza la separazione dopo quasì vent'anni.

Classe 1988, Noemi Bocchi ha due figli avuti da un precedente matrimonio, laureata in economia aziendale alla Lumsa e designer floreale. L'ex marito è dirigente di una delle compagini giovanili Tivoli.  

A far scoccare la scintilla tra Noemi e l'ex capitano della Roma il padel.  Una grande passione di Totti. Sempre secondo i rumors circolati in quei giorni, intorno a Natale, quando l'ex numero dieci aveva avuto un incidente in macchina, Noemi era fuggita di corsa da un locale per stargli accanto.  

E non finisce qui, perché la Bocchi viene paparazzata allo Stadio qualche fila più su rispetto a Francesco Totti. Più precisamente il 4 dicembre 2021 nel match di serie A Roma - l’Inter, Noemi era seduta tra il pubblico, dietro al Capitano, tornato dopo due anni allo stadio a vedere la sua Roma.  

L'assenza poi di Ilary Blasi alla festa dei 45 anni di Totti, e il fatto che alcuni tifosi abbiamo "pizzicato" il loro idolo in compagnia della nuova presunta fiamma in un ristorante di Via Amsterdam ha acceso i fari sulla crisi. Si dice inoltre che nello stesso periodo l’ex calciatore si sia spostato nell’altra casa di Casal Palocco.

Subito dopo lo scoop di Dagospia e le foto di Noemi Bocchi pubblicate da tantissimi quotidiani, arriva la smentita via social da parte di Francesco Totti, che nella stessa serata si fa paparazzare a cena con tutta la famiglia: «Sono stanco di smentire certe cose su di me e la mia famiglia, dico solo che dovete stare attenti a parlare di queste cose perché ci sono di mezzo i bambini. E i bambini vanno sempre tutelati. Sono fake news». ridendo, al coro degli stessi fotografi che chiedevano un bacio con Ilary: «Sono venti anni che ci baciamo». 

Qualche mese dopo parla anche la Blasi in un'intervista a Verissimo dalla sua amica Silvia Toffanin in cui smentisce categoricamente ogni voce di crisi: «La cosa vergognosa è che alcuni quotidiani nazionali hanno dato la notizia come se fosse certa e hanno fatto una figuraccia. - poi a proposito dei figli - Ormai sono grandi e ci hanno chiesto spiegazioni, penso si siano anche vergognati, abbiamo spiegato loro che purtroppo ciclicamente siamo oggetto di questi attacchi. 

Quella foto è stata una conferma che fosse qualcosa di costruito. Perché fare una foto così? Vuol dire tutto e vuol dire niente. E se davvero come hanno scritto è un tradimento che dura da mesi allora perché c'è solo quella foto che alla fine non dice nulla, è lo scatto di due persone in uno stesso stadio insieme a tante altre persone». 

Dopo le secche smentite da parte di Francesco Totti e Ilary Blasi sulla presunta crisi arriva però un'intervista "sibillina" alla conduttrice dell'Isola dei Famosi.   

«Quando Francesco ha smesso di giocare - racconta la Blasi al magazine "F" - bisognava metabolizzare. Ho deciso di non lavorare per due anni per stargli vicino, ma penso sia normale che una coppia davanti alle difficoltà si unisce», sottolineando di non aver mai però pensato di lasciare la tv: «Nella vita non si sa mai, le cose con Francesco funzionano ma tutto può cambiare…Io voglio poter decidere cosa fare della mia vita, non stare appesa a un uomo». 

Totti e Ilary Blasi si sono separati. E scoppia il caso dei due comunicati. Il Tempo il 12 luglio 2022

Doveva essere un comunicato congiunto quello dell'addio tra Ilary Blasi e Francesco Totti. Invece anche su quello la coppia si sarebbe divisa. Così di comunicati per dirsi addio ufficialmente ne sono serviti due alla coppia più amata dagli italiani: la conduttrice tv ha annunciato la separazione consensuale, dopo i gossip smentiti a febbraio, con una frase: "Il mio matrimonio è finito". Poi la richiesta di rispettare la privacy soprattutto per i figli. Dopo pochi minuti è arrivata la conferma dell’ex numero 10 della Roma: “Abbiamo difeso i nostri figli” ha spiegato

"Dopo vent'anni insieme e tre splendidi figli – ha scritto la presentatrice in una dichiarazione diffusa dalla sua agente all’Ansa – il mio matrimonio con Francesco è terminato. Il percorso della separazione rimarrà comunque un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia. Invito tutti a evitare speculazioni e, soprattutto, a rispettare la riservatezza della mia famiglia". 

“Ho tentato di superare la crisi del mio matrimonio, ma oggi capisco che la scelta della separazione, pur dolorosa, non è evitabile - ha spiegato l'ex capitano giallorosso - Tutto quello che ho detto e fatto negli ultimi mesi – continua Totti –  è stato detto e fatto per proteggere i nostri figli, che saranno sempre la priorità assoluta della mia vita. Continuerò a essere vicino a Ilary nella crescita dei nostri tre meravigliosi figli, sempre nel rispetto di mia moglie. Confido nel massimo rispetto della nostra privacy, soprattutto per la serenità dei nostri figli".

Francesco Totti e Noemi Bocchi, Chi scodella le foto durante le voci di crisi con Ilary Blasi. Il Tempo l'11 luglio 2022

Mentre Francesco Totti e Ilary Blasi ufficializzano la loro separazione consensuale (il sito Dagospia ha annunciato per le 19 un comunicato congiunto), il settimanale ‘Chi’ pubblica nel numero in edicola da mercoledì le immagini esclusive che confermerebbero il legame fra Francesco Totti e Noemi Bocchi. Due giorni prima di questo comunicato annunciato, infatti, Totti è stato a casa di Noemi dalle 20 e 30 alle 2 e 30 di notte, accompagnato da un amico a bordo di una Smart. Il Capitano, scrive Chi, sarebbe andato a casa della donna, lasciando la propria auto in un parcheggio e facendosi portare dall’amico. E poi, sempre insieme con lui è tornato a riprendere la propria macchina a notte fonda: “È la prova - sottolinea il magazine di gossip - che ha trascorso la serata a casa della Bocchi”. Le voci sulla crisi della coppia Totti-Blasi - spiega la rivista diretta da Alfonso Signorini - si susseguono dall’inizio dell’anno e si è parlato di nuove relazioni da entrambe le parti, anche se sempre smentite per proteggere la famiglia. 

Totti e Noemi sono stati visti più volte al ristorante Isola del pescatore a Santa Severa. Poi allo stadio. E ancora a Monte Carlo e a Tirana insieme. Il settimanale ‘Chi’ ricostruisce in modo dettagliato la separazione tra Totti e Ilary Blasi. “Tutto sarebbe partito - si legge - quando il Capitano ha letto alcuni messaggi compromettenti sul telefono della moglie. Si vocifera di una relazione con un aitante giovane per il quale la Blasi avrebbe letteralmente perso la testa e che avrebbe frequentato lontano dai riflettori durante le sue trasferte milanesi per condurre L’isola dei famosi. Così quando Totti ha smentito la crisi, la rottura era già in atto, ma il numero uno della Roma ha cercato di fare il possibile fino all’ultimo per proteggere i figli”.

Francesco Totti e Ilary Blasi, patrimonio da 100 milioni di euro tra immobiliare e società. Il caso dell'assegno divorzile. Andrea Giacobino su Il Tempo il 12 luglio 2022

Un patrimonio di quasi 100 milioni di euro. È quello che condividono Francesco Totti e la moglie Ilary Blasi. Ma cosa dovrà versare l’ex marito alla ex moglie? Va detto che la giurisprudenza ha recentemente mutato la denominazione del vecchio «assegno di mantenimento» in «assegno divorzile». Se per ottenere l’assegno di mantenimento bastava la disparità tra i redditi dei due coniugi e l’assenza di responsabilità per la crisi coniugale, il cosiddetto addebito, l’assegno divorzile viene ora concesso esclusivamente se il coniuge richiedente dimostra di non essere in grado, non per colpa sua, di mantenersi in modo decoroso. Tutte circostanze che sembrano non riguardare la Blasi, affermata showgirl e quindi l’assegno divorzile che riceverà potrebbe essere davvero modesto.

E i due patrimoni? Cominciamo dall’ex capitano della Roma che tra stipendio e diritti di immagine, contando le sue ultime 21 stagioni con il club capitolino, ha ricevuto un compenso lordo di 152 milioni di euro per un netto di 84,25 milioni. Dopo essersi ritirato, il «Pupone» ha intrapreso la carriera dirigenziale e ha firmato un contratto con la Roma di 600 mila euro all’anno, abbondonato a giugno del 2019, a causa di screzi con la proprietà giallorossa. In seguito Totti ha deciso di utilizzare gran parte del suo patrimonio in investimenti sicuri per mettersi in una situazione economica tranquilla dopo la fine della carriera calcistica. Così ha investito molto nel settore immobiliare.

Con la holding Numberten Srl (così chiamata perché è la traduzione inglese del numero 10 della maglia del «Pupone»), di cui detiene il 100%, l’ex capitano controlla le sue proprietà, nonostante all’inizio questa attività fosse nata per gestire i diritti di immagine dell’ex calciatore. La società più importante dalla holding Numberten è la Immobiliare Dieci, che detiene il controllo anche della Immobiliare Ten. Altra importante società è la Longarina, che gestisce l’omonimo centro sportivo nelle vicinanze di Ostia. 

L’ultimo bilancio disponibile della cassaforte di Totti, quello a fine 2021 e appena depositato, si è chiuso con un utile sceso anno su anno da 64mila a soli 3mila euro anche se la società può contare su un patrimonio netto di 7 milioni costituito da 3 milioni di riserve e 3,8 milioni di utili portati a nuovo frutto della rivalutazione degli immobili di proprietà fatta nel 2008, da cui provengono gli affitti che sono scesi a 660mila euro dai 904 mila del 2020. 

La Numberten possiede una serie di immobili valutati 3,9 milioni e alcune partecipazioni finanziarie in altre società, tra le quali le citate Immobiliare Acilia, la Immobiliare Dieci e Longarina. La cassaforte di Totti ha però visto scendere i debiti anno su anno da 6,7 a 5,9 milioni di cui 2,7 milioni verso l’unico azionista. 

Oggi, oltre alla Numberten e alla Longarina, Totti risulta proprietario e amministratore della Vetulonia srl, ancora una volta votata all'immobiliare, ma soprattutto della IT Scouting, la società che ha costituito per avviare la sua nuova carriera di scopritore di talenti, business in cui è attivo anche attraverso le quote del 50% in Coach Consulting (di cui l’altro socio è il procuratore Pietro Chiodi) e del 49% in Ct10, il cui 51% è di Giovanni Maria de Montis, anche lui procuratore. A latere delle società, Totti poi risulta anche essere proprietario, in regime di separazione dei beni dalla moglie Ilary, anche di sette fabbricati a Sud di Roma (due garage, due magazzini e tre abitazioni per complessive 55 stanze) e di uno a Latina.

Per quanto non sia facile affermare con certezza quali siano i guadagni della Blasi e il suo patrimonio personale, al di là delle cinque abitazioni a Roma e di una a Milano, si possono rintracciare alcune verosimili ricostruzioni secondo le quali per la conduzione del «Grande Fratello Vip» avrebbe guadagnato circa 25mila euro a puntata, per un totale di 650mila euro ad edizione. Un cachet che sarebbe poi andato aumentando di pari passo con la sua fama ed esperienza tanto che nel 2021 per la conduzione dell’«Isola dei Famosi» avrebbe incassato circa 50mila euro a puntata per un totale di 18 puntate, ovvero 900mila euro complessivi.

Anche la Blasi possiede quote in società, esattamente il 90% della Numberfive e della Società Sportiva Dilettantistica Sporting Club Totti, le cui quote restanti sono rispettivamente del padre Roberto per il 10% e al 5% cadauno di Angelo Marozzini (cugino di Totti) e Ivan Peruch. Gli ultimi bilanci delle due società della Blasi (chiusi a fine 2020) evidenziano rispettivamente un patrimonio netto di 726mila euro e di 41mila euro.

Totti e Blasi «spa», cosa sarà dell’impero milionario tra società in comune, case e beni. Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera l'11 luglio 2022.  

Con l’ufficializzazione della rottura tra il calciatore Francesco Totti e la moglie e conduttrice Ilary Blasi in molti online si chiedono quale sarà il destino dell’impero dei due. Oltre che una coppia, Totti e Blasi sono infatti un’azienda milionaria. Secondo il sito Qui Finanza solo da calciatore, in venticinque anni di carriera, il campione del mondo avrebbe incassato oltre 84 milioni di euro netti mentre, tra le conduttrici Tv, Blasi sarebbe tra le più pagate. Secondo alcune indiscrezioni del settimanale Oggi, non confermate dalla diretta interessata, il cachet della presentatrice per la conduzione dell’Isola dei Famosi aveva raggiunto quota 50 mila euro a puntata. A cui si sommano negli anni gli ingaggi per programmi celebri come Le Iene e Il Grande Fratello. 

La separazione: beni e società

Con la separazione, arrivata dopo 20 anni di matrimonio, si dovrà quindi fare ordine in termini di divisione dei beni e anche a livello societario. Dopo la messa in liquidazione nel 2017 della Never without You, la società di abbigliamento fondata dalla coppia 10 anni prima e mai decollata, l’impero dei due, ribattezzato dai media “Totti&Blasi spa”, è cresciuto. Include oggi le sette società fondate dal campione negli anni e di cui hanno quote anche Blasi e alcuni parenti dei due.

Tra queste società c’è la holding Number ten pensata per gestire l’immagine del calciatore, società a cui fa capo Number five che contratta gli ingaggi non calcistici dell’ex capitano della Roma. Di questa società nello specifico Blasi detiene il 90% e il suocero Roberto Blasi il 10%. Alla holding fanno poi capo altre società tra cui Longarina srl e Immobiliare Dieci, attive nel mercato immobiliare. Totti è poi socio al 49% di Ct10, società di servizi in ambito sportivo che si occupa di marketing, gestione della carriera dei calciatori e scounting. Società nata nel 2020 assieme a IT Scouting anch’essa pensata per la ricerca di talenti nel mondo del calcio.

Nella società sportiva dilettantistica Sporting club Totti come azionisti figurano poi Blasi (90%), il cugino di Totti, Angelo Marrozzini (5%) e il marito della cognata Ivan Peruch che gestisce i campi da calcio e detiene il 5%. La società avviata nel 2020 conta 31 mila euro di fatturato nei primi 7 mesi di attività. Nella separazione andrà poi decisa la divisione dei beni e degli immobili della coppia.

Francesco Totti e Ilary Blasi si lasciano. Una storia lunga 20 anni e tre figli: dal matrimonio all’Ara Coeli alla serie tv alla separazione. Redazione Sport su Il Corriere della Sera l'11 luglio 2022.

Atteso un comunicato ufficiale dopo 17 anni e quasi un mese di matrimonio dopo le indiscrezioni arrivate già a febbraio 2022

20 anni insieme

Francesco Totti e Ilary Blasi al centro del gossip: a febbraio 2022 la notizia che starebbero per lasciarsi dopo 20 anni di amore e un matrimonio durato 17 anni, con tre figli (Isabel è la minore). A luglio il rilancio di Dagospia — che era stato il primo a parlare di un litigio tra l’ex capitano della Roma e la soubrette del 5 febbraio, durante una gita a Castel Gandolfo —. Al primo giro, dopo nemmeno 24 ore, erano arrivate le smentite social: quella di Ilary «muta» attraverso un video che mostra tutta la famiglia a cena assieme, quella di Francesco più esplicita, con l’ex capitano giallorosso che su Instagram parla di «fake news» e chiede «di stare attenti a quello che scrivete perché ci sono di mezzo dei bambini». L’11 luglio 2022 invece, il rilancio di Dagospia: un comunicato congiunto dovrebbe essere diffuso alle 19.

Il matrimonio il 19 giugno 2015

L’allora Pupone e la showgirl si sono sposati il 19 giugno 2005 a Roma, nella Basilica dell’Ara Coeli. Lei bellissima in abito bianco, lui elegantissimo in tight. Non sembrava proprio una parabola calciatore-velina... Dal 2013 abitano nell’attico del palazzo EuroSky in un appartamento da 36 stanze dotato di ogni lusso e comfort. Con loro anche il gatto Donna Paola, che era stato causa di un battibecco coniugale risolto in due giorni.

I tre figli

Cristian, Chanel e Isabel sono i tre figli di Francesco Totti e Ilary Blasi. Il primogenito è nato il 6 novembre 2005 e gioca nel settore giovanile della Roma. La secondogenita, con il nome scelto dal fratello, è nata il 13 marzo 2007 e somiglia molto alla mamma. Isabel è invece nata il 10 marzo 2016.

Le maglie «6 unica» e una crisi annunciata

Il 10 marzo 2002 Totti annunciò al mondo dopo il derby che l’amava con la celebre maglietta «6 unica». Nove anni dopo, il 13 marzo 2011, lo ribadì: «6 sempre unica». Ma, come detto, la crisi sembrava durare da tempo. Lo scorso 27 settembre Totti era senza Ilary per i suoi 45 anni. Poi, riferisce il Messaggero, la lite durante la gita a Castel Gandolfo. E, recentemente, Blasi commentava in un’intervista all’apparenza innocente: «Le cose con Francesco funzionano, ma nella vita non si sa mai, tutto può cambiare. Voglio essere indipendente e non appesa ad un uomo».

Il compleanno mancato e il San Valentino 2021

Non è noto se e cosa abbiano fatto Ilary Blasi e Francesco Totti per il San Valentino 2022. Quando però al 45° compleanno dell’ex calciatore, lo scorso 27 settembre, Ilary non è apparsa alla festa, un campanello d’allarme è suonato per molti. Nell’aprile precedente lui, invece, per i 40 anni di lei si era lanciato in una struggente dedica: «La metà degli anni li abbiamo passati insieme... ora sei arrivata a 40 ... abbiamo costruito le fondamenta della nostra casa, ora dobbiamo aggiungere i mattoni. Ci aspetta ancora tanta vita.... insieme!!!! auguri amore mio!». Lo scorso anno, per San Valentino 2021, si erano scambiati delle rose (finte) e lei aveva regalato a lui un «mazzo» di cioccolatini, ricevendo uno scherzoso «vaffa» e poi due ceste di vere rose rosse, tra le risate dei figli.

L’addio al calcio

Il 28 maggio 2017 Francesco Totti giocava l’ultima partita da calciatore della Roma e della sua carriera. Un giorno che nessun tifoso della Roma dimenticherà mai. Si giocava Roma-Genoa finita 3-2 per i giallorossi. Al termine della gara una festa collettiva emozionante e a tratti commovente. Francesco Totti e il saluto ai suoi tifosi con Ilary Blasi e i tre figli sempre al suo fianco.

La serie tv

Nell’autunno 2021 è andata in onda la serie tv «Speravo de morì prima» tratta dalla sua autobiografia «Un capitano», scritta insieme al giornalista Paolo Condò, che riprende sei momenti cruciali della vita dello storico numero 10 romanista, uno per ogni puntata. La regia è di Luca Ribuoli.

Francesco Totti-Pietro Castellitto

Il ruolo di Francesco giovane è interpretato da Pietro Castellitto, figlio di Sergio e della scrittrice Margaret Mazzantini. Castellitto junior, grande tifoso romanista, ha studiato per mesi il personaggio Totti: i due sono stati anche a pranzo insieme in più di un’occasione.

Ilary Blasi-Greta Scarano

La persona più importante nella vita di Francesco finora, sua moglie Ilary, è portata in scena dall’attrice Greta Scarano, già famosa per aver partecipato a film come «Suburra» e «Smetto quando voglio» e a serie televisive come «Romanzo Criminale» e il recente «Il nome della rosa».

Non solo calcio: red carpet e Gran Premi

Spesso Ilary e Francesco Totti sono andati insieme in giro per il mondo, formando una delle coppie più glamour del jet set italiano. La loro unione è sempre stata il simbolo di una coppia solida e, in qualche modo, esemplare. Anche per questo sul web le reazioni sul web in queste ore sono moltissime, e spesso sinceramente tristi.

Dopo mesi di crisi e smentite arriva l’annuncio della separazione

È l’11 luglio 2022 quando l’incantesimo si spezza definitivamente. È tutto vero: Francesco Totti e Ilary Blasi si separano. L’ufficializzazione arriverà alle 19 con un comunicato congiunto. Da mesi circolavano voci di dissapori nella coppia, che si era sposata il 19 giugno 2005, a Roma, in un clima di esaltazione popolare. La relazione era già parsa in frantumi a febbraio, quando i rumors sulla separazione si erano fatti più insistenti. Ilary aveva tuonato: «È stato un accanimento mediatico, il nostro pensiero è andato ai nostri figli».

Totti e Ilary Blasi: i messaggi compromettenti, la fuga a Tirana, Noemi e Luca Marinelli. Così è iniziata la crisi. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 12 luglio 2022.

La coppia era da mesi in crisi, tra voci di tradimenti e scenate. A febbraio la rabbia di lei: «Basta accanimenti, abbiamo tre figli». 

Sono finiti anche i tempi supplementari. Triplice fischio, il matrimonio si chiude qui, in un mesto zero a zero sentimentale a tavolino e mai ‘na gioia, come recita il tipico mantra romanista. Francesco Totti e Ilary Blasi non si amano più e dopo aver vissuto qualche mese da separati in casa, senza troppo reciproco disturbo, nella mega-villa dell’Eur, in attesa forse che i rispettivi avvocati trovassero l’accordo su una complicatissima spartizione patrimoniale della coppia d’oro, adesso lo faranno per davvero: addio, è stato bello.

Dopo venti anni di dediche, pollici in bocca, il colpo di fulmine («Io quella me la sposo»), cerimonia nuziale celebrata all’Ara Coeli e in diretta Sky, tre bambini, Cristian, Chanel e Isabel, le estati a Sabaudia con l’ombrellone sotto al braccio, lo sportello della Ferrari rigato al primo appuntamento. Dopo le foto romantiche al tramonto («Amo Francesco perché mi guarda ancora come il primo giorno»), il mister Spalletti «piccolo uomo» e i giri di campo, fino all’ultimo, struggente, del 28 maggio 2017, quello che «Speravo de morì prima» con cui il Capitano (c’è solo un Capitano) ha lasciato la Roma e più di un pezzo di cuore solo e soltanto giallorosso. Dopo 17 anni di matrimonio (il 19 giugno, anniversario ignorato da entrambi), la maglietta «6 unica» dopo un derby vinto 5 a 1 è ormai sbiadita.

E quello che resta, quando non c’è più niente da smentire, sono due comunicati, separati pure quelli. Francesco Totti: «Dopo venti anni insieme la mia storia di coppia con Ilary è purtroppo terminata. Tutto quello che ho detto e fatto negli ultimi mesi è stato detto e fatto per proteggere i nostri figli che sono e saranno sempre la priorità assoluta della mia vita», scrive il Campione del Mondo 2006. «Ho tentato di superare la crisi del mio matrimonio ma oggi capisco che la scelta della separazione, pur dolorosa, non è più evitabile. Continuerò ad essere unito ad Ilary nella crescita dei nostri meravigliosi tre figli, sempre con grande rispetto per mia moglie». E conclude chiudendo la porta ai curiosi: «Il percorso della nostra separazione rimarrà per me rigorosamente privato e dunque non rilascerò altre dichiarazioni. Confido nel massimo rispetto per la nostra riservatezza e privacy soprattutto per la serenità dei nostri tre figli. Grazie».

Quasi fotocopia quello più breve di Ilary Blasi: «Dopo vent’anni insieme e tre splendidi figli, il mio matrimonio con Francesco è terminato», annuncia l’ex Letterina. «Il percorso della separazione rimarrà comunque un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia. Invito tutti a evitare speculazioni e, soprattutto, a rispettare la riservatezza della mia famiglia». Altro che fake news, stavolta è tutto vero. Nessuno però in questa moderna fiaba senza lieto fine avrebbe il cuore infranto. Puntuale infatti oggi arriva in edicola un servizio fotografico sul settimanale «Chi» che scodella le immagini di Totti che nottetempo, accompagnato da un fido amico, si presenta a casa di Noemi Bocchi , la biondissima dama dei Parioli, 34 anni, un ex marito imprenditore del marmo, due figli, tifosa romanista e gran giocatrice di paddle (due bonus irresistibili, agli occhi dell’amato bene), la terza incomoda amorosa di questa storia.

Più volte fotografata sugli spalti dell’Olimpico (a scovarla fu, a febbraio, l’occhio perfidamente acuto del sito web Dagospia, lo stesso che ieri ha lanciato per primo lo scoop definitivo), qualche sedia più in là di Totti. I due si frequenterebbero di nascosto da almeno otto mesi. E sarebbero innamorati sul serio. Chi li ha visti all’«Isola del Pescatore», ristorante vippissimo sulla spiaggia di Santa Severa (dove il numero 10 portò Ilary per farle la proposta e lei, ignara, obiettò: «E che fino a là dobbiamo ariva’?» ), chi in un hotel-castello all’uscita di Lunghezza, fuori Roma, o a Montecarlo o a Tirana, per la finale di Conference League della Roma: voli separati, stesso hotel, camere diverse, massima discrezione. E minimo risultato: lo sapevano tutti.

Nemmeno Ilary, che pure negli ultimi mesi è apparsa sempre più magra e scavata («Che ti è successo?» le chiedono sui social), soffrirebbe per l’amore perduto. Secondo «Chi», anzi, l’ultimo dissidio coniugale sarebbe scoppiato dopo che Francesco ha scoperto messaggini compromettenti sul cellulare della moglie. Destinatario un misterioso spasimante — ricambiato — che la conduttrice dell’«Isola dei Famosi» avrebbe incontrato durante le trasferte a Milano. Forse un personal trainer, forse un imprenditore. Mesi fa si mormorava di un flirt con il baldo attore Luca Marinelli, quello di Diabolik, vai a sapere. 

Da repubblica.it del 1° aprile 2022

Ilary Blasi ripercorre tutti i passaggi più importanti della sua vita privata e della sua carriera in una intervista intima e ironica con Francesca Fagnani presentatrice del programma Belve, in onda venerdì 1 aprile su Rai 2. 

Sollecitata dalle domande della conduttrice, si sofferma a lungo sulla notizia del presunto tradimento del marito Francesco Totti. Francesca Fagnani le chiede: "La vostra storia d'amore potrebbe sopravvivere a un tradimento, dell'una e dell'altro?". Blasi risponde prontamente: "No, né dell'uno né dell'altra".

Fagnani torna poi sulla foto che ritrae una ragazza allo stadio a pochi metri da Totti, origine della notizia del presunto tradimento: "Lei ha raccontato che dietro quella foto ci fosse una macchinazione, si è chiesta chi fosse l'artefice?". Ilary Blasi risponde: "Avevo altro a cui pensare in quel momento e non a chi...". Fagnani ribatte: "Ha pensato che fosse un complotto ma non si è chiesta ad opera di chi?". Blasi allora: "No, tanto la certezza non ce l'avrò mai, è facile puntare il dito contro i soliti nomi".

Spinta poi dalla insistenza di Fagnani, Blasi chiarisce il senso della battuta fatta ad Alfonso Signorini, specificando che voleva fargli un complimento sottolineando che da opinionista del Grande fratello era passato a conduttore del programma. Blasi poi risponde alla domanda sul perché avessero scelto, per all'attuale Isola dei famosi, sempre gli stessi personaggi. Blasi risponde: "Sono i professionisti dei reality". 

Infine, divertendosi molto e con qualche imbarazzo, alla domanda sul nome della figlia e sulla rosa dei nomi che aveva previsto per Chanel, Blasy ci pensa e risponde sorridendo: "La verità? Volevo chiamarla Roma".

"Nozze terminate", "Dolore inevitabile". Totti e Blasi, l'addio dopo 20 anni d'amore. Francesca Galici l'11 Luglio 2022 su Il Giornale.

Dal "6 unica" alla separazione. Salta anche il comunicato congiunto: disaccordo sui contenuti

Ci si aspettava un comunicato congiunto alle 19, invece gli ex coniugi Totti hanno rilasciato dichiarazioni disgiunte all'agenzia Ansa. "Dopo vent'anni insieme e tre splendidi figli, il mio matrimonio con Francesco è terminato. Il percorso della separazione rimarrà comunque un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia. Invito tutti a evitare speculazioni e, soprattutto, a rispettare la riservatezza della mia famiglia", ha dichiarato Ilary Blasi. Più emotivo il messaggio di Francesco Totti: "Ho tentato di superare la crisi del mio matrimonio, ma oggi capisco che la scelta della separazione, pur dolorosa, non è evitabile. Tutto quello che ho detto e fatto negli ultimi mesi è stato detto e fatto per proteggere i nostri figli, che saranno sempre la priorità assoluta della mia vita. Continuerò a essere vicino a Ilary nella crescita dei nostri tre meravigliosi figli, sempre nel rispetto di mia moglie. Confido nel massimo rispetto della nostra privacy, soprattutto per la serenità dei nostri figli"

A Roma, poche cose sono amate come Francesco Totti, il Pupone, il Capitano, il "bimbo de oro". Se Giuseppe Giannini è stato soprannominato "il Principe" durante i suoi anni con la maglia giallorossa, Francesco Totti per i tifosi della "Maggica" è sempre stato l'ottavo re di Roma, o al massimo "il Gladiatore". La sua epopea calcistica è iniziata con indosso i colori della Roma ed è finita nello stesso modo, con quella maglia sulle spalle, in lacrime sotto la sua Curva sud, quella dove da ragazzino sognava, un giorno, di essere nell'undici della Roma. Ilary Blasi non conosceva niente di questo mondo, come da lei stessa ammesso in un'intervista rilasciata a Francesca Fagnani: "Onestamente non riconoscevo nemmeno mio marito in mezzo al campo". Fu Francesco Totti a voler a tutti costi uscire con lei, a cercarla, dopo averla vista ballare a Passaparola, il programma condotto da Gerry Scotti tra la fine degli anni Novanta e i prim Duemila, dove Ilary Blasi ricopriva il ruolo di "Letterina". Era il 2002 e da quel momento i due non si sono più lasciati. Almeno fino a oggi.

Hanno provato a tenere nascosta la loro relazione ma è difficile non farti notare quando a Roma sei Francesco Totti. A qualche mese di distanza dal primo incontro, Francesco Totti ha reso ufficiale ciò che tutti già sapevano e dopo aver segnato un gol allo stadio Olimpico ha scoperto una sotto maglia con una scritta che è diventata iconica: 6 unica. Dal quel momento, nel cuore dei romani, è nata una nuova coppia da proteggere e preservare, accompagnandola in ogni sua fase. Emblematico quanto accadde al matrimonio, celebrato il 19 giugno del 2005 nell'imponente chiesa dell'Ara Coeli di Roma. Migliaia di persone sono accorse per festeggiare l'ottavo re di Roma e la sua regina. Le strade della Capitale furono bloccate e la cerimonia venne trasmessa in diretta televisiva, come mai è accaduto per una coppia di celebrities nel nostro Paese.

Tra Totti e Blasi è finita, attesa per il comunicato

Sono passati 17 anni da quel giorno, sono nati tre figli e fino a pochi mesi fa la coppia non mostrava particolari segni di cedimento. Certo, le crisi capitano a tutte le coppie e loro non ne sono stati esentati, ma il loro matrimonio sembrava reggere a tutte le bordate della vita. Ilary c'era quando Totti si è infortunato gravemente, svariate volte, nell'arco della sua carriera. C'era anche poche settimane prima dei mondiali, quando sembrava che il numero 10 dovesse saltare la sua ultima occasione di salire sul tetto del mondo. Ed era a Berlino quando suo marito ha alzato la coppa, dopo aver disputato un campionato del mondo straordinario. Ilary era lì anche nel giorno in cui Francesco Totti ha dato l'addio al calcio. L'abbraccio tra le lacrime di lei che indossava quella storica maglia "6 unica" e lui con la maglia giallorossa del tributo alla sua carriera è impressa nella mente di tutti i tifosi, della Roma e non.

Ma qualcosa negli ultimi mesi si è spezzato. Le voci su un possibile tradimento sono iniziate a circolare con sempre più insistenza tanto che la coppia ha avuto non poche difficoltà a smentire le voci della crisi. Ilary Blasi è perfino andata in televisione a dire che no, non era vero niente, e che tutti quelli che a febbraio parlavano di una possibile separazione in vista avevano fatto una "figura di merda". Sono passati 5 mesi e quello che per molti era un brutto sogno ha trovato concretezza in un comunicato stampa congiunto in cui la coppia ha annunciato la separazione. Come dicono i più disillusi dall'amore, "dopo Al Bano e Romina non ci si deve stupire più di nulla".

Totti-Blasi, l'amore è finito (dopo 20 anni da copertina). Andrea Cuomo il 12 Luglio 2022 su Il Giornale.

Rottura ufficiale. La coppia nell'immaginario italiano: la maglia "6 unica", le nozze in tv e i tre figli

Il loro addio è stato ufficializzato con un comunicato congiunto, come fossero una compagnia quotata in borsa. E una coppia-azienda in fondo Francesco Totti e Ilary Blasi lo sono (o lo erano?), un po' i Brangelina italiani, anche se nessuno aveva azzardato la fusione a freddo dei loro nomi, francamente inconciliabili.

Che il matrimonio più social degli anni Duemila se la passasse male era chiaro da tempo. A settembre, quando l'ex capitano della Roma aveva compiuto 45 anni, era sembrata bizzarra l'assenza di Ilary al festone da tribù. E a febbraio aveva fatto scalpore una litigata da commedia all'italiana tra i due durante una gita di famiglia a Castel Gandolfo, che aveva fatto vociare di separazione imminente. Loro si erano affrettati a smentire per la verità senza troppa convinzione, Ilary postando una foto di famiglia, Francesco parlando di «fake news».

Ma alla fine nemmeno i bambini (si fa per dire: Christian ha quasi 17 anni e Chanel 15, solo Isabel ne ha 6) sono riusciti a tenere in piedi una storia evidentemente ai tempi di recupero. E nemmeno il tifo di una città, Roma, per la quale Francesco e Ilary erano una sorta di coppia reale. Il settimanale «Chi» pubblicherà le foto che documentano la relazione tra l'ex Pupone e la nuova fiamma Noemi Bocchi ma fa risalire l'inizio della crisi a certi messaggi compromettenti intercettati da lui sul telefono di lei.

Quello che conta è la fine della coppia che, al netto di qualche tratto di naïveté sempre riscattata da una bonaria ironia, ha incarnato per quasi vent'anni quel senso di famiglia solida e tradizionale malgrado il successo, l'esposizione e la ricchezza potessero far deragliare il ménage nei cliché da belli e dannati hollywoodiani. Potevano essere Serge Gainsbourg e Jane Birkin, avevano scelto il genere Sandra&Raimondo. Per questo la fine di «Fralary» (ci proviamo ma non è granché) dà un piccolo dolore a tutti coloro che credono che l'amore vince su tutto, o al massimo pareggia.

Francesco e Ilary si erano conosciuto quando lui aveva appena vinto lo scudetto con la Roma nel 2001 ed era probabilmente il romano più conosciuto dopo Alberto Sordi (ma forse anche prima). Ilary, però, sapeva a malapena chi fosse. Francesco aveva corteggiato in modo serrato la «letterina» della tv, e le aveva procurato un biglietto per il derby del 10 marzo 2002 all'Olimpico. Quella Francesco aveva segnato il gol del definitivo 5-1 romanista con un magnifico pallonetto. Grazie a quella prodezza il numero 10 aveva potuto esibire la t-shirt che aveva preparato sotto la maglia di gioco, con la scritta «6 unica». Una dedica un po' tamarra in stile sms, ma che pare abbia contribuito a far capitolare l'esitante ragazza.

Da allora solo amore. I «Fralary» (ci riproviamo) si erano sposati a Roma, nella solenne chiesa dell'Ara Coeli, il 19 giugno 2005, nel royal wedding all'amatriciana, con tanto di diretta tv. Ilary era incinta di Christian, che sarebbe nato il 6 novembre successivo. Calciatore di buone speranze, attaccante anche lui, chiaro che come precocità non sembra destinato a ricalcare le orme paterne: alla sua età Francesco aveva già debuttato in serie A (16 anni, 6 mesi e un giorno), mentre Christian a 16 anni, 8 mesi e 6 giorni è ancora nell'under 17 della Roma. Seguiranno Chanel (13 marzo 2007) e Isabel (10 marzo 2016). Tutti presenti all'ultima partita ufficiale del papà all'Olimpico, il 28 maggio 2017. Un altro addio, cinque anni dopo, e senza uno Spalletti da maledire. 

"Ha passato la notte da lei". Le foto che "inchiodano" Totti. Novella Toloni l'11 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il settimanale Chi mostra in anteprima le foto della notte che il Pupone ha trascorso a casa di Noemi Bocchi, la donna che avrebbe aperto la crisi con Ilary

Lui, lei e gli altri due. Nella crisi che ha portato alla fine del matrimonio tra Ilary Blasi e Francesco Totti, le colpe sarebbero molteplici e da entrambe le parti. Ma mentre si rumoreggia che la prima a mettere in crisi il rapporto sia stata la conduttrice dell'Isola, arrivano le prime foto della relazione tra Noemi Bocchi e Francesco Totti.

A fornire le prove che tra Noemi e Francesco c'è più di una semplice conoscenza è il settimanale Chi, nel numero in edicola mercoledì 12 luglio. I paparazzi di Alfonso Signorini hanno pizzicato il Pupone a casa della Bocchi poche ore dopo che lei aveva mandato la figlia a dormire da un'amichetta con tanto di valigia. "Totti è stato a casa di Noemi dalle 20 e 30 alle 2 e 30 di notte, accompagnato da un amico a bordo di una Smart", si legge nell'articolo, dove si spiega che il Pupone si è recato a casa della Bocchi, lasciando la sua automobile in un parcheggio - per non destare sospetti - e facendosi accompagnare da un amico, che a notte fonda lo ha riaccompagnato a riprendere l'auto. Tutto documentato da foto, che non lasciano spazio alle interpretazioni.

Nelle numerose immagini pubblicate da Chi, si vede Noemi Bocchi uscire di casa con una valigia per la figlia e successivamente parcheggiare la sua auto in strada per liberare un posto in garage, dove ha trovato riparo la Smart sulla quale viaggiavano Totti e il suo amico.

Così le voci che davano Totti e Noemi vicinissimi - avvistati più volte al ristorante Isola del pescatore a Santa Severa, allo stadio, a Monte Carlo e persino a Tirana insieme - ora trovano conferma. Secondo la ricostruzione fatta da Chi, la crisi tra Francesco e Ilary sarebbe iniziata quando il Capitano ha letto alcuni messaggi compromettenti sul telefono della moglie. La Blasi avrebbe avuto un flirt con un ragazzo più giovane e lo "avrebbe frequentato lontano dai riflettori durante le sue trasferte milanesi per condurre l'isola dei famosi", riferisce la rivista di Signorini. Al momento della smentita della crisi, avvenuta lo scorso marzo quando Totti venne "sorpreso" vicino a Noemi, l'addio sarebbe stato già certo, ma la coppia avrebbe fatto l'impossibile per proteggere i figli e dare loro il tempo di metabolizzare l'addio.

"Totti ha una nuova fiamma". E il suo nome non è nuovo...Novella Toloni l'11 Luglio 2022 su Il Giornale.

Secondo voci insistenti sarebbe Noemi Bocchi, già accostata al Pupone lo scorso febbraio, la donna che avrebbe messo in crisi il matrimonio tra Totti e Ilary

Mentre si attende che la notizia della fine del matrimonio tra Ilary Blasi e Francesco Totti venga ufficializzata dal comunicato congiunto, che secondo Corriere della Sera e Dagospia sarà diramato intorno alle 19, si rincorrono le voci sulla presunta nuova fiamma del Pupone. E il nome, che ritorna con insistenza, è lo stesso che scatenò i rumor di una crisi tra Ilary e Francesco lo scorso febbraio: Noemi Bocchi.

Biondissima, laureata in economia e flower designer con la passione per il padel, sport praticato anche da Francesco Totti, Noemi Bocchi è data come possibile nuova fiamma dell'ex capitano giallorosso. Di indizi per accostarla "fisicamente" al Pupone ce ne sarebbero in abbondanza, assicurano i bene informati. A unirli, secondo le indiscrezioni, sarebbe stata proprio la passione sportiva per il padel oltre a quella nutrita per la Roma. Noemi era stata, infatti, avvistata sugli spalti dello stadio Olimpico poche sedute dietro a Totti durante il match tra Roma e Genoa disputatosi il 5 febbraio scorso.

Quando Dagospia anticipò, che tra Francesco Totti e l'ex moglie di Mario Caucci team manager del Tivoli Calcio era in corso un flirt, la Blasi e il marito negarono categoricamente il gossip. Totti si disse stanco "di dovere smentire", mentre a Verissimo Ilary insinuò il dubbio che la paparazzata fosse stata organizzata: "Secondo voi mio marito va a un evento pubblico con l'amante e con il figlio accanto? A noi sono sembrate deboli le loro illazioni".

"Mi sono stancato di smentire". Totti spegne il gossip sul matrimonio con la Blasi

Eppure il nome di Noemi Bocchi ricorre e gli indizi sono disseminati qua e là. Secondo Rainews lei e Totti sarebbero stati visti in più di un'occasione in un ristorante a Fiumicino, mentre Repubblica parla di un incidente che lo sportivo avrebbe avuto poche settimane fa e in suo soccorso sarebbe andata proprio Noemi e non Ilary. Subito dopo il caso mediatico scatenatosi a febbraio, la bionda - che per molti è la fotocopia di Ilary - è stata costretta a rendere privato il suo profilo Instagram per evitare minacce e offese. Si è defilata, ma a quanto pare sarebbe proprio lei il motivo della rottura definitiva di una delle coppie più amate dal pubblico.

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado Gianluca Lengua per “il Messaggero” il 13 luglio 2022.

Ilary Blasi resterà ad abitare con i suoi tre figli nella casa coniugale - la mega-villa dell'Eur da 25 vani - e riceverà ogni mese da Francesco Totti un assegno di mantenimento a diversi zeri. Sarebbero questi i termini dell'accordo tra l'ex capitano della Roma e la presentatrice tv. Un accordo che, a quanto pare, sarebbe stato raggiunto in via stragiudiziale e che si dovrebbe perfezionare entro domani. 

[…] la coppia avrebbe agito a fari spenti per trovare una quadra. Potrebbe essere questa la ragione per la quale lo scorso febbraio, dopo le prime indiscrezioni stampa sulla loro crisi, avevano smentito tutto. […]

La separazione con negoziazione assistita è una delle nuove procedure introdotte nel 2014, che consente di conseguire lo status di separati in breve tempo e senza andare in Tribunale. I coniugi, assistiti dai loro rispettivi legali, stabiliscono l'affidamento dei figli minori, le disposizioni di carattere patrimoniale, chi dovrà provvedere al mantenimento e in quale misura. Una volta raggiunto l'accordo, viene sottoposto all'autorizzazione del pubblico ministero e poi trasmesso dagli avvocati all'anagrafe comunale per la ratifica. […] Con la negoziazione assistita, invece, in un mese e mezzo al massimo la procedura si conclude.

[…] L'accordo raggiunto prevederebbe anche che Totti liquidi la moglie delle sue due partecipazioni societarie, entrambe al 90% (le quote restanti sono dei parenti di Ilary) nella Number Five srl e nella Società sportiva Sporting Club Totti. La prima ha per oggetto la promozione di attività commerciali. 

La seconda, invece, si prefigge di diffondere lo sport dilettantistico gestendo il centro Totti Sporting Club, a Ostia. Per il resto i coniugi sono in separazione dei beni. Lei possiede un appartamento a Milano, uno a Roma, due garage e una nuda proprietà su una porzione della villa coniugale. Mentre lui è proprietario di quest' ultima, della casa a Sabaudia, di un villino nel quartiere Axa, un appartamento all'Eur, due magazzini e due garage (sempre nella Capitale).

Estratto da il Messaggero il 13 luglio 2022.

Non è certamente una sconosciuta nell'ambiente del jet set romano, ma ora è davvero sulla bocca di tutti e tutti vogliono sapere chi sia. Noemi Bocchi, la donna che ha rubato il cuore del capitano Francesco Totti, ha sicuramente vissuto mesi movimentati da quando a febbraio il suo nome è uscito per la prima volta su Dagospia e la sua vita, di colpo, è finita sotto i riflettori. E proprio per evitare altri gossip, da quando è scoppiato il caso sta limitando al massimo uscite e occasioni mondane. 

IL NOME SUL CITOFONO Nella sua casa al piano terra di via della Mendola a Cortina d'Ampezzo, quartiere residenziale di Roma nord, proprio lì dove tre giorni fa (ovvero prima del comunicato ufficiale della separazione con Ilary Blasi) l'ex calciatore è stato dalle 20 alle 2.30 di notte, Noemi ha dovuto togliere il cognome dal citofono. Si dice infatti che da quando si è sparsa la voce della sua relazione ricevesse un po' troppe visite.

A metà febbraio, all'inizio della loro storia, l'auto di Totti venne avvistata sotto casa. Non proprio un'utilitaria qualsiasi. Ma una Lamborghini nera da 200mila euro molto conosciuta tra i tifosi giallorossi. La foto della macchina parcheggiata circolò sui social accompagnata da molti interrogativi: cosa ci faceva il capitano lì? Stavolta, memore dell'errore, secondo quanto documentato da Chi, l'ex calciatore è stato accompagnato da un amico a bordo di una Smart, lasciando la propria auto in un parcheggio e facendosi portare dall'amico. E poi, sempre con lui è tornato a riprendere l'auto a notte fonda. Discrezione? Non proprio. 

Anche perché i due sono stati visti più volte al ristorante Isola del pescatore a Santa Severa, proprio quello dove Totti chiese a Ilary di sposarlo, poi allo stadio. E ancora a Monte Carlo e a Tirana insieme. 

Ma chi è la donna che ha fatto impazzire l'icona della Roma, contribuendo alla fine del suo matrimonio durato 17 anni? Tifosissima della Roma, laureata in Economia Aziendale e Bancaria alla Lumsa, di mestiere flower designer, appassionata di padel (come Totti), la trentaquattrenne è in via di separazione dal patron del Tivoli calcio Mario Caucci da cui ha avuto due figli, uno di 8 e una di 10 anni. Inutile tentare di sbirciare il suo profilo Instagram: è privato. Bionda, capelli lisci e lunghi, viso angelico, è una copia carbone della ormai ex moglie (quarantunenne) di Totti. 

Ma a differenza di Ilary, che della sua sfacciataggine da Roma sud ne ha sempre fatto un vanto, Noemi è una romanordina doc. Figli nella blasonata scuola privata al Flaminio, dove però negli ultimi mesi si è vista molto poco (sempre a causa dei troppi occhi puntati addosso): «Ultimamente quando veniva a prendere i bambini all'uscita non scendeva più neanche dalla macchina», racconta qualche mamma gossippara.

Scuola di nuoto all'Aquaniene, tempio sportivo della Roma che conta, estetista a Ponte Milvio dove quest' inverno, mentre faceva la manicure, passava ore al telefono «parlando della sua nuova storia movimentata, ma facendo molta attenzione a fare nomi», racconta ancora qualche cliente vip indiscreta. Curatissima nel look, tra borse e scarpe griffate, in giro si vede sempre di meno. Anche se non rinuncia alle passeggiate con il figlio in monopattino vicino casa. 

La loro storia, comunque, sembra ormai essere una cosa seria. 

Tanto che qualche mese fa raccontano che Noemi abbia regalato a Totti un bracciale con 5 pietre (tante quante sono le lettere del suo nome) come pegno d'amore, proprio nella stessa gioielleria di via del Gambero dove il capitano era solito comprare gioielli per Ilary. Ma Noemi, va detto, non sembra essere l'unica causa che ha portato alla fine della favola d'amore tra il pupone e la sua pupa. 

Secondo il settimanale Chi, infatti, tutto sarebbe partito quando il Capitano ha letto alcuni messaggi compromettenti sul telefono della moglie. Si vocifera di una relazione con un aitante giovane per il quale la Blasi avrebbe letteralmente perso la testa e che avrebbe frequentato lontano dai riflettori durante le sue trasferte milanesi per condurre L'isola dei famosi. Così quando Totti ha smentito la crisi, la rottura era già in atto, ma il numero uno della Roma ha cercato di fare il possibile fino all'ultimo per proteggere i figli. Ve. Cur. 

Da corrieredellosport.it il 13 luglio 2022.  

Melory Blasi scende in campo. La sorella minore di Ilary è sbottata su Instagram dopo aver letto l'ennesimo commento sulla separazione tra la conduttrice Mediaset e Francesco Totti. La giovane, che lavora come ortottista ma è attiva anche come influencer, ha commentato un post del giornalista Carmelo Abbate che riportava alcune dichiarazioni di Alex Nuccetelli. 

Quest'ultimo è un pr romano, ex marito di Antonella Mosetti e vecchio amico di Totti: di recente ha spifferato che ad un suo evento il Pupone ha conosciuto la nuova fiamma Noemi Bocchi. Ma Nuccetelli ha parlato pure di nuove frequentazioni per Ilary Blasi... 

"Credo che "certi" amici farebbero bene a stare in silenzio", ha scritto Melory Blasi, che è apparsa dunque piuttosto infastidita dall'intromissione di Alex Nuccetelli nella rottura tra Ilary e Totti. Un commento che in poco tempo ha ricevuto numerosi like. "Concordo, ci vuole rispetto", ha replicato un fan mentre un altro ha scritto: "Solo voi della famiglia potete proteggere loro e soprattutto i bambini da tutte le ca**ate che diranno". 

Ivan Rota per Dagospia il 13 luglio 2022.  

Ma chi sarebbe l'autore dei fantomatici messaggi d'amore inviati a Ilary Blasi che tanto hanno fatto arrabbiare il di lei ormai ex marito Francesco Totti? A Milano gira voce che si tratti di un ex di un'altra conduttrice famosa... 

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2022.

Il giorno dopo il Grande Addio, Francesco Totti non parla e Ilary Blasi nemmeno: al momento è già in Tanzania in vacanza con i tre figli e la sorella Silvia, più lontana di così. Ed è chiaro che trattasi della prima clausola tassativa di una complicatissima separazione sentimentale e patrimoniale non troppo consensuale. Niente dichiarazioni pubbliche, su questo almeno è stato trovato l'accordo.

Non è stato così invece per il comunicato stampa, che doveva essere uno e invece all'ultimo si è sdoppiato: pare che lei lo volesse asciutto e stringato, mentre lui preferisse spiegare le ragioni di una separazione «dolorosa ma non più evitabile» e il perché di quelle smentite sdegnate (e poco convincenti) di febbraio. Così ognuno si è fatto il proprio. «Ho mandato il testo che Ilary mi ha chiesto di mandare, non so nulla né del prima e né del dopo», spiega laconica Graziella Lopedota, ufficio stampa della conduttrice dell'Isola dei Famosi.

Non è stato nemmeno il servizio fotografico di «Chi», che ha pizzicato l'ex numero 10 romanista, scortato in Smart dall'amico Emanuele Maurizi, sotto casa di Noemi Bocchi, la bionda e trentaquattrenne pariolina (così uguale a Ilary che sembra una quarta sorella Blasi) che Totti frequenterebbe in segreto (nemmeno più tanto) da almeno otto mesi. Il settimanale aveva avvisato entrambi, anche se con poco anticipo, visto che le immagini erano freschissime, scattate poche ore prima del lancio dello scoop. Certo non è che abbiano fatto salti di gioia. 

Quando i protagonisti tacciono però, la legge spietata del gossip vuole che parlino gli altri, a ragione o a sproposito. Così tra Roma e Milano si rincorrono le voci più disparate. Come questa: il misterioso uomo che mandava i messaggini compromettenti a Ilary, poi scoperti da Francesco sul cellulare della moglie - ultima goccia di un vaso traboccante di incomprensioni - sarebbe Antonino Spinalbese (peraltro già fidanzato), hair stylist milanese, modello e influencer (in lizza per il prossimo GF Vip), ex di Belen Rodriguez, da cui un anno fa ha avuto la piccola Luna Marì. Magari è una facezia.

Un dato di fatto invece è che sugli spalti dello stadio di Tirana, per la finale di Conference League, Noemi Bocchi era seduta accanto a Giancarlo Pantano, altro storico amico del per sempre Capitano giallorosso. Chi ci è rimasta male per la separazione sarebbe donna Fiorella, la mamma di Totti, più che altro per i tre figli. 

Non è un segreto che ai tempi non fosse tanto entusiasta del fidanzamento con Ilary Blasi (ma nemmeno prima, con Maria Mazza, che - anche qui, si impone il dubitativo - avrebbe fatto pedinare da un investigatore). «Ma che te metti co' 'na ballerina? », esclamò, rivolta al figlio, come ricorda il sito Dagospia. Omettendo però il seguito della frase, altrettanto colorito, che a Roma si tramanda da allora e chissà se è vero: «Una che sta con le ch...e de fori in tivvù?». 

Il sogno non troppo segreto sarebbe stato che Francesco si accasasse felice con Sabrina Ferilli, romanista doc senza passate simpatie laziali, non è andata così. Di sicuro c'è che gli avvocati sono al lavoro, e che lavoro. Alessandro Simeone, di Milano, per Ilary, mentre per Francesco ci pensa Antonio Conte, lo stesso legale che segue i ricorsi della Roma e che ha assistito Daniele De Rossi e ora Nicolò Zaniolo nelle loro delicate vicende private. Perché fra l'ex coppia d'oro Totti-Blasi ballano milioni da assegnare, almeno cinque all'anno soltanto di ricavi dallo sconfinato patrimonio immobiliare.

"L'ex di Belen…": è lui l'uomo tra Totti e la Blasi? Francesca Galici il 13 Luglio 2022 su Il Giornale.

Stando ad alcune indiscrezioni, Francesco Totti avrebbe trovato dei messaggi compromettenti nel telefono di Ilary Blasi

Più che la crisi di governo, più che la crisi energetica, nelle ultime ore agli italiani interessa la crisi coniugale, quella tra Francesco Totti e Ilary Blasi. I due avrebbero dovuto rilasciare un comunicato congiunto in cui annunciavano la fine del matrimonio ma, una divergenza anche su questo aspetto, ha fatto saltare i piani. I due hanno rilanciato due note stampa disgiunte, alimentando il gossip sulle nozze naufragate nel peggiore dei modi. Nel frattempo, mentre gran parte dell'Italia attendeva la comunicazione che avrebbe definitivamente spento qualunque speranza, il settimanale Chi lanciava un'anticipazione del numero in edicola da oggi, che mostrava le prime foto della coppia formata da Francesco Totti e Noemi Bocchi, che si frequentano ormai da mesi, ma non solo.

"Tutto sarebbe partito quando il Capitano ha letto alcuni messaggi compromettenti sul telefono della moglie. Si vocifera di una relazione con un aitante giovane per il quale la Blasi avrebbe letteralmente perso la testa e che avrebbe frequentato lontano dai riflettori durante le sue trasferte milanesi", si legge sul settimanale Chi. Dallo scorso marzo, infatti, Ilary Blasi è spesso stata a Milano per condurre l'Isola dei famosi e nel corso delle sue trasferte all'ombra della Madonnina non si sarebbe mai visto Francesco Totti. La crisi, in effetti, era già stata paventata a febbraio, anche se smentita da entrambi. Ma dopo il lancio di Chi, che non ha fatto il nome del misterioso "aitante giovane" che avrebbe frequentato Ilary Blasi a Milano, è iniziata la corsa per capire con chi si sarebbe potuta vedere la conduttrice dell'Isola quando stava a Milano.

L'accordo tra Totti e Ilary c'è già: "Assegno mensile a diversi zeri"

A rivelarne la presunta identità è stato il Corriere della sera: "Il misterioso uomo che mandava i messaggini compromettenti a Ilary, poi scoperti da Francesco sul cellulare della moglie - ultima goccia di un vaso traboccante di incomprensioni - sarebbe Antonino Spinalbese". Per chi non fosse aggiornato sul gossip, Antonino Spinalbese è l'uomo che due anni fa ha fatto perdere la testa a Belen Rodriguez, con il quale l'argentina ha avuto la sua seconda figlia, Luna Marì. "Magari è una facezia", sottolinea il Corriere della sera, ma intanto il nome di Antonino Spinalbese e, di conseguenza, quello di Belen Rodriguez, è finito nel grande circolo della notizia dell'estate e, forse, dell'anno. A Milano circolano tante voci sul possibile uomo che avrebbe frequentato Ilary Blasi nelle sue notti sotto la Madonnina ma di certezze, ancora, sembrano non essercene. E probabilmente non ce ne saranno. 

Ora l'amante di Totti mantiene un profilo basso: "Ha tolto il cognome". Novella Toloni il 13 Luglio 2022 su Il Giornale.

La nuova fiamma di Francesco Totti, molto conosciuta a Roma, sarebbe stata costretta a mantenere un basso profilo e sparire dagli ambienti mondani, che frequentava prima dello scandalo Totti

Tutti la vogliono, ma nessuno la trova. Noemi Bocchi, la nuova fiamma di Francesco Totti, è sparita dai radar di paparazzi e curiosi dopo la notizia dell'addio tra il Pupone e Ilary Blasi. Ma tra i motivi della crisi coniugale della coppia, poi sfociata nel divorzio, c'è anche il suo nome.

Il settimanale Chi ha confermato le voci che tra lei e Francesco Totti ci fosse un flirt da mesi, ma mancavano solo le prove: le foto di una notte trascorsa insieme, che la rivista di Signorini ha pubblicato nel numero in edicola da oggi. Quelle foto, però, sono le uniche in circolazione. "Per evitare altri gossip, da quando è scoppiato il caso sta limitando al massimo uscite e occasioni mondane", riporta il Messaggero.

Noemi Bocchi ha scelto di mantenere un basso profilo, sparendo dalla circolazione e limitando al massimo le uscite e i contatti con l'esterno. Ha reso privato il suo profilo Instagram e ha tolto il cognome dal citofono della sua casa al piano terra di via della Mendola, nella zona residenziale di Roma nord. Si dice per evitare di ricevere visite indesiderate. In quella abitazione Totti è stato paparazzato pochi giorni fa, ma già a metà febbraio la sua Lamborghini nera sarebbe stata notata sotto casa di Noemi e la cosa non sarebbe sfuggita ai tifosi giallorossi, dando il via alla girandola di voci e rumor, che hanno portato ai fatti di questi giorni.

L'accordo tra Totti e Ilary c'è già: "Assegno mensile a diversi zeri"

"Negli ultimi mesi si è vista molto poco, sempre a causa dei troppi occhi puntati addosso. Ultimamente quando veniva a prendere i bambini all'uscita da scuola non scendeva più neanche dalla macchina", riferisce ancora il quotidiano, evidenziando come Noemi stia cercando di tenersi alla larga dai gossip. Trentaquattro anni, laureata in Economia Aziendale e Bancaria alla Lumsa, flower designer di professione, la Bocchi è l'ex moglie dal patron del Tivoli calcio Mario Caucci, con il quale ha avuto due figli di 8 e 10 anni. La scintilla con Totti sarebbe scoppiata grazie alla passione per il padel e per la Roma.

Anche se Noemi in giro per la capitale si vede sempre meno, le voci sulla frequentazione con l'ex capitano della giallorosso circolano veloci. Del suo amore tormentato con Totti, la Bocchi ne parlava già lo scorso anno: "Dall'estetista a Ponte Milvio quest'inverno, mentre faceva la manicure, passava ore al telefono 'parlando della sua nuova storia movimentata, ma facendo molta attenzione a fare nomi', racconta ancora qualche cliente vip indiscreta", riporta il Messaggero. Ma mentre Noemi è nell'occhio del ciclone, si cerca con insistenza di risalire al nome dell'uomo, che avrebbe fatto perdere la testa a Ilary. "Chi" ha rivelato, infatti, che la crisi Totti-Blasi sarebbe cominciata quando il Pupone ha scoperto una chat intima tra l'ex moglie e un aitante giovane ancora sconosciuto. 

L'accordo tra Totti e Ilary c'è già: "Assegno mensile a diversi zeri". Novella Toloni il 13 Luglio 2022 su Il Giornale.

Le negoziazioni sul divorzio e sull'accordo economico sarebbero iniziate subito dopo la smentita del marzo scorso. L'annuncio di lunedì sarebbe stata solo una formalità

I panni sporchi si lavano in famiglia, soprattutto quelli che riguardano la sfera economica. E così, dopo ore di ipotesi e supposizioni, ecco spuntare l'indiscrezione: Ilary Blasi e Francesco Totti avrebbero già raggiunto un accordo sul cospiscuo assegno di mantenimento, che la conduttrice riceverà dall'ex marito alla luce della fine del loro matrimonio. Senza neanche presentarsi davanti ai giudici.

Secondo quanto riportato dal Messaggero Ilary Blasi dovrebbe restare a abitare con i suoi tre figli nella mega villa dell'Eur, dove la famiglia ha vissuto fino a oggi, e dovrebbe ricevere dal Pupone un assegno mensile di mantenimento a diversi zeri. Nell'accordo sarebbe compresa anche una lauta liquidazione per Ilary derivante dalla partecipazione societaria nella Number Five srl e nella Società sportiva Sporting Club Totti. All'orizzonte non si prospetta, dunque, nessuna battaglia legale per spartirsi il patrimonio familiare o la custodia dei figli. L'accordo - raggiunto in via stragiudiziale - si dovrebbe perfezionare entro giovedì, chiudendo la vicenda in appena 48 ore dall'annuncio dell'addio.

Grazie alla nuova procedura della separazione con negoziazione assistita - introdotta nel 2014 - le coppie possono conseguire lo status di separati senza passare dal tribunale e accorciando notevolmente i tempi. Con la procedura tradizionale ci sarebbero voluti, invece, almeno sette mesi e qualche passaggio in tribunale - con tanto di riflettori puntati addosso - per raggiungere un accordo. Mentre con la nuova prassi, una volta ottenuta l'autorizzazione del pubblico ministero e la ratifica degli avvocati delle due parti, la pratica si conclude in circa un mese e mezzo. A tenere saldamente i fili della trattative sono stati gli avvocati, Alessandro Simeone (già legale di Simona Ventura quando si separò da Bettarini) dalla parte della Blasi e Antonio Conte (già legale di Zaniolo e Daniele De Rossi nelle rispettive separazioni) per conto di Totti.

Chat, tradimenti e scenate: così è finita tra Totti e Blasi

Il quadro dell'intera vicenda sembra essere abbastanza chiaro. Nonostante le smentite della coppia, la crisi dello scorso marzo era vera, ma Ilary e Totti avrebbero preferito prendersi del tempo prima di ufficializzare l'addio per mettersi al tavolino a riflettori spenti. La coppia avrebbe utilizzato gli ultimi quattro mesi per sistemare le carte del divorzio e raggiungere un accordo al riparo dal clamore mediatico. Sempre secondo il Messaggero, le carte legali sarebbero già state firmate e il resto sarebbero solo formalità. Per questo Ilary è volata in Tanzania insieme ai figli e alla sorella Silvia mettendo un punto ai gossip e allontanandosi da tutto.

Corna, il segreto svelato sul tradimento: cosa c'è dietro (e cosa devi sapere). Libero Quotidiano il 13 luglio 2022

Estate, tempo di grande caldo, afa, vacanze e... tradimenti. Già, le "corna" d'estate si moltiplicano in modo esponenziale, con buona pace dei traditi. E l'argomento torna di grande, grandissima attualità. Si pensi anche alla freschissima separazione tra Ilary Blasi e Francesco Totti, dietro alla quale, appunto, sembra - il condizionale è d'obbligo - ci siano state scappatelle e tradimenti. Corna, appunto.

Ma vi siete mai chiesti perché si dice "mettere le corna"? Frase, ammettiamolo, non molto elegante per quanto sia tremendamente efficace. L'espressione per inciso non si usa solo in Italia, ma anche in altri Paesi europei. E trova le sue radici in un antico mito che ha al centro un re, una donna, un amore malsano e una divinità che sfruttò per vendetta quell'amore.

La versione più accreditata sull'origine della frase "mettere le corna" punta dritta dritta ai miti greci e pre-attici, quelli della civiltà Minoica. Infatti la leggenda narra che Pasifae, la moglie del re di Creta Minosse, si fosse invaghita di un bellissimo toro che le era stato regalato da Poseidone. Così Minosse non usò quello splendido esemplare per i sacrifici rituali e lo sostituì con un altro. Ma Poseidone non apprezzò il gesto e così, per vendetta, fece innamorare proprio Pasifae del toro, la quale si fece aiutare da Dedalo a costruire un simulacro di mucca che avrebbe usato per congiungersi con il suo peculiare innamorato.

Da quell'amore insano nacque il minotauro, il celebre mostro della leggenda con testa di toro e corpo di uomo, simbolo di tradimento. E così da quel giorno, conclude la leggenda, gli abitanti di Creta iniziarono a salutare il re Minosse mimando con le mani il gesto delle corna per deriderlo.

Ilary Blasi e Totti, "fosse stato per lui...": testimonianza straziante sul Pupone. Libero Quotidiano il 12 luglio 2022

"Se fosse stato per Francesco, questo matrimonio sarebbe continuato": Alex Nuccetelli, pr romano e grande amico della coppia Totti-Blasi, si è espresso così sulla loro separazione in un'intervista al Messaggero. Ieri sera, infatti, i due hanno fatto sapere che il loro matrimonio è finito, proprio come anticipato da Dagospia. Nuccetelli, artefice dell'incontro tra l'ex calciatore e la conduttrice, ha aggiunto anche: "Mi è capitato di fare incontrare tante persone che si sono innamorate o fidanzate, ma questo senza dubbio è stato il matrimonio più bello. Non sono state tutte rose e fiori, è normale, ma sono molto orgoglioso di averli presentati".

Il pr, poi, ha rivelato qualche dettaglio in più sulla rottura: "Hanno aspettato che Ilary terminasse il programma, l'Isola. Si sono presi del tempo, dopo che esplose il caso qualche mese fa, per organizzare tutto, sistemare anche i vari legittimi rapporti economici. Lo hanno fatto anche per i rispettivi attuali compagni, penso". Parlando invece di come i due si sono conosciuti, ha raccontato: "Eravamo in una sala hobby della casa della mamma di Francesco. Eravamo tanti amici, passavamo il tempo tra calcio balilla e biliardo. Stavo giocando proprio a biliardo con Francesco, quando in tv ci fu l’edizione serale di Passaparola. Inquadrarono Ilary e lui mi disse: 'aò, non puoi capire quanto mi piace la letterina romana, me la sposerei'. Io gli risposi: 'ma la conosco, faceva serate anche con me'". 

Sulla presunta nuova fiamma di Totti, Noemi, Nuccetelli ha detto: "Diciamo che si sono conosciuti a una serata che avevo organizzato io. Non a Roma però, Francesco era andato a un torneo di padel. Non so poi come sia proseguita la storia, ma sono certo che per Francesco non fu solo una storia di una sera. Si tratta di qualcosa di importante, cosa non così frequente per lui". 

Ilary Blasi si separa da Totti? "Caciottara, che figura di...": la frase pesantissima. Libero Quotidiano l'11 luglio 2022

Con la separazione consensuale tra Francesco Totti e Ilary Blasi che è diventata ufficiale, alcuni dei giornalisti che per primi avevano dato la notizia lo scorso febbraio si sono tolti qualche sassolino dalle scarpe. Il capitano e la conduttrice di Mediaset avevano bollato come fake news le voci sulla crisi del loro matrimonio: soprattutto Ilary era stata piuttosto aggressiva nei toni.

“Il 21 febbraio lo scoop di Dagospia - ha twittato Giuseppe Candela - pioggia di smentite, offese e lezioni di giornalismo. Dagospia aveva fatto bene il suo lavoro. Fortunatamente capita spesso. Questo però dice molto sulla logica di certe smentite”. Davide Maggio è invece stato ancora più diretto, soprattutto nei confronti della Blasi: “Com’è che Ilary definiva la notizia della fine del matrimonio con Totti, lanciata mesi fa da Dagospia e ripresa a ruota da altre testate? Ah, sì, figura di me***. Caciottara. Rispetto per la stampa”.

Nel frattempo, dopo la Blasi anche Totti ha affidato una dichiarazione all’Ansa: “Ho tentato di superare la crisi del mio matrimonio, ma oggi capisco che la scelta della separazione, pur dolorosa, non è evitabile. Tutto quello che ho detto e fatto negli ultimi mesi è stato detto e fatto per protegger i nostri figli, che saranno sempre la priorità assoluta della mia vita. Continuerò a essere vicino a Ilary nella crescita dei nostri tre meravigliosi figli, sempre nel rispetto di mia moglie”. 

Ilary Blasi ha tradito Totti? "Messaggi compromettenti": com'è iniziato tutto. Libero Quotidiano l'11 luglio 2022

"La vostra storia d'amore potrebbe sopravvivere a un tradimento, dell'una e dell'altro?": questa la domanda che Francesca Fagnani fece a Ilary Blasi a Belve su Rai 2 qualche tempo fa, quando già era trapelata un'indiscrezione sulla loro rottura, poi smentita dai diretti interessati. La conduttrice rispose subito: "No, né dell'uno né dell'altra". 

Poi le venne mostrata la foto di una ragazza allo stadio a pochi metri da Totti, origine della notizia del presunto tradimento. "Lei ha raccontato che dietro quella foto ci fosse una macchinazione, si è chiesta chi fosse l'artefice?", le chiese la Fagnani. E la Blasi: "Avevo altro a cui pensare in quel momento". Adesso le voci su una separazione sono tornate a farsi di nuovo forti. A rilanciare lo scoop è Dagospia, secondo cui i due annunceranno presto la fine consensuale del loro matrimonio.

Il settimanale Chi, in edicola mercoledì 13 luglio, ha ricostruito dettagliatamente la separazione Totti-Blasi: "Tutto sarebbe partito - si legge nelle anticipazioni - quando il Capitano ha letto alcuni messaggi compromettenti sul telefono della moglie. Si vocifera di una relazione con un aitante giovane per il quale la Blasi avrebbe letteralmente perso la testa e che avrebbe frequentato lontano dai riflettori durante le sue trasferte milanesi per condurre L'isola dei famosi". 

Ilary Blasi, ora è finita davvero: "Non parlerò più", come si "consola" Totti. Libero Quotidiano l'11 luglio 2022

Ci si aspettava un comunicato congiunto, e invece poco dopo le 21 di lunedì 11 luglio a parlare è soltanto Ilary Blasi. La conduttrice di Mediaset ha affidato all’Ansa una dichiarazione diffusa dalla sua agente: “Dopo vent’anni insieme e tre splendidi figli, il mio matrimonio con Francesco è terminato. Il percorso della separazione rimarrà comunque un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia”.

Nessuna voglia di parlare di quanto sta accadendo, dopo che le indiscrezioni circolate lo scorso febbraio erano state smentite: e invece la crisi era vera e ha portato a questo momento di separazione definitiva. “Invito tutti - ha chiosato la Blasi - a evitare speculazioni e, soprattutto, a rispettare la riservatezza della mia famiglia”. Tutto tace, invece, per quanto riguarda Francesco Totti. Prima ancora della dichiarazione di Ilary, il settimanale Chi ha diffuso le anticipazioni del prossimo numero in edicola mercoledì 13 luglio: la copertina è dedicata proprio a loro, con tanti dettagli inediti e le foto che confermano la relazione tra Totti e Noemi Bocchi. Il capitano è infatti stato beccato mentre si faceva accompagnare a casa di Noemi e poi si faceva venire a prendere da un amico nel cuore della notte. 

Secondo il settimanale, non sarebbe però stato il capitano a tradire: “Tutto sarebbe partito quando ha letto alcuni messaggi compromettenti - si legge nelle anticipazioni - sul telefono della moglie. Si vocifera di una relazione con un aitante giovane per il quale la Blasi avrebbe letteralmente perso la testa e che avrebbe frequentato lontano dai riflettori durante le sue trasferte milanesi per condurre L'isola dei famosi”.

Pubblicate le foto tra l'ex capitano della Roma e la nuova compagna. Noemi Bocchi e Francesco Totti, “Chi” ufficializza la fine del matrimonio con Ilary Blasi. Redazione su Il Riformista l'11 Luglio 2022. 

E’ il settimanale “Chi” ad ufficializzare la fine del matrimonio tra Francesco Totti e Ilary Blasi. Nel numero in edicola a partire da mercoledì 13 luglio sono pubblicate le immagini esclusive  che confermano il legame fra l’ex capitano della Roma e Noemi Bocchi, ex moglie di un dirigente di una squadra di calcio laziale. Due giorni prima dell’annuncio, infatti, Totti è stato a casa di Noemi dalle 20 e 30 alle 2 e 30 di notte, accompagnato da un amico a bordo di una Smart. Il Capitano si è recato a casa della donna, lasciando la propria auto in un parcheggio e facendosi portare dall’amico.

E poi, sempre insieme con lui è tornato a riprendere la propria macchina a notte fonda. Le voci sulla crisi della coppia Totti-Blasi si susseguono dall’inizio dell’anno e si è parlato di nuove relazioni da entrambe le parti, anche se sempre smentite per proteggere la famiglia. Totti e Noemi sono stati visti più volte al ristorante Isola del pescatore a Santa Severa. Poi allo stadio. E ancora a Monte Carlo e a Tirana insieme. Il settimanale ‘Chi’ ricostruisce in modo dettagliato la separazione tra Totti e Ilary Blasi. Tutto sarebbe partito quando il Capitano ha letto alcuni messaggi compromettenti sul telefono della moglie. Si vocifera di una relazione con un aitante giovane per il quale la Blasi avrebbe letteralmente perso la testa e che avrebbe frequentato lontano dai riflettori durante le sue trasferte milanesi per condurre “L’isola dei famosi”. Così quando Totti ha smentito la crisi, la rottura era già in atto, ma la bandiera della Roma ha cercato di fare il possibile fino all’ultimo per proteggere i figli Christian, Chanel e Isabel.

Una storia lunga 20 anni, quasi 17 di matrimonio, fatta di dediche in campo, pollici in bocca ai goal e maglietta alzata con la scritta 26 unica” e tre figli bellissimi. Una favola che potrebbe essere al capolinea ufficialmente nelle prossime ore.

In serata l’annuncio ufficiale con due dichiarazioni distinte.

LE PAROLE DI ILARY

“Dopo vent’anni insieme e tre splendidi figli, il mio matrimonio con Francesco è terminato. Il percorso della separazione rimarrà comunque un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia. Invito tutti a evitare speculazioni e, soprattutto, a rispettare la riservatezza della mia famiglia”. Così Ilary Blasi annuncia all’ANSA la separazione da Francesco Totti, in una dichiarazione diffusa dalla sua agente.

LE PAROLE DI TOTTI 

“Ho tentato di superare la crisi del mio matrimonio, ma oggi capisco che la scelta della separazione, pur dolorosa, non è evitabile“: cosi’ Francesco Totti annuncia all’ANSA la separazione da Ilary Blasi. “Tutto quello che ho detto e fatto negli ultimi mesi è stato detto e fatto per proteggere i nostri figli, che saranno sempre la priorità assoluta della mia vita. Continuerò a essere vicino a Ilary nella crescita dei nostri tre meravigliosi figli, sempre nel rispetto di mia moglie. Confido – conclude Totti – nel massimo rispetto della nostra privacy, soprattutto per la serenità dei nostri figli”. “Il percorso della nostra separazione – è la conclusione dell’ex capitano della Roma – rimarrà per me rigorosamente privato e dunque non rilascerò altre dichiarazioni.

Ad anticipare la rottura il sito Dagospia che in giornata ha annunciato che “Francesco Totti e Ilary Blasi comunicheranno al popolo italiano, con un comunicato congiunto, la decisione di separarsi in modo consensuale”.  Già lo scorso 21 febbraio iniziarono a circolare voci sulla rottura tra Totti e Ilary sempre però smentite dai diretti interessati che però da tempo vivrebbero da separati in casa all’Eur. Alla base della fine della relazione presunti tradimenti, da una parte quello dell’ex calciatore con una ragazza più giovane, dall’altra quello di Ilary con un uomo della tv. Totti aveva replicato con un video “fai da te” in cui si diceva stanco delle continue bugie che uscivano sul suo conto e su quello della famiglia. “Nelle ultime ore ho letto sui media tante cose su di me e soprattutto sulla mia famiglia. Non è la prima volta che mi succede di sentire queste fake news” aveva detto in alcune stories pubblicate sul suo profilo da oltre 4 milioni di follower. “Mi rivolgo a tutti voi che scrivete tutte queste cose di fare attenzione perché di mezzo ci sono dei bambini e i bambini vanno rispettati. Sinceramente mi sono veramente stancato di dover smentire”.

“La nostra storia non potrebbe superare un tradimento” aveva commentato Ilary Blasi ospite a fine marzo del talk show Belve su Rai2. La Blasi aveva ribadito lo stesso concetto già rivelato a Verissimo lo scorso 20 marzo, intervistata da Silvia Toffanin: solo ‘una macchinazione’, anche se non sa chi ne sia stato l’artefice. Per quanto riguarda Noemi, la ragazza che era stata addirittura indicata come ‘nuova fidanzata’ di Totti, ne è certa: tutto un complotto.

Ilary Blasi aveva già raccontato a Verissimo quale sia stato l’unico momento complicato della relazione con il marito: “Non abbiamo mai avuto una vera crisi, ma devo dire che abbiamo vissuto un momento difficile nel periodo in cui stava lasciando il calcio. Più che una crisi di coppia era una sua crisi che si è inevitabilmente riversata sulla coppia, ma credo che sia normale, un po’ me lo aspettavo, diciamo che ero quasi pronta”.

Dagonews il 12 luglio 2022.  

Le strade dell'amore sono infinite ma hanno snodi precisi, che passano attraverso quei Cupido occasionali (o professionali) che mettono in contatto anime, cuori e coratelle. O più prosaicamente creano un ponte tra domanda e offerta. E' il caso di Alex Nuccetelli, ex compagno di Antonella Mosetti e padre della ex gieffina Asia. Classe 1977, è un Pr e body builder molto attivo nella vita notturna romana.

Amico dei vip, è finito nelle cronache rosa per le chiacchieratissime avventure con Sara Tommasi, Valeria Marini e Melissa Satta. Uno con le mani in pasta dappertutto, che organizza feste, eventi, cene a cui partecipavano (e partecipano anche oggi) i calciatori della Roma (destinazione preferita il ristorante "Le Gru" a Ponte Milvio). Fu lui, ad esempio, a presentare Ilary Blasi a Francesco Totti nel lontano 2001. 

Ed è stato sempre il prezzemolino Nuccetelli ad aver messo in contatto il "Pupone" con Noemi Bocchi, attraverso uno dei suoi eventi, quelli in cui calciatori e vip possono  chiacchierare amabilmente con attrici, modelle, bonazze varie. Così va il mondo: si scambiano due parole, e tra una tartina al salmone e un congiuntivo sbilenco, da cosa può nascere cosa.

E tra Totti e Noemi Bocchi la fiamma s'accesa da tempo. "Da più di un anno", dicono le malelingue. Al punto che il giorno di San Valentino, Francesco Totti avrebbe fatto consegnare alla biondissima Noemi un mazzo di tredici rose rosse, una per ogni mese della loro "conoscenza". 

I veleni romani inzuppano la lingua biforcuta nella crisi coniugale di Totti e Ilary: "Sarà contenta la madre del Capitano, mamma Fiorella, visto che ha sempre detestato la Blasi. Quando si fidanzarono non fu per niente contenta. Gli disse: 'Te metti co' 'na ballerina, mah'…". 

"E' andata bene anche a Ilary - insistono gli "addetti ai livori" - si è liberata del "cerchio magico" di amici e tuttofare che gravita intorno a Totti (con l'ex compagno di squadra Vincent Candela, in testa) che lei non sopportava più. Non amava per niente "le loro abitudini..."

Alberto Dandolo per oggi.it il 12 luglio 2022.

Ilary Blasi e Francesco Totti, una storia d’amore vera. Finché è durata. Ma anche una iconica rappresentazione di certezze affettive ed emotive deluse. È il finale di una storia che affonda le sue ragioni in una disarmante normalità: quella di chi sa di essere un simbolo, ma che non sa reggere al ruolo che rappresenta 

DUE RAGAZZI DI 40 ANNI – Lui, Francesco Totti, potente e intoccabile calciatore, pregno delle aspettative di una intera città e dei suoi tifosi. Lei, Ilary Blasi, star televisiva irriverente e cinica. Un baluardo di interessi economici, societari e familiari che hanno di certo condizionato l’ autenticità, assai scomoda, delle loro scelte. In realtà, questi due ragazzi di 40 anni sono stati nel loro privato e in tutto il loro percorso di coppia assai più liberi e impavidi in tutti questi anni. Credendo di essere talmente intoccabili da poter evitare gli effetti pubblici delle loro umane e carnali leggerezze. Una ingenuità saccente e aurorale. Ma anche un enorme errore di calcolo. Tipico dei ragazzi di una certa provincia che si sopravvalutano. 

I TRADIMENTI E I NUOVI AMORI – In fondo, la loro fedeltà era da anni la storia di Pulcinella, come racconta chi li conosce bene. Tutti sapevano, da Roma a Milano, della libertà da loro scelta per far sopravvivere l’immagine del loro amore. Ciò che ha condotto alla rottura pubblica di questa bellissima coppia è stato l’irrompere nei loro cuori di una cosa che si chiama amore.

Ognuno di loro a un certo punto si è innamorato di qualcun altro. Lui forse della giovane Noemi e lei forse di un giovane e dolce imprenditore napoletano. Entrambi negli ultimi anni hanno scelto di essere privatamente liberi e pubblicamente schiavi della loro immagine. Ma, per sorte o per danno, a un certo punto hanno capito che non è peccato essere e vivere inseguendo semplicemente loro stessi. 

Alberto Dandolo per oggi.it il 13 luglio 2022.  

Ilary Blasi aveva già cinque biglietti pronti con annesse comode poltrone in business class per la “fuga” in Tanzania. Quasi a voler sospendere, attraverso una momentanea e a tratti pavida scomparsa, la responsabilità di rispondere pubblicamente di una scelta resa nota a mezzo stampa con un comunicato Ansa, come che da prassi i “guru” della comunicazione e del management artistico impongono ormai da anni ai loro famosi assistiti 

LA SEPARAZIONE – Un comunicato asettico, scarno e privo di una qualsivoglia tensione emotiva, quasi anaffettivo quello veicolato da Ilary Blasi per informare il mondo intero della sua separazione da Francesco Totti. Scrive nella nota di un amore terminato dopo 20 anni (e 17 di matrimonio), della volontà di non rendere pubblico il percorso legale, che sarà sicuramente complesso, del divorzio e termina invitando la stampa a non speculare su questa vicenda.

Sottolineando che lei in merito non rilascerà più altre dichiarazioni. Un filino saccente e irrispettoso verso quella stampa e quel pubblico che senza i quali, vuoi o non vuoi, la neo signorina Blasi avrebbe di certo avuto una vita e una carriera un tantino un po’ più anonima e una vita forse meno privilegiata a livello economico. Quando si è persona pubblica e si è sposati con un campione noto in tutto il mondo si ha probabilmente anche il dovere umano e professionale di dar conto all’«esterno» di alcuni snodi fondamentali della propria vita.

QUELLE MEMORABILI SERATE A MILANO – Ciò detto, il comunicato stampa di Ilary è esattamente lo specchio della sua personalità: razionale, essenziale, virile e di una furbizia plautina mascherata da volitiva intelligenza e saggia riservatezza.  Quando anni or sono la bellissima e ambiziosa ragazza della periferia romana fu scelta dalla storica responsabile casting Mediaset Gianna Tani per fare la Letterina a Passaparola aveva poco più di 20 anni e per quanto acerba ed inesperta non fece molta fatica ad accreditarsi tra i potenti dell’Azienda e tra i più noti “influencer” (ai tempi ancora analogici) delle notti meneghine. Memorabili le sue serate nelle migliori discoteche della città in compagnia della collega Alessia Fabiani e le sue ospitate nei più cool locali d’Italia. 

A Milano ancora si parla della sua focosa, giocosa e struggente relazione amorosa con il modello più bello e dannato in circolazione ai tempi: il biondo Shon, di origini nordiche. 

TANTI INDIZI, NESSUNA PROVA – Poi l’incontro organizzato a tavolino con il calciatore e così Ilary da reginetta della tv commerciale e delle albe sotto la Madonnina divenne la signorina Blasi e poi la signora Totti. Alla sua immagine pubblica si infuse una potente iniezione di immacolata perfezione. Da regina delle notti a regina del focolare domestico.

Da letterina a blasonata conduttrice tv. Eppure Ilary, per fortuna o per incoscienza, la sua vera natura non l’ha mai veramente tradita. Le voci, insistenti e a volte invadenti, sul suo approccio virile alla vita e all’altro sesso l’hanno sempre rincorsa. Si favoleggiò anni fa di una sua tresca con un noto dirigente del Biscione e poi di un imprenditore napoletano che alloggiava al lussuoso Mandarin hotel di Milano. Fino all’ex di Belen Antonino Spinalbese, all’attore Luca Marinelli e per ultimo al suo personal trainer. 

Parole, pettegolezzi e supposizioni che lasciano il tempo che trovano. Perché lei, a differenza del suo più ingenuo ex consorte, è scaltra assai e se tradimenti furono non me ha mai lasciato traccia alcuna. Quella stessa scaltrezza che le ha già fatto fare il primo gol contro Francesco Totti attraverso la stipulazione di un accordo sul mantenimento. Sarebbe stato raggiunto per via extragiudiziale e dovrebbe essere perfezionato a breve. A quanto trapela, la conduttrice dell’Isola dei Famosi resterà a vivere con i figli nella casa dell’Eur e riceverà un assegno con molti zeri dall’ormai ex marito. Le quote di proprietà di Ilary nelle società dell’ex calciatore le saranno interamente liquidate. 

Nessun problema, dicono, sulle proprietà immobiliari visto che la coppia è in regime di separazione dei beni. Ora si attende solo l’ufficializzazione dell’accordo economico. E in attesa di apporre le sue firme su documenti e carte bollate, Ilary di certo starà firmando anche qualche autografo in quel della Tanzania. Lì dove ha deciso di “fuggire” per qualche giorno. Ma lei sa bene che fuggire non significa scomparire.

Francesco Balzani per leggo.it il 12 luglio 2022.

Lontano, lontanissimo. Ilary Blasi è sbarcata poche ore fa in Tanzania portando con sé i tre figli (Cristian, Chanel e Isabel) e la sorella Silvia. 

Una fuga programmata, dall’inevitabile ciclone mediatico che ha sconvolto la sua famiglia dopo il comunicato sulla separazione scritto sia dalla presentatrice sia da Francesco Totti. Con toni diversi e contenuti non condivisi, come qualcuno ha ribadito anche oggi.

Le foto di Totti con la nuova fiamma

Domani su Chi usciranno le foto dell’ex capitano romanista con la nuova fiamma Noemi Bocchi. Ilary ha deciso di partire il giorno dopo l’annuncio che ha scosso l’Italia. Destinazione Africa, una promessa fatta da tempo ai figli. Un resort di extra lusso, un safari già organizzato e il telefono spento.

Un modo per staccare, un tentativo di isolare i figli che comunque non rinunciano ai social dove da ore si registrano commenti, meme e ulteriori gossip. 

Totti circondato dalla famiglia

Totti, invece, fino a stamattina era a Roma circondato dalla famiglia e dagli amici storici. Si è chiuso nel silenzio, totale. In queste ore anche lui ha deciso di staccare la spina e in serata è dato in partenza per Sabaudia dove ha passato tante estati con Ilary. Lo stato d'animo non sarà lo stesso. 

Da lospecialegiornale.it il 12 luglio 2022.  

E’ ufficiale, Francesco Totti e Ilary Blasi si sono separati. Lo hanno annunciato loro stessi con due comunicati ufficiali nei quali specificano entrambi di voler tutelare la privacy della famiglia e dei tre figli in particolare. La notizia ha riempito le pagine di tutti i giornali e grande è stata la delusione dei fan che per anni hanno considerato la loro una grande storia d’amore destinata a durare in eterno. 

Per dare il senso del clamore suscitato dall’annunciata separazione basta leggere il titolo del Corriere della Sera: “Siamo tutti con Francesco Totti – e con Ilary Blasi: perché la loro separazione ci colpisce tanto”. Sembra di essere tornati ai tempi di Carlo e Diana. Eppure quante altre coppie famose si sono separate? Perché il divorzio fra Totti e la Blasi diventa quasi un evento epocale? Abbiamo provato a capirlo con lo scrittore Fulvio Abbate. “Bene ha fatto Dagospia a raccontare tutto fin dall’inizio – dice – questo si chiama giornalismo”. 

Perché tanto clamore intorno alla separazione fra Totti e Ilary Blasi nonostante i diretti interessati stiano riducendo il tutto ad un fatto privato? In fondo a noi cosa interessa della fine del loro matrimonio? Possibile che debba diventare la notizia più importante della giornata?

“Non può essere un fatto privato visto che parliamo di due personaggi pubblici fortemente radicati nel mondo che un tempo veniva definito ‘Bolero film’, una sorta di fotoromanzo nazionale e popolare, o meglio ancora rionale. Lui si è conquistato il titolo di ottavo re di Roma, lei è una procace fanciulla latina, ed è paradossale come in città questa separazione sia stata vissuta come uno psicodramma. 

Forse ci siamo dimenticati che fra le conquiste civili raggiunte in Italia c’è anche il divorzio. Dopo quello fra Carlo e Diana è comprensibile che si separino anche due ragazzi di Porta Metronia. Quindi vivo la loro separazione come una liberazione, e trovo orribili questi retrivi tentativi di voler rendere eterna la loro unione. Sembra quasi che dietro i pianti per questa separazione si nasconda il desiderio di un nuovo referendum abrogativo del divorzio”. 

Ma che Italia è quella che arriva ad addolorarsi perché due vip decidono di separarsi?

“Invece di applaudire alla riconquistata libertà di Totti e della moglie, un popolo che non saprei come definire si riscopre in lacrime come davanti ad un grande dramma nazionale. Viviamo in una sorta di preistoria sentimentale in cui non si accetta che la favola possa avere un finale differente rispetto alla pretesa di un amore eterno. Ma a quelli che piangono è sfuggito un particolare”. 

Ossia?

“Che la nuova fidanzata di Totti è la fotocopia della moglie. Guardi Noemi Bocchi e ti accorgi che è come se Ilary in realtà non se ne sia mai andata. Dovrebbero sentirsi tutti rassicurati dal fatto che ha scelto una nuova compagna identica alla Blasi. Si fosse messo con una ragazza dai capelli rossi ci saremmo pure potuti domandare come mai Totti avesse improvvisamente cambiato gusti, ma la Bocchi è la prosecuzione somatica di Ilary, quindi sotto certi aspetti la favola rimane intatta”. 

Perchè hanno annunciato la separazione con due comunicati distinti in cui hanno detto le stesse cose, ovvero che la separazione è consensuale e che proteggeranno la privacy dei loro figli senza rilasciare altre dichiarazioni?

“Penso sia tutto legato alla separazione dei beni e delle società che hanno in comune. Probabilmente sono stati i rispettivi legali a consigliare loro di agire in questo modo, visto che adesso inizierà la battaglia sul patrimonio. Almeno stando a quello che si legge sui giornali”. 

Ma se la separazione è consensuale?

“Le separazioni non sono mai consensuali”. 

Si aspettava la separazione visto che per anni i giornali hanno descritto la loro unione come perfetta, priva di ombre e contraddistinta da una forte intesa sia familiare che professionale?

“Non ho mai creduto alla favola sdolcinata sinceramente, sono convinto che dopo un mese le coppie già si odiano, non si sopportano più. Io dico che era ora che si lasciassero, ognuno ha fatto dono all’altro della riconquistata libertà. Un conto è la realtà, un altro è credere che la vita sia un fotoromanzo. L’amore non è eterno, come niente lo è al mondo, e se devo dirla tutta sono contento che non lo sia. Provo una grande compassione per chi si sente addolorato da questa rottura”. 

Ci sono state nella storia tante celebri separazioni, su tutte quella fra Carlo e Diana. Quale è stata secondo lei quella che ha colpito di più, la più dolorosa, e perché?

“Dopo che il filosofo marxista Louis Althusser nel 1980 uccise strangolandola la moglie Hélène Rytmann nessuna separazione può francamente sorprendermi o colpirmi. Non credo proprio si possa provare dolore per una coppia che si separa dopo un tragico evento come quello appena citato”.

Qualcuno ha paragonato la fine della storia fra Totti e Ilary a quella fra Albano e Romina. Ci vede analogie?

“Assolutamente no. Romina proveniva da Hollywood e Albano da Cellino San Marco, due mondi per certi versi antitetici. Dal punto di vista antropologico invece Totti e Ilary provengono dallo stesso mondo, quello della romanità coatta, sono alla fine la stessa cosa”.

Da claudiopea.it del 26 maggio 2022

Scontatamente erano tutte fake news quelle che a febbraio ha sparato per primo Dagospia, il sito di Roberto D’Agostino che in verità difficilmente prende un granchio, sulla rottura prolungata tra Francesco Totti e Ilary Blasi dopo 17 anni di matrimonio, tre figli e un’unione che pareva a prova di bomba. E subito confermate con dovizie di particolari scottanti da quotidiani come la Repubblica e il Curierun che di solito non si occupano di gossip se non sono proprio quando sono tirati per i capelli e sono certi che non si tratti di una clamorosa bufala da blogging.

Ma è bastato che la notizia anche di una sbandata del grande Pupone per “una bellissima ragazza bionda, sposata e separata (con due figli) che molto somiglia a sua moglie con qualche anno (sette, ndr) di meno”, fosse smentita dalla show girl che sta conducendo l’Isola dei famosi nell’ennesima intervista apparecchiata a Verissimo da Silvia Toffanin, la nuora di Silvio Berlusconi, uno degli uomini più sin integerrimi e amati dall’Italia dei benpensanti, perché il popolo giallorosso, e non solo, si convincesse che i giornalisti si erano inventati ancora una volta tutto soltanto per il gusto d’infangare una bella storia d’amore che dura, senza dubbi e ombre, da ormai un ventennio.

Non dobbiamo dare spiegazioni a nessuno, si era indignata Ilary nello studio di casa. Pardon, di Mediaset. “Se non ai nostri figli che ce le hanno chieste”. Brava, questo mi pare molto giusto. Però ha poi anche parlato d’accanimento mediatico e di scandalose fake news nei confronti della sua famiglia e di una “certa Noemi, che non conosco e che Francesco ha forse conosciuto in un centro sportivo: lei gli ha chiesto una foto come succede tutti i giorni nella vita di mio marito. La gente gli chiede autografi, si ferma, gli parla”.

Come no? E qui mi sembra francamente che l’abbia fatta un po’ fuori dal boccale perché Repubblica non può, se non ben informata sulla crisi della coppia, essere arrivata a scrivere in data 22 febbraio, due giorni prima dell’inizio della guerra di Putin all’Ucraina, che “la separazione c’è già di fatto con tanto d’accordi economici. A lei spetterà la casa di oltre 600 metri quadri nel quartiere Torrino con spa, giardino e campo di padel. Lì Ilary resterà con Cristian, Chanel e Isabel. Totti invece vuole tornare nella villa a Casal Palocco dove stavano i genitori.

Ora che la mamma si è trasferita all’Eur nell’attico con piscina del figlio, quello che aveva affittato ad Allison e poi a Zaniolo”. E ancora: “La rottura è arrivata quest’estate. Le loro liti erano diventate quotidiane. Secondo quanto raccontano le persone vicine all’ex capitano della Roma che ha scoperto cose su Ilary che non sapeva e che probabilmente andrà a vivere con “tale Noemi” nella nuova, vecchia casa…”. Sino agli scabrosi dettagli: “Al compleanno (numero 45) di Totti lei non c’era, mentre sui social appare spesso: in pizzeria con le amiche o in discoteca con Luca Tommassini. O in Lapponia, sempre con il coreografo. Ma mai col marito”.

Così adesso avrete meglio capito quanto mi tornino utili i ritagli di giornali che la Tigre farebbe volentieri volare fuori dalla finestra anche domani o le agende di pensieri e appunti di cui vi ho parlato martedì scorso nell’articolo di questo blog che si sforza d’essere satirico e sempre sul pezzo. Come l’intera pagina (25) che il Corriere della Sera del 23 febbraio, nel giorno del 52esimo (!) anniversario del mio matrimonio, altro che Sandra e Raimondo del terzo millennio come avevamo immaginato sino a ieri il Pupone con la Blasi, ha dedicato alla vicenda con tanto di foto di Noemi Bocchi, seduta in tribuna all’Olimpico durante Roma-Genoa (0-0) del 5 febbraio un paio di file sopra Francesco per non dare troppo all’occhio, però ugualmente pizzicata e addirittura evidenziata da un circoletto rosso alla Rino Tommasi.

E un titolone di ben quattro righe: “Totti e Ilary. “Su di noi false notizie”. E i due cenano insieme con i figli al ristorante”. Più il sommario: “Il campione smentisce con un video le voci di un suo flirt”. O kappa. Peccato che poi Giovanna Cavalli e Gianluca Piacentini nell’articolo a quattro mani raccontino molto di lady Bocchi, l’ex signora dell’imprenditore Mario Caucci, e di una partita a padel che fu galeotta oltre che di una frequentazione con Totti che non poteva essere di certo considerata casuale. Difatti sempre il Curierun del giorno prima non aveva avuto incertezze sparacchiando: “Totti e Ilary favola finita: coppia al capolinea, vivono da separati in casa”.

Bene. Vi ho tenuto sin qui sulle spine. Anche troppo, potrebbero brontolare i mai contenti tra i miei aficionados. Però credo che ne sia valsa stavolta la pena: il gossip è grosso. Così come il mio interesse per la presunta separazione della celebre coppia d’assi capitolina di cui non si parlava più da ormai tre mesi, soffocata e sputtanata alla voce fake news.

Perché un amico della palla nel cestino, di cui non vi farò mai il nome nemmeno sotto tortura, mi ha inviato un filmato e una serie di foto, di cui ve ne pubblico una, che ha scattato lunedì pomeriggio al Thermes Marins di Montecarlo e nella quale mi pare che non vi siano dubbi che Francesco Totti se la rida in piscina con un amico e con una ragazza dai capelli biondi raccolti sulla nuca a chignon du cou che altra non è, garantito al limone, che Noemi Bocchi.

Alla faccia dei giornalisti che s’inventano le storie e non per carità in difesa di quasi tutta una categoria dalla quale prendo invece spesso le distanze perché si è ormai svenduta ai loro padroni o ai potenti del nuovo regime. Che poi Francesco e Ilary tornino o stiano ancora insieme non me ne può importare di meno. Saranno ben fatti loro. 

Però la signora Totti tra una puntata e l’altra dell’Isola dei famosi non può giusto ieri incautamente confessare al super Valerio Staffelli che le consegnava il Tapiro di Striscia la notizia per una lunga serie di papere e strafalcioni durante la conduzione del reality su Canale 5: “La mia crisi con Francesco? Solo un chiacchiericcio, è tutto a posto”. Non si direbbe.

Sempre ieri il grande Pupone era a Tirana dove la Roma di Josè Mourinho ha conquistato la prima Conference League della storia seduto in tribuna tra il buon Gigi Di Biagio e il figlio sedicenne che ha raggiunto la capitale dell’Albania con un charter di vip giallorossi mentre il papà con un volo privato d’andata da Nizza e probabilmente ritorno. Nel Principato di Monaco domenica c’è il Gran Premio di Formula Uno e non è da escludere che Noemi sia rimasta a Montecarlo per seguirlo dal vivo. Cominciando dalle prove ufficiali che iniziano domani con le prove ufficiali.

Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “la Stampa” il 12 luglio 2022.

E forse sarebbe stato meglio avere un solo choc collettivo, quando a febbraio il sito Dagospia annunciò la ferale notizia e anche la «causa»: un affare di corna, o forse solo di un nuovo amore. 

Quello di lui per la bella Noemi Bocchi, separata da tal Mario Caucci, imprenditore nel marmo e team manager del Tivoli calcio che alla notizia, per quanto «smentita», sfoderò tutta la sua «signorilità»: «Totti ha tutta la mia comprensione, io so bene cosa c'è oltre l'immagine di mia moglie... 

Penso che da tutta questa storia, se vera, c'è solo lei che ne può trarre un vantaggio mediaticamente, mentre al Capitano tutta la mia comprensione». Divorzio complicato anche il suo, ma mai come quello dei «Puponi» che devono rendere conto dei fatti loro a tutti noi che li vorremmo insieme anche solo per fiction.

Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “la Stampa” il 12 luglio 2022.  

E arrivò quel giorno. Francesco Totti e Ilary Blasi si lasciano, fine di un amore. […] Chi «sapeva» della storia arrivata al capolinea sono le mamme della scuola internazionale frequentata dai «piccoli Totti». I pettegolezzi scolastici sono sempre i più informati e anche cattivelli, soprattutto quando la protagonista non gode di grande simpatia. «Se la tira», questa l'accusa. «Stanno solo trattando sui soldi».

Il sospetto che questi mesi siano serviti più per mettere a posto i conti che il matrimonio ci sta. D'altronde i Totti sono stati in questi 17 anni (le nozze «reali» il 19 giugno del 2005) una società capace di far fruttare quell'immagine felice con pubblicità, social, libri, tv, e anche un film. Una «ditta» che ha costruito un impero anche con accorti investimenti immobiliari. La domanda, per entrambi, è se da soli avranno lo stesso appeal. Il rischio è che non sia così. 

[…] Nessuno vorrebbe essere nei panni di Noemi Bocchi, sempre che sia vera la storia, ormai, comunque vada, pietrificata nella statua «dell'altra», la sfascia famiglie. Di più: colei che ha cancellato la speranza. È stata addirittura minacciata, come ha rivelato dopo la bufera di febbraio. […]

M. Ev. per “il Messaggero” il 12 luglio 2022.

«Hanno aspettato che Ilary terminasse il programma, l'Isola. Si sono presi del tempo, per organizzare tutto, sistemare anche i vari rapporti economici. Lo hanno fatto anche per i rispettivi attuali compagni, penso. Ma Ilary e Francesco sono due bravissimi ragazzi, seri, che hanno cresciuto dei figli con valori solidi. 

Certo, mi dispiace che oggi la loro storia finisca». Alex Nuccetelli, classe 1977, body builder e il più importante pr romano. Anche lui sa cosa significa la fine di un matrimonio visto che per otto anni è stato sposato con Antonella Mosetti. E conosce bene la storia della coppia reale di Roma, perché 20 anni fa fu lui a presentare Ilary Blasi a un giovane ma già affermato calciatore che si chiamava Francesco. Francesco Totti. 

Come andò?

«Eravamo in una sala hobby della casa di Francesco. Eravamo tanti amici, tra calcio balilla e biliardo. Stavo giocando proprio a biliardo con Francesco, quando in tv ci fu l'edizione serale di Passaparola. Inquadrarono Ilary e lui mi disse: aò, non puoi capire quanto mi piace la letterina romana, me la sposerei. Io gli risposi: ma la conosco. Lui mi spiegò che non mi credeva, fatalità quella sera c'era anche Silvia, la sorella di Ilary. Le chiesi: non è vero Silvia che io conosco la letterina?, certo che la conosci. E da quel momento è iniziato tutto, li ho fatti incontrare».

Fu amore a prima vista.

«Macché, all'inizio Ilary, che lavorava, a Milano si tirò indietro, era fidanzata con un modello. Poi la storia con questo modello finì e dopo due mesi si diede il primo bacio con Francesco. Sa quando? Derby vinto dalla Roma all'Olimpico, Totti mostra la maglietta con scritto sei unica. Era per Ilary. Lei era in tribuna d'onore, capì che stava succedendo qualcosa di importante. Ma dei due lui è sempre stato quello che era più trascinato in questo rapporto, che l'ha desiderato di più.

Certo, negli ultimi anni entrambi possono avere fatto scelte differenti, avere avuto altre storie, ma io penso che se fosse stato per Francesco, in fondo, questo matrimonio sarebbe continuato. Lo dico con grande rispetto per entrambi. Mi è capitato di fare incontrare tante persone che si sono innamorate o fidanzate, ma questo senza dubbio è stato il matrimonio più bello. Non sono state tutte rose e fiori, è normale, ma sono molto orgoglioso di averli presentati». 

I maligni dicono però che lei ha anche presentato Noemi a Totti. La nuova fiamma. Così somigliante a Ilary.

«Diciamo che si sono conosciuti a una serata che avevo organizzato io. Non so poi come sia proseguita la relazione, ma sono certo che per Francesco non fu solo una storia di una sera. Si tratta di qualcosa di importante, cosa non così frequente per lui. E sì, è vero, c'è una somiglianza tra Ilary e Noemi, sono due bellissime donne entrambe, non si può negarlo». 

Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 12 luglio 2022.

I due si lasciano. Non è una bugia e non è nemmeno una barzelletta. La notizia oscura tutto il resto, la siccità, il quarto vaccino e le celebrazioni del mondiale ’82 in Italia, gli incendi, i Maneskin, Dybala e i cinghiali a Roma. In un mondo sempre più trasformato in un gigantesco refettorio dove tutto è deglutibile gossip a tempo pieno, Francesco e Ilary ci fanno sapere che, sì, è finita, e che hanno trovato le parole per dirsi addio. La scodella era colma. Ci hanno messo tanto tempo, forse troppo dicono alcuni della cerchia, per trovarle queste parole ma non era per niente facile. “L’emozione non ha voce” canta Celentano. Era anche la loro canzone preferita di quando tubavano felici. E l’addio, la fine di un amore, che emozione è, e che voce ha? 

L’attesa del comunicato è stata la parte più eccitante. Sarà un testo lirico, struggente, bagnato di pianto, o arida prosa battuta nello stile di un’agenzia? Doveva essere un comunicato congiunto per una separazione consensuale di due ex ragazzi che hanno smesso da tempo di essere congiunti e sensuali, l’uno agli occhi dell’altra e viceversa. Sono stati, invece, due comunicati che più disgiunti non si può. Gelido e definitivo quello di Ilary. Decisamente più “sentimentale” quello di Francesco, attento a riconoscere la storia che è stata e che più non sarà. Ai contemporanei, l’esegesi dei testi. Interpretazioni e sentenze. 

Addio che Dagospia il Blasfemo ha dovuto anticipare due volte in cinque mesi prima di essere creduto. La prima volta, lo scorso 21 febbraio, fulmine a ciel sereno sdegnosamente smentito, da Ilary soprattutto che, dalla sua amica Toffanin, lamentò in diretta televisiva tanto “accanimento” contro la sua famiglia e un probabile “complotto” di matrice incerta.  

Vent’anni di amore, diciassette di matrimonio, tre figli bellissimi e avrebbero potuto essere molti di più nelle promesse dei due e nell’auspicio delle masse. Saremo capaci di versare qualche lacrima? Se sì, che lacrime piangeremo? Il sarcasmo, intanto, si diffonde nei social come una lava acida. Tra quelli che chiedono la mediazione di Mattarella, in alternativa di Maurizio Costanzo e quelli che “…Diteci che non è vero, non siamo pronti per una notizia così. Cercheremo di reagire con dignità”. 

La malvagità dei social non conosce tregua. Bascula tra l’insulto esplicito e la battuta spicciola. Zelig s’è infiltrato come un tarlo irrispettoso nel tessuto sociale. Non c’è più rispetto per l’amore, né per la morte. Tutti comici in cerca di una scrittura o di un like, incluse le agenzie di pompe funebri che, sulle bare degli altri, è tutta una gara di calembour.  

Peccato, sì. O forse no. Dovevano essere la nuova casa Vianello, la casa Totti. E, invece, niente casa. Non è cosa. Erano una coppia perfetta. Una storia perfetta. Belli, giovani, il successo che sfonda le porte, pallone e bellezza. Biondi e celesti, occhi che sono cartoline del mare, dell’amore e di Roma. Amati, tutt’al più invidiati. Francesco e Ilary. I due crescono insieme, poggiandosi l’una sull’altro. All’inizio è più Ilary che si poggia su Francesco, già celebre Pupone e re di Roma. Lei che faceva i provini per “Passaparola”. Quando era la storia di due ragazzi semplici, due “coatti” di talento, eternamente a dieta, i sedici maccheroni a cena e il film preso a noleggio sotto casa quando non avevano paura o pudore di dirsi felici. I figli, uno dopo l’altro. Cristian, Chanel, Isabel. Naturalmente biondi, naturalmente bellissimi. 

«Siamo due antichi, io e Ilary. Le cose strane noi non le famo». Una delle tante perle sparse nei quindici minuti della prima intervista doppia dei due su Italia 1 di qualche anno fa. Quando il Pupone si lasciava fare di tutto. Memorabile show la prova del pannolino con il bambolotto di gomma. Lanciato allora ufficialmente il guanto di sfida ai coniugi Beckham, Victoria e David, l’appeal servito alle masse. Il mancato benzinaio di Porta Metronia contro il dandy cosmetizzato in arrivo eternamente da Los Angeles. 

La star che sbarca dalla Rolls con i trampoli di venti centimetri, tutta diamanti, lingerie e Armani, di giorno e di notte, contro la ragazza acqua e sapone che la notte s’infila il pigiama extralarge e i calzini di lana, per lo sconforto del Pupone («Non me ce fa’ pensa’, me passa la voglia. Prima che la spoglio ce metto tre ore»). Ai vari Brooklyn, Romeo e Cruz, i tre pargoli dei Beckham, i Totti oppongono i loro, la “tripletta” di cui Francesco va più fiero. 

Sappiamo tutto dei due. Che quello di lui è stato un colpo di fulmine, mentre a lei è toccato in sorte “un lento innamoramento”. Che il sesso interessa molto più a lui che a lei («Lo farei tutti i giorni, di Ilary mi piace tutto»), ma che la più fredda Ilary «quando arriva la sera ha sempre un gran mal di testa...», per cui si deve accontentare di tre volte alla settimana, grazie al fatto, dice Francesco, che «il pianto alla fine frutta». 

Ilary ci fa sapere che il Pupone russa, non sa stirare, ed è geloso. Un Otello. Lui conferma («T’ammazzo»). Lo choc della prima volta. «Me l’ha messo sul cruscotto il test che stava incinta, ho cominciato a sbandare, stavo anda’ addosso a ‘na montagna». Sappiamo che Ilary era laziale. «Una cazzata», smentisce Francesco l’”antico”, che non si è mai fatto una canna e non sarebbe emotivamente in grado di reggere la disfatta di un figlio che si presenta alla porta con un compagno («Porco dinci, m’ammazzo... però alla fine ce po’ sta’») e che l’esperienza omosessuale «non fa parte del mio repertorio». E così, se la Spice dice pubblicamente del suo David «La gente non sa quanto sia spirituale e intelligente», Ilary ci fa sapere del suo che «non sa stirare, però non fa la pipì sulla tavoletta», mentre Totti, tenerone, ci svela che i due dormono la notte a cucchiaino, e come se no?

Una coppia inossidabile, sembrava. Bravi a resistere a tutto, ai colpi di Vento, alle spine dei Corona. E le dediche. Roba da Pupone il Guerriero. Alle telecamere, “Ilary ti amo”. Ostentate a torace espanso “6 unica!”. Il primo parto simulato con l’aiuto del pallone, il dito a mo’ di ciuccio che diventa virale. E l’apoteosi. L’altro, forse ancora più sofferto, addio. Quello al pallone. L’Olimpico strapieno nella celebrazione di un lutto che a Roma non si vedeva dal giorno del funerale di Sordi. L’abbraccio infinito di Ilary. E il guerriero che finalmente troverà pace e rifugio per sempre nell’amore di lei. Cinque anni dopo, tutto finito.  

Dovevano essere i nuovi Mondaini e Vianello della televisione ma anche nella vulgata nazional popolare. Designati a furor di popolo. A quanto pare non ce l’hanno fatta ad attraversare il deserto che prima o poi si spalanca per qualunque coppia al mondo. Quel più nulla da dirsi che per quel genio di Alberto Savinio è lo stato di grazia delle coppie, per tutti gli altri l’antefatto della fine. Si chiama Noemi l’incidente di turno, nome perfetto in un mondo fatto gossip, ma poteva chiamarsi in qualunque modo. La coppia era già a boccheggiare nel suo deserto. Diventata negli anni più un marchio che una storia, prigioniera dei suoi asset aziendali, del suo essere sempre più pubblica per lo sguardo del mondo, cioè del nulla, e sempre meno privata. Privata di tutto, della possibilità di reinventarsi e di ritrovarsi, lontana dai riflettori.  

Piccole donne crescono. Le donne emancipate non ce la fanno più a sostenere i puponi che noi siamo, teneri ma inetti e affetti dal vizio paleomaschio di crederci padroni delle nostre donne. Topica bestiale. Vale per tutti noi puponi, vale ancora di più per chi, divo del pallone, intoccabile, una città ai suoi piedi, vive nell’ingannevole illusione del “tutto mi è concesso”. Ti sembra un’armatura d’acciaio e, invece, è solo una vacua bolla scoppiabile. Francesco, chi lo direbbe, o forse sì, il più romantico dei due, il più ingenuo, oggi anche il più fragile e il più apprensivo. Oggi costretto a misurarsi con il vuoto di Ilary, dopo essere stato costretto, quasi con la forza, a misurarsi con il vuoto del suo giocattolo prediletto, il pallone.   

In attesa di capire cos’è l’amore, se una tenera allucinazione sospesa tra ormoni in tempesta e lirici palpiti adolescenziali, fragile comunque come una casa di marzapane o la conseguenza rocciosa di un morboso delirio che si ostina nel tempo a dispetto di tutto, solo a patto di reinventare costantemente il tuo “amato” e la tua “amata”, lui che mette pancia, perde capelli, soffre di gotta, abulico e traditore, lei che ingaggia un’infernale battaglia contro il tempo e le rughe che la torturano. Amarsi nonostante tutto, scambiarsi due carezze nella polvere che avanza. Francesco e Noemi, Ilary e chissà chi, ma non sarà mai la stessa cosa.  

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 12 luglio 2022.

In cambio della nostra adorazione, chiediamo ai Famosi ciò che gli antichi non pretendevano nemmeno dagli Dei dell'Olimpo: la fedeltà e l'amore eterni. Dopo Al Bano e Romina, Brad e Angelina, si lasciano Ilary Blasi e Francesco Totti, gettando nello sconforto il Paese reale (nel senso di orfano di una famiglia reale). Tengono botta i Ferragnez, ma prepariamoci. «E adesso come farò a credere ancora nell'amore?» è il mantra che circola tra gli affezionati all'ultima riga delle favole: «E vissero Totti per sempre felici e contenti».

Nell'epoca in cui i matrimoni durano meno dei governi, quei due hanno resistito vent' anni, si sono amati e protetti (memorabili le unghiate verbali di lei contro l'ultimo allenatore di lui), hanno messo al mondo tre figli in controtendenza rispetto alle statistiche. Poi l'equilibrio si è rotto, succede anche nelle coppie normali quando uno dei due va in pensione e deve reinventarsi un ruolo.

Così sono spuntate le voci su una Noemi per lui e un «giovane aitante» per lei, fino alle dichiarazioni separate di ieri, arrivate a tarda sera - dicono i buontemponi - perché si è voluta attendere la chiusura delle Borse: Gucci, Prada, Chanel... Qualcuno, forse Thomas Mann, sosteneva che nel matrimonio non si deve restare fedeli a una persona, ma a un'istituzione. Però questo non è più il tempo dei doveri e sarebbe assurdo pretendere proprio dai Totti quel «centro di gravità permanente» che tutti faticano a trovare dentro di sé.

Totti e Ilary Blasi: i messaggi compromettenti, la fuga a Tirana, Noemi e Luca Marinelli. Così è iniziata la crisi. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.

Totti e Ilary Blasi si separano. La coppia era da mesi in crisi, tra voci di tradimenti e scenate. A febbraio la rabbia di lei: «Basta accanimenti, abbiamo tre figli»

Sono finiti anche i tempi supplementari. Triplice fischio, il matrimonio si chiude qui, in un mesto zero a zero sentimentale a tavolino e mai ‘na gioia, come recita il tipico mantra romanista. Francesco Totti e Ilary Blasi non si amano più e dopo aver vissuto qualche mese da separati in casa, senza troppo reciproco disturbo, nella mega-villa dell’Eur, in attesa forse che i rispettivi avvocati trovassero l’accordo su una complicatissima spartizione patrimoniale della coppia d’oro, adesso lo faranno per davvero: addio, è stato bello.

Dopo venti anni di dediche, pollici in bocca, il colpo di fulmine («Io quella me la sposo»), cerimonia nuziale celebrata all’Ara Coeli e in diretta Sky, tre bambini, Cristian, Chanel e Isabel, le estati a Sabaudia con l’ombrellone sotto al braccio, lo sportello della Ferrari rigato al primo appuntamento. Dopo le foto romantiche al tramonto («Amo Francesco perché mi guarda ancora come il primo giorno»), il mister Spalletti «piccolo uomo» e i giri di campo, fino all’ultimo, struggente, del 28 maggio 2017, quello che «Speravo de morì prima» con cui il Capitano (c’è solo un Capitano) ha lasciato la Roma e più di un pezzo di cuore solo e soltanto giallorosso. Dopo 17 anni di matrimonio (il 19 giugno, anniversario ignorato da entrambi), la maglietta «6 unica» dopo un derby vinto 5 a 1 è ormai sbiadita.

E quello che resta, quando non c’è più niente da smentire, sono due comunicati, separati pure quelli. Francesco Totti: «Dopo venti anni insieme la mia storia di coppia con Ilary è purtroppo terminata. Tutto quello che ho detto e fatto negli ultimi mesi è stato detto e fatto per proteggere i nostri figli che sono e saranno sempre la priorità assoluta della mia vita», scrive il Campione del Mondo 2006. «Ho tentato di superare la crisi del mio matrimonio ma oggi capisco che la scelta della separazione, pur dolorosa, non è più evitabile. Continuerò ad essere unito ad Ilary nella crescita dei nostri meravigliosi tre figli, sempre con grande rispetto per mia moglie». E conclude chiudendo la porta ai curiosi: «Il percorso della nostra separazione rimarrà per me rigorosamente privato e dunque non rilascerò altre dichiarazioni. Confido nel massimo rispetto per la nostra riservatezza e privacy soprattutto per la serenità dei nostri tre figli. Grazie».

Quasi fotocopia quello più breve di Ilary Blasi: «Dopo vent’anni insieme e tre splendidi figli, il mio matrimonio con Francesco è terminato», annuncia l’ex Letterina. «Il percorso della separazione rimarrà comunque un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia. Invito tutti a evitare speculazioni e, soprattutto, a rispettare la riservatezza della mia famiglia». Altro che fake news, stavolta è tutto vero. Nessuno però in questa moderna fiaba senza lieto fine avrebbe il cuore infranto. Puntuale infatti oggi arriva in edicola un servizio fotografico sul settimanale «Chi» che scodella le immagini di Totti che nottetempo, accompagnato da un fido amico, si presenta a casa di Noemi Bocchi , la biondissima dama dei Parioli, 34 anni, un ex marito imprenditore del marmo, due figli, tifosa romanista e gran giocatrice di paddle (due bonus irresistibili, agli occhi dell’amato bene), la terza incomoda amorosa di questa storia.

Più volte fotografata sugli spalti dell’Olimpico (a scovarla fu, a febbraio, l’occhio perfidamente acuto del sito web Dagospia, lo stesso che ieri ha lanciato per primo lo scoop definitivo), qualche sedia più in là di Totti. I due si frequenterebbero di nascosto da almeno otto mesi. E sarebbero innamorati sul serio. Chi li ha visti all’«Isola del Pescatore», ristorante vippissimo sulla spiaggia di Santa Severa (dove il numero 10 portò Ilary per farle la proposta e lei, ignara, obiettò: «E che fino a là dobbiamo ariva’?» ), chi in un hotel-castello all’uscita di Lunghezza, fuori Roma, o a Montecarlo o a Tirana, per la finale di Conference League della Roma: voli separati, stesso hotel, camere diverse, massima discrezione. E minimo risultato: lo sapevano tutti.

Nemmeno Ilary, che pure negli ultimi mesi è apparsa sempre più magra e scavata («Che ti è successo?» le chiedono sui social), soffrirebbe per l’amore perduto. Secondo «Chi», anzi, l’ultimo dissidio coniugale sarebbe scoppiato dopo che Francesco ha scoperto messaggini compromettenti sul cellulare della moglie. Destinatario un misterioso spasimante — ricambiato — che la conduttrice dell’«Isola dei Famosi» avrebbe incontrato durante le trasferte a Milano. Forse un personal trainer, forse un imprenditore. Mesi fa si mormorava di un flirt con il baldo attore Luca Marinelli, quello di Diabolik, vai a sapere.

Totti-Blasi, gli ultimi mesi tra silenzi e vite parallele. Il giallo dei due comunicati. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.

Lei è già in Tanzania con i figli. Le foto di lui sotto casa dall’altra. E i rumors sui messaggini di un influencer a Ilary

Il giorno dopo il «Grande Addio», Francesco Totti non parla e Ilary Blasi nemmeno: al momento è già in Tanzania in vacanza con i tre figli e la sorella Silvia, più lontana di così. Ed è chiaro che trattasi della prima clausola tassativa di una complicatissima separazione sentimentale e patrimoniale non troppo consensuale. Niente dichiarazioni pubbliche, su questo almeno è stato trovato l’accordo.

Il disaccordo sul testo dell’annuncio

Non è stato così invece per il comunicato stampa, che doveva essere uno e invece all’ultimo si è sdoppiato: pare che lei lo volesse asciutto e stringato, mentre lui preferisse spiegare le ragioni di una separazione «dolorosa ma non più evitabile» e il perché di quelle smentite sdegnate (e poco convincenti) di febbraio. Così ognuno si è fatto il proprio. «Ho mandato il testo che Ilary mi ha chiesto di mandare, non so nulla né del prima e né del dopo», spiega laconica Graziella Lopedota, ufficio stampa della conduttrice dell’Isola dei Famosi.

Non è stato nemmeno il servizio fotografico di «Chi», che ha pizzicato l’ex numero 10 romanista, scortato in Smart dall’amico Emanuele Maurizi, sotto casa di Noemi Bocchi, la bionda e trentaquattrenne pariolina (così uguale a Ilary che sembra una quarta sorella Blasi) che Totti frequenterebbe in segreto (nemmeno più tanto) da almeno otto mesi. Il settimanale aveva avvisato entrambi, anche se con poco anticipo, visto che le immagini erano freschissime, scattate poche ore prima del lancio dello scoop. Certo non è che abbiano fatto salti di gioia.

Quando i protagonisti tacciono però, la legge spietata del gossip vuole che parlino gli altri, a ragione o a sproposito. Così tra Roma e Milano si rincorrono le voci più disparate. Come questa: il misterioso uomo che mandava i messaggini compromettenti a Ilary, poi scoperti da Francesco sul cellulare della moglie — ultima goccia di un vaso traboccante di incomprensioni — sarebbe Antonino Spinalbese (peraltro già fidanzato), hair stylist milanese, modello e influencer (in lizza per il prossimo GF Vip), ex di Belen Rodriguez, da cui un anno fa ha avuto la piccola Luna Marì. Magari è una facezia.

Un dato di fatto invece è che sugli spalti dello stadio di Tirana, per la finale di Conference League, Noemi Bocchi era seduta accanto a Giancarlo Pantano, altro storico amico del per sempre Capitano giallorosso. Chi ci è rimasta male per la separazione sarebbe donna Fiorella, la mamma di Totti, più che altro per i tre figli. Non è un segreto che ai tempi non fosse tanto entusiasta del fidanzamento con Ilary Blasi (ma nemmeno prima, con Maria Mazza, che — anche qui, si impone il dubitativo — avrebbe fatto pedinare da un investigatore). «Ma che te metti co’ ‘na ballerina?», esclamò, rivolta al figlio, come ricorda il sito Dagospia. Omettendo però il seguito della frase, altrettanto colorito, che a Roma si tramanda da allora e chissà se è vero: «Una che sta con le ch...e de fori in tivvù?». Il sogno non troppo segreto sarebbe stato che Francesco si accasasse felice con Sabrina Ferilli, romanista doc senza passate simpatie laziali, non è andata così.

Di sicuro c’è che gli avvocati sono al lavoro, e che lavoro. Alessandro Simeone, di Milano, per Ilary, mentre per Francesco ci pensa Antonio Conte, lo stesso legale che segue i ricorsi della Roma e che ha assistito Daniele De Rossi e ora Nicolò Zaniolo nelle loro delicate vicende private. Perché fra l’ex coppia d’oro Totti-Blasi ballano milioni da assegnare, almeno cinque all’anno soltanto di ricavi dallo sconfinato patrimonio immobiliare.

Il rammarico di Francesco Totti, la rabbia di Ilary Blasi: che cosa c’è nei comunicati sulla separazione. Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.

Il campione continua a chiamare Ilary «mia moglie», sostiene di aver provato a salvare il matrimonio, specifica di aver parlato e agito per proteggere i figli. La conduttrice è più secca: come se la separazione fosse stata, infine, decisa da lei. L’impatto di presunti tradimenti o infedeltà, da queste parole, non traspare 

Nel comunicato di Francesco Totti, si sentono il dolore e il rammarico. In quello di Ilary Blasi si sentono più la rabbia e l’orgoglio di aver scritto la parola fine, a dispetto di quanto sia costata. 

Il campione prova a spiegare che lui ci ha provato a salvare il matrimonio, promette di proteggere i suoi figli e di rispettare Ilary, che continua a definire «mia moglie». 

La conduttrice è più secca, nessuna dichiarazione d’intenti, nessuna concessione ai dettagli. 

I comunicati sono separati, potevano farne uno congiunto, ma evidentemente la visione dei fatti non coincideva.

Dalla comparazione fra i due documenti, sembra emergere che la separazione sia stata voluta da Ilary, che Francesco pensava fosse una crisi superabile e che lei no, pensava che non si potesse più andare avanti. Poi, cosa questo significhi nella dinamica di un amore lo chiarirà il tempo, se mai le cronache rosa scioglieranno i dubbi sulle presunte frequentazioni di lui e di lei. 

L’impatto di un’infedeltà (qui siamo solo a quelle presunte, da una parte e dall’altra) è sempre soggettivo: dipende da quanto il traditore consideri il nuovo amore un’alternativa e da quanto l’altro sia disposto o no a sorvolare e perdonare. Ora, se anche davvero Totti frequenta Noemi Bocchi , il suo comunicato sembra dire che lui comunque non aveva intenzione di farsi una nuova vita. Se davvero Ilary ha avuto altri flirt, il suo comunicato nulla fa trapelare rispetto alle sue motivazioni e intenzioni, non dà indizi per capire se ce l’ha col marito per una scappatella o se è lei che, a prescindere, ha voglia di una nuova vita. 

È Francesco a dire: «Oggi capisco che la scelta della separazione, pur dolorosa, non è evitabile». Sta dicendo che, a lungo, non l’ha capito e che lui ci ha provato fino alla fine a salvare il matrimonio. 

Curioso è l’accenno alle sue mosse recenti: «Tutto quello che ho detto e fatto negli ultimi mesi è stato detto e fatto per proteggere i nostri figli». Francesco sembra riferirsi alla celebre foto della famiglia riunita al ristorante dopo i rumors su una crisi a febbraio e al video che diffuse subito dopo, giurando che non c’era nessuna crisi. C’era bisogno di specificarlo? Tecnicamente no. Emotivamente, forse, ne aveva bisogno lui. Per dire al mondo che, comunque, lui alla famiglia ci teneva e che ha fatto di tutto, anche rischiare il ridicolo, per tenersela. 

A pensare male, sono lacrime di coccodrillo, una captatio benevolentiae in vista di una separazione che si profila con scossoni. A pensare bene, è il dolore sincero di chi non si capacita di aver dato il massimo, ma di aver perso comunque una delle partite più importanti, se non la più importante, della vita.

Totti-Blasi, Alex Nuccetelli: «Se Ilary si è messa con lui lo deve a me. Ecco cosa mi ha detto Noemi Bocchi dopo il primo incontro». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.

Il pierre delle notti romane: «Ma ve lo dico subito: non è vero che li ho presentati io, manco per niente. Mi ricordo soltanto che erano presenti ad una delle mie serate del venerdì al “Profumo spazio sensoriale” di piazza dei Giochi Delfici»

«Senta, io che sono uomo di mondo le dico solo questo: che 20 anni sempre insieme per due come Francesco Totti e Ilary Blasi così belli, così famosi, così desiderati, sono un record assoluto, in questa vita in cui siamo tutti destinati a lasciarci e quando finisce, finisce, non è colpa di nessuno», teorizza Alessandro-Alex Nuccetelli, 45 anni, storico e seguitissimo pr delle notti mondane, romane e non, campione italiano di IFBB, categoria man phisique (i body builder più snelli), ex marito di Antonella Mosetti (da cui ha avuto la figlia Asia), grande amico sia dell’ex 10 giallorosso che della conduttrice dell’Isola dei Famosi.

E pure di Noemi Bocchi, la bionda trentaquattrenne dei Parioli che avrebbe conquistato cuore e attenzioni di Totti.

«Sì ma ve lo dico subito: non è vero che li ho presentati io, manco per niente. Mi ricordo soltanto che erano presenti ad una delle mie serate del venerdì al “Profumo spazio sensoriale” di piazza dei Giochi Delfici, a Vigna Clara, punto. Li ho visti chiacchierare insieme. Ma non c’entro niente. Si sono conosciuti ad un torneo di padel. Ho letto che Melory, la sorella di Ilary, se l’è presa con me perché parlo troppo, mi è dispiaciuto. Ma se Ilary si è messa con lui, lo deve soltanto a me. Lo so io quanto ho penato per sistemarli, le ho cambiato la vita, eddai». 

Era il 2002.

«Tutti venivano nei miei locali, il Goa, l’Art Cafè, pure in Sardegna eh, al Sottovento al Pepero, allo Smaila’s: Megan Gale, Mickey Rourke. Leo Di Caprio è rimasto un mese con me, ma quel glamour ormai non torna più. Una sera a casa mia, con la tv accesa, Francesco vede Ilary che fa la Letterina a Passaparola e bam! Folgorato: “Io questa me la sposo. Me la devi presentare”. Le ho telefonato, ma lei non ne voleva sapere: “Nooo, sono fidanzatissima, sto a Milano, sono felice così, i calciatori non mi piacciono e poi sono pure della Lazio”».

Non prometteva bene.

«Ci ho messo due mesi a convincerla, n’ecatombe. Poi alla fine ce l’ho fatta, li ho presentati, siamo andati in un pub sulla Nomentana, Francesco era timido, la guardava come fulminato. Battute, sorrisi, niente di più. Ilary si è persa il telefonino bianco, lui il giorno dopo glielo ha ricomprato».

E poi?

«Poi è entrata in crisi con il fidanzato, un modello, e l’ho convinta a venire allo stadio per il derby. Francesco per l’ansia non ci ha dormito tutta la notte. Ha segnato il quinto gol del 5 a 1 e ha mostrato la famosa maglietta “6 unica”. Quella sera si sono dati il primo bacio». 

Ora però è finita.

«Ho letto, devo crederci. Anche se, per come lo ricordo io, Totti era presissimo di lei, sia dal punto di vista fisico che mentale, la vedeva come la Madonna, credo che l’abbia desiderata fino all’ultimo... forse non si è sentito ricambiato, compreso... e alla fine magari si è guardato intorno, però non so niente per certo, solo supposizioni... Per me Francesco è un amico, se ho bisogno di lui so che c’è sempre, ma lui va avanti anche senza di me, Ilary invece non so se avrebbe fatto tutta questa strada...»

Noemi Bocchi le assomiglia moltissimo.

«Io non la vedo questa somiglianza. Ilary era una bambola. Noemi è più bassina, sensuale, già donna, un’ottima madre, un tipo tranquillo. Pure lei all’inizio su Francesco era scettica, non è che è lanciata subito. “L’altra sera sono stata al torneo e c’era l’amico tuo”, mi ha raccontato dopo il primo incontro. Tutto lì». 

Dopo però pare sia diventata una storia importante.

«Così dicono, boh. Certo se dopo tutti questi mesi e tutto questo casino ancora si frequentano, è segno che qualcosa tra loro esiste, che non è solo amicizia. E che c’è di male? Francesco Totti e Ilary Blasi si sono comunque amati tantissimo, sono genitori meravigliosi, che hanno educato i tre figli nella normalità, senza viziarli, Cristian e Chanel hanno una macchinina sola divisa in due, per dire. Belli come il sole, avevano il mondo ai loro piedi, resistere alle tentazioni deve essere stato difficile. Ora però auguro a entrambi un futuro bellissimo».

Marco Bonarrigo per corriere.it il 14 luglio 2022.

«Cosa volete che vi dica? La vita va avanti veloce, a un certo punto ci si guarda in faccia e non ci si riconosce più. Arrivati a quel punto è giusto prendere strade diverse per rispettarsi a vicenda». 

È un Francesco Moser diverso da quello chiacchierone e aggressivo che tutti conoscono, un Moser quasi malinconico quello che, dal suo Maso di Palù di Giovo dove si gode il Tour de France in tv («Gran bella corsa e grande spettacolo»), accetta di chiacchierare sul suo divorzio da Carla Merz, dopo 42 anni di matrimonio e tre figli cresciuti in un borgo che per molti da sempre è una sorta di feudo familiare. 

Il vostro divorzio ha fatto clamore, Francesco?

«Forse perché è venuto fuori assieme a quello di Totti: i giornali hanno associato fatti molto diversi, però. In realtà la notizia è vecchia: siamo separati da tre anni, abbiamo firmato le carte per il divorzio a maggio, due mesi fa. Qualcuno deve aver scovato la notizia in Municipio ed eccoci qui». 

Dopo 42 anni.

«Tantissimi, me ne rendo conto, specie se aggiungiamo il fidanzamento. Forse, adesso che tante coppie si separano presto, la gente è rimasta colpita da questo: la vera notizia è che siamo rimasti sposati per 42 anni». 

I Totti si separano con veleni e strascichi legali. Voi?

«Noi no, credetemi. Ci abbiamo ragionato sopra da persone civili, siamo rimasti in buoni rapporti come si dice in questi casi. Ci vediamo, ci sentiamo, mangiamo assieme, ci occupiamo dei nostri figli che sono grandi ma hanno sempre bisogno dei genitori. E poi c’è il vino. Per noi la famiglia è tante cose».

Lei ha 71 anni e ancora adesso fa la vita del corridore, sempre in giro per il mondo tra cene, cerimonie, pedalate con gli sponsor. Sempre in fuga dalla vita familiare?

«A me è sempre piaciuto vivere in modo dinamico, conoscere persone e posti nuovi o ritrovare vecchi amici viaggiando e pedalando. Alla Carla ho proposto fin dall’inizio della nostra relazione di venire in giro con me ma non è il tipo di vita che le piaceva e io ho sempre rispettato le sue scelte. Però credo di essere stato anche un buon uomo di casa e di famiglia: i ragazzi li abbiamo cresciuti assieme e questa è sempre stata la priorità». 

Non è che c’è un’altra persona nella sua vita?

«No, no non c’è nessun’altra, si figuri». 

Rimpianti?

«No. La vita corre veloce, un po’ come una gara ciclistica. Fai delle scelte, prendi delle decisioni che non sai se sono giuste o sbagliate. Ma la vita non puoi correrla un’altra volta. Sono, siamo sereni e al momento la nostra preoccupazione è un’altra». 

Quale?

«L’acqua. La siccità si sta facendo sentire in modo pesante qui in Trentino e in Val di Cembra in particolare. I torrenti sono in secca, per irrigare le vigne ricorriamo ai pozzi artesiani ma adesso siamo arrivati al goccia a goccia. Se va avanti così non ho davvero idea di cosa possa succedere. L’orgoglio della famiglia Moser non è più Francesco l’atleta ma il vino: abbiamo lavorato duro e dato lavoro a tanti giovani, ma senza acqua sarà durissima».

Totti-Blasi, storia del cerchio magico dell’ex Capitano e del clan di Ilary che non si sono mai tanto amati. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 15 Luglio 2022.

Nel cerchio magico dell’ex Capitano della Roma pochi fidati amici, in quello della quasi ex moglie, le sorelle, la parrucchiera e la portavoce Graziella, detta «Il Generale». 

Non c’eravamo tanto amati. Se Francesco Totti e Ilary Blasi, prima di dirsi addio dopo 20 anni insieme e 17 di matrimonio, si sono comunque voluti molto bene, i rispettivi e ristretti clan di amici e parenti non si sono mai trovati particolarmente simpatici. Perciò abbandoneranno con sollievo il peso di doversi sopportare per forza, ora che le vite dei due protagonisti si sono divise.

I suoi primi giorni da ex Francesco li passa con l’ex compagno di squadra e di scorribande notturne (ai bei tempi) Vincent Candela, sono inseparabili. Mentre Ilary postava su Instagram zebre e giraffe e monokini dalla Tanzania, l’ex numero 10 giallorosso si sfogava a colpi di racchetta sul campo da padel del Fight Club, il circolo di Vincent in quel di Morena, periferia sud della Capitale. «Francesco ha una bandeja da professionista, è uno a cui piace chiudere subito il punto», la sua recensione. E in una storia su IG il francese riflette: «Non si perde mai, si vince o si impara», ogni riferimento esistenziale forse non è casuale. Cruciale il ruolo di Emanuele Maurizi, uno degli amici più cari di Francesco. Nell’unica foto di Totti insieme (forse) a Noemi Bocchi, 34 anni, accreditata come nuovo amore segreto, scattata lunedì 23 maggio allo stabilimento termale Thermes Marins di Montecarlo, in cui si vede il campione chiacchierare con degli amici e una bionda con chignon ritratta di spalle a mollo in piscina che pare proprio lei (scoop di Claudio Pea, storico giornalista sportivo), si riconosce Maurizi, che quindi deve saperne parecchio, ma come gli altri, vede, sente, però non parla. Inutile insistere. Una dote rara, in una città in cui chiacchierano tutti, pure i sampietrini. Era sempre lui, nel servizio fotografico di «Chi» sulla nottata di Totti a casa Bocchi, ad accompagnarlo con la Smart per depistare i paparazzi.

Cruciale anche il ruolo di Giancarlo Pantano, 45 anni, ex centrocampista della Cisco Roma, che conosce Francesco da quando erano ragazzini e lavora al Totti Sporting Club. C’era lui seduto accanto a Noemi allo stadio di Tirana, per la finale di Conference League e sul volo privato con cui sono arrivati tutti in gruppetto da Montecarlo, salvo poi separarsi per depistare. Oltre a quello ufficiale, Riccardo, molto schivo, Totti ha un quasi secondo fratello, ovvero il cugino Angelo Marrozzini, che chiama Pisolo («Dice che dormo troppo, ma che ci posso fare se non ci ho niente da fà?»), asilo, elementari e medie insieme, testimone del matrimonio, stesso gladiatore tatuato sul braccio dopo lo scudetto del 2001 che anni fa raccontò: «A 11 anni se semo dati due pizze, tutta colpa del pallone, poi è finita che ci siamo abbracciati». A lui, guarito dopo un terribile incidente che lo mandò in coma, Francesco nel 2008 dedicò il gol n.200, nella notte di Berlino del 2006, con la Coppa del Mondo tra le braccia, indossò la maglietta di Angelo.

E poi c’è sempre, appena più defilato di prima, il mitico Vito Scala, preparatore, confidente, braccio destro, padre sussidiario, conosciuto alla scuola media Pascoli, era il suo insegnante di ginnastica. Messo da parte negli ultimi anni dall’invadenza del clan Blasi. Ma ha resistito ed è ancora una figura importante, che conosce ogni segreto e ha coperto ogni altarino del campione giallorosso. Il microcosmo tottiano comprende poi tre ristoranti dove Francesco si sente come a casa. Consolini a via Marmorata, dove festeggiò la vittoria del campionato 2001 affacciato alla terrazza come un Papa verso la folla festante, La Villetta di Claudio Olivetti, zona Piramide, in cui celebrò più tristemente l’addio al calcio del 28 maggio 2017 con torta, balli e trenino tra i tavoli. E L’Isola del Pescatore a Santa Severa di Stefano Quartieri, dove fece la proposta di matrimonio a Ilary. E dove spesso va a cena anche Noemi Bocchi, guarda tu. La colonna però resta la mamma Fiorella, che da bambino lo accompagnava agli allenamenti («Un tempo però era della Lazio», ha raccontato divertito Francesco nell’autobiografia «Un Capitano» di Paolo Condò) e anche adesso veglia su di lui, rattristata dalla separazione, specie per i tre nipoti, ma pare non troppo dalla perdita di una nuora con cui non si è mai presa davvero (non che le altre fidanzate le piacessero di più).

Ilary invece è legatissima a sua sorella Silvia, la maggiore, con cui è volata in Tanzania, coinvolta sempre di più, negli anni, nella gestione delle attività di Francesco, di cui per un periodo ha curato anche l’immagine, causa scatenante dei primi dissapori coniugali. Il padre Roberto e il cognato Ivan Peruch (marito di Silvia) gestiscono il centro sportivo di Totti e guidano, con Ilary, la società che stipula i suoi contratti pubblicitari, un ruolo mica da poco. Intrecci che hanno complicato il lavoro degli avvocati per la separazione. L’altra sorella Melory, ortottista, se ne sta in disparte (e il marito Tiziano Panicci ancora di più), ma l’altro giorno polemizzava con Alex Nuccetelli, il pr romano che nel 2002 presentò Ilary a Francesco. «Credo che certi amici farebbero meglio a stare zitti». Anche il cerchio magico di Ilary è piuttosto ristretto e diffidente. Ne fa parte a pieno titolo la portavoce e manager Graziella Lopedota (che si occupa anche di Michelle Hunziker e Ambra Angiolini), mente di quel comunicato stringato e freddo con cui è stata annunciata la separazione. Dura e volitiva, la chiamano «Il Generale». Nonostante le continue trasferte a Milano, modello pendolare, la conduttrice non ha aggiunto nuovi componenti al clan dei fedelissimi. Tra le poche confidenti della showgirl resiste la parrucchiera Alessia Solidani, compagna anche di molte vacanze. A parte c’è Silvia Toffanin, ex Letterina come lei, l’unica vera amica di Ilary tra i Ricchi & Famosi.

Totti e Blasi, l’accordo per la separazione c’è già: a Ilary la villa, un assegno e sarà liquidata delle quote. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.

Accordo raggiunto in via stragiudiziale. Intanto Ilary Blasi parte per la Tanzania con i tre figli. Separazione «con negoziazione assistita», tutto chiuso in pochi mesi

La fine di una storia d’amore importante comporta spesso grandi scossoni. Non potranno sfuggire a tutto questo nemmeno Ilary Blasi e Francesco Totti, che lunedì 11 luglio hanno reso pubblica — con due comunicati separati (inizialmente sarebbe dovuto essere congiunto) e dai toni decisamente differenti — la loro separazione.

Ma adesso cosa accadrà? Ilary resterà ad abitare con i suoi tre figli nella casa coniugale (la mega villa dell’Eur da 25 locali) e riceverà ogni mese da Francesco Totti un assegno di mantenimento a diversi zeri. Sarebbero questi i termini dell’accordo tra l’ex capitano della Roma e la presentatrice tv. Un accordo che, come riporta Il Messaggero, sarebbe stato raggiunto in via stragiudiziale e che si dovrebbe perfezionare entro domani, giovedì 14 luglio. L’accordo raggiunto prevederebbe anche che Totti liquidi la moglie delle sue due partecipazioni societarie, entrambe al 90% (le quote restanti sono dei parenti di Ilary) nella Number Five srl e nella Società sportiva Sporting Club Totti. Per il resto i coniugi sono in separazione dei beni.

Accordo raggiunto a fari spenti

Prima di rendere pubblica la notizia della separazione, infatti, la coppia avrebbe agito a «fari spenti» per trovare una quadra. Da qui si intuisce il perché della smentita di febbraio, quando Dagospia divulgò per la prima volta le voci sulla crisi e sulla relazione tra l’ex capitano giallorosso. Nel frattempo, Ilary Blasi è volata in Tanzania per un safari in Africa (programmato da tempo) con la sorella Silvia e i figli, Cristian, Chanel e Isabel.

Quella scelta da Ilary e Totti è stata una separazione «con negoziazione assistita», procedura introdotta nel 2014 che consente di conseguire lo status di separati in breve tempo e senza andare in Tribunale.

I coniugi, assistiti dai loro rispettivi legali, stabiliscono l’affidamento dei figli minori, le disposizioni di carattere patrimoniale, chi dovrà provvedere al mantenimento e in quale misura. Una volta raggiunto l’accordo, viene sottoposto all’autorizzazione del pubblico ministero e poi trasmesso dagli avvocati all’anagrafe comunale per la ratifica. In sostanza, con la negoziazione assistita in un mese e mezzo al massimo la procedura si conclude.

Totti e Ilary: avvocati ancora al lavoro per l’accordo su ville, azioni e quote di società. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 16 luglio 2022.

Dopo l’annuncio della separazione la trattativa prosegue anche sugli introiti pubblicitari del Capitano. 

Era troppo bello per essere vero. Una separazione amichevole, rapida e indolore. Senza contrasti, senza rivendicazioni. Magari. Non è andata così. Se l’addio sentimentale tra Francesco Totti e Ilary Blasi è compiuto – e certificato dalla prima allegra vacanza da neo-single della conduttrice dell’Isola dei Famosi, partita detto fatto per la Tanzania e arrivederci a tutti – per quello patrimoniale ci sarà da penare ancora. Perché niente è stato deciso, si apprende da fonti qualificate. Sì, plausibilmente Ilary si aggiudicherà la mega-villa dell’Eur (25 stanze, doppia piscina, campi da padel, palestra superaccessoriata, valore intorno ai 10 milioni), per viverci con i tre figli, Cristian, Chanel e Isabel. Quanto al resto, la spartizione di quote, azioni, interessi e altre proprietà immobiliari tipo la villa di Sabaudia con tanto di tunnel privato sotto le dune (non proprio «du’ spicci», come li liquidò lei, ironica, nell’intervista a “Verissimo”, quando ancora smentiva ogni crisi coniugale) o la quantificazione di un assegno per alimenti, non c’è niente di fatto. Anzi, al momento è tutto fermo, perché una delle due parti in causa è appunto assente.

Quando tornerà, i due avvocati - per lei Alessandro Simeone, matrimonialista di Milano, per lui Antonio Conte, già legale della Roma, di Daniele De Rossi e Nicolò Zaniolo – riprenderanno la complessa trattativa, considerati i molti intrecci economici tra i Totti e i Blasi: il papà di Ilary, Roberto, e il cognato Ivan, marito della sorella Silvia, sono coinvolti nella gestione delle attività dell’ex numero 10 giallorosso (che per quieto vivere ha sempre lasciato fare, specie quando ancora giocava a calcio e aveva altro a cui pensare). E hanno voce in capitolo pure sui suoi contratti pubblicitari. Mica poco. Non risulta invece che sia già all’opera un commercialista.

Ilary a quanto pare non ha fretta. E continua il suo safari africano, postando su Instagram foto da turista (zebre, giraffe, savana, tramonti, monokini a bordo vasca, lei in tunica oro e corallo, cocomeri, sì, pure quelli). In un mini-video c’è la piccola Isabel che le fa le treccine nei capelli. E funziona. Di colpo, dopo il comunicato con cui annunciava urbi et orbi la separazione da Totti, i suoi follower hanno superato i 2 milioni (Francesco però ne ha 4,6), segno che la sua popolarità è in ascesa. Nonostante i soliti beceri hater che sono andati a sfogarsi sul profilo della sorella Melory: «Ma statti zitta va, che tua sorella è stata mantenuta per venti anni e si prende una mega villa e più anche il mantenimento». Insulti rispediti seccamente al mittente. «Smettila di dire stron…, che problemi hai?», ha risposto la minore delle tre sorelle Blasi. La Tanzania però è sufficientemente lontana per non curarsi di loro.

Ilary del resto difficilmente mostra i propri sentimenti in pubblico. «È sempre solare e allegra, pronta alla battuta, se aveva dei problemi lo ha nascosto molto bene», racconta di lei Vladimir Luxuria, opinionista all’Isola dei Famosi. «Non si è confidata ed io non ho posto domande indiscrete. L’unica cosa che ho notato è che non nominava mai Francesco, mai». Così in un altro continente Ilary Blasi potrà serenamente ignorare pure le illazioni ininterrotte su una sua presunta relazione segreta. Che mai nessun paparazzo è riuscito a scoprire. Quella di cui ha parlato il settimanale “Chi”, svelando che la crisi definitiva sarebbe scoppiata quando Francesco avrebbe scoperto dei messaggini compromettenti sul cellulare della moglie. Il misterioso mittente per qualcuno sarebbe Antonino Spinalbese, hair stylist, modello e influencer, nonché ex di Belen Rodriguez. Altri sostengono trattarsi di Cristiano Iovino, bruno, palestrato e iper-tatuato personal trainer e influencer anch’egli, interessi tra Roma e Milano, in curriculum un flirt con Giulia De Lellis e Zoe Cristofoli (prima che sposasse il difensore rossonero Theo Hernandez), ma a stare troppo dietro al vortice di pettegolezzi gira la testa.

  Da golssip.it il 15 luglio 2022.

La separazione tra Ilary Blasi e Francesco Totti sta avendo strascichi anche sulle rispettive famiglie. La sorella di Ilary, Melory, è stata duramente attaccata sul suo profilo Instagram dopo aver detto che "certi amici farebbero bene a stare in silenzio" (riferendosi a Alex Nuccetelli). 

Un follower le ha scritto:  "A Melory prima di parlare degli amici di Totti pensa a tua sorella che è meglio...vergogna". Risposta secca di Melory:"Lo conosco da 20 anni, vergognati tu!". E poi ancora: "Ma statte zitta! Tua sorella è stata mantenuta per 20 anni e si prende una mega villa e anche il mantenimento, volate basso che è meglio famiglia Blasi!". La sorella di Ilary ha risposto sempre mantenendo toni civili: "Ma te la smetti di dire st****ate? Qual è il tuo problema?". 

Da open.online il 12 luglio 2022.  

Alla fine salta anche il comunicato congiunto. La separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, annunciata a febbraio, smentita furiosamente dai protagonisti è stata infine confermata ieri da lei. Proprio mentre il settimanale Chi lanciava una cover con la cronologia e immagini rubate che documenterebbero l’incontro notturno dell’ex capitano della Roma con la presunta nuova fiamma, due giorni prima dell’ufficializzazione della separazione. 

«Dopo vent’anni insieme e tre splendidi figli, il mio matrimonio con Francesco è terminato. Il percorso della separazione rimarrà comunque un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia. Invito tutti a evitare speculazioni e, soprattutto, a rispettare la riservatezza della mia famiglia», ha detto lei all’Ansa ieri sera. 

Quanto a lei, il quotidiano racconta che tutto è precipitato circa cinque mesi fa. Francesco avrebbe trovato “messaggi sospetti” sul suo telefonino, raccontano le cronache e il gossip. Chissà come, visto che ogni cellulare ha un sistema di password e impronte digitali che lo protegge. Ilary era stata accostata all’attore Luca Marinelli (vicenda smentita furiosamente). Totti qualche giorno fa si è fatto accompagnare da un amico a casa della nuova fiamma alle 20,30 e ci è rimasto fino alle 2,30. Ilary, che a breve partirà per un viaggio in Africa, ha costruito un rapporto a Milano, racconta sempre il quotidiano. 

Le nove società e gli immobili

La parte economica è la più brutta in ogni separazione. La casa in cui vivevano entrambi resterà a lei, che rimarrà ad abitarci con i figli. All’ex capitano della Roma sono riconducibili sette società immobiliari in cui Totti ha investito i guadagni da calciatore. La showgirl ne ha due. Il matrimonio è in separazione dei beni. Ilary ha due sole partecipazioni al 90%: la Number Five srl e la Società Sportiva Dilettantistica Sporting Club Totti. Nella prima il padre di lei, Roberto, è amministratore unico. La seconda gestisce il centro della Longarina.

Ma l’impero dei Totti è soprattutto immobiliare. La società si chiama Vetulonia, come quella via di Porta Metronia dove il campione è nato citata sempre nelle canzoni a lui dedicate dal folklore romano. Repubblica ricorda invece che la gestione dell’immagine, della pubblicità, delle apparizioni tv, film, libri e serie televisive è affidata alla NumberFive, una società che è invece tutta della famiglia Blasi. È quella la società che stipula tutti i contratti extracalcistici dell’ex capitano della Roma. E infatti, racconta il quotidiano, il primo segnale di rottura è stato l’allontanamento della sorella di Ilary Blasi che curava la comunicazione di Totti. (…) 

Silvia Scotti per “la Repubblica” il 12 luglio 2022.

Casa Totti doveva essere una sit-com (e doveva far sorridere). È invece uno dei tantissimi appartamenti che l'ex capitano della Roma si troverà a dividere con la futura ex moglie in un contesto in cui è rimasta poca felicità. 

Ma quando l'amore passa, il mattone resta. Anche se si passa dalla commedia alla tragedia familiare. Ed è nel mattone che gli investimenti di Totti sono stati come il suo talento: sconfinati. 

Negozi nei centri commerciali, palazzine intere anche affittate al comune, appartamenti in città, ville. Nome della società immobiliare: Vetulonia. Il nome del cuore. Quello della strada a Porta Metronia, la zona dove è nato, cresciuto, ha iniziato a giocare e da dove è dovuto scappare all'improvviso quando si è capito che sarebbe diventato un campione e ogni giorno c'era la processione di tifosi davanti al cancello.

Le case saranno divise, pensando sempre ai figli. La casa al mare, a Sabaudia, è loro. Totti non ci andrà con la nuova compagna, Noemi Bocchi. Anche la villa da oltre 1500 metri quadrati al Torrino è di Cristian, Chanel e Isabel. L'attico dove la coppia ha vissuto, all'Eur, è ora in affitto. La casa di lui dove viveva il fratello è della mamma. La villa a Casalpalocco, vicino al mare, dove viveva con il clan prima del matrimonio resta a lui. E dove, almeno fino alla rottura di febbraio quando la rottura è diventata (quasi) ufficiale, pensava di andare.

La NumberTen, fondata nell'anno dell'unico scudetto vinto , il 2001, è la holding a cui fanno capo della società di Totti. C'è la mamma di Totti, Fiorella, consigliere. Il presidente è Riccardo, il fratello. Il patrimonio è di 7 milioni. 

Calcolare quanto abbia guadagnato extracalcio (da giocatore ha incassato quasi 100 milioni) è complicato, nel dettaglio ne ha la percezione solo il commercialista che lo segue da quando ha iniziato a giocare. Ora Totti gestisce giovani talenti. 

Insieme a Candela, amico inseparabile e compagno a padel, e al procuratore Pietro Chiodi (Ex Chivu e Di Francesco) ha una società che cerca e cura gli interessi di ragazzi che, forse, diventeranno calciatori.

La gestione dell'immagine, della pubblicità, delle apparizioni tv, film, libri e serie televisive è affidata alla NumberFive una società che è invece tutta della famiglia Blasi: stipula tutti i contratti extracalcistici dell'ex capitano della Roma. Il primo segnale di rottura è stato l'allontanamento della sorella di Ilary Blasi che curava la comunicazione di Totti.

Ed è stato nel turbolento periodo dell'uscita della serie tv tratta dal libro che ci sono stati numerosi problemi.

Nei comunicati, dove è stato usato il metro della sottrazione tra gli inevitabili "rispetto per i figli, richiesta di riservatezza, dolore", non si parla di divisione. Dei beni. A febbraio l'accordo era quasi fatto. 

Lo strappo del 21, quando la notizia della crisi è diventata pubblica, ha frenato le discussioni. Il clamore suscitato ha convinto la coppia a recitare una scena da famiglia felice, quella che doveva essere al centro della sit-com, e negare. Ora dovranno decidere come gestire gli immobili, anche se i legali e il commercialista che gestisce Totti ha da mesi il controllo della situazione e sta facendo calcoli. 

Non sarà facile e liti degli ultimi giorni, i tradimenti incrociati non aiutano. La lite che ha portato a fare due comunicati disgiunti: le foto di Chi che certificano la notte di Totti a casa di Noemi non hanno aiutato a ricomporre la crisi. Sarà un'altra partita per Totti: ora iniziano ai tempi supplementari della sua vita.

Daniele Autieri per “la Repubblica - Edizione Roma” il 12 luglio 2022.  

Ormai è ufficiale. L'incantesimo si è spezzato e come la conclusione di ogni favola anche la fine dell'amore tra Francesco Totti e Ilary Blasi porta con sé le sue naturali conseguenze. In termini di cuori infranti, ma anche di interessi da condividere. 

Gli oltre 16 anni di matrimonio sono stati anche il motore della Totti&Ilary Spa, una centrale economica capace di muoversi su business trasversali, dall'immobiliare all'intrattenimento.

Pochi mesi dopo il 19 giugno del 2005, data del matrimonio, la Totti e Ilary era già una società per azioni mossa dall'abilità di entrambi nel reinvestire i guadagni sportivi e televisivi. 

Nel 2007 i due sono infatti soci della Never Without You srl, un marchio d'abbigliamento promosso insieme ad altri calciatori, mentre il Capitano fonda prima la Numberten, che gestisce i suoi diritti d'immagine e dove detiene la partecipazione di maggioranza, quindi controlla altre due società, la Longarina srl e la Immobiliare Dieci, entrambe attive nell'immobiliare.

Negli anni la rete di società cresce e sotto la capogruppo Numberten nascono una serie di piccole srl (la Ft 10, la Immobiliare Acilia, la Immobiliare Ten) che lavorano nella compravendita immobiliare e danno risultati variabili, da ricavi di 1 milione di euro a qualche piccola perdita. Per la coppia d'oro gli affari non vanno sempre a gonfie vele. 

Nel 2017 viene messa in liquidazione la Never without You, la società con cui erano partiti insieme dieci anni prima. Il sogno di creare un marchio popolare, capace di entrare nel business «del commercio all'ingrosso e al minuto» (come si legge nella ragione sociale dell'azienda) non si realizza, ma questo non intacca la carriera imprenditoriale della coppia.

Nonostante i tanti investimenti, la forza economica dei due rimane quella della loro immagine e della loro professione: Totti il campione e Ilary la showgirl che arriva a condurre "Le Iene" e il "Grande Fratello". Sono quindi le sponsorizzazioni e i super ingaggi a far esplodere il giro d'affari della coppia che oggi è difficilmente quantificabile. 

Il sito Money.it ha analizzato i guadagni di Totti quantificando come soli introiti della carriera calcistica 84 milioni di euro netti. Anche Ilary Blasi viaggia a ritmi elevati: secondo il settimanale Oggi il cache per la conduzione dell'Isola dei Famosi si è aggirato sui 50mila euro a puntata.

Francesco ha continuato a vivere nel mondo del calcio. Oggi, oltre alla Numberten e alla Longarina, Totti risulta socio e amministratore della Vetulonia srl, immobiliare, ma soprattutto della IT Scouting, costituito per avviare la nuova carriera di scopritore di talenti. Una carriera che dovrà gestire senza avere più al suo fianco la socia non tanto occulta delle sue imprese fuori dal campo.

Estratto dell'articolo di Rosario Dimito per “il Messaggero” il 12 luglio 2022.

[...] All'ex capitano giallorosso dal 1998 al 2017 fanno capo sette società di cui sei controllate direttamente. Alla showgirl, convolata a nozze con il calciatore il 19 giugno 2005 da cui ha avuto tre figli, due ed entrambe di proprietà. I due sono in separazione di beni quindi non c'è nessuna interferenza reciproca. 

La Numberten srl fu costituita ad aprile 2001, alla vigilia dello scudetto, ed è considerata la capofila delle attività, Totti ha il 100% delle azioni di un capitale di 119 mila euro, il fratello Riccardo è il presidente, la mamma Fiorella Marrozzini consigliere.

L'azienda che ha come oggetto sociale la prestazione di servizi per i personaggi dello spettacolo, atleti professionisti e la ricerca di testimonials, ha un patrimonio netto di 7 milioni, produce utili per 4, dando lavoro a due dipendenti. Vetulonia srl, è anch' essa 100% Totti che è amministratore unico: 20 mila euro di capitale, è una immobiliare, con esclusione dell'intermediazione, può comprare, vendere, frazionare.

Tre controllate operano come «agente sportivo», «assistenza e consulenza ad allenatori sportivi ai fini della conclusione, risoluzione, rinnovo del contratto» [...]: IT Scouting srl, CT10 srl, Coach Consulting srl gestite con gli agenti sportivi Giovanni Maria Demontis e Pietro Chiodi.

Totti ha anche un cip dello 0,09% nel Campus biomedico di Milano [...]. Due sole le partecipazioni di Ilary, entrambe al 90%: Number Five srl, Società sportiva dilettantistica sporting club Totti. La prima ha per oggetto la promozione di attività formative, produttive, commerciali in ambito televisivo, cinematografico, teatrale. [...]

Totti-Ilary, quando nasce la crisi che ha portato alla separazione. Silvia Scotti su La Repubblica il 12 Luglio 2022. Le tappe di una storia che si è logorata molto prima dei due comunicati disgiunti

Se il momento più difficile è quello in cui dirsi addio, il momento della rottura è indefinito. Impossibile da capire, da ricordare, da mettere a fuoco. Ma c'è, c'è sempre e c'è anche nella storia d'amore tra Francesco Totti e Ilary Blasi, una storia che ha smesso di sembrare una favola. 

L'addio allo Sceriffo

ll primo momento in cui cambia qualcosa. A ottobre 2020 muore Enzo Totti, padre orgoglioso e discreto dell'ex capitano della Roma. Un'ombra mai ingombrante ma sempre fedele che ha coccolato, seguito e protetto un figlio baciato dal talento. Muore di Covid, aveva avuto un infarto qualche anno prima. Lo chiamavano lo Sceriffo, perché manteneva ordine. E lì l'ordine si perde. Qualcosa si rompe. Il dolore, le emozioni e soprattutto le reazioni sono diverse. Le priorità nella ex coppia d'oro, dopo il funerale, non si somigliano affatto. Gli argomenti che vengono affrontati non coincidono. E Totti non ne è felice: inizia a guardare da vicino la sua vita.

Il Covid

Poco dopo, a novembre, anche Francesco Totti scopre di essere positivo. Ha febbre alta e ossigeno basso: sta male. Resta in isolamento nella villa dell'Eur con macchinari e medici del Campus, il professor Zangrillo che lo segue a distanza. In quella fase Totti riflette. Molto. Pensa ai tanti amici che ormai sono distanti, perché è la moglie ad avere la totale gestione della vita familiare. E alla famiglia di lei, che è invece molto presente: dalla sorella che si occupa della comunicazione e dei social dell'ex giocatore, alla società della famiglia Blasi che governa tutti i suoi ingaggi extracalcistici: dalle apparizioni in tv dopo l'uscita del libro, alla serie tv "Speravo di morì prima". Riflessioni amare, per la prima volta. Alle quali seguono le prime domande. Ma quando ci si chiede se si ama ancora, si ha già la risposta.

L'incontro con Noemi Bocchi

E arriva lei. Totti era pronto a entrare nel campo da padel e Alex Nuccetelli, pr e organizzatore di eventi, gli presenta Noemi Bocchi. Lui non le toglie gli occhi di dosso. Non era ancora iniziata l'estate e quel torneo al Circeo cambia la sua storia. 

Inizio dell'amore

Noemi gli piace. Una ragazza che non accetta compromessi, che mette in chiaro subito cosa vuole e quanto sia disposta ad aspettare. Discreta, ma determinata. Che non permette spifferi, non sfoggia regali, pubblica quanto basta sui social. Ma a novembre, quando lui ha un incidente in macchina e lei fugge da una festa, mezza città viene a sapere che c'è una relazione.

Il telefono di Ilary Blasi

Ilary Blasi nel frattempo è sparita dai social di lui: non più una foto insieme, una story su Instagram. Appare sempre sola. Ma sola non è: fa filtrare poco, eppure molto si racconta. Ha un legame con un giovane, molto muscoloso, a Milano. Con un imprenditore di Napoli. Con un attore, forse Luca Marinelli. Ha perso la testa per un collega della tv, conduttore come lei. Certezze, nessuna. La lite furibonda davanti agli amici, per messaggi non cancellati di Mister X lasciati sul telefono e che Totti legge, fa scoppiare la crisi. 

21 febbraio

Arriva poi il giorno in cui: allora si può dire? Sussurri, racconti, foto di Noemi allo stadio diventano pagine di siti e giornali. La vicenda è nota: loro provano a negare, i figli sono travolti dal clamore, fingono una cenetta da famiglia unita, Totti con voce strozzata e poco convinta pubblica una storia - da solo, senza di lei - per dire soprattutto: attenzione, ci sono tre bambini.

Non dribbla più

Ilary Blasi nega con forza in tv la fine del suo matrimonio durante le interviste di promozione del reality che avrebbe condotto poco dopo, L'Isola dei Famosi. Ma le smentite finiscono lì. La coppia non si vede più unita, da nessuna parte. Lui pranza tutti i giorni, dopo la partita a padel, con amici o con la guardia del corpo in un locale vicino alla casa all'Eur. E lei non c'è mai. Sui social, ognuno per proprio conto. Lei a Milano, sempre senza di lui. Lui a Tirana, con Noemi. A Montecarlo, con Noemi. La recita è finita: nessuno finge più. Si attendono solo i comunicati che devono dire: finisce tutto, anche il nostro amore.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 12 luglio 2022.

Finalmente una buona notizia! Cioè a distanza di mesi la conferma di una buona notizia, a febbraio respinta come una crudele menzogna dei nemici del vero amore, come un impossibile lutto epocale non solo dei protagonisti ma anche del popolo sovrano. 

Francesco Totti e Ilary Blasi, la coppia esemplare persino più dei Ferragnez perché più antica e con un figlio in più, e più televisiva che instagrammata (quindi più amata dai meno giovani che dai giovanissimi). L'annunciato annuncio di una dichiarazione comune per le 19, è arrivato due ore di nostri ansimi dopo, oltre le 21, e diviso in due: due comunicati, uno per ognuno dei due ex innamorati, prova tangibile di una separazione in disaccordo, dolorosa.

Più stringato quello di Ilary, e forse un po' arrabbiato, più dolente quello di Francesco, con un sottofondo di assunzione di responsabilità, in quella promessa di rispetto verso la moglie non più moglie. Tutti e due chiedono riservatezza, ma sarà dura, e rispetto per i loro figli, e vedo i social all'arrembaggio. A differenza di un popolo singhiozzante, io, sbarrata in casa per evitare il linciaggio oltre che i 50 gradi percepiti, trovo la separazione dei due amabili divi molto rasserenante.

Perché è la storia di una coppia tradizionale, niente di moderno, composta da un uomo e una donna, con tre figli (17, 15, 6 anni), che dopo 17 anni di matrimonio ce la fa ad uscire dalla prigione dei doveri della celebrità e dalla fallace promessa del per sempre: e riesce a prendere una decisione impopolare (secondo il popolo che vuole sante le celebrità), e per loro certamente dolorosa e segno di un privato fallimento, ma anche di scelta di normalità, quindi di libertà. Quella di tutte le famiglie che si formano per amore, che stanno insieme per amore, che diventano genitori per amore e poi il tempo quell'amore lo spegne, lo fa diventare una prigione, per l'uno, per l'altra, per tutti e due. 

Come tutte le coppie ignote che si separano, chissà da quanto anche Ilary e Francesco ci pensavano, chissà da quanto il letto era diventato luogo di gelo e amarezza, e guardarsi in faccia una fatica, e tutti insieme a tavola coi ragazzi, spaesati, in silenzio. È difficile per una persona che come me, sa nulla di calcio e non segue le Isole e i Fratelli pur ritenendoli meraviglie, volendo saperne di più, trovare notizie sui vari social minimamente interessanti, secondo il destino del sapere nuovo, copiato e ricopiato, mai indagato, mai completo. Per fortuna c'è ancora un manipolo di giornalisti eroici che hanno dimestichezza con l'italiano e la professione, tanto da fare persino delle ricerche, informarsi.

E così ho ritrovato parole sulle ragioni della genialità, della grandezza del Pupone sui campi di calcio, del campione del mondo, bello e timido da far impazzire gli stadi e anche le signore che mai ci avevano messo piede. E la Ilary, non solo molto molto carina, immagine di giovinezza e gioia, ma anche simpatica, sempre ridente, intelligente, e l'incontro fatale tra loro, due celebrità che davvero si innamorano e formano una delle tante coppie dagli eventi indimenticabili, con un vasto pubblico di seguaci: calcio e pubblicità, giorno del matrimonio e nascita di figli, uniti negli affari, nella beneficienza, film, fiction, libri.

Oggi le star svaniscono in un baleno, vedi influencer in quanto foruncolose, e la coppia Totti-Blasi, anzi per essere attuali Blasi-Totti, appartiene allo zoccolo duro della fama concreta, per l'eccellenza in campi diversi e per il seguito di appassionati veri, non follower lamentosi. Anche per loro, è stato più facile gestire il diverso successo che il proprio legame, sarà complicato anche dividere il denaro accumulato insieme e soprattutto il dovere di gestire lo smarrimento dei figli: di cui dò alla coppia il grande merito di averli protetti dalla celebrità dei genitori, consegnandoli alla dolcezza dell'anonimato. 

La sospettata Signora Cattiva è una Bionda che pare Ilary ma molto meno carina, che si è conquistato il Totti con il padel e forse altre seduzioni. Auguri ovvio, a tutti. Sui social gli ammiratori si strappano i capelli, "Sono Sconvolto!" "Ditemi che non è vero!" e massima conclusione "Allora l'amore non esiste!" Stringi stringi non si esce dalla fiaba. Perché l'amore esiste e per questo finisce.

Totti e Ilary, dai baci all'addio: la favola vip diventa umana. La showgirl plurigettonata e il campione mondiale da sempre militante nella Roma non hanno retto al giro di boa del diciassettesimo anno di vita matrimoniale. Enrica Simonetti su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Luglio 2022.

Capitano, oh capitano Totti. Principessa, oh principessa televisiva Ilary. Voi, belli, biondi, ricchi e famosi: ma come siete diventati umani da poche ore! Vi separate al pari di tanti comuni mortali meno belli, meno ricchi e meno gossippati di voi. Anche i motivi sono i... soliti, perché lui forse ha un'altra, che tanto per cambiare si chiama Noemi - nome di berlusconiana memoria -, fanciulla che ha conosciuto ad un torneo di padel (sport figo che ora fan tutti); lei forse a sua volta ha un altro - o l'ha avuto - ma comunque mal sopporta da cinque anni la pensione anticipata di lui (e accade in qualsiasi coppia long-term). Non solo. Di mezzo ci sarebbero pure i parenti di lei che si sono messi a lavorare con lui e che pare abbiano creato disaccordi, praticamente i classici cognati/cognate che fanno saltare in aria le famiglie.

Corna, affari, dispetti, invidie. Finisce nel modo più «normale» – data la a/normalità dei nostri tempi - la favola di Ilary Blasi e Francesco Totti: la showgirl plurigettonata e il campione mondiale da sempre militante nella Roma non hanno retto al giro di boa del diciassettesimo anno di vita matrimoniale.

Altro che supervip dalle vite sognate: ora che il gossip li avvolge, sembra che all'improvviso la felicità di cui immaginavamo sia stata un ologramma. Su Dagospia si elencano tutti i viaggi fatti da lui e da lei in solitario negli ultimi tempi, cosa che faceva presagire la crisi. Tre figli di 17, 15 e 6 anni (Chanel, Cristian e Isabel, mai sia un nome italiano!) dovranno ora passare weekend alternati dall'uno e dall'altra, qui o lì, con uno zaino in spalla, con i genitori in giro con gli occhiali neri, preoccupati dall'evitare i paparazzi. Ma, come ai tempi dell'amore, anche ora la coppia-ex-coppia sarà la regina estiva delle copertine e dei siti: non cambierà molto, perché si attende la vacanza di lui con la nuova, la lacrima di lei e il conforto di qualcuno, il tatuaggio della separazione etc etc. Un film stravisto.

Pensate che, provare per credere, sembra che i due fino ad oggi abbiano collezionato sulla Rete più foto e interviste di Biden e Draghi messi insieme. Ma si sa che così va il mondo: Ilary e Francesco divertono per le gaffe, per il romano ostentato, per la semplicità naïf o studiata che sia. Era una coppia tra l'umano e il soprannaturale, tra il pop e il supervip, quindi la loro «onnipresenza» continuerà. Anche l’amore ventennale che li ha uniti ne ha fatto dei beniamini degli appassionati del genere. Lui è diplomato in ragioneria ma ha ricevuto il master «honoris causa» in Strategie per il business dello Sport, cosa che comunque conosce bene: pare che abbia guadagnato solo per le 21 stagioni da calciatore ben 152 milioni di euro. Lei, nata per diventare famosa, era già a tre anni in Tv, quando apparve in uno spot dell'Olio Cuore accanto a Mariangela Melato. Impossibile elencare tutte le trasmissioni di cui è stata conduttrice e showgirl, ma le più recenti vanno da Sanremo a «Le Iene», dal «Grande Fratello» a «L'Isola dei Famosi». Entrambi sono testimonial di prodotti notissimi, entrambi hanno azioni patrimoniali e immobiliari che ora finiranno al centro della contesa.

L'ex coppia felice battaglierà per gli assegni, sicuramente un po' più carichi di quelli del separato-impiegato-medio e si contenderanno la mitica villa all'Eur invece del semplice appartamento da 60 metri quadri con mutuo annesso, ma alla fine è tutto uguale («L'amore non vuole possedere, vuole soltanto amare», disse l’inascoltato Herman Hesse).

Anche Totti e Blasi, come tutti gli ex, hanno storie Instagram da cancellare o chissà, da far rifiorire a colpi di fruttuosi like: baci allo stadio, occhi azzurri che si scambiano dolcezze, sfilata di coppe calcistiche sormontate dalla chioma di lei, figli - ovviamente biondi e belli - scarrozzati e fotografati sin da neonati allo stadio.

Tutto questo showbusiness si ferma e poi riprende più forte di prima, lo abbiamo visto in mille altri addii vippati. Pensate che, con tutto quello che accade nel mondo, ieri le redazioni – chi più chi meno - hanno atteso il comunicato stampa ufficiale della separazione dei due, annunciato per le 19 e giunto in ritardo. Scusateci se anche noi abbiamo dedicato questo spazio ad una coppia nota che si è lasciata, ma facciamo finta di aver raccontato una storia umana comune o la favola del capitano e della sua principessa che si erano tanto amati e che ora un po' tristi sono anche loro, come tutti quelli che costruiscono qualcosa con l'anima ma poi ne vedono il crollo. E' in questo che Hilary e Totti sono diventati umani: belli, ricchi, famosi, con il cuore un po’ a pezzi.

Chat, tradimenti e scenate: così è finita tra Totti e Blasi. Stefano Vladovich il 13 Luglio 2022 su Il Giornale.

Le voci della crisi si sono susseguite negli ultimi mesi. La nuova fiamma Noemi e la "fuga" a Tirana.

Le cene all'Isola del Pescatore, sulla spiaggia di Santa Severa, e l'incontro a Tirana, per la finale di Conference League. Stesso albergo, stanze separate, dicono. Dopo l'annuncio della separazione di Francesco Totti e Ilary Blasi - che ieri dalla Tanzania ha postato le prime foto da «single» assieme ai figli - i social impazzano. C'è chi giura e spergiura di averli visti nel castello trasformato in hotel 5 stelle di Lunghezza, Roma, chi a Montecarlo. Certo è che da almeno 8 mesi le scappatelle di Totti con la nuova fiamma, per molti un clone di Ilary con qualche anno di meno, sono sulla bocca di tutti.

«Totti è il mio salvatore. Magari se la prendesse lui», commentava ironico l'ex marito di Noemi Bocchi, l'imprenditore del marmo Mario Caucci, nel momento in cui Dagospia lanciava in anteprima assoluta la loro rottura e la relazione pericolosa. Mentre il capitano smentiva tutto, c'è chi raccontava dei messaggini scoperti da Totti sullo smartphone di Ilary con un fantomatico nuovo amore e che annunciavano burrasca. I due si sarebbero incontrati a Milano, vicino gli studi de «L'Isola dei Famosi» di Cologno Monzese. Un imprenditore, un personal trainer o un personaggio dello spettacolo? Smentito anche il nome dell'attore Luca Marinelli, della storia segreta di Ilary non esce nulla. Di Noemi, invece, si è scritto tanto. Romanista sfegatata, due figli, separata, con Totti aveva passato giornate intere sui campi di paddel della capitale. E dopo l'annuncio di lunedì, Francesco e Noemi sarebbero in partenza per una vacanza lontano dai riflettori.

Un matrimonio minato fin dall'inizio da quando, un mese prima delle nozze nel 2005, Flavia Vento confessa al settimanale Gente di aver trascorso una notte di passione con il calciatore. A convincere la Vento a svelare il flirt Lele Mora e Fabrizio Corona. Passano 13 anni e sul palco del Gf Vip la Blasi non si fa sfuggire l'occasione per attaccare Corona: «Ti rendi conto quello che mi ha fatto 13 anni fa? Tu giochi con i sentimenti. L'hai fatto anche con Silvia». Lo scorso aprile scoppia il caso Noemi. Altro che fake. E i social postano di tutto. «Totti e Ilary se stanno a lascià e questo pensa alla guerra». Detto da Joe Biden mentre stringe la mano a Vladimir Putin fa davvero strano. Ma questo non il meme più irrispettoso quanto irriverente di quelli postati ieri. E che, con molta amarezza, fanno anche un po' sorridere.

È il gossip del giorno, in un'estate infuocata, e non solo per il caldo africano, per migliaia di fan del capitano «c'è solo un capitano» e della ex Letterina, oramai anche ex moglie Ilary Blasi. Alla notizia ufficiale della separazione della coppia più amata dai romani(sti) i social sono letteralmente esplosi. Chi ha più fantasia ce la mette. E così è stato per tutta la giornata di ieri. La regina Elisabetta che commenta amara, sotto il suo cappellino turchese: «E così, anche Totti e Ilary si lasciano», oppure «Dimmi che stai aspettando il comunicato senza dirmelo» posterebbe un fantomatico quanto falso account di Totti a un'altrettanta falsa Ilary. «Sei unica» mostrava orgoglioso e molto sornione Totti in campo sotto la maglia giallorossa a un'imbarazzatissima Ilary. Gli smanettoni di photoshop ci mettono un secondo a trasformarla con «C'ho un'artra» alludendo con spavalderia tutta romana alla nuova fiamma del «Pupone», Noemi Bocchi. I social non si fermano. «Manco una pezza di Lundini ha ritardato così tanto», hashtag Totti # Ilary. Ma è ancora Elizabeth the Queen ad apparire sulle schermate di tutt'Italia. La regina è al telefono e incalza: «Non mi interessa di Putin, dimmi di Totti e Ilary», chiede a un misterioso interlocutore. «Alle 19 discorso a reti unificate», parla il capitano al posto del presidente Mattarella, postano altri. E «mentre tutti refreshano» Francesco dorme alla grande.

Ilary Blasi, corna a Totti? "Aitante e muscoloso", ecco chi è il vero motivo della separazione. Libero Quotidiano il 13 luglio 2022

Francesco Toțti e Ilary Blasi si sono lasciati dopo 20 anni. Nessun comunicato congiunto, segno che la situazione non è propriamente delle migliori: la prima a parlare all’Ansa è stata la conduttrice di Mediaset, seguita dopo pochi minuti dall’ex calciatore della Roma. Non è chiaro quale sia stato il motivo che ha scatenato la crisi e portato alla rottura, della quale si parlava già lo scorso febbraio. 

Allora i diretti interessati avevano smentito per proteggere i loro tre figli, ma alla lunga sono dovuti uscire allo scoperto, anche perché il settimanale Chi sta per pubblicare delle foto esclusive di Totti che in piena notte entra ed esce dalla casa di Noemi Bocchi, sua nuova fiamma. Non sarebbe però stato il capitano il primo a tradire: secondo la ricostruzione di Chi, non è stata Noemi a far precipitare il matrimonio, ma un “aitante e muscoloso ragazzo” che Ilary avrebbe iniziato a frequentare a Milano. Totti l’avrebbe scoperta tramite dei messaggi non cancellati sul telefono: quello sarebbe stato l’inizio della fine. 

Un episodio che spiega la frase sibillina di un caro amico di Totti, che provava a dare una spiegazione sulla crisi: “Ha capito chi è lei”. Di certo i diretti interessati non diranno nulla a riguardo, con la Blasi che si è già chiusa nel silenzio stampa: “Il percorso della separazione rimarrà un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia”.

Da liberoquotidiano.it il 12 luglio 2022.

Fabrizio Corona adesso si toglie qualche sassolino dalle scarpe. Dopo la rottura tra Ilary Blasi e Francesco Totti, l'ex agente dei paparazzi mette nel mirino la conduttrice. Dopo lo scontro epico al Grande Fratello Vip, c'era attesa per capire quale fosse stata la reazione di Corona alla fine della storia ventennale tra la Blasi e l'ex numero 10 della Roma.

Corona non ha deluso le aspettative e ha immediatamente attaccato la Blasi: "Le sue dichiarazioni come al solito sono fuori luogo anche in momenti personali dolorosi. Egoriferite e accusatrici. 

Dopo essersi sposata in diretta tv e aver vissuto di copertine, interviste, servizi posati, scoop finti e veri, tradimenti, ritorni amorosi, foto con figli e ogni volta esclusive strapagate, dopo essere diventata qualcuno grazie al gossip e solo perché è stata la compagna di Totti, chiede di non speculare a giornali, tv e fotografi. Quando lei lo ha fatto per 20 anni", ha affermato Corona.

 Ma non finisce qui. Sempre Corona ha parlato anche dei problemi legati all'esposizione dei figli della coppia in questa vicenda: "Spiace veramente per i figli che non c’entrano niente ma la decisione di esporli sempre è stata la loro". Infine un post scriptum: "La separazione di Totti e Blasi ha riaperto un mercato portando soldi e lavoro per fotografi e carta stampata".

Dal profilo Instagram di Selvaggia Lucarelli il 12 luglio 2022.

A me spiace per Ilary e Totti perché mi sono molto simpatici entrambi e non mi interessa l’aspetto pruriginoso della vicenda, però visto che faccio la giornalista una cosa la voglio dire: per quanto non abbia apprezzato lo scavare nei tradimenti, la notizia della loro crisi e della separazione alle porte era vera. 

Ti possono non piacere l’indelicatezza e l’eccesso di dettagli con cui viene data, ma se sai che è vera, questa smentita piccata, con insulto ai giornali (aveva anche fatto i nomi, li ho tagliati) francamente è pessima. Se ti dispiace per i tuoi figli, se li vuoi proteggere, puoi dire “mi spiace molto per quello che sto leggendo, sono questioni private che vorrei risolvere nell’intimità della mia famiglia, tutelando il più possibile i miei figli. Vi chiedo di tenerne conto, grazie”. E magari, se vuoi proteggerti e proteggere, eviti pure di sederti in un salotto tv. I giornali fanno il loro lavoro, che è dare una notizia.

Si può discutere sul come viene data, ma non sulla legittimità di darla, specie se si parla della separazione della coppia più nota, più involontariamente e VOLONTARIAMENTE esposta del mondo dello spettacolo. Quando si decide di regalare molto di sè al sistema, poi non si può pretendere di avere il controllo di ogni notizia. Non possiamo decidere di avere copertine e like per ciò che ci piace e un telo nero sopra quello che non ci piace. 

Ci sono molte persone in questo ambiente che non regalano nulla al pubblico del proprio privato e hanno addosso attenzioni meno morbose. Insultare i giornali, se dicono una verità sgradita, non è un buon modo per difendersi. È un modo molto sgradevole di buttarla in caciara. Esiste, volendo, la smentita anche bugiarda che non offende il lavoro altrui, quello per giunta che ti fa comodo quando devo promuovere un programma o una foto venuta bene. E chi dice che i giornali dovrebbero farsi i fatti loro, beh amici miei: se ti sposi in diretta su Sky, anche il tuo divorzio sarà in diretta su Sky. Dura lex, sed lex.

Da repubblica.it 12 settembre 2022. 

"Caro Pupone e cara Caciottara, è giunto il momento di raccontare la verità e aprire il vaso". Tra i tanti commenti scatenati sui social dalla versione di Francesco Totti sulla separazione, uno dei più carichi di livore è quello di Fabrizio Corona.

"Questa non è una fiaba d'amore. È semplicemente una storia costruita e gestita per interessi comuni", accusa l'ex re dei paparazzi che, raggiunto dall’Adnkrons aggiunge: "L'ho sempre detto che si tradiscono da anni, quei due non si sono mai amati e si sono sfruttati l'un l'altro". E la minaccia: "Settimana prossima vi racconterò tutta la storia con tanto di foto". Detto fatto, nelle sue stories instagram Corona pubblica uno scatto con la dida: "1 - Martina", lasciando intendere che sia solo la prima delle presunte amanti di Totti.

"Il paradosso è che tutta l’Italia parla di questi due borgatari" scrive l’ex fotografo su Instagram pubblicando un estratto video con la sua partecipazione al Grande Fratello, condotto da Ilary Blasi nel 2018. "Quel giorno, la Queen di Ladispoli voleva darmi lezioni di moralità", continua. "Era appena uscito il libro di Totti che, per volontà della famiglia di Ilary, aveva voluto tirare fuori l’argomento Flavia Vento. Mi accusava di aver inventato tutto, che era tutto finto, e che io ero una mer** perché lei si doveva sposare una settimana dopo…".

Corona fa riferimento a un’intervista rilasciata da Flavia Vento nel 2005 in cui la showgirl confessava di aver avuto una notte di passione con Totti, un mese prima del matrimonio con Ilary Blasi, già in attesa del loro primogenito, Cristian. "Giochi con i sentimenti delle persone", gli disse la conduttrice prima di interrompere il collegamento dallo studio del Grande Fratello.

Fabrizio Corona non è l’unico personaggio in vista che ha voluto dire la sua sulla separazione tra Totti e Ilary Blasi. A scagliarsi contro la legale di Totti, Annamaria Bernardini de Pace, è stato invece il regista Gabriele Muccino: "La conosco bene. L'ho avuta come controparte in un divorzio orribile che ha rovinato un figlio e seminato veleno per 5 anni". A cui ha replicato a stretto giro la stessa avvocata: "Le offese che derivano da persone che non valgono non valgono niente". 

Tra dettagli e nuovi nomi, tra un colpo basso e l'altro, quel che sembra essere ormai certo è che Totti e Blasi ora inizierà la guerra in tribunale.

Totti - Ilary Blasi, ecco perché Fabrizio Corona è intervenuto sulla separazione. E cosa ha detto fino a ora. Ecco dove affondano le radici del rancore tra l'ex paparazzo e la coppia al centro della separazione più discussa dell'anno. La Repubblica il 13 settembre 2022

"Visto che i due piccioncini non fanno nomi e cognomi, toccherà a qualcuno farlo. Oggi, la prima rivelazione". Fabrizio Corona è un fiume in piena. Dalla pubblicazione della lunga intervista in cui Totti racconta la sua verità sulla fine della relazione con Ilary Blasi, l’ex fotografo si è ributtato a capofitto nel gossip, rimestando nel torbido. 

“Ti ricordi che facevi a 16 anni?” dopo anni la verità su Ilary Blasi: Corona spiffera tutto. Fabiana Valenziano su nanopress.it il 10 Settembre 2022

Da alcuni mesi a questa parte, come tutti saprete, il nome di Ilary Blasi è ovunque, a causa della fine del suo matrimonio con l’ex capitano della Roma Francesco Totti. Ed è sempre sulla conduttrice che, tempo fa, sarebbero emersi dei dettagli risalenti al periodo del suo esordio.

L’esordio televisivo di Ilary Blasi risale al 1984, all’età di soli 3 anni, grazie alla pubblicità dell’olio Cuore alla quale ha partecipato. A essa, sono seguite ulteriori apparizioni non solo in altri spot pubblicitari, ma anche in diverse pellicole cinematografiche. Una volta diventata grande, Ilary Blasi ha continuato, con determinazione, a inseguire il sogno di lavorare in tv.

La vera popolarità la Blasi l’ha raggiunta nel 2001, anno in cui è stata scelta per ricoprire il ruolo di “Letterina” nel celebre quiz show Passaparola. Da quel momento, la carriera di Ilary non si è mai più fermata e, ad oggi, è uno dei volti di punta delle reti Mediaset. Da alcuni anni a questa parte, infatti, la Blasi è impegnata nella conduzione de L’isola dei famosi; in passato, invece, è stata al timone anche di un altro celebre reality: il Grande Fratello Vip.

Ed è stato proprio in tale occasione, durante uno scontro avvenuto in diretta, che Fabrizio Corona pronunciò la frase nei confronti di Ilary che, all’epoca, creò molto scalpore: “Ricordati cosa facevi a 16 anni, ricordati da dove vieni”. Cosa avrà voluto dire il re dei paparazzi? Ecco la verità.

Il significato della frase su Ilary Blasi

Nel 2018, Ilary Blasi è stata colei che ha condotto la terza edizione del Grande Fratello Vip, alla quale ha preso parte anche Silvia Provvedi, cantante ed ex fidanzata di Fabrizio Corona. Nel corso di una puntata del reality, è avvenuto un collegamento proprio tra Ilary e Fabrizio, ma una semplice ospitata televisiva si è trasformata, bene presto, in uno scontro in diretta tv.

Nel corso della discussione, rivolgendosi a Ilary, Corona ha pronunciato la frase precedentemente citata, della quale ne ha spiegato il significato solo l’anno seguente.

Nel 2019, infatti, Fabrizio Corona ha pubblicato il libro dal titolo Non mi avete fatto niente, all’interno del quale ha ripercorso alcuni momenti della sua vita. Tra un racconto e l’altro, Fabrizio ha menzionato anche il primo incontro con Ilary Blasi, avvenuto quando la conduttrice non era ancora maggiorenne.

Corona, a tal proposito, ha rivelato che Ilary si era recata presso la sua agenzia con la sua mamma, prima di essere scritturata per prendere parte allo show condotto da Gerry Scotti che l’ha resa celebre. In quel periodo, stando alle parole di Fabrizio, la conduttrice avrebbe avuto delle brevi relazioni con alcuni suoi amici, fino a quando, pochi anni dopo, non è avvenuto l’incontro con Francesco Totti. Ecco, dunque, svelato l’arcano!

La fine di un amore

Quando Ilary Blasi e Francesco Totti iniziarono a frequentarsi, nessuno avrebbe immaginato che, negli anni, avrebbero dato vita a una delle coppie più belle del mondo dello spettacolo.

Purtroppo, però, tutto può cambiare, così come è stato per Ilary e Francesco che, poco meno di due mesi fa, hanno annunciato la fine de loro matrimonio.

Maria Bruno per leggo.it 12 settembre 2022. 

Polemiche su polemiche. I fari accesi da mesi sulla separazione Totti-Ilary sono sempre più forti. E con loro, tutto l'entourage che circola attorno. Il gossip impazza, i curiosi continuano a digitare il nome della coppia per sapere news e dettagli. E' ormai la notizia più cliccata e, proprio oggi, le novità sono tantissime. Dopo l'intervista bomba rilasciata da Totti al Corriere, in cui rivela particolari piccanti e scandalosi del divorzio con l'ex letterina Passalaparola, arriva la risposta tagliente di Ilary a Repubblica. 

Tutti aspettano l'intervista della conduttrice dell'Isola a Verissimo ma c'è chi, invece, non perde tempo per commentare le ultime news. E' Fabrizio Corona, vecchio nemico della coppia che subito ha pubblicato delle stories su Instagram per commentare quanto emerso. 

 «Ora è giunto, caro pupone e cara caciottara, il momento di raccontare la verità e aprire il vaso. Avete incominciato voi…prossimamente seguitemi. Stay tuned. p.s. complimenti il furto dei rolex come primo reato è azzeccato. Tra 3 anni, finita la condanna (che non arriverà mai), varranno il triplo. A presto ? molto presto».

Il rancore di Fabrizio Corona verso la coppia parte dal passato. Tutti ricorderanno l'episodio di qualche anno fa quando Corona è stato ospite del GF Vip condotto da Ilary. In quell'occasione, la conduttrice non si è risparmiata di togliersi un sassolino risalente al suo matrimonio, quando l'ex re dei paparazzi ha pubblicato delle foto che testimoniavano il presunto tradimento di Totti con Flavia Vento. 

Un gossip che Ilary non ha mai digerito e, appena ha potuto l'ha rinfacciato a Corona, in diretta tv, cacciandolo dal programma. E adesso che il suo matrimonio è seriamente in crisi per uno o più tradimenti da parte di entrambi, ecco che Corona si fa avanti.

«Il paradosso è che tutta Italia parla di questi due borgatari. In questo video, quel giorno, la queen di Ladispoli voleva darmi lezioni di moralità. Sì, proprio lei, la stessa descritta e raccontata da suo marito sul corriere. E' caduta la sua maschera finalmente. Quel giorno il suo era un attacco a suo marito per fargliela già pagare, vendicandosi di me. Era appena uscito il libro di Totti che per volontà della famiglia di Ilary aveva voluto tirare fuori l’argomento Flavia Vento» scrive Corona in didascalia al video di quel giorno.

«Mi accusava - si legge ancora nel post di Corona - di aver inventato tutto, che era tutto finto, e che io ero una merda perché lei si doveva sposare una settimana dopo….accidenti !!! Ora tutti incominciano a capire un po’ di cose..la gente mi ferma per strada. Ma questa non è una fiaba d’amore.

E' semplicemente una storia costruita e gestita per interessi comuni. L’amore qua non c’entra niente. Chi ama non tradisce. Mi spiace per i figli. Ero il re di questo lavoro in quel periodo e settimana prossima vi racconterò tutta la storia con tanto di foto. Li ho visti crescere i due ragazzi. Mi fanno schifo i potenti o i finti tali». 

«Sono uscito dal mondo del gossip fondamentalmente perchè mi annoiava. Almeno questa mattina quando ho aperto le pagine del Corriere, giusto il tempo di farmi quattro risate, leggendo questa intervista penosa (spero improvvisata). Il mio telefono sta letteralmente bollendo» ha scritto nella storia Instagram Fabrizio. «Ho deciso che questa volta una decisione la rilascerò anche io. Non fosse altro perchè mi l'idea di puntualizzare alcuni punti lasciati in sospeso quando sono stato letteralmente cacciato fuori da una trasmissione televisiva condotta da un collezionista di Rolex. Come si dice in questi casi: Nun rosicate» 

Da repubblica.it il 13 settembre 2022.

L'account Instagram di Fabrizio Corona non è più raggiungibile. "Utente non trovato" è la scritta che compare se lo si cerca nel social network. "Ma il profilo di Corona è sparito o sbaglio?" si chiedono in molti su twitter. L'account potrebbe essere stato segnalato dagli utenti di Instagram. Magari da qualche fan inferocito. 

La conferma arriva dal suo legale, Ivano Chiesa: "Fabrizio Corona è stato bannato da Instagram. È già la seconda volta.

È assurdo. Stiamo pensando di intraprendere vie legali". 

L'ex re dei paparazzi negli ultimi tre giorni si era buttato a capofitto nel gossip, "Totti e Ilary Blasi si tradiscono da anni", e lo aveva fatto usando come strumento privilegiato proprio Instagram. "Visto che i due piccioncini non fanno nomi e cognomi, toccherà a qualcuno farlo", scriveva ieri.

Prima di pubblicare la foto di una donna: "Martina" e di lanciare quello che definiva "indizio": sabato sera la conduttrice era alla festa della sua manager, Graziella Lopedota. "Poi è arrivato qualcuno proprio ora noto alle cronache", scriveva ieri sibillino. Oggi la pubblicazione di un messaggio di Sean Brocca, ex modello ed ex fidanzato di Ilary Blasi e uno scatto con cui tirava in ballo anche il ballerino di Amici Alessio La Padula. 

"Ho un audio e una chat...". Corona parte all'attacco di Totti. L'ex re dei paparazzi continua il suo assalto alla coppia, facendo le prime rivelazioni (e i primi nomi) sui tradimenti, che ci sarebbe stati tra Totti e Ilary. Novella Toloni il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.

Fabrizio Corona è un fiume in piena. L'ex re dei paparazzi ha messo nel mirino Francesco Totti e Ilary Blasi e - dopo la promessa di rivelazioni scioccanti sui presunti amanti, che la coppia avrebbe avuto fuori dal matrimonio - ha iniziato a sganciare le prime bombe.

Le rivelazioni più potenti riguardano l'ex capitano della Roma che, secondo Corona, avrebbe avuto più di un'amante nel corso della ventennale storia con Ilary. "Uno che sfiora l'analfabetismo", lo ha definito Corona, che ha pubblicato la foto di una donna, Martina, che avrebbe avuto una storia con il Pupone in tempi non sospetti.

"Ho il telefono che scoppia", ha scritto l'ex re dei paparazzi, condividendo con i suoi follower il messaggio vocale di una misteriosa ragazza, con la quale Totti si sarebbe intrattenuto all'insaputa di Ilary. "Ho dei messaggi, una chat e un audio di Francesco con me", confessa la donna nel video di Corona, che promette di rivelare ulteriori dettagli nei prossimi giorni, come nelle peggiori telenovele. L'ex compagno di Nina Moric ha poi accusato Totti e la conduttrice dell'Isola dei famosi di strumentalizzare i quotidiani "a proprio uso e consumo", mentre lui è pronto a fare nomi e cognomi dei loro presunti amanti.

Poi ha spostato l'attenzione su Ilary Blasi e su una serata a Milano, dove ci sarebbe stato anche l'uomo con il quale avrebbe tradito Totti, Cristiano Iovino. "La sera era a Milano al compleanno della sua famosa agente che ha ripreso e postato sulle storie tutto e tutti. Lei no però", ha scritto su Instagram Corona, proseguendo: "C'era anche Jack La Furia che l'ha salutata con un paio di corna. Poi è arrivato qualcuno noto proprio ora alle cronache. Noi c'eravamo!". Parole, quelle di Fabrizio, che in molti hanno interpretato più come una minaccia, visti i dissapori passati proprio con Ilary Blasi.

"Ho le prove dei tradimenti, Totti mi ha scritto". E Fabrizio Corona viene censurato. La settimana del gossip vede protagonisti Corona contro Totti e Ilary e tre noti personaggi di Uomini e Donne. Novella Toloni il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

Dopo avere promesso di fare nomi e cognomi dei presunti amanti, che Francesco Totti e Ilary Blasi avrebbero avuto fuori dal matrimonio, Fabrizio Corona è stato bloccato. Virtualmente. Il suo account Instagram è stato disattivato, presumibilmente dopo una serie di segnalazioni arrivate dopo la numerose storie pubblicate dall'ex re dei paparazzi, dove attaccava il Pupone e Ilary. Proprio quando Corona ha iniziato a fornire le prime "prove" dei tradimenti (parlando di una fantomatica Martina e pubblicando l'audio di un'altra misteriosa amante del calciatore) Fabrizio è stato silenziato con ogni probabilità dagli amministratori della piattaforma social su segnalazione. Di chi? Forse anche di Totti, che avrebbe addirittura scritto in direct a Corona. Quest'ultimo ha pubblicato lo screenshot di un messaggio privato ricevuto dall'ex capitano gialloroso, oscurando il contenuto e ironizzando con un punto interrogativo rosso. Cosa gli avrà scritto Francesco? Chissà, certo è che Corona zitto non rimarrà ancora per molto.

Uomini e donne non è ancora iniziato (ripartirà lunedì 19 settembre) e la prima rissa si è già consumata negli studi di Cinecittà. Le registrazioni delle prime puntate sono già state effettuate e Ida Platano e Riccardo Guarnieri si sarebbero resi subito protagonisti di un acceso confronto. Dopo un'estate passata tra vacanze e ospitate, i due ex si sono ritrovati in studio e Maria ha voluto offrire loro l'opportunità di chiarirsi in un nuovo faccia a faccia. Il confronto, però, si è trasformato nell'ennesima litigata tra urla e insulti e Ida avrebbe preso la sua decisione. "Ha detto basta in maniera decisa e ferrea", riporta il Vicolo delle News. Sarà la fine o l'ennesimo teatrino?

Il red carpet di Angela Caloisi, ex volto di Uomini e donne, rimarrà negli annali del gossip. Già, perché l'influencer napoletata - ospite alla Mostra di Venezia per assistere all'anteprima "L'immensità" come testimonial di un noto brand - ha perso un anello di brillanti da migliaia di euro in uno dei canali del Lido. Il video della Caloisi, che scende dal taxi boat, è diventato virale sui social. Nelle immagini si vede chiaramente il gioiello scivolare via dal dito e finire nell'acqua tra lo sconcerto dell'influencer, che rimane a fissare l'acqua della Laguna per alcuni istanti. Impossibile recuperare il brillocco con buona pace dello sponsor, che lo aveva affidato alle mani (bucate) dell'influencer.

Elena Fausta Gadeschi per leggo.it il 16 settembre 2022. 

Dopo la sospensione del profilo social di Fabrizio Corona per le dichiarazioni rilasciate sul conto di Ilary Blasi e Francesco Totti, parla il figlio dell'ex re dei paparazzi Carlos Maria Corona. Dalla sua pagina Instagram il ventenne difende il padre, a cui fa avere tutto il proprio sostegno. 

Fabrizio Corona, il figlio Carlos lo difende

«Papà tu sei sempre stato vero, senza filtri, ed è questo il problema – scrive il ragazzo, che in una storia riporta alcuni titoli di giornali inerenti al padre –. Non mi preoccupo perché sei stato sempre libero, anche in galera e non ti possono fermare mai, ti devono uccidere come dici tu».

«Fagli vedere come hai preparato il grande rientro. Insegna a tutti verità, informazione e comunicazione» aggiunge Carlos, segnalando l'apertura di quella che pare essere una nuova pagina social del fotografo @fabriziocoronavero dove, con ogni probabilità, il fotografo pubblicherà nuovi contenuti sulla celebre ex coppia per dimostrare che «si tradiscono da anni». 

«Ora sono ca**i vostri!!! Potete rinchiuderlo in galera per anni, potete cancellargli 1000 profili, ma lui tornerà sempre… e sempre più vero» conclude il giovane, in quella che pare più una minaccia che una promessa.

Da fanpage.it il 17 settembre 2022.

Pochi minuti prima che il profilo Instagram di Fabrizio Corona fosse rimosso, il 48enne aveva lanciato una precisa allusione, indicando il ballerino Alessio La Padula come presunto amante di Ilary Blasi. Corona aveva già iniziato ad attaccare la ex coppia formata dalla conduttrice dell’Isola dei famosi e Francesco Totti rivelando che avrebbe reso pubblici i retroscena della loro separazione. A farne le spese per primo era stato l’ex capitano della Roma. 

Corona aveva pubblicato l’immagine di una ragazza, tale Martina, lasciando intendere fosse stata la sua amante. Aveva quindi reso nota una telefonata con un’altra ragazza che sosteneva di avere avuto un contatto con Totti e di poterlo provare. A poche ore da quel momento, Fabrizio ha spostato la sua attenzione su Ilary pubblicando una foto del ballerino di Amici e lasciando intendere che fosse stato l’amante di Blasi. Un’accusa che ha mandato Alessio su tutte le furie. 

Dopo avere visto Corona pubblicare la sua foto, Alessio ha replicato risentito: “Fabrizio Corona, perché a 50 anni fai anche queste cose? Perché non vai a lavorare come la gente umile tipo me? Perché tanto il tuo momento up è finito, rassegnati. Trovati un lavoro e non rompere il ca*** alla gente che non c’entra niente con le tue cose da bimbimin***a”. All’epoca delle prime indiscrezioni circa la separazione tra Totti e Ilary, il nome di Alessio aveva già fatto il giro della rete. Il gossip si era scatenato a partire da una serie di like di Ilary alle foto del ballerino con il quale aveva collaborato all’epoca di Star in the star, programma di Canale5 da lei condotto e al quale La Padula aveva partecipato da membro del corpo di ballo. Alessio aveva già smentito quell'indiscrezione. 

L’account Instagram di Corona è stato disattivato

Ma le rivelazioni a proposito della separazione tra Totti e Ilary potrebbero fermarsi qua. Pochi minuti fa, l’account Instagram di Fabrizio Corona è stato disattivato. Non è chiaro se sia stato lo stesso 48enne a rimuovere il profilo o se la piattaforma, avendo accertato una violazione, abbia deciso per la rimozione.

“SPERAVO DE TRADÌ PRIMA” – TUTTI I TWEET SULL'UNICO ARGOMENTO CHE INTERESSA GLI ITALIANI: GLI STRACCI CHE VOLANO TRA TOTTI E ILARY BLASI! GENE GNOCCHI: “TOTTI RIVELA: A UN CERTO PUNTO AVEVO COSÌ POCA FIDUCIA IN ILARY CHE LA CHIAMAVO LUCIANO” – SELVAGGIA LUCARELLI: “QUALCUNO CONOSCE I LORO ACCOUNT VINTED?” – “L’11SETTEMBRE, IL GIORNO IN CUI TUTTI NOI RICORDIAMO DOV’ERAVAMO ESATTAMENTE QUANDO A #TOTTI SO’SPARITI I ROLEX…”

DAGOSELEZIONE il 13 settembre 2022.  

sonia bruganelli@SBruganelli

Dopo “ La guerra dei Roses” abbiamo “ La guerra dei Rolex” cit. Paolo Bonolis 

Renato Franco@ErreEffe7

Totti che per difendere la serenità dei figli racconta che Ilary si è fregata (secondo lui) gli orologi #Totti #Ilary #corriere 

Mattia Buonocore@Mattiabuonocore

E pensare che, per mesi, molti fan di Totti e Ilary sui social hanno offeso o ripreso chi parlava della coppia. “Abbiate rispetto, i figli soffrono…” 

Selvaggia Lucarelli@stanzaselvaggia

Qualcuno conosce gli account Vinted di Totti e Ilary?

Giuseppe Candela@GiusCandela

L'intervista di Totti mi sembra davvero molto triste. Sarà una strategia legale ma dal punto di vista comunicativo è davvero disastrosa. Un autogol. #totti 

Gene Gnocchi@GnocchiGene

Totti rivela:” Ad un certo punto avevo così poca fiducia in Ilary che la chiamavo Luciano “. #12Settembre #GazzettaDelloSport #Totti #ilaryblasi

Alessio Viola@alessioviola

Oggi è l’#11settembre, il giorno in cui tutti noi ricordiamo dov’eravamo esattamente quando a #Totti so’spariti i Rolex. 

Il Grande Flagello@grande_flagello

+++ ULTIM'ORA, Totti:"Mai più interviste perchè devo tutelare i miei figli. Pubblicherò le chat di Ilary solo su instagram" +++

Le frasi di Osho@lefrasidiosho

Speravo de tradì prima #Totti 

Le frasi di Osho@lefrasidiosho

Totti potrà vedere i rolex solo nei fine settimana #Totti #Ilary

Selvaggia Lucarelli@stanzaselvaggia

Dopo l’intervista a Totti è probabile che Ilary abbia regalato la collezione di Rolex a Roman Pastore. 

cristiana@cristia76055804

Da ‘Sei unica’ a ‘Ridamme gli orologi’ è un attimo #Totti

M49@M49liberorso

Un paese serio destinerebbe le risorse del reddito di cittadinanza per ricomprare i #Rolex a #Totti 

ApocaFede@DrApocalypse

Trovo davvero incredibile come due persone multi-milionarie come #Totti e #Ilary possano scannarsi in pubblico per una casa o dei rolex, trascinandosi persino in tribunale. Stracci volanti per delle briciole.

Aurelio Sechi@aureliobosa

Intanto Fedez sta spostando la sua collezione di Rolex in un caveau segreto. #Totti #tottiblasi #Ilary 

Fabio Fabbretti@fabiofabbretti

Che Ilary potesse non raccontarla giusta era ipotizzabile nonché affar suo/loro, ma la comunicazione di #Totti continua ad essere un disastro 

KanLio@Kan_Lio

#Totti può permettersi di rilasciare certe dichiarazioni - oscene - perchè non ha nulla da perdere in termini di immagine. Il suo pubblico dei fanatici calciofili è tendenzialmente ignorante, maschilista e patriarcale.

Simone@simone_dela

Lei ha fatto la zoccola per prima e poi mi ha rubato gli orologi, ma non dico niente per rispetto dei figli. Lui è talmente puttaniere che se parlo rovino 50 famiglie, ma non dico niente per rispetto dei figli. Pensa te se gli stavano sul cazzo sti figli. #Totti #Ilary 

Sara Barbieri@labarbierina

 “Vostra madre è una ladra, disonesta, parassita e pure un po’ mignotta” disse L uomo che voleva tutelare i figli #totti 

Nicoletta Fortuna@NicolettaLucher

I figli di #Totti e #Blasi chiedono di essere adottati dalle due mamme di #PeppaPig . #ilaryblasi #Ilary #Rolex

Simonamour@LaCortopassi

 “E poi Ilary è venuta a prendere Chanel” e non si capisce più se parla dei figli o delle borse #Ilary #tottiblasi #Totti

Mattia Buonocore@Mattiabuonocore

Doveva dare le borse di Ilary, tenute in ostaggio, a Noemi #totti 

Mattia Buonocore@Mattiabuonocore

All’epoca della lite con Corona, in realtà, le parole di Ilary suonavano come un’ammissione del tradimento #totti

Mattia Buonocore@Mattiabuonocore

TWEET TOTTI ILARY 6

Già mi immagino Flavia Vento chiamata a testimoniare in tribunale #totti #ilary

David Parenzo@DAVIDPARENZO

Tra #Totti e la morte della Regina #Elisabetta, la campagna elettorale passa nettamente in terzo piano…solo il “peppa pig gate” ci può salvare!

Da mowmag.com il 12 settembre 2022.

Altro che stracci. Tra Totti e Ilary volano Rolex e Vuitton. Scaramucce da asilo Mariuccia di due che spingono a chi la spara più grossa. Come dimostra l'intervista concessa dal Pupone al Corriere della Sera, in cui punta il dito contro l'ormai ex moglie, forse sollecitato dal suo avvocato difensore, Anna Maria Bernardini De Pace, non nuova a questo genere di offensive. 

Quindi l'ex Capitano prende parola e fornisce la sua versione dei fatti, sostenendo di essere stato tradito per primo, più altre squisite recriminazioni che ricostruiscono le tappe della crisi, iniziata -  a suo dire - già nel 2016 (ma di cui non fa cenno nell' autobiografia), e a cui la Blasi replica per mezzo del suo avvocato, sempre per tutelare i figli, nevvero, con la promessa che quando e se parlerà - si presuppone nel comodo salotto dell'amica Silvia Toffanin a "Verissimo" - potrebbe spararle più grosse di lui.  

“Ilary ha visto cose, in questi ultimi anni, che potrebbero rovinare una cinquantina di famiglie”. Insomma c'eravamo tanto amati, ma adesso è guerra aperta e senza condizioni. Una bagarre che monta anche sui social, aizzata nel frattempo da altri commentatori, in primis Fabrizio Corona, che più volte ha sollevato dubbi sull'autenticità della coppia, a partire da quel presunto tradimento del campione giallorosso con Flavia Vento a poche settimane dalle nozze (anno 2015).

Ma perché un tradimento, al giorno d'oggi, fa ancora così tanto scalpore, generando un vero e proprio terremoto mediatico? A tal proposito abbiamo interpellato il re del sesso Rocco Siffredi, che ci fornisce una sua chiave di lettura sulla vicenda. “Se ami e non perdoni una scappatella, vuol dire che l'orgoglio ha vinto sull'intelligenza”.  

Orgoglio di lei, sostiene l'ex pornodivo, mentre vanta anche una stretta conoscenza con il calciatore, “sincero e sensibile”, in netta contrapposizione con la personalità di lei, definita senza tanti giri di parole “una calcolatrice”. 

Di più, il Rocco nazionale se la prende anche con Fabrizio Corona, che interviene sulla questione “in cerca di scoop. Totti è ancora innamorato. Non dicesse cazzate”. Poi invita i due ex a riaccendere la fiammella sopita con altri escamotage, come uno scambio di coppia, e rilancia sulle presunte nuove fiamme di entrambi: “facsimile dei partner originali”. Infine aggiunge una rilevazione scottante che lo riguarda personalmente. Quando una nota donna dello spettacolo gli propose di tradire il compagno con lui…

Rocco Siffredi come commenta le parole del Capitano su Ilary: “Mi ha tradito prima lei...". 

Da amico di Francesco, che ho sempre definito “l’unico calciatore che poteva fare il mio lavoro”, so che è una persona estremamente sincera. Il suo è stato un atto di coraggio e amore. 

Amore?

Sì, nei confronti della moglie, si capisce che è ancora innamoratissimo, ma nello stesso tempo molto dispiaciuto. È anche vero che nemmeno lui è un santo. Tuttavia, l’amore non può essere buttato via per una carnalità, tutti ci passiamo. Insomma, non è un tradimento a giudicare vent’anni di rapporto, di famiglia. 

Cosa consiglia al Pupone?

In verità consiglio a entrambi di ritrovarsi, dopo aver regalato agli italiani questo gustoso momento di gossip. 

Quasi una soap…

Esatto, una soap fantastica, della coppia più amata che ha rivelato come anche le favole finiscano. Ma ho anche scritto a Francesco, privatamente, invitandolo a pensare alla sua famiglia, e a Ilary, perché temo si pentiranno ambedue di questa situazione, presi a seguire il trend di chi la spara più grossa.

Perché le corna creano ancora scandalo?

Me lo chiedo anche io, è surreale, qualcosa che dovrebbe essere sorpassato. Se uno dei due non perdona una scappatella è intollerabile, significa che l’intelligenza è stata cassata dall’ignoranza. Se c’è amore vero le corna le perdoni, invece domina l’orgoglio… 

Da parte di chi?

Da parte di lei, al mille per mille. Conosco Francesco, lo ripeto, abbiamo anche trascorso qualche giorno di vacanza insieme ritrovandoci più volte nello stesso posto, e quello che ho notato sempre in lui è la sua estrema sensibilità. Invece lei è una persona fredda, anche divertente e carina, per carità, ma sulle sue, una calcolatrice.

Intanto Fabrizio Corona sostiene che i due si tradiscono da sempre, e di più che non si sono mai amati…

Ma non scherziamo, non fai tre figli con una persona che non ami. D'altra parte Corona non sa nemmeno cos’è l’amore, non dicesse cazzate. Poi lui vive di scandali, non a caso è ancora più calcolatore di Ilary. 

Ma i tradimenti attentano al bene della famiglia sì o no?

No, è sempre ignoranza. Piuttosto l’educazione andrebbe fatta a priori, per quanto concerne il possesso. Perché nemmeno col matrimonio possiamo credere di “possedere” qualcuno per sempre. Purtroppo questo sentore fasullo “spiega” anche la violenza che spesso si verifica quando una donna decide di non amare più. Le cose possono nascere e finire, non siamo più nella vecchia Sicilia, le corna non le lavi mica con l’onore. Sottolineo quindi il coraggio di Totti nel professarsi cornuto”. 

Nel sottotesto l’ha fatto però…

Sinceramente? Forse era meglio evitare quell'intervista, invece di dar credito alla linea d’attacco del suo avvocato (Anna Maria Bernardini De Pace, nda), perché pur in buona fede può essere frainteso e trasformarsi in un grande autogol.

Ma Siffredi tradisce?

Non voglio giustificarmi … sì ho tradito, e ho avuto anche momenti di dipendenza dal sesso. Ma non è per il tradimento che finisce un matrimonio, lo ripeto, io e mia moglie stiamo insieme da quasi trent’anni. La scappatella è solamente un’avvisaglia, piuttosto cerchiamo di capire perché è successo, se per mancanza di passione, di stimolo, e facendo magari tutt’altro, come “divertirsi” insieme con altre persone. 

Quindi avrebbe consigliato uno scambio di coppia a Totti e la Blasi?

Tutta la vita, sarebbero stati felici e contenti. 

Invece che pensa di Noemi Bocchi? Assomiglia molto a Ilary…

A tal proposito, commentiamo anche il personal trainer con cui lei avrebbe una relazione (Cristiano Iovino, nda)? È la brutta copia di Francesco, quindi ambedue cercano i facsimile dei loro partner, ma tornassero all’originale!  

Ma è mai capitato che una donna o uomo di spettacolo volesse tradire il proprio partner con lei?

Sì, come no, più da parte degli uomini devo dire. Allora mi sono fatto una risata, significa che c’è stima anche da parte del mondo dello spettacolo. In fondo abbiamo lavorato “duro”, no? 

Adesso ci vuole un nome…

Posso dire che una di loro è diventata famosa perché è stata la compagna di un attore di Hollywood…

Elisabetta Canalis?

Eeehhh.. 

Ilary Blasi e Francesco Totti, le corna: ciò che nessuno ha il coraggio di dire. Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 15 luglio 2022

Amanti. Una volta gli amanti erano Paolo e Francesca. Certo, colpevoli e perciò messi all'inferno da Dante, ma grandiosi, eroici, mitici. "Amor ch' a nullo amato amar perdona". Oggi l'inferno consiste nella condanna generale, nel disprezzo, nell'alzata sdegnosa di spalle. Sto pensando naturalmente alla vicenda Totti-Blasy. Come è possibile che più di sette secoli dopo, ancora non riusciamo a perdonare - anzi ad esaltare - l'atto dell'amare? La parola amante viene da lì. Dal verbo amare. Ne è il participio presente. Voi non credete che se c'è amore, tutto il resto è un dettaglio? Evidentemente no. L'amante per definizione è la rovina famiglie, la responsabile indiscussa della fine di una storia d'amore.

E non importa se quell'amore era grande solo nell'immaginario collettivo, se quell'amore raccontato sui giornali non rispecchiava la realtà. Qualcosa deve necessariamente aver spezzato l'incantesimo e non si accetta che la causa sia da ravvedere in un decorso naturale, in un inizio ed una fine di una passione, di un progetto insieme, no, non è accettato. Ci deve essere un colpevole, ancora meglio se una donna.

Avete mai sentito appellare un uomo come rovina famiglie? No. Questo stigma è solo appannaggio della femmina. Lei che sfodera le sue armi micidiali per irretire l'uomo innamorato e portarlo nella sua trappola mortale. E non c'è più scampo per il maschio. La femme fatale ha compiuto il suo dovere. Lo ha strappato alla famiglia perfetta, all'alcova che sembrava inscalfibile. Sembra non esistere narrazione diversa. E la vicenda Totti-Blasy ne è la dimostrazione. Ancora non erano stati diramati i comunicati ufficiali che già si erano materializzati gli spettri degli amanti. Chat scoperte, fughe nella notte, scoop inequivocabili. Ecco trovati i colpevoli, o meglio, la colpevole, visto che è molto più sexy ed accattivante quando si parla di presunti amanti, spostare tutta l'attenzione su una lei. La peccatrice è femmina per definizione. Mi perdonerete se mi dissocio totalmente dal racconto che sta emergendo rispetto a questa blasonata separazione.

Sono ancora dell'antica idea che quando un amore finisce accada per cause naturali e mai per responsabilità terze. Che quando in una storia subentra un'altra persona le sia stato permesso di entrare perché probabilmente qualcosa già scricchiolava. E non spetta a noi stabilire se sia giusto o no cedere alle tentazioni. Non spetta a noi giudicare le scelte personali solo perché quella coppia era stata santificata dall'opinione pubblica. Troppo spesso ci dimentichiamo che i sentimenti, le pulsioni, le passioni, appartengono alle persone, non ai personaggi. E bisogna accettare che anche loro possano essere travolte da crisi normali, che smettano di amarsi come persone normali e che possano o meno tradirsi come persone normali. Senza dover scaricare su terzi la responsabilità di un epilogo che probabilmente era già stato segnato prima. La verità è che come in tutte le vicende del gossip prevale l'ipocrisia. L'ipocrisia di massa. La necessità di sentirci giusti e virtuosi e di dimostrare la prova della nostra virtuosità nella colpa dell'altro. «Meglio se l'altro è famoso, ricco, di successo. Perché allora all'ipocrisia si somma l'invidia. Dobbiamo rassegnarci a queste miserie? Temo di sì. Perché la verità vera è che il senso comune si costruisce con queste materie qui: invidia e ipocrisia. Scusate se non mi unisco a questa schiera: Viva chi ama.  

Ilary Blasi, l'amante all'Isola dei Famosi? "Lingue lunghe", ecco il nome: altro terremoto. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 14 luglio 2022

Chiamatelo pure Totti-Blasi gate: da giorni, ormai, non si parla di altro. Della separazione, burrascosa, tra Ilary Blasi e Francesco Totti. Così, le indiscrezioni corrono alla velocità della luce e spuntano due nomi: Alessio La Padula, ballerino di Amici, e Antonino Spinalbese, ex di Belen Rodriguez. Nessuno dei due ha avuto una storia con la Blasi: si tratta dell'ennesima bufala acchiappa clic.

La Balsi ha chiesto riservatezza dopo l'annuncio "urbi et orbi" fatto tramite l'agenzia di stampa Ansa. Un annuncio ufficiale che ha lasciato tutti senza parole. Ma come mai è spuntato il nome di Alessio La Padula? Semplice, l'ex ballerino di Amici - che in passato ha avuto una relazione d’amore con Elena D’Amario - si è scambiato like e cuori su Instagram con la conduttrice dell'Isola. Tutto questo, adesso, è venuto - o meglio, tornato - a galla. E qualcuno ha parlato di storia segreta. Il settimanale Chi, non dimentichiamolo, ha raccontato che Totti avrebbe scoperto alcuni messaggi compromettenti sul cellulare della Blasi. Secondo le malelingue potrebbe trattarsi del ballerino, ma secondo quanto riportano conferme incrociate si tratta di una fake-news.

Ilary Blasi non parla. Sceglie la strada del silenzio e si è recata in Africa, in Tanzania, con la sorella maggiore Silvia e i figli Cristian, Chanel e Isabel. Invece, Alessio La Padula ha deciso di parlare. "Più sono vuote le teste più sono lunghe le lingue", ha scritto sui social. Il riferimento alla Blasi sembra chiarissimo. Infine, l'ex capitano della Roma è stato paparazzato a casa della nuova fidanzata Noemi Bocchi. Secondo alcuni insider la loro storia andrebbe avanti dall'autunno scorso. 

La magnifica cornuta. Ilary Blasi fa la parte della porella, ma la fine della storia con Totti è gestita da donna di potere. Guia Soncini su L'Inkiesta il 13 Luglio 2022.

Dicono che la conduttrice avrebbe scoperto il tradimento dell’ex calciatore dalle foto di Chi, infuriandosi. Ma credere a questa versione racconta molto di noi e della nostra voglia di storie preconfezionate in cui la moglie è incapace di strategie comunicative sofisticate.

E quindi la separazione la si sarebbe dovuta annunciare con un comunicato congiunto epperò, il giorno in cui il rotocalco Chi stampa il numero settimanale, Ilary Blasi – conduttrice di programmi Mediaset non estranei al direttore di Chi, amica del cuore della madre di alcuni figli di Piersilvio Berlusconi – avrebbe scoperto che, ohibò, il quasi ex marito la tradiva, e quindi iraconda come ogni cornuta che viene a sapere le cose per ultima avrebbe fatto saltare il comunicato congiunto. Mentre la marmotta incartava il cioccolato.

Come sempre accade da che esistono le classi sociali ed esiste il pettegolezzo, non sono particolarmente rilevanti i fatti (una coppia di ricchi e famosi sta insieme un paio di decenni, si sposa in diretta televisiva, fa tre figli, e a un certo punto si separa) ma il modo in cui li osserviamo, le conclusioni che ne traiamo, cosa il parlare d’una conduttrice televisiva e d’un calciatore dice di noi.

Di noi che non ci capacitiamo che esista il potere. Che sì, Ilary Blasi abbia dato interviste promuovendo il suo ultimo programma non solo negando recisamente che lei e il marito fossero in crisi, ma anche dicendo che chi li aveva dati per separandi aveva fatto una figuraccia. L’ha fatto perché è una di noi, povere cornute ignare, e fino a l’altroieri proprio non sapeva che oggi sarebbero uscite su Chi le foto del marito col nuovo modello di femmina, optional inclusi?

Non vogliamo prendere in considerazione che Ilary Blasi, una che all’interno dei gruppi editoriali della famiglia Berlusconi un certo qual peso ce l’ha, abbia deciso che non voleva stare quattro ore in diretta mentre tutti la guardavano pensando «chissà se soffre», e quindi abbia sovrinteso alle tempistiche del tutto?

Non vogliamo osare ipotizzare che, se la separazione viene ufficializzata due settimane dopo la fine dell’Isola dei famosi da lei condotta, e quando Ilary ha davanti a sé mesi in cui può permettersi di non comparire in pubblico, non sia per caso? Non vogliamo applicare una qualche logica e azzardarci a credere che Ilary sapesse prima di noi che un giornale del gruppo per cui lavora ha delle foto di suo marito che esce da casa d’un’altra?

Io, che sono spericolata, addirittura arriverei a immaginare una polarità invertita: a dire che quelle foto le abbia indirizzate lei, alla quale quelle foto servono a ottenere consenso popolare. Ci piace, a noi pubblico medio, ancora simpatizzare con la povera cornuta che sì sarà bella, sì avrà degli addominali pazzeschi nonostante tre gravidanze, sì avrà ancora una carriera (diversamente dal suo ex marito), ma porella guardala, quello esce da casa d’un’altra, che umiliazione.

Dopodomani esce la nuova edizione d’un libro sulle corna che scrissi dieci anni fa, e in dieci anni è cambiato quasi tutto, e una cosa che nella prima edizione era in nuce e ora è sistematizzata è che le donne sono i nuovi cornificatori, i nuovi manipolatori, i nuovi spietati traditori. E gli uomini, porelli, sono le nuove zitelle.

Se è vero, come scrivono i saperlalunghisti, che Blasi ha avuto una storia con un giovanotto, è evidente che le foto di Totti che esce da casa di quella tizia che avrà passato il liceo a venire presa in giro per il nome (Noemi Bocchi, in un liceo romano: che tragedia), è ovvio che quelle foto sono una manovra diversiva di Ilary Blasi, l’illusionista che sa che è molto meglio far la parte della cornuta che della stronza, se vuoi continuare a essere la conduttrice di programmi per famiglie e la testimonial di prodotti per il pubblico generalista.

La vera parità è questa qui: essere strategiche quanto per millenni lo sono stati gli uomini, spietate quanto lo sono stati gli uomini, frignare se serve in favore d’obiettivo ma avere il controllo assoluto della situazione. Avere come modello comportamentale la marchesa di Merteuil, mica la signora Tourvel; la maltrattatrice, mica la maltrattata. (Questo è il punto in cui le femministe postmoderne dicono che questo è l’approccio sbagliato, che non si tratta d’appropriarsi dei meccanismi di potere maschili, ma di creare un mondo nuovo in cui tradimenti e giochi di potere non siano più necessari. Intanto, la marmotta continua a incartare il cioccolato).

E poi ci siamo noi disgraziati dei giornali, che stiamo lì e facciamo il conto delle proprietà immobiliari della famiglia Totti e di come verranno divise, increduli come lo siamo sempre davanti alla ricchezza (chi l’avrebbe mai detto, una conduttrice televisiva e un ex calciatore di serie A sono molto benestanti). E ci consoliamo dicendo eh ma però che burina, l’hai vista con che piglio da pesciarola aveva accusato i rotocalchi di mentire, e anche quando litigò in diretta con Fabrizio Corona, dai, non è una signora, una con tutte stelle nella vita.

Ma tu pensa. Ilary Blasi, nata al Portuense, una sorella che si chiama Melory, una carriera cominciata nei fotoromanzi e proseguita negli stacchetti di Passaparola, un marito col raffinato eloquio di Francesco Totti, Ilary Blasi non è la Vita Sackville-West di questo secolo, non è la Marella Caracciolo che ci possiamo permettere, e non è neppure l’erede naturale della Giulia Maria Crespi. Ma chi l’avrebbe mai detto, certo che il giornalismo di costume ci sorprende sempre.

Da corrieredellosport.it il 16 luglio 2022.

Tra Francesco Totti e Ilary Blasi....spunta Maria Mazza! La soubrette, ex fiamma del Pupone, ha condiviso un importante messaggio sui social network qualche giorno dopo l'annuncio della separazione dell'ex coppia. "Inutile che continuate a cercarmi: non rilascerò alcuna dichiarazione sull’argomento del momento", ha scritto l'ex fidanzata di Totti senza fare mai il nome di Francesco o Ilary. Maria non vuole intromettersi in una faccenda che non la riguarda: dopo l'addio all'ex calciatore ha decisamente voltato pagina. 

La storia d'amore tra Totti e Maria Mazza

Francesco Totti e Maria Mazza sono stati legati nei primi anni Duemila. La relazione è durata circa due anni e mezzo. In una vecchia intervista la showgirl ha ammesso di non aver mantenuto alcun rapporto con lo sportivo: "Ricordo quel periodo col sorriso, eravamo molto giovani, ci siamo divertiti, ma evidentemente non era un grande amore, né per me e né per lui. E questo credo che poi si sia visto con il tempo. Ci siamo totalmente allontanati. Oggi, poi, siamo due persone completamente diverse da allora".

Chi è Maria Mazza

Classe 1975, Maria Mazza è una showgirl, modella e attrice napoletana. Dopo il terzo posto a Miss Italia nel 1996 ha lavorato parecchio in televisione. Da Domenica In a Stracult, da I Raccomandati a Piazza Grande, solo per citarne alcuni. Dal 2012 ricopre il ruolo della Dottoressa ad Avanti un altro. Dopo un matrimonio fallito la Mazza ha trovato la serenità accanto ad Amedeo, che nel 2014 l'ha resa mamma della piccola Sveva.

Da corrieredellosport.it l'8 febbraio 2022.

Antonio Cassano stronca Nicolò Zaniolo. "Quando sta bene, con quel fisico riesce a fare il gol e la giocata - ha detto ai microfoni della Bobo TV - Però per me non rimane un grande giocatore. L'idea del passaggio, ad esempio, non la ha. Si mette a testa bassa e parte". L'ex attaccante classe 1982, che in giallorosso ha trascorso cinque stagioni dal 2001 al 2006, è stato duro anche con la sua ex squadra. "La Roma gioca male e non voglio usare alibi legati agli episodi o altro.

Contro il Genoa devi vincere perché sei più forte. Di quelle che stanno nella prima parte di classifica credo che i giallorossi siano la delusione maggiore. Dopo i primi mesi con una proposta di calcio molto bella, la candela si è spenta. E non so se dipende dal 6-1 contro il Bodo o dai giocatori o altro ancora. Di sicuro serve dare ancora tempo a Mourinho, ma oggi la squadra soffre, fa fatica e non ha un’idea tattica. Non penso che Mourinho sia ancora riuscito a dare la stabilità di cui la squadra ha bisogno".

Da corrieredellosport.it il 19 luglio 2022.

Prima di conoscere Francesco Totti Noemi Bocchi ha amato un tronista di Uomini e Donne. A lanciare lo scoop il settimanale Di Più, che ha avuto modo di incontrare l'ex fidanzato della romana: Gianfranco Apicerni. Quest'ultimo - che oggi lavora come postino a C'è posta per te e gestisce due case vacanza nel centro di Roma - ha ammesso di aver amato la Bocchi per ben due anni. "Un amore giovanile, il nostro, che ricordo con piacere perché è coinciso con uno dei periodi più belli della nostra vita", ha detto Apicerni, che ha conosciuto Noemi dopo aver partecipato al reality show sul calcio Campioni, che gli ha regalato grande popolarità.

Noemi Bocchi è stata fidanzata con Gianfranco Apicerni

Dopo l'esperienza a Campioni Gianfranco Apicerni ha iniziato a giocare nel Tivoli 1919 e tra un allenamento e una partita ha conosciuto Noemi Bocchi. La loro liaison è durata due anni ma il collaboratore di Maria De Filippi ha preferito non svelare troppi dettagli: "Anche se ritengo non ci sia niente di male a parlare del nostro amore, non vorrei crearle problemi". In seguito alla rottura con Noemi - correva l'anno 2011 - Apicerni è sbarcato a Uomini e Donne: qui ha scelto la corteggiatrice Valeria Bigella ma la loro relazione non è durata molto. 

Classe 1988 Noemi Bocchi è nata e cresciuta a Roma. È laureata in Economia. Ama fin da bambina il calcio ed è una tifosa sfegatata della Roma. Da qualche anno ha iniziato a giocare a padel: grazie ad un torneo ha conosciuto Francesco Totti. Noemi è stata sposata per svariati anni con Mario Caucci, imprenditore e team manager del Tivoli Calcio. Come raccontato dall'uomo alla stampa la rottura non è avvenuta nel migliore dei modi e i due non sono ancora riusciti a trovare un accordo per la separazione. La Bocchi, che lavora come flower designer, è mamma di due bambini piccoli: una femminuccia di dieci anni e un maschietto di otto.

Da corrieredellosport.it il 20 luglio 2022.

Dopo aver pubblicato le foto di Francesco Totti sotto casa di Noemi Bocchi il settimanale Chi fornisce nuovi dettagli sulla separazione tra il Pupone e Ilary Blasi. "Povera Noemi, se la incontrassi le direi: "Tranquilla bella, non sei l'unica", ci confida una persona vicina all'ex coppia Totti-Blasi" - si legge sulla rivista di gossip - "Aggiungendo che Totti non avrebbe lasciato Ilary per la Bocchi: ha fatto il possibile per tenere unita la famiglia per il bene dei figli". A quanto pare l'ex capitano della Roma avrebbe negato fino alla noia facendo così arrabbiare la moglie...

Il patto segreto tra Totti e Ilary

"Totti ha negato fino alla noia, con la moglie e con gli amici, di avere una relazione con Noemi - fa sapere ancora Chi - Al punto che Ilary ha smentito le voci di un possibile tradimento del marito. Se lo ha fatto è perché era sicura di non essere smentita dai fatti. Per questo si è molto arrabbiata quando ha saputo delle foto. Il patto era che nessuno si facesse sorprendere con nuove o vecchie fiamme". Dunque, "forse Totti, senza quelle foto, avrebbe continuato a salvare le apparenze e il matrimonio e a frequentare in segreto Noemi".

Ora mentre Ilary Blasi è in Africa con i figli Cristian, Chanel e Isabel, "gli amici di Totti cercano di evitare che il Capitano raggiunga Noemi senza più curarsi della forma e delle apparenze". Nonostante gli scatti e le tante indiscrezioni, sulla Bocchi neppure una parola da parte dell'ex giocatore.

L'amico di Totti rivela: "Lui latin lover? In realtà anche dall'altra parte…". Novella Toloni il 21 Luglio 2022 su Il Giornale.

Alex Nuccetelli è tornato a parlare dell'addio tra Ilary e Totti, sostenendo che sarebbe stata la conduttrice a mettere la parola fine al matrimonio

Passano i giorni e il quadro sul divorzio tra Francesco Totti e Ilary Blasi si arricchisce di nuovi dettagli. Se da una parte c'è chi fa le pulci all'accordo economico, che la coppia avrebbe firmato prima di dirsi addio, dall'altra tiene banco il motivo che ha portato Francesco e Ilary a prendere strade separate.

Secondo il settimanale Nuovo la crisi tra il Pupone e la conduttrice de L'Isola dei famosi sarebbe cominciata a novembre e non a marzo, quando Noemi Bocchi venne accostata al calciatore per colpa di una foto allo stadio Olimpico. Novembre è indicato come il momento in cui qualcosa, nel rapporto tra Totti e Ilary, si è incrinato. Lo confermerebbe la fuga in Lapponia, che la Blasi fece a inizio dicembre da sola insieme a due amici. Come a volere prendere le distanze da qualcosa o qualcuno. Già in quel momento la sua vacanza in solitaria fece molto chiacchierare, ma poi la conduttrice smentì le voci di crisi durante un'ospitata nella trasmissione "Michelle Impossible".

In tutto questo, emergono anche nuovi dettagli su chi, all'interno della coppia, avrebbe detto "basta". A rivelarlo è ancora una volta Alex Nuccetelli, amico di Totti, che già nei giorni scorsi aveva difeso il capitano giallorosso dalle accuse di avere tradito la moglie con Noemi. "La decisione di lasciarsi penso l’abbia presa Ilary”, ha dichiarato Nuccetelli a Nuovo, svelando inoltre: "Sono convinto che in lui il desiderio di avere Ilary al suo fianco non si sia mai spento. Se poi una persona ti risponde sempre male, è sempre arrabbiata e nervosa, a un certo punto è normale che ti stanchi".

Quel commento della Ferilli su Totti: "C'è solo da ridere"

Insomma il malumore nella coppia serpeggiava da tempo e le tante smentite non sarebbero servite ad altro se non a guadagnare tempo in vista delle comunicazioni ufficiali, arrivate poche settimane fa. Francesco Totti ha provato a salvare il matrimonio, come scritto di suo pugno nella nota di addio rilasciata alla stampa, ma tra i due - come molti sospettano - ci sarebbe stato più di un terzo incomodo. "Molti dipingono Francesco come un latin lover, ma in realtà anche dall'altra parte…", ha concluso l'amico del Pupone, facendo intendere che anche Ilary non avrebbe disdegnato le attenzioni maschili.

 Francesco Totti furioso: perché è esplosa l'ira su Ilary Blasi. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 21 luglio 2022

La rottura tra Totti e Ilary finisce ovunque. Siti e tv, settimanali e tanto altro ancora. Anche giornali esteri. Se ne parla molto anche sull’ultimo numero del magazine Nuovo, diretto da Riccardo Signoretti. Tra le indiscrezioni di questo numero si legge: “Non si dà pace, Francesco Totti…La rabbia è tanta…”. Si tratta di un rumor che animano la calda estate che stiamo vivendo. Ora più che mai la vicenda Totti-Blasi tiene tutti ancora con il fiato sospeso. “Chi lo conosce bene racconta che avrebbe provato fino alla fine a salvare il rapporto…”, racconta alla rivista di Signoretti Nuccetelli.

Poi viene interrogato un amico di Francesco Totti, che dice ancora: “Penso che la parola fine sia stata messa dalla conduttrice”. Alex Nuccetelli, molto legato a Totti, in questi ultimi giorni sta parlando abbastanza di quello che è accaduto. “La decisione di lasciarsi penso l’abbia presa Ilary…”, dice. E poi ancora: “Sono convinto che in lui il desiderio di avere Ilary al suo fianco non si sia mai spento…” Tuttavia Nuccetelli ha anche tenuto a precisare che ormai pare che la situazione tra i due fosse davvero complicata, soprattutto per il presunto atteggiamento di lei: “Lei spesso e volentieri gli rispondeva male…Era sempre arrabbiata e nervosa…”

Da corrieredellosport.it il 21 luglio 2022. 

La fine della storia d'amore tra Francesco Totti e Ilary Blasi (durata venti anni, di cui 17 di matrimonio) continua a catalizzare l'attenzione del gossip nostrano. Nella giornata di martedì 19 luglio si è parlato a lungo a L'Estate in diretta della separazione tra l'ex Capitano e la showgirl. Ed è tornato a parlare della celebre ormai ex coppia Alex Nuccetelli, l'amico che in passato li ha fatti conoscere. 

Il pr romano ha commentato dicendo che, secondo il suo punto di vista, dopo vent'anni tutto può accadere. Anche se dubita fortemente che ci possano essere terze persone, specie in un rapporto così importante.

Alex ha definito Ilary e Francesco "due genitori fantastici" che stanno crescendo i figli nel migliore dei modi "cercando di fare apparire in loro delle radici di base". Ed ancora: "Sembrerebbe difficile per una coppia così importante, che hanno questi fari addosso. Le tentazioni sono tante. Credo che c'è veramente da fare un plauso assoluto per questi due ragazzi così belli e vincenti". 

Le precisazioni

Alex Nuccetelli ha tenuto a sottolineare che se è intervenuto in questi ultimi giorni pubblicamente è stato perché chiamato in causa dalla stampa, quindi si è sentito di replicare e dare la sua versione dei fatti. L'aver ricevuto perfino delle ingiurie, l'ha portato a fare delle ulteriori precisazioni. Una di queste riguarda Totti e la sua presunta nuova fiamma, Noemi Bocchi. Il pr ha rivelato di non essere stato lui a presentarli, né di aver confermato la loro relazione. Di Noemi ha detto che è una ragazza che conosce da tempo e che è fantastica. 

Totti furioso dopo le rivelazioni su Noemi Bocchi e Ilary: sarebbe pronto a reagire. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 27 luglio 2022.

Francesco Totti si è scocciato e non ne può più. È stanco di scoprire ogni giorno l’ennesima esclusiva rivelazione sulla fine del suo matrimonio con Ilary Blasi. Di leggere, in ordine sparso, che «l’ex numero 10 della Roma è pronto a partire per la Tanzania per riconquistare la moglie», che «è già andato a vivere con Noemi Bocchi in un appartamento ai Parioli», o che «si era impegnato per iscritto a nascondere il nuovo amore per il bene dei figli ma ha tradito il patto» (inesistente, peraltro) e così via. Di sentire vere o presunte ricostruzioni su chi, nella ex coppia d’oro Pupone/Letterina, ha tradito chi, e come e quando e perché. Non è così che avrebbe voluto affrontare un sofferto addio dopo venti anni di amore, 17 di vita coniugale e tre figli. Eppure Francesco è rimasto in silenzio. Mentre altri parlavano (indirettamente) troppo. Il simbolo giallorosso ha scelto sin dall’inizio un profilo basso, il riserbo. 

Ma l’ultimo scoop del settimanale “Chi”, in cui si rivela che Ilary avrebbe assunto un investigatore privato per farlo pedinare e scoprire le sue infedeltà coniugali, lo ha davvero amareggiato. Anzi, il campione del mondo del 2006 è furioso. Specialmente perché viene coinvolta la piccola Isabel, che involontariamente avrebbe fatto da “spia”, raccontando alla mamma dei pomeriggi trascorsi con il papà e due nuovi amichetti, i figli di Noemi Bocchi. Illazioni che, secondo fonti a lui molto vicine, vengono respinte come gigantesche castronerie, falsità, bufale, maldicenze senza fondamento. Messe in giro da chi ha interesse a suscitare tanto clamore mediatico. Lui no di certo. Da quando, suo malgrado, è stato costretto a parlare della propria vita privata con un comunicato stampa - che avrebbe voluto congiunto, ma Ilary ha preferito procedere unilateralmente, mettendolo di fronte al fatto compiuto - sperava di ottenere discrezione, non ne ha avuta. Rispetto, ma non sente di averne ricevuto.

I rapporti con la conduttrice dell’Isola dei Famosi, che al momento è ancora sua moglie, finché giudice non li separi, da allora sono tesi, complicati, deteriorati. Le pratiche per la separazione sono ferme perché manca una delle due parti in causa: Ilary è in perpetua vacanza, prima in Tanzania e poi a Sabaudia. Un atteggiamento che è sembrato quasi una provocazione. I due rispettivi legali, Alessandro Simeone per lei e Antonio Conte per lui, si sono parlati in via informale, ma niente di più. Finora Totti, che continua a vivere nella grande villa dell’Eur e accompagna il figlio Cristian agli allenamenti, ha preferito tacere. Consapevole che, nelle vicende sentimentali, le colpe non sono quasi mai da una parte sola. E che a volte è meglio non approfondire. Ma la sua capacità di sopportazione è al limite. E presto potrebbe decidere di parlare lui, stavolta. Magari tre 48 ore, o tra 72, poco importa. E di certo saprà farsi sentire.

Totti e Ilary Blasi, le notizie e gli aggiornamenti:

Ilary infuriata perché il Capitano non ha salvato le apparenze con Noemi (e cambia lo spot dell'ammorbidente) Totti a casa di Noemi Bocchi prima della separazione. Chi è Lo sgomento dei tifosi della Roma per la separazione La separazione annunciata con due distinti comunicati Totti-Blasi, storia di due clan che non si sono mai amati

Valerio Palmieri per “Chi” il 27 luglio 2022.

Dopo le prime clamorose rivelazioni di “Chi” sulla separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, che stanno monopolizzando l’estate del gossip, ci sono nuovi dettagli, che solo il nostro giornale è in grado di rivelarvi, che sposterebbero sensibilmente l’ago della bilancia a favore di Ilary. E così, mentre la conduttrice gioca a mostrare la propria sensualità su Instagram, aggiorniamo il nostro racconto con dettagli che faranno discutere. 

Per prima cosa, proviamo a ricostruire la crisi coniugale che ha portato alla separazione. Ci sono due date che hanno segnato un profondo cambiamento nella vita di Totti: la prima è il 28 maggio 2017, quella dell' addio al calcio, la seconda è il 12 ottobre 2020, quando Francesco ha perso il padre. Due momenti in cui Ilary c'è stata, come sempre.

E stata lei, infatti, a tenere duro mentre una città piangeva la fine della carriera del Capitano, e lui viveva una confusione pari a quella del suo pubblico; e c'era anche due anni dopo, quando Enzo, l'amato padre di Totti, è morto a causa del Covid. Quel padre taciturno che aveva tenuto Totti attaccato a Roma, alla fa-miglia, alle radici. Ilary era al fianco del marito, a piangere con lui nelle lunghe notti insonni, per non turbare i figli con il loro dolore. Non è lì da ricercare la genesi della crisi coniugale. 

Persone vicine alla coppia negano anche che sia colpa di alcuni messaggini captati da Totti sul telefono di Ilary, associati alle voci di un uomo misterioso a Milano. Secondo queste fonti, nonostante i sodali di Totti siano convinti del contrario, non esisterebbero né i messaggini che avrebbero indispettito Totti, né l'uomo misterioso. E confermano le voci che vedono il Capitano circondato dalle tentazioni, capace di resistere a tutto fuorché a quelle.

La prova? A un certo punto Totti ha tolto alla sorella di Ilary la gestione dei propri social: nella sezione direct di Instagram di Totti, infatti, arrivavano i classici messaggi delle ammiratrici, ma alcuni di questi tradivano una certa familiarità. E questo avrebbe spinto Totti a riappropriarsi dei social, per evitare domande e sospetti. E arriviamo a Noemi Bocchi. 

Lei e Totti si conoscono ad agosto del 2021 a un torneo di padel. Lei lo confessa agli amici, cercando di capire le intenzioni del Capitano. A settembre inizia la frequentazione, ma il segreto viene ben custodito dagli amici e, forse, dall'intera città, che tutto perdona ai propri eroi.

E questo nonostante Totti porti Noemi negli stessi luoghi dove era stato con Ilary. Pubblicamente Totti e Ilary parlano del desiderio del Capitano di avere un quarto figlio e della prudenza della conduttrice, secondo la quale "tre è il numero perfetto". La carriera di Ilary è molto intensa, sull'asse Roma-Milano: prima Star in the star (da settembre a ottobre) e poi L'Isola dei famosi (da marzo a giugno). Anche Totti è spesso via per partecipare a tornei di calcio e padel. Siamo a ottobre e i rapporti si raffreddano. È un lento allontanarsi, fra un messaggio e una telefonata prima che decolli un aereo o che parta un treno, il suono delle voci diventa un rumore di fondo ed è difficile percepire le sfumature. 

Totti sembra cambiato, ma molte cose sono cambiate nella sua vita, potrebbe essere una fase di transizione. A febbraio, Dagospia lancia la bomba: Totti frequenta Noemi Bocchi, ecco le loro foto allo stadio. Ilary, a questo punto, chiede conto al marito di questa rivelazione, e lui risponde più o meno così: "Pensi che, se avessi una amante, sarei così scemo da portarla allo stadio con me, davanti a tutti?". 

E aggiunge che, al massimo, si sarà fatto un selfie come con tante altre tifose. C'era un saggio che diceva: "Se vuoi nascondere un elefante in una piazza, riempi la piazza di elefanti", ma Ilary crede alle parole di Totti, al punto da andare in televisione a smentire seccamente queste voci, come a Verissimo, dall'amica di sempre Silvia Toffanin.

Poi, a marzo, arriva L'Isola dei famosi. Ilary si concentra sul programma, al punto che nessuno percepisce le difficoltà che sta affrontando nella vita privata. Perché di cose, in quei mesi, ne accadono. Mentre, infatti, la Blasi sembra serena e crede al marito, sua figlia più piccola, Isabel, torna a casa felice e dice alla madre di avere due nuovi amichetti con i quali gioca al pomeriggio. Sono i figli di Noemi Bocchi. Ilary, allora, decide di far seguire il marito da un investigatore privato per vederci chiaro e scopre che Totti porterebbe la figlia con sé nel palazzo dove abita la sua dama bionda. 

Un modo, anche, per sviare ogni sospetto. Quando "Chi" pubblica, due settimane fa, le foto di Totti che entra a casa di Noemi, quindi, Ilary ha solo la conferma di ciò che già sapeva, anche se, questa volta, deve intervenire pubblicamente. Quella di separarsi è una scelta che era nell'aria, che è stata meditata a lungo, e che non poteva più essere rimandata. Ma Totti e Blasi non hanno trovato un accordo sulla forma. 

Per questo i due comunicati diversi, per questo Ilary si limita a poche parole. C'è stato bisogno dell'ultima, drammatica, conferma. Senza, magari, essersi detti la verità fino in fondo. Adesso Ilary torna a Sabaudia, in quello che è stato per anni il tempio del suo amore familiare. Non sarà mai più come prima. Non lo sarebbe stato comunque, anche se la conduttrice avesse voluto chiudere gli occhi e andare avanti, come in un certo senso suggeriva Totti, per il bene dei figli. Ammesso che fosse quello, il bene, per loro e per i loro genitori.

Giuseppe Candela per Dagospia il 28 luglio 2022.

Francesco Totti, Ilary Blasi e Noemi Bocchi nello stesso locale. La stessa sera, a pochi tavoli di distanza.  Alberto Dandolo firma lo scoop del settimanale "Oggi" fornendo prove e dettagli. Immagini che ancora campeggiano in alcuni post sui social media, Dagospia aggiunge nuovi elementi.

Ma andiamo con ordine. Il 23 ottobre 2021, quattro mesi prima che questo sito lanciasse la bomba, l'ex calciatore e la conduttrice erano a cena al ristorante "La Villa", zona Monteverde a Roma. Locale di proprietà di tal Andrea Battistelli, protagonista qualche estate fa del programma tv "Temptation Island" assieme alla sua fidanzata Anna Boschetti.

Totti e Ilary con gli amici, a qualche tavolo di distanza Noemi Bocchi. Come dimostrano le immagini, la terza incomoda viene immortalata mentre accenna qualche passo al tavolo. Spacco inguinale, i tatuaggi ai polsi confermano che si tratta proprio di Noemi.

Una clamorosa ma possibile casualità? Difficile da crederci. La scelta di Totti di portarsi la presunta amante a cena a pochi metri dalla moglie? Una mossa troppo audace e rischiosa. Una conoscenza avvenuta, lo ricordiamo, ad agosto 2021, una frequentazione iniziata il mese successivo. E allora? Ci soccorrono le altre immagini di Dagospia. 

Alla serata in questione tutto avveniva sotto lo sguardo vigile del vivace e loquace Alex Nuccetelli, il pr romano ex marito di Antonella Mosetti e body builder, lui che avrebbe fatto conoscere vent'anni fa Ilary e Francesco. Lui che, come svelato da Dagospia lo scorso febbraio, avrebbe favorito la conoscenza tra Noemi e il Pupone. Lui che rilascia interviste su giornali e in tv, lui che si scontra in pubblico con Melory Blasi, sorella della conduttrice.

Proprio Nuccetelli aveva scelto di immortalare la serata, un video di circa due minuti che abbiamo ripescato e fornisce ulteriori conferme sulla presenza del trio nello stesso posto, a pochi metri di distanza. Nuccetelli prende il microfono, in sottofondo "Tu si a fine do' munno" di Angelo Famao: "L'imprenditoria romana, la Monteverde che conta. Il capitano è presente, la regina Ilary". Qualche passo di danza e un taglio al video, un piccolo montaggio, la telecamera inquadra l'altra parte della sala: una bionda è in piedi che balla 'O surdato 'nnammurato.

È Noemi Bocchi. Pochi secondi ma basta uno screenshot al momento giusto per riconoscerla. Lo spacco inguinale è lo stesso, il tatuaggio dell'amica al suo fianco, lo stesso che appare nella foto precedente quando la donna è di spalle.

 Dando per scontato l'estraneità di Ilary, fin troppo azzardata la scelta di Totti di portarla nello stesso posto, Nuccetelli che conosceva Noemi sapeva che era lì? Inquadrata per caso o volontariamente con tanto di "montaggio" al video?

Alberto Dandolo per Oggi il 28 luglio 2022.

Quella tra Francesco Totti e Noemi Bocchi è una frequentazione che ha radici antiche, si dice. Queste foto, postate su alcuni profili social aperti a tutti, sembrano dimostrarlo. Era il 23 ottobre del 2021. Totti, sua moglie e la Bocchi erano tutti assieme, seppur a tavoli diversi, a La Villa, un locale di proprietà di quell'Andrea Battistini che nel 2020 partecipò a Temptation Island con la fidanzata Anna Boschetti. 

Ecco, il 23 ottobre era proprio il compleanno di Anna e gli ospiti d'onore erano i Totti. Noemi era seduta al tavolo di fronte, e non si è mai avvicinata alla coppia. Il tutto sotto lo sguardo vigile del famoso pr delle serate romane Alex Nuccetelli, grande amico di Totti (gli presentò Ilary) e, dicono, anche di Noemi.

Due le domande: Totti e Noemi frequentavano casualmente gli stessi luoghi senza conoscersi? Oppure Totti segretamente frequentava Noemi e la includeva nelle sue serate capitoline nonostante ci fosse anche Ilary? Intanto, la Blasi dopo la "fuga" in Tanzania è tornata in Italia e si è trasferita nella casa di Sabaudia, sul litorale laziale. Per la prima volta in vent'anni senza il Capitano. L'ha "documentato" su Instagram, come tutto ultimamente: notano i fan che non è mai stata tanto attiva sui social come adesso.

Valentina Lupia per roma.repubblica.it il 29 luglio 2022.

Cristian, Chanel e Isabel rimarranno nella maxi-villa da 25 stanze all’Eur e a spostarsi saranno mamma Ilary e papà Francesco. Sarebbe questa la via che la conduttrice tv e l’ex capitano della Roma starebbero tentando di percorrere, con lo scopo di far rimanere i figli nella casa dove sono cresciuti. 

Una casa dotata di ogni comfort e tanto spazio all’aperto dove i tre potrebbero anche continuare a ospitare gli amici in totale sicurezza (la premura del padre sulla privacy dei figli è ormai da tempo risaputa): spa, piscina, campi da padel, tanto verde. 

Al netto della proprietà dell’immobile — discorso che sarà discusso con tutta probabilità a settembre, anche perché Francesco in quella casa ha la sua stanza ufficio con trofei, coppe e una Ducati personalizzata — non saranno quindi i figli a trascorrere una settimana da una parte e una dall’altra, bensì i genitori, in base agli impegni lavorativi. 

Già: Ilary Blasi, che condurrà anche la prossima edizione de “L’isola dei famosi”, sarà spesso impegnata a Milano, dove ha intenzione di trascorrere molto più tempo, anche per stare vicina all’amica Silvia Toffanin. 

Avrebbe già adocchiato un lussuoso appartamento al Bosco Verticale, che pagherebbe Francesco. Sempre a lui toccherebbe il pagamento di un altro immobile, a Roma ma molto vicino alla maxi-villa dove rimarranno a vivere i figli. Così, per ogni evenienza ed eventuale urgenza, lei sarà a due passi.

 Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2022.

«Se guardo indietro e mi faccio un esame di coscienza e ripenso a me e a Ilary, sento di averle dato tutto ciò che potevo, tutto ciò che avevo. E sono in pace con me stesso», ha confidato Francesco Totti all'amico Alex Nuccetelli, il pr romano che gli presentò Ilary in quel 2002 di felicità che ora sembra così lontano. 

Il primo fendente l'ha sferrato, a fine febbraio, l'occhiuto sito Dagospia, svelando al mondo dei pettegoli che in mezzo alla coppia d'oro che pareva invincibile, si era insinuata una terza incomoda, ovvero Noemi Bocchi dai Parioli, 34 anni, un ex marito (peraltro lieto di essersi svincolato) e due figli, appassionata della Roma, di padel e - a quel che si lasciava intendere - anche dell'ex Capitano giallorosso, conosciuto a settembre-ottobre su un campetto sportivo.

Lo scoop di Roberto D'Agostino comprendeva le foto di Noemi sugli spalti dell'Olimpico per Roma-Inter del 4 dicembre 2021, seduta a pochi posti dall'iconico numero 10, che per la prima volta dopo due anni tornava in tribuna, vicina ma a prudente distanza. Bam. 

Da quel momento non c'è stato giorno che non sia stato battezzato da una rivelazione o un colpo di scena a sorpresa. A ripetizione. Tanto da indurre Francesco e Ilary - sinceri o per copione - a smentire sdegnati la crisi, chiedendo rispetto per i tre figli, Cristian, Chanel e Isabel, con una storia su Instagram (lui, cupo e rigido, ripreso davanti ad un muro, come un condannato con il suo plotone) e le immagini di una cenetta familiare da Rinaldi al Quirinale, ma niente bacio per i fotografi che «sono vent' anni che ci baciamo». 

E quando gli ottimisti già cominciavano a pensare che fosse stata soltanto una bufala colossale, ecco che l'11 luglio Dagospia preannuncia un comunicato congiunto dell'ex calciatore e dell'ex Letterina. Ed è qui che si consuma forse la rottura fatale tra Totti e Ilary Blasi, quella da cui non si torna più indietro. Lui vorrebbe scrivere un testo più lungo, sentito, dettagliato, lei pretende quasi un telegramma. Discutono, litigano, ognuno fa come gli pare. Prima Ilary, fredda, chirurgica, distaccata. Poi Francesco affettuoso ma anche triste, solitario y final.

L'addio è ormai certo, ratificato dal doppio comunicato.

«Non rilasceremo altre dichiarazioni», intimano entrambi, su questo almeno d'accordo. Ma il vuoto infinito del loro silenzio da quel momento si riempie di illazioni, congetture, ricostruzioni e tutto il repertorio del chiacchiericcio globale. 

Nemmeno il tempo di formalizzare la fine di un amore e Ilary è già sul volo per la Tanzania con i figli e la sorella Silvia, in calzini verdi e ciabattone di Gucci immortalate su Instagram tra zebre, elefanti, indigeni, spiagge e un sexy topless di schiena, in una raffica continua di foto e storie social che non si è mai interrotta e prosegue tuttora dalle sabbie di Sabaudia. Brindisi, bagni e bikini.

Francesco invece resta a Roma, nella megavilla dell'Eur, protetto da amici e parenti, al massimo gioca a padel con Vincent Candela. E qui parte il turbine mediatico più sfrenato: Ilary che si scambiava messaggini compromettenti con un attore, no con un personal trainer, no con un hair stilist-influencer, Ilary che a Milano folleggiava in compagnia, Totti che vola in Tanzania a riprendersi Ilary, Totti che ha violato il patto di segretezza facendosi beccare sotto casa di Noemi, Totti che si candida alle elezioni, Totti che già convive con la nuova fiamma in un appartamento di Roma-Nord. Tutto e il suo contrario, vai sapere cosa è vero. Niente, a quanto pare.

Solo che il campione del mondo 2006, raggiunto a Roma dal primogenito Cristian, è stanco ed esasperato dalle continue illazioni giornalistiche. I rapporti con Ilary sono ai minimi termini e non aiuta l'atteggiamento vagamente strafottente di lei, che resta in perpetua vacanza, mentre gli avvocati Alessandro Simeone e Antonio Conte attendono di potere avviare la pratica di separazione. 

Scoprire che la moglie non ancora ex avrebbe assoldato un investigatore privato per pedinarlo e soprattutto vedere coinvolta addirittura la piccola Isabel nel ruolo di involontaria spia dei suoi tradimenti, lo ha letteralmente fatto infuriare, tanto che sarebbe pronto a sfogare pubblicamente la sua rabbia. 

E le ultime indiscrezioni sulla festa di ottobre 2021 a cui c'erano lui e Ilary ma, al tavolo accanto, pure Noemi Bocchi - coincidenza o appuntamento segreto - non lo hanno certo ammansito. La sua reazione è nell'aria. Tutto può ancora succedere e tutto, forse, succederà.

 Da oggi.it il 29 luglio 2022.

Ilary Blasi, Noemi Bocchi, Francesco Totti e la festa galeotta (guarda). Tutti insieme, mesi prima dell’addio ufficiale tra l’ex Letterine e l’ex calciatore. Una storia, con relative immagini, raccontate da Oggi in edicola. Che hanno terremotato ancora di più il triangolo (vero o presunto che sia) di quest’estate. E ora, ecco che arrivano nuovi dettagli di quella serata dell’ottobre scorso.  

IL RACCONTO DI CHI C’ERA – Ilary Blasi, Francesco Totti e Noemi Bocchi insieme alla stessa festa. Un party a La Villa il 23 ottobre 2021, che è il primo di una serie d’incontri tra i tre protagonisti della separazione dell’estate. Così, almeno, sostiene Alex Nuccetelli, l’uomo che nel 2002 fece incontrare conoscere Ilary Blasi e Francesco Totti. E che, sostengono alcuni, ha fatto incontrare anche l’ex capitano della Roma e la sua nuova (presunta) fiamma Noemi Bocchi. Lui c’era alla festa.

Anzi, ben di più: ha messo online lui le immagini che ora hanno fatto il giro del web. “Sì, c’erano Ilary e Francesco e pure Noemi, che era al tavolo con me proprio accanto al loro”, conferma Nuccetelli al Corriere della Sera. “Ma se si fossero dati appuntamento in segreto e stessero già insieme o se si amano davvero io non posso dirlo, boh”. Poi aggiunge che alla festa c’erano 800 persone tra cui “Massimo Boldi, Antonella Elia, calciatori, anche la mia ex moglie Antonella Mosetti”. E che Noemi Bocchi, quella sera, non è passata inosservata: “È una bella donna, la guardavano tutti”. 

I FLIRT DI UNO E DELL’ALTRA - Alex Nuccetelli rivela anche che Noemi Bocchi è rimasta facilmente colpita da Francesco Totti: “Ho conosciuto il tuo amico, è molto simpatico”, gli ha detto dopo la famigerata partita di Padel in cui l’ha visto per la prima volta. “Poi si sono rivisti ad altre mie feste”, continua Nuccetelli al Corriere della Sera. “Il giro è quello, ma mica si mettono a scambiarsi effusioni davanti ai miei occhi, che so’ matti?”.

Ma Alex Nuccetelli ne ha anche per Ilary Blasi: “Se dovessi dare retta a tutti i pettegolezzi, allora dovrei credere che Ilary ha avuto una marea di flirt: con l’attore, con il ballerino, con lo scenografo, con sette uomini almeno… se prendi per buono quello che si dice a Roma. Ma a  millantare sono tutti bravi. Anche il mio parrucchiere e il personal trainer della palestra sarebbero stati con lei, figurati”. Per poi chiudere con l’ultima confidenza avuta dall’amico Francesco Totti.

IL GRANDE RAMMARICO DI FRANCESCO TOTTI - Già, perché Francesco Totti ha un grande, enorme rammarico. È sempre Alex Nuccetelli che ha raccolto la confidenza dell’amico. E lo racconta ancora al Corriere della Sera: “Se guardo indietro e mi faccio un esame di coscienza e ripenso a me e a Ilary, sento di averle dato tutto ciò che potevo, tutto ciò che avevo. E sono in pace con me stesso”. 

Questo dice Francesco Totti all’amico pr. E staremo a vedere se il suono di queste parole sarà quello di un tentativo di riconciliazione o solo e semplicemente un vero e definitivo addio…

Ilary Blasi rovinata in tribunale? Indiscrezioni: l'investigatore privato...Libero Quotidiano il 30 luglio 2022.

Nella testa di Ilary Blasi ormai il dubbio si era insinuato: e se Francesco Totti mi tradisse? Così la conduttrice di Canale 5 ha assoldato un detective privato. Un investigatore che seguisse il marito e lo beccasse in flagrante con l'amante Noemi Bocchi. Come tutti, anche il detective della Blasi sarà stato reperibile 24 ore su 24, avrà sfidato il caldo e il freddo per soddisfare la propria cliente. Il suo costo giornaliero? Stando alle stime del Giorno si parla di una cifra che oscilla fra i 500 e i mille euro al giorno.

Il punto però in questa, come in tante altre vicende, è uno: ma è legale? Nonostante sull'argomento la confusione sia tanta, una cosa è certa: parcella e costi sono sempre a carico di chi li sostiene, anche se il lavoro dell'investigatore potrà essere utile durante il processo per l'addebito della separazione. E se allora si facesse uso di un drone? Peggio ancora, perché sono sempre vietate le riprese video e la diffusione di immagini senza consenso. Non solo, secondo la Cassazione un marito non può spiare la moglie dentro casa neanche utilizzando un banalissimo registratore. Addirittura in un caso la Suprema Corte ha stabilito la condanna dell'investigatore privato. 

Il motivo? L'uomo si era intrufolato dal giardino e ha filmato la persona all'interno della propria abitazione. In ogni caso al Tribunale di Milano bastano le foto scattate dal detective perché al traditore sia addebitata la separazione. Un problema, forse, che non sfiora né la Blasi né Totti. I due si sono spartiti, affiancati dai rispettivi legali, immobili e ricchezze varie. 

Selvaggia Lucarelli per editorialedomani.it il 31 luglio 2022.

Marcato stretto da un investigatore privato. È finita così la vita matrimoniale di Francesco Totti, nel goffo tentativo di dribblare vecchi giornalisti e nuove tentazioni. Ha provato ad indossare di nuovo la maglietta numero 10, a smarcarsi dagli avversari, ma che il capitano era stanco s’è capito fin dal primo video di smentita, quello in cui nel difendere il suo matrimonio sembrava minacciato da un tagliagole di Boko Haram.

A dirla tutta, non era stata troppo convincente neppure Ilary quando, intervistata dall’amica Silvia Toffanin (per non avere sorprese, tipo Matteo Salvini che va da Massimo Giletti), pareva quella che si è infilata la fede nella toilette di Mediaset quando l’ha chiamata l’assistente di studio, per la sola gioia di sventolarla in faccia ai giornalisti. 

Così a un tratto, dopo vent’anni di certezze, ci ritroviamo orfani dell’ultimo cliché sentimentale dei primi anni 2000, quegli anni rozzi e spudorati in cui i calciatori sfogliavano gli album delle veline e le veline sfogliavano l’album dei calciatori, dando vita a incroci cafoni e irresistibili, a foto di amori sbocciati sulle moto d’acqua, nel privè dell’Hollywood, sulla spiaggia di Formentera, durante una partita a racchettoni.

Ora, al massimo, ci si incontra a un torneo di padel, come Totti e Noemi Bocchi e, ne converrete con me, la narrazione è di un’austerità insopportabile.

Soprattutto, le vecchie coppie sopravvivevano alla tentazione contemporanea del meta-gossip, del gossip che racconta se stesso, delle smancerie condivise, della fusione dei cognomi (Totti e Ilary ci hanno risparmiato “i Blasotti”, tanta gratitudine), dei baby-shower (loro due ci avrebbero sorpreso con i nomi alla Chanel, mica con il sesso dei nascituri), degli #adv di coppia. 

I due sono stati coerentemente anni 2000 fino alla fine: niente reality sulla loro vita ma una serie tv old style e, insieme, quelle vecchie pubblicità di una volta, in tv, da Vodafone a 10eLotto, da Pepsi a Volkswagen. 

Perfino l’epilogo ha il sapore vintage della notizia data dai giornali di gossip come ai vecchi tempi, anziché dagli stessi protagonisti sui social o da Fragolina97 che si accorge che i due hanno smesso di seguirsi sui social. 

Verrebbe da dire che è vintage perfino la faccenda dell’investigatore privato pagato da Ilary per avere le prove del tradimento, ma quello non è un fatto vintage, è un fatto elitario: ci sono matrimoni sopravvissuti all’usura delle corna e dei sospetti perché non ci sono i soldi per gli investigatori privati. Perfino i dubbi bisogna poterseli permettere.

Shakira, Wanda Nara, Ilary Blasi sono le ultime, in ordine di tempo, ad essersi concesse il lusso di evitare i tre patetici tentativi del codice pin sul telefono del marito, per scoprire che certi calciatori, in fondo, quando si parla di sentimenti, non smettono mai di giocare nella Primavera. Perfino Totti, quello che ha giurato amore eterno a una sola squadra, ha rinunciato a Ilary per un altro club. 

Del resto,  sulla famosa maglietta che esibì in campo agli esordi del loro amore, c’era scritto “6 unica”, non “6 L’unica” e gli articoli, nei matrimoni, contano. Il dopo, al momento, è tutto da capire.

Non c’è giorno in cui non si aggiunga un nuovo particolare sulla separazione e, se fosse vero quello che si legge, si entra nel regno dei cliché: lui, inedito paladino dell’amor cortese, si sarebbe invaghito al punto da andare a cena con la moglie in un ristorante e chiedere alla nuova fiamma di sedersi a un tavolo più in là, così da poterla sedurre attraverso un languido gioco di sguardi. 

E così alla stadio, separati ma vicini, lei seduta qualche gradino più su, i messaggi sul telefonino, un amore ostacolato, epistolare e travolgente alla Abelardo ed Eloisa.

Nulla, insomma, che altri mille mariti rincoglioniti dalla passione improvvisa in un matrimonio pigro non abbiano già fatto. E no, non c’è da stupirsi se, come pare, ha portato la nuova fiamma nel ristorante sulla spiaggia di Santa Severa dove ha chiesto a Ilary di sposarlo. 

«Scusami ho usato la nostra canzone per una nuova relazione», scriveva Stefano Benni ne L’amore passa, e se si ricicla una canzone, figuriamoci un ristorante di pesce.

Che poi si sa, i calciatori sono diffidenti, abitudinari, paranoici, hanno la loro corte, l’amico ristoratore, il tuttofare col borsello, il bar delle colazioni, il rivenditore d’auto, il fratello pr, l’amico che gli trova la casa delle vacanze, il cugino che lo copre con le amiche. Non ci si può aspettare un guizzo neppure nei tradimenti, dai calciatori. 

Totti, forse, nello sfangarsela ha potuto contare per un po’ sulla sua faccia: quando hai lo stesso sguardo attonito da 45 anni, puoi reggere l’interrogatorio di una moglie sospettosa. Nel caso di Totti, anche quello del Mossad.

Poi c’è Ilary. “Aveva un flirt, Totti l’ha scoperto”, s’è detto. Che sia vero o no, pure lei, a suo modo, è immersa nei cliché da fine matrimonio.

L’improvvisa passione per le foto sexy sui social, l’istinto consolatorio di sentirsi desiderabile, le foto ambigue e forse provocatorie di due cappuccini come a suggerire che sia stato un risveglio a due, il sottotesto neppure troppo subliminale di una ritrovata libertà di sedurre o di piacersi e basta.

E poi, lì, in bella vista accanto al suo lettino sulla spiaggia di Sabaudia, l’affronto più feroce al marito: un libro. Nello specifico Dove sei, mondo bello, della scrittrice irlandese Sally Rooney. Quasi un’invocazione, verrebbe da dire.

C’è anche l’altra, Noemi Bocchi. Chiusa in un silenzio che sa di prudenza, già additata come spietata seduttrice, già bollata dall’ex marito come “disinvolta”. 

«Il suo agire disinvolto non mi stupisce», ha detto il galantuomo, per la precisione. Disinvoltura che pareva non dispiacergli, visto che se l’è sposata e hanno avuto due figli.

E facciamo finta di non intendere quanto di allusivo ci fosse nell’aggettivo scelto con becera sapienza dal disinvolto ex marito.

Infine, i figli di Ilary e Francesco, i figli di Noemi e l’ex marito, appunto, i figli evocati dai protagonisti di questa faccenda in più occasioni per chiedere rispetto e discrezione ai giornalisti. 

Gli stessi figli che però, malinconicamente, finiscono nella narrazione finale: l’ingenuità di uno di loro è la torcia che illumina la scena del delitto. Isabel, la più piccola, riferisce alla mamma di avere dei nuovi amichetti. Amichetti che sono i figli di Noemi Bocchi, incontrati senza che Ilary ne sapesse nulla.

Ed è su questa insopportabile, taciuta, irriverente familiarità che è andato a schiantarsi il matrimonio del calciatore e della letterina, poi diventato dell’ex calciatore e della conduttrice, evoluzione per nulla scontata nelle coppie in cui lui era un calciatore negli anni 2000 (risuonano ancora sinistre le parole dell’ex moglie di Andrea Pirlo Debora Roversi, alla vigilia del divorzio: “Il mio amore era allo stesso tempo abnegazione e rinuncia. 

Non era possibile immaginarlo diversamente con un uomo che diventava Campione, al quale era necessario donarsi per non impedirgli il futuro.”).

Questo è il passaggio finale dell’articolo su una coppia molto amata, quello in cui di solito si dice che la coppia ci mancherà. 

Beh, tra le cose  che hanno funzionato nel loro matrimonio (le poche che conosciamo, ben inteso) c’è che in fondo, in vent’anni d’amore esposto e vivisezionato, i due hanno coltivato con intelligenza le loro individualità. 

Per cui no, non ci mancheranno come elemento fuso, perché distinguiamo bene i contorni di entrambi. Ci mancherà quel sapore vintage delle vecchie copertine di gossip, quando accanto ai nomi di Francesco e Ilary c’erano ancora l’altezza e il segno zodiacale, anziché #adv in una storia su Instagram.

Valerio Palmieri per “Chi” il 9 agosto 2022.

Vatti a fidare degli amici. Sapete chi è il ragazzo che scherza in acqua con Noemi Bocchi nell’immagine che vedete qui sopra? È lo stesso che, la scorsa primavera, era con lei e Totti a Montecarlo. Ed è (o, meglio, era) uno dei migliori amici di Ilary Blasi. Si chiama Emanuele e lui e Ilary si conoscono da quando avevano 15 anni. È grazie a lei che ha conosciuto Totti, ed è lei che ha lasciato per seguire il capitano. 

Certo, stare dalla parte di Francesco può essere divertente: viaggi in località esotiche, tribuna vip allo stadio, porte aperte ovunque. E Totti aveva bisogno di non essere solo con Noemi, per non destare sospetti. 

Quando, infatti, lo scorso febbraio, uscirono le foto del capitano allo stadio, con Noemi seduta a poche file di distanza, Ilary chiese a Emanuele cosa ci fosse di vero, visto che l’amico era seduto accanto alla Bocchi. Ma la rassicurò: erano lì perché lui frequentava un’amica di Noemi, che l’accompagnava. Così, quando abbiamo confermato che, invece, era Totti a frequentare Noemi, Ilary ha capito di essere stata ingannata anche dall’amico. 

In questi giorni la conduttrice sta riavvolgendo il nastro della sua storia con Totti e, forse, anche per le delusioni subite, sta rileggendo alcuni episodi del passato in una chiave nuova. Tutti quelli che dicevano che suo marito aveva altre storie, mentivano? E persino lo scoop bollato come falso e di cattivo gusto, quello di un flirt fra Totti e Flavia Vento mentre Ilary era incinta e stava per sposarsi, era davvero un’invenzione di Fabrizio Corona per vendere un’intervista? 

La Blasi non ha mai avuto dubbi, ha sempre creduto a Totti, ma, quando perdi fiducia nell’uomo che hai amato incondizionatamente, ti poni domande su tutto. E, forse, il capitano, proprio su questo dovrebbe lavorare, sulla fiducia perduta di sua moglie, se volesse conservare un rapporto di affetto e di stima con lei. 

Anche perché Totti, fino all’ultimo momento, fino a pochi giorni prima del comunicato di separazione, faceva finta di niente, condivideva la casa e la vita  con la Blasi e si comportava come un marito perfetto. Dormiva sonni tranquilli, Ilary, e il risveglio è stato brusco. 

E Noemi può dormire sonni tranquilli? Chi ha potuto sbirciare i social di Totti riferisce che gli scambi di messaggi fra lui e altre “tentatrici” non si sono mai interrotti. Ilary è sempre più lontana, persa nei suoi pensieri. É a Cortina con alcuni amici e, fra pochi giorni, tornerà a Sabaudia a riprendere Isabel per concludere le vacanze con la piccola in campagna. Totti, adesso, deve gestire una situazione non facile. Non può continuare a nascondersi ma, se uscisse allo scoperto con Noemi, confermerebbe tutti i sospetti. Ci vorrebbe un amico, cantava Antonello Venditti. Ma uno che possa fornire consigli saggi e  disinteressati.

 Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 9 agosto 2022.

Le sono bastati pochi mesi (era fine febbraio quando apparve per la prima volta in uno scatto rubato all'Olimpico e pubblicato perfidamente da Dagospia che la ribattezzò lesto «La nuova Pupa del Pupone») per perdere la superflua appendice del cognome, come capita solo a pochi eletti. 

Ormai per identificare lady Bocchi, 34 anni, la Dama Bionda dei Parioli, appassionata della Roma, di padel e pare anche del Capitano, basta dire: Noemi. Ed è subito chiaro (con buona pace dell'omonima cantante) pure all'algoritmo più contorto, che si parla di lei, la quasi sosia di Ilary Blasi - però con 7 anni di meno - entrata nel cuore di Francesco Totti e, a pieno titolo, al primo posto della hot-list dei personaggi di questa estate 2022, infuocata dall'afa, dalla campagna elettorale e appunto dal triangolo Totti-Ilary-Noemi, digitare per credere.

Tutti (dentro e fuori dal Gra) parlano di lei: l'ultimo gossip apocrifo che da tre giorni, pur sottotraccia (nessuno osa), agita la Capitale, è che Noemi sia addirittura in dolce attesa, ovviamente di un nuovo Pupino, nonostante nelle foto su Chi , in vestitino e ciabattine di Hermès (quelle vere, non le imitazioni da 29 euro e 90), mostrino una pancia che più piatta non si può. 

Oppure viene avvistata ovunque, come la Madonna Pellegrina: al momento risulta geolocalizzata in vacanza al Circeo, a pochi, comodi chilometri dalla villa di Sabaudia (con tunnel sotto le dune), dove l'avrebbe condotta, per un breve incontro in mare, un misterioso yacht. E in cui Francesco, mentre Ilary scarpina sui monti del Trentino e posta come una forsennata anche i sassi (sul serio), fa pratica da bravo papà single con Cristian (a cui ha appena regalato un cagnolino, il French bulldog Tyson, che dovrà vedersela coi due gatti Sphynx di mamma), Chanel e Isabel, in una qualunque estate italiana tra tuffi, beach volley e grigliate allarga girovita.

Vacanze normali anche per Noemi. Niente agosto in Costa Smeralda, il frutto dello shopping da Louis Vuitton e Balenciaga viene riservato al più nostrano litorale laziale in provincia di Latina. Le tocca in sorte, suo malgrado, il ruolo della ruba-mariti che fa soffrire la moglie legittima, smagrita ma battagliera, in una crisi coniugale cominciata invece molto prima dell'avvento della terza incomoda. Certificato anche da un meme pseudo-elettorale di Berlusconi che promette: «Restituirò Totti a Ilary».

Finora Noemi non ha mai proferito sillaba pubblica, discreta per carattere e forse per necessità, visto che per la separazione dell'ex Coppia de Oro stiamo ancora al punto di partenza (gli avvocati Alessandro Simeone per l'ex Letterina e Antonio Conte per il Campione del Mondo 2006 si sono al massimo parlati tra loro) e pure lei, una bambina di 10 e un bimbo di 8 anni, sta ancora battagliando legalmente con l'ex marito Mario Caucci, reuccio del marmo, presidente del Tivoli Calcio, nonché tifosissimo romanista che non si strugge per l'amore perduto: «Io so bene cosa c'è oltre l'immagine di mia moglie, al Capitano va tutta la mia comprensione». 

Sui social è schiva. Profilo Instagram chiuso, stessi 3.036 follower di prima, nemmeno uno di più, con un particolare bizzarro: Rosario Fiorello, quello vero, con la spuntina blu, seguito da Ilary, segue invece Noemi, ma sul profilo fake. Quel poco d'altro che sappiamo di lei si deve alle confidenze del pierre romano Alex Nuccetelli, che venti anni fa presentò Ilary a Francesco, ma che è anche grande amico della pariolina: «Ilary era una bambola, Noemi invece è più bassina, sensuale, già donna, ottima madre, un tipo tranquillo.

"L'altra sera sono stata al torneo e c'era l'amico tuo, è simpatico", mi ha raccontato dopo il primo incontro su un campo di padel. Poi si sono rivisti ad altre mie feste, il giro è quello, ma mica si mettono a scambiarsi effusioni davanti ai miei occhi, che so' matti?». No, ovviamente, piuttosto costretti dalle complicate circostanze a rimandare l'annuncio ufficiale, se mai ci sarà.

Giovanna Cavalli per corriere.it il 13 agosto 2022.

Nell’addio ultra-mediatico tra Francesco Totti e Ilary Blasi, c’è sicuramente un chi, un come, e soprattutto un quando. Un prima e un dopo. Dettaglio fondamentale, quest’ultimo, per comprendere i motivi dell’addio tra l’eterno numero 10 giallorosso e l’ex Letterina. Già, perché, secondo chi sa, la tempistica della crisi pare essere diversa da quella che finora è stata raccontata. Con una prospettiva completamente rovesciata. Si torna indietro di un anno esatto. 

A Ferragosto del 2021, Francesco Totti postava su Instagram una foto di lui e Ilary, i volti vicini e quasi sovrapposti (ma lei aveva gli occhi coperti da una visiera e qui si potrebbe tirare in ballo il linguaggio subliminale del corpo), con la scritta “Io e Te” e un cuoricino rosso.

Metaforicamente infranto allorché Totti, poco dopo, avrebbe scoperto quello che oggi scrivono in parecchi: che tra Ilary e Cristiano Iovino, ipertatuato e muscoloso personal trainer e influencer - operativo tra Roma e Milano (tra un viaggio e l’altro, il suo profilo Ig trabocca di foto di vacanze: Indonesia, Ibiza, Mykonos, lago di Como), noto alle cronache rosa come ex boyfriend di Giulia De Lellis e Zoe Cristofori (prima che diventasse la compagna del difensore milanista Theo Hernandez) - non ci sarebbe stata solo un’amicizia. Piuttosto un flirt o qualcosa d’altro. 

I messaggini reciproci trovati sul telefonino di lei (come ha raccontato anche il settimanale Chi) sarebbero stati abbastanza eloquenti. Il destinatario e mittente risulterebbe proprio questo Cristiano, che non è affatto un amico di Francesco, nemmeno un lontano conoscente.

Questo sarebbe il vero snodo cruciale - «lo spartiacque» ci assicurano - nella storia ventennale tra Totti e Ilary. Quello in cui il Capitano prende coscienza. Capisce tante cose. E ripensa a tutto quel tempo in cui, per due edizioni consecutive dell’Isola (2021 e 2022) e per lo sfortunato show Star in the Star, sua moglie passava a Milano almeno quindici giorni al mese, mentre lui, da solo, a casa, faceva il papà tuttofare per Cristian, Chanel e Isabel. 

La conoscenza tra la conduttrice tv e il personal trainer risalirebbe a un anno e mezzo fa. Chi sicuramente sa come stanno le cose è Alessia Solidani, parrucchiera con salone all’Eur, amica storica e confidente di Ilary. Fu lei a pettinarla per il matrimonio con Francesco (a proposito, quel 19 giugno del 2005 l’allineamento dei pianeti sarà stato particolare, visto che pure il prete che celebrò le nozze, don Massimiliano, qualche anno fa ha lasciato la tonaca e si è sposato), che l’ha sempre seguita come un’ombra anche in trasferta e a volte in vacanza. Fedele e disponibile. Totti si sarebbe sentito ingannato. Cercando, chiedendo, avrebbe trovato conferme. Soltanto allora, deluso, si sarebbe guardato intorno. E nella sua vita, non prima, è poi comparsa Noemi Bocchi. I tempi esatti sarebbero questi.

Nonostante tutto, come era chiaro dal comunicato gentile e dispiaciuto con cui ha annunciato la separazione, il Campione del Mondo 2006 avrebbe preferito procedere con discrezione, per tutelare i figli che adora e che sono molto legati al papà, con cui stanno passando il mese di agosto. 

Sereni, nonostante il turbine di pettegolezzi e rivelazioni (molti indirizzati sapientemente in un’unica direzione) sulla loro ex famiglia felice. Quanto alla causa, si resta fermi allo stesso punto. L’avvocato di lei, Alessandro Simeone, è in vacanza all’estero, quello di lui, Antonio Conte, resta in attesa di comunicazioni. 

Difficilmente si muoverà qualcosa, se non a settembre. Prima ancora di sedersi al tavolo per definire la pratica, Ilary, che da più di un mese resta quasi provocatoriamente in villeggiatura, come se la faccenda non la riguardasse, sarebbe intenzionata a concedere un’intervista show all’amica Silvia Toffanin negli studi di Verissimo. A meno che Totti, esasperato, non la preceda. E racconti la sua verità.

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2022.

Nell'addio senza ritorno tra Francesco Totti e Ilary Blasi, ci sarebbe un prima e un dopo.

Dettaglio fondamentale per comprendere i motivi della crisi irreversibile tra l'eterno numero 10 giallorosso e l'ex Letterina.

La tempistica sarebbe diversa da quella che finora è stata raccontata.

Con prospettiva completamente rovesciata. 

Proprio un anno fa, a Ferragosto 2021, Francesco Totti postava su Instagram una foto di lui e Ilary, i volti quasi sovrapposti (lei aveva gli occhi coperti da una visiera e qui si potrebbe tirare in ballo il linguaggio subliminale del corpo), con la scritta «Io e Te» e un cuoricino rosso.

Metaforicamente infranto allorché Totti, poco dopo, avrebbe scoperto che tra Ilary e Cristiano Iovino, ipertatuato e muscoloso personal trainer, operativo tra Roma e Milano (il suo profilo Ig trabocca più che altro di foto di vacanze: Indonesia, Ibiza, Mykonos, lago di Como), noto alle cronache rosa come ex boyfriend di Giulia De Lellis e Zoe Cristofoli, non ci sarebbe stata solo un'amicizia. Ma un flirt o anche di più. 

I messaggini trovati sul telefonino di lei sarebbero stati eloquenti. Destinatario e mittente risulterebbe proprio il baldo Cristiano. Questo quindi sarebbe lo snodo cruciale - «lo spartiacque», assicura chi molto sa - nella storia ventennale tra Totti e Ilary. Quello in cui il Capitano avrebbe preso coscienza, ripensando a tutto quel tempo che sua moglie passava a Milano per l'Isola dei Famosi , almeno quindici giorni al mese, mentre lui, a casa, faceva il bravo papà per Cristian, Chanel e Isabel.

La conoscenza tra la conduttrice tv e il personal trainer risalirebbe a un anno e mezzo fa. Un ruolo importante l'avrebbe avuto la parrucchiera Alessia Solidani, amica e confidente di Ilary (fu lei a pettinarla per il matrimonio), che la segue ovunque. Fedele, disponibile e muta. Totti si sarebbe sentito ingannato. Cercando, chiedendo, avrebbe purtroppo trovato conferme. Soltanto allora, deluso e triste, si sarebbe guardato intorno. E nella sua vita, non prima, è comparsa Noemi Bocchi. 

Giovanna Cavalli per corriere.it il 15 agosto 2022.

Il piano di Ilary Blasi in soldoni sarebbe questo: comportarsi come se nulla fosse successo e niente dovesse ancora accadere. Come se non ci fosse di mezzo la separazione più chiacchierata d’Italia, quella da Francesco Totti, ancora ferma alle prime scartoffie. E come se la sua (presunta) storia con Cristiano Iovino, personal trainer di stanza a Roma ma più spesso a Milano, muscoloso, tatuato e conteso – che sarebbe la vera causa della crisi irrecuperabile con l’ex numero 10 della Roma, non Noemi Bocchi dai Parioli, arrivata dopo, a lenire la dolorosa delusione del Capitano – non fosse ormai uscita dall’ombra del mistero.

A tal proposito urge ascoltare il pr e campione di body building Alex Nuccetelli , l’amico comune che venti anni fa presentò Ilary a Totti: «Senza un valido motivo, Francesco non si sarebbe mai allontanato, per lui la famiglia veniva prima di tutto e sopra ogni cosa e per Ilary provava un amore esagerato, un’attrazione viscerale, qualcosa di grave deve essere successo». Nuccetelli, che ora ha rarefatto le sue esternazioni, non parla tanto per parlare. Sa molte cose.

E spesso, le sue dichiarazioni ricevono il sigillo proprio di Totti: un messaggino muto, con una fila di cuoricini. Dunque l’ennesima puntata della lunga estate vacanziera di Ilary Blasi, che gira di qui e di là in moto perpetuo ormai dal 12 luglio – e la jeep tra le zebre in Tanzania e il mare blu di Zanzibar e le dune di Sabaudia e il lago del Trentino e i picchi delle Dolomiti (che non ci vai a Cortina?) – è ambientata tra le verdi colline marchigiane, a Frontone, nelle Marche, terra dei suoi genitori, con la sorella Melory e il cognato Tiziano. 

Il programma del 14 agosto prevedeva visita al Castello (fatta), sosta alla Taverna della Rocca (idem), giretto tra le bancarelle della fiera con la nipotina Jolie nel passeggino, in peplo di voile svolazzante e leopardato lungo fino ai piedi con ciabattine nere, per non farsi notare («Direttamente dal safari», la sfotte persino Melory su Instagram), passeggiata sottobraccio con la nonna Marcella (che nonostante il bastone quasi le dà una pista), più altri momenti di vita quotidiana comunque instagrammati a ripetizione, persino le prodezze del gatto Dior, che molla i bisognini sul letto della nonna e poi vomita le palle di pelo sul pavimento di cotto.

Tra queste cartoline una però è più significativa: video in primo piano, sul viso e sulle mani. La destra carica di anelli d’oro, la sinistra nuda, non c’è più nemmeno il segno della fede nuziale sull’abbronzatura. Mentre il bel Cristiano si limita a postare su IG la foto di una tazzina di caffè con sfondo jungle, scattata chissà dove (è sempre in viaggio pure lui, Maldive, Mykonos, Indonesia). Probabilmente questo continuo reportage della conduttrice dell’Isola dei Famosi, questa sovraesposizione mediatica che tanto infastidisce il Capitano – lui invece stanziale a Sabaudia con i tre figli, Cristian, Chanel e Isabel, in una classica villeggiatura italiana, ma muto e invisibile sui social – pare rientrare in una precisa strategia, forse studiata a tavolino con la sua agente Graziella Lopedota detta Il Generale: massimizzare la propria immagine di donna comunque bella, felice, realizzata e piena di vita, anche senza l’ingombrante ex intorno, per poi affrontare lo show down finale. 

Ovvero la prima intervista pubblica, già concordata con la cara amica Silvia Toffanin, davanti alle benevole telecamere di Verissimo. E soltanto dopo, presentarsi finalmente all’incontro con i rispettivi avvocati, Alessandro Simeone e Antonio Conte, a questo punto entrambi in vacanza, all’estero, dopo aver atteso per giorni che «la signora Blasi» si rendesse reperibile e così non è stato.

"Un anno e mezzo fa...". Così Totti capì che con Ilary era finita. Sarebbe stata la conoscenza tra la Blasi e Cristiano Iovine a portare alla deriva in modo definito il matrimonio tra la conduttrice e Totti. Francesca Galici il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Tutte le storie che finiscono non hanno mai un solo colpevole, se di tale si può parlare. Le responsabilità, anche se non 50/50, sono comunque da entrambe le parti. Per un rapporto che finisce, altri due solitamente ne nascono. E la storia finita dopo vent'anni tra Francesco Totti e Ilary Blasi non fa differenza. Si è spesso parlato della frequentazione dell'ex Capitano della Roma con Noemi Bocchi ma poco si sa su Ilary Blasi. Le voci sulla showgirl sono state presto messe a tacere e la ricerca del misterioso altro uomo che sarebbe entrato nella sua vita, contribuendo a mandare a gambe all'aria il matrimonio, è rapidamente passata in secondo piano. L'attenzione è stata riversata tutta su Francesco Totti, paparazzato in più occasioni con Noemi Bocchi o vicino alla sua abitazione.

Ilary Blasi volta pagina? "La consola dopo l'addio a Totti"

Senza tifoserie e senza schieramenti, a riaccendere i riflettori su Ilary Blasi, che da quando è detonata la notizia della sua separazione si trova costantemente in vacanza, è stato il Corriere della sera. Il quotidiano ha provato a ricostruire le trame della separazione, risalendo a quello che pare possa essere il terzo incomodo nel matrimonio della royal family romana. Lui sarebbe Cristiano Iovino, personal trainer e influencer che si muove tra Milano e Roma. Pare che tra la conduttrice e il ragazzo ci sia stato ben più di un flirt e che Francesco Totti abbia trovato alcuni messaggi espliciti sul telefono di sua moglie. A quel punto, e solo a quel punto, spiega il Corriere della sera, nella sua vita avrebbe fatto la sua comparsa Noemi Bocchi. Il quotidiano colloca la conoscenza tra Ilary Blasi e il personale trainer a un anno e mezzo fa, nel periodo in cui lei faceva la spola tra Roma e Milano per la conduzione dei programmi che Mediaset le aveva affidato. Ed è con lui che in questi giorni la conduttrice si trova sulle Dolomiti. Solo coincidenze?

Le prime voci di un allontanamento tra Francesco Totti e Ilary Blasi risalgono allo scorso marzo, quando il sito Dagospia lanciò la bomba sulla presenza di Noemi Bocchi nella vita dell'ex Capitano. Ma a quei tempi, intrecciando le informazioni, la conduttrice già aveva conosciuto Iovino e Totti aveva già scoperto i presunti messaggi. E probabilmente la loro relazione era giunta al capolinea da un po', nonostante i due siano stati bravi a mantenere le fila, almeno davanti al pubblico, per altri quattro mesi. La separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, in questa calda estate, sta appassionando gli italiani più di quanto non lo faccia la campagna elettorale.

Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 25 Agosto 2022

"E' più incazzata che triste": parla Alfonso Signorini, conduttore del Gf vip. Che è stato il primo a fotografare Totti mentre si stava consumando la rottura con Ilary Blasi. Una vera e propria bomba, senza precedenti. Per Signorini si tratta dell'ultimo giorno di vacanza in montagna. Signorini parla delle sue vacanze nell'ultimo numero di Chi. E dice: "Con me l'estate è stata generosa" Cesenatico, Mykonos e infine Cortina: sono state queste le mete del conduttore di Canale 5, che ama da sempre montagna (per questo motivo trascorre alcuni giorni sulle Dolomiti). 

Poi parla della Blasi: "Penso alle risate fatte a casa mia con Ilary, che ho trovato più incazzata che triste per le sue ben note vicende sentimentali". La rottura totale tra Ilary e Totti è avvenuta in piena estate, la vera bomba di questi mesi caldi.

Poi Signorini svela: "L'estate, inoltre, mi ha fatto battere il cuore ed erano anni che questo non succedeva. Non chiedetemi di più perché sono fatti miei". Gossip blindato, almeno per adesso. La Blasi, intanto, non parla. Silenzio totale. Nessuno parla: Totti resta in assoluto e religioso silenzio, come del resto anche Ilary: dopo una vacanza in Africa si è rifugiata, a quanto pare, nella sua casa sul litorale romano.

Ida Di Grazia per leggo.it il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.

Mentre gli inguaribili romantici sperano in un ritorno di fiamma, un nuovo tassello si aggiunge alla tormentata separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi. A svelare nuovi retroscena è l'amico del calciatore Alex Nuccetelli che lancia una vera bomba. 

Le nuove foto

Mentre Ilary Blasi è "fuggita" in Croazia con la figlia Isabel, Francesco Totti è stato fotografato nuovamente da CHI, il magazine diretto da Alfonso Signorini, mentre scende da una macchina sotto la casa che Noemi Bocchi ha preso al Circeo: «L'ingresso è stato registrato alle 22,30; l'uscita, non pervenuta». 

Foto che avrebbero mandato su tutte le furie, stando al magazine, la Blasi, visto il momento delicato e una separazione in corso che, stando ai fatti, vede, con tanto di prove fotografiche, in Totti l'unico traditore. Ma l'amico dell'ex capitano giallorosso Alex Nuccetelli non ci sta e sgancia una bomba sulla coppia. 

La confessione dell'amico di Totti

Intervistato dal settimanale Novella 2000, Nuccetelli, il pr e amico che ha fatto conoscere a Totti la Bocchi, ha sottolineato quanto la famiglia sia importante per il calciatore: «Per Francesco la famiglia è tutto, non se ne sarebbe mai allontanato se non fosse successo qualcosa di grave. Per Francesco la famiglia veniva prima di tutto e sopra ogni cosa». 

Un fatto gravissimo alla base della separazione

«Per Ilary - ha raccontato Alex Nuccetelli - Francesco prova un amore esagerato, un'attrazione viscerale, Qualcosa di grave è successo. Quello che so è che Francesco parlerà a breve: è successo qualcosa un anno e mezzo fa che gli ha dato molto fastidio. E dopo quel fatto considerava tramontato il rapporto con Ilary».

Da corriere.it il 28 agosto 2022.

Quella che sembrava essere la goccia che fa traboccare il vaso, alla fine non si rivela tale. O meglio, è quello che dichiarano gli amici di Noemi Bocchi, la nuova fiamma di Totti. Sembrava che la causa scatenante del divorzio tra l’ex capitano della Roma e l’ex velina fosse proprio lei, terzo incomodo in una relazione durata vent’anni. 

E invece ora arrivano le dichiarazioni delle persone più vicine alla nuova compagna di Totti: «Noemi non si considera la causa scatenante della rottura tra Ilary e Totti e vorrebbe uscire allo scoperto con lui, smettere di nascondersi, anche perché la loro relazione non è solo un flirt, ma qualcosa di più importante» hanno dichiarato al settimanale DiPiù. 

Lo sfottò allo stadio

Se per la designer floreale le cose si stanno facendo serie, dall’altra parte l’ex idolo della Roma pare voler aspettare la separazione definitiva prima di ufficializzare la relazione. In realtà non sembrerebbe mancare troppo tempo, visto che la ex coppia più famosa d’Italia avrebbe già fissato l’incontro in tribunale. Intanto in campo non mancano i riferimenti ai tradimenti della coppia, in questo caso calcistici.

 Durante la partita Lazio-Inter, giocatasi lo scorso venerdì i tifosi biancocelesti hanno esposto uno striscione sui cui si poteva leggere: «Bentornata a casa Ilary». Pare infatti che l’ex moglie del capitano della Roma fosse laziale prima del matrimonio. In seguito non si è mai sbilanciata, ma ora che le strade del calciatore e della showgirl si separano in modo definitivo, chissà quale maglia indosserà.

Gabriele Parpiglia per "Chi" il 30 Agosto 2022.

Stop. Francesco Totti vuole mettere fine alle chiacchiere e alle notizie che ogni settimana, ogni giorno, ogni minuto escono da “ovunque” e che colpiscono in primis i suoi figli (per Francesco le vere vittime di questa vicenda). Per questo il Capitano schiera in campo l’avvocato matrimonialista Annamaria Bernardini De Pace, che affiancherà il difensore del “Pupone”, Antonio Conte. 

Caso vuole che l’avvocato scelto da Ilary Blasi come legale sia Alessandro Simeone: per chi è poco avvezzo ai corridoi dei tribunali, si tratta dell’ex delfino della celebre avvocatessa, cresciuto a “pane e Bernardini De Pace” prima di separarsi dalla sua musa lavorativa.

Lo scontro, quindi, ora si gioca su due tavoli separati, anche se legatissimi: quello privato, Ilary vs Francesco, e quello legale, Bernardini vs il suo pupillo Simeone. E “Chi” è in grado di rivelare a che punto si trova la situazione legale, in quella che è la separazione più rumorosa e dolorosa del mondo dello spettacolo italiano. 

Dunque: sappiamo che i legali dell’ex capitano della Roma lo scorso giovedì hanno formalizzato un atto di “pace” che prevede che la casa principale rimanga ai figli e i che genitori si alternino nella loro custodia, all’interno di quella stessa dimora, stabilendo giorni diversi per entrambi. 

Inoltre, i due ormai ex si impegnano a stoppare il flusso di notizie sulla vicenda, per non fomentare altri gossip di cui proprio i figli sarebbero le prime e le più indifese vittime. L’offerta è sul tavolo del legale Simeone, che proprio lunedì scorso, 29 agosto, ha incontrato i legali di Totti, compresa la sua ex maestra Annamaria Bernardini De Pace. Purtroppo possiamo anche anticipare che, al momento, le condizioni per una soluzione pacifica non ci sono.

L’intervento della Bernardini De Pace, però, potrebbe contribuire a smorzare la rabbia di Ilary e forse favorire l’arrivo a un punto di incontro. D’altronde, se da un lato Francesco Totti pare avere iniziato una nuova vita amorosa con Noemi Bocchi, dall’altro le chiacchiere sulla liaison tra Ilary e il “pierre della notte”, Cristiano Iovino, non sono mai state smentite. E questo Totti lo sa molto bene… 

 Totti: «Se Ilary avesse fatto di più, non mi sarei allontanato». E arruola la divorzista Bernardini de Pace. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

Le parole di Francesco Totti all’amico Alex Nuccetelli: «Guai a chi me la tocca, Ilary». Ora a rappresentare l’ex capitano della Roma ci sarà anche la matrimonialista Annamaria de Pace. 

Non fosse che si stanno separando, verrebbe da pensare che Francesco Totti la ami ancora ( almeno un po’), nonostante tutto. «Lo sai, per me guai a chi me la tocca Ilary, perché resta sempre mia moglie, ok, ex moglie, la madre dei miei figli. Capirai, dopo vent’anni. Oh, abbiamo passato insieme quasi un quarto di secolo. Non le ho fatto mancare niente, in tutto e per tutto, perché ero proprio innamorato pazzo. Se avesse fatto qualcosa in più, non mi sarei mai allontanato, questo è scontato». 

Così l’eterno Capitano romanista si è confidato con l’amico Alex Nuccetelli, 45 anni, famoso pr romano con parterre internazionale, nonché Cupido indiscusso tra il Campione e la Letterina, 20 anni fa. Quando parla, sa quel che dice. Con il via libera implicito dell’iconico n.10 giallorosso, che ne apprezza la lealtà.

Intanto però le carte bollate incombono. Così, d’accordo con lo storico legale Antonio Conte, Totti ha deciso di arruolare nel team difensivo la celebre matrimonialista milanese Annamaria Bernardini de Pace, un osso duro, ferratissima in materia di controversie coniugali. Gli intrecci patrimoniali tra Totti e Ilary Blasi sono molti e difficili da sciogliere. E i loro rapporti personali sono tesi, minimi.

Perciò la scelta è doppiamente strategica. Perché, pur restando quello di Roma il foro principale, anche Milano diventa cruciale, visto che negli ultimi anni la vita privata e professionale di Ilary Blasi si è di fatto spostata lì. 

Inoltre l’avvocato Alessandro Simeone, che assiste la conduttrice dell’Isola dei Famosi, è stato il braccio destro di Bernardini de Pace. Quindi i due si conoscono bene. E questo potrebbe rendere meno conflittuale la causa di separazione. 

La speranza è di giungere ad una consensuale, che risparmierebbe a entrambi i contendenti tempo e veleni. Questo almeno sarebbe il desiderio di Totti, che vorrebbe evitare una lunga guerra, per il bene dei figli Cristian, Chanel e Isabel. Ma non è chiaro se valga lo stesso per Ilary, che sin dal primo giorno in cui è diventata un’ex ha preferito rimandare i problemi e concedersi una lunghissima vacanza.

Totti però non è disposto ad aspettare all’infinito. E a sopportare di passare per il marito fedifrago quando sa bene che il motivo della crisi matrimoniale insanabile tra lui e Ilary non è Noemi Bocchi, ma altro (o un altro). Se Ilary insistesse nel volersi trasferire a Milano, magari con la piccola Isabel, Francesco si opporrebbe con tutte le sue forze. Non ne vuole nemmeno sentire parlare. O se, come è nell’aria, Ilary dovesse andare a sfogarsi in tv dall’amica Silvia Toffanin, allora la consensuale diventerebbe una via non più percorribile. E si andrebbe in tribunale, per la separazione giudiziale, che potrebbe durare anche tre anni.

Valentina Lupia per roma.repubblica.it il 5 settembre 2022.

Francesco Totti e Ilary Blasi hanno vissuto separati in casa per mesi e mesi, poco meno di un anno. A rivelarlo sono fonti vicine alla (ormai ex) coppia d’oro di Roma. E la rivelazione rischia di avere un peso nell'ormai annunciatissima controversia legale che aspetta i due in questo inizio settembre, per la quale l'ex capitano della Roma ha convocato nella sua villa di Sabaudia la "regina" dei matrimonialisti, Anna Maria Bernardini de Pace.

Tra i due - è la ricostruzione - non andava bene da un bel po’, probabilmente a causa di alcuni messaggi trovati sul cellulare della conduttrice tv. Ma l’amore nei confronti dei tre figli ha spinto il Pupone e la moglie a provare ad andare avanti.

Le ferite, però, non si sono rimarginate. Anzi. Le crepe si sono fatte sempre più evidenti e i continui tentativi di riappacificarsi si sono rivelati un grande fiasco. Alla fine, dopo qualche mese, l’ex capitano giallorosso si è allontanato per rifugiarsi tra le braccia di Noemi Bocchi, la 34enne di Roma nord, madre di due bambini, conosciuta oltre un anno fa durante un evento di padel, passione che accomuna entrambi. 

Ma facciamo un passo indietro. I due, stando a quanto racconta una fonte, cominciano a sentirsi assiduamente e a vedersi tra settembre e ottobre, dopo essersi presentati ad agosto, quando le cose tra Ilary e Francesco già non andavano.

Probabilmente sfruttano anche le serate organizzate dal pr romano Alex Nuccetelli, vicino a Francesco Totti, per vedersi. Per incrociare i loro sguardi. Quando il 23 ottobre il Pupone va a “In Villa” (la sala solitamente riservata agli eventi privati del complesso delle Casette di Campagna, di proprietà di Andrea Battistelli, che nel 2020 ha partecipato al programma tv Temptation Island) porta con sé anche la moglie. I due siedono con degli amici allo stesso tavolo, ma sono distanti. 

A qualche metro di distanza, insieme alle amiche, c’è Noemi Bocchi, come testimoniano i video presenti online relativi a quella serata. Difficile, per i fan, credere che sia una pura casualità. Ma c’è anche chi è restio nel pensare che l’ex capitano giallorosso si sia portato l’amante nello stesso locale dove è andato con la moglie. Fatto sta che i tre erano proprio lì, insieme.

Totti e Blasi continuano a vivere sotto lo stesso tetto ma l’ex numero 10 continua la sua frequentazione. Tanto che il 5 febbraio, allo stadio, Noemi Bocchi siede poche file dietro di lui. E non è l’unica volta. Il resto è storia: la conduttrice de “L’isola dei famosi” va a “Verissimo”, il salotto tv dell’amica Silvia Toffanin per smentire la crisi. 

Poco dopo, quando la piccola Isabel racconta di aver conosciuto “due nuovi amichetti” (i figli di Noemi Bocchi, rivelerà poi “Chi”), Ilary assume un investigatore privato che le porta le prove della relazione del marito con un’altra donna. A inizio luglio, attraverso due comunicati distinti, arriva l’annuncio ufficiale della separazione. Anche se i due, a quanto risulta, separati lo erano già da quasi un anno. Seppur sotto lo stesso tetto.

Totti: «Ilary? Non ho tradito io per primo. Ho trovato i messaggi sul suo telefono, è stato uno choc». Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” l'11 settembre 2022.  

Francesco Totti racconta la rottura con Ilary: «Con Noemi stiamo insieme da dopo Capodanno. La crisi? Tutto è iniziato nel 2016, il mio penultimo anno da calciatore. E c’era una terza persona che faceva da tramite tra Ilary e l’altro». L’intervista esclusiva 

Francesco Totti, sa qual è l’argomento più cliccato e dibattuto in Rete nel 2022, più del Covid, della guerra, della regina…

«Si fermi. Questa storia per me non è gossip. Questa storia per me è carne e sangue. C’è di mezzo la mia vita. Ci sono di mezzo tre persone che amo più di me stesso: i miei figli, che voglio proteggere in ogni modo. E c’è un amore durato vent’anni. Tutto mi sarei aspettato, tranne che finisse così». 

Resta il fatto che ne parlano tutti.

«Tutti, tranne me. Non ho ancora detto una parola. Avevo detto che non avrei parlato e non l’ho fatto. Ma ho letto troppe sciocchezze, troppe bufale. Alcune hanno anche fatto soffrire i miei figli. Ora basta». 

Quali sciocchezze?

«Molte, in particolare una: che il colpevole della rottura sarei soltanto io. Che il matrimonio sarebbe finito per colpa del mio tradimento. 

Non è così?

«Questo punto voglio chiarirlo: non sono stato io a tradire per primo. Poi tornerò a tacere. Qualunque cosa mi sarà replicata, starò zitto. Perché la mia priorità è tutelare i miei figli». 

Lei e Ilary siete l’argomento dell’anno perché eravate bellissimi. Pareva una fiaba: il calciatore più amato, la star della tv.

«Le fiabe non esistono. Abbiamo avuto alti e bassi, come ogni coppia. Poi qualcosa si è rotto». 

Quando?

«La crisi vera è esplosa tra marzo e aprile dell’anno scorso. Ma io soffrivo da tempo». 

Perché?

«Tutto è iniziato nel 2016. Il mio penultimo anno da calciatore. Smettere non è facile. È un po’ come morire». 

Lei aveva più di quarant’anni.

«Sì, ma giocavo in serie A da quando ne avevo sedici. E certe cose ti mancano. L’adrenalina, la fatica. L’ho anche detto, nel discorso di addio allo stadio: “ho paura, statemi vicino”. E i romanisti non mi hanno mai lasciato solo». 

Lei in campo dava di sé un’immagine spavalda, quasi strafottente. «Mo je faccio er cucchiaio».

«Perché sapevo, in quella semifinale dell’Europeo, che il portiere dell’Olanda si sarebbe buttato a destra o a sinistra, e se facevo il pallonetto avrei segnato. Ma quel che mi aspettava dopo il ritiro, io non lo sapevo. E comunque il rigore che ricordo con più soddisfazione è quello ai Mondiali con l’Australia».

C’ero. Kaiserslautern, 26 giugno 2006. Ultimo minuto. Eravamo 10 contro 11, se lei avesse sbagliato non avremmo vinto la Coppa.

«C’era pure Ilary. Io segnai e inquadrarono lei, in mondovisione. Fu l’unica partita che venne a vedere in Germania, prima della finale». 

Lei Totti mise in bocca il pollice, come un bambino.

«Come Cristian, il nostro primogenito. Aveva otto mesi. Ci tenevo: per la mia famiglia, per l’Italia, e per Lippi. Quando mi spezzarono la gamba, al risveglio dall’anestesia l’avevo trovato in clinica. Era venuto a dirmi: Francesco, ti aspetto e ti porto ai Mondiali». 

Quando lei litigava con un altro allenatore, Spalletti, Ilary intervenne in sua difesa, lo definì «piccolo uomo».

«Fece tutto da sola. Voleva proteggermi, ebbe una reazione quasi materna. Di pallone non ha mai capito molto». 

Lei lasciò il calcio.

«E dopo lasciai anche la Roma, dove avevo cominciato a lavorare come dirigente. La rottura con la vecchia proprietà fu traumatica: come dover abbandonare la propria casa. Ero fragile, mi mancavano i riferimenti, e Ilary non ha capito l’importanza di questo dolore. Poi è arrivato il 12 ottobre 2021». 

Cos’è successo il 12 ottobre?

«È morto papà mio. Di Covid. E io l’ho visto l’ultima volta il 26 agosto. Sapevo che stava male, e non potevo fargli visita. Papà mio per me c’era sempre, non perdeva una trasferta. A me non faceva mai un complimento, ma con gli altri era fierissimo: Francesco è il numero uno, diceva. Poi ho preso il Covid pure io, in forma violenta: 25 giorni chiuso in casa, stavo per finire in ospedale. Insomma, per me è stato un periodo tremendo. Per fortuna c’erano i figli. Finalmente ho potuto stare più tempo con Cristian, Chanel e Isabel. Mia moglie invece, quando avevo più bisogno di lei, non c’è stata. Nella primavera del 2021 siamo andati in crisi definitivamente. L’ultimo anno è stato duro. Non c’era più dialogo, non c’era più niente». 

E lei, Totti, non ha commesso errori?

«Certo. Quando si rompe, si rompe in due: 50 e 50. Avrei dovuto stare di più con lei, da solo. Invece nel week end organizzavo con gli amici. C’era anche Ilary; ma avrei dovuto portarla a cena, dedicarle più attenzioni». 

Lei, Totti, aveva una storia con Noemi Bocchi.

«Non è così». 

Dagospia ha pubblicato una foto in cui il 4 dicembre 2021 siete seduti poco distanti allo stadio.

«Noemi non era allo stadio con me. Siamo arrivati con auto diverse, avevamo posti diversi. Le pare che mi porto l’amante all’Olimpico? Un ambiente più intimo no? Comunque è vero che la conoscevo già. E la frequentavo come amica, con gli amici del padel. La nostra storia è iniziata dopo Capodanno. E si è consolidata nel marzo 2022. Ripeto: non sono stato io a tradire per primo».

Che cos’è successo?

«A settembre dell’anno scorso sono cominciate ad arrivarmi le voci: guarda che Ilary ha un altro. Anzi, più di uno». 

E lei ci ha creduto?

«Mi pareva impossibile. Invece ho trovato i messaggi». 

Lei spiava il telefonino di sua moglie?

«Non l’avevo mai fatto in vent’anni, né lei l’aveva mai fatto con me. Però quando mi sono arrivati avvertimenti da persone diverse, di cui mi fido, mi sono insospettito. Le ho guardato il cellulare. E ho visto che c’era una terza persona, che faceva da tramite tra Ilary e un altro». 

Quando è successo?

«Me ne sono accorto in autunno, ma i messaggi erano di prima». 

Chi era la terza persona?

«Alessia, la parrucchiera di Ilary, la sua amica». 

E l’altro?

«Non mi faccia dire il nome. È una persona totalmente diversa da me, che appartiene a un mondo lontanissimo dal mio, e per fortuna. È stato uno choc. Non solo che Ilary avesse un altro; ma che potesse avere interesse per un uomo del genere. Eppure l’ha avuto». 

Cosa dicevano i messaggi?

«Qualcosa tipo: vediamoci in hotel; no, è più prudente da me». 

E lei come ha reagito?

«Mi sono tenuto tutto dentro. Non l’ho detto a nessuno, neppure a Vito Scala, l’amico che è al mio fianco da quando avevo undici anni. Io non sono uno che chiude un occhio, ma ho preferito far finta di niente. Ho mandato giù, per non sfasciare la famiglia, per proteggere i ragazzi. Soffrivo come un cane. Lei mi diceva: quest’anno rimango un po’ di più a Milano, torno meno a Roma, e io pensavo: ci credo, hai quest’altro… Ma speravo ancora che non fosse vero». 

Totti, guardi che capita. Tutte le coppie sono esposte a tentazioni; a maggior ragione una coppia come la vostra. Sarà successo a Ilary. Sarà successo anche a lei. Non è che lei somiglia al classico maschio italiano, che si prende le proprie libertà ma si infuria se scopre quelle della moglie?

«Sono girate voci in passato. Su di lei e su di me. Ma erano appunto voci. Qui c’erano le prove. I fatti. E questo mi ha gettato in depressione. Non riuscivo più a dormire. Facevo finta di niente ma non ero più io, ero un’altra persona. Ne sono uscito grazie a Noemi». 

Sa cos’hanno pensato tutti? Che Noemi ricorda molto la Ilary di qualche anno fa.

«Io non ci ho pensato proprio. Anzi, Noemi è l’opposto di Ilary, anche come carattere. Ma non mi piace fare paragoni». 

Quando è cominciata la vostra relazione?

«Prima ci frequentavamo come amici. Poi, dopo Capodanno, è diventata una storia. Quando il 22 febbraio Dagospia ha pubblicato la foto allo stadio, quella scattata a dicembre, Ilary me ne ha chiesto conto». 

E lei?

«Io ho negato. All’inizio non ho detto la verità, né a lei né ai figli; com’era inevitabile che fosse, visto che speravo ancora di salvare tutto. Ma a quel punto mi sono tolto un peso, e ho domandato a Ilary di quest’altro uomo. Anche lei sulle prime ha negato. Diceva di non averlo mai incontrato. Poi ha capito che sapevo, e mi ha raccontato che con quel tipo si erano visti solo per prendere un caffè. Abbiamo avuto un confronto a tre anche con Alessia, ed entrambe hanno negato. In realtà so che si erano conosciuti già nel marzo del 2021. E che lei ha frequentato lui e altri uomini un po’ troppo da vicino. Prima che nascesse la mia storia con Noemi». 

Eppure con Ilary ancora poco fa vi siete fatti fotografare al ristorante, come se foste sempre una coppia. Avete provato a ricostruire il matrimonio?

«Un po’ ci abbiamo provato, ma non fino in fondo. Nessuno ha voluto tentare qualcosa di più. Diciamo che non è stato un grande tentativo. Io sapevo quel che aveva fatto lei, anche se non ho detto niente per non danneggiare la sua immagine, tanto più mentre stava facendo l’Isola dei Famosi. E lei probabilmente si era stufata. Perché in realtà il matrimonio era finito». 

E avete annunciato la rottura. Con due comunicati separati.

«Avrei preferito un comunicato solo, firmato da tutte e due, per dire che avevamo provato a superare le difficoltà ma non ci eravamo riusciti. Ilary non ha voluto: perché era andata in tv a negare, ad assicurare che andava tutto bene; e non poteva rimangiarselo. Così ha scritto il suo comunicato, per sostenere che lei aveva fatto qualcosa per salvare il rapporto, e io no». 

E siete andati per avvocati. Lei ha affiancato Annamaria Bernardini De Pace a un suo legale storico, Antonio Conte.

«Cercavo un accordo. Non volevo finire in tribunale. Così ho proposto: pensiamo prima ai figli, lasciamo la casa a loro, e noi ci alterniamo, facciamo tre giorni per ciascuno. Non volevo vedere i ragazzi con la valigia in mano, tra l’Eur e Roma Nord. Ma Ilary ha detto no. Allora le ho proposto di dividere la casa, in fondo è grande. Oppure di prenderne una tutta per lei. Niente da fare: in casa vuole restare soltanto lei, e basta. Poi non ci siamo più parlati, perché è partita con la sorella per la Tanzania. Una vacanza pagata da me».

Che sarà mai…

«Non è tutto qui. Con suo padre è andata a svuotare le cassette di sicurezza, e mi ha portato via la mia collezione di orologi. Non ha lasciato neanche le garanzie, neanche le scatole». 

Gli orologi?

«Ci sono alcuni Rolex di grande valore. Sostiene che glieli ho regalati; ma se sono orologi da uomo… Mi rifiuto di pensare che sia questione di soldi. Semmai, è un dispetto». 

E lei cos’ha fatto?

«E che dovevo fare? Le ho nascosto le borse, sperando in uno scambio… (Totti sorride) Ma non c’è stato verso. E non è finita». 

Cosa c’è ancora?

«Mi ha fatto seguire da un investigatore privato. Persone a lei vicinissime mi hanno messo le cimici in macchina, e il gps per sapere dove andavo; quando bastava che me lo chiedesse. Altre persone si sono appostate sotto la casa di Noemi…». 

In effetti «Chi» ha pubblicato la sua foto sotto la casa di Noemi.

«E dov’è lo scandalo? Ormai tutti sanno della nostra storia. Cerco di viverla con discrezione, sempre per non turbare i ragazzi». 

Come sono i ragazzi?

«Li adoro, e mi adorano. Il mese scorso me li sono portati tutti e tre a Sabaudia. Cristian gioca a calcio: mezz’ala. Ha una grande passione, faceva su e giù tutti i giorni con Roma per allenarsi. Con le femmine mi sciolgo. Chanel ormai è un’adolescente, non è un’età facile, non voglio che soffra. Un po’ erano già abituati fin da piccoli a vedere mamma e papà uno per volta: eravamo entrambi molto impegnati con il lavoro, e i calciatori non hanno il week end libero... Isabel è ancora piccola, ma mi sa che ormai ha capito tutto. Anche perché a un certo punto lei me l’ha portata via». 

Cos’è successo?

«L’accordo era: luglio con la madre, agosto con me. Poi Ilary si è preoccupata che Isabel sentisse la sua mancanza, ma io la tranquillizzavo: Isabel stava benissimo, e poi facevamo le videochiamate tutti i giorni. Invece lei è arrivata a Sabaudia e se l’è portata in barca in Croazia». 

Sua madre Fiorella cosa dice?

«Nulla. Soffre in silenzio». 

È vero che era contraria al suo matrimonio?

«Sciocchezze. Mamma ha sempre rispettato le mie decisioni. Al massimo, può aver provato la normale gelosia della mamma romana per il figlio maschio; che se le porti come nuora la Madonna, non le va bene manco lei…». 

E adesso cosa succede?

«Non lo so. Temo che con Ilary finirà in tribunale. Spero ancora che si possa trovare un accordo e chiudere qui questa storia. Di sicuro, io adesso mi taccio. Non so se si è capito, ma questo pomeriggio mi è costato sei mesi di vita. Avrei preferito mille volte darle un’intervista per parlare di calcio e della Roma, che porto sempre nel cuore».

Da adnkronos.com l'11 settembre 2022.

"Sì ho letto, vi ringrazio ma di questa cosa non mi interessa proprio parlare". Così risponde all'Adnkronos Cristiano Iovino, il personal trainer nei mesi scorsi al centro di indiscrezioni, gossip e pettegolezzi su un suo presunto flirt con Ilary Blasi.

Da leggo.it l'11 settembre 2022.  

Si chiama Alessia Solidani ed è una delle hairstylist più amate dalle star italiane. Grande amica di Ilary Blasi, sarebbe lei - secondo le accuse di Francesco Totti che per la prima volta ha parlato dellla sua separazione in un'intervista al Corriere della Sera - la persona che avrebbe fatto da tramite tra la conduttrice e l'uomo misterioso a cui fa riferimento l'ex capitano della Roma.

Ilary e Alessia, che la tra le sue clienti vanta grandi nomi della tv come Michelle Hunziker, sono cresciute insieme: la Solidani la segue sin dalle prime apparizioni in televisione ed è stata artefice di molti cambi look, dalle parrucche del Grande Fratello alle pettinature più trendy. Alessia Solidani, che ha fondato un marchio che porta il suo nome con cinque saloni all'attivo a Roma, compare spesso nelle stories di Ilary tra cene, feste e vacanze. L'ultimo pranzo, qualche giorno fa, all'Hotel De Russie nella capitale. 

Totti, le prime parole dopo la separazione da Ilary Blasi: «Non sono stato il primo a tradire, ho visto i messaggi»

Lei, lui e l'altra

Un rapporto, dunque, che va ben oltre il semplice lavoro. Secondo quanto dichiarato da Totti, Alessia avrebbe avuto un ruolo determinante nella storia tra Ilary e un altro uomo, probabilmente conosciuto a Milano dove la conduttrice si trovava spesso per girare le sue trasmissioni tv. «Le ho guardato il cellulare - ha raccontato Totti - E ho visto che c'era una terza persona, che faceva da tramite tra Ilary e un altro». La terza persona era «Alessia, la parrucchiera di Ilary, la sua amica», mentre l'altro «è una persona totalmente diversa da me, che appartiene a un mondo lontanissimo dal mio, e per fortuna. È stato uno choc. Non solo che Ilary avesse un altro; ma che potesse avere interesse per un uomo del genere. Eppure l'ha avuto».

Chi sia quest'uomo resta ancora un mistero. Quest'estate si sono fatte sempre più insistenti le voci su Cristiano Iovino, personal trainer ed ex fidanzato (tra le altre) anche di  Giulia De Lellis. 

I messaggini reciproci trovati sul telefonino di lei (come ha raccontato anche il settimanale Chi) sarebbero stati abbastanza eloquenti. Ma l’uomo misterioso chi è? Il destinatario e mittente risulterebbe proprio questo Cristiano, che non è affatto un amico di Francesco, nemmeno un lontano conoscente.

Questo sarebbe il vero snodo cruciale – “lo spartiacque” – nella storia ventennale tra Totti e Ilary. Quello in cui il Capitano prende coscienza. Capisce tante cose. E ripensa a tutti quel tempo in cui, per due edizioni consecutive dell’Isola (2021 e 2022) e per lo sfortunato show Star in the Star, sua moglie passava a Milano almeno quindici giorni al mese, mentre lui, da solo, a casa, faceva il papà tuttofare per Cristian, Chanel e Isabel.

E. B. per “il Messaggero” 12 settembre 2022.

Il telefono suona a lungo poi dopo una decina di squilli ecco che si sente la voce di Cristiano Iovino, l'uomo più chiacchierato del momento, quello indicato dai più come flirt di Ilary Blasi. Ci racconta cosa è successo tra lei e Ilary? Sono vere le voci che sono state messe in giro? La risposta arriva categorica: «Non mi interessa, grazie». 

A Roma nord le voci di una liaison tra i due erano sulla bocca di tutti già da tempo. Perché Iovino da quelle parti è molto conosciuto. Ilary e Cristiano, Cristiano e Ilary. Che in una città dove l'unica religione per molti sembra essere quella per Totti, di cristiano c'è ben poco. Verrebbe più da dire profano. Eppure in molti sono pronti a giurare che Cristiano Iovino abbia avuto un flirt con la moglie del capitano. E una conferma sarebbe arrivata anche da un'amica di Melory, sorella della conduttrice. L'attrice dai capelli rossi (così viene descritta la fonte) avrebbe infatti rivelato che proprio Ilary avrebbe confessato agli amici la sua liaison con Iovino. I due si sarebbero conosciuti circa un anno e mezzo fa. A farli conoscere sarebbe stata la fedele hair stylist di Ilary, Alessia. Tra Ilary e Cristiano l'attrazione sarebbe scoppiata immediatamente. Tanto che i messaggi che si sarebbero scambiati sono piuttosto eloquenti. Gli stessi che Totti avrebbe letto nell'agosto del 2021.

Un'attrazione fatale che avrebbe portato Ilary, complici le due edizioni consecutive dell'Isola dei famosi 2021 e 2022 (in una delle due pare avesse anche tentato di far partecipare Cristiano) e per lo show Star in the Star, a trasferirsi a Milano almeno quindici giorni al mese. 

Eh già perché a Milano, Iovino, ha costruito la sua seconda casa. Ieri ha postato una stories mentre inquadrava il suo riflesso nello specchietto dell'auto mentre girava proprio per il centro di Milano (si vede l'Una Hotel Cusani in zona Castello Sforzesco). 

MUSCOLI E VIAGGI «Una persona totalmente diversa da me, che appartiene a un mondo lontanissimo dal mio, e per fortuna. È stato uno choc.

Non solo che Ilary avesse un altro; ma che potesse avere interesse per un uomo del genere» ha rivelato Totti. Ma chi è Cristiano Iovino? Ipertatuato e muscoloso di professione personal trainer. A Roma nord, ma non solo, è conosciutissimo. Tra l'altro è tifosissimo della Lazio. 

Spesso presente allo stadio Olimpico per le gare casalinghe dei biancocelesti. Una presenza fissa soprattutto in passato. Poi lavoro e fama lo hanno un po' allontanato. Ma il tifo è rimasto lo stesso. In questo senso suona ancora più frizzante lo striscione apparso qualche domenica fa durante una gara della Lazio e che recitava: «Bentornata a casa Ilary». Personal trainer ma soprattutto influencer con i suoi 55 mila follower. Operativo tra Roma e Milano (e proprio galeotta sembra essere stata la città del Duomo per far scoccare la scintilla con Ilary). Ma seguire gli spostamenti di Cristiano è un lavoro: rimbalza da una parte all'altra del mondo e il suo Instagram trabocca di foto di vacanze: Indonesia, Ibiza, Mykonos, lago di Como. Anche in fatto di donne Cristiano balza spesso agli onori delle cronache rosa, ha avuto flirt con Giulia De Lellis, Sabrina Ghio, e Zoe Cristofori (prima che diventasse la compagna del difensore milanista Theo Hernandez). E.B.

Dal 36enne un secco "no comment" sulla vicenda. Chi è Cristiano Iovino, il personal trainer al centro del gossip tra Francesco Totti e Ilary Blasi. Vito Califano su Il Riformista il 12 Settembre 2022 

Cristiano Iovino ha risposto secco: “No comment”. È lui l’uomo più chiacchierato del momento nel gossip italiano. È lui secondo numerosi media l’uomo cui Francesco Totti, ex calciatore della Roma, faceva riferimento parlando di una presunta relazione extraconiugale della moglie, la showgirl Ilary Blasi; una relazione che avrebbe portato alla fine della coppia. “Non sono stato io a tradire per primo”, ha voluto chiarire Totti in un’intervista a Il Corriere della Sera che ha riaperto clamorosamente il caso di gossip dell’anno.

Dopo i sospetti, le voci di alcuni amici, una presunta “terza persona” a fare da tramite “tra Ilary e un altro”. Quell’“altro”, appunto. “Non mi faccia dire il nome. È una persona totalmente diversa da me, che appartiene a un mondo lontanissimo dal mio, e per fortuna. È stato uno choc. Non solo che Ilary avesse un altro; ma che potesse avere interesse per un uomo del genere. Eppure l’ha avuto”. Dopo l’intervista di ieri la voce che si è sparsa è che quella persona, con la quale Ilary avrebbe avuto – e sottolineiamo: avrebbe – una relazione, sarebbe Cristiano Iovino.

Iovino è un personal trainer, 36 anni, molto conosciuto in zona Roma Nord anche se molto spesso a Milano per lavoro. Allenerebbe diversi vip e farebbe anche da pr. È tifosissimo della Lazio. Sui social vanta 55mila follower. Sulla sua pagina tantissime foto di viaggi in tutto il mondo. Dall’Indonesia ad Ibiza, da Mykonos al lago di Como, da Formentera a Bali al Sudamerica. Spiccano sul corpo palestrato i tantissimi tatuaggi tra cui alcuni che sembrano comunicare un’ispirazione neonazista, sicuramente germanica.

Secondo il gossip Iovino avrebbe avuto anche altri flirt all’interno del mondo dello spettacolo. Blasi l’avrebbe conosciuta circa un anno e mezzo fa. Il Messaggero cita una conferma che sarebbe arrivata da “un’attrice dai capelli rossi”, un’amica di Melory, sorella della showgirl. Un giro piuttosto largo ma che comunque in queste ore funziona, nutre il gossip. Iovino da parte sua non ha mai smentito la relazione. Ad AdnKronos si è limitato a rilasciare la dichiarazione: “Di questa cosa non mi interessa proprio parlare”.

Francesco Totti ci ha tenuto a ribadire che solo dopo aver scoperto quella presunta relazione, della quale avrebbe trovato tracce sul telefono della moglie, avrebbe intrapreso il suo rapporto con Noemi Bocchi. “Mi sono tenuto tutto dentro – ha detto – Io non sono uno che chiude un occhio, ma ho preferito far finta di niente. Ho mandato giù, per non sfasciare la famiglia, per proteggere i ragazzi. Soffrivo come un cane. Lei mi diceva: quest’anno rimango un po’ di più a Milano, torno meno a Roma, e io pensavo: ci credo, hai quest’altro … Ma speravo ancora che non fosse vero”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Totti-Ilary, Gabriele Muccino contro la legale dell’ex capitano della Roma, Annamaria Bernardini De Pace. GIOVANNI BERRUTI su La Stampa l'11 settembre 2022.

«Il legale di Totti io l’ho conosciuto bene». A intervenire nell’enorme dibattito mediatico legato alla separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, Gabriele Muccino. Tutto è nato da un post pubblicato su instagram dalla giornalista Selvaggia Lucarelli, che ha definito l’intervista rilasciata oggi dall’ex capitano della Roma «rancorosa, indiscreta e volgare». Tra i commenti, proprio quello del regista di A Casa Tutti Bene, che ha deciso di esprimersi su Annamaria Bernardini de Pace, l’avvocato matrimonialista che sta assistendo Totti, e che in passato si occupò di seguire la sua ex moglie, la violinista Elena Majoni, durante il loro divorzio. «L'ho avuta come controparte in un divorzio orribile che ha rovinato un figlio e seminato veleno per 5 anni – ha scritto Muccino - Veleno che è rimasto radioattivo con strascichi mai più sanati. Un divorzio cadenzato da illazioni pericolose puntualmente riprese da Chi, un divorzio portato avanti a forza di denunce penali totalmente pretestuose e inventate: 8 in tutto. TUTTE ARCHIVIATE senza fatica. Erano fumo, erano latrare di cani, armi per spaventarmi, erano la tattica e la strategia che questa nota avvocatessa romana adotta schiacciando vite di persone che si sono amate come fossero noci. I figli? Traumatizzati a vita». Ovviamente, non è tardata ad arrivare la replica della Bernardini de Pace: «Se l'offesa arriva dalle nullità, vale zero. Se poi la nullità è chi è stato avversario, l'offesa è sospetta. Una vendetta che vale come il tentativo di lanciare il pallone ben oltre i tempi supplementari. A stadio chiuso»

Dagospia l'11 settembre 2022. Mail - Annamaria Bernardini de Pace risponde a Muccino: "Se l'offesa arriva dalle nullità, vale zero. Se poi la nullità è chi è stato avversario, l'offesa è sospetta. Una vendetta che vale come il tentativo di lanciare il pallone ben oltre i tempi supplementari. A stadio chiuso"

Piero Colaprico per “la Repubblica” il 13 settembre 2022.

Anna Maria Bernardini de Pace è, nella vita e nel lavoro, quello che si definisce una forza della natura. E la natura, si sa, può essere di volta in volta vista come buona o come cattiva. A volte brutale. 

Quindi, a Milano come nel resto d'Italia, si può trovare chi di lei, neo avvocata di Francesco Totti, ex capitano e bandiera della Roma, parla malissimo, come ha fatto di recente e in chiaro il regista Gabriele Muccino: «L'ho avuta come controparte in un divorzio orribile che ha rovinato un figlio e seminato veleno per cinque anni», accusandola di adottare strategie dentro e fuori l'aula di giustizia «schiacciando vite di persone che si sono amate come fossero noci. I figli?

Traumatizzati a vita». E c'è chi, a Milano, dice più o meno lo stesso, ma restando nell'ombra, e spiegando che un po' è spietata e un po' conosce così tante persone influenti da poter intimorire chiunque non sia "corazzato". 

Sembra un'esagerazione, e in ogni caso non sono pochi quelli che continuano a volerla come avvocata, come amica, come sponsor: come successo, ad esempio, a Luca Bernardo, primario di pediatria al Fatabenefratelli, alle ultime comunali competitor del sindaco Beppe Sala per il centrodestra, una decisione che ha visto lei, che è radicale, insieme con Licia Ronzulli, berlusconiana ortodossa, nel ruolo di suggeritrici. 

La prima super-tappa della scalata milanese - non lo ricorda quasi più nessuno - era cominciata per Bernardini de Pace con Tangentopoli, e cioè con l'inchiesta giudiziaria che bombardò in parte il sistema della corruzione pubblica: difendeva Laura Sala, la moglie separata di Mario Chiesa, politico rampante e tirchio. 

Lui voleva darle, in sede di divorzio, una minima parte del suo stipendio ufficiale da presidente del Pio Albergo Trivulzio. Praticamente una mancia. Lei - era il febbraio '92, l'avvocata accompagnò la signora nell'ufficio di Antonio Di Pietro, allora pubblico ministero - si sfogò ed emerse così, ex abrupto, direbbero i giuristi, il "denaro nero" del faccendiere. Un pozzo profondo nel quale il divorziando Chiesa, già detenuto per mazzette nel carcere di San Vittore, trascinò alla fine un bel po' di socialisti (e non solo). 

L'avvocata Bernardini de Pace porta i suoi 74 anni con grande leggerezza. Nella sua cittadina di mare pugliese la ricordano tra le altre cose per la sua avvenenza giovanile.

Ma, com' è ovvio, resta la sua testa spregiudicata ad averne consolidato la fama (e le parcelle). Sposata e poi divorziata da un suo professore universitario, padre delle due figlie, non s' era laureata subito. Aveva mollato i corsi, ma «non volendo essere mantenuta», diceva agli amici, s' era rimessa sui libri: a 34 anni è entrata nello studio milanese dei genitori. E qui, così si dice, «litigava forte con la madre, perché frequentava un uomo sposato». 

Quindi, ufficio in proprio. All'inizio si occupava di diritto d'autore, è stata consulente di Caterina Caselli, ha seguito vari artisti, compreso Fabrizio De Andrè, e di alcuni, come Ornella Vanoni e Mario Lavezzi, è rimasta amica. A trasformarla in matrimonialista era stato - ed è vero - il suggerimento di Indro Montanelli, che l'aveva voluta nell'87 come collaboratrice del "Giornale": «Francesco Alberoni parla di Innamoramento e amore, vedrai quanto aumenteranno i divorzi, lascia gli artisti e passa al diritto di famiglia».

Un'idea azzeccata: recentemente Flavio Briatore, prima Simona Ventura, prima ancora Gianfranco Funari, ma anche Romina Power e Al Bano, Michelle Hunziker ed Eros Ramazzotti, Nina Moric e Fabrizio Corona. E, ovviamente, anche una clientela composta da persone che meno si parla di loro e meglio è: industriali, finanzieri, gente con i danée. I suoi studi sono diventati recentemente cinque, in varie parti d'Italia, e le cause trattate sono circa 300 l'anno (considerate le ferie dei tribunali, una al giorno).

Lei, che continua a scrivere, si vanta essere la giurista che ha inventato "una soluzione efficace", anche se a misura di ricco, per i casi di separazione: la casa matrimoniale resta ai figli e i genitori si alternano. Farlo ai Parioli o in corso Magenta è certo più facile che al Quartaccio o al Giambellino, ma insomma sostiene che marito e moglie possono combattersi, ma riguardo i figli devono "essere alleati". E per i figli dei separati ha scritto anche un "Manuale di sopravvivenza". 

Per le sue parcelle, considerate da alcuni troppo alte, ha avuto qualche rogna con l'ordine degli avvocati: risulta una sospensione di tre mesi nel lontano 2009. Intanto lei, mentre infuria la tempesta sul divorzio tra Totti e Ilary Blasi, se ne sta in Puglia. A fare che? Anche se a taluno ricorda la matrigna di Biancaneve, a preparare, insieme con le nipoti, marmellate con la frutta dei suoi alberi.

Totti-Ilary, il matrimonialista Gassani: «Gli avvocati fanno miracoli, ma certe volte è complicato…» L'avvocato Gian Ettore Gassani: «Dobbiamo imparare a separarci e a divorziare con stile. Quando le parti sono rappresentate da specialisti, l’accordo è molto più facile da raggiungere». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 14 settembre 2022.

Gian Ettore Gassani è uno dei più famosi avvocati matrimonialisti italiani. Nel suo studio legale tante coppie famose hanno concluso il loro comune percorso di vita. Autore del libro “La guerra dei Rossi”, Gassani racconta anche le storie di chi, dopo essersi giurato “amore eterno”, ha cambiato idea. Una situazione che adesso riguarda pure Francesco Totti e Ilary Blasi. La loro separazione, con le dichiarazioni dell’ex campione della Roma al Corriere della Sera, sta facendo ancora più rumore. Disegna scenari che con tutta probabilità si realizzeranno negli studi legali e, forse, in tribunale.

Avvocato Gassani, la rottura della ex coppia Totti-Blasi rispecchia uno dei casi della “Guerra dei Rossi”?

Certo. Purtroppo, quando ci sono determinate dichiarazioni ed interviene la stampa è inevitabile che inizi una “guerra”, che si verifichi una contesa, con la reazione della controparte. Un eventuale accordo, in un contesto del genere, diventa molto più difficile.

L’intervista di Totti al Corriere della Sera è stata una trovata pubblicitaria o l’inizio di una strategia difensiva?

Non saprei rispondere con certezza a questa domanda. Io, per esempio, sono lontano mille miglia da queste vicende mediatiche. Le separazioni e i divorzi, per quanto riguarda i miei clienti, anche quando sono pezzi da novanta, e ne difendo tanti, sono molto lontane dai mass media. Soprattutto, quando ci sono di mezzo dei bambini e quando si sta raggiungendo un accordo. Nel caso specifico, non so se si tratti di una strategia, mi auguro di no, o di una iniziativa di Totti non concordata con gli avvocati.

Ilary Blasi ha risposto con ironia alla lunga intervista rilasciata da Totti. È anche questa una mossa suggerita da qualcuno? Blasi pensa già ai prossimi appuntamenti in tribunale?

Potrebbe essere così, ma potrebbe anche trattarsi di uno sfogo improvviso, estemporaneo, non studiato a tavolino per strategie pubblicitarie o processuali. Non sappiamo chi ha coordinato questa intervista. Non condivido le profanazioni di nessuno quando si è in procinto di separarsi, perché i panni sporchi si lavano in famiglia ed una serie di questioni si affrontano negli studi legali e non sui giornali.

Nelle separazioni a pagare il prezzo più alto sono i figli…

È proprio così. Questo vale per tutti, ma soprattutto i figli dei personaggi pubblici hanno una vita molto condizionata. Vivono molte volte in una cappa di vetro, sono super-protetti, non conducono sempre una vita serena. Nel momento in cui si verificano certe situazioni difficili tutto si ripercuote sulle loro esistenze.

Quando si parla di coppie famose, qualcuno pensa che ci sia una regia da parte degli avvocati nel gestire anche mediaticamente la fine di un comune percorso di vita. Cosa ne pensa?

Io credo che nella stragrande maggioranza dei casi gli avvocati riescano a fare miracoli anche in separazioni difficili. Gli avvocati, il riferimento è principalmente agli specialisti, sanno come trovare gli accordi. Non vorrei che nella vicenda tra Francesco Totti e Ilari Blasi la categoria nel suo complesso possa essere invisa a tutti, perché magari dietro certe situazioni si vede sempre lo zampino dell’avvocato. Nella maggioranza dei casi, lo dicono le statistiche, si arriva alle consensuali. Nel 70% dei casi, quindi, grazie agli avvocati, le separazioni diventano degli accordi. Con questo voglio dire che, se gli avvocati giocassero sulla lungaggine e sul conflitto, le separazioni raggiungerebbero percentuali ben più basse e arriveremmo al dieci percento.

La neutralizzazione delle situazioni conflittuali è dunque la strada migliore da seguire? Gli avvocati delle parti, in base alla sua esperienza, propendono per questa soluzione?

Nella maggior parte dei casi, parlo ovviamente della mia lunga esperienza, avviene questo. C’è qualche collega, che, forse, non essendo esperto in materia, crede di trattare una separazione o un divorzio come una causa di condominio. Quando ci confrontiamo con colleghi che non sono ferrati in materia e non sanno dove ti può portare una causa, diventa molto più difficile lavorare. Nel momento in cui le parti sono rappresentate da specialisti, l’accordo è molto più facile da raggiungere. Direi che è l’approdo naturale.

Nel caso di una ex coppia come quella Totti-Blasi quale potrebbe essere un buon accordo per tutti?

Come succede in tanti paesi d’Europa, dobbiamo imparare a separarci e a divorziare con stile. La civiltà dei rapporti deve essere la base su cui poi fondare un accordo tra le parti. L’accordo deve prevedere, innanzitutto, che nessuno resti in difficoltà né economica né affettiva. È importante che ci sia un contributo adeguato al mantenimento dei figli, che ci sia l’assegnazione della casa a chi gestisce i figli. Ma, soprattutto, è importante che si mantengano l’educazione e il rispetto, perché, tutto sommato, anche se il matrimonio finisce, un tempo ci si è sposati, sono stati messi al mondo i figli e si è investito nella coppia tutto quello che si aveva in una certa fase della propria vita. Mai buttare tutti i capitoli della propria vita nel cestino. In questo dobbiamo imparare molto dagli anglosassoni, che riescono sempre a trovare un accordo, a volersi bene anche quando l’amore finisce e a rispettarsi. Si finisce di essere coniugi, ma non si finisce di essere genitori e occorre condividere tutto ciò che è nell’interesse dei figli.

Totti e Blasi manterranno buoni rapporti? Diventeranno buoni amici, dopo la fine del loro matrimonio?

Alla luce degli ultimi fatti non credo. Spero che possano entrambi sotterrare l’ascia di guerra e riprendere un canale di comunicazione.

Dagospia l'11 settembre 2022. Dal profilo Instagram di Selvaggia Lucarelli

Siamo tutti fermi lì, alla scena in cui #Totti apre la cassaforte, non trova più la collezione di Rolex e allora rapisce le Birkin di Ilary chiedendo il riscatto. L’ha raccontato proprio Totti, quello che fino a qualche mese fa chiedeva discrezione per i figli con un video che pareva girato dal cugino e ora riesce perfino a fare di peggio, con un’intervista al Corriere della sera. 

Intervista che fa rimpiangere perfino i virgolettati di Alex Nuccetelli. Un’intervista sciagurata, evidentemente concordata con chi lo sta affiancando nella sua battaglia legale e pensa che lo stile dei divorzi anni ‘90-2000 in cui vinceva chi tirava fuori più scheletri dall’armadio altrui, funzioni ancora. Mi spiace per Totti e i suoi consiglieri, ma se pensano che un’intervista così rancorosa, indiscreta, volgare possa pagare in termini di reputazione, sbagliano di grosso.

Non funziona il tono vittimistico da eroe maschio che depone lo scudo e non ha la moglie sufficientemente accudente. Non funziona quel “mi ha tradito prima lei” come se gli servisse un’attenuante morale per legittimare i cavoli suoi, e già che ci siamo chiedo anche perdono se sulla fedeltà granitica di Totti, in questi anni, non mi sentirei di giocarmi la macchina. Non funziona ammettere di aver scoperto tradimenti ma di aver fatto finta di nulla. Mica per altro, viene il sospetto che in casa andasse a tutti bene così, finché poi non ti becca Signorini.

Non funziona il tirar fuori il nome della complice di Ilary (Alessia la parrucchiera) roba che manco io alle elementari quando le maestre mi chiedevano con chi avessi rubato le pecore del presepe. Non va bene raccontare di figli “portati via”. Che poi visto che la figlia “portata via” si chiama Chanel, viene pure il dubbio che Ilary, nella confusione generale, stesse tentando di riprendersi una borsa. 

Poi ci sarebbe quel finale esilarante: “Spero in un accordo”. E certo. Dopo questa intervista immagino che siano già a fare un weekend tutti insieme, tipo Facchinetti - Marcuzzi. È più probabile che lei abbia regalato tutta la collezione di Rolex a Roman Pastore, l’amico di Calenda. 

Insomma. Che peccato finire una carriera da calciatore con un autogol così. 

Dagospia l'11 settembre 2022. IL COMMENTO DI MUCCINO AL POST DI SELVAGGIA

Il legale di Totti io l’ho conosciuto bene. L’ho avuta come controparte in un divorzio orribile che ha rovinato un figlio e seminato veleno per 5 anni. Veleno che è rimasto radioattivo con strascichi mai più sanati. Un divorzio cadenzato da illazioni pericolose puntualmente riprese da Chi, un divorzio portato avanti a forza di denunce penali totalmente pretestuose e inventate: 8 in tutto. TUTTE ARCHIVIATE senza fatica. Erano fumo, erano latrare di cani, armi per spaventarmi, erano la tattica e la strategia che questa nota avvocatessa romana adotta schiacciando vite di persone che si sono amate come fossero noci. I figli? Traumatizzati a vita.

L'ATTACCO DI SELVAGGIA. Da corrieredellosport.it l'11 settembre 2022.

"L’intervista di Totti è un misto di rancore, indiscrezione, autogossip, mancanza di rispetto per Ilary, sua moglie per 20 anni, e una strategia pessima, che qualsiasi amico o consulente di buon senso gli avrebbe dovuto sconsigliare. Fortuna che si dovevano proteggere i figli", scrive la nota giornalista ed opinionista tv sul proprio account Twitter.

Ilary Blasi e l’intervista di Totti: «Lei tace per proteggere i figli». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 12 Settembre 2022.

L’unico sfogo con gli amici: «Ho scoperto cose che potrebbero rovinare una cinquantina di famiglie». 

Parlerà quando, come e con chi ne avrà voglia. E la sensazione diffusa è che non si dovrà aspettare troppo per ascoltare la replica di Ilary Blasi. Al momento però la conduttrice dell’Isola dei Famosi deve probabilmente ammortizzare il colpo dell’intervista di Francesco Totti al Corriere della Sera, che forse l’ha colta impreparata o forse no. E sentirsi rinfacciare, nero su bianco, di essere stata la prima a tradire, assestando la spallata finale a un matrimonio in crisi ineluttabile già da tempo, non le avrà certo fatto piacere, insieme alla storia dei Rolex spariti, dei messaggini compromettenti sul cellulare («Vediamoci in hotel», «No, è più prudente da me»), delle sue continue assenze e della presenza costante invece di Noemi Bocchi al fianco del Capitano e tutto il resto.

Per adesso Ilary si è chiusa in un silenzio quasi perfetto. Pesantissimo. Lasciando però trapelare qualche frase significativa tramite il suo avvocato milanese, Alessandro Simeone, che riporta il pensiero materno per Cristian, Chanel e Isabel: «Ho sempre protetto i miei figli e continuerò a proteggerli». Come del resto ha premesso lo stesso Totti, all’inizio del suo sfogo: la famiglia viene prima di ogni altra cosa al mondo. Poi però chi ha parlato con l’ex Letterina va oltre. E aggiunge un virgolettato rivelatore: «Ilary ha visto cose in questi ultimi anni che potrebbero rovinare una cinquantina di famiglie». Una dichiarazione che tra le righe non promette nulla di buono. Per adesso Ilary ha violato la regola del silenzio soltanto sui social, pubblicando su Instagram una storia — probabilmente risalente alla gita nelle Marche di agosto — con la nonna Marcella che prepara le fettuccine fatte in casa e lei che assaggia l’impasto («Amo la pasta cruda»). Ma prende ancora più corpo l’ipotesi di una prossima intervista a cuore aperto, ospite dell’amica di sempre Silvia Toffanin, nel salotto rassicurante di Verissimo, che riapre sabato 17. Per rispondere come meglio crederà alle rivelazioni di Francesco.

Quanto all’aspetto legale, non affatto secondario, nonostante un’ultima, estrema offerta di pace che Totti le ha fatto tra le righe dell’intervista, pare ormai compromessa la possibilità di una separazione consensuale. Di una risoluzione rapida e indolore con l’accordo tra le parti. Se Ilary Blasi avesse voluto davvero una tregua, avrebbe magari rimandato le lunghe vacanze di qualche giorno, invece di partire per quasi due mesi all’indomani del comunicato stampa disgiunto. Da allora — e adesso più che mai — i rapporti tra i due ex, già freddi e ridotti al minimo, sono se possibile peggiorati. Molto probabile che si imbocchi la tortuosa e lunga via giudiziale (il foro competente resta quello di Roma) in tribunale. Con conseguente stillicidio di rivelazioni, colpi bassi e gossip a tutto spiano. Già si comincia.

E così ecco che torna a farsi vivo Fabrizio Corona (a cui Ilary Blasi al GF Vip diede pubblicamente del bugiardo e del «caciottaro») che, sempre su Instagram, prima posta l’intervista di Totti al Corriere e poi scrive: «Il mio telefono sta bollendo, così ho deciso che questa volta una dichiarazione la rilascerò anche io, per puntualizzare alcuni punti lasciati in sospeso quando sono stato letteralmente cacciato fuori da una trasmissione tv condotta da una collezionista di Rolex». E poi aggiunge sibillino: «La settimana prossima vi racconto tutta la verità».

“Mi ha tradito lei”. “Lui cinquanta volte”. I colpi proibiti tra Totti e Blasi. Andrea Ossino su La Repubblica il 12 Settembre 2022.  

Volano gli stracci. E il regista Muccino accusa Bernardini de Pace, l’avvocata dell’ex calciatore: “Ci sono passato anch’io, è una rovina famiglie”

Hanno provato a salvare il matrimonio, «ma non fino in fondo ». Poi le manovre mediatiche per smentire la crisi, «non un grande tentativo». Dunque una tregua durata poco, giusto un’estate, il tempo di affilare le armi, con l’avvocato di Francesco Totti che lo ha raggiunto nel suo regno estivo, a Sabaudia, per studiare le mosse dell’imminente causa di separazione da Ilary Blasi, in vista di un autunno che si preannuncia caldo. I primi colpi sono stati sferrati a mezzo stampa, in una partita mediatico-giudiziaria dove abattere ilcalcio d’inizio è stato il Pupone, con un’intervista rilasciata al Corriere della Sera per frenare le «troppe sciocchezze» che vedrebbero Totti come l’unico responsabile della fine di una storia d’amore e d’affari che sembrava andare a gonfie vele.

Il dietro le quinte era ben diverso. «Mi ha fatto seguire da un investigatore privato, mi hanno messo le cimici in macchina», racconta lui ammettendo di aver spiato il cellulare di Ilary scoprendo perché «lei mi diceva: quest’anno rimango un po’ di più a Milano, torno meno a Roma. Io pensavo: ci credo, hai quest’altro». Secondo Totti, lei aveva un amante, ma il matrimonio era in crisi da tempo.

L’addio al rettangolo di gioco, poi l’allontanamento dalla società, la morte del padre e la lotta contro il Covid: «Quando avevo più bisogno di mia moglie lei non c’è stata. Ma anche io ho delle colpe, avrei dovuto dedicarle più attenzioni». Poi l’incontro con Noemi Bocchi, la cui storia «si è consolidata nel marzo 2022».

E adesso cassette di sicurezza svuotate e i dispetti reciproci. Ilary sarebbe andata con suo padre «a svuotare le cassette di sicurezza e mi ha portato via la mia collezione di orologi… Ci sono alcuni Rolex di grande valore. Sostiene che glieli ho regalati, ma se sono orologi da uomo…», dice Totti. Spiega anche di aver reagito nascondendole alcune borse, «sperando in uno scambio». La tattica non ha funzionato. «Mi rifiuto di pensare che sia una questione di soldi», riflette. Tuttavia la vicenda degli orologi suona come un campanello d’allarme. Perché la posta in gioco va oltre una serie di Rolex.

Ilary è pronta al contrattacco. Se si rendesse indispensabile la conduttrice si confesserebbe a Verissimo, dove lo schema della puntata sarebbe già pronto: «Ilary ha visto cose in questi ultimi anni che potrebbero rovinare una cinquantina di famiglie».

Al momento la scelta è il silenzio. Un «no comment» pronunciato dall’avvocato Alessandro Simeone che tuttavia è molto eloquente. «Ho sempre protetto i miei figli e continuerò a farlo», risponde Ilary Blasi all’intervista rilasciata da Totti.

Tace, per il momento, mentre tutto il mondo intorno a lei continua a parlare. Anche il regista Gabriele Muccino è intervenuto ricordando il suo divorzio con Elena Majoni e il conseguente scontro corredato da denunce. Attacca la legale di Totti, Annamaria Bernardini de Pace: «Io l’ho conosciuta bene. L’ho avuta come controparte in un divorzio orribile che ha rovinato un figlio e seminato veleno per 5 anni», dice ricordando quel «veleno che è rimasto radioattivo con strascichi mai più sanati» e «la strategia che questa nota avvocatessa romana adotta schiacciando vite di persone che si sono amate come fossero noci».

La replica del legale è arrivata subito dopo: «Se l’offesa arriva dalle nullità, vale zero. Se poi la nullità è chi è stato avversario, l’offesa è sospetta. Una vendetta che vale come il tentativo di lanciare il pallone ben oltre i tempi supplementari. A stadio chiuso».

Annamaria Bernardini de Pace, da Mario Chiesa a Totti, l’avvocata che tesse la tela dei divorzi eccellenti. Piero Colaprico su La Repubblica il 13 settembre 2022 

Per alcuni (come Muccino) è una rovina famiglie, per altri la più brava. La strategia della legale, iniziata ai tempi di Tangentopoli

Annamaria Bernardini de Pace è, nella vita e nel lavoro, quello che si definisce una forza della natura. E la natura, si sa, può essere di volta in volta vista come buona o come cattiva. A volte brutale.

La legale specializzata in diritto di famiglia. Chi è Annamaria Bernardini De Pace, l’avvocato divorzista di Totti contro Ilary Blasi: “È la numero 1 in Italia”. Vito Califano su Il Riformista il 12 Settembre 2022 

Francesco Totti si è affidato all’avvocato matrimonialista, divorzista, più famoso d’Italia. Annamaria Bernardini De Pace è una sorta di star anche lei ormai, regina del foro. Il suo nome è ritornato in auge dopo la ri-apertura clamorosa del caso dell’anno, quello della fine della relazione tra l’ex capitano della Roma e la moglie showgirl Ilary Blasi, con un’intervista esclusiva che l’atleta ha rilasciato a Il Corriere della Sera. Bernardini De Pace, proprio sulla scia dello stupore per le parole di Totti, è stata definita nientemeno che fautrice di una strategia che schiaccia “vite di persone che si sono amate come fossero noci” dal regista Gabriele Muccino.

Annamaria Bernardini De Pace ha fondato il suo Studio Legale omonimo nel 1989 a Milano. Cinque le sedi attualmente: anche a Bergamo, Padova, Roma e Ameglia in Liguria. Figlia d’arte, l’avvocato era nata a Perugia da famiglia pugliese il 23 aprile 1948. Padre magistrato, madre avvocato, nonno colonnello dei carabinieri. Bernardini De Pace è stata sposata con Francesco Giordano, dal quale ha avuto due figli, Francesca e Chiara. Lo studio è specializzato in diritto civile con particolare attenzione al diritto della famiglia, della persona e alla tutela del patrimonio.

Segni particolari: la figlia Chiara, secondogenita, veterinaria, è stata sposata con l’attore Raoul Bova. La coppia ha avuto due figli: Alessandro Leon e Francesco. Si è separata nel 2013. L’11 agosto del 2014 la legale scrisse una lettera pubblicata dal quotidiano Il Giornale dal titolo: “Caro genero degenerato, vai e non tornare”. È membro del Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria dal 1987 e consigliere della Società di Psicologia Giuridica di Padova.

Bernardini De Pace è considerata la legale divorzista numero uno in Italia: ha assistito Romina Power, Katia Ricciarelli, Eros Ramazzotti, Rosanna Schiaffino, Simona Ventura, Flavio Briatore. Difende più volentieri gli uomini, oggi, che le donne: “Sono loro il sesso debole, scopro sempre più uomini vittime delle loro donne”. La legale è anche scrittrice: ha collaborato con diversi quotidiani e pubblicato diversi saggi. A conferma della statura di personaggio, il dato degli oltre 16mila follower che seguono il suo account Instagram.

Il post di Gabriele Muccino su Annamaria Bernardini De Pace

A intervenire sull’intervista di Totti a Il Corriere della Sera è stato il regista Gabriele Muccino, che più che dedicarsi alle parole dell’ex capitano della Roma, alla fine della storia o alle argomentazioni dell’ex atleta, ha scritto in un commento il suo pensiero sulla legale, evidentemente facendo riferimento alla strategia adottata per il caso Totti-Blasi. “Il legale di Totti io l’ho conosciuto bene. L’ho avuta come controparte in un divorzio orribile che ha rovinato un figlio e seminato veleno per 5 anni”, ha scritto il regista. 

“Veleno che è rimasto radioattivo con strascichi mai più sanati. Un divorzio cadenzato da illazioni pericolose puntualmente riprese da Chi, un divorzio portato avanti a forza di denunce penali totalmente pretestuose e inventate: 8 in tutto. TUTTE ARCHIVIATE senza fatica. Erano fumo, erano latrare di cani, armi per spaventarmi, erano la tattica e la strategia che questa nota avvocatessa romana adotta schiacciando vite di persone che si sono amate come fossero noci. I figli? Traumatizzati a vita”.

La legale non ha tardato a replicare alle dure parole di Muccino. “Se l’offesa arriva dalle nullità, vale zero. Se poi la nullità è chi è stato avversario, l’offesa è sospetta. Una vendetta che vale come il tentativo di lanciare il pallone ben oltre i tempi supplementari. A stadio chiuso”. L’impressione è che della separazione tra Totti e Blasi se ne parlerà ancora per un bel po’.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

"Ilary mi ha rubato i Rolex". L'accusa di Totti, le borsette sparite e la vera posta in palio. Andrea Ossino su La Repubblica l'11 Settembre 2022.  

Emergono particolari inquietanti dietro la separazione tra l'ex capitano giallorosso e la presentatrice tv. Sullo sfondo un grande impero econonico da spartire

Cassette di sicurezza svuotate, Rolex scomparsi e borsette nascoste. Il dietro le quinte della separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi assume connotati inquietanti, con l'ex capitano che racconta di quando Ilary sarebbe andata con suo padre "a svuotare le cassette di sicurezzae mi ha portato via la mia collezione di orologi". Totti è sconcertato: "Non ha lasciato neanche le garanzie, neanche le scatole.

Totti, la scelta di Ilary Blasi: il no comment per continuare a proteggere i figli. "Ma ha scoperto cose che potrebbero rovinare 50 famiglie". Valentina Lupia, Andrea Ossino su La Repubblica il 12 Settembre 2022.  

Non tarda ad arrivare la replica della conduttrice alle parole del capitano: "Quando si sceglie una linea si deve essere coerenti". Ma intanto su Instagram mangia la pasta all'uovo cruda preparata dall'amata nonna

“Ho sempre protetto i miei figli e continuerò a proteggerli”. La risposta di Ilary Blasi all’intervista rilasciata da Francesco Totti non è tardata ad arrivare.

Ed è il silenzio, per il bene di Cristian, Chanel e Isabel. Nessuna replica, nessun contrattacco mediatico. Il suo avvocato, Alessandro Simeone, spiega che le parole dello storico capitano della Roma non cambieranno, almeno nel brevissimo tempo, la strategia comunicativa e legale scelta dalla conduttrice televisiva da quando è esploso lo scandalo della separazione, con annessi tradimenti, pedinamenti, accuse e frecciatine rilasciate ad amici e quindi arrivate sulle prime pagine dei giornali.

LA RISPOSTA DI ILARY. Valentina Lupia e Andrea Ossino per repubblica.it l'11 settembre 2022.

 “Ho sempre protetto i miei figli e continuerò a proteggerli”. La risposta di Ilary Blasi all’intervista rilasciata da Francesco Totti non è tardata ad arrivare. Ed è il silenzio, per il bene di Cristian, Chanel e Isabel. Nessuna replica, nessun contrattacco mediatico. Il suo avvocato, Alessandro Simeone, spiega che le parole dello storico capitano della Roma non cambieranno, almeno nel brevissimo tempo, la strategia comunicativa e legale scelta dalla conduttrice televisiva da quando è esploso lo scandalo della separazione, con annessi tradimenti, pedinamenti, accuse e frecciatine rilasciate ad amici e quindi arrivate sulle prime pagine dei giornali.

Un dato sembra ormai certo: l’accordo non è stato trovato. La causa per il divorzio è sempre più vicina ed è lì, in tribunale, che Ilari farà sentire la sua voce. Dietro il “no comment” pronunciato con il solito garbo dall’avvocato Simeone si nasconde infatti una battaglia legale che va avanti da mesi e sta per arrivare allo scontro finale.   “La tutela dei miei figli viene prima di tutto, ognuno è responsabile delle sue azioni”, ha spiegato Ilary ad amici e collaboratori con cui questa mattina ha commentato l’intervista di Totti rilasciata al Corriere della Sera. E questo nonostante le accuse, pesantissime, che le ha rivolto l'ex capitano della Roma, compresa quella di avergli portato via dei Rolex.

“Se si sceglie una linea la si porta fino in fondo”, è sostanzialmente la decisione di Ilary, che resta in silenzio mentre tutto il mondo che la circonda continua a parlare di quella che sembrava essere una fiaba, adesso terminata senza un lieto fine. Se poi si rendesse indispensabile, la conduttrice si confesserebbe a Verissimo, la trasmissione dell'amica Silvia Toffanin, lo schema della puntata sarebbe già pronto: "Ilary ha visto cose in questi ultimi anni che potrebbero rovinare una cinquantina di famiglie".

Ilary Totti. Nataia Aspesi su La Repubblica l'11 settembre 2022.

Si attendeva con una certa impazienza di sapere chi avrebbe ceduto per primo, perché va bene voler far finta di tenere un nobile atteggiamento e di impegnarsi a proteggere i figlioletti che comunque chissà quante già ne hanno viste. Di solito cede il più fragile e vendicativo, affinché potersi descrivere come Cosetta dei Miserabili, o la Piccola Fiammiferaia di Andersen, o addirittura la Principessa Diana, che raccontò alla televisione di un marito tipo Enrico VIII (oggi comunque re Carlo III con altra consorte e regina). 

E infatti non è stata la Blasi che ha un’aria sicura, a rompere il virtuoso silenzio, ma il Totti, l’uomo, il gentiluomo, l’eroe, il capitano della Roma. Il campione dei campioni, il grande, il marito, il cornificante, il cornificato, il babbo: che sentitamente ringraziamo per averci distratto, anche se non per poche ore, da una Meloni che non sta zitta un secondo trascinandoci storditi nel buio come fosse il Pifferaio Magico. L’impervia impresa l’ha mirabilmente condotta Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera, gettando nel panico non solo i fan del calciatore come se calciasse ancora, ma anche gli abili ladri stradali di Rolex visto che Ilary, veloce come il demonio, ha confiscato quelli dell’ex marito da una (immagino di molte) cassetta di sicurezza; e pure le commercianti del vintage, pensando a tutto quel ben di dio, un tesoro di borse certamente firmate, forse anche numerate e chissà dove nascoste da Francesco.

Pare che esistano separazioni eleganti, tutti d’accordo anche i figli perché insieme si stava peggio e soprattutto poi c’è denaro per tutti che alla fine è quel che conta. Quindi almeno lei, la mamma in via di divorzio, poteva accontentarsi della figura non del tutto esemplare sfuggita con l’intervista al pover’uomo evidentemente molto agitato. Invece no, semizitta per ora ma minacciosissima per le prossime: dirà tutto a Verissimo! Alla Toffanin! che per il suo popolo,  credo, conti più di un quotidiano (di carta poi!) e di una sua grande firma. E poi, thriller!  In questi  ultimi anni, dice, lei ha visto cose, evidentemente spaventose, che se le dicesse, rovinerebbero una cinquantina di famiglie! Cose in combutta con Totti? Totti e suoi cinquanta tradimenti che guai se lo venissero a sapere cinquanta mariti? O quali altre diavolerie tottiane, da parte di un uomo che pareva un angelo prima di incontrare la sua seduttrice rovinafamiglie?

Non si capisce perché coppie che passano la vita a separarsi e farsi dispetti poi pretendano che ci sia chi abbia il dovere di vivere quella che viene chiamata erroneamente una fiaba (e la strega dove la metti, e pure l’orco) che tra l’altro sarebbe così soporifera che neppur le corna aiuterebbero. Non è stato il caso di Blasi e Totti, e forse in quasi tutti gli amori, anche i più riusciti, c’è il momento di squallore, miseria umana, odio, cose di cui arrossire  per sempre: come la desolazione di una terza persona paraninfa, in questo caso dei tradimenti di Ilary, cioè la parrucchiera Alessia; già antipatica la cosa, misero il Totti a rivelarlo al popolo. Il Totti delle meraviglie sul campo che spia nel telefono della moglie, poi si dà da fare per scoprire con chi lo sta tradendo, uno che per di più a lui non piace. ‘E forse ce ne sono altri…’ 

Che le coppie si tradiscano non è una rarità ma in questa storia c’è una differenza: di solito chi è, o si racconta come vittima della separazione, è la donna, anche se carnefice, questa volta è lui, il maschio, che lamenta oltre alle corna, la propria fragilità, l’indifferenza della sposa, la crudeltà del fato. La fine del suo glorioso mestiere, la paura poi del nulla, ‘ma io soffrivo da tempo’, poi ‘è morto papà mio’ di Covid, poi il Covid l’ha preso lui, violento, e ‘lei non c’era, quando avevo più bisogno’, e frequentava altri uomini ‘un po’ troppo da vicino’,  Si è tenuto tutto  dentro… ha mandato giù…soffriva come un cane…è caduto in depressione…non era più lui…ne è uscito grazie a Noemi…ha negato lui, ha negato lei, le corna le hanno negate tutti e due, poi finalmente si sono detti: ebbene sì, ti ho fatto becco/a.

Come tutte le coppie in guerra che se ne fanno di ogni colore anche davanti ai figli, in quanto genitori di Christian, 17 anni, Chanel 15, Isabel 6, i due hanno un solo pensiero, proteggerli dall’orrendo casino in cui li hanno sprofondati: babbo raccontando al mondo che mamma va a letto con altri, mamma  in attesa di chissà che sfracello, fa le tagliatelle con nonna. Ma quale terribilissima arma ha in mano Ilary? Cosa teme Totti? Perché non ce l’ha fatta a stare zitto? Proibiti i sondaggi politici, emozionateci con quelli su questa storia.    

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 12 settembre 2022.

E dunque tutto è cominciato con lei. Anzi, grazie a lei (o per colpa sua, dipende come la si vede): Alessia Solidani, la parrucchiera (o hair stylist che dire si voglia) ma soprattutto la migliore amica di Ilary Blasi da almeno vent' anni. La confidente che tutto sa e niente racconta in giro, leale, fedele e soprattutto muta, dote che non ha prezzo. 

La complice perfetta. Lei e Ilary si conoscono da quando erano due belle ragazze in cerca di celebrità. Poi ognuna ha trovato la sua strada, chi più sfolgorante e chi meno.

Ilary diventa Letterina a Passaparola , Alessia apre il suo primo negozio, dopo aver fatto pratica in quello della mamma. E la carriera vola per entrambe. È Alessia a pettinare Ilary per il gran giorno del matrimonio con il numero 10 giallorosso (a cui dice di volere comunque molto bene) il 19 giugno del 2005. Sue sono le parrucche bizzarre che la showgirl sfoggia in tv («Con lei puoi fare qualunque cosa, Ilary è una che sperimenta»). 

Alessia, 48 anni (l'amica del cuore ne ha 41), pure lei sposata - certo non in diretta tv e con l'eterno Capitano della Roma (ma con Ettore Pinaroli, imprenditore) però felicemente, se dobbiamo dare retta ai sorrisi e ai cuoricini postati ancora pochi giorni fa su Instagram, due figli - ha ormai cinque saloni (o salon, più chic, come recita l'insegna) nelle zone più strategiche di Roma: Monteverde, Prati, Parioli, Talenti, Eur. Motto aziendale: «Chi esce dai nostri salon è sempre a prova di red carpet ». 

E infatti alle abili forbici di Alessia si affidano ormai molte vip. Sabrina Ferilli, Michela Quattrociocche e Michelle Hunziker: il long bob asimmetrico e platinato che sfoggia da più o meno una settimana è made in Solidani. Con Ilary però il rapporto è sempre andato oltre. La conduttrice dell'Isola dei Famosi se l'è portata dietro in ogni trasferta, spesso in vacanza. Era con lei al ristorante giapponese, appena rincasata dalla crociera in Croazia. E l'altro giorno a pranzo all'hotel De Russie.

 E sarebbe stata proprio Alessia - era già trapelato prima, ma adesso lo conferma pure Totti - a presentarle più di un anno fa il misterioso uomo dei messaggini compromettenti scoperti sul cellulare. E che sarebbe poi Cristiano Iovino, personal trainer muscoloso e tatuato (l'ultimo decoro a inchiostro, dopo lo scorpione sul bicipite, è un fiore sul collo, magari una dedica) look da motociclista Harley-Davidson, operativo tra Roma e Milano, anche se - sfogliando il profilo Instagram - in perenne e avventurosa vacanza tra Indonesia, Mykonos, Colombia, Ibiza. 

Al momento il baldo Iovino è appena rientrato a Milano ed è corso in palestra. La presenza di Alessia avrebbe facilitato spostamenti e incontri e allontanato sospetti intorno ai lunghi e frequenti soggiorni milanesi di Ilary, impegnata in tv con Mediaset per molti mesi all'anno. Lontana dagli occhi e ancora più lontana dal cuore. 

Lui, lei e gli altri sul carrozzone. Dalla parrucchiera complice al pr che promette rivelazioni. Un cast che sembra un film trash. Matteo Basile il 12 Settembre 2022 su Il Giornale.

C'è chi ha retto il gioco per la relazione clandestina e chi difende lo storico amico. E i social si scatenano

Lui, lei, l'altro, l'altra. E tanti altri ancora per un cast che più da telenovela sembra da filmetto trash anni '70. Se il triangolo firmato Renato Zero descriveva una situazione sentimentale caotica, l'affair Totti-Blasi è un casino trash in cui manca solo l'Alvaro Vitali di turno che spia dal buco della serratura. Perché oltre a Francesco e Ilary ci sono altri personaggi che aggiungono pepe ma anche un velo di tristezza.

Mentre è noto il nuovo flirt dell'ex capitano della Roma ed è caccia all'uomo (o agli uomini) del mistero della showgirl, ecco irrompere la parrucchiera e il pr. Anzi, l'hair stylist che fa molto più figo. Fatto sta che Alessia Solidani è colei che si prende cura delle chiome delle vip di Roma e dintorni. E oltre a quello, di Ilary pare essere grande amica. Tanto che stando alle parole del Pupone giallorosso, avrebbe retto er moccolo a Ilary e all'uomo del mistero suo. Messaggini e appuntamenti da lei organizzati, lontano da occhi curiosi, non fosse che quei messaggini Totti gli ha beccati sul telefono di Ilary. Ah, la tecnologia. Fatto sta che la hair stylist che vanta diversi saloni nella capitale e che sfoggia sui social foto taglia e pettina con Michelle Hunziker, Sabrina Ferilli, Laura Chiatti, Federica Nargi e altre bellissime vippone, non si sa quanto sia affranta per essere stata tirata per il ciuffo. A Fanpage ha detto «Sono stata messa in mezzo pubblicamente da sono persone che stanno soffrendo, quindi lo capisco». Ma intanto, volente o nolente, sai che pubblicità? Oltre 66mila followers su Instagram, un migliaio più di ieri, ma proprio sui social anche tanti messaggi di insulti dal banale «Perché ti sei messa in mezzo» fino a parole quasi irripetibili. Perché noi siamo fatti così, tifiamo e urliamo. O con lei o con lui (ci sarebbe anche l'opzione chissenefrega eh) dividendosi come e anche peggio che allo stadio. E con i social tutto viene esasperato tirando fuori la parte peggiore del vojeurismo militante.

Chi ha scelto, da tempo, da che parte stare è un altro protagonista, ahinoi, dell'affair, il pr Alex Nuccetelli, amico di vecchia data di Francesco e a suo dire il padrino della storia tra lui e Noemi. Sta cor capitano, manco a dirlo. Tanto che oggi sarà in tv ai Fatti vostri su Rai due. Il palestratissimo comunicatore promette scintille ai suoi quasi 14mila followers su Instagram: «La ruota gira sempre. È finito il tempo del perdono sta iniziando il tempo del giudizio. Vediamo chi sono i signori e chi sono le signore». Prontissime rivelazioni contro lei e a favore di lui, con tanto di messaggini e foto e chissà che altro che confermerebbe quanto raccontato da Totti sulla nascita della sua tanto paparazzata relazione.

Sotto a chi tocca, venghino siori e siore. Ce n'è per tutti. Il reality show con vista Cupolone è appena cominciato. Daje!

La separazione tra l'ex capitano della Roma e la showgirl. Chi è Alessia Solidani, la parrucchiera “terza persona” tra Totti e Ilary Blasi: “Faceva da tramite con un altro”. Vito Califano su Il Riformista il 12 Settembre 2022

Francesco Totti ha parlato di una terza persona che faceva da tramite tra Ilary Blasi “e un altro”. E quella terza persona era “Alessia, la parrucchiera di Ilary, la sua amica”. La storia della separazione tra l’ex capitano della Roma e la showgirl, genitori di tre figli, che ha tenuto banco negli ultimi mesi è ritornata prepotentemente alla ribalta della cronaca con l’intervista che ha rilasciato l’ex calciatore a Il Corriere della Sera.

Totti, oggi legato in una relazione con Noemi Bocchi, ha raccontato di non essere stato lui il primo a tradire. “Lei mi diceva: quest’anno rimango un po’ di più a Milano, torno meno a Roma, e io pensavo: ci credo, hai quest’altro… Ma speravo ancora che non fosse vero”. Il calciatore ha detto di essere stato avvisato da alcuni amici, ha detto di aver spiato il telefonino della moglie. “Non l’avevo mai fatto in vent’anni, né lei l’aveva mai fatto con me. Però quando mi sono arrivati avvertimenti da persone diverse, di cui mi fido, mi sono insospettito. Le ho guardato il cellulare. E ho visto che c’era una terza persona, che faceva da tramite tra Ilary e un altro”.

Secondo l’ex Numero 10 giallorosso la parrucchiera, amica e confidente della showgirl, sarebbe stata una sorta di complice. E precisiamo: sarebbe stata, sempre e solo secondo l’ex atleta. Tutto da dimostrare. Si chiama Alessia Solidani ed è confidente e amica, forse la migliore, di Ilary Blasi da almeno vent’anni. Da prima che Blasi diventasse famosa come Letterina a Passaparola. Solidani ha aperto il suo primo negozio dopo aver fatto pratica in quello della madre.

Possiede ormai cinque saloni tra Monteverde, Prati, Parioli, Talenti ed Eur. È stata lei a pettinare la sposa il 19 giugno 2005, il giorno del matrimonio. E sempre lei è l’autrice dei look della showgirl in televisione. Ha 48 anni ed è sposata con l’imprenditore Ettore Pinaroli. Tra i suoi clienti altre vip come Sabrina Ferilli, Michela Quattrociocche e Michelle Hunziker.

Francesco Totti l’ha tirata in ballo: sarebbe stata lei a presentarle il presunto amante o almeno a giocare un ruolo simile a quello di una tramite. “La presenza di Alessia avrebbe facilitato spostamenti e incontri e allontanato eventuali sospetti intorno ai lunghi e frequenti soggiorni milanesi di Ilary, impegnata in tv con Mediaset per molti mesi all’anno”. Si tratta di accuse, tutte da dimostrare, niente di provato, lo chiariamo, cui per il momento non sono seguite dichiarazioni da parte dell’hairstylist.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

"Io tradito", "Ho visto cose...". Guerra aperta tra Totti e Ilary. L'ex calciatore si confessa: "Lei infedele, ho le prove". La showgirl non ci sta: "Rovina-famiglie non sono io". Matteo Basile il 12 Settembre 2022 su Il Giornale.

Giovani, belli, ricchi, famosi e di successo. E innamorati. La famiglia modello. Ammirati da tutti, invidiati da molti. Finché il castello del mulino bianco non si sgretola mattone dopo mattone e crolla facendo tanto, tanto rumore. Perché se anche nelle famiglie migliore l'amore può finire e i rapporti si possono spezzare, se la famiglia in questione è quella composta tra Francesco Totti e Ilary Blasi, allora il vecchio assunto di voler lavare i panni sporchi in casa diventa complicato. E, inevitabilmente, un fatto privato diventa di dominio pubblico. Dopo gli appostamenti, i gossip, il vociare e i guardoni dal buco della serratura, arrivano le parole. Dure, nette che invece di mettere un punto su quello che è diventato il caso dell'estate alimentano nuove voci e polemiche. Un durissimo botta e risposta, con l'intervista al Corriere della Sera di Francesco, e la replica tramite parole riportate di Ilary.

«Ho letto troppe sciocchezze, troppe bufale. Alcune hanno anche fatto soffrire i miei figli. Ora basta», esordisce Totti nell'intervista in cui pur cercando ancora una via d'uscita amichevole con l'ex consorte, la attacca frontalmente cercando di scrollarsi di dosso buone parte delle responsabilità che gli sono state attribuite. Prima fra tutte: «Non è vero che sono stato io il primo a tradire», smentendo le voci secondo cui il matrimonio sarebbe finito per la sua storia con Noemi Bocchi. «Ci frequentavamo come amici. Dopo Capodanno è diventata una storia e si è consolidata nel marzo 2022», ha detto, aggiungendo che sarebbe stata proprio Ilary ad essere infedele. «A settembre dell'anno scorso sono cominciate ad arrivarmi le voci: guarda che Ilary ha un altro. Anzi, più di uno. Mi pareva impossibile. Invece ho trovato i messaggi», ammettendo di aver sbirciato il cellulare della compagna a caccia di conferme. «Soffrivo come un cane, ma non ne ho parlato con nessuno. Quello che posso dire è che c'era una terza persona che faceva da tramite tra lei e l'altro: Alessia, la sua amica parrucchiera. Ho spiato il cellulare di Ilary per la prima volta in 20 anni quando mi sono arrivati avvertimenti da persone di cui mi fido, mi sono insospettito». Top secret l'identità del terzo uomo. Tra chi parla di un attore, chi di un collega di Ilary. Totti non fa nomi. «È una persona totalmente diversa da me, che appartiene a un mondo lontanissimo dal mio. È stato uno choc. Non solo che Ilary avesse un altro ma che potesse avere interesse per un uomo del genere», spiega l'ex capitano della Roma. Aggiunge di non aver detto nulla, di aver tenuto il segreto per sé sperando in un riavvicinamento ma di aver sofferto molto aggiungendo che quando aveva bisogno «Ilary non c'era» e di essersi salvato dalla depressione grazie a Noemi, specie dopo la scomparsa del padre per il Covid.

Il racconto di un uomo tradito e distrutto. Ma la verità di Ilary è un'altra. Non parla, per ora, ma fa trapelare che «ha visto cose in questi ultimi anni che potrebbero rovinare una cinquantina di famiglie» e anche che «la tutela dei miei figli viene prima di tutto, ognuno è responsabile delle sue azioni», facendo intendere che no, non c'è solo una verità. Come sempre accade in caso di rottura. Quel che è vero è che il castello è crollato. E che la telenovela dell'estate proseguirà anche in autunno.

Gossip, tradimenti, ripicche: tutte le tappe della crisi Totti-Ilary. I litigi, le smentite, gli allontanamenti. Poi le indiscrezioni, le paparazzate e la rottura ufficiale. Tutte le tappe della crisi tra Ilary Blasi e Francesco Totti, l'ultima telenovela nazionalpopolare. Marco Leardi il 12 Settembre 2022 su Il Giornale.

Litigi, allontanamenti, smentite. Indiscrezioni, frasi sibilline e indizi. Fino alla rottura ufficiale: al sogno infranto tra i rancori. La crisi tra Ilary Blasi e Francesco Totti non è mai stato un semplice gossip; nell'italico immaginario nazionalpopolare, infatti, il famoso calciatore e la showgirl rappresentavano l'emblema della coppia perfetta. L'icona di un amore da copertina. Anche nelle migliori storie, però, il colpo di scena è sempre dietro l'angolo e così le progressive incomprensioni tra i due volti noti hanno assunto i contorni di una telenovela a puntate.

L'odierno sfogo pubblico del Pupone ("Non ho tradito io per primo...") è stato solo l'ultimo episodio di un intricato tira e molla. Il più recente tassello di un mosaico sentimentale che, giorno dopo giorno, si stava sgretolando. Sì, perché il grande strappo tra Ilary e Francesco è arrivato solo alla fine di lungo percorso a ostacoli per molti tratti raccontato solo attraverso i rumors.

Totti-Blasi, la lite

Le prime avvisaglie di una crisi tra i due erano state registrate dalla stampa nel febbraio scorso. A lanciare la bomba era stato il sito Dagospia, parlando di una lite coniugale scoppiata durante una gita fuori porta, nella zona dei Castelli Romani, con i tre figli e una coppia di amici. Secondo il portale di Roberto D'agostino, quel bisticcio sarebbe stato solo l'ennesimo sfogo all'interno di un rapporto ormai incrinato da tempo.

Totti: "La crisi? Fake news"

Marito e moglie, lì per lì, avevano replicato ai gossip gettando acqua sul fuoco. Dapprima, senza rilasciare alcun commento, era stata Ilary a rassicurare tutti sulla tenuta della coppia, postando su Instagram una storia della famiglia riunita a cena. A rompere il silenzio sarebbe stato poi Francesco, con uno sfogo affidato sempre ai social. "Nelle ultime ore ho letto sui media tante cose su di me soprattutto sulla mia famiglia. Non è la prima volta che mi succede di sentire queste fake news. Mi rivolgo a tutti voi che scrivete tutti queste cose di fare attenzione: perché di mezzo ci sono i bambini. E i bambini vanno rispettati", aveva lamentato l'ex campione giallorosso, apparendo particolarmente contrariato.

Totti e Noemi, la nuova fiamma

Nel frattempo, però, sulla stampa comparivano indizi che sembravano avvalorare la tesi della crisi di coppia. A fine febbraio, infatti, sembra Dagospia aveva pubblicato una foto nella quale il Pupone appariva allo stadio Olimpico seduto non distante da una 34enne romana, Noemi, ritenuta da alcuni la sua nuova fiamma. Sempre secondo Dago, i due si stavano frequentando già da qualche mese. "La nostra storia è iniziata dopo Capodanno e si è consolidata nel marzo 2022", ha ammesso oggi il calciatore, ripercorrendo anche quel periodo.

Ilary smentisce la crisi

Nelle settimane successive, Ilary Blasi si era però presentata negli studi di Verissimo e alla corte di Silvia Toffanin aveva smentito le voci sulla fine del proprio matrimonio con Francesco. "E' stato vergognoso. Hanno dato per certa la notizia e invece hanno fatto una grande figura di m...", aveva affermato. Con altrettanta fermezza, in una successiva intervista a Belve, la showgirl aveva però pronunciato una frase apparsa a molti sibillina: "La nostra storia non potrebbe sopravvivere a un tradimento? No, né dell’uno né dell'altra".

Totti-Blasi, la separazione è ufficiale

Dopo un susseguirsi di sussurri, smentite e indizi di tenore opposto, la tanto vociferata crisi tra Ilary e Francesco diviene però ufficiale e definitiva in piena estate. L'11 luglio, i due comunicano la loro separazione con dei comunicati disgiunti, ulteriore segnale delle divergenze in corso. "Dopo vent'anni insieme e tre splendidi figli, il mio matrimonio con Francesco è terminato. Il percorso della separazione rimarrà comunque un fatto privato e non seguiranno altre dichiarazioni da parte mia", annuncia la Blasi. E Totti: "Ho tentato di superare la crisi del mio matrimonio, ma oggi capisco che la scelta della separazione, pur dolorosa, non è evitabile". Tramonta così quella storia d'amore coronata nel 2005 con un matrimonio in diretta tv.

Francesco-Ilary, l'estate dei gossip

A ventiquattro ore esatte dall'annuncio della separazione dal marito, Ilary torna a mostrarsi sui social per documentare il proprio viaggio in Africa insieme alla sorella Silvia e ai figli Chanel, Cristian e Isabel. Senza Totti, ovviamente. Intanto sui giornali compaiono già le stime economiche sulla spartizione dei beni milionari della coppia e si torna ancora a parlare della relazione tra il Pupone e Noemi. L'ex calciatore, infatti, viene avvistato in piena notte mentre esce dalla villa che la giovane ha affittato al Circeo. I due sarebbero stati paparazzati poi anche in un locale a Terracina. Nella calda estate dei gossip si era diffusa anche la notizia di un riavvicinamento tra Totti e Ilary, smentita di fatto da quest'ultima con una foto che la ritraeva alloggiata in un hotel romano.

L'ultima puntata

Una telenovela a cui oggi si è aggiunta un'altra cruciale puntata: quella dell'intervista di fuoco rilasciata da Totti e seguita da un glaciale no comment della moglie. Un punto di non ritorno destinato a riservare nuovi sviluppi alla movimentata vicenda. Che, come ha rimarcato Totti, probabilmente è destinata a sbarcare dalle prime pagine alle aule dei tribunali.

I tradimenti e le ripicche. Tra Totti e Ilary è la "guerra dei Roses". Dall'autunno 2021 a oggi Francesco Totti e Ilary Blasi hanno proseguito la loro storia nonostante la crisi tra dispetti, ripicche e tradimenti. Novella Toloni l'11 Settembre 2022 su Il Giornale.

Alla fine tra Ilary e Francesco sembra essere proprio la "Guerra dei Roses". La trama sembra la stessa: lei gli confessa di non amarlo più e vuole la casa per sé. Lui cerca un accordo e punta sulla convivenza forzata, che però si trasforma in uno stillicidio tra ripicche e vendette. Michael Douglas e Kathleen Turner alla fine si uccidono, ma il finale nella storia tra i due romani non sembra essere troppo diverso.

"Temo che con Ilary finirà in tribunale". Quanto è stata (ed è ancora) profonda la crisi tra Francesco Totti e Ilary Blasi sta tutta nell'ultima frase, che il Pupone ha detto nell'esclusiva intervista rilasciata al Corriere della sera. Con l'ex moglie non finirà bene. Ma che tra loro fosse in atto una vera e propria "guerra" in stile Roses era chiaro da tempo. Mancavano solo i dettagli, quelli pruriginosi, che Totti ha svelato senza troppi giri di parole.

"Cercavo un accordo. Non volevo finire in tribunale - ha raccontato l'ex capitano della Roma - Così ho proposto: pensiamo prima ai figli, lasciamo la casa a loro, e noi ci alterniamo, facciamo tre giorni per ciascuno. Non volevo vedere i ragazzi con la valigia in mano, tra l'Eur e Roma Nord. Ma Ilary ha detto no. Allora le ho proposto di dividere la casa, in fondo è grande. Oppure di prenderne una tutta per lei. Niente da fare: in casa vuole restare soltanto lei, e basta". L'esito di una crisi iniziata da lontano tra mancanze, tradimenti e dispetti.

La "guerra" è iniziata nell'autunno 2021, quando Totti ha scoperto alcuni messaggini compromettenti della moglie con un altro uomo del tipo "vediamoci in hotel; no, è più prudente da me". Da quel momento Francesco è entrato in crisi, non ha rivelato niente alla moglie, ma iniziato a frequentare in amicizia Noemi Bocchi, conosciuta durante un torneo di padel. Una conoscenza che si è trasformata in qualcosa di più, ha detto lui stesso, a Capodanno. A quel punto escono le foto su Dagospia di Noemi e Francesco allo stadio e la Blasi chiede spiegazioni al marito, che a sua volta chiede conto del flirt con l'uomo misterioso (del quale Totti non vuole rivelare l'identità).

"Non ho tradito io per primo". Ecco le prime parole di Totti su Ilary

I due provano a ricucire il rapporto "ma non fino in fondo" e scattano le ripicche. Totti chiede di fare un comunicato congiunto sull'addio ma "Ilary non ha voluto: perché era andata in tv a negare, ad assicurare che andava tutto bene; e non poteva rimangiarselo". Lui cerca un accordo per evitare che i figli passino il tempo con la valigia in mano dividendosi tra papà e mamma, ma lei rifiuta e parte per la Tanzania con i figli. "Una vacanza pagata da me", si lamenta il Pupone, che parla di un crescendo di ripicche: "Con suo padre è andata a svuotare le cassette di sicurezza, e mi ha portato via la mia collezione di orologi. Non ha lasciato neanche le garanzie, neanche le scatole".

Un tesoretto fatto di Rolex di valore, che la Blasi sostiene di avere ricevuto in dono dall'ex. "Un dispetto", lo ha definito il calciatore, che per contro ha nascosto a Ilary tutte le sue borse: "Che dovevo fare, speravo in uno scambio". Che in realtà non c'è mai stato. Finita qui? Macché. Sempre secondo il racconto di Totti, Ilary Blasi avrebbe fatto seguire Francesco da un investigatore: "Persone a lei vicinissime mi hanno messo le cimici in macchina, e il gps per sapere dove andavo; quando bastava che me lo chiedesse. Altre persone si sono appostate sotto la casa di Noemi". Una storia triste per un epilogo ancora più triste di un amore durato vent'anni.

Da adnkronos.com l'11 settembre 2022.

"Quando a febbraio diedi la notizia che il matrimonio di Francesco Totti e Ilary Blasi era al capolinea, mi si scatenò contro un'intera città. Pubblicare quella notizia voleva dire mettersi contro tutta Roma, che ha nei confronti di Totti un fervore che supera quello per il Papa: piuttosto che dire che Totti era cornuto, sarebbe stato meglio che gli avessi toccato la madre. 

Ho ancora una sfilza di mail e di insulti, Ilary stessa, ospite dalla sua amica Toffanin disse che erano 'secchiate di merda'. Ma sono abituato, quando vai in alto è chiaro che i venti sono contrari". A dirlo all'Adnkronos è Roberto D’Agostino, che fu il primo, nel suo sito 'Dagospia', a rivelare al pubblico la notizia della fine del matrimonio della coppia più amata del calcio italiano. 

Nel giorno della clamorosa intervista di Francesco Totti al Corriere della Sera, 'Dago' ripercorre i momenti dello scoop. "La miccia fu un evento successo a Castel Gandolfo e ripreso dalla stampa locale, in cui Totti e Ilary erano andati coi figli a un parco giochi e c'era stata una grande litigata tra di loro - ricorda D'Agostino -. Io partii da quel punto dello scazzo e dissi che ormai erano arrivati al capolinea. Era la goccia che aveva fatto traboccare il fatidico vaso, ma i segnali di una rottura erano partiti molto tempo prima". Infatti "da febbraio, sono passati appena sei mesi quando ho pubblicato l'annuncio che avrebbero fatto un comunicato che sanciva il divorzio". 

La notizia però, rivela il giornalista, nell'ambiente era nota. "Era come togliere un velo, che molti giornali sportivi conoscevano benissimo, ma chi si mette contro una persona che rappresenta una città?". La soddisfazione "di aver fatto bene il mio lavoro è accompagnata anche da una grande tristezza", ammette Dago. 

Tristezza "che trasuda da ogni riga in quell'intervista". L'impressione, leggendo il colloquio del 'pupone' con Aldo Cazzullo, è che "sono abituato a leggere interviste di attori, politici, sportivi dove raccontano tragedie di ogni sorta, poi leggi quest'intervista e senti che è un'intervista diversa, emotiva, non è cerebrale, non è un tentativo di acchiappare cover, clik o like, l'autogossip che ormai fanno tutti i personaggi noti. Nel caso di Totti mi ha colpito molto il dolore che traspare dalle sue parole. L'emotività l'ho trovata fortissima. Una delle poche interviste in cui si sente l'anima che sanguina".

Per l'esperto di gossip più noto del Paese "si può immaginare la depressione che colpisce una persona che ha superato i 40 anni, ha attaccato gli scarpini al chiodo, ha fatto solo questa vita, e ora si ritrova che ad un certo punto il sipario si chiude e ha lo spettro devastante di finire nel cono d'ombra. Si dirà, coi guadagni che hai fatto quale depressione... ma la depressione è lì e non c'è nessuna aspirina che possa salvarti". 

Totti ha fatto bene a parlare? "Sinceramente sì, ha fatto bene - dice D’Agostino -. Perché in qualche modo sinora era lui visto come il traditore. E ha avuto anche molto coraggio. In sostanza ha detto che Totti è cornuto, questo ha detto. Ci vuole un grande coraggio per dire questo. Secondo me gli sarà costato molto giocare questa partita, la partita più dura della sua vita".

Nessun divorzio è elegante (se guardato troppo da vicino). La gente comune può separarsi in pace. Totti e Ilary no. E così non stupisce che vinca la cafonaggine. Valeria Braghieri il 12 Settembre 2022 su Il Giornale.

È capitato anche a noi di smettere di stare con qualcuno, di separarci. E senza che nessuno (o quasi) se ne accorgesse. Non ci siamo mai resi conto della grazia di questo privilegio.

Ognuno reagisce a modo suo, ma siamo sempre stati convinti che chiudersi, isolarsi, non venire a sapere più nulla per un po', dividere mete, libri, ristoranti, amici e case fossero un acceleratore di guarigione. Abbiamo sempre creduto che mettere distanza dalla vita di prima e ovviamente da colui con la quale la condividevamo, servisse a smaltire più in fretta quei crampi di dolore che ti risucchiano lo stomaco da dentro, quelle apnee da fermi, all'asciutto e in pianura. Stare alla larga e in silenzio, protegge principalmente noi stessi, dalla sofferenza che potrebbe procurarci il prossimo (con parole, domande, resoconti sbagliati) e dagli errori che potremmo commettere prima di pentircene. Da silenziati, la rabbia, le ripicche, le cadute di stile (inevitabili), sono più ardui da esprimere. Non dover parlare, spiegare, chiarire con altri ciò che di altri non è, mette al riparo da giudizi e sofferenze. La Regina Elisabetta ne ha fatto il motto di tutta una vita: «Never complain, never explain: mai lamentarsi, mai spiegare». Ecco la formula perfetta secondo noi, anche per la fine di un amore. Poi ci vengono in mente Francesco Totti e Ilary Blasi e non possono non venirci in mente per il semplice fatto che la loro separazione (e tutto il resto) sono ogni giorno su giornali, internet, tv. Loro malgrado, va detto. Ieri l'ex capitano della Roma ha rilasciato un'intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Era la prima volta che parlava dall'inizio della faccenda e in generale il parlare non è, per sua stessa ammissione, il mezzo di espressione che predilige. Fatto sta che dall'intervista emergono particolari «sgradevoli» su Ilary che gli avrebbe sottratto «Rolex da collezione», che quest'estate sarebbe andata a Sabaudia per scippare a Totti la figlia più piccola, Chanel (è tutto di marca in quella famiglia), o è Isabel? Su Ilary che avrebbe «tradito per prima» aiutata tra l'altro dalla sensale-parrucchiera Alessia Solidani. Poi c'è l'ammissione di Totti che, come riscatto per gli orologi, si sarebbe preso le borse di Ilary e c'è la giustificazione goffissima, alla quale non abbiamo creduto affatto, per la foto, scattata già a dicembre, di Noemi dietro di lui allo stadio. «Le pare che mi porto l'amante all'Olimpico?» si schernisce con Cazzullo. Sì Totti, tu l'amante la porti esattamente all'Olimpico. Dove, sei Dio. Dove, se no?... In serata Ilary ha fatto intendere che, anche se aveva deciso di non parlare per tutelare i figli (come aveva annunciato pure Totti peraltro) potrebbe invece farsi intervistare da Silvia Toffanin a Verissimo da dove si fa sapere che «Ilary ha visto cose in questi ultimi anni che potrebbero rovinare una cinquantina di famiglie».

La gente già si indigna dell'ineleganza del tutto: i Rolex, le borse, lei, lui, l'altra, l'altro, il cellulare. Ma noi vorremmo vederla altrettanto da vicino, questa gente. Come si fa a separarsi con dignità, se chiunque può ravanare nelle scorie della tua relazione al termine? Si mette sotto la lente d'ingrandimento esattamente ciò che gli altri hanno modo di nascondere. Non si concede tregua, né pace, né diritto all'oblio. Tutto ciò che chiederemmo e otterremmo noi. Li si fissa come se ogni aspetto della loro vita avesse ormai qualcosa di sconcio.

Hanno solo smesso d'amarsi.

Divorzio alla burina. L’autogol di Totti, le borse di Ilary e la vita formidabile sceneggiatrice. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 Settembre 2022.

Stiamo assistendo a un sequel, questa volta sul lasciaggio, della sottovalutata perla kitsch di Canale 5 “Ho sposato un calciatore”

«Ma davvero tu pensi che io m’ammazzo per te?». «Quando lo fai è sempre troppo tardi». Il dialogo viene dal sottovalutato capolavoro di Canale 5 “Ho sposato un calciatore”, in onda nella primavera del 2005, ma potrebbe tranquillamente stare in quel compresissimo capolavoro che è l’intervista suicida che Francesco Totti ha dato ieri ad Aldo Cazzullo.

Perché l’ha fatto? La domanda ce la siamo fatta tutti tutto il giorno, e come diceva una vecchia canzone risposta non c’è nelle parole; ma non c’è neppure nelle strategie legali, nel buon senso, nel gioco delle parti, nella logica formale. Bisognerebbe mettere in una stanza quelli che pensano che Francesco Totti da quell’intervista guadagni qualcosa, ed esaminarne i cervelli con grandissima attenzione: continueremo a non capire perché Francesco Totti si sia ammazzato, ma di sicuro in quelle sinapsi alterate troviamo la cura per qualcosa.

Un amico ieri m’irrideva perché, il giorno prima, avevamo assistito a una discussione sull’attivismo social in cui una benintenzionata stigmatizzava quelli che ci invitano a risparmiare ma «tengono il Rolex in cassaforte», e io avevo sbeffeggiato quest’idea da commercialista di provincia che il Rolex sia entelechia di preziosità e mica l’orologio per chi non può permettersi gli orologi costosi; e poi ieri è arrivato Totti a dire a Cazzullo che Ilary gli ha rubato i Rolex prendendosi pure le garanzie (sottinteso: per rivenderseli; se le cause per diffamazione italiane fossero quelle americane, Ilary di qui a poco si comprerebbe villa Necchi, o qualunque sia il corrispondente romano).

Sono passati diciassette anni da quando, mentre in Italia arrivava “Ho sposato un calciatore” (rifacimento dell’inglese “Footballers’ Wives”), i giornali inglesi accusavano Wayne Rooney e la fidanzata di cornificarsi con massaggiatrici e baristi, ma soprattutto accusavano lei, Coleen, non di nascondere orologi in cassaforte per fingersi povera, non di arrubbarsi orologi dell’ex per fargli dispetto, ma di aver buttato via per capriccio un anello di fidanzamento da venticinquemila sterline: non ci sono più le grandiosità burine d’una volta.

Totti dice a Cazzullo che ha trovato l’anno scorso messaggi che rendevano evidenti i tradimenti della moglie, e che quindi (sintesi mia) il suo tradimento è un fallo di reazione; Ilary dice a Repubblica che con le cose che ha scoperto lei si rovinano cinquanta matrimoni, facendo intendere d’aver avuto più corna che Rolex. Chissà se troveremo prima su eBay gli orologi che Ilary avrebbe sottratto a lui o le borse che, dice Totti al Corriere, lui per ripicca ha sottratto a lei: tenete d’occhio i nuovi arrivi, magari Francesco Totti non conosce il mercato delle Hermès usate e, oltre a Cazzullo, avremo da guadagnarci anche noialtre, dall’intervista suicida. Una Birkin al prezzo d’una Carpisa val bene qualche panno sporco di milionari sciacquato in pubblico.

C’è un’interessante chiusura di cerchio per cui la serie bruttina su Totti dell’anno scorso, “Speravo de mori’ prima”, l’ha scritta Stefano Bises, che adesso è il più prestigioso nome delle sceneggiature televisive italiane e diciassette anni fa era quello di “Ho sposato un calciatore”. Purtroppo il prestigio professionale in tv funziona così, non col passaggio da giovane promessa a solito stronzo ma con quello da autore di capolavori ad autore di roba inutile ad alto budget. Adesso, però, se non sono tutti scemi, uno sceneggiato sul divorzio Totti a Bises devono farglielo scrivere, ce lo devono, e deve somigliare al capolavoro kitsch del 2005.

Lo farei partire dal 2014, quando Annamaria Bernardini de Pace scrive al Giornale una lettera che comincia così «Caro genero, mi sai indicare il momento in cui da genero devoto sei diventato degenero? Forse quando hai giurato sulla tua bambina che non avevi tradito mia figlia, o quando, molto tempo prima, in segreto, l’avevi già tradita?».

ABdP è avvocato divorzista, e il genero che in quel momento si sta separando da sua figlia è l’attore Raoul Bova. L’avvocato poi dirà che era finzione letteraria, come diciamo – ostentando indignazione per la mancanza di familiarità con l’io narrante – tutte noi che fingiamo di non usare mai e poi mai la scrittura per sputtanare qualcuno.

Otto anni dopo, ABdP, avvocato di Totti, presiede al rilascio dell’intervista suicida (i saperlalunghisti giurano non sia un caso di cliente smanioso di parlare in pubblico e avvocato impossibilitato a contenerlo: anzi, giurano sia il contrario). Quando l’ho letta, l’intervista suicida, mi sono messa a canticchiare «Non siamo mica gli americani, che loro possono sparare agli indiani».

Non siamo mica gli americani, che devono convincere le giurie dando la loro versione dei fatti alla stampa. Non siamo mica gli americani, che hanno qualcosa da guadagnarci a far arrivare ai figli screenshot di risposte in cui si dice che la madre è traditrice e dispettosa e pure scroccona (Cazzullo non chiede a Totti che vuol dire che la recente vacanza di Ilary l’ha pagata lui: le carte di credito di lei sono addebitate sui conti di lui? Se dobbiamo essere la lavanderia dei panni della famiglia Totti, abbiamo diritto di sapere i dettagli).

Non siamo mica gli americani, però per una volta potremmo avere anche noi un notevole parco di personaggi secondari. Totti che scopre le corna con «una persona totalmente diversa da me, che appartiene a un mondo lontanissimo dal mio», e tu pensi sarà almeno Michele Mari, e non dice niente al migliore amico, ma convoca la migliore amica di lei che avrebbe fatto da mezzana. E l’amica di lei è la parrucchiera, e l’amico di lui è il massaggiatore, e l’amante diversissimo è un allenatore da palestra interamente tatuato, e c’è materiale umano più splendido dei ricchi burini?

In “Capote’s Women”, saggio di Laurence Leamer da cui in autunno Ryan Murphy girerà una serie, c’è una scena così magnifica che spero sia l’apertura della prima puntata. Gianni Agnelli sta con Pamela Churchill, già moglie del figlio di Winston. Lei vorrebbe farsi sposare ma lui non ci pensa proprio (quando resterà incinta la farà abortire e si metterà con Marella). Una sera la porta a Villar Perosa, e a una finestra c’è Giorgio – il fratello pazzo, l’Agnelli rimosso – che si mette a sparare con un fucile cercando di colpire la povera Pamela.

Ancora il divorzio Totti non ci ha fornito una scena così grandiosa, ma lasciamo un po’ di tempo ai personaggi d’allargarsi, a Ilary d’andare dalla Toffanin, sua ex compagna di balletti a “Passaparola”, a piangere mentre racconta la convocazione, da parte dell’ex marito, della parrucchiera colpevole d’averle presentato il bellimbusto, e il di lei interrogatorio.

Lasciamo che Chanel Totti – nata due anni dopo che Bises aveva chiamato la burinissima moglie di calciatore televisiva Cristal Ferrari – sbotti su TikTok contro tutti gli amichetti che le hanno mandato le foto dell’intervista in cui papà prima diceva che la sua priorità era proteggere i suoi figli, e poi procedeva a dettagliare le corna di casa e i furti di beni di semilusso. Lasciamo che il capolavoro venga limato dalla vita, che è sempre la più formidabile sceneggiatrice.

Estratto dall'articolo di Fabiana Giacomotti per “Il Foglio” 12 settembre 2022.

Lei va a svuotare la cassaforte con i Rolex, “con la scatola e la garanzia”, che significa manco di fretta per la rabbia, bensì pianificando l'azione come aveva pianificato anche lui il possesso degli orologi, con la scatola e tutto, mica come gli sbadati che si dimenticano il Patek del nonno nel cestino del pic nic e lo ritrovano vent’anni dopo (tratto da una storia vera). 

Lei che si porta via gli orologi e allora ecco lui che le nasconde le borsette, o la borsa o il Rolex e già fioriscono i meme sui social ed è sempre film dei Vanzina. Nessuno mai come loro ha capito la nostra essenza più intima, indagato con maggiore acume i limiti – vicinissimi – dei nostri orizzonti. Milano-Cortina due giri di tic, il Dogui, il Ferrari scritto con l'articolo al maschile e “ciao povery”.

Non sono Ilary Blasi e Francesco Totti, non è il caso specifico. E' il contesto generale. Non ci stacchiamo da lì, l’unico ascensore sociale che conosciamo e ri-conosciamo è quello dello sfoggio pacchiano, del consumo vistoso, the conspicuous consumption come diceva Thorstein Veblen oltre un secolo fa. 

Slippini con la fascia elastica D&G e orologione d’oro, un’estetica unica che unisce il nord e il sud, i fratelli Bianchi, l'imprenditore veneto, il calciatore e la velina media. Un mondo che credevamo scomparso con la politica di Silvio Berlusconi e che invece, proprio come il Cavaliere, non scompare mai anzi torna con gli stessi slogan e gli stessi identici successi.  […]

Per un semiologo, un comunicatore, un sociologo, l’intervista del Corriere della Sera a Francesco Totti è materia di studio straordinaria, e certamente entrerà nei prossimi saggi e nelle future analisi. Vi si trovano sogni, ambizioni, valori della classe media italiana di oggi. […] 

Ecco allora che acquista senso sia la collezione di borse (per la signore della tv, soprattutto romane, la borsetta ha un ruolo identitario che le milanesi, per esempio, ignorano e trovano anche un filo cafone) sia quella di orologi. Per questo, in fondo, la dichiarazione di Totti, mi ha sottratto i Rolex, le ho nascosto le borse, suona al tempo stesso patetica e preoccupante. Perché parla a un mondo culturalmente residuale, e che andrà però a votare fra dieci giorni.

Da leggo.it il 12 settembre 2022.

Alex Nuccetelli ospite a I Fatti Vostri ha parlato di come sono i rapporti oggi tra Francesco Totti e Ilary Blasi. Dopo le forti dichiarazioni dell'ex calciatore e la risposta piccata della conduttrice, il loro caro amico è intervenuto in televisione per fare chiarezza sulla coppia. Alex conferma di aver visto Francesco molto depresso nei mesi successivi alla scoperta del tradimento e parla oggi di una rinascita. 

Totti preoccupato

Il noto pr difende Totti spiegando che ha sempre protetto Ilary e che si è sempre preoccupato per lei e della famiglia: «Ogni volta con noi amici diceva che doveva sentire Ilary, che doveva conciliarsi con i suoi impegni per badare ai ragazzi, è sempre stato un marito molto dedito alla famiglia». 

Quando Salvo Sottile gli chiede conferma sul fatto che gli amici sapessero di Ilary, lui conferma dicendo che da tempo c'erano molte voci sulla coppia, ma quando Totti scoprì i messaggi della moglie ne parlò con loro e alcuni hanno spinto affinché la lasciasse. 

Nuccetelli è stato l'amico che ha fatto conoscere i due e ricorda come Ilary, quando lui gli fece presente che Totti aveva un debole per lei, rispose che non era interessata ai calciatori e aveva già una relazione. Pochi mesi dopo invece stavano insieme. 

La coppia ha fatto sognare molti per anni, conferma il pr, poi l'idillio si sarebbe interrotto proprio con la scoperta del tradimento: «Francesco era molto depresso quando ha trovato i messaggi, è stato molto male». 

Noemi Bocchi

Sulla Bocchi, poi, Nuccetelli spiega: «Sapevo della loro relazione, ma è arrivata molto dopo il tradimento di Ilary. I due si sono conosciuti a un evento in cui era presente anche Ilary, Francesco rimase colpito da Noemi, ma poi non c'è stato nulla per mesi e mesi. Lei è una brava donna, mi disse chiaramente che non si sarebbe mai messa con un uomo sposato. Oggi Francesco con lei è rinato». 

Poi, però, quando Sottile gli chiede se Totti è innamorato, Alex replica: «L'amore è un'altra cosa, sicuramente vedo in lui una rinascita però». 

Totti, Ilary e la storia con Noemi Bocchi: «Era depresso, con lei è rinato». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022

Alex Nuccetelli svela un retroscena della nuova vita del Capitano. E intanto Ilary Blasi ostenta tranquillità sui social

Mentre in giro si accettano scommesse su quando apparirà in tv sotto le luci di Verissimo per lo showdown finale (dicono sia già stato registrato, non risulta) Ilary Blasi — in apparenza per nulla impensierita dalle accuse contenute nell’intervista al Corriere di Francesco Totti o dalla deriva giudiziale, e litigiosa, verso cui sembra avviarsi la separazione dall’ex numero 10 della Roma — si diverte a postare su Instagram un video-selfie allo specchio in versione scolaretta, maglietta bianca, gonnellina nera, calzini e mocassino college di Prada (850 euro). Nel frattempo gli avvocati Alessandro Simeone (per lei) e Antonio Conte e Annamaria Bernardini de Pace (per lui) studiano le strategie.

Quanto a Totti e ai suoi Rolex scomparsi, il Capitano deve avere un karma negativo con i preziosi accessori svizzeri. Due anni fa ne smarrì uno e tale fu lo scoramento che mise un annuncio sui social: «Ho perso il mio orologio a cui ero molto legato e con il quale ho condiviso tutta la mia carriera. Mi rivolgo a voi nella speranza che possiate trovarlo. So che è quasi impossibile, ma tentar non nuoce. Si tratta di un D aytona acciaio con quadrante bianco e nel cinturino ha due placchette con la lettera C (Cristian e Chanel). Vi ringrazio in anticipo. Verrò io di persona a prenderlo». Non è noto se fu poi ritrovato, improbabile.

Intanto Fabrizio Corona — sempre da prendere con le pinze — si è scatenato. «Totti e Ilary Blasi si tradiscono da anni», il suo slogan. E su Instagram il turbolento fotografo — che ha inserito lo scatto di una tale bionda e bella Martina, catalogata con il numero 1 (mah) — prometteva formidabili rivelazioni. Invece si è limitato ad una sorta di rebus, con soluzione nel prossimo numero: «Ieri Ilary sui social postava le tagliatelle della nonna, ma la sera era a Milano al compleanno della sua famosa agente che ha ripreso e postato tutto e tutti, lei no però. Poi è arrivato qualcuno noto proprio ora alle cronache. Noi c’eravamo. Vi farò sapere», scrive e allega foto con collo taurino e fitto corredo di tatuaggi.

Ieri invece a I Fatti Vostri su Raidue ha parlato ancora Alex Nuccetelli, l’amico pr e body builder che presentò Ilary al campione giallorosso, ormai 20 anni fa. «Francesco è sempre stato legatissimo alla famiglia e alla moglie. Qualunque cosa gli proponessi mi rispondeva sempre: “Sentiamo che dice Ilary, vediamo cosa vuole fare Ilary», ricorda Nuccetelli. «Più o meno un anno e mezzo fa però ha avuto un momento particolare, era triste, pensieroso, lui che è sempre stato gioioso, divertente». Ed è arrivata Noemi Bocchi. «Si erano già conosciuti a un torneo di padel, in Sardegna, a cui c’era anche Ilary. Francesco l’aveva notata. Poi io ho fatto in modo di farli incontrare di nuovo proprio per questa sua depressione. Noemi però mi diceva: “Non mi interfaccerò mai con un uomo sposato e con figli”. È una brava ragazza. Non so se è davvero innamorato, però con lei Francesco è rinato». E quanto alla frase sibillina dell’ex Letterina Blasi, fatta trapelare tramite amici («Ilary in questi anni ha visto cose che potrebbero rovinare 50 famiglie») Nuccetelli la invita alla prudenza: «Se parli del bene dei figli devi farti un esame di coscienza e andare un po’ più piano».

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 12 settembre 2022.

«È una vicenda tristissima». Ettore Gassani, cassazionista, uno dei principali avvocati matrimonialisti di Roma, una sorta di istituzione quando sul tavolo ci sono pratiche di divorzio e separazione, quantomeno in Italia, si limita a dire questo della vicenda Totti - Blasi che, da un paio di mesi, fa discutere. 

Non tanto la sezione civile del tribunale capitolino che, giustamente, ha la bocca cucita, quanto il gossip in tivù e sui social. «Non conosco gli atti», si premura di dire Gassani, «ho letto come tutti le dichiarazioni degli ultimi giorni e posso solo aggiungere che mi dispiacerebbe se danneggiassero la possibilità di trovare un accordo. Dopodiché non sappiamo chi effettivamente abbia iniziato, non conosciamo i particolari».

Avvocato Gassani, chi ha tradito per primo l'ha chiarito Totti, ieri, in quell'intervista infinita sul Corriere...

«Mi perdoni, la fermo. Parlo da avvocato e in termini generici, non mi riferisco nello specifico al caso Totti Blasi. Il punto è che non possiamo mai sapere se le dichiarazioni siano corrispondenti alla verità dei fatti. Sa, un conto è un quotidiano, un altro il tribunale. 

Da matrimonialista so che una dichiarazione può essere apparentemente molto convincente, ma poi puoi scoprire che le cose non stanno così o che ce ne sono altre. In questo momento, gli unici a conoscere la realtà dei fatti sono i colleghi che seguono i due coniugi».

D'accordo. Ma in termini generali, come dice lei, è chi tradisce per primo che si becca la colpa?

«No. Anzitutto oggi non tutte le infedeltà sono sanzionabili perché il giudice è chiamato a verificare se sia la causa di una crisi coniugale o la conseguenza di una crisi già in atto per altri motivi. Non basta dire: "Tizio mi ha tradito", insomma». 

È una questione di giurisprudenza?

«La suprema corte di Cassazione, negli ultimi anni, ha corretto il tiro su questo aspetto: prima essere beccati con le mani nella marmellata significava in automatico beccarsi anche l'addebito (che, tra l'altro, allora si chiamava colpa), adesso no. Chi ritiene di essere stato tradito deve anche dimostrare che il matrimonio andava a gonfie vele. Posso farle un esempio pratico?».

Prego.

«Se un marito picchia la moglie per anni e lei lo tradisce, la moglie non sarà condannata. O se una moglie rifiuta i rapporti sessuali col marito per anni e lui va con un'altra donna, lo stesso. Ogni cosa ha una sua storia, una sua dinamica. Togliamoci dalla testa che il tradimento di per sé significa essere colpevoli o condannati a un addebito». 

Sembra un lavorone, poi voi del settore...

«Lo è perché non è facile dimostrare che un tradimento è stata l'unica causa della separazione, ci possono essere mille sfumature. Bisogna sempre cercare di capire come stavano le cose prima, il clima famigliare, le incomprensioni, le eventuali incompatibilità di carattere. È un discorso che si può fare soltanto in tribunale».

Totti dice di aver scoperto i tradimenti di Ilary dal suo cellulare. Ma sbirciare nel telefonini dei nostri mariti o mogli si può fare?

«In linea di massima se c'è una password o se si è carpita con un software, no non si può. Se invece non c'è e il cellulare è stato nella disponibilità dell'altro è anche possibile dare una sbirciatina, purché non venga violato un sistema di sicurezza. Tra l'altro, oggi, la maggior parte dei casi di infedeltà si scopre così». 

Come in quel film, Perfetti sconosciuti?

«Esatto. In Italia c'è un'infedeltà molto diffusa nelle coppie sposate e conviventi, talmente alta che non fa più notizia. Nel 70% dei casi uno dei due tradisce o ha provato a tradire. La tenuta del matrimonio è un po' sconfessata anche dall'uso dei social che non sono più il luogo in cui ci si scambia informazioni, ma il regno dell'"acchiappanza"». 

Bel termine: molto "romano", ma spiega benissimo il concetto. Quando ci sono dei minori, come in questo caso, si complica tutto?

«Sì. Bisogna parlare dell'affidamento e del calendario del diritto di visita e il giudice deve valutare con prudenza quale sia l'assetto migliore per i ragazzi. Io credo che la soluzione preferibile sia sempre un accordo, cioè abbassare i toni e sedersi a un tavolino. Fare la giudiziale solo se ci sono atti di violenza o situazioni particolari, come fanno gli inglesi».

Da leggo.it il 12 settembre 2022.

L'argomento più cliccato del momento, è stato commentato anche da Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli. Dopo gli ultimi sviluppi della separazione Totti-Ilary, sull’account Twitter dell’opinionista del Grande Fratello Vip è apparsa una battuta sulla questione dei Rolex, argomento scottante della giornata dopo l'intervista bomba di Totti. I preziosi orologi, a detta del Pupone, gli sarebbero stati sottratti dall’ex moglie con la complicità dell’ex suocero. «Dopo la Guerra dei Roses abbiamo la Guerra dei Rolex cit. Paolo Bonolis» ha scritto Sonia Bruganelli su Twitter riportando una battuta del marito.

Tanti commenti, diverse risate da parte di chi ha letto il tweet, ma non è mancata qualche critica feroce. «Badate al vostro matrimonio che sta incollato solo per questioni burocratiche!» scrive un hater. Secca la replica di Sonia Bruganelli: «Impazzisco!!». «Voi state insieme solo per convenienza, lo abbiamo capito tutti…». 

Un chiaro riferimento alla scelta di Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli di vivere in due palazzi separati, ma comunicanti da una doppia porta con terrazzo, per preservare la propria indipendenza e regalare nuova linfa vitale al matrimonio. Matrimonio che va avanti dal 2002 e da cui sono nati Silvia, Adele e Davide.

Repentina la risposta della moglie di Paolo Bonolis ai commenti: «Ma per convenienza di chi? Se fosse reciproca convenienza (con tutte le accezioni del caso) a chi disturberebbe? A te?». Molti si sono schierati dalla parte della Bruganelli, che tra l’altro non è la prima volta che commenta l’affare Totti-Ilary.

Grazia Longo per “La Stampa” il 12 settembre 2022.

Francesco Totti parla per la prima volta della separazione dalla moglie Ilary Blasi, in un'intervista al Corriere della sera, e scatena il finimondo sui social. «Non sono stato io a tradire per primo. Quei messaggi sul telefono di Ilary...è stato uno choc» racconta l'ex capitano della Roma e precisa che la sua love story con Noemi Bocchi è incominciata solo dopo Capodanno. 

Seguono particolari sui dispetti reciproci con Ilary: lei che gli ruba la collezione dei Rolex e lui che le nasconde le borse firmate. Il mondo della rete insorge, dalla vignette con Totti e la maglietta «Ridamme i rolex» alle accuse di aver commesso un passo falso rilasciando l'intervista al vetriolo contro la moglie e madre dei suoi tre figli. La più agguerrita è Selvaggia Lucarelli che prima la butta sull'ironia: «Siamo tutti fermi lì, alla scena in cui Totti apre la cassaforte, non trova più la collezione di Rolex e allora rapisce le Birkin di Ilary chiedendo il riscatto».

E poi bolla come un «autogol» le dichiarazioni dell'ex campione: «Non funziona ammettere di aver scoperto tradimenti ma di aver fatto finta di nulla. Non funziona il tono vittimistico da eroe maschio che depone lo scudo e non ha la moglie sufficientemente accudente. Che peccato finire una carriera da calciatore con un autogol così». E Nino Cartabellotta scrive su Twitter che «il primo comandamento per proteggere i figli in caso di separazione è non screditare mai la mamma e il papà». Ma c'è anche chi si schiera dalla parte di Totti.

Come Roberto D'Agostino, patron di Dagospia: «Sinceramente ha fatto bene a parlare, perché in qualche modo sinora era lui visto come il traditore. E ha avuto anche molto coraggio. In sostanza ha detto che Totti è cornuto, questo ha detto». E Ilary? Lei, per ora, sceglie la strada del silenzio. Tramite il suo avvocato Alessandro Simeone fa sapere che «non vuole replicare all'intervista ma pensa a proteggere i suoi tre figli». Ma aggiunge: «Se parlo potrei rovinare 50 famiglie». E ad attenderla c'è già Verissimo condotto dall'amica Silvia Toffanin. 

Giovanna Cavalli per corriere.it il 12 settembre 2022.

Parlerà quando, come e con chi ne avrà voglia. E la sensazione diffusa è che non si dovrà aspettare troppo per ascoltare la replica di Ilary Blasi. Al momento però la conduttrice dell’Isola dei Famosi deve probabilmente ammortizzare il colpo dell’intervista di Francesco Totti al Corriere della Sera, che forse l’ha colta impreparata o forse no. E sentirsi rinfacciare, nero su bianco, di essere stata la prima a tradire, assestando la spallata finale a un matrimonio in crisi ineluttabile già da tempo, non le avrà certo fatto piacere, insieme alla storia dei Rolex spariti, dei messaggini compromettenti sul cellulare («Vediamoci in hotel», «No, è più prudente da me»), delle sue continue assenze e della presenza costante invece di Noemi Bocchi al fianco del Capitano e tutto il resto.

Per adesso Ilary si è chiusa in un silenzio quasi perfetto. Pesantissimo. Lasciando però trapelare qualche frase significativa tramite il suo avvocato milanese, Alessandro Simeone, che riporta il pensiero materno per Cristian, Chanel e Isabel: «Ho sempre protetto i miei figli e continuerò a proteggerli». Come del resto ha premesso lo stesso Totti, all’inizio del suo sfogo: la famiglia viene prima di ogni altra cosa al mondo. Poi però chi ha parlato con l’ex Letterina va oltre. E aggiunge un virgolettato rivelatore: «Ilary ha visto cose in questi ultimi anni che potrebbero rovinare una cinquantina di famiglie». 

Una dichiarazione che tra le righe non promette nulla di buono. Per adesso Ilary ha violato la regola del silenzio soltanto sui social, pubblicando su Instagram una storia — probabilmente risalente alla gita nelle Marche di agosto — con la nonna Marcella che prepara le fettuccine fatte in casa e lei che assaggia l’impasto («Amo la pasta cruda»). Ma prende ancora più corpo l’ipotesi di una prossima intervista a cuore aperto, ospite dell’amica di sempre Silvia Toffanin, nel salotto rassicurante di Verissimo, che riapre sabato 17. Per rispondere come meglio crederà alle rivelazioni di Francesco.

Quanto all’aspetto legale, non affatto secondario, nonostante un’ultima, estrema offerta di pace che Totti le ha fatto tra le righe dell’intervista, pare ormai compromessa la possibilità di una separazione consensuale. Di una risoluzione rapida e indolore con l’accordo tra le parti. Se Ilary Blasi avesse voluto davvero una tregua, avrebbe magari rimandato le lunghe vacanze di qualche giorno, invece di partire per quasi due mesi all’indomani del comunicato stampa disgiunto. Da allora — e adesso più che mai — i rapporti tra i due ex, già freddi e ridotti al minimo, sono se possibile peggiorati. Molto probabile che si imbocchi la tortuosa e lunga via giudiziale (il foro competente resta quello di Roma) in tribunale. Con conseguente stillicidio di rivelazioni, colpi bassi e gossip a tutto spiano. Già si comincia.

E così ecco che torna a farsi vivo Fabrizio Corona (a cui Ilary Blasi al GF Vip diede pubblicamente del bugiardo e del «caciottaro») che, sempre su Instagram, prima posta l’intervista di Totti al Corriere e poi scrive: «Il mio telefono sta bollendo, così ho deciso che questa volta una dichiarazione la rilascerò anche io, per puntualizzare alcuni punti lasciati in sospeso quando sono stato letteralmente cacciato fuori da una trasmissione tv condotta da una collezionista di Rolex». E poi aggiunge sibillino: «La settimana prossima vi racconto tutta la verità». Oggi invece è il turno di Alex Nuccetelli. Ospite di Salvo Sottile e Anna Falchi a I fatti Vostri su Rai2, intorno a mezzogiorno, il pr romano, campione italiano di bodybuilding 

Da liberoquotidiano.it il 12 settembre 2022.

Il caso Totti-Blasi fa discutere. Anche a Non è l'Arena di Massimo Giletti si parla dell'intervista del pupone al Corriere in cui ha di fatto scaricato la moglie con accuse pesantissime che vanno dal tradimento all'appropriazione di orologi e cassette di sicurezza. Le parole di Totti sono diventati elemento di dibattito. 

E Giancarlo Dotto di fatto, ospite di Giletti, analizza così quanto accaduto: "La frase sul fatto che Totti abbia rovinato 50 famiglie pronunciata da Ilary la dice lunga sul fatto che l'ex capitano della Roma si sia dato da fare". Insomma secondo Ilary, Totti avrebbe avuto altre relazioni oltre a quella con Noemi Bocchi. E Dotto poi prosegue: "Va detto che Totti sta scegliendo una strategia strappalacrime con questa intervista mentre Ilary ha un approccio più teutonico".

Poi aggiunge: "Ilary parla meno ma rilascia messaggi taglienti che vanno a colpire molto di più dell'intervista di Francesco Totti". Insomma la guerra tra i due prosegue e a quanto pare finirà in tribunale. Ormai la strada verso il divorzio appare spianata ma i due dovranno fare i conti ancora con il veleno che in questa storia sarà l'ultimo a uscire di scena. 

Ma. Cec. per la “Gazzetta dello Sport” il 12 settembre 2022.

«Altro che gli stracci. Vedrà che adesso voleranno le mutande. Secondo me il divorzio fra Totti e la Blasi finirà come quello di Johnny Depp e Amber Heard. In tribunale potrebbe succedere di tutto». 

Chi parla è Roberto D'Agostino, ovvero il giornalista che - su «Dagospia» - a febbraio era stato il primo ad annunciare la crisi del matrimonio più celebre dello mondo dello spettacolo italiano.

Si ricorda quei giorni?

«Certo. Le farei vedere gli insulti ricevuti sul cellulare. mi si scatenò contro la città. Parlare di corna per Totti significava mettersi contro tutta Roma. E glielo dice uno che è tifoso romanista». 

Che riflessioni le hanno fatto fare le parole di Totti?

«Che è stato molto sincero. A differenza di tanti vip che parlano della bua di quando erano piccoli o fanno confessioni "acchiappa-like", si capisce che quando ha smesso col calcio è caduto in depressione e così, con lei a Milano, si sono allontanati. Non è una questione di soldi. Sei stato un idolo per anni e all'improvvisi scivoli nel cono d'ombra. Io lo chiamo "L'inferno delle celebrità". Parliamo di gente che si ritrova a non saper pagare neppure una bolletta. Mi dispiace per i figli, a cui tutti e due dicono di pensare».

Pensi quando avranno letto dei Rolex e delle borse.

«Sembra una puntata di "Casa Vianello". D'altronde è quello che succede a tante famiglie, che divorziando si fanno i dispetti. È la vita reale. Certo, poi ognuno l'affronta con gli strumenti culturali che ha. Dipende anche dall'estrazione sociale. Qui non c'è l'ipocrisia borghese. In questo caso c'è una certa coatteria, in stile "ti dico in faccia ciò che penso". D'altronde, non bastano i soldi per crearsi uno stile diverso». 

Ha ragione Totti che le colpe sono di entrambi?

«Ma sì, anche se quella che abbiamo letto è la versione di lui. Bisognerà vedere quello che risponderà Ilary, anche se dicono che lei abbia già registrato una intervista tv e Totti abbia voluto anticiparla. Poi, visto che questo matrimonio è una specie di polaroid dell'Italia, non dimentichiamo che generalmente da noi le scappatelle degli uomini vengono più tollerate, non sono considerate veri attentati alla famiglia. Per le donne invece è diverso». 

Sembra anche a lei che Ilary e Noemi si assomiglino?

«Ma questo è colpa dei chirurghi, che le fanno tutte uguali». 

Ci crede al fatto che alla mamma di Totti non sia mai piaciuta davvero Ilary?

«Dicono che quando Francesco le raccontò del fidanzamento, abbia risposto: "Ma che te vai a mette' co 'na ballerina?"».

 Impressione finale?

 «Avrebbero potuto essere più civili, ma la vanità e l'egoismo spesso hanno la meglio».

Tribunali e carte bollate, così si spezza la favola tra Totti e Ilary. Impossibile trovare un accordo per una separazione pacifica: troppi rancori e patrimoni dividono Totti e l'ex moglie. Francesca Galici il 12 Settembre 2022 su Il Giornale.

È stata una delle più belle coppie dello showbiz italiano ma, ora, la favola tra Francesco Totti e Ilary Blasi rischia di trasformarsi in un incubo giudiziario. Le avvisaglie c'erano tutte ma l'intervista rilasciata dall'ex capitano della Roma al Corriere della sera rischia di mettere una pietra tombale definitiva alla possibilità di un accordo. Francesco Totti non ha usato mezze misure parlando di Ilary Blasi e l'ha accusata di averlo tradito per prima, poi ha mosso accuse molto forti riguardo quanto lei e suo padre avrebbero fatto successivamente alla diramazione del comunicato stampa.

"Finirà in tribunale", ha ammesso laconico Francesco Totti nell'unica intervista rilasciata dal momento dell'ufficializzazione della rottura con la sua, ormai ex, moglie. D'altronde, al di là dei figli sui quali è presumibile che un accordo di buon senso tra le due parti venga trovato, c'è un impero economico che ora va spartito tra gli ex coniugi e questo sarà sicuramente oggetto di una battaglia legale senza esclusione di colpi. A breve, potrebbe avviarsi l'iter che prevede la presentazione delle carte bollate da parte di uno dei coniugi presso il tribunale di Roma, l'informativa all'altra parte e quindi il vero procedimento, che prevede le che le richieste delle parti vengano prima discusse dai diretti interessati e poi dai loro legali. Per quanto riguarda l'assegno di mantenimento dei figli, difficilmente ci saranno discussioni.

"Io tradito", "Ho visto cose...". Guerra aperta tra Totti e Ilary

I temi di fine procedimento potrebbero essere molto lunghi: i tribunali italiani sono oberati di lavoro, quelli romani ancora di più. Non è da escludersi che ci vorranno anni, anche tre, per raggiungere un accordo. Stando ad alcuni calcoli che circolano in rete da quando è stata resa nota la notizia della separazione, l'ex capitano della Roma, in oltre 20 anni di carriera da calciatore, avrebbe guadagnato una cifra che si stima essere superiore a 150 milioni di euro, con un reddito netto che supera gli 84 milioni di euro. Cifre importanti, non meno rispetto a quelle di Ilary Blasi, che ha all'attivo contratti con Mediaset per la conduzione di programmi di punta pr la rete ammiraglia. Ci sono poi gli immobili e le società da spartire, la villa dell'Eur e quella di Sabaudia, oltre a numerose proprietà di lusso che la coppia ha acquistato quando ancora si pensava che la favola fosse possibile. 

"Fermati e chiedi scusa". I vip contro Francesco Totti. Da Monica Leofreddi a Carolyn Smith e Sonia Bruganelli, molti volti noti dello spettacolo hanno trovato di cattivo gusto l'intervista rilasciata da Totti e lo hanno criticato per le sue parole. Novella Toloni il 12 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Da un pezzo a questa parte pare che i panni sporchi (quelli dei vip soprattutto) debbano essere lavati in pubblico. Così ha fatto Francesco Totti, che con l'ultima intervista fiume rilasciata al Corriere della sera ha dato fiato alle trombe, parlando di tradimenti, dispetti e veleni in seno al suo matrimonio con Ilary Blasi. Lui, che chiedeva privacy e rispetto per il doloroso divorzio, è stato il primo a parlare, quando tutti puntavano l'attenzione sulla conduttrice, che invece ha proseguito sulla strada del silenzio.

Con quell'intervista, però, Francesco Totti ha compiuto un passo falso e ha tradito prima di tutto se stesso e le parole dette nel comunicato ufficiale di addio: "Continuerò a essere vicino a Ilary nella crescita dei nostri tre meravigliosi figli, sempre nel rispetto di mia moglie". In molti si sono chiesti se l'intervista fosse il modo giusto per rispettare Ilary, considerando il contenuto delle dichiarazioni. E alcuni volti noti del mondo dello spettacolo lo hanno duramente criticato.

Prima tra tutti la conduttrice Rai, Monica Leofreddi che su Instagram ha mandato un lungo messaggio proprio al Pupone invitandolo a fermarsi e a fare un passo indietro. "Checco ma che stai a fa’? Queste parole te le dico con affetto: fermati e chiedi scusa. Ho letto incredula tutta l'intervista. Se è stata tutta farina del tuo sacco, fatti un esame di coscienza, se è una strategia legale, ricordati che l'unica strategia che devi avere è quella di padre". La Leofreddi ha giudicato ingiustificabili le sue parole e ha tirato in ballo anche Noemi, la sua nuova compagna: "Questa sciagurata intervista non avresti dovuto farla e neanche pensarla! Al primo posto hai messo Noemi. A lei hai dato il ruolo di salvatrice nei tuoi anni più bui, a lei hai voluto dare dignità. Lo hai fatto però gettando fango. Torna a essere il campione che eri, le beghe di orologi e borse sottratte, le accuse a chi ha tradito per primo e con chi, lasciale da parte". Parole condivise a pieno dalla giudice di Ballando con le stelle Carolyn Smith e dall'attrice Jane Alexander, che hanno concordato con la visione della Leofreddi.

"Totti si è dato molto da fare...". Cosa c'è dietro le parole di Ilary Blasi

Più sottile e pungente Sonia Bruganelli che su Twitter ha cinguettato puntando l'attenzione sull'ormai famoso furto di rolex: "Dopo 'La guerra dei Roses' abbiamo 'La guerra dei Rolex' cit. Paolo Bonolis". Provocatorio anche il tweet di Andrea Delogu, che ha inviato una sonora stoccata al Pupone: "Quanto stiamo rivalutando i nostri ex mariti oggi?". Se Fabrizio Corona è passato direttamente alle minacce nei confronti della coppia, Selvaggia Lucarelli ha ironizzato sulla "sciagurata" intervista rilasciata da Totti. "Peccato finire una carriera da calciatore con un autogol così", ha scritto sui suoi social la giornalista.

Valentina Lupia per repubblica.it il 13 settembre 2022.

"Da parte di Francesco c'è solo la voglia e il desiderio che la sua famiglia riesca ad andare avanti nel miglior modo possibile e senza attriti". Attraverso queste parole, pronunciate dal suo amico Alex Nuccetelli a I fatti vostri su Rai2, Totti lancia un appello affinché la separazione vada avanti in modo consensuale. L'ex capitano, sempre secondo quanto ha rivelato in trasmissione tv l'amico, pr e body builder romano, "non ha intenzione di mettere in piazza cose private". Anche se i fan della coppia non ci credono troppo, specialmente dopo alcuni dettagli rivelati dall'ex numero dieci della Roma come i Rolex che sarebbero stati sottratti da Ilary Blasi e la ripicca del marito che di tutta risposta le ha nascosto le borse. "Sperando in uno scambio".

Nuccetelli - "unico autorizzato da Totti a stare qui", ha ribadito il presentatore Rai Salvo Sottile - spera anche che per il bene dei figli "un giorno Francesco e Ilary possano andare in vacanza insieme come tante coppie che non stanno più insieme". Per lui entrambi dovrebbero giocare meno di strategia e ascoltare i propri sentimenti: "Mi chiedo quanto gli avvocati che hanno intorno ci tengano a far finire la faccenda in maniera consensuale. Le loro parole andrebbero misurate". 

Infine si passa a parlare dell'investigatore privato assunto da Ilary Blasi e di eventuali microspie: "Lei lo pedinava o per gelosia o per trovare dei fatti coi quali poterlo compromettere, ma mi auguro che non sia così". Battuta finale sul flirt misterioso della conduttrice tv (il nome che circola maggiormente è quello di Cristiano Iovino, il personal trainer girovago ipertatuato e laziale, ironia della sorte per l’ex capitano della Roma): "Lo conosco, non credo abbia grande importanza nella fine della relazione con Francesco. Per carità, può essere successo di tutto, ma non credo siano questi i motivi della fine di una storia di vent'anni. C'erano questioni antecedenti, assolutamente. Solo negli anni 50/60 le coppie stavano insieme per sempre".

Da liberoquotidiano.it il 13 settembre 2022.

"Tutta Italia sta seguendo questa storia, tu hai intervistato Totti, cosa ti ha colpito di più di questa vicenda? Ed è normale che ci si appassioni? Se ne discute tantissimo...": Lilli Gruber ha posto queste domande ad Aldo Cazzullo a Otto e mezzo su La7. Il riferimento è, ovviamente, alla rottura tra l'ex calciatore della Roma e Ilary Blasi. "I due veri grandi romanzi popolari italiani sono il calcio e la televisione, Totti e Ilary rappresentano questi due mondi intrecciati, di qui questo gigantesco interesse", ha spiegato innanzitutto il giornalista del Corriere della Sera, che ha avuto modo di intervistare l'ex capitano giallorosso un paio di giorni fa.

"Io ho conosciuto Totti vent'anni fa, ai mondiali del 2002 in Giappone - ha poi raccontato Cazzullo -. Gli chiesi: 'ma come passi il tempo in ritiro?', 'lui mi rispose 'sto squagliando la play-station'. Poi ci siamo rivisti nel 2006 quando lui segnò il rigore decisivo ed esultò mettendo il pollice in bocca per evocare suo figlio che aveva appena 8 mesi... insomma Totti e io non ci siamo persi di vista... lui aveva questa storia da dire".

Infine il giornalista ha rivelato qual è la parte dell'intervista a cui è più affezionato: "Non è quella dei Rolex ma è quella in cui lui racconta quando si chiude il sipario. A 41 anni lui, un monumento per Roma e per la Roma, è costretto a lasciare, poi diventa dirigente, poi lo mandano via...". "È l'intervista che sta facendo sanguinare noi romanisti, è una grande responsabilità...", ha chiosato ironicamente Antonio Padellaro. 

Totti-Blasi, il patrimonio dell’ex coppia: dalle case alle società agli accessori. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.

Cristian, Chanel e Isabel, i tre figli minorenni del campione e della conduttrice, sono gli unici che erediteranno la loro fortuna. Compresa la villa all’Eur da 25 stanze

La casa

L’affair Totti-Blasi sta appassionando sempre più gli italiani, che sanno bene come tra i due - che si sono separati dopo 20 anni di unione - non ci sia prima di tutto la tutela dei tre figli, ma anche beni più materiali, dalle società alle case ai preziosi, che la coppia ha accumulato nel tempo. Cristian, Chanel e Isabel, tutti e tre minorenni, sono gli unici che dovranno ereditare la loro fortuna. A partire dall’enorme villa dell’Eur, che sembra del valore superiore ai 10 milioni. La casa, 25 stanze, dispone di tutti i comfort extra lusso, compreso un campo di calcetto, uno di paddle e una piscina dove trascorrere in relax e totale privacy le giornate più calde. Resta però il dubbio sul che sarà della “reggia romana”, e come si manterrà considerando il costo elevato delle spese.

Patrimonio

Sul loro patrimonio non si hanno certezze: certo è che in anni di lavoro (ognuno nel suo campo) i due avrebbero avuto introiti superiori ai 110 milioni di euro in 20 anni. In questo momento in più Ilary ha un contratto in esclusiva con Mediaset.

Totti e le società

NumberTen è il nome della holding a cui oggi fanno capo le sette società con cui opera nel mercato immobiliare di cui Totti detiene il 100% delle azioni, il fratello Riccardo è il presidente, la mamma Fiorella l’altro consigliere. L’azienda, fondata nel 2010, ha un patrimonio netto di 7 milioni di euro e utili per circa 4. Stesso discorso per la Vetulonia, un’altra società immobiliare di cui Totti è socio ma anche amministratore unico. Infine c’è da tenere conto anche della sua nuova attività di gestione dei giovani calciatori, attività che Francesco Totti gestisce con tre società (IT Scouting, CT10 e Coach Consulting).

Ilary e le società

La famiglia di Ilary si occupava della sua immagine e gestiva la storica scuola calcio che Totti - azionista allo 0,09% anche del Campus Biomedico - ha fondato anni fa. Ilary e il papà Roberto sono gli unici azionisti della Number Five, la società che stipula(va) tutti gli ingaggi non legati al mondo del calcio di Totti: apparizioni in tv, spot pubblicitari. Ci sono poi quote di Ilary nella società sportiva dilettantistica Sporting Club Totti.

Le proprietà

I Totti ovviamente hanno proprietà in giro per Roma: si parla di negozi nei centri commerciali fino alla villa di Sabaudia e altri appartamenti in affitto.

Le sorelle di lei

La sorella minore di Ilary, Melory, assistente in oftalmologia (lo scrive lei su Instagram) sta prendendo la strada da influencer (52.3 mila follower). Ha preferito stare lontano dal business generato dall’ex marito della sorella, mentre Silvia Blasi, per un periodo, si è occupata in parte della comunicazione di Francesco.

Gli orologi di lui

Nell’intervista a Aldo Cazzullo, Totti fa riferimento a una collezione di Rolex che Ilary gli avrebbe sottratto. Nessuno sa il numero e il valore degli orologi che, mediamente, da sito non costano meno di sei mila euro l’uno. Prezzo minimo.

Il guardaroba e le borse di lei

Ilary, da donna e da donna del mondo dello spettacolo, ha un guardaroba da sogno. Pezzi preziosissimi comprati e regalatele dalle maison più famose. La parte più famosa sono le sue borse: sui social ha sempre al braccio o un pezzo di Chanel o uno di Hermes.

Le richieste, l'incontro, lo strappo: salta l'accordo sul divorzio tra Totti e Ilary. L'intesa sembrava raggiunta, ma Ilary avrebbe cambiato idea sui termini dell'accordo per la separazione con Totti. Pare che il calciatore fosse disposto a lasciarle anche la maxi-villa all'Eur. Marco Leardi il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.

Entrambi assicurano di voler proteggere i loro figli. Di volerli tenere lontani dalla tempesta mediatica, dai rancori e dai contraccolpi di una battaglia legale pronta a divampare. Chanel, Isabel e Christian non si toccano: sono loro il bene più grande. Eppure quel tacito patto tra Francesco Totti e Ilary Blasi sembra di fatto già saltato. La recente e discussa intervista rilasciata dal calciatore sulla propria crisi coniugale ha acceso le attenzioni e le speculazioni sulla vicenda, mettendo sulla pubblica piazza i dissidi che da tempo stavano erodendo l'ormai ex coppia. Da parte sua, la showgirl ha scelto per ora la via del parziale silenzio, pur lasciando intendere di aver molto da dire.

Secondo le ultime indiscrezioni, però, lo sfogo a mezzo stampa dell'ex calciatore sarebbe arrivato proprio nei giorni successivi alla decisione di Ilary di rifiutare l'intesa per la separazione consensuale. Come riporta La Stampa, infatti, la conduttrice tv avrebbe fatto naufragare un accordo che sembrava ormai vicino al raggiungimento. Pur di non intraprendere la via giudiziale - riferiscono sempre i rumors - Totti sarebbe stato disposto ad accettare quasi tutte le richieste avanzate dalla moglie. Avrebbe pure acconsentito a lasciarle la maxi-villa all'Eur con 25 camere da letto, palestra, campo di padel, piscina e varie aree relax. Una delle proprietà che compongono il patrimonio milionario della coppia.

"Cerchiamo di chiuderla senza farci la guerra, per il bene dei nostri tre figli", avrebbe affermato il calciatore, secondo un virgolettato a lui attribuito dalla stampa. Tra i due coniugi, accompagnati dai rispettivi avvocati, ci sarebbe stato un incontro a Roma lunedì scorso, 5 settembre. L'accordo sembrava cosa fatta, poi qualcosa si sarebbe guastato. Pochi giorni più tardi, sulle pagine del Corriere Francesco Totti ha rotto il silenzio: "Non ho tradito io per primo". E ancora: "Temo che con Ilary finirà in tribunale. Spero ancora che si possa trovare un accordo e chiudere qui questa storia. Di sicuro, io adesso mi taccio".

La vicenda però è destinata a proseguire, con tutto l'interesse mediatico del quale ormai è stata caricata. La strada per il momento sembra segnata: si andrà allo scontro legale per definire la spartizione del maxi-patrimonio della coppia, superiore - secondo le stime - ai 100 milioni di euro. Totti e Ilary peraltro hanno diverse società "in comune" aperte nel corso della ventennale relazione coniugale.

Intanto, mentre l'ex campione giallorosso e la showgirl sono tornati al silenzio, a parlare ci pensano persone a loro vicine. Ieri, ad esempio, il pr Alex Nuccetelli (amico di Totti) è andato in tv e su Rai2 ha parlato della nuova fiamma del Pupone, Noemi. "Oggi Francesco con lei è rinato", ha detto. E la giostra mediatica, ancora una volta, ne ha tratto spunto per ruotare all'impazzata attorno all'ex coppia da copertina.

Ilary e Totti, la guerra dei Rolex: un tesoretto da oltre 200mila euro. Il Pupone ha accusato l'ex moglie di avergli sottratto la collezione di orologi di lusso, un tesoretto che secondo stime non ufficiali supererebbe i 200mila euro. Novella Toloni il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.

Dopo un'estate trascorsa all'insegna del basso profilo (per Francesco Totti) e delle vacanze (per Ilary Blasi) gli equilibri sono saltati. Proprio quando la palla passava nelle mani degli avvocati, che già si trovavano a gestire un divorzio spinoso, il Pupone ha rotto il silenzio e la battaglia si è accesa. Non fosse altro che per quella rivelazione pruriginosa sul presunto furto di Rolex, che Ilary avrebbe messo a segno come personale vendetta.

"Con suo padre è andata a svuotare le cassette di sicurezza", ha dichiarato Francesco Totti nell'esclusiva intervista rilasciata al Corriere della Sera, proseguendo: "E mi ha portato via la mia collezione di orologi. Non ha lasciato neanche le garanzie, neanche le scatole". I fantomatici Rolex di cui tutti oggi parlano e che sono diventati il triste centro dell'ironia del popolo dei social network. L'ex capitano giallorosso ha poi ammesso di avere regalato i preziosi orologi all'ex moglie, ma trattandosi di modelli maschili, il dubbio che volesse comunque tenerli per sé rimane.

E così in molti sul web si sono chiesti quanto valesse la preziosa collezione di Rolex messa sotto chiave dal Pupone. A fare una stima, curiosando sulla pagina social di Totti e ripercorrendo le tappe delle apparizioni pubbliche dello sportivo negli ultimi anni, sono stati alcuni siti di informazione tra i quali Mow. "Al quarantesimo compleanno di Ilary il Capitano aveva esibito un Daytona, 116508 in oro giallo con quadrante nero. In questo caso il prezzo di listino superava di misura i 30mila euro", riferisce il portale, mentre un altro modello, un Daytona Zenith 16520, sarebbe andato perso nel 2020.

Da una indagine del Messaggero, invece, si scopre che al polso della conduttrice dell'Isola dei famosi sono apparsi nel tempo uno Yacht Master in oro rosa, per un valore superiore ai 30mila euro, un Daytona in oro giallo con quadrante bianco stimato 22mila euro e infine un rolex GMT Master, che Ilary Blasi esibì durante l'ultima gara della carriera del marito. Nella collezione di lusso dello sportivo ci sarebbero, però, anche due esemplari di Patek Philippe: un raro Aquanaut 5168G in oro bianco 18 carati (prezzo di listino 46 mila euro) e un Nautilus 5990/1R in oro rosa con lunetta ottagonale, il cui valore si aggira intorno ai 110mila euro. Nella cassetta di sicurezza, però, potrebbero esserci stati altri modelli. Difficile dunque stabilire con esattezza il valore della collezione di Francesco, che solo con i modelli citati supera abbondantemente i 200mila euro.

Dall’assegno alle case: ecco cosa "balla" nel divorzio Totti-Blasi. Reciproche accuse e tradimenti hanno spezzato la favola d'amore tra Totti e Blasi: sarà il tribunale a dirimere le questioni e a mettere un punto definitivo. Francesca Galici il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

Quello dei Rolex di Francesco Totti è, ormai, un argomento che appassiona più della campagna elettorale in via di conclusione. La saga familiare dell'ex capitano della Roma e di Ilary Blasi è diventata il tormentone di questo settembre e difficilmente l'attenzione sui due scemerà finché non parlerà anche la conduttrice. Tra l'altro, pare non serva aspettare a lungo, perché dovrebbe essere in programma a breve una "chiacchierata" con la sua amica di sempre, Silvia Toffanin, nel salotto di Verissimo. al di là degli orologi e delle borsette, il patrimonio di Francesco Totti e Ilary Blasi è davvero molto ampio e non sarà facile trovare la quadra per accontentare tutti. L'affidamento dei figli e l'assegno di mantenimento sono due dei nodi che devono essere sciolti nel più breve tempo possibile e sono anche quelli salienti, sui quali tutti gli elementi che sono emersi nelle ultime settimane potrebbero far propendere l'ago della bilancia in un senso o nell'altro.

Un primo incontro tra i legali delle parti dovrebbe essere in programma già la prossima settimana: l'obiettivo è quello di trovare un accordo ma la strada per raggiungerlo appare molto tortuosa e in salita. Lo dimostra l'intervista di Totti e la replica della stessa Blasi. I tradimenti potrebbero essere la base su cui entrambe le difese baseranno le loro richieste ma gli avvocati dovranno essere bravi, perché la Cassazione ha già stabilito che non tutti i tradimenti sono soggetti a sanzione, ma solo quelli che sono la reale causa di una separazione coniugale. E questo va dimostrato. Nel caso specifico, lo stesso Totti ha dichiarato che l'infedeltà di sua moglie che lui sarebbe in grado di provare mediamente messaggini è avvenuta in un contesto di crisi preesistente, pertanto non sarebbe un motivo di attribuzione di colpa.

Ma a fare le pulci al racconto di Francesco Totti le irregolarità, da una parte e dall'altra, sarebbero state numerose. Lui non avrebbe potuto accedere ai messaggi sul telefono di sua moglie per la legge sulla privacy ma lei non avrebbe nemmeno potuto far installare le cimici nella macchina di lui. Pari e patta, quindi, o quasi. Gli interessi in gioco sono davvero altissimi e ci sono soprattutto i tre figli, tutti minori, da tutelare. In questa logica sembrava esserci l'idea secondo la quale la casa coniugale sarebbe rimasta ai figli e sarebbero dovuti essere i genitori ad alternarsi ma, pare, anche questo accordo sia irrimediabilmente saltato.

In tutto questo, non è stato tenuto conto del danno di immagine che entrambi stanno subendo in questa nuova guerra dei Roses che rischia di trasformarsi in una nuova saga sul livello di Amber Heard e Johnny Depp. Riusciranno Totti e Blasi a evitare quella tremenda deriva, non fosse altro che per la tutela dei bambini?

Ilary e Totti verso il tribunale, vita da separati in villa. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2022.  

Nell’attesa di ciò che accadrà, ciascuno dei due — chiuso nella sua ala della dimora all’Eur da 25 stanze — continua a condurre la vita da separato in villa: zero cordialità, dialoghi ridotti al minimo, civili quanto basta per evitare altri dispiaceri ai tre figli. Più schivo Francesco Totti, che ha abbandonato ogni social, rifugge le occasioni mondane e a malincuore diserta persino lo stadio Olimpico (stasera chissà). Al massimo accompagna a scuola Chanel e Isabel, Cristian agli allenamenti, poco più. Se non ci fosse il fotografo di Chi, che l’ha immortalato ancora, non si saprebbe nemmeno che sabato scorso, a tarda sera, usciva circospetto da casa di Noemi Bocchi, ai Parioli, con una coppia di amici e per mano la bimba più piccola (no, Ilary Blasi non avrà apprezzato).

Ilary Blasi, tutti i look dell’estate: sensuale in spiaggia, informale all’Opera di Roma

All’Opera

Più diversa di così non si può, la conduttrice dell’ Isola dei Famosi invece ha scelto il Teatro dell’Opera di Roma, martedì, per la sua prima apparizione mondana post- intervista al . In pantaloni e total black, con preziosa borsetta di Gucci, si è seduta in platea ad ammirare l’amica étoile Eleonora Abbagnato (moglie di Federico Balzaretti, ex difensore giallorosso), offrendosi volentieri ai flash e agli sguardi, per giunta accompagnata da un’altra signora che su Instagram si sigla Noemi B. (come Bonomo e non Bocchi, però), personal trainer (tipo Cristiano Iovino, l’uomo dei messaggini compromettenti), forse una sottile provocazione.

Silenzio

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Fedele alla strategia di comunicazione che l’ex Letterina ha scelto fin dall’inizio: silenzio, non una parola («Ha visto cose che potrebbero rovinare cinquanta famiglie» è un virgolettato di amici). Invece loquacissima su Instagram, dove documenta ogni dettaglio delle sue giornate, prima in vacanza, ora in città. Non la trasferta lampo milanese, per festeggiare in discoteca il compleanno della sua agente Graziella Lopedota. Quello voleva tenerlo nascosto e infatti ha evitato foto.

Gli avvocati

Quanto alla questione più spinosa e incombente, non tira affatto aria di accordo. Meno che mai di separazione consensuale. Anzi, Francesco e Ilary si avviano ineluttabilmente verso la separazione giudiziale. E nemmeno delle più indolori, rapide e amichevoli. Con un patrimonio da 110 milioni (i celebri «du’ spicci», secondo Ilary) i calcoli sono complicati. E i tempi di soluzione si prospettano lunghi. Dopo la clamorosa confessione a mezzo stampa sul Corriere del sempiterno Capitano della Roma (per i tifosi giallorossi tuttora non esiste che lui) — completa di rimpianti, accuse e recriminazioni — era evidente che i rapporti tra gli ormai ex coniugi non fossero destinati a migliorare. Totti ci ha provato fino all’ultimo a non chiudere nel peggiore dei modi 17 anni di matrimonio che sembrava indissolubile («Cercavo un accordo. Non volevo finire in tribunale, ma Ilary ha detto sempre no») eppure si è infranto. Con i suoi avvocati, Antonio Conte e Annamaria Bernardini de Pace, ha offerto tutto ciò che ragionevolmente poteva, aumentando sempre la posta. Sperando in un sì.

L’intervista

Non c’è stato niente da fare. Ilary ha rispedito al mittente ogni rilancio, arroccata sulle proprie posizioni. E a quel punto il campione del mondo 2006 ha deciso di parlare. Molti hanno detto e pensato che si sia lasciato influenzare dai suoi legali, chi gli è vicino però spiega che Francesco non è più da un pezzo il Pupone, ma un uomo di quasi 46 anni (li compie il 27 settembre) che sa quello che vuole e non ha timore di dirlo. Non più tardi di tre anni fa ha affrontato una conferenza stampa con un centinaio di giornalisti per dire addio alla Roma — dopo i contrasti con la proprietà Pallotta — parlando a braccio, senza rete. Anche se qualche dubbio adesso lo assale, a proposito di quell’intervista così sofferta. A questo si aggiunge un dispiacere collaterale. A quanto pare una persona a lui molto cara, di quella cerchia ristretta di affetti che lo protegge da sempre, pur sapendo che sua moglie lo stava facendo pedinare da un investigatore, non lo ha avvisato, chissà perché. E Totti, quando lo ha scoperto, l’ha presa malissimo, vivendolo come un vero tradimento. Ma non è niente, di fronte a quel che dovrebbe patire se davvero Ilary accettasse l’invito di Verissimo e di Silvia Toffanin (conferme ancora non ce ne sono) per raccontare a cuore aperto tutta ma proprio tutta la sua verità. Un’anteprima esclusiva di quanto accadrà nell’aula del tribunale.

"Ha sfruttato il suo nome per fare carriera". L'ex della Blasi a gamba tesa. L'ex fidanzato di Ilary Blasi sospetta che la conduttrice abbia sfruttato la fama di Francesco Totti per lavorare in tv: "La sua carriera sarebbe finita con Passaparola". Francesca Galici il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Continua a far parlare la separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, soprattutto dopo l'intervista concessa dall'ex capitano della Roma al Corriere della sera, nella quale Totti muove accuse importanti contro la conduttrice Mediaset. In queste ore sono tanti quelli che, in favore dell'uno o dell'altra, si sono espressi per dare la propria opinione. Tra loro c'è anche Fabrizio Corona, che già da tempo aveva parlato di presunti tradimenti all'interno della coppia e che, ora che non c'è più la coppia, si sente ancora più libero di raccontare le sue presunte verità. In particolare, Corona ha messo nero su bianco alcune rivelazioni che gli sarebbero state fatte da Sean Brocca, che i ben informati conoscono come ex di Ilary Blasi, l'ultimo findanzato di quella che all'epoca era una Letterina di Passaparola.

Sean Brocca è tutt'oggi un modello ed è particolarmente vicino agli ambienti di Fabrizio Corona. Così si spiegano le rivelazioni molto personali che il modello ha fatto in merito a Ilary Blasi. "Siamo stati insieme un anno, ne sono passati 20. Durante la nostra relazione ho fatto un po' il 'cazzone'", ha spiegato Sean Brocca a Fabrizio Corona, aggiungendo: "Non l'ho mai tradita. Sicuramente l'ho trascurata, forse ero troppo giovane o forse non mi sono mai fidato totalmente di lei perché la vedevo troppo sbarazzina". Parole che fotografano una giovanissima Ilary Blasi all'inizio della sua carriera nel mondo della tv, sicuramente diversa dalla donna, e madre di famiglia, che è oggi. Tra le parole riportate da Fabrizio Corona e rivelate da Sean Brocca ce ne sono anche altre, che l'ex re dei paparazi non ha esitato a riportare nelle sue storie di Instagram: "Durante gli ultimi 15 giorni di convivenza sapevo che si messaggiava con lui, quando se n'è andata per andare a Roma, ho trovato nell'armadio della casa dove vivevamo due lettere e un regalo (mi sembrava una luna di peluche con al centro una nostra foto). Probabilmente ci teneva, ma di fronte alle dichiarazioni d'amore di Totti non c'è stato nulla da fare".

Ma se fino a qua, quelle di Sean Brocca sembrano parole d'affetto, a un certo punto il modello cambia registro: "Io credo che Totti fosse molto innamorato di Ilary, anche se le ha fatto molte corna. Penso piuttosto che lei si sia sposata solo per convenienza, sfruttando il suo nome per fare carriera. Lui poteva avere tutte le donne del mondo, invece è rimasto sposato 20 anni con lei. Qualche scappatella è normale, ci può stare". Quindi, l'affondo finale: "Lei era una delle tante senza talento e la sua carriera sarebbe finita con Passaparola, come tutte le altre. Alla fine lei l'ha lasciato quando lui ha "perso tutto" e dopo che si era ben sistemata. Lei sapeva e ha accettato per 20 anni perché le conveniva".

Da leggo.it il 15 settembre 2021.

Totti e Ilary, Sean Brocca non ci sta ad essere tirato in causa da Fabrizio Corona e tramite il suo legale, l'avv. Francesca Scarpa, scardina punto su punto le frasi di Corona: non le ho mai pronunciate.

Espressioni mai dette

È l'avv. Scarpa a sottolineare i riferimenti fatti da Corona: alle seguenti espressioni «comunque non condivido le tue affermazioni su "è una storia costruita" Io credo che Totti fosse molto innamorato di Ilary anche se le ha fatto molte corna. Penso piuttosto che lei si sia sposata solo per convenienza, sfruttando il suo nome  per far carriera». E ancora «lui poteva avere tutte le donne del mondo invece è rimasto sposato 20 anni con lei, qualche scappatella ci puo' stare è normale.

Lei era una delle tante senza talento e la sua carriera sarebbe finita con Passaparola come tutte le altre. Alla fine lei lo ha lasciato quando lui "ha perso tutto", e dopo che si era ben sistemata. Lei sapeva e ha accettato per 20 anni perché le conveniva». Sean Brocca, avvisa l'avv. Scarpa, non ha mai fatto tali affermazioni, che sono all'evidenza ascrivibili ad altro soggetto.

Il ricordo

Sean Brocca, ricorda l'avv. Scarpa, intende inoltre specificare che nelle occasioni in cui gli è stato chiesto di riferire della propria relazione con Ilary Blasi ne ha parlato sempre e solo in termini positivi, conservando di lei un bel ricordo.

"A casa di Noemi con la figlia fino all'1 di notte": bufera su Totti. I paparazzi hanno sorpreso ancora una volta il Pupone a casa della nuova compagna insieme alla figlia minore, contravvenendo alla richiesta di Ilary di tenere la bambina lontano dai gossip. Novella Toloni il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

Per fortuna che i figli dovevano rimanere fuori da tutto. Nella crisi più chiacchierata dell'anno alla fine nel mezzo c'è finita anche la piccola Isabel. "Quello che ho detto e fatto negli ultimi mesi è stato detto e fatto per proteggere i nostri figli, che saranno sempre la priorità assoluta della mia vita. Confido nel massimo rispetto della nostra privacy, soprattutto per la serenità dei nostri figli", aveva dichiarato Francesco Totti nel comunicato, dove annunciava la separazione da Ilary. Eppure a tradire quella stessa richiesta sembra essere stato lui stesso.

Per tutta l'estate l'ex capitano della Roma avrebbe continuato a portare la figlia minore, Isabel, 6 anni, a casa della nuova fiamma, contravvenendo alla volontà di Ilary di tenere lontano dal gossip i figli. Addirittura qualcuno era arrivato a insinuare, che Totti avesse portato la piccola a casa di Noemi Bocchi quando l'addio con la Blasi non c'era ancora stato, per non attirare l'attenzione quando andava a trovare la 35enne romana in tempi non sospetti.

"Ho le prove dei tradimenti, Totti mi ha scritto". E Fabrizio Corona viene censurato

Francesco Totti è stato invece paparazzato fuori da casa della Bocchi in compagnia di alcuni amici e di Isabel, sabato scorso all'una di notte, a poche ore dalla pubblicazione dell'intervista fiume rilasciata al Corriere. "Dopo la discussa intervista, Totti è di nuovo a casa di Noemi. Un altro affronto all'ex moglie che aveva chiesto di lasciare fuori la piccola da questa relazione", riferisce il settimanale Chi che ha pubblicato le immagini esclusive della serata. E la rivista poi punzecchia il Pupone: "Ha dichiarato di avere visto Noemi con discrezione per i figli, ma se porta la piccola Isabel a casa della stessa Noemi la discrezione dov'è?".

Nell'uscire dall'ingresso secondario a quanto pare, cercando di dribblare l'assalto dei paparazzi assiepati fuori dalla palazzina, dove risiede la Bocchi. "Ha confessato di frequentare Noemi da Capodanno. Perché allora, anche questa volta, esce da casa della Bocchi da un cancello secondario, anticipato dal fidato amico Emanuele, ed ex amico di Ilary?". Domande alle quali sono Totti può rispondere, perché capire le dinamiche all'interno della crisi tra lui e Ilary appare fin troppo difficile. 

Da gazzettino.it il 14 settembre 2022.  

Francesco Totti e Ilary Blasi, l'ex 'fotografo dei vip' Fabrizio Corona torna all'attacco. E pubblica alcune rivelazioni sconvolgenti, apparentemente inviategli da un ex della conduttrice, Sean Brocca, che era fidanzato con lei appena prima dell'inizio della storia d'amore con l'ex capitano della Roma. 

«Lui era innamorato, lei ha fatto carriera»

Sean Brocca è un modello, fidanzato con Ilary Blasi fino a poco prima dell'inizio della storia d'amore con Francesco Totti. Molto vicino a Fabrizio Corona, l'uomo ha mandato alcune rivelazioni che l'ex 'fotografo dei vip' non ha esitato a pubblicare su Instagram. «Siamo stati insieme un anno, ne sono passati 20. Durante la nostra relazione ho fatto un po' il "ca***ne" con le altre (sai come ero), ma non l'ho mai tradita. Sicuramente l'ho trascurata, forse ero troppo giovane o forse non mi sono mai fidato totalmente di lei perché la vedevo troppo sbarazzina» - si legge nelle Instagram Stories di Corona – «Durante gli ultimi 15 giorni di convivenza sapevo che si messaggiava con lui, quando se n'è andata per andare a Roma, ho trovato nell'armadio della casa dove vivevamo due lettere e un regalo (mi sembrava una luna di peluche con al centro una nostra foto). Probabilmente ci teneva, ma di fronte alle dichiarazioni d'amore di Totti non c'è stato nulla da fare». 

L'ex di Ilary Blasi: «Ha sfruttato il nome di Totti per fare carriera»

«Ha fatto parte della mia vita e non provo alcun rancore, anzi, ricordo tante belle risate. Questo è quello che posso dirti, fratello... ti appoggio e ti voglio bene» - le parole di Sean Brocca a Fabrizio Corona - «Comunque non condivido le tue affermazioni su "è stata una storia costruita". Io credo che Totti fosse molto innamorato di Ilary, anche se le ha fatto molte corna. Penso piuttosto che lei si sia sposata solo per convenienza, sfruttando il suo nome per fare carriera. Lui poteva avere tutte le donne del mondo, invece è rimasto sposato 20 anni con lei. Qualche scappatella è normale, ci può stare». 

L'ex di Ilary Blasi: «Ha lasciato Totti solo dopo essersi sistemata»

«Lei era una delle tante senza talento e la sua carriera sarebbe finita con Passaparola, come tutte le altre» - l'altro durissimo affondo di Sean Brocca contro Ilary Blasi - «Alla fine lei l'ha lasciato quando lui ha "perso tutto" e dopo che si era ben sistemata. Lei sapeva e ha accettato per 20 anni perché le conveniva». 

Da repubblica.it il 14 settembre 2022.  

"In lui ho notato sempre la sua estrema sensibilità. Invece lei è una persona fredda, anche divertente e carina, ma una calcolatrice". Anche Rocco Siffredi si è sentito in dovere di dire la sua sulla separazione tra Totti e Ilary Blasi. Intervistato da Mow il celebre attore porno è sceso in campo in difesa dell'ex capitano giallorosso: "Si capisce che è ancora innamoratissimo, ma nello stesso tempo molto dispiaciuto". Ma si cala anche nel ruolo del riconciliatore di famiglie. 

"È anche vero che nemmeno lui è un santo. Tuttavia, l'amore non può essere buttato via per una carnalità, tutti ci passiamo. Insomma, non è un tradimento a pregiudicare vent'anni di rapporto, di famiglia. Consiglio a entrambi di ritrovarsi, dopo aver regalato agli italiani questo gustoso momento di gossip". 

Ma Rocco Siffredi, è solo l'ultimo a prendere parola. 

La scelta di Totti di farsi intervistare per dire la sua verità, in un racconto intriso di accuse ("Mi ha rubato la collezione di Rolex" - "Volevo lasciare la villa ai figli, ma lei la vuole tutta per sé"), in cui scarica tutta la responsabilità della fine della loro relazione su Ilary Blasi  ("Ero fragile, quando avevo bisogno di lei non c'era", "Non sono stato io il primo a tradire") ha permesso a tutti, illustri e meno illustri, di dire la propria.

Il primo ad affidare ai social il suo pensiero sulla matrimonialista scelta da Totti, Annamaria Bernardini de Pace, è stato Gabriele Muccino. 

"L'ho avuta come controparte in un divorzio orribile che ha rovinato un figlio e seminato veleno per 5 anni". Un veleno, ha voluto ricordare il regista, "rimasto radioattivo con strascichi mai più sanati". Un vero e proprio monito alla coppia romana: se volete proteggere i vostri figli, fate attenzione. 

Sul carro, sempre nella giornata di domenica, è salito anche Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia che ha approfittato delle parole dell'ex capitano per commentare con un: "Come potranno sentirsi i figli di Totti leggendo il papà dare della traditrice alla mamma?". Per poi, nonostante sia anch'egli separato e già sposato in seconde nozze, rilanciare la sua battaglia: "Il divorzio è l'inferno, va vietato".

Le parole dell'ex capitano sono poi state l'assist perfetto - e aspettato chissà da quanto - per Fabrizio Corona che non ha perso tempo e si è immediatamente gettato nella polemica, iniziando a consumare la propria vendetta: "Totti e Ilary Blasi si tradiscono da anni". Per poi promettere minacciosamente: "È tempo di dire la verità". E ancora: "Visto che i due piccioncini non fanno nomi e cognomi, toccherà a qualcuno farlo". Per poi iniziare a seminare instagram di indizi e di foto e prima che Instagram bloccasse il suo profilo.

Siffredi, Muccino, Pace, Corona, sono soltanto alcune delle comparse entrate a gamba tesa - e quasi sempre passando via social - per prendersi la scena della separazione più chiacchierata e infuocata dell'estate. Da chi si diverte a ironizzare, come Paolo Bonolis, con il suo cinguettio: "Dalla guerra dei Roses a quella dei Rolex". 

A chi l'ha toccata con molta più signorilità e senza fare nomi, come Andrea Delogu: "Quanto stiamo rivalutando i nostri ex mariti oggi?". Fino a chi, come la giornalista Selvaggia Lucarelli definendo l'intervista di Totti: "Un misto di rancore, indiscrezione, autogossip, mancanza di rispetto per Ilary, sua moglie per 20 anni", non può fare a meno di notare come si tratti di "una strategia pessima che qualsiasi amico o consulente di buon senso gli avrebbe dovuto sconsigliare". 

Giovanna Cavalli per corriere.it il 15 settembre 2021.

Nell’attesa di ciò che accadrà, ciascuno dei due — chiuso nella sua ala della dimora all’Eur da 25 stanze — continua a condurre la vita da separato in villa: zero cordialità, dialoghi ridotti al minimo, civili quanto basta per evitare altri dispiaceri ai tre figli. Più schivo Francesco Totti, che ha abbandonato ogni social, rifugge le occasioni mondane e a malincuore diserta persino lo stadio Olimpico (stasera chissà). Al massimo accompagna a scuola Chanel e Isabel, Cristian agli allenamenti, poco più. Se non ci fosse il fotografo di Chi, che l’ha immortalato ancora, non si saprebbe nemmeno che sabato scorso, a tarda sera, usciva circospetto da casa di Noemi Bocchi, ai Parioli, con una coppia di amici e per mano la bimba più piccola (no, Ilary Blasi non avrà apprezzato).

All’Opera

Più diversa di così non si può, la conduttrice dell’Isola dei Famosi invece ha scelto il Teatro dell’Opera di Roma, martedì, per la sua prima apparizione mondana post-intervista al Corriere della Sera dell’ex marito. In pantaloni e total black, con preziosa borsetta di Gucci, si è seduta in platea ad ammirare l’amica étoile Eleonora Abbagnato (moglie di Federico Balzaretti, ex difensore giallorosso), offrendosi volentieri ai flash e agli sguardi, per giunta accompagnata da un’altra signora che su Instagram si sigla Noemi B. (come Bonomo e non Bocchi, però), personal trainer (tipo Cristiano Iovino, l’uomo dei messaggini compromettenti), forse una sottile provocazione. 

Silenzio

Fedele alla strategia di comunicazione che l’ex Letterina ha scelto fin dall’inizio: silenzio, non una parola («Ha visto cose che potrebbero rovinare cinquanta famiglie» è un virgolettato di amici). Invece loquacissima su Instagram, dove documenta ogni dettaglio delle sue giornate, prima in vacanza, ora in città. Non la trasferta lampo milanese, per festeggiare in discoteca il compleanno della sua agente Graziella Lopedota. Quello voleva tenerlo nascosto e infatti ha evitato foto. 

Gli avvocati

Quanto alla questione più spinosa e incombente, non tira affatto aria di accordo. Meno che mai di separazione consensuale. Anzi, Francesco e Ilary si avviano ineluttabilmente verso la separazione giudiziale. E nemmeno delle più indolori, rapide e amichevoli. Con un patrimonio da 110 milioni (i celebri «du’ spicci», secondo Ilary) i calcoli sono complicati. E i tempi di soluzione si prospettano lunghi.

Dopo la clamorosa confessione a mezzo stampa sul Corriere del sempiterno Capitano della Roma (per i tifosi giallorossi tuttora non esiste che lui) — completa di rimpianti, accuse e recriminazioni — era evidente che i rapporti tra gli ormai ex coniugi non fossero destinati a migliorare. Totti ci ha provato fino all’ultimo a non chiudere nel peggiore dei modi 17 anni di matrimonio che sembrava indissolubile («Cercavo un accordo. Non volevo finire in tribunale, ma Ilary ha detto sempre no») eppure si è infranto. Con i suoi avvocati, Antonio Conte e Annamaria Bernardini de Pace, ha offerto tutto ciò che ragionevolmente poteva, aumentando sempre la posta. Sperando in un sì. 

L’intervista

Non c’è stato niente da fare. Ilary ha rispedito al mittente ogni rilancio, arroccata sulle proprie posizioni. E a quel punto il campione del mondo 2006 ha deciso di parlare. Molti hanno detto e pensato che si sia lasciato influenzare dai suoi legali, chi gli è vicino però spiega che Francesco non è più da un pezzo il Pupone, ma un uomo di quasi 46 anni (li compie il 27 settembre) che sa quello che vuole e non ha timore di dirlo. Non più tardi di tre anni fa ha affrontato una conferenza stampa con un centinaio di giornalisti per dire addio alla Roma — dopo i contrasti con la proprietà Pallotta — parlando a braccio, senza rete. Anche se qualche dubbio adesso lo assale, a proposito di quell’intervista così sofferta.

A questo si aggiunge un dispiacere collaterale. A quanto pare una persona a lui molto cara, di quella cerchia ristretta di affetti che lo protegge da sempre, pur sapendo che sua moglie lo stava facendo pedinare da un investigatore, non lo ha avvisato, chissà perché. E Totti, quando lo ha scoperto, l’ha presa malissimo, vivendolo come un vero tradimento. Ma non è niente, di fronte a quel che dovrebbe patire se davvero Ilary accettasse l’invito di Verissimo e di Silvia Toffanin (conferme ancora non ce ne sono) per raccontare a cuore aperto tutta ma proprio tutta la sua verità. Un’anteprima esclusiva di quanto accadrà nell’aula del tribunale.

Da leggo.it il 15 settembre 2021.

Emergono sempre più dettagli su Francesco Totti e Ilary Blasi. Le pagine di gossip si riempiono giorno dopo giorno di nuovi particolari sulla separazione dell'anno che, ormai da mesi, sta appassionando tutti. 

Ormai l'ex capitano della Roma e la nuova fiamma, Noemi Bocchi, esteticamente uguale alla conduttrice, non si nascondono più. Lo dimostrano foto e video, a cui si aggiunge l'ultimo pubblicato su Instagram da Anna Boschetti, ex protagonista di Temptation Island e titolare del ristorante La Villa di Roma, insieme al compagno Alex Nuccetelli. Proprio in quel locale, Totti, lo scorso ottobre, ha trascorso una serata con l'ormai ex moglie. E in quella serata, c'era anche Noemi. 

Il video pubblicato da Anna Boschetti risale all'ottobre del 2021 e mostra Totti e Ilary Blasi mentre cenano insieme al ristorante. I due sono seduti agli estremi di un lungo tavolo di amici. Sono distanti l'uno dall'altra, non si guardano e non si cercano. «Non si erano lasciati ancora, ma erano già in profonda crisi» ha scritto la proprietaria sotto la story sul suo profilo Instagram.

Questo dettaglio spiegherebbe la presenza di Noemi Bocchi la stessa sera: la donna che diversi mesi dopo sarebbe diventata la nuova fiamma del capitano della Roma era seduta a un tavolo con un'amica a pochi metri di distanza. Di certo non una coincidenza e molto probabilmente una scelta azzardata, sinonimo del fatto che l'amore con Ilary Blasi era già arrivato al capolinea. 

Totti e Noemi Bocchi si sarebbero conosciuti la scorsa estate e avrebbero iniziato a frequentarsi già ad ottobre, come dimostrano alcuni video di Alex Nuccetelli risalenti appunto alla stessa serata. Il loro rapporto stava quindi crescendo con il tempo, ma era nascosto. 

A insinuare il dubbio l'ormai famosa foto della ragazza allo stadio, seduta poche file dietro il capitano della Roma. Quando la notizia della separazione è stata resa pubblica, anche il flirt tra Noemi e Totti è uscito allo scoperto, fino alla conferma del Capitano stesso nell'intervista al Corriere. Sempre più fotografie dei paparazzi e appostamenti, fino all'ultimo servizio pubblicato su Chi che dimostra come i due, ormai, non vogliano più nascondersi, anzi.

Dagospia il 17 settembre 2022. LA RETTIFICA DELL'AVVOCATO DI ILARY ALESSANDRO SIMEONE

Caro Dago,

questa mattina hai ripubblicato un articolo del sito Leggo.it, in cui è scritto che io avrei dichiarato che la mia Assistita “conosce molti segreti sull’ex marito che potrebbero rovinare oltre cinquanta famiglie”. 

La notizia è semplicemente falsa, come già chiarito ad altri siti e organi di informazione che hanno rettificato o cancellato articoli che la contenevano.

Né io, né tantomeno la Signora Blasi -che ha seguito la strada del silenzio a protezione dei figli- abbiamo mai fatto l’affermazione che, erroneamente, il sito Leggo.it mi ha attribuito; non è mio uso, né deve essere uso di un avvocato scrupoloso e cosciente, rilasciare dichiarazioni con toni o contenuti ritorsivi, minatori o allusivi.

Sono sicuro che, con la Tua consueta solerzia, vorrai pubblicare questa mia rettifica.

Buon lavoro. Avv. Alessandro Simeone

Da fanpage.it il 17 settembre 2022.

Tra i nomi dei presunti flirt extraconiugali di Ilary Blasi è comparso più volte anche quello di Cristiano Iovino. Il personal trainer, finora, si è sempre rifiutato di parlare del rapporto con la conduttrice, ma in una nota lasciata all'Ansa, ha finalmente rotto il silenzio, negando qualsiasi tipo di coinvolgimento sentimentale con la ex moglie di Francesco Totti.

Solo pochi giorni fa, raggiunto dall'Adnkronos, aveva detto di non volersi esprimere in merito all'intervista rilasciata dall'ex Capitano della Roma al Corriere della Sera, nella quale si diceva che Ilary Blasi aveva stretto rapporti piuttosto intimi con più di un uomo prima della rottura definitiva dal marito. Vista l'insistenza con cui il nome di Cristiano Iovino è comparso in questa vicenda, l'influcer ha sentito l'esigenza di voler chiarire, una volta per tutte, la natura del suo rapporto con la conduttrice e in un comunicato rilasciato nelle scorse ore si legge: In merito agli articoli diffusi negli ultimi giorni dagli organi di stampa, il signor Cristiano Iovino invita tutti gli operatori dell'informazione a non dare credito alcuno a chi lo addita, mediante ricostruzioni false e strumentali, come protagonista di vicende dalle quali è del tutto estraneo. Precisa di conoscere la signora Blasi meramente in quanto amica di conoscenti comuni, tra i quali la sua agente Graziella Lopedota. 

Da leggo.it il 17 settembre 2022.

Le polemiche non finiscono mai. Soprattutto se ad esserne coinvolto è Francesco Totti. La sua intervista al Corriere della Sera ha alimentato quello che, ormai, è diventato il caso più seguito degli ulitmi due mesi: la separazione con la moglie Ilary. A quell'intervista bomba non è rimasta indifferente neanche la Federpol, la Federazione Italiana degli Istituti privati per le investigazioni.

Tanto che Luciano Tommaso Ponzi, presidente nazionale di Federpol, ha dichiarato all’Adnkronos di essere piuttosto adirato per le affermazioni del Pupone, tanto da voler procedere legalmente contro l’ex capitano della Roma per il modo in cui ha parlato della professione dell’investigatore privato: «A tutela della propria onorabilità, in merito ai continui e inappropriati tentativi di denigrare la reputazione della figura dell’investigatore privato che accoglie al suo interno seri professionisti, assolutamente rispettosi delle leggi (molte) e adeguatamente formati in tal senso, la Federpol, federazione più rappresentativa della categoria, si riserva di agire le vie legali». 

La Federpol ha puntato il dito anche contro i salotti televisivi nei quali si è parlato parecchio dell’investigatore privato assunto da Ilary Blasi per scoprire della storia clandestina tra Francesco Totti e Noemi Bocchi: «Non so più come ripetere che la figura dell’investigatore privato, così tanto romanzata, è fatta di professionisti seri ed esemplari, che conoscono il loro lavoro e sanno rispettare la legge e, soprattutto le persone. Forse chi parla nei salotti televisivi non è ben informato e non conosce bene la normativa, l’investigatore privato è autorizzato con licenza governativa che risponde a stringenti requisiti oggettivi e soggettivi».

Le dichiarazioni al Corriere della Sera da parte di Francesco Totti riportavano come l’ex moglie avesse ingaggiato un investigatore privato per indagare: «Ilary mi ha fatto seguire da un investigatore privato. Persone a lei vicinissime mi hanno messo le cimici in macchina e il gps per sapere dove andavo, quando bastava che me lo chiedesse. Altre persone si sono appostate sotto la casa di Noemi». Parole alle quali la Blasi non ha mai replicato direttamente. Tramite il suo legale, Alessandro Simeone, l’ex Letterina di Passaparola si è limitata a far sapere che conosce molti segreti sull’ex marito che potrebbero rovinare oltre cinquanta famiglie.

Dalle ultime indiscrezioni, sembra che Totti e Ilary siano ora pronti a mettere da parte divergenze e incomprensioni per raggiungere un accordo pacifico, per il bene dei tre figli Cristian, Chanel e Isabel, che entrambi vogliono proteggere. Come riporta Il Messaggero, il primo passo di questo accordo includerebbe uno stop alle dichiarazioni pubbliche. Sembra, inoltre, che i due stiano lavorando anche ad un comunicato, stavolta congiunto, che metterebbe un punto alla guerra. Intanto ha rotto il silenzio Cristiano Iovino, il modello e personal trainer romano da mesi additato come presunto amante di Ilary Blasi. Il 40enne, che in passato ha amato Sabrina Ghio, Zoe Cristofoli e Giulia De Lellis, ha smentito tutto, ribadendo di avere con la presentatrice dell’Isola dei Famosi solo un rapporto d’amicizia e nient'altro.

Da fanpage.it il 18 settembre 2022.

Roberto D'Agostino apre il segmento del talk su Francesco Totti e Ilary Blasi a Domenica In. Il direttore e fondatore di Dagospia conferma che la storia tra il capitano storico della Roma e la conduttrice era finita da tempo, per colpe congiunte. "La loro storia è come quella di ‘È nata una stella", lei non era famosa poi la sua fama è diventata grande quanto quella di Totti". E sarebbe in quel momento che Ilary avrebbe, secondo D'Agostino, cominciato ad allontanarsi da suo marito. "Ma nessuno poteva scriverlo", dice D'Agostino. Poi lancia la bomba: "Totti ha salvato i messaggi erotici di Ilary Blasi ". E sulla storia dei Rolex: "Lui si è fatto dare dalla banca il video di Ilary e del padre che portano via i Rolex".  

Le parole di Roberto D'Agostino 

Roberto D'Agostino è un fiume in piena e spiega che i rapporti tra i due erano logori già da tempo, ma nessuno poteva dirlo perché la potenza di Francesco Totti è molto influente a Roma: 

Nessun giornale si poteva permettere di dire che Ilary Blasi e Francesco Totti non stavano più insieme da tempo, perché un giornale avrebbe perso immediatamente quarantamila copie. Mettersi ad attaccare Totti, ti bolla. Dire che Totti è cornuto, ti ammazza. Perché non si può capire quello che Francesco Totti è, fuori Roma. 

I messaggi erotici di lei e il video dei Rolex 

Roberto D'Agostino prosegue nel suo racconto, alzando la posta e riferendo due notizie in suo possesso: gli screenshot dei messaggi erotici di Ilary Blasi e il video della sicurezza della banca nel quale si vedrebbe Ilary Blasi e suo padre prendere i Rolex dalla cassetta di sicurezza. 

Lei aveva ricevuto l'assicurazione da Francesco Totti che lui non aveva nessuna storia extraconiugale. Quando hanno capito entrambi che la loro storia era finita, si sono detti di aspettare la fine della scuola per dare l'annuncio della fine della loro relazione. Lei, però, rompe il comunicato consensuale perché Alfonso Signorini pubblica le foto di lui che la sera prima era stato a casa di Noemi. A quel punto, lei fa saltare tutto ed è diventata una guerra dei Roses. Ognuno ha cose dell'altro, devastanti. L'intervista di Totti a Cazzullo è un atto giudiziario: ‘non sono io il mostro', dice con quella intervista, ‘perché lei ha altre storie'. Totti ha screenshottato i messaggi erotici di Ilary Blasi. 

 Totti-Blasi, gli avvocati di lei smentiscono: «Mai esistiti messaggi erotici con soggetti terzi». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 18 Settembre 2022.

Il fondatore e direttore di Dagospia Roberto D'Agostino ne ha parlato durante la puntata di Domenica In. L'ex capitano della Roma sarebbe anche in possesso del video che ritrae la ex moglie mentre preleva i Rolex dalla cassetta di sicurezza in banca 

«Non esistono, né sono mai esistiti messaggi erotici scambiati dalla mia assistita (Ilary Blasi, ndr) con soggetti terzi ». È questo il contenuto di una nota diffusa dal legale della conduttrice dopo le dichiarazioni di Roberto D'Agostino a Domenica In. Secondo il fondatore di Dagospia, Francesco Totti avrebbe salvato i messaggi a contenuto sessuale tra la ormai ex moglie e altri uomini.

Secondo la tesi esposta durante il talk di Rai Uno da D'Agostino, l'amore tra la conduttrice e l'ex capitano della Roma sarebbe finito molta prima della rottura, ufficializzata quest'estate per colpe reciproche. «La loro storia è come quella di "È nata una stella"» ha proseguito il direttore, «lei non era famosa, poi la sua fama è diventata grande quanto quella di Totti», causando un allontanamento dal marito.

Ma non è finita. D'Agostino ha anche rivelato che Totti sarebbe in possesso dei video che ritraggono Ilary e il padre mentre prelevano i suoi Rolex dalla cassetta di sicurezza della banca in cui erano custoditi.

Lettera a Maria Corbi pubblicata da “Specchio – La Stampa” il 18 settembre 2022.

Cara Maria, sono un uomo deluso dall'amore e dal matrimonio. Dopo 20 anni, io e mia moglie ci siamo separati. Siamo praticamente cresciuti insieme visto che ci siamo conosciuti al primo giorno di Università. Poi io ho mollato mentre lei ha continuato, decisa a diventare «qualcuno» a tutti i costi. 

La vita però è strana e alla fine sono stato io, quello senza laurea a fare carriera, almeno un po' di carriera. Mentre lei si è arenata in uno studio di commercialista dove in pratica fa l'impiegata. Mi accusa di averle tarpato le ali, perché se avesse avuto il mio aiuto con i figli (due, meravigliosi) adesso sarebbe realizzata. Chissà, magari è anche vero. Ma il punto non è questo. E' che lei mi ha lasciato, accusandomi di qualsiasi cosa.

L'unica cosa vera è che l'ho tradita. Niente di serio ma lei è impazzita. Lo ha scoperto frugando nel mio telefonino. Un gesto che ho trovato violento e volgare. Sono stato cretino a tenermi i messaggi incriminati, ma mi facevano compagnia, lusingavano il mio ego, e anche il mio cuore, visto che a casa era un inferno di silenzio e recriminazioni. 

Così mia moglie è andata da un avvocato, un suo vecchio amico, e sospetto che lo abbia fatto ben prima di trovare i messaggini. Perché è stata velocissima nello svuotarmi il conto, la cassetta di sicurezza che avevamo in comune, cambiare la serratura alla casa di montagna che anche se è intestata a lei avevamo comprato insieme. 

Così io sono uscito di casa solo con la mia valigia di abiti. Anche il Rolex mi ha sequestrato, dicendomi che me lo aveva regalato lei. E allora i regali che le ho fatto io? Mica me li ha ridati! Sono stato costretto ad andare da un avvocato anche io, ho scelto una donna perché penso che possa capire meglio la psicologia della mia ex. Mi ha detto senza giri di parola che «siamo in guerra», che la strategia scelta dalla controparte è aggressiva e dobbiamo rispondere con le stesse armi.

Mi ha chiesto se avessi mai spiato il telefono o il computer di mia moglie, stampandone il contenuto. Ho risposto «No». Mi ha chiesto se prima di intestarle l'appartamento avevamo firmato un foglio in cui si chiariva che ero stato io a mettere tutti i soldi. Ho risposto «No». Mi ha chiesto se mia moglie era mai stata violenta, anche solo con un gesto di stizza verso di me e i miei figli. E se sarei stato disposto a denunciarla penalmente perché probabilmente lei lo avrebbe fatto. Ho risposto ancora di «No». Il mio avvocato scuoteva la testa, incredula che non mi fossi tutelato in nessun modo. «Tutti lo fanno», mi ha detto facendo trapelare la sua disapprovazione. 

Oggi leggo del divorzio di Totti e penso che sta vivendo quello che sto vivendo io. Il tradimento di un amore, di una vita. Come se non riconoscessi più Laura, mia moglie. Ma veramente è così feroce? Per due spiccioli e una casa? Non potevamo trovare un accordo? La verità è che forse se io e lei ci fossimo concessi del tempo e poi una chiacchierata dove decidere come fare per salvaguardare la nostra dignità oltre che la nostra sicurezza e quella dei nostri figli, ora non sarei qui a scrivere questa lettera.

Ma ci sono gli avvocati di mezzo ed è scoppiata la guerra. Mi chiedo a che pro? anche se poi la risposta è semplice: una separazione giudiziale è molto più proficua di una consensuale. E quindi occorre far sì che i clienti si «sparino addosso», si distruggano come nella guerra dei Roses e adesso nella guerra dei Totti. Io vorrei preservare i miei ragazzi, ormai adolescenti, ma capisco che non posso alzare la bandiera bianca facendomi togliere tutto compresa, lo ripeto, la dignità. E allora devo rispondere accusa ad accusa, calunnia a calunnia, colpo basso a colpo basso. 

Mi faccio schifo e avrei voglia di lasciar perdere tutto, che si prendesse tutto. Perché a rischio non c'è solo il conto in banca ma anche la mia serenità, e non ha prezzo. Poi però penso che non è giusto, mi monta la rabbia e il desiderio di distruggerla. Lei, l'amore della mia vita fino a poco tempo fa, la madre dei miei figli. Come è crudele la vita. Come siamo crudeli noi, incapaci di conservare un sentimento anche dopo che la passione è sopita. Farsi la guerra dopo aver fatto l'amore è veramente un crimine.

Lo so, ma non ho altra scelta.

Fabio 

LA RISPOSTA DI MARIA CORBI

Caro Fabio, dalle mie parti si dice: «chi ha più testa ce la metta». E io aggiungerei: «chi ha più educazione ce la metta». Quindi se pensi di essere tu il più dotato nella coppia cerca di non reagire come nella preistoria, «dente per dente». O come nella famiglia Totti: «Borsetta griffata per Rolex». La guerra non giova mai a nessuno, nemmeno a chi la vince. E sicuramente tra le vittime «civili» ci sono i figli costretti ad assistere a scene sciagurate e incivili. 

E' vero, ha ragione il regista Gabriele Muccino, quando dice che spesso sono gli avvocati a sollevare gli animi e ad armare i loro clienti con le peggiori intenzioni. Ma è anche vero che al proprio avvocato si può dire: «no io questo confine non voglio superarlo, troviamo un accordo».

Credo che sarebbe d'aiuto al giorno d'oggi, soprattutto nei matrimoni celebrati solo civilmente, permettere i patti prematrimoniali, in modo che dopo non ci sia modo di litigare, almeno non troppo. La telenovela dei Totti ci insegna che non c'è fine al peggio quando si prende la strada della rissa. Corna messe in piazza, dispetti, avidità, bugie. Chi più ne ha più ne metta. E che Francesco Totti almeno eviti di dire che se ha parlato «lo ha fatto per i figli». E se lo faceva contro i suoi figli cosa sarebbe accaduto? La guerra mondiale? E' tutto talmente triste e misero che alla fine non rimane che ridere (amaro).

Salvatore Riggio per corriere.it il 18 settembre 2022.

Se in Italia tra Francesco Totti e Ilary Blasi c’è un’altra contesa da risolvere, ossia i rolex come l’ex capitano della Roma ha raccontato nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera , una questione simile va risolta anche in un’altra coppia. Si tratta di Gerard Piqué e della sua ex compagna, Shakira. 

È noto che i due, dopo oltre 10 anni e due figli, si sono separati a inizio giugno dopo che la cantante colombiana ha scoperto il tradimento del difensore del Barcellona con una studentessa di 23 anni, Clara Chia Marti, una giovane che lavora per lui. Adesso Shakira ha chiesto a Piqué di restituirgli i premi vinti in carriera (e che lui conserverebbe nel suo ufficio): tre Grammy Awards (il più prestigioso riconoscimento in ambito musicale e un premio tra i più importanti dell’industria dello spettacolo) e 12 Latin Grammy Awards (riconoscimenti dell’Accademia Latina delle Arti e delle Scienze della Registrazione, assegnati per premiare un’affermazione eccezionale nell’industria musicale latina). 

I premi sarebbero nelle mani di Piqué e Shakira teme che i trofei possano essere usati come una sorta di moneta di scambio nella sfida tra i due per trovare un accordo sull’affidamento definitivo dei figli che per ora andranno a Miami, in Florida, con Shakira stessa. Che ha deciso di lasciare Barcellona e la Spagna, accollandosi tutte le spese di mantenimento.

Piqué si vedrà riconosciuti 2,5 milioni di euro che servono a coprire il 20% di un debito e almeno cinque viaggi in prima classe da Barcellona a Miami all’anno per vedere Milan e Sasha. Inizialmente era una scelta non condivisa dal catalano, ma poi i due sono riusciti a trovare un accordo, a quanto sembra per ora temporaneo. Intanto, però, i bambini hanno già conosciuto Clara, la nuova fidanzata del padre, di Piqué. Vicenda che ha fatto infuriare Shakira.

Da leggo.it il 19 settembre 2022.

Ilary Blasi risponde a Roberto D'Agostino e lo fa tramite il suo avvocato, Alessandro Simeone. Il fondatore di Dagospia, ospite oggi di Domenica In, aveva parlato di 'messaggi erotici', in riferimento alla separazione travagliata tra la showgirl e l'ex calciatore Francesco Totti, che si sono separati dopo vent'anni di matrimonio.

In una nota, Simeone smentisce le parole di D'Agostino: «Con riferimento a parte delle dichiarazioni rese oggi da Roberto D'Agostino durante la trasmissione Domenica In», scrive il legale, «precisa che non esistono né sono mai esistiti messaggi 'erotici' scambiati della sua assistita con soggetti terzi».

Francesco Fredella per iltempo.it il 19 settembre 2022.

Adesso nell'affaire Totti - Blasi spunta un investigatore privato: Ezio Denti, noto anche alla criminologia perché ha seguito i casi più importanti. Si tratta di un'indiscrezione fortissima, un altro tassello nel puzzle che si sta componendo in questi mesi dopo la rottura definitiva tra l'ex capitano della Roma e Ilary Blasi. La conduttrice, secondo rumors, avrebbe assoldato Ezio Denti per metterlo alle calcagna di Totti. Non dimentichiamo che una perizia investigativa potrebbe fare la differenza durante le udienze di separazione e non dimentichiamo che il patrimonio è di ben 100 milioni di euro.

La coppia Totti-Blasi ha annunciato la rottura prima dell'estate. Poi il silenzio assoluto fino all'intervista-bomba di Totti al Corriere della Sera. Ma l'ennesimo scoop arriva da Dagospia, che dice: "Il Pupone ha gli screenshot dei messaggi scambiati da Ilary con il suo amante del nord (notizia che l'avvocato della Blasi smentisce); Totti ha i filmati di quando gli investigatori privati gli mettono le cimici in macchina per seguirlo; Totti si è fatto dare dalla banca i filmati di Ilary e del padre che portano via i Rolex dalla cassetta di sicurezza; Lei ha messo un investigatore privato alle calcagna di Totti“. Appunto, si tratterebbe di Ezio Denti. L'ennesima bomba che esplode a 3 mesi dall'annuncio della fine della storia d'amore tra Totti e Ilary Blasi.

Niccolò Dainelli per leggo.it il 20 settembre 2022.

Francesco Totti e Ilary Blasi continuano ad appassionare il mondo del gossip, ma questa volta a rubare la scena è la figlia Chanel. A 15 anni non deve essere certo una passeggiata affrontare la separazione dei genitori, soprattutto se ogni giorno l'argomento è affrontato da tutti. E così Chanel Totti reagisce a modo suo, pubblicando un nuovo video sul suo profilo TikTok.

Il video che fa discutere

Mentre mamma Ilary e papà Francesco si affrontano a colpi di indiscrezioni e smentite, Chanel è confusa. Mentre la separazione di una delle coppie dello spettacolo più amate dagli italiani continua a riempire i giornali scandalistici e  i palinsesti dei programmi televisivi, la secondogenita di Francesco Totti e Ilary Blasi torna a far discutere il mondo del gossip. Il suo riferimento alla crisi dei genitori sembra inequivocabile e il suo video su TikTok diventa virale. 

Il riferimento ai genitori

Sul profilo TikTok di Chanel Totti è comparso un nuovo video nel quale la ragazza appare allo specchio con indosso un top nero a maniche lunghe, un paio di short di jeans bianchi e un cappellino da baseball. E il suo commento al video è «Non so cosa pubblicare». Ma per i suoi follower è stato impossibile non notare la canzone in sottofondo... Che difficilmente non rimanda allo scandalo che ha coinvolto, nel corso dell'estate, i suoi genitori. 

«Mi son fatto l'amante»

Chanel Totti canta su TikTok «Mi son fatto l'amante» di Natale Galletta. La canzone neomelodica recita: «Hai fatto sempre le cose sbagliate / faciss mai na cos ca m’ fa piacer / ed io come nu scem’ ti ho sempre voluta / con la speranza che sarenìsti un po’ cambiata». Nel video della 15enne in molti hanno visto un chiaro riferimento al gossip che coinvolge, ormai da mesi, Francesco Totti e Ilary Blasi. E in molti, addirittura, hanno colto una chiara frecciatina a papà Francesco. «Sempre bella e con le frasi giuste, pensa a te amore bella. Hai tutta la vita davanti fai ciò che ti rende felice e serena», ha scritto un follower. E poi: «Ricordati che le colpe vanno però divise per entrambi, errori condivisi, anche mamma ha fatto errori… Stai vicina ad entrambi, il tempo aggiusterà le cose», scrive un altro utente.

Da “il Giornale” il 20 settembre 2022.

A proposito della telenovela fra l'ex calciatore della Roma Francesco Totti e la di lui consorte (ora ex) Ilary Blasi. Quando alla base della ricchezza e della fama non c'è un adeguato livello culturale, non dovrebbe suscitare meraviglia se poi tutto finisce in cafonaggine. Calogero Chinnici 

Risposta di Tony Damascelli

Gentile signor Chinnici, rispondo alla Sua lettera che è simile a molte altre su questa vicenda frizzante. È curioso come alcuni giornali e alcuni opinionisti ritengano il dissidio tra un calciatore e la moglie, attrice televisiva, come un pettegolezzo senza alcun risvolto interessante e poi invadano i social con tweet e affinità varie su questioni ugualmente marginali ma utili per farsi riconoscere.

La storia Blasi-Totti, citati per cognome, appartiene alla cronaca rosa che è stata trascurata dai giornali per lasciare il posto alla politica «grigia» con i risultati che poi conosciamo. La cronaca rosa è figlia della letteratura rosa che ha radici storiche, passando dalle fiabe ai romanzi. Chi legge, ascolta, osserva cerca di sbirciare la vita altrui, il gossip è dunque popolare ma quando scade nella volgarità o nell'insulto allora cambia la sua tinta e da rosa diventa nera. 

I tabloid inglesi venderebbero anche gli spaghi (termine tipico del giornalismo antico) su una vicenda come quella di Ilary e Francesco, citati stavolta per nome di battesimo, con fotografie in prima pagina, testimonianze, pedinamenti, come hanno fatto e continuano a fare con la famiglia reale. Da noi abbiamo i rappresentanti dell'intellighenzia che sorvolano per dedicarsi non si sa bene a che cosa ma rivolta sicuramente a loro medesimi.

Shakira e il divorzio da Piqué, l’intervista: «L’ora più buia della mia vita». Gregorio Spigno su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.  

La cantante, ormai ex del calciatore spagnolo che aveva conosciuto nel 2010 prima del Mondiale in Sudafrica, ha aggiunto: «Ci sono giorni in cui devo raccogliere pezzi di me stessa dal pavimento». 

«È davvero difficile parlarne. Sono rimasta in silenzio e ho provato ad elaborare tutto. Sì, è difficile parlarne soprattutto perché lo sto ancora attraversando, perché sono sotto gli occhi del pubblico e perché la nostra separazione non è come una separazione normale». Per la prima volta in assoluto, Shakira parla della separazione con il calciatore del Barcellona Gerard Piqué. Un rapporto di cui, negli ultimi mesi, si è parlato molto. Adesso lo ha fatto lei, la diretta interessata, senza nascondere i problemi e le fragilità a cui deve far fronte ultimamente. «Non è stata dura solo per me, ma anche per i miei figli : incredibilmente difficile. Ho paparazzi che si accampano davanti a casa mia 24 ore su 24, 7 giorni su 7. E non c’è posto in cui possa nascondermi con i miei figli, se non dentro la mia stessa casa. A loro cerco di nascondere la situazione il più possibile: per due bambini che stanno cercando di elaborare la separazione dei genitori è sconvolgente».

Shakira, poi, racconta anche di quando per amore di Piqué stoppò momentaneamente le sue produzioni musicali: «Ho messo da parte la mia carriera, l’ho fatto per lui, per stargli vicino. Ho rinunciato io perché lui non ci pensava proprio e allora sono venuta a vivere in Spagna per permettergli di continuare la sua carriera. Ho sempre dato tutta me stessa per questa relazione, ci ho creduto fino alla fine, il mio è stato un sacrificio d’amore. La cosa più devastante è stata dover far gestire ai miei figli questa separazione. La delusione è stata quella di vedere qualcosa di sacro e speciale come pensavo fosse il rapporto che avevo con il padre dei miei figli e vedere che si è trasformato in qualcosa di volgare e sminuito dai media. E tutto questo mentre mio padre era ricoverato in terapia intensiva. Come ho detto altre volte, quel periodo è stato il più buio della mia vita».

Ma la musica, oggi, è tornata. E alla cantante serve come distrazione dai brutti pensieri: «Penso che scrivere musica sia come andare dallo strizzacervelli, solo più economico. E mi aiuta a guarire. Ci sono stati giorni in cui ho dovuto raccogliere pezzi di me stessa dal pavimento. E l’unico modo per farlo, per farlo davvero, è stato attraverso la musica. E sento che in questo momento della mia vita, che è probabilmente uno dei più difficili e bui della mia vita, la musica ha portato la luce».

Angela Casano per leggo.it il 26 settembre 2022.

Il rapporto, ormai inesistente, tra Ilary Blasi e Francesco Totti smuove ancora la macchina infernale del gossip. Nonostante siano passati mesi dalla conferma ufficiale, la separazione tra Totti e la Blasi continua ad essere sotto ai riflettori e ancora l'argomento più discusso sulle pagine di gossip. Ogni giorno nuove indiscrezioni sulla coppia più chiacchierata d'Italia, a parlare ancora una volta Alex Nuccetelli. Il pr romano, carissimo amico dell'ex capitano giallorosso, ha rivelato nuovi dettagli sul divorzio, soffermandosi su alcune questioni intime alquanto scottanti. 

Cosa ha detto

Alex Nuccetelli è stato ospite del programma radiofonico Turchesando. Il pr ha rivelato alcuni lati inediti che hanno fatto subito infiammare il web. Innanzitutto, ha specificato che la reazione tra Francesco Totti e Noemi Bocchi scorre a gonfie vele: «Stanno molto bene entrambi. Lei non ha cavalcato l'onda mediatica con interviste, followers, speculazioni. Si è comportata bene. In questo sono in sintonia e molto coesi». Ha riferito ai microfoni del programma di Turchese Baracchi. 

La sfera intima

Poi la traiettoria dell'intervista ha cambiato verso e Nuccetelli ha rivelato aspetti sulla sfera intima, ormai esaurita, tra Totti e Ilary. «Francesco è molto focoso e caliente e una volta, parecchi anni fa, mi fece questa battuta: "Ma questa torna da Milano e mi dice che ha mal di testa" Queste battute nei primi mesi, non so come hanno proseguito per altri vent’anni».

Nonostante Alex abbia preso le difese dell'amico Totti durante l'intervista, in merito alle indiscrezioni sui presunti tradimenti ha confessato: «Non dico che Francesco sia stato totalmente un santo. Però in questi anni di tacito accordo, se lui avesse avute dieci frequentazioni e lei due o tre, e una pure longeva per anni… mi sembra più grave», facendo riferimento a «qualcuno dei piani alti di Mediaset».

Niccolò Dainelli per leggo.it il 27 settembre 2022.

Ilary Blasi non ci sta. Per la conduttrice dell'Isola dei Famosi è arrivato il momento di dire basta. E lancia un messaggio forte e chiaro a tutti. Per mesi la sua separazione con Francesco Totti è stata al centro del gossip e in molti hanno lanciato illazioni e opinioni, spesso anche forti. Su tutti il miglior amico del suo ex marito che, adesso, ha deciso di denunciare.

La goccia

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l'ultima intervista rilasciata da Alex Nuccetelli. Ospite del programma radiofonico Turchesando, il migliore amico di Francesco Totti, oltre a rivelare che tra l'ex Pupone e la sua nuova fiamma Noemi Bocchi tutto procede nel migliore dei modi, si è lanciato in rivelazioni piccanti sulla vita coniugale dei due ex coniugi.

E su questo Ilary Blasi non può certo passare oltre. Così l'ex letterina di Passaparola ha passato tutto ai suoi legali. Lo staff di avvocati di Ilary fa sapere che la showgirl «ha dato mandato al proprio difensore (Alessandro Simeone, ndr) di procedere contro Alex Nuccetelli a fronte della perseverante opera di propagazione di notizie palesemente false e aventi contenuto diffamatorio». 

Le sue parole

«Francesco e Noemi? Stanno molto bene entrambi. Lei non ha cavalcato l'onda mediatica, si è comportata bene. Sono in sintonia e molto coesi», queste il gossip fatto del pr e amico di Francecso Totti. Ma era poi evidente che Nuccetelli volesse parlare della crisi tra il suo amico e l'ex moglie, Ilary Blasi. E, ancora una volta, Alex Nuccetelli non ha certo risparmiato parole forti nei confronti della showgirl, lasciando intendere che Ilary stia seguendo una strategia ben precisa e che i suoi sentimenti nei confronti dell'ex marito si sono assopiti da molto tempo. 

«Di amore, qui, non se ne parla più ormai», ha detto Nuccetelli che, incalzato dall'intervistatrice, ha parlato della sfera intima tra i due. «Francesco è molto focoso e caliente e una volta, parecchi anni fa, mi fece questa battuta: 'Ma questa torna da Milano e mi dice che ha mal di testa' ed erano solo i primi mesi di relazione, non so come hanno proseguito per altri vent'anni».

"Ora racconto tutto". L'ira di Nuccetelli contro la Blasi dopo la diffida. Il pr romano, amico personale di Totti, è tornato all'attacco della conduttrice e sui social ha minacciato di fare ulteriori rivelazioni nonostante la diffida. Novella Toloni il 28 Settembre 2022 su Il Giornale.

La diffida, che gli avvocati di Ilary Blasi hanno fatto recapitare a casa di Alex Nuccetelli, non sembra avere sortito l'effetto desiderato. Il pr romano, l'unico che dal giorno dell'addio tra Totti e Ilary continua a fornire dettagli sulla coppia, non vuole rimanere in silenzio e con un nuovo video pubblicato sui social ha minacciato la conduttrice dell'Isola. "Sono pronto a raccontare tante altre cose. Così finalmente mi libero di tutto", ha detto Nuccetelli, che ha addirittura accusato Ilary di avere "bloccato" la sua partecipazione in alcuni reality Mediaset.

La diffida di Ilary Blasi

Dopo mesi di dichiarazioni, notizie più o meno false e pettegolezzi, Ilary Blasi ha deciso di mettere un freno alle dichiarazioni rilasciate dal pr romano, l'unico autorizzato da Francesco Totti a parlare del matrimonio e della crisi. In questi mesi Alex Nuccetelli ha rivelato dettagli fin troppo intimi della coppia e dopo l'ultima intervista la conduttrice dell'Isola dei famosi ha deciso di passare la palla nelle mani dei suoi avvocati.

L'avvocato della Blasi, Alessandro Simeone, ha così diffidato Alex Nuccetelli "a fronte della perseverante opera di propagazione di notizie palesemente false e aventi contenuto diffamatorio". In sintesi il personal trainer capitolino avrebbe dovuto chiudere la bocca per non incorrere in ulteriori grane legali, ma in realtà ha fatto sapere di essere pronto a fornire ulteriori dettagli contro Ilary Blasi.

La reazione di Nuccetelli alla diffida

In un video pubblicato nelle storie del suo profilo Instagram, il pr romano ha utilizzato toni forti contro la conduttrice dell'Isola, rivangando vecchie storie sul suo ruolo nella conoscenza tra lei e il Pupone: "Farmi scrivere dagli avvocati e procedere contro di me, significa procedere contro una persona povera. Signora Ilary Blasi, le ricordo che la nostra conoscenza e il nostro incontro hanno letteralmente cambiato in positivo la sua vita, ma non la mia che ha avuto difficoltà abnormi".

Poi Nuccetelli ha minacciato di fare nuove scottanti dichiarazioni: "Sono contento che si vada in questa direzione, almeno così mi libero completamente di tutto. Ho molte altre cose da raccontare a partire dall'opera di convincimento a Francesco". Infine ha accusato Ilary Blasi di avere intralciato la sua partecipazione a programmi Mediaset: "Quattro volte sono stato frenato proprio dalla signora in tutti i reality Mediaset, non so se mi confonde con il marito". Se nuove dichiarazioni arrivassero come promesso da Nuccetelli, però, le sue parole potrebbero costargli ben più di una diffida.

Dopo Totti e la Blasi, si separano anche Alessia Marcuzzi ed il marito Paolo Calabresi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Settembre 2022

Nelle scorse settimane erano circolate delle voci di crisi, specie per via delle foto estive condivise sui social da Alessia Marcuzzi, nei quali raramente i due erano apparsi insieme. Poi, qualche giorno fa, i paparazzi li avevano immortalati al mare teneramente abbracciati e si era parlato di ritrovata armonia.

E’arrivato al capolinea anche il matrimonio tra la conduttrice televisiva Alessia Marcuzzi e Paolo Calabresi Marconi: “Ma la nostra famiglia continuerà ad esistere». «Io e Paolo abbiamo deciso di lasciarci”, si legge nel comunicato diramato all’Ansa dalla coppia, contrariamente a Totti e la Blasi che avevano optato invece per comunicati separati , “ma la fine del nostro matrimonio però non significherà la fine della nostra famiglia, che continuerà ad esistere“.

I due avevano cominciato a frequentarsi diversi anni fa, grazie ad amici comuni, e la loro relazione era sfociata nelle nozze celebrate con una cerimonia privata il primo dicembre del 2014, dopo circa un anno di fidanzamento, nelle campagne inglesi dei dintorni di Londra. “I miei figli e Paolo proseguiranno il loro immutato rapporto di amore e affetto che abbiamo costruito in questi anni”, ha tenuto a precisare la Marcuzzi. 

Paolo Calabresi, amministratore delegato della società di produzione televisiva Buddy Film, il cui ambito principale sono gli spot pubblicitari, è infatti molto legato ai due figli della Marcuzzi: Tommaso, 21 anni, nato dalla relazione con l’ex-calciatore ed attuale allenatore dell’Inter Simone Inzaghi e la figlia Mia, 11 anni, nata dalla sua relazione con Francesco Facchinetti.

Nelle scorse settimane erano circolate delle voci di crisi, specie per via delle foto estive condivise sui social da Alessia Marcuzzi, nei quali raramente i due erano apparsi insieme. Poi, qualche giorno fa, i paparazzi li avevano immortalati al mare teneramente abbracciati e si era parlato di ritrovata armonia.

Alcuni giorni fa Alessia Marcuzzi aveva pubblicato un post sibillino su Instagram scrivendo: “the best advice i’ve ever received is, “no one else knows what they’re doing either”, cioè “il miglior consiglio che io abbia mai ricevuto è: neanche gli altri sanno cosa stanno facendo”. Una frase di Charles Bukowski che circola molto sulla rete internet e nei social, e che vuole rassicurare sul fatto che tutti, ogni tanto, si chiedono: “è davvero giusto quello che sto facendo?“. Redazione CdG 1947

Totti e Ilary, Paola Ferrari rivela: «La crisi è cominciata cinque anni fa». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022

La giornalista della Rai ospite a «La vita in diretta»: «Tutto nasce quando Francesco lascia il calcio. Ilary presa dal suo lavoro non è voluta andare con lui a Miami» 

Paola Ferrari ospite a «La Vita in Diretta», ha parlato della separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, all’indomani del compleanno della bandiera giallorossa. Il conduttore Alberto Matano è infatti tornato ad occuparsi della vicenda di Totti e Ilary . Tra gli ospiti in studio Paola Ferrari, che ha lanciato un vero e proprio scoop sulla vicenda. La giornalista sportiva della Rai, che evidentemente conosce abbastanza bene la coppia, ha raccontato il momento in cui la relazione tra i due ha iniziato a incrinarsi. «Ho visto alcuni momenti. Tutto nasce cinque anni fa quando lui lascia il calcio. Lui che ha vissuto un momento molto complicato doveva andare a Miami a giocare con Nesta, lo aveva detto anche ai figli». Secondo la Ferrari l’inizio della relazione tra Noemi Bocchi e Francesco (ammessa dallo stesso calciatore nell’intervista rilasciata al Corriere) è cominciata molto tempo dopo.

Ferrari ha poi proseguito: «In qualche modo poi è stata lei che ha voluto restare in Italia, perché lei tiene molto al suo lavoro, e fa bene perché è giusto, ma non gli ha lasciato spazio. Non gli ha lasciato quello spazio in quel momento difficile per lui. Lei è andata avanti in modo egoistico, ma anche corretto, ma andando avanti per la sua strada. Lì c’è stato l’inizio della rottura» ha dichiarato la giornalista e conduttrice della Rai. Ilary Blasi nei giorni scorsi ha anche denunciato il miglior amico dell’ex marito, Alex Nuccetelli.

Totti-Blasi, niente accordo: la separazione arriva in tribunale. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022

La consensuale è impossibile, Via con quella giudiziale. Ora bisogna solo aspettare chi per primo depositerà il ricorso

E niente, passata la festa (di compleanno) si va in tribunale. La separazione consensuale è ormai impossibile. Via con quella giudiziale. Francesco Totti e Ilary Blasi andranno al muro contro muro. I rispettivi legali (Antonio Conte e Annamaria Bernardini de Pace per lui, Alessandro Simeone per lei) sono già pronti, resta soltanto da vedere chi per primo depositerà il ricorso, questione di pochi giorni. La tensione è altissima. E il silenzio che regna da un paio di settimane tra i due contendenti, che qualcuno ha interpretato come un prologo alla conciliazione, sta precedendo la tempesta perfetta.

Le lunghe trattative sono state inutili. La conduttrice dell’Isola dei Famosi ha respinto ogni proposta di accordo, pur vantaggiosa. A quel punto il Capitano ci ha messo il carico da venti, con l’esplosiva intervista al Corriere della Sera, che ha segnato un punto di non ritorno. I rapporti tra Francesco e Ilary, civili per non dispiacere ai figli ma già ai minimi termini, sono interrotti. Ostili. Di più: lo sfogo pubblico dell’ex numero 10 giallorosso ha pregiudicato pure quelli tra gli avvocati che sarebbero tesi, difficili. Nonostante ciò i due ex coniugi continuano a dividere la maxi-villa dell’Eur, ciascuno barricato nella sua ala. Ogni tanto Ilary fa credere di aver traslocato in albergo, ma poi torna sempre alla base. Di certo non intende restituire le chiavi di casa, anzi, mira semmai a sfrattare Francesco.

Con le sue martellanti storie su Istangram spesso sembra mandargli messaggi subliminali, frecciatine. Una almeno è andata a segno. Quando l’ex Letterina si è ritratta sorridente accanto ad una boutique Rolex dalle parti di Fontana di Trevi, Totti, che non ha ancora rivisto (e chissà se mai rivedrà) i preziosi orologi rimossi a sua insaputa dalla cassetta di sicurezza - non l’ha trovata divertente. Anche Ilary Blasi, se è per questo, ha perso la pazienza con Alex Nuccetelli, storico amico suo (non più) e dell’ex marito, denunciandolo per diffamazione per le continue rivelazioni sul suo conto (e in particolare per aver alluso ad una assolutamente presunta relazione della showgirl con un pezzo grosso di Mediaset) .

Nel frattempo, in attesa dello scontro finale, Francesco Totti si è preso una pausa dagli impegni lavorativi per stare il più possibile insieme ai figli. Li accompagna a scuola (tutti e tre) o agli allenamenti (Cristian). E leggendo i messaggi adoranti che i due più grandi gli hanno mandato via social per il compleanno si capisce che l’affetto tra loro è intatto. E che quella di lunedì sera - la festa a sorpresa per i suoi 46 anni al ristorante L’Isola del Pescatore di Santa Severa (lo stesso in cui Francesco fece la proposta a Ilary con champagne, petali di rosa e congruo solitario al dito) - era una prova generale della nuova vita che Totti ha scelto. Con la sua famiglia allargata: i ragazzi, i vecchi amici che non lo hanno mai tradito e Noemi Bocchi, la donna che nel suo cuore ha preso il posto di Ilary, smaltita la delusione per l’amore finito, come poi il matrimonio. E con cui presto il campione del mondo 2006 uscirà allo scoperto, basta nascondersi, per la gioia dei paparazzi rimasti finora a secco.

Totti e Ilary Blasi: guerra per gli alimenti. Lei vuole 20mila euro al mese per sé e 17mila per i figli, lui ne offre 7mila. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 30 Settembre 2022.

Il faticoso negoziato si è interrotto bruscamente. Nel frattempo, l’avvocato di Blasi ha presentato per conto della sua cliente un’azione di reintegrazione a difesa del possesso al fine di riavere indietro le borse firmate sottrattele dal marito nella speranza di riavere i Rolex 

L’amore passa, il patrimonio resta. Ed è su questo, non sui sentimenti ormai svaniti, che si sono concentrate le agguerrite trattative per la separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, che ha preso una direzione ben precisa: quella del tribunale, i ricorsi sono quasi pronti. E ora è chiaro perché: troppo distanti le pretese di una parte dalle offerte dell’altra. Inconciliabili. La conduttrice dell’Isola dei Famosi, per firmare una consensuale, avrebbe chiesto sostanziosi alimenti: 20 mila euro al mese per sé e 17.500 per i tre figli Cristian, Chanel e Isabel (più o meno 5 mila e 800 ciascuno), per la bellezza di 37 mila e 500 in tutto, prendere o lasciare. L’iconico numero 10 giallorosso invece le avrebbe proposto zero (sì, zero) euro per lei (visto che guadagna molto bene) e 7 mila mensili per i ragazzi. Cifre troppo clamorosamente distanti per poter trovare un ipotetico compromesso a metà strada.

Così il faticoso negoziato tra i legali, avviato dopo due mesi di forzata inerzia – Ilary è stata in vacanza a luglio e agosto e senza di lei non si poteva procedere – si sono bruscamente interrotte. Non solo. Mentre ancora si cercava l’accordo, l’avvocato dell’ex Letterina, Alessandro Simeone, ha presentato per conto della sua cliente un’azione di reintegrazione a difesa del possesso (ex art. 1168 del codice civile) al fine di riavere indietro le borse firmate sottrattele dal marito.

Una collezione di Dior, Chanel e Gucci che Totti avrebbe preso come “pegno” per i suoi molto più preziosi Rolex, scomparsi dalla cassetta di sicurezza, di cui ha perso le tracce con poca speranza di ritrovarle:(«E che dovevo fare? Le ho nascosto le borse, sperando in uno scambio, ma non c’è stato verso», ha raccontato nell’intervista al Corriere ). Ed è possibile che, a questo punto, anche gli avvocati del campione – Antonio Conte e Annamaria Bernardini de Pace – presentino analoga richiesta per recuperare gli orologi scomparsi.

Nei giorni scorsi peraltro Simeone ha smentito l’esistenza di messaggi erotici di Ilary con uno spasimante segreto di cui aveva parlato Roberto D’Agostino a Domenica In (si tratterebbe di Cristiano Iovino, che nega, diffida, e da noi interpellato, ha risposto seccato: «Ilary? Sono problemi di Totti, non miei»). Però nulla ha detto l’avvocato Simeone a proposito di un video (menzionato sempre dal creatore di Dagospia) che mostrerebbe Ilary e suo padre mentre svuotano la cassetta di sicurezza nel caveau della banca. Quindi forse esiste davvero.

Ma visto che tutto gira intorno ai soldi, è il caso di inquadrare meglio i conti dell’ex Coppia de Oro. Se, negli anni felici in cui ha giocato per la Roma, Francesco ha guadagnato più o meno 84 milioni netti(l’ultimo stipendio era di circa 7 all’anno oltre ai bonus), oggi il suo reddito è molto più basso, seppure sempre ragguardevole, intendiamoci: tra consistenti proprietà immobiliari (solo la maxi-villa dell’Eur è quotata intorno ai 10 milioni, 3 quella di Sabaudia) e pubblicità (da testimonial il Capitano vale qualche milione di euro a campagna, come quelle per Volkswagen, Gelati Grom e telefonia Very Mobile, in coppia con Zlatan Ibrahimovic). Tuttavia non sarà per lui economicamente indolore recuperare il controllo della Longarina, il centro sportivo in mano a Roberto Blasi e Ivan Peruch, padre e cognato di Ilary, con cui Totti, in questa sua nuova vita appena cominciata, non desidera più avere a che fare.

Mentre lady Blasi, tra sponsor e programmi tv, è ormai un’azienda che macina ricavi importanti: per ogni edizione dell’Isola la showgirl prenderebbe quasi un milione netto. Inoltre, a parte gli spot per l’ammorbidente profumato, la griffatissima conduttrice-influencer promuove molti altri brand pure sulla sua pagina Instagram da oltre 2 milioni di follower, non sempre gratis et amore dei. Per questo i legali di Totti ritengono che la richiesta dei 20 mila euro mensili per il suo mantenimento sia eccessiva, fuori mercato. La controproposta a zero euro, in compenso, è stata presa quasi come un affronto, visto che Ilary si ritiene la parte lesa. Di qui la rottura totale, oltre che del matrimonio, anche delle trattative.

Si va alla guerra.

"Ma che se magna". L'assegno di mantenimento per Ilary Blasi divide il web. La richiesta avanzanta dai legali di Ilary Blasi da 37mila euro mensili di mantenimento (e rifiutata da Totti) ha aperto una discussione sui social network tra favorevoli e contrari. Novella Toloni l'1 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Dopo le voci sui presunti tradimenti, il furto dei Rolex e il ricatto delle borse firmate, un altro tema sta catturando l'interesse del popolo del web sul divorzio più chiacchierato degli ultimi tempi. Il cospicuo assegno di mantenimento, che Ilary Blasi avrebbe richiesto formalmente all'ex marito (circa 37mila euro per lei e i tre figli), ha scatenato il chiacchiericcio e diviso gli internauti. Per alcuni la conduttrice avrebbe avanzato una richiesta eccessiva visti i contratti televisivi a più zeri, che firma annualmente. Mentre altri hanno trovato consona la rivendicazione economica di Ilary, visto il fango gettatole addoso da Totti nell'ultima intervista rilasciata al Corriere.

La richiesta di Ilary, l'offerta di Totti

Totti e Ilary sono arrivati a un punto di non ritorno dopo il rifiuto da parte della conduttrice dell'offerta presentata dagli avvocati del suo ex marito: 7 mila euro mensili per il mantenimento dei tre figli (Chanel, Cristian e Isabel) e zero euro per lei. La Blasi e il suo legale hanno ritenuto "offensiva" la proposta di Francesco Totti in relazione a quanto richiesto dalla romana, cioè 17.500 mila euro per i figli e 20mila euro per sé. Cifre e posizioni irrimediabilmente distanti, che sembrano avere fatto sfumare l'accordo consensuale in favore di una battaglia legale che si consumerà in un'aula di tribunale.

La reazione del web pro Ilary

Sui social network la notizia delle cifre richieste e proposte dall'una e dall'altra parte hanno inevitabilmente creato una spaccatura tra chi difende Ilary Blasi e chi invece ha trovato giusto il rifiuto di Totti. I sostenitori della conduttrice hanno definito il "minimo" la richiesta di un assegno da 20mila euro per sé dopo l'intervista rilasciata da Totti: "Unpopular opinion, io da uno che dopo 20 anni di matrimonio e 3 figli fa un'intervista facendomi passare per ladra scroccona e anche un po' zoccola 37.000 euro al mese minimo". Mentre altri ci sono andati giù più duri contro il Pupone: "Io lo lascerei in mutande dopo quello che ha fatto". E qualcuno ha addirittura fatto il paragone con quanto succede oltreocenano tra le star di Hollywood: "In America chiedono centinaia di dollari quando si separano, lei che è stata umiliata in privato e in pubblico, mai parlato se non per 'proteggere' la famiglia è na str*nza perché chiede gli alimenti per lei ed i figli? Proprio vero come fai fai sbagli".

"Io tradito", "Ho visto cose...". Guerra aperta tra Totti e Ilary

Il sostegno social a Totti

Dall'altra parte i frequentatori dei social network hanno trovato eccessiva la richiesta di Ilary Blasi, in particolare per il suo assegno, visto che la conduttrice lavora in televisione tra conduzioni e pubblicità: "Chiedere gli alimenti all'ex marito per se stessa quando lavora e guadagna milioni, trovo che sia una cosa preistorica", "Siccome la Sig.ra Blasi lavora, e nun me pare che pija dù spicci, e ha anche altre entrate economiche, non vedo perché Totti le dovrebbe passà 20 sacchi ar mese". E il confronto con la gente comune non si è fatto attendere: "Ma perché Ilary dovrebbe ricevere 20.000€ da Totti? Che mantenga i figli è più che giusto, ma lei? Lavora, che problemi ha? Non è certo diversa dalle tante ex che, lavorando non prendono nulla per legge. Non è speciale lei".

Totti e Ilary, gli sfottò su Twitter

Senza fare distinzioni tra chi ha torto e chi ha ragione, c'è stato anche chi su Twitter ha cercato di vedere l'aspetto comico dell'intera vicenda, tornando a citare il caso Rolex. E il parallelismo con un celebre film degli anni '90 è venuto naturale: "Ilary come la Bellucci in colpo gobbo a Milano 'a direttò noi ce provamo, tando a calà se fà sembre in tembo'". Fino ai commenti sugli "alimenti" che dovrebbero servire a coprire le spese primarie: "Ilary Blasi chiede 37mila euro di alimenti....ma che se magna". Insomma la favola finita male tra Totti e Ilary Blasi continua a catalizzare l'attenzione e ad alimentare il chiacchiericcio.

Da leggo.it l'1 ottobre 2022.

Spunta un'altra puntata della "serie" sulla separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi. Avevano chiesto riserbo lo scorso 11 luglio nel comunicato disgiunto che riportava la fine del loro matrimonio, ma il gossip si è inseguito per tutta l'estate. Si era sperato l'accordo potesse essere consensuale, ma così non sarà: ieri sono emerse le prime indiscrezioni, sul Corriere della Sera, sulle richieste reciproche da parte dei due ex coniugi. 

Ilary, scriveva il Corriere, avrebbe chiesto 20 mila euro per lei e 17,5 per i figli al mese per l'ammontare di 37,500 euro al mese. Totti avrebbe risposto con una proposta che includeva zero euro per l'ex moglie (visto che guadagna molto bene) e 7.000 per i figli. Cifre distanti anni luce per pensare di poter trovare un compromesso. Ma la realtà è un'altra e a spiegarla è stato proprio il legale della Blasi.

«Sono state diffuse una serie di notizie false. In particolare la signora Ilary Blasi non ha mai chiesto nessun assegno di mantenimento per sé: né di 20mila euro né di 10mila euro né di 1 euro. Questa notizia fa parte ancora una volta di una precisa strategia extraprocessuale per tentare di far passare la signora Blasi per quello che non è», afferma l'avvocato Alessandro Simeone.

La replica è arrivata attraverso una dichiarazione a Repubblica. L'accusa alla crew di Francesco Totti di strumentalizzare la stampa al fine di danneggiare l'immagine di Ilary è chiara: la strategia delle persone vicine all'ex capitano, secondo l'avvocato Simeone, non si ferma solo a voler far credere che Ilary è una persona attaccata al denaro ma anche le plurime relazioni extraconiugali che le sono state attribuite sono frutto di fantasiose quanto mirate voci volte a rovinare l'immagine della donna. «Falsità sono precisa strategia». Insomma pare ormai impossibile che i due ex coniugi giungano a un accordo pacifico e ora l'ultimo fischio della partità Totti-Ilary spetterà al giudice.

"Ilary non ha chiesto un euro": sbugiardata la versione di Totti. Alessandro Simeone ha smentito la notizia sul cospicuo assegno di mantenimento richiesto dalla sua assistita e ha svelato cosa si nasconderebbe dietro alle fake news, che circolano sul divorzio di Totti e Ilary. Novella Toloni l'1 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La battaglia legale tra Totti e Ilary è definitivamente cominciata. E si fa davvero dura. Soprattutto perché al centro della diatriba - visto che tradimenti, ripicche e vendette non bastavano - ci sono tutta una serie di notizie false, che circolano per rendere poco chiara la situazione e non fare pendere l'opinione pubblica dall'una o dall'altra parte. Già perché la battaglia giudiziaria tra il Pupone e la conduttrice si gioca anche sul filo del gradimento social. Perché se si arriverà davanti a un giudice avere il pubblico dalla propria parte potrebbe dare un piccolo vantaggio.

Un "gioco" che sembrava avere dato i suoi frutti dopo l'uscita della notizia dell'assegno di mantenimento, che Ilary Blasi avrebbe richiesto all'ex marito (si parla di 37mila euro) e che quest'ultimo avrebbe rifiutato (perché definito esoso) e rispedito al mittente con una controfferta ridotta a poche migliaia di euro. La notizia anticipata dal Corriere ha aperto un'ampia discussione sui social network, dove Ilary Blasi è finita al centro delle critiche. Ma è stata smentita da una nota ufficiale dell'avvocato della conduttrice.

La replica del legale di Ilary sull'assegno di mantenimento

"Sono state diffuse una serie di notizie false. In particolare la signora Ilary Blasi non ha mai chiesto nessun assegno di mantenimento per sé: né di 20mila euro né di 10mila euro né di 1 euro", ha fatto sapere Alessandro Simeone, l'avvocato di Ilary Blasi, attraverso Repubblica. Ma non solo. Il legale ha parlato di una diffusione di notizie inattendibili, che sarebbe frutto di una piano ben preciso della controparte per minare la credibilità della sua assistita: "Questa notizia fa parte ancora una volta di una precisa strategia extraprocessuale per tentare di far passare la signora Blasi per quello che non è".

La strategia delle due parti

Dietro al continuo imput di informazioni e notizie ci sarebbe dunque una strategia studiata a tavolino. Da una parte Ilary Blasi mantiene le distanze dall'ex e parla della sua nuova vita da mamma single, comunicando solo attraverso i social network. Foto e video della sua quotidianità, shopping e trattamenti e le giornate con i figli. Dall'altra Francesco Totti, dopo avere mantenuto un basso profilo per tutta l'estate, è passato al contrattacco, rilasciando un'infuocata intervista al Corriere che, di fatto, ha gettato benzina sul fuoco di un divorzio già complesso.

Secondo Repubblica, il Pupone avrebbe tutto l'interesse di "strumentalizzare la stampa al fine di danneggiare l'immagine di Ilary". E per l'avvocato della Blasi fare passare la sua assistita come una donna fredda e attaccata ai soldi sarebbe frutto di una precisa tattica volta a screditare la conduttrice. Il quadro della situazione, dunque, si fa sempre più complesso e parlare di telenovela sembra oggi assai riduttivo.

Alena Seredova, ex di Buffon: «Mai fatto scenate, ma niente famiglia allargata». Simona Marchetti Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022.

Ospite di «Verissimo», la showgirl originaria della Repubblica Ceca ha parlato del suo rapporto con il portiere del Parma, da cui ha avuto i figli Louis Thomas e David Lee, e del suo prossimo matrimonio con il compagno Alessandro Nasi

Hanno un rapporto civile e sereno per via dei due figli, Louis Thomas e David Lee (rispettivamente, 14 e 12 anni), ma ciò non significa che Alena Seredova sia il tipo da mettersi in posa con l’ex marito Gigi Buffon per la classica foto sotto l’albero di Natale. «Non ci frequentiamo, probabilmente non ci vedrai mai in una foto tutti insieme sotto all'albero — ha confessato infatti la showgirl, ospite di “Verissimo”, parlando del suo attuale rapporto con il portiere del Parma — perché è un qualcosa che non mi appartiene e sarebbe contro la mia natura. Io sono sempre stata una persona civile, non ho mai fatto scenate, tanto per me un bicchiere quando è rotto, è rotto, ma anche se è rotto, non vuol dire che non possa avere un rapporto civile con lui, per di più visto che è il papà di due ragazzi meravigliosi».

Dopo il divorzio dalla Seredova, Buffon è uscito allo scoperto con la nuova compagna, Ilaria D’Amico, dalla quale ha avuto un altro figlio, mentre l’ex modella nata nella Repubblica Ceca è ora felicemente accompagnata ad Alessandro Nasi, papà della sua piccola Vivienne. «Ale è molto paziente con noi — ha ammesso Seredova — perché siamo una famiglia impegnativa. Oggi però ciò di cui sono più orgogliosa è questa famiglia, che io non chiamo “allargata”, ma soltanto famiglia. Funziona, è splendida e sono tutti sorridenti».

Il prossimo anno sarà quello delle nozze con Nasi, anche se è ancora tutto da definire. «Per ora la sola cosa sicura è il marito — ha detto ancora la Seredova, ridendo — stiamo infatti provando a capire come organizzare le nozze. Vogliamo solo divertirci, alla nostra età il matrimonio è più simbolico e vorrei fare una festa, un weekend con amici e familiari, che mi lasci tanti bei ricordi. Non sarà a Praga, ma probabilmente in italia, al Sud, dove sono sicura che fa caldo».

Giovanna Cavalli per roma.corriere.it l'11 ottobre 2022.

Più che un ricorso è una lista della spesa, quella che ha compilato Ilary Blasi. Un elenco lungo e dettagliato di tutto ciò che pretende le venga restituito. E per di più con la massima urgenza, senza aspettare le lungaggini burocratiche di una causa di separazione che deve ancora cominciare. Perciò non vede l’ora che arrivi venerdì 14 ottobre, giorno in cui il giudice civile esaminerà la sua istanza.

A parte le ormai mitiche borsette – una collezione di Gucci, Dior, Chanel e Hermes (tra cui una costosissima Birkin, tra gli ultimi regali ricevuti da Francesco Totti) – la conduttrice dell’Isola dei Famosi rivuole tutto il contenuto della gigantesca cabina armadio, proporzionata alla vastità della mega-villa all’Eur: quindi decine di paia di scarpe (pare addirittura 100) cinte, portafogli, gioielleria.

Lasciando intendere che il Capitano, per pareggiare i conti dopo la sparizione dei Rolex dalla cassetta di sicurezza, abbia fatto piazza pulita. E nascosto il maltolto chissà dove. Probabilmente non sarebbe bastato un viaggio solo per traslocare altrove la mercanzia, anche se è dura immaginarsi l’ex numero 10 giallorosso che imbusta gli effetti personali della moglie e comunque l’assunto è tutto da dimostrare. 

Ma Ilary va oltre . E reclama per sé anche la Smart di famiglia, benché intestata a Francesco (come tutte le altre auto), perché era lei ad utilizzarla più spesso. E di fatto rivendica anche il diritto di tenersi la residenza di quasi 1500 metri quadri con doppia piscina, campi da tennis e bagno turco, valore stimato intorno ai 10 milioni. Quando ancora si cercava un accordo, per scongiurare la lite in tribunale, lady Blasi ha rifiutato categoricamente di vendere l’immobile e pure di dividerlo in due, metà per lei e metà per Totti, in modo da evitare a Cristian, Chanel e Isabel di fare avanti e indietro tra un genitore e l’altro. 

L’ex Letterina non ne vuole sapere. Vuole che sia lui a togliersi di mezzo, lasciandole l’intera villa, in cui si è metaforicamente asserragliata. Per ora la convivenza forzata continua, grazie alla vastità della metratura. E i due riescono a non incontrarsi nemmeno per sbaglio. Ma prima o poi Totti deciderà di andarsene, per forza. Non ha ancora comprato né affittato nessun appartamento a Roma Nord, per stare più vicino a Noemi Bocchi, la sua nuova compagna, sta solo valutando alcune proposte. Ma potrebbe anche decidere di trasferirsi in una casa delle tante di sua proprietà, che non gli mancano. Fosse stato per lui certo sarebbe rimasto dov’era. Ma Ilary in pratica lo ha messo alla porta. Per dispetto.

E anche le chilometriche richieste di restituzione altro non sarebbero – spiega chi è più vicino al campione – che il tentativo di sviare l’attenzione dal vero “misfatto”, ovvero la sottrazione della collezione di Rolex, dal valore inestimabile sia materiale che sentimentale. L’unico conforto per Francesco è sapere che al momento i preziosi orologi, acquistati con i soldi suoi, per passione e per investimento, dovrebbero trovarsi in un’altra cassetta di sicurezza, presso un’altra banca. Quindi al sicuro, che già è qualcosa. Venerdì lo scontro Borsette (e scarpe e Smart) contro Rolex diventerà realtà.

 Dagospia il 13 ottobre 2022. Riceviamo e pubblichiamo: 

Caro Dago,

in nome e per conto della Signora Ilary Blasi, Ti indico quanto segue.

Quest’oggi hai ripubblicato l’intervista che risulta rilasciata dal Signor Ezio Denti al settimanale “Nuovo”, nella quale si afferma che la mia Assistita lo avrebbe ingaggiato, nel mese di aprile 2022, per effettuare indagini sul Signor Francesco Totti.

La notizia è semplicemente falsa.

Ilary Blasi, infatti:

- non ha mai avuto rapporti con il Signor Denti;

- non ha mai incontrato il Signor Denti per conferirgli un incarico;

- non ha mai incaricato il Signor Denti, tantomeno per effettuare quanto lo stesso indica nell’intervista;

- non ha mai pagato 75mila euro per effettuare investigazioni sul marito. 

Il Signor Denti è già stato diffidato dall’accostare la propria attività professionale al nome della Signora Blasi. 

Si tratta, in sostanza, dell’ennesima fake news, probabilmente diffusa con il fine di profittare indebitamente del risalto mediatico della vicenda. 

Confido nella tempestiva pubblicazione di questa mia comunicazione, da valere anche come rettifica. 

Un caro saluto. 

Avv. Alessandro Simeone 

Da andkronos.com il 17 ottobre 2022.

"Tengo a precisare che ho provveduto a smentire prontamente le illazioni circa il mio presunto coinvolgimento nella vicenda Francesco Totti-Ilary Blasi, rilasciando una dichiarazione a mezzo Adnkronos, già in data 19 settembre 2022, qualche ora dopo la divulgazione delle prime notizie a riguardo, pubblicate da numerose testate giornalistiche, tra cui IlTempo.it e LiberoQuotidiano.it". E' quanto dichiara all'Adnkronos l'investigatore privato Ezio Denti, in una nota. "Sono impegnatissimo con il lavoro e non ho il tempo materiale né sono avvezzo ad autocelebrarmi, ricercando e leggendo notizie che mi riguardano, per poter produrre smentita ogni qualvolta che la stampa e i media scrivono qualcosa su di me".

"Se avessi bisogno di pubblicità, proprio come qualcuno ha insinuato, allora sì che lo farei, cavalcando l’onda, ma non è un modus operandi che appartiene alla mia professionalità. Perché l’Avvocato Simeone - chiede Denti riferendosi al legale di Ilary Blasi - che, fino a venerdì 13 ottobre, non ha mai smentito articolo alcuno, nonostante sino ad ora, ne siano usciti a bizzeffe e di ogni tipologia, ha deciso di intervenire solo adesso, dopo più di un mese? Concludo asserendo che un caso di corna, seppur eccellente visto che coinvolge Francesco Totti e Ilary Blasi, è per me inezia, un lavoro dozzinale e poco importante; inoltre, non me ne sarei mai vantato!”. 

Caso Francesco Totti-Ilary Blasi:  il criminologo Ezio Denti non ci sta e risponde all’avvocato della show-girl che lo ha diffidato. Comunicato stampa

La querelle Francesco Totti-Ilary Blasi non si arresta, continuando ad affollare, quotidianamente, le pagine dei giornali e i salotti televisivi con nuovi e scottanti (o presunti tali!) particolari. Dopo le numerose illazioni pubblicate da stampa e media secondo cui l’ex capitano della Roma sarebbe stato pedinato dall’investigatore privato Ezio Denti con tanto di cimici e gps, l’avvocato della Blasi ha diffidato il noto criminologo che, però, non ci sta e ha deciso di rompere il silenzio e rispondere perentoriamente con un comunicato stampa. Queste le dichiarazioni rilasciate da Denti. 

"Tengo a precisare che ho provveduto a smentire prontamente le illazioni circa il mio presunto coinvolgimento nella vicenda Francesco Totti-Ilary Blasi, rilasciando una dichiarazione a mezzo Adnkronos, già in data 19 settembre 2022, qualche ora dopo la divulgazione delle prime notizie a riguardo, pubblicate da numerose testate giornalistiche, tra cui IlTempo.it e LiberoQuotidiano.it come da link in calce.

Sono impegnatissimo con il lavoro e non ho il tempo materiale né sono avvezzo ad autocelebrarmi, ricercando e leggendo notizie che mi riguardano, per poter produrre smentita ogni qualvolta che la stampa e i media scrivono qualcosa su di me. Se avessi bisogno di pubblicità, proprio come qualcuno ha insinuato, allora sì che lo farei, cavalcando l’onda, ma non è un modus operandi che appartiene alla mia professionalità.

Perché l’Avvocato Simeone che, fino a venerdì 13 ottobre, non ha mai smentito articolo alcuno, nonostante sino ad ora, ne siano usciti a bizzeffe e di ogni tipologia, ha deciso di intervenire solo adesso, dopo più di un mese?

Concludo asserendo che un caso di corna, seppur eccellente visto che coinvolge Francesco Totti e Ilary Blasi, è per me inezia, un lavoro dozzinale e poco importante; inoltre, non me ne sarei mai vantato!”. 

Così, è intervenuto il criminologo Ezio Denti sulla querelle con l'avvocato Simeone, consulente legale di Ilary Blasi nella soap-opera con Francesco Totti, rispondendo alla diffida del legale pubblicata su Dagospia, venerdì 13 cm. 

Vale la pena ricordare che Ezio Denti, oltre ad essere un investigatore privato è anche e soprattutto un criminologo e, come consulente delle procure della Repubblica Italiana, Denti si è occupato di alcuni dei maggiori casi di cronaca nera in Italia, negli ultimi decenni: dall’omicidio della piccola Yara Gambirasio a quello della povera Melania Rea, dalla morte di Trifone Ragone e Teresa Costanza all’assassinio di Chiara Poggi, di Ismaele Lulli, di Carlo Mura e, attualmente, del commerciante Gigi Bici, ucciso con un colpo di pistola in pieno viso, a Pavia.

Dagospia il 18 ottobre 2022. Riceviamo e pubblichiamo: 

Si è rivolta a me la Signora Alena Seredova, lamentando la pubblicazione da parte di diversi Organi di Stampa di notizie non veritiere che sarebbero state riferite dall’investigatore privato sig. Ezio Denti in occasione di un’intervista concernente la separazione tra Ilary Blasi e Francesco Totti resa al settimanale Nuovo (Cairo Editore). 

La Signora Alena Seredova smentisce recisamente quanto affermato dal sig. Denti: ella non conosce neppure il sig. Denti e non gli ha mai conferito alcun incarico. All’epoca dei fatti, contrariamente a quanto affermato dal sig. Ezio Denti, Gianluigi Buffon ed Ilaria d’Amico non furono neppure ritratti assieme, come riferito nell’intervista.

La presunta notizia avrebbe potuto essere agevolmente verificata sentendo la diretta interessata, cosa che non è avvenuta. Con la presente missiva chiedo, perciò e gentilmente, la pubblicazione della presente smentita a titolo di rettifica ai sensi della normativa vigente (art. 8, Legge n. 47/1948, art. 2 Legge 69/1963 e/o 32-quinquies Legge 177/2005). 

Con ciò, la signora Alena Seredova riserva anche ogni suo diritto nei confronti del sig. Ezio Denti che ha reso dette dichiarazioni. 

Si chiede di poter ricevere cortese evidenza della pubblicazione della presente smentita.

Distinti saluti.

avv. Emanuele Rossi

sig.ra Alena Seredova

LA RISPOSTA DELL’AVVOCATO DI EZIO DENTI

Riceviamo e pubblichiamo: 

In nome per conto e nell'interesse di Ezio Denti, riscontro Sua missiva pec del 17 ottobre per rimarcare la propria estraneità al fatto accaduto, non avendo Egli mai rilasciato alcuna

intervista al Settimanale Nuovo di essere stato contattato per telefono dalla giornalista

Marinaro Laura, per riferire sul funzionamento di un software biometrico di origine

israeliana, in ordine all'esattezza del sistema di riconoscimento biometrico Noto in inglese

come AIDC - Automatic Identification and Capture, che è un particolare tipo di sistema

informatico che identifica una persona sulla base di una o più caratteristiche fisiologiche e/o comportamentali, confrontandole con i dati precedentemente acquisiti e conservati nel

database del sistema, tramite degli algoritmi e dei sensori di acquisizione dei dati in input....

Di avere provveduto a smentire la notizia, diffidando il settimanale Nuovo e il quotidiano online DAGOSPIA a rettificare immediatamente il contenuto, avendo incidentalmente risposto nel corso del colloquio NELLA QUALITA’ DI INVESTIGATORE PRIVATO a domande generiche sulle tecniche investigative e sui costi prevedibili nei casi di separazione ( non si discuteva affatto della separazione Seredova).

Tutto quanto è stato scritto dalla Giornalista è frutto della Sua fantasia, non avendo

il Denti mai rilasciato interviste o autorizzato la pubblicazione di siffatte notizie, di cui si

ripete non si è mai discusso con la giornalista. Peraltro nella vicenda il Denti è parte lesa, perché è un personaggio pubblico, e il suo parere conta come investigatore privato,

si ritiene perciò screditato nella propria reputazione professionale, per la diffusione di false notizie che lo riguarderebbero.

Ciò detto, l'istante ut supra rapp.to difeso, nel prendere le distanze pubblicazioni, ne smentisce in ogni singola parte il contenuto, reitera da tali INVITO E DIFFIDA IMMEDIATA

alla rettifica di tale notizia pubblicata on line su dagospia e sul settimanale Nuovo, inibendo alla ulteriore pubblicazione, o al rimbalzo della notizia stessa, CHIEDE

sin d'ora ex art. 5 1 comma bis, del decreto legislativo n. 28/2010 di esperire il

procedimento di mediazione obbligatoria, nei confronti di tutte le parti coinvolte, per il

risarcimento del danno al fine di individuare esattamente errori, colpe e responsabilità nella diffusione delle false notizie, che lo vedono parte lesa, avviando al più presto procedura extragiudiziale della lite.

Nunzia Avv Barzan

Dagospia il 17 ottobre 2022. Da Un Giorno da Pecora

Totti e Ilary? “Posso dire che mi fanno pena tutti e due, e siamo solo all'inizio, è una cosa veramente penosa...” A parlare è il giornalista, direttore de La Stampa e tifoso romanista Massimo Giannini, che oggi è stato ospite della trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora. 

In questa querelle mediatica, da tifoso della Roma non si sente di difendere Totti? “Da romanista io avevo già rotto con Totti”. Ai tempi delle frizioni tra il numero 10 giallorosso e Spalletti? “No a quei tempi stavo con Totti. Ma è il modo in cui lui è uscito dalla Storia della Roma...” A mandare via Totti però sono stati i precedenti proprietari. ”Mi sta venendo il sospetto che non abbia una gran voglia di lavorare”. E perché? “Tutti i calciatori fanno i corsi da allenatore...”

Forse Totti vorrebbe fare il dirigente e non l'allenatore. Come, ad esempio, Paolo Maldini nel Milan. “Gli avevano offerto di rientrare nella società”. Pare, però, con un ruolo di 'bandiera' in cui però contava ben poco. “E allora che vuole fare? Conosce e sa gestire i bilanci? Non credo”, ha chiosato a Un Giorno da Pecora Giannini.

Giovanna Cavalli per roma.corriere.it il 13 ottobre 2022.

Soltanto lei saprà se sono stati soldi ben spesi. Ilary Blasi avrebbe pagato 75 mila euro per assoldare l’investigatore privato che per tre mesi ha spiato, pedinato e fotografato Francesco Totti. Per raccogliere le prove del tradimento dell’ormai ex marito con Noemi Bocchi. 

Lo racconta lo stesso detective, ovvero Ezio Denti, 64 anni, consulente in molti processi penali, uno specialista del settore («Fui ingaggiato otto anni fa anche da Alena Seredova per “stanare” Gigi Buffon con Ilaria D’Amico e fui proprio io a scattare le immagini compromettenti») in un’intervista al settimanale Nuovo. Spiegando che la parcella comprendeva l’uso «di una strumentazione sofisticata: Gps, camere a infrarossi, auto e moto civetta, droni e soprattutto ore e ore di lavoro».

L’incarico è durato dal 22 aprile a fine luglio. Il primo incontro con Ilary sarebbe avvenuto in un albergo romano, di pomeriggio, davanti a un bicchiere di vino rosso. 

E uno dei messaggi che il campione giallorosso ha trovato sul cellulare della conduttrice dell’Isola dei Famosi - «Sono arrivato, ti aspetto in hotel» - era proprio di Denti, non di un presunto spasimante. Il segugio si è messo dunque alle calcagna di Francesco, appostandosi nei punti giusti, aiutato dalla tecnologia più moderna. Però niente cimici. «Quelle possono essere posizionate soltanto dalla Polizia Giudiziaria o su mandato di una magistrato». 

Il Gps sull’auto di Totti quello invece lo 007 ce l’ha piazzato. «All’esterno, come sempre, quando dobbiamo seguire gli spostamenti di un marito fedifrago». Denti, con la sua decennale esperienza su traditi e traditori, valuta pure la somiglianza evidente che c’è tra Ilary e Noemi. Un classico, a quanto pare. «Succede, soprattutto se non si tratta di un’avventura. Nel caso di Totti mi sento di dire che è ancora innamorato della moglie. Penso che abbia intrecciato un’altra relazione perché sentiva che con Ilary ormai si era rotto qualcosa».

Francesco Totti, da quanto ha raccontato nella celebre intervista al Corriere, non si è accorto di nulla. L’ha appreso soltanto dopo, da amici. Non tutti però sarebbero stati sinceri con lui. Una delle persone della sua cerchia ristretta, pur sapendo dell’investigatore privato assoldato da Ilary, non gliene ha parlato. Quando l’ha scoperto, il Capitano si è sentito tradito. Ormai però la rabbia si è placata.

Nel frattempo l’ex 10 giallorosso è uscito allo scoperto con Noemi Bocchi. Prima al party per il suo compleanno all’Isola del Pescatore di Santa Severa, poi a cena da Assunta Madre in via Giulia. Il fidanzamento ufficiale è certificato da due sfavillanti anelli gemelli d’oro bianco e diamanti che entrambi portano all’anulare della mano sinistra. 

E mercoledì sera (e notte) Francesco era al Jerò Restaurant di Ponte Milvio a fare baldoria con lei e con gli amici di sempre: Giancarlo Pantano, Enzo Appolloni, Alex Nuccetelli e Emanuele Maurizi. Il cantante Gianluigi Lembo - quello dell’Anima e Core di Capri - gli ha dedicato «Ti amo» di Umberto Tozzi, «Tristezza per favore vai via» (con Totti che agita un fuocherello d’artificio acceso verso Noemi, in miniabito nero scollatissimo) e soprattutto l’emozionante «Grazie Roma», intonata con un coro collettivo come allo stadio. 

Purtroppo, a smorzare l’euforia, resta la prospettiva poco rasserenante di una lunga e litigiosa causa di separazione Totti-Blasi, che a giorni approderà in tribunale. Già venerdì 14 ci sarà un primo round davanti al giudice civile che dovrà decidere sulla restituzione di borsette, scarpe (100 paia), cinte, gioielli, insomma l’intera cabina armadio della villa all’Eur, che Ilary pretende con la massima urgenza, sostenendo che sia stato Francesco a portare via tutto. 

E già che c’è reclama la Smart argento - la stessa con cui ha preso la multa in centro mentre girava il video davanti alla boutique Rolex di via Condotti - benché intestata all’ex marito. Totti, a quel punto, chiederà conto della sorte dei suoi Rolex - una collezione dal valore assai più sostanzioso - che, come ha dichiarato nell’intervista, sarebbero stati sottratti dalla cassetta di sicurezza della banca da Ilary e da suo padre Roberto. Un’anteprima della guerra sugli alimenti. In cui forse Ilary gli metterà in conto anche i 75 mila euro spesi per l’investigatore privato.

Maria Laura Rodotà per “la Stampa” il 12 ottobre 2022.

Molti di noi seguono la separazione di Ilary Blasi e Francesco Totti pensando «smetto quando voglio», ma non c'è motivo di smettere (al netto dei tre ragazzini Totti, di cui non molti si preoccupano). Questa rottura tra semidei pop -che più che lanciarsi oggetti se li sottraggono- ci aiuta a capire tante cose di noi, del nostro mondo, e pure della teoria del consumo vistoso, proposta da Thorstein Veblen, diffusa su Instagram. 

Per molti motivi: La loro separazione contribuisce alla sensazione che il mondo stia finendo. Perché ci avevamo creduto. Insistevamo a pensarli diversi, quasi disneyani, lui buono, lei simpatica, i figli carucci al netto dei nomi. Fuori dalla bolgia dei calciatori e delle ragazze con visibilità, che si lasciano di continuo, che confondiamo sempre. Sui Totti-Blasi circolavano storie edificanti. Ora, più consapevoli ma neanche tanto, aggiungiamo la fine del loro matrimonio ad altri, più gravi, segnali dell'incombente Apocalisse.

La loro separazione ci distrae Per motivi uguali e contrari.

Devastati dalle cattive notizie, inciampiamo nella puntata quotidiana della saga e ne discutiamo con le persone intorno a noi, ed è come fare ricreazione. È una separazione con product placement Quindi attuale, da influencer. Ogni stazione della loro Via Crucis è contrassegnata da una marca di lusso. Ha iniziato Totti, in un'intervista tremenda ha accusato Blasi di aver sottratto molti Rolex dalla cassetta di sicurezza. Ilary ha risposto con un video su Instagram cui è davanti a un negozio di Rolex e fa il gesto di sgraffignare (placement doppio). Intanto, aveva aperto il fronte delle borse; accusando Totti di aver portato via dal villone all'Eur la sua collezione di Gucci, Dior, Chanel e Birkin di Hermes, e altro.

E di aver razziato la sua cabina armadio, prendendo un centinaio di paia di scarpe, molte costate tre-quattromila euro (Amina Muaddi, Gucci, e Chanel, pure sponsor della secondogenita). Ora Blasi chiede la Smart di casa, se ha qualche anno costerà come una sua scarpa ma vabbè. Ora si temono gli imitatori, influencer minori che si lasceranno rumorosamente sui social litigandosi a pagamento oggetti di marche varie. Come le commedie patinate degli anni Trenta, consoleranno il pubblico in tempi di crisi, o forse no.

Sono proprio come mio cognato O i nostri amici. O il marito della collega che vuole il microonde che gli ricorda un parente morto, o il vicino che attacca bottone in ascensore accusando l'ex moglie di occultamento di argenteria, o altre classiche miserie, inflitte, subite, immaginate. Solo, qui è tutto più grande, più costoso, e assurdo. 

E i protagonisti si disumanizzano a forza di bling bling. E si fanno battute, si ride. Si seguono queste risse sontuose come uno spettacolo coi burattini che si menano (ma i burattinai? I consiglieri legali e non di Totti e Blasi dovrebbero lasciare perdere i divorzi e dedicarsi al wrestling).

Roma Nord vs Roma Sud E poi, l'altro giorno, è arrivata la notizia-fine di mondo, quella che ha mandato una capitale già malmessa in crisi d'identità: Totti si starebbe trasferendo a Roma Nord. Lui, molto di Roma Sud (Porta Metronia-Casalpalocco-Torrino), insomma della città meno elitista, starebbe andando a vivere nella tana delle classi dirigenti e dei laziali (meno, molto meno di una volta). E a Vigna Clara, quartiere del romanordismo in purezza, delle meches ambosessi, dei condomini di chirurghi e di faccendieri. Dove è elegante trattare il prossimo con maleducazione fredda, e viene da preoccuparsi per il Pupone, che, come Ilary, alla fine è buono (no, non ce ne facciamo una ragione, e se Totti tirerà un cucchiaio a un condomino romanordista mesciato saremo con lui, perché sì).

Processo (a porte chiuse) per Noemi Bocchi. Alla compagna di Totti riguardi da first lady. Tra l'ex capitano e Ilary altri dispetti. Lei multata per il video da Rolex. Tony Damascelli il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Prepariamoci all'Amber-Depp de noantri. Intendo il processo per corna e affini, con richieste multimilionarie tra i due artisti del cinema americano che trova immediato remake a Roma, non a Cinecittà ma nelle aule del tribunale. In attesa del dibattimento che metterà di fronte Ilary Blasi e Francesco Totti, ieri si è avuta un'anteprima della saga, direi un trailer però interpretato dalla terza attrice protagonista, al secolo Bocchi Noemi, un new entry nelle storie di amore dell'ex pupone e capitano della Roma.

La signora Bocchi si è presentata al palazzo di piazzale Clodio, prima aula del tribunale, come parte in causa del processo che ha come imputato il di lei ex consorte Caucci Mario. Costui è accusato dalla signora di violenze ma non è questo il problema anche se serio e volgare.

La Bocchi Noemi, infatti, ha scoperto il meraviglioso mondo di fotografi, cronisti e troupe televisive che come folla affamata le è piombato addosso. Si è sentita tormentata, quasi offesa, ribadendo il ruolo di parte offesa della causa dibattuta ma non potendo fisicamente respingere la stampa curiosa ha chiesto che gli intrusi venissero espulsi e che si provvedesse a chiudere le porte dell'aula, cosa che è stata accolta, perché c'è chi può e chi non può e Lei può.

Udienza a porte chiuse, privilegio raro riservato a cause ben più serie, omicidi e affini, del resto lo spettacolo tra Amber e Depp è andato in onda su Youtube ed è stato seguito da ottantatré milioni di «visitatori» complessivamente e da tre milioni e mezzo nel giorno del verdetto. Per il momento non sono previste maratonementana e affini per il processo tra Ilary e Francesco ma il precedente di ieri, la chiusura al pubblico per la causa Caucci-Bocchi fa prevedere una analogo epilogo. È singolare, per non dire ridicolo, che gli stessi protagonisti della vicenda nostrana, cerchino continua pubblicità alle proprie gesta e gesti, la Blasi si è messa in circuito social dinanzi a un negozio Rolex alludendo alla storia degli orologi «sottratti» al marito, però finendo multata avendo lasciato la vettura in divieto di sosta, autografando il verbale dei vigili urbani, dinanzi a fotografi e spalti gremiti, come accadeva a Francesco. Il quale ha provveduto a celebrare la prima uscita al ristorante con Noemi, nello stesso sito dove aveva festeggiato il debutto con Ilary e facendole dono di un anello, uguale al proprio, come sigilli del decimo mese di infatuazione, dieci come il numero di maglia del campione romanista e del mondo. In precedenza aveva provveduto al trasloco, nuova dimora a Vigna Clara, stanze dieci, bagni tre.

Terrei ad escludere che nel prossimo processo, Roma 15 di ottobre, possa entrare in scena anche la signora Bocchi che, tuttavia, risulta essere una concausa della crisi che ha portato la coppia a scoppiare. Non si sa nemmeno se verranno portati come prova dell'accusa, borse e scarpe griffate o gli orologi di cui sopra, dicono gli informati che il patrimonio non sarà l'oggetto del contendere essendo i due in separazione di beni ma l'argomento provoca pruriti per la prima udienza fissata per domani dinanzi al giudice civile di Roma. Gli avvocati delle parti sono scesi in campo, la formazione prevede Simone-Conte-Bernardini de Pace ma servirà un buon arbitro e credo che si dovrà fare ricorso al Var. Prepariamoci al più grande spettacolo dopo il Big Bang.

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado e Alessia Marani per il Messaggero il 15 ottobre 2022.

Si è consumato ieri mattina nell'aula 107 del Tribunale di Roma il primo round della guerra del guardaroba, combattuta tra Francesco Totti e Ilary Blasi a colpi di borse, scarpe, gioielli e orologi fatti sparire dalla mattina alla sera. Come prevedibile la coppia, che ha annunciato la separazione l'11 luglio scorso, non si è presentata in udienza.  Alla fine il magistrato si è riservato di decidere come procedere: se mantenere in un'unica causa le pretese dei due coniugi o se procedere con due giudizi distinti. (..)

Fuori dall'aula si sono presentate cancelliere incuriosite: «Volevo vedere se c'era Ilary e se veniva scalza», ha ironizzato una di loro. Siparietto anche tra le due squadre di legali, sia sulle borse indossate (Hermés l'avvocatessa della Blasi e Louis Vuitton quella di Totti), sia sugli orologi: «Io, per sicurezza, il mio non l'ho portato», ha scherzato un avvocato. Sarà un caso, ma dai balconi del palazzo adiacente a quello del tribunale di viale Giulio Cesare sventolano bandiere giallorosse. 

Ed ecco apparire davanti alla cancellata anche qualche giovane tifoso che spera di vedere Francesco. Un ragazzo mostra la maglietta numero 10: «Ma c'è? Si è visto? Sto qua apposta». E mentre un giudice era impegnato a risolvere la diatriba tra Totti e Ilary per riavere i loro costosissimi accessori, fuori dal Tribunale un capannello di parenti delle vittime del crollo del ponte Morandi manifestava nell'«ombra» per la class action da 4,5 miliardi a cui hanno aderito 11 mila liguri.

Fulvio Fiano e Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 15 ottobre 2022.  

Borsette contro Rolex, per adesso la partita tra Francesco Totti e Ilary Blasi è finita con un anonimo 0 a 0, ovvero con un nulla (o quasi) di fatto. Né il Capitano né la conduttrice dell’Isola dei Famosi si sono presentati in aula. Dopo appena 50 minuti di confronto tra i rispettivi avvocati — Antonio Conte e Annamaria Bernardini de Pace per lui, Alessandro Simeone per lei — il giudice della settima sezione civile del tribunale di Roma, Francesco Frettoni, si è riservato di decidere se aprire un’istruttoria, sentendo interessati e testimoni. Probabilmente lo farà a stretto giro. 

Nel frattempo si leggerà la lunga lista di beni contesi consegnata da entrambi i contendenti. In teoria sarebbe ancora possibile una conciliazione, ma al momento pare piuttosto ardua, dati i rapporti ostili tra le parti.

Ilary, che ha promosso l’istanza di reintegra, pretende l’immediata restituzione di borsette di lusso, 100 paia di scarpe firmate, accessori e gioielli, insomma tutto il contenuto della maxi-cabina armadio nella villa all’Eur svuotata dall’ex marito in sua assenza. Più la Smart argento, intestata a Totti, ma che considera sua. E già che c’è pure la residenza di famiglia. 

Francesco invece reclama indietro la prestigiosa collezione di una decina di Rolex sottratti dalla cassetta di sicurezza in cui erano custoditi con un blitz di Ilary (che non era cointestataria, aveva soltanto la delega) e del padre Roberto, che l’ha accompagnata in banca. L’ex Letterina sostiene che il marito glieli avrebbe regalati, lui nega.

Due Daytona sono gli esemplari di maggior valore, pezzi rari, venduti unicamente a celebrità e per cui c’è una lista di attesa di tre anni. Preziosi come opere d’arte, impossibili da trovare sul mercato. In tutto si parla di oltre 1 milione di euro. Il ratto degli orologi svizzeri sarebbe avvenuto a metà giugno, un mese prima dell’annuncio della separazione dell’11 luglio. Quando ancora si sperava in un accordo. 

Adesso tutto è molto più complicato, anche perché la sfida Borsette versus Rolex è soltanto una prova generale della vera battaglia: quella per la separazione giudiziale. I ricorsi sarebbero stati infine presentati. Ma con i tempi della giustizia, se ne parlerà nella primavera del 2023.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 12 ottobre 2022.

Basta, fermatevi. Al punto in cui sono arrivate le cose è persino stucchevole stabilire se l'operazione militare speciale che indusse Ilary a invadere la cassetta di sicurezza dei Rolex vada considerata un attacco preventivo o non piuttosto una rappresaglia per il golpe compiuto ai danni della sua cabina-armadio: dove un tempo (secondo la lista presentata ai giudici dalla signora) riposavano cento paia di scarpe, oggi Totti ha fatto il deserto e vorrebbe chiamarlo pace. Si parla di una villona contesa, di borsette in fuga, addirittura di una Smart barricata in garage nell'attesa di diventare scalpo di guerra del vincitore.

Ormai neanche Kissinger e Salvini, per citare due giganti della diplomazia, sarebbero in grado di dipanare la matassa, figuriamoci gli avvocati che a ogni groviglio ulteriore vedono lievitare proporzionalmente i loro onorari. Per placare gli animi prima di arrivare all'Armageddon (l'ingresso di entrambi nella casa del Grande Fratello), serve una mossa a sorpresa. La scoperta di un finto contratto prematrimoniale, scritto astutamente adesso, che contempli un'equa ripartizione delle maglie numero 10 e dei tacchi numero 12.

Oppure, e mi scuso per lo sfacciato buonismo della proposta, la vendita all'asta di scarpe e orologi in eccesso (basterà conservarne cinque a testa, vero?) per pagare le bollette di qualche povero cristo di buon senso, ce ne sarà pur qualcuno, che non si strugge per il destino del guardaroba di due milionari.

Totti-Blasi, lui ha restituito le borse extra-lusso a Ilary, ma i Rolex sono ancora nelle mani di lei. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

Il gesto di Totti non è bastato per firmare la tregua: Ilary Blasi vuole la separazione giudiziale in tribunale. 

Le borsette di Ilary Blasi sono tornate a casa sane e salve (le scarpe, pare, ancora no). Alla fine è stato Francesco Totti a compiere il primo passo. Riportando indietro l’ampio assortimento di Chanel, Dior, Gucci e Hermés della sua ex moglie, rimosso per ripicca dalla cabina armadio della maxi-villa all’Eur più o meno dopo Ferragosto, quando la legittima proprietaria veleggiava nei mari della Croazia. 

Come rappresaglia per il “ratto” dei Rolex che la conduttrice dell’Isola dei Famosi aveva prelevato di soppiatto, insieme al padre Roberto, dalla cassetta di sicurezza della banca, un mese prima che la coppia annunciasse la separazione con il doppio comunicato dell’11 luglio.

Forse le borsette non si erano mai davvero mosse dal loro originale domicilio, nascoste in qualche ripostiglio segreto nella metà della villa coniugale da 1500 metri quadri che il Capitano ha tenuto per sé (in cui continua a vivere tuttora) e che per Ilary è off-limits ( e viceversa). Oppure potrebbe averle appoggiate da sua madre Fiorella, dove certo la nuora non avrebbe mai messo piede. Fatto sta che le preziose creazioni griffate sono ricomparse all’improvviso. Tant’è che, in una delle sue storie su Instagram dei giorni scorsi, nel salone dell’amica hair-stylist Alessia Solidani, la showgirl sfoggiava al braccio una sontuosa Chanel appena riscattata. Se Totti sperava, con questo bel gesto, di recuperare la collezione di orologi svizzeri da oltre 1 milione di euro, ha capito male. 

I Rolex risultano ancora irreperibili. Al sicuro in un’altra cassetta di sicurezza, questo sì, ma ancora lontani dagli occhi e dal cuore (i suoi). Ilary non ha ricambiato la cortesia. Anzi. I rispettivi avvocati (Antonio Conte e Annamaria Bernardini de Pace per lui, Alessandro Simeone per lei), hanno provato per l’ultimissima volta a scongiurare la separazione giudiziale, ma non c’è stato verso. L’ex Letterina sarebbe irremovibile: la conciliazione non le interessa, vuole andare in tribunale. E in caso se ne parla quindi nel 2023.

Nel frattempo il giudice civile davanti al quale è approdata la querelle Borsette contro Rolex avrebbe fissato (o starebbe per farlo) una nuova udienza a stretto giro di posta. E in quella sede Francesco Totti conterebbe di vedere premiata la sua buona volontà, ottenendo la restituzione di ciò che gli appartiene (con scatole e garanzie), in cambio magari del rilascio anche delle scarpe di Ilary (e di altri accessori), si vedrà.

In tutto ciò, l’ex 10 giallorosso continua la sua nuova vita accanto a Noemi Bocchi. Con cui domenica è stato a pranzo a Terracina, in uno dei suoi ristoranti prediletti, prima di tornare a casa all’Eur a vedere la partita Roma-Napoli (e mal gliene incolse). E postare su IG la foto della piccola Isabel che ha appena perso il primo dentino. Al momento il Capitano non si è ancora trasferito a Roma Nord, zona Vigna Clara, tradizionale territorio di tifo biancoceleste. Nella casa che avrebbe comprato ci sono ancora i lavori di ristrutturazione. 

E comunque Totti (che ha regalato e Cristian e Chanel due mini-car gemelle) non intenderebbe trasferirsi in pianta stabile dall’altro capo della città (per allontanarsi troppo dai figli), quanto avere una comoda base anche lì dove abita la compagna con i suoi due bambini. Certo è che sempre più spesso va in trasferta da quelle parti. L’altro giorno lo hanno avvistato seduto ai tavolini di una celebre gastronomia. Due settimane fa invece ha portato mamma Fiorella, che ha problemi a un ginocchio, a farsi visitare da un ortopedico della clinica Paideia, quella che segue i giocatori della Lazio. E sarebbe stato un aereo privato della famiglia De Angelis, proprietaria di Paideia e Mater Dei, ad accompagnare lui e Noemi a Montecarlo la settimana scorsa, per la loro prima vacanza a due.

Da Un Giorno da Pecora il 26 ottobre 2022.

Con chi sto tra Totti e Ilary nella vicenda della loro separazione? “E' una cosa che mi annoia, li trovo due bori, questo litigare per delle cose cafone è da bori, per i Rolex, per le borse firmate, non me ne può fregare nulla”. Così l'ex giudice e neo deputata leghista Simonetta Matone, che oggi è intervenuta alla trasmissione Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, dove tra un argomento politico e l'altro ha parlato anche del gossip del momento Chi tra l'ex calciatore e la conduttrice ha più ragione rispetto all'altro? 

“Non lo so, non ho letto gli atti. Certo andare con la nuova compagna nel luogo sacro del tuo amore con la precedente non è chicchissimo, ognuno deve avere i suoi luoghi sacri. Ci stanno diecimila ristoranti...la trovo un po' cafona questa storia, e non è snobismo, perché io sono un'appassionata di gossip, leggo tantissimo su di tutto”.

Totti e l'avvocato Bernardini de Pace divorziano: "Quando Blasi ha chiesto la separazione il nostro rapporto è finito". Andrea Ossino, Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 9 Novembre 2022.

Il rapporto tra l'ex capitano giallorosso e il "mastino" dei legali divorzisti è arrivato al capolinea. "Non mi occupo di cause di gioielli e Rolex" avrebbe detto la legale. Intanto Ilary Blasi scaglia la prima pietra chiedendo la separazione che si discuterà il prossimo marzo

Il rapporto tra l'eterno capitano giallorosso e il "mastino" degli avvocati divorzisti è arrivato al capolinea. Annamaria Bernardini De Pace non rappresenta più Francesco Totti.

Proprio adesso che la causa per la separazione tra Totti e Ilary Blasi è stata fissata per il prossimo marzo, mentre tra 48 ore andrà in scena la seconda udienza del procedimento sulla…

Giovanna Cavalli per corriere.it il 10 novembre 2022.

Francesco Totti non trova pace. E da un giorno all’altro ecco che deve affrontare un’altra brusca rottura, un addio improvviso. Non a Ilary Blasi, quello ormai è storia, ma a uno dei suoi legali di punta, ovvero Annamaria Bernardini de Pace. Che così com’era arrivata, adesso se ne va. Ce lo rivela la stessa celebre matrimonialista/divorzista milanese: «Nella mia vita ho fatto il 95% di separazioni consensuali e il 5 % giudiziali. Avevo stilato un accordo che non è stato accolto, anche perché non piaceva al mio cliente e così la separazione consensuale l’abbiamo consumata io e Totti».

Più chiara di così. Anna Maria Bernardini de Pace conferma dunque l’indiscrezione anticipata dal sito Dagospia, che per primo ha segnalato il “divorzio” del Capitano dal suo celebre avvocato. Ognuno, anche in questo caso, se ne va per la sua strada e amici come prima. Le due opposte squadre di difesa (per Ilary Blasi c’è Alessandro Simeone) dunque avevano miracolosamente trovato un accordo ritenuto conveniente per entrambe le parti. Ma i loro clienti l’hanno bocciato. Per l’ennesima volta. 

Almeno su questo” no” la conduttrice dell’Isola dei Famosi e l’eterno Capitano della Roma si sono ritrovati in perfetta sintonia. E a quel punto l’avvocato Bernardini de Pace ha ritenuto che il proprio mandato fosse giunto a un binario morto. Concluso. E ne ha informato l’ex calciatore, che può comunque contare sullo storico legale di fiducia (Conte, lo stesso della AS Roma), da sempre al suo fianco. Si va dunque dritti alla giudiziale, appuntamento in primavera.

Secondo Dagospia l’ex 10 giallorosso sarebbe influenzato dalla nuova compagna Noemi Bocchi, che ispirerebbe ogni sua decisione, negli ultimi tempi. Che sia sull’appartamento da acquistare (uno a Roma Nord per lei, uno in zona Mazzini per lui), sui mobili da scegliere per la cucina (con trasferta in mobilificio di Caserta) o sulle strategie per la separazione. In realtà il campione ascolta, certo, i consigli dell’amato bene e degli amici, poi però decide di testa propria. E così si sarebbe regolato anche stavolta. Forse perché non condivideva fino in fondo l’approccio decisionista e combattivo scelto da Annamaria Bernardini de Pace. Preoccupato, da padre, per le ripercussioni sui tre figli di ogni sua mossa.

Mentre Ilary (ieri impegnata a sottoporsi a un massaggio di bellezza a glutei e gambe, postato sui social a beneficio dei follower), che intanto pubblica su Instagram l’ennesima foto conturbante in body nero a maniche lunghe con jeans calati sui fianchi e la didascalia «Ops», si tiene ben stretto il suo avvocato Simeone, un tempo braccio destro nello studio Bernardini de Pace.

L’ex Letterina si mostra tranquilla e serena, in vista dell’udienza di venerdì 11 sul mitologico scontro Borsette contro Rolex. Sia lei che Francesco dovranno comparire di persona davanti al giudice. Totti non vede l’ora. Perché, mentre le borse sono tornate a casa (anzi, non si erano mai mosse, da lui chiuse a chiave nella Spa della villa, dove Ilary le ha ritrovate), la collezione di Rolex da un milione di euro risulta ancora irreperibile. E Francesco spera invece di tornarne presto il legittimo e unico proprietario.

Ancora una volta la Bernardini De Pace perde i clienti: dopo la Moric, è la volta di Francesco Totti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’11 Novembre 2022.

La separazione della Bernardini De Pace con il suo cliente Francesco Totti in realtà sarebbe dovuta alla strategia legale ed alle parcelle richieste ed alla decisione di apparire insieme con la nuova compagna Noemi Bocchi

Lo storico capitano giallorosso cambia avvocato, ed Annamaria Bernardini De Pace non rappresenta più legalmente Francesco Totti nella causa per la separazione con Ilary Blasi. La separazione che la Bernardini De Pace opportunamente definisce “consensuale” avviene quando è stata fissata per il prossimo marzo, mentre tra 48 ore si svolgerà la seconda udienza del procedimento sulla restituzione dei Rolex e dei gioielli, visto che la conduttrice televisiva ha già trovato e recuperato nella villa dell’Eur le preziose scarpe e borse occultate da Totti all’indomani della sparizione dei suoi orologi da una cassetta di sicurezza condivisa dall’ex coppia e prelevati dalla Blasi insieme a suo padre. La versione ufficiale resta la seguente: “Ci siamo accordati consensualmente“.

Il reale motivo della conclusioni di rapporti fra Totti con il suo avvocato Annamaria Bernardini De Pace , riserva più di qualche retroscena. Nell’ambiente giudiziario si mormora di suggerimenti dell’avvocato Bernardini non condivisi da Totti. Il principale, quello della decisione di apparire insieme con la nuova compagna Noemi Bocchi e avviare trattative per acquistare un nuova  casa per starle più vicino. Voci messi in circolazione ad arte per giustificare la rottura dei rapporti e la perdita di una sicuramente più che lauta parcella .

L’ avvocato Bernardini De Pace nel 2009 era stata sospesa dall’ Ordine degli avvocati del foro di Milano, dove esercita principalmente la sua professione, con decisione confermata dal Consiglio Nazionale Forense (Cnf): “L’avvocato non può decidere di autoesonerarsi dalla tariffa professionale e dai canoni deontologici relativi alla determinazione del compenso“” solo perché “li ritiene non adeguatamente remunerativi della propria attività” . Matrimonialiste fra le più gettonate d’Italia, grazie alla ribalta pubblica conseguente all’assistenza professionale prestata a tanti volti noti (da Simona Ventura e Eros Ramazzotti, da Katia Ricciarelli a Romina Power) sia per i riflessi di legami familiari (è l’ex suocera dell’attore Raul Bova), ma sopratutto per la presenza assidua su giornali e tv venendo considerata dalla stampa amica un'”esperta” del settore.

Durante i processi per la nota inchiesta “Vallettopoli”, la Bernardini De Pace assisteva la top model Nina Moric, all’epoca sposata con Fabrizio Corona, che la coinvolse nell’inchiesta condotta dal pm Henry John Woodcock, finendo iscritta nel registro degli indagati per “riciclaggio” senza saperlo a causa della totale fiducia che riponeva in suo marito. La Moric resasi conto delle iniziative autonome ed aggressive che moltiplicavano le parcelle legali della Bernardini De Pace le revocò il mandato affidandosi all’ avvocato Daniela Missaglia. Una revoca che non andò giu alla Bernardini che sostenne in un altro processo che la decisione della Moric era stato consigliata e “spinta” dal nostro direttore, che aveva solo la colpa di essere un vecchio e caro amico di Nina Moric e di essere stato assistito a Milano dall’ avvocato Missaglia in alcune vicende giudiziarie legale alla sua professione giornalistica.

“Per mia fortuna, in questa vicenda, non frequento nè Francesco Totti, nè la sua nuova compagna” commenta il nostro direttore de Gennaro “e quindi sono salvo dalle teorie campate in aria dell’avvocato Bernardini De Pace !”. Redazione CdG 1947 

Dagospia il 17 novembre 2022. COMUNICATO STAMPA

La nota avvocatessa divorzista Annamaria Bernardini De Pace arriva a “Belve” e ce n’è ha per tutti: per Totti, Muccino, Asia Argento, Selvaggia Lucarelli...

Sul caso Totti quando la Fagnani le chiede se rinunciare all’incarico sia stata una liberazione o un dispiacere, la De Pace risponde con ironia: “Ma Totti chi?” 

Quando la Fagnani chiede alla Bernardini De Pace se si è mai interrogata sul perché il regista Gabriele Muccino di cui lei ha difeso la moglie, prova tanta acredine nei suoi confronti, arrivando a dire: “Schiaccia la vita delle persone come noci”, la Bernardini De Pace risponde: “Ha perso tutto, è normale, l’ho già querelato”. E su Asia Argento che non ha mai saldato il conto: “Non la difenderei più. può mai sembrare una vera vittima a qualcuno?”.

Su Selvaggia Lucarelli: “Non ha forza, nonostante si chiami Selvaggia. Vorrei vederla più coraggiosa nell’affrontare le donne e darle un minimo di collaborazione. E quando la Fagnani ribatte: “è coraggiosa”, l’avvocatessa insiste: “Ma con le donne non è coraggiosa, non l’ho mai sentita incoraggiare o apprezzare una donna.” 

Botta e risposta poi con la Fagnani sul tema molestie. Ricordando le molestie subite dalla Bernardini De Pace quando era ragazzina, l’avvocatessa dice: “Trovo che oggi le donne siano esagerate, se uno ti da’ una pacca, ti tocca per sbaglio, fanno le vittime, le scene, se ti toccano il sedere quasi per apprezzarti, fanno una scena: sono stata male...” 

Fagnani allora ribatte: “Se ti toccano per apprezzarti ci deve essere reciprocità, la molestia è la molestia. De pace risponde: “Ma se ancora non l’hai apprezzata come si fa ad esserci reciprocità?” La Fagnani: “Non è che uno si conosce con una mano sul sedere, la molestia è la molestia, l’avance gradita è l’avance gradita. La De Pace conclude: “C’è molestia e non molestia.” 

Non manca infine di raccontare delle sue paure e ricorda di quella volta in cui ha trovato una specie di bomba sul pianerottolo di casa.

Belve, impensabile Fagnani sulla Bernardini De Pace: "Che faccia..." Libero Quotidiano il 26 novembre 2022

Con Belve che ha concluso l'edizione 2022, Francesca Fagnani può togliersi qualche sassolino dalla scarpa. E così la conduttrice di Rai2 si sofferma su ogni ospite del programma. Tra questi Annamaria Bernardini De Pace. L'avvocato divorzista più famoso d'Italia non ha risparmiato nessuno. Prima la frecciata a Francesco Totti: "Ma Totti chi? Non so chi sia. Non ricordo niente, mi avvalgo della facoltà di non rispondere", commentava dopo i contrasti per un mancato accordo. 

Poi Gabriele Muccino, il regista l'aveva definita come una "che schiaccia la vita delle persone come noi" e al quale non ha fatto attendere la replica: "Muccino l’ho querelato, il mio avvocato David Leggi ha già presentato la denuncia. L’ho querelato perché ha detto che io ho fatto otto denunce penali tutte archiviate e io non le ho mai fatte nella mia vita. Ero l’avvocato di sua moglie, ma non ho mai fatto una denuncia di quel tipo. Tanta acredine nei miei confronti perché ha perso tutto, è normale". Infine Asia Argento: "Non la difenderei più. Può mai sembrare una vera vittima di qualcuno?".

L'attrice infatti non ha mai pagato il legale. Ma come lei sono in tantissimi a farlo: "Rappresento moltissimi vip, tanti di loro non vogliono pagare. Ce ne sono molti che sono convinti che basta che io accosti il mio nome al loro e loro al mio che mi hanno ripagata in visibilità. Ma non è così. A chi non paga faccio una causa e i soldi me li riprendo. Asia Argento e Nina Moric non mi hanno pagata. Non mi sono arresa, ma hanno fatto sparire tutto quello che avevano". Insomma, quanto basta a ottenere la stima della Fagnani che a Gente parla della Bernardini De Pace come "una faccia tosta. Una donna simpatica. I social l’hanno amata". 

Noemi Bocchi maltrattata dal marito Mauro Caucci: «Mani al collo e minacce mentre i bimbi dormivano». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera l’11 Novembre 2022.

L’attuale compagna di Francesco Totti e il processo per maltrattamenti contro il coniuge Mauro Caucci.

Di fatto abbandonata da un giorno all’altro con i figli di pochi anni, poi aggredita in casa dopo la separazione. La storia del matrimonio tra Noemi Bocchi, 34 anni, attuale compagna di Francesco Totti, capitano per quasi vent’anni della Roma, e il marito Mauro Caucci, 35 anni, è oggi un processo penale nel quale l’uomo è accusato di maltrattamenti in famiglia.

Le tappe della vicenda sono ripercorse nella denuncia depositata dalla donna nel settembre del 2019, nove anni dopo il matrimonio celebrato a Tivoli, dove Caucci, nato a Roma, vive già da molti anni. Noemi, all’epoca, ha 24 anni: «Caucci ha preteso da subito che interrompessi gli studi e mi ha impedito di intraprendere qualsiasi attività lavorativa. Disse che mi sarei dovuta occupare della famiglia e che in ogni caso il mio reddito sarebbe stato irrilevante rispetto al budget del menage familiare». Caucci, team manager della squadra di calcio locale, appartiene a una facoltosa famiglia che da quasi un secolo commercia marmo in Italia e all’estero ed è proprietaria di alcune cave a Guidonia (a pochi chilometri da Tivoli) e Carrara. Il matrimonio inizialmente procede senza problemi. Tra il 2011 e il 2014 Bocchi ha due figli, una femmina e un maschio.

Qualcosa però si rompe nel 2017. Bocchi riconduce tutto a un grave lutto che colpisce l’imprenditore, che dopo quell’evento «ha cominciato ad allontanarsi da me e dai figli, portando in casa un clima di totale assenza di rapporto e dialogo, dicendo che ormai la sua vita non aveva più senso».

Poi, un giorno di novembre di quell’anno, Caucci esce di casa «improvvisamente, lasciandomi da sola con i nostri figli». È il punto di non ritorno: «Come è immaginabile io avrei preferito mantenere un rapporto quanto più civile con mio marito», scrive ancora Bocchi nella denuncia. Ma «dopo mesi infruttuosi poiché non mi dava alcun contributo» lei deposita un ricorso per separazione giudiziale. «Mio marito ha cominciato a farmi mille pressioni per accettare le sue condizioni, promettendomi che non mi avrebbe fatto mancare nulla, come nulla sarebbe mancato ai nostri figli» e così, nell’aprile del 2019, arrivano a un accordo consensuale in base al quale Caucci dovrà versare 1.250 euro al mese per ciascun figlio (cosa che poi non sempre avverrà).

Non passa però neanche una settimana quando lui, la notte del 1° maggio, la chiama con insistenza al telefono. A casa si è fermato a dormire un amico che lei invita ad andare via, temendo le reazioni dell’ex. Caucci arriva e comincia a citofonare in continuazione, nonostante lei lo preghi di andar via perché i figli stanno dormendo. Lui la minaccia di «non staccarsi dal citofono». Una volta entrato, le mette le mani al collo, la strattona (l’uomo pesa 116 chili). Bocchi si rifugia in bagno, Caucci minaccia allora di buttar giù la porta; poi la aggredisce e all’alba va via.

Qualche giorno dopo le chiede un incontro, sostiene di non ricordare niente, ma quando lei lo incalza prova a convincerla, chiede perdono. È tutto inutile. Bocchi, forte di un referto medico che attesta le ferite che l’ex le ha causato, lo denuncia. «Quello che ho subito è gravissimo», dice.

Davanti al giudice al quale è stato rinviato, Caucci deve difendersi anche, come si legge nel capo di imputazione, «dall’aver violato gli obblighi di assistenza morale e materiale legati alla potestà genitoriale, serbando una condotta contraria alla morale delle famiglie, in particolare disinteressandosi, dopo essersi allontanato dal domicilio familiare, dei figli minori».

Coppie (di star) scoppiate, il 2022 annus horribilis: Gisele Bündchen e Shakira ora single. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l'1 Novembre 2022.

In questi primi dieci mesi dell’anno sono state molti i volti noti di tv, moda e cinema che sono tornati single. Per alcuni, però, si parla di un ritorno di fiamma

Gisele Bündchen e Tom Brady

Un anno nero il 2022 per tante coppie del mondo dello spettacolo, della moda e della tv che si sono lasciate dopo anni insieme. Gli ultimi sono loro, Gisele Bündchen e Tom Brady, che avevano festeggiato i 13 anni di matrimonio lo scorso febbraio, scambiandosi reciproche carinerie su Instagram. La coppia ha presentato richiesta di divorzio in Florida, con un accordo praticamente fatto sulla custodia congiunta dei figli. «Con molta gratitudine per il tempo trascorso insieme, Tom e io abbiamo finalizzato in maniera amichevole il nostro divorzio. La mia priorità è sempre stata e continuerà ad essere il bene dei nostri figli che amo con tutto il mio cuore», ha scritto Gisele Bündchen su Instagram. «Continueremo a essere genitori uniti per dar loro l'amore, la cura e l'attenzione che meritano. La decisione di porre fine a un matrimonio non è mai semplice, ma abbiamo scelto di separarci e anche se, ovviamente, è difficile affrontare un simile evento, mi sento fortunata per questo tempo insieme e auguro solo il meglio a Tom, per sempre».

Alessia Marcuzzi e Paolo Calabresi

Il matrimonio tra Alessia Marcuzzi e Paolo Calabresi Marconi è giunto al capolinea a fine settembre 2022 dopo quasi otto anni di unione. La conduttrice ha rilasciato un comunicato che recita: «Io e Paolo abbiamo deciso di lasciarci. La fine del nostro matrimonio però non significherà la fine della nostra famiglia, che continuerà ad esistere. I miei figli e Paolo proseguiranno il loro immutato rapporto di amore e affetto che abbiamo costruito in questi anni».

Melissa Satta e Mattia Rivetti

Melissa Satta è tornata single: è stata la stessa conduttrice tv e showgirl a comunicare la fine dell’amore con l’imprenditore 34 enne Mattia Rivetti. In una lapidaria Instagram Stories, aveva scritto a fine settembre :«Dopo quasi due anni la mia relazione è giunta al termine, grazie Melissa».

Wanda Nara e Mauro Icardi

E’ giunta ufficialmente al capolinea la storia d'amore tra Mauro Icardi e Wanda Nara, chiacchieratissima negli ultimi mesi, complici le voci di crisi che circolavano da un po' . È stata la showgirl argentina a fugare ogni dubbio, affidando ciò che aveva da dire a una Storia pubblicata su Instagram. I due sono stati avvistati insieme alla festa della figlia Isabel.

Ilary Blasi e Francesco Totti

Dopo ben 17 anni di unione Francesco Totti e Ilary Blasi si dicono addio. «Dopo vent'anni insieme e tre splendidi figli, il mio matrimonio con Francesco è terminato», ha fatto sapere la conduttrice in una nota stampa. Un divorzio in mano ora agli avvocati dei due.

Shakira - Gerard Piqué

La cantante colombiana Shakira ha annunciato la separazione dal compagno, il calciatore del Barcellona Gerard Piqué, con il quale ha avuto due figli: «Siamo spiacenti di confermare che ci stiamo separando. Per il benessere dei nostri figli, che sono la nostra priorità assoluta, chiediamo il rispetto della privacy. Grazie per la vostra comprensione», ha scritto in un breve comunicato diffuso dall'agenzia di comunicazione della cantante.

Benjiamin Mascolo e Bella Thorne

«Oggi mi sono svegliata da sola»: con queste parole, in una delle stories di Instagram, Bella Thorne raccontava la sua quotidianità dopo la rottura da Benjiamin Mascolo. I due facevano coppia fissa da oltre tre anni e da oltre uno sono fidanzati. Si erano incontrati ad aprile 2019 sul Lago di Como e da allora sembravano inseparabili.

Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi

Sembrava la favola d’amore perfetta. E invece Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi si sono separati. Dopo dieci anni insieme e due figlie, i due si sono detti ufficialmente addio. Anche se qualcuno pensa a un loro ritorno di fiamma in queste ultime settimane.

Valentina Ferragni e Luca Vezil

E’ terminata, poche settimane fa, anche l’unione (durata nove anni) tra la sorella di Chiara, Valentina Ferragni, ed il compagno Luca Vezil: «Dopo tanti anni condivisi insieme io e Luca abbiamo deciso di intraprendere due strade separate. Siamo cresciuti insieme e ci unirà sempre un grande affetto e rispetto per quello che siamo stati. Vi chiedo di comprendere e di rispettare la nostra decisione che come potete immaginare è stata tanto sofferta».

Claudio Amendola e Francesca Neri

L’anno nero delle coppie vip non ha risparmiato neanche Claudio Amendola e Francesca Neri. Il loro amore lunghissimo è giunto al capolinea: i due hanno deciso di separarsi. A dare la notizia , sulla quale circolavano rumors da diverso tempo, è stato per primo il quotidiano Il Messaggero.

Sylvester Stallone e Jennifer Flavin

Dopo 25 anni insieme, Sly e la moglie si sono detti addio. L'ex top model di 54 anni ha chiesto il divorzio alla 76enne star di Hollywood. Nel frattempo, l’attore ha coperto il tatuaggio del viso dedicato all’ex consorte.

Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli

E’ finita anche la storia d’amore tra Benedetta Porcaroli e Riccardo Scamarcio. L'amore tra i due attori era nato sul il set del film “L'ombra del giorno” e, secondo le indiscrezioni riportate su Dagospia, la rottura sarebbe dovuta al riavvicinamento di Scamarcio all’ex compagna Angharad Wood, dalla quale nel 2020 ha avuto la figlia Emily.

Cristiana Capotondi e Andrea Pezzi

Cristiana Capotondi ha rilasciato all’inizio una dichiarazione all'Ansa, ''con immensa gioia comunica la nascita di sua figlia Anna e con infinita gratitudine verso l'ex compagno, Andrea Pezzi''. E ha spiegato: ''Quando ho scoperto di aspettare un figlio da un'altra persona, la mia lunga relazione di 15 anni con Andrea Pezzi si era interrotta già da diversi mesi. Nonostante questo, mi è venuto naturale cercare la protezione e la complicità di Andrea, tanto rimane forte il nostro affetto e il nostro legame. "Anche Andrea Pezzi ha scelto di diffondere all'Ansa per mezzo di questo comunicato, una sua dichiarazione. "Dopo 15 anni insieme, all'inizio dell'estate '21, Cristiana ed io abbiamo deciso di separarci senza tuttavia comunicarlo per prenderci tutto il tempo per riorganizzare con calma le nostre vite'.

Da veritaeaffari.it l’8 novembre 2022.

È suo il nome più affidabile del gossip italiano. Roberto D’Agostino, fondatore del noto Dagospia, viene definito così dal New York Times. Una vera incoronazione ufficiale per il giornalista e personaggio televisivo e per il suo sito. 

Il quotidiano americano, ricostruendo la fine dell’amore tra Francesco Totti e Ilary Blasi, ricorda come sia stato proprio Dagospia il primo a individuare seduta negli spalti di una partita di calcio quella che sarebbe diventata la fidanzata ufficiale Noemi Bocchi.

All’indiscrezione pubblicata seguì una secca smentita di Totti. Dopo pochi mesi, il matrimonio con Ilary finì. Una storia che si preannuncia ancora ricca di colpi di scena, visto che la coppia non ha ancora trovato un accordo per la spartizione del ricco patrimonio.

Ottavio Cappellani per mowmag.com l’8 novembre 2022.

Ecco, lo so, voi immaginate i giornalisti del New York Times (NYT per gli amici) in tweed, button down, clarcks, velluti a coste e tutto l’immaginario Robert Redford/Dustin Hoffman in “Tutti gli uomini del presidente” che con la loro tazzona di caffè in mano si informano sulle vicende italiane leggendo il Corriere della sera, Repubblica (qualcuno recentemente ha detto “scrivere su Repubblica è diverso da essere di Repubblica”), Il Foglio (per il turboatlantismo).

Bene. Con la minchia! 

Al New York Times leggono Dagospia. Adesso, non è la prima volta che ne abbiamo sentore, basta una ricerchina per vedere che già dal 2016 ai piani alti del NYT si chiedono “Ma Dagospia che dice?”. L’ultima novità è che non solo leggono Dagospia perché è il sito (o il giornale, oramai differenze io non ne vedo) di retroscena più informato e anticipatore che esista in Italia e anche fuori dai confini. È che al NYT sono pazzi della storia Totti-Blasi-Bocchi, con buona pace di chi “non leggo gossip”. 

La citazione del New York Times 

E infatti il NYT non solo ne legge, ma ne scrive pure. Citando, con la consueta e ineffabile precisione, fonti esatte e anticipazioni e scoop. “The most trusted name in italian gossip”, scrive Jason Horowitz, “il più affidabile sito di gossip, Dagospia” (continuo in italiano) ha fatto partire una guerra in cui vengono presi in ostaggio Rolex e Jimmy Choos (so’ scarpe). E come avrebbe fatto Dago non solo a scatenare questa guerra ma addirittura a “cambiare la venerata immagine di Totti”? Semplice. Pubblicando la foto di Ms. Bocchi dietro a Totti durante una partita di calcio.

Il che, con buona pace di chi scrive articolesse che nessuno legge, è assolutamente la verità. E ci voleva il NYT per spiegare a molti giornali italiani che le fonti si citano. 

Adesso, io non ho ancora bene capito cosa significhi la frase attribuita a non so chi di Repubblica. Però so una cosa: “Apparire su Dagospia e essere di Dagospia è differente”.

Dagospia l’8 novembre 2022. Traduzione dell’articolo di Jason Horowitz per nytimes.com 

C'era una volta Francesco Totti, il principe del calcio italiano, che festeggiava un gol strappandosi la maglia e scoprendo una maglietta con la scritta "6 UNICA", una proclamazione d'amore eterno per Ilary Blasi, una showgirl che gli aveva rubato il cuore. I due si sposarono in diretta televisiva, ebbero tre figli e si trasferirono in una villa degna di una famiglia reale nata e cresciuta a Roma. 

Ora, 20 anni dopo, lui dice che è stata la Blasi a rubargli gli orologi Rolex. 

In risposta al furto dei suoi orologi, che si dice abbiano un valore di oltre 1 milione di euro, il signor Totti, 46 anni, ammette di aver fatto razzia della collezione di scarpe Jimmy Choo, Amina Muaddi, Le Silla, Casadei e Gucci della moglie. Ha anche nascosto le sue borse di Dior, Louis Vuitton, Hermès e Chanel, che è il nome di una delle loro figlie. 

"La guerra del guardaroba", ha dichiarato il quotidiano romano Il Messaggero. 

"Cosa potevo fare? Ho nascosto le sue borse, sperando di poterle scambiare", ha detto il signor Totti in un'intervista. La Blasi, 41 anni, ha recuperato le borse con l'aiuto di un fabbro nella villa che, goffamente, condivide ancora con il signor Totti o con un'offerta di pace da parte del marito.

Per un Paese - e soprattutto una città - spesso afflitto da un profondo cinismo nei confronti delle apparenze da favola, della durata della felicità e persino dell'esistenza del vero amore, la rottura si è rivelata un trauma pubblico e una bonanza da tabloid. 

La separazione può essere una cosa normale per il complesso industriale delle celebrità del calcio, ma a Roma la separazione ha segnato una leggenda. Totti - uno dei giocatori più celebri della sua generazione e il più amato nella storia dell'A.S. Roma - è venerato a Roma per essere rimasto nella squadra della sua città per tutto il quarto di secolo di carriera, compresi i giorni in cui era il Bambino d'Oro, il Fenomeno, il Capitano e la Leggenda.

Più gli estranei prendevano in giro il suo accento romano, la sua grammatica abbreviata in dialetto e il suo vocabolario colorito per il suo provincialismo romano, più lui diventava lo stemma umano della città. Alla fine si è preso in giro da solo in pubblicità televisive e libri di barzellette su Totti. 

Durante l'ultima partita di Totti, generazioni di italiani hanno versato una lacrima, e i romani hanno pianto in modo incontrollato, quando il campione ha fatto un giro di campo con la signora Blasi e i suoi figli. È diventato la personificazione della fedeltà romana. 

Ora tutta l'Italia, a quanto pare, è concentrata sulla sua presunta infedeltà.

Questa settimana, il signor Totti è andato pubblicamente a caccia di case con la sua fidanzata, Noemi Bocchi, 34 anni, una fioraia dall'aspetto non del tutto dissimile da quello che aveva la signora Blasi. ("Foto esclusiva", recitava la copertina di Chi, una rivista di gossip, "Francesco Totti costruisce una casa con Noemi"). 

Per non essere da meno, la Blasi ha portato una delle sue borse firmate come un neonato a cena con un misterioso investitore immobiliare, una serata immortalata dai paparazzi e finita sulla copertina della rivista Diva e Donna. ("Tra Totti e la Blasi sempre più guerra", recitava il titolo).

La prossima settimana, la coppia separata dovrebbe incontrarsi a porte chiuse in un'aula del tribunale di Roma per una seconda udienza sulla merce mancante. 

Il procedimento è considerato un'anticipazione di una dura battaglia per il divorzio sulla loro villa, da cui lei pare voglia che lui esca, sulle quote della scuola calcio Totti, di cui lei pare voglia mantenere una parte, e sulle colpe di chi ha tradito per primo. 

La prima soffiata è arrivata a febbraio, quando Dagospia, la testata più affidabile del gossip italiano, ha riferito che il signor Totti aveva una fidanzata, indicando la signora Bocchi seduta un paio di file dietro di lui a una partita di calcio a dicembre.

Sia il signor Totti che la signora Blasi hanno negato vigorosamente la notizia. 

"Non è la prima volta che mi capita di sentire queste notizie false", ha detto Totti, che indossava una felpa grigia con cappuccio e un piumino, in un video girato in una strada vuota. "E, sinceramente, sono davvero stanco di dover smentire". 

Ma la gente ha iniziato a cercare segni di discordia. I media britannici si sono concentrati su una conversazione del 2020 che il signor Totti ha avuto in video con Christian Vieri, un'altra stella ormai di mezza età del calcio italiano, in cui il romano ha presentato un gatto pelato che ha chiamato "pipistrello", di nome Donna Paola, che ha detto che sua moglie aveva preteso diventasse un membro della loro famiglia.

"Giuro che stavo per separarmi da mia moglie per il fatto che avesse preso questo gatto", ha detto il signor Totti con leggerezza. "Non ci siamo parlati per giorni e poi mi sono innamorato anch'io del gatto". 

Non è chiaro chi prenderà il gatto ora. A luglio, la coppia ha ammesso la fine del loro matrimonio in due comunicati stampa. Entrambi hanno chiesto di mantenere la privacy per il bene dei loro tre figli. 

La Blasi, che ha condotto il reality show "Grande Fratello", attualmente conduce "L'isola dei famosi" ed è il volto di una bevanda dietetica, non si è necessariamente tirata indietro. 

Questa settimana, ha cambiato il suo gioco di selfie in esposizione sui social media e ha invece posato lontano dalla macchina fotografica, indossando solo jeans strappati e i suoi lunghi capelli biondi. Ha trascorso l'estate in Tanzania, dove ha popolato il suo feed di Instagram con foto di se stessa e dei suoi attributi fisici in vari bikini di marca. 

Altri post sembrano avere in mente la sua situazione matrimoniale. Ad Halloween ha visitato una escape room a Roma.

Ma l'apparizione della signora Blasi sui social media più scrutinata è avvenuta all'inizio di ottobre, quando è sembrata prendere in giro il marito in un video su Instagram, riprendendosi davanti a un negozio di Rolex, alzando un sopracciglio e ruotando il polso. Ha taggato il signor Totti nel post. 

Sia il signor Totti che la signora Blasi, tramite i loro avvocati, hanno rifiutato di commentare, ma nell'intervista rilasciata a settembre al Corriere della Sera, il signor Totti ha ammesso di aver nascosto gli accessori firmati della moglie, prodotti che secondo i suoi avvocati sono fondamentali, insieme a più di 30.000 euro al mese, per il mantenimento del suo stile di vita.

Nell'intervista, il signor Totti ha detto che il matrimonio era in crisi da tempo e ha affermato di non essere "il primo a tradire", e successivamente ha detto che alcuni informatori gli avevano detto che la moglie aveva "più di un" amante. I giornali di gossip italiani hanno proposto l'ex amante di una popolare showgirl argentina e un personal trainer come buoni candidati. 

Ma i sostenitori della signora Blasi hanno ribattuto che uno dei messaggi intercettati dal signor Totti sul suo telefono, con le istruzioni per un appuntamento in albergo, era in realtà destinato a un investigatore privato che la signora Blasi aveva assunto per seguire il marito. 

Il signor Totti ha detto che lei ha anche piazzato cimici e localizzatori GPS nella sua auto. Ha indicato diversi punti di pressione, tra cui la morte del padre per Covid nel 2020 e la sua stessa malattia per Covid. "Mia moglie, però, quando avevo più bisogno di lei, non c'era", ha detto. Ha ammesso alcune colpe ("avrei dovuto portarla a cena di più"), ma ha detto che il matrimonio era in difficoltà già nel 2017, quando la sua carriera è finita.

"Ero fragile", ha detto. "E Ilary non capiva l'importanza di questo dolore. Noemi mi ha aiutato a superare tutto questo", ha detto. 

Il mese scorso, la coppia ha fatto il suo debutto ufficiale in pubblico, sedendosi insieme a una partita di calcio. Questa settimana, Chi ha pubblicato un servizio a più pagine che li ritrae mentre guardano case insieme alla figlia di lui e alla figlia di lei, avuta da un precedente matrimonio.

Come colpo apparentemente finale alla storia di Cenerentola, il signor Totti, il rampollo della Roma sud, dove i residenti sanguinano il rosso e il giallo della Roma, sta esaminando le case nella zona nord della città, più ricca. Roma Nord è identificata con i rivali della A.S. Roma, la Lazio.

Giovanna Cavalli per corriere.it l’11 novembre 2022.

Nel 2013 (post del 14 maggio), Mario Caucci scriveva su Facebook: «Moglie mia ti amo». E lei, Noemi Bocchi, rispondeva: «O Madonna mia che dichiarazione d’amore!!! Io di più…», aggiungendoci un cuoricino rosso. Ma allora il matrimonio tra il Re del Marmo e sua moglie, oggi nuova compagna di Francesco Totti – che il Capitano al massimo lo guardavano insieme e da lontano allo stadio, entrambi tifosissimi romanisti - era ancora sereno. 

Biondo, imponente e massiccio come un blocco di granito o di travertino che da quasi un secolo e tre generazioni la facoltosa famiglia di imprenditori tiburtini estrae e commercia dalle cave di Guidonia e Carrara (con le loro pietre sono stati costruiti anche l’aeroporto di Singapore, la moschea di Algeri e gli hotel Hilton di Londra), 35 anni, Caucci jr (per distinguerlo dal nonno Mario, il fondatore dell’impero, originario di Ponte D’Arli, nelle Marche), figlio di Serafino e Daniela Caucci, in azienda si occupa dei rapporti internazionali ed è il team manager del Tivoli Calcio 1919. Ha studiato all’istituto paritario San Giuseppe del Caburlotto prima di laurearsi alla Business School della Luiss.

Per un anno, da ragazzo, dopo un lungo viaggio in Australia, lavorò accanto ai cavatori, a spaccare le pietre con la mazza. «Ho avuto una prima infanzia meravigliosa», ha raccontato in un’intervista del 2021 al Tiburno: «Ho vissuto il calore di una famiglia unita che si riuniva tutte le domeniche a pranzo e condivideva vacanze e feste». E anche quella creata con Noemi Bocchi, più giovane di lui di un anno («The woman of my life», la donna della mia vita, scriveva sempre su Fb), i primi tempi era una famiglia felice, con due bellissimi bambini, una femminuccia e un maschietto, vacanze insieme al Circeo, a San Casciano, a Ibiza, in America.

Poi i primi gravi attriti, fino alla denuncia per abbandono e maltrattamenti che lei ha presentato nel 2019 e su cui adesso si dibatte in tribunale. Che i rapporti tra i due fossero pessimi si era intuito molto chiaramente nel febbraio del 2022, quando il nome e cognome della bionda signora dei Parioli era stato associato per la prima volta a quello di Francesco Totti. Con la foto di Noemi seduta in tribuna allo stadio Olimpico, qualche fila dietro il campione. 

Allora Caucci, in un’intervista al Messaggero, aveva commentato con un certo sarcasmo la notizia di un possibile flirt tra la sua ex (erano già separati da un pezzo) e l’eterno numero 10 giallorosso: «Non mi ha sorpreso affatto il comportamento di mia moglie. Il suo agire disinvolto non mi stupisce...».

Sull’ex 10 giallorosso aggiunse ridendo: «Di Totti posso dire soltanto che è il mio salvatore. So bene che cosa c’è oltre, dietro il semplice lato estetico di una persona, e a lui, se davvero ci fosse questa liaison, va tutta la mia comprensione, nessuno meglio di me potrà comprenderlo». Le ultime parole, ancora amare, di nuovo su Noemi: «Per me è stato molto doloroso separarmi e vorrei chiudere definitivamente questa storia, ma non si trova l’accordo. Ossia lei lo ostacola».

Da leggo.it il 14 novembre 2022.

La separazione di Francesco Totti e Ilary Blasi resta al centro dell'attenzione. In una recente intervista, l'amico dell'ex calciatore della Roma, Alex Nuccetelli, ha rivelato altri particolari riguardanti il matrimonio tra la conduttrice e il Pupone. 

Alex Nuccetelli è intervenuto ai microfoni del programma Turchesando di Radio Cusano, dove è tornato a parlare di Francesco Totti e Ilary Blasi, dicendo che lei ormai non provava più nulla: «Che Ilary non provasse più amore era abbastanza evidente. Un esempio: nei primi mesi Francesco mi diceva che tornava da Milano e diceva sempre di avere mal di testa. Non so come siano riusciti a proseguire altri 20 anni».

Secondo Nuccetelli, Ilary non sarebbe stata abbastanza vicino a Totti nei suoi momenti di debolezza: «Se tu rientri a casa e tua moglie ha sempre un diavolo per capello, per anni, considero lecito pensare di rifarsi una vita da un’altra parte. Poi ognuno procede per la propria vita e lo fa per il bene dei figli. Nel primo momento di debolezza mai visto dal proprio bisognerebbe stargli accanto». 

Da corrieredellosport.it il 14 novembre 2022.

La separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi continua a tenere banco in tv. Se n'è parlato anche a Unomattina in famiglia, dove il conduttore Tiberio Timperi non ha esitato a stroncare la collega di Mediaset. 

Durante la rassegna stampa curata da Gianni Ippoliti si è parlato dell'ultimo incontro tra Totti e Ilary in tribunale, dove si è discusso del caso dei Rolex del Capitano. "Trattenere gli orologi è veramente cheesy, da caciottari", ha affermato Timperi senza mezzi termini. “Cheesy”, nel gergo comune, si usa per definire una persona “senza stile”, “scadente” e anche “sciocca”. Come reagirà Ilary a questo attacco frontale?

Ivan Rota per Dagospia il 18 novembre 2022.

Fabrizio Corona torna sull’ argomento Totti/Blasi e a una televisione locale dichiara:” “Francesco Totti avrà tradito Ilary Blasi in media 500 volte l’anno per 20 anni. Quanto fa? Lei fino a quando non era famosa e le andava bene.. Quindi prima di arrivare a Fazio, tutta la carriera, le robe, le borse, i soldi, le società intestate alle sorelle, i figli.. le andava tutto benissimo, pure le corna con Flavia Vento prima del matrimonio. 

La colpa è di Corona. Non di lui che l’ha tradita, ma di Corona. Io faccio un mestiere, ma per farlo ho bisogno di un mezzo di comunicazione che sono televisione e giornali. Quindi, se tu tradisci tua moglie e io faccio questo mestiere non è colpa mia. Detto questo, a lei le andava bene”. E

 Da leggo.it il 18 novembre 2022.

Fabrizio Corona torna a parlare di Francesco Totti e Ilary Blasi. Mentre i due ex coniugi stanno voltando pagina sul loro rapporto (ieri il primo red carpet dell'ex calciatore con Noemi Bocchi), l'ex paparazzo svela alcuni retroscena e i presunti tradimenti: «Totti avrà tradito Ilary 500 volte l'anno per 20 anni», ha detto. 

Aveva cominciato il "game" su Instagram, come l'aveva ribattezzato, svelando poco a poco i segreti di Totti e Ilary (almeno secondo lui). Bannato dal social, si era placato. Ma adesso Corona è tornato alla carica, parlando al Peppy Night Fest. «Francesco Totti avrà tradito Ilary Blasi in media 500 volte l’anno per 20 anni. Quanto fa? Lei fino a quando non era famosa e le andava bene.. Quindi prima di arrivare a Fazio, tutta la carriera, le robe, le borse, i soldi, le società intestate alle sorelle, i figli.. […] le andava tutto benissimo, pure le corna con Flavia Vento prima del matrimonio», ha dichiarato Corona.

Corona ha commentato anche il fidanzamento di Totti con Noemi Bocchi: «L’ha sostituita con una sua fotocopia e esattamente in due mesi si è ricostruito la stessa famiglia con una donna uguale a lei. E lei è finita completamente nel dimenticatoio. Fra tre anni lei non esisterà più, ma lui resterà sempre Francesco Totti», ha affermato Corona.

Ottavio Cappellani per “la Sicilia” il 20 Novembre 2022. 

La Sotis, intervistata sul Corriere dello Sport, sull’uscita Totti-Bocchi a Dubai esordisce dicendo “che noia”. Cosa che invece non hanno detto al New York Times, parlando di Totti-Noemi e dello scoop di Dagospia, definito “il più attendibile sito di gossip italiano”. 

Lina Sotis ha aggiunto però che la prima uscita di Francesco Totti e Noemi Bocchi a Dubai è stata “discreta” e lontano dalla folla. Se lo dice lei, infatti è stata così discreta, di più, così “understatement” che non ne sta parlando proprio nessuno, ma nessuno proprio.

Ma la Sotis è una maestra di “bon ton” e chi sono io per dire che il  bon ton è quella cosa che non la  devi spiegare, non  la devi insegnare, non ne devi manco parlare, perché o ce l’hai tramandata di famiglia e affonda le radici nella diplomazia (dietro l’uso delle forchette si nascondeva l’uso degli eserciti) o se ne parli, se spieghi il “bon  ton”,  è ovvio che ti rivolgi  ai parvenu (rileggetevi “Un incontro pericoloso”, di Ernst Junger, il primo esempio di aristocratico che si dà al “catering”,  ma senza spiegarlo, è e deve  restare un’arte nobile).

Dubai, dunque, secondo la Sotis, è un luogo discreto, quasi minimalista, dove questa nuova coppia regale si aggira sottotono, quasi a nascondersi dallo sguardo sociale. 

Io comunque ce la vedo, la Bocchi, che assume la Sotis come consigliera, però, pare, a quanto si dice, stando a quanto i maligni – che assolutamente non hanno visto “Totti e Bocchi a Dubai”, che pare il titolo di un film porno -  potrebbe essere un problema insegnare alla Bocchi l’alzata di sopracciglia alla Sotis, a meno che le fai prima alzare il sopracciglio e poi ZAC, le fai a punturina di Botox, che sarebbe perfetto anche perché la Sotis ha il sopracciglio alzato da cinquant’anni e non capisco come non si stanchi (a meno che non se lo sia fatto tatuare come Moira Orfei, altra maestra di eleganza e stile e understatement).

Insomma, stando alla Sotis, Totti e Bocchi a Dubai avevano quel non so che di compostezza british che la Sotis ha sempre cercato di infilare a forza nella milanesità (patria dei bauscia) e che adesso vuole infilare a forza in Totti e Bocchi a Dubai: il “fist ton”, praticamente. 

Poi l’abito di Noemi era YSL e quindi…Sòra Sotis…  senta, la burinaggine de Totti e de Noemi non se poteva guarda’, io lo capisco che in quanto meneghina ha una sorta di reverenza climber verso il potere romano, ed è indubbio che Totti sia un potente romano, ma – aho’ - c’aveva lo smoking non abbottonato in piedi e non c’aveva manco la fascia, mentre Noemi, con l’abito da sera, c’aveva er “borzello” e non la pochette.

Ora, io non credo che il potere di Totti fondi le sue radici sull’eleganza, né credo che qualcuno abbia guardato l’YSL al posto delle tette di Noemi, e credo che Dubai sia burina dorica con pretestuosità classiche che sfociano in un delirio di rococò. E che sì, Totti e Bocchi a Dubai erano perfetti e Rocco Siffredi dovrebbe farci un film con questo titolo.

Maria Corbi per lastampa.it il 18 novembre 2022.

“Lo faccio per i figli”. E’ probabilmente la frase più usata in un divorzio belligerante, quello che procede a suon di colpi bassi, dispetti, denunce, richieste assurde. Quel che è certo è che se i figli potessero dire la loro chiederebbero pace. Purtroppo in questo tipo di separazioni non si fanno prigionieri e le prime vittime sono proprio loro, i tanto evocati e figli. 

Lo abbiamo visto nel divorzio Totti, dove il Francesco nazionale per il “bene” dei suoi rampolli ha pensato di accusare la loro madre di tradimento, insensibilità e anche sottrazione di Rolex con scaltrezza. Chissà che gioia per Chanel, Christian e Isabel. Ma non solo i ricchi piangono, perché queste dinamiche, come ci dice una delle più note avvocate matrimonialiste italiane (o divorziste, se preferite), Adriana Boscagli, non risparmiano nessuno. 

Avvocata Boscagli, quanto male si può fare ai figli litigando malamente?

«Tanto. Purtroppo vediamo spesso separazioni dove il dolore non controllato, la rabbia, il litigio, le pretese reciproche, il rifiuto di accettare un nuovo status alla fine travolgono la serenità dei figli». 

E’ vero che spesso anche gli avvocati non aiutano i loro clienti a intraprendere una via pacifica alla separazione e al divorzio?

«Purtroppo sì. Un buon avvocato dovrebbe contenere con convinzione, investendo tempo prezioso per spiegare le conseguenze di un conflitto. Spesso le conseguenze dannose per i figli non sono evidenti nell’immediato e questo induce a ritenere che non vi sia danno, ma non è così».

 Ecco, il danno. Cosa ha capito dalla sua esperienza?

«Il danno non è la separazione in sé, quanto piuttosto il disprezzo che i genitori manifestano l’uno nei confronti dell’altro, esponendo tutto il loro privato e, quel che è peggio, cercando di portare il figlio dalla propria parte, anche con piccoli regali, con promesse di libertà, con consensi ad oltranza, con una serie di indulgenze, oppure sottolineando costantemente di non condividere il parere dell’altro genitore, che viene più o meno evidentemente denigrato. Ecco, lì arriva la disgregazione di tutte le regole di una buona crescita». 

Quali sono le conseguenze più gravi quando il divorzio diventa una guerra?

«Il rischio minore è già una tragedia. Significa non fare il bene dei figli ma dare priorità ai propri interessi. Per bambini e ragazzi crescere in questo clima è devastante, anche per la serenità dei rapporti sentimentali che costruiranno nel futuro. L’incapacità di trovare un terreno comune in cui discutere civilmente spesso comporta inoltre che il giudice decida per percorsi, spesso pesanti, di vigilanza degli assistenti sociali.

E questi non avendo spesso mezzi e tempo adeguato alle reali esigenze a disposizione, rischiano anche di peggiorare il disagio dei minori. La più tremenda delle conseguenze è quella che induce il giudice che non ha ottenuto il contenimento del conflitto genitoriale né con inviti, né con ammonimenti a disporre l’affido dei figli ai servizi sociali o a terze famiglie». 

E’ vero che accade sempre più spesso?

«Purtroppo sì, anche se dovrebbe essere l’extrema ratio. Questo è il vero fallimento della famiglia, la vera distruzione della crescita e formazione dei figli. Altro che il loro interesse!». 

Lei ha e ha avuto tra i suoi assistiti diversi vip: la litigiosità è maggiore quando ci sono soldi e fama di mezzo?

«No, non credo. La fama diventa senz’altro uno strumento di pressione e di esasperazione del conflitto, ma la litigiosità si distribuisce in forma orizzontatale, non risparmia alcun ceto sociale. La litigiosità nasce dalla difficoltà di cambiare lo status economico, sociale, la casa, ma anche dalla perdita di potere sull’altro, dalla fatica a lasciarlo andare, dalla difficoltà ad accettare che l’altro sia felice. Poi c’è la voglia di punire l’altro per l’aver lasciato esaurire un rapporto. Nessuno fa mai veramente “mea culpa”. Si fa fatica a ritenere che un rapporto possa esaurirsi e basta». 

In letteratura si parla di «legame disperante» quando la coppia cerca inconsciamente di mantenere un legame attraverso il litigio. E’ così o invece le persone litigano solo per case e soldi?

«C’è sicuramente anche la dinamica perversa del “legame disperante”, ma rappresenta una minoranza e comunque l’effetto non cambia, poiché porta comunque alla contesa sui beni materiali. 

Nella stragrande maggioranza dei casi si discute della nuova destinazione della ex casa familiare. Sappiamo che va assegnata (lasciata in uso esclusivo) al genitore che ha con sé i figli; e ciò indipendentemente dalla proprietà e dai mutui da continuare a pagare. Questo sta creando una tendenza gravissima che riscontriamo sempre più spesso: la gara a tenere i figli con l’obiettivo recondito e inconfessato di conservare la casa. Così come si litiga per gli assegni di mantenimento di moglie o marito, ma anche dei figli, perché è diffusa la diffidenza che quel denaro non sia usato esclusivamente per loro. In tutti i casi i danni ai figli sono enormi. E la consapevolezza dei due litiganti, minima, addirittura assente». 

Una storia che la ha particolarmente colpita?

«Potrei raccontane tante. Non dimenticherò mai però la disperazione negli occhi di un giovane di 17 anni che aveva vissuto tutto il peggio di un divorzio sulla sua pelle: gli assistenti sociali, la consulenza psichiatrica, il mediatore familiare, l’audizione in tribunale, e soprattutto la manipolazione di uno dei genitori contro l’altro. Sette anni in mezzo alla guerra tra i suoi genitori, che si è conclusa purtroppo in tragedia. E nella lettera che ha lasciato, c’era tutto il dolore per essere stato usato e manipolato».

Wanda Nara contro 'La China' Suarez: "Mentre adescava Mauro, mi scriveva come un'amica". Wanda Nara è tornata a parlare del tradimento di Icardi con l'attrice Eugenia Suarez, che ha definito una "sfascia famiglie". Novella Toloni il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

Sono parole di fuoco quelle pronunciate da Wanda Nara nel corso dell'ultima intervista rilasciata al settimanale Vanity Fair. L'imprenditrice argentina si è separata dal marito, Mauro Icardi, ma sembra che i due stiano provando a recuperare il rapporto con una vacanza romantica alle Maldive. Difficile per Wanda, però, dimenticare quanto successo proprio un anno fa, quando scoprì il tradimento che il calciatore del Psg (oggi Galatasaray) aveva consumato con l'attrice argentina Eugenia "La China" Suarez.

Wanda Nara ammette di aver perdonato Maurito per la scappatella avvenuta oltre un anno fa, ma di avere capito che "non viviamo in una favola Disney e certe cose possono capitare". Quello che l'imprenditrice non ha perdonato è con chi il marito (ex) l'ha tradita: l'attrice e cantante La China Suarez nonché connazionale della coppia. Il perché è preso detto. "La donna in questione è arcinota in Argentina per avere sfasciato numerose famiglie famose", ha dichiarato la Nara senza neppure pronunciare il nome della Suarez.

Senza svelare l'identità degli interessati, Wanda ha raccontato due gossip legati proprio a Eugenia Suarez: "Una volta si è messa con un attore mentre la moglie di lui era incinta e ha perso il bambino. Un'altra ha soffiato il marito a una madre a cui poco prima era morta una figlia". E così la Nara ha confessato quanto avvenuto tra lei e La China, mentre l'attrice messaggiava in privato con Icardi: "Mentre adescava mio marito scriveva anche a me come fossimo amiche. Mi diceva che voleva venire a trovarmi a Parigi, mi chiamava in Facetime". Un comportamento che Wanda Nara ha trovato "insopportabile", quasi subdolo.

Il balcone di Wanda e Icardi fa saltare il superbonus. Condomini su tutte le furie

Proprio per questo l'imprenditrice argentina - che nell'intervista ha anche accusato Icardi di non volerla fare lavorare - si era lasciata andare a un duro sfogo su Instagram, dando della poco di buono a La China: "So che tra donne non si dovrebbero usare certi termini. Ma so anche che non ci si dovrebbe comportare come si è comportata lei". E lei per quelle parole si era scusata poco dopo, ma non ha mai perdonato la rivale per avere cercato di rubarle il marito.

Totti e Noemi, primo litigio e Ilary ritrova borse e scarpe. Nicola Santini su L’Identità il 12 Dicembre 2022

C’è già chi, guardando le immagini pubblicate dal settimanale Diva e Donna, sarebbe già pronto a raccomandare a Francesco Totti di rimettere le borse e le scarpe oggetto di contesa con la ex Ilary Blasi al loro posto e tornare a lavare i panni sporchi in casa.

Perché dopo 5 mesi dall’annuncio ufficiale della separazione di una coppia amatissima dalle tribune dello sport e della tv italiana, parebbe che il forever Capitano che si è già rifatto una vita sentimentale e che da qualche mese è uscito allo scoperto, si trova già alle prese con le prime scaramucce.

E, come ormai siamo abituati, nulla succede a porte chiuse, nell’intimità di pareti domestiche. E per questo l’attenzione è sempre molto alta nei confronti degli sviluppi della vita privata di quello che a tutti gli effetti viene vissuto come un triangolo.

In modo particolare quando si tratta del calciatore con la nuova compagna Noemi Bocchi. I due non sono mai avari di uscite pubbliche, presenze alle feste, giri nei locali vippaioli. Con una vita così esposta c’è pure spazio per le liti, che ci stanno se si trascorre molto tempo insieme. E spesso il tempo di guardarsi intorno per capire se c’è qualcuno che spia con un teleobiettivo, viene a mancare. Ed ecco che, senza farsi attendere troppo, dopo che ci siamo visti la prima uscita, li abbiamo accompagnati alla visita alla nuova casa e non ci siamo persi i primi baci in pubblico, arriva anche la presunta prima lite tra Francesco Totti e la nuova fiamma, paparazzate e piazzate sulle pagine patinata del settimanale nostrano.

Diva e Donna, come riporta il sito fan page, ha pubblicato alcune foto che ritraggono Francesco Totti e Noemi Bocchi mentre sono in un ristorante a Roma. I due sembrano essere in contrasto, perché il calciatore gesticola, poi appare scuro in volto proprio come la sua compagna. E sulle pagine del settimanale di gossip si legge testualmente: “L’idillio già scricchiola o è solo un piccolo momento di tensione fra innamorati?”. Non essendoci una prova ma solo immagini e immaginazione, il tutto è in forma di quesito e periodo ipotetico. Ma si legge ancora: I gesti dei due innamorati tradiscono una certa tensione che potrebbe ruotare attorno al cellulare. La discussione fra Totti e Noemi continua al tavolo del ristorante e sembra farsi più animata.

Mentre la coppia affronta quella che pare essere una prima lite in pubblico, sul fronte Ilary Blasi ci sono novità: la conduttrice è stata sorpresa con un nuovo uomo, un imprenditore tedesco con cui ha trascorso un weekend a Zurigo .

In due foto pubblicate da Diva e Donna, Noemi Bocchi sembra asciugarsi le lacrime, mentre Totti si mette una mano tra i capelli. In un altro scatto, il calciatore gesticola animatamente. Dato che la donna ha in mano il cellulare, il settimanale avanza il dubbio che lo smartphone possa essere collegato alla motivazione della presunta lite. E i settimanali gossip scaldano i motori. Dopo un pedinamento fatto come si deve e i muri che parlano nella Capitale, gli amici spioni di Alfonso Signorini hanno portato a segno un altro colpo. Il settimanale Chi ha pubblicato le foto della casa che la coppia Totti Bocchi ha preso insieme a Roma Nord. Così, al netto di qualche possibile scaramuccia, la loro relazione sembra essere solidissima. O quantomeno i programmi di vita insieme.

Nel frattempo, gli ex coniugi stanno discutendo in tribunale. Si è svolta il mese scorso la seconda udienza davanti al giudice tra Ilary Blasi e Francesco Totti per la questione Rolex-borse. Lo storico capitano della Roma, difeso dall’avvocato Conte, arrivato con la sua smart, e la conduttrice tv, assistita dall’avvocato Simeone, entrata a piedi, sono stati ascoltati per un’ora e venti minuti. Presenti davanti al tribunale civile cronisti e fotografi. Al termine dell’udienza nessuno dei protagonisti ha voluto rilasciare dichiarazioni. Ma si sa che il giudice ha fissato un nuovo incontro per laprimavera. Totti è difeso dal suo storico legale, l’avvocato Antonio Conte. Le borse e le scarpe della conduttrice tv nel mentre sono rispuntate. O meglio sono state ritrovate nella Spa della villa dell’Eur. Totti ha avuto meno fortuna: della collezione di orologi di Totti (stimata nel valore di un milione di euro) non c’è, invece, traccia. Ad assistere l’avvocato Conte, anche Adriana Boscagli, che ha assistito Conte anche nel divorzio De Rossi.

Ivan Rota per Dagospia il 12 dicembre 2022.

 Ma questo Bastian è il fidanzato di cartone di Ilary? Un’amica ha detto che la Blasi sarebbe rimasta molto male dopo aver visto le foto dell’ex Francesco Totti con Noemi Bocchi e soprattutto quella del nuovo appartamento dei due. Vuoi vedere che Bastian è solo una vendetta? Bisognerebbe chiederlo a Michelle Hunziker che ha passato il ponte a Saint Moritz con la Blasi 

Seconda versione diametralmente opposta. Un’altra amica , si fa per dire, ha chiosato: “ Si aspettava (la Blasy) più discrezione, l’atteggiamento l’ha molto colpita al punto da spingerla alla fine a uscire allo scoperto anche lei con Bastian”. Ma cosa intende dire? Che Ilary Blasi stava già da tempo con il fantomatico Bastian?

Valerio Palmieri per “Chi” il 14 dicembre 2022.  

Mario Caucci è un imprenditore romano di 35 anni. La sua famiglia ha costruito un impero con le cave di marmo e lui è – così lo chiamano gli addetti ai lavori – “il Re del Travertino”. Il motivo per cui in questi mesi è emerso il suo nome, però, è che è stato sposato per 11 anni con Noemi Bocchi, la nuova compagna di Francesco Totti. Incontriamo Caucci nel suo ufficio a Tivoli. 

È giovane, ma sembra un uomo che ha vissuto due volte: la prima è finita con la separazione dalla Bocchi, la seconda è iniziata con l’aiuto della famiglia, degli amici, dei figli. E della sua nuova compagna, Martina, che ha creduto in lui ancora prima che lo facesse lui stesso. Lo chiariamo subito: il nostro scopo non è quello di mettere in cattiva luce Noemi Bocchi o di difendere Caucci dalle accuse della moglie – fra di loro è in corso una causa della quale parleremo nella prossima puntata – qui vogliamo chiedere, a una persona, coinvolta suo malgrado dai fatti, che cosa pensa della storia fra la flower designer e Totti. 

Domanda. Noemi Bocchi è ancora sua moglie? Vi siete lasciati nel 2017 e separati nel 2019, giusto?

Risposta. «La separazione giudiziale si è conclusa nel 2019, ma non ancora il divorzio». 

D. Siete stati insieme 11 anni e avete due figli: ha investito tanto in questo rapporto...

R. «Ho fatto in modo che quella fosse la storia più bella del mondo. E lo è stata. Dopo di me, qualunque persona scelga non riuscirà mai ad eguagliare quello che è stato, per un semplicissimo fatto: che io l’ho amata più di qualsiasi altra cosa al mondo. 

Per lei ho fatto guerre, ho discusso con tutta la mia famiglia. Ho perso rapporti per proteggere quello che stavamo costruendo insieme. Questa cosa mi ha penalizzato negli anni, perché allora non volevo sentire nessuno dei miei familiari più stretti. Ho un rapporto unico con mio nonno, che per me è la persona più importante, come con mia mamma, che purtroppo non c’è più, con mio padre e mia sorella: tutti mi dicevano di fare attenzione, che non era la strada giusta, che non andava bene. Sono arrivato a rompere con tutta la mia famiglia, a uscire di scena dalle nostre aziende. Sono stato messo nella condizione di essere emarginato, perché più ero solo e più potevo essere governabile». 

D. Quali erano le perplessità della sua famiglia?

R. «Io e mia moglie eravamo presi da una ricerca sconsiderata della felicità, ma una felicità intesa come un’acquisizione sfrenata di beni materiali e, quindi, tutto quello che faceva parte dei valori di un essere umano veniva sempre meno: dovevamo andare in posti esclusivi per le feste, per la borsa, l’anello. Lei ha dimenticato il suo passato e ha sempre saputo perfettamente – e continua a sapere oggi perfettamente – che cosa vuole e come arrivare a ottenere quello che vuole. Lo ha fatto usando ogni tipo di opportunità, lo ha fatto passando sopra a tutto, macinando rapporti, sentimenti, famiglie: qualsiasi cosa pur di raggiungere i propri scopi». 

D. Sua moglie le è stata sempre fedele?

R. «No comment...». 

D. Lo scorso febbraio Noemi Bocchi viene indicata come la nuova fiamma di Totti. Lei, da ex marito, come l’ha presa?

R. «L’ho saputo dai giornali come so le cose che riguardano i miei figli: le so dai giornali». 

D. Che cosa pensa si sarebbe potuto fare per tutelare i figli?

R. «Si poteva fare molto, perché a vivere con un’altra persona non sono i miei figli. È una questione di condotta e quella che oggi io condanno è quella condotta sconsiderata che espone i figli, sempre per arrivare ad altri scopi». 

Con Noemi la ricerca della nostra felicità era ridotta alla sfrenata acquisizione di beni materiali Ho ricominciato una nuova vita grazie a Martina che ha creduto in me anche quando ero a pezzi per la fine del mio matrimonio 

D. A luglio abbiamo fotografato Totti sotto casa di sua moglie. A chi appartiene quella casa?

R. «È di Noemi. Essendo stata indicata come imprenditrice nel campo delle decorazioni floreali, l’avrà pagata con le sue risorse». 

D. Sui giornali si legge che la Bocchi proviene da Roma Nord, da una famiglia agiata.

R. «Sto passando le pene dell’inferno a causa di quello che è uscito sul mio conto, eppure nessuno si è preso la briga di verificare le informazioni su mia moglie. Siete sicuri che sia laureata, che faccia la flower designer, che sia di Roma Nord, che provenga da una famiglia ricchissima come si è detto?».

D. Secondo lei sua moglie ha sofferto l’esposizione mediatica?

R. «Io penso che, comunque vada, rimarrà sempre l’ex moglie di Mario Caucci e la compagna o ex compagna di Francesco Totti». 

D. Che cosa significa “So bene cosa c’è oltre l’immagine di mia moglie”, come ha dichiarato a caldo?

R. «Nella vita contano i fatti più che l’immagine. La bellezza va e viene, ma quello che conta è ciò che uno fa e come lo fa: ed è questo che rimane». 

D. Ci tolga una curiosità: ha visto l’anello che Totti ha regalato a sua moglie?

R. «Ho visto qualche foto. La cosa che mi sembra strana è che, su un milione di gioiellerie che ci sono nel mondo, quell’anello provenga dalla stessa dove acquistai l’anello di fidanzamento con cui chiesi a mia moglie di sposarmi». 

D. Secondo lei, come andrà a finire la storia fra Totti e Noemi?

R. «Spero che, siccome hanno accelerato i tempi in maniera non normale – perché la storia è uscita pochi mesi fa e vivono già insieme – e siccome ci sono di mezzo cinque figli, cinque vite, mi auguro che questa storia vada avanti per lunghissimo tempo, perché non si possono mettere inutilmente i figli in questo tritacarne. 

Sei liberissimo di fare quello che vuoi, ma devi farlo preservando quelle che sono le uniche vere vittime, perché dopo vent’anni sono stati catapultati dentro un’altra famiglia. I miei figli sono finiti in un mondo talmente lontano da loro che tutto questo è ingiusto. Mia figlia, l’altro giorno, mi ha detto: “Guarda, papà, c’è un fotografo”. Potevano fare (Totti e Noemi, ndr) quello che volevano senza mettere a rischio di esposizione i figli, perché neanche loro sanno come andrà a finire la loro storia. E a maggior ragione lui, visto che è una persona esposta, avrebbe dovuto essere più prudente di tutti gli altri».

D. Sente ancora sua moglie?

R. «Sì, ci sentiamo per i figli... c’è un rapporto teso». 

D. Totti ha creato subito un ambiente familiare con Noemi: cene con i figli, feste di compleanno, uscite tutti insieme. Pensa che sia innamorato?

R. «Penso che Totti sia innamorato dell’idea della famiglia, come lo ero io...». 

Valerio Palmieri per “Chi” il 13 dicembre 2022.

Milano. Sul numero di “Chi” in edicola domani Mario Caucci, marito separato di Noemi Bocchi, parla della sua ex moglie e della relazione con Francesco Totti. «Ho fatto in modo che la nostra fosse la storia più bella del mondo e lo è stata. Dopo di me, qualunque persona scelga, non riuscirà mai ad eguagliare quello che è stato, per un semplicissimo fatto: che io l'ho amata più di qualsiasi altra cosa al mondo. Per lei ho fatto guerre, ho discusso con tutta la mia famiglia. Mi dicevano di fare attenzione, che non era la strada giusta, che non andava bene. Sono stato messo nella condizione di essere emarginato perché più ero solo e più potevo essere governabile».

«Io e mia moglie eravamo presi da una ricerca sconsiderata della felicità, ma una felicità intesa come un'acquisizione sfrenata di beni materiali e, quindi, tutto quello che faceva parte dei valori di un essere umano veniva sempre meno: dovevamo andare in posti esclusivi per le feste, per la borsa, l'anello. 

Lei ha dimenticato il suo passato e ha sempre saputo perfettamente e continua a sapere oggi perfettamente cosa vuole e come arrivare ad ottenere quello che vuole. Lo ha fatto usando ogni tipo di opportunità, lo ha fatto passando sopra a tutto, macinando rapporti, sentimenti, famiglie, qualsiasi cosa pur di ottenere i propri scopi». 

«A chi appartiene la casa dove viveva Noemi? É sua. Essendo stata indicata come imprenditrice nel campo delle decorazioni floreali, l'avrà pagata con le sue risorse».

«Siete sicuri che sia laureata, che faccia la flower designer, che sia di Roma nord, che provenga da una famiglia ricchissima come è stato detto?». 

E aggiunge: «Io penso che, comunque vada, rimarrà sempre l'ex moglie di Mario Caucci e la compagna o ex compagna di Francesco Totti».

«Ho visto qualche foto dell'anello che Totti avrebbe regalato a Noemi. La cosa che mi sembra strana è che, su un milione di gioiellerie che ci sono nel mondo, quell'anello provenga dalla stessa dove acquistai l'anello di fidanzamento con cui chiesi a mia moglie di sposarmi». 

E lancia un messaggio a Totti: «Sei liberissimo di fare quello che vuoi, ma lo fai preservando quelle che sono le uniche vittime, i figli, perché dopo vent'anni sono stati catapultati dentro un'altra famiglia. I miei figli sono finiti in un mondo talmente lontano da loro che tutto questo è ingiusto. Mia figlia, l'altro giorno, mi ha detto: “Guarda, papà, c'è un fotografo”. Potevano fare (Totti e Noemi, ndr) quello che volevano senza mettere a rischio di esposizione i figli, perché neanche loro sanno come andrà a finire la loro storia e, a maggior ragione, visto che lui è una persona esposta, avrebbe dovuto essere più prudente di tutti gli altri».

Alla fine gli chiediamo: «Sua moglie le è sempre stata fedele?». «No comment».

Personaggi. L'addio si gioca sui soldi: tutti i numeri del divorzio Wanda-Icardi. Già firmato un accordo sulla spartizione del patrimonio familiare. Ma tra i due sarebbe in corso un braccio di ferro su una quota della ricchezza accumulata in otto anni di matrimonio. Novella Toloni il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

 Società e beni materiali

Della questione divorzio e patrimonio se ne era già parlato a ottobre, quando l'addio tra Wanda Nara e Mauro Icardi sembrava definitivo. Poi la coppia ha provato a rimettere insieme i cocci, ma la fuga alle Maldive non ha sortito l'effetto desiderato e il divorzio sembra ormai imminente. Wanda Nara ha confermato che indietro non si torna: ci ha provato ma non ha funzionato. E ora i giochi si spostano sulla spartizione del patrimonio familiare che, secondo fonti di stampa argentine, si aggira attorno ai 100 milioni.

In atto ci sarebbe già una vera e propria guerra tra i due ex coniugi, che si starebbero contendendo una consistente quota della ricchezza accumulata negli ultimi otto anni di unione. "Venti verdoni", avrebbe dichiarato Wanda e la stampa sudamericana ha ipotizzato che si potrebbe trattare del 20% del loro patrimonio.

Un accordo è già firmato da tempo

Secondo quanto dichiarato dall'avvocato, che cura gli interessi della coppia argentina, Ana Rosenfeld, tra il calciatore e la moglie ci sarebbe già un accordo di divorzio. Lo scorso ottobre nel corso del programma "A La Tarde", il legale spiegò: "Alcuni immobili sono stati lasciati a Wanda e contanti, e lo stesso è stato lasciato a Mauro Icardi. Ognuno gestisce il suo patrimonio, l'hanno firmato lo scorso anno". L'atto sarebbe stato firmato in Italia, ma non sarebbe stato operativo. La ripartizione, così come è stata firmata da Wanda e Maurito, dovrebbe essere effettiva solo al momento del divorzio. Ma cosa c'è davvero in ballo?

Patrimonio immobiliare

Wanda Nara e Mauro Icardi possiedono ben cinque immobili dislocati tra Italia e Argentina. L'elenco delle proprietà comprende due appartamenti a Milano: uno nei pressi dello stadio San Siro (quello che sarebbe finito al centro di una disputa con i vicini di casa) e l'altro in zona Porta Nuova. La coppia possiede anche una tenuta di campagna a Galliate e un'ampia casa sul lago di Como, che si stima abbia un valore di circa 2 milioni di euro. A queste va poi aggiunto l'immobile a Tigre, in Argentina, che la Nara condivise con il primo marito, Maxi Lopez.

Società e beni materiali

I soldi e i beni in gioco sono tanti e comprendono le numerose società e i marchi a nome di Wanda e Maurito. L'imprenditrice argentina detiene il 100% della World Marketing Football, società che gestisce due marchi distinti: MI9 di Mauro Icardi e Wan Collection, una linea di abbigliamento e cosmetici. A questi si è aggiunta, recentemente, la linea Wanda Cosmetics, che commercializza prodotti di bellezza.

La ricchezza accumulata da Icardi e Wanda, oltre al denaro sui conti correnti, comprende anche una serie di beni materiali come il parco auto. Una serie di vetture di lusso tra le quali spiccano una Lamborghini Huracan Spyder, una Bentley Bentayga, una Rolls Royce Ghost, una Hummer H2, una Mercedes Benz Classe G, un Range Rover e una Cadillac Escalade. Per un totale di oltre un milione. Non è strano, dunque, che tra i due argentini sia in corso un braccio di ferro.

Da golssip.it il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Wanda Nara e Mauro Icardi stanno lavorando al divorzio che si prospetta milionario. La disputa sul patrimonio è iniziata. Ne hanno parlato in maniera approfondita durante il programma “Mañanísima”. In ballo una percentuale sulla quale il calciatore e l'imprenditrice non avrebbero ancora trovato un accordo concreto.

Secondo Estefi Berardi "Wanda rimarrebbe con 100 milioni di dollari. 100 milioni di dollari sono di Wanda. Quei soldi rimarrebbero solo a lei. E c'è una percentuale che Wanda Nara stava commentando con alcune persone nelle sue immediate vicinanze. Ha detto 'ci stiamo uccidendo per 20 "verdoni"'. Non trovano l'accordo su una percentuale. Si contendono un 20 per cento, non so di cosa né perché". Pampita ha aggiunto: "Ecco perché non vuole separarsi, Mauro! Costa un sacco di soldi la separazione.

Tiziana Cialdea per novella2000.it il 17 dicembre 2022.

Il suo nome è Bastian, è un imprenditore tedesco che vive a Francoforte. Il suo profilo Instagram è @bas.mupe, e qui è seguito da un migliaio di follower. Più o meno. Finora erano solo queste le informazioni relative al presunto nuovo compagno di Ilary Blasi, con cui l’ex signora Totti è stata fotografata dal settimanale Chi a Zurigo in un lussuoso hotel a cinque stelle. 

Finora, appunto. Perché iniziano a trapelare ulteriori informazioni sul conto dell’imprenditore. “Mupe”, come si presenta su Instagram, altro non è che l’unione delle iniziali del suo doppio cognome: Muller Pettenpohl.

Lavora con grande impegno nella società di famiglia, la Pettenpohl, fondata nel 1874. Come si legge sul sito ufficiale, questa è “un’azienda rispettata a livello nazionale e internazionale per la perforazione di pozzi profondi”, e costruisce pozzi per acqua potabile, industriale e minerale nonché per la disidratazione. Ma non è tutto. 

Insieme a un socio, Alexander Wirsing Bastian, considerato un uomo di spessore e solido, gestisce un’azienda pubblicitaria che si chiama MainKinzig LED la quale si occupa, appunto, di pubblicità digitale con cartelloni pubblicitari a LED. Un’impresa di grande impatto, grazie alla sua creatività. 

Entrambe le attività hanno sede a Wachtersbach, una cittadina a cinquanta chilometri da Francoforte. Insomma, Bastian è un imprenditore di talento, apprezzato e rispettato. E il lato sentimentale? Se la vita professionale è riservata, quella privata è blindata. Novella 2000 ha però raccolto le confidenze di una giovane italiana che racconta di avere avuto con lui una frequentazione prima dell’entrata in scena di Ilary Blasi.

Lei si chiama Claudia Aquino e ha ventiquattro anni. Di mamma polacca e papà italiano, è nata a Francoforte dove vive. Grazie a suo amico, che è anche un amico di Novella 2000, Claudia ci ha raccontato l’infrangersi delle sue illusioni conseguente alla pubblicazione degli scatti tra la Blasi e Bastian. 

Partendo dal loro primo incontro: “Ci siamo conosciuti nel bar di un hotel a Francoforte, di proprietà di un mio amico. Bastian si è avvicinato a me chiedendo il mio numero di telefono per un suo amico. Poi però, guardandomi bene, si è reso conto che gli piacevo, dunque il numero l’ha tenuto per sé. Ci siamo frequentati per due mesi”.

Una storia breve: ma lei si era innamorata?

“Ci stavamo conoscendo: siamo usciti spesso a cena, siamo andati al cinema, sono stata più volte a casa sua a Gelnhausen, che si trova a trenta minuti da Francoforte. Lui mi diceva sempre che io sono una donna davvero top, che ho una presenza ‘troppo figa’. Ogni volta che entrava con me in qualche bar vedeva come ci guardavano e questo gli piaceva, credo”. 

Descrive un rapporto breve, ma intenso, Claudia. Le abbiamo chiesto delle foto di voi due insieme e lei non ne ha. Molto strano in tempi di selfie e social.

“Perché le ho cancellate tutte quando all’improvviso si è allontanato da me”. 

Un giorno lui non l’ha più chiamata?

“È successo tutto all’improvviso. Siamo usciti insieme, di venerdì sera, insieme ad altri amici. Poi siamo andati a casa sua, è successo quello che succede quando due persone stanno bene insieme e si vogliono bene. La mattina dopo lui mi ha detto che io ero fredda. Ma era lui che aveva un comportamento strano. Da lì abbiamo smesso di sentirci e poi ho visto le sue foto con Ilary. Ma già prima avevo la sensazione che c’era qualcosa che non andasse”.

Be’, non è che si sia comportato male: non si è trovato, ed è andato altrove.

“Un uomo di trentasei anni non dovrebbe comportarsi così”. 

Cosa le piaceva di Bastian, allora?

“Con lui si poteva parlare: a lui è mancata la mamma, a me mio padre, e per questo abbiamo avuto delle conversazioni intime, profonde”. 

Lei sa quando Bastian ha conosciuto Ilary Blasi? E magari dove?

“Credo che si conoscessero da un po’. Ma non lo so con certezza. Per me quelle foto di Chi sono state una doccia gelata”. 

Dunque dopo averle viste l’ha chiamato? Gli ha chiesto spiegazioni?

“No no no. Non ho fatto niente. Vorrei sapere quando l’ha conosciuta, perché in pratica noi passavamo insieme ogni weekend. E il primo weekend che non abbiamo passato insieme lui l’ha passato con lei”.

E a Ilary, cosa direbbe?

“Che a lui non piacciono le donne di quarantuno anni. A lui piacciono le donne più giovani”. 

Questo lo dice lei. Si rende conto che non ci ha fornito una prova della vostra frequentazione?

“Ormai è andata così”.

LA CORNEIDE - GIOVANNI DE GAMERRA. Dagoreport del 10 febbraio 2017

Certo, ci vuole un po’ di tempo perché la “Divina Commedia” della cornificazione è uno dei poemi più prolissi della storia umana: sette volumi, più di tremila pagine. Del resto, l’obiettivo che il povero autore si era posto era davvero esteso: raccontare le corna dall’antichità ai suoi tempi. Una materia vasta, converrete, che il poeta ha affrontato con il coraggio di un dottorando al quale si affida la tesi “Brevi cenni sull’universo”. 

“La Corneide” è un poema eroticomico (altro che trenta, quaranta, cinquanta sfumature…)  diviso in 71 canti ciascuno composto da più di 800 ottave. Occhio croce 450-500mila versi che raccontano cornificazioni varie, dall’antichità (prediletta) in poi. Si parte dagli dei o, almeno, dalla mitologia per arrivare sino ai Frescobaldi passando per Elena di Troia, Ulisse, Cicerone, Moliere, la regina Elisabetta I, i re di Francia, Anna Bolena… “Tutti gabbati”, come dice Falstaff, ovvero tutti cornificati o cornificanti. E’ lo stesso.

A scriverlo, è il Dante delle corna, ovvero Giovanni de Gamerra, uno dei librettisti di Mozart (“Lucio Silla”, 1772), dunque sodale del pensiero del salisburghino alla “Così fan tutte”. De Gamerra, un mezzo avventuriero nato a Livorno, fu mandato a studiare in seminario e a di diciassette anni già si firmava abate.  Dal 1765 visse a Milano ben protetto dalle élite – queste non sbagliano mai -, dal conte Firmian, al Beccaria ai Serbelloni, per i quali scrisse, nel 1770, i “Solitari” (vietato alludere) una tragedia domestica in pantomima. 

Proprio l’appoggio della duchessa Serbelloni  gli consentì di entrare alla corte di Vienna, dove era poeta cesareo il Metastasio. Fu allora che, nel 1773, fu stampato il primo dei sette volumi della “Corneide”: non sappiamo chi davvero lo lesse (forse Feerico il Grande e il librettista Calzabigi), ma c’è una testimonianza secondo la quale l’opera divertì l’ottantenne Voltaire, il cui consenso spinse l'autore a comporre gli altri sei volumi.

Nella Corneide l’autore si trasferisce in sogno in una terra ai cui lidi approdano torme di cornuti da tutto l’universo e di tutti i tempi: e qui ti voglio vedere dove metterli! Tanti, come direbbe Eliot “ch'io non avrei creduto che morte tantin'avesse disfatti”. In questa Valle di Giosafat sono tutti uguali, perché come la morte anche le corna democraticamente livellano: umili e potenti sono uniti dalla comune condizione di becchi. 

Con intonazione dantesche, il poeta incontra Euripide, che sarebbe quello che Virgilio è per Dante, ovvero colui che lo guida nel campo eliso delle corna. Un territorio abitato dai becchi a partire dall'antichità classica, che offre spunto a vicende boccaccesche imperniate sull'insaziabilità femminile e gli adulteri più ingegnosi, proprio come nei testi che il librettista italiano Lorenzo Da Ponte predispose per l’immortale Mozart. Che certo fece becca la moglie con la di lei sorella. Ma questo de Gamerra lo risparmia; si sa, gli amici.

La storia più accreditata sulla trasmissione del termine cornuti, infine, parrebbe comunque questa. Il re di Francia invitava i nobili al castello per una battuta di caccia. Ma il mattino dopo, mentre lor signori si sbattevano con i cervi, lui si sbatteva le signore rimaste in stanza. Sta di fatto che di pomeriggio i nostri maschi eroi tornavano carichi dei palchi delle bestiole come trofei. Il mattino dopo, uscendo dalle porte del castello, di tanti trofei si fregiavano e i paesani, vedendoli passare con questi palchi di corna in testa o in mano , dicevano: “Ecco i cornuti”.

Antonio Murzio per true-news.it il 13 settembre 2022.

Si fosse trattato di una partita, si sarebbe potuto dire che Francesco Totti era sotto di diversi gol e ha solo cercato la rimonta. Il risultato finale non è dato sapere, visto che non di reti si tratta ma di corna. La diatriba tra l’ex Pupone e Ilary Blasi, tra chi dei due è stato tradito per primo, quante volte e con quanti amanti, è scesa a livello di Bar Sport dopo l’intervista rilasciata al Corriere della Sera domenica dall’ex capitano della Roma. E meno male che entrambi volevano tutelare i figli. 

Nell’attesa che Cazzullo, in un impeto di giornalismo investigativo, scopra che fine hanno fatto i Rolex di lui e le borse di lei, e che  il quotidiano di via Solferino continui a fornirci particolari sul ruolo dell’amica-parrucchiera di Ilary, vi forniamo un breve excursus storico con alcuni precedenti di tradimenti – attuati o subiti – che hanno visto protagonisti i calciatori.

Un “Tutto il calcio cornuto per cornuto”, che spesso è stato più avvincente della trasmissione radiofonica della domenica pomeriggio. Soltanto che le partite sono sempre state giocate fuori dagli stadi e il rettangolo di gioco si riduceva alle dimensioni di un’alcova. E l’unico non cornuto è colui che istituzionalmente per i tifosi lo diventa quando prende una decisione ritenuta sbagliata: l’arbitro. 

Partite senza spettatori, ma spesso con compagni di squadra che sapevano, durata delle stesse presumibilmente molto al di sotto dei 90 minuti, forse qualche tempo supplementare giocato, ma senza l’ansia della qualificazione, esultanza per il risultato limitata a massimo due persone, niente trionfali giri di campi al termine degli incontri.

Cominciamo con un ex compagno di Nazionale proprio di Totti e insieme a lui campione del mondo nel 2006, Gigi Buffon.

Sposato con Alena Seredova, l’ex portiere della Juventus si separò dall’ex modella ceca praticamente a mezzo stampa. La Seredova rivelò di aver scoperto il tradimento del marito con Ilaria D’Amico (poi diventata sua compagna: i due stanno insieme ancora oggi), dai giornali.

Anche un altro campione del mondo 2006, Andrea Pirlo, divorziò dalla moglie Deborah Roversi nel 2014, dopo 12 anni di matrimonio. L’ex fuoriclasse di Milan e Juve aveva a quanto sembra una relazione extraconiugale con Valentina Baldini, che sarebbe poi diventata la sua nuova compagna.

A essere tradito non una ma due volte è stato sicuramente il calciatore argentino Maxi Lopez: dalla moglie Wanda Nara e dal giovanissimo collega Mauro Icardi che lo stesso Lopez aveva preso sotto la sua ala protettiva al suo arrivo in Italia.

Ignorava che su Maurito anche la moglie Wanda avesse dispiegato… le ali, anche se lei ha sempre sostenuto che la relazione con Icardi, del quale oggi è anche procuratrice, sia cominciata solo dopo il suo divorzio. 

Fatto sta che durante un incontro di campionato Maxi Lopez rifiutò di stringere la mano al suo ex pupillo mentre l’ex moglie accusava lui di tradimento: «Non ho mai tradito il mio ex marito Maxi Lopez. 

Lo giuro sui miei figli. Anzi ho lottato fino alla fine per salvare il nostro matrimonio. Ma non ce l’ho fatta. Mi tradiva sempre, in continuazione. Quando eravamo in Argentina mi ha tradito anche con Marianna, la nostra governante che bella non era. Eravamo in casa e loro facevano l’amore mentre io dormivo in un’altra stanza con i bambini», dichiarò al settimanale Chi.

Ma non si pensi che le corna nel calcio siano roba solo recente. Josè Altafini, già sposato,  ebbe una relazione con Annamaria Galli, con la moglie di Paolo Barison quando giocava nel Napoli. Un altro campione sudamericano che ha indossato la maglia azzurra anni più tardi non gli è stato da meno. Maria Soledad Cabris nel 2007 ha sposato Edinson Cavani ma il matrimonio è durato solamente pochi anni ed è finito principalmente a causa delle scappatelle di lui, che peraltro la lasciò a mezzo mail.

In moltissimi casi accade che i tradimenti vengono consumati in ambito calcistico.  Gianluigi Lentini aveva una relazione con Rita Schillaci, moglie di Totò Schillaci. Lo si seppe nell’agosto del 1993, dopo il grave incidente stradale in cui fu coinvolto l’allora giocatore del Milan. “Stavo andando da Rita”, raccontò poi Lentini. 

Le corna non sono un’esclusiva dei calciatori italiani, anzi uniscono più dell’esperanto. Una riprova? Nel 2005  Edoardo Tuzzio e Horacio Ameli  erano molto amici e giocavano per il River Plate, squadra argentina di Buenos Aires. Ameli ebbe una relazione con la moglie di Tuzzio

Nel 2010 in Gran Bretagna, John Terry, allora capitano del Chelsea, ebbe una relazione con la fidanzata di Wayne Bridge, difensore nella sua stessa squadra. Bridge lasciò il Chelsea e  andò a giocare nel  Manchester City. 

Nel 2013 a Madrid Caroline, moglie di Kevin De Bruyne, centrocampista del Manchester City cercò i di sedurre Thibaut Courtois, giovane portiere del Chelsea, per pareggiare i conti con le corna che le aveva fatto De Bruyne. Raggiunse il suo obiettivo.

Calciatori, separazioni, divorzi, tradimenti: Totti e gli altri. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.

I matrimoni di calciatori da sempre al centro del gossip: Walter Zenga e Roberta Termali fu una delle prime coppie famose a rompersi, poi Ventura-Bettarini, Buffon-Seredova. Fino a Piqué-Shakira

Francesco Totti-Ilary Blasi

«Non sono stato io a tradire per primo», ha raccontato Francesco Totti nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, commentando la rottura della storia d’amore con la moglie Ilary Blasi. La coppia più famosa di Roma (e non solo) si è separata dopo 17 anni di matrimonio (si sposarono il 19 giugno 2005). La conferma definitiva è arrivata poco dopo le 21 di lunedì 11 luglio. Era atteso un comunicato congiunto e invece è intervenuta prima lei, con una dichiarazione all’Ansa, e poi, a stretto giro lui, con due comunicati separati: il primo segnale di una rottura tutt'altro che consensuale come le rivelazioni successive hanno certificato, tra accuse di aver portato via gli orologi (lui) e allusioni pesanti («Ha visto cose per cui potrebbe rovinare cinquanta famiglie», lei).

Piqué-Shakira

Il difensore del Barcellona, Piqué, e la cantante colombiana, Shakira, erano insieme dal 2010 (non si erano mai sposati). Il 4 giugno con un comunicato hanno annunciato la fine della loro storia d’amore. La coppia ha avuto due figli: Milan (9 anni) e Sasha (7 anni). Una storia terminata a causa del tradimento di lui, scoperto da Shakira, con una cameriera di 22 anni. Adesso la cantante vuole andare via da Barcellona e trasferirsi a Miami, negli Stati Uniti. Piqué era contrario, ma un accordo sarebbe stato trovato.

Gigi Buffon e Alena Seredova

Gigi Buffon e Alena Seredova, una coppia amata da tutti. Sono stati insieme dal 2005 al 2014: si sono sposati nel 2011, avevano avuto già avuto due figli, nati rispettivamente nel 2007 e nel 2009. Seredova rivelò di aver scoperto il tradimento del marito con Ilaria D’Amico (poi diventata sua compagna: i due stanno insieme ancora oggi), dai giornali.

Maxi Lopez, Wanda Nara, Mauro Icardi

Leggendario il triangolo Maxi Lopez, Wanda Nara, Mauro Icardi, con il primo che non hai mai perdonato il doppio tradimento dell’ex moglie e dell’ex amico e con lei che ha rinfacciato le scappatelle seriali di Maxi (con cui ha avuto tre figli maschi, motivo di infinite liti): questo prima che la scena del gossip fosse occupata dalla storia di Wanda con Maurito, sfociata in un matrimonio (e due figlie), matrimonio scosso a sua volta dal presunto tradimento (o semplice flirt) dell’ex giocatore dell’Inter con l’attrice argentina Eugenia, «China», Suarez. Come si sa la storia si complica perché Wanda è anche la manager di Mauro, di cui discute tutti i contratti

Andrea Pirlo-Deborah Roversi

Andrea Pirlo e Deborah Roversi si sono lasciati nel 2014, dopo ben 13 anni. I due si sono conosciuti quando lui era una giovane promessa del Brescia e dalla loro unione sono nati due figli, Nicolò e Angela, nati rispettivamente nel 2003 e nel 2006. Qualche anno fa, in un’intervista rilasciata a Vanity Fair, l’ex consorte aveva criticato l’ex centrocampista: «53mila euro al mese? Non ho mai visto tutti questi soldi. In occasione della recente sentenza della Corte di Cassazione che riguarda gli assegni in favore delle ex mogli, sono stata personalmente coinvolta come se fossi una donna che a dispetto del marito si è arricchita. L’assegno che mi è stato riconosciuto non è un assegno divorzile, ma è quello che la legge stabilisce nella separazione dei coniugi. L’importo non è quello indicato dai mass media, è di gran lunga inferiore».

Walter Zenga e Roberta Termali

Il portiere dell’Inter e della Nazionale Walter Zenga si sposa con la prima moglie, Roberta Termali, conduttrice televisiva italiana, nel 1992. Dalla loro storia d’amore nascono due figli, Andrea e Nicolò. I rapporti tra Zenga e i figli sono stati spesso contrastanti. Cinque anni dopo il matrimonio, nel 1997, i due si separano. Poi Walter si è sposato altre due volte.

Christian Vieri ed Elisabetta Canalis

Negli anni 2000 Bobo Vieri, attaccante dell’Inter, ed Elisabetta Canalis, all’epoca velina di «Striscia la Notizia», hanno occupato la maggior parte delle copertine delle riviste di gossip. Per anni hanno formato una coppia iconica, amata dai fan. Dopo la separazione, burrascosa, non è stato facile ricucire un’amicizia che sembrava inevitabilmente compromessa.

Massimiliano Allegri e Ambra Angiolini

Sono stati insieme dal 2017 al 2021. L’indiscrezione della loro separazione era arrivata inizialmente dal settimanale «Chi» che titolava: «Max Addio, è finita con Allegri». Per poi trovare conferma anche da Jolanda Renga figlia dell’attrice e di Francesco Renga. Del resto se ne parlava già prima dell’estate, poi i due erano stati paparazzati insieme in Costiera Amalfitana: baci, abbracci, coccole e selfie proprio per allontanare queste voci e mostrare al mondo che la passione fosse come quella dei vecchi tempi, nonostante gli impegni di entrambi. Invece, fu addio. Con relative polemiche quando Striscia la notizia decise di consegnare il Tapiro ad Ambra (la presunta tradita) e non ad Allegri.

Kakà-Caroline Celico

Nel giugno 2014 Kakà si è separato dalla moglie, Caroline Celico, che ha sposato nel 2005. La notizia è stata data da un agente del calciatore. Le voci sulla fine del matrimonio circolavano in Brasile già da un anno, quando il giocatore, senza la moglie, ha passato un periodo di vacanza nella paradisiaca isola di Fernando de Noronha. Tuttavia, all’epoca sia Kakà sia Celico avevano smentito la separazione. All’inizio di settembre, Caroline Celico aveva ammesso che il rapporto stava affrontando dei problemi. Ora Kakà si è risposato e ha avuto una figlia dal nuovo matrimonio.

Stefano Bettarini-Simona Ventura

Anche chi non segue il calcio ricorda certamente la storia tra il difensore Stefano Bettarini e la showgirl Simona Ventura, coronata con il matrimonio nel 1998, celebrato in diretta televisiva, e naufragata con il divorzio nel 2008, esattamente 10 anni dopo. Dalla loro unione sono nati i figli Niccolò e Giacomo, per quanto l’ex calciatore fosse stato presto accostato ad altre donne. Furono proprio i presunti tradimenti il motivo principale della rottura.

Aguero-Giannina Maradona

Tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013 il Kun Aguero, che oggi si è ritirato dal calcio dopo i problemi cardiaci avuti con la maglia del Barcellona, e Giannina Maradona, la secondogenita di Diego, si lasciarono. Nel 2009 ebbero un figlio: Benjamin. Ad andarsene fu Giannina. Nessun tradimento e nessuna terza persona, sembra che a separare i due siano state le (complicate) questioni di cuore del celeberrimo papà di lei, il Pibe de Oro: l’ex attaccante di Manchester City e Barça avrebbe avuto, dissero in Argentina, la malaugurata idea di prendere le parti di Veronica Ojeda che aspettava un figlio da Diego e con cui i rapporti erano burrascosi.

Edinson Cavani e Maria Soledad Cabris

I due si sono sposati nel 2007, anno nel quale l’attaccante sbarcò in Italia, al Palermo, ma il matrimonio è durato pochi anni ed è finito principalmente a causa delle scappatelle di lui, che peraltro la lasciò a mezzo mail il giorno di Natale, almeno così raccontò lei.

Totò Schillaci e Rita Bonaccorso (e Lentini)

In moltissimi casi, e questo è uno di quelli, accade che i tradimenti vengono consumati restando nell’ambiente del calcio. Gianluigi Lentini aveva una relazione con Rita Schillaci, moglie di Totò Schillaci. Lo si seppe nell’agosto del 1993, dopo il grave incidente stradale in cui fu coinvolto l’allora giocatore del Milan. «Stavo andando da Rita», aveva ammesso poi l’ex rossonero.

Kevin De Bruyne e Caroline Lijnen

Carolone Lijnen, moglie del centrocampista del Manchester City e del Belgio, cercò di sedurre Thibaut Courtois, giovane portiere del Chelsea (oggi al Real Madrid), per vendicarsi del tradimento del marito, Kevin De Bruyne. Che, in City-Real della scorsa stagione, segnò con un gusto particolare all’ex rivale in amore. In Premier, nel 2010, John Terry, allora capitano del Chelsea, ebbe una relazione con la fidanzata di Wayne Bridge, difensore nella sua stessa squadra. Bridge lasciò il Chelsea e andò a giocare nel Manchester City

Da repubblica.it il 19 luglio 2022.

Mi chiamo Francesco Totti e andrò in onda con largo anticipo sui tempi previsti. Anche i palinsesti tv si adeguano alla storia del momento: la fine del matrimonio tra il Capitano e Ilary Blasi ha un tale appeal mediatico che perfino Rai 1 decide di fare uno strappo alla regola e accelerare con la messa in onda del documentario del 2020, una prima tv in chiaro prevista in autunno. E così, il documentario diretto da Alex Infascelli, appunto Mi chiamo Francesco Totti, che ripercorre la vita del campione dagli inizi fino al 2017, andrà in onda lunedì 25 luglio in prima serata su Rai 1.

Il docufilm è stato presentato nel 2020 in anteprima alla Festa del cinema di Roma, è tratto dal libro Un capitano, scritto dallo stesso Totti con Paolo Condò, e parte dalla notte che precede l'addio del Capitano al calcio, la sua ultima partita all'Olimpico il 28 maggio del 2017, occasione in cui ripercorre tutta la vita privata e quella calcistica, momenti di vita e ricordi inediti. 

L'ultima partita di Totti, il boato dell'Olimpico per il capitano all'annuncio delle formazioni

Venticinque anni di carriera, dagli esordi nella Lodigiani ai trionfi, alla Coppa del Mondo, passando per il rapporto con i tecnici che negli anni lo hanno allenato alla Roma e in Nazionale, l’infortunio prima dei Mondiali del 2006 e la sua storia d’amore con Ilary Blasi, madre dei suoi tre figli.

"Sono arrivato da Totti e gli ho detto 'non so niente di calcio', lui mi ha risposto 'sei perfetto' - aveva raccontato Infascelli  - da quel momento si è messo a disposizione del film, era arrivato a questo appuntamento perché aveva voglia di raccontarsi. E io mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto, come accade nella vita di tutti nel mio mestiere come nel suo. Come si vede nel film".

Francesco Persili per Dagospia il 21 ottobre 2020.

“Nessuno voleva battere quel rigore. Pirlo mi si avvicina e mi dice: “Tiralo tu”. Ultimo minuto di Italia-Australia, ottavi di finale del Mondiale 2006. La passeggiata verso il dischetto. Si allargano tutti, restano Totti e il portiere avversario Schwarzer. Come in un duello western. Occhi negli occhi. 

“Quando c’ho tutto sui piedi, difficilmente sbaglio”. E infatti non sbaglia. Vanigli gli aveva spaccato la caviglia e lui, sei mesi dopo, con una placca e 11 viti nella gamba, diventa campione del mondo: “Dio ha voluto che andasse tutto così”. Nel docufilm di Alex Infascelli ritornano continuamente queste sliding doors con il destino. Totti quando era pischello poteva andare al Milan. Mamma Fiorella disse no. “E mi insegnò che casa è la cosa più importante nella vita”.

E poi nell’annus horribilis di Carlos Bianchi quando era sul punto di andare alla Sampdoria arriva il trofeo Città di Roma. Lui non avrebbe dovuto neanche esserci. Invece scende in campo e incanta. Franco Sensi non ha dubbi: “Francesco non si muove da Roma”. E tanti saluti al “Mago Galbusera” argentino e a Litmanen (che avrebbe dovuto prendere il suo posto).

E poi ancora ai tempi della guerra dei mondi con Spalletti. L’esclusione con il Palermo (“mi cacciò da Trigoria, da casa mia”), Ilary che lo convince ad andare allo stadio (“Se non ci vai, ti lascio”), l’ovazione del pubblico e la rottura definitiva con il tecnico. Quello che dopo l’infortunio aveva passato la notte in clinica con lui diventa “un allenatore che per me non esisteva più”. A Bergamo con l’Atalanta, si rischia lo scontro fisico. Un gol di Totti salva la Roma e Spalletti dice ai microfoni di Sky che l’ha pareggiata “la squadra”. Ma il destino ha sempre più fantasia e contro il Torino succede il miracolo. Due gol di Totti in tre minuti e rinnovo di contratto a furor di popolo. 

Nella carrellata di video e di immagini, ecco la contestazione a Trigoria nel 2001 dopo l’eliminazione dalla Coppa Italia. Fabio Capello, che oggi sostiene come un capitano non sia solo quello che scambia i gagliardetti, ricorderà sicuramente che fu Totti ad andare a parlamentare con i tifosi e poi a dettare la linea davanti ai giornalisti: “Da oggi chi non ha carattere, si può anche tirare fuori”. Dalle parole del Capitano partì una cavalcata trionfale che portò la Roma al terzo scudetto della sua storia suggellato dalla sua rete in Roma-Parma sotto la Sud: “Fu un lancio d’amore nei confronti della gente, dentro quel pallone c’era il sogno mio”. 

Dalle partite con la Lodigiani alla suggestione Real, dalla festa dei 18 anni con il Principe Giannini “guest star” alla festa scudetto al Circo Massimo con la Ferilli (“Con tutto il rispetto non è che uno stava a pensà al suo spogliarello”), dal rapporto fraterno con Cassano (“Un cacacazzi…”) al legame a prova di spinte con Vito Scala, Francesco Totti racconta più di una carriera, ma una storia lunga 25 anni che non è nemmeno più solo la sua. “Il tempo è passato pure per voi”, sorride sornione l’ex Capitano. Ciascuno guardando il film si ritrova a tu per tu con un sentimento e con un pezzo di vita. 

E non può che abbracciare la solitudine del campione nella pancia dello stadio prima della passerella finale sulle note della baglioniana “Solo”. “E tu piano piano andavi via”. L’attore Riccardo Rossi confessa: “Ho pianto con lui su quelle scalette dello stadio Olimpico”. Resta un dubbio. 

Se Ibra è ancora decisivo a 39 anni, Totti avrebbe potuto ancora dire la sua? Per Cassano, il numero 10 giallorosso avrebbe potuto continuare a giocare anche oltre i 40 in questa serie A. Ma ora Totti è uscito dal campo, è rimasto Francesco. Nel suo presente l’agenzia di scouting, nel futuro un possibile ritorno alla Roma di Friedkin. Ad aiutarlo sempre la solita, scanzonata romanità: “Più le sfide sono dure, più ci devi andare leggero…"

Antonio Cassano ha 40 anni: liti con Capello, amore per Carolina e villa da sogno. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 12 luglio 2022.

Cassano, ex stella di Bari, Roma, Real Madrid, Milan e Samp ha chiuso la carriera con il Verona. Celebri le sue esagerazioni entrate anche nell'Enciclopedia Treccani. Le critiche di France Football

Cassano ha 40 anni

Antonio Cassano compie 40 anni oggi martedì 12 luglio: è nato nel 1982, il giorno dopo il trionfo mondiale dell’Italia di Enzo Bearzot. Ha iniziato nella Pro Inter ed è cresciuto nelle giovanili del Bari e dopo il suo ottimo debutto viene paragonato addirittura a Roberto Baggio. Il suo allenatore a Bari, Eugenio Fascetti, notò il suo talento e decise di farlo esordire in serie A l’11 dicembre 1999 a 17 anni, in un derby contro il Lecce, perso 1-0.

Nella giornata di campionato seguente fu schierato titolare contro l’Inter e realizzò all’88’ la sua prima rete in A, il gol decisivo del 2-1, scartando mezza difesa, toccando di tacco e insaccando alle spalle di Ferron. Nel 2001 va alla Roma, dicendo no alla Juventus, per giocare con il suo idolo Francesco Totti. Nel gennaio 2006 si trasferisce al Real Madrid, ma l’avventura in Spagna non va benissimo e allora nel 2007 torna in Italia, alla Sampdoria.

Nel gennaio 2011 è al Milan (vince uno scudetto), nel 2012 è all’Inter e nel 2014 va al Parma. Ritorna alla Sampdoria nel 2015, dove trova stabilità. Nel luglio 2017 prova a ripartire dal Verona, ma la sua avventura dura 17 giorni e finisce prima di iniziare, dicendo addio al calcio. In Nazionale ha disputato 39 partite segnando 10 gol, giocando tre Europei (2004, 2008 e 2012) e un Mondiale (2014).

Il re dei talenti sprecati

Chi è il più grande talento di calcio sprecato? Secondo France Football, nella classifica fatta nel 2021, è Antonio Cassano. Aveva tutto per diventare tra i migliori calciatori del mondo, ma gli è mancata la testa per raggiungere traguardi importanti. «È giusto parlare di talento sprecato citando chi ha vinto scudetto e Liga, ha segnato 150 gol, di cui uno nella finale di Euro 2012 (ma in realtà l'Italia perse 4-0 con la Spagna , il gol fu contro l'Irlanda, ndr)? Sì, se questo giocatore è Antonio Cassano», le motivazioni del periodico francese. Da molti suoi ex compagni di squadra è considerato uno dei talenti più importanti della storia recente del calcio italiano. Ma, appunto, le tante cassanate (e non solo), gli hanno impedito di fare una carriera migliore e di vincere meno di quanto avrebbe dovuto.

L'occasione persa al Real Madrid

L'esempio più classico dello spreco è stata l'avventura al Real Madrid, dove si trasferì nel gennaio 2006, all'apice della sua carriera. Si presentò con una giacca con la pelliccia sul collo, lontano dallo stile Blancos. Anni dopo il talento di Bari Vecchia raccontò: «Il peluche sul collo? Bisogna avere i c….i per presentarsi al Real Madrid. Loro volevano che mettessi giacca e cravatta, ma se mi vogliono io sono così. Per questo mi sono presentato con quel peluche. A distanza di tempo, però, mi vergogno». Non fu l’unico episodio. Celebre anche l’imitazione a Fabio Capello, all’epoca allenatore delle Merengues. A bordo campo con alcuni suoi compagni di squadra, Cassano si chiuse la giacca per proteggersi dal freddo. Si aggiustò il bavero. Poi si portò le mani dietro la schiena, petto in fuori. Tre mosse classiche del repertorio di Capello. Il tutto condito dalle risate di Ronaldo e Diarra, in quell’occasione panchinari come lui. E la reazione di Don Fabio fu laconica: «Infastidito? No, io sono per la libertà d’espressione». Ma da lì in poi Cassano non giocò molto. Nel giugno 2015 Antonio fu indagato per evasione fiscale per non aver dichiarato al fisco una parte di stipendio percepito al Real Madrid nel 2006 pari a tre milioni di euro sugli otto totali.

Le cassanate

Termine coniato ai tempi della Roma da Fabio Capello, è entrato non soltanto nel linguaggio comune, ma addirittura nell’enciclopedia Treccani, dove si definisce cassanata «il gesto, il comportamento e la trovata tipici del calciatore Antonio Cassano». Eccone alcune. Nel 2001 lasciò il ritiro dell’Under 21 dopo aver saputo dal c.t. Claudio Gentile che sarebbe partito dalla panchina. E poi le corna all’arbitro Rosetti durante la finale di Coppa Italia tra Roma e Milan (maggio 2003) o la maglia lanciata – con tanti di insulti – all’arbitro Pierpaoli, ai tempi della Sampdoria, il 2 marzo 2008, nel match contro il Torino. Oppure nel 2009 la lite con il tecnico blucerchiato Gigi Delneri o nel 2010 con il presidente, per lui un secondo padre, Riccardo Garrone. Perché? Cassano non voleva andare a Sestri Levante per ricevere un premio messo in palio dai tifosi della Sampdoria. Garrone gli chiede di ripensarci, ma lui lo offende pesantemente. È la fine della sua avventura a Genova. Nel 2012 durante il ritiro con la Nazionale, un giornalista gli chiede della possibile presenza di omosessuali tra gli azzurri: «Fr... in squadra? Spero di no, sono problemi loro», la risposta. O l’attacco a Galliani («Mi ha preso in giro, promette e poi niente: tanto fumo e poco arrosto») o il litigio nel 2013 con Andrea Stramaccioni, che negli spogliatoi sfocia quasi in una rissa.

Il problema al cuore

Ai tempi del Milan, il 29 ottobre 2011, al ritorno dalla trasferta dei rossoneri a Roma, Cassano ha accusato un malore all’aeroporto di Milano-Malpensa ed è stato ricoverato al Policlinico di Milano, dove gli è stata diagnosticata una sofferenza cerebrale su base ischemica causata dalla presenza di un difetto cardiaco congenito denominato «forame ovale pervio cardiaco interatriale». Il 3 aprile del 2012, a cinque mesi dall’operazione, Cassano ha riottenuto l’idoneità medico sportiva, potendo così tornare ad allenarsi regolarmente con i compagni di squadra e a giocare. È tornato a giocare il 7 aprile seguente entrando al 39º minuto del secondo tempo di Milan-Fiorentina, tornando al gol il 29 aprile, dopo poco meno di sei mesi dall’intervento al cuore e a distanza di 206 giorni dall’ultima rete realizzata (4-1 al Siena).

Il Covid

A gennaio 2022 Cassano è risultato positivo al Covid: «Ho avuto due giorni di febbre e tremore, siccome non sapevo cosa fare sono andato all’ospedale. Ho fatto tutte le analisi, era tutto perfetto. Poi ho fatto la Tac e c’era una lieve polmonite», ha raccontato il suo ricovero all’Ospedale San Martino di Genova. «Mi hanno curato e in due giorni sono tornato a casa, stamattina sono finalmente tornato negativo dopo venti giorni. Ho perso sei chili, i primi giorni avevo dolori ovunque. Ora io e la mia famiglia stiamo bene, vorrei ringraziare Bassetti e il suo staff che dal primo momento mi ha preso in cura e ha fatto un lavoro eccezionale. Ma oltre che su di me, lo fa con tutte le persone che sono lì dentro. Ci mette davvero passione, anima e cuore. È stata una manna dal cielo, lui e tutto il San Martino. Bisogna vaccinarsi».

Cassano e le 700 donne

«Ho avuto tra 600 e 700 donne, una ventina delle quali appartengono al mondo dello spettacolo. Sesso più cibo è la notte perfetta», ha raccontato Cassano nella sua autobiografia «Dico tutto» del novembre 2008. E ancora: «Se non avessi fatto il calciatore, sarei diventato un rapinatore o uno scippatore, comunque un delinquente. Ero povero ma tengo a precisare che nella mia vita non ho mai lavorato, anche perché non so fare nulla».

La famiglia

Dal 2008 la sua vita libertina è cambiata. A Genova infatti ha conosciuto l’allora 17enne Carolina Marcialis, nove anni meno di lui, e dopo due anni l’ha sposata. Dal matrimonio sono nati Christopher, 11 anni, e Lionel, 9. Il primo gioca (molto bene) a calcio, il secondo (molto bene) a padel. E si chiama come Messi, l’idolo di papà. Carolina è una pallanuotista, di ruolo difensore, fino all’anno scorso alla C.S.S. Verona. Nel 2019 ha ottenuto la prima convocazione in Nazionale, nel Setterosa.

La casa da sogno a Genova

La casa di Cassano e sua moglie Carolina Marcialis a genova è una villa di design con panorama mozzafiato: si sviluppa su due livelli e comprende un’ampia piscina a sfioro con vista mozzafiato sul litorale ligure. La coppia ha aperto le porte alle telecamere di Mtv Cribs, nel marzo 2022, rivelando una serie di dettagli notevoli. La zona living della villa si trova al primo piano e comprende una grande sala con ampi divani chiari e un enorme lampada a forma di lampione verde piegato di Seletti. Alte pareti di vetro suddividono diversi ambienti della casa, sia nella zona giorno che nella zona notte. E se Cassano ha riempito casa con coppe e maglie di calcio da collezione, la moglie ha una grande passione per la moda, come dimostrano la sua grande cabina armadio e le numerose immagini condivise sui social.

L'oracolo di Bari

Sul web oggi lo chiamano tutti l’Oracolo di Bari, ma non è un complimento. È la fotografia di quello che sta diventando un genere letterario molto apprezzato dal web: i pronostici sbagliati di Cassano. Su tutti quello sulla semifinale dell'ultima Champions, Real Madrid-Manchester City. A Bobo TV aveva sostenuto che sarebbe passato il City «senza se e senza ma», ribadendo che Carlo Ancelotti ha solo fortuna e che all’andata sarebbe dovuta finire 8-0 per il City, anziché 4-3. Sappiamo tutti com’è finita: Real-City 3-1. Oppure quando Ventola aveva detto che il Villarreal nei quarti sarebbe stato un brutto cliente per il Bayern, Cassano aveva detto: «Bobo ma perché lo fai ancora venire a questo…». Risultato? Villarreal qualificato in semifinale. E ancora. Agli ultimi Europei Cassano aveva spiegato che avrebbe vinto la Francia in carrozza. Morale: Italia campione, Bleus fuori addirittura agli ottavi. Ma la chicca è stata sul basket Nba, un’altra sua passione. Lanciandosi in una previsione sulle finali di Conference (in pratica le semifinali per il titolo) ha detto: «Penso che ci saranno Phoenix e Golden State da un lato, dall’altro Philadelphia, i Nets e occhio anche ai New York Knicks di Thibodeau, perché giocano tra virgolette un calcio alla Simeone, particolare, però per fargli più di 100 punti è un inferno». Peccato che i Knicks fossero fuori dai playoff e abbiano fatto più di 100 punti in 55 partite su 79. Il pronostico sbagliato su una squadra che non gioca è la chicca fra le chicche.

Le frasi e i tormentoni

Da «Chapeau» a «mio parere personale», passando per «raffinatezza Ventola», sono tante le parole che Cassano ripete nelle sue uscite priam virali a Bobo Tv. Celebre anche le frasi dette in questi anni ad altri protagonisti nel mondo del calcio: «Sergio Ramos, tagliati i capelli che sembri Renato Zero». O anche solo: «Sopra il cielo c’è l’Inter», le sue parole alla presentazione in nerazzurro, in riferimento a quanto detto l’anno prima nella sua prima conferenza in rossonero: «Sopra il Milan c’è solo il cielo».

«Neo-social» (con molto padel)

Cassano è sbarcato su Instagram da poco, dal gennaio scorso. Ha 387mila followers, 49 post pubblicati. Molti con la sua famiglia e molti mentre gioca a padel: ci gioca da qualche anno, dice di essere molto bravo e ha vinto anche qualche torneo. Ogni tanto con lui gioca anche la moglie. Dopo il suo ingresso su Instagram Buffon gli scrisse ironico: «Calmo e pacato. Non poteva mancare il tuo pensiero in questo mondo in continua evoluzione».

Da goal.com il 25 ottobre 2022.

L'ex direttore generale della Juventus replica piccato a Cassano: "La tua ignoranza spavalda mi diverte, dovresti fare cabaret". 

Nuovo capitolo della faida a distanza tra Luciano Moggi e Antonio Cassano, sorta dopo alcune dichiarazioni alla 'Bobo TV' dell'ex attaccante sul declino di Cristiano Ronaldo, ormai ai margini del Manchester United dove Ten Hag lo considera una riserva e fatica ad accettare gli atteggiamenti da primadonna del portoghese. 

L'ex dirigente aveva pizzicato Cassano facendo riferimento alla famosa favola della volpe e l'uva, scatenando la sua reazione che, ovviamente, non si è fatta attendere. 

"Parto dal presupposto che Moggi mi ha rotto i c******i l'anno scorso chiedendomi di partecipare alle trasmissioni che fa lui a tele non so, teleperditempo: gli ho risposto di lasciar perdere. Riguardo la roba di Ronaldo, io dico di non aver mai provato invidia per nessuno: ho sempre guadagnato e sono stato felice, mi sono divertito.

Non sono invidioso di Ronaldo e continuo a sostenere che sono tre anni che non si regge in piedi. La morale o non morale... Hai fatto disastri per 20 anni e devi stare zitto, se proprio dobbiamo parlare di morale. Ti ho fatto uscire dall'oltretomba dopo 20 anni. 

Caro Luciano Moggi, io posso camminare a testa alta, tu invece hai ridicolizzato i tifosi della squadra per il quale eri dirigente con i tuoi disastri. Quando cammini tu, invece, devi abbassare la testa. Hai ridicolizzato il calcio italiano e ancora ti permetti di parlare. A distanza di 20 anni posso dire di aver fatto bene ad aver rifiutato la Juventus per ben due volte, non permettendo a te di diventare il mio dirigente. Perché se avessi avuto a che fare con te, dopo due minuti ti avrei attaccato al muro". 

La replica, piuttosto piccata, di Moggi è arrivata con questo tweet al veleno.

"La tua ignoranza spavalda e le tue cassanate mi divertono. Mi verrebbe da consigliarti di fare il cabarettista anziché l’opinionista sportivo. Quanto all’attaccarmi al muro come dici, meglio che ci provi con qualcun altro, con me sarebbe difficile".

Parole che, quasi certamente, indurranno Cassano a replicare nella prossima puntata di 'Bobo TV',

Da pagineromaniste.com l'8 febbraio 2022.

Corriere dello Sport (G. Marota) – Nell’edizione odierna del Corriere dello Sport, è presente un’intervista di Carlo Verdone. L’attore e regista si è soffermato sui vari casi arbitrali che vedono la Roma coinvolta. Di seguito le sue parole. 

Carlo Verdone, approfondiamo la questione: la Roma è davvero piccola agli occhi del potere? 

Sembra proprio di sì, ogni domenica ne capita una. Sicuramente siamo sfortunati da sempre. Ma stavolta come si fa a dare torto a Mourinho? 

Per molti tifosi c’è una sorta di accanimento nei confronti della Roma. 

Forse accanimento no, però la Roma è stata più penalizzata rispetto ad altre squadre. Sabato ci hanno fatto perdere due punti, questo lo devo ammettere anche io che mi ritengo un tifoso non fazioso e non penso mai che gli arbitri arrivino a condizionare le partite volutamente. Però certe volte li vedo un po’ prevenuti con i nostri calciatori. 

Mourinho ha detto proprio questo, parlando di Zaniolo. 

Lo vedono come un ragazzo un po’ esuberante, pensano che fa il furbo, che ci prova. Qualche errore lui l’ha fatto, ma questo non giustifica il rapporto complicato che certi arbitri instaurano con lui.

Come se lo spiega? 

È inspiegabile. Non può esistere che un calciatore offensivo venga ammonito così tante volte, per non parlare dei falli che gli fischiano. È tra i calciatori più sanzionati della Serie A. L’espulsione di sabato, a esempio, è esagerata. State certi che con altre maglie addosso l’avrebbero trattato diversamente. Poi se vogliamo parlare del fatto che in 90′ la Roma ha creato pochissimo va bene, ma è un altro discorso. 

Secondo lei, la Roma farebbe bene a lamentarsi? Si aspetta una reazione della società? 

L’allenatore è stato preso anche per questo e sta svolgendo al meglio il suo compito, anche da comunicatore. La conferenza di sabato mi è piaciuta molto: ha detto quello che doveva dire senza dare in escandescenze oppure offendere qualcuno. 

Il Var non sta aiutando il calcio? 

Certe volte mi sembra che il Var abbia rovinato il calcio. Doveva risolvere delle cose, ma dietro al monitor commettono gli stessi errori dell’arbitro in campo. Mettiamoci anche la sospensione della partita e quella suspense in cui ormai può succedere davvero di tutto.

Una partita di calcio sembra un thriller. 

È vero, ma io non mi lamento perché sono romanista. Lo dico in generale: non ci si capisce più niente. Ci sono delle partite in cui ho pensato “menomale che ci hanno dato questo gol, perché non mi sembrava buono”, ma sono molte di più le volte in cui penso “eh no, porca miseria: pure stavolta! 

L’ha pensato anche durante Roma-Genoa? 

Il gol era regolare, dai. Quell’episodio me lo sono visto e rivisto, davvero non capisco come è stato analizzato. Mi cadono le braccia. 

Da corrieredellosport.it l'8 febbraio 2022.

Milena Bertolini, commissario tecnico della nazionale femminile di calcio, durante la trasmissione 90° Minuto aveva criticato duramente Nicolò Zaniolo, espulso nei minuti di recupero della partita contro il Genoa all’Olimpico per le proteste contro l’arbitro Abisso dopo l’annullamento del suo gol: "Sappiamo che emotivamente il ragazzo ha delle difficoltà, va aiutato, va educato. Poi, in quel caso, l’arbitro doveva fare la sua parte, ma non per questo giustifico l’atteggiamento di Zaniolo".  

Parole che non sono piaciute ai tifosi che sui social per tutto il giorno hanno criticato Bertolini, anche utilizzando ironicamente l'hastag "Zaniolo va educato". In serata il ct della nazionale femminile è tornata tramite l'Ansa sulle dichiarazioni di ieri: "Sono profondamente dispiaciuta per i risvolti negativi che le mie parole su Zaniolo stanno assumendo. Aver estrapolato una piccola parte di quanto ho espresso, senza ascoltare interamente tutto il mio pensiero nella sua complessità, può aver contribuito a generare l'equivoco e per questo ritengo utile fare chiarezza. Ho tentato di spiegare che la frustrazione di Zaniolo per l'annullamento del gol segnato meritava una maggiore attenzione e una maggiore comprensione, così come l'abbraccio affettuoso di Mourinho ha dimostrato in modo evidente - afferma Bertolini -. 

Ho sottolineato che, pur non intendendo giustificare le sue parole, si sarebbe dovuto comprendere la specifica situazione, senza punirlo oltremisura. Come tutti i ragazzi giovani, ritengo che anche Zaniolo vada aiutato e guidato nella gestione degli aspetti emotivi - prosegue la ct - cioè nella gestione delle naturali difficoltà, delle frustrazioni e delle presunte ingiustizie che si possono vivere dentro una partita. 

Quando ho parlato di educazione mi riferivo a questi aspetti, strettamente legati alla crescita calcistica. Lungi da me giudicare altri aspetti personali. Nicolò è un grande talento e un patrimonio del calcio italiano e soprattutto un ragazzo che tra l'altro a me pare estremamente sensibile e generoso".

Andrea Ramazzotti per il "Corriere dello Sport" l'8 febbraio 2022.  

Stasera intorno alle 21 a Milano ci saranno 4 gradi, forse meno, ma Massimo Moratti non teme il freddo. «Il ritorno di Mourinho a San Siro da avversario non me lo perderei per niente al mondo» dice senza la minima esitazione e si lascia andare a una risata. Nessun dubbio: l’ex presidente dell’Inter si accomoderà in tribuna vip al Meazza, a poche poltroncine di distanza dall’attuale numero uno, Steven Zhang. Mister Saras ha ancora il cuore tinto di nerazzurro e non poteva mancare all’amarcord per eccellenza: la prima volta dello Special One alla Scala del Calcio nelle vesti di “nemico” di quei colori che proprio lui ha guidato nel 2009-10 al Triplete. 

Dottor Moratti, come se lo immagina il ritorno di Mourinho a San Siro? 

«Lo ammetto, un po’ mi farà impressione vederlo salire dalla scala degli spogliatoi e accomodarsi sulla panchina ma non dell’Inter. So già che mi emozionerò perché mi torneranno alla mente le immagini di quando è stato protagonista con noi: all’Inter e a Milano José ha regalato tante cose belle che non si dimenticano con il passare del tempo». 

Ascaltandola, lei trasmette la sensazione che il rapporto tra voi non si sia mai interrotto. 

«In questi giorni non ci siamo sentiti perché non mi sembrava il caso, ma ci parleremo magari dopo la partita o nei giorni successivi. Ogni tanto ci telefoniamo e lui è sempre affettuoso e carinissimo con me. Siamo rimasti legati, è vero, non solo per quello che abbiamo vinto, ma per la persona che Mourinho è». 

Ha mai pensato a come sarebbe andata la storia se dopo il trionfo in Champions a Madrid, il 22 maggio 2010, Mou non avesse lasciato l’Inter per firmare con il Real? 

«Impossibile fare certi discorsi... E’ andata così perché doveva andare così e perché lui aveva voglia di provare un’esperienza al Real Madrid. A distanza di tempo e a mente fredda dico che è finita nel migliore dei modi per tutti: lui era soddisfatto per i risultati di quella stagione e per la nuova sfida che aveva accettato; noi perché avevamo ottenuto il massimo, quel successo che non assaporavamo da anni, il trionfo in Coppa dei Campioni. Se proprio dovevamo separarci, un epilogo migliore non c’era». 

Qualche tifoso però rimprovera al portoghese di non essere tornato quella notte a Milano, per festeggiare la Champions all’alba a San Siro. 

«Acqua passata. La sua decisione l’aveva presa molto prima della finale, ma nelle settimane precedenti non ne avevamo mai parlato perché in quel mese di maggio eravamo in corsa per tre trofei e non volevo spezzare l’incantesimo. L’abbraccio in campo al Bernabeu dopo la vittoria sul Bayern e la cena di due giorni dopo a casa mia hanno chiarito tutto». 

Stasera ci sarà anche il “ricongiungimento” tra José e il popolo nerazzurro. 

«Sarà accolto con grande affetto e simpatia. Su questo non ho dubbi. Ora allena la Roma, ma con noi ha scritto la storia. E che storia...».  

Unica squadra italiana a centrare il triplete. 

«Suona bene anche a distanza di tempo (ride, ndr) e per questo sarà un piacere rivedere Mourinho a San Siro. A dire la verità in me c’è anche un po’ di curiosità per la sua nuova veste. Finora al Meazza lo avevo visto come avversario del Milan, mai dell’Inter».  

Non è che tiferà per lui? 

«No, non scherziamo... Anche se per lui nutro molta simpatia, io tifo per l’Inter. José lo sa e lo capirà».  

Mourinho si emozionerà a trovarsi di fronte il suo ex pubblico? 

«Credo proprio di sì perché all’Inter e agli interisti è davvero legato, ma nessuno si aspetti regali».  

I suoi recenti sfoghi contro gli arbitri le hanno portato alla mente qualche ricordo di quei due anni nerazzurri? 

«Sa cosa le dico? Di tempo ne è passato, ma lui si difende sempre... abbastanza bene (ride, ndr)».  

Forse gli arbitri italiani non gli stanno simpatici. 

«Non la metterei in questo modo perché non credo sia così. José semplicemente non è ipocrita: quando c’è da difende la sua società, lo fa mettendoci la faccia e dicendo sempre quello che pensa. Poi... è Mourinho e quando fa certe cose, le fa per bene».  

Come quel 20 gennaio 2010, quando protestò mimando il gesto delle manette nei confronti di Tagliavento che aveva espulso Samuel e Cordoba. 

  «Sorrisi allora e sorrido adesso se ci ripenso. Al di là del motivo per cui fece quel gesto, ci vuole davvero una mente speciale come la sua per protestare in quel modo, a caldo. Geniale, davvero geniale». 

Al di là delle proteste con gli arbitri, passate e attuali, il portoghese a Roma non sta ottenendo grandi risultati. 

«All’inizio pensavo avesse una buona squadra, ma non una rosa completa per competere per il titolo e in effetti non mi sbagliavo. Adesso mi sembra che la squadra sia stata migliorata e può disputare una buona seconda parte di stagione. Per lui è una nuova avventura, in una piazza calda e non semplice: gli va dato tempo, ma farà bene».  

Convinto che vincerà qualcosa anche nella Capitale? 

«Secondo me sì. La sua carriera parla per lui: certo, gli va dato tempo di costruire, ma sulle sue capacità e sul fatto che sia un vincente non ho dubbi».  

Intanto è entrato nel cuore dei tifosi giallorossi. 

«Normale. E’ uno che si sa far voler bene, ma è anche bravo, serio e professionale. Conquista tutti perché non prende superficialmente l’incarico che gli viene affidato e dà tutto se stesso per ottenere i risultati che gli sono stati chiesti. O magari di più».  

Quindi i Friedkin hanno fatto bene a ingaggiarlo? 

«Hanno preso uno dei migliori in circolazione. E poi il suo ritorno è stato importante anche per il calcio italiano: un allenatore con la sua intelligenza, la sua presenza mediatica e le sue capacità professionali è un valore aggiunto per la Serie A».  

Qual è la dote migliore dello Special One? 

«Al di là della capacità di far giocare bene la squadra e di esaltare i talenti, come per esempio quello di Zaniolo, direi che è eccezionale nel creare un rapporto forte con il gruppo e nel capire sempre cosa deve dire».  

Ci racconta un episodio? 

«Nell’anno del triplete, nel derby di ritorno, all’intervallo vincevamo 1-0, ma era stato espulso Sneijder e vedevo del nervosismo in campo. Scesi negli spogliatoi per tranquillizzare i ragazzi e trovai tutti seduti che ascoltavano Mourinho: stava spiegando loro cosa dovevano fare per segnare il raddoppio e chiudere la partita anche in dieci. C’era massima calma e non volava una mosca. Altri tecnici per caricare la squadra avrebbero rincarato la dose contro l’arbitro e invece José parlò solo di tattica, con la freddezza di un timoniere che sa sempre come affrontare anche l’onda più difficile. Nella ripresa Pandev su punizione firmò il 2-0 e vincemmo. Cosa disse in conferenza stampa sull’arbitraggio invece non lo ricordo (ride di gusto, ndr)». 

Che match sarà Inter-Roma? 

«Difficile dirlo. I giallorossi arrivano dopo un pareggio interno contro il Genoa caratterizzato da molte polemiche; l’Inter dopo aver buttato via il derby in un modo che proprio non mi aspettavo, soprattutto alla luce di come si era messo l’incontro».  

Se fosse stato presidente cosa avrebbe fatto? 

«Lasciamo stare questi discorsi... Mi ha sorpreso il calo di ritmo che l’Inter ha avuto dopo 65-70 minuti e il Milan ne ha approfittato. I derby sono pericolosi per le squadre in vantaggio e stavolta la lezione è toccata a noi. Una sconfitta così può insegnare, ora però bisogna tornare subito a vincere perché in questo febbraio di gare toste ce ne sono diverse». 

Teme che il derby abbia minato le certezze del gruppo? 

«Non credo. La squadra c’è, è forte, ha bei giocatori e un ottimo allenatore. Inzaghi mi è sembrato molto veloce nell’inserirsi nel mondo nerazzurro ed è stato capace di dare un qualcosa in più a un gruppo che aveva vinto con Conte. Tutti pensavano che quell’Inter fosse arrivata al massimo e invece, senza Lukaku, Hakimi ed Eriksen, sta andando ancora meglio. Merito di Inzaghi che ha capacità notevoli. Ogni tanto può capitare qualche errore come è successo nel derby, ma mi sembra che stia andando molto meglio di quanto si aspettassero in tanti».  

Sembra un tifoso tranquillo e ottimista. 

«Lo sono e devono esserlo anche gli altri tifosi nerazzurri. Sono convinto che l’Inter farà un bel finale di stagione».  

  Resta la favorita per lo scudetto oppure... 

«Non parlo di favorite. Dico che può vincerlo, ma non sarà facile perché il Napoli mi sta impressionando molto. Ha un asse centrale molto forte e mi sembra che abbia superato bene il momento di difficoltà».  

Però lei alla seconda stella pensa. 

«Su quella maglia nerazzurra ci starebbe benissimo, ne sono convinto». 

Radja Nainggolan. Da ilnapolista.it il 15 aprile 2022.  

La Gazzetta intervista Radja Nainggolan che parla molto di Luciano Spalletti. Una volta Spalletti mi ha dato una bottigliata in testa. Avevo giocato un primo tempo da schifo contro il Toro. Eravamo tutti lì a guardarci le scarpe senza dire niente, con la testa china, poi lui arriva da me e… ‘stuck’. ‘Svegliati un po’’, mi disse, tirandomi l’acqua”. E giù a ridere. 

Ricorda che il 10 aprile è stato l’anniversario di Roma-Barcellona. Eravamo tutti convinti che ce l’avremmo fatta, tranne Manolas. Lui è pessimista di natura. ‘Cosa vinciamo? Ma dai…’. Ne parlava così. Kostas è molto credente tra l’altro. Non so quante volte al giorno si fa il segno della croce, ma poi l’ho visto esultare con quella faccia da matto. Siamo amici, lo sento spesso, quando ero a Napoli lo chiamavo e mi passava Spalletti”.

“Spalletti è un grande motivatore, vede il calcio in modo diverso rispetto agli altri. Domina il gioco, però poi magari vedi i risultati e noti che ha vinto meno di altri. Con lui ho disputato l’anno migliore, 2016-17: 14 gol e secondo posto con 87 punti”.

Matteo Pinci per “la Repubblica” il 4 febbraio 2022.

«L'Italia mi manca, i miei amici, i ristoranti, la gente». Fa una pausa, Radja Nainggolan, mentre lo dice. Da Anversa, la città dove è nato e dove è tornato a giocare, non ha dimenticato la Serie A: «Ma il livello è diverso: le piccole giocano a viso aperto perché sanno che c'è qualcosa da prendere ovunque. Anche a San Siro. Lì una volta trovavi Pirlo, Seedorf, Thiago Silva: se prendevi tre gol andavi via col sorriso». 

Nainggolan, si è mai sentito danneggiato dal suo stile di vita?

«Se uno fa tardi, beve, fuma una sigaretta, ai miei occhi non fa cose sbagliate. Poi il Nainggolan in campo rendeva facile accettare tutto: non mi sono mai preoccupato di cosa diceva la gente, tanti invece si nascondono. Di me si sa tutto perché esco, mi vedi nei locali. C'è chi beve più di me ma lo fa a casa e non lo sa nessuno». 

Crede che il moralismo le sia costato la nazionale?

«Un po' sì. Lì ci sono grandissimi giocatori ma la mentalità è completamente diversa. Poi spesso non conoscono bene la persona, si fidano di ciò che viene detto. Mi è mancato un Mondiale, ma dopo l'ultima esclusione ho detto basta». 

Intanto il Belgio aspetta ancora un grande trofeo.

«Se non arriva in Qatar, secondo me non arriva più. Agli Europei l'Italia era meno forte sulla carta, ma poi il blocco squadra era molto più solido. E quella è la base del calcio».

Questione di leadership: è ciò che manca alla sua Roma, oggi?

«Zaniolo è un grandissimo giocatore, ma quando la squadra non gioca bene contro le grandi, e negli ultimi anni di queste partite ne ha vinte poche, anche lui non fa la differenza. Noi di giocatori di personalità ne avevamo un'infinità: Dzeko, Totti, De Rossi, Strootman, Salah, Alisson. Il rimpianto è aver fatto il record di punti e non aver vinto nulla».

Lei però ha vinto uno scudetto, quello dello scorso anno con l'Inter.

«Sì, ma io non lo calcolo. Per me vincere uno scudetto conta solo se lo vinci da protagonista». 

A Milano è stato trattato male?

«Appena arrivato dissi che ero felice ma che era più forte la delusione di essere andato via da Roma. E già non ero partito bene. Dopo il rigore sbagliato con la Lazio in Coppa Italia mi hanno iniziato a fischiare, mi sono venuti dubbi, è crollata la fiducia». 

Ricordo anche degli audio un po' così: le solite fake news?

«No, no: ero io. Dicevo che volevo andar via, che volevo tornare perché non mi sentivo a mio agio. L'avevo mandato a un amico, ma sai Roma com' è, no? In un attimo lo avevano tutti. Dovevo saperlo, non sono stato molto intelligente, ma pazienza».

Poteva meritare più spazio?

«Se avessi avuto fiducia avrei potuto fare tranquillamente il mio in quella squadra. Conte è un grandissimo allenatore, ma con lui non ho avuto possibilità. Non abbiamo mai litigato, però: quando mi volevano mandar via, me lo hanno detto. E chi dice le cose in faccia lo apprezzo di più». 

Conte la voleva al Chelsea, no?

«Era il 2016, venne a Roma a parlarmi, mi disse "guarda, io voglio giocare così, così e mi servi tu". Già disse che voleva Lukaku. Ma pensavano guadagnassi meno: non avrei preso un euro di più, non era abbastanza per lasciare Roma». 

Mourinho a Roma è l'uomo giusto?

«Penso sia una grande persona, i suoi giocatori mi dicevano che sa conquistarti solo col parlare. E dice le cose dirette. A volte ha uscite che possono far male ai giocatori: alcuni li puoi massacrare se dici che non sono all'altezza. Con altri, come me, funziona». 

L'allenatore che le ha dato di più?

«Spalletti: con lui, ho fatto il miglior anno della mia carriera, a livello di squadra e individuale».

Ha visto la serie tv su Totti?

«Sì, e ho pensato: l'unico che assomiglia davvero è quello che interpreta me. Gli altri zero, anche l'allenatore. Di vero c'era che a Bergamo, prima della partita, Io Totti e Pjanic avevamo giocato fino a tardi. Ma non a carte, era un giochino sul computer. Però quella scena, con Spalletti che ci aspetta in corridoio è vera. Altre cose invece non le ricordavo». 

Ora può dircelo: tra Spalletti e Totti chi aveva ragione?

 «Sono neutrale. Totti non ha mai chiesto di giocare titolare, si sentiva preso in giro perché era il suo ultimo anno e giocava 5 minuti sul 2-0. Mi sentirei preso per il culo anche io. Ma non hanno mai litigato, o chissà cosa. Totti mi diceva che con lui aveva un rapporto splendido, si sentivano. Poi è finita, sì, ma il tecnico deve fare le sue scelte».

È rimasto deluso da come è andata con il Cagliari?

«Sento spesso Joao Pedro, Nandez, Pavoletti, mi dicono "dovevi essere qui". La società ha fatto altre scelte, ma se mi dici una cosa e non la rispetti, con me hai chiuso». 

Chi è il calciatore più forte con cui abbia giocato?

«Ho giocato con gente come Lukaku, Hazard, De Bruyne. Ma il massimo è stato giocare con due icone come Totti e De Rossi». 

È vero, come ha detto Evra, che in ogni club ci sono due gay?

«Mai avuto un compagno su cui avessi un dubbio. Ma è un mondo maschilista, sono tutti molto "macho". Sarebbe importante invece se una persona si potesse dichiarare sapendo di venire accettata senza problemi».

Josè Mourinho. Appunti di un tifoso. Josè Mourinho, il condottiero che sa vincere anche quando perde. Eraldo Affinati su Il Riformista il 12 Gennaio 2022.  

José Mário dos Santos Mourinho Félix, nato a Setùbal cinquantanove anni fa, uno degli allenatori di calcio più famosi del mondo, resta sempre un vincente, anche se perde, il che con l’A.S. Roma gli sta accadendo più spesso del solito, forse in quanto per lui i trofei, anche soltanto annunciati, secernono una sostanza vitale, ricavabile perfino dalla sconfitta: dopo le ultime clamorose e sonore batoste ricevute con il Milan e la Juve, abbiamo risentito il fragoroso colpo di gong di Bodo, la famigerata trasferta di Conference League, quando i capitolini incassarono sei leggendarie sberle dai semisconosciuti calciatori norvegesi.

Eppure anche domenica, a fine partita, il mister portoghese è uscito dagli spogliatoi con il piglio inconfondibile del conquistador. Questo è il suo credo, la poetica motivazionale che, sin dai tempi del Porto, ne guida e orienta le scelte.

Nell’esistenza bisogna andare avanti a testa alta fin dentro il baratro. Altrimenti non si spiegherebbe la ragione per cui quando deve comporre il puzzle, il tecnico lusitano, al di là degli schemi di gioco, privilegia le propulsioni atletiche e mentali. Molti romanisti stanno lì a scervellarsi su questioni per lui risibili: prendiamo Gonzalo Villar, centrocampista della Lupa e della nazionale giovanile spagnola, dal talento puro e cristallino, un tocco e via, diremmo noi, consapevole, a poco più di vent’anni, che il pallone a metà campo scotta come un carbone ardente. Indimenticabile ragazzo lanciato all’Olimpico lo scorso anno da Fonseca! Lo vedemmo districarsi come meglio non si poteva, impegnato a distribuire la sfera a destra e manca, perfino dettando ai compagni ammutoliti il passaggio strategico negli spazi vuoti: a quella verde età, segni di classe indubitabile e sopraffina.

Il campioncino di Murcia farà strada, proclamarono in tanti. Lo abbiamo rivisto anche di recente quando il nuovo allenatore è stato giocoforza costretto a metterlo dentro, considerato che non aveva altri sostituti. Stessa eleganza, medesime movenze, leggere e produttive. Bene: nelle interviste post-gara Mourinho non ha esitato, di fatto, a bocciarlo, sottolineando la sua innegabile bravura con il pallone, ma senza la diga difensiva che egli a tutti i costi pretende dai propri adepti nelle fasi di inerzia della partita, nella zona sporca e oscura dei tempi morti, fra un’interruzione e l’altra, dove, tanto per fare un nome, Bryan Cristante, uno dei pupilli, invece eccelle. Tranquillo, Villar, il futuro resta tuo. Nel mercato di gennaio, come sanno i bene informati, pare ti abbia cercato anche Simone Inzaghi, a capo dell’Inter capolista, ma con Mourinho, mettiti l’anima in pace, non farai la storia, dal momento che non corrispondi alla sua idea di calcio.

Per lui un pallone perso, come quelli sanguinosi che puntualmente, magari nel momento cruciale della costruzione dell’azione, continuano a sfuggire ai suoi giocatori (vedi Amadou Diawara, non a caso lasciato partire per la Coppa d’Africa senza versare troppe lacrime), resta inammissibile e conta, in negativo, assai più dell’assist andato a buon fine. Mourinho sogna una squadra composta da paladini disposti a combattere notte e giorno lungo tutto l’arco della partita, ecco perché domenica, contro ogni previsione, nella formazione iniziale aveva chiamato Felix Afena, il guizzante ghanese, al posto di Eldor Shomurodov, pagato a peso d’oro quest’estate. Con il giovane africano ha stretto un patto di sangue.

Il suo undici ideale non dovrebbe essere composto da semplici professionisti, baciati dalla sorte, capaci di sciogliersi come neve al sole alla prima difficoltà, bensì da uomini veri, consapevoli di essere presenze fantasmatiche, fortemente simboliche, attraverso le quali transita una parte dell’immaginario contemporaneo, non solo italiano: sapranno Dan e Ryan Friedkin, padre e figlio, presidenti americani della sempiterna Roma, garantire al condottiero di Setùbal tale auspicata compagine nel breve giro dei tre anni previsti dal ricco contratto firmato nel maggio scorso? È questa oggi la prima domanda del tifoso. Eraldo Affinati

Daniele De Rossi. Giulio De Santis per corriere.it il 17 gennaio 2022.

«Manuel “il matto” lo prende a pizze, pugni. Mi metto paura e scappo. Anche un’altra persona picchia Antonello Ieffi. Non mi ricordo se erano due o tre. Passano con Ieffi tutto pieno di sangue. Lo portano via. Per me era morto». 

È il pomeriggio di terrore rievocato da Tamara Pisnoli, 38 anni, ex moglie di Daniele De Rossi, vissuto nel suo appartamento all’ultimo piano del condominio in viale Copenaghen, all’Eur Torrino, il 17 luglio 2013. E che sia stato un pomeriggio di violenza e di sangue, lo ritiene anche la Procura.

A divergere tra la ricostruzione degli inquirenti e quella dell’ ex compagna della bandiera giallorossa è il ruolo svolto dalla donna. Secondo il pm, Pisnoli è l’istigatrice del pestaggio subito da Ieffi, costituitosi parte civile con l’avvocato Luigi Annunziata: lei avrebbe voluto avere 150 mila euro dall’imprenditore, inclusivi degli 84 mila spesi per l’acquisto della licenza di un impianto fotovoltaico, giudicato dalla 38enne un affare non redditizio.

Lui si oppone e gli viene spaccata la testa davanti a Pisnoli, difesa dall’avvocato Cesare Placanica. Diverso è il racconto (finora l’unico) di quelle drammatiche ore fatto dalla 38enne, come emerge nel verbale dell’interrogatorio di garanzia reso poche ore dopo l’arresto dell’1 dicembre 2014.

Ricorda Pisnoli: «Abbiamo avuto un incontro a casa mia, al piano di sopra. Stavamo con altre persone dalla parte della mia camera da letto, a sinistra, dove ci sono un terrazzo e un tavolino con due poltroncine. Eravamo seduti, prendendo un caffè. Aspettavamo Ieffi. Ho una casa a due piani. 

Suonano il citofono e salgono sopra. Ieffi e Manuel “il matto” (Manuel Severa, già condannato per questa storia in via definitiva a 7 anni di carcere, ndr). Iniziamo a parlare della licenza.

Ma “il matto” tira fuori un pezzo di carta, un bonifico. Si rivolge a Ieffi e gli dice: “Questo è il bonifico che hai fatto? È un falso” e lo prende a pizze, a pugni. Anche un’altra persona lo picchia, o forse erano due. Non ricordo. Sono scappata dalla mia camera perché si sentiva tutto. 

Piangevo. Ero scioccata, sotto c’era la donna di servizio. L’aggressione è durata un po’, forse cinque minuti, forse dieci. Sentivo le botte. Avevo paura che facessero qualcosa pure a me. C’era dentro un’altra persona, la pregavo di fermarli». Ed ecco il momento drammatico: «Passano poco dopo con Ieffi coperto di sangue, tutto pieno di sangue e lo portano via dalla porta di sopra».

Il racconto continua: «Gli dico: “Guarda che gli avete fatto”, chiamo l’ambulanza, sta male. Allora mi hanno impedito di chiamare la polizia. “Per me è morto”, gli dicevo. Ma loro: “Non ti preoccupare sta bene, non è morto, l’abbiamo solo menato”». Conclude Tamara: «Ringraziando Dio non mi manca niente, perché dovrei mettermi in mezzo a un guaio del genere?».

Sebino Nela. Stefano Boldrini per "il Messaggero" il 15 febbraio 2022.

Comincia così: «Interessa ancora ascoltare Sebino Nela?». Finisce in questo modo: due ore di chiacchierata, al tiepido sole di febbraio, all'aperto di un bar dell'Eur con vista sulla famosa «gruviera», il Palazzo della Civiltà del Lavoro, quello del «popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi». 

Magari un giorno aggiungeranno di «calciatori e allenatori», chissà. Sebino è tutto blu: giacca, pantaloni, cappello di lana, persino gli occhiali. Nela, prima domanda scontata: come va la salute?

«Bene, non posso lamentarmi. Nove anni di lotta con la malattia. Ora è tutto ok, ma non nascondo che quando devo fare i controlli, ogni cinque mesi, la settimana precedente non sono serenissimo. Il cancro, perché è questa la parola giusta, ti cambia la vita. Cambia le priorità e la percezione delle cose.

Taglia con un colpo di accetta tutto il futile, comprese quelle arrabbiature quotidiane per episodi irrilevanti. Io ho affrontato la malattia mettendo tutto me stesso: i miei punti di forza, le debolezze, aggrappato alla vita e agli affetti, ma nella consapevolezza che, spesso, essere forti contro un avversario durissimo come questo non basta». 

Due anni fa è arrivato un nuovo nemico, il Covid.

«E qui ci sono molte cose da dire. Una su tutte: la pandemia ha reso ancora più difficile la vita ai malati di cancro. Ha ritardato gli interventi e le diagnosi, ha provocato un maggior numero di morti perché la tempestività in questa malattia è fondamentale. I numeri parlano chiaro: 30 per certo di analisi mancate, aumento dei decessi, allarme per le prevenzioni. Per due anni si è parlato solo di Covid, ma la gente ha continuato a morire di cancro, di infarti e di altre patologie. La sanità italiana doveva fare di più».

Come si schiera sulla questione vaccino/No vax?

«Io ho fatto le tre dosi, credo nella scienza perché mi ha salvato la vita, ma mi chiamo fuori da questa rissa, soprattutto mediatica. Lo show sulle malattie non è accettabile. Una delle conseguenze peggiori è che, invece di fare informazione, si produce disinformazione. Alimentare l'ignoranza è una colpa grave. Io sono per il dialogo e il confronto: si parla con i talebani e non si riesce a mettere a confronto posizioni differenti sui vaccini?». 

I social?

«È un mondo che non conosco. Sono fuori da tutto». 

Nela come combatte l'ignoranza?

«Leggo: giornali, libri, riviste. Mi interessano la storia, la politica, i grandi fatti del mondo. Ho letto il Corano. Mi sono documentato sull'ebraismo. Dietro le peggiori guerre e atrocità della storia, c'è quasi sempre l'estremismo religioso. Aggiungo una considerazione: non mi piace l'attivismo politico di papa Francesco».

Nela è stato calciatore, opinionista sportivo e dirigente: a un passo dai 61 anni, quali sono ancora le aspirazioni?

«Mi piacerebbe occuparmi di calcio in modo serio, con un incarico di responsabilità nel quale mettere a disposizione il bagaglio di una vita. Sono passati diversi tram. Ho ricevuto diverse promesse: Sebino, sto pensando a te», e poi sparivano. Nel privato, mi piacerebbe visitare paesi dove non sono mai stato: Australia, Canada e soprattutto Nuova Zelanda. Amo il rugby, gli All Blacks e sono incuriosito dai maori». 

Dove non tornare?

«Negli Stati Uniti. Non mi piace la cultura di quel paese. Non mi piace l'arroganza di un popolo che si crede superiore e vuole dare lezioni di civiltà al resto del mondo». Il luogo migliore per vivere? «L'Europa, con le sue lacerazioni e le sue contraddizioni. Credo in un'Europa che abbia un senso per tutti e in cui i diritti nazionali abbiano maggior rilevanza. E poi naturalmente l'Italia, con le sue problematiche».

Nela arriva a Roma nel 1981 per giocare fino al 1992. Poi ci torna nel 1994, dopo aver chiuso con il Napoli.

«Non ho mai lasciato Roma. Sono arrivato in questa città 41 anni fa, ci ho costruito la mia vita affettiva e personale. Fa male vedere la sua bellezza millenaria degradata: colpa degli amministratori incapaci e dei cittadini incivili». 

Ha giocato nella Roma più bella e più vincente della storia: dal 1980 al 1986 uno scudetto, quattro coppe Italia, la finale di Coppa dei Campioni persa con il Liverpool.

«Eppure la sconfitta che fa più male è quella con il Lecce: una follia, contro una retrocessa e dopo essere passati in vantaggio. Il ko con il Liverpool fu duro da digerire perché fu un'occasione irripetibile: la finale di Champions in casa. Ma non ho mai odiato il Liverpool perché era una grande squadra e la città di Liverpool ricorda Genova. Noi sbagliammo molto: la preparazione, l'approccio, la tensione a mille. Il Liverpool si allenò al mare, in modo scanzonato». 

Quali furono le ragioni di quel ciclo della Roma?

«Un presidente illuminato, un ottimo allenatore, una squadra di grandi giocatori, un grandissimo capitano». 

Viola?

«Un fuoriclasse. Costruì nel tempo una squadra di alto livello, aggiungendo ogni anno una o due pedine importanti». 

Liedholm?

«Un allenatore con grandi intuizioni. Mi prese alla Roma dal Genoa appena promosso in serie A. Giocavo difensore centrale, ma disse subito che mi vedeva esterno. Aggiungo tre nomi. Di Marzio: mi insegnò quasi tutto. Simoni: un signore. Radice: bella persona. L'anno del Flaminio e del quinto posto fu una delle stagioni migliori». Di Bartolomei. «Un punto di riferimento. Lo stimavo tantissimo. E mi ha fatto piacere sapere che anche lui aveva affetto per il sottoscritto. Conservo ancora la dichiarazione di Marisa Di Bartolomei». 

Rapporti con gli ex di quell'epoca?

«Abbiamo una chat per tenere i contatti. Ogni tanto si organizzano cene». Tutti d'amore e d'accordo? «Mah, ci sono diversità di opinioni, come è naturale che sia. C'è chi si è speso più per gli altri e c'è invece chi ha pensato a se stesso». 

Talvolta, parlando con gli ex in generale, molti lamentano il fatto di essere stati dimenticati dai club.

«Non basta il curriculum da calciatore per ricoprire un ruolo in una società. Bisogna studiare. Io ho seguito tutti i corsi possibili». 

Il giudizio sulla Roma di Pallotta?

«A Roma sono passati fior di giocatori, ma sono stati rivenduti. La Roma avrebbe potuto vincere una Champions tenendo i migliori, ma quando vivi sull'import export, ottenere risultati è dura». 

La Roma dei Friedkin?

«Non parlano mai, ma questa è la loro strategia da quando sono arrivati. Si sono fidati e affidati alle straordinarie doti di un grandissimo comunicatore come Mourinho». 

La squadra da seguire in Italia?

«L'Atalanta. E' un esempio per le competenze sportive e per la gestione finanziaria del club».

Il calcio estero?

«L'intensità della Premier. La sostanza della Bundesliga. In parte la Liga, anche se ha perso colpi. La Ligue 1 non mi prende». 

Nela in poche parole?

«Un uomo libero che convive con le sue fragilità». 

Il vento in faccia, rilanciando il titolo del libro scritto da Nela con Giancarlo Dotto, è ancora forte?

«Il vento mi accompagna sempre. Qualche volta si placa, quasi un refolo. All'improvviso si rialza e mentre sale, ti aspetti la tempesta. È la mia vita».

«Il calcio, la pistola, la malattia La mia vita è come un film»... intervista a Sebino Nela. FEDERICO CENCI su il quotidiano del Sud il 10 Gennaio 2022.

In campo lo chiamavano Hulk: braccia e gambe possenti, forza esplosiva, generosità infinita. I tifosi della Roma fomentavano il suo agonismo cantando «picchia, Sebino!».

Ma c’è anche un altro Nela, fuori dal campo, una persona dalla vita intensa, spesso sfregiata dal destino «come quelle dei film». È la vita del «Sebastiano picchiato», come scrive il giornalista Giancarlo Dotto nell’introduzione del libro Il Vento In Faccia e La Tempesta Nel Cuore (ed. Piemme, 2021), che proprio Dotto ha realizzato insieme a Nela.

Alla soglia dei 60 anni, compiuti nel marzo scorso, Nela si è così messo a nudo, mostrando il volto privato dell’uomo Sebastiano dietro quello celebre del calciatore Sebino.

Com’è nata l’idea del libro?

«Da un’intervista che mi fece Dotto sul Corriere Dello Sport. La mattina stessa la Mondadori chiamò Dotto dicendogli che voleva che ne ricavassimo un libro. Lui me ne parlò, io ci pensai e ripensai. La decisione ufficiale la presi nel marzo 2020, il giorno prima del lockdown, durante un pranzo con Dotto a Testaccio».

Cosa rappresenta il vento in faccia?

«Sarebbe stato scontato come titolo Correndo Correndo, la canzone che mi ha dedicato Antonello Venditti. Così con la casa editrice abbiamo deciso di prendere spunto dalle mie origini: il vento in faccia è da molti considerato un ostacolo, ma per noi liguri è abitudine. Metaforicamente rappresenta le difficoltà della vita».

Nella sua ce ne sono state diverse, a cominciare dalla malattia.

«Da calciatore ho subito vari infortuni, ma la differenza è che il cancro è imprevedibile e può rivelarsi fatale. Questo aspetto mi ha provato molto. È stata un’esperienza dura, ho passato nottate intere in bagno a rimettere e ho fatto due anni e mezzo di chemioterapia».

Quale sensazione ha provato quando ha capito d’aver sconfitto il cancro?

«È stata una soddisfazione. Sono passati dieci anni dalla prima operazione e oggi faccio quello che facevo prima: mangio, bevo, fumo. Ma non è mai finita. Chi ha superato il cancro convive con la paura che possa tornare. Ogni cinque mesi devo fare degli esami e già due giorni prima inizio a essere nervoso. Si vive con la speranza».

Cosa ha imparato da questa esperienza?

«Noi maschi abbiamo un cattivo rapporto con i medici. Sbagliamo. Ho imparato che la prevenzione è fondamentale. Il mio consiglio è farsi controllare periodicamente».

Eppure nel libro scrive che la malattia non è stato il suo dolore più grande.

«È così. Nella vita ho dovuto prendere delle decisioni difficili. Non so se sono state giuste in senso assoluto, ma sono quelle che ritenevo più giuste in quel momento. Le esperienze negative servono anche per crescere».

Le è pure capitato di sparare un colpo di pistola.

«A quei tempi tra diversi calciatori c’era l’abitudine di portare con sé un’arma. A me è capitato di usarla. L’ho fatto per aiutare la mia ex moglie che aveva problemi di droga. Una sera mi sono trovato in una situazione delicata, sono stato minacciato e ho avuto questa reazione».

Successivamente ha avuto paura?

«Certo. Per un po’ di notti non ho dormito, mi aspettavo che gli agenti mi suonassero alla porta mettendo fine, di fatto, alla mia carriera di calciatore. Non è avvenuto, sono stato fortunato».

Ha detto che diversi calciatori giravano armati. Quanto è cambiato il calcio rispetto a quando giocava lei.

«Era un altro mondo. Noi vivevamo appieno il rapporto con la città, i tifosi, i giornalisti. Oggi i calciatori vivono blindati, nessuno può più avvicinarli nemmeno per un autografo. Nell’epoca dei social ogni piccola leggerezza può trasformarsi in un caso, quindi le stesse società sono più attente».

Eravate più spontanei e politicamente scorretti. Come quel dito medio che mostrò in faccia a un allenatore avversario.

«Quella fotografia è diventata famosa. C’entrava poco la Roma. Ero arrabbiato con questo allenatore, Jim McLean, perché aveva offeso l’Italia e gli italiani prima della semifinale di ritorno di Coppa Campioni tra la sua squadra, il Dundee, e la Roma. Il risultato ci diede ragione e lo aspettammo al varco».

Ai suoi tempi episodi del genere, di agonismo accentuato, capitavano più spesso?

«Ho iniziato a giocare a calcio in serie B col Genoa negli anni 70. All’epoca nei sottopassaggi degli stadi, soprattutto in provincia, ne succedevano di cotte e di crude. Per fare il calciatore dovevi essere pronto a tutto».

Lei lo era.

«Ci ho messo del mio. Sono stato lanciato in prima squadra da ragazzino, l’impatto è stato difficile, ma me la sono cavata».

Ci metteva del suo anche quando c’era da difendere qualche compagno di squadra.

«Ho avuto la fortuna di giocare con Genoa, Roma e Napoli. Non ho fatto altro che portare in campo il grande senso d’appartenenza di queste tre squadre. Per me un compagno era come un fratello: intervenivo per difenderlo, soprattutto quando era più giovane».

L’addio dalla Roma è stato uno dei suoi dolori più grandi, vero?

«Avrei voluto finire la carriera alla Roma. Ma purtroppo s’era creata una frattura nello spogliatoio».

Un doppio addio doloroso: nel 2020 c’è stato anche quello da dirigente dei giallorossi. Esclude il ritorno?

«Non credo ci sia possibilità, anche se noi ex calciatori potremmo essere una risorsa per le società per cui abbiamo giocato. Ovviamente dobbiamo studiare ed essere preparati: nulla ci è dovuto».

Che ricordo conserva dei due anni a Napoli?

«Bellissima esperienza, calcistica e umana. Città stupenda, pubblico che mi ha accolto meravigliosamente».

E il ritorno all’Olimpico contro la Roma da avversario?

«Non fu facile, ero teso per tutta la settimana. Così una volta il mio compagno di squadra Di Canio, sperando di rincuorarmi, dopo un gol corse in panchina ad abbracciarmi. A qualcuno non andò giù, ma non sapeva cosa avevo dentro quei giorni».

Crede che la sua vita potrebbe diventare un film?

«Pur avendo ricevuto proposte di fare l’attore, non ci avevo mai pensato. Ma perché no? La mia storia può essere uno spunto cinematografico».

IL NAPOLI.

Nino Materi per “il Giornale” il 22 novembre 2022.

La letterina di un bimbo di terza elementare. E il ricordo commosso di una figlia, ormai adulta: la figlia che ogni padre vorrebbe avere. Una letterina e un ricordo.

Sono rispettivamente la stazione di partenza e la stazione di arrivo del libro «Giuliano Giuliani, più solo di un portiere», scritto da Paolo Tomaselli, che racconta il viaggio di questo calciatore durato 38 anni, prima che l'Aids ne contagiasse l'esistenza condannandolo a una damnatio memoriae sportiva e umana di cui sono colpevoli in tanti, più del virus Hiv. 

Compreso chi avrebbero potuto - dovuto - sostenerlo e invece per opportunismo, meschinità, vigliaccheria ha scaricato Giuliano come un rifiuto. Lui, tra gli artefici dei trionfi del grande Napoli di Maradona. Eppure al suo funerale, tra i big che gli avevano fatto gol ai tempi d'oro della gloria, c'erano solo o Graziani e Altobelli.

Gli unici a rivendicare una vera amicizia in un universo popolato da falsi amici. Davanti alla bara di Giuliano, il deserto. Ex società ed ex compagni di squadra assenti ingiustificati. E ingiustificabili. La moglie Raffaella Del Rosario che poi si separò dal portiere rivelò già anni fa che il contagio del marito avvenne alla festa di addio al celibato di Diego in Argentina. Fa quindi ancora più male sapere che, quando Raffaella chiese aiuto a Maradona e Ferlaino per organizzare qualcosa per ricordare Giuliano, la risposta fu il silenzio. Giuliani chi? Mai conosciuto. 

Troppo imbarazzante quel «sieropositivo», quel «cocainomane», quello «spacciatore» (falsità accreditate da inchieste giudiziarie indecenti e campagne giornalistiche altrettanto indecorose). Uno spettro che faceva paura. Era l'epoca in cui il sieropositivo era l'«untore» e l'Aids la «peste del secolo». Questo nel consesso sociale, figuriamoci nell'ambiente del calcio ancora incatenato a una mentalità medioevale.

Giuliani non era un santo, ma non meritava ciò che ha subìto: drammi familiari, faide, incomprensioni, raggiri, tradimenti, inganni. Solo i tifosi di tutte le squadre dove ha giocato lo hanno sempre rispettato. Poi quella maledetta diagnosi, ulteriori infortuni, la voglia di rialzarsi e le tante porte sbattute in faccia che ti fanno ricadere a terra; infine la frase sussurrata a un amico nella tribuna dello stadio di Padova, pochi prima di morire: «Ho freddo...». 

E la luce che si spegne definitivamente il 14 novembre 1996 su un uomo perbene avvolto dal buio della maldicenza. La lista dei «colpevoli» lunga. Come quella della «cause» che hanno portato a un epilogo tanto crudele. Tomaselli le ha analizzate in 200 pagine con il piglio del documentarista ma anche con l'affetto di quell'ex scolaro (l'artefice della famosa letterina) che all'appello rispondeva proprio al nome di Paolo Tomaselli. 

«La maestra - racconta l'autore - ci disse: "Scrivete una letterina al vostro eroe". Il mio era Giuliani». Eccola dunque la stazione di partenza. Poche frasi, scritte nel 1987 dallo scolaro Tomaselli con la calligrafia tremante delle emozioni che fanno palpitare il cuore dei piccoli: «Caro Giuliani, sono un tuo ammiratore. Anch' io gioco a calcio e copro il tuo stesso ruolo, sarei felicissimo da grande di diventare bravo come te. Tanti saluti da Paolo».

E ora la stazione di arrivo, quella del ricordo della figlia di Giuliani, Gessica.

«Ho scoperto da sola la sua malattia, a diciotto anni, facendo una ricerca per il diploma al liceo linguistico internazionale - racconta nel libro -. Mi avevano sempre detto che era morto per un tumore ai polmoni. E conoscere la verità in quel modo è stato orrendo. In tanti mi hanno raccontato che verso la fine lui voleva stare solo con me, per cercare di vivermi il più possibile. Sentiva che non aveva più molto tempo e mi portava sempre con sé».

È un amarcord fatto di delicatezza e cartoline attaccate all'anima: «Ho il ricordo nitido della casa di Bologna, sulle colline. C'era questa mansarda gigantesca, unicamente per me, con tutti i giochi immaginabili. E poi c'era il cane Rudi, che cresceva al mio fianco. Alla sera non riuscivo ad addormentarmi senza avere la mano di mio padre nella mia. Avevo un bisogno fisico di quella stretta. Mi manca tantissimo. Ancora oggi non prendo sonno se non abbraccio un cuscino a forma di cuore. È il ricordo di lui che mi porto dentro, ancora adesso. Aveva delle mani bellissime». 

Non è mai troppo tardi per rimediare ai silenzi, alle piccinerie, del passato. Le ex squadre di Giuliano organizzino un «Memorial Giuliani». Glielo dobbiamo.

Sulla solitudine del portiere sono stati scritti grattacieli di pagine. Ma Giuliano, disperatamente, è rimasto più solo di un portiere. L'unica poesia, la sua, diventata tragedia.

Quando Ferlaino comprò Maradona senza avere i soldi. La surreale impresa del patron è rimasta incisa negli annali: la busta vuota depositata in Lega, il Banco di Napoli in soccorso e gli intellettuali in rivolta. Paolo Lazzari il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.

Si gratta quella nuca stempiata e lucida, scrutando il suo direttore generale quasi volesse cavarne l’anima. Antonio Juliano risposte non ne ha, però avanza supposizioni interessanti. Hanno appena telefonato al Barcellona per concordare un’amichevole. La cornetta è ancora calda. Quegli altri hanno risposto di sì, però poi c’è stata come una crepa conficcata tra le corde vocali. “Veniamo, ma Maradona sta male, non ci sarà”. Corrado Ferlaino adesso pare fissare il vuoto. È assorto, smarrito dentro a dedali di pensieri aggrovigliati. Poi si desta d’un tratto e la mano sbatte sul tavolo. “È una fesseria, hanno litigato!”, emette la sentenza.

È il secondo tempo di una folle rincorsa cominciata involontariamente qualche settimana prima. Il patron del Napoli si trova appollaiato in tribuna a Zurigo per assistere a Italia – Germania. All’intervallo il presidente federale, Sordillo, va lì a stuzzicarlo davanti ai giornalisti. “Ma tu che fai? Non compri mai nessuno ogni anno? Non ti rinforzi mai?”. E Ferlaino, tronfio: “Certo che sì, compro Maradona”. Grasse risate generali. A dire il vero sghignazza pure lui. Troppo impossibile per sembrare vero. Fino a quella telefonata.

Il dubbio che galoppa suggerisce di avanzare un’offerta. Troppo bassa: i catalani confessano di essere stati colti sul fatto, ma per il loro asso pretendono non meno di 13 miliardi delle vecchie lire. Cifra esorbitante per il tempo, sparata con la persuasione intima che il Napoli quei soldi non li pagherà mai. E infatti Ferlaino, i soldi non ce li ha. Anche se, a loro, dice che non c’è alcun problema.

Rotella del telefono che gira di nuovo in tondo, stavolta a comporre il numero di Enzo Scotti, il sindaco. Quello gli dice che il Comune ci può fare ben poco, ma che forse ha un altro numero di uno che fa al caso suo. L’allusione porta dritta alla bocca larga e all’occhio guizzante di Ferdinando Ventriglia, il presidente del Banco di Napoli. I due confabulano fitto. Ventriglia gli dice di andare a trovarlo. Nel frattempo Juliano tesse con il Barcellona: accettano un pagamento diluito in tre anni, ma pretendono una fideiussione bancaria. Quello che pareva un miraggio improvvisamente inizia a materializzarsi. Ventriglia la concede, dicendo a Ferlaino di andare a ritirarla di domenica mattina.

L'ultimo giorno utile

Quel giorno la notizia deflagra in ogni vicolo della città. I giornali si sollevano, assieme a stuoli di intellettuali, per rintuzzare aspramente la scelta di pagare così tanto un calciatore. Il peso dell’opinione pubblica potrebbe far saltare il banco. Qui entra però in scena la buona sorte che, sovente, accompagna l’audacia. Ventriglia quel giorno si alza soltanto a mezzogiorno e quando inizia a umettarsi l’indice con la punta della lingua per sfogliare i giornali sobbalza sulla poltrona. È troppo tardi però. Ferlaino è già passato di banca alle nove e adesso è in volo verso Barcellona con la fideiussione sventolante. Notizia che rischia di procurare un colpo apoplettico a Ventriglia che, narrano i bene informati, si lancia in un infruttuoso inseguimento per riprendersi il prezioso documento.

La politica, comunque, è tutta con Ferlaino: “All’epoca – ha recentemente ricordato – la Campania esprimeva i ministri ed i sottosegretari. Loro con me andavano d’accordo”. Dunque è fatta, o quasi. L’accordo con i catalani è inciso nella pietra, ma devono ancora essere espletate le procedure di rito in Lega Calcio. Ferlaino c’è andato l’ultimo giorno utile (siamo al 30 giugno), a margine di una trattativa infinita. Quando arriva a Milano non ha ancora i soldi in tasca. Tantomeno il contratto firmato da Maradona. Allora fa l’unica cosa pensabile per non sbriciolare il sogno: bluffa. In Lega deposita una busta vuota, poi corre verso un altro aereo. Fa firmare El pibe de Oro, quindi torna in Italia a notte fonda. Di nuovo Milano, di nuovo la Lega Calcio. A una guardia giurata dice di avere consegnato un documento sbagliato. Si fa incredibilmente aprire e scambia le buste. Touché.

La storia viene fuori in fretta, ma il calcio italiano pare rifiutarsi di crederci. Il 5 luglio 1984, circa un mese dopo la boutade di Zurigo, Ferlaino presenta Maradona al San Paolo. Pare un sogno lucido. La realtà sarà anche molto meglio di così. Lui ancora non può saperlo: si gratta la nuca di nuovo, sorridendo davanti alla marea del San Paolo con una bocca che pare Ventriglia. Stavolta il prurito è di felicità.

Da corriere.it il 17 ottobre 2022.

Victor Osimhen, autore del 3-2 decisivo nel match del Napoli contro il Bologna, è rientrato dopo un infortunio che lo ha tenuto ai box dal 7 settembre. Aveva giocato anche contro l’Ajax in Champions, mercoledì scorso. Entrato nel secondo tempo ha fatto gol, oltre al gesto di generosità nel cedere a Kvaratskhelia il tiro dal dischetto del rigore. «Spalletti — ha detto il nigeriano — mi ha dato la carica giusta quando sono entrato all’intervallo e per me è importante fare gol, ma la squadra va molto bene». 

La madre morta quando aveva 6 anni

Victor Osimhen prima di diventare un calciatore viveva a Lagos, in Nigeria, e faceva lavoretti per aiutare la sua famiglia a racimolare denaro. Vendeva acqua per strada e puliva le grondaie per pochissimi spiccioli. Un lavoro che ha ereditato dalla madre che è morta quando lui aveva sei anni. «Era l’unico modo per mangiare», raccontava in una intervista a France Football. 

Cercava le scarpette nelle discariche

Ultimo di sei figli, il calcio era sullo sfondo, le qualità pronte ad esplodere per sfuggire al destino della povertà, con il fratello Andrew giocava con i ragazzi più talentuosi della comunità locale. Victor cercava le scarpette da calcio nelle discariche di Lagos fino a quando una collaboratrice del suo agente Czajka lo ha condotto alla Ultimate Strikers Academy, la scuola calcio più famosa di Lagos. Di sera andava poi a scuola. 

Il significato del cognome: «Dio è buono»

«Dio è buono», questo significa Osimhen nel dialetto nativo di Ishan, gruppo etnico che popola alcune zone del sud della Nigeria. Se ci sia o meno la mano divina dietro al suo talento non si sa, quello che è certo è che per arrivare a conquistare il calcio europeo il percorso di Victor Osimhen è iniziato da lontano. 

La malaria e l’inizio di un incubo

Nel 2017 approda al Wolfsburg, si fa male alla spalla e contrae una forma di malaria. In Germania gioca 16 partite e non segna mai, il sogno sembra finito prima ancora di cominciare. Poi arriva la chiamata dello Charleroi: nella stagione 2018/2019 stordisce il calcio belga con 20 gol in 36 partite. Da lì in un attimo si ritrova al Lille, in Ligue 1: pagato 12 milioni di euro, segna 13 gol (con 5 assist) in 25 presenze nel massimo campionato francese. E poi ecco il Napoli. 

La ragazza con una gamba che trova sui social

«No pain, no gain» — «niente sofferenza, nessuna ricompensa» — si legge sulla maglietta di una donna che, con una gamba amputata, regge con la testa un bacile pieno di bottiglie d’acqua da vendere. Un’immagine vera, a suo modo cruda, che descrive una realtà ben conosciuta da Victor Osimhen. Tanto da colpirlo, riportarlo indietro negli anni, fargli rivivere esperienze chiuse in un cassetto da quando ha coronato il suo sogno. Osimhen (Napoli) ritrova su Instagram la ragazza che vende acqua dopo l’appello social. E le promette un futuro migliore. 

La musica hip hop e il brano «Seduto sul trono»

Oltre al calcio, Osimhen ama ascoltare la musica R&B contemporanea con il suo preferito «Credo di poter volare», hit track sand della star della musica R. Kelly. A volte, canta la canzone di Kelly a modo suo durante i festeggiamenti per i gol. Nell’area della musica locale nigeriana, Osimhen rimane fedele a Olamide, e il suo brano preferito dell’artista hip-hop nigeriano è «seduto sul trono». 

La fidanzata e la figlia appena nata

Osimhen è tra i pochi a curare in prima persona il suo profilo Instagram, senza l’ausilio di un social media manager. Spesso i contenuti sono, infatti, amatoriali e poco curati, ma molti ritengono che ciò sia dovuto proprio alla cura della propria privacy. Anche della fidanzata di Osimhen, ora diventata madre della piccola Hailey True Osimhen, si sa poco. Sia la fidanzata, conosciuta ai tempi del Lille, nata in Germania ma di origini africane, che il calciatore sono molto attenti alla privacy. 

La lotta al razzismo, l’appello ai genitori

Da sempre impegnato nella lotta al razzismo, Osimhen quando è arrivato in Italia e si è è presentato con la maglia del Napoli, ha confessato che uno dei timori era proprio il razzismo, poi però a Napoli si è sentito tranquillo e le sue paure sono scomparse. Più volte negli stadi viene preso di mira, a volte riesce a sorridere. Altre no. «Genitori parlate con i vostri figli, fate capire loro quanto sia disgustoso odiare un individuo per il colore della sua pelle», scrisse sui social dopo un episodio discriminatorio in campo.

Il rapporto con Raspadori: lo adoro sin dai tempi del Sassuolo

Dopo il gol al Bologna ha avuto belle parole per un suo compagno di squadra e in teoria suo competitor. Riferendosi a Raspadori, Osimhen ha detto: «Lo adoro. Non solo perché è un mio compagno di squadra, lo dicevo già quand’era al Sassuolo. É un bravissimo ragazzo e un top player, sono felice della sua crescita perché dà il suo contributo alla squadra e tra noi c’è gran solidarietà, un bel rapporto anche in campo».

Da repubblica.it il 3 ottobre 2022.

"Ciao Antonio". Inizia così il post che Ciro Ferrara indirizza ad Antonio Cassano. L'ex difensore del Napoli, campione d'Italia con la maglia azzurra nel 1987 e nel 1990, replica alle parole dell'ex giocatore della Roma, che nei giorni scorsi aveva definito degli "scappati di casa" i compagni di squadra con cui Maradona aveva portato il Napoli alla conquista del suo primo tricolore.

"Ciao Antonio - scrive Ferrara su Instagram - parli di cose che evidentemente non conosci bene, in una lingua che padroneggi ancora meno. Il 10 maggio 1987, mentre noi vincevamo il primo scudetto della storia del Napoli, tu non avevi ancora compiuto 5 anni e prendevi il biberon. Taci, che è meglio. Diego non avrebbe mai voluto nel suo spogliatoio un "fenomeno" come te. Firmato: nu scappat 'e casa". 

A Cassano ha risposto anche Beppe Bruscolotti, uno degli uomini simbolo di quel Napoli: "Se noi eravamo degli scappati di casa - ha detto l'ex capitano azzurro a Radio Marte -, lui è scappato dal manicomio! Non varrebbe nemmeno la pena di rispondergli. Stiamo parlando di nessuno. Un personaggio che non conosce il significato della parola "rispetto": ricordate cosa combinò a un signore come Fabio Capello che lo aveva portato al Real Madrid?

 Cassano ha perso l'ennesima occasione per stare zitto. Fossimo stati ancora calciatori, mi sarebbe piaciuto incontrarlo in campo. Uno contro l'altro. Marcatura stretta. Gli avrei riservato un trattamento molto speciale". A rispondere a Cassano, per primo, era stato Alessandro Renica con una battuta simile a quella di Bruscolotti. Una squadra intera contro Fantantonio.

R.S. per “il Mattino” l'11 ottobre 2022.

Un passo indietro. O quasi. Stasera durante il programma Le Iene (Italia 1, ore 21.20) Antonio Cassano, raggiunto su un campo di padel dall'inviato napoletano Peppe Quintale, chiederà indirettamente scusa agli ex calciatori del Napoli che vinsero il primo scudetto nell'87, definiti scappati di casa e poi scarsi. 

Al termine dell'intervista, dopo aver ascoltato alcuni messaggi recapitati dagli ex azzurri attraverso Quintale, Cassano ha detto: «Faccio un passo indietro, sono giocatori che mi piacciono meno di quelli che mi piacciono! E al Napoli che ha vinto lo scudetto con gli scappati di casa chapeau!».

La polemica era nata dopo le parole dell'ex calciatore della Roma e del Real Madrid nel programma Muschio Selvaggio. Esaltando Maradona, Cassano aveva detto: «Ha vinto con una squadra di scappati di casa».

Erano arrivate repliche molto dure, in particolare da Ciro Ferrara, che lo aveva invitato al silenzio. «Detto da lui è già abbastanza particolare, non parliamo di Freud!». E a questo punto Peppe Quintale aveva opportunamente chiesto cosa c'entrasse Freud. «Per quanto riguarda il taci io sto zitto solo ed esclusivamente se me lo dicono i miei figli e non Ciro Ferrara. Chi deve stare zitto è lui».

E non si capisce perché, visto che Ciro e gli altri suoi compagni erano stati chiamati in causa proprio da Cassano. «Posso dire che erano mediocri, scarsi? Diego ha fatto un miracolo. Bagni? Non mi risulta che nel Napoli giocassero Xavi, Iniesta, Pirlo... Giordano era fortissimo, Carnevale buon giocatore ma poi...». Carnevale, Renica e Bruscolotti, oltre al dirigente Marino, avevano inviato videomessaggi a Cassano.

Nel suo Renica aveva detto: «Tu hai vinto meno di tutti». E Carnevale: «Ti avrei preso per le orecchie. Uno come Cassano sarebbe durato tre giorni nello spogliatoio del Napoli». Cassano, prima di scusarsi con un gesto di buonsenso, aveva precisato: «Scappati di casa non è un'offesa, è un'opinione mia. Era una squadra mediocre in cui Diego ha fatto un miracolo. Io ne dico tante di caz...». Un passo indietro (o quasi) lo ha fatto alle Iene.

Cassano e il Napoli del primo scudetto: "Non tutti erano scappati di casa". I giocatori del 1987: "Tu con noi non avresti giocato". Giuseppe Antonio Perrelli su La Repubblica il 10 Ottobre 2022. 

"Le Iene" provano a chiudere la polemica nata dalle parole dell'ex giocatore barese. Andrea Carnevale: "Era una squadra fortissima". Pierpaolo Marino: "Presi i migliori sul mercato". Alla fine lui smorza i toni: "Posso definirli giocatori che mi piacciono meno di altri".

Eravamo rimasti a "mediocri, scarsi, scappati di casa".  Siamo arrivati a un decisamente più accettabile "sono giocatori che mi piacciono meno di quelli che mi piacciono". In mezzo una delle liti più inutili di sempre, che va a sporcare un angolo della memoria. Polemica innescata da Antonio Cassano che durante il podcast di Fedez "Il muschio selvaggio" aveva emesso la sua sentenza: "Maradona ha vinto il primo scudetto a Napoli, nel 1987, giocando a fianco a degli scappati di casa". Ciro Ferrara gli aveva risposto su Instagram, firmandosi orgogliosamente "Nu scappat' e casa": "Diego non avrebbe mai voluto nello spogliatoio un fenomeno come te". Molto più duro Alessandro Renica ("Quello che è scappato di casa è il tuo cervello! Irrecuperabile!") con cui, in un crescendo di botte e di risposte, è finita a minacce di querele. 

La risposta dei giocatori di quel Napoli

Renica è uno dei protagonisti della puntata di martedì 11 ottobre de "Le Iene" in cui Peppe Quintale, napoletano doc, ha cercato di mettere pace. L'ex libero di quel Napoli – autore del gol decisivo contro la Juventus nella semifinale della Coppa Uefa poi vinta contro lo Stoccarda –  questa volta ha argomentato: "La nostra era una squadra formidabile. Credo che dei giocatori scarsi non avrebbero mai potuto vincere un campionato. Quello che ha detto Cassano è molto offensivo ". Tanto offensivo da meritarsi un giudizio definitivo da Giuseppe Bruscolotti, capitano storico di quel Napoli: "Uno come Cassano sarebbe durato tre giorni nel nostro spogliatoio, la cosa importante era il rispetto fra tutti". Parole simili da Andrea Carnevale: "Lui con noi non avrebbe potuto giocare. Era una squadra di grandi campioni e di grandi uomini. Un Napoli fortissimo". E costruirlo non fu facile, ricorda l'uomo del mercato di allora, Pierpaolo Marino: "Per prendere alcuni di quei giocatori – dice l'attuale direttore dell'area tecnica dell'Udinese  – feci una fatica immane: erano i più richiesti sul mercato".

La mezza marcia indietro di Cassano

Insomma, fronte comune contro le parole di Cassano. Che però sempre Cassano è, anche davanti all'inviato de "Le Iene" in versione pacifista: "Erano giocatori mediocri, scarsi, si può dire questo? È un’opinione mia. Diego fece un miracolo". Prima piccola correzione: "Diego era un alieno, extraterrestre. Giordano, vero, fortissimo. Carnevale, buon giocatore. Gli altri erano mediocri o scarsi". Rispostaccia inevitabile a Ciro Ferrara. E conclusione con quanto di più conciliante possa pensare Cassano: "Faccio un passo indietro, sono giocatori che mi piacciono meno di quelli che mi piacciono. E al Napoli che ha vinto lo scudetto con gli scappati di casa, chapeau!". Sipario. Si spera per sempre.

Alessandro Renica, chi è il difensore del Napoli di Maradona: la droga, il dramma della figlia, la tv, Cassano. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022.

L’ex libero che ha giocato e vinto due scudetti con Diego, protagonista in questi giorni di una polemica a distanza con Cassano. La sua carriera tra Sampdoria, Verona, l’esperienza da allenatore. Cosa fa oggi

Il Napoli di Diego e la polemica con Cassano

È tornato alla ribalta per il piccato dialogo a distanza con Antonio Cassano. «Maradona ha vinto il primo scudetto a Napoli con una squadra di scappati di casa», ha detto Fantantonio per elogiare Diego. Parole che non sono piaciute a Alessandro Renica, 60 anni compiuti il 15 settembre, che di quel Napoli era il libero, un ruolo scomparso nel tempo. Difensore e regista, si potrebbe definire oggi, una colonna portante. Che ha mal digerito le frasi di Cassano: «A scappare è stato il tuo cervello», la prima replica. E poi ancora, botta e risposta: «Non so chi sia», dice Antonio, e Renica: «Verifico se è il caso di portarti in tribunale». Ma chi era l’ex difensore del Napoli? Andiamo con ordine.

Nato in Normandia

Partiamo dall’inizio, il papà di Isola della Scala (provincia di Verona) emigrato per motivi di lavoro nel nord della Francia. Per questo Renica nasce lì, a Anneville-sur-Mer, in Normandia. «A tre anni tornammo a Verona, alle Golosine dove i miei genitori aprirono un bar. Giocavo nella squadra del quartiere ed eravamo fortissimi. Infilavamo vittorie su vittorie». Il pallone, una calamita che lo attira. Inizia al Vicenza, poi arriva la chiamata della Sampdoria di Paolo Mantovani.

Alla Sampdoria di Mantovani

La prima esperienza importante è proprio a Genova. «La Sampdoria era neopromossa in serie A e coltivava ambizioni — ha raccontato in un’intervista al Corriere del Veneto —. Nel 1982 fui il primo acquisto dell’era Mantovani nella stessa estate in cui arrivò Roberto Mancini; due anni dopo arrivò anche Gianluca Vialli. Per noi giovani, Mantovani era come un padre, ti faceva star bene ed era sempre protettivo. Un vero gentiluomo». Con la Sampdoria vince una Coppa Italia, nel 1985. Poi il passaggio al Napoli.

Gli scudetti con Diego al Napoli

Al Napoli lo porta nel 1985 Italo Allodi. «Ero il regista difensivo e di solito verticalizzavo subito perché là davanti avevamo tre mostri: Maradona, Giordano e Carnevale. Poi Careca al posto di Giordano. Ho fatto qualche gol pesante; oltre ai due scudetti, abbiamo vinto la Coppa Uefa, allora una seconda Coppa dei Campioni. Eliminammo Juve e Bayern prima di battere in finale lo Stoccarda». Arrivano anche una Coppa Italia e una Supercoppa italiana, in una squadra che ancora oggi è ricordata a Napoli.

L’esperienza da allenatore

Negli ultimi anni di carriera Renica torna a casa, nella sua Verona, fino al ritiro nel 1993. Poi per qualche anno ha fatto l’allenatore, mai ad alti livelli. «Ho vinto un campionato col Trissino. Anche a me sarebbe piaciuto bruciare le tappe, ma sono convinto che un allenatore debba fare gavetta. Mi sono però reso conto che è un percorso spesso travagliato da situazioni che poco hanno a che fare col calcio», ha spiegato al Corriere del Veneto. L’ultima sua esperienza in panchina nel 2017, alla Grumellese.

Sfuggito alla droga

Renica ha dovuto superare diversi ostacoli. Fin da bambino, quando con la famiglia torna a Verona, zona Golosine dove i genitori aprono un bar. «Era in quegli anni un quartiere difficile. Tanti ce l’hanno fatta, ma tanti altri amici li ho visti perdersi nella trappola della droga, allora un flagello a Verona, tanto che la chiamavano la Bangkok d’Italia: io nel calcio e mio fratello Loris nel rugby, grazie allo sport ci siamo tenuti lontani da quei pericoli».

Il dramma della figlia e la telefonata di Maradona

Molto legato a Maradona, poco dopo la morte di Diego ha raccontato un aneddoto che riguarda la sua vita privata, di cui solitamente è gelosissimo. Più di preciso la nascita della figlia Federica, nel dicembre del 1996, e la sua gemella Veronica, che non superò il parto. «Qualche giorno dopo io nello sconforto più totale e pieno di tranquillanti ricevo una telefonata, l’unica — ha spiegato — non me ne vogliano i miei compagni, ma è pura verità». Era proprio Diego Armando Maradona, che a Renica «dice delle parole così belle che mi risollevano, mi danno forza e coraggio e speranza, visto che anche Federica era in pericolo di morte. Parole che sono scalfite nella mia mente e nel mio cuore —prosegue l’ex compagno di Maradona —. “Ale io da oggi in poi pregherò per tua figlia Federica tutti i giorni e vedrai che andrà tutto bene”. E come al solito il dio del calcio ha avuto ragione. Poi qualcuno si chiede perché lo amavamo. Diego non si tocca, non ci provate, non ve lo permetterò».

Cosa fa oggi

E oggi, cosa fa Renica? È ancora nel mondo del calcio, opinionista in tv. Tra le trasmissioni a cui partecipa di frequente «Il Bello del Calcio», su un canale locale napoletano. Poi è socio di un procuratore: «Cerchiamo giovani talenti e ne abbiamo già parecchi in scuderia — ha spiegato —. In estate collaboro con una scuola calcio a Feltre (Belluno), dove spiego ai ragazzi come si marca e come ci si smarca».

Raspadori: gol con l’Italia, la fidanzata, il Napoli, l’Università. Chi è. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 24 settembre 2022.

L’attaccante del Napoli ha deciso la sfida in Nations League tra Italia e Inghilterra con un gol di tecnica, potenza e coraggio. De Zerbi gli diceva: «Devi essere più cattivo», lui sta imparando. I suoi segreti

L’ora di Giacomo

Ha deciso Italia-Inghilterra con un gol bello e importante, un piccolo spettacolo di tecnica, potenza e coraggio. Giacomo Raspadori, da agosto attaccante del Napoli (già due reti tra campionato e Champions League) è oramai un protagonista anche in Nazionale: campione d’Europa con un ruolo di seconda fila ma non certo inutile, il ragazzo è il simbolo del nuovo che prova ad avanzare per dare ricambio e nuova linfa agli azzurri che puntano le finali di Nations League per cancellare l’amarezza Mondiale. La sua è una storia unica e anche rara: perché Giacomo, così moderno in campo, sembra venuto da un’altra epoca per la sua vita fuori da «ragazzo normale» tutto famiglia, studi e fidanzata. Una storia che vale la pena raccontare.

Gli Europei

La sua convocazione agli Europei poi vinti dall’Italia — dopo la prima convocazione in azzurro il 28 maggio per l’amichevole contro San Marino — è stata una delle grandi mosse a sorpresa del c.t. azzurro Roberto Mancini, che lo ha preferito a Moise Kean, nato 10 giorni dopo Raspadori, con più esperienza, ma dall’atteggiamento meno positivo. In quei giorni Giacomo disse: «Sono molto ambizioso, per me ogni obiettivo raggiunto è un punto di partenza, non di arrivo. E ogni giorno cerco di aggiungere qualcosa al mio bagaglio». Fa il suo esordio in azzurro il 4 giugno 2021 subentrando a Ciro Immobile nell’amichevole vinta per 4-0 contro la Repubblica Ceca a Bologna. Il 20 giugno debutta invece nell’Europeo, entrando in campo al posto di Bernardeschi nel secondo tempo della terza gara del girone, vinta 1-0 contro il Galles. Sarà la sua unica presenza all’Europeo. Ne seguono poi altre tre in azzurro con Bulgaria, Svizzera e Lituania nelle qualificazioni ai Mondiali 2022: nell’ultima, l’8 settembre, sua prima gara da titolare, realizza il suo primo gol in azzurro.

La carriera

Nato il 18 febbraio 2000 a Bentivoglio, paese in provincia di Bologna di quasi seimila abitanti, Raspadori è un prodotto del vivaio del Sassuolo (ha fatto la trafila delle giovanili assieme al fratello Enrico, oggi in Eccellenza) e con la Primavera nel 2017-2018 si è fatto notare con nove gol e sei assist (alla fine della stagione saranno 27 le partite giocate), attirando l’attenzione dell’allenatore dell’epoca, Beppe Iachini, che lo convoca in prima squadra per Chievo-Sassuolo del 4 marzo 2018, giornata poi rinviata per una delle più grandi tragedie del calcio italiano: la scomparsa di Davide Astori. Sta di fatto che Raspadori continua a fare grandi cose in Primavera così da spingere Roberto De Zerbi a tenerselo stretto tra i grandi e farlo debuttare in serie A l’11 luglio 2020 contro la Lazio. E Raspadori si fa conoscere al calcio italiano: gioca titolare e va subito in gol, ripetendosi poi il 29 luglio con il Genoa.

Tifoso dell’Inter

Nel 2010 Giacomo Raspadori aveva soltanto 10 anni ed esultò davanti alla televisione per i trionfi dell’Inter di José Mourinho, capace di compiere un’impresa mai compiuta da un’italiana centrando il Triplete. E festeggiando per le prodezze del suo idolo, Eto’o. Curiosamente, 11 anni dopo, lo scorso 21 aprile Raspadori, attaccante del Sassuolo e tifoso nerazzurro, ha dato un grande aiuto alla sua squadra con la doppietta a San Siro nel 2-1 contro il Milan. Subentrato dalla panchina, ha compromesso la rincorsa Champions del Diavolo ed esaudito un suo sogno da nerazzurro: segnare ai rossoneri. Proprio l’Inter sembrava interessata ad acquistarlo nell’estate 2021. Operazione poi saltata.

Come gioca

Raspadori è un attaccante completo, molto tecnico, rapido e potente coi suoi 172 centimetri e due quadricipiti da ciclismo su pista. È mancino di nascita diventato ambidestro grazie alla sua voglia di emulare il fratello maggiore. Raspadori è cresciuto appunto nel culto di Eto’o, ma studia il primo controllo del pallone di Aguero, le sterzate di Tevez e le giocate di cui era capace Di Natale. Al momento della sua convocazione agli Europei è stato battezzato come nuovo Rossi o nuovo Schillaci, mentre lui, dichiarandosi una specie di falso nove («Forse sono un falso nove, ma più che altro dal punto di vista tecnico e per caratteristiche fisiche. Però per tante altre cose mi sento un ‘nove’ classico»), si è di recente definito anche un mix fra Vialli e Mancini. Insomma, un attaccante «postmoderno», che contiene citazioni di tanti campioni ma che, attraverso questo mix, rappresenta un esemplare unico nel calcio italiano.

Il difetto

Il suo ex allenatore al Sassuolo, Roberto De Zerbi, glielo ha ripetuto spesso: «Gli ho detto che saremmo dovuti andare a rubare portafogli, per fargli capire che certe volte deve essere più malizioso: un attaccante deve sapere un attimo prima cosa sta accadendo. Giacomo è troppo “bravo ragazzo”, deve togliere la timidezza. Se migliora anche in questo può diventare il centravanti della Nazionale». A quanto pare sta accadendo.

Un bravo ragazzo

Giacomino, appunto, è così «bravo ragazzo» da sembrare uscito da una favola: zero tatuaggi, diplomato allo Scientifico (voto 79), cinque esami dati al primo anno di Scienze Motorie, fidanzato da cinque anni con Elisa conosciuta a Riccione sul campo di beach volley. Attenzione però a non fraintendere. «Io non ho paura», ripete spesso. Quella la lascia a mamma e nonna, che guardano le partite solo dopo averle registrate.

Napoli

La sua nuova avventura è al Napoli, dove è arrivato in agosto. Spalletti lo sta utilizzando come jolly, utile sia come centravanti che in appoggio a una punta, Osimhen o Simeone che sia. Per ora Raspadori ha risposto con due gol decisivi: quello che ha permesso agli azzurri di battere lo Spezia 1-0 al Maradona, arrivato a tempo praticamente scaduto, e poi in Champions, sul campo dei Glasgow Rangers. E siamo solo all’inizio.

Monica Scozzafava per il “Corriere della Sera” il 4 ottobre 2022.  

Giacomo Raspadori, 22 anni da Bentivoglio in provincia di Bologna, ha i capelli corti, tagliati dal barbiere tutte le settimane e pettinati senza gel. Ha il viso lentigginoso e gli occhi grandi. Una fidanzata molto graziosa di nome Elisa, acqua e sapone così come è lui. Esile, all'apparenza. Determinato nell'approccio. Incisivo in campo. Il segreto di mister 35 milioni (tanti il Napoli ne ha dati al Sassuolo per acquistarlo) è l'equilibrio, fisico e mentale, con cui resta in asse nella vita privata e in quella professionale.

 «Sono un ragazzo normale, umile, anche», è questo il manifesto dell'attaccante della Nazionale che è passato con naturalezza da bomber da metà classifica a protagonista di una squadra che guarda tutti dall'alto in serie A ed è prima nel girone di Champions. 

Jack non è stato catapultato al Luna Park, non soffre l'alta quota, né il saliscendi delle montagne russe. Fa effetto la sua normalità, che lui ha anche piacere a spiegare («è un modo di essere, che non c'entra nulla con l'esteriorità o l'estetica»).

Va detto che tatuaggi e orecchini non ne ha («semplicemente perché non mi piacciono»). Senza filtri: «Che male c'è a dire che simpatizzavo per l'Inter?». Non ce n'è, effettivamente. Questa naturalezza è il valore aggiunto. Come i due gol (quattro, compresi i due con la Nazionale). 

Raspadori, dal Sassuolo al Napoli. Scelta ragionata?

«Scelta ambiziosa. Voluta. Pensata e approvata anche dalla mia famiglia. Ringrazierò sempre il Sassuolo che ha capito la mia esigenza e l'ha assecondata. Il Napoli mi ha dato fiducia, tanta fiducia. Ed io ho sentito che avrei potuto ricambiarla. Paura mai, rispetto per il grande club dove approdavo sì. Mi sono sentito pronto».

Fino ad oggi lei poteva essere in campo e sbagliare, e alla sua età può ancora accadere. Napoli è una vetrina esigente.

«Ho 22 anni, nel calcio non sono pochi. Poter sbagliare e rialzarmi mi ha formato. Probabilmente se non avessi fatto questo percorso avrei avuto difficoltà. E da ragazzino ne ho avute di delusioni. Cadere e rialzarsi in una piazza che ti giudica, ma fino a un certo punto, mi ha aiutato, ha accelerato la crescita. Ecco perché ho sentito che il momento era arrivato».

Qualche collega, della sua stessa età, ha scelto la Premier. Ci ha mai pensato?

«La Premier è un sogno per tutti, chi fa calcio ama e ammira quel calcio. Poi nella vita ciascuno sceglie quello che vuole. Per me c'era il Napoli e basta. Quando sono arrivato ho avuto conferma di essere nel posto giusto nel momento giusto della mia vita».

Esordio in Champions con gol, è andato oltre.

«È successo quello che neanche in un sogno poteva accadere. L'emozione è stata fortissima, ma come tutte le cose l'ho gestita con equilibrio. Così come quando sono stato convocato in Nazionale e mi sono trovato, senza immaginarlo, a vivere l'avventura degli Europei. Adesso fa male non andare al Mondiale, ma davanti ho tempo e la fiducia di Mancini».

L'equilibrio è una caratteristica che lo scorso anno un po' è mancata al Napoli.

«Guardavo spesso le gare in tv, la squadra era forte. Ha fatto cose importanti, non scontate. Poteva anche andar meglio, vero. Ma forse è questa la crescita. Il Napoli è un gruppo, anche dal punto di vista umano, con valori alti. La sintonia ci fa rendere al meglio». 

Con Raspadori può essere quest' anno la volta buona?

«Siamo tanti nella zona alta della classifica, ed è presto per dire chi taglierà il traguardo. Milan, Inter, Roma, Atalanta e Juventus e noi che non ci poniamo limiti».

Sentite la pressione?

«Certo. Ma la pressione è un bene se gestita e noi abbiamo imparato a farlo. Questo ci fa scendere in campo determinati ma anche leggeri, sfrontati. La partita, anche quella con una posta in gioco molto alta, dev' essere occasione di divertimento. Così dai il massimo».

Jack il saggio, le va bene?

 «Non è saggezza. Soltanto visione. Alleno il fisico ma anche la mente. Lo studio e lo sport possono andare di pari passo. Un valore aggiunto l'uno per l'altro. Mi sono diplomato al liceo Scientifico e sono iscritto a Scienze motorie. La vita del calciatore non è lunghissima, dopo bisogna pur saper fare altro. Ed essere preparati». 

Per ora c'è il calcio, e un'altra eredità. Jack al posto di un'icona: Ciro Mertens.

«Un onore. Stimolante. Lui qui ha fatto il record. È stato un protagonista. L'ho conosciuto e mi ha fatto una grande impressione anche dal punto di vista umano. Persona intelligentissima».

Lei difetti ne ha?

«Devo migliorare nella fisicità, e ci sto lavorando, ma anche nell'incisività in zona gol». 

Spalletti è esigente in campo, a lei cosa chiede?

«Mi chiede di essere naturale. Fare le cose che so fare. Mi dà libertà, per me è la forma massima di fiducia».

Aguero, Di Natale, Paolo Rossi: idoli a cui viene di volta in volta associato. Lei chi guardava?

«Aguero e ci metto anche Rooney. Gli accostamenti fanno piacere ma per essere come loro ci vuole ancora tanto. Per ora provo a rubare qualcosa a ciascuno». 

Champions, lei e Simeone ancora in ballottaggio.

«La competizione è energia. Le gare sono lunghe e tutti e due possiamo incidere». 

Il segreto del Napoli è l'attacco, Osimhen compreso?

 «Le nostre prestazioni sono alte, con il contributo di tutti, ma un centrocampo con Anguissa, Lobotka e Zielinski fa tanta, tantissima differenza».

Spalletti: «Non ho fatto smettere io Totti. Avevamo un bel rapporto. Icardi? L’ha mandato via Conte». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 17 Agosto 2022.

Il tecnico del Napoli in un’intervista a Dazn parla di un gruppo WhatsApp con i calciatori, degli addii di Koulibaly e Insigne e di Totti: «Avrebbero potuto farlo continuare. Per me è stato fondamentale, ho tutte le sue maglie»

Luciano Spalletti si racconta. Lo fa senza nascondersi, toccando anche temi scomodi. Come il rapporto con Francesco Totti, che per molti si sarebbe ritirato per colpa sua: «Mi disturba quando dicono che l’ho fatto smettere perché non è assolutamente vero. Totti ha finito quando tutti sapevano che a fine anno avrei lasciato, per cui avrebbero potuto farlo continuare. Chi era presente sa tutto il bene che gli ho voluto». Nella storia dell’eterno capitano della Roma Spalletti è dipinto come il cattivo di turno, eppure l’allenatore nemico confessa che per lui Totti «è stato fondamentale per me, ho tutte le sue maglie — spiega in un’intervista a Dazn —. Per me è tutto chiaro quello che è successo, poi se si cambiano delle cose è chiaro che viene fuori un messaggio non corretto. In quella squadra c’erano giocatori importanti come Keita, Maicon, Strootman, De Rossi, se non avessi fatto la cosa giusta sarebbe stato difficile essere seguito, se avessi fatto un torto sarebbe stato impossibile arrivare 2° in classifica. Poi è chiaro che mi dispiaccia, con lui ho avuto un grandissimo rapporto».

Sulla serie tv dedicata all’ex 10 giallorosso, «Speravo de morì prima», Spalletti ammette: «La serie tv un po’ l’ho guardata, ne ho sentito parlare. Quello che trovo sbagliato è che aveva contenuti per farla su sé stesso la serie, invece l’ha fatta su di me, mi ha fatto diventare popolarissimo. Ci sono delle scene che se me l’avessero chiesto gliele avrei prestate volentieri, allora avrebbe fatto sicuramente un’esplosione di ascolti».

Spalletti, «l’allenatore che fa smettere i capitani», ricorda che «Icardi non è andato via con me ma con Conte. Insigne ho fatto di tutto per trattenerlo, ma aveva già fatto questa scelta con la sua famiglia». Sul suo Napoli, partito con una vittoria in campionato a Verona, il tecnico analizza i cambiamenti in rosa: «Quando si mette mano in maniera così drastica si ha bisogno di un po’ di tempo per far crescere altri leader. Noi qualcuno ce l’abbiamo: Di Lorenzo, Rrahmani, Anguissa. Osimhen deve diventare un punto di riferimento per noi». Quello che gli mancherà di più è Koulibaly, finito al Chelsea: «Una persona veramente straordinaria, oltre che un grandissimo campione. Entrava tutte le mattine nel mio ufficio a salutarmi, un abbraccio fatto di muscoli. Lui è il vero influencer, attirava tutti: Kalidou Koulibaly Comandante. Per me è come aver perso un collaboratore, lui in campo era un allenatore: voleva sempre attaccare, recuperare palla alta. Quest’anno sarebbe stato capitano, ma purtroppo ho perso due capitani in un colpo solo».

L’ambizione e il calore in città sono comunque forti: «i tifosi vogliono vincere. Ma per vincere il confronto si fa duro. Dal primo “buongiorno” capisci la passione che ha la gente. Mi fa arrabbiare soltanto quando non viene riconosciuto l’impegno dei ragazzi. Abbiamo una squadra di professionisti seri, li conosco bene e ho apprezzato fin dal ritiro che abbiamo già sviluppato le conoscenze dei nuovi arrivati, che sono ragazzi che meritano di vestire questa maglia».

C’è anche una chat Whatsapp tra Spalletti e i suoi giocatori: «Il gruppo si chiama “Sarò con Te”. Lo abbiamo usato quando sono stato costretto a rimanere a casa, come in occasione della trasferta in casa della Juventus. Tutti dicevano che quella partita andava rinviata perché avevamo tanti calciatori con il Covid, io gli ho trasferito quello che era il mio pensiero, ovvero che ce la facessero a giocare. Li avevo visti allenarsi in maniera seria e corretta, esprimendo il desiderio di giocarla».

Monica Scozzafava per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2022.  

Ci sta bene nel nuovo Napoli, Khvicha Kvaratskhelia (una fatica pronunciare il suo nome!). Destro naturale, allunga e allarga il campo. Sfrutta lo spazio con intelligenza e anche fisicità. Senza pressione e senza paura. Diremmo con personalità, ma la prima partita ufficiale con la maglia del Napoli a Verona, pur con gol e assist, non autorizza giudizi così netti. 

Tatticamente ancora un po' ingenuo (o forse soltanto spensierato) ma con temperamento: arriva dalla Georgia, dove la guerra ha imposto durezza e resistenza. Petto in fuori e testa alta, l'erede di Lorenzo Insigne sembra fatto apposta per il nuovo corso varato da Luciano Spalletti.

Forza e centimetri per una manovra offensiva con soluzioni diverse. Chi è questo ragazzo, appassionato anche di basket, che esulta mimando un bimbo che dorme come fa Steph Curry il suo idolo in Nba? É il Messi della Georgia (così lo chiama il compagno di Nazionale Zuriko Davitashvili), nonostante il piede preferito sia il destro. Lui però si ispira a Ronaldo e affinché sia chiaro il concetto ha scelto il numero di maglia 77, doppiando il numero del suo «campione».

Il costo del cartellino di un calciatore solitamente è un riferimento: Kvaratskhelia ha già dimostrato di valere più dei 10 milioni spesi dal Napoli per strapparlo alla concorrenza. Con buona pace di Aurelio De Laurentiis, anche lui come tutti con una dizione non precisa del suo cognome, che lo ha ribattezzato «Zizì».

Serve esercizio e non sarà più così difficile dire «Quarazkelia» (dovrebbe essere questa la pronuncia esatta, lo ha spiegato lui sui social), difficile resta sempre scriverlo. Kvaratskhelia vuol dire carbone («Kvara») ardente («tskhelia»). Il dizionario di italiano gli è già stato regatato da un tifoso napoletano («voglio imparare in fretta», ha detto il talento georgiano) mentre raccoglie complimenti da star. Gol, assist e anche un pronostico azzeccato a Osimhen nell'occasione del gol del centravanti. Di più non avrebbe osato chiedere, eppure a sentire Spalletti il meglio deve ancora venire: «Sa fare molto di più di quello che si è visto in campo».

Kvaratskhelia-Napoli: chi è il calciatore georgiano, come si pronuncia il cognome. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.

Khvicha Kvaratskhelia ha debuttato in serie A con un gol e un assist contro il Verona. De Laurentiis ha battuto Milan e Napoli: Zizì, il Messi di Georgia, è anche «veggente»

È già Kvara-mania

Pronti via ed è già Kvaratskhelia show al Napoli. Gol al Verona dopo soli 37’ di serie A per il georgiano e tante, molte iniziative da far impazzire i tifosi azzurri, già alla ricerca di un soprannome viste le difficoltà di pronunciare il suo nome. Il georgiano ha segnato di testa, non il suo colpo migliore, pareggiando la rete del vantaggio firmata da Lasagna. Ed è sempre di Khvicha Kvaratskhelia il pregevole assist, per il gol del 3-2 del Napoli, di Zielinski, che con un tocco morbido supera il portiere in uscita. Un impatto importante sul campionato, a soli 21 anni. Da predestinato. Anche se il suo allenatore Luciano Spalletti non si accontenta: «Kvara invece ha sentito troppo la partita, era teso, può fare molto meglio. Ha un po’ sofferto la marcatura a uomo dell’avversario e uno come lui dovrebbe essere bravissimo a divincolarsi».

Il cognome impronunciabile: carbone ardente (e la «V» suona «U»)

Kvaratskhelia è impronunciabile quasi per tutti. Ma lo zio Mamuka Kvaratskhelia ha svelato che si pronuncia «Cuaraschelia». Il suo cognome vuol dire carbone «Kvara» e ardente «tskhelia».

L’esultanza alla Curry

Da grande amante della Nba, quando ha segnato il gol del pareggio, Kvaratskhelia ha messo le mani giunte accanto alla guancia, mimando un bimbo che dorme, proprio come fa Steph Curry, play dei Golden State Warriors. Un modo di dire: dormite bene, qui ci pensiamo noi.

Figlio d’arte

Kvaratskhelia è nato il 12 febbraio 2001 a Tbilisi, la capitale della Georgia. È figlio d’arte: suo padre, Badri, ha giocato come attaccante in Azerbaijan e per la Nazionale azera nel 2000 dopo essere stato naturalizzato. Lui, invece, ha scelto di non cambiare e di giocare per la Georgia, allenata dall’ex terzino francese Willy Sagnol.

Il Messi di Georgia, oppure Zizì

In Georgia lo chiamano Kvara, abbreviando il cognome un po’ complicato da pronunciare. Uno dei suoi compagni di squadra, Zuriko Davitashvili, lo ha indicato come «il Messi di Georgia», nonostante il piede preferito sia il destro, mentre il suo nuovo presidente, Aurelio De Laurentiis, si rivolge a lui come «Zizì».

Messi? No, Cristiano Ronaldo

«Messi della Georgia» sì, ma il suo idolo è Cristiano Ronaldo. Tanto da scegliere la numero 77. Doppio 7, che è il numero simbolo della carriera del portoghese, sulle spalle.

In fuga dalla guerra russo-ucraina

La guerra lo ha spinto via dal Rubin Kazan, dove giocava prima dello scoppio del conflitto russo-ucraino. Le ostilità lo hanno indotto a chiedere il ritorno in patria ed è stato trovato un accordo con la Dinamo Batumi per un prestito fino al passaggio al Napoli.

Battuti Milan e Tottenham

Quello di Kvaratskhelia è un profilo osservato, in passato, anche dall’Udinese, dal Milan e dal Tottenham. Ma non se ne era fatto nulla. Nessuna delle due big ha poi mai dato l’affondo decisivo. Tanto che il Napoli, in un mercato senza mezze misure (e con tanti parametri zero, va detto), lo ha pagato soltanto 10 milioni di euro.

Il dizionario di italiano

Kvaratskhelia ha ricevuto in regalo, da un tifoso del Napoli a luglio, un dizionario di italiano. Il video fece il giro dei social. Il georgiano, inizialmente un po’ sorpreso, ha accettato questo regalo e ha ringraziato l’autore del dono.

La predizione

Gol di Lasagna, pareggio di Kvaratskhelia e raddoppio di Osimhen. Proprio il nigeriano a fine gara ha rivelato una curiosità: «Due minuti prima mi aveva detto che avrei segnato e così è stato», ha detto il centravanti del Napoli.

Ottavio Bianchi. Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica” il 9 agosto 2022.

Qualche tempo fa avevo letto Sopra il vulcano, che Ottavio Bianchi scrisse insieme alla figlia Camilla. E quel libro, che recava una bellissima prefazione di Gianni Mura, mi sembrò allora la più intensa manifestazione di affetto per il calcio e insieme la più pungente critica per le sue degenerazioni. Ho conosciuto Bianchi, ci siamo incontrati e ho visto in quest' uomo schivo i tratti della coerenza e della forza delle proprie convinzioni. Maturate in un'infanzia semplice vissuta in larga parte a Brescia. 

 Da qualche anno Bianchi vive a Bergamo. Gioca, quando può, a golf. Non disprezza la dieta del silenzio. Per lo più tace ma le poche volte che decide di parlare lo fa con rara schiettezza. Guardo il suo volto di un quasi ottantenne, non molto diverso da quello che aveva allenato Maradona. Mi colpisce la parola certa e l'incertezza del suo procedere. Mi dice che gli hanno impiantato di recente due protesi alle ginocchia. Operazione complicata, dolorosa e che richiede tempo per tornare a camminare bene. 

Cosa significa per un ex calciatore, poi allenatore, un corpo ferito?

«Conviverci, sapendo che le ferite sono la memoria dolorosa di un gioco bellissimo che ho avuto la fortuna di praticare dall'età di 13 anni cioè da quando, sui campetti degli oratori, ho cominciato a tirare i primi calci. Allora non c'erano scuole né istruttori. Se avevi talento potevi solo sperare che qualcuno se ne accorgesse». 

«Calcisticamente ero dotato. Di solito si giocava in tornei parrocchiali ed ero tra quelli più contesi. Passavo da un oratorio all'altro guadagnando i primi soldini. Mio padre desiderava che studiassi per un lavoro che desse prospettive. Io pensavo che ci fosse solo il calcio». 

Che famiglia era la sua?

«Semplice, le umili origini paterne non consentivano grandi voli o azzardi. Non ero certo che il calcio fosse, oltre al sogno, anche una professione praticabile. Da giovane cerchi di far coincidere le due cose. Ebbi la fortuna di essere notato e chiamato a 17 anni nelle giovanili del Brescia, la città dove sono nato».

Come ricorda la sua infanzia?

«Sinceramente non la ricordo, o meglio ricordo che tutto quanto mi riguardava ruotava intorno al pallone. Di solito si tende a dilatare la propria adolescenza. Ma credo di non averne avuta una plausibile. Il fatto che fossi bravo a pallone mi ha tolto il periodo della spensieratezza. Per me giocare a calcio è stato da subito come entrare nella vita vera: impegno, sudore, professione. Vincere o fallire». 

Tanta determinazione da dove le veniva?

«Credo dal carattere: schivo ma tenace. Un tempo una professione come la mia si misurava dal numero delle parole: se erano poche coglievano l'essenzialità di quello che facevi». 

E oggi?

«Non basterebbe un intero vocabolario. Il calcio parlato ha superato di gran lunga quello giocato».

Lei dunque esordisce nel Brescia.

«Nelle giovanili e poi in prima squadra».

In che ruolo?

«Iniziai come regista offensivo, avevo buona visione e controllo di palla. Ma accade qualcosa di imprevedibile.

Nella prima partita contro il Como mi ruppi un ginocchio.

Mi dissero che difficilmente avrei camminato come prima. Figuriamoci correre. Restai in cura per due anni. Fu un'esperienza durissima. Ma ricominciai a giocare. L'allenatore mi chiese se me la sentivo di fare il mediano. Divenni quello che aggrediva le caviglie dell'avversario».

Un cattivo.

«Diciamo un giocatore destinato a contrastare il gioco dell'altro». 

Dopo il Brescia?

«Andai al Napoli. Ero in predicato di lasciare il Brescia per l'Inter, quella di Helenio Herrera». 

Cosa lo impedì?

«Semplicemente arrivò il telegramma del Napoli. Allora le società di calcio esercitavano potere assoluto sui giocatori. E il presidente del Brescia aveva deciso destinazione Napoli». 

Era soddisfatto per la scelta?

«Ovviamente la chiamata all'Inter era il sogno di ogni giocatore. Ma anche al Napoli, che non aveva vinto niente, c'erano grandi giocatori: Zoff, Sìvori, Altafini per fare nomi che ancora oggi dicono qualcosa». 

Arriva quando?

«Nel 1965. Con il taxi, che mi portava alla sede, attraversai una città che stava vivendo uno dei tanti scioperi degli spazzini. Mondezza ovunque. Dissi al tassista di fermarsi. L'impulso era fare dietrofront e tornarmene a Brescia. Ma ero vincolato. Non avevo margini tranne quello di spuntare un contratto un po' più ricco. Dissi al tassista di proseguire. Giunsi in sede e dopo varie vicissitudini firmai il contratto».

Il presidente era Achille Lauro.

«Lui era presidente onorario. Quello effettivo era Roberto Fiore. Comunque Lauro mi volle conoscere». 

Che impressione le fece "il comandante"?

«Non c'era cosa che accadeva a Napoli senza il suo sì. Un monarca assoluto». 

Un re populista.

«Trattava il popolo napoletano come fosse una sua diretta emanazione. Circolavano le voci sulla distribuzione di pacchi pasta e di scarpe spaiate durante le elezioni. Comunque era un signore che incuteva rispetto. "Guagliò, mi hanno detto che tu si' uno tuosto e che ti sei fatto pagare assai". Gli risposi che mi ero fatto pagare per merito e certo non per altro. Fu così che cominciò la mia avventura al Napoli». 

Città dove sarebbe tornato da allenatore. Ma come la visse da calciatore?

«Quel primo anno fu funestato da vari infortuni. Mi ruppi l'altro ginocchio, mi venne una peritonite, restai fermo tutto il girone di ritorno. Premesso che i drammi veri sono altri, fu una botta tremenda. A quel punto la carriera era a rischio e dovevo reagire». 

In che modo?

«Dimostrando sul campo di non avere niente, anche quando stavo male. Mascherare certi malesseri e al tempo stesso avere una grande determinazione. La sola cosa che non volevo fare era piangermi addosso, pur consapevole che non ci fosse nessuna certezza sul mio futuro. Oltretutto mi ero sposato giovane e dovevo tenermi ogni cosa dentro. Non c'erano gli psicologi o come li chiamano oggi i mental coach». 

Accennava ai grandi giocatori che militavano nel Napoli di allora.

«Sìvori era il più talentoso. Sentiva talmente una partita che la sera prima in albergo non riusciva a dormire. Poi, prima di scendere in campo, aveva dei conati. Ma quando entrava, come un grande attore, si trasformava e la recita quasi sempre era superlativa». 

Anche lei sentiva la tensione della partita?

«No, la sera dormivo benissimo, per me il dramma era il dopo. Rivedevo mentalmente la partita cercando di capire dove si era sbagliato».

È sempre stato così autocritico?

«È un sentimento che mi sono portato dietro anche come allenatore». 

Da allenatore fa molta gavetta in provincia e poi ecco nuovamente il Napoli nel 1985. Qui vincerà uno scudetto, ne sfiorerà un altro. Bilancio lusinghiero. Una squadra fortissima che aveva al centro Maradona. Cosa è stato il rapporto con lui?

«Come sa, Diego è scomparso da un anno. Mi hanno spesso sollecitato a parlare di lui. Le poche volte che l'ho fatto è stato con discrezione per le vicende umane che l'hanno travolto, al di là del campione immenso che è stato». 

Il campione lo conosciamo.

«Ma lei non può immaginare cos' era vederlo in campo durante gli allenamenti. A parte l'abilità mostruosa, colpiva il rapporto con la squadra. Da star assoluta qual era, sapeva di aver bisogno dei compagni. Diego è stato uno splendido e generoso campione». 

Come uomo?

«Uno dei suoi grandi amici fu il suo preparatore Fernando Signorini. Lo sentii dire una grande cosa: con Diego io faccio il giro del mondo, con Maradona non riuscirei a fare il giro dell'isolato. Il Diego calciatore era la leggerezza, la musica inarrivabile; il Maradona uomo era soggetto a pressioni psicologiche inaudite. Ha pagato con gli interessi l'immensa notorietà che si era guadagnato sul campo». 

Come si gestisce un grande giocatore?

«Non lo so, ma so che deve avere intorno un ambiente che lo lasci maturare. Quanto all'allenatore, deve sapere che il grandissimo giocatore non si adatta alla tattica. È come con la musica jazz, c'è l'improvvisazione, quella cosa che non ti aspetti e che fa la differenza. Ho giocato contro i più forti calciatori: Pelè o Cruijff per fare dei nomi. Li ho dovuti braccare come fossero prede irraggiungibili.

Ricorrere ai mezzi umani che avevo per tentare di fermarli. Per loro il pallone era il prolungamento del piede. Il campo il loro Olimpo. E lì impari a tue spese che il grande giocatore non complica il gesto atletico. Rende il difficile semplice. Tutto quello che è bello nella vita è riconducibile alla semplicità». 

Come è cambiato il calcio rispetto a quando era lei a praticarlo?

«Basterebbe fare due conti. Un calciatore di fascia medio alta guadagna oggi intorno ai due milioni. Provi a chiedere a un imprenditore che ha 100 operai se riesce a realizzare alla fine dell'anno un utile di due milioni.

Un calciatore oggi è il centro di una costellazione opaca: avvocati, commercialisti, famiglie, procuratori, amici mettono in moto interessi e appetiti rilevanti. Un buon giocatore una volta, a fine carriera, metteva via due o tre appartamenti. Era la società che lo teneva sotto contratto, decidendo della sua vita professionale. Capisce che è impossibile un paragone con il calcio di oggi». 

C'è stata un'evoluzione?

«Culturalmente c'è stata la scuola danubiana, l'epopea del grande Brasile di Pelè, il pragmatismo della scuola italiana che ha vinto molto, quella olandese, che però non ha vinto niente. Adesso c'è il tiki taka che necessita di giocatori di grandissima intelligenza e fluidità. 

Quando giocavo o allenavo se qualcuno passava la palla al portiere veniva giù lo stadio per i fischi. Oggi il portiere partecipa direttamente al gioco. Oggi un grande allenatore dà alla società la lista della spesa. Quando allenavo io dovevo arrangiarmi. Più che di evoluzione parlerei di scenari differenti».

Di solito del calcio cogliamo la passione del tifo e la bellezza del gesto atletico. Quasi mai il dolore di certe storie.

«Vediamo solo quello che ci piace vedere. Per quei pochi che tra i professionisti ce la fanno, quante migliaia di calciatori ci sono che pur giocando benissimo si sono illusi di potercela fare? E cosa fanno una volta che si accorgono di finire come meteore? Spesso non hanno né arte né parte. Vivono il disagio fortissimo di far capire alle famiglie che hanno fallito e questo è l'inizio di una discesa tragica. Essendomi occupato delle giovanili ho vissuto molte di queste storie». 

Ha mai avuto la sensazione di non farcela?

«Nel letto di ospedale era una certezza. Per le ginocchia allora non c'era chirurgia, non c'era risonanza magnetica. Ti ingessavano e poi speravi nella palestra». 

L'Italia non va ai mondiali: tragedia o farsa?

«Sta diventando una farsa, sono due volte di seguito che non si qualifica. Sotto il profilo sportivo è una cosa inaudita». 

Nonostante l'europeo.

«Nonostante quello. Anche se a volte riusciamo a tirar fuori il famoso coniglio dal cilindro e stupire il mondo. Ma la verità è che il nostro calcio non è più di prima fascia. I grandissimi campioni vanno altrove». 

Vanno dove ci sono più soldi.

«Siamo sempre lì, al portafoglio. Se fossi un dirigente della federazione tremerei al pensiero di come si dovrebbe rifondare il mondo del pallone». 

Le manca il calcio?

«Ho iniziato presto e ho smesso presto. Dalla sera alla mattina si è chiusa una parte della mia vita. Senza nostalgie o ripensamenti. La verità è che mi ero preparato al dopo. C'è chi cade in depressione quando il telefono smette di squillare o i giornali non parlano più di te. A me per fortuna non è accaduto».

Da Chi il 3 agosto 2022.

Durante il ritiro del Napoli, il bomber Andrea Petagna si è infatuato di un’inviata di una trasmissione sportiva che seguiva la squadra. Ma il corteggiamento non è andato a buon fine, soprattutto perché Petagna ha scoperto che la ragazza aveva un flirt in corso con un alto dirigente della società. Il calciatore ha cancellato le prove e bloccato sui social la ragazza. Lei, però, ha raccontato tutto al fidanzato. Adesso Petagna è sul mercato: destinazione Monza. 

Da ilnapolista.it il 4 agosto 2022.  

"In passato gli americani mi hanno offerto 900 milioni per il Napoli, 2 miliardi insieme all'intero patrimonio di Filmauro. Ma non cedo, sono un tifoso e voglio ancora divertirmi". Parola di Aurelio De Laurentiis, intervenuto a Wall Street Italia per parlare dei problemi dell'Italia del calcio italiano e internazionale.

Tenendo la bussola sulle questioni pallonare, il presidente del club partenopeo ha argomentato: "Sono continuamente inseguito dai fondi, com'è accaduto a tante altre società. Io, però, non voglio ancora andare in pensione: voglio ancora divertirmi ed essere il dodicesimo uomo in campo. Non vendo perché sono un tifoso. Non ho mai giocato a Napoli, ma cerco di fare del mio meglio nel ruolo di presidente, prendendo scelte oneste e lungimiranti. Il direttore sportivo fa il mestiere che gli compete e l'allenatore il suo: tutto per il bene del Napoli".

Quindi, altre riflessioni: "Avevo detto no alla Superlega europea, ma solo perché era una competizione a invito e senza criterio. Penso che occorra estendere il concetto e che le prime sei squadri dei migliori 5 campionati europei debbano competere in un unico torneo internazionali. Invece si sono inventati la Conference League, competizione che proprio non comprendo. Il Qatar? E' lo stato che paga gli stipendi galattici del Psg perché continua a estrarre petrolio. E hanno quindi avuto il potere di spostare il Mondiale a novembre, rendendo difficilissima la vita ai club: quest'anno sarà come giocare due campionati. I calciatori africani? Non ne prendo più, a meno che non dichiarino di rinunciare alla Coppa d'Africa se mantenuta al centro della stagione sportiva e non alla fine". 

Elia Pagnoni per “il Giornale” il 4 agosto 2022.

Il mal d'Africa solitamente è una nostalgia struggente per quelle terre lontane e affascinanti, indimenticabili per chi ha avuto la fortuna di frequentarle. A Napoli invece è un mal di pancia che prende Aurelio De Laurentiis e che lo fa entrare in rotta di collisione con un suo grande ex come Kalidou Koulibaly. Il presidente, in un'intervista esuberante con Wall Street Italia, si abbandona a una frase forte: «Basta africani: o rinunciano a giocare la coppa d'Africa quando vengono da noi o non li possiamo più prendere. Paghiamo gli stipendi per mandarli a giocare per gli altri». 

Un «basta africani» che certamente non è una frase razzista per come può suonare, ma non può essere piaciuta a Koulibaly che proprio durante la presentazione nella sede del Chelsea, ha risposto a modo al suo ex presidente: «È il suo parere e lo rispetto come tale: dipende solo da lui decidere se ingaggiare o meno giocatori africani. Ma sono sicuro che a Napoli moltissimi non la pensano come lui: io giocavo per il Napoli ma ero anche capitano del Senegal. Sono sicuro che per il Napoli è stata dura quando noi siamo andati a giocare la coppa, ma serve rispetto anche per le nazionali africane».

Un De Laurentiis vulcanico come il suo Napoli in cui, in attesa di mettere alla porta gli africani, si mette sul mercato Petagna perché si era infatuato di un'inviata di una Tv, che però aveva già un flirt con un alto dirigente del club Un AdL che affronta anche i temi della politica, propone addirittura di cambiare la costituzione, auspica un improbabile compromesso storico tra il Pd e Fratelli d'Italia, si lancia nella fantapolitica («devono vincere loro due e mettersi d'accordo per richiamare Draghi come presidente del Consiglio») e fa campagna elettorale per la Meloni («sarebbe bello che l'Italia diventasse una repubblica presidenziale, dando il ruolo di presidente all'unica donna che fa politica costantemente da trent' anni»).

Il solito De Laurentiis onniscente che non tralascia ovviamente di impallinare i vertici del pallone, parlando delle coppe europee: «Sono tornei farlocchi, ma non ha senso nemmeno la superlega perché era una competizione a inviti.C'erano dei privilegiati che invitavano altri. Invece servono competizioni che si giochino durante la settimana tra i primi cinque campionati d'Europa». Insomma, la Super Lega non va bene perché sono gli altri a decidere chi deve partecipare, invece in questo caso lo decide lui e allora è un torneo che funziona. 

Sembrerà strano ma non appena il Napoli torna a respirare aria di Champions, il suo presidente si sente il diritto di dettare le formule per migliorare il sistema, partendo ovviamente dal presupposto che lui ne faccia parte. Perché parole sue «il mondo del calcio non si sa gestire e noi come cretini ci prestiamo a giocare cinquanta partite». Ma forse, se proprio vuole bacchettare i signori della Uefa e della Fifa, potrebbe farlo sul tema da cui è partito: più che scaricare gli africani sarebbe meglio chiedere di armonizzare le tempistiche dei tornei continentali.

De Laurentiis e il "no" agli africani, la Caf: "Dichiarazioni irresponsabili". La Repubblica il 7 Agosto 2022. 

La confederazione africana chiede l'intervento dell'Uefa dopo le parole del presidente del Napoli: "Va avviata un'indagine disciplinare nei suoi confronti"

Continuano a far rumore le parole di Aurelio De Laurentiis sui giocatori africani. "Basta africani, se non rinunciano a giocare la Coppa d'Africa. Noi paghiamo gli stipendi per mandarli in giro a giocare per gli altri" aveva detto il presidente del Napoli parlando a "Smart Talk", trasmissione di Wall Street Italia. Parole che non erano piaciute a Kalidou Koulibaly, senegalese che il Napoli ha ceduto da poche settimane al Chelsea ("Quando giocavo a Napoli, rappresentavo anche il Senegal. Vero che è stata dura per la squadra quando siamo andati in Coppa d'Africa, ma serve rispetto anche per le Nazionali africane. Come capitano del Senegal, penso non sia giusto parlare così di una nazionale africana") e neanche alla Caf, che oggi con una nota è tornata sulla vicenda. 

"Dichiarazioni irresponsabili, intervenga la Uefa"

La confederazione africana si è detta sconvolta per le affermazioni "irresponsabili e inaccettabili" del numero uno del Napoli chiedendo l'intervento della Uefa. "La Caf è sconcertata dalle dichiarazioni irresponsabili e inaccettabili del Presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, sui giocatori africani e sulla Coppa d'Africa - si legge nella nota -. Dichiarando pubblicamente che i giocatori che firmano per il Napoli devono firmare una rinuncia alla partecipazione alla Coppa d'Africa come condizione di impiego, le sue parole rischiano di rientrare nell'articolo 14 del Regolamento disciplinare Uefa. La Caf esorta pertanto la Uefa ad avviare un'indagine disciplinare nei suoi confronti. La Caf è impegnata nel ruolo che il calcio svolge in Africa, Europa, Nord e Sud America, Asia e nel mondo per unire persone di diverse culture, gruppi linguistici, razze, gruppi etnici e background religiosi. Non abbiamo dubbi sul fatto che il Napoli e la Uefa siano impegnati quanto la Caf a questi obiettivi umanitari globali. Dobbiamo presumere che il Presidente del Napoli includerà condizioni restrittive simili ai giocatori del Sud America, dell'Asia e di altre Confederazioni che vietano loro di giocare nelle loro competizioni continentali che sono importanti per lo sviluppo e la crescita del calcio a livello globale? La Coppa delle Nazioni Africane è la competizione di punta del continente africano e una delle principali competizioni calcistiche mondiali. La sua ultima edizione in Camerun è stata mostrata in più di 160 paesi e ha attirato più di 600 milioni di spettatori".

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 4 agosto 2022.  

Dice una cosa sacrosanta e lo accusano di mancanza di rispetto nei confronti dei calciatori africani. E Koulibaly, che ai tempi del caso Black Friday-Corriere era ancora ingenuamente convinto si trattasse della celebrazione di qualcosa legata alla schiavitù, ci mette il carico da undici.    

Aurelio De Laurentis non ha offeso gli africani, semmai li ha difesi: ma è sempre troppa e presente la tentazione di tuffarsi nella demagogia: il presidente del Napoli è stato chiaro quando ha dichiarato che non avrebbe più preso africani dal momento che a gennaio si perdono per oltre un mese (tralascio l'aspetto salariale), oltretutto col rischio di infortuni e altro. E per altro intendo le condizioni in cui molti rientrano: ricordo Gervinho ai tempi della Roma, per non dire dell’ultimo Barrow. 

De Laurentiis ne ha fatto solo una questione di date, non di etnia. Per anni le società hanno chiesto alla Fifa di armonizzare i calendari delle nazionali con quelle dei principali campionati, fornitori unici degli attori. Non a caso la coppa d’Africa era stata spostata alla fine dei tornei europei - metà giugno, inizio luglio, come la coppa America - per permettere ai club di non perderli durante la stagione. In seguito, per questioni puramente economiche e elettorali, la Fifa ha messo in crisi l’intero impianto: suggerendo un cambio epocale nella gestione del marketing della confederazione africana (CAF), ha portato un accordo con un operatore cinese, il quale ha imposto che l’evento si disputasse nel periodo più “appetibile” per il mercato del Paese asiatico. Gennaio, appunto.

Marek Hamsik compie 35 anni: i record a Napoli, l'auto del padre, i vini, Nadal, lo shopping...Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 27 luglio 2022.

Ha lasciato l'Italia nel 2019 per trasferirsi in Cina e dallo scorso anno gioca in Turchia con il Trabzonspor, ma «Marekiaro» è legatissimo all'Italia e ha le chiavi di Castel Volturno

Il compleanno

La cresta più famosa di Napoli compie 35 anni. Probabilmente un giorno Marek Hamsik tornerà nella città in è diventato grande, ma per ora ha ancora un anno di contratto con il Trabzonspor con cui, nella scorsa stagione, ha totalizzato 32 presenze con 2 gol e 4 assist. A Napoli ha trascorso 12 stagioni (dal 2007 al 2019), è diventato capitano e uno dei giocatori più amati dai tifosi, anche per tutti i record sbriciolati in maglia azzurra...

I record a Napoli

Con 409 presenze in Serie A (e 100 gol e 82 assist), Hamsik è il sesto straniero che ha giocato di più nel campionato italiano. Ma è anche il giocatore del Napoli con più presenze totali (520, superato Bruscolotti a 511) e il giocatore del Napoli con più presenze in Serie A (408, perché, due anni prima di arrivare in terra campana aveva esordito in Serie A con la maglia del Brescia, entrato a metà della ripresa contro il Chievo). Terzo slovacco a giocare in Serie A (dopo Glonek e Gresko), è anche il calciatore del Napoli con più presenze in competizioni Uefa (80). E nel 2010 (a 22 anni e 229 giorni) è diventato anche il capitano più giovane nella storia del Napoli.

Questioni di famiglia

Il suo legame con la città è talmente profondo che la sorella Michaela è sposata con Walter Gargano, difensore uruguaiano con cui ha condiviso sei stagioni a Napoli. Hamsik è sposato dal 4 luglio 2014 con Martina Franová con cui ha avuto tre figli: Christian (12 anni), Lucas (10) e Melissa (5).

La cittadinanza onoraria

Oltre al soprannome “Marekiaro”, un gioco di parole tra il suo nome Marek e il borgo nel quartiere Posillipo di Napoli che si chiama proprio Marechiaro, Hamsik dal 2018 è anche cittadino onorario di Castel Volturno, comune in provincia di Caserta dove il Napoli si allena e dove il calciatore ha comprato casa e viveva. Cittadinanza che arrivò dopo quella di Taurano, un piccolo paese in provincia di Avellino.

L'auto del papà per il cartellino

Sempre supportato dai genitori, all’inizio della carriera tutta la famiglia dovette fare diversi sacrifici per permettergli di realizzare il suo sogno. Hamsik è cresciuto nella scuola calcio dello Jupie Podlavice di Banská Bystrica, la sua città natale. A 15 anni, per svincolarsi e firmare il primo contratto da professionista con lo Slovan Bratislava, viste le difficoltà economiche del club della capitale, dovette intervenire il papà Richard che vendette l’auto (una Skoda Felicia) e chiese un prestito per pagare le 125mila corone slovacche (poco più di 4mila euro) richieste dallo Jupie.

La passione per i vini

Gli anni a Napoli sono serviti anche per scoprire e approfondire una passione: il vino. E così nel 2018, l'anno in cui lo slovacco ha lasciato Napoli per trasferirsi in Cina (poi andrà in Svezia e ora è in Turchia), ha fondato Hamsik winery, la sua etichetta vinicola. Lo slovacco era stato conquistato dal Prosecco e la sua azienda lo esporta partendo dai mercati della Slovacchia e della Repubblica Ceca. Tra i suoi vini, il Valdobbiadene Superiore di Cartizze, il Prosecco Treviso e alcuni monovarietali come Chardonnay, Sauvignon, Pinot Grigio, Merlot e Cabernet. Ma anche alcune etichette di vino slovacco che completano la sua cantina.

L’idolo Nadal

Non solo vino. Se Marek Hamsik non avesse fatto il calciatore, magari avrebbe fatto il tennista. «Se non avessi fatto il calciatore — disse in un'intervista durante un ritiro pre-campionato — mi sarebbe piaciuto molto giocare a tennis. Il mio idolo è Nadal».

La dieta

Quando, nel 2016, gli chiesero quale fosse il segreto del suo rendimento così costante e sempre di alto livello, lo slovacco raccontò di come avesse cambiato radicalmente il suo regime alimentare: «Ho smesso di bere la Coca-Cola — disse dal ritiro della Nazionale prima di una gara di qualificazioni al Mondiale 2018 — e adesso mangio soltanto verdure e cose del genere, cibi leggeri».

Shopping, che tentazione

«Sono un malato di shopping — raccontò in un'altra intervista — e quindi ho tantissimi vestiti nel mio guardaroba». Gli si chiedeva quale fosse il suo outfit preferito: «Una maglietta, dei pantaloni comodi e delle scarpe mi fanno stare bene. Mi piacciono in particolare le maglie lunghe e larghe. Sono quelle che indosso con più piacere».

La cura della cresta

Il suo marchio di fabbrica è senz'altro la cresta. Quando arrivò a Napoli era un ragazzino capellone, poi virò per quella pettinatura così identificativa: «Ci tengo molto ai miei capelli, lo ammetto, ma in realtà uso shampoo che si trovano facilmente al supermercato. Dal parrucchiere invece vado ogni 10 giorni. Diciamo che mi curo tanto!».

Una notte da leoni

Nel tempo libero gli piace guardare qualche film. «Il film che preferisco in assoluto è Una notte da leoni. Anche i sequel mi piacciono tantissimo, perché non smetto mai di ridere!». 

Da corrieredellosport.it il 16 maggio 2022.

"Grazie a tutti voi, grazie alla città nella quale ho gioito, sofferto e anche litigato qualche volta. Ma lo abbiamo fatto sempre insieme". Inizia così la lettera con cui Lorenzo Insigne si è rivolto ai sostenitori azzurri alla sua ultima partita al "Maradona" - in Napoli-Genoa - prima di intraprendere, tra qualche settimana, l'avventura in Mls col Toronto Fc.

La lettera di Insigne ai tifosi del Napoli: "Mi mancherete, vi porterò sempre con me"

Il numero 24, emozionatissimo davanti ai cinquantamila tifosi accorsi allo stadio di Fuorigrotta per rendergli omaggio, ha proseguito: "Ogni addio lascia un po' di amaro in bocca e so che mi mancherete. Ma i momenti indimenticabili che ho vissuto con voi li porterò per sempre con me". Insigne è stato accolto sul terreno di gioco, prima dell'inizio della gara con il Genoa, dai compagni di squadra, dall'allenatore Luciano Spalletti e dal presidente Aurelio De Laurentiis, al quale i tifosi hanno indirizzato una sonora bordata di fischi. 

Solo applausi e cori d'incitamento invece per Insigne che era accompagnato sul campo dalla moglie e dai due figli. Mertens gli ha consegnato una maglietta speciale con il numero 24 e Koulibaly un quadro interattivo sul quale potrà rivedere tutti i più importanti momenti vissuti nel Napoli, a conclusione di una lunghissima esperienza, con 433 partite giocate. In curva B è stato esposto uno striscione con la scritta: "La tua maglia più di tutte pesava perché era di chi veramente l'amava. Tu l'hai indossata con estro, orgoglio e dignità del fiero figlio di questa città".

«Grazie a una città che mi ha dato tanto. Abbiamo gioito e sofferto, a volte litigato, ma sempre insieme, come una grande famiglia. Stare a Napoli è stata una meravigliosa esperienza, ma anche una grossa responsabilità che ho accettato con fierezza». Inizia così la lettera letta da Lorenzo Insigne prima della sua ultima partita al 'Maradona' contro il Genoa. Il numero 24 ha poi proseguito e terminato: «Lasciare Napoli significa lasciare casa, mi mancherete sempre. Abbiamo collezionato momenti indimenticabili, ho sempre dato tutto ciò che avevo. Grazie di cuore, forza Napoli sempre».

Lorenzo Vendemiale per ilfattoquotidiano.it il 16 maggio 2022.  

Non è un campione, non lo è mai stato. Non è una bandiera, ha scelto anche lui di non esserlo. Assurdi i paragoni con i vari Francesco Totti, Alessandro Del Piero, Paolo Maldini, Diego Armando Maradona non citiamolo neanche. Allora perché tutta questa prosopopea per l’addio di Lorenzo Insigne? È comunque un figlio di Napoli, che se ne va da casa dopo aver giocato per dieci anni per la squadra della sua città. E meritava di essere salutato. 

Napoli-Genoa è stata l’ultima volta di Insigne al Maradona con la maglia azzurra. Vissuta prima e dopo la gara con un trasporto esagerato. Con un pizzico di cinismo e cattiveria, si potrebbe dire che quelle del calciatore sono le classiche lacrime di coccodrillo: è stato lui a firmare il contratto faraonico col Toronto che lo porterà via dalla sua terra. Che, allo stesso modo, i tifosi che oggi lo osannano sono gli stessi che in tutti questi anni non gli hanno risparmiato fischi e critiche, spesso ingenerose.

E che il bacio di De Laurentiis sa un po’ di Giuda, considerato che il presidente non ha fatto nulla per trattenerlo, anzi, lo ha accompagnato verso la porta, e magari gliela sbatterà dietro con il contenzioso per quel vecchio ammutinamento del 2019 mai perdonato. Ma nonostante tutte queste contraddizioni, è giusto credere che ci sia anche qualcosa di sincero in quest’addio così esasperato. 

La carriera di Insigne – al Napoli e non solo, ma soprattutto al Napoli visto che gioca lì da sempre – è stata segnata da un grande equivoco: lo abbiamo sempre trattato come un campione e un simbolo, ma lui sicuramente non era il primo, e a questo punto possiamo concludere che non è stato nemmeno il secondo. Lorenzo Insigne è stato un ottimo giocatore, i numeri (433 partite, 122 gol, innumerevoli assist) parlano per lui. Però non è riuscito a fare il salto di qualità definitivo, né a livello tattico, né tecnico, e nemmeno mentale.

Forgiato da Zeman da ragazzino, non ha più variato il suo modo di giocare, inchiodato a quella mattonella di campo da cui da quasi un decennio fa il bello e il cattivo tempo: “o a tir a gir”, l’assist sul secondo palo, anche tanta corsa e qualche raddoppio, ma sempre lo stesso copione. Recitato a volte alla perfezione, di recente meno bene, un po’ schiavo del suo personaggio. Un giocatore monodimensionale, con indubbio talento, ma senza quei colpi che gli permettessero di fare sempre la stessa cosa senza risultare alla lunga prevedibile.

E diciamolo, anche senza la personalità che deve avere un campione e un capitano: il suo palmares si riduce a un Europeo ma non da protagonista, quasi mai decisivo nelle partite decisive. Resta il miglior numero 10 italiano dell’ultimo decennio, ma questo la dice lunga più sul nostro calcio che su di lui. 

Arrivato alle porte dei 30 anni, si è ritrovato a un bivio: rimanere in una piazza dove forse non era così benvenuto, in un calcio dove non fa più la differenza ad altissimo livello; oppure andare a prendersi 50 milioni di euro (in cinque stagione) in Canada, un contratto che davvero gli svolterà la carriera molto più di quanto fatto in campo. La scelta era scontata.

E anche quella del Napoli, per cui Insigne era diventato più un peso che una risorsa (non solo a livello contrattuale): un giocatore troppo condizionante in campo, e che se si lascia fuori rischia di essere un problema. Certo, le bandiere non ragionano e non si trattano così, ma nel calcio moderno forse semplicemente non esistono più. 

È alla luce di questo che dobbiamo vedere il suo addio, e tutto risulterà più comprensibile, e anche più credibile. Sgombrato il campo dagli equivoci, resta il fatto che Insigne è stato un napoletano che ha giocato per il Napoli, e con tutti i limiti suoi e della piazza, ha sempre onorato la maglia, che per lui pesava più che per chiunque altro.

C’è stato impegno, passione, qualche gioia, tante speranze, non tutte mantenute: una bella storia di calcio. Quest’addio, in questa maniera, è la cosa migliore per tutti: per Insigne, che va a guadagnare in Canada; per il Napoli, che può voltare pagina; anche per i tifosi, che gli hanno tributato il giusto omaggio, purché non si esageri. Solo applausi. E poi ognuno per la sua strada.

Garella, che fine ha fatto: le garellate, l’autoradio, Toto Cutugno, l’Avvocato Agnelli, Maradona, le delusioni dal calcio. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2022.

L’ex portiere che il 16 maggio compie 67 anni — e che ha vinto anche due scudetti con Verona (1985) e Napoli (1987) — era tanto criticato per lo stile poco elegante negli interventi quanto apprezzato per la sua efficacia. Resta un’icona della grande serie A degli anni 80

Garella, un ‘icona degli anni 80

Ricordato tanto per i suoi errori quanto per le sue parate e i suoi successi, Claudio Garella è sempre stato oggetto di lunghe discussioni nei bar sportivi. L’ex portiere che oggi 16 maggio compie 67 anni — e che ha giocato dal 1972 al 1991, vincendo anche due scudetti con Verona (1985) e Napoli (1987) — era tanto criticato per lo stile poco elegante negli interventi quanto apprezzato per la sua efficacia. Nessuno dei portieri moderni somiglia né può essere paragonato a lui: molti commentatori hanno fatto ironia sulle sue prestazioni, ma tanti tifosi lo hanno identificato come un idolo, anche per i successi ottenuti in piazze che fino a quel momento non avevano mai messo in bacheca trofei significativi. Indimenticabile anche l’aneddoto dell’autoradio, che portava sottobraccio ascoltando, e cantando Toto Cotugno.

«Paperella» e le «garellate»

Nato a Torino nel 1955 e cresciuto nelle giovanili granata, l’esordio in prima squadra arriva nella stagione 1972-73, ma dopo una sola presenza si trasferirà prima allo Juniorcasale, squadra di Casale Monferrato, poi al Novara (38 presenze e 29 reti subite) e alla Lazio (29 partite giocate in campionato e 36 gol subiti). Proprio con la maglia dei biancocelesti colleziona tanti errori fino a guadagnarsi malauguratamente il soprannome di «Paperella». Per i suoi interventi naif il giornalista Beppe Viola coniò addirittura il termine «garellate».

La carriera di Garella

Anche per le sue prestazioni altalenanti Garella non riuscirà mai a giocare in una grande o all’estero, ma saprà farsi strada: dopo la Lazio passa così alla Sampdoria, poi a Verona, Napoli, Udinese e Avellino dove chiuderà la carriera nella stagione 1990-91 all’età di 36 anni. Le esperienze più significative saranno naturalmente con la maglia dell’Hellas dall’81 all’85 (oltre allo scudetto una promozione in serie A nel 1982) e con il Napoli dall’85 all’88 (con, oltre allo scudetto, anche una Coppa Italia nel 1987): li ricorderà sempre come i fasti della sua carriera sportiva.

Gli scudetti di «Garellik»

Hellas Verona e Napoli, due realtà molto diverse dove il tricolore non si era mai visto, riescono a vincere lo scudetto per la prima volta nella loro storia proprio con Garella in porta, che nel frattempo da «Paperella» era diventato «Garellik». Un’autentica impresa per chi parò i tiri di campioni Milan, Inter e Juventus con i piedi, con le ginocchia, con tutte le parti del corpo: un modo forse brutto da vedere ma decisamente efficace, promosso anche da una leggenda come lo stesso Maradona, che lo volle come suo portiere, convincendo anche il presidente del Napoli di allora, Corrado Ferlaino. Un portiere dalle caratteristiche uniche, che in più di un’occasione è tornato sul tema del suo stile: «Questo mito che paravo solo con i piedi non è vero: paravo con un po’ di tutto, ma evidentemente sapevo usare i piedi più di altri, addirittura una volta parai pure in rovesciata... (in Udinese-Cremonese nella stagione 1988-89 in serie B, ndr)».

L’ironia dell’Avvocato Agnelli

L’aforisma dell’Avvocato Tra le critiche ricevute fu indimenticabile la dichiarazione dello juventino Gianni Agnelli, sempre pungente con la sua brillante ironia e un certo sarcasmo: «È il miglior portiere senza mani». La replica del portiere fu in parte una precisazione e in parte un ringraziamento: «Un grosso onore per me, perché non è da tutti finire tra gli aforismi storici dell’Avvocato. La palla tuttavia deve essere presa in tutte le maniere, non si può andare troppo per il sottile quando ti ritrovavi davanti campioni come Paolo Rossi o Roberto Pruzzo, bastava rimanere nell’ambito del regolamento». Risposta di chi era cresciuto professionalmente anche con il sostegno di Italo Allodi, general manager del Napoli, che gli diceva sempre: «L’importante è parare, non importa come».

Un portiere «vero»

Ma lui naturalmente non condivideva tutte queste critiche un po’ semplicistiche. A Repubblica una volta raccontò: «Mi dispiacque lasciare Verona ma volli fortemente giocare con il calciatore più forte di tutti i tempi, Diego Armando Maradona. Ma gli altri non è che fossero scarsi, anzi se a Verona feci 100 parate nell’anno dello scudetto a Napoli ne feci 10. Non chiedo giustizia alla critica, faccio parlare i risultati, che devo dividere con tutti i compagni, certo, ma per qualcosa c’entrerò pure io. Voi dite che sono brutto, grasso, sgangherato, clownesco, antiatletico, un portiere da hockey eccetera. Io invece dico che sono un portiere vero e non invidio nulla a nessuno».

L’autoradio

Sposato con Laura, Garella ha due figlie, Claudia (classe 1975) e Chantal (classe 1985). La sua figura è rimasta nell’immaginario di un calcio che non c’è più anche per certi stili e immagini tipiche di quegli anni. Indimenticabile, e spesso rievocata dai nostalgici di quell’epoca, la sua immagine con l’autoradio sottobraccio ascoltando e cantando Toto Cotugno.

Cosa fa oggi

Tecnico e dirigente sportivo diplomato a Coverciano, dopo l’addio al calcio giocato, Garella si dedica alla professione di allenatore. Per circa quattro anni, sia come guida tecnica, sia come preparatore dei portieri o delle squadre giovanili, assiste i giocatori di piccole realtà calcistiche come il club torinese del Barracuda, della Pergolettese (allora Pergocrema) e della Cit Turin, un’associazione sportiva dilettantistica. A San Giusto Canavese, sempre nel torinese, è stato anche osservatore ed esperto di mercato del club che militava in Serie D.

La gioielleria

Un vero B piano post calcio Garella lo aveva: «Sì, una gioielleria a Verona che poi ho dovuto chiudere per ragioni familiari», raccontò sempre a Repubblica. Allora tornò in campo ad allenare il Barracuda, squadra di II categoria («Volevo sfatare il tabù che i portieri non sono dei bravi allenatori. In ogni caso non sarei mai riuscito a stare sul divano a casa, io devo andare su un campo di calcio qualunque esso sia»), di cui fino a due anni fa è stato anche dirigente.

Il calcio passione e delusione

Un elemento che i tifosi hanno apprezzato quando giocava e anche nella sua esperienza lavorativa nel calcio dilettantistico è stato il suo scarso interesse per i vantaggi economici che potevano derivare da un settore come il calcio: «Non mi sono mai inginocchiato a nessuno», disse una volta Garella, specificando quanto gli piaccia rimanere a contatto con il mondo del calcio senza necessariamente rimanere sui grandi palcoscenici, ma preservando la genuinità di questo sport. Molta passione e denaro «quanto basta per campare». Un approccio alla vita «alternativo» per il quale viene tuttora ammirato ma che gli ha provocato nel tempo più di un’amarezza: «Da quando mi sono diplomato a Coverciano, come direttore sportivo aspetto spesso una telefonata per una chiamata che non arriva mai. Non frequento i giri giusti forse, anche se non rinuncerò mai alla mia integrità morale», disse una volta. Oggi ha scelto la via della riservatezza: l’ultima intervista risale a due anni fa, deluso dal calcio che non lo ha più cercato.

Salvatore Bagni. Salvatore Bagni compie 66 anni: che fine ha fatto. Il Perugia dei record, lo scudetto al Napoli, Maradona, il figlio morto, la tv, i libri. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 25 Settembre 2022.  

L’ex centrocampista Bagni è stato per anni commentatore in tv e anche dirigente. Calcio, drammi, trofei e l’affetto speciale di Diego Maradona tra il Napoli campione, il Perugia 1979 e l’Inter

Il guerriero di Maradona

Un guerriero. Carattere forte, determinazione sia inseguendo un pallone che nella vita. Compie oggi, 25 settembre, 66 anni Salvatore Bagni da Correggio, come Ligabue. Da giovane, uno dei centrocampisti che non esistono più: corsa e qualità, cuore e tecnica. Protagonista del primo, storico, scudetto del Napoli (10 maggio 1987), Bagni ha giocato tra le altre anche con il Perugia dei record, l’Inter e ovviamente la Nazionale. Ma lui, emiliano vero, è rimasto legato alla città che lo ha portato in alto, dove ha conosciuto l’amico Maradona, dove ancora è riconosciuto e amato. Ma cosa fa oggi Salvatore Bagni?

Gli inizi tra Perugia e Inter

Andiamo con ordine. Partiamo dall’inizio, le prime partite nella Kennedy Carpi, poi il Carpi vero e proprio (serie D). Lo nota Silvano Ramaccioni, direttore sportivo del Perugia, che giovanissimo lo prende e lo porta in serie A. In Umbria Bagni va subito vicino ad un clamoroso scudetto, segna 8 gol in 28 partite, ma il suo Perugia chiude (imbattuto) secondo dietro al Milan. Arriva la chiamata dell’Inter, tre anni con una Coppa Italia e tante turbolenze. Poi, la svolta: il Napoli di Maradona.

Lo scudetto al Napoli

A Napoli Bagni vive il suo momento migliore, che non a caso coincide con una presenza fissa in Nazionale. Il punto più alto lo raggiunge nel 1987, colonna della squadra campione d’Italia (vince anche la Coppa Italia). Un gruppo unito che Salvatore è costretto a lasciare, per volere della società, l’anno dopo lo scudetto (per dissidi interni e con l’allenatore Bianchi). «Napoli è qualcosa che ti resta dentro —ha spiegato di recente —. Io dico sempre che mi sento napoletano per il 60% e per il restante 40% sono ciò che mi hanno trasmesso le mie radici emiliane e romagnole».

L’aneddoto su Maradona

In azzurro diventa amico fraterno di Diego Maradona. «Il ragazzo più tenero, generoso e intelligente che abbia conosciuto nel mondo del calcio — ha raccontato in una recente intervista a L’Avvenire —. E come me la pensano tutti quelli che hanno avuto la fortuna di giocare con Maradona. Diego non ti gratificava mai a parole, ma con i fatti. Custodisco 30 ore di girato con la telecamera del Diego ospite a casa mia con la sua famiglia. Per i 18 anni di mia figlia Alice, Diego si sobbarcò un giorno intero di volo pur di fargli una sorpresa. All’epoca mia figlia era fidanzata con un ragazzo napoletano che era arrivato a casa nostra con una ventina di amici: rido ancora se ripenso alla faccia che fecero quando Diego entrò e con il suo sorriso bello disse: «Buonasera, auguri Alice!”». E ancora: «Quando penso a lui lo rivedo qui, sul prato di casa. L’estate del 2005 abbiamo passato un mese e mezzo assieme a raccontarci del passato e a ridere del presente. Sento ancora la sua risata, Diego è eterno, come il calcio».

Dirigente

Allontanato dal Napoli, una stagione ad Avellino e lascia il pallone, a 33 anni. Dopo il ritiro è stato dirigente tra Lazio, ancora Napoli, e poi consulente tecnico del Bologna, l’esperienza più recente, nel 2013.

Il figlio morto in un incidente stradale

Sposato con Letizia, hanno avuto quattro figli. Elisabetta, la primogenita, poi Alice, Gianluca e Raffaele. Quest’ultimo scomparso tragicamente, a nemmeno 3 anni, il 3 ottobre 1992, in un incidente stradale mentre Salvatore è alla guida. Il percorso per risollevarsi da quel dramma è complicato e forse mai definitivamente compiuto. «Mi chiedete se ho mai pensato di avere un altro figlio —ha raccontato pochi anni fa al Pan di Napoli, presentando il suo libro “Il Guerriero” —. Io vi rispondo che non ci sarebbe stato nulla e niente che avrebbe potuto sostituirlo, io e Letizia, mia moglie, ne eravamo convinti. E così presi una decisione». Vale a dire sottoporsi alla sterilizzazione: «All’epoca non era manco legale, ma ero determinatissimo. Non avrei voluto altri figli nemmeno per errore».

Commentatore

Per anni è stato commentatore in tv del calcio tra Mediaset, Stream, Sky e infine la Rai, volto fisso per un periodo della Domenica Sportiva e voce tecnica nelle telecronache della Nazionale (tra 2008 e 2010). Ancora oggi spesso lo si ascolta in radio.

I due libri

Nel 2019 ha scritto con l’aiuto di uno psichiatra napoletano, Ignazio Senatore, il libro «Il guerriero» (edizione Absolutely Free), in cui racconta le imprese sportive ma anche i suoi drammi personali. Di recente con l’ex compagno Bruno Giordano ha pubblicato «Che vi siete persi»(Sperling&Kupfer, costo 18 euro) l’impresa del primo scudetto vinto dal Napoli. Il titolo rimanda a una scritta che apparve in un cimitero di Napoli dopo il trionfo, raccontato così a chi non c’era più.

Cosa fa oggi

Oggi Salvatore Bagni vive nella sua Romagna, a Gatteo. Spesso si sposta a Cesenatico o a Cervia. Ha una società, la Football consultant: fa l’osservatore in proprio e con il figlio agente Gianluca propone calciatori a molte squadre di serie A.

La vittoria, la squadra e Maradona: il racconto inedito di due protagonisti. Salvatore Bagni e Bruno Giordano, in un libro i ricordi della favola dello Scudetto: “La nostra forza? Si vinceva e si perdeva in venti”. Rossella Grasso su Il Riformista il 13 Giugno 2022. 

“Quell’uscita dal sottopasso nella partita contro la Fiorentina, quando mettemmo la testa fuori dopo l’ultimo scalino. Abbiamo visto tutti i tifosi in festa: è quello il momento che per noi è stata l’emozione più grande, è li che abbiamo detto ‘ce l’abbiamo fatta”. Salvatore Bagni, mastino di centrocampo e Bruno Giordano, centravanti, pronto a formare con Andrea Carnevale e Maradona il primo trio MaGiCa del Napoli, raccontano tutto di quell’anno da favola, il 1987, che li portò a vincere lo Scudetto. Un anno che 35 anni dopo ancora fa sognare tutti: chi c’era e ha vissuto quelle incredibili giornate di campionato con Diego Armando Maradona che faceva le magie in campo e anche chi non c’era, che continua a sognare vedendo quelle immagini che hanno fatto storia.

Bagni e Giordano erano i compagni di squadra di quel Napoli capitanato da Maradona. Hanno raccolto i loro ricordi in un libro dal titolo “Che vi siete persi…Il primo scudetto del Napoli raccontato da due protagonisti” (Sperling&Kupfer). Una intervista doppia, fatta a distanza, e nel mezzo la cronaca di quella cavalcata verso la vittoria. Ascoltare i loro racconti di quelle giornate ancora oggi è da brividi, anche per chi di calcio non ne capisce nulla e nemmeno se ne è mai interessato. Perché quello Scudetto, insieme a Maradona, per la città di Napoli non fu solo un trofeo ma un simbolo, una speranza e una grande gioia. “Credo che adesso noi abbiamo una responsabilità maggiore soprattutto dopo la perdita di Diego – ha detto Giordano – Prima per il tifoso napoletano c’era Diego e poi c’eravamo noi, gli scudieri, la squadra che supportava Diego. Adesso con la sua mancanza abbiamo una responsabilità in più, una percentuale in più di amore del tifoso nei nostri confronti. Sapendo di non vedere più Diego, quell’amore totale lo riversa sul resto della squadra. Questa è una responsabilità nostra che dobbiamo sempre onorare e ricordare”.

“Umile, generoso e altruista, questo era Diego – ricorda Bagni, l’amico intimo di sempre – Per chi non lo ha conosciuto sembrava che avesse solo vizi e non pregi ma non era così”. I due ex calciatori hanno ricordato tutti i più bei momenti descritti nel libro in occasione della presentazione al Lido Varca d’Oro di Varcaturo intervistati da Vincenzo Imperatore per la rassegna “I Varcautori”. La sala era piena di tifosi di sempre e anche di giovanissimi, segno che la passione per quel Napoli da favola non si è affievolito di un giorno. “I napoletani secondo me pensano che abbiamo giocato ieri sera – ha detto Bagni – Ci ricoprono di affetto e di amore. Per i napoletani il nostro scudetto non è un ricordo di 35 anni fa, è fresco. Forse la gente ci ha ammirato perché abbiamo amato questa maglia, abbiamo dato tutti noi stessi per questa maglia”.

A sentire i due calciatori snocciolare i loro ricordi più belli, a volte con gli occhi lucidi, è tangibile la nostalgia per chi li ascolta raccontare la favola bella di quegli anni a Napoli. “Un clima meraviglioso, irripetibile, da favola: così erano quegli anni – dicono Bagni e Giordano – eravamo tutti una persona. La nostra era una famiglia vera. Abbiamo vinto andando d’accordo: non ci siamo mai accusati gli uni con gli altri, si vinceva e si perdeva in venti. C’era uno spirito che forse altre squadre non hanno mai vissuto”. Poi i ricordi di quei giorni di festa in città, e la gioia negli spogliatoi con Galeazzi che dava il microfono a Diego, la gioia, gli abbracci e quel Napoli pieno di napoletani fieri.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Donato Martucci per corriere.it l'8 giugno 2022.

Il sorriso sempre stampato sul volto, quasi a esorcizzare il dolore che ha subìto a causa della morte di suo figlio Raffaele, che nel 1992 aveva 3 anni. Salvatore Bagni, 66 anni, il guerriero del Napoli del primo scudetto, ha dovuto affrontare le difficoltà della vita che con lui non è stata tenera: «Dietro il sorriso ci sono anni di angoscia e dolore, quando perdi un figlio sei a un bivio. Ho dovuto darmi forza per sopravvivere». Un’eterna battaglia sui campi di calcio, ma di grande spessore umano fuori dal rettangolo di gioco. 

Di umili origini e sempre disponibile a tendere una mano. Come ha fatto con Diego Maradona, nei momenti bui e con gli amici di sempre, quelli della parrocchia di Correggio. E come fa a Napoli, la sua seconda casa, dove è amato come pochi giocatori. Le sue emozioni, proprio di quel primo scudetto a Napoli, le ha raccontate insieme al grande attaccante azzurro Bruno Giordano in un libro dal titolo «Che vi siete persi» che sarà presentato al Lido Varca D’Oro. 

Come è nata l’idea di questo volume?

«Mi ha chiamato la casa Editrice per i 35 anni dalla vincita del primo scudetto mi ha detto se ero interessato a scrivere un libro. Io ho pensato di farlo con Bruno che è un mio grande amico ed è stato anche divertente». 

Cosa può trovare il lettore di diverso che non è stato già raccontato?

«Tante cose, tanti aneddoti sia miei che di Giordano. Anche cose di spogliatoio. Tutto quello che è successo: dall’arrivo al Napoli alla partenza. Credo sia un’opera godibile. E sicuramente condita da buonumore che è un aspetto che mi accompagna sempre. Questo è il mio secondo libro: lo dovrei raccontare alla mie professoresse delle medie. Per loro sarebbe una cosa assurda: a scuola non andavo male, di più. Ma a Correggio si andava a lavorare a 14 anni. Io sono stato fortunato ho studiato fino a quando ho potuto, poi a 18 anni ero ancora al settore giovanile del Carpi».

Come è iniziata la sua carriera da calciatore?

«Devo ringraziare Giorgio Borghieri. Lui mi ha invogliato a giocare. Ho fatto provino con il Carpi in serie D e ho segnato anche un gol alla prima giornata di campionato. A un certo punto ho pensato anche di smettere con il calcio, poi il resto lo conoscete: Perugia, Inter e Napoli, con cui ho costruito i grandi successi, insieme ai miei compagni e il più grande di tutti Diego Armando Maradona». 

Il calcio le ha donato tanto, cosa le ha tolto?

«Mi ha cambiato la vita, non solo economica, ma anche nella conoscenza delle persone e anche di mia moglie Letizia. Abbiamo costruito una famiglia che è un esempio per tanti. Abbiamo due figli un maschio di 35 anni Gianluca e una donna, Elisabetta di 41 anni».

Una tragedia le ha segnato la vita, la morte di suo figlio Raffaele in un incidente stradale.

«Tutta la famiglia era in macchina, andavamo a 40 allora, pianissimo. L’incidente e l’airbag che si è aperto. E una vita spezzata. Solo con la forza di tutti i familiari siamo riusciti a superare questa tragedia. Mi prendo molti meriti anche io. E ovviamente anche mia moglie è stata molto forte, anche se io l’ho convinta a vivere la vita, a dare un cambio di passo. Questo dolore l’abbiamo vissuto in modi diversi. Eravamo ad un bivio e allora ti dici, cosa faccio? Siamo stati più compatti di prima, vicini ai nostri figli che sono stati seguiti da psicologici ma per fortuna non hanno risentito di niente. E poi anche l’episodio macabro: la bara del piccolo trafugata dal cimitero».

Una vicenda che ha straziato il suo cuore, ma ancora una volta ha saputo rialzarsi.

«La foto della bara lasciata sul parabrezza dell’auto in un giorno di nebbia, sembrò tutto così assurdo. Un mese con i carabinieri in casa, aspettando invano una telefonata. Raffaele c’è ogni giorno, lo sentiamo accanto a noi. Il problema non è quel corpo che non è più al cimitero perché io ho fede. Ma subito ci siamo preoccupati degli altri figli. Pensiamo di aver fatto un bel lavoro con loro. Io ho fatto finta di essere meno piegato dalla vicenda, ma ero quello più sconvolto. E ora con il sorriso positivo affronto la vita. Come dico anche alle mie nipoti: entusiasmo e passione per assaporare gli attimi e affrontare anche i grandi problemi».

 Suo figlio Gianluca è agente internazionale di calcio. È nato a maggio del 1987, proprio nell’anno dello scudetto del Napoli. Ma tifa per l’Inter….

«Non glielo perdonerò mai (ride, ndr). È un bravissimo ragazzo, ha 35 anni ed ormai avviato nella sua carriera. Un giorno lo portai alla Pinetina e c’era Ronaldo il fenomeno. Da allora si è innamorato dei colori nerazzurri».

L’addio a Napoli è stato traumatico con la famosa rivolta.

«La gente ha capito quello che è successo realmente. Eravamo stati indicati come i capi di quella rivolta. Ma combattemmo una battaglia tutti insieme. Si disse che io avevo un ginocchio fuori uso. In verità avevo solo un’infiammazione. Ma io sono sempre stato diretto e non ho mai nascosto nulla. Le cose andarono così come ho raccontato più volte». 

Napoli le è rimasta nel cuore ed è tifoso degli azzurri.

«Si sono un tifoso e lo ammetto senza remore. A Napoli c’è un affetto, un amore che non si può far capire alla gente che viene da fuori. Devo ringraziare sempre i napoletani che mi trattano come se avessi giocato ieri sera. Amo tutte le zone di Napoli: ho abitato a Posillipo in via Petrarca ma mi piace frequentare e stare a contatto con la gente: mi arricchisce ogni conoscenza. Fuori dal campo vado d’accordo con tutti, ma in campo no: ero pessimo e qualche espulsione in carriera l’ho ricevuta».

Cosa pensa della politica gestionale di De Laurentiis ?

«Il presidente è un amico. Lui è stato chiaro nel voler ridurre e il monte ingaggi. La gente è arrabbiata, secondo me, perché c’è stata ancora una volta la possibilità di vincere e solo per questo sembra un po’ distaccata, ma è naturale che accadano queste cose con un tifo così caldo come quello napoletano. Ma è anche stupido pensare che il presidente non voglia vincere: non esiste questa cosa».

I nodi per i rinnovi di Mertens e Koulibaly stanno un po’ influendo sul mercato del Napoli. Lei da dirigente cosa farebbe?

«Ibra ha rinnovato adesso a 40 anni e non vuole smettere con cinque anni di più rispetto a Mertens. Sta dimostrando e ha dimostrato di essere giocatore vero. Non penso sia una questione di soldi, si sente ancora calciatore. Interrompere un discorso del genere ci penserei due volte. Lui è giocatore ed ama Napoli come Koulibaly e anche oltre. Io andrei incontro alle sue esigenze».

Con Diego Armando Maradona ha avuto un rapporto speciale.

«Ho avuto la fortuna più di tutti gli altri e per tutta la sua vita di frequentarlo. Chi lo critica o lo ha criticato per il suo passato non ha capito nulla di Diego. Per tanti anni è stato ospite a casa mia. Un uomo generoso, altruista e umile. L’ho ammirato tantissimo ho lottato con lui per cercare di aiutarlo. Io ho un senso dell’amicizia infinito, la parola amicizia per me è una cosa importantissima tanto è vero che ancora frequento i miei compagni dell’oratorio. In un momento negativo gli abbiamo aperto la porta di casa. Si sentiva a suo agio».

Eppure qualcuno ha malignato su un rapporto che si sarebbe logorato nel tempo.

«Tutte cavolate. Gli feci prendere un contratto con la Rai per Ballando con le Stelle. Fece solo tre puntate, poi abbandono per fare la Noche Del DieZ In Argentina. La Rai a quel punto non pagò. Qualcuno vicino al suo entourage insinuò che io avessi preso qualcosa dalla Rai ma invece non ci fu nessun pagamento proprio per l’interruzione dell’esibizione di Diego. L’unica persona che ci ha rimesso con Diego invece di guadagnare sono stato io. Da quando avevo 18 anni non ho mai avuto bisogno di nessuno. Ho chiamato il suo avvocato dell’epoca e ho chiarito tutto. Io l’ho trattato da Diego e lui mi rispettava da Salvatore. Sarà sempre nel mio cuore e lo ricorderò sempre con il sorriso e la gioia che sapeva dare a tutti, non solo sul campo di gioco»

Massimiliano Castellani per “Avvenire” il 14 maggio 2022.

Il mediano del 1° scudetto del Napoli con l'ex compagno Bruno Giordano hanno scritto il libro "Che vi siete persi": diario di un'impresa al fianco di Maradona «La vede quella foto lì? Cosa c'è scritto? "Per Salvatore il più grande..." - e scoppia a ridere - . Capito, il più grande campione di sempre, Diego Armando Maradona, un leader maximo che non rivedremo più su questa terra, almeno per i prossimi duemila anni, che scrive a me, "il più grande". Una follia, no?». 

È stato comunque un grande del calcio anche lui, Salvatore Bagni. Nato a Correggio - nel 1956 - come lo scrittore Pier Vittorio Tondelli e il rocker Luciano Ligabue che Una vita da mediano l'ha scritta per Lele Oriali, ma forse, da interista sfegatato, pensava un po' anche al "Guerriero" Salvatore. Vita da mediano anche per Bagni, la seconda dall'Inter al Napoli, perché nella prima giostrava da ala destra in quel "Perugia dei miracoli" - imbattuto per 30 giornate (campionato a 16 squadre 1978-'79) e 2° posto dietro il Milan - di Ilario Castagner, in cui era arrivato scalando rapido dalla D (dal Carpi) alla Serie A.

Un'impresa con quel Perugia di cui parlano ancora perfino i muri della città umbra, vedi lo slogan da formidabili quegli anni: «Se Butti Casarsa Dal Fiume, Bagni Speggiorin». Quello scudetto, clamoroso per una provinciale (il Verona di Bagnoli avrebbe reso giustizia anche al Perugia vincendolo nell'85) Bagni se lo vide scucire dalla maglia del Grifo per poi riconquistarlo nell'apoteosi maradoniana di Napoli, nell'87. Un film senza fine, che Bagni ha rivisto e riscritto assieme all'ex azzurro, il "Bomber" Bruno Giordano, in Che vi siete persi (Sperling&Kupfer.Pagine 228. Euro 18,00).

Titolo che rimanda a una scritta che apparve in un cimitero di Napoli all'indomani di quell'impresa tricolore vissuta da un'intera città come il più grande riscatto sociale del Sud povero e affamato sul Nord ricco e dispotico. 

Quel Nord potente che Bagni aveva conosciuto all'Inter, il club che lo aveva trasformato in mediano.

Arrivai all'Inter dal Perugia e fu un'annata "insonne". Passavo le notti in bianco per via della nascita di mia figlia, la primogenita, Elisabetta (gli altri due figli sono Alice e Gianluca che lavora nella società di famiglia di Football consultant). Ma Eugenio Bersellini, che per me è stato un "Sergente buono", altro che di ferro, mi dava piena fiducia. Ad ogni fine allenamento mia moglie Letizia veniva a prendermi in macchina ad Appiano Gentile e la scena era sempre la stessa: lei andava in porta, io, mister Bersellini e il preparatore atletico Armando Onesti, ci mettevamo a giocare come bambini... I compagni erano tornati a casa da un pezzo, mentre noi continuavamo con la gara di tiri. E quando smettevamo non era per la fatica, ma per le risate e per il buio...

Via Bersellini, all'Inter arriva Rino Marchesi

La mia fortuna. A Marchesi un giorno nel ritiro estivo gli venne l'idea di schierarmi mediano. «Ti va?», mi dice. Io accetto e di questo lo rin- grazio ancora quando lo sento, ed è un piacere parlare con uno che di calcio ne sa tanto, ma soprattutto è sempre stato un uomo per bene, un saggio.

Di Salvatore Bagni invece dicevano che fosse un "isterico", un "nevroromantico" del pallone.

Tutti quelli che non mi conoscono mi giudicano soltanto per quello che ricordano di me quando giocavo: quindi un tipino tutto nervi e grinta. Ma posso assicurare che fuori dal campo, sono sempre stato molto diverso da quello visto dallo stadio o dalla tv. Mio padre mi ha sempre ripetuto che se fossi stato in campo come mi comporto fuori non avrei mai giocato a calcio in Serie A. Mai saputo cosa fosse lo stress, il calcio l'ho vissuto come un bel gioco e posso assicurare che in 66 anni nessuno mi ha mai visto triste dopo una partita.

Non la intristì neppure quando quarant' anni fa la misero in mezzo alla presunta "combine" di Genoa- Inter (2-3)?

C'hanno scritto pure un libro ( Non si fanno quelle cose a 5 minuti dalla fine!) - sorride - . Roba da matti, io so solo che su assist di Hansi Müller segnai il gol della vittoria, ma siccome non mi venne ad abbracciare nessuno dei miei compagni l'ufficio inchieste mi mandò a chiamare per interrogarmi. Mi chiesero: «Come mai signor Bagni?» A me caddero le braccia... come mai cosa, perché avevo fatto gol? Nella mia mentalità giocare significava provare a divertirmi e a vincere sempre, e io solo quello ho sempre cercato di fare.

Lo ha fatto con uno stile molto personale, che a un certo punto non andava più bene all'Inter.

Avevo ancora due anni di contratto, ero felice all'Inter, ma a marzo dell'84 cambia la proprietà: Fraizzoli cede a Pellegrini, il quale si presenta con un avvertimento: «Bagni, d'ora in poi in campo deve cambiare atteggiamento». 

Quando me lo ridisse per la decima volta allora gli risposi che se la pensava così potevano anche vendermi. Sandro Mazzola mi chiama in sede per rassicurarmi: «Salvatore dai, continua così, resta te stesso». Alla fine Pellegrinì tirò troppo la corda. Mi fece rientrare a Milano a fine campionato mentre ero a Cesenatico al capezzale di mia suocera malata - che poi morì quel luglio, a 56 anni - per comunicarmi: «Non volevo dirti niente: tu vieni in ritiro, stop. Altrimenti quest' anno giochi nel giardino di casa mia». 

Mi ripeté il concetto davanti a tutti mettendomi una mano sulla spalla. Diventai una furia e sbottai, alla mia maniera: «Presidente, se non mi toglie la mano da lì le do' un pugno che la rispedisco nel suo ufficio ». Ero fuori di me... 

Pellegrini a quel punto fu costretto a venderla al Napoli, ma avete chiarito a distanza di anni?

Io non serbo mai rancore per nessuno, Pellegrini è un gran signore e un grande imprenditore, ma con me ha sbagliato, perciò quando ricevetti la telefonata di Marchesi che allenava il Napoli gli risposi al volo: «Con lei Mister vengo a giocare da qualsiasi parte». Faccio notare che lasciavo una Inter da scudetto per un Napoli che lottava per non retrocedere. 

Poi il miracolo dal cielo di "Eupalla": il 5 luglio 1984 l'arrivo di Diego Armando Maradona al Napoli e l'inizio di un'era a tutt' oggi irripetibile.

È stato un dono reciproco, Maradona al Napoli e Napoli per Maradona. Chi sostiene che la città ha danneggiato il campione non sa quello che dice. Diego e Napoli hanno vissuto in simbiosi e per capire questa città bisogna averla vissuto come abbiamo fatto noi ai tempi. Per questo quando ognuno degli ex ragazzi del 1° scudetto torna, la gente di Napoli lo abbraccia come se non fosse mai partito.

Diego vive ancora nel cuore della città, nei "Bassi" napoletani, ma chi è stato Maradona?

Il ragazzo più tenero, generoso e intelligente che abbia conosciuto nel mondo del calcio. E come me la pensano tutti quelli che hanno avuto la fortuna di giocare con Maradona. Diego non ti gratificava mai a parole, ma con i fatti. Custodisco 30 ore di girato con la telecamera del Diego ospite a casa mia con la sua famiglia. Per i 18 anni di mia figlia Alice, Diego si sobbarcò un giorno intero di volo pur di fargli una sorpresa... - sorride - . All'epoca mia figlia era fidanzata con un ragazzo napoletano che era arrivato a casa nostra con una ventina di amici: rido ancora se ripenso alla faccia che fecero quando Diego entrò e con il suo sorriso bello disse: «Buonasera, auguri Alice!».

Memorabile come la "Mano de Dios" al Mondiale dell'86 con cui punì gli inglesi.

Molti hanno dimenticato, ma per il Napoli Diego concesse il bis. Perdevamo 1-0 contro la Samp al San Paolo, cross di Renica e Diego si tuffa, non ci arriva e allora il colpo di genio: da rasoterra colpisce con il pugno messo davanti alla testa e fa gol. Nessuno se ne accorse. Diego nello spogliatoio ridendo ci confessò: «Ho segnato di mano». Ma non gli credevamo, pensavamo scherzasse. Era vero invece. Eppure ho rivisto cento volte il filmato e posso assicurare che oggi ingannerebbe anche il Var. Quella è stata la "Supermano de Dios".

Quella squadra vinse grazie a Maradona certo, ma forse anche perché la squadra era l'emblema della "napoletanità".

Vero. In rosa c'erano Muro, Carannante, Caffarelli, Bruscolotti, Ferrara, Puzone, e poi i due massaggiatori Carmando e Dimeo. Erano tutti napoletani e ci fecero sentire a pelle il valore di quel senso di appartenenza. Napoli è qualcosa che ti resta dentro, io dico sempre che mi sento napoletano per il 60% e per il restante 40% sono ciò che mi hanno trasmesso le mie radici emiliane e romagnole.

Ma anche a Napoli l'anno dopo, con la squadra di Ottavio Bianchi che perde lo scudetto e chiude al 2° posto, dietro al Milan, decidono di sacrificare il "vecchio" Bagni.

Avevo giocato meglio che nella stagione dello scudetto e pur di esserci sempre mi sottoposi a 200 punture per un'infiammazione al ginocchio che mi faceva penare. Finito il campionato, la società nella notte si riunisce e ci chiama uno ad uno al San Paolo e chiede a tutti di firmare il rinnovo accettando che 4 di noi sarebbero stati «fatti fuori». E i quattro erano il sottoscritto, Giordano, Garella e Ferrario...

Ma il suo amico Diego non intervenne?

La dirigenza furbescamente aveva convinto Maradona ad andare in barca a Capri e quando Diego tornò a Napoli i giochi erano fatti. Per me fu una coltellata alle spalle: in un colpo solo avevo perso campionato, squadra e la Nazionale dove ero titolare da cinque anni. Così, accettai la proposta di Pierpaolo Marino di scendere in B all'Avellino, ma la stagione seguente, con un anno di contratto ancora con il Napoli, preferì chiuderla lì andando a giocare con gli amici d'infanzia al Carpi. 

Un finale ingrato, ordito da Ottavio Bianchi, il mister dello scudetto, in accordo con il presidente Ferlaino. Con loro come si è comportato successivamente?

Ho chiamato Bianchi anche quando ha scritto il suo libro autobiografico, così come ho visto e risentito Ferlaino. Quella volta la "battaglia" l'avevano vinta loro e io da giocatore ho sempre accettato la sconfitta. E poi ho la fortuna che il giorno dopo faccio un respiro profondo, una bella risata e dimentico in fretta, perché i dolori veri sono ben altri, e almeno questo l'ho imparato presto.

Non dimenticherà mai invece Maradona...

Perdere Diego è stato un grande dolore, ma lui sarà per sempre parte della mia vita e della mia famiglia. Quando penso a lui lo rivedo qui, sul prato di casa. L'estate del 2005 abbiamo passato un mese e mezzo assieme a raccontarci del passato e a ridere del presente... Sento ancora la sua risata, Diego è eterno, come il calcio. 

Da ilnapolista.it l'8 aprile 2022.

“Ci mancava solo una trasfusione di sangue”. Dice Careca che lui e Maradona erano “fratelli”. Nati a distanza di 25 giorni, con un addio in sospeso: “Non sono ancora stato a Buenos Aires dopo la morte di Diego”. 

Erano assieme a Parigi, alla cerimonia di premiazione della Fifa  per i Mondiali dall’Argentina, anno 1986. Diego il migliore e Careca Scarpa d’Argento. “Mi chiese quasi sottovoce se mi sarebbe piaciuto giocare in Italia, nel Napoli... Io non sapevo nemmeno cosa dirgli…”. Poi disse sì, al Napoli, e cominciò una storia che tutti conosciamo: due terzi di Ma.Gi.Ca. Careca la racconta in una lunghissima intervista a La Nacion.

“Quando stavo per decidere il mio futuro arrivò la proposta del Napoli e l’ho accettata per Diego. Era un sogno. Ho rifiutato il Real Madrid per stare con lui. Era un fenomeno, un genio, e per giocare con lui bisognava avere qualità tecnica e intelligenza, per capire le sue giocate e cercare di accompagnarlo. Diego pensava a tutto prima di tutti, ed eseguiva sempre le sue mosse con velocità. Per Diego, tutto in campo era molto facile, molto semplice. Per gli altri era più difficile”.

“Aveva un cuore enorme, era speciale. Con l’onestà e la trasparenza di amare gli altri. Era un leader molto preoccupato per gli altri, tutti gli altri. Ha combattuto per quello che non giocava, per quello che andava in banca, per l’uomo di scena e per il massaggiatore. Aspettando che tutti riscuotessero lo stipendio… era speciale. È stato un peccato il modo in cui abbiamo perso Diego”. 

Careca affronta anche i paragoni. Li dribbla più che altro: “Ho vissuto quattro anni con Diego, giocando e allenandomi al suo fianco, andando a casa sua, lui veniva a casa mia… Era spettacolare in campo e, inoltre, un leader molto rispettato da tutti. Messi è molto bravo, un grande attaccante, ha una qualità impressionante. Ma per me Diego è un gradino sopra di lui. E non solo perché, secondo me, era più figo di Messi, ma anche perché giocava con più anima, era più vivace, combatteva di più, non si arrendeva mai prima della fine della partita”. 

“Dopo il Napoli sono andato un paio d’anni a giocare in Giappone, al Kashiwa Reysol. Diego ed io avevamo un piano nel ’96: avrebbe giocato qualche mese con me al Santos. Forse mezza stagione, e poi saremmo andati insieme al Boca e ci siamo ritirati lì“.

Ora Careca vive a Campinas, a 90 chilometri da San Paolo, e ha diverse attività, alcune nel settore immobiliare, ed è anche proprietario di un complesso sportivo chiamato Careca Sports Center. Maradona c’è andato spesso. Ogni tanto fa anche il commentatore ma dice che in fondo il calcio di oggi lo annoia: “Ci sono troppe partite brutte per mantenere l’attenzione per 90 minuti”. 

Parla ancora di Napoli: “La quotidianità di quella città era pazzesca. Cercare di uscire a fare una passeggiata era un’avventura. I tifosi facevano la guardia alla porta di casa di Diego, era come un prigioniero. Io lo facevo uscire travestito anche con barbe finte o nascosto nel bagagliaio dell’auto. Sì, saliva nella mia macchina, uscivamo, guidavamo per diversi isolati e poi scendeva e andava su un’altra macchina”.

Emanuela Audisio per "la Repubblica" l'8 febbraio 2022. 

Potreste scambiarlo per un velocista. Per un fratello africano di Bolt. Gambe lunghe, corpo agile, scatto magico, pettinatura picassiana, e ancora lingua inglese. C'è chi lo ha paragonato al Molleggiato (Adriano Celentano) per come è capace di disarticolare il suo corpo. Victor Osimhen, 23 anni, l'uomo con la maschera (nuova), è tornato (titolare) dopo due mesi e mezzo e a segnare (6 gol in campionato) dopo 112 giorni, a Venezia. Ci voleva fegato per dare una zuccata così prepotente, dopo aver subito la frattura dello zigomo in uno scontro di gioco con Skriniar dell'Inter.

 Victor, la sua è stata quasi una frattura da pugile.

 «Infatti ho sentito subito che la faccia mi era esplosa. E appena mi sono toccato sulla guancia sinistra non avevo più sensibilità. Ho avuto problemi anche a dormire, se mi giravo sul quel lato, faceva male. Però ho recuperato le forze, trascinato dalla voglia di giocare e di migliorare proprio sui colpi di testa. Non sono tipo da frenare la mia esuberanza, mai fatto calcoli, anzi ho sempre cercato di rimettermi in piedi subito, senza piangermi addosso. Io salto, scarto, scatto. Non ho paura di farmi male, e se perdo mi arrabbio. Sono molto suscettibile su questo, non mi arrendo».  

Il suo nome significa Dio è buono. 

«Sì, vengo da Lagos, Nigeria, ma sono originario di Osun, stato del sud, dove convivono cristiani come me e musulmani. Ho perso mia madre subito, io sono l'ultimo figlio, ho tre sorelle e fratelli. Papà non trovava lavoro, così ci siamo spostati nella capitale: una sorella vendeva arance, un fratello giornali, io pulivo grondaie e tagliavo erba. Tutto, pur di sopravvivere. Mio fratello più grande, Andrew, ha rinunciato a studiare, per mantenere me appena sono entrato nella scuola calcio. Devo riconoscenza a lui e alla mia famiglia. Le radici sono importanti».  

Si è mai cronometrato sui 100 metri?

«No. Però correvo, da ragazzino facevo gare per strada. La Nigeria è una terra di velocisti. Spesso arrivavo secondo, qualche volta primo. Ma la passione era per il pallone. Il primo Mondiale che ho visto in tv è stato quello in Sudafrica nel 2010, tifavo Olanda, per via di Sneijder, per cui andavo matto. Mi piaceva la sua concretezza, sapeva sempre cosa fare, e ci sono rimasto male quando in finale ha vinto la Spagna». 

Però il suo mito è Drogba. 

«Sì, ma non solo come calciatore. Mi piacciono i trascinatori. E lui lo è e lo è stato anche fuori dal campo, dove conta di più. È il tipo di personalità che ammiro».  

La cosa più difficile per un calciatore africano che arriva in Europa? 

«Per me è stato il freddo. Sono andato al Wolfsburg e giocavo su campi spesso ghiacciati. Soffrivo, avevo le dita dei piedi rattrappiti, non riuscivo ad esprimermi. Mi ha molto aiutato con i suoi consigli Mario Gomez. Poi mi sono operato alla spalla, le cose non andavano. Ho fatto dei provini in Belgio, sono stato respinto, anche perché avevo preso la malaria. Poi Charleroi, un anno, e Lille. Se ho mai dubitato di potercela fare? No, non mi sono nemmeno mai posto la domanda, che continua a sembrarmi un lusso. Sentivo obblighi e responsabilità verso la mia famiglia. E a proposito dell'infanzia difficile, basta». 

Va bene, basta.

«Non ne posso più. L'ho già detto mille volte. Lo sanno tutti che appena vedo bambini vendere acqua ai semafori non provo né antipatia né insofferenza. Non potrei. Ma basta raccontare i giocatori africani solo come vittime, come storie tristi. Siamo bravi calciatori, io voglio migliorarmi, in attacco e difesa, imparare ad aiutare la squadra in ogni parte del campo. Sono stato un bambino povero? Sì, ma ora sono qualcosa di più. Altrimenti mi inchiodate a un passato che non rinnego, ma che non tiene conto di come sono andato avanti. Tengo alla qualità, alla tecnica, voglio diventare più bravo». 

Differenze tra Gattuso e Spalletti? 

«Mi hanno aiutato tutti e due, posso e devo solo ringraziarli».  

Attaccante italiano preferito? 

«Immobile. Lo trovo straordinario. E lo ammiro. Sbuca sempre tra le difese, non si sa come ha il pallone tra i piedi, è sempre lì al momento giusto, magari non lo vedi, eppure eccolo improvvisamente tirare in porta. Fa sembrare tutto facile, soprattutto il gol. Un vero pirata».  

Il difensore più ostico? 

«Romero, ora al Tottenham. Ogni volta che mi ha marcato è stato più veloce di me, abile anche nell'anticiparmi. E Koulibaly in allenamento, che non mi fa mai segnare. Quando è stata eliminata la mia Nigeria, ho tifato Senegal». 

Solo per quello? 

«No. Ogni volta che si può fare del bene con lui non c'è bisogno di insistere. Al Napoli ho trovato compagni molto solidali. Quando c'è da fare una raccolta fondi o trovare dei soldi per un'iniziativa lui mi dice: dimmi, chiedimi, cosa posso fare? Non è il solo, anche Fabian Ruiz e Mertens sono sempre disponibili». 

A Napoli lei abita in centro. 

«Sì. A Posillipo, al piano terra. E anche se posso passare per ingenuo non mi immaginavo una città così calda e pazza per il calcio. Solo ora mi rendo conto di come possa essere stato difficile per Maradona trovare un po' di intimità e sopportare la pressione».  

Chi l'aspetta a casa? 

«Ho una fidanzata. E devo anche ad una donna questa mia capigliatura. Ero a Charleroi e non sapevo che lì i barbieri chiudono presto. Così ho iniziato a tagliarmeli da solo, ma ogni rasoiata in più non ha fatto che peggiorare la situazione, allora la mia fidanzata mi ha detto: te li coloro e ci penso io. Quello che è uscito fuori mi è piaciuto».  

Cosa pensa della scelta di Insigne? 

«Ne penso bene. È un uomo con una famiglia, avrà valutato, ragionato e scelto quello che è meglio per lui. Sono in una situazione diversa, ma non sono di quelli che dicono: io mai come lui». 

Lei segue i rapper nigeriani. 

«Ascolto Olamide e il giovane Lil-whisky. Mi danno la carica, ma non dopo la partita, quando ho bisogno di rilassarmi ascolto musica dance o soul. Io però non canto bene, ma giuro che se succede una certa cosa m' invento un nuovo ballo in campo. Una Victor-victory dance». 

Ecco, appunto, ci pensa?

 «Mi piacerebbe vincere insieme: Napoli, il Napoli e io. Condividere un viaggio. Ma per lo scudetto devo essere molto di più di un individual player. Allora sì che mi darebbe proprio soddisfazione e trovo che per la città sarebbe strepitoso. Il calcio di Serie A lo trovo competitivo, ogni domenica c'è una squadra che può sbatterti fuori. Mi criticano perché sono permaloso, perché non lascio correre, né un'occasione né un commento, ma io sono felice solo se do il mio meglio, il calcio è il 97% della mia vita, e se qualche volta sui social eccedo, lo faccio solo perché cerco leggerezza. Sono un ragazzo di 23 anni, avrò pur diritto a non essere profondo».  

Il razzismo negli stadi ancora lo è. 

«Ho sentito gli insulti. Gente che dice quelle cose non merita di entrare in uno stadio. Ha ragione Thuram, i primi ad uscire dovrebbero essere i giocatori bianchi, perché consapevoli di un'ingiustizia. Ma nello stadio ci sono anche quelli che ti applaudono, che si scusano per gli altri. E a loro dico grazie perché almeno non fanno giocare l'indifferenza».

L’INTER.

Nicola Ventola, che fine ha fatto: la fiction con la ex Bianca Guaccero, la Bobo Tv, la laurea, il padel.  Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 12 Novembre 2022.

L’ex attaccante di Inter e Atalanta ora è ospite fisso della Bobo tv. Calcisticamente esplose a fine anni ‘90 con il Bari e la Nazionale Under 21. Dopo anni tra Usa ed Emirati, è tornato a Milano

«La riserva dei migliori al mondo»

Atalanta-Inter di domenica sarà anche la partita di Nicola Ventola. A Milano ha giocato con Ronaldo e Christian Vieri. A Bergamo è tornato dopo un grave infortunio, l’ennesimo di una carriera condizionata dai guai fisici, cominciata a fine anni ‘90 con la maglia del Bari (assieme ad Antonio Cassano) ed esplosa nel 1997 con l’Italia ai Giochi del Mediterraneo. Una carriera di alto livello, anche grazie agli «allenamenti con Vieri e Ronaldo: ero la riserva dei migliori al mondo», come ha raccontato in un’intervista alla Gazzetta dello Sport.

Il 5 maggio 2002

Ventola era un giocatore dell’Inter nella (sciagurata per i colori nerazzurri) stagione 2001-2002, con Hector Cuper in panchina. Stagione culminata con la celebre sconfitta dell’Olimpico contro la Lazio (4-2) il 5 maggio. «Tornai a Milano proprio in quel campionato: potevamo e dovevamo arrivare primi e invece finimmo terzi. Abbiamo le nostre colpe, senza dubbio, perché quella partita all’Olimpico contro la Lazio la dovevamo vincere, ma ci sono stati anche altri motivi per cui non abbiamo conquistato il tricolore. Se fa male ripensarci? Sì. Non nascondo che quello scudetto è il più grande rimpianto della mia carriera. Mi fermo qui, è meglio», ha raccontato.

Il rapporto con Giovanni Vavassori

Ventola ha vissuto due avventure all’Atalanta. La prima nel 2000-2001 con Giovanni Vavassori e la seconda nel biennio 2005-07: «È la squadra con la quale ho segnato di più in carriera. E pensare che quando mi hanno presentato alla stampa, i tifosi non mi avevano accolto affatto bene. Con Vavassori ho avuto un rapporto fantastico e siamo arrivati a un passo dalla qualificazione alla Coppa Uefa».

La laurea

Ventola si è ritirato nel 2011. Diplomatosi al liceo scientifico di Grumo Appula (Bari) nel 1997, pochi giorni dopo la finale dei Giochi del Mediterraneo (vinta anche grazie a una sua doppietta e a due reti di Totti), dopo il ritiro è tornato a studiare e nel 2019 si è laureato in Economia e tecnica della comunicazione.

Assoluzione

Ventola è stato coinvolto nello scandalo calcioscommesse nel 2011 per una sospetta combine di Chievo-Novara (3-0) di Coppa Italia del 2010. Nell’estate 2012 è stato squalificato per tre anni e sei mesi con l’accusa di illecito sportivo, ma il 23 aprile 2013 il Collegio Arbitrale del Tnas lo ha assolto.

Il padel con Ronaldo

Ventola ha una grande passione oltre al calcio, il padel. E ogni tanto gioca con Ronaldo: «Lui e Bobo sono fortissimi perché in passato hanno preso lezioni di tennis e, rispetto a tanti altri, hanno una marcia in più. Ronnie è un Fenomeno anche a padel, ma quando gli fanno un pallonetto, il compagno lo deve coprire perché altrimenti lui la palla non la riprende. Quando ho rivisto Ronnie l’ultima volta? La scorsa estate abbiamo trascorso due belle serate a Ibiza. E poi ho guardato il documentario su di lui che ha realizzato Dazn. Sono sincero: a distanza di tanto tempo ho pianto quattro volte vedendo le immagini dei suoi infortuni e dell’episodio prima della finale del Mondiali 1998, raccontato da Roberto Carlos».

Il matrimonio con Kartika e il figlio

Nel 2003 Ventola ha sposato l’ex modella Kartika Luyet, dalla quale, nello stesso anno, ha avuto il figlio Kelian. Ultimamente lei è un po’ scomparsa dai suoi profili social. Su Instagram l’ex calciatore ha 285mila follower.

Usa e Abu Dhabi

Ventola ha vissuto per diversi anni negli Stati Uniti, a Los Angeles. Poi si è trasferito ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, dove è ancora opinionista per la Tv statale Abu Dhabi Media. Ora vive a Milano, anche se torna spesso nella penisola araba.

La hit Una vita da bomber

C’è anche la musica, oltre al mare e ai viaggi, tra le passioni di Nicola Ventola. Nell’estate 2020, assieme agli ex compagni di squadra e amici Bobo Vieri e Lele Adani, ha inciso la hit «Una vita da bomber», facendosi apprezzare per look giovanile e per il modo di ballare.

La fiction con l’ex

Ventola ha preso parte, nel 2021, alla fiction «Fino all’ultimo battito». Ha recitato nella parte di se stesso accanto alla storica ex, Bianca Guaccero, conosciuta ai tempi del liceo, che oltre a essere una conduttrice televisiva è anche un’attrice.

Back to School

Qualche mese fa, a inizio 2022, Ventola ha partecipato a Back to School, un programma condotto da Nicola Savino su Italia 1. Insieme a Christian Vieri e Giovanni Barsotti commenta le partite della serie A per Dazn nel nuovo format Coca-Cola Super Match e anche per Paramount +.

La Bobo Tv

Durante il lockdown per il Covid, Ventola è uno degli ospiti fissi delle dirette Instagram di Bobo Vieri. In quei mesi nasce la Bobo Tv, che poi si trasferisce su Twitch, di cui Ventola è ospite fisso assieme a Lele Adani e Antonio Cassano, a cui è legato da amicizia. Il quartetto commenterà anche le partite dei Mondiali in Qatar per la Rai.

Andy Brehme, che fine ha fatto: il rigore mondiale, la casa ipotecata, il Rolex rubato. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

L’ex terzino tedesco oggi compie 62 anni: nelle 4 stagioni all’Inter ha vinto lo scudetto dei record del 1989 e la Coppa Uefa del 1991. Con la Germania è stato campione del mondo nel 1990

Con l’Inter nel cuore

Oggi Andreas Brehme (Andy per tutti) compie 62 anni. L’ex terzino sinistro dell’Inter dei record (giocò a Milano dal 1988 al 1992) è ancora un fervido tifoso nerazzurro. Ed è convinto cheil suo erede possa essere Robin Gosens, l’esterno tedesco acquistato a gennaio dall’Atalanta quando era ancora infortunato ma che non è ancora riuscito a scaldare il cuore dei tifosi come Ivan Perisic (ambidestro come Brehme) nelle ultime due stagioni. Il 31 ottobre è uscita in Germania (e per ora solo in tedesco e in inglese) la sua autobiografia dal titolo Beidfüßig.

La (breve) carriera da allenatore

Chiusa la vita da calciatore con la maglia del Kaiserslautern (club in cui ha giocato per oltre un decennio, seppur in due fasi diverse di carriera), Brehme cominciò ad allenare: prima sulla panchina dello stesso club della Renania, poi su quella dell’Unterhaching. L’ultima esperienza, come vice di Giovanni Trapattoni (che lo aveva allenato all’Inter) allo Stoccarda. Una parentesi breve (sette mesi circa), l’ultima in quel ruolo.

Secondo del Trap

Trapattoni è stato un uomo chiave nel suo percorso di calciatore. Fu proprio il Trap, con la complicità dell’amico e compagno di Nazionale Lothar Mattheus, a strapparlo in extremis alla Sampdoria e portarlo all’Inter. In un’intervista, Brehme ricordò quei giorni: «Mi chiamò Lothar e mi chiese se avessi già firmato per la Sampdoria. Io risposi: “Non ancora, però penso di farlo domani”. Allora lui mi disse di aspettare un secondo, mi chiamò l’Inter, due giorni arrivarono a casa mia e firmai subito il contratto». L’Inter (all’epoca del presidente Pellegrini) lo pagò 1,8 miliardi di lire (e 5,6 miliardi Mattheus).

Il rigore mondiale

Roma, stadio Olimpico, 8 luglio 1990: finale del Mondiale Germania-Argentina. Partita bloccata sullo 0-0. A 5 minuti dalla fine Nestor Sensini (ex Parma) interviene in area su Rudi Voller (ex Roma). L’arbitro messicano Mendez fischia un contestatissimo calcio di rigore (e ammonisce Maradona per proteste). Sul dischetto va proprio Brehme che la piazza all’angolino basso a sinistra dove Goycochea non può arrivare. Finisce 1-0 per la Germania di Beckenbauer che si laurea campione del mondo per la terza volta.

In disgrazia economica

Parecchi anni più tardi, Beckenbauer tornò nella vita di Brehme, nel frattempo caduto in disgrazia economica e col rischio di perdere la casa di Montecarlo che era stato costretto a ipotecare (un fenomeno di cui si è parlato di recente anche per i casi dell’ex Napoli Giuseppe Bruscolotti e dell’ex portiere di Lazio e Inter Marco Ballotta). L’ex allenatore, ora presidente onorario del Bayern Monaco, lanciò un appello nel 2014 per aiutare l’amico. Rispose Oliver Straube, un altro ex calciatore decisamente meno noto, che gli offrì in maniera provocatoria un impiego come inserviente in un’impresa di pulizie: «Siamo disposti a impiegare Brehme nella nostra azienda. Potrà lavare i bagni così si renderà conto davvero di cosa significa lavorare e qual è la vera vita». Non fu necessario: lo stesso Beckenbauer lo assunse come osservatore del club bavarese. «There is not only sunshine in life (non c’è solo la luce del sole nella vita) — disse in un’intervista— e tutti dobbiamo, chi più chi meno, affrontare dei momenti di difficoltà. Quella dei calciatori è una categoria di privilegiati, sarei un bugiardo nel negarlo ma, per quanto non sia facile, è fondamentale mantenere un contatto con la realtà per non venire travolti dalla quotidianità dopo il ritiro. Ora sto bene, ho ritrovato una stabilità. Il calcio è stato, ancora una volta, fondamentale nella mia vita».

Shaqiri consigliato a Mancini

Quando era osservatore del Bayern, in virtù degli eccellenti rapporti con l’Inter, fu lui a suggerire ai nerazzurri di Mancini di prendere in prestito proprio dai bavaresi lo svizzero Shaqiri. Non fu un consiglio azzeccato: Shaqiri non lasciò traccia in nerazzurro. Era l’Inter di Erick Thohir, per cui Brehme aveva spesso parole al miele: «Mi ha fatto un’impressione molto positiva. Ha detto subito che nell’Inter dovevano cambiare molte cose a livello istituzionale e questi cambi li ha effettuati. Basta dare uno sguardo in sede: molte persone non ci sono più, ha portato tanta gente competente, anche dall’Indonesia».

La gaffe... bianconera

Il suo profilo Instagram è pieno di foto dei tempi d’oro, soprattutto con le maglie dell’Inter e della Nazionale tedesca. Ad aprile 2020 pubblicò uno scatto di gioco in una partita contro l’Ascoli, corredata dalla didascalia in inglese: «Mi mancano le sfide contro...». Via alla garra di commenti (molti dei quali ironici) dei 70mila follower. Probabilmente l’idea era di ricordare uno dei tanti derby d’Italia contro la Juventus, confusa con l’Ascoli per via dei colori bianconeri. Notato l’errore, Brehme aggiunse la parola Ascoli alla didascalia, ma i commenti diventarono ancora più sarcastici.

La generosità

Durante il periodo più nero dell’emergenza Covid, Brehme mise all’asta due palloni della sua collezione privata del 1990. Uno era un Etrusco, il pallone ufficiale del Mondiale italiano in edizione limitata con alcuni profili rossi. Entrambi autografati dai campioni tedeschi di quella nazionale. «Tutto quello che sta succedendo in Italia a causa del Coronavirus — spiegò — è terribile, mi rende veramente triste. Spero che passi il prima possibile. Ho ancora tanti amici in Italia: Giovanni Trapattoni, Beppe Bergomi, Javier Zanetti e tanti altri, siamo legati dai tempi dell’Inter, dove ho giocato dal 1988 al 1992. Ho un rapporto intenso con il paese e le persone. Mi ha impressionato tantissimo vedere come il Coronavirus ha colpito e vorrei restituire qualcosa di quanto mi è stato dato».

Il Rolex scippato a Milano

Nel 2012, durante uno dei frequenti passaggi a Milano, Brehme fu derubato del suo orologio mentre era in auto in corso Venezia (un’arteria centrale della città). Due ragazzi in scooter gli colpirono lo specchietto retrovisore e, quando l’ex calciatore abbassò il finestrino e sporse la mano per rimetterlo a posto, gli scipparono un Rolex del valore di circa 20mila euro.

Le vacanze a Bardolino

L’Italia ha un posto privilegiato nel suo cuore e, come tanti tedeschi, frequenta molto spesso il Lago di Garda: «In questo momento — ha raccontato di recente in un’intervista — sono quanto mai orgoglioso ed appagato dalla mia vita. Viaggio ancora moltissimo per lavoro e passo buona parte del mio tempo libero a Bardolino, un piccolo comune veneto in provincia di Verona».

Nel nome di... Bremer

Il papà del difensore della Juventus Bremer (questa estate a lungo in predicato di vestire la maglia dell’Inter) chiamò così suo figlio in onore proprio di Andy Brehme. «Papà — raccontò a Torino tv — mi ha raccontato di Andreas Brehme, eccezionale calciatore tedesco che ha giocato nell’Inter. Mi ha dato questo nome (quello completo è Gleison Bremer Silva Nascimento) per ricordarlo».

Gli 80 anni di Sandro Mazzola, figlio da leggenda che oggi guarda giocare il nipote Valentino. Carlo Baroni su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022

Le imprese: la Grande Inter e la Nazionale di Valcareggi. La staffetta con Rivera. Oggi osserva di nascosto il piccolo e si arrabbia con gli allenatori perché fanno Mourinho con i bimbi

Di Valentino in Valentino. E in mezzo lui. Un filo granata che si tinge anche (soprattutto) di nerazzurro. Una storia infinita lunga più degli 80 anni di Sandro Mazzola . Dieci anni fa per i 70 Gianni Rivera gli scrisse: «Per una volta sei arrivato prima tu». Sandro che continua a seguire il calcio anche se gli manca entrare nello spogliatoio di San Siro, ma resta nella sua casa in Brianza. Adesso guarda crescere il nipotino Valentino. Senza farsi vedere, nascosto dietro un albero. A prendersela con gli allenatori dei ragazzi che si credono tutti Mourinho. O Helenio Herrera che è lo stesso. Sandro che dopo gli anni da opinionista in tv, l’unico a commentare due Mondiali vinti nell’82 su TeleMontecarlo e nel 2006 sulla Rai, ha lasciato da non molto anche gli studi dei programmi sportivi. E fa vita da pensionato. Ma con occhio, orecchie e cuore sempre per la sua Inter. E il suo baffo iconico ci ricorda ancora un’Italia da favola, quella dei Riva e dei Rivera, dei Gimondi e dei Motta.

Le partite all’oratorio con Celentano e Renis

I pomeriggi e le notti milanesi conoscono il suo nome. L’erba degli stadi del mondo ha le sue orme. Era già leggenda prima ancora di dimostrarlo. Da uno come lui ci si aspettava tanto. È arrivato tutto. Sandro e la sua Inter stampata nell’anima. Da quando giocava all’oratorio e in porta c’era Adriano Celentano e la mezz’ala si chiamava Tony Renis. Tre artisti dentro lo spazio angusto di un cortile di asfalto. Una musica che va avanti da una vita. Sandro e la sua piccola mano dentro la manona di Benito Lorenzi, detto Veleno. Un secondo papà, il primo maestro. L’odore di canfora degli spogliatoi. Il pallone di cuoio con le cuciture spalmate di grasso. L’erba sotto i tacchetti. Il sudore e la terra sulle guance. Mazzola che doveva sempre dimostrare qualcosa.

I dribbling infiniti

La prima volta in Serie A e fu subito gol. Solo che dall’altra parte ne piovvero nove. L’Inter con i ragazzini in campo per protesta e dall’altra parte Omar Sivori a maramaldeggiare. La prima delle ingiustizie che venivano dall’altra Torino, quella che gli stava sullo stomaco. Mazzola e la notte al Prater di Vienna. Le camisetas bianche del Real come fantasmi da esorcizzare. Sandro che fa due gol e Ferenc Puskas che si complimenta a fine partita: «Sei degno di tuo padre». Non è più il figlio di. È solo Sandro, il Mazzola 2.0, l’ottavo nome di una filastrocca di campioni che cominciava con sartiburgnichfacchetti e finiva con suarezcorso. Mazzola e ancora una Coppa dei Campioni con una maglia bianca da urlo e le sfide per l’Intercontinentale. Quando si giocava anche la «bella» e in Argentina imparavi la parola «ematoma». Sandro che non era solo Inter ma anche azzurro come la canzone del suo amico Adriano. I Mondiali della Corea e quelli del 4-3 con la Germania. Lui a dividere i critici. Brera di qua, Palumbo di là. La rivalità con Rivera e l’amicizia con Facchetti. Era tempo di giganti. I mazzoliani che si stropicciavano gli occhi per un suo guizzo, per quel suo modo di scarabocchiare gli schemi. Con Mazzola la velocità della luce non era più un concetto astratto. Quei dribbling infiniti a Budapest contro il Vasas impressi nella memoria anche di chi la partita l’aveva ascoltata solo per radio. La Grande Inter fiorì e morì con lui, ma come una farfalla dalle ali vistose e colorate ci ricordiamo solo di quando volava.

La carriera da dirigente

Poi la seconda vita da dirigente. Questa volta con un sigaro in più e dietro la scrivania non c’era più Helenio Herrera. Ma un altro Moratti sì. E con lui l’idea di riprovarci a disegnare un sogno. Mazzola che porta Ronaldo e scova Pirlo, anche se gli avevano detto che quello bravo del Brescia era un altro. E poi direttore sportivo anche per Genoa e Torino. Sempre capace di spiazzarti anche con le parole. Auguri Sandro, mille di questi dribbling.

Milano, il capo ultrà Inter Vittorio Boiocchi e il business di San Siro: «Faccio 80 mila euro al mese con biglietti e parcheggi». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022

Vittorio Boiocchi è stato arrestato nel marzo 2021 per un tentativo di estorsione. Le intercettazioni della polizia svelano gli affari attorno allo stadio Meazza: «Ho fatto avere il posto a due paninari e mi danno una somma ad ogni partita»

«Quando sono entrati sti ca... di cellulari qua sembra di avere...».

«La rovina! Questa è una rovina veramente».

«Eh certo, che è una rovina! Sembra di avere una...».

«Una microspia addosso!».

«Sembra di avere un carabiniere dietro!».

Su due cose sbagliavano Gerardo Toto e il capo ultrà nerazzurro Vittorio Boiocchi. Il problema non erano i cellulari ma la microspia piazzata nell’auto del 69enne e soprattutto quelli che avevano «dietro», in realtà, non erano carabinieri ma poliziotti della squadra Mobile. Boiocchi era stato arrestato il 3 marzo di un anno fa con il «socio» Paolo Cambedda dopo essere uscito dagli uffici dell’imprenditore vittima dell’estorsione da due milioni di euro. In auto avevano uno storditore elettrico, una pistola, e pettorine della guardia di Finanza. Un arresto in flagranza compiuto proprio per il timore che quella sera potessero portare a termine il loro piano. Le indagini però erano già avviate da mesi. E tra le molte intercettazioni registrate dalle cimici piazzate dai poliziotti, guidati da Marco Calì, ce n’è una in particolare, che risale a febbraio 2021, in cui Boiocchi si lamenta con Toto perché «sta perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti».

Boiocchi, le condanne e la Curva Nord

Boiocchi ha trascorso in carcere 26 anni complessivi: 10 condanne definitive per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, associazione a delinquere, porto e detenzione illegale di armi, rapina, sequestro di persona e furto. Nel 2019 era tornato non solo sugli spalti del Meazza ma aveva ripreso il controllo della Curva Nord interista come negli anni Ottanta e nei primi Novanta quando era tra i capi dei «Boys San». Al suo ritorno era stato protagonista di una scazzottata con il portavoce del tifo organizzato nerazzurro Franchino Caravita. Storia conclusa, ma solo di facciata perché di fatto la corona è rimasta sulla testa di Boiocchi, con una foto «a dito medio alzato» in ospedale tra i due litiganti: il 69enne era stato ricoverato la notte stessa per un attacco di cuore. Il ritorno di un nome tanto pesante aveva sconvolto, e parecchio, le dinamiche del mondo ultrà. Poi il nuovo arresto e i domiciliari concessi a Boiocchi dopo una condanna a 3 anni e 2 mesi.

La gestione dei parcheggi di San Siro

Nelle intercettazioni richieste dai pm Carlo Scalas e dall’aggiunto Laura Pedio, il capo ultrà racconta «che prende circa 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Dice che finalmente erano riusciti a fare una bella cosa con la gestione dei parcheggi, con 700-800 biglietti in mano, due paninari a cui hanno fatto avere il posto che gli danno una somma ad ogni partita». In sostanza, annotano gli inquirenti riportando le parole di Boiocchi «10 mila euro ogni partita». Il business intorno allo stadio Meazza non c’entra nulla con le accuse mosse nei confronti del capo ultrà e degli altri quattro arrestati. E non ha rilievi penali nell’indagine. Possibile si tratti solo di millanterie? La presunzione d’innocenza impone che sia così e lo stesso vale per tutte le accuse mosse dalla procura nei confronti degli indagati. Sempre nelle intercettazioni Boiocchi racconta i vecchi tempi della malavita a Milano con nostalgia, parlando di Guglielmo Fidanzati e di inchieste antidroga che lo hanno coinvolto: «Ringraziamo il signore che li ha fatti vivere questi periodi qui».

Giovanni De Luna per “la Stampa” il 21 giugno 2022.

I tifosi del Torino mi hanno sempre incuriosito. I riti, i lutti, le passioni che li attraversano mi sono sembrati da sempre un'anomalia da guardare anche con una punta di invidia. La loro fedeltà alla squadra è stata modellata sulle sconfitte, su un "albo d'oro" che sembra un necrologio, con le uniche gioie ossessivamente legate agli insuccessi dei rivali bianconeri. In realtà, come tifoso della Juventus, ho scoperto di condividere con loro la stessa malattia, anzi, come scrive Eduardo Galeano, di essere animato dall'identica, «certezza di essere miglior degli altri, che tutti gli arbitri sono venduti, che tutti i rivali sono imbroglioni». 

In una parola siamo tutti tifosi o, se volete, tutti convinti fedeli dello stesso culto. La frase di Galeano è l'incipit del nuovo libro (Tifo. La passione sportiva in Italia) di Daniele Marchesini e Stefano Pivato che ci racconta nei dettagli le modalità della passione sportiva, di come si siano trasformate a seconda delle varie fasi storiche attraversate dall'Italia e, più in generale, dal mondo occidentale. 

Tifo è un termine che designa un male ora debellato dai progressi della medicina ma che ha imperversato a lungo nelle nostre contrade con altissime temperature provocate da febbri che portavano anche a momentanee alterazioni mentali. Di qui l'ovvio paragone con la febbre sportiva che, «contagiosissima, esplode negli stadi e negli altri luoghi dello sport». 

Il termine usato in questo senso, e i suoi derivati come tifoso, tifoseria, tifare, esistono però solo nella lingua italiana; in questa accezione è entrato nel nostro vocabolario nel periodo successivo alla prima guerra mondiale; per la precisione, come ci informa il libro, nel 1923, quando Giovanni Dovara, sulla rivista II calcio di Genova, ne scrisse come di un «fenomeno di passione acuta a tal punto da rivestire e da assumere, in certi casi e in certe persone, i fenomeni più strani, più patologici». 

Dall'universo calcistico la parola transitò poi negli altri sport così che, alla fine degli anni Trenta, veniva ormai usata senza virgolette quando nel gergo sportivo si trattava di indicare «proprio il fatto di parteggiare, simpatizzare in forme accese per qualcuno».

Questi tratti si diffusero in maniera così larga da indurre Pivato e Marchesini a usare, al posto del tifo, termini che rinviano direttamente al mondo del sacro e del divino - si parla comunemente di una "fede" granata, o bianconera o giallorossa - così da attribuire a quello stato d'animo una dimensione decisamente religiosa. Religio etimologicamente significa qualcosa che lega, che tiene insieme, che indica i confini di un perimetro all'interno del quale ci si riconosce tutti in una comune appartenenza fondata sul medesimo "credo".

 Noi tifosi, più che dalla stessa malattia, siamo quindi uniti dal fatto di condividere forme specifiche di adorazione nei confronti degli idoli dello sport, eroi della moderna società di massa, che ne «rispecchiano e interpretano valori e attese diffusi»... 

Quando i romanisti inneggiano alla "magica Roma" trasportano il mondo della magia in quello del sacro restando sempre nella sfera del soprannaturale, adepti di un culto in cui «tutti desiderano partecipare alla natura semidivina dei propri eroi» (Edgar Morin).

Come tutte le religioni il tifo va esplorato studiandone i miti, i luoghi di culto - gli stadi, i ring, le palestre, le salite delle gare di ciclismo - e di memoria, i riti che si strutturano e i comportamenti che ne conseguono, l'adorazione dei corpi degli atleti che si spinge fino alle loro camere da letto, le manifestazioni di cordoglio per la loro morte, le fotografie usate come santini, i tappi, le biglie, le figurine che ne amplificano il mito, le canzoni (ricordate il Bartali di Paolo Conte) fino ai mezzi di comunicazione di massa della modernità novecentesca (stampa, radio, cinema, televisione), la loro più diffusa cassa di risonanza. 

Oggi è la rete ad amplificarne la presenza in modo quasi ossessivo: Cristiano Ronaldo può arrivare a guadagnare 975 mila dollari per ogni post pubblicato sul suo profilo personale di Instagram. 

La ricognizione di Marchesini e Pivato parte da lontano, dall'ottocentesco gioco del pallone a bracciale che propose gli sferisteri come i primi templi dove si celebrava il culto dell'eroe... Trasposizione pacifica degli antichi tornei cavallereschi quel tipo di sport non comportava necessariamente spargimenti di sangue ma restava ancora intriso di tutta violenza che derivava dalle sue origini belliche. 

Poi questa carica di aggressività andò assottigliandosi, imbrigliata in regole e procedure che accompagnarono il processo di civilizzazione che investì tutto il costume del mondo occidentale, e anche lo sport, nell'intento di «espellere dai giochi pubblici non solo il ricorso alla violenza ma anche di plasmare l'individuo di una società più raffinata» (Norbert Elias).  

La violenza, però, non è mai stata cancellata del tutto e si è ripresentata, enorme, eccessiva, con la fine del '900. Dal 1990, la curva dei tifosi della Stella Rossa Belgrado era stata il vivaio delle "Tigri di Arkan. eljko Ranatovi, "Arkan", fu incriminato dall'Onu per crimini contro l'umanità, essendosi reso protagonista di atti di genocidio e di pulizia etnica nel corso delle guerre che insanguinarono la ex Jugoslavia. Aveva cominciato la sua carriera proprio sugli spalti del Marakana (lo stadio dove gioca la Stella Rossa) diventando il leader indiscusso degli ultrà e schierando tutta la curva sulle posizioni nazionaliste più radicali.

 Quando iniziò la guerra con la Croazia fu incaricato di organizzare una milizia di volontari reclutando i suoi uomini tra i tifosi più violenti; furono tremila che risposero al suo appello; con il nome ufficiale di Guardia Volontaria Serba (successivamente modificato in Tigri), a partire dall'autunno 1991 questa unità paramilitare fu schierata lungo la frontiera serbo-croata massacrando migliaia di persone. Nel 2000, eljko Ranatovi fu assassinato nell'Hotel Intercontinental di Belgrado. In quell'occasione, nella curva della Lazio si materializzò uno striscione con su scritto "Onore alla Tigre Arkan".

La Curva Nord lascia San Siro. In un agguato a Milano ucciso il capo ultrà dell’Inter, il pluripregiudicato Boiocchi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Ottobre 2022. 

Il capo del tifo nerazzurro pluripregiudicato 69enne è stato ucciso nel quartiere Figino, periferia Ovest della città colpito mortalmente da 5 colpi d'arma da fuoco. I tifosi nerazzurri hanno abbandonato lo stadio all'intervallo della partita con la Sampdoria.

Tre anni dopo l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, il “Diabolik” che dettava legge nella Curva Nord della Lazio e stava scalando la suburra del narcotraffico romano, è morto ammazzato il capotifoso della gemellata tifoseria interista. Due storie parallele legate dal crimine, visto che le imprese di Boiocchi risalgono addirittura al 1974, alle prime rapine ai supermercati alle quali erano seguite quelle alle banche e, anche qui, i grossi traffici di cocaina ed eroina, dal Sudamerica alla Turchia, con un ruolo di livello all’interno di un cartello che comprendeva i fratelli Fidanzati, viceré di Cosa Nostra a Milano nello spaccio della droga.

Il capo ultrà dell’Inter Vittorio Boiocchi, 69 anni, pluripregiudicato, con 26 anni di carcere alle spalle, è stato ucciso in una sparatoria avvenuta in prima serata a Figino, periferia Ovest di Milan. Boiocchi, è stato colpito mortalmente da 5 colpi di arma da fuoco al torace in via Fratelli Zanzottera, non lontano dal suo domicilio. Tre proiettili lo hanno raggiunto al torace e al collo.  Al momento non ci sono testimoni della sparatoria, ma gli abitanti del quartiere hanno raccontato di aver sentito distintamente i colpi d’arma da fuoco. L’agguato è avvenuto poco prima della partita Inter-Sampdoria allo stadio San Siro. 

Baiocchi è morto subito dopo il ricovero all’ospedale San Carlo di Milano dove era stato trasportato in ambulanza in condizioni già disperate. Gli investigatori della Omicidi della Squadra Mobile, guidati dal dirigente Marco Calì, sono arrivati sul luogo dell’omicidio insieme al pm di turno  Paolo Storari a perlustrare la scena e a cercare testimoni e telecamere. L’unica traccia evidente è la grossa chiazza di sangue sul marciapiede. E i bossoli repertati dalla Scientifica. 

A San Siro il tam tam dei messaggi è immediato ed ha raggiunto la vicina Curva Nord dove i tifosi interisti hanno ritirato gli striscioni durante la partita, non hanno più cantato e alla fine del primo tempo la curva si è svuotata. Una delegazione di una trentina di tifosi (che sicuramente non sdaranno persone dalla fedina penale immacolata) ha finito la serata fuori dall’ospedale.

Le 10 condanne e i 26 anni passati in carcere

Vittorio Boiocchi ha trascorso in carcere 26 anni complessivi: 10 condanne definitive per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, associazione a delinquere, porto e detenzione illegale di armi, rapina, sequestro di persona e furto. Nel 2019 era tornato non solo sugli spalti del Meazza ma aveva ripreso il controllo della Curva Nord interista come negli anni Ottanta e nei primi Novanta quando era tra i capi dei «Boys San».  

Al suo ritorno in curva a San Siro si era reso protagonista di una scazzottata con il portavoce del tifo organizzato nerazzurro Franchino Caravita. Storia conclusa, ma solo di facciata perché la corona è rimasta di fatto sulla testa di Vittorio Boiocchi, con una foto in ospedale tra i due litiganti con il dito medio alzato : il 69enne era stato ricoverato la notte stessa per un attacco di cuore. Il ritorno di un nome tanto pesante aveva sconvolto, e parecchio, le dinamiche del mondo ultrà. Poi il nuovo arresto e la detenzione domiciliare concessa a Boiocchi dopo una condanna a 3 anni e 2 mesi. 

Boiocchi era stato arrestato il 3 marzo di un anno fa con il “socio a delinquere” Paolo Cambedda dopo essere uscito dagli uffici dell’imprenditore vittima di un’ estorsione da due milioni di euro. In auto avevano un teser (storditore elettrico), una pistola, e pettorine della Guardia di Finanza detenute illecitamente. Un arresto in flagranza compiuto proprio per il timore che quella sera potessero portare a termine il loro piano. Le indagini però erano già avviate da mesi.

Tra le molte intercettazioni registrate dalle cimici piazzate dai poliziotti della Squadra Mobile di Milano, guidata da Marco Calì, ce n’era una in particolare, che risale a febbraio 2021, in cui Boiocchi si lamenta con Toto perché “sta perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti”.

Gli “80 mila euro al mese” e la nostalgia per i tempi della mala

Nelle intercettazioni richieste dai pm Carlo Scalas e dall’aggiunto Laura Pedio della Procura di Milano, il capo ultrà interista affermava “che prende circa 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Dice che finalmente erano riusciti a fare una bella cosa con la gestione dei parcheggi, con 700-800 biglietti in mano ( chi glieli dava ? n.d.r.) , due paninari a cui hanno fatto avere il posto che gli danno una somma ad ogni partita“. Gli inquirenti riportando le parole di Boiocchi annotavano “10 mila euro ogni partita”.  Sempre nelle intercettazioni Boiocchi raccontava i vecchi tempi della malavita a Milano con nostalgia, parlando di Guglielmo Fidanzati e di inchieste antidroga che lo hanno coinvolto: “Ringraziamo il signore che li ha fatti vivere questi periodi qui“. 

Ecco chi controllava e gestiva il tifo nerazzurro. Così come accade in altre tifoserie in altre città, che dietro i propri gruppi di ultras si nascondono attività delinquenziali. e vedere i tifosi ritirare gli striscioni ed abbandonare la curva nord di San Siro, non ispira un sentimento di condoglianze, ma bensì di disgusto di certe tifoserie e dei loro atteggiamenti. Redazione CdG 1947

Milano, sparatoria in strada: morto Vittorio Boiocchi, capo ultrà dell'Inter.  Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

L'agguato davanti all'abitazione del 69enne in via Fratelli Zanzottera, al quartiere Figino, nell'estrema periferia Ovest di Milano. Esplosi cinque colpi. Alla notizia della morte di Boiocchi, i tifosi hanno abbandonato la Curva Nord del Meazza

Il capo ultrà dell’Inter Vittorio Boiocchi, 69 anni, è morto dopo una sparatoria a Figino, alla periferia Ovest di Milano. L'uomo, che aveva trascorso in carcere 26 anni complessivi, era sorvegliato speciale. L'agguato è avvenuto alle 19.50 in strada in via Fratelli Zanzottera, non lontano da dove abitava Boiocchi. Sul posto è intervenuto anche l’elisoccorso del 118. 

Il 69enne è morto durante il trasporto all'ospedale San Carlo. Verso di lui sono stati esplosi almeno cinque colpi proprio mentre rientrava a piedi a casa, poco prima della partita Inter-Sampdoria allo stadio San Siro. Tre proiettili lo hanno raggiunto al torace e al collo.  Al momento non ci sono testimoni della sparatoria, ma gli abitanti del quartiere hanno raccontato di aver sentito distintamente i colpi d'arma da fuoco. Le indagini sono affidate alla polizia.  

Quando in Curva Nord è rimbalzata la notizia della morte di Boiocchi, i responsabili dei gruppi ultrà hanno immediatamente ritirato tutti gli striscioni esposti. Sugli spalti è calato il silenzio. Poi, dopo il primo tempo della partita, i tifosi hanno abbandonato la Curva. 

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 30 ottobre 2022.

Lo hanno colpito sotto casa. Un'ora prima dell'inizio di Inter-Sampdoria allo stadio Meazza. Un agguato costato la vita a Vittorio Boiocchi, 69 anni, capo ultrà della curva interista e pluripregiudicato con dieci condanne e 26 anni di carcere alle spalle per armi e rapina. Appena in curva si è diffusa la notizia dell'agguato, gli ultrà dell'Inter hanno smesso di cantare e hanno ritirato gli striscioni dalle balaustre. 

Poi hanno svuotato gli spalti. L'omicidio di Boiocchi scuote e preoccupa il mondo ultrà. E ricorda l'agguato dell'agosto 2019 al capo della curva laziale, Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik. Le indagini sono affidate agli investigatori della squadra mobile, con il supporto dell'ufficio prevenzione generale della questura e della Digos, coordinati dal pm Paolo Storari della Dda.

Contro Boiocchi sono stati esplosi almeno cinque colpi con una pistola semiautomatica, tre i proiettili andati a segno al collo e al torace. È morto durante il trasporto all'ospedale San Carlo. L'ultimo arresto nel marzo 2021 quando era stato fermato con un altro pregiudicato con in macchina pettorine della guardia di Finanza e un taser. 

Stavano andando a sequestrare un imprenditore per un'estorsione da 2 milioni di euro. L'agguato è avvenuto in via Fratelli Zanzottera, all'estrema periferia ovest di Milano dove aveva scontato i domiciliari. Era sorvegliato speciale e non poteva andare allo stadio perché doveva stare a 2 chilometri da San Siro.

«Abbiamo sentito i colpi, poi abbiamo visto una persona a terra sul marciapiedi», raccontano i testimoni. L'agguato è avvenuto alle 19.48, Boiocchi è stato sorpreso mentre stava rincasando a piedi. A sparare sarebbero state due persone poi fuggite in moto. Al momento non risulta che ci siano testimoni oculari. Nella strada, una via stretta poco prima della chiesa del piccolo borgo di Figino, non ci sono telecamere. I pochi clienti del bar Sahary, a quell'ora aperto, erano tutti all'interno.

Boiocchi era stato scarcerato nel 2019. Da quel momento aveva ripreso le redini della curva Nord, tornando sul trono occupato negli anni '90 al momento del suo arresto in una maxi operazione. Aveva approfittato di un cambiamento alla guida del direttivo del tifo organizzato interista avvenuto in seguito alla morte del tifoso varesino Daniele Belardinelli investito da un'auto di ultrà napoletani il 26 dicembre del 2018 durante gli scontri tra la tifoseria campana è quella interista in via Novara. Boiocchi era tornato in curva nel settembre 2019, la sua presenza aveva scosso e stravolto gli equilibri del tifo. 

Durante Inter-Udinese l'episodio più clamoroso con alcuni ultrà che hanno dedicato un coro al vecchio capo. Un'azione che aveva fatto volare gli schiaffi tra Boiocchi e lo storico portavoce della curva, Franchino Caravita. Poi Boiocchi era stato colpito da un attacco di cuore. Nei giorni successivi una fotografia postata sui social sembrava aver messo fine alla diatriba: nel suo letto d'ospedale Vittorio Boiocchi abbracciato da Caravita.

In realtà secondo gli investigatori si era trattato di un mero tentativo di far rientrare la crisi a livello mediatico. Da quel giorno infatti i vertici della curva erano tornati sotto il controllo del 69enne. Nei mesi scorsi il suo nome era emerso in un'indagine su affari legati all'indotto dello stadio come il business dei parcheggi.

Chi è Vittorio Boiocchi, capo ultrà dell'Inter ucciso in una sparatoria: «80 mila euro al mese con biglietti e parcheggi». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Vittorio Boiocchi, ucciso nel corso di una sparatoria in strada sabato 29 ottobre, era stato arrestato nel marzo 2021 per un tentativo di estorsione. Le intercettazioni della polizia avevano svelato gli affari attorno al Meazza 

Vittorio Boiocchi, capo ultrà dell'Inter, è stato ucciso nel corso di una sparatoria in strada a Milano la sera di sabato 29 ottobre 2022, colpito da almeno tre colpi d'arma da fuoco al torace e al collo. Questo è il ritratto pubblicato nel giugno scorso.

 «Quando sono entrati sti ca... di cellulari qua sembra di avere...». 

«La rovina! Questa è una rovina veramente». 

«Eh certo, che è una rovina! Sembra di avere una...». 

«Una microspia addosso!». 

«Sembra di avere un carabiniere dietro!». 

Su due cose sbagliavano Gerardo Toto e il capo ultrà nerazzurro Vittorio Boiocchi. Il problema non erano i cellulari ma la microspia piazzata nell’auto del 69enne e soprattutto quelli che avevano «dietro», in realtà, non erano carabinieri ma poliziotti della squadra Mobile. Boiocchi era stato arrestato il 3 marzo di un anno fa con il «socio» Paolo Cambedda dopo essere uscito dagli uffici dell’imprenditore vittima dell’estorsione da due milioni di euro. In auto avevano uno storditore elettrico, una pistola, e pettorine della guardia di Finanza. Un arresto in flagranza compiuto proprio per il timore che quella sera potessero portare a termine il loro piano. Le indagini però erano già avviate da mesi. E tra le molte intercettazioni registrate dalle cimici piazzate dai poliziotti, guidati da Marco Calì, ce n’è una in particolare, che risale a febbraio 2021, in cui Boiocchi si lamenta con Toto perché «sta perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti».

Le 10 condanne e i 26 anni in carcere

Boiocchi ha trascorso in carcere 26 anni complessivi: 10 condanne definitive per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, associazione a delinquere, porto e detenzione illegale di armi, rapina, sequestro di persona e furto. Nel 2019 era tornato non solo sugli spalti del Meazza ma aveva ripreso il controllo della Curva Nord interista come negli anni Ottanta e nei primi Novanta quando era tra i capi dei «Boys San». 

La scazzottata con Franchino Caravita e il rientro in Curva

Al suo ritorno era stato protagonista di una scazzottata con il portavoce del tifo organizzato nerazzurro Franchino Caravita. Storia conclusa, ma solo di facciata perché di fatto la corona è rimasta sulla testa di Boiocchi, con una foto «a dito medio alzato» in ospedale tra i due litiganti: il 69enne era stato ricoverato la notte stessa per un attacco di cuore. Il ritorno di un nome tanto pesante aveva sconvolto, e parecchio, le dinamiche del mondo ultrà. Poi il nuovo arresto e i domiciliari concessi a Boiocchi dopo una condanna a 3 anni e 2 mesi. 

Gli «80 mila euro al mese» e la nostalgia per i tempi della mala

Nelle intercettazioni richieste dai pm Carlo Scalas e dall’aggiunto Laura Pedio, il capo ultrà racconta «che prende circa 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Dice che finalmente erano riusciti a fare una bella cosa con la gestione dei parcheggi, con 700-800 biglietti in mano, due paninari a cui hanno fatto avere il posto che gli danno una somma ad ogni partita». In sostanza, annotano gli inquirenti riportando le parole di Boiocchi «10 mila euro ogni partita». Il business intorno allo stadio Meazza non c’entra nulla con le accuse mosse nei confronti del capo ultrà e degli altri quattro arrestati. E non ha rilievi penali nell’indagine. Possibile si tratti solo di millanterie? La presunzione d’innocenza impone che sia così e lo stesso vale per tutte le accuse mosse dalla procura nei confronti degli indagati. Sempre nelle intercettazioni Boiocchi racconta i vecchi tempi della malavita a Milano con nostalgia, parlando di Guglielmo Fidanzati e di inchieste antidroga che lo hanno coinvolto: «Ringraziamo il signore che li ha fatti vivere questi periodi qui». 

Vittorio Boiocchi, cosa c'è dietro l'omicidio del capo ultrà dell'Inter: l'ossessione per i soldi e i contatti criminali. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Il capo ultras Inter ha frequentato il gotha criminale degli anni Novanta, dal clan di Cosa nostra dei Fidanzati fino ai Mannino e ai calabresi. Una vita spesa tra estorsioni, affari occulti nel controllo di piccole attività e droga. 

Più del tifo il potere. Più del potere, i soldi. Tanti soldi. Un'ossessione per chi ha trascorso 26 anni in carcere osservando il mondo cambiare da dietro le sbarre. E quando nel 2019 Boiocchi è tornato in curva lo ha fatto con i metodi di allora, quando negli anni Ottanta e Novanta guidava lo storico gruppo ultras Boys San. La verità è che quando in quell'Inter-Udinese del settembre di tre anni fa all'improvviso, e senza che i «capi» avessero dato l'ordine, s'è alzato il coro «Vittorio uno di noi, Vittorio uno di noi», molti in Curva Nord hanno capito che le cose sarebbero andate a finire male.

Perché anche in un mondo sul filo criminale come quello del tifo organizzato, uno come il 69enne Vittorio Boiocchi è un personaggio difficile da digerire, da sopportare e soprattutto da contrastare. Uscito di galera con i gradi di chi ha frequentato il gotha criminale degli anni Novanta (dal clan di Cosa nostra dei Fidanzati, fino ai Mannino e ai calabresi) s'è trovato una strada spianata davanti. Gli ultrà nerazzurri si stavano ancora leccando le ferite per quello sciagurato assalto ai tifosi napoletani della sera del 26 dicembre 2018 costato la vita a Daniele «Dede» Belardinelli. Gli arresti della Digos sono stati il pretesto per ribaltare gli equilibri in Curva. Il nuovo direttivo aveva visto la restaurazione dei «vecchi». Sull'operazione l'ombra del Re Boiocchi. E il coro dedicato da alcuni ragazzi durante quell'Inter-Udinese ne aveva certificato il ritorno. Chi non aveva accettato d'essere stato messo all'angolo, lo storico portavoce della Curva Franchino Caravita, quel giorno aveva affrontato Boiocchi sugli spalti. E gli era andata male, finendo vittima di un pestaggio. In realtà in ospedale c'era finito Boiocchi, colpito da un attacco di cuore la notte stessa. I medici del Monzino lo hanno salvato per miracolo, e chi sperava invece in un bel funerale, fu costretto a farsi da parte. Il giorno successivo alla diffusione della notizia dello scontro in curva, una foto postata sui social con Boiocchi e Caravita abbracciati e un bel dito medio rivolto ai giornalisti. Doveva essere il segnale di una pace, è stata invece l'immagine di una resa. Caravita ridimensionato e costretto a farsi da parte. 

Sabato sera, fonti interne alla Nord raccontano di un certo imbarazzo nella gestione della notizia. Prima la decisione di togliere gli striscioni appena rimbalzano le voci sull'agguato, poi quella di uscire dagli spalti a metà match. Con molti costretti a uscire loro malgrado con i metodi non proprio ortodossi degli ultrà. Ma anche di lunghe discussioni. Perché Boiocchi era il capo, ma era anche molto altro, e tutti lo sapevano benissimo sugli spalti. Ora probabilmente partirà il processo di beatificazione per farne un feticcio come i laziali hanno fatto con Diabolik. Ma potrebbe non essere così. E sarebbe un segnale importante. Tra i primi a postare un ricordo, l'amico Nino Ciccarelli, altro membro del direttivo, e altro frequentatore delle patrie galere a lungo: tre cuori neri su uno sfondo grigio scuro, postati sui social. Nessuna parola. Solo il lutto. Ma dicono che più d'uno in Curva sia rimasto sollevato alla notizia della sua morte mezz'ora dopo al San Carlo. Basta per farne un movente? Per niente. E forse il legame con la Curva in questa storia finisce qui. 

La sola circostanza che al momento lega l'agguato di sabato sera in via Fratelli Zanzottera, a Figino, con le questioni di tifo è l'orario in cui è avvenuta l'esecuzione. Un'ora prima della partita Inter-Sampdoria che si giocava a San Siro, stadio nel quale il capo della Nord però non poteva entrare a causa di un divieto di avvicinamento al Meazza. Chi ha sparato lo sapeva benissimo. Ma avrebbe potuto farlo in un altro giorno, in un'altra sera. Boiocchi non ha la patente «revocata da 50 anni», come raccontava lui intercettato. Si muoveva a piedi, frequentava il bar di fronte a casa, era un bersaglio facile e abitudinario. Perché ucciderlo la sera della partita? Per spostare l'attenzione su questioni di tifo? Per far credere che il calcio e lo sport c'entrino qualcosa? La circostanza è indubbiamente anomala anche per gli investigatori. Ma spesso ciò che appare molto suggestivo ha ragioni semplici. Forse, banalmente, con il resto degli amici e dei guardaspalle di Boiocchi allo stadio, i killer si sentivano più liberi di agire. O forse ciò che ha fatto scattare il delitto è maturato solo poche ore prima e gli assassini non badano al calendario del campionato. 

Chi lo conosceva bene racconta di una sola ossessione: i soldi. Farli in tutti i modi. Con estorsioni, affari occulti nel controllo di piccole attività, droga e chissà ancora cos'altro. E qui si sta concentrando l'attenzione degli investigatori della squadra Mobile, diretti da Marco Calì e coordinati dal pm della Dda Paolo Storari, che stanno cercando i due killer fuggiti su una moto. Nell'inchiesta che lo ha portato in carcere per estorsione l'anno scorso, in una intercettazione Boiocchi racconta d'avere interessi nel business dei biglietti e dei parcheggi di San Siro: «Sto perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti. Prendo 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Finalmente eravamo riusciti a fare una bella cosa con la gestione dei parcheggi  con 700-800 biglietti in mano, due paninari a cui abbiamo fatto avere il posto che ci danno una somma a partita. In sostanza 10 mila euro a partita». Una vicenda ancora tutta da chiarire ma sulla quale è possibile fossero già in corso gli accertamenti degli inquirenti. Le parole di Boiocchi più che quelle di un capo ultrà somigliano ai proclami di un capomafia. E questo, invece, potrebbe aver avuto un peso notevole nell'epilogo di sabato sera. 

Boiocchi è stato condannato dieci volte, come scrive il giudice Fabio Roia nel decreto con cui ha ordinato la sorveglianza speciale con divieto di avvicinamento a 2 chilometri dal Meazza, e ha iniziato con i primi reati nel 1974. Associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga (con il clan Fidanzati), porto d'armi, sequestro di persona, rapina. Ufficialmente non lavora, come sua moglie Giovanna Pisu. Dal '92 al 2018 ha trascorso in carcere «un periodo totale di 26 anni e tre mesi». Lì, tra Opera e Spoleto, ha accresciuto i suoi contatti criminali. Passando dai siciliani ai calabresi. 

Nel suo fascicolo c'è un evento recente considerato dagli investigatori molto importante. Il 27 luglio 2020 viene controllato in un bar di via Correggio a Milano insieme a Vincenzo Facchineri, figlio del boss della 'ndrangheta Michele detto «il Papa», e con Antonio Canito, detto «Caniggia» ras criminale di via Quarti e da sempre legato al clan pugliese dei Magrini. Nomi di un certo peso negli equilibri milanesi. Anche perché voci raccontano che con Canito, Boiocchi in passato abbia avuto più di un dissapore. Tanto che il fratello Massimiliano Canito fu vittima di un misterioso agguato in un bar: gambizzato a colpi di fucile. Caso mai risolto. Boiocchi, insomma, più che lo stadio frequentava altri ambienti. Dove il potere si costruisce in un solo modo: i soldi. E Boiocchi li chiedeva, li pretendeva da tutti, non c'era affare dove non volesse entrare. I soldi sono l'inizio di questa storia, la trama centrale, e probabilmente anche il finale. 

Vittorio Boiocchi, chi era l'ultrà che controllava la Curva dell'Inter: aveva passato 26 anni in carcere. La sua carriera criminale era iniziata nel 1974 con una serie di rapine a mano armata. L'ultimo arresto nel 2021: fermato a bordo di un'auto rubata era stato accusato di una estorsione da due milioni di euro. La Repubblica il 29 Ottobre 2022.

Non era soltanto lo storico capo ultrà dell’Inter, Vittorio Boiocchi. Ma un pluripregiudicato con una lunga carriera criminale. I suoi guai con la giustizia erano cominciati nel 1974, con una serie di rapine a mano armata e, complessivamente, il 69enne ucciso a colpi d'arma da fuoco sotto casa, a Milano, aveva 'collezionato' dieci condanne definitive per reati di associazione a delinquere, per traffico internazionale di stupefacenti, ricettazione, porto e detenzione illegale di armi, sequestro di persona e furto. Una lista lunghissima. Tanto che Boiocchi aveva trascorso 26 anni e tre mesi in carcere, nel periodo che va dal 1992 al 2018.

Vittorio Boiocchi e i rapporti con Cosa Nostra e la Mafia del Brenta

Tra le condanne, quella per essere stato, tra il 1996 e il 1997, il responsabile delle operazioni finanziarie di un gruppo che importava cocaina dalla Colombia ed eroina dalla Turchia, di cui facevano parte anche i fratelli Giuseppe e Stefano Fidanzati. Un sodalizio che lo aveva portato a contatti con esponenti di Cosa Nostra, in particolare con la cosca Mannino e con esponenti della cosiddetta Mafia del Brenta: legami grazie ai quali aveva sviluppato la capacità di reperire in breve tempo motonavi per il trasporto della droga da far distribuire su tutto il territorio milanese e a Genova.

Vittorio Boiocchi, la Curva dell'Inter e i rapporti con la criminalità

Eppure il suo cuore batteva sempre lì, tra gli spalti del secondo anello di San Siro. Appena uscito dal carcere, Boiocchi era tornato a frequentare la Curva Nord dell'Inter e a guidare i Boys, gli ultrà nerazzurri. Ma era tornato a frequentare anche altri personaggi ritenuti estremamente pericolosi dagli investigatori milanesi. Nel luglio del 2020, era stato notato ai tavoli del Bar Calipso in via Correggio, insieme a Vincenzo Facchineri "diretto appartenente della 'ndrina Facchineri, fratello di Luigi, divenuto boss dell’organizzazione criminale" e a Antonio Francesco Canito detto 'Caniggia', direttamente legato al clan Magrini, famiglia appartenente alla malavita barese", si legge nelle carte processuali più recenti.

Vittorio Boiocchi, l'ultimo arresto del capo ultrà e la tentata estorsione da due milioni di euro

A marzo del 2021, l'ultimo arresto. Era stato fermato a bordo di un’auto rubata: all'interno, finte pettorine della Guardia di Finanza, una pistola senza matricola con caricatore e sette cartucce, uno storditore elettrico, un coltello da cucina di grosse dimensioni, due manette in acciaio. Gli inquirenti avevano scoperto poi durante le indagini che era stato incaricato di una maxi estorsione da due milioni di euro nei confronti di un imprenditore milanese, Enzo Costa: l''ordine' era partito da Ivan Turola, uomo d'affari milanese già arrestato nel 2020 dai finanziari di Palermo per corruzione in appalti della sanità siciliana. Per quei fatti Boiocchi si era preso un’altra condanna a tre anni e due mesi in primo grado.

La sorveglianza speciale per Vittorio Boiocchi: "Necessaria per spezzare il pericoloso legame con i tifosi interisti"

A giugno del 2021, per lui era scattata la sorveglianza speciale. Una misura, scrisse allora la Sezione misure di prevenzione presieduta dal giudice Fabio Roia, necessaria per "spezzare quel legame pericoloso esistente fra Boiocchi Vittorio e la tifoseria interista anche al fine di tutelare i soggetti legati al mondo degli ultrà che non presentino caratteristiche criminali"

Indelebile nel ricordo dei tifosi della Curva, la scazzottata con Franco Caravita, altro storico capo ultrà dell’Inter, nel settembre del 2019: un diverbio nato durante la partita Inter-Udinese in cui i due si presero a pugni per un coro cantato dai Boys in onore di Boiocchi. La rissa era finita all’ospedale perché Boiocchi era anche cardiopatico. Sui social delle tifoserie era stato diffuso uno scatto riparatore dal lettino del pronto soccorso, l’unica foto ufficialmente in circolazione di Boiocchi. Quasi un manifesto: i due capi ultrà abbracciati a mostrare il dito medio al mondo.

Ucciso a colpi di pistola lo storico capo ultrà dell'Inter. Vittorio Boiocchi è stato raggiunto da cinque colpi di arma da fuoco mentre rincasava nella periferia ovest di Milano. Curva dell'Inter senza striscioni. Francesca Galici il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Con un vero e proprio agguato è stato ucciso a Milano Vittorio Boiocchi, 69 anni, storico capo ultrà della curva dell'Inter. Gli inquirenti stanno verificando la dinamica ma, per il momento, si sa che l'uomo attorno alle 20 è stato raggiunto da almeno cinque proiettili mentre rincasava in via Fratelli Zanzottera, periferia ovest di Milano. L'omicidio è avvenuto poco prima della partita Inter-Sampdoria: per rispetto, i tifosi della curva dell'Inter non hanno esposto gli striscioni.

Boiocchi non è morto sul colpo, al momento dell'arrivo dell'elisoccorso era ancora vivo ma le ferite d'arma da fuoco erano troppo gravi. L'uomo è deceduto all'ospedale San Carlo di Milano poco dopo il suo arrivo. A indagare sul suo omicidio è stata chiamata la squadra mobile della questura di Milano diretta da Marco Calì. Non si esclude un regolamento di conti, considerando che Boiocchi era un pluripregiudicato che aveva trascorso in carcere 26 anni della sua vita.

L'uomo è stato raggiunto al torace e al collo dai colpi di pistola e non avrebbe avuto alcuna possibilità di salvarsi. Al momento della sparatoria pare che nessuno fosse presente in quella parte di Milano e, quindi, non ci sarebbero per il momento testimoni che possono raccontare ciò che è accaduto. Le indagini delle forze dell'ordine dovranno concentrarsi sulle telecamere di sicurezza della zona e su eventuali tracce lasciate dall'assassino o dagli assassini. Per il momento restano aperte tutte le piste. A dare l'allarme sono stati alcuni passanti dopo qualche minuto, quando ormai Boiocchi era riverso in una pozza di sangue.

Dallo stadio alla morte. Gli assassini di Boiocchi l'hanno seguito in moto. La vittima era stata al Meazza a incitare i Boys prima del match con la Sampdoria. Paola Fucilieri il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La droga, i tentativi di estorsione, le rapine, i sequestri di persona, grossi giri di soldi, un potere esercitato con una ostentazione guascona ma tutt'altro che bonaria. Varie ed eventuali. Per descrivere un personaggio come Vittorio Boiocchi - l'intreccio tra gli anfratti del suo curriculum da pregiudicato con più di 26 anni di carcere alle spalle e l'istrionismo da vecchio capo ultrà della Curva Nord dell'Inter - ci vorrebbe un romanzo, criminale naturalmente. In certi ambienti, per tanti tifosi, non era esattamente uno qualunque quest'uomo di 69 anni che tra gli anni Ottanta e Novanta guidava lo storico gruppo ultrà «Boys San» e che è morto «giustiziato» sabato sera in strada, davanti a casa sua - in via Fratelli Zanzottera 12, nel quartiere Figino, ai limiti della periferia ovest della città - dopo che almeno tre dei cinque proiettili che gli erano stati sparati contro sono andati a segno tra il collo e il torace. Un «anziano» capo ultrà il cui ultimo atto, prima di andarsene, è stato quello, rituale e irrinunciabile nonostante fosse sommerso da divieti e Daspo, di andare ad arringare i Boys della curva davanti allo stadio Meazza prima del match dei nerazzurri con la Sampdoria nella dodicesima giornata di campionato. Ed è proprio da lì che i suoi killer devono averlo seguito.

Compiuta la sua «missione» con la tifoseria (tra i vari divieti il capo ultrà aveva quello di stare lontano almeno due chilometri dallo stadio di San Siro durante le partite dell'Inter, ma solo a partire dall'inizio del match) Boiocchi era tornato a casa in scooter. Gli aveva dato un passaggio un amico che, percorsi poco più di cinque chilometri, lo aveva lasciato a due passi dal suo condominio e dopo averlo salutato era ripartito. Sono le 19.50. In perfetto orario visto che il 69enne, in qualità di sorvegliato speciale, aveva l'obbligo di non uscire dalla sua abitazione a partire dalle 21. I suoi killer arrivano immediatamente dopo, anche loro in sella a un grosso scooter. Mentre l'uomo è ancora sul marciapiedi il passeggero, senza scendere, gli punta contro la sua semiautomatica e spara cinque volte. Immediatamente dopo il complice alla guida dà gas e si mette in fuga. Qualche avventore del vicino bar Sahary esce in strada ma non vede già più nessuno.

Nella strada, un budello stretto fatto di edifici bassi (e dove le poche telecamere non hanno ripreso le fasi del delitto) quei cinque colpi rimbombano fortissimi. «Sembravano delle esplosioni» spiegheranno subito dopo i vicini. E mentre la via viene transennata con i cordoni sanitari della polizia per delimitare l'area dell'omicidio segnata da una vistosa macchia di sangue, il 69enne muore al suo arrivo all'ospedale San Carlo senza mai riprendere conoscenza.

«Lo scenario non è chiaro, tutte le possibilità sono aperte» spiegano gli investigatori della Mobile guidati dal dirigente Marco Calì e che lavorano sul caso insieme alla Digos sotto la coordinazione del pm Paolo Storari della Dda. Tuttavia gli stessi sono praticamente certi che l'omicidio del capo ultrà nulla abbia a che fare con questioni riguardanti la Curva o comunque controversie interne alle tifoserie. «Se qualche dinamica all'interno delle tifoserie fosse cambiata nell'ultimo periodo se non la polizia, i carabinieri o la guardia di finanza ne avrebbero captato i segnali» spiegano in Procura.

Le modalità dell'agguato mortale parlano chiaro: si è trattato di un regolamento di conti in piena regola. E gli investigatori della questura sanno che, per risalire ai suoi killer, dovranno partire proprio dal passato di Boiocchi, mai davvero archiviato, nonostante i tanti anni di carcere, come dimostrano le sue recenti frequentazioni con 'ndranghetisti e pregiudicati di vario livello, molti narcotrafficanti di spicco. Senza mai tralasciare di dare un'occhiata a San Siro.

"Boiocchi era intercettato". Ucciso da proiettili da guerra. Era indagato per traffico di biglietti: dalle chiamate ci si aspetta la svolta. Dai testimoni nessun indizio. Luca Fazzo su Il Giornale l'1 Novembre 2022

Alla fine forse si scoprirà che lo stadio è solo uno sfondo, una quinta teatrale. E che la morte di Vittorio Boiocchi, capo storico degli ultrà dell'Inter, assassinato sabato sera sotto casa, ha poco a che fare con gli affari puliti e soprattutto sporchi che arricchiscono da decenni i club della curva nerazzurra, con in testa la feccia neofascista dei Boys. Di traffici Boiocchi ne aveva in piedi numerosi altri, altrettanto illeciti e ancora più redditizi. E proprio questa sua poliedricitià rischia di essere ora la zavorra che impedisce alle indagini di decollare.

Sull'uccisione di Boiocchi indaga il dipartimento omicidi della Procura milanese, e questo fa capire che per ora non viene catalogato come reato di mafia. Ieri il pm Paolo Storari ha disposto l'autopsia: puro scrupolo, visto che il colpo di pistola al collo ha forato in pieno la carotide del sessantanovenne pregiudicato. Qualche suggerimento in più si aspetta dalla perizia balistica, perché le cinque pallottole esplose dall'assassino non sono di uso comune, calibro 9 parabellum di provenienza dell'Est, roba da arma da guerra. In questa fase delle indagini ogni traccia è preziosa, perché di piste vere non ce ne sono. O ce ne sono troppe, che è la stessa cosa.

Il delitto Boiocchi rischia insomma di avere la stessa sorte del suo precedente più simile e più vicino: l'agguato che tre anni fa ebbe per vittima un'altra figura di rilievo della tifoseria ultrà di San Siro, ma sull'altra sponda. Enzo Anghinelli, esponente della Curva Sud rossonera, già sopravvissuto a un tentato omicidio, venne preso a colpi di pistola in testa. Incredibilmente non morì. Anche in quel caso si frugò nella curva, anche allora saltarono fuori (come probabilmente verranno a galla anche indagando su Boiocchi) storie di droga ambientate al «Meazza». Ma nulla in grado, almeno per ora, di spiegare i motivi dell'agguato. Oggi Anghinelli gira con una piastra di acciaio nel cranio e dice di non voler neanche sapere chi è stato a sparargli.

L'indagine su Boiocchi farà la stessa fine? Procura e Squadra Mobile ovviamente lavorano perché il fascicolo abbia un approdo migliore. Vicini allo zero gli spunti di interesse forniti dai testimoni oculari, si lavora sul telefono del morto, sui suoi contatti recenti e meno recenti. La vera svolta potrebbe arrivare se si scoprisse che Boiocchi, come in buona parte della sua vita fuori dal carcere, era oggetto di indagini ancora in corso, e che magari il suo telefono era sotto controllo da parte di una qualche autorità giudiziaria. A quel punto cambierebbe tutto, perché in qualche intercettazione potrebbero essere finite tracce delle frizioni più recenti con complici e rivali. Su questa possibilità gli inquirenti hanno bocche cucite. Ma l'Adnkronos rivela ieri che Boiocchi era attualmente indagato in una inchiesta su traffico di biglietti in curva. Da quelle intercettazioni qualche brandello di verità potrebbe arrivare.

Quanto e più della tragica fine del capo ultrà, ieri aveva impressionato i media quanto accaduto nella curva di San Siro, abbandonata in segno di lutto dai Boys e dagli altri club «duri»: costringendo a sloggiare anche gli altri spettatori desiderosi solo di vedersi in pace Inter-Sampdoria. La Digos fa sapere di non avere trovato nei video dello stadio scene di violenza. L'Inter ha comunque preso le distanze da «qualsiasi episodio di coercizione avvenuto sabato sera».

Monica Serra per “la Stampa” il 31 ottobre 2022.  

Chi lo conosceva racconta che Vittorio Boiocchi aveva un'unica ossessione: i soldi. Da fare in ogni modo, dentro e fuori dallo stadio. Con le estorsioni, le rapine, la droga e chissà cos' altro.

Lo dimostra il suo lungo curriculum criminale, dal 1974 a oggi. E anche, tra le tante, una intercettazione raccolta qualche tempo fa. Che racconta dei suoi interessi nel business dei biglietti e dei parcheggi di San Siro: «Sto perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti», si lamentava il capo ultrà dell'Inter. «Prendo 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Finalmente eravamo riusciti a fare una bella cosa con 700-800 biglietti in mano, due paninari, a cui abbiamo fatto avere il posto In sostanza parliamo di 10 mila euro a partita». 

È proprio su questa fissazione per gli affari criminali, tanti e di diverso tipo, che si stanno concentrando le indagini della Squadra mobile, diretta da Marco Calì, con l'aiuto dei colleghi della Digos, per scoprire chi ha ucciso Boiocchi.

Un agguato sotto casa, al civico 12 di via Zanzottera, una strada stretta e a senso unico, nel quartiere Figino, all'estrema periferia ovest della città.

Un'esecuzione organizzata, forse in fretta, da chi conosceva bene i movimenti dell'abitudinario fondatore dei Boys San. A San Siro sabato sera c'era la partita contro la Sampdoria. E Boiocchi, per via della sorveglianza speciale, non poteva vederla in Curva. Così, come ogni volta, anche l'altra sera è andato un paio d'ore prima al baretto davanti allo stadio, dove si incontrano gli ultras. Uno di loro lo ha riaccompagnato a casa in scooter poco dopo le 19. 30. 

Boiocchi si è diretto a piedi al cancello e in quel momento i killer sono entrati in azione.

Erano in due con giubbotti scuri e caschi integrali e una moto di grossa cilindrata. Lo hanno atteso sotto i portici all'angolo con via Anghileri. 

Solo uno dei due è sbucato fuori dal buio e ha iniziato a sparare mentre camminava, con una semiautomatica 9x21. I bossoli rimasti sull'asfalto sono di matrice straniera. Almeno cinque colpi sono stati esplosi. Due sono andati a segno. Uno al torace, da fianco a fianco. L'altro, sembra esploso più da vicino, al collo del 69enne, agonizzante per terra. Come racconta qualche testimone, il complice in moto è tornato indietro per caricare l'assassino e fuggire.

Quando la notizia della morte di Boiocchi ha raggiunto la Curva, la decisione di svuotare in segno di lutto gli spalti non sarebbe stata unanime. Anche se poi, una volta presa, come raccontano denunce social che nessuno per ora ha formalizzato, sarebbe stata portata avanti coi modi del tifo organizzato, a suon di spintoni e prepotenza. Tanto che il ministro dello Sport Andrea Abodi promette «immediati provvedimenti».

La verità è che però, da quando a settembre 2019, dopo 26 anni di carcere, Boiocchi si è ripreso la Curva, anche all'interno del direttivo c'era chi tollerava a fatica i suoi metodi. Che erano quelli di trent' anni fa, quando il 69enne frequentava il gotha criminale degli anni '90, dai clan di Cosa Nostra, come i Fidanzati e i Mannino, alle famiglie di 'ndrangheta. Così, approfittando del vuoto che si era creato dopo gli scontri con gli ultrà del Napoli in cui è morto Daniele Dede Belardinelli, Boiocchi era riuscito a imporsi sulla Nord a suon di pugni allo storico portavoce Franchino Caravita. Un arresto cardiaco nella notte aveva fatto finire Boiocchi in ospedale. La pace di facciata era stata sancita da una foto dei due abbracciati in ospedale.

Ma la spaccatura in Curva agli occhi di chi la osserva è da tempo evidente. Non così profonda, sembrerebbe, da giustificare un'esecuzione, che ha tanti punti in comune con l'omicidio del capo ultrà laziale Diabolik. E che, per gli inquirenti, potrebbe essere chiarita seguendo la pista dei soldi. Degli affari criminali. 

Di cui la moglie Giovanna Pisu, sorella di quel Marco Pisu tra i fondatori dei Boys San, poi diventato collaboratore dei poliziotti e ripudiato dalla Curva, dice agli investigatori di non sapere niente. Ma che il capo ultrà non aveva intenzione di mollare. Diventando così troppo ingombrante, forse, per chi voleva farsi spazio nello stesso mondo criminale.

I tifosi dell’Inter: «Costretti a lasciare la Curva dopo l’omicidio Boiocchi». Il ministro Abodi: «Inaccettabile». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Appresa la notizia dell’omicidio, gli esponenti del tifo organizzato avrebbero obbligato anche con la violenza i tifosi a lasciare il proprio posto. Il ministro dello Sport: «Inaccettabile». L’Inter potrebbe rimborsare i biglietti. 

A un certo punto, nell’intervallo di Inter-Sampdoria di sabato sera, la Curva Nord, quella che ospita gli ultrà dell’Inter, si è improvvisamente svuotata. E tanti tifosi che non appartenevano ai gruppi del tifo organizzato sono stati «costretti» ad abbandonare i propri posti non appena è arrivata la notizia dell’omicidio di Vittorio Boiocchi, il 69enne pluripregiudicato ultrà nerazzurro.

Sui social sono tanti i tifosi che hanno denunciato di essere stati obbligati a lasciare l’intero anello della Curva. Su Twitter, un testimone scrive: «La Curva Nord ha obbligato tutti i tifosi lì presenti, donne e bambini compresi, a lasciare la Curva con urla e spintoni, ho pagato il biglietto per vedere il primo tempo nel secondo verde e metà del secondo nel terzo verde, un comportamento indecente da parte dei capi ultrà». 

Un’altra testimone spiega: «Ieri sera mi trovavo in Curva Nord sono stata minacciata di essere presa a botte se non fossi uscita, ho visto un uomo essere preso a cazzotti davanti a me perché voleva far valere il suo diritto sacrosanto di vedere la partita. Io mi auguro che la società prenda provvedimenti». 

C’è chi conferma anche casi di violenza: «Ci stanno costringendo con le minacce a uscire, un padre picchiato con la bambina, gente che ha fatto 600 km costretta a tornare a casa», scrive un altro utente su Twitter. 

Il ministro dello Sport, Andrea Abodi, dopo aver detto di «doversi informare» sull’accaduto, nella serata di domenica ha detto che quanto avvenuto «è inaccettabile, non è tollerabile. Sono certo che saranno presi immediati provvedimenti. Non solo parole!». 

L’Inter, pur senza fare comunicati ufficiali, condanna ogni forma di violenza e sta valutando alcune iniziative per i tifosi che non riusciti ad assistere alla gara. Non è da escludere, ma è ancora prematuro parlarne, un rimborso del biglietto o un biglietto regalo per una delle prossime gare.

La curva nord nerazzurra lascia lo stadio. Chi era Vittorio Boiocchi, storico capo ultrà dell’Inter ucciso in strada: i rapporti con la malavita e le liti in curva. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 29 Ottobre 2022 

E’ stato ucciso in strada un’ora prima dell’inizio di Inter-Sampdoria. La vittima si chiamava Vittorio Boiocchi, 70 anni, storico capo ultrà della curva nord dell’Inter, raggiunto da almeno tre proiettili, poco prima delle 20, in via Fratelli Zanzottera a Milano, nel quartiere  Figino in cui risiedeva.

L’uomo è stato vittima di un agguato, ammazzato dai killer con proiettili che l’hanno raggiunto al torace e al collo. Boiocchi è spirato dopo il ricovero all’ospedale San Carlo dove era arrivato in condizioni già disperate. Sull’omicidio indaga la squadra Mobile della questura guidata da Marco Calì. Al vaglio le immagini delle telecamere presenti nella zona per quello che sembrerebbe essere un omicidio legato agli ambienti della malavita.

Si tratta di un volto noto sia alle cronache sportive che giudiziarie. La notizia dell’omicidio si è rapidamente diffusa anche sugli spalti di San Siro dove alle 20.45 è iniziata la gara tra Inter e Samp e al secondo anello verde, i tifosi della Curva nord, hanno vietato i cori e fatto ritirare gli striscioni. Poi nell’intervallo il gruppo Boys ha abbandonano gli spalti.

Boiocchi, che nel 2019 si fece immortalare con il neo acquisto Romelu Lukaku, secondo la ricostruzione della Digos, aveva preso le redini della curva neroazzurra dopo gli scontri di Santo Stefano del 2017 tra ultras dell’Inter e quelli del Napoli dove perse la vita Daniele Dede Belardinelli, capo degli ultrà del Varese da sempre alleati con gli interisti.

Con un lungo passato in carcere per rapine e traffico internazionale di droga, Boiocchi era stato arrestato l’ultima volta il 3 marzo 2021 assieme al pluripregiudicato sardo Paolo Cambedda perché trovato con una pistola, un taser, manette e alcune pettorine della Guardia di finanza. L’ipotesi della Squadra Mobile è che i due con altre persone stessero per mettere a segno una rapina.

Classe ’52, il capo ultrà interista aveva riportato in passato dieci condanne definitive per reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti (con legami sia in Colombia che in Turchia), associazione a delinquere finalizzata alla ricettazione, porto e detenzione illegale di armi, nonché rapina, sequestro di persona e furto. In passato ha scontato una condanna a 26 anni e tre mesi dal 1992 al 2018.

Per gli investigatori aveva instaurato in passato legami sia con Cosa Nostra (con la cosca dei Mannino) che con esponenti della mafia del Brenta. Dopo la scarcerazione nel 2018, era stato fermato dalle forze dell’ordine in compagnia sia di persone legate alla ‘ndrangheta che alla malavita barese.

Tornando invece all’ambito “sportivo”, Boiocchi era considerato uno dei leader della curva interista (nonostante il lungo passato in carcere) insieme a Franco Caravita. Tra i due ci sarebbero state diverse frizioni negli ultimi anni. Ma le ricostruzioni della Digos sono sempre state smentite dai diretti interessati. Emblematica la foto nel settembre del 2019 quando, in seguito a un malore, Boiocchi venne sottoposto a un intervento in angioplastica. I due si fecero immortalare in ospedale in una immagine con tanto di dito medio e la seguente didascalia: “La nostra risposta alle vostre falsità… LA NORD È UNA FAMIGLIA”. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da liberoquotidiano.it il 30 ottobre 2022.

"Ma la società Inter non ha niente da dire su quel che è successo ieri sera sugli spalti di San Siro?": Enrico Mentana si riferisce al momento in cui ieri, appena si è sparsa la notizia della morte dell'ex capo ultrà Vittorio Boiocchi, la Curva Nord dell'Inter si è praticamente svuotata. Il giornalista e direttore del Tg La7 si è sfogato su Facebook: "Si può obbligare chi ha pagato il biglietto per vedere la partita a uscire contro la sua volontà per partecipare al lutto per la morte di un pluripregiudicato? Può una curva organizzata continuare a operare al di fuori delle regole e delle leggi?". 

Stando ad alcune testimonianze, infatti, non tutti i tifosi se ne sarebbero andati per propria volontà. Alcuni sarebbero stati obbligati a lasciare lo stadio. "Possono la Lega Serie A e la Federcalcio continuare a chiudere gli occhi sulle illegalità grandi e piccole che prosperano intorno al tifo organizzato di molta parte delle squadre italiane?", continua a chiedersi Mentana nel post su Facebook. 

Secondo il giornalista, "l'episodio di ieri sera è solo l'ultimo di una lunga serie di obbrobri visti in tanti stadi italiani da quando gli spalti si sono ripopolati". Infine un appello significativo: "Volete tutti continuare a voltare lo sguardo da un'altra parte?".

La vergogna della curva vuota dopo le minacce degli ultras. "Ho visto bambini piangere". Tifosi pacifici costretti a uscire dallo stadio con le buone o con le cattive. Bambini terrorizzati, padri minacciati, coppiette intimidite. Andrea Cuomo il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Tifosi pacifici costretti a uscire dallo stadio con le buone o con le cattive. Bambini terrorizzati, padri minacciati, coppiette intimidite. È stato un sabato nero al Meazza, un antispot per il calcio e per il tifo. Tutto è accaduto all'intervallo della partita Inter-Sampdoria, quando la Curva Nord, la tana del tifo organizzato nerazzurro, si è svuotata come gesto di omaggio per la morte di Vittorio Boiocchi, il sessantanovenne ex leader della tifoseria giustiziato sabato alla periferia di Milano in un regolamento di conti. La notizia dell'uccisione di Boiocchi si era diffusa già prima dell'inizio del match, previsto per le 20,45, ma inizialmente la Curva Nord aveva deciso soltanto di togliere gli striscioni e i tamburi e di azzittire i cori. Poi i leader ultrà hanno deciso che avrebbero lasciato lo stadio a fine primo tempo. Cosa che hanno fatto, pretendendo che anche gli spettatori pacifici facessero altrettanto. Anche i padri che avevano portato i figli a vedere l'Inter, anche chi mai si sarebbe sognato di santificare un personaggio che aveva scontato condanne definitive per rapina, traffico di droga, detenzione illegale di armi e sequestro di persona. In molti hanno manifestato l'intenzione di restare in curva finendo per essere insultati, spintonati e in qualche caso presi a cazzotti. Il tutto nell'indifferenza o nell'ignavia degli steward e delle forze dell'ordine. Il risultato è che all'inizio del secondo tempo la curva era completamente vuota. E se qualcuno dei tifosi più miti è riuscito a spostarsi in un altro settore per continuare a guardare il match, a molti altri non è restato che tornare a casa.

Sui sociali le testimonianze di quei minuti plumbei sono numerose. «Non mi capacito di come 8/10 persone abbiamo sgomberato un intero settore con urla, minacce e spintoni - twitta un tifoso interista -. Ho visto bambini piangere e persone venire spintonate perché non volevano andarsene. Io ero con una mia amica e mi è venuto un attacco di panico. Pensavo di prenderle».

Gli ultrà della Curva Nord ieri si sono limitati a ricordare Baiocchi, «lo Zio», con un messaggio su Facebook cercando di sopire ogni polemica («in questi interminabili attimi di buio e dolore è solo tempo di silenzio») e trovano l'isolata difesa dei «colleghi» del Milan (« se sei in curva è perché condividi una mentalità, non per farti due foto», sentenziano alcuni tifosi rossoneri). Per il resto, condanna unanime. Con l'Inter che ora potrebbe consolare i tifosi cacciati con un biglietto gratuito per le prossime partite. Ma chi li rimborserà per la paura? E quanta voglia avranno di riportare i figli o la fidanzata allo stadio? Sul caso è intervenuto anche il nuovo ministro dello Sport Andrea Abodi, chiamato in causa dal tweet di un tifoso che rivendicava il fatto che «lo stadio è di tutti i tifosi, compresi settori che da sempre sembrano in comodato d'uso a gente che nulla a che vedere con lo sport». Abodi ha promesso di informarsi personalmente «su quanto accaduto». 

La legge della giungla. Omicidio Vittorio Boiocchi, le minacce degli ultras per “rispettare” il capo: “Botte a papà davanti alla figlia per lasciare gli spalti”. Redazione su Il Riformista il 30 Ottobre 2022 

Bimbi in lacrime, tifosi che dopo aver percorso anche centinaia di chilometri costretti con la forza (calci e pugni) a lasciare gli spalti della curva nord di San Siro alla fine del primo tempo di Inter-Sampdoria. Il motivo? La scomparsa di Vittorio Boiocchi, capo ultras nerazzurro e pluripregiudicato ammazzato a 70 anni in strada da due killer entrati in azione in sella a una moto. L’omicidio è avvenuto sabato 29 ottobre poco prima delle 20, a un’ora dall’inizio della partita, e sarebbe riconducibile a dinamiche legate alla malavita milanese.

A denunciare l’accaduto, al momento solo sui social (in particolare su Twitter), sono diverse testimonianze dei tifosi presenti nel secondo anello della curva nord di San Siro. Tifosi che sarebbero stati minacciati dagli ultras dell’Inter che dopo aver appreso dell’assassinio di Boiocchi, hanno prima ritirato gli striscioni, poi hanno vietato i cori durante la prima frazione di gioco, in ultimo hanno liberato gli spalti in segno di “rispetto“. Purtroppo on si tratta del primo episodio registrato negli stadi italiani.

Tifosi che hanno successivamente tentato di rientrare in altri settori dello stadio trovando l’opposizione degli steward.

Un tifoso scrive: “La curva nord ha obbligato tutti i tifosi lì presenti, donne e bambini compresi, a lasciare la curva con urla e spintoni, ho pagato il biglietto per vedere il primo tempo nel secondo verde e metà del secondo nel terzo verde, un comportamento indecente da parte dei capi ultrà”. Un altro aggiunge: “Ci stanno costringendo con le minacce ad uscire, un padre picchiato con la bambina, gente che ha fatto 600 km costretta a tornare a casa“. Una tifosa racconta: “Ieri sera mi trovavo in Curva Nord sono stata minacciata di essere presa a botte se non fossi uscita, ho visto un uomo essere preso a cazzotti davanti a me perché voleva far valere il suo diritto sacrosanto di vedere la partita. Io mi auguro che la società prenda provvedimenti”.

Per il momento nessuna presa di posizione da parte della società nerazzurra e delle autorità sportive, Figc e Lega A. Sulle denunce social è intervenuto anche il neo ministro dello Sport e dei Giovani, Andrea Abodi (ex presidente della Lega B), rispondendo a un utente che ha fatto appello a lui per prendere provvedimenti sui fatti di ieri. “Mi informerò su quanto accaduto”, ha replicato Abodi al tifoso. Non è da escludere che l’Inter possa rimborsare almeno in parte i tifosi che non hanno potuto assistere alla seconda parte della partita.

Inter, il caso della curva svuotata per Boiocchi: una vergogna, ora tocca a noi tifosi farci sentire. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2022.    

Quello che è accaduto sabato sera a San Siro è vergognoso. Inquietanti i fatti. I tifosi dell’Inter, molti con famiglie e bambini, sono stati costretti a svuotare la curva dopo l’omicidio del pluripregiudicato Vittorio Boiocchi, capo ultrà legato alla criminalità. Dieci condanne definitive per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, associazione a delinquere, porto e detenzione illegale di armi, rapina, sequestro di persona e furto.

Imbarazzante la reticenza. Della società, che si è fatta viva due giorni dopo, condannando genericamente «qualsiasi episodio di coercizione»; dei giocatori, uno dei quali si è lasciato fotografare con Boiocchi (vogliamo sperare che non sapesse chi era); di molti commentatori, che si sono limitati a rilevare l’episodio; di un governo che si indigna per i rave party a Modena e poi distoglie gli occhi da Milano. Qualcuno dirà: cose brutte accadono in molti stadi. Vero, purtroppo. Le infiltrazioni criminali nelle tifoserie della Juventus, del Milan, della Lazio, della Roma, del Napoli, del Palermo e di altre squadre hanno occupato, a turno, le cronache. Ma stavolta è accaduto a San Siro durante una partita dell’Inter. Tocca agli interisti farsi sentire. La cautela che si respira ha tre spiegazioni: paura, ignavia, rassegnazione.

La paura

La paura è diffusa, anche tra i tifosi. Ho ricevuto testimonianze e proteste, tra domenica e lunedì: famiglie e gruppi di amici cacciati dal secondo anello verde perché minacciati. Perché non sporgono denuncia? Per timore. Mi rivolgo ai nerazzurri, senza distinzione: vi sembra una situazione tollerabile? Una grande squadra dev’essere capace di autocritica. Chi l’ha evitata, ha pagato l’errore: con la reputazione, e non solo.

L’ignavia

L’ignavia è quella di chi non vuole grane. Di chi tace, sapendo che di certi episodi si parla molto, ma per poco. Poi vengono dimenticati, la mistica sportiva è potente, ripulisce tutto in fretta. A tutti coloro che vivono nel calcio, e preferiscono parlar d’altro, mi permetto di ricordare che, alla fine, tutti dobbiamo rendere conto a qualcuno: a un figlio, agli amici, a un telespettatore, a un lettore, alla nostra faccia nello specchio al mattino.

La rassegnazione

La terza spiegazione di tanta cautela si chiama rassegnazione. Tra le reazioni, la più comune. E la più scusabile, in apparenza. Perché arrabbiarsi, se poi non cambia niente? Be’, un motivo c’è. Le tragedie del calcio — il morto davanti allo stadio, la guerriglia urbana pre-partita — sono quasi sempre prevedibili, preparate da pessime abitudini tollerate troppo a lungo. Gli stadi sono una parte del territorio nazionale dove la legge è sospesa. Si può minacciare, insultare, diffamare, ricattare, menar le mani impunemente. Il sospetto è che la politica — tutta, senza eccezioni — abbia concluso che serve un luogo per lasciar sfogare l’aggressività: meglio che gli estremisti si raccolgano in uno stadio, invece che andarsene per le strade. C’è un particolare, non secondario: il calcio è di tutti, non dei violenti, dei criminali e di chi li tollera. Gli stadi sono il tempio della meraviglia del calcio. Gli appassionati — quelli che conoscono la gioia infantile di trovarsi in un mare di luce e di gente, con un prato verde nel mezzo — costituiscono la maggioranza, dovunque.

Ma devono sottostare a una minoranza e subirne le conseguenze. Dell’Inter ho scritto molto e, forse, parlato troppo. Ma è la squadra che amo: la considero una forma di allenamento alla vita, un virus dolcissimo che ho trasmesso a mio figlio e ai miei nipoti. Penso che il gol di Barella contro la Sampdoria meriti di essere esposto alla Triennale. Adoro San Siro, ci torno appena posso. Ho perfino accettato, anni fa, di partecipare a un paio di feste della curva Nord nerazzurra, fuori dallo stadio. Quando mi hanno passato il microfono, ho provato a dire: ragazzi, una grande squadra deve avere grandi tifosi. Cercate di essere diversi: non fatevi trascinare, spaventare, espropriare, umiliare. Lo ripeto oggi.

Gianni Santucci per corriere.it il 31 ottobre 2022.

Eravamo sul piazzale a bere l’ultima birra e sentivamo i cori per Stankovic. Tutto normale». Ore 20.15, Dejan Stankovic, bandiera dell’Inter del Triplete, allenatore della Sampdoria, viene omaggiato dalla Curva Nord nella serata del suo ritorno a San Siro. «Entriamo e intorno alle 20.40 iniziano a ripiegare gli striscioni. Poi i ragazzini iniziano a fare su e giù». 

Sono i messaggeri. La cinghia di trasmissione tra la testa (i capi della curva) e il corpo (la massa degli 8 mila interisti al secondo anello verde). I messaggeri si muovono e passano l’ordine: «Oggi non si tifa. Niente cori. È successo un fatto grave». 

Lo svuotamento della curva interista per l’assassinio del proprio capo criminale inizia in quel momento. Il racconto di un ex ultrà che continua a frequentare la Nord di San Siro permette di ricostruire al dettaglio quel che è accaduto. «A quel punto si sono attaccati tutti ai cellulari per cercare notizie. Così abbiamo capito quale fosse il “fatto grave”». La partita scorre nel silenzio. Arriva il primo gol dell’Inter. «Coi miei amici abbiamo esultato, come altri. Da sotto ci hanno guardato male. Ci hanno urlato dietro».

Arriva l’intervallo. Qualcuno inizia a uscire. E parte la seconda ronda dei «ragazzini». «Strillavano: “Adesso usciamo tutti”. Un signore vicino a me ha detto: “State scherzando? Io resto qua”. Uno gli ha risposto: “Invece te ne vai, sennò ti spacco la faccia”. Il ragazzotto s’è avvicinato per spintonarlo, ma ha perso l’equilibrio tra i seggiolini ed è caduto. C’è stato un momento di tensione, stava per scattare il parapiglia. Ci siamo messi in mezzo e abbiamo parlato con l’altro che dava ordini. Ci ha detto: “Dovete uscire sennò vengono e vi picchiano, rischiate grosso”.

I capi non si spostano, mandano avanti i ragazzetti a dare gli ordini. Però sai che i tizi pesanti stanno là, e che se ti opponi magari dopo, in un punto senza telecamere, te ne ritrovi addosso due o tre e qualche cazzotto lo prendi. Io pugni o calci non ne ho visti, ma urlacci, minacce e spintoni sì. Alla fine la gente lo sa come funziona: anche se non te ne frega niente e vuoi solo vedere la partita, te ne vai, perché sono persone pericolose». 

In linguaggio teorico, si definisce intimidazione ambientale. In curva è la regola. Centinaia di tifosi restano nei corridoi dello stadio. Nei bar. Provano a seguire il secondo tempo sui telefoni. «Poi abbiamo visto che c’era un ingresso lasciato aperto e siamo saliti in un altro settore, al terzo anello. Ormai eravamo al settantesimo minuto. Al terzo gol abbiamo esultato. Tutto abbastanza surreale. E molto ingiusto».

Da video.corriere.it il 31 ottobre 2022.

“Hanno minacciato di prenderci a schiaffi”, Antonio, tifoso interista arrivato a San Siro dalla Calabria con moglie e figlio, racconta a “Non è un paese per giovani”, condotto da Tommaso Labate e Massimo Cervelli su Rai Radio 2, cosa è accaduto tra il primo e il secondo tempo della partita dello scorso sabato tra Inter e Sampdoria dopo l’omicidio di Vittorio Boiocchi. 

”Alla fine del primo tempo gli ultras ci hanno chiesto in modo aggressivo di lasciare la Curva Nord, tra loro c’erano persone di tutte le età, adulti e giovani. Abbiamo protestato, e loro niente, ci hanno detto che dovevamo uscire per forza, e ho accettato anche per tutelare mia moglie e mio figlio. Le forze di polizia e gli steward dell’Inter? Non si sono visti. Queste cose non devono succedere, andare allo stadio è una festa, la curva si deve vivere in modo diverso.

Anche il presidente Figc Gabriele Gravina ha parlato di quanto accaduto a San Siro: “Non è una bella immagine. Ho sentito Marotta, mi ha garantito che l'Inter è a disposizione e che sta mettendo a disposizione della Digos tutte le immagini, se ci sono responsabilità in capo ad alcuni soggetti spetta agli organi di giustizia e polizia procedere".

Da tuttosport.com il 31 ottobre 2022.

L'Inter di Simone Inzaghi ha conquistato il 4° successo consecutivo in campionato battendo in casa la Sampdoria, il tutto, però, in un clima surreale a San Siro. Durante il match è giunta la notizia dell'omicidio di Vittorio Boiocchi, 69 anni, storico capo ultras dell'Inter. Dopo che la notizia è circolata la Curva Nord nerazzurra è restata in silenzio, senza esporre striscioni e intonare cori durante la partita contro gli avversari a San Siro, poi i Boys hanno abbandonano gli spalti (il secondo anello) durante l'intervallo.

Una situazione che ha portato anche a momenti di forte tensione all'interno della curva stessa Inter-Sampdoria, tensione in Curva Nord: le testimonianze Sui social sono tanti i tifosi presenti ieri allo stadio che hanno denunciato di essere stati obbligati a lasciare l'intero anello della curva nord. Su Twitter, un testimone scrive: "La curva nord ha obbligato tutti i tifosi lì presenti, donne e bambini compresi, a lasciare la curva con urla e spintoni, ho pagato il biglietto per vedere il primo tempo nel secondo verde e metà del secondo nel terzo verde, un comportamento indecente da parte dei capi ultrà". 

Un'altra testimone spiega: "Ieri sera mi trovavo in Curva Nord sono stata minacciata di essere presa a botte se non fossi uscita, ho visto un uomo essere preso a cazzotti davanti a me perché voleva far valere il suo diritto sacrosanto di vedere la partita. Io mi auguro che la società prenda provvedimenti". C'è chi conferma anche casi di violenza: "Ci stanno costringendo con le minacce a uscire, un padre picchiato con la bambina, gente che ha fatto 600 km costretta a tornare a casa", scrive un altro utente su Twitter.

C. Giu. per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2022.

La notizia rimbalza praticamente in diretta. «Hanno sparato a Vittorio». Lui non è ancora morto quando i vertici della Curva Nord interista decidono di zittire i cori e ritirare gli striscioni dalla balaustra del secondo anello verde. Passano quindi minuti con i capi del tifo organizzato che confabulano tra loro. Gli animi sono tesi, non c'è unità sulla strada da prendere. 

Alla fine l'ordine arriva: tutti fuori. Dalla balaustra il coro rimbalza di voce in voce, i più giovani risalgono la gradinata urlando. C'è chi borbotta, c'è chi si volta e imbocca l'uscita, c'è chi spinge fuori i riottosi, c'è chi ancora non capisce cosa sia successo. 

È successo che poco prima due killer in moto hanno freddato sotto casa Vittorio Boiocchi, 69 anni, pluripregiudicato uscito nel 2018 dopo 26 anni di carcere, e da allora tornato sul trono più alto del mondo ultrà interista. È morto il capo, non si può festeggiare neanche se nel frattempo in campo segna uno splendido gol Nicolò Barella. Anzi, la Curva è già praticamente fuori.

È in questo momento che si verificano momenti di tensione con alcuni tifosi non appartenenti a gruppi organizzati che non vogliono lasciare gli spalti. Le testimonianze arrivano via social dopo la partita. «Non mi capacito di come 8, 10 persone abbiamo sgomberato un intero settore con urla, minacce e spintoni», scrive un tifoso su Twitter. 

«Ho visto bambini piangere e persone venire spintonate perché non volevano andarsene. Io ero con una mia amica e mi è venuto un attacco di panico. Pensavo di prenderle», ha aggiunto un'altra supporter. Altri attaccano il comportamento delle forze dell'ordine: «Siamo stati costretti ad andarcene e nessuno steward/forza dell'ordine ha fatto qualcosa».

Un supporter nerazzurro si rivolge, sempre via Twitter, direttamente al ministro dello Sport Andrea Abodi: «Dopo i fatti di Inter-Sampdoria, mi appello al ministro: si prendano provvedimenti seri! Lo stadio è di tutti i tifosi, compresi settori che da sempre sembrano in comodato d'uso a gente che nulla a che vedere con lo sport». 

Abodi in risposta ha assicurato provvedimenti urgenti da parte del governo: «Quello che è successo è inaccettabile, non è tollerabile. Sono certo che saranno presi immediati provvedimenti. Non solo parole!».

Via social piovono decine di testimonianze: «Gente che si è fatta ore e ore di auto o treno costretta contro la propria volontà ad uscire dallo stadio». «Centinaia, migliaia di persone obbligate a uscire da uno stadio, per cui avevano pagato un biglietto, per rispetto nei confronti di un regolamento di conti tra criminali», scrive Alice. 

«Una delle pagine più nere nella storia del rapporto tra tifoserie organizzate e società», attacca Valerio Iafrate. Alcuni tifosi rimangono per il resto della partita in curva ma sui lati estremi, altri invece riescono a rientrare nel Meazza e a seguire il match dal terzo anello verde. «Ho pagato il biglietto per vedere il primo tempo nel secondo anello e metà secondo tempo nel terzo. Un comportamento indecente da parte dei capi ultrà».

Sono in molti, compreso il direttore del Tg La7 Enrico Mentana a tirare in ballo il club nerazzurro e il presidente Steven Zhang: «La società Inter non ha niente da dire su quel che è successo sugli spalti di San Siro? Si può obbligare chi ha pagato il biglietto a uscire contro la sua volontà per partecipare al lutto per la morte di un pluripregiudicato? Può una curva organizzata continuare a operare al di fuori delle regole e delle leggi? 

Possono la Lega Serie A e la Federcalcio continuare a chiudere gli occhi sulle illegalità grandi e piccole che prosperano intorno al tifo organizzato di molta parte delle squadre italiane?».

Dalla società nerazzurra non è ancora arrivata una risposta ufficiale, ma da viale della Liberazione filtra una dura «condanna verso le violenze» e la disponibilità a «forme di tutela e risarcimento per i tifosi costretti a uscire dalla curva». Nel frattempo sui social si rincorrono altre testimonianze che parlano di «un padre picchiato con la propria bambina». 

Episodi sui quali sono in corso le verifiche delle forze dell'ordine. Al momento non risultano denunce né persone soccorse dal 118. La questura lavora sulle immagini delle telecamere di sorveglianza per ricostruire i singoli episodi. Chi ha avuto comportamenti violenti rischia una denuncia per violenza e il Daspo.

Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2022.  

«Eravamo sul piazzale a bere l'ultima birra e sentivamo i cori per Stankovic. Tutto normale». Ore 20.15, Dejan Stankovic, bandiera dell'Inter del Triplete, allenatore della Sampdoria, viene omaggiato dalla curva Nord nella serata del suo ritorno a San Siro.

«Entriamo e intorno alle 20.40 iniziano a ripiegare gli striscioni. Poi i ragazzini iniziano a fare su e giù». 

Sono i messaggeri. La cinghia di trasmissione tra la testa (i capi della curva) e il corpo (la massa degli 8 mila interisti al secondo anello verde). 

I messaggeri si muovono e passano l'ordine: «Oggi non si tifa. Niente cori. È successo un fatto grave». Lo svuotamento della curva interista per l'assassinio del proprio capo criminale inizia in quel momento. Il racconto di un ex ultrà che continua a frequentare la Nord di San Siro permette di ricostruire al dettaglio quel che è accaduto. «A quel punto si sono attaccati tutti ai cellulari per cercare notizie. Così abbiamo capito quale fosse il "fatto grave"». 

La partita scorre nel silenzio. Arriva il primo gol dell'Inter. «Coi miei amici abbiamo esultato, come altri. Da sotto ci hanno guardato male. Ci hanno urlato dietro». Arriva l'intervallo. Qualcuno inizia a uscire. E parte la seconda ronda dei «ragazzini». «Strillavano: "Adesso usciamo tutti". Un signore vicino a me ha detto: "State scherzando? Io resto qua". Uno gli ha risposto: "Invece te ne vai, sennò ti spacco la faccia".

Il ragazzotto s' è avvicinato per spintonarlo, ma ha perso l'equilibrio tra i seggiolini ed è caduto. C'è stato un momento di tensione, stava per scattare il parapiglia. Ci siamo messi in mezzo e abbiamo parlato con l'altro che dava ordini. Ci ha detto: "Dovete uscire sennò vengono e vi picchiano, rischiate grosso". 

I capi non si spostano, mandano avanti i ragazzetti a dare gli ordini. Però sai che i tizi pesanti stanno là, e che se ti opponi magari dopo, in un punto senza telecamere, te ne ritrovi addosso due o tre e qualche cazzotto lo prendi. Io pugni o calci non ne ho visti, ma urlacci, minacce e spintoni sì.

Alla fine la gente lo sa come funziona: anche se non te ne frega niente e vuoi solo vedere la partita, te ne vai, perché sono persone pericolose». In linguaggio teorico, si definisce intimidazione ambientale. In curva è la regola. Centinaia di tifosi restano nei corridoi dello stadio. Nei bar. Provano a seguire il secondo tempo sui telefoni. «Poi abbiamo visto che c'era un ingresso lasciato aperto e siamo saliti in un altro settore, al terzo anello. Ormai eravamo al settantesimo minuto. Al terzo gol abbiamo esultato. Tutto abbastanza surreale. E molto ingiusto». 

Cesare Giuzzi per corriere.it il 31 ottobre 2022.

Settore per settore, fila per fila. Gli investigatori della Digos milanese sono al lavoro sui filmati delle telecamere dello stadio Meazza per ricostruire cos’è accaduto davvero durante la ritirata dagli spalti della Curva Nord ordinata dai capi ultrà nerazzurri. 

Attimi concitati con migliaia di persone che si spostano verso le uscite, un esodo disordinato, caotico, dove la calca ai varchi, gli spintoni, le urla si mischiano. In quel momento però nessuno dei funzionari della questura impegnati in ordine pubblico nota aggressioni o attacchi ai tifosi. Tanto che la priorità è «gestire» l’uscita dei tifosi e il loro sostare, per il resto della partita, all’esterno dei cancelli.

Quando via social iniziano a rimbalzare racconti di aggressioni, il match è ormai concluso. A tarda ora da via Fatebenefratelli parte una sorta di «appello» a tutti i funzionari e ai dirigenti per verificare eventuali episodi di violenza. La stessa cosa avviene domenica mattina, con un supplemento di verifiche che ancora una volta, secondo quanto trapela, dà «esito negativo». 

La stessa richiesta viene fatta al 118, ai pronto soccorso, alla centrale che gestisce la sicurezza del Meazza. Ancora nulla. È per questo che da domenica mattina gli inquirenti della Digos e della scientifica stanno passando al setaccio tutti i filmati dello stadio che riprendono il secondo anello verde, quello degli ultrà della Curva Nord.

Né in questura né in procura al momento risultano denunce o esposti. Potrebbero arrivare, ma nessuno per ora s’è fatto avanti, neppure in forma anonima. 

L’inchiesta, almeno conoscitiva, è comunque partita. Gli inquirenti, diretti dal questore Giuseppe Petronzi, in caso di fatti di violenza accertati potrebbero far scattare la doppia strada della denuncia in procura (per violenza privata o lesioni, dove se ne fossero verificate) e del procedimento amministrativo del Divieto d’accesso allo stadio. Necessario però che ci siano stati atti di violenza verso le persone o le cose. O comunque di intemperanza rispetto alle regole del comportamento allo stadio.

Da via Fatebenefratelli non arrivano risposte ufficiali alle critiche, viene però fatto notare che non è vero che siano uscite 8 mila persone dalla curva, anche perché gli spalti del secondo anello verde nei settori laterali sono rimasti occupati. 

Bloccare gli ultrà nello stadio e impedirgli di uscire avrebbe provocato, molto probabilmente, una situazione simile a quella di Seul e il rischio altissimo di incidenti nello stadio. Sulle prime si temeva che i tifosi volessero poi muoversi in corteo verso il pronto soccorso del San Carlo dove è spirato Boiocchi. Ma alla fine in ospedale si sono presentati solo alcuni membri del direttivo.

Sulle polemiche che hanno fatto seguito all’uccisione di Boiocchi, invece, la linea è chiara. Solo lo scorso anno il questore ha emesso 33 Daspo per manifestazioni sportive. Nel caso di Boiocchi le indagini della polizia avevano portato all’arresto per estorsione e alla sorveglianza speciale per 2 anni. Lo stesso vale per il capo ultrà rossonero Luca Lucci (quello della stretta di mano a Matteo Salvini), condannato per droga a 7 anni. E daspati sono diversi esponenti del direttivo delle due tifoserie.

Le indagini sul mondo delle curve milanesi non si sono mai fermate. Anche perché all’attività della Digos si unisce spesso quella delle sezioni investigative di polizia e carabinieri. Inchieste per criminalità organizzata e traffico di droga, coordinate dalla Dda, che hanno messo in luce la commistione tra ultrà e clan mafiosi siciliani e calabresi. In questa direzione si muoveva anche il capo ultras Vittorio Boiocchi. E pensare che nei giorni scorsi il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Marino, Alessandro De Chirico, aveva proposto proprio la curva Sud milanista per l’Ambrogino d’oro.

Boiocchi, identificati i tre ultrà che hanno "svuotato" la curva. Ripresi dalle telecamere i responsabili delle minacce. Il movente del delitto tra parcheggi e bagarinaggio. Paola Fucilieri il 2 Novembre 2022 su Il Giornale.

Sabato, stadio Meazza, secondo tempo di Inter-Sampdoria. Le immagini del deflusso forzato dal secondo anello verde - e dallo spicchio centrale del terzo - immortalano gli effetti dell'ordine di massa della Curva Nord alla notizia della morte del suo leader, il capo ultrà Vittorio Boiocchi. Vittorio, uno di noi, come recitavano i cori dei Boys, aveva 69 anni. Freddato con tre colpi di pistola alle 19.48 davanti a casa sua, in zona Figino, mentre stava rientrando, da due killer a bordo di un maxi scooter e poi fuggiti, Boiocchi veniva proprio dallo stadio Meazza dove era stato al «Baretto», abituale luogo di ritrovo della tifoseria, per incitare i tifosi, un rito irrinunciabile. Quindi, seppellito da Daspo e divieti vari (e con l'obbligo, in qualità di sorvegliato speciale, di rientrare a casa entro le 21) aveva raggiunto la sua abitazione strappando un passaggio in scooter a un amico. Non appena questi l'aveva lasciato, erano sopraggiunti i killer che, quasi sicuramente avevano seguito il capo ultrà sin dallo stadio e poi per tutto il tragitto fino davanti a casa sua, in via Fratelli Zanzottera. Da lì, dall'omicidio di Boiocchi (che, in attesa degli esiti dell'autopsia, il pm Paolo Storari non esita comunque a definire «opera di due professionisti») il successivo deflusso forzato dei tifosi allo stadio che tante polemiche ha suscitato.

Ieri, dopo due giorni di analisi dei filmati delle telecamere a circuito chiuso del Meazza, gli investigatori della Digos hanno isolato alcune sequenze significative di quel deflusso con cui la tifoseria nerazzurra dura e pura ha costretto 7500 persone, anche con la forza, a lasciare lo stadio.

Inviata una prima informativa in Procura, in cui veniva specificato di non aver ricevuto denunce né di aver riscontrato interventi del 118 a supporto di feriti o contusi, il lavoro della Digos procede sulle telecamere. E «ha già individuato alcuni ultras - si legge in una nota della questura - che hanno provocato il deflusso e isolato la posizione di un altro ultras responsabile di aver usato violenza verso una persona che esitava a lasciare lo stadio». Non ci sono al momento denunciati, in attesa di ulteriori riscontri: più probabile che gli eventuali responsabili siano colpiti da Daspo.

Inoltre, fanno sapere da via Fatebenefratelli, «altri approfondimenti sono in corso su due chiamanti che hanno contattato il 112 per lamentare, un'ora circa dopo i fatti, di essere stati allontanati dagli spalti». Più lunga sarà la verifica delle decine di post e messaggi su quanto stava accadendo al Meazza: «Si stanno altresì rintracciando alcuni autori delle segnalazioni sui social per circostanziare gli episodi lamentati».

Intanto le indagini sul movente, sui responsabili e naturalmente, sui mandanti dell'omicidio Boiocchi non si prospettano brevi. Vittorio uno di noi, criminale di lungo corso, aveva tessuto legami con trafficanti di cocaina e capi curva, mafiosi e manager delle società che hanno in concessione (dal pubblico) i parcheggi. Senza contare che, oltre agli interessi che muoveva e sui quali mai avrebbe mollato il colpo, era un tipo che, anche caratterialmente, non andava a genio a molti.

 Milano, disposta la sorveglianza speciale per il capo curva dell'Inter Andrea Beretta.  Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022.

Per un anno e mezzo Andrea Beretta, leader della curva Nord dell'Inter, non potrà dimorare nel capoluogo lombardo. La misura era stata richiesta nei mesi scorsi dalla Questura milanese per la «pericolosità sociale» dell'ultrà. 

La Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, presieduta da Fabio Roia, ha disposto la misura della sorveglianza speciale per un anno e mezzo con divieto di dimora nel capoluogo lombardo per l'attuale leader della curva dell'Inter Andrea Beretta. Misura che era stata richiesta nei mesi scorsi dalla Questura milanese per la «pericolosità sociale» dell'ultrà che, tra l'altro, è stato sentito come teste di recente anche nel caso dell'omicidio di sabato scorso di Vittorio Boiocchi, leader storico della curva nerazzurra. 

La Questura di Milano aveva proposto la misura di sorveglianza, come si legge nel provvedimento dei giudici Roia-Tallarida-Profeta, perché Beretta, 47 anni, si è reso «responsabile di numerosi reati quali furto, rapina, sequestro di persona, violazione della normativa sugli stupefacenti, violenza e minaccia a pubblico ufficiale». E ancora lesioni, minacce, «estorsione» e «molteplici» violazioni del Daspo che gli è già stato comminato (per la durata di 10 anni). 

Tra gli ultimi episodi segnalati nel provvedimento quello del 16 febbraio scorso, quando il 47enne aveva minacciato un bagarino fuori da San Siro e lo aveva colpito «con calci e pugni». Per questo è accusato di lesioni e violenza privata anche con l'aggravante dell'odio «razziale-regionale». Gli avrebbe detto: «Noi siamo della curva, qua i napoletani non li vogliamo». 

Davanti ai giudici della Sezione autonoma misure di prevenzione Beretta, difeso dal legale Mirko Perlino, ha riconosciuto «di aver fatto degli sbagli, legati alle problematiche di gestione dei gruppi organizzati della Curva Nord» e ha spiegato che avrebbe violato il Daspo in certi casi per la «necessità di tenere sotto controllo alcune situazioni». Il Tribunale nel disporre la misura di prevenzione, con tutta una serie di prescrizioni, scrive che Beretta è una persona che tende a passare «con estrema facilità alle vie di fatto, anche per risolvere, in modo estremamente brutale, questioni o divergenze insorte nel quotidiano».  

Giulia Zonca per “La Stampa” l'1 novembre 2022.

Oltre lo scandalo resta il vuoto che stavolta, se non altro, si vede. Si impone: la curva deserta di San Siro è l’equivalente della casa piena di oro e marmo dei Casamonica. Quel troppo che lascia il segno, l’impunità che diventa fotografia e si pianta nel giudizio della gente. Ogni eccesso stucca, stufa, stanca, tanto da portare all’insofferenza, al disgusto. 

Prima di Inter-Sampdoria i clan della curva facevano quello che gli pareva, come da tradizione. Dopo potranno anche continuare a farlo, solo che ora resta quell’immagine, chissà se a fare da stacco o da ponte.

Tocca all’Inter, come alle altre società, decidere e di certo non è una scelta comoda, ma resta, esiste. Oltre i comunicati retorici e le scuse ripetute opposte all’indefinibile responsabilità di un reato che viene addirittura immortalato in uno scatto. E stavolta è quello giusto. 

Si parla della stessa curva da cui è stato lanciato un motorino in un derby incandescente interrotto per violenza. È successo più di 20 anni fa, solo che da quell’album esce uno sfondo di fumogeni rossastri davanti al profilo di Materazzi appoggiato alla spalla di Rui Costa, praticamente un’immagine romantica.

Una spremuta di empatica malinconia. Le suggestioni non te le scegli, ti arrivano addosso e quella sera, che poteva portare allo sfinimento, è stata tramandata come un nuovo inizio. Fosse stato vero non saremmo qui oggi a guardare i seggiolini abbandonati al loro verde plastica. Non staremmo davanti a un pezzo di stadio sventrato come se ci fosse scoppiata una bomba dentro. È successo qualche cosa di molto simile e ci sta che la strafottenza faccia l’effetto di un’arma chimica. Puzza. Strozza. Toglie il respiro. 

Il boss della curva, pregiudicato e trafficante, è morto e i capetti che lo circondano sentono il bisogno di rendere omaggio, solo che non invitano i presenti a unirsi al flash mob. Li cacciano. Spettatori malmenati perché abbonati nel settore meno caro. L’arroganza del bullo si nutre di sguardi impotenti.

L’Italia ha una lunga storia di sbruffoni malavitosi, di delinquenti tollerati per un finto quieto vivere. La mafia ha prosperato così, con l’inchino al don, per strada, nel giorno della festa della santa, con il crimine formato famiglia, definita dal sangue o dal tifo è uguale. 

Gli Spada prendevano a testate in pubblico chiunque osasse denunciarli, avvertimento dato da un circolo che solo l’anno scorso un giudice ha definito «clan mafioso». Giusto in ottobre uno degli esponenti di spicco è tornato libero. Ostia ha sparato i fuochi di artificio. I Casamonica hanno fatto i loro comodi nel bel mezzo di Roma, tra papi e ministeri e più dei tanti squallidi reati ha potuto quella villa confiscata ed esposta.

Da temuta e rispettata, l’organizzazione è diventata insostenibile per i bagni barocchi incastrati in un lusso da re. Il calcio tollera più della giustizia, in un sistema dove ci si nasconde dietro a inafferrabili «non posso», dentro curve che altrove, in Europa, denunciano Mondiali da sfruttamento e fanno campagne di sensibilizzazione. Qui sono occupate dai clan, a cui ancora i club si inchinano nel giorno della festa della santa, cioè ogni maledetto fine settimana. 

Nella rispettabile Milano succede spesso, come se a tenere certa gente lì, sotto telecamere che non forniscono mai prove, si facesse quasi un servizio sociale. 

Franco Giubilei per lastampa.it l'1 novembre 2022.

L’uccisione del capo ultrà interista Vittorio Boiocchi, eliminato per la strada a Milano con sei colpi di pistola secondo modalità da criminalità organizzata, è un nuovo segnale della mutazione profonda che interessa le curve italiane da una ventina di anni a questa parte. 

Il 7 agosto del 2019 era toccato a Fabrizio Piscitelli, “Diabolik” per tutto il mondo ultras ma soprattutto per gli Irriducibili della Lazio, di cui era uno dei capi storici: ammazzato da un colpo di pistola alla nuca su una panchina di un parco romano da un killer albanese che sarebbe stato ucciso a sua volta per vendicare la morte di “Diablo”.

Lo scenario dell’omicidio riportava al giro del grande traffico di stupefacenti nella Capitale, lontanissimo dalla curva nord dell’Olimpico dove Piscitelli si era conquistato i gradi di comandante secondo le modalità classiche del tifo ultras: difendendo con le buone e con le cattive i colori della sua Lazio in casa, ma soprattutto in trasferta, dove si misurava la capacità di farsi rispettare di un gruppo. 

Ma anche se persone borderline e violente sono sempre state presenti nelle tifoserie di tutta Italia, si trattava pur sempre di comportamenti riconducibili al teppismo e agli scontri fisici. Qui invece il salto di qualità è clamoroso: non più botte, pietrate, cinghiate e, alla peggio, coltellate, che pure hanno causato vittime e feriti, ma armi da fuoco. 

Tutt’intorno, i gruppi ultras rispettivi fanno muro intorno ai loro morti: così come la Nord della Lazio aveva omaggiato il suo ex leader presentandosi compatta ai funerali e commemorandolo allo stadio con striscioni e una grande bandiera con la maschera di Diabolik, tributo condiviso dalla curva dell’Inter, legata agli Irriducibili da solidissimo gemellaggio, anche gli ultras nerazzurri hanno ricordato il loro Boiocchi. Stavolta in tempo reale, perché l’omicidio ha avuto luogo alle 20 e la curva interista ne è venuta a conoscenza durante la partita con la Sampdoria: il tempo che la voce si spargesse e gli ultras hanno smesso di cantare, ritirato gli striscioni e abbandonato la Nord. 

Movente, autore e contesto del delitto sono al vaglio degli inquirenti, ciò che è appurato sono i trascorsi della vittima, condannato per narcotraffico e rapina negli Anni 90. In tempi recenti, Boiocchi era ricomparso in curva nord in posizione di primissimo piano, un ritorno in grande stile che aveva provocato un discreto subbuglio, nonché uno screzio con un altro capo storico dei Boys dell’Inter, Franco Caravita, poi ricomposto con tanto di foto sui giornali.

Quanto all’escalation della violenza in certe frange del tifo ultras italiano, accanto agli omicidi ci sono aggressioni gravissime come quella subita dal milanista Enzo Anghinelli nell’agguato del 2019 nel centro di Milano, proiettili calibro 9 sparati in faccia cui sopravvisse per miracolo, preceduti da un pesante pestaggio subito poche settimane prima a San Siro a opera di tifosi della curva rossonera. Il tentato omicidio era collegato con gli interessi del tifoso negli stupefacenti. La sottrazione di 200 chili di hascisc al racket era stata associata dagli investigatori all’assalto avvenuto a Porta Romana. Più di dieci anni prima, nel 2007, un ultrà del Milan era stato gambizzato nel quadro di un riassetto dei poteri nella curva rossonera che riguardava la richiesta di biglietti e altri benefit alla società da parte di nuovi gruppi emergenti.

Questioni di droga e di bagarinaggio sono chiavi di volta per capire anche le infiltrazioni mafiose nella curva della Juventus che hanno portato ad arresti e allo scioglimento dei gruppi coinvolti. Anche qui c’è stato un morto, ma l’indagine per omicidio è stata archiviata perché è stato accertato il suicidio: è Raffaello “Ciccio” Bucci, l’ex ultrà juventino assunto dalla società per coordinare i rapporti coi tifosi nonché informatore dei servizi, volato giù dal cavalcavia di Fossano l’estate del 2016 all’indomani di un colloquio coi magistrati che indagavano sulla gestione dei biglietti da parte della curva. Quanto siano state determinanti le pressioni esterne perché si buttasse, forse non lo sapremo mai.

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2022.

Non conta il risultato del campo. Contano i soldi e gli affari fuori dallo stadio. Il racket dei biglietti, pretesi dalle società con tentativi di estorsione e minacce, e quello dei parcheggi, dei venditori ambulanti, dei paninari. Business trasversali spartiti tra i capi delle tifoserie di Inter e Milan. Affari criminali nei quali c'è il sospetto sia coinvolta anche una famiglia di 'ndrangheta della provincia di Reggio Calabria. Ma non c'è solo il calcio, perché i soldi arrivano anche dai concerti e dalla gestione della security e dei bar. 

La spartizione Una montagna di soldi, di cui gli «80 mila euro al mese» citati da Vittorio Boiocchi in una intercettazione dello scorso anno, sarebbero solo una piccola parte. Perché tutto sarebbe spartito equamente tra interisti e milanisti, in base alla partita o all'evento. Nemici (di facciata) sugli spalti e soci negli affari.

È questo lo scenario in cui potrebbe essere maturato l'assassinio dello «Zio», il 69enne capo ultrà nerazzurro Boiocchi. Le indagini della squadra Mobile puntano ai killer fuggiti in moto, ma sullo sfondo c'è lo scenario di un assalto criminale ai business intorno al Meazza. E non solo. 

Perché il nome di Boiocchi compare in un'inchiesta della procura di Milano su cui non è stato ancora messo un punto. Un'indagine che vede al centro la compravendita dei biglietti e l'ipotesi, solo ventilata, di possibili ricatti alla società nerazzurra. Quattro dirigenti dell'Inter sono anche finiti indagati con l'ipotesi di reato di associazione per delinquere prefigurando qualche forma di collaborazione per favorire i capi ultrà fornendo biglietti a prezzi agevolati o facendoli entrare gratis.

In realtà, per i quattro dirigenti lo stesso pm Leonardo Lesti ha chiesto l'archiviazione, accolta dal gip Guido Salvini, che concorda nel concludere che i quattro «erano in realtà vittime del comportamento minaccioso ed estorsivo dei capi dei tifosi e quindi semmai persone offese dei reati». Vittime quindi, di uno scenario già visto sull'altra sponda del Naviglio quando nel 2007 scattarono gli arresti per la tentata estorsione al Milan. Anche qui minacce e ritorsioni ultrà per ottenere biglietti dall'allora ad Galliani. 

Il ruolo di Boiocchi Un punto fondamentale di questo scenario è il 2018, quando viene scarcerato dopo 26 anni proprio Boiocchi. Lui torna in curva e si «autoproclama» capo della curva Nord.

In dote porta la fondazione dei Boys San e legami con cosche: i Fidanzati, i Di Marco, i Mannino. Boiocchi, secondo quanto circola sottotraccia negli ambienti del tifo, avrebbe spodestato i vecchi capi con azioni violente e spartito il business tra alcuni membri del nuovo direttivo della curva. A loro, tra cui Franchino Caravita, Renato Bosetti, Andrea Beretta, Giacomo Pedrazzoli, Emiliano Cimbali ed Enzo Lentini, avrebbe affidato la questione dei biglietti. Si vocifera di 2 mila tagliandi a partita pretesi (con le brutte) dalla dirigenza. Ieri Beretta e altri del direttivo sono stati interrogati in questura nelle indagini sul delitto.

L'affare dei parcheggi Ma il grande affare del Meazza sarebbe invece quello dei parcheggi. Da gestire in alleanza con i «cugini» rossoneri: Luca Lucci - l'ultrà della stretta di mano a Salvini - e Giancarlo Lombardi, detto Sandokan, tornato nella Sud dopo la vicenda dell'estorsione nel 2007. Sullo sfondo Loris Grancini, capo dei Viking della Juventus ma da sempre vicino a Sandokan. Con le sue pesanti amicizie alla Barona, quartiere della periferia milanese.

Trafficanti di cocaina e capi curva, mafiosi e manager delle società che hanno in concessione (dal pubblico) i parcheggi. E qui sarebbero coinvolte anche società di comodo vicine alla famiglia Iamonte della 'ndrangheta. Una torta redditizia, spartita, non estorta, in cambio di protezione e forse altri affari come il traffico di droga (in curva e fuori) e il controllo di altre attività. Un affare grosso. Così tanto da valere un omicidio?.

Boiocchi al dirigente dell’Inter: «Ci prendiamo le cose a forza». Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022.

L’inchiesta ha visto archiviati quattro dirigenti dell’Inter «vittime del comportamento minaccioso ed estorsivo dei capi dei tifosi e quindi semmai persone offese dei reati». La pretesa di andare a prendere all’aeroporto i giocatori 

«Adesso cambiamo tattica, adesso le cose ce le prendiamo per forza e poi vediamo cosa succede», gridava al telefono Vittorio Boiocchi, il capo ultrà assassinato sotto casa, a un dirigente dell’Inter «reo» di non averlo avvisato dell’arrivo nel gennaio del 2020 del neoacquisto Young in aeroporto, dove la Curva vuole dare il doveroso «benvenuto» e scattare le prime foto con le sciarpe al collo.

Rapporti difficili, spesso tesi tra ultrà e club. Collusioni però no. Il terreno è quello, scivoloso e in penombra, dei rapporti delle società di calcio con il tifo organizzato. Finito nel mirino della Digos e poi della procura di Milano, che seguendo gli affari dei principali esponenti della Curva (compreso Boiocchi) aveva — come si è scoperto — indagato quattro dirigenti dell’Inter ipotizzando addirittura il reato di associazione per delinquere: l’ipotesi era che ci fosse stata qualche forma di collaborazione per favorire i capi ultrà fornendo loro biglietti a prezzi agevolati o facendoli entrare gratis allo stadio o consentendo il commercio di merchandising.

In realtà per i quattro dirigenti lo stesso pm di Milano Leonardo Lesti ha chiesto sin dal giugno 2021 l’archiviazione, accolta nell’ottobre dello stesso anno dal giudice per le indagini preliminari Guido Salvini, che concorda nel concludere che i quattro «erano in realtà vittime del comportamento minaccioso ed estorsivo dei capi dei tifosi e quindi semmai persone offese dei reati».

Nessuna collaborazione, dunque, ma la difficile gestione dei rapporti con il tifo organizzato. Al massimo — come scrive il pm nella richiesta di archiviazione — «una minimizzazione di un problema che da anni affligge le squadre di A pressate da soggetti che si autodefiniscono tifosi/ultras, ma che in realtà per finalità essenzialmente personali esercitano un vero e proprio potere di ricatto nei confronti dei dirigenti». I quali si vengono a trovare in una situazione scomodissima: «Devono riuscire a gestirle senza incorrere in violazione della normativa vigente, rispondere alla proprietà che, ovviamente, almeno a parole, non intende cedere alle suddette richieste, e alle autorità incaricate della gestione dell’ordine pubblico». Ed evitare il peggio: un dirigente, scrive sempre il pm, ha riferito di «subire la pressione psicologica derivante dalla caratura criminale di alcuni esponenti , in particolare di Boiocchi» e di temere «che la mancata soddisfazione delle loro richieste si potesse trasformare in comportamenti della Curva quali cori offensivi, lanci di monetine, accensione di fumogeni durante le partite, nocivi per la società».

Un lavoro ingrato. Nella memoria difensiva scritta dal compianto avvocato Francesco Arata e dal collega Leonardo Cammarata, si legge la piena consapevolezza della difficoltà del compito. «La società ha impostato il proprio rapporto con la tifoseria al rispetto rigoroso delle norme», si difende uno dei dirigenti. Che si sfoga: «Io più che dire di no a tutti non so che fare».

Però le pressioni della Curva ci sono. Si concentrano soprattutto sulla vendita dei biglietti («che venivano poi parzialmente rivenduti a prezzi maggiorati con una sorta di “bagarinaggio”»), l’organizzazione delle trasferte e gli ingressi allo stadio. Com’è avvenuto quando un capo ultrà (colpito da Daspo), scontento perché non erano permessi cambi di nome sui biglietti e (cosa sorprendente) perché non c’era l’abbonamento gratis a don Mazzi, dice a un altro: «Non mi vogliono vedere perché prendo il martello e gli sfondo la testa con un martello a sto co...”; o come quando, in assenza del numero richiesto di tagliandi per una trasferta a Lecce, vengono prospettati disordini: «Allora io vado giù con 200 persone senza biglietto». Non è facile neanche riscuotere i crediti degli abbonamenti venduti(«Io gli ho detto, i tempi non li detti tu», dice un ultrà al dirigente interista).

Ma le pretese dei tifosi sono varie: lo stesso Boiocchi, come detto, fa pressioni per essere avvisato in tempo dell’arrivo in aeroporto dei giocatori acquistati. «Ma che c... sta succedendo che noi non sappiamo come e quando arrivano i giocatori». Risposta dall’Inter: «Ma io non posso mica dirvelo...». E di fronte a ulteriori resistenze: «Adesso cambiamo tattica: adesso le cose ce le prendiamo per forza».

II pm Lesti conclude quindi che «anche la dirigenza interista era vittima del comportamento estorsivo dei capi tifosi, che li utilizzava esclusivamente per il raggiungimento di finalità di prestigio personale quando non di mero profitto privato». Altro che tifosi, dunque.

Pierpaolo Lio per corriere.it il 7 novembre 2022.

Ci sono gli striscioni dei «Boys San» e della Curva Nord. E il coro «Vittorio uno di noi», intonato dagli ultrà all’uscita del feretro. Chiesa San Materno a Figino: all’interno, lunedì 7 novembre si svolgono i funerali di Vittorio Boiocchi, il 66enne capo della tifoseria organizzata nerazzurra, ucciso in un agguato la sera del 29 ottobre alla fine dei portici, sull’altro lato della strada. 

Di fronte alla chiesa si ritrovano in oltre 600 persone, la stragrande maggioranza tifosi, comprese alcune delegazioni della curva gemellata laziale, dei cugini-rivali rossoneri e del Varese. 

Alla cerimonia in chiesa hanno presenziato solo i famigliari e i conoscenti più stretti. «È un dolore difficile da provare, il tuo debito con la giustizia lo avevi pagato. Magari avevi sbagliato ancora ma nessuno aveva diritto di toglierti la vita», sono state le parole di una delle tre figlie in ricordo del padre. «Niente più di quello che è successo può ferirci maggiormente - ha aggiunto -. Avevi dei veri amici, dei fratelli, i tuoi ragazzi e la tua curva. Quando ne parlavi non capivo, oggi sì. Hai lasciato tanto a tutti. Seppure pochi sono stati gli anni più belli».

Da ilnapolista.it il 7 novembre 2022.  

Il calcio italiano si ostina a non vedere: basta non aprire i giornali stranieri, restare alle rassegne stampa italiane. Però la figuraccia – l’ennesima – delle curve in mano alla criminalità, territorio di senza legge, ovviamente svilisce l’immagine della Serie A all’estero.

Nell’immediato dell’ultimo scandalo – ne aveva scritto El Paìs – e anche con qualche giorno di decantazione. E così ora tocca alla Süddeutsche Zeitung raccontare la “quinta Mafia” italiana, quella degli Ultras. È un’etichetta complicata da strappare, quella della Mafia.

L’autorevole quotidiano tedesco racconta della Curva Nord svuotata per la morte dello “Zio” Vittorio Boiocchi. Riassume la vicenda e – giustamente – ne sottolinea gli aspetti più indecenti. Quel “tempo in prigione considerato un onore in questo ambiente”, che “appartiene a ogni rispettabile curriculum di un boss Ultras”.

“26 anni, la sua fedina penale si leggeva come l’indice del codice penale: traffico internazionale di droga, organizzazione criminale, detenzione di armi, furto, sequestro di persona, estorsione. È rimasto in carcere fino al 2018, poi, appena uscito, ha ripreso il controllo della Curva”.

Magari per gli italiani è una cosa quasi normale, ma in Germania i tifosi, anche i peggiori ceffi (lì non se la passano bene con gli ultras), difficilmente hanno curricula del genere. 

“E così – scrive la SZ – l’Italia torna a dibattere sui suoi ultras criminali, per lo più neofascisti, memorabilmente potenti e tuttavia costantemente sminuiti. Politica, media, tifosi di spicco: tutti sono indignati da un po’, anche quello è un classico. Non ci vuole mai molto prima che l’indignazione svanisca di nuovo”.

“Il club stesso ha impiegato due giorni interi per trovare le parole giuste, ma poi non le ha trovate. Il comunicato dell’Inter è rimasto generico, anche un po’ timido. Uno è contro la violenza, sempre. Chiaro. Ma anche tu non vuoi pasticciare con i sostenitori organizzati, temi il loro potere. 

La Süddeutsche fa sua la definizione dell’Espresso “Quinta Mafia”, “come se fossero in lista con la Cosa nostra siciliana, la ‘ndrangheta calabrese, la camorra campana e la pugliese Sacra Corona Unita. Potrebbe essere un’esagerazione. Ma l’analogia si adatta abbastanza bene”.

“Gli ultras lavorano con modalità simili a quelle della criminalità organizzata: estorsioni, intimidazioni, violenze, controllo del territorio. Il loro dominio sono gli stadi e le immediate vicinanze, dove decidono cosa funziona e cosa no, quando e come cantare, chi viene ricordato, chi può vendere e chi no”. 

La Süddeutsche richiama per forza i collegamenti dei capi-ultrà con le organizzazioni criminali. Non solo Baiocchi, ma anche il milanista Luca Lucci “famoso a livello nazionale per aver incontrato il vicepremier in carica Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno”. E il laziale Diabolik, Fabrizio Piscitelli. Il processo Last Banner sui Drughi della Juve e la ‘Ndrangheta. 

“Tutto scorre e tutti sanno cosa sta succedendo. Manca la volontà politica di unire le forze dello Stato, della polizia e dei club nella lotta alla quinta mafia”.

“Anche allo Stadio Olimpico di Roma gli ultras si vedono padroni di una zona franca, una zona franca a loro disposizione. In entrambe le curve: Curva Nord della Lazio e Curva Sud della Roma. Gli steward con le loro giacche giallo brillante guardano semplicemente cosa sta succedendo da una distanza di sicurezza, chi può biasimarli. Sono solo comparse, mal pagate”.

Inter, nella curva degli ultrà: «Boiocchi per noi resta un esempio». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 12 Novembre 2022.

Milano, nella curva degli ultrà dell’Inter: «Chi ci condanna ci fa solo venire la nausea». Le regole di tifo: «Se non salti, non canti e non insulti allora vattene via: qui non siamo mica a teatro»

A cento metri dal «baretto», il ritrovo dei seimila ultrà, i ragazzi se ne stanno come antichi strilloni: fermi col sorriso sotto la pioggia lenta mentre tutt’intorno gli altri 63 mila spettatori di Inter-Bologna vanno di fretta verso i cancelli, le mani poggiate su cappucci e cappelli, i mocassini a evitare le pozzanghere dove rotolano resti di panini straunti imbottiti di cipolle e peperoni; sì, strilloni ché in fondo distribuiscono un’edizione straordinaria, quantomeno nei contenuti del magazine di quattro pagine della Curva Nord. Dei tanti passaggi, questo: «Non negateci la purezza». Del resto «abbiamo le nostre regole». Così succede «da che mondo è mondo». Nei secoli dei secoli, militanza e fratellanza a oltranza.

Le 20.45, secondo anello verde dello stadio Meazza.

«Ciao zio»

Di sera lo stadio regala il meglio della propria anacronistica bellezza: che tormento questa lunga fase di passaggio dei tornelli, che pesantezza questi gradoni, che pietà questi gabinetti. Partita di campionato dentro la tribù della Curva. Ebbene: se non urli devi urlare, se non salti devi saltare, se non insulti devi insultare, insomma se pensi d’essere a teatro, fratello, ci ripete infastidito ogni vicino sia egli a fianco, dietro o davanti, tornatene a casa. E beninteso all’ode tributata allo «zio», che non è affatto la bandiera Giuseppe Bergomi, 519 presenze, ma il pluripregiudicato capo degli ultrà Vittorio Baiocchi ucciso a fine ottobre, 26 anni di galera, bisogna partecipare. Sentimento, commozione. Un comune grazie. Testa alta, mano sul cuore. Baci al cielo. «Da noi nessuno verrà discriminato per quello che è fuori dallo stadio».

Gli altri settori fischiano. Ultrà, Boiocchi... Ma basta, basta, basta. E già. Ci schifate ma tanto «siamo quelli che senza chiedere niente a nessuno fanno le coreografie che vi salvate come sfondo su computer e cellulari». Ah, i cellulari: altrove, ovunque altrove, sono puntati sul campo per filmare la partita senza godersi la partita medesima; qui no, qui sono in tasca, al diavolo i telefonini e quegli «sceriffi da social che ci hanno condannato fino alla nausea».

Gli umarell

La Curva vista e vissuta prima, durante e dopo (con annessa puntata proprio là, nella periferia della periferia, il quartiere Figino dove Boiocchi abitava e i killer l’hanno colpito). Due finanzieri, un bagarino, degli ambulanti. Completate le pacifiche operazioni di ordine pubblico, i finanzieri scelgono di farsi fare un panino alle bancarelle. O meglio, forse in considerazione dei prezzi che variano dai 6 euro in su, ne smezzano uno. Incrociano con gli occhi un bagarino, e chissà chi l’ha arruolato: poveretto, ha insormontabili problemi a parlare, lo aiutiamo a illustrare i prodotti che lui stesso offre (biglietti dal primo al secondo al terzo anello, cifre trattabili). Tre senegalesi che provano a piazzare braccialetti colorati di nerazzurro domandano monete per i caffè. Sfrecciano dei ragazzini, impennano sulle biciclette dello sharing che mollano lanciandole come stunt-man contro la recinzione saltando all’ultimo; un poliziotto racconta che sono presenze abituali, vengono dalle case popolari di San Siro, si mischiano per scippare i tifosi e pedalare via, in fuga.

Seduti su sedie da campeggio, in pausa, i commercianti delle bancarelle — non uno scontrino, un fluire di guadagni in nero nei quali peraltro, stando alle indagini, Boiocchi sguazzava inseguendo l’ossessione per il denaro —, ecco i commercianti cenano, mangiando non quello che vendono, per carità, ma insalate e zuppe cinesi. Dopodiché toh, ci sono anche gli umarell da stadio: amici che camminano intorno al Meazza, chiacchierano osservando manco fossero i cantieri i furgoni delle postazioni televisive, i blindati della polizia, i macchinoni dei ritardatari che s’infilano nei parcheggi (altro fluire di soldi in nero) lungo i cui perimetri, nelle aree laterali delle soste ufficiali a pagamento, i controllori staccano multe. Milano è sempre Milano.

Senza bandiere

Il questore Giuseppe Petronzi aveva ordinato niente striscioni, niente bandiere, niente di niente se non la presenza fisica, e la Curva obbedisce pur rimarcando, nel magazine, i racconti in malafede alla pirotecnica ricerca di scoop. A cosa si riferiscono? Ai post di Twitter, Instagram e Facebook relativi a Inter-Sampdoria, in contemporanea cioè con l’apprendere dell’omicidio di Boiocchi, e con la decisione di svuotare la Curva per lutto: taluni non ultrà avevano raccontato d’esser stati picchiati, adulti oppure bimbi senza distinzione, in quanto refrattari ad andarsene… Le notizie erano divenute tali senza conferme, i successivi accertamenti non avevano documentato il ricorso a sistematici pestaggi di massa. Qualche episodio comunque è avvenuto, ma più che altro «imputabile a un’imperfetta gestione della situazione. Ce ne scusiamo». Intanto in campo l’Inter fa l’Inter, affonda il Bologna perfino con fastidiosa facilità a ripensare alle cinque sconfitte in campionato. Pazienza, la fede calcistica è mistero e dolore con inusitata fiducia nel domani. Auto-definizione della Curva: «Siamo testuggine nella tempesta e volto fiero nell’avanzare».

Avanzano colossali cannoni di marijuana, bottigliette di whisky, un generale tanfo di sudore da un’ora di corsa al parco nonostante il freddo umido; avanza un tenace odio contro quelli del primo anello rosso, considerati dei debosciati convinti d’essere a teatro e lesti ad andarsene in anticipo, indifferentemente rispetto all’esito della partita pur di evitare il traffico al ritorno, d’altronde il milanese è sempre il milanese. Di nuovo fuori dallo stadio: i commercianti rimettono il grembiule e attaccano a friggere; frequenti le casse acustiche che rimandano a volume-bomba melodie napoletane; dietro al bancone si alternano anziani e ragazze, albanesi, romeni, coppie, volti stanchi; chiediamo in giro, in verità quale esercizio retorico, di Vittorio Boiocchi. «Chi?». Appunto.

Le indagini

Conviene spostarsi nella sua Figino, minuscola comunità con anima da paese; bello il bar «Sahary», che s’apre addirittura con una fornita libreria e inizia da una porta che sembra l’introduzione a un covo carbonaro; all’interno, vecchietti coi vestiti della festa consumano una torta fatta in casa, tre giovani in ciabatte e tuta conversano in arabo, due signore si consolano a vicenda evocando debiti su debiti, un gruppo di altri vecchietti gioca a carte sorseggiando un bianchino.

Boiocchi era un cliente fisso. Anche il 29 ottobre. Quando uscì, s’incamminò nella strada a senso unico e incrociò i killer. Che lo marcavano, che l’aspettavano, che se ne sono andati ignorando forse d’avere un insospettabile alleato: le telecamere comunali. Son queste le occasioni per narrare la distanza tra propaganda e reale: la maggioranza delle telecamere analizzate dagli investigatori difatti non funziona o ha prodotto filmati di penosa qualità. Una moto però è stata isolata, e alla scoperta seguono le azioni per mappare gli spostamenti cercando frame più dettagliati che permettano di identificare la marca, il modello, l’anno di immissione sul mercato, pezzi di targa nell’eventualità di un veicolo rubato. Non facile, non impossibile, pur se Boiocchi apparteneva a vaste e variegate sceneggiature criminali, una miriade di contatti balordi e frequentazioni con pezzi grossi, più della ’ndrangheta che di altre organizzazioni mafiose. Killer da fuori, killer da lontano?

Mazzi di fiori veri e finti, bandierone, sciarpe sull’asfalto della morte. Il Meazza, a cinque chilometri, rimane vicino. Con i suoi ultrà. Che han voluto così scrivere due righe del magazine: «Vittorio Boiocchi è il capo che si è preso la Curva dopo un burrascoso passato (e magari presente)».

Magari presente.

Bisogna fermare le «Curve», dove oggi lo Stato e le regole non esistono. Giovanni Capuano su Panorama il 31 Ottobre 2022.

L'episodio di sabato sera, con i tifosi obbligati con la forza a lasciare curva nord di San Siro dopo la notizia della morte di Vittorio Boiocchi (storico capo degli ultras) mostra che lasciare campo libero a certa gente sia del tutto sbagliato 

Quanto accaduto a San Siro, con lo sgombero forzato della Curva Nord ordinato dai capi ultras per la morte del vecchio leader Vittorio Boiocchi, sorprende solo chi ipocritamente pensa che le curve degli stadi italiani siano territorio sotto controllo dello Stato e non extra territori in mano a manipoli di facinorosi. Non è così, purtroppo, e anche le recenti inchieste che in alcune città hanno svelato i rapporti pericolosi tra ultras e grande criminalità organizzata non hanno cambiato il quadro. A Milano è successo quello che sarebbe potuto accadere ovunque: in curva comandano i ras e non c'è nessuno che abbia la forza e la volontà di opporsi al sistema.

I racconti di chi è stato fatto uscire a forza, anche se non aveva nessuna intenzione di abbandonare lo stadio, hanno riempito i social network e non - da quello che risulta in Questura - i moduli dei commissariati. Non è detto che accada, perché il clima in quel luogo senza controllo che sono le curve degli stadi italiani è qualcosa che richiama alla legge del più forte e non è scontato che ci sia chi abbia voglia di esporsi con il proprio nome e con la propria faccia. Fatti recenti dimostrano che non serve nemmeno e che le tecnologie in mano ai club e alle forze dell'ordine sono sufficienti per ricostruire l'accaduto e identificare gli eventuali responsabili, procedendo poi a denunce e Daspo perché restino lontani dagli stadi. Ansa Il problema, però, è a monte. Come è possibile che per un periodo di tempo di almeno una ventina di minuti ci siano state attività di svuotamento di una fetta di San Siro, coinvolgendo migliaia di persone, senza che nessuno ne prendesse il controllo diretto se non i capi della curva? A osservare le immagini di InterSampdoria non si vedono steward e non ci sono forze dell'ordine che, per norma, vigilano sull'esterno lasciando alle figure professionali (?!?) dei club ciò che accade all'interno. Risulta dai racconti che steward e poliziotti in tenuta antisommossa non abbiano mosso un dito per evitare che le intimidazioni (o peggio) si verificassero in curva salvo poi fare muro per impedire alle migliaia di sfollati contro la propria volontà di trovare posto in altro settore dello stadio. Che risponde a una logica, essendo San Siro praticamente tutto esaurito e dovendo evitare un pericoloso effetto calca, ma che crea un cortocircuito impossibile da spiegare ed accettare. L'indignazione del giorno dopo non serve a nulla. E' utile, invece, fare due ragionamenti che richiamano alle vere responsabilità nella gestione dell'ordine pubblico all'interno degli stadi italiani, così che si passi dalle parole ai fatti. Il primo: l'inchiesta sulle presenze della 'ndrangheta allo Stadium, oltre ad aver portato la Juventus su tutte le prime pagine dei giornali, hanno dimostrato che un club può strappare i lacci del rapporto con i propri ultras. Come? Denunciando, ricevendo la sponda delle istituzioni e pagando un prezzo alto fatto di scioperi, clima freddo allo stadio, settori meno pieni e incassi ridotti. Costa (tanto) ma si può fare e non solo sull'onda di un'indagine per fatti gravissimi. In Italia non c'è quasi nessuno che compie questo salto. Per intenderci, gli ultras della citata Curva Nord interista pagano il loro abbonamento 269 euro mentre i normali tifosi della curva opposta (stessa visibilità e la scomodità di dover traslocare per lasciare il posto alla Sud milanista nel derby) 325. Perché? Chi autorizza lo sconto alla frangia più calda ma anche meno controllabile? Punto due: gli steward sono spesso ragazzi o padri di famiglia poco formati e sottopagati che non hanno figura giuridica da pubblici ufficiali e non intervengono se la situazione si fa tesa. Tanto meno mettendosi contro i capi delle curve. Semmai sono forti con i deboli, cioè i normali tifosi che a volte vengono ripresi anche solo perché si scambiano i posti. E' evidente che l'esperimento di lasciare ai club la gestione interna dell'ordine pubblico togliendo la polizia dalle curve è fallito. Bisogna prenderne atto e ripristinare la legalità. Il nuovo ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, si faccia fare una relazione su come vanno le cose in questo strano mondo senza regole e prenda provvedimenti così come ha fatto per il rave party abusivo di Modena. Non si può continuare a fare finta che le curve siano un problema risolto e cavarsela poi con qualche rimborso postumo a chi è stato vittima dei soprusi. Tutto molto ipocrita, mentre lo spettacolo della Nord sgomberata per commemorare un vecchio capo ultras, pregiudicato e assassinato in chissà quali circostanze, fa il giro del mondo.

Ultras e curve, società da milioni di euro di fatturato l'anno.  Linda Di Benedetto il 4 Novembre 2022 su Panorama.

Biglietti, trasferte, droga, merchandising, persino la prostituzione. A Roma, come a Milano le attività criminali delle tifoserie organizzate portano a guadagni inaspettati

L’ennesimo fatto di cronaca che lega la criminalità alle tifoserie degli stadi avvenuto a San Siro ha di nuovo riacceso le luci sugli ultras del calcio italiano, la loro forza e soprattutto i loro traffici illeciti che portano a guadagnare fiumi di denaro. Persone in gran parte pregiudicate (circa un 30% secondo stime di polizia) e che nel caso della partita Inter-Sampdoria hanno obbligato migliaia di tifosi (a suon di minacce) a lasciare la curva dopo avere appreso dell’agguato in cui è rimasto ucciso Vittorio Boiocchi capo degli ultrà interisti freddato da due killer in moto. Boiocchi, tanto per raccontare il personaggio, non era un stinco di Santo, anzi; aveva scontato 26 anni di carcere per reati di ogni tipo e si vantava di guadagnare con le varie attività fuori e dentro allo stadio «80 mila euro in contanti, al mese». Una carriera criminale comune a molti ultras come Fabrizio Piscitelli capo degli “Irriducibili” detto Diabolik ucciso in strada o a di Gennaro De Tommaso, detto «Genny ‘a carogna» della curva A del Napoli con precedenti gravi e proveniente da una famiglia di camorristi. Ma nonostante da sempre fatti come quelli di San Siro non siano nuovi alle cronache, continuano a stupire ogni volta, destando clamore mediatico e preoccupazione nell’opinione pubblica. Il fenomeno della criminalità nelle curve è presente in tutti gli stadi italiani. A Roma ad esempio la situazione non è poi così diversa da Milano. Anzi, è identica in tutto e per tutto. Il giro è il solito: minacce di comportamenti ed azioni illecite (e dannose per le società con lo stadio a rischio squalifica o chiusura e conseguente perdita dei milioni di incasso) per ottenere il controllo della vendita di migliaia di biglietti per le partite casalinghe e soprattutto per le trasferte. Insomma, il bagarinaggio legalizzato. I biglietti infatti vengono acquistati al prezzo di costo e poi rivenduti ai tifosi con un immancabile ricarico. Difficile quantificare ma chi in Questura si occupa di questo particolare settore di indagine non fatica a stimare in 100 mila euro gli introiti per una singola trasferta, questo tra biglietto e treno (o aereo). Un pacchetto viaggio tutto compreso organizzato dai capi della curva. E dato che le trasferte sono 25 l'anno (tra campionato, coppa Italia e competizioni europee) si arriva in fretta ad un minifatturato di 2,5 milioni di euro. Il guadagno sui biglietti avviene anche per le gare casalinghe (stiamo parlando di migliaia di tagliandi per altri 25 incontri. Ipotizzare un altro milione di introiti (qui il trasporto non è compreso) non è molto lontano dalla realtà.

Ma il potere e gli interessi economici degli ultras non si fermano a questo; si va oltre, ci si allarga a tutto quello che il mondo dello stadio offre. Ecco quindi la gestione di parte del merchandising (non ufficiale), la percentuale sui parcheggiatori abusivi, gli interessi sui famosi baracchini che offrono cibo e bevande. Non solo. Dentro lo stadio poi si arriva ad offrire anche diversi optional per regalarti una partita la più divertente possibile. Non manca infatti lo spaccio di sostanze stupefacenti (altri soldi) e persino la prostituzione. Si, avete capito bene. Allo Stadio Olimpico esisterebbe anche un micro giro di attività sessuali a pagamento e che avviene nel segreto dei bagni. Insomma, attività criminali e soprattutto economiche a tutto tondo che potrebbero anche arrivare a 7-8 milioni di incasso globale l'anno, a conferma di quanto raccontato da Boiocchi, uomo (raccontava lui nelle intercettazioni) da un milione netti in contanti l'anno. Traffici noti a tutti e per i quali la polizia in passato ha preso provvedimenti incisivi come la separazione delle curve in più settori in modo da rompere il controllo da parte delle organizzazioni che si dividono le curve degli stadi dove tra i tifosi c’erano soggetti con gravi precedenti penali o comunque con storie personali contraddistinte da comportamenti aggressivi e antisociali, pronti a dare luogo a violenze, fuori dello stadio o sugli spalti, contro la tifoseria avversaria o contro le forze dell’ordine oltre che a gesti antisportivi e cori razzisti. La gravità della situazione descritta suggerisce che ci sono due modi per far finire tutto questo. Il primo è che le società rompano i rapporti con i gruppi ultras ed aprano le curve alle famiglie, come ha fatto la Juventus. La seconda è che la Polizia ritorni a presidiare negli stadi con un impiego di forze maggiore.

Violenza, racket e affari: cambiano i governi ma gli ultras restano i padroni indisturbati. L’omicidio Boiocchi e il lutto imposto a migliaia di tifosi a San Siro dicono che lo Stato ha rinunciato a lottare contro i clan della curva. Il neoministro Abodi annuncia provvedimenti, ma la storia recente dice che la tolleranza e qualche Daspo non hanno ottenuto risultati. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 31 ottobre 2022.

Con la quinta mafia, gli ultras, funziona come con tutte le mafie. Da un lato, c’è chi vuole trattare il fenomeno come si tratta il crimine organizzato e ritiene insufficienti i Daspo, i divieti di ingresso allo stadio. Dall’altro, ci sono i negazionisti e, soprattutto, i riduzionisti, quelli che guai a confondere il tifo sano con pochi facinorosi.

Poi capita che nella periferia ovest di Milano, a Figino, un signore di 69 anni di cui 26 trascorsi in carcere venga abbattuto a colpi di pistola alla vigilia di Inter-Sampdoria. Il modus operandi dell’esecuzione non lascia dubbi sulla professionalità e, molto probabilmente, l’intracciabilità degli assassini.

Dal punto di vista penale, l’omicidio di Vittorio Boiocchi, storico capo della curva interista sottoposto a Daspo, è in cima alla lista dei reati. Dal punto di vista sociale, è molto più grave quanto è accaduto nella curva Nord di San Siro appena si è sparsa la notizia dell’agguato. In omaggio al loro vecchio ras, benché ormai mal tollerato, i capitifosi hanno sgomberato manu militari un intero settore dello stadio aggredendo chi pretendeva di rimanere a vedere la partita. Una violenza particolarmente vigliacca perché ha coinvolto genitori picchiati davanti ai figli minorenni. Ma una violenza significativa perché la prima manifestazione del crimine organizzato sta nell’occupazione e nel controllo di un territorio.

Il caso Boiocchi quindi ha due facce. Quella poliziesca e processuale, per ora contro ignoti. Il movente c’è già. Boiocchi si vantava dei suoi guadagni al telefono, pur mettendo in conto di essere intercettato. A suo dire, il pizzo su parcheggi e chioschi di panini gli fruttava 80 mila euro al mese, quasi un milione di euro all’anno. Decisamente troppi anche per un capo ultras che non ha voluto, o non ha saputo, riconoscere i rapporti di forza con le altre mafie interessate ai business collaterali di San Siro.

Il secondo aspetto è politico e ha già sollecitato l’allarme del neoministro dello sport Andrea Abodi. In un governo che prende a manganellate gli studenti in corteo e che spezza le reni ai rave party, è quanto meno incoerente combattere la quinta mafia con i Daspo o, peggio, con la promessa che gli stadi nuovi cureranno tutti i mali. Non è successo a Torino dove, a dispetto dello sfolgorante Stadium sponsorizzato dal gigante assicurativo Allianz, la gestione delle biglietterie era infiltrata da elementi dei clan calabresi onnipresenti al Nord. Anche il gruppo storico dei Drughi, dopo il misterioso suicidio del capo Raffello “Ciccio” Bucci, è finito nell’area di influenza del clan Mancuso secondo le dichiarazioni di un pentito del vibonese. L’obiettivo era portare la droga dentro l’impianto.

Per essere chiari bisogna aggiungere che il problema ultras ha toccato tutti i maggiori club italiani. Poco prima dello scorso Natale è stato arrestato per traffico di stupefacenti Luca Lucci, 41 anni, leader della curva milanista in rapporti di cordialità con l’allora ministero dell’Interno e vicepremier, il cuore rossonero Matteo Salvini, oggi di nuovo vicepremier e titolare delle infrastrutture nel governo di Giorgia Meloni. Ad aprile del 2019, in una zona centrale di Milano, ha rischiato grosso Vincenzo Anghinelli, ultras rossonero e broker della droga, salvo per miracolo dopo quattro colpi di pistola sparati da sicari in moto. Tre anni dopo l’agguato è senza colpevoli.

Nella capitale c’è una vasta casistica su entrambi i fronti del derby. Dal lato della Ss Lazio, è durata anni la vicenda degli Irriducibili e del loro capo carismatico Fabrizio Piscitelli detto Diabolik, assassinato tre anni fa per questioni di droga dopo anni di contestazioni contro il presidente del club, e neosenatore, Claudio Lotito per controllare merchandising e biglietteria. Una volta pacificato il rapporto con il proprietario, finito comunque sotto scorta per le minacce, la Nord dell’Olimpico ha avuto modo di distinguersi per la distribuzione di figurine di Anna Frank in maglia giallorossa nell’ottobre di cinque anni fa.

Dal lato dell’As Roma, i padroni della Sud hanno tentato di ricattare Franco Sensi quando l’imprenditore ha rilevato i giallorossi dopo i disastri di Giuseppe Ciarrapico negli anni Novanta. La pagina più nera risale al 3 maggio 2014 quando, prima della finale di Coppa Italia fra Napoli Fiorentina, l’ultras romanista Daniele De Santis ferì a morte il tifoso azzurro Ciro Esposito. A garantire l’ordine pubblico intervenne il capo dei Mastiffs napoletani Gennaro De Tommaso, meglio noto al grande pubblico come Genny ‘a Carogna, immortalato dai fotografi sulla balaustra dell’Olimpico mentre trattava con i tutori dell’ordine sotto gli occhi dell’allora presidente del Consiglio, e tifoso viola, Matteo Renzi.

De Tommaso è stato arrestato, processato e assolto per la maglietta “Speziale libero”, dedicata al tifoso del Catania accusato dell’omicidio dell’ispettore di polizia Filippo Raciti nel 2007 prima di un derby con il Palermo. Poi nel 2017 per Genny sono arrivati un altro arresto, stavolta per traffico di droga, e una condanna a vent’anni. In carcere ha iniziato a collaborare con la giustizia e nel 2020 la sua pena è stata ridotta in appello a sette anni.

La trattativa di Napoli-Fiorentina del 2014 ricorda un Genoa-Siena del 2012 quando i tifosi della squadra più antica d’Italia obbligarono i calciatori a togliersi la maglietta e l’attaccante Giuseppe Sculli, nipote in linea diretta del boss calabrese Giuseppe “Tiradritto” Morabito, andò sotto la curva di Marassi a placare gli animi con la maglietta addosso, in quanto unico degno di rispetto. Secondo il collaboratore di giustizia Domenico Ficarra, coinvolto nell’inchiesta “Cavalli di razza” insieme a Davidino Flachi, il figlio del boss Pepè, lo jonico Sculli è uno dei nuovi padroni di Milano in buona compagnia con il tirrenico Mommino Piromalli, della famiglia mafiosa di Gioia Tauro.

Questo elenco parziale non tiene conto dei rapporti diretti di certe curve con l’ultradestra ma restituisce una panoramica di reati molto ampia e del tutto sovrapponibile a quella di qualunque cosca. C’è la violenza fino all’omicidio, l’estorsione sulle attività commerciali, il traffico di merci falsificate, la distribuzione della droga che gira nelle curve e nei locali eleganti delle città italiane. Del resto, gli ultras non si limitano da tempo a dedicare striscioni ai diffidati. È considerato normale che le curve dedichino cori affettuosi ai carcerati e invochino la loro liberazione.

Mentre si puniscono, anche troppo tardivamente, i cori razzisti, sull’esaltazione dei condannati il sistema si gira dall’altra parte. Il motivo? Senza ultras non è vero calcio, come dimostrerebbe il periodo di lockdown in pandemia che, invece, è stata l’ennesima occasione mancata per tirare una linea di demarcazione netta rispetto alla quinta mafia.

E dove una volta le società finanziavano sotto banco le trasferte, regalavano biglietti e permettevano di fatto la gestione del merchandising, oggi ci sono gli acronimi inglesi come Slo o supporter link officer, l’ufficiale di collegamento con il tifo organizzato che, come minimizza con l’Espresso uno di loro sotto garanzia di anonimato, aiuta chi non ha i soldi per accompagnare la squadra in trasferta.

Ma chi pratica le curve sa che ormai gli amministratori delegati del tifo non si limitano a guidare i cori spalle alla partita ma danno ordini su come si deve vivere il match, quando si deve cantare e che cosa, quando si deve saltare e quando bisogna mettersi a lutto. Chi pensa di avere diritti in quanto spettatore pagante o i poveri steward messi lì per quattro soldi e timorosi persino di recuperare un pallone calciato troppo alto non ha capito come funziona e chi comanda. Per questi ingenui sabato 29 ottobre a San Siro gli ultras interisti hanno tenuto un corso di aggiornamento a pugni e calci. In molti altri stadi sarebbe stato lo stesso.

Massimo Moratti e l’Inter: «Juventus e Moggi disonesti sui sentimenti della gente». Aldo Cazzullo e Daniele Dallera su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

L'ex presidente dell'Inter Massimo Moratti a tutto campo: «Quando comprai la società feci bloccare gli ascensori della sede per impedire che Milly salisse a fermarmi. Papà e io comprammo il Cagliari di nascosto per non fare vendere Riva agli Agnelli»

Massimo Moratti, lei è nato tre settimane dopo la fine della guerra. Qual è il suo primo ricordo?

«Il mattino in cui ho compiuto quattro anni. Sentivo che era una giornata importante. E mio fratello Gian Marco stava andando a scuola con una calza rossa e un’altra blu».

Distratto.

«Allegro. Eravamo una famiglia allegra. Papà lavorava tutto il giorno, ma ogni sera ci ritrovavamo a sentire la radio: Franca Valeri, Alberto Sordi...».

Com’era suo padre Angelo?

«Fantastico. Non ho mai ritrovato, in tutta la mia vita, un uomo al suo livello. E per tutta la mia vita ho tentato di imitarlo; pur sapendo che era inimitabile. Geniale, affascinante, spiritoso, simpatico, umanamente ricchissimo...».

Non solo umanamente.

«Però veniva dalla povertà. Il nonno aveva la farmacia di piazza Fontana a Milano, ma papà andò via di casa a 14 anni: sua mamma era morta, e non voleva vivere con la matrigna, dura come quella delle favole».

In casa eravate cinque figli: oltre a lei e Gian Marco, tre sorelle.

«Anche nostra madre Erminia era una persona allegra. Con papà scherzavano di continuo. Si amavano».

Com’era la Milano degli Anni 50?

«Ancora semidistrutta. Da immaginare. Ma sapevamo che il futuro sarebbe stato migliore del presente».

Cosa votavano i Moratti?

«Dc. Eravamo antifascisti e anticomunisti».

Non c’era proprio nulla che non andasse?

«Qualcosa che non andava c’era. Nordahl».

Il centravanti del Milan?

«Grande, grosso, inarrestabile. Ne avevo una paura fisica: lo vedevo a San Siro e me lo sognavo di notte. Nordahl fu l’uomo nero della mia infanzia».

Così suo padre comprò l’Inter.

«Ma andavamo a vederla già prima: ricordo il 6-5 nel derby del 1949. Allo stadio si litigava, volavano i cappelli».

Qual era il suo calciatore preferito?

«Benito Lorenzi, detto Veleno. Fuori dal campo era dolcissimo: si prendeva cura teneramente dei figli di Valentino Mazzola, Sandro e Ferruccio. Ma in campo diventava tremendo. Provocava il pubblico, prima e dopo aver segnato. Fu Lorenzi a soprannominare Boniperti Marisa, nonostante fossero amici. Boniperti si arrabbiava moltissimo». 

Moratti: «Mai mandato a quel paese un allenatore della Juventus. Tornare all’Inter? Non credo»

Peggio il Milan o la Juve?

«La Juve, senza dubbio».

Il calciatore più forte che abbia mai visto?

«Ve ne dico due: Angelillo e Ronaldo. Due storie parallele. Come Herrera e Mourinho».

Cioè?

«Angelillo era classe pura. Fece un campionato straordinario, da 33 gol. Poi si innamorò perdutamente di una cantante, e si perse. Lo vendemmo e con il ricavato comprammo Luisito Suarez: intelligentissimo».

E Ronaldo?

«Era venuto a trovarmi quando giocava nel Psv, con una fidanzatina olandese... Quando arrivò all’Inter era il calciatore più forte del mondo. Dopo gli infortuni non è più tornato a quel livello».

Si sentì tradito quando andò al Real Madrid, dopo che l’Inter l’aveva aspettato?

«No. Mi ero immedesimato in lui, nel suo dolore. Trovavo giusto che volesse cambiare, dopo aver sofferto tanto».

Herrera come lo trovaste?

«Ce lo segnalò un giornalista della Gazzetta dello Sport, mi pare proprio Franco Mentana, il papà di Enrico. Il Mago e Mourinho avevano molte cose in comune».

Quali?

«Lavoravano e studiavano moltissimo. Sapevano di psicologia e di medicina. Quando arrivò José, il nostro medico disse: finalmente un allenatore che mi aiuta».

Brera racconta che Herrera si aiutava pure con certe pastigliette negli spogliatoi...

«Brera scherzava. Mio padre non l’avrebbe mai permesso. E il Mago aveva molto rispetto per mio padre, quasi soggezione».

Nel 1964 l’Inter vinse la sua prima Coppa dei Campioni.

«Alla prima partecipazione. Battendo 3 a 1 il Real Madrid, che vinceva sempre. Ma Herrera mise Burgnich su Di Stefano e Tagnin su Puskas... Una gioia indescrivibile».

L’anno dopo rivinceste la Coppa a San Siro, gol di Jair.

«Pioveva, la palla passò sotto la pancia del portiere del Benfica. Si vince anche così».

Chi era il suo eroe?

«Mariolino Corso. Mai vista un’ala con tanta classe. Ho amato Recoba perché in lui rivedevo l’imprevedibilità di Corso».

 Poi però l’Inter la vendeste.

«E mio padre comprò il Cagliari, quando seppe che stava per cedere Riva alla Juve. Il mattino dopo i dirigenti sardi informarono Agnelli che l’affare non si poteva più fare: il club aveva un nuovo proprietario. L’Avvocato non chiese neppure chi fosse. Aveva capito».

E il Cagliari vinse clamorosamente lo scudetto.

«Con Domenghini che l’Inter aveva ceduto per Boninsegna».

Cosa accadde il 5 maggio 2002, la sconfitta con la Lazio che vi costò lo scudetto?

«I giocatori credettero di aver avuto segnali dai colleghi della Lazio: non si sarebbero impegnati, per non favorire la Roma. Tutte balle. Ne ero convinto già prima del fischio d’inizio, e li avvisai: “Nessuno ci regalerà nulla”. Eppure entrarono in campo con una sicurezza eccessiva. E non sono mai riusciti a prendere in mano la partita. Mi sentivo così responsabile che mi dissi: non lascerò il calcio finché non avrò la rivincita».

In campo c’eraun ex come il Cholo Simeone.

«E ci segnò contro. Grande combattente».

Il vostro centravanti era Bobo Vieri.

«Un bastiancontrario, sempre critico verso la dirigenza; ma non un cattivo ragazzo. All’Inter fece tutto quello che poteva fare; eppure non ha vinto nulla».

Poi arrivò Ibra.

«Simpaticissimo. Avevo l’abitudine di consultare i giocatori più importanti per la campagna acquisti, e con Zlatan avevamo un rito. Lui mi diceva: “Di Cambiasso l’anno prossimo potremmo anche fare a meno...”. Io ridevo. Poi andavo da Cambiasso, che mi diceva: “Di Ibra l’anno prossimo potremmo anche fare a meno...”».

Ibra e Cambiasso non si amavano.

«Ma in campo giocavano alla morte l’uno per l’altro».

E nello scontro tra Ibra e Lukaku per chi parteggiava?

«Pareva un match di boxe tra due campioni del mondo. Lukaku è un tesoro... Mi sarei frapposto tra i due, a rischio di prenderne da entrambi».

Mazzola ha raccontato di aver lasciato l’Inter perché lei si consultava con Moggi.

«Non è andata così. È vero che Moggi voleva venire all’Inter, e io non gli ho mai detto esplicitamente che non lo volevo; ma non l’avrei mai preso».

Perché?

«Perché la serie A era manipolata; e noi eravamo le vittime. Doveva vincere la Juve; e se proprio non vinceva la Juve toccava al Milan. Una vergogna: perché la più grande forma di disonestà è imbrogliare sui sentimenti della gente».

All’Inter comandava Facchetti.

«Un uomo splendido. Una volta gli dissi: “Giacinto, possibile che non si trovi un arbitro, uno solo, disposto a dare una mano a noi, anziché a loro?”. Mi rispose: “Non può chiedere a me una cosa del genere”».

Alla Juve tolsero due scudetti, e uno lo assegnarono a lei. Lo rivendica?

«Assolutamente sì. So che gli juventini si arrabbiano; e questo mi induce a rivendicarlo con maggiore convinzione. Quello scudetto era il risarcimento minimo per i furti che abbiamo subìto. Ci spetterebbe molto di più».

Poi arrivarono gli scudetti di Mancini e di Mourinho. Come scelse Mou?

«Ascoltando una sua intervista tv, tra una semifinale e l’altra della Champions 2004. Il suo Porto aveva pareggiato con il Deportivo La Coruna, il ritorno si annunciava molto difficile. E lui disse: “Ma quale Deportivo, io penso già alla finale”. La sua spavalderia mi piacque moltissimo».

E fu il triplete: campionato, Coppa Italia, Champions.

«Missione compiuta. Ero fiero che la stessa famiglia avesse rivinto la Coppa quasi mezzo secolo dopo. Per la prima volta mi sono sentito degno di mio padre; anche se lui resta inarrivabile. Ancora oggi mi capita di trovare persone che mi parlano di lui, che gli devono qualcosa».

Quali persone?

«Vado a Firenze da Giorgio Pinchiorri, tre stelle Michelin, e non mi fa pagare. Penso: sarà interista. Torno con Renzi sindaco, e non mi fa pagare. Penso: sarà amico di Renzi. Poi torno da solo, e di nuovo non vuol farmi pagare. Stavolta insisto: voglio il conto. E Pinchiorri mi rivela che lo fa per mio padre. Tanto tempo fa gli aveva dato un consiglio che gli aveva cambiato la vita».

Quanti soldi le è costata l’Inter in tutti questi anni?

«Questo non me lo potete chiedere. Non lo so, e non ve lo direi. Il calcio non è business; è passione. E le passioni non hanno prezzo».

Ora l’Inter è cinese, forse ancora per poco.

«Gli Zhang, sia il padre sia il figlio, mi sono sempre parsi in buona fede. All’inizio mi chiedevano di parlare ai giocatori, di motivarli. Ma oggi reggere a lungo nel calcio è impossibile. Ogni anno le perdite raddoppiano o quasi: 50 milioni, 100 milioni, 150 milioni...».

Come finirà?

«Forse arriverà un fondo americano. Ma attenti alla speculazione. Il calcio non è costruito per fare soldi. Gli americani vorrebbero trasformarlo in spettacolo. Show-business. Ma non so se in Italia sarà mai possibile».

Chi vincerà il campionato?

«Potrebbe davvero essere l’anno del Napoli. Anche il Milan fa paura. L’Inter ha una struttura forte; ma poi sul più bello si smarrisce».

Cosa pensa di Berlusconi?

«Lo considero un amico. Come imprenditore lo stimo molto».

E come politico?

«Non vorrei perdere la sua amicizia».

È vero che lei ha rifiutato di candidarsi a sindaco di Milano?

«Sì, per tre volte. E forse ho sbagliato. È un po’ un rimpianto: mi sarebbe piaciuto».

Quando accadde la prima volta?

«Nel 1993, quando poi vinse la Lega. Andai a chiedere consiglio al milanese che stimavo di più».

Chi?

«Il cardinal Martini. Una persona stupenda. Mi sconsigliò».

E l’ultima volta?

«Leader del Pd era Veltroni. Quella volta il cardinal Martini mi disse di accettare. Eppure rinunciai, anche se mi sentii in colpa».

Perché rinunciò?

«Pensai ai miei cinque figli. Avrebbero preferito un papà sindaco, o un papà che insegnava loro un mestiere, che lasciava loro un’attività? E poi non mi andava di sfruttare la popolarità conquistata grazie all’Inter».

Come ha conosciuto sua moglie Milly?

«Alla Capannina. Era bellissima. La invitai a ballare. Era il 1966, aveva vent’anni ma ne dimostrava meno. Ci siamo sposati nel ’71, abbiamo sempre condiviso tutto. Tranne una cosa».

Quale?

«Quando comprai l’Inter non le dissi nulla. Lei lo apprese dalla tv. Diedi ordine di bloccare gli ascensori: temevo salisse in sede per fermarmi. Poi andai a casa. Non trovai nessuno. Brindai con la cameriera».

Sua moglie è una donna di centrosinistra, sua cognata Letizia Moratti è una donna di centrodestra. Com’è la convivenza?

«Serena. Si stimano e si vogliono bene. Che ci sia confidenza, questo no».

Come trova Milano oggi?

«Sempre la miglior città al mondo per lavorare».

Perché?

«Perché lavorano tutti. E perché i milanesi hanno il senso della partecipazione. Come quando ripulirono in un pomeriggio la città imbrattata dai black-bloc».

Sala come lavora?

«Bene. Ma non deve sottovalutare l’insicurezza. L’inquinamento. E la speculazione edilizia».

Non le piacciono i nuovi grattacieli?

«Sono belli e, a dispetto dei timori, sono pieni. Attenzione però a non fare le cose tanto per farle. Non dobbiamo solo pensare agli sceicchi, ma ai giovani milanesi che non riescono a comprare casa, a fare famiglia, a costruirsi quel futuro che a noi sembrava meraviglioso».

E il nuovo stadio?

«Non mi convince. Buttare giù San Siro sarebbe un delitto. Dice: così i club guadagnano 30 milioni l’anno. Ma cosa sono 30 milioni, rispetto alla storia? Vedrete che alla fine nessuno oserà demolire il nostro tempio».

Luciano Moggi per “Libero quotidiano” il 2 novembre 2022.

Sembra che Aldo Cazzullo, autore dell'intervista a Moratti sulle pagine del Corriere, abbia evidentemente inteso il tifo per la sua squadra (Inter) come un dogma da portare avanti per trasferire le malefatte di un ambiente su altre persone. 

Leggendo l'articolo, infatti, si ha l'impressione che Cazzullo faccia domande a Moratti già preconfezionate per farsi dare risposte piacevoli per entrambi, anche perché quando l'ex presidente nerazzurro parla di campionato manovrato, gli avrebbe dovuto chiedere, e non lo ha fatto, di indicare dove sta scritto che il campionato era manovrato, considerando che la sentenza del processo sportivo dice «campionato regolare, nessuna gara alterata» e quella del processo ordinario «reati a consumazione anticipata non potuti provare in udienza». Nonostante 170.000 intercettazioni. 

Forse la spiegazione ce la fornisce la domanda che Cazzullo fece a Ibra in occasione della presentazione del libro sulla vita del giocatore: «Ma come fai a parlare bene di Moggi?». Risposta: «Moggi si è sempre comportato bene». Mi limiterò a sottolineare qualche passaggio dell'articolo, quando, ad esempio, Moratti dice a Facchetti: «Giacinto, possibile che non trovi un arbitro disposto a darci una mano?» (Confessione grave di Moratti che istigava Facchetti a cercare l'aiuto degli arbitri).

La risposta di Facchetti: «Non può chiedere a me una cosa del genere»; affermazione peraltro destituita di qualsivoglia fondamento a seguito della Sentenza 2166/18 della corte di Appello di Milano che, preso atto delle intercettazioni (quelle che a Napoli non vollero sentire), racconta invece che «Facchetti faceva lobbing con gli arbitri».

Oltre a precisare che Calciopoli non era ascrivibile esclusivamente a Moggi ma «si trattava di una corruttela diffusa in tutto l'ambiente calcistico» (capito Cazzullo?) e riportare quello che il Procuratore federale, Dr. Palazzi, scrisse in 152 pagine di accusa al calcio: «che l'Inter era la società che rischiava più di tutte per il comportamento illegale del suo presidente Facchetti». Tant' è che il Dr. Lepore, ex Procuratore Capo di Napoli ai tempi del Processo Calciopoli, dichiarò a dicembre 2021, purtroppo quando ormai era in pensione: «Io non ho mai parlato di "cupola", perché la Juve non era l'unica indagata.

Moggi ha ragione nel sostenere che andava processato l'intero sistema calcistico. Purtroppo, dovemmo fermarci per il clamore suscitato dallo scandalo. Se fossimo andati avanti, sarebbe emerso che tutte le grandi squadre erano coinvolte, compresa l'Inter». 

Dalle intercettazioni risulta infatti che sia Moratti sia Facchetti abbiano chiesto ad un arbitro (Bertini) di far vincere l'Inter in semifinale di Coppa Italia col Cagliari. 

E, come risulta agli atti, che l'Inter sia andata a trafugare alla motorizzazione di Latina i documenti per fare una patente falsa a Recoba con la quale poterlo tesserare da extracomunitario a comunitario. 

La società fu multata dalla Figc mentre il dirigente nerazzurro (Oriali) fu sanzionato dalla Giustizia Ordinaria con un anno di reclusione: adesso quest' ultimo fa addirittura parte della Nazionale. Io invece sono stato radiato per aver fatto una battuta scherzosa sull'arbitro Paparesta (rinchiuso nello spogliatoio), ampiamente smentita dal tribunale di Reggio Calabria.

Eppure Moratti, ancora oggi, parla di queste cose: evidentemente ritiene che sia stato onesto fare una patente falsa o chiedere a un arbitro di fargli vincere una gara, o appropriarsi indebitamente di un trofeo vinto da altri. Da parte sua il giornalista, per chiudere in bellezza, si è guardato bene dal commentare quando Moratti afferma: «Il campionato era manipolato, o lo vinceva la Juve o il Milan». Si vede che considerava anche il Milan tra i manipolatori. Del Milan però Cazzullo non parla. Forse gli avrebbe sciupato il titolo. 

Calciopoli? Perché dopo 4 mondiali dobbiamo ancora parlarne. Luciano Moggi Libero Quotidiano il 20 novembre 2022

Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.

Basta stuzzicarli che cominciano a parlare. Si chiamano Moratti, Cobolli Gigli, Lepore, Auricchio. Erano gli uomini in evidenza al tempo del processo Calciopoli, commentato recentemente anche dall'ex dirigente addetto agli arbitri del Milan, Leonardo Meani, l'uomo che scientemente scomparve dalla lista dei dirigenti rossoneri, quando a qualcuno fece comodo che scomparisse, per evitare guai alla propria società per i suoi comportamenti.

Adesso Meani ricompare con la sua reale qualifica di un tempo: lo si può trovare nella lista dei «dirigenti» che devono pagare le spese processuali alla Figc, visto ormai che i pericoli di una sicura retrocessione della società sono solo un brutto ricordo . Era l'uomo che teneva rapporti più che «amicali» con una schiera di guardalinee che lui chiamava «fratelli» , capitanati da Puglisi, Babini, Copelli ma anche con arbitri, in testa Collina, Messina e Rodomonti, oltre al designatore Bergamo.

Sono questi i dati inconfutabili che nessuno può negare, celi raccontano le intercettazioni. D'altra parte la vicenda Palamara insegna a non meravigliarsi più di niente per cui si sono sentiti tutti liberi di esprimere la propria opinione sul fatto, anche loro due: ce lo raccontano le intercettazioni. E magari sbagliano, soprattutto quando cercano di nascondere la verità.

L'esempio lo fornisce Moratti, nell'intervista fatta recentemente con Cazzullo. Inavvertitamente sconfessa addirittura il pm Narducci quando disse «piaccia o non piaccia non ci sono telefonate dell'Inter». Le circostanze hanno invece chiarito che di telefonate ce ne erano state tante. E non ce ne sarebbe stato neppure bisogno vista la sentenza della corte di Appello di Milano 2166/18 che dice: «Facchetti faceva lobbing con gli arbitri». Resta difficile capire se Narducci non se ne sia accorto o abbia finto di non accorgersene.

Non da meno di Moratti è stato Cobolli Gigli. Recentemente ci ha informato che al tempo della sua presidenza sparì un faldone riguardante telefonate dell'Inter, ricomparso dopo 5 anni ed esaminato dal Procuratore Federale quando tutto era ormai prescritto. Difficile capire perché non lo abbia raccontato quando era nei posti di comando, forse allora era troppo impegnato ad eseguire l'ordine di Montezemolo di ritirare il ricorso al Tar della Juve che avrebbe probabilmente tenuto la società in serie A, visto poi poi anche la sentenza finale del processo sportivo: «campionato regolare, nessuna partita alterata».

Che dire poi del dottor Lepore, capo della Procura di Napoli al tempo di Calciopoli, adesso in pensione. In una recente intervista racconta di non aver mai parlato di "Cupola" che Moggi aveva addirittura ragione a sollecitare l'inchiesta a 360°. Nell'intervista circostanzia che «sfortunatamente si erano dovuti fermare alla sola Juventus perché l'Espresso aveva dato notizia dello scandalo, se avessero però continuato sarebbe venuta fuori anche l'Inter». Che cosa gli faceva supporre la certa colpevolezza dell'Inter? 

Ne poteva informare l'opinione pubblica, non lo fece perché sapeva che l'"inquisitore" Auricchio aveva escluso l'Inter quando respinse il guardalinee Coppola dicendogli: «A noi l'Inter non interessa». E Coppola era andato da Auricchio perché l'Inter voleva che ammorbidisse la sua relazione sulla squalifica di Cordoba. Per i problemi si richiedono le soluzioni, non essendo questo un problema chiediamo a voi, amici lettori, chi dei personaggi citati ha detto più bugie. In coscienza, al di là del colore della maglia che ciascuno può indossare.

Filippo Maria Ricci per gazzetta.it il 16 ottobre 2022.

Ieri sera a Madrid è stato presentato il film di Dazn dedicato a Ronaldo e intitolato “Il Fenomeno”. Una notte emozionante come il documentario, nel quale Ronaldo si apre raccontando il dramma vissuto tra il 1998 e il 2002, con il doppio infortunio al ginocchio destro. 

 “Sì che ho pianto – ha detto ieri sera Ronaldo sul palco del Cine Callao –. Tanto la prima volta che l’ho visto a Londra, ma un paio di volte anche stasera. Sono 90 minuti, ma per me è come se fosse un secolo, un’eternità. Con tutto l’ottimismo del mondo e con tutto l’amore che ho per il calcio ci sono stati momenti in cui non sapevo dov’ero e dove andavo. 

Non capivo perché mi succedevano tante cose negative. Perché succedevano a me, che sono una brava persona, che sono onesto, simpatico, almeno ogni tanto, che sorrido sempre. Una persona alla quale tutti vogliono bene. Non lo capivo. Però poi alla fine alle persone oneste che si comportano bene e lavorano duro Dio riserva momenti spettacolari. Uffff, mi emoziono”.

Applausi della sala. Poi Ronaldo riparte: “C’è tanto dramma nel film. Torni indietro e vedi le decisioni difficili che devi prendere, quando sei un ragazzo di 22-23 anni. E senza alcun aiuto psicologico. È stato incredibile. Essere protagonista di questa storia mi è costato tanto. A quell’epoca non si parlava di salute mentale dei giocatori, oggi si. A quell’epoca eravamo come guerrieri, ci buttavano nell’arena per vedere chi ne usciva vivo, era più o meno così. 

La pressione che sentivo mi spingeva ogni volta di più verso il basso e un ragazzo così giovane non sa come comportarsi, come affrontare tutto questo, con tante cose molto grandi che gli succedono. Ho fatto una gran fatica, e ho imparato tanto prendendo ceffoni da ogni parte. Oggi a guardare indietro si vede tanto tanto dramma. Però anche un finale molto molto lieto. Devo la mia vita al calcio, continuo nel calcio e resterò nel calcio tutta la mia vita”.

Del tema psicologico Ronaldo ha parlato anche con Marca: “Oggi faccio terapia, ho iniziato due anni e mezzo fa e mi ha aiutato a capire molto meglio anche cosa ho sentito prima. Guardo indietro e si, vedo che siamo stati esposti a uno stress mentale molto, molto grande e senza alcuna preparazione specifica. In quel periodo nessuno si preoccupava della salute mentale dei giocatori. 

Oggi è diverso, c’è grande attenzione al tema, i giocatori vengono studiati e analizzati. Ai miei tempi queste cose non si facevano, e il calcio può portare a grande stress che può essere determinante per il resto della vita. Il tema era ignorato totalmente nella nostra generazione. Tanti giocatori sono passati per momenti terribili, depressione compresa, per la mancanza di privacy o di libertà. I problemi erano molto evidenti, però le soluzioni poco disponibili”.

Marco Branca, che fine ha fatto: l'Inter del Triplete, lo scontro con Vieri, l'ex moglie. Il Corriere della Sera il 5 Ottobre 2022. (Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza le firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale)

Calciatore per 15 anni, subito dopo osservatore e poi direttore dell’area tecnica dell’Inter con cui ha vinto anche il triplete, ora Marco Branca fa il procuratore e lavora per l’agenzia First

Le tre vite di Branca

Prima attaccante da 114 gol in 445 partite, una Coppa Uefa (col Parma) e uno scudetto (con la Sampdoria); poi dirigente plurititolato nell’Inter (è tra gli artefici del triplete del 2010); adesso procuratore di calciatori. Marco Branca ha sempre vissuto sulle montagne russe: tra grandi successi e scottanti fallimenti. Ora, chiusa la parentesi dirigenziale e dopo anni di inattività ad alto livello, è tornato nel calcio. Dalla parte dei calciatori, questa volta.

Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza le firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale

Il contratto rescisso a sua insaputa

Da calciatore, oltre a momenti molto belli, soprattutto con Parma e Sampdoria, Branca ha vissuto anche momenti complicati, come, per esempio, a Middlesbrough, dove giocò appena una ventina di minuti. Poi il club rescisse il suo contratto a sua insaputa, insistendo sulle sue condizioni fisiche, tanto che poi la Uefa impose al club di risarcire al calciatore tutte le spettanze dovute.

Fino al triplete

Chiusa la carriera da calciatore, Branca divenne a 37 anni capo degli osservatori dell’Inter e, dall’anno successivo, responsabile dell’area tecnica nerazzurra. È il 2003, è l’Inter di Massimo Moratti e, complice anche l’uragano Calciopoli che sconvolge il calcio, la squadra nerazzurra si issa prima sul tetto d’Italia con Roberto Mancini, d’Europa con José Mourinho e del mondo con Rafa Benitez. Nel momento più alto, però, il crollo verticale, la cessione del club a Thohir e la rescissione consensuale del contratto con i nerazzurri (con cui ha vinto cinque scudetti, tre coppe Italia, tre supercoppe italiane, una Champions League di Madrid e un Mondiale per club).

Da Stankovic a Milito: i campioni acquistati

Tanti i campioni portati a Milano: da Stankovic (in attesa di diventare nuovo allenatore della Sampdoria) ad Adriano, da Julio Cruz a Burdisso e Cambiasso a parametro zero, ma anche Samuel, Figo, Ibrahimovic (che ora reciterà in un film di Verdone), Vieira, Maicon, Chivu, Milito, Pandev, Eto’o, Sneijder.

Lo scambio Cannavaro-Carini

Nel curriculum nerazzurro di Branca, però, ci sono anche clamorosi errori. Su tutti lo scambio Cannavaro (due anni dopo Pallone d’oro)-Carini con la Juventus, ma anche il mancato scambio Guarin-Vucinic con gli stessi bianconeri. E poi giocatori che non hanno lasciato alcun segno, tra cui Van der Meyde, Brechet, Ricky Alvarez, Jonathan, Alvaro Pereira, Schelotto (che sarà ricordato solo per un gol di ginocchio in un derby), Taider, fino a Diego Forlan, fenomeno a Villarreal e Atletico Madrid e irriconoscibile nell’Inter, che i nerazzurri non poterono inserire in lista Champions per un'errata interpretazione del regolamento.

Alle mani con Vieri

Tra i detrattori dell’ex dirigente anche Bobo Vieri: «Uno che non ho mai capito come potesse lavorare nel calcio. Proprio non mi piaceva, aveva l’atteggiamento sbagliato, faceva il superiore senza particolari motivi. In parole povere: mi stava pesantemente sulle p***». Tensione che esplode dopo una trasferta a Bologna in cui Vieri resta in panchina per motivi disciplinari su input di Branca. «Finisce la gara — racconterà poi Bobo — e me ne vado dritto nello spogliatoio. Entro, e la prima persona che vedo è Branca. Non ci vedo più e lo insulto. Lo prendo per la cravatta, gli vado addosso. Per fortuna Cotti, il fisioterapista, conoscendomi bene e temendo quindi quello che avrei potuto fare, mi aveva seguito. Mi salta sulle spalle e cerca di fermarmi. Nel frattempo arriva il resto della squadra, mi bloccano, finisce tutto. Branca lascia lo spogliatoio e io vado a farmi la doccia». Più avanti l’attaccante verrà convocato (nonostante un infortunio) per una trasferta a Udine in Coppa Italia. Lui non si presenta ed è ancora lite: «Dopo qualche giorno, il team manager mi dà un foglio e dice: “Firma qui”. È una multa di 10mila euro, la manda Branca. Io la strappo, rido, cazzeggio. “Manda un messaggio a Branca: la multa se la può mettere dove dico io”. Da quel giorno in Pinetina non lo incrocio più. Chissà, forse non gradiva affrontarmi di persona...».

Muntari: «Si credeva James Bond»

Anche Muntari ha parole piuttosto dure nei confronti dell’ex direttore tecnico: «Quando entrava nello spogliatoio voleva che mi inchinassi quasi che fosse il mio Dio. Amico, a me lo stipendio lo paga Moratti come a te, siamo tutti e due suoi dipendenti... La verità è che nessuno dei giocatori lo sopporta, io l’ho inquadrato subito. Io però sono più forte di lui. Io sono un uomo, io sono pulito. Lui invece è falso. Sa perché ha fatto mandare via Oriali? Perché Oriali era una persona perbene. Branca non mi è piaciuto dalla prima volta che l’ho incontrato. Non è che se uno mette giacca e cravatta, come fa Branca, deve per forza sembrare James Bond sul campo d’allenamento...».

La lite con l’ex moglie alla Spa

È l’anno del Triplete, Branca e l’ex moglie (da sempre assidui frequentatori della Spa del Principe di Savoia di Milano, uno degli hotel più esclusivi della città) si ritrovano nell’albergo. Lui è con la nuova compagna. La quiete della struttura è rotta dalle urla dei due, protagonisti di una lite furente che poi finirà davanti al giudice.

Ora fa il procuratore

Ora, però, Marco Branca ha messo da parte la vita da dirigente e, dopo 7 anni da osservatore in Svizzera, ha accettato l’offerta di Marco Busiello, proprietario dell’agenzia di procuratori First: «Gli ho fatto una grande corte e sono soddisfatto di averlo convinto ad accettare il progetto. Branca vanta un’esperienza incredibile, dalla gestione delle trattative alle innumerevoli relazioni nel contesto calcistico, dove da parecchio tempo non aveva un incarico. Gli serviva qualcosa di stimolante ed evidentemente ora lo ha trovato».

Il primo affare? Col Milan

E il primo affare da procuratore lo ha visto chiudere un accordo con «l’avversario» di lungo corso Paolo Maldini. La scorsa estate Branca è stato il mediatore che ha favorito il ritorno di Tiémoué Bakayoko al Milan. Bakayoko sparito dai radar dall’inizio del girone di ritorno dello scorso campionato, esubero questa estate ma ancora a disposizione di Pioli.

Dennis Bergkamp all'Inter: il tulipano appassito che rifiorì a Londra. Fenomenale con l’Ajax, quasi impalpabile in nerazzurro: alle radici del gigantesco flop del fantasista olandese. Paolo Lazzari l'1 ottobre 2022 su Il Giornale. 

Quando compone il numero di telefono le dita fremono, viaggiando a scatti. Strappare questo prodigioso olandese alla Juventus è un momento succoso. Ernesto Pellegrini lo assapora avidamente, prima di svenarsi: il bonifico all’Ajax ha su impressa una cifra che all’epoca procura vibrazioni ai polsi. Si parla di 18 miliardi delle vecchie lire. Con Dennis Bergkamp, seconda piazza nella classifica dell’ultimo pallone d’oro (terzo due anni prima), arriva anche Wim Jonk, coinquilino ideale e complementare. Il primo ne conosce vizi e virtù, può svaporargli intorno mentre quello ingaggia battaglia e quindi, con formidabile maestria, procedere ad infilzare lateralmente gli avversari. Il presidente si sfrega le mani: ha pagato i due olandesi 25 miliardi (anche se da Amsterdam fanno sapere che i conti non tornano) e per la stessa cifra ha infilato nel motore della Beneamata anche tre ulteriori cavalli, gli italiani Festa, Paganin e Dell’Anno. Ora fa correre un braccio intorno al collo del tecnico, Osvaldo Bagnoli: sì, lo scudetto torna ufficialmente contendibile.

Non può sapere, il nostro, che l’avventura di Bergkamp all’Inter è destinata a risolversi in un affare penoso. Il fantasista ciondolerà per il campo per i successivi due anni, incisivo come una lama di sole che scivola su una compatta banchina antartica. Gli unici squilli, la versione originale di quel talento diluito in fretta, saranno contemplabili soltanto in Coppa Uefa: Dennis ne fa 8 e trascina la squadra a sollevarla. Un rigagnolo d’acqua dentro un biennio desertico. In Serie A è un figurante di lusso. Arranca stremato dalla velleità delle sue intuizioni. Inabissa le sue vele olandesi, un tempo lucenti, nella marmaglia tattica che lo circonda. Arriva morbido nei contrasti e tenero sottoporta. Lascia intravedere scampoli di levatura superiore, senza tradurli in sortite efficaci. Il pubblico nerazzurro è subito disilluso. Il patto infranto.

Vaticinare la sciagura, tuttavia, sarebbe stato esercizio impervio. Bergkamp arrivava da un settennato regale ai lancieri, dove era stato eletto erede di Van Basten. Aveva segnato 122 gol in 239 partite e, più di ogni altra cosa, sfoggiato una cifra tecnica che si collocava tre spanne sopra la media. Non è dunque questione di un’improvvisa miopia da parte di Pellegrini e compagni. La classe non la spremi via con un trasferimento. È un coacervo di fattori, piuttosto, a generare la iattura.

ALLE ORIGINI DELLA SCIAGURA

La prima barriera, a dire il vero quella più penetrabile, è linguistica. Dennis inizia ad imparare l’italiano nell’estate del 1993, ma comprensione ed espressione non fluiscono esattamente come i suoi filtranti nel 3-4-3 di Van Gaal, dove lui giocava vertice alto del rombo. Il gap non è roba risibile e contribuisce, almeno inizialmente, a isolarlo dal gruppo. Più i dialoghi con il connazionale Jonk si fanno fitti, più si allunga la distanza con gli altri compagni. Certo, il verbo calcistico è materiale universale fatto di connessioni non verbali, ma le cose non decollano ugualmente.

Un altro fattore che concorre a rendere friabile la sua parentesi italiana è quello determinato dal carattere. Taciturno, introverso, raramente sorridente: nemmeno il miglior vinavil esistente riuscirebbe a cementarlo davvero al gruppo. Al punto che di lui Ruben Sosa dirà: “Non ride mai e non la passa mai”.

Il dilemma autentico che finisce per appassire questo rigoglioso tulipano olandese risiede però ancora altrove. L’approdo in Italia, dopo aver trangugiato calcio totale per anni, assomiglia ad uno strampalato allunaggio. Negli schemi di Bagnoli, Dennis è costretto a stare sempre spalle alla porta e, se non gioca con il prediletto Jonk, gli è impossibile cinguettare con i compagni. La squadra non si muove all’unisono, come quel magnifico Ajax da cui lui proveniva, capace di comprimersi e dilatarsi armonicamente. Bergkamp si sente, piuttosto, relegato su un atollo. Naufrago irrecuperabile su un’isola che nessuno ha stampato sulle rotte. “La squadra era spezzata a metà – ricorderà più tardi – e tra noi attaccanti e tutti gli altri c’erano decine di metri di campo. Questa cosa mi ammazzava ogni volta. Attaccavamo sempre in due contro cinque. Qualche volta si inseriva un centrocampista e io dicevo: ok, ora siamo in tre. Ma che si fa? Dove sono le linee di passaggio?”.

Non va meglio l’anno successivo, quando in sella all’Inter sale Ottavio Bianchi e il club sfila gradualmente nelle appassionate mani di Massimo Moratti. Gli equivoci, tattici ed esistenziali, si susseguono. A fine stagione gli vengono fatte grandi promesse per provare a convincerlo che quello può ancora essere il suo ecosistema, ma Dennis – che nel frattempo ha maturato la celebre decisione di smettere di volare in aereo – decide che è giunto il momento di salpare. “Passavo dall’atmosfera dell’Ajax, che era gioiosa e coinvolgente, ad una sorta di noioso lavoro d’ufficio. Non era il mio modo di intendere il calcio”.

La contraddizione appare ancor più lampante quando i compagni maggiormente empatici, Fontolan, Bergomi e Paganin, provano a pungolarlo: “Sappiamo che hai più talento di Van Basten, ma devi aiutarci di più in campo. Se ti impegni le cose andranno meglio”. Insomma, un invito a pedalare. Cortocircuito stridente, perché coincide con una lettura sballata della natura di Bergkamp: Dennis è un sublime risolutore, non un manovale qualunque.

Il suo soggiorno all’Arsenal chiarirà il concetto e amplificherà il rimpianto. A Londra sarà interprete di un calcio sontuoso, regale. Thierry Henry, uno che dalle parti di Highbury ha maturato un certo credito, in seguito dirà: “Il più forte compagno di squadra? Se parliamo degli esseri umani, escludendo Messi, dico Dennis senza bisogno di pensarci un istante”.

Del senno di poi però sono rigonfi i libri di storia. A certe latitudini, a volte, i tulipani non sbocciano mai.

Christian Vieri: «Un solo bacio delle mie figlie vale più dei gol che ho fatto. Ronaldo? Ci gioco a padel». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 26 Agosto 2022

L’ex calciatore racconta il suo presente e il rapporto con la famiglia: «Prima mi sono divertito, ora mi sento felice» 

Posso chiamarla Christian?

«Mi ci chiamano in pochi...». 

È un bel nome. Bobo, a 49 anni suonati, non è un soprannome da eterno bambino?

«A me piace: è divertente».

Come è nato?

«Mio padre Roberto era Bob. A soprannominarmi Bobo ha iniziato Alessandro Brunetti nelle giovanili del Torino. Venivo dall’Australia, parlavo poco italiano. Da Bob a Bobo il passo è stato breve».

Chi la chiama Christian?

«Gli amici australiani con cui sono cresciuto. E mia mamma Nathalie quando deve farmi un discorso serio».

Christian Vieri, per (quasi) tutti Bobo, ex calciatore italiano. Una forza della natura, centravanti di razza. Juve, Lazio, Inter, Milan i quattro punti cardinali, 14 maglie in vent’anni tra capoluoghi e provincia d’Italia: nella carriera Vieri non si è fatto mancare nulla e i presidenti hanno fatto follie per averlo, compreso firmare un assegno di 90 miliardi di vecchie lire (l’interista Massimo Moratti al numero uno laziale Cragnotti, giugno 1999) e poi fotografarlo nudo con il cartellino del prezzo attaccato all’alluce. Cristiano Ronaldo, oltre quattro lustri fa, era Bobo. Il calciatore e la velina è una favola che ha inventato lui. Simpatico, popolarissimo tra le femmine. Irriconoscibile, oggi. Leggere per credere.

Christian, a chi somiglia?

«A mio nonno Enzo, che era follemente innamorato di me. E a mio padre Bob. Coco, Costanza Caracciolo, mia moglie, mi dice sempre che sono uguale a lui: toscanaccio, focoso, capace di fare mille facce buffe. Ma non è che sono sempre simpatico, eh...».

Un cancro lunatico, sostiene Costanza.

«Molto meno di un tempo: Stella e Isabel, le nostre bimbe, mi hanno insegnato la pazienza. Mai stato paziente un secondo in vita mia. Ma con Coco sono cambiato. Ero appena uscito da un’altra relazione, abitavo a Miami, mi sono detto: Bobo hai 44 anni, stai da solo, divertiti un po’, vai a vivere con due o tre amiche. Costanza la conoscevo da anni, non era mai successo niente, poi comincia un gioco: io do il voto alle foto che lei posta su Instagram. Voti alti. Clic».

Come si è reso conto che Costanza sarebbe stata la madre dei suoi figli?

«Molto semplice: prima non ero pronto. Con Coco è successo tutto senza sforzo, senza pensare. Ci siamo trovati e dopo tre mesi abbiamo deciso di fare un figlio. Cinque anni più tardi, eccoci qui».

Cosa ha capito delle donne, grazie alle sue donne?

«Eh non è facile interpretarvi... Sa cos’è? Sono maturato. È difficile spiegare come ci si accorge di essere pronti per una relazione fissa e i figli. Semplicemente, con Coco sto bene. Non ho bisogno di niente. Men che meno di programmare: io sono negato per la programmazione, devo vivere il daily . In meno di due anni sono arrivate due bambine che sono la più grande gioia della mia vita, altro che i gol. Ringrazierò Coco per sempre per avermi dato una famiglia così bella».

Provi a descrivere questa grande bellezza.

«La sento in maniera esagerata. Per esempio: ogni volta che esco di casa le bimbe vogliono un bacio, un abbraccio e il “cinque”. Ogni volta! Stamattina Stella è entrata in camera: papà e mamma, vi amo tanto, ha detto. Mi stavo facendo la barba: giù lacrime! La grande, Stella, quasi 4 anni, sono io. La piccola, Isabel, due anni, sta tirando fuori il suo carattere. L’altro giorno, al parco, una bambina si è avvicinata a Stella: Isabel l’ha cacciata via, è gelosissima della sorella».

Quando arriverà il maschietto con cui parlare di calcio?

«Io sono a posto. Credo che anche alla Coco vada bene così».

E la fama di donnaiolo? Leggenda metropolitana romanzata o pura verità?

«Quella vita lì è finita!».

Ci mancherebbe altro.

«Mi sono divertito, non lo nego».

Chi è il suo migliore amico?

«Non posso nominarne uno solo, sennò gli altri si offendono. Cristian Brocchi lo conosco dal ‘99, Nicola Ventola, Lele Adani e Antonio Cassano da vent’anni. Giuseppe Pancaro l’ho incontrato nella primavera del Torino: avevo 16 anni. C’è un grande affetto tra di noi, il legame è fortissimo. I calciatori, vede, sono capaci di lunghe e profondissime amicizie: si convive in squadra e in ritiro, si vince e si perde insieme. Oggi, se ci vedesse giocare a padel, le sembreremmo dei pazzi».

Dice Nicola Pietrangeli che il padel è per gli scarsi che non sanno giocare a tennis.

«Il tennis richiede tecnica, il padel no. Noi calciatori che abbiamo corso per vent’anni, appena smettiamo mettiamo su peso. Jogging? Per carità. Palestra? Che noia. Il padel, invece, è una sfida che ci prende la testa. Ti diverti e sudi. Ronaldo è venuto da Ibiza a Formentera per giocare con noi: le mogli fuori a cena e noi in campo dalle dieci e mezza a mezzanotte, come degli scemi. Insulti, offese, gente che prende l’aereo per non saltare la partita... Un rimbambimento collettivo totale!».

Abbiamo parlato degli amici. Nemici ne ha?

«No. Ho sempre avuto un buon rapporto con tutti. Qualche discussione in campo c’è stata, ovvio, ma niente che mi sono portato dietro nella vita. Ci sono amicizie, anzi, che ho recuperato in età adulta. Recoba, per esempio, la persona più buona del mondo. All’Inter io ero single e il Chino sposato: facevamo vite diversissime. Ci siamo ritrovati recentemente, con le famiglie, ed è stato come se il tempo non fosse mai passato. Infatti quando chiamo gli amici per la Bobo Summer Cup, arrivano tutti di corsa».

Campionato, Supercoppa, Intercontinentale, 49 presenze e 23 reti in Nazionale. Ha tenuto dei cimeli? È attaccato agli oggetti?

«Ho tutte le maglie: ben nascoste, sennò me le rubano. Ma non mi piace mostrare, ostentare. Non vivo nel passato: guardo avanti».

Però sui social posta spesso i vecchi gol.

«Sono bei ricordi. E i tifosi non si dimenticano niente: ricevo foto che nemmeno sapevo esistessero! Un calabrese, a New York, mi ha ricordato un gol di destro del 2001: per lui, italiano emigrato, era stato un momento importante, a cui è rimasto affezionato. Ecco, mi fa piacere essere impresso nella memoria degli appassionati. Ho fatto parte dell’ondata di bomber più forti che ci sia mai stata: Inzaghi, Batistuta, Ronaldo, Baggio, Trezeguet, Crespo, Shevchenko... Vedo che la nostra generazione è molto amata».

Più di voi, solo i campioni del mondo dell’82.

«Beh, certo, quelli sono eroi! Cabrini mi scrive qualche tempo fa: Bobo, esce un docufilm sugli azzurri del Mundial, puoi ripostarlo sui social? Già fatto, gli ho risposto: io vi amo. Ero innamorato pazzo di tutti loro: l’urlo di Tardelli che poi è stato mio allenatore, Zoff di poche parole come me, Pablito Rossi di Prato come mio padre, con Altobelli abbiamo commentato insieme il calcio in tv. Idoli assoluti. Memorie indelebili».

Dov’era l’11 luglio 1982?

«A Sydney, in Australia, dove eravamo emigrati. Davanti alla tv alle 3 di mattina con papà e un suo amico napoletano, un bestione di 150 chili. Alla fine di Italia-Germania 3-1 siamo usciti a urlare come matti. Credevamo di svegliare i vicini: in strada c’era tutta la città! Avevo 8 anni».

Dica la verità: ma lei quei 90 miliardi che l’Inter pagò alla Lazio li valeva?

«Secondo me sì: in quei sei anni in nerazzurro ho dimostrato di valerli eccome!».

Perché la Bobo Tv ha così successo?

«Bella domanda... È nata durante il lockdown, per passare il tempo in diretta su Instagram: chiacchiere in libertà con gli amici, aneddoti, cazzeggio. 70-80 mila persone a botta. Poi siamo passati su Twitch, piattaforma di gaming. Boom, la Bobo Tv mi è esplosa in mano: 2-300 mila persone a puntata. Ho avuto ospiti Guardiola e Mancini, con Ronaldo abbiamo fatto un milione di contatti. Funziona perché non si fanno domande del cavolo o fasulle, nessuno mette in difficoltà nessuno, non offendiamo: il dibattito è sempre leale. E la gente apprezza. Siamo sbarcati nei teatri: abbiamo richieste da tutta Italia e parte dell’Europa».

Chi vincerà il campionato?

«L’Inter».

E la Champions?

«Il Manchester City. Haaland farà almeno 40 gol e Guardiola è il miglior coach in assoluto».

E il Mondiale?

«Mi ha preso per Harry Potter...? Vedo tre favorite: Brasile, Francia e Argentina. Messi se lo meriterebbe proprio».

E l’Italia merita di non esserci?

«Lo dico da italiano ed ex giocatore: la nostra assenza dal Mondiale, il secondo consecutivo, è inaccettabile. Non aver vinto il girone con Svizzera, Bulgaria, Lituania e Irlanda del Nord è una follia. I ragazzi, incluso il Mancio che è un caro amico, non hanno fatto abbastanza. Otto anni di assenza li pagheremo a caro prezzo. È terribile».

Chi è stato il bomber più forte di sempre?

«Io metto Messi davanti a Maradona e Ronaldo, il Ronaldo dell’Inter. Si può non essere d’accordo, ma se fossimo sempre tutti d’accordo sai che barba?».

E Vieri dove lo piazza?

«Non scherziamo: io con questi fenomeni non avevo niente a che fare».

Christian, l’anno prossimo sono 50. Vogliamo abbozzare un bilancio?

«Sono nato a Bologna e cresciuto in Australia con il sogno di giocare in serie A e in Nazionale. A 14 anni sono partito: "Mà, vado in Italia". Ho telefonato a Vieri senior (se lo chiamavo nonno si sentiva vecchio): vieni, mi ha detto. Ho preso l’aereo. Ho giocato in serie A e in Nazionale. I miei sogni li ho realizzati tutti, e pazienza se mi sono rotto il ginocchio un mese prima del Mondiale 2006, che avremmo vinto: fa parte dello sport. Oggi sono un marito un po’ lunatico e un papà presente e felice. Ho i capelli bianchi ma sono sempre io, lo stesso Bobo».

Luca Caglio per il “Corriere della Sera – Edizione Milano” il 24 agosto 2022.  

Numero di maglia all'Inter: 18. La sufficienza. Poteva essere un 30 e lode fossero bastati i piedi, tra i primi della classe nella Serie A di inizio Duemila, ma per una laurea ad honorem alla Scala del calcio serve altro: «La mentalità e la costanza di Javier Zanetti» riconosce Stephane Dalmat, francese classe '79, ex centrocampista transitato in nerazzurro tra 2001 e 2003. 

Un diamante grezzo prelevato dal Paris Saint-Germain quando lo «sceicco» del pallone era Massimo Moratti. Il presidente stravedeva per il ragazzo, arrivato a Milano poco più che ventenne in una squadra che in vetrina esponeva Vieri, Seedorf e Ronaldo il Fenomeno, «che non voleva mai pesarsi davanti a mister Hector Cuper». È stato una fragranza, Dalmat, una luce intermittente.

Uno che si è accontentato. Di giocare al Meazza come sui campetti di Joué les Tours, dove da bambino dribblava tutti puntando al sogno di fare il calciatore. Ne è uscita una carriera lunga 15 anni. Trofei, un paio. È rimasto un tifoso interista, anche se ora la maglia gli va stretta, e parla un ottimo italiano: su Instagram incita, commenta, risponde ai fan. Per Lele Adani, suo ex compagno di squadra e ora commentatore sportivo, è stato «uno dei calciatori più sottovalutati della storia».

Ha ancora molti estimatori, eppure non è mai stato un trascinatore.

«Ho vissuto il calcio come un gioco, un divertimento. Sapevo di avere qualità ma non ero ossessionato dagli obiettivi: diventare un campione, sollevare trofei, entrare nella storia. Mi bastava scendere in campo in uno stadio pieno di gente. Fuori, invece, volevo una vita tranquilla».

Non andava per locali fino all'alba?

«Uscivo poco la sera, tra campionato e Champions League ero spesso in ritiro. Abitavo in via Fatebenefratelli, vicino a Brera e Montenapoleone, due zone che frequentavo. Il mio vizio era un ristorante che serviva un ottimo pesce spada. Sono stato bene a Milano. Oggi vivo a Bordeaux». 

Chi le ha dato il soprannome «Joystick»?

«Clarence Seedorf, per me era un'ispirazione. Alcune mie giocate gli ricordavano quelle che si vedono alla PlayStation. Anche Vieri mi stimava, non capiva perché non venissi convocato in Nazionale, e aveva chiesto a Laurent Blanc di parlare con Zidane per convincere il selezionatore della Francia. Non ho mai debuttato, mi sono fermato all'under 21». 

Di cosa si occupa oggi?

«Ho investito nel settore immobiliare, affitto appartamenti. Ma sono soprattutto un papà: mio figlio, Aaron, è nato un anno fa. La famiglia è un riferimento. Con i primi stipendi da professionista, al Lens, ho comprato casa ai miei genitori, che ora vivono in Martinica. Ho due fratelli, uno è stato calciatore e ha giocato qualche mese a Lecce. Mi piacerebbe tornare in campo come allenatore di un settore giovanile. Ancelotti è il mio tecnico preferito». 

Com' è cambiato il calcio?

«Oggi si vince con il collettivo. Vent' anni fa c'erano più individualità, giocatori capaci di fare la differenza». 

E lei è cambiato?

«Sarebbe meglio dire che sono rinato».

Depressione?

«Anche. La verità è che ho rischiato di morire. Nel 2017 ho un brutto incidente in moto, a Bordeaux: perdo il controllo e vado a sbattere contro un muro. Sei giorni di coma. Al risveglio, i medici dicono che potrei non camminare più. Ho il bacino fratturato, mi sottopongo a 25 interventi, le viti tengono insieme le ossa. Passo sei mesi su una sedia a rotelle. Reagisco, faccio riabilitazione, piango molto e ho paura. Solo i miei familiari lo sanno. Mi sento solo. Ma alla fine vinco la partita, la più difficile, e torno in piedi. Cammino. In questo caso ho avuto la mentalità del campione».

Inter, Zhang deve risarcire 250 milioni di euro. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.

Il presidente nerazzurro ha provato a contestare le firme sull’obbligazione inadempiente, ma la perizia calligrafica ne ha certificato l’autenticità. 

Il sorpasso subito dalla Juventus sul fronte Bremer non è l’unica cattiva notizia di giornata per il presidente dell’Inter Steven Zhang. Come rilanciato dal quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, il numero 1 nerazzurro sarebbe stato chiamato a pagare 255 milioni di dollari (circa 250 milioni di euro) più interessi e altre spese ad alcuni creditori che lo avevano citato in giudizio ad agosto dello scorso anno. Zhang, infatti, avrebbe perso una causa intentata per recuperare la somma che avevano prestato con un’obbligazione che lui stesso aveva garantito.

Secondo la ricostruzione del South China Morning Post, il presidente dell’Inter avrebbe negato di aver avallato l’operazione con la China Construction Bank (Asia) Corporation Limited in favore della Great Matrix Ltd che lui controlla direttamente, contestando l’autenticità delle sue firme sui documenti. La perizia calligrafica disposta durante il processo, però, avrebbe attestato l’autenticità di cinque delle sei firme sull’accordo, mentre la sesta sarebbe stata aggiunta su una copia elettronica.

«Non c’è dubbio che Zhang abbia partecipato al finanziamento originario del progetto, e per il quale aveva dato le sue garanzie personali — è il verdetto del giudice dell’Alta Corte, l’on. Anthony Chan —. Considerato in tale ottica, il tentativo di Zhang di prendere le distanze con il rifinanziamento ha scarso merito». Ora i creditori sono ufficialmente nella posizione di rivendicare i 255 milioni di dollari e, sempre secondo il quotidiano di Hong Kong, la China Construction Bank (Asia) avrebbe intentato una causa civile a Milano con cui chiederebbe al tribunale del capoluogo lombardo di accedere ai compensi di Zhang nel suo ruolo da presidente dell’Inter.

Alexis Sanchez: l’Inter, l'ingaggio, Dybala, Julia Roberts, l’aereo da 8 milioni. Chi è l’uomo che blocca il mercato nerazzurro. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera l'11 luglio 2022.

Il 33enne cileno ha sempre colpito nel segno non solo con i suoi gol ma anche con la sua fortissima personalità. La stessa che oggi, forte di un anno di contratto e uno stipendio di 7 milioni annui, lo spinge a rifiutare ogni destinazione che non sia «top». Mettendo così in stallo le operazioni di Marotta (e forse anche l'arrivo di Dybala)

Il caso Sanchez

Quello di Alexis Sanchez è uno dei casi di questo calciomercato. Il 33enne attaccante cileno, infatti, «blocca» di fatto il mercato in entrata dell’Inter e, forse, anche l’arrivo di Dybala in maglia nerazzurra. Con un anno di contratto ancora, un ingaggio altissimo da 7 milioni netti e la chiara intenzione di rifiutare destinazioni che non siano top (sia come squadra che, naturalmente, come campionato), il giocatore appare al momento difficilmente collocabile. Sembra dunque scontato che l’Inter, per uscire dall’impasse, sarà costretta a concedergli una buonuscita (si parla di 4 milioni almeno), e questo al di là del discorso Dybala, visto che Simone Inzaghi non vuole gestire più di quattro attaccanti (che sarebbero, al momento, Lukaku, Lautaro, Dzeko e Correa, con Pinamonti sicuramente in partenza). Nel frattempo Sanchez non sembra preoccuparsi più di tanto: su Instagram, dove vanta 14 milioni di follower, dalle vacanze in Toscana ha postato prima un «Carpe diem» e poi un video in cui mostra la sua forma fisica perfetta. Almeno da quel punto di vista, chi lo prende trova un atleta molto «fit». Ma come sarà ancora come calciatore?

Il leone in gabbia

Sanchez infatti, all'Inter dal 2019, in tre stagioni ha segnato appena 20 gol in 109 apparizioni, fornendo performance controverse e quasi mai all’altezza del suo grande passato. Vero che è stato sostanzialmente una riserva e ha subito diversi infortuni, ma di fatto l’unico grande squillo — non da poco — è stato il gol con cui il 12 gennaio scorso ha regalato all’Inter la Supercoppa italiana. «Il campione più gioca, meglio sta. E fa cose che nessun altro fa», disse orgoglioso e un po’ polemico quella sera pochi minuti dopo il gol al 120’ che a San Siro stese 2-1 la Juventus allo scadere dei supplementari. «Per me le cose non sono mai andate male, semplicemente non mi facevano giocare. Sono stato un leone in gabbia, se mi fanno giocare divento un mostro. Conte mi diceva che nessuno era come me e che dovevo fare la differenza negli ultimi 15’. Gli rispondevo che così mi faceva soffrire», aveva continuato l’attaccante cileno, ribadendo quanto gli stesse stretta la panchina. «Adesso dobbiamo pensare in grande», aveva poi concluso Sanchez. Curiosità: il leone è la sua immagine su Instagram.

Il precedente

Non fu l’unica polemica. Il precedente nell’ottobre 2021: Sanchez offusca la vittoria dell’Inter contro il Sassuolo (2-1) e una prestazione superlativa di Dzeko con una storia «rumorosa» pubblicata (e poi cancellata) sul proprio profilo Instagram. «Renditene conto. Puoi valere molto, però se stai nel posto sbagliato non brillerai», la frase eloquente a corredo di una foto che mostrava una macchina di lusso lasciata in uno stato di abbandono e coperta di terra. Si alzano polemiche. E Sanchez non è mai stato così vicino alla cessione come quel giorno.

Attaccante poliedrico

Nella sua carriera Sanchez ha ricoperto diversi ruoli. Ha iniziato come esterno, poi ha avanzato il suo raggio d’azione come esterno offensivo in un tridente, sfruttando tre sue grandi qualità: velocità, dribbling e capacità di fare assist per i compagni (e ai tempi dell’Udinese se lo ricordano, eccome). Non solo. Ha giocato anche come trequartista centrale in un 4-2-3-1, come seconda punta e, infine, come falso nueve. Insomma, un attaccante completo e moderno. All’Inter è arrivato nel 2019 dopo avere giocato due stagioni nel Manchester United, 4 nell’Arsenal, 3 al Barcellona e 3 all’Udinese, dove era arrivato nel gennaio 2008, giovane fenomeno, dal River Plate. In Cile ha giocato fra il 2005 e il 2007 con Cobreloa e Colo Colo.

Il soprannome «El Niño Maravilla»

Il suo soprannome ufficiale, «El Niño Maravilla», affibbiatogli quando da giovanissimo iniziò a mettere in mostra il suo talento, non è in realtà il nomignolo con cui era conosciuto dalla gente della sua città. A Tocopilla, in Cile, dove è nato il 19 dicembre 1988, era infatti noto come «Ardilla» o «Dilla», cioè «Lo scoiattolo», vista la sua propensione ad arrampicarsi sempre sugli alberi, sui tetti delle case o a correre nei giardini sopra e sotto le recinzioni.

Una via con il suo nome

All’anagrafe di Tocopilla è registrato come Alexis Alejandro Sanchez Sanchez (il padre e la madre Martina hanno lo stesso cognome). Inoltre, Tocopilla, dove sorge anche una sua statua, gli ha intitolato una via, ribattezzata «Calle Alexis Sanchez». A deciderlo sono stati proprio gli abitanti della città che hanno votato il cambio di nome della vecchia strada nota come «Cuarta Poniente» in cui si trova il campo di calcio di Cancha Lazareto, il primo terreno di gioco dell’interista.

Povertà e solidarietà

Da bambino Sanchez non poteva permettersi nemmeno un paio di scarpe da calcio, per cui era solito giocare a piedi nudi. Il primo paio gli venne regalato dal sindaco di Tocopilla, tifoso dell’Arauco, la squadra in cui giocava il piccolo Alexis scalzo. Sanchez non ha dimenticato. E ogni volta che torna a Tocopilla insieme ad alcuni amici distribuisce regali ai bambini.

Vita da single (e quella volta con Julia Roberts)

Sanchez non è né sposato né fidanzato. È legatissimo alla madre e allo zio Josè, quasi un padre adottivo che si è occupato di lui dopo che quello biologico abbandonò Alexis e le sue due sorelle. Invece, la sua vita privata, tra modelle, presunti scandali legati a video a luci rosse (da lui sempre smentiti) e tradimenti vari, è sempre stata molto confusa e complicata. Famosa ai tempi del Manchester United una sua foto nel luglio 2018 con Julia Roberts che ha scatenato molte illazioni: si trattava però solo di un semplice scatto da fan (e, come vedremo, di aspirante collega attore) dopo un’amichevole estiva durante la tournée di pre stagione negli Stati Uniti.

Gli allenamenti e l’alimentazione

Sanchez è un patito dell’allenamento, tanto che qualcuno sostiene che il fisico eccessivamente muscoloso negli anni gli abbia portato più fastidi che benefici. Sanchez si allena ogni giorno, quando è in vacanza non lascia trascorrere più di 48 ore senza corsa, camminate e palestra e ha un fisico (senza tatuaggi) da aspirante bodybuilder. Inoltre, l’attaccante dell’Inter nuota, fa pesi, attrezzi, tapis roulant e panca, oltre a tutto il lavoro con il pallone in campo. È attento anche all’alimentazione. Amante del vino rosso e del mate (bevanda ricavata dall’infusione di foglie di erba mate, un must per tutti i sudamericani), fa una colazione salata. Ai tempi dell’Arsenal (2014-2018), come molti suoi compagni, amava mangiare sashimi dopo le partite. Adesso fa 5-6 pasti al giorno, preferisce la carne bianca a quella rossa e ama le verdure di stagione.

La passione per i cani

Sanchez ama i cani. Una parte della sua giornata è occupata dalle passeggiate con i suoi amati cani, due Golden Retriever, che si chiamano Atom e Humber. I loro nomi sono incisi sulle scarpe del cileno e ai tempi del Manchester United (2018-2020) sui social i tifosi lo prendevano in giro per questo legame. A loro ha dedicato un profilo Instagram che ha oltre 180mila seguaci.

Un futuro da attore

Dopo il calcio, il cileno non ha mai nascosto di sognare un futuro da attore, motivo per cui afferma di impegnarsi sempre molto negli spot pubblicitari che lo vedono protagonista. Nel film cileno «Mi amigo Alexis», del 2019, interpreta se stesso aiutando un bambino appassionato di calcio a sfondare. Il debutto da attore è stato un successo e ha sorpreso anche al Giffoni Film Festival (la rassegna mondiale per ragazzi a Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno), dove lunedì 28 dicembre 2020 è stata proiettata la pellicola. «Penso che le persone saranno sorprese di come recita Alexis – disse il regista Alejandro Fernández Almendras –. È la storia di un ragazzo e di suo padre. Di una famiglia che fatica ad andare avanti in un paese che quasi non offre opportunità. Il calcio è passione e gioia, ma è anche fonte di ambizioni per tanti genitori che vedono nei figli l’unica possibilità di realizzare i sogni loro negati, una corda a cui aggrapparsi per sfuggire alla povertà. Il fascino del film è nel lavoro di decine di bambini che trasmettono la gioia autentica di chi insegue i tuoi sogni». Sanchez ha confessato anche che il ruolo che gli piacerebbe interpretare un giorno è quello del detective.

L’aereo privato da 8 milioni

Sanchez possiede anche un aereo privato, sul quale fa regolarmente viaggiare anche i suoi amati cani, Atom e Humber. Si tratta di un Gulfstream G300 dal valore di 8,3 milioni di euro.

Gabigol. Da corrieredellosport.it il 28 giugno 2022.

A 26 anni la carriera di Gabriel Barbosa, meglio noto come Gabigol, è definitivamente ripartita dal Brasile. Con la maglia del Flamengo l’ex attaccante dell’Inter è tornato ad essere l’implacabile bomber che un lustro fa aveva scatenato l’interesse di molte big d’Europa prima che i nerazzurri riuscissero ad assicurarselo.

Dhiovanna Barbosa e i retroscena sul fratello Gabigol

La campagna europea di Gabigol è stata però più che deludente, se non fallimentare. Dal punto di vista tecnico, ma non solo, almeno stando a quanto dichiarato dalla sorella del giocatore, Dhiovanna Barbosa, in un’intervista concessa a Mauricio Meierelles nel corso della trasmissione Foi Mau sull’emittente brasiliana ‘Rede TV!’. La nota influencer ha infatti svelato che il fratello ai tempi dell’Inter ha sofferto di una forma di depressione e di altri problemi di salute.

Dal flop all'Inter al Pallone d'Oro sudamericano: la rinascita di Gabigol

“Gabi tornava a casa dall'allenamento e andava direttamente in camera sua. Quando era in Italia ha avuto anche l’anemia" le parole di Dhiô. Con la maglia nerazzurra Gabigol ha disputato solo 10 partite tra campionato e Europa League nella stagione 2016-’17, segnando appena un gol e non riuscendo ad integrarsi nel calcio italiano. 

La successiva parentesi in prestito al Benfica è stata ancora più deludente, poi la rinascita dopo il ritorno in Brasile dove tra Santos e Flamengo Barbosa ha fatto incetta di titoli statali e nazionali, arrivando anche ad alzare la Copa Libertadores con il club rubonegro, con tanto di doppietta decisiva nella finale del 2019 contro il River Plate che gli è valsa nello stesso anno la conquista del Pallone d’Oro sudamericano.

"Gabi merita di andare al Mondiale"

"Ricordo che io e i nostri genitori abbiamo fatto di tutto per aiutarlo, ma a quel tempo riuscivamo a malapena a parlargli - ha aggiunto Dhiovanna  - Mio fratello dà la vita sul campo e soffre molto quando le cose non funzionano". Il sogno è quello di entrare tra i convocati per il Mondiale 2022: "Lo speriamo tutti per lui, se lo meriterebbe" ha concluso la sorella di Gabigol.

Andy van der Meyde. Paolo Fiorenza per fanpage.it il 21 giugno 2022.

Ai bei tempi Andy van der Meyde è stato The Dutch Sniper, ovvero il  cecchino olandese, per la sua caratteristica esultanza inginocchiandosi e prendendo la mira con un immaginario fucile. I bei tempi sono sostanzialmente quelli che hanno lanciato la sua carriera all'Ajax fino ai 24 anni, facendogli mettere in bacheca campionati e coppe olandesi, oltre ad avergli aperto le porte della Nazionale. 

A quel punto, nell'estate del 2003 l'Inter pensò di portarsi a casa quell'esterno d'attacco così talentuoso e dribblomane – un colpo voluto fortemente dall'allora uomo mercato Marco Branca – ma nel biennio milanese le cose non andarono come sperato e Van der Meyde si trasferì all'Everton, dove la sua carriera, ma prima ancora la sua vita, finirono in un tunnel di abissi da lui stesso raccontati nella sua biografia.

Una spirale di eccessi che ad un certo punto divenne letteralmente senza freni, mentre la sua carriera di calciatore era di fatto finita molto prima dei 30 anni: dall'alcol alla droga, dal gioco d'azzardo alla depressione, alla necessità di assumere altre sostanze per non impazzire: "Ero fuori controllo, non riuscivo a dormire se non prendendo pillole. Era roba pesante, di quella da prendere con la prescrizione del medico. Le rubavo dallo studio del medico del club, l'ho fatto per più di due anni. Poi è arrivata la cocaina, insieme a Bacardi, vino e feste in quantità. Capii che dovevo andarmene da Liverpool, o sarei morto".

E poi c'era il sesso, tanto sesso, un'overdose di sesso. Le due mogli e i cinque figli sono soltanto la copertina di un volume che ha migliaia di pagine. Del resto il buon Andy ha enunciato lui stesso il suo verbo: "Il mio motto era: sempre e ovunque, fosse un'igienista dentale, una segretaria dell'Ajax, una ragazza conosciuta a un semaforo".

Pentito oggi un pochino lo è – "ho sbagliato molto", dice ad Algemeen Dagblad – ma invoca attenuanti: "Pensaci, come calciatore avevo tutto ciò che le donne potessero desiderare. Ero carino. Ero davvero ricco. E avevo anche un cazzo enorme", e via una risata. "Avevo milioni, ma ero completamente pazzo nella mia testa".

"Sono stato un cattivo padre per molto tempo, non ho badato ai miei figli, questo è l'errore più grande della mia vita – spiega il 42enne di Arnhem, svelando che il rapporto non è ancora ottimale – La mia figlia maggiore ancora non vuole vedermi. Vive in Italia, ma le scrivo regolarmente un messaggio solo per dimostrare che penso ancora a lei ogni giorno". 

Oggi Van der Meyde si è ripulito completamente e in Olanda è un personaggio molto noto in TV e sui social, ha un proprio canale You Tube dove produce una serie in cui ospita altri calciatori sulla sua auto. Le follie sono alle spalle. 

Robin Gosens. Inter-Gosens: il matrimonio con Rabea, il piccolo Levi, la lite con Ronaldo, la polizia e il libro. Chi è la colonna nerazzurra. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022.

Nazionale tedesco, formatosi in Olanda, è sbocciato all'Atalanta (e adora Bergamo). Voleva fare il poliziotto, è diventato papà da poco e un giorno CR7 si è rifiutato di dargli la maglia: «Mi ha fatto vergognare».

Il matrimonio con la sua Rabea

In attesa di prendersi l'Inter, Robin Gosens sabato scorso si è sposato con la sua amata Rabea Bolhke. Così come ha postato sul proprio profilo Instagram. Nello scatto pubblicato, il nerazzurro spiega cosa l’ha portato a sposare la compagna di una vita. Una vera e propria dichiarazione d’amore che si incastra alla perfezione con i propositi di questi giorni. «La sposo perché ha fatto tutto nel modo giusto. È la donna più in gamba del mondo. Ti amo, per sempre». I due si sono fidanzati prima che l’esterno si trasferisse all’Atalanta nel 2017. Adesso le vacanze — la luna di miele — in Sardegna, poi l'Inter.

Il figlio Levi, nato a ottobre

Gosens e Rabea nell'ottobre scorso hanno avuto il primo figlio, Levi, «presentato» al mondo con una bellissima foto su Instagram che ritrae la manina del piccolo.

Così l'Inter ha bruciato la concorrenza

Robin Gosens a gennaio è approdato all’Inter. L’accordo tra il club nerazzurro e l'Atalanta si è trovato sulla base di un prestito con obbligo di riscatto, con una valutazione di circa 30 milioni. L'ingaggio è di 2,7 milioni a stagione per quattro anni più opzione: con i bonus si va oltre i 3 milioni l'annui, mancano solo i dettagli. Per Simone Inzaghi un bel rinforzo sulla fascia sinistra. Il 27enne esterno, nazionale tedesco, ha risolto i suoi problemi muscolari al bicipite femorale della coscia destra, che l'avevano appiedato in inverno. Per lui l'Inter aveva battuto la forte concorrenza del Newcastle e il sogno Schalke 04, squadra per la quale da bambino faceva il tifo.

Come gioca Gosens: tutta fascia, assist e gol

Di ruolo terzino sinistro, può giocare anche da esterno tutta fascia. Letale in fase offensiva, è un ottimo assistman e soprattutto un gran realizzatore. È molto veloce ed è anche bravo in fase difensiva. A Bergamo dal 2017 con la Dea ha giocato 157 gare segnando 29 reti. L’apice nel 2020-2021 con 12 gol: 11 in campionato e uno in Champions

Sbocciato tardi (in Olanda)

Nato il 5 luglio 1994 a Emmerich, in Germania, ma presto trasferitosi con la famiglia in Olanda, a scoprirlo relativamente tardi (nel 2013) e a dargli l’opportunità di diventare un calciatore importante fu il Vitesse. A sentire Gosens, una benedizione: «Credo che se fossi entrato presto in qualche settore giovanile mi sarei stufato di regole e schemi da seguire. Io non sono così, quando ero più giovane mi sono divertito e ho giocato sempre a calcio con gli amici prendendo tutto il tempo che mi serviva. Dal giorno in cui ho firmato il primo contratto da professionista la mia vita è cambiata: ho sempre sognato di fare il calciatore ma in quel momento, avevo 19 anni, ho capito che potevo davvero farcela».

L'Atalanta e la «pazza Bergamo»

Nel 2017 sbarca all’Atalanta: «Ho visto che l’Atalanta era tra i primi cinque del campionato di serie A e non potevo credere che avessero seriamente interesse per me. Ma mi hanno convinto, sapevano tutto di me. Sulla via del ritorno, in aereo, ho detto a mio padre: è una pazzia che devo fare. L’Atalanta è un club caldo e aperto. Bergamo è una città pazza di calcio, dove tutto ruota intorno al calcio». Nel periodo tragico della prima ondata della pandemia da Covid, Gosens aveva lanciato un messaggio: «I love Italia, è il Paese in cui vivo e che mi ha accolto con calore», e poi, attraverso il proprio profilo Instagram, aggiunse: «Sono vicino ai bergamaschi e a tutti gli italiani, per lottare contro questo virus».

La maglia di Ronaldo

Nel giugno 2021 Gosens raccontò di aver chiesto la maglia a Cristiano Ronaldo dopo una gara giocata contro la Juventus, ma il portoghese rifiutò: «Mi vergognavo — ha raccontato poi il tedesco —. Dopo il fischio finale sono andato da lui, non sono nemmeno andato dal pubblico per festeggiare, ma Ronaldo non ha accettato. Gli ho chiesto “Cristiano, posso avere la tua maglietta?”. Non mi ha nemmeno guardato, ha detto solo di no. Sono andato via e mi sono sentito piccolo. Hai presente quel momento in cui accade qualcosa di imbarazzante e ti guardi intorno per vedere se qualcuno l’ha notato? È quello che ho provato e ho cercato di nasconderlo». Ovviamente Gosens, in maniera scherzosa, è stato preso in giro dai propri compagni di squadra. Che, però, hanno esaudito il suo desiderio comprandogli la numero 7 di Ronaldo. Robin ha trovato il pacchetto nello spogliatoio, l’ha scartato e ha iniziato a ridere non appena vista la maglietta tanto desiderata. Il video, girato da Freuler, mentre scartava il regalo, diventò virale sul web.

Il libro: «Vale la pena sognare»

Si intitola «Träumen lohnt sich», «Vale la pena sognare», il libro scritto da Robin Gosens – con l’aiuto del giornalista tedesco Mario Krishel – in cui il giocatore racconta gli ultimi anni della sua vita, quelli che l’hanno visto spiccare il volo nel grande calcio mondiale. Dall’arrivo in Italia al debutto europeo nelle due competizioni continentali, le prime convocazioni con la Germania. È uscito l’8 aprile 2021: «Cari amici avrete notato che gli ultimi due anni della mia carriera non avrebbero potuto essere migliori. Il salto in Champions, le fasi finali di Lisbona, l’esordio in Nazionale. È davvero incredibile che io possa definirmi un giocatore da Nazionale. E, come se non fosse tutto già abbastanza folle, ora c’è anche un grande editore che mi permette di raccontare la mia storia dall’inizio fino a oggi», aveva annunciato sul proprio profilo Instagram.

Poliziotto mancato

Se non fosse diventato calciatore, Gosens ha più volte detto che avrebbe fatto il poliziotto. Voleva un lavoro stabile e in Germania esiste un percorso di formazione specifico per entrare in polizia. Poi tutto è cambiato quando ha iniziato a giocare a calcio seriamente. Un percorso di crescita costante culminato nell'Atalanta e nella Nazionale tedesca, con la quale ha debuttato il 3 settembre 2020 con un assist a Werner. Ha disputato gli Europei la scorsa estate.

Perisic-Inter: il rinnovo difficile, la lite con Icardi, la boxe, gli orologi rubati (e la multa per il beach volley). Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2021.

Il suo contratto è in scadenza a giugno, il nodo è lo stipendio: per il club i 5 milioni netti di adesso sono troppi. E Ivan, dopo la finale di Coppa Italia con la Juve decisa con 2 gol e una prestazione monstre, ha sparato a zero: «Non si aspetta l’ultimo momento, con i giocatori importanti non si fa così». Ecco la storia di un grande indolente diventato indispensabile

Perisic, la Coppa Italia e la polemica con l’Inter

Travolgente al punto da sembrare bionico, decisivo e pure provocatorio. Ivan Perisic mercoledì 11 maggio è stato l’uomo in più dell’Inter che ha conquistato la sua ottava Coppa Italia battendo 4-2 la Juventus ai supplementari. Per il croato due gol e una prestazione monstre, fatta di lucidità, atletismo e leadership di livello assoluto. Non pago, nell’intervista a caldo Ivan è poi rimasto terribile anche a parole: «Il rinnovo del contratto con l’Inter? Al momento non ne posso parlare — ha detto —. Ma non si aspetta l’ultimo momento, con i giocatori importanti, non si fa così, lo dovete sapere». Il riferimento è a una diatriba che si trascina da mesi: il suo contratto è in scadenza a fine giugno, Perisic è tentato da una nuova esperienza in giro per l’Europa ma resterebbe volentieri anche all’Inter, solo che non vuole abbassarsi lo stipendio di 5 milioni a stagione. Il club per un 33enne non vuole pagare tanto. E lo stallo continua. Una cosa è certa: dovesse Perisic andarsene, l’Inter perderebbe una delle sue certezze. Il croato, infatti, completamente trasformato rispetto al calciatore indolente dell’era pre Conte, è ormai da due stagioni il fulcro del sistema di gioco nerazzurro: plasmato dall’ex c.t., ara la fascia sinistra come un trattore e per i compagni è divenuto una sorta di macchina spara assist (e coppe). Per Inzaghi è uno degli irrinunciabili. Ma fino a quando?

Perisic, la Croazia e i capelli colorati

Nato a Spalato, Ivan è legatissimo al suo Paese e alla Nazionale, con cui ha scavallato quota 100 presenze (è a 111, quarto di sempre). Ha partecipato ai Mondiali del 2014 e del 2018 (in cui la Croazia ha raggiunto la sua prima storica finale), ad Euro 2020 e all’Europeo del 2016. In quest’ultimo, per scaramanzia ha cambiato look, colorandosi i capelli con la scacchiera biancorossa, simbolo della bandiera croata, prima dell’ottavo di finale contro il Portogallo. Partita alla fine persa 1-0 ai supplementari con annesso palo del giocatore dell’Inter.

Il triplete col Bayern Monaco

Arrivato all’Inter Antonio Conte lo prova in ritiro, lo vede timido e dice alla società: «Non può giocare da quinto di sinistra, possiamo cederlo». Ivan va così in prestito al Bayern Monaco con cui in un anno mette insieme il famigerato Triplete. Tradotto, vince tutto il possibile: Bundesliga, Coppa di Germania (con assist in finale) e Champions League. In totale somma 35 presenze a cui aggiunge 8 gol e 10 assist. Rientra all’Inter, si riprende la fascia sinistra e arriva lo scudetto.

La moglie e la famiglia

Tra i banchi di scuola, a Spalato, ha conosciuto Josipa. Non l’ha più lasciata, sposandola nel 2012. Moglie riservata, Josipa: il massimo della mondanità che si concede è una passeggiata in centro. A volte però segue Ivan a San Siro, dove fa coppia sugli spalti con la signora Dzeko o con Leonardo, il primo figlio (avuto nel 2012). La famiglia Perisic è composta anche da Manuela (arrivata nel luglio del 2014) e Ruby, un labrador di poco più di un anno.

Passione basket

Poteva giocare a pallacanestro, da ragazzo. Sceglie il calcio, ma la passione per la palla a spicchi gli è rimasta. Gioca spesso, soprattutto in estate, e segue il Cedevita Zagabria, l’Olimpia Milano (capita spesso di vederlo al Forum per le gare di Eurolega) e il basket Nba. Il suo idolo è LeBron James, per lui ha iniziato a tifare i Cleveland Cavaliers dove per tre anni, dal 2017 al 2020, ha giocato anche l’amico e connazionale Ante Zizic.

La boxe

Ivan il bionico, dicevamo. «Avrei potuto eccellere in ogni sport» dice con poca modestia. Non solo il basket, dove con la sua elevazione riesce tranquillamente a schiacciare. Perisic corre (ha valori atletici da runner professionista), gioca a tennis e da qualche mese, fa pugilato. Si è allenato pure d’estate, in una palestra di Spalato, la Pit bull Gym, e con sé portava anche il figlio Leonardo.

La multa per il beach volley

C’è anche il beach volley tra gli sport praticati dal croato. Non solo da amatore. Nell’estate del 2017 l’Inter lo multa perché Ivan si iscrive a una tappa delle Major Series, a Porec, con il connazionale Niksa Dell’Orco. Perde all’esordio ma, fosse arrivato in finale, avrebbe saltato i primi giorni di ritiro estivo. Spalletti e la società nerazzurra non la presero bene.

Non sa il regolamento

Perisic è sempre corretto in campo, almeno quando conosce il regolamento. Nel 2017, Inter-Roma, in area di rigore si alza il pallone da solo e lo passa di testa ad Handanovic, per permettergli di prenderlo con le mani. Il problema è che questa cosa non si può fare. L’arbitro concede una punizione alla Roma e lo ammonisce, nonostante la sua faccia attonita e le proteste di Icardi, all’epoca capitano.

La lite con Icardi

Ecco, Icardi. Nell’ultima stagione con Spalletti in panchina (2018/19) tra l’attaccante argentino e Perisic succede di tutto. Ivan è a capo della rivolta contro Maurito, che viene degradato e salta diverse partite pur se in condizione. Il motivo? La moglie di Icardi, Wanda Nara: «Dille di smetterla di parlare di me in tv», avrebbe detto in quel periodo il croato al centravanti. Che al termine di quella stagione lascia l’Inter e va al Psg.

I tre orologi

A giugno del 2019 la moglie, rientrando a Milano dopo qualche settimana fuori, si accorge che dai cassetti di casa mancano tre orologi. Oggetti di un valore complessivo di poco superiore agli 80 mila euro, rubati dall’appartamento familiare nel Bosco Verticale, in zona Isola. La refurtiva? Un orologio da donna marca Rolex, in oro e acciaio, da circa 20 mila euro. Un più sportivo «Hublot» da uomo, modello «Big bang steel Ceramic», preso in Germania. E infine il pezzo più pregiato dei tre: un Audemars Piguet da signora, edizione limitata «Carolina Bucci», un autentico gioiello in oro da ben 50 mila euro.

La crioterapia

Anche lui, come fanno sempre più calciatori, per recuperare più velocemente le energie si affida alla crioterapia. Durante l’Europeo del 2016, lo stesso dei capelli colorati, si immergeva in questi simil contenitori con temperatura di -160 gradi. «Rigenerante», il suo commento alla foto condivisa all’epoca su Instagram.

Game of thrones

Daenerys e Jon Snow, Cersei e Tyrion: Perisic è un grande appassionato del «Trono di Spade». Ha visto tutte le stagioni della premiata serie televisiva che prende spunto dai libri di George R. R. Martin «Le cronache del ghiaccio e del fuoco».

Mario Balotelli. Balotelli e il finto stupro. Il piano dell'avvocato: "Mi compro due Ferrari". Cristina Bassi l'8 Maggio 2022 su Il Giornale.

Negli audio la trappola della ragazza e del legale che chiedevano 100mila euro.

Lei voleva ricavare 100mila euro dall'inganno, ora Mario Balotelli, che sarebbe stato vittima di una trappola, ne chiede 150mila di risarcimento per essere stato accusato falsamente di violenza sessuale. La vicenda del finto stupro del calciatore ai danni di una ragazza che all'epoca dei fatti era minorenne è arrivata al processo contro coloro che si sono inventati tutto, la ragazza stessa e il suo avvocato. E le intercettazioni esposte durante l'udienza di due giorni fa a Vicenza lasciano pochi dubbi. Il legale parla esplicitamente di «trappolone» ed esulta: «Mi compro una Ferrari gialla e una blu».

L'avvocato Roberto Imparato, 66enne di Asolo, e la giovane di Bassano del Grappa, che oggi ha 21 anni, sono accusati di tentata estorsione. Il racconto dell'udienza è riportato dal Corriere del Veneto. La tentata estorsione «mediante minaccia» si è consumata nel periodo tra la fine del 2017 e l'inizio del 2018. La ragazza aveva chiesto a Mario Balotelli 150mila euro. In cambio non avrebbe rivelato ai giornali dello stupro subito a Nizza nell'estate del 2017, quando il calciatore bresciano giocava in Francia. La violenza sessuale, è stato poi appurato, non c'è mai stata e le accuse a carico di Balo sono nel frattempo cadute. La trappola in cui doveva finire è stata ricostruita dai carabinieri grazie ai dispositivi sequestrati agli imputati e appunto attraverso le intercettazioni finite agli atti.

Le indagini sono durate due anni. Il contenuto di chat e gli audio raccontano della messa in scena. In una telefonata a un'amica la giovane finta vittima dice: «L'avvocato mi ha detto che devo dirgli (a Balotelli, ndr) che ho un trauma, che non dormo e che non vado a scuola... Devo dire 'ste cose a Mario. E gli devo dire che mi chieda scusa, almeno. Così lo becco in pieno». Il piano suggerito dall'avvocato Imparato era quello di registrare la conversazione. «Dobbiamo fare un trappolone per incastrarlo», diceva, sempre intercettato, il legale. Poi annunciava a una collega: «Appena finito: Imparato 1-Balotelli 0. Registrato per 20 minuti. Voglio una Ferrari gialla e una blu». Ancora: «Abbiamo fatto cento prove. La ragazza è un'attrice nata». E: «Alla fine Balotelli fa pena».

Secondo l'atto d'accusa Imparato, assistito a sua volta dall'avvocato Ernesto De Toni, aveva anche preso contatti con Alfonso Signorini per «offrirgli in vendita» la (falsa) notizia dello stupro. Corredata dalla telefonata tra il calciatore e la giovane, che con lui si era comunque spacciata per maggiorenne. Balotelli, con gli avvocati Enrico Baccaro e Vittorio Rigo, si è costituito parte civile nel processo e ha chiesto 150mila euro di danni.

Da corrieredellosport.it il 6 settembre 2022.

Mario Balotelli ha esordito con la nuova maglia del Sion con una vittoria. E ha ripreso anche a parlare del campionato italiano, della Nazionale azzurra, di alcuni rimpianti e della voglia di tornare nel calcio che conta a 32 anni, cosa che per ora appare molto difficile. Lo ha fatto durante la trasmissione Supertele di Dazn. 

Balotelli: “Mancini ha fatto le sue scelte, le ho sempre rispettate”

L'Italia: tra due mesi vedrà di nuovo i Mondiali dalla poltrona. E Mario Balotelli non sembra più essere nei radar azzurri: “Ho sempre avuto un bellissimo rapporto con Mancini. Da ct della Nazionale ha fatto le sue scelte e io le ho sempre rispettate”. C'è però un rimpianto: “Posso dire che la non convocazione con la Macedonia mi ha fatto male. Ma non perché non mi avesse chiamato, ma perché da italiano sapevo di poter aiutare la Nazionale”.

Balotelli: “In Svizzera non puoi pensare di venirci in vacanza”

Dalla Turchia alla Svizzera, al Sion: “Sono appena arrivato, sto bene. E' un'avventura, ma sicuramente una scelta fatta bene. Volevo far goal col Basilea, ma l'importante è aver vinto. Sono contento di questa scelta. E' una scelta di vita". Anche se “a livello calcistico il campionato svizzero è un campionato particolare, sicuramente non il migliore al mondo, ma difficile. Non puoi venire qui pensando di farti una vacanza. Ma la gente ti lascia vivere, si sta bene, per cui è una scelta di vita".

Balotelli e i treni passati: “Il Napoli? Mi sarebbe veramente piaciuto”

Tanti sono i treni passati nella carriera di Balotelli, uno di questi è il Napoli di De Laurentiis: “Io sono molto legato alla città. Mi sarebbe veramente piaciuto andarci, ma anni fa”. Adesso il pensiero va ad altri club perché a SuperMario piacerebbe un sacco tornare nel calcio che conta, nei top club.

Balotelli: “Mi piacerebbe rigiocare nel Milan. O nell'Inter”

Non si vedrebbe, oggi, in una squadra diversa dal Milan Balotelli: “Il Milan. A me il Milan piace. E' brutto poi che dico Milan, perché anche l'Inter non mi farebbe schifo. Sono le due squadre più belle in cui un calciatore possa stare, squadre su cui un ragazzino può fantasticare".

Bastoni-Inter: «Mia figlia Azzurra? La prossima la chiameremo Nera». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

Il difensore nerazzurro a Dazn: «Il secondo nome di mia figlia è Agnese, per la mia migliore amica morta a 15 anni. Penso a lei prima di andare a letto ogni sera». 

«Ho una figlia che si chiama Azzurra. Per la Nazionale? In realtà abbiamo intenzione di farne un’altra e chiamarla Nera...». Così Alessandro Bastoni nell’ultima intervista rilasciata a Dazn per la rubrica «Day Off», condotta da Diletta Leotta. Una battuta che ha mandato letteralmente in visibilio sui social i tifosi dell’Inter. Nella clip di anteprima dell’intervista, il difensore di Casalmaggiore, in provincia di Cremona, ha parlato della sua famiglia e del suo tempo libero: «Le mie giornate al di fuori dell’impegno con l’Inter? Gioco alla playstation solo in ritiro, ad Appiano Gentile. Adesso il pensiero principale è mia figlia». Che ha tre mesi. 

Bastoni ha raccontato anche un retroscena molto personale sul perché sua figlia Azzurra si chiama Agnese di secondo nome: «Agnese era una mia amica, abbiamo fatto dall’asilo alla seconda superiore insieme. Ero in Norvegia in Nazionale, mi scrive mio papà dicendomi che Agnese era morta. Non è stato facile, parlavamo tutti i giorni, eravamo migliori amici. Per me è come se non se ne fosse mai andata via, faccio un gesto prima di entrare in campo per ricordarla, penso a lei prima di andare a letto. A 15 anni è stata una cosa veramente forte, mi ha segnato. Torniamo al discorso del calcio, che è importante, ma le cose che contano sono queste».

Sulla famosa foto della mamma che gli pulisce la bocca dopo aver mangiato alla festa scudetto dell’Inter: «Si scusa tutt’ora per quel gesto, per la figura che mi ha fatto fare. Presi in pieno, non mi aspettavo mi riprendessero, ma non mi vergogno. I bei rapporti vanno mantenuti, soprattutto coi genitori». Bastoni intanto è alle prese con un problema fisico (risentimento al soleo) che potrebbe costringerlo a saltare la delicata sfida di Udine, partita crocevia per la rincorsa allo scudetto, col Milan ora +2 a 4 giornate dalla fine del campionato. Dopo l’assenza dell’ultimo minuto a Bologna, il difensore della Nazionale è stato sottoposto agli accertamenti strumentali del caso: ma col passare delle ore un suo utilizzo in Friuli sembra sempre più difficile.

Icardi-Psg, addio a fine stagione: ecco le ragioni. E Wanda Nara cerca squadra a Mauro in Italia. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 21 Aprile 2022.

L’attaccante, venduto dall’Inter per 58 milioni nel 2020, è sempre più ai margini nel club francese. Pesano, oltre a un rendimento pessimo e agli infortuni, l’ostracismo di Messi e la telenovela con la moglie. Caduta la prospettiva Juve, il futuro potrebbe essere al Milan. Ma il suo appeal tecnico è decisamente in ribasso. 

Che fine ha fatto Mauro Icardi? Non bella, a giudicare dalle ultime tristi vicende parigine che lo vedono sempre escluso dai titolari oppure, come nell’ultimo episodio di cui è stato protagonista mercoledì 21 aprile, infortunato proprio poco prima di entrare in campo. Il risultato è che la sua storia al Psg è fatta di un flop dopo l’altro e che il suo futuro appare sempre più lontano dalla Francia. Eppure Maurito, che il 19 febbraio ha compiuto 29 anni, aveva vissuto con felicità ed entusiasmo il suo trasferimento a Parigi a fine estate 2019. Il rapporto con l’Inter era ormai logoro e il nuovo tecnico Antonio Conte, che aveva altri progetti per il reparto offensivo, fece acquistare Lukaku dal Manchester United per puntare allo scudetto, poi vinto nel 2021. La morale fu: 58 milioni all’Inter e Maurito a Parigi con tanti propositi di riscatto. Ma la felicità di Icardi all’ombra della Torre Eiffel non si è mai vista.

In questa stagione l’argentino — che ha uno stipendio di 10 milioni di euro — è sparito dai radar di Mauricio Pochettino: le presenze risultano sì 30, ma pochissime dal primo minuto, con un bottino di appena cinque gol. Inoltre, la sorte non è stata proprio benevola con l’ex capitano dell’Inter. Perché proprio quando sembrava che potesse tornare titolare mercoledì 21 aprile, dopo mesi e mesi di panchine – l’ultima partita dal primo minuto rimane quella del 23 gennaio contro il Reims – l’argentino si dovuto fermare nel riscaldamento, prima della sfida con l’Angers vinta dal Psg 3-0 . 

LA CESSIONE NEL 2020

Quando l’Inter fece l’affare: Icardi al Psg per 50 milioni più 8 di bonus

È l’ultimo capitolo di un’avventura iniziata male e proseguita peggio. L’ultimo gol di Icardi con il Psg risale addirittura al 22 dicembre 2021 al Lorient, nella partita pareggiata 1-1. Poi dieci match dietro le quinte (in tre dei quali non è nemmeno subentrato), trascorsi nei panni del rincalzo di lusso. Umiliante pure il solo minuto che gli è stato concesso nella gara con il Marsiglia, con successo del Psg per 2-1 il 17 aprile. Così forse l’ultima immagine in Francia di Icardi rischia di essere l’uscita dal campo, prima ancora di giocare, per un infortunio muscolare. Testa bassa, qualche parola pronunciata contro il destino e tanti, molti pensieri di addio.

Fin dal primo giorno Icardi non ha avuto vita facile a Parigi. Non è mai stato accettato dallo zoccolo duro dello spogliatoio e le cose sono anche peggiorate con l’arrivo di Messi la scorsa estate. Leo è suo acerrimo nemico e i due non hanno mai fatto nulla per smentire queste indiscrezioni: fatto sta che Icardi ha anche perso il posto in Nazionale. Nei mesi scorsi poi non ha certo giovato alla sua immagine la crisi coniugale con Wanda Nara dopo la tresca con Eugenia Suarez, detta la «China». La sua fuga dalla Francia per raggiungere la moglie a Milano creò imbarazzo e ilarità in società e nello spogliatoio. E anche questo pesa nel consuntivo finale. 

LA TELENOVELA

Wanda Nara: «Così ho scoperto che Mauro mi ha tradito: ho visto le chat con la China»

Ora L’Equipe è sicura: Icardi sarà ceduto dal Psg. E Wanda Nara — con la quale i rapporti sembrano tornati buoni e che continua a fargli da agente — è già al lavoro per trovare a Maurito una sistemazione. Il sogno mai nascosto è quello di tornare in Italia, magari alla Juventus. Ma, dopo l’arrivo di Vlahovic, ora Icardi non è più una priorità per la Signora. La nuova suggestione, considerato anche l’amore di Icardi e Wanda per Milano, dove hanno di recente comprato una nuova casa, potrebbe allora essere il Milan, alla ricerca di un centravanti (in attesa anche di capire cosa vorrà fare Ibrahimovic). Anche qui però non sembra facile, perché il club rossonero sta inseguendo Origi del Liverpool, che arriverebbe a parametro zero. Insomma, se il presente è pieno di nubi, nel futuro di Icardi non c’è proprio il sereno. E una cosa è certa: Parigi e i tifosi del Psg non rimpiangeranno il povero (si fa per dire) Icardi.

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 27 Ottobre 2022.

Al vaglio del Tribunale civile di Roma c'è un'altra separazione vip, oltre a quella di Francesco Totti e Ilary Blasi. È infatti arrivato al capolinea anche il matrimonio di Claudio Amendola e Francesca Neri, nonostante i primi di agosto il protagonista dei Cesaroni avesse smentito le voci che parlavano di una rottura. 

I due attori però, a differenza dell'ex capitano giallorosso e della conduttrice di Mediaset, hanno raggiunto subito e con grande serenità un accordo extragiudiziale che, dopo essere stato depositato la scorsa settimana nelle cancellerie di viale Giulio Cesare, ora dovrà essere omologato dal giudice, previo benestare del pubblico ministero degli Affari civili.

Insomma, mentre in casa Totti era in atto la guerra del guardaroba, combattuta a colpi di costosi dispetti (con Rolex, borsette e scarpe griffate fatte sparire) e puerili siparietti social, Claudio Amendola e Francesca Neri avevano avviato la separazione con negoziazione assistita. L'attore romano, di fede romanista, ha scelto per la sua difesa lo stesso legale che assiste l'ex numero 10, ossia l'avvocato Antonio Conte. Mentre l'attrice di origini trentine è rappresentata dall'avvocatessa Paola Friggione.

IL MANTENIMENTO Amendola aveva già lasciato il tetto coniugale lo scorso luglio. L'accordo raggiunto prevede che paghi un assegno di mantenimento mensile all'ex moglie e un contributo economico al loro figlio Rocco, che ha 23 anni. La casa dove vivevano resterà alla Neri. I due si erano sposati a New York nel 2010, ma complessivamente stavano insieme da 25 anni. Hanno affrontato con grande affiatamento anche la malattia di cui l'attrice aveva svelato di essere affetta durante un'intervista in tv. «Starle a fianco è stato il mio compito, non è stato difficile. (…)

Niccolò Dainelli per leggo.it il 6 novembre 2022.

 Dopo tanto parlare, Wanda Nara ha deciso di mettere fine al gossip che da ormai un anno la vede protagonista insieme a Mauro Icardi. La loro separazione ha vissuto mesi in cui rumors e indiscrezioni hanno infiammato i loro fan, ma per la showgirl argentina è arrivato il momento di scrivere la parola fine a una delle telenovela infinite dei giornali scandalistici. E proprio per questo motivo, Wanda Nara a Verissimo ha raccontato tutta la verità sulla rottura più chiacchierata degli ultimi mesi. 

La separazione

Dopo essere stata protagonista del programma Rai, Ballando con le Stelle, Wanda Nara ha scelto il salotto pomeridiano di Mediaset per raccontare la verità di una storia che finora ha sempre lasciato dubbi e incomprensioni ai tanti appassionati di gossip di tutto il mondo. Ospite di Silvia Toffanin, la showgirl argentina ha parlato a cuore aperto su una relazione che ormai non funzionava più da un anno. Il celebre Wandagate ha incrinato qualcosa nel loro rapporto e niente è stato più come prima. Il presunto tradimento di Mauro Icardi con l'attrice Eugenia La China Suarez ha rotto qualcosa nella storia d'amore tra i due e, quindi, a fine estate è arrivata la decisione da parte di Wanda di chiudere definitivamente il rapporto. 

«In pausa»

«Possiamo dire - spiega Wanda Nara - che siamo in una pausa, non lo so. Siamo una famiglia e non si sa mai, ma non stiamo assieme già da due mesi, anche se ci parliamo tutti i giorni, abbiamo 5 bambini. La verità è quella, ci siamo lasciati bene, non c’è stata nessuna cosa grave, ho aspettato i tempi che dovevo aspettare». Ma incalzata da Silvia Toffanin, la showgirl spiega di aver avviato le pratiche per il divorzio. «Soprattutto per il discorso dei bambini, come dividere i giorni e queste cose qua, non per litigare, abbiamo messo un’amica in mezzo e ci parla con il cuore in mano».

Separazione confermata

Wanda Nara, dunque, avrebbe confermato la separazione con Mauro Icardi, ma ha voluto anche spiegare cosa concretamente li abbia portati a quella decisione. «Non abbiamo mai avuto nessuna crisi, sono successe delle cose che ormai si sanno. Quando abbiamo iniziato a litigare, che la pace mancava in casa, sempre pensando ai bambini ho pensato fosse meglio mettere uno stop. Io sono una donna molto seria e ho trovato dei messaggi che non mi sono piaciuti e da lì è iniziato cambiare un po’ tutto. Lui mi ha detto la verità, mi ha detto che aveva visto una persona e mi ha raccontato tutto. Lui ha questa qualità di dire la verità anche se fa male. Abbiamo provato un anno a stare bene e quando ho capito che in casa mancava la pace ho lasciato stare». 

«L-gante? Non è vero»

Ma una domanda sulla sua situazione sentimentale di questi mesi non poteva certo mancare. Silvia Toffanin, fatto il punto della situazione sul rapporto con Mauro Icardi, chiede a Wanda Nara cosa ci sia di vero nella storia con il rapper di 22 anni L-gante. «Non è vero che ho tradito Mauro con il L-gante. Ho fatto uno shooting di abiti sportivi, mi ha chiamato un’azienda e lo shooting ha funzionato, il manager mi ha proposto di partecipare ad un suo videoclip musicale e da lì e partito tutto».

«Amo Mauro»

Poi, per finire, Wanda Nara sorprende tutti. Dopo aver dichiarato di aver chiuso definitivamente con il suo ex marito lascia ancora un spiraglio di speranza nei tanti fan che li vorrebbero vedere di nuovo insieme. «Io amo Mauro, è la persona più importante in questo mondo per me, e lui sa che io sarò sempre la sua procuratrice. Ci siamo lasciati, ma non possiamo escludere niente. È vero ho firmato la pratica di separazione, ma... Non è vero che non mi ha pagata e penso che non lo farebbe mai. Vedremo in futuro se torneremo qui insieme a parlare, chissà».

Claudio Amendola e Francesca Neri si separano. Redazione Spettacoli su La Repubblica il 27 Ottobre 2022. 

La coppia avrebbe già trovato un accordo e si aspetta soltanto l'ufficialità del tribunale. Un rapporto durato 25 anni

Prima la smentita, questa estate, ora la conferma: Francesca Neri e Claudio Amendola si separano dopo 25 anni di relazione e 12 anni di matrimonio. Lo scrive Il Messaggero. La coppia avrebbe già trovato un accordo tramite gli avvocati e sarebbe in attesa dell'ufficialità del tribunale. L'attore romanista ha avuto al suo fianco lo stesso legale di Francesco Totti (oltre ad Annamaria Bernardini de Pace), Antonio Conte, mentre Francesca Neri è assistita da Paola Friggione. Ad agosto Amendola aveva smentito categoricamente la separazione: "Vi prego non scherziamo" aveva detto. La decisione è evidentemente venuta in questi mesi ed è stata gestita con molta discrezione e in accordo fra loro.

L'incontro e i film assieme

Francesca Neri e Claudio Amendola si erano innamorati nel 1997 sul set di Le mani forti, in cui lei interpretava una psicanalista e lui il più complicato dei suoi pazienti. La loro storia fu vissuta al riparo dai riflettori. Il matrimonio fu celebrato 13 anni più tardi, nel 2010 a New York. Gli attori hanno un figlio, Rocco, di 22 anni. Insieme hanno girato anche La mia generazione di Wilma Labate. Anche se in tempi recenti non hanno più recitato insieme, Neri e Amendola hanno lavorato a dei progetti comuni come il film da regista dell'attore I cassamortari che viene da un soggetto scritto a quattro mani dalla coppia.

La malattia di Francesca Neri

Nel settembre 2021, Amendola aveva parlato per la prima volta della malattia della compagna, la cistite intersiziale cronica. "Mia moglie Francesca ha una malattia, un dolore fisico enorme - aveva raccontato l'attore a Verissimo - Non ha una malattia chiara ma una difficoltà nel vivere le sue giornate. Anche nella malattia, cerca la forza per stare bene. Ne ha parlato nel suo libro che presenterà presto. L'ho letto e ho pianto tanto. Ha grande intelligenza e coraggio. Il racconto che fa dei suoi ultimi anni di vita è coraggioso".

L'attrice e produttrice, sempre a Verissimo, un anno fa aveva detto: "Non era scontato che Claudio mi stesse vicino, vedevo la sua difficoltà e anche la sua impotenza. Ho pensato fosse giusto allontanarmi, ma per il suo bene. Non ero nella condizione fisica di andarmene, ci ho provato. A tratti aspettavo che andasse via lui, però non ha mollato. Lui mi ritrova sempre, come io faccio con lui".

La prossima fiction di Claudio Amendola

L'attore e regista, che deve la sua grande popolarità a serie come I Cesaroni o Nero a metà, grande successo della scorsa stagione, al momento è al lavoro sulla fiction di Canale 5 Il patriarca nei panni di un boss mafioso malato di Alzheimer.

Certi amori poi finiscono... È addio tra Wanda e Icardi. Nuova crisi tra il calciatore e la moglie. Lei: "Non ne posso più". Al capolinea anche la Neri e Amendola. Valeria Braghieri il 5 Agosto 2022 su Il Giornale.

E dire che era uno di quegli amori suggellati anche dai tatuaggi. Se lo erano meritato un marchio eterno, dopo tutte quelle avversità. L'inizio faticoso dovuto alla fine del matrimonio tra lei (Wanda Nara) e Maxi Lopex, uno dei migliori amici di lui (Mauro Icardi) in tempi e modalità a quel punto un po' sospetti; il controversa metamorfosi di lei da semplice moglie a procuratore calcistico dopo una defatigante gavetta di qualche mese a gestire i social dell'attaccante (allora) Neroazzurro; il disastroso contributo di Wanda all'unità di squadra: ha sfasciato lo spogliatoio dell'Inter e si è riempita la cabina armadio di Louboutin; il polemico, ostile, deludente passaggio del calciatore argentino al Psg, dove, perennemente in panchina, si è trasformato in un automa in ricarica; il gossip (ottobre 2021) di un presunto flirt di Icardi con l'attrice Eugenia Sanchez: lì erano volati gli stracci... Wanda che insulta l'altra, Wanda che insulta Icardi, Wanda che si sfila l'anello nuziale e posta l'anulare nudo su Instagram, Wanda che parte, Icardi che la insegue, Icardi che le manda le rose, Icardi che le scrive parole d'amore sui social... Alla fine lei lo aveva perdonato, era tornata a casa con tutti e cinque i figli (le due di Mauro, i tre di Max) e aveva assicurato che «di lui mi fido di nuovo, potrei riempire la stanza con 200 donne...». Sembravano ormai al riparo in una nuova vita antisismica, complice il fatto che lei non si è mai arresa e, frugando alla cieca nel suo illimitato ego aveva trovato la formula del matrimonio perfetto: «ho sette anni più di Mauro, ci tengo ad essere sexy». Insomma c'era di che festeggiare con aghi e inchiostro e quindi, puntuali, erano arrivati nuovi tatuaggi. Solo che ieri, grazie ai media argentini, è arrivato anche un messaggio vocale registrato da Wanda: «Sono venuta in Argentina perché sto divorziando da Mauro. Sto organizzando il divorzio al momento. Starò ancora qualche giorno e poi torno a prendere tutto il necessario. Sto organizzando le cose per il divorzio perché non ne posso più». Delle ragioni non si sa ancora nulla ma confidiamo che, trattandosi di «Wandagate», basti aspettare. Intanto i media si sono precipitati a fare i conti in tasca alla coppia per capire come divideranno cosa: case, soldi e macchine di lusso, macchine di lusso, macchine di lusso. Triste ma inevitabile se si tratta della fine di un «matrimonio brand». Un po' come un mesetto fa è accaduto per la cantante Shakira e il difensore del Barcellona Gerard Piqué, insieme da dodici anni, due figli e, pare, un'imperdonabile distrazione da parte di lui per una misteriosa ragazza «dagli zigomi marcati».

Un po' come, subito dopo, è accaduto per l'ex ma «eterno» Capitano della Roma, Francesco Totti, e la showgirl Ilary Blasi: tre figli, diciassette anni di matrimonio e la schiacciante responsabilità di essere la coppia «presidenziale» della Capitale. Sembra, infatti, che l'unione fosse già finita da un anno ma che i due si fossero accordati sul massimo riserbo per i figli e, forse, per il pubblico. Per questo avevano mantenuto segreti la presunta relazione di Totti con Noemi Bocchi e il misterioso, fantomatico flirt di Ilary con non si sa chi.

Ieri poi, è arrivata anche la notizia dell'amore finito, dopo venticinque anni e un figlio, della coppia di attori Francesca Neri e Claudio Amendola. Talmente dissimili da essere perfetti insieme, quei due. Eppure... Solo qualche mese fa, intervistati in tempi e sedi diversi, entrambi avevano parlato della malattia di Francesca (la cistite interstiziale cronica) e avevano avuto reciproche parole d'amore. Sarà che l'insoddisfazione è il marchio di fabbrica della specie umana. O sarà che non sono bastati i tatuaggi.

"Non ne posso più, sto organizzando il divorzio": spunta l'audio choc di Wanda Nara. Un audio trapelato sul web confermerebbe la rottura. Il messaggio della modella alla collaboratrice domestica: “Stiamo organizzando tutto, è finita”. Massimo Balsamo il 4 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Potrebbe essere giunta al termine la storia d’amore più discussa del mondo del calcio. Parliamo del matrimonio tra Mauro Icardi e Wanda Nara, da tempo al centro del gossip tra indiscrezioni, voci e messaggi social. Un audio trapelato sul web confermerebbe la rottura: l’attaccante argentino e la modella sarebbero vicini al divorzio.

A suffragare la notizia, l’audio inviato da Wanda Nara alla collaboratrice domestica. L’ex opinionista del Grande Fratello si trova in Argentina, probabilmente per mettere nero su bianco la separazione da Icardi. “Sto per divorziare da Mauro, lo sto organizzando. Rimarrei qualche altro giorno, poi tornerò a prenderti il biglietto e tutto il necessario. Sto organizzando un po’ le cose per il divorzio, non ce la faccio più, l’ho chiesto io”, quanto recita il messaggio trasmesso dal programma televisivo “Los Angeles de la Mañana”.

“Qui confermano che Wanda sta divorziando da Mauro. Questo audio che qualcuno ha fatto trapelare, non so se la signora Carmen o un'amica di Carmen, è di ieri”, ha precisato la conduttrice del programma della tv argentina. La crisi è più attuale che mai, dunque: “Wanda l'ha inviato ieri a Carmen e qualcuno ce l'ha mandato qui. Non abbiamo il numero di telefono di Carmen qui”. Ulteriori conferme dopo i segnali sui social, tra foto cancellate e immagini profilo cambiate all’improvviso.

Icardi e Wanda Nara di nuovo ai ferri corti. Lui si cancella dai social

Non esattamente un fulmine a ciel sereno. Poco meno di un anno fa, Icardi fu pizzicato da Wanda in un flirt con l’ormai famosa China Suarez. Una crisi solo sfiorata. Ma le voci non si sono placate, tra presunti tradimenti e chat bollenti. Il lato privato ha avuto delle pesanti ripercussioni sulla carriera dell’argentino, ormai ricordato per le sue imprese sui settimanali di gossip, più che per le gesta sul rettangolo verde. Al Psg, infatti, non vede più il campo e lo score stagionale è a dir poco imbarazzante. In altre parole, la macchina da gol che emozionava i tifosi dell’Inter è solo uno sbiadito ricordo.

Da video.gazzetta.it il 5 agosto 2022.

Nella giornata di ieri era emerso un messaggio vocale - trasmesso da un programma televisivo argentino - in cui Wanda Nara parlava dell'imminente capolinea della storia con Icardi: "Sto organizzando un po' le cose per il divorzio perché non ce la faccio più". 

Sui social, però, mentre dall'account di Wanda sull'argomento tutto tace, Mauro Icardi cambia la sua immagine profilo mettendo una foto con la moglie e pubblica questo video scrivendo "che discorso azzeccato". Il riferimento di Mauro è all'audio che accompagna il filmato delle vacanze della coppia (di qualche mese fa), che dice: "Se parlano male di te, lasciali perdere. Perché mentre queste persone perdono tempo a criticare i tuoi viaggi, i tuoi luoghi, la tua vita amorosa, tu continui ad essere reale. E questo gli fa male. Perché ti vogliono fermare". Wanda taggata, ma nessuna risposta o like

Da video.corriere.it il 5 agosto 2022.

Nei giorni scorsi sui media argentini era comparso un audio di Wanda Nara, inviato ad una sua collaboratrice domestica, in cui confermava di essere tornata in Argentina per separarsi definitivamente dall’attaccante del Psg. «Sono venuta in Argentina perché sto divorziando da Mauro», si sente nell’audio reso pubblico dal programma argentino Lam. Icardi sui social ha smentito l’ennesima crisi e per dimostrarlo ha anche messo una foto profilo in cui lo si vede baciare la moglie appassionatamente. Poi ha postato una storia con questo testo: «Non so chi mi fa più pena, se chi inventa cose sulla mia vita o chi ci crede». E in questo video, postato sempre sul suo profilo, dice: «Se parlano male di te, lasciali perdere. Perché mentre queste persone perdono tempo a criticare i tuoi viaggi, i tuoi luoghi, la tua vita amorosa, tu continui ad essere reale. E questo gli fa male. Perché ti vogliono fermare».

"Wanda ha tradito Icardi con un calciatore sposato". In Argentina sicuri che il divorzio sia vicino. Mauro Icardi e Wanda Nara La Repubblica l'8 Agosto 2022  

Secondo i media sudamericani, dietro ai molti viaggi di lavoro della modella, ci sarebbe anche un nuovo amore. Aveva perdonato il marito dopo le scappatelle con China Suarez, poi l'audio rubato in cui raccontava di voler divorziare

Si era infuriata per le varie scappatelle del marito, Mauro Icardi, con la modella China Suarez. Poi aveva deciso di perdonarlo. Ma adesso a finire sotto i riflettori è lei, Wanda Nara. Secondo i media argentini l'ex moglie di Maxi Lopez avrebbe tradito l'attaccante del Psg con un altro calciatore, "un uomo sposato". L'identità dell'amante, al momento, non è nota. La coppia, quando la voce si è diffusa, ha postato su Instagram foto e storie insieme.

"Wanda avrebbe già delle braccia tra cui consolarsi"

A pochi giorni dalla pubblicazione dell'audio rubato alla showgirl, in cui lei dice "di voler divorziare con Icardi, non ne posso più di lui", si aggiunge un altro elemento che ha portato la stampa argentina a dichiarare la crisi e a ritenere il divorzio vicino. Il primo a parlarne è stato Lucas Bertero, conduttore del programma A la tarde. Che è certo che "Wanda abbia già braccia tra le quali consolarsi, sto parlando di qualcosa che non è di oggi. Pensiamo a tutti i suoi sporadici viaggi in Argentina per aprire negozi o promuovere i suoi marchi di cosmetici. Alcune fonti mi indicano che ha un flirt con un calciatore oltretutto sposato".

Il tradimento di Wanda, dopo l'audio in cui lei minaccia il divorzio, sarebbe l'ennesimo segnale di una storia d'amore turbolenta. Nara aveva perdonato il marito dopo averlo scoperto a letto con un'altra: la modella China Suarez è stata l'amante del centravanti ex Inter. Una figura risultata decisa e insistente dopo che la relazione era stata resa nota. Suarez ha avuto infatti uno scambio di frecciate a mezzo stampa con Wanda Nara. La moglie di Icardi l'aveva accusata "di aver sfasciato una famiglia". La replica: "Sono una vittima, altre donne passano quello che sto passando io, che non ho iniziato la relazione".

Per ristabilire la quiete familiare Icardi aveva addirittura proposto a Wanda Nara di smettere col calcio per stare più con lei. Una dichiarazione di intenti respinta ma che l'aveva convinta a riabbracciarlo. Adesso a tradire pare sia stata proprio lei. I ruoli si cambiano. Come reagirà Icardi? Sarà il misterioso calciatore a spingere la coppia a dirsi addio per sempre?

Novella Toloni per ilgiornale.it il 18 agosto 2022.

Finirà in tribunale la diatriba tra Wanda Nara e Carmen Cisnero, collaboratrice domestica della famiglia Icardi. Le dichiarazioni rilasciate dalla colf uruguaiana al programma argentino LAM sul presunto divorzio tra l'imprenditrice e il calciatore del Psg non sono piaciute alla moglie di Mauro Icardi, che ha dato mandato ai suoi legali di procedere contro l'ex dipendente. 

Il caso è scoppiato la scorsa settimana, quando Carmen Cisnero - collaboratrice domestica della famiglia Icardi da quasi due anni - ha venduto al programma televisivo LAM trasmesso da América TV un audio WhatsApp, nel quale si sente Wanda Nara annunciare l'imminente divorzio da Mauro Icardi. L'imprenditrice argentina avrebbe mandato il messaggio vocale in una chat privata con la colf, annunciandole il ritorno in Italia dopo un breve viaggio di lavoro in Sud America. "Carmen, sono venuta in Argentina perché sto divorziando da Mauro. Sto organizzando il divorzio al momento. Starò ancora qualche giorno e poi torno a prendere tutto il necessario. Sto organizzando le cose per il divorzio perché non ne posso più".

Le voci dell'ennesima crisi tra Wanda Nara e Maurito Icardi circolavano da giorni, ma il calciatore aveva smentito ogni rumor condividendo sui suoi canali social numerosi scatti in compagnia delle figlie e della moglie. L'audio venduto dalla Cisnero alla tv argentina, però, ha riportato l'attenzione sulla coppia che sembra non avere proprio superato la crisi dello scorso autunno. Il "tradimento" della collaboratrice domestica ha fatto decisamente infuriare l'imprenditrice argentina, che su Instagram ha fatto sapere di avere sporto denuncia contro l'ex dipendente, non prima di averla licenziata: "Procedo per vie legali in virtù delle manifestazioni pubbliche e delle continue minacce mediatiche della signora María Carmen Cisnero Reboledo, che continua a raccontare storie sulle mie intimità, sulla mia famiglia e soprattutto sui miei figli minorenni".

Successivamente Wanda Nara ha smentito ogni accusa fatta dalla Cisnero che, dopo avere venduto l'audio a LAM ha anche accusato gli ex datori di lavoro di averla sfruttata per tutto il periodo del suo contratto, di non averle pagato lo stipendio per oltre due anni e di averla lasciata da sola nella casa di Milano nonostante la sua richiesta di seguirli in Francia. Senza considerare i presunti maltrattamenti che la Cisnero avrebbe subìto da parte di Nora Colosimo, madre della Nara nonché suocera di Icardi. "È stata Carmen a volere restare a tutti i costi in Italia, dove ha continuato a ricevere cure mediche insieme a quattro dosi di vaccino per il Covid.

Ogni mese aveva a disposizione una carta di credito con 600 euro solo per lei. Non l'abbiamo mai abbandonata e ci siamo sempre occupati delle sue spese personali", ha scritto nelle storie Instagram Wanda Nara prima di annunciare la denuncia contro l'ex colf, che a sua volta ha incaricato un avvocato di procedere contro la famiglia Icardi per riduzione in servitù.

Una accusa non nuova a carico di Wanda e Maurito, che già a dicembre dello scorso anno erano stati denunciati da un'ex collaboratrice domestica. La lista delle ex dipendenti, che accusano la famiglia Icardi di maltrattamenti sul posto di lavoro, è lunga e molte di queste sarebbero pronte a scendere in strada per una vera e propria marcia contro l'imprenditrice argentina e il calciatore. "Quello che ha fatto Wanda a Carmen è imperdonabile. Stiamo organizzando una marcia contro la Nara, stiamo cercando altri sostenitori. Bisogna difendere la nostra professione", ha dichiarato Daiana Carolina González, leader dell'associazione pro collaboratori domestici in Uruguay, che si è schierata in difesa della Cisnero.

Niccolò Dainelli per leggo.it il 23 settembre 2022.

Wanda Nara e Mauro Icardi si separano. Dopo un anno di crisi, la showgirl argentina ha preso la dolorosa decisione. Dopo 8 anni di matrimonio i due hanno avviato il procedimento per la separazione. E a dare la notizia è proprio Wanda sul suo profilo Instagram, sorprendendo i suoi quasi 15 milioni di follower. «È meglio si sappia da me», scrive l'agente e, ormai, ex moglie del nuovo calciatore del Galatasaray. 

L'annuncio

Nell'estate delle separazioni nel mondo dello show business, ecco un'altra coppia che si appresta a vivere il divorzio. Dopo Shakira e Piqué e Francesco Totti e Ilary Blasi, anche Wanda Nara e Mauro Icardi si dicono addio. Un fulmine a ciel sereno? Non proprio. Dall'Argentina ne erano sicuri da mesi. Dopo il famoso Wandagate di un anno fa, quando la showgirl scoprì il tradimento di suo marito con l'attrice Eugenia La China Suarez, la loro storia d'amore è proseguita.

Ma la crisi non si è mai risolta definitivamente. Poi la svolta questa estate. Dei messaggi vocali in cui Wanda Nara dava l'annuncio dell'imminente separazione all'ex colf. Audio che hanno fatto il giro del mondo e che Mauro Icardi ha voluto smentire con forza sui social, ma dei quali Wanda non si è mai occupata pubblicamente. E, adesso, arriva l'annuncio social. 

«È meglio si sappia da me»

Nonostante la loro crisi profonda, Wanda Nara ha sorpreso il mondo del gossip. Poco dopo la mezzanotte di venerdì 23 settembre, ecco la storia su Instagram che conferma i rumors di un'estate intera. Uno sfondo nero, quasi a lutto, e un breve annuncio. «Mi risulta molto doloroso vivere questo momento», inizia così la sua confessione sui social. «Ma data la mia esposizione e le speculazioni mediatiche che stanno venendo fuori è preferibile lo sappiate da me.

Non ho nulla da dichiarare e non voglio dare alcun tipo di dettagli su questa separazione. Per favore vi chiedo di capire non solo per me ma anche per i nostri figli». Wanda annuncia l'imminente divorzio dal suo secondo marito Mauro Icardi, senza mai citarlo. Un messaggio chiaro, conciso e molto importante, dopo nove anni di storia d'amore. Una love story iniziata con lo scandalo del tradimento ai danni di Maxi Lopez e che adesso, secondo quanto raccontato dai media argentini, vedrebbe la showgirl molto vicina a un cantante. 

I gossip su Wanda

Le voci della loro separazione si rincorrono da parecchi mesi. E ogni volta, sempre attraverso stories su Instagram la coppia aveva provveduto a smentire. Dai profili social dell’attaccante del Galatasaray, al momento, nessuna novità. Ma il gossip argentino è certo: nella vita di Wanda Nara esiste già un altro uomo. Le voci che provengono dall'Argentina si fanno insistenti: nella vita di Wanda Nara ci sarebbe già il cantante L-gante.

Un'indiscrezione che quasi una settimana fa aveva già sconvolto i fan della coppia, ma che aveva trovato importanti conferme nelle parole della sorella della showgirl, Zaira Nara. La cognata di Mauro Icardi apparsa in un programma televisivo aveva così commentato i gossip sulla sorella: «Non voglio entrare nella vita di mia sorella». Parole che non smentivano i rumors e che suonavano già come una sentenza. Una non smentita che ha alimentato sempre di più le voci e che, adesso, ha portato all'annuncio ufficiale da parte di Wanda.

Wanda Nara e Icardi si separano. L’annuncio di lei sui social: meglio che si sappia da me. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.  

Con una storia su Instagram la moglie e procuratrice del calciatore ammette la fine della relazione con l’attaccante del Galatasaray: «É un momento doloroso»

«È meglio si sappia da me». Wanda Nara ha sorpreso i suoi 15 milioni di milioni followers poco dopo la mezzanotte di giovedì con una delle sue stories su Instagram. Uno sfondo nero e un breve quanto importante annuncio. «Mi risulta molto doloroso vivere questo momento — inizia così la confessione-messaggio di Wanda— ai social - Ma data la mia esposizione e le speculazioni mediatiche che stanno venendo fuori è preferibile lo si sappia da me. Non ho nulla da dichiarare e non voglio dare alcun tipo di dettagli su questa separazione. Per favore vi chiedo di capire non solo per me ma anche per i nostri figli». Non fa mai il nome di Mauro Icardi, ma dal tenore del messaggio si intuisce che si riferisce al suo matrimonio. Poco più di un mese fa si erano diffuse voci sulla loro separazione. Una tv argentina diffuse un audio di Wanda in cui la donna rivelava: «Non ce la faccio più», riferendosi al marito. «Sto divorziando da Mauro» aggiunse. Ma la donna smentì categoricamente qualche ora più tardi. Nel pomeriggio l’ennesima notizia che li riguardava rispetto ad un incendio scatenato da mobili vecchi mandati in fumo nella loro villa sul lago di Como. Le voci della separazione tra i due si rincorrono da parecchi mesi. E ogni volta, sempre attraverso stories su Instagram la coppia aveva provveduto a smentire. Dai profili social dell’attaccante del Galatasaray, al momento, nessuna novità.

Dopo 8 anni di matrimonio, e due figlie, la storia d’amore tra Mauro Icardi e Wanda Nara che ricopre anche il ruolo di agente del centravanti, sembra essere arrivata al capolinea. Lo scorso anno la crisi tra i due pure aveva fatto il giro dei social e del mondo: in quell’occasione tutto era nato dai messaggi del calciatore per il più classico dei triangoli con la China Suarez. Wanda andò via da Parigi destinazione Milano, e furono molteplici i tentativi disperati del marito di recuperare la situazione, mettendo anche da parte i suoi impegni lavorativi con i bleus.

Wanda Nara, Icardi e la separazione. Lui non voleva, lei: «Dovevo farlo per la mia salute mentale». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.

L’avvocato della moglie e agente del calciatore, Ana Rosenfeld, chiarisce in tv: «Wanda è ferita e triste ma ha deciso così. Mauro non voleva». 

Dopo il messaggio social, improvviso ed eloquente, pubblicato da Wanda Nara nella notte tra giovedì 22 e venerdì 23 settembre, la storia d’amore con Mauro Icardi sembra giunta al capolinea. Nonostante tutte le smentite dei mesi scorsi (seguite alle innumerevoli crisi) e quella dello stesso Maurito fatta qualche ora prima della stories della moglie. Anche i suoi erano messaggi su Instagram che poi ha cancellato. Ana Rosenfeld, avvocato dell’imprenditrice, che di Icardi è anche agente e lo ha portato da poche settimane al Galatasaray, ha confermato la rottura al programma tv argentino LAM, molto vicino alle vicende della coppia: «La separazione non è avvenuta di comune accordo. Wanda è triste e ferita ma ha deciso così», ha spiegato. L’avvocato ha poi consigliato di fidarsi di tutto ciò che Wanda Nara ha pubblicato e pubblicherà sui social. «Sono andata via con la voglia di rimanere. Sì, fa male! Ma dovevo farlo, per la mia salute mentale. Ho dovuto essere egoista e ho scelto me stessa. Pensami», ha condiviso sui social Wanda Nara in un video. 

Icardi e Wanda Nara denunciati: hanno dato fuoco a vecchi mobili sul Lago di Como

Una crisi iniziata con la sua fuga nell’ottobre 2021 dopo aver scoperto la tresca (o presunta tale) del marito con Eugenia Suarez, detta la China per i tratti orientali. Una telenovela che aveva appassionato quasi tutti in Argentina, Francia e Italia. Icardi, da ricordare, era scappata a Milano da lei per fare pace. Una scelta che imbarazzò il Psg. La frattura sembrava ricomposta e la coppia aveva deciso di trasferirsi a Istanbul, in Turchia. Icardi è andato infatti al Galatasaray. Una nuova vita, in apparenza felice. Poi la decisione di Wanda Nara che fa calare il sipario su questa storia. Ma ne vedremo ancora delle belle. Soprattutto rispetto alla divisione dell’immenso patrimonio che hanno in comune.

Salvatore Riggio per corriere.it il 23 settembre 2022.

Se si siano o meno davvero separati, non sarà più un segreto per nessuno con l’evolversi degli eventi. Ma a ogni voce di divorzio tra Mauro Icardi e Wanda Nara, sua moglie e agente, si torna a parlare del patrimonio che la coppia dovrà dividersi. E non è cosa da poco. Detto questo, a quanto pare – ma attenzione ai colpi di scena – i due sono pronti a firmare le carte del divorzio e a dividere l’ingente patrimonio accumulato in nove anni di matrimonio. 

Qualche mese fa fu il portale argentino Noticias a elencare tutti i beni dei due. Conti alla mano, Wanda Nara è proprietaria al 100% della società «World Marketing Football», con la quale gestisce due attività fondamentali: il marchio «MI9» di Mauro Icardi e «Wan Collection», una linea di abbigliamento e cosmetici con cui ha iniziato a collaborare nel 2017. Da qualche mese l’argentina ha aperto un’altra attività, la «Wanda Cosmetics».

 Inoltre, ci sarebbero anche sette auto di lusso e cinque case. Infatti, possiedono una Lamborghini Huracan Spyder blu (valutata circa 230 mila euro), una Bentley Bentayga (150 mila euro), una Rolls Royce Ghost bianca e nera di quasi 300 mila euro, un Hummer H2 personalizzato dotato di una playstation che è valutato all’incirca 110 mila. Oltre a una Mercedes Benz Classe G e un Range Rover (entrambi dal valore di 160mila euro) e un camion Cadillac Escalade che supera quota 100 mila. 

Finito? Macché. L’elenco dei beni non finisce qui. Perché Icardi e Wanda Nara possiedono ben due appartamenti a Milano: uno si trova a pochi passi dallo stadio San Siro (e comprende una piscina privata in terrazza); l’altro è situato nel quartiere Porta Nuova. Qualche anno fa la coppia ha acquistato pure una casa in campagna, a Galliate in provincia di Novara, a meno di un’ora di distanza dal capoluogo lombardo. Il valore della struttura si aggira intorno ai due milioni di euro.

Il loro patrimonio, inoltre, comprende anche una casa sul lago di Como (dove hanno dato fuoco ai vecchi mobili, scatenando un incendio) e una a Tigre, in Argentina: è l’abitazione che Wanda ha condiviso con l’ex marito Maxi Lopez nei primi mesi del loro matrimonio. La casa è rimasta alla donna come riscatto per tutti gli alimenti che in passato l’ex calciatore non le ha mai elargito. Insomma, un divorzio valutato sui 60 milioni di euro.

Icardi e Wanda Nara litigano in chat: "Sei bugiardo", "E tu tossica". Mauro le pubblica sui social poi si mandano baci. Le chat con Wanda Nara che Icardi prima ha pubblicato e poi eliminato. La Repubblica il 26 Settembre 2022.    

La telenovela tra il giocatore e la moglie-agente, che appena tre giorni fa hanno annunciato la separazione, sembra non finire mai

Sono passati appena tre giorni dall'annuncio della separazione ("un momento doloroso") ma la situazione tra Mauro Icardi e Wanda Nara sembra ancora tutt'altro che chiara e definita. Stavolta è stato l'attaccante, attualmente al Galatasaray, a pubblicare come stories sul suo profilo Instagram gli screenshot delle chat con la (ex?) moglie. I due litigano e si attaccano su WhatsApp a colpi di "Sei bugiardo da sposato e da single, dove sei?" e "Sei tossica!".  

Poco dopo le stories con le chat sono state eliminate e sostituite da altre due in cui l'ex giocatore di Inter e Psg invia un bacio a Wanda e da un'altra con lo screenshot della videochiamata, in cui lei appare distesa e sorridente mentre parla con Mauro.

Niccolò Dainelli per leggo.it il 25 settembre 2022.

La separazione tra Wanda Nara e Mauro Icardi ha sconvolto due mondi. In Europa e in Argentina non si parla d'altro e il gossip continua a sfornare nuove indiscrezioni e rumors che lasciano sempre di più a bocca aperta. Nella vita della showgirl ci sarebbe già un altro uomo.E adesso a sconvolgere è la notizia sul suo piano perfetto per tradire il suo ormai ex marito senza essere scoperta. 

I possibili flirt

Nella vita di Wanda Nara, dopo la rottura da Mauro Icardi, c'è già spazio per un altro uomo. Da settimane l'imprenditrice sarebbe vicina a L-Gante, giovane cantante argentino. Qualcun altro, invece, ha parlato di un flirt con Martin Payero, giocatore del Boca Juniors. Secondo quanto emerso nel programma tv Socios del Espectaculo, però, Wanda avrebbe avuto un incontro intimo con L-Gante la sera prima di dare l'annuncio della separazione su Instagram.

L'incontro segreto

A rivelare lo scoop bollente tutto un autista presente alla serata, che ha parlato di un privé nel privé del locale Afrika, dove i due si sarebbero scambiati un bacio appassionato tenendo alla larga occhi indiscreti. «Hanno messo su un piano perfetto - ha raccontato l'uomo -, con la complicità dello staff del locale, affinché non ci fossero immagini o video di quello che stava accadendo». I diretti interessati non hanno né confermato né smentito i gossip. A negare tutto ci ha pensato Kennys Palacios, migliore amico di Wanda, che ha assicurato che con L-Gante c'è solo un bel rapporto d'amicizia e nulla più.

Da fanpage.it il 13 ottobre 2022.

Nella tarda serata di mercoledì è andato in scena l'ennesimo capitolo della saga sentimentale che vede protagonisti Mauro Icardi e Wanda Nara, e stavolta non ci sono voci, illazioni o sospetti, ma a parlare è il diretto protagonista. Dopo essere rimasto finora in silenzio, affidando il suo disperato tentativo di riconquistare la moglie soltanto a dei post social in cui si mortificava ai suoi piedi pur di farla tornare con lui dopo l'annuncio unilaterale della separazione, il 29enne attaccante argentino si è sfogato in viva voce dalla Turchia in lunga diretta Instagram che è stata seguita da centomila persone.

Un fiume in piena motivato dal giocatore con l'esigenza di proteggere i figli (non solo le due bimbe avute da Wanda, ma anche i tre maschi di Maxi Lopez) dal gossip dilagante. In alcuni passaggi i toni sono stati molto duri nei confronti della moglie, con conseguenze che evidentemente Icardi aveva preventivamente valutato. L'attaccante attualmente al Galatasaray ha assicurato che la presunta relazione tra Wanda e il 22enne rapper argentino L-Gante – di cui si vocifera da settimane – è solo "una mossa di stampa". 

Icardi ha sottolineato che la moglie "oggi ha torto" nel suo comportamento pubblico e ha criticato aspramente il suo legame, sbandierato sui rispettivi social, con L-Gante. Ha svelato che la 35enne showgirl sta registrando un videoclip della canzone ‘Vos sos adictiva' che il rapper ha dedicato a lei. L'ex capitano dell'Inter ha rimarcato che c'è disagio tra i figli di Wanda a causa della pubblicità che sta ottenendo in Argentina attraverso la vicenda costruita col cantante.

Il figlio più grande, Valentino Lopez, avrebbe chiamato la madre per "dirle cosa prova: che se continua con questo comportamento, loro stessi dovranno andarsene. Valentino ha già 14 anni, lui e i suoi fratelli guardano il telegiornale, hanno Instagram, guardano You Tube e ovviamente chiedono lumi su tutto questo di cui si parla. Come ho sempre fatto, io dico loro la verità su tutto. Siamo personaggi pubblici, famosi, che fanno sempre notizia. Vorrei che fosse per altre cose ma purtroppo oggi non è così".

Quanto al loro rapporto, Icardi ha dichiarato come stanno le cose dal suo punto di vista: "Siamo abituati a giocare un po' con questa cosa. Ma non siamo divorziati. Io la conosco più di chiunque altro, l'ho sempre difesa, ma siamo arrivati a un punto che è indifendibile. È lo zimbello del mondo intero". Secondo il giocatore, Wanda tornerà nei prossimi giorni a Istanbul, dove risiedono per via del contratto che ha con il Galatasaray, e lo farà nella casa che condividono. "Non ha una casa in affitto" ha chiarito il calciatore. Tuttavia, "dopo questa diretta, si arrabbierà e andrà in un hotel", ha anticipato.

Icardi ha battuto molto sul fatto che anche i figli di Wanda "sono molto arrabbiati con lei, per il suo modo di rendere tutto pubblico. Racconteremo tutto, se è così". Inoltre ha affermato più volte che sia a lui che ai ragazzi non piace il legame con L-Gante perché "non è la nostra gente". L'attaccante di Rosario ha poi chiarito che l'episodio dello scorso anno, ovvero la sua sbandata per l'attrice Eugenia ‘China' Suárez , "ha influenzato molto" Wanda e la loro relazione . "Ma ci sono molte cose nel mezzo di cui si potrebbe parlare, chiarire. Ci sono state tante cose che ho messo da parte per un anno intero", ha aggiunto. 

"Sono stufo delle bugie, delle invenzioni. Wanda chiede la separazione da un anno e non lo fa mai. C'è sempre un ricatto, una minaccia, qualcosa, e non ci separiamo mai. Si è creato un clima strano dopo quello che è successo l'anno scorso. Ma lei sa la verità su come è andata", ha spiegato ancora, smentendo poi le voci che Wanda potesse essere incinta da qualche nuovo compagno: non potrebbe mai esserlo per ragioni che non ha spiegato, ma che avrebbero a che fare con il suo ultimo parto anni fa.

Come Icardi aveva lui stesso anticipato, la moglie – che si trova ancora in Argentina per partecipare come ospite fissa all'equivalente locale del Cantante mascherato – ha preso molto male lo sfogo inatteso del giocatore, che evidentemente l'aveva abituata ad un perenne atteggiamento di prostrazione nei suoi confronti. Secondo quanto affermato dal suo entourage, Wanda ha dichiarato il suo rapporto con Icardi è arrivato ad un punto di non ritorno e che le parole dette dal calciatore oscuravano ogni possibilità di riconciliazione. La prossima settimana la showgirl si recherà in Europa per incontrare faccia a faccia il padre delle sue figlie e quello sarà l'atto finale della loro relazione, assicura chi le è vicina. Peraltro qualche ora prima la stessa Wanda in TV aveva detto di essere single in questo momento.

Nicola Berti. Da ilnapolista.it il 4 luglio 2022.

A Inter TV  hanno messo su un programma in cui le vecchie glorie del club raccontano aneddoti, curiosità, ricordi legati alla militanza in nerazzurro. Si chiama «Careers». Nel corso dell’intervista fatta all’ex centrocampista Nicola Berti, quest’ultimo ha fatto riferimento alle grandi sfide tra l’Inter e il Napoli, in particolare a quella della stagione 88-89, che lo vide protagonista: segnò un gol ai partenopei, deviato da Fusi, e marcò Maradona. L’Inter vinse 2 a 1, poi si laureò campione d’Italia. Segnò anche Careca. Era il 28 maggio 1989, a quattro giornate dalla fine del campionato. Le parole di Berti sono state riportate da Fc Inter News.

«Feci un gol al Napoli che fu deviato da Luca Fusi, poi dopo il gol di Lothar Matthaus corsi in giro a fare il gesto dell’ombrello a tutti, c’era un’adrenalina pazzesca. Gli ultimi dieci minuti andai a marcare Diego Armando Maradona e lo insultavo anche, mi sputava e io non mi pulivo» 

Lui era legato anche alla Fiorentina.

«Quell’anno tornai a Firenze da avversario e per la prima volta, visti gli insulti che ricevetti, sentii che mi stavano demolendo, allora Giovanni Trapattoni mi fece uscire. Il Trap mi voleva un bene dell’anima, era il mio secondo padre; ogni tanto mi beccava che rientravo tardi. Quando arrivai i primi mesi dormivo ad Appiano Gentile una notte rientrai alle tre di mattino e lo incrociai di ritorno da una trasferta per visionare un’avversaria. Lui mi disse che Milano era pericolosa, però io dovevo ancora trovare l’appartamento. Non era un sergente, sapeva capire e gestire le persone»

Il derby.

«Un match che ho sempre sentito. Venivo sempre insultato perché in mezzo a quel Milan stellare io ero l’unico che dava fastidio. Tre gol glieli feci anche se uno non me lo diedero, poi mi piaceva perché venivo sempre insultato dai milanisti. Quando li sentivo mentre cantavano contro di me durante le partite di Coppa alzavo il volume e dicevo ai miei amici: ‘Sentite, pensano a me…’. 

Questa sfida mi ha sempre eccitato, meglio sconfitti che milanisti l’ho creata io dopo un 3-0 subito in Coppa Italia. Ora sono simpatico ai milanisti, ma una volta era pericoloso uscire per Milano, si incontravano personaggi che quando li vedevo dovevo cambiare strada. Milano la vivevo da dio, facevo un po’ di casino ma ci stava, avevo 20 anni… Oggi ti tengono più blindato, ma ci sta; in quegli anni ad Appiano Gentile si stava poco»

Nicola Berti, cosa fa oggi: ambasciatore Inter e golfista dopo la gloria, i Caraibi, Uma Thurman, Carla Bruni e Le Iene. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera l'1 gennaio 2022. 

A 55 anni l’ex centrocampista è ancora fra i giocatori più amati dai tifosi nerazzurri. Ha vinto tanto e ha vissuto anche di più, travolgente in campo e spesso senza limiti fuori. Oggi porta nel mondo il nome del club per il quale un giorno disse: «Meglio sconfitti che milanisti».

Un uomo chiamato Inter

Dietro il sorriso allegro e sguaiato di Nicola Berti c’è sempre l’Inter. Lui, Nicolino da Salsomaggiore, 55 anni oggi, 15 aprile, segno dell’Ariete, , è marchiato a fuoco nell’interismo. Ha vinto tanto (uno scudetto, due volte la Coppa Uefa, una Supercoppa italiana), ed è ancora nei cuori dei tifosi interisti. Lui che dopo un derby di Coppa Italia perso 3-0, furibondo, sbotta: «Meglio sconfitti che milanisti». «Nicola Berti facci un gol», cantava la curva Nord a San Siro: «A pensarci mi vengono i brividi. Se chiudo gli occhi quel coro lo sento ancora, come l’odore del prato di San Siro — ha raccontato in una recente intervista —. Quando quel coro, il mio coro, è stato rivolto a Diego Milito nell’anno del Triplete ho capito davvero quanto mi avevano amato i tifosi. Mi incitavano come fossi un centravanti, anche se ero un centrocampista». Ne ha combinate tante Nicola, anche fuori dal campo. Un po’ farfallone, un po’ libertino, non ha mai rinunciato a nulla. Che fine ha fatto Nicola Berti?

Vive a Piacenza con moglie e due figli

Milano è stata la sua città per tanti anni, ora ha trovato un equilibrio a Piacenza, dove vive con la moglie e i due figli adolescenti. Il più grande, Leonardo, gioca a calcio, ruolo attaccante. Il piccolo, Lorenzo, preferisce la boxe.

Ambasciatore dell'Inter e golfista

Dal gennaio del 2016 è ambasciatore dell’Inter. Collabora con la società in eventi legati agli Inter Club, ai partner e ad altre aree aziendali. Così gira l’Italia ed è sempre a contatto con i tifosi. Ogni tanto commenta il calcio in televisione. Ma una passione legata allo sport Nicolino ce l’ha ancora: il golf. Appena può è sul green per qualche buca con gli amici.

Il gol al Bayern

Non è un titolo, ma «solo» un gol che, fra l'altro, non conterà nulla perché l'Inter verrà eliminata dalla Coppa Uefa dal Bayern Monaco. Eppure è un gol entrato nella leggenda per i tifosi nerazzurri. È il 23 novembre 1988, andata degli ottavi di finale all'Olympiastadion: Aldo Serena ha segnato l'1-0 al 60', poi al 71' esplode il genio folle di Nicola Berti: anticipa e ruba palla poco oltre la propria area, parte centralmente palla al piede, salta tre tedeschi evitando anche una zampata killer e dopo oltre cinquanta metri di corsa buca il portiere avversario in uscita. La corsa infinita prosegue oltre la porta per inginocchiarsi sotto la curva invasa da migliaia di tifosi nerazzurri in trasferta. Finirà 2-0. Poi al ritorno il Bayern vincerà 3-1 e passerà. Ma quel gol resta nella memoria. E dice tutto su che genere di calciatore, esaltante e imprevedibile, era Nicola Berti.

Il paragone con Barella

Uno che segna un gol così non poteva che riconoscersi in un giocatore dell’Inter attuale: «Barella è il mio genio, mi rivedo in lui — ha detto Nicola di recente —. Rispetto a me è più basso e più tecnico. Io fisicamente ero dirompente, ma lo spirito è quello. Abbiamo anche le stesse cifre sulla camicia, NB. Ci siamo conosciuti, è un tipo sveglio. Ho il suo numero e ogni tanto ci scambiamo qualche messaggio. Gli dico di andare a letto presto. Mi piace da morire, ha la stessa voglia che avevo io».

Birre e liti al Tottenham

Insomma è rientrato in pista, in società all’Inter e non solo. Dopo un lungo periodo di distacco con il calcio. Anche perché le ultime esperienze, col pallone, non sono state memorabili. Quando saluta l’Inter, gennaio 98, raggiunge l’amico Klinsmann al Tottenham. Vince una Coppa di Lega, poi litiga con l’allenatore (George Graham, una vita all’Arsenal). Viene sostituito in una partita contro il Southampton, va al bar e si sfoga con i giornalisti: «Ero a bere una birra e dissi: “Ma che ca…mi toglie questo?”. Da quel momento fui messo fuori rosa». Dopo brevi esperienze in Spagna, all’Alaves, e in Australia appende gli scarpini al chiodo.

5 anni ai Caraibi

Così, come si era ripromesso, cambia vita. Vola ai Caraibi: «Ho vissuto lì cinque anni, ho ancora la casa. Era una tappa programmata. Mi sono sempre detto che quando avrei smesso di giocare avrei provato questa esperienza e così è stato. Ho vissuto cinque anni a piedi nudi sulla spiaggia».

Lo scherzo delle Iene

Berti e la sua vita da libertino ai Caraibi, mare, donne e divertimento. Così nasce lo scherzo che poche settimane fa gli hanno fatto «Le Iene». Il fratello e il nipote gli comunicano che si è presentata una certa Cinzia, 20 anni, che sostiene di essere sua figlia. Nata dopo una notte sfrenata proprio lì, a Saint Barth. Ci sono anche le prove: una lettera della madre (ora defunta) e soprattutto un test del Dna. Nicola va fuori di testa: si commuove, abbraccia la figlia, maledice il padre putativo che l’ha cresciuta, litiga con il fratello, porta tutti a pranzo fuori. «Chiamami papà» dice alla ragazza, prima di scoprire che era solo uno scherzo.

Il flop in tv

Nicolino e la televisione, giudice in un talent show sul calcio. È tra i protagonisti dello sfortunato «Leyton Orient», un X Factor con il pallone al posto dei microfoni andato in onda nel 2015 su Agon Channel, condotto da Simona Ventura. Berti, insieme a Fabio Galante e Fulvio Collovati, è chiamato a scegliere due ragazzi che vincono un posto da professionisti nel club londinese. Un’esperienza che, tra ascolti poco esaltanti e liti, non riscuote grande successo.

Uma Thurman e Carla Bruni

Berti vive la Milano degli anni 90, luci, colori e paillettes: «Ci divertivamo molto. Io davo feste memorabili. Abitavo in piazza Liberty, a due passi da Duomo. Erano anni pazzeschi». Viene associato a diverse donne, anche Uma Thurman («Veniva con me allo stadio a vedere l’Inter») e Carla Bruni («Ci hanno fotografato insieme a una sfilata, tutto lì»).

La moglie di Staffelli

Giovane e bello, idolo delle ragazzine e sex symbol, Berti perde la testa per quella che oggi è la moglie di Valerio Staffelli, uno degli inviati di «Striscia la notizia». «Un mio amico calciatore si era invaghito di lei e poiché Matilde abitava sul mio percorso per arrivare in centro a Milano, lui mi chiedeva “Passi a prenderla per favore?” — ha raccontato Staffelli in una recente intervista a Chi —. Lei era serissima, bellissima, molto chiusa, quasi brusca. E io dicevo: “Perché devo andare a prenderla? Non ride mai”. Invece, piano piano si è aperta con me e ci siamo innamorati. Così il mio amico è rimasto a bocca asciutta. Chi era? Nicola Berti. Quando ricordiamo questi aneddoti ridiamo ancora».

Pedinato dall’Inter

Re delle feste milanesi, per tenerlo d’occhio negli anni in nerazzurro l’Inter lo fa pedinare: «Pagavano qualcuno per starmi sempre dietro, poi in allenamento mi chiedevano: cosa ci facevi in quel locale l’altra sera? La mia risposta era sempre la stessa: se in campo corro, quel che faccio la sera sono fatti miei».

La corte (impossibile) del Milan

Berti, simbolo dell’Inter, al Milan? Un tentativo, il club rossonero, lo fece, quando Nicola ancora doveva firmare il rinnovo con i nerazzurri. «Mi proposero di vivere vicino a Milanello — ha raccontato in un’intervista a Grand Hotel Calciomercato — così sarei stato comodo per gli allenamenti. Mi dissero addirittura che mi avrebbero messo a disposizione due guardie del corpo. Ero l’idolo dei tifosi nerazzurri e un trasferimento del genere sarebbe stato pericoloso in quegli anni. Alla fine l’Inter prese in mano la situazione e Pellegrini mi contattò per firmare il rinnovo di contratto».

Sneijder com’è diventato: «So benissimo di essere grasso». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

L’ex trequartista dell’Inter si è rivisto in occasione di una gara di solidarietà organizzata in favore del popolo ucraino. «Ho degli specchi a casa anche io», ha raccontato di recente. 

Fa effetto rivedere Wesley Sneijder con qualche chilo in più. Ha conservato sì il suo tocco magico e la sua mira sopraffina, ma con una condizione fisica differente rispetto agli anni magici con la maglia dell’Inter, club con il quale ha conquistato il Triplete nel 2010 con José Mourinho in panchina. Sfiorando, nello stesso anno, il titolo Mondiale con l’Olanda in Sudafrica, che si arrese soltanto in finale a quella Spagna quasi imbattibile, che in quel periodo aprì un ciclo irripetibile. Le foto di Sneijder, in campo in una gara di solidarietà per aiutare il popolo ucraino, hanno destato scalpore. Soprattutto per i chili in più messi in tutti questi anni, da quando nel 2019 decide di ritirarsi dal calcio (l’Al Gharafa il suo ultimo club, in Qatar), oltre che separarsi dalla moglie, Yolanthe Cabau. In questi tre anni nella vita di Sneijder sono cambiate tante cose. Nel bene e nel male.

Nel giugno 2019, ad esempio, l’ex fantasista olandese si rese protagonista di un atto vandalico nella sua città natale, a Utrecht. Dopo essersi ubriacato, Wesley salì in piedi su una macchina ferma danneggiandola per seimila euro. Fu fermato dalla polizia e dovette risarcire il danno al proprietario del mezzo. O come quando due mesi dopo, agosto 2019, fu beccato allo stadio per assistere alla gara dell’Utrecht con una birra in mano e tanti chili (come oggi, appunto): «So benissimo di essere ingrassato, ho degli specchi a casa anche io», disse. Ultimamente i tifosi dell’Inter hanno avuto l’occasione di poterlo riabbracciare il 4 marzo scorso, nel pre gara contro la Salernitana (vinta 5-0 dagli uomini di Simone Inzaghi), quando Sneijder – con Gianluca Pagliuca, Marco Materazzi e Samuel Eto’o – è entrato a far parte dell’Hall of fame del club nerazzurro.

Fredy Guarin, che fine ha fatto: l’Inter, la rissa con i genitori e l’arresto, il pub-barbiere. Cosa fa oggi. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.

Il colombiano, che in Europa ha vinto con la maglia del Porto, il rifiuto di lasciare l’Inter per la Juventus. La carriera e gli alti e bassi tra tre continenti del centrocampista

L’Europa, l’Inter e le vittorie (col Porto)

Oggi è svincolato, ma fino al gennaio 2016 ha giocato in Europa, all’Inter. I nerazzurri per Fredy Guarin sono stati l’ultimo club del Vecchio Continente. Poi il trasferimento in Cina, allo Shanghai Shenhua, nel 2019 lo sbarco in Brasile al Vasco de Gama, per tornare in patria nel 2021 con i Millonarios. Ha vinto in carriera con il Porto, club dal quale i nerazzurri lo acquistarono nel gennaio 2012. Il colombiano arrivò in prestito per 1,5 milioni di euro e fu poi riscattato per 11,5 milioni di euro. Qualche mese fa Guarin è apparso decisamente ingrassato. Una persona diversa rispetto al giocatore forte tecnicamente ammirato in Italia, seppur tra alti e bassi.

Il pub Caballeros

Le sue qualità da calciatore non sono state mai in discussione e in attesa di una chiamata, nel frattempo, Guarin ha deciso di cambiare vita con l’apertura di una nuova attività. Il «Guaro» (questo il suo soprannome) ha deciso sul futuro e ha annunciato la svolta sui profili social (su Instagram ha 2,1 milioni di followers), con la stessa frase utilizzata al momento della firma proprio con i Millonarios: «Un giorno ci ho pensato, un giorno l’ho sognato, un giorno l’ho realizzato». Ha acquistato «il club de Caballeros», un barbiere, bar e ristorante nel quartiere «El Poblado», a Medellin, in Colombia.

In sovrappeso

Il 30 dicembre 2020 Guarin è stato ingaggiato dal Millonarios, club di Bogotà, tornando così nel campionato colombiano a 15 anni di distanza dall’ultima esperienza trascorsa tra le file dell’Envigado. Al debutto in campionato, la gara fu vinta 1-0, ma sul web circolò una foto di Guarin. In notevole sovrappeso, quasi irriconoscibile.

Al Porto

Guarin inizia nel 2002 all’Atletico Huila, per poi giocare fino al 2005 all’Envigado. Ma il primo balzo in carriera per il centrocampista arriva proprio nel 2005, quando lascia la Colombia e si trasferisce in Argentina, al Boca Juniors. A Buenos Aires resta un solo anno perché dal 2006 al 2008 gioca in Francia, al Saint Etienne. Nell’estate 2008 la svolta. Va al Porto e ci resta fino al gennaio 2012. Ben 116 presenze (21 gol) e conquista due campionati, tre Coppe del Portogallo, tre Supercoppe del Portogallo e una Coppa Uefa.

Il presunto colpo

Arriva all’Inter in prestito e poi viene riscattato. Gioca fino al 2016 in nerazzurro, alternando ottime prestazioni a gare non buone. Non sempre viene applaudito dai suoi tifosi. Gioca 141 gare, segna 22 gol, ma non entra mai del tutto nel cuore dei tifosi. Ed è per questo che nel 2016 dice addio e si trasferisce in Cina.

Il mancato sbarco alla Juventus

Gennaio 2014. Nel mercato invernale Guarin è a un passo dalla Juventus, Vucinic dall’Inter. Ma la rabbia monta furiosa tra i tifosi interisti che si sentono presi in giro. Mobilitazione ultrà sotto la sede nerazzurra, striscioni e offese contro i dirigenti definiti «mele marce» e incontro in sede per quattro ultrà (come rappresentanza del tifo). Risultato? Massimo Moratti convince Erick Thohir a ripensarci, l’Inter si tira indietro e lo comunica via sito ufficiale. Rapida la risposta bianconera, sempre a mezzo Internet: «Sconcertante».

In Cina

Il 27 gennaio 2016 la società cinese Shanghai Shenhua ufficializza sul proprio sito la firma del giocatore, che viene pagato 12 milioni di euro.In tre anni e mezzo con il club cinese, mette insieme 100 presenze, segnando 28 reti tra campionato, Coppa della Cina (vincendola nel 2017), Champions asiatica e Supercoppa di Cina. Il 17 luglio 2019 rescinde il proprio contratto in anticipo di cinque mesi. Il suo ingaggio è di sei milioni di euro a stagione. Poi, il tentativo con il Vasco da Gama.

La rissa con i genitori e il poliziotto ferito: arrestato

Nell’aprile 2021 Guarin è stato arrestato. Soltanto l’intervento della polizia ha impedito che la rissa in cui si trovava potesse sfociare in una tragedia. Una lite furibonda quella tra l’ex centrocampista dell’Inter e il padre. L’aggressione era avvenuta a casa di quest’ultimo. Il giocatore, ubriaco, era stato fermato dagli agenti, ma prima aveva ferito anche un poliziotto. «Con quei drink ero ormai mezzo matto, lo hanno visto tutti, quello non sono io e per alcune persone quell’immagine è rimasta. Lottare con la polizia è stato l’errore più grande».

Da gazzetta.it l'8 febbraio 2022. 

La sua nuova vita si chiama Brentford. Christian Eriksen si è raccontato sui canali social del club inglese partendo dal fatto che aveva avuto la speranza di tornare a giocare a calcio “solo due giorni dopo aver subito l’arresto cardiaco all’Europeo”. Lo svedese non è potuto restare in Italia all’Inter perché per le nostre leggi in materia non avrebbe mai ricevuto l’idoneità per giocare.

Il 29enne è stato dotato di un defibrillatore impiantabile pochi giorni dopo il collasso. “Nei giorni dopo l’arresto cardiaco ho capito cosa mi era successo. Poi sono iniziati tutti i test, ho iniziato a fare mille domande ai dottori, e da lì pian piano è arrivata la convinzione di poter tornare lentamente a giocare a calcio. Il cuore ha reagito bene, ho dovuto essere paziente, ma mi sono fidato del mio allenatore e del mio medico e ho seguito il piano che hanno fatto e questo mi ha reso a mio agio e rilassato al riguardo: tornare alla normalità”.

Dopo l’incidente della scorsa estate, l’ex interista si è allenato con l’Odense e le giovanili dell’Ajax mentre riprendeva pian piano la sua forma fisica. “È stato il periodo più lungo in cui non ho giocato a calcio - ha detto -. Sono stato fortunato a non aver subito infortuni. Stare senza calcio per sei o sette mesi è tanto. È stato molto difficile. Poi finalmente ho toccato un pallone su un campo, ho annusato l’erba, le scarpe da calcio, e tutto è tornato alla normalità. Fisicamente sono in un’ottima condizione, è solo il tocco col pallone che deve tornare veloce come prima. Vedremo come reagirà il mio corpo, intanto mi sento molto bene. Nei prossimi mesi mostrerò che sono ancora un calciatore”.

Francesco Toldo e la sua carriera. Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2022.

In quegli anni entra stabilmente nel giro della nazionale maggiore, prima l’Under 21, per lei cosa ha significato?

«Mi sono inserito in corsa con Stefano Visi e lui era titolare, poi hanno voluto cambiare. Ho cominciato in maniera spensierata. Era il 1994 con Cesare Maldini in panchina. Lui ha costruito tre cicli, vincendoli tutti. Per noi è stato quasi un padre, l’emblema di chi fa crescere bene i giovani e li sa lanciare nel mondo dei grandi. Un allevatore di talenti. Era simpatico, ti lasciava ridere e scherzare. Mitici i suoi tranelli col vino a tavola».

Dopo Ranieri in Viola si sono succeduti diversi tecnici, ce li descrive?

«Alberto Malesani ha fatto solo un’apparizione. L’ho conosciuto poco. Fatih Terim che non era adatto al calcio italiano e arrivano gli anni di Giovanni Trapattoni con il quale abbiamo fatto due belle stagioni. La società poi scelse Roberto Mancini. Con lui abbiamo vinto la Coppa Italia. Le sue capacità si vedevano subito, insegna tutt’ora molto bene a giocare a calcio»

In azzurro ha conosciuto anche Arrigo Sacchi, ha un bel ricordo?

«Un altro maestro. Ci siamo dovuti adeguare al suo gioco e per un portiere era un incubo. Bisognava essere coraggiosi ma imparate le sue basi ti adattavi. È stato un precursore per il gioco in Italia. Nel 2001 approda all’Inter, all’inizio non senza difficoltà… Mister Hector Cuper è durato parecchio tempo, ma purtroppo abbiamo attraversato un periodaccio. Erano gli anni di Calciopoli, a cui ho messo un coperchio sopra e di cui non voglio parlare ma ho vissuto molto male gli avvenimenti. Nelle stagioni poi si susseguirono Zaccheroni e Mancini fino all’apoteosi con José Mourinho».

Lui fu l’apice del progetto Moratti, come ci riuscì?

«Perché è il miglior mister, non tanto dal lato del gioco ma dal punto di vista psicologico. È il più avanti di tutti. Quell’Inter è stata la costruzione di tante squadre nel tempo. Il presidente aveva comprato i giocatori più forti e Mou è riuscito a creare un gruppo unico. La sue forze sono state la preparazione, l’intelligenza e la chiarezza».

Quando ha deciso di smettere?

«La sera del Triplete con l’inter (Campione d’Europa, d’Italia e vincitore della Coppa Italia, ndr). Avevo capito che era arrivato il momento di stare con la mia famiglia».

La partita più bella che ricorda?

«Mediaticamente la semifinale di Euro 2000 con l’Olanda. È stata magica perché si sono incontrati il talento con le coincidenze fortunate. Girò tutto bene. La sera prima parlando con un amico al telefono avevamo ragionato su chi poteva calciare i rigori e andò come me l’ero disegnata. La convinzione è alla base di tutto, più del talento. Io ero uno di quei portieri che se centrava la giornata giusta diventava insuperabile».

Altri match in cui si è distinto e che non sono nell’immaginario collettivo?

«Ce ne sono tanti ma spesso nella mente resta solo quello che fanno gli attaccanti. Penso ad esempio a Arsenal-Inter 0-3 (2003), espugnammo Highbury a Londra e io parai un rigore. Oppure ai vari Valencia-Inter, in quegli anni erano tutte sfide galattiche».

Il compagno di squadra con cui si è divertito di più?

«Di “matti” ce ne sono stati tanti, ma uno come Maicon non l’ho mai visto».

E con Buffon che rapporto c’era?

«Due portieri all’apice. In nazionale esisteva una fortissima rivalità, ma ci siamo sempre rispettati. Non c’era un’amicizia profonda, non si rideva o si scherzava. Finito l’allenamento ognuno andava in camera sua».

Di Francesco Totti cosa ci dice?

«Il giocatore più simpatico che abbia mai conosciuto insieme a Vieri. Con Bobo (Vieri, ndr) ci sentiamo tutt’ora. Si era creato un gruppo unito di ragazzi della stessa età che hanno fatto la differenza. Ci volevamo davvero bene».

A proposito di Vieri, con lui c’è una famosa diatriba su una rete contestata…

«Inter-Juve del 2006, eravamo sotto di un gol. In settimana avevo detto a Cuper che se fossimo stati in svantaggio 1-0 e fosse servito sarei salito in area e avrei segnato. Battemmo un calcio d’angolo nel recupero e io toccai la palla di testa: la sfera finì in rete. Il gol lo sento mio. Tutt’ora con Bobo litighiamo bonariamente per la paternità. Lui dice che sfiorò la sfera, secondo me no ma poco importa tanto l’hanno data a lui che doveva vincere la classifica cannonieri. San Siro esplose, un momento indelebile».

E adesso cosa fa Francesco Toldo?

«Col calcio ho chiuso, mi dedico alla famiglia. Vivo a Milano, faccio il papà e gestisco quello che lo sport mi ha donato. A Padova costruisco case, con un criterio di rispetto e sostenibilità. Il mondo del pallone non mi manca, ho vissuto la mia epoca e va bene così. Lo seguo distrattamente ormai».

IL VICENZA.

Il fenomenale Vicenza che arrivò in semifinale di Coppa delle Coppe. Paolo Lazzari l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Nel 1997-98 la grande stagione del club guidato da Francesco Guidolin. Il sogno europeo si infranse contro il Chelsea di Zola e Vialli.

Il fisico è affusolato e l’occhio guizzante. Tiene le braccia conserte e predica calma, ma al momento opportuno sa come infondere lo sprint giusto ai suoi. In conferenza stampa si stringe nelle spalle. Dice che il suo mestiere principale è un altro, diverso da quello di allenatore. Lui è un raccoglitore di ricordi, sicuro lenitivo per disincrostare le ferite che verranno a bussare in futuro. E a Vicenza ne sta seminando di formidabili.

Francesco Guidolin si infila nella stagione ’97/98 da vincitore della coppa Italia. La Juve poi stenderà i suoi biancorossi in supercoppa, ma comunque l’impresa assomiglia ad una di quelle comete che sfrigolano nel cielo ogni mille anni. In campionato, del resto, il Vicenza metterà via una salvezza mediocre. L’alchimia che irrora questa provincia pallonara però non è svanita. Aspetta soltanto di collocarsi altrove. Così, dopo aver ispezionato i locali, annuisce con aria garrula: “La prendo”, dice, riferendosi alla coppa delle coppe. Quell’anno la competizione, ormai sedimentata nella naftalina, diventa il luogo metafisico in cui si addensano tutti i più ingombranti sogni biancorossi.

Sedurre una competizione europea con un sorriso poco disinvolto è un’impresa. Il Menti non è popolato da campioni di levatura globale, ma anche se lo spessore tecnico langue, la squadra racconta comunque un’anima da working class che si abbina alle intuizioni di un manipolo di illuminati. Tra i pali ecco Brivio, sintomo di affidabilità. Più avanti c’è la grumosa ruvidezza di Ambrosini a fare filtro, mentre di fianco fluttua Schenardi. In attacco, spigoloso e letale, il “toro di Sora” Pasquale Luiso si aggira tra le difese altrui sussurrando sentenze mortifere. Alle sue spalle un prestigiatore: Lamberto Zauli.

Il Vicenza sfoltisce in fretta il mucchio delle contendenti. Guidolin accompagna all’uscita Legia Varsavia, Shakhtar Donetsk e Roda JC. Il sentimento del tifoso medio, intiepidito dalle stroncature patite in campionato, si alimenta. Solo che in semifinale c’è il Chelsea della colonia italiana: Vialli, Zola e Di Matteo. Una iattura, se si considera che accanto a loro ruggiscono i vari Gustavo Poyet, Dan Petrescu e Frank Leboeuf. Guidolin, che aveva dichiarato di volere evitare i londinesi più o meno come un uomo del Trecento cercava di schivare la peste polmonare, deglutisce amaro. I blues non sono certo la corazzata di oggi, ma le spanne di differenza sono comunque montagne di cui non si vede la vetta.

All’andata però la provinciale biancorossa prova a grattar via un finale già scritto. Il Menti soffia sul cuore della squadra. Il Vicenza domina per lunghi tratti e alla fine l’1-0 che porta il cesello di Zauli appare quasi striminzito. Sul campo piove a dirotto, tanto che Guidolin esclama: “Vedete, sono talmente potenti che hanno trascinato qui il tempo di Londra”.

A Stamford Bridge rischia di essere tutta un’altra cosa perché, si sa, le italiane si smarriscono quando inalano l’aria britannica. Il 16 aprile il piccolo Vicenza vola nell’antro del leone. Sugli spalti, quasi 34mila supporter locali emettono una litania tombale, ma Luiso gliela ricaccia in gola sfondando la porta per il vantaggio inatteso. Adesso al Chelsea servirebbe un’impresa per accedere alla finale. Solo che i biancorossi si sfaldano. La tensione nervosa sopprime velleità di cristallo. I padroni di casa viaggiano al doppio. Poyet, Zola e Mark Hughes indovinano l’antidoto alla pozione che aveva ipnotizzato tutti. Il sogno si infrange ad un pugno di metri dal traguardo.

Sconfitti, ma che favola. Che ricordo. Guidolin slaccia un sorriso ogni volta che lo solleva per spolverarlo.

IL PALERMO.

Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 17 luglio 2022.

L’avevano dato per disperso. “Silvio Baldini? Mai più visto”. Avvistato qua e là tra osterie locali e incursioni solitarie all’alba per i sentieri delle sue Apuane. Gli stessi dove Michelangelo, altro furioso notevole, si arrampicava a scegliere e fare all’amore con il marmo giusto per le sue statue. Terra di smodati e di anarchici la sua, tra Massa e Carrara: nell’area antistante il cimitero, il monumento a Gaetano Bresci, l’anarchico che s’era messo in testa di uccidere a pistolettate re Umberto I. E lo uccise davvero. 

L’avevano dato per impazzito. “Silvio Baldini? Fa discorsi strani”. Sentiva le voci di dentro. Solo che, a differenza di Eduardo, lui non aveva spettatori, non aveva un palcoscenico. Doveva cercare altrove la sua catarsi. Labile il confine tra un teatro e un manicomio, quando senti le voci e nessuno ti applaude. Non si limitava a sentirle, Silvio, obbediva ciecamente. Una di queste voci gli disse un giorno che per lavarsi l’anima doveva ricominciare una nuova vita. “Ho accettato di allenare la Carrarese in serie C a una sola condizione. Ho preteso di non essere pagato. Zero. Neanche un rimborso spese. Sapevo che dovevo espiare…”. 

Silvio Baldini diventa un mister nell’ambiente: perché un grande allenatore, riconosciuto come tale dai colleghi più celebri (l’amico Conte, Lippi, Spalletti e Mancini. Lele Adani, suo ex calciatore al Brescia, ne parla come un messia) sceglie prima di sparire e poi, quando torna, lo fa per allenare gratis una squadra di serie C?  Uscito di senno? Uscito da tutto?

“Sono sparito da un mondo di falsi e ipocriti in cui non mi riconoscevo più. Il calcio era solo stress che mi mangiava. Non riuscivo più a controllarlo. Cosa ho fatto in quei sei anni? Niente. Salivo per le montagne con il mio bastone, i miei cani. D’inverno me ne andavo a cacciare pernici con i pastori siciliani. Una grande amarezza dentro, ma anche una strana serenità. Sei anni di vuoto, così sembravano, e invece sono stati gli anni della mia rinascita. Poi, ho ripreso ad allenare…”.

LA MONTAGNA:  Lui lo chiama “il mio nuovo inizio”. Come tutti i pazzi naif, Silvio si lascia martellare il cuore da passioni primordiali. Sanguina a tempo pieno. Baldini è nudo anche quando si veste per la montagna. Soprattutto, quando si veste per la montagna. Tutto lo confessa. Il corpo inquieto, gli occhi forastici ma capaci di lacrime e dolcezze inaudite. Gli improvvisi silenzi. “Ho un bisogno disperato di emozioni. A un certo punto della mia vita volevo tornare a sognare…”.  Il suo furibondo cranio non la smette di agitarsi, di mescolare tutto ma, alla fine, la sintesi fredda e lucida è sempre la stessa: testimoniare se stesso, la sua carne viva in un mondo sempre più fasullo che confonde i battiti del polso con quelli del Rolex.

Lo incontro la prima volta tre anni fa. Un sequestro di persona più che un incontro. “Sei venuto qui per raccontarmi? Vuoi conoscermi davvero, capire dove nasce la mia ispirazione? Devi venire sulla montagna con me”. Ci carica sul suo pick up, me e Lele Adani, e si va su a picco, quasi a mille metri, tra boschi di castagni e di abeti, dirupi e strapiombi, sentieri di roccia, che nemmeno i muli. E quando penso, spaventato: qui il folle si deve fermare per forza, oltre non può andare, lui va. Si chiama Monte Pasquilio. Ci venivano a piedi Ungaretti e Montale a cercare silenzio e ispirazione.

“Qua ci vengo all’alba con i cani. Non si può cacciare, ma a me non me frega niente di sparare. I cani hanno le emozioni e io le ascolto. Non ho bisogno di altro, di nessuno… Lo vedi quel vecchio lassù, solo soletto? Di sicuro stava parlando con la morte e noi lo abbiamo infastidito. 

Sai qual è il mio vero rammarico? Mia moglie Paola. Mi ha dato la sua vita. Come hai fatto a innamorarti di uno come me che ogni tanto sparisce, le chiedo. “Mi sono innamorata dei tuoi difetti”, mi fa lei. Questo è un peso troppo grande per me…”, ci disse portandoci alla fontana dove suo padre Valentino e i cavatori di marmo mettevano la testa sotto l’acqua gelida per smaltire le sbornie. “Vengo qui da solo…Di notte, è ancora più bello.”.

Si commuove facile Silvio, anima lirica e barbarica. Un cuore enorme in petto e un punteruolo acuminato in tasca. “Lo porto sempre con me per eventuali cattivi incontri…”, Che la vita, nel delicato e feroce mondo di Silvio, è la stessa di quando era bambino, una foresta di emozioni forti, di fate e di lupi. Foresta era anche il nome del suo calciatore prediletto alla Carrarese. Quello che sarebbe andato alla guerra per lui. 

IL CALCIO IN CULO. L’immagine che lo consegna per sempre al catalogo dei fuori di testa. Parma-Catania del 2007. Molla in mondovisione un calcio in culo al collega Di Carlo (“Mi aveva offeso con parole e gesti sprezzanti…”). Silvio Baldini è raccontato dai giornali radical chic come qualcosa tra un irascibile villano un disturbato mentale. “Non si era mai vista una cosa simile, neppure nei campetti del terzo mondo…”. 

Nell’atto di stendere il loro edificante lenzuolino le belle animucce non si preoccupano di esagerare. Ancora più riprovevole, il villanzone, “perché allena la squadra di una città, il Catania, dove hanno da poco ammazzato un poliziotto allo stadio…”. Tante cose di Silvio Baldini non si erano e non si saranno mai viste prima e dopo, incluso il fatto che andrà ad allenare gratis per quasi tre anni in serie C. Quando, per gli stessi scolaretti dell’eticamente corretto il mascalzone diventa un eroe. 

Quel calcio in culo, in realtà. Lo ha dato a se stesso. Un calcio di non ritorno. Definitivo, o quasi. Il suo Catania andava a gonfie vele, conquista una semifinale di coppa Italia, l’unica della sua storia, ma Silvio ha il destino segnato. Agli occhi del mondo, ma soprattutto ai suoi. Quella pedata è un sintomo, racconta un malessere. Che arriva da lontano.

PALERMO, 18 ANNI PRIMA.  Doveva espiare. Ma espiare che cosa? Il calcio in culo a un collega? “No, quello fu in realtà un incidente emotivo che significò molto non per me ma per la gente che mi giudicava. Dovevo, invece, espiare la scelta di Palermo”. Quattro anni prima della pedata in mondovisione. “A Empoli stavo bene. Mi volevano fare un contratto di 100 milioni per 5 anni. Mi cercavano anche Fiorentina e Napoli. Arriva Zamparini e mi offre un triennale a 2 miliardi l’anno per allenare il Palermo in serie B. Penso ai tre figli, mia moglie spinge, e accetto. Un madornale errore.

La scelta dei soldi. Tradisco me stesso. Finisce tutto. Zamparini, ricco a palate, si sente onnipotente, metteva bocca sulla formazione. Voleva suggerirmi chi doveva giocare. Dopo una sconfitta, a caldo,  mi provoca e io lo insulto di brutto. “Il presidente non mi deve rompere il cazzo, il campionato lo vinciamo e basta!…”. Mi esonera. Eravamo terzi, ma la mia storia di allenatore finisce lì. Zamparini mi ha fatto molto soffrire. Non sono uno nato per arricchirmi, non sono nato per subire persone arroganti… Ho capito che dovevo mettermi da parte.

Come campavo? Me la cavavo con i risparmi e i 2.400 euro di pensione. I soldi sono il diavolo. Avevo ceduto l’anima. Anche scopare se è per questo mi piace, ma non ho mai tradito mia moglie”. Questa me la dice due giorni fa, diciotto anni dopo, mentre sta a pranzo nella terrazza di un ristorante a Mondello con l’adorata Paola, quasi 40 anni insieme, a respirare la brezza marina.

PALERMO, 18 ANNI DOPO. Il Palermo a dicembre è quinto nel girone C di serie C. “Mi chiama Renzo Castagnini, il direttore sportivo: Abbiamo fatto una figura meschina nell’ultima partita, cambiamo allenatore, ti va di fare una chiacchiera? Il 24 dicembre, la vigilia di Natale, firmo per il Palermo. Rinnovo automatico di un anno in caso di promozione. Firmavo e non ci credevo. Negli anni  in cui non allenavo e passavo l’inverno in Sicilia mi fermavo spesso al santuario di Santa Rosalia. Sentivo una voce che mi parlava: Tornerai a Palermo…”. Suggestioni, fantasie, allucinazioni, mi dicevo.

Con il senno di poi, mi dico oggi che quella scelta estrema di non allenare fu un’illuminazione non un black out. Ho aspettato tanto per riavere indietro quello che mi hanno tolto. 18 anni non sono stati più un calvario, ma una goduria. Nel momento in cui pensi che tutto sia finito, tutto si riaccende e riparte. Bellissimo!…. La predizione di Santa Rosalia si è avverata e ora sono curioso di vedere come andrà a finire. Il destino ti porta, ti mette li , ma poi devi essere tu a vincere le battaglie…”. 

Intanto si prende la serie B, poi si vedrà. “Come mi sono presentato ai ragazzi? Mi lascio guidare solo dal mio istinto. Ho chiesto solo emozioni da loro. “Dobbiamo cercare noi stessi”, gli ho detto il primo giorno. “Se cerchiamo noi stessi. i risultati arriveranno di conseguenza”. Empatico, ma radicale. Era una squadra, ma non era un gruppo. “Da oggi io sono il vostro unico riferimento, da oggi dentro qua conta solo una voce, la mia. Se il presidente vuole parlare deve alzare la mano e chiedere il permesso”.

Non lo riconosco lì per lì, fuori dalla stazione di Massa in un mezzogiorno molto più che fuoco. Nel deserto, vedo una macchia rossa, corpulenta. Potrebbe essere un bounty killer,  Riconosco appena gli occhi forastici sotto una testa strana, uno scalpo innaturale con una tintura troppo compatta per essere vera. Devo averlo vista sulla testa di Cipollino Boldi in qualche suo film. Lo abbraccio, con il timore d’abbracciare la persona sbagliata. 

 Accenno a un treno faticoso, il ritardo….  Lui m’interrompe spiccio. “Il disagio è una bella cosa, aiuta… Viaggio triboloso, viaggio godurioso dicono dalle mie parti“. Ora lo riconosco. Silvio Baldini, è lui. La testa è diversa fuori, ma uguale dentro. “Il mio amico barbiere mi ha fatto il cachet dopo la promozione in B. Mi voleva fare le meches bionde, ma mi sono rifiutato”.

Questa volta è l’osteria. Da Giuston e Puppinora, la sua osteria dalle parti di Massa. Non è un’osteria, ma l’estensione della sua anima. La montagna non bastava. “Non puoi sapere chi è davvero Silvio Baldini se non passi due ore con me dalla Puppinora”. Vino dei loro vigneti, un bianco Candia del Colli Apuani, ravioli da sballo, baccalà marinato, due acciughine fritte con pomodoro e cipolla. 

Al nostro tavolo, Mauro, suo fido scudiero da sei anni (“ho lavorato con Lippi, Mazzone, Ranieri, Giacomini. Ventura, Maifredi, GB Fabbri, ma quello che mi ha insegnato Silvio non me l’ha insegnato nessuno”) e l’amico Nicolo Colonnata, maestro di arti marziali e collaboratore. “Mental coach” dei giocatori si definisce, di fatto ne sparecchia e apparecchia le menti per accogliere senza troppi danni gli eclatanti show del guru.

Questa storia della follia di Baldini. Rischia di diventare un cliché mondano di giornali pigri. “Follia? Mi accorgo quando le persone mi vogliono palleggiare. Tu non sei venuto qui per palleggiarmi. Tu sei qui per raccontarmi. E non m’importa come mi racconti, m’importa che sei qui per questo. 

Mi accorgo quando vogliono mettere in gioco questa follia per togliermi tutti i meriti di allenatore. E allora faccio il volgare, parlo male, dico parolacce. Così, lo so, faccio soffrire mia moglie, la mia famiglia, ma non ci posso fare nulla. 

Ci sono delle persone che mi stanno sui coglioni e vengono anche in questa osteria. Se so che ci sono, io non vengo. Invidiosi, meschini. Sono conigli. Non ti dicono niente davanti. Se potessero, mi farebbero del male. Nel calcio è così, ti fanno passare per folle, non scrivono che da gennaio il Palermo ha fatto più gol di tutti, tra serie A, B e C, che ha segnato 24 volte su 25. Sono in malafede o incompetenti.

Non scrivono che delle ultime 12 partite ne abbiamo vinte 10 e pareggiate 2. Che ne abbiamo vinte 7 fuori casa di seguito. Io ero sicuro già prima dei playoff che saremmo saliti. Qualcosa era esploso nella mente dei miei. Insieme alla condizione fisica straordinaria. A un certo punto ci hanno messo la fede. Penso a uno come Luperini. Doveva andar via da Palermo. Uno che muore ma non si ferma. Insieme a Kanté è stato il giocatore che ha recuperato più palloni nel calcio professionistico…”.  

La sua vanità confessa?

I barboncini da salotto televisivo che se lo mettono come distintivo nell’asola del gilet hanno grotteschi soprassalti quando il barbaro, lo stesso che aveva preso a calci in culo un collega, se ne esce con lo scellerato esempio: “…. Qua a Palermo non è come a Milano, se  hai moglie e figli e vuoi scoparti una ragazzina fanno bene a tagliarti i coglioni…”.

Lo dice davvero. Giuro. Ci sono le prove. Ma si può? Lui può. Enorme? Sì. Riprovevole? Di più. Ovvio. Ma Silvio Baldini è sempre lui, inutile girarci intorno, sempre lì a dichiararsi con brutale e leale onestà. Io sono questo, tu chi sei? È lo stesso che come immagine di whatsapp alterna un coltello alla scritta “La famiglia è sacra”. “L’arma? Il coltello siciliano con cui scuoiamo i cinghiali”. Barbaro, atavico, crudele? Tutto questo. Ma è uno che non si nasconde. Mai. E ha pagato per questo. E pagherà.

Non è mai facile stargli dietro. La sua urgenza di verità. Quando ti racconta della figlia Valentina, disabile totale, o del padre Valentino che ha lavorato una vita nelle cave di marmo (“Era anche il mio destino”) e da bambino accompagnava un cieco nei boschi durante la guerra e il cieco lo portava nei laghi gelati per sfuggire ai tedeschi , “…e il mio babbo si addormentava con i piedi ghiacciati  pensando alla mamma che non aveva più”. O quando sfonda uno spogliatoio alla lettera per un pareggio che puzza di sconfitta (una trasferta del Palermo a Potenza).

Sua figlia. “Il mio angelo… io se penso a Valentina non posso mai perdere. Come faccio a perdere? Sono imbattibile. Gli mangio il cuore al nemico. Più il mondo che ha intorno è vacuo più lui testimonia la sua identità estrema. Ha portato le foto di Valentina ai giocatori quando erano in difficoltà. A Carrara l’aveva portata di persona. “Doveva campare 6 mesi Valentina, oggi ha 35 anni. Disabile al cento per cento. Non parla. Non può stare in piedi. E sai una cosa? Io l’ho sentito che sarebbe nata così. Ho sempre saputo cos’è il male….”.

Racconta la storia di Rosy, la sua fidanzata brasiliana di quarant’anni prima. “L’avevo conosciuta in un night. Rimane incinta. Dovevo sposarla. Tutto già combinato. Tre giorni prima sento una voce dentro che mi dice: non farlo. Stavo in bisca. Alle tre di notte arriva un amico con mia mamma: la Rosy è all’ospedale s’è tagliata le vene. Rosy abortisce a Napoli e torna in Brasile. Sparisce. Conosco Paola, dieci mesi dopo decido di sposarla. Alla vigilia del matrimonio, mi chiama Rosy. “Spero che tu possa soffrire quello che ho sofferto io”, mi maledice. Mia moglie rimane incinta. Le ecografie sono tutte regolari, ma io le dico. “C’è qualcosa che non va per il verso giusto…me lo sento”. 

Nel mondo di Silvio Baldini se c’è la colpa ci sarà anche il castigo. Non si scappa. “È la legge del contrappasso, me lo diceva sempre mia nonna”.  Nel bene e nel male. La storia del Palermo conferma. “Io so che la mia coscienza deve sempre rendere conto degli atti che compio”.

Silvio Baldini ha una passione vera per Pitagora. “Mi ispira. Mi ha insegnato che la matematica non è una scienza astratta. Come puoi esercitare il controllo dello spazio nel tempo. Il campo di calcio è un disegno geometrico, la palla è un punto che tocca la superficie. Come fai a contenere la palla? Non puoi fare cerchi o quadrati interi, devi fare dei mezzo quadrati, cioè un raddoppio”.

I  numeri. “Fondamentali, ma non sono nulla se non sono combinati alle emozioni. Lunedì avrò il mio primo incontro con gli sceicchi del Manchester City che hanno comprato il Palermo. Che dici, mi faranno parlare di Pitagora?”.

 Preoccupato dall’avvento dei nuovi proprietari? “Per niente, io sono quello che sono, non mi nascondo. Vorrei solo che non mi facciano perdere tempo. Se pensano che io sia la persona giusta e sono pronti a supportarmi, bene, sono sicuro che arriveremo in A, altrimenti ciao, arrivederci”. 

L’incontro, lunedì a Palermo, è con Ferran Soriano, l’amministratore delegato del Manchester City. “Un gigante. Sembrava un giocatore di basket. Parla italiano benissimo. Com’è andata? Benissimo. Una persona gradevole. Mi sono sentito libero  di raccontarmi per quello che sono. Mi ha fatto i complimenti e mi ha chiesto: “Ma che hai fatto in quei sei anni in cui non hai allenato?”.  Gli ho detto la verità, dei pastori siciliani, di Santa Rosalia. Ha capito chi sono, che la mia forza è la mia libertà”.

 Una giornata da luna park per l’uomo finalmente libero di essere folle. Lasciato Soriano sono finito nell’aereo privato di Alberto Galassi, amministratore delegato del gruppo Ferretti, sai, barche di lusso… Un pezzo grosso nel consiglio di amministrazione del Manchester City,  direzione Bologna. Una persona deliziosa, molto alla mano. Dopo un minuto in aereo sapeva tutto di me. “Sai, io non ho vergogna, non mi nascondo”, gli ho detto”. Un solo rammarico. Non ha parlato di Pitagora. 

Giancarlo Dotto per la Gazzetta dello Sport il 20 ottobre 2022.

Tornato fantasma nella nebbia delle sue Apuane, che fa quel magnifico fuori di senno? Va a funghi. L’hanno cercato in tanti, amici e ficcanaso. Lui ha staccato il cellulare. Irreperibile per chiunque. Poche ore di sonno e sveglia alle quattro (“Ho la prostata ingrossata…”). Due ore dopo, ancora buio pesto, è in viaggio con il suo fuoristrada in compagnia di Medea e di Peck, i suoi cani (“L’altro, Ques, è troppo vecchio, ha 14 anni, non ce la fa più, sta arrivando anche per lui la Signora Nera”).

Destinazione Borgotaro e Verceto, il paese di Stefano Pioli (“Conosco bene Stefano, una persona alla mano. Gli uomini legati alla propria terra sono sempre per bene”), dove si congiungerà con Alberto e Domenico detto “Il Polpa”, compari di porcini. Gente taciturna che non fa domande e bada al sodo. Tornare con le ceste piene. 

Due giorni prima si era dimesso dal Perugia, a nemmeno un mese dalla firma del contratto. Colpo di scena? Normale amministrazione se ti chiami Silvio Baldini. A fine luglio si era già dimesso dal Palermo. Coazione a ripetere? Probabile. Sicuramente un record da Guinness. 

Baldini è questo, prendere o lasciare, prima che sia lui a lasciarti. Uno che, a 64 anni, ha preso la strada delle scelte estreme e non sa più tornare indietro. Non vuole. Un Cuore Selvaggio che aspetta il suo David Lynch per essere raccontato come merita. Come tutti i pazzi naif, lui si lascia martellare il cuore da passioni primordiali. Sanguina a tempo pieno. Baldini è nudo anche quando va intabarrato per la montagna a caccia di funghi o a sparare a colombacci e pernici. Con la sua testa inquieta e gli occhi forastici, ma capaci di lacrime e dolcezze inaudite.

Sente le voci di dentro, come Eduardo. Non si limita a sentirle, obbedisce ciecamente. Una di loro gli disse un giorno che per mondarsi l’anima dal peccato d’aver preso troppi soldi da quel satana di Zamparini doveva ricominciare una nuova vita. Accettò di allenare la Carrarese in serie C dopo sei anni di eremitaggio in montagna a una sola condizione: non essere pagato. Zero. 

Neanche un rimborso spese. Harakiri esemplare. Alla Mishima. Del martire che scopre la voluttà della sconfitta e si da fuoco o si fa esplodere sul più bello, per ricordare a se stesso che non c’è vita sulla terra se non vivendo a tempo pieno nella fornace dei sensi. Troppo per se stesso, troppo per chiunque. Nella tradizione di una terra, tra Massa e Carrara, di anarchici furiosi, a cominciare da Michelangelo e da papà Valentino che si arrampicavano a scegliere il marmo giusto con cui fare all’amore o semplicemente campare. 

Dovevamo vederci a Perugia. Non c’è stato il tempo.

“Il tempo è il bene più prezioso. Se non ce l’hai vuol dire che non esisti. E il mio tempo a disposizione è sempre meno. Non mi va di sprecarlo. Le cose accadono in fretta”.

Palermo e poi Perugia in rapida sequenza. Molli prima gli sceicchi e poi Santopadre, a distanza di due mesi e mezzo. Allora è tutto vero, sei un pazzo irrecuperabile, quanto meno un blasfemo.

“A 64 anni non desidero altro che vivere alla mia maniera, essere fedele a me stesso, al mio bisogno di emozioni forti. Per me la famiglia è tutto, se non sono felice con me, non posso esserlo nemmeno con loro”. 

Andiamo con ordine. Le dimissioni dal Palermo a fine luglio. Il Palermo che avevi portato in serie B.

“I nuovi proprietari non credevano in me. Basti pensare che mi hanno lasciato un anno di contratto mentre a Corini, il mio successore, hanno fatto un biennale. Avevo tre fisioterapisti miei e me ne hanno imposti altri due, insieme a un preparatore atletico di cui non avevo bisogno”.

Ti sei chiamato fuori dopo un mese anche dal Perugia.

“Mi dispiace. Avevo la fiducia del presidente e del direttore, mi affascinava la città, la favola del Perugia di Sollier, Curi, Vannini, come quella del Cagliari, quando le favole erano ancora possibili”.

Ma…

“Ho trovato bravi giocatori ma tra loro non c’era quel legame vero che porta i risultati. Non era una famiglia. Quando non c’è famiglia, non c’è amore, non c’è passione”.

I risultati non vengono solo dall’amore. Hanno vinto squadre nella storia del calcio i cui giocatori si sarebbero volentieri presi a sprangate.

“Non ho il culto della vittoria. Non m’interessano le vittorie dove non c’è amore e spirito di fratellanza”.

Non ti sei dato il tempo di costituirla questa famiglia a Perugia.

“Non c’erano le condizioni. Io vedo le cose con il cuore, non con gli occhi”. 

Delirante. Parlare di promozione in A con una squadra ultima in classifica.

“Non sono un pazzo. Non c’era questa differenza tecnica incolmabile tra noi e i primi. Ma bisogna credere all’impossibile, bisogna credere ai propri sogni”. 

Manca al Perugia l’attitudine al sogno?

“Quando ti accorgi che l’egoismo dei singoli è superiore alla capacità di sognare non puoi farci niente. Il calcio non ti dà tempo. Non erano i risultati a preoccuparmi,  ma le prestazioni di una squadra che si rifiuta di sognare”.

Il presidente Santopadre ha provato a convincerti?

“Lui è una persona semplice, bellissima la sua storia da imprenditore. Ha provato a chiamarmi ma avevo staccato il cellulare. Quando prendo una decisione non torno indietro”.

Il tuo amico Spalletti dice di te: “Silvio è troppo avanti. Anni di anticipo. Il calcio non è ancora pronto per uno come lui”.

“Ci si conosce con Luciano da quando giocava nello Spezia. Abbiamo radici simili. Lui ama la campagna come me, suo padre gestiva delle riserve di caccia. Ci uniscono tante piccole cose” 

Sta facendo cose straordinarie con il suo Napoli.

“Gioca un calcio che in Europa non fa nessuno. Merita un premio il suo lavoro e l’otterrà. Lui è uno che fa bene al calcio. Andrò a trovarlo due o tre giorni nella sua tenuta, ma prima vado una settimana a disintossicarmi da Mario”.

Chi è Mario?

“Il mio amico pastore che vive sulle montagne siciliane con le sue mucche, le capre e i cani randagi. Quando vado e lui mi parla io torno bambino. Di quando domava il suo cavallo guardandolo negli occhi. Come quando ascoltavo le favole della nonna”.   

Il tuo amico Lele Adani e tanti altri dicono che tu dovevi diventare il Marcelo Bielsa italiano. Un altro “loco” come te.

“Ognuno deve essere se stesso, non si deve vergognare della sua storia. La vita è corta, non sono un tipo che si può adattare. La comodità non fa per me, non mi dice niente. Non ho mai inseguito il denaro, è la mia forza”. 

Hai ancora un futuro nel calcio?

“Non lo so e non m’interessa. Non penso al futuro, il futuro è la mia decadenza, io voglio vivere intensamente il presente, essere quello che devo essere. Se poi si creano le condizioni giuste…”. 

E se non si creano?

“Quando verrà la decadenza insopportabile del corpo farò come i cani e i capi indiani. Mi allontanerò, andrò a morire per i fatti miei in montagna. La Signora vestita di nero verrà a prendermi e io l’aspetterò. Cercherò di ammaliarla con le parole. Le dirò che non ho rimpianti. Che non mi è mancato niente”.

Mai trovato un’anima gemella nel mondo del calcio?

“No, ma tante persone solidali. A cominciare da Spalletti, De Zerbi, Lippi, lo stesso Conte. Mancini non lo sento, ma mi dicono che mi stima molto”. 

Dicono tutti che sei un grande innovatore del calcio ma poi ti è venuta la sindrome di Gesù, cerchi più apostoli che giocatori, sali e scendi dalla croce.

“Non è follia, non è utopia, è una condizione magica di anime che si scelgono.  È successo l’anno scorso con il mio Palermo. Un dono del destino”.

Si dice che il punto di non ritorno della tua storia di allenatore è quando hai preso a calci in culo in mondovisione il tuo collega Di Carlo.

“Arriva un punto della vita in cui non te ne importa più nulla di cosa pensano gli altri e delle conseguenze dei tuoi atti”. 

Sei rimasto l’unico in Italia a dimetterti.

“È un problema degli altri, non mio. Ho rinunciato a tutto. La mia famiglia non ha bisogno di soldi ma di me, del mio amore, della mia felicità”.

Cosa scatta nella testa di Silvio Baldini ogni volta che ti parte l’impulso irrefrenabile?

“Una grande tristezza. Ti senti un incompreso. Hai dato tutto, mostrato la più grande diponibilità e alla fine sei costretto fare questi gesti per non subire situazioni che non ti appartengono”.

Cosa fa Silvio Baldini quando è invaso dalla tristezza?

“Penso solamente a vivere. Vedi, ora comincia ad albeggiare, tra mezz’ora respirerò l’aria della montagna e calpesterò foglie secche gigantesche. Penso a mia figlia Valentina. Lei e mia moglie mi hanno segnato la vita. Mi va bene rimanere senza niente, ma non posso perdere le mie donne”. 

Valentina, la tua figlia gravemente disabile.

“Lei è stata la chiave di tutte le mie scelte. Se sono quello che sono è perché e lei a dirmi che sono nella strada giusta. Lei e i due figli maschi, due uomini pieni di valori”.

Giri sempre con un punteruolo in tasca?

“Sempre. Ora più che mai, sto andando da solo nel bosco”.

Silvio Baldini, due dimissioni in quattro mesi: tutte le «follie». Simone Golia, Redazione Di Marzio su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2022. 

Si è dimesso due volte in quattro mesi. A fine luglio Silvio Baldini ha detto addio al degli sceicchi del City ed ha fatto poi lo stesso domenica con il Perugia di Santopadre («Se vengo qui per fare il pensionato, che c***o vengo a fare?», aveva detto al primo incontro con i tifosi). È rimasto l’unico in Italia pronto a rinunciare a tutto. È nato tutto a Empoli, dove dal 1999 al 2003 ha portato la squadra dalla B ad una comoda salvezza in A. Quattro anni di matrimonio felice, poi Zamparini lo sceglie per il Palermo con un ingaggio milionario. Uno all’anno per tre stagioni, peccato che a gennaio scatti subito l’esonero: «Era ricco a palate e si sentiva onnipotente – spiegherà l’allenatore – metteva bocca sulla formazione. L’ho insultato e mi ha cacciato». D’altronde: «I soldi e le donne sono due tentazioni, dove ci sono queste due cose — è solito sottolineare — si sbaglia sempre». Lo ha imparato da piccolo, quando suo padre faceva il cavatore di marmo e suo nonno materno aveva un’osteria: «Uno comunista, l’altro fascista — ha più volte ricordato — sono cresciuto con le discussioni da osteria, dove non prevale la verità ma la prepotenza. E la prepotenza nel calcio come nella vita te la dà soprattutto il denaro».

Dopo aver guadagnato tanto Baldini decide di allontanarsi dal mondo del calcio: «Non ci potevo più stare dentro il sistema – si giustificherà - me lo impedivano i miei valori, la necessità di emozioni. La società di oggi vuole solo vincenti e crea una generazione di falliti. Quando ho scelto i soldi ho tradito me stesso». Secondo alcuni a macchiargli definitivamente la carriera fu il celebre calcio nel sedere rifilato a : «Lei ha mai dato una pedata nel sedere a qualcuno senza ragione? Non credo. Nemmeno io mi comporto così. Sono stato provocato», risponderà al primo giornalista che lo intervista, per poi aggiungere negli anni seguenti: «Mi aveva offeso con parole e gesti sprezzanti. A distanza di anni, quando m’incontra a Coverciano, finge di non vedermi».

Nel 2011, dopo un’esperienza fugace a Vicenza, decide di allontanarsi da tutto e tutti. Sei anni sabbatici, fino al ritorno in panchina alla guida della Carrarese. Gratis, senza neanche i rimborsi spese. Al massimo una clausola in caso di esonero. Anche lì h dato per tre volte le dimissioni, la semifinale playoff con vista su una B che sarebbe stata miracolosa e uno sfogo in una conferenza stampa dove minaccia l’occupazione del Consiglio comunale nel caso in cui i membri di quest’ultimo non si fossero spesi per ripristinare l’agibilità dello Stadio dei Marmi: «. Se vogliono la battaglia con me, loro hanno trovato un pazzo. Io non sono capriccioso, sono pazzo. Quando toccano i miei valori, sono pronto a morire!», urlò con tanto di pugno sul tavolo. Maccarone e Tavano sono stati i suoi calciatori storici, ma il suo pupillo è Giovanni Foresta, con lui a Carrara e oggi in C con la Gelbison: «Sembra un bambino, ma è più duro del marmo. Arrivò da me con la pubalgia. Lo trovai che piangeva nel tunnel dello stadio. Volevano rimandarlo indietro. ‘Finché ci sono io, ci sei tu’. Uno, dieci, dodici Foresta in una squadra e vai in cima al mondo, batti anche la Juve». 

Fra i suoi amici anche Spalletti, Conte, Lippi e non solo. Di lui è perdutamente innamorato Lele Adani, suo giocatore a Brescia: «Mi ha conquistato il giorno in cui, all’alba, mi portò nel bosco dove lui andava a trovare se stesso — ha spesso ricordato l’ex difensore e ora commentatore — si spogliò, rimase a torso nudo in pieno inverno. Ci abbracciammo. Non ho bisogno di coprirmi, quando trovo la mia essenza, mi disse. Quel giorno diventai uomo». Crede nel karma Baldini, sua nonna gli diceva che la vita è la legge del contrappasso. Da ragazzo conosce Rosy, giovane donna brasiliana, in una discoteca. Diventa la sua fidanzata, deve sposarla (Rosy aspetta un bambino) ma tre giorni prima cambia idea. La donna ci resta malissimo, abortisce e tenta il suicidio. Torna in Sud America. Baldini sposa poi Paola, l’attuale moglie, la loro prima figlia Valentina nasce con 20 giorni di ritardo: «Ha rischiato di morire nella pancia della madre. È una bimba disabile. Doveva campare 6 mesi, oggi ha più di 30 anni. Disabile al 100 per cento. Non parla. Non può stare in piedi. Lo sapevo. L’ho sentito», dice come se avesse avuto un presentimento. Sì, lui ripete spesso che sente le voci di dentro.

L’estate scorsa, dopo la vittoria dei playoff di C col Palermo e la promozione in B, fanno rumore le sue dichiarazioni in diretta su Sky: «Qui non è come a Milano. Se sei sposato e ti metti a guardare delle belle donne non va bene. Nella loro cultura la cosa più rispettata deve essere la famiglia. Se hai moglie e figli e vuoi andarti a s... una ragazzina, fanno bene a tagliarti i c...». Poco prima, dopo l’andata degli ottavi di finale con la Triestina, aveva cominciato a scaldarsi: «A me della vittoria o della sconfitta non me ne frega nulla. Io voglio sognare, voglio essere libero, non me ne frega di questo mondo. Voglio solo godermi i miei amici e la mia famiglia. L’importante è il percorso». Il calcio come una religione: «Ai ragazzi dico che l'allenamento è un modo per esprimere i propri sentimenti, così come per i monaci lo è la preghiera». Chissà se nel calcio ci sarà ancora posto per lui.

Da ilnapolista.it il 28 luglio 2022.

Il ritorno in Serie B, l’arrivo del City Group coi tifosi che inevitabilmente avevano ricominciato a sognare. Una favola, quella del Palermo. Sì, favola. Una favola che oggi vive un’inaspettata battuta d’arresto, con le dimissioni del tecnico Baldini e del ds Castagnini. Che sono intervenuti in conferenza stampa per spiegare i motivi di una decisione che appare come un fulmine a ciel sereno. Di seguito le dichiarazioni del tecnico, così come riportate da Mediagol. 

«Sento di non essere parte del progetto – ha detto il tecnico – e questo non mi consente di lavorare con la società. Ho capito che non ci sono gli stessi presupposti dello scorso anno. Il mio animo era di portare la squadra in Serie A ma le condizioni non mi consentono di farlo. Ringrazio tutti per l’impegno profuso e per le emozioni vissute in questi mesi. 

Auguro al Palermo ogni miglior sorte possibile. Queste sono state le mie dimissioni. Noi l’anno scorso abbiamo vinto i playoff perché eravamo un gran gruppo, non la squadra più forte. Noi ci siamo meritati questo traguardo, la squadra ha segnato ventiquattro volte di seguito. Questi sono risultati che ti dicono che sei una squadra forte. Una squadra forte che però è frutto del gruppo. Le altre squadre sulla carta avevano giocatori professionalmente più bravi.

Il gruppo adesso non c’è più. Io all’inizio dissi di giocare per la Serie A, ma se questi presupposti non ci sono perché manca il gruppo devo aspettare di fare brutte figure? Oppure lasciare il posto ad altri? E’ facile dire il tempo è breve. Questa non è un’accusa verso nessuno, io posso solo ringraziare il Palermo. Questa tifoseria è straordinaria, il gruppo mi ha regalato emozioni. La festa finale è stata indescrivibile. Io posso solo ringraziare il Palermo e Mirri. Ciò non toglie che io ho detto di voler andare in Serie A, ma sarebbe servito creare un gruppo compatto col tempo. Ma nel calcio esistono solo i risultati e se non vinci ti mandano a casa. Siccome so come sarebbero andate le cose, preferisco andare a casa adesso»

«Il gruppo non c’è più per una serie di motivi. Alcuni giocatori credevano di prendere un ingaggio migliore, altri hanno dovuto aspettare dieci giorni. Ci sono una serie di persone attorno a me che non sono felici. Ognuno mi ha esternato delle amarezze. Giocatori in scadenza dicono di voler rinnovare, altri volevano migliorare il contratto. Tutte queste cose hanno rovinato il gruppo. Non è qualcosa che io voglio dire per accusare il Palermo che ha giustamente cambiato modo di lavorare. Il calcio non ti da tempo di metabolizzare la cosa. Io quindici giorni fa mi sarei dovuto già dimettere, ma non volevo fuggire. E’ venuto un fisioterapista che si chiama Federico e ha aggiunto diverse figure mediche nello staff. 

Allora io dico, se io mandassi a Guardiola due preparatori senza interpellarlo sta zitto o risponde a tono? Se io non vengo interpellato mi dovete dire se sono al centro del progetto o meno.

Ci hanno dato la possibilità di provare a lavorare in un certo modo, ma Castagnini non mi trasmetteva più fiducia. Mi faceva sentire un allenatore che doveva combattere con tanti problemi, non mi trasmetteva serenità. E io non ero più in grado di trasmettergli entusiasmo. Si sono create due persone che non erano più le stesse. A questo punto dovevamo aspettare di prendere calci nel culo per avere soldi in banca? Oppure lasciare il Palermo con le migliori possibilità possibili. C’è tutto il tempo per poter lavorare. Nel mio cuore regna la tristezza, io continuerò ad abitare qua, morirò qua. Nella mia testa mi sento sereno, mi sono tolto un peso di portare in A il Palermo perché se io non avessi lottato per farlo mi sarei sentito un fallito. Questa è la migliore soluzione per il Palermo»

Le parole a Mirri

«Quando ieri abbiamo incontrato Mirri, il presidente mi ha detto: ‘E’ impensabile che tu vada via’. Io ho spiegato che non mi sentivo al centro del progetto. Gli ho detto: ‘Se tu eri presidente con la tua proprietà me l’avresti fatto un altro anno di contratto’. Il gruppo si poteva ricreare. Ma se tu Dario mi dici che mi avresti fatto più anni di contratto anche in Serie C ma il City non lo fa, io mi devo sentire al centro del progetto? Io non prendo per il culo la gente palermitana, io voglio andare in Serie A e a me di fare un anno di transizione non me ne frega niente. 

A me sarebbero interessati giocatori funzionali, senza creare entusiasmo la gente sta a casa e lo stadio non si riempie. Avere un gruppo per me vuol dire anche avere il popolo rosanero che si sente partecipe alla partita. In occasione del 2-0 dell’Entella tu sei morto, ma il popolo ha spinto la palla in rete. Io sono un allenatore che crede nei sogni e che vive di emozioni, i miei giocatori diventano i più forti quando entrano in sintonia. Per fare quel tipo di lavoro ho bisogno dell’anima dei giocatori. Io posso solo ringraziare Mirri, sarò sempre tifoso del Palermo. Andrò in curva quando andrò a vedere il Palermo»

Da ansa.it il 13 giugno 2022.

"Mirri è un tifoso, ha vissuto la festa da tifoso, si è buttato a mare e ha fatto il bagno insieme ai giocatori, ai tifosi e poi tutti insieme stamattina hanno fatto colazione. 

È una bravissima persona, sono contento che possa cedere il Palermo in B e non in C e possa decidere cosa voglia fare in questa trattativa". 

Così l'allenatore del Palermo Silvio Baldini ha raccontato la notte di festa del Palermo e del presidente del club rosanero Dario Mirri dopo la promozione in serie B centrata ieri sera e nei giorni che potrebbero precedere il closing con il City Football Group. 

    L'allenatore del Palermo ha tenuto una conferenza stampa parlando per un'ora di fila e ripercorrendo tutte le tappe di una stagione iniziata con l'ingaggio il 23 dicembre in sostituzione dell'ex allenatore Giacomo Filippi. "Il nostro non è mai stato un rapporto presidente-allenatore - ha sottolineato Baldini - ma fra persone normali. Mi ha sempre messo a mio agio, anche quando mi invitava a mangiare a casa sua".

La festa del Palermo non si è esaurita con la notte del post partita. Oggi pomeriggio la squadra farà un giro per le vie della città con un pullman scoperto, con partenza dallo stadio alle 19, per ricevere un altro abbraccio da parte dei tifosi. A proposito del suo futuro Baldini, che automaticamente con la promozione in B ha fatto scattare la clausola del rinnovo di contratto, ha detto che poco gli importa delle questioni burocratiche. 

"Intanto continuerò a vivermi questa gioia nei prossimi giorni - ha spiegato - sono convinto che se possiamo lavorare in un certo modo questa è una storia che non è finita. Lo metto per iscritto che se non è il prossimo campionato, quello dopo ancora andremo in A. Poi dipende da chi acquista il Palermo, che programmi ha la nuova proprietà, ma se si continua con questa politica so già come finirà".

Da tuttomercatoweb.com il 13 giugno 2022.

Le parole del tecnico del Palermo, Silvio Baldini, al termine della vittoria contro il Padova che ha sancito la promozione in Serie B dei rosanero, raccolte da Rai Sport: "Più che l'artefice sono stato un veicolo di un certo messaggio, se uno ha fede nella vita le cose succedono. Io sapevo che sarebbe finita così quando sono stato chiamato qui. 

Ai ragazzi ho detto da subito che l'allenamento è un modo per esprimere i propri sentimenti, così come per i monaci lo è la preghiera. Oggi ero sereno e tranquillissimo nonostante l'adrenalina. La cosa che mi fa piacere è vedere la gioia di un popolo perché hanno vinto i palermitani. Sentire un ragazzo come Odjer, che viene da un terra povera, ringraziarmi per quello che abbiamo fatto è il massimo per me". 

Matteo Dovellini per “la Repubblica” il 17 giugno 2022.

Ritrovarsi in tendenza su Twitter e non sapere neanche cosa sia. Silvio Baldini ha 63 anni, è un toscano di Massa che dopo alcuni anni di oblio, e sei stagioni senza allenare fra il 2011 e il 2017, è tornato alla ribalta. L'ha fatto col Palermo, riallacciando un filo interrotto: il 26 gennaio 2004 fu esonerato dopo una lite con l'allora presidente Zamparini, con la squadra destinata a essere promossa in A. Diciotto anni dopo, ha ripreso i rosanero a metà stagione e li ha portati in B. 

Baldini, quello del calcio nel sedere a Di Carlo. Quello che portò conforto in carcere ai detenuti di Massa. E quello che accettò di allenare gratis la Carrarese, pur di tornare nel giro. Domenica scorsa ha battuto il Padova di fronte a 35 mila spettatori, poi, ospite a Sky Sport ( Calciomercato L'original e, con Di Marzio e Bonan), le sue uscite hanno fatto il giro dei social. «Qui a Palermo ritrovo dei princìpi - ha detto in collegamento - se sei sposato e ti metti a guardare altre donne, non va bene. Se hai moglie e figli e vuoi andarti a sc... una ragazzina, fanno bene a tagliarti i coglioni».

Baldini, ha ripensato a quelle sue dichiarazioni? Si è pentito?

«Non mi cambia niente. Non è questione di cultura retrograda ma di rimettere al centro la famiglia che ha un grande valore. Se non c'è la famiglia, non c'è la società e di conseguenza non c'è neanche la democrazia».

Ma in una democrazia non esiste la giustizia fai da te. L'esempio del marito che guarda un'altra donna lo rifarebbe?

«Se tu, uomo sposato, guardi un'altra donna allora vuol dire che vuoi fare il furbo, che vuoi mettere il tuo maschilismo al servizio del tuo istinto sessuale. Specie se si tratta di una ragazzina. Se le guardi in quel modo loro se ne accorgono, non dicono niente ma poi ti tolgono la stima. 

E poi fanno bene se ti tagliano i coglioni. Il popolo siciliano sa qual è la verità. Ma voglio fare chiarezza: la famiglia è sacra, è il nucleo in cui la società si deve fondare. La devono smettere quei tipi da locali di lusso che predicano bene e poi sniffano e vanno a letto con le ragazzine». 

Tornando al campo, che sensazioni sta vivendo dopo aver riportato il Palermo in B?

«Fin dal primo giorno che mi hanno chiamato (24 dicembre 2021, ndr ) sapevo che il destino mi avrebbe reso ciò che mi avevano tolto».

Si riferisce a Zamparini?

«Cacciandomi in quel modo, non mi ha tolto qualcosa da allenatore ma da persona. Diciotto anni dopo mi sono ripreso un sogno, grazie anche ai miei principi: la promozione è coincisa col messaggio che volevo riuscire a portare alla gente in difficoltà, quella di Palermo, che ha sostenuto la squadra nonostante tutti i problemi. È un'emozione che non puoi descrivere, perché non è un film, questo. E non c'è un regista che lo dirige seguendo un copione scritto. Accade e vivi di quel momento. È bellissimo». 

C'è un'immagine che le è rimasta impressa della festa promozione?

«L'abbraccio con Moses Odjer al triplice fischio. Un ragazzo ghanese, neanche titolare, che proviene da una terra così povera e che quando mi stringe inizia a piangermi addosso. "Ci hai sempre creduto", mi ha detto. Penso alla potenza di quel gesto, che sarà arrivato nella sua terra e avrà dato una speranza a molti che come lui cercano un riscatto e una vita migliore». 

Come ha ritrovato il calcio?

«So bene che se mi tolgo i paraocchi vedo solo la tanta melma che galleggia tutta intorno a questo mondo. Ma a me non importa niente, né di questo né dei moduli.

Mi fa piacere vedere il popolo palermitano in festa ma voglio starne fuori e godermi lo spettacolo. Non voglio partecipare, voglio vedere questo film da spettatore, senza essere l'attore protagonista». 

E adesso, che estate l'attende?

«Sono tornato nella mia Toscana. Mi alzo alle quattro di mattina, esco coi cani, vado in montagna e passeggio sul lungomare, due ore, con mia moglie. Ci godiamo la famiglia». 

Ma rimarrà a Palermo?

«Si, ho un contratto. E come me anche le persone del mio staff. Il Palermo ha storia e quest' anno abbiamo realizzato allo stadio il record di presenze. E non contro la Juventus ma col Feralpi Salò. 

Qui qualcosa va oltre la logica, c'è un destino che vuole che tu vada oltre alla razionalità. Una magia che non si vede da nessun'altra parte. Sapevo che un giorno tutte le cattiverie che avevo subìto, per la legge del contrappasso, mi sarebbero rimbalzate addosso. Ma non ho senso di rivalsa, voglio bene a tutte le persone. Basta che non mi rompano le scatole».

IL BRESCIA.

Francesco Persili per Dagospia il 7 novembre 2022.

"Questo è il mio allenatore? Ma è matto?". Guardiola non credette ai suoi occhi quando vide Carletto Mazzone correre sotto la curva dei tifosi dell’Atalanta dopo il 3-3 del Brescia. All’allora direttore sportivo delle Rondinelle, Gianluca Nani, seduto in tribuna accanto a lui, l’attuale tecnico del Manchester City disse: “Ma le partite in Italia sono tutte così?”. 

Si ride e ci si commuove con il docu-film su Prime Video di Alessio Di Cosimo, “Come un padre”, che racconta vita, carriera, incazzature e battute del “Sor Magara”, al secolo Carlo Mazzone. “La corsa sotto la curva dell’Atalanta? Erano 20 anni che non facevo uno scatto del genere, sono arrivato con il cuore in gola. Le provocazioni erano tante. Mi è stata toccata mia madre e la mia città…” 

Guardiola, a ripensare agli anni di Brescia con lui, Pirlo, Roberto Baggio, pennella: “Fu una lezione d’umiltà, che nella vita serve tanto. A Brescia si vinceva poco, ma quando si vinceva si godeva veramente". Calcio dai piedi buoni e valori umani. Le magie del “Divin Codino” e il premio salvezza devoluto al figlio di Vittorio Mero scomparso in un incidente stradale.

Nella tutela e valorizzazione del talento calcistico Mazzone resta un punto di riferimento. Ha accompagnato l’esplosione di Totti (“Sapeva come gestirmi, se ci fosse stato lui, ancora sarei in campo”), reinventato Pirlo centrale davanti alla difesa, rilanciato Baggio e Signori, che ricorda quando si presentò negli spogliatoi del Bologna: “Ahò, 24 teste non riesco a capirle, famo che voi cercate de capì la mia”. 

Dopo la prima rete di Beppe gol in maglia rossoblù alla Roma, gli mormorò: “Per la prima volta so’ contento che un laziale fa un gol contro la Roma”. Il fedelissimo Enrico Nicolini: “Ogni anno Mazzone ha vinto lo scudetto dell’onestà”. Su di lui nemmeno una nuvola, un’ombra, un sospetto quando la serie A fu attraversata dallo scandalo scommesse: “Amava ripetere: ‘Posso dire di tutto a tutti ma non tutti possono dire di tutto a me”. Nel finale avvelenato della stagione 99-00, la vittoria del suo Perugia all’ultima giornata contro la Juve consegnò lo scudetto alla Lazio. Lui gonfiò il petto e piazzò la stoccatina: “C’è voluto un romanista per far vincere un campionato alla Lazio”.

“Difensore scivoloso, difensore pericoloso”, Marco Materazzi ricorda i moniti di Carletto e vede delle analogie tra il “Sor Magara” e Mourinho: “Entrambi creano un ambiente speciale in cui tutti sono pronti a buttarsi nel fuoco”. Il segreto per andare d’accordo con lui? “Vuoi essere il miglior amico mio? Gioca bene”. 

Cappioli demolisce il luogo comune di Mazzone catenacciaro: “Ma che difensivista, al Cagliari attaccavamo come matti”. Nell’ultimo anno di Roma 3-4-3, e via andare. Solo un gol di Vavra ai tempi supplementari della partita di ritorno con lo Slavia Praga gli negò la semifinale di Coppa Uefa. Prima dell’addio alla sua Roma, si avvicinò negli spogliatoi a Di Biagio e gli sussurrò: “Ahò, non avemo vinto niente ma ammazza le risate che se semo fatti…”

Grappa, gol e sigarette: il bomber che dominava la provincia. Paolo Lazzari il 23 Luglio 2022 su Il Giornale.

Sgraziato come un bisonte, glaciale sotto porta: storia di un bomber operaio che ha sempre scelto la provincia. Tatanka, nell'antica lingua Sioux, vuol dire bisonte. Una bestia potente e sgraziata, di quelle che quando prendono a correre verso di te l'unica è formulare una sequenza di scongiuri chirurgici. E spesso non basta. Lui certo non ha origini indiane: il nonno è tedesco, la mamma istriana, di Muggia, provincia di Trieste. Quel cognome ruvido e insolito, Hubner, deriva da qui. Di nome invece fa Dario. Massimo frequentatore di aree di rigore altrui: 346 gol in 676 partite da professionista costituiscono un dato incontrovertibile. Altri posti dove ha amato intrattenersi: bar di provincia e tabaccherie, più o meno con la stessa cadenza con cui crivellava le porte avversarie. Sempre con quell'espressione caricaturale cucita in volto e la postura perennemente ricurva, come a dire "guarda che sbattimento", anche se poi ti fregava sempre.

Eppure da ragazzino sgasava tra le viuzze di Trieste su un furgoncino Fiat, per montare finestre in alluminio. Mentre avviti mica ci pensi che un giorno diventerai il capocannoniere della serie A al pari di David Trezeguet. O che te la vedrai con Ronaldo (il Fenomeno). Oppure, ancora, che il tuo partner d'attacco sarà Roberto Baggio. La sua forza silenziosa risiede proprio qui: affrontare la Serie A con lo stesso atteggiamento che adoperi nella vita. Non è proprio come montare finestre, d'accordo. Serve un supplemento di responsabilità. Però se la addenti senza farti assalire dal panico, magari ti viene giù meglio.

Escludiamo ogni processo beatificatorio: sotto quel garbuglio di riccioli inestricabili bolle una testa che non è immune dalla pressione esterna. L'antidoto per diluirla sono le sigarette, pompate avidamente nei polmoni prima di una partita, negli intervalli, a fine gara. Dario dice che non c'è nulla di male perché lo rilassano e poi, comunque, lui i gol li fa lo stesso. Però per fumare si chiude spesso in bagno. Un altro fedele alleato sono i grappini, che vanno giù come acqua di fonte. "Ma non li bevevo mica quando giocavo, non ero ubriaco in campo", specifica. Anestetici che all'apparenza non sembrano incrinare la sua confidenza con la porta, anche se non tutti la vedono allo stesso modo: "Senza grappa e sigarette sarebbe il più forte di tutti", diceva di lui l'ex presidente del Brescia Corioni.

Hubner però non ci sente. Capitano di una motonave che ama solcare rigagnoli di provincia invertendo destini avversi (leggasi "baratro della serie B"), sceglie accuratamente di non scegliere un certo tipo di vita. Squilla il telefono: il suo procuratore gli comunica che un munifico club della Premier League pretende i suoi servigi, in cambio di una lauta ricompensa. Lui ci pensa soltanto per una manciata di istanti, scruta sua moglie Rosa che lo contempla preoccupata dal divano e stringe le scapole: no, thanks. Ad un certo punto il Milan lo porta in tournée per una dozzina di giorni. Non se ne farà di nulla, ma resta l'unico momento in cui il suo matrimonio con la provincia italiana vacilla. Il sentimento reciproco è troppo potente. L'habitat ideale è Piacenza, soltanto 40 minuti di macchina da Crema, dove vivono i suoi affetti. Gli scudieri eletti Poggi, Di Francesco e Gautieri. Effusioni incontrollabili che sono la copia per nulla sgualcita dei rapporti totalizzanti con il Brescia (lì lo serve un certo Andrea Pirlo) prima e il Cesena, ancora in precedenza. Una filosofia che verrà acclamata da molti, risuonando anche nei versi di un pezzo di Calcutta: "Io certe volte dovrei fare come Dario Hubner e non lasciarti a casa a consumarti le unghie".

Oggi la vita non è cambiata poi troppo: un bar da gestire in provincia di Cremona, un orto che richiede cure frequenti e la pesca per sentirsi ancora uno sportivo. Forse, fino a qui, l'ha vissuta in modo irruento. Proprio come un bisonte che trotta verso l'unica direzione possibile, quella impressa nella sua genetica. Chè le cose che contano, alla fine, ognuno le conosce da sé.

LA CREMONESE.

Chi è Radu, il portiere della Cremonese: la sorella morta a 14 anni, la fidanzata, la polemica con Handanovic, le papere...Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 15 Agosto 2022.

Il portiere romeno Ionut Andrei Radu, cresciuto nelle giovanili nerazzurre, è stato scoperto dall’allora capo scout Pierluigi Casiraghi (omonimo dell’ex attaccante e dell’ex c.t. dell’Under 21)

La Cremonese e la papera alla prima giornata

Chiusa la parentesi nerazzurra alla fine della stagione 2021/2022, Radu è alla ricerca del rilancio con la Cremonese, neopromossa in serie A che gli ha offerto la possibilità di tornare titolare. Ma la prima in campionato del portiere rumeno con la maglia grigiorossa e contro la Fiorentina è stata decisamente dai due volti. Migliore in campo fino al novantesimo, sarà ricordato per il clamoroso errore con cui ha deciso (in negativo il risultato). In un’uscita alta ha perso l’equilibrio ed è caduto all’indietro e dentro la porta con il pallone tra le mani, gol per la Fiorentina che vince 3-2 allo scadere. Proprio come qualche mese prima con la maglia dell’Inter contro il Bologna...

L’errore con l’Inter contro il Bologna

È stato stregato il debutto stagionale nell’ultimo campionato con la maglia dell’Inter nella stagione 2021/2022 (aveva già giocato negli ottavi di Coppa Italia contro l’Empoli il 19 gennaio scorso) di Radu. Un suo liscio incredibile ha spianato la strada al Bologna, vittorioso nel recupero contro l’Inter per 2-1 in rimonta, mercoledì 27 aprile. Le sue lacrime a fine gara sono la fotografia di una gara folle in cui i nerazzurri avrebbero potuto stravincere e invece si ritrovano a mani vuote. Il portiere è stato subito consolato da Skriniar e de Vrij in campo e accompagnato negli spogliatoi da Cordaz, il terzo portiere e da Correa. Alla fine della stagione, il Milan ha vinto lo scudetto sull’Inter proprio per due punti, anche se, se fossero arrivate pari, i rossoneri avrebbero conquistato comunque il tricolore per gli scontri diretti.

Le giovanili

Radu è nato il 28 maggio 1997 a Bucarest, in Romania. È cresciuto nelle giovanili nerazzurre (a Interello è approdato nel 2013 a 16 anni dalla Pergolettese, vincendo poi scudetto e Supercoppa con gli Allievi, Torneo di Viareggio e Coppa Italia nel 2015 con la Primavera). Il portiere nerazzurro è stato scoperto dall’allora capo scout Pierluigi Casiraghi (omonimo dell’ex attaccante e dell’ex c.t. dell’Under 21).

Presenze con l’Inter in prima squadra

Fino al match in casa del Bologna, Radu in campionato aveva collezionato una presenza con la maglia nerazzurra nel 2015-2016 e due nel 2020-2021. A farlo debuttare in prima squadra era stato Roberto Mancini, oggi c.t. della Nazionale. Aveva giocato contro il Sassuolo a Reggio Emilia. Era il 14 maggio 2016 e l’Inter era ormai sicura del quarto posto e della qualificazione in Europa League. Radu era entrato al posto di Carrizo, a risultato compromesso. Aveva vinto il Sassuolo 3-1, ma era stato l’argentino a incassare le tre reti degli avversari. Nella scorsa stagione, invece, con Antonio Conte in panchina ha giocato contro la Sampdoria (5-1) l’8 maggio 2021 e quattro giorni dopo, per la prima volta, ha giocato da titolare contro la Roma (3-1), diventando così, all’età di 23 anni e 349 giorni, il secondo portiere più giovane ad aver giocato da titolare con l’Inter dopo Sebastien Frey (19 anni e 16 giorni).

Genoa e Parma

Radu resta un portiere di esperienza con 50 gare disputate in A con il Genoa tra il 2018 e il gennaio 2020, prima di andare sei mesi al Parma senza però giocare, chiuso da Sepe e Colombi. Con la Nazionale maggiore della Romania è stato convocato nel 2019, ma senza entrare in campo, mentre è stato titolare (e capitano) nell’Under 21 tra il 2017 e il 2019.

Come gioca

Storicamente, Radu è un portiere di alti e bassi, spesso autore di parate prodigiose ma anche di errori grossolani, come è accaduto con il Bologna. Reattivo e efficace fra i pali, il suo punto debole in passato si sono dimostrate le uscite. Non per la paura di farle, anzi, ma per l’abitudine a usare troppo i pugni per respingere il pallone.

La sorella morta a 14 anni

Il suo angelo custode è Ema, la sorella deceduta nel 2006 all’età di 14 anni. È a lei che Ionut dedica ogni suo traguardo. La storia venne fuori il 22 giugno 2019, all’Europeo Under 21, dopo Romania-Inghilterra 4-1 a Cesena. Radu scoppiò a piangere e mostrò una maglietta con scritto: «Ti devo tutto, ti amo, Ema». La madre poi racconterà che «Ionut sente che Ema è il suo angelo custode e in campo indossa sempre una maglietta con la foto di sua sorella. In una partita parò un rigore e mi disse che era stato merito di Ema, che in cielo è sempre pronta ad aiutarlo».

La polemica del suo procuratore Damiani con Handanovic

Nei quarti di Coppa Italia contro la Roma (l’8 febbraio 2022) Handanovic ha voluto giocare ugualmente senza alternarsi con lui, come sperato dal portiere romeno. Con polemica di Oscar Damiani, procuratore di Radu: «Siamo delusi, noi ma soprattutto il ragazzo. È arrivato anche Onana, a fine stagione Radu andrà via. In Coppa Italia contro la Roma avrebbe potuto giocare mostrando le sue qualità, ma non è stato così. Il prossimo mese ci saranno tante partite. Dovesse infortunarsi Handanovic, avresti a disposizione un tesserato che ha giocato poco o niente. Continuo a pensare che avrebbe potuto lasciare spazio al suo secondo e non comportarsi come con Padelli, con cui era successa la stessa cosa. Handanovic vuole giocare sempre, da ex calciatore non lo capisco. Il suo mi pare un atteggiamento, tra virgolette, fuori dalla sportività».

La fidanzata e i social

Radu è fidanzato con la connazionale Doris Contulov. Sono molte le foto che ritraggono la coppia nel corso dei festeggiamenti per lo scudetto vinto dall’Inter nella passata stagione con Antonio Conte in panchina. Lei sui social ha 8.664 followers, lui invece ne ha 174mila.

L’AVELLINO.

Antonio Sibilia, il presidentissimo dell'Avellino. Controverso, ammanicato, tiranneggiante, ma sempre estremamente attento ai risultati: tra gli ultimi esemplari di un calcio che non esiste più. Paolo Lazzari il 10 Settembre 2022 su Il Giornale.

Antonio Sibilia, il commendatore d'Irpinia

Quando irrompe nella stanza con quella cadenza di passi corti, ritmati, il respiro perennemente affannato, guadagna la sedia in fretta. Davanti c’è il procuratore di turno, una razza che lui detesta con ogni fibra del suo corpo massiccio, reso ancor più solido dall’assoluta mancanza di collo. Con lo sguardo torvo contempla il suo interlocutore, poi si sfila qualcosa dai pantaloni: è la fondina della sua pistola Magnum, rigorosamente rivolta verso l’ospite. Se è vero che quello che fai definisce chi sei, allora non esiste una sequenza migliore – quasi filmica - di quella che ritrae l’incontro con il malcapitato Dario Canovi, per descrive Antonio Sibilia, il presidentissimo dell’Avellino.

Padre padrone, ammanicato, controverso, suscettibile: servirebbe una caterva di aggettivi per tentare di inquadrare il commendatore d’Irpinia, tanti sono i connotati – tracimanti – premuti dentro alla sua pittoresca figura. Nato nel 1920 a Mercogliano, è figlio di un esportatore di frutta secca che fatica ad appiccicare il pranzo con la cena. Venuto su tra frotte di fratelli – in totale erano sei – sa di non potersi concedere il lusso di storcere il naso. A tredici anni inizia a lavorare per necessità. Proseguirà per tutta la vita, tirato per la giacca da un’ambizione irrefrenabile.

Il primo colpo lo assesta nel dopoguerra, quando inizia a trafficare con le truppe statunitensi: parla fitto e in dialetto, con quella bocca smisuratamente larga, le mani che gesticolano per accorciare le infide barriere della lingua. Poi incassa: due camion e una ruggente scavatrice. Praticamente l’incipit del suo futuro impero edile. Per fare affari è un segugio, ma non si fida di nessuno. Le briglie devono restare nelle sue mani callose. Demiurgo con inclinazioni tiranniche, Sibilia ribalta ogni contesto con piglio autoritario, risultando inviso a molti, eppure dannatamente efficace. Come quando decide di ricostruire larga parte del suo paesino d’origine o quando si industria dopo il terremoto che squassa l’Irpinia.

Nel calcio entra a gamba tesa a cinquant’anni, piazzando subito un paio di concetti cristallini: “Il mio allenatore deve sempre dire di sì”, rivela senza indugio alla stampa accorsa alla sua presentazione. Secondo cardine, non meno sferzante: “Il giocatore è come il camionista. Quando uno sale sul camion io lo vedo subito se sa guidare o no”. Spinto via anche l’ultimo rimasuglio di autocritica, derubricate le opinioni altrui al grado di frivole fesserie, dribbla agilmente chi lo accusa di essere un padrino con argomentazioni ineccepibili: “Non è vero, semmai sono un dittatore, ma un grande dittatore”.

Il campo, intanto, gli fornisce assist succosi. L’Avellino sale di categoria e in B – è il 1974 – si incolla addosso il soprannome di “Inter del sud”. Le intuizioni del presidentissimo sono feconde. Il colpo è sempre in canna. Si accaparra il terzino Codraro, detto “palla di gomma”. Mette le mani su “Frurù” Palazzese, ala fluttuante. Acquista anche Bruno Nobili, venezuelano dal piede morbido. Arrivato nella massima serie riesce a mantenere la categoria e continua a infilare acquisti ammirevoli: su tutti il brasiliano Juary, inizialmente rifiutato per via di una cesta di capelli inestricabili. Esalta e tritura allenatori in drammatica sequenza. La sua ascesa e il suo abisso calcistico, con la squadra che alterna gioie dilaganti a inciampi memorabili, viaggiano in parallelo alle sue intricate vicende giudiziarie.

Di certo attira l’attenzione della Camorra, che prova a crivellarlo con quarantuno proiettili al casello di Avellino, fallendo miseramente. Finito nel mirino del pool antimafia, riceve un’intimazione netta: deve soggiornare forzatamente a Trento per almeno tre anni. Lui strabuzza gli occhi, poi fa spallucce e commenta così davanti alla stampa: “Vado perché sono uomo d’ordine, ma ho la sciatica e avrei preferito un posto al caldo”. Non rimarrà più di tre giorni.

Nel 1980 è comodamente appollaiato su una poltrona in pelle dell’Hotel Gallia, la casa del calciomercato. Lo informano che ha ricevuto una chiamata e che il telefono lo aspetta al bar. È una trappola: trova due agenti in borghese che lo arrestano. L’accusa è un macigno. Credono che sia lui il mandante dell’omicidio del procuratore avellinese Gagliardi. Nel frattempo, si viene a sapere che, tramite il calciatore Juary ha fatto consegnare una medaglia d’oro al capoclan Raffaele Cutolo, per ringraziarlo di aver sventato un altro attentato. Fa la spola tra il carcere e gli arresti domiciliari, ma dopo cinque anni lo assolvono per insufficienza di prove.

Chiede un risarcimento per ingiusta detenzione: pretende cento milioni di lire, ma gliene riconoscono poco più di tre. Quando torna nel suo habitat, all’Hotel Fort Crest dove infuria il mercato, viene accolto con applausi commossi. Scende in C e poi risale, sempre trangugiando allenatori. Si ritiene massimo esperto di acquisti e tattiche: chi non lo asseconda è accompagnato alla via più breve per la porta.

Il suo successo nel calcio lo cicatrizza in otto parole: “Pago in contanti in un mondo di cambiali”. In dieci anni, anche se con metodi discutibili, piazza sulla mappa Avellino, fino ad allora trascurabile provincia italiana. Smisurato, eppure autentico fino al midollo. Il riflesso di un modo di leggere il calcio e la vita dissolto ormai da un pezzo.

 Juary ha 63 anni, che fine ha fatto: la bandierina, l'operazione al cuore, scuole calcio a Lodi, un disco e la medaglia a Cutolo. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 16 giugno 2022.

Il brasiliano è ancora un idolo in Irpinia. Meno all’Inter. Ma nessuno ha scordato la danza intorno alla bandierina del calcio d’angolo dopo un gol. Operato da poco al cuore, insegna calcio ai ragazzini.

La danza alla bandierina

Juary, oggi giovedì 16 giugno, compie 63 anni. Ha danzato (dopo un gol) attorno alle bandierine di mezzo mondo, è stato idolo in Irpinia con la maglia dell’Avellino, «oggetto misterioso» a San Siro (sponda Inter, una stagione, 1982-83, 21 presenze e due gol), ha raccolto scampoli di gloria calcistica ad Ascoli e a Cremona. In Italia è approdato nel 1980 ed è andato via nel 1985. Poi, quando sembrava scomparso, ha vinto una Coppa dei Campioni e una Intercontinentale (1987) da protagonista con la maglia del Porto (ha segnato nella finale, vinta 2-1, contro il Bayern Monaco). Insomma, fa parte di quei calciatori romantici, che hanno fatto sognare una tifoseria — quella dell’Avellino appunto — e che ha avuto il potere di restare nella memoria di un’intera generazione di tifosi.

Come giocava

Era un attaccante rapido e veloce, bravo negli spazi stretti, capace di togliersi qualche soddisfazione in zona offensiva. Anche se non sempre è stato continuo nel suo rendimento. In Nazionale, quella brasiliana, ha collezionato soltanto due presenze nella Coppa America del 1979.

Gli inizi

Juary ha iniziato a 9 anni nell’Eden football club, la squadra del suo paese di nascita, São João de Meriti, nello stato di Rio de Janeiro. E si è sempre definito un «menino da vila», in italiano «un ragazzo del villaggio», di quelli che disputavano dei tornei organizzati dal Santos per reclutare ragazzi per le giovanili. Ed ecco perché finisce proprio nel club che lanciò Pelé. Nel 1978 ha vinto il campionato Paulista di quell’anno, che in realtà si concluse nel 1979 perché l’anno prima c’erano stati i Mondiali in Argentina. Era il primo campionato vinto dai tempi d’oro di Pelé e soci, che lo avevano conquistato l’ultima volta nel 1973, ed è stato il capocannoniere con 23 reti.

La lingua

Del suo arrivo in Italia, Juary disse: «I primi giorni avevo paura, anche per la lingua, in due anni ero passato dal portoghese al castigliano e ora all’italiano. Portoghese e castigliano hanno più somiglianze, con l’italiano invece era diverso, infatti prendevo una parola, traducevo in castigliano-spagnolo e poi in portoghese».

Juary allenatore

Nel 1992 Juary dice addio al calcio, dopo un anno al Vitoria, club brasiliano. Nel 2005 riappare per fare l’allenatore. Lo fa con le categorie giovanili: la Berretti di Avellino, Potenza e Napoli. Nel 2009-2010 allena l’Aversa Normanna (ora in D) e nel triennio 2010-2013 il Sestri Levante, club ligure.

Insegna calcio

Juary nel 2020 apre delle scuole calcio, legate al Santos a Milano e nel «profondo» lodigiano, a Borgo San Giovanni (2.400 abitanti), paese che lo ha accolto come un figlio. Ed è rimasto legato alla città di Avellino, tanto da diventare coordinatore tecnico della Santos Academy dell’Asd Bellizzi Irpino 2019. «Apriremo a tutti i ragazzi di Borgo San Giovanni e non solo. La scuola nasce direttamente sotto l’egida e il controllo del Santos. Sì, la squadra che mi ha lanciato nel professionismo (a fine anni 70, ndc), ma soprattutto il club di Pelé, di Neymar. Ci appoggeremo qui al campo dell’oratorio locale. Non vedo l’ora di iniziare», disse.

Il 45 giri

Nel 1981 Juary ha inciso un 45 giri, con la canzone «Sarà così», scritta da Giacomo Simonelli ed Emilio Iarrusso. Dopo il ritiro dall’attività agonistica è stato opinionista in diverse trasmissioni sportive. Suo figlio, Juary Jorge dos Santos Neto, ha giocato a calcio nella formazione Berretti dell’Avellino, e a calcio a 5 nel CUS Avellino, prima di ritirarsi dalla carriera agonistica.

La medaglia a Raffaele Cutolo

Arriva all’Avellino nel 1980, acquistato dall’allora presidente Antonio Sibilia su segnalazione del nuovo allenatore degli irpini, Luis Vinicio. Nell’ottobre 1980 accompagna, a propria insaputa, il presidente Sibilia a un’udienza di un processo nel quale era imputato Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra Organizzata: in quell’occasione, Juary consegna al boss una medaglia d’oro con dedica «A Raffaele Cutolo dall’Avellino Calcio».

Il terremoto dell’Irpinia

Tempo fa Juary raccontò anche della terribile esperienza del terremoto che sconvolse l’Irpinia: «Abbiamo dovuto vivere l’esperienza terribile del terremoto del 23 novembre 1980, una cosa che non si dimentica (qui l’audio terribile del boato provocato da quel sisma). E che anche calcisticamente ha pesato perché abbiamo dovuto giocare alcune partite casalinghe al San Paolo di Napoli. Nonostante tutto abbiamo fatto 30 punti, ci siamo salvati con una stagione da qualificazione in Coppa Uefa».

L’avversario più difficile? Vierchowod

Juary ha sempre considerato Pietro Vierchowod l’avversario più tosto mai incontrato in carriera: «Non ho mai più incontrato un difensore come lui. Ti davano la palla a destra e lui era già lì, te la passavano sull’altro lato del campo e lo trovavi un passo avanti a te, era rapidissimo. Come facesse ancora non l’ho capito», rivelò l’ex attaccante brasiliano.

L’intervento al cuore

Nel 2019 Juary viene operato al cuore in Brasile. L’intervento riesce e in Italia tutto tirano un sospiro di sollievo. Non solo i suoi amici e familiari, ma anche i tantissimi tifosi, grandi e piccoli, che lo hanno amato per averlo visto direttamente o perché affascinati dai racconti dei suoi gol e della sua pittoresca esultanza attorno alla bandiera.

IL CATANIA.

Angelo Massimino, l’altro vulcano di Catania. Self made man, autoritario, passionale: il Presidentissimo Angelo Massimino ha amato Catania in modo totalizzante e viscerale. Paolo Lazzari il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.  

A fine giornata si fermano tutti: la stanchezza accumulata lavora le giunture, ma la voglia di prendere a calci un pallone è insopprimibile. Lì, tra mucchietti di mattoni e quintali di calcestruzzo, si consuma la passione di un gruppo di muratori sospinti da un uomo infuocato: di nome fa Angelo. Il cognome è Massimino. Spremere sudore è un vizio di famiglia: è così che sette fratelli fanno avverare circostanze impronosticabili. Da semplice manovalanza a costruttori edili. Catania e la Sicilia intera sono terreno fecondo. L’abbinamento tra calcio e impresa, storia di una chimica vecchia come il mondo, è destinato a divampare.

Quando gli spazi iniziano farsi più angusti in patria, lui emigra in Argentina. È il 3 gennaio del ’49 e con sé porta anche la moglie Graziella Codiglione: se ne era invaghito quando lei aveva soltanto sedici anni e, vincendo la naturale ritrosia della famiglia, era riuscito a sposarla. Ecco uno dei tratti che maggiormente lo identificano: Massimino è risoluto, ai limiti della cocciutaggine. Per il Sudamerica salpa anche con la figlia piccola, perché la famiglia unita è un altro cardine ineludibile del suo personale manifesto. Ai confini della Pampa resterà soltanto per due anni. Abbastanza, comunque, per tessere proficue relazioni commerciali e tornare in patria con il petto più gonfio di prima.

Il sogno autentico però non ha a che fare con le costruzioni. Si chiama, piuttosto, Catania calcio. Angelo lo lambisce per la prima volta nel ’58 quando, assieme al fratello Turi, tamburella con quelle dita ruvide e nodose alla porta di un club inguaiato. Servono soldi? Per fortuna lui può rovesciarne a valigiate sul tavolo. Il presidente, l’ingegner Michisanti, si sfrega le mani. Bene, i fratelli Massimino entrino pure a far parte della società, ma come suoi vice, s’intende. Per un uomo dell’orgoglio di Angelo il fatto è oltraggioso. Non lo vogliono sul serio? Vorrà dire che fonderà una squadra sua.

Detto, fatto. Sbarca in serie D con un club che è sublimazione del suo discutibile egocentrismo: la Massiminiana. Occhio però, perché qui si intravede anche il guizzo che travalica l’ordinaria amministrazione. Massimino è presidente, ma anche osservatore. E pure direttore sportivo, all’occorrenza. In attacco, per dire, spunta un imberbe Pietro Anastasi. Questione di polso: il suo vibra per il calcio così come per l’edilizia. Il matrimonio con il Catania però è soltanto posticipato. Nel ’69 il club torna a solcare acque limacciose. L’arrivo di Angelo evita che affondi indecorosamente.

Il percorso inarrestabile di Massimino

Il primo anno è una spolverata generosa di entusiasmo. I rosso azzurri approdano in Serie A, trainati dalle reti di Aquilino Bonfanti e dalla gestione impeccabile di Egizio Rubino. Dura pochissimo: l’anno dopo la squadra sprofonda in B e la contestazione della piazza, umorale nel senso più esasperato del termine, dilaga subito furente. Massimino si danna, ma i risultati languono. Quando il Catania si inabissa addirittura in C, promette di dimettersi. Servirà un quadretto da commedia all’italiana, con il sindaco Ignazio Marcoccio che lo supplica di ripensarci, per scongiurare la decisione.

Angelo si rimette in sella, poi si prende un anno sabbatico, molla e ritorna per tre volte nel corso del suo lungo interregno. “Vado in Brasile a prendere due giocatori che non vi posso dire”, dichiara un giorno teatralmente, seducendo la stampa. Colpi che sfodera a ripetizione e che fanno parte di una personalità scoppiettante, impossibile da contenere. Con lui al timone il Catania alterna campionati esaltanti a momenti rivedibili. Nel 1983 riconquista la Serie A, ma la stagione successiva pare la sceneggiatura di un horror: soltanto una vittoria in trenta partite, malgrado i verdeoro Luvanor e Pedrinho, misti all’estro di un giovanissimo Andrea Carnevale.

Massimino si dimette nel 1987, ma torna di nuovo dal 1992 al 1996, l’anno della sua tragica scomparsa in un incidente stradale. Il vecchio Cibali oggi porta il suo nome. In città, ogni tanto, spunta un affresco pittorico dedicato alla sua memoria. Il catino rosso azzurro è ancora punteggiato di striscioni che inneggiano alle sue gesta. Presidentissimo e dunque, come ogni esponente della categoria, sovrano che si spinge ai limiti del despotismo. Divisorio in vita, beatificato dal tifo catanese al momento della sua improvvisa dipartita. Ha amato Catania di una passione viscerale, magmatica. Quella con cui sbuffano i vulcani. Da queste parti, di sicuro, non hanno avuto solo l’Etna.

IL MONZA.

Pioggia di mazzette, ma la sinistra arrossisce per una battuta del Cav. In Europa impazza il Qatargate, ma a sinistra fanno la morale a Berlusconi perché a una cena ha fatto una battuta ai calciatori del Monza. Andrea Indini il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Borse piene zeppe di banconote. Mazzette per ripulire la fedina penale di uno Stato che, quando va bene, i diritti umani li calpesta. E ancora: Ong che "servivano a far girare i soldi", lusso sfrenato e vacanze da 100mila euro, un'inchiesta che, stando a quanto fanno trapelare gli inquirenti, "non sarebbe circoscritta solo ai quattro fermati ma riguarderebbe diversi europarlamentari a libro paga del Qatar". Eppure, anziché stare davanti a questo girone infernale di corruzione, a sinistra sbroccano (ancora una volta) per una battuta, tra l'altro fatta in un contesto conviviale, di Silvio Berlusconi. C'è chi, come Laura Boldrini, si strappa i capelli in nome del sessismo e chi, dalle parte di Verdi e Sinistra italiana, vorrebbe il Cavaliere "fuori per sempre dalla vita pubblica". E c'è chi chiama in causa persino la Meloni che, dopo aver incassato il via libera di Bruxelles alla legge di Bilancio, è in partenza per il Consiglio europeo e ha ben altro di cui occuparsi.

Ma veniamo alla battuta di Berlusconi che ha lasciato inorridite le anime candide della sinistra nostra. Parte tutto da un video registrato ieri sera e poi affidato ai social. Una volta online, la viralità ha fatto il suo corso. Contesto: cena di Natale del Monza. Nello spezzone incriminato si vede l'ex premier in piedi, in mezzo ai tavoli, chiacchierare disinvolto. "Abbiamo trovato un nuovo allenatore che era l'allenatore della nostra squadra Primavera - racconta - è bravo, simpatico, gentile e capace di stimolare i nostri ragazzi". Quindi la battuta: "Io ci ho messo una stimolazione in più e ai ragazzi ho detto: 'Ora arrivano Juventus e Milan. Se vincete con una di queste grandi squadre, vi faccio arrivare nello spogliatoio un pullman di troie'". Nessuno ai tavoli si è stracciato le vesti né se l'è presa. Hanno riso, come è normale che sia.

A dare di matto ci ha, invece, pensato la sinistra. La grillina Chiara Appendino parla di "concetti miseri", addirittura "pericolosi". Laura Boldrini ci mette il carico da novanta ("Becero sessismo usato come goliardia") e ovviamente chiama in causa tutto il centrodestra: "Ricordo che Meloni, Salvini e Tajani volevano Berlusconi Presidente della Repubblica". È una gara a chi la spara più grossa. "Una vergogna per tutte le italiane e gli italiani", azzarda Marco Grimaldi (Alleanza Verdi e Sinistra). E poi +Europa: "Dagli anni Ottanta a oggi il nostro boomer nazionale attinge allo stesso inventario di insulti con cui ha sempre infestato le cronache politico-mondane". Su Twitter ci si mette pure Monica Cirinnà: "Conferma la cultura patriarcale che riduce le donne a oggetti, anticamera della violenza".

Tutti scandalizzati per quella che, per quanto possa essere considerata da alcuni sopra le righe, resta una battuta, tanto più pronunciata in un contesto tutt'altro che istituzionale. Nemmeno Berlusconi si sarebbe mai aspettato tanto clamore per quella che lui stesso considera "una semplice battuta 'da spogliatoio', scherzosa e chiaramente paradossale". E davanti a questo paradossale finimondo non gli resta che la compassione per i critici di professione. "Forse - azzarda l'ex premier - è solo la loro assoluta mancanza di humor a renderli così tristi ed anche così gratuitamente cattivi nell'attaccare i nemici". Ma, dopo tutto, cos'altro ci saremmo potuti aspettare? Così è la sinistra. Arrossisce quando si dicono le parolacce, ma quasi non batte ciglio davanti a un milione e mezzo di contanti.

Poco Cavaliere. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022. 

Non gli farò il favore di indignarmi per quest’ultima berlusconata fuori tempo massimo: l’antico cumenda che, davanti alla fidanzata in carica, impugna il microfono alla festa natalizia del Monza per promettere «un pullman di tr***» ai suoi giocatori come premio-partita. Forse perché conosco bene lo schema, lo stesso da almeno trent’anni. Lui, azzimato e in doppiopetto, che tende a esprimersi all’opposto di come si veste, rallegrando qualche platea di dipendenti con beceraggini gratuite sulle donne o sulle corna. A quel punto i critici si indignano e lui, invece di provare imbarazzo, li compatisce, trattandoli da moralisti ipocriti e tristi, incapaci di divertirsi come la gente semplice e vitale, che notoriamente sghignazza solo quando sente parlare di tr***. In questi trent’anni il suo mondo interiore sarà pure rimasto immobile, ma in quello esterno è successo di tutto. Certe battute non le fa più neanche Boldi e non solo per via del «Metoo», ma perché è proprio cambiata la sensibilità, il modo di rapportarsi al sesso e alle donne. Chi ancora le vede come un bottino di guerra e un mero oggetto di piacere, tanto da costruirci sopra una barzelletta, non è soltanto trucido. È sorpassato. Appartiene a un’altra epoca, in cui quelle battutacce le facevano i sessantenni, come il Berlusconi di allora, per sentirsi ancora giovani. Oltre una certa età, la volgarità diventa una forma di pigrizia dell’anima e non indigna nemmeno più. Mette solo tristezza.

Berlusconi ai calciatori del Monza, un caso la sua «battuta». Il Pd: «Parole indegne». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.

Promette alla squadra «un bus» di prostitute in caso di vittoria

«Parole indegne e ignobili» (Laura Boldrini, Pd), «concetti miseri ma soprattutto pericolosi» (Chiara Appendino, M5S), «che schifo!» (Teresa Bellanova, Italia viva), «che schifezza, che tristezza!» (Carlo Calenda, Azione), «che pena!» (Alessia Morani, Pd). A voler prendere il lato meno avvilente e forse più politico dell’intera vicenda, il video in cui si vede Silvio Berlusconi nell’atto di promettere «un pullman di tr…» ai giocatori del suo Monza realizza plasticamente, anche se per lo spazio di un tweet o di una dichiarazione alle agenzie, il miracolo di ricomporre il caro vecchio «campo largo» sognato da Enrico Letta prima che tutto il centrosinistra piombasse nell’incubo ante, pre e anche post elettorale.

Tutti insieme appassionatamente: tutte le forme di Pd, dall’ala Bonaccini («Le donne non sono un premio per gli uomini», il suo commento) al ramo Schlein passando per la fronda De Micheli e soprattutto per le decine di personaggi in cerca di un candidato/a; tutto il vecchio Movimento 5 Stelle, compresi espulsi, dissidenti, fuoriusciti, scissionisti; tutti i calendiani e i renziani, per una volta simmetricamente d’accordo con i fratoianniani (nel senso del rosso Nicola) e i bonelliani (nel senso del verde Angelo). Tutti insieme a celebrare l’ennesimo miracolo del sangue dell’antiberlusconismo che si scioglie ancora all’interno dell’ampolla, anche se di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia.

E poi c’è Berlusconi, che celebra sull’altare dell’insostenibile pesantezza di una battutaccia sessista il sacrificio di un pensiero, formulato sempre alla festa di Natale del Monza calcio, che gli avrebbe regalato un quarto d’ora di celebrità nel mondo della sinistra, dei sindacati, del progressismo mondiale. «Non voglio sponsor arabi perché in Qatar sono morti tanti lavoratori», ipse dixit, ma troppo tardi, tutti erano ormai concentrati sul resto.

Il resto, la promessa del «pullman di tr…» ai giocatori del Monza in caso di vittoria con una tra Milan, Inter e Juventus — regalo che, tecnicamente, avrebbe dovuto già essere elargito visto che con la Juventus il Monza ha già vinto ad agosto — è l’eterno ritorno dell’uguale. Lo show trito e ritrito, visto e rivisto, osannato e stroncato ma comunque con un suo pubblico, che fischia o applaude o tace a seconda del partito di appartenenza; come una volta, quando il Cavaliere era la prima gamba del centrodestra, così adesso, che è la terza.

A cambiare, semmai, è il mondo circostante, il progresso tecnologico che consente a ciascuno di prendere un telefonino dalla tasca, girare un video e mandarlo a chiunque. Li avessimo avuti prima, gli smartphone, di show come quello alla festa del Monza ce ne sarebbero a migliaia, in Rete, e non solo a decine. Non ce ne sarebbe stato bisogno sempre, sia chiaro. Bastarono le telecamere della Rai a immortalare la rispostaccia rifilata a Rosy Bindi durante un intervento telefonico a Porta a Porta di Bruno Vespa («Sento parlare l’onorevole Bindi, è sempre più bella che intelligente»). Mentre della celeberrima inaugurazione dell’Alta velocità Roma-Milano rimane la foto di un innocente Berlusconi col cappello da ferroviere, col resto — e che resto — tramandato per via orale dai sindaci delle grandi città che assistettero allo spettacolino direttamente dal treno. «Allora, cari sindaci? Vi piace il presidente ferroviere?». «Sìììììììììì!». «Io invece preferisco il presidente putt...re!».

Oggi come allora, Berlusconi ci rimane male. «Francamente non pensavo e nessuno poteva immaginare», ha scritto poi in un post su Instagram, «che una semplice battuta “da spogliatoio” scherzosa e chiaramente paradossale potesse suscitare commenti tanto malevoli quanto banali e irrealistici. Compiango questi critici. Forse è solo la loro assoluta mancanza di humor a renderli così tristi e anche così gratuitamente cattivi. Ma siamo a Natale e allora tanti auguri anche a loro». Una difesa talmente uguale alle altre che è impossibile non considerarla quantomeno sincera. E non si sa, con Berlusconi non s’è mai saputo, se tutto ciò è meglio o peggio di una scusa pelosa. Qualche mano caritatevole, stavolta, ha corretto il comunicato mettendo tra virgolette «da spogliatoio». Hai visto mai.

Berlusconi, parte il coro della sinistra: "Sessismo, lasci la politica". E Lui: "Tristi". Il Tempo il 14 dicembre 2022

La battuta di Silvio Berlusconi alla cena con i calciatori del suo Monza riunisce le opposizioni e soprattutto resuscita per un attimo la sinistra alle prese con scandali e cali drammatici nel consenso. Il video del discorso "motivazionale" in pieno stile Cav è diventato subito virale: "Abbiamo trovato un nuovo allenatore che era l’allenatore della nostra squadra primavera: bravo, simpatico, gentile e capace di stimolare i nostri ragazzi. Io ci ho messo una stimolazione in più, perchè ai ragazzi che sono venuti qui adesso ho detto ’adesso avete il Milan, la Juventus, eccetera, e se vincete con una di queste grandi squadre vi faccio arrivare nello spogliatoio un pullman di tr...e", ha detto tra le risate generali del pubblico che lo ascoltava. Apriti cielo.

"Che schifezza. E che tristezza", ha commentato il leader di Azione Carlo Calenda, una volta che il video è diventato virale. "CHE SCHIFO le parole di Berlusconi ai giocatori del Monza. Una frase sessista in cui ancora una volta la donna è non un soggetto con piena dignità, ma un oggetto ad uso e consumo degli uomini, un premio per i valorosi. Una visione anacronistica e vergognosa", scrive su Twitter la presidente di Iv Teresa Bellanova. 

"Chiedo a Giorgia Meloni cosa ne pensi lei, la prima donna presidente del Consiglio, di questa rivoltante volgarità", chiede invece la deputata M5s Chiara Appendino. Non poteva mancare  l’ex presidente della Camera Laura Boldrini che parla di "parole indegne, ancora più ignobili se a proferirle è un senatore della Repubblica e leader di un partito. Becero sessismo usato come goliardia" dice l'esponente del Pd che chiosa: "Ricordo che Meloni, Salvini e Tajani volevano Berlusconi presidente della Repubblica".

"'Se vincete faccio arrivare un pullman pieno di t***e'. Berlusconi incoraggia così i giocatori del Monza che ridono divertiti. Invece non c’è niente da ridere. Conferma la «cultura» patriarcale che riduce le donne a oggetti, anticamera della violenza", twitta Monica Cirinnà, responsabile diritti del Pd. La sinistra arriva a invocare l'abbandono della politica del presidente di Forza Italia: "Non siamo sorprese, è il linguaggio con cui ha governato e impoverito l’Italia. È questo il personaggio, che non si smentisce, anzi, insiste, che Giorgia Meloni, Salvini e Tajani avrebbero voluto al Colle? Un vero maestro di vita e  politica che dovrebbe uscire per sempre dalla vita pubblica", tuona  Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra.  

E Berlusconi? "Francamente non pensavo, e nessuno poteva immaginare, che una semplice battuta 'da spogliatoio' scherzosa e chiaramente paradossale, che ho rivolto ai calciatori del mio Monza potesse suscitare commenti tanto malevoli quanto banali e irrealistici. Compiango questi critici",  ha scritto sui social il presidente di Forza Italia. "Forse è solo la loro assoluta mancanza di humor a renderli così tristi ed anche così gratuitamente cattivi nell’attaccare coloro che considerano nemici. Ma siamo a Natale. E allora tanti auguri anche a loro", è la stoccata finale. 

Chi è Pablo Marì (Monza) accoltellato al centro commerciale di Assago. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.

Ha 29 anni è sposato ed ha un figlio di 4 anni. Star dei social e appassionato di moda. In Italia ha già giocato nell’Udinese

Pablo Marì tra i cinque accoltellati di Assago

Uno dei cinque accoltellati nel centro commerciale di Assago, alle porte di Milano, è il difensore del Monza, Pablo Marì. Una notizia che ha sconvolto la squadra di Silvio Berlusconi e Adriano Galliani, allenata da Raffaele Palladino. È arrivato alla corte dei biancorossi, al primo anno in serie A, questa estate dall’Arsenal. Nella scorsa stagione, però, ha già giocato in A con la maglia dell’Udinese.

Dall’Inghilterra all’Olanda: carriera da giramondo

Pablo Marí nasce a Valencia il 31 agosto del 1993. Cresce calcisticamente nel settore giovanile del Maiorca e debutta a soli 18 anni in Liga contro il Granada. Nella stagione successiva trova continuità con la squadra B in Seconda Divisione dove gioca 28 partite segnando un gol. Nel 2013 passa al Gimnàstic de Tarragona in terza divisione, squadra con la quale esordisce in Coppa del Re contro il Burgos. Nella stagione successiva diventa un perno fondamentale del Gimnàstic giocando 35 partite segnando anche tre gol e diventando protagonista della promozione in Segunda División. Va al Manchester City, senza mai debuttare, venendo girato in prestito in Olanda al Nac Breda, club nel quale diventa anche capitano. Nel 2018 fa ritorno in Spagna, al Deportivo La Coruña, per poi trasferirsi al Flamengo in Brasile dove vince sia il campionato sia la Copa Libertadores. Il suo peregrinare in giro per il mondo lo porta all’Arsenal dove però, in tre anni, non riesce mai a guadagnarsi lo spazio giusto per mettere in mostra le sue qualità. Ecco allora che arriva la chiamata dell’Udinese. Infine, il Monza.

Una roccia in difesa

Pablo Marì è un difensore centrale dal fisico roccioso, ostico da saltare. Può giocare sia in una difesa a quattro sia in quella a tre, da difensore centrale, come ha fatto prima con Giovanni Stroppa e adesso con Raffaele Palladino.

Sposato con Veronica, ha un figlio di 4 anni

A giugno si è sposato con Veronica con la quale ha un figlio di quattro anni. È diventato uomo in fretta grazie alle tante esperienze fatte in giro per il mondo e questo è uno dei suoi più grandi pregi soprattutto quando si tratta di saper entrare nel modo giusto in un nuovo spogliatoio.

Star dei social e appassionato di moda

Pablo Marì sui social è molto seguito, ha un milione e trecentomila follower sul proprio Instagram, dove posta principalmente foto e video della sua famiglia e delle sue esperienze da calciatore. Il 9 ottobre con una bellissima foto in bianco e nero ha fatto gli auguri di compleanno alla sua Veronica. Invece, il 31 agosto per i suoi 29 anni ha postato un video con la sua consorte e il loro figlioletto.

Pippo Russo per editorialedomani.it il 19 settembre 2022.

Lo hanno scoperto gli inquirenti della procura Figc. Che volevano provare a deferirlo per le dichiarazioni rilasciate contro l’arbitro brindisino Marco Di Bello nel post-partita di Monza-Udinese dello scorso 26 agosto (vinta 2-1 dalla squadra friulana), ma si sono dovuti arrendere davanti all’evidenza: il leader di Forza Italia, pur essendone il finanziatore unico tramite Fininvest, non è un tesserato dell’Associazione Calcio Monza. Dunque non è deferibile né tanto meno punibile. Per il mondo del calcio è il Cavaliere Inesistente. 

Un cavaliere che però continua a muoversi per tribune d’onore e a lasciarsi intercettare dai giornalisti che gli fanno la posta a fine partita fuori dallo stadio. E lì proprio non resiste alla tentazione di parlare come se della società brianzola fosse davvero il presidente, e come del resto continuano tutti quanti a appellarlo. 

Una simpatica millanteria che però avrebbe mandato in fuorigioco la squadra della procura federale guidata da Giuseppe Chiné. Che stando al retroscena raccolto da Domani si sarebbe mossa per effettuare il deferimento (l’equivalente del rinvio a giudizio nella giustizia sportiva) ma presto ha dovuto alzare le mani.

La scena e nota e può essere rintracciata facilmente da chiunque su You Tube. Appena uscito dallo U-Power Stadium di Monza il leader di Forza Italia si ritrova davanti l’esercito dei cronisti, in una scena che ormai è diventata consueta. Non fa nemmeno finta di resistere all’assalto dei microfoni, e anzi quando gli rivolgono la prima domanda va dritto sul tema che proprio gli preme: «Una partita sfortunata per il Monza, in cui però gli altri erano in dodici perché c’era anche l’arbitro con loro. Un arbitraggio davvero scandaloso». 

Quindi piazza la gag ingessata, che senza le risatine preregistrate da sitcom nel gelo nel gelo: «Come si chiama l’arbitro?», chiede, e quando un cronista risponde «Di Bello», replica «Ecco, dovrebbe chiamarsi Di Brutto».

Al di là della battuta da humour anni Cinquanta, rimangono le affermazioni che in termini di codice sportivo sono molto gravi: quelle sull’arbitro che sarebbe stato il dodicesimo giocatore dell’Udinese e sull’arbitraggio «scandaloso». Nel calcio si viene deferiti e squalificati per molto meno. 

L’ultimo fra i casi che hanno fatto più rumore riguarda l’allenatore della Lazio, Maurizio Sarri. Che dopo la gara persa in casa (1-2) contro il Napoli se l’è presa con l’arbitro Simone Sozza di Segrate, per poi dire che nell’epoca del Var certi errori significano che «gli arbitri sono prevenuti» e invitare il designatore arbitrale Gianluca Rocchi. La conseguenza è che nei confronti dell’allenatore laziale è stato immediatamente aperto un fascicolo da parte della procura Figc, da cui potrebbe conseguire una sanzione pecuniaria o un deferimento che sarebbe la premessa di una breve squalifica.

Sorte analoga poteva toccare a Berlusconi se fosse stato un tesserato del Monza. E invece, nell’organigramma del club brianzolo, non c’è la minima traccia del leader di Forza Italia. Il solo Berlusconi che figura nella lista è il fratello Paolo, che svolge il ruolo di presidente onorario e per questo non siede nemmeno in consiglio d’amministrazione. Il dirigente apicale è il fido Adriano Galliani, cui sono affidati i ruoli di vicepresidente vicario e amministratore delegato. Nessun altro rappresentante della famiglia Berlusconi è nel Cda.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2022.

Ma voi vi fidereste se la sentenza finale da cui dipende la vostra vita stessa fosse nelle mani di magistrati che fanno parte contemporaneamente di un tribunale parallelo che vi ha già dimostrato d'ignorare il clamoroso conflitto d'interessi? È quanto può capitare oggi al Chievo se, paonazzi d'imbarazzo, quei giudici a doppio servizio, del Consiglio di Stato e dei «tribunali» calcistici (sui cui verdetti sempre loro decidono), non decidessero di mettere fine all'obbrobrio proibito per legge facendo saltare una catena di scelte che non fa onore né ai giudici né al calcio.

Ultima istanza L'accusa, nomi e curricula alla mano, parte dall'ultima memoria presentata giovedì scorso dall'avvocato Stefano de Bosio, uno dei difensori della società calcistica, inviata al Consiglio di Stato, che com' è noto non prevede la presenza d'un terzo grado (una sorta di Cassazione) ma affida l'ultima istanza a una delle sue sezioni delegata a occuparsi dello sport, cioè la V. La quale sulla carta ha tre possibili presidenti. Due dei quali membri anche (incredibile ma vero) della giustizia sportiva. Ma che sorpresa! 

Di più: del consiglio chiamato a decidere oggi i membri anche della giustizia sportiva sono tre su cinque. Sorpresa bis! Sinceramente: alzi la mano chi pensi a una semplice, pura, cristallina e innocente coincidenza. Il tutto dopo anni che queste commistioni erano state già al centro di polemiche varie perché, ad esempio, lo stesso presidente attuale del Consiglio di Stato Franco Frattini è stato per anni fino a sette mesi fa presidente di sezione del massimo organo amministrativo e in abbinata presidente del Collegio di Garanzia Giustizia Sportiva.

Onore (e milioni) A farla corta, come sottolinea il legale della società gialloblu, l'ultimo decreto firmato dal presidente della V Sezione Luciano Barra Caracciolo il 7 giugno scorso, benché il linguaggio sia complicato e «benché giustamente abbia riservato al Collegio la valutazione del fumus boni iuris (...) evidentemente suppone che qualcosa di grave non torni nel castello di sabbia costruito dall'amministrazione resistente per nascondere la semplice verità».

Insomma, finalmente si vede il tentativo di capire come è andata. Lasciando spazio, ed era ora, a una sentenza che potrebbe fare chiarezza e al limite restituire al Chievo non solo l'onore ma addirittura il patrimonio della società calcistica a partire dalla proprietà dei cartellini dei giocatori (importantissima per chi negli anni ha investito larga parte dei suoi bilanci sui vivai) valutata almeno una cinquantina di milioni. 

La retrocessione Come sia andata la faccenda della retrocessione dovuta alle plusvalenze, un tormentone di pasticci, ambiguità, furbizie, che coinvolse lo stesso presidente Luca Campedelli, abbiamo cercato di ricostruirlo l'altro giorno. Tentando di spiegare anche una serie di diversi trattamenti, diverse benevolenze, diversi pesi e misure riservati dalla stessa giustizia sportiva ad altre società con bilanci molto più traumatici

(esempio Juventus: perdite di 119 milioni di euro nel solo primo semestre 2021) ma con «peso politico» in tifosi, voti e amicizie enormemente superiore. Scrive l'Ansa il 27 novembre 2021: «Stando ai dati del Report Calcio Figc, nel 2007/08 i club avevano registrato plusvalenze pari a 218 milioni di euro, con un impatto pari al 12% sul fatturato del massimo campionato. Nel 2019/20, i ricavi dalle cessioni dei giocatori erano pari a 740 milioni, rappresentando il 24% di tutte le entrate dei club». Risultato finale il 15 maggio di quest' anno: tutti e undici i club e i 59 dirigenti assolti: «Il metodo di valutazione adottato dalla Procura federale può essere ritenuto un metodo di valutazione, ma non il metodo di valutazione. 

Perciò il Tribunale ritiene che non esista o sia concretamente irrealizzabile il metodo di valutazione del valore del corrispettivo di cessione/acquisizione delle prestazioni sportive di un calciatore. Tale valore è dato e nasce in un libero mercato» Per capirci: assolto anche il Chievo accusato nel 2018 di ipervalutazioni modeste (rispetto alla media generale poi emersa) eppure non solo coperto di sdegno ma colpito dalla giustizia sportiva con la richiesta abnorme di 15 punti di penalizzazione ridotti poi a 3. Con l'ovvio tracollo a campionato in corso della squadra, finita a 17 punti cioè 23 meno di quanti ne aveva l'anno prima. Chi glieli restituisce?

I giudizi precedenti E siamo ad oggi. E alla scoperta che, come ricordano l'avvocato difensore nel suo «interpello» e Sergio Rizzo su MF, «il presidente del collegio giudicante, Diego Sabatino, è anche componente della sezione consultiva della Corte federale d'appello della Federcalcio». 

La stessa che il 26 ottobre 2021 respinse già il ricorso del club veronese contro il devastante svincolo dei giocatori. Questa poi! Di più: la consigliera Giuseppina Luciana Barreca, lei pure membro del collegio di oggi, fu relatrice di quella ordinanza del 27 agosto 2021 che confermò l'esclusione della società scaligera dal campionato e ritenne «non impugnabili» gli svincoli dei calciatori. Questa poi! Di più ancora: il consigliere Valerio Perotti, terzo giudice su cinque oggi in plateale conflitto di interessi, aveva già partecipato ai collegi della Corte federale d'appello della Federcalcio che rigettò le istanze cautelari del Chievo, e in un caso addirittura lo presiedette sostituendo l'allora incaricato Carlo Santelli, che si era dovuto astenere come membro sia del Consiglio di Stato sia della Corte federale d'appello della Federcalcio.

Una sgradevole coincidenza?

No: negli ultimi quattro anni la V Sezione del Consiglio di Stato chiamata a giudicare i ricorsi contro le decisioni degli organi sportivi ha avuto tre presidenti che appartenevano nello stesso momento a entrambi i «tribunali»: sportivo e amministrativo. Chiamati a decidere su temi talora comuni: Carlo Saltelli, Diego Sabatino e Francesco Caringella.

Senza avvertire brividi di imbarazzo. 

L'interrogativo E torniamo alla domanda: cosa faranno quei giudici? Tireranno diritto sfidando il buon senso e la riprovazione di chi un giorno dovrà ben svegliarsi davanti a questi conflitti di interessi? Sia chiaro: se c'è un giudice a Berlino ha il diritto di prendere le decisioni che gli pare. Compresa, ovvio, una nuova condanna della squadra giallo-blu. Ma con questi stessi magistrati? Siete sicuri? Mah...

IL MONZA.

Dagospia il 20 ottobre 2022. “Milan-Monza? Vedrò scorrere davanti la mia vita. Sto facendo yoga mentale, non muoverò nemmeno un muscolo, qualsiasi cosa succeda”. Il “condor” Galliani si racconta in una lunga intervista a Dazn alla vigilia del suo derby del cuore: “Pensare che il Monza giochi contro il Milan è un sogno. Ero abituato a vedere Monza-Seregno…”. 

Gli inizi da inviato de “il Cittadino”, il quotidiano di Monza, le trasferte al seguito della squadra, la fuga dalla pensione di Arenzano per vedere la finale mondiale Germania Ovest-Ungheria nel 1954, Galliani racconta della sua grande passione per il calcio e per la squadra della sua città: “Quando mi chiedevano cosa volevo fare da grande rispondevo il presidente del Monza”.

L’amministratore delegato del club brianzolo racconta scaramanzie (“Prima delle partite non cambiare posizioni a tavola, né il menù, a partire dal risotto alla monzese, con zafferano e luganega”), notti in bianco e altre amenità da dirigente “ultrà” come il cartello che ha fatto esporre all’ingresso degli spogliatoi: “Abbiamo impiegato 110 anni per andare in A, non possiamo impiegare 12 mesi per tornare in serie B” 

Del resto è stato “più difficile portare il Monza in A che vincere 5 Champions con il Milan”. La più bella? “A Istanbul, contro il Liverpool. Abbiamo giocato divinamente e abbiamo perso. Due anni dopo giochi male e vinci. Non ho ancora capito il calcio. Berlusconi dice che assomiglia alla religione: ha i misteri dolorosi e i misteri gaudiosi. Lo vogliono restringere a numerini ma non è così, il calcio è irrazionale, non è una scienza esatta”.

Ha visto 8 palloni d’Oro ma il ricordo indelebile è quello di Marco Van Basten, che ne ha vinti solo tre perché ha smesso di giocare a 28 anni per un problema alla caviglia. “Lui è l’unico giocatore per il quale mi inginocchio, quando lo vedo: per me è come la Madonna…”. 

Adesso Galliani si coccola il capitano Pessina, il botto di questa estate. Ha fatto più di 90 sessioni di calcio-mercato, il primo colpo nel novembre del ’75, Ariedo Braida, poi ds Milan. “Se vuoi vendere, devi cercare di farlo a inizio mercato. Se vuoi comprare, lo devi fare nelle ultime ore di mercato”. I famosi giorni del Condor. “Bisogna avere passione. Io ho quella per il calcio. Il pallone che rotola sul campo è un richiamo irresistibile”. 

Una galleria di esultanze, facce trasfigurate, occhi fuori dalle orbite: “Non recito, sono così. il dottor Tavana mi dava tante gocce di En, un calmante, altrimenti non riuscivo a reggere. Sono fanciullesco. C’è una canzone, “I miei capelli bianchi” di Peppino Di Capri, in cui mi ritrovo…”. Racconta di un uomo “senza tempo e senza età” che non riesce a prendere sonno. “La notte prima e dopo le partite non riesco a dormire, non sono cambiato, il mio umore è direttamente proporzionale al risultato della domenica precedente”. 

La sua vita continua a essere “una emozione infinita”. Galliani ha messo in fila tutti i suoi ricordi e sì, in fondo, non c’è molto da cambiare: “Quando facciamo gol sento una botta al cuore, non riesco a frenarmi…”

Valerio Piccioni per gazzetta.it il 16 ottobre 2022.

"Le lacrimucce dopo la vittoria con la Juve? Scusate, mia mamma mi portava allo stadio a vedere il Monza quando avevo 5 anni. È stata ed è una storia d'amore infinita, qualche lacrimuccia è il minimo sindacale". Adriano Galliani è ispiratissimo, peraltro alla platea del Teatro Sociale di Trento racconta anche della vittoria vissuta lontano dallo stadio, nel Duomo di Monza "dove una signora anziana mi ha detto: 'Abbiamo battuto la Juventus!'". 

Lui era "scappato" dallo stadio. Poi sarebbe arrivata una pioggia di complimenti. "Anche quelli di Ancelotti. Con Carletto ci sentiamo spesso, doveva giocare con l'Atletico e gli ho detto se era preoccupato. E lui: no, ero preoccupato per Monza-Juve...".

Galliani è un viaggio straripante in mezzo a tanti anni di calcio e di Milan, ma l'attualità è sempre là. Scusi, chiede Luigi Garlando che lo intervista nella giornata inaugurale del Festival dello Sport, ma è vero che avreste potuto prendere Icardi al Monza? "No, non c'è mai stata questa possibilità. Il presidente Berlusconi spingeva intensissimamente per Dybala, ho parlato con il procuratore ma il giocatore voleva una squadra di un nome diverso da quello del Monza".

Galliani è una miriade di storie e personaggi del mercato del calcio. Quella dell'amministratore delegato del Monza è una raffica di dietro le quinte. Si scopre così che Florentino Perez aveva offerto 110 miliardi di lire per portare Shevchenko al Real Madrid e il no di Berlusconi lo dirottò a Torino per acquistare Zidane. E poi Roberto Baggio, "che al Milan sarebbe potuto venire cinque anni prima, nel '90. Avevamo il contratto firmato, facemmo un beau geste, ma il rimpianto resta". Un'altra icona: Kakà. "L'ultimo pallone d'oro di un calciatore del campionato italiano.

Su di lui voglio solo ricordare la telefonata, unica al mondo, di Rui Costa. A 15 giorni dall'arrivo del nuovo compagno mi chiamò e mi disse: 'Mi dispiace ma devo andar via. Kakà è troppo più forte di me'". Galliani confessa invece un desiderio: "Ronaldinho lo picchierei. Con il suo talento avrebbe potuto giocare fino a 60 anni se non fosse stato così... gaudente fra musica, gentil sesso e birre ghiacciate. Il più forte però è stato Van Basten". 

"È IL MILAN" —   Trentuno anni di Milan non si scordano. Ma perché Paolo Maldini è entrato in società solo quando siete andati via lei e Berlusconi? "Maldini è il Milan. Ho un grandissimo affetto per lui, gli ho offerto tutti i ruoli meno il mio e quello di Berlusconi. Lui ha sempre rifiutato ma forse è stato anche meglio, chissà, c'è un momento per tutte le cose".

ALLEGRI —   Basta ruotare un po' lo sguardo verso il campionato e arriva una domanda fuori casa: ma lei Allegri l'avrebbe cambiato con una squadra che gioca così male? "Voglio bene ad Allegri. Ma prima di tutto dico: guardate cos'ha vinto, non scherziamo. Io credo che certe volte il calcio sia ciclico: non è colpa di nessuno se la ruota non gira, in periodi diversi è successo anche al Real Madrid e al Manchester United. E ora succede alla Juve". 

Ma lo sa che fra un mese esatto c'è Milan-Monza? "La vedrò dal posto di sempre, non esulterò. Il Milan è sempre dentro di me, ma ora sono impegnato per il Monza 24 ore su 24. Anche perché nello spogliatoio ho fatto affiggere questa frase: 'Abbiamo impiegato 110 anni per arrivare in serie A, non possiamo retrocedere in 12 mesi'".

Galliani: «Nel ’79 Berlusconi mi diede un miliardo e mi cambiò la vita. Accettai sua figlia Barbara al Milan come un novello Garibaldi». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 18 Giugno 2022.

Braccio destro “sportivo” del Cavaliere e senatore, è «il più felice dei numeri 2, mi fa bene alla psiche e all’anima. Il presidente è unico e non potrà avere eredi politici, infatti il tentativo con Angelino Alfano andò male. La nostra vita insieme è stata come nel film Fuga per la vittoria»

Siamo nel cuore di Brera. La casa di Adriano Galliani è un museo del calcio. Un fiume di ricordi e aneddoti. Lui, classe ‘44, quasi saltella. Ancora non ha smaltito l’adrenalina: «Dopo 110 anni ho realizzato il sogno di mia madre Annamaria: portare il Monza in Serie A. E ho pianto a dirotto». Poi riavvolge il nastro e racconta l’istante in cui la sua vita cambiò per sempre: l’incontro con Silvio Berlusconi (e un miliardo delle vecchie lire). Senza contare la battaglia contro il Covid: «Sono vivo per miracolo. Ma non sono più lo stesso di prima, in meglio».

Chiuda gli occhi: il suo primo ricordo?

«A 5 anni mia mamma mi portò per la prima volta allo stadio: da bambino dicevo che da grande volevo fare il presidente del Monza, e così è stato. Ho imparato a leggere sulla Gazzetta dello Sport. Mia madre aveva una piccola azienda di trasporti. Aspettavo che gli autisti andassero in pausa pranzo: salivo sul camion, rubavo la Gazza e la leggevo tutta».

Lei è il più vincente dei numeri due. Si ritrova in questa definizione? 

«Assolutamente. Io ho avuto una grande fortuna nella mia vita: essere sì il numero due, ma di Silvio Berlusconi». 

Qual è stato il suo segreto per diventarlo?

«Ho grande empatia e grande ammirazione per il presidente. Fare il suo numero due è perfetto per la mia psiche e la mia anima».

Mi racconta il momento esatto in cui la sua vita è cambiata?

«Lo ricordo come fosse ora: 1 novembre 1979. Berlusconi mi invitò a cena ad Arcore. Mi chiese se con la mia Elettronica industriale, piccola azienda che portava in Italia il segnale delle televisioni straniere (Telemontecarlo e Tv Svizzera) fossi in grado di costruire tre reti nazionali.

Io dissi di sì. Lui mi rispose: “Bene, il prezzo lo faccia lei”. Pagò un miliardo delle vecchie lire per il 50% della mia azienda: la cifra non l’ho mai rivelata a nessuno. Aggiunsi, però, visto che ero comproprietario della squadra: “Io sono disponibile a lavorare giorno e notte per costruire le reti, ma devo poter seguire il Monza in casa e in trasferta”. Berlusconi mi guardò stralunato». 

 del lei?

«Il lei ha un senso. Mi ricordo una risposta di Cesare Romiti quando gli chiedevano perché desse del lei all’Avvocato: “Il lei non toglie intimità, ma dà più autonomia”». 

Poi avete vinto tutto con il Milan...

«Abbiamo vinto 29 trofei dei 48 totali del Milan, dal 1899. E adesso abbiamo vinto Serie C e B con il Monza».

Ora Berlusconi, dopo due anni di assenza tra Covid e problemi di salute, è tornato a Roma e annunciato una nuova discesa in campo. È come l’eterno ritorno di Nietzsche?

«Berlusconi, come tutti i grandi fondatori della storia, ha un circuito mentale diverso da tutti gli altri. Ha intuizioni e idee fuori dal comune. Lui ha fatto questa cosa perché ha sentito che il centrodestra ha bisogno di Forza Italia. È contro la destra-destra. Il presidente è generoso e quando sente una necessità si sacrifica e fa quello che serve». 

Dovesse paragonare questa vostra avventura a un film, quale sarebbe?

«Fuga per la vittoria, perché c’è tutto: politica, affetto, squadra. Ma anche Ogni maledetta domenica con Al Pacino».

A San Siro lei continua a esultare in modo incontenibile. Ma ci dica la verità: perché avete venduto il Milan? Siete pentiti?

«Questa è una domanda che va posta a Silvio Berlusconi. Io sono l’oggetto e non il soggetto. Io sono un uomo di sport e metto tutte le mie capacità al servizio di questo obiettivo. Ma le decisioni di comprare e vendere il Milan, come quella di acquistare il Monza, sono esclusivamente del presidente». 

La domanda più difficile. Monza Milan: ultima giornata del prossimo campionato. Come a Sassuolo quest’anno: i rossoneri si giocano lo scudetto. Giuri, per chi tiferebbe?

«Tiferei per la squadra che il quel momento avesse più bisogno di punti. Il Monza l’ho nel cuore da quando sono nato. Al Milan ho vissuto per 31 anni. È chiaro che sono due grandissimi amori». 

Come rubò al Parma Carlo Ancelotti? Cosa vide di così speciale nel suo ex giocatore poi diventato mister, che poi ha vinto 4 Champions League?

«Pensi che sono appena stato a Siviglia per il matrimonio di suo figlio. Nel 2001 stava andando da Calisto Tanzi per firmare con il Parma. Al Milan decidiamo di cambiare allenatore: chiamo Ancelotti. Mi disse: “Ho dato la parola a Tanzi”. La mattina dopo andai a casa di Carlo. Fu la prima volta in vita mia in cui facemmo colazione con lambrusco, culatello, salame e parmigiano. E lo convincemmo».

Il colpo di mercato di cui va più orgoglioso?

«Beh, dal Milan sono passati otto Palloni d’oro... Ma il giocatore più forte è di certo Marco Van Basten. Ariedo Braida capì che era un fenomeno. Andammo diverse volte ad Amsterdam a vederlo con Berlusconi: c’era anche suo padre Luigi. Ci accorgemmo che era un grandissimo. Mentre la cosa più simpatica fu Gullit. Agosto 1986, eravamo alle Bermuda. 

A un certo punto il presidente disse: “Stasera il Milan gioca a Barcellona un quadrangolare”. Prendemmo l’aereo e volammo là. Berlusconi, da uomo di spettacolo, notò subito questo gigante del Psv, con grande presenza scenica: con le trecce, di colore, faceva il difensore. Il presidente impazzì: “Dobbiamo prenderlo!”. Però nel 1986 non si potevano comprare giocatori stranieri. Un anno di corteggiamento e nel 1987 ci riuscimmo, dopo una lunghissima trattativa». 

Chi sarà l’erede di Berlusconi alla guida di Forza Italia?

«Silvio Berlusconi non può avere eredi. Perché è unico. Ma non è un problema di oggi: gli eventuali eredi possono attendere».

Perché non si è mai trovato un suo vero successore? Ci provò Angelino Alfano, ma finì male.

«È appunto impossibile fare il suo erede». 

Durante la nuova discesa in campo, Berlusconi ha rievocato il pericolo del comunismo. Ma davvero lei crede che in Italia ci sia ancora questo rischio?

«È un comunismo diverso, rappresentato dall’ideologia illiberale e di sinistra. Poi certo, non ci sono più Stalin e Berija. Quando conobbi Berlusconi mi parlava sempre di don Sturzo: lui è chiaramente un politico di centro. Senza di lui c’è solo la destra-destra».

Ma il presidente qualche errore l’avrà pur fatto, no?

«I suoi governi hanno fatto molto. Ma mediare tra due alleati così diversi come la Lega al Nord e Alleanza nazionale al Sud ha limitato molto l’azione riformatrice». 

C i racconti di quando fece arrabbiare il Cavaliere...

«Sicuramente (sorride, ndr ). Mi ricordo di quando Franco Tatò era amministratore delegato di Fininvest. Il gruppo era piuttosto indebitato e, prima della quotazione in Borsa, mise un grosso freno: tutti gli investimenti dovevano essere preventivamente approvati da lui. Mandò una lettera per dire: stop. Io quella sera comprai Marcel Desailly, 10 miliardi di lire, all’insaputa di tutti. Stetti nascosto per un po’ di giorni, perché avevo fatto l’operazione senza avvertire il presidente. Ma Boban si fece male e fu l’unico anno in cui vincemmo Campionato e Coppa dei Campioni». 

Berlusconi, però, fece di certo arrabbiare lei quando mise sua figlia a capo del Milan...

«Mi dimisi. Potevo andare in Cina. Berlusconi mi chiamò la sera ad Arcore e io gli dissi che un Milan a due teste era ingestibile. “Troverò una soluzione”, mediò. Era il giorno in cui Alfano lasciò Forza Italia. E Silvio mi disse: “Oggi se ne è andato Angelino, non puoi andartene anche tu”. Io risposi: “Obbedisco”, come un novello Garibaldi». 

Milano come è amministrata?

«Non rispondo, perché sono amico personale del sindaco Beppe Sala».

Le avevano proposto anche di candidarsi a sindaco. Perché ha rifiutato?

«È vero. Non l’ho fatto, perché io ho nel cuore il calcio. Mi porta via troppo tempo. E il sindaco di Milano è un impegno totale, giorno e notte». 

Gli esperti di calciomercato l’hanno ribattezzata il “Condor” per la sua visione e l’abilità nella scelta. Che politico ingaggerebbe da un altro partito?

«Io voglio molto bene a Pier Ferdinando Casini. Ma anche qui è il sentimento».

Alla fine le mancava solo il Parlamento. Ed è andato pure lì, in Senato.

«Berlusconi me lo proponeva dal 1994. Io ho sempre declinato. Nel 2018 era la prima estate senza calcio dopo decenni e quindi accettai. Ma non mi ricandiderò: Silvio ancora non lo sa, ma lo leggerà oggi da questa intervista». 

Ha rischiato seriamente la vita per il Covid.

«Ho avuto tanta paura. Non ero vaccinato, perché ancora non c’erano dosi a tappeto. Ho avuto la polmonite bilaterale. Mi ha salvato il professor Alberto Zangrillo, che non mi ha intubato. Avevo fino a 10 litri di ossigeno. Mi è passata tutta la vita davanti. Undici giorni in terapia intensiva. Uno spartiacque: non sono più l’Adriano di prima. Mi arrabbio molto meno. Sono cambiate le mie priorità, sono più sereno». 

Cosa c’è dopo la vita terrena?

«Spero che ci sia l’aldilà. Io ho fede. Sono magari poco osservante: non ho sempre rispettato tutti e 10 i Comandamenti».

Già, ha tre mogli...

«Credo che qualcuno ci giudicherà nell’aldilà. Ho fatto molti errori, ma credo di essere buono d’animo».

Cosa farà da grande?

«Questa sfida con il Monza, per citare un altro film, è The Last dance».

Stefano Arosio per “il Giornale” il 10 Giugno 2022.

Il segno l'aveva già lasciato nella primavera 1988, quando con il Monza conquistò la promozione in B e una Coppa Italia di serie C. Due stagioni dopo sarebbe tornato al Milan di Berlusconi e Galliani, che l'aveva formato nelle giovanili. In rossonero, 7 trofei, tra cui una Coppa dei Campioni e due Intercontinentali (una con gol). 

Fino al ritorno a Monza, la scorsa estate. Giovanni Stroppa, 33 anni dopo, quel segno l'ha trasformato in un solco: c'è stato un Monza prima di lui e uno che, 110 anni dopo la fondazione, ora si appresta a vivere la sua prima serie A. 

Mister, le attenzioni ora sono tutte al futuro. Facciamo però prima un passo indietro. Appena arrivato, le fu subito chiesta la A?

«Avvertii subito una grande considerazione. Il Monza arrivava da una semifinale playoff, era implicito che la volontà fosse quella». 

Un'idea della squadra se l'era già fatta? Seguiva il Monza?

«Seguivo i biancorossi in D e in C, venivo anche allo stadio. È una squadra a cui sono sempre stato affezionato, quando allenavo a Foggia o Crotone cercavo di andarla a seguire, quando mi era possibile». 

Saranno stati anche i suoi trascorsi, ma tra lei e la piazza s' è creata subito empatia. Lo ha avvertito?

«Certo. Qui ho amici, ma la stima penso che uno la conquisti nella vita. E io avevo vinto dei campionati e dato anche una sorta di garanzia di ciò che potevo esprimere. Alla fine, è il campo che decide».

E il campo le ha dato ragione...

«Le cose devono concatenarsi, non si vince con le figurine. Si diventa forti con il lavoro sul campo e il lavoro di tutti. Poi, naturalmente, con i giocatori. All'inizio ci sono state difficoltà oggettive, assenze importanti, allenatore nuovo, squadra da rimettere a posto: non era detto che potesse riuscire tutto bene». 

Se il Monza non fosse andato in A, lei sarebbe rimasto?

«Un mese fa Galliani mi ha chiamato dicendomi: Se non andiamo in A ti spacco le ossa, però sarai il nostro allenatore anche in B. Questo mi ha gratificato. Dentro di me ho sentito che avrei vinto comunque, per il percorso lavorativo compiuto e per la valorizzazione dei ragazzi». 

Eppure questo gruppo a volte ha lasciato presumere qualche difetto caratteriale. Mancanza di un leader in campo?

«Abbiamo avuto tre momenti topici: la costruzione della squadra senza giocatori importanti, con l'esigenza di far giocare chi non era pronto. Poi dicembre, quando avevamo raggiunto una consapevolezza tecnica ripagata dai risultati. Non c'era bisogno di un leader individuale, perché eravamo in grandissima fiducia. Infine è arrivato il Covid, che ci ha fermato per un mese e abbiamo dovuto ricominciare daccapo». 

Ma il discorso caratteriale?

«A volte abbiamo dimostrato qualche difficoltà. Ma abbiamo fatto anche grandi rimonte e siamo la squadra che fa più gol negli ultimi 15 minuti: questo è sinonimo di forza».

Proprio dopo il 4-1 a Frosinone, il sogno di A diretta è sembrato sfumare. È stato il momento più difficile, prima del ko di Perugia all'ultima?

«Sul volo di ritorno ero seduto accanto a Galliani. A un certo punto, si è alzato e ha radunato tutti sul fondo dell'aereo e ha detto chiaramente: Sta andando tutto bene. È stato un discorso di positività reale, perché eravamo in crescendo. Ci ha dato grande tranquillità». 

Questo è il passato, ma ora il futuro. Se il presidente Berlusconi dovesse regalarle qualche nome ingombrante, è pronto a gestirlo?

«Se è un nome che aiuta il gruppo a fare il salto di qualità, ben venga. Che ne arrivino anche due o tre. Conta solo la professionalità».

Berlusconi in stagione ha avuto parole di elogio per Colpani, che però poco dopo è andato un po' in calando. È stato il peso dell'investitura del patron?

«Io ho sempre cercato di stimolarlo a portare a casa i numeri: nessuno gli può togliere la bellezza estetica del suo modo di giocare, ma deve fare assist e gol». 

Di Gregorio (il portiere, ndr), invece, sembra avere recepito l'input del patron: niente costruzioni dal basso, meglio mandare la palla verso gli attaccanti...

«Il presidente a volte viene a parlarmi. Mettere la palla lunga non significa buttarla via, tant' è che dopo Alessandria mi disse che avremmo dovuto cercare di più il fraseggio. Il concetto è che se la difesa ti concede l'uno contro uno e quando una squadra ti pressa alta è normale che sia così hai possibilità di fare male verticalizzando». 

Il Monza del prossimo anno che squadra sarà?

«Una base bisogna tenerla, poi non so cosa succederà».

Da ilnapolista.it il 31 maggio 2022.

Il Giornale intervista Silvio Berlusconi, appena promosso in Serie A con il suo Monza. Racconta l’atmosfera che c’era allo stadio, domenica sera, contro il Pisa.

«Lo stadio era una bolgia e per i ragazzi in campo era molto difficile concentrarsi. Ogni volta che ci veniva fischiato un nostro fallo avevamo tutto lo stadio contro, diventava una bolgia… Metteva paura». 

Lui, però, prima del fischio di inizio, li aveva indottrinati a dovere.

«Negli spogliatoi, prima della partita, i ragazzi mi si erano tutti radunati attorno. Gli ho parlato a lungo, guardandoli in faccia uno ad uno, gli ho detto che dovevano essere dei guerrieri, dei gladiatori e gli ho detto che dovevano lottare su ogni palla, resistere anche all’attacco più duro, che dovevano essere sicuri della loro vittoria, che dovevano avere il fuoco negli occhi. Che avevano il dovere, anzi l’obbligo, di vincere. E così è stato».

Ha dato loro consigli di gioco. Ha un preciso concetto in testa: palla avanti agli attaccanti per andare a segnare.

«Tutto previsto. Ho detto a tutti loro: dovete mandare la palla dall’altra parte del campo velocemente, alle punte, e i gol sono arrivati con questa tattica. 

Ho anche spiegato più volte ai ragazzi che le punte devono restare sempre davanti, nella metà campo avversaria, anche sui calci d’angolo nella nostra area, perché così costringono i difensori avversari a stare lì, impedendogli di venire a dare manforte in attacco. E poi perché il portiere quando agguanta la palla, deve raggiungerli con un forte rinvio, in modo che possano trovarsi con la palla al piede, soli davanti al portiere avversario».

Basta con l’inutile perdita di tempo della costruzione dal basso.

«È molto semplice, i gol si fanno dall’altra parte del campo, per cui io questa tattica tanto in voga con la palla dal portiere al terzino, che la passa al mediano, che poi la ripassa al terzino, e il terzino ancora al suo portiere… È tutto tempo buttato via». 

Dopo la promozione ha parlato di scudetto e Champions come prossimi obiettivi.

«Sì, ma era chiaro, anche per il mio sorriso, che si trattava di una battuta… Però, vedremo. Resto pur sempre il Presidente di club che ha vinto di più nella storia del calcio mondiale».

Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2022.

«Sembrerà paradossale, dopo che le mie esultanze smodate in tribuna hanno fatto il giro del mondo in questi anni. Ma a Pisa, quando l'arbitro Mariani ha fischiato la fine dopo 120 minuti, il presidente Berlusconi che, in genere è composto, festeggiava e io invece non ho neanche alzato le braccia. Sono rimasto immobile e semplicemente ho pianto». 

Adriano Galliani, lo Squalo per gli avversari, il Condor per gli esperti di calciomercato, il Boss per i milanisti perde ogni traccia di ferocia quando si parla del Monza. La promozione in A dopo 110 anni di storia assume per l'ad del club brianzolo una connotazione emotiva più che professionale. 

Dopo aver vinto trofei di ogni genere, che significato ha portare il Monza nell'élite del calcio italiano?

«Dal punto di vista sentimentale è un'impresa senza confronti. Guardi che ho ben chiara la differenza che corre fra sollevare una Champions o essere promossi ma quando nell'89 conquistammo a Barcellona la "nostra" prima Coppa dei Campioni, per il Milan era comunque la terza della sua storia. Il Monza invece non era mai riuscito a tagliare questo traguardo: domenica notte ho realizzato che forse sono l'unico dirigente in circolazione ad aver ottenuto successi in ogni campionato, salendo tutti i gradini. Lega Pro, serie B, A, Europa con le Champions e nel mondo con l'Intercontinentale». 

A chi dedica il risultato?

«Alla mia mamma, Annamaria, che mi ha trasmesso la passione per questa squadra, portandomi al vecchio Sada da bambino e che ho perso quando avevo quindici anni.

A lei ho pensato quando la partita è finita: la promozione in A è un modo per onorare la sua memoria. E poi ovviamente non posso che dare merito a Silvio Berlusconi, sa perché?». 

Lo immagino, ma mi dica.

«Solo grazie al presidente e a questa proprietà, l'obiettivo è stato raggiunto, ci tengo a sottolinearlo. Da dirigente o co-proprietario del Monza avevo già sfiorato la A cinque volte, prima di quest' anno. Domenica fino al 90' con il risultato di 2-2 eravamo qualificati, poi allo scadere dei tempi regolamentari Mastinu ha segnato la rete del provvisorio vantaggio del Pisa. Io ero negli spogliatoi, perché a metà ripresa non reggevo più la pressione. Mi sono detto: "Ha ragione Renato Pozzetto anche stavolta, dovrò tentare l'ascesa per la settima volta"». 

Come ha celebrato il trionfo domenica sera?

«Sono tornato a Milano in aereo con il presidente. Poi, però, invece di tornare a casa, prima sono passato dallo stadio dove i led luminosi accesi a forma di A mi hanno fatto emozionare. Quindi sono andato a Villa Gernetto ad aspettare i giocatori: alle 5 del mattino mangiavo l'amatriciana con la squadra».

Il primo commento del presidente?

«Era contento, ma non mi ricordo. Ero fuori di testa, ho chiesto a Fininvest se nella copertura delle spese mediche sono previste le visite psichiatriche. Anche quando ero in terapia intensiva con il 50% di possibilità di non farcela pensavo al Monza. Questo sono io» . 

Come è riuscito a rendere Silvio tifoso del Monza?

«Guardi che prima dell'acquisizione nel settembre del 2018 gli avevano offerto di comprare mille club. Ha scelto il Monza, che peraltro è a sette minuti da casa sua».

Ora Silvio Berlusconi ha indicato lo scudetto e la qualificazione alla prossima Champions come obiettivi. 

Ambizione o responsabilità?

«Ma no, la vittoria in campionato è un amusement, un divertimento. Arrivare primi in serie A è tanta roba, pensiamo a fare la nostra scalata, a giocare la nostra stagione al meglio possibile, magari qualificandoci a una coppa europea».

Dal fischio finale della partita di Pisa ad adesso sono già stati accostati al Monza Belotti, Sensi e Messias. Cosa c'è di vero?

«Pensi se con la mia scaramanzia, con gli spareggi playoff ancora da disputare, mi azzardo a contattare giocatori di serie A. Prima di domenica mi avevano chiamato mille agenti e a tutti ho risposto che finché non fosse chiaro in quale campionato avremmo giocato il prossimo anno non avrei preso impegni. 

Peraltro nei trecento messaggi circa, ancora senza risposta, che ho sul telefono sa qual è la categoria più presente? Quella dei procuratori, da Jorge Mendes in giù». 

Stroppa è confermato?

«Certo e lo sarebbe stato anche se fossimo rimasti in B. Quando l'ho portato ad Arcore dal presidente lo scorso anno, Berlusconi mi chiese: perché lui? Perché fa giocare bene le squadre, ho risposto».

Affrontare il Milan che sentimenti le suscita?

«Felicità, orgoglio anche per la città e per la provincia di Monza e Brianza. Non tutti si rendono conto che nel 2017 da queste parti si festeggiava lo spareggio con il Seregno per andare dalla serie D in Lega Pro. Altro che Champions, questa è una vera impresa». 

I critici sottolineano che per realizzare il miracolo sportivo lo sforzo economico della proprietà, comprensivo di investimenti per le infrastrutture, in quattro anni non è stato irrilevante: 71,7 milioni di euro.

«Non mi piace parlare di soldi, dovrebbe chiedere a Fininvest. Non sta a me sottolineare se ne sia valsa la pena o no. In generale tutti i manager del gruppo mi sono sembrati euforici per il risultato». Appuntamento alle 18 allo stadio: il pullman scoperto dopo il giro per la città approderà all'UPower stadium dove alle 20, alla presenza del presidente Berlusconi, avverrà la cerimonia di premiazione. Silvio&Adriano are back.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 9 giugno 2022. 

«Quante cose ho capito…»  

Quali, Galliani? 

«Il 13 aprile del 2017 finisce la mia avventura al Milan e il telefonino si trasforma nello specchio di un mondo, di un modo. Adriano Galliani, che fino a quel momento era alto, bello e con gli occhi azzurri - ha presente Brad Pitt? - diventa improvvisamente, e rapidamente, Calimero. 

La frequenza delle chiamate si riduce in modo esponenziale, riprende soltanto il 28 settembre 2018 quando Silvio Berlusconi acquista il Monza. Cento telefonate in C, 200 in B, qualcuna in più nella stagione in cui sfioriamo la serie A».

E dal 29 maggio scorso?  

«Dalle 23 e 15 del 29 maggio 2022, terminata la partita col Pisa, assisto a un’autentica esplosione di... affetto. I messaggi che ricevo su whatsapp sono oltre mille e duecento. Ho impiegato una settimana per rispondere a tutti. Chi mi poneva domande, chi inseguiva un incontro, chi domandava altro, chi si proponeva: non potevo risolverla con un grazie e a presto oppure con un cuore rosso e uno bianco, i colori del cuore».   

Considerate la crisi in cui versa il nostro calcio e le necessità del settore, immagino che adesso - per bellezza riacquistata - stia superando anche l’attore americano.  

«Oggi sono un misto tra Paul Newman, Richard Gere, Marlon Brando e Brad».  

In effetti il calcio italiano si augurava la promozione del Monza proprio perché convinto che avreste messo di nuovo in circolo decine di milioni. Del resto proprio lei si definisce «spendaccione» .  

«Ho contato 165 messaggi di procuratori. Li ho segnati tutti con l’asterisco».   

Due giorni fa si è ripresentato in Lega. Come l’ha trovata? Come nel 2017 o, nel frattempo, si erano venduti anche le sedie?  

«Non hanno venduto proprio nulla».   

In tutti i sensi, aggiungo.  

«Ho visto qualche faccia nuova e altre che conoscevo da decenni. Mi sono presentato così: “sono il giovane dirigente di una società neopromossa e sono qui per imparare”, suscitando qualche risata. Ho detto due parole in tutto perché i temi all’ordine del giorno erano relativi alla stagione ‘21-’22. Si è parlato anche della prossima, chiaro, in particolare della vendita dei diritti esteri».   

Un disastro: se va avanti così la Premier si pappa l’intera torta. Mi risulta che in 50 Paesi su 55 i diritti del calcio inglese costino più di quelli del campionato nazionale.  

«I vertici della Lega vivono questa situazione come un problema, un enorme problema. Sui domestici siamo messi bene, ma sugli esteri si è verificato un tracollo. Adesso la Lega ha aperto un paio di sedi fuori dall’Italia, l’intenzione è quella di rilanciare il campionato. Anche la Liga, non solo la Premier, rappresenta una concorrenza temibile».   

Come si spiega l’interessamento dei fondi americani?  

«I nostri club sono asset che si comprano con poco, o a molto meno che altrove, e il loro valore può aumentare in modo considerevole. Il Chelsea è stato appena acquistato per 4 miliardi di sterline, mentre il nostro club più prestigioso, il Milan, per un miliardo e due. Quindici anni fa il valore di una realtà dei principali sport americani - basket, hockey, baseball, football - era di 500 milioni, oggi può arrivare a 3 miliardi di dollari. Ma mi faccia tornare alla storia straordinaria».   

Prego.  

«Quando mi chiedono se è stato più difficile vincere la Champions col Milan o ottenere la promozione in A col Monza, rispondo la seconda, assolutamente. Il Milan che Berlusconi acquistò nell’86 era un top club che aveva vinto due coppe dei campioni, nel ‘63 e nel ’69, e dieci scudetti. Il titolo era ossidato, per le ragioni che sappiamo, ma il club aveva una tradizione, incarnava dei valori anche culturali. 

Berlusconi e Galliani l’hanno portato a 7 coppe dei campioni e 18 scudetti partendo da una base, da un prestigio consolidato. Il Monza, nato nel settembre del 1912, la A l’aveva soltanto sfiorata, aveva conosciuto il fallimento ed era ripartito dalla D come Domodossola. Lo stadio nel 2018 era inagibile, il centro sportivo praticamente inesistente. Soltanto il primo luglio del 2017 era tornato in C e avrebbe dovuto giocare a Gorgonzola, ospite del Giana».  

La sento carico come mai. 

«Il nostro è stato il cammino laico di Santiago di Compostela, che mi pare sia lungo 800 chilometri».  

Per la precisione 781. 

«Sono l’unico ad della storia ad aver vinto C, B, A, Champions e Mondiale per club, il mio amico Florentino non può dire altrettanto».   

Non penso che gli dispiaccia.  

(Sorride). «Monza è una delle province più ricche d’Italia, ha 800mila abitanti e 75mila imprese, considero impresa anche una partita Iva. L’anno scorso le aziende monzesi hanno esportato per oltre 10 miliardi di euro. Malgrado questi numeri, fino al 29 maggio Monza era l’unica provincia lombarda mai presente in serie A. C’è riuscito il “binomio”, metta sempre prima Berlusconi, poi Galliani. Due brianzoli, uno acquisito nel ‘70, l’altro original...Monza ha un fascino particolare che le deriva dall’autodromo, la A aumenterà certamente indotto, attenzione, luce».   

Mi hanno raccontato che in Lega ha subito battezzato il presidente della Salernitana Iervolino.  

«In che senso?».   

Gli ha detto che nel calcio i soldi non si investono: si spendono.  

«Ho ricordato che il calcio è un’azienda che non distribuisce dividendi ogni anno. Soltanto se si fanno le cose benone garantisce profitti, ma solo al momento della cessione».   

Il sogno grande l’ha realizzato. Adesso a cosa punta?  

«A far parte stabilmente del lato sinistro della classifica, ci si riesce soltanto attraverso una crescita complessiva. Penso a Atalanta, Sassuolo, Verona. A settembre il Monza avrà speso 20 milioni per migliorare l’impiantistica, le strutture, ovviamente partendo dal 2018. 

Due sono gli step per lo stadio: il primo, l’apertura della tribuna est, che avverrà in agosto per l’esordio in coppa Italia, e porterà la capienza a 16mila posti. Il secondo la stagione seguente: ispirandoci al modello Dacia Arena di Udine, vogliamo arrivare a 25mila anche attraverso la copertura a C delle due curve e della tribuna est. Monzello, che presto si chiamerà Centro Luigi Berlusconi, in onore del padre del presidente, ha 7 campi e ospita tutte e 15 le nostre squadre». 

In Fininvest temono che spendiate troppo per il Monza?  

«Scriva così: “lo duca mio” è Silvio Berlusconi che non è felice di questa promozione, ma felicissimo. Come lo sono i suoi figli. Abbiamo fatto qualcosa di leggendario. Che sottolineeremo materialmente. Il primo settembre, in concomitanza con i 110 anni, pubblicheremo un libro che riassumerà la storia del club e lo stadio ospiterà presto il museo del Monza.

La tribuna principale dell’U-Power, su tre livelli, ha una superficie di 3mila metri quadri e offre decine di opportunità. Naturalmente dovremo adeguare anche l’impianto d’illuminazione. L’altro giorno ho chiamato il proprietario della Fael, che abita in centro a Monza, e gli ho spiegato che se entro agosto non completerà i lavori si troverà sotto casa mille ultrà della curva Davide Pieri».   

Il sistema Galliani.  

«Funziona. Mi ha garantito che rispetterà i tempi. Riflettevo su una cosa: l’11 settembre ci sarà il gran premio di F.1 e in quella data noi dovremo andare per forza in trasferta, questo significa che giocheremo in casa la prima, la terza e la quinta. La serie A ci troverà pronti».   

Lei è un esperto di diritti televisivi. Si dice che nell’ultimo campionato si sia registrato un notevole calo degli ascolti.  

«Si deve arrivare a un sistema di rilevamento più completo, che tenga conto dei locali pubblici e delle seconde case. Inoltre è necessario ampliare l’offerta a più piattaforme, il calcio deve essere fruibile da tutti i device».   

Intitolerete una porzione dello stadio al mitico Guido Mazzetti, quello del “chi vince è un bravo ragazzo, chi perde una testa…”?  

«Mazzetti il mio Virgilio, mi ha accompagnato all’inferno, poi al purgatorio, infine in paradiso».  

Ha già stabilito un budget per la A? E ricorda quanti giocatori le sono serviti per raggiungerla?  

«Il budget lo farò in questi giorni, mi aspetta una full immersion estiva che non prevede weekend ma solo week. Cambieremo tanto, come abbiamo sempre fatto, per adeguare la rosa alla categoria. Le regole sono chiare: 17 giocatori, tre dei quali extracomunitari, più quattro italiani e quattro provenienti dal settore giovanile. Avendo una storia così frammentata, l’unico ex praticabile è verosimilmente Pessina, Matteo, al quale voglio bene. Ma non mi sembra un acquisto realizzabile. Le altre squadre avranno 25 in rosa, noi obbligatoriamente 21 più tanti over 2000. Punteremo comunque sui giovani, non sui nomi che leggo in questi giorni».   

Trascorrerà altre domeniche con, anzi contro Allegri, Mourinho, Spalletti, Agnelli, De Laurentiis, Lotito…  

«Max è un fratello, Mou un’icona, un vincente, ha la storia dentro. Sarà bello confrontarsi con Juve, Inter, Milan, Napoli, Roma». 

 Proverà a ridurre la conflittualità tra Federcalcio e Lega? 

«Non mi faccia uscire come il professore che arriva e insegnare agli altri come si sta al mondo, la prego». 

«Chi ci crede combatte. Chi ci crede supera tutti gli ostacoli. Chi ci crede vince»...  

«Uno dei claim del presidente. Provarci sempre. Il calcio mi ha insegnato una cosa: vince la storia. Il Monza è un’eccezione: devo dire che dopo la sconfitta di Perugia ho temuto che non ce l’avremmo fatta proprio per via della storia che mancava. Napoleone disse che “per essere dei grandi leader è necessario diventare studiosi del successo e il miglior modo che conosco è quello di conoscere la storia e la biografia degli uomini che già hanno avuto successo”».  

Berlusconi va per gli 86, lei per i settantotto. E ancora sognate.  

«Io sono nato il 30 luglio del ’44, e non aggiungo altro. Anzi, una cosa la aggiungo. Una frase che mi piace tanto: in un sogno non si ha mai ottanta anni». 

IL MILAN.

Maradona? No, Weah: quel disarmante coast to coast contro il Verona. L’attaccante liberiano accese i propulsori dalla sua area di rigore, dribblò tutti e depositò in rete. Paolo Lazzari il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Soltanto un mese prima ne sono successe di ogni. I Ramones hanno annunciato che si scioglieranno e il commiato avverrà con un concerto a Los Angeles. Per non restare indietro, la Nasa ha estratto dal cilindro una notiziuccia fragorosa: in pratica il meteorite ALH84001, precipitante da Marte, potrebbe contenere tracce di vita aliena. Replicano dalla vecchia Europa: Diana Spencer e Carlo, Principe del Galles, annunciano il divorzio ufficiale. Se sembra tanta roba, è solo perché non sei in tribuna a San Siro l’8 settembre 1996.

Prima di campionato. Il Milan orfano di Fabio Capello dopo un lustro galattico. In panca svetta il gentiluomo Oscar Tabarez: come diluire il Sassicaia con l’acqua di rubinetto. Lo spogliatoio è una cricca di primi violini, lui approccia morbido e quelli se lo divorano. Il 2 dicembre riceverà una lettera di benservito che inaugurerà il Sacchi bis, ma sarà una minestra riscaldata impossibile da deglutire: Diavolo penosamente undicesimo quando la Serie A abbassa il bandone.

Quel giorno però i rossoneri partono con una prestazione prodigiosa. C’è il neo promosso Verona di Gigino Cagni davanti, ma si sbriciola in fretta. Ospiti fortuitamente in vantaggio, poi sotterrati da una performance dilagante del Milan: alla fine il tabellone luminoso pompa un inequivocabile 4-1. Ma c’è qualcosa di ancora più iridescente che irrora questo altrimenti dimenticabile pomeriggio settembrino. Tra la doppietta di Simone e il gol di Baggio si infila l’acuto prolungato di George Weah. Quando avrà finito, San Siro vibrerà a tal punto da necessitare di un condono edilizio.

Minuto ottantasette. Calcio d’angolo sciagurato del Verona. Traiettoria talmente ampia da sorvolare il crocchio di teste in area. Aggancia al volo Weah. Mette giù, alza la testa e sceglie la soluzione più congeniale al suo corredo genetico felino: parte dritto in progressione. Fateci caso: lo strappo è talmente prepotente che solo con quello sibila in mezzo a due giocatori del Verona. Viaggia talmente più veloce che non tentano nemmeno di contendergli la sfera. Non può essere però una discesa libera.

All’altezza del cerchio di centrocampo incontra un nugolo di avversari. Gli saltano addosso in tre: Vanoli, Colucci e Caverzan. Per un istante sembrano quasi in grado di strappargli il pallone, ma George riaffiora vittorioso dal duello impari, con una veronica ed un mezzo rimpallo. C’è un accenno di fallo, ma l’arbitro applica il vantaggio. Adesso davanti c’è solo Corini: tessitore quando la palla ce l’ha lui tra i piedi, plantigradico se si tratta di sprintare e addentare. Il motore di Weah gira talmente più forte che lo gratta via dal campo. Portiere in uscita, ultima staccionata che si antepone alla zaffata di gloria. George sceglie di non saltarlo e lo trafigge con glaciale precisione.

Roba da scomodare il sigillo di Diego Armando Maradona a Messico ’86. El Pibe de oro giocava un Mondiale ed i suoi oppositori erano tenaci argentini. George però è partito direttamente da casa con la palla sfrigolante tra gli scarpini, protuberanza inafferrabile per la tramortita retroguardia scaligera. Imparagonabili, sicuro, ma l'assolo del liberiano è un estratto di forza, classe e precisione che si candida, almeno, ad essere cugino di secondo grado.

Resterà uno zaffiro lucente, estratto dal mucchio di disgrazie sportive di una stagione infima. Rock, reale e alieno: tutto nel tempo di dieci secondi.

Dagospia il 26 ottobre 2022. Da I Lunatici – radio2.it

Arrigo Sacchi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e trenta circa. 

L'ex tecnico del Milan e della Nazionale ha raccontato: "Come sto? Mentalmente bene, fisicamente un po' meno, ho avuto un incidente un mese e mezzo fa ed ho una spalla che mi duole. Spero in via di guarigione. Il calcio moderno? Si gioca troppo, ma lo si fa perché quasi tutti i club sono in rosso. Questo peggiora la qualità del gioco e aumenta gli incidenti. Il calcio italiano in tutto questo ha puntato molto sui soldi e poco sulle idee. In più, purtroppo, la nostra storia, la nostra cultura, non aiutano il calcio. 

Il calcio è lo specchio della storia e della cultura di un Paese. La nostra storia dopo gli antichi romani è sempre stata non brillantissima. Interpretiamo il calcio come un gioco individuale e difensivo. Padri fondatori lo avevano pensato come un gioco di squadra e offensivo. 

Le parole di Cassano sul Napoli di Maradona? Non è possibile vincere da soli. Lui è stato un grandissimo giocatore. Ma io dopo tre anni che ero al Milan dissi che Colombo in tre anni aveva vinto più di Maradona in sei anni al Napoli. Per vincere serve il supporto del club. Il club viene prima della squadra. E la squadra viene prima di ogni singolo. Uno per uno fa sempre e solo uno. Uno per dieci fa dieci. Se il Milan di Berlusconi provò mai a prendere Maradona? Io non volevo giocatori già affermati. Gli anni in cui ci sono stato io facevo spendere pochi soldi". 

Sacchi è un fiume in piena: "Tante squadre in Serie A sono indebitate. Noi l'ultima volta che siamo andati all'attacco con successo è stato con i romani, 2000 anni fa. Il calcio è lo specchio della società. Facciamo poco che vada oltre il nostro modo di pensare. Pensiamo che le conoscenze valgano più della conoscenza. Che le emozioni, la bellezza, non siano elementi importanti. Che la cultura e le innovazioni non siano da perseguire. Cerchiamo di vincere come viviamo.

Siamo fortissimi nei tatticismi, debolissimi nella strategia. Siamo ignoranti, questa è la realtà. Abbiamo paura del futuro. Cerchiamo di fare e dire le stesse cose che facevamo negli anni '60 e '70. Ma che roba è? Per questo a livello internazionale vinciamo pochissimo. Io ho fatto cose semplicissime nel calcio, ma fare le cose semplici in questo Paese è già rivoluzionario. Ho pensato che è meglio essere ottimisti che pessimisti. Che prendere le scorciatoie non andasse bene. Oggi addirittura c'è chi dice che per fare gli allenatori bisogna aver giocato in Serie A o in Serie B. Allora io non avrei potuto allenare, Sarri non potrebbe allenare oggi. Quando le regole non sono uguali per tutti vuol dire che ci sono i privilegi. Ma se un dentista o un avvocato ha una passione per il calcio, perché non può diventare allenatore?".

Sul Napoli di oggi: "Prima di tutto per avere successo conta il club, con la sua storia, le sue visioni, la sua competenza e il suo stile. Il Napoli oggi è il collettivo migliore. Durerà? Non lo so. C'è il pericolo della precarietà della vittoria". 

Chi prenderebbe tra Kvara o Leao: "Chi è più forte tra i due? Dipende da come giocano le due squadre. Noi come allenatori, la stampa, le televisioni, non abbiamo ancora neanche definito che cosa sia il calcio per noi italiani. In Spagna il calcio è uno spettacolo sportivo. Senza bellezza, merito ed emozioni puoi vincere una partita, ma non ti applaudono. Allenavo l'Atletico Madrid, battemmo la prima in classifica in 9 contro 11, giocando male. La vittoria non fu apprezzata. In Italia invece sarebbe stata considerata una impresa leggendaria".

Sul pallone d'oro a Benzema: "E' stato uno dei grandi protagonisti dell'annata. Ed è stato grande il Real Madrid a vincere inaspettatamente la Champions".  

Sul periodo al Milan: "Quando arrivai a Milano guardavo che anche le persone anziane camminavano velocemente. Pensai 'questi il pressing ce l'hanno già nel DNA, basta insegnarglielo'. Presi Ancelotti dopo che il nostro medico appurò che aveva il 20 percento del ginocchio sinistro che non funzionava bene. Dissi a Berlusconi che se me lo avesse preso avremmo vinto il campionato. E così fu. Eravamo un gruppo di persone mature, non c'erano individualismi, gelosie".  

Sul 'cul de sac': "Se mi dava fastidio quando dicevano che ero fortunato?  Non mi dava fastidio. Capivo che l'invidia è una brutta cosa. Comunque, se devo essere sfortunato è meglio essere fortunato. La fortuna non esiste. Esiste l'opportunità che arriva alla persona preparata. Sono arrivato al Milan perché l'ho incontrato tre volte vincendo due volte a San Siro consecutivamente. Io ho vinto il campionato con il Parma, dalla C sono andato in B. 

Sorteggio di Coppa Italia, si va a Milano  col Milan che presenta cinque acquisti, tutti nazionali, e vinciamo 1 a 0. E' fortuna questa? Viene Berlusconi e mi dice che mi avrebbe seguito. Più avanti nel torneo abbiamo affrontato di nuovo il Milan a San Siro. Siamo andati a Milano e abbiamo vinto ancora. Il giorno dopo mi ha chiamato il Milan e mi hanno invitato ad Arcore. Parlammo fino alle 2, io il venerdì successivo mi sarei dovuto incontrare con la Fiorentina, io dissi che non avrei rimandato questo impegno, avrei fatto una brutta figura. 

Berlusconi insistette, ma io non me la sentivo di tradire la parola data alla Fiorentina. Pensavo fosse finita lì la cosa. La sera quando sono tornato dagli allenamenti mi aveva richiamato il Milan, per farmi firmare la sera successiva. Firmai un contratto in bianco. Dissi a loro di mettere la cifra. E quel birbante di Galliani mi mise meno di quanto prendevo al Parma".

Dejan Savicevic, un illusionista seriale al Milan. Irascibile e abbagliante, inizialmente snobbato da Capello, eppure pupillo di Berlusconi: un illusionista seriale al Milan. Paolo Lazzari il 22 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Vladimir ha le corde vocali che supplicano per una pausa. Comunque strillare serve a poco. Si sporge dalla sala macchine della locomotiva per indovinare la sagoma del figlio che fluttua sui binari. Non è davvero in pericolo. Non lo è mai stato. Solo che a Dejan piace così: le rotaie che iniziano a tintinnare gli passano un brivido gelido lungo il solco della schiena. D’un tratto si sente vivo. La sfida è raccolta e vinta, perché scansa sempre i treni che penetrano come un soufflé la stazione di Titograd. Quasi un gigantesco dribbling. A volte sogna di agganciarsi, di salire al volo, per spingere via la fregatura di essere nato lì.

Vladimir di cognome fa Savicevic. È un capo stazione rispettato e temuto. Da solo orchestra almeno novecento uomini. L’unico che si rifiuta di prestargli ascolto è quel ragazzino gracile e sfrontato, una nuvola di capelli arricciati a coronare l’espressione perennemente insolente. “Forse ha bisogno di trovare uno sfogo. Mandiamolo a fare sport”, suggerisce la mamma. Dejan prova con il karate: se la cava, ma non se lo sente addosso. Quando invece inizia a passarsi un pallone tra i piedi le cose prendono una piega diversa. Ammansisce naturalmente i passaggi più velenosi. Intravede pertugi dove tutti girano al largo. Concepisce gol di una fattura quasi impudente.

Savicevic junior è un treno di finte e acrobazie pallonare destinato a partire presto. La prima destinazione più fulgida è la Stella Rossa di Belgrado, enclave del talento serbo più scintillante. Lui a brillare ci mette pochissimo, al punto che i giornali lo inquadrano subito come “La stella della Stella”. Segna il giusto, ma fa solo gol incantevoli. Distribuisce assist a manovella e regola la temperatura delle partite, che inizia a vincere da solo, piegandole ai ritmi imposti dalla sua straripante volontà.

In Italia ce ne accorgiamo per la prima volta il 31 marzo 1988 quando a Spalato, contro la nazionale che fa debuttare Paolo Maldini, Dejan risulta di due spanne il migliore in campo. All’epoca ha soltanto 22 anni e un futuro radioso che si srotola al suo cospetto. Lo addenta – e per sua fortuna riesce a trangugiarlo – anche il Milan. Giovanni Galli gli para un calcio di rigore e i rossoneri accompagnano la Stella Rossa nel parcheggio della coppa dalle grandi orecchie, quella che solleveranno contro la Steaua. Dejan vince la sua a Bari, nel 1991: successo ai rigori contro il Marsiglia. In patria di lui scrivono: “è il Platini dei Balcani”.

Seduto nel suo studio, un imprenditore milanese che sta per scendere in politica fa scorrere il nastro della Vhs che gli hanno consegnato a ritroso e in avanti, irrimediabilmente sedotto dall’estro di quel talento. Poi alza la cornetta, compone il numero giusto e dispone: “Voglio questo Savicevic, è una mia scelta”. E Dejan arriva, strappato alla potente concorrenza degli Agnelli. È l’estate del 1992 e lui è stato persuaso dal fatto che Gullit e Boban siano con le valigie pronte. Ci sarà spazio fin da subito per esprimere le sue qualità.

Invece nemmeno per idea. Quando guadagna il suo armadietto a Milanello scopre che la concorrenza interna è tutt’altro che evaporata. Davanti a lui ci sono Van Basten, Gullit, Rijkaard, il nuovo arrivato Papin – che gli ha strappato impunemente il pallone d’oro un anno prima – e anche Zorro Boban. Capello dapprima lo scruta perplesso, poi lo confina sulle fasce, invertendolo spesso, senza sortire i risultati desiderati. Savicevic scivola presto in panca, il luogo fisico che detesta da sempre con ogni fibra del suo corpo. Il suo vangelo è infatti monotematico: giocare, giocare, giocare. Quando non succede diventa subito un arnese difficilmente maneggiabile, un concentrato di irascibilità che si scaglia contro l’allenatore di turno. Al c.t. Osim, in nazionale, ad esempio dice: “Io in panchina? Nemmeno per idea. Vacci tu che sei abituato”.

È un primo anno terribile. Dejan finisce presto ai margini, relegato nelle retrovie del pensiero di Don Fabio. La sua atomica stoffa viene diluita, ma non svanisce. Rimane nell’aria, destinata ad agganciare una corrente ascensionale. Come uno di quei treni su cui fantasticava di salire in corsa. Il vortice lo innesca l’impatto tra due correnti contrarie. Silvio Berlusconi resta persuaso della sua scelta: Savicevic è un fenomeno, deve solo trovare l’ecosistema ideale per dimostrarlo. Capello scuote la testa, ma il Cavaliere non demorde: “Guardalo, ti fa sobbalzare sul divano ogni volta che tocca palla”.

Il tifo rossonero intanto mugugna: “Ma quale genio, questo è un bidone colossale”. Lui, oppresso da un’esperienza tramortente, chiede di essere ceduto. Nulla da fare, deve restare. Ordini del Cav. Qui il destino inizia ad annodarsi seguendo un filo diverso. La fortuna viene in soccorso del talento. Con Rijkaard che torna all’Ajax e Gullit ceduto alla Samp si aprono spazi inediti. Ora Capello dice di puntarci, ma la promessa di un Savicevic trascinatore è presto infranta. Dejan fluttua ancora a centrocampo, passando senza costrutto da una fascia all’altra. Come alla stazione dei treni di Titograd, ma stavolta finendo puntualmente sotto.

Il mister è infastidito e lo confina di nuovo in panchina. Lui non l’accetta e sorge una rissa mediatica. Un rapporto che non c’era mai stato si incrina ulteriormente, lambendo la definitiva rottura. Poi Marco Simone si infortuna e Papin si inceppa. Improvvisamente Dejan viene eletto seconda punta. Si scrive “diversa collocazione tattica”, ma puoi leggerlo “manna celeste”. D’un tratto Dejan diventa – o forse torna – un calciatore imprendibile. Un fenomeno quasi circense nella filosofia e tremendamente efficace nel metodo. Il finale di campionato diventa grandioso: terzo scudetto di fila. Il dessert però è ancora più succulento.

Il Diavolo è in finale di coppa dei Campioni. Si gioca ad Atene, contro il monumentale Barcellona di Cruijff. Il divario sembra talmente ampio che l’olandese si lascia scappare esternazioni deliranti: “Dio è mio amico, è impossibile che io perda questa partita”. Strafottente, certo, ma dietro mancano pur sempre Baresi e Costacurta. Berlusconi scende nello spogliatoio e prende il suo asso da parte: “Senti Dejan, sono due anni che ti difendo. Ora mostra che non mi sono sbagliato”.

Il resto è inciso negli annali. Quello che appariva un trionfo scontato si trasforma in mortificante disfatta. Il Milan vince 4-0, trascinato da un Savicevic disumano. Il pallonetto con cui infila Andoni Zubizarreta – non il portiere del circolo ricreativo parrocchiale – è un’installazione d’arte contemporanea. Folle nel pensiero, chirurgico nell’esecuzione. I tratti distintivi del genio, in fondo. A fine partita Silvio, finalmente, gongola: ci ha preso ancora una volta.

Savicevic invece inspira a pieni polmoni l’aria spessa della notte greca. Ha deragliato molte volte, ma alla fine è arrivato in stazione.

Monica Colombo per corriere.it il 20 ottobre 2022.

Dal red carpet del Gran Gala dell’Aic alla rapina a mano armata subita nella casa acquistata solo un mese fa. Tutto in 24 ore. Il terzino del Milan Theo Hernandez e l’influencer da un milione di followers, Zoe Cristofoli, lunedì formavano la coppia glamour dell’evento, quando il giocatore è stato premiato per il gol più bello del campionato scorso. Martedì sera la compagna del calciatore ha vissuto una serata di terrore, alle prese con almeno quattro malviventi (ce ne erano altri appostati fuori?) che hanno fatto irruzione nella villetta bianca dove la famiglia del calciatore vive effettivamente solo da un paio di settimane.

Ma andiamo con ordine. Il giocatore francese del Milan aveva lasciato la casa di Cassano Magnago, un piccolo comune in provincia di Varese, a due passi da Milanello, per recarsi alla cena di gruppo del club. Passano pochi minuti (e la circostanza, secondo gli inquirenti non è casuale) quando una banda di quattro elementi con il passamontagna, evidentemente attenti agli spostamenti del giocatore, si introduce nell’abitazione. In casa si trovano Zoe, il piccolo Theo jr di sei mesi, oltre alla tata e alla cuoca. Armati di pistola, intimano alla compagna del giocatore di indicare e aprire la cassaforte.

 Davanti alla riottosità della donna, fra urla e minacce, non esitano a strattonarla nonostante abbia in braccio il bambino. È la tata che in preda al panico convince Zoe ad assecondarli. Nel giro di pochi minuti i ladri rastrellano una collezione di orologi, contante e gioielli, prima di dileguarsi senza lasciare tracce: si tratta di un bottino di svariate centinaia di migliaia di euro. Alle 20.39, nella strada periferica di Cassano dove si affacciano una serie di villette, torna in fretta Theo Hernandez, temendo per i suoi familiari, arrivano la vigilanza inviata dal Milan e le forze dell’ordine che esaminano le telecamere di sorveglianza e interrogano Zoe, scossa per l’accaduto. 

 La coppia fino a poco tempo fa risiedeva in una villa a Guanzate (Como), dove aveva avuto qualche problema — e ricevuto più di una denuncia — a causa di un pitbull particolarmente aggressivo. Il giocatore e la sua compagna avevano scelto di vivere in provincia, nel verde, a Cassano, proprio per consentire ai due cani di avere spazi in cui muoversi.

Le indagini sono affidate ai carabinieri, coordinati dalla Procura di Busto Arsizio: già mercoledì pomeriggio hanno effettuato interrogatori presso i vicini di casa (nella villa di fronte otto mesi fa si era verificato un episodio analogo). Il giocatore dopo l’allenamento a Milanello — inutile sottolineare quanto anche i compagni fossero colpiti da quanto accaduto alla famiglia di Theo — si è barricato in casa. 

 «Non ha voglia di parlare, ma è comprensibile. È scioccato» ha raccontato Andrea Romeo, il team manager del Milan che gli ha fatto visita. «Mi sento quasi in colpa — ha confessato Franco Vela, il precedente proprietario della casa, fra i primi ad accorrere martedì sera —. Ho vissuto lì per quattro anni e non ho mai subito un furto» ha aggiunto prima di lenire la rabbia del giocatore e della fidanzata con una pastiera.

Sono passati solo pochi giorni dal tentato raid a Torino nella villa di Di Maria che si trovava in casa con i familiari e Dusan Vlahovic nel momento dell’irruzione dei banditi. In quel caso la segnalazione di un vigilante aveva sventato la rapina. Theo, appena trasferitosi, non aveva ancora ingaggiato il servizio di vigilanza. Ma, a giudicare dal numero di pattuglie che giravano mercoledì pomeriggio, ha evidentemente ovviato alla mancanza.

(ANSA il 22 ottobre 2022) - "È stato un incubo. Come qualsiasi madre ho fatto di tutto per proteggere mio figlio, anche sbagliando e mettendo in pericolo la mia vita". Così Zoe Cristofoli, modella e influencer moglie del calciatore del Milan Theo Hernandez, racconta su Instagram la rapina subita nella sua casa di Cassano Magnago (Varese), dove due giorni fa è stata sorpresa mentre era sola con il suo bimbo di sei mesi.

"Grazie a tutti per esservi preoccupati per noi, grazie ai nostri amici e alle nostra famiglie - prosegue - oggi stiamo meglio, abbiamo passato l'esperienza più brutta della nostra vita soprattutto perché era impossibile chiamare aiuto. È stato un incubo, però oggi siamo qui e questa è l'unica cosa che conta davvero. Non ho mai pensato un secondo al furto, spero che queste persone paghino per la violenza fatta. Mi prenderò il mio tempo anche se è giusto tornare a vivere una vita normale".

Zoe Cristofoli, chi è la fidanzata di Theo Hernandez: i tatuaggi, gli ex Corona e Aguero, il videoclip con Pedrini. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 19 Ottobre 2022

L’influencer è mamma da sei mesi del piccolo Theo Junior. La modella era in casa col figlio a Cassano Magnago quando alcuni ladri sono entrati e l’hanno costretta ad aprire la cassaforte

La rapina

Theo Hernandez non era presente quando alcuni malviventi hanno fatto irruzione nella sua abitazione di Cassano Magnago, ma la fidanzata dell’esterno sinistro del Milan è stata costretta ad aprire loro la cassaforte e in casa era presente anche il piccolo Theo Junior, di appena sei mesi. Nonostante il furto, diverse migliaia di euro, la mamma e il piccolo stanno bene. La donna è anche conosciuta, oltre che per le relazioni passate, per essere un’influencer e per diverse apparizioni televisive.

L’infanzia misteriosa

Nata a Verona il 7 settembre del 1996, già all’età di 16 anni mostra uno stile aggressivo e allo stesso tempo intrigante. Elemento che notano subito molti fotografi e stilisti che la cercano un po’ per lo sguardo magnetico con il taglio degli occhi quasi orientale, un po’ per i tanti tatuaggi che le valgono il soprannome di «Tigre di Verona». Proprio attraverso shooting fotografici e campagne pubblicitarie riesce a farsi conoscere presto, per quanto delle sue origini familiari si sappia molto poco.

I tatuaggi

Un tratto caratteristico di Zoe Cristofoli sono sempre stati i tatuaggi, che le coprono gran parte del corpo, proprio come il fidanzato. Ognuno rappresenta un aspetto della sua persona. La falena sul collo si ispira al «Silenzio degli Innocenti», suo film preferito, la figura di una donna nomade sul braccio si riferisce al suo animo libero e, probabilmente, si ricollega al suo modo di essere. Tra i tanti che ha cancellato e modificato, la modella ha voluto farsi ridipingere l’avambraccio destro completamente di nero, una sorta di cover up che lei stessa aveva fortemente voluto. Non a caso, tra le sue attività imprenditoriali, possiede anche un negozio di tatuaggi e piercing.

Il successo

Proprio per questo stile originale, anche grazie alla grossa mano arrivata da Instagram, il nome di Zoe Cristofoli diventa presto noto nel mondo della moda (la scelgono come testimonial noti brand di lusso e viene coinvolta in sfilate alla Milano Fashion Week), ma anche tra i vip, ancora più per diverse liaison con personaggi più o meno conosciuti al grande pubblico.

Gli ex

Tra le sue relazioni più note, quella con l’ex tronista Andrea Cerioli o il breve flirt con Fabrizio Corona, storie che l’hanno in breve tempo fatta conoscere anche alle riviste di gossip e ai paparazzi. Tra gli ex fidanzati ci sono anche il portiere Francesco Bardi e l’imprenditore veronese Luca Danese, prima di stregare nel 2018 perfino il Kun Aguero.

La relazione con Theo

La «Tigre» ha però intrapreso una relazione più seria dall’estate del 2020 con l’esterno sinistro del Milan, il francese Theo Hernandez. Con lui da circa sei mesi ha avuto un bambino, il piccolo Theo Junior, tanto che nell’ultimo periodo, ai viaggi e alle serate in discoteca ha preferito la vita familiare, alternandola con le sue collaborazioni nel mondo fashion, come testimoniato dai profili social.

La tv e la musica

Mtv Cribs Italia ha dedicato alla coppia una puntata, mostrando come Theo e Zoe abbiano preferito vivere nella tranquillità dei boschi piuttosto che fare i conti con la vita frenetica di una città come Milano. Nella puntata, Cristofoli racconta quanto le piaccia trascorrere il tempo con gli amici e dedicarsi all’arredamento della casa, originale ed estroso come i suoi look, fatto di abiti e accessori che le forniscono in gran parte i brand di moda. L’influencer è stata poi protagonista di un videoclip dal titolo «Come se non ci fosse un domani» del cantautore Omar Pedrini, un amico di famiglia. La musica, d’altronde, è una passione e, di tanto in tanto, Zoe si esibisce come dj.

I social

Come già accennato, è stata l’epoca di Instagram a consacrare Zoe Cristofoli rispetto a tante altre modelle, principalmente perché portatrice di uno stile tutto nuovo, che si combina bene con il linguaggio contemporaneo dei social. Al momento ha superato la soglia del milione di follower, interessati a seguirla per i continui spunti che fornisce nell’ambito della moda e della cosmetica, ma anche per la vita privata, il tempo libero e i suoi momenti con Theo Hernandez e il loro bambino. Un’influencer e una star emergente al passo coi tempi.

Andriy Shevchenko compie 46 anni: il Milan, il Pallone d’Oro, le scarpe di Ian Rush, l’Ucraina. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022

L’ex attaccante del Milan, che è stato c.t. dell’Ucraina dal 2016 al 2021 e allenatore del Genoa per 2 mesi, ha più volte lanciato appelli per l’Ucraina

Shevchenko, 175 gol con il Milan

Andriy Shevchenko il 29 settembre compie 46 anni. Vissuti tra il campo e la panchina. Con il debutto nel calcio che conta con la Dinamo Kiev, con i trionfi con la maglia del Milan (scudetto, 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa italiana, 1 Champions League e 1 Supercoppa Europea. E, naturalmente, un Pallone d’Oro), l’addio per andare a Londra al Chelsea e il ritorno, ma senza ripetere i fasti passati, a Milano. Portando l’Ucraina al Mondiale per la prima volta nel 2006, guidandola a suon di gol fino ai quarti, per essere eliminata dall’Italia, poi campione. L’ex attaccante è stato un centravanti moderno, capace di spaziare in tutte le zone offensive del campo, in rossonero protagonista assoluto della storia rossonera dal 1999 al 2006 con 322 presenze e 175 gol.

L’invasione dell’Ucraina e gli appelli di Sheva

Nel marzo scorso, in occasione della semifinale di andata di Coppa Italia tra Milan e Inter, San Siro è stato protagonista di un’iniziativa per la pace in Ucraina che ha coinvolto i giocatori rossoneri e tutto il pubblico presente allo stadio (circa 55 mila spettatori). Con tanto di video messaggio di Andriy Shevchenko, ex Milan e simbolo ucraino (ed è anche stato c.t. del suo paese fino agli ultimi Europei, quelli vinti dalla Nazionale di Roberto Mancini a Wembley). Intenso ed emozionante il momento del messaggio di Shevchenko, apparso sui maxischermi dello stadio: «Cari amici italiani, da San Siro vi chiedo di far sentire forte il vostro sostegno per la pace in Ucraina. Il popolo ucraino vuole pace. Perché la pace non ha confini. Perché ciò che ci unisce deve essere più forte di ciò che ci divide. Fermiamo insieme questa guerra. Un abbraccio a tutti», ha detto l’ex attaccante. Parole commoventi, applaudite da tutto lo stadio, Curve comprese.

In panchina: c.t. dell’Ucraina poi il Genoa per due mesi

L'avventura di Shevchenko in panchina è durata per cinque anni alla guida del suo Paese, l’Ucraina, come commissario tecnico mentre meno bene gli è andata in serie A. L’allenatore è stato prima voluto fortemente dai nuovi padroni americani di 777 Partners che a novembre 2021 cercavano un profilo di fama internazionale per rilanciare la squadra, poi esonerato il 15 gennaio successivo. L’ex attaccante del Milan aveva superato la concorrenza dell’unico altro candidato in lizza, Andrea Pirlo, suo ex compagno al Milan e aveva firmato un biennale fino al 30 giugno 2023, con opzione per la stagione successiva, a una cifra di poco inferiore ai due milioni di euro. Ma il suo è stato un fallimento.

Con l’Ucraina i quarti a Euro 2021

Era andata meglio da Commissario tecnico. Il 12 luglio 2016 Shevchenko è stato nominato c.t. dell’Ucraina. Con la sua Nazionale l’ex attaccante di Milan e Chelsea ha realizzato 48 gol in 111 partite. Due rossoneri doc nel suo staff: Mauro Tassotti e Andrea Maldera. Fallita la qualificazione ai Mondiali di Russia 2018, Sheva ha guidato l’Ucraina fino ai quarti di finale a Euro 2021. Nella competizione continentale è il miglior risultato di sempre per il suo paese. A Euro 2012 ed Euro 2016 l’avventura dell’Ucraina si era fermata sempre alla fase a gironi.

Parla inglese o russo, non ucraino

A ognuno i suoi grattacapi. Da c.t. dell’Ucraina è stato criticato dai tifosi. Il motivo? Perché Sheva non parla ucraino e nessuno si riconosceva in lui. Questo perché l’ex attaccante – che con la sua Nazionale partecipò al Mondiale di Germania 2006, venendo eliminato ai quarti di finale contro l’Italia – non si trova a suo agio con la lingua del suo paese. Tanto che nelle conferenze stampa si esprime in inglese o in russo, lingue che padroneggia meglio, al pari dell’italiano.

Quel rigore all’Old Trafford

Cresciuto nel vivaio della Dinamo Kiev, allevato dal colonello Lobanovsky (per lui come un padre), è arrivato al Milan nel 1999. Ha indossato la maglia rossonera fino all’estate 2006 e poi ancora nella stagione 2008-2009, non ripetendo però i fasti della prima esperienza. Al Milan ha giocato 322 partite, segnando 175 gol. Ma l’apice della sua avventura in Italia, come più volte ribadito dallo stesso Shevchenko, è stato il rigore decisivo trasformato nel 2003 all’Old Trafford nella finale di Champions contro la Juventus. Buffon da una parte, palla dall’altra e Milan campione d’Europa per la sesta volta.

L’amicizia con Armani

EA7 è la linea di abbigliamento che Giorgio Armani ha dedicato a Shevchenko, suo grande amico. Con Armani, Andriy ha anche aperto due negozi a Kiev e proprio in un party organizzato dallo stilista italiano nel 2002 Shevchenko ha conosciuto la sua futura moglie, la modella americana Kristen Pazik.

La maglia numero 7 e il «Sheva» in ebraico

Nel 1999 quando sbarca a Milano dalla Dinamo Kiev la maglia numero 10 – che indossava nel club ucraino – è occupata: è sulle spalle di Zvonimir Boban. Allora Ibrahim Ba decide di lasciargli la numero sette. Coincidenza: sette in lingua ebraica si dice «Sheva».

Il no dello Sporting Gijon

Nel 1997 Shevchenko finisce in Spagna, allo Sporting Gijon. Tutto fatto? No. Perché il club spagnolo decide di non investire l’equivalente di 3 miliardi di vecchie lire su questo attaccante di 20 anni. Leggenda narra che l’uomo che rifiutò di acquistare Sheva, a distanza di qualche anno abbia chiuso con il calcio. In maniera definitiva.

Il rapporto paterno con il colonnello Lobanovsky

Il primo in assoluto a credere in Shevchenko è stato il colonnello Lobanovsky, simbolo del calcio sovietico prima e ucraino dopo. «Gli devo molto di quel che ho vinto finora in carriera e gli sarò sempre riconoscente. Il colonnello poteva sembrare un duro, e a tratti lo era davvero, ma in realtà sapeva come parlare al cuore e al cervello dei suoi giocatori. Aveva carisma, idee innovative e attenzioni speciali per i giocatori in cui credeva», ha sempre detto l’ex attaccante. Così, dopo la vittoria della Champions del 2003 e del Pallone d’Oro, Sheva ha voluto portare i trofei sulla statua dedicata al colonnello.

Le scarpe di Ian Rush

In un torneo riservato ai ragazzini Under 14, in Galles e dedicato a Ian Rush, Shevchenko fa già faville ed è capocannoniere. Come premio riceve proprio gli scarpini dell’ex attaccante del Liverpool: «In realtà, le scarpe erano troppo piccole, ma io ho voluto usarle lo stesso fino a sfondarle con l’alluce », dichiarò Shevchenko qualche anno fa.

Silvio Berlusconi padrino del figlio

Negli anni al Milan Shevchenko ha avuto un rapporto speciale con Silvio Berlusconi, all’epoca patron del club rossonero. Tanto che Berlusconi — nato tra l’altro proprio il 29 settembre, ma del 1936 — fece da padrino al figlio Jordan. Inoltre, l’ex Premier ebbe un ruolo importantissimo anche in un’altra vicenda molto personale di Andriy: quando il padre dell’ucraino si ammalò, Berlusconi garantì cure e mise a disposizione i suoi medici di fiducia per il trapianto al cuore del papà dell’attaccante.

La passione per il golf

Oltre al calcio, una sua grande passione è il golf. Mazza, pallina, divisa impeccabile e via a svagarsi tra i vari green d’Europa e del mondo. Ama la pesca e il tennis: con la racchetta in mano fu protagonista anche di una divertente esibizione a Milano. Lui e Medvedev (tennista ucraino) sfidarono il duo croato Ivanisevic e Boban. Il suo ex compagno di squadra.

 Sebastiano Rossi, che fine ha fatto: il Milan, il record, le risse, l’arresto, la nuova vita col Cesena. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 20 Luglio 2022.

L’ex portiere del Milan compie 58 anni. Con la squadra rossonera ha vinto tutto, poi dopo il ritiro una vita non facile con alcune disavventure giudiziarie. Oggi prova a ripartire come preparatore dei portieri del Cesena

Una vita nel Milan

Sebastiano Rossi, ex portiere del Milan degli Invincibili di Arrigo Sacchi e Fabio Capello, oggi mercoledì 20 luglio compie 58 anni. In rossonero ha vinto tanto in Italia, in Europa e nel Mondo: cinque scudetti, tre Supercoppe Italiane, una Champions ad Atene nel 1994 (4-0 al Barcellona di Johan Cruijff), due Supercoppe Europee e una Coppa Intercontinentale. È nato a Cesena e ha mosso i primi passi proprio nel club bianconero, vincendo lo scudetto Primavera nel 1981-82, squadra all’epoca guidata proprio da Arrigo Sacchi. Al Milan arriva nel 1990 (debutta il 24 marzo 1991 nel derby vinto 1-0 contro l’Inter grazie al gol di Marco Van Basten) e ci resta fino al 2001, chiudendo la carriera al Perugia nel 2002, proprio sul campo dove fu protagonista di un brutto episodio che, di fatto, gli fece perdere il posto da titolare in favore di un giovanissimo Christian Abbiati.

Come giocava

Aveva straripanti doti fisiche, essendo alto un metro e 97 centimetri per 94 chili. Aveva ottimi riflessi, un grande senso del piazzamento e sapeva farsi valere nelle uscite alte con il suo coraggio e talvolta la sua spavalderia, che lo portavano spesso a entrare in contatto e in polemica con gli attaccanti avversari. Inoltre, possedeva una discreta abilità con i piedi e un lungo rinvio, grazie al quale sapeva ribaltare molto spesso il fronte di attacco della sua squadra.

Il record d’imbattibilità

Nel 1994, protetto da una super difesa (Tassotti o Panucci, Baresi e Costacurta o Filippo Galli e Maldini) Rossi conquista lo storico primato di imbattibilità in A, non subendo gol per 929’ e superando Dino Zoff (903’). Il 27 marzo 1994 al termine della gara contro il Foggia, quando il russo Igor Kolyvanov lo sorprende dalla lunga distanza, il portiere a fine gara raccoglie una sciarpa rossonera e va a festeggiare sotto la Curva Sud. Il record resisterà per ben 22 anni, venendo superato soltanto di recente, nel 2015-16, da Gianluigi Buffon (974’).

In Nazionale

Sempre nella stagione 1993-94, la sua migliore in assoluto, Rossi si piazza quinto nella classifica dei migliori portieri al Mondo stilata dall’IFFHS. L’exploit non è sufficiente, però, per conquistare la maglia azzurra, suo grande cruccio (zero presenze). Infatti, per i Mondiali di Usa 94, Sacchi gli preferisce Pagliuca, Marchegiani e Bucci. Successivamente l’ex rossonero viene convocato soltanto in due occasioni come vice Pagliuca senza mai scendere in campo. Non senza rimpianti. «Io la Nazionale la strameritavo, stavo bene, strano poi. C’era la difesa del Milan in Usa, il centrocampo del Milan, l’attacco del Milan. Perché non il portiere del Milan? Io quei rigori con il Brasile, chissà, magari li paravo», disse all’epoca.

La manata a Bucchi

Nel 1998-99 al Milan, allenato da Alberto Zaccheroni, arriva Jens Lehmann dallo Schalke. Ma le prestazioni del tedesco non sono buone e Rossi torna titolare già alla quinta giornata. Gioca 12 partite consecutive, ma il 17 gennaio 1999 nell’ultima giornata del girone di andata si verifica l’episodio che condiziona in negativo il resto della sua carriera. Il Milan gioca a San Siro contro il Perugia. Quando i rossoneri sono avanti per 2-0, l’arbitro Bettin assegna un calcio di rigore agli ospiti. Segna Nakata, ma quando il centravanti Bucchi si precipita a raccogliere il pallone in fondo al sacco per riportarlo velocemente a centrocampo, il portiere del Milan ha un raptus di follia e lo stende con una violenta manata. Rossi protesta per l’ingresso in area di diversi giocatori prima del fischio dell’arbitro, e attaccato da tutti gli avversari, prova anche a rialzare il giocatore del Perugia. Viene espulso e debutta Christian Abbiati in A. Rossi viene squalificato per cinque giornate. «Sono andato negli spogliatoi del Perugia e ho chiesto scusa a Bucchi per il gesto. Ma non sono pentito. Non so nemmeno se l’ho toccato. A ogni modo ha fatto bene a buttarsi in terra, anch’io mi sarei comportato così al suo posto». Zaccheroni si infuria: «L’espulsione è sacrosanta. Rossi è uno che non ci sta a perdere e a prendere gol, ma ha esagerato. È un buonissimo ragazzo, ma è molto esuberante. Il suo comportamento non mi sta bene». Poi il pentimento di Rossi: «Sono molto dispiaciuto per quanto successo con Bucchi. La mia è stata una reazione istintiva, motivata dal fatto che pensavo di essere stato ammonito ingiustamente e ritenevo che il rigore non ci fosse».

Il rigore parato a Crespo

Il 28 novembre 1999 si riconcilia con i tifosi del Milan. Rossi gioca titolare a San Siro contro il Parma e i rossoneri vincono quella gara per 2-1 grazie a uno dei suoi guizzi dei tempi migliori. Para un rigore a Crespo a tempo scaduto. Dopo la prodezza, il portiere si girò verso la Curva Sud e, raccolta una sciarpa, battendosi il petto gridò: «Forza vecchio cuore rossonero».

L’arresto

Ma Rossi è divenuto celebre anche per alcuni episodi di cronaca nera che lo videro coinvolto dopo aver smesso di giocare. Il più noto lo portò ad essere arrestato nella notte tra il 7 e l’8 maggio 2011 dopo aver aggredito, colpendolo con un pugno alla bocca, un maresciallo dei carabinieri in borghese in un bar del centro di Cesena. Subito rilasciato, nel giugno successivo patteggia una pena pecuniaria commutando una condanna a 56 giorni di reclusione per lesioni e resistenza. Successivamente però, il 31 luglio 2014, nell’ambito di un’indagine legata allo spaccio di droga in Emilia-Romagna, viene indagato insieme ad altre 17 persone per possesso di cocaina. «Io sono un buon ragazzo, sto bene in mezzo alla gente, la mia fedina penale è trasparente. Sono sempre stato al di fuori, puoi commettere l’errore di frequentare persone sbagliate che non pensavi lo fossero», raccontò al «Corriere della Sera».

La passione per la pesca

Ma non c’è stato solo il calcio nella vita di Rossi. C’è stata e c’è ancora anche la passione per il mare e la pesca: «Il mare ha un suo fascino, va rispettato. Di fronte al mare si può pensare, ripensare, agire. Il record strappato da Buffon? In quei giorni andavo al mare perché fuori dal campo non avrei potuto difenderlo», raccontò ai microfoni di Corriere tv.

Nuova vita col Cesena

Ma cosa fa Rossi oggi? Dopo 32 anni dalla prima volta, Rossi l’8 luglio è tornato a lavorare col Cesena, il club che lo ha lanciato. Coordina l’attività dei preparatori dei portieri del club romagnolo di serie C. «Dopo oltre 30 anni si riannoda il filo tra il Cesena e Sebastiano Rossi», iniziava così il comunicato del Cesena che annunciava il ritorno del «figliol prodigo». «Sono felice di tornare qui in questo momento storico e di ritrovare amici come Massimo Agostini e Davor Jozic ai quali mi legano tanti ricordi. Il mio incarico? Sarò un uomo di campo e lì coordinerò il lavoro di tutti i preparatori dei portieri: in passato il Cesena ha espresso grandi estremi difensori e il nostro compito sarà di rinverdire questa tradizione, individuando e facendo crescere nuovi talenti tra i pali come già accade in altri ruoli», queste le prime parole dell’ex portiere rossonero.

Pippo Inzaghi: il Milan, la bresaola, Alessia Ventura, la compagna Angela. Chi è l’allenatore della Reggina. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022 

L’ex centravanti compie 49 anni il 9 agosto: a Reggio Calabria è arrivato dopo l’esperienza al Brescia della scorsa stagione. Obiettivo la serie A. Sarebbe la seconda promozione in carriera e l’ennesima vittoria di una carriera straordinaria

Pippo Inzaghi e la Reggina

Pippo Inzaghi compie 49 anni il 9 agosto e lo fa da allenatore (felice) della Reggina in serie B. Ci è arrivato dopo l’esperienza non felicissima di Brescia e con una missione a lungo respiro: l’accordo stipulato in luglio è di tre anni. L’obiettivo dell’ex attaccante della Juventus, del Milan e della Nazionale — che da allenatore ha già vinto la serie B alla guida del Benevento nel 2020 — è di raggiungere il fratello Simone, alla guida dell’Inter, in serie A. L’avventura, appena iniziata, sembra averlo caricato al massimo: «Darei un bel voto alla mia squadra — ha detto dopo l’onorevole eliminazione (0-1) in Coppa Italia contro la Sampdoria il 5 agosto —. Mi ha stupito, perché siamo partiti il 20 di luglio, non avevamo il campo ma abbiamo fatto una gara di personalità, abbiamo giocato con dei 2003, ma se le premesse sono queste… Avevo paura della goleada perché la Samp è forte e aveva fatto 9 amichevoli rispetto a noi. Sono molto felice, alla squadra ho detto di non montarsi la testa però ci siamo rimboccati le maniche nonostante le difficoltà». Le premesse giuste per una stagione importante, anche per un riscatto personale dopo le liti con Cellino.

La carriera da calciatore

Pippo Inzaghi è stato il classico numero 9. Un centravanti dotato di un senso del gol straordinario. Bravo ad attaccare gli spazi e con la capacità innata di farsi trovare al momento giusto al posto giusto. Pronto a ribadire in rete una respinta corta di un portiere avversario o firmare gol assurdi con tocchi a volte involontari. Come il 23 maggio 2007 quando sbloccò la finale di Champions contro il Liverpool, quella per il Milan che valse la rivincita di Istanbul 2005 (k.o. ai rigori con rimonta da 3-0 a 3-3), deviando di spalla una punizione di Pirlo e beffando Reina, all’epoca portiere dei Reds. Gara vinta dal Diavolo 2-1 (che conquistò la settima Champions) grazie proprio a due gol di Inzaghi.

Pippo, come pure il fratello Simone, i primi calci li ha dati al «San Nicolò 1948», vicino Piacenza, una storica società che, qualche anno fa, ha rischiato di sparire dal nostro calcio. Cresciuto successivamente nelle giovanili del Piacenza (dove è nato il 9 agosto 1973), ha giocato con Piacenza, Leffe, Verona e Parma. È esploso all’Atalanta nel 1996-97 (24 gol in 33 gare) ed è finito prima alla Juventus (1997-2001) e poi al Milan, dove ha chiuso la carriera nel 2012 in contrasto con l’allora allenatore Massimiliano Allegri. In Nazionale ha firmato 25 gol in 57 gare. Ha vinto tre scudetti, una Coppa Italia, tre Supercoppe Italiane, due Champions, due Supercoppe Europee, un Mondiale per club e un Mondiale con l’Italia. Infine, Inzaghi ha segnato 70 gol nelle coppe europee, 50 nella sola Champions.

La maledizione della 9 e il caso Neqrouz

La carriera calcistica di Pippo Inzaghi è piena di episodi curiosi. Uno dei più noti è quello relativo ad un lontano Bari-Juventus del 1997, con il difensore biancorosso Rachid Neqrouz che a un certo punto, prima di un calcio d’angolo, palpeggiò il sedere di Inzaghi durante la mischia. «Fu devastante. Lui mi viene vicino, alla prima palla mi dà una botta sui co…i. Mi giro e faccio: “ma stai scherzando?” A fine primo tempo sono andato da Lippi e gli ho detto: “Tirami fuori, se no gli do una gomitata” perché non avevo preso palla per quanto mi ero innervosito. Mi dissero che lui lo aveva già fatto con altri ma io non me lo aspettavo. Però quando ci fu la partita di ritorno a Torino, parlai con Montero e lo caricai a dovere. Al primo calcio d’angolo vedo Neqrouz a terra...», raccontò nel 2020 Inzaghi a Bobo TV.

Ma anche dopo l’addio al calcio giocato il nome di Inzaghi risuona ancora tra gli spalti di San Siro. E non solo sulle labbra dei vecchi tifosi milanisti, ma anche tra quelle dei suoi eredi calcistici in rossonero. Fino all’arrivo di Giroud, 12 gol in A e scudetto vinto il 22 maggio, il Milan ha infatti vissuto una sorta di «maledizione» legata alla maglia numero 9. Maledizione coincisa con l’addio di Inzaghi, fatta, per i suoi eredi con la 9 in rossonero di pochi gol, ma soprattutto «zero tituli». Vittime illustri: Pato, Matri, Fernando Torres, Destro, Luiz Adriano, Lapadula, André Silva, Higuain, Piatek e Mandzukic.

Da allenatore

Pippo Inzaghi è sempre rimasto nel mondo del calcio senza soluzione di continuità. Nel 2012, smessi i panni del calciatore, «Superpippo» inizia subito la carriera da allenatore negli Allievi Nazionali del Milan e nel 2013 è già in Primavera (vince il Torneo di Viareggio in finale contro l’Anderlecht) tanto che nel 2014 allena la prima squadra, arrivando però solo decimo. Riparte così dalla Lega Pro col Venezia. Conquista la promozione in B e l’anno dopo arriva quinto. Dal 2018 al gennaio 2019 è al Bologna e l’anno successivo porta il Benevento in A, per poi però retrocedere subito. La sua ultima esperienza in panchina è al Brescia.

A Brescia doppio esonero con Cellino

A marzo di quest’anno Pippo Inzaghi è stato infatti esonerato definitivamente dal vulcanico presidente del Brescia, Massimo Cellino. Fatali i due punti conquistati nelle ultime tre gare (sconfitta con la Cremonese e i due pareggi di fila con Lecce e Benevento, tutti scontri diretti per la promozione in A). Al suo posto è arrivato Eugenio Corini. In realtà, si era trattato del secondo esonero dal Brescia in un mese e mezzo. A inizio febbraio era stato sollevato dall’incarico in seguito al pareggio per 0-0 con il Cosenza, ma il suo esonero era durato soltanto un giorno. Erano state ore surreali per il club lombardo, in quel momento terzo in serie B. Perché appunto a Inzaghi era stato comunicato il licenziamento. Al suo posto era sbarcato Diego Lopez, che si era presentato addirittura al centro sportivo per guidare l’allenamento, ma aveva rinunciato appunto al suo incarico anche dopo la protesta dei tifosi, in quanto l’uruguaiano aveva guidato il Brescia, senza grande successo, nel 2020. E poi un colpo di scena: era spuntata anche una clausola anti esonero sul contratto di Inzaghi, se il Brescia fosse stato nelle prime otto posizioni di classifica. Cosa che aveva portato al «ritorno» di Inzaghi prima dell’esonero definitivo.

Il «re» della bresaola

Ma c’è un altro aspetto che ha reso universalmente noto Pippo Inzaghi da calciatore prima e da allenatore poi: la sua dieta. Che oggi consiglia anche ai suoi calciatori. A tavola adesso lo aiuta anche la fidanzata Angela, ma l’attuale allenatore della Reggina si gestisce da quando era ragazzo: riso in bianco, petto di pollo, verdure, patate lesse e, soprattutto, bresaola, anche se oggi da allenatore ne mangia meno rispetto ai tempi di calciatore. Uno dei suoi segreti? Non esagerare mai nei condimenti. Olio a crudo, parmigiano e poco altro. La famosa bresaola, di cui faceva incetta da giocatore, oggi c’è meno.

La famiglia

Per Pippo però oltre al calcio ciò che è stato sempre fondamentale per la sua vita è stata la famiglia. Il capostipite è papà Giancarlo, ci sono poi Pippo e Simone e i loro quattro figli. Il più piccolo è il figlio di Pippo e della sua compagna Angela Robusti, si chiama Edoardo ed è nato a ottobre del 2021, vent’anni dopo Tommaso, il primogenito di suo fratello Simone e di Alessia Marcuzzi. L’allenatore dell’Inter ha altri due figli, avuti dalla moglie Gaia Lucariello: Lorenzo, 9 anni, e Andrea, quasi due anni.

Il fratello Simone

All’interno della sua famiglia particolare è stato soprattutto il rapporto con il fratello Simone. Filippo e Simone Inzaghi infatti insieme hanno fatto tantissime cose: sono stati compagni di squadra (in Nazionale) e avversari in serie A, mentre adesso sono rivali in un altro ruolo, quello di allenatore. L’invidia è un sentimento però che non appartiene a nessuno dei due: «Simone era più bravo di me - ha più volte detto Pippo - ma è stato sfortunato dal punto di vista fisico. Ha segnato 4 gol in una partita di Champions, non ci sono riuscito nemmeno io. Senza il problema alla schiena avrebbe fatto meglio di me perché come doti tecniche era meglio di me». Ma se come calciatore ha avuto più successo Pippo, Simone lo sta superando da allenatore.

La vita da «scapolo d’oro»

E dire che, nonostante adesso entrambi vivano sereni con la propria compagna e i figli, dove invece Pippo e Simone sembravano divergere era proprio lo stile di vita, con il bomber di Milan e Juve nella parte del playboy. Per Pippo, dopo una storia seria con la showgirl Alessia Ventura (dal 2008 al 2013), non c’era infatti stata tanta voglia di impegnarsi a tempo pieno. Di lui si ricordano una quantità di flirt con donne famose, da quello con Samantha De Grenet a quello con Manuela Arcuri. Senza dimenticare le avventure con showgirl e modelle come Sara Tommasi, Victoria Petroff e Camilla Sjoberg.

La nuova compagna

A cambiargli la vita è stata dal 2018, Angela Robusti, nata a Udine nel 1990 (ha quindi 17 anni in meno di lui). A ottobre la coppia, come detto, ha avuto un figlio, Edoardo, battezzato qualche giorno fa a Formentera. Dopo la partecipazione a Miss Italia nel 2012 e il grande successo in tv a «Uomini e donne» Angela ha spiccato il volo: si è laureata in architettura, ha conosciuto l’amore della sua vita e pure il calcio che per lei era uno sport sconosciuto, adattandosi anche a una vita itinerante per seguire il proprio compagno.

Francesco Rossi per ilpallonegonfiato.it il 31 ottobre 2022.  

L’ex calciatore marocchino, Rachid Neqrouz, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni a Il Galletto Web riguardanti quel famoso scontro in campo con l’ex attaccante della Juventus, Filippo Inzaghi: 

“Il dito nel sedere a Inzaghi? Ho riso come un pazzo quando mi hanno mandato quel video. Perché lo facevo? Non ho mai pensato di far male a nessuno. Lui in ogni squadra segnava sempre, ogni settimana. Era fortunato. Segnava con la pancia, col ginocchio, col sedere, con la schiena. E io, per far sì che si allontanasse dall’area di rigore, utilizzavo questo trucchetto. Però è stato un grandissimo e ho tanto rispetto per lui, sia per cosa era da calciatore sia per quello che è ora da allenatore”.

Inzaghi ha raccontato pure di aver “caricato” Montero per affrontare Neqrouz durante le palle inattive. Ecco come andò secondo Neqrouz con l’uruguaiano nella gara di ritorno: "Montero? Ricordo bene al ritorno, c'era un corner e presi una gomitata”

Gennaro Gattuso. Da ilnapolista.it il 6 giugno 2022.

Valencia come il Tottenham, i tifosi non vogliono Gattuso. Come accadde al Tottenham, ritirano le frasi misogine dell’allenatore calabrese e parte l’hashtag con le consonanti invertite: NOAGATUSSO. L’ex tecnico del Napoli si difende attraverso la Gazzetta dello Sport. Sulla rosea le sue dichiarazioni. 

«La mia storia parla per me. Io razzista? Io omofobo? Io xenofobo? Io machista? Ma siamo impazziti? Qui è ora di darsi una calmata. Allora cominciamo a spiegare: la frase sulle donne, pronunciata al momento dell’ingresso nel calcio di Barbara Berlusconi, voleva essere una difesa dell’operato di Galliani che era stato accantonato in malo modo. Razzista io? E allora perché avrei fatto acquistare, quand’ero al Napoli, Bakayoko? Mai avuto nulla contro i giocatori di colore, molti dei quali sono stati miei compagni di squadra e amici». 

«Che cosa sanno di me questi signori che parlano di razzismo, questi leoni che si nascondono dietro una tastiera o dietro un nickname? Vengo da un paesino della Calabria, Corigliano Calabro. Mi sono fatto da solo, da ragazzo sono andato a giocare in Scozia, ai Rangers di Glasgow: sapete che può voler dire per un “terrone” trovarsi fuori dall’Italia e dimostrare a tutti di riuscire a cavarsela? La mia carriera l’ho costruita con la fatica, l’impegno, il sudore. Nessuno mi ha regalato nulla. E non permetterò più che qualcuno, con accuse terribili, ostacoli il mio lavoro».

Walter Veltroni per corriere.it l'8 giugno 2022.

«Sono molto diverso da come vengo descritto da dodici mesi a questa parte. Si prendono dichiarazioni di anni diversi, le si isola dal contesto e si imbastiscono processi con l’obiettivo di delegittimare una persona, una vita. I tribunali sono cose serie: qualcuno accusa, qualcuno difende, qualcuno giudica. Qui il patibolo tecnologico si abbatte e definisce sentenze senza possibilità di appello. Io non sono un tipo da social. Se mi chiamano Ringhio, ci sarà un motivo. Non vado a caccia di facili consensi, non faccio il simpatico a comando.  

Sono uno che lavora, che ha sempre lavorato, che ha faticato tanto e che è grato alla vita per quello che gli ha dato. Quando sento dire che sono razzista mi sembra di impazzire. Nessuna persona, mai, può essere giudicata per il colore della pelle. Conosco tanti con la pelle bianca che non si comportano bene. Il razzismo va combattuto, sempre. Ho allenato decine di giocatori che avevano la pelle diversa dalla mia, nel mio ristorante ne lavorano tre, ho avuto compagni di squadra ai quali ho voluto bene. Per me non conta il colore della pelle, conta la persona. La sua onestà, la sua lealtà».

È la prima volta che parla da molto tempo, Rino Gattuso. Lo fa senza rabbia, con un autentico dispiacere e, soprattutto, con la sorpresa di vedersi definire come non è. La sensazione è che lo specchio dei social rifletta un profilo che non è il suo. E che su questa base si fondino giudizi e campagne che lo hanno preso di mira prima in Inghilterra quando era stato chiamato ad allenare il Tottenham e ora anche da parte di frange di tifosi del Valencia, la squadra che lo ha scelto per la prossima stagione. 

Una delle frasi che gli viene rimproverata è del 2008, quattordici anni fa. Rispose a una domanda dicendo che per lui, cattolico, il matrimonio è tra uomo e donna. In fondo, aggiungo io, anche Papa Francesco, di ritorno dalla Slovacchia, ha detto: «Il matrimonio è matrimonio, è l’unione tra un uomo e una donna». Personalmente non sono assolutamente d’accordo perché penso che ciascuna scelta d’amore tra persone debba essere rispettata da tutti i punti di vista. 

Si tratta di diritti inalienabili che non possono essere in nessun modo limitati. Gattuso ci tiene molto ad essere inequivoco su questo: «Ma poi aggiunsi che per me ognuno è libero di fare come vuole. Ed è proprio quello che penso. Ogni libertà, compresa quella dei comportamenti sessuali, è benvenuta, è segno di progresso». 

L’altra accusa che gli viene rivolta riguarda un giudizio che diede sulla capacità delle donne di gestire il calcio quando Galliani fu praticamente sostituito da Barbara Berlusconi. La conferma, gli chiedo? 

«No, assolutamente no. In ogni campo le donne fanno come e meglio degli uomini. Lo stanno dimostrando nei governi, nelle aziende, in ogni settore. Più donne avranno responsabilità e meglio sarà. Le aggiungo una cosa, che può spiegare il mio stato d’animo quel giorno: io considero Galliani come la persona migliore che ho incontrato nel calcio. Sapeva dire sempre la cosa giusta nel momento giusto. E non ti faceva mai sentire solo. Quando ho capito che il suo ciclo al Milan stava finendo ho sofferto, molto».

Io credo a questo italiano che non ha vissuto nella bambagia e che ha una bella storia da raccontare.

«Nasco in un paese di pescatori, Corigliano Calabro. I miei erano falegnami. Io ho lasciato casa a dodici anni per fare quello che mi piaceva e che sentivo di saper fare: giocare al calcio. Sono andato a Perugia, da solo. Ho patito tanto, ma in silenzio. Ero piccolo però sapevo che la scelta era quella giusta. Mio padre ha avuto grande coraggio e tanta fiducia in me. Per questo l’ ho sempre amato tanto.

 Mia madre ha pianto molto e mi dispiaceva. Ho vestito più di settanta volte la maglia della nazionale. Ogni volta che sentivo l’inno di Mameli, anche prima della finale di Berlino, pensavo a quando lei mi urlava di tornare a casa perché stavo, bambino, a giocare sulla spiaggia per otto o dieci ore. Mio padre è andato a lavorare in Germania per un anno e mezzo. Un quarto della mia famiglia è sparso nel mondo, tutti sono andati a cercare quella fortuna che la Calabria non gli aveva concesso. Come diavolo potrei essere razzista?».

Gli ricordo che i tifosi del Tottenham gli rimproveravano anche la testata che lui diede a Jordan, vice allenatore degli Spurs. Lì non erano parole fraintese...

«E infatti ho sbagliato e me ne vergogno. Quello è qualcosa che ho fatto. È stato un ingiustificabile errore. Certo, potrei dire che sono cose di campo. Succedono, purtroppo. Ma invece me ne vergogno. Ho un figlio di quattordici anni, lei crede che io non mi vergogni davanti a lui per quella follia, quando me ne chiede giustamente conto?».  

Gli domando se sia vero che, nella fase finale della sua esperienza da allenatore del Milan, lui abbia rinunciato a molti soldi per consentire il pagamento del suo staff.

«Io sono molto riconoscente al Milan. Se io sono quello che sono, lo devo a quella società, a quei colori che ho sempre amato. Non volevo essere un peso e volevo andare via in punta di piedi».

Gli chiedo se può dirmi a quanto ha rinunciato. Gattuso resiste ma poi cede. «Cinque milioni e mezzo netti. Una parte è andata a pagare lo staff che altrimenti, con la mia uscita, sarebbe rimasto a piedi e non era giusto. Ma non mi è pesato più di tanto. Il Milan, da giocatore e da allenatore, mi ha trasformato la vita. Io non posso dimenticare quando, dopo la vittoria nella Champions del 1990 mio padre mi portò a sfilare in paese con la maglietta rossonera indosso. Ero fiero di indossarla, anche se, ovviamente era una replica, non una originale». 

Continuiamo a verificare le leggende. Si dice che abbia fatto lo stesso anche al Pisa...

«No lì i soldi ce li ho proprio messi, di tasca mia. Ma sono stato felice. Avevamo centrato una inaspettata e bellissima promozione in serie B e la società si trovava in difficoltà». 

Mi ha sempre incuriosito sapere cosa dice un allenatore alla sua squadra quando la allena per la prima volta.

«Dico loro che a me piace la parola Noi e non la parola Io. Il calciatore moderno è molto diverso dalla mia generazione. Sono più razionali, vivono in un contesto comunicativo diverso. Oggi un allenatore deve entrare nell’anima dei giocatori, non solo nella loro testa». 

Come sa fare Ancelotti, il nostro Special Uno. «Io tifo sempre per Carlo. Come si può non farlo? Ho vinto undici trofei con lui. È un maestro. Riesce a gestire ogni gruppo. Ci riusciva trent’anni fa e ci riesce ora, come ha dimostrato al Real Madrid. Sarà bello incontrarlo in campo, nella Liga». Gli ricordo la polemica con Salvini, che per i giudici dei social stranieri deve sembrare incomprensibile, contraddittoria con il profilo che hanno inventato. 

«Difendevo solo le mie prerogative e chiedevo rispetto per il mio lavoro. Ma sono cresciuto. Anche i Ringhio crescono. E ho capito che in questo mestiere, forse in questo mondo, bisogna rispondere solo sì o no. Non puoi dire quello che pensi perché quelle parole possono essere isolate, tagliate, piegate, mutate e tu ti trovi in un ritratto che è quello di un altro. E ci soffri, terribilmente. Io sono questo qui che le sta parlando, le assicuro che mi sto aprendo, che faccio l’unica cosa che so fare: essere sincero».

Allora gli chiedo un ultimo sforzo. Nel tritacarne nel quale è stato gettato con ferocia, in verità non in Italia, si è anche detto che non avrebbe la salute per allenare una squadra di calcio. «Anche qui non ho mai nascosto nulla. Ho, come tante persone, una malattia autoimmune che si chiama miastenia oculare. Ne soffro da tempo ma è assolutamente sotto controllo e non comporta alcuna limitazione al mio lavoro. Non ho nessun impedimento, tanto è vero che ho sempre allenato. E non male. Anche a Napoli, dove ho allenato grandi giocatori in una grande società». 

Gli chiedo un ricordo del mondiale vinto in Germania nel 2006, l’ultimo che valga la pena di rammentare, in questi tempi grami per le partecipazioni italiani alla World Cup. «Ricordo ogni istante. Come un film. Io non dovevo partire. In un’amichevole avevo preso una ginocchiata. Lippi mi volle lo stesso. Era un momento difficile, con Calciopoli e il resto. Eravamo dei predestinati alla sconfitta. E questo ci caricò. Le voglio raccontare un episodio precedente. C’era appena stata la sconfitta del Milan a Istanbul, nel 2005. Io vado a Coverciano con la nazionale. In conferenza stampa parto con un monologo di trentacinque minuti per spiegare la sconfitta rossonera. 

Torno in stanza, mi stavo asciugando i capelli, quando sento aprire la porta. Entra Lippi furioso, chiude a chiave. Mi ha sfondato. Mi ha detto che lì ero con la maglia azzurra e che solo di quella dovevo parlare. In dieci minuti mi ha insegnato molto. Il merito principale di quella vittoria è proprio suo». Per finire gli chiedo cosa desidera per sé oggi. E se vuole dire qualcosa ai tifosi del Valencia. « Desidero solo fare il lavoro che mi piace, con tranquillità . Ed essere giudicato solo per quello. Per ciò che sono, davvero».

Stefano Scacchi per “la Stampa” l'1 giugno 2022.  

Il pallone rotola in Europa, ma gli affari si fanno negli Stati Uniti. La firma sulla cessione della maggioranza del Milan dal fondo Elliott ai connazionali di RedBird Capital è stata apposta nei giorni scorsi a New York dai fondatori delle due società finanziarie: Paul Singer e Gerry Cardinale, amici e protagonisti di questa operazione che mantiene il controllo del club rossonero in Nord America, dopo il tentativo di spostare l'asse in Medio Oriente con l'offerta di 1,18 miliardi di euro arrivata ad aprile dal colosso del Bahrain, Investcorp. 

Alla fine l'ha spuntata RedBird anche grazie alla comune origine al di là dell'Atlantico, un elemento che garantisce continuità con la strategia di Elliott nella gestione del Milan fresco campione d'Italia grazie a una politica improntata a spese contenute e fiducia nei giovani talenti. Questa visione condivisa si tradurrà nella permanenza di alcune figure nell'organigramma rossonero.

Dovrebbero restare l'ad Ivan Gazidis, Giorgio Furlani, manager di Elliott componente del Cda rossonero, e Paolo Scaroni, sempre presente dal 2017 in tutti gli avvicendamenti proprietari del Milan, fin da quello tra Silvio Berlusconi e il misterioso cinese Yonghong Li. Sono le tre persone che ieri hanno incontrato Cardinale in un hotel del centro di Milano. «Mi auguro che ci sia una situazione definita in modo da poter affrontare il mercato che abbiamo davanti a noi, con una proprietà chiara, perché questo agevola la vita a tutti», spiega Scaroni facendo riferimento alla necessità di uscire dalla fase di interregno tipica di questi passaggi di consegne al vertice di un club.

Una situazione nella quale è rimasto impigliato il rinnovo contrattuale di Paolo Maldini che ora parlerà con Cardinale. La bandiera rossonera non affronterà solo il tema della sua situazione lavorativa, ma anche quello dei piani di rafforzamento dopo lo scudetto. Maldini spinge per un mercato che possa consentire al Milan di competere subito ad alti livelli anche in Champions League. Origi deve solo effettuare le visite mediche, Renato Sanches è vicino, Bremer ha scavalcato Botman nei desideri rossoneri. Ma per Maldini serve qualcosa in più. È la solita dialettica tra l'approccio dell'ex capitano arrivato da giocatore sul tetto del mondo con il Milan e la filosofia più americana resa celebre dal film Moneyball con Brad Pitt nel ruolo di Billy Beane, rivoluzionario dirigente degli Oakland Athletics che introdusse gli algoritmi nel baseball, non a caso socio di RedBird nell'acquisto dell'10% di Fenway Sports, il gruppo di Boston che controlla il Liverpool. 

Dopo la firma, servirà qualche settimana per definire il closing, il passaggio effettivo delle azioni. Oggi, invece, è atteso l'annuncio ufficiale che chiarirà alcuni dettagli molto significativi, a partire dalla valutazione complessiva data al club: nei giorni scorsi si è parlato di 1,3 miliardi di euro, ai quali potrebbero aggiungersi nei prossimi anni altri 500 milioni, legati alla valorizzazione del Milan grazie al nuovo stadio. E l'entità della quota di minoranza che conserverà Elliott. Dalla combinazione di questi due fattori si capirà quanto verserà RedBird. Si chiude così una negoziazione durata almeno sei mesi. I primi contatti tra Singer e Cardinale risalgono allo scorso inverno. Poi si è inserita Investcorp. Ma il Milan è rimasto a New York. 

Stefano Fonsato per eurosport.it l'1 giugno 2022.

Calcio, media, intrattenimento e non solo: questi gli assunti fondamentali del nuovo Milan. A leggerla così sembrano quelli della vecchia versione, quella ha portato il Diavolo sul tetto del mondo, guidato da Silvio Berlusconi, oggi impegnato col suo Monza in Serie A. Invece si parla di tutt'altro. Di un Milan che con il "mecenatismo" non ha più nulla a che fare. 

Lo si è visto dal 2018 ad oggi col "fondo" Elliott in grado, come ha detto il Ceo Ivan Gazidis al Guardian, "di fare quello che nel calcio italiano nessuno aveva mai fatto", ossia vincere con una struttura finanziaria totalmente differente, che oltretutto guardasse alla sostenibilità come principale assunto. Insomma, niente più presidenti che aprono cuore e portafogli: bensì asset, percentuali, dividendi, investitori in quota parte dall'identità non sempre nota...

Il Diavolo, in questo senso, farà da apripista in Italia? Qui ne parliamo come novità assoluta, ma in Inghilterra, ad esempio, le società di calcio in mano ai fondi, costituiscono una prassi consolidata da anni, anche nelle leghe al di sotto della Premier. Talvolta il successo arriva, altre volte no.

Da un fondo - Elliott - ad un altro più grande, RedBird Capital - fondata a 6 miliardi di dollari capitale ma con l'ambizione di arrivare a breve a 11 -, che si è aggiudicato il club rossonero mettendo sul tavolo delle trattative 1,3 miliardi di euro (contro i 1180 della società bahreinita Investcorp). Al vertice c'è Gerry Cardinale: polo blu e pollice alzato al cielo durante i festeggiamenti Scudetto. E' passato quasi del tutto inosservato.

Ora cominciano a circolare le sue foto ed è plausibile che, da qui in avanti, le comparsate "in borghese" non saranno più tecnicamente possibili. Gerry Cardinale, si diceva: il suo profilo - per il Diavolo - sembra preso in prestito dalla serie Sky "Diavoli": 53enne di Philadelphia, il cui nome che malcela origini italiane, diventato un "drago" della Finanza. Sì, con la "F" maiuscola, visto che si tratta di un "prodotto" della banca d'affari Goldman Sachs.

Il suo curriculum vitæ, d'altra parte, parla da solo: laurea magna cum laude all’Università di Harvard e un Master of Philosophy in "Politics and Political Theory” ad Oxford, in cui fu titolare anche della borsa di studio "Rhodes Scholarship". Cardinale è l'uomo abituato a gestire capitali impressionanti: in Goldman Sachs (da cui oggi si è sganciato), è stato senior leader dell’attività di investimento di private equity della banca d’affari, incaricato della gestione di oltre 100 miliardi di dollari di capitale privato tra azioni, debito, strategie di investimento immobiliare e di infrastrutture. 

Non solo, sempre in Goldman ha lavorato con imprenditori per costruire società multimiliardarie tra cui YES Network (acronimo di Yankees Entertainment & Sports, la rete sportiva regionale leader negli USA), Legends Hospitality - punto di riferimento dei servizi di biglietteria d'oltreoceano, Suddenlink Communication, ai tempi tra le più grandi società via cavo.

E proprio parlando di società via Cavo, dal presidente di Mediacom e della Fiorentina Rocco Commisso, non è arrivata esattamente un'investitura nel calcio italiano: "I soldi che gestisce non sono suoi - ha detto il numero uno viola -. Quelli che io spendo per la Fiorentina, invece, appartengono a me, fino all'ultimo centesimo". Sì, ma questa non è una grande scoperta: valeva lo stesso per Gazidis (che con Elliott rimarrà al Milan con una quota di minoranza). 

RedBird, che oltre alle partnership nella NFL e col Liverpool, ha anche riportato il Tolosain Ligue 1. Come lo ha fatto: col modello tanto caro agli statunitensi, quello di Moneyball. Non un dollaro (o euro) va sprecato: si acquistano giocatori perfettamente funzionali al progetto, individuati attraverso calcoli e scouting maniacale.

Sarà così anche per il Milan: il percorso tracciato da Elliott, in questo senso, continuerà a essere preso ad esempio. Certamente con qualche investimento in più, ma sempre affidnadosi alla competenza tecnica di Paolo Maldini e del direttore sportivo Frederic Massara, per una crescita progressiva del club.

Che, necessariamente, passa anche da uno stadio gestito privatamente. Sempre nei giorni di festa Scudetto, Gerry Cardinale si è recato personalmente nell'area di Sesto San Giovanni dove dovrebbe sorgere il nuovo impianto, per misurarne la distanza col centro di Milano. Ora, però, è il tempo delle firme e del passaggio di mano. Poi si penserà a tutto il resto.

Da ilnapolista.it l'1 giugno 2022.

“E’ molto curioso che il Milan sia stato venduto nelle stesse ore in cui Berlusconi tornava in serie A con il Monza. C’è una specie di grande equivoco, di vendetta della storia. Berlusconi ha maneggiato il Monza con la grandezza del vecchio mecenate, storie di un altro calcio che oggi fanno impressione e nostalgia. E’ un calcio dimenticato, probabilmente ormai poco possibile, ma Berlusconi lo interpreta sempre alla stessa maniera: grossi investimenti, la volontà di scegliere i migliori, nessuna volontà di risparmio”. 

“Singer ha impiegato quattro anni a comprare e vendere la società. E’ stato bravo e fortunato, ma è stato comunque un business. Il Monza di Berlusconi e Galliani è una vecchia storia di famiglie. Non credevo avrei mai rimpianto Berlusconi, ma ritrovarlo al grande tavolo del calcio con l’unica forza del denaro e l’esperienza, mi fa nascere molte domande, tra cui soprattutto una: avevamo più bisogno di lui o dei fondi americani?”.

Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2022.

Perché sul Milan c'è sempre stato un dubbio? Perché si sono fatti sempre molti complimenti a Pioli ma ricordando che l'Inter era comunque più forte? Perché l'Inter aveva appena vinto il campionato, aveva già dimostrato di avere una sua completezza, mentre il Milan doveva ancora trovarla. Si pensava così: sbagliavamo, era l'inverso. Il Milan era lo stesso dell'anno scorso, più Giroud, Messias e più la crescita dei suoi grandi giovani, soprattutto Tonali e Leao. Aveva perso Donnarumma, ma con Maignan ha perfino migliorato. 

L'Inter invece è arrivata alla stagione con un mercato complesso e dopo aver cambiato anche l'allenatore. In sintesi, la squadra che sembrava più pronta era la più sperimentale tra le quattro che pensavano al campionato. L'Inter non ha perso il suo scudetto a Bologna, lo ha perso tra la 6ª e la 12ª partita pareggiando con Atalanta, Juventus, Milan e perdendo con la Lazio.

Era un'Inter che non aveva ancora Dumfries, Calhanoglu era in chiaroscuro, c'erano spazi nuvolosi dentro il gioco, mancava continuità. Lì ha pesato molto il cambio del tecnico, eravamo in pratica ancora nell'intervallo tra Conte e la piena presa del ruolo da parte di Inzaghi. C'è sempre stata inoltre una specie di imperfezione classica del Milan. Sembravano mancare tre giocatori: il sostituto di Kjaer, un esterno sulla destra che segnasse e sapesse coprire; con la rapida deriva di Ibrahimovic anche un centravanti che tenesse insieme il gioco potente di attacco di Leao ed Hernandez sulla sinistra. Giroud ha fatto il suo dovere, non di più.

La sentenza sui dubbi del Milan è cambiata quando Kalulu è entrato e non ha avuto un momento di esitazione. A modo suo, per il niente da cui usciva, è stata la sorpresa più grande di tutto il campionato. Pochissimi errori, tanta personalità. È stato a questo punto che il Milan è diventata una vera squadra da campionato, quando non si è persa sugli infortuni né sulla rimonta conseguente dell'Inter. È anche a questo punto che Pioli ha concluso il suo capolavoro. 

Conosco Pioli da tanto tempo, non è mai stato un tecnico banale. Ha portato sempre molto nelle squadre in cui è stato, perfino nell'Inter, dove non era fuori ruolo lui, era fuori quadro quell'Inter. Nel Milan ha trovato giocatori giovani, disposti a farsi insegnare, a mettere il rapporto sull'onestà reciproca.

Sono parole evangeliche, ma quello che decide il calcio, fuori dalla qualità dei migliori, è il bisogno di ubbidire chi si stima. Pioli non ha mai avuto un problema con i suoi giocatori, ha gestito in silenzio anche l'autunno di Ibrahimovic, anche l'addio di Kessie, ha avuto sempre la squadra disposta a dargli tutto. In questa difficile combinazione astrale, Pioli ha sentito che era finalmente nel suo ambiente, che doveva liberarsi del suo buon senso, andare oltre ma con misura.

Ha spostato giocatori fondamentali sul campo, come Tonali, come il suo dubbio sulla fascia destra, come lo spazio di Kessie e il talento di Bennacer, ha spinto Leao dove doveva andare ma non sapeva che sarebbe stato così naturale. Pioli è nato con il Milan e il Milan con lui. È questo che ha colmato il piccolo vuoto che c'era. Ora ha una squadra completa, bella e diversa, un gioco d'insieme e giocatori che da soli decidono. È nata una grande squadra, ci ha messo del tempo, ma ora è bellissima.

Leao-Milan, le origini, la famiglia: «Da dove vengo io tutti sembrano invisibili». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 21 Settembre 2022.

L’attaccante del Milan ha rilasciato un’intervista a Outpomp in cui ha toccato diversi temi: dal padre «che non sapeva come pagare i biglietti del treno» alla musica con Ikoné della Fiorentina 

L’amore per il calcio, la passione per il Milan, lo scudetto vinto da protagonista. Ma la vita di Rafael Leao non è solo legata al mondo del pallone. Si è raccontato nell’intervista rilasciata a Outpump, un magazine fondato nel 2016 che tratta soprattutto moda e musica. L’esterno rossonero ha mosso i primi passi da Almada, distretto di Setúbal, dov’è nato e cresciuto: «Da dove vengo io tutti sembrano invisibili. Qui nessuno ti guarda e nessuno ti vuole guardare. Attraverso il calcio, la musica e la moda, voglio mostrare a tutti i bambini del mio quartiere e dei quartieri simili che possono farcela, indipendentemente dalle loro origini. Una cosa è fondamentale, però: mai dimenticarsi da dove si viene».

Perché se oggi la vita di Rafael Leao sembra perfetta, con i gol, gli assist, i sorrisi, i balli e uno stadio che lo osanna a ogni tocco di palla, è anche vero che ci sono stati momenti difficili, che nulla hanno a che fare con lo sport e i trionfi di oggi: «Penso ai viaggi con mio padre sul treno. Ero piccolo e non sapevamo come pagare i biglietti per arrivare al camp o. Penso a lui che riflette tutte le sere, prima di andare a dormire, cercando un modo per portare soldi e cibo a casa. Il calcio era il mio sogno, la mia famiglia è riuscita a darmi gli strumenti per realizzarlo. Mi è sempre stata vicina».

È partito dal basso Rafael Leao, come tanti campioni in giro per il mondo. Seguendo le sue passioni. Su tutte, dopo il calcio, la musica. Passione nata in Francia, ai tempi del Lilla: «Ikoné mi ha introdotto al rap francese. Quelle canzoni mi hanno aiutato ad apprendere una nuova lingua, poi la passione è aumentata e così ho deciso di scrivere, registrare e pubblicare le mie tracce. All’interno degli spogliatoi del Milan, nelle settimane successive al lancio del mio album, si ascoltava solo la mia musica, tant’è che alcuni miei compagni mi hanno preso in giro. Senza cattiveria eh, ma per sostenermi. A Milano ho avuto l’opportunità di entrare direttamente in contatto e stringere legami con tanti artisti: Lazza, Capo Plaza e Sfera, soprattutto. Mi piacerebbe riuscire a fare un featuring con loro. Modelli? Di base ascolto tutto e tutti, mi capita di riprodurre anche le canzoni di Ed Sheeran».

Rafael Leao si è preso il Milan, guidandolo allo scudetto dopo 11 anni di attesa, quando a trionfare nel 2011 fu la squadra all’epoca allenata da Massimiliano Allegri. Un percorso iniziato nel 2019: «I primi due anni sono stati difficili. In Francia la vita era diversa. Quando arrivi in una squadra simile, sai che devi essere un vincente. Lo senti, lo vivi. Tuttavia, dopo un processo di transizione, sono diventato un’altra persona e un altro giocatore. La mia famiglia, Pioli e Ibrahimovic. Lui me lo tengo vicino tutti i giorni. È un esempio. Mi ha insegnato l’importanza del chiedere e del restare concentrato. Parliamo sempre. Non come professionisti o colleghi, ma come uomini. Ora voglio essere protagonista e diventare un titolare nel Portogallo. Se poi ci sarà la possibilità di vincere, beh, allora sarà molto bello».

Infine, l’amore per la moda, come si può vedere dal suo profilo Instagram. Tanto che Rafael Leao ha anche un marchio di moda chiamato «Son is Son»: «Puoi uscire dal tuo quartiere, ma il tuo quartiere non uscirà da te. È stato mio padre a farmi appassionare alla moda. Quando dovevo uscire, mi fermava davanti allo specchio per controllarmi. Mia madre faceva la parrucchiera, ma era lui a tagliarmi i capelli. Da piccolo li portavo lunghi, poi un giorno a scuola mi diedero della “bambina” e allora lui me li ha tagliati. Creare un brand era il mio sogno. In Italia ho la fortuna di partecipare anche alle fashion week. Calcio, musica e moda hanno molti legami, voglio portare avanti le mie passioni». Tra musica e moda, di sogni ne coltiva altri due: il Mondiale col Portogallo e la seconda stella con il Milan. Che ha il dovere di blindarlo, visto il contratto in scadenza nel 2024.

Milan, rubata la medaglia dello scudetto di Stefano Pioli: ritrovata grazie all'incredibile autogol sui social. su Il Tempo il 23 maggio 2022.  

Stefano Pioli si è laureato campione d’Italia guidando il Milan allo scudetto dopo 11 anni di astinenza. La festa per il successo in Serie A è stata però rovinata da uno spiacevole episodio, denunciato dallo stesso allenatore nel corso del post-partita con il Sassuolo, che ha concluso il campionato e regalato il titolo ai rossoneri. Il tecnico ha fatto sapere che gli è stata rubata dal collo la medaglia celebrativa per la vittoria nei momenti dell’invasione di campo dei tifosi presenti al Mapei Stadium. E la medaglia è stata ritrovata? Come? Grazie ai social. Un utente Instagram, (anas_chico_) ha postato le immagini di lui sugli spalti dello stadio e poi ha pubblicato anche l’immagine della medaglia, coronando il tutto con un “Grazie Pioli” e un selfie con un paio di amici, dove esibisce il “trofeo”.

Nereo Rocco, 110 anni dalla nascita: il Paron tra Milan, Rivera, la «Fatal Verona». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Oggi 20 maggio avrebbe compiuto 110 anni. È stato l’allenatore simbolo del calcio operaio e vincente, col Milan del suo prediletto Rivera. 

«Una squadra perfetta deve avere un portiere che para tutto, un assassino in difesa, un genio a centrocampo, un mona che segna e sette asini che corrono». C’è tutto Nereo Rocco in questa frase, che torna di attualità nei giorni di una volata scudetto bellissima, tra Milan (83 punti) e Inter (81), che avrà il suo incredibile epilogo domenica 22 maggio. Oggi, venerdì 20 maggio, sono 110 anni dalla nascita del Paron. Era nato a Trieste — Magazzino 26, Porto Vecchio — il 20 maggio 1912 e lì è morto il 20 febbraio 1979, qualche mese prima della conquista da parte dei rossoneri, guidati da capitan Rivera, del decimo scudetto, quello della stella.

La sua idea di calcio

Nereo Rocco è da sempre considerato, nella storia del calcio, come «il re del catenaccio», ma in realtà è stato uno degli allenatori più offensivi. È vero che sfruttava il libero, ma per lui i giocatori d’attacco avevano un ruolo fondamentale e ben preciso. Ha sempre voluto una squadra equilibrata, coraggiosa, tenace. Con il Padova arriva terzo nel 1958, grazie ad Hamrin (20 gol) e Brighenti (11 sigilli) con Giorgio Humberto Rosa, attaccante argentino, a fare quello che oggi si definirebbe il trequartista.

I trionfi al Milan

Ma Nereo Rocco si lega al Milan ed è in rossonero che nasce la sua leggenda. Burbero, ma amato da tutti i suoi giocatori, vince subito lo scudetto e la Coppa dei Campioni il 22 maggio 1963, con Cesare Maldini (padre di Paolo, nonno di Daniel) capitano: sconfitto 2-1 il Benfica di Eusebio grazie alla doppietta di Altafini. Una squadra brava a difendere (David, Maldini e Salvadore), con un terzino sinistro come Gigi Radice che sapeva spingere, un mediano come Trapattoni, un regista geometrico come Sani. Il tutto alle spalle di Rivera, di due ali come Danova e Mora e un attaccante come Altafini. Con la stessa idea di gioco, ma con uomini diversi nel corso degli anni, il Paron vince un altro scudetto nel 1968, la Coppa delle Coppe (sempre nel 1968), la Coppa dei Campioni nel 1969 (a Madrid 4-1 all’Ajax, tripletta di Prati), tre Coppe Italia (1972, 1973 e 1977) e un’altra Coppa delle Coppe nel 1973. A Salonicco in una battaglia contro il Leeds. Era il 16 maggio.

La «Fatal Verona»

Quattro giorni dopo, nel giorno del 61° compleanno di Nereo Rocco, il Diavolo affonda contro il Verona all’ultima giornata, perdendo uno scudetto già vinto nella partita passata alla storia come la «Fatal Verona». Il Paron quel giorno non era in panchina perché squalificato: al suo posto c’era un giovanissimo Giovanni Trapattoni. Chissà oggi che direbbe Nereo Rocco nel vedere Milan e Inter lottare per lo scudetto fino alla fine. Due squadre tornate grandi dopo anni di dominio juventino.

Pato, il Milan, Barbara Berlusconi, l'alcol, gli infortuni, i due matrimoni: che fine ha fatto l'attaccante brasiliano. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera l'1 Giugno 2022.

Quando arrivò in rossonero nel 2008, a 19 anni, sembrava un fenomeno ma la sua stella si spense presto, tra problemi fisici e una vita non da professionista. Oggi a 32 anni gioca nella Mls a Orlando. E si è raccontato come mai prima a «The Players' Tribune».

Pato a cuore aperto

Il 13 gennaio 2008 Alexandre Pato, allora 19enne, incantò San Siro con il gol al Napoli al debutto (5-2). Sembrava l’inizio di una carriera da campione, l’ennesimo fuoriclasse della scuderia targata Silvio Berlusconi-Adriano Galliani. Con il tempo però l’attaccante brasiliano – che in rossonero ha totalizzato 150 presenze, segnando 63 gol – si è smarrito tra eccessi e infortuni. Adesso si è raccontato a cuore aperto, per la prima volta, in una lettera scritta di suo pugno al The Players' Tribune, la piattaforma multimediale americana che pubblica conversazioni sportive quotidiane e ospita storie in prima persona di atleti professionisti. Pato — che oggi ha 32 anni e gioca nell'Orlando City in Mls dopo avere giocato con con Corinthians, San Paolo, Chelsea, Villarreal, Tianjin Quanjian (in Cina) e ancora San Paolo — ha ripercorso tutte le tappe della sua carriera, dall’apice al crollo.

L'infanzia e il tumore al braccio

Pato fino a 10 anni non aveva mai giocato su un campo regolamentare («Il calcio a 5 era più divertente», ha rivelato), ma l'anno dopo uno scout dell’Internacional chiese al padre di provare il calcio a 11 al figlio: «Mi ruppi il braccio e mi ingessarono in fretta. Il dottore mi fece una radiografia e trovò un grande tumore. Disse: “Deve essere operato subito o lo dovremo amputare”. Rimasi scioccato. Ero a 24 ore dal perdere il mio braccio sinistro. Ma pensate che i miei genitori potessero permettersi l’operazione? Mio padre si arrangiò di nuovo. Di solito filmava le mie partite. Quindi portò le cassette in ospedale, pregò, andò nell’ufficio del medico e mise alcuni filmati sgranati in cui c’era questo ragazzo sorridente che correva per un campo di calcio a 5. Disse: “Dottore questo è mio figlio. Non so come pagare per questo, ma non voglio vederlo smettere di giocare”. Dopo non so cosa sia successo. Forse il dottore pensò che ero bravo. Forse ascoltò la voce di Dio. “Non ti preoccupare, tuo figlio lo opererò gratis”».

L’arrivo al Milan

Pato racconta così il suo arrivo al Milan ad appena 17 anni: «Sarei potuto andare al Barcellona, all’Ajax, al Real Madrid. Perché il Milan? Beh, lasciate che vi faccia una domanda. Avete mai giocato con quel Milan alla PlayStation? Erano incredibili. Kakà, Seedorf, Pirlo, Maldini, Nesta, Gattuso, Shevchenko. Sheva era inarrestabile. Il Fenomeno, il Vero Ronaldo. Avrei potuto giocare con lui. Che formazione. Avevano appena vinto la Champions. Il Milan in quei tempi era La Squadra. Pensavo, "Quando è il prossimo volo?" Ancelotti dopo le visite mi portò nella sala da pranzo. “Questo è Pato, il nostro nuovo attaccante”. Si alzarono tutti in piedi per stringermi la mano. Uno ad uno. Ronaldo, Kakà, Seedorf. Quello fu il mio primo giorno al Milan. Il videogioco era diventato realtà».

Il paragone con Careca e Ronaldo

Nel 2010 Pato era considerato uno dei migliori giovani talenti del panorama calcistico internazionale. Durante la sua avventura al Milan aveva personalità e un tiro potente e ben calibrato con entrambi i piedi. Per queste doti, oltre che per l’agilità nei movimenti, la velocità d’esecuzione e il senso del gol, è stato paragonato a Careca e Ronaldo. Può giocare in tutte le zone offensive: esterno, seconda punta e falso nueve.

Silvio Berlusconi e il fidanzamento con Barbara

Tanti sono stati i consigli, all’epoca, di Silvio Berlusconi: «Un giorno mi chiama Silvio Berlusconi. Era un grande presidente, raccontava sempre barzellette. Io uscivo con sua figlia Barbara. Io dribblavo tanto sulla fascia, superavo chiunque. Silvio mi disse: “Perché dribbli verso l’esterno?” Voleva che giocassi più al centro. Presto Ancelotti e Leonardo iniziarono a dirmi lo stesso».

Pensieri pericolosi

La strada nel grande calcio per Pato si fece subito in discesa. E pensare questo fu un errore. Come ha ammesso il brasiliano: «In quei giorni pensavo che sarei arrivato davvero al top. Le aspettative erano altissime. La cosa certa era che io fossi il super talento. Giocavo già per il Brasile. La stampa scrive di te, i tifosi parlano di te e anche gli altri giocatori ti esaltano. Amavo le attenzioni. Volevo che si parlasse di me. Ma sapete cosa è successo? Ho iniziato a sognare troppo. Anche se continuavo a lavorare duro, la mia fantasia mi portava in posti di tutti i tipi. Nella mia testa avevo già il Pallone d’Oro in mano. Non potevo evitarlo. È davvero difficile non lasciarsi travolgere. Avevo sofferto tanto per arrivare lì. Quindi perché non godersela?».

Il calvario degli infortuni

Presto, però, Pato iniziò a infortunarsi sempre più spesso: «Nel 2010 ho iniziato a essere infortunato tutto il tempo. Non avevo più fiducia nel mio corpo. Aveva paura di quello che la gente potesse dire di me. Andavo ad allenarmi pensando, non posso infortunarmi. Se mi infortunavo non lo dicevo a nessuno. Una volta mentre stavo recuperando da un problema muscolare ebbi una distorsione alla caviglia e continuai a giocare. Era gonfia come un pallone, ma non volevo lasciare la squadra. Uno dei miei difetti era che volevo accontentare tutti. La gente si aspettava che segnassi più di 30 gol a stagione, ma non potevo nemmeno entrare in campo. Potevo accettare che gli altri dubitassero di me. Ma quando il dubbio viene da dentro? È un’altra cosa. E allora sapete cosa succede? Che scopri chi ti ama davvero. Mi sentivo così solo. Quindi quando ero in difficoltà al Milan, non avevo idea di cosa fare. Oggi ogni giocatore ha un team che lo segue: dottore, fisioterapista, preparatore. All’epoca solo Ronaldo ce lo aveva».

Il caso Psg

Gennaio 2012. Il Milan è campione d’Italia in carica e sta dicendo addio a Pato, vicinissimo al Psg, per prendere Tevez. Poi il brasiliano resterà in rossonero e l’anno successivo l’argentino andrà alla Juventus: «Avrei dovuto dire a tutti la verità. Ricordate la storia del Psg? Galliani era in Inghilterra per prendere Tevez e il Psg mi fece un’offerta incredibile. Io volevo andare, ma Silvio Berlusconi mi disse di rimanere. Ero infortunato, quindi i tifosi pensarono: “Oh Pato non è voluto andare via! Con Tevez avremmo vinto!” Anche la stampa era impazzita. Io pensavo, Cosa? Io volevo andare! Ho saltato la Coppa del Mondo del 2010. La storia sul Psg venne fuori a gennaio 2012. Non stavo praticamente giocando. Mentalmente ero distrutto. Ero il grande flop, il ragazzo con un sacco di soldi, quello che anche i tifosi volevano dare via».

Il dolore e le lacrime

«Sapete quanto ho lottato per provare a tornare? Ho girato il mondo. Ho visto ogni medico che valeva la pena vedere e anche qualcuno in più. Un medico ad Atlanta mi ha messo a testa in giù mentre mi faceva girare su me stesso. Diagnosi? I miei riflessi non erano allineati con i miei muscoli. Un dottore in Germania mi ha iniettato del liquido in tutta la schiena e il giorno dopo camminavo per l’aeroporto di Monaco ingobbito dal dolore». E ancora: «Un medico mi ha infilato 20 aghi ogni mattina e ogni sera. Potrei continuare all’infinito. Stavo vedendo il dottore numero 6, 7, 8 e ognuno di loro diceva una cosa differente. Pensavo, Cavolo, che cosa ho? Ho pianto, pianto e pianto ancora. Avevo paura che non avrei potuto più giocare a calcio».

Alcol, feste e il primo matrimonio naufragato

Qualche anno fa Alexandre Pato raccontò di quando Ronaldo (il Fenomeno) gli mostrò un numero di Playboy nello spogliatoio del Milan, chiedendogli se preferisse far parte del suo gruppo (ovvero, i festaioli incalliti) o di quello del religiosissimo Kakà. All’epoca – era il 2008 – Pato era ancora poco più che un ragazzino, ma erano tutti convinti che avrebbe fatto grandi cose. Ma con l’arrivo di Ronaldinho nell’estate 2008 ci fu l’inizio della fine. Per prima cosa del primo matrimonio di Pato, visto che la moglie Stephany Brito gli sventolò il cartellino rosso dopo appena nove mesi dalla sontuosa cerimonia da 185mila euro al Copacabana Palace di Rio de Janeiro nel 2009, con gli sposi elegantissimi nei loro abiti griffati Dolce&Gabbana. Il motivo? Era stufa infatti dello stile di vita del marito, tutto alcol, donne e feste selvagge.

La vita oggi negli States: famiglia, fede e ancora calcio

La carriera di Pato sarebbe potuta andare diversamente, ma oggi si dice felice: «Guardate gente come Thiago Silva e Dani Alves. Giocano ancora a 37 e 39 anni. Ma queste cose succedono quando Dio vuole. Io vivo solo il presente. Il resto lo decide Lui. Non sarò diventato il miglior giocatore del mondo. Ma lasciate che vi dica un po’ di cose. Ho uno splendido rapporto con la mia famiglia. Sono in pace con me stesso. Ho una moglie che amo. Per come la vedo io, ho tanti Palloni d’Oro. Se la vita è un gioco, ho vinto». Pato adesso è sposato con Rebecca, sua seconda moglie, dal 2019. Lei ha 9 anni più di lui: è nata il 23 dicembre 1980 a San Paolo, in Brasile. E ha avuto la capacità di far scoprire la fede all’ex rossonero. È una presentatrice televisiva brasiliana, imprenditrice e direttrice esecutiva. È diventata famosa per aver condotto il programma televisivo Roda a Roda Jequiti dal 2017.

Pato no-vax e anti cinese. Poi le scuse

A gennaio 2022, in attesa di iniziare la stagione con gli Orlando City, Pato ha fatto scalpore la sua presa di posizione sulla vicenda del no-vax Novak Djokovic, espulso dall’Australia. Il brasiliano in una storia su Instagram, cancellata poco dopo, ha difeso il numero uno al mondo. Nel post l’ex attaccante rossonero ha esaltato le opere umanitarie di Djokovic, ma ha anche usato argomenti tipici dei negazionisti, definendo il vaccino un «morso sperimentale», ed è scivolato anche su espressioni xenofobe come «peste cinese» per definire il Covid, con buona pace dei suoi trascorsi calcistici in quel Paese, al Tianjin Tianhai. Poi il dietrofront: «Voglio chiarire l’importanza della vaccinazione di tutti gli esseri umani. Ho preso le mie dosi nel momento esatto in cui sono stato autorizzato a farlo. E penso sia importante che tutti abbiano questa consapevolezza di proteggersi e proteggere chi è al loro fianco». Ma il danno era fatto.

La moda

Nel luglio 2018 Pato a Parigi aveva fatto le prove come modello e stilista. E la fidanzata dell’epoca, Fiorella Mattheis, lo ha fotografato all’ombra della Tour Eiffel. E aveva detto: «Così sto immaginando il mio futuro. Non so se disegnerò capi di abbigliamento o accessori ma a questo sto pensando». Molte sono le foto sul proprio profilo Instagram (da 3,8 milioni di follower) nelle quali il brasiliano mostra il suo look.

Fulvio Collovati compie 65 anni: Milan, Inter, la moglie Caterina, Giulia Salemi, la tv, le polemiche. Cosa fa oggi. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2022.

L’ex difensore della Nazionale, campione del mondo nel 1982, è protagonista in tv, dove però gli capita di innescare polemiche non sempre legate al calcio. Ecco che fine ha fatto.

Da Milan e Inter alla tv

Ha vinto un Mondiale, ha giocato con Milan e Inter, ora è apprezzato commentatore in tv. Fulvio Collovati, che oggi lunedì 9 maggio compie 65 anni, non ha mai lasciato il pallone. Un mondo che se lo è coccolato quando era in campo, e che lui ripaga ancora oggi con passione e competenza. Stopper preciso, marcatore attento e bravo anche nell’impostare, la carriera di Collovati tra Nazionale e club è sempre stata di alto livello. Dopo il ritiro è stato dirigente sportivo ed è divenuto volto noto in tv. Ma non solo. Scopriamo che fine ha fatto Collovati.

Scoperto da Trapattoni

È stato scoperto da Giovanni Trapattoni. Fulvio ha 13 anni, e l’ex ct della Nazionale lo nota mentre gioca in oratorio a Limbiate, dove si è trasferito da piccolo con la famiglia dopo aver lasciato il Friuli. Raccattapalle a San Siro a 11 anni, Collovati cresce nel settore giovanile del Milan, la squadra per cui tifa da bambino. In rossonero fa il suo esordio in serie A e resta per sette stagioni, compresa una in B (Milan retrocesso per il calcio scommesse), con uno scudetto (nel 1979) e una Coppa Italia (1981). Poi, nell’82, dopo il Mondiale in Spagna, il clamoroso passaggio all’Inter.

Dal Milan all’Inter

Collovati è stato uno dei primi a fare il salto nel derby di mercato dal Milan all’Inter. Lo fa nel 1982, dopo una retrocessione (sul campo) del Milan e alcuni episodi complicati (tra cui un sasso lanciato dagli spalti che lo colpisce). «Bearzot mi disse che in quel modo avrei perso la Nazionale: a quel punto, insieme alla società, presi la decisione di lasciare il Milan. I tifosi non me l’hanno mai perdonato», ha spiegato di recente al Guerin Sportivo. In nerazzurro però le cose non vanno come sperato: «L’Inter era uno squadrone. Se c’è un rammarico nella mia carriera è legato a quegli anni passati all’Inter senza vincere. C’erano giocatori come Altobelli, Serena, Rummenigge, Mueller, Bagni, Bergomi, Ferri, Zenga. Cosa ci mancò? Forse una guida, l’allenatore conta molto per me».

L’avversario che più ha sofferto

Gli ultimi anni di carriera li passa tra Udinese, Roma (due anni e un’esperienza a cui è molto legato) e Genoa. Sempre in serie A. Chiude così nel 1993. Ha giocato insomma con campionissimi, ne ha marcati altrettanti, da Boninsegna a Bettega e Bruno Conti. Ma ci sono due attaccanti con cui più di tutti Collovati difensore pativa. «In assoluto quelli che soffrivo di più erano quelli rapidi, veloci e forti tecnicamente, come Trevor Francis: quando lo marcavo mi faceva sempre gol e mi dava un fastidio enorme. E poi Bruno Giordano», ha raccontato.

Il Mondiale 1982 e il soprannome

Il Mondiale del 1982 è probabilmente il punto più alto della sua carriera. Vince con l’Italia di Bearzot, sempre titolare, protagonista assoluto. Per i compagni di squadra di quella Nazionale era «Fuffetto», soprannome pare ideato da Ciccio Graziani. E svelato involontariamente in una puntata di «Mai dire Mondiali» con la Gialappa’s Band.

Dirigente sportivo

Dopo il ritiro è stato anche dirigente sportivo. Prima al Piacenza, d.s. dal 2001 al 2004. Poi d.g. della Pro Patria, per poco più di un mese, nel 2015.

La famiglia

Collovati è sposato con Caterina Cimmino, giornalista e opinionista in tv. Hanno due figlie, Celeste e Clementina. Con quest’ultima spesso condivide scatti sui social. Lei, Clementina, si è laureata alla Bocconi e sogna di diventare una manager dell’informatica.

Personaggio tv

La televisione è divenuta il suo mondo. Sempre legato a doppio filo con il pallone. Collovati ha commentato per anni il campionato in Rai alla Domenica Sportiva. E poi i Mondiali nel 2006 e 2010. Non solo. Nel novembre del 2014 è uno dei giudici, insieme a Fabio Galante e Nicola Berti, del talent calcistico Leyton Orient condotto da Simona Ventura su Agon Channel. Ancora oggi è spesso in televisione, o anche in radio: fa insomma l’opinionista calcistico. Sempre garbato ma deciso e netto nelle sue posizioni.

La frase infelice sulle donne e il pallone

Tanto che in un’occasione, nel 2018, opinionista a Quelli che il calcio, viene sospeso per due settimane dalla trasmissione per frasi spiacevoli riferite alle donne e il pallone. «Quando sento una donna, anche le mogli dei calciatori, parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco — le sue parole —. Non ce la faccio! Se tu parli della partita, di come è andata e cose così, bene. Ma non puoi parlare di tattica perché la donna non capisce come un uomo, non c’è niente da fare». E quando gli hanno comunque chiesto un commento circa le addette ai lavori del calcio femminile aveva risposto che «Le calciatrici qualcosa sanno ma non al 100%», concludendo con un «mia moglie non si è mai permessa di parlare di tattica nei miei confronti». Poi la retromarcia via Twitter: «Mi scuso se le frasi pronunciate in chiusura di trasmissione a Quelli che il Calcio pure in un clima goliardico, abbiano urtato la sensibilità delle donne — dice Collovati —. Me ne dispiaccio ma non era mia intenzione offendere nessuno, chi mi conosce sa quanto io rispetti l’universo femminile».

Il presunto triangolo con Giulia Salemi

Come detto oggi è spesso in tv come opinionista. E lo scorso anno proprio davanti alle telecamere è stato protagonista con la moglie di un particolare triangolo, con la showgirl Giulia Salemi. Spieghiamo: durante una puntata di «Live - Non è la D’Urso» la moglie Caterina dice di aver trovato sul telefono del marito alcuni messaggi «strani» scritti proprio da Salemi. Che lo avrebbe chiamato «amore», usando un tono confidenziale. «Sono passati tanti anni, ma mi aveva veramente infastidito il tuo atteggiamento. Circa cinque, sei anni fa hai fatto un programma di calcio insieme a mio marito. Casualmente, guardando il suo cellulare, vidi dei tuoi messaggi in cui tu prendevi l’appuntamento per l’indomani per la partenza, lo chiamavi tesoro, amore, lo invitavi a una festa di compleanno. Quando ho sentito Elisabetta Gregoraci dire che importunavi Briatore, ho detto “Allora, la signorina ha il vizietto”. È una roba orribile, non lo fare mai più. Avvicinarsi agli uomini sposati è una cosa indegna». Una tesi smontata da Giulia Salemi, che ha spiegato di usare questo tono con diverse persone, e poi dallo stesso Collovati: «È una ragazza simpatica, penso che non abbia fatto nulla di male. Diceva amore a tutti». Caso chiuso.

Carlo Ancelotti. Da corrieredellosport.it l'11 agosto 2022.  

Ennesimo titolo in bacheca e gol di Benzema, la stagione del Real Madrid può iniziare. Annata nuova, solite tradizioni, i Blancos non si smentiscono e grazie alle reti di Alaba e di Karim "The Dream" vincono la Supercoppa europea contro l'Eintracht Francoforte, il primo trofeo a disposizione dei sei in palio. L'obiettivo "Sextete" con un KB9 così, molto probabilmente il prossimo Pallone d'Oro, non è certamente impossibile.

Il bomber francese supera Raul nella classifica cannonieri di tutti i tempi del Real (324 gol), davanti ora c'è solo Cristiano Ronaldo (451), e regala un'altra coppa ad Ancelotti, sempre più nella storia: re Carlo sale a 23 trofei da allenatore (Lucescu 34, Guardiola 31, Mourinho 26), diventa il tecnico con più Supercoppe europee (4) e tocca quota 9 trofei Uefa (Ferguson e Trapattoni a 7). Leggenda.

Ancelotti si affida agli undici della Decimocuarta, la quattordicesima Champions, vinta contro il Liverpool. Dunque tridente classico con Benzema al centro e Vinicius e Valverde ai lati, mentre i nuovi acquisti Tchouameni e Rudiger partono dalla panchina. Per l'Eintracht è la prima senza Kostic, Glasner si copre e lì a sinistra sceglie Lenz. Il puntero è il colombiano Borré.

Il Real palleggia e l'Eintracht si copre, aspettando i varchi per ripartire. La prima occasione della gara arriva proprio su un contropiede che i tedeschi lanciano dopo il recupero alto del pallone, Kamada però si fa ipnotizzare da Courtois, decisivo. Dall'altra parte invece è miracoloso Tuta, che in scivolata salva quasi sulla linea il piazzato in porta di Vinicius, con Trapp battuto e graziato dal suo difensore.

L'Eintracht si distende bene quando trova spazio e con Knauff impensierisce ancora una volta Courtois, sempre bravo a parare, ma al 37' incassa l'1-0: Trapp devia in corner la fucilata di Vinicius, dall'angolo Casemiro gioca di sponda per Alaba che a porta vuota sblocca la partita. Prima dell'intervallo Benzema ha la chance del raddoppio, ma la spreca calciando fuori di un nulla.

Si riparte senza cambi e con il super riflesso di Trapp che dice no al tiro deviato di Vinicius. Glasner inserisce sia Kolo Muani sia Gotze, ma a rendersi pericoloso è di nuovo il Real con Casemiro, che dalla distanza colpisce la traversa. Al 65' ecco il 2-0 del solito Benzema: assist di Vinicius e stoccata vincente di prima intenzione del candidato numero uno al prossimo Pallone d'Oro (324 gol in maglia blanca, staccato Raul). È il gol che taglia le gambe all'Eintracht, spegnendo ogni speranza di rimonta. Neanche l'inserimento da parte di Glasner di un'altra punta come Alario cambia le sorti della gara, fa festa il Real Madrid, che chiude con i nuovi acquisti Rudiger e Tchouameni in campo.

Stefano Boldrini per “il Messaggero” il 30 maggio 2022.

Artigiano, bravo, paziente, fortunato, fuoriclasse, bonario, leggendario. La quarta Champions in carriera, primo allenatore della storia a calare il poker nel calcio europeo, consegna Carlo Ancelotti alla fenomenologia dei vincitori. E' una corsa alla definizione più appropriata, a quella più sorprendente, a quella inedita. 

Eppure, se esiste al mondo un tecnico di questo livello capace di non perdere mai la testa e restare con i piedi piantati a terra, quasi a non perdere il contatto con le origini contadine, questo signore è Carletto, da due giorni convertito in don Carlo, in omaggio al Triplete del ritorno a Madrid: Supercoppa di Spagna, Liga, Champions.  

Richiamato a Madrid il 1° giugno 2021 e sì immediato perché c'è il Real e poi c'è il calcio, in 362 giorni ha portato a quota 23 la stanza dei suoi trofei, centrando il doppio record di primo manager a conquistare il titolo nei cinque campionati europei più importanti e primo tecnico a sollevare quattro volte la Champions. 

Ancelotti è oggi il miglior allenatore italiano e va collocato sul podio dei più bravi al mondo. L'affannosa ricerca dell'aggettivo più pertinente non deve far perdere di vista la materia prima, ovvero il suo lavoro. Ha ereditato un Real non al top della sua dimensione tecnica e l'ha riportato in vetta all'Europa. Ha vinto la Liga con 13 punti di vantaggio sul Barcellona. Ha trionfato in Champions, eliminando via via colossi come PSG, Chelsea e Manchester City. 

Ha domato in finale il Liverpool. Grazie soprattutto a Courtois, vero, ma essendo il portiere belga un giocatore del Real, dov' è la stranezza? Il gol decisivo è stato firmato da Vinicius, 21 anni, l'uomo che renderà meno amaro il no di Mbappé. «Courtois ha parato, Vinicius ha segnato, fine della storia», le parole di don Carlo dopo l'1-0 al Liverpool.  

A completare l'analisi, i numeri di questo Real: 56 gare, 39 vittorie, 8 pari, 9 ko, 119 gol fatti e 50 subiti. Il +69 nella differenza reti consiglia una riflessione quando si sproloquia sul calcio all'italiana: semmai, Ancelotti propone una versione più moderna, dove il centrocampo è il cuore del sistema. Dai giocatori i 44 gol di Benzema per dire - ottiene sempre il massimo: perché è credibile nella sua onestà. Ha saputo confrontarsi con proprietà ingombranti: Agnelli, Tanzi, Berlusconi, Abramovich, Perez, Al-Khelaifi.

Don Carlo e Mourinho, 121 anni in due, sono la rivincita sulla storiella del carrello dei bolliti, altra fesseria figlia dei tempi mordi e fuggi. Hanno riproposto il loro copione, fondato su equilibrio, attenzione alla difesa, rispetto dei valori umani. Poi, chiaro, hanno stili differenti: più infiammabile il portoghese, più ironico Ancelotti. 

In entrambi predomina la sicurezza. Dopo lo 0-4 incassato con il Barcellona, Carletto disse a Florentino Perez: «Tranquillo presidente, vinceremo Liga e Champions». La prima era già a buon punto, la seconda è maturata strada facendo: il ritorno con il PSG il match-chiave, quello al Bernabeu con il Manchester City l'esaltazione del madridismo. Poi Parigi. Una camminata sotto l'Arco di Trionfo è doverosa.

Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” il 30 maggio 2022.

Cantala ancora, Carlo. Lo aveva promesso e lo ha rifatto: Ancelotti ha intonato la canzone del Real (Hala Madrid) ieri al Bernabeu nella notte blanca, dopo la sfilata cittadina. Aveva promesso anche di rivincere la orejona , la coppa delle grandi orecchie, e ha mantenuto la parola: «Presidente stia tranquillo, Liga e Champions saranno nostre» ha detto il tecnico - che la doppietta non l'aveva mai centrata in carriera - al presidente Florentino Perez, piuttosto perplesso subito dopo la debacle di inizio aprile contro il Barcellona, 4-0 in casa. 

In realtà Ancelotti ha un po' bleffato: «Nemmeno io, che sono generalmente ottimista, potevo immaginare una stagione del genere. Sono l'uomo dei record, sono stato bravo, ma vincere con Real e Milan è più facile. Non penso ai numeri, ma alla felicità che provo e che abbiamo dato a tutti i nostri tifosi».

Nella lunga notte di Parigi, l'abbraccio fra Carletto, come lo chiamano anche gli spagnoli, e il suo presidente è stato intenso, accompagnato dalle parole di Ancelotti: «Grazie, grazie per avermi riportato qui». Già, perché la quarta Champions (la sesta se si considerano le due da giocatore) è speciale per almeno tre motivi: il primo è nel percorso da Indiana Jones, con le rimonte avventurose a dir poco su Psg, Chelsea, City e la vittoria finale sul Liverpool. Il terzo è per i record stabiliti, dato che Ancelotti non solo è il primo ad alzare quattro volte la Coppa più desiderata, ma con nove trofei internazionali diventa anche il più vincente di sempre, staccando miti come Trapattoni e Ferguson.

Il terzo motivo è meno evidente, ma sembra il motore di tutto il resto. E forse non a caso, quando ne parla, Carlo si commuove, come ha fatto alla vigilia della sfida di Parigi. Dopo l'esonero al Bayern, le incomprensioni e l'addio al Napoli (con un secondo posto e una qualificazione storica agli ottavi) e la routine da metà classifica all'Everton, è arrivata la svolta. Inaspettata. 

E in un momento doloroso, come quello della morte dell'ex moglie Luisa, madre di Davide e Katia, il 24 maggio di un anno fa: «e lei fino all'ultimo ci diceva che saremmo tornati al Real» ha raccontato proprio il figlio di Carlo al Corriere . La chiamata da Madrid è arrivata il 27: «Ci siamo sentiti per altre cose e iniziando a parlare mi hanno chiesto se volevo tornare. E come si fa a dire no al Real Madrid, è impossibile. Chiaramente l'Everton non era tanto contento, forse ora lo sarà di più perché abbiamo battuto il suo rivale - sorride Ancelotti -. E a me tornare al Real ha cambiato la vita».

Uno dei «segreti» di Ancelotti è quello di non anteporre mai il personaggio alla persona, mantenendo quindi la naturalezza di ogni suo gesto, in panchina e fuori dal campo.

Così, se in conferenza stampa gli offrono un sigaro per inscenare uno sketch, lui ringrazia ma rinvia la consegna a un altro momento. 

E poi anche quando dice certe cose seriamente, non si capisce mai davvero se scherza o no: «L'avevo detto a Courtois e lui può confermarlo: Thibaut, io ti porto in finale, ma poi la finale la devi vincere tu...».

Il portierone annuisce, stringe la mano al suo coach, «il migliore senza dubbio» per Karim Benzema, che ha già prenotato il Pallone d'oro. Eppure l'uomo che sussurra ai Galacticos viene criticato per le prestazioni del suo Real, sintetizzate dai due tiri in porta di sabato (uno in fuorigioco) e dalle parate mostruose di Courtois. 

«Ho visto lo stesso atteggiamento con Heynckes, che ha vinto una Champions con il Real e una col Bayern - spiega Toni Kroos -. Come se fossero solo allenatori dello spogliatoio. È una vergogna». Chiedere consiglio ai veterani sui cambi da fare, come è successo in semifinale contro il City proprio con Kroos, non è segno di debolezza, ma di forza. E di genuinità. Puro Ancelotti. 

Gigi Garanzini per “la Stampa” il 30 maggio 2022.  

Proprio nella stagione in cui nessuno l'aspettava sul traguardo, il Real Madrid ha vinto la Coppa dei Campioni più meritata della sua storia. Non per la qualità del gioco, questo no, si è visto di meglio, di molto meglio soprattutto nel passato ma anche nel presente, finale compresa. Ma per il valore degli avversari battuti uno dopo l'altro.

Una sorta di tappone alpino in cui il calendario gli ha presentato nell'ordine Psg, Chelsea, Manchester City e infine il Liverpool: tutte cioè le favorite della vigilia, con la sola eccezione del Bayern che, d'altra parte, per uscire si è fatto bastare il Villarreal. Tutte superiori sulla carta, tutte favorite: e tutte ridotte alla ragione da quel magico mix di tradizione, esperienza, consapevolezza, qualità, senza dimenticare la suerte, che fanno del dna madridista il più implacabile d'Europa.

E senza nemmeno bisogno, stavolta, di quell'arroganza in campo e fuori che altre imprese del passato aveva orientato quando non propiziato. Il miedo escenico del Bernabeu, e pazienza: ma anche certi arbitraggi da arrossirne al ricordo. Stavolta, proprio a cercare il pelo nell'uovo, quella mezza carica di Benzema a Donnarumma che diede il là alla rimonta sui parigini: rivista oggi, ma già allora per la verità, un'inezia. Che Totò avrebbe rubricato alla voce pinzillacchere.

Con il trionfo sul Liverpool, il Real ha reso ancor più inattaccabile un primato europeo destinato a protrarsi per decenni. Le Coppe in bacheca sono 14, nell'arco di 67 anni. Il Milan che è il primo inseguitore è a quota 7: seguono a 6 il Bayern e il Liverpool, per l'appunto. Un'epopea nata da subito, dalla seconda metà degli anni '50, quando il Real di Santiago Bernabeu e di Alfredo Di Stefano si aggiudicò le prime cinque consecutive. Bernabeu era il presidente, Di Stefano il fuoriclasse, attorniato ad ogni buon conto da gente che si chiamava Puskas, o Gento, o Kopa. I due allenatori che si alternarono nel quinquennio erano Luis Carniglia e Miguel Munoz: ma di loro ci si è dimenticati perché nella cultura calcistica del tempo pesavano molto, ma molto meno di oggi. 

Al punto che giusto in Spagna li avevano ribattezzati porta-maletas, sì, insomma, portabagagli. Chiuso quel primo ciclo, il Real tornò a vincere nel '66 dopo Benfica, Milan e Inter ma il digiuno successivo durò la bellezza di 32 anni sino al successo del '98 in finale contro la Juve. Seguì una doppietta ad inaugurare il nuovo millennio, con un gol al volo di Zidane che è rimasto tra i più celebrati della storia. A quota 9, la Decima cominciò a diventare un'ossessione e toccò a Carletto Ancelotti, nel 2014, l'onore di metterci la firma dopo le due già vinte alla guida del Milan.

Infine, prima dell'altra sera, il filotto delle tre consecutive firmate da Zizou, '16-17-18, tutte levate al cielo dal capitano Sergio Ramos tra una scarpata e l'altra, e non poche scelte arbitrali monocromatiche. Stavolta il Real se l'è cavata da solo. Viaggiando a fari spenti nella fase a gironi per poi esaltarsi di fronte agli ostacoli alti. Con due protagonisti assoluti, il portiere e il centravanti. Courtois, che già aveva parato un rigore a Messi e poi evitato il tracollo col City, ha preso davvero di tutto a Salah e a Manè. Benzema ha letteralmente trascinato i suoi in finale a colpi di gol e assist. 

Ma intorno a loro c'era una squadra che Carlo V o a scelta Carlo IV, a seconda che si parli di campionati o di coppe, ha assemblato alla perfezione. Ricostruendo la difesa, dando fiducia ad un centrocampo in cui gli anni cominciano a pesare ma il senso della posizione anche di più, e motivando i giovani, come Vinicius, ad andare oltre la giocata e alla ricerca anche della sostanza, oltre che del sacrificio. Dopodichè, ed è questo il passaggio-chiave, ha approcciato le partite accettando l'altrui superiorità: in particolare nella semifinale col City, ripetendo il copione con il Liverpool. 

 All'insegna del lasciarli sfogare, visto che erano più forti, ma senza mai concedere spazio alle spalle. Col City è servita una robusta dose di fortuna, all'andata così come al ritorno: e ha deciso una doppietta di Rodrygo a tempo scaduto quando nessuno ci credeva più. Col Liverpool ha sacrificato proprio Rodrygo e gli ha preferito Valverde: che ha ricambiato con una gran partita e l'assist, facciamo il tiro-cross, che ha deciso la sfida. Mai preteso, Carletto, di aver inventato il calcio. Ma a saperlo interpretare, come lui davvero pochi. 

Francesco Persili per Dagospia il 29 maggio 2022.

Una volta Maradona disse a Sacchi: “Ma nel tuo Milan corre forte anche Ancelotti?”. Arrigo rispose: “No, pensa veloce'". Dal campo alla panchina, non è cambiato "Carlo Magno", l’allenatore che ha vinto i 5 più importanti campionati europei e la quarta Champions. Pensa più veloce degli altri. Nei quarti contro il Chelsea, sotto di 3-0, ha azzeccato i cambi che hanno permesso al Real di portare a casa la qualificazione. Nella sfida con il City ha tirato fuori dal cilindro Rodrygo, "l’hombre del partido". Nella finale con il Liverpool ha lasciato da parte gli orpelli estetici: “Il bel gioco? “Rischiare di uscire da dietro palla al piede con il pressing della squadra di Klopp non mi sembrava il caso. Vinicius ha fatto gol, Courtois ha parato: finita la gita”. I detrattori lo accusano: “Più cul…atello che anima”.

Ci convive da una vita Ancelotti con lo scetticismo e le accuse, le più violente. A Torino, sponda bianconera, una frangia di pseudo-tifosi lo fulminò: “Un maiale non può allenare” (e lui: “Una grave mancanza di rispetto nei confronti del maiale, animale nobile”). 

A Napoli, dove “alcuni scienziati” dissero che era arrivato "solo per trovare lavoro al figlio", fu accusato di non essere un “domatore”: “I presidenti mi invitavano a usare la frusta. Ho sempre risposto: non la so usare. Dipende dal carattere, se usassi la frusta non sarei credibile”.

Dopo la parentesi Everton era finito sul carrello dei bolliti: “Sa vincere solo con le grandi squadre", dicevano. Ancelotti si è preso la rivincita, eliminando ad una ad una tutte le rivali (Psg, Chelsea, City e Liverpool) più accreditate per la vittoria finale della Champions. 

È stato sempre dato per finito troppo presto, Carletto. “Con quel ginocchio che si ritrova abbiamo dato una sòla al Milan”, dissero alla Roma quando Ancelotti passò alla corte di Sacchi che convinse Berlusconi a comprarlo nonostante i problemi al ginocchio. Inutile dire che poi con il Milan vinse tutto. Nel calcio conta la testa, pensare più veloce degli altri, avere grandi calciatori. "Il calcio è semplice", sostiene Ancelotti: “Le statistiche rilevanti sono solamente due: i gol fatti e i gol subiti...”. Avercene di “bolliti” così. 

Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2022.

È la notte del Real, di Vinicius che decide, di Courtois che difende, ma resta soprattutto la notte di Carlo Ancelotti, l'uomo di tutti i giorni e di tutti i record, oggi quattro Champions, come nessuno. E anche di suo figlio Davide che gli sta accanto in panchina, tante volte accusato di essere un privilegiato di famiglia, ma che ormai è anche lui da tempo un vero uomo di calcio. Il lungo ritardo ha fatto per molti momenti ripensare a un'altra partita del Liverpool, un'altra finale di Coppa Campioni, quella dell'Heysel con la Juventus a Bruxelles.

Anche lì rimase tutto sospeso per lo stesso tempo in balia della furia senza capire cosa stesse davvero accadendo. Era 37 anni fa ma sembra ancora ieri. Le somiglianze erano impressionanti, come la paura. Il primo tempo è stato lento, ma non noioso. Il Liverpool ha avuto tre-quattro occasioni chiare, non travolgenti. È mancata sempre la velocità. Quello che colpiva era la qualità tecnica delle squadre anche sul banale. 

Per avere un palleggio continuo, esatto come questo, con l'avversario sempre addosso, bisogna saper controllare il pallone in modo magistrale. Per Liverpool e Real questo è pane. È la bellezza del semplice che pochi sanno avere. Anche se spesso capita di rimpiangere il vecchio gioco verticale, l'astuzia di un contropiede. Ma non ci sono stati dribbling, pochissima profondità. Un calcio vero, anche se molto orientato, controllato. 

Come in tutte le grandi finali, l'importanza del risultato ha limitato le intraprendenze. Il gol di Vinicus a inizio ripresa, molto bello per come parte da Carvajal ed è portato all'assist da Valverde, rompe la partita e spezza in due il gioco. Diventa una diversa partita all'italiana, con quattro attaccanti del Liverpool e il Real che non dimentica il palleggio ma si chiude come fosse un avversario qualunque. È qui che il Liverpool dimostra di aver sbagliato partita, forse stagione, sia pure ai suoi livelli. 

Troppo tempo a giocare a scacchi, tocchi prestigiosi, ma velocità solo quando era già sotto. Ha perso Klopp la sua rabbia contadina, ha messo bellezza nel vecchio bisogno di essere essenziale. Grande squadra, ma splendidamente involuta. Il Real domina da oltre 70 anni, come abbia resistito al tempo e al Liverpool stasera, è un destino unico, ma resta il filo rosso del grande calcio, la continuità dell'intelligenza. Con il suo angolo d'Italia stretto al petto.

"Ronaldo e i big del calcio mi hanno fatto l'esame e l'ho sempre superato". Franco Ordine il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.

Intervista a Davide Ancelotti. Il figlio del tecnico più vincente di sempre: "Nepotismo? L'ho patito, ma ho vinto io".

Per intervistare Davide Ancelotti, figlio di Carlo, suo primo assistente al Real Madrid campione della Champions 2022 a Parigi, sono passato dal capo famiglia come si usa nelle case di un tempo educato. Carlo Magno Ancelotti, re d'Europa, sta riposando le sua stanche membra in quel di Sardegna dove ha solo il tempo, in questi giorni, di rispondere a tutte le telefonate e ai messaggi ricevuti per quel trionfo inaspettato che molti considerano una sorta di presenza divina nel calcio, una risposta magnifica alla prepotenza della vil moneta esercitata dai vari sceicchi.

«Tra gli altri mi ha chiamato Ariedo Braida e mi ha detto: grazie Carlo perché con la tua impresa hai sistemato tutti questi ingegneri nucleari che sono in circolazione!»: dietro la citazione si avverte la soddisfazione dell'uomo molto semplice e diretto che si gode ancora il successo traendone una forza ciclopica per continuare a lavorare nel calcio di prima linea sorridendo del dispetto di alcuni colleghi, tipo Klopp per esempio. «Adesso ti mando il cellulare di mio figlio sul cui conto ti racconto solo un particolare che può servire a capire come è fatto il ragazzo. Lui si era iscritto al corso italiano di Uefa pro per prendere il patentino, ha presentato la domanda con un curriculum invidiabile, lungo dieci anni e ha saputo di non essere stato ammesso. La mia reazione è stata la seguente: adesso mi faccio sentire. Lui mi ha fulminato con lo sguardo e ha detto: se lo fai ti tolgo il saluto! Senza dirmi niente si è iscritto in Galles, e ha superato il test. Ecco: questo è Davide».

Il figlio di Carlo, Davide Ancelotti, è a Ibiza in questi giorni, con i due figli Leonardo e Lucas e la compagna Ana che tra qualche giorno diventerà ufficialmente sua moglie a Siviglia: come data hanno scelto il 10 giugno, il giorno del compleanno di Carlo, una sorta di intreccio di date che tornerà presto anche nella magnifica cavalcata professionale dei due.

Allora, caro Davide, ti ricordo ragazzino a Milanello che giocavi negli allievi

«E infatti ho cominciato così: prima negli allievi, poi nella Beretti, infine nella primavera del Milan e ho avuto come allenatori Fiorin, Evani, l'attuale assistente numero uno di Mancini, Franco Baresi e Filippo Galli».

Poi perché hai deciso di cambiare strada?

«Sono andato a Borgomanero, volevo misurarmi con un club semiprofessionistico e mi sono reso conto che non avrei potuto fare molto di più. Allora ho scelto di restare nel calcio e di cambiare strada, di studiare». 

Il secondo ricordo è a Parigi, una cena con papà Carlo e altri amici durante la quale spiegavi il tuo dissenso rispetto ad alcuni metodi in voga nel settore giovanile del Psg

«Ho cominciato proprio a Parigi come uno dei preparatori del settore giovanile e anche in quella occasione ho sempre mostrato una certa curiosità: per convincermi ad adottare certi criteri di allenamento, dovevano spiegarmene la ragione. Sono sempre stato molto curioso di capire, di controllare perché il mio settore specifico è la preparazione fisica. E qui imparare il mestiere è fondamentale».

Terza tappa

«Ho sempre seguito, dall'esterno, tutte le conferenza-stampa di Carlo. Capire come si muoveva nei confronti dei media è stato un altro passaggio prezioso perché si colgono sfumature che ai più passano inosservate e invece costituiscono un patrimonio di conoscenze ed esperienze nel trattare con lo spogliatoio».

Da Parigi a Madrid, col Real: un salto triplo

«Ho cominciato a salire il primo grande scalino. C'erano da gestire grandi e titolati campioni come Sergio Ramos, Cristiano Ronaldo, avevo soltanto 23 anni e bisognava risultare convincente per ottenere il loro gradimento. Ricordo un episodio che considero l'inizio di tutto. Dopo qualche giorno di lavoro, mi prende da parte Casillas, il portiere, e mi fa: Davide a fine allenamento andiamo in palestra a fare un supplemento di lavoro. Ho capito che mi stava sottoponendo a un test, un vero e proprio esame. All'inizio ero un po' agitato, poi mi sono sciolto. Gli ho spiegato quali esercizi erano utili per la sua struttura fisica e per il suo ruolo di portiere e lui ha eseguito senza battere ciglio. È stata la promozione sul campo!».

Ma quello è stato un ruolo dietro le quinte

«Certo. La svolta è avvenuta in Germania, al Bayern. Qui, innanzitutto, sono partito col piede giusto. E cioè con la conoscenza della lingua: è stato utilissimo specie nelle prime settimane di lavoro. Durante la stagione, il primo assistente, Clements, che ha lavorato con Carlo al Psg e al Chelsea, è tornato in Inghilterra a gennaio e a quel punto si è liberato il posto. A sorpresa sono diventato io il suo primo assistente e questo attestato di grande fiducia mi ha dato una carica straordinaria».

Ma da allora probabilmente è cominciata la nomea di raccomandato

«Ho sentito parlare di nepotismo. All'inizio un po' ho patito poi ho fatto una riflessione. Se così fosse dovrebbero parlarne sempre, sia quando si vince che quando si perde. E invece, soprattutto a Napoli, il primo anno, coinciso con un campionato di ottimo valore, nessuno ha aperto bocca. I primi veleni sono spuntati durante il secondo in coincidenza di risultati deludenti. E qui mi son fatto una ragione: se funziona così, vuol dire che è solo un pretesto».

In molti di noi ha fatto un effetto speciale l'abbraccio con Carlo dopo la semifinale con il Manchester City: cosa vi siete detti in quei pochi teneri secondi?

«Nessuno ci crede quando ripeto che abbiamo parlato pochissimo. Abbiamo solo pensato che quella data era significativa, si trattava del 4 maggio, la data di nascita di mia mamma Luisa. Abbiamo pensato a lei».

Ora racconta il segreto di questo Real infinito

«Non ce ne sono, non vorrei deludere ma è così. È una storia che nasce innanzitutto da un pronostico di segno contrario: non eravamo i favoriti, un po' come è successo al Milan. Poi dall'unione del gruppo. Avevamo il vantaggio di conoscere alla perfezione tutti, dal grande campione al magazziniere e questo fa la differenza, accorcia i tempi. Poi ha inciso l'attaccamento morboso a Carlo».

Attaccamento morboso?

«Sì perché lui è in grado di esercitare tutto questo, un attaccamento morboso non al risultato ma alla sua persona da parte del gruppo perché è capace di far vivere loro in pace, con serenità, chiedendo a tutti lo stesso, e togliendo pressione. E pensare che la squadra era praticamente la stessa del precedente torneo: via due come Sergio Ramos e Varane, dentro Alaba e Camaninga».

Quale sarà il tuo futuro quando Carlo smetterà?

«Quando accadrà mi lancerò nella mischia. Ho detto a Carlo: questo sarebbe il momento giusto per smettere, hai vinto i 5 campionati, hai collezionato la quarta Champions, non hai altri record da centrare. Ma come glielo dicevo, capivo che era tutto sbagliato. Perché, e questo è forse il suo unico segreto, a lui piace questo mestiere. E allora mi son detto: perché fermarlo?».

Davide Ancelotti. Elvira Serra per corriere.it il 27 maggio 2022. 

Preoccupato per la finale di domani?

«Più che altro provo felicità, dopo un percorso incredibile, rimonte bellissime. Abbiamo eliminato squadre fortissime: Paris Saint-Germain, Chelsea, Manchester City...». 

Però non siete favoriti.

«Dire che non siamo favoriti è un azzardo. Nessuno si aspettava che saremmo arrivati fin qui. Abbiamo fiducia e rispetto per una squadra che in questo momento se non la migliore, è tra le due-tre migliori del mondo». 

Dormirà stanotte?

«Eh, non sono come mio padre, che riesce a staccare la spina e isolarsi dallo stress: questo gli ha permesso di fare l’allenatore per trent’anni».

Davide Ancelotti, 32 anni e due figli, nella panchina del Real Madrid è il vice di Re Carlo (ma il soprannome che preferisce è Master & Commander, di Carlo Pellegatti). Suo padre è l’unico allenatore ad aver vinto il titolo nei cinque grandi campionati europei (in Italia, Spagna, Francia, Germania e Inghilterra) e il primo a essere arrivato in cinque finali di Champions, staccando Ferguson, Lippi, Muñoz e Klopp. Una leggenda. Ma sempre e anzitutto il suo papà, di cui ci ha parlato con pudore e ammirazione dal Galles, dove ha seguito il corso per il patentino Uefa Pro che gli consentirà di allenare qualsiasi squadra. 

A lei quale piacerebbe?

«Il Milan, la mia squadra del cuore da quando mio padre l’allenava. Ho frequentato il settore giovanile fino alla Primavera e poi sono andato in prestito in D, dove ho smesso: non avevo abbastanza talento da professionista, già allora mi piaceva allenare». 

E quando comincerà la sua carriera da solo?

«Quando mio padre smetterà. Ha detto che dopo il Real Madrid potrebbe finire. Abbiamo un contratto di altri due anni. Dipenderà molto da quanto durerà questa avventura: per ora ce la godiamo».

È il vice di Carlo Ancelotti dai tempi del Bayern Monaco, dove avete conquistato la Bundesliga. La vittoria in Spagna ha un sapore diverso?

«Sì, è stato un anno speciale, condito dalla gioia di essere tornati al Real Madrid che è la squadra dei sogni, non c’è niente di meglio. Forse solo il Milan si può avvicinare».

Quale partita ricorda con più emozione?

«La semifinale di Champions, quando abbiamo battuto il Manchester City, il 4 maggio. Era il compleanno di mia madre, scomparsa un anno fa. Al termine della partita io e mio padre ci siamo abbracciati in lacrime: è stato il nostro modo per ricordarla. Lei fino all’ultimo ci diceva che saremmo tornati al Real Madrid: è mancata il 24 maggio; la chiamata per la Spagna è arrivata il 27...».

Sembrava una panchina di transizione, dopo Everton e Napoli. De Laurentiis vi ha chiamato per congratularsi?

«Con mio padre è rimasto in buoni rapporti, si stimano, immagino lo abbia sentito». 

Qual è stato l’ingrediente segreto di Ancelotti senior?

«Conosceva bene la maggior parte dei giocatori. C’è un gruppo di leadership che ha aiutato molto la nostra gestione: penso a Modric, Benzema, Kroos. Poi c’è un gruppo di spagnoli come Nacho e Carvajal che sono stati molto importanti nel quotidiano, si sono allenati con giovani molto competitivi: Valverde, Camavinga, Militão, Vinicius, Rodrygo... Le nostre rimonte non sono mai state colpi di fortuna: ogni giocatore ha sempre dato tutto sé stesso».

Suo padre si conferma un grande gestore di campioni.

«È l’immagine che si ha di lui: l’esperto di uomini, cui tutti vogliono bene. Ma è stato un innovatore!, il primo a giocare con il famoso albero di Natale. La sua caratteristica è sapersi adattare e questo presuppone grande conoscenza: il calcio si può vincere in tante maniere, ma devi saperlo insegnare in modi diversi». 

E dov’è la sua firma?

«Ho il compito, con lo staff, di sfidarlo continuamente, metterlo in discussione, perché abbia sempre dei dubbi. Non siamo yes man. Poi in allenamento gli do una grande mano con l’organizzazione. Oggi si cerca di individualizzare il più possibile il lavoro: c’è l’aspetto fisico, psicologico, tattico, il gioco degli avversari. Una persona sola non può controllare tutto». 

Con voi si parla spesso di clan: il marito di sua sorella è il nutrizionista della squadra.

«Lavoro da 10 anni con mio padre e il tema del nepotismo salta fuori quando si perde». 

Ma a lei pesa essere considerato un raccomandato?

«Sono consapevole che ci siano questi pregiudizi, e sì, penso sempre di dover dimostrare qualcosa. Ma per me è benzina: mi fa stare motivato e non la voglio perdere. Però per il posto di vice non si fanno casting, ogni allenatore sceglie un uomo di fiducia».

Qual è la squadra che glielo ha fatto pesare di più?

«L’unica italiana dove ho lavorato: il Napoli. Ma credo sia legato al fatto che in Italia la parentela fa più rumore». 

A Napoli sono nati i suoi gemelli, Leo e Lucas.

«E questo mi farà ricordare ancora di più il bello dell’esperienza. A Napoli sono stato benissimo, vivevamo nella Riviera di Chiaia. Il primo anno abbiamo fatto bene, siamo arrivati secondi, ma la Juve aveva comprato Cristiano Ronaldo. Il difficile è stato quando le cose hanno cominciato ad andar male e non siamo riusciti a raddrizzarle. Mi spiace sia finita così». 

Chi è l’allenatore più bravo di sempre?

«Il mio è un giudizio di parte. Ma quello che ha fatto mio padre è quasi impossibile». 

Vuole somigliargli?

«Da lui ho imparato che vengono prima i giocatori: bisogna partire da loro. Però voglio avere la mia identità». 

Che nonno è Carletto?

«Non ha tantissimo tempo per i 5 nipoti. Lo tiene in sospeso per quando smetterà». 

Ha conosciuto un po’ di celebrità in Spagna?

«Ci lavoro tutti i giorni! Spesso ci si dimentica che sono ragazzi, certo privilegiati, però hanno pressioni che non è facile gestire a 19-20 anni». 

Il 10 giugno si sposa con Ana Galocha. Auguri!

«Dovevamo sposarci nel 2020, prima della pandemia. Lo faremo a Mairena de Alcor, Siviglia. L’anno che si è sposata mia sorella eravamo a Madrid e abbiamo vinto la Champions. Speriamo che sia un destino già scritto!».

Stefano Cantalupi per gazzetta.it il 28 maggio 2022.

Sono quattordici per il Real Madrid. Quattordici Champions League, fa impressione solo scriverla, una cosa del genere. Carlo Ancelotti è di nuovo il re di Parigi, come ai tempi del Psg... ma il suo regno, da stasera, è di una grandezza inesplorata, abbagliante: quattro volte sul tetto d'Europa, non c'era mai riuscito nessuno. Il Liverpool mastica amaro di nuovo, quattro anni dopo la finale persa a Kiev coi blancos: stavolta non è il portiere dei Reds (Karius) a essere decisivo in negativo, è quello del Madrid (Courtois) a diventare un muro con due pale al posto delle braccia. Finisce 1-0, a Saint-Denis. La firma è quella di Vinicius, la Casa Blanca è di nuovo padrone d'Europa e l'Inghilterra resta senza trofei europei. 

La partenza è... falsa, nel senso che si comincia con oltre mezz'ora di ritardo. Problemi nell'accesso dei tifosi inglesi che restano fuori a centinaia, clamorosa disorganizzazione nel gestire l'afflusso allo Stade de France. Gas urticante spruzzato anche sui bambini, caos assoluto. E qualche incidente ai gate d'ingresso per bloccare i tentativi di chi prova ad approfittare della situazione per scavalcare senza biglietto. Turpin fischia l'inizio alle 21.36, ma Reds e Madrid aggiungono qualche ulteriore minuto di attesa, prima di cominciare ad affrontarsi per davvero. Il 4-3-3 di Klopp e il 4-4-2 di Ancelotti impattano frontalmente, riuscendo ad annullarsi a vicenda per un quarto d'ora. Poi la bilancia del match comincia a inclinarsi verso il piatto rosso: Alexander-Arnold e Salah si cercano e propiziano l'uno le conclusioni dell'altro, ma l'occasione migliore capita a Mané e non si concretizza per un pelo. 

BENZEMA... ANZI NO—   Se Courtois non facesse un miracolo sul destro del senegalese, mandandolo a sbattere contro il palo, parleremo di un altro match. Invece la parità resiste, il Madrid ha modo di carburare senza andare sotto nel punteggio e appena prima dell'intervallo troverebbe pure il vantaggio: buon per i Reds che l'intervento di Fabinho a contrastare il tiro di Valverde non venga considerato una "giocata" dal Var, decisione che decreta automaticamente il fuorigioco di Benzema, l'autore della zampata vincente. Turpin non rivede l'azione e si fida dell'overrule, ma insomma, resta qualche dubbio. Klopp tira un sospiro di sollievo e va negli spogliatoi, con la sensazione che Ancelotti lo stia piano piano imbrigliando, in maniera simile a ciò che Carvajal sta facendo col pericolo pubblico Luis Diaz.

VINI-GOL—   Si riparte e si arriva senza scossoni all'ora di gioco: il momento in cui la partita si spacca. Micidiale il Madrid nel leggere e punire gli sbandamenti della difesa inglese, prontissimo Valverde a materializzarsi per il cross, presente Vinicius nel tocco in rete a porta vuota. Stavolta il check Var non strozza l'urlo madridista, è l'1-0 e la coppa sembra tingersi di bianco. È presto, però. Salah chiama ancora Courtois al tuffo, Klopp toglie Diaz e mette Jota, i Reds si buttano avanti a testa bassa e il portiere belga deve ancora superarsi per mettere un piede tra Salah e la rete del pareggio. Le mosse successive saranno Keita e Firmino. 

COURTOIS ENORME—   L'ultimo quarto d'ora è un assedio dei Reds, ancora vitali nonostante le 63 partite disputate in stagione (ovvero tutte quelle possibili...). Keita spreca dal limite, poi nuovo duello Salah-Courtois e il portiere belga è semplicemente gigantesco nel volare sul tiro dell'egiziano, strepitoso nel controllo e nel dribbling su Mendy. Salah picchia im pugni sul prato, capisce che è un'altra notte stregata (a Kiev uscì infortunato dopo mezz'ora). La marea rossa monta, spinge, carica, ma non passa. E al fischio finale di Turpin, Ancelotti è di nuovo Re Carlo. Liga e Champions: meno male che lo davano per finito. 

Da gazzetta.it il 28 maggio 2022.

Altra serata memorabile per Carlo Ancelotti, che conquista la sua quarta Champions League in carriera, la seconda col Real Madrid. E nemmeno i blancos possono lamentarsi: per il club di Madrid le Champions sono addirittura 14, il doppio di qualunque altra squadra europea.  

Che per Ancelotti sia una serata più che speciale si intuisce da come festeggia, ballando insieme ai suoi giocatori sotto la curva dei tifosi del Real. "Non ci credo - commenta a caldo - ho vinto 4 Champions. Sono stato bravo, aiutato da grandi squadre e grandissimi giocatori due col Milan e due col Real che sono le squadre che ne hanno vinte di più e che amo di più. Tutte e quattro hanno un sapore speciale, dalla prima fino ad Atene al 2014 con la fine dell'ossessione della Decima per il Real. Siamo usciti bene da una partita difficile, abbiamo sofferto nella prima parte ma ce la siamo cavata con la qualità che abbiamo, anche grazie a un grande impegno. Abbiamo negato il gioco verticale al Liverpool, una grande rivale. Ottimi Alaba, Militao, Mendy, perché non ci hanno mai preso alle spalle. 

Ovviamente non possono mancare gli elogi a Courtois. "Sinceramente ho già visto partite così da parte sua, chiaro che oggi ha fatto i miracoli. Non ci sono neanche molte parole, per noi è stata una Champions difficile. Le difficoltà minori le abbiamo avute proprio nella partita di oggi. Dopo il City le nostre possibilità sono aumentate notevolmente. La qualità, l'esperienza dei veterani e l'impatto dei giovani, tutti hanno dato un contributo importante. Poi è chiaro che non ho mai visto vincere senza fortuna".

Stefano Boldrini per “il Messaggero” il 6 maggio 2022.

Che notte. Carlo Ancelotti stavolta suggerisce il titolo rubando le parole a una famosa canzone di Fred Buscaglione. Che notte davvero quella di Madrid, dopo il 3-1 del Real sul Manchester City, la conquista della diciottesima finale dei Blancos, la quinta personale dell'allenatore italiano, la terza contro il Liverpool dopo quella persa nel 1981 e vinta nel 2018. All'una di ieri mattina l'area del Bernabeu era ancora un delirio. Una noche de fiesta, come se il Real avesse portato a casa la 14° Coppa dei Campioni/Champions, con gli under 30 a tirare tardi tra selfie, video e birra. 

Una notte di emozioni incredibili, di commozione senza freni come l'abbraccio di Ancelotti con il figlio Davide, i calciatori del Real in delirio e Karim Benzema che sente profumo di Pallone d'Oro: un trionfo nella finale di Parigi il 28 maggio, e sarà suo.

Che notte, dice Ancelotti. Ma anche che day after. Il Liverpool è forse la squadra più in forma d'Europa. Ha un parco giocatori da paura. Ha voglia di prendersi una colossale rivincita dopo il ko di Kiev del 2018, provocato in parte dalle papere del portiere Karius. Ma se c'è un gruppo al mondo che può battere questo Liverpool, è il Real. E se esiste un allenatore capace di creare problemi a Jurgen Klopp, questo fenomeno è Carlo Ancelotti. Il quale, non a caso, viene celebrato in lungo e largo da stampa spagnola, britannica e italiana.

Qualcuno piazza il domandone: è il miglior tecnico italiano di tutti i tempi? Difficile dare risposte sicure a quesiti di questo genere, ma affermare che Ancelotti è un fuoriclasse della panchina non è figlio dell'ubriacatura del momento. Ha vinto i cinque campionati europei più importanti. Ha sollevato tre volte la Champions insieme a Zinedine Zidane e Bob Paisley: se calerà il poker a Parigi, nessuno come lui. Ha raggiunto la quinta finale Champions: altro record. Surrealiste titola L'Equipe, come sempre geniale.

Ancelotti ha dato scacco a Guardiola con i cambi, con la gestione del match e, soprattutto, con quella dell'approccio alla partita: «Ho mostrato alla squadra i video delle nostre otto rimonte stagionali. Contro il City siamo saliti a quota nove e l'ultima è sicuramente la più importante. Arrivare in finale è un enorme successo. 

Abbiamo eliminato dagli ottavi in poi PSG, Chelsea e Manchester City. Club ricchi, forti, con grandi manager. Ma noi siamo il Real». L'altra faccia di questa notte è lo stravolgimento di Guardiola. Ha incassato la peggior sconfitta di sempre, quella che ribadisce il senso di una maledizione: dal 2011 Pep non solleva più la coppa, pur avendo avuto tutto, tra Bayern e Manchester City, per vincerla. Questo ko segna una linea. Portare a casa un'altra Premier stavolta non potrà consolare Guardiola e tutto il mondo City. Porsi qualche domanda, a cominciare dal diretto interessato, a questo punto è legittimo.

Giulia Zonca per “La Stampa” il 6 maggio 2022.

«Madre mia», è la frase più pronunciata al Bernabeu e anche la prova che stavolta l'impensabile, per quanto assurdo, era prevedibile. Il Real Madrid ha segnato i due gol necessari per restare in partita al minuto 90 e 91, doppietta di un singolo giocatore, Rodrygo: in questa estrema sintesi il risultato sembra folle solo che qui si parla di una squadra abituata a piegare il destino ai propri desideri. 

Esiste una teoria filosofica per cui se la tua mente è allenata a pensare a quello che vuole e le azioni seguono di conseguenza, ciò che si spera succede. Già vivere così è molto più complicato di quanto sembri, giocare secondo questo credo è possibile solo per il Real. Solo per chi ha vinto 13 volte la Champions, più di chiunque altro club e lo ha fatto pure 3 anni di fila. 

Loro, i protagonisti, dicono sia «inspiegabile» e da fuori siamo portati a credere che sia merito della storia, ma c'è altro. Una concretezza spietata, una sicurezza che nutre senza portare fuori giri, un'abitudine alimentata costantemente. 

Prima prova di autoderminismo spinto. Quando manca un'ora alla partita Ancelotti mostra ai suoi il video con le otto rimonte della stagione, comprese quelle contro Psg e Chelsea.

Alla fine dice semplicemente: «Ne manca una». Quello che si è già fatto si può ripetere, si può addirittura migliorare e se non era poi così sorprendente recuperare il gol di svantaggio rimediato all'andata contro il Manchester City (in una partita spettacolare, già carica di recuperi) sarebbe stato incredibile dopo la rete incassata a 17 minuti dalla fine. 

E invece no. Indizio numero due, quando Mahrez segna, lo stadio canta. Come niente fosse, come se si trattasse di una sfida, persino di un segnale. Non smettono più e il Real consuma il tempo senza perderlo, lo vede passare e non lo sente fuggire via. Una calma che Ancelotti rispecchia e impone. 

Ha l'aria di uno che ha visto e sperimentato troppo per lasciarsi sconvolgere. Però l'ha sempre avuta, anche quando era molto più giovane e meno titolato. L'ha avuta da subito, quando era contestato, quando si è messo a vincere e se la è portata dietro anche quando ha vinto la Decima, la Coppa più attesa, se la è tenuta quando è stato accantonato pochi mesi dopo. È parte del suo modi di guidare il gruppo, è incontestabile e contagiosa. 

Dopo il delirio di quei due minuti, persino meno, si scatena il controllo assoluto, una prova di forza più che una botta di fortuna. Ai supplementari il City accusa il ribaltone e il Real osa, spinge sul rischio. Terzo indizio. È il momento del calcio di rigore: Benzema tira su i calzettoni, guarda Rodrygo e gli chiede: «Lo vuoi? Lo vuoi?». 

Il giocatore più determinante dell'anno, 10 gol nelle partite a eliminazione diretta della Champions, record che ora Ronaldo deve condividere, si offre di cedere il tiro più importante a chi ha 13 anni meno di lui e si è già preso la serata con una doppietta pesantissima. 

Rodrygo non gli risponde neanche, probabile che non lo prenda sul serio, ma che fosse una battuta, un colpo ai dadi o un azzardo è comunque l'ennesimo segno di confidenza con il pericolo. La quarta prova è nella festa, con la maglia «Por la 14» e vale doppio: l'hanno fatta prima, certi del loro futuro (va bene prepararla per una finale dove tutto può succedere, ma per una semifinale in salita? ) e se la sono messa in faccia alla scaramanzia. L'hanno sfoggiata agitando il Liverpool.

Salah ha subito postato: «Conti in sospeso». Il Real non vivrà l'annuncio come una minaccia. Credono solo in loro, non certo alla superstizione e nemmeno nei miracoli. Rimontare quando tutto sta per cedere, a Madrid è quotidianità.

Estratto dell’articolo di G.Dec. per “Libero quotidiano” il 6 maggio 2022.  

[…] Ancelotti ha anche una altra qualità: sa farsi volere bene dai suoi giocatori. E quando questi sono anche dei super -campioni allora si capisce perché Carletto è uno degli allenatori più titolati al mondi. «Ha chiesto a noi giocatori veterani la nostra opinione su quali modifiche apportare alla squadra nei tempi supplementari. Questo descrive perfettamente l'allenatore che è e perché lavora così bene con questa squadra». Parola di Toni Kroos, uno dei maggiori talenti del calcio tedesco dopo i supplementari contro il City. […] 

Da corrieredellosport.it il 6 maggio 2022.

Dopo Psg e Chelsea, il Real Madrid elimina anche il Manchester City di Pep Guardiola e vola in finale di Champions League, dove sfiderà il Liverpool di Jurgen Klopp. La squadra di Carlo Ancelotti, dopo aver festeggiato la vittoria della Liga, si è resa protagonista dell'ennesima rimonta, ribaltando in poco più di un minuto il momentaneo vantaggio degli inglesi firmato Mahrez. 

Poi il calcio di rigore dello straordinario Benzema nel primo tempo supplementare ha portato la qualificazione sui binari dei Blancos. Per il tecnico di Reggiolo si tratta di un record: è infatti il primo allenatore a raggiungere cinque finali di Champions League, superando Marcello Lippi, Sir Alex Ferguson e Jürgen Klopp (quattro presenze a testa).

Al termine della sfida, ai microfoni di Sky Sport, Fabio Capello ha commentato così la bellissima sfida del Santiago Bernabeu: "Stasera ho visto un Real Madrid convinto della propria forza: ha creato delle occasioni, Vinicius ne ha sbagliate due clamorose. Ha avuto il colpo di fortuna al momento giusto, la fortuna di Carletto è famosa e dà il colpo d'ala che lo porta a volare. 

Però a me è piaciuto questo Real, ha giocato con determinazione, ha cercato di non farsi sorprendere. Aveva detto che voleva una difesa attenta, lo è stata abbastanza. Ha avuto un colpo di fortuna anche col salvataggio sulla riga, però credo che vista stasera la vittoria sia meritata". Parlando della finalissima contro i Reds di Jurgen Klopp in programma il prossimo 28 maggio allo Stade de France di Saint-Denis: "Sarà molto interessante, il Liverpool gioca un calcio molto verticale e veloce".

Da corrieredellosport.it il 6 maggio 2022.  

"Dopo il Real Madrid probabilmente smetterò. Ma se il Real mi tiene qui per dieci anni, allora allenerò per dieci anni". Sono le parole di Carlo Ancelotti in un'intervista a Prime Video sul suo futuro. Il tecnico italiano, tornato ai Blancos in estate, è diventato il primo allenatore di sempre a vincere il campionato nei cinque top campionati europei: serie A col Milan, Premier col Chelsea, Ligue 1 col Psg, Bundesliga col Bayern e ora la Liga col Real.

"Futuro? - prosegue Ancelotti- Dopo mi piacerebbe stare con i miei nipoti, andare in vacanza con mia moglie, ci sono tante cose da fare che ho tralasciato e che mi piacerebbe fare. Andare in tanti posti in cui non sono mai stato. Non sono mai stato in Australia. Non sono mai stato a Rio de Janeiro. Andare a trovare mia sorella più spesso. Purtroppo non è che si può fare tutto, e quindi il giorno in cui smetterò avrò tutte queste cose da fare".

"Benzema? È al livello più alto della sua carriera"

Ancelotti ha poi parlato dell'uomo chiave del suo Real Madrid, Karim Benzema: "Una delle caratteristiche di Benzema e della sua carriera è stata la continuità. Ha progredito sempre, non ha avuto una carriera di alti e bassi, ma una carriera costantemente ad alti livelli. Forse adesso è al livello più alto della sua carriera. Karim non va allenato, ma neanche gestito. Karim va utilizzato. Gestito si gestisce da solo perché è un grande professionista, molto umile, un grande giocatore. A Karim non gli si dice niente, questa è la verità. Molte partite ce le ha risolte, è stato determinante in questa stagione. Ma non si vince solo per Benzema, dietro c'è la struttura forte del club e la qualità di una rosa che è di alto livello. Pallone d'Oro? Non c'è un se e un ma. Credo che lo vincerà lui".

Sul possibile arrivo di Mbappé scherza: "In generale i giocatori bravi giocano...". Infine su una possibile carriera in Nazionale: "Adesso è prematuro, non sicuramente per questo Mondiale. Il Mondiale 2026, perché no? Potrebbe essere. Il Canada? Mi piacerebbe, certo. Il Canada ha fatto benissimo", confessa Ancelotti, sposato con la canadese Mariann.

(ANSA il 30 aprile 2022) - Grazie al 4-0 (doppietta di Rodrygo, poi Asensio e Benzema) all'Espanyol Barcellona, il Real Madrid allenato da Carlo Ancelotti ha conquistato il 35/o titolo spagnolo della propria storia con quattro giornate d'anticipo, ed è un titolo da record per il tecnico italiano: Ancelotti e' infatti il primo allenatore ad avere vinto tutti e cinque i top campionati d'Europa, dopo i titoli conquistati con il Milan (2003/04), il Chelsea in Inghilterra (2009/10) il Paris Saint-Germain in Francia (2012/13), il Bayern Monaco in Germania (2016/17)

Da corrieredellosport.it il 2 maggio 2022.

Se ne è scritto e parlato come fosse stata la "partita del secolo", ma in realtà la semifinale di andata di Champions League tra Manchester City e Real Madrid, terminata 4-3 per gli inglesi, non per tutti è stata il "massimo". Tra questi, uno dei protagonisti, Carlo Ancelotti, tecnico dei blancos, che come rivelato su Sky da Fabio Capello, non sarebbe rimasto propriamente soddisfatto dalla prestazione dei suoi all'Etihad e in particolare del reparto difensivo. 

Incrociatisi in settimana a Londra, in una videoconferenza organizzata dall'ambasciata italiana per un forum tra allenatori, giocatori e dirigenti del nostro Paese che si sono misurati col calcio inglese, Carlo Ancelotti e Fabio Capello, si sono intrattenuti per una chiacchierata informale, che ha rivelato lo stato d'animo del tecnico di Reggiolo, fresco trionfatore nella Liga con il record di titoli vinti nei principali campionati europei, in vista del match di ritorno con la squadra di Guardiola: "Fabio, speriamo che nel ritorno i difensori siano meno ballerini, perché voi vi siete divertiti a vedere City-Real, io per niente, invece".

Da sport.sky.it il 2 maggio 2022.

Il tecnico, dopo aver vinto la Liga con il Real Madrid ed esser diventato il primo allenatore ad aver trionfato in campionato nelle prime cinque leghe europee, si è scatenato nei festeggiamenti con il brasiliano Vinicius. Non una prima volta per Ancelotti, che non ha mai avuto paura di mostrare il suo lato più scanzonato e passionale tra performance canore e culinarie

Con la vittoria della Liga, Carlo Ancelotti è entrato nella storia: primo allenatore ad aver vinto il campionato nelle prime cinque leghe europee: in Italia con il Milan, in Inghilterra con il Chelsea, in Francia con il Paris Saint Germain, in Germania con il Bayern Monaco e ora, appunto, in Spagna con il Real Madrid 

Dopo il 4-0 all'Espanyol sono partiti i festeggiamenti, sia in campo che soprattutto in città. E in queste occasioni Carletto non si tira mai indietro...

Sul pullman che ha portato la squadra in giro per la città, il tecnico di Reggiolo si è lanciato in un ballo scatenato con il brasiliano Vinicius 

L'attaccante verdeoro ha rincarato la dose, postando oggi sui social una foto con alcuni compagni e lo stesso Ancelotti intento a fumare un sigaro con gli occhiali da sole. Una didascalia esplicativa: "The BOSS"

Ancelotti-Real Madrid: scudetti in 5 paesi, il karaoke, Lino Banfi, l’elicottero, il tifo per l’Inter, l’imitazione di CR7. 10 cose sul tecnico. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

Quinto campionato vinto in cinque paesi diversi, il tecnico emiliano è anche un uomo pieno di interessi e di risorse fuori dal campo, che lo rendono particolarmente amato dai campioni, da Ronaldinho a Cristiano Ronaldo. Che Carletto si è permesso anche di imitare più volte.

Ancelotti e la Liga

Carlo Ancelotti ha vinto la Liga con il Real Madrid oggi, sabato 30 aprile, con il robusto 4-0 ai danni dell’Espanyol (doppietta di Rodrygo, poi Asensio e Benzema): si trattava comunque di un titolo scontato perché a cinque partite dalla fine il Real aveva 14 punti di vantaggio sul Siviglia, secondo a quota 64. Per i madrileni è il 35° titolo della storia.

L’ex tecnico del Milan, tornato alla corte di Florentino Perez l’estate scorsa tra lo scetticismo generale, è anche in semifinale di Champions e il 4 maggio, sempre al Bernabeu, proverà a ribaltare il k.o. per 4-3 all’Etihad Stadium contro la squadra di Pep Guardiola (26 aprile). Se trionferà anche lì si vedrà. Intanto con questo titolo Ancelotti diventa il primo allenatore della storia a vincere il campionato nei top cinque tornei europei.

Ha trionfato in serie A alla guida del Milan nel 2004; in Premier League con il Chelsea nel 2010; in Ligue1 con il Psg nel 2013; in Bundesliga con il Bayern Monaco nel 2017. Nella prima avventura al Real (biennio 2013-2015) niente campionato ma una Champions nel 2014, la terza con due squadre diverse (vinta infatti anche con il Milan nel 2003 e 2007). Adesso è arrivato anche il trofeo nella Liga. Una consacrazione per uno dei tecnici più bravi di tutti i tempi.

Una leggenda del calcio

Carlo Ancelotti è tornato al Real Madrid nell’estate 2021, dicendo addio all’Everton, che allenava dal dicembre 2019 e riabbracciando la Casa Blanca dove tra il 2013 e il 2015 aveva vinto una Coppa di Spagna, una Champions (la decima delle Merengues), una Supercoppa Europea e un Mondiale per club. In panchina Ancelotti ha iniziato la carriera come vice di Arrigo Sacchi nella Nazionale nel triennio 1992-1995, per poi allenare Reggiana, Parma, Juventus, Milan, Chelsea, Psg, Real Madrid, Bayern Monaco, Napoli e poi Everton. Tanti i trionfi in carriera. Con i rossoneri spiccano le due Champions: una conquistata a Manchester nel 2003 ai rigori contro la Juve; l’altra nel 2007 ad Atene contro il Liverpool nella rivincita di Istanbul 2005. Da calciatore ha giocato con Parma, Roma e Milan. E proprio con i rossoneri ha vinto la Coppa dei Campioni due volte: nel 1989 e nel 1990. Straordinario in campo e in panchina — nel 2019 la rivista francese France Football lo ha inserito nella top 50 degli allenatori più forti della storia del calcio — è un uomo dai mille interessi e dalle mille risorse anche fuori.

Cantante e re del karaoke

Durante la sua carriera da tecnico Ancelotti si è dilettato nel cantare i cori delle proprie squadre che allenava. Con il Milan a San Siro «Alè, Milan alè» e al Santiago Bernabeu «Hala Madrid y Nada Mas» per festeggiare i trofei vinti. Invece, al termine della stagione con il Bayern Monaco cantò «I migliori anni della nostra vita» di Renato Zero. Al Chelsea nei pre ritiri stagionali organizzava il karaoke e faceva cantare a turno i propri giocatori. E anche al Napoli si è dimostrato uomo spettacolo nei ritiri e nelle presentazioni, anche con il presidente De Laurentiis.

Attore con Banfi (sognando De Niro e Pacino)

Ancelotti ha raccontato più volte di motivare i suoi giocatori con i film: prima della finale di Manchester tra Milan e Juventus del 28 maggio 2003 aveva preparato un video con il discorso di Al Pacino in «Ogni maledetta domenica». I suoi attori preferiti sono Roberto Benigni e Robert De Niro. È apparso nei film «L’allenatore nel pallone» e «L’allenatore nel pallone 2» con Lino Banfi. Ha interpretato in entrambi se stesso: nel primo film è ancora un calciatore della Roma, mentre nel sequel allena il Milan. È apparso nel ruolo di se stesso anche nel film «Mezzo destro mezzo sinistro - 2 calciatori senza pallone», con Gigi e Andrea durante una partita di tennis. Ha recitato anche nel film «Don Camillo» con Terence Hill, giocando nei «Devils» di Peppone.

Contadino gourmet

Ancelotti è nato a Reggiolo (10 giugno 1959) da una famiglia di contadini. Dai genitori ha imparato il senso del lavoro e del sacrificio. Due qualità fondamentali. Nonostante la fama e i successi in carriera, ama molto la cucina casereccia (soprattutto salumi e formaggio). È una buona forchetta e un ottimo intenditore. Non a caso la sua autobiografia del 2009 si intitola: «Preferisco la coppa: vita, partite e miracoli di un normale fuoriclasse».

Pilota di elicottero

In passato ha superato a pieni voti l’esame teorico e quello pratico e ha ottenuto la licenza da pilota per volare in elicottero. Ancelotti, scherzando, giustificò così la sua scelta: «L’ho presa per motivi di traffico. Oggi è molto più comodo viaggiare in elicottero». Pilota di elicottero era anche la sua ex moglie Luisa Gibellini, scomparsa il 24 maggio scorso.

Quel pianto per l’Inter

Ancelotti da bambino era tifoso dell’Inter. A Mantova, il 16 gennaio 1972, i biglietti terminarono e il piccolo Carlo si mise a piangere davanti ai cancelli dello stadio. Uno steward, intenerito, lo fece entrare per assistere al secondo tempo. Morale: nella ripresa i nerazzurri segnarono cinque gol (la partita finì 1-6). Per la felicità del neo tecnico del Real Madrid.

L’imitazione di Cristiano Ronaldo

Ancelotti non smette mai di stupire i suoi giocatori. Al Real Madrid tutti si ricordano l’imitazione dell’esultanza di Cristiano Ronaldo, con il quale nel biennio 2013-2015 ha avuto un rapporto fantastico (più volte ricordato dallo stesso fuoriclasse portoghese). Era il 22 novembre 2014 e l’ex attaccante dei Blancos segnò contro l’Eibar.

Amato dai campioni

Di Cristiano Ronaldo si è detto, ma Ancelotti in carriera ha avuto ottimi rapporti con altri fuoriclasse da lui allenati. I nomi? Ronaldinho, Henry e Ibrahimovic, giusto per farne qualcuno. Epico l’aneddoto su Dinho, quando venne beccato alle 3 di notte: «Aveva il permesso fino alle cinque di mattina. È tornato alle tre, significa che non si stava divertendo». Invece dopo un 2-0 rifilato al Marsiglia nel 2013 Zlatan si avvicinò al tecnico: «Mai giocato in casa di contropiede». Secca la risposta di Ancelotti: «Mai giocato con una punta incapace di tenere palla». Risata di Ibra, a dimostrazione della complicità dei due. Infine, il francese. Ancelotti si è sempre rammaricato di non aver capito, ai tempi juventini, che Henry non fosse un esterno. La storia è stata raccontata dall’attaccante stesso: «Carlo non voleva lasciarmi andare, nemmeno in prestito. È stata la Juventus a mandarmi via. Quando è accaduto, Ancelotti mi ha chiamato». Una conferma delle grandi doti umani e diplomatiche di Carlo. Che, non a caso, nel 2007 ha ricevuto dall’Università bulgara di Plovdiv «Paisii Hilendarski» la Laurea honoris causa in Comunicazione e Sport.

La figlia Katia e la rapina sventata

Da Luisa Gibellini, con cui è stato sposato 25 anni (nel 2014 si è risposato con Mariann Barrena McClay, una donna d’affari canadese di origini spagnole), Ancelotti ha avuto due figli, Katia e Davide, suo collaboratore. Proprio Katia nel febbraio è stata protagonista di un fatto di cronaca di cui si è molto parlato quando due malviventi entrarono nell’abitazione di Blundellsands, un’area nella storica contea del Lancashire, in Inghilterra, portando via una cassaforte. Ancelotti non era in casa, ma c’era appunto sua figlia che ha messo in fuga i due. L’ex allenatore del Milan era stato chiamato dagli agenti, mentre stava preparando la partita del suo Everton contro il Fulham.

George Weah. Da ilnapolista.it il 15 aprile 2022.

Weah torna a parlare di calcio. Di «calcio e politica, Italia e Liberia, presente e futuro, poco passato». Di razzismo e di Liberia parla rigorosamente in inglese. L’intervista completa la rilascia a Calciomercato.com. Qui alcune delle sue parole. 

«Il calcio mi piace. È stata la mia vita e grazie a Bein Sports che trasmette anche in Liberia posso vedere dal satellite tutte le partite importanti. Questa settimana ho visto la Champions League e sono rimasto impressionato da Real Madrid-Chelsea, uno spettacolo molto emozionante»

«Ibra è una leggenda, ha passione, se l’allenatore gli dà fiducia fa bene a continuare. Del resto io ho giocato con Pietro Vierchowod, che è stato in campo oltre i 40 anni e anche Paolo Maldini è arrivato a quell’età. È possibile, se ci sono l’entusiasmo e la salute. E vogliamo parlare di Buffon, lui gioca ancora, no? Quanti anni ha? Lui potrebbe arrivare a 50!»

«Lo so, purtroppo il razzismo è ancora negli stadi, perché è ancora nella vostra società. L’africano, il nero, il diverso è visto in Europa ancora con diffidenza da troppa gente e i politici spesso coltivano questa diffidenza. Cosa ricordo di Porto-Milan? Un avversario cattivo e ignorante che per tutta la partita mi ha insultato facendomi il verso della scimmia. Lo vedevano i miei e i suoi compagni, penso anche l’arbitro, che però non fece nulla. Alla fine, nel tunnel degli spogliatoi, gli diedi una testata. Sbagliai, lo so. Ma in quel momento volevo che dal giorno dopo, ogni volta che si guardava allo specchio si ricordasse di me».

«La mia gente mi vuole bene, continua ad amarmi e a credere in me, perché vede che i risultati della mia presidenza stanno arrivando. In questi tre anni, nonostante la pandemia da coronavirus la nostra economia è cresciuta, la disoccupazione è calata, abbiamo costruito infrastrutture e consolidato la pace, che è la base su cui costruire il progresso di un popolo. Proprio questa settimana abbiamo presentato in parlamento una legge anticorruzione che servirà a estirpare uno dei mali cronici della Liberia, anche se in realtà la corruzione è uno dei mali del mondo, anche di quello occidentale. Perché dietro la corruzione ci sono soldi rubati al popolo».

«Circa il 50% dei liberiani ha concluso il ciclo vaccinale. Abbiamo spinto la popolazione a farlo, anche se da noi i vaccini sono arrivati in ritardo rispetto all’Europa, però li abbiamo gestiti bene. Fortunatamente la pandemia mi ha colpito in modo meno grave che in Europa e in Asia e siamo riusciti a reggere, grazie anche alla collaborazione della popolazione». 

A novembre Timothy, il figlio di Weah, sarà il primo Weah a giocare la Coppa del Mondo di calcio, con gli Stati Uniti.

«Prego perché ciò accada, sarebbe fantastico. Timothy è forte, non posso dire quanto, perché in questi anni è stato un po’ condizionato dagli infortuni, non si è ancora espresso al massimo del suo potenziale. Io e la mamma e i suoi fratelli siamo felici per la sua carriera e orgogliosi che possa giocare un Mondiale. Io ci sono solo andato vicino, nel 2002, ma abbiamo perso all’ultima partita di qualificazione. Sarei contento se un giorno giocasse nel Milan.

Clarence Clyde Seedorf. Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 7 marzo 2022.

«Sono felice di unirmi ai fratelli e alle sorelle di tutto il mondo, soprattutto alla mia adorabile Sophia che mi ha introdotto al significato dell'Islam». Continuerà a chiamarsi Clarence Clyde Seedorf il cittadino del mondo nato in Suriname e cresciuto cristiano in Olanda dal padre ex calciatore che su Instagram in poche righe annuncia l'abbattimento dell'ennesimo muro: «Entro nella famiglia musulmana». 

Capace di parlare sei lingue, vincere la Champions League con tre club diversi (Ajax, Real Madrid e Milan, due volte), trasportare le sue straordinarie doti da centrocampista dall'Europa al Sudamerica (ha chiuso la carriera al Botafogo, in Brasile) e appendere in tutta fretta le scarpette al chiodo per rimpiazzare Massimiliano Allegri sulla panchina rossonera (corre il gennaio 2014, il Milan langue all'undicesimo posto della classifica di Serie A, Balotelli a Verona gli regala la prima vittoria da tecnico: durerà poco, fino a giugno di quell'anno, quando a Milanello sbarca Pippo Inzaghi), Seedorf fa l'ennesima giravolta e si converte all'Islam per amore della compagna Sophia Makramati, conosciuta dopo la separazione dalla moglie brasiliana Luviana con cui ha avuto quattro figli, secondo fonti arabe sposata in seconde nozze da due anni, natali canadesi ma casa e business negli Emirati, ad Abu Dhabi. 

 Ed è da lì, buen retiro dopo aver allenato in Cina (Shenzhen), Spagna (Deportivo) e Africa (Nazionale del Camerun, avventura breve: licenziamento in seguito all'eliminazione con la Nigeria nella Coppa d'Africa 2019), che Clarence Seedorf intende osservare i precetti della nuova religione, accolto da Sophia: «Orgogliosa e felice di essere parte di questo speciale e bellissimo momento del mio amore. Benvenuto e che tu possa continuare ad essere benedetto e ispirare il mondo». 

Sophia, che si definisce filantropa, è influencer e ambassador di marchi importanti nel mondo arabo, migliore pierre del marito: «I confini geografici non esistono, Clarence è un uomo meraviglioso che ha realizzato i suoi sogni senza curarsi di limiti e convenzioni. Negli Emirati creiamo il nostro futuro».

Zlatan Ibrahimovic. Ibrahimovic celebra con una foto il suo riscatto di figlio di immigrati. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.

«Sangue, sudore e lacrime» è l’eloquente didascalia del suo ultimo post Instagram che mette a confronto uno scatto di lui da bambino povero con quello del calciatore milionario che è diventato adesso. 

«Sangue, sudore e lacrime». La didascalia dell’ultimo post, sul proprio profilo Instagram, di Zlatan Ibrahimovic. L’attaccante svedese mette a confronto la foto di lui bambino su una barchetta e quella attuale di lui sul suo yacht da 30 metri. Tra la nostalgia del passato e la certezza del presente. Di un campione affermato, che ha vinto ovunque e che soltanto tre mesi fa (era il 22 maggio) ha conquistato il suo ultimo titolo, lo scudetto con il Milan. Tra quelle due foto, decenni di sofferenze e riscatti. Avvenimenti che hanno temprato il carattere del rossonero e che hanno plasmato lo Zlatan Ibrahimovic che tutti noi conosciamo.

Nel suo cognome ci sono tutte le contraddizioni di Rosengard, il quartiere ghetto di Malmoe, città nella quale è nato il 3 ottobre 1981. Una fucina di etnie diverse, babele di lingue e culture. La storia di Ibrahimovic inizia qui. Da due genitori immigrati. Il padre Sefik, bosniaco originario di Bijeljina, e la madre Jurka, croata originaria di Prkos, frazione del comune di Skabrnja. I due si separano lasciando in balia degli eventi i figli: Sapko, Aleksander, Sanela, Violeta, Monika e il piccolo Zlatan di appena due anni. Quella di Ibrahimovic è stata un’infanzia difficile: qualche furto nei supermercati della zona e di biciclette, poca voglia di studiare e il desiderio di sfondare nel calcio. Il pallone come strumento di riscatto. «Dopo la separazione con mamma, sono cresciuto con mio papà. Lavorava tanto per permetterci di vivere. Il nostro frigorifero non era mai pieno, non avevamo tanto da mangiare ma faceva di tutto per darci le alternative giuste. Se non avevo soldi per andare agli allenamenti me li dava lui e non pagava l’affitto del mese», ha raccontato Zlatan. È cresciuto in circostanze difficili. A Rosengard doveva sempre difendersi. E per lui la strada per diventare professionista è stata veramente in salita. Ma ha sempre creduto in se stesso trovando le motivazioni giuste per far vedere alla gente che lui è Zlatan. Una forza interiore fuori dal comune. Che gli ha permesso di raccogliere molti successi.

Calcio, la confessione di Zlatan Ibrahimovic: “Non ho mai sofferto così tanto”. Valentina Mericio il 29/05/2022 su Notizie.it.

A pochi giorni dallo scudetto del Milan arriva la confessione di Ibrahimovic. Il campione svedese ha giocato per sei mesi con il ginocchio gonfio. 

Zlatan Ibrahimovic è stato nel corso degli anni una delle colonne indiscusse del Milan. Tra gli artefici dell’impresa-scudetto, il campione svedese si è operato nella giornata di mercoledì 25 maggio al ginocchio, un intervento che si è reso necessario visto le sofferenze fisiche provate in questi ultimi mesi: “Non ho mai sofferto così tanto”, ha rivelato. 

Zlatan Ibrahimovic parla delle sofferenze al ginocchio 

L’attaccante rossonero ha spiegato che per lui è stato molto difficile non solo giocare e allenarsi, ma anche fare le cose più semplici come ad esempio dormire: 

“Negli ultimi sei mesi ho giocato senza il legamento crociato anteriore nel ginocchio sinistro. Sei mesi di ginocchio gonfio. Sei mesi in cui mi sono potuto allenare solo 10 volte con la squadra. Sei mesi in cui ho dovuto fare oltre 20 iniezioni.

Sei mesi in cui dovevo svuotare il ginocchio una volta a settimana. Sei mesi di antidolorifici quotidiani. Sei mesi in cui a malapena dormivo a causa del dolore”.

“Nella mia mente c’era un solo obiettivo”

Ad ogni modo a dispetto del dolore che ha provato negli ultimi sei mesi, ad aiutarlo ad andare avanti è stato l’obiettivo di far vincere al Milan lo scudetto: 

 “Non ho mai sofferto così tanto, dentro e fuori dal campo.

Ho trasformato qualcosa di impossibile in qualcosa di possibile. Nella mia mente c’era un solo obiettivo: rendere i miei compagni e il mio allenatore campioni d’Italia, perché avevo fatto loro una promessa. Oggi ho un nuovo legamento crociato anteriore e un trofeo in più“.

Nel frattempo il dottore Bertrand Sonnery Cottet che lo ha operato, sempre sui social ha espresso parole di ammirazione per l’attaccante: “A Lione sappiamo che il leone non si arrende mai.

Ti auguriamo il meglio per la tua ripresa”. 

Da gazzetta.it il 3 marzo 2022.  

"Dov'è l'indisciplina? Non vale nemmeno la pena di rispondere. Ci sarà una ragione se ogni volta che un giocatore lascia il Psg poi non può smettere di parlare di noi. Tutto il mondo vuole venire qui". Sono parole del d.s. Leonardo a L'Equipe, dirette a Zlatan Ibrahimovic. Il fuoriclasse svedese, nell'autobiografia Adrenalina scritta col nostro Luigi Garlando, aveva accusato il Paris St. Germain di essere un club "indisciplinato", trovando anche una sponda nelle parole del terzino Thomas Meunier (ora al Borussia Dortmund).

Leonardo, che portò Ibra a Parigi nel 2012, ha poi proseguito in maniera molto dura: "Zlatan ha chiesto varie volte di tornare al Psg. Sto ancora aspettando un'intervista in cui ringrazi pubblicamente questo club per ciò che ha fatto per la sua carriera. Il Psg esisterà prima e dopo lui. Ora ditemi, dov'è l'indisciplina?". E in riferimento a Neymar e all'abitudine di andare in discoteca a due o tre giorni dalle partite: "Credete davvero che un giocatore possa restare al vertice dodici anni, se non è professionale? I social network danno un'immagine distorta della realtà".

Ibrahimovic compie 41 anni, ecco 5 cose che non sapete su di lui: Helena che non ha voluto sposarlo, il neologismo, la suite. Arianna Ravelli Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022.

Del bomber del Milan si pensa di conoscere tutto dopo che lui ha scritto persino una autobiografia, diventata un libro di successo. Invece ci sono alcune curiosità nascoste da scoprire per appassionati e non

A 41 anni ancora sulla breccia (nonostante l’infortunio)

Zlatan Ibrahimovic compie 41 anni. Non in campo, come avrebbe voluto, ma continuando un lungo cammino di riabilitazione dopo l’infortunio e l’operazione, che lo porterà a ridiventare arruolabile in casa Milan l’anno prossimo. Del ghetto di Malmoe, in Svezia, da cui viene si sa tutto, compresi i guai con droga e giustizia dei suoi familiari. Delle sue spacconate si sono riempiti siti e giornali. Degli incontri con Mino Raiola, il procuratore storico, ora scomparso (e probabilmente l’unico manager che avrebbe mai potuto avere), c’è ampia letteratura. Si sa tutto quello che ha vinto, e si conoscono i gol che ha fatto. Da quando è tornato al Milan, poi, ha monopolizzato l’attenzione. Ma nonostante la massima esposizione quotidiana, e una biografia «Io, Ibra» di grande successo, anche se sembra impossibile, ci sono ancora cose poco note che riguardano Zlatan Ibrahimovic.

Due Ferrari per il compleanno

Che però ha voluto, come era accaduto lo scorso anno, far sapere a tutti con una foto postata sui social, quale sarà il regalo che si farà quest’anno. Appassionato com’è non poteva che essere ancora una volta una Ferrari? Ma quale? Nell’imbarazzo della scelta Ibra non se ne è regalata una, ma due, come mostra il combo da lui postato. La prima, bianca è una Daytona SP3. Prodotta in soli 599 esemplari costa circa due milioni di euro. La seconda, rossa, è una 812 Competizione A, più economica (si fa per dire) perché costa 578mila euro.

La moglie non è moglie e non ha fatto la modella

Detto dei regali, cominciamo ora con alcune cose che probabilmente quasi nessuno conosce su Zlatan. Una per la precisione riguarda Helena Seger, la compagna più vecchia di 11 anni che gli ha dato due figli: erroneamente definita «moglie», Helena non ha mai voluto sposarlo: «Non voglio sposarmi, ho bisogno di essere indipendente», ha detto più volte Helena. Che si arrabbia quando legge che ha lavorato come modella. «Ma quando mai? Non è vero! Ridicolo! Invece ho avuto lavori importanti per varie aziende, anche come dirigente». Un’altra curiosità: Seger, in svedese, significa «vittoria».

Finse di arrestare... un filantropo

È raccontato nella sua famosa biografia, «Io, Ibra», ma l’episodio non è tra quelli più citati: Zlatan giovanissimo, con un amico, in una strada di Malmoe nota per il passeggio delle prostitute, fermò un tizio fingendo di essere della polizia e inscenò un arresto. Peccato che il tizio fermato fosse in realtà un filantropo, molto noto, che aiutava le prostitute e non un protettore o un cliente. L’episodio finì su tutti i giornali.

Ha ispirato una nuova parola

Voce del verbo zlatanare (in svedese «zlatanera»), sinonimo di «dominare» o «fare qualcosa usando la forza». In italiano ancora (per fortuna) non esiste, ma questo neologismo in Svezia ha preso piede, tanto da essere accettato nel 2012 persino dalla Sprakradet, la Crusca svedese. Quando giocava in Francia Le Monde aveva definito «zlatanesque», zlatanesca, una sua intervista, ovviamente scorrettissima.

I piedi sporchi

All’ingresso della sua villa di Malmoe, oltre alle gigantografie del centravanti, c’è anche una foto dei suoi piedi sporchi. Esauriente la spiegazione di Ibra: «Perché metto una foto così schifosa in una casa così bella? Sono loro che pagano tutto questo».

La suite Zlatan

Quando giocava nel Psg, nel 2015, — e quindi era ancora un idolo nella sua città natale, non avendo ancora comprato le quote dei rivali dell’Hammarby — gli capitò di tornare a Malmoe da avversario. Affittò la piazza centrale della città e face montare un grande schermo perché tutti i suoi fan possano godersi in diretta lo show. Anche quelli rimasti senza biglietto, che costava oltre 2100 euro sul mercato nero. Non solo: nel Clarion hotel, che ospitava il Psg, c’è pure la suite Zlatan: mille euro a notte con vista dominante su tutta la città.

Antonio Carioti per il Corriere della Sera il 3 marzo 2022.

È come un romanzo d'appendice: capitoli brevi, con frequenti colpi di scena. E poi curiosità, aneddoti, battute, citazioni canore e cinematografiche, interessanti digressioni. C'è molto lavoro di studio appassionato - perché l'autore è nato nel 1985, quindi era molto piccolo quando avvennero i fatti che ricostruisce -, ma anche tanto ritmo narrativo nel libro di Giuseppe Pastore Il Milan col sole in tasca (66thand2nd), che sarà presentato domani a Book Pride.

Un volume che rievoca nei dettagli i primi e più entusiasmanti anni della squadra rossonera sotto la presidenza di Silvio Berlusconi, fino al trionfo nella finale di Coppa dei Campioni ad Atene, vinta sul Barcellona per 4-0 nel 1994. Fu davvero una miscela esplosiva quella che si venne a creare nella seconda metà degli anni Ottanta tra Arcore, Fusignano (patria romagnola di Arrigo Sacchi) e Milanello. Innanzitutto il calcio, lo sport che agita più di ogni altro gli animi, ma muove anche gli interessi e i capitali. Poi la personalità vulcanica di Berlusconi, la sua spinta a primeggiare e imporsi scavalcando di slancio ogni ostacolo.

Infine l'attaccamento granitico di Sacchi alle sue idee innovative e l'applicazione quasi maniacale che, divorato dallo stress, metteva nel tradurle sul campo di gioco. I risultati furono strabilianti ovviamente anche per merito di campioni dalla classe cristallina, che diedero spettacolo in Italia e ancor più in Europa, ricompensando ampiamente il calore mai venuto meno di una tifoseria che aveva sofferto molto nel periodo immediatamente precedente. 

Pastore passa in rassegna l'esuberanza di Ruud Gullit, il talento di Marco Van Basten, la determinazione di Franco Baresi, le doti straripanti di Paolo Maldini, lo stoicismo di Carlo Ancelotti. E l'elenco potrebbe continuare a lungo. Innumerevoli anche gli episodi gustosi, più o meno noti, che Pastore rispolvera. Nils Liedholm che snobba i suggerimenti di Berlusconi, osservando che il presidente s' intende molto di calcio in quanto «ha allenato l'Edilnord».

Gullit che rimanda al mittente, con parole salaci, l'invito rivolto ai giocatori dal Cavaliere perché osservino un periodo di castità in un drammatico finale di campionato. Sacchi che alla vigilia della nettissima vittoria a Barcellona con i romeni della Steaua Bucarest in Coppa dei Campioni dichiara: «Sono loro i favoriti, hanno un senso del collettivo superiore al nostro». Le «lacrime di Berlusconi» messe in vendita a Napoli dopo il sorpasso in extremis dei partenopei sui rossoneri nel 1990. 

Ad alcune vicende rocambolesche sono dedicati più capitoli, per esempio all'ottavo di finale contro la Stella Rossa Belgrado, nell'autunno del 1988, quando una fitta nebbia calata sullo stadio jugoslavo salvò il Milan da un'eliminazione molto probabile e gli permise di rifarsi in una drammatica ripetizione del match di ritorno, terminata con un successo ai rigori dopo che l'arbitro non aveva visto una palla terminata di circa un metro oltre la linea bianca della porta serba. Molto spazio è riservato anche alle critiche e allo scetticismo che accompagnarono l'avventura vincente dello strano duo Sacchi-Berlusconi.

Tra i meno convinti va citato il grande Gianni Brera, maestro del giornalismo sportivo e cultore inveterato del calcio difensivistico basato su catenaccio e contropiede. Dubbi pesanti furono del resto avanzati nel 1991 anche sul successore di Sacchi, Fabio Capello, che da allenatore rossonero aveva battuto la Sampdoria in uno spareggio per la Coppa Uefa nel 1987, ma non poteva vantare altri titoli.

Invece il Milan sotto la sua guida divenne assai meno effervescente, ma ancora più dominante, tanto da aggiudicarsi tre scudetti consecutivi e da laurearsi poi campione d'Europa nella notte di Atene a cui già si è fatto cenno. Il libro di Pastore non riguarda però soltanto il calcio. Molto spazio è dedicato anche alle attività imprenditoriali di Berlusconi e più in generale alle vicende politiche e sociali, con qualche dettaglio a sorpresa.

Divertente per esempio il racconto della spedizione a Mosca, alla vigilia di un cruciale incontro Napoli-Milan, che vide la Fininvest assicurarsi l'esclusiva della raccolta di pubblicità per le imprese europee sul mercato dell'Urss, nonostante la difficoltà di convincere i dirigenti della tv sovietica, «solidi e stanziali come mammut», e di adattarsi alle usanze locali: «Niente spot martellanti e musichette accattivanti, ma cortometraggi da almeno sei minuti di durata, decisamente soporiferi per i gusti di noi occidentali».

Kevin-Prince Boateng. Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” l'1 marzo 2022.

Una serie tv con Sylvester Stallone, uno show del sabato sera Tanti progetti lo chiamano, ma lo chiama ancora anche il calcio. Il 6 marzo, Kevin-Prince Boateng compie 35 anni, l'età in cui molti giocatori lasciano il campo. Dopo Milan, Fiorentina, Barcellona, Las Palmas Ora, è all'Herta Berlino, dov' è nato e dove è tornato nel giugno scorso. Col nome della nuova fidanzata (Vale) tatuato sulle dita, dice: «Forse dopo quest' anno smetto. Non ho paura, ho tanti progetti. Lo dico, ma poi entro nello spogliatoio e penso che voglio ancora giocare».

Che progetti ha?

«Sicuramente con la tv. Ho commentato gli Europei per la tedesca Ard. Il primo giorno ero emozionato come quando ho parlato all'Onu contro il razzismo, ma credo che lo rifarò per il Mondiale. In più, dovrei avere un programma mio». 

Ha inciso rap e ballò Moonwalker allo scudetto 2011 del Milan. Farà lo showman?

«L'idea è uno show del sabato sera».

Anni fa, disse che Hollywood l'aveva cercata per un film con Sylvester Stallone.

«Con lui è nata un'amicizia e sto costruendo una serie tv ispirata alla mia vita, ma non sul calcio. Sono cresciuto senza padre, eravamo tanti fratelli, sono uscito di casa a 15 anni, non avevo nulla. Pensiamo alla voce narrante di Stallone, a me e lui in una particina. Vogliamo far vedere dolore e ferite che servono per farcela». 

Lei ha vissuto la povertà e anche il razzismo.

«Ancora oggi, a Berlino, cammino per strada e c'è chi cambia marciapiede». 

Come va la task force per fare eventi contro il razzismo, annunciata nel 2019?

«Pensavo fosse più facile trovare calciatori, cantanti, attori che avessero voglia di metterci la faccia e lottare. Invece, è difficile trovare uno che c'è al cento per cento. Hanno contratti, sponsor, paura di perdere qualcosa. Non te lo dicono, ma lo capisci».

Il punto è esporsi per cambiare le regole del calcio?

«Abbiamo telecamere per vedere se la palla va in porta, se sputo a terra o sull'arbitro, ma non possiamo controllare che urlano i tifosi. Perché è strano solo per me?». 

Nove anni fa, fece scalpore abbandonando un'amichevole del Milan, per protesta contro i cori razzisti. Che va fatto in un caso simile?

«Fermare la partita. Per tre idioti? Sì. Così educhiamo le persone». 

Un report dell'Associazione Calciatori dice che negli ultimi campionati sono peggiorati gli insulti via social.

«È vero. Perché lì puoi nascondere la faccia. Se perdo, ricevo messaggi, tipo: scimmia di m Io rispondo sempre, perché le ingiustizie non vanno sopportate. Per lo stesso motivo, mi preme dire che non ho lasciato mia moglie Melissa Satta per un'altra. Non ho mai parlato del nostro divorzio, ma ora voglio che la gente smetta di pensare che l'ho tradita con Valentina».

Valentina Fradegrada, l'influencer comparsa sul suo Instagram a novembre. Un mese dopo, Melissa dice in tv che la separazione non è stata una scelta sua.

«L'intervista con titoli acchiappaclick, tipo "mi ha lasciata per un'influencer, ho sofferto". Sono arrivati insulti e io non accetto la cattiveria». 

Perché le fa così male che si pensi a un'infedeltà?

«Non sono uno che lascia una donna per un'altra. Ho deciso io di separarmi, era un periodo difficile, giocavo nel Monza, non stavo bene mentalmente, volevo ritrovare me stesso. In dieci anni, con un matrimonio, un figlio, succedono tante cose ed eravamo a un punto d'infelicità da non poter andare avanti».

Come si ricomincia dopo?

«Io e Valentina ci siamo visti e ci siamo capiti: siamo uguali. Le cose importanti per me, oggi, non sono riflettori, sfilate... Con lei, stiamo in casa per giorni e stiamo bene. Ridiamo, scherziamo. Ama come amo io. Costruiamo per stare insieme per sempre. Io ho sempre voluto cinque o sei figli, lei ne vuole. Stiamo capendo dove vivere dopo. Credo fra Milano e Bergamo. In Italia, stiamo anche per produrre un vino: Fradegrada da Prince e Vale. Oggi mi sveglio ogni giorno col sorriso». 

Ha solo i tatuaggi da duro?

 «Ho smesso da tempo di fingermi duro. Piango tanto, ho pianto sentendo Brividi di Mahmood e Blanco». 

Ora, in campo come va?

«Male». Lo dice col sorriso. «Non ho più 23 anni. Poi, se la squadra non va, si parla di me che sono il più noto, ma anche perciò mi hanno preso: così vengo criticato io e si preservano i giovani. Ci sta». 

Da cittadino tedesco e ghanese quanto si sente italiano?

«Al 50 per cento italiano, 25 tedesco e 25 ghanese. Vedo, sento e penso in italiano».

Massimiliano Gallo per ILNAPOLISTA.IT il 31 gennaio 2022.

È la rivincita dei signor Rossi d’Italia, di tutti quei professionisti che per lo sfortuna sono costretti dalla legge ad aderire a un ordine professionale: che si tratti di avvocati, commercialisti, architetti, giornalisti, ingegneri. 

Le ore di aggiornamento professionale. Lo prevede la legge. In molti sono costretti ad assentarsi dal lavoro, quindi a perdere soldi, per partecipare a questi corsi. In tanti li maledicono. Ma, attenti, la Uefa ci dice che non siamo soli a questo mondo. Nella nostra condizione c’è ancora un signore che si chiama Carlo Ancelotti.

Lui di professione fa l’allenatore. La Uefa a fine dicembre gli ha fatto sapere che non ha ottemperato ai suoi doveri, non ha partecipato alle 15 ore di aggiornamento professionale e ora rischia il ritiro del patentino (un po’ come il famigerato articolo 80 spauracchio di tutti gli adolescenti degli anni Settanta e Ottanta). 

Poco importa che Ancelotti non abbia potuto partecipare perché impegnato ad allenare una squadretta chiamata Real Madrid, a vincere la Supercoppa di Spagna, a chiudere al primo posto il girone di Champions e ad essere in testa alla Liga. Tutto questo, tra l’altro, senza aggiornamento professionale. Non si capisce come abbia potuto fare.

Come ha scritto oggi il direttore Ivan Zazzaroni sul Corriere dello Sport, con ogni probabilità ci penserà la Federcalcio spagnola a evitare il ridicolo di un esame di calcio ad Ancelotti. In casi come questo, aggiungiamo, è davvero arduo non capire i signori della Superlega. 

Quel che conta è che da oggi i piccoli professionisti che possono sentirsi meno soli: l’ottusa burocrazia non riguarda soltanto noi.

Appunti di un tifoso. Ritratto di Franco Baresi, eroe malinconico, orfano eppure ricco di tutto. Eraldo Affinati su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.  

Nel giorno in cui il Milan, pareggiando coi bianconeri, non è saltato sul treno dello scudetto lasciando che l’Inter si possa involare nella sua direzione, ho ripensato a Franco Baresi. «Nessun altro giocatore ha mai capito così bene fisicamente lo spazio»: parole di Werner Herzog, poste in epigrafe a Libero di sognare, l’autobiografia del grande campione rossonero uscita pochi mesi fa da Feltrinelli. Cosa intendesse dire con quella frase l’autore di Aguirre, furore di Dio e Grizzly Man, per citare soltanto due suoi capolavori, è chiaro ad ogni appassionato di calcio, ma potrebbe essere utile ricordarlo a tutti noi, tifosi di questo sport metaforico della vita umana.

Un tempo il libero era posizionato dietro alla difesa, estrema scolta tesa a frenare la corsa del centravanti quando filtrava, in un modo o nell’altro, con le buone o le cattive, attraverso le maglie degli stopper, ma pronto a rilanciare il gioco appena ne intuiva la possibilità grazie a lunghe staffilate che, nei casi migliori, squilibravano la squadra avversaria favorendo il ribaltamento della partita. Nei primi anni Ottanta il numero sei, magro e filante, un fascio di nervi proteso al dominio della propria metà campo, cominciò ad avanzare in linea coi centrali, fino ad assumerne le sembianze e partecipare così attivamente, senza timori né frenesie, alla costruzione dell’azione. Franco Baresi, imbeccato dall’indimenticabile svedese Nils Liedholm, fautore della ragnatela, volta a mantenere a qualsiasi costo il possesso della sfera, fu uno degli artefici di tale trasformazione. Tutti ne ricordiamo la caratteristica duplicità atletica: il magnifico tempismo nei risolutivi interventi sui bomber e sulle ali, in grado di spezzare il loro pericoloso movimento, e le geniali ricuciture offensive che facevano ripartire la trama del palleggio a proprio vantaggio. Sorta di playmaker capace di incarnare lo spirito del gioco dettando dal basso la soluzione migliore per addormentarlo o accenderlo con guizzi improvvisi.

Prendere posizione: non è forse quello che facciamo ogni giorno nella nostra esistenza quotidiana? Questioni di scelte, opportunità, atti di volizione individuale. Franco Baresi era nato in una cascina di Travagliato, nella campagna bresciana, da una numerosa famiglia contadina: prima di lui, Lucia, Angelo e Beppe, che poi entrerà nelle file dell’Inter. Dopo, la piccola Emanuela, da tutti vezzeggiata. Il bagno stava all’esterno. L’acqua calda non esisteva. Per lavarsi i bambini mettevano la tinozza sul focolare. In questo mondo povero e sconsolato spiccavano la maestra, il prete e il primo allenatore. Il football, coi suoi caroselli di ritiri, trasferte e allenamenti, rappresentò la salvezza: perfino l’incontro con Maura, l’amore assoluto, in un ristorante di Montevarchi, assomiglia a una favola, perché lei era la figlia del proprietario del locale e lui sembrava troppo timido per dichiararsi. Fu necessario l’intervento, provvidenziale, del massaggiatore.

Milanello diventò il paradiso del Diavolo. Eppure c’è sempre stata un’ombra di malinconia nella vita trionfale di Franco Baresi, la cui leggendaria introversione, unita all’acume tattico, sollecitò la curiosità di Gianni Brera che lo chiamava Baresi II per distinguerlo dal fratello. Troppo presto erano morti i suoi genitori: la madre di malattia, il padre in un assurdo incidente col trattore. A soli quattordici anni il futuro campione era rimasto orfano. Sarà per questo che Federico Tavola, l’amico redattore, ha strutturato il libro a partire dalla sconfitta? Ogni capitolo infatti si apre con un corsivo che dilata gli interminabili secondi precedenti il fallimento del rigore di Pasadena, contro il Brasile, ai Mondiali del 1994 negli Stati Uniti. Prima il recupero lampo forse affrettato dopo un grave infortunio, poi i crampi durante la partita, infine la fatale indecisione al momento cruciale del tiro. Taffarel, il portiere verdeoro, esultante, il nostro libero in lacrime, inutilmente consolato da Arrigo Sacchi che su di lui aveva scommesso tutto. Eraldo Affinati  

Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” il 4 novembre 2022. 

Werner Herzog, il raffinato regista di «Fitzcarraldo», di lei ha detto: «Non c'è stato mai nessun altro giocatore che ha capito così bene fisicamente lo spazio». Che effetto le ha fatto un apprezzamento simile?

«Sono rimasto molto sorpreso. Non è un uomo che si occupa di sport per lavoro. Che sappia chi è Franco Baresi è curioso, anche se, certo, la cosa mi ha riempito di gioia. Ci siamo anche conosciuti e abbiamo parlato a lungo». 

Lei però è una sorta di leggenda, e non solo perché capitano del Milan per 15 anni.

«Che parole grosse. Sono solo uno che è nato nel 1960 a Travagliato, nella campagna del Bresciano, e che ha avuto la fortuna di sentirsi "libero di sognare". E in effetti ho voluto dare proprio questo titolo alla mia autobiografia, scritta assieme a Federico Tavola. Sono stato fortunato ad ascoltare i miei sogni. E a trovare sulla mia strada persone che mi insegnassero ad ascoltarli». 

La campagna povera, una famiglia molto umile, il bagno fatto nella tinozza messa nella stalla perché lì, d'inverno, faceva più caldo. Quanto spazio c'era per i sogni?

«E non le dico del "prete", cioè quella specie di attrezzo di legno nel quale si metteva un catino pieno di braci per far riscaldare il letto freddo. È vero, non era facile sognare per un bambino nato in una famiglia contadina e cresciuto in un casale, tra mucche e trattori. Ma mia madre Regina era una donna che curava minuziosamente la pulizia e l'ordine di noi figli». 

Lucia, Angelo, Emanuela e, naturalmente, Beppe, mediano dell'Inter, fratello amatissimo ma pur sempre rivale nel derby.

«Lui è arrivato a Milano, all'Inter, prima di me, e quando mi ha preso il Milan, per un periodo iniziale, abbiamo condiviso la casa. Tutto bene fino a quando arrivava la settimana del derby: presto ci saremmo dovuti sfidare e dunque per forza dovevamo essere rivali». 

La verità: qualche volta ha evitato mosse troppo violente in campo contro suo fratello?

«La verità?».

Sì, la prego.

«Be', diciamo che qualche volta il mio piede è stato più leggero quando ha incontrato lui». 

Tornando ai sogni, quando, da bambini, giocavate nell'aia accanto alle galline, immaginavate di vivere, un giorno, carriere simili?

«Ma va. Non guardavamo la tv, figuriamoci andare allo stadio. Io non sapevo nemmeno chi fossero Pelé o Cruijff. Poi però, a dieci anni, mi capitò di vedere quella che per noi italiani ancora oggi è la partita , cioè la semifinale contro la Germania ai Mondiali del Messico. Una folgorazione. Cominciai allora a sognare».

Chi avrebbe voluto diventare?

«Forse Pierino Prati». 

Cabrini, Baresi, Donadoni, Prandelli, Riva, Scirea e tanti altri: il cuore lombardo che da Bergamo allunga fino a Cremona ha dato tanto al calcio.

«Vede, tutto nasceva dalla passione di ogni giorno. Noi cominciammo a giocare nell'aia del casale con un pallone di cuoio, poi un giorno arrivò un prete, don Piero Garbella, che ci incoraggiò a seguire i sogni. Il calcio vero cominciava alla maniera contadina: coltivando i ragazzi nei luoghi dove erano nati, osservandoli nel cortile degli oratori. All'Unione Sportiva Oratorio Travagliato c'era la regola di andare a dormire alle 10 di sera. Io lo faccio ancora adesso, pensi un po'». 

Proprio nelle gare dell'oratorio lei venne notato dagli osservatori del Milan. Se lo ricorda l'arrivo a Milanello?

«Eccome. Non mi sembrava vero di vedere da vicino Rivera, Liedholm, Rocco. Ricordo la prima gara in serie A, contro il Verona. In trasferta. Vincemmo e negli spogliatoi mi si avvicinò Nereo, all'epoca direttore tecnico, che mi fece: "Ma t' ha giugà anca ti?!"». 

Possiamo dire che il Milan è stata - letteralmente - la sua seconda famiglia?

«Certo. Io ho perso mia madre a tredici anni, mio padre a diciassette. Io nelle cose ho sempre cercato stabilità. Nel lavoro, nello sport, nella famiglia. Lo sa che lo scorso 10 settembre abbiamo raggiunto i trentotto anni di matrimonio con mia moglie? E stiamo insieme da 40». 

Maura Lari, conosciuta in una delle trasferte in Toscana.

«Maura serviva ai tavoli del ristorante Piccolo Alleluja di Montevarchi. Era la figlia del proprietario. Il massaggiatore del Milan, Paolo Mariconti, si accorse che io guardavo rapito quella bellissima ragazza bionda. E allora mi tirò la volata e le disse: "Signorina, per favore serva prima lui, perché è il capitano". Arrossii. Ma da allora io e Maura non ci siamo più lasciati e ogni anno festeggiamo il giorno che ci siamo sposati». 

Le ha mai detto «ti amo»?

«Glielo dico tutti i giorni». 

Tutti i giorni?

«Sì, non passa giorno senza che io glielo ricordi. Se un giorno mi passa di mente, quello successivo mi affretto a ricordarglielo». 

Lei si definirebbe un uomo di emozioni?

«Molto. Ho pianto tanto nella mia partita d'addio. E il mio è stato un pianto di gioia, perché vedere tutti quei tifosi e quei colleghi che mi festeggiavano è stata un'emozione mai vissuta». 

In quale altra occasione si è commosso profondamente?

«Una volta in uno dei club rossoneri mi lessero la lettera di un tifoso. Piansi anche lì». 

E che cosa diceva la lettera?

«Lei è molto curiosa, sa?».

Allora mi dica chi è il suo fan più assiduo.

«Diciamo fan del Milan. Boh, forse Ricky Tognazzi, simpatico e intelligente. Ma nominarne uno vuol dire fare torto a tutti gli altri».

Anche Maradona era un suo fan.

«Una volta disse "Baresi è uno dei migliori". Detto da un campione immenso come Diego come fai a non commuoverti?».

Due figli, Edoardo e Gianandrea. Nella sua autobiografia lei scrive: «L'unica cosa che mi importa è che siano felici».

«È vero. Uno si occupa di finanza, l'altro di arte. Ci vediamo e ci sentiamo spesso». 

Non vorrebbe diventare nonno?

«È un pensiero che ricorre. Vedremo».

 Lei è anche zio di una calciatrice, Regina Baresi, figlia di Beppe (che peraltro porta il nome della nonna). Le dà consigli?

«No, lei ha un padre che in questo è migliore di me. Qualche volta abbiamo commentato il calcio femminile: in Italia siamo ancora molto indietro in questo, penso che ci siano potenzialità grandi da esplorare». 

Lei scrive: «A distanza di molti anni dal mio ritiro, ho imparato che la differenza tra vincere e perdere non sta nell'alzare o meno una coppa. È qualcosa di più profondo». Che cosa intende dire?

«Quando mi guardo indietro penso che una carriera riuscita sia fatta di tante cose. Delle persone che incontri, della disciplina giusta, del momento giusto, anche degli errori qualche volta. È qualcosa che si capisce dopo, perché si diventa più lucidi». 

Franco, qual è il suo sogno ricorrente?

«Sogno spesso la prima Champions vinta al Milan. Vede, io ho vissuto tante epoche diverse nella squadra, compresa la retrocessione. Ci sono stati alti e bassi molto profondi e se ancora oggi sono qui, in rossonero, non è perché io mi senta "una bandiera", ma è perché anche qui ho cercato la stabilità. Ho ragionato per fasi, come si fa nelle famiglie. Ho cercato un equilibrio». 

Forse è dipeso dal fatto che lei ha perso giovanissimo entrambi i genitori?

«Non saprei. Tendo a consolidare i legami, a vivere le cose con intensità. Quando Berlusconi decise di ritirare la maglia numero 6 come omaggio a Franco Baresi, per me fu un qualcosa di enorme, anche perché era un avvenimento inedito in Italia. Non me lo aspettavo». 

E pianse anche allora?

«Secondo lei?». 

Un ricordo di Arrigo Sacchi?

«Era molto esigente, chiedeva il massimo. Poi, nei ritiri, veniva a controllare se di notte dormivamo e allora, quando lo sentivamo arrivare, scattava il momento "spegni la luce". Lui ci sgamava puntualmente e allora si metteva a chiacchierare con noi di strategie e di formazioni». 

Qual è stata la cosa più avventurosa che le sia mai capitato di fare?

«A parte certi momenti di calcio, non ce ne sono state. Potrei dirle che è stato il viaggio che mi è capitato di fare in Amazzonia, tra i nativi e gli abitanti della foresta. Potrei dirle il volo sul Concorde. Ma mi piace risponderle che per me è stato emozionante poter dire di aver conosciuto tre Papi». 

Quali?

«Papa Giovanni Paolo II lo incontrai a Roma in occasione del primo scudetto rossonero, papa Benedetto XVI a San Siro e Francesco a Roma in una udienza con la Fondazione Milan. Ora lei mi chiederà quale di questi mi ha colpito di più». 

Eh sì.

«Forse Wojtyla, senza nulla togliere agli altri. Forse perché ho percepito l'umanità del suo messaggio universale. L'ho sentito molto uomo, ecco». 

Oggi lei è vicepresidente onorario del Milan, è molto impegnato nella squadra con la quale ha vinto sei scudetti e molto altro. Che cosa fa quando non pensa al calcio?

«Non faccio cose particolari. Leggo, amo le parole crociate, mi piace passeggiare, guardo le partite di basket e soprattutto di tennis». 

Federer (anche se si è ritirato), Nadal o Djokovic?

«Federer, che domande».

È questione di «capire fisicamente lo spazio», come ha intuito Herzog parlando di lei?

«Credo che sia una combinazione di talento e grazia. Quel momento che cerchiamo tutti».

“La Coppa Campioni, Maradona e quel trucco col Benfica: vi dico cosa è davvero il Milan”. Federico Bini il 17 Aprile 2022 su Il Giornale.

Franco Baresi, soprannominato nel tempo Kaiser Franz racconta la sua grande avventura nel mondo del calcio.

Lo storico capitano e libero rossonero, famoso per indossare la maglia numero 6, è rimasto ancora oggi nel cuore dei tifosi del Milan. Con lui la squadra ha vinto i massimi trofei internazionali, ma soprattutto ha espresso un calcio travolgente, elegante e dinamico, grazie anche ad allenatori del calibro di Sacchi e Capello. Nonostante i successi e la gloria Franco Baresi è rimasto lo stesso, un ragazzo che sognava il grande calcio nelle campagne di Travagliato e che ha fatto del Milan una vera e propria famiglia.

Come è stata la sua giovinezza e come ha condiviso la passione per il calcio con il fratello Beppe?

“La fortuna è che noi avevamo già da piccoli una grande passione per il calcio. A quattro, cinque anni già scorrazzavamo nel cortile del casale, poi all’oratorio. Insieme siamo cresciuti, lui è più grande di me ed è stato il mio stimolo per poi proseguire in adolescenza il mio percorso”.

Cosa pensa oggi quando ripercorre con la mente i campi dell’oratorio di Travagliato?

“Un po’ di nostalgia. È chiaro che erano momenti diversi, un’epoca lontana, parliamo degli anni ’60, dove alla fine si dava importanza anche alle piccole cose. La nostra fortuna è stata anche quella di giocare negli spazi all’aperto, liberi, crescere in libertà, e credo che ciò sia stato fondamentale anche per la mia carriera”.

Come avviene il suo arrivo al Milan?

“Tramite un provino. Andai per la prima volta a Linate (dove una volta i ragazzi del Milan si allenavano) e poi ne feci un altro a Milanello che andò bene e dove videro delle qualità. Fisicamente non ero un gigante e qualche perplessità c’era sul piano fisico. Però seppero accogliermi e darmi molta fiducia”.

Quali erano da giovane calciatore i suoi idoli calcistici?

“Sono sempre stato rossonero, già quando accendevo la radio che parlava di Rivera, Prati, Sormani… Rivera soprattutto è stato per me un punto di riferimento, mai avrei sognato di poterci giocare insieme. Fu il mio primo capitano nell’anno in cui vincemmo lo scudetto insieme”.

Come era Rivera?

“Un grande. Ho imparato molto da lui. Sapeva stare con i giovani, era attaccato alla squadra, sapeva proteggerla e anzi, metteva prima il gruppo di se stesso”.

Quando ha debuttato per la prima volta in A?

“Aprile del 1978. Non avevo ancora compiuto diciotto anni, li avrei fatti il mese dopo”.

Come si diventa un campione?

“Sicuramente il talento non basta, dietro ci deve essere l’amore per quello che fai, la passione e lo spirito di servizio. Il campione viene riconosciuto negli anni, nel percorso che fai, in quello che cerchi di dare, trasmettere, in modo da conquistare la stima del club e degli avversari”.

Come erano visti da vicino Nereo Rocco e Nils Liedholm?

“Ho esordito con in panchina due grandissime figure della nostra storia, del nostro Milan. Rocco mi aveva visto crescere a Milanello. Ricordo che la prima volta che fui convocato in prima squadra, a causa della squalifica di Turone, dopo una notte faticosa ad addormentarmi, la mattina, prima di pranzo mi venne vicino Liedholm e mi disse che avrei giocato. Poche parole: “Gioca come sai e stai tranquillo”. Il mister assieme a Nordahl e Gren aveva composto il grande trio rossonero Gre-No-Li degli anni ‘50”.

Dove nacque la sua capacità di saper leggere in anticipo le mosse degli avversari?

“Credo che sia un dono naturale, l’ho sempre avuto dentro e l’ho sviluppato poi negli anni con l’esperienza”.

Come è stato diventare capitano del Milan?

“Io sono diventato capitano a ventidue anni ed essere capitano del Milan non è semplice. Mi hanno dato tuttavia fiducia, mi hanno responsabilizzato, hanno investito in questo ruolo e magari non ero pronto ma l’ho imparato strada facendo. Nei primi anni ho cercanto dalle varie persone di carpire i segreti, ascoltare e poi ho provato a metterle in pratica”.

E l’arrivo di Silvio Berlusconi?

“Portò una grande novità ed entusiasmo, trasmettendoci quella mentalità che tutti sappiamo. L’entusiasmo di Berlusconi era contagioso e io ero fiero essendone il capitano”.

A quale trofeo è maggiormente legato?

“Ho avuto la fortuna di vincere molto, forse pensandoci la prima Coppa dei Campioni al Camp Nou di Barcellona, 24 maggio 1989 contro lo Steaua Bucarest. Il Milan l’attendeva da vent’anni e fu un’emozione particolare”.

Il giocatore più difficile che ha marcato?

“Nella mia epoca ce n’erano diversi di attaccanti. Posso dire Maradona, un campione immenso ma anche Careca, Batistuta, Baggio, Vialli, Mancini, Rossi, Graziani e Pulici”.

Il Napoli di Maradona fu una delle vostre storiche antagoniste.

“Sì, il primo maggio 1988 ad esempio andammo a giocare al San Paolo con un punto in meno e la sfida era decisiva. L’unica soluzione era vincere. E noi ci esaltammo. Palleggio, pressing alto, intensità e fuorigioco. Di Maradona mi stupì la forza con cui subiva duri colpi senza mai lamentarsi e poi fece un goal su punizione bellissimo. Alla fine comunque fu una grande vittoria che ci portò l’undicesimo scudetto”.

Il giocatore più forte con cui ha giocato nel grande Milan?

“Difficile fare un nome perché erano davvero tutti forti. Rivera ma anche gli olandesi”.

Van Basten forse è stato il più completo?

“In quegli anni sicuramente era il giocatore più forte. Lui aveva tutto, eleganza, fisicità, tecnica, acrobazia, non aveva paura, era determinato”.

In che modo si presentarono Arrigo Sacchi e Fabio Capello?

“Sono stati due allenatori importanti, diversi ma arrivati al momento giusto. Sacchi è arrivato quando la squadra aveva bisogno di un cambiamento, d’innovazione, di idee nuove, di mentalità… il Milan di Sacchi cambia completamente il calcio facendo da traino per le altre squadre. Per questo veniamo ricordati ancora dopo trent’anni, perché siamo riusciti ad emozionare. Capello è arrivato nel momento in cui la squadra aveva bisogno di un altro tipo di gestione e grazie alla sua competenza ha fatto sì che potessimo proseguire quel ciclo”.

Su Sacchi ci fu grande scetticismo, anche il grande Gianni Brera scrisse che era “un apostolo soggiogato da visioni celesti”.

“Come sappiamo portare novità nel calcio c’è sempre scetticismo. Tutti erano pronti a fucilarlo, ma anche quando arrivò Berlusconi fecero dell’ironia…”.

Nella scelta di Sacchi chi fu più decisivo nel prenderlo, Berlusconi o Galliani?

“Berlusconi che ancora una volta era riuscito a vedere lontano e aveva capito che lui era l’uomo per praticare un calcio che il presidente desiderava”.

Natale Bianchedi lo storico osservatore del Milan sacchiano si camuffava per infiltrarsi negli allenamenti avversari…

“È una storia divertente. Lui poi è un grande conoscitore di calcio, un uomo colto, ironico. Una volta si era travestito per assistere agli allenamenti del Benfica a porte chiuse e scoprì che si stavano preparando per contrastare il nostro sistema di gioco per metterli in fuorigioco”.

Cosa si prova ad alzare una Coppa dei Campioni?

“È un peso che allevia i sacrifici fatti e ti fa ripensare a tutta l’annata, alle partite, agli allenamenti, alla stagione intera…”.

Come sono vissute le notti prima di queste partite?

“In quegli anni ricordo che noi eravamo “tranquilli”, perché comunque quando ti prepari, quando sei attento, quando sei convinto delle cose che vai a fare sei anche ottimista. La tensione però è normale che ci sia”.

Ha qualche rimpianto della sua lunga e straordinaria carriera?

“Non ho rimpianti, avrei potuto vincere di più ma avrei potuto anche vincere meno”.

La sua maglia nel 1997 è stata ritirata da parte del Milan. La celebre numero 6.

“Fu il primo caso in Italia e devo ringraziare la società e il presidente Berlusconi per il grande riconoscimento. La fascia di capitano invece la cedetti a Paolo Maldini”.

Cosa ricorda quando pensa all’infortunio di USA ’94?

“Credo che sia una cosa irripetibile che uno si faccia male al ginocchio, venga operato e alla fine possa giocare la finale in un mondiale”.

Lei è molto attento anche alle tematiche sociali, in cosa consiste il progetto “values”?

“Si tratta di un progetto composto da sette opere digitali rappresentanti i valori che mi hanno accompagnato nella mia vita di uomo e sportivo”.

Si sente ancora un “libero”?

“Ho sempre cercato di essere me stesso in un mondo che cerca continuamente di cambiarti”.

Cosa rappresenta per Lei il Milan?

“Più di una famiglia”.

Paolo Maldini. Paolo Maldini: «Quando diventai dirigente a mia moglie dissi «che disastro». I figli? Oggi soffro più per Christian». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera l'1 gennaio 2022. Paolo Maldini e il rapporto con papà Cesare («Noi siamo quello che sono stati i nostri genitori»), con i figli («Tutti parlano di Daniel, ma io soffro più per Christian che si è rotto due legamenti crociati») e il ritorno al Milan («A mia moglie dissi: che disastro») 

Paolo Maldini, nel 2022 diventerà ufficiale l’addio a San Siro?

«Credo e spero che possa essere così. Fa impressione, me ne rendo conto. Anche a me. Ci ha giocato mio padre, ci ho giocato io, ci gioca mio figlio. È stata la mia casa. Se la mettiamo sui ricordi, chi più di me potrebbe sentirsi ferito per un cambio così epocale?». 

Non pensa che quello stadio sia un pezzo della storia di Milano?

«Assolutamente sì. Ma se è diventato un luogo così iconico, lo deve alle imprese dei club e dei calciatori che ci hanno giocato. A questo dobbiamo pensare. Se noi vogliamo che Milan e Inter tornino ai piani alti del calcio europeo, scrivendo pagine bellissime come quelle di San Siro, non possiamo che avere uno stadio nuovo. Le alternative non esistono. Questa non è una opinione, è una certezza. Non voglio cancellare un passato meraviglioso. Solo che a me piace guardare avanti. È un po’ l’idea della mia vita». 

Qual è il suo ricordo più forte?

«Eccolo, il solito amarcord… Al di là di come è andata, la mia ultima partita, quella con la Roma. Una partita vera, che contava molto e che peraltro abbiamo perso. La vissi sulle montagne russe dell’emotività, anche nell’avvicinarmi alla gara». 

Posso dire che è una scelta sorprendente?

«Per via della contestazione di alcuni tifosi? Era una minoranza, che fa sempre più rumore della massa. Io non facevo parte di quel mondo. Ho cercato di vivere la mia professione dando il massimo, pretendendo rispetto, e accettando le sconfitte, che è difficilissimo, perché si soffre tanto. Sono stato me stesso. E se vogliamo, anche grazie a quei fischi, me ne sono andato lasciando un segnale non proprio banale». 

Era pronto all’addio?

«Sì. Anche se subito dopo, mentre stavo facendo la prima vacanza in agosto degli ultimi trent’anni, sentii alla radio la notizia che il Milan cominciava il ritiro ed ebbi una sensazione di straniamento. Se loro sono là, com’è che io me ne sto qui al mare? Quell’anno tornai allo stadio per il derby, e per l’ultima volta nella mia vita provai la sensazione che ha definito la mia vita da calciatore. Un misto di eccitazione, paura ed euforia, che ti prendeva sempre allo stomaco, prima di scendere in campo. Una specie di droga naturale. Forse, la cosa che mi è mancata di più».

La sua Europa più bella?

«La prima vittoria in Coppa dei Campioni, per distacco. Barcellona, 1989, contro lo Steaua Bucarest. Forse una delle ultime partite in cui lo stadio era tutto con una squadra. Ora ci sono regole fisse sulla capienza, non ci sono più blocchi dell’est, non esiste più Ceausescu. La città era invasa dai nostri tifosi, fu una specie di esodo. Arrivando allo stadio, sia il nostro pullman che quello dello Steaua rimase bloccato in mezzo a questa marea rossonera. Il risultato era già scritto». 

Peggio le luci spente di Marsiglia o quelle del secondo tempo di Istanbul contro il Liverpool?

«La prima. Nella finale con il Liverpool c’era un risultato, per quanto incredibile e doloroso. Partita dominata, che se la rigiochi vinci nove volte su dieci. Ma quella notte a Marsiglia fummo influenzati da qualcosa che non doveva esserci: la mancanza di abitudine alla sconfitta, e quindi l’incapacità di accettarla. Che poi è la prima cosa che andrebbe insegnata a un giovane calciatore». 

Si soffre più da figlio di calciatore o da padre di calciatore?

«Da figlio, ho sofferto molto. Sui campi di periferia, e adesso purtroppo credo che potrebbe essere anche peggio di allora. Mio papà veniva a vedere le partite, e io sentivo quel che diceva la gente, sentivo addosso gli sguardi cattivi. Credo che la parabola della mia carriera si sia decisa in quelle occasioni. O mollavo, oppure provavo a essere sempre uno dei migliori. Per far vedere che non ero solo “il figlio di Cesare”. E ogni volta mi caricavo così, immaginando quel che dicevano i genitori dei miei avversari».

Davvero suo padre la lasciò libero di scegliere tra Milan e Inter?

«Se chiudo gli occhi, ancora rivedo la scena. Avevo dieci anni. Eravamo in cucina, accanto al balcone, nella nostra vecchia casa a Città Studi. Magari confidava in una mia risposta di un certo tipo… Mi chiese anche se volevo stare in porta, a me piaceva molto, o fare il giocatore di movimento. E da allora, non mi chiese mai di diventare qualcuno. Mi ha sempre ripetuto quel che io oggi dico ai giocatori del Milan. Vuoi fare questo lavoro? Dai il massimo, rispetta il gruppo e le persone. Siate onesti e non avrete rimpianti. Alla fine, noi siamo quel che sono stati i nostri genitori, non si scappa da questo destino». 

Anche nel rapporto con i propri figli?

«La serenità di mio padre nella gestione della mia carriera mi ha sempre impressionato. E più vado avanti, più mi colpisce. Tutti parlano di Daniel, ma io soffro più per Christian, che si è rotto due legamenti crociati a 16 e 17 anni. Sono entrambi come me, non si aprono con il loro papà. Ma so che il fatto di essere miei figli li ha condizionati». 

Perché è l’unico campione a non avere ancora scritto una autobiografia?

«Me l’hanno proposto molte volte. Ma le autobiografie hanno senso solo se una persona riesce a dire davvero tutto. Secondo me, non è giusto farlo. Sono una persona fedele al codice non scritto dei giocatori. È una forma di rispetto verso tutti i gruppi con i quali ho lavorato dal primo Milan con Franco Baresi all’ultimo del 2009. Non mi piacerebbe raccontare una verità mia. Quando parli di una squadra, non esiste un unico punto di vista». 

Cosa ha fatto nei suoi nove anni lontano dal calcio?

«Il giorno dopo la mia ultima partita, sono andato a tagliarmi i capelli. Da lunghi a corti, come li porto ora. Volevo essere altro. Sentirmi apprezzato o meno per quello che ero davvero, non perché ero Paolo Maldini, l’ex calciatore. Ho avuto la fortuna di ritirarmi quando i miei figli erano ancora piccoli. Avere del tempo per loro è stato fantastico. Mi sono goduto una vita normale». 

Da calciatore non è possibile?

«Ai miei giocatori ripeto sempre che quando varchi la soglia di Milanello devi dimenticare tutto, e pensare solo al calcio. Ma questo ti porta inevitabilmente a sacrificare gli altri. Quando giocavo, anche prendere un caffè con gli amici era una esperienza che spesso non potevo permettermi».

Come è stato il ritorno al Milan dopo tutto quel tempo?

«All’inizio, ogni sera tornavo a casa e dicevo a mia moglie che era un disastro. Non facevo che ripetere a Leonardo, che mi aveva voluto con sé, che mi sentivo inutile. Non capivo la parte amministrativa del lavoro, mi chiedevo cosa ci stessi a fare. Io devo sentirmi protagonista». 

E quando Leonardo le ha detto che tornava al Paris Saint Germain?

«Che c… dici Leo, fu la mia risposta. Con gli occhi di fuori. Mi sono sentito perso. Ma sinceramente, subito dopo ho avuto anche la sensazione di essere per la prima volta a mio agio. Ero tornato in una situazione dove non avevo nessuno che mi faceva da scudo. Quello che ho sempre cercato. A Leonardo sono molto grato, l’apprendistato con lui è stato fondamentale. Ci sentiamo spesso». 

Anche dopo che le ha soffiato il suo portiere, miglior giocatore dell’Europeo ad appena 21 anni?

«A volte so di sembrare quasi fatalista. Gianluigi Donnarumma è una bella persona, piena di emozioni. Io credo che in un mondo ideale l’unica vera motivazione di un calciatore dovrebbe essere la passione. Ma se il tuo obiettivo è quello di ottenere un riscatto sociale, e denaro da dare alla tua famiglia, che ha stretto la cinghia per te negli anni della tua infanzia, beh, anche quelle sono motivazioni. Da capire e rispettare». 

Così non è solo una questione di soldi?

«Per raggiungere certi risultati e una certa statura come giocatore, le motivazioni sportive sono fondamentali. Può succedere che le necessità di un giocatore non si combinino con quelle di una società. C’è chi riesce ad aspettare, e chi invece ha fretta. Non sta a me giudicare certe scelte». 

Il grande Milan dei due trionfi europei consecutivi avrebbe vinto anche senza Arrigo Sacchi in panchina, come sostiene il suo amico Marco Van Basten?

«Forse avremmo vinto anche con un altro allenatore. Ma attenzione. Quella squadra viene ricordata perché ha creato qualcosa di unico, ed è stato l’inizio del grande ciclo del Milan. E io credo che senza avvento di Arrigo, la storia del Milan ultimi 25 anni sarebbe stata molto diversa. Perché è stata la sua ricerca spasmodica della perfezione a trasformarci in quel che siamo diventati». Quella ossessione era anche un limite? «Esiste un paradosso di Sacchi. Eravamo imbattibili nella partita decisiva, ma abbiamo perso tanti scudetti. La ricerca della perfezione implica che non puoi essere perfetto per undici mesi di fila. È uno stato temporaneo, e noi ce ne rendevamo conto. Ma se siamo arrivati a un livello altissimo, lasciando una eredità importante, il merito è suo. Nel calcio italiano esiste un prima e un dopo Sacchi, piaccia o non piaccia. E quel Milan avrà anche lasciato qualcosa per strada, ma ha portato avanti un ciclo che è durato quasi vent’anni».

Come sono cambiati i calciatori?

«Prima delle partite, negli spogliatoi c’era un silenzio sacro. Adesso, ovunque, c’è musica a un volume altissimo. Non sono il tipo di persona che dice ai miei tempi era meglio. Era solo diverso. I calciatori si adeguano, come tutti i lavoratori. Ad esempio, i social hanno fatto sì che durante i ritiri all’interno dei gruppi non ci sia più tanta conversazione. Instagram e quant’altro hanno ucciso la bellezza implicita del ritiro: il dialogo, le amicizie che si saldavano. Io appartengo a un’altra generazione». 

Il Covid rivoluzionerà il calcio?

«Spesso si parla male dei calciatori di oggi, ma invece sono stati fin troppo bravi nel giocare a buon livello senza spettatori. Un anno in quelle condizioni stava uccidendo non solo il prodotto in sé ma anche le loro anime. Io non ce l’avrei fatta, sono sincero. Quando entravo a San Siro e magari c’erano appena ventimila spettatori per le partite di Coppa Italia, mi sentivo spento. Il calcio non può sentirsi al di sopra di qualsiasi cosa, anche se siamo convinti di stare in una bolla. E non può illudersi di poter prescindere da un rapporto diretto con lo spettatore. Allo stadio. Non alla televisione». 

Ci sarà mai un’altra finale europea tutta italiana come Milan-Juventus del 2003 a Manchester?

«Pensare di tornare al dominio dei primi anni del nuovo secolo è irreale. Proprietari alla Berlusconi o alla Moratti non ce ne saranno più. Lo dice la finanza, lo dice come va il mondo. E intanto gli altri, la Premier League inglese ma anche la Bundesliga tedesca grazie al Mondiale del 2006, si sono organizzati e ci hanno superati». 

In che modo?

«Semplice, hanno rifatto gli stadi. Che poi è il modo per generare profitto e rendersi più competitivi. Lo avessimo fatto prima noi, saremmo rimasti competitivi, come dimostra la Juventus. Ma non è avvenuto finora, per la prevalenza dell’interesse particolare. Quando si parla di Lega calcio, servirebbe un minimo di visione comune, meglio se a lungo termine. L’investimento nelle infrastrutture è l’unica opportunità possibile, se vogliamo tornare alle grandi imprese europee. Altrimenti non resta che sognare l’arrivo del principe azzurro». 

Come si vede Paolo Maldini tra dieci anni?

«Con i capelli bianchi, spero felice. In quanto a questo lavoro, o lo faccio con il Milan o non lo faccio. Forse all’estero, ma sinceramente dovrei pensarci. Sono contento di avere avuto questa opportunità. Perché so che se non lo avessi fatto, avrei sempre avuto il rimpianto di non averci provato. Anche per questo, il futuro non mi fa paura».